Bassai dai

di fortiX
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Una verità tra le macerie ***
Capitolo 2: *** Buio ***
Capitolo 3: *** Misteri ***
Capitolo 4: *** Amore e guerra ***
Capitolo 5: *** Natale ***
Capitolo 6: *** Preludio ***
Capitolo 7: *** Amici? ***
Capitolo 8: *** Confessione ***
Capitolo 9: *** Fiducia angelica ***
Capitolo 10: *** Attesa ***
Capitolo 11: *** Rivelazioni ***
Capitolo 12: *** Alba ***
Capitolo 13: *** Colori spezzati ***
Capitolo 14: *** Confusione ***
Capitolo 15: *** Trascorsi ***
Capitolo 16: *** Evelyn ***
Capitolo 17: *** Alleati ***
Capitolo 18: *** Famiglia ***
Capitolo 19: *** Segreti ***
Capitolo 20: *** Sacrificio ***
Capitolo 21: *** Divisi ***
Capitolo 22: *** Fuga ***
Capitolo 23: *** Tormento ***
Capitolo 24: *** Confronto ***
Capitolo 25: *** Assalto ***
Capitolo 26: *** Takara ***
Capitolo 27: *** Viaggio (Parte I) ***
Capitolo 28: *** Viaggio (Parte II) ***
Capitolo 29: *** Liberazione ***
Capitolo 30: *** Pace ***
Capitolo 31: *** Determinazione ***
Capitolo 32: *** Padri ***



Capitolo 1
*** Una verità tra le macerie ***


Non credevo che potesse mai capitare una situazione simile. Dopo Meteor, dopo il Geostigma, non pensavo davvero che il mio cuore potesse finalmente liberarsi della SUA ombra. Ora, il mondo continua ad andare avanti, come se nulla fosse mai accaduto. Certo, le cicatrici del passato sono parte persistente di ognuno di noi, anche perché sono davanti ai nostri occhi ogni santo giorno come monito ai potenti. A volte mi fermo a pensare e credo che, in un modo perverso e distorto, LUI avesse in un qualche modo ragione. Chi era lui se non il più grande errore dei potenti? Ho odiato Sephiroth più di qualunque altra cosa al mondo e così lo sarà per sempre, ma, se mi guardo intorno, vedo e respiro una grande pace; una libertà mai assaporata a Midgar.
Midgar… per un provinciale di Nibelhim fu uno shock sapere che esistessero città così imponenti. Mi prese un colpo al cuore la prima volta che la vidi: ero schifato e attratto nello stesso tempo da quell’agglomerato di acciaio e luci. La peculiarità che più mi affascinava era il Piatto. Come poteva una città così grande non toccare il terreno? Una genialata ingegneristica da paura. E per un povero contadinotto come me era qualcosa d’inconcepibile. Mi sentii così piccino e… impotente. Avevo in mente le montagne del mio paese, quindi ero abituato alla grandezza; ma quella città fu un vero trauma. Le strade gremite all’ora di punta, i grattacieli, la rotaia, i giganteschi reattori e poi il palazzo della ShinRa. La colonna portante del piatto, il centro nevralgico della città, il cuore del mostro. Si respirava la pura potenza tra quelle mura. Dietro ogni porta il progresso con la P maiuscola si compiva senza che nessuno fosse in grado di fermarlo. La ShinRa imbrigliava letteralmente la potenza della Natura e la scatenava contro il mondo, spacciandola come risorsa energetica pulita per un pianeta dilaniato. Questa bugia se la bevvero in molti. E Sephiroth era l’incarnazione della potenza, l’essenza stessa della compagnia, la più grande bugia mai raccontata. Alla gente comune piacciono i vincitori e lui lo era. Oh sì, io lo adoravo. Reincarnava l’esempio che ogni uomo avrebbe dovuto seguire. Non avendo avuto un padre decisi di “adottarlo” come genitore. Quante notti a immaginarmi a compiere le sue stesse gesta! Quanti allenamenti con la spada per cercare di raggiungere almeno la superficie del suo smisurato talento. Avrei dato qualunque cosa per diventare come lui. Ma la notte in cui tutto cambiò, i nostri destini si unirono in un modo che non avrei mai potuto lontanamente prevedere. Se mi avessero raccontato che io, un misero ragazzo di campagna, sarei diventato il nemico mortale di uno dei più grandi SOLDIER della storia, probabilmente gli avrei riso in faccia. Dicono che una persona non la conosci, finché non ci combatti. Beh, posso dire di conoscerlo meglio di chiunque altro. Tuttavia, sento che lui avesse un’anima molto più complessa di quanto io possa credere. Mi fermo a pensare, talvolta, nell’inconscio della notte, perché avesse agito in quel modo. Anch’io scoprii la sua stessa verità, a suo tempo, ma non mi sognerei mai di distruggere il mondo per chissà quale fantomatico viaggio. Quand’ero ragazzino conoscevo ogni singola mossa di Sephiroth. Seguivo la sua vita quasi fossi la sua ombra; sapevo a memoria ogni sua intervista rilasciata ai media riguardo la guerra in Wutai; apprendevo ogni suo colpo di spada nemmeno fosse un libro di arti marziali: mettendo insieme le informazioni apprese nella mia adolescenza, posso affermare che lui non era tipo da lasciarsi andare alle emozioni. Aveva una mente analitica e distaccata; come poteva un uomo aver perso il controllo di se stesso in quel modo, quando un ragazzino fu più assennato? La risposta si perde poi nelle pieghe del sonno. La mattina giungo alla stessa conclusione: Sephiroth era un pazzo sanguinario. Punto. Difficile dimenticare un uomo come lui, ma sono deciso ad andare avanti. La mia vita si è ridotta ad un tranquillo tran tran a consegnare la posta per la regione, ad accompagnare e riprendere i bambini a scuola, portare Tifa fuori per qualche cena galante e serate con i ragazzi della vecchia guardia al 7th Heaven. Piano piano sto ritrovando la mia serenità, anche senza andare tutti i giorni alla chiesa o alla rupe dove morì Zack. Ho accettato la loro morte e sono felice di saperli in pace. A volte li sogno, non ricordo mai come o dove, ma rammento stralci di conversazioni. Credo di mancare loro e che vogliano un resoconto della mia giornata per non sentirsi del tutto esclusi.
La situazione con Tifa è migliorata: ora siamo una famiglia a tutti gli effetti e lei è fiera di questo. Sono contento di averle dato ciò che voleva.
Con queste certezze nel cuore, la mia vita non potrebbe andare meglio.

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E’ un giorno come gli altri. Le consegne sono finite e, siccome è mezzogiorno, decido di fermarmi in un chiosco appena fuori Edge. Il tizio è un tipo simpatico, molto amico di Denzel, e mi fa sempre lo sconto. “In nome di ciò che hai fatto per noi”, dice sempre. Chissà se anche a LUI facevano gli sconti… Scuoto la testa. Basta tornare al passato. Ordino un panino e mi siedo in un tavolino distante dal bar, in modo tale da tenere d’occhio la Fenrir -dopo quello che è successo con Denzel cerco di controllarla più spesso, un altro dei miei buoni propositi-. Afferro un giornale, abbandonato sul tavolo, e cerco la pagina sportiva. C’è la notizia di Gioro e il suo Chokobo nero. Mi ero svegliato alle due di notte per vedere la gara. Una scarica di adrenalina fantastica, quella corsa! Arriva il mio panino e inizio a sgranocchiarlo, mentre leggo la classifica dei fantini. Non arrivo oltre al podio che il mio cellulare squilla. Un tempo avrei lasciato trillare, ma, con grande stupore di tutti, ho deciso di rispondere a tutte le chiamate. Sulla schermata c’è scritto “Reeve”. Ecco uno che non sa del mio cambio di pagina. Mi diverte avvertire lo stupore dei miei amici davanti al mio comportamento: non vogliono proprio capacitarsene.
“Pronto?”
“Cloud?! E tu da quando rispondi al telefono?”
“Da un bel po’, Reeve.”, rispondo semplicemente. Le conversazioni non sono ancora il mio forte.
“Davvero? Stavo per riagganciare, perché credevo che avrei dovuto parlare con la tua segreteria. Di nuovo.”, scherza l’uomo.
Ridacchio, anche se quello che esce dalle labbra sembra più un grugnito impaziente, “Cosa vuoi, Reeve?”, chiedo, cercando di sembrare cordiale.
La sua voce si fa stranamente seria. “Io e i ragazzi abbiamo trovato una cosa che dovresti vedere.”
Mi allarma il suo tono, “Cos’è questa… cosa?”, chiedo sospettoso.
“Non è prudente parlarne al telefono. Raggiungimi alle coordinate che ti invierò.”>click<
Allontano il cellulare dall’orecchio e l’apparecchio mi segnala il ricevimento di un messaggio.

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Mi fa sempre uno strano effetto vedere Midgar accartocciata su se stessa come una lattina arrugginita paragonata all’opulente splendore dei miei ricordi. La vecchia sede della ShinRa svetta imperturbabile sopra il mucchio indefinito delle miriadi di vite spezzate, simile ad un’erba parassita crescente a scapito degli altri. Anche se dopo l’ultima apparizione di Sephiroth, sembra più distrutta del solito, sebbene rimanga in piedi testardamente. Imbocco la solita strada che mi condurrebbe verso la chiesa di Aerith –altra costruzione rimasta in piedi dalla furia del nemico-, poi giro a destra seguendo il segnale GPS del navigatore. Attraverso un’ampia strada scavata nei rottami ed è incredibile vedere come un folle pazzo come Sephiroth sia riuscito a portare tutti gli abitanti sullo stesso piano in un colpo solo. Denzel ci racconta spesso di come la sua prospettiva di vita sia cambiata lontano dagli agi a cui era abituato fino a quel momento. Forse non è stato del tutto un male. Continuo ad avanzare immerso nei miei pensieri, finché un grosso cartellone incenerito sovrasta tutta la strada. C’è scritto sopra LOVELESS. C’era una sola zona della città ad avere un grosso cartellone pubblicitario di quel libro: Settore 1.
Mi vengono i brividi a pensare che quelle strade erano state calcate dal mio peggior nemico. Sapevo che in onore dei servigi offerti per le sue gesta, la città gli aveva regalato un attico nel palazzo più lussuoso di Midgar, il Golden Building. Durante la mia permanenza in città, mi capitava spesso di osservare quelle finestre oscurate, nella speranza di scrutare il mio idolo; sebbene sapessi che non ci abitava mai. Ricordo che, talvolta, scompariva dalla circolazione e i comandanti dicevano che si era ritirato in biblioteca o l’avevano mandato in missione. Mi piaceva pensarlo lassù.
Ora che ci faccio caso il segnale mi sta portando proprio lì.
Poco dopo raggiungo le macerie del Golden Building, o almeno quello cui riesco a decifrare, poiché mischiate con i quelle dei bassifondi e del Piatto. Intravedo una squadra della WRO intenta a cercare chissà quale utopia o segreto scabroso tra i calcinacci. Sotto di loro un gruppo di persone fanno camporella attorno a Reeve. Parcheggio la Fenrir e li raggiungo.
“Allora, cosa dovevi mostrarmi?”, dico io senza convenevoli.
Il gruppo si apre verso di me, rivelando la figura del moro. La sua espressione é un misto tra preoccupazione e allegria. Ha un libretto sgualcito in mano e lo tiene come fosse una reliquia preziosa, quasi avesse paura di toccarlo. Egli accenna ad un sorriso come mi vede.
“Ciao Cloud. E’ un bel po’ che non ci si vede! Come va?”, saluta con frasi di circostanza che non fanno altro che aumentare la mia ansia.
“Sto bene, grazie. Cosa hai trovato di tanto interessante?”, rispondo, mantenendo a stento la mia curiosità.
Reeve non dice nulla e mi porge il libro. Lo osservo con noncuranza.
“E’ un vecchio libro impolverato e sgualcito. Tu mi chiami per questo? Tifa non sarà contenta se le dirò che mi fai perdere t…”
“Non è un libro qualunque, Cloud!”, m’interrompe Reeve con foga.
Io non capisco, scuoto la testa confuso. L’uomo sospira e apre la prima pagina.
Avrei riconosciuto quella calligrafia ovunque.
“Il diario di Sephiroth…”, bisbiglio.

Un saluto al popolo di EFP tutto! Ebbene sì, Sephiroth aveva un diario nella mia folle idea. E’ da un po’ che volevo dipingere una Sephiroth diverso dal solito, ma non trovavo mai il modo di porlo. Poi una mattina ecco la rivelazione! Un diario! Un diario che il suo peggior nemico ci farà leggere! Questa fic sarà un doppio viaggio nell’anima delle due icone del capitolo più mitico di tutto il videogiochismo! Cosa imparerà Cloud del suo peggior nemico? Era davvero l’uomo che credeva di conoscere? Ma soprattutto, quanto è cambiato Sephiroth per la pazzia e quanto di Sephiroth c’è nel One Winged Angel? Spero di non aver fatto il passo più lungo della gamba XD. Enjoy!
Besos

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Capitolo 2
*** Buio ***


Sono sbigottito. Non credo ad una sola singola parola uscita dalla mia bocca. Eppure quel libro non può essere altro. La sua firma… L’avevo vista centinaia di volte. Perfetta, elegante, precisa. Né una sbavatura, né una lettera fuori posto, il tutto scritto con una maestria sublime, come era solito ad usare con la spada. Una firma di quel genere, però, era facilmente contraffabile. Faccio un passo avanti, incerto. Studio meglio quella scrittura nero pece, massaggiandomi il mento. Ne seguo con lo sguardo ogni curva, ogni avvallamento, ogni punto, ogni riga. Pare autentica, ma io non sono un dattilografo: posso sbagliarmi. Per un attimo penso che sia tutto uno scherzo di Reeve e del suo staff.
“Sei sicuro?”, chiedo alla fine.
L’uomo mi guida con lo sguardo verso un gazebo dove stanno alcuni uomini che trafficano su un tavolo pieno di scartoffie. Una persona di queste accoglie il suo sguardo, dice qualcosa a quello di fianco e si avvia verso di noi.
“Cloud, questo è il professor Goro Farey, un ex-crittografo della ShinRa. Ora, lavora per noi in qualità di esperto di documenti, ormai, storici.”
Questo Goro ci raggiunge e subito noto come le enormi lenti sul suo naso adunco lo facciano assomigliare a quel pazzo del Dottor Hojo, ma con un’occhiata più attenta mi accorgo che, dietro la spessa montatura, si nascondono due occhietti vispi e intelligenti. Anche il suo aspetto fisico è molto più rilassato e aperto rispetto allo scienziato.
“Cloud Strife! Che onore conoscervi!”
Accenno un sorriso di cortesia, anche se la mia mente è tutta proiettata sul libricino davanti a me. Reeve, capendo i miei pensieri, chiede al professore riguardo la presunta firma di Sephiroth. Una parte di me prega di essermi sbagliato; anche se una minima parte di me spera nell’autenticità del documento. Se mi avessero sventolato in faccia il diario del mio idolo quando ero un ragazzino, avrei dato il mio rene destro pur di leggerne anche solo una pagina.
“Quando lavoravo per la ShinRa, la guerra richiedeva metodi esatti nel riconoscere al volo i falsi documenti redatti dal nemico e impedire che girassero tra gli ufficiali. Prevenire le false informazioni era vitale. E Sephiroth era un problema. La sua scrittura era facilmente contraffabile a causa della sua paranoica ossessione per la precisione.”
“Volete dire che studiaste la sua scrittura per riconoscerla dai falsi?”, sovvengo io
“Sì. Non è stato un lavoro facile, ma riuscii ad individuare una peculiarità unica nella sua firma.”
Sto pendendo letteralmente dalle sue labbra.
“Quale peculiarità?”
Goro si avvicina e inizia a scorrere il dito sull’inchiostro impresso sulla pagina. Noto che i polpastrelli seguono delle impercettibili ombrature che contornano le lettere.
“Sephiroth era mancino. E ogni mancino si porta dietro l’inchiostro quando scrive. Lui non era diverso da questo punto di vista.”
Il crittografo inizia a sfogliare le pagine del diario. Faccio una fatica terribile per non leggere ciò che c’é scritto. Non voglio sapere null’altro di lui. Basta! Ma la curiosità é molto più forte del mio desiderio di fuga. Per questo motivo riesco a notare gli aloni grigiastri dell’inchiostro. E’ scritto molto fitto e, in alcune pagine, delle parole o intere frasi svettano in modo molto particolare. Forse in quei frangenti ci metteva molta più foga del normale.
No! Basta, Cloud! Smettila di continuare ad affondare nel passato! Ho sofferto e perso troppo per colpa di un solo uomo. La mia vita, per cui così tanti si sono sacrificati, devo viverla fino in fondo! Devo smetterla di farmi condizionare ancora da lui come se fosse ancora tra noi. Sephiroth è morto, Cloud. E non ha più nulla da spartire con questo mondo. Sta bruciando all’Inferno e IO ce l’ho mandato. Finché continuerò a ritornare da lui, le sue pene non saranno mai abbastanza. Mi ritiro da quella tentazione suadente, testardamente, ripensando ad Aerith e al suo sacrificio per assicurarci una vita migliore. Lei è morta per permettere a noi di vivere oltre la follia di quell’assassino. Non permetterò che l’ennesima testimonianza del suo passaggio su questo Pianeta mi distragga.
Ma una parte di me è attirata verso quel libricino sgualcito. Sono combattuto tra le due metà del mio essere. Mi sento sfaldare, aprire in due, come se la mia metà contaminata dal mako avesse un disperato bisogno di agganciarsi a quei residui di quel passato iniettato nelle vene. Sospiro, cercando di ritrovare ordine nella mia testa. Il mio combattimento interiore sembra, però, essere colto dagli interlocutori, i quali mi guardano incuriositi.
“Tutto bene, Cloud?”, mi chiede un apprensivo Reeve.
“Sì. Ma credo che sia per me il momento di andare.”
Faccio per avviarmi verso la Fenrir, quando l’uomo mi chiama.
“Aspetta!”
Mi fermo all’improvviso e stringo i pugni. Sento Reeve che mi si avvicina alle spalle. Mi irrigidisco, cercando di resistere alla tentazione di scappare. Percepisco quel dannato affare pericolosamente vicino a me. So che non riuscirò a dire di no. La mia curiosità mi ucciderebbe ogni giorno e ogni notte. Penso a Tifa e alla vita che stiamo solo ora costruendo insieme. Quel libricino potrebbe rovinare tutto, me lo sento nelle viscere. Tutto quello che LUI ha toccato andrà distrutto. E inevitabilmente anche questo. LUI non mi può più dare niente, se non dolore e miseria. Era un uomo vuoto, cosa può credere di darmi che io non abbia già capito da solo? Eppure è proprio questo ad incuriosirmi. Spesso Zack parlava di lui come una persona virtuosa e quand’ero ragazzino lo vedevo tale. Forse in quel diario c’è la spiegazione della sua follia.
“Volevo chiederti se potresti farlo recapitare ad un mio collega a Modeoheim. Lui è uno studioso e i segreti dei SOLDIER sono il suo pallino.”
Mi irrigidisco. Questo vuol dire che me lo dovrò tenere in casa per almeno un mese. In questo periodo ci sono abbondanti nevicate da quelle parti e le città a nord della Citta Dimenticata sono praticamente inaccessibili. Dipendono solo da Icicle per andare avanti. Prendo fiato e cerco una via d’uscita.
“Perché non usi la posta elettronica?”
Reeve mi guarda come se avessi bestemmiato.
“Cloud, sai cosa succederebbe se Rufus ShinRa venisse a sapere di questo diario?”
Me lo sventola davanti e sento il cuore battere all’impazzata. Maledizione, perché mi vado sempre ad impelagare? Reeve me lo porge e percepisco una paura tremenda attanagliarmi le viscere. Tutto quello che ho toccato di suo a contatto con me non ha ma destato dei begli effetti. Esito.
“Avanti, Cloud, è solo un libro!”, sbuffa l’uomo roteando gli occhi.
Mi prende la mano e me lo sbatte sul palmo. Un brivido gelido lungo la spina dorsale mi immobilizza e, d’istinto, chiudo gli occhi, pronto a sentire la sua voce o la sua spada conficcata da qualche parte. Mi fischiano le orecchie e, forse, percepisco la voce di Jenova, ma mi accorgo che sono solo gli stridii metallici di uno scavatore atto a togliere metri di ciarpame da terra. Nulla. Nessuna stilettata di dolore, nessuna voce inquietante… Incredulo, apro gli occhi e guardo la copertina nera del diario. E’ sulla mia mano e ne percepisco la pelle rovinata e ruvida. Accarezzo il frontespizio con l’altra palma, togliendo un po’ di polvere. Poggio il pollice sul fianco aperto del libro e distinguo la ruvidezza della carta ingiallita dal tempo. E’ dura e i suoi lati sono più taglienti del normale, ma non pericolosi. Apro la copertina e leggo quel nome.
Chi sei in realtà?

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Torno a casa a pomeriggio inoltrato. Parcheggio la Fenrir nel garage e tendo l'orecchio, prima di scendere dal sellino. Dal vociare intenso al piano di sopra, capisco che il bar è parecchio affollato. Bene, Tifa sarà occupata con i clienti per le prossime ore. Conoscendola mi avrà sentito arrivare. L’interrogatorio è solo rimandato. Peggio di una spia industriale, mi inerpico su per le scale che conducono in casa. Non so perché lo stia facendo, ma inconsciamente non voglia farmi scoprire con quella dannata cosa nella borsa. Passo davanti alla camera dei bambini. Mi affaccio un momento e noto con piacere che è vuota. Sicuramente sono con Tifa al bar. La fortuna mi arride. Finalmente, raggiungo il mio ufficio. Serro la porta, poggio la tracolla sul tavolo e tiro fuori il diario. Rimango imbambolato a guardarlo, in piedi in mezzo alla stanza, quando mi accorgo di quanto mi senta idiota a postporre la mia famiglia ad un oggetto appartenuto alla persona che odio più nell’intero universo. Reeve non me l’ha lasciato affinché io lo legga, ma che lo consegni. Sbuffo e lo sbatto nel cassetto delle consegne; dove decido che rimarrà per un mese.

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E’ l’una di notte e non riesco a dormire. Ripenso di continuo al ritrovamento di oggi, sbattuto nella mia scrivania e rimasto un segreto per Tifa. Già, perché nonostante le 36 (e non scherzo) domande fatte oggi pomeriggio, sono riuscito a mantenerlo tale. Non so ancora come ho fatto ad inventarmi una bugia di sana pianta e renderla credibile…
Mi volto verso di lei. E’ così bella quando dorme. Il mio angelo. Mi sento uno schifo a mentirle così, ma non voglio assolutamente farle venire a conoscenza che in casa nostra c’è un oggetto appartenuto a Sephiroth. Lui ha ucciso suo padre e lo odia quasi quanto me. Tifa, a differenza mia, non ha potuto sfogare la sua rabbia su di lui. Inoltre, anche Barrett mi ucciderebbe per aver esposto i bambini a questo rischio. Tutti questi pensieri mi stanno facendo scoppiare la testa. Mi alzo. Le doghe del letto gemono qualche decibel di troppo e mi blocco. Lentamente mi volto verso Tifa. Ha mugugnato e si è girata dall’altra parte. Tiro un sospiro di sollievo. Non avevo voglia di spiegarle dove stessi andando.
A passo felpato, raggiungo il mio ufficio e chiudo la porta. Mi getto sulla sedia e mi massaggio la faccia.
Ma che sto facendo? Apro il cassetto e trovo il diario ad aspettarmi. Esito.
Che sto facendo? Lo afferro e lo butto sulla scrivania.
Che diamine sto facendo?
Spalanco la prima pagina e inizio a leggere.
Ecco l’ho fatto.

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12 settembre XXXX

Piove. L’acqua lambisce i vetri dell’enorme porta –finestra che dà sul balcone dell’attico. Mi sento come un pesce in un acquario. Guardo il mondo da dietro una lastra di ialino vetro e quello che vedo è solo un agglomerato di luci e ombre. Soprattutto ombre. Già, perché la mia vita è una sola unica, triste, gigantesca ombra. Vivo all’oscuro da me stesso, il quale non è altro che un artifizio della ShinRa. Hanno preso la mia anima e l’hanno plasmata come volevano. Straziandola e lacerandola in mille modi. Solo una piccolissima parte non è stata intaccata ed è quella che non mi fa crollare nel baratro della pazzia. Ho poco più di 20’anni e sono già stanco di vivere. I ragazzi alla mia età si godono i piccoli piaceri della vita, assaporandoli fino all’ultimo attimo. Io non ho mai avuto questo privilegio. Li vedo questi giovani: si divertono tra loro, ridono, giocano e scherzano. Trovano l’amore… Un sentimento che desidero dal più profondo del mio cuore. Ma non l’amore sporco e sfuggevole dettato dall’istinto; cerco quello vero, quello per una madre per il figlio, quello per un marito e una moglie. Io non sono sicuro di averlo mai provato. Anzi, ne sono certo. Nemmeno quello più normale e naturale che lega un figlio ad un padre.
Odio da morire questo appellativo, come odio la persona a cui è collegata. La mia mano trema di rabbia anche in questo momento. Sto stringendo la penna più del dovuto e la sento gemere sotto la mia presa. Ora, mi sono calmato. C’è così tanta rabbia nel mio cuore che ucciderebbe il mondo se solo decidessi di lasciarla andare. Grazie al cielo, sono addestrato a non perdere mai la calma, il che alla mia età è davvero curioso. Mi sovviene ora che io non sono mai la persona che ci si aspetta che io sia. Ecco un esempio lampante: dicono che io sia un soldato votato alla guerra e che non lascia mai il suo posto, ma non sanno che io adoro leggere e che il mio libro preferito è ‘Christmas Carol’. Già. Amo le favole; mi fanno ricordare i momenti passati con il professore. Lui sì che mi trattava come un bambino dell’età quale ero. Mi faceva sentire quel calore che non ho mai trovato da nessuna parte e che disperatamente sto cercando ora nel mondo. Ma so già che la mia ricerca non avrà un buon fine. La ShinRa ha fatto in modo di tarparmi le ali prima ancora che nascessi. Attorno alla mia figura sono nate una miriade di leggende. E alcune non so nemmeno come possano essere nate. E’ davvero demotivante. Per questo motivo ho il terrore del mondo esterno.
 E’ possibile che una persona debba avere paura di se stesso? Paura delle sue stesse leggende?
Io non sono affatto la persona forte e coraggiosa che credono. Io sono solo un bambino che sta cercando un punto di riferimento in questo luogo di matti. Una luce brillante nel buio più denso. Non ho nulla a cui agganciarmi, a parte la guerra e la morte, le uniche compagne a cui io sia riuscito a trovare un senso. L’unica cosa certa nella mia vita è la strada che ALTRI hanno scelto per me. Sono solo una particella in un universo in continuo cambiamento.
A volte mi sembra d’impazzire, quindi mi rifugio qui. La città di Midgar mi ha donato questo attico per i miei servigi “ai salvatori dell’umanità” per aver permesso loro di portare la tecnologia mako ovunque. Che ironia! Mi premiano per aver ucciso persone innocenti, persone che volevano una vita tranquilla nella loro terra. Le sogno spesso quelle facce e ogni volta una morsa di nausea mi artiglia lo stomaco. Non ho mai fatto un sonno tranquillo da quando ho memoria. Quand’ero piccolo passavo intere notti in bianco per i dolori. A volte era per gli esperimenti; altre volte per la crescita troppo veloce. Poi è arrivata la guerra e da lì non credo di aver mai fatto più di tre ore di sonno a notte. Non riesco a capire come il mio cervello non si sia ancora trasformato in una poltiglia rossastra.
Mi guardo intorno per calmare la mia mente. Questo “acquario” è l’unico posto in cui io possa essere me stesso. La pioggia ha aumentato l’intensità, a giudicare dai torrenti che scendono lungo la porta-finestra. Osservo quel quieto scorrere e mi sento rasserenato.
La grande sala principale è praticamente vuota, fatta eccezione per il divanetto di pelle nera al centro di essa e su dove sono io ora, il tavolino di vetro e gli scaffali con la mia biblioteca personale. Vado molto fiero di quei libri. Adoro collezionare opere dell’uomo, mi fa capire quanto io mi sia perso votando la mia vita alla guerra e quanto ho portato via al mondo io stesso. Gli iniziai a collezionare a 13 anni, di nascosto dai miei tutori. Ora sono più di 150. E li ho letti tutti.
 Nonostante i colori caldi delle pareti, questa casa è così fredda e triste senza altri mobili, ma non saprei come renderla altrimenti, perché probabilmente anch’io mi sento così. O forse è un fatto logistico, poiché tutte le volte che metto il piede qui dentro sento la mia mente svuotarsi piano piano. I miei pensieri riempiono gli spazi vuoti e trovano libero sfogo attraverso questo inchiostro. Credo mi faccia bene sfogare le mie riflessioni. Mi sento molto più leggero. Il diario è una bella invenzione per coloro che non hanno amici con cui parlare…


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Sento gli occhi lucidi e un profondo senso di colpa, mentre leggo quelle righe così piene di tristezza e solitudine. Sephiroth era un uomo molto più profondo di quanto credessi. Sono tentato di andare avanti, ma sento dei passi in corridoio. Chiudo il libro e lo nascondo più in profondità che posso nei recessi del cassetto.

Rieccomi con un nuovo capitolo! Molto più lungo di quello precedente come è giusto che sia. Ero tentata di dividerlo in due, ma mi sono messa nei vostri panni e credo che sarei impazzita nell’attesa di leggere nella testa del bel platinato J(anche perché si sapeva che Cloud l’avrebbe letto, altrimenti la fic non avrebbe senso d’essere, no?)
Quindi eccovelo qua sul piatto d’argento, il vostro Sephy!
Ringrazio Manila, mia grande sostenitrice e manager d’immagine (ahahaha), e la tifax, altra intrepida a darmi la carica per continuare con la sua recensione breve ma energizzante.
Grazie ai lettori che leggono zitti zitti, spero che questo capitolo vi convinca.
Alla prossima!
Besos

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Capitolo 3
*** Misteri ***


Trattengo il respiro per un tempo in parvenza infinito, mentre il rimbombo dei passi in corridoio pugnalano il mio cuore ad ogni battuta. I miei occhi sono fissi sulla maniglia della porta, pronti a far reagire il mio corpo al solo accenno di movimento. Getto un’occhiata sfuggevole al cassetto alla mia destra: la mia mano è poggiata su di esso, come a sottolineare il nascondiglio delle mie bugie. Sarei un vero imbecille farmi scoprire così. Appena faccio per spostare la mano da lì, mi accorgo di un’eco lontana di quei passi che hanno destato il mio allarme. Non sono sicuro di aver udito bene, ma spero vivamente che le mie speranze non abbiano iniziato a farmi strani scherzi mentali. Riprendo a respirare con parsimonia e mi avvicino alla porta. Apro l’uscio quel tanto che basta per permettere al mio occhio di sbirciare oltre lo spiraglio. Nessuno. Il corridoio è immerso nella penombra della luce lunare che filtra dalla finestra e l’unica cosa a tenermi compagnia è un triste vasetto bianco sul tavolino di fronte il mio ufficio. Tiro un sospiro di sollievo, il quale mi ritempra anima e corpo, quando uno scricchiolio attira nuovamente il mio allarme. Qualcuno sta salendo le scale. Chiudo più che posso la porta per impedire alla luce della lampada di rivelare la mia presenza, ma, al contempo, vedere di chi si tratta. Il mio animo si quieta appena scorgo la testolina arruffata di Denzel. Sta letteralmente dormendo in piedi, quanto i suoi occhi sono chiusi e il corpo accartocciato su se stesso. Non si accorgerebbe nemmeno di Behemoth, tanto è assonnato. Mi sfugge un sorriso a quella vista dolce e ironica nello stesso tempo. Ho imparato ad apprezzare molto di più i bambini di recente. Non aveva mai capito quanto fossero straordinari e quanta felicità possono trasmetterti. Ho imparato ad usufruire della loro energia e allegria, quando mi sento un po’ giù; invece di scappare in qualche angolo recondito di Midgar ad autocommiserarmi. Mi siedo con loro e mi presto ai loro giochi. E’ davvero rigenerante.
Denzel scompare nella sua cameretta e dichiaro il cessato pericolo. Mi sporgo dall’uscio per controllare la porta della camera matrimoniale che divido con Tifa e noto che è serrata. Vorrei tornare accanto a lei, ma il richiamo irresistibile di quell’oggetto mi attira di nuovo nell’ufficio. Dopotutto, non ho ancora finito di leggere la prima giornata. Chiudo la porta alle mie spalle e mi ci appoggio per lasciar scaricare la tensione di poco prima. Ora che la mia mente si è calmata, posso pensare freddamente a queste prime parole impresse sulla carta dal mio peggior nemico. Il solo pensiero mi riempie il cuore di una profonda tristezza. Quando prestavo servizio alla ShinRa lo incontravo spesso, ma non sembrava così depresso. O forse a me piaceva pensarla così, perché il leggendario eroe SOLDIER non aveva problemi. Non POTEVA avere problemi. Santo Bahamuth, quanto mi sento idiota a credere a una scemenza simile! Ora che ho avuto un solo assaggio della mente di Sephiroth capisco il suo odio per l’umanità. Lo abbiamo rinchiuso dentro ad una gabbia dorata di gloria e perfezione fino a farlo impazzire. Io, in primis, mi sento in colpa. Lo vedevo come un Dio in terra, capace di tutto, tranne che di sbagliare. E quanto si sentiva solo per questo. Sephiroth non poteva avere amici, non ne aveva bisogno. Lui era al di sopra di qualunque cosa, tanto era forte. Ma senti! Che boiate! Come si fa a recludere così una persona solo perché la credi una divinità? Mi rendo conto che il vero burattinaio tra noi due, sono io. Io e tutta l’umanità lo hanno voluto così. Lui non ha fatto altro che conformarsi completamente al suo mito, con tutte le conseguenze che ne derivano. Mi accorgo che siamo stati noi a creare il mostro. Affondo il viso tra le mani e mi do una scrollata: il sonno comincia a farsi sentire, ma non abbastanza per indurmi al letto caldo. La scarica di adrenalina mi ha dato una bella sveglia e credo di andare avanti ancora per qualche minuto. Sospirando, ritorno alla scrivania, tiro fuori il diario dal suo nascondiglio e mi rimetto a leggere.

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Il diario è una bella invenzione per coloro che non hanno amici con cui parlare. Mi sovviene in questo momento di non essermi mai presentato ad anima viva. Tutti sanno chi sono io. Sephiroth, l’eroe di SOLDIER. Detesto questo titolo pomposo e ingiusto. Io non sono un eroe, io non salvo la gente, la uccido. I veri eroi sono i soldati sacrificatosi per i loro compagni, la madre che salva il figlio dalla fiamme, il marito che lotta contro la crisi finanziaria per portare la pagnotta dalla sua famiglia, un malato terminale di cancro che si gode la vita. Mi viene da mettermi le mani nei capelli quando sento il Presidente presentarmi ai suoi ospiti con quell’aggettivo. Mi verrebbe da fracassare loro il cranio. Sento sempre una grande rabbia pervadere il mio essere quando sono a contatto con le persone. Mi schifano con la loro ipocrisia e i loro sorrisi falsi. Avverto il loro timore, quando mi tendono la mano per presentarsi a me. Io mi rifiuto toccarli. Farò la figura del cafone, ma non mi importa. Uno dei pochi lati positivi di essere una celebrità è che c’è sempre qualcuno pronto a prendere le mie difese. Le ragazzine di 13’anni, ad esempio. Per loro, il mio modo distaccato e anti-antropico è dannatamente affascinante. Non ne concepisco il motivo. Sono venuto a conoscenza che molte donne adulte lo pensano. Sospiro rassegnato tutte le volte. Sarò una frana con i rapporti sociali, ma personalmente io non mi tratterei male tutto il tempo. Bisogna anche precisare che quel poco che so sulla sfera femminile proviene dalle voci delle camerate. E con questo ho spiegato tutto. Quand’ero un giovane SOLDIER, sentivo i miei compagni parlare spesso di femmine. Anche se all’epoca avevo più o meno l’età delle stesse ragazzine che oggi mi corrono dietro. Non si facevano scrupoli a sventolarmi in faccia le riviste pornografiche comprate sottobanco durante i turni di guardia e farmele trovare nei posti più impensati. Si divertivano a vedermi arrossire come un pomodoro davanti a quelle ragazze ritratte in posizioni scabrose. Era praticamente un bambino all’epoca, vissuto recluso in casa fino a pochi minuti fa e l’unica compagnia femminile che avessi mai avuto era la professoressa privata di matematica. Con tanto di baffoni e sedere dalle misure astrofisiche. Mi monta un nervoso indescrivibile pensare a quel periodo. E’ incedibile come l’umano possa essere crudele con un esemplare più giovane, solo perché più esperto in certi aspetti della vita naturale (e per alcuni nutro corposi dubbi). Era imbarazzante per me vedermi sbattuti in faccia momenti della vita che dovrebbero essere privati e speciali. Non era tanto la vista di organi sessuali (tra i mie tanti libri ce ne è uno di anatomia), ma era più che altro pudore. Concetto che ai miei compagni più grandi era sfuggito. Poi un giorno, mi fecero uno scherzo molto più pesante del solito (mi ero trovato un’escort nel letto)e a quel punto feci capire loro che la mia pazienza aveva un limite non consigliabile da superare. Ne mandai quattro all’ospedale per lesioni multiple al petto e… uno ci rimise le penne. Fu la prima volta che tolsi la vita ad un essere umano. Fu un’esperienza agghiacciante. Quel ‘toc’ secco di un collo che si rompe rimbomba ancora nelle mie orecchie. Ricordo la frenesia che annebbiò la mia mente all’udire quel suono. Rimembro il piacere provato a spezzare la sua giovane vita. Poi vidi solo rosso e una furia cieca travolgere gli altri aggressori. Quando finì tutto, mi sentii talmente male da vomitare sangue sui loro corpi. Per le successive settimane di addestramento non uscii mai dalla mia stanza. Durante quell’isolamento, compresi il pericolo di stipare i miei sentimenti. Sono come una bomba ad orologeria: se mi carichi troppo, esplodo e devasto tutto quello che si trova sul mio cammino. E’ terribile vivere così. Con la paura costante di liberare la mia rabbia, di non potersi lasciare andare. La sento grattare sotto al mio petto, come una bestia che ti rode dall’interno per farsi strada verso l’esterno. Quella bestia è potente, perché l’ho nutrita fin da bambino attraverso l’odio che provo per quella frattaglia umana di mio padre. Quante volte ho cercato la sua pietà, quando mi infilzava l’unico millimetro di pelle ancora sana in mezzo ad un tripudio di fori viola. Tante volte ho pianto disperato chiedendogli di smettere, cercarlo d’intenerirlo chiamandolo ‘papà’; ma credo che ci provasse un gusto perverso nel vedermi piangere. Spesso i suoi assistenti prendevano le mie difese, sopraffatti dalla pietà che provavano verso di me, e cercavano di fermare quella sadica frenesia; ma quel vecchio bastardo li faceva cacciare fuori dal laboratorio dalle guardie SOLDIER generosamente offerte da quel viscido del Presidente. Poi, il giorno dopo se ne presentavano altri diversi. Ogni nuova generazione di assistenti diventava sempre più fredda e distaccata, tanto che ad un certo punto rimase solo il Professore a salvarmi. Quando era presente ci pensava lui alle mie infusioni di mako. Era terribilmente doloroso comunque, ma lui non la smetteva un secondo di rassicurarmi e cercava di essere più delicato possibile. Mi raccontava storie fantastiche per distrarmi dal dolore. Non sapevo come facesse ad inventarsene una nuova ogni volta, ma mi piace pensare che si ispirasse alla sua famiglia. Invidiavo moltissimo sua figlia. Quando se ne andava, mi ritrovavo a pensare che al posto di quella bambina ci dovevo essere io. La invidiavo profondamente e la invidio tutt’ora.

Aerith

Oh, si è fatto tardi. Tra un po’ devo partire per una missione. E’ bene che mi prepari.

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Mi si gela il sangue nelle vene a leggere il nome di Aerith scritto dal SUO pugno. E’ elegante, ricalcato più volte, in molti punti. Sembra quasi che ci tenesse a vederlo stilato in modo impeccabile. Mi immagino Sephiroth chino sul tavolo di vetro a rimuginare sul lavoro fatto. A contemplare quel nome. Credo che in un qualche modo percepisse il legame fatale che li legava e, di conseguenza, se ne sentiva attratto. Almeno è così che la vedo io, ma tutto mi lascia pensare a questo. Le altre parole sono redatte, sì, in maniera impeccabile con eleganti ghirigori e lettere allungate; ma su QUELLA parola si è concentrato molto di più. Ma forse sono io che alle tre di notte comincio a vedere complotti immaginari scaturiti dalla mia mente stanca. M’incuriosisce, però, il fatto che l’abbia scritto a capo, lontano dalle altre frasi e molto più in grande. Forse l’ha scritto per imprimere un pensiero complicato o un’emozione profonda in una sola parola. Da come è scritta sembra quasi sospirata…

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Mi sveglio tardissimo e mi ritrovo a tastare il materasso dalla parte di Tifa, alla sua ricerca; ma quel posto è vuoto. Lei non è accanto a me. E’ già sveglia, sovvengo. Fortunatamente, è giovedì. E giovedì non lavoro, a meno di consegne straordinarie. Si sente silenzio in casa e nessun vociare proviene dal bar. Mugugnando mi giro verso il comodino e cerco la sveglia. Il display segna le 14:30. Grugnisco. Ho dormito un sacco. Odo dei passi in corridoio, ma, stavolta, non destano il mio allarme; anzi li riconosco: sono leggeri e soavi. Se non avessi l’udito potenziato dagli esperimenti eseguiti da Hojo, probabilmente non l’avrei sentita arrivare. Fa di tutto per non svegliarmi. La sento accostarsi alla porta, respirando piano per non far rumore. Sorrido. I suoi sospiri sono una musica delicata per le mie orecchie. E poi mi diverte vedendola prendere tutte le premure per non destarmi, quando io sono già arzillo. Vedo le sue dita sottili spuntare dall’uscio, lasciato accostato, e chiudersi sul legno con attenzione. Mi metto supino e attendo. Una leggera pressione con entrambe le mani e ,finalmente, vedo spuntare il suo viso. Il mio sorriso si allarga appena incontro i suoi occhi e si trasforma in un ghigno divertito appena vedo la sua espressione stupita.
“Ma sei sveglio!”
Inizio a ridere e mi tiro appena su, puntellandomi con i gomiti. Tifa entra nella stanza e la inonda con la luce del sole. La sua figura snella e perfetta si staglia contro di essa, gettando un’ombra su si me. Poggia i pugni sui fianchi e mi guarda falsamente offesa, con la bocca semiaperta e gli occhi fessurati. Adoro quell’espressione, mi fa avvampare letteralmente. Rimaniamo a guardarci per qualche secondo, durante i quali la sua espressione si addolcisce sempre più e il mio desiderio aumenta costantemente. Poi lei si getta tra le mie braccia, ridendo felice. Mi stringe a sé e io rispondo al suo abbraccio. Ridendo come due adolescenti ci rotoliamo nel letto, buttando all’aria tutte le coperte. Iniziamo a giocare e Tifa inizia a prendermi a cuscinate.
“Non”-cuscinata-“prendermi”-“ altra cuscinata -“in”- terza cuscinata -“giro!”, scandisce, tra una risata e l’altra.
L’ultimo colpo riesco a pararlo e afferro la federa con forza, strappandola dalle sue mani.
“Ah! Ora tocca a me!”, dico con fare minaccioso.
“No, ti prego! Aaaaaaaaah!”
Mi scaglio contro di lei e inizio a calare le mie cuscinate sul suo corpo, mentre Tifa urla e ride. Ad un certo punto cerca di scappare, ma con un rapido blitz le cingo la vita col braccio e la tiro a me, gettandola poi sul letto. Le salgo sopra, immobilizzandola. Ansimiamo entrambi. Tifa mi guarda con uno sguardo pieno di gioia e amore. So che questo mio nuovo comportamento la rende felice. E anche me. Mi sento appagato nel donarle l’allegria attraverso gesti e situazioni che prima non sarei mai stato in grado di creare. L’ombra di Sephiroth e la morte di Aerith non avevano precluso solo la mia di felicità, ma anche quella delle persone intorno a me. E io non me ne ero mai accorto. Credevo che fosse un fardello solo mio, ma non mi ero reso conto che l’avevo proiettato anche su di lei. Mi sento in colpa per questo, perciò sto cercando di aprirmi di più con Tifa e donarle queste piccole cose solo nostre. Inoltre, credo che la mia voglia di vivere sia derivata all’iniezione di tristezza proveniente da questa notte. Ho visto a cosa può portare il non godersi alla vita, quindi credo sia uno stimolo in più tenermi stretta la donna che amo.
Inconsciamente, stringo Tifa più forte verso di me. Lei mi accarezza la guancia con la leggerezza di una piuma; poi scende e poggia il dito nell’incavo tra le clavicole. Inizia a picchiettare, mentre alza uno sguardo malizioso sulla mia espressione studiosa.
“Sai, il bar apre tra mezz’ora e i ragazzi sono a scuola…”
Io sorrido e colgo la richiesta celata. La osservo per qualche altro istante, inebriandomi nella sua bellezza. Poi, infine, la bacio.
Questo sì che è un buongiorno.

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Oggi la giornata è volta al termine troppo presto, quindi sebbene sia quasi mezzanotte non ho un minimo di sonno. Amoreggiare con Tifa oggi pomeriggio mi ha rigenerato e mi sento una grande energia addosso. Mi sento ottimista e, sinceramente, non mi va di leggere le memorie depresse del mio nemico. Anche se… il velo d’inquietudine, che si è avvolto attorno a me riguardo a quel nome sospirato tra le pagine di un diario, non mi ha abbandonato per tutta la giornata. E’ la curiosità e il fascino del mistero che mi riportano nel mio ufficio, invece di lasciarmi sulla poltrona a guardarmi le prove libere della corsa motociclistica a Icicle. Mi siedo e tiro fuori il diario. Lo contemplo per qualche secondo, tenendolo in verticale davanti a me.
Sei davvero sicuro, Cloud?
Forse dovrei davvero seguire il suo consiglio e godermi le piccole cose, invece di rimestare le acque torbide di un passato che va via via dimenticandosi.
Sono pensieri privati. Era il suo unico sfogo.
Sì, dopotutto che diritto ho io di leggergli nella mente? Ho capito dove ho sbagliato, il perché sia diventato così rabbioso; come l’umanità lo ha costretto a vivere.
C’è dell’altro. Che rapporto c’era tra lui e Aerith?
Faccio per aprire il diario e un pezzo di carta cade dalle pagine centrali, finendo sul pavimento. Mi chino per raccoglierlo e… ciò che vedo mi lascia senza fiato!

Ecco qua, una nuova sfornata di allegria per voi! Bene, per ora il nostro Sephiroth sembra più triste che mai, mentre Cloud sempre più felice (per la situazione CloTi super-zuccherosa, prego picchiare Manila XD). Un capitolo pieno di misteri questo. Cosa c’è di sopito e nascosto tra Aerith e Sephiroth? Cosa ha trovato di sconvolgente il nostro Cloud, sbucato fuori dal diario del nemico? Ve lo direi adesso, ma necessito di un foglio immacolato, un matita, dei colori e uno scanner. Quindi, saprete tutto nella prossima puntata, signori miei!

Ringraziamenti:
one winged angel: per le sue recensioni precise e accurate;
Serith: pignola (a detta sua), ma dispensatrice di importanti consigli (da non perdere la sua “Sfumature”!);
Manila: la folle pazza autrice delle Dis-avventure, a cui io ho rubato la vena CloTi. Se vi vengono le carie è colpa della sua influenza! No, carissima ragazza e brava scrittrice!
Alla prossima!
Besos

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Capitolo 4
*** Amore e guerra ***



Una donna. Una donna bellissima mi guarda attraverso la carta fotografica ingiallita dal tempo. Noto subito una chioma di capelli neri lasciati liberi nel vento entrare in contrasto con il chiarore fiammante di un tramonto morente tra imponenti montagne innevate; i cui raggi si riflettono su quel crine con mille sfumature rosse e gialle, accompagnate dal barluccichio ondulato del lago che si estende alle sue spalle. Lei e la perfetta beltà del piccolo paradiso lacustre sembrano ancora muoversi, nonostante qualcuno l’abbia impressionata per sempre su questa foto. Il nero intenso dei capelli contorna perfettamente il suo viso tondeggiante, risaltando una carnagione pallida come la porcellana. I suoi lineamenti sono fini, dolci, morbidi. Assomiglia ad una bambola. Sorride flebilmente. Le sue labbra rosse sono carnose, compatte, accoglienti. Mi inducono a baciarla senza remore. Sembra attirarmi verso di sé, infiammando ogni parte di me. E’ così strano. Poi i suoi occhi. Oh, quegli occhi! Grandi, profondi, luminosi e… verdissimi. Un verde spettacolare, molto, ma molto simile a quello di Aerith. Fatico a cogliere la sua fisionomia, poiché essa si stringe in quello che sembra essere la parte superiore di un kimono di parecchie taglie superiori al suo corpo. Non credo sia suo, sembra quasi da uomo… Le fibre di seta finissima che si districano e s'incrociano tra loro, formando una trama sinuosa e morbida, riflettono i raggi solari, trasformando un semplice indumento in un magnifico fiume d'argento, da cui questa splendida donna sembra nascere. Perfino il sole dietro di lei sembra inchinarsi a quella bellezza suprema, alla purezza perfetta di quella luce. Ora che ci penso, anche Aerith mi provocava la stessa sensazione. E anche Tifa. Faccio caso solo ora che quella donna assomiglia in modo impressionante alle due ragazze della mia vita. La chioma nera mi ricorda la morbidezza scabra avvertita dai miei polpastrelli quando accarezzo i capelli del mio angelo; mentre quegli occhi verdi mi rimembrano lo sguardo materno della Cetra. Sembra quasi che le due ragazze si siano unite per dare vita ad un’altra persona. Osservo quella donna a lungo e colgo certe caratteristiche che mi aiutano a capire la sua provenienza. Mi accorgo del taglio degli occhi leggermente obliquo, degli zigomi alti e smussati, il viso tondo; tutto ciò sta a indicare una sola cosa: Wutai. Yuffie ha tratti molto simili ai suoi, se non fosse per quegli occhi verdi… Esper santissimi! Non credo di aver mai visto uno sguardo così pieno e luminoso. Anche se le sue labbra accennano un minuscolo sorriso, quelle iridi sprigionano un amore grandissimo.
Smetto di respirare.
Amore grandissimo?
Cosa ho appena pensato?! Chiudo gli occhi con forza e scuoto la testa. La mia mano passa sulla fronte, cercando di scacciare quel pensiero, senza risultato. Alzo le palpebre e guardo la fotografia, mentre la mia palma si ferma sulla mia bocca e tutta la mia figura si accascia sulle ginocchia. La rivelazione sembra schiacciarmi. Il mio respiro si è fatto più affannoso e nella mia mente c’è una gran confusione.
No.
Non riesco ad accettare quello che la mia testa mi sta propinando.
Non è possibile che lui…
Ripercorro mentalmente le informazioni rinchiuse nei miei ricordi come fossero dati di un computer, alla ricerca di un indizio che confermasse la mia ipotesi.
Non ho mai sentito nulla, nessuno ne ha mai parlato.
I media o i fan non potevano essersi lasciati scappare una tale notizia! Ma nulla, nella mia mente, mi conferma di voci di corridoio o di pettegolezzi su una storia d’amore.
Seguivo la sua vita come fossi la sua ombra.
Sapevo tutto di lui, qualunque cosa: che shampoo usava, qual’era il suo cibo preferito, quale numero di scarpe indossava, quante volte andava nella sala addestramenti a combattere, il numero di battaglie a cui aveva partecipato… TUTTO! Possibile che una cosa così ovvia e importante sia riuscito a nasconderla? Improvvisamente, capisco che io non ho compreso niente di niente, che quelle informazioni a cui ero gelosamente attaccato quand’ero ragazzino non erano altro che una copertura per la sua vita reale. Ci ho combattuto così tante volte da arrivare a dire di averlo conosciuto davvero. Che illuso! Ripenso all’ultima volta che ci siamo scontrati. Gli sputai in faccia queste parole:

I pain you. You just don’t gettin’ at all!

[Mi fai pena. Non capisci niente! FFVII:ACC]

Sospiro. Con quale presunzione, poi? Credendo di sapere tutto di lui, decretato che non avesse più nulla da darmi, lo ho condannato come una bestia da macello. L’ho accusato di non avere sentimenti, di non provare nulla, di essere… vuoto. Guardo quella foto e vedo che, all’ombra nera del potente Generale SOLDIER, c’era un uomo. Un uomo che amava ed era amato a sua volta. Da una donna bellissima, tra l’altro. Una Wutai, probabilmente. Una donna di quello stesso popolo che la ShinRa ha fatto di tutto per raderlo al suolo e piegarlo al suo volere. Di quel popolo di cui la gente comune aveva paura e sperava di vederlo sprofondare nei flutti del proprio sangue attraverso le sferzate esperte della Masamune. Tutti i popoli al di là del mare di Wutai si erano schierati dietro quella figura fasulla di onnipotenza, senza pensarci nemmeno un attimo. Come pecore ignoranti abbiamo odiato un’intera popolazione solo perché rigettavano la tecnologia mako e osavano mettersi contro la grande ShinRa, ovvero contro il Dio Sephiroth. Già, perché all’epoca i due erano praticamente sinonimi.
Mi accorgo dell’ironia della loro sorte: lui così disperato da andare a trovare conforto tra le braccia del nemico. Credo che abbia visto un’affinità in quella donna, un’ancora di salvezza su cui sfogare il suo bisogno di amore. Dalla sua espressione e dalla sua posa eretta, mi sembra un persona sicura di sé, forte e decisa. Anche se il suo sguardo tradisce una grande umiltà e le sue gote arrossate una certa timidezza. Immagino si trovasse in imbarazzo quando venne scattata questa foto. Come diamine ha fatto a tenerla nascosta a tutto il mondo? A volte leggevo sulle riviste di gossip di mia madre che c’erano ragazzine che riuscivano ad intrufolarsi fino agli spogliatoi del piano SOLDIER, pur di sperare d’incontrarlo sotto la doccia e fotografarlo. Non so quanto fossero veritiere quelle notizie, ma non escludo che ci abbiano provato davvero. Mi scappa una risata mesta. Sephiroth era una cavia da esposizione, obbligata a vivere sotto i riflettori di una vita mai voluta, a denigrare se stesso solo per il giubilo del popolo. Frustante, davvero. Non riesco ancora a capacitarmi del fatto che lui avesse una compagna. Sempre se fosse così, ma non trovo altra spiegazione del perché una foto di una donna sconosciuta possa trovarsi nel suo diario. Forse lei era una persona importante in Wutai. Dovrei mostrarla a Yuffie, ma credo che mi tempesterebbe di domande sul come e sul dove che farebbero cadere, come un castello di carte, le mie bugie. Conoscendola, lei sarebbe perfettamente in grado di estrapolarmi ogni informazione possibile dalla bocca, nemmeno fosse una dentista che strappa i denti dalle gengive. E, ovviamente, non riuscirà a tenere per sé questi segreti e li andrebbe a spifferare subito a qualcuna delle ragazze, se non direttamente a Tifa stessa. A quel punto, potrei davvero considerarmi morto e sepolto. Mi immagino una situazione del genere e mi ritrovo a desiderare che, forse, è meglio combattere Sephiroth mille volte, anziché affrontare l’ira di Tifa e le fucilate di Barret. Scaccio quei pensieri e torno a studiare la foto. Non riesco a capire dove possa essere stata scattata. Forse Costa del Sol, ma non credo che lui possa essere stato così imprudente da portarla in un luogo così affollato e così vicino a Midgar. La osservo ancora per un altro po’, cercando di estrapolare più informazioni possibili, ma alla fine arrivo alla conclusione che è tra le pagine del diario che troverò le risposte alle mie domande. Purtroppo, non so da che pagina possa essere caduta, quindi decido di andare con ordine e tenermi la curiosità, finché non arriverò al punto.

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20 Dicembre XXXX

Oggi è la prima volta che riesco a concedermi un minuto libero fuori dalla ShinRa. Sono due mesi che non faccio altro che presenziare a riunioni tattiche, scartabellare fascicoli di reclute, analizzare mappe, studiare gli allenamenti dei nuovi arrivati, incoraggiare truppe ed elemosinare nuovi soldati dal popolo attraverso stupide pubblicità. Il Presidente e il Direttore SOLDIER hanno pensato bene di sobbarcarmi tutto il lavoro, mentre loro si concedono il “meritato riposo” a giocare a golf. Santo cielo, sono a pezzi! La testa è così piena d’informazioni che, se non fossi riuscito a rintanarmi qui e vomitarle nel diario, con certezza matematica mi sarebbe esplosa. Sono giorni che non dormo. Ci sono sempre dei problemi… I miei Comandanti sono degli incapaci, mentre gli altri Generali pensano bene di mettermi i bastoni tra le ruote. Dannati bastardi, spero che la guerra vi travolga! Spero vivamente di vedervi crepare sotto le armi da fuoco di North Corel. Mi scappa una risatina malefica al pensiero che sono l’unico a sapere che le armi dei nostri nemici vengono fornite da mercanti d’armamenti della resistenza di Corel. Tutti loro sono convinti che ci troveremo ad affrontare una massa di contadini con torce e forconi. Poveri illusi! So che dovrei essere più collaborativo con i miei “compagni”, ma non li posso sopportare. Quelli sono gli stessi imbecilli che mi facevano impazzire durante l’addestramento. Non riesco a capacitarmi che siano diventati generali. Mi si gela il sangue nelle vene al pensiero di quanti uomini manderanno al macello, questa volta. Solo perché loro sono più vecchi di me, credono di essere più in gamba. Durante la guerra di conquista, ho dovuto lottare sia contro i nemici che contro i miei stessi alleati per impedire manovre strategiche atte solo al massacro dei nostri. Molti uomini dovrebbero essermi grati di avere ancora un vita da vivere. La cosa gratificante è che alcuni se lo ricordano il ragazzino dai capelli argentati che si è opposto agli ordini stupidi dei Capitani. Parecchi di loro hanno chiesto di combattere sotto di me questa nuova guerra. Sanno che io farò di tutto perché ci siano meno perdite possibili, sia da un lato che dall’altro. Sono delle brave persone e molti di loro hanno anche una famiglia; credo di doverglielo. La guerra è orribile, ma sono felice che stia per scoppiare. Non solo perché sono un soldato e il sangue è la mia vocazione; il motivo principale è la possibilità di liberare i miei istinti nel modo più cruento possibile. La mia bestia sarà grata di questa ora d’aria. Durante la guerra precedente, mi capitava di gettarmi a capo chino contro i miei nemici, preso da una frenesia folle. Sentivo il mio corpo quasi esplodere dalla violenza con cui i miei istinti si liberavano. Tutti i miei sensi si acuivano e i miei movimenti non erano mai stati così fluidi. Il sangue ribolliva nelle vene come se un calderone bollente bruciasse ed eruttasse lava incandescente. Ma la sensazione che mi impressionava di più era il mio cuore. Lo percepivo battere ovunque: nella testa, nel petto, nel ventre. Ovunque. Sospingeva la lava in ogni angolo del mio corpo con una potenza impressionante. Mi sentivo bruciare, letteralmente. Alla fine di un combattimento particolarmente intenso, evocavo sempre un Hell Firaga per liberarmi del fuoco che mi stava consumando. E tutti i miei nemici con me. Quando la follia scemava, il bollore si raffreddava e lo stridio nella mia testa si affievoliva, vedevo con orrore lo sfacelo compiuto. Centinaia di corpi abbrustoliti, impressi nell’atto della morte violenta. Le loro pose erano agghiaccianti. Mani nei capelli urlanti; cercavano di proteggersi dietro al braccio; altri erano stati semplicemente annientati dalla rassegnazione alla fine. Una volta rasi al suolo un intero villaggio. I miei compagni erano riusciti a salvarsi, ma i ribelli mi impedivano di avanzare. Mi avevano intrappolato. So che può sembrare ridicolo per uno che desidera la morte più di qualsiasi altra cosa, ma in quei frangenti è impossibile non pensare di sopravvivere ad ogni costo. A volte vengo influenzato dalla mia stessa leggenda. Non sopporto l’idea di morire in modo così ignobile, sapendo di avere le capacità per uscire dalla situazione. Arrendersi non fa parte della mia natura. O, semplicemente, è un concetto che mi hanno inculcato fin dall’infanzia. Se non avessi avuto questa tenacia, probabilmente, un giorno mi avrebbero trovato impiccato ad una trave o nella vasca con le vene tagliate. Odio così tanto la vita che trovo piacere nel toglierla agli altri. Credo che in modo perverso stia facendo loro un favore. Ma poi la mia coscienza rimorde. E’ la mia vita che fa schifo, non quella degli altri. Spesso ho ucciso uomini davanti alle loro famiglie. Era in quei frangenti che capivo quanto errore ci fosse nella mia teoria. Ma un giorno dovrò pagare per i miei errori e spero che sia qualcuno a cui abbia ucciso un famigliare, o un amico. Forse così i miei incubi avranno fine. Per loro, però, non ci sarà la stessa soddisfazione che provai io, perché uccideranno un uomo solo e triste. Nessuno verrà a piangere sulla mia tomba, nessuno cercherà vendetta per me.
Accidenti, quanto sono depresso. Fortunatamente, nessuno leggerà queste righe, ma se mai capiterà spero di non essere lì per assistere. Mi sentirei dannatamente patetico. Ho assoluto bisogno di un amico. Anche un animale, ma i miei impegni mi impedirebbero di prendermi cura di lui. Dovrei smollarlo alla vicina, ma sono dell’idea che se una persona decide di tenere un animale deve pensarci il padrone al suo sostentamento. Come quei genitori che lasciano i figli ai nonni, perché non hanno tempo per loro. Forse quella sera era meglio se andavate al cinema, se non avete tempo di occuparvi della vostra creatura.
Queste riflessioni sono davvero ridicole! Ma la mia mente è così stanca che pensare in modo logico e congruo le è impossibile. Avrei anche bisogno di mangiare qualcosa, ma tutti i miei pensieri mi chiudono lo stomaco. Durante l’ultima visita medica è risultato che sono sottopeso di 4 chilogrammi. Sto scomparendo…
La dottoressa che segue i miei casi mi sgrida con fare materno quando vede gli effetti dello stress sulla bilancia. E’ una brava professionista, oltre che essere una bella donna. E’ gentile e si preoccupa per me. Scuote la testa e comincia chiedermi se ho bisogno di parlare con qualcuno. Vorrei tanto risponderle di sì, ma credo che mi spedirebbe nel reparto di psichiatria appena scoprirebbe quello che c’è nella mia testa. Preferisco tenere per me i miei problemi, purtroppo ho una reputazione da difendere.
Santo cielo, che nervoso! Perché mi ritrovo sempre a tornarea quel punto?!
Questa povera penna non resisterà a lungo, ha già macchiato la pagina con uno sputo d’inchiostro a causa del mio impeto. Fortunatamente, la vista variopinta della città addobbata per il Natale quieta un poco il mio animo. Mi ritrovo a studiare quelle luci rosse, bianche e verdi. Spuntano caparbie in mezzo ai fumi di mako rilasciati dai reattori, proprio per dimostrare che in questo mondo marcio c’è ancora la voglia di allegria e pace. Di quest’ultima, però, di qui a poco ce ne sarà davvero poca. La guerra in Wutai inizierà presto. La missione diplomatica di due mesi fa non è andata per niente bene. Goro Kisaragi non ha la benché minima intenzione di scendere a compromessi. Nemmeno il Presidente. Ho ascoltato l’acceso dibattito tra i due da fuori la sala del trono. C’era d’aspettarselo, dopotutto. Erano mesi che i rapporti si inasprivano sempre più. La guerra era inevitabile. Sarà dura. L’area di Wutai è un’enorme trappola per topi. Foreste, montagne, paludi… Un vero incubo per un esercito invasore. Senza contare che dovremo lottare anche per creare un avamposto sulla costa per far atterrare i nostri aerei ed elicotteri. I Wutai sono un popolo fiero: combatteranno fino all’ultimo sangue per pochi centimetri di terra. Prevedo una lunga guerra di logoramento e guerriglia. Un sacco di morti.
Sospiro al pensiero di quanto sangue bagnerà quella terra. Quanto sangue innocente verrà sparso! Lo so già che prima o poi i nervi dei nostri uomini cederanno. Vorranno le loro donne e uccideranno i loro bambini. E io con loro. So anche che questa guerra sarà la mia nona sinfonia.
Il mio canto del cigno.
La chiusura a doppia mandata della mia gabbia di gloria.


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Rimango un po’ deluso dal fatto che le mie domande restano e molte altre si fanno strada. Ma dopotutto, come potevo anche solo sperare che mi avrebbe spiegato tutto. Sono tentato di saltare le pagine per arrivare ai punti che interessano a me, ma non mi sembra rispettoso. Ogni suo pensiero merita di essere letto, anche se devo ammettere che sono turbato. Sembra quasi che sentisse cosa sarebbe accaduto. Mi inquieta il fatto che sia stato così lungimirante. Che dentro al suo cuore sapesse?
Guardo l’orologio. Sono le due di notte. Domani lavoro, sono stato sveglio anche troppo. Anche se non so se riuscirò a dormire con tutte queste domande che mi si affollano nella testa. La foto della donna mi guarda sorridente. La contemplo per qualche minuto.
Chi sei tu?

Ecchime! Tranquilli non sono morta! E’ che ho avuto un sacco da fare, tra i post del Gdr e l’uni, non ho avuto molto tempo.
Mi scuso anche per non essere riuscita a postare la "foto" della donna come anticipato nello scorso capitolo. Ho fatto degli abbozzi poco soddisfacenti, ma mentre scrivevo mi é venuta in mente la versione definitiva XD (Bah, pensa te, quando dovrebbe essere il contrario...nda). Meno male che ho scritto, perché avevo sto capitolo in testa e lo dovevo assolutamente liberare!
E così l’identità del misterioso foglietto è stata svelata! Un’amante? Ma, come..?! Eheh, non temete la situazione peggiorerà! Ringrazio le sante donne che hanno la pazienza di leggere i deliri del nostro bell’argentato e della pare del biondo chockobo.
Alla prossima!
Besos

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Capitolo 5
*** Natale ***


Finalmente, il cullante languore del sonno mi assale e piano piano sprofondo verso quel mondo in bilico tra incoscienza e realtà. Degusto appena il sapore del meritato riposo, quel diletto dolce e avvolgente, quando… La dannata sveglia mi desta con la sua odiosa suoneria gracchiate e nervosa. I miei sensi esplodono, cogliendo ogni singola sfaccettatura del mondo reale, impedendomi di concentrarmi. Mugugnando, affondo la faccia nel cuscino. Non ho la minima voglia di alzarmi, tantomeno di andare a lavorare. Il ‘cra cra’ dell’aggeggio mi trapana la testa e mi tenta a mettere fine la sua esistenza con un volo fuori programma. Alzo i lati del cuscino sulle mie orecchie martoriate e affondo la testa ancora di più nelle sue morbide curve. Cerco di ignorare quel suono odioso e concentrarmi a riprendere il sonno perduto, quando una delicata mano mi accarezza la schiena, provocandomi brividi di piacere dalla testa fino ai piedi. Sento i miei peli rizzarsi (e non solo quelli) e il cuore battermi all’impazzata. La palma scivola con tocco leggero, come un sospiro, e sale tra le scapole; poi sul coppino, fino a posarsi tra i miei capelli. Percepisco le dita affusolate scompigliarmi la pettinatura arruffata del primo mattino, sempre con la delicatezza che solo loro sono in grado d’imprimere. I miei tentativi di riaddormentarmi vanno letteralmente al diavolo. Sospiro ed esco dal mio pertugio, ruotando la testa verso sinistra. La mano mi si appoggia sulla guancia, non appena i miei occhi incontrano quelli ancora chiusi del mio angelo. Tifa mi accarezza la gota col pollice. Ha capito che sono sveglio. Mugugna e inizia ad agitarsi.
“Cloud, spegni quella sveglia.”, mi ordina con voce stizzita, sebbene la sua irritazione sia perfettamente nascosta dal tono assonnato.
Mi ero dimenticato che quell’aggeggio malefico stava suonando già da una quindicina di minuti buoni. Con fatica, assecondo il desiderio di Tifa e lo metto a tacere. La sento sospirare di sollievo. E anche la mia testa mi ringrazia. Mi volto verso di lei. La sue palpebre sono ancora chiuse, contornate dalle sue lunghe ciglia nere. La sottile pelle subisce degli spasmi di tanto in tanto, permettendomi di individuare le curvatura degli occhi sottostanti. Alzo lo sguardo e contemplo i capelli corvini che le cingono il viso. Per quanto siano arruffati, per me, sono sempre perfetti. Un flash lampeggia nella mia mente, collegandomi alla foto della donna misteriosa. Ora che Tifa ha gli occhi chiusi, mi sembra quasi di essere sdraiato di fianco a un’altra donna. La somiglianza è davvero impressionante! La vedo lì, viva e serena, trovare conforto sulla mia pelle, attraverso una delicata carezza. Il suo sorriso è leggermente accennato, come nella foto. Anche se non lo sta dimostrando, so che sta amando con tutta se stessa colui che è coricato accanto a lei. E’ rilassata, sa di poter contare su quell’uomo. Lo desidera, lo percepisce attraverso un singolo contatto, il quale la fa sentire completamente appagata. Di conseguenza, inizio a pensare cosa avrebbe fatto Sephiroth al mio posto, a chiedermi se anche lui provasse quella felicità immensa di svegliarsi al fianco della donna che ama. Mi è davvero difficile immaginarmelo alle prese con una ragazza. Era un uomo così analitico e distaccato, troppo freddo per provare una sensazione così calorosa. Grugnisco. Devo smetterla di credermi così superiore a lui; dopotutto anch’io ho passato un momento della mia vita, in cui non m’importava di niente e nessuno. Tifa e gli altri hanno sofferto tanto per questo. Io, a differenza sua, ho avuto la possibilità di rimediare; possibilità a lui preclusa per causa mia, tra l’altro. Dal suo diario ho imparato che spesso l’apparenza inganna. Credevo che un eroe del suo calibro potesse avere qualsiasi cosa. Quando, invece, mancava un dettaglio indispensabile nella vita di una persona: l’amore. Anche se non ho mai conosciuto mio padre, ho sempre avuto comunque qualcuno che mi trasmettesse quell’affetto da sentirmi protetto e felice. Lui aveva un padre, ma non era da considerarlo nemmeno tale. Hojo era un pazzo, un essere davvero terrificante. Mi chiedo come abbia fatto Sephiroth a convivere con la convinzione di essere suo figlio. Infatti, lo odiava a morte. Anche se, leggendo tra le righe, ho potuto notare un dolore celato dietro a quella rabbia. Credo che una parte di sé desiderasse sanificare quell’unico rapporto famigliare. Dopotutto, come si può odiare completamente l’uomo che ti ha messo al mondo?
Tutti i miei pensieri mi alienano dal mondo e rabbuiano la mia espressione, allarmando Tifa.
“Cloud? Tutto bene?”
Mi ridesto. Ora che è sveglia e incontro le sue iridi colore del cioccolato, vedo la donna di prima svanire per lasciare posto alla mia unica, insostituibile Tifa. Essa si è girata verso di me e mi sta accarezzando il collo, giochicchiando ogni tanto con qualche ciocca dei miei capelli. Ha la testa piegata di lato e mi studia attentamente. Sento di essermi pericolosamente esposto, quindi recupero con un sorriso stanco.
 “Tranquilla, Tifa. E’ la mattina che mi stronca.”, la prima scusa che mi viene in mente.
Lei sembra rilassarsi: posso tirare un sospiro di sollievo.
“Se la sera non andresti a letto così tardi, non avresti questi problemi.”
Cosa?!
Il fiato mi si blocca in gola e sento i miei occhi sgranarsi. La mia reazione sembra allarmarla e decide di andare più a fondo, porgendomi la domanda più pericolosa che una donna può fare ad un uomo.
“Cosa hai fatto ieri notte?”
La mia mente cerca disperatamente di trovare una scusa plausibile.
“Ehm… Ieri notte… c’era… c’era… la gara!” Sì, questa può andare. “Sono stato a guardarla fino a tardi.”
Tifa non sembra soddisfatta, mi guarda ancora con sospetto. Io cerco di sostenere il suo sguardo e controllare il rossore che mi sta infiammando le gote. Decido di rincarare la dose e autoconvincere anche me stesso.
“Inoltre, avendo dormito tantissimo ieri non avevo molto sonno quando sei andata a letto. Inoltre, su canale 7 ritrasmettevano… le gare che hanno fatto la storia del motociclismo. Come potevo non perderle?”
Grazie al cielo, mi è venuta in mente questa chicca, letta di sfuggita sfogliando il giornale.
Trattengo la mia esultanza, quando Tifa alza gli occhi al cielo e scuote la testa, sospirando.
“Ah, sei il solito. Quando si tratta di sport, non c’è orario che tenga!”
Si getta prona sul materasso e si stiracchia, lasciandosi scappare un sonoro sbadiglio. Getta uno sguardo svogliato all’orario. Sono quasi le sei. La ragazza si porta le mani al viso e sbuffa.
“Oh. Devo darmi una mossa. Tra poco devo aprire il bar. Vai tu a portare i bambini a scuola, appena esci?”
Annuisco , recuperando un colore umano, e le rivolgo un flebile sorriso. Lei lo ricambia con uno molto più bello e luminoso, per poi avviarsi verso il bagno.

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Questa giornata di lavoro è stata terrificante. Avrò sbagliato quattro o cinque volte a consegnare ai destinatari i pacchi a loro spediti, oltre che rischiare varie volte di prendere l’uscita sbagliata per i vari paesi. Fortunatamente non c’era molto da fare e sono rientrato a Edge per pranzo. La mancanza di sonno si è fatta sentire per tutta la giornata, la quale mi ha portato a commettere un errore astronomico: mi sono dimenticato di andare a prendere i bambini a scuola. Sono entrato al 7th Heaven, ridotto peggio di uno straccio e con un bisogno assoluto di caffeina. Mi sono trascinato fino al bancone pregustando un bel caffè forte, ma faccio per alzare gli occhi e vedo Tifa che mi guarda con gli occhi fuori dalle orbite.
“Dove sono Marlene e Denzel?”
La osservo come se mi stesse parlando in aramaico, poi alla fine realizzo. Come se non bastasse, alla mia dimenticanza hanno assistito Shera, Cid, Yuffie e Barret.
“Che @!X*?, Cloud? Dov’è mia figlia?”
Sbarro gli occhi e per un momento il mio cuore si ferma. I ragazzi… Tifa appoggia il bicchiere e si porge pericolosamente verso di me.
“Te li sei dimenticati?”, soffia tra i denti e il fuoco negli occhi.
Mi guardo intorno sconsolato, implorando aiuto dagli altri, ma tutti mi stanno dilaniando con lo sguardo. Barret mi avrebbe già trasformato in un colabrodo se solo si trovasse in un luogo aperto, mentre Shera mi osserva con severità da maestrina. Solo Yuffie e Cid sembrano trovare divertente quella situazione, i quali potrebbero scoppiare a ridere da un momento all’altro. Ritorno da Tifa. Il suo sguardo iracondo è davvero agghiacciante.
“Dannazione, Cloud! Come diamine hai fatto a dimenticarteli!? Si può sapere che cos’hai per la testa?”
Sento all’improvviso che la mia ragazza non abbia del tutto creduto alla montagna di bugie che le sto propinando in questi giorni. Queste piccole frecciate, queste domande trabocchetto, mi destano allarme. Io non amo mentire e non sono nemmeno tanto bravo, ma quel dannato diario e tutto quello che sto scoprendo tra quelle pagine vale il rischio. Ormai sono troppo coinvolto per lasciare perdere tutto. Chiedo alla mia mente addormentata uno sforzo sovraumano per trovare l’ennesima storiella valida per salvarmi la pelle; quando un tintinnio attira l’attenzione dei presenti. Sulla porta, avvolto in un mantello rosso sangue, vi è Vincent accompagnato da Denzel e Marlene.
“A quanto pare sono arrivato giusto in tempo… Dovresti dormire un po’ di più. Non hai una bella cera.”
Mi stupisce sempre quanto Vincent possa cogliere con una sola occhiata. Decido di prendere la palla al balzo e approfittare dell’intuito dell’ex-Turk.
“Già! Ero talmente stanco che non ce la facevo proprio a passarli a prendere. Ho chiesto a Vincent di sostituirmi. Giusto, VINCENT?”
Enfatizzo il suo nome con uno sguardo languido ed implorante. Ti prego, Vincent, reggimi il gioco. Il pistolero mi osserva per un lungo minuto, in silenzio, imperturbabile come una statua. Devo ringraziare mille volte la sua faccia di cera e il suo self-control.
“Sì, giusto.”, risponde alla fine con tono piatto, anche se nei suoi occhi leggo un velo di sospetto.
Non è da me mentire così, eppure l’ho fatto volontariamente, davanti a tutti e coinvolgendo perfino qualcun altro. Credo abbia intuito che c’è qualcosa di diverso in me. Ed è vero: mi sto talmente abituando a dire bugie per proteggere QUEL segreto che sto proiettando questa abilità pure nella vita reale. Ma non ho assolutamente voglia di cedere ai tentativi di Tifa di fare breccia nei miei intrighi nascosti. So che ne soffrirebbe. So che mi odierà per aver accettato di conservare un oggetto appartenuto all’assassino di suo padre. Non mi perdonerà mai per questo. E io non voglio perderla, non ora che abbiamo cominciato a vivere.
La ragazza mi osserva di sottecchi ancora per un po’, finché i bambini non attirano l’attenzione di tutti.
“Tifa! Abbiamo fame! Cosa ci hai preparato?”
Maledetto Sephiroth. Questa me la paghi!
------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------ Ho deciso di concedermi una pausa dal diario, giusto per riprendermi dalla mancanza di sonno dei giorni scorsi, costatami una ramanzina da parte di Tifa. Ovviamente, mi ha sgridato su altri argomenti, ma questo è un altro discorso. Finché riusciamo a mantenere il quieto vivere in casa nostra, nonostante quell’affare nel mio ufficio, ritengo ogni giornata una piccola vittoria. Anche se l’imprevisto è sempre dietro l’angolo. Vincent. Un altro che si è aggiunto alla lista dei possibili scopritori del mio segreto. Non mi preoccupa, però. E’ un uomo discreto, semai decidesse d’indagare lo farà con il massimo tatto e sono certo che non si scandalizzerà più di tanto, ma cercherà di capire il motivo delle mie azioni. Mi è capitato parecchie volte di pensare di confessargli tutto, ma la mia parte prudente mi consiglia di non essere avventato. Stiamo parlando di Sephiroth, dopotutto. Devo dire, però, che il pistolero è l’unico a cui il nemico abbia fatto un torto. Vincent si è unito a noi solo perché quel pazzo sanguinario stava per distruggere il Pianeta, per il resto cosa aveva da recriminare a LUI? Forse Vincent è l’unico ad aver visto il lato innocente di Sephiroth, sebbene all’epoca non fosse ancora nato. Ha conosciuto sua madre, l’ha amata. Si potrebbe dire di comprendere il figlio di Jenova attraverso Lucrecia? Chissà che tipo di uomo sarebbe diventato se l’avesse conosciuta.
Per ora mi accontento di apprendere le sfaccettature del suo animo tormentato attraverso l’inchiostro.
E’ sabato sera, domani non si lavora. Devo trovare un modo di armonizzare la mia vita diurna con le letture notturne per ovviare a inconvenienti che potrebbero avvicinarmi pericolosamente al baratro. Venerdì ne è stata la prova. Sospiro. Tifa è molto stanca e si è già addormentata accanto a me. L’attività del bar la affatica parecchio. Quando questa storia finirà e le nevi di Modeheim si saranno sciolte, la porterò in vacanza. Solo io e lei. Rinsalderemo il nostro rapporto e lo renderemo ancora più stretto di quanto non lo sia ora. E magari prima o poi le darò quel famoso anello che lei tanto desidera. Ma ora come ora, ho un’ombra difficile da scacciare che mi perseguita. Volente o dolente, Sephiroth continua a essere presente nella mia vita. E finché quell’ultimo nodo non sarà sbrogliato quella matassa non potrà mai essere filata per una nuova forma. Osservo le curve morbide che si elevano da sotto le coperte, desiderando con tutto me stesso di cavalcarle. Mi piace la sua silhouette, così sensuale e piena; mi perderei ore ad accarezzarla. Mi ricorda le strade di montagna dai tornanti vertiginosi, in un giorno di sole, fresco e ventoso. Ideale per un giro adrenalinico in moto. Mi sdraio accanto a lei e le cingo i fianchi affossati con il braccio. La stringo a me con delicatezza per evitare di svegliarla. Mi elevo sopra la sua testa e vedo il suo profilo perfetto. Sorrido. Le labbra sono appena dischiuse e da esse esce un flebilissimo sospiro. Appoggio le mie sulla sua guancia e guardo la sua bocca mentre s’increspa in un inconscio sorriso.
Sguscio dolorosamente fuori dal letto e mi dirigo verso l’ufficio. Tiro fuori il diario, provocando meno rumore possibile, e lo apro. La foto della donna svetta da sopra la pagina su cui l’avevo adagiata, come segnalibro. Era davvero stupenda. Devo dire che non mi stupisce il fatto che sia riuscita a sciogliere il cuore del freddo Generale SOLDIER. Una bellezza del genere è impossibile da ignorare. Mi ritrovo ad osservare la mano magra e noto quanto la sua pelle sia perfetta. Sembrava ricoperta di seta. Morbida, liscia seta finissima. Non era di certo una contadina o, comunque, una lavoratrice in un settore pesante. Per la finezza dei suoi tratti avrebbe potuto appartenere a qualunque cosa legata alla nobiltà. Sarà stata una figlia di qualche proprietario terriero di Wutai. Oppure la moglie… Scuoto la testa. Vacci piano, Cloud. E’ inutile fare strane constatazioni di tradimenti e di rocambolesche fughe d’amore da mariti cornuti.

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24 Dicembre XXXX, poche ore dalla mezzanotte

La Vigilia di Natale. Una festa tanto amata dai bambini di tutto il mondo, i quali attendono in trepidazione l’arrivo di Babbo Natale. Di tutti, tranne di uno. Io, tanto per cambiare. Da bambino non ho mai provato quell’allegria, quell’ agitazione, quella curiosità di aprire un regalo portatomi da un anziano barbuto vestito di rosso e bianco. Per Hojo, Natale era un giorno come un altro. La prima volta che vidi la civiltà sotto questo periodo, mi chiesi perché la gente appendesse in ogni dove pupazzi di uomini in vermiglio nell’atto di arrampicarsi sui tetti. Lo chiesi a mio padre e lui mi disse di non interessarmi delle frivolezze di un mondo che non conoscerò mai. Secondo lui, io dovevo solo apprendere i segreti della realtà militare. E basta. Il resto era sciocca, frivola, inutile illusione. Queste furono le sue lapidarie parole. Le ricordo tutt’ora, sebbene siano passati più di 10’anni. Da ingenuo infante quale ero non indagai più di tanto; anche se ero attrattissimo da quelle luci e l’atmosfera felice che si respirava per la città. Passavo ore a guardare fuori dalla finestra a studiare la gente scambiarsi regali e auguri. E poi mi divertivo osservare le luminarie colorate riempire di luce l’atmosfera fuori e dentro un’abitazione.
Mi ricordo di una casa in particolare. Era in fondo la via in cui abitavo e ogni anno veniva addobbata completamente, con luci che seguivano la sagoma della costruzione, pupazzi semovibili di renne e Babbo Natale, palline colorate, addobbi pelosi e chi più ne ha più ne metta. Era davvero spettacolare nella sua opulenza. Un anno i proprietari organizzarono perfino una sfilata di cori natalizi per la città e andavano a bussare porta a porta, compiacendo la gente col loro canto. Ovviamente, passarono anche da noi, ma Hojo non fu contento di ricevere quella visita, quindi li fece cacciare via. Io ero fermo sulle scale che portavano all’ingresso ad osservare inerme quel triste spettacolo. Avrei tanto voluto ascoltarli. In vita mia ho sempre voluto tante cose, ma, a differenza di altri bambini, ciò che desideravo non poteva essere comprato. Quando cominciai ad apprendere lo spirito natalizio attraverso le mie annuali osservazioni, mi feci più ardito con Hojo. Chiedevo cose semplici, come un filo di luci, un alberello da tenere in camera mia; insomma qualcosa che desse un po’ di colore a quella triste casa spoglia e asettica. Una battaglia infinita e mai vinta. Ancora oggi provo quella paura recondita nei suoi confronti. Eppure ora sono il doppio del suo fisico magro e rachitico, ma il suo ascendente su di me è sempre quello di quando avevo 6 anni. Non so perché, ma Hojo è in grado di mettermi in soggezione. Per quanto lo odi in modo viscerale, non riesco a impormi. Vorrei ribellarmi, ora ne ho il potere e le capacità, ma una parte di me vuole mantenere una tregua con lui. Forse sono talmente assuefatto dalla sua presenza che ormai lo sopporto per inerzia. Dopotutto, Hojo è l’unico a conoscere il mio vero io. Anche se ha fatto di tutto per cambiarlo a suo piacimento. Non credo ami il mio essere “umano”. Vorrebbe che io fossi più freddo, più analitico, più distaccato. Vorrebbe che fossi un robot, probabilmente. Una macchina spietata e senza sentimenti. Come se non bastasse per farmi sentire più in colpa, mi ripete che mia madre era esattamente come lui. Dice che non riesce a spiegarsi il mio comportamento. Io non credo ad ogni singola parola. Il Professore mi dipingeva un altro tipo di donna, sebbene ne parlasse molto svogliatamente. Credo che avesse paura delle conseguenze di quello che usciva dalla sua bocca. Sospetto ci fosse lo zampino di Hojo.
Jenova… Quel nome è la mia unica ancora di salvezza. Quando sono giù, mi ripeto quel nome all’infinito, lasciando la mia mente delineare l’aspetto di quella figura a me sconosciuta. Immagino una donna bellissima che mi guarda con occhi pieni di amore. Riconosco me stesso in quelle iridi verdi. Mi somiglia tanto e sorride. Sorride tanto. Un sorriso radioso che mi appaga completamente. Sogno di abbracciarla e chiamarla. Lei risponde al mio abbraccio e sospira il mio nome con la sua voce leggera e calda.
Avrei voluto tanto conoscerla, ma purtroppo la mia nascita ha messo fine alla sua vita. La mia prima vittima… Devo dire che il mio arrivo in questo mondo non poteva avvenire sotto peggior auspicio. Spesso mi sento come perseguitato da un destino nefasto. A volte, mi pare che la mia vita non sarebbe mai dovuta essere così, come se dentro di me vivessero due persone: una sono io, il risultato fatale del parto di mia madre; mentre l’altra è l’esistenza alternativa se lei fosse ancora viva. Mi chiedo spesso come sarebbe diversa la mia esistenza con l’affetto di una mamma. Forse sarei una persona migliore, molto più aperta e spontanea. Forse lei mi avrebbe permesso di dare sfogo alla mia curiosità e mi avrebbe spiegato i segreti del mondo della gente normale. Forse avrei fatto parte di loro.
Ho sempre desiderato essere come tutti gli altri. Invidio profondamente la quotidianità del tranquillo via vai di Midgar. Tutte quelle persone che vivono alla giornata, affrontando difficoltà, problemi, ostacoli. Io non ho questo privilegio e mi sono sempre limitato ad osservarlo come fosse una chimera irraggiungibile. Osservare… Non ho mai fatto altro, perfino ora dall’attico guardo la vita svolgersi davanti a me, sentendomi uno spettatore di quel miracolo meraviglioso, quale è il Lifestream. Io mi sento al di fuori di quel flusso vistale che soffia su questo Pianeta. Mi pare di appartenere ad un altro mondo, come la piccola Aerith.
La mia concorrente per l’affetto del Professore. La bambina che mi precludeva l’unica possibilità di scampo dalla realtà terribile che mi imprigionava. Ogni tanto mi dirigo alla chiesa nei bassifondi del Settore 5 e la trovo sempre lì, intenta a curare quegli strani fiori. Mi saluta porgendomi un sorriso così luminoso da abbagliarmi. Sebbene sia solo una ragazzina è davvero bellissima. E’ sempre contenta di vedermi e mi viene ad abbracciare, saltellando sulle sue gambette magre. Io avvampo d’imbarazzo tutte le volte, perché è così strano per me tutta questa profusione di affetto. Devo ammettere, però, che la cosa non mi dispiace per niente. Sono felice di rendere gioiosa una persona con la mia sola presenza. Spesso quest’ultima non è altro che sinonimo di morte. Provoca in me una tenerezza infinita, guardare i suoi boccoli castani ballonzolare da una parte all’altra del suo viso a ogni movimento. Provoca in me una certa ilarità che dimostro increspando appena le labbra. Vorrei essere più aperto, ma mi è difficile. Già, il sorriso è un grande passo avanti per me. Comunque, Aerith riesce a percepire il tumulto nel mio animo e ci basta.
Vedo nei suoi occhi il riflesso del Lifestream e non posso fare a meno di pensare a quanto siamo simili, eppure diversi. Entrambe le nostre iridi si illuminano della luce del Flusso Vitale. Il suo così naturale e caldo, il mio artificiale e gelido. Lei vede le anime che IO ho strappato da questo mondo e le consola con parole dolci, raccontando loro storie bellissime. Io spesso cerco di non mostrarmi subito al suo cospetto, nascondendomi dietro alle colonne con fare felino, proprio per rivivere quei momenti passati col Professore. Molte delle sue storie le conosco già, ma mi fa sempre piacere riascoltarle.
Anche oggi ho avuto il piacere d’immergermi nel mondo delle fiabe. Ogni Natale mi dirigo laggiù per porgerle i miei auguri e consegnarle il suo regalo. Non avendo la più pallida idea di che cosa regalare ad una bambina, le dono sempre delle ridicole bambole vestite con motivi floreali, aggrappandomi alle uniche certezze in campo infantile: è una bambina e le piacciono i fiori. Le mie abilità decisionali arrivano qui. Forse lei è stanca del solito regalo, ma non lo dà a vedere; anzi tutte le volte si mostra eccitata all’apertura del pacchetto. Probabilmente, strappare la carta da regalo è molto divertente per un bambino. Non saprei dire, dal momento che non ho mai aperto un dono in tutta la mia vita. Nemmeno la piccola mi fa questo immenso favore, donandomi vasi di fiori, trapiantati con le sue manine. Anche quest’anno sono tornato a casa con queste piantine. Dal mio libro di botanica, risultano appartenere alla famiglia delle Liliacee. Ci sono vari paragrafi sul come tenerli in vita, ma tutto ciò che passa per le mie mani è destinato a morire. Senza contare che la guerra è alle porte. Il Presidente ha permesso ai nostri soldati di passare , quelle che per molti saranno le ultime, le feste natalizie in tranquillità e in compagnia con le proprie famiglie. L’atmosfera di questo Natale è più pesante del solito. Nonostante si cerchi di nasconderlo, l’aria macabra del conflitto imminente aleggia su tutti noi. Il pensiero non può non andare a ciò che accadrà. Io attendo con ansia la partenza, ma credo che se avessi una famiglia vorrei fermare il tempo e far sì che sia sempre Natale. Purtroppo non c’è nessuna famiglia ad aspettarmi una volta di ritorno. Nessuna donna mi attende impaziente e piangerà sul mio petto quando apparirò da quella porta.
L'orologio di Midgar riempie l'aria con il suo scandire cadenzato, ridestandomi dai miei tetri pensieri. E' Natale. Un altro triste Natale passato in solitudine.

Ah! Ecco qua un nuovo capitolo fresco fresco di stampa! Allora, Cloud deve cominciare a stare in campana, perché Tifa non dorme mai!! Ora ci sarà anche Vincent a sospettare qualcosa. Riuscirà il nostro eroe leggersi in pace le memorie del bell’argentato? Per ora sembra di sì. Ancora nessuna notizia della donna misteriosa, anche se si evince che sia una persona altolocata… Uhm… Intanto, vi ho dato un assaggio dell’altro mistero riguardo a Aerith e assodato con tristezza che Sephy non ha avuto un’infanzia degna di questo nome. Povero caro! Finalmente, ho anche postato il famoso disegno della donna misteriosa. Non mi convince moltissimo (purtroppo è colorare che mi frega… Quanto desidero una tavoletta grafica T.T), ma cmq vi dà un’idea, nel caso la mia descrizione non sia stata chiara. Se volete vederlo è all’inizio del precedente capitolo.
Vi saluto e me ne vado a nanna perché è tardissimo, ma per voi questo ed altro signorine mie^^
Alla prossima
Besos

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Capitolo 6
*** Preludio ***


Sono perplesso. Rileggendo le sue memorie capisco quanta falsità ci fosse nella sua vita. Per anni ha creduto che QUEL nome fosse correlato alla sua misteriosa genitrice. Si era costruito un sacco di castelli in aria attorno a quella figura. Davvero ironico col senno di poi. Insomma, l’unico pensiero in grado di renderlo felice e farlo sentire protetto era falso. Anche se non so quantificare il grado di bugie. Sephiroth era un esperimento, era stato creato attraverso l’iniezione di cellule aliene mentre si trovava ancora nell’utero materno. Le cellule di Jenova. Ma… Lucrecia si sobbarcò l’impegno di fare da incubatrice. Lui è come se avesse avuto due madri. Una che gli ha donato l’intelligenza e la forza, mentre l’altra il suo grembo e, probabilmente, l’amore che gli mancava. A questo punto mi chiedo: cosa vuol dire Madre? E’ colei che si accomuna al figlio attraverso la semplice genetica o qualcosa di più? Io ho avuto la possibilità di conoscere, anche se per poco, Lucrecia. All’epoca non ci aveva fatto caso, ma ora che ci ripenso noto una certa comunanza tra i due. Entrambi hanno lasciato che gli eventi stravolgessero le loro vite senza un minimo di opposizione, hanno permesso a terzi di utilizzare i loro stessi corpi come fossero marionette. E sia Lucrecia che Sephiroth non hanno combattuto.
Non hanno combattuto.
E’ beffardo pensare che un uomo nato per la guerra non sia in grado di lottare per se stesso. Che cosa gli passava per la mente? Perché ha permesso questo scempio? Forse era molto simile a sua madre più di quanto credesse. Paradossalmente, il più forte della famiglia era quel vecchio rachitico di Hojo. Rimembro la frase che lessi pagine addietro: “Io non sono affatto la persona forte e coraggiosa che credono” e mi accorgo di quanto sia tragicamente vera. Lui si nascondeva dietro alla sua figura fasulla di onnipotenza e trovava nella spirale di follia della battaglia la sua bolla protettiva. Cercava disperatamente luoghi e situazioni inaccessibili per chiunque e ci si gettava senza esitazione. Per questo gli venivano sempre affidate missioni senza ritorno. Non solo perché era l’unico in grado di portarle a termine, ma poiché sarebbe stato solo ad affrontare ogni pericolo. Libero da ogni cosa. Libero di essere se stesso. Però questo non gli bastava. Lui scappava anche da ciò che desiderava. Fuggiva dalla normalità, dai suoi sogni, dalla sua felicità per evitare di soffrire, a causa della perdita di queste. Sapeva di non essere come tutti e che la ShinRa avrebbe fatto di tutto per portargliele via, affinché diventasse un accessorio esclusivo SOLDIER.
Stava scappando.
Mi gratto la testa. Perché? Perché è stato così pavido? Mi è davvero difficile immaginarlo spaventato a morte dal vecchio. Devo ammettere che Hojo ha un lato oscuro davvero terrificante. Le sue risate folli e schizofreniche fanno ancora da sottofondo a parecchi miei incubi, oltre alle fiamme di Nibelhim. E’ l’unica cosa che non riesco tuttora a dimenticare del mio periodo di prigionia assieme a Zack. Posso immaginare il terrore di un bambino davanti a quegli occhietti malefici e crudeli, mentre colui che dovrebbe proteggerti esegue esperimenti di dubbia moralità sul tuo corpo. Un trauma infantile davvero impressionante. E se lo è portato dietro fino all’età adulta. Forse i traumi subiti durante l’infanzia sono il motivo principale della sua follia. Non c’è altra spiegazione. Non aveva nessuno che credeva nella sua umanità ed arrivò a pensare che, per ottenere ciò che voleva, doveva uccidere il mondo intero. Si era convinto che tutto il mondo si sarebbe opposto al suo volere, quindi sarebbe diventato un Angelo dall’Unica Ala per giungere al suo obiettivo. Una soluzione davvero malata. Ma, in fondo, quando non si hanno certezze nella vita non si può certamente pretendere di riuscire a controllare i sentimenti come una persona normale. Inoltre, lo scienziato ha fatto di tutto per estirparglieli dall’animo. Sephiroth ha visto troppo presto il marciume del mondo e ciò a contribuito a chiuderlo ancora di più in se stesso. Desiderava, però, la normalità, ma la tempo stesso ne era spaventato. Sapeva che si sarebbe sentito fuori luogo e temeva di non essere più capace di provare sensazioni. Comprovare di aver perso l’unica cosa che ci rende umani lo terrorizzava. Sospiro. Capisco all’improvviso quanto il suo piccolo mondo gli fosse stretto. L’umanità che gli aveva donato Lucrecia era più un peso nella realtà orrida della ShinRa, ma, nonostante questo, se la teneva stretta.
Sorrido.
Forse c’era ancora coraggio nel suo cuore.
Forse era l’unica caratteristica che non lo accumunava a quella bestia di Hojo. Mi pare di capire tra le righe del diario che Sephiroth abbia cercato di cambiare suo padre. Credo che abbia provato testardamente a mantenere quella moralità, quello spirito di giustizia, non solo per mantenere in vita lo spirito della madre, ma anche per infonderla in parte al padre. Desiderava fosse un uomo migliore, compito che aspetterebbe alla moglie dell’uomo. Immagino che lui si fosse identificato in sua madre, vedendo in quella sua disperata caparbietà parte di lei. Capisco quanto amasse quella donna misteriosa e il suo morboso desiderio di sapere tutto su di essa. E il terribile senso di colpa che lo attanagliava. Quella frase mi ha colpito particolarmente. Mi fa capire quanto fosse coscio del suo macabro ascendente nei confronti della Vita. Anche se credo che avesse esorcizzato la cosa, immaginando di aver colto l’anima morente di sua madre e che lei in quel momento vivesse in lui. A questo era dovuta la sua bontà d’animo e la coscienza del Bene. A queste, egli aveva legato tutte le cose rette che gli erano capitate: il Professor Gast e Aerith. Quest’ultimo legame mi ha sbalordito. Non credevo che loro si conoscessero così intimamente.
Aerith non me ne ha mai parlato.
E da come è descritto comprendo che si tratti di un legame che si avvicina molto a quello simbiotico e fraterno. Il pensiero mi inquieta. Il mio punto di vista riguardo la morte della Cetra cambia completamente. Da sempre sono stato convinto che la fioraia si fosse sacrificata per salvare il mondo e fermare il folle figlio di Jenova, portando così avanti una guerra rimasta sopita per millenni sotto le spoglie del Pianeta. E se… E se Aerith avesse deciso di morire per salvare l’anima di Sephiroth? Lei lo conosceva più di tutti noi. Aveva visto il SUO vero io. Erano amici di vecchia data. Fratelli, legati da un destino millenario. Entrambi ospitavano l’essenza del Pianeta. Erano l’uno l’ombra dell’altra. La Morte e la Vita, le due facce della medaglia dell’esistenza. L’unica differenza tra loro era che Aerith era ben conscia del suo compito e lo aveva accettato di buon grado; mentre Sephiroth no. Lui era una creatura delle Tenebre che anelava alla Luce, di cui aveva avuto tanti piccoli dolci assaggi. Essi avevano mitigato il pesante fardello che il destino aveva posato sulle sue spalle. E, alla fine, come ci si può accontentare della Luna, quando si è visto il Sole? Guardo la donna della foto posata di fianco al diario, sul tavolo.
Forse tu sei stata il suo Sole. Per questo non voleva più crollare nelle Tenebre.

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Oggi è il 4° anniversario della Liberazione . Edge si riempie improvvisamente di gente in pellegrinaggio verso le rovine di Midgar, precisamente in direzione della chiesa di Aerith, dove ancora sgorga la sua acqua. Si recano là a pregare e a cercare il miracolo che quella sorgente puntualmente dona. Nel frattempo, la città viene addobbata da festoni e lanterne, le quali fanno da tetto ai numerosi mercatini e baracconi che accompagnano l’evento. Edge si ravviva di colori, grazie ai prodotti tipici dell’anniversario: i fiori. La terra di Midgar è ancora sterile per ospitare forme vegetali, quindi fiorai da tutto il mondo convergono qui portando semi, terreni, fertilizzanti e tutto ciò legato al giardinaggio. E’ importante che tra l’acciaio di questa città ci sia un po’ di verde, affinché la vita possa finalmente rinascere definitivamente. Ci vorrà del tempo, perché la ShinRa, durante il suo lungo domino, ha defraudato questa terra della sua linfa molto in profondità. Dovranno trascorrere parecchi anni prima che da questo deserto spunti spontaneamente una sola piantina. Comunque, intanto tutti cercano di creare il proprio giardino personale. Anche Tifa ci prova, ma purtroppo il suo pollice verde è piuttosto scarso. Mi fa tenerezza vedere il suo bel viso imbronciato davanti a quattro steli rinsecchiti. Non lo fa apposta, ma a volte i suoi impegni le fanno dimenticare di prendersi cura della piantina. Tutte le volte si sente in colpa, quindi io le dico che questo è successo, perché ha dovuto innaffiare e curare vite molto più importanti: le nostre. Spesso non si rende conto di quanto i bambini ed io dipendiamo da lei, di quanto siamo delicati, di quanto potremo morire senza la sue premure, senza l’amore che ci dona tutti i giorni. Non sarà come Aerith, cioè in grado di far crescere giardini rigogliosi, ma Tifa ha la capacità di far fiorire le persone. E’ grazie a lei che mi sto impegnando a diventare un uomo migliore. Anche perché se lo merita.
Questa sera, dopo cena, siamo andati a fare una passeggiata digerente per le vie illuminate e colorate di Edge. La sera solitamente la temperatura scende parecchio, ma questa sera è piacevolmente fresco, dopo una torrida giornata nel deserto. I bambini corrono da una bancarella all’altra, seguiti di tanto in tanto dal nostro sguardo, attratti come mosche sul miele dai profumi emanati dalla miriadi di specie vegetali che svettavano colorati da ogni dove. A volte Marlene afferra la mano di Tifa e la trascina verso una delle bancarelle per mostrarle fiori che l’hanno particolarmente colpita e che potrebbero interessare anche alla mora. Io le aspetto pazientemente in disparte con le mani in tasca, mentre cominciano a chiacchierare con il fioraio. Cerco Denzel con lo sguardo e vedo che si è fermato a parlare con una sua amichetta. Mi rilasso contro il palo e lascio che la mia mente vaghi. Questa festività, da quando è stata costituita, non mi ha mai giovato del tutto. Non amo il pensiero di commercializzare in questo modo un luogo così importante per me. Certo da un lato mi piace tutta questa esplosione di colori, ma dall’altro è solo un’occasione per guadagnare guil extra. Almeno per alcunii. Inoltre, gli altri anni non poteva fare a meno di ripensare al Geostigma, a tutto quello che avevamo patito sinora. Il SUO pensiero negativo era ancora vivido in me, nonostante questa festa fosse dedicata a LEI. Non potevo non pensare che, solo a poco tempo fa, la sorgente non esisteva, ma è a causa di Sephiroth che lei si è dovuta presentare. Non potevo non pensare che avremmo potuto morire, io e Denzel. Così come tanti altri. E’ impossibile dimenticare ciò che abbiamo dovuto passare per salvarci. Questa festa era stata costituita per rallegrare gli animi col pensiero che tutto si era risolto, che il nemico era stato sconfitto definitivamente. Ma non per me. Non facevo altro che rimembrare il grande combattimento finale contro Sephiroth, lassù sull’apice del palazzo ShinRa. La sua ultima frase non faceva altro che ronzarmi nella testa.

I will never be a memory
[Non sarò mai un ricordo, FFVII:ACC]


Devo ammettere che quel suo ammonimento non poteva rivelarsi più vero, anche se mi aspettavo di peggio. Lui non sarà mai un ricordo, è vero, ma credo che quel diario mi permetterà di ricordarlo in modo completamente differente. Sto cambiando lentamente punto di vista, anche se del rancore recondito e persistente è ancora nutrito nei suoi confronti. E’ difficile dimenticare il dolore che ha provocato a tutti noi, a ciò che ci ha tolto a causa della sua infelicità; ma almeno potrò capire meglio il motivo del suo disastro. I miei pensieri vengono improvvisamente interrotti da un’ombra rossa e silenziosa accanto a me. Mi volto e vedo Vincent fermo ad osservarmi profondamente. Ci fissiamo per qualche istante e mi chiedo chissà da quanto tempo è lì impalato ad aspettare che io mi accorgessi di lui.
“Ciao Vincent.”, saluto rompendo il ghiaccio.
“Mi devi delle spiegazioni.”
Mi faccio sfuggire un sospiro. Dovevo immaginarlo che non era lì per cortesia. Lancio un’occhiata fugace a Tifa e Marlene, le quali sono ancora impegnate a chiacchierare con il negoziante. Anche Denzel si è unito a loro.
“Cosa le stai nascondendo?”
Vincent si appoggia al palo, dandomi le spalle, e incrocia le braccia al petto. Non mi stupisco di quella domanda. Avevo già messo in preventivo che il pistolero avrebbe indagato.
“Niente di pericoloso.”
“Mh… Dipende se sei in grado di maneggiarlo.”, si volta verso di me e mi fissa con le sue iridi penetranti.
“Tu lo sei, Cloud?”
Sostengo il suo sguardo, cercando di carpire le sue conclusioni.
“Tu che dici?”
Gli occhi del pistolero si assottigliano e mi squadrano dalla testa ai piedi; dopodiché mi ridà le spalle.
“Dico che dovresti pensare alla tua famiglia, finché ne hai una. Qualunque cosa sia, devi lasciarla perdere.”
Faccio per replicare, ma lui era già scomparso. Cerco tra la gente un mantello rosso, ma niente. E’ più silenzioso di un gatto quell’uomo. Mi trovo a pensare che non fosse altro un’illusione della mia mente: la mia coscienza che demorde, ma, non so per quale motivo, mi sento in dovere di continuare nella lettura. Sento che è la cosa giusta da fare, anche se una parte di me non è affatto d’accordo e teme le conseguenze che potrebbero ricadere su coloro che conosco. Ripongo la mia attenzione sulla mia famiglia. Mi strappano un sorriso sincero, vederli così felici e soddisfatti del piccolo acquisto. Scopro di amarli tantissimo. Ciò mi fa male, se penso che potrei perderli.
Forse LUI è in 
grado di portarmeli via davvero?

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In questo periodo di feste, ho le serate libere per dedicarmi ai legami famigliari e abbastanza tempo notturno per leggere le memorie di Sephiroth. Dopo quello che ho scoperto tra le pagine del libro, credo che sia più che lecito avanzare e scoprire di più sul mio mito giovanile. Anche se un’aria di incertezza aleggia nel mio cuore.
Sono davvero in grado di gestire questa cosa?
Mi strofino la faccia con l’asciugamano e mi guardo allo specchio, puntellandomi al lavandino con le mani. Sento i bambini ridacchiare nella camere, nonostante abbiamo intimato loro ad addormentarsi il prima possibile. Ci siamo dilungati un po’ troppo alla fiera e hanno incontrato un sacco di amici, con cui hanno giocato per un po’. Sono troppo eccitati per dormire. Li capisco, anch’io sono troppo incuriosito per assopirmi. Le musiche e il vociare intenso all’esterno penetrano prepotentemente attraverso le finestre, nonostante esse siano serrate. Questo sottofondo mi fa piombare in cupi pensieri. Percepisco l’aria allegra attorno a me e questa non fa altro che amplificare il turbamento del mio animo. Le parole di Vincent non accennano ad andarsene e il dubbio insinuato in me non mi lascia pace.
Forse Vincent ha ragione. Dovrei pensare alla mia famiglia.
Ma non riesco fare a meno di ignorare quella sensazione. E’ come se quel dannato aggeggio mi stia attirando verso di sé. Mi sta implorando di continuare. Non riesco ad ignorare quel disperato grido di soccorso. Alzo la testa e guardo il mio riflesso.
Forse è di questo che si tratta.
Lui aveva affidato a quelle pagine ingiallite ciò che restava della sua umanità, i suoi dolori, le sue paure, le sue angosce. Improvvisamente capisco che questo ritrovamento non è stato un caso. Sephiroth non è e non sarà mai un ricordo, ma semai lo divenisse credo che lui voglia essere rimembrato in un determinato modo. Non come eroe. Non come mostro. Ma come essere umano.
Quel diario è una bottiglia con un messaggio, affidata al mare del tempo.
Faccio per infilarmi nell’ufficio, ma Tifa mi ferma.
“Cloud? Non vieni a letto?”
Maledizione! “Ehm, più tardi. Ora, ho del lavoro da sbrigare.”
La ragazza mi osserva perplessa. Percepisco la sua fiducia vacillare. Ti prego dammi un po’ di tempo. Vorrebbe replicare e andare più a fondo, ma la vedo abbassare gli occhi e sorridermi.
“Okay, capisco. Non fare troppo tardi. Lo sai che non mi piace addormentarmi senza averti a fianco.”
Mi lascia ad un palmo dal naso, imbambolato in corridoio con il senso di colpa trafiggermi il cuore. Nelle sue parole c’era un velo d’amarezza difficile da nascondere. Lei sa che le nascondo qualcosa, ormai è palese, ma non ha il coraggio di affrontarmi. A quanto pare è nella mia stessa situazione: dovrebbe fare la cosa giusta, ma ha paura di quello che potrebbe succedere. Dannazione, mi sento davvero un verme farla soffrire così, dopo tutta la fatica fatta per cambiare, finisco sempre per rovinare tutto. Mi pare di essere davanti ad un bivio, dove ogni mia azione, giusta o sbagliata che sia, comunque non porterà il nostro rapporto verso il baratro. Una strada è più lunga dell’altra, ma giungerò sempre allo stesso destino.
Povera Tifa. Chi te lo fa fare di sopportare un tipo come me? Tu che potresti avere chiunque?
Con questo pensiero, mi rintano nel mio pertugio, dove il grido di aiuto di Sephiroth è sempre lì che mi aspetta. La foto mi osserva, soddisfatta. Questo sorriso mi sembra ogni volta che lo vedo più luminoso, come se ogni passo eseguito lontano dalla mia vita fosse una piccola vittoria per questa donna. Sembra che lei VOGLIA che io conosca il suo uomo per farlo di nuovo rinascere, affinché loro possano rivedersi nei ricordi di quest’ultimo.
E’ questo quello che vuoi?

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Combattere.
Cadere.
Rialzarsi.
Combattere ancora.
Morire.
Questo è essere soldati.
I soldati vengono ricordati per il loro numero. La differenza che fanno tra la vittoria e la sconfitta. A nessuno importerà di loro. A nessuno verrà in mente di citarli tutti. A lungo andare perfino i famigliari si dimenticheranno dei caduti. Al massimo verranno ricordati come un’accozzaglia di pietre senza nome e senza data.
Ma voi, voi tutti, fratelli miei, che state in piedi davanti a me, nei vostri occhi leggo determinazione, forza, coraggio. Voi, non temete la Morte. Non temete quello che ci aspetta oltre quel mare sconfinato. Non temete il Nemico. Voi volete una cosa soltanto: venire ricordati.
E, io, vi dirò come fare.
Lasciate dietro di voi ogni timore, ogni dubbio, ogni indecisione.
Seguite la mia lama. Vi giuro che non vi tradirà mai.
Ricordate, però, che lei è un limite.
E ogni limite DEVE essere superato.
Se cadrete, vi rialzerete.
Se verrete feriti, continuerete a correre.
Se verrete accerchiati, non vi arrenderete.
Se morirete, vuol dire che almeno cento di loro saranno caduti.
Combattere.
Uccidere.
Andare oltre ogni limite.
Non fermarsi mai.
 E quando incontrerete la Morte, sorridetele, perché lei vi dirà di essere entrati nella Leggenda.
Questo è essere SOLDIER.
Ed è ciò che pretendo da voi.

12 Febbraio XXXX

Non mi ricordavo nemmeno di aver scritto qui il mio discorso d’incoraggiamento alle truppe, prima della partenza per Wutai, due mesi fa. E’ davvero patetico. Come avrò fatto a inculcarlo nella mente dei soldati e indurli a seguirmi è un autentico mistero. Me li ricordo quei soldatuncoli da strapazzo, tutti belli allineati sotto al palco a guardarmi con ammirazione, con le loro belle divise tutte pulite e inamidate. E tutto vidi, tranne che determinazione, forza e coraggio. Ricordo paura. Tanta fredda, buia paura. Tanti giovani uomini pendevano dalle mie labbra, mentre sputavo su di loro sentenze di morte. In molte orbite io vedevo ancora l’innocenza di un cantuccio e il calore di una famiglia. Nessuno aveva una mezza idea di quello aspettava loro. Quelle piccole reclute erano state pescate nella rete dei media come tante piccole alici. Vedevo inutile speranza. Speranza di ritornare, quando invece l’avrebbero dovuta perdere. Molti di loro non erano per niente adatti alla vita da soldati; i loro test erano stai pessimi, ma la ShinRa aveva bisogno di uomini per affrontare questo nuovo massacro. Lo sguardo mi cadeva sui miei luogotenenti , allineati davanti a quella schermaglia di caschi e uniformi blu, e vedevo la certezza della fine. La paura vera del cui inebriante fetore la stanza ne era intrisa. Adoro quella sensazione! Per qualche perverso motivo mi provoca una certa eccitazione nell’osservarla e assaporarla negli occhi degli uomini. Quando tolgo loro la vita, una frenesia maligna mi attanaglia i sensi e mi svuota completamente la mente. Quasi fosse una droga. Avevo dimenticato questo lato dell’uccidere. Era parecchio che non toglievo una vita ad un essere vivente: devo ammettere che cominciava a mancarmi. So che è un’azione orribile, ma quell’onnipotenza mi appaga completamente. Mi fa illudere di essere in grado di controllare il mio destino. Anche se so perfettamente che la mia libertà mi è stata preclusa dal momento stesso in cui misi la testa fuori dal grembo di mia madre. Quel dannato momento in cui nacqui, contemporaneamente morii. Immagino mio padre alzarmi al cielo e ridere; ridere come un pazzo, pregustando quell’istante in cui mi avrebbe trasformato in una macchina senza cuore. Non sono mai stato suo figlio, ma una cavia da uccidere e assemblare a piacimento; ciò mi uccide più di una pugnalata nel petto. Forse è per questo motivo che continuo a cercare situazioni pericolosamente vicino al fatale baratro in cui buttarmici senza alcuna esitazione. Sentirmi così vicino alla morte, mi fa sentire così vivo. Lanciarsi dall’elicottero in fiamme, mentre esso rotea senza controllo e gettarmi in pasto ai nemici è una sensazione unica. Avverto l’adrenalina pompare nelle vene, la quale mi dona quel discernimento distaccato dal reale. La mia mente e il mio corpo diventano due entità separate. Vuoto, finalmente, senza nessuna preoccupazione, dal momento che tutti i miei movimenti sono così naturali e fluidi che seminare morte viene da sé. Come uno spettatore esterno, il cervello registra gli avversari che corrono verso di me, i cecchini che mi mirano dalle loro postazioni sulle torri, i mitraglieri che sparano dai loro bunker. La mia spada si muove da sola, parando ogni singolo proiettile. Le mie orecchie ascoltano i rumori miscelati e li suddividono in categorie, affinché possano essere processati per permettermi di capire la direzione e la lontananza dei tiratori scelti. Adoro competere con loro. Per quanto possano essersi nascosti non potranno mai sfuggire al mio giudizio. Nessuno può. Che sia cecchino, o berseker, o invocazione tutti verranno travolti dalla mia bestia. Ripenso a quando ero un giovane SOLDIER, del terrore che provavo nell’osservare lo sfacelo compiuto, il sangue sporcarmi i vestiti e inzuppare il terreno, i resti umani ai miei piedi. Rimanevo immobile ad osservare con lo sguardo vuoto e incredulo; mentre la mia mente mi riproponeva le mie azioni come fosse una moviola. Per me dimenticare è impossibile. Per quanto mi possa sforzare niente sfugge alla mia memoria. Quelle azioni divengono ricordi, quei ricordi incubi limpidi e lampanti. Nessun dettaglio viene risparmiato e quello che doveva essere una liberazione diventa un’ossessione. La mia stessa droga si ritorce contro di me facendomi provare quella colpa e quella pietà che avrei dovuto provare durante la battaglia. Mi sono impegnato a controllarmi, ma non ci riesco. All’inizio temevo le battaglie, temevo di fare del male a qualcuno dei miei compagni; ma col tempo mi sono accorto di quanta precisione siano macchiati i miei misfatti. Non so come faccia. Ci sono tante cose che non so di me. Tante domande mi ronzano nella mia testa, quando rivaluto le mie azioni. Come è possibile che io solo sia capace di tanta perfezione? Perché io solo così forte? Cos’hanno gli altri che io non abbia già? Cos’hanno gli altri di meno?
Hojo mi ripeteva spesso di quanto io sia speciale e magnifico, ma non sono mai riuscito a comprendere quelle sue parole. E’ sempre stato molto criptico nelle risposte, sebbene fossi arrivato da solo alla mia caratteristica di unicità. So bene di non essere come gli altri: sono sempre stato troppo alto per la mia età; la mia chioma argentata non si é mai vista da nessuna parte; i miei occhi verde ghiaccio sono un colore troppo particolare per appartenere ad un essere umano. E poi ci sono le mie capacità: la forza, la sagacia, l’intuito, l’intelligenza. Quest’ultima è quella più difficile da trattenere, poiché è davvero troppo spiccata per essere limitata ad un’unica sfaccettatura del mondo. La mia curiosità morbosa, la mia inesauribile voglia di sapere, l’ossessiva ricerca di qualcosa sono sempre state parte integrante della mia vita. Hojo si è battuto molto per impedirmi di dare libero sfogo a questa mia qualità, ma so che sarei morto se mi fossi arreso. Fortunatamente, c’era il Professore che mi permetteva di sfogare la mia mente compressa intrattenendola con qualche gioco complesso, come gli scacchi; oppure mi passava sottobanco qualche gioco enigmistico di livello avanzato. Spesso ci divertivamo a proporci degli indovinelli inventanti sul momento. Alcuni erano davvero complessi, ma la difficoltà non è mai stato uno scoglio insormontabile per me, quindi non c’era mai pericolo di situazioni imbarazzanti. Entrambi ci comportavamo spontaneamente e ben presto, ricordo, venne a formarsi quella magnifica complicità padre-figlio che mi manca tuttora. Nemmeno con i suoi collaboratori notai un tale affiatamento. Questo rapporto così speciale mi faceva sentire parte di qualcosa, considerato, amato. Il Professore fu l’unica persona in grado di donarmi queste sensazioni. Nessun’altro, nemmeno sua figlia, è in grado di fare breccia nel mio cuore martoriato, ma forse, il motivo è da ricondurre al trauma dovuto alla scomparsa del mio mentore. Quando mi vennero a dire che lui era venuto a mancare, sentii il mondo crollarmi addosso. Vidi passarmi davanti agli occhi tutti i momenti passata insieme, l’affetto, il calore in ogni suo gesto, la sua gentilezza, i nostri giochi… tutto quello che c’era di bello in quella mia infanzia triste e fredda. In quel momento odiai la mia sagacia; odiai il modo in cui capii perfettamente quello che il Turk mi stava dicendo; odiai non essere ingenuo. In quel secondo capii quanto poco di infantile ci fosse in me. Mi resi conto di aver perso la mia innocenza, o meglio di non averla mai posseduta. Sebbene avessi solo 10 anni, ero già un adulto. Non una lacrima scese dal mio viso, nessuna emozione trasparì dai miei occhi. L’odio per me stesso aveva coperto ogni altra emozione. Guardai verso Hojo e lo vidi sorridere flebilmente. Percepii una grande rabbia montarmi nel petto: aveva vinto. Nonostante gli sforzi del Professore, quella bestia aveva avuto la meglio, estirpandomi pietà ed emozioni con anni di terribili abusi. Abbassai lo sguardo, capitolando come il Re sottoposto allo scacco matto. Da quel momento in avanti, decisi di chiudere il mio cuore dentro una lastra di ghiaccio spessissimo e di non legarmi più a nessuno; nonostante il mio grande desiderio di amicizia. Soffrii tanto per la sua morte, senza avere la possibilità di sfogare il mio dolore. Tuttora sento migliaia di emozioni agitarsi nel petto. Le sento comprimersi in uno spazio sempre più stretto. Prima o poi esploderanno, creando un macello inimmaginabile.
Poi arrivò la guerra e lì trovai il mio posto: nel grembo della Morte e della Desolazione. In quel piccolo mondo tutto era più semplice. Una sola legge imperversava: uccidere o venire ucciso; niente legami, nessuna sofferenza. La mia libertà. Il mio sfogo. Quello che Hojo voleva, quello di cui ho bisogno. Mi accorgo di non essere altro che una pedina nel suo grande e misterioso piano, così che lui possa usare il suo ascendente su di me per costringermi ad assecondare ogni capriccio del Presidente. Sono stanco di essere usato, ma se dovessi lasciare la ShinRa, cosa farei? Dove andrei? Con chi andrei? Ormai sono talmente assuefatto a ricevere ordini che scandiscono la mia vuota vita da non riuscirne più farne a meno. Il mio rifugio si sta trasformando in una trappola per topi.
Guardo le splendide scogliere di Wutai sotto un tramonto infuocato che spuntano dalla finestrella della mia tenda e trovo una certa pace in quello spettacolo. Il disco solare scende lentamente, tingendo le placide onde con una pennellata dorata di una fredda giornata di metà inverno. Vedo uno stormo di uccelli levarsi in volo e puntare verso il sole. Quanto vorrei avere le ali. Desidero scappare dallo sterminio appena compiuto. Questi due mesi non sono stati altro che un massacro dopo l’altro. La resistenza locale è tenace e combatte strenuamente per proteggere le posizioni; le quali vengono, però, difese a carissimo prezzo, sebbene siano destinate a cadere. Ho già contato più di 100000 morti tra noi e loro e la nostra area copre solo l’1% della tabella di marcia prevista. Come avevo immaginato. Odio non stupirmi più di niente; la mia freddezza non giova al morale dei miei uomini, i quali cercano in me conforto e speranza. Ma io sono solo in grado di dare loro la cruda verità dei fatti, la reale dura situazione. Molti di loro mi odiano per questo. I miei luogotenenti sopperiscono alle mie mancanze, ma, quando c’è da rovistare tra i cadaveri , io non mi faccio scrupoli e li esamino come fossero poco più che pezzi di carne sul banco di un macellaio. Vedo la rabbia nei loro occhi quando sposto il corpo di un camerato in modo poco gentile. Ma rimangono in silenzio nel loro odio, troppo impauriti di scatenare la mia ira. Io vorrei tanto dire loro di non temermi, ma la mia leggenda non prevede che io sia una spalla su cui piangere. Mi sento stritolare dal senso di colpa per come i loro visi stanchi, impauriti e provati mi osservano con quel timore misto a rabbia. La cosa terribile è che io pretendo da loro la stessa mia freddezza e disciplina. Pretendo che loro non lascino le proprie posizioni; che non discutano i miei ordini; che non si lascino andare agli istinti. Quest’ultimo punto è il più difficile da far rispettare. Molti di loro sono solo ragazzini in piena crisi ormonale e la visione di una bella ragazza provoca in loro reazioni poco consone alla nostra figura di liberatori. Molti di loro assaltano le giovani fanciulle dei poveri paesi di pescatori per assecondare i loro desideri repressi. Odio le violenze sui civili, soprattutto nei confronti delle donne. Sono innocenti che si vedono distruggere la propria casa, la propria vita; non meritano che venga portato via anche l’onore di essere uomini. I soldati non lo capiscono e credono di potersi prendere quello che vogliono, come la ShinRa, ma finché io avrò respiro proteggerò quei poveri innocenti dalla follia di SOLDIER. Come sempre mi trovo tra l’incudine e il martello; a trovare armonia tra la mia figura d’onnipotenza, il mio essere tormentato e il Demone Argentato. Quest’ultimo è il nuovo soprannome che i Wutai mi stanno affibbiando. Nella loro lingua si traduce Ma gin. In soli due mesi ho già appreso la base della loro grammatica e imparato molti vocaboli d’interesse militare e civile. Non è molto, ma è sufficiente per ora. Molti comandanti rimangono perplessi al pari degli abitanti stessi, nel sentirmi interrogare i prigionieri nella loro lingua. Ma come ho detto prima, il mio desiderio d’imparare non conosce confini e il mio cervello è una spugna capace di assimilare tutto quello che percepisce.
Devo ammettere, però, che non sono l’unico ad aver imparato l’idioma di Wutai. Qualche giorno fa sono passato nei pressi di un falò dove vi era accampato un gruppo di fanti. Uno di essi sbraitava in wutaniano, incitato dai compagni, i quali erano piegati in due dalle risate. Sono rimasto ad osservarlo a lungo e, sebbene alcuni termini fossero del tutto storpiati a causa dell’ebrezza alcolica, il discorso grammaticale era molto corretto. La maggior parte dei termini erano scurrili e molto rozzi, ma devo ammettere che non è facile articolare un discorso in una lingua sconosciuta da ubriachi. Colpito da quella interessante perfomance, ho guardato il file di quel soldato. Il suo nome è Genesis Rhapsodos di Banora. Ragazzo altolocato, figlio di uno dei più importanti proprietari terrieri e fornitori di accidenmele del paese. Noto con sorpresa che ha la mia stessa età. Quello che leggo successivamente, più precisamente nei parametri fisici rilevati durante l’addestramento simulato, aumenta il mio stupore: sono altissimi, ben oltre la media di un soldato normale. La cinestesia e i riflessi di base si avvicinano molto ai miei, pur rimanendo leggermente inferiori, ma comunque è un risultato straordinario per un fante semplice. Mi stupisce che non sia già in Seconda Classe. Mi sovviene di un altro file che mi aveva stupito all’epoca del reclutamento; quello di un tale Angeal Helwey. Se la memoria non m’inganna, anch’egli proviene da Banora.
Controllo sul computer.
Come pensavo.
Questo soldato è un po’ più grande di me e i suoi parametri si avvicinano ed eguagliano le mie performance. Devo dire che rileggendo questo file, mi sento rinfrancato al pensiero di non essere l’unico in grado di raggiungere quei livelli di potenza. Forse non sono così unico e speciale come tanto decanta Hojo. Questo Angeal sembra promettere molto, anche se noto una certa trattenuta nelle prestazioni. Credo sia capace di molto di più, ma probabilmente non dà il massimo negli allenamenti. Non mi resta che scoprire se per scelta o semplicemente perché è uno sbruffone. Come quel Genesis. L’impressione che mi ha lasciato non è molto positiva, nonostante le sue indubbie capacità, ma credo sia uno di quei tipi viziati e fanfaroni, del tutto inaffidabili. Dalle note che leggo nel suo fascicolo informatico, apprendo numerosi richiami di scarsa disciplina e oltraggio a ufficiale in comando. Non avevo dubbi, probabilmente il ragazzo crede ancora di essere nei suoi campi di accidentmele. Stranamente anche Angeal sembra un autentico seminatore di zizzania, ma noto che la lista di misfatti è pressoché identica, se non fosse per quella parentesi. Essa declama “Prende le difese del soldato 58390-A”. Genesis.
Forse i due si conoscono; ma ritengo improbabile che il figlio di un contadino e quello di un proprietario terriero abbiano contatti tra loro. Non è detto, anch’io non credevo che esistessero persone così simili a me. Apro un’altra cartella. Una lista infinita di e-mail provenienti dal GQ appare davanti a me. Vado all’ultima voce. Mi hanno affidato una missione particolarmente rischiosa, la quale potrebbe fare al caso mio. Credo che se l’intenzione di Genesis fosse quella di attirare la mia attenzione, devo ammettere che ci è riuscito. Forse non come voleva lui…


Yeeeeeeee!!! Ce l’ho fatta!! Scusate il terribile ritardo, ma scrivere questi capitoli d’intermezzo a importanti parti della vita dell’argentato non è facile, poiché la mia mente tende a lavorare più su quegli avvenimenti che su quello che effettivamente serve -.-‘. Inoltre, il calo creativo non mi aiuta molto ad inventarmi sempre nuove situazioni per Cloud, anche contando che mi sono infilata in una circostanza davvero difficile in cui trovare l’intimità della lettura. Maledetta la mia precisone! Cooooooomunque, gettiamo le basi di una delle più famose e tempestate amicizie di sempre e vediamo che miscela esplosiva ne verrà fuori! Come saranno gli inizi? Tre caratteri completamente diversi sappiamo che si amalgameranno bene; ma è sempre andato tutto a gonfie vele? Non ci resta che attendere il prossimo capitolo!!!
Alla prossima!
Besos!

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Capitolo 7
*** Amici? ***


Angeal e Genesis… Dove avevo già sentito questi nomi? La mia mente iniziò a scartabellare le mie memorie, alla cerca di un qualunque indizio che mi portasse a far cessare quel fastidioso campanello trillante in testa. Il primo nome mi sovvenne quasi subito. Merito di Zack, non faceva altro che parlare di lui. Era stato il suo mentore, mi raccontò. Un uomo onesto e giusto, dai saldi principi, molto legato dall’onore. La Buster Sword era appartenuta proprio a lui. Quella spada fu forgiata dalla famiglia Helwey, quando il giovane rampollo divenne SOLDIER First Class. Zack mi raccontava che Angeal non utilizzava mai la spada, a meno che non fosse stato strettamente necessario. Non voleva che si sfilasse o si arrugginisse. Non era un fatto di avarizia, ma il motivo andava ricercato nel significato racchiuso tra gli intarsi d’acciaio. Quell’arma rappresentava l’onore su cui la famiglia Helwey aveva costruito i suoi saldi principi; gli stessi principi che avevano guidato Angeal e trasmessi da lui stesso a Zack. Quest’ultimo gli passò a me. Ricordo che lui ammirava moltissimo quell’uomo, tutto quello che sapeva gli era stato insegnato da quella figura stoica e incorruttibile. Ricordo che un giorno Zack mi raccontò di quando SOLDIER cadde in disgrazia per la prima volta. Disse che molti soldati di Seconda e Terza, seguirono la follia di uno dei Prima. Non mi disse quel nome. Angeal e Sephiroth riuscirono a tenersi fuori da quella storia per un primo momento, ma Zack mi diceva che comunque notò una profonda paura scuotere i loro animi. Soprattutto nell’argentato, il quale, mi rivelò il ragazzo, cercò perfino di evitare qualunque scontro con questa persona, inviando al suo posto Zack stesso. All’epoca non ero in grado di reagire, ma se fossi stato in me, avrei storto il naso davanti a questa realtà; ma ora, col senno di poi, sono sicuro che il moro mi avesse raccontato la verità. Sephiroth era un pavido, lo ha ammesso lui stesso, però sono davvero curioso di sentire la sua versione al riguardo. Sono certo che da qualche parte tra questi fogli, lui mi racconterà di quel periodo. Poi arrivò la crisi e tutto il mondo che i due SOLDIER conoscevano crollò sotto i loro piedi. Solo Angeal riuscì a risalire da quel baratro e ritrovare la forza di aiutare le persone che amava. Una forza che, quando morì, trasmesse a Zack attraverso la Buster Sword. Ora che ci penso, credo che quella spada fosse stata forgiata per un destino molto più alto di quello per cui era stata pensata all’inizio: combattere Jenova. E ogni persona che l’avesse impugnata sarebbe stato destinato a sconfiggerla. Io contro Sephiroth, Zack contro il Prima impazzito e Angeal contro se stesso. Rileggo le ultime righe di quella giornata e comprendo l’identità del terzo SOLDIER: Genesis. L’amico di Angeal. Il figlio del ricco proprietario terriero di Banora. Zack non me ne parlò mai, ma quel nome mi era famigliare e dovetti spremere ogni mia cellula cerebrale per ricordare dove l’avessi già sentito. Poi, l’illuminazione.
Il Trio.
Mi diedi una pacca sulla fronte. Il pensiero dei racconti di Zack mi avevano offuscato la memoria, impedendomi di focalizzarmi sulle figure dei due SOLDIER. Quand’ero poco più di un dodicenne, vidi in televisione un’esibizione di combattimento eseguita da tre agenti d’élite. Il tutto era sponsorizzato dalla ShinRa. Non ricordo il motivo di quello spettacolo, però, dato il periodo di piena guerra contro Wutai, ho il sospetto si trattasse di una manovra pubblicitaria per rimpolpare le truppe della compagnia. Fu la prima volta che vidi Sephiroth in azione. Sono cresciuto inseguendo il suo mito, ma la televisione a Nibelhim era un vero lusso all’epoca. La compagnia aveva speso un bel po’ di soldi per far arrivare l’informazione ovunque pur di invadere le giovani menti delle potenziali bestie sacrificali sull’altare di quella guerra assurda. Ricordo Sephiroth al centro e, appena dietro di lui a guardargli le spalle, un tizio massiccio dallo sguardo severo dipinto sul viso alla sua destra, mentre a sinistra un tipo vestito di rosso dall’espressione furba. Il gigante indossava la divisa d’ordinanza nera dei Prima e impugnava la tipica spada di infima fattura che la ShinRa dava ai suoi soldati. Era molto anonimo, se non fosse stato per l’enorme spada che spuntava da dietro le sue spalle. La lunga elsa rossa sfavillava sotto il sole cocente di quel pomeriggio arido di Midgar. Aveva un viso dai lineamenti duri e decisi, nessun capello corvino andava a nascondere la sua espressione seria. Dava tutta l’impressione di un perfetto soldato, obbediente e fedele. L’unica nota di “ribellione” era la Buster Sword; sebbene fosse una spada molto semplice, i cui unici fregi erano le linee ritte che incidevano il forte, la piastra bucata al centro per alleggerire la struttura e la guardia cinta da un manicotto dorato, abbellito da bassorilievi ondeggianti. Comunque, era in ottime condizioni: il metallo brillava in tutta la sua bellezza e nessun graffio grava sul quel materiale perfetto. Sembrava che non fosse mai stata usata. Appena il cameraman la inquadrò, il possente padrone si voltò e lo osservò di sottecchi, con sguardo quasi feroce. A quanto pareva non amava che fosse nemmeno guardata, quella spada. Il presentatore chiamò il nome del SOLDIER e lui si mise sull’attenti.
Angeal, il suo nome era Angeal.
Egli piantò la spada d’ordinanza a terra e, mentre avanzava, sfilò la grande arma con un gesto fluido, senza apparente fatica, e se la portò alla fronte, afferrandola con entrambe le mani. Si raccolse in meditazione per un secondo, chiudendo gli occhi e la rinfoderò dietro alle spalle, senza troppe cerimonie. Un gruppo di ragazzi dietro di me, iniziò ad esultare, accompagnato dai sospiri di alcune ragazze, probabilmente innamorate del gigante. Uno strano mormorio nervoso iniziò ad aleggiare nel bar del padre di Tifa. L’altro, invece, era la perfetta contraddizione del primo e la copia stravagante di Sephiroth; come quest’ultimo, indossava un cappotto di pelle, ma, invece di nera, di un rosso acceso. A differenza dell’argentato, il quale teneva il petto nudo sotto le spesse bretelle di cuoio incrociate sul cuore, egli vestiva una maglia nera a collo alto sotto al cappotto lasciato aperto. Le spalle erano protette da un tipo di spallacci di forma romboidale, lunghi fino a quasi al gomito. Essi erano di metallo, ma la faccia esterna era rinforzata da uno strato di pelle nera, tenuto in sede da borchie d’acciaio disposte per tutto il bordo. Infine, due orecchini argentati pendevano rifulgenti dai lobi, appena nascosti dal taglio sbarazzino dei capelli rossicci. A differenza degli altri due, dalle fattezze e abbigliamento abbastanza anonime, lui donava un po’ di colore ad un trio che sarebbe stato solo bianco e nero. Perfino la sua spada era qualcosa di davvero spettacolare: lunga almeno quanto la Masamune, si trattava di uno stocco dalla lama rosso sangue su cui erano incise formule magiche in una lingua sconosciuta. L’elsa era poi qualcosa di meraviglioso! Il metallo della guardia era stato lavorato affinché prendesse la forma di due ali spiegate. Al centro di esse risplendeva una pietra viola incastonata nel metallo. Al di sotto di essa, il ponticello si congiungeva alla guardia, divenendo una piccola ala dotata solo dei contorni metallici, molto fine ed elegante. Al termine dell’elsa vi era un prolungamento metallico che portava all’elaborato pomolo di pietra. Le altre due spade sembravano così rozze a confronto a questa. Si capiva bene che quel tipo avesse un gusto artistico e una personalità molto spiccati. La telecamera, infatti, si soffermò molto su quell’oggetto, affinché la gente a casa potesse ammirarne la bellezza, poi l’inquadratura salì fino al viso del rosso, il quale ne approfittò per regalare un sorriso ammiccante.
Alcune ragazzine iniziarono a sbraitare come lo videro. Poi, fu un pesante schiamazzo appena venne detto il suo nome.
Genesis, sì proprio così.
Alla chiamata, egli avanzò con superbia, roteando la mano libera. Appena il polso fece un mezzo giro, lui bloccò l’arto e s’inchinò al pubblico. Quando tornò eretto, portò la spada alla fronte per un raccoglimento veloce e, con gesto secco, fendette l’aria, sprezzante. Un sorriso sadico gli deformò il volto. Si leggeva la voglia di sangue, incontenibile, impellente.
I gruppi di prima iniziarono a battibeccare tra loro, riguardo ai gesti di saluto.
Mi ricordo che scossi la testa. Non capivo cosa ci trovassero in quei due tipi, quando per me c’era un solo SOLDIER per cui valeva la pena morire. Tutto il mio essere fremeva per vedere il mio idolo.
La sua presentazione fu lunghissima. L’ annunciatore iniziò ad usare termini senza alcun senso per cercare di descrivere la grandezza dell’uomo che stava per avanzare: Sephiroth non aveva bisogno di tutta quella solfa. Bastò il suo nome e il suono acuto della Masamune fendere l’aria, che l’intero Pianeta tremò a causa del potente boato di acclamazione scatenato dalla folla impazzita. Da Midgar a Nibelhim, tutti si alzarono in piedi, unendo le voci a quello degli altri per osannare quel Dio supremo e perfetto. Ricordo che mi voltai verso i gruppetti spaesati, osservandoli con aria di soddisfatta. Nonostante Sephiroth fosse la metà di Angeal e molto meno appariscente e scenografico di Genesis; la sua fama indiscussa, la sua aura di gloria attiravano molti più fan di quanti quei due avrebbero mai trovato in mille vite. Per tutti noi era lassù, nel Pantheon degli eroi, intoccabile.
Santi Esper, quanto ci sbagliavamo!
Dopo qualche altra spiegazione, la folla attorno a loro scomparì in mille pezzi. Di primo acchito rimasi di stucco da quello spettacolo, ma il telecronista spiegò che i tre SOLDIER si trovavano nella sala addestramenti e che la folla era in realtà una ripresa della piazza esterna al palazzo. Rincuorati, la dimostrazione ebbe inizio e un nuovo fondale venne ricostruito. Non ricordo bene di che cosa si trattasse, ricordo solo centinaia di mostri saltare fuori da ogni anfratto di quel luogo digitale. E poi loro. Il Trio. Perfettamente coordinati. Non aveva nemmeno bisogno di parlare, né di guardarsi. Bastava che uno muovesse appena la spada per attaccare un mostro, che subito l’altro s’infilava per coprirgli le spalle o per attaccare a sua volta. Pur combattendo fianco a fianco, in un marasma indistinto di sangue e metallo, ognuno di loro manteneva la propria individualità. Angeal combatteva con forza, mantenendo la posizione, spazzando via i nemici con fendenti ben assestati e difendendo strenuamente il proprio spazio. Si muoveva rapidamente, ma, rispetto agli altri, era molto più statico. Di rado utilizzava le magie. Comunque, era calmo e rilassato, ma estremamente concentrato sul combattimento e i suoi compagni. Genesis, invece, faceva largo uso della Materia, infondendola nella lama per potenti attacchi magici, per poi combinarli con la sua potenza fisica. Inoltre, copriva uno spazio molto più ampio di quello del moro, saltando da una parte all’altra collaborando con Sephiroth per una serie di evoluzioni. Quest’ultimo, beh, si prestava ad ogni tipo di combattimento, dal difensivo all’offensivo, divenendo la vite portante della strategia di gruppo. Non aveva alcun problema a cambiare ritmo, girandosi una volta verso Angeal e la volta dopo verso Genesis. Era così preciso e pulito che sembrava si muovesse al rallentatore , volteggiando elegantemente sul terreno, quasi a sfiorarlo, e calando spietato la sua Masamune dove esattamente doveva, anche dovesse essere uno spazio di un solo centimetro. Ben presto capii il ruolo che aveva ognuno: il moro difendeva il gruppo a terra, mentre il rosso la fase aerea. L’argentato coordinava il tutto, muovendosi dove era necessario e gli altri si spostavano di conseguenza. Visto da fuori sembrava una strategia semplice da capire, ma i tre erano così veloci e letali che, nel tempo da me impiegato, avevano già fatto fuori migliaia di mostri. E anche se fossi stato in grado di capire prima era pressoché impossibile avvicinarli. Quella strategia semplice era talmente efficace da diventare una vera fortezza e, con a capo uno stratega come Sephiroth, sarebbe stata impossibile da espugnare. Era uno spettacolo unico, quei tre erano la perfetta reincarnazione della VERA potenza della ShinRa. Quelle lame erano quelle che stavano conquistando l’Occidente, con i loro barlumi abbacinanti bianchi e rossi. Il Presidente stava facendo bella mostra dei suoi gioielli più preziosi, dimostrando quanto la Compagnia non avesse rivali contro niente e nessuno. Sephiroth, Angeal e Genesis erano il futuro, una promessa di gloria eterna e potere assoluto su tutto il Pianeta. La forza della Scienza. Durante l’esibizione venne intervistato il vecchio Presidente, il quale passò la parola a Hojo. I suoi occhietti neri a malefici brillavano di puro orgoglio, mentre parlava alla telecamera. Resta da chiedersi se fosse fiero del figlio o dell’esperimento.
Presi un profondo respiro e arrivai alla triste conclusione che quel vecchio pazzo sbavasse per i dati rilevati dai sensori della sala d’addestramento, che per l’eccellenza raggiunta dal figlio. Come si può ignorare così la persona che ha sacrificato tutto affinché venisse coronato il suo sogno di gloria? Io non sono un padre, ma credo sia naturale pensare al bene della prole, prima del proprio. Scuoto la testa.
Dannazione, si sta parlando di Hojo! Quando mai ha fatto una cosa naturale?
Mi chiedo come abbia fatto Sephiroth a mantenere la sua lucidità così a lungo, convivendo con un individuo simile. Quattro anni in sua presenza e io sono quasi diventato un vegetale; LUI deve averci trascorso almeno almeno quattordici anni.
Sopirai.
A volte penso che la sua follia fosse il suo disperato grido di aiuto. Leggendo il suo diario, mi sono trovato a pensare che abbia fatto così tanto male al mondo proprio per indurre la gente a odiarlo fino a ucciderlo. Credo fosse convinto che l’odio fosse il motore di tutto, quella forza disperata, contrapposta alla speranza, la quale sprona la gente a spezzare i propri limiti.
Sono talmente concentrato nei miei pensieri che non mi accorgo del leggero pigolio dei cardini che slittano l’uno sull’altro e dello sguardo attento che mi contempla. Solo quando la voce si leva, infrangendo il silenzio, mi ridesto.
“Cloud? Ma cosa stai facendo?”
La mia spina dorsale si ghiaccia all’istante, inviando brividi in tutto il corpo. Il cuore mi batte così forte che potrebbe spaccarmi il petto da un momento all’altro. Rimango senza fiato e, sebbene i polmoni cerchino disperatamente di far fluire l’aria, io testardamente smetto di respirare. Un altro richiamo, un'altra capriola cardiaca.
“Cloud? Mi senti?”
Rischio l’infarto quando la sento avvicinarsi. Devo reagire! Ingoio a vuoto e mi volto, cercando di sorridere e controllare il tremolio nervoso della voce, acquisendo un tono sicuro e tranquillo.
“Sì, scusa Tifa.”
Cerco di mantenere la mia esultanza, quando si ferma a pochi passi da me. Il suo sguardo indagatore mi spaventa, poiché tenta di oltrepassare la mia figura per vedere i fogli sparsi sulla mia scrivania. Fortunatamente, io sono sempre stato un vero disordinato e, nonostante mi sia ripromesso di ripulire quella dannata scrivania, per un motivo o per l’altro ho sempre rimandato il lavoro. Mi ritrovo a ringraziare la mia pigrizia un migliaio di volte.
Rimaniamo in silenzio per qualche istante, poi Tifa capitola e mi affronta direttamente.
“Ti sto aspettando da mezz’ora. Cosa stai facendo?”
Ok, un bel respiro, Cloud. “Te l’ho detto, ho del lavoro da sbrigare.”
“Di che cosa si tratta esattamente?”
Mi faccio davvero schifo. Sento le budella ribellarsi. “Niente di che. Sto controllando gli ordini e tracciando gli itinerari delle consegne.” Il discorso fila logico e incorruttibile. Mi darei una pacca sulla spalla. ”Se ne sono accumulati un bel po’per questo ci sto mettendo tanto.” Ciliegina su questa torta di scemenze.
La fisso sicuro dritto negli occhi, duellando con quelle iridi dolci e bellissime. Mi accorgo che le sto mentendo orribilmente e ho pure il coraggio di guardarla negli occhi. Mi viene quasi da vomitare. Odio queste cose. Dal più profondo del mio cuore.

Ti odio, Sephiroth.

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Abbiamo litigato per un’ora buona. Tifa ha fatto di tutto per intrufolarsi nei miei cassetti privati e scovare il misfatto. Sapeva benissimo di avermi colto in fallo, ma la paura di perderla era ben superiore alla sua fame di sapere. Non voglio assolutamente che scopra Sephiroth nella nostra casa e che io, deliberatamente, l’ho lasciato entrare dalla porta principale. E’ da tre giorni che non ci parliamo, ma so di essere nel giusto. So di averle mentito, ma è per il suo bene. Scusami Tifa, devi avere un po’ di pazienza. Comunque, sono arrivato alla conclusione che lasciare il diario in casa, soprattutto ora che riprendo a lavorare, è troppo pericoloso. Tifa rivolterebbe tutto l’appartamento pur di trovarlo. Ho deciso, quindi, di portarmelo nella borsa delle consegne e leggerlo nelle pause pranzo. E’ l’unico modo per non incorrere in situazioni sgradevoli. Anche perché vorrei tornare nel lettone. Il divano è davvero troppo scomodo.

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24 Febbraio XXXX

La missione è andata a buon fine, ovviamente, ma un senso di soddisfazione risalta tra le righe elettroniche del rapporto inviato al GQ. Naturalmente, mi sono limitato a informare i miei superiori solo riguardo agli aspetti tecnici. Non ho assolutamente rivelato nulla riguardo al mio piccolo esperimento.
Ma andiamo per gradi.
Prima di partire, ho fatto chiamare Genesis e Angeal nella mia tenda: avevo bisogno di confermare le mie impressioni e approfondire meglio il loro carattere. Non volevo che la mia smania di conoscere qualcuno simile a me mi portasse a compiere una mossa avventata. Farsi accompagnare da due fanti semplici in una missione da Generale non sarebbe stato molto responsabile. Dovevo assicurarmi al 100% di potermi fidare di quei due ragazzi. Anche perché non è che ci tenessi molto a dover compilare una missiva di cordoglio alle famiglie dei due sodati e precisare che erano morte per colpa di una mia svista. Non credo ci avrei dormito la notte. Detesto perdere soldati sotto al mio comando. Lo percepisco come un fallimento da parte mia. Non so perché ma mi sento in dovere di proteggerli. E’ mio preciso compito vincere la guerra, ma è mio dovere farlo con meno perdite possibili. E’ una delle mie tante ossessioni.
Comunque, quando i due entrarono al mio cospetto, a stento repressi l’istinto di scoppiare a ridere davanti a loro, sebbene parlassero sottovoce. Poco prima che loro entrassero, udii i loro discorsi trapelare attraverso il pesante telo facente funzione di porta divisoria tra l’entrata della tenda e il mio, per così dire, alloggio. Discutevano sul fatto di essere stati richiamati dal Comando Centrale e cercavano di carpirne il motivo. Era davvero esilarante! Una voce severa e profonda fu la prima a colpire il mio udito, formulando frasi di accusa con tono evidentemente preoccupato. La difesa non si fece attendere e la voce giovanile e spaccona dell’altro interlocutore si levò con qualche decibel di troppo, richiamando l’attenzione del mio attenente, il quale riportò il silenzio con un ordine autoritario. I due ragazzi tacquero subito, ma, poco dopo, ricominciarono a bisbigliare tra loro. Cared, l’attenente, entrò seguito dai miei obiettivi. Il trio si fece sull’attenti, non appena furono dentro. Io già gli osservavo imperturbabile, anche se dentro di me c’era una certa trepidazione. Feci cenno all’intruso di andarsene ed egli si congedò. I minuti successivi furono carichi di tensione. Studiai attentamente i due fanti ritti davanti a me: entrambi se ne stavano impettiti in completo silenzio, ma vedevo nei loro occhi sentimenti contrastanti. Angeal era furioso, mentre Genesis sembrava quasi sfidarmi con quel sorrisetto mezzo accennato. Il denominatore comune, comunque, era il terrore. Avevo sentito storie davvero fantasiose girare tra i soldati, riguardo i miei colloqui. Si diceva che tenessi sul tavolo una zanna di Behemuth, imbevuta col veleno del Basilisco, e che pugnalassi al cuore con quell’oggetto chiunque osasse interrompermi. Oppure un’altra raccontava che la mia tenda era completamente ingombra da rastrelliere reggenti qualunque arma, dalla più convenzionale alla più bizzarra, con le quali compivo i più terribili orrori e torture. Altri parlavano di membra dei nemici uccisi da cui prendevo l’inchiostro per firmare i rapporti; di piume di Fenice e frattaglie di animali mitici… Insomma, ce ne era per tutti i gusti. E l’origine di ognuna mi sfuggiva. Molti soldati entravano ed uscivano incolumi dalla mia tenda, ma a quanto pareva non era sufficiente. Molti soldati rischiavano il collasso quando si presentavano davanti alla mia figura. Perché mi devono temere così? Anche Angeal e Genesis non facevano eccezione, ma devo ammettere che si sforzavano parecchio per nascondere il timore. Dopo averli studiati notai sguardi rapidi e fugaci scambiarsi reciprocamente tra loro (colti con una certa difficoltà devo ammettere), i quali erano sinonimo di un’ammonizione silente da parte del moro e una disperata supplica dal rosso. Probabilmente, Angeal non aveva intenzione di mentirmi per coprire il compagno per l’ennesimo misfatto. Feci per alzarmi e Genesis sbottò, con un energetico passo in avanti, la cui foga mi lasciò spiazzato. Nessuno aveva mai osato fiatare senza il mio permesso. La cosa m’infastidì parecchio. Mi disse che qualunque cosa fosse successa la colpa era tutta da attribuire a lui medesimo. Lo sguardo allucinato di Angeal fu impagabile: dovetti richiamare a me tutta la forza di volontà per mantenere la serietà. Decisi, quindi, di concentrarmi su quella testa calda del rosso e gli andai a brutto muso, piantandogli dritto nelle orbite il mio sguardo assassino. Vidi i peli rizzarsi dal brivido gelido che gli provocai, ma, nonostante questo, sostenne il mio sguardo. Potevo percepire il suo cuore battere all’impazzata, inebriare il mio udito col suo ritmo incalzante. Un sorriso sadico mi si dipinse sul volto, mentre l’altro stringeva i denti. Ben presto divenne una sfida tra noi due. Genesis non aveva intenzione di distogliere lo sguardo e, quando capì il mio intento, assottigliò gli occhi, assumendo un’espressione divertita. Dopo circa un minuto Angeal s’intromise nella nostra silente sfida, afferrando il rosso per una spalla. Egli perse la concentrazione e distolse lo sguardo verso l’amico. Le iridi del soldato s’infiammarono, ma un ammonimento gelido da parte del moro spense ogni protesta. Fu in quel momento che capii il forte legame che li univa e della cui potenza mi dimostrarono nei giorni successivi.
Come affermato all’inizio di questo paragrafo della mia vita, la missione è andata a buon fine. Molto buono, sotto ogni punto di vista. Ciò è dovuto non solo alla mia esperienza decennale in questo genere di incursioni, ma anche dai partners che mi ero scelto. Al di là delle loro straordinarie abilità nel combattimento, ciò che ci ha permesso di sopravvivere è stato il grande affiatamento che li univa. La mia analisi iniziale si rivelò errata: ho scoperto, infatti, che Angeal e Genesis si conoscono da anni, sono come fratelli dai caratteri completamente opposti. Il primo ha un carattere molto simile al mio, forse anche influenzato ad un profondo rispetto verso il mio grado; mentre il secondo è il genere di persona dalle mille sfumature. Forse è questo che mi incuriosisce del ricco soldato di Banora: egli ha un carattere complesso, pieno di intrighi e sensazioni, ma dietro a questa facciata percepisco un oscuro segreto. Mi sfugge quale. Il mio istinto mi dice di non fidarmi fino in fondo, ma la mia mente è così incuriosita da questa percezione che m’induce a ignorare la prudenza. Inoltre, Genesis è riuscito a strapparmi un sorriso sincero in più di un’occasione, grazie alla sua spensieratezza. Riesce sempre a vedere il lato positivo delle situazioni e ho già capito che non smetterà mai di punzecchiarmi. Angeal interviene scocciato da quel comportamento poco onorevole nei miei confronti, ma gli ho comunicato che preferisco così. Finalmente c’è qualcuno che mi tratta come una persona normale. Accettato questo, il moro si è aperto un po’ di più, sciogliendo quella tensione che il rosso da un paio di notti cercava di sciogliere. Quella sera abbiamo chiacchierato amabilmente quasi tutta la notte. Non credevo di riuscire ad intrattenere una discussione così lunga e articolata, andando anche a ripescare nelle memorie che custodisco così gelosamente. Non amo parlare di me, ma loro sono riusciti a sfogare un po’ del mio strazio interiore. Non è molto per alleviare anni e anni di accumulo emotivo, ma ho conosciut
o il mio primo sonno tranquillo da quando ho ricordo. Devo ringraziare la sfacciataggine di Genesis: egli non ama ricevere ordini, soprattutto da un suo coetaneo. Ha aggiunto, inoltre, che ha capacità superiori a quelli della maggior parte dei suoi camerati e che potrebbe aspirare anche al mio grado. A quelle parole credo di essere scoppiato a ridere come mai nella mia vita, mentre Angeal lo prendeva amichevolmente a botte, ammonendolo di scarso rispetto. A quel punto, accolsi la sua sfida: l’indomani avrebbe guidato la nostra incursione nella base nemica e raccolto documenti importanti per aiutarci a stanziare una base stabile qui sulle coste di Wutai. Il brillio che vidi nei suoi occhi mi rabbuiò. L’oscuro segreto viene a galla. La sua smania di uccidere non la invidio; se fosse per me lascerei queste terre per ritirarmi su un’isola deserta. Nonostante io abbia questo terribile talento, io non cerco il sangue, anzi lo rifuggo dove è necessario. Quella scura scintilla mi spaventa. Temo di essermi lasciato sopraffare dalla mia bestia sanguinaria, quando proposi quella sfida. Genesis ha la capacità di estrapolare l’ego rinchiuso dalle persone. Da un lato non vorrei che fosse altrimenti, poiché forse un giorno potrò liberarmi dall’enorme peso che mi affligge lo stomaco; ma dall’altro mi sfida in continuazione, costringendomi ad andare oltre ogni mia inibizione per dimostrargli che il mio grado è stato guadagnato duramente. Ad un costo altissimo, per giunta. Sono combattuto: vorrei lasciare perdere le sue provocazioni, ma il mio orgoglio non conosce remore. Per quanto il mio desiderio di uguaglianza sia forte, non riesco a scrollarmi di dosso l’individualità. Forse perché non fanno altro che ripetermi quanto io sia speciale e unico… Non lo so. La mia bestia è più subdola di quanto pensassi. Mi ritrovo a scoprire che qualunque legame io potrò mai formare, ella lo inquinerà, spezzandolo in mille pezzi. Per quanto quella serata sia stata piacevole, mi ha lasciato una profonda inquietudine nel cuore. Guardavo i due amici scherzare. Era una cosa così semplice… Cosa c’è che non va in me?
Prima di assopirci, Genesis mi confessò che mai avrebbe sperato di trovarsi così a stretto contatto con me. Mi disse che mi vedeva come una figura lontana e di irraggiungibile perfezione. Ammise che quest’ultima fu, per lui, una fonte d’ispirazione per fare del bene al villaggio di Banora. Mi ricordò, inoltre, di una lettera inviatomi anni fa, prima che lui entrasse in SOLDIER, in cui descriveva gli straordinari progetti realizzati da se stesso per la sua terra natia. Rimembro quella missiva. Ricordo distintamente che provai una fitta d’invidia. Una raccapricciante, terribile fitta al cuore. Lo odiai per quello, per affondare ancora di più la lama nella ferita. Un ragazzo della mia età, con alle spalle una famiglia che lo amava, un gruppo di persone riconoscenti e amiche strette attorno a lui. Percepii quel calore solo immaginandolo. Tra l’altro, quella maledetta lettera arrivò il giorno dell’anniversario della morte del Professore. L’ira che mi causò fu enorme. Avrei voluto mandare una task force a distruggere quell’insulso villaggio e strappare le budella a quel ragazzino petulante. Strappai la flebile carta e ne bruciai i frammenti. Me ne pentii quasi subito, appena la rabbia sbollì. Ricordo che mi chiesi perché. Perché proprio a me? Esistono così tante persone e infinte possibilità per ognuna. Quale formula statistica può stimare la sfortuna che mi ha colpito? Spesso mi trovo a fare calcoli su calcoli per darmi una risposta razionale. La mia mente rifiuta la possibilità del destino, non voglio pensare di avere queste capacità perché sono nato nel posto giusto al momento giusto. O posto sbagliato al momento sbagliatissimo, per quanto mi riguarda. Non voglio assolutamente assumere che una forza superiore si diverta a giocare con la mia vita. Voglio i dati, le prove empiriche, gli algoritmi precisi. Aerith ride di me su questo concetto. Lei dice che prendo troppo la vita troppo sul serio, che dovrei godermi ciò che ho e non rincorre ciò che mi manca. Poi mi sgrida, affermando che la vita non è un ammasso di numeri e probabilità, ma qualcosa che va oltre la fredda scienza. Mi mostrava i suoi fiori, invitandomi a toccarli per saggiarne la morbida consistenza e l’estrema delicatezza. Non è la stessa cosa. I vegetali hanno un’esistenza molto più semplice di un essere umano; non hanno preoccupazioni, se non quella di crescere e fotosintetizzare. La piccola sospira sconfitta, poiché io non riesco a cogliere i suoi insegnamenti sottintesi. Mi è difficile pensare in modo così innocente e ottimistico. Ho visto troppe cose che lei non può nemmeno immaginare nei suoi incubi peggiori. Alla mia domanda ‘Allora cos’è la vita?’, non sa darmi una risposta soddisfacente. E’ ancora una bambina, nonostante una spiccata saggezza. Non posso pretendere domande esistenziali a cui fior fior di filosofi non sono ancora riusciti a venirne a capo. Ma io voglio capire. Voglio capire il motivo per il quale io sono quel che sono, sapere da dove viene la mia bestia, comprendere perché non sia capace di stringere nemmeno i legami più semplici. E’ come se mi trovassi in una bolla di ghiaccio e tutto quello con cui entra in contatto scivola su di essa, impendendo di aderire e tenerla con me. Io non ho un carattere facile, difficilmente mi fido di qualcuno e non amo il contatto fisico; tendo a chiudermi in me stesso e allontanare la gente contando sul mio ascendente su di loro. Come ho spesso ribadito tendo ad interfacciarmi col mondo esterno utilizzando la facciata dell’eroe e assassino sanguinario. Diciamo che mi scavo la fossa da solo, anche se, probabilmente, è un fatto inconscio. Sono stato punito molte volte per aver mostrato pietà o anche solo un accenno di debolezza. Hojo mi ha talmente terrorizzato a mostrare i miei sentimenti che li ho dimenticati. O meglio, fatico a mostrarli. Non so mai bene come interagire con altre persone. Nella mia ignoranza, la mossa più logica è dire la verità, ma spesso non è vista di buon occhio. Col tempo ho capito che la gente vuole sentire quello che vuol sentire e che una conversazione non è nulla più di un duello con le parole. Crescendo, ho capito come usarle a mio vantaggio con la maggior parte dei miei interlocutori. Raramente rimango senza parole per controbattere: gli unici in grado di vincermi sono la piccola Aerith, con la sua innata capacità di leggere nel cuore umano, e Hojo, con il quale ho rinunciato a discuterci.
Chissà se i due SOLDIER sono in grado di tenermi testa in uno scontro del genere? Punto molto su Angeal, in cui rivedo la stoica saggezza popolare della figlia del Professore. Percepisco un uomo molto intelligente e compassionevole, sotto le spoglie ordinarie del soldato fedele. Sento che riuscirà a trasmettermi quei valori rassicuranti e famigliari di cui ho un’impronta molto flebile. Piano piano mi sta insegnando l’altruismo e il quieto vivere, oltre che lo spiccatissimo senso dell’onore. Per lui questo concetto non è solo una parole, ma bensì un duro stile di vita, secondo cui ogni uomo dovrebbe fare affidamento. Non potrei essere più d’accordo e sono davvero impaziente di saperne di più. Purtroppo, di questa pratica ne sono completamente digiuno, poiché sono cresciuto in un luogo dove ogni mezzo, lecito o illecito che sia, è fondamentale per raggiungere il risultato. Vivendo a stretto contatto con uomini completamente privi di qualunque etica morale, ho sempre pensato che tutto il sangue versato sia stato necessario per raggiungere un Bene superiore. Conversando con lui, ho capito quanto fossi in fallo e quanto i miei sforzi per razionalizzare i miei crimini fossero inutili. Ora comprendo il motivo per il quale faticavo a prendere sonno dopo uno sterminio. In cuor mio sapevo. Ho sempre saputo. Ammetto che mi rincuora apprendere che non ho perduto la mia umanità, dopo tutti questi anni. Sorrido al pensiero che Hojo non l’ha ancora vinta su di me. L’ho illuso di avermi vinto. Forse non sono così debole; forse ho ancora una speranza…
Il periodo passato in compagnia dei fanti mi ha donato del tempo per stringere una legame più profondo della semplice gerarchia. Non so quanto potrà durare, ma abbiamo molte cose in comune e, nonostante la loro grande amicizia, ho intuito che siano disposti a riservare un piccolo spazio anche per me. Non credo di aver mai combattuto così in sintonia con altre persone. Sono gli unici a stare dietro ai miei movimenti felini e alle mie strategie mutevoli. La nuova situazione non mi ha fatto rimpiangere le mie missioni solitarie, poiché mi muovevo nel campo di battaglia senza incontrare ostacoli; anzi erano loro che spesso li toglievano al giudizio della Masamune. Fu una sensazione unica poter condividere quell’orrore artistico. Il mio animo è più leggero e ho meno volti da ricordare. L’unico che non riesco a dimenticare è quello di Genesis. Quella scintilla mi preoccupa, sebbene Angeal cercasse di smorzarla strappandogli potenziali vittime dalla traiettoria dalla sua spada. Spero che non si lasci trasportare da quella vena sadica. Spero che la mia vicinanza possa aiutarlo a reprimerla, insegnandogli a controllarsi e riflettere sulle proprie azioni. Questo è uno dei motivi per cui ho promosso loro di grado.
L’altro, invece, è che ho visto una luce alla fine di questo tunnel.

Amicizia


E un Alleluja si leva dal pubblico. Scusate, ma questo periodo, tra le feste e università, non avevo tutto questo tempo per scrivere. Io di solito scrivo in treno, ma erano già due settimane che venivo a casa in macchina, quindi non ho potuto continuare.
Ma cianciamo le bande e seriamo le parole! (*facepalm*… siete autorizzati a picchiarmi)
Ahi ahi, il nostro Cloud comincia a vedere la sua vita incrinarsi. Prima il divano e poi? Di contro, Sephiroth comincia a vedere la fine dei suoi tormenti. La situazione si sta piano piano ribaltando per i due eterni nemici. Caso o coincidenza?
Ringrazio le mie donne per le recensioni e tutti coloro che leggono.
Grazie tantissime!
E infine do il benvenuto a Marciux che ha cominciato a leggere la mia fic (ora dovrò continuare anche con la tua, abbi pazienza!).
Alla prossima!!!
Besos

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Capitolo 8
*** Confessione ***


Mi sono fermato in un punto di ristoro in mezzo alla campagna delle Crosslands. Un posto abbastanza sperduto, lontano da occhi indiscreti e dalla vena principale che collega Midgar con questa regione. I proprietari sono una coppia di anziani che mi hanno servito un pranzo con i fiocchi. Erano felici di avermi con loro: probabilmente non vedono molti visitatori. Dopo aver ordinato un caffè forte, mi concedo un momento di riflessione, osservando la natura sterminata davanti a me. Respiro una ventata d’aria fresca, sia dal punto di vista dell’anima che da quello del corpo. L’ossigeno buono di campagna è una delle cose che più mi manca della mia infanzia e sapermi alla luce del giorno con questa dannata cosa tra le mani mi fa sentire libero. Il proprietario non lo ha degnato nemmeno di uno sguardo; anche perché la sua attenzione era tutta rivolta alla mia Fenrir. Credo avesse voglia di chiedermi della moto, ma quando mi ha visto troppo impegnato a leggere ha continuato con le sue faccende.
L’ultima parola scritta da Sephiroth mi fa sorridere: dopo pagine e pagine di buia tristezza finalmente riesco a respirare con più leggerezza. Il nodo alla gola si sta pian piano allentando.
Allora non era così vuoto come ho sempre creduto.
La cosa, da un lato, mi riempie di allegria; ma, dall’altro, una sensazione di disagio s’insinua nelle ossa. Lui conosceva i valori dell’amicizia, dell’onore e della giustizia, allora perché sono venuti a mancare proprio nel momento in cui ne aveva più bisogno? Che cosa si è spezzato nel suo animo tormentato da costringerlo ad agire in quel modo?
Rileggo le righe in cui racconta della bestia rinchiusa in lui. L’ha spesso citata, ma non ha spiegato mai cosa fosse per l’esattezza. Probabilmente non lo sapeva nemmeno lui, tuttavia sentiva che c’era qualcosa di oscuro e terribile sepolto nel suo animo, più ruggente di un leone e più sanguinario di un esercito. Credo che in un qualche modo percepisse Jenova dentro di sé e che lui in primis cercasse di limitarla; però il suo potere era così superiore alla sua volontà, tanto da sovrastarlo e plasmarlo a suo piacimento. In un modo o nell’altro, lui fu manipolato da qualcuno. Prima Hojo e poi Jenova. Quella maledetta notte di Nibelhim , lui era solo a combattere lo scontro finale contro i suoi fantasmi.
L’unica battaglia che abbia mai perso.
Quando ero affetto dal Geostigma percepivo spesso la sua voce gelida trivellarmi il cranio e la sua lama affilata trafiggermi la carne. Una delle sensazioni più orrende che abbia mai passato. Spesso mi svegliavo nel cuore della notte in preda a visioni raccapriccianti, un dolore terribile dal braccio si dipanava fino alla testa e quella sibilante voce mi bisbigliava ossessiva nel cervello. Fu un periodo da incubo, perciò capisco il suo stato d’animo. Non deve essere facile convivere con quell’alieno maledetto che ti sussurra nella testa.
Gli grattava da sotto il petto.
Questo particolare mi ha scosso parecchio. Io mi immagino un artiglio nero e affilato grattare convulsamente e ossessivamente lo sterno, consumandolo pian piano. Una visione da far accapponare la pelle. Immagino Jenova intenta a scavare le fondamenta della sua prigione di carne, facendosi strada attraverso le cellule del figlio, intercedendo dalle sensazioni. Lei gli stuprava la mente ogni dannata volta; gli afferrava il cervello e ci giocava come fosse un pallone da basket fino a stordirlo attraverso una follia cieca che solo lei era in grado di suscitargli. Quando ogni sua difesa era crollata, l’aliena guidava il suo corpo verso gli orrori più sanguinosi e terrificanti. E lui non era in grado di reagire. Osservava, osservava il sangue schizzare, la Morte, la Paura negli occhi delle sue vittime. Non poteva dimenticarle. Capisco dal suo diario quanto questa situazione lo tormentasse e quanto ne fosse impaurito; ma, soprattutto, quanto inconsciamente temesse per gli altri. Era combattuto dalle due eredità che giacevano in lui: Jenova e Lucrecia. Quest’ultima, ne sono certo, non ha mai smesso di proteggerlo, sorreggendolo nei momenti del bisogno, quando ogni speranza era perduta. Lo aiutava a vedere quei valori così ovvi per la gente comune, ma sconosciuti ad un bambino che ha sempre vissuto in mezzo al sangue. Mi pare quasi di vederla: il suo spirito etereo e invisibile accarezzargli la testa o asciugargli una lacrima, mentre parole dolci e sussurrate, lambiscono una frustrazione troppo grande per quell’animo di fanciullo cresciuto troppo in fretta. Quell’eroe, quella figura di magnifica gloria non era altro che l’ombra distorta di un bambino rannicchiato in un angolo buio, intento a leggere il mondo con solo a disposizione una flebile candela. Questo piccolo ammasso di cera rappresenta la sua curiosità, quell’intelligenza genuina di chi capisce che là fuori, oltre gli abusi e le punizioni, c’è qualcosa di buono. Non sa bene cosa sia, ma sa che c’è.
DEVE esserci! Altrimenti la vita non merita di essere vissuta.
Sospiro. Nemmeno un valore così indispensabile come l’amicizia gli è stato concesso. Ad Hojo non importava nulla se non della sua macchina da guerra umana. Non credo di aver mai conosciuto una persona così priva di scrupoli e umanità…
Mi blocco… Una fulminazione! Inizio a ridere da solo. Una risata triste e mesta, davvero di cattivo gusto. Alla fine il figlio è diventato come il padre. Un’ironia terribile, se ci si riflette un attimo. Sephiroth ha lottato tanto per tentare di cambiare il vecchio e, al contempo, studiare i difetti del genitore per evitarli il più possibile. Il SOLDIER che conosco è lo specchio dello scienziato, la sua copia sputata. Crudele, spietato, disumano… Un mostro. Esper santi!
Mi passo la mano fra i capelli, costernato. L’umanità ha costretto questo bambino a vivere in una leggenda effimera, precipitandolo in un abisso di aspettative e pressioni strangolanti, dove ogni sua azione veniva soppesata e criticata dall’uomo che avrebbe dovuto sedersi accanto a lui e indicargli il percorso. Non c’era amore nei suoi ragionamenti, non voleva il bene dell’infante, ma solo la gloria che quell’esperimento gli avrebbe portato. Lo ha creato e gettato in pasto ai demoni. Non sono bravo in matematica, ma alla domanda posta dal Generale, direi che la probabilità sfortunata è parecchio elevata; anche se, ripesandoci, ci sono un paio di fattori che vanno fuori scala. Sephiroth non è mai stato solo, bene o male, nella sua esistenza c’è sempre stato qualcuno capace di sostituirsi alla pessima figura paterna. Questo professore che cita spesso - il quale presumo si tratti del padre di Aerith, il Professor Faremis Gast - , è un lampante esempio. Sono d’accordo con l’opinione di Aerith che traspare tra le righe: lui vedeva solo il bicchiere mezzo vuoto. Devo dire che un’aura di vittimismo aleggia sulla carta ingiallita dal tempo. Non gli posso dare torto, in fondo. Tutto quello che era riuscito a conquistare gli fu sempre strappato via. Quel presagio di morte lo accompagnò per tutta la vita, come se Jenova stessa lo deviasse verso l’oscurità più profonda, spegnendo ogni lume di speranza.
Contemplo la parola finale della giornata e mi ritrovo a sperare che non si sia tratta di una fervida illusione. Mi rendo conto che sto riflettendo su fatti passati e che la storia è già stata scritta, ma… E’ come vedere un film per la tredicesima volta e sperare che alla fine riescano a sopravvivere tutti: la sensazione è la stessa. Prego che Angeal e Genesis possano avergli dato quello che disperatamente stava cercando e che la loro amicizia possa essere durata a lungo. So perfettamente che circostanze tragiche porteranno i tre amici a separarsi, però io sono fiducioso!
Tiro fuori la foto della donna.
Come posso pensare che tutto vada a rotoli?
Aveva degli amici e, forse, anche l’amore… Come si può credere che le cicatrici che ho sul corpo siano state fatte da una persona che aveva tutto? Ho quasi paura di continuare con la lettura. La curiosità mi dilania, ma sono spaventato da ciò che potrei scoprire.
La donna e la sua luce mi illuminano il viso, mentre mi sovviene alla mente Tifa. In questi giorni di lontananza mi manca terribilmente. Il solo pensiero di perderla mi terrorizza. Amo il mio angelo perdutamente, più della mia stessa vita e so che se lei… insomma… se lei… Ah! Non riesco nemmeno a pensare quella parola. Mi si rivolta lo stomaco alla visione di un altro vuoto nel mio cuore. Ci ho impiegato anni a trovare la forza per andare avanti dopo aver visto morire Aerith tra le mie braccia, infilzata dalla follia di quel dannato assassino. Il mio cuore non reggerebbe un altro colpo così. Ho avuto una seconda possibilità e non me la lascerò sfuggire per nulla al mondo.
Per questo motivo, ho paura di continuare e sapere cosa ti è successo, donna della foto.
So cosa si prova perdere la persona amata e non credo di reggere lo strazio di mille lame che si conficcano nel petto. No! Il pessimismo di Sephiroth mi sta contagiando… Devo credere che ciò che sto reggendo non sia solo un ricordo, ma una sorta di macchina del tempo, in cui furono impresse le gioie e le aspettative di una storia magnifica. Voglio pensare che tu sia ancora viva e che odi l’uomo che ti ha abbandonata almeno quanto me. Preferisco venire a conoscenza che vivi nel rimorso di una storia finita male; anziché sapere che sei la causa di un lutto sfociato nella pazzia.
Forse questi pensieri così profondi, o forse per la sua capacità di prendermi alle spalle ogni volta, non lo saprò mai; ma comunque mi accorsi della presenza di Vincent Valentine, solo grazie al servilismo della padrona del locale.
-Desiderate un tavolo, signore?-
-No, grazie.-,rispose una voce piatta.
Poche sillabe e il mio cuore per poco non mi abbandona. Dovevo aspettarmelo che non mi avrebbe dato pace, finché non mi avesse sorpreso con le mani nella farina fino alle spalle… Alzo lo sguardo colpevole, cercando di assumere un’espressione fredda. Senza riuscirci, ovviamente. Ingoio a vuoto e mi dico: Avanti, Cloud, è solo Vincent. Forse è il male minore. Ci squadriamo per qualche minuto, durante il quale la signora ci osserva nervosa. In effetti, l’ex-Turk non è che sia esattamente la persona più raccomandabile per chi non lo conosce. La tensione tra noi è palpabile e sembra che stia per scatenarsi il finimondo, ma poi Vincent afferra la sedia e si siede di fronte a me.
-Un caffè. Ristretto. Senza zucchero.-
Al suo ordine, la signora si riprende e scappa dentro al locale.
La mia mente mi sta urlando di prendere il diario e scappare, ma il mio corpo è paralizzato come un imbecille. Vorrei almeno nascondere la foto che tengo in mano, ma Vincent è più veloce e me la strappa dalle mani. Non reagisco. Mi sento così stupido. Smetto di respirare, mentre il pistolero la osserva con attenzione. Grugnisce e alza la sua attenzione verso di me. Non credo di aver mai sudato così tanto.
-Chi è?-
Bella domanda…
-Non lo so…-, rispondo io con un filo di voce. E’ la verità, tutto quello che so su di lei proviene solo dalle mie supposizioni. Non so niente per certo, aggiungo mentalmente.
Vincent non si scompone. Probabilmente si aspettava una risposta del genere. Intanto, la signora ci raggiunge e consegna il caffè al pistolero, il quale le rivolge un’occhiata di sfuggita. La bevanda fumante non viene nemmeno calcolata.
-Sai, Marlene ci ha detto che avete litigato. Barret ha ritenuto opportuno trivellarti le chiappe, ma fortunatamente per te, sono riuscito a dissuaderlo.-
Mi lascio scappare un sospiro. Poveri piccoli. Per loro deve essere dura vederci di nuovo come due estranei. Inconsciamente, lancio un’occhiataccia al libro sotto di me, la quale viene ovviamente colta da Vincent. Egli segue il mio sguardo e lo concentra sulle memorie di Sephiroth. Una strana scossa di gelosia percuote il mio animo. Non so perché, ma ritenevo quel segreto solo nostro, un momento esclusivo in cui io avevo potere su di lui.
La marionetta controlla il burattinaio.
-Ma credo che il problema non sia legato a lei.-,alza la foto e me la ripassa,-Ma piuttosto a quel libro.-
Sento una magnifica sensazione di sollievo nel comprendere che nemmeno Vincent immagina cosa stia nascondendo.
-Sei disposto a mentire spudoratamente davanti ai tuoi amici e alla tua ragazza per proteggerlo. Hai detto che non è pericoloso. Ma come posso crederti?-
E io non posso dargli torto. Ultimamente quello che dico non riflette la realtà, tanto da scomodare Vincent a farmi la paternale. Inizio a sondare le varie possibilità che mi si pongono davanti: davanti a me c’è un amico che si sta sorseggiando un caffè amaro, pronto ad ascoltarmi. Lo conosco meglio di chiunque altro negli AVALANCE, so che non darà le escandescenze se scopre quello che ormai ha intuito. Non ci è arrivato completamente per il semplice fatto che il diario dell’assassino di mia madre e di Aerith sarebbe l’ultima cosa che leggerei. Dall’altro lato potrei inventarmi una storia di sana pianta, ma, semai riuscissi a persuaderlo, prima o poi tutti i nodi verranno al pettine e a quel punto avrei sprecato l’unica occasione di sincerità. Prendo un profondo respiro e apro la prima pagina.
Mi è capitato di rado vedere un’emozione trapelare dagli occhi sanguigni di Vincent Valentine, ma credo che quel nome avrebbe fatto sobbalzare perfino una statua di marmo. Sbatte le palpebre un paio di volte, come per accertarsi di non aver letto male, e noto un’espressione di smarrimento misto incredulo comparire alla sua faccia. Vincent è il tipico uomo che non rimane mai senza parole, è sempre in grado di sopraffarti con le sue frasi taglienti e dirette; mai avrei pensato di assistere a un tentennamento. Questo momento, però, dura molto meno di quanto credessi e la sua espressione torna la solita maschera di cera.
-Ora si spiegano molte cose…-,dice, alzando lo sguardo su di me.
Sento che vorrebbe chiedermi di più, la sua curiosità è palpabile, ma si limita a non deviare dal discorso originario.
-Quindi tu stai mettendo da parte le tua famiglia… per leggere le memorie del tuo nemico mortale?-
Noto un certo conflitto nel pistolero: la sua voce tradisce il tono di un uomo che non approva per niente la situazione; ma la sua postura, lo sguardo che va a pennellare quel nome impresso su una pagina rinsecchita, le dita che ne tormentano i lati come se volessero tuffarsi in quel mondo segreto e tormentato, dimostrano un certo interessamento. Sembra quasi che voglia dirmi: Vai avanti con la tua vita e lascia i frammenti del suo passato a me. A volte penso che Vincent veda Sephiroth come una sorta di figlio adottivo. Credo provi un grosso rimorso per non averlo salvato, di non aver avuto la forza di strappare lui e sua madre dagli artigli opprimenti di Hojo. So pochissimo di che tipo fosse prima degli esperimenti subiti, ma sono certo che avrebbe dato a quel bambino una vita dignitosa da vivere; anche senza tutta la fama e la gloria. Senza contare le migliaia di persone strappate al Lifestream.
Dev’essere un peso duro da portare. Sarebbe bastato un semplice gesto…
-Anch’io all’inizio la pensavo come te, ma, ti giuro, qua dentro c’è molto di più di quanto credi.-, ribatto io.
-E’ strano sentirtelo dire. Dicevi sempre che lui fosse vuoto e senza cuore.-, la sua voce è piatta.
Strano, credevo di sorprenderlo. A quanto pare si aspettava un’affermazione del genere.
Forse è davvero possibile conoscere il figlio di Jenova attraverso Lucrecia?
-Ho sbagliato…-, ammetto.
Una strana sensazione di leggerezza mi pervade appena quella frase esce dalle mie labbra. Mi accorgo solo ora della grandezza della mia ammissione, nonostante sia un pensiero fisso che mi accompagna da settimane. Abbasso lo sguardo allibito sul diario. Non ci posso credere… Gli sto dando un’altra possibilità! Quell’aggeggio infernale mi sta incasinando la mente, mi sta manipolando. Ma come è possibile? Forse Reeve si sbagliava. Non è un libro come gli altri.
Un moto di rabbia s’impossessa di me. Afferro malamente il diario, senza dare la possibilità a Vincent di reagire, e faccio per gettarlo lontano.
No!
Mi blocco a metà del gesto, quando la foto mi passa davanti agli occhi. Quello sguardo… quell’espressione… così… così… tormentata.
Ma che mi starà mai succedendo?
Una mano artigliata mi afferra la spalla, riportandomi nel mondo reale. Giro lo sguardo verso gli occhi vermigli dell’ex-Turk.
-Cloud, il tuo segreto è al sicuro come me. Ti aiuterò a mantenerlo tale e a riallacciare il tuo rapporto con Tifa.-
Leggo un altro pensiero nelle sue iridi: Ti prego non abbandonare ciò che rimane di Lucrecia.

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15 Maggio XXXX

E’ da parecchio che non mi concedo un momento di riposo, affinché io possa tuffarmici e lasciare che la quiete dilavi l’adrenalina e il sangue versato. Stranamente, però, questo periodo frenetico non mi è pesato in modo particolare. Devo ammettere che la vicinanza dei miei due nuovi compagni hanno un effetto benefico sulla mia psiche, oltre che sull’esito delle missioni. La conquista della costa di Wutai è avanzata esponenzialmente in soli due mesi da quando Genesis e Angeal combattono al mio fianco. Il trio che abbiamo formato è davvero imbattibile e la sintonia creatosi tra di noi è straordinariamente letale. Ovviamente la loro preparazione a certi tipi di situazioni incide ancora molto sui loro nervi, i quali non si sono ancora abituati alle cruente scene che la guerra generosamente regala ogni maledetto giorno. Io, ormai, ci ho fatto il callo da anni. Spesso Genesis mi invidia per il mio sangue freddo, desidera ardentemente avere la mia capacità decisionale nei momenti in cui la paura e la morte sembrano l’unica scelta possibile. Non si rende conto di che cosa bisogna passare per affinare questa, se così vogliamo chiamarla, “capacità”. Uno che è sempre vissuto nel confortante calore dell’amore di due genitori innamorati del proprio figlio, in una casa accogliente e piena di vita, libero di uscire all’aria aperta quando più lo desidera, non può assolutamente capire cosa vuol dire guerra. Guerra quotidiana contro l’oppressione; con solo un nome a cui aggrapparsi nei momenti di sconforto; nessuno disposto a tendere la mano per aiutare a rialzarsi dopo che iniezioni ed esperimenti hanno dilaniato il corpo; vivere nella costante paura di sbagliare; spettatore inerme dell’agghiacciate eccitazione di due occhi crudeli che brillano ad ogni sofferenza. Con un’infanzia così è facile diventare freddi calcolatori assassini… La prima volta che vidi il campo di battaglia avevo quattordici anni. Poco più di un bambino. Avevo già ucciso, ma non ero preparato a quel tipo di cruenta violenza. Ricordo il rumore. Il fracasso delle bombe, il ritmo incessante e metallico delle mitragliatrici, le urla agghiaccianti degli uomini spappolati dalle esplosioni. Ricordo che rimasi bloccato ad osservare quello spettacolo. Per la prima volta nella mia vita non sapevo cosa fare, frastornato da quella miriade di suoni assordanti. Non avevo paura, non ne ero capace di provarne, ma mi sentivo sospeso in un limbo di calma, mentre attorno a me si agitava il caos. E fu in quel momento che capii per che cosa mi avevano preparato. Capii il motivo di ogni punizione, di ogni sopruso, di ogni vergata nella schiena. Sin da quando ho memoria non ho mai conosciuto una giornata di pace. Mio padre era la mia ombra, il mio incubo. Ancora oggi mi sta addosso come un avvoltoio su un cadavere, pronto a ghermire la mia carne martoriata per spremere l’essenza ormai prosciugata; ma, grazie al cielo, la mia carriera di SOLDIER mi tiene spesso lontano dal suo ossessivo controllo. Respiro un po’ d’aria pura, finalmente; anche se questa libertà è soltanto una prigione senza pareti. La sua eredità continua a perseguitarmi; la reputazione da lui costruita mi sbatte le porte in faccia. Quel generale freddo e calcolatore che si aggira nel campo non sono veramente io. L’inchiostro sono io. In questo diario è racchiuso il mio vero ego e prego tutti i numi conosciuti e sconosciuti affinché non mi sia portato via. Ho bisogno di un’ancora di salvezza, un punto fisso in questo mondo vorticante che definisca la mia identità; ovvero quella parte fragile e passionale rinchiusa nel mio cuore freddo e straziato. E’ la mia più grande paura: dimenticare. Non so che farei se un giorno lasciassi la mia umanità bruciare in un focolaio d’iracondo odio. Tutti, là fuori, cercano di spingermi nell’oblio. Ah, cosa darei per lasciarmi andare almeno una volta… Ma so già come andrebbe a finire: il demone che risiede in me prenderebbe il sopravvento. Ogni volta che mi abbandono ad un’emozione particolarmente intensa, quella frenesia s’impossessa della mia mente, trasformando ogni sentimento in violento odio. Uno dei tanti motivi per cui non riesco ad avvicinarmi a nessuno. Soprattutto alle donne. La compagnia mi spinge spesso verso la ricerca di una compagna, propinandomi relazioni assurde con sciacquette dello spettacolo viziate e stupide. Il Presidente afferma che sfogare i miei istinti non possa farmi altro che bene, ma so perfettamente che è tutta una questione di soldi. La mia vita privata sbattuta sulla prima pagina di uno squallido giornalino di gossip. Che schifo. Inoltre, la cosa che mi rattrista di più è pensare che ci sono centinaia di ragazze disposte ad accettare una vita sotto i riflettori. Sarà che mi sono stancato di svilirmi in continuazione e per questo motivo non vedo la cosa di buon occhio. Non saprei. Senza fraintendimenti, m’imbatto quasi sempre in donne dalla bellezza e classe superbe, ma ciò che cerco va oltre il semplice piano fisico e sessuale. Desidero tanto poter discutere liberamente delle mie idee con qualcuno che capisca il mio animo, che vada oltre alla divisa nera di SOLDIER e ai miei successi militari. Vorrei mostrare a quella persona gli aspetti di me che tengo gelosamente nascosti nel mio attico del Golden Building. Desidererei rivelarle i miei libri, il mio amore per la cucina e per l’arte; aspetti che nessuno penserebbe mai di attribuirmi. Alla fine di ciò, potermi specchiare nei suoi occhi e vedere davvero la mia immagine riflessa… Ma so che questo non potrà mai accadere. La mia reputazione di freddo SOLDIER sanguinario affascina le donne, ma le spaventa al contempo. I media hanno pensato bene di mettere sotto i fari dell’informazione quel lato disumano e terribile di me. La mia bestia, appunto. Tutto il popolo del Pianeta crede che la mia ira sia spaventosa, quanto facile da scatenare. Pochissimi hanno capito quanto io possa essere paziente. Il problema è che nel corso degli anni ho accumulato così tanta rabbia che, quando raggiungo un limite, essa viene scatenata per un nonnulla. Fortunatamente, grazie ai due banoriani, ho la possibilità di avere una doppia valvola di sfogo. Come dicevo all’inizio, la loro vicinanza mi fa bene. Passo molto tempo in loro compagnia; tempo che investiamo in parecchie attività stimolanti, come divertenti combattimenti a tre e sfide frivole e, talvolta, pericolose. Quest’ultime sono la risultante dei nostri battibecchi, soprattutto tra me e Genesis. Ogni minimo argomento, anche il più banale, può essere una fonte di guai. Angeal cerca di smorzare questa caratteristica, cercando, invano, di farci ragionare; ma ho notato che i nostri caratteri hanno la malata tendenza a scontrarsi. Credo che il motivo principale sia da ricercare nelle nostre educazioni: entrambi siamo stati abituati a dare ordini, a guardare il mondo dall’alto verso il basso, senza compromessi e discussioni. Genesis mi parla spesso della sua tenuta a Banora e di come sia cresciuto nel lusso più sfrenato- sua detta, tende ad esagerare alle volte- con camerieri e maggiordomi a servirlo e riverirlo. Immaginavo fosse un tipo del genere, ma non che, una volta entrato in confidenza, si permettesse certe libertà. Non ha il senso della disciplina. Per quanto riguarda me, sebbene abbia passato una buona parte della mia vita a eseguire comandi inflessibili, fin da bambino, mi è stata inculcata l’idea della potenza derivata dal comando. Quello scienzatucolo da strapazzo ne è l’esempio lampante. Non è un segreto che abbia approfittato della nostra parentela per diventare capo del Reparto Scientifico. Mi si accappona la pelle alla consapevolezza che è grazie ai miei successi militari se lui si crogiola tra le più importanti cariche della compagnia, quando il suo posto dovrebbe essere tra il marciume del buco più profondo e orrido dell’Inferno. Maledetto bastardo, arriverà il giorno in cui ti vedrò strisciare tra i frammenti dei tuoi sogni infranti! Gli stessi sogni che mi hai strappato e fatto tuoi, mentre le tue parole taglienti mi laceravano ogni giorno di più.
E’ così ingiusto… Perché devo soffrire così a causa di mio padre?
Angeal ci parla molto dei suoi genitori. La parte che mi piace di più -e che invidio intensamente- è quando ci racconta dei tanti sacrifici che hanno fatto i genitori per permettergli di trasferirsi a Midgar. La sua famiglia non è per niente ricca, eppure, due poveri coltivatori di accidentmele, hanno cresciuto un uomo straordinario, oltre che un bravo soldato. Il rispetto e la generosità nei confronti della vita sono doni che ho visto ben poche volte fluire davanti agli occhi. Angeal è capace di farmi apprezzare e godere delle piccole cose; oggetti e situazioni anche scontati e banali, ma se valorizzati nel modo giusto possono illuminarti la giornata. Ci dice che questa visione è uno dei lati migliori della povertà. Genesis lo deride quando ci elargisce queste perle di saggezza, ma a me fanno pensare. Non vorrei scadere nel filosofico, ma anche la povertà spirituale può avere anche dei risvolti positivi? Forse gli insegnamenti offerti dalla piccola Aerith non sono frutto della sua visione infantile del mondo, ma di fatti appurati. Devo, però, tenere in conto di variabili molto importanti che incidono particolarmente sull’esito di questa analisi. Angeal e Aerith, per quanto grandi o piccole le privazioni subite, hanno sempre avuto qualcuno a loro fianco. La seconda forse è quella che conosce alti livelli di sofferenza, come la perdita di entrambi i genitori, ma ha l’amore di Elmyra, l’amicizia di tutti gli Slums, il profumo dei suoi fiori, la serenità dei giocattoli e poi, beh, ha me. Mi considera quasi come un fratello maggiore –anche se spesso mi bacchetta come una maestrina- e, per quanto io possa essere una frana con i rapporti interpersonali, le voglio molto bene. In effetti, questo affetto è pur sempre qualcosa: è troppo poco per cucire le ferite, ma è abbastanza per non farmi crollare nella disperazione. Ora che ci penso, io mi reco da lei quando sono particolarmente abbattuto, proprio per cercare un po’ di quella purezza fanciullesca che mi è stata strappata anni addietro. Sebbene non la senta parte integrante del mio animo sanguinante e il mio cervello la considera perduta per sempre, mi ostino a cercarla testardamente. Inconsciamente, SO che ne ho bisogno. SO che senza quell’infusione periodica di innocenza, impazzirei. All’improvviso, mi accorgo che Angeal ha ragione. Devo smetterla di autocommiserarmi. Ho avuto tanto, molto più di quanto credessi. Ripenso al Professore. I momenti passati con lui erano centellinati, ma è ciò che meglio emerge dai miei ricordi. Ridevo sempre con lui. Mi sentivo… bambino, ecco. Il Professore non si aspettava mai niente da me e, quelle rare volte che riusciva a battermi nei nostri giochi, ricevevo comunque la ricompensa che avrei ottenuto in caso di vittoria, così da non farmi sentire un fallito. Ricordo che quando entrava per quella porta le mie ansie sparivano e il mio stomaco si spalancava. Quando succedeva, trangugiavo tanto di quel cibo arretrato che non sapevo come facessi a stiparlo tutto in quel minuscolo sacchetto. Rimembro il suo sguardo preoccupato, mentre osservava quello spettacolo: lo sapeva che non mangiavo da giorni… Conosceva il motivo di quelle cicatrici, di quei lividi, di quei bozzi sulle braccia. Non glielo ho mai detto, ma percepivo i suoi occhi studiosi scrutarmi e la preoccupazione nel suo animo. Sebbene cercasse di non coinvolgermi nei suoi pensieri, io sentivo la rabbia pervadere tutto il corpo. Tante volte ho udito le furibonde litigate con mio padre, rannicchiato nel mio letto con un cuscino a coprirmi le orecchie. Chiudevo gli occhi e cercavo di trattenere le lacrime di paura che, ostinate, volevano uscirmi dagli occhi. Non volevo piangere, se Hojo fosse entrato in quel momento mi avrebbe punito; ma la mia più grande paura non era ricevere l’ennesima punizione, bensì udire uno sparo. Quel vecchio pazzo non era la prima volta che freddava qualcuno con la pistola che teneva nascosta nel camice. Non ne ero mai stato testimone, ma era questa la voce che girava tra gli assistenti. Avevo il terrore che mio padre avrebbe fatto del male al Professore. E per cosa? Per qualche livido? I lividi e le ferite guariscono, la morte no. Perché rischiare per delle sciocchezze del genere? Ricordo che stringevo il cuscino e mi arrabbiavo col Professore: non volevo che perdesse del tempo a discutere con quel muro; desideravo che quel tempo lo passasse assieme a me. Per questo che le volte dopo, quando lo vedevo arrivare, cercavo di vestirmi con maglioni due taglie più grandi. Non volevo che vedesse il mio corpo straziato e, durante i pasti, cercavo di resistere ai morsi della fame, piluccando porzioni decenti dalle portate sul tavolo. Ma, era tutto inutile. Il Professore era troppo furbo e capiva che dall’ultima discussione non era cambiato assolutamente niente. Le litigate si fecero più furibonde, finché il Professore non venne più. Quando chiesi il motivo a mio padre, mi disse queste esatte parole: “
Il suo lavoro di testare le tue abilità è finito. Sei diventato troppo in gamba per lui. Non che ci volesse molto.” Poche, lapidarie frasi pronunciate con malcelato disprezzo mi rimbombano ancora nella mente.
Ricordo una rabbia enorme eruttare dai flussi più profondi della delusione e per poco non strappai la stoffa del divano a cui le mie dita si erano artigliate. Lui mi dava le spalle, ma sapevo che godeva come un maiale. Avrei voluto piangere, ma l’ira spaventosa che mi cresceva in corpo non mi permetteva di provare nessun altro sentimento, se non un senso nauseante di odio della migliore qualità. Ogni cosa si offuscò e uno stridio trafisse la mia mente, stordendomi. Ricordo che la mia vista si distorse e poi diventò tutto nero. Quello fu il primo incontro con la bestia che alberga in me. Quando mi svegliai, mi dissero che ero rimasto in coma per quattro giorni. Il mio cervello si era difeso spegnendosi. Per la prima volta nella mia vita, vidi mio padre seriamente preoccupato per me. Era accanto al mio capezzale quando mi ridestai, e ci rimase finché non mi ripresi. Ricordo come il suo comportamento cambiò radicalmente: mi stava sempre accanto e non era spiacevole; anzi, ci cimentavamo in brevi, ma combattute chiacchierate e giocavamo a scacchi o a carte per intrattenerci nelle lunghe ore di degenza. Ovviamente non si è mai lasciato andare a moine e tenerezze, ma comunque avevamo un rapporto più profondo del semplice scienziato-oggetto di ricerca. Sebbene ci fosse una certa tensione tra noi, i momenti insieme non erano malvagi; anzi, ogni tanto ci scappava anche un sorriso timido. Nel gioco e nel parlare, Hojo era un osso duro, una sfida degna di nota e aveva una mente davvero brillante. Era divertente confrontarsi con lui, perché quando si entrava nel vivo della situazione si dimenticava con chi avesse a che fare e mi parlava come se dialogasse con una persona qualunque. Appresi molto del suo pensiero e registrai ciò che c’era di buono nei suoi consigli. Le mie capacità con le parole le appresi proprio quel giorno. Insomma, fu un’esperienza illuminante e piacevole. Per quanto fosse strano, m’illusi che, forse, c’era una minima possibilità di ricominciare da capo quel rapporto padre-figlio che ho disperatamente ricercato nel vecchio. Forse il Professore non mi sarebbe mancato. Ma come spesso accade, le mie aspettative vanno sempre in frantumi. Avrei dovuto immaginarlo che tutti quegli stimoli ludici erano per controllare che lo shock non avesse compromesso le mie facoltà mentali. Quanto fui stupido a credere che lui fosse capace di agire senza un fine! Nonostante la delusione, tuttavia, il ricordo di quel breve momento lo serbo gelosamente nel cuore, nell’incrollabile speranza che un giorno la situazione possa cambiare. Sarà dura lavare via l’odio profondo che la sua persona ieratica e nervosa mi suscita ad ogni incontro, ma sono pronto a perdonarlo. Voglio credere che, in un modo distorto e ottuso, quello che mi ha fatto sia stato spinto dal desiderio di donarmi una vita migliore della sua, approfittando della sua posizione di luminare e della richiesta di SOLDIER della compagnia. Mi sto autoconvincendo del fatto che mio padre volesse che fossi il migliore. Quale genitore non desidererebbe crogiolarsi nella gloria del proprio figlio? Lui aveva le conoscenze, le capacità , gli agganci… Chi non ne avrebbe approfittato?
Mi sto illudendo… Perché continuo a raccontarmi bugie? Lo conosco troppo bene. Nessun essere umano soprassederebbe sulla sofferenza di un bambino. Io lo vedevo il suo disinteresse, il suo distacco, il suo spaventoso sadismo… Lo vedo ancora oggi. Ciò mi uccide. Io, che ho sacrificato gli anni più belli della mia vita, nascosto i miei interessi al mondo, represso TUTTI i miei istinti, eseguito azioni terrificanti, non vedo fierezza nei tuoi occhi… Perché mi devi ignorare così? Sono diventato il simbolo di una compagnia che sta dilaniando il Pianeta, quello che tu desideravi che io diventassi, e ora non valgo più niente? Ora che il tuo lavoro è finito non sono più tuo figlio? Ritieni la Shin-Ra una famiglia in cui un ragazzo possa vivere?
Queste domande mi hanno fatto venire l’emicrania, oltre che avermi scacciato la fame. L’ala di pollo che avevo piluccato dal piatto mi si sta rivoltando nello stomaco. Sono sfibrato, sia fisicamente che mentalmente, ma il sonno non ha intenzione di accogliermi. Ci sono così tanti pensieri che si convulsano nella mente e mi rattrista il fatto che, partendo da un pensiero positivo, arrivo sempre a sprofondare nella miseria della mia infanzia. Non faccio altro che guardarmi indietro, quando so bene che dovrei puntare verso il futuro. Neanche pochi mesi fa, non vedevo altro che un infinito abisso davanti ai piedi, quando, voltandomi, vedevo tante piccole fievoli luci rappresentanti i pochi momenti gioiosi; ma, ora, la luce brillante che intravedo alla fine del baratro mi attira e m’induce ad avanzare.
Sono restio a proseguire, però. Per quanto curioso d’intraprendere l’esperienza dell’amicizia, un terribile presentimento mi blocca. Sento che c’è qualcosa di distorto e oscuro nascosto sotto tutto quel brillio. Non voglio cadere in preda ad una nuova illusione. Il mio cuore è saturo di vivere di false speranze, tanto saturo da essersi indurito fino a diventare di pietra: forse è per questo che fatico a fidarmi del tutto di Genesis e Angeal. L’essere umano mi ha sempre sfruttato per i suoi scopi e, per quanto possano sembrare innocenti i due ragazzi, non riesco a scrollarmi di dosso la sensazione che stiano facendo leva su di me per raggiungere le alte cariche del comando. Mi sento terribilmente in colpa ad avere questi pensieri, ma… da quando ho rischiato di morire per colpa di un traditore, ho perso la poca fiducia che riserbavo per ogni mio compagno. Successe tutto quando avevo sedici anni, ero in missione a Corel per trafugare degli importanti documenti da una filiale della Corel Enterprises, la principale rivale di allora della Shin-Ra. Eravamo uno sparuto gruppo di uomini, capitanati da un SOLDIER di Prima. Lui era un wutaniano che era riuscito a fare carriera tra le fila dell’esercito e, nonostante i lievi attriti tra Midgar e Wutai, non sembrava importarsene della politica dei due Paesi, ma solo di combattere. Era un uomo incredibile e mi aveva preso sotto la sua ala protettrice, aiutandomi ad affinare l’arte della katana e a controllare i miei istinti sanguinari. Lo vedevo come un maestro e aveva la mia totale fiducia. La missione riuscì benissimo e il piano di fuga era quello di separarci: lui sarebbe scappato con l'obiettivo per consegnarlo ai Turk d'appoggio, mentre io e il resto degli uomini avrebbe depistato i nemici, fungendo da esca. La sera prima, studiai la mappa dell'edificio che lui mi aveva consegnato e mi basai su quella per guidare gli uomini all'esterno attraverso la via più veloce. NOn sapevo, però, che quella mappa era falsa e che ci avrebbe condotto dritti dritti ad un vicolo cieco. Quando capì cosa stava succedendo fu troppo tardi: il palazzo esplose, crollandoci addosso. Non seppi mai come, ma riuscii a sopravvivere dalle pesanti macerie che gravano su di me. Nessuno dei miei compagni si salvò. Spinto dalla forza della disperazione, mi scavai un varco verso la superficie, da cui spuntai più morto che vivo. Con la polvere di calcinaccio che m’impediva di respirare, lasciai fare all’istinto e mi trascinai lontano da quella desolazione. Non so come feci a raggiungere la periferia della città, ma so solo che la sorte volle farmelo incontrare. Avevo perso l'orientamento, quindi, credendo di essere al sicuro, gli urlai aiuto. Non scorderò mai il suo sguardo sbalordito nel vedermi ancora vivo. Crollai contro un muro e tesi la mano verso di lui. Mi fidavo, credevo mi avrebbe salvato. Ma poi degli uomini apparirono dalla nebbia. Vidi i documenti che avevamo trafugato nelle loro mani. E capii. Ero troppo provato per reagire. Fu così che quel SOLDIER mi trafisse lo stomaco. Un colpo, secco, preciso di katana. Una lunga katana. La stessa katana che gli mozzò la testa quando lo andai a cercare per vendicarmi. La stessa katana che ora sta mettendo a ferro e fuoco l’intero Wutai. La mia fida Masamune… Fin dal primo momento che la impugnai percepii un legame mistico stringersi tra l’anima e l’acciaio. Col tempo è diventata il prolungamento del mio braccio e senza di lei mi sentirei… vuoto. Per quanto possa sembrare assurdo, ho un’infatuazione ossessiva per la mia spada, poiché mi prendo cura morbosamente di ogni suo singolo pezzo, anche il più insignificante. Il suo acciaio è uno dei migliori che abbia mai avuto l’onore di maneggiare. Spero che questa guerra mi aiuti a comprendere di più dell’antico mondo dei samurai. Il suo precedente padrone discendeva da un’antica stirpe di signori della guerra del Wutai occidentale, la quale è andata a disperdersi dopo la caduta del governo feudale. La Masamune è l’unica testimone di quei tempi. La storia e la cultura di Wutai mi affascinano immensamente e trovarmi qui mi mette addosso una certa eccitazione. Sono impaziente di terminare il mio piano di assedio alla città di Garyo. In soli due mesi siamo riusciti a conquistare una buna fetta della costa e in molte cittadine siamo riusciti a costruire della basi operative stabili, dove molti plotoni dell’esercito regolare e membri dell’Intelligence hanno stanziato i loro GQ. Noi SOLDIER, invece, siamo ancora dei vagabondi, poiché ci spostiamo di villaggio in villaggio con un duplice obiettivo: stanare cellule ribelli potenzialmente pericolose e creare una testa di ponte con una delle città dell’entroterra. E’, inoltre, indispensabile cominciare a incidere pesantemente sul morale nemico, prendendo possesso dei punti strategici del potere e della cultura del Paese. Il mio obiettivo è colpire dritto al cuore, perché, se c’è una cosa che ho imparato nella mia lunga carriera di stratega, niente incide più sul morale di una truppa di una perdita d’identità. Per questo ho messo gli occhi su Garyo. Essa è la sede culturale di tutto il Wutai, assieme ai centri di Dashiro e Meijin. Colpiremo il triangolo della tradizione wuataiana, fiaccando le loro forze e le loro speranze. Triangolo. Tre angoli. Tre reggimenti, capeggiati da tre capitani. Uno di essi sarò io e m’impossesserò di Garyo e della sua biblioteca di antichi testi Wutai. Sto già iniziando a studiare la loro grammatica e gli ideogrammi per prepararmi al momento in cui avrò quei tesori tra le mani. Sono impaziente di sapere di più su questo mondo segreto. Può sembrare sacrilego, ma sono così affascinato dal loro attaccamento a queste tradizioni rimaste tali da tempi antichi; le sfoggiano con una tale fierezza che è impossibile non innamorarsi. Inoltre, la guerra non solo cancella le vite, ma anche ciò a cui sono correlate. La nostra avanzata è cadenzata dal progresso. I piccolo villaggi di pescatori e contadini diventeranno periferie di metropoli di mako; le foreste lasceranno il posto al deserto; le montagne innevate all’acciaio dei reattori; le casupole di riso ai grattacieli. La Shin-Ra devasterà questa terra e io ne sono responsabile. IO guido questo scempio. Quel che è peggio mi rendo conto delle conseguenze delle mie azioni, tuttavia continuo nel mio efficiente operato. Mi odio da morire. Per questo motivo cerco di dilavare parte del senso di colpa, trafugando tesori della loro cultura. Voglio preservarli dalla distruzione e nasconderli nella mia collezione privata; poi, quando morirò, riconsegnare il maltolto al legittimo proprietario.
Gli altri due Comandanti s’identificheranno , quando saranno pronti, nelle persone di Angeal e Genesis. Loro non lo sanno, ma li sto addestrando per diventare degli ufficiali di alto rango e, sinora, stanno dimostrando un talento spiccato per questo ruolo. Entrambi sanno farsi rispettare e raramente si lasciano andare alle emozioni, mantenendo il ritegno e la freddezza richiesti dal comando. Sono ancora acerbi, però sto lavorando intensamente sulla loro preparazione psicologica, spesso in modo a dir poco brutale. Vorrei pianificare una preparazione meno traumatica, ma il tempo a mia disposizione sta finendo. Sto cercando di ritardare gli attacchi principali il più possibile, sviando l’attenzione su obiettivi secondari non necessari; tuttavia la penuria di uomini sta diventando sempre più incalzante. I Wutai non immaginano nemmeno cosa ho in serbo per loro, però combattono come se non ci fosse un domani per ogni singolo straccio di terra. Richiedo rinforzi quasi tutti i mesi e il Presidente non intende pazientare oltre. Per quanto mi secchi, dovrò rischiare. Rischiare la vita dei miei amici e degli uomini a loro affidati. DEVO fidarmi, per quanto mi sia duro ammettere.
Ho studiato intensamente le reazioni dei due soldati e ho notato che Angeal è molto più pragmatico e razionale di Genesis, il quale tende ad agire d’istinto e abbandonarsi in massacri sanguinari spesso inutili. Prende tutto come un gioco e si crogiola nel divino gesto dell’omicidio. Questa vena sadica mi preoccupa, sebbene ci abbia lavorato parecchio per smorzarla almeno un po’. Capisco cosa prova, la stessa frenesia s’impossessa della mia mente, però c’è un limite a tutto e non concepisco che un ufficiale si conceda tali, sanguinose libertà. DEVE assolutamente imparare a controllarsi, con le buone o con le cattive io riuscirò a domare quella bestia che si cela nel suo animo. Non sarà un lavoro facile, poiché ciò che più mi disturba è il fatto che si vanti di questa caratteristica, accumunandola erroneamente ad un indice di onnipotenza. Ha una coscienza così infima da non riuscire a provare pietà per un bambino che piange sul corpo martoriato e violentato della madre? Sembra quasi che non abbia un cuore. Lui mi dà dell’ipocrita quando glielo faccio notare, rinfacciandomi il fatto che nemmeno io mi scompongo di fronte a scene cotali. Ah, se solo sapesse la verità… E’ solo grazie ad Angeal che riacquista un po’ di buonsenso. Spero che la consapevolezza di essere responsabile della vita di migliaia di soldati freni quegli istinti spaventosi e non si abbandoni all’ebrezza del comando. Sarà solo a combattere contro questa voglia di sangue. Prego che non usi i miei uomini per compiere orrori di ogni tipo e che le schermaglie a cui ha partecipato lo ispirino ad una condotta retta. E’ la mia testa che andrà al rogo per gli orrori commessi in guerra, quindi gli conviene comportarsi bene; altrimenti gli farò comprendere meglio il significato della parola TERRORE. Comunque, per non correre rischi gli sarà affidata la città meno importante del triangolo: Meijin. E’ quella più industrializzata, ci saranno meno oggetti di legno da bruciare e meno abitanti su cui infierire.
Pensare alle battaglie ha riaperto la bocca stomaco. Il pollo si è raffreddato, ma non importa, ora come ora mangerei anche una carcassa. Mi sovviene ora che è parecchio che non faccio un pasto decente: meglio approfittare del momento propizio. La luna alta nel cielo notturno è testimone di questo piccolo miracolo e mi regala la bellezza della sua luce soffusa. Percepisco il mio animo nutrirsi dello straordinario silenzio di questa notte libera dai conflitti; mentre gli ultimi pensieri prendono forma sulla carta. Non c’è niente di meglio che sentire il cuore leggero e lo stomaco pesante. E’ una situazione che mi è capitato di provare di rado.
Credo sia il momento di mettere al corrente dei miei piani i due banoriani e indire un consiglio di guerra per domattina presto. Sono davvero curioso di vedere le loro espressioni appena vedranno appuntati sui loro petti i gradi di Second Class…


Salve a tutti!!!!! Perdono, perdono per il ritardo, ma gli esami e lo studio intensivi non lasciano molto spazio alla fantasia (questi dannati capitoli d’intermezzo!!! Uffa, Seph, quand’è che combini qualcosa di audace??). Comunque, sono viva e vegeta, anche se un po’ esaurita, ma ci sono e sono presente a me stessa. YEEEEEEEEEEEEEE. Alloooooora, cosa si può dire di questo capitoletto? A Cloud stanno succedendo degli strani fatti mentali e, forse, quel libro non è così innocente come credeva il buon Reeve. Speriamo non sia qualcosa di grave (SPERIAMO DI Sì! NOI VOGLIAMO SEPHIROTH!!!ndsephfan)! Anche i momenti tra vita e lettura cominciano a mescolarsi, dando come l’impressione che ormai il biondo chokobo legga in modo quasi morboso le memorie del nemico. Come si evolverà la cosa?
Nel mondo della cellulosa, invece, Sephiroth sembra quasi scombussolato dalla ventata di novità, è indeciso se concedere fiducia ai cari Genesis e Angeal; oppure continuare nella sua triste solitudine. I ricordi non conoscono requie e i traumi che l’hanno forgiato sembrano più un peso che un vantaggio in questo tipo di rapporti. Cosa deciderà è noto a tutti, ma sarà un passaggio così facile? Non ci resta che far lavorare il mio cervellino e continuare nella lettura.
Faccio notare a tutti che le finestre temporali di dilateranno parecchio, in quanto direi di aver parlato abbastanza del rapporto di Seph con la guerra e poi vorrei arrivare in fretta ad un punto che non vedo l’ora di scrivere e, per voi, di leggere. Sto smorzando i dettagli per renderlo più realistico possibile, spero di non deludervi. Non assicuro che si tratti del prossimo capitolo, eh, quindi trattenete l’entusiasmo! Io vi ho avvertito, non voglio nessuno sulla coscienza XD
Va bene, ho straparlato anche troppo e vi rubo un attimo del vostro tempo per ringraziare l’empatica e dolcissima the one winged angel che non manca mai una recensione e la carissima e folle Manila, la quale le mando un grosso in bocca al lupo per una tesi che la sta facendo impazzire! Tieni duro, bella!!
Infine, ringrazio quei santi che leggono, ma apprezzano in silenzio! GRAZIE!!!
Alla prossima!
Besos

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Capitolo 9
*** Fiducia angelica ***


Vincent non smetterà mai di stupirmi. Per quanto la sua esperienza in fatto di donne possa essere paragonabile alla mia, se non minore; non so perché, ma riesce sempre a essere molto più cavaliere di tutti i membri dell’AVALANCE messi assieme. Anche se, devo dire, non che nella squadra vantiamo dei gran esempi di galanteria. Personalmente, credo che sia un miracolo vero e proprio il solo fatto che Cid sia riuscito a trovar moglie. Nulla da togliergli, è un tipo divertente e simpatico, un buon amico; ma la sua rudezza, spesso, può essere un forte deterrente per qualsiasi tipo di rapporto. Gli sono amico da tanti anni, ma a volte i suoi comportamenti mi fanno salire il sangue alla testa, tanto che mi viene da prendergli la faccia spiaccicargliela contro la paratia della sua aeronave. Shera è davvero una santa donna! Poi c’è Barret… beh, lui ha sacrificato gli anni della gioventù per combattere contro la Shin-Ra e, quando avrebbe potuto rilassarsi, gli è capitato tra le mani un piccolo dono dal cielo di nome Marlene. A quel punto, la bambina è diventata l’unica donna della sua vita. Diciamo che il grande uomo-mitragliatrice ha bruciato le tappe, arrivando direttamente al ruolo di genitore. E poi ci sono io. IL disastro del genere maschile, come piace chiamarmi Cid. Non ha tutti i torti, in effetti, ma c’è da dire che praticamente la mia adolescenza è andata a farsi benedire nel momento stesso che ho messo piede tra le file dell’esercito Shin-Ra. Ero un ragazzino all’epoca e non è che nelle camerate ci fossero molte ragazze con cui far “pratica”. Togliendo anche il fatto che sono sempre stato un tipo molto timido e taciturno, era logisticamente impossibile avere a che fare con qualche femmina che non avesse almeno il triplo degli anni dell’età media dei soldati. Perfino Zack ha fallito nell’intento di trovarmi una ragazza. E lui non era tipo da farsi scoraggiare, ma ha capito ben presto che la mia testa era dura quanto le montagne di Nibelhim. Sono certo che ora, vedendomi finalmente quasi accasato, sia fiero di me. Me lo immagino sorridere, quando io e Tifa ci rubiamo qualche bacio durante la giornata; o ci scambiamo dolci effusioni accoccolati sul divano o nel letto. Mi scappa da ridere al pensiero delle sue reazioni quando ci troviamo in intimità… Spero vivamente che ci lasci un po’ di privacy, almeno in quei momenti!
Comunque, pensieri scabrosi a parte, non credo di aver mai conosciuto un tipo così diplomatico come può esserlo Vincent in certi casi. E’ incredibile la sua capacità di domare anche i caratteri più intrattabili. Tifa diventa una belva quando si arrabbia e, spesso, mi fa più paura di mille Jenova messe assieme. Lui non si lascia scoraggiare dalle terribili sfuriate della ragazza, mantenendo il suo solito contegno. Non so proprio da dove prenda quella pazienza. Io dopo poco trovo un modo per defilarmi il più lontano possibile dagli strilli e dalle accuse più o meno ingiuste. Probabilmente ci è abituato: dopotutto non è impresa facile sopportare la corte spietata di Yuffie, a meno che non si è in possesso di nervi d’acciaio.
Fatto sta che mi ha stupito la capacità dell’ex-Turk di quietare l’ira di Tifa, quando le ha chiesto di perdonarmi. Sulle prime la ragazza non ne voleva proprio sapere, accusandomi di fatti accaduti, ma solo nella sua mente gelosa. Era stra-convinta che io avessi un’altra, dal momento che non si spiegava il motivo del mio comportamento schivo o delle mie permanenze in ufficio a orari assurdi. Credeva che le stessi nascondendo chissà quali lettere d’amore. Certo, non ne ho mai scritte in vita mia e comincio ora con l’amante. Ah, donne…
Quando mi ha visto varcare la porta di casa mi ha lanciato una delle sue occhiate agghiaccianti. Da quando abbiamo litigato ormai mi saluta così tutte le volte che rientro nel suo campo visivo e, sinceramente, dopo una giornata in giro a consegnare posta, non è proprio quello che mi serve. Di tutta risposta me ne vado in bagno, il tempo di una doccia, e poi esco a fare due passi, i quali mi trasportano inequivocabilmente fuori Edge e l’unico a tenermi compagnia è il diario del mio peggior nemico. Paradossale!
Solo ora mi rendo conto della situazione creatosi, ovvero dopo aver finalmente ammesso il mio errore. Era da un po’ di giorni che percepivo una strana presenza accompagnare ogni mio passo, la quale mi sussurrava ossessivamente nella mente di scappare lontano dalle preoccupazioni; sentivo una mano delicata stringere la spalla appena il pensiero del rapporto compromesso con Tifa mi schiacciava. Che Sephiroth fosse lì a sostenermi? A indurmi a leggere le sue memorie straziate per dimostrarmi che la vita può essere infinitamente peggio? E’ davvero incredibile cosa mi sono trovato a pensare in questo periodo! Senza contare il clou di oggi pomeriggio, quando ho confessato di aver sbagliato. Di aver malgiudicato. Lui. Quell’assassino, quel mostro! Ancora non ci credo!
Dopo che Vincent se ne fu andato, lasciandomi di nuovo solo in quelle lande verdi, ho letto un altro capitolo della SUA vita. Non avrei dovuto farlo, ma… avevo un terribile senso di colpa che mi attanagliava. Mi fa paura. Mi ero illuso di poterlo controllare, ma ho la netta sensazione che stia accadendo il contrario. Questa percezione la sento agitarsi fin dentro le viscere: SO che c’è qualcosa in quel diario, però è impossibile per me smettere di leggere. Sta diventando un’ossessione, una droga di cui non posso fare più a meno. Il solo pensiero di perderlo o che mi venga rubato mi uccide.
Ho paura…
Una paura terribile, come mai provata prima d’ora.
E’ strano. Ho affrontato la definizione stessa di terrore un’infinità di volte; ormai dovrei saperlo di che cosa si tratta... No, questa, questa è diversa. Mi induce a continuare, ad andare contro il mio istinto, ad allontanarmi dagli aiuti, dagli amici, dalla famiglia…
Un momento! In questi capitoli, Sephiroth ha denunciato paura e sfiducia verso l’intero genere umano. Emozioni che lo hanno portato ad allontanare chiunque e chiudersi nella sua corazza di rimpianti! E se… e se questo libro mi stesse trasmettendo piano piano quegli stessi pensieri, quelle stesse sensazioni che gli si agitavano la mente mentre scriveva quelle righe? Ogni volta che giungo alla fine di un capitolo rilevo un moto di profonda tristezza scuotermi il corpo e il cervello, per poi sparire nell’oblio della vita quotidiana. No, è assurdo, mi sto autosuggestionando! Forse la mente sta cercando un modo di motivare quell’ammissione sconvolgente, propinandomi fatti assurdi e sovrannaturali. La parte meschina di me non vuole accettare che quel mostro avesse un’anima. DEVE credere che, in vita, avesse sofferto ogni dolore umanamente concepibile e che, in quell’Inferno di infinito Male in cui è stato confinato, il suo patema continuasse e continuasse fino alla fine dei giorni. E’ questo che tutti gli abbiamo augurato, quando lo abbiamo visto scomparire nelle viscere del Cratere Nord.
Ma allora perché mi sento così male? Ogni volta che ho questi pensieri sento delle stilettate dritte al cuore, mentre la coscienza rimorde. Rimango a guardare vuotamente quelle pagine ingiallite, quella copertina consunta, quella calligrafia sanguinante; il cui insieme compone quel piccolo mondo fragile, e migliaia di domande mi sovvengono, affogando qualunque altra idea.
Cos’altro vuoi da me? Cos’è che vuoi farmi sapere? Cosa hai nascosto nei recessi del tuo cuore di ghiaccio?
Troppe, troppe domande, tanto da farmi sperare in un suo ritorno per trovare le risposte che ossessivamente sto andando a cercare.
Solo ora mi è venuto in mente che abbiamo usato mille modi per ucciderlo, ma nessuno per salvarlo. Nessuno di noi ha mai pensato di fermarsi un attimo e capire il motivo del suo comportamento folle. Nessuno si è mai chiesto da dove scaturisse tutto quell’odio.
Quando lo affrontai la prima volta non feci domande, andai all’attacco, guidato dall’astio e dalla vendetta, senza ancora sapere cosa v’era stato tra lui e Aerith. Se quest’ultima fu come una sorellina per Sephiroth, come ha potuto arrivare a tanto? Cosa lo ha guidò verso questo gesto estremo? E se fosse stato tutto programmato fin dall’inizio? Se fosse stata Aerith stessa a volere quella morte per mano dell’Angelo dalla Sola Ala?
Scuoto la testa e mi massaggio la fronte. No, non ha senso. Mi rifiuto di credere che il burattinaio fosse LEI. Lei… La prima donna che avessi mai amato… mi ha manipolato per la salvezza di un altro. Inconcepibile. Ormai non so più che cosa pensare… Illazioni, teorie assurde quanto insensate, lui, lei…
Nella testa ho un vortice confusionario che mi toglie il sonno. Nemmeno la vista di Tifa che dorme lieta e tranquilla accanto me è in grado di tergere le mie preoccupazioni. Una volta mi piaceva guardarla dormire, così bella e distesa; però ora… Quella donna misteriosa. Non posso fare a meno di vedere quel fantasma sdraiato accanto a me. Mi è capitato varie volte nei giorni scorsi, ma non me ne sono mai preoccupato. Ora che mi sono accorto degli effetti provocati dalla lettura di quelle memorie, ho ancora più paura di perdere il MIO angelo. Vedo un’altra donna al posto della mora e, quel che peggio, mi sento di amare quella figura misteriosa più di ogni altra cosa. Quella foto è ciò che più mi ossessiona. Sta diventando il mio chiodo fisso. Se davvero quel diario mi sta trasmettendo le sensazioni di Sephiroth, ho paura di sapere cosa mi succederà quando arriverò a conoscerne l’identità, dal momento che solo una semplice foto dal soggetto ignoto mi sta facendo impazzire.

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Oggi è il compleanno di Marlene. E’ già da un po’ di giorni che noi e i ragazzi dell’AVALANCE stiamo organizzando i preparativi per una festa a sorpresa. L’idea è scaturita da Barret, il quale ha sfoderato per l’occasione il suo lato femminile e materno, coinvolgendoci – o meglio costringendoci – a realizzare la sua utopia dannatamente adorabile. Almeno a detta delle ragazze. A quanto pare il pensiero di addobbare il bar con pizzo e raso rosa ha un certo ascendente su di loro; il quale ha scatenato una cascata di idee spaventose, una più terrificante delle altre. Noi maschietti eravamo allibiti quando ci hanno spedito a cercare tutte quelle idiozie in giro per Edge. Tutti, tranne Barret, poiché egli è rimasto con le altre a confabulare sulla disposizione e l’organizzazione della festa. Grazie al cielo! Non ne potevo più di ascoltare quei discorsi così zuccherosi. Devo aggiungere, inoltre, che mi fa un certo effetto vedere un omone grande e grosso con una mitragliatrice al posto della mano destra parlottare di nastri rosa e servizi da tè per bambine. Comunque, sono felice di fare qualcosa per lei, dopo tutto quello che le abbiamo fatto passare io e Tifa. Anzi, è inutile che continuo coinvolgere la mora: la colpa è tutta mia. Leggere quel diario è stato un errore su tutta la linea, ma, in un senso distorto e malato, sono grato di aver compreso parte del pensiero e della vita che è stato costretto a passare Sephiroth. L’aspetto che mi ha colpito di più è quella fragilità umana che nessun giornale gli ha mai attribuito. Saperlo in fin di vita, appoggiato ad un muro di un sobborgo malfamato di Corel, in una pozza di sangue denso, il respiro rantolato, gli occhi raggelati dalla certezza della fine… Insomma, mi è difficile immaginarlo in quello stato pietoso, dopo averlo visto morire tre volte senza nemmeno battere ciglio.
Quattordici anni: così giovane e già non aveva paura di uccidere.
Sedici anni: così giovane e già aveva assaporato il freddo metallo di una lama che dilania la carne.

Nel suo cuore non c’era già più nulla. Solo oscenità e disperazione. Nessuno lo accettava, nessuno voleva essergli amico, tutti lo usavano. Ha vissuto in quella realtà dove cinismo ed egoismo erano l’ordine del giorno. Tutti mangiavano su tutti pur di ottenere una fetta di spazio vitale. E lui… lui era l’ago di quella bilancia. Troppo forte per sprofondare, ma non abbastanza per scappare. Un fardello pesantissimo.
Come ha fatto a resistere così a lungo?
Non riesco a immaginarmi una vita del genere, con la paura costante di essere pugnalato alle spalle dalla prima persona a cui si ha la decenza di donare un po’ di fiducia. E per che cosa poi? Per i soldi? Per degli ideali non tuoi? Durante il dominio Shin-Ra, la vita aveva perso ogni ragione d’essere, il suo valore era crollato, sostituita da ideali fittizi e vuoti. Eppure, lui, in tutto questo, ha conservato quella speranza un po’ ingenua nei confronti del mondo marcio in cui è cresciuto; nonostante esso gli abbia sempre dimostrato che al peggio non c’era mai fine. Lo ammiro per questo.
Non poteva fidarsi di nessuno.
Ciò che mi fa rabbia, è il fatto che riserbasse quella fiducia sfibrata in un’utopia irraggiungibile, un sogno irrealizzabile, una realtà impossibile: perdonare Hojo. Come puoi anche solo pensare una cosa del genere? Perché saresti pronto a delegittimare il tuo giusto odio per l’uomo che più ti ha sfruttato per i suoi luridi scopi? Per quello stesso uomo che ti ha privato della dignità e della felicità? Per quel padre che non ti ha mai amato?
Perché? Perché lo avresti fatto?
La sua disperata ricerca di un legame, di qualcuno con cui condividere il pesante fardello che la vita ha messo sulle sue forti spalle, doveva averlo portato a sperare di trovare la luce là dove non ce ne era nemmeno un fotone. Spesso mi fermo a riflettere sul Destino. Se dicessi di non crederci, mentirei; ho questa convinzione riguardo il fatto che ogni cosa non accade per puro caso. E Sephiroth ne è l’esempio più eclatante. Sembra quasi che non avesse altro Fato se non quello della solitudine; pare che questa vita grama e vuota fosse stata scritta esattamente per lui. Perché? Il motivo di cui mi sto pian piano convincendo è questo: lui era il più forte di tutti noi, dal momento che ha sopportato dolori e traumi che avrebbero schiacciato qualunque normale essere umano; è andato avanti, meraviglioso e superbo come un lupo solitario, superando ostacoli e muri invalicabili; testardamente, ogni giorno, ha resistito ai colpi con cui la vita gli sferzava la pelle lattea.
Lui é un angelo, anzi, l’Angelo maledetto dalla Sola Ala. Non so per quale punizione, ma credo che gli abbia valso il Paradiso. La sola ala rimasta mutò; quelle candide piume si macchiarono di oscura pece a causa del dolore e dell’odio con cui fu a contatto ogni giorno la sua anima pura. Quest’ultima si appesantì di fiducia e speranza, fardelli inutili in un mondo straziato. Non poteva volare, l’umanità lo teneva inchiodato qui, impedendogli di scappare. E quando avrebbe potuto andarsene, il Paradiso non lo volle. Troppo sovraumano per i mortali, troppo umano per i divini. Lui non era né carne, né pesce. Non avrebbe mai trovato il suo posto nel mondo, se non tra gli istinti più cruenti e basali dell’esistenza. Questa era la sua punizione: l’unicità.
Comprendo ora l’incredibile solitudine che lo accompagnava ad ogni passo. Mi guardo attorno, nelle vie gremite di un tranquillo sabato pomeriggio a Edge, e vedo tante famiglie felici passeggiare tra i negozi ad assaporare la fantastica sensazione di libertà dall’oppressione e dal terrore costituiti dalla Shin-Ra e tutti i suoi loschi segreti. Alcuni bambini si fermano e mi indicano, altri mi sorridono e mi ringraziano con gli occhi. Ho salvato loro la vita e ne sono fiero di questo. Qui, in questo sobborgo in espansione, siamo tutti una grande famiglia; ognuno aiuta gli altri a costruire una casa o avviare un’attività. Sanno di essere la sicuro, perché sono certi del fatto che io e i miei amici siamo lì a vegliare su di loro.
Midgar era diversa: non era una famiglia, ma solo una matassa di migliaia di vite arrovellate e contorte che si snodavano in ogni angolo della città. Esse succhiavano l’essenza vitale del Pianeta come una piaga e lottavano simili alle carogne per prevalere l’una sull’altra. Tante piccole formiche che si uccidevano per miseri tozzi di pane. E Sephiroth? Lui era un’ombra invisibile che fluiva tra quelle esistenze, in silenzio, lambendo con un delicato tocco quella realtà che non gli apparteneva. Tergeva gli animi delle persone che credevano in lui, con falsi sogni e aspettative, uccidendoli lentamente con piccole dosi di veleno. Non era quello che voleva, ma era la Shin-Ra che gli macchiava le mani e non poteva far altro dispensare morte là dove egli desiderava ci fosse la vita.
Ricordo che LUI non si vedeva mai passeggiare tra la gente. Mai avevo sentito che frequentasse la losca vita mondana della borghesia del Settore 1. Quando non lo si vedeva in giro per il Piano SOLDIER era recluso in qualche angolo recondito del globo. Lui, per i giornali di gossip, era un autentico incubo. Difendeva la sua privacy con tutto se stesso, tanto da riuscire a nascondere al mondo intero un suo coinvolgimento amoroso. Scelta azzeccata, se si tiene conto delle ripercussioni sulla guerra: di certo un fidanzamento tra un SOLDIER e una wutaiana avrebbe delegittimato la campagna di terrore che Midgar cercava d’imprimere nei confronti di Wutai. Ma quando s’innamorò non credo che si preoccupò dell’immagine della compagnia, ma più che altro a voler proteggere la donna che amava.
Sono davvero curioso di apprende di più su quel rapporto segreto; anche se ho la netta sensazione di esserne a conoscenza. In quei momenti d’incoscienza , dove la mente non è in grado di distinguere il sogno dalla realtà, quando mi avvicino alla donna che amo; mi pare quasi di sentire una presenza sorridere nei recessi del mio cuore. Una curiosa aura di amore mi avvolge e mi induce a desiderare la mia Tifa più di ogni altra cosa. E’ come se la stessi amando… doppiamente. Non so, è una sensazione strana.
Io credo che Sephiroth abbia amato quella donna misteriosa più della sua stessa esistenza. Non posso a fare a meno di pensare che lei lo abbia aiutato a risalire da quell’abisso profondo scavato negli anni. Sono sinceramente felice per loro. Anche se non riesco proprio ad immaginarmi che tipo di donna potesse aver attratto come una mosca sul miele un tipo distaccato e freddo come Sephiroth. E’ una ragazza bellissima, impossibile non venirne attratti, ma lui ha confessato di non desiderare solo un rapporto fisico: voleva di più. Un rapporto molto più profondo, un legame che si può costruire solo con la compagna per la vita. E se lei riuscì a intrufolarsi tra le pagine della sua memoria attraverso una semplice foto, per forza doveva aver conquistato il suo cuore e non solo i suoi istinti. Non vi è altra spiegazione.
Ma che genere di donna può sciogliere un cuore di pietra?
-Cloud!-
Una voce mi richiama alla realtà con decisamente poco tatto. Mi sono accorto solo ora di trovarmi davanti ad una vetrina, impalato come uno stoccafisso a guardarne vuotamente il contenuto. Rivolgo la mia attenzione verso il proprietario di quel richiamo e scopro che si tratta di Cid.
-Tutto bene, Spikey? Da quando i negozi da donna sono così interessanti?-
Lo guardo senza capire per poi seguire il suo sguardo eloquente verso quel vetro. Mi accorgo, in effetti, che si tratta di un negozio d’abbigliamento femminile. Il preferito di Tifa tra l’altro. Un’idea mi balena per la testa. Sorrido. Perché no, in fondo?
-Stavo pensando che quel vestito non starebbe male addosso a Tifa.-
Il pilota non sembra dello stesso avviso, a giudicare dal sopracciglio alzato e da come maciulla lo stuzzicadenti tra le mascelle.
-Ho detto qualcosa che non va?-, a volte i ragionamenti di Cid mi sfuggono. Cosa posso aver detto di sbagliato?
-Sei proprio un disastro…-, sentenzia, infine, afferrando il ponte del naso.
La mia faccia è un enorme punto interrogativo. Vedendomi in balia di una crisi esistenziale, Cid si avvicina e mi prende sottobraccio, dondolandomi come se fossi un bambinetto ingenuo. Forse è così.
-Cloud, Cloud, Cloud… Possibile che ancora non hai imparato gli insegnamenti dello zio Cid?-
Mi si gela il sangue nelle vene: questa frase non presagisce mai nulla di buono, ma quando si appella allo “zio Cid” la tragedia è assicurata. Sotto al suo braccio villoso non mi sento per niente sicuro, vorrei scappare il più lontano possibile…
-Quante volte ti devo dire e ripetere che non si regala nulla di coprente alla propria donna?! Un vestito se lo comprano da sole. Cosa credi che serva loro uscire in massa a litigare per quattro straccetti che noi maschi non noteremo mai? Togliamo anche il fatto che è un sacrilegio vestire Tifa-, E te pareva? A volte credo che si faccia delle fantasie non proprio caste sulla mia ragazza. Chissà come la prenderebbe Shera se lo sapesse?-, ma c’è una regola fondamentale da osservare SEMPRE: loro, in realtà, sai che cosa vogliono?-
Ho paura di scoprirlo e la pausa d’effetto di Cid non presagisce nulla di buono,
- Vogliono essere viste come delle por…-
Smetto di ascoltare e sbuffo mentalmente. Ecco la classica circostanza in cui lo prenderei a calci da qui fino a Corel. Odio quando mi tratta come un ritardato; senza contare che certi suoi discorsi riguardanti le donne sono davvero da Paleolitico! E non mi va che paragoni la mia ragazza a come ha appena definito il genere femminile in toto. Mi fa salire il sangue alla testa. Sento i muscoli irrigidirsi e pugni chiudersi. Un’incontenibile voglia di fracassargli il naso mi pervade pericolosamente. Non odo più alcun suono attorno a me, se non la sua voce lontana e ovattata, ma ancora abbastanza limpida da carpirne il discorso. Un ragionamento terribilmente maschilista, odioso, snervante. So che probabilmente sta scherzando, ma non posso fare a meno di detestarlo.
-…e quindi, Cloud, un bel completo intimo di lattice è quello che ci vuole per far sentire Tifa una VERA donna. Eheh.-
-NO!- , sbotto fuori di me.
Mi divincolo dalla sua presa e gliela ritorco contro, inducendolo a piegarsi davanti a me con il braccio torto in modo quasi innaturale. Cid si lascia scappare un gemito.
-Ma che fai? AH! Lasciami!-
Fermo Cloud.
-Non ti permettere mai più di riferirti a Tifa in quel modo! Lei è una brava ragazza e quello che accade tra noi tra le mura domestiche non è affar tuo!-
Lo sento lottare contro la torsione, ma io rincaro la dose e sibilo un agghiacciante “Chiaro?”
-S-sì… Ora lasciami!-
Esito davanti alla sua sofferente richiesta: una strana sensazione di sadico potere mi incita a spezzargli il braccio e, per un solo minuscolo istante, mi lascio quasi trasportare.
FERMATI CLOUD!
Riprendo il controllo e libero il braccio del pilota. Quest’ultimo cade in ginocchio e alza lo sguardo stupito verso di me. Ci guardiamo per un attimo, in un silenzio pieno di tensione. Ansimo. Ma che mi è preso?
Inaspettatamente, il Capitano sbotta in una risata sguainata, la quale mi lascia di sasso.
-Ahahahahahah! Bravo, ragazzo! Era ora che qualcosa entrasse in quella testaccia! Ahahahahahahahah!-
Io lo osservo rialzarsi. La sua espressione divertita stona in modo impressionate con i grossi segni rossi che la pressione da me esercitata ha lasciato sull’arto muscoloso. Sono sconvolto, ma lui non sembra notare il mio turbamento.
-Rilassati, ragazzo, con un duro così al suo fianco, la tua ragazza non ha nulla di cui preoccuparsi. Su, riprendiamo la ricerca di quei *!@§ di nastrini.-
Lo osservo imbambolato andarsene fischiettando per le vie di Edge con il suo passo rilassato e le mani in tasca. Niente in lui tradisce un minimo turbamento. Che il suo intento fosse sempre stato quello di indurmi ad assalirlo?
-Sai-, mi dice, voltandosi, senza smettere di camminare,- per un momento ho davvero pensato che mi stessi per spezzare il braccio.-
Anch’io. Anch’io l’ho creduto. Per un terribile istante.
-Ma non è accaduto, dimostrandomi che sei in grado di reggere la tentazione. So che Tifa può contare su di te.-
Senza dire nient’altro, volta l’angolo e sparisce. Un brivido di terrore mi sale lungo la spina dorsale: che sappia? No, impossibile, Vincent non oserebbe mai tradire la mia fiducia.
O sì?

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2 Giugno XXXX

Sono fuori di me. Un fuoco mi sta consumando dall’interno e stento appena a scrivere in modo comprensibile, poiché ho un’irresistibile voglia di fare a pezzi tutto, qualunque cosa mi capiti a tiro. Ho già buttato all’aria il tavolo strategico, rovesciando sul pavimento mappe e pedine. E’ un disastro che non ha fatto altro che gettare benzina sul fuoco. La stanza è uno sfacelo ed è un miracolo che si tenga ancora in piedi, tanto questi muri di carta di riso sono fragili. Dopo essermi fermato un attimo, ho realizzato che facendo a pezzi il luogo dove dormo – si fa per dire- e lavoro non è un’idea di cui andare fiero. Grazie al cielo sono in possesso di questo diario, il quale è sempre pronto a sopportare la vagonata di sentimenti repressi che gli scarico sulle pagine ogni volta che viene aperto. Nonostante la cartacea pazienza di questo oggetto, non riesco a calmarmi: il pensiero nauseante di tutti quei civili massacrati mi rivolta lo stomaco, lasciandomi in bocca un amaro sapore di assoluta sconfitta e rancoroso astio.
“Abbiamo vinto”, dice un gongolante Presidente alla radio, rivolto alle truppe che in questo mese hanno lottato strenuamente per conquistare Garyo, Meijin e Dashiro.
Abbiamo vinto… Abbiamo vinto?! ABBIAMO VINTO?!
Ho voglia di urlare. Di bruciare. Di distruggere. Tutto. Desidero andarmene, mollare questa stupida vita. Morire. Mi sento così impotente. Schifosamente debole.
 Stupido, invasato, subdolo figlio di... Ah, non merita nemmeno i miei insulti!
Quando Genesis mi ha contattato, non riuscivo a crederci. E’ successo tutto pochi minuti dopo che Garyo era stata conquistata. I miei uomini non hanno nemmeno odorato una goccia di sangue civile, grazie al buon senso del daimo della città. Vi è stata giusto una piccola battaglia- se si può definirla tale, poiché, dal punto dal mio punto di vista era da considerarsi poco più di una scaramuccia- all’esterno delle mura cittadine contro l’esercito regolare della città; ma una volta ucciso il Generale-reggente, è stata solo una questione politica. Contro ogni mia aspettativa, quindi, i Wutai hanno optato per un approccio più diplomatico e ci hanno permesso di prendere il controllo dell’agglomerato, offrendomi la carica vacante del defunto Generale; in questo modo, io mantengo il controllo militare, mentre Sasuke Natsu, conserverà la sua carica politica e amministrerà la vita civile di Garyo, come ha sempre fatto sin da prima del nostro arrivo. Nulla di più semplice. Egli ci ha perfino permesso di stabilire la base SOLDIER nei vecchi stabili dell’esercito nemico. Semplicemente perfetto. In poche ore, il GQ era operativo e io ero pronto a dare la buona notizia a Midgar, dopodiché attesi risposte dagli altri bersagli. Angeal fu il primo e le notizie erano ottime. Dashiro era nostra, ma vi erano state grosse perdite sia da una parte che dall’altra, a causa di un’ inaspettata resistenza. Comunque, il resoconto era molto buono. Poche perdite civili.
Ma poi, la tragedia: alla radio mi giunse la voce di Genesis che mi comunicava della completa distruzione di Meijin.
Ero felice, perché deve sempre andare tutto storto?
Quando l’elicottero atterrò sul luogo del misfatto, fu il banoriano a giungere per accogliermi. Ero allibito. Al posto di quella città operosa e del suo storico castello risalente all’epoca feudale, v’era solo un cumolo di grigie macerie. L’aria era ancora calda e il puzzo di carne carbonizzata impregnava i vestiti. Guardai il cielo nero e vidi i nostri apparecchi tagliare le plumbee nubi con quelle pale demoniache. Come avvoltoi di metallo sorvolavano quel cratere di morte distribuendo una pioggia di cenere.
Come aveva osato? Perché ordinare un attacco aereo? Il rosso mi osservava devastato. Quando posi i miei occhi su di lui, capii. Vidi la Morte in quelle pupille dilatate, la pelle contratta dal Terrore. Credo che se avessi parlato avrebbe vomitato seduta stante. Se non era stato lui, allora chi aveva dato l’ordine? Chi si era macchiato le mani del sangue di migliaia di innocenti? La risposta non tardò ad arrivare e apparì dalle viscere di un elicottero atterrato poco lontano.
Rufus Shinra…
Quello spocchioso bambino viziato. Tutto elegante e sorridente ci raggiunse e si congratulò con me per la vittoria a Garyo, estendendo la sua ammirazione anche all’assente Angeal. Come se nulla fosse successo, come se accanto a noi ci fossero prati verdi e arcobaleni.
Lo sapevo, lo sapevo che prima o poi sarebbe successo. Quel moccioso impertinente non vede l’ora di prendere il posto del vecchio e scalpita come un puledro in preda ad una crisi epilettica al fine di contribuire sull’esito di questa guerra assurda. La carica di Vice-presidente non ha fatto altro che sciogliere le briglie della sua fantasia malata. Abbiamo la stessa età, ma nella sua intera persona non c’è nemmeno un quarto del valore che pervade l’unghia del mio dito mignolo. Credo di aver già un’anteprima della sua politica quando salirà al potere: conoscere i miei ordini ed eseguirne il contrario, facendo ricadere la colpa sulla mia testa. Si é sempre divertito prendermi in giro in questo modo, fin da quando eravamo bambini. Lui è cresciuto con l’idea che io non valgo molto più del suo scendiletto. Ci prova un gusto quasi perverso nel punzecchiarmi. Sa perfettamente che non tollero interferenze nel mio operato, però, puntualmente, quel lattante ne combina una delle sue. Ricordo perfettamente la prima volta che ci incontrammo. Rimembro i capelli perfettamente pettinati e ordinati, tagliati a scodella; la divisa grigia della Midgar Prestige Elementary School cucita a mano e fatta su misura con seta pregiata di Wutai; mocassini in pelle così ben lucidati da risplendere di luce propria. Insomma, la piena opulenza della nobiltà fatta a bambino. In confronto, scavato ed emaciato com’ero, io sembravo un galletto spennato al cospetto di un pavone. Appena mi vide mi squadrò dalla testa ai piedi, schifato, come se avesse davanti a sé un rifiuto nauseabondo. Dall’altro canto, tutta la mia persona fremeva eccitata nel vedere un mio coetaneo, dopo un’infanzia di solitudine. Ero sinceramente felice di conoscerlo, per questo motivo rimasi un po’ spiazzato davanti al suo sguardo superbo. Devo sottolineare il fatto che all’epoca ignoravo l’esistenza di altre realtà al di fuori della mia avvilente infanzia, credendo che tutti i bambini a otto anni si allenassero per diventare SOLDIER. Il Presidente ci presentò e, come se non bastasse, egli sottolineò molto chiaramente al figlio il fatto di essere un mio diretto superiore e di come io, un giorno, avrei dovuto obbedire ad ogni loro ordine. La sua espressione schifata mutò all’istante, divenendo pericolosamente sadica. Per la prima volta nella mia vita, realizzai il futuro che mi si prospettava dinnanzi: un giocattolo. Da torturare e tormentare. In generale, egli é cresciuto nella convinzione di essere libero di utilizzare le risorse della Compagnia per il suo personale diletto, divertendosi nell’ osservare le mie reazioni. Adora guardarmi con sufficienza dall’alto verso il basso. Odio da morire la sua superbia e quell’odio è una delle poche cose che condivido con mio padre. Perfino ad un essere abbietto come Hojo, il “futuro” della Shin-Ra risulta insopportabile. Certo, il nostro astio scaturisce da sorgenti diverse: per me è un fatto personale, mentre per la frattaglia umana è la paura di vedere la sua posizione andare in frantumi al primo capriccio del moccioso. Rufus e lo scienziato non si sono mai visti di buon occhio, ma, finché io sarò tra le fila di SOLDIER, il vecchio sarà intoccabile. Lui è l’unico in grado di controllarmi, l’unico che ha l’ardire di sfidare la mia ira. Come ho spesso ribadito, non riesco a impormi sullo scienziato e lui approfitta di questa mia debolezza. Non immagina nemmeno lontanamente il motivo della mia completa quiescenza e non credo che gliene importi. L’importante è controllarmi. Null’altro conta.
 Fermo il flusso dei miei soliti orrendi ricordi, davanti ad un pensiero che mi raggela: cosa dovesse mai succedere il giorno in cui vedremo lo scambio generazionale ai vertici della Compagnia? Come cambieranno gli equilibri del potere tra i grandi reparti scientifici e militari? Ma, soprattutto, come verranno utilizzati? E’ questo che mi spaventa: se con il controllo del padre, Rufus ha il potere di distruggere un’intera città, cosa accadrà quando avrà il potere assoluto? Cosa mi costringerà a fare?
L’immagine raccapricciante di me stesso incatenato al pavimento di una cella umida a schiumare e desiderare sangue mi attraversa la mente. A Rufus Shinra mi ha sempre adulato per la facilità con cui strappo la vita ad un essere umano. Ma ancora di più piace vedermi annientato davanti alla desolante distruzione del suo tremendo operato. Alla mia richiesta di spiegazioni, la risposta è sempre questa: “
La priorità della Compagnia di mio padre non è fare opere di misericordia, ma finire la guerra. I civili non sono altro che un serbatoio inesauribile di scarafaggi belligeranti. E’ questo il fine, bruciare il serbatoio!” Io, io non ho parole.
Non so quale divinità interviene tutte le volte a trattenere la mia lama. Se solo non fossi il figlio del Presidente… Arriverà il giorno in cui pagherai i tuoi crimini e spero sia doloroso. Oh sì, sarà doloroso, una sofferenza senza fine, un terrore inconcepibile, un’agonia infinita. Spero di essere lì a guardare il tuo corpicino pulito contorcersi tra i più atroci dolori. E riderò. Oh, quanto riderò. Sarò l’ultima cosa che sentirai, la mia mesta, orrida, agghiacciante risata. Quella stessa risata che ti gela il sangue nelle vene ogni volta che la odi. Diventerò il tuo incubo. Vedrai il mio sguardo accusatore ovunque.
Purtroppo per me e fortunatamente per tutti gli altri, quel giorno tarderà ad arrivare. Io dipendo da loro. Questo lo capii fin dal primo istante. Capitava spesso che il Presidente Shinra si recasse nella tenuta dove crebbi, ovvero lo stesso luogo in cui Hojo portava avanti i suoi esperimenti disumani, inasprendo l’agonia della mia solitudine. Il motivo delle sue visite erano finalizzate al controllo sull’avanzamento dei lavori scientifici e, soprattutto, per vedere me. E’ sempre stato interessante osservare le reazioni del vecchio. Ancora oggi, come tanti anni fa, non sa mai come approcciarsi nei miei confronti ,ma, quand’ero bambino, il suo comportamento era ancora più comico. Indeciso se considerarmi come un bambino o ignorarmi completamente come un oggetto, era elettrizzante osservare come la sua baldanza e superbia crollavano davanti alla freddezza e serietà di un ragazzino di otto anni. Mi teme, mi ha sempre temuto. Sa che potrei lasciarlo in mutande se solo volessi. E lo sa che spesso questa idea mi accarezza; deve solo ringraziare Hojo per avermi fatto il lavaggio del cervello. Sono talmente assuefatto dall’andazzo del mio schifo di vita che non saprei cosa fare altrimenti. Come anticipato prima, con l’andare del tempo si è creata una sorta di simbiosi: la Compagnia, o meglio la famiglia Shinra, approfitta della necessità di sfogare i miei istinti sanguinari, convogliandoli contro il Pianeta per soddisfarela loro inesauribile sete di conquista. Entrambi i nostri istinti diventano sempre più impellenti e incontrollabili, tanto da formare un circolo vizioso. Il rapporto tra me e la Compagnia non sarà mai come quello tra un datore di lavoro e un dipendente, ma tra uno spacciatore e un drogato. Loro mi danno la liberazione, in cambio ricevono devastazione. Quest’ultima diventa ogni anno sempre più terrificante. Ho davvero paura di dove mi possa portare, questa bestia. La Shin-Ra vuole il mondo… Forse sono destinato a distruggerlo.
Ho un terribile mal di testa. Una rabbia inestinguibile mi sta sfibrando. Non sopporto nulla. Odio tutto, ogni cosa che mi circonda, perfino la più insignificante. Non riesco a togliermi dalla testa la figura di Rufus stappare champagne sulla terra da lui devastata. Abbiamo vinto… Non si rende conto di quello che si è perso. Quante giovani vite sono state spezzate? Quanti speranze? Quanti sogni? Non è giusto. Non è giusto che il mio cuore privo di amore batta e quello di una coppia innamorata sia fermo per sempre. Non è giusto che le mie gambe camminino verso un futuro vuoto e quelle di un bambino pieno di sogni siano bruciate. Non è giusto che i mei occhi stanchi vedano solo tristezza e quelli di una giovane donna siano velati dalla cenere. Non merito di vivere con la consapevolezza che una volta esistevano esseri umani meritevoli molto più di me del dono della vita. Persone che si godevano l’attimo, sorridevano ogni giorno, proiettavano i loro sogni verso un futuro radioso. Perché solo io mi rendo conto di questo? Nemmeno Genesis è stato di conforto. Cito testualmente quelle amare parole: “
Era solo una città nemica. E’ stato fatto più di quanto fosse davvero necessario, ma era pur sempre una città nemica.
No, non è una scusa. Non serve a nulla nascondersi dietro a un dito, quando l’evidenza è lampante. Nessuno merita di morire così. Nessuno. Mi pare quasi di udire l’eco di migliaia di sogni spezzati elevarsi al di sopra del boato delle bombe, del crepitio del fuoco, dell’urlo disperato di migliaia di persone bruciare vive. Quel suono mi trapassa il cuore, stringendolo nel petto fino a soffocare ogni contrazione. Mi sento schiacciato dal senso di colpa. Ho sbagliato a rischiare. Me lo sentivo che sarebbe finita così. Dovevo aspettare, dovevo dare retta al mio istinto, dovevo ignorare le pressioni del Presidente che mi intimavano ad attaccare. Forse, se avessi adottato una strategia diversa, avrei potuto evitare questa tragedia. Ho il potere di salvare Meijin dalla follia di un bambino capriccioso, perché non lo ho usato? Perché? Perché promuovere due novellini, quando avrei potuto sovraintendere ogni battaglia come di sovente? Perché sono stato così egoista? Nemmeno la compagnia dei miei amici provati dalle battaglie e dagli orrori compiuti alleggeriscono il mio peso. Ci siamo stanziati a Garyo e domani riceveranno i gradi di First Class da parte del Vice-Presidente e del neo- eletto Direttore SOLDIER Lazard Deusericus. Anche quest’ultimo mi ha inviato un’e-mail in cui confessava il completo disaccordo con il crimine di guerra appena commesso e ha cercato di spendere due parole di consolazione per lenire il mio cordoglio. Inutili. Le azioni militari sono tutte da imputare al grande Generale, colui che non sbaglia, colui che sa sempre come e quando agire, il solo che decide… La Compagnia non si può permettere di condannare il figlio del Presidente. Non adesso. La colpa di ogni orrore va a ricadere sempre su colui che è in grado di sopportarla. Anche se la mia anima è stanca di tutto questo strazio. Sono stanco di dover sopportare il peso di un mondo che non fa altro che usarmi e amare un idolo fittizio. Sono stanco di dovermi sempre nascondere, di sopportare in silenzio; quando dovrei uscire e urlare il mio sdegno al cielo. Certe volte l’insano pensiero di bruciare il mondo mi accarezza come una nuvola di seta. E’ così allettante l’idea di spazzare via tutto il marciume da questo Pianeta dilaniato e prosciugato da un cancro incurabile. La Shin-Ra sta uccidendo tutto. Aerith sente la sofferenza del mondo, me ne parla in continuazione. Elmyra mi dice che spesso la bambina urla nel sonno. So che mi sogna. So che vede le anime degli uomini e delle donne che uccido. So che parla con loro. Le racconteranno della follia nei miei occhi, della freddezza della mia lama, del mio sorriso perverso, del sangue che bagna la mia pelle contratta. So che dovrei fermarmi, Aerith, ma non posso. Non riesco. E’ più forte di me. Ciò che mi porto dentro è troppo potente per essere contenuto in un corpo e in una mente ormai fiaccate dalle tante battaglie. Sono stanco. Voglio farla finita. I miei compagni cercano di tirarmi un po’ su, ma in questo momento vorrei solo sprofondare nel buco che l’Inferno ha riservato per la mia lurida anima.
Gli occhi dei parenti e degli amici dei defunti abitanti di Meijin mi schiacciano. Sono io il Demone, la bestia sanguinaria responsabile e promotore di ogni orrore di cui questa terra si sta macchiando. Mi odiano, sebbene non sappiano la verità. Mi guardano con un astio così profondo… Io volevo salvarli.
Mi sto convincendo, ormai, che effettivamente la colpa è tutta da reputare a me, sebbene Genesis continui a ripetermi il contrario. Perfino gli inviati da Midgar parlano indignati di un nuovo massacro da parte delle truppe SOLDIER. Raccontano di come la battaglia fosse così cruenta ,quanto inutile, tanto da indurre l'Alto Comando, ovvero il sottoscritto, a ordinare un massiccio attacco aereo per velocizzare l’espansione Shin-Ra verso l’entroterra nemico. Condannano le mie azioni senza sapere la verità, ma ciò che mi fa più rabbia è come cercano di smorzare la gravità della situazione, inventando scuse del tutto false. E poi, nei comunicati successivi, insabbiano il fatto raccontando allegramente de ‘
Una nuova triplice vittoria di Sephiroth’. Né Angeal, né Genesis sono menzionati. Sia il merito che la colpa delle riprovevoli azioni effettuate ricadono su di me. La voce radiofonica di Rufus lancia moniti ai nemici, proclamando la completa spietatezza del Ma gin.
Mi accascio sul tavolo. La mia mano trema.
Sconfitta.
Completa sconfitta.
Ho fallito.
Non gli ho protetti.
Come posso andare avanti ora?
L’ira si sta spegnando e oramai non é altro che un carburante consumato fino al midollo.
Rivolgo gli occhi al cielo. Non c’è nemmeno una stella ad accogliere il mio sguardo sfiduciato. In effetti, non lo merito. La purezza dell’universo è troppo perfetta per essere macchiata dall’onta della sconfitta.
Sconfitta…
Sfiducia…


Verso la mia stessa gente. Verso me stesso.

Se gli angeli esistono: dov’è il mio?

E poi, quando ogni speranza è andata perduta un petalo di sakura s’insinua nella mia stanza, posandosi sul diario. Quel tocco di pallido rosa sembra deridere l’oscuro inchiostro dell’amarezza. Come richiamato da una voce irresistibile, volgo la mia attenzione di nuovo verso l’esterno. Centinaia di migliaia di petali turbinano nel vento e sembrano avere un effetto benefico. Mi pare quasi che quella brezza non trasporti i petali in sé, ma che raccolga i pensieri della gente e li tramuti in fiori fluttuanti. Seguendo la scia di un gruppetto, poggio l’occhio sulla strada avvolta da quella candida coltre di neve rosa, su cui nere ombre della notte sfilano, incuranti dello spettacolo che la natura ci sta gentilmente offrendo. Solo una ha l’ardire di uscire dal riparo offerto dall’ombrello di carta di riso e alzare lo sguardo verso l’alto. Non credevo che il mio cuore potesse fermarsi davanti a una cosa così scontata come la visione di una bella donna, sebbene non creda che il termine sia adatto a definire quell’eterea meraviglia. I petali di sakura sembrano quasi sbiaditi e rinsecchiti rispetto alla perfezione di quella pelle pallida. Le piccole carnose labbra sono inarcate flebilmente, mentre osserva trasognata lo sfarfallio delicato che la circonda. Sembra un fiore…
Ad un certo punto, volge quelle iridi brillanti nella mia direzione. E’ in basso rispetto a me, ma io mi sento così minuscolo, così insignificante rispetto alla grandezza scatenata da quegli occhi. I nostri sguardi s’incontrano un solo istante. Un’istante infinito, un’istante vuoto e pieno contemporaneamente. Non so descrivere ciò che provo, poiché è tutto così confuso. Le emozioni si accavallano l’una sull’altra completamente impazzite. Il mio cuore e il mio respiro non sono mai stati così rapidi. Non ho mai sentito così caldo.
Mi sorride e credo di morire. Il mio corpo si paralizza, a malapena riesco a scrivere queste righe, ma non posso desiderare altro che quel gesto. Non avevo mai visto tanta sincerità genuina e anche un po’ ingenua, mischiata a una tale solennità.
Un angelo…
E come un angelo è scomparsa di nuovo tra le ombre; ma la sua figura rimane scolpita nella mia mente, tergendo il dolore lancinante che mi ha squartato il petto in queste ultime ore.
Forse è lei la risposta alla mia domanda. Non voglio illudermi, però rivederla è ciò che più desidero in questo momento. Probabilmente ricadrò nuovamente nel solito tranello, ma, come dice Angeal, rischiare e fallire è sempre meglio che non averci mai provato.


E ce la fa!!!! Oddio, sono diventata mamma di un bellissimo capitoletto XD. No, davvero, un parto. Alla fine direi che la situazione si è definita bene e sono soddisfatta. Ho scritto queste righe in ogni luogo possibile, treno, autobus, nave, aereo, astronave… veramente ho cercato di darmi una mossa, ma tra le vacanze, gli esami e il gdr, mi sono un attimo bloccata. Ma ora sono tornata con un altro capitolo, in cui si comincia ad andare più a fondo nella psiche del biondo e intravedere l’ammore nella vita dell’argentato. Per il primo ho cercato di delineare bene gli impatti psicologici accennati precedentemente. Sono allarmanti, ma nulla di pericoloso (almeno finché non si rischia di spezzare un braccio al buon Cid). Per quanto riguarda Seph, si ha avuto un crollo dell’umore che nemmeno i cari Genesis e Angeal sono stati in grado di risollevare. Nulla che non può scacciare la vista della fantomatica donna misteriosa. E’ solo un attimo, ma è così d’impatto, in un momento di piena fragilità che non può non sortire degli effetti. Almeno in un capitolo ho messo da parte Hojo, il quale ormai stava cominciando a stancarmi. E’ come il prezzemolo!!! Maledetto babbuino. Comunque, è sostituito da non più infido Rufus Shinra in pieno delle sue facoltà. Va beeene, è ora di lasciare parlare un po’ voi, cari lettori! Ringrazio le mie solite pazienti donne e tutti voi timidoni!!
Alla prossima!!!
Besos

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Capitolo 10
*** Attesa ***


Attesa Sono rintanato in un cunicolo laterale appartenente alla trafficata strada dello shopping di Edge con l’impellente bisogno di leggere. Ho scoperto che gettarmi tra le braccia tormentate di Sephiroth aiuta molto a calmare le ansie. Sento la mente svuotarsi e lascio che sia l’argentato a riempirmela. Non che questo fatto sia positivo, soprattutto dopo l’aggressione ai danni di Cid, ma la confusione che si agitava nel cervello doveva essere domata all’istante. Ho perfino iniziato a dubitare della discrezione di Vincent; di quella stessa persona che mi ha sempre dimostrato fedeltà e fiducia. Forse le ultime parole enunciate dal Capitano erano riferite a qualcos’altro, ma un dubbio folle non fa altro che martellarmi nella mente. E’ sempre di LUI che si parla, di quella serpe maledetta capace d’insinuarsi nelle pieghe della psiche e plasmarla a suo piacimento. Anche ora sta giocando con me. Di nuovo gli sono in pugno. Mi ha illuso con l’idea di poterlo controllare, di gestirlo, di fare le sue idee mie e così facendo ho spalancato le porte del mio ego, lasciandolo entrare deliberatamente in me. Le sue emozioni sono potenti, impresse con tale forza sulla carta che l’eco del suo strazio risuona ancora oggi tra le righe nere dell’inchiostro. Questo diario è una supernova. E’ solo questione di tempo che diventi un buco nero.
Nonostante questo eccomi qui, appoggiato al freddo muro di acciaio protetto dall’ombra dei palazzi, mentre sulla strada illuminata centinaia di persone si gettano in pasto all’ennesima giornata afosa. Ogni rumore mi fa sobbalzare: la paura di essere di nuovo sorpreso con questo libro in mano mi perseguita, ma, ben presto, ciò che sto leggendo mi risucchia completamente in quella stanza distrutta. Mi sembra quasi di vederla: l’alloggio semplice, ma importante, di Generale wutaniano sconfitto, il cui ricordo è stato barbaricamente distrutto dalla follia del nuovo proprietario. Cocci e schegge coprono il pavimento, il quale, come le pareti, è segnato da sferzate pulite e ben delineate. Sferzate gemelle di quelle che appaiono sul mio corpo. Mi chino verso rimasugli di ceramica bianca e li scosto per cercare di capire di che cosa si tratta. Era una bottiglia da saké, a giudicare dall’odore e da quello che sono riuscito a decifrare dalle forme dei cocci. Mentre la bottiglia è stata frantumata contro il muro, il vassoio poco lontano è stato rovesciato, andando a distruggere anche i bicchieri. Il fantasma di Sephiroth appare, effimero e fumoso, nell’atto di scaraventare il recipiente contro il muro e calciare malamente il tavolino su cui il vassoio era poggiato. Come un cagnolino, lo inseguo in un’altra stanza, la cui porta a soffietto viene divelta, come se un uragano l’avesse attraversata. Lì, lo spettro dà il peggio di sé, squartando cuscini e ribaltando l’ampio tavolino, su cui una mappa con pedine era stata aperta. Nemmeno la sacralità di un altare di legno dedicato a qualche antenato samurai, di cui l’armatura distrutta e profanata ne testimonia, viene risparmiata. Mi sovviene di come quel Poltergeist strida terribilmente con la persona innamorata di quella cultura millenaria, come confessato poche pagine addietro. “Mi odio da morire”, aveva scritto di se stesso. Capisco solo ora il significato di quelle parole, di quanto il conflitto interiore fosse esteso e cruento. La guida ectoplasmica scompare appena varchiamo una camera da letto. E’ stata svuotata completamente. Poco o nulla del vecchio proprietario è sopravvissuto, se non qualche libro contenente appunti, riflessioni e tutto quello che un uomo può trascrivere su carta. Sono miracolosamente scampati alla furia del SOLDIER che ne detiene l’appartenenza. Una torcia al centro della stanza illumina fievolmente l’ambiente, permettendomi di scorgere una radio e un portatile satellitare abbandonati in un canto. Il pavimento è morbido, costituito da fibra di riso. E’ strano notare la spartanità della tradizione wutaniana accostata alla complessità della tecnologia orientale. Due mondi così lontani e diversi, due modi di vedere il mondo in aperto conflitto. C’è molto di LUI in questa stanza, anche se gli appartiene da poco tempo. Un brillio ben noto attira la mia attenzione: la punta fatale della Masamune mi scruta dalla penombra, come una fiera guardinga. Mi soffermo su quella spada, i cui segni sono marchiati a fuoco sul mio corpo, e non posso non pensare quanto essa descriva il suo proprietario in modo così esatto. Perfetta e meravigliosa nel suo insieme, sembrerebbe una normale katana, ma la sua lunghezza spropositata e quel curioso flusso di mako che dona a quell’acciaio strani riflessi bluastri, la rendono ancora più preziosa. E inquietante… Il mako si agita, inasprito dalla mia presenza, chiama il suo padrone, vuole il suo tributo di sangue. I fiumi che ha assaporato oggi ancora non le bastano. Sospiro e alzo lo sguardo. Un’ombra appena lambita dalla fredda luce della torcia morente giace accanto alla Masamune.
Eccolo: LUI…
Accoccolato nel suo angolo buio, su un sacco a pelo vecchio e sfibrato, intento a rovesciare i suoi pensieri turbinosi sul diario. Un quadrato di Garyo spunta dalle imposte lasciate spalancate al suo fianco. Prendono una grossa fetta del muro e lui può agevolmente guardare all’esterno. Quella minuscola lampadina illumina a malapena la stanza, ma per lui non è un problema: un sottile cerchio luminoso contorna le iridi gelide, squarciando l’oscurità. La sua mano si muove frenetica sulla carta, mentre la mascella si contrae nervosamente. Scorgo tra i capelli argentati, la fronte aggrottarsi, creando rughe innaturali per la sua giovane età. Ad un certo punto, alza il viso nella mia direzione. Non mi sta effettivamente guardando, sembra fissare un punto dietro di me; ma io mi sento travolgere comunque da quello sguardo. Vedo ira, soprattutto, ma anche rancore e disperazione. Un dolore senza fine mi trafigge il cuore come solo la lama della Masamune saprebbe fare. Sento il respiro mozzarsi all’altezza della gola da un nodo troppo stretto per permettermi di fiatare. Abbiamo la stessa età, ma non vedo niente che ci possa accomunare. Quegli occhi sono stanchi, sfiduciati, morti.
Sono gli occhi di un vecchio…
Poi come sono apparsi, quei bulbi si velano e ricadono nella vergogna di un capo pronto per il patibolo. La chioma fluente gli copre il viso, nascondendo l’onta della sconfitta.
E’ solo un ventenne…
Vorrei avvicinarmi, confortarlo, ma sono reticente. La parte meschina di me gode nel vederlo così. Sono combattuto. In fondo lui non voleva fare del male a nessuno. Desiderava solo finire quell’ennesima guerra e tornarsene a casa.
Sì, ma QUALE casa?
Ricordo che quando arrivammo a Nibelhim, lui disse di non avere né una casa, né una famiglia a cui tornare. Mi chiese cosa provassi in quel momento, nel rivedere il luogo da cui provenivo. Ricordo che non ebbi il cuore di rispondergli: come potevo dirgli che avevo paura? Che avrei preferito che il mio corpo venisse dilaniato dai mostri del Monte Nibel piuttosto che essere lì? Sputargli in faccia che in quel momento stavo morendo dalla vergogna, quando mi ero riproposto che sarei ritornato al mio paese come SOLDIER di Prima Classe? Mi avrebbe odiato. Chissà se ebbe mai la possibilità di chiamare un luogo “casa”? Disse di non sapere cosa significasse quel termine… Mi guardo intorno e assumo che quell’affermazione non può essere più vera: solo gli oggetti indispensabili sono stati tirati fuori dallo zaino militare, il quale è stato abbandonato in un angolo buio. Giusto un giaciglio su cui riposare e il necessario per rimanere in contatto con le truppe. La Masamune pronta ad essere afferrata e scatenata contro qualunque avversario.
Sempre in viaggio, sempre pronto a partire, sempre a guardarsi le spalle. Stava fuggendo.
Non faceva in tempo a legarsi ad un luogo che già doveva andarsene. Non oso immaginare una vita senza radici. Quando partii per Midgar, ho sempre dato per scontato che il mio inutile paesino tra le montagne sarebbe sempre stato lassù ad attendere il mio ritorno. Anche se fossi tornato dopo tanti anni, lo avrei ritrovato tale quale lo avevo lasciato. E così mia madre, la mia casa, i miei amici… Tuttavia, in cuor mio, -quel cuore da superbo ragazzino di sedici anni- mi vergognavo delle mie frugali origini, invidiando i miei camerati provenienti dalle grandi città del continente. Avrei dato qualunque cosa per rinascere a Junon, o Costa del Sol, se non addirittura Midgar stessa. Ma no, io ero un misero contadinotto di campagna, il cui paese era famoso per ospitare uno dei primi reattori costruiti dalla Shin-Ra. Mi vergognavo come un ladro, anche perché i miei compagni non facevano altro che deridermi, chiamandomi “scrosta reattori”. Poi conobbi Zack e capii che non erano le origini a definire una persona, bensì cosa ne fai della vita donata da quelle radici. Lui era un SOLDIER proveniente da un paese insignificante come Gongaga, eppure era un uomo straordinario. Grazie a lui, imparai a infischiarmene delle loro derisioni e mostrarmi fiero della mia piccola Nibelhim.
Per questo odio quell’essere immondo che si dispera davanti a me: ha bruciato le mie radici e ora mi sento come un albero morente. Non ho nulla che mi tenga ancorato al suolo e l’unica cosa che tiene in vita sono i ricordi della mia infanzia. Per il resto, niente. Niente! Un moto d’ira mi attraversa e mi avvicino minacciosamente al futuro artefice della morte di centinaia di persone innocenti. Vorrei ucciderlo ora, nel suo momento di massima debolezza, so che non incontrerei nessuna resistenza da parte sua. La sua nuca è alla mia mercé. Basterebbe un solo colpo secco e preciso in quel punto per fargli perdere i sensi. Sarebbe dannatamente facile.
E’ solo un ragazzo. Solo e disperato.
E poi, una sola scintilla e l’impalcatura di legno prenderebbe fuoco in un solo istante, bruciando il suo corpo maledetto. Si sveglierebbe giusto il tempo per urlare di dolore e incrociare il mio sguardo gaudente.
Non ha una casa. Nessuno che lo ami.
Il solo pensiero mi dipinge un sadico sorriso sul volto e assaporo fino all’ultimo ogni sfumatura della sua morte. La morte che ho sempre sognato per lui. La magnifica sensazione della vendetta compiuta. Il mio pugno è sempre più vicino al suo argenteo obiettivo.
Credi davvero che questa sia la fine che egli merita? Hai sbagliato, lo hai ammesso tu stesso…
Un’incredibile flusso di pensieri mi distrae dalla bassezza che sto per compiere, impedendomi di assaporare fino in fondo il dolce sapore della vendetta e rallentando le mie azioni. Un petalo rosa mi svolazza davanti, bloccandomi. Seguo le sue evoluzioni aeree come un micetto curioso, fino a quando non si posa delicatamente sul diario. La mia vittima alza la testa e per me è troppo tardi. La frenesia che ha sequestrato il mio cervello pochi secondi fa è scomparsa completamente, lasciando un senso generale di stordimento. Intanto, lui guarda fuori dalla finestra e rimane pietrificato. Odo il suo respiro mozzarsi e il battito frenetico del suo cuore. Incuriosito, mi sporgo anch’io e le stesse sue emozioni mi assalgono come un fiume in piena non appena la vedo.
Aveva ragione.
Un angelo.
Rimaniamo impalati simili a baccalà a fissare lo splendore di quella figura d’eterea bellezza nascente dai petali danzanti dei sakura in fiore. I Wutai credono che quegli alberi svelino il destino della gente, accogliendo amorevolmente i desideri degli uomini per tramutarli in realtà. Lei… lei non può che appartenere al mondo degli Spiriti, tanto magnifica e perfetta. Comprendo ora quanto la foto che custodisco gelosamente non è altro che un misero assaggio di quella donna. I sentimenti di Sephiroth mi si agitano nell’animo, impazziti, e io non sono in grado di contrastarli. Me ne sento completamente avvolto, incapace di scappare da quei flutti burrascosi. Volgo la mia attenzione su di lui e ciò che mi salta subito all’occhio sono le sue iridi. Non credo di averle mai viste così splendenti e agitate da un sì intenso fuoco di passione. Ero abituato ad associare il suo sfolgorio di innaturale verde mako a un’ira spaventosa e bruciante, per poi perdersi nel baratro di una pupilla piena di oscuro odio. Sono questi i soli sentimenti che ho sempre e solo saggiato in lui; ma stasera… Stasera sono testimone di un miracolo straordinario. Per la prima volta nella mia vita, ho potuto assistere all’apparizione del misterioso lato umano del mio peggior nemico. L’aura d’onnipotenza e divina che lo avvolgeva con quella cupola di ghiaccio spessissimo si è infranta, trafitta dritta al cuore da uno sfuggevole sorriso. Del grande Generale non c’è più nulla, la vecchiaia precoce ha abbandonato quel corpo, svelando tutta quella gioventù da troppo tempo rimasta sopita. Sorrido davanti al leggero rossore delle gote. Esso tradisce un’emozione fortissima, la quale ha scaldato quel cuore di pietra fino a liquefarlo in lava bollente. Quest’ultima non è letale; anzi, è un dolce balsamo per un’anima straziata da dolore e solitudine. Egli sorride flebilmente, incredulo di esserne ancora capace, e i suoi occhi s’illuminano della stessa luce dei miei, quando poggio lo sguardo su Tifa.
Un colpo di fulmine. Non credevo che LUI potesse cedere ad un attacco così diretto…
Una vibrazione all’altezza delle anche mi riporta alla realtà, strappandomi brutalmente da quel piccolo angolo buio di Wutai. Mi guardo attorno spaesato e riconosco a malapena la fredda parete di acciaio che si erge di fronte a me e mi giunge ovattato il brusio della gente che passeggia sulla strada. Il sogno resiste ancora un po’, aiutato dall’oscurità gettata sul vicolo, permettendomi di contemplare ancora per pochi istanti il giovane Sephiroth innamorato; ma poi un’altra vibrazione infrange anche quell’immagine. La mia mano corre alla tasca dei pantaloni ed estrae il cellulare. Il display recita a caratteri cubitali “7th Heaven”.
Parli del diavolo…
“Pronto?”
“Cloud! Dove sei?”
“In Wut…ehm, volevo dire, in strada.”, il sogno mi ha lasciato parecchio confuso. Sento Tifa esitare riguardo al mio lapsus, ma un vociare indistinto dietro di lei la induce a lasciare perdere.
“Hai preso quello che ti avevamo chiesto?”
Ora sono io quello che esita. Che cosa dovevo comprare? Percepisco la mora innervosirsi dall’altro lato della cornetta.
“Ti sei dimenticato?”, chiede a denti stretti, dopo qualche secondo di attesa.
Probabilmente se mi avesse davanti mi strozzerebbe. Perfino il vociare di sottofondo si blocca, tendendo le orecchie verso la mia ennesima magra figura. Grazie al cielo, il mio cervello riprende a funzionare e mi salva dal disastro.
“No, no, Tifa. I festoni a forma di Carbuncle gli ho appena comprati.” Ennesima bugia, se ci fossero degli specchi nei dintorni si spaccherebbero, e prego che quei dannatissimi affari esistano davvero. Tifa si rilassa, sospirando soddisfatta.
“Bravo. Allora muoviti che stiamo aspettando solo te. A dopo!”>click<
Prendo un profondo respiro e mi adagio contro la parete. Lancio un’occhiata al diario.

Spero che ne sia valsa la pena, Sephiroth.

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Non riesco ancora a capacitarmi del fatto della reale esistenza di quei festoni. Sono davvero orgoglioso di me stesso per essere riuscito a trovarli così all’ultimo momento e in un negozietto sperduto nei recessi di Edge. A volte la paura dà degli sprint davvero inaspettati! Mi sento davvero gasato del successo e, per una volta, la coscienza è in pace. Inizialmente ho mentito, è vero, ma alla fine si è risolto tutto per il meglio. Tifa non ha sospettato di nulla e, comunque, era troppo impegnata a cucinare i dolci per la festa per far caso alle mie stranezze. Mi sono dato da fare ad aiutare in giro, anche se, forse, sarebbe stato meglio filarsela appena possibile. Per tutto il resto della giornata non ho fatto altro che corre da una parte all’altra della casa completamente in balia delle richieste di aiuto delle ragazze. Chi mi chiamava per reggere la scala; chi per sostenere i festoni e valutarne la disposizione con sguardo critico –nemmeno fosse un quadro, dico io-; chi per inchiodare i festoni alle travi e tutti quei lavori che, secondo loro, sono da uomini. Ora capisco perché, quando sono arrivato, dei ragazzi non c’era nessuno. I soliti furboni.
Come se non bastasse, oggi ho fatto un full-immersion del mondo femminile, sorbendomi discorsi sugli argomenti più disparati, come scarpe, vestiti, trucchi, profumi, cerette e tutto il repertorio. Santo cielo… Il mio cervello è morto. Ad un certo punto si è spento e vagavo per la stanza come uno zombie senza volontà. Fortunatamente, dopo poco arrivarono gli altri dell’AVALANCHE e le mie facoltà mentali ringraziarono per questo.
Il bar addobbato sembra una bomboniera con tutto questo rosa. Non credo che una bambina tosta come Marlene possa apprezzare quest’esplosione di femminilità, ma potrei sbagliarmi. In fondo a chi non piacciono i Carbuncle e i Moguri? Anche se devo ammettere che la bambina mi ricorda molto l’Aerith descritta dall’inchiostro di Sephiroth : fanciulla dall’innocenza innata, ma che dietro di essa si nasconde una saggezza incredibile, in grado di conferire la forza necessaria per reagire contro le avversioni. Quando mi ammalai del Geostigma, sentii il mondo crollarmi addosso. Realizzai il poco tempo che mi rimaneva e che non sarei mai stato in grado di espiare i miei peccati. Ero un morto che camminava e un’anima destinata all’Inferno. Mi immagino LUI pregustare il momento in cui mi avrebbe avuto tra le sue grinfie per l’eternità e rabbrividisco: ancora oggi un terrore senza fine mi gela la spina dorsale e comprendo quanto il contributo di Marlene sia stato prezioso per farmi rinsavire. E’ una bambina straordinaria, capace di rallegrare la giornata con il suo sorriso furbetto, donando voglia di vivere a chiunque le stia attorno. Inoltre, ciò che la rende unica è la sua particolare testardaggine . Lei s’impunta su certi argomenti e ci martella finché non ottiene ciò che vuole. Non lo fa per cattiveria, ma perché SA che solo così può spronare le persone a dare il meglio di sé; soprattutto nei confronti di testoni come il sottoscritto. Merita davvero tutto questo amore, perché lei è l’anima del nostro gruppo, quella colla che ci tiene uniti, l’eredità di Aerith.
Gli invitati si sono tutti accomodati in zone strategiche del tavolo devoluto a buffet, in trepida attesa dell’apertura del pasto. Nel frattempo che aspettiamo l’arrivo di Barret con la festeggiata, mi dirigo verso la cucina, dove Tifa è stata confinata tutto il tempo. Mi affaccio alla porta e la vedo intenta ad osservare il forno, da cui proviene il delizioso profumino della sua formidabile torta al cioccolato e vaniglia.
Silenziosamente, mi appoggio allo stipite e l’ammiro. E’ così bella quando è assorta nei suoi pensieri; adoro quel suo sguardo concentrato e i lati della bocca che si contraggono flebilmente ad ogni riflessione. Indossa un vestito nero di cotone con scollo a barca, stretto in vita da una cintura bianca e dotato di un’ampia gonna lunga fino alle ginocchia. Amo il modo in cui è capace di rendere qualunque capo dannatamente sensuale. Forse sono io che la osservo con gli occhi dell’amore, ma bisogna ammettere che Tifa è una di quelle persone dall’eleganza innata. Anche Aerith aveva la stessa caratteristica.
Mi sento sfolgorare: anche LEI, la donna senza nome. Mi ritraggo dalla visuale di Tifa per nascondere la mia espressione sconvolta e la nausea crescente.
Quante altre cose avremo in comune io e LUI?
All’arrivo di Marlene e dei suoi amichetti, i festeggiamenti ebbero inizio. Ho provato a scordarmi per un momento i bui pensieri legati alle tremende coincidenze che legano la mia vita con quella parallela che si sta svolgendo in un libricino sgualcito nascosto nei recessi del mio ufficio, ma…
Non ce l’ho fatta.
La mia attenzione veniva continuamente attirata verso Cid e Vincent. Mi sembrava quasi che stessero soppesando ogni mia mossa, come per comprovare una chissà quale possessione da parte di Sephiroth.
Sto diventando paranoico, ma forse hanno ragione a dubitare di me.
Addirittura, al culmine della mia pazzia, mi è sembrato che tutti mi stessero squadrando dalla testa ai piedi. Non facevo altro che vedere occhi su occhi, i quali mi stavano intrappolando in una spirale soffocante di dubbio e sfiducia. La nausea mi aveva attanagliato le viscere contorcendole come spire di un serpente morente e non ho resistito oltre. Bianco come un cencio, mi sono lasciato trasportare e i piedi mi hanno condotto proprio nell’ultimo posto in cui avrei desiderato trovarmi: nel mio ufficio, davanti a quel cassetto maledetto. Come il vaso di Pandora, attendeva di essere aperto e lasciare che il suo letale contenuto avvelenasse col suo tocco delicato la mia fragile mente. Ormai sono alla sua mercé. Sephiroth mi ha catturato un’altra volta e, stavolta, mi sarà impossibile liberarmi, dal momento che sono io stesso che continuamente torno da lui. Mi ha drogato. Le sue memorie mi stanno completamente assorbendo e, quel che peggio, io me ne rendo conto, però non sono in grado di ribellarmi.
Ma non posso fermarmi. Non adesso.

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Autunno XXXX

Ho perso il conto dei giorni, ormai. Dopo la distruzione di Meijin, la rappresaglia dei nostri nemici si è scatenata come uno tsunami di sangue. Un’ondata di cruenti stermini e vermiglie vendette ha investito il Paese gettandolo nel caos più totale. Una rabbia scatenata con una potenza tale da costringere Angeal, neopromosso al rango di SOLDIER First Class e combattente straordinario, e le sue truppe ad abbandonare Dashiro. La città è stata la prima testimone della follia di Wutai. Una follia che nemmeno la potenza di SOLDIER, tanto declamata dal Presidente, è riuscita a contenere e il fuoco di vendetta che, da tempo immemore si agitava nei cuori wutaniani , ha avuto il suo tragico epilogo, trasformando questo pacato Paese in un focolaio belligerante di odio. E’ diventato impossibile spostarsi per la Nazione. Il simbolo di SOLDIER o Shin-Ra sono un bersaglio disegnato dietro la testa; non ci si può muovere senza essere vittima d’imboscate sanguinose. Ogni albero, ogni foglia, ogni fiume, ogni grotta può nascondere una trappola e sono parecchi mesi che questa storia va avanti. Dal primo giorno, non c’è stato un attimo di pace: gli attacchi si fanno ogni giorno sempre più furiosi, le truppe nemiche sempre più potenti e numerose, la loro sete di sangue più impellente che mai. La vittoria a Dashiro ha rinvigorito il loro morale, a tal punto di osare sfidare la mia potenza. Inseguendoci come faine schiumanti hanno tentato un assedio ai danni di Garyo. Ho dovuto dar fondo a tutte le mie conoscenze strategico-militari e mobilitato migliaia di uomini per non perderla. Questa città è MIA e voi, miserabili selvaggi assetati di sangue innocente, non me la porterete via!
Non credo di aver mai lottato con così tanta tenacia in tutta la mia vita. La mia bestia sanguinaria ha dato il peggio di sé in quei giorni. Se c’era una minima possibilità di una risoluzione pacifica alla guerra aperta, direi che ce la siamo giocata. Il Ma gin ha colpito ancora, dimostrando la sua sanguinaria spietatezza. I Wutai mi hanno offerto la guerra? Ebbene è quello che avranno. La Guerra Vera, quella senza esclusione di colpi, quella straziante pratica dove ogni istinto buonista viene condannato con la Morte. La semplice legge della Natura: il debole muore, il forte vive. Quel che è peggio quei cani non mostrano alcuna pietà nemmeno per il loro stesso popolo. Nell’erronea convinzione di considerarci simili alla peste, loro danno fuoco qualunque cosa sia stata toccata da mani Shin-Ra, compresi gli abitanti. Condannano civili innocenti solo per essere stati conquistati. Uccidono donne e bambini proclamando di purificarli dal nostro sangue.
Dashiro data alle fiamme… Uno spettacolo agghiacciante a cui ho avuto la sfortuna di assistere. Genesis ed io intervenimmo appena la notizia dell’attacco giunse al GQ, ma l’azione fu così inaspettata e rapida che non riuscimmo a giungere in tempo. Ordinai a Genesis di coordinare le operazioni di evacuazione e corsi a dar man forte alla debole linea di difesa creata da Angeal, il quale combatteva con tutto se stesso per coprire la fuga dei civili e dei militari. Quando arrivai la battaglia infuriò ancora più sanguinosa di quanto non lo fosse già precedentemente. Appresi che le truppe inviate a combattere contro SOLDIER non erano plotoni regolari dell’esercito ribelle, ma bensì la Crescente, l’élite di Wutai. Ne avevo sentito parlare, ma non credevo fossero così potenti. O forse eravamo noi del tutto impreparati a una tale rappresaglia. Non saprei. Come non so come riuscimmo a contenere il dilagante arrivo di nemici, donando così giusto il tempo di ritirare le truppe definitivamente. Avevamo poco tempo e molte persone non erano ancora riuscite a scappare, troppo sconvolte da quegli avvenimenti o troppo deboli per stare al passo con gli altri. Bambini, vecchi, donne con neonati, uomini carichi di beni della propria casa, commilitoni che si aiutavano a vicenda, moribondi… Il caos più totale si agitava impazzito attorno alle mura fiammeggianti di quella città, mentre da una parte i civili tentavano invano di scappare e dall'altra la battaglia ricominciava ad imperversare. I ribelli ci furono nuovamente addosso come belve feroci, uccidendo tutto quello che capitava loro a tiro. Proiettili e bombe che esplodevano da ogni parte, gettando la folla terrorizzata nel panico. Ad un certo punto fu impossibile controllare quell’ammasso di fuggitivi. Molti civili sono morti per essere stati calpestati dalla calca in fuga. I miei uomini e quelli di Angeal erano troppo pochi per scortare al sicuro un’intera città e contemporaneamente combattere contro i ribelli. Il pianto e le urla disperate di donne e bambini mi rimbombano ancora nelle orecchie e, come una macabra melodia, fa da sottofondo ai miei incubi peggiori. Non riesco a dimenticare quei volti rigati dalle lacrime, mentre civili innocenti guardano la loro casa bruciare nell’ira della loro stessa gente. Vedevo bambini guardarsi intorno spaventati a morte, chiamando genitori che mai più avrebbero risposto loro. In mezzo a quella spirale di convulsa follia, una goccia di calma attirò la mia attenzione, estraniandomi per un momento da quella realtà orribile.
Una bambina, avrà avuto sette-otto anni, vestita di un piccolo kimono ridotto in brandelli, il colorito chiaro cozzava pesantemente con la fuliggine nera che le sporcava la pelle sudata, la treccia che le tratteneva i capelli avrebbe retto l’accozzaglia indefinita e corvina ancora per poco, le lacrime le rigavano il viso sporco… Ella era ferma, completamente immobile e fissava la città andare in frantumi. Ma ciò che mi perseguita non è la figura misera nel suo insieme, ma ciò che lessi nei suoi occhi. Annientamento. Totale e completo annientamento. Piangeva? Sì. Era spaventata? Era vero. Però non si trattava di paura irrazionale scatenata da una situazione incomprensibile, bensì realizzazione. Quella piccola bambina, appena affacciata la vita, aveva compreso la grandezza di ciò che era successo, la gravità di ciò che era andato perso. Vidi la sua innocenza svanire sotto i miei occhi. In quel momento, mi specchiai nella sua apatia di fronte al dolore, alla miseria, alla Morte.
L’ho uccisa… Ho permesso che un altro essere mano cresca con la mia stessa condanna.
E’ l’unica cosa che sono capace di fare.
Non ho fermato la spirale di bellica follia con Rufus a Meijin e non l’ho fatto nemmeno ora con i ribelli a Dashiro. E i soldati e i civili che ho strappato dalle grinfie del nemico continuano a chiamarmi eroe.
Eroe?! Perché la gente ancora si ostina a definirmi tale? Perché continuano ad adularmi come un idolo sacrilego? Mi si rivolta lo stomaco ogni maledetta volta che mi sento ripetere la stessa, odiosa, insensata frase: “
Sono entrato in SOLDIER per diventare un eroe come te.”
Dannazione! Per quale arcano motivo la gente è così schifosamente superficiale? A volte mi piacerebbe osservare me stesso con gli occhi di questi individui con l’intento di capire se sono io con il mio comportamento e le mie azioni a dare questa idea di me; oppure finalmente apprendere che è proprio la gente incapace di un minimo d’introspezione. Da un lato ringrazio che esistano persone così ottuse, perché senza di loro questi mesi di battaglie senza fine sarebbero stati problematici a causa della penuria di uomini, ma mi sento dannatamente in colpa per averli illusi così. Molti sono solo ragazzini in fuga da una realtà di miseria e abusi, i quali vedono nella mia figura di eroe indistruttibile l’Esempio, il Giusto, la Speranza.
Che amara ironia. La speranza è un sentimento che ho abbandonato da anni, ormai non so nemmeno cosa voglia dire ‘sperare’. Sperare che gli esperimenti abbiano una fine, sperare in un sorriso paterno, sperare per un regalo di compleanno, sperare nell’amore…
Amore
Questo sentimento mi ha spesso accompagnato nelle lunghe ore di solitudine. Il pensiero di quella donna continua a farmi visita quando meno me lo aspetto e nemmeno gli orrori della guerra sono riusciti a offuscarne il ricordo. Mi si è scolpita nella mente e non riesco a dimenticarla. Credo perfino che la spietata tenacia dimostrata in difesa di Garyo sia scaturita dal desiderio di proteggerla. Ho visto cosa fanno i ribelli alle loro stesse donne e non permetterò assolutamente che LEI riceva lo stesso trattamento.
E’ così strano: non so nemmeno come si chiami, dove abiti, che lavoro faccia; perché mi ostino a pensarla? Perché la sua memoria non scivola via e si va ad unire all’accozzaglia di facce anonime che abitano i miei incubi? Anche se, in effetti, è meglio così. Almeno, la mattina quando mi sveglio e la notte quando mi corico, la sua visione celestiale scaccia per un solo, meraviglioso attimo i demoni raccapriccianti dei miei ricordi. Possibile che sia stato così facile farmi capitolare ai suoi piedi?
No, non voglio credere di aver ceduto ad una cosa così sciocca e scontata come un colpo di fulmine. Ma allora perché la mia mano trema e il mio corpo avvampa? Perché, quando la sogno, ho bisogno di una doccia fredda? Sta diventando una nuova ossessione, ma non vorrei che fosse diversamente. Sento il mio viso stanco tirarsi in un sorriso aperto, le preoccupazioni della guerra scivolarmi via, una calma mai provata abitare il mio animo turbolento. Potrei essere alla mercé di qualunque assassino in questo momento, ma ho fatto un silente giuramento: non intendo morire senza averla prima rivista. Forse è per questo che la mia foga battagliera si è acuminata ancora di più in questo periodo. Prima mi gettavo in battaglia spinto ormai dall’inerzia della routine, infischiandomene della mia incolumità. Devo confessare che ho spesso desiderato che qualche malcapitato mi trafiggesse il vuoto nel cuore; e poi capitava che la frustrazione prendesse il sopravvento su di me e infierissi sul corpo del prescelto per aver fallito il mio intento. Davvero patetico…
Ora, invece, è tutto diverso: in questo momento combatto per qualcosa, o meglio per qualcuno. Ho un obiettivo ben preciso, il quale mi ha donato la forza di reagire. Una strana volontà di vivere mi pervade per la prima volta nella mia oscura esistenza. Vedo una luce brillante alla fine di questa spirale vermiglia. Prego che non si tratti dell’ennesima sciocca illusione e che aver abbandonato i miei pensieri suicidi ne valga la pena.
Aerith riderebbe di me se sapesse che provo dei profondi sentimenti per una donna che nemmeno conosco, però credo anche che sarebbe contenta per me. Ricorderò sempre quella volta che, scherzando, lei mi chiese di sposarla. Lì per lì, sentii le mie gote andare letteralmente in fiamme di fronte a quella proposta indecente, ma poi realizzai e scoppiai a ridere. La piccola s’illuminò e freddò la mia ilarità con una frase sconcertante: “
Darei qualsiasi cosa per essere più grande. Solo così potrei vederti sorridere sempre.”
Piccola mia, non serve che tu sia più grande, queste frasi e la tua solarità mi rendono già felice, forse non te lo dimostro ogni giorno, ma sappi che sei l’unica capace di darmi un po’ di sollievo in questo mondo marcio. Un sollievo minimo, ma pur sempre meglio che vagare nelle tenebre.
A volte sono tentato di leggerle queste pagine, ma non ho il coraggio di scoprirmi così tanto, nemmeno di fronte a lei. Non voglio che sappia ciò che si cela nel mio animo. Ne comprende parte già da sola, non voglio che sprofondi nello stesso buio pozzo assieme a me. Già il fatto che mi conosca e si sia affezionata alla mia persona è deleterio per la sua infanzia, ma, non so perché, non riesco ad allontanarmi, ad abbandonarla. Non sono il tipo che si lega morbosamente alle persone, eppure lei mi attrae come un’ape sul miele, in senso puramente platonistico, sia chiaro. Non so cosa mi spinga a mantenere quest’amicizia così dolorosa con la figlia dell’unico uomo che mi abbia mai trattato come un essere umano. Mi uccide vedere quello stesso sguardo compassionevole, quelle iridi così identiche a quelle dei miei ricordi, il sorriso ugualmente dolce e paterno. Forse il moribondo bambino che è in me cerca ostinatamente di mantenere in vita la memoria di quell’uomo virtuoso, ricercandolo nella figura di Aerith. Probabilmente è così, ma sento che c’è qualcos’altro, qualcosa di molto più tenebroso, nascosto negli oscuri recessi del mio animo. Questo sentore è legato a un sogno. Un sogno tanto sibillino quanto terribile. Inizia con una visuale confusa su quella che sembra un’intricata rete di rami splendenti. Conosco ogni centimetro di questo mondo, ma non riesco a riconoscere nulla di ciò che mi circonda. La visuale diventa offuscata quando si rivolge al percorso che si apre di fronte a me, il quale mi appare come un abbagliante cono di luce. Sto correndo come un dannato verso un luogo a me sconosciuto; tuttavia, capisco che, da come mi sto precipitando, so perfettamente dove andare. Odo il mio cuore battere all’impazzata, i passi concitati su un manto di foglie, ma non riconosco la voce affannata che esce dalla mia bocca. Quel corpo non è il mio, eppure mi appartiene. Continuo a correre, finché non giungo ai piedi di una scalinata bianca, al cui apice riconosco Aerith. Non è più una bambina, ma una donna matura e bellissima, impegnata nell’atto di preghiera. Il corpo non mio, ma che sento tale, si precipita verso di lei. Percepisco le labbra e la lingua articolare il suo nome, ma nessun suono esce dalla gola. Salgo le scale, però verso metà del percorso, un’ombra nera ingoia la ragazza. Un’ondata di sangue sporca la mia vista di vermiglio e l’ultima cosa che vedo è la punta della mia Masamune trafiggere l’addome di quella figura innocente e i miei occhi brucianti di violento odio e contornati da un sadico, quanto spaventoso, sorriso. Il terrore senza fine suscitato da quella visone distorta mi attanaglia la gola e mi mozza il respiro. Quando mi sveglio stento a respirare e cerco di sciogliere quel nodo artigliandomi il collo. La mia voce è ridotta ad un rantolo ansimante, mentre la vista stenta a disperdere le immagini cruente di quel sogno. Una volta mi svegliai urlando in presenza dei miei amici. Li vidi fare camporella attorno al mio letto, osservandomi con gli occhi fuori dalle orbite, assaltandomi con domande idiote sul mio stato di salute. Li cacciai in malo modo, rifiutandomi di spiegare loro la situazione; anche se so molto bene che prima o poi torneranno sull’argomento. Dev’essere una caratteristica di Banora la testardaggine, acquisita in maniera impeccabile nel rosso, per grande danno ai miei nervi. Genesis non mi molla un attimo durante la notte. La scusa ufficiale é per la mia protezione, dal momento che sono in cima alla lista nera dei ribelli; ma so perfettamente che desidera tenermi compagnia e assistermi in caso di altri incubi. All’inizio era snervante, ma ormai mi sono abituato alla sua invadente presenza; anche se non è di gran compagnia durante la notte. Non so come faccia ad essere così in pace con la coscienza. Forse sono io che mi faccio troppi scrupoli. Comunque è confortante non sentirmi completamente solo contro i fantasmi della notte, anche se gli incubi rimangono. In particolare, quest’ultimo che ho trascritto mi perseguita da parecchio tempo ed è stato scatenato da un fatto ben preciso: la morte della madre di Aerith sulle scale della stazione del Settore 7, negli Slums. Avevo appena compiuto 14 anni e quella fu una delle tante missioni di routine: rincorrere e stanare degli esperimenti scappati dai laboratori del piano 68. Il laboratorio di mio padre. Egli mi mandava spesso alla caccia di quelle povere cavie: odiavo quei compiti, mi facevano sentire un infame schiavista; poiché, nonostante anch’io subii lo stesso loro destino e capissi i loro stati d’animo, comunque portavo a termine la missione ordinatami. Uno dei tanti tipici esempi di completa sottomissione nei confronti del vecchio…
Fui il primo a trovarle, fortunatamente, e, quando appresi la loro identità, l’odio per quella bestia abominevole venne rinnovato. Non potevo permettere che un altro bambino subisse il mio stesso trattamento. Condussi madre e figlia verso gli Slums, ma appena raggiungemmo la stazione, la donna crollò a terra. Era intossicata dal mako, sarebbe morta lì sul momento se avessi tentato un incantesimo di Cura; perciò corsi a cercare aiuto, ma incappai nelle squadre di ricerca capitanate da Hojo stesso. Tentai una resistenza di fronte alla sua ira , però alla fine cedetti alla paura e confessai il luogo in cui si trovavano le donne. Temendo una mia reazione di fronte alla cattura di quest’ultime, il vecchio ordinò che mi conducessero nel mio tugurio al Palazzo ShinRa e di farmici restare. A tarda sera, mio padre irruppe nella stanza e mi punì severamente, mentre m’interrogava sull’ubicazione della bambina. Io non capivo: le avevo lasciate sugli scalini della stazione, dove poteva andare una bambina così piccola da sola? Solo dopo mezz’ora di furiose fustigate, Hojo capii che non avevo idea di dove fosse Aerith. Mi lasciò sul pavimento rantolante, mentre mi sputava in faccia la notizia della dipartita della donna. Questa fu la frustata più dolorosa di tutte. Avevo promesso ad Aerith che avrei salvato sua madre… Invece, l’ho delusa.
Lei non mi ha mai incolpato per l’accaduto, ma non riesco a perdonarmi di non essere stato lì a consolarla. Aveva bisogno di me e io non c’ero; come un codardo sono scappato dalle mie responsabilità, lasciando che la Morte fosse la sua sola compagna. Non riesco a perdonarmi il fatto di essere stato un debole, cedendo alle punizioni di un vecchio sadico bastardo, quando avrei dovuto dare la vita per proteggerle. Aerith sospira sconsolata tutte le volte e mi assicura che è stato fatto tutto il possibile per sua madre; anzi aggiunge anche che io ho fatto molto più di quanto ci si potesse aspettare da un giovane SOLDIER. Sì, ma per me non è abbastanza. Non è MAI abbastanza. Ho così tanto potere nelle mani, ma non sono in grado di utilizzarlo.
Oggi come allora sono impotente…
Impotente davanti alla follia dell’Uomo, incapace di salvare vite, impossibilitato a reagire di fronte agli eventi.
Forse ha ragione Hojo: sono un fallito. La grandiosa figura dell’eroe onnipotente non è altro che una misera facciata per il marciume di uomo celato dietro essa. Sono il sinonimo della vita moderna: tanto luccicante fuori, ma sterco fumante dentro. Vorrei essere diverso, trovare la forza di ribellarmi alle ingiustizie che costellano la mia giornata, mostrare al mondo il mio vero io; ma quell’ombra nera che mi accompagna dalla nascita non me lo permette. Lei vuole nutrirsi del sangue di chi mi sta accanto. E io glielo consento. Ho un carattere troppo remissivo, o forse sono stanco di lottare contro una nuvola di fumo. Forse dovrei arrendermi definitivamente alla bestia e lasciare che essa mi guidi verso il mio reale obiettivo. Talvolta la sento sussurrare come una ninna nanna nell’inconscio della dormiveglia, mostrandomi immagini confuse e spaventose. Non ne comprendo il soggetto, ma ho il sentore che lo scoprirò molto presto.
Chi o cosa sei? Cosa vuoi da me? Perché mi costringi a indicibili orrori? Per divertimento? Per fama? Cosa? COSA?!
Sono a pezzi. La pioggerellina leggera e picchiettante di inizio autunno non fa altro che amplificare la mia ansia. La tenda è fredda e fradicia. Ogni rumore della foresta non fa altro che destare il mio allarme, impedendomi di riposare. Quei bastardi potrebbero essere ovunque, anche se Veld mi ha assicurato che in questa zona non sono state rilevate attività ribelli da mesi; ma se c’è una cosa che ho imparato in vent’anni di servizio è MAI, e dico MAI, fidarsi di un Turk. Loro non sono squadre d’azione, ma mammolette capaci soltanto a guidare elicotteri e firmare scartoffie; non hanno idea di che cosa voglia dire passare una notte in balia del nemico, domandandosi se la gola arriverà integra al mattino successivo. Loro si basano sulle statistiche, prendendo in considerazione soltanto quello che i nostri satelliti vedono; come se i Wutai o la Crescente fossero così stupidi da farsi rilevare dai segnali GPS. Non mi stupirei se quella roccia ricoperta di muschio sia in realtà un uomo avvolto in un mantello, o una mitragliatrice a terra.
No, non mi fido di loro. Anche perché sono il reparto più in stretto contatto col Presidente e darebbero qualunque cosa per baciargli il didietro. Pensano soltanto alla loro carriera e poi… non sono guerrieri, ma macchiette in giacca e cravatta che giocano a fare i soldati speciali. Non dico che SOLDIER sia il miglior reparto della Compagnia, ma almeno noi, il nostro lavoro, lo sappiamo fare. Forse fin troppo bene, ahimé. Il mio istinto non mi lascia un attimo di requie e continuo a guardarmi intorno, sebbene il mio turno di guardia sia finito da ore. Osservo le sentinelle pattugliare il perimetro del piccolo campo improvvisato della mia squadra e vengo investito da un’ondata di intenso terrore. Hanno paura. Lo sento. I nostri sensi ci permettono di vedere al buio, di ascoltare nel silenzio più assoluto, di percepire odori flebilissimi; ma ancora non possiamo prevedere cosa accadrà delle nostre vite nell’immediato futuro. Ogni secondo può essere l’ultimo. Questo è essere SOLDIER. Questo è essere soldati.
Mi concentro su un soldato poco lontano. Si è tolto il casco per osservare meglio il perimetro oltre la foschia della foresta. Il suo respiro, tramutatosi in nuvolette grigie appena in contatto con l’aria esterna, è affannato. Odo il cuore battere all’impazzata. Quel giovane Terza lo ricordo. Era in prima fila, il giorno del mio discorso, prima della partenza. Era uno di quello con l’argento vivo addosso, con gli occhi pieni di speranza, la sicurezza di tornare. Ora tutta quella baldanza si è spenta, sostituita da una preghiera, una flebile richiesta di uscire vivo da questa notte tormentata e gelida. Alzo lo sguardo verso la macchia di plumbeo cielo che sovrasta questa piccola radura e lascio che la pioggia mi accarezzi la pelle. Chiudo gli occhi e immagino delle dita delicate e morbide sfiorarmi il viso, scendere lungo il collo per poi sostare sul mio petto. Abbasso la testa e incontro i suoi occhi smeraldini.
La vedo.
Lei.
Quel meraviglioso angelo è qui accanto a me e mi sorride. Morirei per rivedere quel sorriso ogni giorno della mia vita.
Affido al diario la mia preghiera.

Aspettami


Una ola per me!!! OOOOOOOOOOOOOOOOOOOOLEEEEEEEEEEEEEEEEEEE!! E anche questo capitolo è andato. Uff, non trovavo mai la voglia di scriverlo, perché non sapevo assolutamente cosa metterci, ma poi alla fine, mi sono legata alla sedia e mi ci sono messa, anche a costo di non studiare per gli esami e perdermi giornate di mare. E’ una questione di principio, ormai era diventata una questione personale! Per voi, miei adorati lettori, questo ed altro ;). Anche se credo di avervi un po’ deluso, poiché immagino che aspettavate questo capitolo con ansia per leggere finalmente il fatidico incontro con sta santissima donna misteriosa, eh? E invece no! Ho deciso di farvi soffrire ancora un po’, BUAHAHAHAHAHAHHA!!! Eh, insomma ragazzi, la Shin-Ra ha fatto saltare un’intera città e i Wutai dovevano stare lì a guardare? Eh no! Quindi il nostro Seph ha preso armi e bagagli ed è andato a picchiare un po’ di ribelli, mentre la sua bella rimane avvolta nel mistero. Meno male che c’è Cloud che ci tiene un po’ sulle spine. Diciamo che la salute mentale del nostro Chocobo sta andando a farsi benedire…
Dai, ancora un po’ di pazienza e potrò finalmente accontentarvi!
Ringrazio tutti per le recensioni e le visualizzazioni!
Alla prossima!
Besos!

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Capitolo 11
*** Rivelazioni ***


Sono raggelato.

Quel sogno… Quel sogno che ha descritto…

Lui… Lui SAPEVA.


Lo ha visto!

Ha visto la Bestia…


L’Artefice della morte di Aerith

Ha previsto ME!

Mi ha sentito…


La mia disperazione.

Ha… Ha visto la morte dell’unico essere su questa maledetta terra capace di scaldare quel freddo cuore di ghiaccio.

Amava quella bambina, era affascinato dalla donna che sarebbe diventata: perché?

Ha guardato attraverso i miei occhi i suoi e ha saggiato ciò che più cercava di evitare: odio, ira, follia...

L’oblio. Lui non voleva dimenticare, è scritto qui! Non voleva dimenticare ciò che era.

Non voleva abbandonare l’unica cosa che lo rendeva umano; quindi mi chiedo: se sapeva, allora, perché?

Perché lo ha fatto?

Perché la sua infallibile memoria non è intervenuta poco prima che la Masamune trafiggesse il fragile corpo di Aerith?

Perché non ha capito?

Mille pensieri esplodono nella mia testa, come una tempesta perfetta, non appena il gelo abbandona il mio corpo. Tante domande. Nessuna dannata risposta. Sono sconvolto.
Giaccio immobile sulla sedia. I miei occhi sono fuori dalle orbite e quel senso di nausea si sta piano piano tramutando in uno stimolo sempre più impellente di vomitare. Ogni respiro sembra uccidermi. La mia mano trema impazzita e stenta ad articolare i pochi, semplici movimenti per girare le pagine di quella trappola mortale. Sento l’agitarsi forsennato di emozioni all’altezza del petto. Esse pesano sul mio stomaco, lo schiacciano, lo rivoltano, lo squarciano. Il fatto che capisco subito che molte di quelle sensazioni non sono mie: Sephiroth è di nuovo qui. Improvvisamente, uno strano sapore metallico s’imprime nel palato. Non faccio in tempo a capire da dove possa venire, che un urlo terrorizzato mi spacca i timpani, facendomi sobbalzare di almeno tre metri dalla sedia. Mi volto di scatto, ma il mio sguardo si perde nel pigro fascio di luce che taglia il mio ufficio.
Nulla…
Il cuore sembra uscirmi dal petto, tanto batte forte. Appoggio una mano su di esso nella speranza di riacquistare un po’ di autocontrollo e inizio a guardarmi attorno. Ho paura ad alzarmi. Gli occhi si appoggiano su ogni ombra sospetta, senza accorgersi che, in realtà, mi sembrano TUTTE sospette. Percepisco una presenza malevola camminare per questa stanza, balzando di angolo buio in angolo buio, rifuggendo la luce. Il terrore di rincontrare quelle iridi gelide mi tiene inchiodato alla sedia, mentre LUI passeggia guardingo e schiumante attorno alla muraglia che la luce del giorno sta innalzando per me. O contro di me? Se questo fascio non è altro che un muro della mia prigione? In effetti le uniche vie d’uscita sono al di là di questa linea bianca, dove LUI mi aspetta. Mi accorgo di un tremendo dettaglio: non sento più alcun rumore provenire dal resto della casa. Il panico mi attanaglia. Non gli resta che attendere la notte per ghermirmi. Il respiro si fa sempre più pesante, tanto che le vie aeree cominciano a chiudersi e ogni fiato diventa un marchio di fuoco dritto nei polmoni. Il cuore mi sta esplodendo nella mano. Sento la falce spietata della Morte respirare sulla mia spalla, pronta a raccogliere la mia anima pavida. O è la Masamune a sbavare impaziente che io esali l’ultimo respiro?
Perché provo così tanta paura?
Ad un certo punto, un nuovo odore mi spalanca le narici. Il profumo denso e pungente di un umido sottobosco muschioso… E’ una ventata gelida, ma non in senso cattivo; anzi, è inebriante e lambisce ogni cellula del mio essere tremante. Una calma senza precedenti va ad acquietare la mia anima, similmente a quella suscitata dalle gentili carezze che mi regalava mia madre poco prima di addormentarmi. Percepisco i muscoli rilassarsi, l’ossigeno fluire nei polmoni, il cuore regolarizzare il battito. Mi accascio contro lo schienale, le braccia cadono sul mio grembo e lascio cadere la testa all’indietro.
L’aria è diventata pesante e umida. Il gelo mi entra nelle ossa. Tutto attorno a me è confuso da una fitta nebbia. La pelle è accarezzata da una sottile pioggia autunnale; ma non sono infastidito da queste sensazioni, anzi mi rilassano ancora di più. Assaporo ogni sfumatura di quel profumo che mi circonda e trovo nel desolante cielo plumbeo la mia pace. Fisso incessantemente le nuvole grigie sfilare sopra di me, mentre il vento scuote le foglie degli alberi nascosti dalla nebbia, celando qualunque altro rumore del sottobosco. Quest’ultima conclusione mi mette una certa agitazione addosso, ma scaccio quel pensiero non ben identificato e chiudo gli occhi. Percepisco la condensa del mio respiro solleticare le labbra, le quali si dischiudono liberando un profondo sospiro, per poi tracciare un sorriso appena una voce angelica mi sussurra nella mente. Non capisco cosa dice, ma io reagisco subito a quel richiamo. Alzo la testa e incontro due grandi occhi smeraldini, illuminati da un sorriso abbagliante. Il mio cuore si apre e tutto il mio animo esplode di felicità.
LEI…
Articolo qualcosa con le labbra. Un nome? Non lo so, il mio cervello non è in grado di registrare nulla di quello che mi sta accadendo. So solo che lei annuisce e mi accarezza la guancia. E’ così strano: mi rendo conto di ciò che sto facendo, però ogni azione è estranea a me, come se fosse un’altra vita, un altro tempo… Un altro me. Osservo le sue labbra muoversi:
-Mi sei mancato…-
-Anche tu.-, rispondo IO di rimando.
-Perché? Non ti conosco nemmeno! -, urla la mia voce. La visione traballa e una strana forza mi ricaccia indietro, riacquistando il controllo del mio corpo.
Il suo viso si rattrista e sento il mio cuore perforato da quella sofferenza.
Ma che sta succedendo? Perché non riesco a udire la sua voce? Con chi sta parlando?
-Lascialo andare… Non è ancora l’ora.-
Come? L’ora per cosa?! Cosa sta succedendo?!
La vista si offusca ancora, ma non a causa della forza di prima. Sembrano quasi… lacrime!
Sospiro pesantemente. Il pensiero di andarmene mi devasta. Darei qualunque cosa per passare ancora qualche secondo con lei, ma quella voce strepitante non mi permette di trattenermi oltre. Maledetto, maledetto!
-Ti amo, E…-

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-CLOUD!-
Due ceffoni ben piazzati sulle guance mi riportano brutalmente alla realtà, la quale mi accoglie con gli occhi rossi del pistolero. Lo riconosco, ma a quanto pare a lui non sembra sufficiente; poiché Vincent afferra le mie spalle e mi scuote ancora.
-Cloud, rispondimi!-
La sua voce è apprensiva. MOLTO apprensiva. TROPPO apprensiva. Comincio a preoccuparmi. Lo vedo alzare lo sguardo e lanciare un’occhiata di fuoco al diario. Vincent… che succede?
Poi delle voci dal corridoio attraggono l’attenzione del moro. Distinguo la voce di Tifa svettare sulle altre. Vengo preso dal panico: Il diario! Il diario é aperto sulla scrivania! Vincent presto fa qualcosa! Come se mi avesse sentito, il pistolero asseconda il mio desiderio ed eclissa quel libro nei tanti nascondigli celati dal mantello rosso. Sorrido grato alla sua scaltrezza. Almeno credo. Mi accorgo solo ora che c’è qualcosa che non va, ovvero appena Tifa trasale terrorizzata sull’uscio e si precipita verso di me, travolgendo per poco un preoccupatissimo Vincent. Ella mi afferra i lati della testa e mi scuote, finché non si accascia ai miei piedi, sconfitta. Non sento più nulla, nemmeno la sua voce chiamarmi disperata, mentre grosse lacrime scendono dai suoi occhioni color resina.

Non piangere, angelo mio. Non ti lascerò mai sola.

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Non devi morire adesso…                                                                                                                        
Non abbandonarmi!
Cloud.

Resisti!
Non arrenderti!
 Non adesso…
Ti prego…
Cloud.

Svegliati!


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Apro gli occhi di scatto e un soffitto meramente grigiastro è tutto ciò che mi si presenta alla vista. Ovunque mi trovi, sembra essere un posto oscuro. Non percepisco né il profumo di fiori di Aerith, né la rassicurante presenza di Zack. Qualunque sia questo posto, sicuramente non è il Paradiso.
Alla fine i miei peccati mi hanno raggiunto.
Faccio giusto in tempo a terminare questo pensiero che una valanga di sensazioni mi travolge. Dapprima il dolore: incessante, profondo, ovunque, mi dà la certezza di non essere ancora morto; poi l’odore macabro di disinfettante e lenzuola sterilizzate mi svela il luogo in cui sono disteso. Non del tutto certo delle mie supposizioni, tuttavia, provo a girare la testa, ma una fitta terrificante al collo mi blocca a metà del gesto, lasciandomi giusto il tempo di distinguere uno schermo nero su cui una linea verde ha dei singulti regolari. Infine, l’udito si risveglia e mi permette di ascoltare il rumore incessante e fastidioso di quel dannatissimo elettrocardiogramma.
Bip………………………...bip…………………….bip………………………….bip………………………..bip…………………….
Santissimi Esper! Impazzirò se dovrò ascoltare questo odioso suono per tutto il giorno, senza contare il feroce mal di testa che mi sta suscitando. Grugnisco nervoso e cerco di muovere la mano alla ricerca del campanello d’emergenza, quando, tra la ruvidezza delle lenzuola, non sfioro la morbidezza e il calore della SUA pelle.
Tifa…
Sobbalza, appena percepisce la mia mano attorno al suo braccio, svegliandosi di soprassalto. Stava dormendo. Bip…………….bip…………..bip…………bip……………bip………….bip………….bip……………..bip…………….
Si guarda attorno confusa. Povera Tifa, sembra invecchiata tutta d’un colpo; a giudicare dalle rughe che increspano la fronte e i lati della bocca e le grosse borse che segnano gli occhi gonfi. Appena il neon sopra al letto la illumina, noto che le sue guance sono segnate da vecchi corsi di lacrime cristallizzate. Mi sovviene l’ultima immagine che ho di lei e mi stringe il cuore. Chissà per quanto ha pianto da quando sono svenuto…
Appena incrocia il mio sguardo dispiaciuto, un sorriso meraviglioso si allarga sul suo viso straziato, scacciando via ogni traccia di tristezza e disperazione. Con un solo gesto Tifa torna la ragazza splendida e bellissima di cui sono sempre stato innamorato, facendomi sentire subito meglio. Bip………..bip…………bip…………bip………..bip…………….bip…………….bip………….bip………..bip…………..bip………
-Cloud!-
Solo il mio nome proferito dalla sua voce angelica e mi sento rinvigorire. Mi accorgo appena della sfumatura roca e della nota stonata donata dall’emozione. Le sorrido e stringo la sua mano, per quanto i miei muscoli indolenziti mi permettano. Lei ricambia con vigore a entrambi, mentre lacrime di felicità iniziano a scenderle dagli occhi.
-Tifa…-, sospiro io, esausto.
Ride.
Bip…bip….bip….bip….bip…………….bip……bip…..bip…..bip……bip……bip…..bip…..bip…..bip….
Si alza dalla scomoda sedia di metallo e mi abbraccia, facendo attenzione a non strappare tutti i fili che mi si attorcigliano sul petto. Mi stringe fortissimo a lei e la sento piangere silenziosamente, incavata nel deltoide. Chiudo gli occhi e lascio che il suo profumo lavi via quello impersonale e sterile dell’ospedale di Edge. Mi concentro su di lei. Vorrei abbracciarla a mia volta, ma non ne ho la forza. Sono spossato fino alle ossa. Mi trovo a chiedermi come ci sia finito qui. Ho solo dei ricordi confusi: voci, visi, immagini, lettere, sensazioni convulse in un vortice indistinto di oblio incerto. Ma poi ogni certezza torna ad illuminare la mia mente, non appena Tifa torna a guadarmi. Nei suoi occhi ci sono tante emozioni: sollievo, felicità, stanchezza, solarità, amore. Tanto amore.
Sono qui con te, angelo mio. Per nulla al mondo ti lascerò andare via.
Tifa appoggia la fronte contro la mia e ci guardiamo a lungo l’uno nelle iridi dell’altra; nel frattempo che le sue mani mi accarezzano i capelli e il viso.
Sospira profondamente. E’ sollevata nel vedermi ancora vivo; ma poi il suo sguardo si abbassa e si rabbuia. Mi chiedo cosa le abbiano detto i dottori per spaventarla così…
Alla fine, mi guarda di nuovo e quella luce risplende ancora. Avvicina le sue labbra alle mie e mi bacia. Bip…bip…bip….bip….bip…bip…bip…bip…bip…bip…bip…bip…bip…bip…

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-Una settimana?!-, esclamo incredulo.
Vincent annuisce gravemente senza distogliere il suo sguardo studioso. Senza pensarci mi guardo attorno nella speranza d’incrociare gli occhi di Tifa, ma mi rendo conto che non si trova nella stanza. Per la prima volta, da quando sono stato ricoverato, la mia ragazza non è accanto a me. Ed è anche la prima volta che parlo con qualcuno di come sono arrivato qui e perché.
-E ritieniti fortunato. I dottori non avrebbero scommesso mezzo guil sul tuo risveglio.-
-Ero messo così male?-
-Mh… Ogni tuo orifizio vomitava sangue. Giudica tu.-
Alzo il sopracciglio: sempre molto delicato Vincent Valentine. Concentro lo sguardo su un punto indefinito e cerco di focalizzarmi sugli avvenimenti di quel giorno. Sento che c’è qualcosa d’importante sepolto nelle mie memorie, ma sembra quasi che mi sia stato cancellato. Mi sovvengono stralci di dialoghi, ma nulla che possa ricondurmi al malore subito. Sicuramente c’è lo zampino di Sephiroth in questa storia…
-Ora devo andare. Ci vediamo domani.-, si accomiata Vincent.
-Un momento!-
Il pistolero si blocca: anche se l’alto colletto e i capelli corvini m’impediscono di vedere il suo viso, so per certo che ha smesso di respirare. SA cosa sto per chiedergli e sperava che me ne fossi dimenticato. Forse poteva essere la volta buona per portarmi via l’oggetto a cui tengo di più nell’intero universo.
-Il diario. Ridammelo.-, la voce è uscita più intimidatoria di quanto volessi, però è del tutto lecito. Quel diario maledetto mi sta svelando segreti a cui non riesco a staccarmi. Anche a costo della mia vita, scoprirò ogni più infimo segreto del mio peggior nemico.
-Cloud…-, Vincent lascia la maniglia della porta e mi rivolge il suo sguardo più afflitto,- questa cosa ti ha quasi ucciso. Credi che sia saggio continuare con questa follia?-
-E’ solo un incidente di percorso. E’ solo un dannatissimo libro.-
Io sono il primo a non credere a queste parole, anche se risuonano da un passato non troppo lontano, a cui avevo dato un bel po’ di credito. E probabilmente avevo ragione. C’è qualcosa in quel libro che mi spinge ad affezionarmici morbosamente e io voglio capire perché.
-Non è vero. Guarda cosa ti ha fatto! Cosa sta facendo alla tua famiglia!-
Rimango basito davanti agli strepiti di Vincent: non l’ho mai visto così furioso, così… così… umano. Allora anche lui teme Sephiroth, teme il suo potere e le sue capacità come tutti noi. Sto scoprendo così tante cose anche su di lui ultimamente. Sospiro stanco.
-Vincent, capisco che tu voglia proteggere me e gli altri da me stesso, ma è una cosa che DEVO fare.-
-Perché?-, ruggisce.
-Perché sento che questa è la cosa giusta da fare. Ho capito molte cose leggendo quel diario. Cose che non si perdonano, cose che andranno perdute per sempre. Era un uomo diverso di quello che noi tutti abbiamo conosciuto: aveva degli amici e… una donna!-
A quella rivelazione, Vincent sobbalza.
-Già. Voglio sapere chi fosse e, soprattutto, se è ancora viva.-
Quella possibilità lascia spazio ad un pensiero ancora più terrificante, il quale viene svelato dal pistolero stesso.
-Non solo…-, la sua sicurezza va a spegnersi di fronte a ciò che sta per proferire, tanto da aspettarmi che lasci la frase a metà,- E se ci fosse anche un erede?-, rivela tutto d’un fiato.
Una possibilità da far accapponare la pelle. Un erede. Il primo di una stirpe maledetta. Un gelo senza fine s’insinua nelle nostre ossa al pensiero che il suo sangue permane ancora su questa terra e chissà quante donne o uomini ne sono stati infettati. Un fruscio attira la mia attenzione, interrompendo la linea dei miei ragionamenti. Il pistolero svetta accanto al mio letto e mi porge il diario.
-Stai attento.-
Annuisco e afferro il libro, ma incontro una certa resistenza quando faccio per tirarlo a me. L’ex-Turk è restio a restituirmelo, la sua espressione angosciata parla per lui, ma alla fine decide di ridarmelo. Mi allarma la profonda sensazione di sollievo nel riaverlo tra le mie mani. Senza indugiare, lo apro e la SUA scrittura mi accoglie con tutta la sua perfetta bellezza. Mi era mancata…
-Cosa racconterai a Tifa riguardo tutto questo?-, mi chiede una voce.
Alzo la testa di scatto e vedo il moro guardarmi, in attesa. Tifa? O sì!
-Qualcosa m’inventerò…-, rispondo, alzando le spalle con aria menefreghista, mentre i miei occhi ritornano famelici alla lettura. Ora che il diario è qui con me non c’è più nulla di cui preoccuparsi…

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12 Dicembre XXXX

Non credo di aver mai desiderato la neve con così tanto ardore, per quanto possa sembrare paradossale. Dopo un autunno rosso, finalmente quel balsamo bianco cala dalle alte montagne e segna l’inizio di una breve tregua da questa nera follia. Negli ultimi mesi, gli uomini hanno ritrovato la volontà di combattere e siamo riusciti a mettere a segno molte vittorie importanti, tanto da spegnere i desideri ardenti e sacrileghi dei nostri nemici. Anche se non è stato per nulla semplice sedare totalmente la loro voglia di sangue. E’ stato necessario l’arrivo di un precoce e rigido inverno per indurre la resistenza a smettere questo genocidio insensato e vile. Ora che i valici sono chiusi dalle abbondanti nevicate, i Wutai si sono rintanati nelle loro fortezze montane ad attendere e pianificare gli attacchi primaverili. La priorità, ora, è riorganizzare i territori conquistati e impostare le difese in previsione delle battaglie future. Ho deciso di stabilire la sede Centrale di tutte le operazioni qui a Garyo, pertanto sono in atto i lavori di ampliamento e aggiornamento del vecchio stabile militare e della zone circostante. Pian piano vedo questo edificio trasformarsi sempre più e osservo con profonda tristezza lo svanire della sua bellezza antica. I giardini privati, con i loro splendidi pratini verdi, le lanterne di legno, i ponticelli sospesi su piccoli fiumiciattoli, sono scomparsi, lasciando posto alle sale mensa e i capannoni che ospitano le camerate. Grazie al cielo, l’area militare copre una grossa fetta di Garyo ed è localizzata nella periferia della città, altrimenti avremmo dovuto costringere molte persone ad abbandonare la propria casa. Ho fin troppi sfollati di cui occuparmi, sarebbe sciocco procurarmene degli altri… Già molte persone sono state evacuate qui, dopo la distruzione di Meijin e Dashiro, e molte altre se ne sono unite nei mesi successivi. Il daimo ha fatto istituire dei campi profughi nella zona Est della città, ma le strutture fornite sono del tutto insoddisfacenti per una dignitosa esistenza per quella gente. Spero che con la cessazione delle battaglie si possa iniziare a migliorare quelle zone, istituendo ospedali e scuole. Intanto, sto dando a quegli uomini e a quelle donne un lavoro, invitandoli ad aiutare i miei soldati nella realizzazione dei miei progetti. Molti giovani si sono uniti alle Squadre del Controllo Cittadino e, grazie alla grossa campagna pubblicitaria voluta dal Presidente stesso, iniziano a vederci come dei salvatori. Non possono essere più lontano dalla realtà. Abbiamo rubato la loro terra, la loro dignità, la loro casa… e ci devono pure ringraziare? Che schifo di ipocrisia! Quanto è facile abbindolare quelle sciocche, sognanti, stupide menti! Per quanto la maggior parte mi additi ancora come un mostro sanguinario, molte di quelle giovani reclute iniziano a guardarmi come un esempio da seguire, il guerriero secondo in cui ogni uomo debba trovare la sua strada. La reincarnazione dello spirito Wutai. Non posso far altro che chiudere gli occhi e passare avanti, fingendo di non aver sentito. Cosa ne è stato del vostro onore? Delle tradizioni che proteggete con sì tenace caparbietà? Perché vi abbassate al nostro miserabile livello? Voi che discendente da magnifiche stirpi di potenti guerrieri che hanno dato la vita affinché la vostra cultura viva negli eoni a seguire, perché volete imparare da noi, un popolo che ha fatto dell’estorsione e della menzogna la sua religione? Come di sovente sono impotente di fronte alla stupidità dell’uomo. Non c’è altro da fare che approfittare di questa gente disperata e lasciare che siano loro, e non i miei soldati, a rischiare la vita sul posto di lavoro, alla mercé delle intemperie. In un modo o nell’altro, caduti su caduti si vanno ad aggiungere alla lunga lista di fallimenti personali. Questa guerra mi sta costando molto più di quanto il mio cuore possa reggere.
 Finora la costituzione di torrette difensive lungo il perimetro del solo Distretto Rosso hanno richiesto la vita di 100 persone, la costruzione di guarnigioni disseminate in tutto il nostro territorio 220, la realizzazione di efficienti linee di comunicazione 1500, l’ampliamento della rete satellitare 200, l’edificazione di eliporti 500, e potrei continuare per pagine e pagine. La maggior parte delle morti sono causate dagli attentati di cellule ribelli dure a morire, mentre il resto è dovuto alle condizioni precarie in cui questa gente è costretta a lavorare e, soprattutto, dalla fame. Quest’ultima è una piaga che sta decimando più persone della guerra stessa. Il territorio di Wutai è un territorio duro in cui sopravvivere, richiede completa dedizione e armonia: una lezione che ho imparato a duro prezzo. La guerra ha scombussolato tutto. I campi sono stati bruciati, le case distrutte, la gente ammazzata, le acque inquinate dai cadaveri. Il lago Kyo, ovvero il più grande bacino di questa regione, è ora una distesa di acque rosse e macilente, oltre che essere testimone di una delle più cruente battaglie a cui io abbia mai partecipato. Credo che quella di Kyo entrerà negli annali della storia, come il coronamento di una carriera dedita allo sterminio e alla Morte. I giornali, in patria, ne hanno parlato per settimane, così mi è giunta voce. E ancora oggi i suoi effetti si ripercuotono su di noi: la più vicina scorta d’acqua è contaminata dal sangue di centinaia di cadaveri putrefatti e molti dei pochi sopravvissuti a quel massacro hanno disertato per motivi psicologici. La follia che devono aver letto nei miei occhi non credo che se la dimenticheranno facilmente. Perfino Angeal e Genesis stentavano a riconoscermi quel giorno. Non so perché, ma in quella battaglia venne riversato tutto l’odio e il rancore che serbavo da giorni nel cuore. Meijin, Dashiro, Faryu, Honjiku, Valico Kenji, Sin’tei… Tutta la tensione accumulata in quella serie di schermaglie interminabili si è sfogata quel giorno. La belva grattava sotto lo sterno da troppo tempo; da troppo tempo odorava il sangue senza assaggiarlo davvero. Ho tentato di tenerla a bada per tutto l’autunno per conservare la lucidità necessaria di creare strategie, combattere con saggezza, salvare più uomini possibili; ma alla fine ho ceduto. Sarebbe stata l’ultima battaglia dell’anno e gliel’ho concessa. Mi stava lentamente consumando: se non avesse avuto il suo tributo di sangue subito, lo avrebbe reclamato da me. Ho chiesto perdono al cielo, un perdono che non credo arriverà mai… Sono una bestia troppo demoniaca per osare tanto. Possibile che nessuno recepisca questo grido di aiuto?
Preferisco non pensarci, non voglio rivedere quelle orrende immagini che hanno abitato i miei incubi per notti intere. I miei amici hanno cercato di capire il motivo di tanta rabbia, ma mi rifiuto di metterli al corrente di quale demone è celato nel mio animo. Non voglio che provino pietà per me. Non la merito. L’unica cosa di cui ho bisogno è starmene in compagnia di me stesso, a meditare. Dopo tanta azione ho bisogno di un po’ di calma; il fatto è che non amo stare con le mani in mano, quindi ora mi sto dedicando ad un lavoro che avrei dovuto fare molto tempo prima: stilare la lista dei caduti. Ho le loro piastrine qui davanti a me, recapitate da ogni angolo sanguinante di Wutai dai compagni sopravvissuti; il portatile collegato con il database centrale SOLDIER a Midgar, affinché la Compagnia informi le famiglie della morte di questi uomini e il mio fedele diario pronto a raccogliere le angosce che questo affliggente compito mi suscita. Il pensiero di quelle famiglie spezzate mi riporta alla mente un ricordo che da tanto tempo non rimembravo: l’immagine della madre di un mio camerato accartocciata sugli averi del figlio morto, i quali mi ero incaricato di restituirle una volta tornato da Corel. Il singhiozzo disperato di quella povera donna sola e vedova davanti alla mia cruda freddezza della verità fa da accompagnatore al triste tintinnio delle piastrine metalliche. Joy Akerman, era il nome di quel soldato. Non saprei dire se l’avessi mai considerato un amico, ma so per certo che lui si era affezionato a me. All’inizio lo odiavo. Era un bullo nato. Adorava alla follia sfottere chi era più debole, anzi, chi temeva di più. Naturalmente, un quattordicenne schivo e solitario non poteva che essere la sua preda preferita. Aveva un seguito davvero enorme che mi rese il periodo dell’addestramento un vero inferno. Per quanto non lo sopportassi, lo invidiavo molto per la spontaneità con cui riusciva a stringere amicizia. Io non ci riuscii mai, per quanto mi impegnassi, finivo sempre col litigare con qualcuno. Li trattavo con sufficienza, dicevano. Ma l’amicizia, per quanto forte possa essere, non ti salva dalla Morte certa. Joy era pieno di “amici”, eppure, quel giorno, tornai io indietro a salvarlo dai proiettili nemici; fui io a trasportarlo in spalla fino al punto di raccolta, mentre attorno a noi esplodeva il finimondo; fui io a curare la ferita che aveva reciso l’arteria femorale. IO, quello strano ragazzino che prendevi sempre di mira, ti salvò la vita. Si ravvide per il suo comportamento e giurò di ricambiarmi il favore. Per quanto gli ripetessi che non era necessario, lui fece sempre come voleva. Mi ricorda molto Genesis con un pizzico di Angeal, ora che ci penso. In battaglia mi era sempre alla costole e il suo debito nei miei confronti salì esponenzialmente, siccome aveva la malsana tendenza di non pensare prima di agire o di essere sempre nel posto sbagliato al momento sbagliato. Sebbene lo ripresi molte volte, la sua schifossissima testardaggine riuscì a saldare il suo conto. Ma, come sempre, salvare la mia vita richiede un prezzo altissimo. Si prese una pallottola al posto mio. Una pallottola che gli colpì il cuore. Morì sul colpo. Non potei far nulla per salvarlo, quella volta.
Quando tornai in patria, svuotai il suo armadietto e una fitta di nostalgia mi artigliò la gola. Constatai in quel momento che non piansi mai per lui. Ai miei occhi era solo un vecchio bullo testardo che usava il nastro nascente di SOLDIER per pararsi il fondoschiena durante le battaglie; ma forse il vero egoista ero io. Ero così abituato a evitare qualsiasi rapporto con i miei commilitoni da non credere nemmeno un momento che uno di loro volesse davvero essermi amico. L’ho trattato peggio di una suola da scarpe per vendicarmi dei suoi odiosi dispetti, però mi è sempre stato accanto, nonostante il mio brutto carattere. Non l’ho apprezzato quando ne ebbi la possibilità e, lì, davanti al suo armadietto svuotato e sigillato, il nome strappato via e già sostituito con un altro, compresi il vuoto che aveva lasciato nella mia triste esistenza. Ricordo che abbassai lo sguardo sui suoi effetti personali, ammassati ordinatamente in uno scatolone da ufficio ai miei piedi, e rimasi immobile per qualche secondo a contemplarli. C’erano così tante cose in quello scatolone, tanti ricordi, tante speranze, tanti sogni. Mi sentii in colpa di essere vivo. Non potei fare a meno di pensare: “
Se lui si fosse arreso e quella pallottola mi avesse colpito, cosa troverebbe nel mio armadietto?” Nulla. Ecco cosa avrebbe trovato. E poi… A CHI avrebbe portato quello scatolone vuoto? A nessuno. Ecco la risposta. Spesso mi chiedo cosa avrebbe pensato di me, se fosse toccato a lui. Probabilmente che non ne era valsa la pena rischiare la sua preziosa vita per uno che la vita non sa nemmeno che cosa sia…
Stupido Joy Akerman! Perché mi hai messo una tale colpa sulle spalle? Perché mi rinfacci tutte le cose belle che avevi? Perché salvare la vita di uno spocchioso ragazzino dal carattere indomabile? Cosa ha visto in me di così prezioso da proteggere?
Come questa sfilza di nomi: molti di loro non so nemmeno che faccia abbiano, dove sono nati, dove sono morti, come hanno vissuto; eppure sono morti per inseguire il mio mito… Anche se una cosa è certa: hanno decisamente avuta una vita migliore del loro idolo. Molte di queste piastrine mi sono state recapitate singolarmente da compagni d’arme che le raccolsero direttamente dal corpo rigido e gelido dell’amico caduto. Ogni nome inciso su questo metallo racchiude la disperazione per la perdita di una forte amicizia, la terribile realizzazione di speranze infrante, promesse che non potranno mai essere mantenute. Non oso contare quanti nomi sto trascrivendo. Mi sembrano infiniti. Questa montagna di metallo non accenna ad abbassarsi e la lista è già lunga una decina di pagine. Alcuni nomi non sono nemmeno certo di averli decifrati bene, tanto alcune piastrine erano rovinate dalla ruggine e dal sangue incrostato. Chissà quante famiglie verranno contattate erroneamente oppure quante non verranno informate affatto? Non voglio pensarci.
A volte mi capita di chiedermi che farei se dovessi essere privato della compagnia dei miei unici amici. Come reagirei? Sarei in grado di farmene una ragione? Avrei il coraggio di rivedere lo strazio di una madre privata del figlio? Ritroverei la forza per affrontare la triste realtà del mio terrificante destino? Tanti dubbi di cui spero di non avere mai le risposte.
L’odore pungente di carne carbonizzata mi distrae un attimo dal mio lavoro e mi induce a osservare la colonna di fumo che sale dal cortile della caserma. Intravedo altri falò in lontananza, verso i distretti principali della città. La fame e la miseria hanno portato una nuovo piaga, la quale sta dilagando rapidamente in tutti Distretti: un’epidemia. Noi SOLDIER d’alto rango siamo immuni alle malattie, ma i fanti non ancora: il mako nei loro corpi non è ancora sufficiente da potenziare in modo così esponenziale il sistema immunitario. Gli ospedali militari e quelli civili sono presi letteralmente d’assalto da ammassi di morti che camminano. Le medicine non bastano per tutti, sebbene sempre più associazioni di medicina volontaria raggiungono le zone colpite dalla guerra. Sono sempre più di aiuto della Compagnia. Quei maiali dei piani alti, pensano bene a tenere i loro sporchi guil sotto al cuscino invece di devolverli alle casse militari. Quel moccioso viziato e quello spilorcio di suo padre non fanno altro che incitarmi allo sterminio della loro sudicia famiglia. “
Non siamo crocerossine, tantomeno una mensa per poveri. Degli animali se ne devono occupare gli animali. Lasciali morire e non chiedermi più finanziamenti per queste sciocchezze.” Quella che ho appena trascritto è la definitiva risposta del Presidente al fronte della richiesta da parte dell’Ufficiale Medico Gunt Ryan di altri finanziamenti per l’ospedale Honi di Garyo. Quando si presentò da me con questa e-mail ero indeciso se spaccare il portatile o tornare a Midgar di volata per ammazzare con le mie mani quel vecchio, grasso porco. Grazie al cielo, Angeal era lì. Ormai mi conosce, sa ben individuare i segni premonitori di una sfuriata ed è intervenuto giusto in tempo, chiedendo a Genesis se suo padre avesse ancora da parte quel gruzzolo delle grandi occasioni. Grazie a quell’intuizione, la situazione sanitaria è migliorata, grazie all’intervento di Rhapsodos Segnor, del quale ho avuto l’onore di conoscere. Ovviamente, Genesis ne ha approfittato per chiedere al padre di raggiungerlo. Come il figlio, è sicuramente un tipo stravagante, ma è acuto, molto acuto. Ho compreso che ha studiato medicina in gioventù e che, contro il parere del padre, gli anni successivi alla laurea gli abbia passati con i medici della Missione Sanità Mondiale. In pratica, non è la prima volta che si reca in territori caldi a portare speranza e salute alle persone. Ora ha anche i mezzi finanziari per mandare avanti una missione tutta sua ed è ciò che ha fatto. Ciò gli rende davvero onore.
Avessi io un padre così…

Tra l’altro, il rosso ha approfittato della visita del padre per farsi recapitare un libro epico: LOVELESS. Anch’io lo lessi tempo fa, ma non mi prese più di tanto. Ora sono praticamente costretto a impararlo a memoria: Genesis ne cita un pezzo almeno venti volte al giorno… Uno strazio! Almeno aggiunge un senso di poeticità in una realtà dove ignoranza e superstizione fanno da padrone. Se non fosse per uomini come il padre del rosso, saremmo in balia di belve depravate come Don Corneo. Questo mafioso pervertito ha pensato bene di ampliare il suo sporco traffico anche qui in Wutai, approfittando della disperazione di tante giovani donne. Purtroppo la cultura maschilista di questo Continente non dà molte rosee prospettive alle genere femminile. Se non vengono fustigate dai loro stessi uomini per motivi vari e futili, molte di loro si concedono ai palati affamati dei nostri soldati, con o senza volontà; oppure vengono accalappiate da organizzazioni criminali e costrette a prostituirsi lontano dalle loro famiglie e dalle loro case. Vorrei fermare questo abominio, ma questo Paese ha così tanti problemi che non ho l’organico sufficiente per fermare ogni singola ingiustizia. Vorrei avere il dono dell’ubiquità… Fortunatamente, c’è chi lotta per queste donne. Mi è giunta voce che proprio qui a Garyo vivano le più grandi geishe del Paese. Donne dalla nobiltà e bellezza tali da essere desiderate perfino da un Re. Non ci giurerei, alla fine non sono altro che prostitute d’alto rango, che hanno trovato nella camera da letto dei grandi capi del Paese la loro vocazione. Fuori saranno anche bellissime, ma dentro non credo che valgano molto più delle prostitute che si portano a letto i soldati. Non approvo la scelta cosciente di queste donne a disonorare così il proprio corpo. Comunque, il capo di questa, se così vogliamo chiamare ,“resistenza”, una tale Sakura, mi ha invitato a udienza segreta per discutere della sua richiesta. Non conosco i dettagli, anche perché mi è stata recapitata in un modo alquanto singolare: attraverso un fiore di sakura, volato sul davanzale della finestra. Gli ideogrammi erano incisi sui singoli petali con una tale maestria da essere riuscito perfettamente a capire cosa ci fosse scritto. Devo ammettere che questa donna mi ha stupito, anche se da un lato sono allarmato. Potrò fidarmi? Se è così abile da far giungere un fiore sull’orlo della mia sfera privata, cos’altro sarà in grado di fare? Stranamente, però, non sono preoccupato: più guardo quel fiore, più ho come la sensazione di avere un dejà-vu.
Che sia…?
No, non può essere LEI… Mi rifiuto di credere che un tale splendore possa essere alla portata di tutti. Che io abbia ceduto alle lusinghe di una meretrice. No, mi rifiuto di crederlo!
Ho finalmente finito di trascrivere tutti i nomi delle targhette. Il file è di una grandezza sconcertante… Inviarlo via e-mail richiederà tutta la notte, almeno. Genesis è partito stamattina come scorta di suo padre e dei medici della Missione Loveless – naturalmente, non può uscire altro nome dalla bocca del rosso- alla volta di un villaggio di pescatori vicino Bodika; mentre Angeal l’ho trasferito di stanza a Kyo, a sovraintendere le operazioni di risanamento del lago. Ho bisogno di altri uomini fidati da inviare come miei rappresentanti nelle zone strategiche del territorio. L’idea di creare un’élite dell’élite di SOLDIER mi accarezza da parecchio tempo e questo periodo di rodaggio nell’Inferno deve aver pur dato alla luce qualche diamante grezzo.
L’ora dell’appuntamento con questa Sakura è vicino. Non è da galantuomini far aspettare una signora, se così la si può definire.

13 Dicembre XXXX

Ho tanto caldo. La mia testa è così leggera. Il mio stomaco si sta ribellando. Il mio cuore ha smesso di battere già da ore.

Era davvero lei…
Dei del cielo… Finalmente una delle mie preghiere è stata accolta.

Sakura

Come i fiori che hanno permesso ai nostri destini d’incrociarci, quella notte di fine primavera. E oggi come allora, ella è giunta nel mio momento più buio per illuminare con la sua solare bellezza la mia anima nera e scaldare con la sua voce incandescente il mio cuore ghiacciato.
E’ ancora più bella di quanto mi ricordassi.
Quegli occhi e quel sorriso… Santo Esper! Da vicino sono ancora più meravigliosi di qualsiasi altra cosa.
Quelle labbra rosse sono una tentazione troppo forte per resistere: l’avrei baciata all’istante, se solo avessi potuto. Quando mi apparve davanti agli occhi, sentii il cuore perdere un battito. Chiusa nel suo kimono bianco, pareva una di quelle regine medioevali raffigurate spesso a fianco dei testi di madrigali scritti in lode alla bellezza. Lei le superava tutte; non sarebbero bastati 1000, 10000, 100000 canzoni per descrivere quanto fosse meravigliosa questa sera. Eppure era così semplice: le sue vesti non erano di seta di prima qualità, ma lei avrebbe reso prezioso anche un’armatura di ferro arrugginita; una coda di lato chiudeva i lunghi capelli corvini che le cadevano lungo un lato del corpo; nessun trucco copriva quella splendida pelle lunare; le labbra splendevano con la loro naturale arrossatura.
Non riesco a togliermi dalla testa quel sorriso… E quegli occhi. Verdi. Verdi come due smeraldi purissimi. Similissimi a quelli di Aerith, anche se quelli di Sakura splendono di una luce che mi ha sfolgorato sin da subito: determinazione. Cruda e fredda determinazione di raggiungere un preciso obiettivo. Era straordinario il fascino che suscitava in me nell’udire la sua calda voce spiegarmi il motivo della sua chiamata e osservare i suoi eleganti e misurati movimenti nel servirmi il tè. Forza ed eleganza in una sola persona, in un solo gesto. Non mi è passato nemmeno nell’anticamera del cervello la possibilità che la bevanda potesse essere avvelenata, tanto la sua aurea era travolgente. Avrei potuto morire, ma farmi uccidere da lei sarebbe stata una dolcissima morte. Non avrei potuto desiderare un modo migliore per andarmene: il profumo di gelsomino e il suo sorriso. Niente di meglio…
Questo spiega la strana energia che percepii tra me e lei la prima volta, e che ha permeato tutto l’incontro . Qualcosa ci ha legato, indissolubilmente, per l’eternità.

La voglio.

La desidero più di ogni altra cosa. E’ stato dannatamente difficile concentrarsi sul semplice discorso. Di solito, quando mi affidano una missione, non m’importa dilungarmi troppo sui dettagli. Le mie uniche domande sono quando e dove. Ma questa volta no. Questa volta sarei stato tutta la notte in sua compagnia; anche perché, oltre che essere bellissima, è molto intelligente, accorta ed educata. E’ capace di centrare il punto del discorso con estremo tatto, senza scadere nel banale o nel volgare. E’ attenta a tutte le parole e fa di tutto per mettere l’interlocutore a proprio agio, risultando perfino troppo umile – per tutto il tempo mi ha dato del Voi e mi chiamava col mio titolo militare-. Di solito tendo a mettermi sulla difensiva, innalzando un muro impenetrabile cosicché le parole mi scivolino addosso come acqua corrente; con lei non mi è successo, anzi tutto l’opposto: avrei potuto dirle ogni segreto della Compagnia se solo me lo avesse chiesto. Inoltre, è una straordinaria osservatrice, in quanto più di una volta è stata capace di anticipare una mia domanda o una mia mossa. Mi sono sentito… compreso. Per la prima volta nella mia vita, lei è riuscita a farmi sentire normale. Tutte qualità che non fanno altro che aumentare il mio interesse nel conoscerla più profondamente.
Il suo profumo impregna ancora il mio odorato e la sua voce mi accarezza ancora la mente. Come vorrei averla ancora qui con me.

Una doccia gelida mi ha ridonato quel minimo di sanità mentale per pensare a freddo su questa faccenda. Forse quel tè mi dato alla testa. Rileggendo le righe addietro, arrossisco violentemente: mi vergogno di me stesso. Questi sono i pensieri di uno sciocco ragazzino abbagliato da una cotta colossale. Non farti strane illusioni, Sephiroth, è una geisha. E’ NATA per manipolare i desideri degli uomini. Ogni movimento, ogni parola, ogni odore è studiato per traviare ogni ragione e deviarti ad assecondare le sue brame. Le geishe sono donne scaltre. Non cercano l’amore negli uomini, ma solo i loro soldi.
Desidera il mio aiuto per eliminare quella piaga di Don Corneo. E’ il mio stesso volere. Abbiamo lo stesso obiettivo, ma per interesse diverso: per me sarebbe un problema in meno di cui preoccuparmi, per lei un concorrente in meno sulla piazza.
Una volta completata l’operazione, ognuno per le sua strada…
Allora, perché il pensiero di non vederla più mi terrorizza? Perché non faccio altro che pensare ai movimento morbidi dei suoi capelli e alla fossetta nella guancia destra? Perché non riesco a pensare castamente a lei? Perché sorrido se ripenso al suo commiato?

“Spero di rivedervi , Generale.”


EVVAIIIIIIIIIIIIIIIII!!!! CE L’ABBIAMO FATTA!!! PEPEPEPEPEPEPEEEEEEEEEPEPEPEPEPPEEEEEEEEEEEEE!!!! E finalmente, anche l’ultimo nodo è stato sbrogliato! Dopo 11 capitoli di agonia, la donna misteriosa ha un nome (più o meno)! E anche un lavoro… diciamo… particolare. Già immagino le vostre facce (O____________________________________________o), ma non temete ci sarà una spiegazione anche per questo, quando si andrà a scoprire meglio il passato della nostra bella geisha. Che dire di Cloud… beh, dire che gli succedono delle cose strane è un simpatico eufemismo. Non sono certissima che farlo finire all’ospedale a questo punto della storia sia una buona idea, ma, sinceramente, a me piace così, tanto è Vincent che si preoccupa ^^ (-.-‘, umpf, ndvinny). Va bene, vi lascio in compagnia di questo capitolo per tutto il resto dell’estate, perché si prospettano per me dei mesi di mare su mare (che schifo la vita di una biologa ^^). Spero che vi faccia compagnia!
Alla prossima!
Besos

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Capitolo 12
*** Alba ***


Perplessità. Ecco ciò che provo. Null’altro. Il che è strano, poiché avrei scommesso la mia cagionevole salute su un ennesimo devastante transfert emotivo…
Che mi sia finalmente liberato di LUI?
Questo pensiero da un lato mi rallegra, ma dall’altro riempie il mio animo di una solitudine profonda, mai provata. So che è pura follia, però avvertire quella presenza, per quanto oscura e terribile, mi faceva sentire… come dire… sicuro. Potevo dirigermi nei luoghi più spaventosi, così vicino all’oblio, cavalcando situazioni così disperate da persuadere chiunque, uomini e creature, a continuare in quella pazzia; ma lui no. Lui mi avrebbe perseguitato fino in capo al mondo. Nessun luogo sarebbe stato troppo pericoloso e nessun tempo troppo lungo per l’Angelo Nero. Sephiroth sarebbe stato sempre la mia ombra, il punto focale nei miei ricordi. Non mi avrebbe mai lasciato andare, per quanto io possa impegnarmi, lo avrei trovato sempre ad attendermi al prossimo bivio che la vita mi avrebbe sottoposto. Il fiato caldo e avvelenato sul mio collo, mentre giudica ogni passo che compio; sgambettando per farmi crollare, parandosi davanti per impedirmi di avanzare; insinuandomi dubbi su dubbi. Ero arrivato ad abituarmi a quella presenza, fino a trovare nel suo freddo tocco la mia calma, la risoluzione a tutti i miei problemi.
Forse è per questo che non mi sono mai preoccupato delle persone che mi stanno accanto?
Mi passo una mano sulla fronte e scaccio quei pensieri. Ripenso a ciò che è successo una settimana fa, alle lacrime di Tifa, alla paura nella voce di Vincent… Sospiro pesantemente e nascondo il viso tra le mani.
Di nuovo. Sta accadendo di nuovo.
Sono un fallito. Possibile che sia solo capace di far del male ai miei amici? Di far soffrire la donna che amo? E tutto per cosa? Per venire a conoscenza che la fiamma del grande Generale Sephiroth, eroe di SOLDIER, garante della pace, protettore dei deboli, idolo indiscusso delle folle, non era altro che una geisha! Una geisha… una geisha…
Freno la mia rabbia e mi rendo conto di un particolare.
Che cos’è esattamente una geisha?
Mi sovviene subito un discorso affrontato tempo fa, quando ancora prestavo servizio alla Shin-Ra, con un vecchio commilitone che aveva partecipato alla guerra in Wutai. Ricordo che ci raccontava un sacco di aneddoti interessanti, ma il suo preferito era quello sulle donne wutainiane: “Un popolo bello strano non c’è che dire. Pieno di contraddizioni. Prendi le donne, ad esempio: fuori fredde come il ghiaccio, ma se sapevi giocare bene le tue carte o se avevi abbastanza soldi, dentro erano calde come lava bollente. Sono stato di stanza in parecchie città del Continente Occidentale, ma nessuna era come Garyo. C’erano vicoli interi dove, sia da una parte che dall’altra, c’erano case di piacere aperte ad ogni ora del giorno e della notte. Poi, se si andava nella parte alta, in quella ricca, le donzelle chiedevano delle cifre pazzesche, ma ti giuro che non ho mai speso così bene il mio denaro, ragazzo! Eheh… E poi c’erano quelle che noi chiamavamo “stellette”, ovvero quelle che se la facevano con gli ufficiali. Mi diceva il mio comandante che bisognava sborsare un bel po’ per farsela dare e capitava che non fosse quel gran che. Spesso e volentieri ti rifilavano delle verginelle impaurite e incapaci, quando quelle che avresti davvero voluto non ti calcolavano nemmeno, sebbene avessi del denaro sudato per pagarle. Con tanti sorrisi e belle parole ti mandavano in bianco senza che tu te ne accorgessi, scoprendo che i guil che hai speso era solo per un’ora di berciata. Una ragazza con cui sono stato mi ha detto che quelle loro le chiamano “geishe”, artiste, credo significhi, non ricordo, ma credo sia probabile: quelli fanno di tutto un’arte, perfino il sesso. Eheh, già… Comunque, mi ha spiegato di tenermi lontano da loro , perché, ha detto: se pensi di avere a che fare con delle galline ammaestrate ti sbagli, perché, sotto quei bei kimono e quei graziosi faccini, si nascondono feroci e velenose serpi.
Scuoto la testa e interrompo il ricordo. Gli uomini in tempo di guerra diventano degli animali e perdono ogni creanza nei confronti del prossimo. Sarebbe stato interessante se Sephiroth fosse stato lì ad ascoltare: chissà come l’avrebbe presa? Sospiro pesantemente e prendo la foto. Ormai conosco ogni singola sfaccettatura di quest’immagine, ma ogni volta mi pare di vedere una persona diversa. E’ così bella… Impossibile non venirne attratti. Possibile davvero che potesse essere così alla portata di tutti? Una misera sgualdrina? O una serpe infida?
Non sembri quel tipo di donna…
Infatti non credo lo sia, a giudicare da come la descrive LUI. Attenta, accorta, perspicace, educata, decisa, intelligente… forse non era una novellina, una di quelle verginelle che venivano rifilate agli ufficiali bonaccioni. Forse sapeva bene come ottenere ciò che voleva; come circuire la furbizia e la freddezza del Generale, fino a raggiungere l’ingenuo e innocente bambino affamato d’affetto nascosto nelle profondità di quell’anima buia. Egli definisce, infatti, questa categoria come: “donne che hanno trovato nel letto dei potenti del Paese la loro vocazione”. Donne dai facili costumi con l’unica differenza che sono talmente belle e raffinate da puntare in alto. Ciò, tuttavia, non toglie il fatto che questo dettaglio mi suscita una grande perplessità. Il ritratto che Sephiroth ha dipinto di se stesso è di un uomo profondamente moralista: mai e poi mai si concederebbe a un affare sporco come il sesso per denaro. Anzi, dalle informazioni che ho potuto acquisire durante la lettura, in quel periodo si stava impegnando a evitare che quella piaga dilaniasse per il Paese appena conquistato, frapponendosi a Don Corneo e tutti i suoi colleghi. Non sapevo che il mafioso avesse dei traffici anche da quelle parti, ma dopotutto la guerra è un piatto ricco da cui ogni tipo di feccia spilucca la propria parte. Forse è proprio per questo che è entrata in azione questa Sakura. Rileggo una frase curiosa: “mi è giunta voce che proprio qui a Garyo vivano le più grandi geishe del Paese”. Il Generale ha spesso ribadito come questa città fosse il fulcro della cultura Wutai. E ciò è davvero curioso che dei traffici del genere s’inviluppino tra le sue strade… uhm, c’è un punto che mi sfugge.
Inoltre, mi è difficile credere che Sephiroth, dopo aver scoperto l’identità di quella donna sorridente sotto la pioggia di petali, passi sopra ad un dettaglio del genere. In effetti, nelle ultime righe, trapela che la cosa lo turbi, ma non quanto avessi creduto. Sembra davvero completamente infatuato di questa ragazza, come se di colpo il suo cuore avesse ripreso a battere, risvegliando degli istinti a lungo sopiti. In effetti è esattamente ciò che lei suscita negli uomini. Come ha detto il Generale è la peculiarità più pericolosa di una geisha,-anche se, detta alla Cid, è una caratteristica di tutte le donne-. Ma sento che c’è qualcosa di più. C’è una curiosa energia che aleggia tra queste pagine, mentre parla di Sakura. Sembra quasi che qualcosa sia accaduto, legando i loro destini in quella fatidica notte. Egli dichiara che non si è mai sentito più compreso se non in quella stanza da tè assieme alla donna che desidera. Credo che lei abbia le capacità di andare oltre le apparenze dello spietato Generale SOLDIER e cogliere il morente ragazzo che c’è in lui, donandogli quei caldi sorrisi e quelle occhiate dolci. Dopotutto, non è così difficile rendere felice un uomo che nella vita non ha mai avuto nemmeno le cose più semplici… Sakura lo ha capito fin troppo bene ed è quello che ha affascinato Sephiroth fin dall’inizio.
Mi scappa una risata mesta: la serpe ha colpito dritto al cuore e non credo che sia stato solo un caso.
-EHI CLOUD!-
La stridula vocetta della Principessa Wutai mi scuote brutalmente dai miei pensieri, facendomi per poco prendere un infarto. Ho comunque, la freddezza di nascondere la foto nel diario e chiuderlo di scatto. Con il cuore in gola, cerco di articolare qualcosa che sembra un saluto…
-Y-Yuffie? Che ci fai qui?-
… fallendo miseramente.
La ninja assume un’espressione offesa, piantando i pugni sui fianchi nudi con cipiglio quasi regale.
-Non ti fa piacere che ti sia venuta a trovare?-
Cerco di mettere in ordine nella mia mente e provo ad essere cordiale.
-No, anzi… Scusami, è che ero sovrappensiero.-, mi sforzo di sorriderle, -Sei molto gentile a esserti preoccupata per me.-
Yuffie sembra lieta della risposta e sorride soddisfatta, mentre trotterella nella mia direzione. Con indifferenza copro il libro con le coperte, pregando ogni divinità possibile che la ragazza non se ne renda conto. Devo stare ben attento con lei, sembra una ragazzina ingenua e con la testa fra le Materie, ma è una ladra matricolata e ha un’incredibile capacità: riesce a notare tutto. Sebbene non sembri, Yuffie è la più pericolosa dei miei amici… e l’ultima persona che avrei voluto vedere in questo momento. Senza fraintendimenti, è una cara amica, capace di donare un po’ allegria alla nostra combriccola, ma se ci mette può essere terribilmente tediosa.
-Allora,- esordisce, mentre si siede sul letto.
Non so perché, ma quell’ ‘allora’ pronunciato con lentezza non fa altro che aumentare la mia ansia. Grazie al cielo mi hanno tolto l’elettrocardiogramma, penso appena mi accorgo degli effetti dello stress sul mio cuore,
- come va?-
Ok, rilassati e fai finta di niente. - Bene, grazie.-
Quegli occhioni neri e profondi mi scrutano attentamente. Mi sembra di essere sottoposto ad una TAC.
-Sono contenta! Ci hai fatto prendere un bello spavento. Io ero quasi sull’orlo di una crisi di panico, quando ti hanno portato via. E Tifa… non ne parliamo! Poveretta… Ma i medici cos’hanno capito di quello che ti è accaduto?-
Alzo le spalle. Qualche idea ce l’avrei, ma non lo vengo a dire certamente a te.
La ninja distoglie lo sguardo e assume una posa meditabonda, con il dito indice appoggiato sulle labbra e le braccia incrociate. Mi muovo sul letto a disagio. Cosa dannazione starà pensando quel cervellino?
Il tono cospiratorio che assume dopo qualche secondo di silenzio mi fa perdere un battito.
-Certo che è strano… Un ragazzo forte e in salute come te, quasi stroncato da un malessere così grave da costringerlo a letto per giorni.-
-Beh, non è poi così strano. Dopotutto, sono stato sottoposto a esperimenti che mi hanno incasinato la mente e reso un vegetale per un certo periodo. Poi ho contratto il Geostigma. Insomma, non sono mai stato proprio sanissimo. Magari questo malore sono i rimasugli del mio passato.-
La bocca ha parlato da sola e l’ho lasciata fare. Ne è uscito un vero capolavoro. Chi mai potrebbe non credere a una storia così? Ora sono io a studiare la ninja, la quale è tornata a far lavorare quel cervellino diabolico. Non è ancora convinta.
-Mh… I medici non ti hanno trovato niente?-
E come potrebbero? E’ tutto nella mia dannata testa. Questo pensiero me lo risparmio e scuoto il capo. Sephiroth non è così stupido da lasciar tracce così evidenti. A parte per il Geostigma, ma quella è un’altra storia. Il suo intento, stavolta, è ben diverso. Vuole mostrarmi il suo passato, vuole che lo conosca meglio; ma per quale motivo non mi è ancora dato a sapere. Istintivamente, abbasso il mio sguardo sulle coperte che celano il diario.
Perché proprio adesso?
Siamo stati uniti per molto tempo e non si è mai sognato di mostrarmi ciò che mi sta mostrando ora; lui non ha mai voluto condividere nulla con me, solo piegarmi al suo volere come un ramoscello inerme. Ha sempre cercato di uccidermi nel più crudele dei modi, strappandomi un pezzo alla volta, allontanandomi dalle persone della mia vita, manipolandomi la mente. Avevo a che fare con un mostro sanguinario, senza coscienza e pietà.
La bestia.
Un’altra illuminazione. Ma certo! Non c’era bisogno di conoscere Sephiroth alla perfezione per capire quanto quella dannata notte egli cambiò. Eravamo arrivati a Nibelhim in compagnia di uomo martoriato dalle pesanti responsabilità che erano crollate sulle sue spalle in quegli ultimi giorni. Lazard era scomparso, SOLDIER si trovava sull’orlo del caos, mostri sanguinari comparivano ovunque, Avalance stava muovendo i suoi primi passi verso una terribile rivolta… insomma, la Shin-ra non navigava in acque tranquille. Lui era l’unico rimasto in grado di far fronte a quei problemi.
E ’sempre stato il più forte, nonostante tutto.
In quel periodo il Generale passava la maggior parte del suo tempo rinchiuso nell’ufficio del Direttore o negli archivi. Zack mi disse che qualcosa lo turbava, ma, nonostante tutti i suoi sforzi per capirlo, il moro non seppe mai cosa esattamente. Cercava di aiutarlo, diceva, ma Sephiroth era tornato a rinchiudersi nel suo guscio. E poi arrivò quella notte. Egli scoprì la verità sulla sua origine, la risposta definitiva alla sua unica domanda. La Bestia approfittò di quel momento di debolezza per trafiggerlo dritto al cuore. Il Generale morì quella notte e la Bestia, finalmente, avrebbe creato il suo regno di sangue.
Ma che ne fu di LEI?
Se era così innamorato, perché non è riuscito a reagire per tornare dalla donna che lo amava e che lui amava a sua volta?
-Clooooooooouddddddddddddddddd! Pianeta chiama Cloud!-
Yuffie mi richiama alla realtà, mentre l’ultima domanda si perde nell’oblio. Alzo gli occhi e incontro quei pozzi enormi guardarmi sgranati a pochi centimetri dal volto. Sento la sua mano serrarsi tra i capelli e scuotermi la testa.
-Sì, sì, ci sono!-
-E’ da due ore che ti sto chiamando e tu non davi segno di vita. Cominciavo a preoccuparmi.-
Non stento a crederlo. Noto solo ora l’angoscia che ha deformato il volto tondo: l’ultima volta che non ho risposto a una chiamata stavo per morire.
-Perdonami, ero sovrappensiero.-
La vedo calmarsi e riprendere le distanze. Cerca di sorridermi, tentando di riprendere la sua consueta allegria.
-Sei sempre così distratto!-, dice ridendo,-Che cosa nascondi, Cloud Strife?-
La domanda mi colpisce come uno schiaffo. Il fiato mi si mozza in gola e percepisco tutti i miei muscoli irrigidirsi. Gli occhi li sento sgranarsi così tanto che credo che mi cadano dalle orbite da un momento all’altro. Noto la sua espressione furbetta deridermi, mentre constata gli effetti di quella domanda su di me. Non posso cavarmela adesso. E’ stato il suo piano fin dall’inizio.
Piccola bastarda!

Una terrificante, improvvisa, incontrollabile rabbia mi esplode nel petto. Vedo rosso. Sento rosso. VOGLIO rosso. Tutto il mio essere scatta verso di lei con una sola intenzione: uccidere. Non c’è altro che io voglia, solo uccidere; vedere il suo sangue spillare dalle vene; la sua vocetta fastidiosa implorare pietà; le mie mani spaccarle quel piccolo cranio corvino; il suo sorrisetto esplodere in una macchia di sangue e saliva e le guance solcate dai bulbi liquefatti. Lacrime, saliva e sangue.
Vai via.
Le immagini di quella terrificante efferatezza ondeggiano, permettendomi di sovrapporla all’immagine di una pimpante Yuffie, in attesa di una risposta. Non riesco a recepire la voce, ma capisco le sue parole.
-Vai via.-
Mi ritrovo a ripeterle come un pappagallo. Non so perché lo stia facendo, ma credo che il motivo debba andare ricercato nella paura di vedere realizzate quelle immagini.
-NON senza una risposta!-
La ninja è determinata. L’ira si solleva di nuovo, ma di nuovo viene calmata da quella voce.
Vai via.
-Vai via.-
Stavolta lo ripeto con un tono più eloquente. Il tono che mi esce dalle labbra ha un che di famigliare. Noto Yuffie sbiancare entrando in netto contrasto con i grandi pozzi neri dei suoi occhi allucinati. Le sue labbra si sono fatte sottili e sembra sull’orlo di una crisi di panico. Terrore è ciò che le leggo nelle pupille. Le immagini si sono dissipate, lasciandomi con un forte amaro in bocca. Ma come posso solo pensare di farle del male? Mi accorgo definitivamente della sua reazione e credo che da un momento all’altro cada dal letto svenuta, tanto è bianca.
Ma che le prende?
-Yuffie, tutto bene?-
-Ti… ti….-, inizia a dire, dopo aver ingoiato a vuoto per una decina di volte,-Ti sei sentito?-
Corrugo la fronte e sbatto le palpebre, senza capire.
-Sentito cosa?-
-La tua voce…-
-Non ha niente di strano.-
La ragazza scuote la testa.
-Non adesso, prima. Quando hai detto ‘Vai via’.-
Continuo a non capire. Mi rendo conto che non ho memoria di averle detto di andare via.
-Io non ti ho mai detto di andare via, Yuffie.-
-Infatti non sei stato tu!-
Yuffie sta diventando di un pallore quasi mortale. E’ davvero spaventata, ma parlare per enigmi non mi sta aiutando a farla stare meglio. Sono preoccupato, ma la situazione mi sta innervosendo. E spaventando. A morte.
-Che cosa stai dicendo? Yuffie, se è uno scherzo, giuro che…-
-Non è uno scherzo! Tu hai parlato, ma quella che è uscita dalle tue labbra non era la tua voce!-
E poi sono io il pazzo. Mi scappa uno sbuffo derisorio e scuoto la testa. Mi sto nascondendo dietro ad un dito. Certo che sono io il pazzo! Sono io quello che sente voci di gente morta da anni! Ma l’orgoglio m’impedisce di mostrarmi preoccupato di fronte alla principessa, celandomi dietro una maschera d’indifferente derisione.
-E di chi sarebbe stata questa voce?-
La mora abbassa lo sguardo sulle mani tormentate, mentre si morde il labbro, poi sposta lo sguardo verso un punto indefinito della stanza, evitando il mio sguardo. Borbotta qualcosa.
-Come?-
Prende fiato e trova il coraggio di guardarmi di nuovo negli occhi. E di dire quel nome tanto temuto.
-Sephiroth.-, ingoia quell'enorme rospo con fatica, ma ha laforza di aggiungere,- Come é possibile, Cloud? Che ti sta succedendo?-
Sospiro. Ormai non mi stupisco più di niente. Afferro le sue dita intrecciate con una presa sicura e confortante. Ora sono io a non avere il coraggio di incrociare il suo sguardo. Avrei potuto ucciderla. Il furore cieco che mi ha annebbiato la mente pochi istanti fa è scomparso del tutto, lasciandomi un freddo senso di inquietudine insinuato nelle ossa. Improvvisamente, sento le membra pesanti, i muscoli indolenziti. Sono distrutto, come se avessi combattuto per tutto il giorno. Le tempie iniziano a pulsarmi. Per quanto mi sforzi non riesco a ricordare cosa sia successo dopo l’attacco d’ira; similmente come non riesco a ricordare cosa mi è successo prima del malore. Mi sento come un dopo una sbornia colossale. Getto un’occhiata al rettangolo di coperta che cela il diario poggiato sulle mie gambe.
Che farebbe LUI al mio posto?
-Yuffie.-
La principessa mi scruta, la paura ancora dilaga nel suo sguardo. Io stringo la presa su di lei, ma continuo a fissare quel rettangolo.
-Io risponderò alla tua domanda, se tu risponderai alla mia.-
La ragazza si sporge verso di me, incuriosita. A quel punto, alzo lo sguardo verso di lei, fissandola con determinazione.

-Qual’è la cosa che ritieni più preziosa?-


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1° Gennaio XXXX

E’ l’alba e la maggior parte della caserma è ancora immersa nel sonno, mentre solo pochi coraggiosi affrontano la morsa del gelo, cantando a squarciagola canzoni oscene dettate dall’ebbro. I festeggiamenti per l’anno nuovo si sono protratti fino a poco più di un’ora fa e, in certe parti della città, ancora continuano, in barba alle gelide sferzate dell’inverno di Wutai. Per una notte loro si sono dimenticati della guerra, della carestia e della malattia, issando bicchieri di champagne da quattro soldi e saké scadente, in compagnia di qualche accompagnatrice di dubbia moralità. Brindavano a tante cose, quei soldati, alle prostitute, al cibo, al bere, alla famiglia, alla speranza di rivederla e alla consapevolezza che molti di loro non l’avrebbero mai più rivista. I toni calarono in fretta, fino a che la musica non ha preso il sopravvento e ognuno si è dimenticato delle proprie paure e si è gettato in bocca alla futilità del momento. Hanno ballato, riso, bevuto, baciato, fatto l’amore, litigato, ancora bevuto, mangiato… Si sono divertiti, lasciando che l’oblio accogliesse loro nel suo abbraccio alcolico. Sono crollati in un sonno senza sogni o ne stanno ancora vivendo uno. Credono davvero che quest’anno sia migliore di quello passato, spergiurando propositi di cui solo un terzo verranno mantenuti, con o senza volontà.
L’alba sfida il mio pessimismo, dipingendo le nubi scure con un carminio tendente al rosa, mano a mano ci si avvicina all’estremo Est. Il disco solare irrompe subito dopo e brutalmente tra di esse, ergendosi sull’orizzonte frastagliato delle montagne acuminate; la sua luce ci inonda come un dorato mare irruente. Il bianco abbacinante della neve mi induce a fessurare gli occhi, ma mi costringo a guardare gli avvallamenti ricoperti di polvere diamantata, baciata dalla luce del nuovo giorno. Ora il silenzio è assoluto, come se la solennità di questo evento abbia risucchiato tutti i suoni, affinché si possa contemplare questo spettacolo nella pace più completa. Perfino il vento ha taciuto. Il sole continua a levarsi, allungando le sue braccia dorate sui fianchi delle montagne, come se volesse farsi strada tra la ostile e fredda roccia granitica e godersi il triste spettacolo che noi umani offriamo ogni giorno con la nostra vile esistenza. Quest’anno non sarà migliore di quello andato, anzi, sarà molto peggiore. La guerra non intende allentare la sua stretta morsa e il suo colpo di frusta ci ha risvegliato da un profondo sopimento.
Natale. I Wutai non festeggiano questa ricorrenza e il 25 Dicembre è solo un giorno come un altro; sebbene sappiano perfettamente quanto quella data è importante per l’invasore. Mi aspettavo che avessero qualche carta segreta da giocare, ma i loro Generali sono stati più furbi di quanto pensassi. Tutte quelle schermaglie, quegli attentati… avrei dovuto capire che erano solo dei diversivi per far volgere il mio occhio attento altrove. Sono stati messi tutti a morte, senza nemmeno interrogarli, senza ascoltare la loro voce. Giustizia del Ma gin, la chiamano; giustizia della ShinRa, la chiamo io. Spesso sogno le facce grottesche di quei condannati ridere sguaiatamente, seppellendomi sotto una valanga di scherno. Chiudo gli occhi e quando gli riapro quelle facce hanno assunto le fattezze di Rufus Shinra e di quel vecchio grassone di suo padre. Vorrei trafiggerli, ma non riesco a muovermi. Vedo le loro teste staccarsi dal collo con un ghigno malefico stampato in volto, rotolare ai miei piedi e ridere, ridere, ridere. Mi risveglio pieno di furore e rabbia, nel cuore di molti notti , scosso come un nervo scoperto; vado alla mappa e la guardo e riguardo, non credendo delle linee e delle pedine disposte su di essa. Frecce nere si dipartono dal confine Nord-Ovest e dal monte Geti inizia il loro avanzare. Aggirano i nostri confini, una lunga linea nera contrassegnata da una croce rossa, trapassando da un versante all’altro la montagna, nei pressi di un piccolo villaggio di pescatori, in prossimità delle cascate Nashai. Hanno ucciso tutti, senza pietà. Da lì, le frecce si dividono in sei tronconi, come tante piccole serpi striscianti, e avanzano, avanzano, avanzano, simili a tante lame nella notte. Sopra quelle linee nere, numeri. Per segnare quanti morti, quell’acciaio maledetto, ci è costato.
Un mignolo, una stretta e sottile falange , divide l’apice di quelle frecce da Garyo.
25 Dicembre: tutte le sei guarnigioni dell’Esagono difensivo avvistano Wutai in avvicinamento fuoriuscire dalle foreste dello Spiazzo.
Quel messaggio è un colpo al cuore.
Circondati.
Il mio attenente stava ancora salutando la famiglia in videochat da Junon, quando è arrivato il comunicato radio. Ricordo di aver incrociato il suo sguardo incredulo e impaurito, cercando nel mio stupore un briciolo di conforto. La voce preoccupata di sua madre chiedere che succedeva, mentre l’allarme iniziò a suonare per tutta la caserma, mi strinse il cuore.
Niente, mamma… E’ un’esercitazione. Io… io devo andare. Ti voglio bene.
Ti voglio bene, ha detto.
“Come se un misero ‘ti voglio bene’ possa servire a confortarla quando le verranno a dire che suo figlio non c’è più”, ho pensato, pieno di rabbia. Fortunatamente per quella povera donna, il suo soldatino è tornato dalla battaglia sano e salvo, molte ferite, ma nessuna grave. Ringrazierà gli Déi per questo, ma suo figlio le dirà di ringraziare il Generale. Stupidi idioti… Non si rendono conto che il mio contributo è ben misera cosa messa a confronto con il coraggio dei soldati. Per quanto spaventati, i miei uomini non si fermano davanti a niente, nemmeno quando la situazione si fa disperata. Non dovrebbe essere altrimenti: SOLDIER ha come simbolo l’antico ideogramma Cetra della forza e il giuramento proferito al momento dell’entrata nelle file d’élite lo conferma: “
Sono lo scudo dei deboli, la spada della patria, i muscoli della Pace. Metterò la mia forza al servizio imperituro della Giustizia. Mai barcollerò davanti all’adempimento del mio dovere. Sulla mia spada e sul mio onore, lo giuro.
Il giuramento che pronunciai a 14 anni… Non so perché mi è tornato alla mente, anche se non ho mai creduto a quelle parole e, ora che le vedo trascritte, mi sembrano ancora più vuote. Onore: che onore c’è nel servire i potenti, nell’essere i loro macellai? Dovremmo proteggere gli oppressi, non combatterli; dovremmo rovesciare la ShinRa e liberare il Pianeta dal loro crudele dominio. Invece... sono qui, a fare la parte dello schiavista. In fondo, che scelta ho? Io sono nato per combattere. Io ho BISOGNO di combattere. Solo con una spada in mano, il vortice vermiglio della battaglia e il sangue bollente sulla mia pelle posso definirmi IO. Sono libero in mezzo al caos. Nessuno mi giudica, nessuno mi respinge, nessuno mi ama. Tutti mi odiano, e io odio loro. Se non fosse per quel dannato senso di colpa… perché? Perché provo questo rimorso? Perché non riesco semplicemente a odiare il mio nemico?
I raggi del primo sole di quest’anno raggiungono le mura della città, sorgendo una seconda volta su di esse. Questa volta, però, il loro cammino è accompagnato dall’alternarsi di lunghe ombre nere, le quali si allungano come dita scheletriche su tutta la città. Il loro macabro contenuto mi strappa un gemito. Migliaia di corpi in putrefazione osservano sconsolati, con le loro orbite dilaniate dai corvi, l’ultimo sprazzo di vita del vecchio anno. Osservano una vita che avrebbe potuta essere la loro, se solo avessero deciso di passare l’inverno con la loro famiglia. Non oso pensare quante mogli e figli, attendono un ritorno che mai avverrà. Nemmeno la decenza di riavere le ossa dei loro cari è stata concessa loro: il furore scatenato da quegli uomini è stato feroce. Volevano vendetta per aver rovinato quella festa tanto importante, per aver causato la morte di tanti loro commilitoni proprio a Natale, di aver costretto loro di versare sangue in quel giorno di pace. Non sarebbe mai bastato uccidere quei corpi ancora e ancora, volevano denigrarli, privarli della loro dignità, concedere loro il riposo eterno. Non volevo che si arrivasse a tanto, ma ci sono momenti in cui bisogna indossare quella maschera che odio con tutto il mio cuore: il Demone, il Generale d’Acciaio, l’Eroe; non m’importa con che nome venga identificata quella facciata, in ogni modo la si guardi, egli è un mostro. E, mentre proferivo l’ordine di appendere qui corpi alle picche, ho potuto sentire i suoi aghi affondare nella carne e cucirmi addosso quella maledetta maschera. Ho pianto lacrime amare sotto a quegli occhi fieri, ho urlato fino a squarciarmi la gola sotto a quel sorriso derisorio, ho graffiato le guance dalla disperazione, mentre le mie false mani s’incrociavano davanti all’enorme peso che gravava sul mio stomaco. Ancora quel senso di colpa… girai la mia attenzione su Angeal e Genesis. Quei due non sono più semplici amici per me, ma sono diventati i due lati della mia coscienza, quegli estremi di bontà e malvagità che mi mancano o non mi è permesso dimostrare. Sono così dissimili e hanno concetti di giustizia del tutto differenti, eppure amici per la pelle. Come me, anche loro tergono i loro difetti, attingendo dalle virtù dell’altro. A volte Angeal dimostra di essere un uomo inflessibile e rigido nelle sue decisioni, ma quella sua inflessibilità mi dona sicurezza. Lui non cederà mai alle tentazioni del sangue, conservando il suo prezioso onore, come, invece, ci si getta Genesis. Lui è più istintivo, più crudele e più infido: un demonio, certe volte; ma abbastanza intelligente da riuscire a dosare questo veleno che si porta dentro. Inoltre, la sua totale mancanza di scrupoli e la leggerezza con cui affronta qualsiasi cosa, mi aiuta a giustificare le terribili decisioni che sono costretto a prendere. Stanno diventando un punto fisso della mia vita. Mi sono scoperto del tutto perso senza di loro, anche se, a volte, mi verrebbe da ucciderli con le mie mani. Quando chiedo loro consiglio, iniziano a battibeccare tra loro: uno inizia a parlarmi di dignità e rispetto e tutte quelle diavolerie da avvocato del diavolo; mentre l’altro mi accusa di codardia, inveendo contro il primo per le idiozie scaturite dalla sua bocca, ricordandogli che siamo guerrieri e non pacifisti del… beh, Genesis tende a diventare scurrile quando si scalda, facendomi nascere dubbi sulla sua effettiva discendenza nobiliare. Loro mi parlano in modo franco, andando diretti al punto, dimenticando spesso di avere davanti a loro il Generale. Con loro, la mia maschera si sfalda e sento le mie oppressioni allentare pian piano la presa; però, quel giorno, mi fecero sentire lacerato. Genesis era accanto a me, sorridente e fiero di sé, i suoi occhi di mako brillavano di un’orribile luce sadica, mentre i soldati innalzavano quei macabri stendardi. Più in ombra, stava Angeal, circondato dai suoi uomini-uomini a cui aveva impedito di prendere parte a quella crudeltà gratuita, contravvenendo ai miei ordini-, mi fissava con sguardo truce e accusatorio. Uno sguardo. Un solo singolo sguardo per farmi sentire sporco fino al midollo. Lui lo sa bene, mi conosce. Lo sa bene che aborro queste cose, me lo ha detto, eppure nel mio masochismo continuo imperterrito. Il motivo è uno solo, un motivo che Angeal non capirà mai: è ciò che ci si aspetta da me. I media mi hanno forgiato come una macchina senza cuore, un mostro spietato che trae piacere dalle sofferenze altrui, il terrore di ogni uomo e il sogno di ogni donna. Mi hanno addestrato, picchiato, torturato per diventare così. La tua innocente ingenuità contadina non è in grado di capire ciò che io ho imparato quando ero ancora un bambino in fasce: la reputazione é tutto ciò che un uomo ha. Tu hai avuto la fortuna di costruirtela da solo, di scegliere il tipo d’uomo che vorrai essere per il resto della vita, d’insegnare ciò che vuoi ai tuoi uomini e, se ne avrai, ai tuoi figli. Io ho seguito il tuo stesso percorso, con l’unica differenza che il mio è stato creato da terzi. In primis, da mio padre e poi dalla Compagnia. Il vero carattere é remissivo quanto basta per permettere a costoro di piegarlo al loro volere, ma abbastanza forte da resistere e tormentarmi. Angeal, spero che tu mi perdonerai, vorrei avere il coraggio di dirti ciò che ho appena trascritto, ma temo il tuo ferreo giudizio più della Morte stessa.
Osservo una donna sgattaiolare fuori da una delle camerate, prima di essere afferrata al braccio da un soldato. La tira a sé e la bacia appassionatamente. Lei ride e lui la stringe più forte. Sono felici. Un uomo e una donna stretti l’un l’altro, si amano, credo, e non c’è altro posto in cui vorrebbero stare se non sotto a quel portico, in questa giornata invernale.
Mi scappa un profondo sospiro.
Sakura…
Una delle ultime volte che la vidi… Meravigliosa e magnifica, ella svettava al di sopra della massa indistinta del popolino, circondata dalla sua ammaliante aura di dolce candore. Non si era accorta di me, troppo intenta a dare conforto ad una sua collega, mentre i miei soldati indicavano alla massa di dirigersi verso i centri di raccolta. La calma abbandonò la mia mente e realizzai improvvisamente che stavo andando a combattere. Stavo andando a morire...
Non avrei mai più potuta rivederla; ciò era inaccettabile. Uno strano tremore cominciò ad attraversarmi il corpo, rendendomi difficile anche il solo rimanere eretto. Perfino respirare stava diventando impossibile. Tensione, paura, insicurezza. Mille pensieri iniziarono a vorticarmi nella mente, mille dubbi sulla strategia che avevo approntato iniziarono a nascere, un’improvvisa voglia di urlare e scavarmi una fossa in cui nascondermi. Sentivo il mio stomaco in subbuglio, a causa del nervosismo incessante, lo stava squartando, stirando, stracciando. Avrei potuto vomitare l’anima, se lei non si fosse accorta di me. Percepii ogni paura dissolversi, appena ci guardammo. Aveva paura anche lei, ma, nel vedermi, ogni suo dubbio svanì e il sorriso solcò di nuovo il suo volto stanco. Si fidava di me, la speranza illuminò i suoi occhi. Sentì le mie labbra incurvarsi inconsciamente e mi dissi che era per lei che avrei combattuto. E’ per lei che avrei vissuto.
La mia consueta calma tornò a quietare le membra tremanti, assieme ad una ferma determinazione e una strana voglia di vivere. Non era la prima volta che lei mi scatenava quelle sensazioni in vista di una battaglia, ma era la prima volta che mi rendevo cosciente di quelle meravigliose emozioni.
Oh, Sakura… Se solo non fossi una geisha, potrei avere l’ardire di amarti fino in fondo? E tu, ameresti una bestia sanguinaria come me?, ricordo che pensai.
No, inutile farmi illusioni. Lei si fa uso di me per allontanare la mano di Don Corneo dal corpo delle giovani fanciulle della città. Ha bisogno che io metta disposizione alcuni maestri d’armi per addestrare il suo piccolo esercito di ragazzine e che i miei uomini intervengano in suo favore in caso di scontro con gli scagnozzi di Corneo. E’ questo l’accordo. Non vuole null’altro da me…
Osservo ancora quella coppietta che sta salutandosi. Lei gli ha lasciato un pezzo del suo kimono. L’espressione da ebete di quel soldato mi fa sorridere e piangere allo stesso modo. Povero illuso… Conosco quella ragazza, è una delle sue accolite. Una geisha o una maiko, non importa, non potrà mai essere tua. Lo so fin troppo bene…
Dopo la battaglia, il numero di feriti superava di gran lunga la capacità degli esigui e inadeguati ospedali della città, quindi ogni okyia di ogni hamanachi mise a disposizione le strutture e le ragazze come infermiere. Gli uomini vennero suddivisi nelle case più consone al loro rango. Anch’io venni ferito in quella battaglia-nulla di grave, solo un taglio poco profondo al costato, più qualche altro taglio al viso-, ma, su insistenza dei miei amici, decisi di sottopormi ad una visita. Quando Sakura si rese disponibile a farmi da infermiera, il mio cuore perse un battito e dovetti lottare con tutte le mie forze per evitare di arrossire. Mantenendo il mio ritegno da ufficiale, la seguii verso le sue stanze, dove mi fece accomodare. Non v’erano posti in cui sedersi abbastanza in alto per farmi visitare, tranne il letto, il quale era posato su un rialzo abbastanza alto da fungere da sedia. Sospirai e mi diressi lassù, sperando di non sembrare troppo inopportuno. Appena mi sedetti, lei mi aiutò a liberarmi dalle protezioni delle spalle e del cappotto, lasciandomi a petto nudo. Non mi ero mai spogliato davanti ad una donna che non fosse un dottore… Lei sembrò non accorgersi del mio imbarazzo e iniziò ad esaminare la ferita. Aveva le mani così morbide e calde: percepire il suo calore sulla mia pelle mi causò un moto di eccitazione che tentai di reprimere stringendo i denti. Sentivo la testa fluttuare e un curioso sfarfallio all’altezza dello stomaco. Un istinto primordiale mi stava nascendo all’altezza del petto, dilagando fino al basso ventre. Continuavo a ripetermi che si trattava solo di una visita, che lei era lì solo per curarmi, per assistermi, per… per… baciarmi. Accarezzarmi. Possedermi. Non so cosa scattò in me, so solo che non riuscii a controllare le mie mani. Esse le afferrarono il viso e lo trascinarono verso le mie labbra. Quando le nostre bocche si unirono, percepii una scossa attraversarmi da capo a piedi, seguita subito dopo da una vampata di calore, come se un fuoco mi fosse esploso dentro. Ero inebriato dalle sensazioni che percepivo dai miei sensi acuiti: la morbidezza delle sue labbra, il dolce odore del gelsomino tra i suoi capelli, il suo respiro caldo che mi solleticava il labbro superiore. Le mie mani si strinsero ancora sul suo viso, avvicinandola ancora più verso di me. Il sangue bollente scaldava la pelle, arrossandola. Mi resi conto che baciare una donna era come scendere in battaglia: tutto si offuscava e la ragione scompariva. Sentivo la mente, fievole e lontana, urlarmi ‘No, no, no, NO!’, mentre il corpo, pulsante e bramoso, gridava ‘Sì, sì, sì, Sì!’ Per un attimo esitai. Mi sembrava di trovarmi in mezzo alle discussioni con Genesis e Angeal: ascoltare il peccato e lasciare che l’istinto facesse il suo corso, o riprendermi e scusarmi del gesto? La risposta non tardò ad arrivare, ma non per mia volontà. Sakura mi riportò alla realtà con un sonoro e deciso ceffone. Devo ammettere che ha un bel destro, mi duole ancora la guancia da quel giorno.
A parte mio padre, nessuno si era mai sognato di alzare un solo dito su di me, anche perché, chiunque lo avesse fatto, se ne sarebbe amaramente pentito. Il primo istinto, infatti, fu quello di rispondere alla provocazione. Repressi a stento la fiammata di passione trasmutata in rabbia cieca, litandomi a fissarla, iracondo. Ma la mia rabbia si spense quasi subito, quando incrociai le sue iridi ardenti. Era furiosa...e spaventata. Due sensazioni che non facevano altro che renderla ancora più bella e, al contempo, terribile. Quella figura emanava un’energia così travolgente da farmi sentire del tutto indifeso, come un bambino in fasce. Mi pareva di essere schiacciato da quello sguardo, così straziante; tanto da indurmi a capitolare, coperto di vergogna. Io, che con una sola occhiata ho gelato il sangue di coriacei guerrieri e perfidi dittatori, in quel momento mi ritrovavo a guardare il pavimento, dopo essere stato preso a schiaffi da una donna, tra l’altro. 
Mi ha umiliato, eppure non ho avuto il coraggio di risponderle, di far valere le mie ragioni. Me ne sono stato lì, come un idiota, a guardare quel maledetto pavimento, la voce finita in fondo alle scarpe, il mio orgoglio gettato nelle latrine della vergogna.
Che razza di uomo sono?!
Ritrovai il coraggio solo quando la sentii girare i tacchi. Scattai in avanti e le afferrai il polso, ma lasciai quasi subito la presa, quando mi freddò con i suoi occhi e percepii il tremore dei suoi muscoli. Prima che la voce mi sparisse di nuovo, riuscii a bofonchiare un misero ‘Mi dispiace’. La udii sospirare. Silenziosa, s’inginocchiò con grazia e allungò la sua mano verso di me. Con quelle dita affusolate, riaccese un piccolo falò di passione. I polpastrelli sfilarono per tutta la lunghezza della mascella, fino a riunirsi appena sotto il mento. Con una leggera pressione, m’indusse ad alzare la testa e guardarla. Quelle iridi erano tornate soavi e gentili, come la prima volta che le vidi. Così materni e appaganti, sono gli occhi che avrebbe mia madre, se solo lei esistesse davvero… Mi sorrise e, per un minuscolo attimo, sperai che continuasse ciò che avevo iniziato. Ma lei, con la solita compostezza tipica della sua infida razza, smontò ogni mia aspettativa. “
Accetto le vostre scuse, Generale-sama, e confido nel vostro buonsenso di non ritentare di nuovo. Se mai vi avessi dato prova di una certa disponibilità da parte mia, vi prego di perdonarmi: non era mia intenzione forviarvi. Né lo è stato colpirvi, perdonatemi anche per questo. Non voglio ferire i vostri sentimenti, ma l’unica cosa che mi potete offrire sono il vostro supporto alla causa. Capite anche voi che sarebbe disonorevole per entrambi intrattenere un altro tipo di rapporto.”
Lasciai l’okiya con la coda fra le gambe, umiliato e sconfitto. E la ferita aveva ripreso a sanguinare, ma non quella al costato, una molto più profonda e ben più dolorosa.
Attraversai le strade di Garyo in preda a quell’ubriachezza furibonda dettata dalla più profonda delusione: desideravo solo che quell’okiya bruciasse assieme a tutti gli altri. Avrei voluto vedere ogni geisha scomparire dalla faccia del Pianeta, affinché il mondo fosse libero dalle loro meravigliose illusioni, dalla loro infida bellezza, dai loro occhi smeraldini, da quella pelle così liscia e morbida, quelle labbra accoglienti…
Quello non era un bacio qualunque: lì era racchiuso tutto il mio mondo segreto, il mondo che ero pronto a donarle, assieme a tutto me stesso. Ero suo, non desideravo altro.
Ma lei lo ha rifiutato, credendo, probabilmente, che si trattasse di uno sporco atto istintivo. Forse ha avuto paura… paura che le facessi del male, che la prendessi con la forza; forse è per questo che mi ha allontanato con tanta veemenza. Nella sua testa dovevo apparire come il Demone di Wutai, colui che uccide, impala e disonora il suo popolo. Ha avuto sicuramente paura di me, ma nemmeno voleva arrendersi. Fossi stato un uomo diverso, probabilmente, quello schiaffo non avrebbe fatto altro che eccitarmi di più. Ha rischiato moltissimo. Avrei potuto farle del male… La Bestia avrebbe potuto… Se solo lei non mi avesse fermato… Il suo sangue sulle mie dita… No, non l’avrei sopportato. Non avrei mai potuto vivere con quella colpa. In fondo sono grato che sia finita così. Almeno ora sa cosa aspettarsi da parte mia, può starne lontano o avvicinarsi piano piano. A lei affido le mie speranze… E’ il minimo che possa fare.
Getto un’ultima occhiata alla luce del nuovo giorno.
No, non è cambiato nulla, così come non cambiò nulla dall’anno prima ancora, e quello prima ancora, e ancora prima.
Ogni anno non fa altro che portarmi la stessa cosa: speranze. Speranze che aspettano solo di essere infrante.



*si affaccia alla finestra della camera e osserva preoccupata la folla inferocita con torce e forconi*… Ehm, saaaalve, miei cari lettori! *schiva una mela marcia, lanciata da chissà chi* Sìsì, lo so, lo so, vi avevo detto che con la fine della vacanze estive sarei tornata in grande stile con un nuovo capitolo, ma *prende un faccia una torta alla panna acida*umpf, grazie… Dicevo, ho avuto parecchie robe da fare e quando avevo la possibilità di andare avanti, Okami mi attirava a sé e mi sequestrava per tutto il giorno *si copre le orecchie per attutire i fischi che si levano dalla folla*; oppure ci pensava il moroso ad allontanarmi dai miei doveri *if you know what I mean, dice qualcuno* Già, già, comunque la difficoltà non era solo trovare il tempo (che ne avevi, quindi niente scuse! Nda Seph e Cloud)* FATEVI GLI AFFARI VOSTRI!, dice picchiando i due bonaccioni con il pc, poi si schiarisce la voce e riprende contegno* dicevo, non ha aiutato il calo creativo, dovuto alla grande domanda: eeeeee adesso? *.*
Cloud è all’ospedale, dopo che QUALCUNO *guarda Seph con sguardo accusatorio* gli ha sconquassato quel cervellino da chokobo depresso, quale tortura psicologica m’invento stavolta? Seph ha appena incontrato l’amore della sua vita, ma come farli avvicinare in modo verosimile?
Sì,sì, lo capisco dalle vostre facce sconsolate: a giudicare da questo capitolo sembrerebbe che mi sia scavata la fossa da sola, ma non temete miei prodi, il mio cervello non si è del tutto congelato dal gelo della mia stanza e ho una mezza idea di come sviluppare il tutto :) (andiamo bene -.-', nda Cloud).
Bene, Cloud credeva di essersi liberato del One Winged Angel, ma si sbagliava di grosso. Piano piano sembra entrare sempre di più nei suoi panni, arrivando ad assumere la sua voce (figherrima tra l’altro, il caro George Newbern <3), spaventando a morte la povera Yuffie. Notare lo stacco cattivo sul diario: ormai quei due sono talmente fusi assieme che stanno diventando una cosa sola.
Oh, voi penserete che odi a morte il bell’argentato, ma sappiate che più adoro un personaggio, più gliene faccio passare di tutti i colori. Mettiamoci il cuore in pace: Seph deve soffrire! BUAHAHAHAHAHAH! *T.T me tapino, nda Seph*; inoltre mi servono un po’ più di situazioni per farvi capire che tipino focoso è la nostra Sakura. Il primo bacio non è andato esattamente benissimo, ma non temere ci sarà un’altra occasione *sarà meglio per te!, sfodera la Masamune e la punta alla gola dell’autrice* Glom… ehm, oook, meglio chiudere qui che questi commenti sono più lunghi della storia stessa, a momenti (e prima che Seph mi faccia fuori…).
Spero che questo capitolo sia valsa l’attesa (in caso contrario, vi ricordo che tra un po’ è Natale e quindi bisogna essere più buoni, anche con gli svogliati lettori, quali la sottoscritta :D)
A parte gli scherzi, colgo l’occasione per augurarvi Buon Natale e (se non ci vediamo prima) Buon Anno!
Abbraccio forte forte l’unica impavida che, per ora, recensisce le mie storie, one winged angel, e la cara Manila che le auguro di riprendersi presto e di tornare a farci compagnia!
A tutti gli altri, tanti bacioni e tantissimi AUGURIIIII!!!
Alla prossima
Besos

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Capitolo 13
*** Colori spezzati ***


-Che vuoi dire?-
-Una ‘cosa’? No… no, un ‘chi’.-
-Cloud?-
-Un ‘chi’, vero? E credo anche di sapere quale particolare ‘chi’…-
Yuffie sgrana gli occhi. Ora quell’iride enorme è profondo pozzo nero, la quale cozza irrimediabilmente contro l’allucinante pallore della sua pelle esangue. Sembra che faccia molto più freddo in questa stanza…
-Non oserai…-, bisbiglia per nascondere la voce tremante e resa acuta dal pianto, il quale stava facendo capolino ai lati degli occhi. Normalmente, mi sarei sentito in colpa per aver scatenato le lacrime di una ragazza, ma in questo momento, un’assordante spietatezza mi attanaglia il corpo con la sua fredda calma. Non ho mai provato una tale sensazione: mi sento in grado di fare qualunque cosa e, soprattutto, non m’importa un bel niente delle conseguenze delle mie azioni. SO di essere nel giusto, SO che questo è necessario affinché mi possa liberare di questa seccatura con le gambe, SO che è per il bene di tutti che sto agendo in questo modo.
E’ necessario, continuo a sentirmi ripetere da una voce sepolta nel fondo del mio animo.
Sephiroth…
Non se ne è andato per niente: è qui. Ha preso il controllo della situazione ed è padrone di se stesso, o meglio, di ME stesso. E’ forse per questo che sento che le mie gambe sono più lunghe del normale, il busto più alto o il solettichio di lunghi capelli lungo la schiena nuda?
-Oh, oserei…-
-E’ un tuo amico!-
La ninja prova a ribattere con veemenza, combattendo contro le lacrime, nel vano tentativo di ricacciarle indietro. Crede che con questa frase possa davvero intenerirmi? Di intenerire LUI? Povera sciocca, se solo sapesse con chi sta parlando veramente…
-E lo continuerà ad essere se tu terrai la bocca chiusa…-
Avverto le mie lunghe e affusolate dita torcersi attorno alla minuscola mano della principessa, strappandole un gemito, ma non ha il coraggio di staccarmi gli occhi di dosso. Quello sguardo… mi ferisce così profondamente da dilaniarmi. Non dovrei farlo, eppure continuo ad ascoltare quella vocina:

E’ necessario, è necessario, è necessario…

Come un disco rotto, ella mi bisbiglia nella mente e soffoca ogni altro mio pensiero. E’ come se quella voce sia l’unica cosa che importi, l’unica opinione che conti in questo piccolo mondo sventrato tra il mio stanco ego e l’anima parassita del Dio caduto; una realtà dilaniata dall’infinita guerra per la supremazia. Percepisco il mio io battersi con tutte le forze per scacciare l’intruso, incurante di quella diabolica vocina, ma è il secondo che sta vincendo… e per lui quella vocina è TUTTO. Lo percepisco, avverto le sensazioni che dilagano impazzite; come me, anche lui vorrebbe evitare di manifestarsi così pericolosamente, ma un desiderio folle, quanto disperato, lo spinge sul ciglio del baratro. Ucciderebbe per quella voce; ucciderebbe per poterne anche solo scorgerne il volto. Ucciderebbe anche me, se potesse, squartarmi la pelle ed evadere da questa prigione di carne, pur di raggiungerla. Di fronte a queste emozioni, sono tentato di capitolare, ma non posso assolutamente permettere che Sephiroth sia libero di controllarmi di nuovo. Non mi arrendo senza combattere! Anche perché percepisco il pulsare furibondo di una forza terrificante, tenuta a stento confinata nei recessi del mio animo. La sento grattare, urlare, mordere, contorcersi; sempre più furiosa, sempre più determinata a spezzare le sue catene. A ogni suo assalto, mi sento sconquassare ogni cellula del corpo. Serro la mascella fino a udire le ossa incrinarsi, nella speranza che questo nuovo dolore mi faccia dimenticare quello vecchio. La difesa eretta per proteggere il mio misero involucro di sangue si fa sempre più sottile. E’ solo questione di tempo che quella forza si liberi… Credo che sia per questo motivo che Sephiroth è intervenuto così palesemente.
La mia volontà da sola non basta, ne serve una più forte.
-Vattene ora, Yuffie. Sono stanco e vorrei riposare…-
Libero la piccola mano dalla mia ferrea presa e raddrizzo la schiena, posando le mani sopra a quel maledetto quadrato di coperta, incrociandole con fare quasi difensivo. La mia testa è ritta sul collo, con il mento leggermente rivolto vero l’alto, in modo tale da osservare Yuffie dall’alto in basso, il petto gonfio, le spalle rilassate. E’ una posa che non mi appartiene, troppo superba e intrisa di orgoglio, fatta per sfidare e intimidire. Fatta per Sephiroth.
Egli studia i suoi movimenti con un’attenzione predatoria, seguendo morbosamente qualsiasi mossa della ninja. I muscoli tesi pronti a scattare, pronti a difendere il diario a qualunque costo.
E’ necessario….
La ragazza si massaggia la mano. Sembra concentrarsi sull’azione, però so che sta pensando a tutt’altro. Dopo qualche istante di silenzio, la ninja si alza e mi guarda con una freddezza che mai le avrei attribuito. Preda e predatore si fissano per un lungo istante, respirando la tensione crescente. Posso quasi sentire il puzzo della paura proveniente da Yuffie… o da me? Che il predatore abbia paura di questa piccola ragazzina scheletrica? O che quello che credo il predatore non è altro che un misera preda terrorizzata da qualcosa di molto più mostruoso?
Un’altra scossa. Questa volta più travolgente delle altre, tanto che mi provoca una stilettata di dolore dalla punta dei piedi fino al centro della testa. Non riesco ad ignorarla: mi sfugge una smorfia sofferente. Sento le dita stringersi in pugno.
Vattene, Yuffie, ti prego!
La ragazza nota la mia sofferenza. Apre la bocca come per dire qualcosa, ma poi la richiude. Il suo sguardo si fa sorpreso per poi virare verso la comprensione.
Sì, Yuffie. Scappa!
Indugia ancora qualche istante, incespicando in un muto discorso. Vedo domande che nascono sulle sue labbra per poi svanire in un vortice di confusione. Un altro colpo. Mi mozza il fiato. Tutta la sicurezza ostentata vacilla, ma caparbiamente Sephiroth mi sorregge, anche se la sua presa si fa sempre più debole. Tutto il mio essere trema.
Tipregotipregotiprego!
-Vado a chiamarti un dottore!-
E finalmente, la ragazza scappa fuori. Appena la porta si richiude, il dolore cessa improvvisamente. La Bestia se ne è andata. E assieme a lei anche Sephiroth.

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Mi accascio contro il cuscino e sospiro pesantemente, mentre le mie dita giochicchiano con i lati dei fogli impilati all’interno del diario. Nonostante gli sforzi, non riesco a dimenticare ciò che è successo poche ore fa, in questa stanza. L’espressione di Yuffie… raramente l’ho vista tremare in quel modo, per non parlare del suo colorito così terribilmente esangue. Sembrava quasi che tutto il plasma che aveva nel corpo le fosse stato succhiato via. Mi sento così in colpa per aver traumatizzato in questo modo una mia amica, ma sto cercando di convincermi che tutto ciò era assolutamente necessario. Quella voce… quella meravigliosa, seducente, ammaliante voce. So di conoscerla, è chiaro come il sole, sebbene ormai fatichi a trascendere tra i miei e i SUOI ricordi, e, anche se ne fossi in grado, sono così frammentati e fumosi che mi è impossibile carpirne il soggetto. Ormai è certezza: da quella dannata volta che gli permisi di prendere il possesso della mia mente, Sephiroth si è attaccato ad essa come un’edera velenosa; così tenacemente e così profondamente da renderne impossibile l’ estirpazione. In fondo mi accorgo di averlo sempre saputo: la nostra battaglia non è una classica lotta tra Bene e Male. Non lo è mai stata. Combattiamo per sopravvivere. Io voglio liberarmi del parassita e lui... beh, lui non vuole morire.
Hai paura, vero? Anche se l’hai cercata per anni, in fondo al tuo cuore sapevi che non avresti retto di fronte al passo estremo.
In fondo, quanti anni aveva quando morì? Poco meno della mia età attuale, direi *. Un uomo dotato di capacità così straordinarie avresti detto che sarebbe vissuto in eterno. Ma Sephiroth non era un uomo normale: lui era… più, è vero, ma anche meno. “Nel momento in cui nacqui, contemporaneamente morii.”, così ha scritto pagine addietro. Lui non ha mai avuto una vita. Respirava, ma il suo fiato era secco come le fiamme di Nibelhim, il suo cuore arido come il deserto di Midgar, la sua anima nera come l’inchiostro con cui scrive. In una parola: maledetto. Senza nemmeno aver avuto la possibilità di vivere. Condannato dai suoi stessi genitori, marchiato dalle cellule di un mostro alieno, additato dal Pianeta col titolo funesto di Figlio di Jenova; tutto questo quando ancora era solo un embrione, un essere indifeso, senza volontà, senza voce. Mi torna alla mente ciò che mi raccontò Denzel riguardo a quando Kadaj lo rapì assieme agli altri orfani per portarli alla Città Dimenticata. Stavo lavorando alla Fenrir e lui era in officina con me a farmi da assistente meccanico –almeno ci provava. E’ un tale distratto, a volte!- ; mentre si ciondolava, seduto sul tavolo da lavoro, improvvisamente mi chiese: “Cloud, il Pianeta ci ama, vero?” Ricordo che lo guardai come se avesse bestemmiato. Il Pianeta è Aerith per me. Da quando è entrata a far parte del Lifestream, lei è diventata tutto il buono che ci circonda; è la Madre di ogni vita che caparbiamente sfida la Distruzione della sua crudele controparte aliena. E’ per questo motivo che lanciai a Denzel uno sguardo quasi omicida: come poteva dubitare dell’amore di una persona che aveva dato la sua stessa vita per la salvezza di tutti noi? Di un persona così importante per me? Lo rimproverai chiedendogli come gli fosse venuto in mente un dubbio così grave. Timidamente, il bambino iniziò a raccontarmi del discorso che sentì sputato dalle labbra velenose di Kadaj.

“We have to fight… against a Planet that torments humanity.”
[Noi dobbiamo combattere… contro un Pianeta che tormenta l’umanità; cit. Kadaj, FFVII:ACC]

Quella frase mi fece salire una tale rabbia che, se avessi di nuovo avuto quel rimasuglio jenoviano tra le mani lo avrei fatto a pezzi. Come aveva osato insinuare un tale dubbio nella mente ingenua di un bambino?! “Non è il Pianeta a tormentarci, ma Sephiroth”, ricordo che sputai con disprezzo. Denzel rimase in silenzio per un po’, meditabondo, finché non proruppe con una domanda a cui, all’epoca, non trovai risposta: “Ma allora perché il Pianeta ha permesso la sua nascita?” Già, perché? Perché confinare Jenova in un strato roccioso vecchio di 2000 anni in stato vegetativo per poi permettere la nascita del suo legittimo erede? Che ci voleva far morire quel bambino di intossicazione da mako e farlo rientrare nella statistica dei casi falliti? Che piani aveva il Pianeta per lui? E per le persone ad egli collegate, come me?
Mi massaggio le tempie, nella speranza che quelle domande fluiscano via dalla mia mente, ma essa non viene ascoltata. La paranoia di Sephiroth sta contagiando anche me. Sospiro pesantemente e butto indietro la testa, scivolando verso il basso per farla affondare nel cuscino. Chiudo gli occhi.
Mi ritrovo a chiedermi se Aerith fosse mai stata al corrente dei piani del Lifestream. Questo dubbio mi ossessiona da quando ho scoperto che l’Antica intratteneva un rapporto simil-fraterno col mio peggior nemico. Come avrebbe potuto essergli amica se avesse saputo cosa le avrebbe fatto di lì a pochi anni? Sperava forse che tergendogli la sofferenza con la delicata pezza della sua luminosità, lui l’avrebbe risparmiata? Quel sogno riferito agli eventi della Città Dimenticata, lo faceva anche lei?
Non lo so, non lo so, non lo so!
Afferro la testa  tra le mani. Il cervello mi scoppia, troppi pensieri, troppa confusione. Mi sento accartocciare, stringere, soffocare. DEVO uscire da questa stanza!
Mi affretto verso l’uscio, ma la porta si chiude di schianto con una tale violenza che i vetri esplodono in mille pezzi. Faccio giusto in tempo a gettarmi all’indietro e proteggermi il viso, prima che centinaia di schegge appuntite mi trafiggano.
Mh-mh-mh-mh-mhahahahahah!
Quella risata…
SCAPPA!
Ascolto quel suggerimento superfluo urlato nella mente, senza nemmeno fare attenzione a chi appartiene: mi alzo e scatto verso la porta cavalcando l’energia di quel grido, incurante dei vetri che mi tagliano i palmi dei piedi. L’uscio è a pochi metri da me, eppure mi sembra che stia correndo da secoli. Le ferite rallentano la mia corsa, costringendomi a zoppicare; mentre l’uscita mi sembra allontanarsi sempre di più. Il terrore mi attanaglia; avverto le pareti stringersi e inscurirsi attorno a me, fino a formare un tunnel, la cui fine non mi è permesso vedere. I piedi mi stanno uccidendo: è come se ogni ferita venga pugnalata di nuovo ad ogni passo. Mi sembra di poggiare su un cumulo di carne spappolata. Mi volto all’indietro e vedo il mio letto, vicinissimo.
Forse dovrei tornare a letto… Riposare un po’.
No! Non tornare là dentro! E’ una trappola!
Ma è così lontano... Ti prego…
-CLOUD, AIUTAMI!-
TIFA!
Rivolgo la mia attenzione verso l’estremità del tunnel e vedo Tifa tendere la mano verso di me. Il suo viso è una maschera di dolore. No… Una forza nuova dilaga nel corpo e inizio ad avanzare nelle tenebre, senza staccare gli occhi dal mio angelo. Ogni passo è una tortura: nuove ferite si aprono sotto i miei piedi; l’oscurità mi afferra come un’entità appiccicosa e mi tira all’indietro; la gravità si fa sempre più pressante. A metà strada cado in ginocchio. Il dolore mi sopraffà e l’oscurità ne approfitta per stendermi a terra. Con un guizzo porto le mani in avanti e impedisco alle schegge di penetrarmi nella carne del petto fino al cuore.
–Cloud… ti prego!-
Tifa… resisti! Aerith, aiutami ti pr-
Sì, Cloud, supplica ancora!
Sento la viscida consistenza dell’oscurità trasformarsi in ami acuminati, i quali li percepisco affondare così in profondità da grattare l’osso. Essi mi sollevano e mi tirano indietro. Stringo i denti, reprimendo il grido che mi stava nascendo in fondo alla gola. La voce di Tifa continua a chiamarmi, ma si fa sempre più flebile. I suoi singhiozzi mi inducono a combattere contro quella forza, ma ormai sono completamente alla sua mercé. Tento comunque. Metto un piede avanti e spingo, ma più forza metto nel resistergli, più dolore egli mi procura. Non mi importa. Tifa. Spingo con vigore e la pelle mi si stacca dalle ossa.

Urla, Cloud!


Mi sveglio di soprassalto, annaspando disperatamente alla ricerca dell’aria ferma della stanza. Il cuore lo sento in gola e un terrore gelido mi sconquassa il corpo fino alle ossa. Inizio a guardarmi intorno, febbrile, muovendomi meccanicamente da una parte all’altra, senza però vedere niente. Il solo sondare ogni centimetro di questa trappola sembra l’unica cosa in grado di calmarmi. Mi fermo solo quando incontro la mia immagine riflessa, sul vetro della finestra. Ciò che vedo è offuscato ed effimero a causa della luce, ma comunque riesco a distinguere la misera figura specchiata. Occhi spiritati, bava alla bocca, occhiaie nere e profonde, pelle bianca da far invidia alle lenzuola… Sembro un pazzo. Non riuscendo a sopportare un secondo di più quella vista, distolgo lo sguardo. Non oso chiudere gli occhi: non dopo l’ultima volta che l’ho fatto. Quanto tempo è passato? Un ora? Un secondo? Qualche minuto? Giorni? Secoli?
Calma, Cloud!, inizio a dirmi, picchiettandomi la fronte con i pugni. Mi sforzo a scacciare dalla mente quelle terribili immagini e ignorare l’ombra del dolore lancinante provato poco prima. Era tutto così dannatamente reale. Il mio corpo venire squarciato in due, i singhiozzi della donna che amo, la fredda oscurità che mi circondava, il vetro sotto i miei piedi… Alzo la testa e guardo verso il pavimento, dove mi aspetto di trovare centinaia di schegge di vetro. Intonso. Alzo lo sguardo verso la porta. Intatta. C’è un 7A o un A7, non ricordo, stampato sulla superficie esterna. E’ la mia stanza. Una normalissima stanza di ospedale. Dalla finestra entra un brillante fascio di sole che illumina questo rettangolo bianco di una luce benefica, in grado di quietare le mie ansie. Affrancato, rivolgo il mio sguardo verso il comodino, dove trovo ad osservarmi le foto di famiglia e i visi fantasiosi e improbabili dei disegni dei bambini. Faccio per afferrare una delle cornici che avverto una superficie rugosa strisciare sulla pelle. Il momento di felicità in cui mi sono immerso viene spezzato via con solo quel contatto.
Il diario...
 Lo sento gravare sulle cosce, freddo e pesante come un macigno. Lancio un’occhiata circospetta all’entrata per assicurarmi che non stia per arrivare nessuno e lo scopro, gettando le coperte di lato con un gesto secco, come se dovessi sorprenderlo a lordarsi di chissà quale misfatto. Ma è solo un dannato libro. Se ne sta lì, fermo, immobile, innocente.
Grugnisco indispettito.
-Lo so che sei là dentro. Non sei innocente, non lo sei mai stato!-
Un vulcano di rabbia, frustrazione, impotenza e ogni sorta di sensazione negativa mi esplode nel petto. Stampo un pugno sulla copertina.
Non gli bastava distorcere la realtà attorno a me e allontanarmi dai miei amici; ora anche nei sogni deve seguirmi!
-COSA DANNAZIONE VUOI?!-
Mi pento subito di quell’urlo e mi copro la bocca, mentre i miei occhi corrono a scrutare il corridoio su cui si affaccia la parete a vetro. Grazie al cielo, nessuno si è accorto della mia sbroccata. La stanza è insonorizzata dai rumori dell’ospedale, così da permettere agli infermi di riposare in pace. Tutti, tranne me. Lascio cadere la mano e sospiro, rigettandomi stancamente sul cuscino e piegando il ginocchio destro così che la gamba mi faccia da leggio. Fisso il diario poggiato sull’anca sconsolato, nella speranza di vedere apparire la risposta alle mie domande, invano. Mi sento improvvisamente stanchissimo, come se ogni energia si fosse dissipata attraverso l’ultima sfuriata.
Ora ti capisco, Sephiroth, capisco la rabbia che provi. Capisco la tua frustrazione, la tua paura, la tua insicurezza.
Ora, mi è chiaro e lampante il motivo di tutte quelle domande, del perché le rimarcava, della ragione per cui lo rendevano infelice. Lo posso vedere, mentre imprimeva quei quesiti su carta nella vana speranza che, vedendoli trascritti, potessero in un qualche modo rendergli più facile la risoluzione. Tutto vano. Rimaneva per ore piegato su quella domanda, con la testa in fiamme, il fegato roso e il cuore vuoto. Senza nemmeno pensarci apro il libro sul segno che avevo lasciato. Non so perché, ma inizio a scrutare le pagine con più attenzione e noto un particolare a cui non avevo mai prestato attenzione. Quando me lo consegnarono, mi spiegarono che l’autenticità del documento era data dalle sbavature dell’inchiostro, dovute allo sfregamento del fianco della mano con cui Sephiroth scriveva. Ma, solo ora mi accorgo di minuscole sbavature circolari, celate dalle ripassate d’inchiostro. Sfoglio le pagine all’indietro. Rileggo quelle domande strazianti, quei dubbi amletici, quelle torture a forma di punto interrogativo.
Realizzo.
Lacrime.
-Ma se il Pianeta ci ama perché ha permesso la sua nascita?-

Per distruggere le sbarre dell’illusoria prigione dorata costruita dalla famiglia Shinra.
Per mostrare loro l’umiltà di una vita martoriata alla sofferenza.


*Cloud ha attualmente 27 anni, in quanto la vicenda si svolge 6 anni dopo gli eventi di FF7.

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29 Febbraio XXXX

Gli anni bisestili, in bilico tra rovina e fortuna. Tanto si è detto e tanto si dirà su questa particolare ricorrenza. Molti additano questo giorno in più come un fautore di sventure, un anno in cui ogni sciagura è possibile e di prossima realizzazione; altri, di contro, raccontano della benevolenza e della smisurata fortuna derivata da queste 24 ore additive, le quali si ripercuoteranno su tutto l’anno. Personalmente sono incline a credere alla prima affermazione: il 29 Febbraio è solo un giorno in più con cui convivere assieme alla mia sofferenza. Come se 365 giorni all’anno non fossero una condanna abbastanza lunga… Ho sempre cercato di evitarlo come la peste, rinchiudendomi nel mio guscio solitario ed evitare ogni contatto per 24 ore, ma Genesis ha pensato bene di forzare il database SOLDIER e scoprire il motivo del mio umore nero dei giorni che precedevano questa data. La sua cocciutaggine ha avuto la meglio, scoprendo che la mia avversione nei confronti di questo giorno era da attribuire a ciò che successe, tanti dolorosi anni fa: la mia nascita. Ogni quattro anni il mio senso di colpa viene rinnovato, pensando che, senza di me, molti innocenti sarebbero stati risparmiati dalla furia sanguinosa della Bestia. In primis, mia madre. Mi manca moltissimo, anche se non l’ho mai conosciuta. Non so che aspetto abbia, che suono potesse emettere la sua voce, di che colore abbia avuto gli occhi; ma SENTO che dentro di me c’è una voragine, la quale SO che solo lei potrebbe colmare. O qualcuno simile a lei. Se non fosse stato per me lei sarebbe ancora viva e, magari, in questo momento si starebbe crogiolando nella gioia derivata dai miei fratelli mai nati. Perciò mi chiedo: perché dovrei celebrare la mia funesta esistenza?
Fino al compimento dei quattro anni non ero a conoscenza della tradizione chiamata ‘compleanno’. All’epoca il mio mondo era ristretto, triste e buio; e così lo sarebbe stato per sempre, se fosse dipeso da mio padre. Grazie al cielo, c’era il Professore a mitigare questo dogma crudele attraverso l’ infinita compassione provata nei miei confronti. Egli mi aiutò a ingrandire quel mondo, insegnandomi la capacità di guardare oltre gli umidi, grigi muri della magione; oltre la fredda e accecante luce delle lampade del laboratorio; oltre il dolore e la sofferenza: a immaginare un’ esistenza totalmente diversa. Per permettermi di ampliare la mente e acquisire gli elementi per creare questa realtà fittizia, egli iniziò a leggermi delle storie; le quali risvegliarono una famelica curiosità e un’infinita voglia di sapere di cui non credevo di esserne provvisto. Ben presto, tuttavia, ero sempre meno soddisfatto dagli sporadici racconti che il Professore mi concedeva quelle rare volte che si tratteneva fino alla messa letto, perciò mi vidi costretto a cercare un modo per non dipendere più da lui. Avevo solo tre anni, quando imparai a leggere da solo, cominciando con i libri più semplici, per bambini, concessi dal Professore stesso, fino a divorarmi interi tomi da migliaia di pagine della biblioteca della magione. Nacque così la mia passione per la lettura che riuscii a mantenere segreta fino a quando non venni avviato all’istruzione elementare. Più la mia sapienza cresceva, più gli elementi che costituivano il mio mondo inventato diventavano variegati e dettagliati. Arrivai a sentire il bisogno di vedere quella creazione con i miei stessi occhi: immaginare non mi bastava più. Cominciai a rubare fogli, matite, gomme, pennarelli, tutto ciò che mi capitava a tiro. Ero in grado di scrivere, ma mi risultava ancora difficile e doloroso vedere impresse le parole che descrivevano i miei stati d’animo. Sfogarmi mi spaventava, perciò preferii il disegno. Disegnai su centinaia di fogli, a volte perfino sulle pareti, in punti che nessuno potesse vedere oppure celati dalla carta da parati ammuffita; crogiolandomi nella falsità creata dalla mia mente. E fu proprio questa consapevolezza – quel mondo finto, dalle albe perlacee e l’erba viola-, a farmi desiderare di più. Quei colori, quei luoghi, quelle parole divennero un’ossessione. Desideravo vedere il verde brillante dei prati, il blu scintillante del mare, il giallo splendente del sole; udire il frinire dell’erba scossa dal vento, le onde infrangersi contro gli scogli, percepire il tepore accogliente sulla mia pelle di un pomeriggio d’estate. Desideravo sentire, percepire, vivere. Il freddo, il grigio, il duro cominciarono a farmi impazzire. Diventai instabile e intrattabile. Hojo non capiva il motivo del mio mutamento. Ciò lo mandava in bestia:” il genio del Reparto Scientifico non era in grado di gestire un poppante di tre anni”, era questo che si sussurrava nei laboratori. Mi fa ghignare il pensiero di quel vecchio a scervellarsi sui libri e sui risultati delle analisi nel vano tentativo di capire cosa in me fosse andato storto, mentre gli assistenti se la ridevano alle sue spalle. Quel bastardo ottuso non è abbastanza intelligente per arrivare alla conclusione che solo parlando con quel bambino avrebbe potuto snodare il bandolo della matassa. Ma ciò avrebbe significato abbassarsi a conversare con una cavia, un essere inferiore. Così mi vedeva, così mi ha sempre visto e sempre mi vedrà. Non una persona, tanto meno un bambino; solo un involucro da imbottire di droghe e mako per poi mandarlo a macellare innocenti. La sua frustrazione raggiunse livelli tali da arrivare addirittura alle punizioni corporali; le quali, di lì a poco, diventarono la regola di quella casa e l’unico modo di comunicare tra noi. Così, per ripicca, una notte spaccai tutte le finestre della magione, nella speranza di vedere quei colori che tanto mi ossessionavano, ma non vidi altro che buio. Oltre al danno anche la beffa. Una piccola sortita, che non fece altro che spargere benzina su un campo di fiamme. Quel gesto, infatti, sancì l’inizio di una guerra: Hojo contro il Professore. Una guerra che sto continuando io tutt’ora, in memoria di quell’uomo virtuoso. Il contrattacco venne sferrato qualche giorno dopo quell’episodio. Il Professore venne nella mia stanza e mi disse che era giunto il momento di vivere, di nascere una seconda volta. Senza dire nulla a Hojo, egli mi fece varcare quella soglia tanto agognata. Per la prima volta vidi cosa c’era al di là di quel legno spesso, di quei quadrati di cellophane impolverato che calavano pesanti sulle finestre spaccate, di quelle mura fredde e sterili che mi si stringevano attorno ogni giorno di più.
Ricordo il bianco, immacolato, perfetto, ininterrotto, e il freddo, puro, pulito, penetrante.
Ricordo che mi ritrassi. Luce, freddo, bianco. Esperimenti, dolore, paura. Era questa la mia realtà e, quando mi resi conto che anche l’esterno combaciava ad essa, mi sentii deluso. Profondamente. Il Professore mi aveva raccontato così tante cose sul mondo al di fuori di quella porta… avevo letto di quei colori, del caldo, dei profumi… Ma, in realtà, l’esterno era anche più freddo e più bianco e più immobile del laboratorio di mio padre.
Ricordo quegli occhi sorridenti comprendere e l’uomo che afferrava quella coltre bianca e lanciarla in aria. Sembrava farina, ma molto più fine e leggera. E poi brillava. Ad ogni giro del vortice il timido sole baciava quei fiocchi candidi e li faceva brillare come diamanti.
Ricordo che lo imitati e vidi quel materiale sbriciolarsi tra le dita.
Ricordo che guardai in alto e vidi fiocchi finissimi cadere dal cielo pallido. Neve, così si chiamava.
Ricordo che risi per la prima volta da quando avevo memoria.
Il Professore m'informò che le sorprese non erano finite e mi condusse, mano nella mano, fino al villaggio più vicino. La neve mi arrivava al polpaccio. Non ero ancora abbastanza forte a quel tempo.
Ricordo che mi prese in braccio. Ero leggero, mi disse. Come la neve.
Già da parecchio sentivo delle voci squillanti arrivare da valle, ma rimasi comunque piacevolmente sorpreso nel vedere altri bambini, scorrazzare nelle vie del villaggio. Afferravano quella neve e se la lanciavano contro, oppure altri costruivano strani esseri umanoidi con sassi e carote al posto degli occhi e del naso; oppure sfrecciavano su strani marchingegni di legno, gettandosi da cumoli nevosi alti quanto una casa.
Ricordo che tutti ridevano, la felicità aleggiava nell’aria. Passeggiamo per un po’, finché qualcuno non mi colpì la schiena con una palla di neve.
Ricordo una bambina, i suoi colori brillanti, occhi grandi del colore del mare profondo e capelli dorati come il sole d’estate; il suono cristallino della sua risata così vibrante e meraviglioso da lasciarmi senza fiato. Era graziosa e gentile, un po’ più grande di me. Mi chiese se volessi giocare con lei e i suoi amici. Mi nascondevo dietro al Professore, intimidito da quella situazione così strana a sconosciuta, ma lei non si scoraggiò. Ricordo che mi chiese come mi chiamassi, ma non le risposi, vinto dalla timidezza. Lei mi battezzò con il nome di Cloud; per cognome scelse Strife, come il ragazzo che le piaceva. Cloud e Claudia. Strife e Strauss. Nessuna associazione più banale, ma, per una volta, fu bello non essere Sephiroth. Come Cloud Strife mi sentii un bambino qualunque, che festeggiava i suoi quattro anni in questo mondo, giocando e ridendo. Mi dimenticai degli esperimenti, della triste magione in cui la mia vita scorreva lenta e spaventosa, del buio pesante che gravava su ogni respiro, del puzzo di candeggina che impregnava ogni tessuto e della voce gracchiante del vecchio che echeggiava in ogni angolo di quella casa maledetta. C’era solo luce, allegria e giochi. C’era un’infanzia. Uno dei miei piccoli desideri era stato esaudito. Il Professore non avrebbe potuto farmi un regalo più bello… fino a che qualcuno decise di riportarmi alla realtà: un sasso mi colpì dritto alla tempia, la forza fu tale da farmi capitolare a terra.
Ricordo il sangue, caldo, dilagante, orribile. Sporcava col suo rosso cupo la delicatezza della neve. Non feci in tempo a realizzare cosa stava accadendo che un altro si andò a schiantare sulla schiena. Poi un altro e un altro ancora, scagliati da una folla inferocita.
Ricordo che mi chiamarono abominio, mostro, bestia, impuro. Parole terrificanti che mi perseguitano ancora oggi, marchiate a fuoco negli occhi dei miei nemici.
Ricordo che mi chiesi il motivo di tanto odio. Stavo solo giocando: cosa c’era di tanto sbagliato? Il Professore tentò di fermare quella follia, frapponendosi tra me e i villici, ma avrebbero fatto del male anche a lui se non fossero intervenuti i soldati della Shin-Ra, arrivati come seguito di un infuriato Hojo.
Ricordo che incrociai lo sguardo di Claudia, mentre mi trascinavano al sicuro. Piangeva spaventata, provando pietà per quel bambino così strano e taciturno di cui non avrebbe mai saputo il nome. Lessi nel suo sguardo un grosso interrogativo: perché? Osservava la folla, quella gente che conosceva da sempre, impazzire e prendersela con un ragazzino di quattro anni. Perché?
Ricordo che cercai una spiegazione, ma più insistevo, più botte prendevo; e più botte prendevo, più piagnucolavo; e più piagnucolavo, più forti erano le botte. Un circolo vizioso che ci misi particolarmente molto a fissarmelo in testa. Dopotutto, ero solo un bambino spaventato: come avrei dovuto reagire , secondo lui? Anche se, in fondo, non mi importava: avevo visto l’esterno, avevo saggiato i colori del mondo e avevo assaporato il dolce miele dell’infanzia… Che cosa avrei mai dovuto desiderare di meglio? Oh, c’era molto di più da desiderare! Me ne accorsi di lì a pochi mesi, quando i ricordi di quel giorno vennero inghiottiti dalle profonde tenebre del regno asettico di mio padre.
Ricordo che giurai a me stesso che mi sarei piegato, ma mai spezzato. Avrei rivisto il mondo, in un modo o nell’altro. Avrei lottato fino a consumare ogni goccia vitale, pur di essere libero. Un giorno, lo sarei stato, mi dissi dall’alto della mia superbia infantile. Ma quel giorno deve ancora arrivare, sebbene nel frattempo abbia girato praticamente tutto il mondo- anche se non come avrei voluto-. Parte del mio desiderio si è compiuto, ma l’evolversi degli eventi sta cambiando pian piano le mie prospettive. Mi sto rapidamente piegando e sento di essere prossimo a spezzarmi.
La voce di Genesis che bestemmia al piano di sotto mi ha destato dai miei pensieri. Ha organizzato una festicciola con tanto di torta per celebrare il mio compleanno, ma io l’ho mandato malamente al diavolo. Abbiamo litigato furiosamente e abbiamo rischiato di arrivare alle mani, ma quel santo protettore di Angeal si è frapposto tra noi, sgridandoci come nemmeno fossimo dei bambini. Mi ha infastidito questo fatto, ma mai come l’odiosa abitudine di ficcanasare negli affari altrui del rosso. Io non lo sopporto! Gli è così dannatamente difficile farsi gli affari suoi?! Ci sono cose di me che non voglio si sappiano e, puntualmente, quell’idiota va a scavare e cercare, a forzare e scovare; come se fossi un tesoro, un trofeo da dissotterrare. Glielo ho chiesto miliardi di volte di stare fuori da cose che, perfino io, a malapena comprendo. Ma lui no! Lui non mi ascolta mai, fa sempre di testa sua e non ha nemmeno l’umiltà di ammettere l’errore. Stupido moccioso viziato! Ormai le lente giornate della caserma vengono ravvivate dalle nostre litigate, delle quali ne possono scoppiare anche cinque o sei nel giro di poche ore. L’indolenza, la noia e gli spazi ristretti, non fa bene al morale delle truppe, tanto meno al mio, di umore. Mi sono sempre tenuto ben lontano dagli altri esseri umani e , questi ultimi, hanno sempre rispettato le distanze, chi per rispetto, chi per timore; ma i due banoriani, soprattutto Genesis, sono diversi. Loro sono miei amici, così dicono. Io sono titubante nel definirli tali, ma forse il mio inconscio già li considera parte del mio piccolo mondo. Altrimenti perché passare sopra ai loro comportamenti del tutto inopportuni?
Ascolto la voce del rosso giungermi dal piano di sotto. Ha abbassato di qualche decibel la sua isteria e capisco che Angeal è riuscito a calmarlo. Probabilmente, tra poco entrambi verranno quassù e ricominceremo a chiacchierare come se nulla fosse successo. Già, succede sempre così con Genesis. Ho misurato il mio sfogo con le dita ed esso non misura più di mezza spanna. Un altro punto in comune tra lui e me: siamo come vulcani esplosivi, eruttano tanto fumo; ma nessuna sostanza. Tutto quello che rimane del nostro passaggio è qualche bruciatura. Tutta la nostra energia viene dissipata nel tentativo di soverchiare l’altro fino a lasciarci senza forze per andare oltre. Alla fine, ritorniamo a essere amici; senza scuse o moine. Siamo troppo orgogliosi per arrivare a questo: è molto più facile far girare il Pianeta al contrario che sentire la parola ‘scusa’ abbandonare le labbra di Genesis o mie. Perfino evocare il perdono di Angeal è stata una prova dura da superare. Non avevo mai chiesto scusa a nessuno, ma perdere un amico fidato come il moro valeva la pena abbandonare quell’orgoglio così ingombrante. Ho scoperto che non è così difficile come Genesis lo fa sembrare, ma temo che il suo ego sia molto più smisurato del mio. Sono arrivato alla conclusione che il rosso non conosca la parola umiltà. Ciò che ne deriva è una visione dell’amicizia un po’ distorta, oltre che essere del tutto in contrapposizione con certe sue affermazioni. Quando cerca di estrapolarmi i segreti con la sua fastidiosa insistenza non fa altro che ripetere: “
gli amici condividono tutto”. E sono pienamente d’accordo su questo, tanto che all’inizio e dal basso della mia completa ignoranza su come funzionano i suoi complicati e viscidi meccanismi mentali, davo credito a questa frase, concedendogli ciò che voleva. Ma quando lui si ritrova nella mia situazione… beh, cavare sangue da una rapa non è del tutto un’utopia rispetto a ciò che bisogna passare per farsi dire anche solo una mezza verità. Genesis non solo non si spezzerà mai, ma non si piega nemmeno. Se non fosse per la premura con cui mi infastidisce, lo avrei cacciato da SOLDIER da un bel po’ di tempo. E’ un bisbetico viziato, insopportabile, fastidioso, litigioso, orgoglioso, lunatico… ma, nonostante tutto, non riesco a fare a meno della sua compagnia. Ormai ho capito che è questo il suo modo di dimostrare il suo affetto nei confronti degli amici, come entrare barbaricamente nella mia privacy. Angeal mi ha spiegato che, anche se non sembra, Genesis è una persona generosa. “E’ in grado di percepire le sofferenze della gente”, ha detto il moro, una volta, “per questo ha lavorato tanto per risollevare Banora. Ed è per questo motivo che ti tormenta. Dice che soffri e si preoccupa per te. E ti da dell’imbecille, perché non gli concedi nessuna possibilità. Dimmi, Sephiroth, ti è così difficile farti aiutare?”, ha aggiunto alla fine, guardandomi con quello sguardo severo, ma comprensivo. Non ho potuto fare altro che rivolgergli uno dei miei sorrisi enigmatici.
Angeal. Anche se non lo dimostra in modo ossessivo come l’amico, anche lui ha questa natura da crocerossina. Dà molto credito al rosso quando si tratta di aiutare la gente. Non posso che dargliene atto, dopotutto sono amici da sempre… Ma io no. Perché non capiscono? Il solo pensiero di tentare di arginare la furia della Bestia mi rivolta le viscere. Non ho la benché minima intenzione di mettere a repentaglio la loro vita per il capriccio di un ragazzino viziato. So che quel mostro li divorerebbe nemmeno fossero due stuzzichini da aperitivo, conditi da tanti buoni propositi. Inoltre, aprirmi mi risulta ancora tanto doloroso, perfino quando scrivo su queste pagine, percepisco le vecchie ferite aprirsi e sanguinare copiosamente. Il passato è ancora troppo vicino. Questa vita è così stagnante, un ciclo continuo di battaglie, guerre, odio, freddo, grigio e sangue. Il mondo continua ad assomigliare al laboratorio in cui ho sprecato i primi anni della mia vita; sebbene abbia viaggiato in lungo e in largo, niente è cambiato, tutto è uguale. I miei occhi non sono più in grado di vedere i colori, la mia lingua non percepisce nient’altro che il sapore del sangue, il mio odorato fiuta solo la Morte. Passo ore ad osservare, nel vano tentativo di recuperare quelle facoltà perdute, ma gli orrori vissuti mi hanno strappato ogni sensibilità. Ormai non sono più in grado di stupirmi, di meravigliarmi… mi sono reso conto che non riesco più ad immaginare. Ricordo che quand’ero piccolo capitava che mi perdessi nei miei pensieri e la mia mano iniziasse a muoversi da sola, liberando quei pensieri dalla loro prigione per iniziare una nuova vita su quel foglio bianco. Ricordo che riempivo d’orgoglio il Professore, quando gli sottoponevo il mio lavoro. Mi sorrideva e mi scompigliava i capelli, mentre mi diceva di conservare quell’abilità gelosamente. Crescendo, però, ho abbandonato quella via; prendendone una meno convenzionale: ora la mia matita è la Masamune e i miei fogli sono le persone che uccido. Spesso mi sono sentito elogiare per la mia capacità di trasformare una carneficina in capolavoro… credo che per un modo distorto e malato, abbia conservato quella vena artistica. Stranamente, la cosa non mi rallegra; ma sembra deliziare i miei fans e, ho scoperto, alcuni dei miei avversari. Recentemente mi sono imbattuto nel diario del Generale Ryu, l’uomo che sconfissi sotto le mura di Garyo e di cui oggi ne occupo gli appartamenti. Nelle sue ultime pagine egli mi ha menzionato spesso, confessando una certa trepidazione nell’incontrarmi. Una frase che mi ha colpito è stata questa: “
Dicono che si muova con tale regalità ed eleganza da rendere la morte del più miserabile soldato degna di un sovrano. Non potrei chiedere un avversario migliore a cui chiedere una morte onorevole.
Generale reggente Yama Ryu. Rammento il giorno in cui lo affrontai. Arrivò perfino a fermare la battaglia, affinché tutti vedessero il nostro scontro. Un uomo coraggioso, temerario, un vero samurai. I suoi occhi neri risplendevano della realizzazione della fine che tanto aveva sognato: morire con una spada in pugno sul terreno sanguinoso della battaglia. Non chiedeva altro che confrontarsi con me, affrontare una leggenda, un… shi no tenshi, angelo mortale – così mi chiamò prima che la mia lama calasse sul suo collo magro, staccandogli la testa-. Si lanciò all’attacco con furia, urlando con tutto il fiato che aveva in corpo, la spada rivolta verso il cielo, la sua armatura che lanciava riflessi sanguigni al sole dello zenit ad ogni passo, il viso barbuto deformato in una maschera di rabbiosa fierezza. Avrei potuto concedergli un confronto più spettacolare, in cui lui avrebbe dimostrato il suo valore, ma sapevo che sarebbe stata solo una misera farsa. Inoltre, i suoi occhi non lasciavano dubbi: non voleva la mia pietà. Gli falciai le gambe, arrestando la sua corsa, senza dargli nemmeno la possibilità di sferrare un fendente. Il suo urlo di dolore si è stampato nella mia memoria e, a volte, mi sembra quasi di sentirlo riecheggiare nello spiazzo all’esterno delle mura di Garyo; come se le pareti lo avessero intrappolato nei loro anfratti. Ogni volta mi convinco che sono solo delle allucinazioni uditive, ma dentro di me SO che non è così. Il suo spirito guerriero è parte del Lifestream, ora, e mi perseguiterà fino alla morte, vendicando il suo popolo nella maniera più crudele possibile. E per farlo ha deciso di non uccidere la mia carne, ma bensì il mio cuore. Attraverso LEI: Sakura. Ho scoperto, infatti, che quell’uomo era non poco di meno che il suo amante. Non un semplice protettore, o danna, come dicono i Wutai. Si amavano e stavano progettando un matrimonio segreto per non scatenare uno scandalo. Avrebbero dovuto sposarsi il giorno di Natale… lo stesso giorno di quel bacio. Se penso che, in quel momento, lei avrebbe potuto trovarsi in quello stesso letto sposata con un altro uomo… non dovrei pensarlo, ma sono quasi felice di aver ucciso il Generale Yama Ryu. Non posso, tuttavia, ignorare lo straziante senso di colpa che mi devasta il cuore nei confronti di Sakura. Stava per coronare il suo sogno d’amore, lasciare l’okya e la sua vecchia vita da geisha, per appartenere per sempre all’uomo di cui era innamorata. Ma un Demone d’Argento ha infranto quel sogno. Glielo ha strappato via, distrutto, spezzato, tranciato, esploso in migliaia di pezzi. Se Yama mi ringraziò per avergli concesso la morte, sono certo che lei stia ancora maledicendo la mia nascita.

Mi odia.

Lo so che è così, perché scacciarmi in quel modo, altrimenti? Perché illudermi, per poi sputarmi in faccia che non vuole niente da me?
Sakura si nasconde dietro ad una maschera di cortesia, fatta di sorrisi meravigliosi e sguardi languidi; quando in realtà vorrebbe uccidermi nel modo più cruento possibile. No, non uccidermi, distruggermi. Non fisicamente, le sarebbe impossibile, ma psicologicamente. E’ entrata nella mia mente, abita i miei sogni, è diventata il centro dei miei pensieri. Non c’è notte che me la immagini nei modi più animali possibili; non c’è giorno che non pensi a quel maledetto bacio.
E io me ne rendo conto, ma non riesco a fare nulla per impedirlo…
E’ lei che mi spezzerà, ne sono certo. Eppure continuo a lasciarglielo fare...

Una chiamata inaspettata ha rotto il flusso della mia ansia: Aerith. E’ da così tanto tempo che non ascolto la sua vocina piena di brio… Mi chiama per augurarmi buon compleanno e anche buon Natale in ritardo. Ride come solo lei sa fare e sento il mio cuore illuminarsi. Piccola mia. L’unica donna che mi ami davvero… Lei non oserebbe mai respingermi; tantomeno picchiarmi. Lei forse avrebbe risposto a quel bacio, si sarebbe fatta abbracciare, si sarebbe arresa alle mie carezze. Lei mi avrebbe sorriso e mi avrebbe detto ‘Ti amo’.
Lei mi avrebbe perdonato.
Ma Aerith è solo una bambina. Non conosce il grigiume del mondo, men che meno la sua freddezza. Anzi, ripensare alla sua figura accoccolata al centro del suo miracoloso campo di fiori, sotto alla luce tenue e pura che filtra dal soffitto sfondato della chiesa dei Bassifondi, mi fa scappare un sorriso tirato. Quei colori che tanto sognavo da bambino, la piccola li sfoggia attraverso il suo profumato pantheon floreale. Mi illudo che questo possa depurare la mia anima nera da tutto il sangue e l’odio riversatosi su di me. Un’illusione fittizia è sempre meglio di niente; come immaginare un mondo migliore mitiga la sensazione di soffocamento causata dalle spire di questa realtà che ogni giorno si stringono sempre di più attorno al mio collo.
Aiutano a non spezzarsi… Sì, ma per quanto ancora?


Scialveeeee!!! Come al solito, chiedo perdono per il ritardo, ma i cali d’ispirazione e mancanze di tempo sono i nemici giurati degli scrittori! Meno male non lo faccio di professione, eheheheh… ehm *si schiarisce la voce* ok, basta divagare. Dunque, dunque, questo è un capitolo un po’, come dire, stantio, nel senso che la storia non va fondamentalmente avanti, ma diciamo ne ho approfittato per mettere un po’ di approfondimenti, tipo spiegare cosa è successo dopo quella frase detta da Cloud alla povera Yuffie; come se la passa il biondo in ospedale da solo; un po’ d’info interessanti su Seph, come un caro tuffo nel passato vecchio stile (mica ci possiamo dimenticare del vecchio babbuino, no?) che hanno svelato il lato artistico del Generale d’Argento, il rapporto d’amore-odio con Genesis, una piccola sortita nella storia di Sakura, ecc… tutto ovviamente meravigliosamente inventato. Sta poi a voi, cari lettori, giudicare quanto queste cose possano essere verosimili o meno.
Ringrazio le mie donne per il sostegno morale che mi danno attraverso le recensioni che mi rilasciano, chi assiduamente (one winged angel) e chi meno (Manila e Serith). Vi voglio bene ragazze mie! Spero di non annoiarvi troppo con questa solfa, ma se avrete pazienza riuscirò ad arrivare al punto che interessa tutte noi. Come dice il saggio: non è importante l’arrivo, ma il viaggio che ti ha portato ad esso… *Seph e Cloud si guardano poco convinti* *che c’è?!* ehm, ehm, dopo questa massima direi che… VI SALUTO!
Alla prossima!
Besos

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Capitolo 14
*** Confusione ***


Oggi sono stato dimesso. I medici non hanno trovato altri motivi per tenermi ancora chiuso là dentro; nonostante le proteste di Yuffie, la quale continuava a insistere sul completo contrario. Ha tentato di opporsi in tutti i modi, ma nessuno le ha dato credito, dal momento che non era in grado di spiegare il motivo di quell’affermazione. Alla fine, è arrivata a pensare di essersi inventata tutto, che quello che successe in quella stanza non sia mai accaduto; che Sephiroth non si fosse impossessato di me. Il nostro rapporto si è incrinato, fatica a rivolgermi la parola per paura di lasciarsi scappare qualche frase di troppo e di mettere in pericolo la vita dell’uomo che ama. Non farei mai del male a Vincent. Come potrei? Egli è l’unico che sia al conoscenza del mio segreto e l’unico che mi sostenga, nonostante preferirebbe di gran lunga prendere quel diario e riservargli lo stesso trattamento che il proprietario riservò a Nibelheim. Anche se ho come la sensazione che prima preferirebbe leggerlo. Credo che abbia accettato di aiutarmi non solo per la mole di pericolosità derivata dall’oggetto- la quale è impossibile da sostenere da solo-, ma anche per la remota possibilità di conoscere il figlio della donna che amava e che volentieri avrebbe accettato nella sua vita, crescendolo come suo. Sono certo che avrebbe dato a quel bambino tutto l’amore che quest’ultimo denuncia sentire mancare in queste pagine.
Mi fermo un attimo e mi lascio trasportare dalla fantasia: mi immagino una tranquilla cittadina amena, in mezzo al verde; una calda estate; una casa accogliente, fatta di legno, piena di luce; un giardino invaso di giochi e fiori. In mezzo ad essi vedo una donna annaffiare le piante che s’innalzano, fiere della loro colorata bellezza, dalle aiuole. Ella non stona tra di essi: la sua grazia scaturisce dal grande sorriso che solca le labbra carnose, dagli occhi pieni di felicità, dalla pelle chiara e perfetta. I lunghi capelli castani le scendono liberi lungo la spalla fino alle anche, baciati dal sole e dalla leggera brezza, i quali dipingono di riflessi dorati le ciocche ondeggianti. Improvvisamente, una voce squillante la chiama. Mamma, dice. Il viso della donna s’illumina, appena incrocia le iridi verdi di un bambino che sfreccia nel giardino per raggiungerla. Ella accoglie il bimbo tra le sue braccia, sollevandolo con grazia. Gli stampa un bacio sulla fronte; dopodiché ci appoggia sopra la sua. I loro profili sono esattamente identici: naso dritto, labbra a bacio, lunghe ciglia, strana frangia che scende sinuosa lungo il viso, pelle chiara. Solo che i capelli dell’infante sono del colore dell’argento. Percepisco un forte affiatamento tra i due, notando il modo con cui la donna lo culla e lo accarezza, da come lui stringe ciocche castane e se le rigira tra le dita, da come entrambi dilatano le narici per percepire l’odore dell’altro. Niente e nessuno potrebbe infrangere quell’enorme amore; a parte, forse, una terza figura, la quale s’insinua tra loro con discrezione, senza osare dividere madre e figlio dall’abbraccio. Afferra con delicatezza le spalle della donna e le posa un delicato bacio sulla guancia. E’ un Vincent molto diverso da quello che conosco: è un giovane moro dal viso disteso e pieno di vita; gli occhi scarlatti brillano di un amore incondizionato e profondissimo nei confronti della donna che stringe a sé e al bimbo che allunga la mano verso di lui alla ricerca di un contatto. Vincent afferra quella manina minuscola con presa salda e sicura, dando a quel bambino un’ancora di salvezza, un punto fermo su cui sempre contare. Come per ringraziarlo, egli rivolge all’uomo una singola parola, ma dal significato così grande da appagarlo completamente: Papà. Vincent gli scompiglia la capigliatura, ridendo. E’ una scena meravigliosa, ma ciò che più mi attrae è lo sguardo che la donna rivolge all’uomo: esso è pieno di riconoscenza. Lo ringrazia con quegli occhioni nocciola ogni giorno, ogni momento, ogni respiro per aver salvato lei e suo figlio, donandogli il merito di quella bolla di felicità in cui sono inglobati. Sento il cuore traboccare di un calore intenso che mi scalda il corpo e la mente, fino a che un pensiero amaro non lo raggela.
Questa non è la realtà.
La realtà è ben diversa: la realtà è crudele, la realtà è fredda, la realtà è morte.
E’ solo frutto della mia immaginazione: esiste solo un trio di vite spezzate. Un amato senza amore, una madre senza il figlio e un figlio senza famiglia, naufragati in un mare di disperazione. Piangono e urlano, aggrappandosi ad una barca che imbarca acqua, nel disperato tentativo di salvarsi. Ma solo Vincent riesce a sfuggire, martoriato dall’esperienza, ma vivo. Anche se sembra una parola grossa per uno come lui, però in fondo, se solo riuscisse a perdonarsi, avrebbe la possibilità di ricominciare. Ora capisco perché ha rinunciato a cogliere le occasioni che gli sono presentate: ha abbandonato quella nave, condannando due innocenti a sprofondare in quelle acque. Solo Sephiroth è riuscito a risalire, ma cos’ha ottenuto? Nient’altro che velenoso, corrosivo odio. Odio per un mondo che lo ha sempre tradito, sfruttato, umiliato e lui, nella sua solitudine, non ha fatto altro che alimentare quel seme mefistofelico, fino a che non gli ha squartato il cuore e putrefatto l’anima. E pensare che il mostro spietato nato da quel seme, sia lo stesso neonato scalciante, innocente, vittima; di cui Vincent si sarebbe fatto volentieri carico, dandogli un vero padre, una vera famiglia, una vera vita.
E invece… Quel bambino è stato abbandonato a lottare contro quel cancro che gli ha divorato ogni singola goccia di umanità e compassione e nessuno è mai riuscito a capirne l’esistenza. O, meglio, nessuno se ne è mai interessato, perché, se si avesse avuto la decenza di tendere meglio le orecchie, si sarebbe potuto sentire che, dietro a tutto quell’odio, c’era ancora il pianto disperato di quel neonato.
Sorrido mesto.
Lo hai nascosto fin troppo bene… Sei sempre stato bravo in questo.
Questi pensieri lugubri s’interrompono appena avverto un tocco delicato sulla spalla. Mi volto di scatto e mi ritrovo a specchiarmi negli occhi di Tifa. Rimaniamo a guardarci in silenzio per qualche secondo, fino a che il ricordo di quel sogno riaffiora e, istintivamente, la lego in un abbraccio, stringendola con forza. Il pensiero di vivere quell’ esperienza onirica mi terrorizza più di qualsiasi cosa. Non potrei sopportare che le venga fatto del male.
-Cloud… Che cosa c’è?-
La sua voce è un misto tra dolcezza e stupore, con un pizzico di allarme. Non si aspettava una mossa simile da parte mia: non sono tipo da dispensare abbracci gratuiti. Io non rispondo subito, lascio che la frustata dovuta al ricordo del sogno si allievi, altrimenti so che potrei degenerare in una scenata isterica. Respiro il suo profumo di caffè e sapone alla vaniglia, mi lascio accarezzare dalla sua pelle liscia e vellutata, ascolto il suo respiro corto, mi abbandono al suo abbraccio. Tutte queste sensazioni mi riempiono il cuore e la possibilità di perdere tutto questo mi risulta inaccettabile. Sono arrivato a scuoiarmi oniricamente pur di salvarla. Lei è troppo importante per abbandonarla al suo destino… Uno strano moto di tristezza mi avvolge e sento gli occhi pizzicarmi.
Perdere la persona più importante della mia vita.
Affondo ancora di più la testa nella sua spalla e la avvicino ancora di più.
Lasciarla vagare nel Lifestream.
Riempio i polmoni del suo odore.
Sola, abbandonata, spaventata.
Mi scappa un gemito.
Ha bisogno di me.
Il pizzicore si trasforma in lacrime.
Sola… spaventata.
Tifa cerca di guardarmi in viso, ma la mia stretta le impedisce di muoversi più del necessario; tuttavia ha avvertito il fiume salato bagnarle la pelle.
-Ma, Cloud? Stai…-
La sua determinazione riesce a far penetrare una mano attraverso la stretta muraglia eretta dal mio abbraccio e raggiunge la guancia. Con grazia, mi accarezza e m’induce a uscire allo scoperto. Mi osserva sconcertata e le sue dita vanno ad asciugare quel poco di dignità che avevo in corpo.
-Perché piangi? E’ successo qualcosa?-
E’ successo che stavo per morire; è successo che il diario del mio peggior nemico non fa altro che tormentarmi; è successo che potresti essere in pericolo; è successo che ho paura, che non so dove tutto questo mi porterà; è successo che probabilmente abbiamo ucciso la persona sbagliata!, penso con stizza.
-No… sono solo felice di tornare a casa.-, rispondo, invece, cercando di controllare il tremore della voce.
La mia ragazza mi guarda ancora più sconcertata, ma l’ombra di un sorriso si allunga attraverso le sue labbra. Rincaro la dose e mi accorgo che lo dico più per me che per lei.
-Sono davvero felice di tornare a casa nostra. Di tornare da te. Mi sei mancata, amore mio.-
Le rivolgo il sorriso più sincero che ho, rendendomi conto quanto in realtà sia così schifosamente falso, e avvicino il mio viso al suo. Tifa mi rivolge un sorriso incerto.
-Quello strano malore non ti ha lasciato del tutto incolume, ma se questi sono gli effetti… Dovrebbero venirtene più spesso!-
La mia ragazza ride, ma io no. Almeno, non sinceramente; ciò che mi scappa è solo una risata nervosa. Se solo sapesse…
Non sono mai stato un tipo da romanticismi, né da sdolcinatezze, per questo temo che quelle parole non siano farina del mio sacco. Solo ora me ne rendo conto e, prima che la mia maschera si sfaldi, mi getto sulle labbra accoglienti di Tifa, ma… non ho mai saggiato un bacio più amaro di questo.

Gli ultimi giorni di permanenza all’ospedale sono state un via vai di dottori, amici, infermiere, famigliari così fitto da impedirmi di andare avanti con la lettura. E’ stata dura perfino tenerlo nascosto! Il dottore mi ha raccomandato qualche giorno di convalescenza, quindi in questo periodo mi aggiro nella casa vuota in preda alla noia. Odio stare con le mani in mano, quindi, anche se non dovrei, ho deciso di prendermi cura della mia unica figlia, la Fenrir. Sono spesso tentato di rinchiudermi nel mio ufficio, ma, dopo quello che è successo, Tifa si fida più a lasciarmi da solo in quello stanzino. Come se permettermi di stare delle ore in officina con cacciaviti, chiavi inglesi, cassette pesanti una tonnellata, fiamme ossidriche, seghe circolari, taniche di benzina e una bestia nera e oro da 800 CV non sia abbastanza pericoloso. Senza contare che non è il luogo a definire le mia salute, ma l’umore altalenante riversato in quel libricino diabolico. Quest’ultimo, l’ho lasciato un po’ da parte, ma neanche troppo. Lo tengo con me giù in officina e, sebbene concentrandomi sulla moto mi aiuti a non curarmene, lo avverto chiamarmi. Mano a mano che passano le ore quella presenza non fa altro che sussurrarmi ossessivamente nell’orecchio, accompagnandomi verso il cassetto. Appena lo apro, raccolgo quel poco di spina dorsale che mi è rimasta e mi sforzo a richiuderlo. Ma ogni volta diventa sempre più dura. Come nel sogno: resisto, resisto, resisto, fino a che LUI non mi sventrerà. Tendo l’orecchio e ascolto le voci provenire dal piano di sopra: avverto il vociare dei clienti del bar e, sopra a tutti, la parlantina affabile di Tifa. Essa mi salva contro quel demone maligno, relegandolo nel suo nascondiglio buio e polveroso. Ma appena lo faccio egli giura vendetta e la volta dopo sono ancora lì a osservarlo con occhi vogliosi. Ogni volta mi avvicino sempre di più, sempre di più la mia mano si allunga per afferrarlo, sempre di più le mie notti vengono tormentate da sogni terribili, di cui la mattina mi rimane solo una traccia flebile. Lotto con tutte le mie forze per non far preoccupare Tifa, ma il mio fisico sta dando chiari segni di cedimento. Ogni volta che mi guardo allo specchio stento a riconoscermi: sembro un drogato in crisi di astinenza… Perché non riesco a disintossicarmi? Perché non riesco a lottare contro questa follia? Sono arrivato a pregare che questi giorni di mutua finiscano, affinché possa finalmente fuggire da questa città e rifugiarmi nei luoghi più oscuri per leggere quel diario.
Devi aver pazienza, Sephiroth… Presto, presto tornerò da te. Ti prego, fammi passare in pace questi pochi giorni con la mia famiglia. Abbi pietà, SO che sei capace di provarne.
Nel frattempo, cerco di concentrarmi su un particolare che mi ha lasciato senza parole la prima volta che lo lessi: non riesco ancora a credere che Sephiroth avesse conosciuto mia madre. Lei non mi ha mai menzionato di questo fatto. Mi sto autoconvincendo che lei fosse troppo piccola per ricordare un bambino conosciuto un 29 Febbraio di tanti anni prima; ma qualcosa nella mia paranoia mi indica che c’è dell’altro. Insomma, non esistono molti umani con i capelli argentati e gli occhi colore del mako! Senza contare che di lì a pochi anni, quel bambino sarebbe diventato uno dei più famosi SOLDIER della storia di questo Pianeta.
Mi fermo un attimo e sospiro. Non ci posso credere! Perfino di mia madre non riesco più a fidarmi… Non faccio altro che vedere complotti ovunque; inizio a dubitare della sincerità delle persone che mi circondano; ogni cosa l’avverto contro di me. Mi scappa un altro sospiro e realizzo: Sephiroth mi sta trasmettendo la sua stessa paranoia. Egli ha sempre saputo che c’era qualcosa che non andava in sé e la sua frustrazione l’aveva portato a credere che l’intero mondo gli stesse tenendo nascosta la verità. Nemmeno dei suoi unici amici riusciva a fidarsi completamente: nella sua testa erano tutti burattinai; esseri gretti il cui unico scopo della vita era sfruttare per il proprio tornaconto i “doni” dei quali era dotato. L’unica ad avergli dimostrato sincerità è stata proprio la donna che lo ha respinto. Forse è per questo motivo per cui non riesce a togliersela dalla testa. Non so perché, ma più leggo del loro allontanamento, più ho come l’impressione che in realtà si stanno avvicinando sempre di più. Vedo due grossi e imponenti iceberg levarsi al di sopra dei neri flutti del mare di mediocrità dei loro rispettivi mondi, presi in consegna da una corrente che li fa orbitare intorno l’uno all’altra, senza mai scontrarsi. Una corrente fatta di convenzioni sociali, sogni infranti, guerra, pregiudizi, un passato oscuro, diffidenza, senso di colpa, che trasforma la distanza di un bacio in una voragine infinita; ma, allo stesso tempo, li tiene così vicini da sfiorarsi. Quelle carezze li sgretola pian piano, trasformando la loro forma, adattandoli alla corrente, cambiando le carte in tavola. Piano, piano il loro comportamento nei confronti della corrente cambia.
Li allontanerà ulteriormente o li farà cozzare fino a fonderli insieme?
E’ questa domanda che tormenta la mia curiosità: tutto lascia presupporre che siano destinati a non incontrarsi mai e che quella foto non sia altro che un gesto disperato di un uomo imprigionato in un amore platonico. Eppure, io non sono d’accordo con l’affermazione lapidaria di Sephiroth. La mentalità dei Wutai è diversa dalla nostra: per loro morire in battaglia è il coronamento di una vita dedita all’onore e al dovere. Yuffie ce ne parla spesso. Durante la guerra, ci raccontava, le donne accettavano la morte dei propri mariti, era dura, ma onoravano la decisione di quegli uomini di morire per una causa di cui della giusta veridicità erano convinti, andando avanti con forza e volontà d’acciaio. La loro cultura è improntata sull’onore della vittoria e la vergogna della sconfitta va lavata col sangue, è risaputo. Quindi, se il Generale Yama fosse rimasto al sicuro con la sua donna dietro alle sottane di Garyo, probabilmente, non avrebbe retto quest’onta e si sarebbe ucciso. In pratica, non c’erano molte speranze per quell’uomo. E credo che Sakura ne fosse cosciente. Era un soldato, un samurai fino al midollo, avrebbe sicuramente onorato la vecchia via. Curioso che Sephiroth non ci avesse pensato. Forse era troppo accecato dalla disperazione di un amore non corrisposto per riuscire a ragionare lucidamente. Dopotutto, in questo diario, sono impressi ragionamenti spesso sconnessi e del tutto irrazionali che denunciano una certa instabilità mentale. Credo che nel cuore dell’iceberg di Sephiroth ci fosse un universo compresso di emozioni e impulsività ardente come le fiamme stesse dell’Inferno. Ogni giorno che passava sul ghiaccio superficiale si formavano crepe profondissime che lo attraversavano parte a parte, da cui, talvolta, uscivano sbuffi di fumo ardente che colpivano i malcapitati attorno a lui, disgregandoli. Solo Sakura aveva resistito-e reagito- ad una di quelle eruzioni, spegnandola con il suo ghiaccio chiaro e sconosciuto. Sembra che lei sia in grado di portare ordine e calma nella sua anima, sebbene, ora, sia la causa di tanta instabilità. Sakura è lontana da Sephiroth e, quindi, i suoi sentimenti incontrollati fanno il diavolo a quattro al di sotto del ghiaccio. Malcapitati di questa situazione sono i poveri Angeal e Genesis. Subiscono le angherie di una follia latente in paziente silenzio, il primo, e superba insofferenza, il secondo. Il ghiaccio del moro è malleabile e resistente, si piega accondiscendente e si rimodella in modo tale da contenere quell’eruzione violenta; mentre il rosso combatte il fuoco con il fuoco, consumandolo più in fretta di quanto si formi.
Mi rendo improvvisamente conto di quanto, effettivamente, Sephiroth sia stato instabile fin dall’inizio. Quell’iceberg era una bomba a orologeria, un vulcano ghiacciato pronto ad esplodere da un momento all’altro. E’ stato solo grazie alle poche persone che gli sono state accanto a metterlo in sicurezza. Ma, a Nibelheim, non c’era nessuno delle sue garanzie. I suoi amici erano morti, Aerith era lontana e Sakura chissà che fine aveva fatto. L’unico, forse, era Zack, ma lui non conosceva il Generale così a fondo da capire cosa stava accadendo nel suo cuore impazzito. Jenova non poteva trovare occasione migliore per infiammare il rancore, l’odio e l’ira da troppo tempo rinchiuse là dentro. Non aveva avuto scampo. Come tutti noi, del resto.
Non si era mai sentito così solo e abbandonato come in quel sotterraneo degli orrori…
Solo… Abbandonato…
Il Destino si era compiuto.
-Cloud!-
Mi sveglio di soprassalto e una tosse incontrollata mi scuote il corpo. Avverto i polmoni in fiamme e il dolore si dipana per tutta la cassa toracica. Fatico a respirare e sento la testa leggera, come se fosse immersa in una cassa d’acqua che gira vorticosamente. La mia visuale è costellata da una cascata di stelline che m’impediscono una vista chiara e definita. Al mio orecchio arrivano rumori ovattati di cui non riesco a capire il senso. In fondo alla mia gola avverto uno sgradevole odore di gas di scarico. Ma che è successo? Poi avverto qualcuno stringermi così forte da impedirmi di riprendere a respirare. Ci metto un po’ a capire che si tratta di Tifa. Mi guardo intorno e capisco di trovarmi nel cortile sul retro, fuori dal garage, da cui escono rivoli di fumo nero.
-Ma che è successo?-, il mio pensiero viene trasferito alla bocca non appena la mia mente smette di girare.
Osservo la mia ragazza in cerca di risposte e ricevo uno sguardo allucinato.
-Come? Non ti sei reso conto di quello che stavi facendo?-
Odio quando mi parlano per enigmi: se ho fatto una domanda è perché non conosco la risposta!
La mora sospira, carpendo il fastidio dalla mia espressione eloquente.
-Hai fatto partire il motore di quella diavoleria, creando un casino infernale. Il pranzo era pronto e ho provato a farmi sentire. Così sono venuta giù e ti ho trovato a terra, immerso in una nuvola di gas di scarico. Così ti ho preso e ti ho portato fuori.-
Sgrano gli occhi… Non ricordo di aver fatto partire il motore. L’ultima cosa che ricordo è che stavo lavorando alla marmitta e poi… e poi… Possibile che non mi sia nemmeno accorto di essere svenuto?
La ragazza mi abbraccia.
-Perché lo hai fatto?-
La domanda mi colpisce come uno schiaffo e i singhiozzi di Tifa giungono alle mie orecchie, rinnovando l’odio per quel diario maledetto.
-Io…-
Che rispondere? Come spiegare che quello a cui sono appena sopravvissuto non è un tentativo di suicidio, ma un tentato assassinio. O forse, inconsciamente, voglio veramente morire. Scuoto la testa. No, non è possibile. Io voglio vivere. Voglio condividere la mia vita con Tifa, sposarmi, avere dei figli miei, invecchiare assieme a lei e morire nel mio letto, libero da peccati e rimpianti. L’instabilità di Sephiroth è disarmante: perché rendermi dipendente dalle sue memorie e poi sfiancare il mio istinto di sopravvivenza? Non riesco a capire più niente…
-Vado a chiamare un ambulanza.-
La ragazza fa per lasciarmi, ma io le afferro il polso.
-Non è necessario. Sto bene.-
-Non è vero! Hai tentato di…-
-NO! Non sono stato io! E’ stato…-
Mi blocco e mi mordo il labbro. La folle rabbia si spegne improvvisamente e mi rendo conto che sto per tradirmi. Tifa mi si avvicina e mi guarda con sospetto.
-‘E’ stato’?-
Tifa mi sfida a completare la frase. Lo sa, sa che in me c’è qualcosa che non va. Sospetta qualcosa e il mio sesto senso mi dice che non ha ignorato del tutto le accuse sconclusionate di Yuffie- che tanto sconclusionate non sono, in verità-. Ma non posso dargliela vinta proprio adesso. Abbasso lo sguardo e mormoro.
-Un incidente. Non voglio mettere fine alla mia vita, davvero. Credevo che i condotti d’areazione avrebbero risucchiato i gas.-
Tifa alza il sopracciglio e poi sospira.
-Cloud, i condotti d’areazione in garage sono rotti da mesi. Come fai a dimenticarti sempre tutto?-

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20 Marzo XXXX

Primo giorno dell’equinozio di Primavera. Un evento importante per la natura, un giorno come tanti per noi uomini. La tregua è terminata già da settimane, quindi questo giorno di rinascita è stato sporcato col tributo rosso della guerra, distruggendo la consueta ventata di speranza che le brezze primaverili portano con loro. Le battaglie hanno ripreso a infuriare più sanguinose di prima, reduci da un lungo inverno carico di rabbia e disprezzo ristagnanti. Tutto quello che avevamo costruito nell’arco di una difficile stagione, le battaglie lo hanno divelto in un batter d’occhio. Wutai è tornato arido e senza vita come antecedente alle nevi. Il sangue ha ricominciato a scorrere a fiumi nelle acque limpide e pulite, la bombe hanno preso il posto dei tuoni e le urla degli uomini moribondi sono diventate l’unica lingua parlata. Il regno della Morte è ritornato sulla Terra. I nemici sono tornati più forti e organizzati, riuscendo a mettere in conto vittorie molto importanti a costo delle truppe dell’esercito regolare Shin-Ra; finché non è entrato in gioco l’invalicabile muro di SOLDIER. Il Presidente ha richiesto espressamente il nostro intervento immediato e, per sveltire la pratica il più in fretta possibile, ha insistito per passare il comando dell’esercito sotto SOLDIER. In pratica, il vecchio Heidegger si è visto sfilare il posto da sotto le sue grosse chiappe da dirigente da Lazard e da me. Quanto avrei voluto esserci per godermi lo spettacolo! Naturalmente, al giurassico, non è andata a genio la decisione di mettere il suo prezioso, quanto inutile, esercito nelle mani, a detta sua, ‘
di un rachitico psicopatico e di un damerino incipriato’. Quel dinosauro non ha mai visto di buon occhio il reparto d’élite, affermando che ‘non è con spade magiche e sfere colorate che si vincono le guerre, ma con i bombe e proiettili. E perché no? Anche con qualche macchina! Ghahahahahah!’. E’ fortunato a trovarsi a Midgar durante le riunioni strategiche: altrimenti gli avrei già fatto ingoiare la sua stupida risata da tempo. Lui e Scarlet spingono per inviare l’artiglieria pesante qui in Wutai. Grazie al cielo, il Presidente non si è lasciato ancora convincere da quei due guerrafondai e, per una volta, ringrazio l’ascendente che mio padre ha creato su di lui, il quale sostiene che nessuna macchina può eguagliare abilità maturate in anni di addestramento. Quei robot da battaglia farebbero molti più danni di quanto ne risolverebbero, soprattutto su un terreno come questo. Sarebbero una facile preda per le imboscate e metterebbero a rischio la vita di molto soldati. Ma il continuo arruolamento di uomini e i costi in ascesa per il loro sostentamento stanno iniziando a far vacillare le ragioni di Hojo. Il Presidente comincia a spazientirsi: la guerra gli sta costando molto più di quanto aveva previsto. Ho dovuto richiamare tutta l’esigua forza di volontà per evitare di rinfacciargli di averlo messo in guardia riguardo alla sua utopica idea di guerra-lampo; mentre urlava e batteva le mani sul tavolo, gettando all’aria centinaia di estratti conto. Ad un certo punto ha proferito una frase molto inopportuna: “Se voi SOLDIER non costaste così tanto, non ci penserei due volte a mandarvi tutti al macello contro quei miserabili!” Rimasi perplesso, non tanto per il fatto di mandarci a morire indiscriminatamente, ma ciò che mi colpì fu la prima parte della frase: siamo arrivati a considerare la vita umana così infima da essere definita da un libro mastro fatto di perdite e guadagni?
Indignato, chiesi spiegazioni e ciò che sentii mi lasciò uno strano gelo nelle ossa: “
Mettiamola così. Abbiamo fatto degli investimenti importanti su di te e altri ufficiali di alto rango. Tu sei quello su cui abbiamo puntato la maggior parte dei capitali e vorrei che mi restassi in vita il più a lungo possibile! Non c’è giorno che ripensi a Corel. Quindi, o finisci questa guerra in fretta o la farò finire io in un modo o nell’altro. Non voglio mettere a rischio importanti capitali per un lavoro che potrebbe fare una macchina. E più rimanete laggiù, più il rischio sale e meno tempo ho per sostituirti.
Sostituirmi… E’ così strano sentirmi rivolgere quel verbo. Per quanto mi senta stanco, vecchio e demoralizzato, la mia età anagrafica non farebbe mai pensare ad un evento del genere. In fondo, sono solo pochi anni che esercito questa professione a pieno ritmo, nonostante mi sembrino millenni. Se non avessi le capacità che ho, probabilmente, dal punto di vista dei miei pari, sarei visto come il novellino raccomandato, tanta teoria e nessuna esperienza. Disgraziatamente, sono esattamente l’opposto, sebbene abbia appena superato i venti. E’ bizzarro: da un lato mi offende il fatto che i miei superiori pensino seriamente ad una mia sostituzione, dal momento che solo adesso la mia vita è abbastanza stabile da poter essere vissuta; dall’altro avverto una morsa di terrore serrarmi il cuore al pensiero di quanto l’esistenza sia così fragile ed effimera.

Non sono invincibile

Un solo, unico pensiero che rievoca tutti gli eventi in cui ho sfiorato la fredda mano della Morte. Il primo fra tutti: Corel. La mia mano si porta inconsciamente all’altezza dello stomaco, sfiorando la cicatrice gibbosa che solca la pelle in un raccapricciante zigzag. Improvvisamente, mi pare di risentire il morso della Masamune attraversarmi da parte a parte; gli occhi neri dell’uomo che avevo creduto essere un mentore, una persona fidata, guardarmi freddi, spietati… distanti; l’aria gelida di quella notte nebbiosa mandarmi a fuoco i polmoni; il sudore freddo scendermi lungo la schiena e la fronte; il sapore metallico del sangue che mi sgorgava dalla bocca.
Stranamente non ero spaventato. La delusione e la rabbia erano così dirompenti da assordare ogni altro sentimento. Una persona normale avrebbe cercato di aggrapparsi all’umanità del proprio assassino chiedendo il motivo delle sue azioni tra un rantolo e l’altro, ma io no. Mi sono limitato a guardarlo in quelle iridi da traditore, giurandogli vendetta. Doveva sperare che non sarei mai più rialzato da quel marciapiede; doveva assicurarsi di aver spezzato per bene la mia spina dorsale o che i liquidi gastrici sciogliessero gli organi limitrofi: doveva assicurarsi di avermi ucciso. Non ricordo bene cosa successe nelle ore successive, dal momento che mi ritrovai a vagare in un limbo tra coscienza e incoscienza, ma rimembro bene di aver scritto il nome di quel traditore con il mio sangue. Per ore sono stato a fissare quel nome; per ore mi sono immaginato vari scenari in cui avrei potuto incontrarlo; per ore ho rosicato sull’errore commesso; per ore ho maledetto quel nome…
Per ore… e ore, e ore…
Avrei potuto lasciarmi andare e scivolare nell’oblio, ma dentro di me avvertivo un fuoco dirompente incendiarmi l’animo, un urlo di disprezzo così terrificante da sconquassarmi da capo a piedi. Mi rendo conto solo ora che: la Bestia mi ha salvato. Ella ha stretto il mio cuore nella sua presa gelida e lo ha aiutato a pompare; dopodiché non lo ha più lasciato, rinchiudendolo all’interno di una prigione di ghiaccio spessissimo. Dopo essermi ripreso dall’incidente, io e lei lavorammo con una perizia spietata al nostro piano di rivalsa. Io misi la lucidità investigativa e lei… il terrore. La sera mi osservavo allo specchio e non mi riconoscevo in quel terrificante riflesso: nei miei occhi c’era una luce sinistra, un rabbia incontenibile, un odio così profondo che avrei potuto crollarci dentro se mi fossi soffermato troppo a guardarlo. Avevo paura di me stesso, del mostro che stavo lentamente liberando dalla sua prigione. Quando uccisi il soggetto dei miei incubi, giurai di non lasciare mai più che lei prendesse il sopravvento su di me, ma sapevo bene che, in realtà, era già troppo tardi. Infatti, non molti anni dopo, mi ritrovai a fronteggiare un gruppo di disertori che avevano tradito i loro compagni abbandonandoli nelle grinfie dei soldati nemici. Non era un fatto che mi riguardasse direttamente, ma sentì quell’antica furia levarsi di nuovo nel mio petto come un vulcano in eruzione. Diedi loro una punizione esemplare, uccidendoli come maiali destinati al macello. Ciò che più mi raccapriccia è il senso nauseante di divertimento che mi inebriò mentre vedevo la vita spegnersi negli occhi dei traditori e l’incontenibile desiderio di ucciderli ancora e ancora.
Non capisco il motivo di tale accanimento contro i traditori. E’ vero, sono la razza peggiore di peccatori, tanto che Dante li ha condannati a venire divorati vivi per l’eternità da Satana in persona, ma è strano il modo con cui la Bestia si scateni contro di loro. Sembra esserci qualcosa di personale nelle sue azioni, come se avesse un conto in sospeso con chiunque abbia l’ardire di commettere il peccato di tradimento all’interno della sua sfera d’azione. Perfino quando Aerith si lagnava con me per un’amichetta che aveva spifferato in giro un segretuccio da bimbette, mi assaliva quella stessa rabbia; tanto che, una volta, le chiesi se voleva che mi occupassi di quella traditrice. Lì per lì, la bambina mi guardò stranita con i suoi occhioni verdi sgranati, poi si mise a ridere, credendo che scherzassi. Ma no, mi accorsi, non stavo scherzando, anche se glielo lasciai credere. La Bestia aveva parlato per me. Da quel momento non volli più sapere dei problemi con le sue amichette: se fossi andato avanti così sarei arrivato al punto di occuparmi davvero di quelle bambine innocenti. Proprio per questo motivo mi sono isolato, cercando di minimizzare ogni rapporto con le persone con cui entro in contatto ogni giorno e, se proprio non ne posso fare a meno, non approfondire troppo il legame con esse. Ho imparato a non fidarmi, anche se, per migliorare davvero la sicurezza verso gente che mi sta accanto, dovrei rendermi indipendente dagli altri. Purtroppo, è insito nella natura umana ricercare la compagnia degli altri membri della specie. L’unione e la collaborazione rendono la nostra specie vincente, ma, agli occhi della Bestia, questa è solo debolezza, una facile leva su cui forzare quando è il momento di distruggere.
E’ così straziante assecondare quel demone, soprattutto quando provo a ignorarlo per ricercare la compagnia dei miei camerati, ovvero di essere me stesso, per un solo minuscolo attimo. Quando mi è concesso godere della loro presenza, spesso mi fermo a studiare i due banoriani. Sono due uomini simili a me, insondabili e pieni di segreti, i quali, nonostante la lunga e forte amicizia, rimangono un mistero sia per l’uno che per l’altro. Eppure, si fidano reciprocamente in modo incondizionato. Se chiedessi a uno dei due di gettarsi giù da un precipizio e assicurassi che l’altro lo salverà prima di sfracellarsi al suolo; sono certo che accontenterebbero la mia richiesta. La fiducia che covano tra di loro è qualcosa d’inconcepibile per me. Per quanto affetto possa provare per quei soldati, non mi sognerei mai di mettere la mia vita nelle loro mani, a meno che non abbia scelta. Anche se collaudata, un’amicizia nasconde sempre qualche insidia e il tradimento è sempre dietro l’angolo. Ogni volta che condivido con Angeal e Genesis un qualche segreto o qualunque altra cosa che richiede un certo affidamento, la visione di quella notte fa capolino nella mia mente, come se la Bestia cerchi di mettermi in guardia su ciò che sto facendo. Non si fida di nessuno, è continuamente guardinga, vede il sospetto ovunque, mi mette in guardia su qualunque cosa non le vada a genio, rendendomi così paranoico e ossessivo. Come ho detto prima, sono straziato da questa fissazione, non solo dal punto di vista personale, ma anche professionale. Se le dessi retta, lei mi allontanerebbe da tutto e da tutti, facendo inevitabilmente a pugni con ciò che la società esige dall’Eroe, ovvero quella figura perfetta e impavida che non si ferma di fronte a nulla pur di conquistare la gloria. Sempre più spesso mi ritrovo nel bel mezzo di una guerra interiore, indeciso tra l’essere prudente o agire senza pensare alle conseguenze. Ma l’indecisione non è un lusso che mi posso permettere, soprattutto in guerra, e che non sono mai stato abituato a prendermi. Grazie al cielo, sono dotato di una mente capace di processare rapidamente le informazioni in mio possesso e prendere quasi sempre la decisione giusta, la quale si trova quasi sempre come compromesso tra le tre parti del mio essere. Sì, tre. In tre condividiamo un solo corpo e ognuno di noi ha tre idee differenti della realtà, ma solo due hanno effettivamente il controllo della situazione: la Bestia, il più pericoloso, quello che si risveglia durante le battaglie, colei che veicola i miei sentimenti verso un oblio fatto di rabbia e disprezzo; e l’Eroe, la mia fortezza creata dalla società, colui che cela il terrore della sua controparte con la sua maschera di fredda indifferenza. E in mezzo, tra subconscio e super io, c’è ancora quel bambino tenace e testardo che ancora insegue quel desiderio reso irraggiungibile dal mondo in cui vive: essere normale. Alla mia età, i ragazzi vanno all’università per rincorrere il loro sogno di diventare qualcuno; stringono amicizie, inimicizie, amori… ; litigano, si riappacificano, fanno l’amore. Si ribellano contro i precetti imposti dalla società e cercano la loro strada attraverso le esperienze che più li hanno segnati, vedono lontano e sognano ancora più in là. Sono pieni di speranza e aspettativa, vedono il bicchiere sempre mezzo pieno. Fanno errori, ma si risollevano con l’aiuto delle persone care, dei genitori, delle fidanzate, delle mogli. Amano e sono amati.
Non pretendo tutto questo, vorrei solo essere accettato in tutti i miei difetti e mostri da una persona che sappia veramente chi è Sephiroth. Genesis e Angeal mi conoscono meglio di chiunque altro, ma non così a fondo come vorrei. Per quanto riguarda Aerith, lei è troppo innocente, perché quel briciolo di coscienza che mi è rimasto le permetta l’accesso alla giungla dei miei pensieri. Ma, in fondo, credo che la loro vicinanza mi stia aiutando a comprendere quella realtà a me negata da sempre, permettendomi di far crescere quel bambino, rimasto da troppo tempo assoggettato dalla Bestia e dall’Eroe.
Però, ora, non c’è spazio per un ragazzino in questo bagno di sangue. Le nuove responsabilità derivate dall’aver preso il comando dell’esercito regolare aggiungono un’ulteriore montagna di problemi alla montagna di problemi derivante alle mille responsabilità che mi hanno appioppato nel corso di questa guerra. A quanto pare sono l’unico ad avere una mezza idea di come vincerla e mi esortano a metterla in opera in fretta. Ai piani alti credono che oltre che essere infallibile, sia anche onnipresente. Ho accumulato tanto stress e l’unico modo per sfogarlo è riversarlo nel diario, dal momento che Genesis e Angeal sono di stanza, rispettivamente, a Hanwai e Jedo, due cittadine che ci permettono di avere il controllo d’importanti passi montani nella regione del Wutai Settentrionale, l’attuale fronte. In teoria, la mia sede operativa sarebbe proprio da quelle parti, ma il Presidente, il suo inutile figlio e il loro intero entourage di idioti aziendali si stanno recando a Garyo per consolidare il loro potere agli occhi dei wutainiani, mostrando loro che la conquista della Shin-Ra non è solo illusione, ma pura realtà. Essi hanno richiesto la mia presenza all’interno del loro corpo di guardia. Sono riuscito a dissuaderli nel richiamare anche i miei compagni: fosse per loro avrebbero fatto rientrare l’intero corpo di SOLDIER per proteggere il loro dorato deretano. Mi dispiace che i due banoriani non siano qui a farmi compagnia, ma qualcuno dei Comandanti doveva rimanere a controllare l’andamento del fronte. Rimaniamo in contatto ogni sera e mi faccio inviare rapporti di continuo: voglio essere al corrente di che cosa accade lassù. Torniamo sempre al solito discorso della fiducia, dopo quello che è successo a Meijin voglio occuparmi personalmente di ogni singola questione. Il prefetto sta tirando la città a lucido per l’arrivo dei capi della Compagnia. Migliaia di disperati vengono allontanati dalle loro fatiscenti dimore, affinché esse vangano distrutte per risanare la zona dall’orrida povertà portata dalla guerra. Chi non può permettersi di trovare rifugio nei centri di accoglienza in periferia –strapieni, oltretutto- viene espulso dalle mura della città o, se crea problemi, ucciso su due piedi, come sancito dalla legge marziale. Come ho detto qualche pagina addietro, tutto quello che sono riuscito a costruire nei brevi mesi di tregua, è andato inevitabilmente distrutto. Con quest’evento e il caos derivato c’è chi ne ha approfittato per aumentare la propria presa sulla città. Don Corneo è tornato alla carica, convincendo il prefetto a suon di gil di concedergli qualche attività per dimostrare al Presidente che non tutti i Wutai sono dei ribelli testardi, ma che molti di loro hanno iniziato a commerciare con noi. Quella mossa ha scatenato l’ira degli okya. Per quanto m’infastidisca essere stato messo con le spalle al muro da un essere abbietto come il mafioso, sinceramente, non era mia intenzione intervenire in un problema secondario come la gestione cittadina di Garyo, in quanto, tecnicamente, non mi compete. Ma la mia alleata non la pensa così.
E’ stato un colpo al cuore rivederla, dopo quello che è successo ciò che mi sembra una vita fa. Proprio quando cominciavo a farmene una ragione e ricadere nella mia frustrante autocommiserazione, lei ricompare, bella e magnifica come sempre, a destrutturare il momento di stabilità che ero riuscito a ricostruire nel mio stretto mondo solitario. Mille sentimenti contrastanti tra loro iniziarono a vorticarmi nella mente. Tutti lì, tutti in quel preciso istante, tutti a rivoltarmi lo stomaco vuoto da giorni; proprio a causa di questo faticai a definire ciò che provai nel rivederla. Il ricordo meraviglioso di quel bacio, la memoria bruciante di quello schiaffo, la scoperta del suo precedente fidanzato, il senso di colpa per averlo ucciso. Nonostante tutto lei era lì, di fronte a me, a chiedermi aiuto. Mi sorrise, mi versò il tè, s’informò del mio stato di salute, conversando amabilmente come se nulla fosse accaduto. Forse davvero nulla è accaduto: forse nella mia testa un semplice gesto si è ingigantito fino a farmi impazzire. Ella è una delle donne più desiderate del Paese, cosa vuoi che sia un bacio rubato per una geisha d’alto rango? Mi sto comportando come un ragazzino in preda a una cotta colossale, senza la benché minima idea di come destreggiarsi nei confronti del soggetto del suo amore.
Ora capisco come si sentono le persone con cui mi rapporto, quando cercano di capire cosa mi passa per la testa. Sakura è come me: remota, insondabile, mascherata; ma infinitamente più infida e scaltra. L’alter ego con cui ho a che fare, infatti, non lascia trasparire nulla, a meno che non lo voglia, ed è spaventosamente efficiente a penetrare nell’animo di colui che le sta di fronte. Ogni sua mossa è studiata fin nei minimi dettagli, con meticolosa, ossessiva precisione. Comprende me stesso meglio di me: sa che argomenti evitare e su quali insistere, comprende come attirare la mia attenzione e, soprattutto, usa la mia infatuazione contro di me. Mi ha letteralmente estrapolato la mia vena complottista, inducendomi a elaborare una contromossa contro Don Corneo e il suo nascente impero del sesso. Quel viscido essere è un caro amico della famiglia ShinRa e, quindi, per quanto lo disprezzi, non mi è possibile torcergli un solo capello. Mettermi contro di lui in favore di una nemica, è il miglior modo per firmare un atto di tradimento… ma, naturalmente, il Presidente non metterebbe mai a repentaglio il suo “costoso investimento” al fine di proteggere un delinquente, per quanto amico possa essere. Non a questo punto della guerra. ShinRa sa fare bene i suoi conti. E anche Sakura.
Appena le esposi quest’idea, vidi un lampo di soddisfazione attraversarle quegli occhi di smeraldo, per poi scomparire sotto l’insondabile maschera della cortesia.
Era la sua idea fin dall’inizio, voleva solo un pretesto per metterla in atto. Quando lo capii era ormai troppo tardi: non potevo rimangiarmi ciò che avevo appena proferito, avrei fatto la figura dell’idiota. Mi aveva messo nel sacco, facendo in modo che mi fregassi con le mie stesse mani. Sapeva che se avrebbe recitato la parte della donzella disperata, io sarei andato in suo soccorso. Mi ha raggirato magistralmente e la Bestia non ha potuto accettarlo: l’ ho potuta percepire esplodere nella cassa toracica e cominciare la sua risalita verso il cervello. Ma, invece, Sakura si è premunita di arginare quella nuova, terrificante eruzione di follia rabbiosa, inferendo il colpo di grazia, il perfetto coronamento del perfetto inganno: un bacio. Sfuggevole, delicato; per una meravigliosa manciata di secondi la mia mente – assieme al mio corpo – è andata in subbuglio. La Bestia che si contorceva sotto lo sterno è stata incredibilmente domata dalla felicità immensa dovuta a quel dolce gesto. Forse le sue intenzioni non erano sincere, ma l’effetto che mi ha procurato è stato… interessante. Un momento prima la Bestia impazzava, cercando di manipolare il mio corpo per veicolarlo verso un nuovo orrore, e quello dopo solo Sakura. Quelle labbra tanto desiderate erano di nuovo sulle mie e, stavolta, senza alcuna forzatura. Quando ci staccammo, utilizzai il momento di calma per osservare il suo viso sorridente. Dal basso della sua prigione, la Bestia mi sussurrava quando quella donna fosse malvagia e falsa, di come mi aveva manipolato per i suoi scopi, del modo in cui mi aveva trattato l’ultima volta. Ma io continuo a chiedermi: come può una creatura così bella essere tanto crudele? Io credo che in realtà sia solo spaventata. Spaventata da un mondo sconosciuto che cerca di strapparle via tutto ciò per cui ha combattuto, al fine di gettarlo in pasto alle grandi masse. Non può permettersi di sbagliare: troppi pagheranno per i suoi errori. Ma lei è solo una donna. E geisha, per giunta. Non può competere con le capacità d’azione che possono avere gli uomini. Nessuno si scandalizzerà a vedere due uomini che chiacchierano amabilmente in un ristorante. Ma che dire di un’autorità conversare con una geisha nel medesimo ristorante? Lei deve creare sotterfugi, attendere il momento migliore, trovare sistemazioni non compromettenti. Ciò richiede molto più tempo di una mazzetta passata sottobanco, durante un lauto pranzo. E, probabilmente, le mazzette non le basterebbero. Gli uomini vogliono sempre qualcosa di più da una donna. Sakura lo sa. Forse è per questo che mi ha baciato: ho ricevuto la mia mazzetta. E’ fortunata che mi accontenti di così poco.

Siete una persona buona ,Generale

Sorrido ancora nel vedere impresse quelle parole sussurrate. Quattro parole in grado di lavare via il puzzo di ogni nefandezza compiuta, di ogni singola goccia di sangue caduta sulle mie mani, di ogni lacrima che ho causato. Sono frasi come queste che mi fanno capire che il bambino dentro di me non è ancora stato inghiottito dalle lunghe ombre dell’Eroe o dalle zanne crudeli della Bestia. Timidamente emerge, di tanto in tanto. E’ una visione fugace e rarissima; pochi sono così fortunati da vederla. E Sakura è una di queste. Questo è il motivo per cui non riesco a lasciarla andare: lei sarà la mia salvezza o la mia rovina. Ma non m’importa.

Io la amo

Ed ecco un altro capitolo fresco fresco! Si cominciano un po’ a muovere le acque! Scusate l’attesa, ma in questo periodo ho iniziato la tesi e non ho avuto molto tempo per scrivere, senza contare che l’avrò riscritto mille volte, perché c’era sempre qualcosa che non quadrava. Direi di avercela fatta, anche perché la mia mente era già proiettata sul prossimo capitolo, il quale finalmente ne vedremo delle belle!
Una piccola comunicazione di servizio: dal momento che il mio rating non lo permette, ho deciso che, prima del capitolo successivo, pubblicherò una sorta di “capitolo integrativo” come one-shot a parte, dove descriverò delle scene un po’… diciamo… “scottanti” (chi ha orecchie per intendere, intenda). Non era mia intenzione farlo, ma QUALCUNA lo ha chiamato a gran voce; quindi, anche se l’argomento è un po’ hot, vorrei cimentarmi in un altro stile di narrazione, in prima persona, sempre andando sull’introspettivo. E’ anche un ottimo modo per conoscere un personaggio che ci sta molto a cuore e che non vediamo l’ora che entri in azione ;)
Bene! Ringrazio tutti quelli che mi seguono.
Alla prossima
Besos

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Capitolo 15
*** Trascorsi ***


Dolci sussurri. Ansiti strillanti. Gemiti soffocati. Schiocchi di baci. Carezze fruscianti. E follia. Pura follia. Un gracile corpo mi è avvinghiato addosso, stringendomi i fianchi con le sue sottili gambe setose e conficcando le sue unghie nella mia schiena. Avverto il suo calore bollente sulla mia pelle, i suoi baci soavi, la sua voce chiamarmi. Ma non è il mio nome quello che esce dalla sua bocca, eppure le rispondo.
-Sakura…-
I suoi occhi brillano di pura passione. Esper santi, quanto sono meravigliosi! Quello sguardo conturbante mi inebria, la desidero sempre di più. Afferro la sua bocca e la bacio quasi con ingordigia. Mordo la sua pelle morbida come un animale affamato di lussuria. Quanto è delizioso il suo sapore! Lei addenta dolcemente il mio orecchio e di nuovo sussurra quel nome, dando a esso un tono dannatamente sensuale. Le rispondo ancora. Perché le rispondo ancora?
 -Sakura…-
Ci uniamo in un intrico impazzito di passione. Ogni senso ormai è offuscato da lei. Sulle mie dita sento la sua pelle incandescente, sulla mia lingua avverto il gusto delle sue labbra, il mio odorato è riempito del suo profumo dolcissimo, la mia vista s’inebria del suo corpo perfetto e, infine, il mio udito è accarezzato dalla sua voce gaudente. Essa mi incita, mi sprona, mi eccita, mi chiama…
E io rispondo. Continuo a rispondere.
-Oh, Sakura…-
Tutto inizia farsi offuscato. C’è tanto caldo. Sudo. Il mio respiro è velocissimo, il mio cuore martella impazzito nel petto. E lei, è sempre più bella, più golosa, più bramosa. Ho raggiunto il limite: voglio sentirla gridare!
-Oh sì… così, Sakura…-
Parole scritte con inchiostro nero su fogli bianchi sopraggiungono dalla mia memoria, dando vita ad un unico, pazzo, folle pensiero: Io la amo…
-Sakura… Ti amo…-
-Cloud…-
Alzo la testa e la guardo in viso, confuso.
-Cloud…-
Ripete quel nome. Un nome che stento a riconoscere, tuttavia che sento appartenermi. Lo preferisce con così tanta passione…
-Cloud…-
-Clooooud!-
Un’altra voce si sovrappone alla sua. Essa è meno matura, più squillante, più allegra. E mi sembra di conoscerla…
-Clooooooooooooooooooooooud!-

Mi sveglio di soprassalto, con il cuore in gola. La visione del sogno viene squarciata brutalmente dalla realtà offuscata e sconosciuta che mi circonda. Annaspo alla ricerca d’aria, finché una vocina squillante non richiama la mia attenzione.
-Era ora che ti svegliassi!-
Sono ancora totalmente stordito e impiego qualche secondo a mettere a fuoco la figura gracile e graziosa che mi osserva con la sua espressione corrucciata. La conosco. Si tratta di Marlene. Preso atto di questo, piano piano inizio a identificare il luogo in cui mi trovo. Sono in salotto, sdraiato sul divano, la televisione accesa trasmette un programma culinario. Mi guardo attorno con espressione vacua, prendendo mano a mano consapevolezza della miriade di ricordi contenuti in questa casa. Sono vecchi oggetti, quelli scontati sempre sotto agli occhi di tutti, di cui ormai non ci si fa più tanto caso, che attirano maggiormente la mia attenzione, poiché mi rievocano memorie che, da tempo, non si risvegliavano. Vecchie foto ingiallite e rovinate, scampate al fuoco di Nibelheim; soprammobili orribili frutto di uno sfrenato shopping vacanziero; gli improbabili regali fatti dai bambini a scuola; un balocco abbandonato durante una precedente sessione di giochi; le tende che tanto odio, ma che sopporto per amore della quiete domestica; quadri appesi alle pareti dentro cui abbiamo sistemato le immagini più belle della nostra famiglia, della nostra nuova vita. L’attenzione cade su una fotografia di me e Tifa. Mi ricordo di quel weekend. Marlene e Denzel erano andati con Barret a Costa del Sol e noi ne avevamo approfittato per fare qualcosa insieme. Avevamo deciso di cambiare aria, allontanarci dall’acciaio e dall’arsura di Edge, e rivedere il verde sconfinato delle praterie, l’imponenza delle montagne, la bellezza dei boschi: insomma, ricordare la nostra infanzia. Abbiamo, quindi, preso la moto e ci siamo diretti verso la campagna. La fotografia ci ritrae durante una delle pause. Il panorama era bellissimo e lei, ricordo, aveva insistito tanto per immortalare il momento. In questo quadro, lei è appoggiata a me ed io, a mia volta, gravo sul sellino della Fenrir. Sullo sfondo, una splendida veduta del passo Healin, con le sue colline verde brillante e il cielo azzurro terso, libero dalle nuvole. Io la sto stringendo a me, mentre tento di assumere un’espressione lieta, fallendo miseramente. La mia ragazza è decisamente più sciolta in questo genere di situazioni, a giudicare dal sorriso luminoso che sfoggia con tanta leggiadria. Mi ritrovo a studiare la sua figura vestita di pelle nera, la quale si contrasta con il sfolgorante pallore della sua pelle luminosa. La mia attenzione ricade sulle sue mani, le quali sono incrociate alle mie, all’altezza della vita. Mi sovviene il calore e la morbidezza del suo corpo perfetto rilassarsi contro il mio, le carezze sfuggevoli sulle mie dita, i suoi capelli profumati scossi dal vento, la sua risata lieta. Sorrido.
Io la amo…
Dopo aver formulato questo pensiero, un lampo sovrappone la figura preponderante di Tifa con quella più flebile della donna che, ahimè, sto imparando a conoscere fin troppo bene.
Così dannatamente simili.
Un senso di angoscia mi gela le membra.
Perché continuo a fare paragoni? Tifa non è come Sakura! Io non sono come Sephiroth! Sono due vite, due realtà, due storie completamente diverse! Perché continui a sviarmi? Perché mi vuoi allontanare da lei?
Avverto la rabbia deformarmi il viso in un ghigno furente e le mie mani vengono strette in pugno fino farmi sbiancare le nocche.
-Cloud?-
Guardo i due bambini accanto al mio capezzale. Mi scrutano con sguardo spaurito, Denzel, e leggermente sospettoso, Marlene. La mia attenzione viene canalizzata verso quest’ultima e la fisso per un lungo istante. Il sospetto che lei abbia capito qualcosa s’insinua nella mia mente, scatenando in essa mille paranoie.
Marlene è una bambina sveglia. Sembra tanto innocente, ma è proprio quell’innocenza a renderla ancora più pericolosa.
E questa come mi è saltata fuori?!
Maledizione, stai zitto! Quello che dici non è la verità, la tua è solo una fissazione! Stupida insensata fissazione! Il nostro segreto è al sicuro!
Un tocco delicato sul braccio e Marlene mi ridesta dalla mia lotta interiore, permettendomi di rendermi conto che i miei folli cambi di umore sono sotto gli occhi dei due orfani. Questa realizzazione scaccia via la brutale invadenza di Sephiroth, facendomi riacquistare il controllo delle mie emozioni. Sospiro e mi volto verso i bambini, mettendomi seduto sul cuscino, mentre tento di assumere un’espressione, per quanto possibile, tranquilla e disponibile.
-Ciao bambini! Come è andata a scuola?-
Denzel e Marlene si scambiano un’occhiata interrogativa.
-Cloud, stai bene?-, mi domanda Denzel.
-Certo! Mai stato meglio!-
L’affermazione proferita dalla mia bocca non convince nemmeno me, figuriamoci loro. Come volevasi dimostrare, Marlene mi si avvicina e appoggia la manina sulla mia fronte, assumendo un cipiglio clinico.
-Sicuro? Sei così pallido… e hai delle occhiaie così scure. Dormi abbastanza?-
No, per niente. –Certo.-, rispondo, invece, sostenendo pure lo sguardo scaturito da quelle iridi del colore del cioccolato.
La bambina mi studia attentamente e silenziosamente per un lungo istante, senza cambiare posizione. A quanto pare spera di carpire qualcosa valutando la temperatura della mia fronte, oppure vuole creare una sorta di contatto? Non so che fare e, quando decido di alzare la mano e coccolare la sua, la voce imperiosa di Tifa m’interrompe a metà del gesto.
-Denzel! Marlene! E’ pronto il pranzo!-
Mentre il primo scatta verso le scale, la seconda interrompe il contatto, portandosi l’arto al petto. Sul suo visino tondo si è dipinta un’espressione contrita e… delusa. L’impulso di stringerla a me si fa impellente, ma lei fugge via, inseguendo il fratellino. Io l’ accompagno con lo sguardo, mentre una morsa di disperazione mi trapana il cuore.
Mi dispiace, Marlene, riesco solo a pensare, abbassando lo sguardo sulla punta dei piedi, e mi do del codardo per non avere il coraggio di proferire quella frase ad alta voce. Fortunatamente, la bambina si ferma poco prima del primo scalino e si volta nella mia direzione. Gli occhi trasmettono una tristezza senza eguali, oltre che a una profonda preoccupazione. SA che c’è qualcosa che non va in me e teme che questo mi porterà a isolarmi di nuovo. Glielo leggo in faccia questo timore. Ormai era abituata ai miei allegri bentornato, con tanto di abbracci e sorrisi, più o meno spontanei. Ora, si rende conto che è in corso una cocente, devastante, regressione da tutti i piccoli traguardi che ero riuscito a raggiungere.
E la colpa… la colpa… la colpa é… é…
Mia…
Solo ed esclusivamente mia. Quel diario, per quanto strani e controversi siano gli effetti che mi causano, alla fine non è altro che la mera esposizione di fatti di una vita vissuta da un uomo. Al Sephiroth che sto conoscendo non importava fare del male, anzi, dov’era possibile lui avrebbe voluto fare solo del bene. Quel libro è stato solo una valvola di sfogo in cui riversare la SUA frustrazione, la SUA rabbia, la SUA delusione per quei torti a cui non era stato capace di porre rimedio. Io mi sto facendo coinvolgere troppo da queste memorie. Forse, la mia, è tutta autosuggestione…
-Cloud.-
-Sì, Marlene?-
-Chi è Sakura?-
Quella domanda mi tronca il fiato, come se un pugno mi fosse arrivato in pieno stomaco. Avverto i miei occhi sgranarsi e il cuore perdere un battito. Un brivido mi sale lungo la schiena, rizzando ogni singolo pelo del mio corpo. Intanto, un groppo alla gola m’impedisce di parlare e mi ritrovo a boccheggiare come un pesce fuor d’acqua. Nella mia mente, migliaia di pensieri si arrovellano impazziti, impedendomi di ragionare lucidamente e trovare una scusa valida per salvarmi da questo estremo pericolo; ma quei dubbi sono scatenati da un sola singola, tagliente domanda, la quale offusca ogni altro pensiero.
Come la sa?
Sono sempre stato attento a non tradirmi mai, a non lasciare il diario in bella vista, a non portarlo nella stessa stanza con altre persone, a nasconderlo da luoghi dove chiunque avrebbe potuto ficcarci il naso…
Come è possibile che questa bambina sappia… di LEI? Cos’altro sa? Come lo ha trovato? Quando lo ha trovato?
-Lo hai sussurrato nel sonno.-, spiega semplicemente, come se mi avesse letto nella mente.
Dapprima, un enorme sollievo mi abbraccia, permettendo ai miei muscoli tesi di rilassarsi. Ma, subito dopo, un dubbio mi artiglia con la sua fredda morsa di pura paura.
E se lo avessi sussurrato stanotte accanto a Tifa?

Un altro brivido mi gela la spina dorsale, al solo pensiero di quello che avrebbe potuto accadere in una circostanza simile. Dire che Tifa non l’avrebbe presa troppo bene è un simpatico eufemismo… L’immagine di lei accecata dalla gelosia fa capolino nella mia mente, rendendomi spaventato e triste nello stesso tempo. La posso immaginare assaltarmi, nella perfetta intenzione di farmi del male, urlando parole che mai mi rivolgerebbe. Ma dietro a tutta quell’ira ci sarebbe una grande delusione, la realizzazione che potrei appartenere a un’altra donna, la consapevolezza che quell’uomo con cui ha diviso gioie e dolori non è più esclusivamente suo. Conoscendola, mi caccerebbe da casa, ergendosi sopra una muraglia fatta di forza e indifferenza, ma saprei che al di là di quella fortezza vi sarebbe una donna a terra, morta, vuota. Il solo immaginare vederla in quello stato mi spacca il cuore. Non devo assolutamente permettere che accada. D’ora in avanti dovrò stare ancora più attento a ciò che sogno.
Gli occhioni della bambina gravano ancora su di me, mentre formulo quest’ultimo pensiero, il quale mi scatena uno sbuffo divertito. Marlene vorrebbe approfondire la stranezza a cui ha appena assistito, ma un richiamo dal piano di sopra la intima a imboccare le scale. La piccola sospira, decretando la sua sconfitta e scappa via, senza alcuna risposta.
Sorrido nel vederla allontanarsi e ciò mi fa sentire un miserabile verme. Sospiro affranto e mi rigetto sul divano.
Fare attenzione a ciò che sogno…
Quest’affermazione ha dell’inverosimile! Come si può controllare, ciò che non è controllabile per definizione? Come questi ricordi, che tanto impunemente affollano la mia testa, sembrano procedere veloci, ben oltre la lettura, impazziti, irrefrenabili. Sembra quasi che il livello di sincronia tra me e il mio nemico si stia alzando sempre di più, fondendo completamente le nostre menti, come è accaduto sei anni fa. Stavolta, però, è diverso: lui vuole mostrami disperatamente qualcosa, ma, celato nei recessi di quelle memorie esiste qualcos’altro. Qualunque cosa essa sia, si batte strenuamente per impedirmi di rivangare in quel passato remoto ed estrarre la verità. Altrimenti non si spiegherebbero tutti gli strani fenomeni riversatosi su di me. Non capisco da dove provenga questa forza misteriosa; del perché stia facendo di tutto per uccidermi nel peggiore dei modi. Eppure, io non riesco a staccarmi da quel diario, è come se, dal primo momento in cui posai i miei occhi su quelle maledette pagine, avessi firmato col sangue una sorta di patto indissolubile.
Perché ha creato questa potente assuefazione?
Forse la risposta è molto più semplice di quanto pensi: non gli avrei mai creduto, altrimenti. Sephiroth, per quanto folle e spietato egli sia, ha sempre avuto una fredda consapevolezza delle sue azioni. Niente era mai lasciato al caso, sapeva perfettamente come e quando agire nel migliore dei modi, affinché il suo piano si svelasse esattamente nel modo in cui lo aveva progettato. Non per niente era stato un grande stratega all’epoca, un Generale accorto ed efficiente, il miglior ufficiale che SOLDIER abbia mai avuto. Non era un segreto la sua straordinaria intelligenza. A ogni domanda, Sephiroth aveva sempre pronta la risposta giusta. SEMPRE. Qualunque fosse stata la situazione, sapeva come tirare fuori il meglio dai suoi uomini e motivarli a compiere imprese che mai si sarebbero detti capaci. Per questo, quindi, non credo che tutto quello che mi sta accadendo sia un caso e ha bisogno che io non smetta di leggere.
Ma, allora, perché tentare di uccidermi?
Ero già arrivato ad una conclusione riguardo il suo stato mentale, confermata poi dalle affermazioni dello stesso Generale. Egli era in aperto conflitto con le tre metà del suo essere, in particolare con la Bestia. Probabilmente, è proprio lei la mandante dei malori e degli incubi. Non vuole che sappia chi era veramente Sephiroth. Dopotutto, è logico. Lei ha fatto di tutto per eliminare la strenua resistenza adottata dal suo portatore e, ora che è libera nel Lifestrem, non rinuncerà a quella libertà per nulla al mondo. Jenova non si farà confinare nella sua teca di cristallo per colpa di pochi fogli di carta scritti da un figlio in lacrime.
Ma è una minaccia così grave da indurre l’essere più potente nell’universo a palesarsi così pericolosamente?
Sono più confuso che mai… E ora, come se non bastasse, mi metto perfino a chiamare quella donna nel sonno! A chiamarla… Perché l’ho fatto? Cosa diavolo mi dice il cervello? O forse non ero io a farlo, ma Sephiroth. Che abbia di nuovo parlato con la sua voce? No, i bambini lo avrebbero notato e a quel punto sarei stato VERAMENTE nei guai.
Sospiro profondamente e cerco di recuperare il sogno, nel vano tentativo di capire cosa mi abbia portato ad agire in quel modo, ma esso è ormai dissolto.
A parte…
Abbasso lo sguardo sul cavallo dei pantaloni e noto un’intumescenza cilindrica elevarsi poco sotto la cucitura che solca la stoffa da parte a parte. Appena realizzo di che cosa si tratta, emetto un sonoro gemito e getto la testa all’indietro, facendola sprofondare nel bracciolo. Mi porto le mani alla faccia, schiaffeggiandola con fare esasperato.
Non ci credo… non posso credere di aver sognato proprio QUEL momento!
Alzo calzoni e mutande quasi con timore e, appena vedo il soggetto dei miei dubbi, un altro gemito abbandona le mie labbra e la mia testa crolla di nuovo sul bracciolo.
Sì, ho decisamente sognato QUEL momento…
Ma per quanto possa essere profano e indecoroso il pensiero, constatare che Sephiroth abbia assaggiato, almeno una volta nella sua travagliata e triste vita, il dolce sapore della passione, mi fa sorridere. Mi rendo conto di essere veramente contento per lui. Non tanto per il gesto, ma per la costanza e la pazienza con cui ha inseguito il suo desiderio, nonostante le regole che la società gli imponeva; nonostante la sua moralità che non accettava il mestiere di Sakura; nonostante l’odio della Bestia. Finalmente, ho visto la figura forte e potente che ammiravo da ragazzino: quell’uomo invincibile capace di stroncare le catene che lo legavano ad una realtà che non gli appartiene e lottare per i suoi desideri, i suoi sogni.

“Embrace your dreams and, whatever happens, protect your honor as SOLDIER.”
[Abbraccia i tuoi sogni e, qualunque cosa accada, proteggi il tuo onore di SOLDIER; cit. Zack Fair, FFVII: Crisis Core]
 
Sì, LUI era l’essenza di quell’onore di cui tanto vaneggiava Zack. Per tanti anni aveva permesso ad altri di scegliere al suo posto, finché Sakura non è entrata nella sua vita. Dal primo momento in cui, quella fatale notte, quel petalo si è delicatamente posato sulle pagine del suo diario, Sephiroth nacque di nuovo. Aveva DECISO che era il momento di reagire e rivedere le proprie priorità. E di lottare per esse. Sì, lui stava scoprendo quell’onore insegnatogli da Angeal, quella forza di imporsi imparata da Genesis e quell’amore incondizionato e disinteressato scambiato con Sakura.
Ora lo vedo: questo giovane uomo non è altro che l’embrione di quel demone sanguinario contro cui ci siamo scontrati negli ultimi anni. All’inizio, tutti questi valori erano nella mani del Bambino, l’essenza di Sephiroth più pura e innocente, ben mascherati da quelle doti fittizie create dall’Eroe. Ma qualcosa, a Nibelheim, ha infranto quelle protezioni e la Bestia si è impadronita di quelle qualità, trasformandole in spaventose armi di distruzione di massa. Oppure, in una visione più distorta e malata, egli ha esasperato gli insegnamenti imparati, estendendoli fino al limite estremo.
Il mondo era marcio e decadente, la Shin-Ra sempre più ingorda di energia mako, il Pianeta sempre più sofferente. Tutto stava morendo: virtù, onore, vita… La Compagnia stava devastando l’essenza stessa dell’umanità. E il Pianeta non era in grado di fronteggiarlo.
Ci voleva un uomo in grado di sostenere l’opprimente peso dei peccati derivati da un genocidio.
Un uomo che aveva raggiunto una consapevolezza tale da non temere il sangue che lo avrebbe inghiottito nel suo vortice vermiglio.
Un uomo pronto a morire per le persone che amava.
Quell’uomo era Sephiroth.
Dovevi tenere alto l’onore di una vita dedita alla Pace e alla Giustizia, sostenendo quei valori dimenticati con forza e coraggio. Per LEI. Tutto per LEI.
Ora realizzo davvero quanto sia stato meschino e superbo nei confronti di quell’Eroe immortale.

Io non capisco niente.

Io faccio pietà.
 

Io gli ho portato via ciò che di più prezioso possedeva.

On your knees.
I want you to beg for forgiveness.

[Inginocchiati. Voglio che tu chieda perdono; cit. Sephiroth, FFVII:ACC]


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22 Aprile XXXX

Il disco solare si eleva totalmente al di sopra dell’orizzonte sconfinato della brulla pianura di Garyo, annunciando l’inizio di un nuovo giorno. Il Pianeta lentamente si sveglia, mentre io sono desto già ore. O meglio, non mi sono mai addormentato. Sono rimasto per ore sdraiato in un letto ad osservare un angelo dormire. Ho studiato ogni minimo particolare di quel corpo protagonista dei miei dolci incubi, ma, stavolta, ho potuto toccarlo veramente. Allungando la mia mano non ho incontrato la fredda sensazione del vuoto, ma, bensì, il candido calore emanato da liscia pelle priva di alcuna imperfezione. Il mio palmo ha potuto accarezzare realmente quelle curve perfette, seguire quella silouette così armoniosa, palpare la morbidezza di quei rilievi tondeggianti. L’ho potuta stringere a me, avvertire la sua pelle sulla mia, affondare il mio naso nei suoi capelli, affinché i miei polmoni potessero riempirsi del suo profumo. Quest’ultimo lo posso sentire ancora aleggiare nell’aria, impresso a fuoco in ogni singolo poro dell’epidermide e sull’uniforme. Respiro profondamente, stando ben attento a non tralasciare alcuna molecola di quella fragranza. Mi sembra quasi di avvertire ancora le sue mani soavi accarezzarmi, le sue braccia sottili avvolgermi, le sue gambe guizzanti accogliermi e la sue labbra carnose baciarmi. Mi viene quasi voglia di alzare le braccia e cingere a mia volta questo fantasma fumoso, tanto la desidero ancora. Il mio occhio cade sul mio riflesso, specchiato nell’acciaio tagliente della Masamune, e noto delle curiose macchie violacee spiccare sui lati del collo.
Allora, non sono l’unico ad essermi nutrito, stanotte…
Le labbra si allargano in un ampio sorriso, mentre valuto i segni lasciati da quell’angelo vorace. Inoltre, osservandomi con più attenzione allo specchio ho notato delle evidenti tracce di unghiate solcarmi il deltoide da parte a parte. Seguendo con le dita il tracciato di quei segni, ho constato averne molti altri marchiarmi il dorso. Non amo osservare quello che rimane della mia schiena, eppure sono stato una mezz’ora buona a studiare quelle dolci ferite. Nemmeno in guerra riporto così tanti acciacchi… La lussuria di quella donna è davvero dirompente!
Ma preferisco di gran lunga succhiotti e graffi rossi, che bozzi nerastri e frustate sanguinanti. I primi sono i segni della passione, mentre i secondi sono quelli dell’odio. E io sono stanco di conoscere solo quest’ultimo. E’ solo grazie a quel meraviglioso angelo salvatore che quella fame di affetto che mi attanagliava l’anima è stata finalmente soddisfatta. Anche se, però, un nuovo appetito si è risvegliato, invogliandomi a ricercare cibi più concreti e carnali. Ed è insaziabile. Staccarmi da lei, infatti, questa mattina, è stato a dir poco straziante. Alle prime luci dell’alba, la magica bolla in cui ci eravamo rifugiati è stata dissolta dai crudeli raggi vermigli della realtà. Mi ha preso alla sprovvista l’improvviso bagliore esploso tra le architravi e i tetti spioventi dell’hamanachi, distraendomi dall’ intensa contemplazione della donna coricata al mio fianco. A quel punto, tutti i miei pensieri sono tornati a galla. La guerra, primo fra tutti. Il mio dovere mi stava chiamando verso il passo di Jedo, tra il gelo delle montagne nevose, assieme ai miei uomini, a braccetto con la morte, lontano da lei. Una fitta violenta mi ha artigliato il cuore, stringendolo così forte da farmi provare un dolore indescrivibile. Ho commesso un errore madornale, fu il mio secondo, devastante, pensiero. La felicità in cui mi ero crogiolato pochi secondi prima era svanita, accartocciando il mio corpo su se stesso. Entro poche ore sarei dovuto trovarmi qui, in caserma, per l’adunata del mattino, poi partire alla volta del fronte con il primo elicottero disponibile. Il tutto mentre lei assaporava il guadagnato sonno ristoratore nella convinzione di avere ancora un uomo al suo fianco. Si sarebbe svegliata e io non ci sarei stato. Sono stato seriamente tentato a mandare tutto all’Inferno, svegliarla e portarla via con me; ma una vocina nella mia testa continuava a sussurrarmi che questo non era un comportamento degno di un Generale SOLDIER. No, non sarebbe stato degno nemmeno dell’ultimo infimo essere umano sulla faccia del Pianeta. Per quanto ami quella donna e per quanto felice mi abbia reso questa notte, io svolgerò il mio compito. Non avrei trovato mai pace, se mi fossi permesso di abbandonare migliaia di uomini alla mercé della furia di Wutai, senza la mia sapiente guida. Sebbene ci siano ufficiali validi nell’esercito, la mia sparizione non solo avrebbe fatto crollare il morale delle truppe sotto le scarpe, ma avrebbe eliminato l’effetto terroristico suscitato dalla mia esistenza. I ribelli mi temono, sanno di non avere alcuna speranza quando il Generale SOLDIER scende in campo. Il terrore che leggo nei loro occhi mi suscita una sensazione molto simile a ciò che ho provato questa notte.
Comunque, in aggiunta, avrei fatto pagare a Shinra tutto quello che mi ha costretto a subire nel corso del mio servizio, ma il conto avrebbe richiesto un resto troppo rosso da indurre la calma nella mia coscienza. Troppi avrebbero pagato per i peccati di un solo uomo. Duramente, alla fine, mi sono convinto e mi sono alzato, senza, però, prima salutarla con un ultimo bacio. Dopotutto, pensai, più in fretta questa guerra finirò, prima potremo di nuovo stare insieme. E non solo come segreti amanti, ma forse anche qualcosa di più.
Non correre, Sephiroth…
Non illudere la tua mente con assurde speranze senza fondamento. Sakura ti ha concesso un grande privilegio, il quale può essere senza problemi anche l’ultimo. In fondo, nessuno dei due si è sbilanciato con frasi sulla falsariga del ‘ti amo’, sebbene i nostri sguardi e i nostri sorrisi lo urlassero a gran voce. Mentre mi rivestivo, lei si è svegliata, mi ha chiamato a sé e ho potuto godere della sua compagnia ancora per qualche istante. La bolla si ricompose, permettendomi di crogiolarmi ancora nella delizia di quel corpo. Ma, nonostante il tempo mi abbai fatto dono della sua preziosa e sfuggevole essenza, io ne approfittato solo a blaterare di vuote ciance, quando avrei dovuto appagarla con quelle due splendide, spaventose, parole.
Non le ho detto ti amo…
Perché non l’ho fatto? Da mesi ho questa frase in mente e, quando avrei potuto finalmente rivelarla, mi sono tirato indietro. La potevo avvertire solleticarmi le labbra; tuttavia le ho tenute serrate, nonostante leggessi negli occhi di Sakura un’attesa spasmodica, l’agognata speranza di essersi concessa ad un uomo che non si accontenti solo della sua carne, ma anche del suo cuore. Ma forse quell’uomo, ha avuto paura…
Sì, ho avuto paura, lo ammetto. Paura d’instillarle false speranze, paura di non riuscire a mantenere le promesse proferite, paura di deluderla. Ammettere di amarla avrebbe significato incatenarsi l’un l’altra per sempre. Così facendo, l’avrei costretta ad una vita fatta di attese, incertezze e, prima o poi, morte. Quando le ho donato una ciocca dei miei capelli come commiato, ho potuto vedere un’ombra di rassegnazione fare capolino nei suoi occhi. Era conscia del fatto che, nonostante tutto, io non avrei mai sciolto le catene che mi tengono legato al dovere nei confronti della mia patria. Nonostante lei mi abbia fatto dono della sua virtù più preziosa, Sakura non sarà MAI una priorità, ma solo una dolce distrazione. Mi ha fatto male vedere quella certezza nella sua espressione affranta, ma questa è la terribile realtà. Io la amerò fino alla fine dei miei giorni e impegnerò ogni energia a mia disposizione perché lei possa vivere in un mondo sicuro e condurre un’esistenza felice. Anche se questo volesse dire facilitare un altro pretendente. Se è questo che dovrà accadere, sono pronto ad accettarlo. Ho rinunciato a così tante occasioni per compiere il mio dovere, perché con lei deve essere differente?
Dopotutto, la guerra non guarda in faccia a nessuno quando si tratta di reclamare il proprio tributo di sangue. Un lezione che s’impara molto in fretta. Perfino le mie precedenti fidanzate si resero subito conto di quanto può essere dura concedere la propria felicità a un militare. Io ne sono stato sempre conscio, tanto che non mi sono mai impegnato più di tanto a far funzionare il rapporto; mentre loro si costringevano a non pensarci. Dopo qualche mese di relazione, la loro frustrazione arrivava a livelli tali da additandomi con così tanti insulti da perderci il conto: troppo incostante, troppo freddo, troppo rabbioso, troppo superbo, troppo distaccato; oppure poco presente, poco gentile, poco dolce, poco protettivo, poco responsabile, poco interessato. Troppo in negativo e poco in positivo, quando sarebbe dovuto essere il contrario. C’è da sottolineare un punto, però: quelle donne, io, non le ho mai amate. Erano solo un mucchio di galline ammaestrate dalla Compagnia per ottenere chissà quali favori. Stranamente, infatti, nel periodo in cui i giornaletti di gossip sbattevano in faccia all’intero Pianeta la nostra relazione; la loro carriera, qualunque essa fosse, decollava esponenzialmente, per poi frenare bruscamente all’interruzione del fidanzamento. Di solito ero io a cacciarle, siccome pretendevano di stravolgere la mia vita e trasformarmi nella loro scimmia ammaestrata. Si credevano già praticamente sposate con me. Portato al limite dell’omicidio, chiedevo loro di andarsene e trovarsi un altro idiota da comandare, dal momento che io non ne avevo la minima intenzione di farmi mettere in piedi in testa da ragazzine che non sapevano distinguere un libro da un beauty case. Ognuna di loro, nessuna esclusa, mettevano in scena una poco credibile tragedia in cui mi rinfacciavano tutte le mie mancanze come fidanzato. Quegli insulti mi passavano sopra come acqua corrente, senza toccarmi minimamente. Ma, ripeto, non le amavo, non m’importava conoscerle più del necessario e nemmeno loro sembravano tanto per la quale.
Però, Sakura è diversa. Lei ha sempre cercato di leggermi nel profondo, comprendendomi, assecondandomi, deliziandomi. Forse, il motivo delle sue azioni non sono molto diverse da quelle delle mie ex, ma almeno lei non ha mai cercato di cambiarmi; anzi, si è impegnata a carpire la mia essenza per poterla sfruttare. Ma, senza accorgersene, lei mi ha migliorato. Io non ho mai dovuto combattere per conquistare una donna, mentre Sakura mi indotto proprio in quella direzione. Non ho mai sofferto per amore, diversamente lei mi ha ferito più e più volte. Sono sempre stato io l’indifferente, ora le parti si sono invertite. Ora comprendo ciò che le mie ammiratrici provano nei miei confronti. Sakura mi ha messo al loro livello, mi ha spogliato della mia dignità e mi ha spezzato in mille pezzi; per poi riforgiarmi più forte e determinato di prima.
E’ così assurdo, l’amore. Che logica perversa ci può essere dietro al crescente desiderio nei confronti di una cosa che può ferire così profondamente? Eppure è un connubio che mi eccita da morire. Il motivo, forse, è che l’impresa di conquistare Sakura la assomiglio all’espugnazione di una città o di una fortezza, per fare un esempio più calzante. Sì, lei è una fortezza, asserragliata dietro a eleganti kimono e bocche vermiglie. Escogitare piani d’assalto è sempre stata la mia parte preferita, molto più che metterli in atto. Anche se lei è stata ancora più abile di me: io avrò conquistato il suo corpo, ma lei ha occupato la mia mente, il mio cuore e la mia anima. Mi ha piegato completamente al suo volere con una maestria straordinaria, sfolgorandomi col suo sguardo conturbante, penetrandomi nella testa. Da lì, ha infestato i miei pensieri come un’edera e si è fatta strada fino al mio cuore, dove poi si è radicata così profondamente che risulterebbe impossibile estirparla. Ci ho provato tante volte a dimenticarla, ma, proprio quando stavo per lasciarmi l’infatuazione alle spalle, lei giungeva a stringermi ancora di più tra le sue spire.
Non so esattamente cosa voglia da me, ma, con questa notte, Sakura mi ha legato a doppia mandata. Mi sento consacrato a lei, come se fosse una Dea in terra, a cui dovrò rispondere di ogni mia azione. Mi sorge il dubbio che possa essere stato il suo piano sin dall’inizio; ma… sinceramente? Non m’importa. Che la Bestia pensi pure quello che le pare di Sakura, che mi metta pure in guardia per assecondare le sue paranoie, che cerchi pure di farle del male, di allontanarmi da lei, d’instillare il dubbio tra di noi… che ci provi! Sono stanco di starla ad ascoltare, di perdere il controllo, di temere per la vita delle persone che mi stanno intorno. Voglio essere libero dalla sua influenza e quella donna che tanto odia è l’unica in grado di seppellire questo demone maligno nelle profondità del mio animo. L’unica a tergere le ferite del mio passato, l’unica a rendermi davvero felice, l’unica con cui avverta una certa affinità. Anche se tutto questo sarà solo una mera illusione, anche se dovesse elevarmi così in alto per poi spingermi nel più profondo dei barati della disperazione; anche se dovrà accartocciare il mio cuore, o pestarlo, o spezzarlo: non m’importa, io serberò il ricordo del nostro momento insieme per sempre, poiché, stanotte, lei mi ha regalato l’emozione più bella della mia vita. E non posso che esserle grato per questo.
Così grato da sentirmi letteralmente esplodere, tenermi all’inverosimile, come il pallone di una mongolfiera. Come quest’ultima, mi sento così leggero, capace di volare oltre le nuvole, fino a toccare le stelle. Ora capisco il senso dell’espressione “toccare il cielo con un dito”. Non potrebbe essere più calzante per descrivere il mio stato d’animo. Avverto il mio petto ampliarsi, al fine di contenere tutta la letizia che questa notte meravigliosa mi ha donato, ma è così eccessiva da distribuirla a tutto il corpo. E’ una sensazione meravigliosa, tanto da impedirmi di smettere di sorridere. E’ da quando ho lasciato l’okya, un’ora fa circa, che ho stampata in faccia un’espressione ebete. E’ stato terribilmente difficile riprendere il mio solito cipiglio composto davanti alla sentinella in guardiola. Avrei voluto abbracciarla con tutte le mie forze e urlare alla città ciò che si era appena compiuto all’interno delle sue mura.
Non ho mai percepito una tale profonda sintonia con nessun’altro; tranne, forse, con Genesis e Angeal, durante le battaglie. Anche se la situazione è completamente opposta, le sensazioni sono molto simili: pulsioni primordiali impadronirsi del patrocinio delle mie azioni. Ma la grande differenza è che, mentre l’odio, la guerra, il sangue risucchia l’anima verso un’ insoverchiabile rovina; l’amore, la passione, l’atto, eleva l’anima verso una completa realizzazione. E’ questo ciò che ho provato quando mi sono liberato in lei. Avevo compiuto il compito che la natura assegna ad ogni essere vivente: creare la vita. Per tanto tempo, la mia sola esistenza è sempre stato presagio di morte, fin dalla nascita. La mia lunga ombra nera è calata su centinaia di vite, strappandole crudelmente con un solo, unico, secco colpo. Quanti occhi ho visto svuotarsi, quanti respiri ho sentito esalare, quanto sangue ho visto sputare. Tanti. Troppi, perché la notte possa portare pace nel mio sonno.
Sono stato solo con un’altra donna nella mia vita, ma non c’era amore tra noi. Era solo uno dei tanti modi per sfogarmi dalla cocente sconfitta di Corel. Almeno all’inizio.
Era un’infermiera famosa per la sua facilità di concedersi a chiunque. Ogni SOLDIER che era passato in quel reparto, era passato anche su di lei. Ho spesso ribadito di non aver mai visto di buon occhio le donne che disonorano il proprio corpo, ma era un brutto periodo per me. Avevo rischiato di morire, la Bestia si stava impossessando della mia vita, ero frustrato, non mi fidavo di nessuno, ero rimasto senza amici. Mi ero perfino allontanato dalla piccola Aerith per paura di contagiarla con la mia negatività. Mi sentivo così umiliato dal mio onore infangato che avevo pensato seriamente di uccidermi. Ma, le avances di quella donna affasciante, ma molto più grande di me, mi fecero capire che c’erano diversi modi per toccare il fondo. Il meglio del peggio era concedere la propria verginità a una prostituta, o una femmina con quella fama. Per un paio di mesi, a ogni visita di routine, quel triste stanzino degli inservienti veniva serrato per un’ora o due. A volte, allungavo i miei allenamenti serali fino a quando il 49 non si svuotava completamente, e ci incontravamo negli spogliatoi, oppure direttamente nella sala allenamenti. Insomma, dove capitava. Era una tristezza infinita, anche perché avevo incominciato ad affezionarmi a quella ragazza. Avevo iniziato a farle piccoli favori, come prestarle i soldi per l’affitto, lasciarla dormire nella mia stanza, quando faceva tardi, offrirle il pranzo e, peggio di tutti, coprirla quando marinava il lavoro per darsi da fare con un mio camerato. Quest’ultimo fatto mi portava spesso a scatenare delle risse spaventose, poiché venivo accecato dalla gelosia. Una sensazione insensata e stupida da provare per una come lei, ma ho sempre visto il sesso come un atto talmente profondo da suggellare un legame indissolubile tra due persone. E’ così che vedevo il nostro rapporto. Il pensiero che andasse con altri uomini mi mandava letteralmente in bestia. Avevo iniziato una sorta di crociata contro tutti coloro che se ne approfittavano di lei, facendo terra bruciata attorno alla sua figura. Era mia e nessuno me l’avrebbe portata via. Ma lei non era d’accordo. Litigammo.
Mi disse che non mi dovevo permettere di controllare la sua vita.
Io non volevo controllarla, ma solo migliorarla. Potevo, dal momento che, nonostante la giovane età, guadagnavo un lauto stipendio.
Non ne voleva sapere.
Mi accusò di averle mentito.
Aveva scoperto la mia vera età: io le avevo raccontato di essere maggiorenne.
Mi definì patetico, miserabile, pretenzioso.
Si era resa conto di essere caduta così in basso da cercare di gettare la sua perversione su di me, rinfacciandomi tutti i miei gesti gentili e riscrivendoli sotto una chiave di lettura negativa.
Ero arrivato a essere io una creatura perversa e malata. Su quel concetto, ella formulò un insulto rivolto all’unico argomento su cui non transigo: la moralità di mia madre. Il pugno che le sferrai fu talmente potente da maciullarle metà faccia. Cadde a terra con un sonoro tonfo e, ciò che restava della sua testa, esplose in un agglomerato sanguinolento di cervella e sangue. Ricordo che provai un brivido di soddisfazione per averle strappato quel lurido ghigno dalla faccia e aver liberato i miei camerati da quella piaga impestata dal sudore di centinaia di uomini. Ma poi, quando mi resi conto di ciò che avevo appena compiuto, dei sentimenti che provavo per lei, dei progetti che avevo redatto per aiutarla, delle notti meravigliose passate insieme, di ciò che aveva significato per me; mi sentii investito da una terrificante realizzazione: lei non c’era più. Mi guardai le nocche e vidi il suo sangue grondare dalle mie mani. Come mi accadde a Corel, la freddezza diventò il mio sostegno, spegnendo ogni ovvio sentimento di fronte a un efferato omicidio.
Quel che è fatto, è fatto, mi disse la gelida, crudele, malvagia voce della Bestia. E io, l’ho ascoltata senza battere ciglio.
Occultai cadavere e prove con una minuzia quasi da assassino seriale. Nessuno seppe mai che fine avesse fatto quell’infermiera. Si diceva che fosse scappata da Midgar con un riccone del Settore 1, o che fosse diventata una delle mogli di Corneo, o che se avesse semplicemente lasciato la città. Nessuno pianse per lei, a nessuno mancò, tranne ai soldati, forse, ma solo perché ora toccava pagarle, le prostitute. Venne dimenticata presto da quasi tutti. Sì, quasi, perché io non dimentico coloro che uccido, soprattutto le persone con cui ho avuto dei trascorsi. Loro sono il mio monito, un insegnamento da conservare, affinché un’oscenità simile non si ripeta più.
Per questo, con Sakura, andrò con i piedi di piombo. Io non sono certo dei suoi sentimenti, ma di una sola cosa sono sicuro:

Sono tuo , Sakura

Tuo. Solo tuo. E se non dovessi volermi più, io mi ritirerò. Non potrei mai sopportare altro sangue di donna bagnarmi le nocche… non farai mai la fine di quella povera ragazza.
A proposito, com’era il suo nome?

Evelyn.

Il suo nome era Evelyn.




FINALMENTE!!! L’HO FINITO! Oddio, che fatica, sto capitolo! Questi intermezzi sono micidiali, non so mai cosa inventarmi. Senza contare che non ho mai avuto tempo per scrivere, perché tra lavoro, tesi, uscite, moroso, poca voglia, non trovavo mai tempo per mettermi lì e andare avanti. Ma oggi, ho detto: NO! Adesso si fa il capitolo o si muore! *Garibaldi mi guarda stranito*. Bene, bene, bene, signore e signori, dopo il capitolo integrativo Bassai sho (che non tutti potranno leggere in quanto è sotto rating rosso per gli argomenti espliciti), ecco la continuazione di Bassai dai. Ho cercato di collegarmi all’integrazione per poter dare a tutti un piccolo assaggio dell’opera, ma ovviamente certe cose rimangono un segreto, come ad esempio i sentimenti della bella geisha. In Bassai sho, sono spiegati, in quanto è stato suddiviso in atti, in cui si alternano le impressioni di Sephiroth e di Sakura. Però, pazienza, sarà più divertente scoprire se l’amore è ricambiato o è solo un gioco per lei.
In questo capitolo, iniziamo col botto, in cui il nostro amato/odiato chokobo si immedesima completamente col suo peggior nemico nel suo momento di massima intimità. Il diario gli sta facendo sempre più male. Meno male che c’erano i bambini ad ascoltarlo e non Tifa, altrimenti sarebbe stata una vera tragedia! La situazione si sta avvicinando sempre di più al baratro, per la felicità di qualcuno (vero, michan? XD).
Dal canto suo, Seph è contento come una Pasqua, ma i lugubri pensieri non lo abbandonano nemmeno in situazioni come queste. Povera crocerossina… lo so, lo so, magari quest’idea non può andare a genio a tutti, ma sono convinta che da giovane, Seph qualche pazzia l’abbia fatta, e credo anche che, nonostante il DNA alieno che gli infesta le cellule, il platinato sia il personaggio più umanamente erratico del videogioco. Per questo lo amo alla follia <3 <3 <3 *Seph fa due passi di lato con espressione proeccupata.*
Vi saluto, gente!
Alla prossima!
Besos

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Capitolo 16
*** Evelyn ***


Evelyn?

Evelyn…

Perché mi sembra così dannatamente famigliare?

Io la amo…

Evelyn…
Eve…
E…

Una carrellata d’immagini apparentemente sconnesse tra loro mi affolla la mente, fino a farmela scoppiare. La sequenza è così veloce da riuscire a carpire solo qualche scena qua e là.
Un lago avvolto da una fitta foresta.
Montagne innevate.
 Una casetta fasciata dalla calma boschiva.
Un sorriso angelico.
Due smeraldi sfolgoranti.
Una chioma corvina scossa dal vento.
Sete fruscianti scorrere su pelle lattea.
Il tutto accompagnato da rumore schizzi d’acqua, flebili sospiri, stralci di chiacchierate, canti e, soprattutto, risate. Tante risate, liete e sincere, che, come miracoli, costellano quei ricordi. Tutto ciò mi fa sentire felice, come mai nella mia vita. Ogni cosa è intrisa della SUA angelica presenza. Non esiste luogo migliore in cui non voglia trovarmi adesso, se non qui, sopra le sue roventi labbra.
Improvvisamente, un boato terrificante. La letizia viene squarciata dal fuoco. Il calore mi avvolge e mi consuma con il suo morso incandescente. Apro la bocca per urlare, ma il devastante straccio delle fiamme incenerisce la mia gola, fino ai polmoni.
Non riesco a respirare...

Non riesco a respirare! Avverto la gola in fiamme. La mia mano va automaticamente ad artigliarla. Mi stupisce il fatto che la mie pelle abbia una temperatura normale, nonostante il fuoco esploso nella laringe. Esso m’impedisce di prendere fiato, come se qualcuno mi avesse infilato in gola un pezzo di brace.
Annaspando, mi alzo e scappo in bagno. Non riesco a precedere dritto, andando, di conseguenza, a sbattere contro ogni angolo che incontro sul mio cammino. La mia riserva di ossigeno si sta rapidamente esaurendo. La testa inizia ad alleggerirsi pericolosamente, la vista si rabbuia sempre di più. Grazie alle infusioni di mako dovrei essere in grado di vedere perfettamente al buio, ma, ora come ora, sono guidato solo dalle mie memorie e dalla disperazione. Sembra che il bagno sia a mondi di distanza. Pare quasi una visione miracolosa appena fa capolino attraverso la nebbia della quasi incoscienza. Mi getto sul lavandino e apro l’acqua, per poi berla avidamente. La freschezza del liquido dà gli effetti sperati: l’incandescente nodo che mi serra la gola si scioglie pian piano. Quando riesco a calmarmi, sono senza forze e mi lascio cadere sul bordo della vasca. Non oso alzare lo sguardo sullo specchio: se è opera di Sephiroth, non voglio vedere che razza di giochi mentali si è inventato stavolta. Mi gira la testa, ma pian piano mi sto riprendendo, tanto che, ad un certo punto, mi accorgo della presenza di qualcuno sostare sullo stipite della porta. Il suo sguardo allucinato e preoccupato mi scandaglia dalla testa ai piedi, in spasmodica attesa di una mia reazione.
-Scusa.-, riesco a biascicare tra un ansimo e l’altro.
Come ridestata da un brutto sogno, la donna s’inginocchia accanto a me e inizia ad accarezzarmi. Il suo tocco gentile è un balsamo.
Oh, Tifa.
-Oh, Cloud…-
Lei mi stringe a sé, accompagnando la mia testa verso il suo morbido petto. Il tepore del suo accogliente corpo mi calma completamente. Rimaniamo fermi per qualche minuto in quella posizione; poi Tifa m’induce a guardarla in viso.
-Mi hai fatto prendere un colpo. Cosa ti è successo?-
Con quei suoi grandi occhi nocciola, mi scruta attentamente. Devo avere proprio un brutto aspetto… Mi sforzo di sorriderle.
-Nulla, Tifa. Solo un brutto sogno.-
La mia ragazza sospira, assumendo un’espressione dolcemente compassionevole.
-Hai sognato Nibelheim, vero?-
Dopo Meteor, dopo la battaglia nel Northen Crater , durante il Geostigma, capitava spesso che mi svegliassi nel cuore della notte, completamente zuppo di sudore e con le lacrime agli occhi. Rivedevo e rivedevo continuamente quel giorno nei miei incubi. Il corpo di mia madre venire squarciato in due con un solo colpo di spada; gli stivali immondi di quel mostro camminare con noncuranza sul sangue della sua vittima; il cadavere della donna che mi aveva messo al mondo venire assaltato dalle crudeli fauci di quel fuoco affamato di morte; il grido di disperazione dei miei compaesani; gli occhi di quell’assassino spietato ardere di una rabbia così spaventosa che, al confronto, l’incendio reale era paragonabile alla fiamma di un fiammifero; l’espressione di puro piacere perverso stampata sul viso dell’uomo che idolatravo; l’eco altissimo del mio cuore spezzato in migliaia di pezzi. Quell’uomo… quell’uomo che avevo scelto come guida, come mentore, come maestro, mi aveva ingannato. Aveva ingannato tutti. Aveva fatto credere a tutti noi di essere l’Eroe, il Paladino, il Protettore dei deboli. In realtà, era tutta una menzogna. La Shin-Ra ci aveva ingannato con le sue pompose parole, ci aveva gettato il fantasma fumoso di quella bestia in faccia, ci aveva uccisi tutti… Ma, noi non eravamo gli unici a essere stati traditi. La prima vittima di quelle bugie fu proprio l’artefice della stessa carneficina che affollava i miei incubi. Per anni, egli si era fidato delle parole fallaci di quegli uomini che si divertivano a manipolarlo, credendo di trovare la pace nelle loro risposte. Una pace mai arrivata, ho scoperto; ma la verità era più dolorosa di quanto potesse credere. Sapeva di essere speciale, però mai avrebbe creduto di essere frutto di disumani esperimenti e condividere buona parte del proprio DNA con quello di un alieno distruttore.
LUI voleva essere normale… Nemmeno quella speranza gli hanno concesso…
L’incubo di stanotte, però, è stato diverso dai soliti. Non ero a Nibelheim; anzi non credo nemmeno si trattasse dello stesso continente. Le immagini del sogno permangono ancora nella mia memoria, permettendomi di mettere a fuoco i luoghi mostratami: quelle montagne, quel lago, quelle foreste, quella casetta. I primi mi sono dannatamente famigliari, ma è l’ultima, con i suoi tetti incurvati e le pareti di carta di riso, a farmi capire dove avessi già visto quegli scorci: la foto. Quel luogo era Wutai.
Alzo gli occhi verso Tifa. Leggo nel suo sguardo lo spasmodico desiderio di essermi in un qualche modo di conforto, di aiutarmi a superare questo difficile momento e , soprattutto, di sapere disperatamente cosa diavolo mi sta succedendo. Lo vedo dalle profonde occhiaie che circondano i suoi tristi occhi, da rughe mai viste solcarle la fronte sempre corrugata, dai lati delle labbra perennemente rivolti verso il basso.
Bahamuth santo, che darei per liberarmi di quell’influenza maligna e tornare a vederla sorridere…
-Sì, è ricapitato ancora.-, mento con un filo di voce.
Mentre la mia ragazza si lascia scappare un gemito e mi lega in un coccolante abbraccio, la tentazione di vuotare il sacco mi solletica la punta della lingua, ma, in cuor mio, so che non mi è permesso. In molti hanno provato ad avvicinarsi al diario e la Bestia me l’ha fatta quasi sempre pagare. Solo con Vincent non mi è accaduto niente. Che Sephiroth avverta un’affinità celata dietro a quelle coltri rosse? Che il rapporto tra Lucrecia e l’ex-Turk abbia dato vita a QUEL frutto?
No, impossibile. Hojo confermò la paternità del bambino prima di scomparire. Però… lo scienziato disse anche che Sephiroth ignorasse l’esistenza di quel legame di sangue. Allora, perché nel suo diario dichiara il contrario? Probabilmente, egli era a conoscenza della verità, ma il vecchio sarebbe morto piuttosto che dargli la soddisfazione di comprovare quei dubbi. Eppure, quel rapporto insano era l’unica motivazione che impedisse al Generale di essere divorato dal rimorso: ogni efferatezza compiuta, ogni bagno di sangue, ogni ora di sonno persa, ogni donna respinta; ogni azione era stata compiuta per tentare di sanare quel legame padre-figlio corrotto fino al midollo. Tutto il mondo lo vedeva e lo adorava, tranne suo padre. Sebbene la sua mente non lo accettasse, il suo cuore ricercava quell’utopica approvazione disperatamente. Per questo motivo non riusciva a trovare la forza di ribellarsi: che ne sarebbe stato della sua famiglia se avesse mollato? A questo proposito, mi sovviene di un discorso che fece Zack, durante il travagliato viaggio verso Midgar. Fu pochi giorni prima la sua morte.
Sai, poco prima di partire per Nibelheim, lui mi chiamò nell’ufficio del Direttore SOLDIER. Di fronte a me si stagliò un uomo che non aveva niente a che fare col freddo Generale d’acciaio che la Shinra aveva inculcato nell’immaginario collettivo. Fu in quel frangente che mi resi conto di quanto poco lo conoscessi. Non v’era fierezza nel suo atteggiamento, né orgoglio nelle sue parole, né allegria nel sorriso sghembo che mi rivolse dopo avermi confessato che, quella per cui stavamo partendo, sarebbe stata la sua ultima missione. ‘La fine di un’epoca’, ricordo che pensai. Non immaginavo, però, che questa storia terminasse così. Credevo di assistere alla sua ultima discesa lungo la scalinata nell’atrio centrale, sfoggiando la solita postura fiera e intrisa di orgoglio, l’uniforme nera tirata a lucido e la Masamune dondolare discreta al suo fianco, diretto verso l’uscita dello Shinra Building. Sarebbe stato uno spettacolo pieno di solennità, te lo garantisco! Lui era bravo a donare gravità a ogni situazione. Sono sicuro che molti uomini sarebbero scoppiati a piangere. Probabilmente, anche tu!” Ricordo che rise di gusto, finché un pensiero non gli balenò nella mente, spegnendo la sua consueta allegria. “SOLDIER era la sua famiglia. Sarebbe rimasto fedele alle insegne fino alla fine, se solo la follia non gli avesse devastato la mente. Sono sicuro che gettare fango sul reparto non era sua intenzione. Aveva lottato duramente per mantenere alto l’onore di SOLDIER, perfino più caparbiamente di me e Angeal messi insieme. Non voglio giustificare i terribili crimini di cui si è macchiato, ma… Era stanco, Cloud. Qualcosa gli aveva svuotato l’animo fino al midollo, tanto da costringerlo ad abbandonare tutto ciò per cui si era battuto. Forse è per questo che non riesco a odiarlo come meriterebbe.
Pensai che Zack fosse troppo buono per odiare qualcuno. Col senno di poi, posso dire che la sua non era bontà, ma compassione. Compassione per un uomo che aveva perso ogni volontà di combattere. Il motivo di questo forfait nei confronti della vita temo di conoscerlo. Nemmeno l’affetto di Tifa è riuscito a scacciare il senso di disagio che mi si è instaurato nelle ossa. Togliendo le terribili sensazioni suscitate dal rogo, in tutta questa storia c’è un fatto che non torna: Sephiroth non è mai rimasto vittima di un incendio. Perché allora ho sognato di essere consumato dalle fiamme? Cosa c’entra con i ricordi del Generale?

Dopo la notte travagliata, la sveglia è una maledizione sonora. Vorrei poter rimanere ancora un po’ tra queste lenzuola per riprendermi dalla mancanza di sonno, ma non basterebbe un’era intera, tanto esso è arretrato. Inoltre, mi sento in dovere di partecipare all’economia della casa. Sebbene il bar sia sufficiente a mantenere la nostra famiglia, Tifa non può fare tutto da sola. Anche se non guadagno molto, con quei pochi gil, la mia ragazza si può permettere di tenere chiuso l’esercizio in periodi che non siano le solite feste. E poi, qualche soldo extra può essere messo da parte per un eventuale matrimonio. Dopo la sconfitta dei Deepground, è un’idea che mi ha stuzzicato la mente per un bel po’, tanto da arrivare quasi a convincermi. Quasi. Ce l’avrebbe fatta, quel pensiero, se non mi fosse arrivato questo maledetto diario tra le mani. Maledetto come il suo tempismo. Similmente al comportamento di Sakura, lui arriva precisamente nel momento in cui decido di cambiare vita; come un pescatore che tira brutalmente il pesce verso riva dopo avergli dato troppa lenza. E come un amo quel sogno mi ha artigliato la mente e non riesco più a scrollarmelo di dosso. A nulla sono valse le coccole di Tifa per farmi passare il terrificante ricordo di quel rogo. Era così dannatamente reale, come se lo stessi subendo in quello stesso momento. Non mi è mai capitato di provare sensazioni così intense.
Era diverso da tutte le altre memorie… e non credo appartenga a Sephiroth. Conosco il suo modus operandi: lui distrugge la mia psiche attraverso i dubbi, tormentando la mia anima con mille domande. Il suo è un tocco delicato e velenoso. Quello di ieri notte era chiaro, lampante, preciso. Ho potuto riconoscere Wutai attraverso la costruzione di legno e collegare il panorama alla foto in mio possesso. Ho percepito, visto, udito LEI. Sakura. Scorci di una realtà perduta da tempo, ma così radicati nei ricordi da richiamare ogni cosa a loro connessi. Ogni oggetto appariva nei minimi dettagli e suscitava emozioni ben precise. Questa volta, VOLEVA farmi capire. Farmi capire la felicità, la spensieratezza, l’amore, fino al dolore più atroce. Quest’ultimo, inoltre, non mi ha suscitato il classico terrore, ma una sensazione che, ahimè, conosco troppo bene: la perdita. Me ne sono reso conto quando, tornando a letto, ho ripensato al mio corpo in fiamme. Mi sono reso conto che il dolore non si dipanava ovunque, ma si concentrava nel cuore. Ripensai ad Aerith, a mia madre, a Zack, ma nemmeno tutti quei dispiaceri messi assieme erano in grado di eguagliare quello che mi attanagliava il cuore. Mi sentivo devastato, perso, vuoto…
Qualcosa gli aveva svuotato l’animo fino al midollo…
Inchiodo. Le ruote della Fenrir stridono sull’asfalto, lasciando una lunga striscia nerastra sulla scia. Le macchine si gettano ai lati nel tentativo di schivarmi, imprecando con i loro sonori clacson. Ma io non me ne curo. Sono troppo stordito dal pensiero che mi ha attraversato la mente nell’ultimo secondo.
Sono un intermediario... tra due amanti dannati.
Non ci ho mai fatto caso, ma, i problemi hanno iniziato a sorgere nel preciso istante in cui ho scoperto l’esistenza di quella donna. Ora ne capisco il motivo: due anime separate dal Destino cercano di riunirsi disperatamente. Mi stanno mostrando quanto si amassero e di quanto brutalmente lei gli sia stata strappata via. Sephiroth è disperato, vede la possibilità di ricongiungersi all’amore della sua vita, ma io glielo impedisco attraverso la ritrosia che provo verso la sua persona. Sebbene abbia imparato a comprenderlo, ancora lo odio. Lo odio a morte! Una parte di me gode nel vederlo piegato dal dolore, a implorarmi in ginocchio di aiutarlo, ad avere pietà della sua anima marcia.
Accosto e mi affaccio al di fuori del parapetto che cinge la superstrada di Edge. Dietro di me, il traffico borbottante e assonnato del mattino fa da rumoroso sottofondo al mio basso intento. Da lontano mi arriva il boato soffuso di un tuono. Sta per piovere.
Piangi, maledetto, piangi per l’eternità!
Guardo la copertina nera del diario, la quale mi osserva austera.
Non avrai una seconda possibilità. Tu non me l’hai mai concessa…
Spazio con l’occhio l’infinta e brulla pianura polverosa. Il temporale si fa sempre più vicino.
La giusta tomba per un’anima arida…
Alzo il braccio e carico il tiro.
Non meriti nessuna pietà!
Una goccia di pioggia mi colpisce la guancia come uno schiaffo. Mi blocco.

Non diventare come lui, Cloud.

Aerith?

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Mi sento risucchiato verso un luogo onirico, in cui il profumo dei fiori riempie ogni mio senso. Davanti a me, intenta a curare le piante di quello sterminato giardino, la Cetra. Sento il mio cuore venire stretto in una morsa.
-Non credi che abbia sofferto abbastanza?-
La voce dell’Antica risuona cristallina per tutto quel limbo floreale. C’è rimprovero nel suo tono, il quale mi fa sentire così minuscolo rispetto a lei. E colpevole. Abbasso lo sguardo sui fiori, senza rispondere.
La sento sospirare, affranta.
-Hai compiuto atti terribili, fratello mio. Ma, contro di te, il Pianeta ne ha commessi molti altri.-
Di scatto, alzo gli occhi. COSA?!
Una figura eterea abbandona il mio corpo e si va avanti. Il cuore perde un battito appena mi si staglia davanti Sakura. La mia mente va completamente in confusione.
-Lo chiami ‘fratello’. Eppure, proprio tu hai firmato la sua condanna.-
La voce della geisha risuona distorta, piena di disprezzo e odio. Completamente diversa dal timbro angelico a cui sono abituato.
Solo a quel punto, Aerith abbandona il suo lavoro e si volta. Il suo sguardo è triste. Le mani incrociate sul grembo, si stringono nervose.
-Il dolore e la follia hanno divorato la sua ragione. Ho DOVUTO farlo. Il Pianeta mi stava implorando di fermarlo!-
-Il
Pianeta?!-
Il modo con cui Sakura pronuncia quella parola è terrificante. E’ un graffio all’udito, colmo di rancore.
-Guarda! Guarda cosa mi ha fatto il tuo prezioso Pianeta!-
Lingue di fuoco prorompono dalla figura diafana di Sakura, ferendo i nostri occhi, abituati alla tenue luce del limbo. La colonna di fiamme si eleva verso il cielo bianco e incenerisce ogni cosa attorno a sé. Il calore è insopportabile, implacabile, spietato. Quando riapro le palpebre, la scena che mi si pone davanti ha un che di apocalittico. Il delicato giardino di Aerith è scomparso, lasciando il posto a un terreno incandescente e senza vita. Il cielo è avvolto da un’oscurità densa e fitta. Ma ciò che più mi sgomenta è la figura che si frappone tra me e la fioraia: un moncherino ustionato. Osservo l’intrico incandescente delle scure fibre muscolari risplendere sopra le ossa, le quali spuntano di tanto in tanto nelle zone dove il fuoco si è accanito con più vigore. Non c’è traccia della chioma setosa e corvina, di cui avverto il tocco gentile sulle mie dita; la pelle pallida e delicata è stata completamente consumata, il cui profumo è stato sostituito da quello acre e raccapricciante della carne bruciata. Rimango imbambolato a fissare quella devastazione, quando lei inizia a voltarsi nella mia direzione. Non voglio vedere il suo viso. SO di non avere il coraggio per sopportare quella vista, ma una forza m’impedisce di distogliere lo sguardo.
Sephiroth vuole vedere…
Sento il cuore esplodere in mille pezzi, appena i nostri occhi s’incrociano; o almeno i miei la fanno, quelli di Sakura sono due pozzi neri, infiniti, vuoti. Posso vedere il suo cranio spiccare da sotto la carne annerita, all’altezza dell’arco sopraccigliare, degli zigomi, della mascella, del cuoio capelluto. Il naso è stato consumato completamente e al suo posto sorgono due piccole narici triangolari. Sotto di esse, dove una volta c’erano carnose e accoglienti labbra, una dentatura ricoperta di cenere, distorta in un agghiacciante, tetro sorriso. La guancia destra è scomparsa, nemmeno i tendini sono riusciti a resistere alla furia del fuoco, mentre quella sinistra è chiusa da un lasso intrico di fibre giallastre.
La mia gola viene squarciata da un urlo disumano, svuotandomi di ogni forza. Crollo a terra, piangendo disperato.
-Solo per averti amato, mio dolce Generale… E’ questa la giustizia di Gaia.-, la sento rivolgersi verso Aerith,- La giustizia dei Cetra.-

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Lo scrosciare della pioggia mi riporta a me stesso. Sono zuppo dalla testa ai piedi, una pozzanghera profonda si allarga sul marciapiede. Sono prostrato contro il parapetto della superstrada, stringendo il tubo d’acciaio con tutta la forza che ho. Mi accorgo che non tutte le gocce che solcano il mio volto sono dolci.
Sospiro, ma ciò che abbandona le mie labbra è un gemito. Subito dopo, il mio corpo viene scosso da un singulto. Mi porto una mano agli occhi e la figura di LEI, ustionata, privata della sua bellezza, fa di nuovo capolino nella mia mente. Non riesco a trattenermi: il pianto si fa inarrestabile. Abbandono il parapetto e mi accascio sulle ginocchia. Mi stringo le braccia al petto e piego il busto in avanti, fino a quasi toccare il cemento con la fronte.
Non è giusto… non è giusto…, continuo a ripetermi. Non so bene a cosa i miei pensieri si riferiscano, ma sento che ogni mia certezza si è infranta completamente. Mi rendo conto di essere sempre stato una marionetta. Fin dal momento della mia nascita, ogni azione che ho compiuto era predestinata. Il Pianeta sapeva bene che uso fare di me. Così come Sephiroth. Per questo motivo non siamo in grado di stringere i legami più semplici: noi non siamo umani, ma armi. Jenova e i Cetra ci hanno fatto nascere per portare avanti la loro guerra.
Alzo lo sguardo, ricolmo di determinazione e rabbia, e osservo la bruma nebbiosa calata sul deserto. Il mio respiro si è fatto lento e regolare. Sbuffi di condensa escono dalle narici. Con calma innaturale, mi rimetto in piedi. Perle di pioggia esasperano i miei movimenti, schizzando in ogni dove. Il diario stretto nella mia mano. Dopo qualche istante di contemplazione, rivolgo la mia attenzione sul libro. Con l’altro palmo ne accarezzo la copertina, scacciando i residui di acqua. Indugio su di essa, stringendo il pugno.
-Andiamo, Sephiroth.-sussurro, alla fine,-Andiamo mettere fine a questa storia…-

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20 Ottobre XXXX

Erano mesi che non rientravo nella società civile. Il monotono tran tran della vita quotidiana, la lentezza delle tristi giornate piovose, la solitaria tranquillità della pace; abituato all’azione e al trambusto della battaglia, tutto questo mi suona insopportabilmente stonato. Ma forse è solo la voce della mia indole guerriera, la quale si appresta ad andare incontro al tramonto del suo mandato, a suggerirmi questa melodia. La guerra, infatti, sta ormai svolgendo al termine. La capitale, Wutai, è prossima alla resa, dopo un estenuante assedio, mentre il resto del continente è in mano alla Shinra. Solo alcune città del meridione ancora insorgono e resistono. La Crescente non intende arrendersi nemmeno di fronte all’evidente sconfitta, tuttavia il popolo non li sostiene più come fino a pochi mesi fa. La gente è stanca di assistere alla morte dei loro figli, dei loro mariti, dei loro padri, dei loro fratelli. Molti villaggi si arrendono senza nemmeno combattere, troppo stremati dalla fame e dalla malattia. Vogliono solo la pace, contrariamente all’Imperatore. Lui incita ancora i pochi ribelli a combattere, ma la piaga della diserzione si allarga sempre più ogni giorno che passa. La voce di Godo non è mai stata così flebile. Perfino la figlia non lo ascolta più. Gira voce che la Principessa Yuffie abbia abbandonato gli agi del palazzo e se ne vada a zonzo per il Paese nel vano tentativo di risollevare il morale delle truppe. Forse è proprio lei a fomentare le rivolte al Sud, ma è solo una ragazzina scheletrica privata del sostegno del suo stesso popolo: le sue azioni servono solo ad allungare l’agonia di questo Paese. I reattori hanno già iniziato a sfregiare le bellezze di questa terra, succhiando l’essenza vitale del Pianeta senza pietà. Il processo sta iniziando e non sarà un pugno di invasati a fermarlo.
A buona parte del reparto SOLDIER è stata concessa la licenza di ritornare a Midgar, ma, un commando ben nutrito composto dai migliori agenti, dovrà rimanere per sovraintendere la sicurezza dei cantieri, almeno fino a quando le acque non si saranno calmate. Inoltre, mi è stato ordinato di procedere all’addestramento delle promesse di SOLDIER, giovani che si sono distinti in battaglia. Uno di essi sembra essere sulla strada giusta per diventare un 1st. Il suo nome è Zack Fair di Gongaga. Un ragazzino spigliato ed energetico, dal carattere solare, con cui è entrato nelle grazie di Angeal. Il banoriano adora quel fante iperattivo, per cui gli ho assegnato il compito di addestrarlo. Ritornerà a Midgar e gli concederò un periodo di licenza da passare a Banora. Sono certo che sarà felice di rivedere la sua famiglia, specie dopo la morte del padre. La notizia arrivò pochi giorni dopo l’apertura della breccia attraverso la catena Geti. Avrei voluto rimandarlo indietro subito, ma il moro non ha voluto sentire ragioni. “
Combattere è il mio dovere. E compiere il mio dovere, onora le mie azioni, le quali mi condurranno ad abbracciare i miei sogni. E’ quello che mio padre mi ha insegnato e io così intendo onorare la sua memoria.”, questo mi disse per mettere a tacere le mie insistenze. Non potei far altro che accettare le sue volontà. Dopotutto, ognuno ha il suo modo per affrontare un lutto. Per il moro è stato un duro colpo, ma ha cercato di non farlo pesare sul suo operato, trovando nella battaglia il sostegno per non crollare.
Io non so come reagirei se mio padre dovesse morire. Probabilmente, sarebbe l’unico giorno in cui la gente mi vedrebbe ballare dalla felicità. La sua lunga ombra ieratica e nervosa, che da sempre mi ricopre col suo gelido abbraccio, si dissolverebbe permettendomi di nascere veramente. Sarei libero. Libero di essere me stesso, libero da questo ingombrante ruolo che svolgo in questa insulsa società, libero di aiutare il prossimo, libero di amare chi voglio…
Ma finché quel sadico bastardo respira, la catena che mi tiene legato alla famiglia Shinra mi torcerà il collo ogni giorno sempre più strettamente, tappandomi la bocca come una sorta di museruola. Alla stregua di un cane. Già, è quel che sono, in fondo. Rufus non ha tutti i torti quando mi chiama ‘mastino’ o, più all’amicizia, ‘cane’. Non ha mai smesso di inculcarmi qual è il mio posto nel mondo. Fin da bambini, quando s’intrufolava nella cucina dello Shinra Masion e sostituiva il mio piatto personale con la ciotola di Dark Nation. Oppure, quando si sentiva più audace, mi buttava i croccantini mezzi mangiucchiati dall’animale nel mio pasto. Spesso, però, erano giorni che non toccavo cibo, quindi, preso dai morsi della fame, mangiavo ogni cosa che mi capitava nel piatto. Quanto se la rideva, quell’infido mostro. E io non potevo far altro che sperare si strozzasse con il cibo appena inserito nella bocca. Una volta capitò. Non dimenticherò mai l’espressione di puro terrore sul quel bel visino tondo, il quale virava rapidamente verso il violaceo; la sua bocca spalancata alla ricerca d’aria; la mano stringere la gola. Ciò che però riempì la mia anima di puro piacere furono i suoi occhi. In essi era presente una disperata supplica di salvarlo. Ricordo che, di tutta risposta, rimasi a guardarlo senza muovere un muscolo, godendo nel vederlo lentamente scivolare nell’oblio. Mi venne detto che assunsi un’espressione terrificante: un ghigno spietato aveva deformato il viso, assomigliandolo a quello di un demone, mentre il mio occhio destro brillava di un’inquietante luce rosata. Non ho memoria di questa azione, ma, a quanto pare, anche la Bestia stava partecipando allo spettacolo. Comunque, sarebbe un bene per tutti se Hojo morisse e con lui anche gli Shinra.
Però, come dice un vecchio adagio, sono sempre i migliori ad andarsene. Come il padre di Angeal. Io non l’ho mai conosciuto, ma grazie al figlio ho potuto farmi un’idea piuttosto precisa di che tipo d’uomo si trattasse, dal momento che il mio compagno ne ha assorbito completamente l’indole. Basti solo pensare che è morto per pagare i debiti maturati dalla famiglia per forgiare la Buster Sword. Avrebbe potuto chiedere aiuto ad Angeal, ma non voleva far gravare i suoi problemi sul figlio impegnato in guerra. Contrariamente a mio padre, il signor Helwey ha dato tutto, perfino la vita, per il suo unico erede. Inconcepibile e stupido, lo definirebbe quell’omuncolo da strapazzo.
Ma ora che la guerra volge al termine, insisterò che il moro si prenda la giusta pausa. Dopotutto, sua madre ha bisogno di lui, ora. Mi sento meschino invidiarlo perché ha una madre da consolare, ma non riesco a farne a meno. Darei qualunque cosa per averla qui con me…
Comunque, passare un po’ di tempo nel suo villaggio natale e poi a Midgar in compagnia del suo rampollo avrà effetti ben più benefici sul suo umore rispetto a quelli che potremmo dargli Genesis o io, soprattutto dopo l’inasprimento della nostra rivalità, la quale ha raggiunto livelli davvero insopportabili per una pazienza debilitata come quella di Angeal. Sarà difficile senza di lui, ma spero seriamente di trattenermi nell’ammazzare il rosso.
Tutto questo astio è scaturito dalla crescente popolarità che i due banoriani hanno acquisito nel corso di questa guerra, raccogliendo frotte di fan in patria. Sono diventati la punta di diamante del nostro esercito, i migliori guerrieri che il mondo abbia mai visto, coloro che hanno conquistato il Continente Occidentale e guidato la Compagnia verso il successo. Tutte queste definizioni non hanno fatto altro che gonfiare il già enorme ego di Genesis. Desidera sempre più attenzione, sempre più gloria, sempre… più. Si è messo in testa che, nonostante i suoi sforzi, la sua fama è ancora ostacolata dalla mia ombra. All’inizio, lui ha cercato di imitarmi. Indossava lo stesso modello di uniforme con cui mi equipaggio io, si è fatto forgiare uno stocco della stessa lunghezza della Masamune e si stava perfino lasciando crescere i capelli; fino a che, un giorno, dei membri di quello stupido fan club di idioti che mi idolatrano, la Silver qualcosa, lo hanno accusato di essere solo una misera copia e che non valeva nemmeno un quarto di me. Quelle parole sputate alla televisione hanno fatto scattare qualcosa in lui. Non mi parlò per giorni, nonostante cercassi di scusarmi in nome del fan club, ma era convinto che fossi stato io a fomentare quei dubbi. Non poteva essere più lontano dalla realtà: ero contento che avesse iniziato a seguire le mie orme, affinché il terribile demone che risiede in lui potesse essere alfine domato. Ma ora è sfuggito al mio controllo. Ha creato questa… questa… macchietta, la quale non è altro che lo specchio dei suoi peggiori difetti: vanesio, superbo, orgoglioso, testardo, sbruffone. Ha stravolto l’uniforme, andando in giro vestito di rosso come un pagliaccio; ha pagato fiori di gil il reparto armamenti, richiedendo importanti modifiche su Rapier, dimodoché la spada sia in grado d’incanalare l’energia mako così da triplicare la sua forza fisica; e, cosa più grave, dipende totalmente dall’opinione pubblica. Si è conformato a ciò che la gente pensa di lui, trovando nell’approvazione degli estranei il proprio piacere, ignorando completamente il parere delle persone che VERAMENTE lo conoscono. Mi sfida apertamente ogni volta che ne ha l’occasione, ignora i miei ordini, si fa beffe di me; eppure continua a ripetermi che siamo amici. Non mi è più consentito parlargli sinceramente, dal momento che prenderebbe i miei consigli come atti di sfida. E io sono stanco di umiliarlo davanti a tutti e minare la sua autorità. Ha un grande potenziale, ma ancora non è in grado di gestirlo. E’ 1st solo da pochi mesi, dovrebbe avere più pazienza, ma, ahimè, il rosso non conosce il significato di questa parola. Sono arrivato alla conclusione che, se c’era una minima speranza di domarlo, quella è sfumata nel preciso istante in cui decisi di trattarlo amichevolmente.
Maledetto me!
Angeal mi ha rivelato che, a dispetto di tutta la baldanza ostentata, Genesis è la persona più insicura che abbia mai conosciuto. Non è la prima volta che lo vede in quello stato. “
Gli passerà. Lo so che non è il tuo forte, ma devi avere pazienza.
Pazienza… Io ne ho da vendere di pazienza, ma quell’uomo è in grado di bruciarmela tutta in men che non si dica. C’è qualcosa in lui che mi fa uscire dai gangheri per un nonnulla…
Per questo ho sempre evitato di raccontargli di Sakura. A scapito dell’elevata formazione, la mentalità chiusa e superficiale tipica dei paesini di campagna ha impresso un’impronta molto forte nella sua psiche.
Dopo il non proprio felice epilogo del nostro primo bacio, avrei voluto confidarmi con i miei amici per trovare conforto nelle loro parole. Pensavo di fidarmi, tanto che, una sera, ero arrivato così vicino a rivelare quel segreto. Come spesso capitava, cenavamo nel mio alloggio. Stavamo parlando di donne, come al solito, e attesi il momento in cui avrei confessato loro il mio amore per Sakura. Si virò verso l’argomento geishe e ciò che scaturì da quella discussione mi fece salire su tutte le furie. Entrambi sputavano sentenze senza sapere cosa fosse una geisha in realtà, mettendole alla stregua delle normali prostitute; anche se è da Genesis che arrivarono i commenti più crudeli e dettati dall’ignoranza. Ripensavo a lei, così bella e fragile, e stringevo i denti per non sbottare in frasi che mi avrebbero compromesso. Nella mia mente si defilava l’immagine di Genesis deridermi, inferendo sulla sconfitta. Potevo immaginarmelo ridere fino a rimanere senza fiato. Ridere di me. Di lei. Di quella vana speranza che mi tiene assieme.
Forse è patetico quanto in basso mi possa spingere per trovare un minimo di affetto, ma, quassù, in questo Olimpo di sterco dorato, non c’è posto per sentimenti così puri. Sono visti come debolezza, il capriccio di un bambino, la capitolazione di un uomo senza spina dorsale; quando, invece, sono tutto l’opposto. Dopo quella notte, infatti, lei mi ha cambiato: la furia spaventosa che mi offuscava la ragione ogni volta che spargevo sangue non si è impadronita quasi mai delle mie azioni. Non uccidevo uomini semplicemente perché me lo avevano ordinato, ma ogni nemico sconfitto mi avrebbe avvicinato di un passo a lei. Non era un peccato, ma un sacrificio.
Sono passati sei mesi dall’ultima volta che la vidi. Ho tentato di scriverle così tante volte che perso il conto, ma non ho mai avuto il coraggio di inviarle una sola lettera. Chissà se avesse apprezzato avere mie notizie? O solo sapere che la pensavo e che attendevo con ansia il giorno in cui ci saremo rivisti? O confessarle di amarla?
Scoprirmi…
Questo mi terrorizza più di qualsiasi altra cosa. Eppure bramo questa azione da sempre. Ogni volta che un assistente mi trattava con gentilezza, ogni volta che un camerato mi dava una pacca sulla spalla, ogni volta che una donna mi sorrideva sincera. Ogni volta che qualcuno mi dimostrava un po’ di attenzione, la voglia irreprimibile di confidarmi giungeva potente come un tuono. Ma poi, l’assistente veniva scacciato, il compagno moriva e la donna se ne andava.
Perdita…
Non riesco tenermi salde le persone a cui tengo. Mi sfuggono dalle dita come esili bolle. Riesco a controllare interi eserciti, ma non poche, piccole, fragili vite. Le vedo allontanarsi da me ogni giorno, simili a barche alla deriva.
Per questo mi ritengo un patetico sciocco sperare che questa storia folle funzioni. Non potrebbe essere più complicato di così. Morale, pregiudizi, etnia, ideologie, cultura, tutto contro di noi. Eppure, io continuo ad assecondare la speranza che quella notte non sia stata solo frutto dell’istinto, ma qualcosa di più elevato abbia guidato l’unione dei nostri corpi. Anche se un po’ mi spaventa l’idea, una parte di me auspica che da quell’atto sia nato qualcosa di più di un semplice amore. Non ho mai pensato seriamente ad avere dei figli, non sono nemmeno sicuro che possa averne dopo tutto quello che mi hanno fatto, ma immaginarmi Sakura corrermi incontro col ventre gonfio e scalciante, riempie il mio cuore di una sensazione che non riesco a esprimere. E’ comunque molto positiva. Mi fa sorridere.
Oggi, infatti, quando mi presentai all’okiya con la scusa di controllare l’addestramento della guardia personale di Sakura, avvertivo una certa trepidazione. Mi sentivo tremare dall’emozione, le gambe farsi molli, la testa leggera e il cuore imbizzarrirsi. Non fu facile prestare attenzione al rapporto del sergente-istruttore. I miei sensi erano tutti concentrati a percepire la presenza dell’oka-san. Ma lei non era lì, mi dissero. Si era recata a Ren’oi, una cittadina a trenta chilometri a Sud-Est di Garyo. Solo dispiacere mi avrebbe suscitato questa notizia, se non fossi stato a conoscenza che il Presidente aveva fatto costruire proprio lì la sua nuova residenza, nei mesi in cui i suoi fedeli soldatini devastavano e uccidevano poco sopra alla sua testa. E io sapevo che lui era là da qualche settimana. Un terrore sordo e una furia spaventosa mi avvolsero le membra, irrigidendole. Tentando di controllare il tremore della voce, chiesi cosa l’aveva portata in quel luogo.
Cerimonia di consacrazione al Danna…
Le parole gracchiate da quella vecchia ancella mi trafiggono ancora il cuore.
Lo sapevo… lo sapevo che sarebbe finita così. Sapevo che quel vecchio porco me l’avrebbe portata via, appena i suoi laidi occhi si fossero posati su quella splendida bellezza. Sapevo che era un errore presentargliela, anche se era l’unico modo per salvare Sakura e le sue ragazze dalla criminalità midgariana.
Lo sentivo che qualcosa non andava in lei quella sera, ma io ero troppo accecato dalla passione pulsante per accorgermene. Me ne sono infischiato dei suoi sentimenti e l’ho presa, prima che potesse farlo qualcun’altro. Le sono saltato addosso come un animale assatanato, costringendola a capitolare e tenere per sé le sue preoccupazioni. Voleva parlarmi, ma io l’ho interrotta bloccandola contro la parete. E perché? Perché la VOLEVO. La voleva assolutamente, in quel preciso istante, quando lei avrebbe desiderato confidarsi. Sono stato egoista, dimostrandole di essere una bestia lussuriosa esattamente come tutti gli idioti con cui lei ha a che fare ogni giorno. Un pensiero che in un’altra circostanza mi avrebbe rallegrato, invece mi deprime ancora di più.
L’ho lasciata sola.
Ho preso solo il peggio dall’umanità.
Forse non sono così tanto migliore di Shinra…


Lo vedo, chino sul tavolino, illuminato dalla luce della luna. Sembra quasi una visione, una creatura divina circondata da un’aura candida, cui è sacrilegio anche solo poggiare gli occhi su di essa.
Sta scrivendo, credo. La sua schiena copre completamente la visuale, come una barriera eretta per proteggere qualcosa di estremamente prezioso. E’ così assorto da non rendersi ancora conto della mia presenza. Ne approfitto per contemplare la sua figura possente, resa quasi eterea dai tenui raggi lunari. Questi ultimi rischiarano la sua chioma, la quale la rassomiglio a una cascata di argento liquido che, sinuosa, si appoggia dolcemente a terra, creando onde perlacee sul pavimento scuro.
Perfetti.
Inconsciamente, la mia mano va ad accarezzare la ciocca donatami prima della sua lunga assenza. Sono riuscita a farne un ciondolo, il quale lo porto sempre all’altezza del cuore. Solo così reprimo il desiderio di raggiungere quei capelli e accarezzarli di nuovo.
Avverto il suo respiro lento e regolare, agitato di tanto in tanto da profondi sospiri. Mi accorgo di quanto mi sia mancato quel suono così rassicurante. Sorrido tristemente. E’ in pena per me. Natsu mi ha riferito di avergli raccontato della cerimonia. Sono consacrata a un altro uomo, ora.
Abbasso la testa, appesantita dalla vergogna. Non dovrei trovarmi qui, ma dopo sei mesi senza avere sue notizie volevo rivederlo almeno un’ultima volta. Volevo stringerlo a me, trovare conforto tra le sue forti braccia, avvolgermi nella sua voce baritonale, perdermi nei suoi occhi. Un’ultima volta. Prima che l’incubo mi risucchi nel suo nero abisso.
Muovo un passo all’interno della sua stanza e lo vedo scattare. Senza nemmeno rendermene conto, il filo tagliente della Masamune incombe affamato sul mio collo. Trattengo il respiro e stringo le mani, ma non distolgo lo sguardo da quelle giade illuminate dal mako. Si blocca giusto in tempo, a pochi millimetri dalla mia pelle. Un lampo di riconoscimento fa virare la sua espressione da ostile a sorpresa. Sorrido apertamente, contenta di rivedere quel viso angelico. Mi rendo conto solo ora di quanto lui sia reale.
E’ qui… Non è un sogno.
-Sakura?-, domanda sorpreso, abbassando la katana.
Chiudo gli occhi, assaporando il tono del mio nome d’arte pronunciato da quella voce così avvolgente. Sento le lacrime spingere prepotentemente per uscire.
Quanto mi sei mancato…
Lo rivaluto meglio. E’ dimagrito molto. Il suo viso è emaciato, pallido, spento. Gli zigomi appuntiti perforano quasi la pelle, la quale si stende tesa sulle guance scarne. Sotto i suoi occhi, profonde borse grigiastre si allargano fino a quasi metà naso. Mi domando da quanto tempo è che non dorme. Abbasso lo sguardo verso il petto, dove posso seguire facilmente la linea delle clavicole sporgere al di sopra dei pettorali possenti. Lo strato di grasso è così esiguo da permettermi di studiare il disegno composto e organizzato dei muscoli che s’intersecano all’altezza dello sterno. Sposto l’attenzione sulle mani nude. E’ possibile riconoscere ogni nocca, ogni tendine, ogni singola parte dell’arto, tanto la pelle è sottile. Mi scappa un gemito. Ecco il risultato di mesi e mesi di privazioni. La guerra succhia via ogni energia, arrivando a piegare perfino il guerriero più forte.
Ma almeno è vivo.
Oh sì, lo è.
Le lacrime iniziano a scendere.
-Siete tornato…-, proferisco, riuscendo a stento a vincere l’emozione.
Lui sembra confuso. E’ da quando si è accorto della mia presenza che lo vedo impegnato in una lotta interiore. La voglia di stringermi a sé è palpabile, ma la lealtà verso il suo signore lo blocca. Sa che potrebbe compromettere tutto il lavoro fatto, se solo osasse anche solo sfiorarmi. Sa che non avrebbe più la forza di lasciarmi andare, se si concedesse ora.
-Perché… sei qui?-, chiede, la voce ridotta a un soffio flebile.
Il suo viso è una maschera di sofferenza, come se lo stessi torturando con il solo fatto di esistere. La sua domanda, infatti, suona come una supplica disperata, una richiesta implicita di liberarlo da questo tormento. In realtà vorrebbe chiedermi:

Perché? Perché mi fai questo? Perché non mi lasci andare?, avrei voluto chiederle. Che il Presidente l’abbia mandata per prendersi gioco di me? Oppure è la personificazione della vendetta di Wutai, intenzionata a tormentarmi per tutta la vita? Avrei voluto crollare ai suoi piedi e implorarla di lasciarmi in pace. La solitudine non è un prezzo abbastanza alto da pagare per le sofferenze che sto causando? Cosa vuole ancora il Pianeta da me?

Mi accorgo di essere crudele, alimentando sciocche speranze racchiuse nel suo cuore solitario; mi accorgo che, continuando a tornare, lo distruggo un pezzo alla volta; mi accorgo che lui si è rassegnato al suo destino di solitudine.
Ma io no. Non accetto che il mio destino sia veicolato da altri, nemmeno dal Pianeta stesso.
Con questa convinzione nel cuore, mi dirigo rapidamente verso di lui. Alzo le braccia e mi spingo con la punta dei piedi, così da raggiungere il suo collo.
E’ così alto, penso.
Faccio leva e dirigo la sua testa verso il basso. Non incontro nessuna resistenza: non saprei dire se sia sorpreso o stia assecondando il nostro desiderio.
Appena le nostre labbra si toccano, una frenesia da troppo a lungo trattenuta esplode, impadronendosi dei nostri corpi: entrambi aspettavamo questo momento da sei, lunghi, interminabili mesi.

Corse verso di me, una strana luce negli occhi. Mi tirò a sé. Nonostante lei sia molto più bassa di me, non le fu difficile piegarmi verso di lei. Ero senza forze, rassegnato al fatto che lei mi avrebbe usato ancora una volta. Decisi di lasciare che la passione mi consumasse, affogare il mio sincero amore nelle sue carni lussuriose, uccidere la mia dignità a ogni bacio.

Lui spalanca la bocca e la sua lingua s’insinua tra le mie labbra, rapida, inaspettata, prepotente. Le sue mani mi artigliano decise e mi stringono a lui. Dimenticavo quanto forte potesse essere e di quanto mi piacesse il dolce dolore impresso dalla sua passione repressa. Mi solleva con una facilità disarmante e si getta contro la parete più vicina, facendo cozzare la mia schiena contro il legno. Rimango per un momento senza fiato, schiacciata tra lo stipite e il suo corpo, ma lui continua imperterrito, sfilando uno per uno i lacci del mio kimono con movimenti precisi, esperti, veloci. Come i suoi baci che, voraci, stanno divorando il mio collo.
Avvertire... avvertire il suo respiro affannato, il galoppare impetuoso del suo cuore, la forza rassicurante dei suoi muscoli, il profumo penetrante della sua pelle.
Guardare… guardare i suoi occhi colmi di passione, l’espressione maliziosa e concentrata distorcere i suoi lineamenti perfetti, le sue labbra arrossate dal sangue che scorre impazzito nelle vene, i suoi capelli argentati venire stravolti dalle mie mani.
Sentire… sentire il suo intero essere vibrare di un’ energia primordiale, la turgida promessa di vita, la sua presenza in ogni parte di me.
Rispondere... rispondere al richiamo dell’esistenza, al suo tocco, al suo desiderio, ai suoi baci.
Vivere… vivere il momento. Con lui. Uniti per sempre.
-Ti amo…-, proferisco, tra gemiti e sospiri.
Sono parole che mi tengo dentro da troppo tempo, a cui non ho dato giustizia sei mesi prima. Ma ora sono esplose dalle mie labbra e il loro dolce suono sembra irrompere per tutta la città, sebbene siano solo un sussurro.
Lui si ferma e mi fissa. Un’intricata rete di sensazioni si agitano in quelle pupille innaturalmente allungate. Le trovo così affascinanti, così particolari; eppure terrorizzano gli uomini più della morte. Sephiroth si puntella con le braccia al pavimento e solleva il busto nudo, mortalmente denutrito e massacrato da troppe nuove cicatrici. Non c’è spettacolo più bello e perfetto, tuttavia.
Incrocio il suo sguardo. Tutta la passione ostentata si è spenta. Mi osserva in silenzio, un’espressione indecifrabile sul viso. Allungo la mano verso la sua guancia scarna e la accarezzo delicatamente. Lui non cerca, né allontana quel gesto; la sua freddezza, tuttavia, mi preoccupa.

‘Ti amo’, he detto. Nel momento più alto dell’amplesso, lei ha dichiarato di amarmi. Non so perché, però, quel pensiero non mi rallegrò come avrebbe dovuto; anzi mi spaventò a morte. Aveva deciso di legarsi definitivamente a me, di condividere ogni cosa, di conoscermi fino in fondo. Non ero mai arrivato a questo punto in una relazione. Improvvisamente, mi resi conto che presto, troppo presto, mi sarei dovuto scoprire, confessarle ogni mio segreto, mostrarle il lato più profondo e oscuro del mio essere. Ogni mia sicurezza crollò: non ero pronto per un passo così grande. Aprirmi, parlarle del demone, dei mei incubi, degli atti orribili che ho compiuto, delle sconfitte, degli abusi, degli esperimenti… il peso di tutte quelle esperienze divenne di colpo intollerabile. Il terrore s’impossessò di me, insinuato attraverso un solo unico pensiero: se saprà chi sono, la perderò.

-Tutto bene?-, chiedo, nascondendo la mia inquietudine dietro alla dolcezza.
-Hai detto che mi ami…-, constata, dopo qualche altro secondo di silenzio.
Noto una strana sfumatura nella sua voce. Che sia… paura?
Sollevo il busto anch’io, puntellandomi con il gomito e continuando ad accarezzargli il viso. Lo studio qualche istante da vicino. Sebbene non voglia darmelo a vedere, posso avvertire la sua angoscia, attraverso il battito accelerato del suo cuore, la sovente contrazione della mascella, la rapida pulsazione del suo petto.
-Di cosa hai paura?-, domando, guardandolo dritto negli occhi.

Ma lei sapeva già tutto. Aveva colto i miei tormenti fin dall’inizio. Lei non mi guarda, mi vede, comprende ogni mossa, ogni guizzo, ogni cambio di espressione come se le stessi spiegando per filo e per segno cosa mi sta passando per la testa. Non ho bisogno di parlarle, lei mi capisce con un solo sguardo. Appena realizzai questa verità, ogni mia difesa crollò. E lasciai che tutto il male che mi ero tenuto dentro per così tanti anni fluisse verso l’esterno. Non ho memoria dell’ultima volta che piansi così tanto. Credo di non averlo mai fatto…

S’irrigidisce. Apre la bocca per ribattere, ma non proferisce nessun suono; anzi, sembra rendersi conto solo ora di chi ha davanti. Vedo il ghiaccio nei suoi occhi spezzarsi, liberare tutti i timori, tutta la rabbia, tutta la frustrazione, tutta la tristezza che da troppo tempo gravavano sul suo cuore.
Abbassa la testa: non vuole che lo veda in quello stato pietoso.
Mi afferra la mia mano e la stringe con forza: ha bisogno di aggrapparsi disperatamente a qualcosa per non crollare.
Io ricambio la stretta: sarò il suo sostegno, qualunque cosa accada.
Sfilo da sotto di lui, piego le gambe sotto al mio corpo, gravando sulle ginocchia. Lo accolgo dolcemente tra le mie braccia e lascio che poggi la sua testa sulla mia spalla. Le sue lacrime calde mi bagnano la pelle.
-Io sono un mostro.-, afferma, improvvisamente, tra i singhiozzi.
Sospiro profondamente.
-Mio dolce Generale… per troppo tempo ti hanno chiesto di essere forte, perfetto… divino. Nessuno si è mai reso conto di quanto tu sia fragile e… umano. Il vero mostro è colui che ti ha fatto questo.-
Gli accarezzo una di quelle raccapriccianti cicatrici, la quale solca la sua schiena da un fianco all’altro, senza interruzioni, spietata e diretta. Posso quasi sentire la forza impressa in quel colpo e il dolore derivato. E lui lo affrontato senza dire una parola, posso scommetterci.
Sephiroth alza gli occhi e lo lascia vagare la sua attenzione per la stanza, fino a quando non incontra il riflesso della Masamune. Fa una smorfia di disgusto e si volta verso di me. Il suo sguardo è colpevole.
-Ho distrutto il tuo popolo, le tue tradizioni, la tua cultura. Tutto.-
-La Shinra ha voluto questo. Non tu.-
-Ti ho consegnata a quell’uomo, permettendogli di farti questo.-
Accarezza le impronte nerastre delle dita grassocce del Presidente che spiccano sui miei avambracci. L’ira agita il riflesso mako dei suoi occhi. Scaccio l’immagine di quell’uomo sovrastarmi con insensata brutalità inaudita e mi concentro sul Generale.
-Arriverà il giorno in cui quella gente pagherà per le sofferenze che hanno causato. Ora possiamo solo resistere, sostenendoci l’un l’altra.-
Per la prima volta, in questa serata, Sephiroth si apre in un sorriso. E’ triste e un po’ sghembo, ma rappresenta un grande passo per uno come lui.
-Non c’è niente che possa portarti a odiarmi?-
Mi lascio scappare una piccola risata sommessa e fingo di ponderare le sue parole seriamente. Lo squadro da cima a fondo, inebriandomi nella sua assoluta, sofferta, perfezione. Guardo quel corpo vigoroso, pieno di un’energia travolgente e venefica, la quale è la chiave della sua forza inumana e della sua incredibile resistenza.
La sua maledizione.
Malnutrito, torturato, umiliato, eppure si erge con fierezza di fronte a me, in barba alle privazioni subite.
La sua benedizione.
-No, nulla.-, rispondo sorridendogli.
Lui finalmente fa apparire quell’arco tanto amato, mostrando la dentatura bianchissima. Una nuova luce illumina il suo sguardo: speranza. E felicità, quella vera, quella tanto agognata. Rivolta l’abbraccio, stringendomi contro al suo petto, e mi sussurra quelle splendide parole.
-Ti amo anch’io, Sakura.-
-Non voglio che tu mi chiami con quel nome fasullo.-, dico, stringendo i pugni, per arginare l’odio che provo per quell’appellativo.
La mia prigione, la mia seconda, detestata, falsa, identità. Io non sono quella geisha perfetta e spietata, io sono ben altro. E lui imparerà a conoscere la vera me.
-E come ti chiami in realtà?-
-Evelyn.-

Mi irrigidii. Non potevo credere di aver sentito QUEL nome proferito dalle sue labbra. Le ho chiesto di ripetermelo, pregando tutti gli Dei possibili di aver capito male, ma lei ha confermato i miei dubbi, inconsapevole. E’ stato una pugnalata al cuore, sapere che lei, la donna che ho imparato ad amare nonostante tutto il mondo sia contro di noi, porti il nome di quel peccato. L’immagine terrificante del corpo senza vita di quell’infermiera mi attraversò la mente come un lampo, rivoltandomi lo stomaco. Per un attimo mi sembrò di ritornare in quello stanzino maledetto, con il sangue raggrumato che mi sporcava le mani, le orbite vuote di quella donna fissare il nulla e la bocca spalancata in un grido sordo e agghiacciante. Mi sentì crollare di nuovo, ma, stavolta, a sostenermi, non c’era la Bestia, bensì Saku..., anzi Evelyn. Mi ha stretto le braccia e ha continuato a supportarmi, nonostante pesi il triplo di lei. E’ la donna più forte che abbia mai conosciuto. E la più determinata. Nessuna si era mai prodigata in questo modo per me. Nessuna mi aveva mai compreso così profondamente. Nessuna mi aveva mai considerato un semplice, normale, ordinario uomo.
E’ un fiore prezioso che proteggerò a ogni costo e non ci sarà Presidente o Imperatore capace di portarmela via.

Nessuno!

E anche questo giro ce la faaaaaaaa! Salve a tutti! Naturalmente, io finisco di scrivere a un orario indecente questo capitolo mooooooooolto particolare. Vedo facce perplesse tra di voi. Tranquilli, ora spiego tutto, ma prima una piccola informazione di servizio. Vi ricordate il disegno che pubblicai nel terzo capitolo, quando Cloud entrò in contatto per la prima volta con la nostra Sakura/Evelyn? Ebbene, scordatevelo. Quando riuscirò a trovare il tempo e, soprattutto la voglia, lo colorerò e modificherò anche la descrizione, perché, come avete potuto capire dalla visione di Cloud, il luogo non è più un mare sconfinato, ma un lago tra le montagne. E poi Evelyn, in quel disegno non è resa come vorrei. In questo è decisamente meglio, anche perché assomiglia di più al modello che avevo in mente, che è quello di Hatsumomo di ‘Memorie di una geisha’. So che magari non sta simpatica a tutte, ma io adoro quella donna e la trovo bellissima. Io sono l’autrice a faccio quello che voglio, ecco XD!
Cooooooooomq, la storia inizia a farsi incasinata, eh? Perfino Aerith ci si mette ora! Ma la nostra Evelyn la fronteggia difendendo il suo uomo a spada tratta! Taci fioraia da strapazzo, BUAHAHAHAHAHAH! *ma che ti ho fatto T.T, nda Aerith*
No, aspetta che? Ma nel diario non c’è la Bestia? Che c’entra Evelyn adesso *.*? Eh sì, signori miei, la nostra bella geisha non è una persona del tutto normale, me credo che i più svegli se ne siano accorti. Dai, so che ce la potete fare! Come volevasi dimostrare, ella interferisce pure nella lettura, spiegando il suo punto di vista. Una piccola chicca sperimentale che spero apprezziate. Volevo approfondirla di più e, siccome fare 30000 appendici di Bassai dai (anche perché i kata dello Shotokan sono 26), ho escogitato questo trucchetto che verrà spiegato meglio nel prossimo capitolo dal nostro chokobo-medium.
Alla prossima!
Besos

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Capitolo 17
*** Alleati ***


>Hai. Tre. Nuovi. Messaggi. <

>Messaggio. Numero. Uno.<*bip*

-Ehi, Cloud! Sono Reeve. Meno male che avevi iniziato a rispondere al telefono da un bel po’, eh? Beh, spero che tu sia impegnato con qualcosa di più importante. Comunque, ti chiamavo per ricordarti di consegnare ‘quel pacco’ al mio amico di Modeoheim. Le nevi sono ormai sciolte e lui è molto impaziente di averlo tra le mani. Ok, ci sentiamo, stammi bene!-

 Emetto uno sbuffo mestamente divertito: avevo dimenticato l’inizio di questa storia. Pensare che questo diario sarebbe dovuto rimanere rinchiuso nel mio cassetto per settimane mi fa morire dal ridere. Meglio di piangere, comunque. Nemmeno ricordo l’ultima volta in cui ho passato una giornata “normale”. Sembrano passati secoli. Ciò che credevo normalità era solo una mera illusione. Il respiro profondo prima di un lungo salto verso l’oblio. Non so più chi sono, ormai. Ho creduto di essere un SOLDIER di Prima Classe, ho creduto di essere un peccatore, ho creduto di essere un redento,  ho creduto di essere un uomo normale… Ma ora? Ora chi sono io? Ho tanti ricordi, ricordi alieni, che mi si affollano nella mente. Frasi che non ho mai detto, azioni che non ho mai fatto, paesaggi che non ho mai visto; eppure eccoli qui, a tormentarmi. Non so più nemmeno chi è che controlla chi. Evelyn, Sephiroth, Jenova, il Pianeta… Aerith?
Io… io non so più niente. Ciò che credevo essere fatti appurati, questo diario gli ha sradicati e maciullati. Ormai, l’unica cosa certa a mia disposizione sono le visioni, le quali diventano ogni giorno più nitide e dettagliate. E più dolorose. E’ così travolgente e immenso questo senso di vuoto e solitudine che non riesco più a sopportarne l’esistenza. Mi viene quasi voglia di staccarmi il cuore dal petto, pur di levare queste lame che lo trafiggono, ogni giorno, sempre più in profondità. Devo trovare il modo di farle smettere; non solo per la sofferenza che mi instillano, ma anche perché sento che è la strada giusta da imboccare. E’ un desiderio antico che guida le mie azioni, il quale non sono in grado di fermare.

 >Messaggio. Numero. Due< *bip*

-Cloud… Dove sei finito? Perché non rispondi più al telefono? Ti prego, Cloud, richiamami…-

 Rimango immobile, in attesa dell’ultimo messaggio. Mi concentro sul mio respiro, nel tentativo di arginare il fiume di emozioni scatenate dal tono preoccupato di Tifa. Lei è l’unica a risvegliare il mio fiacco io, messo in scacco da volontà molto più potenti e determinate. Ma ho fatto la mia scelta, da cui è impossibile tornare indietro.

 >Messaggio. Numero. Tre.< *bip*

Silenzio… Per lunghi istanti avverto solo il rumore di sottofondo di una chiamata muta, tanto da indurmi a pensare che si tratti di un errore. Improvvisamente, un profondo sospiro e un singhiozzo rompono la calma.
-Perché te ne sei andato? Perché non vuoi affrontare i problemi assieme a me? Se credi che così facendo mi farai meno soffrire, ti sbagli. Non c’è nulla di peggio che rimanere nell’ignoranza. E io sono stanca di essere sempre messa da parte. Non credo di meritarlo.-
Un momento di pausa. Posso immaginare Tifa passarsi la mano sul viso nel misero tentativo di arginare le lacrime. Non ci riesce. La sua voce è spezzata dal pianto, anche se vorrebbe sembrare ferma, come se le parole che sta per pronunciare facciano più male a lei che a me.
-Ti do 24 ore, Cloud. Se non sarai a casa ad affrontare le tue responsabilità…-
Sospira profondamente per prendere coraggio, mentre io comprendo l’enormità delle parole che sta per sentenziare.
-Puoi anche non presentarti.- >click<

>Non. Ci. Sono. Nuovi. Messaggi.< *bip*

 Lapidario. Esattamente come una condanna.
Allontano il dispositivo dall’orecchio e osservo il display. C’è una foto di me e Tifa insieme come sfondo, appartenente ad un lontano tentativo di costruire una vita normale. Ma ho appena scoperto che la mia vita non sarà MAI normale. Almeno, non finché un amore interrotto barbaricamente da un Pianeta spietato riceva la sua fetta di giustizia, poi chissà… chissà cosa rimarrà di me alla fine di questa storia. Non saprei dire se mi sto dirigendo a capofitto verso un baratro o l’agognata redenzione. Ora come ora, propendo per la prima ipotesi…
Chiudo il telefono con uno scatto e me lo metto in tasca. La mia mano permane qualche istante di troppo in quella fessura, rischiando di essere vinta dall’impulso di comporre quel numero e tornare indietro. Poi, un delicato tocco di seta mi avvolge il polso, inducendomi a sfilare, titubante, l’arto dalla tasca. Avverto le mie dita venire avvolte da altre molto più sottili e delicate. La loro dolcezza spezza la mia resistenza e mi lascio stringere il pugno. Alzo lo sguardo, ma incrocio solo la desolante bruma mattutina calante sulle gelide e scivolose strade di Kalm.
Nessuno.
Sospiro e canalizzo l’attenzione sull’ultimo piano del palazzo di fronte a me. Scruto la finestra centrale nel tentativo di scorgere qualche movimento all’interno dell’appartamento, ma, da quaggiù, non vedo altro che finestre scure, le quali non significano necessariamente che il proprietario non sia in casa. Per questo motivo, scendo da Fenrir, diretto verso il portone del palazzo. Noto con sorpresa che è stato lasciato socchiuso. Mi scappa uno sbuffo divertito.
Difficile prenderlo alla sprovvista, penso.
Il pianerottolo che mi si presenta è semibuio, tagliato in due da uno spietato fascio di luce bianca proveniente dalla finestra in fondo alla stanza. La polvere danza impazzita all’interno di quel coltello luminoso, sollevandosi dal pavimento ormai lurido. Dev’essere da parecchio che la portinaia non si fa viva… Chiudo la porta e mi dirigo verso le scale appena lambite dalla scarsa illuminazione filtrante dai lucernari. Mano a mano che avanzo, mi guardo attorno e noto i lampadari distrutti, mentre le porte dei vari appartamenti sono chiodate da assi incrociate o, addirittura, sfondate. La carta da parati è stata divelta, rivelando pareti crepate e ammuffite. In alcuni punti sono state pure ammantate dal fuoco e dal sangue. Sangue e distruzione: la firma inequivocabile di Deepground.
Raggiungo l’ultimo piano e non mi sorprendo constatare che l’unica porta ancora intatta sia spalancata, come chiaro invito ad entrare. Varco l’uscio. Non ho mai visitato questa casa, eppure l’impronta del suo proprietario è inequivocabile ed è esattamente come me la immaginavo: essenziale, oscura e impersonale. Aggiungerei anche vuota e triste, se non fosse per il sole che ha iniziato a fare capolino dalla grande finestra a parete della sala. La luce irrompe prepotentemente all’interno del monolocale, ferendomi quasi gli occhi e non posso fare a meno di essere, per un momento, trasportato in una città a migliaia di chilometri da qui, in un tempo molto remoto, durante un’antica guerra.
-Sei arrivato.-
La voce dura e baritonale di Vincent mi riporta alla realtà. Svetta silenzioso e imperturbabile al di sotto dello stipite che introduce alla camera da letto; il mantello a nascondere la sua figura dietro a una cascata di sangue, il capello corvino calato sul viso per celarne l’espressione, eccezion fatta per i suoi occhi, i quali, penetranti, mi scrutano fin dentro all’anima. Solitamente il suo sguardo era sempre in grado di mettermi in soggezione, ma oggi io lo sostengo con una facilità e un’intensità che mai avrei pensato di avere.
Sei così determinata?
-Ti aspettavi che arrivassi fino a questo punto?-
-No, mi aspettavo che arrivassi in questo stato.-
Ridacchio. Sempre il solito rude, Vincent Valentine. Egli ignora la mia ilarità e se ne ritorna nella camera da letto. Anche se sembra più un loculo, se posso dirla tutta. Stretto e impolverato, pieno di ragnatele che scendono dal soffitto, assomiglia molto al luogo in cui lo trovammo, nei sotterranei della Shinra Masion. L’unica cosa che lo differenzia da quell’antro degli orrori sono le finestre, da cui la luce entra senza freni. Noto, infatti, che i vetri sono l’unica cosa veramente pulita in questa casa. Lo osservo mentre si siede sul letto, gamba piegata e artiglio appoggiato sopra al ginocchio, a scrutare le strade di Kalm. Non posso fare a meno di sovrapporre questa figura a quella che Evelyn mi ha impresso durante la sua ultima incursione nella mia testa, e mi rendo conto che, effettivamente, questi due uomini sono molto simili tra loro. Insondabili e nostalgici, entrambi hanno osservato lo svolgersi degli eventi da dietro una fragile parete fatta di illusioni e speranze. E poi, quando quel muro sottile è andato in frantumi, la loro vita è completamente crollata sotto i loro piedi.
Chissà come sarebbe stata riscritta la storia se Vincent fosse stato più risoluto?
-Allora? Hai scoperto qualcosa di più su quella donna?-
Mi è tornato alla mente per cui sono venuto sin qui, abbandonando tutto e tutti: l’ex-Turk è l’unico capace di distrarmi dai pensieri che mi si affollano prepotentemente nella mia testa, silurandomi con le sue domande senza preamboli. E’ un aiuto prezioso per far fronte alla folle impresa in cui mi sto cacciando.
-Sì, in effetti.-
Passeggio per la camera, studiandola come se fosse il luogo più interessante del mondo, ma, in realtà, sto cercando di temporeggiare, al fine di attirare la sua attenzione e dare più peso alle informazioni che ben presto gli rivelerò. Lo stratagemma funziona e avverto il suo sguardo seguirmi, trepidante. Ancora non mi è chiaro se voglia aiutarmi per proteggermi o per imparare a conoscere quel figlio che non ha mai avuto; tuttavia non posso permettermi di abbassare la guardia: in entrambe le ragioni, lui potrebbe essere da ostacolo ai NOSTRI piani.
Dannazione, perché diamine sto parlando al plurale?
-Quindi, Cloud?-
Il pistolero ha abbandonato la sua finestra e ora sta puntando me. Posso vedere un profondo sospetto agitare quelle iridi vermiglie, mentre egli mi scansiona da capo a piedi. Non è del tutto sull’attenti: probabilmente si aspettava un comportamento strano da parte mia. Sta sondando il terreno…
Meglio non scoprirsi troppo.
-Cos’è che vuoi sapere?-
-E’ viva?-
La domanda è un colpo all’anima. Avverto i coltelli affondare ancora di più nella carne. La mia mano va a chiudersi sul petto, il guanto di pelle scricchiola; così come i miei denti, serrati per trattenere un gemito di dolore. Ricordare fa dannatamente male e rivedere lo stato in cui è costretta a vagare quel disperato fantasma ancora di più. Quasi non mi accorgo dell’inflessione tesa e preoccupata impressa sulla voce di Vincent. Curioso.
-So che è morta, bruciata viva durante un incendio. Credo sia stato un duro colpo per lui. L’amava così tanto…-
Mi blocco, appena noto la reazione inaspettata del pistolero. Credevo si limitasse a mostrarsi rinfrancato nel sapere che non ci sarà nessuna fantomatica stirpe di piccoli Sephiroth a minacciare il Pianeta, ma, invece, lo vedo sbarrare gli occhi e, per quanto possibile, sbiancare. Per un momento mi faccio prendere dal panico, credendo di aver parlato con la voce di qualcun altro; fortunatamente le preoccupazioni dell’ex-Turk sono ben altre.
-Cosa ha provato esattamente? Dimmelo, Cloud!-
Vincent si alza dal letto e si precipita verso di me, come preso da una strana frenesia. Mi afferra le braccia con foga inaspettata, tanto da ferirmi la pelle con i suoi artigli. Io non reagisco al dolore, poiché sono troppo stordito dal suo stranissimo comportamento. Quelle domande pronunciate con quel tono così concitato, quell’espressione così angosciata… non è da lui perdere il controllo delle proprie emozioni in questo modo.
-Vincent, che ti prende?-
I suoi occhi s’infiammano, il suo viso è una maschera di rabbia, la sua voce sembra quasi un ringhio; tanto da farmi temere l’arrivo di Chaos da un momento all’altro.
-Dannazione! Voglio sapere cosa ha provato mio figlio! DIMMELO! ADESSO!-
Cosa?
Cosa?!
COSA?!

-T-Tuo… figlio?-
L’espressione di Vincent vira improvvisamente dall’iracondo al terrorizzato, appena realizza ciò che ha rivelato. Il fuoco nei suoi occhi si ghiaccia all’istante, la sua stretta si scioglie e si allontana incespicando nei propri passi. Avverto rigoli di sangue scendermi lungo il braccio, ma non me ne curo: tutta la mia concentrazione è diretta nel tentativo di realizzare che l’affidabile compagno di mille battaglie, l’uomo su cui ho sempre riposto una fiducia completa, il combattente capace di infondere calma e sicurezza è…
SUO padre…
Tutti noi eravamo al corrente della triste storia vissuta con la madre di Sephiroth, ma non credevo che… no, impossibile! Hojo era così convinto… No, Vincent non può aver dato vita a un mostro del genere! Mi rifiuto di crederlo! Eppure, tutto torna. La sorpresa davanti alla verità proferita dallo scienziato; il disprezzo nella sua voce, come a sottolineare un’altra tesi, un’altra verità; il suo tentennamento davanti all’impresa che gli stavamo proponendo.
Gli ho chiesto di uccidere suo figlio.
Io non riesco a dominare le mie emozioni. Da un lato avverto l’eco del più completo tradimento fare a pezzi ciò che rimane di me; dall’altro avverto un profondo sollievo dissolvere un peso enorme che da una vita gravava sul petto.
Sephiroth ora SA.
Fatico ancora a crederci, eppure, guardando Vincent con occhi completamente nuovi, noto quanto gli somigli. Stesso taglio degli occhi, stesso naso, stessi lineamenti, stessa prestanza fisica… tutto! Togliendo le contaminazioni Jenova, Sephiroth è la sua copia sputata!
Intanto, il pistolero non riesce a guardami negli occhi e crolla a terra, sopraffatto da un mare di emozioni che da troppo tempo si teneva dentro. Il flash suggerito da Evelyn di quella notte in cui vide il Generale piangere sulla sua spalla mi mette di fronte anche alle analogie del loro carattere: scorza durissima e impenetrabile fuori, ma fragili e distrutti dentro; legati al passato; portatori di segreti sconvolgenti.
-Vincent…-, proferisco, alla fine, con un filo di voce,-Perché, non…?-
-Secondo te, perché, Cloud? Pensaci un attimo! Come avrei potuto rivelare di essere il padre dell’uomo che stavate andando ad uccidere?-
-Avresti potuto farti da parte. Dire che non eri interessato a…-
-A salvare il Pianeta?-
Mi zittisco. Vincent mi guarda con uno sguardo fin troppo famigliare, il quale mi suscita una disagiante soggezione. Lo stesso, identico sguardo severo che Sephiroth rivolgeva ai noi fanti, quando combinavamo casini durante le missioni. Nessuno degli spiriti che mi tormentano si fa avanti per fronteggiare quell’occhiata, come se nutrissero un profondo rispetto per quest’uomo. Mi hanno lasciato completamente solo. Mi ero così abituato al loro sostegno da sentirmi completamente vulnerabile senza. Non posso far altro che rispondere come ho sempre fatto di fronte a occhi del genere: abbassare lo sguardo sulle scarpe e scusarmi per la mia stupidità.
-Hai ragione… Scusami.-
Lo sento sospirare pesantemente. La voce ha ripreso la sua inflessione neutra e calma.
-No, scusami tu. Avrei dovuto essere franco sin dall’inizio, probabilmente.-
Lo osservo rialzarsi con movimenti fluidi e misurati. Rivedo il solito Vincent, anche se mi sarà difficile accettare la sua vera identità; ma, effettivamente, egli è davvero l’unico ad avere il diritto di aiutare Sephiroth ed Evelyn.
Questo diario è caduto nelle mani sbagliate, temo.
Nel frattempo che vago con i miei pensieri, il moro si avvia verso la cucina e inizia ad armeggiare con le ante. Lo vedo prendere delle tazze, un bollitore e delle bustine d’infusi. Appoggia tutto sul piano di lavoro, dopodiché afferra il bollitore e lo inizia di riempire con acqua di rubinetto.
Ha ragione, ammetto, meglio rilassarsi un attimo; per cui mi vado a sedere su una delle sedie in salotto. Rimaniamo in silenzio, ognuno perso nei suoi pensieri, mentre lui prepara uno dei suoi strani intrugli.
-Dal momento che siamo in vena di rivelazioni-, esordisce, versando il liquido nelle tazze,- devo confidarti che ho letto qualche pagina, mentre eri in coma all’ospedale. Camomilla?-
O forse no…

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E’ quasi mezzogiorno, quando finisco il mio racconto. Vincent non ha quasi proferito parola, se non per qualche sporadica domanda nei passaggi più ostici. Non credo di averlo mai visto così interessato a una conversazione, almeno non direttamente. Tiene davvero tanto a quel figlio che è stato costretto a conoscere nel suo aspetto peggiore. Ora comprendo realmente quanto è stata dura per Vincent vedersi coinvolto in un conflitto del genere: vedere Sephiroth, braccato e disprezzato, solo e disperato battersi fino alla morte, alla stregua di una bestia feroce ferita, per la propria sopravvivenza. Dev’essere stato un colpo devastante per un padre che avrebbe voluto solo stringere il proprio figlio a sé e portarlo al sicuro. Lui aveva ancora impresso nella mente quel pancione tondeggiante che di tanto in tanto scalciava, come unica fonte di felicità per una donna stroncata da una gravidanza sbagliata e la solitudine creata dai suoi errori. Egli soffre solo sentir parlare della triste vita a cui quella bestia di Hojo ha costretto a vivere quel povero ragazzo. Quella vita che avrebbe potuto salvare.
Improvvisamente, un senso di realizzazione s’insinua nella mia mente, trovando nell’apparente insensato sadismo dello scienziato una spiegazione terribile quanto ovvia: vendetta. Siccome non poteva punire i genitori per l’onta subita, quel folle fece ricadere ogni castigo sul bambino. Uccidere Vincent e distruggere Lucrecia non era abbastanza per quell’insulso essere, voleva che soffrissero a oltranza attraverso la loro prole; nascondendo il suo vero intento dietro alle necessità di trasformare quel bambino in una macchina senza cuore. Ma Sephiroth, di cuore, ne aveva da vendere e anni di sottomissioni e umiliazioni non sono bastati a offuscarlo. Solo Evelyn è riuscita a strapparglielo dal petto, con la sua solita dolcezza, per poi riempirlo con qualcosa di completamente contrapposto all’odio. Quell’amore permane ancora, tanto che lei non si è abbandonata al Lifestream, ma è rimasta in questo mondo, legata alle memorie dell’uomo che ha amato, e lì ha atteso. Atteso me per tutti questi anni. Chissà perché proprio il suo nemico mortale, poi…
-Devo sapere chi era lei, Vincent. Sento che questa donna è la chiave di tutto.-
-Sephiroth non ne parla nel suo diario?-
-Altroché, ma si concentra soprattutto su se stesso, scrivendo dubbi e sensazioni. La ama, ma non capisce perché, con tutte le donne che poteva avere, si è invaghito in modo così morboso. Sente che c’è qualcosa di particolare in questa donna da attirarlo come un’ape al miele.-, faccio una pausa, così da prendere un po’ di coraggio per esprimere questo dubbio che mi assilla da giorni,- So che sembra assurdo, ma… io credo che Evelyn… che questa ragazza…-
-Sia una Cetra?-, completa Vincent per me con un tono che non lascia repliche.
Rimango per un attimo interdetto, poi annuisco debolmente.
-Credevo che Aerith fosse l’ultima della sua specie.-, sottolinea il pistolero.
-Tutti noi lo credevamo. Ma bisogna tenere conto che la Shinra non si è preoccupata troppo della preservazione di Wutai, quindi una Cetra particolarmente furba potrebbe essere rimasta nascosta senza troppi problemi.-
-E con tutti i SOLDIER che imperversavano per il Paese, proprio del discendente diretto di Jenova doveva innamorarsi? Un po’ troppo fortuita come coincidenza.-
Come al solito, Vincent ha centrato il punto.
-Esatto. Per questo dobbiamo saperne di più. Il diario è un aiuto prezioso, dal momento che, quando Sephiroth scrive di lei, Evelyn mi mostra il suo punto di vista.-
-Che vuoi dire?-
-Che io divento lei. Rivivo le situazioni in cui loro sono insieme. Vedo, sento e tocco come se stessi vivendo in quel momento ciò che sto leggendo. E’ difficile da capire, lo so, ma da quando ho scoperto il suo vero nome ha acquisito molta più forza e mi usa per manifestarsi.-
Vincent sta pendendo letteralmente dalle mie labbra e sembra affascinato e timoroso nello stesso tempo nel comprendere con che cosa stiamo avendo a che fare.
-Incredibile… Sei diventato una sorta di medium. Non ti pagano abbastanza a fare il postino?-
Diversamente, l’umorismo di pessimo gusto di Vincent  gli avrebbe fatto guadagnare come risposta una sequela di bestemmie, come minimo, ma, data la situazione, lo prendo come un tentativo un po’ idiota di tirarmi su il morale. Sono talmente messo male che gli rispondo a tono, perfino.
-Già, l’altra scelta era diventare addestratore di Behemoth, ma ho deciso che il mio cervello non era incasinato abbastanza.-
Già, molto male…
Ridacchiamo. Siamo due imbecilli, ma almeno l’atmosfera si è un po’ alleggerita, così da riacquistare un po’ di fiducia.
-Sai,-esordisce Vincent, ritornando serio,- non ho letto molto su di lui, ma capisco perché la sua donna ha scelto proprio te per aiutarli.-
Io lo osservo con aria interrogativa.
-Ho visto molto di te in lui. So che potresti interpretarlo come un’offesa, ma, ti prego, non farlo. Sephiroth ha fatto cose orribili, è vero, ma è stata una naturale conseguenza della sua solitudine a trasformarlo nel mostro sanguinario che conosciamo. Quella “Bestia”… è stata lei a ucciderlo.-
-Ti sbagli.-
Prendo la foto di Evelyn e la fisso per qualche istante. Con angoscia, la mia mente ritorna sull’autostrada di Edge, sotto alla pioggia più dolorosa che abbia mai solcato la mia pelle.
Era così bella…
Arsa viva, devastata, ridotta in cenere…
Non doveva rimanere nulla di lei.
“Qualcosa gli aveva svuotato l’animo fino al midollo.”

-Secondo te chi è stato, allora?-
-La morte di lei-, rivolgo la foto nella sua direzione, assumendo l’espressione più determinata che ho,- E’ stata la sua rovina. Per questo devo sapere cosa le è successo esattamente. Per questo io e te andremo in Wutai.-

 

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23 Dicembre XXXX

 Un altro Natale è alle porte, mentre la fine della guerra ancora fatica ad arrivare. I fanatici rimasti sono di un numero esiguo, eppure fastidioso. Sono più difficili da identificare e stanno trasformando questo conflitto in una guerriglia del terrore. Alcune cellule arrivano addirittura oltreoceano, aiutati da nascenti organizzazioni anti-ShinRa , celate dietro alla facciata del filoambientalista. Durante il clou della guerra, queste ultime si limitavano a proteste in piazza contro lo sfruttamento del mako e marce pacifiste, ma ora stanno acquisendo sempre più potere, grazie all’assoldamento di una fetta sempre più consistente di una popolazione malcontenta e stremata dai continui conflitti. Ho sentito anche che molti ex-soldati della Compagnia hanno disertato e si sono uniti a queste organizzazioni, portando loro armi, tanto da trasformarle in gruppi terroristici. Mi è giunta voce che una in particolare sta mettendo in seria difficoltà l’esercito regolare della Compagnia: la chiamano AVALANCHE. Secondo i rapporti, inviatomi come informazione preventiva per volere del Presidente, questa organizzazione si è sviluppata nei sobborghi di Corel e si è fatta avanti fino alle porte di Midgar. Lì hanno trovato il supporto della popolazione degli Slums, da sempre nemici giurati della Shinra.
I Bassifondi… la rappresentazione perfetta della sua controparte superiore. Lurido, povero, marcio, infettato fino al midollo da odio e risentimento. Un luogo in cui gli uomini diventano perfino peggio degli animali pur di sopravvivere tra quelle lamiere arrugginite e pattume decomposto. E’ l’unico luogo semi-civilizzato in cui vigono le leggi della natura. L’altro è il campo di battaglia. Prostituzione, case d’azzardo, spaccio di droga, disordini civili, lavoro infantile, analfabetismo, guerre tra gang… e potrei continuare per pagine e pagine, tanto è il lerciume di cui è impregnato il cuore degli abitanti. E’ un postaccio in cui vivere ed è uno dei pochi luoghi in cui perfino un SOLDIER del mio lignaggio rischia la pelle. Se non avessi le capacità che ho sicuramente non ne uscirei vivo tutte le volte da quel girone dell’Inferno. Ho visto morire tanti commilitoni laggiù, durante i disordini. La gente dei Bassifondi non ha nulla da perdere e arriva a infischiarsene della propria vita, fino a gettarsi a capofitto su soldati addestrati a uccidere. La loro follia… no, la loro disperata follia rende quelle persone invincibili.
Una di quelle mischie fu la mia prima missione. Ero solo un quattordicenne, fresco di investitura, ma ciò che vidi e provai quel giorno mi segnò nel profondo. Doveva essere una spedizione punitiva, atta a sedare delle teste troppo calde per essere spente con la diplomazia. Serviva un lavoro rapido e pulito, prima che altri infervorati  si unissero alla causa. Eravamo una piccola squadra, formata per lo più da novellini. Il Capitano dell’operazione, tale Jim Sanders, ci aveva assicurato sulla facilità dell’operazione e che sarebbe stata un’ottima occasione per farsi le ossa. Quanto si sbagliava. Difficilmente dimenticherò il suo cranio venire trapassato da parte a parte da un calibro 12. Non se ne accorse nemmeno di essere morto, probabilmente. Fortunato.
Quei bifolchi ci tesero un’imboscata, usando la nostra stessa sicurezza come trappola. Credere di vincere un confronto quando il nemico spara da una posizione sopraelevata e circonda la posizione, è da folli. O da idioti completi. Spuntavano fuori da ogni anfratto tra le lamiere e ci vomitavano addosso tonnellate di piombo. Sembrava una pioggia di mezza estate: spietata, fitta, perforante. Fu uno spettacolo incredibile. Ricordo che il tempo si dilatò, permettendomi di saggiare ogni minima sfumatura di quei brevi, importantissimi istanti. Vedevo i miei commilitoni cadere sotto il fuoco nemico, venire colpiti in più parti del corpo dieci, cento, mille volte; il sangue spillare dalle vene in perfette tondeggianti gocce vermiglie; la nebbia creata dalle armi nemiche ammantare il mondo con la sua incandescente coperta; il colpi fiammeggiare al di là della bruma, simili a tanti lampi rossi, seguito subito dopo dai rimbombi martellanti degli spari. E, infine, come funereo sottofondo, urla. Urla di morte. Disperate, terrificanti, piene di dolore e rimpianti. Qualcosa che si può ascoltare fino alla nausea, ma che ogni volta trafiggono ogni singola, insignificante cellula del corpo come migliaia di aghi acuminati. E’ possibile percepire i loro gelidi corpi penetrare lentamente nella pelle, nel cervello, nei muscoli… Si avverte l’organismo reagire di conseguenza: il cuore galoppa impazzito, i polmoni si occludono, la vescica si spalanca. Si hanno pochi secondi in cui ritrovare un minimo di reazione, dopodiché sopraggiunge il panico. Quello che non lascia scampo, quello che uccide. Un tanfo paralizzante, insormontabile, fatale, che ammanta gambe e braccia, impedendo loro, le uniche fonti di salvezza, di muoversi. Rimani immobile, nel tuo stesso liquame, a osservare inerme la Morte calare la sua falce su ogni pezzo di carne che esplode in mille pezzi. E preghi di non essere tu il prossimo.
Ricordo che, in quei secondi, ebbi la freddezza di abbassarmi, per poi immobilizzarmi  per un tempo in parvenza infinito; nel frattempo che  corpi su corpi mi cadevano addosso, il sangue m’inzuppava da capo a piedi e migliaia di proiettili mi sibilavano a pochi millimetri dalla testa. Ero paralizzato dal terrore. Tutte le nozioni, tutti gli addestramenti che mi avevano inculcato fin da quando avevo memoria, si volatilizzarono. Non assomigliava a nessuna delle situazioni a cui ero abituato. Ci avevano fatto credere che le battaglie simulate rendessero un’idea precisa di quello che si sarebbe andati ad affrontare nella realtà, ma non è affatto così. C’è una cosa che non è possibile simulare, ma che in una vera schermaglia ne forma le fondamenta stesse: la morte. Accorgersi di essere dannatamente inadatti alla situazione, impotenti davanti alla furia nemica, vulnerabili e mortali, ti uccide prima ancora che lo facciano i proiettili avversari.  Giurai di non provare mai più sensazioni del genere. E che non sarei morto in quel buco schifoso. La Bestia accolse famelica la mia richiesta, risvegliandosi dopo mesi di sfibrante clausura. Di ciò che accadde dopo, ho ricordi molto confusi. So soltanto di essermi accanito così tenacemente contro i rivoltosi da ribaltare la situazione e ridonare coraggio ai pochi membri rimanenti della mia squadra. Dopo poco, arrivò il team di supporto a darci man forte. Una manna dal cielo, inneggiarono alcuni.
I ricordi si fanno bruscamente più nitidi nel momento in cui infilzai l’ultima vittima di quel giorno. Il primo aspetto che rimembro sono due grandi occhi blu, i quali mi fissano sgranati. Poi la visione di allarga, permettendomi di vedere la totalità del viso. La prima caratteristica che mi salta subito all’occhio sono i lineamenti. Noto con orrore quanto siano acerbi, tondeggianti, sgraziati… giovanili. Un ragazzino. Le efelidi sono il secondo aspetto che attirano la mia attenzione. Esse punteggiano buona parte di quella pelle bianca col loro colorito rossastro. Rossastro come il ciuffo d’ispidi capelli che spuntano dal cappellino blu, simile alle sue iridi. Non è bello, constato: ha la faccia larga che lo fa sembrare un rospo; il naso sproporzionatamente piccolo e le orecchie a sventola incredibilmente grandi. Infine, la visuale scende verso la bocca. Larga, come la faccia, le labbra sottili, i denti sporgenti colorati di rosso.  In quel momento colgo il terzo aspetto: saliva mista a sangue cola attraverso quelle labbra assottigliate e le ampie fessure tra i denti cavallini. Seguo i rivoli di liquido vermiglio colare verso il mento, lungo il collo, giù verso il centro del torace. Ed è lì che la vedo: la mia spada. Conficcata fino all’elsa nel suo cuore. Una nuova ondata di panico va a bloccare le mie dita, impedendo loro di staccarmi da quell’orrore, come a sottolineare la mia colpa. Ad un certo punto, la sua mano si appoggia sulla lama, svegliandomi dal torpore in cui ero caduto. Alzo lo sguardo alla ricerca dei suoi occhi, ma essi sono rivolti in direzione della ferita al petto. Tossisce e sputa altro sangue; dopodiché raggiunge il mio sguardo. Non vedo rabbia nelle sue iridi, né odio; ma il perfetto specchio dei miei: orrore, paura, sogni infranti, infanzia spezzata. Entrambi ansimiamo, immobili come se un singolo movimento possa compromettere il precario equilibrio in cui ci troviamo. Ad un certo punto, le sue mani si artigliano alle mie braccia con una stretta disperata. E’ più gracile e basso di me, ma ha la forza di frantumarmi in migliaia di pezzi. Leggo nei suoi occhi l’implicita richiesta di aiuto. Essa mi spezza il cuore e devasta l’anima.

Gli ho trafitto il cuore, inizio a pensare.
Non c’è speranza di salvarlo.
E’ morto.
IO l’ho ucciso, è l’ultimo pensiero lucido che riesco a concepire.
“Mi dispiace.”, gli dico. Vedo la speranza svanire e i suoi occhi velarsi, mentre la sua forza si affievolisce sempre di più. Ossessivamente, comincio a ripetere quelle due parole, mentre la sua vita scivola via dalle mie mani. Lentamente si accascia. Non crolla solo perché io lo sorreggo con la mano libera e la spada. Avverto le lacrime scendere dalle guance.
Mi dispiace, mi dispiace, mi dispiacemidispiacemidispiacemidispiacemidispiacemidispiace…
Continuo a ripeterlo anche quando lui è inginocchiato ai miei piedi e fissarmi con quelle angoscianti orbite vuote. Le gambe mi cedono e crolliamo a terra. Io in ginocchio e lui riverso. Quella maledetta spada conficcata nel suo dannato cuore.
Urlo.
Un urlo disperato, inconsolabile… e rabbioso.
Lo stesso urlo che emetto durante gli incubi a una decina di anni di distanza.
Non ho mai saputo come si chiamasse quel ragazzino, ma so bene cosa raffigura nel grande disegno che il destino crudele e beffardo ha creato apposta per me: la morte della mia orrida, spaventosa infanzia. Quel briciolo d’innocenza che credevo di avere è morta assieme a quel bambino, quel giorno. Negli anni successivi, mentre il mio corpo s’affannava a rimettersi in pari, la mia anima e la mia mente erano già diventate quelle di un uomo. Ora come ora, non c’è operazione capace di spaventarmi, o morte capace di fermarmi. Perfino la Bestia è arrivata a piegarsi al mio controllo, il più delle volte. La paura, tuttavia, non è completamente debellata dalla mia esistenza. Le preoccupazioni, le priorità, le esigenze sono cambiate e, con esse, i timori da esse derivate. Ho smesso di preoccuparmi per la mia persona e le mie angosce si sono rivolte verso la sfera sociale, mondo del tutto sconosciuto. Aprendomi in questa direzione, un’infinita rete di possibilità mi si è districata di fronte; tuttavia non sono in grado di gestirla. Esattamente come il giorno della mischia, mi ritrovo a osservare, immobile, la realtà evolversi rapidamente attorno a me. Sono in grado di coglierne ogni sfaccettatura, in certi casi, addirittura, sono vicino a saggiarne l’essenza; ma sono paralizzato. Ciò che osservo svanisce, devastato dai proiettili del destino. E, appena, riesco ad afferrare qualcosa, esso mi muore piano piano tra le braccia. Mi accorgo solo dopo che sono stato io a distruggerlo con le mie stesse mani. Ogni cosa che tocco, perisce. L’ho potuto constare con i fiori di Aerith, una volta. Dopo aver ucciso Evelyn, mi rifugiai alla chiesa. Avevo bisogno di sentire la sua risata innocente e cristallina, di avvertire il suo tocco delicato sulla pelle, di crogiolarmi nel suo sorriso solare. Ma lei non era lì. Iniziai a vagare per le navate in preda alla più funesta disperazione, fino a che non adocchiai il prato fiorito. Non avevo mai avuto l’ardire di avvicinarmi: una parte di me mi suggeriva di starmene lontano, anche se non ho mai ben compreso il motivo di quella spiacevole sensazione. Fino a quel giorno. Mi tolsi i guanti, altro grave errore, illudendomi che se avessi saggiato, anche per un solo attimo, il mondo della bambina, avrei trovato un po’ di pace; ma, appena la mia pelle sfiorò la corolla, il fiore si annerì e si disgregò tra le dita. Rimasi senza parole. Non potevo credere che quella pianta si fosse disintegrata con un solo tocco, quindi provai a coglierne un altro, e un altro ancora, e un altro, e un altro, e un altro…  il risultato non cambiò: tutti i fiori si trasformarono in cenere. Terrorizzato da quel raccapricciante spettacolo e dall’ironia troppo sottile del fato, impazzii e mi gettai sul prato fiorito strappando e incenerendo quanti più fiori potevo. Se dovevo essere un emissario della Morte, allora perché permettere a creature così inutili di vivere su un Pianeta che stava morendo? Mi accanii con tale rabbia da corrompere perfino il terreno su cui quelle piante crescevano. Ancora oggi, la bambina è costretto a bonificarlo, attingendo ad ogni singola goccia del suo potere per contrastare il veleno. Mi odia ancora per ciò che ho fatto, ma cerca di non dimostrarmelo, ma io so che è così. E’ difficile da credere, ma sì, lei è capace di odiare e proprio io sono riuscito a tirare fuori la sua parte peggiore.
Mi chiamò ‘mostro’. Per anni la gente mi ha additato con quell’appellativo, ma quella volta fu più dolorosa  del solito. L’unica persona in grado di rimarginare le ferite inferte da una vita maledetta, mi considerava ciò per cui lottavo ogni giorno per non diventarlo. Inutilmente, ho imparato. Forse non m’impegno abbastanza; oppure, semplicemente, non si può cambiare ciò che si è: sono nato mostro e mostro morirò, probabilmente. L’unica amara consolazione è che un mostro non è la causa dei patimenti del Pianeta, ma proprio coloro a cui cerco di assomigliare da tutta una vita: le persone normali.

Normale è meglio, dice spesso la piccola. Ma chi accetterebbe di convivere con la consapevolezza di essere la causa della propria autodistruzione?
Il mondo sta rapidamente impazzendo e quell’odio mefitico nato dalla guerra si sta spargendo a macchia d’olio nel cuore delle fette più deboli della società. Inizia sempre così: fratello contro fratello, padre contro figlio, marito contro moglie; il tutto per preservare l’egoistico desiderio di sopravvivenza. Questa umanità vuole troppo e questo Pianeta malato non è più in grado di sostenere la sua ingordigia. La ShinRa lo sta rapidamente svuotando dei proprio doni, i quali presto di esauriranno, lasciandoci in un mondo arido e marcio. Non c’è bisogno di essere un Cetra per comprendere tutto questo, eppure quella gente ha gli occhi coperti da montagne di gil per accorgersene. Basterebbe solo sollevare la testa al di sopra di quelle cime dorate per notare la terrificante desertificazione che subiscono i luoghi dove i reattori vengono costruiti. Anche qui in Wutai quel processo sta iniziando, inesorabile. Ciò mi ferisce profondamente. Questo Paese ha smosso qualcosa dentro di me, qualcosa che credevo di aver perduto anni addietro: il calore. Mi sono innamorato di Wutai. Amo i suoi paesaggi immoti, su cui aleggia una timida, pacifica bellezza; la quale è in grado d’infondermi una grande calma interiore, ritrovata attraverso la contemplazione del delicato frusciare dei campi di frumento, l’allegro vociare delle risaie, l’austera grandezza delle foreste, il deciso scrosciare della pioggia, la leggerezza soave della neve, il limpido tramonto tra le grandi montagne. Amo ogni singola tradizione che costella la giornata di un wutainiano, dalla cerimonia del tè alla scrittura con il pennello; amo il loro senso dell’onore e del dovere, il loro orgoglio, il loro profondo patriottismo. Amo la loro storia, la loro architettura, la loro filosofia. Ma, soprattutto, amo una donna appartenente a questo straordinario popolo, conosciuta durante la Yozakura, la notte in cui i ciliegi sakura sfioriscono e liberano i loro petali nell’aria.
Era… Perfetta, come i fiocchi rosati che le danzavano attorno. A volte, mi fermo a guardarla e non posso fare a meno di associarla a quell’immagine scolpita nella mia mente.

 -Perché mi guardi così?-
Il sorriso appare sul viso meditabondo del mio Generale, inducendomi a rispondergli nello stesso modo. Lui non asseconda subito la mia domanda con una risposta verbale, ma si limita ad accarezzarmi la guancia col dorso della sua grande mano. La sua pelle sembra velluto, quanto è delicato il suo tocco. Le labbra si allargano ancora di più e copio il suo gesto, andando a sfiorare i suoi zigomi, a contornare i suoi occhi, ad arricciare i suoi capelli. Avverto una grande felicità esplodere nel mio petto. Non credo esista luogo migliore di questo letto sconvolto, cinta dalle forti braccia dell'uomo più straordinario che abbia mai conosciuto.
-Ricordi la prima volta che c’incontrammo?-
Come dimenticarlo? Come dimenticare quel ragazzino sperduto, osservatore rapito dai petali di Sakura? Oppure quello sguardo affascinato capace di trapanare l’animo fino al midollo? Come dimenticare quegli occhi disperati chiedermi aiuto?
-Eri meravigliosa. Tutta vestita di seta rosa, con l’ombrello di carta che ti proteggeva dalla pioggia di petali, le ciocche sfuggite dall’acconciatura, scosse dal vento, che ti lambivano il viso… il sorriso che mi rivolgesti… era la cosa più bella che avessi mai visto.-
Mi lusinga venire a conoscenza di quanti dettagli si ricordi del nostro primo incontro. Avverto le gote avvampare e gli occhi pizzicare. Nessuno mi ha mai rivolto parole del genere, se non per corteggiarmi. Adoro questo aspetto degli uomini orientali: sentirsi in dovere di adulare la propria donna. Cosa inconcepibile per un wutainiano. Non ci sono abituata a tanta dolcezza. Sento il mio cuore sciogliersi come burro e lacrime di felicità solcarmi le guance. Il mio Generale si allarma.
-Evelyn…-, evoca con tono preoccupato, asciugandomi una goccia col pollice,-ho detto qualcosa che non va?-
Istintivamente, sguscio via dalla sua rassicurante stretta e ripristino le distanze, andandomi a rifugiare nell’angolo destro del letto. Abbasso lo sguardo e scuoto la testa, cercando di riprendere un po’ di contegno.
-Perdonami. E’ che... è una situazione così strana per me. Chiedo umilmente scusa.-
Lui sospira paziente e viene a sedersi accanto a me, cingendomi le spalle con un braccio e facendo aderire i nostri fianchi. Mi irrigidisco e cerco di ritrarmi ancora, ma lui non desiste e inizia a rassicurami, accarezzandomi il braccio, lisciando lievemente la pelle con quelle dita di velluto.
-Ehi,- la sua mano s’insinua discreta sotto il mio mento e, dolcemente, fa pressione così da indurmi a guardarlo in quegli occhi meravigliosi,-non c’è bisogno che ti scusi. Anche per me è strano… e nuovo. E’ normale esserne spaventati.-, fa una piccola pausa, durante la quale mi dona il suo splendido sorriso,-Io volevo solo dirti quanto è importante la tua esistenza nella mia vita. E che ti amo, Evelyn. Ti amo dal più profondo del mio cuore.-
Il mio labbro inferiore freme. Le lacrime di nuovo riempiono i miei occhi. Rimango immobile a fissare quelle iridi del colore della giada. Sono gli occhi più belli e particolari che abbia mai incrociato e constatare che essi brillano soltanto per me, mi riempie di fierezza. Mi fissano con tale intensità e attenzione da farmi prendere consapevolezza di un fatto: io sono una donna. Non una geisha, non un oggetto di piacere, non un’oka-san; ma una donna. Lui ha imparato a vedere Evelyn, ad amarla, a consolarla, a proteggerla… a rispettarla. Nessuno si era mai spinto così in profondità dentro di me, scavando nel mio essere, fino a cogliere la mia reale essenza. Il mio Sephiroth… Getto le mie braccia al suo collo e lo stringo con tutta la forza che ho, affondando la testa nell’incavo della spalla. Prendo un profondo respiro, riempiendo i miei polmoni del suo profumo così dolce e penetrante. Dopo poco, le mie labbra scivolano lungo il suo collo, fino a raggiungere la decisa linea della mascella, dove inizio a posare soavi baci sulla pelle morbida. Lo odo ridacchiare e le mie orecchie esultano ascoltando la meravigliosa musicalità di quella voce rombante. Incoraggiata dalla sua ilarità, apro la bocca e afferro il suo lobo tra i denti, per poi massaggiarlo attraverso lenti movimenti della mandibola. Le sue mani iniziano a spostarsi, accarezzando ogni centimetro della mia pelle. Le sue carezze mi suscitano una serie di brividi eccitanti. Inizio a stuzzicare il suo orecchio con la lingua, strappandogli gemiti e mugolii, i quali non fanno altro che aumentare il mio desiderio. Di rimando, lui comincia a poggiare dei baci sul mio collo. Allorché, la mia mano destra abbandona la gemella e comincia a scendere. Accarezzo la sua spalla; liscio il suo pettorale, su cui mi soffermo per percepire il battito possente del suo cuore; mi destreggio tra le onde sode del suo ventre scolpito; fino ad avvolgere…
-Oka-san!-
Una voce concitata dall’altra parte della porta c’interrompe. Ci voltiamo entrambi in quella direzione, allarmati dall’intrusione inaspettata di Natsu. Non è da lei infastidirmi quando sa bene che ho ospiti, perciò vengo avvolta da una scossa di terrore: so cosa sta per accadere. E mi accorgo che lo sa anche Sephiroth. La dolcezza nei suoi occhi è svanita, sostituita da uno spaventoso sguardo omicida. Un’ira indomita avvampa nelle sue pupille, divenute improvvisamente serpentine. Funeste sfumature rosate screziano il verde dell’iride sinistra. I suoi lineamenti si sono induriti, le sue labbra assottigliate, la mascella così stretta da far scricchiolare i denti. Vedo i suoi muscoli tendersi e ingrossarsi, come una belva pronta a scattare sulla preda, e noto con orrore che la sua attenzione si è spostata dalla porta alla Masamune. Stringo i suoi enormi bicipiti e lo scuoto, al fine di farlo tornare in sé. Mi spaventa quando si estrania in questo modo dalla realtà, assecondando quegli istinti bestiali. Lui non è un demone, né una bestia, né un mostro, come tanti altri lo hanno etichettato; è un uomo. Il MIO uomo.
-Torna da me. Ti prego, non arrenderti al male dentro di te. Tu non sei così. Sei buono, pacifico, dolce. Sephiroth, ti prego, ascoltami!-
Continuo ad afferrare la sua attenzione con parole e carezze, senza riuscire a trattenerla, ma non mi arrendo. Alla fine, riesco a fargli distogliere gli occhi dalla spada. Vedo i suoi lineamenti distendersi, così come i muscoli, e i suoi occhi tornare normali. Ma ciò che mi rivolge è uno sguardo pieno di risentimento, trafiggendomi l’anima peggio di una lama.
-Non farlo, ti supplico.-, implora con la voce rotta dalla rabbia e dal dolore.
Natsu bussa concitatamente per esortarmi a predisporre tutto il necessario per accogliere LUI. Il mio temuto, odiato danna. Il solo pensiero mi rivolta lo stomaco e darei qualunque cosa per scomparire ora. Perfino da Sephiroth. In questo momento, desidero solo rimanere da sola; senza un amante innamorato da ferire, un danna manesco da soddisfare e un okiya ingombrante da salvare. Vorrei solo rannicchiarmi su me stessa e piangere. Piangere e urlare fino a squarciarmi la gola, fino a che non ho più forza di fare nemmeno quello. Ma non posso. Devo essere forte. Forte per Sephiroth, forte per Natsu, forte per le novizie, forte per le maiko, forte per le sorelle maggiori.
-Scappiamo insieme.-, propone, improvvisamente, il mio Generale, afferrandomi bruscamente le braccia, così da guardarlo in viso.
Che alettante tentazione… Ma tutto quello che posso fare è sfuggire il suo sguardo e divincolarmi dalla sua stretta, la quale, stavolta, è più determinata e ferrea che mai.
-Non posso più sopportare questa situazione! ANDIAMOCENE!-, mi urla addosso, tirandomi a sé, contrapponendosi al mio rigetto.
Le sue dita, solitamente così delicate, ora assomigliano più a degli artigli, i quali mi stanno dilaniando la pelle.
-Mi fai male. Lasciami!-, ordino, dolorante.
Lui non mi ascolta, continua a ripetere che dobbiamo scappare, mentre avverto la sua stretta far scricchiolare i miei omeri. E’ sconvolto dalla gelosia e non si sta rendendo conto di stare usando troppa forza. Se non reagisco adesso, mi spezzerà le braccia.
-Basta! BASTA! BASTA!-
Inizio a schiaffeggiarlo in pieno viso, fino a che non molla la presa. Crollo su letto, gemente, e inizio a massaggiarmi gli arti, sui quali spiccano degli orribili lividi violacei. Lo avverto ansimare, sfinito. Alzo lo sguardo su di lui e lo vedo appoggiato alla colonna del letto, le braccia abbandonate sulle lenzuola e lo sguardo sconfitto perso nel vuoto. E’ una scena a cui nessuna donna dovrebbe assistere: il proprio uomo annichilito. Attanagliata dai sensi di colpa, faccio leva sulle braccia doloranti e mi avvicino a lui. Alzo una mano con l’intenzione di posargliela sulla guancia, ma lui la scosta malamente. Non osa nemmeno incrociare i nostri sguardi. Ora la presa del rimorso sul mio cuore si fa più stretta, occludendomi la gola.
-Sephiroth…-, riesco solo a proferire.
Senza lasciarmi il tempo di scusarmi, lui afferra malamente i miei arti, strattonandoli, e li cura con un incantesimo; dopodiché mi spinge via, facendomi crollare sul materasso come fossi un oggetto divenuto inutile. Con la morte nel cuore, lo osservo alzarsi e rivestirsi, il tutto in un ostinato silenzio. E’ diventato freddo e distante. Rimango spiazzata dalla sua capacità di cambiare completamente carattere, appena la situazione lo richiede. Schiudo la bocca con l’intento di aprire una breccia in quello scudo di ghiaccio, ma Natsu mi fredda sul nascere.
-Oka-san, spero siate pronta. Shinra-sama, sarà qui a momenti!-
-Dammi qualche minuto, Natsu. Sono alle prese con i capelli.-
-D’accordo, ma fate presto!-
Quando mi rigiro, Sephiroth è già completamente vestito e si sta avviando verso la botola che conduce al passaggio segreto, il quale collega la mia stanza qua all’okiya alla sua, in caserma. Una soluzione che ideò Ryu, tanto tempo fa, quando non c’erano ancora guerre e Presidenti. Quando non c’era ancora lui…
-Io ti amo…-, dichiaro tra i singhiozzi.
Si ferma un momento, durante il quale prego che mi rivolga una qualsiasi parola, anche un grugnito, ma ciò che ricevo è soltanto silenzio. Attanagliante e gelido silenzio.

 Tuttavia, quel meraviglioso angelo salvatore non mi appartiene completamente. L’ho ceduta al Presidente, un uomo che la sta distruggendo pezzo per pezzo, giorno per giorno. Vorrei salvarla, ma lei si limita a scappare tra le mie braccia, quando quel porco è andato troppo oltre; ad accontentarsi dell’avermi accanto, mentre il mondo attorno a noi cade a pezzi; a concedersi per alleviare le mie colpe. Mi dice che il Pianeta vede e provvede, che bisogna pazientare, che bisogna apprezzare ciò che si ha; ma io sono stanco. Stanco di vedere sempre nuovi lividi sul suo corpo, di forzare i suoi sorrisi per riceverne altri sempre più spenti, di rendermi conto che la lucentezza nei suoi occhi sono soltanto lacrime troppo ostinate per uscire. Quella luce splendida che mi colpì la prima volta si affievolisce ogni giorno che passa, fino a che non arriverà a spegnersi. Evelyn è forte, ma presto, troppo presto, lo farà. Io non posso starmene a guardare, mentre la donna che amo muore in agonia. Nonostante le mie insistenze, lei non vuole andarsene da Garyo, tantomeno abbandonare quelle serpi irriconoscenti che le vivono attorno. Quel che è peggio non vuole estinguere il legame del danna, continuando così a subire le angherie di quel porco pervertito. Io non riesco più sopportare di vederla in quello stato, di udirla piangere, di percepire la sua forza scivolare via dalle mie mani. Ma, lei continua imperterrita, rifiutando le mie offerte di fuga. Per l’onore, dice. Mi sembra di sentir parlare Angeal. “E’ pesante fardello, ma qualcuno lo deve pur portare. E’ il mio compito, una mia responsabilità”. La sua condiscendenza nei confronti del suo arido futuro mi provoca un’ondata di frustrazione, la quale, sempre più spesso, sfocia in un’incontrollata smania furiosa. Diventa sempre più difficile arginarla. Se questa situazione continuerà ancora a lungo, temo che prima o poi potrei esplodere, mettendo a serio repentaglio la sua vita. Sto ponderando la possibilità di lasciarla, così da proteggerla da me stesso. Anche se… il solo pensiero mi spezza il cuore.
Ma la colpa non è solo sua. Ciò che subisce, lo sopporta per salvare le donne di Garyo dalla mala. Fuggire insieme è solo una delle tante soluzioni ed è quella più egoistica. E più semplice. So bene cosa dovrei fare per mettere fine a questa storia, ma… non ne ho il coraggio. Ciò mi fa sentire lurido, colpevole. Io ho permesso tutto questo, io ho portato avanti questa guerra, io ho vinto. Io. Io. IO! E non m’importa se vengo giustificato con frasi del tipo: “
hai fatto il tuo dovere”, oppure “c’erano degli ordini da eseguire”. No! IO sono un debole. Vedevo, sentivo la sofferenza e la devastazione che portavo in questo Paese, eppure non ho fatto nulla. Avrei dovuto ribellarmi, fare leva sulla mia autorità e convincere i miei uomini a seguirmi fino al tradimento. So che l’avrebbero fatto. Molti di loro mi seguirebbero fino nel girone più profondo dell’Inferno, se glielo chiedessi. Senza contare Angeal e Genesis, i quali preferirebbero scontrarsi contro il mondo piuttosto che fronteggiarmi sul campo di battaglia. Tutto sarebbe come lo voglio io. Mi sembra quasi di vederlo: un meraviglioso caos sconvolgere le fondamenta stesse del Pianeta;  la Compagnia collassata senza colpo ferire; il sangue di Hojo sporcare le mie mani; i corpi senza vita del Presidente e suo figlio prostrati ai miei piedi e, infine, come una gloriosa Fenice, un nuovo ordine mondiale sorgere dalle ceneri di un passato decadente. Il popolo inneggia il mio nome, proclamandomi suo salvatore; ogni crimine pagato; ogni ingiustizia raddrizzata; ogni umiliazione lavata via. E poi, lei, al mio fianco, libera. Dai suoi doveri, da quell’uomo, di amarmi…

Mi odio.

Mi odio dal più profondo del cuore. Perché, con tutto il potere che ho, non ho la forza di lottare per ciò che ritengo importante, se non vitale? Evelyn è la mia donna, eppure permetto al Presidente di approfittare di lei quando e come vuole. La logica conseguenza di quell’azione è quella di strappargli ogni estremità del corpo, lasciando la testa come ultima così da fargli ingoiare i suoi stessi pezzi.
Come al solito, la mia mente malata vaga verso i recessi più animaleschi del mio essere, mostrandomi immagini da brivido, ma che mi accorgo di condividere appieno. Comunque, finché rimangono ben racchiuse in quell’angolo oscuro possono sbizzarrirsi come vogliono. E’ terrificante constatare a quali orrori sarei in grado di dare vita, soprattutto quando i protagonisti delle mie violenze sono persone a cui tengo. Tante volte mi è capitato rischiare di arrendermi alla voglia di strozzare Evelyn, oppure di massacrarla di botte fino alla morte. Quando ero più piccolo, nemmeno mi accorgevo del momento in cui la visione diventava realtà; spesso mi ritrovavo completamente zuppo di sangue, senza capire da dove provenisse, fino a che non guardavo verso il basso, dove, il più delle volte, incappavo in corpi devastati o, addirittura, resti maciullati e irriconoscibili. Solo in quel momento prendevo consapevolezza di essermi arreso nuovamente alla Bestia che risiede in me. Col tempo ho imparato a riconoscere i segni premonitori della sua furia e decidere quando più opportuno lasciarla a briglia sciolta. Anche se non è facile. Spesso la fiamma della rabbia divampa quando meno me lo aspetto e devo richiamare ogni singola goccia di volontà per trattenere la Bestia. E il più delle volte non basta nemmeno quello.
Temo tanto per la vita di Evelyn. Dice di fidarsi di me, ma come farà quando non saprò controllarmi? Perché io non mi limiterò a imprimerle qualche ematoma sui polsi e sulle gambe. Io la ucciderò o, se le andrà bene, la lascerò in fin di vita. L’ho fatto una volta e posso rifarlo. Ogni volta che voglio…

 

Mostro

SCIALVEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEE!!!! Sono le ore 03:16 e io ho finito di scrivere! Non. E’. Possibile! Sono completamente fuori fase come i nostri cari protagonisti! Evvivaaaa -.-‘ ! Coooooooooooooooooooooooooooooooooooooomq…. SCIALVEEEEEEEEEEE di nuovo, miei amati lettori! Richiamate pure ‘Chi l’ha visto?’, che la fortiX è tornata! Prima che tiriate fuori torce e forconi, mi scuso un sacco per il tremendamente tremendissimo ritardo, ma quest’estate ho avuto O tempo per scrivere, oltre che O idee da sviluppare per il nostro argentato, soprattutto. Con Cloud la situazione si sta definendo e cominceremo andare spediti, quindi ci saranno più dialoghi e più azione, mentre con Seph siamo in zona intermezzo, boia deh!!!!! Come avrete notato già dall’altro capitolo, la lunghezza è aumentata per dare spazio al punto di vista di un altro personaggio e, nello stesso tempo, approfondire ciò che il diario non dice, ma fa solo intendere. Con questo la lunghezza aumenterà ancora, perché Cloud avrà un compagno di disavventure (Yay!) e parlerà un po’ di più (*con Vincent… wow, posso immaginare che razza dialoghi. C:I just…, V:… ndSeph*; *Ehi! ndCloud*; *…. ndVinny*;* come volevasi dimostrare. Non ti smentisci mai, papi ^.^ ndSeph*; *SILENZIO DIETRO LE QUINTE! ndA*)
Quindi, vi è piaciuto il colpo di scena da sballo? Evelyn un Cetra? WTF?!?!? Eeeeeeeeh sì, ma non è tutto! Ho intenzione di fare un po’ di giustizia qua dentro, quindi aspettatevi delle belle!
Intanto, il povero Seph ha la sua bella, ma se la spupazza anche il Presidente. Direi che quell’infilzata nel gioco originale sarà qualcosa di personale, voi che dite?
Va bene, sono stanca morta!
Alla prossima!
Besos

 P.S.=sono le 03:40 e tutto va beneeeeeeeeeeeeee!!! Ad ora devo finire di mettere a posto due cosine, quindi posterò tra qualche ora, cioè nel momento in cui vedrete la storia XD Ok, non iniziamo a parlare di paradossi temporali che se no qua non vado più a letto!

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Capitolo 18
*** Famiglia ***


La nave cavalca le brezze dal sapore di primavera dirette verso il tetro Nord, destando questa terra eternamente gelata dalla morsa invernale. Avanziamo lentamente lungo il buio mare di Icicle, rompendo la debole resistenza di un’acqua insolitamente piatta. Il cielo è limpido, cristallino, sormontato da un tenue sole capace di donare un tepore discreto, per niente fastidioso. E’ una giornata mite, perfetta per rilassarsi sulle sdraio disposte a file ordinate sul ponte e correre allegramente su e giù per questo mostro d’acciaio galleggiante, con il cui rumore assordante strappa la patina di calma ammantante questo paesaggio austero e solenne. Ha un certo fascino il continente settentrionale, devo ammetterlo. Se non fosse per l’inquietante voragine che ne sfregia il paesaggio: lassù, al polo, come una bestia dormiente, il Northern Cave Crater troneggia indisturbato su quei luoghi inospitali, celando al mondo intero i terribili segreti ivi racchiusi. Il mio sguardo è rivolto sull’orizzonte, a ricordami il preciso istante su cui poggiammo gli occhi sulla bellezza mozzafiato della murata di cristalli di mako, tomba perfetta di un Angelo caduto. Istintivamente, i ricordi virano più a Sud, indirizzati verso la Città Dimenticata e un dolore sordo e mai attenuato mi stringe il cuore, accompagnato da un eco lontano di una sofferenza passata. Mi massaggio il petto e prendo un profondo respiro. Fa sempre più male. Ricordare. Quasi quasi mi manca credere di essere Zack. Era tutto più semplice: non c’erano legami, né paure, né rimpianti. Solo il desiderio della battaglia e la dorata ricompensa alla fine della giornata. Superficiale e meschino, lo ammetto, ma decisamente meno doloroso. Come lo fu per Sephiroth, quando diventò il mio omonimo, un bisestile di quasi trent’anni fa. Che beffe che fa il destino a volte…
Il mio silenzioso compagno di viaggio mi fa quasi prendere un colpo, comparendo all’improvviso nel mio campo visivo.
-Vincent…-, lo apostrofo,-Devi toglierti questa brutta abitudine di comparire quando meno me lo aspetto!-
L’ex-Turk non dice nulla, ma posso vedere i suoi occhi brillare di una sottile luce divertita. Da quando mi ha rivelato chi egli sia veramente, nella sua scorza dura si è aperto un piccolo spiraglio, da cui ogni tanto è possibile comprendere ciò che prova. Grugnisco e ritorno a contemplare quei flutti così riappacificanti.
-Non credevo fosse così facile prendere alla sprovvista un SOLDIER-, mi fa notare.
-Io non sono un SOLDIER. Non lo sono mai stato.-, ribatto con un filo di malinconia.
Mi sembra quasi una vita fa, quando non riuscivo a rimanere eretto per più di un secondo su un qualsiasi veicolo in movimento; oppure a tenere in mano un’arma senza farla cadere almeno cinquanta volte al minuto. A causa della mia goffaggine diventai lo zimbello di tutto il reparto e questo contribuiva a minare irreversibilmente la mia già bassissima autostima. Ero partito da Nibelheim per diventare come Sephiroth, ma ben presto mi resi conto di non essere per nulla tagliato per quella vita. SOLDIER richiedeva disciplina, attenzione, precisione ferree, tutte qualità che non ho mai avuto, nonostante i tanti rimproveri di mia madre. L’unico punto a mio favore erano le abilità nel combattimento corpo a corpo, maturate durante le numerose risse per i bar del paese, ma ciò che il reparto d’élite richiedeva, in aggiunta, era mancanza di scrupoli e nervi d’acciaio, oltre che una totale abnegazione nei confronti dei superiori. Eravamo dei cani, in fondo. Cani addestrati a uccidere.
Ma io non ero pronto. Non ero pronto a vedere la vita spirare dagli occhi della mia vittima; riascoltare ogni notte la sua silente supplica; avvertire l’odore acre del sangue sgorgante dalla sua bocca. Non credo sarei stato in grado di vivere un minuto di più dopo aver piantato una spada nel cuore di un mio coetaneo, indipendentemente da quanto rivoltoso egli fosse. Ho potuto solo immaginare il terrore sordo che ha dominato il giovane Generale in quell’istante e mi ha stupito il modo in cui ha razionalizzato l’orrore compiuto. Sephiroth era ben conscio dell’infausto ascendente esercitato nei confronti della vita, ma non poteva immaginare la portata della sua maledizione. Arrivare a farsi odiare da una ragazza dolce e paziente come Aerith è un’impresa da pochi. Non riesco proprio ad immaginare il suo giardino completamente carbonizzato, LEI che ci stava così attenta… Ma degli istinti così bestiali rendono possibile, l’impossibile. Come sopraffare un Eroe omicida e scaraventarlo nel Lifestream, privandolo dell’uso delle gambe. Mi accorgo con orrore di quanto fu dannatamente facile piantare una spada nel corpo di un altro essere umano. Forse perché, ai miei occhi, LUI era un mostro. Uccidendo la mia infanzia, era stato spogliato di ogni singola goccia di ammirazione che provavo nei suoi confronti e del grande Generale ormai non v’era più nulla. Era solo un altro mostro da abbattere, né più, né meno dei mostri affrontati negli Slums. Non sono stato meglio di lui…
-Eppure, dopo tutte le tue imprese, dovresti esserlo ad honorem.-
Sbuffo divertito. Se ripenso a ciò che mi disse Zack la prima notte a Nibelheim riguardo alla mia intenzione di entrare in SOLDIER, questa affermazione non mi inorgoglisce più di tanto.

“SOLDIER is like a den of monsters. Don’t go inside.”

[SOLDIER è un covo di mostri. Non entrarci; cit. Zack Fair, FFVII: Crisis Core]

In fondo, cosa sono più di LUI? Nient’altro che un sacco fatto di carne e mako, senza sentimenti, senza volontà, senza ricordi. E per cosa? Barattare la mia umanità per la fama, la gloria e il potere? Per quanto mi riguarda, da ragazzino avrei dato l’anima per uno scambio del genere. Ero così accecato dal mio desiderio di rivalsa da non rendermi conto delle gioie preziose di cui ero in possesso. Avevo una famiglia, degli amici e io che cosa ho fatto? Ci ho sputato sopra per un fine così effimero e futile. Solo quanto Sephiroth mi ha portato via tutto, mi sono reso conto di quanto fossi ricco rispetto ad un uomo che di dorato aveva solo la facciata. Ho ucciso un uomo già morto, quella notte. E io dovrei diventare un SOLDIER d’onore? Che onore c’è nel consacrare la propria vita alla morte, abbandonando valori solidi e basilari che costituiscono le fondamenta di un uomo giusto?
Sephiroth era un uomo giusto, nonostante abbiano cercato in tutti i modi di forviarlo. Non si è fatto accecare dal potere e dalla fama, guardando al di là di quella cortina fallace, così da scorgere il tesoro più prezioso di tutti: l’amore. Ma non quell’amore ristretto che lega un uomo e una donna, ma quello più generale e variegato che lega ogni essere umano all’altro, fino ad abbracciare tutto il Pianeta. Lui vedeva la grandezza nelle piccole cose, come un sorriso o una carezza; non gl’importava compiere grandi imprese, quando gli sarebbe bastato la semplice vista di un sorriso sul viso delle persone che amava. Non aveva nemmeno la presunzione di essere la fonte di quella felicità, poiché sapeva che prima o poi gli sarebbe stata portata via. Il Pianeta aveva altri progetti per lui. Lo sentiva, lo sapeva; tuttavia non ha voluto rinunciare all’illusione dell’amore, anche a costo di una grande sofferenza.
Studio di sottecchi Vincent e ripenso a quanto abbia perso a causa di Lucrecia. Ci ripete spesso quanto forte fosse il suo desiderio di vederla sorridere sempre…
Tale padre, tale figlio…
-Sei fiero di lui, Vincent?-
E’ una domanda uscita di getto, senza preavviso, non so nemmeno se sia un pensiero formulato di mia iniziativa. Avverto il Turk trattenere il fiato e la veste di pelle crepitare sotto la sua stretta. Percepisco il suo sguardo sbigottito gravare sulla mia figura, cercando, come me, di comprendere se la domanda è stata rivolta dall’amico o dal figlio. Non abbiamo approfondito molto questo argomento da quando abbiamo lasciato Kalm, ma, in effetti, parecchie domande mi sono sorte durante il viaggio. Mi è difficile capire se sono spinto dalla mia stessa curiosità o da quella di Sephiroth. Forse è di entrambi, in fondo. Il moro rilascia il fiato con un sonoro sospiro e abbandona le braccia lungo i fianchi, il quale si trasmette come un flebile scostamento del mantello. Il peso della sua attenzione scompare, diretta, probabilmente, verso l’orizzonte limpido e netto del cupo mare di Icicle.
-Non posso rispondere a questa domanda…-
Il suo tono è affranto e posso notare una sfumatura spaventata pervadere quella voce solitamente inespressiva.
Se da un lato mi aspettavo una risposta del genere, dall’altro rimango deluso. Vincent non si è mai sbilanciato in questo senso, aggrappandosi all’oggettività della situazione, così da impedire al suo istinto paterno di non prendere alcun sopravvento sulle sue decisioni. Ma ora… ora suo figlio vuole sapere, sta ricercando quell’approvazione che ha inseguito per tutta la vita. Se c’è qualcuno col diritto di definirlo, nel bene o nel male, quello è Vincent. So quanto egli tema il proprio passato, forse quasi più di me, però, prima o poi, i fantasmi vanno affrontati. E Sephiroth è pronto ad accettare qualunque cosa gli verrà detta. Lo posso sentire fremere, quasi implorarmi d’insistere.
-Eppure sei l’unico ad aver il diritto di rispondere.-
-Il diritto l’ho perso quando ho permesso a sua madre di tornare da quel verme.-
-Eppure è stato per riacquistare quel diritto che ti sei preso una pallottola nel cuore.-
I nostri sguardi s’incrociano e una tempesta metaforica di fulmini e saette esplode fra noi. Vincent mi sta letteralmente uccidendo con gli occhi. Se non fosse provvisto di un eccezionale self-control, probabilmente mi ritroverei la mascella lussata, senza contare la furia di Chaos, con la quale mi farebbe a pezzi. Incurante, tuttavia, io continuo a sfidarlo apertamente, guardandolo dal basso all’alto, comodamente appoggiato al bordo della nave. Dal canto suo, il pistolero riassume la sua classica posizione di chiusura, incrociando le braccia al petto; come se lo potessero difendere da quell’attacco sconsiderato ai recessi più profondi del suo animo. Quei recessi che sperava aver sepolto, assieme ai suoi peccati. Ma quelli ritornano sempre a galla, spietati e crudeli, pronti a piegarti l’ennesima volta.
-Fa male ricordare. Nessuno lo sa meglio di me, Vincent.-, esordisco, abbandonando la mia espressione truce con una più conciliante,- Ma fidati quando ti dico che tuo figlio ha sofferto abbastanza per vedersi respinto perfino dopo la morte.-, rimango in silenzio un momento così da donare peso alle mie parole,- Io non intendo giudicarti. Per quanto ancora faccia fatica a credere chi in realtà tu sia, giuro che non ti metterò in croce. Se ci pensi, sono stato il primo ad ammettere l’errore.-
L’ira negli occhi di Vincent va via via a scemare ad ogni parola che proferisco, fino a che il suo sguardo non vira di nuovo al di là della nave, meditabondo. Alla fine, sospira, sconfitto. Le braccia si sciolgono e raggiungono il bordo metallico, fungendo da sostegno per il corpo. La sua espressione è più distesa e più…umana, tanto da lasciare trapelare una certa agitazione. L’ex-Turk non parla subito, ma rimane qualche minuto a contemplare la natura immota attorno a noi, così da riordinare i pensieri che gli si agitano nell’animo.
-Non sono il miglior padre che un uomo possa avere. Forse questo è riconducibile al fatto che nemmeno io abbia avuto un grande esempio da seguire. Mio padre, infatti, non fu molto presente nella mia vita, ma lo ammiravo molto per il grande lavoro che stava svolgendo al servizio dell’umanità. Almeno credevo all’epoca. Per quel motivo, a quindici anni, decisi di seguire le sue orme. Quando gli comunicai la notizia, vidi per la prima volta un barlume di fierezza splendere nelle sue pupille. Mi sentii…considerato. Quel giorno capii che la scienza era l’unico argomento in grado di elevarmi ai suoi occhi.
Studiavo alacremente, giorno e notte, al fine di ottenere il massimo dei voti in ogni materia. Non volevo assolutamente che quella luce si spegnesse. Era diventata il mio chiodo fisso, il centro del mio mondo. Passavo intere notti a pregustare il momento in cui il mio nome sarebbe svettato, accanto a quello di mio padre, nella Storia della Scienza. Già lo vedevo: Valentine senior e junior, benefattori dell’umanità. Un sogno che mi permetteva di sopportare i lunghi silenzi di mio padre; il quale, ben presto, venne infranto, verso il quarto anno di liceo, dal maledetto Progetto Omega. A causa di questo, le sue già rare visite, si azzerarono, mentre i rapporti si limitarono a qualche sporadica lettera contente l’essenziale. Quando, poi i risultati degli esperimenti diedero i loro frutti , ottenendo così i finanziamenti della Shinra, perfino la corrispondenza venne troncata. Cercai di razionalizzare la sua mancanza, confidando nelle sue abilità di brillante scienziato, ma, dentro di me, sentivo la mia famiglia lentamente distruggersi. Le mie paure ebbero le prime conferme qualche giorno dopo la cerimonia del diploma, quando, dopo un anno e mezzo di silenzio, mio padre ricomparve. Per giorni, abbiamo cercato di capire il motivo di quell’improvvisa scomparsa, ma lui ci raccontava ogni volta una versione diversa, oppure cercava di evitare l’argomento. Alla fine, mia madre cedette e mi chiese di fare altrettanto, pregandomi di mostrare rispetto per tutti i sacrifici compiuti da mio padre per darci una vita agiata e un futuro radioso. Ci provai, per un primo periodo, ma la sensazione che lui tramasse qualcosa non mi abbandonava mai. Egli s’interpose tra me e mia madre, notai, come un muro impenetrabile: da una parte chiudeva lei all’angolo, mentre dall’altra io venivo ricacciato indietro. Ingenuamente, credetti che lui volesse recuperare il loro matrimonio, pericolosamente in bilico a causa della lunga lontananza. Ma nemmeno questa spiegazione calmava le mie ansie.
L’ennesima conferma dei miei sospetti giunse quando lui mi propose di andare a studiare in un’università estera. Non aveva senso. Perché andare così lontano, dal momento che l’università migliore era praticamente dietro casa? Ero titubante davanti alla possibilità di lasciare la mia famiglia appena riunita, ma i miei genitori fecero fronte comune pur di convincermi. Alla fine, cedetti, nonostante migliaia di campanelli d’allarme mi trillassero in testa. Avrei dovuto ascoltare l’istinto, poiché, dopo la mia partenza, non ebbi più modo di contattarli. Erano scomparsi, senza lasciare nessuna traccia. Nessuno dei nostri vicini li aveva visti partire e nessuno dei colleghi di mio padre sapeva dove fossero andati. Chiesi aiuto alle autorità, ma, dopo mesi di ricerche, non si ebbe alcun risultato. Mi dissero di temere un rapimento, ma pure quella teoria venne sfatata dal tempo. Intanto, abbandonai gli studi e mi arruolai nei Turks, nella speranza di aver accesso agli archivi segreti della Shinra, nella speranza di trovare notizie su di loro. Speranza vana, poiché, il secondo anno di addestramento, arrivò la notizia della loro morte.-
Vincent sospira profondamente, lasciando trasparire tutto il disagio suscitato da questo ricordo. A quanto pare nemmeno la sua infanzia è stata immune dall’amarezza.
-La Shinra fu la causa di tutto e non si preoccupò mai di spiegarmi le circostanze in cui i miei genitori morirono. Ero disgustato, ma, dopo un altro anno, ebbi la possibilità di mettere le mani sui segreti più laidi della Compagnia. -, si volta verso di me, fissandomi con degli occhi che sembrano aver visto il demonio in persona,-Non hai idea di quanti orrori si è macchiata la Shinra durante il suo terribile dominio; di quanta gente è stata sacrificata nel nome del “Progresso”; di quanta sofferenza ne è stata causa. Quella via che credevo sacra e pura, non è altro che la fonte del potere corrosivo e distruttivo di una Calamità peggiore di Jenova stessa, piegata ai biechi scopi di schifosi porci senz’anima. E quella via è stata lastricata dal sangue dei miei genitori, di Lucrecia, di mio figlio e di tutti quegli innocenti sacrificati sul lurido altare del dominio assoluto.-
Io sono scioccato, sebbene penda letteralmente dalle sue labbra. Non mi sarei mai aspettato che Vincent Valentine mi raccontasse la storia della sua vita di sua spontanea volontà; non dopo quasi averlo preso a schiaffi per farmi dare una risposta monosillabica, la quale, tra l’altro, sarebbe la sua specialità. E mi sconvolge il disprezzo quasi viscerale che trabocca da ogni sua frase. Non è da lui mostrare ciò che ha dentro. Ma, in fondo, chi sono io per dire di conoscere davvero Vincent Valentine? Alla fine, realizzo: la creatura in rosso nasconde in piena vista lo specchio di un giovane uomo, pieno di passioni e rimpianti, desideri e delusioni, aspettative e amarezze. Non è diverso da me, o da Cid, o da Barret, o da Tifa o da qualunque altra persona sulla faccia del Pianeta.
“E’ una visione fugace e rarissima; pochi sono così fortunati da vederla.”
-E per tornare alla tua domanda, sì, io sono fiero di lui, perché è riuscito dove io ho fallito. Ha messo la famiglia più potente del Pianeta in ginocchio, ripagandoli con la loro stessa moneta.-, noto un brivido di soddisfazione acutizzare un angolo della sua bocca, neutralizzato subito dopo da un altro pensiero,- Ma finché Jenova esisterà, loro saranno sempre in grado di rialzarsi. E’ per questo che LUI ritorna. Per stroncare ogni volta il loro orgoglio. E per farlo deve poter rifluire al Lifestream, così da non cadere vivo nelle mani di Rufus. E tu sei l’unico capace di odiarlo abbastanza da sconfiggerlo.-, prende fiato e torna ad osservare il mare, malinconico,-Lui ama fino a distruggere tutto. Può sembrare una maledizione, lo so, ma, a volte, la distruzione è il modo migliore per ricominciare.-
La veemenza con cui proferisce quelle frasi e la luce affascinata in quegli occhi vermigli c’inorgoglisce sempre più. Sephiroth esplode di fierezza nel comprendere che suo padre lo conosce molto meglio di quanto credesse; mentre io non posso far altro che sentirmi ammaliato dall’incredibile carisma di quest’uomo.
E’ come TE, penso, mentre un largo sorriso increspa le mie labbra.
-Che cosa hai da sorridere?-
Scuoto la testa e mi metto a ridacchiare.
-Se avevo dei dubbi, ora non ne ho davvero più. Sei proprio il padre di tuo figlio.-
Vincent mi rivolge un sorriso mesto e un rapido flash compare, sovrapponendo la figura di Sephiroth con quella dell’ex-Turk. Evelyn non è riuscita a trattenere il suo stupore, rivedendo le stesse espressioni del suo amato in un altro uomo.
Si assomigliano così tanto, mi sussurra il vento.
-Vorrei poterlo conoscere abbastanza per convincermi di questo fatto.-
-Beh, potrei dire lo stesso di te. E’ la prima volta che ti sento parlare per più di dieci minuti di fila.-
Il pistolero sorride, liberando anche uno sbuffo divertito; dopodiché rimaniamo qualche minuto in silenzio, a contemplare la lenta discesa del sole verso l’orizzonte immoto, il quale comincia ad assumere le sfumature del fuoco.
-Credi che sia saggio mostrare un oggetto del genere a uno sconosciuto?-
-No, ma non abbiamo altra scelta. Tutto quello che abbiamo sono una foto e stralci di memoria. Wutai è immenso. Questo posto potrebbe essere ovunque. E poi, non dobbiamo destare sospetti. Se Reeve sapesse del mancato recapito potrebbe indagare e io non voglio che Tifa e gli altri sappiano dell’esistenza di quel libro.-
-Anche perché ti spellerebbero vivo.-
-Probabile.-
-Se Yuffie non fosse così chiacchierona, avremmo potuto chiedere a lei.-
Il pensiero della ninja mi avvolge come un gelido fazzoletto di dispiacere. Mi fa capire quanto la situazione sia tragica, se nemmeno lei riesce a concedersi un sorriso. E spegnere la sua esuberanza non è da tutti! Anche se ora spero che questa sia tornata e l’abbia messa al servizio di Tifa. Posso solo immaginare la disperazione che alberga in lei, in questi giorni. Spero solo non le venga in mente di mobilitare tutti i membri degli AVALANCHE per rincorrerci per tutto il Pianeta, sebbene il suo messaggio di qualche giorno fa non lasciasse presagire quest’intenzione; ma lei non è tipo da resa. E’ una ragazza incredibilmente forte, piena di risorse, combattiva, fiera… una strana sensazione di dejà vu mi pervade, strappandomi un sorriso.
Come te, Evelyn.
Già, solo un tipo di donna può sopportare di stare accanto a un eroe. Donne capaci di stare in disparte, ma comunque in grado di far sentire la propria presenza. Sono loro la fonte della nostra forza, l’unica motivazione che ci spinge a superare ogni limite, le uniche a ricomporre i legami che cerchiamo di recidere, con amore e pazienza. Sono sicuro che Tifa non si sia arresa al mio silenzio e, ben presto, saremo braccati dall’AVALANCHE e dalla WRO, posso scommetterci. Per questo, io e Vincent cerchiamo di mantenere un basso profilo e viaggiare secondo mezzi alternativi.
La nave emette un lungo fischio rombante, ridestandomi dai miei pensieri. Mi volto verso prua e scorgo una lunga sagoma scura stagliarsi frastagliata per tutto l’orizzonte. Icicle Area.
-E’ ora sbarcare, amico mio. Prossima tappa: Modeoheim.-

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14 Aprile XXXX

Hanami, tradizionale usanza wutaniana di godere della bellezza della fioritura degli alberi di ciliegio, o sakura.

Così sterilmente, il dizionario mi spiega il significato di questa parola. Eppure, passeggiando per l’hanamaci nobiliare, “hanami” acquisisce tutt’altro tono. Sebbene sia stato molte volte in Wutai durante la pace, non ebbi mai occasione di ammirare la bellezza e la delicatezza di quei fiori così meravigliosi. La durata della loro vita è breve, fugace, effimera, eppure ogni goccia di vitalità viene sfruttata fino all’ultimo istante. Ogni alba, ogni impollinata, ogni risorsa può essere l’ultima per queste dame della Primavera, ma loro, imperturbabili all’ironia del tempo, mostrano al mondo tutta la loro bellezza, senza risparmiare nulla; perché la vita è un dono così prezioso quanto fragile, il quale va goduto fino all’ultimo respiro. Un insegnamento che in tanti hanno provato a inculcarmi, ma io non ne ho mai compreso appieno la ragione. Solo oggi, passeggiando tra quegli splendidi alberi in fiore, ho potuto capire. Ho lasciato che le mie preoccupazioni fluissero via dalla mia testa, abbandonandole, per un attimo, all’abbraccio del vento. Esso mi accarezzava la pelle con un tocco delicato, quasi timido, appagando il mio odorato con il profumo dolcissimo e fresco dei sakura attorno a me. Mi sono sentito rigenerato, spensierato. Raramente ho provato una tale sensazione di leggerezza, non dopo una vita intera di doveri e responsabilità. Sarebbe stato tutto perfetto se solo avessi avuto la possibilità di lasciarmi andare ad un riso liberatorio. Se solo avessi avuto una persona con cui condividere tutto questo al mio fianco… Una persona che non mi giudica dalla divisa nera o dalla Masamune intrisa di sangue. O dal muro d’indifferenza che ergo contro il mondo…
Ma, quella persona, non c’è più. E io non ho mosso un dito per riprendermela; anzi direi di aver fatto tutto il possibile per allontanarla da me. Era così degradante per un uomo del mio status strisciare nel buio della notte per stare con la donna amata, soprattutto quando sentivo di meritarla più di qualunque altro; invece ero costretto a fuggire di fronte a un omuncolo insulso e viscido. Io, il Generale dell’élite SOLDIER, abituato a camminare a testa alta tra l’ammasso di grigiume e mediocrità che costella questo Pianeta morente, mi nascondevo, come un topo di fogna, nei vicoli bui e luridi; mentre un’immeritevole bestia lussuriosa mostrava le sue conquiste alla luce dei riflettori. Era un’umiliazione insopportabile, ma il disperato Bambino bisognoso di amore sopperiva là dove l’Eroe e la Bestia avrebbero preferito arrendersi, nutrendosi di ogni goccia di bellezza ed eleganza che Evelyn era in grado di donarci ogni giorno. E, per quanto sia frustrante non poter più godere della sua compagnia, anche il solo starle accanto è abbastanza per quel piccolo, sciocco orfano. Ma, l’uomo, avrebbe voluto di più.
Oggi, tra quei petali grondanti di vita, il mio occhio è stato attirato, inevitabilmente, verso di lei. Agli occhi di un inesperto, quella geisha, fluttuante all’interno di uno splendido kimono candido e innocente, sarebbe sembrata allegra e lieta nell’osservare che le bellezze della sua terra non sono andate perdute a causa della guerra, ma hanno continuato il loro corso più forti e determinate che mai. Avrebbe visto una luce risplendere in quei suoi occhi di giada, mentre rivolgeva uno sguardo languido al suo annoiato accompagnatore; oppure avrebbe frainteso la risata cristallina scatenata da uno stupido commento fuori luogo. Ma io so. So cosa c’è dietro a tutta quell’ostentazione di quietudine e spensieratezza. Non mi sono sfuggiti i suoi sospiri o le sue espressioni buie. Nemmeno le rapide e discrete occhiate dirette nella mia direzione, ghermite dai famelici pozzi di mako. So che avrebbe voluto che il suo braccio fosse avvolto attorno al mio, che i suoi passi fossero sincroni ai miei, che la persona da meravigliare e istruire fossi io. Il dispiacere era tale da non impedire a lacrime amare troppo ostinate solcare la sua guancia incipriata, che lei, rapidamente, si premuniva a scacciare discretamente dal viso con un movimento fluido e sensuale. Dopodiché, distoglieva lo sguardo e celava la sua mestizia dietro la maschera mozzafiato dell’infallibile geisha Sakura, la quale ha ben poco del piccolo ed effimero fiore omonimo. La rassomiglio più a un’edera velenosa, un parassita infestante stretto attorno al fragile animo di una donna sempre più sopraffatta dagli eventi. La sto lasciando appassire tra le cure di un uomo che di dolce ha solo il conto in banca.
Non sono mai stato un gran giardiniere. In fondo, la vita è affare che non rientra nelle mie competenze, nemmeno se sono io stesso a crearla.

+

Quella croce mi si è marchiata a fuoco nella mente, strappandomi il fiato dalla gola peggio di una spada tra le budella. La vedo ovunque, come una persecuzione o un infausto presagio che mi accompagna ad ogni passo compiuto, che abita i miei incubi, che m’impedisce di mangiare. Eppure, il suo significato non potrebbe essere più differente…

-Sephiroth?-

Qualche settimana dopo il nostro litigio, passate in missione, ritornai a farle visita, al fine di porgere le mie scuse e chiarire i fraintendimenti del nostro rapporto. Non le avevo in alcun modo fatto sapere del mio rientro, così da evitare il tanto temuto rifiuto. Lei, infatti, non mi stava attendendo e la sua stanza era vuota. Iniziai a passeggiare in tondo, ripassando mentalmente il discorso preparato durante il viaggio di ritorno; quando, ad un certo punto, la mia attenzione venne attirata verso il bagno, la cui porta era stata lasciata aperta. Il particolare su cui i miei sensi si focalizzarono fu una piccola striscia bianca svettare sul pavimento di legno, ai piedi del lavabo. Avvertii un disagiante senso di gelo attanagliarmi le ossa, un segnale ben preciso che, però, decisi d’ignorare. Sapevo di stare andando incontro alla mia rovina, ma quel minuscolo stick bianco mi chiamava a sé, nemmeno fosse stata una calamita. Mi fermai proprio sopra di lui e lo fissai per un lunghissimo istante. Il destino aveva voluto che quel dannato affare fosse atterrato proprio dalla parte del responso rivolta verso l’alto.
Dentro di me il significato di quella croce era lampante come 2+2 fa 4, ma il mio cervello non riusciva, anzi, non VOLEVA elaborarlo.
Lo raccolsi, nell’esatto momento in cui lei rientrò.

-Che cos’è questo?-

Evelyn mi fissava sbigottita, incredula che io, alla fine, mi fossi arreso e avessi strisciato al suo cospetto a invocare il suo perdono. Credo che sarebbe stata felice dell’iniziativa, soprattutto dopo settimane di ostinato silenzio, peccato per il tempismo. Avvertii distintamente il suo fiato mozzarsi, osservandomi emergere dal bagno con quella bomba in mano.

-Io… Non ti aspettavo! Oh, devo essere un disastro… Devo…-

Mi rivolse un sorriso nervoso, così da distogliere la mia attenzione sulle gote imporporate, solcate da lacrime di mascara nere. Gli occhi, pesti e sbigottiti, erano rossi e rigonfi, coperti da lunghe ciocche corvine, scappate all’acconciatura improvvisata e disordinata. I suoi abiti assomigliavano a un’accozzaglia di stracci dalla foggia preziosa e raffinata, tanto erano scompigliati e indossati alla bell’e meglio. Quella figura mi confondeva: riconoscevo i pezzi di quel mondo misterioso e bellissimo costruito dall’eleganza di una danza, lo sciabordio voluttuoso di sete pregiate, la melodia ticchettante di uno shamisen accompagnato da un dolcissimo e soave canto; ma, in quel momento, non mi erano mai sembrati così dissonanti, così imperfetti, così… terreni. Sotto il mio sguardo silenzioso, l’angelo, regnante perfetto del nostro mondo di sospiri, si dissolse, mostrandosi in tutta la sua crudezza. E mai, come in quel momento, avvertii la profonda affinità che ci legava l’un l’altra. Avrei voluto correre da lei e stringerla a me, sussurrarle che sarebbe andato tutto bene, baciarla, accarezzarla, ricambiare l’affetto donatomi mesi prima; ma qualcosa si sarebbe interposto tra noi, indesiderato. Ella si gettò davanti allo specchio da toilettatura e cominciò ad armeggiare con trucchi e pettini; ma le sue mani tremavano così tanto da non riuscire ad afferrare nulla. Mi dava le spalle, tuttavia, la mia attenzione rimbalzava sullo specchio e la fissava dritta negli occhi. Ruppe una boccetta di profumo maldestramente e rovesciò l’intero vasetto di cipria bianca, prima di affrontarmi. La vidi portare la mano al viso, nel vano tentativo di darsi un ritegno. Si lasciò scappare un singhiozzo, prima di appuntare lo sguardo sul mio riflesso.

-Non guardarmi…-

Era straziata. Vulnerabile. Scoperta. Pericolosamente esposta. Una belva in trappola, la quale tenta in ogni modo di apparire forte anche quando è chiusa all’angolo. Mascherare le difficoltà dietro a una realtà di falsa perfezione. Sakura le è entrata nell’animo molto più in profondità di quanto Evelyn non riesca ad ammettere.

-NON GUARDARMI!-

Mi urlò contro, strozzata, tentando di mostrare una determinazione di cui non ne possedeva nemmeno un briciolo. Si voltò, guardandomi direttamente negli occhi, ma la sua rabbia cedette sotto la pesantezza del mio sguardo. Capì di non avere più scampo: ogni suo segreto era stato svelato, ogni sfumatura del suo animo studiato, ogni sentimento compreso e catalogato. Inaccettabile. Lacrime incontrollate iniziarono a cadere sul pavimento, mentre lei crollava su se stessa, in un ultimo atto di pudore. La sua fortezza di bugie era stata infranta e distrutta con un solo unico, lungo, severo sguardo. E, quello stesso sguardo, è penetrato nel suo animo, violando selvaggiamente i suoi preziosi segreti. Una scena quanto mai simile a uno stupro efferato…
Evelyn si portò una mano al viso per preservare quel minimo di dignità rimastole e l’altra… non saprei dire se quell’azione venne dettata da un preciso intento o fosse solo un riflesso condizionato, ma quelle dita appoggiate su quel grembo mi scatenarono un brivido gelido lungo la schiena. Strinsi lo stick con più veemenza e deglutii più e più volte. Sebbene avessi in mano la prova definitiva, quel gesto costrinse il mio cervello a non ignorare più l’evidenza.

Incinta

Appena quella parola attraversò il cranio, il cervello, che fino a quel momento era rimasto ammutolito, esplose, riversando sul corpo una dirompente ondata di ansia, la quale, per poco, non mi stroncò. Mi resi conto che, chiunque sia il padre, quel bambino non era il benvenuto. Il Presidente non si sarebbe mai sobbarcato l’onere di crescere un figlio concepito con una, come la definisce lui, “cagna con gli occhi a mandorla”. Se, invece, il nascituro fosse mio…
Un senso devastante di nausea mi attanagliò -e mi attanaglia ancora- le viscere al solo pensiero di quello che potrebbero fargli… Ucciderlo. O peggio…
Il fiato si appesantì, mentre il mio stomaco si attorcigliava su se stesso. Tante opzioni, tante possibilità, tanti bivi si profilavano nella mia mente e tutti portavano verso a una conclusione peggiore della precedente. Il pensiero che quel bambino potesse subire il mio stesso identico destino, se non peggiore, diventò un macigno insopportabile. Non potevo accettarlo. Era semplicemente inconcepibile; quindi, per quanto mi ferisse quella decisione, c’era solo una cosa logica da fare…

-Abortisci-

Quella parola rimase sospesa nell’aria come il riverbero di una lama. Mi resi conto solo dopo pochi istanti che il silenzio piombato sulla stanza era dovuto al fatto che entrambi smettemmo di respirare. Mi pentii subito della condanna decretata, ma dentro di me sentivo che era l’unica soluzione. Sapevo anche che Evelyn non l’ avrebbe mai accettata.
Come volevasi dimostrare, lei sollevò lentamente il viso e, appena i nostri sguardi s’incontrarono, vidi l’Inferno trasudare da quegli occhi smeraldini.

-Come puoi chiedermi questo?-

La consueta voce angelica era svanita, distorta da un rabbia e un disprezzo infinito, i quali mi penetrarono nel cuore alla stregua di un coltello. Lentamente, avvertii il senso di colpa dilaniarmi la carne, spaccare le ossa, sventrare gli intestini, artigliarmi il cervello. Come potevo aver formulato una richiesta cotale? Che diritto avevo io di dirle come comportarsi per far fronte a questa situazione? Non lo so, ma razionalizzai il disagio considerando Evelyn incapace di pensare lucidamente, come dimostravano le mani incrociate sul quel grembo marchiato da un destino nefasto. Mi aggrappai disperatamente a questa constatazione, così da non cedere alla pietà. Quell’ammasso di cellule incontrollate era un errore. Un errore che avrebbe distrutto tutte le macchinazioni, tutti gli intrighi, tutti gli accordi redatti per proteggere la fragilità di questo piccolo mondo di donne; entro il quale la nostra bolla di vacillante felicità viene sospinta dai flutti crudeli del marciume del Pianeta, diretta chissà verso quale destino. Concetti che Evelyn sembrava aver dimenticato. Forte di queste certezze, mi distaccai, divenendo sordo e cieco a qualunque sentimento di compassione o misericordia. Spietato, freddo, calcolatore: l’Eroe aveva costruito la sua barriera.

-Io non te l’ho chiesto. Te l’ho ordinato.-

L’ira di Evelyn si spense rapida, così come era nata, lasciando spazio allo stupore. Boccheggiò per qualche istante, incredula. Vidi i suoi occhi squadrarmi da cima a fondo, alla ricerca di un qualunque tentennamento; ma, dalla sua espressione rabbuiata, capii che non ne trovò. Nessuna crepa nel gelido muro eretto contro di lei, nessun supporto alla sua causa persa in partenza, nessun interesse nei confronti della vita che cresceva all’interno del suo ventre. Eppure, qualcosa, dentro di me, urlava il proprio disprezzo.
Quante vite incolpevoli ho spezzato senza alcuna ragione precisa?
Quante volte del sangue innocente ha sporcato le mie mani?
Quanti bambini gravano sulla mia coscienza?
Centinaia, se non migliaia. E io avrei dovuto farmi degli scrupoli per un indefinito ammasso di cellule? Non sarebbe stato nemmeno definibile “essere umano”, pertanto sprovvisto di una qualsiasi volontà di vivere o coscienza di sé. Non credo si rendesse conto di essere vivo. Allora, perché quel senso di disagio corrodeva le mie certezze dall’interno?


-Non stai dicendo sul serio…-

Di fronte al suo gelido silenzio, lacrime di disperazione inondano nuovamente le mie guance. Studio, incredula, il viso imperturbabile e remoto dell’uomo di fronte a me, nella speranza di carpire un minimo segno di cedimento, ma capisco che di umano, in lui, non v’è più nulla. Un Dio impietoso si è sostituito all’uomo che amo, unica roccia a cui aggrapparmi, decretando, senza alcuna pietà, il destino del mio bambino. Mi sento impotente, incapace. E sola. Terribilmente sola. Incrocio quelle spietate iridi risplendenti nella penombra della stanza e una domanda assurda, quanto inaspettata, si delinea nella mia mente, spazzando via tutta la nebbia d’insicurezza che mi aveva ammantato la mente: chissà se anche lui avrà degli occhi simili? A quel punto, mi rendo conto di essere al cospetto del potenziale aspetto che potrebbe avere mio figlio e avverto il mio cuore perdere un battito.
Sarebbe un bambino semplicemente stupendo… Dai capelli color della luna e gli occhi di giada, magari con il mio sorriso ad adornare i suoi lineamenti leggermente occidentali. Già me lo immagino, sorridente e spensierato, giocare nell’acqua di un lago o scorrazzare per le vie di un piccolo paese di montagna, mentre ride come solo lui sa fare. Sarebbe un bambino dolce e affettuoso, pieno di energie e curiosità. E lo amerei con tutte le mie forze, fino alla fine dei miei giorni.
Perché per suo padre non è così? Che cosa spinge un uomo a rinunciare al dono più bello che la vita può regalargli? Forse non si rende conto di quanto questa creatura sia reale, di quanto sia dirompente la sua voglia di lasciare un segno nel mondo. Ne ho potuto constare la potenza già dalle prime nausee, dalle prime strane voglie, dalla primo test di gravidanza. Non è solo un ammasso di cellule, ma un essere vivente che cresce, mangia e ama. Perché, allora, negargli il diritto inalienabile della vita? Questo bambino non ha colpe: non riesco a vederlo nemmeno come un errore. Dopotutto, per anni i dottori mi hanno detto che, a causa degli abusi subiti nell’infanzia, non avrei mai potuto avere dei figli. E ora, come un miracolo, quel sogno creduto irraggiungibile è diventato realtà.
Avrò un bambino… e io sarò sua madre, colei che ha il dovere di proteggerlo, a qualunque costo.
Appoggio le mie mani sul grembo e posso avvertire un’impercettibile scossa pervadermi le dita. Sorrido. Non sono sola… Non lo sarò mai più.

-Se le cose stanno così, allora fate conto di non avermi mai conosciuto. Sparite dalla mia vista e non osate cercarmi più...-

Quella fu la nostra ultima discussione, la quale decretò la fine del nostro rapporto. Finalmente, lei era libera. Libera dalla mia paranoia, dalla mia gelosia, dalla mia violenza latente. Alla fine, il problema ero io, fin dall’inizio.
Non ho saputo mettere da parte l’orgoglio, anteponendo il mio benessere al suo.
Ho sempre sminuito lo sforzo enorme che lei compiva per incastrare e armonizzare tutti gli aspetti della sua vita, con la presunzione che le sue priorità non fossero importanti quanto le mie.
Pretendevo che lei fosse solo mia, quando era evidente che non lo sarebbe stato mai. Ero così ossessionato dall’invasione del Presidente, da non rendermi conto che lei mi aveva già posto al centro del suo mondo.
Ero la sua roccia, il suo faro nelle tenebre, l’unica persona capace di donarle il conforto necessario per affrontare ogni nuovo giorno, e, quando mi ha dato la possibilità di diventare qualcosa di più, ho avuto paura e le ho voltato codardamente le spalle, ferendola nei modi più cruenti possibili.
Lei ho chiesto di abortire… le ho chiesto di uccidere il frutto del nostro amore. Ho chiesto a una donna, dichiarata infeconda da numerosi medici, di uccidere l’unica possibilità di adempire il ruolo per cui la natura l’ha destinata. Lei aveva bisogno di me. Stava piangendo quando l’ho sorpresa rientrare. Era spaventata, non sapeva come fare a risolvere la situazione. Io ero lì, nonostante gli attriti sorti nei giorni precedenti, io ero tornato per stare con lei. Invece, l’ho delusa. Le ho sputato letteralmente in faccia di arrendersi. La soluzione a tutti i suoi problemi era la resa. Ma lei non l’ha mai accettato. E’ una guerriera. Era la mia guerriera. La mia roccia. Il mio faro.
Ora c’è solo oscurità. Non importa quanto colorate siano le insegne al neon dei locali nei sobborghi di Midgar; quanto intense siano le luci intermittenti dei lampioni ordinatamente allineati tra le vie trafficate della città; quanto attenti siano i fasci bianchi dei riflettori di sicurezza; quanto meravigliosi siano i giochi di luci utilizzati nelle fontane del Settore 1. Non importa quanto la Compagnia elettrica Shinra dispensi energia sanguinante e marcia, ma, senza di lei, il mio mondo è piombato in un’oscurità densa e vischiosa, la quale mi corrode pezzo per pezzo ogni giorno passato lontano da Wutai. La Morte stessa alberga nel mio cuore straziato dal senso di colpa, facendosi beffe delle vie alberate straripanti di vita, nell’unico giorno di lietezza dopo quattro mesi di sofferenza.
Ho potuto starle accanto un’ultima volta, ma non ho potuta sfiorarla, se non con lo sguardo.
Era meravigliosa, esattamente come la prima volta che la vidi, avvolta da una delicata pioggia di petali, trasportati dal vento fresco e profumato della Primavera.
E oggi, quello stesso crudele vento, ha sospinto le ali candide di quell’angelo verso un luogo a me precluso.
Un luogo dove il mio errore verrà dato alla luce.

*una mano sporca e scheletrica irrompe dal terreno, affondando poi le luride unghie affilate nella terra smossa e scura. La mano fa forza, aiutando un corpo mezzo decomposto ad uscire dalla sua tomba. Un lupo ulula alla luna piena, la quale si specchia sulla superficie perfettamente levigata della lapide di pietra. Su di essa è inciso un nome: fortiX, autrice scomparsa.*
OOOOOOOK, so che è un po’ tardi per l’atmosfera halloweeniana (?), ma si addiceva alla mia lunga assenza, di cui mi scuso! Le scuse sono sempre le solite: mancanza di tempo, voglia e ispirazione, sono state le principali cause del ritardo, poi se ci si aggiunge la tesi, le varie lauree a cui ho partecipato, il Lucca Comix, è un vero miracolo che sia riuscita a scrivere un intero capitolo! *si da una pacca sulla spalla da sola*
Questo capitolo non è lungo come i precedenti (si ritorna ai soliti standard), perché cmq, qua la storia si ferma un attimo.
Per Cloud, cercherò di rallentare un po’ gli svolgimenti, così da mettersi in pari con Seph, anche perché i suoi saranno capitoli che userò per far luce su tutta la folle situazione in cui il nostro caro chokobo sguazza da ben 18 simpatici capitoli (evvivaaaa-aaa -.-‘, ndCloud).
Per Seph, beh, la delicata situazione richiedeva un occhio di riguardo in più. Qui, ho lasciato il fantasma di Evelyn un po’ in disparte, così da goderci la frittura del cervello del Generale in tutta la sua bellezza! (gentile -.-‘ ndSeph). Ora capite, mie signorine, come mai la povera Evelyn è stata tutta bruciacchiata? Inoltre… fatevi due conti. La guerra in Wutai sta per finire!
Alla prossima!
Besos

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Capitolo 19
*** Segreti ***


Improvvisamente, qualcosa mi colpisce dall’interno. E’ un colpo secco, deciso, quasi prepotente, atto ad attirare l’attenzione. Potrebbe essere un comportamento fastidioso, ma non riesco ad impedire ai lati delle mie labbra di alzarsi. La patina di malinconia si dissolve, appena poso la mia mano sul punto in cui il colpo ha impattato. Lo accarezzo, mentre la pelle si tende e si gonfia sotto al palmo, scaldando il mio petto inaridito dalla delusione. Non riesco a pensare a null’altro, se non al futuro che mi attende, al grandioso atto che tra poco affronterò. Al solo pensiero, il mio corpo freme da capo a piedi, caricato d’aspettativa. E di timore. Il mio sorriso si spegne, non appena un viso odiato e amato nello stesso tempo affiora dalle memorie più remote e, senza risultato, dimenticate. Alzo gli occhi in direzione delle montagne, le quali s’ergono possenti verso il cielo terso e limpido. Come cancelli austeri e impenetrabili, m’illudo che possano proteggermi dal caos e dal male che impesta e avvelena le realtà là fuori.

Ma per quanto ancora?

La roccia non resisterà per sempre. La roccia può indebolirsi, la roccia può corrompersi… la roccia può crollare.

Come LUI…

LUI che sfidava apparentemente impavido l’alba sanguigna all’indomani della Morte.

LUI che soffriva nel buio e gelido silenzio della sua prigione dorata.

LUI che amava fino a distruggere.

LUI che ci ha abbandonato.

 

Potrò mai perdonarlo?

 

 

Una luce fioca e malata irrompe nella camera d’ostello in cui io e Vincent abbiamo deciso di alloggiare al riparo da questa fredda notte senza luna. Siamo entrambi stanchi e sfiancati da questo lungo viaggio verso Modeoheim; non tanto per la lunghezza del peregrinare, ma più che altro per la gravità delle amare confessioni che quel diario rivela a ogni pagina. Diventano sempre più pesanti, quelle parole, sempre più cariche di risentimento e… rimpianto. Ve ne è talmente tanto da spaccare un cuore letteralmente in due. Benedico ogni giorno il mio saggio istinto, il quale mi ha consigliato la necessità di avere un compagno d’avventure. Da solo, mi sono accorto, non ce l’avrei mai fatta. Forse questa idea non è stata del tutto farina del mio sacco, ma qualcos’altro mi abbia guidato verso quella scelta. Probabilmente, o Sephiroth o Evelyn sapevano che la mia già debilitata salute non avrebbe retto alla mente del Generale. Essa è troppo profonda e troppo oscura per sopravviverci. Perfino il proprietario soccombette a se stesso.

Sospiro pesantemente, mentre l’ultimo quesito posto da Evelyn mi lambicca il cervello. Mi rendo conto che le sofferenze che io e lei abbiamo subito a causa di Sephiroth non sono poi così differenti l’una dall’altra. Entrambi vedevamo in lui un motivo per osare, ben consci che, in un modo o nell’altro, lui sarebbe sempre stato accanto a noi, a spronarci. Lui era il nostro modello, la nostra indistruttibile roccia a cui ancorarci in caso di bisogno, certi che avrebbe retto a qualunque cosa. Ma sia io che Evelyn non ci eravamo accorti di quanto le voragini e le fratture scavate da anni e anni di colpi mancini ne avessero compromesso la struttura apparentemente solida e temprata.

In realtà, non poteva essere più fragile di così. Infatti, pian piano la roccia ha iniziato a franare; pezzi sempre più consistenti hanno abbandonato la cima fino ad accumularsi a valle, fino a che… tutto crollò. E il male in essa contenuto ha distrutto tutto, fino alla più piccola luce di bontà.

Potrò mai perdonarlo… E’ una domanda a cui trovare risposta è difficile. Perdonare un uomo capace di azioni così mostruose sarebbe logico infliggergli una pena atroce e spietata per l’eternità, però, se si guarda con più attenzione, si può dire che non è stato l’uomo a non volere quegli atti, bensì il mostro che risiedeva in lui. Troppi traumi e sconfitte hanno portato l’essere umano alla prostrazione. Se ripenso alle sue imprese, noto con quanta cura egli s’impegnava a danneggiare meno vite umane possibili. Le proteggeva a ogni costo, come se ne andasse della sua stessa esistenza.

Anche un’altra persona teneva un comportamento simile.

Aerith.

 

Forse non erano così diversi l’uno dall’altra: semplicemente, lui usava un altro modo per proteggere la vita. Un modo distorto e, alle volte, nemmeno definibile vitale, in quanto distruttivo e disumano, ma… se ci si pensa bene, un vulcano distrugge ogni cosa sul suo cammino, però il terreno lavico non è forse quello più fertile di tutti?

Amava fino a distruggere…

Probabilmente è per questo che ti ha lasciata. Egli si rendeva conto di non essere in grado di curare una vita così preziosa. Una vita che, miracolosamente, era riuscito a creare lui.

Era riuscito a creare… E’ un verbo che non gli si addice per niente. La prima cosa che mi viene in mente appena il suo ghigno demoniaco fa capolino tra le mie memorie è sangue, seguito poi da una sequela cruenta di morti violente e distruzione gratuita… E infine, odio. Odio puro e avvolgente, molto simile a quello che risplendeva in quelle malefiche iridi serpentine, mentre il sangue della donna che mi ha messo al mondo bagnava quella pelle di porcellana, su cui i riflessi del fuoco creavano un intrico di luci e ombre che distorcevano quei lineamenti solitamente così imperturbabili e granitici.

Scuoto la testa nel tentativo di dimenticare quel viso e la ragione per cui non dovrei lasciare tutto e tornarmene alla mia vita. Sempre che ne abbia avuta una…

- Non crucciarti, Cloud. Domani arriveremo a Modeoheim e tutte le nostre domande potrebbero trovare risposta. Ora, riposati. Ci aspetta un lungo viaggio in pullman. -

La voce atona e calma di Vincent scaccia via, per un attimo, tutti i brutti pensieri formulati sinora. Automaticamente annuisco e mi dirigo verso il letto, mentre il pistolero, con la cura di una mamma premurosa, chiude le tende, così da far piombare nel buio assoluto l’intera stanza. Questa oscurità dovrebbe aiutarmi ad addormentarmi, invece non fa altro che amplificare la mia angoscia nei confronti del bambino. Quello stesso bambino di cui mi pare di avvertire l’eco della sua presenza attraverso le sensazioni trasmesse da Evelyn. Temo che non sarò in grado di trattenere la mia spada. Temo che il Pianeta voglia usarmi per eliminare l’ultimo respiro del Generale con un solo, secco, colpo della Buster Sword, la spada ideata per eliminare Jenova e tutti i suoi figli. Normalmente non mi farei troppi scrupoli nell’eliminare quei rimasugli malati e marci da questo mondo, ma… questo è diverso. Ho fatto i calcoli e ad oggi dovrebbe avere tredici anni. Poco più di un bambino, il cui crimine più grande è discendere da una stirpe di distruttori. Non lo si può nemmeno definire abominio, anzi, credo che potrebbe essere la prova vivente che Jenova e Pianeta possono vivere in perfetta sintonia.

Apro gli occhi e mi alzo di scatto, abbandonando il tormentato dormiveglia.

- Cloud! Che ti è preso?!-

-La morte di Evelyn non è stata un incidente! -

-Cosa? -

-Pensaci, Vincent. Sephiroth, la reincarnazione più perfetta della Calamità, ingravida una Cetra…-

-Non siamo sicuri che lo sia stata…-

-Non importa! Se questo bambino ha davvero visto la luce, come auspichiamo, sarebbe la prova definitiva che, in realtà, è il Pianeta a essere il male che da anni cerchiamo di combattere. -

-La mancanza di sonno non ti sta facendo bene, Cloud. Stai dicendo davvero che Aerith è il male e Sephiroth è il bene? -

Rimango un attimo interdetto, rendendomi improvvisamente conto di quanto il mio punto di vista possa essere cambiato in queste settimane. Ero partito da odiare profondamente quell’uomo con ogni goccia di forza disponibile che ho in corpo, fino ad arrivare a rinnegare perfino le grandiose azioni compiute dalla donna che ho amato. Ma, anche una nuova consapevolezza ha preso corpo e mente: nessuno merita così tanto dolore. Nemmeno Sephiroth, il quale si è sempre prodigato per un Pianeta che voleva solo la sua caduta.

La mia espressione si fa seria e il mio sguardo si carica di una determinazione che nemmeno credevo di avere:

- Bene. Male. Sono solo parole. Punti di vista che cambiano come il giorno e la notte. Un metodo di comparazione un po’ troppo fumoso, non trovi? E se considerassimo solo quello che un uomo può fare e ciò che non può? Sephiroth avrebbe potuto distruggere il Pianeta ben prima della mia nascita, invece ne ha sopportato le crudeltà, gli squallori, i marciumi di una realtà in lenta decadenza. Ha osservato in silenzio l’odio, la rabbia e il dolore che gli riversavano addosso, quando avrebbe potuto eliminarli un volta per tutte. Ha amato persone, certo che prima o poi lo avrebbero abbandonato, quando avrebbe potuto isolarsi dal mondo intero. Ha resistito, quando avrebbe potuto mollare. Lo hai detto tu stesso: ama fino a distruggere. E lui ha distrutto se stesso, affinché il Pianeta potesse essere purificato dagli orrori compiuti dalla Shinra durante il suo lungo dominio. Aerith ha riabilitato la natura, mentre Sephiroth gli uomini. Ha donato loro la sua compassione, la sua volontà, la sua forza, affinché imparassimo a rispettare il nuovo mondo creato per noi. –

Quando finalmente finisco di parlare, vedo sul volto pallido di Vincent svettare un enorme sorriso. Sembra quasi commosso e fiero di sapere che io, il peggiore nemico di suo figlio, lo rispetto e lo ammiro.

Mio malgrado mi accorgo che LUI è e sarà sempre, in un modo o nell’altro, il mio idolo.

 

 

- Capolinea! Modeoheim! –

La voce greve e strascicata dell’autista mi sveglia dal sonno senza sogni in cui ero piombato, maledicendolo con grugniti irritati. Avverto le mie membra contratte tentare di reagire alla contorta posizione in cui sono stato per non so quanto tempo, lanciando stilettate di dolore in segno di protesta. Giro la testa e tendo i muscoli del collo e posso quasi avvertire ogni singola fibra stiracchiarsi fino a quasi la spalla. L’aria umida del pullman fa il resto, permettendo al gelo in entrata dalla porta di penetrare fino alle ossa. Mentre attendiamo che gli altri passeggeri scendano, lascio vagare il mio sguardo assonnato sul paesaggio attorno a me.

Modeoheim è una città rinata. L’ultima volta che la visitai era solo un ammasso di rottami arrugginiti ricoperti da una spessa coltre di neve. Non so bene di preciso cosa fosse successo, ma probabilmente le estrazioni mako nella zona avevano compromesso le benefiche fonti di acqua sulfurea, distruggendo irrimediabilmente il turismo termale della zona. La Bath House aveva chiuso i battenti, segnando la morte della città. E ora, dopo la rivitalizzazione del Pianeta da parte del Lifestream, le risorse naturali circostanti sono tornate permettendo anche alle piccole cittadine montane di ritornare ai fasti di un tempo. Le strade sono piene di gente, turisti e non, alle prese con le faccende di ogni giorno. I mercati fioriscono sotto la neve appena posata, vendendo la loro merce artigianale ai turisti in cerca di ricordi; i negozi brillano come le monete sonanti che entrano ed escono ogni secondo che passa, in una frenesia impazzita di scambio e ricambio; le luci natalizie adornano le vie in attesa di rischiararle non appena il sole morente terminerà il suo arco discendente al di là dell’orizzonte. Osservo famiglie dirigersi verso le piste da sci oppure alla ricerca di ninnoli da portare ai parenti a casa; giovani coppie destreggiarsi mano nella mano tra le bancarelle dei mercatini, oppure stringersi teneramente sulle panchine, incuranti del freddo; bambini giocare con la neve, correndo di qua e di là, aizzando contro di loro l’ira dei genitori per la loro noncuranza nei confronti del traffico o delle altre persone. Scene di vita quotidiana che mi donano un po’ di speranza e confermano la bontà insita nelle azioni di Sephiroth.

-Su, scendiamo. –

Obbedisco e mi alzo lentamente, avvertendo torpore all’altezza del fondoschiena e i muscoli della gambe tendersi all’inverosimile. Nota personale: mai più viaggi in autobus.

Appena metto piede sulla neve un vento caldo mi avvolge da capo a piedi, mentre l’odore penetrante di acqua termale mi dilata le narici e si posa in fondo alla gola. Rimango un attimo spiazzato, durante il quale la mia vista un po’ stravolta adocchia la fonte di quel curioso vento benefico: sono i fumi provenienti dalla ciminiera della Bath House. Lavora a pieno regime a quanto pare. In effetti, vedo molta folla dirigersi in quella direzione, chi su mezzi, chi a piedi. Un flash mi attraversa la mente, mostrandomi le misere condizioni in cui versava in passato. Una baracca arrugginita, devastata dal tempo e dalle intemperie; tubi marci e mattonelle rotte, macchiate dal sangue di un uomo giusto. Piume bianche e lacrime ricoprono un corpo in decadenza. Il sorriso su quel viso stoico si allarga, nel frattempo che il fedele soldato abbraccia la morte, conscio di non aver reso orfano il mondo dei suoi insegnamenti. Essi sono stato raccolti dal suo aguzzino. Egli è solo un ragazzo, un cucciolo, un innocente dal viso sfregiato dalla disperazione di un mostro indesiderato, la quale lo ha reso uomo tutto d’un colpo. Fa male, perché sarebbe dovuto toccare a te, un tale enorme onere.

Abbasso lo sguardo, mentre il dolore mi assalta il cuore.

 

Amico mio, perdonami, perché ti ho deluso.

 

Mi sento strattonare da una parte, lontano dalla folla, all’improvviso, da un tocco che non definirei dei più delicati. Senza capire, vengo spintonato contro il muro di un vicolo buio e bloccato contro di esso.

- Ma che ti salta in mente?! Vuoi farti scoprire o cosa? –

Vincent è fuori di sé dalla rabbia, lo posso vedere dalle iridi sanguigne che fiammeggiano; tuttavia la sua voce è appena un sussurro. Dal canto mio, lo osservo con aria spaesata, scuotendo la testa in segno di diniego.

Il pistolero sospira rassegnato, abbassando il capo. La stretta sulle mie spalle si allenta e io ringrazio il cielo, perché quei dannati artigli mi stavano sventrando la carne. Lo sguardo preoccupato del moro ritorna su di me.

- Non ti sei accorto di aver cambiato voce? –

Ora sono io a sospirare rassegnato. Di nuovo…

- No.-, e rivolgo la mia attenzione verso i piedi,- E non è la prima volta che mi capita. Sembra che cancelli dalla mia memoria i momenti in cui lui s’impossessa di me. Ho detto qualcosa di compromettente? –

- No, hai solo portato il pugno sinistro al cuore e hai detto… -

- “Amico mio, perdonami, perché ti ho deluso.” Lei non lo definisce un comportamento compromettente signor Valentine? –

Ci voltiamo di scatto entrambi nella direzione della voce, pronti a sfoderare le nostre armi. Almeno Vincent lo fa, io mi ricordo all’ultimo momento di essere disarmato. Lo abbiamo deciso prima di partire, poiché avrebbe potuto essere pericoloso per l’incolumità di entrambi mettermi un’arma in mano, visto la mia precaria sanità mentale. Inoltre, sarei stato molto meno riconoscibile senza i miei giganteschi spadoni appresso. Mi rendo conto, tuttavia, di sentirmi completamente inadeguato in assenza un’elsa tra le dita e che odio dipendere dagli altri per proteggermi. Comunque, in questo caso, non sono necessarie misure drastiche, in quanto il nostro avversario non sembra così propenso alla lotta, a giudicare dalle mani alzate e il leggero singulto scappato subito dopo il nostro scatto. Anche il suo aspetto non è minaccioso. Forse un po’ torvo, se si osserva il vestiario scuro e l’espressione corrucciata dipinta dietro degli spessi occhiali da studioso.

- Oh sì, ora sì che ragioniamo, signori. Una sparatoria in pieno centro di Modeoheim è l’espediente perfetto per non farsi scoprire. –

Lo straniero ci canzona con quel tono da maestrina saccente e, in effetti, l’idea di sparagli non è così male. Sfortunatamente, Vincent non è del mio stesso avviso, in quanto, saggiamente, rinfodera la Cerberus nella fondina, tornando a nascondersi dietro alla cascata di sangue, celata da un altro e più ampio mantello del colore della notte. L’uomo abbassa le mani e noto solo adesso che tiene in mano un bastone da passeggio, su cui la sua magra figura ingobbita si sostiene. Lo osservo a lungo e sembra affetto da una qualche malattia, perché non sembra anziano, a giudicare dalla capigliatura ordinata e nerissima che spunta dal cappello di lana. La sua pelle è relativamente liscia, se si escludono le rughe più profonde che solcano la fronte ampia, la base del naso adunco e gli angoli della linea tirata della bocca. Nemmeno la sua magrezza gioca punti in favore della sua età: le guance sono scavate, gli zigomi protrudono dal viso rendendolo quasi mostruoso e le orbite sono così profonde e scure che gli occhi sembrano quasi cadere dalla loro sede. Essi sono veramente inquietanti, a causa del colore nerissimo delle iridi, che li fanno assomigliare a due grossi pozzi scuri, che, severi, scrutano il mondo circostante.

Ha un aspetto molto famigliare…

- Chi sei tu? –

- Un intermediario del professor G. Ho il compito di portarvi da lui, quindi non perdiamo tempo e andiamo.–

La voce dell’uomo ha un tono sbrigativo e diretto. Si capisce subito che non gli piacciono i convenevoli e che vorrebbe decisamente trovarsi nel suo scantinato a sezionare chissà quale bestia. Io e Vincent ci scambiamo una lunga occhiata, ma l’uomo nemmeno aspetta la nostra risposta e si avvia con la sua claudicante, ma lesta, andatura.

- Non mi piace, Vincent. –

- Nemmeno a me, ma se avessero voluto prenderci ti assicuro che lo avrebbero fatto molto prima di arrivare qui. –

- Già. Non resta che fidarci. Andiamo! –

Ci lanciamo dietro quell’uomo e lo seguiamo per un buon quarto d’ora, durante il quale attraversiamo un sacco di vicoli e strettoie, fino a quando non giungiamo a un grosso pick-up nero, parcheggiato in una piazza secondaria del tutto deserta.

Ci fermiamo a pochi metri da esso, mentre il tizio ci apre il portellone posteriore e ci fa cenno di entrare. Noi rimaniamo immobili.

- Ok, “intermediario”, chi è questo G? Che cosa vuole da noi? –

- Questo non è il luogo né il momento per le domande. Salite e, una volta a destinazione, vi sarà chiarito tutto. -

 

 

La destinazione si trovava a qualche chilometro dalla periferia di Modeoheim, tra le fitte foreste di conifere alla base della montagna e la raggiungiamo quando il sole è tramontato già da un bel pezzo. Si tratta di un’enorme villa, circondata da uno spesso muro di cinta con tanto di telecamere ad ogni angolo. L’unico punto d’entrata un pesante cancello nero di ferro battuto anti intrusione, con tanto di campanello a lettura ottica e scanner facciale. Sembra di stare per varcare la soglia di una base militare… Attraversiamo il lungo viale alberato, fino a raggiungere un ampio spiazzo entro cui il pick-up fa manovra e si posizione proprio di fronte alla scalinata che porta all’ingresso principale. Esso è l’unica parte della casa ad essere illuminata, a parte una finestra al piano di sopra, da cui una fioca luce bluastra fa capolino attraverso lo spiraglio tra le tende. A quanto pare il padrone di casa ci sta aspettando davvero impazientemente.

All’interno, la casa è spoglia ed essenziale. L’atmosfera è fredda e quasi ospedaliera e una snervante sensazione di asettico s’intrufola sottopelle, causandomi un’improvvisa nausea mista a una sensazione che non riesco a indentificare. Sembra trepidazione… Perché? Chi è l’uomo che ci vuole a tutti i costi qui? Inconsciamente, la mia mano si stringe attorno alla tasca interna del giubbotto, dove nascondo il diario.

Dovranno passare sul mio cadavere per averti…

La nostra guida si ferma di fronte alla scala che conduce al piano di sopra e inizia a spiegare.

- Secondo piano, terza porta a destra. E’ lì che il professor G aspetta. –

Muovo un passo e Vincent mi fa eco, ma veniamo subito bloccati.

-No, signor Valentine. Solo il signor Strife. –

Il pistolero fa per protestare, ma io gli faccio cenno di lasciare perdere.

- Va tutto bene. –, e tocco la tasca dove tengo il libro, - Non sono solo. –

Il pistolero si rilassa e mi dona un sorriso tirato. Anche se un po’ timoroso, mi avvio da solo a conoscere questo fantomatico Professor G.

Raggiunta la porta indicatomi, giro la maniglia ed entro. L’interno è fiocamente illuminato come presagito dall’esterno, ma tutto mi sarei aspettato, tranne che una stanza d’ospedale. Ora capisco perché al proprietario non importa molto dell’arredamento della casa o della cortesia dei suoi collaboratori. Il professor G, almeno quello che credo sia l’uomo steso sul lettino, riversa in uno stato comatoso abbastanza serio, a giudicare dalla quantità di macchine per il mantenimento delle funzionalità vitali schierate in ogni lato della stanza. Cerco di distinguere le fattezze dell’uomo, ma i numerosi fili e macchinari m’impediscono la visuale. Cerco di avvicinarmi di lato, finché non incappo in un impianto molto inusuale per una camera di un uomo in coma. Vedo tre proiettori disposti a triangolo in un punto vuoto della stanza, alla destra del paziente, collegati a una sorta di elaboratore nei pressi dello schienale del letto. Quest’ultima cosa m’incuriosisce e faccio per avvicinarmi, quando, improvvisamente, l’impianto si avvia e la figura di un uomo vestito di un camice bianco e l’espressione affabile si materializza alle mie spalle.

Quasi cado all’indietro, poiché incappato in un filo vagante, ma, grazie ai miei riflessi riesco a rimanere in piedi, anche se le gambe rischiano di cedermi dalla sorpresa che pervade il mio animo. Non conosco quell’uomo, ma Sephiroth lo riconosce immediatamente.

- Pro- professore… ? –

L’ologramma sorride, provocandomi un lungo brivido lungo la schiena nel constatare che, nonostante i baffoni castani, l’espressione è identica a quella di Aerith.

- Felice di riverti... Sephiroth. –

 

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20 Agosto XXXX

 

Rigiro e rigiro tra le dita questo fiore in decadenza, sopravvissuto per miracolo a un lungo viaggio in elicottero, ma che ora è nella mia morsa mortale si sta lentamente rinsecchendo. Lo appoggio sul tavolo e, non so se per mia impressione o realmente, mi sembra quasi vedere i petali rivitalizzarsi. Non mi stupirei tanto di questo fatto, dal momento che è esattamente così che funzionano i miei rapporti. Perfetti e rigogliosi all’inizio, irrespirabili e pesanti poi. Lei, infatti, sembra rinata da quando la Shinra è uscita dalla sua vita. Stando ai rapporti di Tseng, si è trasferita in un ameno villaggio, dimenticato tra le montagne della catena Hourei, dove la guerra non sembra essere arrivata. E’ una piccola comunità di pescatori sorta sulle rive di un lago che gli abitanti chiamano Onjin, ‘Benefattore’ nella nostra lingua. Il tempo lassù sembra essersi fermato all’epoca feudale. Non c’è traccia di tecnologia, se non qualche radio vecchia e poco funzionale e gli unici rapporti che quella gente lega con l’esterno sono di tipo commerciale, scambiando il loro pesce con grano e riso. Hanno una mentalità molto chiusa e fortemente tradizionalista, perciò non sembrano molto inclini ad accogliere gli stranieri. Tseng, tuttavia, mi ha assicurato che Evelyn è stata ben accolta, nonostante l’insorgere si qualche malelingua sul suo stato.

“Ha raccontato che il padre del bambino è stato ucciso in battaglia. La gente le ha creduto e, a quel punto hanno smesso di parlare.

Mi dispiace, Sephiroth.”

Questo è il sintetico messaggio inviatomi da Tseng, assieme a tutti i file richiesti. Mi ha stupito il modo in cui egli si sia preoccupato del mio stato d’animo. Non credevo che dietro a quella maschera di completa indifferenza si nascondesse un animo così sensibile e umano. Non molto diverso da me in effetti. Ho sempre ribadito il concetto che fidarsi di un Turk è l’azione più sbagliata che un uomo possa fare; tuttavia egli si è mostrato una persona estremamente corretta e riservata. Sebbene sapesse di Evelyn e me, non si è mai sognato di rivelare alcunché al Presidente. A meno di non trasformarmi in una pericolosa minaccia per la salute del vecchio, ovviamente. Compie un ottimo lavoro di sorveglianza per Aerith, per cui l’ho ritenuto perfetto per i miei interessi. Tuttavia, non mi sento tranquillo. Mi è difficile inquadrarlo. La sua maschera lascia trasparire solo una minima parte dell’uomo che è in realtà e, sebbene finora non mi abbia dato ragione di dubitare di lui, l’infrenabile voglia di mettere sotto controllo quell’uomo è uno dei tanto motivi per cui non riesco più a dormire più di due ore a notte. Oltre all’abitudine presa durante la guerra, il primo pensiero e l’ultimo della giornata va a quella famiglia che ho creato, ma che non potrò mai avere. I fiori che Tseng mi passa sottobanco sono tutto quello che ho per sapere che stanno bene e gli scatti criptati inviati a un indirizzo email superprotetto sono l’unico modo per vedere il viso di Evelyn e, quando nascerà, quello di

Non riesco a trovare il coraggio di scrivere una parola del genere. Non sento di meritare un dono simile, anche perché, in fondo, non lo ho mai accettato. Anzi, credo di aver fatto tutto ciò in mio potere per allontanarmene il più possibile, sebbene ora lo rincorra come un cane con la sua coda. E’ strano: in me si agitano due diversi istinti, i quali combattono come belve rabbiose per avere la meglio. La conseguenza di ciò è l’assunzione di un comportamento al limite tra il lunatico e il bipolare. E, come tutte le guerre, la sofferenza fa da padrona. Quelle foto che mi accompagnano alla fine della giornata, mi uccidono ogni giorno che passa. Vorrei poter essere lì, accanto a quella donna meravigliosa, tenerla per mano, inebriarmi nella sua espressione radiosa e in quegli occhi ricolmi di speranza; mentre le nostre mani s’incrociano all’altezza del suo grembo tondo, impazienti e nervose. Vorrei parlare a quel ventre, lasciare che le minuscole orecchie della creatura all’interno si abituino alla mia voce, così potrò sorridere davanti alla sua espressione concentrata, mentre analizza il mio viso, quando finalmente c’incontreremo. Gli tramanderei le storie raccontate dal Professore, così da assicurarmi che la sua infanzia sia piena di colori e magia; gli riferirei dei luoghi che ho visitato, delle persone che ho conosciuto, delle meraviglie a cui ho assistito. Farei tutto ciò in mio potere per assicurargli una vita completamente diversa dalla mia. Eviterei di raccontargli delle mie riprovevoli, ingloriose imprese. Lo terrei fuori da tutto lo squallore che ha rimarcato la mia esistenza, tra cui i parenti a cui sarebbe legato. E, soprattutto, non avrà alcun rapporto con la Shinra o SOLDIER. A questo controverso punto che la mia odiosa razionalità entra in gioco. Io sono parte di quei divieti, in quanto io ho contribuito a forgiare il mondo entro il quale non voglio che quella creatura viva; per cui, per evitare ogni singola contaminazione è logico che mi faccia definitivamente da parte. So cosa vuol dire crescere senza uno dei genitori, ma conosco Evelyn, e sono certo che lei saprà riempire egregiamente il vuoto da me lasciato. In fondo, è meglio così: io non sono fatto per amare in modo così incondizionato, finirei solo per soffocare entrambi con le mie paranoie. Forse potrei essere un padre peggio del mio…

No, lei è libera ora e non voglio rovinare la sua ritrovata serenità nel nuovo mondo che sta per rinascere dalle ceneri della guerra.

La presa della Shinra sul Paese si fa sempre più serrata e poco manca al definitivo attacco finale che porrà finalmente fine a questo conflitto sanguinoso. L’imperatore sta cedendo alle lusinghe del Presidente e il popolo wutainiano sta lentamente accettando l’industria mako nella propria vita, volgendo gli occhi il più lontano possibile dalla distruzione della propria cultura. Ho visto città completamente ricostruite, copie tutte uguali di Junon o Midgar stessa. “L’era dei guerrieri in spada e armatura sta per volgere al termine. Oh no! Ci siete ancora voi SOLDIER. Beh, qualche rimasuglio di samurai ce lo possiamo anche tenere! Ghaa hahah ahahah!”

Non posso descrivere le torve occhiate che ci siamo scambiati Genesis, Angeal ed io, dopo questa battuta fuori luogo da parte di quell’imbecille di Heidegger. Tutta la sala a deriderci, mentre dentro di me il fuoco esplodeva. Quegli insulsi, inutili, marci, schifosi, miserabili, decadenti pezzi di fango. Parlano di vittoria, di potere, di profitti; ma non hanno la minima idea di quello che hanno costretto a compiere a centinaia di uomini. Li vedo quei soldati, nei miseri e inefficienti –perché all’ingratitudine non c’è mai limite- ospedali militari. Mutilati, nel corpo e nella mente; incapaci d’inserirsi in una società che non riconoscono più; tormentati dalle persone che hanno ucciso; traumatizzati dai compagni visti cadere nei modi più truculenti, terrorizzati da ogni singolo rumore. Molti di loro impazziscono e vengono spediti in fatiscenti manicomi o abbandonati nei Bassifondi, come carne da macello. Per quei pochi che ancora riescono a tenersi insieme, stento a riconoscerli. Erano ragazzini immaturi e pieni d’entusiasmo quando li vidi la prima volta e, ora… ora sono uomini, veterani, duri come la roccia e spietati come belve. Molti di loro non riescono a vivere lontano dal campo di battaglia, tanto che hanno preso residenza allo Shinra Building, tanto necessitano di respirare l’aria militaresca. Si gettano nelle missioni a capofitto e non riescono a stare fermi per più di un’ora di fila. Anche se nascondono questa voglia dietro a patriottiche frasi di libertà e indipendenza, io posso vederne la vera natura: loro vogliono uccidere. Lo so. Perché anche noi 1st la proviamo, per quanto cerchiamo di nasconderla, è lì, annidata nel nostro animo pronta a esplodere. Prego che la mia maledizione non sia genetica, altrimenti non potrei mai perdonarmi di aver condannato un innocente a un tale terribile fato. Speranza quanto mai vana, dal momento che sono a conoscenza di parecchie sindromi legate a figli nati da agenti SOLDIER, dovute molto probabilmente all’elevata quantità di mako contenuta nelle nostre cellule. Molti bambini, infatti, nascono con gravi deformazioni corporee o ritardi mentali; in altri casi avvengono aborti spontanei durante i primi mesi di gravidanza; oppure, nelle manifestazioni più gravi, portano alla morte sia della madre che del feto. La chiamano “SPIM- Sindrome Prenatale da Intossicazione da Mako”, ma volgarmente ha un nome molto più semplice e spietato: “Bacio del SOLDIER”. Addirittura, nelle aree rurali, dove l’ignoranza dilaga, viene chiamata “Bacio di Sephiroth”. Come se io fossi il responsabile della morte dei loro figli...

E’ terribile essere il protagonista di così tante spietate folkloristiche credenze. Sembra quasi che io sia il fautore di ogni male che aleggia nel mondo…

Forse è così…

In fondo, che cosa ho fatto di giusto nella mia vita? Combattuto guerre in nome di una compagnia interessata solo ad ampliare il proprio impero, infischiandosene del benessere del Pianeta da cui risucchia l’essenza vitale, spacciandola per energia pulita e sana. Ma non c’è nulla di pulito, né di sano, perché quell’energia puzza. Puzza di sangue, decomposizione e morte. Se si tende l’orecchio si possono sentire i versi macabri dei corvi, i quali banchettano su migliaia di corpi sventrati riversi nel proprio sangue raggrumato. Essi ringraziano la belva che, sopra di loro, vestita del plasma delle proprie vittime osserva trionfante il lavoro compiuto. E il pianto silenzioso di un ragazzino, impotente davanti alla distruzione, riascolta le suppliche e le urla delle vite a cui ha imposto la fine.

Una macchina. Non molto diversa da quelle che il Reparto Armamenti sforna ogni giorno. Perfino il mio modo di pensare non è così diverso da quei freddi pezzi di metallo. L’unica differenza è che chi mi manovra è una mente molto più assennata.

“Macchina. Mostro. Perché continui ad affibbiarti delle parole così brutte? Tu hai fatto una cosa bellissima. La cosa più umana che potessi fare. Forse non ti senti tale, a causa del fatto che ti sei arreso?”

La piccola Aerith, l’altra persona a cui ho rivelato il mio segreto, riesce sempre a centrare il punto. Anche se così piccola non lo è più. E’ cresciuta, diventando una splendida signorina, sebbene abbia conservato quell’innocenza e quella dolcezza che la contraddistingue dalle altre bambine. E dal resto dell’umanità, ma questo perché lei non appartiene a questa riprovevole razza. La sensibilità degli Antichi non l’ho mai riscontrata nemmeno nell’umano più buono…

Anzi, forse solo in Evelyn… Forse io la guardo con gli occhi dell’amore, ma, in effetti, lei è l’unica donna di cui posso dire di essermi VERAMENTE innamorato. Non ho mai provato emozioni così meravigliose e così profonde nel solo osservare la sua espressione assorta durante la toilettatura mattutina; il movimento lento e accorto della sua mano nel mettersi i capelli dietro alle orecchie; il leggero sorriso mentre leggeva un libro. Il solo pensiero mi fa sorridere e sospirare malinconico. Mi manca tutto questo, mi manca il suo respiro lento solleticarmi il petto, il tocco delicato dei suo polpastrelli sulla pelle, il profumo dei suoi capelli, il brillio dei suoi occhi. Mi manca svegliarmi all’alba di una missione e trovarla ad attendermi, sveglia da chissà quante ore, accanto alle mie cose pulite e pronte da essere indossate. Mi manca l’espressione preoccupata dipinta sul suo viso, il suo silente ‘non andare’ dietro ogni lenta azione di vestizione, l’ostinata determinazione a mostrarsi forte e fiduciosa. Mi manca il travagliato addio e qualcuno che mi dica ‘ti aspetterò’. Mi manca avere un abbraccio e un sorriso al mio ritorno. Mi manca sentirmi dire

 

Ti ho aspettato

 

Ma io no. Non ho aspettato che il Presidente si stancasse del suo giocattolo wutainiano, non ho aspettato che la rivolta di AVALANCHE diventasse così seria da indurre gli interessi della Compagnia ad abbandonare Wutai, non ho aspettato

“Perché non torni da lei?”

Perché so che non mi vorrà. L’ho delusa troppo perché mi possa amare ancora.

“Non lo puoi sapere.”

Non hai visto la sua espressione, Aerith. Le ho chiesto di uccidere nostro figlio…

 

Figlio

 

Avverto il mio stomaco accartocciarsi, una strana nausea attanagliarmi la gola, i polmoni completamente svuotati da ogni fiato, il cuore accelerare il battito.

L’ho scritto… Ho scritto quella parola e il mio senso di colpa si serra ancora di più attorno al mio cuore. Il mio dito si muove da solo e va a recuperare quelle foto nascoste in una cartella protetta da password. La digito e subito dopo una sfilza d’immagini appare nello schermo. In ognuna di esse c’è lei. Bella come il sole, cammina per la cittadina, fa la spesa, parla, ride. Sembra felice, spensierata. Sembra. E poi c’è quello scatto, quello che mi pugnala e rigira la lama del rimorso nel cuore: una lacrima scende dal suo viso, mentre osserva assorta il ventre. Il suo sguardo è triste, pieno di rimpianto. Cosa stia pensando, non è difficile da intuire, in quanto Tseng è riuscito a introdurre una cimice in quella casa. Apro il file audio che ormai avrò riascoltato centinaia e centinaio di volte.

 

- Baba. Io non riesco più a mentire. –

-Che vuoi dire, onee-chan? –

- Ogni volta che racconto che Sephiroth è morto, mi sento morire a mia volta. -

Un sospiro rauco dalla nota divertita. Immagino Natsu sorridere comprensiva.

- Lo ami ancora, vero? –

Silenzio protratto per una lunghissima manciata di secondi. Mi pare quasi di sentire il fiato di Evelyn mozzarsi, mentre si rende conto della realizzazione.

- Sì… -

E’ appena un sussurro, ma capace di rompermi letteralmente in due.

- Perché, baba? Perché non riesco a odiarlo come meriterebbe? –

Un fruscio di vesti riempie il sonoro, mentre, immagino l’anziana donna alzarsi stancamente per raggiungere e consolare la figlioccia con la sua saggezza.

- Probabilmente perché il tuo cuore sa che lui ha agito per il bene di entrambi. –

Un bassissimo frusciare di vesti indica che l’anziana donna ha posato una mano sul ventre gravido, come a sottolineare silentemente quell’ ‘entrambi’ appena proferito, mentre pazientemente continua a spiegare.

- Il male là fuori è ancora presente. Che ne sarà del mondo se il suo eroe non sarà lì a proteggerlo? Dovresti essere orgogliosa di portare un tale seme nel tuo grembo, il quale ha germogliato in un modo che chiamarlo miracoloso è dir poco. Dev’essere un segno, bambina. –

Di nuovo il silenzio fa da padrone, anche se la tensione si è palesemente allentata, lasciando spazio alla ponderazione delle parole di Natsu.

Un segno…

 

La riproduzione s’interrompe qui. Sono felice nell’apprendere che le mie iniziali supposizioni fossero sbagliate: Evelyn prova ancora qualcosa per me e, nel profondo, ella desidera ricomporre la nostra famiglia. Potrei assecondare questo desiderio, ma, come Natsu ha ribadito, il mondo non è ancora pronto per il mio ritiro. E forse non lo sarà mai. Ci sarà sempre qualcuno pronto a fronteggiare la Shinra e io lo dovrò combattere, giusto o sbagliato che sia. In effetti, è per questo che sono nato: Hojo è sempre stato molto chiaro su questo. Crearmi una famiglia o farmi degli amici non era previsto nel suo grande e perfetto piano. Se non sapessi che sarebbe capace di strappare quel bambino direttamente dall’utero materno con i suoi infernali attrezzi chirurgici, mi divertirei a guardare la sua espressione disgustata, mentre cullo mio figlio e bacio la mia sposa. Dopotutto, per lui, ogni cosa da me compiuta che non avesse a che fare con sangue o squartamenti era una debolezza, un fallimento a cui era necessario porre rimedio. Quel minuscolo, insensibile, bestiale uomo disprezza il fatto che il mio tempo libero non lo passi più solo, chiuso nella mia asettica stanzetta o nella sala addestramenti, ma in compagnia delle uniche persone che abbia mai definito ‘amici’. Fortunatamente, quel disprezzo trapela solo da torve occhiate scoccate da sotto le lenti di quegli odiosi occhialetti da presbite, poiché non tutti sono così pazienti come il sottoscritto. Soprattutto, un irascibile nobiluomo di Banora. Per quanto il nostro rapporto di amicizia sia sporcato dalla rivalità, Genesis è sempre il primo a prendere le mie difese, quando lo ritiene necessario. Non ho mai visto nessuno fronteggiare così spavaldamente Hojo, nemmeno il Professore; tuttavia, quel vecchio pazzo è riuscito a lanciare la sua stoccata finale prima di andarsi a rintanare nel suo laboratorio degli orrori.

“Goditi il tempo che ti rimane, galletto, perché il tuo canto non durerà molto a lungo.”

Sebbene Genesis non ci abbia badato, decretando che quella frase fosse frutto della demenza senile, io so per certo che Hojo è tutto, meno che demente. Inoltre, lo scienziato non conosce il senso dell’umorismo, per cui quelle che la gente scambia per battute o frecciate, sono generate da un determinato ragionamento.

Cosa voleva dire con “il tuo canto non durerà a lungo”?

Non credo si riferisse al rischio di morire in battaglia, perché Hojo è uno dei pochi a ritenere gli agenti SOLDIER di alto rango praticamente intoccabili. No, il riferimento è legato a qualcosa di più naturale. Il dubbio che lui sia effetto da qualche malattia è stato fugato da una piccola curiosata tra gli scaffali dell’archivio medico del Piano 49. Anche se in quelle cartelle ho trovato un sacco di strani dati, il più criptati. Spinto dalla curiosità ho provato a forzare le protezioni, ma invano. I firewall utilizzati per proteggere quelle cartelle sono impenetrabili. L’unica cosa che sono riuscito a scoprire è che il Professor Hollander, uno dei capi del Reparto Scientifico assieme a Hojo, è il fautore di quei dati, raccolti sotto la dicitura Progetto G.

G come… Genesis?

Genesis è un progetto scientifico? Segreto, stando alle protezioni erette in difesa di quei file.

O forse è un protocollo di sicurezza per proteggere le informazioni sui trattamenti mako sui SOLDIER in carriera, in caso d’invasione del palazzo o intrusione di spie nemiche, e io sono un paranoico senza speranza.

Anche se… non ha senso. Dovrebbero essere dati personali, altamente variabili da individuo e individuo. Non è detto che gli stessi trattamenti che hanno reso Genesis l’agente che è abbiano effetto su altri soggetti. Quella stranezza ha acceso la scintilla della mia curiosità compulsiva e sono andato a ripescare le cartelle cliniche di Angeal e le mie. Ma le stranezze erano ben lungi dal finire. Le cartelle cliniche di Angeal e Genesis erano praticamente uguali, vergate dalla stessa mano. Le mie, invece… erano normali. Niente sezioni criptate o protezioni. Agli occhi di un ingenuo sarebbe potuto sembrare un fatto del tutto irrilevante, ma per chi conosce Hojo, quello era un palese atto di occultamento. La sua firma era evidente, lampante. Sapeva che prima o poi sarei arrivato a curiosare, come quando, da bambino, m’intrufolavo nel suo studio a cercare notizie di mia madre, e ha pensato bene di nascondere tutti le briciole che mi avrebbero portato alla verità. Quel dubbio… quel dubbio che da sempre mi attanaglia è tornato a tormentarmi.

 

Sono o non sono umano?

 

E ora sembra che non sono stato l’unico a subire potenziamenti di dubbia origine. Non può essere una coincidenza che due dei più potenti SOLDIER della storia, abbiano preso parte allo stesso progetto. Ho controllato altre cartelle di agenti promettenti, come Zack Fair, ma non ho trovato nessun riferimento ad alcun progetto. Ho esaminato perfino cartelle di ex-SOLDIER, tra cui l’uomo che fu il mio maestro, però nemmeno lui sembrava aver preso parte ad alcunché.

Solo Genesis, Angeal e io…

 

Cosa siamo in realtà?

Perché tenerci all’oscuro?

Cosa diamine ci hanno fatto?

 

Che razza di demonio metterò al mondo?

 

 

 

SALVE!!! *riceve pomodori, uova, e lattuga marce in faccia, lanciate da una folla inferocita* Aspettate, aspettate!!! Lo so, lo so, lo so! Orribile ritardo, sono imperdonabile! Ma lasciate che vi spieghi. Il capitolo sarebbe dovuto essere pronto alla fine di Gennaio, era finito, perfetto, bellissimo. Mi arriva una mail e io la apro. C’era un virus dentro che mi ha fottuto (sì, fottuto, so che è rating verde, ma una parolaccia me la potete concedere) completamente il computer e tutti i dati ivi contenuti. E siccome sono una completa imbecille ovviamente non l’ho salvato da un’altra parte. Quando il computer mi è tornato dopo una settimana, purtroppo non avuto neanche una briciola di tempo per dedicarmi completamente alla riscrittura del capitolo, perché:

1.       Ho dovuto tenere dietro a mia mamma che si era slogata una caviglia;

2.       Nevicata colossale, niente corrente per 3 giorni;

3.       Dovevo prepararmi per partire per la Turchia;

Ora, sono qui, in Turchia, ad Antalya, per la precisione, un sacco di tempo libero, tra una boat survey e una land survey a rincorrere i delfini per tutto il bacino levantino, e finalmente ho trovato la mia tranquillità e l’ispirazione. Il capitolo è venuto meglio di quello che avevo scritto precedentemente e sono riuscita a mettere tutto quello che volevo. Stiamo entrando in area CC, quindi preparatevi che tra poco si ballerà!

E sì, il professor Gast è vivo (più o meno) e sarà interessante vedere il nostro Cloud in preda alle crisi esistenziali (quanto sono crudele, BUAHAHAHAHAH!!!).

Mi dispiace ancora per avervi fatto aspettare così tanto, ma vi giuro che era mia completa intenzione aggiornare prima della mia partenza, ma la sfortuna non conosce limiti.

Alla prossima!

Besos

 

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Capitolo 20
*** Sacrificio ***


20. Sacrificio

-Un segno, dici? Che finalmente il Pianeta abbia rotto il suo silenzio? –

Mentre proferisco questa frase, più a me stessa che alla mia interlocutrice, mi avvio verso l’uscio, dove la porta a soffietto è stata lasciata aperta, affinché il fresco vento in discesa dalle montagne rinfreschi i rimasugli del caldo pomeriggio estivo. La mia attenzione vaga sul lago che, placido, accoglie i morenti raggi solari, colorando le proprie sponde di un appagante dorato. Mi appoggio allo stipite e avverto il bambino muoversi, cambiare posizione, stiracchiarsi. Appoggio la mano sul punto in cui la sua schiena viene accolta dalle morbide coltri del mio utero e accarezzo la pelle con dolcezza. Mio piccolo, dolce tesoro, quanto vorrei che tuo padre fosse qui per vederti nascere… Avverto una lacrima seguire il profilo della mia guancia.

- Da quanto tempo è che non lo percepisci, ormai? –

La domanda di Natsu mi riscuote dai tristi pensieri e, senza voltarmi, le rispondo, greve.

- Da quando mi sono unita a Sephiroth la prima volta. All’inizio la voce del Pianeta mi giungeva lontana e distorta, fino a scomparire del tutto quando sono rimasta incinta. –

Il bambino si muove ancora, lasciandomi per un momento senza fiato a causa di un deciso calcio diretto allo stomaco. Piccolo birbante…

- Sembra una sorta di interferenza. Forse il mako…-

-No.-

 Tronco il discorso della mia fida ancella con forse troppa durezza, infatti la sento trattenere il respiro, imbarazzata per aver osato a insinuare una teoria, a mio gusto, troppo supponente. Il silenzio aleggia nella stanza, denso d’attesa.

Distolgo l’attenzione dalle acque placide e la rivolgo alla dispettosa collina tondeggiante del mio ventre.

Accarezzo ancora il mio piccolo tesoro e sorrido. Il mako avrà riabilitato il mio fisico, ma l’amore ha fatto sì che tu venissi concepito. Poi, un pensiero spegne la piccola luce di gaiezza sotto cui mi ero rifugiata: una confessione infausta che potrebbe distruggere le speranze riposte nel futuro di mio figlio.

“Mia madre è morta dandomi alla luce. L’unica cosa che so di lei è il suo nome.”

“E qual’era?”

-La causa di questo silenzio è opera di LEI. -

Di Jenova.

 

 

Il ricordo piano piano va sbiadendosi, mentre poggio il diario sul petto. La nostra iniziale supposizione era esatta. Evelyn era in grado di percepire il Pianeta, esattamente come Aerith; anzi forse il legame era anche più profondo data l’età più avanzata della donna. E, soprattutto, conosceva Jenova. Posso solo immaginare la sorpresa pervadere quel volto di porcellana nel sentire pronunciare quel nome nefasto dalle labbra del suo amato. A questo punto una domanda sottile e tagliente s’insinua sottopelle: perché non gli ha raccontato la verità? Forse rivelata dalla donna di cui era innamorato quella versione dei fatti sarebbe sembrata più dolce. Oppure sarebbe stata Garyo a subire lo stesso destino di Nibelheim… Probabilmente, non ha avuto il cuore di distruggere le uniche certezze che Sephiroth avesse mai avuto, per quanto false e fittizie esse fossero. Per un attimo, lei mi mostra un Generale dallo sguardo trasognato, mentre racconta quanto quel nome gli sia stato di consolazione durante la sua terribile infanzia.

Un bambino nel corpo di un uomo.

Posso sentire quella verità solleticarle le labbra, mentre il rimorso le spacca il cuore.

Perdonami, amor mio…

Lo hai abbracciato, interrompendo il flusso dei suoi ricordi, nella speranza di mettere a tacere la crudeltà appena compiuta e, nello stesso tempo, donargli quell’affetto che, sei sicura, è più vero di qualsiasi cosa sia stata nella sua vita.

L’odio e la rabbia prorompono in quel cuore forte e compassionevole, mentre desideri vedere la Shinra sotterrata sotto metri di fiamme. E tu con loro, perché volente o dolente, stai facendo il loro gioco. Tu non lo riesci ad accettare e l’impeto lo stringe maggiormente a te. Lui non capisce e l’eco lontano della sua domanda a malapena raggiunge le tue orecchie, assordate dalla furia. Ti specchi nel tuo riflesso e quasi perdi un battito. Atterrita, noti come le tue pupille abbiano mutato aspetto, divenendo lunghe e sottili, e di come la tua iride sinistra brilli di deboli screziature rosate. Un brivido di terrore ti scuote da capo a piedi, richiamando la preoccupazione del tuo amato. Ti rifugi nel rassicurante incavo della sua spalla e ti ancori con le dita alle sue ciocche argentate. Infine, LEI ti ha raggiunto. Ti ha aggirato magistralmente facendo leva sulla debolezza della tua metà umana. Quella bellezza che è stata fatale per la tua razza ti ha sconfitto ancora una volta; tuttavia, mentre avverti quelle mani grandi e forti accarezzarti per donarti conforto, ti rendi conto che lui non è come la sua antenata. E’ così fragile, così umano, così sensibile. Senti che non sarebbe in grado di reggere la verità che gli è stata taciuta sin dalla nascita. Prima o poi la scoprirà, ti suggerisce una voce ammaliante e crudele. A quel punto, la consapevolezza ti dona una nuova determinazione. Non sarà solo. Liberi il tuo amato dalla morsa in cui lo avevi costretto e lo baci. Leggi nei suoi occhi un interrogativo, ma lo ignori.

Un giorno, capirai, amore mio. E finalmente potremo stare insieme…

Avverto le mie palpebre sbattere, segno chela mia volontà sta risvegliandosi dal torpore. Un altro sogno ad occhi aperti. Ormai capita sempre più spesso che realtà e ricordi si confondano tra loro, senza che riesca ad accorgermene. La verità non è poi così lontana, dopotutto.

 

 

- Sephiroth? Credo ci sia un errore. –

Il Professore si acciglia appena, scrutandomi con quelle iridi verdi così famigliari e calorose. Dopodiché, il suo sguardo si stringe e inizia a lisciarsi i grandi baffoni castani.

-Interessante. –

Non mi piace essere guardato in quel modo clinico. E ancora meno ascoltare le valutazioni sui miei mutamenti.

-Cosa c’è interessante, esattamente? –

Sbotto io, cercando di nascondere il mio disagio dietro un’armatura di spavalderia. Invano. L’uomo non smette di fissarmi, di valutare, di catalogare. Sebbene sia molto meno inquietante di Hojo, la soggezione pervade in egual misura il mio animo.

-I suoi cambiamenti repentini di personalità sono interessanti, signor… Strife? -

Aggrotto le sopracciglia preso alla sprovvista. Cambiamenti di personalità? La mia attenzione viene catturata da un monitor posto alle spalle dell’ologramma, accomodato in un angolo. Su di esso posso vedere un tracciato muoversi concitatamente a singulti su uno sfondo verde, mentre numeri e lettere scorrono al suo fianco. Non sembra essere collegato a nessuna della macchine che lo tengono in vita, quindi deduco si tratti di uno strumento per analisi di altro tipo.

-Cos’è quell’affare? –

Chiedo, indicando col mento. L’ologramma si volta, gettando un’ondata svogliata all’oggetto in questione, poi lo riappunta su di me, spiegando con voce affabile.

- Solo uno scanner per il rilevamento dei parametri vitali. Nel caso lei avesse un altro tracollo potremo agire tempestivamente. –

Rimango per un attimo interdetto. Cosa ha appena detto?

-Come fa a saperlo? –

-Il signor Tuesti mi ha riferito della sua visita all’ospedale di Edge. A quanto pare quel diario ha degli effetti su di lei. Dico bene? –

Una stretta di paranoia artiglia il mio cuore, mentre la mia mente metabolizza l’informazione appena ricevuta. Quindi, Reeve mi teneva sotto controllo… Alla faccia del “Andiamo, Cloud, è solo un libro!”. La paranoia si trasforma in sgomento appena realizzo che probabilmente quello scarto di Shinra sapeva tutto fin dall’inizio. La rabbia fa il resto, mostrando i miei umori chiari e lampanti sul monitor.

-Si calmi, signor Strife. Io sono qui per rispondere a tutte le sue domande. –

- Davvero? Allora, mi spieghi, “Professore”, se eravate a conoscenza delle conseguenze che leggere quel libro mi avrebbe causato, perché me lo avete consegnato? E non dite che speravate che non l’avrei letto, perché ho la netta sensazione che sia stato il vostro obiettivo fin dall’inizio. -

Prima che Gast potesse rispondermi, la realizzazione mi colpisce a come un fulmine a ciel sereno. Una risata, una risata lugubre e ultraterrena mi nasce dal profondo della mia furia.

Ma certo. Siamo sempre topi di laboratorio, in fondo…

- Quel libro non proviene davvero da Midgar. Non è mai stato sotto le macerie del Golden Building. O sbaglio? –

Lo scienziato distoglie lo sguardo liquido di vergogna, lasciandolo vagare per la stanza. Le sue dita s’incrociano, nervose. Anche Aerith si comportava così quand’era in imbarazzo.

- No, è stato trovato nella Shinra Masion di Nibelheim. –

Avverto un moto di stizza pervadere ogni singola cellula del corpo, la voglia incontenibile di abbandonare questa casa e riprendere il mio viaggio verso Wutai. O, in alternativa, distruggere tutto e guardare le fiamme incandescenti fare a pezzi ogni cosa sul suo cammino. Scuoto la testa, accantonando l’ultimo pensiero, il quale stava iniziando a dare segni allarmati sul monitor.

- E’ sempre stato in vostro possesso? –, domando, perseverando nella mia furiosa immobilità.

L’ologramma ancora non trova il coraggio di guardarmi negli occhi e annuisce con un lento movimento della testa. Il suo silenzio, tuttavia, mi ottunde le orecchie. Voglio sapere di più! Sbotto.

-RISPONDETE! –

Il tracciato registra picchi impazziti e fuori scala, mentre il monitor s’infiamma pericolosamente, attivando allarmi sonori. Il professore sobbalza, come punto da un ago incandescente e torna a fissarmi con occhi sgranati. Il suo terrore si riflette nei miei occhi. Mi porto le mani alla bocca, ponendole entrambe su di essa, sebbene rimanga spalancata, vuoi per lo stupore, vuoi per la paura.

E’ la prima volta che mi rendo conto di aver ascoltato la voce di Sephiroth lasciare le mie labbra. Ora capisco perché tutti sbiancano appena la odono. Non c’è traccia della gelida calma che solitamente ammanta quel tono baritonale e perentorio, fatto per comandare; o la maliziosa follia che accarezza ogni lettera come un’amante, fatta per insinuarti il terrore direttamente sottopelle, sottolineando il poco tempo che ti è rimasto per vivere. Dietro all’esigenza dell’eroe e all’ira della Bestia, c’è la disperazione e la sofferenza di un bambino. IL Bambino, il vero Sephiroth. L’uomo sensibile e dolce che Evelyn ha amato. L’uomo fragile e martoriato oppresso da un Pianeta spietato. L’uomo speranzoso e buono distrutto da una verità troppo grande per lui.

LUI che desiderava solo essere normale.

LUI che bramava VIVERE.

LUI che anelava la REDENZIONE.

Ancora scioccato, lascio cadere le mani lungo i fianchi e indietreggio verso il lettino, senza staccare gli occhi dall’ologramma. Mi appoggio alle difese con tutto il corpo, appuntandomi con le mani ad esse. I miei occhi vuoti ora lasciati vagare sul pavimento liscio. Abbasso le palpebre e prendo un profondo respiro.

Le hai giurato che non l’avresti mai lasciata andare. Ciò ti uccide più della Morte stessa, vero?

 

Il dolore…Fallo smettere, ti prego.

 

Sollevo le palpebre di scatto, spiazzato da quella supplica sussurrata dai recessi della mia mente. Una morsa di pietà mi stringe il petto, mentre gli occhi iniziano a pizzicare. Mi porto il pugno all’altezza del cuore, massaggiandolo. Senza fiato, appunto lo sguardo sul viso scarno e pieno di tubi del vero professore. Un’altra stilettata che va a deformare il mio viso per un doloroso secondo.

 

Questa è la fine a cui vanno incontro coloro che amo…

 

Mi mordo il labbro per ricacciare indietro il gemito di dolore nascente dalla gola e le lacrime. Le spire del senso di colpa si stringono ancora di più. Ha ragione, è un dolore insopportabile. Ingiusto.

-Ditemi tutto quello che sapete di LEI. -, proferisco, senza muovere un muscolo, la voce inaspettatamente roca.

Con la coda nell’occhio osservo l’ologramma riscuotersi e annuire, compassionevole, mentre si sistema gli occhiali, si liscia i baffi e scandisce la voce. Movimenti così famigliari…

 

Non è cambiato.

 

Mi pare quasi di vedere un sorriso triste e malinconico impresso in quella osservazione. Ricordi fugaci fanno capolino nella mia immaginazione, disegnando fantasmi fumosi attorno a quella figura digitale. Una libreria, una scrivania, una lampada, un timer e una scacchiera. E una falsa e dolce verità.

“Tua madre si chiamava Jenova. Ti amava, Sephiroth. Più di quanto tu possa immaginare.”

Sospiro di rimando.

- Il suo nome completo era Evelyn Harisawa. Nata da Hiroshi Harisawa, un pescatore Wutai originario del Sud- Ovest del Paese e Tanya Joyfill, una modesta fioraia di Junon. –

-Fioraia? A Junon? –

Il professore annuisce, greve, mentre un sorrisetto appare da sotto i baffi.

-Esatto. Sua madre apparteneva alla stirpe degli Antichi. –

-Come ha fatto la Shinra a non scovarla? –

- Anche se non sembra Evelyn aveva qualche anno in più di Sephiroth. E’ nata prima che il Progetto S prendesse il via. E, di conseguenza, prima che io scoprissi l’esistenza della Terra Promessa. A quel tempo, i suoi genitori si erano trasferiti a Yohaido, una remota cittadina sul mare di Wutai, paese natale del padre, al di fuori del controllo della Shinra. –

Apro la cerniera della giacca e infilo la mano all’interno, alla ricerca della tasca interna, al fine di recuperare il diario. Spiego le pagine e lei è lì, nella sua torreggiante perfezione ad osservarmi, splendida; come se nulla, né guerre e battaglie, fossero mai accadute.

- E quindi alla fine avevo ragione. Lei è un’Antica. -

- E non un’Antica qualsiasi. –

Alzo lo sguardo dalla fotografia e lo appunto all’ologramma, famelico e curioso.

- In che senso? –

- Lei discende dall’eroe che confinò Jenova nella sua prigione di cristallo. –

La mascella cade letteralmente a terra, appena sento quella frase. E credo che nemmeno Sephiroth lo sapesse, tanto che avverto la sua curiosità morbosa invadermi.

- Nientemeno? –

-Già, ma la storia è ancora più complicata di così. -, fa una pausa, durante la quale io pendo letteralmente dalle sue labbra, - Deve sapere, signor Strife, che non tutti i Cetra si ribellarono a Jenova. –

A quella affermazione un brivido di anticipazione mi gela la spina dorsale. Temo di sapere dove andrà a finire questa storia. E ciò spiegherebbe un bel po’ di cose. Nel frattempo, l’ologramma scompare in una pioggia di pixel per poi trasformarsi in una sequela d’immagini, la cui forma è determinata dai concetti esplicati dalla voce digitale.

- Come ben sa, le leggende Cetra raccontano che Jenova condivise la sua sconfinata conoscenza con gli Antichi, al fine di celare le vere intenzioni. Lei voleva soggiogarli, indurli ad accettare che il Pianeta su cui vivevano doveva essere distrutto, perché macchiato dalla piaga degli Umani. Alcuni saggi riuscirono a scoprire il suo piano e combatterono per impedirle di metterlo in atto. Tuttavia, non era sola. Ella raccolse attorno a sé moltissimi accoliti, i quali le mostrarono come avere accesso al cuore del Pianeta, la fonte di tutto il Lifestream. La Terra Promessa, appunto. Ifalna mi disse che quegli uomini e quelle donne vennero bollati come traditori e, dopo la sconfitta della Calamità, sterminati. –

Jenova caduta dal cielo, il cuore del Pianeta, il Lifestream e, infine, immagini raccapriccianti dello sterminio di un intero villaggio, recuperato probabilmente da un antico bassorilievo, dato la grossolanità dei disegni. Tuttavia, un dettaglio cattura la mia attenzione: la sagoma di una donna urlante inseguita da un manipolo di soldati. Sebbene la figura non sia particolarmente dettagliata, posso distinguere un secondo profilo stagliarsi all’altezza del suo petto. Un neonato. Non so perché, ma quel bambino m’impedisce di distogliere lo sguardo e, tutto d’un tratto, mi sento risucchiare in una sorta di limbo. Sento nella mia testa antiche canzoni, in una lingua che non riesco a riconoscere, risate, dialoghi. Tutti suoni tipici delle febbrile vita quotidiana di un villaggio. Essi si fanno sempre più frenetici, come se qualcuno avesse azionato la riproduzione veloce. Come una nenia quei suoni mi stordiscono e m’ipnotizzano, permettendomi quasi di intravedere scorci di una realtà perduta da tempo appartenenti a un’epoca dimenticata. Quando credo di essere in grado di vedere cosa c’è oltre alla patina dei tempi, essa viene squarciata dal fuoco e da urla di morte.

-Signor Strife! -

La voce elettronica del Professore mi strappa da quell’incubo a occhi aperti e lentamente ricomincio a prendere coscienza della realtà. La prima cosa che percepisco è la mia guancia premuta sul pavimento.

- Cloud, mi sente? –

Mi guardo intorno e noto che la prospettiva è drasticamente calata.

- Steven! Steven, venga qui! –

Ci metto qualche secondo a unire le due informazioni per giungere all’ovvia conclusione. Sono svenuto. E sono pure caduto in grande stile a giudicare dal male che mi si propaga per tutta la faccia. Emetto un sonoro sbuffo di rassegnazione.

Devi trovarlo molto divertente vedermi svenire come una donnicciola.

 

Non posso rispondere di no.

 

Trattengo l’offesa gratuita che mi stava per nascere dalla bocca e risparmio energia per alzarmi. Solo allora mi accorgo che il monitor che mostra i miei parametri vitali sta virando da un pericoloso rosso a un acquietante verde. Anche i valori vanno via via abbassandosi. Dopodiché, appunto la mia attenzione sull’ologramma, il quale mi fissa con aria sgomenta. E impotente. Gli rivolgo un sorriso tirato.

- Non preoccupatevi, Professore. Sto bene. Svenire è ormai ordinaria amministrazione. –

Vedo il viso di Gast distendersi e sorridermi di rimando, sollevato.

- Mi dispiace. Temo di aver innescato qualcosa mostrandole questa immagine. I Sephera sono molto sensibili ai ricordi. –

-I che? –

- Sephera. E’ il termine con cui gli Antichi additavano coloro che si sottoposero a Jenova. A quanto pare, la connessione tra lei ed Evelyn è più forte di quanto pensassi. –

Mi rimetto in piedi, senza l’ausilio di un piccolo aiuto da parte delle difese del letto, ed emetto uno sbuffo divertito.

- Oh, siamo molto intimi, ormai. –

Una stilettata di dolore mi pervade tutto il corpo, accompagnata da una voce dal timbro graffiante molto famigliare.

 

Attento a te.

 

L’ammonimento di Sephiroth non passa inosservato nemmeno al Professore, il quale nota tutto dal suo scanner. Egli ridacchia.

- Qualcuno è molto geloso a quanto pare. –

Grugnisco. Simpatico come sempre…

- Umpf. Diceva? –

Il Professore per la seconda volta in quella serata si sistema gli occhiali e si liscia i baffoni, riprendendo il suo solito cipiglio affabile.

- Come stavo dicendo, Sephera fu il termine coniato per indicare coloro che si unirono volontariamente a Jenova. Scritti Cetra raccontano di Sephera in grado di soggiogare il Lifestream al loro volere, usandolo come arma. La vicinanza con Jenova, inoltre, gli aveva resi capaci di manipolare le menti delle persone. La loro specialità erano i ricordi. Giocavano con la memoria degli avversari, rievocando le rimembranze più dolorose o spaventose fino a portare il malcapitato alla pazzia. -

-Un po’ come sta succedendo a me. –

Il professore s’interrompe un attimo e annuisce, poi riprende a spiegare.

- Erano estremamente potenti e molti di loro diventarono le macchine da guerra spietate di Jenova, i suoi più fedeli servitori. –

L’ologramma si fermò, sia con le parole che con il corpo; la sua espressione si fece triste. Rimase un po’ in silenzio, mentre la mia curiosità mi divorava dall’interno.

- Essi vennero sterminati e i fautori di quel genocidio furono proprio gli umani. –, una mesta pausa con annesso tutto il peso di una colpa maturata in 2000 anni di nefandezze, - La vendetta mosse i nostri cuori, in quanto i Sephera, durante il dominio della loro signora, si macchiarono di molti crimini contro l’umanità. Non ebbero pietà di loro, nemmeno di colui che li salvò. -

M’irrigidisco. Le mie dita si artigliano alle difese con più veemenza, mentre trattengo il fiato. Un fuoco m’infiamma il torace. I miei denti scricchiolano, mentre l’eco di un’antica onta ottunde il mio udito. Sono schifato, ma devo continuare. Lei me lo chiede.

- Continui. -, soffio a denti stretti.

- Il nome si è dimenticato, cancellato dall’odio e dal disprezzo, ma si sa che fosse il Sephera più potente, uno dei primi ad accettare il volere della Calamità caduta dal cielo. Nonché, suo braccio destro. –

Mi scappa uno sbuffo divertito. Non poteva non essere una coincidenza. Ciò spiegherebbe il disprezzo di Jenova nei confronti di Evelyn. Il destino è davvero beffardo, alle volte. E schifosamente conveniente.

- Se tutto è andato perduto, come ha fatto a risalire alla discendenza di Evelyn? –

Il professore sorride, soddisfatto.

-Questa è davvero una bella domanda, signor Strife. –

L’ologramma scompare, lasciandomi a un palmo dal naso. Improvvisamente, dei movimenti meccanici attirano la mia attenzione sulla parete dinnanzi a me. Non vedo altro che buio, però; perciò decido di avvicinarmi. Appunto le mie braccia agli stipiti e allungo la testa oltre la soglia, sbirciando alla ricerca di una risposta alle mie domande. La tenue luce della stanza di Gast basta solo ad illuminare i primi gradini di quella che sembra essere una scala diretta verso le viscere della casa. Rivolgo il mio sguardo famelico di risposte verso il lettino. Delineo l’immota figura del Professore e sospiro, per poi riappuntare l’attenzione sul tunnel oscuro che mi si apre dinnanzi. La curiosità spinge il mio corpo ad avanzare, ma un forte timore impedisce alla mia mente di avanzare. Sono tentato a ritornare in dietro per avere delle spiegazioni, quando qualcosa mi attraversa da parte a parte. Avverto un sospiro echeggiare nella testa e un fuoco attraversarmi da capo a piedi. Alzo lo sguardo e… il mio cuore perde un battito. Evelyn, il suo candido spirito mi osserva silenzioso, sorridendomi dolcemente. Rimaniamo a fissarci per attimi infiniti, fino a quando lei non si volta e inizia a fluttuare verso il basso, lambendo gli scalini con le coltri diafane del suo kimono. Automaticamente, la seguo, dimentico di ogni timore o paura, fidandomi completamente della sua luminosa guida. Non saprei dire per quanto tempo c’inoltrammo nelle tenebre squarciate, ma so solo che ad un certo punto lei scomparì, abbandonandomi per un terrificante momento nel buio. Appena i miei occhi si abituarono alla scarsità luminosa, noto un’ondeggiante luce verde provenire da dietro l’angolo. Percorro gli ultimi scalini e sfocio in una cripta. Non è molto grande, quasi claustrofobica, semplice, senza incisioni alle pareti di roccia nuda. Perfino il pavimento non è stato ricoperto. L’unico dettaglio di parvenza artificiale è una teca di cristallo avvolta dal Lifestream, posta al centro della stanza. Al di là di essa, ad attendermi silenziosa, c’è Evelyn. Ha il viso triste e rivolto verso l’interno della teca. Senza pensarci, adocchio il contenuto del cristallo, ma le curvature del materiale rendono impossibile vedere attraverso ad esso. Alzo lo sguardo verso lo spirito e trovo i suoi occhi ad attendermi. Avverto il mio cuore sciogliersi e freddarsi da un gelida fitta di nostalgia. Per un attimo mi pare di vedere la sua espressione dolce incresparsi, come attraversata da un’onda, e deformarle il viso in una maschera di dolore, per poi tornare esattamente come prima. Non faccio in tempo a realizzare ciò a cui ho appena assistito che lei alza la mano e mi fa segno di avvicinarmi. Obbedisco e ho la possibilità di vedere cosa questa teca cela al suo interno, in quanto il coperchio della teca e perfettamente scevro da ogni imperfezione. Ma ciò che trovo ad attendermi per poco non mi fa morire dalla sorpresa. Salto all’indietro indignato e sconvolto. IO… dentro a quella bara di cristallo ci sono io.

-Che significa? –

Evelyn non risponde subito e lascia vagare il suo sguardo sotto di sé.

- Il principio. –

-Cosa?!-

Poi alza le sue iridi brillanti e mi trafigge letteralmente, come a intimarmi al silenzio.

Sephiroth ha ragione: quegli occhi fanno davvero paura.

- E tu sei l’epilogo. –

Sotto la pesantezza di quegli occhi, cerco di riprendere un po’ di contegno, sebbene la visione precedente abbia minato pericolosamente il mio autocontrollo.

- Non capisco. Cosa vuoi dire? –

- Che tu sei la reincarnazione del mio antenato, lo strumento dell’entità che ora chiami Pianeta. Vedi? Il Lifestream ti ha guidato da lui. –

Guardo per terra e vedo il Flusso Vitale lambirmi i piedi con le sue sottili fibre e fluire verso la bara cristallina. Titubante mi riavvicino e osservo di nuovo attraverso il cristallo. Il corpo è avvolto completamente dalle fibre di Lifestream, come se la stessa entità nascesse da quest’uomo. Emetto uno sbuffo divertito, attirando su di me uno sguardo incuriosito e severo.

-La cosa ti diverte? –

-Diciamo che ho sempre avuto la sensazione che il mio destino non mi appartenesse. –

Evelyn accenna un sorriso tirato, senza scomporre la sua espressione severa.

-Come quello di tutti noi… -

Quelle parole aleggiarono nel silenzio, pesanti, pieni di rabbia e, soprattutto, rimpianto.

- Questo dolore deve finire. -, proferisce dopo poco Evelyn, la voce ridotta a un soffio flebile, -Ma prima è necessario che io ti chieda di aiutarmi a compiere un ultimo sacrificio. –

 

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30 Settembre XXXX

 

E’ una nottata uggiosa. Distrattamente, osservo le ampie gocce di pioggia battere insistentemente sulle vetrate, proiettando lunghe ombre e cerchi grigiastri lungo il pavimento, il tavolo, la pareti. Come umide dita, esse vanno a insinuare il gelo nelle mie ossa, mentre, trepidante, attendo. Non sono mai stato così agitato in vita mia. Ho sempre mantenuto un ritegno, una calma tale da avermi fatto guadagnare l’appellativo di Generale di Ghiaccio. Qualunque fosse stata la situazione. Questa volta, tuttavia, non riesco a fermare il tremolio nervoso della gamba sinistra, il contrarsi ridicolo delle mie dita, la pesantezza del mio respiro. Cammino avanti e indietro per la stanza, fermandomi ogni tanto, per appuntare qualche pensiero sulla carta. Sembro un pazzo alle prese con una crisi isterica.

Una donna scende dalle scale, affannata, i panni bianchi pieni di sangue. Mi manca un battito. La mia attenzione viene veicolata direttamente al piano di sopra, di cui riesco ad adocchiare solo le scale inghiottite dal buio. Mi avvio verso di esse, ma la donna di prima mi sfreccia davanti, tagliandomi la strada. Sale le scale rapidamente, senza curarsi di me. Tra le sue mani un secchio d’acqua calda. Urla soffocate mi giungono alle orecchie, prima di essere smorzate dalla porta interposta tra noi. Mi chiedo per l’ennesima volta perché non posso stare lassù anch’io, ma mi accorgo che potrei essere solo d’impiccio. Non riesco a calmare me stesso, come posso pretendere di calmare LEI? Prendo un profondo sospiro. E’ in buone mani. Spero. Mi guardo intorno alla ricerca di qualcosa che possa aiutarmi ad ammazzare l’attesa e, soprattutto, farmi pensare ad altro. Ma non c’è nulla. Questa casa è così misera… Non c’è alcun tipo di sistema avanzato di riscaldamento, se non un focolaio domestico alla portata di chiunque; non c’è acqua calda corrente, se non quella che sgorga da una fonte termale nel cuore della foresta; non c’è alcun tipo di elettricità, la luce è lasciata nella mani di pericolose lampade a olio, alcune nemmeno ben fissate alle pareti. Di legno. O in fibra di riso, in alternativa. Crepate, in certi punti, l’intonaco è crollato rivelando l’intelaiatura ammuffita all’interno. Passo il palmo su quel punto e noto che, in effetti, è zuppo d’acqua. Ci dev’essere un’infiltrazione dal tetto probabilmente. Si capisce che sono anni che nessuno mette piede qui dentro. Come si può pensare di far crescere un bambino in un luogo così retrogrado e miserabile? Forse il lusso della mia infame vita da eroe mi ha fatto scordare l’umiltà. O il semplice rimboccarsi e maniche per migliorare la propria condizione. Lo stile consumistico di Midgar sta cominciando ad infettare la mia capacità di sopportare la miseria. Sono portato più a distruggere e ricostruire da capo a piedi quest’abitazione, piuttosto che perdere del tempo a rattopparne gli infiniti difetti. Ma, come direbbe Angeal, nulla va sprecato, soprattutto in tempi come questo. Anche se la guerra è ancora in corso, le ricche città dell’Oriente sono ben lontane dallo spettro della miseria. L’ideologia del consumismo la fa da padrona, fregandosi le mani in attesa de momento in cui perfino l’ultimo baluardo dell’Anti-Shinra finalmente capitolerà ai loro piedi.

Non voglio che mio figlio cresca con questa mentalità. Voglio che sappia apprezzare ciò che ha e che sviluppi la capacità di aggiustare qualunque cosa. Ho visto fin troppo bene l’epilogo a cui vanno incontro coloro che si avviano sulla via del vizio. Le gente diventa superficiale e superba, convinti che il mondo sia loro dovuto. Non conoscono né il rispetto, né la disciplina. E soprattutto, sono persone vuote. Vittime dei beni materiali e dell’apparenza, esse trascurano l’anima, fino a che la loro esistenza non si trasforma in un guscio vuoto di tristezza e solitudine. Non voglio questo per mio figlio, in quanto non c’è nient’altro che desideri se non la sua felicità. La felicità che non ho mai avuto. La donerò a lui. O a lei. Credo sia il minimo per aver donato alla mia prole un DNA nefasto. Almeno da quanto ho evinto dalla strana catena di eventi avviatosi dopo aver scoperto l’esistenza del Progetto G. Non sono andato molto in fondo alla faccenda, poiché sono stato impegnato a delineare la strategia per l’assalto finale a Forte Tamblin, l’ultimo baluardo della resistenza Wutaniana; tuttavia la mia curiosità è ben lungi dal dirsi sedata; soprattutto dopo ciò che è accaduto a Genesis quasi un mese fa. Come di consueto, Angeal, lui ed io ci riunimmo nella Sala Addestramenti del piano SOLDIER, subito dopo che i 2nd e i 3rd si erano avviati verso le docce. Era una routine ideata dallo stesso Genesis, con l’obiettivo di risollevarmi il morale dalle torture psicologiche a cui mi sottoponevo ogni giorno, ascoltando le registrazioni di Evelyn od osservare le foto inviatomi da Tseng. Tutta quell’infelicità e quel senso di colpa mi risucchiava ogni energia. Ero diventato un automa: pensavo solo a svolgere il mio lavoro per poi tornare a casa a farmi del male. Ci vollero mesi per convincermi, ma l’insistenza del rosso su questo genere di faccende è leggendaria. Il secondo passo era stimolarmi ad uscire dall’apatia e c’è solo un modo per farmi reagire: intaccare l’orgoglio. E questo al rosso viene dannatamente bene. Fu facile cascare nella sua trappola. Quel giorno, lui ha salvato me e la mia famiglia, donandomi la forza di reagire. Una forza che pensavo di aver perduto per sempre, sotto una valanga di dolore e delusione. A volte penso che avrei dovuto ringraziarlo. In quante occasioni avrei potuto farlo…

Ma è proprio quando credi di aver tempo che il destino gioca la sua carta peggiore. Era un giorno come gli altri, tra ispezioni e riunioni strategiche, la Compagnia ci aveva assegnato gli incarichi da svolgere e gli obiettivi da raggiungere per porre fine alla guerra. L’idea ci elettrizzava. Finalmente, di lì a pochi mesi, tutti quegli inutili spargimenti di sangue sarebbero giunti al termine. Anche se, in cuor mio, questa spirale vermiglia non avrebbe mai trovato fine. E probabilmente avevo ragione, ma evitai di rompere l’idillio in cui i miei commilitoni si erano immersi. Loro, in fondo, avevano una terra a cui tornare, una famiglia ad aspettarli, con cui spendere i gironi di meritata licenza. Mi incupii. Sapevo che Evelyn mi amava ancora, ma lo avrebbe ammesso davanti a me? Mi avrebbe permesso di vedere nostro figlio o si sarebbe vendicata nel peggiore dei modi? Venni ridestato dai miei pensieri dalla campana degli impiegati. La giornata lavorativa era finita. E ciò voleva dire solo una cosa: sala d’Addestramento libera. Spiammo da dietro un angolo, tutti i 3rd e i 2nd che uscivano sudati e stanchi dalla stanza digitale, mentre pungenti commenti fioccavano a più non posso, strappando una risatina o due. Quando la strada fu libera, entrammo. Armeggiammo con i settaggi delle simulazioni, impostandole al livello più alto; incuranti dei rischi. In fondo, cosa sarebbe mai potuto succedere a tre SOLDIER First Class affrontarsi al massimo delle loro potenzialità? Per quanto nettamente inferiori al sottoscritto, i due banoriani si sono sempre dimostrati eccellenti combattenti, gli unici in grado di fronteggiarmi. Gli unici da quando sono stato costretto a unirmi al corpo d’élite. Gli unici. La dicitura ‘Progetto G’ fa di nuovo capolino nella mia mente, interrompendo il flusso dei ricordi sostituito da un infernale vortice di domande. Quei dubbi che mi hanno accompagnato per tutta l’infanzia, quando un assistente aveva paura anche solo toccarmi, e l’adolescenza, quando spaccai l’osso del collo a un mio commilitone con la forza della sola mia mano sinistra, sono tornati anche nell’età adulta. Proprio quando iniziavo a credere di non essere unico. Non sono più tanto sicuro che sia stata una buona cosa aver conosciuto i due banoriani. Loro non hanno fatto altro che rafforzare i miei sospetti, anziché fugarli. Inoltre, non riesco a scrollarmi di dosso la sensazione che qualcosa di terribile stia per accadere. O forse sta già accadendo, avviato da quegli eventi che sto raccontando proprio ora, a cui non sono stato in grado di riconoscerne l’effettivo pericolo.

Un urlo più forte degli altri mi ridesta, ricordandomi di avere problemi molto più immediati di cui tenere conto. Mi faccio attento, ma solo gracchianti incitamenti arrivano alle mie orecchie. E’ ancora presto…

Forse siamo solo al primo atto di una storia di cui il finale risulta incerto. Questo fatto m’inquieta, agitando i miei sonni da incubi terrificanti, riducendo drasticamente le ore di riposo. Fin da bambino ho sempre saputo cosa avrei fatto nella vita, dove sarei andato, cosa avrei fatto, come mi sarei comportato. La vedevo sfilare davanti a me ogni giorno nella sua assoluta perfezione, come un ingranaggio ottimamente oliato all’interno di un meccanismo dalla precisione assoluta. Poi, piano piano, piccoli granelli di realtà hanno cominciato a incastrarsi nei denti dell’ingranaggio, causando dapprima lievi rallentamenti, fino a sfociare in veri e proprie disfunzioni. Mi sono arruolato in SOLDIER credendo che sarei morto esattamente come ero vissuto: vuoto e pieno di rimpianti. Ora, mi sto rendendo conto che, da quando ho permesso a questi granelli d’inquinare i miei ingranaggi, un meccanismo complementare si è avviato, dirigendomi verso un futuro diverso, ignoto. So, però, da cosa è iniziato: fuoco. E’ questo l’elemento portante di questa via. Come la dolcezza di quelle labbra rosse; il colore di quel kimono che fluttuava a ritmo di una melodia remota e trasportante; la passione che mi ha consumato per mesi fino a sfociare nella notte più meravigliosa della mia vita; come i brucianti sensi di colpa per aver deluso ed abbandonato la donna che amavo e il figlio che portava in grembo. Da qui in avanti, la fiamma di quel fuoco sembra spegnarsi, gettando il mio mondo in un buio infinito; fino a che, prepotenti come lampi durante una tempesta, testardi banoriani irrompono, riportandomi alla luce. Ricordai il calore e il colore di quelle fiamme, le quali si presentarono a me in diverse forme: tramonto sullo sfondo del Sister Ray di Junon; Rapier infusa di mako; inferno dentro cui venni intrappolato; furia contro ragione; ira scatenata dall’orgoglio ferito. Ci volle il coraggioso intervento di Angeal per fermare la nostra follia. Almeno la mia, perché Genesis non aveva alcuna intenzione di arrendersi e si scagliò di nuovo contro l’amico. Stavolta, però, i suoi intenti vennero bruscamente bloccati. Fu un attimo, eppure mi sembrò che il tempo si stiracchiasse, caricandosi di una tensione di cui non seppi decifrarne il motivo. Vidi la lama sanguigna di Rapier brillare in tutta la sua bellezza, carica di mako e disprezzo, spezzare il debole acciaio della spada d’ordinanza brandita da Angeal. Sentivo che quell’azione avrebbe innescato una reazione a catena, eppure non ebbi la coscienza d’intervenire. Rimanemmo immobili a guardare la lama spezzata schizzare all’indietro e colpire Genesis tra capo e collo, letteralmente. L’urlo del rosso sembrò spezzare quell’incantesimo in cui eravamo caduti. Mi resi conto che la realtà era prepotentemente entrata nella simulazione, distruggendola. Era troppo tardi, anche se ancora nessuno dei tre ne era completamente conscio. In fondo, era solo un graffio. Quante volte era capitato di incorrere in ferite come quella, se non più gravi? Ciò che più bruciava a Genesis, infatti, era l’ennesima sconfitta per mia mano, ma, come sempre, le sue arrabbiature duravano meno di un battito di ciglia. L’unico che sembrava ancora oltraggiato dalla nostra irruenza –e dal fatto di essere stati richiamati dal Direttore in persona per rispondere della quasi completa distruzione della Sala Addestramenti-  fu Angeal, il quale per giorni ci tormentò con i soliti suoi discorsi sull’onore, la disciplina e i sogni. Dev’essere una peculiarità banoriana ripetere i concetti fino alla nausea.

Di nuovo, la ragazza di prima interrompe il flusso dei miei pensieri, correndo rapida giù dalle scale con un secchio vuoto in mano. Rimpiombo di nuovo nella paranoia. Quanto tempo ci vuole ancora? Sembra che sia lassù da secoli. Vorrei placcare la ragazza e interrogarla, ma purtroppo non sarei in grado di capirla, in quanto parla solo una variante del wutaniano tipica della zona di Hourei. Un dialetto a me completamente incomprensibile. Per quanto mi sforzi sembra un’altra lingua. Perfino Evelyn stessa spesso fatica a capire cosa dicono i suoi compaesani. E per l’ennesima volta in questa serata, la giovane scarrozza un altro secchio d’acqua fumante verso i piani superiori. Mi chiedo a cosa possa servire. Poco prima di scomparire al di là del soffitto, la fanciulla mi rivolge un sorriso stanco. Avverto il mio cuore perdere un battito. Forse ci siamo? O forse voleva solo rassicurami? Un brivido d’anticipazione mi scuote da capo a piedi, presagendo l’ennesimo moto d’agitazione. Manca davvero poco, calcolo. E un’altra stretta rinchiude il mio stomaco nella sua morsa. Le mani ricominciano a tremare da un’emozione che a fatica riesco a catalogare. No! Devo calmarmi, resistere ancora per qualche minuto. Mi affido ai miei ricordi, a ciò che successe poco tempo dopo quella maledetta simulazione.

Era stata una giornata infernale. Non solo per il caldo asfissiante, come solo la terra inaridita e l’acciaio di Midgar sono in grado di donare, ma per averla passata a versare sangue nelle vie arrugginite e luride degli Slums. Mi si rivolta lo stomaco al solo pensiero dell’odore nauseabondo che si respira là sotto. Il caldo, catalizzato dall’acciaio e dall’asfalto proveniente dal Piatto, rende quei luoghi praticamente invivibili. L’aria è così calda e pesante da rendere quasi impossibile l’attività respiratoria. Molti anziani e bambini, infatti, muoiono ogni anno a causa di questo. La situazione è peggiorata dalla realtà igienico-sanitaria della zona. Niente fogne, niente cimiteri, animali morti per strada, topi ovunque. Condizioni disumane come poche ho potuto incontrare nei miei belligeranti viaggi. Nemmeno i soldati provenienti dalle campagne non hanno mai visto un’emergenza umanitaria di questa portata. Oltre che uno squallore simile. Si tratta di dignità. La gente degli Slums vuole solo che la Shinra si accorga della loro esistenza e del loro disperato grido d’aiuto. Per questo insorgono, nel vano tentativo di far ascoltare la propria voce. Quando, tuttavia, si ha un esercito di uomini, il cui cervello è stato reso schiavo dalla fame di distruzione, diventa facile fraintendere un grido d’aiuto in un atto d’offesa. E ora che l’ideologia di AVALANCHE inizia a insediarsi nei cuori sfibrati degli abitanti degli Slums la loro ritrosia sembra essere aumentata ancora di più, incendiata da estati sempre più calde ogni anno che passa. Segno inequivocabile che il nostro Pianeta sta lentamente morendo annegando in un’agonia infinita. Un’agonia che sembra aver colpito anche Genesis. Da quando è stata inferta, quella ferita non ha mai smesso di sanguinare. Il rosso ha fatto di tutto per nascondercelo, anche se avremo dovuto intuirlo dal colorito pallido e dal netto calo di prestazioni. Rientrava alla base sempre senza fiato, svuotato di ogni energia anche dalla missione più semplice. Diedi la colpa al caldo, burlandomi della sua delicata costituzione dovuta alla vita agiata vissuta a Banora. Era talmente debole da non avere la forza nemmeno di ribattere. Piuttosto inusuale per lui, dal momento che ogni occasione era buona per attaccare briga, ma pensai che magari avesse imparato un po’ di umiltà, per una volta. La verità, sfortunatamente, era ben diversa. Avevo appena dato l’ordine di raccogliere i caduti e i feriti che Angeal si diresse da me con Genesis in braccio. Mi accorsi appena del colorito mortalmente pallido della sua pelle, dell’angosciante e disperato movimento del petto e dei suoi occhi spenti; poiché la mia attenzione venne catalizzata dall’enorme macchia di sangue rappreso che dal polso destro si allargava fino alla spalla, esattamente là dove poco più di una settimana prima avrebbe dovuto quello che il Comandante definì un graffio. Uno squarcio enorme tagliava nettamente quella pelle normalmente candida e immacolata, dal quale una quantità incredibile di sangue usciva senza alcun freno. Pensai che lo avessero colpito nello stesso identico punto e molto più profondamente, ma i miei dubbi furono sventati da rimasugli di bende che circondavano il petto. Inoltre, i lembi della ferita avevano assunto un colorito insano, il quale cominciava ad espandersi ai tessuti vicini. Era un tipo d’infezione che, tuttavia, non avevo mai visto. La pelle sembrava squamarsi, raggrinzirsi, sfaldarsi come se si stesse… degradando. Non ebbi il tempo d’indagare che Angeal mi riscosse ricordandomi che uno dei miei due unici amici stava morendo dissanguato sotto i nostri occhi. L’impotenza di fronte alla sofferenza fu un’agonia. Esattamente come questo momento.

Da quando sono diventato così emotivo? Che fine ha fatto il mio disinteresse nei confronti di tutto e tutti? Forse è esattamente come dice Hojo: “ Ti sei rammollito, Sephiroth. Da quando ti fai degli scrupoli per quei topi di fogna?”

Una volta tanto, le parole del vecchio mi hanno aiutato a scoprire una verità su me stesso. Mi sono reso conto, infatti, di non più capace di uccidere freddamente come un tempo. Che fosse, soldato, vecchio o anche bambino, ai miei occhi non erano altro che carne da macellare. Erano solo sassolini che s’interponevano tra me e la mia missione. Poi le emozioni e il senso di colpa mi avrebbero tormentato, ma solo DOPO aver commesso quegli atti orribili. Ora, quel discernimento, quel senso di giustizia e pietà, a volte, viene a galla ben prime e blocca la mia lama; le preghiere disperate delle mie vittime raggiungono le mie orecchie e, talvolta, le esaudisco e risparmio loro la vita. E’ strano, eppure, appagante. Forse l’affetto degli amici e la prospettiva di un figlio in arrivo mi hanno colpito molto più in profondità di quanto pensassi, aprendo una piccola frattura nella mia prigione di ghiaccio. Posso a malapena descrivere lo strazio nell’assistere medici e infermieri militari gettarsi su Genesis nel disperato tentativo di salvarlo. Il momento peggiore fu quando lo dovettero defibrillare. Quel corpo s’inarcava e si alzava di qualche centimetro da terra, i muscoli rigidi come marmo, quel torace che non voleva saperne di muoversi. E di nuovo, altre scariche sempre più potenti, ennesimo ciclo di ventilazione. Invani. Per un unico, terrificante istante pensai: E’ morto. Mi sentii accartocciare, nauseato dal senso di colpa. Era colpa mia. Se mi fossi controllato, se avessi ignorato le sue stupide provocazioni, se avessi mostrato la maturità degna del mio rango, nulla di tutto ciò sarebbe successo. Guardai Angeal accanto a me. Era inginocchiato a terra; il busto piegato in avanti, sorretto miracolosamente dalle braccia, le cui dita stringevano convulsamente la stoffa dei pantaloni della divisa. Credetti che l’avrebbe strappata prima o poi, dal momento che a un paio di colpi di defibrillatore avvertii distintamente il tessuto sull’orlo del cedimento. Solo in quel momento notai del liquido calare sulla pelle dei guanti, lavando via il sangue. Piangeva. Era un genere di pianto che avevo visto tante, troppe volte nella mia vita. Un pianto a cui mai avrei creduto di esserne toccato. Mi guardai le mani sporche di sangue e un paio di lacrime caddero sul palmo destro, mentre la sensazione di essere risucchiato all’interno di un vortice pervadeva ogni angolo del corpo. Proprio quando credetti di crollare come Angeal, proprio quest’ultimo mi riscosse, chiamando l’amico d’infanzia. Riuscii a malapena a vedere i suoi occhi aprirsi per un attimo e guardarci. Mi sentii rincuorato nell’accertarmi che quella scintilla superba tanto odiata non si fosse spenta per sempre. Ma era debole, troppo. Non sarebbe rimasta a lungo tra noi, pensai. Provai l’istinto di raggiungerlo e scusarmi con lui prima che fosse troppo tardi, ma i medici non persero tempo e lo trasferirono sull’ambulanza diretta verso lo Shinra Building.

Angeal ed io attendemmo notizie all’esterno della sala operatoria per ORE. Ore interminabili, durante le quali nessuno ci sognò di dirci alcunché. Una scena identica a questo esatto momento, con l’unica differenza che in quell’occasione ho costretto me stesso a mantenere un ferreo contegno. Fu una tortura non poter scatenare tutta quella tensione; in quanto costretto a perseverare immobile, in silenzio, in uno stato di apparente calma. Non mi era concesso perdere il controllo, non con un Angeal così sconvolto al mio fianco. Ci mise un’ora buona a riacquistare un minimo di lucidità. Il resto del tempo lo passò a fare la spola tra la parete di acciaio del corridoio e il centro dello stesso, a fissare la luce rossa con la scritta bianca EMERGENCY affissa al di sopra dello stipite della porta; dove, al di là di essa, Genesis lottava tra la vita e la morte. Se le cose si fossero volte al peggio, era mio dovere essergli in un qualche modo di supporto, in qualità di amico e responsabile dell’accaduto. Quest’ultimo pensiero continuò ad accompagnarmi per tutte le lunghe ore di attesa.

SE fossi stato più indulgente.

SE fossi stato più attento.

SE fossi stato più previdente.

SE fossi stato più paziente.

SE… SE… SE… SE… SE… SE!

Ero stato cieco e stupido e, per colpa del mio orgoglio, non abbi il coraggio di ammetterlo con lui. Sarebbe morto senza sapere che, in fondo, io apprezzavo quell’impegno tedioso e asfissiante nell’aiutarmi a esprimere i miei sentimenti. Senza volerlo, lo ammetto, lui mi stava rendendo un uomo normale. Solo in quel momento realizzai la grandezza dei suoi piccoli e irritanti gesti, dei suoi plateali capricci, delle sue continue frecciate. Ha reso la mia vita piena e inaspettata senza che me ne rendessi conto, troppo accecato dalla mia superbia. In quel momento, ho capito: non sono solo io a dover cambiare il mondo, ma devo anche permettere al mondo di cambiare me. Io non sono solo. Quante volte mi è stato ripetuto, ma dal basso della mia autocommiserazione non volevo ammetterlo! Genesis, Evelyn, il Professore, Aerith, per citare i più importanti, ma io non ho mai colto i loro insegnamenti. Troppo testardo per ammettere i miei tormenti e troppo superbo per accettare consigli. E piano piano li stavo perdendo tutti. Non potevo permetterlo. Ho sofferto troppo e troppo a lungo per lasciarmi sfuggire quest’agognata felicità. Sarà anche un’illusione, un’effimera e transitoria fase e il Fato, il Destino, la Predestinazione, gli Esper, il Karma, o chi per loro, possono anche portarmela via nel modo più doloroso possibile; ma è sempre meglio che fingere che non ci sia mai stata. Quando morirò, almeno, non avrò rimpianti e potrò dire di aver combattuto, di aver avuto un onore. Quell’onore di cui Angeal tanto farfuglia, di cui il piccolo Fair sembra farne una nuova lezione di vita, di cui i Wutai ne hanno fatto la loro bandiera, lo volevo avere anch’io. Ma non come eroe, o come soldato; bensì come uomo. L’uomo che Evelyn si meritava, l’uomo che avrebbe cresciuto quel bambino, l’uomo che si sarebbe preso le sue responsabilità.

Fu lì, nella tensione di quell’attesa, che presi la decisione di tornare a Wutai per riprendermi la donna che amavo. All’improvviso, non m’importò più nulla dei rischi, dei se e dei ma che da mesi m’inchiodavano, delle terribili verità che stavo scoprendo circa il Progetto G e le mie origini. No, questi erano dettagli di una vita che stava passando in secondo piano. Improvvisamente, SOLDIER non era più sinonimo di “casa”. Anzi, mi sono accorto che non lo era mai stato. Mi sento più a casa qui, in un Paese che mi odia, anziché in una città che mi idolatra. Quella gente, tuttavia, non vede null’altro che una corazza creata per difendere la mia famiglia, gli unici esseri umani che contano su questo miserabile, marcio, morente Pianeta. Basta essere un Eroe, un soldato perfetto, un modello da imitare. Evelyn ha ragione, Genesis ha ragione, Aerith ha ragione, il Professore aveva ragione: io non sono quel facciotto falso e ipocrita appiccicato su un poster. E lo dimostrerò! Il sacrificio del rosso non sarà vano. Avrei vissuto anche per lui, decisi, nell’istante in cui credetti che sarebbe morto. Fortunatamente, egli sopravvisse, tuttavia, come dimostra la mia presenza qui in questa notte di urla e sangue e attesa, ciò non fermò i miei intenti. Ho avuto una seconda possibilità, sarebbe stato sciocco sprecarla. Anche se, questa piccola vittoria non ho potuta apprezzarla appieno, a causa dell’entrata in scena di un altro protagonista delle mie indiscrezioni: il professor Hollander. E’ stato il suo intervento a salvare la vita al Comandante di Banora, ma quello che mi ha colpito non sono state le sue capacità mediche.

Il suo nome svettava su ogni cartella clinica dei due banoriani. E in nessun’altra. Questa fu una delle stranezze che più mi stupì, oltre a rivelare un dettaglio a cui non feci mai caso. Avevo sempre creduto che, ad esempio, Hojo sottoscrivesse esami e visite ad altri membri SOLDIER, all’infuori del sottoscritto; invece la sua firma è SOLO nelle mie cartelle. Esattamente come Hollander. Per questo non l’avevo mai sentito nominare, se non per vie traverse: lui non si era occupato di nessun’altro. Come se noi tre fossimo un’esclusiva. I giocattoli dei capi del Reparto Scientifico, con cui trastullarsi per sfogare le loro manie d’onnipotenza. Io non conosco Hollander a fondo, ma credo che questo discorso valga anche per lui. Angeal e Genesis sono i suoi pupilli, i suoi preziosi trofei. E io ne ho ferito uno. Mi disprezza per questo. Lo potevo vedere ogni qualvolta egli m’incrociava nei corridoi o al capezzale di Genesis, ben nascosto dietro una maschera di neutra professionalità. Non mi permise nemmeno di rimediare al danno causato, quando mi offrii per l’esecuzione della trasfusione che avrebbe salvato la vita al Comandante. Avevamo lo stesso gruppo sanguigno, avevo controllato, ma lo scienziato mi disse che non ero compatibile. Non aveva senso… Era solo sangue. Di cosa aveva tanta paura? Quella domanda mi tormentò nei giorni successivi a quell’evento; tant’è che, tra una missione e una visita al rosso, mi rinchiudevo negli archivi della Shinra a scartabellare plichi, documenti riservati, files protetti, alla stregua di una spia industriale. Tra la miriade di segreti e nefandezze che la Compagnia ha cercato d’infangare in quel mondo polveroso e insano, un inquietante quadro sembra emergere da quei fogli. Non so bene cosa di preciso, ma più scopro, più vorrei fermarmi. Ho una brutta sensazione a riguardo. Sento di stare imboccando un sentiero molto pericoloso. Un sentiero che potrebbe cambiare o distruggere la vita di molti. Inoltre, ho scoperto di non essere l’unico ad essere affamato d’informazioni. Un giorno, ero alla ricerca di una serie di documenti riguardanti gli studi sull’infusione di mako negli esseri umani, quando la segretaria addetta all’archivio si lasciò scappare che non ero il primo a ricercare quegli articoli. Stupito, le chiesi di riferirmi il nome del mio predecessore.

“Il Comandante Rhapsodos, signore. Mi ha chiesto di ricercare gli articoli riguardanti la correlazione tra mako e degrado dei tessuti, qualche giorno prima del suo incidente. Non sono molti e alcuni purtroppo sono inaccessibili con la vostra chiave di sicurezza, ma, se lo desidera, Generale, vi consegno lo stesso materiale che ho dato al Comandante.”

La maggior parte di quegli articoli trattava di sperimentazioni molto vecchie, effettuate su animali o piante, a parte un paio, compiute rispettivamente da Hojo e Hollander. Entrambe riportano lo stesso anno di pubblicazione, differenti solo di pochi mesi, come se cercassero di prevaricarsi l’un l’altro a suon di risultati scientifici. Ciò che più mi turba, tuttavia, è il periodo dove questi studi stavano iniziando a prendere piede: 30 anni fa, ossia poco prima delle nostre nascite.

La prima di una serie di coincidenze capace di nausearmi.

Sono tornato in quell’archivio e, con la scusa di consultare vecchi rapporti, sono stato in grado di reperire una lista completa degli articoli redatti dai due più importanti esponenti del Reparto Scientifico, la cui posizione sembra tutt’altro che immeritata. Forse sono tutte mie supposizioni, ma negli anni precedenti alla nostra nascita, quei due, assieme a Gast e a un certo Grimoire Valentine, hanno lavorato a qualcosa di gigantesco: una promessa d’imperitura gloria per la Compagnia. E il raggiungimento di un luogo chiamato “Terra Promessa”.

Dove ho già sentito questo nome?

Purtroppo, la mia ricerca ha dovuto subire un necessario arresto. Oltre al tempo sempre più esiguo a cui potevo dedicare a quella forsennata ricerca – rubato dai preparativi per la partenza per Wutai e le condizioni in miglioramento di Genesis- , un fatto decisivo ha decretato la temporanea fine delle indagini: un sospetto spostamento dei dati su un database più sicuro avvenuto immediatamente dopo la piccola sortita in quell’archivio. La causa ufficiale sembra riferirsi alla presenza di una spia Wutai infiltrata tra i dipendenti della Shinra, ma sono pronto a scommetterci che il vecchio pazzo non ha gradito la mia iniziativa. Per quanto possa essere stato attento, Hojo ha un talento innato nel capire quando sono alla ricerca della verità. Anche se credo che questa “premura” non sia stata causata esclusivamente dal sottoscritto. Credo che Genesis stesso, nel tentativo di capire cosa stesse succedendo al suo corpo, abbia fatto scattare il campanello d’allarme nella contorta mente del vecchio. A questo punto, mi chiedo: li avrà lasciati apposta questi materiali o non credeva che la mia curiosità potesse davvero spingermi così oltre? Lui mi conosce molto bene, SA di che cosa sono capace, quindi mi viene da pensare che questa “dimenticanza” sia proprio da definirsi tale. Un errore grossolano di un indegno avversario. E solo un nome mi ronza per la testa:

 

Hollander

 

1° Ottobre XXXX, mattina

 

Ho lasciato il discorso a metà, perché un evento fin troppo atteso ha fatto irruzione nella bolla di paranoia in cui stavo affondando pian piano.

E’ nata.

 

Takara

La mia… no, la NOSTRA bambina. E, come indica anche il nome voluto da Evelyn, il nostro tesoro. Sono corso trafelato al piano di sopra appena ho udito il suo squillante richiamo. Per poco non travolgevo la ragazza che stava per scendere a darmi la notizia. Evelyn era adagiata sul letto, esausta, scarmigliata e sudata. C’era un forte odore di sangue nella stanza, pungente, penetrante; tuttavia diverso a quello a cui sono abituato. Non era ferrigno, stantio, nauseabondo. Era… fresco, fruttato. So che può sembrare stupido definire il sangue fruttato, ma quell’aroma non saprei come altro definirlo. Il frutto dell’amore incondizionato fra due persone era nato, per cui definirei quest’aggettivo assolutamente legittimo.

Oltre il sangue e le urla, c’era LEI. Quel minuscolo adorabile fagotto paonazzo. Strillava infuriata, imperiosa, agitando i pugnetti e i piedini all’aria, come se stesse lottando. Natsu ha detto che la piccola ha una voce decisa, che non lascia repliche. Da chi avrà preso?

Alzai lo sguardo verso Evelyn e il suo viso, nonostante fosse tirato e sconvolto dallo sforzo, mostrava il sorriso più bello che avessi mai visto. Ogni suo poro trasudava soddisfazione. Avere dei figli era il suo più grande desiderio e, ora, quel desiderio è qui, respira… vive. L’ha stretta forte a sé, mentre lacrime di gioia le solcavano le guance, per poi lasciandole un delicato bacio sulla fronte. Poi guardò me… Quello sguardo non potrò mai dimenticarlo: non ho mai visto i suoi occhi risplendere così intensamente, ringraziandomi silenziosamente dal più profondo del suo cuore, pieni di fierezza. Era felice. Felice come non l’avevo mai vista. Avvertii del calore diffondersi dal petto, fino ad inondare ogni singola parte del mio corpo. I miei occhi pizzicavano e i lati della mia bocca si arricciarono ben oltre il solito limite. Sorrisi a trentasei denti, senza nemmeno accorgermene, come se fosse l’azione più normale del mondo. Ero euforico, stordito dagli ormoni e dalle emozioni più intense della mia vita. Per un momento mi scordai di tutto, del Progetto G, dei dubbi sulla mia origine, degli strani cambiamenti di Genesis dopo il suo ricovero. Non c’era più niente che contasse ai miei occhi, né la guerra, né la Compagnia. Avevo occhi solo per loro: le mie donne, la mia famiglia… Allargai le braccia e le avvolsi nella mia stretta, come per proteggerle. Bacia sulla fronte Evelyn e accarezzai la guancia piena e morbida di nostra figlia.

E’ così bella, come sua madre; anche se Natsu dice che assomiglia di più a me. E’ da qualche minuto che la studio e devo ammettere che il disegno delle labbra è molto simile al mio. Non so perché, ma ciò mi riempie di fierezza, sebbene sia strano vedere i propri tratti su un’altra persona. E’ qui che ci si rende conto che quella creaturina è TUA. Sono stato io a donarle quelle labbra, sulle quali non vorrò mai veder svanire il sorriso. E’ una sensazione così strana: non so niente di questa bambina, non so che donna diventerà, cosa ne farà della sua vita, che carattere abbia, quali siano i suoi gusti; eppure la amo con tutto me stesso. Il solo pensiero che mi venga portata via mi devasta. E non solo lei, ma anche sua madre. Tutto ciò che ho creato non verrà distrutto. Questa volta non ho intenzione di arrendermi così facilmente. Ho troppo da perdere.

La piccola mugola e arriccia la boccuccia, creando un’adorabile espressione imbronciata, per poi mutare rapidamente in un solare sorriso. Per poco non mi scappa da ridere nel vedere le sue gengive sdentate, anche se una stretta allo stomaco per poco non mi mozza il fiato. E’ la stessa sensazione che mi assale quando sua madre sorride. Vuol dire solo una cosa: innamorato. Ed è vero, io amo mia figlia, tanto che a fatica reprimo la voglia di prenderla in braccio.

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- E quale sarebbe questo “ultimo sacrificio”? –

Lo spettro chiude gli occhi e prende un profondo respiro. Ho la netta sensazione che ciò che sta per proferire non mi piacerà.

- Liberare il potere racchiuso in mia figlia. E l’unico modo per farlo è…-, s’interrompe un attimo, durante il quale Evelyn sembra stai cercando di trovare il coraggio di proferire quella terribile e spaventosa parola

 

-…ucciderla. –

 

 

“When the war of the beasts brings about the world's end,

The goddess descends from the sky.

Wings of light and dark spread afar.

She guides us to bliss, her gift everlasting. “

 

[Quando la guerra delle bestie porterà la fine del mondo,

la Dea scenderà dal cielo.

Ali di luce e oscurità si dispiegheranno.

Ella ci guiderà verso la felicità, il suo dono eterno.

LOVELESS, Prologo]

 

Le parole di LOVELESS mi rimbombano nella mente, recitate da un eco lontano proveniente dai ricordi flebili di Sephiroth. Assieme ad esse, una morsa gelida attanaglia le mie membra al solo pensiero di quella sentenza orribile.

Il suo dono eterno… il sacrificio alla fine del mondo…

Anche se si tratta della figlia del mio peggior nemico… Io… non posso… Non dopo aver provato quelle sensazioni e… visto questo disegno.

Non posso…

 

Salve belle signore!!! Eccomi di ritorno con un capitolo super super super lungo e… in orribile ritardo, come al solito. Purtroppo di ritorno dalla Turchia il tempo a disposizione è calato parecchio, a causa di un’altra imminente partenza per un luogo un po’ più freschino: le Falkland!!!! Partirò a fine Agosto e starò là per ben 6 mesi! Laggiù avremo un internet a pagamento, quindi non sarò completamente isolata, però il tempo libero sarà veramente misero rispetto alla Turchia, in quanto si tratta di un progetto già ben avviato e una tabella di marcia bella precisa, per cui temo proprio che non riuscirò nemmeno a scrivere. Ci proverò cmq. Cercherò d’impegnarmi anche a lasciare un altro capitolo prima della mia partenza e magari pubblicare poi da là, così da non lasciarvi con mille rivelazioni sconcertanti senza alcuna spiegazione. Ma non ve lo posso promettere! Io m’impegnerò, giuro!

Bene, bene. Insomma, un capitolo pieno di flashback, questo. Come avrete notato, Evelyn sta diventando un’entità a sé, con uno spazio tutto suo. Non è più un punto differente della stessa situazione, ma un approfondimento di ciò che il diario e il chokobo non possono aggiungere da soli.

Poi si passa al fatidico incontro e tutte le scottanti rivelazioni che il nostro Gastenobi (?) così gentilmente ci concede J Sephera?, direte. Già, è un’idea che mi è venuta leggendo qualche fic qua e là e, forte del detto “il mondo è bello finché vario”, ho detto “perché no?”. Ci può stare che certi Cetra possono aver condiviso le idee di Jenova per poi rimanere fregati, naturalmente.

Ebbene sì, l’antenato di Evelyn è colui che sconfisse Jenova. E ho creduto opportuno che avesse l’aspetto del nostro chokobo (eh sì, il Pianeta fa i suoi eroi con lo stampino XD). Ma riuscirà a compiere l’impresa affibbiatogli da Evelyn? E voi vi chiederete, ma perché? Che diavolo le salta in testa??? Naturalmente, dietro c’è un chiaro e ben definito (?) ragionamento! Più o meno. Forse. XD No, dai, scherzo, diciamo solo che è ora di finirla con questa guerra.

Con Seph siamo un po’ indietro e devono accadere ancora un bordello di cose, spero di riuscirle a toccarle tutte, prima che il chokobo ci rimanga secco. Sicuramente le toccherò tutte, spero solo di non farle troppo sbrigative. Come il suo lato teneroso, ma per quello ho in mente un altro modo per mostrarvelo, nel prossimo capitolo. Perché credo che delle sensazioni così profonde è difficile metterle su carta e uno come Seph, un po’ impedito con queste cose (EHI! ndSeph), non riesce a tirarle fuori a parole, ma a gesti. E poi la voglia di cullare la sua bambina è ben più impellente che stare lì a scrivere come un imbecille (Ebbasta!!! *estrae la Masamune e per poco non mi fa uno scalpo*ndSeph, Okokokokokokokokok!!! ndFortiX, Ma che sei un chokobo? ndCloud, ha parlato -.-‘ ndFortiX), ecco… Cerchiamo di essere logici!

E alla fine… *sospiro esasperato* ho messo un pezzo di LOVELESS. Ho provato ad evitarlo come la peste, perché mi viene da impiccarmi tutte le volte che ne sento anche una sola parola (addirittura mi ero inventata una profezia), ma alla fine… mi sono dovuta arrendere! E’ un pezzo importante della storia di FFVII e non potevo ignorarlo. Non più almeno. Spero che sia il primo e l’ultimo -.-‘

Bon, spero di avere risposto alle domande più immediate!

Alla prossima!

Besos

 

 

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Capitolo 21
*** Divisi ***


E’ così tenero. E in palese soggezione. Sarà una mezz’ora buona che studia e scruta la piccola nella culla, mentre scarabocchia chissà che cosa in quel diario. Di tanto in tanto, sorride, soprattutto quando lei fa le sue adorabili smorfie. Per quanto lui lo neghi, Takara gli somiglia tantissimo. Ha solo poche ore di vita e già mostra i segni inequivocabili di suo padre. Smorfie comprese! Arriccio e stringo le labbra, cercando di trattenere il risolino divertito che mi sta nascendo in fondo alla gola. Non voglio interrompere i suoi ragionamenti. Chissà se avrà l’ardire di prenderla in braccio… La voglia c’è di sicuro, tradita dalle tenere incursioni delle sue mani nella culla della bambina, dove quelle dita affusolate e forti lasciano dolci carezze sulle manine, sul pancino, sulle guanciotte. Oh! Alla fine, un dito è caduto vittima della grassoccia morsa della figlia. E’ rapida la piccola. E’ bastato un attimo di distrazione… L’espressione sconcertata di Sephiroth è a dir poco comica! Devo richiamare a me tutta la volontà per continuare a fingere di dormire e non prorompere in una fragorosa risata. Cerca di liberarsi con poco convinti strattoni, ma quella stretta è più forte di quanto immaginasse. Ora sono proprio curiosa di vedere come se la cava… Si guarda intorno un po’ spaesato, poi chiede alla piccola, sfoggiando un meraviglioso e solare sorriso con quelle labbra tutte da baciare.

-Non vuoi proprio lasciarmi, eh? –

Takara mugola e agita le estremità, scalciando e sbracciandosi. Senza mollare la presa, sia chiaro. Credo che voglia essere presa in braccio, signor Papà. Come mi avesse letto nella mente, sospira e fa passare la sua mano sotto la schiena della piccola, stando bene attento a sorreggerle la testa. Ha la mano talmente grande da essere in grado di accogliere tutto il corpicino della figlia. La solleva lentamente, mentre con la mano imprigionata cerca di tenerla in equilibrio all’interno del suo palmo. Avverto un tuffo al cuore, vedendola ondeggiare pericolosamente e, per poco, cadere a terra. Fortunatamente, i riflessi di suo padre sono felini e, con una straordinaria ripresa, l’avvicina rapidamente al suo petto. Lo avverto sospirare sollevato, mentre armeggia con la bambina nel goffo tentativo di trovarle una posizione comoda e sicura. E’ così teneramente impacciato e insicuro quest’uomo grande e grosso dal corpo sovraumano, fatto per uccidere, dagli occhi gelidi, fatti per trafiggere e condannare, e dalle mani grandi e callose, fatte per brandire mortali armi lucenti. Una figura che stride così tanto con il risoluto Generale dei SOLDIER e, forse, è proprio questa dicotomia a renderlo ancora più tenero. Sorrido, mentre lui avvicina il viso alla piccola e guida le ditina carceriere lungo la sua guancia, per farsi accarezzare da quella morbida e liscia pelle. Vedo il pollice di lui massaggiare il dorso della manina e, di tanto in tanto, stringergliela dolcemente, come per farle sentire la sua presenza. Sempre e comunque. Qualunque cosa accada. Non riesco a sentire cosa le stia sussurrando, ma credo di aver udito la parola ‘principessa’. Sorrido con orgoglio. Sì, lo è davvero: la nostra preziosa, bellissima principessa. Dal canto suo, la bambina è completamente incantata dalla voce baritonale del padre. Lo osserva con gli occhietti leggermente dischiusi - di un verde straordinario, vitale e luminoso -, completamente rapita e la boccuccia aperta in un’amabile O. E’ una scena così bella da commuovermi. Mi mordo il labbro inferiore per trattenere un singhiozzo nascente dalla gola. Non credevo che un uomo come lui potesse essere COSÍ affettuoso. E’ meraviglioso vederli insieme, l’una nelle braccia dell’altro, accarezzati dal sole del tardo mattino, mentre si conoscono a vicenda. Anche se… è strano: Takara non ha mai avuto famigliarità con la voce di Sephiroth, se non negli ultimi di giorni, quando lui è arrivato come un fulmine a ciel sereno; eppure lei è assolutamente a suo agio. Sembra che lo conosca da sempre…

Un brivido gelido mi attraversa da capo a piedi appena la parola ‘Riunione’ mi passa per la testa. E’ inequivocabile che il sangue di Jenova le scorra nelle vene, ma non riesco, non POSSO concepire che quel minuscolo, dolce, innocuo fagottino sia un mostro capace di radere al suolo il Pianeta. Eppure le potenzialità ci sono tutte. Non ho idea di come l’eredità della Calamità lo abbia contagiato, ma, a tutti gli effetti, Sephiroth è il discendente diretto di Jenova, senza nemmeno passare per migliaia e migliaia di generazioni. Prego che il mio sangue sia abbastanza forte da compensare la crudeltà di quella Bestia e che la gentilezza e la sensibilità umana di suo padre facciano il resto, così da rendere il mio tesoro una bambina come tutte le altre.

-Ma guarda, la mamma è sveglia. –

I cupi pensieri vengono scacciati via immediatamente, appena incrocio il sorriso sornione del mio Generale. E la parola ‘mamma’ mi provoca una sfarfallata all’altezza dello stomaco, per quanto strana e meravigliosa ancora mi parva. Sorrido apertamente e mi sollevo stancamente. La schiena è ancora assaltata dalle fitte del parto, mentre le gambe sono così pesanti da sembrare marmo; però riesco a mettermi seduta. Sephiroth arriva in mio soccorso per aiutarmi a sistemare meglio il cuscino per sostenere il dorso. Dopodiché, adagia con attenzione la bambina sulle mie cosce. Takara si agita appena e inizia a emettere urletti con la sua vocetta squillante, in un discorso tutto suo; di tanto in tanto interrotto da una ciucciatina al dito di suo padre accompagnata da litri e litri di saliva. Mi scappa una risatina divertita osservando l’espressione un po’ disgustata di Sephiroth e i suoi vani tentativi di liberarsi da quella morsa che non perdona. Avvolgo entrambe le braccia attorno al corpicino, mentre traggo la mia piccola a contatto col mio ventre, il posto da cui proviene. Nel frattempo, il mio amato prende posto accanto a me e fa scivolare il braccio destro dietro alle mie spalle, così che mi possa appoggiare a lui. Avverto il suo cuore possente battere e, per un attimo, mi inebrio di quel suono rombante e rassicurante, mentre il suo fiato mi accarezza i capelli come una brezza leggera e rinfrescante.  Chiudo gli occhi e mi accoccolo meglio sul suo petto, prendendo profonde boccate del deciso profumo della sua pelle pallida. Mi era mancato tanto, questo cuore, questo respiro, questo odore, questo calore… Rabbrividisco un poco, appena avverto i suoi polpastrelli lisciarmi lievemente la pelle dell’avambraccio, in un lento movimento verticale e continuo. Alzo la testa e studio i suoi lineamenti rilassati e bellissimi, mentre guarda assorto la bambina e sfoggiare un sorriso fiero.

-Da quando è nata non hai occhi se non per lei. Devo essere gelosa? –

Lo stuzzico con un filo di ironia, riottenendo la sua attenzione. Lui ridacchia.

- Anche tu non sei da meno. Credo che tua figlia abbia un talento innato ad attirare l’attenzione su di sé. –

-Già. Chissà da chi avrà preso? Ora che ci penso, anche il Presidente Shinra amava stare al centro dell’attenzione. –

Sephiroth mi fulmina con lo sguardo e io inizio a ridere.

- Non è divertente… -

- La tua espressione un po’ lo è! –

Abbasso la testa e porto la mano alla bocca, distogliendo l’attenzione dalla sua espressione così adorabilmente e fintamente offesa. Quando rialzo gli occhi, tuttavia, la mia ilarità si spegne, a causa del buio calato sul suo viso angelico.

Succede spesso, in questi giorni. Mi ha raccontato di aver visto uno dei suoi unici amici sul filo della morte. Conosco quel SOLDIER, l’ho visto spesso bazzicare per le case da tè di Garyo, ed è stato così difficile immaginarlo sull’orlo dell’inevitabile. Lui, così attaccato alla vita e alle sue sfaccettature. Uno dei pochi in grado d’insegnare al mio amato cosa vuol dire vivere, tanto da accantonare l’orgoglio e tornare da me. Sephiroth non è l’unico a ringraziare quel giovane di Banora. Ho potuto assistere al tormento zampillante dagli occhi persi del mio Generale, mentre rabbrividiva ripensando a quei terribili momenti. Gli sono stata accanto tutto il tempo, mentre quella lunga notte volgeva al termine e lui si addormentava pian piano, come un bambino dall’animo via via più alleggerito dai fantasmi della paura. E proprio in quel momento, la piccola si mosse da dentro il mio grembo, attirando l’attenzione sonnecchiante del padre. Di nuovo, il senso di colpa tornò ad adombrargli gli occhi. Mi ha parlato del Progetto G, di quei dubbi che lo hanno accompagnato fin da bambino, di quell’origine nefasta che teme d’aver trasmesso a sua figlia. Una lacrima di pentimento sfuggì al suo controllo, mentre appoggiava la fronte al grembo, in un atto di contrita deferenza. Vuole il perdono, un perdono che probabilmente non arriverà mai, tanto il male che lo hanno costretto a compiere. Sente di essere sbagliato, di portare in sé una malvagità così grande da non riuscire più a controllare e di cui non sa nulla. Se solo conoscesse la verità… brucerebbe il mondo intero dal dolore. Raggirato, castigato, imprigionato fino a spegnere ogni volontà, ogni identità, ogni onore.

Sollevo la mano e lascio che le mia dita liscino il suo mento appuntito, fino ad adagiarsi dolcemente sulla mascella ben delineata. Con delicatezza, volto il suo viso nella mia direzione, così da poterlo guardare negli occhi. Mi inebrio in quel verde mako sconfinato per un lungo istante, apprezzando ogni singola sfumatura di quell’iride limpida come una polla d’acqua cristallina. E poi, a squarciare quella luminosa perfezione, il buio. Sottile e tagliente come la lama della Masamune, cela al mondo il fuoco che brucia nel suo cuore. Un fuoco animato da tanti, troppi sentimenti repressi. Ed esiste un solo modo per sfogarli in maniera costruttiva. Mi avvicino alla sua bocca, bloccandomi a pochi centimetri da quelle labbra tanto bramate, ora leggermente dischiuse, in attesa di un bacio tramutato in sussurro.

- Io ti amo. –

Gli rivolgo uno sguardo carico di amore, mentre le sue iridi s’infiammano di ardente passione. Eccolo, il fuoco. Lo bacio dolcemente, assaggiando fino in fondo il sapore di quella morbidezza rosea. Lui risponde con garbo, ma avverto poca convinzione nelle sue azioni.

-Qualcosa non va? –

Mi osserva con uno sguardo enigmatico, profondo, come se volesse leggermi l’anima. Ho imparato a capire che quando vedo quegli occhi cupi e concentrati sta rimuginando qualcosa. Ad un certo punto, apre la bocca, ma nessun suono esce da quelle labbra, le quali vengono subitamente serrate, per poi riaperte e richiuse di nuovo. Le sue pupille feline si staccano dalle mie e iniziano a vagare per la stanza. Sembra in netto imbarazzo, come se stesse cercando le parole giuste.

- Ecco… vorrei chiederti una cosa... -, abbassa lo sguardo, sorride imbarazzato, le sue gote s’imporporano appena, - Veramente avrei dovuto chiedertelo molto tempo fa, ma… l’occasione sfumò, come sai. -

Sembra parlare più a se stesso che a me, ma ad un certo punto solleva la testa e mi fissa. C’è una strana luce in quelle giade… e non mi è nuova.

- Sono stato un idiota a non averti fatto questa domanda, quando di tempo a nostra disposizione ne avevamo molto di più e ancor più idiota ad andarmene, lasciandoti nel momento più delicato della tua vita. -, fa una pausa, durante la quale egli sospira sconsolato,- Con te ho fatto un errore dietro l’altro, però ora ho capito. -

Il mio cuore fa una capriola.

Non vorrà mica…?

Il suo sguardo si è fatto più deciso, quasi rabbioso, come a sottolineare il fastidio per aver sprecato così tanto tempo. Inconsciamente, stringo Takara a me, nella vana speranza che il suo calmo corpicino possa fermare il rullo battente che ho al posto del cuore. Sephiroth si stacca dalla parete e si acquatta sul letto. I nostri sguardi sono incatenati l’un l’altro e nessuno dei due sembra volersi arrendere. Lui prende un profondo respiro.

- Evelyn. -, una significativa pausa, durante la quale lui assapora ogni lettera del mio nome, come a convincere se stesso dell’effettiva scelta. Dal canto mio, un brivido caldo mi tronca il fiato, preparando il mio corpo alla fatidica domanda. Sembra passata una vita dall’ultima volta che mi venne rivolta, ma l’emozione non è cambiata; anzi è molto più forte.

- Vuoi sposarmi? –

Eccola! E’ ancora più bella e speciale di quanto mi ricordassi. Forse sono gli ormoni a rendermi così succube delle emozioni, o forse amo quest’uomo molto più di quanto veramente abbia mai realizzato: qualunque sia la ragione, tuttavia, io non riesco ad arrestare le lacrime di felicità che repentinamente hanno riempito i miei occhi. Stacco una mano da Takara e l’avvolgo attorno al collo di Sephiroth, traendolo a me. Lo stringo forte, mentre mi sfogo sulla sua spalla forte. Ad un certo punto, sento le sue braccia circondarmi, condurmi al suo petto.

-Sì. –

Esco dal mio nascondiglio e lo guardo, accarezzandogli la guancia, e reitero con più convinzione.

- Sì. –

La luce appare sul suo viso, rendendolo così desiderabile, così bello. Mi bacia, con molto più passione di prima, lasciandomi quasi senza fiato. Dopo poco ci stacchiamo, ma rimaniamo a occhi chiusi, le fronti unite, a respirare i rispettivi fiati.

- Saremo una vera famiglia. –

Percepisco del liquido sfiorarmi le gote. Non sono lacrime mie, realizzo.

- Giuro che non vi abbandonerò mai più, amore mio. Mai più. –

 

 

Una vera famiglia.

Quello che Tifa ha sempre desiderato, ciò che il mio peggior nemico ha ottenuto. Avverto un’ira sorda scuotermi da capo a piedi, suscitata da una profonda delusione nei confronti di me stesso. Lui, un mostro, un assassino, un maledetto è riuscito dove io ho fallito… Stringo i pugni e i denti per arginare la rabbia. E l’invidia. A volte penso che queste visioni servano solo a farmi sentire misero e meschino. Una piccola vendetta da parte di colui che definii solo e senza cuore; quando la realtà è tutto l’opposto. Mi rendo anche conto che lui aveva ragione: più si è abituati alla ricchezza, più è facile dimenticarsi delle cose semplici. Io ho avuto dalla vita privilegi che Sephiroth nemmeno si sognava: una madre, degli amici sinceri, un luogo d’origine a cui tornare… una donna innamorata pronta a tutto per me. Tutto ciò è stato barattato per… per… niente. Ero così accecato dalle luci rifulgenti delle lame di SOLDIER; dalle insegne pubblicitarie inneggianti promesse di un futuro pieno di effimera gloria; dagli occhi ghiacciati del mio idolo chiamarmi a sé, da non accorgermi di quanto fossi fortunato, di quanto amore ci fosse nella mia vita, di quanto fosse bella la tranquillità del mio villaggio. Come tanti altri ero caduto nella rete di bugie della Shinra. Rilasso appena le dita, pensando a quanto noi umani siamo incontentabili e di quanto il destino sia beffardo. Le persone vedono sempre nella ricchezza, nella notorietà, nella gloria il segreto della felicità, quando, invece, sono proprio coloro che hanno ottenuto queste sono le più tristi e sole. Al che si comprende: senza amore, senza lealtà, senza onore un umano non si sente completo, perché semplicemente non lo è. Quante volte abbiamo invidiato Sephiroth per il semplice fatto che lui aveva, a nostra detta, tutto; vedendo nel suo attico, nelle donne che lo circondavano, nel suo smisurato talento, una fortuna sfacciata, quasi immeritata, secondo alcuni fanti. Essi, infatti, addirittura sparlavano alle sue spalle inventandosi storie improbabili, andando a seminare dubbi perfino sulla sua sessualità, solo perché ritenevano assurdo rifiutare avances dalle donne, soprattutto dopo mesi lontano da esse. Nessuno immaginava che quei rifiuti non erano per mero disinteresse, ma per fedeltà. Una parola che a molti suonava così strana, perfino a chi aveva lasciato una ragazza a casa ad attenderli, di cui si erano già dimenticati. Fedeltà nei confronti del proprio cuore, quando il mondo attorno a te s’impegna ad offuscarlo con sibilanti tentazioni. Noi, sciocchi fanti, poveri di tasche e altrettanto nell’animo non avevamo compreso questi valori così semplici, di cui avevamo avuto insegnamento fin da bambini; mentre un bambino solitario cresciuto troppo in fretta e troppo crudelmente ne aveva completamente assorbito il significato. Lui è l’esempio, in tutto e per tutto.

Ora capisco il significato dietro quella frase:

 

Tell me what you cherish most. Give me the pleasure of taking it away.

[Rivelami ciò che ritieni più prezioso. Dammi il piacere di portartelo via. Sephiroth, FFVII: ACC]

 

Non la proferì per scherno, ma al fine di farmi reagire, richiamando lo spirito di Zack in mio soccorso. Non potevo arrendermi. LUI sapeva cosa avrebbe significato, che dolore avrebbe causato. Un dolore che perpetua tuttora e che di continuo mi trapassa il cuore. Un dolore dannatamente simile a quello del Geostigma.

Sbagliavo anche su questo: Sephiroth non tormentava l’umanità con la sua ferocia, ma con la sua angoscia. Penetrante, continua, profonda. Come una stoccata, spietata e senza alcuna remora. In effetti, come si fa sopravvivere a una sofferenza del genere? Comincio a credere che non fu la follia a distruggere la sua mente, ma una ragionata decisione. Era la conferma che cercava, il motivo che lo avrebbe legittimato a infliggere al mondo lo stesso dolore che provava in quel momento. Quella strana ferocia, quell’ira incontrollata, quella insensata sete di vendetta che hanno contraddistinto la sua vita avevano trovato una spiegazione, finalmente. Inoltre, lo aveva promesso a Evelyn: lui l’avrebbe raggiunta anche tra le fiamme dell’Inferno. Una crociata per liberare la sua famiglia, ecco quello che Sephiroth sta intraprendendo. Quello che tutti avevano frainteso. L’unico ad aver capito le intenzioni dell’albino è stato proprio l’uomo di fronte a me: suo padre, Vincent Valentine.

Alzo gli occhi dai miei ragionamenti e lo osservo mentre si passa la mano guantata tra i capelli corvini, accompagnando l’azione da un profondo sospiro. Gli ho permesso di leggere l’ultimo passo del diario, in quanto ho ritenuto opportuno metterlo al corrente della figlia avuta da Sephiroth. La sua nipotina. E’ difficile realizzare che il mio silenzioso compagno di viaggio ha effettivamente una certa età; sebbene l’aspetto non tradisca l’effettiva anzianità. Ancora fatico a metabolizzarlo come padre e ora scopro che è pure nonno! Oltre che essere l’unico parente ancora in vita di Takara; dal momento che i genitori di Evelyn si sono uniti al Pianeta quando lei era soltanto una bambina, almeno stando a quello che Gast mi ha riferito.

- Sei sicuro che sia ancora viva? –

Egli mi fissa con quelle iridi infuocate, studiandomi fin dentro l’animo. Sento una fitta stringermi lo stomaco, mentre quel segreto sembra risalirmi l’esofago, evocato da quello sguardo. Resisto. Non posso rivelargli la condanna della bambina: lui m’ impedirebbe di compiere il mio… dovere, se così vogliamo chiamarlo. Anche se non sono così sicuro che la ragazza potrà mai essere in salvo. Se da un parte c’è la Shinra con i suoi loschi scopi, dall’altra… ci sono io, colui designato dal Pianeta per porre fine alla sua giovane vita e… liberare il suo potere. Ho riflettuto a lungo su questa richiesta e non riesco a scacciare questa sensazione di dejà vu, come se un sacrificio del genere fosse già avvenuto.

 

Quanto sei lento, Cloud. Eppure, tu c’eri. Ed eri l’ospite d’onore.

 

La fredda e boriosa voce del Generale mi illumina. Era un evento che ho provato a dimenticare con tutto me stesso; eppure eccolo di nuovo che si ripresenta. E, questa volta, oltre ad esserne il protagonista assoluto, sono anche l’esecutore.

Aerith e il suo sacrificio. Sephiroth e la sua follia…

Due dei poteri più potenti dell’universo coalizzati contro la Shinra e la sua sete di energia. Ci voleva un’entità benevola, una benefattrice, per riabilitare il Pianeta e un mostro senza cuore per compiere un tale crimine. No, non un mostro. Un uomo che aveva perso tutto, disperato e straziato nella mente e nell’animo, pronto a far marcire la sua anima nel più profondo, lurido e schifoso buco dell’Inferno, pur di non avvertire più alcun dolore. Ma si sa, il Pianeta è un bambino capriccioso e sadico. Quale migliore occasione per rifarsi delle angherie subite da Jenova, se non avere tra le grinfie il suo figlio prediletto? E perché non aggiungere la disperazione nel negargli la visione della sua amata figlia?

 

Traitor

[Traditore. Sephiroth, FFVII, FFVII: CC, FFVII: BC]

 

Esatto. Proprio così, Sephiroth.

Questo lunga guerra ha portato fin troppo dolore ed è ora di porvi fine. E questo che andrò a compiere sarà l’ultimo sacrificio. Una sola vita per salvare quella di tutti. Uno scambio equo, in fondo. Perfino il padre della bambina sembra aver accettato quel destino, in quanto, probabilmente, preferisca vederla morta, anziché sola nelle grinfie di un Pianeta spietato. Ma Vincent… Vincent non capirebbe. Ha visto un’amata venire distrutta dal peso delle sue colpe e un figlio sprofondare nel baratro più profondo della follia. Credo sarebbe troppo assistere al sacrificio della sua unica nipote, la sintesi tra le due persone che abbiano mai contato per l’ex-Turk.

-Cloud! Mi hai sentito? –

Alzo la testa di scatto, ridestandomi dai pensieri, e appunto la mia attenzione sull’angolo in cui Vincent è stato appollaiato per questa ultima ora. Egli ha il busto proteso verso di me e ha assunto un’espressione infastidita e severa.

- I tuoi momenti di alienazione stanno peggiorando, Cloud. Forse dovresti rimanere qui con Gast, mentre io proseguo col nostro piano. –

-E farmi studiare come un topo da laboratorio da quell’insofferente del suo assistente?! Non ci penso proprio! –

-E allora, rispondi. E’ ancora viva Takara? -

- Te l’ho detto. La bambina è viva. Lo spirito di Evelyn me lo ha rivelato. -

-Quello che non capisco è perché non ti ha riferito dove è nascosta. –

Alzo le spalle.

- Non lo capisco nemmeno io, ma credo che la spiegazione sia molto semplice: non lo sa. –

-E’ uno spirito legato al Lifestream! Come fa a non saperlo? –

- E’ qui che vi sbagliate, signor Valentine. L’entità non appartiene né al mondo dei morti, né a quello dei vivi. Ella continua ad esistere nel diario, in quanto, per sua natura, trae il suo sostentamento dai ricordi. –

Steven svetta ingobbito sull’uscio, artigliato al bastone da passeggio e rinchiuso nel suo perenne cappotto nero, come per nascondere le sue fattezze malate. Sia io che Vincent gli rivolgiamo sguardi torvi e minacciosi, anche se i più mordaci vengono da parte di quest’ultimo. L’antipatia tra loro si è acuita dopo una rivelazione da parte del professor Gast: Steven, infatti, non è altri che il figlio bastardo di Hojo. Anzi, stando ai fatti attuali, in teoria, sarebbe l’unico vero figlio dello scienziato della Shinra. Come, però il ragazzo sia finito alle dipendenze del rivale di suo padre è un autentico mistero. Il motivo, tuttavia, non è difficile da immaginare. Gast ci ha svelato, infatti, che, dopo che Sephiroth venne affidato a SOLDIER, Hojo decise di usare Steven come una sorta di cornucopia, così da fungere da garanzia per la preservazione del suo intelletto e delle sue capacità. Il ragazzo, infatti, era molto portato alla scienza, ma i ritmi disumani dello scienziato nell’istruirlo peggiorarono gravemente le sue già precarie condizioni fisiche. Il fisico malaticcio di Steven non reggeva le vergate così bene come quello temprato e allenato di Sephiroth.

Hojo sa come farsi amare dai propri figli…

 

Oh no. Hojo è molto democratico. Siamo tutti cavie ai suoi occhi, parenti e sconosciuti.

 

Il mio sguardo si addolcisce. Non posso biasimare questo povero ragazzo. Posso a malapena immaginare cosa abbiano provato due bambini nelle grinfie di quel pazzo.

- Come fate ad esserne così certi? –

La voce di Vincent mi ridesta e tendo le orecchie, facendomi attento. Steven assume un’espressione infastidita, quasi scocciata, tuttavia accantona la superbia e ci fa il favore di illuminarci.

- Lo abbiamo studiato per anni, quel diario. Dalle nostre misurazioni risultava essere permeato di un’incredibile energia di origine sconosciuta. Dopo vari esperimenti, il professore ed io notammo delle fluttuazioni di quell’energia, di cui non riuscimmo a comprenderne la causa, inizialmente. – s’interrompe un attimo, aggiustandosi gli occhiali sul naso, - Scoprimmo, infatti, che non si trattava di fluttuazioni casuali, ma veri e propri schemi di comunicazione, estremamente complessi. Notammo, inoltre, che l’energia misteriosa reagiva ai ricordi evocati durante le nostre chiacchierate. Fu in quel momento che il professore ebbe l’illuminazione. –

Il viso del ragazzo viene deformato per un brevissimo istante da una smorfia di dolore, la quale lo costringe ad interrompersi e trascinarsi stancamente verso la sedia più vicina. Il dolore, tuttavia, si accentua durante l’operazione, come testimoniano le sue espressioni e i suoi gemiti a denti stretti. Quando finalmente si siede, il suo viso si distende. Per poco, dal momento che un altro paio di fitte deformano i suoi lineamenti. Mi chiedo da che cosa sia affetto. Gast è stato ben muto su questo e dubito che Steven sia così in vena di rivelazioni. Faccio per alzarmi per accertarmi che stia bene, ma lui alza la mano con un gesto secco.

-Sto bene. –

Vorrei ribattere, ma il suo sguardo tagliente m’induce a ritornare sui miei passi. Dopo poco, infatti, egli ritrova il fiato per continuare, rizzandosi, per quanto la sua postura lo permette, sulla sedia.

- I Sephera sono stati la razza più affascinante della storia Cetra, anche se gli Antichi l’hanno sempre considerata una macchia vergognosa. Essi sono la prova che Jenova e Gaia posso coesistere pacificamente, come dimostra anche la nascita della piccola Takara. –

Steven s’interrompe e sospira, affondando nella sedia. Ora la sua espressione è distesa, rivelando tutta la gioventù nascosta dietro a quella maschera di lugubre indifferenza. Si toglie gli spessi occhiali e inizia a pulirli. Possiamo finalmente vedere meglio i suoi occhi, i quali non sono piccoli e malefici come quelli di Hojo, ma grandi e sinceri. L’iride è di un marrone chiaro, quasi rossiccio, dentro cui una pupilla si apre sulla sua anima cupa e misteriosa.

- “Dal sangue rosso di Eveth e dal sangue rosso di Sephira, vestito di piume nere e bianche, del Dono sarai il Portatore. Ti attendo all’Alba, Curatore di mondi.”

Vincent ed io ci scambiamo uno sguardo perplesso, senza comprendere il significato delle parole appena proferite da Steven. Il pistolero dà fiato alla nostra perplessità.

- Ha tutta l’aria di una profezia, o sbaglio? –

- No, non sbaglia, signor Valentine. Eveth e Sephira sono rispettivamente i nomi Cetra di Gaia e Jenova. Con sangue rosso s’intende la discendenza umana delle due entità, mentre il resto… ha fatto da ispirazione al romanzo epico LOVELESS. –

-Vuoi dire che ciò che è raccontato in LOVELESS è vero? La guerra, i tre amici, la Dea… il Dono? –

-Oh sì, ma non c’è da stupirsi. LOVELESS è sempre in atto sotto i nostri occhi. Ogni giorno. Il romanzo è una metafora del viaggio che ognuno di noi intraprende per ricercare la redenzione. E’ un viaggio periglioso, che porta un uomo a perdersi, o a morire. Chi, invece, rimane verrà bersagliato dai tormenti. Vivrà nei ricordi, distrutto dalle occasioni sfumate, incapace di trovare pace, fino a che non giungerà l’inevitabile, dove ogni speranza verrà riposta al di là del baratro. E il ciclo ricomincerà ancora una volta. –

Rimaniamo ammutoliti di fronte a quella parafrasi così cruda e spietata.

- La redenzione… Jenova e il Pianeta cercano la redenzione? –

Steven annuisce lentamente.

- Ma ciò che ottengono è solo altro dolore, perché la loro anima è ormai marcia a causa di millenni e millenni di odio reciproco. E’ necessario l’intervento di un arbitro, detto “Curatore di Mondi”, un essere nato dal sangue umano di Jenova e dal sangue umano di Gaia. L’unica che corrisponde a questa descrizione è proprio Takara. –

Il giovane apprendista si blocca un istante, mentre le sue iridi lasciano intravedere una luce malinconica, prima di scomparire dietro al riflesso degli occhiali.

– Vi prego di ritrovarla sana e salva. Prima che sia troppo tardi. -

Vincent ed io ci scambiamo un’occhiata preoccupata.

- Prima che sia troppo tardi? –

Steven annuisce greve.

- Non siete gli unici sulle tracce della bambina. –

- La Shinra…? –

Lo scienziato scuote la testa. La sua espressione è terribilmente seria. Un brivido gelido mi attraversa la spina dorsale da parte a parte, caricandomi di anticipazione.

Sephiroth… Cosa…?

- Peggio. Infinitamente peggio. –

Vincent si piega verso il ragazzo. Il suo viso è una maschera d’angoscia.

- Cosa ci può essere peggio della Shinra? Deepground? –

Il ragazzo mi rivolge un lungo, profondo sguardo, ma capisco che non è rivolto direttamente a me, bensì a qualcosa nascosto dentro di me. O meglio a qualcuno.

Una paura gelida mi scuote da capo a piedi. Abbasso lo sguardo sulle mie mani e osservo stupito le dita tremare come se ogni calore fosse scomparso da esse. Sono mortalmente bianche.

- Cloud? –

La vista mi si offusca e le orecchie iniziano a fischiare. Il cuore martella impazzito nel petto, quasi fosse sul punto di esplodere, mentre la richiesta di ossigeno si fa sempre più impellente. Gocce di sudore freddo bagnano la pelle sbiancata pericolosamente. Faccio giusto in tempo a rendermi conto di ciò che sta accadendo al mio corpo che un fuoco terrificante esplode nel mio petto. I miei occhi si stringono, i denti scricchiolano, le dita si serrano fino a ferire la pelle del palmo, la pelle s’infiamma di furore.

Ira.

Vendetta.

Odio.

Un’ala nera arcuata si apre maestosa spargendo piume corvine sul terreno bagnato.

Una spada rossa infusa di mako rifulge nel cielo plumbeo, baciata dal sole di metà autunno.

Un ghigno malefico deforma un viso una volta amico.

 

 

- “My soul, corrupted by vengeance

Hath endured torment, to find the end of the journey

In my own salvation

And your eternal slumber.” -

[“La mia anima, corrotta dalla vendetta. Ho sopportato il tormento, per trovare la fine del viaggio nella mia stessa salvezza. E nel tuo eterno tormento.” LOVELESS, Atto IV.]

 

- Cosa vuol dire? –

 

- Che io vivrò, amico mio. Vivrò, mentre tu cadrai. –

 

- Perché? –

 

- Perché la Dea è dalla mia parte e tu sei indegno del suo favore. Di conseguenza, Sephiroth, dovrai pagare lo scotto per il tuo crimine. Così, la tua immeritata gloria sarà finalmente mia. –

 

- Quale crimine? Di che cosa stai parlando? –

 

-Il crimine di esistere. Quello di cui tutti noi siamo accusati. –

 

-Noi? –

 

- Capirai, amico mio. Capirai quando il tua sangue bagnerà le mie mani. –

 

- Davvero credi che sia così semplice? –

 

-Veramente… Non mi stavo riferendo a te… -

 

 

- Genesis… Genesis è sulle tracce della bambina. –

La mia voce è mozzata, un soffio così flebile che perfino io fatico a sentirmi.

-Chi è Genesis? Che sta succedendo? –

Vincent sembra sull’orlo della paranoia, saltando con lo sguardo da me a Steven e viceversa, alla ricerca di una risposta. Lo scienziato non batte ciglio e risponde, solenne.

- Genesis è colui che segnò la fine dell’epoca SOLDIER. Uno alla volta condusse i grandi eroi del Reparto a ribellarsi alla Shinra, causando disastri come quelli di Nibelheim. Fece leva sulle loro debolezze e gli condusse alla follia e alla morte. -

- E quindi? Cosa vuole da mia nipote? –

- Vuole impadronirsi del potere del Curatore di Mondi, signor Valentine. Così da poter vedere Gaia e Jenova bruciare tra le fiamme della sua vendetta. –

 

 

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5 Novembre XXXX

 

L’eco martellante dei rotori di un elicottero riempiono l’aria, assieme a chili e chili di polvere, la quale s’infila in ogni cavità dell’accampamento abbandonato. Frammenti di terreno e metallo picchiettano contro la mia divisa, i cui lembi sfiorano gli stivali e le cosce. I teli delle tende gemono tese, sull’orlo di staccarsi dalle intelaiature, provocando un fastidioso rumore simile a quello di mille fruste. Osservo distrattamente l’aeromobile nero librarsi nel cielo plumbeo e scomparire dietro alle nuvole grigie. Tira aria di tempesta, a giudicare dalle formazioni cumuliformi e scure in arrivo da est e dal vento gelido e umido che da qualche ora spira proprio da quella direzione, sempre più forte. Sento la pioggia avvicinarsi, ma la vera tempesta è già in corso dentro di me.

Genesis ha disertato.

Perché?

Tuoni possenti rombano in lontananza, incrementando il tremore che questo pensiero mi provoca. Sta succedendo di nuovo… Di nuovo una persona a me cara se ne è andata, senza alcun motivo. Senza avvertirmi, senza consultarmi.

Perché, Genesis, perché ci hai abbandonato?

Cos’hai scoperto di così terribile da macchiarti di un crimine così grande?

Perché hai trascinato con te i tuoi uomini?

L’accampamento vuoto amplifica il mio disagio, mentre cerco di visualizzare la vita frenetica che avrebbe dovuto calpestare questo terreno, su cui la pioggia sta iniziando a cadere, inesorabile. Il vento è aumentato, il freddo inizia penetrare nelle fessure dei vestiti, l’umidità si poggia sulla pelle, sui capelli, sull’umore. Nuvolette bianche escono dalle labbra ad ogni respiro, mentre le gocce piovane iniziano ad appesantirmi i capelli, scivolando lungo il collo, il petto. Dovrei rientrare per mettere al riparo il diario, ma ho bisogno di depurarmi. Ho tanti dubbi, informazioni, teorie in testa che potrebbero spaccarmi in due se non trovassi il modo di riordinare le idee. Il vento solleva la miriade di documenti nascosti nella tenda alle mie spalle. La tenda di Genesis. Piena di rapporti, articoli, risultati di esami, tutti marchiati ‘Progetto G’.

Cosa ti hanno fatto, Gen?

Gli ho letti tutti e il quadro che ne è emerso è inquietante: esperimenti su feti umani con uso di mako e… cellule J. Altri misteri, altre dannate sigle senza alcuna spiegazione!

Hollander…

Lui è la causa di tutto. La sua firma è apposta su ogni stramaledetto rapporto, in cui, fiero e gongolante, espone i suoi disumani risultati scientifici. Avverto una rabbia irrazionale divampare nel mio petto, accompagnata da un’immotivata e folle sete di distruzione e vendetta.

Perché?

Cosa sa il mio corpo che io non so? O forse, sono io che mi rifiuto di vedere chiaramente. E’ come questa nebbia: so cosa c’è al di là di essa, ma non voglio attraversarla, perché… perché…

Ho paura.

Ho paura della verità. In fondo, ne ho sempre avuto il timore: io voglio solo essere normale. Ma non lo sono, lo so. L’ho sempre saputo, ma… è troppo sperare di condurre una vita ordinaria, nonostante tutto?

L’ho sperato quando ho tenuto in braccio la mia bambina per la prima volta, quando Evelyn mi ha accettato come suo sposo e ogni momento passato a Onijin. Ho creduto a quel sogno, illudendomi, per un minuscolo, piccolo istante, che potesse finalmente realizzarsi. Ma…

Qualche giorno prima della fine della mia licenza, questa nefasta notizia è arrivata, attraverso una visita inaspettata da parte di Tseng. Stavo cullando mia figlia quando quell’uccellaccio del malaugurio bussò alla nostra porta con l’ordine di rientro immediato. Evelyn ascoltò tutto dall’altra stanza, sospettai, in quanto, quando mi avviai nella nostra camera, lei si stava già adoperando per raggruppare le mie cose. La osservai in silenzio sull’uscio, mentre lei, testardamente, continuava il suo operato. Non lo diede a vedere, come al solito, ma sapevo che dentro di sé urlava disperata. Si stava mostrando forte, la mia guerriera, ma non potevo permettere che tenesse tutto dentro. Ne basta uno solo in famiglia. Abbandonai lo stipite e la strinsi a me, rassicurandola, accarezzandola, baciandola; fino a che non ci ritrovammo distesi nel letto a fare l’amore. Non l’ultima volta, però. Giurai ad Evelyn che ce ne sarebbero state molte, molte altre. Eppure, avvertii un macigno gravarmi sull’anima, nel momento in cui contemplai la mia figura rinchiusa di nuovo nella sua prigione di pelle nera, con la zanna mortale pendente al suo fianco.

Non era cambiato assolutamente nulla.

Per quanto mi sforzi, la Shinra è sempre in grado di raggiungermi e strapparmi via dall’angolo di felicità in cui mi stavo crogiolando. Mi guardai le mani, quelle maledette mani capaci solo di uccidere, e la mia attenzione venne attratta dal brillio delle placche di metallo sui miei polsi. Catene. Il cane stava tornando dal suo padrone…

Mi voltai, cupo, e vidi Evelyn emergere dalle scale con Takara in braccio. La mia piccola, innocente principessa dormiva, placida, quieta, dolcissima. Inconsapevole. Si sarebbe svegliata e suo padre non sarebbe stato lì ad accogliere il nuovo giorno in sua compagnia. Un dolore sordo e martellante mi spezzò il cuore, mentre la salutavo con un bacio su quelle guance piene e morbide. Evelyn mi guardò comprensiva, mascherando il suo dispiacere dietro a un mesto sorriso. Strinsi le mie donne a me, assaporando il loro calore un’ultima volta, prima di tuffarmi in questa in questa tetra e fredda realtà.

Il mondo, infatti, mi sembra molto meno luminoso senza Genesis, senza la sua noiosa insistenza, le sue ridicole scenate, la sua straordinaria capacità di portare allegria e leggerezza anche nelle situazioni più disperate. Ma soprattutto, mi manca la sua amicizia. Quel modo tutto suo di tirarmi su il morale, con quel sorriso beffardo, rivolto solo ed esclusivamente a me, e quelle frecciate create ad hoc solo per farmi uscire dai gangheri. Sorrido malinconico al pensiero di tutto quello che abbiamo passato insieme, lui, Angeal ed io, e di che razza di trio scapestrato eravamo. Ripenso a tutte le baruffe a cui abbiamo dato vita per i motivi più stupidi; alle centinaia di volte che siamo stati richiamati da Lazard per aver distrutto questo o quello; alle missioni schiena contro schiena a un passo dalla morte; alle serate in giro per Midgar a combinare guai; ai tranquilli pomeriggi passati in licenza a Costa del Sol.

Ora il mondo è esattamente come questo accampamento: tetro e vuoto.

Se almeno Angeal potesse essermi in un qualche modo da sostegno… Ma, ahimè, ho compreso troppo tardi il ruolo di ricoperto da ognuno di noi nel nostro pazzo strano trio. Genesis era il parafulmine delle mie sfuriate, dal momento che spesso ne era anche la causa, mentre Angeal era il cuscinetto che mi riportava all’ordine. Assieme a Evelyn, loro sono il mio equilibrio. Mancando uno dei pilastri, sento la mia sanità mentale scricchiolare, flettendosi pericolosamente verso il baratro. Le emozioni negative, di solito il pane quotidiano del rosso, si accumulano nel petto, come un tumore, schiacciando gli organi vicini. Ho voglia di urlare, combattere, uccidere. Voglio il dolore, voglio sentire il sangue pompare nelle vene, la mia mente svuotarsi. Ma ora non mi è possibile, devo mantenere lucidità e ritegno per affrontare nel modo migliore questa crisi, ma come fare con quell’artiglio che mi gratta da sotto il petto?

Genesis… dove sei?

Ho bisogno di te, amico mio... sei l’unico capace di sopportare tutta frustrazione e la rabbia che provo in questo momento. Angeal da solo fa più danno che altro.

Tornato alla centrale operativa del Settore 22, stanziata a Meriko, una città a dieci miglia circa a ovest della catena Hourei, mi comunicarono di essere atteso dal comando per un’urgente riunione con i vertici dei Reparti militari e segreti. Il moro era già lì, richiamato anche lui dalla licenza, assieme al Consiglio di crisi, composto da Lazard, in quanto Direttore di SOLDIER, Tseng, in qualità di occhi e orecchie del Presidente e… Hojo. Doveva trattarsi di molto più di una semplice diserzione se quel topo di laboratorio aveva avuto il fegato di lasciare il suo buco degli orrori. Durante il briefing venne chiarita la presenza dello scienziato: qualcuno aveva rubato dei macchinari dalle funzionalità classificate S1 dai laboratori del Piano 67. Inoltre, nel corso delle riunione venne riferito che il professor Hollander era scomparso, assieme a dei preziosi documenti top secret, trafugati dagli archivi del Reparto Scientifico. Una fortuita coincidenza? Il rapimento non era un’opzione plausibile, in quanto il fatto avvenne quasi contemporaneamente alla diserzione di massa. Hojo è certo che Hollander sia qui in Wutai e si sia unito alla ribellione.

“Cerchiamo di non essere precipitosi, Professore. E’ presto per parlare di ribellione. Genesis è uno dei nostri agenti migliori. Sono certo che c’è una spiegazione meno drastica.”

“Se sapeste quello che so io, non direste così, Lazard.”

“E cos’è che sapreste più di noi, Professore? La prego ci illumini! O devo presumere che ci stiate nascondendo qualcosa?”

Il gelo che calò subito dopo la mia insinuazione andò a contrapporsi dallo sguardo infuocato scoccato da mio padre. Era la domanda sulla bocca di tutti, ma troppo intimoriti da quel vecchio rachitico per rivolgerla. Tutti, tranne me. Sarei andato fino in fondo per ritrovare Genesis, perfino affrontare l’ira del vecchio.

“Tu e il tuo compare siete stati richiamati solo per essere messi al corrente dei fatti e ideare la linea d’azione più congeniale per la Compagnia. Quindi, ascolta e tieni le tue irrispettose supposizioni per te, ragazzino!”

Odio quando mi chiama ‘ragazzino’. Come se lo fossi ancora, dopo tutto quello che ho fatto, dopo tutti gli incubi che mi tormentano ogni notte, dopo tutti i traumi che ho ricevuto in questi lunghi anni di servizio. Come se avessi avuto un’infanzia. Come se non me l’avessi strappata con i tuoi sporchi, luridi artigli. Battei un pugno così forte sul tavolo da sfondarlo. Tutti i presenti sobbalzarono. Tranne Hojo, sul cui ghigno scavato si dipinse un sorriso beffardo. Sentii la Bestia ringhiare da sotto lo sterno, affamata. Avrei potuto ucciderlo lì, davanti a tutti, ma Angeal ebbe il sangue freddo necessario da avvicinarsi e afferrarmi forte le spalle. La sua presenza fu capace di ridonarmi quel minimo di lucidità da trattenermi dal saltare alla gola dello scienziato e strappargli la giugulare a morsi. In fondo, non è la prima volta che attento alla sua vita. Eppure l’istinto di sopravvivenza dovrebbe suggerirgli di evitare certi comportamenti in mia presenza. Hojo, però, ha una perversione malata nello studiare i miei scatti d’ira. Non so cosa ci trovi d’interessante o divertente, ma arriverà il giorno in cui tra me e lui non ci sarà niente… E allora vedrai, padre adorato, vedrai come ti ridurrò…

Scostai Angeal e me ne andai, indignato. Poco dopo, il moro mi raggiunse per esortami a rientrare. Alla fine dei conti, eravamo lì per aiutare Genesis. Poco importava cosa nascondesse Hojo e cosa volesse la Compagnia. Io non ero dello stesso avviso; anzi lo sarei stato se avessi avuto la decenza di calmarmi. Esplosi, riversandogli addosso tutta la frustrazione, la rabbia, la preoccupazione che avevo accumulato in quei pochi giorni. Non avevo mai urlato in faccia ad Angeal, solitamente il destinatario delle mie sfuriate era l’altro banoriano, però ritenni normale per lui sopportare le irrazionalità della rabbia. In fondo, il suo migliore amico non è che fosse la persona più calma e posata del mondo. Ma mi sbagliavo. Ricevetti un pugno in pieno viso che per poco non mi ribaltò a terra. Di solito sono un buon incassatore, ma quel colpo fu così repentino e inaspettato, oltre che ben assestato, da farmi credere che mi avrebbe aperto la testa in due. Ho ancora un grosso livido giallastro, che si diparte dal lato dell’occhio fino allo zigomo, su cui ogni tanto devo metterci del ghiaccio per sedare il dolore; oltre che un brutto taglio nell’interno guancia, in via di guarigione. Inoltre, per poco non sono saltati via due denti. Ero, e sono tuttora, esterrefatto. Angeal non aveva mai alzato le mani su nessuno, nemmeno quando lo meritavano. Mi resi conto di non essere l’unico a soffrire per la scomparsa del rosso. Egoista, mi dissi, ma fui troppo arrogante per ammetterlo. Come fui troppo superbo per abbassare lo sguardo e accettare l’onta subita. Avevamo gli occhi di tutto l’accampamento su di noi, ma fu Angeal a dare l’esempio, quando il modello sarei dovuto essere io. Scosse la testa, deluso, poi si avvicinò a me, testa alta e fiera, piantando i suoi occhi blu nei miei. In quello sguardo c’erano un migliaio di emozioni diverse, ma la prevalente era pena. Pena per me, per la mia cecità, per la mia incapacità di comprendere gli altri, per il mio egoismo, per la mia ingratitudine. Il suo migliore amico era disperso chissà dove, malato, deviato, braccato e io ero solo capace di urlargli addosso. Mi odiò, tant’è che mi disse:

“Sei un ingrato. Tu, la parola ‘onore’ non sai nemmeno cosa significhi. Sai che ti dico, Generale? Va al diavolo.”

Mi sentii frantumare l’animo. In un colpo solo, avevo perso gli unici amici che abbia mai avuto nella mia vita. Io riesco solo a tirare fuori il peggio dalle persone. Perfino da quelle più buone.

Intanto, la pioggia sembra deridermi scrosciando ancora più forte. L’accampamento è scomparso e attorno a me c’è solo un umido velo bianco. Non sono mai stato particolarmente attento al clima, ma devo ammettere che questo tempaccio rispecchia perfettamente ciò che provo in questo momento.

Solitudine.

Non sono nuovo a questa sensazione, ma dopo aver conosciuto il calore dell’amicizia e la dolcezza dell’amore, rimanere di nuovo solo è ancora più doloroso di quanto ricordassi. D’istinto, il pollice destro va ad accarezzare la base dell’anulare della stessa mano. Ma non c’è nessun rigonfiamento ad attendermi. Forse avrei dovuto tenere con me la fede… Forse avrei dovuto ascoltare Angeal, forse avrei dovuto avere la decenza di chiedergli scusa, prima di partire per la perlustrazione. Forse avrei dovuto davvero mordermi la lingua.

Errori. Da quel maledetto giorno in Sala Addestramenti non ho fatto altro che commetterne uno dietro l’altro. Sta succedendo tutto troppo in fretta e io non riesco stare al passo. E’ strano, eppure, dovrei essere abituato a seguire il corso degli eventi. In guerra capita spesso di dover pensare velocemente e agire ancora più rapidamente. Ma, loro… loro sono miei… amici.

Il nostro legame è diventato qualcosa di molto più profondo del semplice “colleghi”. Con un collega non puoi parlare francamente, con un collega non puoi fare a cazzotti, con un collega non puoi ridere sopra alla scazzottata di prima, con un collega non puoi passare notte intere a chiacchierare degli argomenti più disparati, con un collega non puoi passare notti insonni ad aspettare che si risvegli dal coma. Nonostante i contrasti, tutto diveniva più facile al loro fianco. Anche sopportare le ridicole dimostrazioni pubblicitarie e le serate di gala indette dalla Shinra per rimpinguare, rispettivamente, le fila dell’esercito e le tasche di quel maiale. Ma ora, senza di loro è tutto più difficile. Sento di non essere in grado di andare avanti da solo. Quel peso che per anni mi sono caricato sulle spalle, mi sembra ora insostenibile. Tutto quello che mi è rimasto è laggiù, da qualche parte in quella nebbia. Lontano. Troppo lontano per resistere.

Rimpiango Onijin. Rimpiango il lento scorrere del tempo, la semplicità dell’essere, la pace dei sensi. Rimpiango il frusciare del vento tra i rami della foresta, lo sciabordio pigro delle acque cristalline del lago, il brillio abbacinante della neve perenne baciata dal sole. Ma, sopra a tutto: rimpiango aver lasciato la mia famiglia.

Mi manca tanto la mia bambina. Chissà quando potrò rivederla? Le nevi stavano già chiudendo i valici, quando partii. Temo che dovrò aspettare la primavera per tornare all’unico luogo che abbia mai chiamato casa. Un intero, solitario, freddo inverno lontano dalle mie donne e vicinissimo a quegli orride bestie in giacca e cravatta in quella città decadente e marcia. Mi viene il voltastomaco solo a pensarci. Spero solo che la diserzione di Genesis si possa risolvere in poco tempo, così che tutto torni come prima. Sono pronto a combattere per la sua assoluzione, sono certo che c’è una spiegazione plausibile dietro al suo comportamento. Anche se, a giudicare dagli appunti scritti di suo pugno sui documenti rinvenuti, sembra che le sue intenzioni siano tutt’altro che pacifiche. Temo che il vecchio abbia ragione. Altrimenti non riuscirei a spiegarmi il motivo dietro alla diserzione di massa. Le sue capacità oratorie sono degne del personaggio carismatico quale è e i suoi uomini nutrono in lui un grande rispetto: non dev’essere stato difficile convincerli della giustizia delle sue azioni. Vedo che fa riferimento spasso al ‘Dono della Dea’. Credevo si trattasse della sua solita fissazione per LOVELESS, ma sembra aver trovato dei collegamenti tra il romanzo epico e le ricerche di Hollander. Collegamenti che ancora non riesco a comprendere a fondo, ma che rimarcano un disegno molto più grande, il quale va al di là di Genesis stesso.

Cellule J.

Progetto G.

Terra Promessa.

Mako.

Il Dono della Dea.

LOVELESS.

Cosa hanno in comune questi termini?

Cos’è il filo conduttore che ha portato un uomo ad abbandonare tutto ciò in cui credeva per inseguire una chimera?

Cosa ha scoperto di così scandaloso per ricercare la vendetta?

Durante il viaggio per raggiungere l’accampamento, Tseng si è prodigato di mettermi al corrente dei fatti. Ho appreso che, nonostante le cure dei medici, Genesis non riusciva a più a riprendersi. Il suo corpo sembrava aver perso la capacità di guarire, poiché, anziché rimarginarsi, la ferita si estendeva ai tessuti vicini, degradandoli. Nel periodo della mia assenza, il rosso ebbe altre due ricadute, meno gravi della prima, ma abbastanza pesanti da minare gravemente il suo umore. Era diventato scostante, rabbioso, solitario. Rinunciava a tutte le missioni, perfino a quelle più semplici, per trovare una cura alla sua condizione. Fino a che, Hollander non decise di tendergli misericordioso la mano. Questo dettaglio ha fatto scattare un campanello d’allarme nella mia testa. Dal momento che lo scienziato è entrato nelle sue grazie, Genesis è cambiato ulteriormente. In peggio, però. Il ragazzo allegro e spensierato era diventato un crudele e sadico bastardo. Una luce malefica brillava in quelle iridi blu, sempre più cupe, sempre più feroci. Un onnipresente ghigno gli deformava il volto ad ogni riunione con i vertici dell’azienda.

“Sembrava volesse sbranarli tutti, in quel preciso istante.”

Così il Turk descrive il banoriano durante l’ultimo briefing prima della missione assegnatogli in Wutai. Io sono il primo a disprezzare l’ammasso di idioti ai vertici della Compagnia, anzi spesso sogno anch’io di ammazzarli con le mie mani, ma il rosso non ha mai manifestato nessun tipo di emozione, se non un leggero fastidio. E qui, la teoria della vendetta torna a galla.

Ma vendetta per che cosa?

Per averlo spinto fino al punto più miserabile che un uomo possa giungere?

Per averlo lasciato morire?

Oppure… la risposta è proprio scritta qui, tra questi fogli pieni zeppi di dati.

Genesis è uno di quei feti modificati col mako?

E’ il frutto degli esperimenti di Hollander?

I suoi genitori hanno permesso davvero che facessero una cosa del genere al proprio figlio?

Non ha senso… li ho conosciuti, i signori Rhapsodos, mi sono sembrate così brave persone. Il padre di Genesis era tra l’altro un medico coscienzioso ed appassionato; non lo ritengo capace di immolare il proprio figlio sull’altare di quella scienza folle e malata degli scienziati Shinra. A meno che… non siano stati costretti. Forse Genesis era un bambino debole, incapace di giungere alla fine della gravidanza; ma abbastanza forte da reggere una pesante infusione di mako prenatale. Forse è per questo che i livelli ematici di mako nel suo sangue sono inferiori sia a quelli di Angeal che ai miei.

Ma se questa è la spiegazione, perché vendicarsi?

Ho l’emicrania. Non so più che cosa pensare. La mente di Genesis è sempre stata complessa e contorta, ma non credevo che ci fosse un tale buco nero nella sua psiche.

Devo trovarlo. A qualunque costo.

Non ho idea di dove possa essere andato, ma giuro che lo troverò e lo riporterò indietro. Andrò in fondo a questa storia e, chissà… magari potrei capire da dove vengo anch’io… Forse Genesis è in possesso delle risposte che ho sempre cercato per tutta la vita. Forse lui può dirmi chi sono, da dove vengo, dove sto andando…

La luce si fa più chiara attorno a me, riflettuta dalle goccioline che compongono la nebbia. Un raggio timido di sole è riuscito a squarciare l’impenetrabile muro plumbeo della tempesta. Noto solo ora che ha smesso di piovere. La bruma si sta diradando pian piano, permettendomi di vedere più lontano. Riconosco le sagome dell’accampamento in rovina, il quale è beffato da una natura rinata e splendente. Il cielo esplode tra i lembi grigi delle nuvole in fuga, le quali coprono di tanto in tanto il caldo sole autunnale. La nebbia scompare e il panorama collinare al di là della recinzione di legno si presenta a me in tutta la sua variopinta bellezza. Le foglie staccatasi dagli alberi morenti vengono sollevate dolcemente da un vento gentile e tiepido, ultimo rimasuglio di un’estate ormai dimenticata.

E’ bellissimo…

Questo Paese non smette mai di stupirmi. Ogni volta è come guardarlo per la prima volta. Sento il buonumore scaldare il mio cuore, sciogliere quella stretta opprimente al petto. Respiro profondamente, annusando l’aria fresca e leggermente acidula.

Mi sento più ottimista.

Ti troverò, Genesis.

Costi quel che costi.

 

 

Promessa mantenuta!!! Capitolo scritto a tempo di record proprio! Sono molto fiera di me! *scroscianti applausi si levano dalla platea* Grazie, grazie (ma a chi si inchina? ndSeph; non lo so, tu sorridi e annuisci ndCloud).

Alloooooooooora, tra l’altro ho finalmente ho anche definito la linea narrativa definitiva da seguire! Sarà cambiata tipo 200000 volte nel corsi di questi 21 capitoli! Ma vabbé, l’importante è esserci saltati fuori. Quindi, Genesis. Mi sono ricordata che il ciccio qui non è morto, come dimostra il filmato segreto del Dirge. Inoltre volevo dare un senso a quella scena dove Seph lo manda amichevolmente a farsi marcire nel Reattore di Nibelheim (bell’amico -.-‘ ndGen). Perché?, mi sono sempre chiesta. Ok, ha fatto un casino assurdo con la ribellione e tutto, però boh, a me non sembra che meriti una risposta così. Anche perché all’inizio di tutto, Seph ha sempre cercato di stargli bello lontano per evitare appunto di fargli del male. Perché quel cambio repentino di idee? Io ho la mia teoria che le più sveglie avranno già intuito. Bene, la crisi è scoppiata e ben presto ci ritroveremo nel suo cuore. Finalmente, dico io. Ogni capitolo avrà un interessante visione sui fatti del CC e spero di poter esporre fedelmente l’umore del nostro bell’uomo. Sarà divertente!

Spero vi piaccia la versione papà di Seph. E’ così teneroso che me lo coccolerei tutto (e non solo! GNAM! Ehi! Sono un uomo sposato, io! ndSeph, Bof, tanto quella crepa prima o poi ndForti, Crudele T.T ndSeph).

Purtroppo non credo avrò tempo di scriverne un altro ancora prima delle mia lunghissima assenza (anche perché questo tour de force mi ha prosciugata!) e non so se riuscirò a scrivere mentre sarò là. Vedremo, ragazze, vedremo. Intanto godetevi questo capitoletto!

Alla prossima!

Besos

 

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Capitolo 22
*** Fuga ***


22. Fuga

Il sapore del sangue marcio mi ottunde il gusto.

Quella bestia mi schiaccia col suo peso, impedendomi con i suoi artigli di sfuggire.

Cerco di urlare, invano.

In fondo, come potrei?

Non riesco nemmeno a respirare.

Non mi arrendo, tuttavia. So cosa vuole e non lo avrà tanto facilmente.

Gli infliggo altro dolore e stavolta sono libera.

Una libertà illusoria.

Non riesco ad assaporarla poiché la mia bocca avverte un solo terrificante sapore.

Un solo veloce momento di lucidità, prima che la mente venga ottusa dal dolore.

Quando tocco il fondo dell’abisso, ormai non credo di essere nemmeno più viva.

Nel mio cuore spezzato, tuttavia, un pensiero continua a ferirmi più della morte.

 

Il mio bambino…

 

 

Non smetto di guardare il ritratto di Takara. Non so ben dire se stia corrispondendo i desideri di un padre costretto a veder crescere la propria figlia da lontano, ma fatto sta che continuo a chiedermi che aspetto possa avere. Sephiroth mi sta affollando la mente con stralci di ricordi riguardanti la sua bambina, ma non riesco ben mettere a fuoco il suo aspetto, dal momento che sono più che altro i sensi e le sensazioni a farla da padrone. Appare confuso. Combattuto. Sembra quasi che la sua natura bestiale si stia ribellando contro un sentimento troppo umano da sopportare, ma irreprimibile come tale. Inoltre, non avverto altro che colpa. Colpa per non essere stato il padre che lei meritava. Colpa per averla messa in pericolo con le sue azioni riprovevoli. Colpa per averla dimenticata.

Senza rendermi conto una lacrima abbandona il mio occhio sinistro: una piccola manifestazione dello sconfinato dolore che alberga in quel cuore colmo di rimpianto. Sospiro e mi adagio contro la parete, fissando il soffitto bianco. Improvvisamente, un pensiero spazza via ogni barlume di pietà, lasciando spazio solo al risentimento. Mi asciugo la lacrima con stizza e mi rivolgo alla stanza vuota.

 

- Why pretend you sad? –

[Perché fingi di essere triste? Sephiroth, FFVII: ACC]

 

Mi guardo intorno, come se LUI fosse lì, appostato dietro alle ombre della notte. Mi alzo, spavaldo, pronto a combattere contro qualunque cosa possa uscire da quegli abissi multiforma. Mi avvio verso il centro della stanza, guardingo. L’attesa è lunga, ma so di non aver parlato al vento.

- Lo so che ci sei. Sono parte di te, ricordi? –

La temperatura sembra essere calata di colpo. Un brivido mi trapassa da parte a parte. Non saprei dire se di aspettativa o furore. Forse entrambe.

- Non hai pensato a ciò che la tua vendetta avrebbe portato a te stesso? Non hai pensato alla tua casa quando hai dato fuoco all’intero villaggio? O a tua moglie quando hai ucciso mia madre? –

Avverto le pareti crepitare, gemere, come se una forza invisibile scorra tra le intercapedini, similmente a un corso di sangue ribollente d’ira. Inconsciamente, le mie labbra si piegano all’insù, mostrando i denti, delineando così un sorriso maligno.

- Non hai pensato a tua figlia mentre uccidevi tutti quei bambini? -

Le ombre si animano, prendono consistenza e si protendono nella mia direzione. Assumono la forma di lunghe e scheletriche dita artigliate. Fa dannatamente freddo. Dalla mia bocca escono nuvolette di condensa. Gli artigli mi toccano. Sono mortalmente freddi, tanto ferirmi la pelle con il loro gelo. Tuttavia, non ho paura. Che faccia di me tutto quello che vuole, in fondo non m’importa nulla.

 

Non ho niente da perdere.

 

Appena formulo quel pensiero, le ombre si ritirano come se scottate, lasciando che l’accomodante luce lunare rischiari l’interno della stanza. Mi guardo attorno, confuso, spiando all’interno delle ombre; ma tutto sembra essere tornato alla normalità. Poi, realizzo. Chiudo gli occhi e rilasso i muscoli.

- Non avevi nulla da perdere… Credevi che tua figlia fosse morta, vero? –

Nessuna risposta, ma so che, da qualche parte nel mio inconscio, una testa ha annuito tristemente. Raggiungo il letto e riprendo in mano il diario, lasciato aperto sulla pagina del ritratto. Lo guardo con una consapevolezza completamente nuova.

- Non le avresti mai fatto del male… -

Le mie dita seguono le linee delicate che compongono il paffuto viso della piccola. Mi sembra di sentire la delicata morbidezza della sua pelle profumata scorrere sui miei polpastrelli. E di nuovo il dolore per poco mi soffoca. Mi rendo conto che questo è più reale che mai. Capisco anche un’altra verità.

- Tu sei morto molto prima di dare fuoco a Nibelheim. Chi, allora, è l’artefice di tutto ciò? –

Alzo la testa di scatto e sgrano gli occhi.

Ma certo…

Jenova.

 

All you are, it’s an empy puppet.

[Tutto ciò che sei, è una vuota marionetta, Sephiroth FFVII:ACC]

 

 

- Dove credi di andare? –

La voce calma di Vincent rimbomba nell’oscuro corridoio, bloccandomi sul posto, oltre che a farmi prendere un colpo. Ma come fa ad essere così silenzioso?

- Devi smetterla di apparirmi alle spalle quando meno me lo aspetto. –

Mi volto truce, ma il mortale viso del pistolero rimane impassibile, come una statua di cera. Egli si avvia nella mia direzione, emettendo solo un flebilissimo fruscio di vesti.

- Non hai risposto alla mia domanda. –

Vincent si eleva di fronte a me, le braccia incrociate al petto. Il suo viso ha assunto un’espressione seria, ma non greve o minacciosa… un’espressione strana, molto simile a quella assunta da un padre che ha colto il figlio in fallo. E mi rendo conto solo ora della leggera sfumatura di preoccupazione nella sua voce. Mi sento piccolissimo in confronto a quella figura possente e autoritaria. Stranamente, non me la sento di mentire.

- Me ne sto andando. Rimanere qua non ci aiuta a trovare Takara, Vincent. –

Il pistolero scioglie la morsa delle sue braccia e le lascia cadere lungo i fianchi, senza staccare lo sguardo dal mio. Non dice nulla, ma posso vedere un’intricata e complessa rete di ragionamenti nei suoi occhi. Ogni volta che menziono la sua nipotina, mi sembra quasi vedere il suo cuore di Protomateria illuminarsi. Il desiderio di conoscerla è così forte che posso quasi avvertirlo esplodere nell’aria. In questi momenti mi è permesso vedere il vero Vincent Valentine, il giovane Turk innamorato di una fragile e bellissima donna. Un uomo immortale che ha sofferto ogni pena infliggibile a un essere umano. Il passionale ragazzo trascinato da eventi più grandi di lui e affogato per via della passione. L’uomo celato dietro alla bestia in rosso. Tuttavia, è un attimo, un assaggio appena accennato, siccome la bestia, calcolatrice e fredda, non ama essere messa da parte.

- Non sei ancora abbastanza in forze per affrontare un viaggio così lungo. E come pensi di cavartela se dovessimo incontrare Genesis? Non sei nelle condizioni di combattere. –

Avverto un profondo senso di sconforto, ma se da parte mia o di Sephiroth non saprei dirlo, ciononostante non mi lascio abbattere e lascio che sia la calma a ribattere alle sensate opposizioni di Vincent.

- E’ vero. Sono distrutto, sia mentalmente che fisicamente. Non ho forze nemmeno per stare in piedi, come posso pretendere di combattere contro un ex-SOLDIER di Prima Classe? Eppure, sono l’unico che può portare a termine questo compito. E’ per questo che mi hanno scelto. Perché nonostante tutto il dolore inflitto io continuo ad andare avanti. -, mi appoggio alla parete con una mano, mentre con l’altra indico un immaginario punto lontano, - Laggiù, da qualche parte, c’è la promessa di un mondo migliore, un Dono divino che non può andare sprecato. E io non permetterò che lo sia, non finché avrò fiato in corpo! –, il furore delle mie parole sfuma pian piano, mentre le forze tornano a meno, ma non la mia determinazione, - Ti chiederai perché continuo imperterrito a inseguire questa missione, nonostante è palese che probabilmente non ne vedrò l’epilogo. Sinceramente, non lo so nemmeno io, però… -, tiro fuori il diario e ne osservo la copertina rovinata, - I peccati vanno espiati. Forse solo così si può ottenere la pace. –

Alzo lo sguardo verso Vincent e vedo i suoi occhi essersi fatti cupi, fissi sul diario del figlio. Quel figlio che avrebbe tanto voluto pretendere come suo. Sospira. Vedo la sua mano allungarsi verso la colonna del libro. Le dita guantate stirarsi timide verso la pelle nera, tremanti, spaventate. Il suo viso è l’espressione del puro tormento, di una colpa troppo grande per essere espiata; eppure solo quel minuscolo gesto d’amore represso potrebbe alleviare. Teme il confronto, tradito dal respiro pesante e affannoso. Davvero tuo figlio vuole la tua pietà? Tu, che non sei stato in grado di proteggerlo quando più aveva bisogno? La risposta, per Vincent, è palese. La sua mano crolla accanto al fianco, come se scottata, celandosi dietro alla sua prigione rossa.

- Non è mai troppo tardi per chiedere perdono, Vincent. –

Le labbra pallide si sollevano in un mesto sorriso.

- Spero che tu abbia ragione… -

 

 

Le appuntite cime degli abeti si elevano nel cielo bluastro come tante lance scure, in protezione dei segreti celati nel cuore della foresta. Il Lifestream scorre molto vicino alla superficie, tanto che, talvolta, è possibile imbattersi in sue emanazioni, le quali, come centinaia di lucciole verdi danzano nell’aria gelida e pesante dell’abetaia, dissipando le inquietanti ombre della notte. Esse rischiarano la nostra fuga, testimoni silenti e scintillanti della disperata rincorsa al perdono. Fa freddo e il mio corpo debilitato fatica ad avanzare speditamente. Incespico nei miei stessi passi, ingarbugliati dall’intricata rete di felci rappresentanti il sottobosco, celati da un sottile strato di neve. Il vento ulula tra gli enormi tronchi degli alberi, rendendo l’atmosfera più inquietante di quanto non lo sia già. Non posso fare a meno di notare luci allarmanti osservarci nell’ombra. Mostri… o solo la mia immaginazione? Un generale senso di nausea e spossatezza mi stronca, costringendomi ad appoggiarmi contro un tronco, arrestando la mia corsa. Le gambe non reggono e finisco ginocchia a terra. Il cuore batte forsennato nel petto e l’aria gelida mi brucia nei polmoni, rendendo ogni respiro un’accoltellata lungo la faringe. Cerco di calmarmi e stroncare il fiatone, ma non faccio altro che ottenere l’effetto contrario.  La carenza di ossigeno inizia a dare i suoi effetti.

Mi gira la testa.

Il mondo si fa confuso.

Forse ho preteso davvero troppo dal mio fisico…

 

 

La pioggia scroscia ininterrottamente da stamattina, senza accennare di smettere. E’ straziante rimanere chiusa in casa in questa stanza vuota, maneggiando vestiti che dovrebbero essere indossati. Invece, sono qui, freddi e inermi nelle mie mani, in attesa di essere riposti ordinatamente nell’altrettanto triste e gelido ripostiglio. Sospiro sconsolata, mentre arrotolo un obi, stirandolo per bene in ogni sua parte. Non posso fare a meno di notare che è lo stesso obi che è stato indossato per una cerimonia molto importante. Senza nemmeno pensarci, la mia mano abbandona la stoffa e va sfiorare qualcosa più consistente appeso da una catena al mio collo. Un anello. Come la cintura, esso non mi appartiene ed è freddo, anche se non lo dovrebbe essere. La faccio girare tra le mie dita. E’ così grande… Come il suo palmo, ampio abbastanza da chiudere entrambe le mie mani nella sua morsa. Una morsa gentile e delicata, invero. Come le carezze che è capace di disseminare lungo tutto il mio corpo. Mi sembra quasi di sentirle, cingermi al sicuro, nella sua rassicurante stretta. Sorrido, certa della loro reale esistenza; finché un boato mi risveglia. Apro gli occhi e mi accorgo che le mani che tanto stavo amando erano le mie. Sospiro e lascio cadere le braccia sul grembo. Alzo lo sguardo verso la finestra. Le gocce di pioggia collidono contro il vetro e scendono soavi lungo di esso. Le loro ombre si proiettano sulla mia figura. Distolgo lo sguardo. Il cielo piange per me… Ormai, non ho più la forza di fare nemmeno quello. Dico a me stessa che, in fondo, non c’è motivo. Guardo la fede nuziale, risplendere nella sua fulgida semplicità.

Ha promesso di tornare, mi dico.

Lui torna sempre, in modo o nell’altro. Non è capace di lasciarmi andare.

Fino a che morte non ci separi.

Un brivido mi scorre lungo la schiena e mi costringe a distogliere lo sguardo dall’anello. Prendo un profondo respiro ed elimino quell’orrido pensiero così velocemente come è venuto.

E’ una possibilità a cui non devo nemmeno ponderare.

Mi rimetto al lavoro per distrarmi, quando avverto una presenza alle mie spalle. Mi volto. C’è Natsu in piedi sull’uscio della porta che mi osserva con un gran sorriso. Non ne comprendo il motivo, finché non abbasso lo sguardo verso il basso. Rimango a bocca aperta, appena vedo mia figlia… in piedi, senza aiuto. Avverto una profonda fierezza nei confronti della mia piccola principessa, la quale mi guarda tutta gongolante, sfoggiando il suo sorriso più bello. Incantata da quell’arco, sulla mia bocca se ne forma un altro altrettanto largo, mentre mi giro completamente e protendo le braccia nella sua direzione.

- Vieni, tesoro. Vieni dalla mamma. –

La piccola allunga le manine, cercando di afferrare le mie dalla sua posizione precaria. La vedo assumere un’espressione confusa e un po’ spaventata all’idea di non riuscire a raggiungermi.

- Su, Taky. Puoi farcela. –

Il tono rassicurante e il desiderio di toccarmi sconfiggono la sua iniziale perplessità e, con grande fatica, Takara muove due piccoli, incerti passi; quel tanto che basta perché le nostre dita possano toccarsi. Io sorrido appena avverto la sua pelle delicata sulla mia e, automaticamente, le mie mani si vanno a chiudere sulle sue, accompagnando la sua caduta verso il mio corpo accogliente. L’abbraccio e la stringo forte a me.

- Bravissima, amore! –

La bacio e la sollevo fin sopra la mia testa, come piace a lei. Takara inizia a ridere, fiera di se stessa. I suoi occhietti di giada brillano di gioia per il grande traguardo appena raggiunto e so già che la sua scarmigliata testolina bruna sta lavorando a come potrà usare questa sua nuova abilità. La vedo guardarsi intorno, intenta a riedificare la sua concezione del mondo. Infine, i suoi occhi incrociano i miei.

- Sarà più facile raggiungere le mamma, eh, tesoro? –

Lei sembra capire e sfoggia un sdentato, buffo e dolcissimo sorriso. Io rispondo di rimando e appoggio la mia fronte alla sua. Sospiro. Mi sento improvvisamente triste. Sollevo lo sguardo e la osservo. E’ tanto bella, la mia principessa. Ripasso i suoi lineamenti armoniosi, immaturi, ma dolci; in contrapposizione con il taglio degli occhi deciso ed allungato, adornato da lunghe ciglia scure. Queste ultime proteggono iridi dalle mille sfumature del verde, dallo smeraldo all’acqua, troppo peculiari per appartenere a questo Pianeta. Al contrario, i capelli sono la reincarnazione di questo mondo, del brillare del sole sulle fronde degli alberi, o della resina che cola delicatamente dalla corteccia; in un fluente turbinio di sfumature brune e, talvolta, dorate.

Non potrei essere più fiera di me per aver dato vita a una creatura così perfetta.

Oh, Sephiroth, che meraviglioso spettacolo ti stai perdendo.

 

 

-Cloud! Alzati, forza! –

L’incoraggiamento risuona lontano, offuscato, ma ha forza sufficiente di risvegliare parte della coscienza. L’altra metà è persa nel sogno. E’ come camminare all’interno di un lungo corridoio, i cui due capi conducono verso due tempi differenti. Dinnanzi a me il futuro. Freddo, ostile, oscuro; come la foresta che mi circonda, avvolta nella stretta morsa della tormenta notturna. Vedo il viso affilato di Vincent, deformato dallo sforzo, parlarmi, incitarmi a ritornare in me. Osservo i fiocchi di neve depositarsi copiosi sulla sua folta chioma corvina, le cui ciocche frustano la pelle lattea dell’ovale. Mi sta trascinando, avverto a malapena il suo braccio attorno alla mia vita e l’artiglio stringermi la mano nella sua morsa gelida.

- Cloud! Avanti, collabora. –

Lo odo a malapena, ma ha ragione. Devo aiutarlo. Devo tornare in me, devo…

Faccio appena in tempo a muovere due passi in quella direzione che un’avvolgente calore mi solletica la schiena, emanato da un’appagante luce dorata. Incuriosito, mi volto. Dinnanzi a me, avvolte dalla loro solenne perfezione, loro… Evelyn e Takara. Sorridono e mi guardano, ridono tra di loro e si coccolano, abbracciate e felici. Bellissime. I loro colori sono sbiaditi, come quelli di una vecchia fotografia e lì mi rendo conto di ciò che sto guardando: il passato. Caldo, rassicurante, luminoso.

- Perfetto. –

Mi sale un brivido gelido lungo la schiena appena odo QUELLA voce. Non faccio in tempo a girarmi che lo vedo sfilare alla mia destra e, lento e solenne, sorpassarmi. Si ferma pochi passi di distanza dinnanzi a me. Non mi degna di uno sguardo, in quanto è del tutto concentrato sulle due figure sbiadite in fondo al corridoio. Contemplo la sua figura alta e possente, rinchiusa nella sua solita oscura divisa; i capelli argentati scorrere fluenti lungo la schiena; gli spallacci segnati di mille battaglie luccicare sinistramente sulle spalle larghe. Rimaniamo immobili e in silenzio per secondi che sembrano un’eternità. Vorrei ribattere qualcosa, però, quando apro la bocca, vedo la sua mano sinistra muoversi. Inconsciamente, tutti i miei nervi scattano e si mettono all’erta, pronti alla battaglia imminente; ma nulla di tutto ciò a cui penso accade. Lui nemmeno si è accorto della mia presenza, probabilmente. Allunga il braccio in direzione delle due donne, come se volesse afferrarle. Chiude il palmo e avvicina il pugno a sé, poi lo apre.

Vuoto.

- Non puoi afferrarle. Sono solo ricordi… -

- Sono solo troppo lontano. –

Egli avanza ancora, si ferma dopo pochi passi e ripete le stesse azioni svolte in precedenza. Una, cinque, dieci volte, ma il palmo è sempre miseramente vuoto. Inoltre, più lui si avvicina, più quei ricordi sembrano precipitare ancora più in profondità, come se fosse lui stesso a spingerli nell’oblio. Appena capisco, corro nella sua direzione e lo afferro per le spalle.

- Fermo! Così le perderai per sempre! –

Rimane immobile, il braccio ancora disperatamente rivolto verso quella trappola dorata. Quando inizio a pensare che non mi abbia ascoltato, le sue dita lentamente si ritraggono nel pugno. Successivamente, il braccio inizia ad abbassarsi e, con mia grande sorpresa, tutto il corpo viene ricoperto di centinaia di crepe, come improvvisamente si fosse trasformato in vetro fragilissimo. Spaventato da quello spettacolo, abbandono la presa, ma appena lo faccio, il suo corpo esplode in migliaia di pezzi. Mi getto all’indietro, coprendomi il viso con le braccia, tuttavia i frammenti evaporano appena sfiorano la mia pelle.

- Ma che…? –

Alzo lo sguardo dove prima Evelyn e Takara giocavano insieme e vedo una città, o meglio, il dettaglio di una città. Un antico castello dell’epoca feudale wutaniana spicca su un fiume placido, largo, cavalcato da centinaia di ponti multicolori; i quali collegano l’alta costruzione al resto dell’agglomerato. E’ un dettaglio, tuttavia, che attira la mia attenzione, un cartello stradale, su cui sono scritte delle indicazioni. La prima riga è incomprensibile, poiché è scritto con gli ideogrammi, ma la seconda…

 

Castello di Yaido

 

Sorrido e mi alzo, correndo verso l’altro lato del corridoio. Prima di passare la soglia mi volto un’ultima volta. Il mio sguardo viene accolto da una coppia di smeraldi, in cui Lifestream e mako si mescolano in un vortice d’armonia perfetta. Rimango immobile ad osservare quegli occhi unici e una stilettata mi colpisce direttamente il cuore, appena la consapevolezza mi fa realizzare che la prossima volta che li vedrò saranno svuotati della loro bellezza.

 

Davvero avrò questo coraggio?

 

Con la pesantezza nell’animo attraverso la soglia e il freddo mi colpisce con la forza di un maglio. Tutti i miei sensi vengono violentati dalla dura realtà della bufera, tanto da soprassalire così rudemente da cogliere del tutto impreparato Vincent, il quale mi libera dalla sua stretta. Barcollo all’indietro, rischiando di cadere, ma il pistolero ha i riflessi pronti e mi afferra per la giacca, tirandomi a sé. Mi ancoro alle sue braccia e lo guardo negli occhi.

- So dove dobbiamo andare. –

Lui mi guarda preoccupato e capisco che devo avere un aspetto folle. In effetti, è così che mi sento. Avverto anche un’energia incredibile scorrere nelle mie membra, una forza che credevo di aver perduto da quando ho messo le mani su quel maledetto diario.

Vincent apre la bocca per ribattere, ma il rumore di un motore in lontananza attira la mia attenzione.

- Andiamo! –

Lo trascino per il braccio e gli faccio da guida attraverso la foresta con una sicurezza tale da sembrare che ci abbia sempre vissuto tra questi abeti. In realtà, l’udito, incredibilmente fine, mi sta portando verso la strada principale, dove troveremo il nostro passaggio, volente o dolente, verso la nostra prossima meta: Yaido, Wutai.

 

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10 Dicembre XXXX

 

La guerra è finita

Quattro, semplici parole, capaci di accendere l’ardore nel cuore di questo mondo deprivato della speranza. La gente si è riversata nelle strade, urlando e stridendo, festeggiando in grande stile. Le città vengono addobbate con festoni e manifesti; i cieli abbagliati da fuochi d’artificio e parate aeree; gli strilloni annunciano la grande notizia a gran voce, così che tutti, perfino la più bassa e misera feccia di ignoranti esiliati, possa essere messi al corrente dei fatti. I telegiornali trasmettono immagini delle principali città in festa, accompagnate da litanie di inni patriottici. Mogli, fidanzate, madri e figlie affollano le stazioni, gli aeroporti, le piazze per accogliere in prima linea il ritorno dei propri uomini. Tanti abbracci, tanti baci passionali, tante lacrime. Sia felici che tristi. Coloro le cui aspettative sono state infrante, danno vita a una loro celebrazione, accendendo dei ceri; riversandosi nei cimiteri militari; o ricercando l’ultima vana speranza presso le liste dei dispersi. Famiglie spezzate o, addirittura, estinte o sull’orlo di essa, piangono nelle strade, accanto a coloro che festeggiano. E’ un caleidoscopio di emozioni, confuso, catastroficamente pazzesco. Non c’è logica, non c’è ordine, non c’è disciplina. E’ incredibile quanto la pace assomigli alla guerra. La sua folle frenesia, tuttavia, incontra in me solo gelida indifferenza, perché la guerra non è finita. Oh no. E’ appena iniziata.

Wutai non era altro che un riscaldamento, il cerino che ha dato inizio all’incendio. Qualcosa, dalle ceneri di quella guerra, è emerso: una verità scomoda e oscena si è rivelata in tutta la sua crudezza. Ed è la ricerca di questa verità che mi attanaglia le viscere, m’impedisce di dormire, di mangiare, di… vivere. Una parte di me darebbe di tutto per gioire della sua luce, ma dall’altra ne è terrorizzata; tanto che invidio e temo quei tanti che ne sono stati scottati. Osservo le loro piume nere e bianche scendere dal cielo plumbeo, orripilato e affascinato nello stesso tempo.

Quelle ali…

Saranno angeli o demoni coloro che solcano i cieli?

Il terrore da queste creature disseminato verrebbe da ricondurlo ai seguaci del Demonio, ma… non era usanza dei demoni di fingersi angeli prima di essere scacciati dal Paradiso? E se c’è un Paradiso su questa terra, allora dov’è questo luogo? E se è il contrario? Essi cercano di riportare questo mondo infernale ai fasti di un tempo, prima che il Lifestream venisse corrotto dalla mano dell’uomo e succhiato via dalle viscere del Pianeta?

E’ questo che state cercando di fare, Genesis, Angeal?

Amici miei… perché mi avete lasciato indietro? Perché non avete condiviso le vostre conoscenze con me? Perché non volete introdurmi al culto della vostra Dea?

Perché non posso avere delle ali come le vostre?

Perché non mi avete liberato?

Genesis è convinto che dei tre amici io sono colui che rimane e diviene Eroe. No, si sbaglia. Io sono colui che è intrappolato, colui che cerca risposte, ma non fa altro che scontrarsi contro il silenzio e l’ostinazione. Fin da quando ero bambino. Sono sempre stato in trappola. Rinchiuso in una prigione d’immeritata gloria. Perché un uccello libero dovrebbe invidiarne uno in gabbia?

E’ per questo che non voglio affrontarvi. Non per paura, ma per evitare di spezzarvi le ali. Almeno, fino a che non capirò finalmente come ottenere le mie.

Libero.

Libero di stare con la mia famiglia, di crescere mia figlia, di amare mia moglie, di vivere una vita normale.  Avrò tutto ciò che ho sempre desiderato se scoprirò ciò che Genesis ed Angeal mi nascondono. Per questo non mi do tregua, indagando sul Progetto G ogni volta che ne ho l’occasione. Sto scoprendo un sacco di orridi segreti. Esperimenti disumani su prigionieri di guerra; donne incinte costrette a farsi iniettare energia mako direttamente nel grembo; bambini deformi; mostri. Mi sembra quasi di sentire il dolore e la sofferenza di quella gente, immobilizzata sui lettini operatori da spesse cinghie, circondata da una risma di pazzi che si divertono a staccare lembi di carne direttamente dalle ossa. E assisti alla scena inerme, incapace di muoverti, di gridare, di piangere. Preghi solo che quell’orrore abbia fine il più presto possibile e di essere rispedito nelle tua misera cameretta a leccarti le ferite; in attesa della prossima sessione di torture.

Non mi libererò mai di quegli incubi. Quanto invidio quei mostri: la loro mente è così frammentata da non ricordarsi nemmeno come si sono tramutati in ciò che sono. Non ricordano il dolore, la paura, l’umiliazione. L’unica emozione a loro rimasta è la rabbia. Una rabbia così incontrollabile capace di offuscare ogni altro istinto che desume dall’uccidere qualunque cosa capiti tra le mani. Quella stessa rabbia che mi brucia dentro da quando ho memoria, che mi ha portato a compiere i più orribili crimini, quella che devasterebbe il mondo intero se la lasciassi andare. Mi viene da assomigliarla a un oceano ribollente, come le viscere di un vulcano pronto ad esplodere da un momento all’altro. Da giovane quel vulcano era in piena attività. E con la pubertà le cose andarono anche peggio. Mi era impossibile perfino prevedere le avvisaglie di un’eruzione. Scattavo e basta, ogni senso annebbiato, ogni pietà zittita. Mi risvegliavo nella camera d’isolamento, manette attorno ai polsi e alle caviglie, nocche sbucciate, graffi da difesa sulle braccia e mani e divisa sporche di sangue non mio. Non ricordavo nulla di ciò che era accaduto, pregavo solo di non aver ucciso nessuno. Rimanevo per ore a fare mente locale, senza risultato, contorcendomi l’animo con il dubbio e la colpa. Ciò non faceva altro che aumentare la pressione dentro alle viscere del vulcano. Una volta, una guardia più audace del solito iniziò a deridermi, a scimmiottarmi. Non rimembro esattamente il motivo di tanto astio, ma penso che la ragione del suo sdegno fosse da ricollegarsi al fatto di aver ridotto un suo commilitone tra la vita e la morte. Ne aveva tutte le ragioni, ma, a giudicare dall’amico, probabilmente anch’io avevo avuto le mie ottime motivazioni per averlo ridotto nello stato in cui verteva. Un’idiota che non meritava di vivere, probabilmente pensai. Ricordo che spezzai le catene e mi gettai sulla parete di vetro anti sfondamento, menando pugni sulla superficie con tutta la forza che avevo. Le due guardie si allontanarono e rimasero a guardarmi stupite, mentre cercavo di sfondare quel vetro, in teoria, indissolubile. Ma fu quando le prime crepe iniziarono ad allargarsi sulla ialina superficie che il loro stupore si trasformò in puro terrore. L’audace mi puntò il fucile contro, come ammonimento; mentre l’altro scappò a gambe levate. Potevo vedere l’arma tremare nelle sue mani, mentre urlava minacce e insulti. Quando sfondai, sparò, centrandomi la spalla destra, ma non servì a molto. Sparò altri colpi, ma il panico ormai si era impossessato della sua mira e i proiettili andavano ovunque, tranne che su di me. Lo avrei ucciso, probabilmente, se un SOLDIER di Prima Classe non intervenne per fermarmi. Lanciò tre incantesimi Morfeo al massimo livello prima di perdere il controllo del mio corpo. Nella confusione del dormiveglia, lo vidi torreggiare su di me. Ricordo distintamente il suo viso. I lineamenti erano decisi, rappresi in un’espressione d’impassibile severità. Gli donavano un’aria autoritaria; inoltre i tratti palesemente occidentali sprigionavano una straordinaria aura di rispetto, con il quale si era guadagnato la fiducia e la lealtà del popolo e dei media. Quell’uomo era un eroe, uno dei primi eroi che MIdgar aveva decretato da quando il Reparto era nato. Non l’avevo mai incontrato prima di quel momento, ma all’epoca poco m’importava del rispetto e della disciplina: avevo i miei demoni da combattere, demoni che nessuno riusciva a fronteggiare. Le punizioni corporali di Hojo non facevano altro che peggiorare la situazione. Egli non faceva altro che ripetermi che se non mi fossi deciso ad imparare a controllarmi, il Presidente avrebbe preso misure drastiche nei miei confronti. E tanti saluti ai sogni di gloria del vecchio. L’idea mi divertiva e mi diverte tutt’ora, devo ammettere. In fondo, a me importava ben poco del mio futuro: forse una morte prematura era la più rosea delle opzioni. Me lo meritavo, dopotutto. Ero un fallimento. Hojo non faceva altro che ripeterlo. Avevo capito che avevo perduto l’amore di mio padre, fermo restando che l’abbia mai avuto. Era questa frustrazione, mista alla paura di uscire perdente dalla battaglia contro la Bestia che mi si agitava dentro, la causa di quell’escalation sempre più violenta di aggressioni e scatti d’ira. I dottori lo avevano definito ‘ sistema di difesa’, il mio modo di reagire alle difficoltà. Era l’unica spiegazione che erano riusciti a darmi. Per il resto e per chiunque altro rimasi un enigma irrisolvibile. Poi, arrivò quel SOLDIER, il quale cambiò per sempre la mia vita, definendo, nel bene e nel male, l’uomo che sono ora. Egli fu uno dei pochi esseri umani capaci di vedere il tormento provocato da questa maledizione. M’insegnò a controllarla, a conviverci, ad accettarla. Per la prima volta in vita mia, mi sentii in pace con me stesso. E credetti di aver trovato un valido sostituto del Professore. Un ‘padre’ da rendere fiero. Fino a che non rivelò per ciò che era in realtà: una spia al soldo di Wutai. Non saprei dire se il suo coinvolgimento in quella storia fosse già in corso quando c’incontrammo, ma, una cosa è certa: non c’era rimpianto nei suoi occhi quando mi infilò la Masamune tra le budella.

Non gli ho mai chiesto il motivo delle sue azioni.

Non gli ho mai chiesto il motivo di tanto odio nei miei confronti.

Non gli ho mai chiesto nemmeno se gli fosse mai importato qualcosa di me.

Non gli chiesi nulla. E lui non mi disse nulla. Combattemmo e basta.

Un combattimento da cui sapevo che non ne sarei uscito vincitore. Mi aveva già sconfitto a Corel, quando mi marchiò. Quel giorno, mancò di uccidermi nel corpo, ma uccise la mia mente. Tutto quello che ero riuscito a raggiungere grazie ai suoi insegnamenti, si spezzò in migliaia di pezzi. La mia psiche non era mai stata così frammentaria e imprevedibile; tuttavia molto più viscida e strisciante che in passato, poiché ben celata da una spessa coltre di calma e disciplina. Forse non è completamente colpa di quell’uomo, perché, in fondo, io non sono mai guarito dalla mia follia. Il controllo è un illusione. E sono certo che io non riuscirò mai ad assumerlo. La mia vita è troppo instabile.

Troppi lutti, troppe perdite, troppi fallimenti costellano la mia esistenza. La Shinra tanto mi ha dato… e troppo mi sta togliendo. Genesis ed Angeal, gli unici amici che abbia mai avuto, si sono trasformati nei miei peggiori nemici. La Compagnia vuole che li affronti e porti le loro teste su un piatto d’argento.

Non ne ho la forza.

Forse fino a qualche anno fa non ci avrei pensato due volte ad eseguire questa sentenza spietata, ma ora… La vita ha un valore diverso ai miei occhi. Il tutto grazie a LEI. Il mio angelo è un’isola di calma nella mia mente tumultuosa. Se dovessi perderla… credo che impazzirei. Lei mi ha rapito il cuore, trafitto l’anima, riempito la mente, posseduto il corpo… perderei me stesso. A quel punto, non ci sarebbe più nessuno a frapporsi tra il mondo e la Bestia.

Spero che sia al sicuro laggiù tra le montagne. Tseng dice che i mostri hanno invaso buona parte di Wutai, ma si concentrano soprattutto attorno alle grandi città o nelle zone ad alta concentrazione di mako, dove sono stati costruiti i reattori.

“Onijin è un villaggio sperduto, non c’è nulla che possa interessare a Genesis o a chiunque altro. Sono al sicuro, vedrai.”

Vorrei credergli, ma forse la mia preoccupazione è solo il riflesso del desiderio di riabbracciarle. Chissà quanto è cresciuta Takara in questi due mesi. Desidero così tanto vederla, coccolarla, guardarla negli occhi, accarezzarle la pelle, avvertire le sue manine minuscole stringere il mio dito.

Mi manca il suo sorriso. Il LORO sorriso. Soprattutto quello che nasceva sulle labbra di entrambe quando Evelyn allattava Takara. Era uno spettacolo meraviglioso, capace di annichilirmi con la sua straordinaria potenza. Mi pareva quasi di vedere l’energia fluire da un corpo all’altro, come se mia moglie stesse sacrificando parte della sua vita per darla a nostra figlia. E ciò la riempiva d’orgoglio, come se non avesse desiderato altro che quel gesto per tutta la sua esistenza. 

La Madre è vita.

Fu davanti a quello spettacolo che realizzai il motivo delle mie tribolazioni. Mia madre è morta quando sono venuto al mondo. Le ho strappato l’energia vitale in un colpo solo, senza darle nemmeno il tempo di vedermi per la prima volta, senza darle il tempo di ascoltare la mia voce. Fin dal principio non sono stato altro che un egoista, così attaccato alla sopravvivenza e così difficile da abbattere. Eppure, quante volte ho cercato di bruciare quella vita immeritata, ingloriosa e vuota? E con che diritto? Questa vita non mi appartiene, perciò avrei dovuto viverla come avrebbe fatto lei, invece di sprecarla per accontentare le visioni di un vecchio pazzo.

L’unica azione buona che ho compiuto è stata crearmi una famiglia.

Creare…

E’ un termine così strano. La mia sola presenza è sempre stata sinonimo di distruzione e morte. Se guardo indietro non vedo altro che terre devastate, sommerse sotto metri di cenere su cui cataste insanguinate di corpi putrefatti si elevano verso un cielo nero come la pece. Non pensavo che da questo corpo corrotto dal peccato potesse nascere qualcosa di così puro e innocente come Takara. Forse, come spesso Evelyn ribadisce, essa potrebbe rappresentare il mio vero Io; chi sarei se non avessi intrapreso la carriera di SOLDIER. Se la mia vita fosse stata differente…

Quand’ero bambino immaginavo spesso a un’alternativa all’oscura e terrificante realtà in cui ero costretto a vivere ogni giorno di quell’infanzia maledetta. Certe notti sgusciavo fuori dalla mia camera e mi dirigevo verso la soffitta, così da allontanarmi il più possibile dalle segrete di quella magione maledetta. Mi arrampicavo attraverso le travi e raggiungevo il lucernario, da lì uscivo sul tetto. Non ho memoria di dove fosse localizzata quella magione, ma ricordo che l’aria notturna era sempre fredda e frizzante, qualunque stagione fosse. Il cielo era così limpido da poter saggiare la meravigliosa striscia di stelle della nostra galassia. Uno spettacolo che ho visto solo un’altra volta in vita mia. Rimanevo ore sotto il cielo stellato ad osservare il brillio latteo di soli lontani, immaginandomi di solcare quegli universi infiniti e visitare quei sistemi. Per un meraviglioso attimo, mi fondevo con l’eterno mare di stelle e lì trovavo la mia pace, il mio posto. Era tra quell’eterno brillio, fatto di spettacolari nascite e catastrofiche morti, che io mi sentivo appartenere. Alla fine, mi protendevo verso il cielo, allungando la mano, nella speranza che qualcuno potesse afferrarla e portarmi via da questo pianeta. Rimanevo fermo in quella posizione per minuti interi, fino a che le membra non divenivano terribilmente pesanti. Ricordo la seconda volta che vidi quello spettacolo, da ragazzo, decisi che sarei rimasto immobile fino a che la mia richiesta di aiuto non venisse accettata. Nella mia mente non riuscivo a concepire che tra miliardi di miliardi di stelle non ci fosse nessuno disposto a venirmi a salvare. Attesi con la mano protesa per quasi un’ora; fino che il custode del telescopio di Cosmo Canyon non entrò nella stanza, costringendomi a scappare. Già allora avevo una reputazione da difendere.

Purtroppo, con l’industrializzazione del mondo, non esiste più un luogo abbastanza buio da saggiare la bellezza celeste. Non demordo, tuttavia. E’ un richiamo ancestrale, radicato in ogni cellula di me. Come se… come se io non appartenessi a questo Pianeta. Come se il mio posto fosse lassù, tra il buio infinito, a cavalcare le stelle e visitare pianeti alieni. A volte ho come la sensazione che questo Pianeta sia solo una tappa, una sorta di sosta momentanea al mio viaggio cosmico. So che è può sembrare assurdo, ma non credo si tratti solo di una sensazione. C’è un sogno che mi perseguita da quando ho memoria. Da bambino ero spaventato da quelle immagini, ma col tempo ho imparato a conviverci. E ora, con le nuove rivelazioni provenienti dal Progetto G, mi sto convincendo sempre più che non è un sogno.

Il tutto inizia con una larga panoramica di Gaia, in tutto il suo splendore. Appare come un Pianeta sano, verde, pulito. Il Lifestream scorre possente e gentile, accarezzando dolcemente gli strati più alti dell’atmosfera. Poi, l’immagine ruota, il pianeta si fa da parte, oscurandosi. Dalla sua curvatura, come eruzioni violente, emergono i raggi solari. Il campo si allarga e un agglomerato di meteoriti e fiamme e fulmini fa capolino nella visuale. Prima lentamente, ma poi sempre più rapido, quest’ammasso roccioso si appropinqua al pianeta, fino a scontrarsi con l’atmosfera. Il Flusso Vitale crepita e s’inviluppa lungo il meteorite, cercando di bloccarne la devastante caduta. A quel punto, io volo sopra il Flusso Vitale, ascoltando l’agghiacciante urlo di migliaia di vittime di quell’apocalittico disastro. Non mi turba. Sono del tutto estraneo a ciò che accade sul suolo di quel pianeta, estraneo, alieno. Tutta la mia attenzione è rivolta verso la figura incastonata fino alla vita all’apice del meteorite. Non riesco a distinguere nessuna fattezza in particolare, ma so che si tratta di una creatura dalle caratteristiche femminili. Una donna dai lunghi capelli di luce. Flessuosa e morbida, quella figura brilla di una scintillante luce argentata, come l’infinita bellezza delle stelle da cui ella proviene. Il Lifestream inizia a scorrere lungo il suo corpo, intrappolandola in una morsa soffocante. Prima di venire completamente inglobata, la creatura allarga le braccia e due enormi ali si dispiegano in tutta la loro maestosità. Ma è un attimo appena, dal momento che la sua luce diviene insopportabilmente luminosa. L’unica cosa che rimane è un urlo disperato di dolore. Poi, mi sveglio.

Non sono in grado di distinguere se si tratta di una premonizione o di una memoria, ma quella sagoma è così famigliare. Esattamente come la voce. Entrambe mi appartengono, insediate nelle profondità della mia memoria. Forse colei che vedo è mia madre. Un angelo di luce inglobato dalle crudeli spire di questo Pianeta. Forse davvero una parte di me non appartiene a questo mondo. Ciò spiegherebbe il motivo della mia unicità, del fatto che io sia così definitamente diverso da qualunque abitante di questo mondo. Forse quelle pulsioni di distruzione non sono risultato di una latente follia ereditata da mio padre, ma un eco primordiale della mia missione.

Distruggere il mondo…

No.

Ferirlo, affinché il Lifestream possa guarirlo dalla piaga che lo sta uccidendo.

Ma è davvero possibile?

Una leggenda Cetra ne conferma la possibilità, ma racconta anche che ciò provocherà una devastazione senza pari. A quel punto, si aprirebbero le porte per la Terra Promessa. Ed è ciò che la Shinra vuole. Ravanando nel marcio lurido archivio di questa società ho appreso che gli interessi della Compagnia ricadono su antiche leggende, su cui sperano di trovare fondi di verità. Motivo per il quale hanno eseguito esperimenti su Ifalna e tengono Aerith sotto sorveglianza. I Cetra sono in possesso di conoscenze che agli umani non è possibile accedere e la mia giovane amica ne è la sola detentrice, ma, sfortunatamente, ella stessa non ne è al corrente, poiché sua madre è morta prima di istruirla. Ciò che la piccola Aerith sa è grazie al suo innato istinto. Le ricerche del Professore vertevano su questo argomento, tuttavia ogni loro traccia è andata perduta con la sua morte. A quanto pare è riuscito a distruggere i risultati prima che cadessero in mani sbagliate. Mi scappa un sorriso al pensiero che Hojo è rimasto gabbato ancora una volta dalla scaltrezza del Professore. Se solo avesse combattuto così caparbiamente anche per me…

Per quanto mi volesse bene, nessun uomo vorrebbe un figlio così... mostruoso. A parte il vecchio rachitico, ma solo perché lui è il più bestiale di tutti i padri.

 

Salve!!! Finalmente sono tornata! Anche se sono già ripartita XD. Eh sì, dopo l’intensa esperienza alle Falkland, la quale non solo mi ha impedito di anche solo PENSARE alla fiction, ha anche affossato un po’ la mia voglia/fantasia, sono partita alla volta del Wales, New Quay per la precisione. Motivo sempre lo stesso: delfini <3 <3 <3. Ora ho mooooooooolto più tempo libero, è praticamente una vacanza, solo 5 ore al giorno, al caldo, un tetto sopra la testa, capi molto più comprensivi e gentili. Anche se devo essere sincera: l’adrenalina scatenata dal fatto di rischiare la mia vita ogni giorno per sei mesi un po’ mi manca. Un po’, eh… Ma se questo vuol dire lavorare dalle  13 alle 14 ore al giorno, con mezza giornata di riposo a settimana ed essere tratta a pesci in faccia per ogni minima cosa, anche no, grazie. Cmq, ritorniamo a noi. Actually, all’inferno di ghiaccio effettivamente ho avuto tempo di buttare giù due righe, ma sono scritte in un modo che dovrei rielaborare, però diciamo che mi hanno permesso di definire meglio la linea temporale e gli eventi futuri. Il vero problema di questo capitolo è che è un dannato, ma necessario filler. E sappiamo tutti che effetto hanno questi filler sulla voglia di scrivere. Avrei voluto pubblicare qualcosa appena tornata, ma sfortunatamente tutti i miei amici/parenti/fidanzato volevano vedermi e, voilà, Marzo era già finito. Poi ad Aprile ho iniziato a scrivere qualcosina, ma poi è arrivato il Galles e ho dovuto posticipare ancora. Ma ora finalmente ce l’ho fatta!

Con questo ho cambiato un po’ l’ordine di apparizione dei personaggi, a parte il nostro Sephiruccio, perché il meglio va tenuto sempre per ultimo XD. Su Cloud non ho voluto troppo soffermarmi sul lato psicologico, perché, per quanto pazzo, la sua follia è ormai una costante. Però questo capitolo è importante perché ci dice dove Takara dovrebbe trovarsi e come è fatta (per questo ho messo la parte principale di Evelyn a metà). Scommetto che non vi aspettavate i capelli bruni, ma farli argentati sarebbe stato 1 troppo scontato e io odio essere mainstream e 2 è più facile per me legittimare il fatto che nessuno l’abbia mai trovata finora. Inoltre, vediamo se qualcuno indovina in anticipo a chi penso di farla assomigliare la piccola XD. Magari no spoiler e mandatemelo via MP, please.

Con Sephiroth, invece, non ho voluto troppo soffermarmi sulla storia, ma sui suoi ricordi, emozioni e illazioni. Siamo in pieno CC, sappiamo che Seph ed Angeal avevano litigato (motivo per cui, secondo me, Angeal guarda malissimo l’ologramma di Sephiroth all’inizio del CC) e che la guerra in Wutai è finita. Diciamo che è così che intendo raccontare quella storia: qualche riferimento giusto per capire a che punto si è nel gioco, ma per il resto tutta farina del mio sacco. In fondo, non sono qua per raccontare una cronaca del CC. Per quello c’è Youtube XD.

Bon, i commenti sono quasi più lunghi del cap stesso (lunghezza standard, tra l’altro), quindi finisco il mio sproloquio!

 

Alla prossima!

 

Besos

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Capitolo 23
*** Tormento ***


23. Tormento

Nibelheim.

E’ inverno. La neve fresca ricopre ogni cosa, come un manto immacolato, rendendo l’atmosfera così pura, solenne. Mi aggiro per le strade vuote, assaporando la calma e la pace di questi luoghi così famigliari: il vecchio acquedotto, il bar della casa di Tifa, l’Inn, il mulino, le montagne. Casa mia. Tutto è avvolto da un ovattato silenzio. Non c’è nessuno per strada. Forse è troppo presto o… troppo tardi. Alzo lo sguardo verso il cielo, ma esso è coperto da spesse nubi nevose, le quali stanno facendo calare una lieve foschia sulla città. La luce, tuttavia, si sta attenuando. Forse è il momento di rientrare. Mi avvio verso casa, quando un lamento attira la mia attenzione. Mi guardo intorno, ma non c’è nessuno. Forse è il vento che spira tra le montagne. Alzo le spalle e continuo il mio rientro. Fa sempre più buio. Questa volta il lamento è divenuto più forte e ha assunto sfumature più umane. Non è il vento, capisco. Lascio che sia il mio istinto a guidarmi, il quale mi conduce alle porte di un sentiero che s’insinua nella foresta. Inizio a correre, lasciando che quei gemiti mi conducano nell’intricata selva. A dir la verità, il sentiero è ben battuto, è la notte a rendere questa foresta più sinistra di quanto dovrebbe. A metà percorso capisco dove sono diretto: la Villa abbandonata. Quando ero bambino, quella piccola magione rappresentava la prova di coraggio finale per ogni ragazzino del paese. Ma nessuno di Nibelheim l’ha mai davvero esplorata. Solo io, molti anni dopo. Quando la raggiungo, rimango colpito nel constatare che non si tratta del rudere buio e decadente dei miei ricordi. Luci giallastre e malate prorompono dalle finestre lustre, squarciando l’oscurità della notte; movimenti nervosi formicolano all’interno dei corridoi, come se tanti piccoli ratti ieratici siano rinchiusi in quella trappola; infine una miriade di voci diverse rimbombano tra quei muri solitamente così silenziosi. Tra quel vociare confuso e incomprensibile, una nota stonata si eleva più in alto delle altre: lamenti chiari e acuti… infantili. Il tempo si è fatto più rigido, dando le avvisaglie di una tempesta. Non me ne curo, poiché la curiosità vince perfino il gelo. M’incammino verso il cancello. E’ serrato da un pesante lucchetto. Studio le murate, camminando lungo di esse. Sembrano invalicabili, ma ciò che più mi colpisce è il filo spinato che s’inviluppa tra le arcuate lame difensive. Piegate verso l’interno. Rimango perplesso: cosa non vogliono fare uscire? All’improvviso, un clangore metallico attira la mia attenzione. Una figura scura sfila al di fuori dell’inferriata e viene ingoiato da una macchina scura. Corro in direzione dell’auto e riesco a sbirciare all’interno, adocchiando il viso del passeggero. Baffi, occhiali dalla montatura spessa, viso pulito. Gast. Molto più giovane di quanto ricordo e molto più addolorato. Noto che i suoi occhi verdi, pieni di rimpianto, guardano colpevoli qualcosa alle mie spalle. Riflessa sul vetro dell’auto, infatti, vedo tanta concitazione muoversi al di là di quel cancello. Non capisco bene cosa stia accadendo. Improvvisamente, un altro clangore fortissimo mi fa soprassalire. Mi volto, solo per trovarmi a faccia a faccia con LUI. Sephiroth. E’ un bambino. Avrà una decina d’anni, calcolo. E’ ancorato al cancello e lo scuote violentemente. La catena geme sotto i suoi colpi.

Già così forte.

Il suo viso è una maschera di rabbia, esplosiva, incontrollabile… disperata.

Già così sofferente.

Piange, urla, implora il Professore di non andare… di non lasciarlo solo.

Già così incompreso.

Degli uomini lo afferrano al corpo, alle gambe, alle braccia, staccandolo a fatica dal gelido metallo. Il freddo strappa lembi di pelle dalle mani di Sephiroth, macchiando del suo sangue la neve immacolata. E presto non sarà il solo. La disperazione è tale da non fargli percepire nemmeno il dolore, in quanto combatte con tutto se stesso per liberarsi dagli uomini che cercano d’immobilizzarlo.

Già così combattivo.

Le sue dita, sebbene piccole e sottili, sono degli artigli affilati capaci di lacerare la pelle come carta velina. Dove le mani non arrivano, vengono sostituite dai denti, giovani e acerbi, ma abbastanza forti da strappare lembi di carne.

Già così letale.

Si divincola, strattona, tira, scalcia, spinge… sembra in preda a una crisi convulsiva, tanto i suoi movimenti sono esasperati e scoordinati. Non c’è logica, non c’è ragionamento, non c’è calma, non c’è freddezza. C’è solo disperazione. Nuda, cruda e profonda disperazione.

Il rombo del motore alle mie spalle distoglie l’attenzione da quell’orribile spettacolo. Mi rivolgo a Gast, ma il vetro si è oscurato.

Egli non vuole vedere… non ha mai voluto vedere la miseria. Non vuole ascoltare… non ha mai voluto ascoltare la solitudine. Non vuole combattere… non ha mai voluto fronteggiare le sue colpe.

In fondo, è molto più semplice dimenticare, fingere, scappare. Osservo la macchina partire, schiacciando non curante il candido manto di neve, e scomparire nel buio. Alzo lo sguardo al di là del cancello e vedo che la battaglia è giunta al termine. Lo sfondo della scena è concitato: scienziati che corrono da una parte all’altra, raccogliendo campioni di sangue sparso sulla neve; inservienti che accompagnano dentro soldati stremati; Turks che urlano rapporti al telefono. In quel caleidoscopico caos, due gocce di calma svettano al centro di esso. Il burattinaio e il suo burattino. Hojo e Sephiroth, rispettivamente

+. Il vecchio sosta accanto al bambino, superbo e trionfante. Parla in tono pacato, quasi accorato, ma so che ogni sua parola è un dardo sparato dritto in un cuore a pezzi. Sta avvelenando con dosi letali di odio e rancore l’anima ferita di un infante che ha appena perso tutto. Emozioni che un bambino non dovrebbe nemmeno conoscere. Ma quel burattino non può fare altro che ascoltare. Ha perduto i suoi fili. Giace, infatti, inginocchiato, pesto e ... sconfitto.

Le mani innocenti portano i segni vermigli di una colpa troppo lurida per un ragazzino di quella età. A nulla valgono i tentativi del cielo di coprire quel rosso così scarlatto che gli bagna, oltre la mani, i vestiti, il viso, i capelli. Gronda di un colore che sarà sempre attaccato a lui e non importa quante volte si laverà: non se ne potrà mai liberare. Ad un certo punto, il bambino solleva lentamente la testa, fino a che il suo sguardo non s’incrocia col mio, trafiggendomi sul posto. Non ho mai visto uno sguardo così addolorato… Rimango sbalordito quando capisco che, in realtà, lui mi sta guardando. Mi vede e mi supplica di salvarlo. Eppure, quegli occhi non mi sono nuovi…

- Perché mi stai mostrando questo? –

Hojo, la villa, il bosco, tutto è scomparso. Siamo rimasto solo noi, divisi da un nero cancello di ferro.

- Non sono io a mostrartelo. –

La voce di Sephiroth è sorprendentemente flebile, svuotata di ogni vigore. Dinnanzi, a me, infatti, si sta parando, non più un bambino; ma un uomo. Un uomo mortalmente sfibrato da una vita costellata da tante battagli e troppe sconfitte. Troppe da sopportare… Mi si mostra per come lo vidi l’ultima volta: petto nudo, pantaloni e stivali neri, sudato, sporco, mortalmente ferito. Eppure non sembra risentirne, dal momento che il suo viso è una maschera d’impassibilità. La mia attenzione, tuttavia, viene attirata dalle vecchie cicatrici che sfregiano la sua pelle lattea: non avevo mai notato quante fossero.

- Perché ti mostri così miserabile? Pensi davvero d’impietosirmi? –

Ai piedi di ogni sbarra del cancello, un germoglio dal colore malsano inizia a crescere lungo il gelido ferro. Ad ogni inviluppo, vedo svilupparsi lunghe e coriacee spine rosso sangue.

- Mi mostro come la tua mente mi ricorda. –

- TU sei la mia mente. Potrebbe essere uno dei tuoi malefici trucchi. –

I germogli sono ormai divenute piante adulte e iniziano a intrecciarsi tra loro, all’altezza del lucchetto.

Il Generale distoglie lo sguardo e scuote la testa.

- Tutto questo tempo, tutte quelle pagine, tutte quelle scoperte e ancora non hai capito niente. –

Rimango stupito nel constatare che non c’è traccia di rabbia nella sua voce, ma bensì solo pacata delusione.

- Che cosa ti aspettavi? Che ti perdonassi dall’oggi al domani? Dopo tutto quello che hai fatto?! –

Nella mia, invece, un’isteria collerica alberga in ogni sillaba. Lui non sembra toccato, tuttavia; troppo stanco per curarsene, in effetti. Ciò mi fa imbestialire ancora di più.

Le spine iniziano a far gocciolare il loro veleno sul terreno, il quale si tramuta in pietra appuntita, inglobando buona parte della base del cancello.

- Ma, in fondo, a te cosa t’importa? Inveisco, minaccio di abbandonare, ma, alla fine, faccio esattamente ciò che vuoi! –

Lunghi, grossi, spinosi tralci giallastri s’inseriscono nel cemento armato delle murate laterali. Assomigliano a tante lunghe e scheletriche dita.

- Ti sbagli. Io non voglio che tu faccia i miei stessi errori. –

Mi blocco e lo guardo esterrefatto. Riesco quasi a cogliere il significato insito in quella frase, ma mi rifiuto di capire.

No, non merita la mia compassione.

- E quali errori starei commettendo? Ho passato metà della mia vita a riparare i tuoi. Ed è esattamente quello che sto andando a fare anche adesso. –

I tralci hanno uno spasimo e iniziano a tirare i lati del muro verso il centro. Avverto il lamentarsi disperato del metallo contorto ferirmi l’udito.

Lo osservo, pungente. Lui mi scruta, in silenzio, contemplando. Poi, il lato destro delle sue labbra si contrae. Sorride?

- Tu sei come un cane che rincorre la sua stessa coda. Troppo concentrato su di essa per accorgerti del caos che causi attorno a te. Non ti rendi conto che, in realtà, ciò che rincorri disperatamente non è un qualche fantomatico nemico, ma te stesso. –

I tralci si gonfiano fino allo spasimo, tirando con forza, mentre una furia senza pari mi esplode nel petto. Lo spiraglio tra le due murate è sempre più sottile. Il cancello è ormai contorto su se stesso. Vinacce gigantesche e imbevute del veleno più spinoso iniziano a crescere anche sul cemento, rendendo così impossibile valicare quel muro senza rimanere uccisi.

- NO! Io non sono come te! –

Crollo in ginocchio e mi tappo le orecchie.

Non voglio ascoltare.

Ha torto.

Io non sono come lui.

- Anch’io non ho ascoltato. Anch’io ho rincorso una chimera. –

La sua stramaledetta voce continua a sussurrarmi nella testa. Spingo con più vigore sulle orecchie, fino a che il dolore non ottunde l’udito. Mi chiudo in me stesso, nel disperato tentativo di scappargli.

- Anch’io mi sono chiuso in una tomba di ricordi e rimpianti. Anch’io desidero morire. –

Quelle piante maledette esplodono dal terreno come tanti neri serpenti, elevandosi verso l’alto per poi incrociarsi sopra di me, creando una cupola di spine, la quale m’ingloba nella sua mortale morsa. Avverto gli aculei, attraversare i vestiti, ferirmi la pelle e iniettare il veleno nel sangue.

Finalmente la morte.

- Non voglio che tu finisca come me, Cloud. Io non ho mai voluto questo per te. –

Con quel poco di energia che ho in corpo riesco ad alzare la testa. La vista è offuscata e lo vedo appena, eppure avverto la pesantezza del suo sguardo.

-E che cosa volevi in realtà? –

- Che tu vivessi. –

Il groviglio di spine, improvvisamente, perde il suo vigore e inizia rinsecchire; mentre la mia mente viene risvegliata da una frase riecheggiante nei recessi della mia memoria.

 

You’re gonna… live.

[Tu… vivrai. Zack Fair FFVII: CC]

 

Riacquisisco le forze e ogni traccia dei germogli infernali è scomparsa. La scena è tornata identica a come era prima. Il cancello è sempre chiuso, noto con dispiacere.

- E’ per questo che torni sempre? –

- E’ per questo che mi chiami. E’ per questo che ora rimescoli nei miei ricordi più dolorosi. E’ per questo che non puoi fare a meno di leggere il mio diario. Hai bisogno di morderti la coda, così da poterti svegliare. Hai necessità di ricordare cos’è il vero dolore. –

Sorrido tristemente.

- E chi meglio di te può farlo... –

Il Generale annuisce con eleganza, mantenendo la sua fredda impassibilità. Mi rendo conto solo ora che la sua totale apatia è dovuta al fatto che il dolore provato è così sconfinatamente profondo da schiacciare qualunque altra emozione. Mi accorgo anche che sono l’unico che può liberarlo da questa prigione di solitudine e sofferenza.

- La condanna decretata dal Lifestream. –

Seguo con lo sguardo le lunghe e nere sbarre che, come lance appuntite, si elevano verso il cielo bianco, minacciando di perforarlo senza pietà.

- Solo quando non avrò più bisogno di te sarai liberato? –

- No. Non io. –

Improvvisamente, una figura mi si affianca e noto con stupore che si tratta dello stesso Sephiroth. Guarda qualcosa al di là della cancellata e io seguo il suo sguardo. Per poco la mascella non mi cade letteralmente per terra, appena i miei occhi si posano su di LEI.

- Il tuo odio e quello di molti altri mi terrà per sempre da questa parte del cancello e questo l’accetto. Ma lei… lei deve andare. –

Da quando ha iniziato a parlare, non riesco a staccare l’attenzione dal viso del Generale. Posso vedere una cascata di amore incondizionato spillare da quelle iridi verde mako. Non ho mai visto un uomo guardare una donna in quel modo. Perso, completamente perso in lei. Avverto le sue nocche scrocchiare, mentre lui stringe convulsamente il metallo. Che darebbe per avere la forza di distruggere quell’ostacolo e, finalmente, riabbracciarla. I suoi occhi si offuscano appena si rende conto che quel cancello si eleva proprio per tenerli separati per l’eternità. Non credo esista castigo più crudele.

La contemplo anch’io. Come la proiezione di Sephiroth, sosta inginocchiata nella neve, ma il suo busto, contrariamente, è eretto, fiero. Anche il viso è ben ritto sul collo magro e, di tanto in tanto, lo vedo dondolarsi appena da una spalla all’altra, come se stesse scrutando il mondo al di là dell’inferriata. I suoi occhi di Lifestream, infatti, si muovono famelici e attenti, perché altrimenti non si perdonerebbe di non aver controllato meglio ogni dettaglio.

- Cosa sta cercando? –

- Sta aspettando me. –

- Ma siamo di fronte a lei… -

Sephiroth sospira esasperato, alzando gli occhi al cielo; tuttavia trattiene per sé qualunque altro commento.

- Non può vederci, Cloud. -, spiega pazientemente, fa una pausa, durante la quale, egli sembra farsi forza, come se proferire la frase successiva gli costasse una fatica immane, - Lei è morta. –

E capisco il perché. Però…

- Anche tu lo sei. –

Il Generale piega le labbra all’insù, in un sorriso sghembo.

- Ti piacerebbe. –

Ora sono io a sospirare esasperato. Dannazione, quante volte devo ucciderlo questo qui?

Riposo gli occhi su Evelyn e la mia attenzione viene attirata da una larga macchia rossa sul suo grembo. In un primo momento, ho creduto si trattasse del colore dell’obi o di una sfumatura del kimono, siccome le mani coprono parzialmente il punto; ma con un’analisi più attenta mi rendo conto che si tratta di... sangue. Sangue che sgorga da una lunga e stretta ferita inferta all’altezza del basso ventre.

Un momento… Lei è bruciata.

- Lei è stata arsa viva. L’ho visto. –

Sephiroth sembra non avermi sentito, dal momento che continua a perseverare immobile; ad un certo punto, però, egli si stacca dal cancello e indietreggia di un paio di passi. Cerco il suo sguardo e… avrei preferito non trovarlo. Ira. La stessa che animava i suoi occhi quando bruciò Nibelheim. Vendetta. La stessa che brillava buia ad ogni colpo di Masamune. Odio. Lo stesso che deformava il suo ghigno sanguigno, quando l’ennesima vittima cadeva ai suoi piedi. Delle urla giungono disperate al di là della foresta. Rivolgo la mia attenzione verso la sommità degli alberi e vedo fumo e fiamme elevarsi verso le montagne. Improvvisamente, le urla diventano più forti, assordanti… agghiaccianti. Il suono è insopportabile. Chiudo gli occhi e crollo a terra, tappandomi le orecchie; ma quelle grida sono nella mia testa e non c’è modo di attenuarle. Stringo i denti per resistere alla tentazione di unire la mia voce a quella dei miei ricordi. Avverto il calore insopportabile del fuoco vorace e intriso dall’odore acre di carne bruciata e, non so per quale motivo, apro gli occhi. Dinnanzi a me, corpi sventrati, decapitati, mutilati, deformati, violentati, defraudati, assassinati senza pietà affogano in un mare di sangue ribollente. Rivedo mia madre, i miei amici d’infanzia, il padre di Tifa, Tifa stessa, Marlene, Denzel, Vincent, Yuffie, Cid, Barret, Zack, Aerith… tutti accatastati ai piedi di quel maledetto mostro. Egli mi guarda trionfante, malefico, derisorio. Il sangue di coloro che amo grondare dai suoi capelli, dal suo ghigno, dalle sue mani, dalla sua spada.

 

- Tell me what you cherest most… Give me the plesure to take it away. -

[Dimmi a cosa tieni di più. Dammi il piacere di portartela via.  Sephiroth FFVII: ACC]

 

 

- SEPHIROOOOOTH! –

[Cloud Strife FFVII: CC]

 

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Un impeto violento riempie ogni cellula del mio corpo, inducendo i muscoli a scattare per avventarsi contro chiunque mi sta attorno. Percepisco un collo venire catturato dalla mia mano sinistra e il calcio di una pistola stretto nella destra. Inchiodo a terra l’assalitore, ribaltando la situazione, tolgo la sicura e appoggio il cane dritto sulla sua fronte.

- Cloud… -

Il rantolo arriva a malapena alle orecchie, ma con abbastanza convinzione da persuadermi a premere il grilletto. Non subito, almeno.

- To- torn… ah. In. Te. –

La voce è soffocata e la mia parte razionale, molto lontana, sembra riconoscerla. La momentanea esitazione, mio malgrado, permette al mio avversario di reagire, colpendomi dritto alla mascella con un guanto ferrato. Il colpo è molto forte e mi stordisce quel tanto che basta all’avversario di sfilarmi la pistola e liberarsi dalla presa al collo. Mi dà un colpo al fianco e un altro alla pancia, entrambi molto forti. Tossisco a corto di fiato, mentre striscio lontano da chiunque sia con me, pronto a difendermi. Sono completamente stordito e l’unico segno del mio avversario è il continuo tossire. Rimaniamo qualche istante immobili nei rispettivi angoli a riprendere fiato, durante i quali il mondo inizia a farsi più chiaro. Ci sono delle casse e tutto si muove a scossoni. Le pareti sono fatte di tela grigia e un pigro fascio di luce entra da uno svolazzante velo alle spalle del mio avversario. Un frastuono simile al rombo di un motore riempie l’aria. Torno a focalizzarmi sull’uomo dinnanzi a me. Mantello rosso, capelli corvini, occhi vermigli, pistola a tre canne, guanto dorato, pallido come un lenzuolo…  

- Vincent… -

Rantolo il suo nome e cerco di alzarmi, ma il suono di una sicura levata mi blocca a metà del gesto. Mi accorgo solo ora che l’Ex- Turk mi sta tenendo sotto tiro.

- Fermo dove sei. –

- Vincent, posso spiegare... –

Alzo le mani in segno di resa e cerco di farmi più vicino, ma il moro si alza continuando a puntarmi l’arma addosso. Un gesto molto eloquente.

- Se fai un'altra mossa, giuro che sarà l’ultima che farai. –

Indietreggio lentamente e distolgo lo sguardo dal suo, senza abbassare le mani.

- Ok, ok. Sei stato chiaro. –

-Questa storia ti sta sfuggendo di mano, Cloud. Sei fuori controllo. –

La voce di Vincent è un ringhio rabbioso. Spero di non aver innescato qualcosa, attaccandolo. Ci manca solo Chaos in questa dannata storia! Dobbiamo calmarci prima, sia da parte mia, che da parte sua, la situazione degeneri.

- Lo so. Me ne rendo conto, ma ti assicuro che puntandomi una pistola addosso non aiuta a riottenerlo, il controllo. –

Lo guardo infastidito, come se non avessi un’arma puntata dritta alla testa, giusto per sottolineare di stare varcando soglie non proprio raccomandabili da superare. La situazione è tragicomica, a dir poco, comunque. Dopo qualche istante di riflessione, il pistolero decide di ottemperare la mia implicita richiesta, rimette la sicura e si accovaccia, incrociando le braccia sulle ginocchia. La Cerberus ben salda nella sua presa.

- Non la rinfoderi? –

- Mi spieghi che ti è saltato in testa? –

- Lo prenderò come un no. –

-E io come una minaccia. –

Giuro se quella sicura non la smette di cliccare… No, bisogna mantenere i nervi saldi, altrimenti qua scoppia un macello, penso, nel tentativo di calmarmi. Meglio cominciare ad essere ragionevoli. In fondo, Vincent ha tutto il diritto di sapere perché ho tentato di ucciderlo.

- Non volevo farti del male. Scusami. E’ che… -, come spiegarlo? , - credevo fossi qualcun altro. –

Il moro alza un sopracciglio, in una perfetta imitazione di suo figlio. In altre circostanze, avrei apprezzato la somiglianza, ma, ora come ora, mi viene da saltargli alla gola di nuovo.

Le sua mani ricoperte del LORO sangue…

- E chi? Ci siamo solo io e te in questo furgone. –

Ora sono io a guardarlo in modo eloquente. Che gli piaccia o no, qualcun altro c’è… altroché se c’è. Il pistolero capisce ed emette un sonoro sospiro. Questo gli fa finalmente rinfoderare l’arma. Credo che a volte soffra il fatto di dimenticarsi che lo spirito di suo figlio viva in me e che lui ci cammina attorno come un’ombra, guidandoci sul filo della follia.

- Perché avete litigato, stavolta? –

Il tono dell’ex-Turk ha perso la sua animalesca minacciosità e ha assunto un’inflessione più umana e comprensiva. La domanda, infatti, è rivolta come se parlasse con due bambini che hanno bisticciato per l’ennesimo motivo futile. Forse è così. Ma il motivo, probabilmente, non è così futile.

Tifa morta… Ai suoi piedi.

Mi porto la mano alla fronte, sfregandola, come se volessi cancellare quelle immagini. Fosse così facile…

- Nibelheim. –

- Ha infierito su quell’argomento? –

Mi volto verso di lui e cerco di riafferrare le immagini di quel sogno.

- Non proprio. –

- Senti, se ti aspetti che io ti tiri fuori le risposte con le tenaglie, hai proprio capito male. –

Rido. Vincent Valentine che farei senza di te?

- Quello che intendo è che… -

Mi blocco. Ripenso alla catasta di corpi ai suoi piedi e noto un particolare che mi era sfuggito.

Tifa. Non è lei. Capelli neri, lisci, pelle pallida… tutto corrisponde, ma… gli occhi! Gli occhi sono diversi. Sono… sono verdi! Verdi come il Lifestream.

Non ha senso… perché avrebbe dovuto…?

- CLOUD! –

Mi sento scuotere e chiamare, mentre mi rendo conto di altri dettagli di quella scena, come visi di uomini e donne sconosciuti mischiati a quelli dei miei ricordi. Mi ridesto e osservo Vincent. Dal suo sguardo capisco che i miei occhi sono tutto un programma.

- Che succede, Cloud? –

Inizio a spiegargli il sogno, per quanto facile possa essere illustrare un completo delirio ultraterreno. Fortuna vuole che l’ex-Turk non sia del tutto estraneo a questo genere di fatti: pende letteralmente dalle mie labbra, infatti. Esper, che darebbe che essere nella mia testa… Infine, arrivo al momento del crollo, sperando che la mente analitica del moro possa venirmi in aiuto.

- Lui accetta la morte di sua moglie, ma, quando ho accennato all’incendio, lui è come impazzito. Mi ha mostrato Nibelheim, come la ricordiamo entrambi. E come io ricordavo lui. Folle, spietato e assetato di sangue. C’era una massa di corpi ai suoi piedi, ma alcune di quelle persone non le ho mai viste in vita mia. Ma quello che mi lascia più perplesso è la donna giacente ai suoi piedi: all’inizio credevo si trattasse di Tifa, invece… -, abbasso lo sguardo sulle punte delle scarpe, sconvolto, e le ultime parole escono dalle mie labbra come un soffio flebile, - era Evelyn. –

Prendo un grosso sospiro e mi siedo, esausto, sul pavimento del furgone.

-Non ha senso. –

Vincent, il quale mi ha ascoltato in assorto silenzio, mi osserva come se volesse trafiggermi l’animo, mentre mi struggo a capire cosa in realtà Sephiroth volesse dirmi.

- Fuoco…-

Il pistolero mormora qualcosa, attirando la mia attenzione. Lo sguardo di Vincent è cupo e concentrato, estraneo. Sorrido inconsciamente.

Ci sei.

- Il fuoco è un elemento ricorrente. Entrambe le vostre vite ne sono state segnate e il vostro animo arde nello stesso modo, animato da ricordi fin troppo simili. -, si alza e inizia a vagare per il furgone, incurante degli scossoni, come se i suoi ragionamenti trascendessero la realtà, - Fuoco. -, alza una mano, -Ricordi. -, solleva anche l’altra. Rimane ad osservare i palmi aperti, immobile, perso nelle sue elucubrazioni.

-Ehm, Vincent. Non ti seguo. –

Ad un certo punto, mi guarda, una luce soddisfatta brilla in quelle iridi vermiglie. Io scuoto la testa e assumo un’espressione ebete. Il pistolero alza gli occhi al cielo ed emette un suono esasperato.

- Santo cielo, Cloud, sarai rapido con la spada, ma di certo non lo sei di cervello. –

Mh, benvenuto nel mio mondo.

Taci tu.

- Ricordi alla Città Dimenticata, quando hai lasciato il corpo di Aerith ai flussi del lago? –

- E chi se lo dimentica? –

- Cosa le è successo? Al suo spirito, intendo. –

- Beh, si è unito al Lifestream… -

- Sì, e poi? –

- Poi, ha combattuto al nostro fianco impedendo la caduta di Meteor… -

- Ok e dopo quello? –

- Ha guarito il Geostigma. –

-Come? –

- Attraverso la pioggia e il lago nella chiesa. -

Mi blocco.

Il fuoco scatena i ricordi. Questo vuol dire…

- Se Aerith è l’acqua… Evelyn è il fuoco! –, scatto in piedi anch’io, - E’ l’unico modo che ha di percepirla. –

- Distruggere il Pianeta equivale donarlo a lei. Donare a una Dea della distruzione il suo regno. –

- E con lei al comando nel mondo, nessuno si opporrebbe al loro amore. –

- Nemmeno il Pianeta. –

Sto per chiedergli più informazioni quando, improvvisamente, il furgone si ferma. Ci scambiamo un’occhiata e Vincent prepara la Cerberus. Il proprietario scosta i lembi del telo con poca delicatezza e ci squadra da cima a piedi, mentre mastica il suo tabacco. Sputa a terra.

- Siamo a Bone Village. Spero che non mi abbiate rotto niente con la vostra rissa, altrimenti me lo dovrete ripagare. –

 

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7 Gennaio XXXX

 

Ora comprendo la completa sterilità del rapporto di Fair. Sento il fiato mozzarmi in gola davanti a questo indescrivibile scempio. Dove una volta sorgevano campi verdeggianti, ora uno spesso strato di cenere grigiastra ricopre ogni filo d’erba; dove l’aria era pulita e fresca, ora una pesante cortina di bruciato sopprime ogni altro odore; dove una volta il sole splendeva, ora desolanti nubi di fumo precludono la vista del cielo. Dove una volta sorgeva la ridente Banora, ora v’è solo un luogo desolato, bruciato fin dalle fondamenta. La cenere scende lenta dagli alberi carbonizzati, simile a fiocchi di neve, ricoprendo con la sua leggiadria il viale che si snoda sotto di essi. Lo sto percorrendo con rispettoso cordoglio, come se stessi passando in mezzo a un cimitero. E in effetti, non sono molto lontano dal vero. Giunto all’apice della collina, i miseri rimasugli di un maestoso albero arcuato mi suggeriscono di aver raggiunto la mia meta. I ricordi iniziano a fluire dinnanzi ai miei occhi; come fantasmi figure evanescenti ripercorrono i passi di quei giorni lieti, quando ancora vivevo nell’illusione dell’amicizia. Mi aggiro nel grande spiazzo, dove gli sferraglianti e ancora incandescenti resti di una della macchine infernali di Scarlet giacciono in pezzi sul terreno carbonizzato. I segni di micidiali spadate mi strappano un sorriso tirato. E’ divertente costatare che, nonostante gli sforzi degli ingegneri, le uniche, vere, perfette macchine da guerra siamo noi SOLDIER. Per quanto può essere divertente essere paragonati ad una macchina, ma ho imparato a conviverci con questa idea. In fondo, la totale mancanza di pietà che ha costellato la mia carriera è una perfetta prova del pensiero comune. Anche se Aerith avrebbe da ridire su questo argomento. Piccola ingenua.

Prima di avviarmi verso le macerie del grande casale, meta del mio pellegrinaggio, mi fermo dinnanzi a un tumolo profanato. I corpi di coloro sepolti in esso sono stati lasciati alla mercé degli elementi, lasciati a giacere in posizioni che mettono a nudo le loro mortali ferite. Con un paio di occhiate studiose, capisco che sono stati spostati dalla loro posizione originale, probabilmente per essere analizzati. Una smorfia di disgusto scappa dal mio controllo: l’unico briciolo di umanità di Genesis vanificato in questo modo… Non lo accetto. Queste persone meritano rispetto, così come il dolore di un figlio sperduto. Non posso fare a meno di cercare di comprendere i sentimenti del rosso quando ha deciso di mettere fine alla vita dell’uomo e la donna che lo hanno cresciuto… amato. Avrà esitato? Avrà pianto? O si sarà mostrato spietato e freddo? Il rapporto di Zack è alquanto scarso su quell’argomento, credo che dovrò interrogarlo una volta tornato a Midgar. Nel frattempo, posso solo fare illazioni. A giudicare dal fatto che si sia prodigato a seppellirli, credo che ogni colpo inferto ai suoi genitori fosse un colpo dritto al cuore.

Lui li amava. Non ho dubbi su questo…

L’ho visto quando suo padre ci ha raggiunto in Wutai e l’ho constatato quando sono venuto qui l’ultima volta, durante la licenza invernale dalla guerra. Non ho mai visto due genitori così affettuosi e prodighi nei confronti del proprio figlio. Avevano un rapporto veramente bellissimo. Soprattutto quello che intercorreva tra Genesis e sua madre era qualcosa di veramente speciale. Lei era una donna così dolce, innamoratissima del figlio. Era nata per fare la madre, non c’erano dubbi su questo. Quando ci vide varcare quello stesso viale, ricordo, saltò al collo del rosso con una tale foga da farlo crollare a terra, riempiendolo di baci quasi fino a soffocarlo. Rimembro che lui commentò che era quasi più al sicuro a Wutai. Ridemmo, anche se stavo morendo d’invidia. Che avrei dato per avere anch’io una madre che si rallegrasse del mio ritorno dalla guerra. Mi rabbuiai, ma cercai di riprendere il mio solito cipiglio inflessibile appena Genesis mi presentò a lei. Assunse un portamento composto ed elegante, in linea con i canoni nobiliari del suo rango e si scusò per il comportamento di poco prima.

‘Ero così preoccupata per il mio bambino. La ringrazio per avermelo riportato a casa sano e salvo, Generale.’, ricordo che mi disse, con un leggero inchino.

Genesis sbuffò sonoramente, sottolineando il fatto che non era per nulla merito mio, ma suo, ricordando alla madre di essere un SOLDIER First Class.

‘Sono capace di prendermi cura di me stesso, senza l’aiuto di questo pallone gonfiato.’

Naturalmente, ogni occasione era buona per sfidarmi apertamente per il Comandante. Stavo per rispondere a tono, ma la signora Rhapsodos lo reguardì, smaccandolo brutalmente.

‘Ti conosco bene. Te sei solo capace di ficcarti nei guai, con quella testa calda che ti ritrovi. Spero che tu abbia imparato qualcosa da una persona posata come il Generale.’

Genesis scoppiò a ridere sguaiatamente, guadagnandosi un’occhiata di fuoco da parte mia.

‘ Posato, lui?! Oh, mamma… sei una comica. E’ per questo che ti adoro!’

Le diede un sonoro bacio sulla guancia, stringendola forte a sé. Avvertii una fitta al cuore. E la provo tuttora. Era una donna così dolce, educata, paziente… una madre meravigliosa. Amava così tanto quel figlio dall’anima oscura da morire ben prima del colpo ferale. Posso vedere il dolore dilaniante congestionato sul suo viso gelido. Ha subito vari colpi, noto. Sono ferite non particolarmente gravi, ma comunque inferte in zone potenzialmente mortali. Come se… l’attentatore non avesse la convinzione necessaria per affondare la lama nel corpo della sua vittima. Mi scappa un mesto sospiro.

 

Tormento

Non ce la facevi, vero, amico mio? La amavi troppo per farle del male. Avevi affrontato l’ira di Wutai, sopravvissuto alle più cruenti battaglie, lottato con la morte per renderla fiera di te. Anche se a lei non che importasse molto se fossi rimasto un anonimo fante o un acclamato Eroe. Tu eri il suo bambino e questo bastava. L’hai ferita molto più in profondità di quanto la tua spada possa aver fatto. Mi è giunta voce che li hai uccisi perché ti avevano tradito: non è che tu hai tradito loro? Come hai giustificato un tale atto e te stesso? Avanzando nelle mie ricerche riguardanti il Progetto G, incappai nei documenti che comprovavano l’adozione di Genesis da parte dei signori Rhapsodos. Rimasi stupito dalla rivelazione, ma poi, ripensandoci, mi accorsi di averlo sempre intuito. Il rosso non presentava nemmeno una delle fattezze dei genitori. Ma… davvero importava? Davvero meritavano la morte? Forse ciò che tu chiami tradimento, amico mio, era solo un modo di proteggerti proprio dal fatale destino che stai intraprendendo. Loro avevano accettato l’onere di crescerti ben volentieri, nonostante la tua natura mostruosa. Mi scappa un gesto stizzito. Io non so che darei per aver avuto dei genitori come i tuoi. Non importa se adottivi o naturali, ma qualunque cosa sarebbe stata meglio dell’infanzia spaventosa e buia che ho subito. Qualunque cosa piuttosto che… me.

Avevi tutto… perché lo stai distruggendo, vanaglorioso ragazzino viziato?

Ora i signori Rhapsosdos possono riposare in pace, al sicuro nel ventre del Pianeta, anche se sono certo che il loro tormento riecheggia nel Lifestream, trasportato dalle loro anime squarciate. Quale pena con cui convivere per l’eternità…

Lascio il tumolo e mi dirigo a ispezionare la magione. Non ne è rimasto molto, solo un cumolo di macerie annerite, implose su loro stesse sotto la violenza dei missili e delle esplosioni marchiate Shinra. Mi aggiro tra di esse, studiando i pochi oggetti salvatosi dalle fiamme. Tra di essi noto un portafoto, miracolosamente intatto se non si considera il vetro spaccato, custode geloso della famiglia al completo. Mi scappa un sorriso sincero nell’osservare un giovane Genesis costretto in una posa composta e ponderata. Immagino la lotta intrapresa dai genitori e dal fotografo stesso nel tentativo di convincere quel ragazzetto ribelle a stare immobile per quattro secondi. Ricordo la signora Rhapsodos sospirare affaticata, ripensando a quei momenti. Diceva che da bambino, il Comandante era una peste ingovernabile, e mi chiese se la vita militare lo aveva aiutato ad imparare la disciplina. Ahimé, nulla resiste all’esuberante carattere del rosso. Nemmeno la ferrea disciplina di SOLDIER. Perfino il mio pugno di ferro è capitolato di fronte a Genesis. Mi sovviene una discussione avuta molto tempo prima, del cui motivo mi sfugge, quando, esasperato, gli chiesi spiegazioni riguardo la sua indole giacobina. La risposta mi lasciò di stucco.

“Cosa siamo noi SOLDIER se non ribelli? Noi possiamo piegare le leggi della fisica, governare gli elementi, domare le masse. Proprio perché non ci sono limiti alla nostra potenza. Tu per primo ti ribellasti ai tuoi ufficiali comandanti per perseguire un bene comune. Non siamo poi così diversi tu ed io.”

Quando gli chiesi quale fosse il bene superiore che stava perseguendo egli rispose citando una delle sue parti preferite di LOVELESS.

‘ Infinite in mistery is the Gift of the Goddess,

we seek it thus and take to the sky.

Ripples form on the water’s surface,

the wandering soul knows no rest.’

[‘Infinito mistero è il Dono della Dea, Noi lo cerchiamo e andiamo verso il cielo. Onde si formano sulla superficie dell’acqua, l’anima vagante non conosce requie’, LOVELESS Atto I]

 

Il Dono della Dea. Ricordo che sospirai e scossi la testa di fronte a quell’ennesimo delirio. Ora, però, mi rendo conto che Genesis non parlava per dar aria alla bocca. Ho sempre bollato le sue continue citazioni e i suoi discorsi accorati, come modi fantasiosi e improbabili per aggirare le costrizioni della disciplina; invece… voleva farmi aprire gli occhi. Come sempre, voleva aiutarmi e io… io non l’ho mai ascoltato.

Questo è il mio peccato. Cerco di tendere l’orecchio ora, nella speranza che la sua voce possa rispondere alla miriade di domande che avrei dovuto porgli, ma che, nella mia arroganza, ho sempre evitato. Mi odio per aver tentato in tutti i modi di cambiarlo, senza essermi mai fermato un attimo per provare a comprendere. Ho schiacciato i suoi sentimenti, ignorato la sua essenza, sminuito la sua umanità. Il vero mostro sono sempre stato io, in fondo.

Girovagando per i resti del casale, sono giunto nella zona dove un tempo sorgeva la biblioteca della famiglia. Naturalmente, tutto il prezioso sapere ivi contenuto è andato definitivamente distrutto, a parte per una copia di LOVELESS, abbandonata sul pavimento. E’ aperta sul Prologo.

 

 ‘When the war of the beasts brings about to the world’s end,

the Goddess descents from the sky.

Wings of light and dark spread afar,

she guides us to bliss, her gift everlasting. ‘

[Quando la guerra tra le bestie porterà alla fine del mondo, la Dea discenderà dal cielo. Ali di luce e scurità si spiegheranno, lei ci guiderà alla beatitudine, il suo dono eterno.’ LOVELESS, Prologo]

 

Mi sembra quasi di sentire la voce teatrale del rosso, mentre trascrivo queste righe. Esaminando questo manoscritto mi accorgo che sembra essere lasciato qui apposta. E’ troppo ben conservato per essere scampato all’incendio, tuttavia lo strato di cenere sopra deposto indica che è stato lasciato in un lasso di tempo non troppo lungo, tra il bombardamento e il mio arrivo. Non troppo prima del mio arrivo, direi. Che sia ancora nei paraggi? Meglio andare via da qui prima che lui possa venire a conoscenza del mio diario.

 

 

7 Gennaio XXXX, Ufficio SOLDIER, Midgar. Alcune ore dopo il viaggio a Banora.

 

Ho passato le ultime ore ad esaminare questa copia di LOVELESS rinvenuta nella magione Rhapsodos di Banora. La mia analisi iniziale era corretta: questo libro non era presente nella biblioteca di famiglia quando le bombe sono state sganciate. Eppure appartiene a quel luogo, come testimonia il timbro sul retro del frontespizio. Una rara edizione del poema epico LOVELESS. Troppo rara e particolare per non riconoscerla all’istante. Questo libro era suo… Non se ne separava mai, perché lo ha lasciato in mezzo a quella desolazione? Questa domanda è stato il mio chiodo fisso per ore, fino a che un’analisi ancora più approfondita ha rivelato l’intenzione del rosso di comunicare. Infatti, gli orli di alcune pagine sono stati lasciati arricciati a mo’ di segnalibro, in corrispondenza di alcuni passaggi del poema. Passaggi che ho sentito recitare fino alla nausea, ma la fitta trama di note in rosso attorno a quelle strofe mi ha spinto a compiere il tentativo di cogliere il significato racchiuso in quei versi così accorati.

Sono partito dal Prologo, trascritto in precedenza. Ciò che ho appreso mi ha sconvolto! Non posso credere che le sue intenzioni siano rivolte davvero alla distruzione di questo Pianeta. Qual è la ragione di una scelta così drastica? Crede davvero che portare questo Pianeta sull’orlo del baratro possa salvarlo dalla sua lenta decadenza? Davvero è convinto che questo libro indichi il fato di ognuno di noi?

Per questo motivo che il suo corpo è mutato? Per questo ora bestie dotate di ali nere e bianche vengono avvistate in ogni angolo del globo? Un’altra guerra è alle porte?

 

‘My friend, do you fly away now?

To a world that abhors you and I?

That is await you is a somber morrow.

No matter where the winds may blow. ‘

[Amico mio, voli via adesso? Verso un mondo che aborra entrambi? Ciò che ti aspetta è un vuoto domani. Non importa in che direzione i venti soffino.’ LOVELESS, Atto III]

 

‘Non importa in che direzione i venti soffino’. Questa frase non fa altro che ronzarmi nella testa. La mia strategia nel mantenermi neutrale agli avvenimenti si sta mostrando in tutto il suo fallimento, come, infatti, suggeriscono queste righe. Genesis è più determinato di quanto pensassi. L’ho sottovalutato e, ora, il sangue delle sua vittime ricade sulle mie mani. Non posso più tirarmi indietro… Per quanto cerchi di sfuggirlo, il conflitto è inevitabile. Ma la domanda che più mi tormenta in queste ore è: qual è il disegno che ha creato per me? Ha intenzione di trasformarmi in uno dei suoi fantocci alati? Oppure un destino più oscuro e raccapricciante egli sta riservando a ‘colui che resta’?

 

 ‘My friend,

your desire is the bringer of life:

the Gift of the Goddess.

Even if the morrow is barren of promises,

nothing shall forestall my return.’

[Amico mio, il tuo desiderio è portatore di vita: il Dono della Dea. Anche se il domani è arido di promesse, niente fermerà il mio ritorno.’ LOVELESS, Atto III]

 

Queste sono le frasi che più mi agghiacciano. Il mio desiderio… esistono tanti tipi di desideri, ma quale di questi è portatore di vita? La risposta è ovvia: la passione. Non posso fare a meno di pensare che quei versi si riferiscano a Takara. A quel punto il senso di colpa torna a farsi sentire: che cosa ho trasmesso a mia figlia? A quale atroce destino l’ho condannata?

A volte penso che avrei dovuto stroncare la sua piccola vita sul nascere. Invece di lasciare che Evelyn portasse avanti quella gravidanza, avrei dovuto impedirglielo con più fervore. Sarebbe bastato un colpo al ventre ber assestato per levarsi d’impiccio. Se Evelyn dovesse leggere queste righe probabilmente mi malmenerebbe, o peggio, e io farei di tutto per negare, trovando giustificazione nel periodo nero che sto passando; ma… mentirei. Sia chiaro, amo mia figlia e farei qualunque cosa per lei, tuttavia la sensazione che la sua esistenza su questo Pianeta sia un errore a cui porre rimedio non mi abbandona. Qualcosa, nel profondo del mio essere, la percepisce come una minaccia. E ora LOVELESS sembra confermare ciò che ho sempre considerato dei semplici presentimenti senza fondamento. Ci sono troppi segnali, troppe incongruenze che girano attorno alle mie oscure origini per ignorarle. Anche se, come può Taky rientrare nei piani di Genesis se lui non è a conoscenza della sua esistenza? Sono sempre stato attento a non lasciar trapelare nulla sulla mia relazione clandestina, mantenendo l’atteggiamento più naturale possibile; anche se talvolta non era così facile rimanere impassibile. La frustrazione albergante nel mio cuore era così devastante da condizionare profondamente il mio comportamento. I miei amici non sapevano mai che tipo di Sephiroth aspettarsi di giorno in giorno. Credo sospettassero che fossi invischiato in una qualche tresca con qualche fanciulla dal difficile carattere, dal momento che spesso lanciavano frecciate malcelate su quell’argomento; ma non penso abbiano mai veramente capito cosa avessi tra le mani. In effetti, Angeal e Genesis non si sono mai prodigati troppo a indagare sulle situazioni sentimentali del trio. Probabilmente era un argomento che era meglio lasciar passare sotto silenzio. Eravamo in guerra, dopotutto. Dopo mesi interi passati a sguazzare in mezzo al sangue e alla morte, diveniva impellente il desiderio di gettarsi tra le grazie della prima ragazza carina che si parava davanti. Lasciarsi andare tra le morbide carni della propria donna, è un buon modo per, un istante, dimenticare. La magnifica spossatezza che attanagliava le mie membra ad ogni amplesso mi permetteva di scivolare in un sonno senza sogni, in pace, soddisfatto. Avvertire la sua calda presenza, le sue delicate carezze, il suo rassicurante respiro…

Amore mio…

Mi manchi da impazzire. Ogni notte sogno quel tuo splendido, dolce sorriso, il quale ti illumina il viso di una luce meravigliosa. Quel sorriso capace di spaccarmi il cuore letteralmente in due; quel sorriso per cui morirei per non vederlo mai spegnersi; quel sorriso divenuto l’unica mia ragione di vita. Nella mia mente, ormai da qualche tempo, si sta delineando l’intenzione di abbandonare la Shinra. Non credevo che sarei mai stato in grado di sviluppare un tale pensiero. La Compagnia è sempre stata la mia unica, sola, desolante realtà. Non mi erano concesse alternative al futuro. Io sono nato per servire la Compagnia, per uccidere nel suo nome, per vincere le sue guerre. Fin da bambino non hanno fatto che ripetermelo. Per questo Hojo si è sempre prodigato d’impedirmi di avere degli amici, d’istruirmi su nozioni che non esulassero oltre dall’arte militare, di leggere nulla che non fossero strategie belliche. La mia sola ragione di vita sarebbe dovuta essere la guerra e la morte. Motivo per il quale sono stato nutrito con odio e rancore, sopprimendo qualunque altro sentimento. Dovevo essere una macchina da guerra spietata e assetata di sangue. E per un periodo questo obiettivo fu anche raggiunto, ma LEI… LEI ha cambiato tutto. Quei sentimenti che credevo aver perduto per sempre, ho scoperto di averli sempre serbati nel cuore. Anche se, mi accorsi, di aver sempre saputo di non averli dimenticati. Quel pizzico di innocenza pura e semplice che ancora albergava in me li ha conservati al sicuro dalle grinfie della Bestia per tutto quel tempo. Io non sono più disposto a corrispondere delle aspettative che mai sono stato in grado di rispettare. E sono stanco di vivere in questo limbo di miseria. E’ arrivato il momento di nascere. Di nuovo.

Non so che epilogo avrà questa storia, ma una cosa è certa: dopo questa Crisi, SOLDIER sarà destinato a sparire. La ribellione di Genesis ha portato a una gigantesca diserzione di massa che ha completamente svuotato il Reparto. Io e Fair siamo gli unici First rimasti sotto il comando del Presidente. Tra il popolino sta cominciando a svilupparsi una sorta di psicosi nei confronti dei SOLDIER.

Siamo Dèi, crudeli e spietati, e quello che suscitiamo è proprio questo: una timorosa adorazione. Come le divinità, fintanto che ci dimostriamo protettivi e benevoli nei confronti dei nostri accoliti, essi ci amano e ci rispettano. Poco importa il terrore che disseminiamo tra i nemici della patria; poco importa se siamo in grado di spaccare la testa di un uomo con una sola mano o in grado di radere al suolo un intero villaggio con una sola magia. Poco importa se dentro siamo dei mostri. E’ per questo motivo che non ho mai amato essere l’idolo delle folle. Quella gente non mi rispetta per le azioni eroiche che ho compiuto, ma perché teme il modo in cui le ho realizzate. Temono la possibilità che possa accadere anche a loro, un giorno.

Io da solo ho ucciso centinaia… no, migliaia di persone. Di ogni età, di ogni sesso, di ogni etnia.

Ho ucciso tanti bambini. Questo mi tormenta più di ogni altra cosa. Ora che sono diventato padre, mi rendo conto dell’orrore che ho compiuto, della spietatezza provata. Spesso e fin troppo volentieri, mi divertivo a torturare i genitori, uccidendo i loro figli di fronte ai loro occhi, in modi che preferisco non trascrivere.

Come ho potuto?

Che diritto avevo di compiere degli atti così osceni?

Come ho giustificato a me stesso quei crimini?

Forse non l’ho mai fatto e, probabilmente, è per questo che non riesco a perdonarmi e ad accettare che i doni che la vita mi ha regalato. Qualche giorno successivo alla nascita di Takara, dopo che l’iniziale entusiasmo svanì, questi pensieri iniziarono a tormentarmi. La guardavo dormire quieta nella sua culla e immagini oscene di corpi di bambini straziati si contrapponevano a lei. Iniziai ad allontanarmene, ignorando le necessità del mio istinto paterno. Questo comportamento venne notato da Evelyn, naturalmente, e ciò portò un paio di volte a scontrarci, ma, in un modo o nell’altro, riuscii sempre a sviare l’argomento. Fino a che, una notte, un incubo raccapricciante, di cui a stento ricordo i dettagli, e anche se ne avessi memoria preferisco non ripercorrerlo, mi strappò dal sonno con un grido straziante. Una morsa di panico mi attanagliò la mente, offuscandola di puro terrore. Rotolai su un fianco e mi accartocciai su me stesso. Dietro di me, il pianto spaventato della bambina si univa a quello dei miei ricordi, facendomi uscire di testa. Mi portai le mani alle orecchie per sopprimere quei lamenti, ma quegli strilli agghiaccianti erano troppo acuti per essere ignorati. Nella follia, vidi in Takara il nemico: la fonte del mio dolore, la quale doveva essere terminata all’istante. Il passo tra pazzia e violenza fu tragicamente breve. Mi alzai, rinvigorito da una forza bestiale, e mi gettai sul lettino di mia figlia con un solo, letale intento. I miei pugni calarono sulla culla più e più volte, distruggendola in mille pezzi. Ad ogni colpo, sentivo quel pianto scemare e l’incubo perdersi nell’oblio del subconscio. Piano piano, ripresi il controllo delle mie emozioni. Fissai il lettino sfasciato, incapace di concepire ciò che era accaduto. Poi, mi accorsi di un respiro affannato alla mia destra. Lentamente mi voltai, anche se avrei preferito non farlo: l’espressione di puro terrore dipinto sul viso di mia moglie fu uno squarcio nel cuore. Mi fissava come si guarda una bestia feroce. Il suo corpo era tutto un tremore, i muscoli tesi, i sensi all’erta: pronta a scappare, o a difendere il fagotto che stringeva al petto, in alternativa. Fu in quel momento che realizzai ciò che avevo fatto. O meglio, stavo per fare. Guardai le mie mani, piene di schegge intrise del mio stesso sangue e mi sentii morire.

Perché?, mi chiesi, Perché sono così incontrollabile?

Mi ritrassi, pieno di vergogna e odio verso me stesso, non avevo il diritto di stare nella stessa stanza con loro. Mossi qualche passo verso l’uscio, ma un braccio gracile, ma dotato di una graziosa forza, mi bloccò. Poi, un corpo caldo mi si adese alla schiena, causandomi, tuttavia, un brivido gelido lungo la spina dorsale. Mi irrigidii: non volevo, non potevo godere di quel contatto. Avvertii un liquido caldo attraversare la stoffa del kimono. Lacrime. Una stilettata di dolore mi colpì direttamente al cuore, stroncando il respiro. Ero io la vera causa di sofferenza. Improvvisamente, il desiderio di scappare venne impellente. Cercai da muovere un altro passo, ma la stretta si fece più forte… determinata. Poi, avvertii alcune ciocche tirare sotto l’azione di minuscole morse morbide e birichine, seguite da una risatina cristallina e innocente. Mi voltai lentamente e adocchiai Takara da sopra la spalla, intenta a giocare con i miei capelli. Placida, ignara… meravigliosamente ingenua. Non aveva paura di me, del mostro che aveva interrotto il suo sonno tranquillo e che, se non fosse stato per la freddezza di sua madre, l’avrebbe uccisa. Alzò lo sguardo luminoso su di me. Rideva con quella boccuccia buffa e sdentata. Quando allungò le manine verso di me mi sentì mozzare il fiato direttamente in gola. No, non potevo… Le mie mani…

‘Non vorrete davvero disattendere a un ordine, Generale…’, disse una voce d’angelo, scherzosa.

Un sorriso sfuggì al mio controllo: come ci riusciva ogni volta? Veloce come era venuto, così se ne era andato, comunque, ma per lei fu abbastanza. Sciolse appena la morsa che mi teneva inchiodato sull’uscita della camera e si piazzò di fronte a me, senza abbandonare il contatto. Ella rivolse la sua attenzione sulle mie mani insanguinate, per poi accogliere la sinistra –quella della spada- nella sua delicata stretta. Provai l’impulso di ritrarmi: non volevo che quella pelle così pura venisse contaminata dal mio sangue maledetto. Prima che potessi formulare quel pensiero, tuttavia, lei accompagnò l’arto alla sua bocca, dove iniziò a posare dei delicati baci sulle nocche, sulle dita, sul dorso. Io ormai ero ammaliato dalle sue movenze, lente e accorate, tanto da sopprimere ogni altro istinto. La osservavo e basta, completamente rapito dalla sua benevolenza.

La mia Regina…

Le sue dita, ormai rosse, sfilavano sulla mia pelle ferita, con una delicatezza tale da non avvertire nessun dolore. Esse s’incrociarono alle mie, in un intrico rosso e bianco, il quale si riservò un posto sul suo viso di porcellana. L’intreccio si sciolse e un ultimo bacio venne lasciato sul palmo, prima di essere adeso completamente alla sua morbida gota. Studiai il suo operato, il quale mi strappò ogni commento, qualunque fosse stato, direttamente dal cervello. La sua mano, il suo viso, le sue labbra completamente ricoperte del mio sangue. Era dannatamente bella… Prima che potesse dire o fare alcunché, lei mi porse la bambina e l’appoggiò dolcemente al mio petto, costringendomi, mio malgrado, ad afferrarla. La piccola emise un urletto soddisfatto, felice, per poi rapidamente rilassarsi tra le mie braccia, confortata dal mio calore.

“Visto? Lei non ha paura di te. Nessuno di noi due ti teme, perché noi ti amiamo, nonostante ciò che hai fatto. Il passato non si può cambiare. Puoi solo fare ammenda dei tuoi errori, qui e ora, dimostrando di aver capito il valore della vita. Sii il padre che quei bambini avrebbero dovuto avere, cresci tua figlia come quei genitori avrebbero voluto per i loro figli. Vivi per loro. E’ il minimo che tu possa fare. “

Non posso davvero credere di meritare tutta questa benevolenza, come non posso credere che esista realmente un essere umano in grado di comprendermi così a fondo. Una qualunque altra donna mi avrebbe impedito di avvicinarmi di nuovo al suo prezioso pargolo, oltre che rifiutarsi categoricamente di ascoltare le mie ragioni, me lei no. Lei è al di là di questi …‘sciocchi dettagli’, come ella li definisce. Si rende conto di aver sposato un uomo che presenta più ferite di quanto il suo corpo mostri effettivamente. E molte di esse sono ben lungi dal definirsi guarite. Il mio angelo lo comprende più di quanto io stesso possa davvero immaginare. E’ tutto ciò che ho sempre desiderato e perderla… perderla per me sarebbe la fine.

 

‘My soul, corrupted by vengeance,

hath endured torment

to find the end of the journey

in my own salvation

and your eternal slumber’

[La mia anima, corrotta dalla vendetta, ha subito il tormento per trovare la fine del viaggio nella mia stessa salvezza e nel tuo sonno eterno.’, LOVELESS, Atto IV]

 

La mia ultima affermazione mi riporta a queste strofe… Questo passaggio è sempre stato il più controverso dell’intera opera. E mi ha sempre inquietato. Una promessa di rivalsa, una maledizione di un amico, una speranza di salvezza. Genesis non è mai guarito dalla ferita inferta durante quel maledetto allenamento. Ho riscontrato tracce nei rapporti che rivelano un difetto tipico dei soggetti G: se infusi di una quantità eccessiva di mako, il loro corpo inizia a morire. Motivo per il quale, né Angeal, né Genesis, sono mai stati sottoposti ad ulteriori sedute d’infusione. Il poema suggerisce che, per sopravvivere, Genesis deve uccidermi. Ma come è possibile se non è mai stato in grado di vincermi, nemmeno quando era al massimo delle sue forze? A questo punto mi chiedo: cosa c’è nel mio sangue di così speciale per riuscire a guarire un difetto genetico così grave? Senza contare che i livelli di mako nelle mie cellule sono tra i più alti dell’intero corpo d’élite. Sarebbe contro producente per lui e ciò spiegherebbe perché Hollander m’impedì di essere il donatore della trasfusione che avrebbe salvato la vita al Comandante. Almeno per un po’.

No, se ho ben capito, il piano di Genesis è tutto scritto in questo libro, motivo per il quale egli si è premurato di farmelo rinvenire. Vuole che io sia al corrente di ogni sua mossa, affinché tutti i protagonisti della storia seguano il copione sillaba per sillaba. E finalmente, il suo poema sia messo in atto, come lui ha sempre desiderato. Da un lato, sarebbe un atto misericordioso permettergli di prendere parte alla sua follia, in quanto potrei considerare questa implicita richiesta come l’ultimo desiderio di un uomo morente. Ma, dall’altro… non posso permettergli di portarmi via ciò che ho costruito con tanta fatica e sofferenza. Ci DEVE essere una soluzione pacifica. Ormai so che non potrò tirarmi indietro dallo scontro, ma esso non deve essere per forza con le spade. Se solo avessi occasione di parlargli, indurlo alla ragione; forse… potrei salvarlo.

L’attacco di Banora è stata un’ulteriore manifestazione dei suoi intenti: si sta avvicinando. Forse non dovrò attendere così tanto per mettere in pratica il mio piano. Anche se, devo ammettere, Genesis si è mosso più abilmente di quanto il mio orgoglio riesca a sopportare. E’ troppo determinato e io non sono mai stato in grado di controllarlo. Ma ci devo provare. Per il bene della mia famiglia, devo combattere contro la fonte della sofferenza.

Costi quel che costi…

 

Yeeeeeee!!! Che parto, ragas! Questi dannati capitoli d’intermezzo… Ma almeno me lo sono levato, dal momento che mi aspetterà un ritorno un po’ impegnato. Sapete com’è, l’estate XD. E, siccome mi devo ancora riprendere dalla traumatica esperienza falklandiana, ho intenzione di recuperare l’orrida estate dell’anno scorso e riscattarla quest’anno. Quindi, non so quando pubblicherò il prossimo capitolo, io spero sempre presto, perché so bene che non resistete dalla curiosità! Ora mi dovrò andare a riguardare la linea temporale del CC, perché non mi ricordo mai come si susseguono gli avvenimenti e cercare d’estrapolare il tempo trascorso tra un evento e l’altro. Se non sbaglio, il primo blocco di storia (fino alla morte di Angeal e Genesis, per intenderci) è ambientata 7 anni prima degli eventi di FFVII, quindi ho ben due anni da coprire (magari anche meno, dal momento che a me sembra che tutta la storia della diserzione di massa sia accaduta e risolta in qualche mese). Anyway, so che avevo detto che non avrei più usato LOVELESS, ma questo capitolo è praticamente incentrato su Genesis e quindi mi è toccato… Ho deciso di dare una riscrittura anche da quel punto di vista, dal momento che, ahimè, tutto gira attorno a quel dannato libro. Le paranoie del buon Seph fanno poi il resto XD Riguardo Cloud, le spiegazioni non sono ancora finite e continueranno con calma nel prossimo capitolo (so che pendete dalle labbra del buon Vince… letteralmente!). Ho deciso così, perché se no c’era troppa carne sul fuoco e poi mi diverto a lasciarvi in suspence, BUAHAHAHAHAHAH!!! (Crudele! ndCloud, E poi sarei io il cattivo ndSeph).

Grazie ancora per la pazienza che avete avuto in questi mesi di assenza e ancora grazie per aver dedicato un po’ di tempo per supportarmi.

Vi voglio bene, bimbe mie!

Alla prossima!

Besos!

 

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Capitolo 24
*** Confronto ***


24. Confronto

“Corpo e anima sono un tutt’uno, un’essenza inscindibile e interscambiabile. In parole povere, la realtà cosiddetta ‘terrena’ ha regole e principi completamente diversi da quelli che governano il Lifestream; queste differenze richiedono, quindi, un adattamento. In pratica, il concetto di morte non si riferisce a qualcosa di completamente opposto alla vita, ma più semplicemente al cambiamento di essenza, adattandosi alle regole della realtà a cui si sta affacciando. Conclusione: anima e corpo non possono essere separati, in quanto creerebbe devastanti problematiche nel passaggio tra Pianeta e Lifestream. Si ritiene, infatti, che se il corpo viene distrutto, l’essere perde una parte di sé e non sarà in grado di ricongiungersi al Pianeta, in quanto esso è l’organo dedicato alla conservazione dei ricordi e delle emozioni collegate alle persone care. Dopo vari studi, ritengo che questo legame sia un requisito fondamentale per il raggiungimento della Terra Promessa da parte dei defunti, in quanto fonte di un’incredibile quantità di energia vitale. E’ questa simbiosi tra defunti e viventi a rendere vitale questo Pianeta.

La tradizione di bruciare i cadaveri è una grave violazione di questo dogma, per quanto, talvolta necessaria. Le anime private del loro contenitore perdono ogni legame con Gaia e non contribuiscono al defluire del Lifestream. L’evento chiamato ‘Purga dei Sephera’ attuata dalla stirpe umana a seguito della sconfitta di Jenova fu la comprova degli effetti devastanti della rottura di questo legame. Tuttora, i pochi Cetra rimasti avvertono la sofferenze di quelle anime intrappolate sul confine tra la vita e la morte, senza alcuna possibilità di comunicare né con la realtà, né con il Pianeta.”

M’interrompo circa a metà delle conclusioni del rapporto di Gast, preso in prestito da Vincent durante la nostra permanenza nella sua villa, poiché immagini terrificanti di uomini e donne mandate al rogo, disperate e terrorizzate, mi si affollano nella testa, trasmettendomi la macabra sensazione di dejà vu. Mi massaggio le tempie e prendo profondi sospiri per ricacciare indietro la nausea. Esattamente come nella stanza di Gast, non posso fare a meno di rivivere scorci di memorie di circa due millenni fa. Come è possibile?

- Steven mi ha rivelato che tu hai visioni di quel passato quando vengono rievocate quegli eventi, è così? –

Guardo Vincent di sottecchi, concentrandomi con tutte le mie forze su di lui, al fine d’ignorare, o almeno provarci, quelle immagini. Il pistolero è accomodato su una seggiola disposta accanto alla finestra. Il gomito appoggiato al davanzale fa da sostegno per la testa. Il suo sguardo tradisce una certa preoccupazione. Ha insistito perché leggessi coi miei occhi la relazione di Gast, così da capire in pieno la situazione in cui verte Evelyn. Annuisco lentamente, mentre un conato più forte degli altri mi costringe a stringere i denti. E poi, quelle fitte al cuore…

- Questo è dovuto alle cellule di Jenova contenute nel tuo corpo. Più avanti, Gast sostiene che i ricordi e le emozioni dei Saphera vennero assorbiti dal corpo cristallizzato della loro padrona. -

- Ed immagino che lei non le abbia conservate intatte e pure, dico bene?  

- Già. Nella sua biblioteca ho trovato un altro rapporto, riguardante gli esperimenti eseguiti durante il Progetto S. Lì, Gast asserisce che, probabilmente, l’aggressività e la misantropia riscontrata nei mostri infusi con cellule J sia dovuto proprio questo. Apparentemente, Jenova ricava il suo potere dalle emozioni negative dei suoi accoliti, incanalando il loro odio e la loro rabbia direttamente nel cervello del malcapitato. –

L’ultima frase sfuma in un silenzio pesante, ricolmo di sottintesi. E una frase aleggia sopra di essi. Per un lungo istante essa incombe sulle nostre figure irrigidite e incapaci di guardarsi negli occhi; finché il pistolero rompe gli indugi con somma mestizia.

- Forse è questo che è successo a Sephiroth… -

Non posso fare a meno di grugnire e scuotere dolosamente la testa, attirando inevitabilmente l’attenzione di un pistolero punto sul vivo. Egli, tuttavia, non si altera, mantiene il solito impenetrabile contegno.

- So che per te è ancora difficile accettare il fatto che Sephiroth sia una vittima, anziché un carnefice, ma… -Quelle parole pennellate da quel tono di voce così accorato, se non dolce, nei confronti di quel… quel… MOSTRO! No, non merita la pietà. Non la merita, non la merita, NON LA MERITA!

Fuori di me, afferro il margine del tavolo dinnanzi a me e lo rovescio di lato. Ora che non c’è più nessuno ostacolo tra di noi, una suadente voglia di assalirlo solletica ogni cellula del mio corpo. Avverto i miei muscoli tendersi e gonfiarsi in attesa dello sforzo, le dita irrigidirsi e piegarsi alla stregua di artigli affilati, i denti digrignarsi pronti ad addentare quella pelle pallida e morta. Gli occhi rossi della mia… preda? Sì, solo una preda può guardarmi con quegli occhioni terrorizzati. Lo odio… Come fa a convivere col fatto di aver dato vita a un mostro, un genocida, un pazzo, un criminale…

Non merita tutta quella compassione…

Non… la… merita…

La testa inizia girare e la vista offuscarsi. Un richiamo ovattato raggiunge a stento le mie orecchie, tale da non riuscire a decifrare cosa effettivamente contenesse. Un nome, forse? Quale? E’ tutto così confuso…

 

 

 

La chioma ondeggia sensuale ad ogni suo movimento e mi pare di avvertirne la morbidezza scorrere lenta tra le mie dita, stuzzicare i polpastrelli, solleticare il mio palmo; come se davvero la mia stessa mano fosse affondata in quel mare di seta corvina. Improvvisamente, mi pare addirittura di avvertire il delicato e leggero effluvio di resina di pino solleticarmi l’olfatto. E’ un odore così trascinante, capace di far nascere in me un dolce ed amaro torpore. La meraviglia suscitata da un sorriso angelico, la setosa consistenza di una carezza che liscia materna la mia gota. Il pallore raffinato di quella pelle così perfetta mi affascina. Così come quegli occhi... difficilmente riesco a trovare un aggettivo adatto a descriverli, poiché la loro bellezza è qualcosa di soprannaturale. Contrariamente al sentimento che racchiudono, così dirompente e terreno da avvolgere entrambi come un vortice. Percepisco il suo fiato, il quale, regolarmente, poggia la sua profumata essenza sulla mia bocca; preludio magnifico della scesa di quelle accoglienti labbra rosse. Esse sono dischiuse appena, protese verso le mie, in attesa di un contatto lontano quanto una stella, eppure minuscolo come lo spessore di un filo d’erba. Quelle rose carnose si muovono.

Ti amo.

Così la voce d’angelo proferisce, riempiendomi il cuore di una gioia sconfinata, capace di distruggere ogni singolo brandello del mio essere. Mi aggrappo a lei, che è tutto il mio mondo e mi basta poco per toccarlo.

Ma lei non è qui, mi rendo tragicamente conto. La splendida illusione si trasforma in un’amara realtà, la quale ferisce nel profondo, dilaniando quei minuscoli brandelli di ego. Smetto di respirare, rendendomi conto che l’ossigeno inalato proveniva da quell’ipnotico respiro; le mie gambe cedono, facendomi realizzare che era il suo corpo a sorreggermi; il mio sorriso si trasforma in disperato pianto, comprendendo che lei era la fonte della mia gioia; un gelo mortale mi attanaglia le ossa, capendo così che ella era il sole che mi donava la vita.

Mi accorgo di essere inginocchiato, prostrato, per meglio dire. Le mani disperatamente aggrappate alle inferriate gelide lanciano fitte di dolore, poiché ferite dagli angoli taglienti del metallo. La testa è leggerissima e i polmoni si contraggono disperatamente alla ricerca di aria. Questo è l’effetto irrefrenabile di una passione repressa da tanto, troppo tempo, concludo. Ritrovo la forza di muovermi e alzo lo sguardo al di là del cancello, dove, leggiadra e perfetta, LEI passeggia. Il suo volto di porcellana è abitato da una tristezza senza confini, animata da una struggente solitudine, la quale scatena qualche lacrima di tanto in tanto. Sono in quei momenti, in cui il rimpianto ha la meglio, che la donna ritrova la grinta e scaccia via quelle gocce amare con un elegante gesto della mano. Le sue dita sottili corrono sulla gota rosea e, sensualmente, accarezzano il labbro inferiore. La bocca di apre appena e un sospiro liberatorio abbandona la sua gola. Poi, i suoi occhi si elevano in direzione del cancello. La vuotezza che prima spegneva quelle iridi smeraldine sembra svanire, appena un sentimento assurdo e irrazionale le anima.

Speranza.

Speranza di rivedere l’uomo che ama.

Speranza di riabbracciare la sua bambina.

Speranza che il suo ingiusto calvario finisca.

Speranza che la sua vendetta si compia.

Quest’ultimo pensiero ricopre quella benevola luce con un’ombra maligna e rabbiosa. Un’ombra che deforma le sue angeliche fattezze per pochissimi, terrificanti istanti in quelle di un raccapricciante demone dilaniato dalla furia del fuoco. Esso si contorce convulso, passandosi sul viso sfigurato le mani armate da lunghi artigli giallastri. Essi scendono lungo la fronte calva, le cavità orbitali, gli zigomi consunti; lasciando profondi e sanguinolenti solchi sul misero strato di muscoli e tendini. Appena giunte dove una volta v’erano carnose e rosee labbra, le dita svaniscono all’interno dell’oscura morsa del cavo orale, dove denti affilati calano dall’alto e dal basso e tranciano quelle falangi sdrucite. Il sangue sprizza dalla bocca, cacciato fuori in grosse gocce da attenuate, ma non meno agghiaccianti, urla. Nell’attimo in cui questo demone appare e svanisce, riesco a riconoscere la nota tipica di quelle grida. Il mio sguardo, infatti, cala sul grembo, ove rivoli di sangue lasciano piccoli segni del loro passaggio sul tessuto latteo. Gelsomini bianchi crescono repentinamente là ove le gocce toccano il terreno, ma marciscono appena raggiunta la piena maturità. No, non marciscono. Vengono inceneriti.

Fuoco.

Quella parola smuove qualcosa dentro di me, ma la strana calma che mi avvolge le membra impedisce a quel sentimento di prevalere.

Mi volto appena alla mia sinistra e punto il mio nemico. La sua immancabile divisa nero pece disegna la sua linea scattante e tonica, simile a quella di una pantera. E come un felino, egli aderisce contro la cancellata, sornione, da cui osserva l’oggetto del proprio desiderio.

- Come mai ancora qui, Cloud? –

- Per cercare delle risposte, credo. –

Il SOLDIER sposta l’attenzione su di me, puntandomi di sottecchi. La cortina argentea dei suoi capelli nasconde in parte il suo viso affilato. Non mi sfugge, tuttavia, il sorrisetto arrogante che deforma l’iniziale linea neutra delle sue labbra.

- Buona fortuna, allora. –

Rispondo al suo sguardo con un’occhiata mordace, ma essa va ad infrangersi contro il completo disinteresse del Generale nei miei confronti. Ha occhi se non per lei. Non so perché, ma la cosa mi infastidisce. Per tanti anni ho creduto di essere la sua sola ossessione: la marionetta da torturare, l’uomo da battere, l’eroe da distruggere. Quello che intercorre fra noi è un legame malato e perverso, eppure unico e speciale. Entrambi vediamo nell’altro la fonte della nostra immortalità, poiché finché uno di noi due vivrà, l’altro sopravvivrà. Lo ha detto lui stesso.

 

I will never be a memory.

[Io non sarà mai un ricordo. Sephiroth, FFVII:ACC]

 

La sua totale indifferenza, tuttavia, fa vacillare le mie convinzioni. A lui non è mai importata la fama o la gloria, essere l’Eroe di Midgar o l’Angelo da una Sola Ala per Sephiroth, è relativo: esse sono solo conseguenze delle imprese compiute; quest’ultime rese molto più grandiose o deprecabili di quanto siano realmente. Lo ripete spesso nei passi del suo diario: la sua prigione dorata è stata costruita sopra al sangue di tanti innocenti e la sua fama si è alimentata dei cadaveri dei suoi nemici. Una facciata per coprire i misfatti della Shinra, il capro espiatorio di qualunque ritorsione sulla società elettrica. Lui non vuole essere ricordato come Eroe o Distruttore; bensì per la sua semplice umanità, ossia un marito protettivo e affettuoso o un padre volenteroso e amorevole.

Alzo lo sguardo verso Evelyn e comprendo: lei conserva la sua vera memoria.

- Che ne sarà di te, quando tutta questa storia sarà finita? Tua moglie si mescolerà nel Lifestream, tua figlia diventerà una martire, Genesis verrà sconfitto una volta per tutte e io mi premunirò perché tue memorie diventino esattamente quello che sono. Tutti ti ricorderanno solo per il mostro che sei. –

Sephiroth non sembra per nulla toccato da questa possibilità; anzi sembra quasi divertirlo, dal momento che le sue labbra s’inarcano in un sorriso furbo.

- Appunto. E’ in quel ricordo che io vivrò, così da alimentare le paure e gli scrupoli degli uomini, in modo da evitare che gli orrori subiti dai miei cari non vengano ripetuti. Ciò che m’importa è che loro riposino in pace. Null’altro conta. –

Il coraggio e la determinazione dimostratomi di fronte a un tragico destino riempiono il mio cuore di un’ammirazione immensa, la stessa che mi pervadeva quand’ero bambino. E’ veramente lui… l’eroe dei miei sogni, l’uomo che avrei voluto essere, l’esempio che avrei voluto seguire. Come posso permettere che le sue qualità vengano dimenticate? Che un uomo così giusto e coraggioso venga millantato in questo modo?

Vuole solo proteggere la sua famiglia, in fondo.

Improvvisamente, il cancello subisce un deciso singulto accompagnato da un forte clangore di metallo contro metallo. Con il cuore in gola, faccio un passo indietro e rimango assolutamente stupito nel constatare l’autore del trambusto. O meglio, l’autrice. Evelyn. In un qualche modo, la sua presenza è riuscita a trapassare il confine tra vita e morte. Il cancello, infatti, sembra contenere a malapena la sua irruenza. Quel cancello apparentemente insormontabile e indistruttibile, costruito dall’odio e dal risentimento di un intero Pianeta nei confronti di quell’omicida sanguinario, scricchiola e geme come se fosse fatto di alluminio.

E’ possibile che io…

Rivolgo il mio sguardo sbigottito in direzione di Sephiroth, il quale è stupito almeno quasi quanto me.

No, non posso davvero averlo…

Non faccio in tempo a terminare il pensiero che il Generale inizia a muovere un paio d’incerti passi verso la donna ancorata alle sbarre. Con decisi tentativi, ella cerca di aprire una breccia in quel cancello, ma essi vanno ad infrangersi contro alla strenua resistenza del metallo, il quale ondeggia sempre di meno. Quando ormai gli sforzi divengono vani, l’angelo volge uno sguardo struggente, disperato e supplichevole verso Sephiroth, il quale si ferma a un passo dalle sbarre. Il Generale scandaglia la donna da cima a fondo, affascinato e rapito, fino a che i suoi occhi non si posano sulle dita avvolte attorno al metallo. A nessuno di noi tre sfugge che, anche se di poco, una minuscola parte di lei sembra sfociare da questa parte. Tutti gli sguardi sono puntati su quel particolare. I due amanti si fissano negli occhi per un breve, significativo, istante. Osservo rapito la scintilla di speranza illuminare le loro iridi dalle mille sfumature del verde. Così, con tacito assenso e mano tremante, il SOLDIER rompe gli indugi. Nonostante sia terrorizzato, più che dalle conseguenze, dalla prospettiva del fallimento, il desiderio di riaverla per sé, anche per un solo attimo, ha la meglio; quindi, sebbene sia una vana speranza, lui deve tentare. Ed io mi rendo conto di tenere per lui.

Tutta la malevolenza svanisce appena le loro dita finalmente si sfiorano.

Perdo quasi un battito nell’assistere alle loro espressioni, dapprima incredule, poi ammantante da un gioioso sollievo. Anni di sofferenze, torture e umiliazioni sono stati spazzati via da un solo, minuscolo contatto. Il distacco e la freddezza sono scomparse dal viso di marmo del Generale, spazzate via da un fiume impetuoso di lacrime. Rimango letteralmente a bocca aperta, sebbene non sia la prima volta che vedo Sephiroth in quello stato. Ciò che più mi colpisce è la quantità innumerevole di sensazioni contenute in quelle gocce, le quali mi fanno capire veramente la profondità del suo animo e la sua estrema emotività. Leggerlo è un conto, ma vederlo… fa impressione.

Non c’è traccia del mostro sanguinario o dell’infallibile SOLDIER nell’uomo innanzi a me. Mi rendo conto che le prime due figure non sono altro che il misero risultato di anni di repressione, di apatia, di sconfitta, i quali avevano congelato il suo cuore, rinchiudendo in quella prigione gelata perfino il ricordo del calore. Fino ad oggi. In fondo, è sempre stato questo l’effetto che Evelyn gli provoca. Non importa quanto in profondità la sua umanità può essere sepolta, lei è sempre in grado di farla riemergere con un semplice gesto.

Per questo ti ama.

Evelyn muove le labbra, ma nessun suono giunge alle nostre orecchie. La barriera, infatti, consente solo a qualche centimetro di pelle di trapassare il confine. Sephiroth la studia, cercando di carpire il significato di quelle parole mimate. Gli dice di non piangere; anzi vorrebbe vedere ancora una volta il suo splendido sorriso, quello in grado di ridonare vita al suo cuore fermo da tempo. Egli ubbidisce immediatamente alle richieste della sua Regina. In quell’arco non v’è traccia del ghigno mefistofelico protagonista dei miei incubi peggiori. Ed è qui che capisco: non importa quanto il Pianeta si accanisca contro di lui, quanto sia terribile il dolore che gli provoca, quanto crudelmente gli strappi via ogni singola briciola di umanità, perché niente e nessuno potrà soffocare l’ingenua speranza di riunirsi alle persone che ama. E’ questo che lo fa andare avanti, è di questo che vive. Io non sono nessuno di fronte all’immenso sentimento che serba in quel cuore dilaniato. Credo che ripeterebbe ogni azione commessa, perché sono state quelle azioni a condurlo dall’amore della sua vita.

Mi rendo conto che io non sono e non sarò mai in grado di fermarlo…

- Non sono riuscito a cambiare le cose... –

La mesta ammissione di colpevolezza proferita da Sephiroth attira la mia attenzione, poiché, a seguito di questo, noto la donna poggiare la mano libera sul quel ventre squarciato, mentre un guizzo di dolore spegne entrambi i loro sorrisi. Una realizzazione terribile mi attanaglia le membra e, improvvisamente, avverto la sensazione di essere risucchiato in un vortice. E poi, sparire.

 

 

Il pigolio dei chocobo accompagnato dal cigolio delle ruote sgangherate del carretto degli Oshima e dalla risata sguaiata del suo capostipite, preannunciano il ritorno di mio marito dai campi di frumento. Sono già due settimane che lavora per loro. Gli piace sentirsi utile per la comunità che tanto calorosamente lo ha accolto, nonostante tutto. Takara drizza la testa, in ascolto, e, appena avverte una voce famigliare, abbandona i suoi giochi per fiondarsi davanti alla porta d’ingresso. Saltella impaziente, contenta come un cucciolo scodinzolante. Una sensazione che, mi accorgo, condividere con la stessa intensità. Una notizia bellissima quanto inattesa ha sconvolto la mia intera giornata e non vedo l’ora di condividerla con il suo fautore. Anche se, da un lato, un po’ temo questo confronto. Non so cosa potrà accadere, come mio marito possa recepire una tale prospettiva. Sebbene egli mi abbia dato prova di essere cambiato, non riesco a fidarmi totalmente di lui. In fondo, è ancora così giovane…

-Papà! –

Il filo dei pensieri viene interrotto dalla vocetta squillante di mia figlia, con la quale accoglie gioiosa l’allampanata figura appena entrata in casa. Corre verso di essa, ma viene intercettata da due grandi braccia che la sollevano da terra, fin sopra la testa di suo padre. Viene lanciata in aria e il mio cuore fa una capriola. Al contrario, lei ride divertita. Dopodiché, gli arti si chiudono attorno a lei in una delicata morsa, per poi essere posta al pari di un meraviglioso viso angelico.

- Ciao principessa. Me lo dai un bacino? –

La piccola, tenerissima e maldestra, allarga le braccine minute e le avvolge attorno la testa di Sephiroth; successivamente gli pone un grosso bacione sul naso, schiacciandoglielo. L’espressione misto dolorante e infastidito del padre è comica, al punto tale di strapparmi una risata soffocata, la quale viene distintamente percepita dall’udito fine del mio Generale. Egli mi lancia un languido sguardo e mi sento letteralmente attirata nella sua direzione. Lo saluto con un bacio ben più moderato e un accomodante sorriso.

-Ben tornato. -, gli sussurro dolcemente.

- Bello essere a casa. -, mi risponde, sfoggiando un’espressione stanca, ma felice.

Appena Natsu appare nel suo campo visivo, il suo arco si fa più beffardo, strappando all’anziana un grugnito.

- Buonasera, nonnina. –

- Umpf, risparmia il fiato. Non sia mai che ti serva per scappare di nuovo a gambe levate.  -, risponde l’anziana, senza degnarlo di uno sguardo, poiché troppo impegnata a leggere il giornale appollaiata sul suo solito seggiolone.

Sephiroth aggrotta le sopracciglia, sorpreso dalla risposta. E anche un po’ punto sul vivo.

- E questo cosa vorrebbe dire? –

- Chiedilo a tua moglie. Sembra che tu ne abbia combinata un’altra delle tue. –

A quel punto, Sephiroth mi fissa interrogativo. Dal canto mio, non posso far altro che scuotere la testa esasperata.

- Grazie, baba. Anche se non era esattamente così che avevo immaginato il momento della notizia. –

Mio marito rivolge febbrilmente la sua attenzione tra Natsu e me, scatenando l’ilarità di Takara, la quale assiste dall’alto del suo scranno, ossia la spalla di suo padre. 

- Che notizia? Che cosa è successo? –

Dolcemente, gli passo le mani lungo i lati del viso, accarezzandogli la pelle ancora sporca di polvere e terra. Mi mordo il labbro inferiore. Lo adoro quando è così scarmigliato e… selvaggio. Abbasso lo sguardo e vado ad individuare la sua mano destra, lasciata pendere al fianco. Con le dita accarezzo il dorso, le nocche, le falangi percependo ogni minuscola imperfezione. La pelle è secca, screpolata, a causa del sole e dell’acqua, microscopici tagli infrangono l’insormontabile continuità dell’epidermide, sbavature di terra nera sporcano l’intonsa perfezione di questo effimero pallore. Assimilo con piacere tutte queste sensazioni, mentre accompagno la mano verso la sua destinazione. Percepisco un dolce languore misto a nostalgia, appena il suo palmo aderisce pian piano al mio grembo. Lo stomaco si attorciglia, mentre osservo la mia culla completamente accolta nella sua forte stretta.

Sei al sicuro, piccolino.

Alzo lo sguardo per assistere alle reazioni di mio marito. In un primo momento, egli sembra ancora confuso, stordito. Le palpebre vengono sbattute più e più volte, mentre cerca di elaborare la situazione. Attonito, poi, mi guarda a bocca aperta.

Di fronte alle sue buffe espressioni, rido radiosa e impaziente di proferire quella frase.

- Sono incinta. –

Lui riabbassa lo sguardo verso il mio grembo, poi di nuovo lo rialza su di me. E’ incredulo. Assolutamente senza parole. Boccheggia, intento ad elaborare la notizia, stordito da un’emozione incontrollabile, alla quale cede appena si rende conto della situazione. Infine, il suo viso assume un’adorabile espressione fiera ed entusiasta, la quale accende una splendida luce meravigliata e sorpresa nelle sua giade serpentine, coronate da un divino e smagliante sorriso. Sembra un bambino…

- E’ meraviglioso. –, sussurra, privo di fiato, con un inflessione dolcissima, mai sentita prima d’ora.

Mette la piccola a terra e mi afferra con entrambe le mani la base della testa, attraendomi verso il suo viso, luogo in cui un tenero e appassionato bacio mi trasmette tutta la gioia provata fino a quel momento. Mentre ci baciamo, lui avvolge le braccia attorno alle mie spalle, delicatamente, come se stesse abbracciando un vaso fragilissimo. Una premura capace di destare tutto il dispiacere pendente sullo stomaco provato poco fa, tuttavia. Interrompo il bacio e volgo l’attenzione sulla mia primogenita, la quale ci scruta da dietro le fessure delle sue ditine, fingendo di essere imbarazzata ad assistere alle nostre smancerie. Mi scappa un sospiro.

Perché non ha avuto la stessa reazione anche con lei?

Dopo qualche secondo, mio marito poggia le due dita sul mio mento e, dolcemente, mi volge verso di lui.

- So a cosa pensi. Ma ti giuro che questa volta andrà diversamente. - , prende un profondo sospiro, come se stesse scendendo a patti con una decisione difficile e definitiva, - Ho deciso di ritirarmi. Mi libererò della Shinra, del mio rango, del mio lavoro. Mi libererò di tutto per stare con voi. –

S’inginocchia ai miei piedi, stringendo la mia mano nella sua, e poi liscia il viso della nostra bambina, fino alla base del collo, dove indugia col palmo per un lungo istante. Osserva teneramente Takara, mentre a me rivolge uno sguardo adorante, quasi timoroso, capace di spaccarmi il cuore letteralmente a metà.

- Io ti amo alla follia, Evelyn. Forse non sono molto bravo a dimostrartelo, ma ti assicuro che ti amo come mai ho amato nella mia intera, vuota esistenza. Amo nostra figlia, amo il bambino che sta per arrivare, amo la vita che stiamo costruendo insieme. Io ho bisogno di voi, come… come l’aria, l’acqua, il sole. Senza di voi, mi sento morire. - , si trascina sulle ginocchia, completamente sottomesso, avvicinandosi a me, - Io non esisto senza di te… -

L’ultima frase, così sussurrata e piena di assoluta devozione, è una stoccata dritta al cuore. E quello sguardo… mi sento sciogliere dalla tenerezza. Mi rendo conto che davvero lui è disposto a corrispondere ogni mio desiderio. Come un soldato fedele farebbe nei confronti della sua implacabile regina.

Colmo la distanza e passo la mano libera dietro alla sua testa, così da avvicinarla al mio grembo. Egli si lascia guidare, chiudendo gli occhi. Assapora il mio materno calore trapassare la stoffa, mentre stringe a sé sia me che nostra figlia. In questo modo, egli crea la sua barriera, dentro cui ha deciso di rinchiudere se stesso, i suoi sogni, il suo onore, la sua essenza. E’ pronto a donarsi completamente alla sua famiglia. Ci stringe forte, quasi con disperazione si aggrappa a noi. E capisco.

Sì, questa volta sarà diverso.

 

 

Apro gli occhi lentamente e la luce tenue del tramonto mi accoglie gentilmente alla realtà. Lo spettacolo dei raggi morenti sui ghiacci del Mare di Icicle è una sinfonia di tonalità infuocate, le quali vanno a stridere con il gelo spietato degli iceberg flottanti su una distesa di diamanti brillanti. La meraviglia della natura mi strappa un sorriso stanco, ma l’amarezza delle visioni lo fredda all’istante. Mi rivolgo in direzione di Vincent, il quale sta rivedendo il nostro itinerario di volo e migliaia di dubbi mi assalgono. Dovrei rivelargli del secondo figlio di Sephiroth? Non so nemmeno se sia vivo o no. Quello squarcio potrebbe essere stato provocato in migliaia di modi, ma, in cuor mio, so già di conoscere la risposta. Chiunque abbia attentato alla vita di Evelyn sapeva del bambino? E’ per quello che l’ha uccisa?

Dovrei parlargli dello stato in cui versano suo figlio e sua nuora nell’aldilà? Dovrei raccontargli del cancello e di come si sia indebolito appena mi sono immedesimato in Sephiroth?

Egli alza lo sguardo verso il soffitto vetrato dell’aeronave e sospira, esausto. E’ da quando siamo fuggiti dalla villa di Gast che Vincent non si riposa nemmeno un secondo. Ha la sensazione che qualcuno ci segua. Si pente di aver accondisceso a quella fuga spericolata, perché, secondo lui, abbiamo attirato delle pericolose attenzioni. Non tanto su di noi, ma su Takara. Con la perdita del corpo di Jenova, la morte di Hojo e la definitiva disfatta di Sephiroth, la ragazza è l’ultima portatrice pura di cellule J, all’infuori del sottoscritto; ma, soprattutto, ella è l’ultima Antica sulla faccia del Pianeta. Cellule J unite e sangue Cetra… un potere inimmaginabile. Un potere capace di fare gola a un sacco di gente senza scrupoli.

Se Rufus dovesse venire a conoscenza della sua esistenza… Non ci voglio pensare! Sephiroth aveva ragione a considerarla un pericolo, perché lo è. Per se stessa e per gli altri. Spero che LOVELESS abbia ragione. Se lei è il Dono dovrebbe avere la capacità e il buon senso di riportare ordine nell’Universo. Spero non si lasci trascinare dalla vendetta e che non perda di vista il suo obiettivo; altrimenti…

Dovrò trovare il modo di ucciderla…

 

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26 Gennaio XXXX

 

Tutto inizia in un mondo fatto di piume. Esse circolano attorno a me, in un lento e solenne vortice nero e bianco. Avverto la sensazione di cadere nel vuoto, tragicamente, inevitabilmente, infinitamente. Non realizzo cosa mi stia accadendo, poiché i miei sensi sembrano avvolti da una ottenebrante nebbia. Non capisco come sia arrivato lì, eppure ricordo con chiarezza il calore del fuoco, seguito da un mortale bagno gelato. Eppure anche quei ricordi iniziano a svanire, soppiantati da un lento e inesorabile oblio, fino alla finale sensazione di vuoto. Mi accorgo di non provare assolutamente nulla, infatti. Non provo né odio, né dolore, né rabbia, ma neppure gioia o sollievo o calma… Niente. Dopo un tempo in parvenza infinito, mi si para davanti la fine di quel lungo tunnel piumato, dove una gelida luce verdastra mi accoglie. Lifestream? No, cristalli, migliaia e migliaia di cristalli si ergono austeri al di sopra del morbido letto di piume. Da esse i blocchi ghiacciati vengono lambiti delicatamente da quel circolo vizioso bianco e nero. A qualche metro da quelle cime, alcune piume bianche iniziano a fluttuarmi attorno, staccatosi dal seminato. Ne seguo una con lo sguardo, dal limbo della mia confusione e noto, con nascente orrore, che le mie gambe sono ridotte a due consunti moncherini abbrustoliti. Un terrore dilagante risveglia d’improvviso i miei sensi, i quali vengono subitamente stuprati da una sensazione ben più potente: l’agonia. Mio malgrado, avverto ogni singolo candido calamo conficcarsi direttamente in quei tessuti martoriati o, quando i muscoli mancano, direttamente nelle ossa. Inizio ad urlare fino a squarciarmi la gola, divincolandomi come un ossesso, nel tentativo di tenere lontano quei coltelli barbuti dalle mie gambe. Ogni mio sforzo, naturalmente, si rivela invano, soprattutto quando uno stormo di piume nere prende in ostaggio il mio braccio destro e mi trascina inevitabilmente verso uno di quelle punte ghiacciate. Appena cristalli e steli entrano in contatto, questi ultimi si solidificano assumendo la forma di un’enorme e maestosa ala nera, la quale si stringe attorno al mio braccio frantumandolo letteralmente fino alla spalla, trasmettendomi un dolore mai provato in vita mia.

A quel punto, mi sveglio. L’eco di quella sofferenza mi accompagna ancora nel dormiveglia, quando ancora il sogno persiste nella mia mente, come una sinfonia macabra ed ostinata. Stringo il braccio al petto, avvertendolo ancora pulsare, soprattutto all’altezza della scapola, dove l’ala affonderebbe le sue fameliche radici. Esattamente come le notti precedenti, mentre le mia dita scandagliano quella parte, mi pare di avvertire una bozza ampia e rugosa, serpeggiarmi sotto pelle. La consistenza è morbida, ma compatta. Sembrano quasi…

No. E’ solo soggezione, decido alla fine. La stanchezza, lo stress e il poco sonno sicuramente stanno avendo fatali effetti sulla mia psiche dilaniata, lasciando spazio alle fantasie suscitate dalle frasi sibilline e sconnesse di Genesis. Per quanto mi sforzi, tuttavia, non riesco ad ignorarle. Sono un chiodo fisso che mi sta lentamente trascinando verso un abisso di ossessione. Sono giorni che me ne sto chiuso qui dentro, in questi archivi ammuffiti a scartabellare chilometri e chilometri di fascicoli, ad assimilare dati, a scovare ogni singolo rapporto. Speravo che l’incontro con il rosso avrebbe risolto ogni cosa. Quando il suo esercito di copie sferrò il suo micidiale attacco verso lo Shinra Building, quasi non potevo contenere l’impazienza di trovarmi faccia a faccia col lui. Per un attimo, un minuscolo attimo, ho sperato… ho sperato che, finalmente, avrei potuto avere le risposte che cercavo. Ma il rosso sembra godere nel vedermi agonizzare, mentre strisciavo ai suoi piedi per supplicarlo di darmi le risposte che cerco da una vita.

‘Vuoi risposte, ma sei sicuro di essere in grado di comprendere la realtà dei fatti? Di accettarla? Io non credo, Sephiroth. La tua mente è ancora schiava della realtà che ti è stata costruita attorno. Non sei pronto per abbandonarla. Per quanto tu desideri avere delle risposte, inconsciamente le rifuggi. Tu hai paura della verità. ‘

Sento il gelo attanagliarmi le ossa. Che abbia ragione? Che il mio disperato bisogno d’inseguire la normalità, sia, invece, un modo per negare ciò che sono davvero? In effetti, ho sempre temuto il confronto. Sin da bambino, quando, timidamente, andai da Gast e gli chiesi informazioni sulla mia famiglia. Ricordo che le mani mi tremavano al pensiero di ciò che avrei scoperto sul conto dei miei genitori. Oggi, come allora, mille domande mi si agitavano nella mente, senza avere, però, l’ardire di esprimerle. Il Comandante ha ragione: io ho paura. Tantissima. Checché dica la gente, la prospettiva di scoprire che la tua vita poggi le sue fondamenta su mere menzogne spaventerebbe anche il più coraggioso degli uomini. E’ difficile staccarsi dalle piccole credenze che tengono insieme il proprio ego. Se ne esce spezzati, esattamente come il Comandante. Mi sono reso conto di vedere il mio futuro: un uomo distrutto e piegato da una verità troppo terribile per sopravviverci. Ne è uscito un individuo vuoto, confuso… perduto. L’unica certezza che gli rimane sono corvini versi impressi su carta irruvidita dal troppo sfogliare. Come una nenia martellante, quel suono frusciante è l’unico tassello in grado di legare fra loro i pezzi del suo cuore spezzato. LOVELESS è la sua fortezza, la sua Dea il suo faro. Mai come in quel momento ho avvertito una tale affinità con Genesis. Anch’io ho perso dei tasselli importanti del mio essere. L’unica cosa che mi tiene in piedi è la possibilità di rivedere la mia famiglia. Un pensiero che nel vuoto della notte è sempre in grado di tranquillizzarmi; almeno finché non mi rendo conto che sono proprio questi desideri ad incatenare la mia mente nella gabbia di bugie costruitami attorno. Un’altra fittizia, bellissima illusione. Capisco che non sono disposto ad andare fino in fondo per questo motivo. La prospettiva di perdere la mia famiglia è ben più terrificante di perdere me stesso. In fondo, che bisogno ho io di sapere chi o cosa sono? A loro importerebbe?

Ripenso a quella notte in cui capii di aver sposato una donna capace di apprezzarmi nonostante la mia natura bestiale e… No, a loro non importa, quindi perché dovrei affannarmi a perorare una causa che mi porterebbe a distruggere tutto ciò che amo? Se Genesis è stato in grado di uccidere la sua stessa famiglia e le gesta di Angeal hanno portato al suicidio di sua madre, posso solo immaginare cosa possa accadere a mia moglie e a mia figlia. Anzi non ci voglio nemmeno pensare.

A questo punto, mi chiedo: se davvero tengo così tanto alla mia famiglia, allora, perché marcisco qua dentro? Perché dormo su questa gelida scrivania? Perché non mando tutto al diavolo?

‘Perché tu sai, amico mio. Non sai bene cosa, ma ti rendi conto che qualcosa non torna. Strani dettagli, stracci d’informazioni, sogni… ‘

Rabbrividii e rabbrividisco tuttora di fronte a quella parola. Sogni. Genesis è sempre stato molto curioso sul contenuto di quegli stessi incubi che mi hanno accompagnato per tutta la vita. E’ un argomento di cui non parlo mai volentieri, nemmeno Evelyn è a conoscenza di tutti i dettagli di quelle visioni. Gli unici con cui ne abbia mai discusso a fondo sono stati proprio loro: Angeal e Genesis. A quest’ultimo, poi, interessavano particolarmente. Passavamo intere nottate a parlarne e il rosso trovava interessanti - almeno secondo lui- raffronti con LOVELESS, scatenandomi l’orticaria alla sola menzione. Non ho mai amato l’idea della predestinazione, del fato, del destino. Essendo cresciuto poi in un ambiente totalmente agnostico e pragmatico, certe idee prive di qualsivoglia fondamento scientifico erano assolutamente bandite. L’unica cosa a cui avrei dovuto credere erano fatti quantificabili e calcolabili. Anche se non è così semplice ignorare quelle immagini terrificanti. Quand’ero bambino non volevo mai addormentarmi, il pensiero di chiudere gli occhi e fronteggiare i mostri che vivevano nella mia testa mi terrorizzava più di qualsiasi altra cosa. Motivo per il quale Hojo m’imbottiva di calmanti e sonniferi, anche molto pesanti, talvolta, senza alcun riguardo per la mia età. L’importante è che dormissi, in un modo o nell’altro.

Ma cosa sono quelle visioni? Perché mi perseguitano? Ma, soprattutto, che cosa significano? Alcune sono scatenate da fatti ben precisi, altre si ripresentano di tanto in tanto senza alcun nesso. Che sia come dice Genesis? E’ il mio subconscio che tenta di suggerirmi le risposte ai miei quesiti? Secondo il banoriano, sì, è così e, con questo punto di vista, inizio ad analizzare con occhio critico certe incongruenze sulle mie origini. I miei sospetti si focalizzano soprattutto sui miei genitori. Il Professore mi rivelò che anche mia madre era una scienziata. Lei ed Hojo si conobbero all’università e si fidanzarono poco dopo la laurea, per poi sposarsi appena vennero assoldati dalla Shinra per un importante progetto scientifico. Da lì, a pochi anni, nacqui io. Agli occhi di una persona normale, o ingenua come lo fui quando questa storia mi venne raccontata, si direbbe un normale ed ovvio concatenamento di eventi: innamoramento, matrimonio e figli. La menzione ad “importante progetto scientifico” posta proprio lì, tra matrimonio e figli alla stregua di una lama, mi stringe il cuore in una morsa gelida. Chiunque scambierebbe quell’evento come un’innocente giustificazione, una logica conseguenza ad una forte stabilità economica tale da giustificare la decisione di sposarsi ed allargare la famiglia, ma io no. Non ho prove del contrario, però il mio istinto mi sembra suggerire una verità terribile e angosciante.

Se l’importante progetto scientifico si rivelerebbe essere proprio il Progetto G?

Hollander utilizzava feti umani per le sue ricerche e lui fu il primo a pubblicare un articolo sull’argomento. Un articolo in cui rivelava il successo di uno dei suoi esperimenti. E quel successo aveva un nome: Angeal. Tra me e il moro c’è solo qualche anno di differenza e ciò mi suggerisce due possibili motivazioni. Primo, chi si occupò del mio caso ebbe bisogno di più tempo per perfezionare le ricerche rivali, così da ottenere risultati migliori e, seconda e più inquietante ragione, mancava di materia prima, ossia il feto a cui donare la loro artificia maledizione.

Ora che ho dato sfogo ai miei sospetti, mi rendo conto che il quadro definito ha un’aria terribilmente realistica… Mi viene la nausea a pensare che i miei genitori… che mia madre possa davvero aver acconsentito a farmi questo. Quale madre potrebbe svendere il proprio figlio per un riconoscimento scientifico? Mi rifiuto di crederlo! Lei mi amava, il Professore me lo diceva sempre, e aspettava con ansia il giorno in cui mi avrebbe tenuto fra le sue braccia, in cui ci saremmo finalmente conosciuti, in cui saremmo diventati un’entità unica. Quale mero esperimento dovrebbe suscitare un tale amore agli occhi di uno scienziato? Conoscendo quel verme di Hojo, potrei quasi scommettere che l’abbia costretta a trasformarmi in una cavia per la sua folle visione di onnipotenza e godere nel vederla morire nel darmi alla luce. Un ostacolo in meno tra lui e la sua gloria. Poi, toccò a Gast, fino a che non diventai solo suo, il suo esperimento, il suo trofeo, la sua perfetta macchina di distruzione.

Quanto lo odio… mio padre. Quell’uomo mi ha sempre disgustato, ma alla luce di questi fatti, un odio atavico, una rabbia incontrollabile, un disprezzo viscerale nei confronti di quel mostro rachitico richiedono a gran voce il suo sangue. Sangue che speravo imbrattasse le pareti del suo antro degli orrori, a seguito dell’incontro con Genesis. Quando raggiunsi il laboratorio, lui era ancora lì a ridere istericamente senza apparente motivo. Come un pazzo. Lo fissai per un lungo istante, interdetto, mentre il suono stridulo e fastidioso delle sue risa mi trapanava il cervello, paralizzandomi sul posto. E’ assurdo che, dopo così tanti anni, quella risata è capace ancora di assoggettarmi alla paura. Lui mi guardò divertito e, appena notò il turbamento, egli mi rivolse un’espressione di scherno.

“ Ti vedo smarrito, ragazzo. Speravi che i tuoi amichetti fossero qui per me? Sei il solito, piccolo ingenuo. Quando aprirai gli occhi? Se ne sono andati, esattamente come Gast fece quando eri bambino. Nessuno vive troppo a lungo nella tua asfissiante ombra. Tranne me, perché ti ho creato! “

Precise, letali… velenose. Le parole di Hojo sono più pericolose perfino della Masamune stessa. Sfiancano, sfibrano e soffocano ogni sentimento e, contemporaneamente, instillano un senso totale di inadeguatezza. E senso di colpa. E’ colpa mia, lo so. Anche Hojo lo sa. Tutto il Pianeta lo sa. E’ impossibile non sentirmi sbagliato. Hojo è sempre stato così bravo ad annullarmi, a colpirmi nel peggiore dei modi. E quel ‘creato’ capace d’insinuarmi il disagio direttamente nelle ossa, dando corpo ai miei dubbi… Sono giorni che mi arrovello su quel dettaglio. Lui SA che sto facendo scoperte sempre più scomode, che ficco il naso dove non dovrei, che non vivo per scoprire quella verità la quale, lo so, sarà la mia rovina; ma sbattermelo in faccia in quel modo è puro sadismo. Perché? Perché una persona deve essere così crudele? Cosa ho fatto di così sbagliato per meritarmi un trattamento simile? E’ perché non gli ho mai obbedito? Perché mi ribellavo a quella realtà assurda? Perché non mi sono mai piegato alla sua incontestabile autorità? Eppure, eccomi, Generale dell’esercito più sanguinario del mondo, Eroe della ShinRa, Guerriero leggendario e Protettore dei Deboli. Titoli vuoti e fittizi, dentro cui Hojo mi ha rinchiuso, nonostante la stregua resistenza e le continue ribellioni. Lui ha ottenuto tutto ciò che desiderava da me. Perché ancora non mi dimostra almeno un briciolo di riconoscenza?

L’unica spiegazione che sembra soddisfare queste domande è, dopotutto, molto semplice: mi odia. Sono la causa della morte della donna che amava. Sempre se Hojo abbia mai provato qualcosa di diverso dal disprezzo e dall’arroganza. Forse è proprio per questo che è così crudele e distante con tutti: ha perduto uno dei legami più importanti che un uomo possa intrecciare ed è normale che, per proteggersi da ulteriore dolore, cerchi di non intrattenere nessun’altro rapporto, anzi avvelenarlo, ove necessario.

Nel tentativo d’immedesimarmi, una domanda sottile e agghiacciante s’insinua sottopelle: avrei odiato anch’io mia figlia? Sarei in grado anche solo d’ignorarla?

Sono uno sciocco. Come può venirmi in mente di paragonarmi ad Hojo? A paragonare una qualunque altra persona ad un mostro come lui?

Io non oserei mai alzare un solo dito su mia figlia, figurarsi impugnare una verga e percuoterla con essa; oppure costringerla alla solitudine forzata, o toglierle il diritto inalienabile dell’innocenza. Quello scienziatuncolo non è affatto meritevole del perdono di suo figlio. Sono sempre stato fin troppo indulgente con lui, risparmiandogli la giusta punizione per i suoi crimini. Crimini perpetrati ben prima della mia nascita, come la sua fremente attività scientifica dimostra. Ma ora basta! Non ho più intenzione di corrispondere le aspettative di un uomo per cui ho sacrificato tutta la mia vita per ricevere in cambio solo fango. Come se dovessi ringraziarlo per avermi venduto a una Compagnia di maniaci scellerati in cambio di gloria imperitura. A scapito dei desideri di mia madre. Sono più che certo che lei non mi avrebbe voluto questo per me. Mi avrebbe allevato amorevolmente e magari protetto contro la ShinRa, affinché potessi diventare una persona differente, priva della sete di sangue e violenza della Bestia e della superba arroganza dell’Eroe. Sarei stato solo il suo Bambino. Avrei conosciuto l’innocenza, la pace, la felicità sin dall’inizio. Grazie a lei avrei potuto avere molti amici, sarei stato benvoluto nonostante i miei strani tratti somatici, la mia spiccata intelligenza, la mia forza sovraumana. Lei avrebbe sopperito dove peccavo e mi avrebbe guidato verso la mia realizzazione.

Sono davvero uno sciocco… forse quello che sono riuscito ad ottenere ora, non lo devo solo a me stesso. Avverto il mio animo più leggero pensando che, in un qualche modo, mia madre sia sempre stata accanto a me ad ogni passo e mi abbia sussurrato le risposte ai miei dilemmi. Lei vive nel Lifestream, in fondo, non mi stupirei se la sua anima fosse qui anche in questo momento, consolandomi con questi pensieri. Quand’ero bambino capitava spesso che avvertissi una presenza accanto a me, soprattutto nei momenti più duri. Se mi concentravo appena mi sembrava quasi udire una voce gentile sussurrarmi dolci e amorevoli parole, eppure dannatamente sfuggevoli. Certe volte, nel tentativo di approfondire quell’arcano, riuscivo quasi a visualizzarla, alta e bellissima, con lunghi capelli fluenti, pelle diafana. Tanto fu il desiderio di abbracciarla che, una volta, percepii il suo calore sotto le mie dita. Per un attimo, un attimo minuscolo, credetti di averla ritrovata, di conoscere finalmente la mia origine, il luogo da cui provenivo. Avrei infine collegato una bocca a quel sorriso, una pelle a quel calore, degli occhi a quella luce, un viso a quella voce. Ci mancò così poco, ma la mia concentrazione venne a meno e il fantasma mi sfumò tra le braccia. Tentai più e più volte a ristabilire il contatto, però, per quanto m’impegnassi, non riuscii più ad avvertire nulla più che una flebilissima presenza. Ho tentato perfino a coinvolgere Aerith, quando scoprii la sua appartenenza alla stirpe degli Antichi, nella speranza che le sue straordinarie capacità d’intercessore potessero sopperire alle mia scarsa risonanza col Lifestream. Fallì. Disse che le anime non si possono chiamare a comando, ma si manifestano solo in casi di estremo bisogno. Non aveva senso, pensai: io ho sempre avuto bisogno di lei. La chiamai spesso a gran voce, la implorai di aiutarmi, di darmi un segno della sua presenza o del suo amore; ma, niente, solo silenzio. Credevo mi amasse, desiderasse coccolarmi, cullarmi, accarezzarmi, proteggermi. Perché mi ha abbandonato? Che quella volta fosse solo un’illusione creata in un momento di estremo dolore?

“Vivi nell’illusione, amico mio. La verità serbata nel mio cuore è troppo preziosa per essere impiantata in una mente sterile come la tua, o come quella di Angeal. Ho già commesso un errore con lui e non ho intenzione di ripeterlo. Ma non temere, amico mio, il tempo verrà e, finalmente, la tua lama potrà unirsi alla mia e, insieme, spiegheremo le ali verso un radioso futuro.”

Ali

Senza che me ne sia reso conto, le mie dita sono tornate a controllare lo stato della mia scapola destra. Le immagini del sogno mi colpiscono di nuovo come un pugno in pieno stomaco e una nascente ansia imperla il mio corpo di sudore. Inoltre, quei dubbi sulla mia origine prendono sempre più consistenza. L’idea che io sia stato creato nello stesso modo attecchisce come un cancro mortale nella mia mente. Devo trovare le prove, ma ormai ho scartabellato ogni fascicolo marchiato ‘Project G’ e l’archivio Shinra c’è veramente avaro d’informazioni. La maggior parte del materiale è andato perduto con l’attacco: con ogni probabilità Hollander avrà distrutto o trafugato i passaggi chiave delle sue ricerche. Buona parte, ma non tutte. Il tassello più inquietante è stato rinvenuti nel Reattore Mako 5, durante la retata alla ricerca di Genesis. Nelle celle di controllo del reattore era stato allestito un piccolo laboratorio, in cui erano conservate varie capsule di contenimento trafugate dal Reparto Scientifico qualche mese prima, in concomitanza della scomparsa del Comandante. Assieme ad esse, ho trovato numerosi rapporti su esperimenti di un processo chiamato “canale a due vie”. Purtroppo, le informazioni erano frammentarie e i fascicoli mancavano di importanti allegati, ma credo che contenessero dati approfonditi sulla ricerca di Hollander. Inoltre, ho ritrovato anche un rapporto recente, in cui lo scienziato affermava che il Comandante non presentava alcun segno di cambiamento e la sua approvazione alla ripresa del servizio. Falso. Genesis era cambiato profondamente e quegli abomini contenuti in quelle capsule ne erano la prova lampante: copie. Ciò significa che quei mostri aberranti uccisi con tanta veemenza, altro non erano che i SOLDIER e soldati di fanteria ribelli sottoposti al potere di Genesis. Abbiamo ucciso i nostri stessi confratelli… e non solo, probabilmente, anche gli abitanti di Banora. Civili innocenti costretti a prendere parte ai vaneggiamenti di un pazzo. Magari c’erano anche dei bambini fra di loro… Mi si gela il sangue al solo pensiero.

‘Canale a due vie’… E’ dunque questo il potere dei SOLDIER di tipo G? Tramutare le persone in mostruose copie di sé? Un potere invidiabile, poiché permette di creare un esercito di super-soldati completamente assoggettati alla volontà del Comandante in poco tempo, ma… a che prezzo! I tratti genetici vengono altresì copiati, però una minima parte viene persa nel processo, aggravando sempre più la degradazione. Davvero Genesis è disposto a morire per perorare questa causa? Era disposto a tutto per difendere Hollander, in quanto, a sua detta, è l’unico in grado di arrestare il processo che sta portando il rosso verso l’inesorabile fine. Sebbene non lo abbia dato a vedere, Genesis teme la morte. Lo conosco abbastanza da affermare che lui non è così disposto al sacrificio come me od Angeal. Lui è un uomo attaccato alla vita, oltre che avere una missione da compiere; ossia trovare questo fantomatico Dono della Dea. Ha tanto da perdere, mentre Hollander… non sono l’unico ad avere dei conti in sospeso con Hojo, ho scoperto. I due scienziati erano in lizza per il posto di Direttore del Reparto Scientifico, ma mio padre è risultato vincitore. Ciò relegò l’uomo al ruolo di eterno secondo. I suoi risultati erano comunque di fattura invidiabile, tanto di permettergli un impiego abbastanza importante all’interno della Compagnia, ma per lui non era abbastanza. Mi sovviene un episodio a cui assistetti casualmente molto tempo fa. Era il periodo in cui alla Shinra fervevano i preparativi per la guerra in Wutai e le mie giornate erano così piene e stressanti che presi l’abitudine di andare a sfogare tutto il nervosismo accumulato durante gli orari lavorativi nella Sala Addestramenti. Di solito, aspettavo che tutti fossero usciti, anche se, spesso dei campanelli di giovani SOLDIER mi raggiungevano poco dopo l’inizio del combattimento. A me non importava più di tanto avere un pubblico; anzi ne ero onorato, dal momento che forse avrebbero potuto imparare qualcosa di utile in vista della guerra. Una sera, però, al posto delle solite reclute, trovai uno scienziato. Curioso, dal momento che era proibito a chiunque del Reparto Scientifico presenziare ai miei allenamenti senza la supervisione di Hojo. La possibilità che fosse uno novizio venne subito sventata dal fatto che l’uomo si muoveva con troppa disinvoltura trai comandi del terminale di controllo, il quale richiedeva almeno un mese di studio per comprenderne solo il funzionamento di base. Inoltre, non poteva essere un ammiratore, poiché più interessato ai dati che scorrevano sullo schermo anziché alla mia persona. Feci per dire qualcosa che l’uomo batté un pugno sul terminale con stizza, lasciandomi interdetto. Poi, egli si rivolse a me, scoccandomi uno sguardo pieno di astio e invidia.

“Tu saresti dovuto essere mio! La tua gloria sarebbe dovuta essere mia!”

Il suo sibilo velenoso mi inquietò, ma, più di tutto, le sue parole mi strapparono il fiato direttamente dai polmoni. Sono un oggetto, un burattino, una… una… COSA! Una cosa da possedere e con cui accrescere la propria supremazia. Ciò che più mi ferì fu il fatto che non solo Hojo mi considerava in quel modo, ma anche altre persone. Fu in quel momento che capii che dietro a tutta quell’ammirazione, adorazione, fanatismo vi era invidia. Velenosa e corrosiva invidia. Tutti quei SOLDIER non venivano per vedere me, ma la mia disfatta. Speravano che quell’aggiornamento sfornato dal Reparto Scientifico e contro cui tutti fallivano o quel nuovo prototipo di macchina potesse umiliarmi e mostrare al mondo quanto la mia fama fosse immeritata e quanti inadeguato fossi al titolo di Generale. Quell’uomo, quello scienziatuncolo, Hollander corruppe il piacere di essere un modello per gli altri, l’idea benevola di essere in un qualche modo utile al mio prossimo, il pensiero che tutti i miei sacrifici possano aver aiutato gli altri. Tutti gli sforzi compiuti per trovare il mio equilibrio dopo due anni passati sul filo della furia vennero vanificati in due frasi.

E ora, come allora, con quegli stessi concetti Hollander ha costruito la sua vendetta. Lo capii appena Genesis ripeté le stesse parole che lo scienziato usò al tempo. Quell’uomo senza spina dorsale si è approfittato della disperazione di un ragazzo. Si è presentato di fronte ai suoi occhi come un Messia, colui che lo avrebbe salvato da una ignobile e dolorosa morte. Inoltre, per assicurarsi che il suo prezioso burattino si piegasse al suo volere, egli rivelò quella verità che ha corrotto il Comandante fino al midollo, conducendolo alla folle decisione di aizzarsi contro il mondo. Ma non poteva farlo da solo, affinché il suo piano avesse successo, entrambi i giocattoli dovevano tornare a lui. Non sarebbe stato difficile, a causa della forte amicizia che li accumunava. Perfino un legame così puro non ha avuto scampo di fronte ai velenosi fili di quel ragno malefico. Dovrei essere grato alla mia tendenza di scappare dai problemi appena essi si presentano, ma rimanere solo dopo aver conosciuto l’amicizia non è piacevole. Anche se, dentro di me, ho sempre avuto il sentore che una situazione del genere sarebbe capitata prima o dopo. E’ stato dimostrato più volte che la nostra amicizia era costruita su piani differenti. Capitava spesso che sia Angeal che Genesis mi tagliassero fuori dalle loro conversazioni, rievocando vecchi ricordi o ridendo di un gesto o una situazione di cui mi sfuggiva l’ironia. La loro intesa era il risultato di anni e anni di vicinanza e conoscenza reciproca, nulla di tutto questo intercorreva tra me e i due banoriani. Certo il loro affetto nei miei confronti era sincero, ma le differenze erano spesso troppo palesi. Non pretendevo di certo di inserirmi prepotentemente nella loro salda amicizia, però avrei preferito che non mi considerassero poco più di un “nuovo arrivato”, soprattutto dopo un intero anno passato a combattere gomito a gomito nei posti più ostili del Pianeta. Ero certo, tuttavia, che la situazione sarebbe cambiata col tempo. Sempre il solito ottimista, Sephiroth…

Ora, il rapporto legato con i due banoriani si è mostrato in tutta la sua inadeguatezza. Ciò che credevo aver intessuto in questo periodo non si è altri rivelato che aria fritta, una miserabile illusione di un cuore solitario. MI hanno lasciato indietro con una facilità disarmante, come se fosse l’azione più naturale del mondo. Come se fosse ovvio. Ho sottovalutato tantissimo la portata del gap tra i due livelli, accorgendomi di essere poco più di un conoscente per loro. Mi domando chi siano ora quegli uomini alati che si ostinano a chiamarmi ‘amico’, a spingermi suadentemente a ribellarmi a questo sistema corrotto, ad aizzarmi rabbiosamente contro un Pianeta ingiusto, a costringermi deliberatamente a dar loro la caccia…

Per quanto mi senta tradito, non riesco ad odiarli o, quanto meno, disprezzarli. Sono due delle poche persone che abbia mai rispettato e ritengo non meritino il trattamento che la Compagnia sta riservando nei loro confronti. Cancellazione. I loro nomi infangati, il loro onore macchiato, le loro persone ricercate, come fossero bestie rabbiose, senza coscienza, senza volontà. Sono stati plagiati dall’annebbiata visione di un pazzo, il quale li ha relegati al miserabile stadio di strumenti. Due grandi guerrieri distrutti dall’errore di uno solo.

E’ così la storia, no? I tre amici vanno in battaglia, ma solo uno ritorna e diventa un eroe. Che ironia... Proprio io. Proprio io che non ho mai avuto un ideale, un motivo, una ragione per cui combattere divento il baluardo ultimo contro l’imminente ‘Guerra delle Bestie’. Il muro dietro cui la Shinra si nasconde, usando la mia fama inattaccabile per lavarsi una coscienza più lurida delle fogne dei Bassifondi. Quei maiali dei piani alti non hanno nemmeno il coraggio di pronunciare quei nomi, proprio perché ne vogliono cancellare anche solo il ricordo, dimodoché facilitare alle ignare reclute l’ingrato compito di ucciderli a vista.

Alla fine, Genesis aveva ragione.

 

My friend, the fates are cruel

There are no dreams, no honor remains

The arrow has left the bow of the goddess

My soul, corrupted by vengeance

Hath endured torment, to find the end of the journey

In my own salvation

And your eternal slumber

[Amico mio, le parche sono crudeli. Non ci sono più sogni, non c’è più onore. L’arco ha lasciato l’arco della Dea - La mia anima corrotta dalla vendetta ha sopportato il tormento per trovare le fine del viaggio nella mia stessa salvezza e nel tuo sonno eterno. LOVELESS, Atto IV]

 

Buona spaventosa(?) sera a tutti!!!!! Come state carissime/i? Comincio ad entrare nel clima halloweeniano (?!) anche perché penso che vi sia venuto un colpo vedendo un mio aggiornamento, così tra capo e collo random. Dolcetto o scherzetto XD! Come da copione, mi scuso terribilmente per l’attesa, ma è stata più dura del previsto. Soprattutto la parte di Sephiroth. Voi non avete assolutamente idea di quanto abbia faticato a scriverla! Credevo fosse facile questa parte in cui i due SOLDIER finalmente s’incontrano, ma mi sono resa conto che trovare significati nascosti e retroscena a quella… ehm… scena, appunto, è stata una faticaccia. Ho dovuto spremere ogni singola goccia della mia creatività per inventarmi dei dialoghi verosimili (perché quelli originali, oltre a non avere molto senso, non lasciano molto spazio all’immaginazione -.-‘ ). E poi, via ad inventarsi altre supposizioni e teorie che tolgono il sonno al nostro bel (:E) platinato. Io spero di non essere ripetitiva, perché ho la memoria di un pesce rosso e ciò che scrivo è dovuto all’ispirazione del momento, quindi non saprei nemmeno dove andare a ricercare i tratti incriminati. Non abbiatene, giuro che non lo faccio apposta. Con Seph infatti devo sempre andare con i piedi di piombo, perché dopo aver trattato l’argomento principale che, a causa dei problemi elencati prima, per arrivare al giusto numero di pagine devo allungare la solfa per un bel po’ e lì si rischiano le ripetizioni e deviazioni dal tema. Mettiamo anche sempre voglia O di scrivere, quindi viene da sé che ci abbia messo una vita. E mi scuso. Di tutto. Il fatto è che sono ormai proiettata verso la fine di questa storia, di cui cambio finale ogni santa volta che ci penso -.-‘ (va a finire che ci lascia a metà ndSeph; Che?! Io sono su un’aeronave e tra poco vomito *burp* ndCloud, Poveri noi -.-‘ ndVince). Mi scuso tantissimo per le fan di Vince che mi seguono se questo giro non è molto presente, ma avevo voglia di far tornare la nostra cara Evelyn e concentrarmi sulla mente malata del n(v)ostro biondo preferito. Quella su Cloud è una parte un po’ onirica e strana che mi ha portato via un sacco di tempo, perché l’ho riscritto tipo 20 milioni di volte. Sono riuscita a metterci tutto quello che volevo e a me personalmente piace un sacco, spero che anche voi la apprezziate.

Paradossalmente, mi diverto più a scrivere di Cloud che di Seph -.-‘ ciò non va bene!!!! Dovrò rimediare.

Coooooomunque, complice uno schemino da fare invidia agli ingeGNeri della NASA, ho capito che ci stiamo avvicinando alla fine di sta benedetta storia. Ho calcolato che tra 7 capitoli la nostra avventura finisce! Da un lato sono triste, perché questa è la storia che mi ha consacrato come scrittrice ufficiale qui su EFP, ma da un lato sono anche felice così finalmente potrò cimentarmi in altri progetti, sempre tema FFVII e cmq ispirati a questa storia.

Va bene, siori, io smetto di vaneggiare e spero passiate un buon Halloween!!!

Alla prossima!

Besos

 

 

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Capitolo 25
*** Assalto ***


25. Assalto

Un figura estranea si staglia sulla porta del rifugio. Il luogo dove avevate deciso di crescere i vostri figli.

Il tuo primo istinto è proteggerli a qualunque costo. Il secondo è una realizzazione che ti aveva spesso accarezzato, ma hai sempre sperato di sbagliarti: il vostro riparo non è più tale. Ogni madre ritiene che i propri figli siano speciali, ma loro non lo sono solo per te. Quella società malata vuole la tua primogenita, il tuo prezioso tesoro. La creatura per cui tu hai tanto lottato, la quale ti ha dato così tante gioie e soddisfazioni; colei che ti ha reso completa. Lei è un miracolo, in tutti i sensi. E’ una splendida fusione nata dall’amore di due specie in pieno conflitto.

La pace è possibile, lei ne è la prova. Ma gli umani sono accecati dalla visione del potere e sordi alle leggi della Natura. Lo sono sempre stati…

Sono la rovina di questo Pianeta.

Il nemico comune.

 

 

Un dolore tagliente si dipana dall’addome a tutto il corpo, mozzandomi il fiato. Avverto il sapore dei succhi gastrici risalirmi dallo stomaco, incapace di trattenerli. Vomito un liquido vischioso e nauseabondo che mi brucia e raschia la gola, rinsecchita dal caldo asfissiante delle lande di Corel; il quale è in netto contrasto con la condizione del mio corpo. Ho i brividi, tremolii incontrollati scuotono tutte le mie membra, impendendo perfino di mantenere la postura eretta. Mi accascio contro il muro e pian piano raggiungo il pavimento, addossandomi contro la parete con tutta la schiena. Fissando il nulla, mi concentro a riprendere fiato, prendendo grandi boccate d’aria, ma è un’operazione che risulta dannatamente difficile a causa del pesante peso che grava sul petto. Tossisco con forza, perdendo ancora più energie. Nemmeno i muscoli della schiena riescono più a mantenermi eretto e per poco non mi sdraio definitivamente a terra. A impedire ciò, c’è Vincent, il quale risolleva il busto e mi sostiene per tutto il tempo della crisi. Da quando siamo sbarcati sulla costa nord-occidentale del continente e ci siamo messi in viaggio verso Rocket Town, le mie condizioni sono peggiorate a vista d’occhio.

- Ancora quel sogno? –

Quel briciolo di coscienza che mi rimane lo focalizzo tutto sul viso del mio compagno di viaggio e annuisco. L’espressione del pistolero si adombra per un attimo solo, per poi ritornare alla sua condizione originale d’impassibilità.

- Si sta facendo più forte. –

La costatazione di Vincent non mi lascia stupito. Il risentimento e l’ira di quella donna crescono di pari passo con l’angoscia del Generale. E dalla vicinanza con Takara. Se la visione è esatta, ormai manca poco al fatidico incontro. E al suo destino. Certo che, per come mi stanno riducendo i suoi genitori, non vedo come io possa rappresentare una minaccia alla sua vita, sebbene sia solo una ragazzina. Un’altra scossa di dolore mi percuote le membra appena formulo questo pensiero. Inveisco a denti stretti.

Quella donna è una scheggia impazzita, capisco perché il Pianeta ha fatto di tutto per relegarla nell’Oblio. Tuttavia, lei è stata più furba. Approfittando dei suoi poteri di Sephera ha permesso a una buona metà della sua anima di legarsi al diario dell’uomo che ha amato. Il problema è che quella che si trova qui dentro è la parte più pericolosa, la parte che brama vendetta contro coloro che hanno attentato alla sua vita e a quella dei suoi figli, la parte che desidera il sangue di coloro che hanno condotto il suo uomo alla follia. La parte jenoviana di Evelyn. E ora lei mi tormenta con le immagini della sua morte, facendomi sentire TUTTO. Il senso di smarrimento di fronte a morte certa; la paura raggelante per il pericolo corso dai suoi figli; il senso istintivo di protezione delle loro piccole vite; l’atto disperato di una madre; la sensazione gelida di una spada che trapassa la carne da parte a parte e, forse, la peggiore di tutte, la realizzazione di aver fallito. Uno dei figli è morto senza mai nemmeno aver assaporato la vita, mentre l’altra… è rimasta sola, su un Pianeta che la disprezza per le sue origini nefaste in compagnia di un popolo che la vuole sfruttare per il suo gigantesco potere.

Forse LUI aveva ragione… Non avrei mai dovuto… essere così egoista.

Chiudo gli occhi e sospiro, mentre quelle parole mi colpiscono con la forza di un maglio. Questa constatazione lapidaria ferisce. Avverto il dolore derivato da questa terribile realizzazione.

- Non dire così… –

- Non dire cosa? –

- Come? –

- Hai detto ‘non dire così’. A cosa ti riferivi? –

Lascio scappare uno sbuffo divertito e scuoto la testa.

- Non parlavo con te, Vincent. –

Il pistolero grugnisce, nel frattempo egli si posiziona al mio fianco e mi afferra un braccio e se lo lega attorno al collo, mentre l’altro circonda la mia vita.

- Comincio a stancarmi di essere il terzo incomodo. Soprattutto se contiamo che siamo soltanto in due. –

Mentre pronuncia questa frase, un sorriso sincero appare sul mio volto stanco, mentre egli mi solleva in piedi e inizia ad incamminarsi giù per la via, alla ricerca di un posto dove io possa recuperare le energie.

 

North Corel è molto cambiata dall’ultima volta che la visitai. Ricordo chiaramente l’odore: sapeva di disperazione e tradimento. Questa gente aveva creduto alla falsa promessa di prosperità e di una vita agiata sulla luce di una nuova era per l’energia, sciorinata migliaia di volte da quella Compagnia succhia-anime. La gente aveva creduto a questa prospettiva. Esper, perfino Barret era stato abbagliato dalle infinite possibilità dei reattori mako. Così evidente che la ShinRa pensò bene d’insabbiare le proprie scoperte e riportarle in patria. L’idea di condividere quelle potenzialità non abbandonò mai la Compagnia, ma forse ‘condivisione’ non è proprio il termine più adatto. Con la presunzione di aver imbrigliato la potenza stessa del Pianeta in macchine e uomini –come se non fossero la stessa cosa-, la famiglia Shinra costrinse-un termine ben più adatto- il mondo ad inginocchiarsi a loro ed accettare la loro netta supremazia. Corel fu il primo continente a finire sotto il maglio dei SOLDIER. La terra su cui un giovane dai capelli argentei impresse la tua prima insanguinata impronta.

Lo ricordi, vero?

 

Questo continente ha tirato fuori il peggio di me.

 

Ingoio l’insinuazione, cercando di arginare l’ira nascente dalle viscere, e alzo lo sguardo verso le montagne a sud-ovest, al di là delle quali si trova Nibelheim.

 

Fair da Gongaga, te ed io da Nibelheim. Questa terra sembra sfornare valenti eroi.

 

Tu non sei un eroe…

 

Curioso, ho sempre creduto che tu mi ritenessi tale fino a qualche anno fa. Non che m’interessi, comunque. Ho vissuto troppo a lungo per continuare ad essere un eroe.

 

Avevi solo ventisette anni quando sei morto la prima volta. Ti sembrano troppi?

 

Per la vita che ho vissuto? Un’eternità.

 

E la tua famiglia? Anche quella è stata un patimento?

 

E’ stata una parentesi. Una bellissima parentesi, troppo breve per lavare via tutto il marcio di una vita da “eroe”.

 

Anch’io l’ho vissuta, eppure sono ancora da questa parte.

Non ti illudere, Cloud. Quanti anni hai ora?

 

Posso immaginare il suo ghigno mefistofelico brillare nell’oscurità della mia mente, mentre la sua tagliente domanda mi annoda lo stomaco. Improvvisamente, un suono incrinato seguito da uno tintinnante attrae la mia attenzione. Rimango a lungo a fissare il sangue sgorgare dalle fenditure del mio pugno. Percepisco ogni singolo, minuscolo frammento di vetro penetrare nella carne e, più stringo, più loro entrano in profondità. Il dolore, tuttavia, sembra alimentare una terrificante frenesia sanguinaria, impedendomi di lasciare la presa. La mia fantasia soppianta quel vetro con schegge di osso e il latte con la vischiosità del tessuto cerebrale e del sangue. Vedo la testa di Sephiroth, squagliarsi, priva d’integrità, implosa su se stessa a causa della pressione impressa dal fervente desiderio di eliminare quel ghigno dalla faccia del Pianeta. Eppure, quel sorriso mellifluo è ancora lì, sempre più largo, sempre più divertito. Per quanto possa stringere, ormai non c’è più nulla da maciullare. Avverto un fuoco d’iraconda frustrazione esplodere in ogni parte di me, mentre una risata sommessa e vuota, priva di qualsivoglia felicità, riecheggia nella mia mente.

 

Sei sulla buona strada, Cloud.

 

Un ringhio di disperazione irrompe dalle mie labbra e sciolgo il pugno, portando le mani ai capelli. Le dita insanguinate s’infilano tra le ciocche che l’abbattimento mi suggerisce di strappare, ma non ne ho la forza. Cado in avanti e i gomiti vengono intercettati dalle mie gambe, impedendomi di crollare a terra. Vorrei piangere. Piangere fino a perdere il fiato, ma tutto quello che riesco a fare è concentrarmi sul mio respiro, al fine di provare ad ignorare la martellante pulsazione della mia testa. Improvvisamente, l’idea di morire così giovane non è poi così male.

- Odio essere te. –

La confusione scompare, svanendo lentamente come nebbia spazzata da una brezza dolce e leggera, lasciando spazio ad una mesta quiete, alleviando per un attimo le sofferenze. Per quanto la mia mente lo rifiuti, non posso fare a meno di rendermi conto della terribile realtà: io e lui SIAMO simili. Molti altri hanno letto quel diario, ma l’unico ad aver scatenato un tale putiferio sono stato io.

Alzo lo sguardo e vedo la figura diafana del Generale alta di fronte a me. La sua espressione è neutra, ma i suoi occhi, come sempre, parlano per lui. V’è pena, ma non verso di me, ma verso se stesso. Capisce cosa sto passando, perché lo ha provato lui molto tempo prima. Vedo senso di colpa, non ha mai voluto che quel fardello passasse ad altri. Sperava che, consegnandosi, al Pianeta sarebbe bastato.

 

Perdonami.

 

L’espressione neutra si distorce, rivelando il viso affranto e pieno di vergogna nascosto dietro quella maschera. Sgrano gli occhi, incredulo. Lui, l’infallibile Sephiroth, chiede il perdono.

 

On your knees. I want you to beg for forgiveness.

[In ginocchio. Implorami di perdonarti. Sephiroth, FFVII:ACC]

 

 

Vincent sbuffa, infastidito, mentre toglie le schegge di vetro dal palmo. Impresa ardua, dal momento che alcune si sono conficcate così in profondità da risultare difficilmente raggiungibili perfino dai sottili bracci della pinzetta del pronto soccorso.

- Sembri contrariato, Vince. –

Egli mi scocca un’occhiata di fuoco delle sue, per poi rivolgere l’attenzione sul lavoro certosino che sta eseguendo. Come risposta, mi pinza la carne viva della ferita, strappandomi un verso sofferente.

- Non storpiarmi il nome, Cloud Strife, o te le toglierai da solo queste dannate schegge. –

In questi giorni, Vincent è diventato duro e distaccato, sempre sul chi va là, come una bestia in trappola. Non apprezza l’idea di fermarci troppo a lungo in un posto; perfino sostare in questa bettola da quattro soldi nella periferia più affollata di North Corel, o, di come la chiamano adesso, New Old Corel, è costato un enorme sacrificio all’ex-Turk. Se non fosse per le condizioni pessime in cui sono crollato appena messo piede su questo continente, probabilmente ora saremmo già in viaggio verso la nostra meta. Non saprei dire se questa fretta sia dettata dal desiderio d’incontrare sua nipote il prima possibile o sia dovuta alla possibilità di avere qualche minaccia alle calcagna. Qualunque sia la ragione, Vincent soffre sempre meno la mia estraniazione dal mondo reale; il quale mi rende imprevedibile e instabile, oltre che un pericolo per me stesso e gli altri, come fin troppe volte è accaduto. Questa riflessione mi fa aggiungere un’altra possibile spiegazione allo strano comportamento di Vincent: è preoccupato delle conseguenze di ciò che mi sta succedendo.

- Andrà tutto bene, Vincent. –

Il pistolero interrompe il suo lavoro da chirurgo improvvisato e pianta i suoi occhi sanguigni nei miei. Impercettibili rughe si formano attorno ai lati della bocca, mentre la mandibola si serra. Il sangue di quell’iride s’illumina per un pericoloso secondo.

- Mi prendi in giro?!-

Il tono di Vincent rivela che è fuori di sé. Temo di aver toccato un pericoloso tasto nell’ autocontrollo del moro. Perché? In fondo, volevo solo rassicurarlo. Egli si alza di scatto, scagliando le pinzette dall’altro lato della stanza, per poi voltarsi verso di me. Il suo sguardo è incandescente, le narici allargate e i denti svelati. Per un attimo, temo che Chaos possa avere la meglio sullo stanco Vincent, mettendo fine alla mia vita. Noto con orrore che questa prospettiva non mi spaventa più di tanto. Qualunque cosa per finire con questa sofferenza.

- No. Io… -

- Come può andare tutto bene se ogni volta che leggi quel dannato libro sei ridotto peggio di prima? Che succederà quando non sarai in grado nemmeno di stare in piedi, eh, Cloud? Dimmi anche come ti difenderai quando quelli che ci braccano ci avranno raggiunto. Avanti, illuminami! –

L’artiglio dorato della sua mano sinistra viene puntato verso di me, in un atto accusatorio. Anche se io rassomiglio l’azione più che un avvertimento del predatore alla sua preda.

- Braccano? -

- Oppure, come pensi di fare quando la bomba dentro la tua testa malata esploderà? Cosa mi dovrei aspettare? Mi devo aspettare che tiri le cuoia o che… o che… -

- O che impazzisca come tuo figlio? –

A quelle parole, lo sfogo di Vincent subisce un repentino arresto, come se una cascata gelata avesse spento l’incendio che lo dominava. In un primo momento, infatti, nei suoi modi e nel suo sguardo vedo smarrimento e senso di colpa; ma l’attimo successivo, si erge in tutta la sua altezza, i pugni si stringono così forte da avvertire lo scricchiolio delle ossa, gli occhi sanguigni riversano uno sguardo così rabbioso e addolorato che potrebbe incenerirmi sul posto seduta stante. E per un attimo… lo credo. Il silenzio s’interpone tra noi per terribili, interminabili secondi di tensione. Secondi in cui io prego il Pianeta di venire fagocitato per la mia boccaccia insolente. Vincent si sta facendo in quattro per me e io lo ripago sputandogli in faccia le sue colpe.

Che razza di amico sono?

A quel punto, distolgo gli occhi dai suoi e abbasso la testa.

- Scusa. Non volevo. -

Avverto il respiro affannoso del pistolero, scemare d’intensità, fino a regolarizzarsi. Gli rivolgo uno sguardo in tralice e lo vedo prendere un profondo respiro, ad occhi chiusi, e, quando questi vengono riaperti, la calma alberga di nuovo in lui. Il suo portamento, tuttavia, rimane fermo nelle sue posizioni, ma comunque con un’inflessione più rassicurante e aperta. Senza dire una parola, ritorna alla sedia, scoprendo che si era rovesciata nel momento in cui la sua iraconda ascesa era iniziata. Si siede comodamente, appoggiando la schiena alla parte alta dello schienale, le gambe distese, le braccia adagiate sui braccioli, le mani lasciate a penzolare nel nulla. Svuotato. Lo osservo dalla mia posizione leggermente dismessa. Studio il suo sguardo perso nel vuoto, le occhiaie attorno alle orbite, la pelle pallidissima con nuove impercettibili rughe attorno al naso e ai lati della bocca. Sembra improvvisamente invecchiato, come se ciò che sta affrontando adesso gli stia risucchiando la vita dal corpo.

 

Le vite hanno un caro prezzo. Sia che le abbandoniamo, sia che le salviamo, prima o poi il Pianeta richiederà il conto. E più vite avrai toccato, nel bene o nel male, più esso sarà salato.

Questo è essere eroi.

 

Annuisco automaticamente alle parole sussurrate da Sephiroth. Sono talmente assorto che non mi rendo conto che Vincent ha ricominciato a puntarmi. Il suo sbuffo divertito, infatti, mi coglie impreparato.

- Sembriamo due vecchi pazzi. Stanchi e imbruttiti da una vita di cui desideriamo solo vederne la fine il prima possibile. –

Un lato della bocca si alza e faccio spallucce, adagiandomi anch’io sullo schienale.

- Il vecchio sarai poi tu. Io sono solo pazzo. Non so cosa sia peggio, comunque. –

Vincent rimane in silenzio per un lungo momento, osservando un punto imprecisato nella stanza. In effetti, a dei pazzi ci assomigliamo, constato alla fine.

- Suppongo di aver vinto, allora. –

Gli rivolgo uno sguardo interrogativo.

- Che intendi? –

- Oggi sono sessantatré anni di vita da eroe. Parecchi, no? –

Corrugo le sopracciglia in un primo momento di confusione, poi realizzo e i miei occhi si spalancano, quasi come ad uscirmi dalle orbite. Boccheggio, cecando di uscire dalla mia interdizione, ma due motivi me lo impediscono. Uno: Vincent Valentine ha seriamente, spontaneamente rivelato qualcosa su di lui per la seconda volta da quando lo conosco? Due: come fa a sapere di quel discorso tra me e Sephiroth? Non era tutto nella mia testa?

Di fronte al mio sbalordimento e alla mia faccia da ebete, l’ex-Turk si apre in un sorriso furbo.

- Uno: sì, è accaduto davvero. Sono tanti anni che nessuno mi fa gli auguri e, siccome questo potrebbe essere l’ultimo compleanno che vedrò, perché non rivelarlo? –

Egli raddrizza la schiena e si sistema meglio sulla sedia, incrociando le dita e voltando il busto nella mia direzione, gomito destro appoggiato sul bracciolo. Mi fissa e mi accorgo- senza tralasciare il brivido che mi attraversa la schiena da sotto a sopra- che con quell’espressione divertita stampata in faccia assomiglia terribilmente a Sephiroth.

- Io vi sento, Cloud. Credi davvero che Sephiroth non abbia tentato un contatto con me, appena scoperto chi sono? –

 

Cloud non è mai stato un ragazzo molto sveglio, padre.

 

- Ha semplicemente bisogno dei suoi tempi. Non tutti hanno la mente arguta come la nostra. Cerca di essere più indulgente. –

Ogni scontro verbale avuto con Sephiroth l’ho sempre e inevitabilmente perso. Lui orchestra magistralmente la conversazione, esponendo argomentazioni inattaccabili, rivoltando l’interlocutore come un calzino bucato. Come conversa, egli così combatte. Fortunatamente, non sono così lento anche con la spada; anche se, in ogni caso, la soddisfazione di una vittoria piena quel bastardo figlio di Jenova non me l’hai mai data, proprio a causa della sua dannata boccaccia.

Ma Vincent… Vincent con una frase l’ha zittito. Non ha urlato, non ha fatto la voce grossa, non l’ha minacciato. L’ha… rimproverato, semplicemente, come una padre farebbe con il figlio, con pacatezza e fermezza.

Dopo qualche secondo di silenzio, durante i quali la mia analisi prende piede, Vincent disimpegna la mano artigliata dall’altra e dirige gli artigli metallici verso il mio mento. Con un buffetto alla mascella, ormai finita a terra, m’induce a chiudere la bocca.

- E tu chiudi quella bocca, Cloud. Sei ridicolo. –

Dopodiché, il moro, ruota la sedia, avvicinandosi, mi afferra la mano ancora ferita e ricomincia il lavoro lasciato a metà, recuperando una pinza sterilizzata dalla cassetta del pronto soccorso. Il tutto sotto il mio sguardo sbigottito.

Dopo qualche minuto di silenzio, durante i quali l’unico rumore era il tintinnio dei frammenti di vetro che cado l’uno sull’altro all’interno di un altro bicchiere, intervallato da qualche mio grugnito; chiedo:

- Da quanto tempo è che lo senti? –

Vincent non distoglie lo sguardo da ciò che sta facendo, ma un guizzo dispiaciuto deforma per un considerevole momento il suo viso.

- Da qualche tempo. Non so bene quando, ma ho iniziato a sentire delle voci nella testa. Subito erano bisbigliate e incomprensibili, ma dopo poco, divennero più chiare e distinte. A quel punto, capii che eravate voi. -

Si ferma un attimo e si stropiccia l’occhio destro con il dorso della mano, sospirando pesantemente.

- Spesso noto che voi state parlando, la tua faccia assente lo testimonia. Tendo l’orecchio, ma non sento nulla. Perché? C’è qualcosa che volete nascondermi? –

Sgrano gli occhi e le labbra si dischiudono, sorpreso da quelle domande, le quali spiegano il suo nervosismo e il comportamento guardingo di questo periodo. Boccheggio, arrancando una risposta plausibile e mi ritrovo desiderare una mente svelta come quella del mio nemico.

-Ecco… insomma, n-no. Che dovremmo nasconderti? Che vai a pensare, Vincent? –

Di tutta risposta, il pistolero alza il sopracciglio. Una sola azione per vanificare le mie scuse. Vorrei scomparire.

 

Vi prego, perdonate l’idiozia di Cloud, padre. Tuttavia, sì, devo confermare i vostri sospetti. L’atto finale di una guerra va combattuta e, sebbene non ve ne abbia mai dato ragione, v’imploro: fidatemi di me.

 

Per la prima volta nella mia vita, sono grato di aver sentito la voce del Generale. L’ex-Turk ascolta assorto le parole reverenziali del figlio e noto come la supplica finale smuova qualcosa nell’espressione del pistolero, come una fatale scoccata dritta al cuore. Mentre il moro pondera quelle parole, la mia parte meschina e diffidente non può fare a meno di giudicare quelle accorate frasi come una magistrale manipolazione di un abile burattinaio. Può anche essere figlio naturale di Vincent, ma è Hojo che l’ha cresciuto e forgiato. Lo scienziato può non aver intaccato la parte più fragile del Generale, il quale è riuscito a mantenere i suoi ideali intatti fino al giorno in cui la follia non distrusse ogni singola parte di lui; ma la fortezza di fili dentro cui l’ha nascosta è stata creata ad immagine e somiglianza del vecchio. Anche se, a detta dello stesso SOLDIER, lo scienziato aveva un talento particolare a distruggerla in minuscoli pezzettini ad ogni loro incontro. Contro di lui, Sephiroth non aveva alcuno scampo. Esattamente come l’ex-Turk. Forse ho sopravvalutato Vincent. E’ un avversario più manipolabile di quanto credessi. Abbagliato da quella che ho ritenuto una resa senza condizioni, non ho notato che quel silenzio sarebbe potuto essere una semplice ritirata strategica, come preludio all’attacco definitivo. Vincent è come il figlio, in fondo. La corazza è apparentemente impenetrabile, ma basta usare le leve giuste per scardinare le porte principali. Queste leve sono i sentimenti. Loro ne sono fatalmente succubi. Sensazioni come pietà, sensi di colpa, speranza e, la più pericolosa, l’amore, hanno portato alla rovina questa famiglia. E’ questo che ha permesso a Hojo di trionfare.

Come volevasi dimostrare, l’espressione di Vincent si distende e, dopo poco, annuisce, deformando il suo viso con un leggero sorriso.

- D’accordo, hai la mia fiducia. Ma non darmi del ‘voi’, per favore. Non voglio che tra noi ci siano distanze. E chiamami pure Vincent, le formalità non sono il mio forte. –

 

Come vuoi, Vincent.

 

Ma Sephiroth è diventato l’uomo che è, perché impara dannatamente in fretta…

 

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26 Marzo XXXX

 

Non è la prima volta che imprimo su carta questo mio pensiero, ma credo che a sto punto la si possa definire un’assoluta certezza: il tempo possiede un curioso tempismo nel mutare in linea con i miei sentimenti. Il temporale è iniziato da poco, accompagnando con il suo cupo rombare la tempesta dentro di me. La pioggia scroscia copiosa dal cielo livido, scuotendo la superficie del lago Hourei, inquieto come il mio spirito. Di tanto in tanto, lampi di luce illuminano a giorno il bosco reso spettrale dal furioso soffiare del vento in discesa dalle montagne. Gocce di pioggia, rapite dalle folate imperiose, m’infradiciano in parte a secchiate irregolari, cucendomi addosso una gelida coperta a cui il mio corpo cerca strenuamente di ribellarsi, lanciando tremori e brividi di freddo. Non me ne curo. Il mio sonno, in ogni caso, è ben più doloroso. A nulla, infatti, è valso rimanere in quella stanza accanto al calore di mia moglie e al respiro tranquillo di mia figlia; poiché non fanno altro che agitare le trame armoniose di Morfeo, trasformandole in una cacofonia di incubi e rimpianti. Ho bisogno di assistere a qualcosa di più folle dei miei stessi incubi. Odo il frinire impazzito delle fronde degli alberi languire sotto il maglio spietato del vento. Alcuni rami non resistono a quella furia e si abbandonano ad essa, mutilando così le loro madri. Lo scrosciare ritmico delle onde lacustri è un’ipnotica melodia che ne accompagna la frenetica corsa verso riva, dove la risacca discendente accarezza la terra bianca di spuma come un tenero amante. E’ lo scenario perfetto in cui affogare i ricordi di questi ultimi anni, in cui la mia vita pareva aver finalmente deviato su un sentiero da me sempre agognato. Lasciare che la pioggia lavi via il ricordo dolce dei due uomini più straordinari che abbia mai avuto l’onore di conoscere, i miei più fidati compagni di battaglia, i miei più intimi confidenti… Permettere a questa pioggia di lavare via il vuoto lasciato dalla loro ingloriosa, immeritata, disonorevole morte. Una morte a cui, mio malgrado, ho contribuito a far sì che prendesse luogo, sebbene abbia fatto di tutto per non prenderne assolutamente parte. E di questo mi pento. Tutto ciò che volevano era che mi unissi a loro o che li fermassi, in alternativa. Non ho colto il loro disperato grido d’aiuto, volgendomi dall’altra parte, sordo ad ogni tipo di supplica o richiesta. Mi sono lasciato trasportare dai dubbi, dall’indecisione, da quell’odioso e indolente non-agire che ho sempre disprezzato in ogni uomo. Io… quello stesso mostro che ha annegato nel sangue qualunque tipo di ribellione contro quella Compagnia-succhia anime; quello stesso Generale invincibile idolo delle folle; quella stessa marionetta mossa dagli artigli avidi di Shinra. Mostro, Generale, marionetta… ma non uomo. Non merito questo appellativo, perché le mie azioni non mi hanno mai reso tale. Angeal aveva ragione: non ho una dignità, né sogni, tanto meno quell’onore che rendeva il nostro essere SOLDIER qualcosa di più di una semplice macchina da guerra. Quello che ci rendeva uomini. Quello di cui ho sempre dubitato, rimbeccando al moro di quanto egli fosse ingenuo, ma di cui, segretamente, tentavo d’intravedere quella fatua realtà. Lui vedeva Eroi, vessilli di una promessa di una vita migliore per i più deboli, uno scudo contro il male e l’ingiustizia, la fiera risposta alla vessazione dei potenti. Uno specchio per allodole, ma pur sempre una splendida speranza, capace di alleviare almeno un poco quell’opprimente incudine di peccati pendente sul cuore. Quanto avrei voluto avere il suo talento… quell’innata capacità di non vedere. Non vedere ciò che SOLDIER veramente è: un rifugio di mostri guidati da una mente affogata in un sanguinoso abisso e da una fiera incontrollabile e crudele. Quanto spesso mi è capitato d’incrociarne le spalle incurvate dall’ignavia, quando la folle sete della Bestia guidava vigliaccamente la Masamune verso le schiene di civili innocenti in fuga dalla battaglia; oppure, quando Genesis, in preda ai fumi dell’alcool, trascinava fino nella sua stanza una donna dal viso talmente tumefatto tanto da risultare irriconoscibile, per poi abusare di lei più e più volte? Atti osceni a cui egli ha sempre rivolto una cieca indifferenza, mascherata da un forte senso del dovere o da una rassegnata indulgenza.

“Tra di loro poteva nascondersi qualche dissidente. Hai agito secondo gli ordini.”

“Lo sai che Genesis ha i suoi bisogni. E’ fatto così.”

Parole di circostanza, costruite solo per camuffare l’orrore provato in quel momento e salvare le apparenze, seguite poi da vuote ramanzine su sogni, onore e disciplina, atte solo ad annoiare, piuttosto che ottenere l’effetto contrario. Mi sono spesso domandato perché fingesse in quel modo, perché cercasse di prendere le nostre difese in modo così caparbio, invece di opporsi a quegli istinti bestiali e aiutarci a sopprimerli. Tra tutti noi, Angeal era il più stoico e irremovibile, così attaccato ai suoi valori e al suo onore da risultare il caposaldo del nostro trio di svitati senza speranza. Alla luce dei nuovi fatti, tuttavia, quel caposaldo d’inscindibile fermezza era più fragile di quanto immaginassi. Il ruolo di fratello maggiore gli si era cucito addosso a doppio filo. Sentiva il dovere di proteggerci. Era il più forte e, in più, conosceva le sensazioni che si agitavano in noi e sapeva che erano irreprimibili, soprattutto per menti malate e deboli come le nostre. In tutto questo, tuttavia, lo abbiamo aiutato a non cedere alla parte oscura di sé, costringendolo a reprimere quegli istinti che, sono sicuro, si agitavano perfino in cuore puro come il suo. Inoltre, troppi avrebbero pagato le conseguenze dei suoi errori, perché se non ci fosse stato lui, il mondo sarebbe collassato sotto la nostra furia.

Cosa che è avvenuta, ahimè…

La mia mente mi riporta automaticamente in quella stanza lussuosa e opulente posta sull’ultimo piano dello Shinra Building: l’ufficio del Presidente Shinra. Un luogo che lo assomiglio quanto più al nido gigantesco di una vorace e viscida idra, la cui unica ossessione è la continua ricerca di una nuova preda da accogliere nel suo letale abbraccio. Essa osserva dal suo scranno il mondo che ha inginocchiato ai suoi piedi, elucubrando riguardo le nuove possibili fonti di guadagno e potere ancora celati sotto la crosta del Pianeta; certa che nessuno sarà mai capace di fermarla, finché egli avrà le sue zanne avvelenate attaccate alle gengive. Io ero lì, uno dei denti del viscido serpente dondolava quietamente al mio fianco, mentre Lazard leggeva i minimi, terrificanti dettagli della missione che mi avrebbero affidato di lì a poco, con tono quanto più possibile neutro. Nonostante i suoi sforzi, il Direttore non riusciva a mantenersi distante, soprattutto nei passaggi più cruenti. Ho sempre apprezzato la sua innata capacità di entrare in empatia con ogni membro del Reparto. Conosce i suoi uomini e sapeva che io non ero l’agente giusto per quella missione. Avrebbe preferito farsi sciogliere dai liquidi nauseabondi di un Molboro piuttosto che sottopormi a quella tortura. Ma io sapevo perché ero lì: era un test. Le teste dell’idra volevano sapere da che parte mi sarei schierato. Il cagnolino avrebbe fatto il bravo e avrebbe obbedito senza discutere, come gli era stato inculcato fin dall’infanzia; o si sarebbe trasformato in un lupo, pronto a reclamare la sua stessa libertà ed unirsi al branco dei traditori? Per evitare rischi avevano perfino mobilitato qualche fante dell’esercito regolare a supporto dei Turks più esperti. Labile difesa. Mai come in quel momento, ho potuto fiutare la tensione, l’ansia, la paura albergare tra quegli ignominiosi rifiuti umani. L’intera stanza era invasa dal mefitico lezzo. Quanto ci godevo! In tutta risposta, feci sfilare il mio mordace biasimo lungo tutti i presenti e chiunque incrociasse i miei occhi rifuggiva o abbassava l’attenzione. L’unico che sostenne il mio sguardo fu Hojo. Da dietro la montatura spessa degli occhiali, potei cogliere il suo minaccioso ammonimento trafiggermi con durezza. Se avessi deluso le sue aspettative, lo avrei pagato amaramente. Con nonchalance, scrollai le spalle e abbozzai un sorriso strafottente, per poi ritornare a fissare diritto avanti a me. Con la coda dell’occhio, però, vidi l’emaciata espressione del vecchio virare da truce a oltraggiata. Sfortunatamente per lui, è parecchi mesi in ritardo: la mia decisione era stata presa nell’esatto momento in cui Genesis disertò.

Io non avrei combattuto.

Fatale errore.

Quando Lazard finì, il silenzio più pesante e tedioso che avessi mai avvertito piombò in quella stanza dorata, offuscando perfino la lucentezza di quella nauseante dimostrazione di ricchezza. Lasciai bollire quegli emeriti idioti nel loro brodo di tensione per lunghi minuti, per poi irrompere con un semplice e secco diniego. Avvertii i Turks attorno a me prepararsi al combattimento. Il suono di pistole private di sicura e lo sfilo di armi bianche tolte dai foderi solleticarono la Bestia, la quale tese i miei muscoli e aguzzò i miei sensi. Avrei potuto farne poltiglia e loro lo sapevano. Avvertii la mia vecchia e rabbiosa compagna scuotere il mio torace con un solo, basso ringhio. Cibarsi delle paure dei suoi nemici è ciò che più brama nell’intero Pianeta. E quella stanza… Oh, quella stanza ne era piena! Per un minuscolo momento, ho accarezzato l’idea di accontentarla. Se avessi agito, ogni mia sofferenza sarebbe finalmente cessata e, forse, i miei amici sarebbero tornati in sé, liberi di vivere in un mondo che li avrebbe accettati. Avrei potuto tornare dalla mia famiglia. Avrei potuto essere l’eroe che tanto LOVELESS decanta: colui che rimane.

La tentazione era forte: infatti, il palmo della mano fremeva, il corpo si preparava al contrattacco, la gola secca bramosa di sangue… l’ammaliante frenesia mi estraniava dal tempo. Ero pronto ad abbandonarmi a Lei, di nuovo, ma Evelyn me lo impedì per l’ennesima volta. Il suo viso mi attraversò la mente richiamando la lucidità all’ordine.

Non potevo.

Quei soldati, quegli agenti… erano ancora fedeli a quell’insegna insanguinata. Erano pronti a morire per quei maiali insolenti e io mi sarei macchiato le mani del loro sangue. Sangue innocente.

Basta.

Sono stanco di uccidere. Sono stanco di vedere visi agonizzanti. Sono stanco di ascoltare suppliche e gorgoglii di morte. Sono stanco di marchiarmi la pelle di sangue.

Stanco di vivere una vita non mia.

Fermo nella mia decisione, girai i tacchi e mi diressi verso l’uscita, lasciando i presenti sbigottiti dal mio semplice non agire. Una mossa che probabilmente nessuno si aspettava. Nonostante tutto, però, quella missione doveva essere compiuta, in un modo o nell’altro. Fu così che, prima che lasciassi quella stanza, mi chiesero chi mandare al posto mio.

Avevo elaborato la mia strategia mesi or sono, ma solo troppo tardi realizzai che, nell’approntarla, mi ero lasciato guidare dai rancori e dall’arroganza. Angeal ed io avevamo avuto un pesante diverbio quando venimmo a conoscenza della diserzione di Genesis. Erano settimane che non ci rivolgevamo la parola e, quando scomparve anche lui, non mi stupii. Immaginavo che il moro non avrebbe lasciato andare Genesis così alla leggera, tanto più sapevo che non mi avrebbe coinvolto nella ricerca. Angeal ha sempre avuto un occhio di riguardo per il suo vecchio amico d’infanzia. Nell’ira, sono arrivato a credere che lui mi vedesse come l’ennesima realizzazione di un capriccio di Genesis piuttosto che come un amico. Spinto da queste sensazioni irrazionali, figlie di elucubrazioni malate e senza alcun tipo di fondamento, realizzai la mia vendetta. La cosa peggiore è che convinsi me stesso che fosse la cosa più logica e razionale da fare. E così, commisi il secondo, crudele errore: indicare il giovane Fair come sostituto per la missione.

Una forte folata di vento ribalta il secchio per le pulizie provocando un frastuono tale da farmi sobbalzare. Osservo l’oggetto rotolare lungo la veranda e giù per le scale, fino al giardino. Lo seguo inerme, impotente. Eppure basterebbe che mi alzassi per fermare la sua corsa. Invece, rimango in disparte a guardarlo correre verso la propria disfatta. Un piccolo secchio bucherellato non ha scelte di sorta se non seguire il corso della tempesta…

Un dolore forte al petto mi strappa un gemito. E’ esattamente ciò che è accaduto a Fair. L’eco dei suoi singhiozzi nella Chiesa dei Bassifondi mi rimbomba ancora nella mente, strappandomi l’aria direttamente dai polmoni. Nemmeno la gentile stretta di Aerith è riuscita a quietarli, anzi li ha amplificati, rendendo il suo dolore ancora più penetrante e schiacciante. Un macigno mi è crollato sulla testa, il quale m’impedisce di dormire, di mangiare, di vivere… Quella croce su quella guancia liscia, giovane, innocente è un colpo al cuore ogni volta che la immagino. Fair era un ragazzino costretto a seguire una terribile serie di tempestosi eventi, dei quali lui non avrebbe mai dovuto esserne al corrente. Ciò che più mi affligge, tuttavia, è la speranza che un tempo animava i suoi occhi blu. Quegli occhi che riflettevano il mondo fittizio e perfetto di Angeal, quegli occhi che sognavano un eroico avvenire, quegli occhi che rilucevano di entusiasmo e buona volontà, quegli occhi che non mi stanco mai di osservare nelle giovani reclute. Occhi che so già che non sarebbero durati a lungo in quel mondo venefico, ma nutrivo forti speranze nel lavoro svolto da Angeal. Forse lui avrebbe creato una generazione di SOLDIER veramente volta al bene.

Nella mia furia cieca, l’ho rovinato, l’ho coinvolto in questo schifo… l’ho costretto ad uccidere il suo stesso mentore. Un crimine orribile, di cui io stesso ne porto ancora i segni sul corpo e nell’anima e a cui non ho mai voluto che nessun’altro ne venisse macchiato. Invece, ne sono stato sia l’artefice che il mandante.

Un duplice ruolo che mi fa sentire così sporco e marcio… un demone irrecuperabile. Un demone contro cui un angelo dall’ala bianca ha cercato di opporsi in ogni modo. Angeal ha sempre voluto fare la cosa giusta, quanto nel bene tanto nel male. E io… io non lo capii. Sordo ad ogni ragione, mi fermai alle apparenze, troppo codardo per scavare più a fondo e scoprire la verità. Quella verità per cui ho messo a soqquadro l’intero archivio della Shinra, quella verità che tormenta il mio sonno, quella verità che mi rende schiavo della paura. Quella verità che, nel profondo nel mio cuore, non voglio accettare nemmeno se ce l’avessi davanti. Non voglio accettare di essermi bevuto quelle menzogne per così tanti anni, di essermi fatto abbindolare da esseri insulsi come Shinra o Hojo. Anche se, ad essere sincero, ciò che non voglio accettare è che Gast mi abbia mentito. L’uomo che più ho rispettato… no, che ho amato come un padre per tutta la mia vita, sia come loro. Non lo posso accettare che anche lui mi abbia preso in giro, sciorinandomi quelle pillole di menzogna solo per rendermi una cavia più malleabile e quieta. Non voglio accettare che anche quel rapporto fosse falso. Non lo sopporterei… Per questo DEVO convincermi di essere diverso dai due banoriani, eliminare dalla mia mente quell’antica illusione circa la nostra somiglianza e dimostrare che tra loro e me c’è un abisso. Poco importa se avessi potuto salvare Genesis donandogli il mio sangue, poco importa se avessi potuto schierarmi al loro fianco, poco importa se avessi potuto proteggerli da loro stessi, poco importa se con loro mi sentivo a casa…

Li ho abbandonati nelle mani di un Fato crudele, di un Pianeta spietato e di un’umanità senza cuore.

E’ una colpa troppo grande da sopportare, ma, se mai abbia avuto un minimo di rispetto per loro, è un fardello che devo portare da solo. DEVO farlo, per loro, per ricordare gli effetti dei miei errori.

Per questo motivo, feci tappa a Modeoheim durante il viaggio per Wutai. Avevo bisogno di vedere quegli effetti con i miei occhi. La città congelata era, contrariamente a quanto mi aspettassi, viva più che mai, a causa delle attività dei Turks e del Reparto scientifico volte a eliminare ogni minima prova della ribellione di SOLDIER, dichiarata da poco cessata, come era accaduto a Banora. Mentre le operazioni avanzavano febbrili nella città, m’infiltrai all’interno della Bath House, la quale era ancora in attesa di essere ispezionata. L’aria gelida delle montagne rendeva l’atmosfera ancora più lugubre di quanto non lo fosse già, complice il silenzio tombale, rotto solamente dall’ululato del vento che s’infilava nelle fessure arrugginite dell’edificio. Difficile immaginare che tra quelle mura si fosse consumato l’ultimo atto di una guerra. Percorsi in riverente silenzio il tragitto che mi portò alla grande stanza circolare in cima alla ciminiera principale. Secondo il rapporto di Fair, Angeal era morto proprio lì. Rimasi ad osservare quel luogo come se fosse sacro, impaurito dall’idea di entrare all’interno e inzozzare quell’intonsa tomba con la mia sudicia presenza. Un candido manto nevoso ricopriva il pavimento, come a nascondere con la sua purezza i segni feroci dello scontro in cui un uomo retto e giusto aveva perso la vita; o a voler nascondere la disperazione di un ragazzo, costretto ad affrontare la persona più vicina ad un padre che abbia mai avuto. Come a voler nascondere le conseguenze della mia codardia. Non ressi all’indulgenza che la natura mi concesse e crollai in ginocchio, disperato. Invocai perdono, mentre il senso di colpa mi schiacciava sempre di più verso la terra. Ricordo che mi dissi che avrei dovuto essere al suo posto. Angeal era un uomo onesto, buono, giusto. Non meritava di morire. Non in quel modo. Così anche Genesis, il quale, nonostante le sue centinaia di difetti, lui voleva fare del bene, così come aveva fatto a Banora. Voleva allargare quel desiderio al mondo e vedeva nella Compagnia il modo per farlo. Peccato che si siano fatti traviare dalla falsa promessa di gloria e onore imperituri sciorinata dalla campagna di reclutamento SOLDIER. E Hollander strappò loro le anime, nel momento stesso in cui entrarono in quel cilindro di contenimento, cancellando col mako la loro innocenza adolescenziale. E i loro propositi. Genesis si fece abbagliare dalla gloria, dal fervente desiderio di prendere il mio posto e Angeal storpiò i suoi preconcetti sull’onore adattandoli allo schifo che affrontava ogni giorno. Avrei dovuto capire che la loro mente provinciale e ingenua non avrebbe mai retto la cruda realtà dei fatti: SOLDIER è una tana di mostri e io ne sono il signore. Per quanto non ami questo appellativo, tuttavia, non posso che sentirmi responsabile per ogni singolo uomo marchiato come SOLDIER.

Con loro, ho fallito.

Non merito di portare quell’uniforme, quei gradi, quel titolo. Non sono nessuno, sono un uomo senza onore, senza identità, senza spina dorsale. Per certi versi non sono nemmeno un essere umano.

Come posso pretendere che la mia famiglia possa camminare a testa alta? Che razza di idea si farà di me mia figlia?

Proprio nel momento in cui la paranoia mi stava risucchiando nel suo nero abisso, un fruscio d’ali attirò la mia attenzione. Il mio sguardo venne accolto dalla figura irremovibile e solenne di una grossa fiera d’argento. Sulla sua spalla sinistra un’enorme, singola ala bianca si inerpicava verso il cielo bianco latte. Nonostante la luce opprimente, l’essere sembrava rilucere di aura splendente. Le neve accarezzava la sua corazza gentilmente, silente, quieta. Tutto di quell’essere suggeriva mitezza e pace, ma la mia proverbiale sfiducia nei confronti di tutto e tutti, mi portò ad ignorare ciò che la mia mente mi suggeriva e lasciare che l’istinto prendesse il sopravvento. La mano della spada corse verso l’elsa della Masamune, però tutto ciò che le mie dita afferrarono fu l’aria. Fu in quel momento che rimembrai gli intenti che mi avevano guidato lì, quel giorno: fare ammenda, o almeno provarci. La belva continuava a fissarmi nella sua statuaria e composta postura e fu solo quando riportai la mia attenzione su di lei che emise uno sbuffo, scuotendo la testa. Le protuberanze dorate che dondolavano alla base delle orecchie similmente a degli orecchini, emisero un lieve tintinnio, quasi impercettibile; eppure, per me, fu come un boato capace di scuotermi da capo a piedi. Mio malgrado, deglutii. Quel gesto così semplice, così… amichevole mi cadde sulle spalle come un macigno e, subito dopo, un lampo di riconoscimento sovrappose l’immagine dell’impassibile essere alato con l’ultima immagine di un vecchio amico.

Angeal…?

Il canale a due vie…

L’esperimento più riuscito di Hollander.

Una creatura capace di trasferire tratti genici su altri, così che possano acquisire caratteristiche totalmente nuove, ma tipiche del soggetto originale.

Project G.

Tutte le informazioni riguardo quest’ultimo esplosero dalla mia memoria, vorticando nella mia testa, incatenandosi l’un l’altra. Compresi il piano di Angeal, del suo voltafaccia finale a scapito di Genesis, della sua determinata intenzione di mettere fine alla sua vita. Ogni sua azione era volta a distruggere il suo corpo e trasformarsi in qualcosa di meno riconoscibile. Ma a che pro? Lo capii nell’istante dopo, quando infranse la sua immobilità e mosse i primi passi nella mia direzione. Con la lunga coda, egli iniziò a tracciare qualcosa sulla neve.

Scrisse una sola parola: ‘Proteggili’.

Quasi mi commosse il suo incrollabile senso del dovere. Nonostante i peccati commessi, la morte delle persone a lui care, gli esperimenti, la follia; lui pensava agli altri. E scelse me per portare avanti le sue intenzioni. Ero l’ultimo rimasto, quello che era riuscito a sfuggire ai velenosi tentacoli di Hollander, quello più forte di tutti.

Angeal lo diceva sempre: “I più forti devono proteggere i più deboli.”

Dopodiché, la fiera si librò nel cielo, seguito da una scia di piume bianche, di cui una la conservo al fine di rimembrarmi dell’obbligo preso.

Temo che tempi duri arriveranno… Questo era solo il preludio, la prova generale. Sento che Genesis non è morto. Almeno, il suo spirito credo aleggi ancora tra il confine tra la vita e la morte. Nel rapporto, infatti, Fair afferma che, prima di lanciarsi nel Lifestream, Genesis ha pronunciato questa frase:

 

If this world seeks my destruction… it goes with me.

[Se questo mondo desidera la mia distruzione… allora verrà con me. Genesis, FFVII:CC]

 

 

Una promessa contenente un minaccioso intento e un ancor più celato significato, a cui solo pochi possono dire di comprenderlo appieno. Se Angeal è stato in grado di ritornare sotto forma di fiera sebbene il suo corpo originale sia andato distrutto, non vedo perché Genesis non possa fare lo stesso. Nei vari rapporti concernenti le Cellule J, ho letto che questo tipo di cellule sono dotate di grandi doti rigenerative. Alcuni ritengono che un individuo dotato di queste particolari strutture, se messo a contatto con sufficiente energia, possa essere in grado di rigenerare totalmente il proprio corpo, a patto che ce ne sia una quantità sufficiente. Questo processo è chiamato ‘Riunione’. Genesis ha creato migliaia di copie di sé e ha totale accesso al Lifestream in quanto parte di esso. Potrebbe davvero essere in grado di ritornare dalla morte…

Ciò mi fa pensare al modo peculiare in cui solevo intendermi con i miei compagni, soprattutto durante le battaglie. I nostri movimenti erano fin troppo coordinati. Era qualcosa di più della semplice abitudine, perché ci è venuto sin da subito. Quasi come se… fossi in grado di leggere le loro menti. Come se tra noi ci fosse una sorta di legame mentale.

No… un legame… cellulare.

Eppure io non sono stato così coinvolto nella crisi come loro. Forse perché provengo da un diverso programma? Ma non ho trovato mai traccia di un progetto parallelo a quello G… almeno non a Midgar. La Shinra ha centinaia di siti di ricerca segreti sparsi per il mondo, tuttavia un luogo papabile a questo fine può essere il luogo dove passai i primi anni della mia infanzia. Sfortunatamente non ricordo la localizzazione, a causa della mia troppo giovane età e per il fatto che girai parecchi laboratori in quegli anni, prima di stabilirmi definitivamente a Midgar. Ricordo, però, che si trattava di una grossa magione tra le montagne. La prossima volta che tornerò in servizio dovrò controllare l’ubicazione di quei siti scientifici, anche se temo che sarà una dura ricerca, dal momento che sono passati quasi trent’anni e potrebbe essere stata dismessa o distrutta. I risultati, comunque, devono essere stati conservati in un qualche modo, perché Hojo è troppo geloso del suo lavoro per gettarlo nei rifiuti, soprattutto la parte che mi concerne. No, quella magione con il suo esplosivo contenuto deve essere ancora nascosta lassù, tra la neve e il ghiaccio. E questa volta sono determinato ad andare fino in fondo. Devo capire per che cosa sono morti i miei amici e che cosa la Shinra cerca d’infangare a tutti i costi. Devo conoscere il mio nemico se voglio mantenere fede al mio giuramento. E quel nemico è il folle desiderio di dominio, tanto da trasformare uomini in mostri creati per un solo scopo: distruggere. Dentro di noi è stato impiantato qualcosa di più velenoso del mako stesso, qualcosa che ci rende uniti e che non ci permette di perderci definitivamente nel Flusso Vitale.

Mi sovviene il sogno che mi perseguita negli ultimi tempi. Che accade ad un corpo vivo se immerso nel Lifestream? Muore per davvero? O la sua coscienza continua a vivere in esso, trasformandosi in qualcos’altro? Che quel sogno non sia solo opera della mia paranoia, ma una vera e propria visione del futuro? Talvolta Aerith è in grado di conoscere l’esito di eventi che devono ancora succedersi, semplicemente ascoltando le voci dall’aldilà, ma è un evento abbastanza raro. Che anch’io abbia questa capacità? Ho sempre avuto la terribile sensazione che quegli incubi non siano semplici prodotti del mio inconscio, ma veri e propri messaggi dal futuro. Le sensazioni sono così reali, così tangibili da perpetrare anche nello stato cosciente. E non svaniscono nell’oblio, come se la mia mente effettivamente registrasse e ascoltasse quei messaggi. Ricordo, infatti, ogni benché minimo dettaglio, anche se ogni volta scopro particolari sempre diversi, poiché la loro nitidezza si fa sempre più chiara ogni qualvolta che mi si ripropongono. Che sia una sorta di comunicazione? Ma CHI sarebbe il mittente di questi messaggi? Il Lifestream?

O qualcun altro?

La chiave di questo enigma sono queste fantomatiche Cellule J. E’ chiaro che siano loro a rendere questa ‘Riunione’ possibile e a donare ai soggetti sottoposti ad esso abilità superiori a qualunque SOLDIER, ma da dove provengono? Come sono state create?

Non vi sono rapporti in letteratura riguardanti la loro scoperta o caratteristiche dettagliate, si sa soltanto che sono state usate, come se non fosse necessario spiegarlo.

Come se tutti lo sapessero…

Odio tutto questo mistero, il quale non fa altro che aumentare la mia angoscia riguardo le mie origini.

Cosa mi hanno fatto?

Cosa scorre nelle mie vene?

 

Cosa sono io?

 

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Scrive. Da ore, credo. Al freddo, sotto a questa terribile pioggia. E’ totalmente zuppo d’acqua, eppure continua a scrivere. A scrivere e pensare. Pensieri tristi, pensieri orribili. E domande, domande a non finire che lo intrappolano in un abisso di angoscia. Vuole sapere, ma non è ancora il suo momento. Prego non arrivi mai. Ma lui lo vede, il suo futuro. Il terribile fato a cui il Pianeta lo ha destinato, lui lo vede ogni notte. Non capisce cosa sia, solo perché non lo ha ancora accettato. Lui non me ne parla, ma ogni notte sogno con lui le stesse cose. Non se ne rende conto, rapito com’è dall’incubo, ma io gli sono accanto tutto il tempo. Lo stringo e piango. Lui si agita e lo stringo ancora più forte. Inizio a cantare. Intono quella canzone che ama, quella che canto anche a nostra figlia per farla addormentare. A quel punto le visioni scemano, ma solo per qualche ora, il tempo di riposare e poi non riesce più a dormire. Spesso rimane a letto con me a guardarmi fino a che la notte volge in giorno; oppure, se sono sveglia, facciamo l’amore. In quei momenti, la mia ansia conosce requie, vedendolo così sereno e conscia che Jenova lo sta lasciando in pace. Ma poi ci sono nottate come queste, dove nemmeno una tempesta è in grado di richiamarlo al mio fianco. Così vicino, eppure così lontano. Jenova lo tiene in pugno. Devo stare attenta. Lei è una suocera molto possessiva.

Mi avvicino con discrezione e lui chiude il diario di colpo, appena avverte i miei passi. Mi fermo. Meglio non andare oltre. Mi accomodo sul posto in cui sono, a qualche passo da lui. Avverto il suo sguardo studiarmi. Io aspetto. E’ una sorta di Guerra Fredda, bisogna essere cauti.

- Fa freddo qui. Meglio che rientri. –, asserisce lui.

“Come te.”, penso, ma lo tengo per me. E’ irritato. Si irrita sempre quando interrompo il filo dei suoi pensieri.

- Non riesco a dormire nemmeno io. Vuoi bere qualcosa con me? –, domando con deferenza.

Sfodero l’espressione più innocente che posso, ignorando il suo sguardo di ghiaccio. E’ palesemente sull’attenti e ciò mi fa infuriare. Perché mi allontani nel momento del bisogno?

- Ho comprato il saké. –, aggiungo.

Un bagliore malizioso spazza via il gelo nel suo sguardo. Colpisco nel segno. Sebbene non sia un gran bevitore, so che l’alcol è l’unico antidoto contro la sua troppo fervida mente. Lo aiuta a rallentarla.

Rientriamo. L’atmosfera è ancora un po’ tesa, ma almeno siamo all’asciutto. Mi dirigo verso la cucina, mentre lui si spoglia dei suoi vestiti inzuppati. Quando ritorno, è di nuovo immerso nelle sue elucubrazioni, vestito soltanto di una coperta e un pantalone bagnato. Non che se ne renda conto. Lo raggiungo, e, interponendo il vassoio tra noi, riempio un bicchiere per ciascuno per poi porgli il suo.

Senza dire una parola, ingolla il suo sorso con un movimento fluido.

- Kampai, comunque. -, rimbecco un po’ piccata.

Lui m’ignora e mi porge il bicchiere, con un gesto automatico. Ancora. La scena si ripete per qualche altro silenzioso giro. Non è un sakè particolarmente forte, ma comunque fa il suo dovere.

- Scusa per prima. E’ che… è un periodaccio. –, esordisce, passandosi la mano tra i capelli, senza, tuttavia, rivolgermi lo sguardo.

- Sono tua moglie. I “periodacci” di mio marito sono anche i miei. –, spiego io paziente, cercando un contatto visivo, invano.

Si è aperto un piccolo spiraglio, per cui decido per un approccio più diretto: mi posiziono alle sue spalle e poso le mie mani sui suoi trapezi. Dolcemente, inizio a massaggiarglieli, senza dimenticare la base del collo e la cervicale. Avverto i suoi muscoli tesissimi sciogliersi sotto il calore delle mie dita e capisco che posso osare ancora di più. Dal collo, scendo lungo i pettorali, accarezzando la pelle gelida e ancora umida. Lo abbraccio, facendo aderire il mio corpo alla sua schiena, mentre la mia testa affonda nell’incavo della sua spalla. Baci delicati accarezzano il lato del collo e la linea della mascella. Nonostante le premure, sembra che nessuna reazione sia in procinto di scatenarsi, poiché continua ad osservare il nulla con espressione totalmente assente. Bisogna avere pazienza.

- Angeal e Genesis sono… morti… -

Quella frase inaspettata, portatrice di una terribile notizia, proferita con una neutralità agghiacciante, stronca ogni mia effusione. Con gli occhi grandi dallo stupore alzo lo sguardo verso di lui. Ancora mi ignora.

- Mi dispiace… -, enuncio con un filo di voce, cercando di mascherare la profonda pena e dispiacere nati nel mio cuore.

Lui annuisce automaticamente, senza forze. Lo stringo con più enfasi, strofinando la mia fronte contro la sua guancia, in una sorta di carezza.

- Mi dispiace veramente tanto, amore mio. –

Gli inizio a dare piccoli baci sul lato del collo, sulla guancia, sulla tempia, mentre gli accarezzo i capelli, il viso. Continua combattere caparbiamente contro le mie effusioni, ignorandole con tutte le sue forze, ma poi mi accorgo del respiro pesante ed affannato, dell’espressione corrucciata, delle palpebre chiuse saldamente… Non vuole piangere. Sta usando la freddezza per celare il dolore. No, amore mio, non devi. Non con me.

- Va tutto bene, amore mio. Ci sono io qui con te. –

Quelle parole sussurrate all’orecchio danno l’effetto sperato. Finalmente, riesce a guardarmi. E appena posa il suo sguardo sul mio viso, lacrime amare iniziano a scorrere lungo le sue guance. Appena ciò accade, lui subito si volta verso di me, stringendomi con una disperazione tale da togliermi quasi il respiro; per poi affondare il suo viso nel suo rifugio sicuro. Prorompe in un pianto pieno di amarezza e rimpianto, mentre le sue dita stringono la stoffa del mio kimono fino allo stremo. Gli accarezzo la nuca con gesti dolci e gentili, baciandogli il collo di tanto in tanto. La stretta delle sue falangi si fa sempre più disperata e vigorosa, come se avesse paura che, da un momento all’altro, potrei sfumare nell’aria senza lasciare più alcuna traccia. Le sue labbra sfiorano il mio collo, il suo naso accarezza la mia guancia, le sue mani mi spingono contro il suo corpo: ogni azione è dotata di una esasperazione tale tanto da farmi pensare che sia l’ultima possibilità che ha di poter godere della mia presenza.

Come se mi stesse per perdere.

- Cosa c’è, Sephiroth? –

Per un lungo istante, lui sembra ignorare la domanda, continuando con le sue dolci effusioni; ma poi, esce dal suo rifugio, senza, tuttavia, sciogliere il suo stretto abbraccio. Mi fissa per un lungo istante con uno sguardo capace di pugnalarmi direttamente al cuore, tanto esso è afflitto. Le lacrime continuano a scendere copiose da quei laghi di giada.

Apre la bocca due, tre volte, ma non riesce a proferire alcun suono, tanto la sua disperazione gli offusca la mente e gli stringe il cuore. Per incoraggiarlo, gli poso la mano sulla guancia e gli regalo un dolce sorriso. Le sue iridi s’illuminano di una luce spaventata e un gemito sfugge dalle sue labbra. Si allontana come se fosse stato scottato e fa per andarsene. Rimango interdetta, stupita e affranta da quanto in fretta egli mi sia sfuggito dalle mani.

- Ti prego, no… non tagliarmi fuori… -, imploro, scattando in piedi, appena lo vedo inforcare l’uscio.

La voce è uscita rotta e stridula, segno di una profonda ferita inferta dritta al cuore. Ti prego, Sephiroth, apri il tuo cuore…

Lui scuote la testa, greve, poi la volge appena al di sopra della sua spalla, tuttavia senza avere l’ardire di alzarla abbastanza da permettere ai suoi occhi d’incrociare i miei. Non osa farlo.

- Non posso… -

Muovo un passo.

- Sephiroth…-, un altro, - io sono qui…-, un altro ancora, - proprio qui. – e un terzo passo.

I suoi pugni si serrano e avverto le ossa scrocchiare dallo sforzo. Ogni suo muscolo teso, intento a sovrastare quello che credo essere un ennesimo attacco d’ira. Ignoro i segnali dall’allarme e muovo l’ultimo passo, il quale mi permette di allungare il braccio e finalmente toccarlo. Tuttavia, prima che ciò avvenga, egli si volta di scatto. La sua espressione, contrariamente alle aspettative, è rotta dal dolore. Un dolore sconfinato, struggente, disumano.

- Per quanto ancora? –

Quella disperazione prorompe in tutta la sua pienezza attraverso quell’unica, angosciante, domanda. Sento il mio cuore subire un singulto e, istintivamente, ritraggo la mano per poggiarla sul petto. Lui mi guarda, il viso d’angelo rigate da lacrime amare, ebbro di terrore, perduto e totalmente spogliato di qualunque corazza.

- Se perdo anche te… tanto vale scomparire nel Lifestream. –

Un’altra stilettata al cuore mi spezza il respiro, alla sola menzione alla sua dipartita. Non lo merita, Eveth, non lo merita tutto questo. Perché? Che colpa ne ha lui?

- Ogni cosa che creo è destinata a venire distrutta. Ogni cosa. –, la sua voce è ridotta a un soffio sottile.

Come a sottolineare il concetto, il suo sguardo va appuntarsi su un punto preciso alle mie spalle. La nostra camera da letto. Dove, in questo momento, Takara sta riposando.

Una scossa di terrore, ribrezzo e furia mi attraversa il corpo, rinvigorendomi di una terribile determinazione, la quale mi dona lo slancio per coprire l’ultima distanza tra noi.

- No! Non lo permetterò. -, esclamo, afferrando con forza il viso di Sephiroth, costringendolo a guardarmi dritto negli occhi, - Non permetterò a nessuno di fare del male né a te, né a Takara. Dovesse essere anche il Pianeta stesso. –

Affondo le mia dita nel suo viso, avvicinandolo con più foga al mio. I suoi occhi sono spalancati dallo stupore e dalla meraviglia. Non credo si aspettasse una tale reazione da parte mia.

- Non si può combattere un intero Pianeta, Eve… -, puntualizza, sebbene ci sia una punta d’incertezza nella sua voce.

Io sorrido malevola e lo guardo con tenerezza, quasi a sottolineare la sua adorabile ingenuità.

- Insieme, mio dolce Generale… possiamo. –, sussurro con dolcezza.

Le sue iridi risplendono di fierezza e ammirazione, oltre aver ritrovato la speranza. Non resisto e lo bacio con foga, costringendo le sue labbra sulle mie. Avverto i lati della sua bocca alzarsi verso l’alto e ciò non fa altro che eccitarmi ancora di più.

Tuttavia…

Mi stacco da Sephiroth e mi giro verso di te…

Maliziosa e malevola ti osservo.

-Piaciuto lo spettacolo… Cloud?

 

 

Mi sveglio di soprassalto, scattando seduto. Il sogno si perde in un tunnel di oblio, mentre la sensazione di essere spinto via dalla mia stessa mente mi riporta alla realtà. L’unica cosa rimasta impressa sono gli occhi di fuoco di quella donna, capaci di insinuarmi il disagio direttamente nelle ossa e molto più in profondità di quanto possa mai fare suo marito in mille vite.

Tutto preso dalle immagini della visione non mi rendo conto di una presenza accanto al mio letto, se non troppo tardi; cioè quando una mano guantata mi si appone sulla bocca e il naso, impedendomi respirare. Vengo di nuovo spinto supino e la pressione della mano sulle mie vie respiratorie si fa più forte. Totalmente nel panico, cerco di lottare, dimenandomi, ma le mie esigue forze non sono in grado di vincere quella forza sovrumana. A causa di ciò, la mia riserva di ossigeno finisce ben presto, così come i miei tentativi di liberarmi. Mentre l’incoscienza inizia a prendere il sopravvento, uso gli ultimi brandelli di razionalità per carpire l’identità del mio assassino.

 

Occhi blu… bagliore mako… capelli rossi

 

- Even if the morrow is barren of promises, nothing shall forestall my return. [Anche se il domani è arido di promesse, niente impedirà il mio ritorno. LOVELESS, Act V] –

 

Gen…e…sis?

 

 

Salve a tutti popolo di EFP! Dopo quasi un anno di assenza finalmente ritorno con un succulente capitolo tutto nuovo. Chiedo umilmente scusa per questa infinita attesa, ma dopo l’esperienza non esattamente andata a buon fine ho attraversato un periodo di crisi nera in cui non avevo la più pallida di che fare nella mia vita. Ora le cose sembrano andare meglio e, infatti, sono in Australia! Il sogno di una vita si è realizzato, permettendomi di raggiungere una sorta di pace interiore.

Riguardo la storia, come avevo già preventivato nel capitolo scorso ormai manca poco alla fine di questa fic, quindi preparatevi che i prossimi capitoli saranno caldissimi. Già il finale di questo è particolarmente d’impatto e l’entrata in scena così repentina del nostro gingerino preferito non preannuncia niente di buono. O forse sì? Spero di pubblicare il prossimo capitolo con una tempistica più umana, ma in teoria ora come ora non dovrebbe essere difficile, dal momento che sono finalmente arrivata dove non vedevo l’ora di arrivare!

Bene, concludo augurando a tutti un buon 2018 e ci si sente alla prossima!

Besos

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Capitolo 26
*** Takara ***


26.Takara

-MAMMA! -

La vocetta squillante di mia figlia mi evoca dall’altra parte della casa, trasudando la sua solita vena impaziente. Scuoto la testa, mentre me la rido sotto i baffi. Quando la raggiungo sulla veranda, la piccola mi attende con le braccia conserte e l’espressione imbronciata. Inutile dire che non riesce proprio a sembrare intimidatoria.

- Non fai per niente paura, sai? E comunque non vai da nessuna parte senza un cappellino. -, le dico rivolgendole un sorrisino furbetto, mentre le appongo l’indumento sulla capigliatura selvaggia.

La bambina grugnisce, offesa e capricciosa, ma il suo umore cambia in meno di un battito di ciglia, appena il suo nuovo giocattolo le si struscia alla gambina, attirando la sua attenzione.

- Meow, se sorridi sei molto più carina, sai? –

E’ il giocattolo più strano che abbia mai visto: è una sorta di robot a forma di gatto, ma è in grado di muoversi e parlare autonomamente.  Quando Sephiroth lo regalò a nostra figlia lo trovai davvero inquietante. E anche tutt’ora lo penso, ma Takara lo adora alla follia. Non so bene cosa ci trovi, ma sono piuttosto convinta che lo apprezzi solo perché è un presente di suo padre. L’unica nota positiva che personalmente riesco a trovare sono le modifiche approntate da Sephiroth stesso, affinché quel gatto sia capace di vegliare su nostra figlia.

- L’ho equipaggiato con alcune Materie difensive molto potenti, sebbene spero non le debba mai usare. -

Sorrido a questo ricordo e alla dolcezza con cui Sephiroth guardava sua figlia giocare giuliva col suo giocattolo nuovo. Mi manca tanto, ma ben presto, lui sarà solo mio. Lo hanno richiamato per la sua ultima missione, mi ha garantito.

In tutto questo, Natsu è in piedi accanto alla colonna delle scale e, appoggiata al suo bastone, assiste alla scena. Ella scuote la testa, fissando il felino.

- Non mi ci abituerò mai a quell’affare. –, commenta, contrariata.

Ridacchio, mentre guardo mia figlia coccolare il suo adorato Neko, come le piace chiamarlo; sebbene quest’ultimo asserisce di chiamarsi Caith Sith.

- Su, Takara, andiamo. -, dice la nonnina, porgendo la mano alla nipote, - Tu sei sicura di non venire? -, chiede poi rivolgendosi a me.

-Si', baba. Il piccolo fa un po’ le bizze in questi giorni. –, rispondo, passandomi la mano sul ventre. Comincia già ad arrotondarsi, sebbene sia solo al terzo mese. Istintivamente sorrido, mentre le mie mani si chiudono a coppa attorno a quella piccola collinetta, immaginando di accogliere il mio bambino nei miei palmi.

Natsu mi rivolge un sorriso rassicurante, mentre Takara attira la sua attenzione, scuotendole la mano, impaziente di andare.

- Va bene, Takara.  Andiamo. Tu riposati, onee-chan. –

Detto questo, le due iniziano ad avviarsi giù per le scale.

- Lo farò. –, rispondo; poi mi rivolgo a Takara, - Ciao, principessa! Fai la brava. –

La piccola si volta ed annuisce con decisione per poi rispondere al mio saluto scuotendo la sua minuscola manina.

Le guardo dirigersi verso il paese, seguite a ruota dal gatto-robot, prima di rientrare. Mi sento stanca in questi giorni e sento la necessità di stare un po' da sola per riappropriarmi di miei ritmi. Takara è diventata iperattiva da quando ha iniziato a camminare, costringendo me e Natsu a correre da ogni parte. Piccola diavoletta. Sorrido da sola a quel pensiero e inizio a sistemare un po' la casa, recuperando i giocattoli che mia figlia ama disseminare ovunque. Con l’intenzione di rimetterli al loro posto, mi dirigo canticchiando verso il soggiorno, dove abbiamo sistemato la cassa dei giochi di Takara. Appena varco la porta, mi accorgo di una presenza scura e allampanata che sbarra l’entrata principale, gettando un’inquietante e tagliente ombra lungo tutta la stanza. Sobbalzo dallo spavento e lascio cadere ciò che ho in mano. La sua figura è in controluce e fatico a metterne a fuoco i dettagli, ma la sagoma mi ricorda quella di mio marito. C'è qualcosa che stona, tuttavia.

-Sephiroth? -, domando, apponendo la mano sopra gli occhi, al fine di proteggerli dalla luce abbagliante.

-Per tua sfortuna, no... Sakura. -

Sgrano gli occhi. E' da parecchio che nessuno mi si rivolge con quel nome; ma la cosa che più mi stupisce è l’identità di quella voce.

No, non può essere...

-Genesis...? -, chiedo, mentre un sorriso malvagio fa capolino tra le tenebre, - No, tu sei morto. -

L'uomo alza il mento, superbo, e si liscia la pelle del viso con la mano: noto solo ora i segni del degrado.

- Diciamo che non sono né morto né vivo. Sono in un limbo di agonia e sofferenza. Incapace di vivere, quanto di morire. -

Non faccio in tempo a metabolizzare il significato di quella frase, che una mano guantata mi si avvolge attorno la gola, mentre tutto il mio corpo viene sollevato e scaraventato contro la parete alle mie spalle. Un dolore sordo si dipana dal retro della testa a tutta la schiena, stordendomi. Il suo viso deformato dall'odio si avvicina al mio, mentre un languido e sconcio sguardo scivola voglioso sul mio corpo, causandomi una scossa di disgusto.

-Sai,-, esordisce in tono mellifluo,-non c’è stata notte in cui non avrei voluto essere al posto di Sephiroth. -

A quella allusione, avverto la furia avvampare nel petto. La mia espressione s’indurisce, diventando truce. Sebbene quelle dita mi stiano strangolando, riesco a replicare.

- Tu avresti… avresti SEMPRE voluto essere Sephiroth... -, avverto la sua stretta farsi più debole, permettendomi di abbassare la testa e guardarlo in tralice, - Ma indovina, Comandante… tu non lo sei e non lo sarai mai. –

Un sorriso malvagio mi deforma il viso, dando peso alle parole appena proferite, le quali, come un maglio, lo colpiscono dritto nell’orgoglio. I suoi occhi blu mako s’incendiano di un’ira cieca e terribile.

- Questo lo vedremo! -, ruggisce, ebbro d’invidia.

Veloce come una vipera, la sua bocca crolla sulla mia, facendomi sbattere di nuovo la testa al muro; tuttavia ho la freddezza di mordergli il labbro. Lui si stacca, gemendo. Cerco di divincolarmi, ma la stretta attorno al collo si è rifatta inaspettatamente più serrata. Le mie mani corrono a cercare di allentare quella morsa d'acciaio. Lui, lentamente, si volta verso di me, rivolgendomi uno spaventoso sguardo carico d’odio. Dalle labbra scende un rigolo di sangue scurissimo, quasi nero, che attraversa quell’epidermide degradata, inondando le crepe della pelle, creando un intrico sempre più fitto ed esteso. Come un fiume con i suoi infiniti affluenti.

Nonostante la mia netta inferiorità, comunque, non lo temo. Ha fatto soffrire troppe persone, tra cui il mio Sephiroth. Non merita alcuna pietà.

- Visto? Non sei nemmeno in grado di baciarmi, miserabile verme. –

Genesis urla di rabbia e la sua mano libera si chiude in pugno, impattando sul mio viso.

Per un attimo, tutto diventa nero e silenzioso, tanto da credere che mi abbia staccato la testa. Poi, lentamente, ombre iniziano a fare capolino dalla mia visuale periferica e un fastidioso fischio fa da sottofondo alla mia confusione. Volto la testa in una direzione imprecisata e lo vedo. Riesco appena a metterlo a fuoco, che lui mi sovrasta e circonda il mio collo con entrambe le mani. La pressione è tale da chiudere totalmente le vie respiratorie. Apro la bocca in cerca d’aria, invano. Cerco di lottare contro quella presa, invano. L’unica cosa che posso fare è guardare. Fissare i suoi occhi brillare di furia omicida, concentrarmi sulla bava nerastra e schiumosa formarsi ai lati della bocca, mirare il mio sangue sporcargli quella pelle grigiastra ed insana. Contemplare la capitolazione della vanagloria, la miserabilità dell’uomo e la vittoria soverchiante del mostro.

Dopo un periodo infinito, durante il quale il tempo è sembrato stiracchiarsi, scricchiolii poco rassicuranti giungono al mio udito. Le ossa del collo non resisteranno a lungo sotto quella pressione disumana.

Non voglio morire, penso, terrorizzata. Poi, mi sovviene di non essere sola in questo momento.

Non POSSO morire!

Rinvigorita di una disperata forza, faccio correre la mano verso i miei capelli. Inizio a tastarmi la chioma. Il tempo a mia disposizione sta scadendo in fretta e il terrore di non farcela comincia a strisciare sottopelle, rendendomi vulnerabile ad un fatale panico. Sembra un miracolo appena le mie dita percepiscono ciò che stavo cercando: la bacchetta per i capelli. Senza indugi, mi strappo quell'affare dalle ciocche e lo dirigo direttamente alla base del collo del mio assalitore. Osservo la sottile lamina di metallo penetrare quei tessuti marci con una facilità impressionante, mentre il sangue nerastro spilla fuori dalle vene danneggiate. Genesis scatta all’indietro, mollando la presa, ululando di dolore. Inizio a tossire, ma non ho tempo per riprendere totalmente fiato. Incamero più aria che posso e lo spingo via con un calcio. Barcollando, mi riesco ad alzare e, grazie all’adrenalina, ritrovo la forza per correre verso l’uscita. Sono a pochi passi dalla salvezza, quando un dolore lancinante al ventre mi blocca. Abbasso lo sguardo: una lama fiammeggiante di mako rosso spunta dalla mia pancia. Non faccio in tempo a realizzare cosa mi sta succedendo, che quella lama viene sfilata con gesto secco. Il mio corpo barcolla sotto la prepotenza dell’azione e un grosso grumo di sangue risale dalla gola per poi venire sputato all’esterno. Muovo un passo in avanti.

Non posso… arrendermi, ma il mio corpo è troppo compromesso, ormai. Le gambe cedono e crollo in ginocchio. D’istinto, le mani corrono sul mio ventre. Ma non c’è niente…solo una voragine.

Il mio bambino...

Non so con quale coraggio oso guardare in basso, ma lo faccio. Smetto di respirare. Un dolore devastante sovrasta ogni altra emozione o sensazione. Inizio a piangere.

L’ho perso…

- Takara… -, evoco, esalando il mio ultimo respiro.

 

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- Maledetta cagna. -

L'ex SOLDIER avanza verso il cadavere della donna riversa in una pozza sempre più larga di sangue, mentre sfila dal collo l'arma impropria. Getta la bacchetta a terra con stizza e si tampona la ferita con la mano. S'inginocchia e studia il viso della sua vittima. Perfino nella morte è bella come un angelo. La sua espressione viene deformata dal fastidio.

- Che spreco. -, commenta, seccato.

Un fruscio di ali richiama l'attenzione del guerriero. Hollander.

-L'hai uccisa. -, constata, infastidito, -Almeno hai preso la bambina? -

-La mocciosa non è in casa. -, taglia corto Genesis, come se contemplare l’effetto delle sue azioni fosse una necessità più impellente.

Lo scienziato sgrana gli occhi, incredulo.

-Ti sei fatto dire dov'è? -, incalza il vecchio.

-Questa cagna non me l'avrebbe detto nemmeno sotto tortura. -, alza le spalle, senza distogliere lo sguardo dalla donna, -Tanto valeva divertirsi un po’. -, aggiunge, a tono più basso, tradendo un certo risentimento.

-Sei pazzo! Sephiroth te la farà pagare per questo! -

-Che venga...-

Genesis allunga la mano guantata verso un oggetto immerso nel sangue. Lo solleva, mentre il plasma gocciola tra le sue dita e lascia intravedere un anello dorato del tutto identico a quello che la donna ha attorno all'anulare destro.

- Avrà quel che cerca. -

-Ossia? La vendetta? -

Genesis stringe l'anello nella sua morsa e tira la catenina fino a spezzarla. Poi, alza lo sguardo verso il vecchio e risponde:

-La verità. –

Hollander rimane in silenzio per qualche istante, lasciando che la delusione passi.

- Che facciamo ora? –, chiede al Comandante.

- Recapitiamo la notizia al nostro caro Generale. -, risponde Genesis, assumendo un’espressione crudele.

L’ex-SOLDIER si alza e si avvia verso l’uscita, superando il vecchio scienziato. La grande ala nera si apre fiera sotto il sole debole dell’inverno. Senza voltarsi, Genesis ordina:

- Brucia tutto il villaggio. –

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Mentre tutto attorno a me arde, affido questa preghiera ai miei ricordi:

Takara, mia adorata figlia,

se anche ti sentirai sola su questo Pianeta,

se anche tenderai le orecchie al silenzio,

se anche le tue parole non avranno destinatario,

sappi che la tua mamma troverà sempre il modo di raggiungerti.

Sii forte, mia piccola guerriera,

combatti come solo tu sai fare,

dimostra al mondo che niente e nessuno potrà mai fermarti.

Ti voglio bene, mia dolce principessa.

 

 

Apro gli occhi, lentamente, stupito dal fatto di essermi svegliato in modo normale dopo tanto tempo. La preghiera disperata di Evelyn ancora mi echeggia nella mente e sento che la sua supplica è indirizzata a me, affinché io possa riferirla a Takara. Ma perché proprio adesso?

Sbatto le palpebre un paio di volte e metto a fuoco il soffitto sovrastante. E’ fatto di legno, noto. Ciò mi fa capire che non mi trovo nella stanza del motel a Corel, in quanto le pareti erano fatte di cemento. Confuso, cerco di riordinare le idee e l’ultimo ricordo che mi sovviene è l’aggressione da parte di… Genesis?

Ma certo: rimembro bene la sua mano guantata occludermi le vie respiratorie, mentre una frase di LOVELESS mi accompagnava verso l’oblio.

Ma sono vivo, apparentemente. Respiro, avverto il cuore battere… ho appena sognato.

Quindi la sua intenzione non era uccidermi. Mi ha… rapito?

Dove mi ha portato?

Sento di essere sdraiato su qualcosa di morbido, in un luogo accogliente, non umido o freddo, ben illuminato e nessuna catena blocca i miei arti. Non mi considera una minaccia, forse?

Qualcosa non torna.

Avverto del vociare sommesso attorno a me. Ad una voce maschile risponde una femminile. La prima è dannatamente famigliare, mentre la seconda… anche, ma non ricordo dove l’ho già sentita. Lentamente alzo il busto con l’intenzione di mettermi seduto. La mia attenzione viene subito attirata proprio dal possessore della voce maschile: Genesis. In piedi al centro della stanza in cui mi trovo, mano sul suo fido stocco, postura ritta e fiera. Avverto i miei muscoli irrigidirsi d’istinto. Le palpebre si assottigliano, focalizzandomi sulla minaccia. Dal canto suo, il rosso ricambia il mio sguardo con uno molto più truce, mascherando il fastidio serpeggiante attraverso quegli occhi offuscati dalla superbia. Come se si sentisse letto dentro.

Ti senti in colpa, lurido verme?

- Ben svegliato, Cloud. –

La voce femminile mette fine alla nostra silenziosa battaglia con una nota gentile e mi costringe a distogliere lo sguardo da Genesis. Mi rivolgo alla mia sinistra e ...

Non ci credo…, penso, rimanendo di sasso e senza fiato, riconoscendola immediatamente, sebbene non l’abbia mai vista, se non attraverso i ricordi di Sephiroth ed Evelyn.

Su uno scranno, posizionato accanto al mio capezzale, elegantemente seduta, schiena dritta e fiera, sta una ragazza dai lunghi capelli bruni. Essi le scendono lungo la spalla destra e le si posano sul petto, come una cascata dai riflessi color resina. Una frangia ondulata le contorna il viso di porcellana pallida Esso è di un pallore quasi etereo, bellissimo, con tratti, sì ammorbiditi dalla giovane età, ma, per un certo verso, duri e granitici nella loro anormale serietà. L’insieme, tuttavia, si rivela armonioso ed elegante come una sinfonia d’altri tempi. Labbra rosse, carnose e piene circondano il centro di una boccuccia graziosa e si assottigliano elegantemente in direzione dei lati, come se fossero maliziosamente alla ricerca di un bacio da rubare. E poi, ci sono gli occhi… Esper santissimi! Non credo di aver mai visto nulla del genere. Profondi, penetranti, dotati di un’ancestrale saggezza e un’astuta sagacia. Occhi capaci di far abbassare lo sguardo anche al più arguto degli uomini. E quei colori… posso quasi vedere un piccolo Flusso Vitale scorrere in quelle iridi, il quale dona loro una sfumatura diversa di verde ogni volta che lei sbatte le palpebre.

Il cuore mi batte all’impazzata, mentre avverto mille sensazioni esplodere nella mia mente. Sephiroth è impazzito dalla felicità, lo avverto scalpitare, implorarmi, affinché io gli conceda la possibilità di emergere e parlare con lei, dopo così tanti anni.

 

Non avrei mai sperato di rivederla ancora… è diventata davvero una principessa.

 

Sorrido a quella frase così da padre, immaginandomi la dolcezza con cui ora lui la sta ammirando, sorpreso e fiero di aver creato un essere così bello e perfetto.

 

Ti prego, dille qualcosa.

 

- Alla fine, sei stata tu a trovarmi... –, proferisco, accogliendo la supplica del Generale, per poi aggiungere, dopo un attimo di silenzio, - Takara. –

La ragazza mi concede un timido sorriso d’intesa, infrangendo la sua impassibilità.

- Ho dovuto farlo. -, ribatte lei, calma, - Prima che lo facessero altri. –

Avverto un brivido fin troppo famigliare percorrermi la schiena. La sua voce, la sua espressione, i suoi gesti, la sua postura… ogni cosa è spaventosamente somigliante a Sephiroth. Questi anni di lontananza non l’hanno resa meno simile a suo padre, a quanto pare.

Hanno ragione… lei è la tua copia in tutto e per tutto

- Perché? –, chiedo.

La ragazza si fa indietro e si appoggia comodamente allo scranno, incrociando le dita sul suo grembo, mentre le gambe vengono accavallate l’una sull’altra. La veste lunga emette un fruscio, mentre cade di lato, scoprendo pesanti stivali di pelle. Noto adesso che indossa un completo totalmente nero. L’abito che veste sembra spesso e resistente, come un’armatura, e la fa sembrare più robusta di quanto non sia in realtà. Perfino i suoi stivali hanno una suola abbastanza spessa, tanto da donarle qualche centimetro in più. Ciò la rende austera e seria, oltre a conferirle una certa autorità, motivo per cui, penso, lei vesta quei panni. Tutto ciò è a scapito della giovanissima età, poiché sembra molto più matura di quanto non sia in realtà. Anche se, temo, non sembro essere troppo lontano dal vero.

 

Non era questo che volevo per lei.

 

- Vuoi sapere perché ti cercavo, Cloud? Beh, la risposta è semplice. Tu hai qualcosa che mi appartiene. –

La sua mano destra si allunga in quella direzione e afferra un libro appoggiato su un comodino. La copertina nera svetta tra le sue mani bianche, mentre lei lo maneggia con dolce premura, accarezzandone la pelle. Se lo appoggia sulla gamba accavallata e lo osserva assorta per qualche istante, sospirando. Ciò tradisce un complesso intrico di emozioni, di cui riesco, tuttavia, solo a scorgerne una piccola parte. Il resto è celato dietro quella maschera di fredda perfezione. Pensieri sepolti in profondità nel suo animo, ma che, davanti a quel libro, non può fare a meno di mostrare.

Come se ti sentissi finalmente a casa.

Poi, come riscossasi da un pensiero, si rivolge finalmente a me.

- Io non provo alcun desiderio di vendetta nei tuoi confronti, Cloud Strife. -, esordisce, guardandomi dritto negli occhi, - Capisco le tue motivazioni e le condivido. Anch’io, in questi anni, ho cercato di fare ammenda dei peccati di mio padre, aiutando quante più persone ho potuto, accogliendole qui, in questa vecchia fortezza abbandonata. -, si ferma un momento, guardandosi intorno, per poi ritornare a fissarmi, gonfiando il petto con fierezza, - Allo stesso tempo, tuttavia, non mi vergogno nemmeno delle mie origini; poiché mio padre, come tutti noi, ha combattuto con l’intenzione di mettere la parola ‘fine’ su questa guerra millenaria. -, le ragazza rilassa i muscoli e aggiunge a bassa voce, lasciando vagare lo sguardo triste su un punto imprecisato, - Non oso immaginare in che stato i miei genitori ora vagano nell’aldilà per aver tentato di dimostrare che la pace è possibile. –

Stringo le labbra, lasciando intendere che la ragazza ha visto giusto.

- Ma la Shinra non fa altro che intralciarci. -, afferma, alzando lo sguardo di scatto, la voce vibrante di rabbia, le dita che si stringono con più forza sul libro, - Loro non hanno mai smesso di cercare Jenova. E finché quel potere verrà usato, chiunque ne sarà toccato, gli sarà impedito l’accesso alla Terra Promessa, per chi si trova già nell’aldilà, come i miei genitori, o a rifluire nel Lifestream, per chi si trova da questa parte. Come loro. –

Seguo con lo sguardo la direzione indicata dalla mano, la quale punta verso Genesis. Lo osservo con più attenzione e noto quanto si discosti dal giovane banoriano pieno di vita e frizzante appartenete a un passato troppo lontano da dirsi veramente esistito. Il tempo non è stato affatto clemente con lui. A differenza di Takara, la quale sembra una giovane rosa in piena fioritura; egli è uno stelo giunto al termine del suo mandato, stanco e rinsecchito da un gelido e buio inverno. Il suo viso magro ed emaciato è quasi del tutto nascosto da una capigliatura che ha perso la sua antica colorazione fiammante, sostituita da un rame spento, reso ancora più chiaro da striature di capelli bianchi. La chioma gli scivola disordinata lungo i lati del collo ben oltre le spalle, le quali sono difese dai suoi ben conosciuti spallacci di pelle nera. Come la sua protetta, veste completamente di nero, a parte il suo immancabile impermeabile rosso, sebbene dell’antica gloria ne sia rimasto ben poco; poiché le sue parti mancati sono state sostituite da dondolanti frange di pelle nera, che rassomigliano quel cappotto ad un’accozzaglia di stracci vecchi e malandati. Inoltre, il tessuto è talmente consunto che in alcune parti il colore originario si è addirittura perso. L’unica caratteristica sfuggita dagli artigli del tempo sono gli occhi scavati nella pelle mortalmente pallida. Blu mako brillante di ira cupa e oscuro risentimento, superbia e orgoglio. E sotto tutto questo inferno: tristezza. Infinita tristezza.

 

Te l’ho promesso, vecchio mio: tu marcirai.

 

Poi la mia attenzione viene catturata da un essere emergere dai piedi dello scranno e poggiare il suo muso argentato sulla gamba di Takara. E’ una specie di pantera ricoperta da una spessa armatura biologica di colore argento. Ciò che cattura la mia attenzione è la doppia ala bianca apposta sulla sua spalla destra.

- Una copia di Angeal? -, chiedo, esterrefatto, - Non credevo ce ne fossero ancora. –

Takara si lascia scappare uno sbuffo divertito.

- Questa non è una semplice copia. -, spiega, mentre accarezza il capo della belva, - Questo E’ Angeal. Almeno, una parte di lui. Dopo la sua morte, egli ha suddiviso la sua essenza in tre diversi recipienti. Questo è l’ultimo rimasto. –

Annuisco. Un po’ come face Sephiroth con Kadaj, Yazoo e Loz.

- Che fine hanno fatto gli altri? –, chiedo.

- La Shinra li ha uccisi. -, risponde Genesis, infrangendo il caparbio silenzio in cui è versato fino a questo momento. La sua espressione tradisce un forte odio per quella società. A quanto pare, il risentimento verso ciò che gli è stato fatto non è svanito in questi anni.

Ripercorro rapidamente la visione di Evelyn e mi domando con quale faccia tosta Genesis osi stare alla presenza di Takara, dopo aver massacrato senza pietà sua madre e condotto suo padre alla follia. Non so se la ragazza sia al corrente di questo, ma a giudicare dallo sguardo truce con il quale mi si rivolge, credo proprio che lui le abbia taciuto la verità sulle sue orribili azioni. Cosa crede di fare? Sostituirsi a suo padre per fare ammenda dei suoi peccati?

Viscido

 

Non cambi mai, Genesis.

 

Un sorriso malevolo mi deforma il viso. L’espressione dell’ex-SOLDIER vira da truce a terrorizzata in un nanosecondo, appena carpisce il significato celato dietro quell’azione. Impallidisce mortalmente.

- Genesis? Che succede? -, chiede Takara, notando il malessere del rosso.

Quest’ultimo scuote la testa e veicola lo sguardo in un angolo basso con un gesto stizzito. Stringe l’elsa dello stocco rosso con più forza, facendo scricchiolare la pelle dei guanti, al fine di darsi un contegno.

- Niente. -, risponde, secco, - Vado a controllare come se la cavano di sotto con quell’essere infernale. –, proclama, poi, nel tentativo di cavarsi d’impiccio.

Il Comandante gira i tacchi e, in gran carriera, si avvia verso l’uscita. La menzione a una fiera infernale, tuttavia, mi fa rendere conto di un dettaglio.

- Un momento. -, esclamo, alzando la mano verso il Comandante.

L’ex-SOLDIER si blocca sull’uscio. Posso avvertire il suo disappunto serpeggiare in ogni cellula del suo corpo.

- Quale essere infernale? –, chiedo, volgendo lo sguardo tra Genesis e Takara. Quest’ultima mi risponde.

- E’ una creatura che non ho mai visto prima. Ha inseguito Genesis fino a qui e per poco non lo ha ucciso. –, la ragazza guarda l’uomo con un accenno di preoccupazione, - Weiss chiama quell’essere Chaos. –

Sbarro gli occhi.

Vincent! Vincent mi ha inseguito fino a qui!

- Aspetta, vengo anch’io! –, decido, mentre salto giù dal letto e mi avvio anch’io verso l’uscita.

L’ex ufficiale si volta di scatto e mi punta la spada al collo, bloccandomi sul posto.

- Tu non vai da nessuna parte! Non dopo tutta la fatica che ho fatto per strapparti dagli artigli di quella bestia! –, ringhia il rosso, livido di rabbia.

Avverto Takara alle mie spalle balzare in piedi.

- Genesis… Cosa fai? –, chiede lei, attonita.

- Sono quasi morto per portarti questo avanzo di Jenova e non lo farò scappare così facilmente. –

La punta della sua spada mi si appoggia sul collo. Il freddo metallo apre un taglio sulla mia pelle. Io non desisto e lo osservo con aria di sfida. Accanto a me avverto la presenza rassicurante di Sephiroth, il quale rivolge al vecchio amico uno sguardo carico di odio.

E’ tutto tuo, Sephiroth.

- Chiunque attenti alla tua preziosa vita deve morire, vero Genesis? –

Il rosso desiste per un momento appena riconosce la voce del suo antico rivale. Tuttavia, dura solo un momento e la pressione della sua spada si fa più intensa.

- Tornatene nel tuo vaso di Pandora, Sephiroth. O faccio fuori il tuo prezioso burattino. –, ringhia a denti stretti.

In quel momento, Takara mi si affianca. La sua espressione è dura e inflessibile. Serissima.

- Genesis. Metti giù quella spada. -, ordina perentoria. Intanto, il mostro di Angeal le si para davanti, pronto a fare da scudo.

L’ex SOLDIER, in primo momento, cerca d’ignorare l’ordine e stringe la spada con più veemenza, ma la sua presa si fa incerta man mano che il tempo passa. Poi, compie l’errore di incrociare lo sguardo di Takara e, a quel punto, perde totalmente ogni oncia di baldanza che ha in corpo. La punta di Rapier tocca il pavimento emettendo un suono limpido.

Takara sospira sollevata e così la sua espressione si distende, tornando neutra. Volge poi l’attenzione su di me e mi fissa per un lungo istante, studiosa. Mi pare di vedere una domanda particolare agitarsi in quelle iridi di Lifestream, ma una necessità più impellente la porta ad accantonarla. Per ora.

- Perché vuoi vedere quel mostro? –, chiede, infatti.

Ci penso un attimo prima di rispondere. Credo che abbia il diritto di sapere di non essere totalmente sola al mondo, ma sono certo che a Vincent potrebbe non fare piacere essere svelato mentre veste quelle mostruose spoglie. Per non parlare di quello che potrebbe pensare Takara sull’argomento. Forse è meglio stare sul vago.

- Quel mostro è un mio amico. Si chiama Vincent e, come voi, è una vittima della Shinra. –

Tutti, attorno a me, si fanno attenti. La bocca della ragazza si dischiude appena, tradendo la sua sorpresa.

- Si è tramutato in quell’essere per proteggermi. Se vede che sto bene, dovrebbe tornare al suo aspetto originale. –

- “Dovrebbe” … -, ripete Genesis, velenoso.

Io gli rivolgo un’occhiata infastidita.

- Dovrebbe. -, reitero con tono di sfida.

Improvvisamente, Takara si avvia verso la porta, superandoci, incurante del nostro ennesimo battibecco. Il banoriano si ridesta appena si rende conto delle intenzioni della ragazza.

- Non vorrai davvero dargli credito? –, prorompe, allargando le braccia e girandosi verso Takara.

La ragazza si ferma sull’uscio e, misuratamente, si volta verso di noi con espressione sentenziosa stampata in viso.

- La sua spiegazione ha senso. Dopo tutto quello che ha passato per trovarmi, a che pro scappare ora?  E poi non possiamo lasciare che un nostro fratello soffra per un altro secondo di più. –

E senza aspettare alcuna risposta, sparisce nel corridoio, seguita a ruota dal mostro di Angeal. Genesis grugnisce, irritato.

- Stesso tono da maestrina. E poi c’è chi dubita che sia davvero tua figlia… -, commenta, rivolgendosi al vento.

Il banoriano mi squadra dalla testa ai piedi e poi esordisce, esasperato.

- Andiamo, sì o no? –

 

Le urla di Chaos sono sempre più raccapriccianti. I sotterranei ne sono invasi, riempiti da grida di cordoglio e rabbia cieca. Mi sento in colpa per aver costretto Vincent a tramutarsi in quella bestia. Chissà quali ricordi ora lo stanno tormentando. Raggiungiamo la cella a tenuta stagna dentro cui gli uomini di Takara, o i suoi ‘fratelli’ come lei ama chiamarli, lo hanno confinato. Sebbene quello sia acciaio temprato, la potenza di Chaos è in grado di piegarlo come burro appena egli si accanisce un po’ di più. Quella porta, infatti, non resisterà a lungo e, infatti, molti degli uomini stanno iniziando ad armarsi, così da tenersi pronti per respingere l’ennesimo attacco della bestia. Appena giungiamo nei sotterranei e tutti vedono Takara, una coperta di sbigottimento cala nella stanza. La nostra strada, infatti, viene, bloccata dal capo di quella combriccola. Weiss, l’Immacolato, l’ex leader di Deepground.

- Takara, che ci fa qui? -, chiede lo Tsviet con tono sinceramente preoccupato, per poi rivolgersi a Genesis, severo, - Pensavo di averti detto di tenerla lontano da questa zona. –

Weiss appunta uno sguardo d’accusa sul rosso, il quale lo sostiene con una semplice alzata di spalle.

-Prova a fermarla tu, se riesci. Lo sai com’è quando si mette in testa una cosa. –, commenta l’ex SOLDIER, scoccando un’occhiataccia alla ragazza.

- Smettetela. Sarò anche una bambina ai vostri occhi, ma sono io a comandare qui. -, ordina seccata, mettendo fine alla discussione con un secco movimento della mano.

Non posso fare a meno di sorridere di fronte a quello scambio di battute e avvertire una grande fierezza riempire il mio petto.

 

Non farti mettere in piedi in testa, figlia mia.

 

Poi ella si rivolge a me, appena giungiamo al limite dell’area di sicurezza.

- Avanti, Cloud, tocca a te. –, dice, facendomi cenno di avanzare.

Prendo un profondo respiro e mi avvio da solo verso la cella, dalla quale tonfi sempre più forti e sempre meno rassicuranti cigolii arrivano. Appena raggiungo l’entrata dilaniata dalle artigliate di Chaos, il mostro ringhia sommesso, studiandomi con i grandi occhi gialli attraverso le fessure.

Buon segno, penso.

- Vincent? –

Il mostro si fa attento e si abbassa alla mia altezza, annusando l’aria. Vedo un guizzo di riconoscimento nelle sue iridi dorate.

- Sì, Vincent, sono io. Sto bene, come vedi. -, la bestia continua ad ascoltarmi e studiarmi, come se fossi la cosa più interessante del mondo.

- L’abbiamo trovata, Vincent… Takara è qui. –

L’ex Turk sbarra gli occhi e avverto i suoi artigli stringersi attorno al metallo, il quale stride fastidiosamente sotto la pressione impressa. Subito dopo, egli smette di ringhiare e abbandona la porta, ritirandosi verso il fondo buio della cella. Tiro un sospiro di sollievo, convinto che egli si sia appartato per ritrasformarsi nell’ombra. Appena mi giro verso la combriccola, per far segno loro che il peggio è passato, Chaos riemerge dall’oscurità con rinnovata forza e divelta la porta, facendola crollare a terra con un grosso tonfo. La belva mi soprassa, schiacciandomi a terra a causa dello spostamento d’aria e si getta verso la gente alle mie spalle.

-VINCENT NO! -, urlo disperato, tendendo la mano nella sua direzione.

Distolgo lo sguardo inorridito e mi preparo ad ascoltare il suono raccapricciante di corpi squarciati, ma tutto ciò che sento è un improvviso e possente battito d’ali. La corsa forsennata del mostro, infatti, sembra bloccarsi di colpo. Le grandi ali sono totalmente spalancate, fungendo da bilanciere, così da evitare di cadere in avanti per il troppo slancio, altrimenti rischierebbe di cadere sopra qualcosa di troppo prezioso per essere travolto.

Mi alzo e cerco di sbirciare al di là del corpo del mostro e vedo Takara ferma di fronte a lui, fissarlo a bocca aperta.

Per attimi infiniti, nonno e nipote rimangono a fissarsi reciprocamente, senza muovere un singolo muscolo. Ad un certo punto, i tendini tesi di Vincent iniziano a rilassarsi e la belva si abbassa lentamente, scendendo verso il pavimento, fino a che non si accovaccia ai piedi della ragazza. Dal canto suo, lei segue con lo sguardo la lenta caduta della maestosa fiera. Altri secondi d’immobilità, durante i quali, Vincent studia il viso della nipote con una devozione commovente. L’attimo successivo, gli artigli di Chaos si alzano in direzione del viso della ragazza, lentamente, dolcemente. Dietro di loro, gli uomini di Takara iniziano ad emergere dai loro nascondigli, armi alla mano, pronti a proteggere la loro signora; ma lei li ferma con un semplice cenno. Appena gli artigli sfiorano la guancia della ragazza, la trasformazione inizia a regredire rapidamente. Le unghie acuminate si tramutano in mani umane, le quali sembrano tremare di un’emozione così potente da quasi impedire a Vincent di parlare. Ma quando ci riesce…avverto il mio sangue gelarsi.

- Lucrecia… -, sospira l’ex Turk, scrutando ogni singolo dettaglio di quel viso così familiare e, al contempo, sconosciuto. Le sopracciglia di Takara si corrucciano, concentrata nel tentativo di comprendere la situazione. Vincent ha perfettamente ragione: con quell’espressione persa, fragile e confusa stampata in volto, la ragazza è la copia della dottoressa Crescent.

- Mi spiace, ma io mi chiamo Takara. -, sottolinea la ragazza, addolorata.

Vincent sorride dolcemente e afferra il viso della nipote con entrambe le mani. I pollici le accarezzano gli zigomi.

- Certo, -, risponde l’ex Turk con una soavità mai sentita, - ma tu le somigli moltissimo. –

La ragazza è ancora più confusa.

- Perdonami, ma io non conosco questa persona. Dovrei? –

Per un attimo, il dolore deforma l’espressione del moro. E’ terribile come Hojo abbia cancellato la memoria di lei in modo così totale.

- E’ una lunga storia-, spiega Vincent, dolente, abbassando gli occhi; per poi rialzarli con rinnovata decisione, - Ma sappi questo: Lucrecia Crescent è il nome di tua nonna. La madre di tuo padre. –, proferisce, infine, con fierezza.

L’espressione di Takara si riempie di stupore, comprendendo la portata di quella notizia. Suo padre non è solo un mostro nato dai disumani esperimenti della Shinra, ma una persona. Una persona con una madre e un padre.

Alla stessa conclusione deve essere arrivata anche Takara, poiché chiede:

- Se Lucrecia Crescent è mia nonna e tu la conosci… tu chi sei, allora? –, con il tono di sapere già la risposta, ma bisognoso di conferme.

Vincent tentenna prima di rispondere.

Forza Vincent.

- Io sono Vincent Valentine. –, proferisce con un soffio, seguito da un altro lungo silenzio, durante il quale Vincent finalmente sembra accettare il suo vero e unico ruolo. Un ruolo che rimpiange di non aver accettato quasi quarant’anni fa.

- Sephiroth è mio figlio. -, proferisce infine quasi con sollievo.

Il silenzio si fa attonito, mentre la ragazza elabora quella notizia. Vedo mille emozioni agitarsi nelle sue iridi multiformi, confuse come un mare in tempesta; ma poi il sereno finalmente giunge. Così, per la prima volta da quando la conosco, Takara si apre nel sorriso più bello che abbia mai visto: luminoso come il sole d’estate, sebbene lacrime di gioia ne imperlino la perfezione. Ma è forse proprio quella sincera commozione a renderlo ancora più magnifico. Di colpo, il capo impassibile e freddo di quella combriccola di disperati, scompare, mostrando il viso di una bambina sola e spaventata, fragile e delicata che ha appena ritrovato un pezzo di quella famiglia che credeva perduta per sempre. E’ felice, come Sephiroth mi mostra nei suoi ricordi, e, con mesta dolcezza, egli rivede sua moglie rinascere in quel sorriso. Avverto una dolorosa stretta al cuore, mentre lacrime di commozione rigano anche le mie guance. Nel frattempo, la ragazza getta le sue braccia al collo di Vincent, accogliendolo con calore nel suo piccolo mondo. L’ex Turk ricambia l’abbraccio e inizia ad accarezzarle i capelli, coccolandola e consolandola, mentre il suono struggente di un pianto innocente soppianta il cordoglio rabbioso di Chaos.

- Va tutto bene, piccola, ci sono io ora con te. Non rimarrai più sola. -

- Me lo prometti? –

- Te lo prometto. –

E’ una scena che stringe il cuore, ma un pensiero mi fa morire il sorriso dalle labbra.

 

Con che coraggio riuscirò a spezzare quella promessa?

Vincent… mi dispiace…

 

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27 Ottobre XXXX

 

Sono passati mesi dalla fine della Guerra e il contemporaneo epilogo della Crisi di SOLDIER, ma i semi di quegli eventi stanno germogliando proprio in queste ore propizie di apparente pace tra grandi potenze. Cellule terroristiche anti-Shinra stanno nascendo in ogni angolo del mondo, armati da ciò che rimane della Crescente e della Resistenza di Wutai, unendo la loro voce alla ben conosciuta AVALANCHE. Gli attentati sono all’ordine del giorno e migliaia di lavoratori innocenti ne fanno le spese. Stime più o meno accurate indicano numeri allarmanti, paragonabili a quelli di una guerra in corso. E forse è proprio così, ma la Shinra non se ne rende conto e continua il suo sporco predominio, innalzandosi arrogante e ingrata sulle spalle di quelle famiglie rimaste senza sostentamento; mentre dall’altra tendono viziosamente la mano in un atto di finta misericordia. Perché, oramai, essere un dipendente della Shinra equivale ad avere un bersaglio disegnato dietro la testa; eppure non c’è altra Compagnia che sia rimasta florida e forte nonostante le guerre, anzi si è arricchita immensamente proprio grazie a quest’ultime. Nessuno può opporsi alla sua forsennata marcia verso il dominio assoluto e non importa quanto forte urlino i suoi oppositori, loro troveranno sempre il modo di zittire ogni singolo sospiro di protesta. Soprattutto se si ha il controllo di un Reparto militare del tutto scevro da pietà ed umanità. Sebbene la sua forza non sia più quella di una volta, SOLDIER rimane ancora quel Reparto pieno di persone rese folli dalla sete di sangue da cui il Presidente attinge sempre a piene mani. Soprattutto ora che ha il totale comando su di noi, in quanto il Direttore Lazard è scomparso.

E’ stato un duro colpo sia professionalmente che personalmente. Lui era l’unica testa dell’idra che rispettassi e che, effettivamente, ammirassi. Prima del suo arrivo, SOLDIER era un ammasso informe di uomini senza controllo, le cui uniche preoccupazioni erano la guerra e i soldi. Non eravamo soldati, ma mercenari organizzati in piccole tribù costantemente in lotta per il predominio assoluto. Come la maggior parte dei posti in cui ho vissuto, SOLDIER era l’ennesima prigione dentro cui sarei dovuto essere rinchiuso per tutto il resto della mia esistenza; ma, stavolta, invece di essere solo, ero pure male accompagnato. Ricordo la prima volta che misi piede in quella bolgia infernale. Avevo solo dodici anni. ‘La recluta più giovane nella storia di SOLDIER’, mi definirono i giornali a pieni polmoni. Una vanto per la Compagnia, ma nulla più che l’ultima ruota del carro per il Reparto. Un giocattolo nuovo con cui trastullarsi nelle lente ore di servizio. Miserabile carne fresca da triturare ed abusare fino a vita natural durante. Fin dal primo giorno, infatti, non hanno fatto altro che vessarmi e tormentarmi ogni singolo momento della giornata e con ogni mezzo a loro disposizione. A quell’età, tuttavia, aveva già visto abbastanza marciume per evitare di farmi mettere i piedi in testa da un ammasso di repressi senza cervello. Dopo anni passati ad essere la cavia preferita di Hojo, quegli esseri abietti non erano affatto degni avversari e risultarono essere uomini più malleabili del previsto. Non mi ci volle molto capire il funzionamento di quel mondo caotico, la cui unica regola era quella dettata dal più.

Sii il meglio in ogni aspetto, solo così ti conquisterai la loro ammirazione e il loro rispetto. Solo così li avrai in pugno.”

Così mi venne insegnato da un vecchio veterano, il quale mi prese stranamente in simpatia. Le sue parole furono d’ispirazione, tant’è che non ci misi molto a raggiungere il comando dell’allora gerarchia SOLDIER, in modi più o meno onorevoli. Poteva capitare che qualche Capitano ricevesse una pallottola dritta in testa, o venisse pugnalato alle spalle o il suo battaglione si rivoltasse contro di lui, o morisse in un semplice scontro all’ultimo sangue: i modi per levare di mezzo qualche personaggio scomodo erano centinaia, bastava avere un po’ di fantasia. La svolta per la mia definitiva ascesa al comando di SOLDIER, tuttavia, arrivò quando uccisi il mio mentore, da cui ereditai Masamune e battaglione. Quest’ultimo era il più potente e numericamente superiore dell’intero Reparto ed io ero un sedicenne in preda a turbe mentali ed ormonali. Impiegai quei mezzi nei modi più truculenti possibili. Desideravo vedere bruciare il mondo e godere della sofferenza altrui, così da, segretamente, nascondere la mia. Ma la mia parte pura ed innocente, quel Bambino che non ero mai stato, sapeva che così SOLDIER non sarebbe mai stato nulla di meglio di un manicomio per mercenari assetati di sangue. Sfortunatamente, mi era difficile frenare quel devastante desiderio di distruzione; poiché, nella mentalità tribale di quel mondo, io ero l’unica autorità che contava alla Shinra. C’era chi mi riteneva superiore perfino al Presidente stesso. E nella mente di un ragazzino che non aveva mai avuto alcun riconoscimento nella vita era una sensazione del tutto nuova e meravigliosa. Diventai una minaccia per il nascente impero Shinra, così, con la scusa di una maggiore efficienza e controllo, decisero di creare una nuova figura amministrativa a capo di SOLDIER. Come sempre accade, la Shinra tanto mi dà e troppo mi toglie. Ottenni l’effettivo riconoscimento del mio rango, a patto di accettare l’affiancamento di un Direttore che avrebbe valutato ogni mia singola mossa. Al primo passo falso, sarei stato destituito. Molti furono i Direttori che si susseguirono da quel giorno agli anni a seguire, poiché non tutti erano tagliati per quel ruolo. Metà dei soldati avevano imparato a temermi e rispettarmi nel periodo della mia rapida ascesa; mentre l’altra metà aveva vissuto la propria giovinezza all’ombra del mio mito. Ne consegue: ogni singolo agente SOLDIER avrebbe dato la vita per me.

Ho odiato tutti i predecessore di Lazard. Vecchi bacucchi capaci solo di sminuirmi per la mia giovane età, sebbene avessi più esperienza di loro messi insieme. Nonostante tutto, capii che mantenere SOLDIER allo stato in cui verteva in quei tempi non era per niente efficace e tanto più che la mia fama cresceva, erano sempre di più i ragazzini pronti ad entrare nelle fila del Reparto. E molti di loro non erano pronti. Fu così che chiesi l’istituzione di un periodo di apprendistato come fante nell’esercito regolare, a seguito un esame di ammissione, sia teorico che pratico, oltre che il solito test di affinità mako. Fu solo con Lazard, tuttavia, che tutto questo divenne una vera e propria prassi, mettendo fine al nepotismo di SOLDIER. Molti rampolli venivano gettati in pasto a uomini che avevano visto e fatto cose inimmaginabili, senza un minimo di scrupolo e del tutto privi di pietà. Per quanto mi dispiacesse per quei poveri ragazzi vittime dell’idiozia dei propri parenti, le regole vanno fatte rispettare, in un modo o nell’altro, e gli errori pagati. Una lezione ogni agente SOLDIER ha imparato e spesso a carissimo prezzo.

Sotto Lazard, comunque, le cose cominciarono ad andare per il meglio, trasformando SOLDIER in ciò che ho sempre voluto: un Reparto rispettabile con dei veri ideali e dei veri valori. Rimasi piacevolmente stupito nell’apprendere che finalmente il Presidente aveva ascoltato una delle mie richieste annuali, ossia quella di affiancarmi un Direttore con un approccio più collaborativo. Lazard era esattamente ciò che avevo chiesto. Aveva il comando nel sangue, ma sapeva essere comprensivo e diplomatico nelle questioni più spinose e aveva sempre la risposta pronta per tutto. Non era affatto un uomo d’azione, ma ci teneva essere presente sul campo nelle battaglie campali, al fine di risollevare il morale. Aveva a cuore i sogni di ogni singolo agente. Infatti, la sua domanda peculiare era: ’ Dimmi, qual è il tuo sogno?’, seguita a ruota da: ‘I sogni irrealizzabili sono i migliori.’ Lo chiese perfino a me, ma io non caddi nella sua trappola, perché sapevo benissimo che i miei sogni non si sarebbero realizzati. Di contro, gli rivoltai la sua stessa domanda con un pizzico di scherno. Il Direttore, serissimo, disse una frase che non dimenticherò mai.

‘ Dare vita ai sogni migliori. Perché nulla è irrealizzabile, se lo credi davvero. A quanto pare, tu non credi per nulla in te stesso, Sephiroth. ‘

MI lasciò di stucco e, devo ammettere, senza parole per replicare, impresa alquanto ardua. Fu in quel preciso momento che, dopo tanti anni, avevo di fronte a me un uomo degno del mio rispetto. Infatti, replicai: ‘No, non in me stesso, signore. Ma in lei, sì.’

Lo sguardo d’intesa che ci scambiammo fu l’inizio di una fiorente collaborazione. La vecchia cricca di SOLDIER venne eliminata e con l’arrivo di Angeal e Genesis ho sperato di avviarmi verso un futuro radioso per quel Reparto che piano piano era diventato la mia famiglia. Sì, perché è lì che, per la prima volta, mi sono sentito parte di qualcosa, che le mie azioni avrebbero avuto delle conseguenze non solo per me, ma anche per altre persone. Con l’avanzare dei ranghi, mi resi anche conto che le vite degli uomini sotto il mio comando erano nelle mie mani. Capii il significato della parola ‘responsabilità’. Ogni vita era preziosa e io non POTEVO più sprecarne, perché perdere un uomo oggi sarebbe significato averne uno in meno domani. Inoltre, assistere quelle famiglie piegate dal dolore era straziante e fu ancora più terribile quando realizzai che anche le loro speranze erano state in mano mia. Era un colpo al cuore vedere bambini e mogli e madri e padri piangere su quei corpi che non ero riuscito a portare in salvo e che quella perdita avrebbe completamente sconvolto le loro vite. Mi sentivo in colpa per la mia negligenza, tanto che avrei voluto togliermi la vita, ma Lazard aveva le parole giuste per ognuno di noi, me compreso.

“Quegli uomini stanno aiutando il Pianeta e non hanno mai smesso di lottare. Combattono per rendere il Lifestream più forte contro la Shinra.”

Mi stupii quando mi rivolse queste parole. Il Direttore non mi ha mai nascosto un certo risentimento per la famiglia Shinra anche se non ne ho mai compreso il reale motivo. Non che ne avesse tutti i torti, credo non esista anima viva che non abbia un conto in sospeso con la Compagnia. Con il loro sporco tocco hanno infangato tante, TROPPE vite. In effetti, non mi stupisco che esistano gli attivisti anti-Shinra.

La guerra non è mai finita e mai lo sarà, almeno finché questa realtà esisterà, finché i reattori mako continueranno a succhiare la vita del Pianeta, finché il Lifestream continuerà ad alimentare le nostre case, ci sarà sempre qualcuno da combattere. Il problema, ahimè, è che la forza e la fiducia di SOLDIER sono giunti al loro capolinea oramai. Le regole, i criteri, l’ordine costruiti in anni di collaborazione sono scomparsi assieme al Direttore. L’onore, la disciplina, la fiducia sono svanite con Angeal. La ribalta, l’appariscenza e l’elevatura intellettuale dissolti con la caduta di Genesis. Sono solo rimasti frammenti di quella prigione dorata dentro cui avevo sperato di realizzare me stesso in qualche modo. Quel mondo amato e odiato è sbiadito come un’antica fotografia, custodita gelosamente nei miei ricordi. SOLDIER è una famiglia sventrata, sopravvissuta per miracolo alla guerra, ma troppo ha perso per la via, menomata sia nel cuore che nel fisico. E così sono i suoi agenti. A causa della sfiducia dilagante tra la gente comune, una paura incondizionata si è diffusa tra il popolino, il quale cerca di esorcizzare questo timore con il disprezzo. Durante la Crisi ci sono state centinaia le campagne contro il Reparto, additandoci come pericolosi assassini pluripremiati. La pressione mediatica è stata così asfissiante da costringere la Compagnia a ritirare qualunque tipo di assistenza ai SOLDIER invalidi. In pochi giorni, centinaia di uomini che hanno vissuto esperienze scioccanti e traumatiche hanno visto il rispetto del popolo scomparire davanti ai loro occhi, la loro vita agiata strappata dalle mani e gettati in mezzo alla strada senza uno straccio di aiuto. Vedo ogni giorno, per le strade di Midgar, ex-compagni lasciati a morire di fame lungo i marciapiedi, sotto lo sguardo incurante della folla. Uomini incapaci di lavorare normalmente, dopo aver conosciuto il morso della guerra. Uomini distrutti sia nel corpo che nella mente, sacrificate per un futuro migliore per le proprie famiglie, ma di cui, ora, non è rimasto più niente. Proprio la scorsa settimana, mi stavo recando al lavoro e ho assistito a questa scena pietosa. Un gruppo di bulletti aveva attirato in una strada secondaria un senzatetto e lo aveva aggredito. L’uomo non era in grado di proteggersi da solo, poiché le sue gambe erano ridotte a due miseri moncherini, mentre le sue mani erano state entrambe amputate. Riconobbi il bagliore mako balenare per un attimo soltanto in quegli occhi gonfi dalle troppe percosse e annegate nella rassegnazione del proprio destino. Avvertii l’ira avvampare nel mio petto. Non conoscevo quell’uomo, ma non potevo accettare che, dopo tutto quello che aveva sacrificato, venisse trattato in quel modo. Da un gruppo di ragazzini viziati, tra l’altro. Intervenni, cacciando quei mocciosi da quel vicolo con la mia solo nefasta presenza. Scapparono a gambe levate, quegli inutili codardi. Erano in sette e hanno avuto paura di un singolo uomo. Nella loro visione ristretta era più facile prendersela con un poveraccio mutilato e impossibilitato a scappare che un guerriero in piena forma. Lo aiutati a risalire sul suo carretto sgangherato, mentre cercavo di valutare le sue condizioni. Il corpo aveva perso molto della sua antica solidità, di cui ne rimanevano solo flebili tracce, ma era ancora forte abbastanza da reggere un barbarico assalto. Aveva qualche taglio e tumefazione che spiccava da sotto i vestiti fatti di stracci, ma nulla di grave. Sebbene ci provai con tutte le mie forze, non riuscii a non fissare le ferite di guerra. Degli arti inferiori non vi era quasi nessuna traccia, se non per un terzo di coscia per parte, i quali gli permettevano d’inserirsi comodamente in quel carretto di fortuna. Gli arti superiori erano stati amputati all’altezza dei due polsi, poco sotto la nocetta dell’ulna. La pelle, nel punto d’appoggio, era piena di ferite e tagli, poiché niente la proteggeva dalle discrepanze del terreno. Sul viso presentava una vistosa bruciatura sulla parte destra, la quale si dipanava lungo tutto il collo e la spalla. Mi chiesi come si fosse procurato quelle ferite così gravi da amputare in modo così massivo, ma non ebbi il coraggio di domandarlo. Andai per deduzione, attingendo alla mia esperienza, e arrivai alla conclusione che una bomba lo avesse ridotto in quello stato pietoso. Come se mi avesse letto nel pensiero, egli mi rivelò di essere uno dei sopravvissuti di Meijin. Lo fissai a lungo allibito. Non ero al corrente che anche degli agenti SOLDIER erano rimasti coinvolti in quello scellerato attacco aereo ordinato da quello spocchioso ragazzino viziato di Rufus Shinra. Avvertii un’altra ondata di furia cieca prendere possesso di ogni cellula del mio corpo e mai come allora desiderai ammazzare ogni singolo componente di quella famiglia di mostri senza cuore. Trovai, inoltre, tragicamente inquietante il fatto che quell’uomo fosse uno degli agenti affidati a Genesis. Uno del suo battaglione, a cui, però, non era stato fatto il lavaggio del cervello. In ogni caso, non è che il suo destino lo avrebbe veicolato verso un fato migliore. Storpio, ma vivo, o mostro morente? Scelta ardua, ma tenni queste considerazioni per me. Lo portai in ospedale e mi assicurai che ricevesse ogni cosa di cui avesse bisogno. Mi accollai le sue spese sanitarie e gli assicurai un posto in cui spendere la sua degenza in modo dignitoso. Ho scoperto che a Kalm esiste un centro per i trattamento dei feriti di guerra. Trattano perfino soggetti con disturbi mentali gravi, come la PTSD. E’ estremamente costoso, ma non m’importa. Sebbene non siano più nell’esercito, quei poveracci là fuori hanno servito la loro patria, credendo in un ideale fasullo ed effimero che gli ha guidati verso una via di autodistruzione. Come tutti, sono vittime della Shinra. Ragazzi che hanno visto la loro giovane vita andare in frantumi troppo presto, destinati a morire soli, accolti soltanto dal disprezzo di un popolo che una volta li adorava e abbandonati da quella stessa Compagnia in cui hanno riposto il loro futuro. Hanno creduto alle bugie di un folle visionario e donato il loro corpo ad una scienza malata e perversa, alimentando così il giogo calato su questo Pianeta sfiancato da un famelico parassita. Sono il loro Generale, l’unica autorità davvero schierata dalla loro parte e che possa condividere e comprendere i dolori vissuti; oltre che essere dotata dell’umanità necessaria per rimarginare le ferite inferte dai gelidi artigli della vita. Da quel giorno, dopo il lavoro, mi aggiro per i quartieri malfamati della città alla ricerca di qualche commilitone bisognoso di aiuto. Ho provato a stanziare fondi per la costruzione di un centro come quello di Kalm, qui a Midgar, ma la sua realizzazione richiede tempi troppo lunghi. Il piano urbanistico della città si sta totalmente rivisitando e i soldi vengono tutti concentrati sulla creazione di nuovi impianti per la circolazione del mako. Il fine è quello di rendere lo scorrimento dell’energia planetaria più efficiente. Inoltre, ci sono voci di corridoio circa l’intenzione di costruire un cannone simile a quello di Junon, ma molto più potente. Il progetto sembrerebbe coinvolgere i sette reattori-pilastro del Piatto come fonte di energia. E’ il disegno di un’arma terribile. Nessuno ha mai davvero concepito l’intenzione di concentrare così tanta energia mako in un solo punto; ma al Presidente non importa del rischio. E’ diventato paranoico da quando Genesis ha dimostrato quanto la città sia vulnerabile, a causa dell’esiguità delle sue difese esterne e dalla slealtà che la corrode dall’interno. Poiché, senza Lazard, il piano di Genesis non avrebbe mai preso piede. Il perfetto Direttore di SOLDIER si è dimostrato indegno della fiducia riposta esattamente come i suoi agenti. Ricerche effettuate dai Turks hanno scoperto che Lazard finanziava con i soldi della Compagnia i progetti scellerati di Hollander e Genesis. Senza di lui, lo scienziato e l’ex Comandante non avrebbero mai avuto il loro esercito di copie assetate di sangue. Non avrebbero mai avuto accesso a tutti i macchinari per trasformare civili innocenti in mostri senza volontà. Senza di lui, Hollander non sarebbe mai scappato dalla sua prigione a Junon.

A causa di quest’ultimo evento, copie di Genesis e mostri si stanno diffondendo in tutto il globo. Segno che Hollander ha ripreso i suoi folli esperimenti, perseguendo caparbio il suo progetto di vendetta. Centinaia e centinaia di segnalazioni inondano il centralino ogni santo giorno. E tutti provenienti da zone in cui sono presenti reattori mako collegati con le viscere del Pianeta. Che cosa staranno tramando? Che Genesis sia veramente ancora vivo?

Anche Midgar è invasa da queste bestie immonde, soprattutto le zone degli Slums.

Mi reco spesso a casa loro o alla Chiesa, al fine di controllare le condizioni di Aerith e di Elmyra. Non che ce ne sia un reale bisogno, dal momento che il giovane Fair pedina la ragazza peggio degli stessi Turks che la controllano. Il neo-First si è davvero preso una gigantesca cotta. Non posso dargli torto, in effetti. La piccola Cetra è cresciuta in modo davvero magistrale e non c’è assolutamente da stupirsi che ogni uomo le cada letteralmente ai piedi. Inoltre, ha un carattere così adorabile e dolce che è impossibile non venirne attratti. Per quanto m’infastidisca il fatto che il gongaghiano ronzi attorno ad Aerith, provandoci scelleratamente, Fair è, forse, l’opzione migliore al momento. Spesso Elmyra mi punzecchia su questo dettaglio, siccome ho spesso mostrato segni di gelosia nei confronti di Aerith. L’ho vista praticamente crescere e mi è difficile accettare il fatto che da quella bambina pura e immacolata sia sbocciata una donna desiderabile e ammaliante. Il pensiero che un altro uomo, qualunque uomo, possa in un qualche modo inquinare la sua innocenza mi disgusta oltremodo.

MI scappa da ridere al pensiero che questo stesso discorso l’ho affrontato nei confronti di mia figlia. Takara ha compiuto un anno da poco e già ha uno stuolo di proposte di matrimonio da parte di tutti i padri di figli maschi di Honijin. Lei è l’ultima arrivata nel villaggio, per cui tutti s’industriano per tentare di accaparrarsi il posto prima degli altri. Non credetti alle mie orecchie quando Evelyn mi rivelò questo fatto e rimasi ancor più stupito quando mi resi conto che per lei era assolutamente normale prassi.

“Takara è diversa da tutti gli altri. Ha dei tratti che a Wutai sono rarissimi da trovare e ciò piace tanto agli uomini. E’ successo anche a me. Non hai idea di quante proposte di matrimonio ho ricevuto proprio per il mio aspetto.”

Wutai ha davvero un popolo peculiare: sono così attaccati alle loro tradizioni, alla loro patria, alla loro integrità; eppure non disdegnano il diverso, anzi spesso lo accettano di buon grado. Soprattutto in fatto di donne. Evelyn è riuscita a garantirsi un futuro proprio grazie ai suoi sfavillanti e rarissimi occhi color smeraldo e ai tratti leggermente orientali. Tutte caratteristiche che, unite alla sua naturale bellezza mozzafiato, attiravano gli uomini come api sul miele. E nemmeno io sono rimasto immune a tutto ciò. Come dicevo, tuttavia, per mia figlia il discorso è totalmente diverso. Per quanto ci sia brava gente nel villaggio, il solo pensiero che uno solo di quei mocciosi sbavanti osi solo pensare a Takara in quel senso mi vien voglia d’impiccarli con le loro stesse parti intime. Lei è la mia bambina e nessuno potrà mai portarmela via.

Evelyn e Natsu risero quando esposi loro questo concetto, a mio avviso, insindacabile, asserendo che la piccola non sarebbe stata per niente d’accordo quando l’evenienza si presenterà. Mi dissero che prima o poi avrei dovuto accettare che la mia bambina non sarebbe stata per sempre con noi.

“L’uccellino abbandona il nido, presto o tardi.”, ha affermato Evelyn, guardando nostra figlia con malinconia e, nello stesso tempo, accarezzandosi il ventre.

Non posso credere di stare per diventare padre per la seconda volta. Avverto un misto di gioia e trepidazione alla sola menzione e non posso che sorridere di cuore ripensando a quella piccola vita in pieno fermento. Sono così impaziente di conoscerlo o conoscerla. Chissà quali novità porterà? Io spero assomigli a mia moglie, poiché, devo ammetterlo, Takara è la mia copia in tutto per tutto. Sebbene sia molto piccola si è rivelata avere una personalità carismatica e decisa. Non ama ricevere ordini e battibecca per ogni minima ingiustizia, sfiancando l’avversario fino a che non ottiene ciò che vuole. Ha una mente deliziosa, arguta e scattante, curiosa e analitica. Trovo meraviglioso osservarla quando scopre qualcosa di nuovo, di come goffamente lo analizza e lo testa, al fine di giungere ad un’ipotesi tutta sua. Ipotesi spesso errata, ma è impossibile farle cambiare idea. E’ molto testarda. E la testardaggine e la determinazione sono una miscela esplosiva, dal momento che oltre a non cambiare assolutamente idea, lei le difende a spada tratta, come se ne andasse della sua stessa vita. Ritengo adorabili lei e sua madre, mentre discutono animatamente su controversie futili, ma che poi, con l’avanzare della diatriba, si trasformano in vere e proprie questioni di principio. Evelyn spesso deve chiedere il mio intervento o quello di Natsu per sperare di aver una qualche speranza contro una sempre più infuriata Takara. E quando la piccola si arrabbia è davvero terribile. Sono quei momenti in cui di nuovo quelle domande dilanianti ritornano a galla. Sebbene Takara stia trascorrendo un’infanzia del tutto normale, spesso essa manifesta comportamenti totalmente anormali per una bambina di quell’età. L’ira, ad esempio. Un normale infante sfocia in capricci plateali del tutto insensati dalla durata più o meno lunga, ma tutt’al più sono semplicemente noiosi da sopportare; Takara, al contrario, diventa fredda e rigida, sia nell’aspetto che nella postura. Spesso si ferisce i palmi delle mani da quanto forte stringe i pugni. Ciò che più ci terrorizza, invece, è lo sguardo. I suoi occhi si spalancano totalmente, mettendo in totale mostra le iridi pulsanti di mako verde e, al centro di esse, le pupille. Lunghe, affusolate, non umane. Quel momento, dura solo un secondo, poi sbatte le palpebre e tutto torna normale. Dopo queste crisi, Takara scorda qualunque cosa sia accaduta nei minuti prima dell’evento. Si sente solo molto stanca e, spesso, si addormenta. Al suo risveglio ritorna ad essere la bambina solare e allegra che abbiamo amato sin dal primo momento. Evelyn vorrebbe portarla da un medico, ma sarebbe inutile. Io SO cos’ha…

 

La Bestia

Come temevo, quella maledizione è passata anche a lei. Quell’istinto infernale di voler uccidere e massacrare ogni singolo essere vivente sulla faccia del Pianeta è presente nel suo essere. E non solo. Anche quel desiderio che ci richiama alle stelle, il desiderio di solcare l’intero universo, il desiderio di sentirci liberi nel buio assoluto. Spesso, nel cuore della notte, Takara si sveglia e si affaccia alla finestra della nostra camera, fissando il cielo notturno e limpido. I primi tempi la intimavo a tornare a letto, ma poi ho realizzato che, come me, non può farne a meno: quell’istinto è insito nel suo DNA. Quel DNA nefasto che le ho trasmesso.

Non volevo che questo fardello cadesse su altri, men che meno alla mia bambina. Certe volte, nel silenzio della notte, la osservo dormire beata nel suo lettino e l’eco di una voce sinistra mi invoglia a prendere quel cucino e premerglielo sul viso. Spesso devo ricorrere all’auto punizione per evitare di cedere a quegli istinti. Tante volte mi sono morso le labbra o le mani fino al sanguinamento per distogliere l’attenzione da mia figlia. Scappo in bagno per lavare via quel sangue, ma non è così facile. Spesso rimango ad osservare i rigoli convoluti e vermigli formatasi nell’acqua. Una spirale di sangue. Una spirale in cui la mia stessa esistenza è stata incatenata.

Sono figlio del peccato. Sono nato nel sangue e morirò nel sangue. Ma mia figlia… mia figlia è diversa. Mia figlia DEVE essere diversa. Il Pianeta deve avere pietà di lei. IO ho commesso l’errore e me ne assumo la piena responsabilità.

Gaia, ti prego, lasciala in pace. Lei è vittima del mio egoismo e, a differenza di me, lei può scegliere il suo destino. Ti prego, accoglila nelle tue grazie e donale un’esistenza ricca di gioie. I dolori lasciali a me, li accetto volentieri per lei.

Non so quante volte ho rivolto al Pianeta questa preghiera fra lacrime e sangue. Non so nemmeno se qualcuno abbia mai teso orecchio alle mie richieste. Se davvero gli antichi Cetra possono ascoltarci mi chiedo perché continuino ad ignorarmi. Ma la risposta, io, la so già…

Progetto G

Cellule J

Mostri

Cosa sono queste Cellule J? Da dove provengono? Da COSA provengono?

Hollander saprebbe rispondermi, magari dopo un’adeguata sessione di torture, costringerei quel vecchio a darmi le risposte che quel verme di Hojo si è divertito a tenere nascoste per tutta la mia vita. E ne avrei anche il diritto, dal momento che lo scienziato è considerato prigioniero di guerra. Sfortunatamente, è stato fatto evadere qualche settimana fa. Zack non è stato in grado d’impedire la sua fuga. Purtroppo sono arrivato troppo tardi per dargli il giusto supporto. Mi ci è voluto molto più tempo del previsto per convincere il Turk-pilota a deviare il percorso per Modeo verso Junon. Come dicevo qualche pagina addietro, la mia autorità comincia a risentire della sfiducia riposta negli alti ranghi del Reparto. E io non posso che dare loro ragione. Da quando Genesis e Angeal sono scomparsi, la mia lealtà nella Compagnia è morta con loro. Ormai, non m’importa più nulla- non che me ne sia mai importato-, ma è ben evidente a tutti che la mia sopportazione a tutto questo schifo è arrivata a un pericoloso limite. C’è chi si chiede come avrò intenzione di andarmene: da disertore o da eroe?

Per quanto non ami nessuno dei due appellativi, credo che il mio ultimo atto da Generale SOLDIER sia quello di dimostrare che non tutti sono come i due banoriani. Non ho assoluta intenzione di gettare ulteriore fango su un onore già di suo compromesso. SOLDIER fu la mia prima famiglia, uno dei pochi luoghi che ho potuto chiamare ‘casa’, un luogo che è stato il punto di partenza per la costruzione di questo presente. Se non fossi mai stato in SOLDIER non sarei mai andato in guerra, non avrei mai conosciuto mia moglie e non avrei mai avuto mia figlia. SOLDIER mi ha reso un uomo con un futuro, nonostante il mio passato tenebroso. Se c’era una luce alla fine di questo tunnel, il Reparto mi ha aiutato a trovarla. Tuttavia, è un fardello troppo pesante da portare sulla strada imboccata. La mia nuova vita mi aspetta lontano da questo. La vita normale ed ordinaria che ho sempre sognato è al di là del baratro. E’ un salto importante che può spaventare, ma le mie donne mi attendono e io non ho intenzione di farle aspettare oltre. Come non ho nessuna intenzione di abbandonare il Reparto senza averlo prima dotato di un futuro dignitoso. Motivo per il quale ho preso sotto la mia ala protettrice il giovane Zack. Non tanto per addestrarlo a combattere –per quello ha già fatto un lavoro egregio Angeal-, ma per addestrarlo al comando. Gli sto insegnando tutto quello che ho imparato in lunghi anni di servizio. Lo porto con me nelle varie missioni anti-AVALANCHE o pulizia mostri, concedendogli il comando di piccoli contingenti; lo coinvolgo nelle decisioni strategiche; mi affianca nelle indagini riguardanti gli strani fenomeni di sparizione di personale Shinra; considero la sua opinione decisiva per la valutazione delle nuove reclute. Queste ultime lo stanno iniziando a miticizzare, prendendolo come esempio. Lui è molto fiero di questo, mi confidò una volta Aerith. Credo che lo veda come un modo per mantenere gli ideali di Angeal intatti, nonostante le azioni del suo mentore. Zack non ha mai accettato che l’onore del suo maestro venisse infangato in quel modo; appena può lui lo difende a spada tratta. Sciorina i concetti di sogni, disciplina e onore esattamente come avrebbe fatto il banoriano, segno di come li tiene ben serbati nel cuore. Non c’è che dire, Zack è il degno successore di Angeal e io sono felice che almeno una parte di lui sia rimasta legata a questo mondo. Inoltre sono grato del fatto che, nonostante ciò che ha passato, Fair abbia mantenuto quel suo atteggiamento allegro e solare, capace di fare colpo su tutti. E’ un uomo onesto e sincero, il volto ideale a cui dare vita a questo Reparto sfiancato. In effetti, la vecchia cricca di SOLDIER non è del tutto scomparsa.

Io persisto.

Ed è il momento di andarsene e lasciare spazio a chi davvero si è meritato il rango che ricopro. Zack è partito dal fondo e ha scalato i ranghi grazie alle sua abilità e non a sporchi trucchi e giochi di potere. La sua modestia e umiltà è ciò che voglio lasciare al Reparto. Voglio che mi ricordino per questo atto di estrema modestia, piuttosto della mia disgustosa superbia. Voglio che si ricordino il sacrificio, invece dell’omicidio.

Voglio che, quando i miei figli cresceranno, venga loro raccontato di un uomo leale con a cuore la vita dei propri compagni, pronto a dare la vita per loro. Un uomo che ha sacrificato il proprio orgoglio per il bene superiore.

 

Voglio che si ricordino dell’uomo, non dell’eroe.

 

 

Saaaaalve!!! Ma che brava che sono stata! Sono riuscita a pubblicare con tempistiche umane!!! *applausi arrivano dal nulla* (ma chi è che applaude? ndCloud, io no ndSeph, nemmeno io ndVincent, *i tre si girano e vedono FortiX applaudire da sola, -______-‘, ndCSV)

Ehm-ehm… cooooomunque, i rari effettivi day off e la reclusione forzata che fanno pensare ai miei coinquilini che io sia morta hanno dato i loro frutti e finalmente il nuovo capitolo di questa serie è uscito. Capitolo caldissimo con la (finalmente ^.^) apparizione di Takara dei giorni nostri. Fatemi sapere che ne pensate della giovine figlia di Sephiroth. Non avete idea di che fatica abbia fatto a riuscire a trovare un’immagine decente e degna di un tale titolo, ma GOT è venuto in mio soccorso. Infatti, mi sono un po’ ispirata a Daenerys di casa Targaryen, poiché ritengo che lei sia un buon esempio di come una giovane donna possa destreggiarsi in un mondo al maschile e prevalere. Ovviamente senza i retroscena tipici della serie della HBO perché siamo in rating verde ricordo! (ci mancherebbe che fai fare certe cose a mia figlia, ndSeph).

Fatemi sapere che ne pensate!

Ora scappo e mi vado un po’ godere il sole d’estate australiano!

 

Alla prossima!

Besos

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Capitolo 27
*** Viaggio (Parte I) ***


27. Viaggio (Parte I)

 Perdonami, Vincent…

 

Sephiroth lo ha dichiarato più volte nel suo diario: Takara nasconde un potere troppo grande per essere maneggiato da una persona sola e, quel che è peggio, nonostante lo cerchi di mascherare con ogni mezzo, ella rimane pur sempre una quattordicenne. Una quattordicenne intelligente e sveglia, ma del tutto ignara degli eventi passati. Ciò la rende facilmente manipolabile da un burattinaio scaltro come Genesis. Grande capacità oratoria, carisma ammaliante, modi cavallereschi l’hanno reso il SOLDIER più popolare subito dopo Sephiroth. Quest’ultimo doveva la sua fama alle sue gesta militari ed erano state costruite nel tempo, ma il rosso era tutt’altro discorso. Sebbene i numeri erano leggermente inferiori a quelli del rivale, Genesis raccolse accoliti lungo tutto il globo a una velocità impressionante. Amava stare al centro dell’attenzione ed era dannatamente bravo a ottenere la visibilità dei media. Ogni evento che lo vedeva protagonista era automaticamente un successo. A differenza di Sephiroth, il quale odiava da morire apparire in televisione o presenziare eventi pubblici; il banoriano, al contrario, sguazzava letteralmente in un brodo di giuggiole. La Compagnia arrivò, per un certo periodo, ad utilizzare Genesis come portavoce degli eventi mondani, invece di Sephiroth. Inoltre, il rosso aveva questa parlantina prolissa e ammaliante, piena di paroloni complicati ed aristocratici, ma dal suono piacevole, capace d’intrattenere l’interlocutore, indipendentemente dalla sua cultura. Avevi sempre la sensazione di elevarti intellettualmente ascoltando i suoi discorsi, sebbene non si capisse un terzo delle parole proferite. Genesis era capace di parlare per ore, senza esprimere un mezzo concetto e se poi capitava che finisse la sfilza di fesserie quotidiane, iniziava a citare LOVELESS. Fu incredibile quanto le vendite di quel libro si alzarono, quando il rosso cominciò ad apparire in televisione. Questa caratteristica fece colpo specialmente sulle donne. Perfino mia madre se ne era comprata una copia.

Insomma, Genesis è un manipolatore molto più pericoloso di Sephiroth, per certi versi. Le parole, i gesti, i modi del banoriano sono studiati per colpire dritto nella volontà dell’avversario. A differenza del rivale, il quale spegne nel sangue e nella sofferenza ogni singola oncia di ribellione mentale, l’ex-Comandante usa un approccio più… delicato. Lentamente, viscidamente, le sue parole accarezzano col loro velenoso e dolce tocco la volontà della vittima, modellandola, assuefacendola, fino a che non cade nelle sue grinfie, totalmente inerme. Takara è un’arma troppo pericolosa per lasciarla in mano a un uomo senza scrupoli ed egocentrico come l’ex-SOLDIER. Devo trovare il modo di allontanarli e poi…

- Cosa significa tutto ciò? –

La voce pretenziosa dell’oggetto delle mie elucubrazioni rompe rudemente il filo dei miei pensieri, riportandomi alla realtà. Platealmente, Genesis esce dal suo nascondiglio con passo deciso e cadenzato, veicolando su di sé l’attenzione di tutti i presenti. Vincent e Takara sciolgono l’abbraccio, rivolgendosi verso il rosso. L’ex-Turk si rimette in piedi, indugiando con la mano non corazzata sulla spalla della nipote, in segno di protezione. La ragazza, dal canto suo, lancia una tenera occhiata a quella mano, apprezzando quel gesto dolce e inaspettato. Il sorriso non ha abbandonato le sue labbra e la sua mente è ancora stordita dagli ultimi eventi, tanto da non rendersi conto del tono irato del rosso.

- Quest’uomo è mio nonno. -, cinguetta la giovane, innocentemente, apponendo poi la sua mano su quella del parente e rivolgendo a quest’ultimo uno sguardo pieno di soddisfazione, - Dopo tutto questo tempo, è bello sapere di non essere sola al mondo. –, aggiunge, infine, a voce più bassa, parlando più con se stessa che con chiunque altro.

L’espressione adorante della nipote strappa a Vincent un sorriso sincero e ne accoglie lo sguardo illuminato con uno caldo e accomodante. Genesis, tuttavia, sembra del tutto intenzionato a interrompere l’idillio.

- Non fare l’ingenua, Takara. Sai bene che nei rapporti del Progetto S non è menzionato alcun “Vincent Valentine” o “Lucrecia Crescent” come donatori. –

Rimango esterrefatto dal coraggio con cui quel viscido serpente osi menzionare con così tanta leggerezza i terribili esperimenti che hanno portato alla nascita di quella stirpe maledetta. Inoltre, sembra anche sottolineare il fatto che la normalità non è un’opzione alla portata di Takara. Avverto l’ira irrompere nel petto e, per un minuscolo istante, rischio di cedere a essa. Apro la bocca pronto a sputare il mio pericoloso getto di veleno, ma Vincent mi anticipa, oltraggiato dalle menzogne appena udite.

- Non tutto è scritto in quei rapporti. -, allude, infatti, l’ex-Turk, trattenendo a stento la calma, - E comunque, questi non sono argomenti da discutere di fronte a una bambina, signor …-

- Takara è perfettamente informata sull’intera vicenda. -, replica il rosso, sminuendo la ragione di Vincent con una sventolata di mano, per successivamente aggiungere, rivolgendosi alla ragazza con un ghigno viscido, - E poi, non sei più una bambina, giusto? –

Il sorriso della giovane si è spento da qualche minuto e al suo posto si è stanziata un’espressione seria e studiosa. Osserva le vicende in attento silenzio, alternando il suo sguardo tra i due uomini. Non capisce il motivo di tutta quell’ostilità e non riesce a venirne a capo.

- Cosa ti prende oggi? –, chiede poi, ignorando la domanda, muovendo un passo verso Genesis, staccandosi dalla presa rassicurante di Vincent.

Il tono della giovane tradisce un malcelato nervosismo, segno che l’arroganza dell’ex-SOLDIER sta pizzicando corde molto pericolose nell’autocontrollo della figlia di Sephiroth; ma ciò che più prepone è lo smarrimento: non credo abbia mai visto Genesis così… incontrollabile.

Il banoriano, infatti, assume un’espressione strafottente e crudele, sfoggiando un viscido e arrogante sorrisetto. Compie due decisi passi in contrapposizione alla ragazza, sfidandola apertamente. Poco più di un metro li separa, ma l’ombra nera dell’Angelo Distruttore si staglia totalmente sulla minuta figura di Takara, sovrastandola in tutto e per tutto. Nonostante questo, la ragazza non arretra di un solo passo e continua ad attendere risposta, stoica nella sua rigida posizione. Il rosso la guarda dall’alto al basso quasi con disprezzo. Dopo una manciata di secondi di battaglia silenziosa, Genesis si lascia scappare una breve risata, scuotendo la testa.

- Sei come tuo padre: così bisognosa di affetto da credere a qualunque balla che ti viene propinata. -

Gli occhi della ragazza si spalancano, così come la sua bocca, distruggendo totalmente la sua aura di potenza.

- Genesis… -, si guarda intorno imbarazzata, - Ma ti rendi conto di quello che stai dicendo? –, lo apostrofa Takara, sempre più allibita.

A quel punto, vedo Vincent sobbalzare e fissare il rosso.

-Genesis? –, ripete il pistolero, attirando l’attenzione dei due, poi si rivolge a Takara, - Cosa ci fai tu con lui? –

La ragazza aggrotta le sopracciglia, sorpresa da quella domanda. E’ sempre più confusa.

- Lui mi ha allevata... -, spiega semplicemente, con accenno di incertezza nella voce. Posso vedere la sua mente lavorare, allertata dall’olezzo di verità nascosta.

-Esatto, nonnino. -, aggiunge il rosso apostrofando l’epiteto con una punta di scherno, - Io mi sono preso cura di lei, proteggendola e amandola come se fosse mia figlia. –, conclude, gonfiando superbamente il petto.

Per tutto questo tempo, io sono stato un testimone passivo degli eventi, ma quest’ultima frase ha esaurito la mia pazienza tutto ad un tratto. Ho sopportato troppo a lungo il teatrino di Genesis. Teatrino in cui lui è il protagonista assoluto e la piccola Takara non è altro che un’ignara vittima dei suoi intrallazzi. Lei DEVE sapere come sono andate le cose.

- Peccato che lei non lo sia. -, affermo avanzando.

A quel punto, tutti gli occhi vengono puntati su di me, compresi quelli del mio avversario. Vedo il fuoco scaturire nelle iridi blu del banoriano, il quale mi intima a non osare oltre.

Non ti temo, lurido verme.

- Lei è figlia di Sephiroth, Generale di SOLDIER, Eroe e Protettore dei Deboli, Conquistatore di Wutai. –, ad ogni titolo ottenuto dal rivale, l’ira in quegli occhi blu si mischia ad un’invidia terribile, la quale crea una pericolosa miscela sull’orlo della deflagrazione. Al contrario, Takara mi ascolta affascinata, sorpresa e fiera di derivare da un tale lignaggio. Eredità che le è sempre stata nascosta, facendole credere di essere figlia di un peccato troppo grande da permetterle una qualunque via d’uscita. Genesis ha fatto fin troppo bene il suo lavoro. Forte di questo, continuo il mio discorso, aggiungendo la parte a cui Sephiroth tiene di più.

- Oltre questo era un uomo giusto, onorevole, disinteressato, intrappolato in un ruolo che non ha mai voluto. L’unica cosa che abbia mai desiderato è avere un luogo da chiamare ‘casa’ e una famiglia a cui tornare. -, faccio una pausa, assottigliando lo sguardo, pronto a rilasciare la mia stoccata finale, - Famiglia che TU gli hai portato via! -, proferisco, infine, a gran voce, affinché tutti possano sentirmi.

Nella seguente manciata di secondi tutto sembra muoversi al rallentatore. Con un urlo di pieno di rancore, Genesis sfodera la fiammeggiante Rapier e si getta a velocità sovrumana nella mia direzione, sfiorando una sbigottita Takara di un soffio. Lo vedo balzare sopra di me, la grande ala nera aprirsi di scatto sulla sua spalla destra in tutto il suo oscuro splendore. Le fiamme di mako rosso creano un arco ascendente, seguendo il percorso dello stocco verso la testa del suo possessore. La punta di Rapier viene puntata nella mia direzione. La chioma ramata sventola tutt’attorno alla sua testa, scomposta e folle. Gli occhi blu brillano di un’ira cieca, desiderosi di sangue. Per un secondo, vedo quelle iridi mutare da blu a verde, i capelli farsi più lunghi e chiari, la lama rossa risplendere del chiarore bianco della Città Dimenticata. Il rosso dare spazio al nero. Sangue diventare oscurità.

Chiudo gli occhi e allargo le braccia, offrendo il mio petto.

Il mio peccato verrà ripagato, morendo come sei morta tu, mia Aerith.

Uno strillo straziante riempie la stanza, ma quella che grida non è la mia voce. Confuso e deluso, riapro gli occhi. Una luce verde attira la mia attenzione e noto con sorpresa che è emessa da brevi archi di Lifestream emergenti dal terreno. Essi scorrono convulsi attorno al corpo del rosso, bloccato sotto la loro morsa. L’uomo osserva quei viticci con orrore e cerca di muoversi il meno possibile. Avverto odore di pelle bruciata disgustare le mie narici. Non capisco da dove venga, ma poi appunto lo sguardo su Genesis e capisco. All’altezza del petto, delle caviglie e dei polsi, i vestiti sono stati consumati, mettendo in mostra l’epidermide sottostante, su cui segni di profonde bruciature hanno lasciato il loro fumante segno. Sono ferite terribili e dolorose, a giudicare dal colore nerastro che hanno assunto in certe parti, dove i viticci si sono accaniti con più veemenza. Sembra quasi che quei tessuti siano stati… cotti.

- Takara no! Ti prego! –, implora l’ex-SOLDIER, squittendo come un ratto in gabbia.

Alzo lo sguardo verso la ragazza e avverto il mio respiro mozzarsi.

Come una Dea della Vita, ella risplende di puro Lifestream. Nei suoi occhi non distinguo né pupilla, né iride. V’è solo luce. Unica e meravigliosa luce. Da essi, il Flusso Vitale zampilla come acqua di sorgente, formando un fiume che, armoniosamente, s’inviluppa lungo le braccia lasciate cadere lungo i fianchi. All’altezza delle mani, chiuse in pugno, il fiume forma un’ultima ansa, prima di scomparire nella sua stretta. Da lì, poi ricompare, fluido ed armonioso, per essere inghiottito dal terreno.

 E’ lei che ha evocato questi viticci, realizzo, impressionato da questo assaggio di potere.

Sephiroth era in grado di evocare il SUO Lifestream, ma pensavo che quello vero fosse un’entità impossibile da piegare al proprio volere.

A quanto pare mi sbagliavo.

La ragazza, solennemente, inizia ad avanzare verso l’uomo intrappolato a terra. Il terrore manifestato dall’ex-SOLDIER mi fa pensare che sappia già cosa gli spetta. Ergo, non è la prima volta che Takara usa il Lifestream come arma. O come strumento di tortura. Distolgo lo sguardo dalla scena e lo appunto sugli uomini alle sue spalle. Molti di loro sono voltati od osservano un punto imprecisato. Sulle loro facce è dipinta un’espressione sgomenta e disgustata. Molti, ma non tutti. Weiss, a braccia conserte e ben piantato a terra, scruta ogni minimo momento degli eventi, con espressione immota. Lo Tsviet si accorge che lo sto osservando e m’invita a guardare con un cenno della testa. Indugio un attimo sulla sua figura, prima di accogliere la sua richiesta. Nel frattempo, Takara si è affiancata al suo mentore. La luce da calda e accomodante presente nelle sue iridi è virata a un verde chiarissimo, quasi bianco. Gelido. E spietato. Tuttavia, lei non lo guarda. Lo sguardo è perduto a fissare qualcosa al di là di ogni umana concezione. Il rosso, intanto, cerca di raggiungerla, inerpicandosi in quella trappola mortale, bruciandosi di tanto in tanto. Stringe i denti: il suo orgoglio gl’impedisce di far ascoltare a tutti la sua sofferenza. I suoi sforzi vengono premiati, poiché, ad un certo punto, riesce a toccarle lo stivale con la punta delle dita.

- Takara, t’imploro, ascoltami… -, supplica con la voce rotta dalla deferenza e il dolore.

La ragazza sobbalza, oltraggiata, e si scansa, tirando i viticci principali verso di sé. Di conseguenza, la trappola di Lifestream si abbassa di scatto, bruciando Genesis. Il rosso cede al dolore e le sue urla riecheggiano nelle segrete della fortezza. Il corpo dell’ex-SOLDIER viene presto coperto da una bruma di tessuto evaporato, ma ciò non ci impedisce di vederlo contorcersi come un ossesso.

- NO! TI PREGO! TI PREGO, PERDONAMI! NOOOOO! –

E’ una scena terrificante. Non riesco più ad assistere oltre. Guardo la ragazza, la quale osserva il tutto senza un’oncia di pietà. E’ totalmente assente, non so nemmeno se sia veramente con noi con la mente o persa nelle sue elucubrazioni. Non posso fare a meno di assomigliarla a suo padre, quelle notti in cui i suoi tormenti lo alienavano dalla confortante realtà famigliare.

- Takara, ora basta! –

La voce risoluta di Vincent interrompe il flusso dei ricordi e uno strattone deciso al braccio della nipote fa terminare le sofferenze di Genesis. Takara si riscuote e il Lifestream si ritira, facendola tornare in sé. La rete di viticci scompare permettendo al rosso di muoversi liberamente, per quanto le sue ferite gli permettano. Egli si gira su un fianco e si chiude in posizione fetale, mentre il dolore gli strappa gemiti sofferenti.

- Mettetelo in isolamento. Penserò cosa farmene di lui. -, ordina Takara, ad un certo punto.

La sua voce è ridotta ad un soffio flebile, stanca. Una tormentosa lotta interiore la sta consumando. Divisa dal desiderio di vendetta e dal debito maturato nei confronti di quell’uomo. Ciò che però la tormenta più di tutto è il dubbio. Il dubbio di essere sempre stata usata. Il dubbio che la sua vita non è altro che una grandissima bugia. Il dubbio che l’uomo che l’ha cresciuta non è ciò a cui lei ha sempre creduto.

 

Non volevo che questo fardello passasse a te, figlia mia… Perdonami.

 

 

Dopo gli eventi delle segrete, Takara si è chiusa in un ostinato silenzio, il quale sta durando da tre giorni, ormai. L’ultimo ordine che ha dato prima di scomparire è stato quello di considerare me e Vincent come ospiti. Ci è consentito, infatti, di muoverci liberamente per la fortezza, ma abbiamo appreso che nessuno è autorizzato ad abbandonarla. Il motivo probabilmente è legato alla segretezza di questo luogo, considerato dai suoi abitanti una luce nel buio, un posto dove poter ricomporre i pezzi della propria vita spezzata e, finalmente, prenderne le redini. Un rifugio sicuro dai pregiudizi e l’odio del mondo esterno, dove poter creare la propria famiglia. Già, perché Yaido non è abitata solo da ex guerrieri, ma anche da donne e bambini, anch’essi vittime delle guerre. Gente stanca della violenza e che ha deciso di vivere sotto l’ala protettrice di una giovane fanciulla dal passato oscuro almeno quanto il loro. Io non mai visto una popolazione così variegata e pacifica, nonostante la diversa etnia ed estrazione sociale, essi vivono in pace e armonia. Hanno una sola cosa in comune: sono tutti vittime della Shinra. La maggiore percentuale dei rifugiati, infatti, sono ex SOLDIER. Li posso riconoscere da quel marchio maledetto risplendente nei loro occhi, lo stesso marchio presente nei miei, anche se io non ho mai militato nelle loro fila. Molti di questi sono veterani della guerra di Wutai. Li riconosco grazie ai ricordi di Sephiroth. Uomini che lui stesso ha aiutato e di cui conserva ancora le memorie dei loro visi. Rimasi stupito nell’apprendere che qui è ospitato perfino quell’uomo senza gambe e mani citato nelle memorie del Generale. E’ invecchiato, ma, rispetto all’ultima volta che Sephiroth lo vide, è sereno e amato dalla famiglia che è riuscito a costruire.

 

Una seconda chance… quale straordinario privilegio.

 

Il commento triste del mio nemico esprime un’amara realtà: noi siamo nati per essere sacrificati. Affinché l’umanità abbia scampo dalla guerra tra Jenova e il Pianeta, qualcuno deve pagare.

E’ per questo che hai agito come hai agito? Davvero non volevi che questo fardello cadesse su altri?

 

- Cloud Strife? -

Una voce profonda e autoritaria mi riscuote dai pensieri bui in cui ero caduto. Il proprietario della voce è Weiss. Da quando Takara vive in reclusione e Genesis è stato imprigionato, l’impegno del comando è ricaduto su di lui, ma non sembra affatto risentirne. Austero e serio, sembra una roccia indistruttibile e incorruttibile sia dal tempo che dalla fatica. Svolge il suo ruolo con decisione, onore e serietà. Tiene davvero tanto a questa comunità dove lui e suo fratello hanno finalmente trovato tregua dai loro tormenti. Almeno l’albino. Purtroppo, mi raccontò un giorno, Nero sta ancora combattendo la sua guerra contro i fantasmi, ma, con l’aiuto di Takara, ogni volta un altro passo verso la liberazione viene compiuto. Credo che fra tutti i suoi uomini, Weiss sia il più fedele e affezionato alla giovane leader di questo piccolo mondo.

-Lei vuole vederti. –, dice l’Immacolato appena ottiene la mia attenzione.

Accanto a me, Vincent si fa attento.

- Solo te. -, aggiunge poi il platinato, scoccando un’occhiata dispiaciuta al pistolero.

Vedo il viso dell’ex-Turk rabbuiarsi per un secondo, per poi rivolgersi a me con un sorriso rassicurante.

- Non farla aspettare. –

 

 

L’appuntamento è nella grande stanza-vedetta dell’ultimo piano della torre centrale. Quando giungo lassù, il tramonto è in pieno svolgimento donando all’atmosfera una colorazione calda e rassicurante, dai mille riflessi del rosso e dell’oro. Il cielo limpido ha una meravigliosa colorazione arancione, la quale vira verso il violetto mano a mano che lo sguardo devia verso Est. La foresta sottostante accoglie benevola il disco del sole morente, incendiandosi di rosso scuro, quasi bruno. Rimango ad osservare quello spettacolo, ammagliato dalle meraviglie che la Natura ci offre ogni giorno, ma di cui noi, miseri umani, puntualmente ce ne dimentichiamo.

-Bellissimo, vero? –

Takara richiama la mia attenzione verso l’angolo su cui sta comodamente seduta, in bilico sulla ringhiera elaborata di legno massiccio e il busto appoggiato alla colonna finemente intagliata. Non veste più i panni neri e pesanti della signora di Yaido, ma un semplice kimono a mezza vita color panna con rifiniture bianche, dei pantaloni lunghi fino a poco sopra le caviglie in padant con la parte superiore e, ai piedi, indossa leggerissime infradito di bambù. I capelli dai preziosi riflessi dell’oro sono lasciati cadere lungo le spalle, liberi di essere catturati dalla brezza serale. Con questa luce e la maschera da signora-drago dismessa, è davvero una meraviglia. Innocente, pura, indifesa, fragile… questa è la vera Takara, mi accorgo. Quella bambina piena di vita, solare e dolcissima che ha popolato i miei ricordi. La bambina che Sephiroth non può fare a meno di desiderare di riavere tra le sue braccia. La bambina divorata dal tormento di un peso troppo grande da sopportare.

- Perché mi hai fatto chiamare? -, chiedo, andando dritto al punto.

Takara emette un mugugno divertito, senza distogliere lo sguardo dall’oceano infuocato sotto di lei.

- Non ami i preamboli, a quanto pare. -, commenta.

- Già. Il tempo a nostra disposizione potrebbe non essere molto. Non vedo perché sprecarlo con inutili giri di parole. –, spiego, incrociando le braccia.

La ragazza annuisce distrattamente, poi, finalmente, mi rivolge la sua attenzione. Appoggia la testa alla colonna alle sue spalle e mi appunta addosso uno sguardo curioso. Quelle pupille divenute serpentine mi scrutano con fine interesse, studiando ogni centimetro della mia persona, soppesando attentamente ogni mossa.

- Quello che hai detto nei sotterranei riguardo a mio padre… Lo pensi davvero? Cioè… lui era davvero così? –

Lo sguardo pieno di speranza che ella mi rivolge mi rivolta direttamente il cuore. Deve far male non ricordarsi nulla delle persone che ti hanno messo al mondo. Imbarazzato mi gratto la nuca.

Proprio a me lo chiede.

- Sephiroth era… -, esito in cerca delle parole giuste, - un uomo complicato. –

Takara sorride. Io non capisco.

-Grazie. -, dice.

- Per cosa? –

- Per averlo chiamato uomo. –

Rimango interdetto, stupito per aver riconosciuto al più spietato, sanguinario e diabolico genocida della storia dell’umanità un tale titolo. Per anni l’ho considerato alla stregua di una bestia, una cane rabbioso che non merita nient’altro che soffrire nel modo più atroce possibile. Tante volte mi sono ripromesso di non osare nemmeno PENSARE di provare un minimo di pietà nei suoi confronti; che, semai mi fossi trovato nella situazione di doverlo aiutare, mai e poi mai avrei osato di tendergli la mano. Anzi, probabilmente lo avrei spinto ancora più in profondità nel buco infernale in cui il Pianeta lo ha giustamente rilegato. Ma, ora, guardo Takara, lo splendore che emana, la dolcezza del suo sguardo, la sua pura innocenza e mi rendo conto che, sì, da qualche parte sotto tutto quel marciume, Sephiroth era umano. Un umano privato di ogni tipo di conforto, ma che si è battuto come un leone per riuscire ad assaggiare almeno una piccola parte di quell’amore che ha sognato fin da bambino. Un assaggio che si è tramutato in un veleno che gli ha intossicato la mente conducendolo su una via fatta di distruzione e morte.

Amava fino a distruggere.

Sorrido a mia volta: non c’è più ragione di mentire…

Tiro fuori il diario che Takara mi ha concesso di tenere e glielo porgo. Vedo la sua schiena rizzarsi e farsi attenta, puntando l’oggetto con desiderio.

- Credo che tu debba leggerlo se davvero vuoi conoscere tuo padre. –

Finalmente, ella decide di abbandonare il suo trespolo ed avvicinarsi a me con passo leggero e incerto. Senza smettere di fissare il libro, si ferma a pochi passi da me. Dopo pochi istanti, ella allunga le mani frementi di curiosità e timore con tutta l’intenzione di impossessarsi di ciò che le sto offrendo e, finalmente, conoscere l’uomo più importante della sua vita. Quell’uomo di cui ha sentito tanto parlare, ma di cui non può dire di aver mai conosciuto davvero.

Tuttavia, appena le sue mani si appoggiano sulla copertina, una potente scossa mi colpisce dritto nel cervello, mandandomi in blackout.

 

 

Quando riapro gli occhi, mi trovo in tutt’altro luogo. Non v’è traccia della luce del sole morente sulle foreste infiammate di Wutai, né del frinire del vento tra i rami degli alberi, tanto meno il delicato equilibrio tra la freschezza della notte e la calura pomeridiana. E’ un luogo oscuro, soffocante, abitato da un silenzio tombale e, soprattutto, del tutto privo di calore. Letteralmente. Non è semplice freddo, è qualcosa di più… penetrante. E’ un disagio che non riesco ad identificare, tuttavia è terribilmente famigliare e si stringe attorno alla gola, alle ossa, al cuore, così da preservare il totale silenzio di questo luogo.

- Dove siamo, Cloud? –

Accanto a me Takara attende risposta. L’espressione stampata sul suo viso lascia trasparire una forte confusione, oltre che il mio stesso disagio. Non ne ho la più pallida idea: non riesco nemmeno a capire come diavolo siamo finiti qui! Ricordo solo una potente scossa di energia attraversarmi violentemente il corpo non appena Takara ha toccato il diario…

- C’è una luce! –

La ragazza mi strappa dalle mie elucubrazioni, puntando un flebile bagliore in fondo a quello che sembra essere un oscuro corridoio. Per quanto il mio istinto sia riluttante nel seguire quella pista, la ragione m’induce dell’opposto. In fondo, rimanere qui non ci aiuterà a capire ciò che sta succedendo… Takara mi anticipa di qualche secondo e io l’afferro per il braccio.

- Fammi andare prima. Non sappiamo cosa ci aspetta più avanti. –

La bruna scaglia un’occhiata infastidita alla manioche le afferra il braccio, per poi alzare gli occhi nella mia direzione, fissandomi un istante e, infine, docilmente annuire. Inizio ad avanzare e, nel frattempo che ci avviamo attraverso questo corridoio di tenebra, mi rendo conto che le mie percezioni sono totalmente inaffidabili. E’ tutto così fumoso e ovattato, quasi impalpabile, come se i nostri corpi e la realtà di questo posto si trovino su due dimensioni irrimediabilmente lontane. Qui le leggi sono dettate dalle emozioni. Le avverto pulsare in queste pareti, nell’aria che fluttua attorno a noi, nel pavimento appena accarezzato dalla nostra pallida presenza. Sono reali, palpabili, hanno forma propria e tengono in piedi questo mondo. Un mondo oscuro, claustrofobico, soffocante, tormentato.

Sephiroth… siamo nella tua mente, vero?

Ogni risposta arriva quando varchiamo quella soglia luminosa. Riconosco immediatamente questo nuovo luogo: si tratta dell’appartamento di Sephiroth, nell’attico del Golden Building. La grande vetrata dà su un mondo totalmente anonimo, avvolto da un grigiore così fitto da impedirci di distinguere alcunché di Midgar. Tutta la stanza riecheggia dell’angosciante martellio della pioggia scrosciante sui vetri, le cui superfici sono solcate dalle lunghe scie lasciate da ogni singola goccia pluviale.

Lacrime. Questa parola mi attraversa la mente come un fulmine e avverto quel gelo penetrarmi nelle ossa e bloccarmi il cuore un pericoloso istante. Cosa aveva detto, Sephiroth?

 

“…il tempo possiede un curioso tempismo nel mutare in linea con i miei sentimenti…”

 

Ingollo a vuoto e una terribile consapevolezza inizia a farsi strada in ogni cellula del mio corpo. Mi guardo intorno e, nonostante ne riesca a percepire solo una minima parte, l’appartamento sembra totalmente abbandonato a se stesso. Riesco ad intravedere la grande libreria, la quale sembra quasi totalmente svuotata del suo contenuto. Quest’ultimo, infatti, è stato ridotto a un ammasso informe di pezzi di carta e frammenti di copertine; il tutto è stato disseminato per tutto il pavimento. Pesto qualcosa. Alzo il piede e vedo che si tratta di mezzo frontespizio del libro di fiabe: ‘Le Mille e una notte’. Mi accuccio per esaminare meglio la scena e mi rendo conto che Sephiroth si è accanito contro qualunque cosa legato all’infanzia e la famiglia.

No…

Un gemito mi strappa dalla prigione di compassione in cui ero piombato. Con lugubre lentezza alzo lo sguardo in direzione della ragazza, la quale mi accorgo solo ora che mi ha sorpassato per analizzare qualcosa sul tavolino di vetro. La raggiungo e scopro quello che la sua figura m’impediva di vedere: una scatola di metallo in cui sono stati riuniti tutte le prove che ritraggono una famiglia unita e felice nel loro paradiso nascosto.

Paradiso che nessuno gli avrebbe mai portato via. Aveva pensato a tutto, Sephiroth. Credeva fossero state al sicuro…

Quanto si sbagliava…

Posso percepire con quale dolore e rammarico egli si è accanito sui fogli che lo ritraevano accanto alle persone che amava. Odia se stesso con tutte le sue forze, vorrebbe non essere mai esistito.

La sua faccia strappata… quella manina da bambina stringerne un’altra priva di proprietario…

La mia accompagnatrice tenta di afferrare una delle foto che ritrae la sua famiglia al completo (o quasi), ma la sua mano attraversa l’oggetto, come se lei fosse del tutto inconsistente.

- Noi qui siamo solo degli spettatori. Non si può cambiare il passato. –, spiego, in tono solenne e greve.

- Il passato… -, ripete Takara, assente, mentre elabora la notizia, per poi capire, - Siamo in un ricordo, vero? Siamo nella memoria di mio padre. –

Annuisco dolente.

Un rumore ci fa sobbalzare e dirigiamo lo sguardo alle nostre spalle. Dalla penombra sbuca lui, Sephiroth. Si muove lentamente, trascinando i piedi, la schiena è ingobbita e le braccia sono lasciate a ciondoloni, testa bassa: sembra quasi che un macigno lo stia schiacciando. Il suo vestiario è trasandato, sciatto, miserabile. Rimango stupito nel vederlo in quello stato pietoso.

Nemmeno quando è morto era ridotto così.

Tuttavia, mi rendo conto, che il Sephiroth che combattei all’epoca non era altro che la pallida imitazione di ciò che era, un abbozzo dell’uomo che era stato, divorato dal rimorso e dalla disperazione. Il burattino di Jenova.

Lo guardo gettarsi su un divanetto di pelle nera totalmente spossato; gettando la testa all’indietro e le braccia a penzoloni. Riesco finalmente ad intravedergli il viso. La pelle è di un grigiore quasi mortale, esangue, rattrappita all’altezza delle guance, le quali risultano scarne oltremodo e ne affilano l’ovale ancora di più. Attorno agli occhi, pesti e scavati, posso vedere delle profonde occhiaie nerastre; mentre il rosso dei bulbi oculari, gonfi e lucidi, dona un tocco di colore all’insieme, poiché le iridi sono totalmente spente. Quel verde brillante e glaciale che mi ha trafitto ogni singolo giorno della mia vita, è scomparso lasciando spazio ad un opaco grigiore. Faccio scorrere i miei occhi lungo la sua figura longilinea e posso notare che gli effetti delle privazioni lo hanno stremato totalmente. Il pomo d’Adamo svetta evidentemente dal collo dimagrito, così come le clavicole, i tendini delle mani e dei piedi. Le unghie sono state lasciate a crescere parecchio, mentre i capelli sembrano non essere stati curati da giorni, tanto sono arruffati e appesantiti. La figura dell’uomo, del SOLDATO perfetto è svanita. Sto guardando una persona che ha perso totalmente ogni ragione di vita, a cui più niente importa del mondo che c’è là fuori; anzi lo disprezza. Anzi… forse nemmeno quello. Semplicemente ha smesso di lottare. Si è arreso all’ineluttabile crudele fatalità del proprio destino.

E’ morto…

E’ morto molto prima di quanto pensassimo.

Ad un certo punto, solleva stancamente il busto e la testa e, come una orrifica marionetta priva di volontà, si getta in avanti, lasciando ricadere la testa in basso. La cortina argentea chiude il sipario sul suo viso. Le braccia appoggiate sulle gambe si muovono e si ritrovano a metà strada, permettendogli di afferrare con entrambe le mani qualcosa che teneva nella mano sinistra, celata alla nostra vista. Mi si gela il sangue appena riconosco l’oggetto. La foto di Evelyn. Quella che mi ha perseguitato da quando questa stramaledetta storia è iniziata. La osserva per un lunghissimo istante, per poi appoggiarla sulle pagine di un libricino aperto sul tavolino di vetro, accanto alla scatola. Nell’abbandonarla, egli lascia scorrere le dita sulla superficie, accarezzandola come se, separarsene, fosse l’ultima cosa che voglia fare sull’intero Pianeta. La mano giunge sul bordo del tavolino e cade a penzoloni. Incurante, egli cede al dolore e piange quasi inconsciamente. E’ un pianto silenzioso, arrendevole, stanco. Ha un dolore così sconfinato in quel cuore che non ha più idea di come sfogarlo.

Takara, che fino a quel momento è rimasta incredula a guardare, decide di avvicinarsi e si inginocchia ai piedi del padre, rivolgendogli uno sguardo pieno di compassione; poi fissa il suo sguardo sulla mano abbandonata a pochi centimetri da lei. Posso avvertire il desiderio di stringergliela, affinché egli sappia che lei è lì, pronta ad offrirgli tutto il suo calore. Ad un certo punto, infatti, Takara cede all’intenzione.

Ma il passato non si può cambiare.

Come se l’avesse avvertita, Sephiroth nasconde la mano in una tasca, da cui tira fuori un pacchetto di fiammiferi. Inermi, osserviamo il Generale accenderne uno, osservarlo per un lungo istante, combattuto, e infine prendere una della decisioni più terribili della sua vita: gettare quella fiamma dentro la scatola e bruciare ogni singolo ricordo di sua figlia. Takara, ferita, cerca di fermare la follia del padre, ma, come ho già detto, il passato non si può cambiare.

Ella passa attraverso alla scatola, al tavolino, fino a che le sue mani incontrano il pavimento scuro. Il fuoco le si riflette sui capelli bruni, i quali s’infiammano di un splendente dorato, mentre il suo viso è nascosto nell’ombra. Poco dopo qualche secondo d’immobilità, vedo gocce amare impattare sul pavimento e il suo corpo attraversato da dolorosi singulti.

Una profonda stilettata di pietà mi colpisce dritto nel cuore e l’istinto mi suggerisce di consolare la ragazza; ma Sephiroth si allunga per afferrare il diario e inizia a scrivere. Le parole vergate sulla carta si materializzano di fronte a noi, testimoni dei pensieri oscuri del Generale.

 

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E’ finita.

Ogni bel ricordo è svanito in un mare di fiamme. Mia amata, mia amatissima Evelyn. La crudeltà dei tuoi aguzzini mi ha impedito di stringerti, di saggiare la morbidezza della tua pelle, di contemplare il tuo splendido viso… mi hanno impedito di stringerti a me un’ultima volta. Un’ultima dolorosa volta. Ti hanno tramutata in incandescente, morta, sfuggevole cenere… Sei scomparsa dalle mie mani, rapita dal vento. Sfuggevole come solo i sogni sanno essere. E come tale, meravigliosa sei stata. Ma i sogni, ahimè, durano fino a che le fiamme del sole non spuntano all’orizzonte. Bruciano tutto con la loro luce spietata, gettando ogni gioia in una mare infuocato di oblio.

Ti ho perduto come si perdono i sogni, mia Regina. Eri la mia Luna che rischiariva lo scuro pozzo della mia psiche, il Faro che mi guidava attraverso il mare burrascoso del mio cuore, la Stella che donava pace alla mia anima tormentata. Eri tutto ciò che contava per me. Mi avevi salvato dalla vita miserabile che mi era stata cucita addosso. Mi stavi rendendo un uomo migliore di quanto mai avrei creduto possibile, perché Tu rendevi tutto migliore. Tu eri il Tutto. La fonte di ogni cosa.

Nulla ha più senso, ormai.

Tutto ciò che posso fare è assicurarti la Terra Promessa. Il Pianeta che tiene in ostaggio la tua anima non sarà risparmiato. Per te, mia Regina, sono pronto a bruciare nelle fiamme più profonde dell’Inferno. Te lo promisi allora, quando ancora il tuo corpo morbido era ancora pulsante e perfetto mi si mostrava agli occhi, e ora non verrò a meno della mia promessa. Lo sai che non lo farò. Sai che non ti abbandonerò mai nelle grinfie di un Pianeta ingiusto che ti costringe a un aldilà di miseria e disperazione. Solo per avermi concesso la più grande gioia che una donna potrebbe mai regalare al proprio uomo.

Il dono della vita… una figlia... una figlia che non merito, un Dono così grandioso che mi vergogno averlo inquinato con la mia maledizione. Aver inquinato il Tuo operato con la mia mostruosità.

Takara… troppo è sconfinato il dolore che provo al solo pensiero di averti abbandonata. Non riesco nemmeno a respirare. Mia Principessa, avrei dovuto risparmiarti questa miserabile esistenza, questo dolore insensato, quest’odio immotivato. Volevo che questo fardello rimanesse sulle mie spalle. A questo io sono stato destinato, ma tu… tu… non lo meriti. Non meriti nulla di tutto ciò.

Vorrei ritornare da te con tutto il mio cuore, ma non posso più lasciarmi frenare dagli scrupoli che, per tutta la vita, mi hanno impedito di vedere. Forse solo così potrò finalmente salvare tua madre. Riconoscendo la mia natura, forse capirò come riportare giustizia in questo mondo ingiusto e, magari, potrò assicurarti il futuro che meriti. Prego solo che tu possa sopravvivere fino a quel giorno.

Ti amo, mio Tesoro. Ti supplico, non dubitarne mai.

Te e tua madre eravate tutto il buono che era rimasto in me.

Ora non c’è rimasto più niente, se non un vuoto incolmabile. E Lei.

 

Perdonami…

 

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- Papà… –, sospira Takara, senza distogliere lo sguardo da suo padre, mentre quel ‘Perdonami’ scompare fumoso nel nulla.

Io sono esterrefatto e tento d’inseguire il significato sfuggevole di quelle parole. Esse mi stanno suscitando una pessimo presentimento e delineano un disegno complesso e inquietante di una storia cancellata e riscritta per un fine sconosciuto. O meglio, temo di sapere bene quel fine, resterebbe solo da capire il perché. Mi guardo le mani e poi Sephiroth…

 

All you are, it’s an empty puppet.

[Non sei altro che una vuota marionetta, Sephiroth FFVII: ACC]

 

Improvvisamente, tutto attorno a noi inizia a collassare e venire risucchiato in un punto alle nostre spalle. La forza di quel fenomeno è così travolgente da deformare la realtà in cui ci troviamo. Nemmeno noi ne siamo immuni e, senza alcuna possibilità, il buco ci distorce e scompariamo, roteando, all’interno di quella trappola. L’unica cosa che riesco a fare poco prima dell’ineluttabile è afferrare la mano di Takara e stringerla a me.

Chiudo gli occhi e mi concentro completamente sulla sensazione di Takara adesa al mio corpo, alle sue mani artigliate alla mia maglia, al suo respiro affannato che mi accarezza il petto, al tamburellare impazzito del suo cuore che mi sconquassa l’anima. Il profumo dolce e la morbidezza di quei capelli mi attira ancora di più verso di lei, accendendo una strana sensazione dalle recondità dell’inconscio.

- Cloud? Cloud! –

Mi ridesto e, appena apro gli occhi, gli smeraldi di Takara mi accolgono. Un colpo al cuore. Rimango ad osservarla per un lungo istante, studiandone i lineamenti con più attenzione, come se fossi la prima volta che li vedo. Lo stomaco si stringe e un groppo si forma in fondo alla gola, mentre gli occhi si fanno lucidi. I muscoli si stringono attorno al corpicino della ragazza e a malapena resisto all’istinto di accarezzarle il viso, i capelli; per infine lasciarle un delicato bacio sulla fronte. Dal canto suo, lei sembra imbarazzata da quel fissare insistente e arrossisce appena, lasciando vagare lo sguardo nei dintorni.

- Credo che sia ora di lasciarmi. Il pericolo sembra passato. –

- Oh… Ehm… scusami. Non so che mi sia preso. –

Sciolgo la morsa e cerco di ritrovare un minimo di contegno in mezzo alla miriade di sentimenti che Sephiroth ha pensato bene di propinarmi.

Capisco che tu sia contento di riabbracciare tua figlia, ma così mi fai sembrare un maniaco.

- Non è più il luogo di prima. Siamo stati trasportati da un’altra parte. Lo riconosci? –, chiede Takara, rivolgendosi nella mia direzione.

A quel punto, mi rendo conto che ci sono altre priorità e quindi inizio ad analizzare il nuovo luogo dove siamo stati catapultati e, per poco, non mi prende un colpo.

La Chiesa.

Muovo un paio di passi, scrutando in direzione del giardino con i fiori, nella speranza di vedere…

Ma vengo brutalmente interrotto dal portone che si è spalancato alla nostra sinistra.

-Takara, stammi vicino. -, ordino.

La ragazza si affianca immediatamente. Entrambi i nostri sguardi sono appuntati alla superficie di legno massiccio. Avverto i miei muscoli tendersi fino allo spasmo e il cuore sembra volermi esplodere direttamente nel petto. Accanto a me, Takara sembra nel mio identico stato d’animo. Tutto cambia appena riconosciamo l’identità del nuovo arrivato.

 

-Sephiroth!

 

Una voce fin troppo famigliare attira la nostra attenzione verso la diretta estremità dell’edificio. E lì, la vedo…

Aerith.

Bellissima e dolce come la ricordo. La sua treccia bruna, il suo fiocco rosa, i suoi sfolgoranti e gentili occhi verdi, la pelle pallida e perfetta… Svetta in mezzo ai fiori, come una Dea. Il mio cuore batte all’impazzata, mentre quell’amore soffocato dal dolore si ridesta. La guardo correre lungo la navata, con l’espressione affranta. Una scia fumosa di candido bianco, come il suo vestito, la insegue, per poi ricomporsi appena si ferma. E’ di fronte a me, ma lei non mi guarda: i suoi occhi sono tutti per quella bestia del suo assassino, il quale è appoggiato alla porta con capo basso. La Cetra si porta le mani al petto e abbassa la testa. La sua espressione è triste e posso vedere le lacrime rigarle il viso.

 

-Mi dispiace.

 

La voce della Cetra è strozzata dal dolore e talmente bassa che la riusciamo a udire per puro miracolo. Ella alza lo sguardo e, con deferenza, copre la distanza che la separa dalla sua controparte, fino a poggiare la sua mano sul braccio di lui.

 

- Mi dispiace tanto. –

 

Aerith reitera con più convinzione e cerca di imprimere un po’ di calore al Generale, legandogli le braccia attorno alla vita e poggiando la testa sul suo petto. Egli non si muove, non sembra nemmeno aver percepito quel contatto, tanto è alienato dal dolore.

 Takara sospira. Credo invidi Aerith, credo che ora vorrebbe trovarsi al suo posto. Forse la storia sarebbe andata diversamente. Le appoggio la mano sulla spalla.

Dopo un lungo silenzio, le smorte labbra dell’Angelo dall’Unica Ala proferiscono quella domanda che ha caratterizzato tutta la sua vita, accompagnata dalla tenue speranza che quel girovagare impazzito possa infine cessare una volta per tutte.

 

-Perché? Perché il Pianeta mi odia così tanto? –

 

Vediamo la Cetra irrigidirsi e stringersi con più veemenza al SOLDIER.

 

-Non dire così. Il Pianeta non odia nessuno… -

 

La ragazza tenta debolmente di sviare la realtà dei fatti, ma Sephiroth prorompe come una tempesta, attingendo da quel poco di energia che gli è rimasta, la quale, però, sfuma veloce come è venuta.

 

- Non mentirmi! Lo so! Tutto questo… non può essere una coincidenza…–

 

In un primo momento, la figura lugubre e terribile del soldato sovrasta la linea diafana della fanciulla scappata qualche passo indietro, come se volesse inghiottirla nella sua famelica ombra, ma, inaspettatamente, la potenza del Generale viene a meno e crolla ai piedi di Aerith, in un atto di disperata supplica.

 

- Tu parli col Pianeta… Ti prego, Aerith… Ti prego… -

 

Lacrime amare scorrono lungo il viso dell’uomo come un fiume in piena, mentre le sue mani si aggrappano ai lembi della gonna della Cetra, stringendo la stoffa con tale disperazione da rischiare di strapparla.

 

- Non posso dirtelo… mi è proibito… -

 

- Almeno, dimmi se avverti la sua anima. E’ in salvo, nonostante me? –

 

L’espressione di Aerith si fa dolente di fronte a quell’espressione così tragicamente perduta. Vorrebbe, DOVREBBE mentirgli, affinché quel terribile destino venga dimenticato, ma come fare? Per anni la verità lo ha evitato. E lei è troppo affezionata a lui per entrare a far parte di quella stessa lurida cricca. Per quanto dolorosa, la Cetra sceglie di perseguire quella strada insanguinata e segnare inevitabilmente il destino del Pianeta.

 

- Mi dispiace. Lei… è stata marchiata per sempre. –

 

L’espressione del Generale si sgretola sotto l’impeto dalla disperazione e il senso di colpa lo schiaccia definitivamente a terra. Ogni forza lo abbandona, mentre si accartoccia su se stesso.

 

- No… -

 

Le navate della Chiesa vengono rapidamente invase dai singhiozzi e dalle grida inconsolabili di Sephiroth. Aerith lo osserva cercando di trattenere le lacrime, invano. Accanto a me, Takara alla fine si è arresa alla tragicità del momento e ha distolto lo sguardo dalla scena, stringendosi a me. Io non riesco ad ignorare la serpeggiante sensazione che qualcosa di terribile sta per essere rivelato.

 

- Forse qualcosa puoi fare… -

 

Alla fine, Aerith giunge a patti con se stessa e proferisce quelle parole dal sapore di speranza, le quali strappano sia Sephiroth che la figlia dall’abisso di disperazione in cui erano piombati. Dal canto mio, trattengo il fiato e mi irrigidisco da capo a piedi. Incerto, il Generale alza la testa e appunta gli occhi grandi e liquidi dritti sulla figura della Cetra. La guarda come se fosse la Dea in persona, venuta finalmente a tendere orecchio alle sue preghiere.

 

- Però, Sephiroth… ti perderai. –

 

Egli scuote la testa e si propende col busto verso di lei, tradendo la sua impazienza. Ebbro di disperazione si eleva sulle gambe e artiglia le braccia sottili della ragazza, per poi scuoterla così da indurla a spillare ogni singola oncia d’informazione. Segni rossi spiccano là dove gli artigli del mostro hanno impresso la loro disperata traccia.

 

- Non m’importa. Cosa devo fare? PARLA! –

 

- Per iniziare, dovrai accettare ciò che sei. –

 

- E cosa sono io? –

 

- Tu conosci già dove trovare la risposta… –

 

A quelle criptiche parole, il SOLDIER ritira il suo assalto e contempla per qualche istante il viso affranto della giovane, con il quale ella spera ancora d’infondere un minimo di pietà in un cuore sfibrato come quello dell’uomo. Peccato che un cuore, Sephiroth, ormai non ce l’abbia più. Al termine delle sue elucubrazioni, il viso di Sephiroth si fa di pietra e si adombra. Egli si alza fluidamente e, senza dire una singola parola, si avvia verso il pesante portone della Chiesa.

 

- Sephiroth… ciò che scoprirai porterà un dolore e una distruzione senza precedenti. Sei pronto ad accettarlo? Sei pronto a diventare quello che hai evitato di essere per tutta la tua vita? –

 

Egli si ferma sull’uscio, la mano appoggiata sulla maniglia. Sospira profondamente, tradendo un comprensibile e umano timore di fronte alla realizzazione delle conseguenze che questa drastica scelta porterà; ma, allo stesso tempo, SA di non aver mai avuto altre opzioni valide. Tuttavia, Sephiroth è diventato l’Eroe di SOLDIER proprio perché è capace di mettere da parte i propri timori e combattere per il bene degli altri. E questa volta, la posta in gioco è davvero alta.

 

- Se è questo il mio destino, sono pronto ad accettarlo. Farò di tutto per assicurare la libertà alla mia famiglia… e ai miei amici. -

 

Con le ultime parole, il Generale si volta lentamente verso l’interno dell’edificio e appunta il suo sguardo verso l’alto, in direzione di una trave di sostegno della navata.  Sia io che Takara lo imitiamo e subito distinguiamo una creatura alata identica in tutto e per tutto all’essenza di Angeal presente a Yaido. I due si scambiano un lungo sguardo d’intesa. Dopodiché, statuario quanto nella posizione tanto nella voce, l’Angelo si rivolge verso la donna. A differenza di prima, quando in quegli occhi di mako non v’era la benché minima traccia di volontà, le iridi di Sephiroth si sono rianimate di una nuova, fiammeggiante, terribile determinazione.

 

- E tu sarai pronta a fermarmi? –

 

Salve a tutti! Rieccomi con un capitolo nuovo nuovo e anche un po’ strano. Come di consueto, chiedo scusa per il ritardo. Ero partita bene con questo capitolo scrivendo una buona metà quando ero ancora a Bunbury, ma poi il ritorno dall’Australia ha abissato la mia voglia di scrivere e l’ho tenuto a metà per un mesetto, poi l’ho ripreso in mano e poi sono arrivata a una pagina dalla fine e poi l’ho tenuto in caldo per mesi. Oggi finalmente mi sono decisa a finirlo, anche perché nel frattempo nuovi sviluppi sono saltati fuori e dovrei essere riuscita a delineare il finale definitivo! W ME!!! La brutta notizia è che credo che il finale arriverà in tempi molto più brevi di quanto preventivato, perché gli eventi dovevano svolgersi in modo del tutto differente. Comunque, credo che in questo modo sia meglio di quanto il mio schemino che NASA levate dice.

Spendiamo due parole su questo capitolo. La prima cosa che salta all’occhio non c’è il solito scambio di POV tra Sephiroth e Cloud, se non per un brevissimo istante. Il motivo è che lo stato mentale di Sephiroth non è più comprensibile SOLO dal diario e comunque ne svaluterei le reali sensazioni inserendo i classici aneddoti ed elucubrazioni che tanto ci piacciono solo per allungare il brodo. A lui del Progetto S e degli intrallazzi della Shinra, in questo momento, gliene frega sì e no un *bip*. Inoltre, abbiamo il nostro caro CC che ci sta a spiegare cosa sta succedendo attorno al nostro bel platinato. E poi ne ho ventilato nello scorso capitolo, della sua intenzione di mollare la Shinra e le motivazioni. E poi, non so voi, ma dopo un lutto così pesante, credo che l’ultima cosa di cui una persona ha voglia sia scrivere pagine e pagine di diario, solo per vedere i propri incubi materializzati.  Io immagino che mi terrei occupata a risolvere certe questioni in sospeso per poi farla finita; anche perché ricordiamo che Sephiroth sta andando incontro alla sua morte (Più corretto chiamarla ascensione alla divinità  ^.^ ndSeph; O mal di testa permanente -.-‘ ndCloud; CHE HAI DETTO?!? è.è ndS; *GULP* niente niente XD ndC, smettetela e fatemi finire! ndFortiX) . Per saperne di più magari potrei pubblicare in futuro una flash-fic (di cui una buona è metà già scritta e risalente ai tempi delle Falkland, per dire) riguardante gli ultimi giorni di Sephiroth e come se la passava (immagino l’allegria, in confronto la tomba di Vincent è una limo-party ndC, Insensibile T.T ndS). Infine tutto questo viaggetto nella mente del nostro distruttore preferito è propedeutico a spiegare il mio piano malefico che ci introdurrà poi alle battute finali di questa storia infinita. Si scopriranno cose che voi umani potrete solo immaginare! Buhahahahahah! (Dicevi del mal di testa? O.O ndS, Sì avevi ragione c’è di peggio -.-‘ ndC).

Bene, siori, vi saluto caldamente e ci vediamo nella seconda parte di questo simpatico viaggetto stile ‘Eracolatore’ (citazione che solo veri esperti sono in grado di cogliere).

Alla prossima.

Besos


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Capitolo 28
*** Viaggio (Parte II) ***


28. Viaggio (Parte II)

No…

No…

No, no, no, no, no, no, no, no, nononononono… NO!

 

Crollo a terra, mettendomi le mani nei capelli. Gli occhi sono fuori dalle orbite dallo stupore. Continuo, ossessivamente a ripetere quella sillaba all’infinito.

 

Non ci credo… Non ci VOGLIO credere!

 

- Non è possibile che abbia preso parte a tutto questo… -, piagnucolo in preda allo sconforto e alla realizzazione che sì, io sono sempre stato una miserabile e vuota marionetta. Non ho mai voluto vedere, come un idiota mi sono lasciato abbindolare dalle menzogne che ogni giorno mi venivano propinate, senza avere nemmeno la decenza di farmi due domande. Ho sempre fatto quello che LORO volevano. Tutti mi hanno sfruttato, sapendo che avrei agito esattamente come avevano pianificato…

 

-Aerith… Come hai potuto farmi questo? Io ho sofferto così tanto per te… Perché? PERCHE’?!-

 

Osservo la prima donna che abbia mai amato, ripercorrendo ogni singolo angolo della sua immensa e magnifica figura. Così semplice, bastava così poco per far nascere su quel viso dalla bellezza ultraterrena un sorriso capace di sciogliere perfino il più gelido dei cuori. Un sorriso in grado di mantenersi perfino nella morte. Lacrime incontrollate scendono lungo le mie guance, mentre i ricordi di quel terribile momento riemergono, mai svaniti. Il rumore, simile a un risucchio, dell’acciaio che trapassa un corpo dedito alla preghiera; il rimbalzare cristallino e assordante della Materia Holy spezzare il sacro silenzio della Città Dimenticata: il corpo spezzato della mia amata riverso in una pozza infausta di sangue più scuro della pece. Quel sangue che avevo giurato di proteggere ad ogni costo, quel sangue che ancora oggi cerco di lavare via dalle mie mani, invano. Eppure, quell’arco benevolo non è scomparso un solo secondo su quel viso esangue. Hai continuato a sorridere perfino mentre sprofondavi nella tua tomba d’acqua. Eri soddisfatta, perché così facendo mi avresti aizzato contro il tuo assassino, compiendo il destino di entrambi.

Tutto secondo i piani…

Rivolgo uno sguardo pieno d’odio verso Sephiroth.

- L’hai costretta a rinunciare alla sua vita per ridarti la tua. –, sibilo, mentre lentamente mi approccio alla fiera figura dell’ex-Generale, - Eppure sapevi, lo sentivi, che il Pianeta non te l’avrebbe mai ridata. Quindi a cosa è servito tutto questo male? A cosa è servito uccidere un essere innocente? A COSA E’ SERVITO TUTTO QUELLO CHE HAI FATTO?! -

Mano a mano la mia rabbia cresce anche il tono di voce si alza, fino ad esplodere letteralmente in faccia a quell’assassino egoista e codardo. Non riesco a resistere e mi scaglio contro di lui, menando pugni con tutta la forza che ho in corpo; tuttavia ad ogni colpo sferzato la figura di quel mostro semplicemente si dissolve in polvere, per poi ricomporsi subito dopo, in attesa di un altro colpo pronto a dissolverlo nuovamente. Per quanto inutile e stupido non accenno a fermarmi; anzi la frustrazione non fa altro che alimentare la dirompente furia che mi sta infiammando l’animo.

- TI ODIO! TI ODIO, MOSTRO! ASSASSINO! BESTIA! –

Urlo e grido ormai al limite dell’esasperazione e la mia sequenza di colpi si fa sempre più fitta, tanto che di Sephiroth non è rimasto altro che una nube informe di polvere nera e argentata. Eppure, non è abbastanza per me. Deve scomparire dalla faccia del Pianeta, non deve rimanere una singola molecola della sua esistenza.

- NON MERITI NIENTE! NIENTE! OGNI PROVA DELLA TUA ESISTENZA DEVE SVANIRE! –

L’ultima frase, la cui realizzazione mi colpisce con la potenza di uno schiaffo, spegne l’incendio della mia follia rabbiosa tutto in una volta. Mi blocco a metà del pugno che stavo per sferrare, lasciando quindi tempo alla polvere di ricompattarsi nell’austera figura del Generale. Con un groppo in gola, volto lo sguardo colpevole verso destra e, da sopra la spalla, scruto Takara. Avverto un enorme macigno crollarmi sulla testa appena incrocio la sua espressione marmorea.

Gelida e rigida, mi fissa senza emettere un solo suono. Eppure avverto la tempesta rombare all’interno di quel giovane cuore.

Chissà quante volte se lo sarà sentito ripetere. Chissà quante volte avrà prestato attenzione alla gente quando si rivolge a suo padre con questi epiteti. Chissà quante volte avrà finto di non ascoltare, di non aver accusato il colpo, di non dargli alcun peso; come se non t’importasse del giudizio degli altri, perché tu SAI chi è tuo padre. Chi meglio di te potrebbe mai saperlo?

La verità è che non è vero. Tu non lo sai. Troppo piccola per ricordare. Ti sforzi per visualizzarlo, per accedere a quelle memorie remote; ma non ci riesci. Lo vedo dallo sguardo sconfitto, abbassato per non farmi pesare troppo la gigantesca gaffe appena compiuta. Nemmeno il coraggio di contraddirmi, di provare a difenderlo. Come potrebbe mai difendere un uomo che si è inimicato tutto il mondo?

Come potrebbe mai difendere l’uomo che l’ha abbandonata per inseguire chissà quale visione?

Quello stesso uomo che sarebbe dovuto essere al suo fianco al posto di Genesis.

Forse vorrebbe odiarlo anche lei, per sentirsi accettata, normale. In fondo, lei ne ha più diritto di tutti noi, ma… nel bene o nel male, Sephiroth è pur sempre suo padre. Un dettaglio che non si può ignorare.

- Non sentirti in colpa. Io… ci sono abituata. -, mormora paziente Takara.

La ragazza mi rivolge un debole e mesto sorriso, mentre mi raggiunge e pone delicatamente entrambe le sue mani sul braccio ancora teso nell’atto di colpire. Lentamente essa mi abbassa l’arto e lo ripone lungo il mio fianco, stringendomi la mano nelle sue per un momento, come per infondere nei miei muscoli la sua innaturale calma. Dopodiché, abbandona il mio arto e, sostando accanto a me, si volta completamente verso il genitore. Si estrania, mentre il suo sguardo triste studia ogni minimo dettaglio di Sephiroth. Dal canto mio, non posso far altro che osservare ogni sua singola mossa, ammaliato dalla forza e dalla volontà di questa ragazzina.

- Sei come tua madre.

I suoi occhi si spalancano e si volta di scatto verso di me. La sua boccuccia è aperta in un’adorabile ‘o’ sbalordita. Non so come mi sia venuta questa frase, non so nemmeno se sia stato Sephiroth a manipolarmi al fine di proferire quelle parole; ma capisco immediatamente che è vero. Assomiglierà fisicamente a suo padre, tuttavia bisogna ammettere che caratterialmente è esattamente come Evelyn. Annuisco e le sorrido benevolo, così da darle la conferma che cerca. Takara arrossisce e distoglie lo sguardo imbarazzata; eppure non posso non notare l’arco sincero ed emozionato inarcarle le labbra.

-Nessuno mi ha mai paragonato a lei. -, sussurra con la voce rotta dall’emozione, poi scuote la testa e il suo sorriso svanisce, inghiottito da un’espressione malinconica, - A dire la verità, nessuno l’ha mai nemmeno menzionata. Non so praticamente niente di lei. -, conclude, lasciando sfumare il discorso in un amaro silenzio.

- Ti voleva bene, Takara. Eri davvero importante per lei-, rispondo io cercando di sollevarle il morale.

La ragazza fa spallucce, sfoderando una smorfia rassegnata.

- Già… come tutti… -

Il commento acido e diretto così in stile Sephiroth si scontra irrimediabilmente con i modi gentili e pazienti mostrati poco prima, lasciandomi stupito di fronte alla facilità con cui le due nature si susseguono e si adattano alle esigenze di questa ragazza. Non c’è che dire, Takara è davvero la sintesi perfetta tra i suoi genitori, oltre che rappresentare l’armonia tra la benevolenza del Pianeta, l’arguzia di Jenova e la compassione umana. Tuttavia, è un fardello pesante da portare, come ella ha appena sottolineato. Ogni cosa che tocca è destinata a scomparire…

La mia mente mi riporta a quella bara di Lifestream e alle fattezze dell’uomo conservato all’interno.

Così simile a me.

Sarei dovuto essere il nuovo salvatore del Pianeta, ripercorrere le sue gesta dimenticate e porre fine all’incontrastato dominio della Calamità; ma qualcosa ha impedito a quei piani di avverarsi: Jenova stessa.

Quell’eredità a cui ho tentato di oppormi con tutte le mie forze, illudendomi di controllarla, di relegarla al semplice mezzo per un fine, mi ha sempre perseguitato; anzi, è sempre stato il cappio collegato alle abili mani dei due Grandi Burattinai e protagonisti di questa guerra mai cessata. In duemila anni, Jenova e il Pianeta non hanno mai ceduto un solo passo da ciò che avevano guadagnato prima della caduta dell’aliena. Quella non fu una sconfitta, ma una semplice ritirata strategica. LEI sapeva che era solo una questione di tempo. Quello che probabilmente ha imparato nella sua esistenza immortale è che la vita è fatta di cicli. I Cetra non sarebbero sopravvissuti a lungo su Gaia. Questo lo svantaggio dei miserabili mortali: non importa quanto potere possano aver accumulato o quanto alto sia il grado di benessere raggiunto; la Morte è inevitabile. Bastava aspettare e l’evoluzione avrebbe fatto il suo corso. Aveva visto una scintilla terribile nei cuori degli umani, un scintilla che se correttamente alimentata avrebbe piegato quella nuova specie ai suoi biechi scopi. E’ qui che mi rendo conto di quanto siamo simili, io e Takara, di come entrambi siamo stati contaminati dall’una e dall’altra fazione. Entrambe ci hanno modificato durante la loro disperata corsa agli armamenti, nell’incrollabile speranza di essere l’uno in vantaggio sull’altra.

Come può essere il mio nemico? Chi è che ti vuole davvero morta? E perché?

-Mi dispiace davvero per ciò che ho detto… -, esordisco, abbassando lo sguardo sulle mie scarpe.

Avverto l’attenzione di Takara calare di nuovo su di me, tuttavia la ignoro, apponendo anzi i miei occhi sull’altro erede di Jenova. Mi scappa uno sbuffo divertito.

- Hai ragione. -, esordisco, con tono stanco e mesto, - Non ho mai capito niente. Nonostante tu abbia fatto di tutto per mostrarmelo, io ancora fatico a comprenderti. -, abbasso la testa e chiudo gli occhi, mentre un sospiro abbandona le mie labbra.

- In fondo, sono solo un sempliciotto di campagna. -, concludo, sconfitto.

Appena proferite queste parole, tutto attorno a noi si dissolve come polvere e il nulla bianco di circonda. Non v’è traccia dell’agitato e claustrofobico mondo d’emozioni che ci ha accolti: sembra di essere totalmente in un’altra realtà, completamente opposta a quella dell’esordio. Un limbo sospeso nel bel mezzo della tempesta si avviluppa attorno a noi. Per quanto a prima vista sembra che pace e armonia regnino incontrastate, mano a mano ci si rende conto che non è altro che una facciata per mascherare il turbinio folle di negatività presente all’esterno. Senso di colpa, rancore e sensazione di inadeguatezza sono le fondamenta su cui la traballante psiche di Sephiroth si ergeva e questo luogo è la loro tomba. L’ossessione per la morte di Evelyn ha inglobato ogni cosa trasformandola in veleno che gli ha corroso l’anima di giorno in giorno, fino a trasformandolo nel mostro distruttivo che tutti noi conosciamo. Attendiamo qualche secondo e d’improvviso parole vergate di nero iniziano a trascriversi su quelle pareti bianche. La calligrafia è inconfondibile.

 

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Anno XXXX, attico Golden Building

 

Non so nemmeno che giorno sia. Il tempo ha smesso di scandirsi per me, ormai. Credo siano mesi che non tocco questo diario. Quando l’ho ritrovato era abbandonato su questo tavolino completamente impolverato. Tutto è rimasto esattamente come l’ho lasciato l’ultima volta. A parte la scatola…

C’è tanta confusione qui. La libreria è un completo sfacelo. Buona parte del suo contenuto è andato perduto o venduto o non ricordo più nemmeno cosa. Soffro di grossi vuoti di memoria che m’impediscono di concatenare gli eventi l’uno con l’altro. Sempre più spesso mi risveglio in luoghi sconosciuti, senza capire come ci sono giunto, se non per semplice deduzione. Colpa dell’alcool, di cui ultimamente sto abusando in maniera davvero massiva. Altro fattore potrebbero essere i sonniferi che mi autosomministro per evitare di sognare. E poi ci sono le droghe, iniziate ad assumere come rimedio per il dolore.

Mi sono sempre considerato un uomo morigerato, dedito a mostrare sempre il buon esempio agli altri; ma quest’ultimo male che mi corrompe dall’interno ha letteralmente indirizzato la mia vita verso una spirale di decadente miseria. Nascondo in piena vista la mia sofferenza andando a raccattare negli angoli più luridi della città le sostanze più micidiali, i mix più audaci, le perversioni più assurde; il tutto per trovare un po’ di pace, in attesa dell’Ultimo Passo.

Vorrei morire.

E’ un desiderio che mi ha accompagnato fin da bambino, quando le umiliazioni, gli esperimenti e i maltrattamenti raggiungevano l’apice. Desideravo non essere mai nato e maledicevo i miei genitori per avermi messo in questo mondo schifoso e reso la mia esistenza patetica e priva di qualsivoglia scopo. Quando crebbi, da ragazzo, scoprii mio malgrado quale fosse quel fantomatico scopo. Il risultato non fu altro che il rinnovo di quel desiderio di morte; il quale l’ho ricercato con qualunque mezzo, a partire dalle condotte suicide fino alle manifestazioni violente di frustrazione e rabbia. Tuttavia, ogni sensazione provata da giovane non è assolutamente paragonabile a quelle attuali: questa volta non voglio evitare la sofferenza di altri, levando di torno la mia nefasta presenza; no, questa volta ciò che provo è assolutamente personale.

Vivere è un’azione che non intendo più compiere, perché non vi è più la volontà di eseguirla. Non apprezzo più niente, infatti. Se prima cercavo di trovare conforto nella bellezza delle piccole cose, ora nemmeno i fatti più eclatanti destano il mio interesse.

Eppure continuo a trascinarmi per questa miserabile esistenza.

E è tutta colpa sua.

La Bestia. Colei che m’impedisce di lasciarmi andare, di concedermi quell’oncia di coraggio sufficiente per compiere l’ultimo passo. Ho provato a spararmi, a impiccarmi, a tagliarmi le vene; ma nulla: Lei continua ad intervenire, impedendomi di premere il grilletto, o sbilanciarmi sulla sedia o di affondare più in profondità la lama nella pelle. Avverto la rabbia risalire dalle viscere e far ribollire il sangue, offuscando la ragione e ogni cognizione.

Sono regredito fino all’età adolescenziale, quando erano gli impulsi a guidarmi verso i crimini più efferati. Ho ricominciato a uccidere in modo incontrollato, infatti.

Recentemente i telegiornali hanno parlato di tre vittime, ritrovate nel vicoli degli Slums. Normalmente questo fatto non desterebbe alcun interesse negli investigatori, poiché crimini del genere sono perpetrati quotidianamente laggiù; ma l’efferatezza con cui questi omicidi sono stati commessi hanno lasciato gli inquirenti basiti. Quelle povere anime sono state letteralmente squartate, come se un mostro feroce si sia accanito su di loro, però quell’ipotesi non fu creduta plausibile dal semplice fatto che, per la natura stessa dei mostri degli Slums, la scena del crimine fosse troppo “pulita”. Gli investigatori ci hanno lavorato su per qualche tempo, per poi chiudere il caso per mancanza di prove. Eppure, la mia firma è ben evidente su ogni singola goccia di sangue. Per questo motivo, ho capito che ricercare la morte per vie rapide è una soluzione al di fuori della mia portata e, quindi, ho deciso di optare per una soluzione più lenta e sottile: droghe e alcool, spesso usati insieme. Non m’importa delle conseguenze che la mancanza di cognizione di provoca, se non dopo, ma “vivo” nella speranza che prima o poi il mio cuore non possa più reggere la quantità industriale di schifezze che introduco nel corpo ogni giorno. Ho scoperto, tuttavia, che questa soluzione non è così efficace come speravo. Perso nella mia agonia, ho scordato che il mako potenzia i processi cellulari, aumentando le prestazioni sia anaboliche, le quali conferiscono maggiore resistenza strutturale, che cataboliche; ossia che l’accumulo di sostanze tossiche e nocive all’interno del mio corpo è pressoché impossibile, perché esse vengono scomposte nella loro interezza e nel modo più efficiente possibile. Ne consegue, quindi, che le droghe non possono né uccidermi, né provocarmi assuefazione. Ne subisco solo gli effetti a livello cognitivo, senza andare a intaccare in nessun modo le mie facoltà intellettive. Motivo per cui nessuno si è accorto del mio cambio di abitudini alla Shinra. Da un lato è frustrante, perché non posso centrare il mio obiettivo; ma dall’altro ho trovato un modo per evadere dall’amarezza della mia esistenza. Un risvolto crudele, ma funzionale per iniziare a pianificare le mie ultime volontà come ufficiale di SOLDIER.

Zack Fair prenderà il mio posto in quanto ultimo First disponibile sul mercato. Ancora non lo sa, glielo comunicherò domani al briefing pre-missione.

Andremo a Nibelheim per controllare il reattore mako della zona, il quale sembra essersi danneggiato a seguito di una scarsa manutenzione. Almeno questa è la versione che ho rifilato al Presidente e sarà la stessa che udirà anche Fair. Ovviamente il motivo è un altro…

Genesis

 

E’ lui che mi aspetto di trovare. Dovrà rispondere di tanti crimini: tra cui…

 

Mia moglie è morta

 

Genesis l’ha uccisa senza alcuna pietà e ne ha bruciato il corpo, assieme alla nostra casa e tutto il villaggio. Mia moglie… La donna che più ho amato nella mia intera esistenza, colei che avevo fatto centro del mio mondo, l’unica ragione che mi aiutava ad alzarmi ogni mattina. L’unico essere umano capace di rendermi felice, tanto da spingermi, ad osare sfidare la sorte e creare la famiglia che ho sempre sognato assieme a lei…

Ma ho osato troppo. E questo era inaccettabile.

 

Takara...

Nemmeno di lei hanno avuto pietà. Una bambina di un solo anno di vita. Così piccola, così innocente… Quella dolce creaturina capace di sciogliere i cuori di chiunque con un solo sorriso. Era così curiosa, non aveva paura di niente pur di soddisfare la sua sete di conoscenza. Riempiva di domande chiunque la interessasse e voleva provare ogni cosa. Era riuscita a farsi amare davvero da chiunque, perfino da quelle famiglie che non vedevano di buon occhio la nostra presenza estranea. Con la sua spontaneità era riuscita a rompere ogni barriera etnica, culturale e linguistica. Sua madre ha sempre sostenuto di vedere in nostra figlia la promessa di un futuro migliore. Un dono prezioso dal Pianeta all’Umanità.

Il Dono della Dea.

Ma forse, mia moglie ha sopravvalutato nostra figlia, illudendomi che Genesis avrebbe potuto capire il potere insito in quella bambina. Forse anch’io ho visto una grandezza fittizia, abbagliato dal mio amore paterno. Qualunque sia la ragione, comunque, ciò non toglie che, grandiosa o meno, Takara doveva essere protetta a qualunque costo.

Ho recuperato il video dal Caith Sith distrutto durante l’attacco ed è … una punizione che mi autoinfliggo per non essere stato lì, come prova inconfutabile del mio errore più grande.

Avrei dovuto essere con lei… non quel robot inutile, non Natsu; IO dovevo essere con lei.

Rabbrividisco ogni volta appena ripenso alle sue urla terrorizzate, mentre tutt’attorno regnava il caos. Quando poi ha gridato ‘Papà’, poco prima che quel mostro si scagliasse contro di lei, mi sono sentito morire dentro.

 

Mi ha cercato…

E io…

Non c’ero…

Imperdonabile

 

Avevo promesso a mia moglie che non l’avrei più abbandonata, che avrei lasciato tutto per stare insieme, che sarei stato il marito e il padre che quella famiglia meritava.

Ho fallito. Di nuovo.

Ho disatteso alle loro aspettative, me ne se sono andato a miglia di distanza, quando il mio posto era là, accanto a loro, per proteggerle.

Agendo come ha agito, è come se il rosso mi avesse strappato il cuore direttamente dal petto. Forse era proprio quella la sua intenzione.

Uccidermi.

Se volevi mettermi in ginocchio, Genesis… ci sei riuscito. Tutto ciò di più caro che avevo, tu me l’hai portato via.

Perché, mi chiedo. Non capirò mai il motivo dietro tutto quel rancore, quell’invidia, quella rabbia provata nei miei confronti.

Cosa ho sbagliato?

Desideravi così tanto essere l’eroe acclamato dal tuo dannatissimo poema da non sopportare l’idea che quella parte potesse calzare a qualcun altro?

Io ODIO essere un “eroe”, l’ho sempre messo in chiaro, eppure continuavi a rendermi tale attraverso le tue spregevoli azioni. La gente chiedeva il mio intervento per fermare la tua follia, ma, in onore della nostra amicizia, non ho mai voluto fermarti.

Mi sono fidato di te…

Mi sono illuso di vedere grandezza nelle tue grette e basse azioni, pensando che, forse, saresti riuscito a liberarci dalle nostre catene.

Invece… ti sei rivelato l’egoista viziato che sei.

Se non potevi diventare l’eroe, saresti diventato il malvagio. E nemmeno in quello sei riuscito, perché Hollander e Lazard hanno approfittato della tua condizione per manipolarti come volevano e farti compiere quelle azioni.

Patetico.

Ebbene, vecchio mio, spero che tu sia contento, perché è arrivato il momento della resa dei conti. Mi hai portato via la donna che amavo, mi hai portavo via mia figlia, l’aspettativa di una vita normale…

 

Non ho più niente da perdere: sono degno della tua preziosa Verità?

 

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28 Febbraio, Anno XXXX, ore 15:00, Ufficio, Piano 49.

 

L’epilogo di questa storia si concluderà presto. Il conto alla rovescia comincerà quando quell’elicottero si alzerà dallo Shinra Building e lascerà Midgar.

Ho la netta sensazione che non ritornerò.

Osservo l’immensa distesa di luci, snodarsi come tortuosi serpenti luminosi tra gli edifici, i quali di contro, appaiono come granitiche, squadrate montagne d’ombra. I fanali delle automobili scorrazzano frenetici lungo le strade sottili colorate d’insano giallo artificio. Insegne lampeggianti scandiscono il battito frenetico e disarmonico del tempo cittadino, in una sorta di conto alla rovescia verso chissà quale catastrofe.

Quest’ultimo pensiero attanaglia le mie ossa fino al midollo di angoscia e inquietudine.

Non riesco a togliermi dalla testa le parole di Aerith.

“Ciò che scoprirai porterà un dolore e una distruzione senza precedenti.”

Che la catastrofe attesa da quelle insegne sia io?

Lo sguardo cade sul mio riflesso che opprime la città al di là delle vetrate come una presenza nefasta.

Non mi sono mai soffermato veramente a ponderare il mio aspetto, il quale è sempre stato un metro con cui la gente ha sempre misurato il dislivello tra me e loro. Ho sempre disprezzato la mia immagine. Questi capelli argentati, la cui crescita è sempre stata incontrollata, tanto da rinunciare a tagliarli; questo viso quasi femmineo nella sua fine eleganza, sul quale la fatica e il tempo sembrano incapaci di lasciare qualsivoglia segno; questo corpo vigoroso e scolpito, modellato a perfetta macchina da guerra e dotato di una forza che poco ha di umano... da dove provengono?

Un senso di disagio mi attanaglia lo stomaco e mi porta a distogliere l’attenzione da quella… quella… cosa. Non biasimo coloro che mi hanno evitato come la peste o che mi hanno scoccato uno sguardo spaventato, o schifato, o semplicemente curioso: come dargli torto? Penso che mi eviterei pure io, se potessi. E’ un aspetto troppo diverso da accettare. Nessuno, nessuno è come me. Esistono albini nel mondo, ma questi sono caratteri totalmente diversi che appartengono a qualcosa di… di… alieno.

 

Cosa vado a pensare?

E’ assurdo… gli alieni non esistono. Esiste solo Hojo, il quale è davvero capace di fare qualunque cosa. Ci deve essere una spiegazione logica.

Eppure, il dialogo con Aerith sembra rivelare molto più di quanto sia stato effettivamente detto.

Mia moglie e mia figlia sono state marchiate…

Cosa vuol dire?

E perché sono l’unico che può interferire con la loro condanna?

Perché è così importante capire chi sono?

Perché ciò porterà dolore e distruzione?

Di che cosa sono davvero capace?

 

Basta.

Queste domande mi stanno facendo scoppiare la testa. Sono davvero stanco. Non vedo l’ora di partire, di lasciare tutto questo alle spalle.

Ho rivelato a Zack della mia intenzione di lasciare la Shinra e la sua prossima promozione a Generale. Ho avvertito come se un grande peso si fosse dissolto dal petto nell’istante in cui i suoi occhioni si sono spalancati all’idea. Credo che lo stupore sia stato più per la realizzazione della fine di un’era che per il nuovo carico di responsabilità. Molti giovani SOLDIER, tra cui lui stesso, sono cresciuti all’ombra del mio mito e sapere che non potrò condividere il loro sogno potrebbe minare fortemente il loro morale. Ma SOLDIER è tutto ciò che mi rimane e l’unica cosa dignitosa che posso fare è liberarmi anche dell’ultimo legame affettivo, prima di vederlo crollare come una castello di carte.

Ho trascorso praticamente tutta la mia vita tra questi corridoi. Da quando avevo 14 anni. Oggi ne ho compiuti 27.

13 anni da SOLDIER.

Solo 27 anni…

Realizzo ora di quanto questo numero sia basso per la media di una vita umana e una scossa di paura mi attraversa dalla testa ai piedi. L’idea di morire senza aver nemmeno visto i 30 mi scuote oltremodo. Eppure, nei giorni precedenti, questo pensiero non ha nemmeno attraversato l’anticamera del cervello. Forse perché ora ho di nuovo uno scopo, una ragione per cui la mia breve vita potrebbe essere utile. Ciò mi rassicura, anche se un filo di paura ne inquina la dolcezza col suo retrogusto amaro. L’istinto di sopravvivenza ha la meglio, alla fine.

Osservo di nuovo il mio riflesso e mi rendo conto di quanto il mio aspetto strida con ciò che contiene. Ho un carico di esperienze confrontabile con quello di un cinquantenne; eppure conservo tutto quel vigore e quella luminosità tipica della mia effettiva età.

Niente mi scalfisce, niente mi piega. Almeno in apparenza.

Per tutti sono il simbolo incrollabile della potenza inesauribile, della bellezza infrangibile, della gioventù eterna. Peccato che il principio fondamentale dell’universo è che nulla si crea e nulla si distrugge, tutto si trasforma. Io non sono eterno, non sono indistruttibile, non sono immortale. Come Dorian Gray, il cui ritratto assorbe al posto suo tutti i malanni e lo scandire spietato del tempo a lui destinati; la mia anima fa lo stesso con i tiri mancini della vita.

A soli 27 anni ero così tante cose: generale, conquistatore, demone, mito, eroe, compagno, amico, fratello, marito, padre. Un intero ciclo vitale in appena più di un quarto di secolo.

Sorrido. E’ tanto tempo che non sorrido, perché ho realizzato che, tirando le somme, la mia breve vita non è stata poi così vuota, sia nella buona che nella cattiva sorte.

Aerith non ha tutti i torti. Forse davvero il Pianeta non mi odia, ma ha un piano ben preciso per me, tanto che dovrò tornare dove tutto ha avuto inizio. Già da tempo progettavo di visitare la Shinra Masion di Nibelheim per scoprire di più sul Progetto J. Il luogo viene citato spesso nei frammenti di rapporti tralasciati da Hojo. Inoltre, Genesis ha fatto ben intendere di trovarsi nei paraggi del Monte Nibel attraverso l’intensa moltiplicazione di mostri della zona. Fonti Turks dichiarano la presenza di dispositivi per il maneggiamento di mako e camere di contenzione ancora presenti nel reattore. Sebbene piuttosto vecchie, l’ex-comandante le potrebbe usare per mettere a ferro e fuoco la città, come è già successo con altri suoi obiettivi.

Nibelheim è il reattore più vecchio di tutti e risale all’epoca della grande espansione della Shinra, quando gli impianti di estrazione del Lifestream venivano costruiti su vene superficiali. Proprio per la sua posizione isolata e la grande quantità di Flusso Vitale uscente dal terreno, il sito fu scelto come zona ideale per porre le basi della raffinazione mako per la conversione in energia. Più tardi, alcuni membri del Reparto Scientifico, guidati da Gast, si stabilirono là per iniziare gli esperimenti per il potenziamento umano attraverso l’infusione di mako. L’isolamento permise l’esecuzione degli esperimenti nella totale sicurezza per la popolazione locale, poiché era già noto da tempo che l’esposizione del corpo umano a grandi quantità di mako porta a gravi mutazioni sia fisiche che mentali.

Questi sono i mostri. E Nibel ne è da allora infestato.

Quale cornice migliore per chiudere questa storia, là dove tutto è iniziato.

 

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Le parole sfumano, dissolvendosi nel candido bianco di questo luogo dimenticato. Rimaniamo in silenzio, tirando le somme su ciò che abbiamo appena letto, ognuno chiuso nei propri pensieri.

Sephiroth non aveva idea di cosa l’avrebbe aspettato alla fine del tunnel, o forse non ci voleva nemmeno pensare. In fondo, che gli importava? Non aveva più niente. Genesis gli aveva portato via tutto. Qualunque destino lo avrebbe aspettato, lui era pronto ad accettarlo.

Zack aveva visto giusto: Sephiroth era un guscio vuoto gli ultimi giorni della sua esistenza mortale. Si aggirava come un fantasma per i corridoi del Piano 49, pregustando il momento in cui si sarebbe liberato del suo ultimo fardello. Non lo sapeva ancora, ma, abbandonandosi del suo mortale corpo, avrebbe spezzato le catene che dalla sua nefasta nascita avevano tenuto Jenova vincolata alla sua prigione di carne. La Calamità aveva lottato per anni contro di lui, ma Sephiroth si era rivelato un avversario ostico e caparbio, difficile da piegare. Alla fine, tuttavia, perfino lui si è dovuto arrendere.

Era pur sempre umano, in fondo…

E Aerith sapeva che da solo, così stanco e sfibrato, non ce l’avrebbe fatta a contenere la furia vendicativa della Calamità. Per questo che la Cetra ha deciso di sacrificarsi e diventare così una martire. La sua nuova natura soprannaturale le avrebbe permesso di dare man forte all’ex-Generale ed evitare la completa distruzione del Pianeta, ma non abbastanza da evitare di liberare lo spirito di Sephiroth e quello di sua moglie.

C’è ancora tanto odio fra Pianeta e Jenova.

Mi lascio sfuggire un mesto sospiro e osservo Takara di sottecchi.

Il Dono della Dea, l’unica capace di porre fine a questa guerra.

- Continuo a non capire. –, esordisce la ragazza, ancora assorta nelle sue elucubrazioni, come suggerisce la testa inclinata leggermente verso il basso e la mano sinistra accarezzare il mento e le labbra.

Rimango un attimo colpito dalla sua espressione concentrata. Le iridi le sono divenute chiarissime, mentre le pupille si sono assottigliate verticalmente. Le sopracciglia fini corrugate al centro conferiscono al taglio allungato degli occhi un’aria severissima, oltre che vagamente feroce. Sembra che stia puntando una preda che da troppo tempo le è sfuggita.

Fa paura, devo ammettere.

- Cosa? -, chiedo, con la voce leggermente strozzata dal turbamento precedente.

- Il ruolo di Genesis. -, risponde secca Takara, con un tono che non lascia repliche, senza staccare gli occhi dal punto su cui si è fissata.

- Non credo ne abbia. Lui odiava tuo padre e amava tua madre. Semplice. -, ribatto, facendo spallucce.

Mi accorgo però che la mia contadina noncuranza non è esattamente apprezzata, poiché, in tutta risposta, la bruna mi scocca un lungo, intenso, severo sguardo. Non serve parlare a lei, così come a Sephiroth e a Vincent, per mettermi in soggezione e farmi sentire un completo idiota. Dev’essere un tratto tipico dei Valentine…

Come da copione, infatti, ella rotea gli occhi e sospira pesantemente, senza nemmeno avere la decenza di nasconderlo.

- Sparare sentenze a zero non servirà molto a farci uscire da qui, Cloud Strife. -, ammonisce seccata Takara, volgendosi totalmente verso di me e incrociando le braccia al petto, - Temo che dovrai rivedere il tuo modo di pensare. -, conclude, infine, con tono altero e leggermente ironico.

Punto sul vivo, avverto le mie gote bruciare dall’imbarazzo, ma, superato questo, non posso fare a meno di schernirmi, rispondendole per le rime.

- O forse, quella che dovrà cambiare idea sei tu. Rinfrescami la memoria: chi è che ha torturato Genesis per poi sbatterlo mezzo abbrustolito in cella? –

Le iridi della ragazza si illuminano d’ira per un pericoloso istante e la pupilla diventa sottilissima e lunga, tanto da temere che la sua metà jenoviana stia prendendo il sopravvento su di lei, squartandomi senza pietà. Inaspettatamente, invece, si limita a mollare un manrovescio dritto sulla mia guancia destra. Mi colpisce con una forza impensata per una ragazzina di quattordici anni e, per un momento, credo che mi abbia slogato la mascella. Barcollo di lato, intontito dal colpo, ma, appena recupero un attimo di lucidità, le rivolgo uno sguardo scioccato. Takara è ancora in posa da attacco, con il bacino, il busto e le spalle girati di lato e piegati in avanti, le gambe divaricate e il braccio colpitore a penzoloni davanti a sé. Respira affannata attraverso le labbra dischiuse, le quali sono deformate in una smorfia che mette in mostra parte dei denti. Impercettibili rughe le si sono formate sulla fronte, tra le sopracciglia, ai lati degli occhi, sul naso. La capigliatura bruna è scombinata e ciocche corpose le nascondono in parte il viso livido, gettando un’ombra che va a rendere la sua espressione ancora più terribile.

Rimaniamo a guardarci cagnesco per lunghi istanti, inchiodati nelle rispettive posizioni; poi il viso di Takara si distende e il respiro si regolarizza. Ella abbassa lo sguardo a terra, per poi far seguire tutto il corpo. Si siede a terra a gambe incrociate, raddrizza la schiena, chiude gli occhi. Inspira con il naso ed espira con la bocca cercando probabilmente di ricacciare tutte le sensazioni negative indietro. Il tutto senza curarsi di me. Dopo poco, ritorna a puntarmi, espressione greve.

- Scusami. -, il suo tono non è per nulla accorato, anzi è sbrigativo e annoiato, come se le costasse un’enorme fatica.

La ragazza rimane in attesa di una mia risposta, fissandomi glaciale. Io mi massaggio la mascella e testo che le articolazioni siano tutte al loro posto.

Cavoli, che male…

- Non mi sembri del tutto sincera, però. -, obietto con tono di sfida.

Il suo sguardo si assottiglia.

- Non giocare con il fuoco, Cloud Strife. -, soffia tra i denti Takara.

- Me ne guardo bene. -, replico, mettendomi a sedere a mia volta, - Ora so cosa si rischia a sfidare quello sguardo. -, concludo, accennando un sorriso. Anche se probabilmente sembrerà più una smorfia, poiché cambiare espressione è ancora abbastanza doloroso. – E che Genesis è un tasto dolente per te. –

La ragazzina non accenna alcun cambio d’espressione, eppure il moto d’irrequietezza che le ha sconquassato la sua posa immobile non è passato inosservato.

- Infatti. -, conferma, - Le tue accuse sono fondate su quello che hai potuto capire dalle parole di mio padre e dalle visioni di mia madre. Due persone che lo odiano per ovvi motivi. -, si arresta per un istante e sospira, ricacciando indietro l’amarezza, poi riprende, con più vigore, - Ma io ci sono cresciuta. Mi ha insegnato tutto ciò che so e si è sempre preso cura di me. E io di lui. –

Appena proferite queste parole, ella alza una manica del kimono e mette a nudo il braccio sottostante. Aguzzo la vista e vedo che all’altezza della piegatura del gomito sono presenti scuri lividi che circondano piccoli fori di puntura.

Preso alla sprovvista, mi alzo di scatto e raggiungo il suo braccio, afferrandolo per il polso. Delicatamente, passo l’altro palmo su quelle ferite.

- Nonostante tutto, Genesis continua a degradarsi. Ci sono giorni in cui non riesce nemmeno ad alzarsi dal letto. Le Cellule S lo rinvigoriscono per un certo periodo di tempo, ma poi ha bisogno di altre trasfusioni. -, spiega con tono triste,- Diventa sempre più debole. E instabile. –

Mi afferra la mano e mi guarda dritta negli occhi. Vedo tanta paura albergare in quell’anima da bambina.

- E’ tutto ciò che ho. -, dichiara trattenendo a stento i singhiozzi, - Punirlo è stato terribile per me e vorrei non averlo mai fatto. Non me lo perdonerei mai se dovesse… -

La sua stretta si fa sempre più debole fino a lasciarmi e portarsi la mano al viso, al fine di celare il dolore che il rimorso le causa. Io le appongo le dita sulla sua spalla, stringendo forte per rassicurarla. Nonostante il pianto dirompente, lei non accenna smettere di parlare, di spiegarsi.

- Rimarrebbe intrappolato, alla stregua dei miei genitori. Non voglio che accada. Non voglio più che le persone che amo soffrano. -, afferma, infine, stancamente.

Si pulisce le lacrime con il dorso della mano e mi guarda afflitta.

- Genesis non può avermi solo usata in questi anni. Altrimenti perché darmi una vita così agiata? Perché raccontarmi tutte quelle storie su lui, mio padre ed Angeal? –, un sorriso le nasce spontaneo, mentre il ricordo fa capolino nella sua mente e le dona una forte determinazione, - Non ha mai odiato mio padre, Cloud. Erano rivali, è vero, ma gli voleva bene. Voleva aiutarlo, voleva che conquistasse i suoi sogni. -, Takara fa una breve pausa, trovando coraggio per continuare, - E’ per questo che Genesis sfidava in continuazione mio padre. Voleva prendere il suo posto di Generale, però non per se stesso, ma per liberarlo dal fardello che altri gli avevano imposto da quando non era nemmeno ancora nato. -, lo sguardo lasciato vagare nel frattempo ritorna a puntare il mio viso e di nuovo il sorriso si riaccende su quel viso rigato dalle lacrime,- Voleva salvarlo, Cloud. Ma non ci è riuscito. Questo è il suo rimpianto. –

Non so davvero cosa pensare. O Genesis ha davvero fatto un buon lavoro per manipolarla a dovere; oppure si è davvero preso cura di Takara come se fosse figlia sua.

C’è un tassello che manca in tutto questo.

Improvvisamente, un vento impetuoso si alza da non si sa dove e inizia a spingere via quella che era in realtà una nebbia così fitta da sembrare un muro compatto. Ci alziamo insieme, cautamente, ancora le mani unite. Avverto le dita della ragazza stringersi con forza alle mie, in uno spasmo involontario di timore. Istintivamente, le cingo le spalle col braccio libero e l’avvicino a me, facendo aderire i nostri fianchi, in un atto di protezione. Non so cosa troveremo più avanti, ma più ci addentriamo nel diario, più dolore e verità terribili incontriamo. Inoltre, Takara ha un’emotività davvero instabile, capace di cambiare in modo così repentino da rendere difficile prevedere le sue mosse. In fondo, però, la capisco. Non è facile mantenere i nervi saldi di fronte alla sofferenza di Sephiroth. Deve fare i conti con anni e anni di racconti ed esperienze incongruenti con quella che sembra la realtà dei fatti e capisco che non sia facile destreggiarsi in quest’intrigo mortale.

Ha ragione: devo seguire il suo consiglio ed essere capace a scendere a compromessi, altrimenti tutto questo viaggio non servirà a niente.

Il nuovo luogo che lentamente si sta svelando, tuttavia, mi fa capire che il mio esame era ben lungi dal dirsi cominciato e che il proposito appena formulato sarà di difficile attuazione. Avverto un brivido lungo la schiena appena riconosco gli scaffali impolverati, il pavimento sconnesso a scacchi neri e la grande scrivania tarlata, posta alla fine del lungo corridoio; su cui libri, diari, fascicoli, dispense sono abbandonati, depredati del loro contenuto. E in fondo, al di là della scrivania stracolma di libri, seduto sul fatiscente scranno, rigido e cinereo, sguardo allucinato: LUI.

 

Salve a tutti, signori miei! Come la va quest’estate un po’ bizzarra? Io mi sono concessa uno dei miei viaggetti, ma stavolta sono andata SOLO a Imperia a vedere come se la cavano i nostri delfini italiani. Quindi tra un avvistamento e l’altro ho pensato molto a come proseguire questa storia e finalmente si va avanti! Siamo quasi alla scena clou(d) (BA-DUM CIUM, ndFortiX, mi sto scompisciando dal ridere -.-‘ ndCloud)che si scoprirà ancora sul caro Seph? O su Genesis?

Vi lascio un po’ in sospeso così da scaldarvi per bene in attesa del KABOOM finale. Eh sì perché la fine si appropinqua in fretta e, se da un lato sono contenta, così potrò dedicarmi ad altro, dall’altro mi sento un po’ triste ad abbandonare questa storia che mi ha consacrato come scrittrice qua su EFP. Ma bando la tristezza (che ce ne è già abbastanza) e concentriamoci per le ultime battute. Sì, lo so che pensavo di non scrivere più punti di vista di Sephiroth, ma alla fine non ce la possa fare e mi vengono fuori così bene che è un peccato non scriverli. Cambio sempre idea, uff!!!

Vabbé, è tardi (ma non troppo per i miei standard cmq, è solo 00:28 XD) e vi saluto caldamente nel bel mezzo del temporale estivo ligure!

Alla prossima!

Besos

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Capitolo 29
*** Liberazione ***


Gelo.

Di nuovo il calore sembra essere stato strappato via direttamente dal sangue.

Il silenzio impera con la sua pesante e angosciosa tensione e fa suo ogni singolo suono. Solamente il respirare affannoso di Sephiroth si ribella a quel tombale dominio. Spiri lugubri, quasi simili a fischi, rotti da lacrime che si rifiutano di scendere. Quel cuore di bambino è divenuto troppo arido per assecondare l’ennesimo sfogo. Troppo è accaduto nelle ultime settimane. Troppa sofferenza, troppo dolore, troppa rabbia, troppo rancore, troppo senso di colpa. Sensazioni tutte troppo intense, troppo soffocanti, troppo esplosive, troppo profonde… Semplicemente troppo.

Nessuno, per quanto forte, può reggere a una tale valanga emotiva.

La mente del Generale è sull’orlo del baratro, poiché privata di tutti i suoi pilastri. L’ultimo l’ho appena visto crollare in migliaia di pezzi, colpito violentemente dalla più potente e atroce crudeltà mai subita: la realizzazione di non valere nulla per nessuno. Non chiedeva molto, solo di sapere da dove venisse, così da capire dove andare; sapere chi era, così da decidere cosa diventare. Invece, silenzio, o bugie. Queste ultime, però, sono state le lame che lo hanno ferito più in profondità, perché provenienti proprio da coloro che più ha amato: Genesis, Angeal… Gast. L’uomo, dal sorriso accomodante e gli occhi gentili, con sempre una parola di conforto da spendere; lo scienziato che gli fece conoscere il mondo fuori dal laboratorio attraverso i suoi racconti; l’eroe spavaldo dotato del coraggio necessario per fronteggiare Hojo… non era altro che un ammasso di specchi falsi e millantatori che celavano il suo vero volto: un serpente viscido e crudele. Il suo veleno erano le bugie, così dolci e confortanti da sembrare miele cosparso di cannella. E Sephiroth ne ha ingurgitato così tanto da esserne assuefatto. Ha creduto ad ogni singola parola di quell’uomo. Ha creduto, soprattutto, alla più ignobile, gretta, brutale delle bugie: “Tu puoi essere normale”.

Tu puoi essere normale.

La dicitura ‘Progetto J’ svettante sui fascicoli spalancati di fronte a lui rivela una storia del tutto diversa. Una storia che gli è stata tenuta nascosta per anni. Una realtà scomoda fatta di atroci esperimenti e violazioni di ogni umana dignità. E quell’essere, dalla pelle esangue e dalle profonde e livide occhiaie attorno agli occhi arrossati e dilatati, ne è il più straordinario risultato.

Un risultato. Uno dei centinaia possibili. Solo una fortuita serie di calcoli probabilistici e cocktail genetici dosati al millimetro.

Come si può essere normali, quando perfino le proprie origini non hanno nulla di normale?

Il consenso firmato per l’esecuzione dell’esperimento che avrebbe portato alla sua creazione, Sephiroth lo tiene tra le dita tremanti, studiando per l’ennesima volta il testo fitto di norme legislative e termini legali che richiamano all’etica e alla moralità. Vagamente ironico se si pensa che ci troviamo nel luogo in cui si sono consumati gli atti più immorali nella storia della scienza. Poi, lo sguardo si fissa sulle tre firme in calce alla pagina.

Tre firme per tre boia.

Qualunque futuro a cui Sephiroth avrebbe potuto aspirare è morto nell’esatto momento in cui quelle firme furono apposte.

 

Project J (S)’s Research Director signature

 

Faremis Gast

Scrittura pulita, precisa, scaturita da una mano abituata ad apporre firme, ma che, nonostante questo, si prende il suo tempo per risultare riconoscibile sempre, come prova inconfutabile del suo marchio. E’ evidente la voglia di imprimere la propria impronta nella storia; soprattutto in un momento come quello, dove un gruppo di menti cieche e perverse decise del destino del Pianeta, pianificando la nascita della più grande minaccia dai tempi dei Jenova stessa.

 

Project J (S)’s Principal Investigator signature

HojoElijah

 

Questa firma, Sephiroth, l’ha vista tante di quelle volte da perderci il conto. Una firma capace di scatenare un senso di disgusto e odio più profondo delle fondamenta del Pianeta stesso. Scrittura essenziale, nervosa, sbrigativa, quasi a tradire l’enorme fastidio dettato dal sottrarre tempo prezioso alla ricerca. Fosse stato per Hojo, tutta quella cerimonia si sarebbe potuta risparmiare. Fosse stato per Hojo, forse il Generale non avrebbe nemmeno avuto una coscienza capace di rodergli il fegato. Paradossalmente, il vecchio è stato il più sincero di quella triade di scellerati. E ciò non fa altro che alimentare il risentimento verso se stesso. Oltre il danno anche la beffa. E’ una crudele ironia che l’uomo che lui ha sempre disprezzato con tutto il cuore, è quello che effettivamente non gli ha mai nascosto le sue reali intenzioni. Il vecchio sapeva che lui non avrebbe mai retto alla verità. Il vecchio lo ha sempre capito meglio di chiunque altro.

E questo Sephiroth non riesce ad accettarlo.

 

Cells J bearer signature

Lucrecia Crescent

Un’altra cosa che Sephiroth non riesce ad accettare è che quel terzo nome sia l’unico a risultare illeggibile. Colui che si è macchiato del peccato più grande. O meglio, COLEI… Sua madre. Non sa cosa pensare di lei. E’ l’unico mistero rimasto irrisolto. Le uniche informazioni riguardanti quella donna sono solo sterili referti di laboratorio. Dall’enorme ammontare di scartoffie, sua madre era tenuta sotto strettissimo controllo medico, per ovvie ragioni. E non solo. Ciò che più colpisce, infatti, è la quantità di ricoveri a seguito di pesanti tracolli fisici. I referti raccontano un quadro clinico preoccupante pure dal punto di vista psicologico. Sembra che fosse perseguitata da inquietanti visioni che l’avevano fatta affondare in un profondo stato di paranoia e depressione. Tutto ciò l’ha portata a condotte pericolose sia per lei che per il bambino.

Voleva uccidere la causa della sua sofferenza. La domanda è: era lei stessa o il bambino che portava in grembo?

Le lunghe dita guantate, ora strette attorno a sfortunate ciocche di capelli, rivelano che Sephiroth rimpiange di aver assecondato quell’impossibile desiderio di sapere. Fatica ad accettare ciò che tanto mostruosamente gli è stato posto davanti, sebbene abbia sempre sospettato di essere frutto dell’artificio. Forse non credeva in modo così integrale, specie se si pensa che nelle sue vene scorre il sangue di un mostro alieno sanguinario, esecutore del primo sterminio di massa della storia del Pianeta. E a lui era stato detto che POTEVA essere normale.

No… non si può, è evidente. Tutto ha senso ora, vero Sephiroth?

-Mi credi, ora? –

Una voce superba e melliflua s’insinua tra le crepe gelate dell’apatia del Generale, recuperando col suo gusto agrodolce brandelli di lucidità. Egli, infatti, si riscuote appena, volgendo, tremante, l’attenzione verso la propria destra. Da quell’angolo, lambito appena dall’effimera luce giallastra del lampadario, emerge Genesis. La grande ala nera svetta magnifica al di sopra della sua spalla e lambisce pigramente il terreno, provocando inquietanti fruscii ad ogni movimento del proprietario. Sephiroth le rivolge un lungo, spaventato sguardo. Posso avvertire un’altra crepa attraversare la sua apatia alla realizzazione che, sì, quella ‘cosa’ potrebbe spuntare dalla sua schiena da un momento all’altro.

Sta letteralmente guardando il suo futuro. Ha sempre avuto la sensazione che il loro destino era, in un qualche modo, intrecciato.

- Je… Jen…n… -

Non osa dire quel nome. Quel nome che per il grande Eroe è sempre stato un faro nel buio, la speranza tenue di un bambino bisognoso della mamma, un sogno bellissimo eppure irraggiungibile. Quel nome evocato chissà quante volte nelle ore oscure della notte, quando gli incubi non gli davano tregua. Quel nome a cui ha affidato le sue preghiere, le sue speranze, i suoi sogni…

-Jenova, Sephiroth. Puoi dirlo, in fondo tutti noi condividiamo le sue cellule. In effetti, potremmo considerarla nostra madre. –

Genesis continua imperterrito a lanciare le sue crudeli gettate di veleno, nella speranza di fare breccia nella fortezza di depressione in cui Sephiroth si è chiuso. Ogni volta che una parola esce da quella bocca irriverente, il corpo dell’argentato s’irrigidisce da capo a piedi per poi essere scosso da potenti tremori. Inoltre, come se fosse possibile, egli sbianca ulteriormente.

Il rosso, dal canto suo, sorride malevolo di fronte alla sofferenza del rivale. Lo conosce da abbastanza tempo da sapere quanto egli sia succube delle proprie emozioni. Gli ha tolto tutto, lo ha spogliato di tutta la sua baldanza, del suo potere, della sua forza; di questo passo il Grande Generale sarà ridotto ad un semplice guscio vuoto, pronto ad aggrapparsi a qualunque cosa, perfino ad un esperimento fallito come l’ex-Comandate, pur di andare avanti con la sua inutile, miserabile vita. E, finalmente, Genesis sarà l’Eroe che ha sempre sognato di essere.

- Madre? –

- Certo, Sephiroth. Jenova è colei che ci rende così forti, che ci dice cosa fare, che ci protegge dalla morte. -, il rosso assottiglia gli occhi per studiare gli effetti di quest’ultima frecciata, - Non vorrai davvero rinnegarla ora che sai tutto? –, insinua viscido, mentre si avvia verso la scrivania, e si siede sopra di essa, dandoci le spalle, - Di conseguenza, -, continua, tendendo una mano elemosinante verso Sephiroth, - non vorrai lasciare che un tuo fratello muoia, disattendendo al volere di nostra madre? –

Quella parole mielose e piene di falsa accondiscendenza urtano accidentalmente un nervo scoperto e molto doloroso nella psiche dell’argentato, strappandolo tutto d’un colpo dall’apatia. Egli si scaglia con velocità disumana verso Genesis, lo afferra per il collo, lo solleva di ben oltre la sua testa e lo schianta contro il pianale della scrivania. Quest’ultima si spacca di netto con un sonoro crepitio, sotto la potenza inaudita del colpo. I fascicoli esplodono in aria, librandosi ovunque per la stanza. Genesis emette un gemito soffocato e sputa un po’ di sangue, mentre Sephiroth lo blocca a terra col suo peso.

- PERCHÉ DOVREI SALVARE LA TUA MISERABILE VITA? TU, CHE MI HA PORTATO VIA TUTTO?! –

Le dita del Generale sono strette attorno al bavero del sottoposto e lo scuotono con forza, costringendolo ad impattare contro il pavimento ancora ed ancora. L’espressione di Sephiroth è spaventosa: gli occhi di mako brillano in tutta la loro gelida e inquietante rabbia, mentre screziature rosate cominciano a comparire nell’iride destra; rughe imbruttite e profonde deformano la fronte, il ponte del naso e i lati della bocca; le labbra si sono ritirate per far spazio ai denti appuntiti, così vicini al viso avversario che potrebbero strapparglielo se solo glielo permettesse.

Avverto una mano minuta stringere la mia, riportandomi alla mente di non essere il solo ad assistere a queste scene inedite. Getto un’occhiata fugace alla ragazzina accanto a me, scioccata di fronte alla lite furibonda tra i due uomini che più hanno segnato la sua vita. Non saprei dire se sia più turbata per la rabbia del padre o per il pericolo corso dal tutore.

- Quanto sei cieco, Sephiroth. Sei arrivato fino a qui e ancora non capisci niente. -, uno strano eco risuona nella mia testa mentre il ricordo di un rimprovero analogo striscia fuori dai meandri della mia mente, - Sei davvero convinto che la Shinra ti avrebbe permesso di andartene così? Tu, il loro più costoso investimento? –

In un colpo, la crudele ironia colpisce dritto nel segno. Sephiroth si ritrae, abbandonando il bavero del rosso e portando una mano alla fronte. Di nuovo, l’espressione del Generale tradisce il suo più totale smarrimento. Per quanto l’albino non voglia dare credito all’ex-Comandante, i fascicoli ora sparsi ovunque sul pavimento non fanno altro che sbattergli in faccia la crudele realtà, dando ancora più adito alle ragioni del banoriano.

 

Tu non sei mai stato libero.

 

Tu non sei stato concepito, sei stato costruito.

 

Sei nato perché la Shinra ha PAGATO per averti.

 

Tante, troppe persone sono morte per migliorare le tecniche di manipolazione genica al punto tale da trasformare un semplice ammasso di cellule umane nella perfetta macchina di distruzione, commissionata dalla più potente Compagnia elettrica del mondo.

 

E’ questo ciò che sei.

 

Non meriti gli stessi diritti di un essere umano.

 

Tu sei un mostro.

 

- Basta… -

Le parole tetre lo tormentano, come demoni sadici lo pungolano dispettosi. Implora la fine di quel supplizio, piagnucolando come un bambino sperduto. Sephiroth afferra la testa con entrambe le mani. Le dita affondano nella folta chioma argentea, raggiungendo il cuoio capelluto. Il petto si espande e si comprime a ritmi serrati, affannosi. Il panico lo attanaglia, la realizzazione lo distrugge, la coscienza lo divora. Gli occhi si muovono febbrili da un fascicolo all’altro, nella speranza di trovare un punto cieco su cui finalmente posare lo sguardo sconvolto e fuggire da quella verità devastante.

Invano.

- Basta dirti bugie, amico mio. Nel profondo, lo sai, lo hai sempre saputo che te le avrebbero portate via. E tu SAI che fato le avrebbe aspettate se la Shinra fosse arrivata prima di me. –

E dalle viscide labbra del suo ex-commilitone, arriva la stoccata finale. La sola menzione a quella possibilità, un brivido gelido attraversa il corpo del Generale, rievocando ricordi terrificanti e mai sopiti. Il peso di quelle esperienze sembra improvvisamente schiacciarlo, tanto che non ha nemmeno più la forza di reggersi la testa. Ogni oncia di sangue sembra essere stata succhiata via, tanto la sua pelle è cinerea. Con la testa abbassata, la schiena incurvata, le braccia abbandonate sulle gambe, sembra una macabra marionetta a cui hanno tagliato i fili.

Per un lunghissimo istante, una surreale stasi spodesta con la sua anti-climatica calma il caos regnante poco prima. Ogni suono è congelato, ogni movimento impedito, ogni aspettativa possibile.

La calma prima della tempesta.

Improvvisamente, quasi impercettibile, un lugubre mugolio detona nel cuore della stasi. L’onda d’urto è così devastante da causare profonde incrinature su ogni singolo oggetto presente nella stanza. Io stringo Takara a me, presagendo già la tempesta in arrivo. Vorrei scappare, ma un’insana curiosità mi tiene incollato al mio posto.

Mi sono sempre chiesto: come nasce un mostro?

Il mugolio diventa sempre più distinto, fino a definirsi in un agghiacciante sghignazzo, la cui potenza causa crepe sempre più profonde e scricchiolii sempre più assordanti. E’ spaventoso quanto il senso di disagio capace d’insinuarsi direttamente nelle ossa. Lo scricchiolio è ormai insopportabile, ma non sovrasta mai il suono orrendo che la genera, anzi è una nenia ipnotica che ti avvolge nel suo mortale abbraccio. Infine, giunge il culmine, il momento in cui l’Eroe muore e il Mostro trionfa. Il momento in cui la mente di Sephiroth si frantuma in migliaia di pezzi e tutto l’odio, la rabbia, il rancore racchiuse nei recessi più oscuri della sua psiche si riversano in ogni angolo del suo corpo, corrompendolo fino al midollo.

Una risata folle, sguaiata, diabolica prorompe potente come un tuono, sconquassando ogni fibra della nostra anima, oltre che il corpo del suo fautore. Le spalle, la schiena e la testa di Sephiroth si sollevano di scatto, lasciando che quel terribile suono si elevi verso la superficie, affinché tutto il Pianeta possa udire la voce della sua furia. Tutto il suo corpo è teso nell’atto di ridere, turgido e statuario come una belva in procinto a festeggiare la sua ritrovata libertà. I denti sono snudati e spuntano simili a zanne appuntite dalle gengive rosso sangue, esposte all’inverosimile. Infine, gli occhi, come sempre, la peggiore visione alla fine.

Fuoco.

Solo un infinito, indomito e scatenato mare di fuoco, specchio stesso della sua anima devastata, il cui richiamo riecheggia fin fino ai più profondi meandri dell’Inferno. E da lì, un nuovo padrone emerge avvolgendo totalmente il Generale con un’onda di ribollente lava, per poi ritrarsi indietro, lentamente, sensualmente, accarezzando ogni singola curva del suo corpo. La risata di Sephiroth scema lentamente, trasformandosi in ansimi di piacere, tradendo la natura di quel contatto. Lo guardiamo mentre asseconda le delicate carezze che quella lava gli lascia sul viso, sul collo, sul petto, inseguendole con sinuosi movimenti delle suddette parti. Le palpebre morbidamente abbassate entrano in pieno contrasto con le labbra appena dischiuse ancora deformate in un terrificante ghigno, in un perfetto connubio di piacere e odio.

Mano a mano che la lava abbandona il corpo del Generale, essa si addensa e si plasma al fine di formare una sagoma, dapprima informe, ma poi sempre più definita in quella di una donna dal corpo sinuoso e sensuale. Bellissima quanto terrificante. Noto, tuttavia, che non tutto il plasma infuocato abbandona il Generale, un filo sottilissimo collega il centro del petto di lei alla parte terminale di una ciocca dei capelli di lui.

Una scena tenera appartenente a un lontanissimo passato mi riporta all’esatto momento in cui quel ciuffo di capelli venne tagliato e consegnato all’amata, come pegno d’amore imperituro e incondizionato.

Non solo il tuo cuore bruciò con lei.

Evelyn, le cui meravigliose fattezze rimangono ancora confuse dal mare di fiamme in cui è immersa, si propende verso il suo amato, lambendo con le sue mani laviche il viso tempestoso di Sephiroth. Lo attira verso di sé, così vicini che quelle labbra potrebbero quasi toccarsi per puro caso. Lei temporeggia, lasciando che il proprio uomo si crogioli nella dolce illusione di aver riportato indietro le lancette dell’orologio. Quando c’era ancora lei, quando tutto era un meraviglioso, caldo, folle sogno. Lacrime piene di rimpianto sgorgano dalle lunghe ciglia del Generale, scendendo lungo la curva delle palpebre ancora serrate e poi lungo la decisa curva dello zigomo appuntito, fino ad intercettare le mani infuocate della sua amata. Un lieve rigolo di fumo si eleva lì dove le amare gocce evaporano. In tutta risposta, Evelyn sposta i palmi e li fa congiungere sotto al mento dell’amato, per poi esercitare una lieve pressione, inducendolo ad alzare la testa ed aprire gli occhi.

Le sue labbra si schiudono, lasciando che una voce dotata di una soavità e di una dolcezza ultraterrene avvolga l’udito del suo Generale.

 

- Don’t be sad. I’m with you now. –

[Non essere triste. Sono con te, ora, Sephiroth FFVII: CC]

 

Per l’ultima volta in quella notte, il sorriso di Sephiroth fu sinceramente felice. Lei era con lui. Questo voleva dire solo una cosa: l’Inferno era alfine giunto. Avrebbe dato alla sua Regina il suo legittimo regno. E nessuno l’avrebbe fermato. Quegli inutili, miserabili, schifosi insetti dalle fattezze umane sarebbero periti sotto la sua indomabile potenza. Quella Compagnia malata e marcia avrebbe pagato lo scotto per tutte le umiliazioni causate. Quel Pianeta morente e crudele avrebbe ricevuto il colpo di grazia proprio da colui che tanto ha vessato.

Perché lui era Sephiroth.

Il mostro più potente mai creato.

Colui il quale il potere enorme dell’universo gli scorre direttamente nelle vene.

Il Prescelto. Il legittimo erede della… Madre.

Nessuno è degno di questo titolo. Nessuno!

L’epifania colpisce il Generale con la forza di un fulmine, una scintilla potentissima brilla in quegli occhi velati dal rancore e dall’ira. Velati, ma non annebbiati. Sì, perché ora SA. Per la prima volta in tutta la sua vita realizza la sua vera identità, il compito grandioso a cui è stato preparato fin dalla nascita. Ora tutto si spiega, tutta ha finalmente un senso, comprese le frasi sibilline rivoltagli dalla giovane Cetra di bianco vestita, prima della sua partenza. Sì, lui porterà morte e distruzione senza fine, perché così è scritto. E’ questo il suo destino.

Il sorriso si trasforma in un orrifico ghigno satanico e i suoi occhi roteano in direzione di Genesis, il quale ancora lo fissa sbigottito dalla sua posizione supina. Lo osserva in tralice con le iridi smeraldine, trafiggendo gelido l’amico traditore attraverso le sottili ciocche argentate, le quali gli adombrano sinistramente il viso affilato. E’ terrificante. Sia il rosso, che noi, semplici spettatori, avvertiamo un brivido di terrore ripercorrere tutta la lunghezza della spina dorsale.

- S- Seph? Ti senti bene, amico mio? –, azzarda l’ex Comandante, titubante.

In tutta risposta, l’Angelo dalla Sola Ala sghignazza lugubre scatenando l’ennesima doccia gelata.

- Mai stato meglio. –

Gli occhi blu del banoriano si spalancano all’inverosimile, mentre la paura lo avvolge.

Quella voce…

Una forte sensazione di nausea mi assale, lo stomaco si accartoccia su se stesso, la vescica si contrae, il cuore inizia a battere all’impazzata e il sudore freddo imperla la fronte, il collo, la schiena. Il corpo è così teso da risultare inamovibile. L’istinto di scappare c’è eccome, ma siamo troppo spaventati per farlo. Perfino Genesis non riesce a muoversi, il disagio gli ha perfino mozzato il respiro.

Improvvisamente, Sephiroth inspira. Chiude gli occhi e rotea la testa, come se fosse in preda alla libidine.

- Oh, sì. Sì, temimi. L’odore della paura è ciò che più ti si addice. –

Il SOLDIER di Banora snuda i denti e assottiglia gli occhi, oltraggiato così profondamente da quell’insinuazione denigrante da scacciare via l’espressione impaurita sul suo volto in pochi secondi. Egli cerca di alzarsi di slancio, ma, tra il suo fisico spossato dal degrado e i colpi subiti poco fa, il risultato è patetico e miserabile oltre ogni limite. L’equilibrio del rosso è troppo minato per un’efficace posa battagliera, tanto che è costretto ad estrarre Rapier al solo fine di sorreggersi. Il suono limpido dell’acciaio che incide la pietra sottolinea ancora di più l’onta. Inoltre, il suo respiro è pesante. Troppo pesante. Così pesante da costringerlo a tossire. Si porta il guanto alla bocca e, quando sposta il palmo, esso è macchiato di sangue nero.

Takara emette un gemito di pietà nei confronti del suo tutore.

Ignorando le ferite, il rosso cerca di sollevare il pesante stocco, ma le esigue forze gl’impediscono di rinsaldare la presa e l’arma cade a terra con un tonfo metallico. Inoltre, i suoi polmoni sembrano essere stati gravemente compromessi.

- Come- cough- osi? Cough cough! -

Ad ogni colpo di tosse, schizzi di sangue esplodono dal suo cavo orale, seminando gocce nerastre come se piovesse, oltre che colare dalle sue labbra. Genesis crolla di nuovo in ginocchio, ma il suo fisico non regge nemmeno quella posizione e lo costringe a carponi. Cerca di prendere profonde boccate d’aria, per ricevere in cambio proteste sempre più pesanti dal suo stesso apparato respiratorio.

Il tutto sotto lo sguardo divertito di Sephiroth, il quale non sembra intenzionato nemmeno lontanamente ad aiutare il suo vecchio commilitone. Anzi, la sofferenza del rosso non fa altro che accrescere la luce di puro godimento nelle iridi di gelido mako acquamarina.

Le braccia del Comandante tremano dallo sforzo, seguite poi a ruota dal corpo, il cui tremore, però, è scatenato da una causa ben più personale.

- Non voglio morire. -, annuncia, tra singhiozzi e ansiti.

Del tutto indifferente, Sephiroth rompe la sua immobilità e si propende verso la Masamune, abbandonata a terra dopo la distruzione della scrivania; dopodiché, lentamente, misuratamente, egli si eleva in tutta la sua terrificante magnificenza. La voce cristallina della spada leggendaria fende l’aria come una belva affamata, impaziente di reclamare il suo tributo di sangue. Il Generale osserva Genesis dall’alto, con disgusto, come un Dio impietoso osserverebbe il più osceno e blasfemo dei peccatori.

- Oh no, tu non morirai.

Il SOLDIER di Banora alza la testa di scatto, stupito da quelle parole, interpretandole come un atto di suprema benevolenza da parte di quell’implacabile Dio della Distruzione. La speranza gli illumina gli occhi blu, i quali rivolgono uno sguardo adorante verso il suo salvatore.

- Sephiroth… Sapevo che avresti capito… Amico mio… -

Il viso di marmo del Generale si deforma in un ghigno beffardo, da cui una risata vuota e mostruosa prorompe, mettendo fine alle suppliche del rosso. Questi sbianca, le pupille diventano due capocchie di spillo, mentre fissa inorridito la controparte avvicinarsi infidamente a lui. L’albino piega la schiena in avanti e, col collo, si propende verso il lato destro del suo viso. Le labbra cineree dell’Angelo vicinissime al suo orecchio. Ciocche del color della luna gli lambiscono lo spallaccio, si posano sul colletto rialzato, s’insinuano sulla pelle del suo collo. Genesis non osa muoversi. Il respiro affannoso è l’unico movimento che si può concedere.

 

- You’ll rot. -

[Tu marcirai. Sephiroth, FFVII: CC]

 

Sussurrato questo, Sephiroth si scosta e osserva l’uomo ai suoi piedi dritto negli occhi con nera soddisfazione, rivolgendogli un ampio, demoniaco sogghigno. Di fronte a quello sguardo, tutto l’orgoglio di Genesis capitola miseramente, rivelando il suo vero volto: un uomo disperato, terrorizzato dal suo stesso fragile corpo morente. Non sopporta più l’agonia, la costante paura di vivere in un corpo troppo debole, il timore incessante di non risvegliarsi più a seguito del più semplice dei colpi. Più di tutti, però, c’è il terrore di andarsene troppo presto, senza aver concluso nulla di utile nella vita, dimenticato, senza valore. Il panico dona a Genesis la forza necessaria di afferrare i lembi dell’impermeabile di Sephiroth, impedendogli di allontanarsi.

- NO! Ti prego, Sephiroth! Io… io posso esserti ancora utile. Dammi le tue cellule e potremo combattere… insieme! Sì, insieme… come una volta! –

Le suppliche e le lacrime del rosso non sembrano minimamente lambire l’impassibilità del Generale, il quale fissa l’uomo implorante disgustato. I livelli di sopportazione, infatti, raggiungono l’apice e Sephiroth mette fine a quel miserabile teatrino afferrando con decisione il banoriano per la gola, stroncandone il discorso e trasformarlo in un raccapricciante gemito strozzato. Successivamente, solleva il guerriero da terra con una facilità disarmante e lo scaraventa senza grazia a impattarsi contro la libreria. I libri esplodono in un vortice di fogli e copertine e mensole spezzate, il quale ricade sopra al corpo del rosso, seppellendolo sotto il proprio peso.

Accanto a me, Takara scatta in direzione del Comandante per soccorrerlo, ma io afferro entrambe le braccia e la tiro verso di me, chiudendola in un abbraccio.

-No! Lasciami! -, urla la ragazzina, scalciando e contorcendosi.

- E’ un ricordo. Non puoi fare niente per lui. -, spiego, mentre lotto contro la sua determinazione.

Takara combatte ancora un po’, ma poi si arrende, tuttavia non smette di fissare quell’angolo, in cui il corpo dell’ex Comandante di SOLDIER persevera immobile.

- Genesis… - evoca con la voce rotta da lacrime screziate dal senso di colpa.

Con la coda dell’occhio, vedo Sephiroth infrangere la sua immobilità e cominciare ad avviarsi verso l’uscita. La sua espressione è una maschera di completa indifferenza. Tirando Takara con me, mi faccio da parte, lasciandogli libero il passaggio, ma un mugolio soffrente interrompe la sua marcia.

- Fermati ora, Sephiroth. Sei ancora in tempo per non seguire il mio esempio. –

Il Generale lo fissa glaciale.

- Eppure ti sei impegnato così tanto per condurmi qui. –

La crudele ironia del platinato getta un pesante silenzio tra i due. Per un attimo crediamo che la discussione finisca lì, invece, Sephiroth abbandona il centro del corridoio e si avvicina al Comandante ancora riverso al suolo. La sofferenza del rosso è ben evidente sul viso mortalmente pallido e macchiato di sangue, i cui occhi blu osservano, stanchi e spenti, l’uomo che si accovaccia proprio di fronte a lui.

- Ma io ti perdono. –

Sia io che Takara che Genesis rimaniamo stupiti da quelle parole.

Come può perdonarlo per tutto quello che gli ha fatto?

- Sei solo un burattino. Una miserabile marionetta nella mani della Madre. Nel Suo grande disegno, eri un insignificante vettore per un fine. Non vali niente. Non meriti il mio odio, perché il ruolo a cui Lei ti ha relegato è una punizione sufficiente per me.  

Genesis è sempre più confuso. Per quanto la forma opinabile, il contenuto del perdono di Sephiroth è assolutamente genuino. Non v’è odio, né ironia, né menzogna. E’ un perdono vero, accorato, come a dimostrare la mano posta sul cuore dall’argentato.

- Non osare! Non osare fare l’accondiscendente con me. Tu mi odi. Io ho dato fuoco alla tua casa. Io ho ucciso la donna che amavi. Io… -

L’ex Comandante abbassa la testa, mentre i ricordi dei suoi crimini osceni ritornano più dolorosi e potenti che mai. Non riesce a sostenere lo sguardo misericordioso dell’uomo su cui il suo risentimento è calato più pesantemente di chiunque altro. Le lacrime sgorgano copiose di fronte a quel perdono immeritato.

- Io, io, io. Genesis, ti stai dando troppa importanza. Non mi hai ascoltato? La Madre ha voluto che tu facessi ciò che hai fatto. E ora, grazie al tuo intervento, posso finalmente ascoltarla. Lo hai detto anche tu, no? Lei provvede a noi. Siamo i suoi figli. I suoi prescelti. –

A quelle parole, Genesis trova la forza di guardare il Generale. Quest’ultimo sorride benevolo al camerato e lo guarda con uno sguardo del tutto differente dalle prime battute del loro incontro. Non lo trafigge con la freddezza, ma lo avvolge con calore, lambendo appena le sue sofferenze.

- I suoi prescelti… -

Il banoriano ripete le parole dal sapore di miele proveniente dalle gentili labbra di quel Dio compassionevole che, misericordioso, gli lava via le lacrime dal viso con verbo appassionato e ripieno di speranza. Egli, infatti, è letteralmente travolto dall’aura divina di Sephiroth come testimoniano quegli occhi blu, da cui scaturisce una luce adorante. Del tutto perso in lui.

- Sì. Lei mi ha scelto affinché possa preparare il Pianeta per il futuro radioso che la Madre ha predisposto per noi. E così farò, fratello mio. –

Sotto lo sguardo attonito di Genesis, Sephiroth si alza, alto e fiero nella sua impeccabile postura di nuovo Dio, e osserva il minuscolo vettore che lo ha risvegliato. Non v’è disprezzo, né infamia in quegli occhi, solo un’emozione difficilmente identificabile, tanto indecifrabile è la sua immensa aura. Egli poi volge il suo sguardo imperscrutabile verso la fine del corridoio, da cui rumori ovattati sembrano arrivare.

- Sarà un lungo e periglioso cammino. Nemici di ogni tipo si nasconderanno dietro ogni angolo. Io farò di tutto per portare avanti la volontà della Madre, ma… -, il Generale s’interrompe e si rivolge a Genesis, - potrei fallire. –

Un fremito attraversa il corpo debilitato del Comandante, terrorizzato dall’idea del fato che attenderebbe Sephiroth se dovesse veramente mancare. Che ne sarà di lui? Che ne sarà di loro?

Ad un certo punto, però, il Dio abbassa la testa, regredendo, per un attimo, allo stato fragile e miserrimo della sfera umana. Infatti, il ghigno mefistofelico è scomparso, l’arroganza nei suoi occhi volatilizzata, la postura ieratica rilassata.

- Addio, mia principessa. –

Quella frase è un soffio flebile, quasi impercettibile, ma capace di strappare una lacrima ad un Dio. Sia io che Genesis spalanchiamo la bocca per lo stupore, poiché non ci aspettavamo che fosse in grado di formulare un tale pensiero, dopo ciò che è poc’anzi accaduto. L’unica non sorpresa è proprio la protagonista di quell’accorato addio. Ella sorride, fiera e sollevata del fatto che, prima di morire, sua padre abbia dedicato l’ultimo suo pensiero a lei.

L’amore di un padre va al di là di ogni potere, di ogni entità, di ogni distanza. E’ un legame così potente e stretto che niente e nessuno riuscirà mai a spezzarlo. Non importa quanto dolore, quanto odio, quanta rabbia un uomo possa provare, ma l’amore per i propri figli, il desiderio di saperli al sicuro supera ogni barriera, distrugge ogni fortezza.

E nemmeno il grande Dio Sephiroth ne è immune.

Un tonfo ovattato proviene dalla porta di legno massiccio, la quale viene spalancata da una figura offuscata, la quale urla qualcosa d’incomprensibile.

Tutto inizia a girare e scomparire.

L’ultima cosa che vediamo è Sephiroth indossare la maschera del mostro e il baluginio della Masamune, mentre ci rimbomba in testa la fatidica frase:

- Out of my way. I’m going to see my Mother.-

[Non ostacolatemi. Sto andando a trovare mia Madre. Sephiroth, FFVII: BF]

 

 

- Takara! –

Alzo il busto di scatto, protendendo la mano verso il vuoto. Della ragazzina, però, nessuna traccia. La sua figura distorta dallo sfaldamento del ricordo è l’ultima cosa rimasta di lei. Ora, mi rendo conto di essere rimasto solo, in un luogo a me ben conosciuto. A pochi metri da me, infatti, distinguo un’inconfondibile chioma d’argento ondeggiare elegantemente a ritmo di una leggera e fresca brezza.

-Lei non è qui. –

Sephiroth spazza via i miei dubbi, senza nemmeno voltarsi. Credo che tutta la sua attenzione sia focalizzata sulla figura al di là del cancello. Evelyn è ancora lì ad attenderlo. E ora capisco il perché. Il loro legame è stato forgiato da quella ciocca che lei ha sempre portato con sé. Lei è morta assieme una parte fisica di lui, non solo con il suo cuore. Non potrebbero ignorarsi nemmeno volendo.

Sospiro, mi avvio verso Sephiroth e mi fermo accanto a lui, distanziato di un paio di braccia.

Come volevasi dimostrare, egli è troppo impegnato a contemplare la figura della moglie, inginocchiata nel bel mezzo di una densa nebbia, al di là del cancello di ferro battuto, il quale ci divide dal mondo dei morti. Come il marito, anch’ella osserva con attenzione il muro che la separa da questo strano limbo sospeso tra la vita e la morte, sperando in un altro miracolo come quello dell’altra volta. Entrambi, comunque, sembrano sereni, poiché sanno che la loro controparte è più vicina di quanto credano.

- Perché hai perdonato Genesis? –

La mia domanda esce dalle labbra in modo quasi inaspettato, infrangendo la quiete dentro cui entrambi stavamo lentamente sprofondando. Egli risponde senza nemmeno pensarci, come se fosse l’unica ovvia spiegazione.

- La paura di morire l’ha portato a fare scelte sbagliate. Non si rendeva conto di quello che stava facendo. –

La semplicità e la placidità impresse nel suo tono risultano quasi assurde. E inaccettabili. Ciò mi fa montare su tutte le furie. Avverto lo stomaco assaltato da strani crampi, di cui non riesco a identificare la causa. Tremante d’ira, riverso quel sentimento addosso al mio mortale nemico.

- Che diavolo di risposta è? Lui ti ha distrutto la vita! Ha rivoltato tutto il mondo contro ogni tua convinzione, ha usato i tuoi uomini come cavie da laboratorio, ha bruciato la tua casa… ha… ha ucciso la donna che amavi…ha…ha… –

Mano a mano che elenco i crimini di Genesis, mi rendo conto di quanto assomigliano dannatamente a quelli commessi dal Generale stesso nei miei confronti. Crimini che non ho mai ponderato di perdonargli nemmeno nell’anticamera del cervello, ma che, anzi, non hanno fatto altro che consumarmi ogni giorno sempre di più. La mia baldanza si spegne, lasciandomi senza alcuna forza. Crollo a carponi, mentre lacrime di cordoglio scendono incontrollate lungo le mie gote, succhiando via l’energia ad ogni goccia infranta al suolo. Stancamente, appoggio la fronte a terra, lasciando che i fili d’erba mi lambiscano la pelle. Le dita che, fino a poco tempo prima, erano infisse nel terriccio, ora sono strette attorno a ciocche di capelli. Ma anche quella forza viene a meno e mi ritrovo a piangere al limite dell’incoscienza, riverso su un lato, membra abbandonate sull’erba e in posizione fetale. Il mio corpo non è mai stato tanto pesante, ma nemmeno così svuotato. Sono fisicamente esausto. E schifosamente patetico

- Hai capito quanto è straziante odiare? –

La voce calma e pacata di Sephiroth mi riscuote. Alzo stancamente la testa nella sua direzione e incrocio i suoi occhi. Non posso fare a meno di stupirmi nel constatare che lui non mi stia trafiggendo con i suoi soliti sguardi mordaci atti a sottolineare la mia stupidità; oppure disprezzarmi con un’intensa occhiata altezzosa superbia. No, vedo tanta empatica pietà spillare da quelle iridi. E dispiacere, oltre che una profonda tristezza. L’ esatto specchio dei miei. Non credo di essermi mai sentito così nudo in vita mia, ma anche totalmente compreso.

Stancamente, faccio leva con le braccia e alzo il busto, senza distogliere lo sguardo da quel tocco così intimo e rassicurante. E’ un momento intensissimo, capace di strapparmi il cuore letteralmente dal petto da quanto forte batte. Mi sento stordito, confuso dalla miriade di emozioni che sono esplose a seguito della distruzione del muro che da sempre le teneva imprigionate nei recessi del mio animo. Non c’è più nessuna barriera tra noi, perché anch’io riesco a vedere al di là della sua maschera d’indifferenza. Le nostre difese sono crollate totalmente, le nostre fortezze spodestate e messe a nudo agli occhi dell’altro. Non siamo più nemici giurati, né pedine di una guerra millenaria, né mostri rabbiosi, né guerrieri sanguinari; bensì uomini. Ciò che ci è stato vietato per tutta la vita. Ed è ciò che ci ha sempre accomunato.

Io, tuttavia, sono il più spregevole degli uomini. Una feccia schifosa, dorata da un eroismo che non mi è mai veramente appartenuto. L’ho costretto a compiere nefandezze indicibili, pur di mettere a tacere il senso di inadeguatezza che da sempre ha gravato sulla mia coscienza. Egoisticamente, mi sono aggrappato alla sua straordinaria grandezza, infangandola, sfregiandola, demolendola pur di esaltare quella miseria che da sempre mi ha contraddistinto. Non sono mai stato niente rispetto a lui. Sephiroth era l’eroe che ogni ragazzino sognava essere: altruista, responsabile, disinteressato. Ed io… io non lo sono. Non lo sono mai stato: ho sempre pensato a me stesso, vendendo la mia forza al miglior offerente, seguendo la mia strada e infischiandomene delle conseguenze. Ogni occasione era buona pur di dimostrare quel valore di cui non ne possedevo nemmeno un grammo. Non ci ho pensato due volte a spacciarmi per Zack, nascondendo la sua memoria pur di dimostrare di non essere un totale fallito. Volevo essere il più forte e non volevo che il merito andasse agli altri, perché… sì, lo ammetto, mi sentivo superiore. Ma ora capisco che no, io non lo sono affatto. Non senza coloro che amo. Coloro i cui sentimenti e desideri sono sempre stati calpestati dal mio cieco egoismo. Coloro che, nonostante tutto, mi sono sempre stati accanto.

Coloro che, nonostante le sofferenze, mi hanno amato…

Tifa…

Abbasso la testa e avverto il rimorso devastarmi.

Lei mi è stato sempre accanto, ha sempre creduto in me, fin dall’inizio, quando non ero altro che un ragazzino di provincia debole e inutile. A lei non è mai importato se fossi rimasto un sempliciotto di campagna oppure un SOLDIER acclamato, lei mi avrebbe amato sempre e comunque. Guardo sofferente la mia controparte. Le lacrime hanno ripreso a scorrere. E’ questo che ha sempre cercato di inculcarmi. Voleva che combattessi per le persone a me più care, dal momento che lui non poteva più. E’ per questo che tornava: per ricordarmi questo.

E io l’ho odiato così tanto…

Un odio immeritato, quando lui, a modo suo, ha voluto sempre aiutarmi.

Cammino a carponi nella sua direzione, verso quella figura statuaria che magnifica svetta verso il cielo bianco latte. La brezza gli scuote delicatamente le ciocche sottili dei capelli d’argento, le quali gli lambiscono il viso disteso, benevolente…bellissimo, lo devo ammettere. Un angelo intriso di peccato, ma pur sempre un angelo. Egli segue la mia avanzata con leggero stupore, come dimostrano le labbra rosate morbidamente dischiuse. Appena lo raggiungo, alzo il busto e avvolgo le braccia attorno alla sua vita, per poi affondare il mio viso nel suo grembo. Sephiroth sussulta di sorpresa e fa per ritrarsi, ma prontamente le mie dita afferrano disperatamente il tessuto della sua nivea camicia, con il rischio di strapparla.

- Cloud, cosa…? -

- Mi dispiace… Non sei tu a ricercare il mio perdono, ma io il tuo. Io ti ho rubato tutto. Ho approfittato della tua caduta per appropriarmi dei tuoi titoli e denigrare la tua memoria. Mi sono lasciato accecare dalla rabbia, dall’odio e dalle bugie della Shinra. Ho rinnegato tutta l’ammirazione nei tuoi confronti, senza nemmeno chiedermi cosa ti avesse spinto ad agire così. Ho perseguito la vendetta con tutte le mie forze, spingendomi fino alla fine del mondo e… alla fine, cosa mi è rimasto? –

Alzo lo sguardo e lo fisso nel suo. Blu nel verde, mako nel mako.

- Te lo dico io: niente! Come niente sono sempre stato. Io… volevo solo essere come te… -

Lo stupore iniziale di Sephiroth si tramuta in un’espressione di pura sofferenza, appena pronuncio l’ultima frase. I suoi occhi si spalancano terrorizzati e la sua bocca si contrae mimando un muto ‘No’. Egli inizia a scuotere la testa, sconvolto, mentre cerca di convincere se stesso di non aver sentito davvero quelle parole. Glielo posso leggere letteralmente al di là di quella pupilla oscura, ridotta a una capocchia di spillo e straordinariamente umana. E’ uno spettacolo unico.

Avverto improvvisamente i suoi polpastrelli strisciare sulla pelle del mio viso, i palmi ampi accogliere la mia testa nella loro disperata stretta, le lunghe dita affusolate insinuarsi tra i miei capelli. Odo il crepitio dei suoi guanti neri e le falangi premere contro il cuoio capelluto, come se volesse impedirmi di ritrarmi; ma, sinceramente, io sono così affascinato dalla sua figura da non riuscire nemmeno a muovere un muscolo. La sua mascella si contrae e i suoi occhi si assottigliano e si rabbuiano, tradendo un’ondata di rimorso capace di spaccare in due il Pianeta stesso. Rimango sorpreso da quel repentino cambio d’umore, ma non ho il tempo di chiedere, poiché lui, lentamente, si piega nella mia direzione, fino ad appoggiare la sua fronte alla mia per un rapido istante, per poi rialzare il suo sguardo dritto nel mio. Il respiro si mozza in gola appena avverto il gelo della sua pelle pervadermi il centro della testa. Gli occhi si spalancano dallo stupore nell’apprendere di non avvertire nessun fiato solleticarmi la pelle. Al che capisco che la vita in quel corpo è solo un remoto ricordo. Istintivamente, rafforzo la stretta attorno ai suoi fianchi per donargli un po’ di conforto, ma l’iniziativa non sembra sortire nessun effetto; anzi ciò lo turba ancora più profondamente. La mascella, infatti, si contrae ancora e gli occhi diventano lucidi. La tonda pupilla ora mi scruta severa attraverso le lunghe ciglia nere. Deglutisco rumorosamente dalla soggezione che questa strana vicinanza mi provoca, tuttavia non riesco a distogliere lo sguardo. Non potrei nemmeno volendo dal momento che la presa sulla mia testa da parte di Sephiroth si è fatta incredibilmente più determinata.

- Cloud… quanto sei idiota. Non ti sei mai reso conto, vero? Tu STAI diventando esattamente come me. Ti senti niente, perché…niente ero. Stai abbandonando coloro che ami per continuare a inseguire un’ideale inesistente. Come ho fatto io… -

L’ultima frase è pronunciata con un filo di voce, ma è un sibilo così penetrante da colpirmi dritto al cuore. Avverto il mio corpo fremere, davanti a quell’ammissione così sofferta e piena di devastante rimpianto. Un paio di minuscole lacrime, sfuggite al controllo del Generale, sfilano lungo il suo viso affilato, ma egli chiude gli occhi e si concentra, come suggerisce il leggero fremito dei muscoli sopraccigliari. Quando, finalmente i sentimenti sono richiamati all’ordine, egli si raddrizza e spazia con le mani il nebbioso vuoto che ci circonda.

- Guarda dove quell’ideale ci ha portato… –

La sua voce è stanca, stracolma di tristezza, ma ancora capace d’indurre un uomo all’obbedienza. Come ordinatomi, infatti, mi guardo attorno. Il mondo è avvolto in una nebbia così fitta da non riuscire a distinguere nient’altro, se non quel cancello sbarrato su un futuro fin troppo nitido. Un futuro fatto di attesa e solitudine. Un futuro che ci obbliga a guardare quello che una volta avevamo e che noi, per perseguire un sogno al di fuori della nostra portata, abbiamo lasciato alle spalle. Siamo stati troppo veloci, troppo veementi, troppo affamati.

Inizio a ridere. Fin da bambino, ho sempre dovuto dimostrare qualcosa agli altri. Volevo essere forte per farmi rispettare, per ottenere ogni cosa desiderassi, per rendere mia madre e Tifa fiere di me. Vedevo in SOLDIER, in Sephiroth, un modo per ottenere quella fantomatica forza che mi avrebbe aiutato a raggiungere i miei sogni. Una forza che, tuttavia, non mi ha mai nemmeno sfiorato: i miei compagni, i miei comandanti mi credevano un totale fallito. Tutti nel Reparto mi disprezzavano e vedevo quel sogno allontanarsi ogni giorno sempre di più. Poi arrivò la notte in cui tutto cambiò, in cui vidi l’uomo più forte del Pianeta crollare sotto il peso delle sue stesse debolezze. Un uomo che ha permesso a un potere corrotto di trasformarlo nel suo schiavo. E io, che avevo perso le persone che amavo, che non le avevo protette, sconfiggerlo con una facilità disarmante. Non mi accorsi mai che quel dolore fu la scintilla capace di radere al suolo quei limiti che nella mia ottusità mi sono sempre imposto. Ora realizzo: io tengo agli altri, li ho sempre messi al di sopra di ogni cosa, inconsciamente, magari, arrivando perfino a mentire a me stesso, a ferirli coi miei lunghi silenzi e i miei comportamenti scontrosi, però, alla fine, sono sempre tornato.

Grazie a lui.

Rivolgo a Sephiroth un’occhiata grata, appena mi riconosco la veridicità delle sue parole.

- Essere eroi richiede un prezzo pesante da pagare… e spesso non si è in grado di sostenerlo. E’ per questo che esistono gli antagonisti. -

Di tutta risposta, lui chiude gli occhi e inarca i lati della bocca in un sorriso nostalgico, trasformando la sua espressione neutra in una più gentile e franca. Ha un che di paterno e ciò mi fa nascere uno strano languore all’altezza della bocca dello stomaco. Il Generale rivolge poi il suo sguardo malinconico verso un punto lontano.

- E’ come asseriva sempre Genesis: The world needs a new hero. [Il mondo ha bisogno di un nuovo eroe, Genesis FFVII: CC]. Solo ora capisco cosa volesse dire… -

Sephiroth abbassa la testa, in preda al rimorso.

Rimango stupito dal fatto che, perfino ora, egli non riesca a perdonarsi del modo con cui ha dubitato dell’amicizia di Genesis. Nel loro modo distorto, i due erano legati da un sentimento profondo, che tutt’ora li perseguita. Vorrebbero odiarsi, ma non ci riescono, perché, in fondo al loro cuore, sanno che uno ha sempre agito per il bene dell’altro, e che i torti compiuti non erano altro che la manifestazione della loro frustrazione.

Realizzo d’improvviso che è lo stesso rapporto che intercorre tra me e Sephiroth, con l’unica differenza che noi non siamo e non saremo mai amici; tuttavia egli vede in me un modo per redimersi dai peccati. Forse aiutandomi, può dimostrare a se stesso che ha capito gli insegnamenti impartitogli con tanta insistente veemenza, così che i sacrifici dell’amico non siano stati vani.

- Ora capisco perché hai perdonato Genesis. -, esordisco, richiamando l’attenzione dell’albino su di me, - Non per compassione, non per onore o per chissà quale piano visionario. No… ti sei convito di meritare ciò che ti è stato fatto. Tu andasti avanti a discapito di un commilitone in difficoltà e la distruzione della tua famiglia fu il giusto fio da pagare, non è così? –

L’Angelo dalla Sola Ala non risponde, ma il suo silenzio è una risposta sufficiente per me.

- E’ per questo… -, m’interrompo, mentre cerco le parole adatte per formulare quella domanda che da tempo mi ronza in testa, - Che accetti che tua figlia venga sacrificata? -

Appena pronunciata quella frase, Sephiroth s’irrigidisce da capo a piedi. I suoi occhi si spalancano, le sue pupille s’allungano verticalmente, i suoi tratti s’imbestialiscono. Con un movimento fluido, mi rimetto in piedi e muovo un passo all’indietro, allertato da quell’improvviso cambio di tono.

- Sephiroth? Che ti succede? –

Qualche secondo dopo, egli viene colto da spasmi che lo costringono a piegarsi in avanti. Geme e urla similmente a un ossesso, mentre le dita affondano nel cuoio capelluto, causandosi profondi tagli alla pelle, da cui, però, non esce una sola goccia di sangue. Esce… polvere. Sono basito e senza parole, davanti a quel corpo che si contorce compulsivamente, come se fosse posseduto da un essere demoniaco.

L’istinto mi urla di allontanarmi ulteriormente, ma decido di ignorarlo e di coprire la distanza per trovare il modo di soccorrerlo. Gli afferro i polsi con stretta ferma, cercando di riportarlo in sé.

-Sephiroth! Che ti succede? Rispondimi, dannazione! –

Inaspettatamente, egli si libera dalla presa con un rapido movimento e circondo la mia testa con entrambe le mani, per poi tirarmi verso di lui. Le nostre fronti sono di nuovo a contatto e lo avverto aggrapparsi a me quasi con disperazione. I suoi occhi sono iniettati di terrore. Non posso fare a meno di fissare quelle iridi passare dal rosa al verde ad un ritmo allucinante. La pupilla è ridotta a una capocchia di spillo ed è inquietante il modo in cui passa da tonda a sottile in perfetta sintonia con il resto dell’occhio.

- P-proteggila, C-Cloud. T-t-ti prego, pro-pro-proteggi la mia bambina. –

Gli spasmi impediscono al Generale di parlare fluidamente, mentre la possessione gli deforma la voce facendogli assumere toni disumani e spaventosi. Sta combattendo con tutto se stesso contro qualunque cosa gli stia devastando la mente, tanto che mano a mano che i secondi passano, le sue forze vengono a meno, costringendo il suo corpo alla prostrazione. L’unico motivo per cui ancora non è crollato a bocconi a terra è la disperazione con cui si regge alla mia nuca. Cerco di dargli mano forte, apponendo le mani a sostegno delle sue braccia. Dopo che l’ennesimo attacco è passato, egli ritrova la forza di alzare la testa e guardarmi dritto negli occhi. Mi sta letteralmente implorando con lo sguardo, con quei bulbi virei e lucidi per la fatica e la costernazione.

- Io… -

Non oso continuare. Come faccio a dirgli che è stata proprio sua moglie a commissionarmi il gramo compito di trasformare sua figlia in una martire per la salvezza del Pianeta? Eppure dovrebbe essere conscio del destino a cui Takara è stata condannata, a causa della sua natura duplice, tra sangue jenoviano e Antico…

Un momento…

Evelyn non era una Cetra qualunque. Discendeva da colui che sconfisse Jenova, uno dei Sephera più potenti, la cui specialità è appunto la manipolazione dei ricordi.

Entrando in contatto con le cellule S aveva iniziato a notare cambiamenti nel suo corpo: alcuni erano evidenti sin da subito come temporanee mutazioni delle sue pupille da normali a serpentine; altre più silenti, ma dagli effetti permanenti come la miracolosa guarigione dalla sterilità e la conseguente gravidanza.

Ricordo bene la sua ultima incursione nell’ultima visione in cui l’ho vista. Non era la donna che avevo imparato a conoscere. C’era qualcosa di malvagio in quegli occhi smeraldini, qualcosa di oscuro in un quel ghigno innaturale, qualcosa di misterioso in quel tono fin troppo malizioso.

E poi, quel particolare della ciocca infuocata…

Un desiderio troppo dirompente per non essere ignorato…

Un’occasione troppo ghiotta per non essere colta.

Mi volto di scatto nella direzione del cancello. E ciò che vedo conferma i miei dubbi.

La donna al di là delle sbarre, la cui espressione si è fatta di cera, ha gli occhi ferini puntanti su di noi e ci osservano con un’oscura e inquietante luce rosata.

- Jenova si è presa Evelyn la notte stessa in cui siete stati insieme per la prima volta. Ha approfittato del vostro amore per soggiogarvi l’uno all’altra, così, quando le cose sono precipitate, ha creato quell’ illusione per controllarti. –

Scambio uno sguardo d’intesa con Sephiroth, il quale conferma la mia tesi con un debole movimento del capo. Abbandono il Generale e compio qualche spavaldo passo in direzione del cancello, al di là del quale “Evelyn” mi osserva con occhi così ricolmi d’odio da convertire lo smeraldo splendente di quelle iridi benevoli e meravigliose in puro nero inchiostro. Noto i suoi denti digrignarsi, la sua pelle assumere un’insana colorazione verdognola, le nocche sbiancare, il corpo tremare di una rabbia incontenibile. Mi fermo e mi pianto esattamente di fronte a lei, pugni chiusi e sguardo di sfida.

- Ma qualcosa nel tuo piano è andato storto, vero? L’amore incondizionato di una madre è un potere al di sopra di qualunque cosa, tanto da impedirti di controllare Takara. E quando il diario è giunto a me hai fatto di tutto per ostacolarmi, fino a convincermi che ucciderla è l’unico modo per salvare il Pianeta. -, sogghigno soddisfatto, di fronte all’aura d’ira che avvolge l’esile figura della donna, e muovo un altro passo nella sua direzione, - Davvero scaltra, ma, come al solito, hai sottovalutato la forza dei legami umani. Duemila anni ad osservarci e non hai ancora capito niente… Jenova. -

Il suo nome pronunciato con tale disprezzo e scherno è la goccia che fa traboccare il vaso. La figura esile e innocente dell’ex-geisha trasfigura rapidamente in quella mostruosa e sinuosa di Jenova stessa. Le grandi ali nere si spalancano maestose alle sue spalle, con una tale forza da creare una potente onda d’urto che sarebbe stata capace di sollevarmi da terra, se non avessi avuto la freddezza di accucciarmi e chiudermi a uovo, proteggendomi viso ed occhi. Appena il vento scema, riapro le palpebre e scruto la situazione al di là del braccio posto in posizione di difesa. La visione è ancora un po’ distorta e confusa e riesco solo a distinguere i giganteschi contorni di quelle ali nere così lucide da risaltare come astri nel buio stellare dell’universo. Non so dove quel mostro mi abbia catapultato, ma un gelido terrore mi sale lungo la schiena, preannunciando l’inevitabile. Metto a fuoco la figura bianco latte che, sinuosa e femminile, si staglia in pieno contrasto tra gli arti piumati di gelida ombra. Luminosi baluginii provengono dalla sua testa e capisco che si tratta dei lunghi capelli d’argento che ondeggiano ad ogni suo movimento e che coronano il capo come ispide e affilate lame di puro acciaio. Infine, riesco a puntare il suo viso, in quel momento deformato in una smorfia di pura ira. I denti, aguzzi come zanne, snudati; le iridi grondanti di luce sanguigna e le pupille serpentine dilatate dalla sete di vendetta. Un basso, sommesso ringhio proviene dalla sua direzione, come oscuro presagio della sua prossima imperscrutabile mossa. Non so cosa aspettarmi, non so di che cosa sia capace quel mostro e il terrore lentamente mi attanaglia, impedendomi di ragionare lucidamente. Riesco a notare un movimento rotatorio della suo braccio sinistro, ma lei copre le sue azioni cacciando un urlo così acuto e assordante da costringermi a richiudermi in posizione difensiva e tapparmi le orecchie. Grido di dolore. Nonostante la protezione costituita dai palmi, i miei timpani vibrano pericolosamente e dolorosamente, arrivando a credere di stare per diventare sordo. Improvvisamente, però, un presentimento si eleva al di là del dolore e mi suggerisce di alzare la testa e aprire gli occhi. Anni e anni di scontri contro Sephiroth hanno affinato il mio sesto senso, rendendomi attento anche quando non lo sono. E anche questa volta, ha ragione. Il movimento del braccio era atto alla trasformazione di quest’ultimo in un’affilatissima lama acuminata. Trasformazione convenientemente coperta da un diversivo.

Ingegnoso.

Fin troppo.

Lei, infatti, è esattamente a un braccio da me. L’ombra gigantesca del suo corpo alato oscura l’accecante luce delle stelle imperiture, ingoiandomi nel suo spaventoso abisso. La lama caricata all’indietro, pronta a colpirmi d’infilata, è l’unica cosa che dona luce a quella sagoma d’inconsistente nero. Il tempo sembra fermarsi, mentre assaporo gli ultimi istanti della mia vita; mentre fisso le aliene e bellissime fattezze del mio assassino.

Sento di stare per annullarmi, di arrendermi all’inevitabile, come è accaduto con Genesis, ma, d’un tratto, il viso di Tifa mi passa davanti agli occhi per un unico, significativo istante.

Il vuoto viene riempito: ho paura, provo rimpianto, vorrei abbracciare la mia Tifa. Vorrei chiederle scusa, vorrei baciarla, amarla… per l’ultima volta.

Una stretta forte e decisa alla spalla mi strappa brutalmente dalla spirale di panico in cui ero piombato e mi fa riacquistare lucidità. Lo scorrere dei secondi ha ripreso il suo normale corso, ma per me, ancora stordito dall’incessante fischio alle orecchie, sembra tutto accelerato all’inverosimile; tanto da non essere in grado di seguire il corso degli eventi. Un secondo prima sono in ginocchio di fronte a Jenova e il secondo dopo mi ritrovo a rotolare sul pavimento liscio. Ora sono sospeso a mezz’aria cadendo morbidamente verso un abisso di luce, il cui calore mi solletica la spina dorsale. La mia attenzione è totalmente attirata da quella parte, tanto da riuscire a distinguere quelle che paiono essere sagome muoversi al di là della cortina luminosa. Un baluginio insistente, però, fa capolino dalla vista periferica, inducendomi a voltare la testa e guardare in avanti. Rimango senza parole e incredulo di fronte a ciò che sta succedendo esattamente davanti ai miei occhi. La spada che avrebbe dovuto essere conficcata nel mio petto spunta spietata dalla schiena del Generale. La sua figura possente non sembra risentire troppo del colpo, poiché non cede un solo passo al furioso impeto della sua adorata Madre. Ella sembra spingere sempre più in profondità quella lama nelle sue carni, come testimoniano i raccapriccianti suoni di viscere spappolate e nugoli di polvere che spillano dalla ferita.

Ci metto un po’ a realizzare che… Sephiroth mi ha salvato!

Si è interposto tra me e Jenova, prendendosi una lama lunga quanto un braccio nell’addome. E ora le sta impedendo di raggiungermi, trattenendo quell’arma nel suo corpo, fondendo le sue cellule con quelle multiformi della Madre, lottando strenuamente contro un essere ben superiore a lui.

- Sephiroth! –

Inizio a tendermi nella sua direzione, con tutte le mie energie, nella speranza di riuscire a vincere questa strana forza. Mi sembra di nuotare in un mare di miele, tanto il movimento è impedito.

- Vattene, idiota! -

L’ordine di Sephiroth risuona nel vuoto cosmico con imperiosità, nonostante lo strenuo combattimento. Tentenno, indeciso se ascoltare l’ordine o ignorarlo, ma poi vedo le mani di Sephiroth chiudersi attorno al collo di Jenova e il suo intero corpo muoversi nella parte opposta a quella della Madre. L’aliena, di tutta risposta, snuda gli artigli della mano libera e inizia a scorticargli il lato corrispondente del viso. L’Angelo dall’Unica Ala non demorde e continua a spingerla lontana, nonostante le gravi ferite inferte. Jenova grida parole incomprensibili, appartenenti ad un lingua sconosciuta, in preda all’ira più cieca. Non ho idea di che cosa stia dicendo, ma sono piuttosto convinto che stia maledicendo quel figlio indesiderato con tutta l’anima.

Semai ne avesse avuta una.

Ad un certo punto, quel mostro nefasto allarga le ali, tramuta le piume in lame acuminate rivolte verso il centro e inizia a calare quella trappola mortale sulla schiena del Generale ancora, ancora e ancora. Le pugnalate sono sferrate con sempre più veemenza e rabbia, aprendo squarci sempre più profondi nella pelle lattea del SOLDIER.

E’ uno spettacolo orrifico, da far accapponare la pelle.

- NO! MALEDETTO MOSTRO, LASCIALO! 

Preso dall’irrefrenabile istinto di salvarlo, arrivo quasi a raggiungere il pavimento, ma due braccia si cingono attorno al mio petto, fermando la mia caduta. Sono arti piccoli e gracili, la cui pelle è dotata di un dolce candore.

Così famigliare…

Mi volto di scatto e incrocio due grandi occhi smeraldo che adornano un dolce viso ovale, contornati a loro volta da ciocche di riccioli castani.

- Aerith? –

- Devi andartene, Cloud. –

- Cos…? Aspetta! –

La Cetra inizia a muoversi per posizionarsi davanti a me, però Jenova, interpretando le azioni della sua mortale nemica, decide di aver temporeggiato troppo con quel vile traditore. Vedo la lama rigirarsi nelle carni ed essere preparata per un unico, fatale, montante. Trattengo il respiro, certo dell’imminente e orribile morte del Generale. Qualcosa accade, tuttavia, impedendo all’aliena di realizzare il suo intento: il suo corpo prende fuoco. Il fatto strano è che le fiamme sembrano non lambire minimamente Sephiroth; anzi pare che ostacolino e combattano i soli movimenti della Calamità, bloccandola sul posto e costringendola ad estrarre la lama. A quel punto, il Generale approfitta della momentanea distrazione della Madre per dar man forte al demone infuocato che la possiede, riuscendo infine a liberarsi. L’impeto è così potente da costringere Sephiroth a crollare all’indietro e indurre la lama a compiere un ampio cerchio sopra la testa di Jenova. Una scia di polvere si diparte dal corpo prostrato del SOLDIER, fino al luogo in cui quel pulviscolo si era accumulato copioso ai suoi piedi. Una forza contrapposta a quella che mi tiene sospeso sta attirando Jenova verso l’oblio in cui era confinata e su cui Sephiroth ha pazientemente vegliato per tutti questi anni. Tra la Madre e il figlio, le fiamme s’interpongono, quando, ad un certo punto, una figura di sfavillante purezza ne emerge, illuminandoci con la sua luce piena di calore e pace.

Un corpo sinuoso, femminile, sensuale è avvolto all’interno di un voluttuoso kimono bianco puro. Le sete svolazzanti del lungo strascico, delle maniche oblunghe e del semplice obi contrastano con il loro soave ondeggiare lo spietato buio del cosmo. E come il cosmo, corvini sono i capelli, raccolti di lato alla base della testa con un semplice fermaglio a forma di giglio bianco, il resto lasciato cadere fluido lungo la spalla destra, lasciata nuda dall’ampia scollatura. Così come il corpo, rimasto vigoroso e bellissimo, il viso non presenta il benché minimo segno di fatica o di vecchiaia. La pelle è fresca e giovanile, illuminata da un delicato candore, e avvolge perfettamente gli eleganti lineamenti. Bocca rossa piegata in un morigerato sorriso e occhi vitali, innamorati pennellano gli ultimi dettagli di quel ritratto divino. Ella fluttua, immota, come acqua placida di un quieto lago. Il fruscio delle sue vesti è l’unico suono che emette. La sua attenzione è totalmente rivolta a Sephiroth, ma si limita soltanto a fissarlo, senza muovere un muscolo. Non posso vedere l’espressione della controparte, ma sono piuttosto sicuro che la stia ammirando affascinato, oltre che essere sorpreso da questa miracolosa manifestazione. Ad un certo punto, un’increspatura finissima scompone appena la stasi. Evelyn si rabbuia, dispiaciuta.

E’ arrivato per lei il momento di tornare al suo Inferno.

Incurante delle ferite, Sephiroth infrange ogni indugio e inizia a strisciare nella sua direzione, aggrappandosi allo scevro pavimento con tutta la forza rimastogli. L’espressione della donna subisce un’ulteriore increspatura, svelando un’espressione di pura sofferenza nell’apprendere con quanta disperazione il suo uomo la desideri riavere tra le sue braccia. Appena egli riesce a raggiungerla e sfiorare le sue vesti, esse vengono incenerite dal fuoco che la sta di nuovo reclamando per sé. Il SOLDIER lotta contro il suo corpo stremato per rimettersi in piedi e raggiungere quel viso divino prima che sia troppo tardi, ma, ogni volta che trova un appiglio, questo scompare in un cumolo di cenere. Prima di dissolversi definitivamente, ella pronuncia un muto ‘Ti amo’, dedicando all’amato un flebile, ma bellissimo sorriso. L’uomo non può far altro che osservare, inerme, la moglie svanire, rapita dalle fiamme. Esse scompaiono al di là dell’orizzonte, lanciandosi dentro al cancello, il quale si sbarra con un sonoro clangore, per poi dissolversi nel nulla. L’oscurità scompare e l’oblio fumoso ritorna al suo posto.

-Cosa è successo? –

Stordito e confuso, mi rivolgo alla Cetra, rimasta per tutto il tempo accanto a me, pronta a difendermi; ella ha un grande sorriso che le solca le labbra rosee e osserva con fierezza quell’uomo che una volta chiamava ‘fratello’. Alla mia domanda, la fioraia risponde, trasudando sollievo e gioia da ogni poro.

- Salvandoti la vita, Sephiroth ha finalmente rotto il suo legame con Jenova. –, spiega semplicemente e si lascia scappare una tenue risata, mentre i suoi occhi s’inumidiscono dall’emozione, - Cominciavo a credere di non vedere mai questo giorno. Oh, Sephiroth… -

La Cetra si porta una mano al cuore, mentre l’altra asciuga via le lacrime di gioia. La sua risata cristallina mi accarezza l’udito, ricordandomi tempi andati. Mi accorgo con dolore di quanto quei gesti, quella risata, quella presenza mi siano mancati.

Nemmeno la morte è riuscita a cambiarla.

- E’ presto per cantare vittoria. –

Sephiroth interrompe il momento nostalgico con un tono inaspettatamente calmo e pacato, attirando l’attenzione su di sé. Dell’uomo prostrato e devastato dal dolore non v’è nemmeno l’ombra, al suo posto v’è la stoica e autoritaria figura del leggendario Generale di SOLDIER. Il suo vestiario e il suo fisico sono ritornati intonsi, come se nessuna battaglia si fosse mai consumata in questo luogo.

La notturna divisa sfavilla sullo sfondo anonimo, mentre egli si volta nella nostra direzione. I suoi occhi di giada sono ricolmi di feroce determinazione: la stessa che indossava prima delle battaglie campali, la stessa che ha guidato l’élite di SOLDIER verso la vittoria migliaia e migliaia di volte, la stessa che ti portava a dire:

- Cosa vuoi che faccia? –

Sephiroth mi rivolge un’occhiata cospiratrice, accompagnata da un sorriso sardonico. Un’espressione che avevo dimenticato fosse mai esistita. Posso vedere un piano segreto e misterioso nascere e prolificare nella sua mente instancabile, una mente che realizzo ora essere una delle più brillanti mai incontrate. Sephiroth era… E’ uno stratega straordinario: non v’è situazione capace di metterlo in difficoltà.

- Come ho detto: il mondo ha bisogno di un nuovo eroe. Guardati intorno, sono certo che troverai dei validi campioni pronti a darci una mano. –

- Non sarà facile. La tua reputazione ti precede. –

- Oh, se sono riuscito a convincere te… -

Egli sfodera un tono malizioso e sicuro di sé, il quale non fa altro che sottolineare fastidiosamente la realtà, ma non posso fare a meno di sorridere e scuotere la testa con falso disappunto.

Il Generale ci raggiunge con il suo passo cadenzato e misurato. Mi fissa dritto negli occhi per un lungo istante, per poi appoggiare la sua grande mano guantata sul mio petto.

- Dì a mia figlia che sono tornato. –

- Mpf, quando mai te ne sei andato? -

L’argentato si lascia scappare uno sbuffo divertito, dopodiché imprime una decisa pressione, tanto da farmi rapidamente imboccare la via del ritorno, attraverso il tunnel di luce alle mie spalle.

 

 

Apro gli occhi lentamente e rimango a fissare il soffitto di legno per un tempo indeterminato. I pensieri sono ancora ben fissati nella mia mente, mentre i vari malesseri dovuti dal legame tra me e Sephiroth sembrano non esserci mai stati. Mi sento forte e vigoroso, come un volta. Sorrido: ci dev’essere il tocco di Aerith dietro a questo improvviso benessere.

- Giorni di coma e ti risvegli con un sorriso da ebete stampato in faccia. Sapevo che te l’avrei dovuta spaccare quando ne ebbi l’occasione. –

M’irrigidisco appena riconosco la voce che ha appena parlato. Di scatto, alzo il busto e mi paralizzo appena incrocio la sua morbida figura.

Tifa…

La mia mascella per poco non si stacca per lo stupore. E per la gioia di rivederla, tale da farmi dimenticare ogni ovvia domanda sulla sua presenza al mio capezzale. Sai cosa? Non m’importa. Non m’importa come sia giunta qui, come abbia fatto a trovarmi, con chi sia venuta, quale sia la situazione creatosi con gli altri protagonisti, quanto sappia della storia… no, lei è qui, davanti a me, nonostante tutto… lei è qui.

Dal canto suo, lei mi fissa in tralice, con espressione rabbuiata e rabbiosa. Anche la sua posa non è delle più rassicuranti: ben piantata proprio davanti al mio letto, testa bassa, pugni appoggiati sui fianchi.

E’ incavolata nera. Non posso biasimarla, eppure non riesco ad esserne intimorito: rivedere la donna che amo, dopo così tanto tempo, dopo tutto quello che ho visto, mi spacca il cuore. Non riesco proprio ad immaginare una vita senza di lei. E mai come adesso sto comprendendo Sephiroth e il suo folle desiderio di ricongiungersi ad Evelyn.

- Mi sei mancata da morire… -, sussurro, estasiato.

La rabbia di Tifa si volatilizza in un battito di ciglia, spazzata via da quel mio dire così inaspettatamente appassionato. Spiazzata, lascia cadere le braccia lungo i fianchi, mentre mi fissa stupita con quei meravigliosi occhi da cerbiatta. Sento il mio cuore perdere un battito. Senza indugiare oltre, mi alzo dal letto e mi dirigo nella sua direzione, facendomi trasportare da un solo, impellente, pazzo bisogno. Lei mi segue con lo sguardo, sempre più allibita, finché non l’avvolgo in un soffocante abbraccio. La stringo con disperazione, affondando le dita nei suoi capelli, nella sua pelle, accarezzandola come se fosse la prima volta che assaggio quel meraviglioso candore. E non voglio che sia nemmeno l’ultima. Non voglio lasciarla andare, non voglio che se ne vada, non voglio rimanere solo. Senza nemmeno rendermene conto, inizio a piangere, mentre naufrago col viso nell’incavo della sua spalla. Mi aggrappo a lei con più veemenza, mentre i ricordi dolorosi di Sephiroth affollano di nuovo la mia mente.

Lo capisco… Dannazione, quanto lo capisco!

Ma ora basta pensare a lui. C’è Tifa, in questo momento. Lei e soltanto lei!

Sono talmente concentrato ad assaporare il calore e la morbidezza del suo corpo che a malapena mi accorgo di piccole e delicate mani che iniziano ad accarezzarmi i capelli, la nuca, le spalle, la schiena, detergendo appena il mio cordoglio.

-Cloud… -

Il mio nome pronunciato da quella voce per poco non mi uccide, da quanto piacere è stato scatenato. Avverto il mio corpo avvampare e sciogliersi; non crollo solo perché lei sta ricambiando la mia stretta, con una altrettanto intensa. Avverto il calore del suo corpo attraversare i vestiti e poggiarsi sulla mia pelle, il fiato caldo solleticarmi il collo, il profumo dei suoi capelli stuzzicarmi l’olfatto, la dolcezza del suo tocco farmi rabbrividire. Ogni singola sensazione agisce in sinergia con l’altra, costringendo il mio corpo ad arrendersi di fronte a un’ondata impazzita di passione. Esco dal mio nascondiglio e i nostri sguardi s’incatenano l’un l’altro. La osservo per un lungo istante, studiando ogni singolo dettaglio del suo volto, scoprendo con amarezza non averlo mai guardato veramente, di averlo sempre dato per scontato. Con quale coraggio, poi?

Hai ragione, Sephiroth: sono un vero idiota.

Il mio girovagare finisce appena i miei occhi si fissano sulle sue labbra, appena dischiuse, da cui, come le mie, esce uno spiro affannoso e pieno di aspettativa. Aspettativa che intendo corrispondere, questa volta. Controllando a stento il desiderio, assaporo il languore e, misuratamente, mi protendo in quella direzione, mentre i nostri respiri e i nostri cuori aumentano di frequenza, fino ad annullarsi nel medesimo istante in cui le nostre labbra s’incastrano perfettamente l’una con l’altra.

A quel punto, tutto si fa offuscato e nitido nello stesso tempo. Ubriachi di desiderio, ci lasciamo trasportare dalla passione, dimentichi del luogo e della situazione.

 

 

- Dove la tenevi tutta questa… spontaneità? –

La domanda di Tifa giunge all’improvviso, mentre, ancora affamato, sto lambendo con la bocca le accoglienti curve del suo corpo. Alzo la testa, dove ad aspettarmi c’è il suo volto con un’espressione maliziosamente indagatrice stampata sopra. Essa mi strappa un sorriso divertito. Mi sdraio sopra di lei, senza pesarle addosso e le cingo le spalle con le braccia.

- Ti sembrerà strano, ma questo viaggio mi ha fatto scoprire un sacco di cose su me stesso. –

Tifa si rabbuia e distoglie lo sguardo, fissandolo verso un punto imprecisato. Mi allarmo.

- Che succede? –

Ella non risponde subito, ma la sua espressione dubbiosa non fa presagire nulla di buono.

- Cloud… tu mi ami? –

- Certo. -, rispondo di slancio.

Mi sembra una domanda così stupida, ma Tifa non sembra convinta.

-E allora perché preferisci quell’assassino a me? –

Grugnisco. Dovevo immaginarlo che non me la sarei cavata così facilmente, sebbene quella domanda sia un dubbio più che lecito. M’infastidisce, tuttavia, che Tifa sia ancora fissata su quelle antiquate credenze. Non ha la minima idea di che cosa abbia passato Sephiroth e di quanto egli mi abbia aiutato nel diventare l’uomo che sono, nel bene o nel male. Vagamente ipocrita, dal momento che anch’io la pensavo esattamente come lei. Abbandono la mia donna e mi metto a sedere sul lato del letto.

- Non è un assassino. –, affermo con fermezza.

Avverto la pugile muoversi dietro di me, probabilmente si è alzata di slancio, spinta dall’impeto della sua rabbia.

- Cosa?! –, sibila la ragazza, incredula.

Giro il busto nella sua direzione e la guardo dritta negli occhi.

- Non è un assassino. –, reitero, scandendo ogni singola parola.

Osservo le iridi di Tifa muoversi febbrilmente lungo il mio viso, forse alla ricerca di un qualunque guizzo che tradisca la mia insicurezza, ma, dallo sguardo deluso acquisito poco dopo, direi che non ha trovati.

- Non posso credere che tu, proprio tu, sostenga una cosa del genere. Tu l’hai visto! Sei stato testimone della sua crudeltà. 

- Tifa, quella non era crudeltà, ma disperazione. –, spiego assumendo un tono pacato, in piena contrapposizione con quello semi-isterico della ragazza, - Se solo tu sapessi cosa… -

- Non m’importa! - sbotta lei, livida di rabbia, - Una persona umana non avrebbe mai sterminato un intero villaggio! Non avrebbe mai ucciso un uomo che stava solo cercando di aiutarlo… -

Il ricordo del padre morente taglia a metà il discorso impetuoso della figlia. La vedo tentennare, travolta dal dolore, ma riesce a controllarsi e imporsi un contegno. La sua battaglia interna, tuttavia, si mostra anche esternamente, tradita dal respiro affannoso e i tratti del viso congestionati, contratti nel caparbio tentativo di ricacciare indietro le lacrime. Mi stringe il cuore vederla così, lei, solitamente così forte e combattiva, ma, dopotutto, suo padre le è stato strappato via troppo presto, troppo brutalmente da poter anche solo ponderare un qualunque tipo di perdono. Come anche la mia povera mamma, sventrata e bruciata senza alcuna pietà…

Così come Evelyn.

- Sephiroth era sposato, lo sapevi? -, domando retorico, interrompendo il silenzio, - Non era una di quelle storielle che ciclicamente la Shinra vendeva ai giornaletti rosa, giusto per guadagnare due soldi sfruttando la sua vita privata. No, quella volta era stata diversa: l’aveva scelta lui e si era dedicato anima e corpo per far funzionare quella relazione; tanto da essere a un passo dalle dimissioni ufficiali. -, sospiro pesantemente e alzo la mano destra, enfatizzando con un gesto quanto egli fosse vicino al realizzarsi del suo sogno, - Una sola missione ancora e poi basta… Una. Una sola… -, reitero con un sussurro, perdendomi nei ricordi.

In tutto questo, la mora mi osserva con aria scettica, per nulla toccata dal mio dire greve e appassionato. Il suo odio per Sephiroth la rende sorda a qualunque tipo di compassione.

- Se per lui era così importante: perché l’ha abbandonata? –, chiede infatti, velenosa.

- Perché è morta. -, rispondo, poi mi affretto ad aggiungere, - Assassinata da uno degli unici due uomini che Sephiroth abbia mai chiamato ‘amico’. Puoi immaginare in che condizioni ci è arrivato a Nibelheim… -, concludo, lasciando intendere la gravità della situazione mentale del Generale, giustificazione più che sufficiente delle sue azioni.

Rimaniamo per lunghi secondi in totale silenzio, mentre Tifa mi fissa incredula. Non mi sfugge il leggero rossore di vergogna spennellare le sue gote piene. Ad un certo punto, ella distoglie lo sguardo e lo veicola verso un punto imprecisato, pensosa.

- Se questa storia è vera… -

-E’ vera. –

- Come fai ad esserne certo? Sai che lui è capace di manipolare le menti delle persone. –

- Ho letto il suo diario, Tifa. Sono stato letteralmente investito dai suoi ricordi, anzi, dai LORO ricordi. Ho visto, ho SENTITO il loro dolore, la loro sofferenza. Stanno vivendo in un Inferno immeritato e terribile, condannati a vivere sotto lo schiaffo di Jenova, costretti ad ottemperare ogni richiesta dell’aliena, fino al momento in cui la Guerra millenaria tra la Calamità e il Pianeta finirà. SE finirà. –

Non v’è vacillamento nella mia voce e la sicurezza con cui la fisso, fa capitolare qualunque insinuazione la mia ragazza stesse per proferire. Ella rimane senza parole e, non riuscendo a sostenere più il mio sguardo, abbassa la testa, appesantita dalla vergogna.

Il silenzio si stiracchia per secondi infiniti, mentre esso aggrava ancora di più le parole scambiate, scavando un profondo senso di colpa nei nostri cuori. Studio lo smarrimento di Tifa, comprendendola al volo, poiché perfino io, che le ho vissute in prima persona, fatico a credere a tutte le esperienze di cui sono stato testimone. Non potrò mai perdonare integralmente Sephiroth, questo è impossibile, ma, quanto meno, potrò comprendere meglio le motivazioni che lo hanno spinto a compiere quegli intenti mostruosi, e, soprattutto, assecondare il suo desiderio di proteggere i suoi cari.

Toc, toc…

Un bussare discreto, ma deciso, interrompe il filo dei nostri pensieri, ridestandoci. Tifa ed io ci scambiamo uno sguardo sconcertato, appena ci rendiamo conto di non essere in condizione di presentarci a terzi. Giunti a capo dei nostri dubbi, ognuno si fionda dai propri abiti, abbandonati alla rinfusa sul pavimento. Ci vestiamo il più velocemente possibile, anche se, mi rendo conto, la persona dall’altra parte non insiste oltre, attendendo pazientemente. Raffazzonato alla bene e meglio, mi avvio verso la porta con l’intento di aprirla, senza però prima aver scoccato un’occhiata d’intesa a Tifa. Lei mi dà il via libera, mentre si liscia i capelli sconvolti per dar loro un aspetto decente. Abbasso la maniglia e spalanco l’uscio. Davanti a me si para la figura austera di Vincent Valentine. Quasi mi spavento quando mi ritrovo a tu per tu con i suoi fiammeggianti occhi rossi. Le sue iridi sfilano rapide e studiose su di me, come se mi stesse scannerizzando da cima a piedi. La sua attenzione sosta per secondi non ignorabili sulla capigliatura spettinata e i segni evanescenti presenti sul mio collo. Unisce l’ultimo pezzo del puzzle, scoccando una rapida occhiata oltre le mie spalle, luogo in cui intercetta la figura scarmigliata di Tifa. Senza scomporsi più di tanto, egli assottiglia lo sguardo e lo pianta su di me. Posso vedere una luce divertita adombrare quelle iridi di fiamma, mentre un malcelato sogghigno viene nascosto dietro l’alto colletto del suo mantello.

- Rimango sempre più stupito della capacità di recupero dei SOLDIER. –, commenta, infine, con leziosa ironia.

 

Evvai! Siamo arrivati al momento clou(d) della storia! La resa dei conti è vicina!

Il capitolo in questione è venuto davvero lungo rispetto al solito standard e sarebbe dovuto essere ancora più lungo, ma non mi andava di condensare troppe informazioni in un capitolo solo. Credo che aggiungerò qualche capitolo- spiegone così da introdurre meglio le fasi finali della storia. Ce la posso fare a finire!

Finalmente siamo arrivati a Nibelheim con il nostro argentato preferito e spero che sia stato reso bene il passaggio da uomo a mostro, anche se il mio Sephiruccio non è cattivo, no-no! (richiamami Sephiruccio e ti farò vedere quanto sono buono è_è ndSeph).

La presenza di Tifa immagino vi lasci un po’ spiazzati, ma non temete tutto sarà spiegato nel prossimo capitolo ;)!

Chiedo perdono, come al solito, della lunghissima attesa, ma la voglia di scrivere è sempre sotto le scarpe e discontinua. Davvero, non vedo l’ora di cimentarmi in altro!

Fan fact: sebbene il capitolo sia pronto da giorni (se non settimane -.-‘) pubblico sempre attorno le 2 di notte! E’ una maledizione!!!

 

Alla prossima!

 

Besos!

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Capitolo 30
*** Pace ***


- Che intendi con ‘capacità di recupero’? –, chiedo, nel misero tentativo di stemperare l’imbarazzo.

Vincent piega la testa di lato e l’angolo destro della sua bocca fa capolino dal lungo collo del suo mantello rosso sangue, mostrando una linea neutra. La smorfia che prima rallegrava la sua espressione marmorea è scomparsa, lasciando posto a un esasperato disappunto.

- Immaginavo che non avresti chiesto spiegazioni. -, spiega con voce sconfitta, - Ma almeno insospettirti della presenza di una persona che non dovrebbe nemmeno sapere dove sei…-

No, DECISAMENTE l’imbarazzo non è andato a stemperarsi manco per niente, grazie a quel fastidioso tono da maestrina.

- Quanto siete puntigliosi, voi Valentine… -, mi lascio sfuggire a mezza voce.

- Guarda che ti sento, Cloud. E anche Lui. -, rincara il pistolero.

Mi porto le mani alla testa, grugnendo ormai esasperato, e vorrei rispondere per le rime, ma un tocco gentile sulla spalla mi astiene dallo sbottare malamente.

- Cloud, calmati. -, sussurra dolcemente Tifa, afferrandomi il braccio con l’altra mano e guardandomi dritto negli occhi. Sento la calma invadere la mia mente in subbuglio, mentre mi perdo in quelle iridi color resina.

Lei mi sorride, poco prima di rivolgersi a Vincent, con espressione dispiaciuta.

- Scusa, Vincent, so di essermi sobbarcata di questo onere, ma… sai… è passato tanto tempo… -

Le gote della pugile s’imporporano, mentre l’imbarazzo torna a colorare il suo viso d’angelo. Un sorriso spontaneo mi sorge sulle labbra, mentre la sua tenera ammissione fa breccia nel cuore di Materia dell’uomo di fronte a noi. Egli sospira con una nota paziente e scuote la testa.

- Non importa, Tifa. Anzi, scusami per essere stato così insensibile. –

La mora sorride comprensiva.

- Beh, solitamente è da te essere così franco. –, sottolinea Tifa.

Dal canto suo, Vincent distoglie lo sguardo e lo rivolge in un punto imprecisato nel corridoio.

- Già… -, ammette, distratto.

Mi permetto di osservarlo con più attenzione. La prima cosa che salta all’occhio sono impercettibili rughe avvallare la pelle degli occhi, della fronte e del naso, come se l’espressione del pistolero fosse stata più corrucciata del solito, negli ultimi tempi. I suoi occhi, solitamente così fiammeggianti, sembrano aver perso vigore e sostanza. Anche la sua postura, normalmente fiera ed eretta, sembra appesantita, come se un macigno gravasse sulle sue immortali spalle. Credevo fosse un’impressione, la prima volta che lo notai, incolpando il lungo viaggio e la mia galoppante carenza fisica; ma ora mi rendo conto che il vampiro senza età sta effettivamente… invecchiando?

- Vincent… Tutto bene? -, chiedo, d’impulso.

Egli mi rivolge un lungo sguardo. Al contrario delle altre volte, esso è vuoto. Sembra che un pesante velo impedisca alle sue emozioni di fare capolino dai suoi occhi solitamente così espressivi.

Mi si stringe il cuore. So cosa vuol dire uno sguardo del genere…

- Takara … -, Vincent prende un profondo respiro, infondendosi coraggio, - E’ scappata. –

 

 

Durante il percorso tra la stanza in cui mi sono risvegliato e la nostra meta, Vincent e Tifa hanno avuto modo di ragguagliarmi rapidamente sulla situazione. In breve, qualche ora dopo che sia io che Takara eravamo caduti in un sonno profondo, dei ricognitori avevano intercettato un convoglio nemico diretto dritti verso Yaido. In fretta e furia, il castello è stato evacuato e gli alleati avvertiti.

- Alleati? -, chiedo confuso.

Tifa mi mette una mano sulla spalla e mi rivolge uno sguardo ammiccante.

-Lo vedrai. –

Appena detto questo, infatti, l’ennesima porta di metallo si spalanca di scatto appena rileva il nostro arrivo, mettendo in mostra la stanza al di là di essa. Si tratta di una sala di controllo, molto simile a quella della Shera, ma molto più in grande. Sul ponte principale, elevato al di sopra dei computer e della grande paratia panoramica, vedo due figure discutere. Riconosco Weiss il Bianco e…

- Reeve… –

Il suddetto s’interrompe e si volta nella mia direzione, accogliendomi con la sua solita espressione bonaria.

- Ah, Cloud! Ti vedo in forma, grazie al cielo. Ne è passato di tempo! –

Non rispondo e continuo a fissarlo, mentre mi avvicino. Ripercorro rapidamente le miriadi di avventure che mi sono capitate in questo periodo, e mi sovviene che l’ultima volta che ho parlato con lui era stato con Gast. Quest’ultimo sapeva dei miei tracolli, dei mille effetti che quel maledetto libro avesse su di me e gli Esper sanno cos’altro. Tutte queste informazioni arrivavano da Reeve.

- Quindi… mi pare di capire che siete tutti una grande famiglia felice. -, commento piccato.

Weiss mi fulmina con lo sguardo, mentre Reeve prorompe in una fragorosa risata.

- Ahahahahah! Oh, Cloud! Diciamo che ci supportiamo e… sopportiamo a vicenda. –

- Sarebbe molto più facile sopportarti, se non ci lasciassi sempre all’oscuro dei tuoi intrallazzi -, rimbecca un ringhiante Weiss.

L’ilarità dell’ex-direttore si spegne rapidamente e i suoi occhi vengono rimandati al cielo, in un gesto esasperato.

- Di nuovo con quest’accusa, Weiss? -, prorompe, - Quante volte devo ripeterti che non c’entro con la ShinRa? –

- Quando finalmente mi dirai perché hai consegnato il diario a lui, anziché alla sua legittima proprietaria. -, risponde prontamente l’ex Tsviet, indicandomi con furia.

Vedo Reeve sospirare, amareggiato. Conosco quel comportamento. A quanto pare, ci sono parecchi segreti ancora da sviscerare. Dietro di me, avverto sopraggiungere Vincent, il quale richiama all’ordine con la sua consueta pacatezza.

- Finiamola. Abbiamo problemi più importanti di cui occuparci. –

Il Bianco grugnisce e, prima di andarsene, scocca uno sguardo ammonitore verso Reeve.

- Ti tengo d’occhio, scarto di ShinRa… -, sibila, puntandogli l’indice ammonitore al petto.

Appena l’ex leader di Deepground lascia la stanza, il moro si lascia scappare un brivido.

- Uff, non è gente facile con cui avere a che fare. -, commenta sconsolato, - Ma il loro aiuto è fondamentale per la WRO. –

- Reeve, -, faccio una pausa, durante la quale monopolizzo la sua attenzione, - cosa sta succedendo? Perché Takara se ne è andata? –

L’uomo sospira e si gratta il retro della testa, in visibile difficoltà; dopodiché mi si avvicina e mi fa cenno di seguirlo.

 

 

Appena la porta della sua cabina si chiude, vengo assaltato inaspettatamente dai miei compagni dell’AVALANCHE. Prima tra tutti, Yuffie.

- CLOOOOOOUD! FINALMENTE! ERAVAMO COSÍ PREOCCUPATI! –

La ninja mi salta al collo e, per poco non mi fa cadere, ondeggiando di qua e di là, come in preda a una crisi isterica. Cerco di liberarmi, ma ho bisogno di supporto, il quale arriva prontamente dal Capitano che la stacca da me con la decisione di un pescatore con un’ostica cozza.

- E lascialo in pace, mocciosa petulante! Non lo vedi che è debole come un poppante?! –

- Sei il solito bruto, vecchiaccio! -, rimbecca la principessa, dimenandosi dalla presa di Cid, con modi DECISAMENTE poco regali.

Nel frattempo, avanzano anche Barret e Red XIII.

- Sempre a invischiato in qualche casino, Spikey? Non riesci stare lontano dai guai nemmeno volendo.  –, rimprovera il capo di AVALANCHE con ben poco celato rimbecco, mentre di sferra una poderosa pacca sulla spalla con fare tra lo stizzito e l’amichevole, per poi aggiungere, - Anche se stavolta sei davvero in buona compagnia. -, rivolgendo uno sguardo accigliato nei confronti di Vincent.

- Felice di rivederti, Cloud. –, saluta, invece, Nanaki con la sua solita pacatezza e semplicità, sedendosi di fronte a me, sornione.

Io mi limito a rivolgere loro un sorriso sghembo e una grattata imbarazzata alla nuca.

- Ehi! Ma è vero che quel bastardo, psicopatico, ammazza-Wutai di Sephiroth ha avuto una figlia?! -, sbotta Yuffie, strillando dal fondo della stanza, approfittando di un piccolo punto debole nella presa del Capitano.

Imbarazzato, mi volgo alle mie spalle, dove Vincent staziona silenzioso e granitico, nella sua insondabile postura. Quando penso che non reagirà a quella sequela di insulti rivolti al figlio, egli sbotta con un sibilante e lapidario: - Taci, Yuffie. –

Il gelo avvolge la stanza. Tutti rimangono straniti dal comportamento così esposto del pistolero. Dagli sguardi attoniti, direi che nessuno capisce il motivo di quest’uscita. A quanto pare, il moro ha omesso qualche dettaglio della storia. A spazzare via la tensione, interviene Reeve.

-Ehm- ehm. Credo sia il caso che vi inizi a spiegare la situazione attuale. -, esordisce l’uomo schiarendosi la gola, - E, per la cronaca, sì, Yuffie. Avrei voluto che la conosceste, ma attualmente risulta scomparsa e, fondamentalmente, questo è il nostro problema. –

-Un momento-, interviene Cid, lasciando andare Yuffie e movendo un paio di passi in avanti, visibilmente confuso, - Io credevo che fosse una fesseria, invece, mi state dicendo che esiste DAVVERO un erede di Sephiroth? –

- E’ quello che diciamo da mezz’ora, vecchio bacucco! -, rimbecca la ninja, facendogli la lingua.

- Ascolta il tuo bello e chiudi la ciabatta, mocciosa! –

Un sorriso mi nasce sulle labbra. Dopo così tanto tempo, uno sprazzo di normalità. Non avrei mai creduto che tutto questo mi sarebbe mancato così tanto e di quanto prezioso sia anche solo un ridicolo battibecco fra amici sia. Non mi ero mai soffermato ad apprezzare questi piccoli momenti, di quanto bella sia la sensazione di essere circondato da persone che ti amano e che farebbero di tutto per te. Li osservo uno ad uno e una stretta allo stomaco mi tronca il respiro per un momento. Mi rendo conto che loro sono qui nonostante tutto. Nonostante il mio caratteraccio, nonostante i pericoli, nonostante il loro desiderio di tranquillità. I miei amici…

 

Gli ho sempre dati per scontati. Loro, c’erano sempre comunque per me.

 

Non ti hanno mai lasciato andare, Cloud.

 

Mi volto verso Tifa. Il suo sguardo corrucciato è adorabile, mentre osserva angustiata lo sciocco diverbio tra Cid e la Principessa di Wutai. Ad un certo punto, lei sembra avvertire la mia attenzione su di sé e rivolge i suoi occhi nella mia direzione. Appena ci guardiamo, il suo volto s’illumina con un rassicurante sorriso.

 

Nemmeno Tifa lo ha mai fatto, sebbene le avessi dato tutte le ragioni del mondo.

 

Ti ama davvero.

 

Ci meritiamo tutto questo?

 

Che domanda stupida, Cloud…

 

Trattengo una risata, ma una domanda sorge spontanea.

 

Cosa ti ha tenuto insieme in questi anni?

 

Il silenzio cade nella mia mente, ma non è vuoto. L’immagine del Generale intento a ponderare la domanda s’imprime nei miei pensieri.

 

Sono morto così giovane, Cloud… Mi rendo conto solo ora di quanto presto la mia vita è finita. Quando Jenova mi ha accolto, ho creduto di avere una seconda possibilità, ma quando mi ha usato per mettere a ferro e fuoco l’intero Pianeta, ho capito che non era quello che volevo… Ma era troppo tardi. Ero intrappolato in un limbo infinito, con le grinfie di Jenova chiuse attorno alla mia anima, senza uscita, senza più possibilità di scampo. Ho creduto di arrendermi e credo di averlo fatto ad un certo punto; ciononostante non sono riuscito ad accettare di rimanere impassibile quando ho visto in quale baratro ti stavi infilando per inseguire ciò che ti ossessionava. Ho rivisto me stesso in te. In coscienza, non potevo permetterlo. Sei l’uomo che mi ha ucciso. Te lo dovevo.

 

Hai uno strano modo per mostrare la gratitudine.

 

La tipica risata contenuta del Generale riecheggia nella mente. Avverto il cuore stringersi in una morsa di orgoglio, appena mi rendo conto di quanto spontanea e sincera quell’ilarità sia. Una risata che solo pochi hanno avuto il privilegio di ascoltare e di scatenare.

- Cloud? Ci sei? –

Vengo riscosso dall’ alienazione grazie alla voce rassicurante di Tifa, il cui tocco dolce e delicato si posa soave sulla mia spalla. Guardo lei e poi spazio il gruppo di fronte a me, di cui senti gli occhi studiarmi preoccupati.

- Non temere, Tifa. E’ normale. Pare che Sephiroth sia un ottimo intrattenitore. -, spiega Vincent divertito.

Ora la preoccupazione dei miei amici si trasforma in sgomento, dopo la frecciata del pistolero.

- Lo avverti ancora? -, chiede Tifa, apprensiva.

- Non credo se ne sia mai andato, direi. -, poi mi sento di aggiungere rapidamente, rivolgendomi a tutti, - Ma, non temete, è tutto sotto controllo. Lui… non ha cattive intenzioni. Stavolta. –

Le mie assicurazioni non danno l’effetto sperato, tuttavia. Ci sono varie reazioni negli occhi dei miei compagni, ma vedo per lo più delusione. Per loro, io sono sempre stato il più strenuo oppositore contro qualunque cosa spuntasse fuori dai viscidi abissi jenoviani, in particolare il mio mortale nemico. Sentirmi ora, difenderlo ed etichettalo un nostro alleato, deve sembrare così strano alle loro orecchie. Il mio sguardo si posa su Yuffie, dalla quale arriva il biasimo più mordace. Oltre me e Tifa, lei è un’altra ad avere un conto in sospeso col Generale. In Wutai, lui è ancora considerato un nemico della patria, nonostante siano passati anni dalla guerra.

- Yuffie… -, esordisco, accorato.

- Sì, lo so.-, m’interrompe alzando le mani, - Vincent ce lo ha spiegato. Però… mi è difficile crederlo. Come mi è difficile credere che davvero quel mostro amasse il mio Paese. -, ammette la principessa, distogliendo lo sguardo dal mio e rivolgendolo verso l’oblò. Studio per un lungo istante il suo viso. Non credo di averla vista mai così triste. Le ferite della guerra sono più profonde di quanto la fiera e patriottica Yuffie possa mai ammettere con se stessa. Guarda l’esterno, conscia di stare sorvolando la sua beneamata terra; quella terra su cui è stato versato tanto, tantissimo sangue. Il tutto per cosa? Per qualche reattore mako…

- Il vero nemico del mondo è sempre stata la ShinRa… -, dichiaro.

Lei ricambia il sorriso mesto che le rivolgo, inarcando appena le labbra all’insù, e mi rivolge uno sguardo fiducioso.

- D’accordo, voglio fidarmi, Cloud. In fondo, hai sempre fatto la scelta giusta. Inoltre, ci siamo affannati così tanto per trovarti e sarebbe da scemi completi (insomma come Cid) abbandonarti nel bel mezzo di una missione. -, dichiara, infine, la principessa sorridente, scoccandomi un’ammiccante occhiata d’intesa.

- Per una volta, mocciosa, hai detto una cosa sensata e per questo passerò sopra al fatto che mi hai dato dello scemo. -, interviene Cid, scoccando un’occhiataccia alla ninja, per poi rivolgermi verso di me, - Anche perché ti dobbiamo riportare a casa per darti dei bei calci in c@7o per quello che ci fai sempre passare! –

Lascio scappare uno sbuffo divertito.

- Severo, ma giusto, Cid. –

Abbasso poi lo sguardo verso Nanaki, il quale mi scruta con quei suoi ancestrali occhi dalle sfumature del fuoco.

- Quando si tratta di Sephiroth, non ci sono Numi che tengano. Sei la sua nemesi, l’unico in grado di annullarlo. E, a quanto pare, di comprenderlo meglio di chiunque altro. -, analizza l’animale, - Te… e Vincent. -, aggiunge volgendo il suo sguardo eloquente verso quest’ultimo.

Annuisco sorridendogli per poi volgere la mia attenzione verso l’ultimo rimasto: Barret. L’omone è rimasto in silenzio ad ascoltare, ad osservare, a valutare. La sua espressione impassibile mi mette in agitazione. O meglio, agita Sephiroth. Il nord-coreliano è sempre stato il più fervente avversario della ShinRa, raccogliendo di buon grado l’eredità dei suoi predecessori e potare avanti gli ideali ambientalisti dell’AVALANCHE. Ideali in pieno contrasto con la concezione di SOLDIER, ma dai modi molto simili. Quante volte si è visto affrontare ondate di agenti d’élite dai letalissimi intenti. Ma, appena l’uomo-mitragliatrice parla mi rendo conto che i suoi pensieri sono concentrati su una sola persona.

- Io mi rivolgo a te, Sephiroth. -, esordisce, mettendo il Generale sull’attenti, - Da padre, capirai bene che io farò di tutto per proteggere mia figlia. E quando dico di tutto, intendo di tutto. -, l’uomo-mitragliatrice s’interrompe rivolgendoci un lungo, severo, ma soprattutto, determinato sguardo, - Sei stato avvertito. –

La minaccia sibilata dal capo dell’AVALANCHE mi toglie il fiato e sorridere comprensivo il Generale. Capisce quell’intento, oh, Esper, se lo capisce. E’ stato il centro della sua intera, travagliata, avventura. Mi sento messo da parte appena mi rendo conto di non subire lo sguardo di Barret, ma bensì di scambiarlo. L’intesa è suggellata, l’accordo è stretto. Mi rendo conto che i due non sono poi così diversi. Hanno entrambi quella grinta, quella determinazione, quello spirito di sacrificio degne dei grandi comandanti. O dei padri più amorevoli. Entrambi così dediti alle rispettive famiglie… entrambi pronti a gettarsi nelle fiamme dell’inferno per loro.

Alla fine, egli usa il mio corpo per annuire solennemente. Barret assente di rimando, secco, con la sua solita genuinità.

Avverto un’ondata di ottimismo invadermi da cima a piedi. Credo che il Generale abbia allentato la tensione che gravava sul cuore, intimorito dalla prospettiva che il suo grido di aiuto non venisse per l’ennesima volta ascoltato.

Non sei più solo…

- Bene, sono contento che abbiate accettato l’inusuale situazione. -, s’intromette Reeve, gioviale, - Purtroppo, il tempo a nostra disposizione sta rapidamente scadendo, - continua rabbuiandosi –

- La Shinra…? -, tento, titubante, ma dentro di me conosco perfettamente la risposta.

- Oh no… molto peggio. -, l’ex-direttore ci rivolge uno sguardo spaventato, - Jenova ha trovato Takara. Entrando in contatto con te, Cloud, la nostra ragazza è entrata in contatto con quel mostro. Nessuno sa esattamente cosa sia successo. Sappiamo soltanto che probabilmente è stata impossessata da un’idea che non ha saputo sopprimere. Non stavolta. Credo che voglia aiutare i suoi genitori, però… -, un brivido di paura lo scuote da capo a piedi, troncando il discorso, - La Calamità farà di tutto per corrompere la sua anima e poter finalmente sbilanciare la guerra a suo favore. Takara è il Dono della Dea che tanto cita LOVELESS. Una creatura nata dalla fusione della progenie umana delle razze Cetra e astrale, il cui compito sarebbe quello di riportare queste due grandi forze in equilibrio. Una sorta di arbitro… -, s’interrompe, sospirando profondamente, - Se il suo giudizio venisse offuscato da sentimenti di vendetta? Se Jenova dovesse convincerla che la causa di tutti i suoi mali sono gli esseri umani? Noi, coloro i quali le hanno portato via i genitori, imprigionata, gettato questo mondo nel caos? –

Un silenzio attonito avvolge la stanza, mentre Reeve, che ormai ha perso la sua proverbiale bonarietà, si massaggia la fronte con la destra, come per scacciare via quel disturbante pensiero.

- Per anni -, ricomincia, - ci siamo presi cura di lei, istruendola sul suo passato, sul mondo, sulla sua natura; affinché non rimanesse all’oscuro di nulla. Sapete, per evitare un altro Sephiroth. -, mi scocca un’occhiata e poi sospira mestamente, - Genesis è quello che più si è legato a quella bambina. Credevo che i suoi sensi di colpa avrebbero fatto in modo di spingerlo verso la redenzione. Invece, ho scoperto che lui ha taciuto parecchi segreti sia a Takara che al resto di noi. Per esempio, il diario… Sai chi fu a portarlo via da Nibelheim, il giorno dell’incidente? –

Rimango in silenzio e ricambio lo sguardo eloquente di Reeve, realizzando di non esserne stupito affatto. In effetti, sospettavo che Genesis avesse tenuto d’occhio Sephiroth, fin da dopo l’efferato omicidio della moglie; in attesa del momento propizio per assestare alla sua deragliata mente il colpo di grazia.

- Come è arrivato il diario a te, allora? –, chiedo, dopo un momenti di riflessione.

- E’ una storia complicata, in effetti. Dovresti chiederlo a lui, anche perché nemmeno io sono al corrente di tutti i passaggi. Quello che so è che è riuscito a tenerlo nascosto per parecchio tempo. –

- E’ ancora vivo? -, chiedo, stupito.

Il moro sospira e si passa la mano sul mento, indugiando sul pizzetto ben delineato, scuotendo la testa di lato: - Diciamo di sì, anche se il processo di degradazione sta avanzando esponenzialmente, sia a causa delle ferite che alla mancanza di un novello afflusso di sangue S.-, s’interrompe e abbassa la testa, mesto, - Non gli rimane molto da vivere. –, conclude con un sospiro.

Un’altra morsa allo stomaco mi tortura le viscere. E una strana, incombente, definitiva realizzazione di una dipartita troppo prossima da sopportare avvolge ogni singola cellula di me. Mi rendo conto che, Sephiroth prova ancora un forte sentimento di amicizia nei confronti del vecchio compagno, seppellito sotto uno profondo strato di odio, rabbia e rancore; ma che, di fronte alla concreta realtà, è riemersa come una deflagrazione. Come mi ha confessato il Generale, infatti, egli recrimina il fatto di non averlo salvato, di non essere stato in grado di accogliere quel suo disperato grido di aiuto. Ma più di tutti, non si riesce a perdonare se stesso. E maledice con tutta l’anima quel giorno nella Sala Addestramenti.

 

I want you beg for forgiveness

[Chiedi perdono. Sephiroth, FFVII:ACC]

 

Devi parlargli…

 

L’ordine del Generale arriva perentorio alle mie orecchie. Quasi… disperato. Avverto il suo dolore, il suo soverchiante dispiacere. Avverto impellente la sua volontà di alleggerire l’anima dell’amico morente, perché SA che non vi sarà un luogo pronto ad ospitarla.

- Reeve-, evoco, - ho bisogno di parlare con Genesis, prima che sia troppo tardi-, poi mi affretto ad aggiungere, - Magari sa qualcosa su dove potrebbe essersi diretta Takara. –

- Non credo. -, risponde il diretto interessato, - Abbiamo provato ad interrogarlo, ma è davvero troppo debole. Inoltre, non credo nemmeno voglia rivelarci alcunché. –

 

Insisti.

 

- Magari non vuole rivelare niente a voi. -, dichiaro per poi apporre la mano sul petto, - Ma forse a Sephiroth sì. –

Lascio che la frase sfumi e dia l’effetto sperato. Reeve mi osserva studioso e giochicchia con ciocche della barba, ponderando la proposta. Dopodiché, annuisce e mi fa cenno di seguirlo.

 

 

La cabina è semivuota, eccenzion fatta per la branda spartana, un respiratore, apposto ai piedi del letto contro la parete alle spalle di esso, e un comodino su cui sono allineati strumenti operatori e garze pulite. Le paratie metalliche sono fredde, amplificando la gelida sensazione della morte imminente. Un minuscolo oblò è l’unica fonte di luce della stanza, ma getta una tagliente ombra obliqua sul viso sofferente dell’uomo al di sotto dello stesso. La maschera del respiratore copre quasi totalmente le sue fattezze, ma è possibile notare leggere contrazioni smuovere le ombre cadute sulla sua pelle desquamata. Perle di sudore e gemiti soffocati svelano la profonda sofferenza e la strenua battaglia combattuta dall’ex Comandante. Una battaglia, l’ennesima, cui è destinato a perdere. Faccio spaziare l’attenzione sul suo corpo, dove il petto magro e ricoperto di garze zuppe di sangue spunta fuori dalla pesante coperta. Il respiro è affannoso, impellente…affamato. Sembra che l’ossigeno erogato non tenga il passo dell’ingente degradazione e la conseguente copiosa emorragia. Una flebile e soffocato fischio esce dalle sue labbra semi dischiuse, mentre vorace cerca di introiettare più aria che può.

Eppure, nonostante le gravissime condizioni, egli mi fissa con quei baluginanti occhi di mako blu, unico accenno di vitalità in un altrimenti corpo morente. Non v’è né superbia, né rancore, né arroganza in quelle iridi. Tutto quello che era stato Genesis in vita è scomparso, lasciando posto a quella parte più fragile e profonda di sé: quella impaurita e schiacciata da una colpa così grande da sopportare per un solo minuto di più. Mi guarda rassegnato, sconfitto e… stanco.

E’ uno sguardo che conosco bene, visto nei ricordi di Sephiroth, che perfino il Generale ha vissuto in prima persona.

Rimaniamo per minuti infiniti a fissarci reciprocamente, nel tentativo di ritrovare quell’intesa, quella complicità dispersa chissà dove nei recessi di questi animi corrotti; finché un rauco articolato giunge alle mie orecchie.

-Sephiroth… -

A malapena riesco a comprendere il significato di quel suono. Se i miei sensi non fossero stati potenziati dagli esperimenti di Hojo, non credo che sarei in grado di sentirlo.

Come immaginavo, Genesis sembra essere capace di percepire il suo commilitone, o almeno ha intuito che attraverso me, lui gli può parlare. Mi avvicino al lato del letto e mi inginocchio al suo livello, così che mi possa guardare più agevolmente in faccia. Il sudore ha imperlato ulteriormente la sua pelle, a causa dell’enorme sforzo impresso per voltare la testa di qualche grado verso l’alto. Un movimento minimo, ma, nelle sue condizioni, disumano. Mi stringe il cuore nel vederlo in quello stato, in totale contrasto con il ricordo della sua fulgida potenza, puntualmente propinato da Sephiroth stesso. Automaticamente, senza nemmeno che me ne renda conto, la mia mano sinistra va a stringersi attorno a quella di Genesis, abbandonata sul panno che lo ricopre. La sua pelle è ruvida, scagliosa, coriacea, sembra quasi sull’orlo di spezzarsi al minimo strofinio. Piccoli tagli, infatti, si aprono rapidamente, lì dove la mia morsa si è accanita con più veemenza. Preso dal panico, cerco di abbandonare il palmo, ma una debole, debolissima, resistenza mi trattiene. Guardo Genesis, osservarmi con uno sguardo enigmatico.

- Sephiroth… -

Il rauco si è trasformato in guaito strozzato, poiché la sua voce è stata rotta da lacrime amare, che stanno abbandonando gli occhi del SOLDIER.

Stringo la mandibola, per reprimere l’ennesimo colpo al cuore.

- Ti ascolta. -, rispondo, rivolgendogli l’espressione più morbida possibile.

- Io…-, un respiro sibilante, - non ti ho…-, un altro sibilo,- mai…-, egli prende un respiro lunghissimo, emettendo un lungo fischio,- chiesto… -, il petto si alza ed abbassa ad un ritmo impressionante, - Scusa...-

Esausto, si rilassa contro il materasso, emettendo un lungo, lugubre sospiro.

Anche se coperto dalla mascherina, è possibile apprezzare la sua espressione totalmente, ineluttabilmente contrita, rotta da un pianto incontrollabile, figlio di una paura ancora più viscerale. Sa che sta per morire, sa di aver sprecato ogni occasione di redenzione che gli si è presentata. Takara se ne è andata, abbandonandolo sul suo letto di morte. E’ solo. I suoi amici lo hanno maledetto anni prima, augurandogli una lenta dolorosa morte, come scotto per i crimini commessi. Crimini che nessuno sembra essere disposto a perdonargli. Come potrebbero? Lui è un mostro senz’anima, senza cuore, senza pietà. Ha ucciso tante persone. Ha ucciso i suoi commilitoni. I suoi genitori. La madre della sua figlioccia. La moglie del suo idolo. Del suo rivale … Del suo migliore amico…

E per cosa?

Per… per…

Niente…

A nulla sono valsi i suoi sacrifici.

La sua Dea non l’ha voluto.

Il suo prezioso dono non l’ha voluto.

Il Lifestream non lo vorrà.

Morirà senza nulla, senza che nessuno si ricordi di lui.

Ha lasciato il buio e le fiamme dietro di sé.

Senza passato, senza futuro.

Nulla di lui resterà.

Piange, disperato, conscio dell’incubo che presto lo coglierà.

Di quella reminiscenza di amico che sembra divorarlo con l’attesa di un responso. O distruggerlo col suo silenzio.

In fondo, cosa gli disse l’ultima volta che s’incontrarono?

 

You’ll rot

[Tu marcirai, Sephiroth, FFVII:CC]

 

A ragione… Gli aveva portato via tutto. Era la causa maxima della sofferenza dell’altro. Della disperazione di una figlia privata della madre e costretta a vivere lontano dal padre. O impaurita da esso. Difficilmente può dimenticare l’espressione della bambina, osservare agghiacciata la terribile palla di fuoco infiammare il cielo senza pietà.

Cosa aveva fatto?

Lui aveva portato quell’uomo sulla strada intrapresa. Una strada che egli aveva cercato di evitare tutta la vita. Lo sapeva… Eppure, ce lo ha guidato senza un briciolo di rancore.

Senza pensare alle conseguenze.

In fondo, sei sempre stato così, Genesis.

Hanno provato tante volte a cambiarti, ma non ci sono mai riusciti; anzi sono sempre stati gli altri a cambiare per te. Ma il Pianeta non segue le tue regole.

Tu odiavi le regole. Le sfidavi con tutta la tua forza, eppure sei arrivato a un punto, dove certe regole non potevano essere infrante, altrimenti il costo sarebbe stato troppo alto.

Oh, ma tu l’hai pagato quel conto… Oh, se l’hai pagato!

Il prezzo della libertà. O presunta tale…

Nessuna fanfara di gloria per te, angelo caduto… Solo silenzio, disprezzo e solitudine.

E ora, nei tuoi ultimi istanti, piangi dolente, incapace di respirare, incapace di far valere le tue ragioni.

La tua ultima occasione…

- Even if the future is barren of promises, nothing shall forestall my return. [Anche se il futuro è arido di promesse. Niente ostacolerà il mio ritorno. Atto III, LOVELESS] -.

La voce di Sephiroth soppianta la mia, mentre egli accompagna quelle parole fuori dalle mie labbra. Quella frase che per il rosso è sempre stata caricata di scherno ed arroganza, ora, dalla voce calma e pacifica del Generale, risuona in modo totalmente differente. C’è una sottintesa aura rassicurante che accarezza ogni singola sillaba, simile a quella usata da un padre che cerca di confortare il proprio spaventato figliolo. Come volevasi dimostrare, il Comandante rilascia la tensione dei muscoli e sprofonda tra le coltri morbide ed accoglienti del suo capezzale. Le palpebre si serrano, rilassate, per un momento, mentre un profondo e lungo sospiro sibila attraverso la mascherina. Quando le risolleva, quella luce spaventata e colpevole è totalmente sparita dai suoi occhi; soppiantata da uno sguardo pieno di riconoscenza. Un flebile sorriso viene appena intraveduto spiccare al di sotto della plastica semi-trasparente, contemporaneamente i lineamenti del banoriano vengono definitivamente distesi, in un’espressione di pura pace. Sephiroth risponde, inducendo i lati delle mie labbra a sollevarsi appena, in un sincero arco di compassione. I due amici si sono riappacificati, stavolta per davvero, senza rabbia e rancore, senza alieni e morte. Solo loro. Due uomini, due soldati, due amici.

Le forze di Genesis iniziano a venire a meno, come dimostra la difficoltà di questi a continuare a sostenere il nostro sguardo. Le palpebre si fanno pesanti, gli occhi si velano, il respiro si fa sempre più affannoso.

Avverto la mia mano sinistra venire stretta con più veemenza a quella dell’altro, in un guizzo deciso e rassicurante. Debolmente, il rosso risponde, avvolgendo le sue decadenti dita attorno le mie, con una forza inaspettata. Disperata. Sephiroth capisce quell’infido terrore che si avviluppa in ogni cellula; così come quella disarmante e ineluttabile realizzazione. E’ una sensazione disarmante, invalicabile, al di là di ogni comprensione. Soprattutto, per loro. Sono dei reietti il cui posto sul Pianeta non era stato nemmeno concepito; così come non esiste un aldilà pronta ad accoglierli, ma solo un vuoto, infinito, solitario limbo. Fa paura, ma, con quel guizzo, Sephiroth imprime al compagno un messaggio ben preciso: la loro agonia non durerà ancora a lungo e, forse, ad aspettarli ci sarà un radioso futuro…

Lo sguardo vacuo del Comandante si è fissato al soffitto, dove le ombre svolazzano e ondeggiano, ogni qualvolta una nuvola passa davanti alla luce sanguigna del giorno morente. Il ritmo respiratorio è calato drasticamente. Ma, poco prima di andarsene, immagini e visioni rapide invadono la mia mente. Dapprima, d’istinto, combatto contro quell’assalto inaspettato, ma la voce rotta del Generale si eleva contro la mia resistenza.

-Lascialo entrare… -

 

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-Il tuo corpo si sta avviando verso un procedimento di decadimento tissutale che noi chiamiamo ‘degradazione’. Il mako penetrato nel tuo corpo sta inducendo le tue cellule ad avviare una sorta di apoptosi indotta che… –

Smetto di ascoltare. Mi sento uno stupido. Non capisco una singola parola proferita da quell’uomo. Di solito, sono un tipo sveglio e anni passati a leggere romanzi epici dai termini altisonanti e arcaici hanno sortito l’effetto di armarmi di un linguaggio forbito ed articolato. E allora, perché non riesco a capire una sola dannata parola di quella frase, dal suono così simile a una condanna? Forse la troppa perdita di sangue ha annebbiato le mie abilità o la vicinanza a quel sempliciotto di Angeal ha irrimediabilmente compromesso le mie facoltà mentali. Il pensiero sciocco non sortisce l’effetto sperato e permango immobile e fissare il professore con aria assente.

- Hai capito, Genesis, quello che voglio dire? –

NO, MALEDIZIONE! Avverto la rabbia esplodere nel petto, ma ha solo l’effetto di spossarmi ancora di più. La testa mi gira avverto il sudore imperlare la fronte e il respiro annasparsi.

- Non ti sforzare. Ancora non ti sei ripreso. Ci vorranno altre trasfusioni prima di riuscire ad alzarti ancora. –

Assottiglio gli occhi, mentre quella frase mi colpisce dritto nell’orgoglio. Sono così schifosamente debole… e per di più, devo pure dipendere da loro… Chissà quanto se la stia ridendo Sephiroth per avermi ridotto in questo stato.

- Quando potrò farlo allora? Non ne posso più di stare sdraiato qui… –

La frase mi esce dalle labbra di getto, rivelando una voce meno vibrante e incisiva del normale. Il cuore perde un battito, mentre mi porto la mano alla gola.

- Il processo di degradazione riguarderà ogni aspetto della tua vita. E’ inesorabile. Tutto quello che possiamo fare è rallentarlo con trasfusioni e cure adatte. Per un po’, almeno. –

Questo l’ho capito. Ora il cuore si ferma veramente. Un groppo ha strinto la mia gola, rendendo il respiro ancora più difficoltoso. Mio malgrado, cerco di deglutire.

- Volete dire… che …morirò? –

Il professor Hollander si volta verso di me e mi guarda veramente da quando è entrato nella stanza. Con occhi spietati e distanti, mi fissa a lungo. Fatico ad individuare l’emozione che dà vita alla sua espressione truce e congestionata.

- Sì. –

Un brivido mi attraversa la schiena dall’alto in basso. Rimango gelato come una statua di marmo a fissare quell’uomo, chiedendogli disperatamente aiuto. Ma nulla arriva da lui, solo silenzio, spietatezza e… biasimo. Ecco, cos’era… biasimo.

 

 

- Ci dovevi essere, Genesis! Non credo di aver mai visto il Presidente così incazzato! Ahahahahahah! –

Angeal per poco non si ribalta dalla sedia e Sephiroth, dal canto suo, allarga appena un po’ di più il suo ghigno, sempre in modo odiosamente pacato. Non si sbilancia mai, lui. Nonostante tutti i miei sforzi, non sono mai riuscito a capire cosa lo porta a trattenersi così tanto, a non lasciarsi andare. E’ un mistero che rimarrà tale, temo. Il pensiero mi rabbuia appena un momento, ma abbastanza a lungo da permettere a Sephiroth di accorgersene. Ovviamente.

- Gen. Tutto bene? -

Ricaccio indietro il languore e sfodero la maschera più insolente presente nel mio repertorio.

- Ovviamente sì. Presto potrò calcare di nuovo la ribalta e mi riprenderò l’agognata rivincita. Non credere che quella scaramuccia dell’altro giorno me la sia scordata! –

I nostri sguardi s’incatenano l’uno all’altro, ma per un istante tragicamente breve. Sephiroth, infatti, sembra quasi trattenere il respiro, mentre i suoi occhi rifuggono i miei, ricolmi di senso di colpa.

- Io e te non ci sfideremo più. -, sentenzia alla fine.

- E questo cosa vorrebbe dire? –

L’onta subita mi accende all’istante, tant’è che l’impulso di afferrargli il bavero e scuoterlo diventa preponderante. Mi abbandono all’istinto, ma la realtà mi ricorda che certi colpi di testa sono ormai al di fuori della mia portata. Un forte giramento di testa. Nausea. Spossatezza. I sintomi del degrado… Il richiamo della morte. Crollo a metà del gesto, col sudore freddo che s’infila fin dentro i pori della pelle. Rabbrividisco da capo a piedi e le forze vengono a meno. La mano scivola dalla presa sul bordo del letto e mi sento cadere, oltre che svenire. I fumi dell’incoscienza alterano i miei sensi, trasformando il pavimento in un famelico, profondo, spaventoso abisso. Il senso di vuoto mi artiglia lo stomaco già in subbuglio e per poco non ne rigetto tutto il contenuto. Mi sbilancio troppo in avanti e troppo velocemente, la pressione sanguigna crolla e il buio mi fa affacciare un attimo nell’incoscienza. Un unico, allucinante attimo. Flash sconclusionati e incomprensibili di eventi confusi e incerti, voci distorte, per lo più urla, sapore e odore di sangue e fumo. Le mie mani intrise di liquido rosso brillante, come quello che corona il corpo di una donna stesa sul pavimento. Non riesco a carpirne i dettagli, poiché la mia attenzione viene attirata su un’altra figura che si staglia sull’uscio infiammato, viso rivolto verso l’inferno di fiamme che impazza all’esterno. Il dettaglio che mi attira sono i lunghi capelli svolazzanti che le cingono le spalle strette e il fisico longilineo. Il movimento voluttuoso di quelle chiome mi ricorda Sephiroth, ma il fisico fin troppo minuto mi suggerisce che si tratta di un’altra persona, ma molto affine a lui. La conferma mi viene data nell’istante dopo, quando ella si gira. E’ una ragazza giovane e bellissima. Non rimembro di averla mai incontrata, ma sento di conoscerla; tant’è che mi ferisce il modo in cui quegli occhi di mako gelido mi trafiggono con rabbia e la sua congestionata espressione di furia. Non riesco a sostenere quello sguardo, sentendomi sporco, sbagliato. Un inutile, gretto, miserabile scarto di uomo. Ella alza il dito accusatore nella mia direzione. Mi sento impotente di fronte a lei e mi rendo conto di aver perso ogni volontà di combattere. Non contro di lei… Io lo merito. Merito il castigo che sta per calare sulla mia testa, più spietata della mannaia di un boia. Da quella ragazza… quella ragazza a cui ho fatto un torto così grave. A quella ragazza innocente… Dove l’ho già vista?

- Genesis… -

Evoca il mio nome. Io non ho il coraggio di guardarla…

-Genesis… -

Mi chiama ancora… Non posso…

- Guardami…-

Esito, ma non posso fare a meno di eseguire quell’ordine.

Appena alzo lo sguardo, il viso della ragazza trasfigura in quello di Sephiroth, combaciando perfettamente.

- Genesis! –, chiama il Generale con tono angosciato.

Rimango qualche secondo a fissarlo, confuso. Quella ragazza così simile a lui…

Egli mi scuote e mi accorgo che i miei due amici mi stanno entrambi sostenendo a mezz’aria. Sui loro visi è dipinta genuina preoccupazione. Il mio stordimento è passato e mi rendo conto dell’insopportabile situazione di debolezza in cui mi trovo. Con stizza, faccio leva sul braccio di Sephiroth e mi spingo all’indietro, ricadendo sul letto. Sono esausto, ma la paura di mostrare la mia debolezza richiama forze residue.

- Colpa di queste dannate flebo. Mi hanno bloccato a metà del gesto… -, mi giustifico rapidamente, fingendo di esaminare le condizioni degli aghi infilati nella pelle.

- Certo. Le flebo… -, commenta Sephiroth, acido.

-Sephiroth… -, lo redarguisce Angeal.

L’ammonimento del mio vecchio amico cade nel vuoto, scontrandosi contro il disinteresse del Generale. O per meglio dire, eccessivo interesse.

- Perché tutto questo mistero? Perché non ci dici le cose come stanno? Perché ci tagli fuori? –

-Uh, da che pulpito… -, ribatto, caustico, voltandomi verso di lui.

- Non cambiare argomento… -, minaccia, bisbigliando pericolosamente.

- Frustante, nevvero? Sentire che c’è qualcosa di sbagliato, ma ricevere soltanto silenzio, o resistenza. -, mi piego infidamente in avanti, rivolgendogli un sorriso beffardo, - Ora sai come mi sento… -, concludo, mimando il suo tono sibilante.

Lo vedo irrigidirsi da capo a piedi e stringere i pugni così forte che se non avesse i guanti probabilmente si ferirebbe i palmi. Mi fissa come un predatore farebbe con la preda designata e so che la sua mente gli sta già urlando di tirarmi un pugno in pieno viso. Ma so che non lo farà. Il suo autocontrollo è enorme almeno quanto il mio ego. Anche se in questo momento, un cazzotto ben assestato per mettere fine alle mie sofferenze lo gradirei…

Desiderare di morire, mentre LEI mi giudica…

 

 

La bambina non fa altro che fissarmi incessantemente da quando ci siamo seduti per mangiare. Nemmeno per guardare il cibo ha mai distolto lo sguardo dalla mia figura. Non che mi infastidisca stare al centro dell’attenzione, ma avere quei fari in particolare puntati addosso mi fa sentire giudicato fin dentro il profondo. Per quanto ci stia provando, proprio non riesco ad ignorare la sensazione che sia Sephiroth stesso o sua moglie a guadarmi in questo momento. O meglio a giudicarmi. Con biasimo e disprezzo, probabilmente. Quegli occhi sono la sintesi perfetta tra tratti Cetra e Jenova. E’ sorprendente quanto LEI e LORO si siano armonizzati per dar vita a un essere totalmente nuovo. La definirei quasi la prima di una nuova razza di umano… Chissà che farebbe un certo scienziato di mia conoscenza se ce l’avesse tra le mani.

Un brivido di raccapriccio mi scuote da capo a piedi.

Combattendo contro l’insistenza di quegli occhi, mi alzo e inizio a raccogliere i rimasugli della nostra cena, per poi iniziare a prepararle il sacco. La piccola, naturalmente, non si fa sfuggire nemmeno una mossa del mio operato. Mi mette terribilmente in soggezione il modo in cui mi studia, instancabile, nonostante l’ora della buonanotte sia passata da un pezzo. Inoltre m’inquieta il fatto che non si lamenti mai. L’ho rapita in piena notte da quella specie di orfanotrofio, in cui Lazard l’aveva scaricata, l’ho portata nel bel mezzo del bosco, al buio, con mostri in ogni angolo; eppure non ha mai emesso una singola parola di obiezione, nemmeno un flebile lamento. Se ne sta qua accanto a me a fissarmi, apparentemente tranquilla. Non so nemmeno se comprende la situazione che sta vivendo. Sospiro e mi passo la mano fra i capelli, mentre inizio a srotolare il suo sacco a pelo.

E’ una cosina così piccola….

Poco più di un anno e già conosce così tanta sofferenza… Causata da me… Stringo con rabbia la stoffa, mentre il senso di colpa torna di nuovo a tormentarmi. Con un grugnito di stizza, mi dico di smetterla di indulgere in questi scrupoli. Ne va del destino di tutti noi, mi ripeto per l’ennesima volta.

Perso nelle mie elucubrazioni, non mi accorgo che la bambina si è avvicinata a me. Per poco non mi prende un colpo, quando entra nel mio campo visivo.

- Wow, mi ha spaventato, piccola. –, esclamo, cercando di dare alle mie parole un’inflessione il più possibile rassicurante, ma non mi sfugge sicuramente qualche nota infastidita.

Non ci ha mai saputo fare con i bambini…

Dal canto suo, lei continua a studiarmi, chiusa nel suo innaturale silenzio, con la testa leggermente inclinata di lato e l’espressione concentrata.

Sviando il suo sguardo per l’ennesima volta, roteo gli occhi, amareggiato, e le chiedo, attingendo a quella dimenticata memoria che ho del wutaniano:

- Cosa c’è? –

La mia espressione è venuta fuori più truce di quanto volessi, ma quel suo comportamento mi sta davvero dando i nervi. Non ne posso più di questo tribunale. E il senso di colpa mi sta letteralmente rivoltando lo stomaco.

Senza rispondermi, fa sbucare, fuori dalla coperta che tiene sulle spalle, una manina minuscola e la allunga nella direzione del mio viso. Le ditina sono protese nella mia direzione, tremolanti e incerte. Sorpreso, permango immobile, osservandola confuso. Il calore della sua mano sembra un balsamo per la mia pelle degradata. Per quanto lo desideri non mi è più possibile rifuggire quegli occhi, i quali mi osservano con un’intensità tale da renderli magnetici. Lei si avvicina ulteriormente, facendo cadere la coperta dalla spalle, ma non se ne cura. E’ talmente concentrata ad analizzare ogni singolo dettaglio del mio viso da non considerare null’altro che esuli da quel preciso intento. Improvvisamente, sembra che una folgorazione la colpisca e si apre in un dolcissimo sorriso.

Ogni mio dubbio svanisce appena lei dà fiato alla sua conclusione. E il sangue mi si gela nelle vene.

- Papà! –

 

 

-Genesis…? –

- Mh…? –, rispondo distrattamente, intento ad affilare il filo della mia cara vecchia Rapier, unica, inseparabile compagna di vita.

- Mio padre avrebbe voluto che imparassi a combattere? –

Mi blocco a metà del gesto e volgo l’attenzione su di lei. Sta colpendo i fili d’erba con la sua spada di legno, mentre ciondola in giro. Non mi sta guardando, ma so che sta aspettando. Fa sempre tante domande su suo padre. Sembra che le mie risposte non siano mai abbastanza. Mi si stringe lo stomaco al pensiero di quanto si senti sola, per quanto, comunque, non lo dia a vedere. Come Sephiroth. Mi scappa uno sbuffo malinconico, generato dal tenero ricordo della miriade di scontri nati tra noi proprio su quel punto. Tanto tempo fa… Il languore, tuttavia, non raggiunge il mio viso e, ritornando alle mie mansioni, liquido la domanda della ragazza con un’alzata di spalle e una risposta sbrigativa.

- Non credo… -

- Oh… -

Alzo di nuovo l’attenzione su di lei e vedo che si rigira la spada di legno fra le dita con l’espressione corrucciata e lo sguardo basso.

- DEVI imparare a difenderti. Per quanto l’idea non gli sarebbe piaciuta, anche lui avrebbe convenuto con me… -

- Se lui avesse convenuto, non ci sarebbe nemmeno stato bisogno di insegnarmi a combattere… -, ribatte lei.

Le rivolgo uno sguardo ammonitore, il quale s’infrange contro un’espressione determinata e pretenziosa.

Rilascio il fiato e scuoto la testa, sconsolato.

- Già, ma lui non c’è. –, ribatto con tono lugubre.

Permaniamo in silenzio per qualche istante, rotto solo dal suono graffiante della pietra che passa sopra l’acciaio.

- Ma ci sei tu… -

Mi fermo di nuovo e le rivolgo un lungo, doloroso sguardo. Purtroppo…

Sospiro e appoggio a terra spada e pietra.

- Takara. -, esordisco, passandomi la mano destra sulla spalla sinistra, - Lo sai che io sto morendo… -

Carpisco, con la coda nell’occhio, la sua espressione farsi dolente e la sua testa amaramente annuire.

- Per questo devi imparare a combattere. Non ti potrò proteggere per sempre. –

Detto questo, mi alzo e la raggiungo. Le poso le mani sulle sue spalle strette e gliele stringo dolcemente. Lei si umetta le labbra, chiude gli occhi e sospira, trattenendo un gemito. Giungo i palmi sotto il suo mento e, applicando una leggera pressione, la induco a guardarmi. Quegli occhi tristi, verdi come il mako; quelle indomabili ciocche ombrarle il viso, quelle labbra dischiuse e serrate verso il basso… ogni singolo dettaglio evoca suo padre. E, ogni anno che passa, lei gli assomiglia sempre di più. E ogni anno è un affondo sempre più profondo al cuore. Ma da un lato, questo mi rallegra; conscio che qualcosa di lui sia rimasto tra noi miseri mortali. Rivolgo un sorriso sincero alla ragazzina di fronte a me e le scosto dolcemente le ciocche dal viso.

- Ma finché avrò respiro, io ti proteggerò… mia Principessa. –

A quelle vuote rassicurazioni, lei mi rivolge uno dei suoi solari e meravigliosi sorrisi, per poi stingersi a me, avvolgendo le sue gracili braccia ai miei fianchi e affondando il viso nel mio petto.

- E io avrò cura di te… -

 

 

Perso nei fumi della morfina, riesco a malapena a distinguere la sua figura. Il suo giovane viso è congestionato da un’espressione indurita. Vuole sembrare fredda, ma la conosco troppo bene e so perfettamente che nel suo cuore sta impazzando un inferno di sentimenti, dubbi e sensi di colpa. Lo comprova quella sua fastidiosa, ossessiva mania di lisciarsi le pieghe del vestito, anche quando è palese che non ce ne sia bisogno. Dopo poco, tuttavia, addossa stancamente la schiena alla parete accanto alla finestra, ponendo entrambe le braccia dietro di sé. Emette un sonoro sospiro, poi, come se avesse sentito qualcosa, alza la testa e appunta il suo sguardo al di fuori della finestra, lontano, verso Nord. Concentro tutte le mie forze per metterla a fuoco. Adocchio il capo sollevato fieramente, il portamento elegantemente impeccabile, lo sguardo meditabondo, concentrato… sognatore.

Perfetta…

- Ti raggiugerò… -, bisbiglia, dopo un lungo silenzio, senza distogliere lo sguardo dall’obiettivo. Muovo appena la testa, volgendomi verso di lei.

Lei indirizza il suo sguardo verso di me e mi sorride tristemente.

E’ un gesto che dura molto poco, le labbra, infatti, tornano neutre, mentre lei di distacca dalla parete e si avvicina al mio capezzale. Una volta giunta, ella si piega su di me e appunta le sue mani lateralmente alla mia testa. I suoi capelli bruni le scivolano in avanti, fluidamente, accarezzandole maliziosamente le spalle, il collo, le guance. Scruta ogni singolo angolo delle mie fattezze morenti e degradate con quegli occhi capaci di brillare anche nell’esigua luce della sua ombra. Mai come prima d’ora mi sono sentito così terribilmente scoperto. E vulnerabile. L’ultima volta è stata… quando suo padre è impazzito.

Il mio battito cardiaco inizia ad incrementare e l’adrenalina scatenatosi mi permette di contrastare per un breve momento i calmanti che mi somministrano.

Vedo i suoi occhi ruotare verso l’elettrocardiogramma e un largo sorriso si estende sul suo viso.

- Non ti agitare, Genesis. -, dice con tono rassicurante, passandomi anche la mano tra i capelli, - So tutto. Ho visto tutto. – precisa, continuando ad accarezzarmi, - E ho capito. –

Dolcemente, appoggia le sue mani ai lati della mia testa, facendo attenzione a non stringere troppo. La sua espressione si fa contrita anche se cerca di nascondersi dietro a una serenità che non le appartiene.

- Avevi paura. -, constata con una semplicità disarmante, mentre il mio orgoglio si contrae in un ultimo, debole spasmo di superbia, - Paura di essere dimenticato. Paura di morire. E… e volevi che ti ascoltassero, che rimanessero con te. Gli hai chiesto aiuto, nel tuo contorto e strano modo. -, ride teneramente, mentre il mio cuore si scioglie, - Sei davvero impossibile. –

La sua maschera si frantuma, lasciando andare le lacrime. Il suo corpo si accascia e le sue mani scivolano lungo le mie spalle, il busto, il braccio destro, fino a ricongiungersi con la mano inerme al termine di quest’ultimo. Cerca di darsi un contegno questa bambina, rivolgendomi qualche sorriso e pulendosi le lacrime dal viso. Debolmente, stringo la sua mano.

- Sì, lo so. Non devo piagnucolare. -, interpreta, con la voce rotta.

Inspira ed espira, rispondendo alla mia stretta, ricercando in quel misero e patetico gesto un po’ di conforto.

Mi dispiace, mia principessa.

- Ho promesso che mi prenderò cura di te. -, dichiara, infine, guardandomi dritto negli occhi. Quegli occhi pieni di feroce determinazione… - Metterò fine a tutto questo. Sono stanca di questa sofferenza, di queste lotte, di questo odio… -

Lascia sfumare il discorso e si alza, abbandonandomi, senza però lasciare un’ultima carezza alla mia mano. Ritorna alla finestra e torna ad appuntare il suo sguardo verso Nord.

- Andrò al Northen Crater ad affrontare la fonte di tutto. A compiere il mio destino… -

Si tormente le mani e abbassa lo sguardo su di esse, nel vano tentativo di reprimere un brivido di paura.

L’istinto mi urla di alzarmi e confortarla, di stringerla a me, dissuaderla dal partire, proporle un’alternativa, consigliarle di mandare qualcun altro. Ma, sarebbe inutile, questa volta. Sebbene sia spaventata, la sua decisione è stata presa e non c’è modo di dissuaderla dal compito prefissato.

E’ giunto il momento che tanto temevo…

Il mio prezioso Dono…

La mia amata Principessa…

Lacrime iniziano a scendere lungo le mie guance, mentre una morsa di dispiacere mi attanaglia il cuore. Ho dato tutto per quella bambina. E’ cresciuta così tanto… Il solo pensiero di non rivederla mai più mi devasta. Mi rendo conto di averla amata come mai ho amato nessuno e di come lei abbia trasformato la mia inutile egoistica esistenza in una vita votata al sacrificio e al benessere altrui. Lei mi ha insegnato molte più cose di quanto io ne abbia trasmesse a lei. E le sono grato per questo…

In tutto questo, Takara non si accorge del mio turbamento, poiché il suo sguardo è rivolto verso la sua meta ultima.La fissa rabbiosa, ma anche caparbia, accogliendo di buon grado la sfida.

 

- When the war of the beasts brings about the world’s end, the goddess descend from the sky.

Wings of light and dark spread afar her gift everlasting –

[Quando la Guerra delle bestie porterà alla fine del mondo la Dea discenderà dal cielo.

Ali di luce e oscurità spargeranno lontano il suo dono eterno]

 

 

La realtà ritorna, delicatamente, mentre il sogno rapidamente sfuma, così come la coscienza del Comandante che, lestamente, scivola via, esausta, ma alleggerita. Avverto una morsa al cuore, appena realizzo il significato di quelle sensazioni e ritrovo conferma nella figura del rosso.

Genesis, infatti, non ci guarda nemmeno più…

Il respiro è sempre più lento, sempre più esiguo. Fino a che…

Un lungo, lento, inequivocabile, definitivo, lugubre spiro abbandona le labbra semi dischiuse del Comandante.

Per secondi infiniti, permango immobile. La mia mano stretta a un palmo senza più padrone. Freddo. Freddissimo. Mi sembra così innaturale questo gelo che si inerpica in ogni cellula del mio corpo, come un attagliante senso d’impotenza. Mi paralizza, sembra quasi che la morte abbia messo in pausa il mondo intero. Poi, improvvisamente, una lacrima abbandona i miei occhi, mentre una nascente sensazione di oppressione cala sul mio petto. Sospiro profondamente per cercare di sciogliere quel peso pendente sul cuore. Nel frattempo, la mia attenzione viene catturata dagli occhi ancora sbarrati del Comandante. Inconsciamente, alzo la mano destra e, solennemente, passo il palmo sul suo viso, chiudendogli le palpebre. Rimango un lungo istante ad osservarlo, mentre il peso diventa sempre più pesante da sostenere. La sua espressione è così distesa, tranquilla… in pace. Una leggera contrazione al lato destro della bocca ne alza il lato, dipingendo un sorriso mesto.

- Grazie di tutto… amico mio. –

 

Buonasera popolo di EFP! Grandi ritorni questa epidemia sta facendo tornare! Prima Manila con un capitolo delle (Dis)avventure e ora io, con il caro Bassai dai. Speravate di esservi liberati di me? Eh no! Nonostante gli impegni, sono finalmente riuscita a completare anche questo capitolo e, per l’ennesima volta, ritardare la chiusura di questa storia -.-‘ Ma vi assicuro che siamo agli sgoccioli, finalmente ho trovato il modo di rendere sensato il finale!!! (Chissà di che morte ci tocca ririmorire ndVinny&Seph). Questo capitolo è un po’ più lungo degli altri e ho voluto soffermarmi un po’ sul personaggio di Genesis. Io non lo amo particolarmente, ma in questo capitolo ho voluto dargli una sorta di redenzione e una buona uscita onorevole e dignitosa. Se ne è andato in pace, sapendo di aver fatto qualcosa di buono nella vita, come crescere Takara; ma soprattutto è riuscito a riappacificarsi con la sua vittima preferita: Sephiroth.  E’ una giusta coronazione a al suo personaggio, secondo me. Poi ditemi che ne pensate con una recensione!

Ora scappo e spero di non dover far passare altri anni prima di postare un nuovo capitolo! Devo finirlo assolutamente!

Grazie a tutti!

 

A presto!

 

Besos

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Capitolo 31
*** Determinazione ***


Una notte plumbea è quella che segue le ore successive alla morte del Comandante SOLDIER Genesis Rhapsodos. Il cielo totalmente nero e nebuloso del Nord ci accoglie con una coltre pesante e spietata di nuvole cariche di neve, pronta a calare sui morti declivi di quella terra desolata. La figura eterea di Sephiroth è seduta sul pavimento di fronte a me ad osservare in accorato silenzio l’esterno della bolla di vetro di cui la sala d’osservazione panoramica della Freedom è costituita. Ho appreso che ora che è libero dell’influenza di Jenova, può palesarsi nel mondo reale, ma soltanto come spirito incorporeo e solo se io glielo concedo. Ne ha subito approfittato per tormentarmi con le sue insistenti richieste di venire in un luogo dove potesse vedere il cielo.

Io volevo solo dormire…

Sbadiglio sonoramente e faccio scivolare fluidamente la schiena alla paratia, fino ad adagiare il fianco destro sulla panchina dell’osservatorio. Mugugnando, incrocio le braccia sul petto e rialzo lo sguardo verso il Generale, il quale non si è mosso dalla sua posizione meditabonda da quando è uscito dal mio corpo. Ha lo sguardo fisso verso il culmine della cupola, perso verso chissà in quali contorte elucubrazioni.

- Temo che non potrai vedere il cielo stanotte. Torniamo a letto? –, chiedo con la voce impastata, cercando di reprimere l’ennesimo sbadiglio.

Sephiroth sembra non calcolarmi nemmeno e permane immobile. Credendo di non ricevere risposta alcuna, sospiro frustrato, arrendendomi all’idea di passare la nottata –ennesima- in bianco.

- Già… Crudele ironia. -, commenta improvvisamente il Generale con tono distratto e mesto.

La sua voce mi allarma, quindi alzo il busto e mi puntello col braccio, indirizzando tutta la mia attenzione su di lui. Lo osservo mentre attira le sue gambe al petto e si stringe ad esse, poggiando il mento sulle ginocchia, nascondendolo tra gli avambracci. Non mi sfugge, inoltre, il teso singulto delle dita, strette attorno ai bicipiti, unico guizzo emotivo evaso dalla sua fortezza di apparente freddezza. Fortezza che Genesis ha tentato di espugnare per anni, invano.

Almeno così credeva.

Sephiroth era cambiato molto più di quanto il banoriano potesse immaginare e di quanto il Generale stesso avesse voluto ammettere. Dev’essere stata una sorpresa anche per il Comandante apprendere che il suo freddo, apatico, indifferente amico fosse diventato un così amorevole padre, un così fedele marito e un così veemente giustiziere.

 

/////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////

 

Siamo in viaggio da ore, accomodati -per così dire- su questo pullman scassato, che, sobbalzante, s’inerpica su scoscese strade di montagna. Ogni scossone è un inferno per la mia pelle degradata, poiché esplosioni di dolore si diramano da questa parte o da quell’altra. Mi maledico per non aver optato per un inseguimento aereo, ma conoscendo il soggetto, probabilmente sarei stato identificato all’istante.

Apro gli occhi, dopo aver trattenuto l’ennesimo gemito di dolore, e appunto il mio sguardo verso di lui. Dalla mia posizione, riesco a scorgere il suo inconfondibile profilo, sebbene buona parte sia ben nascosto dal colletto del giaccone e dal cappello con visiera. Gli occhi brillanti di mako sono convenientemente celati da un paio di occhiali da sole, anche se dalla mia posizione laterale riesco a scorgere il loro esiguo e caratteristico bagliore verde giada. La signora accanto a lui sembra troppo impegnata a intrecciare il suo uncinetto per accorgersene, tutt’al più che la sua peculiarità più evidente – i capelli- sono stati ben nascosti all’interno della fodera del cappello. Mi scappa uno sbuffo divertito. Nemmeno per un motivo così importante, riesce a rinunciare alla sua ingombrante chioma. E poi il vanitoso sarei io.

Lo vedo alzare la testa ed osservare le montagne che incombono su di noi e le sue labbra s’increspano appena. Deve aver sentito l’odore di casa…

////

Il paese è minuscolo e caratteristico, come il lago che lo abbraccia. Sembra che la guerra non abbia mai intaccato queste tranquille sponde, anzi, molti turisti, soprattutto wutaniani, sembrano appunto ricercare questi luoghi, al fine di scappare per un momento nell’illusione che nessuna guerra e nessun opprimente dominio stiano sfregiando queste terre. Ma non ho tempo per perdermi in questi pensieri, poiché il mio obiettivo si sta guardando intorno per l’ennesima volta. È davvero cauto, peccato che io lo conosca fin troppo bene. Inoltre, il degrado ha fatto sì che ben poco del mio originale fascino sia rimasto. Fingendo di recuperare il mio bagaglio, incontro il mio aspetto, rispecchiato nella lamiera opaca del pullmino. Distolgo subito lo sguardo con gesto secco e ricerco quello di Sephiroth. Lui ha già recuperato il suo zaino e si sta avviando giù per l’unica via che attraversa il paesino. Lo seguo a debita distanza, fingendomi, di tanto in tanto, interessato a scrutare questo o quello. Appena allontanatosi abbastanza dalla folla, si leva cappello e occhiali, lasciando che la sua lunga chioma esploda in una cascata argentata, ondeggiando lievemente alla brezza leggera della primavera. Incontra dei paesani. Alcuni lo salutano con un cenno della mano, altri gli rivolgono un paio di parole in un dialetto incomprensibile, a cui lui risponde senza problemi, sorridendo… sorridendo!

Sono basito.

Sembra un’altra persona.

Avverto rabbia misto invidia prorompere dai recessi più infimi del mio animo.

Come osa?!

Come osa fingere che tutto vada bene?!

COME OSA IGNORARMI?!

Per il bene della missione, m’impegno a rimangiarmi la rabbia, dal momento che il suo interlocutore ha solo brevemente interrotto il suo andare. A Sephiroth, infatti, sembra che anche questo piccolo rallentamento sia un allungamento inaccettabile alla già intollerabile lontananza; tant’è che ha già velocizzato il passo.

Quando una piccola casetta spunta alla fine della via, dando su un ameno boschetto, quel passo impaziente quasi si trasforma in una corsa. Riesco a nascondermi in una viuzza laterale, stretta da due casine, dirimpetto al mio obiettivo. Non potevo chiedere palcoscenico migliore…

Schiamazzi giungono dalla casa, appena lui apre il cancelletto di legno che delimita quel piccolo mondo da fiaba. La porta d’ingresso si apre e una donna bellissima ed elegante con lunghi capelli neri spunta dall’uscio, sfoggiando un sorriso magnifico.

Sorrido malevolo, riconoscendola immediatamente…

Sakura… Lo sapevo!

Un moto di fastidio sconquassa il mio corpo…

Con tutte le donne che potevi avere, Sephiroth… A quanto pare hai deciso di rendermi la vita davvero semplice…

Proprio nell’istante in cui il mio piano si stava srotolando davanti a me, quella maledetta fa un altro passo fuori casa, rivelando un ostacolo inaspettato.

Tanto piccolo, quanto insormontabile.

Una bambina…

Sento le gambe cedere e lo stomaco accartocciarsi.

No… non può essere sua—

Ma quel bagliore verde mako non mente…

Le gambe cedono e scivolo verso il terreno.

Sakura mette la bambina a terra e quella inizia a trottare incerta verso Sephiroth, il quale si è accucciato immediatamente, allargando le braccia con fare accogliente. Ride, incoraggiando la mocciosa a raggiungerlo, con un’inflessione smielata della voce.

Un’inflessione capace di instillarmi il senso di colpa dritto nel cuore, come una stoccata.

Anche le braccia cedono e finiscono tra la polvere.

La bambina, alla fine, lo raggiunge e lui, di rimando, si alza e la stringe forte a sé. Disperatamente, come se non avesse desiderato altro nella vita.

-Non posso… -

-Se vuoi sopravvivere, dobbiamo impadronirci delle cellule di Sephiroth. La variante S rallenterà la degradazione. Forse la fermerà, addirittura. –

Le parole di Hollander prorompono prepotentemente nella mia mente, dilaniandomi. Alzo lo sguardo verso quel quadretto famigliare così inaspettato. Un fortissimo senso di nausea per poco non mi sconvolge lo stomaco.

Lacrime amare sgorgano dai miei occhi, ancora sgranati.

Non rinuncerà mai a ciò che ha sempre desiderato…

Il piano si è appena macchiato di rosso.

Sopraffatto, calo il capo verso il petto.

Lo so…

Alzo lo sguardo e riesco ad adocchiare il suo viso…

Stringo i denti tanto forte da sentirli scricchiolare.

Non l’ho mai visto sorridere così…

La mia vita vale davvero così tanto?

 

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Da quando si è intrufolato nella mia mente, non faccio altro che vedere e rivedere stralci di ricordi appartenenti al Comandante. Sospetto che sia Genesis stesso dall’aldilà a riproporceli. Forse, per dimostrarci la genuinità del suo pentimento.

Sconsolato, mi ributto supino sulla panchina, giungendo le mani dietro alla testa. Ora sono io ad osservare insistentemente il cielo piombato.

-Anche a Takara piaceva svegliarsi nel cuore della notte a guardare il cielo. O sbaglio? Lo hai scritto nel tuo diario. -, affermo con fare colloquiale.

La testa di Sephiroth s’inclina appena verso sinistra, per poi venire girata nella mia direzione quel tanto da poter adocchiare parte del suo viso. Attraverso le ciocche argentate, intravedo i lati delle labbra, rivolti fievolmente verso l’alto, in un triste e malinconico sorriso.

- Non sbagli. -, risponde a tono basso, annuendo debolmente, mentre il sorriso si allarga al pensiero della sua bambina in piedi nella culla a guardare il cielo stellato di Wutai. Un ricordo che, inevitabilmente, affolla anche la mia di mente.

-Nel diario scrivevi che osservava il cielo perché avvertiva il richiamo delle stelle… -, ragiono - Anche tu lo senti? –, domando, alla fine distogliendo lo sguardo dalla sommità della cupola.

Egli emette un lugubre sospiro e si alza, passeggiando con eleganza infinita fino alla parete di vetro. I lunghi capelli ondeggiano ammalianti ad ogni passo compiuto con una leggerezza e garbatezza da risultare umanamente impossibili da imitare. Sembra quasi volteggiare, accarezzare malizioso il pavimento come se stesse percorrendo un sentiero di cristalli fragilissimi. Ho sempre invidiato quella grazia ultraterrena. Quella meravigliosa, incantatrice, velenosa grazia.

La testa del Generale è ancora una volta alzata verso l’incombente nero sopra di noi. Noto che una coltre intricata di ghiaccio sta iniziando a disegnare composti cristalli di neve sulla superficie esterna della cupola, diminuendo ulteriormente la visibilità.

- A volte rimanevo sveglio con lei e le scrutavamo insieme. -, racconta con tono malinconico, - L’avvolgevo in una coperta e la portavo sul tetto di casa nostra. Di nascosto da mia moglie, ovviamente. -, emette una mezza risata, - E lì stavamo, sdraiati. Lei addossata al mio petto e stretta nel mio abbraccio, ad immaginare nuovi mondi, le avventure che avremmo potuto fronteggiare, la gente che avremmo incontrato… -, un’altra interruzione, in cui sospira mesto, le dita che accarezzano il vetro gelido si chiudono nervosamente in pugno, - Le avevo promesso che un giorno avremmo vissuto davvero quelle avventure… -

Sospira e lo vedo calare la testa, fino a che la sua fronte non si appoggia al gelido vetro.

- Non sono mai stato bravo a mantenere le promesse… -

Proprio in quel momento, la Freedom sbuca nell’occhio della tempesta. L’oscurità dell’universo profondo si staglia innanzi a noi in tutta la terribile e meravigliosa immensità dell’ignoto. Stelle lontane e aliene brillano fulgide, sfidando di buon grado il buio; mentre esplosioni galattiche gareggiano, invece, con la loro catastrofica potenza, contro il rimbombante silenzio che, crudele, le avvolge. Morte e vita, pietà ed oppressione sorreggono il perfetto equilibrio dell’Universo creando, distruggendo, trasformando ogni singolo componente di questo ribollente calderone di atomi informi. Ogni avvenimento accade in seguito a una precisa sequenza di eventi, di cui la maggior parte è ancora al di là della comprensione umana. Eppure, è meravigliosa nella sua misteriosa perfezione. Un mistero che apre la mente, permettendole di spaziare in un luogo infinto; dove finalmente i cupi pensieri che si agitano nel minuscolo spazio del cranio possono espandersi liberi al di là di ogni confine. Affascinato, abbandono la panchina ed inizio a guardarmi intorno, passeggiando e carpendo ogni dettaglio dello spettacolo che si staglia di fronte a me, a bocca aperta. Una piacevole sensazione di libertà mi assale, sentendomi improvvisamente leggero. Mai come ora ho desirato avere le ali.

- È bellissimo… -, commento trasognato, poi appunto il mio sguardo su Sephiroth.

Come me, anche lui sta contemplando il tanto desiderato cielo notturno, ma ciò a cui sto assistendo è qualcosa che va oltre la bellezza dell’Universo. L’espressione di pura estasi ha completamente disteso gli androgeni tratti del suo viso – il quale, ora che lo guardo veramente, non avevo mai concepito quanto fosse dannatamente perfetto -, donandogli un’aura di limpida pace così trascinante da avvolgere perfino me. Il mio sguardo indugia un attimo non troppo breve sulle labbra semi-dischiuse, scure come il cielo notturno, in pieno contrasto con la pelle d’alabastro che le circonda. A renderle ancora più magnetiche, il flebile, genuino sorriso che ne arcua maliziosamente i lati sottili. Riscossami da quegli strani pensieri, risalgo la scabra linea del naso, lungo gli zigomi vezzeggiati dal gentile dondolio di ciocche argentee, per alfine raggiungere gli occhi. Perdo un battito appena apprezzo la preziosità di quelle iridi, dentro cui il brillio dell’Universo si rispecchia, come in una polla di acqua cristallina; al cui centro, come un profondo e misterioso abisso, svetta la pupilla. Quest’ultima non è serpentina, tagliente, pericolosa; ma, essendo dilatata, è tondeggiante, leggermente affusolata ai poli, ma è un dettaglio quasi trascurabile.

È così umano…

Ora capisco, perché voleva venire quassù…

In confronto all’alienità dell’Universo, la sua umanità diventa lampante, evidente, cristallina… Bellissima.

Così perso nel contemplarlo, non mi ero reso conto che lui stava ricambiando il mio sguardo da qualche minuto. Appena me ne rendo conto, mi riscuoto e volgo l’attenzione altrove, imbarazzato.

Con la coda nell’occhio, lo vedo sorridere compiaciuto sotto i baffi, mentre ritira il suo sguardo verso altri obiettivi.

Ho sempre invidiato la consapevolezza che ha di sé, ma forse diventa quasi un meccanismo di difesa quando sai di essere uno degli uomini più desiderati del Pianeta.

Dopo qualche istante di silenzio e contemplazione, durante il quale ripenso alle parole proferite poco prima dal Generale.

“Non sono mai stato bravo nel mantenere le promesse.”

- Io non lo credo. -, esordisco, ritornando a puntarlo.

Lui rivolge lo sguardo interrogativo nella mia direzione.

- Io non credo che tu non sappia mantenere le promesse. -, sottolineo, senza smettere di fissarlo.

L’albino inclina la testa di lato, gli occhi si assottigliano, donandogli un’aria concentrata, e raddrizza la schiena. Riconosco immediatamente il suo silenzioso modo di dimostrarsi interessato, senza però manifestarlo apertamente. Evelyn aveva ragione: Sephiroth ha davvero un modo tutto suo di comunicare. Solo pochi sono in grado di capirlo.

Incoraggiato dal suo fare accomodante, ammorbidisco l’espressione e il tono.

- La vita non è stata per niente clemente con te. -, esordisco con voce greve, - Eppure, sei riuscito ad ottenere ciò che desideravi. –

- Una mera illusione… -, commenta Sephiroth con un soffio malinconico, scuotendo la testa con fare arreso.

- No! –, rispondo con veemenza, avvicinandomi rapidamente a lui, con passo deciso, - Non è vero e lo sai anche tu! -, mi avvicino minacciosamente, i miei occhi blu saettano dritti nei suoi, sgranati dalla sorpresa, - Evelyn e Takara sono reali. Sono là fuori, ad attenderti. Proprio in virtù di quelle promesse che vi siete impegnati a mantenere. È questo ciò che vi unisce e che v’impedisce di arrendervi alla crudele realtà che tanto spietatamente vi ha diviso. –

Gli occhi del Generale, subito dopo queste ultime frasi, non hanno più retto il mio sguardo severo e, colpevoli, si sono spostati altrove. La sua espressione è buia e, per un rapido istante, anche sofferente. Tuttavia, le sue labbra rimangono serrate e la mascella irrigidirsi.

- Certi pesi sono impossibili da portare da soli. -, continuo, attirando la sua attenzione nuovamente fattasi sorpresa, - Me lo hai insegnato tu. –

Per un lungo istante, egli mi osserva profondamente, seriamente, per poi, infine, piegare le sue labbra in un largo e pacato sorriso.

- Hai ragione. -, conviene.

Si allontana da me e passeggia mollemente con le mani incrociate dietro alla schiena, assaporando gli ultimi momenti del cielo notturno, prima di ripiombare di nuovo nel plumbeo regno della tempesta. Si ferma a pochi passi da me, sospira e si volta. Schiena dritta e portamento fiero. Sorriso sulle labbra e sguardo ripieno d’orgoglio.

- Era ora che la marionetta tagliasse i suoi fili. –

 

 

Un fortissimo boato sconquassa il Lifestream.

Cerco d’ignorarlo.

Il destino degli uomini non è più affar mio.

Lei se ne è andata.

Perduta.

Ho fatto ciò che dovevo.

Per il bene di tutti.

Ora il peso di questa responsabilità è sulle spalle di qualcun altro.

Mi concentro.

Cerco di ritornare al mio eterno riposo.

Ma altre contrazioni continuano a distrarmi.

Cosa vuole ancora da me?

Sono stanco.

Lasciatemi riposare…

La notte eterna diventa giorno per un breve istante.

Qualcuno è entrato nella cripta.

Una figura alta e longilinea si muove nel buio, emanando una curiosa e potente aurea.

Un’aurea che non percepivo da millenni.

Avverto lo stesso profondo senso di tradimento, il quale alimenta un fuoco indomito di furia.

C’è anche paura.

Paura e smarrimento.

La porta viene nuovamente aperta e, di nuovo, la luce squarcia il buio.

Mi ferisce.

Non farlo.

La figura raggiunge la mia tomba e comincia a colpire i cristalli che avvolgono il mio corpo.

Posso vederla.

Capelli fluenti, occhi da gatta, bocca a bacio.

Assomiglia così tanto a LEI, ma… non può essere!

Le sue labbra si muovono e il suono della sua voce mi giunge ovattato, lontanissimo.

Mi sta implorando di aiutarla.

In lacrime.

Ha paura.

È solo una bambina.

Due coppie di braccia, avvolgono il suo corpo gracile.

L’ennesima potente flessione si libera dal corpo della ragazza.

Non così.

Ti farai del male.

La sua aurea si è fatto più debole, tant’è che viene sopraffatta facilmente dall’insulso nugolo di umani che la inseguiva.

Il Lifestream continua a flettersi e reagire, ma, mano a mano che la coscienza della ragazza crolla verso l’oblio, la quiete torna a governare incontrastata.

La fanciulla chiude gli occhi, mentre l’ultima oncia di volontà lascia il suo viso.

Altri umani sopraggiungono e osservano la giovane dormire.

Uno di loro, visibilmente malato, si abbassa con difficoltà e le accarezza il viso.

Poco dopo se ne vanno tutti.

Il silenzio e il buio eterni sono finalmente tornati.

Posso tornare a dormire.

Il destino di quella fanciulla è affar di qualcun altro.

Cloud…

SVEGLIATI!

 

 

Mi sollevo di scatto. Il petto di alza e si abbassa, incamerando profonde boccate d’aria. Sono senza fiato. Mi rendo conto, dal gelo che mi si sta appoggiando sulla pelle, di essere anche sudato fradicio. I muscoli, tesi all’inverosimile, mi dolgono tremendamente. I miei occhi sbarrati ripercorrono il sogno appena compiuto, facendomi rendere conto che non si trattava affatto di un sogno.

Era l’uomo nella cripta sotto alla magione che stava comunicando con me. I suoi pensieri. Le sue percezioni. Tutte nella mia testa.

Alzo lo sguardo di scatto verso i piedi nel letto e incrocio la figura di Sephiroth, il quale indossa la stessa espressione stravolta.

All’istante, capiamo subito che non c’è tempo da perdere.

Esco dal letto con un salto e mi butto nello stretto corridoio, percorrendolo a perdifiato fino alla sala controllo. Lì, irrompo nella stanza quasi senza fiato, dando il triste annuncio.

-La ShinRa… La Shinra ha preso Takara! –

Tutti, nella sala, interrompono ogni mansione stessero svolgendo in quel momento per osservandomi con gli occhi sgranati. Passa qualche istante di attonito silenzio, mentre gli astanti elaborano la notizia. Soltanto Weiss, tuttavia, dà fiato ai dubbi di molti.

- Come lo sai? –, domanda sospettoso.

- L’ho visto. -, rispondo di slancio, ostentando una decisione che non mi appartiene; poi, appena noto, l’espressione poco convinta del platinato, mi affretto ad aggiungere, - So che sembra assurdo, ma dovete credermi. So di non essere un Cetra, ma, in qualche modo, il Pianeta sembra riuscire a comunicare con me. E mi sta dicendo che la sua unica speranza di finire la guerra è appena caduta nelle peggiori mani possibili. –

Un mormorio confuso attraversa la sala e un tremendo senso d’inadeguatezza s’insinua direttamente sottopelle, mentre tutti mi giudicano.

È una situazione che non mi sono mai ritrovato ad affrontare. Normalmente, io sono considerato l’eroe, quello a cui credere e seguire verso la vittoria certa, ma… queste persone … non mi conoscono. Hanno vissuto in una bolla costruita su misura per proteggerli dal terribile mondo esterno. Un mondo che li disprezza e allontana. Vedove, orfani, cavie, veterani, malati. Nessuno li ha voluti, se non una giovane Dea benevolente e gentile e il suo entourage di rivoluzionari.

Tuttavia, da quando un totale estraneo è giunto, parlando di guerra, mostri e Jenova; tutte le fondamenta del loro mondo sono svanite come nebbia soffiata via dal vento. Una nebbia che gli schermava da quel mondo che non li voleva, da cui stavano cercando disperatamente riparo. Svanita, dissolta, scomparsa. Sono pericolosamente esposti.

Alcuni iniziano a piangere. C’è chi si lascia cadere a terra, annichilito. Altri vanno nel panico e iniziano a inveire contro qualunque persona loro ritengano responsabile. Certuni, iniziano a maledire addirittura Takara stessa, Genesis o loro stessi per essersi fidati, di essersi illusi per l’ennesima volta. Il mormorio si trasforma rapidamente in una baraonda di persone spaventate ed arrabbiate.

Reeve cerca di calmarli, ma, a quanto pare, non è mai stato ben visto da quella gente, tant’è che alcuni gli iniziano a lanciare oggetti addosso, inveendo contro di lui e i suoi trascorsi con la Shinra.

Dall’altro canto, Weiss mi sta letteralmente uccidendo con lo sguardo.

- Stavamo bene nella nostra fortezza. -, esordisce l’albino a denti stretti per frenare la rabbia, - Takara si prendeva cura di noi. Ci ha aiutato a riabilitare le nostre menti devastate da anni di soprusi. Avevamo un posto da chiamare ‘casÁ. –.

L’ex-Comandante degli Tsviet si avvicina minacciosamente verso di me, le mani chiuse così strettamente in pugno da ferirsi i palmi. Istintivamente, il mio corpo si prepara a scattare.

- Maledetti SOLDIER… -, bisbiglia tra i denti, furioso, - Maledetti voi e il vostro dannatissimo egoismo! –

Come preannunciato dal mio istinto, l’albino scatta in avanti, estraendo una delle sue spade. Io mi scosto di lato, schivando l’affondo diretto verso il mio stomaco; ma Weiss, con una rapida ripresa, sferra un ridoppio velocissimo diretto verso le gambe, che evito con un salto. Lo Tsviet non demorde e continua ad assalirmi, nel vano tentativo di colpirmi. Per quanto veloce, mi riesce incredibilmente facile leggere i suoi movimenti e pianificare una concatenazione di schivate atte a mettermi sempre in una posizione di vantaggio. Un modo di combattere molto diverso dal mio, molto più istintivo, esplosivo, sporco. Questo è pulito, pianificato, preciso. Lo sforzo fisico è ridotto al minimo, il margine di errore è millimetrico e ogni mossa avversaria è prevista ad almeno tre movimenti di distanza. È una percezione incredibile, inumana. Capisco che Sephiroth sta manipolando il mio corpo, unendo la mia mente alla sua.

Mi rendo conto di non aver mai compreso la portata della sua maestria. E di quanto piano ci andasse con me.

Realizzo che, se avesse davvero voluto, mi avrebbe ucciso migliaia di volte, senza troppe cerimonie.

Weiss comincia a stancarsi, notiamo.

È ora di mettere fine a questo teatrino.

Stronchiamo la catena di attacchi che l’albino aveva intenzione di vomitarci addosso, penetrando la sua difesa con un saettante avanzamento e un fulmineo colpo al pomo d’Adamo. Deciso, ma non fatale. Il respiro di Weiss viene a meno e rimane stordito per un fatale attimo. Attimo in cui gli leviamo la katana dalla mano e, con un volteggio, ci spostiamo dietro di lui ed estraiamo l’altra. Lo Tsviet cerca di seguire i nostri movimenti, ma non può altro che ritrovarsi due lame taglienti minacciare i lati del collo.

Di nuovo, il silenzio cala nella sala, sbigottito.

- Noi non vogliamo combattere. –, dichiaro, ignorando il significato di quel ‘noÍ.

Abbasso lentamente le lame dal collo di Weiss e le getto a terra. Il clangore dell’acciaio taglia la pesante cortina di silenzio in cui versiamo, facendo trasalire qualche persona.

- SOLDIER. –, esordisco, indicando me stesso.

Avanzo verso Weiss, accostandomi a lui, guardandolo severo.

- Deepground. -, lo apostrofo, sorpassandolo. M’insinuo tra la folla e, man mano che proseguo, la gente si discosta, aprendo un passaggio.

- Umani. –, dico studiandoli con lo sguardo uno ad uno.

Raggiungo la vetrata e alzo il viso verso la sommità, osservando il cielo plumbeo.

- Cetra. -, sospiro con malinconia.

Mi volto e faccio scorrere il mio sguardo lungo la folla attonita.

- Jenova. -, appunto la mia attenzione verso un angolo dismesso della stanza, da cui Sephiroth mi sta osservando.

Ci fissiamo per un significativo istante.

- Queste etichette ci stanno distruggendo… -, affermo affranto, - Io per primo mi sono lasciato illudere da esse. Per anni. -, faccio una pausa, alzando lo sguardo di nuovo verso il Generale –L’ho odiato così tanto, Sephiroth. -, mi fermo per un istante e l’Angelo dalla Sola Ala risponde alzando un lato della bocca, in un sorriso sghembo. Azione che mi trattengo dall’ imitare. Raddrizzo, invece, la schiena, e continuo il discorso con più enfasi, rivolgendomi a coloro che sono veramente qui.

- Mi ha portato via tutto. La mia famiglia, la mia casa, le mie radici. Mi ha elevato a un ruolo che non ho mai sentito come mio. -, mi passo la mano tra i capelli e sospiro afflitto, - Io non sono un eroe… -, dichiaro, infine, tra lo gli sguardi perplessi e confusi degli astanti. La mia attenzione viene automaticamente indirizzata verso Tifa. La mia amata mi rivolge uno sguardo afflitto, sofferente. Lo ignoro e continuo, - Volevo solo prendermi la mia vendetta. Per il resto, il Pianeta poteva anche bruciare per me. -, sospiro, - Ho sacrificato tutto per riuscire a raggiungere il mio scopo. Finché Lui era vivo, io avvertivo l’impellente bisogno di inseguirlo. Non volevo che rimanesse niente di Lui… NIENTE! -, grido con rabbia, stringendo i pugni così forte da quasi ferirmi. L’impeto di furia mi lascia senza fiato, mentre il senso di colpa diviene così pesante da non permettermi più di guardare la gente in faccia.

 – Ma, io non avevo capito niente. -, riprendo, la voce ridotta a un soffio flebile, - Non avevo capito che quell’uomo che tanto odiavo, in realtà stava già soffrendo le più terribili pene mai inflitte ad un essere umano. -, mi mordo il labbro per trattenere un gemito, mentre i ricordi di Sephiroth mi passano davanti agli occhi. Non posso fare a meno di notare che il simbolo della Shinra insozza ogni singola memoria del Generale.

- Le mani luride di quella Compagnia hanno macchiato ogni singolo aspetto della nostra vita. -, proferisco, infine, alzando finalmente la testa con rinnovato vigore, - Sephiroth non era altro che uno dei tanti capri espiatori, dietro cui quei bastardi si sono nascosti per coprire i loro crimini. -, alzo il pugno ed inizio a tenere il conto di tutti coloro che nomino, - Deepground -, e indico Weiss, - AVALANCHE. -, e sposto l’indice verso i miei compagni, - SOLDIER. -, ed indico alcuni commilitoni tra la folla, riconoscibili dal bagliore mako nei loro occhi, - Wutai. – ed alzo il dito verso Yuffie, - North Corel. -, e segno Barret, - Madri e padri che vorrebbero solo riavere i propri figli. -, dichiaro, infine, abbassando il braccio e lasciandolo dondolare al mio fianco, mentre fisso Vincent con eloquenza. Il viso del pistolero viene deformato per un momento in un’espressione addolorata, mentre nella mia testa riecheggia lontana la voce disperata della dottoressa Crescent.

 

Give him back! Give my son back!

[Restituiscimelo! Restituiscimi mio figlio! Lucrecia Crescent [FFVII: DoC]

 

Stringo i denti, ricacciando indietro quel ricordo, e concludo: - Questa sofferenza deve finire e finché continueremo a combatterci a vicenda, la Shinra farà sempre ciò che vorrà con le nostre vite e con il NOSTRO Pianeta. –, prendo una pausa e lascio che le mie parole abbiano effetto, - Non importa come siamo ci siamo arrivati… Noi siamo nati in questo mondo. E la Shinra pagherà per averci portato via i doni che il Pianeta ci aveva destinato. –

Le ultime parole sono uscite cariche di rabbia e determinazione, lasciando gli astanti a corto di fiato. Li vedo guardarsi tra di loro con occhi furenti. Le parole sommesse raggiungono il mio udito potenziato e mi fanno capire che la loro sopportazione ha raggiunto un pericoloso limite.

Sì, è arrivato il momento di dire basta.

Da mormorio, il disappunto si trasforma piano piano in un boato di acclamazione.

Cerco Sephiroth e lo vedo sorridere compiaciuto.

Con la coda nell’occhio, mi rendo conto che Weiss mi sta raggiungendo. Ha recuperato le sue spade e spero con tutto il cuore che non abbia intenzione di vanificare tutto lo sforzo fatto finora. Si ferma a pochi passi da me e mi scruta da cima a fondo per poi rivolgersi di sottecchi verso l’angolo dismesso dove il Generale sta sornionamente appoggiato. Si rigira di nuovo verso di me, scrutandomi più intensamente, per poi lasciarsi andare uno sbuffo divertito.

-Il grande Generale è con noi? –, mi domanda.

- Per sua figlia, sempre. -, rispondo con decisione.

Il Bianco annuisce, soddisfatto della risposta, per poi girarsi verso la sua gente, alzando il pugno in aria.

- COMBATTEREMO! PER TAKARA! PER IL PIANETA! –

 

 

- Ti posso parlare? –

Tifa, la quale se ne appoggiata all’uscio della mia cabina, semi-nascosta dietro alla paratia, mi osserva con sguardo enigmatico. Io smetto di fare qualunque cosa stessi facendo fino a poco tempo fa e mi concentro completamente su di lei.

- Vieni dentro. -, l’invito, facendole un cenno con la mano, mentre mi siedo sul margine del letto, rivolto verso l’uscita.

La vedo esitare, scostandosi appena dalla paratia e lanciare occhiate spaventate verso ogni angolo della stanza.

- Lui è qui? -, mi chiede con una punta di paura nella voce.

Io non posso fare a meno di rivolgere la mia attenzione verso Sephiroth, appoggiato comodamente alla paratia dall’altra parte della cabina.

-Ovviamente. -, rispondo con ironia.

- Mandalo via, per favore. -, ribatte Tifa con decisione, osservando con aria torva quell’angolo.

L’Angelo da una Sola Ala sorride sghembo e indietreggia, andando ad affondare nella paratia, scomparendo all’esterno.

- Se ne è andato. -, confermo.

La pugile ancora tituba, umettandosi le labbra, senza togliere quegli occhioni verso quel punto vuoto. Dopodiché, sospira, prende coraggio e fa un passo all’interno della stanza. La vedo nervosa, mentre si chiude la porta alle spalle. Mi aspettavo che si venisse a sedere accanto a me, ma noto che la sua postura è rigida e fatica a guardarmi negli occhi.

- Tifa. Che succede? -, chiedo, innocentemente, piegandomi verso di lei.

Lei finalmente mi guarda, ma lo sguardo che vedo è tutt’altro che rassicurante. Sembra quasi perforami da quanto è tagliente e furioso, quello sguardo.

- Cloud. -, esordisce con la voce resa roca da una sensazione che non riesco a decifrare, - Io non ci riesco. –

Confuso, piego la testa di lato.

- Non riesci a fare che cosa? –, chiedo.

Inaspettatamente, gli occhi di Tifa si accendono di rabbia funesta.

-DAVVERO?! SEI COSÍ CONCETRATO AD ASSECONDARE QUEL MOSTRO CHE NON TI RENDI NEMMENO CONTO DI QUELLO CHE STA SUCCEDENDO A COLORO CHE AMI?! –

Lo sbotto della mia ragazza mi lascia basito.

- Credevo che voi aveste accettato questa situazione. -, rispondo automaticamente con un filo di voce.

- NO, CLOUD! IO NO! –

- È un problema solo tuo, dunque? –

- NO! CIOÈ… SÍ… NON LO SO! -, si ferma un momento, visibilmente confusa, ma poi sbotta, tornando alla carica, - CHISSENEFREGA! IO NON POSSO VEDERTI COSÍ. NON CI RIESCO! –

Io continuo non capire e mi fa male non poter comprendere cosa cerchi di dirmi la mia ragazza.

- Vedermi come? –

- NON SEI PIÚ TU, CLOUD! -, afferma, infine, guardandomi finalmente negli occhi.

Apro la bocca, stupito. Completamente senza parole, la osservo annichilito, mentre un pianto disperato inizia a bagnarle il visto, spaccandomi il cuore direttamente a metà.

-Il mio Cloud non si espone così al centro dell’attenzione. -, esordisce con la voce rotta, - Non fa i grandi discorsi motivazionali. Agisce e basta, senza coinvolgere nessun’altro. –

Scuoto la testa e l’abbasso, sconsolato.

- Quel mostro ti sta manipolando di nuovo, Cloud! -, Tifa continua imperterrita, sempre più disperata, - Quel che è peggio, non te ne stai nemmeno rendendo conto. –

-Non è così. -, rispondo flebile.

- AH NO?! –

- No. –, diniego con voce ferma e perentoria.

Tutta la furia della mia ragazza si spegne appena incrocia la mia espressione serissima e determinata. Di contro, i suoi occhi si sono sgranati dalla sorpresa e, con dolore ammetto, dalla paura. Sospiro, interrompendo il contatto visivo, col cuore sempre più stretto. Mi passo le mani sul viso. Queste vengono fatte scorrere tra i capelli, fino alla nuca. Nel frattempo, la testa continua a scendere, poco sopra la linea delle ginocchia, luogo dove i miei gomiti si sono appoggiati.

Sono prostrato, stanco. Questa storia ha messo a dura prova i miei limiti di sopportazione al dolore e alla solitudine.

Perché non capiscono?

Perché è così difficile fidarsi degli altri?

Perché non ci è consentito cambiare?

Ora capisci come mi sono sentito per tutta la vita...

Mi scuoto appena, sorpreso.

Ma non te ne eri andato?

Non puoi scappare dalla tua mente, Cloud.

Il dubbio che Tifa abbia ragione s’insinua rapidamente sottopelle.

Come volevasi dimostrare. Per quanto tu lo non dia a vedere, ancora fai fatica a fidarti di me. Ma lo comprendo. Anzi, diciamo pure che lo accettato da tempo.

La mia espressione si fa più determinata. Un moto di rabbia stringe le ciocche dei capelli con più veemenza, come volendomi punire per aver ceduto alla debolezza.

No. Sono stanco di combatterti anch’io, cosa credi? Questa è la mia occasione di eradicarti dalla mia testa per sempre. Non me la farò di certo scappare!

Esco dalla mia fortezza e incrocio nuovamente le iridi gradi e meravigliose di Tifa. Assumo un’espressione afflitta.

- Io lo capisco, Tifa. -, esordisco con voce flebile, stanca, arresa, - Capisco che per te non sia facile accettare che l’uomo che ami si stia tramutando nell’uomo che più odi sulla faccia del Pianeta. Nemmeno per me lo è stato all’inizio. Ci ho lottato contro con tutte le mie forze e per poco non ci morivo. -, il mio sguardo si fa eloquente e la mia ragazza abbassa lo sguardo lucido, mordendosi il labbro per trattenere il gemito, -Ma, bisogna guardare in faccia alla realtà. Per quanto sia inaccettabile, Sephiroth è e sarà sempre parte di me. È anche grazie a lui che sono diventato la persona che sono adesso. Nel bene e nel male, lui mi ha aiutato a comprendere una delle più importanti verità della mia vita. Un’evidenza che ho sempre, testardamente dato per scontata. -, mi alzo e la raggiungo, posandole le mani sulle sue, lasciate pendere ai fianchi.

Al contatto, lei non reagisce, ma nemmeno rifugge la vicinanza. La osservo in silenzio per un lungo attimo. Lei non osa alzare gli occhi verso i miei.

- Io non posso andare avanti senza la mia forza. –, faccio una pausa, - Quella forza sei tu… Lo sei sempre stata. -, proferisco, bisbigliando.

Vedo la sua bocca, morbidamente aprirsi, adorabilmente m’invita. Vorrei baciarla con tutte le mie forze. Il desiderio diventa impellente, appena lei, finalmente, mi guarda.

Avverto le mie mani venire avvolte in una dolce, disperata stretta, mentre quegli occhi da cerbiatta s’inumidiscono di nuovo. Sorrido benevolo, restituendole tutto l’amore che provo nei suoi confronti con lo sguardo. Tifa cede e mi sorride di rimando.

Lascia andare le mie mani e avvolge le braccia attorno al mio collo. Io la imito, fasciandola tra le mie braccia. Assaporiamo il calore che trapassa i nostri corpi per qualche istante, quando, ad un certo punto, lei mi sussurra:

- Devo ammettere che mi piace il modo in cui Sephiroth ti abbia reso un po’ più gentiluomo. –

Ridacchiamo e ci guardiamo nuovamente, ricolmi di amore.

Ci baciamo.

Sì, sono pronto.

 

 

Sephiroth sorride soddisfatto.

Si gira alle sue spalle e il grande cancello si eleva prepotente dinnanzi a sé. Dall’altra parte, in quell’aldilà distopico e crudele, sua moglie lo attende.

Con determinazione, il grande Generale osserva il suo prossimo e ultimo obiettivo.

- Questa volta sarà diverso… Che l’Inferno cominci a tremare… -

 

Salve a tutti! Finalmente, I’m back! Sti capitoli finali sono una sofferenza sia per me, che me li devo scrivere, che per voi, a causa della lentezza con cui aggiorno. Purtroppo, il lavoro mi porta via ogni energia e ogni volontà di scrivere. Mi sono dovuta praticamente imporre di andare avanti. Questo capitolo era lì che mi guardava da un sacco di tempo O.O. Inoltre, sono riuscita a trovare un sacco di musiche che mi hanno aiutato a scriverlo (grazie AoT per questo, soprattutto per la parte finale! XD).

Che dire, è un capitolo di preparazione al battaglione finale, fatto per resettare ed appianare le ultime divergenze tra i personaggi (quanto è anime sta cosa ^.^). Io spero che le immagini che ho creato nella mia mente vengano fuori dalla mia scrittura. Mi sono particolarmente impegnata a descrivere ogni gesto, ogni espressione. Questo è un capitolo che deve conferire un certo pathos, quindi niente deve essere lasciato al caso. Vi assicuro che il prossimo sarà un po’ più d’azione, sempre che non parto in bolla.

Cmq, riguardo la storia. Sephiroth è diventato una presenza più concreta andando in giro come un avvoltoio attorno a Cloud. Tuttavia, non è una presenza malevola, anzi, sostiene il nostro chocobino nei momenti più complessi, aiutandolo a infondere fiducia negli altri, prestandogli quella capacità dialettica, quel carisma da grande condottiero, quale il nostro amato Generale possiede in quantità industriali. Un rapporto di reciproco rispetto e complicità si è creato fra i due, portandoli inevitabilmente a realizzare di essere essenziali l’uno per l’altro. Come ormai è chiaro, Cloud è l’ultimo legame che Sephiroth ha col mondo dell’aldiqua.

Un legame che il Generale sarà pronto a recidere non appena la sua famiglia potrà dirsi al sicuro.

Ma, Cloud, dopo aver provato l’ebrezza di essere il Grande Sephiroth… riuscirà a lasciarlo andare?

A presto!

Besos!

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Capitolo 32
*** Padri ***


Riparati dal buio della notte io, Vincent, Weiss e qualche altro ex-SOLDIER esploriamo i dintorni della villa di Gast. Abbandonata. Le tracce lasciate dall’incursione della Shinra alla villa stanno rapidamente sparendo a causa della bufera appena alzatosi. Ormai, la porta d’ingresso distrutta è l’unico segno esterno lasciato dagli uomini di Rufus. Pure le luci all’interno sono spente, a parte per quelle di una stanza al secondo piano. Non ci metto molto a capire di QUALE stanza si tratti.

La mente di Sephiroth invade la mia dei ricordi di Gast, agrodolci. I suoi pensieri riguardanti quell’uomo riecheggiano nel cervello, confusi, in conflitto. Rimembra il giorno in cui venimmo qua: la sofferenza nel vederlo imprigionato in quel corpo morente, la rabbia provata nei confronti del suo giocare con noi, la frustrazione nel non poter emergere e affrontarlo. Un’ondata di emozioni che mi bloccano per minuti infiniti nel gelo della tempesta.

 

C’è ancora un nodo da sbrogliare.

 

Mi volto e vedo i ricognitori sparire nell’abbraccio buio dell’abetaia che cinge la villa, rapidi tornano a fare rapporto alla nave, atterrata nel cuore della foresta. Vincent rimane indietro e mi sta scrutando, un piede rivolto verso il bosco e l’altro verso di me. Credo che stia cercando d’indovinare cosa possa passare nella mia testa o, meglio, nella mente di suo figlio. Ci guardiamo a lungo, finché il suo sguardo non vira rapidamente verso la finestra illuminata, per poi tornare da noi, pregno di significato. Sento le spalle rilassarsi e i lati della bocca alzarsi lievemente verso l’alto.

 

Grazie…

 

Ci avviamo decisi verso la porta divelta della villa, dove piccoli cumuli di neve cominciano a depositarsi sull’uscio, trasportati dal vento. Attraversiamo con passo deciso il corridoio e ci avviamo verso le scale. Avverto l’inquietudine di Sephiroth scatenata dai ricordi di una magione dannatamente simile a questa. E di ciò che accadde tra quelle maledette mura. Scuoto la testa e scacciamo via quelle memorie e riprendiamo il nostro cammino. Raggiungiamo la stanza. La porta è stata lasciata aperta e noi indugiamo sulla soglia ad osservare l’interno. Imperturbabili, cupi, silenziosi. L’ologramma è affacciato alla finestra con le braccia incrociate dietro alla schiena e sembra non averci notato, fino a che, lentamente, si volta nella nostra direzione. Ci fissiamo a lungo per minuti infiniti, studiandoci a vicenda, la nenia delle macchine per il supporto vitale sottolinea quasi la tensione formatosi. Ad un certo punto, l’ologramma ci rivolge un sorriso mesto, accompagnato da un’espressione accomodante. Ma i suoi occhi tradiscono una profonda tristezza.

- Sephiroth… -, evoca con tono pieno di malcelata malinconia.

Avverto lo stomaco accartocciarsi, le dita stringersi ancora più veemente in pugno e la mandibola irrigidirsi. Nonostante l’abbandono, il tradimento e la sofferenza, la voce calda di Gast è sempre in grado di far emergere quel lato fragile e bisognoso d’affetto sepolto nel cuore ferito del Generale.

 

Il padre che hai sempre desiderato, ma che non hai mai potuto avere.

 

Quel rifiuto ancora brucia forte nell’animo di Sephiroth e avverto il suo desiderio recondito di vendetta, ma, davanti a quell’espressione così gentile e accomodante, non riesce proprio ad essere crudele. È stanco, in fondo. Stanco di combattere, stanco di odiare, stanco di soffrire.

Questi pensieri ci continuano ad inchiodare sull’ingresso della stanza, impedendoci di attraversarla. Non credo di aver mai avvertito il Generale così perso. È quasi doloroso il conflitto interiore che lo sta dilaniando. A rompere gli indugi, tuttavia, ci pensa il Professore stesso: egli si avvia verso di noi e… ci avvolge nelle sue braccia olografiche.

Anche se non avvertiamo la sensazione sulla nostra pelle, rimaniamo spiazzati da quel gesto inaspettato. Gast non è mai stato un uomo particolarmente fisico nei SUOI confronti; nonostante la gentilezza e la disponibilità, la distanza tra i due veniva sempre dolorosamente mantenuta. Vediamo le spalle subire qualche singulto, accompagnato da gemiti malcelati.

Siamo sempre più confusi, perché perfino il manifestare apertamente emozioni non era accettato.

- Mi dispiace… -, esordisce tra i singhiozzi.

Guardiamo verso il basso, sempre più in difficoltà a mantenere un ritegno. Contemporaneamente, egli alza il viso sbriciolato in una maschera di puro pentimento. Gli occhi verdi risplendono di lacrime amare dietro gli spessi occhiali marroni, incapaci di nascondere il senso di colpa che da anni corrode quest’uomo.

- Mi dispiace per tutto quello che ti ho fatto, ragazzo mio… -, Gast inizia a parlare e la voce rotta dal cordoglio ci spacca il cuore a metà, - Non eri nemmeno ancora nato e ho segnato il tuo destino per sempre, costringendoti a una vita che non meritavi. Avrei dovuto almeno provare ad alleviarla, dandoti l’amore che disperatamente cercavi in ogni persona che entrava in contatto con te. Invece, sono stato cieco e sordo alle tue urla d’aiuto. Me ne sono andato sapendo di quanto tu avessi bisogno di me… –

Gast abbassa la testa, le spalle e crolla verso il basso. Cerchiamo di fermarlo, ma la nostra presa passa attraverso il suo corpo olografico. Accartocciato su sé stesso e sotto il nostro sguardo sempre più basito, egli continua il suo discorso.

- Non c’è stato giorno in cui non mi sia pentito di quella decisione. Ho pensato tante volte a tornare a recuperarti, ma non ne ho mai avuto il coraggio… -, s’interrompe un attimo, emettendo una risata triste, - Non sono mai stato un uomo d’azione, lo sai. Perfino il portarti in braccio fino al paese era un’attività capace di togliermi il fiato. Te lo ricordi? –

L’ologramma alza di nuovo gli occhi verso di noi e la serietà imposta sul mio viso fatica a rimanere tale. Sento che ogni risentimento Sephiroth potesse provare verso quell’uomo sta rapidamente venendo annientato. Il Generale, tuttavia, resiste, e l’ologramma riabbassa la testa, appuntando lo sguardo da un’altra parte, sconfortato dal nostro silenzio.

- Non pretendo che tu sia disposto a perdonarmi… In fondo, so di non meritarlo. -, fa una pausa, durante la quale sospira pesantemente, - Ho fatto una figlia nella speranza di dimenticarti, ma continuavo a vedere i tuoi occhi ovunque. Che mi giudicavano, che mi odiavano -

Egli fa un’altra greve pausa, dove prorompe in un pianto più forte, che lo porta a nascondere il viso nelle mani.

- Ho perso entrambi i miei figli… -, sussurra, infine, e quella frase è una stoccata dritta nell’anima.

La mente del Generale si ammutolisce completamente, tanto che per un momento credo che si sia ritirato in qualche angolo recondito del mio inconscio. E, invece, era presentissimo. La realizzazione che, alla fine, l’amato Professore lo considerasse come un figlio, scatena un’ondata di calore che attraversa tutto il corpo, accelerando tremendamente il battito cardiaco e portandoci pericolosamente sull’orlo delle lacrime. Egli guida il mio sguardo verso il lettino, dove il VERO Gast è disteso, immobilizzato nel suo stato comatoso. Lo squadriamo a lungo, fino a che non notiamo dei riflessi scendere da quegli occhi forzatamente serrati. Come in preda a un impulso irreprimibile, Sephiroth si avvia a passo deciso in quella direzione, attraversando incurante l’ologramma prostrato e, senza alcuna esitazione, si abbassa verso il corpo morente e lo stringe con tutta la forza che ha.

Un’azione che avrebbe voluto compiere tanti anni fa, che ha sempre disperatamente cercato e che gli è stata SEMPRE spietatamente negata.

- Ora sono qui, Professore. -, dice Sephiroth con veemenza, - Non c’è più bisogno di soffrire. -

L’Angelo da Una Sola Ala permane immobile per un periodo lunghissimo, assaporando ogni secondo di quel contatto, come per recuperare ogni momento perduto durante la sua spaventosa, angosciante infanzia. Lo avverto piangere silenziosamente, mentre i ricordi degli istanti passati assieme al Professore riemergono dai flutti di una memoria sepolta, ma gelosamente conservata. Egli sospira profondamente per recuperare il contegno, tradendo quel lato umano che si nasconde dietro alle fattezze bellissime e terribili di un Angelo che cercò di diventare Dio. E, come tale, con un’inflessione misericordiosa nella voce, sussurra all’orecchio dell’uomo che stringe a sé:

 - Io vi perdono. –

Io non so se è una mia impressione, ma credo che quel viso immoto si sia disteso ulteriormente, appena proferita quella frase. Non ho comunque il tempo di constatarlo, perché l’argentato abbandona dolentemente Gast. Lo osserva a lungo, la mano stretta in quella senza vita del Professore. I suoi pensieri sono in subbuglio. Mi rendo spaventosamente conto che il caos nella sua mente m’impedisce di avere una visione chiara delle sue prossime azioni. È come se mi avesse allontanato, per impedirmi di interferire.

 

Sephiroth? Che intenzioni hai?

 

Mentre formulo questo pensiero, egli, con espressione indecifrabile, si propende verso i macchinari per il supporto vitale. La mia coscienza carpisce gli intenti di Sephiroth appena in tempo e lo blocco a pochi centimetri dal pulsante di spegnimento.

 

No!

 

È giusto così, Cloud.

 

Ma…!

 

Fidati, è questo ciò che vuole. Dall’altra parte c’è la sua famiglia che lo attende…

 

Dopo Genesis, sei già pronto a vedere un’altra persona cara che se ne va?

 

Il silenzio si propende per un lungo istante, mentre un terrificante stilettata di dolore colpisce dritto al cuore. Una sensazione spaventosa, ma, ahimè, ben conosciuta. I visi di tutte le persone che lo hanno abbandonato iniziano ad affollare le nostre menti, una dopo l’altra, rapidissime. Tanti, troppi lutti per una vita così corta. E, ogni volta, è sempre più dolorosa della precedente. Come se, invece di abituarsi, quella sofferenza diventasse un fardello sempre più pesante da portare. Eppure, una parte di sé sa che è inevitabile: è il suo destino rimanere solo.

 

Io sono sempre pronto.

 

Proferisce infine con un soffio di voce, come se l’ennesima battaglia interiore lo avesse spossato all’inverosimile. Di fronte a quell’ineluttabile verità, capitolo e lascio che il dito si posi e spinga quel pulsante.

Mentre i macchinari lentamente si spengono, provocando spasmi e lamenti soffocati, noi stringiamo la mano di Gast, mentre lo accompagniamo in accorato silenzio verso l’inevitabile fine.

Prima che il suo cervello si spenga completamente, il Generale si rivolge per l’ultima volta all’ologramma:

- Mi dispiace avervi portati via vostra figlia, Professore. –

- A me dispiace non aver protetto la tua, Sephiroth. –

 

 

Sento del vociare sommesso proveniente dal piano di sotto. Sulle prime non me ne curo: talvolta capita che Steven rimanga sveglio parecchie ore la notte per finire degli esperimenti e che ne registri delle osservazioni. Ma poi odo che le voci sono due. L’altra è femminile. Mi stranisco. Possibile che Steven abbia portato una donna qui? Nel cuore della notte?

Mi faccio più attento e mi rendo conto che la conversazione è concitata e molto animata. Inoltre, si fa sempre più forte. A quanto pare, si stanno muovendo per la casa e salendo le scale. Ora la voce femminile è più chiara. È giovanile, ma perentoria. Decisa e carismatica. Non ammette repliche.

Sorrido, ma mi rabbuio subito. Ha preso davvero tanto da lui, il mio errore più grande.

- No, non puoi entrare! Lo sai che il sonno è importante per lui! Non puoi fare sempre quello che ti pare! –, la voce di Steven riecheggia al di là della mia porta.

- E tu non mi devi dire sempre quello che devo fare! Devo vederlo! -, risponde la voce femminile.

Decido d’intervenire e attivo l’ologramma.

- Che succede là fuori? -, chiedo cortesemente.

Per un momento, il silenzio si stiracchia, ma posso immaginare l’occhiata di fuoco che il mio assistente ha lanciato a quella ragazzina così testarda, e anche lo sguardo ancora più mordace sfoderato in tutta risposta.

Sospiro… Come i vecchi tempi…, penso, mentre un sorriso malinconico mi si stampa in viso.

 A quel punto, la porta si apre e un contrariato Steven entra, seguito da una figura ammantata da un cappotto foderato di colore scuro, i cui capelli castani svolazzano da ogni parte in totale disordine.

- Takara! Qual buon vento! -, la saluto cordialmente.

- È venuta qui sola. -, sottolinea Steven irritato, senza dare nemmeno il tempo a Takara di rispondere al saluto.

- Da sola? Come mai Genesis non ti ha accompagnata? –

La sua espressione imperturbabile viene scossa da un leggero tremito e la mandibola si contrae in modo quasi impercettibile. Un’azione che ho visto migliaia di volte sul viso granitico di suo padre. E ho sempre capito che qualcosa lo turbava. Lei non fa alcuna eccezione.

- È successo qualcosa a Genesis? –, incalzo.

Lei sgrana gli occhi grandi, trovando conferma nella sua espressione stupita di aver colpo il punto; poi ammorbidisce l’espressione e sorride sghemba.

- Il tuo sesto senso non fallisce mai, Gast. -, ironizza scanzonata, ma poi la sua espressione si intristisce e vedo i suoi occhi farsi lucidi, poco prima che lei sposti lo sguardo altrove, - Infatti, Genesis sta… sta… -

- Male? -, intervengo cercando di completare la frase.

- Morendo. -, corregge Steven. Non è una domanda, ma una constatazione.

Takara lo fulmina con lo sguardo, infastidita dal suo tono clinico e distaccato, quasi annoiato, che va a definire una situazione temuta, ma, ahimé, prevista.

- Mia cara, lo sapevi che questo sarebbe successo prima o poi. Trovo strano, tuttavia, che sia accaduto così d’improvviso. Ricordo che dall’ultimo controllo, la degradazione non era ancora a livelli critici. -, ragiono io.

La ragazza sospira e si va a sedere su una delle sedie della mia stanza, ponendo i gomiti sulle ginocchia e fissando lo sguardo al pavimento.

- Degli stranieri hanno raggiunto Yaido. -, dice la ragazza, cambiando argomento, per poi alzare lo sguardo nella mia direzione – Cloud Strife e Vincent Valentine. -, precisa, - Hanno portato il diario. –

Constatazioni, non domande.

Sa, penso assumendo un’espressione contrita e colpevole. Steven, dalla sua, non le dà alcuna soddisfazione, rimanendo impassibile. Una scena vista e stravista già tantissimi anni fa.

Schiocca la lingua e si adagia sullo schienale, studiandoci con espressione indecifrabile.

- Quindi immaginate perché sono qui. –, sentenzia, fredda.

In imbarazzo, mi sistemo gli occhiali olografici e sospiro.

- Mia cara, - esordisco, cercando le parole giuste per esprimere quello che voglio trasmettere, - capisco che tu sia alterata e mi dispiace averti tenuto all’oscuro di certe cose, ma ti assicuro che ogni azione è stata effettuata sempre e solo nei tuoi interessi. –

Appena proferisco quella frase, l’espressione della ragazza s’indurisce, tutto il suo corpo freme e giuro di aver sentito un ringhio sommesso nascere dalla sua gola. Istintivamente, faccio un passo indietro.

- Certo. È sempre stata la tua scusa, Gast… -, proferisce la ragazza con un tono così roco e graffiante da non appartenerle. Dopodiché accavalla le gambe e si appoggia allo schienale della sedia, sorniona, - Immagino sia la stessa che ti sei raccontato per anni, dopo che hai deciso di lasciare mio padre nelle mani di Hojo. Oh, certamente ha giovato molto ai suoi interessi. –

Come colpito da un maglio, la mia intera persona rabbrividisce, di fronte a quella frase pronunciata con così tanto disprezzo e da quello sguardo in tralice che mi sta giudicando fin dentro al midollo. Rimango interdetto per un lungo istante, mentre mi rendo conto che la ragazza di fronte a me trasfigura in quella di un ragazzo dai capelli argentati.

Oh, no…

- Takara… hai per caso toccato il diario senza protezioni? –

La posa truce della ragazza s’infrange, mentre lei, sorpresa, si muove nervosa sulla sedia. La sua espressione dura, tuttavia, non viene dismessa, anzi sembra quasi sfidarmi.

A quel punto, Steven mi anticipa, battendo il bastone furiosamente al pavimento.

- DANNAZIONE, TAKARA! MI ERO RACCOMANDATO! AVEVO PERFINO DETTO A QUELLO SPOSTATO DI GENESIS DI…–

La furia del mio assistente si sbriciola sul totale disinteresse della ragazza, la quale dismette Steven con una sventolata di mano.

- Steven… perché non trascini il tuo inutile ammasso di complessi fuori da questa stanza? –, ribatte Takara con tutta la calma del mondo.

Vedo l’uomo gelarsi, l’ira sfumata in una genuina paura. Boccheggia, incapace di ribattere, mentre, dall’altra parte, la giovane sorride trionfante. Dopodiché, si volta verso di me.

Rimango in silenzio, realizzando che quello che sto guardando va oltre ad ogni umana concezione. È la fusione di due mondi. È la sintesi dell’Universo. È la fonte della Vita su questo Pianeta.

Lo stesso pensiero lo vedo affiorare in quegli occhi ora fattasi chiari, quasi bianchi. La sua espressione si è distesa, benevola.

- Ho bisogno di avere accesso alla cripta, Professore. È arrivato il momento. –

Dolorosamente, sospiro. Per anni abbiamo cercato di sottrarla a questo destino. Genesis, io, la WRO… volevamo evitare che un’altra innocente venisse sacrificata sull’altare di questa guerra, ma mi rendo conto che, per quanto noi umani possiamo scoprire sui Cetra e Jenova, loro saranno sempre al di fuori della nostra portata.

- Voglio che tu sappia che non era questo che volevo per te. -, dico dolente.

La ragazza annuisce, abbassando la sguardo, mentre stringe le sue mani per reprimere un moto di paura.

- Lo so. -, dice con voce tremolante, molto diversa dalle prime battute del nostro incontro – E io voglio che voi sappiate che avrei voluto darvi la redenzione che meritavate. -, conclude, guardandomi con sguardo afflitto.

Ora la rivedo, la ragazzina che ho imparato ad amare, la prole di quel figlio che ho respinto con tutte le mie forze, quando, lo sapevo, essere accettato era tutto ciò tutto che desiderava.

Perché l’ho fatto?

Perché ho ignorato la sofferenza di Lucrecia?

Perché non ho dato ad Hojo quello che si meritava?

Come ho potuto infliggere un tale dolore a così tante persone?

Mi volgo alle mie spalle e guardo il mio vero corpo.

Guarda dove ci ha portato…

Sospiro di nuovo e mando l’impulso al computer che controlla i meccanismi di difesa della cripta. La porta di quest’ultima, celata dietro ad una falsa parete, ha un singulto e poi con un poderoso tonfo di apre.

- Aiutarti, Takara, è il mio gesto di redenzione. –, proferisco, sorridendole.

Il Dono sorride di rimando e si alza, muovendo qualche solenne passo in direzione del suo antenato. Rimane per qualche istante ad osservare il buio profondo e ad assaporare l’odore di umidità e Lifestream levatosi dal sotterraneo, esitante, mentre un ultimo guizzo di paura le pervade le membra. Vedo il suo pugno sinistro stringersi e la testa venire sollevata decisa. Fa per muovere un altro passo, però, Steven interviene e ficca una siringa nella spalla destra della ragazzina.

Ella rimane per lunghi secondi a guardare il punto in cui l’ago è penetrato nella stoffa sottile per poi sollevare il viso nella direzione del mio assistente. L’odio ha trasfigurato i tratti innocenti della quattordicenne, rivolgendo all’uomo un’espressione mostruosa. Inumana.

Il mio assistente indietreggia, lentamente. Sebbene non abbia le capacità fisiche di contrastare Takara, egli sembra sfidarla apertamente, fissandola dritta in quegli occhi infernali.

- Che cosa vuol dire, Steven? –, chiedo interdetto.

- Che la ragazza verrà con noi, Professor Gast. –

La risposta giunge da una figura allampanata che, elegantemente, si staglia sull’uscio della mia stanza. Capelli biondi e ben pettinati, occhi acquosi, espressione arrogante, portamento nobile e una fiera nera al suo fianco.

Rufus Shinra?!

Non faccio in tempo a proferire il nome del nuovo arrivato, che Takara caccia un urlo di folle rabbia, sguainando un coltello che teneva nascosto tra le vesti da viaggio. La ragazza è talmente veloce che riesce a tagliare due dita dalla mano del mio assistente, facendogli perdere la presa del bastone, poi, con un guizzo rapidissimo, la mano destra della bruna si chiude attorno al collo dell’uomo, strozzando un grido di dolore. Il coltello baluginante di riflessi cremisi è pronto ad affondare nel cuore traditore di Steven, ma, fortunatamente per lui, una turba di personaggi mascherati intervengono ad immobilizzare la ragazza, prima che ella concluda i suoi letali intenti.

Con un incredibile guizzo guerriero, Takara salta all’indietro ed evoca una barriera capace di respingere l’attacco deliberato, così da guadagnare del tempo prezioso per gettarsi verso l’entrata della cripta. Osservo inerme gli uomini rincorrerla giù per la sdrucciolevole scalinata. Nel frattempo, prego che, per almeno una volta, il Pianeta possa rispondere al disperato grido d’aiuto di questa famiglia. Vedo flash di luce verde levarsi dalle viscere della cripta, evocate, probabilmente, dalla ragazzina, come disperata difesa contro quegli aguzzini; ma, noto con angoscia, che la luce diventa sempre più debole, più flebile. L’effetto del potente sonnifero inizia ad annebbiare la mente della giovane. Dopo qualche minuto dalla cessazione dei flash verdi, gli uomini mascherati riemergono dalla cripta, trascinando con sé il corpo senza forze della ragazzina. Con orrore e impotenza, osservo quegli uomini legarla. Con rabbia e disgusto, fisso Steven iniettarle qualche droga per tenerla in uno stato semi-incosciente.

No, non di nuovo.

Il ricordo va direttamente alla notte in cui me ne andai, quando Sephiroth m’inseguì per scappare con me. A nulla valsero i suoi sforzi di liberarsi dagli spietati cani da caccia della ShinRa che, imperterriti, lo consegnarono al più terribile dei suoi aguzzini: Hojo. E ora, sto assistendo alla stessa identica scena.

La piccola piange, silenziosa, cullata da una frase che l’accompagna fino all’oblio:

 

 - The fates are cruel [Le parche sono crudeli, LOVELESS, Act IV] -

 

Io muovo qualche passo nella sua direzione, mentre un energumeno carica la ragazza sulle spalle e la porta via. Tutti escono e se ne vanno, senza degnarmi nessuna attenzione, compreso Steven che, zoppicando via, si stringe la mano lesa al petto, mugugnando maledizioni verso Takara.

Solo una persona è rimasta nella stanza ed è l’unico che non ha mai tolto lo sguardo da me: Rufus ShinRa.

- Grazie per tutto il lavoro svolto, Professore. -, la sua voce è fastidiosa, canzonatoria, - Non avremmo mai potuto farcela senza di Voi. -

- Non era così che doveva finire… -, rispondo debolmente.

- No di certo, Professore. Gli Esper solo sanno di cosa è capace la cricca a cui l’avete affidata. –, fa una pausa, durante la quale l’uomo si lascia sfuggire un rapido sguardo al letto dietro di me. – Ma, fortunatamente, ci sono i figli a fare ammenda dei peccati dei padri. –

- Takara non è nata per fare ammenda dei peccati di suo padre. Anzi, è tutto ciò che di buono c’era in lui. –, ribatto con veemenza.

Il biondo si lascia sfuggire uno sbuffo divertito.

- Se c’è una cosa che ho imparato in lunghi anni a contatto con Sephiroth è che niente di buono può scaturire da lui. -, il ghigno divertito sfuma, lasciando spazio ad un’espressione dura, - Voi lo dovreste sapere meglio di chiunque altro, Professore. –

Io scuoto la testa, dolente.

- Voi non sapete niente di lui. E state facendo uno sbaglio gigantesco. -

Il Presidente mi rivolge un sorriso enigmatico e inizia a darmi le spalle, ma, con un guizzo di coraggio, gli chiedo: - Dove la portate? –

Rufus rivolge nuovamente l’attenzione sull’ologramma, sguardo solenne.

- Al Northern Crater. Dove potremo finalmente distruggere quel potere per sempre. -

 

 

Un silenzio angosciante mi sta assordando. Vorrei muovermi, andare via, ma Sephiroth non permette alla mia coscienza di prendere possesso del mio corpo. Egli ci fa permanere immobili, seduti su quel lettino a stringere una mano gelida e rachitica. Il nostro sguardo fisso su un punto imprecisato di fronte a noi.

Gast era tutto quello che lui avrebbe voluto diventare…

L’unico uomo che con il solo pensiero era in grado di ripescarlo dal baratro profondo della sua follia. Era stato Gast ad instillargli quegli scrupoli che tanto odiava Hojo. Era dal suo esempio a cui attingeva per trasmettere insegnamenti a sua figlia. Immaginava spesso che il Professore fosse lì a guardarlo fiero, mentre stringeva a sé la famiglia che era riuscito a creare tra le mille difficoltà. Sarebbe stato orgoglioso nel saperlo sistemato e, finalmente, felice?

Sì, probabilmente lo sarebbe stato, a giudicare dalle frasi pronunciate durante lo scontro con Rufus; eppure, non glielo ha detto mai in faccia. Nemmeno nella sua ultima occasione.

Mi rendo conto che questo ennesimo lutto sia un fardello gigantesco per delle spalle stanche come quelle del Generale.

Quanto tempo è andato sprecato tra di loro…

Un flebile fruscio alle nostre spalle spezza la bolla di deprimente calma in cui Sephiroth mi stava trascinando.

Lentamente, voltiamo la testa appena sopra la nostra spalla sinistra, e lo vediamo: Vincent.

Se avessi il controllo del mio corpo credo che deglutirei, immaginando, con l’occhio della mente, di trovarmi in un angolo dismesso, mentre padre e figlio di scrutano silenti, come due enormi scure montagne.

Rosso nel verde.

Il pistolero ci fissa apparentemente imperturbabile, i suoi pensieri insondabili come un placido lago. Noi gli rivolgiamo un sorriso sghembo per poi dismettere lo sguardo dalla sua figura, ma egli fa un rapido passo verso di noi, ristabilendo il contatto visivo. Ora tocca noi a fissarlo curiosi, mentre l’ex-Turk incespica con un muto discorso. Poi, come sceso a patti con sé stesso, si avvicina a noi con passo deciso. Tutta la baldanza, tuttavia, scivola via a mano a mano che lui si avvicina a noi, tant’è che è con estremo timore che poggia entrambe le sue mani sulle nostre spalle. Con delicatezza, stringe le dita su di esse, finché il suo tocco non diventa disperato, quasi rabbioso.

Il nostro cuore ha iniziato a battere fortissimo, il respiro farsi più rapido. Mi rendo conto che Sephiroth ha paura. Il contatto è sempre stato qualcosa di estremamente fastidioso per lui, un preludio a qualcosa di terribile che sta per accadere. Uno schiaffo, un pugno, un qualunque atto di violenza. Non ha mai conosciuto altro dagli uomini.

Ma gli intenti di Vincent non sono mai stati quelli…

Egli, infatti, appoggia la sua fronte alla nostra nuca, sospirando pesantemente, mentre le sue braccia ci cingono le spalle da dietro, stringendoci verso il suo petto.

Rimaniamo così per lunghi istanti, persi completamente nella confusione che il comportamento di Vincent ci ha provocato. Vorrei chiedere spiegazioni, ma l’argentato è completamente gelato.

- Non sei solo, Sephiroth. -, proferisce Vincent con decisione, - Non stavolta. Stavolta tuo padre è qui, accanto a te. Non ti abbandonerò. –

Il nostro cuore sobbalza e gli occhi pungono, mentre ci aggrappiamo all’avambraccio di Vincent.

- Padre… -, evoco con la voce del Generale.

- Sì, figlio mio. Andrà tutto bene… -

Ci gira verso di sé, ci cinge i lati della testa con le mani e appoggia la sua fronte sulla nostra, guardandoci dritti negli occhi.

Rosso nel verde, ma stavolta l’uno rispecchia l’altro, fondendosi in un colore completamente nuovo.

- Te lo prometto… -

 

 

- Credo che vogliano eseguire un antico rituale Cetra. – conclude Reeve, assorto, mentre sfoglia un vecchio tomo di leggende tratte dal folklore di quel popolo dimenticato. Nonostante questo, sembrano essere considerate dall’ex-proprietario una valida fonte di informazioni, a giudicare dai numerosi segnalibri e appunti apposti sulle sue pagine da Steven stesso.

- A quale rituale ti riferisci? -, chiede Tifa.

- Lo stesso che gli Antichi usarono su Jenova. -, intervengo io, dopo una rapida consultazione con Sephiroth, mentre, ingordi, sfogliamo i fascicoli presenti sulla scrivania di Steven. Il suo studio è stato rivoltato da cima a fondo, al fine di ricavare informazioni sulle sue intenzioni. Gli uomini della WRO hanno esaminato ogni centimetro della casa e di questo studio e non hanno trovato nessuna cassaforte nascosta o qualche altro aggeggio segreto; quindi, tutto quello che c’è qui è tutto quello che Steven ha prodotto in questi anni.

Non ha fatto nulla per nasconderlo…

Forse pensava che la villa fosse sufficientemente sicura, dato l’isolamento e la scarsità di visitatori.

Tutte queste illazioni, non sembrano convincere il Generale, il quale muove rapidamente la mia mano tra i fogli e i dossier, alla disperata ricerca di qualcosa.

 

È tutto troppo semplice…

 

Reeve annuisce.

- Già, ma non capisco, perché entrare in combutta con la Shinra. Perché rapire Takara in quel modo? –

Di tutta risposta, Weiss grugnisce, lascia cadere le braccia lungo i fianchi e scuote la testa.

- L’hanno catturata con una facilità disarmante… Come se sapessero le sue intenzioni da tempo. -, alza la testa e lascia che il suo sguardo truce trafigga ognuno di noi, – Come se qualcuno li avesse guidati qui… -

Il silenzio cala di nuovo e la fastidiosa sensazione di essere osservati si fa strada tra le nostre cellule, tant’ è che alziamo lo sguardo e capiamo di essere nuovamente nel mirino dell’ex-Tsviet. Sephiroth sfodera lo sguardo più truce che conosce – quello che ti faceva accapponare perfino le viscere – e risponde alla sfida.

Ci fissiamo per lunghissimi minuti, saette e fulmini immaginari spillano dalle nostre auree; i muscoli si preparano alla battaglia, i sensi si acuiscono, il respiro si fa più pesante.

- Ora basta! -, interviene Vincent, mettendosi in mezzo, - Nessuno ha guidato qui nessuno. Piuttosto, sembra proprio il contrario. LORO sembrano averci guidato fino a questo punto. Come se sapessero come stanarla…-

La realizzazione folgora la mente di Sephiroth e, di conseguenza, la mia, come un fulmine a ciel sereno.

Faccio appena in tempo a realizzare il movimento del mio braccio sinistro che questo va a schiantare un pugno così potente alla scrivania di Steven da, per poco, non piegarla su sé stessa.

E poi, qualcosa esplode dentro di me, un ruggito di rabbia così possente da credere di avere un Behemoth agitarsi nel petto. I muscoli si tendono nuovamente, i denti vengono snudati, i sensi si annebbiano, le orecchie fischiano. Una figura si defila nella nostra mente, via via sempre più nitida. Giacca nera, camicia bianca, chioma nera e liscia, punto sulla fronte.

Tseng…

 

Mai fidarsi di un Turk.

 

Un tocco lieve e leggero mi si posa sul braccio ancora teso nell’atto di sfondare la scrivania, strappandomi dall’abisso d’ira in cui stavamo sprofondando; tuttavia, mi volto con troppa veemenza e l’autrice del tocco salta all’indietro, spaventata.

- Scusa, Tifa… -, dico con un soffio di voce.

Realizzo solo ora di avere letteralmente la mano affogata in un cratere di sangue e del dolore lanciante che si dipana dalla punta delle dita alla spalla. Lentamente, recupero l’arto e lo osservo, perplesso e stupito. Mi accorgo con orrore che, sebbene faccia un male dannato, la mia mente fatica a considerare quel pezzo di carne parte di me; così come mi preoccupa la facilità con cui Sephiroth lo ha invaso e usato per sfogare la sua esplosione di rabbia. In effetti, non è la prima volta che mi possiede, anche se è la prima volta che mi fa seriamente del male o, comunque, non rispetta la mia volontà.

Prendo fiato e cerco di nascondere il mio turbamento, rivolgendo a Tifa un sorriso sofferente.

- È tutto ok. -, rassicuro, anche se lo sguardo mordace della mora mi fa intendere che non si è del tutto convinta che io abbia la situazione sotto controllo.

 

Forse non l’ho mai avuta…

 

Scaccio il pensiero e riprendo il discorso, rivolgendomi anche agli altri.

- Non credo che fosse sua intenzione sbottare così. -, giustifico, stringendomi la mano al petto per soffocare una fitta di dolore, - Ma ha realizzato che la Shinra sapeva di Takara da molto tempo. -, faccio una pausa per lasciare che il concetto venga assorbito dagli astanti. Nel frattempo, Tifa si è convinta a lasciare i risentimenti da parte e, recuperato un pezzo di stoffa, ha iniziato a fasciarmi la mano, con l’aiuto di Vincent.

- Il primo a rendersi conto dell’infatuazione di Sephiroth nei confronti di Evelyn fu Tseng. Da lì, lui seguì la questione molto da vicino. 

Reprimo a fatica la nuova ondata di rabbia al pensiero che al Turk era stata affidata perfino la salvaguardia della SUA famiglia, ad un certo punto.

In fondo, per quanto Tseng abbia sempre patteggiato per i SOLDIER, un ordine di Rufus Shinra rimane pur sempre un ordine di Rufus Shinra.

- In qualche modo, - continuo, - Tseng potrebbe aver spifferato tutto a Rufus e poi Steven ha fatto il resto, trovando il modo d’infiltrarsi nella WRO ed entrare nella cerchia dei tutori della ragazza. –

- Ma perché vogliono distruggere il suo potere? -, sbotta Weiss, - Lei è il Dono! Colei che metterà fine alla sofferenza del Pianeta. –

Rimango in silenzio qualche momento e, non so se per caso o guidato da Sephiroth, il mio sguardo si poggia su una serie di appunti a cui stavamo dando un’occhiata prima di interromperci.

 

L’esperimento di Steven...

 

- Takara non è semplicemente una fusione perfetta tra Cetra e Jenova… Lei È Jenova. –

- COME OSI! -, scatta Weiss, ma la sua furia viene bloccata da Vincent, il quale, si interpone nuovamente tra noi, posando una mano sul petto dell’albino. L’ex-Turk, tuttavia, ci rivolge un tagliente e oltraggiato sguardo.

- Sei di nuovo convinto che mia nipote sia il nemico? -, ribatte, gelido.

Trattengo il sorriso compiaciuto nel realizzare che Vincent ha finalmente accettato il suo ruolo e che sembra pronto a tutto per proteggere la sua famiglia ritrovata.

- No, Vincent. -, rispondo, apponendo la mano sana al petto, - Questo mai. Tuttavia, bisogna guardare i fatti. -, prendo il dossier in cui sono raccolti tutti i dati e i risultati che Steven ha messo insieme negli anni, - L’aspetto femminile che tutti noi conosciamo di Jenova, non è la sua vera forma. -, faccio una pausa, -La donna che abbiamo imparato a temere, la Madre che altri hanno servito, il mostro che ha abitato i nostri incubi… Sono tutti riconducibili alla Cetra che è stata parassitata da un alieno caduto dal cielo. -, mi fermo di nuovo e guardo ad uno ad uno tutti gli astanti, i quali pendono letteralmente dalle mie labbra, - Una Cetra che per millenni è stata schiava di quest’essere che attraverso gli esperimenti della Shinra si è diffuso in tutto il Pianeta. E non solo attraverso il Lifestream, ma anche nel nostro DNA. -, lascio spaziare la mano sana, lasciando intendere il significato delle parole appena proferite.

- Il Progetto Jenova S, ossia quello che ha creato Sephiroth, ha dotato questi di poteri identici a quelli del campione originale. -, scuoto la testa, al pensiero di ciò che sto per rivelare, - Evelyn mi ha mostrato gli effetti che l’alieno stava avendo su di lei. -, una stilettata di dolore mi fa stringere i denti, ma non proviene dalla mano, mi rendo conto, - Ha passato quell’infezione a sua figlia. – concludo, mesto.

Un silenzio attonito cala tra noi, incapaci di realizzare l’orrifico pensiero a cui ho appena dato adito.

- Quindi, Takara è stata concepita da una sorta di Riunione… -, realizza Reeve, scioccato.

Avverto il senso soverchiante di colpa provenire dalla mente di Sephiroth, ma cerco d’ignorarlo, ragionando sulle condizioni in questo concepimento venne luogo.

- Sephiroth ed Evelyn si amavano. -, ribadisco, deciso, - Jenova può aver cercato d’inquinare quel sentimento in tutti i modi, ma non c’è riuscita. La Shinra è sempre stata uno strumento nelle mani della Calamità e credo che questo blitz sia un gesto disperato per provare definitivamente di prendere il totale controllo della ragazza. -, sospiro, - Temo che Takara fosse consapevole di questo rischio, per questo era così spaventata. –

- Eppure, è andata avanti lo stesso. -, ribatte Vincent con orgoglio.

Io annuisco, sorridendogli. Sephiroth non può trattenere il senso di sollievo nel sentirsi compreso dal proprio padre. Ha capito che quello sguardo pieno di fierezza era anche per lui.

- E noi non la abbandoneremo. -, interviene Reeve, mettendo le mani sulle nostre rispettive spalle.

 

 

Nothern Crater.

 

Dove tutto ha avuto inizio.

 

Dopo un lungo viaggio, la terribile Calamità inizia il suo minuzioso lavoro di distruzione di ogni forma di vita presente sul Pianeta. È un mondo ricco di risorse, con una mente collettiva estremamente potente e un popolo affascinante. Affamato di conoscenza. È curioso. Fatalmente curioso. Così curioso da darle una forma capace di confondersi tra loro. Una forma femminile e avvenente, capace di ammaliare e attirare a sé individui della stessa razza.

Esiste anche un’altra etnia, più primitiva dei Cetra: gli Umani. Ma non serviranno per i suoi imminenti scopi. Almeno per il momento.

Perché Jenova sa che la vita è sempre difficile da estirpare da un Pianeta, quindi bisogna essere pronti a tutto.

Come immaginava, i Cetra si rivelano pieni di risorse e dotati di una profonda conoscenza degli intimi meccanismi del Pianeta, tanto da riuscire a confinarla là da dove è venuta.

I Cetra sperarono che le fredde e morte terre del Northern Crater fungessero da deterrente sufficiente per impedire a qualunque essere vivente di disturbare la prigionia di quel mostro stellare.

Ma Jenova doveva solo aspettare…

Che cos’erano pochi millenni per una creatura immortale?

Un battito di ciglia.

Aveva visto l’avidità e l’invidia degli Umani. Rimasti soli, non passò molto tempo prima che iniziassero a prendersi le risorse del Pianeta.

Cetra, la chiamavano, quegli scienziati.

Non era una creatura permalosa, anzi fu quasi grata agli Umani e all’esercito di schiavi che le fornirono senza nemmeno muovere un muscolo. E le consegnarono l’arma più potente di tutte: Sephiroth.

Grazie a Lucrecia aveva capito molto della malata tendenza degli Uomini di maltrattare i propri figli e di usarli per nutrire le loro ambizioni. Per non parlare delle follie che gli uomini compiono per amore. Sarebbe bastato stuzzicare il lato affranto e fragile di quel bambino cresciuto troppo in fretta, usando la sua amata come collante e tenerlo legato a lei per sempre.

Uno… schiavo d’amore.

La figlia non fa eccezioni. A nulla sono valsi gli sforzi del servo di Minerva nel tenerla lontano dalla Calamità, perché l’avidità umana è qualcosa che Jenova ha imparato a sfruttare fin troppo bene. Così come la ridicola speranza di poterla controllare.

Sarà un grande ritorno. Ella recupererà i suoi pieni poteri e finalmente potrà riprendere il suo viaggio.

In corpo nuovo.

Giovane e forte.

Pieno di Lifestream.

 

 

ECCOMIIIIIIIII!!! Tornata dopo UNA VITA, ma ce l’ho fatta! Il capitolo era pronto da tempo, ma la mia vita si è rivoluzionata completamente negli ultimi anni e quindi le mie passioni e hobby sono state un po’ messe da parte.

Non so in quanti ancora vorranno leggere quest’ultima fatica, ma è bello riprendere a scrivere e postare su EFP. Sono un po’ di capitoli che dico che il prossimo dovrebbe essere l’ultimo, ma direi che il prossimo GIURO la finiamo. Probabilmente sarà un po’ più lungo del normale così si chiude questa avventura! Devo darmi una mossa prima di essere risucchiata dalla scrittura della tesi del dottorato!

 

I più attenti si saranno accorti che sto cominciando a sviscerare quel lato paterno di Vincent. Data la situazione nella storia, purtroppo non credo non ci sarà molto tempo per i nostri padre e figlio di parlare di sentimenti, ma pianifico di poter dare ad entrambi un degno ‘arrivederci’. Ora vedremo come l’ispirazione mi prenderà XD

 

Grazie a tutti quelli che hanno la pazienza di aspettarmi! Vi voglio bene!

 

A presto!

 

Besos

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