La storia incompleta dei cyborg 17 e 18: dalla nascita alla rinascita

di DarkWinter
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Lapis e Lazuli ***
Capitolo 2: *** La tela del ragno ***
Capitolo 3: *** Fatti a pezzi ***
Capitolo 4: *** Il ragno ***
Capitolo 5: *** Indimenticabile ***
Capitolo 6: *** Una brutta china ***
Capitolo 7: *** Cadere nel nero ***
Capitolo 8: *** Riscoprire una strada interminabile ***
Capitolo 9: *** "Donne per il Futuro" ***
Capitolo 10: *** Una camicia rosa, il Commando e un parco ***
Capitolo 11: *** Scuoti la gabbia ***
Capitolo 12: *** Solo ad una chiamata da te ***
Capitolo 13: *** Reset ***
Capitolo 14: *** Nel RNP ***
Capitolo 15: *** Lazuli ***
Capitolo 16: *** Fuori pericolo ***
Capitolo 17: *** Miracolo a Noiresylve ***
Capitolo 18: *** Il terzo moschettiere ***
Capitolo 19: *** Una linea rossa solitaria e linee sottili ***
Capitolo 20: *** Carpe Diem ***
Capitolo 21: *** Lillian ***
Capitolo 22: *** Un Ladro in Cucina ***
Capitolo 23: *** Gli occhi verdi dell'amore ***
Capitolo 24: *** Sogni che si avverano ***
Capitolo 25: *** Divisione MI ***
Capitolo 26: *** Sul filo del rasoio ***
Capitolo 27: *** "Come ho conosciuto nostra mamma" ***
Capitolo 28: *** La piccola Marron ***
Capitolo 29: *** Super 18 ***
Capitolo 30: *** Situazione Sentimentale pt.1 ***
Capitolo 31: *** Situazione Sentimentale pt.2 ***
Capitolo 32: *** Sedici, Diciotto e...Hacchan! ***
Capitolo 33: *** Un Anno dopo ***
Capitolo 34: *** Fede, Speranza, Amore e Fortuna ***
Capitolo 35: *** La Varicella ***
Capitolo 36: *** L'altro Estremo dello Spettro ***
Capitolo 37: *** Buone Nuove ***
Capitolo 38: *** 17 VS 18 ***
Capitolo 39: *** Un Desiderio ***
Capitolo 40: *** La migliore Madre che si possa avere ***
Capitolo 41: *** Niente Cuori infranti a un Matrimonio ***
Capitolo 42: *** Questa Volta, per sempre ***
Capitolo 43: *** Il Ritorno dell'Incubo ***
Capitolo 44: *** Fare qualsiasi Cosa per Amore ***
Capitolo 45: *** Non e' finita finche' non e' finita ***
Capitolo 46: *** Liberazione ***
Capitolo 47: *** L'Asilo, Top Ranger e Hot Wheels ***
Capitolo 48: *** Monster Island SOS ***
Capitolo 49: *** La mia Vita per te ***
Capitolo 50: *** Fairspeir ***



Capitolo 1
*** Lapis e Lazuli ***


 

 

La giovane Kate fissava un punto indefinito sul pavimento dove si era messa a

quattro zampe, mentre spingeva e gridava, la sua grossa fronte madida di sudore.

Il tempo non passava mai in quella stanza d’ospedale. Le sembrava di essere li’ da giorni, anche se in realta’ sapeva che erano solo state quarantadue ore. Si sentiva imbarazzata, sapendo che probabilmente potevano sentirla urlare e imprecare fino a Central City.

Non poteva farci nulla.

“Brava, continui così!”

Percepiva i movimenti del primo gemello, mentre si faceva strada nel canale del parto. Si augurò che andasse tutto bene e che finisse in fretta; si sentiva come una bambina spaventata anche se ormai, a venticinque anni e con due gemelli in arrivo più che imminente, una bambina non era più.

 

Sapeva che quella nascita stava presentando complicazioni: i dottori le stavano dicendo che il primo

dei due bambini non riusciva a uscire e che di conseguenza l’altro stava soffrendo, intrappolato nel grembo di sua madre.

Kate strinse i denti mentre un dottore aiutava il primo bambino ad abbandonare il suo corpo: spinse piu’ forte che poté; la massa di capelli scurissimi le aderiva alla schiena in modo altamente fastidioso.

Stordita da un dolore che divenne quasi insopportabile, Kate udi’ I dottori discutere fra di loro. Mormoro’ una preghiera, stringendo gli occhi stanchi.

La palla enorme che era il suo ventre sembro’ smettere di toccare il pavimento, all’improvviso Kate si sentì più leggera.

Un velo di lacrime di gioia le ricoprì gli occhi appena sentì il pianto del suo primo bambino.

“Ottimo lavoro, mammina. E’ una bimba."

Tesoro” le lacrime le scorsero lungo le guance, mentre tendeva le braccia per accogliere

quella cosina preziosa. Bacio’ un ciuffetto di capelli bianchi insanguinati.

E poi uno spasmo terribile scosse il corpo di Kate, mentre altre forti contrazioni non la lasciarono respirare. Non aveva finito.

Con la sua bimba appena nata ancora fra le braccia Kate si cullo’ il ventre livido, pregando che il gemello piu’ giovane stesse ancora bene. Passarono minuti, ore, giorni. La neomamma si senti’ in agonia; non poteva permettersi di perdere un bambino, non se lo sarebbe mai perdonata. Travolta dai dolori, non riusciva a pensare ad altro.

Finalmente il dottore recuperò il suo sorriso e Kate si commosse nel sentire un altro grido forte e acuto.

Grazie al cielo. Grazie al cielo.

Kate ripete’ i suoi gesti, canticchiando per calmare il piccolo tremante, ascoltando i suoi versetti.

“Tutto a posto, stanno bene tutti e due: congratulazioni!” ammiccò il medico “maschio e femmina, vivaci e bellissimi”.

Amori miei pianse Kate, stringendosi i bimbi al petto.

 

 

Non era facile essere single con due bambini esuberanti a cui badare.

Lapis, il maschio e Lazuli, la femmina erano perfettamente sincronizzati: quando piangeva uno

piangeva anche l’altra, se uno aveva voglia di giocare o di dormire dopo la pappa l’altra lo seguiva a ruota.

a ruota.

Protestavano se Kate cercava di separarli, avevano persino iniziato a parlare insieme, nello

stesso momento.

Quella volta Lazuli aveva sventolato la sua manina paffuta mentre Kate le stava facendo il bagnetto:

“Ciao, mamma!”

E Lapis, concentrato sulle sue macchinine, seduto lì vicino, aveva sua volta alzato il braccio per

salutare: “Ciao, mamma!”

“Ma ciao tesori miei!”

Finalmente! Non si erano decisi a spiccicare una sola parola prima d’ora e mancava poco al loro

secondo compleanno.

“Acqua! Acqua! Bella...” la bimba ne aveva accarezzato la superficie tiepida, ridendo entusiasta.

“Acqua! Bella!” aveva detto anche il suo fratellino, contagiato dal buonumore.

Kate restava meravigliata e intenerita dai suoi bambini; in soli tre anni di vita si erano molto affezionati, stabilendo un legame di cui Kate era grata. Almeno ci sarebbero sempre stati l’uno per l’altra, dandosi sostegno e facendosi compagnia.

 

La giovane madre aveva anche avuto qualche infarto; il piccolo Lapis mangiava tutto e anche se questo andava benissimo a Kate, che era spesso frustrata dal fatto che Lazuli rifiutasse categoricamente ogni pasto che lei le offriva, d'altro canto il bambino aveva sviluppato la cattiva abitudine di mettersi in bocca vari oggetti non commestibili, senza curarsi del fatto che non erano sicuri.

Di solito la mamma riusciva a gestirlo, ma quella maledetta volta in cui Lapis si era quasi strangolato con una pallina di gomma, Kate aveva dovuto andare a cercare aiuto; raggomitolata tra le braccia di Kate, Lazuli aveva pianto a gran voce vedendo la vicina fare la manovra di Heimlich a suo fratello. Le ci vollero due giorni affinche’ smettesse di piangere e abbracciarlo.

Kate, è importante che aiuti i tuoi gemellini a sviluppare separatamente la loro personalità.

Altrimenti più andranno avanti, più sarà difficile che facciano uno a meno dell’altra” le dicevano

amici e conoscenti.

La mamma lo sapeva ed era convinta che ognuno avesse decisamente la propria personalità. Di certo lei era già una signorina amante delle cose da donna: Kate ne aveva avuto la prova più volte, trovandosi i cassetti a soqquadro e la bimba con la faccia imbrattata di trucco.

Lapis la guardava e scuoteva la testa.

Kate era contenta di vederli quando si addormentavano abbracciati, un po’ meno quando si

passavano le malattie.

Naturalmente i gemellini avevano già iniziato l’asilo e ci era voluto veramente poco

perché Lazuli si ammalasse di varicella.

“Ti conviene non stare troppo vicino a tua sorella, tesoro, altrimenti ti ammalerai anche tu.” daveva detto Kate al bimbo, una volta.

Lui le era saltato in braccio e aveva puntato gli occhi nei suoi: “Mamma, io senza mia sorella sono triste”.

“Non devi preoccuparti. Lazuli sta bene, non è nulla di grave. Tu devi stare solo attento a non bere dal suo bicchiere o a scambiarvi le posate come fate di solito”.

Per tutta risposta una volta Lapis trasgredì le regole e si trovò felicemente ammalato, fianco a fianco

alla sorella nel loro lettino:

“Mi dispiace, la mamma mi aveva detto di non farlo; volevo stare con te” disse a

Lazuli, con gli occhi bassi.

Lei gli sorrise con gli occhi lucidi per la febbre e gli diede un piccolo bacio umido sulla guancia arrossata: “Hai fatto bene, mi mancavi! Ma se non mi fossi ammalata a quest’ora anche tu staresti bene. Scusami.”

 

 

Gli anni passavano sereni. Kate era sempre più contenta dei suoi figlioletti, anche se ne

combinavano sempre di nuove.

“Voi guardate troppi cartoni!” disse una volta esasperata, quando entrando nella loro stanza si

ritrovò infradiciata da un secchio d’acqua posto in cima alla porta.

I bambini si davano il cinque soddisfatti e ridevano a crepapelle.

E guai a chi li sgridava! Non era mai nessuno! Guai a chi toccava loro rispettivamente la sorellina o il fratellino.

Nei primi anni di scuola i due fratelli avevano avuto ottime occasioni di fare squadra. E con il

tempo diventavano sempre più uniti, a volte anche in maniera esagerata.

Kate si era amorevolmente convinta che fossero un caso perso la volta in cui aveva dovuto far

accorciare i capelli a Lapis e Lazuli si era impuntata per farsi tagliare i suoi.

“Altrimenti Lapis diventa triste perché gli viene nostalgia” spiegava, come se fosse scontato.

 

Fu quando i gemelli iniziarono a diventare piuttosto grandicelli che Kate iniziò a preoccuparsi.

Saltavano la scuola, imbrogliavano gli insegnanti, sempre insieme. Lei era preoccupata del fatto che

si sarebbero presto trasformati in due adolescenti difficili.

Lazuli era la peggiore: era sempre lei a mandare a casa gli altri scolari con le braccia piene di

graffi se la facevano arrabbiare o se davano fastidio a suo fratello.

Lui era meno agguerrito, ma molto protettivo nei confronti di sua sorella.

“Sai cosa dobbiamo fare?” le disse una volta.

“Ti ascolto; se è una buona idea ti dico già di sì”.

Lapis ridacchio’, strizzandole l’occhiolino: “Certo che lo è!E’ una cosa per mantenere saldi i legami: noi ci facciamo un taglio, piccolo, io lo faccio a te e tu lo fai a me. E dopo dobbiamo bere il sangue che esce”.

“Che roba stupida, a cosa serve? Abbiamo già il legame di sangue, eravamo insieme persino nella pancia: più di così!”

“Fa niente. Una volta si faceva così nelle tribù”.

Beh, Lazuli non era una bambina delle tribù.

Nessuno voleva cedere.

Restarono per un po’ a fissarsi negli occhi identici, poi lei si arrese:

“Va bene, va bene...anche se sono io la maggiore e dovrei decidere io”.

Lapis arricciò il naso: non c’era bisogno che lei facesse tanto la comandina, non era tanto piu’ grande.

Lei guardo’ altera il suo fratellino: “Solo perché sei tu”.

I gemelli suggellarono l’ulteriore patto di sangue.

“Sai una cosa, Lapis? Avrò cura di te, te lo prometto”.

 

~

 

Lazuli, 12 anni compiuti da un pezzo, si preparò ad entrare nel centro commerciale insieme ai suoi

amici.

La mamma non era tanto contenta che lei e Lapis avessero iniziato a frequentare quella compagnia:

erano tutti ragazzi più grandi di loro, alcuni già noti ai poliziotti.

“Insomma, sembrano avanzi di galera! Non voglio che vi facciano diventare teppisti."

“Oh mamma, che noiosa! Vorrei vedere tu cosa avresti fatto se io fossi stata al tuo posto e ti avessi

detto che tutto quello che facevi era sbagliato”.

Lazuli lasciava sempre la stanza con aria vittoriosa, spargendo l’amarezza nel cuore della sua mamma.

Sembrava più grande: il seno acerbo sporgeva dalla canotta scollatissima che le lasciava scoperti

pancia e fianchi. Si sentiva bene con gli anfibi e la minigonna di jeans chiaro, si sentiva più bella e

più sicura di sé.

Uno dei ragazzi della brigata cominciò a parlare:

“Ok gente, ora ci sparpaglieremo. Cominceremo con una diversione, intasare tutti gli scarichi dei bagni!”

A lavoro fatto Lazuli si rintanò con la sua amica nei bagni del centro commerciale; appoggiò il

borsone vicino ai lavandini e si ravviò i lunghi capelli, lisci e docili.

“Guarda che cosa ti ho preso.”

Frugo’ nella sua borsa e porse alla sua amica, Sara, un mascara e un khol.

“Oh, Lazuli! Ma come hai fatto?! Non ti ho manco vista!”

Lazuli ammiccò maliziosa e le mostrò il contenuto della sacca: vestiti di ogni genere, scarpe,

accessori, trucchi, un reggiseno imbottito (il primo!), cose da mangiare...

“Sei un genio del male, io non me ne ero nemmeno accorta!” sussurrò Sara con gli occhi resi

enormi dalla sorpresa.

“Beh, sono una professionista io” sbuffò Lazuli, iniziando a truccarsi pesantemente.

“La mamma fa storie anche perché mi trucco...che noia; non si fa una vita”.

Si volse e vide Sara guardarla con la sua faccia da ebete:

“E mettiti quei trucchi, ho rubato per te!”

Sara strinse il mascara, poi fissò l’amica che faceva smorfie nello specchio:

“Lazuli, a me non piace tanto quello che stiamo facendo; quando eravamo piccole era un gioco, adesso potremmo finire nei guai.”

“Fa’ come ti pare, sei libera. Non ti tratterrò certo dal momento che stai diventando noiosa come mia mamma. Non vuole nemmeno che io e Lapis dormiamo nello stesso letto! Dice che ormai non siamo più bambini. Io faccio quello che voglio."

Poteva esserci una persona più noiosa di Kate? Chi chiamerebbe mai i suoi figli come un minerale?

"Gli occhi" mormorò Sara "avete gli occhi molto azzurri. Come il lapislazzuli."

Kate era noiosa lo stesso.

“Però che bello. Tu hai un bel rapporto con tuo fratello; io con i miei litigo dal due al tre. A

proposito, dov’è?”

Lazuli fece spallucce: “Che ne so? Sarà a staccare qualche pezzo di ricambio.”

 

Quando tornò a casa, Lazuli si fiondò fra le braccia di Kate, che la strinse e le diede un bacio sui

capelli.

“Dove sei stata? Mi hai fatta preoccupare.”

La ragazzina guardò innocentemente verso l’alto: “Ero...a fare un giro nei negozi”.

“Non hai comprato niente?”

“No no!”

E come mai la borsa era piena?

“Aprila un po’ "

Lazuli sospirò, mostrando alla madre il contenuto della borsa. Kate non parlò, gli occhi erano glaciali ed eloquenti.

“Io...le ho trovate, le cose”.

Kate scosse la testa: “Bambina mia, così non va: cosa pensi, che io sia così povera o così cattiva da

non comprarti i vestiti?”

“Certo che no mamma."

“E allora? Perché rubi? E perché stai con quei ragazzi di periferia? Io in quell’ambiente non ti ci

voglio, stai diventando una malvivente!”

Lazuli rise nervosa: addirittura?

In quel momento entrò Lapis, la giubba da moto già slacciata, del casco nemmeno l’ombra.

“Tesoro, dov’è il casco?”

“Gliel’hanno rubato! Vedi mamma, i veri malviventi rubano cose di vitale importanza come i caschi

delle moto!” Lazuli ammiccò al gemello e subito saltò al suo fianco.

 

La sera, Lapis si strinse alla sorella sotto le coperte: “Laz, ma c’è stata mai una volta in cui non

abbiamo fatto squadra?”

Lei ci pensò: sì, una volta. Quando erano nati lei non usciva mai e suo fratello era restato la’ dentro piu’ a lungo.

 

La sola volta in cui non erano stati d’accordo fu quando Lazuli aveva voluto a tutti i costi tingersi di rosso le punte dei capelli.

“Io dico che non ti sta bene. Lascia stare.”

“E chi lo dice? Sta’ un po’ a vedere, che sai tutto tu.”

“Io lo dico, perché LO SO!”

Poi Lazuli non aveva avuto il coraggio di andare a piangere da lui quando si era dovuta tagliare più

della metà della sua lunghissima chioma perché lui, maledizione, aveva ragione.

“Tu allora perché fai quella stupida cresta...” lo stuzzico’, osservando I suoi capelli ingellati. Secondo lei, stava molto meglio quando li lasciava giù.

 

 

Bruno era un ragazzo ventenne. Lazuli, quattordicenne dalla pelle diafana, era la sua ragazza.

“Guarda un po’ ” le disse lui, porgendole una confezione di profilattici.

Gli occhi le brillavano come cristalli al sole.

Lei non aveva detto niente alla mamma, né della sua relazione con Bruno, né delle loro intenzioni.

Ultimamente Kate si era ritrovata a respingere un discreto numero di ragazzi, alcuni anche

grandicelli, che venivano a bussare alla porta in cerca di Lazuli.

"È solo una bambina. Va' via."

Kate chiudeva la porta, faticando ad accettare che il tempo passava.

Lapis andava in giro usando la sua macchina (senza chiederglielo e senza patente), a volte finoa Central City e la polizia lo conosceva fin troppo bene grazie alle varie multe che alla fine Kate doveva pagare.

Kate si rendeva conto che qualcosa non andava: niente era cambiato nel rapporto fra lei e i suoi figli

e nemmeno fra di loro.

Anzi, più crescevano, più diventavano inseparabili.

Era cambiato il loro rapporto con il mondo: furti e vandalismo insieme al resto della gang erano

diventati pane quotidiano, un pane che per Kate era un boccone amarissimo.

Lei pregava e si torturava nel dubbio: “Cosa ho sbagliato? Perché sono due ragazzi così difficili?

Signore, se ci sei, dà loro un occhio, te ne prego.”

 

Ma quella madre amorevole e stravolta non sapeva.

I gemelli non sapevano che qualcuno li osservava nell'ombra quando la notte calava e loro vagavano fra alcuni isolati squallidi e cupi di Central City; o del mondo straordinario che conviveva con la loro semplice, tranquilla dimensione umana.

Kate, Lapis e Lazuli ignoravano l'incredibile avventura che stavano per vivere, solo pochi anni nel futuro.

Un'avventura che avrebbe cambiato il loro mondo per sempre.

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Capitolo 2
*** La tela del ragno ***


“Cosa c’è?”
“...niente.”
Lazuli rivolse gli occhi al fratello, che a sua volta la guardava come per dire che non era affatto convinto. Era seduta alla scrivania e contava un mazzetto di banconote, con soddisfazione.
Lo sguardo di lui per un attimo si indurì:
“Mi stai mentendo: c’è qualcosa che non va e lo si capisce ad un chilometro di distanza. Almeno, io lo capisco anche a dieci”.
Lei scosse la testa e sospirò, i capelli liscissimi che seguivano con grazia i movimenti del capo:
“Non lo so; sono preoccupata”.
Lapis spalancò gli occhi dallo stupore: era la prima volta in sedici anni che la sua gemella gli diceva qualcosa di simile. Nemmeno ultimamente, quando la vita con la gang era dura, Lazuli aveva mai esibito il minimo timore.
“Sono molto preoccupata: non l’ho detto a nessuno”.
“Brava! Non l’avrai detto a nostra mamma, ma ricordati che puoi imbrogliare tutti ma non me”.
Lei si scocciò:
“E ci arrivo! Ti ho tenuto tutto nascosto perché all’inizio mi pareva una cosa da niente e non volevo che ti preoccupassi.”
Lapis sospirò, alla fine l’amore fraterno vinceva sempre.
“Ho paura che mi facciano dello stalking. Mi spiego: da circa un mese, tutte le volte che torno a casa da sola c’è sempre un vecchietto che mi chiede di aiutarlo ad attraversare la strada. All’inizio non c’era nulla di strano, ma poi ho notato che era sempre lì, sempre fermo ad aspettare che io arrivassi. Lo vedevo da lontano man mano che mi avvicinavo all’incrocio”.
“Un vecchietto?” chiese il ragazzo aggrottando le sopracciglia “che ti aspetta tutti i giorni per attraversare la strada con te?”
Lazuli annuì: “Ma solo quando sono sola. Se ci sei tu o qualcun altro no. Credi che abbia a che fare con altre gang?"
Lapis non disse niente; si limitava a camminare avanti e indietro con lo sguardo basso e le braccia incrociate sul petto. Pensando a un vecchio che pedinava sua sorella, si senti’ disgustato.
“Sai cosa mi sta chiedendo ultimamente?” proruppe Lazuli “mi chiede di farmi dei giretti con lui, di accompagnarlo a casa!”
Lapis alzò la testa di scatto e i capelli scuri incorniciarono gli occhi dallo sguardo ardente:
“Chi è? Dimmelo! Dimmelo che lo prendo e lo massacro.”
“Ma ti pare!” protestò Lazuli “non abbiamo mai ucciso nessuno, non dobbiamo cominciare ora."
Erano cauti; loro due erano riusciti a restare a galla e a fare soldi senza farsi sbattere in istituto grazie alla discrezione che si prendevano cura di usare.
Facevano molta attenzione a dove andavano, cosa facevano, come si muovevano e nessuno nel giro delle gang conosceva i loro volti, loro due erano molto gelosi della loro identita’; sapevano che il loro aspetto sarebbe stato facile da ricordare e quindi sbrigavano i loro affari loschi completamente vestiti di nero, con un passamontagna nero e lenti a contatto per mascherare il colore degli occhi.
Il resto della gang faceva lo stesso.
"Poi non so nemmeno come si chiama. So solo che o sto diventando pazza, o lo vedo dappertutto,
compreso il pezzo di strada sotto casa nostra!”Lapis deglutì e sospirò. Poi si avvicinò alla gemella e le batté la mano sulla spalla:
“Non avere paura, conta su di me, chiaro? E poi un consiglio, non andare mai in giro indifesa. Peccato che non hai una di queste”.
Le fece un sorriso da mascalzone e la lascio’ rimirare la Colt M1911 che teneva posata sui palmi delle mani, come per non appannare il metallo lucente.
“Ma allora e’ la tua? Dove l’hai presa?” chiese Lazuli a fior di labbra.
“Era nella cassaforte” ultimamente Lapis si divertiva a decodificare le combinazioni, quella del box all’hotel delle cose dove Kate aveva riposto le cianfrusaglie che si erano accumulate in casa con gli anni era stata facilissima “penso che fosse della mamma. Figo.”
Loro mamma? Una pistola?
Lazuli abbassò gli occhi: “Forse sarebbe meglio dirlo alla mamma. Del vecchio. Anche se non me la sento”.
Lui fece spallucce: “Fa’ come vuoi, io non ti tradirò”.

  Da quella volta Lazuli seguì il consiglio di suo fratello e si comprò un coltello a serramanico da cui
non si separava mai.
Cercava sempre di andare in giro accompagnata e di mantenere un atteggiamento distaccato, anche se dentro di lei l’inquietudine si faceva strada.
Lapis sapeva già guidare ma stava ancora prendendo la patente; aspettando, si erano comprati una moto.
“Appena faccio diciotto anni mi iscrivo alle corse di rally. Non vedo l’ora!” diceva lui tutto sorridente.
“Ma se sai appena guidare la macchina della mamma, in città oltretutto.”
“Parli a vanvera: ho tempo per imparare”.
Lei sbuffava scocciata: buttare via i soldi e rischiare di farsi male solo per correre con delle stupidissime macchine, era qualcosa che non riusciva a capire.
 
  Kate non sapeva della moto.
E quando li aveva sorpresi a tornare a casa con quella, loro non l'avevano mai vista così arrabbiata: l'azzurro dei suoi occhi sembrava fosforescente.
Era lì ad aspettarli a braccia incrociate e con uno sguardo torvo, quando erano entrati in casa.
"È inutile che ti arrabbi, mamma. L'abbiamo comprata coi nostri soldi."
"Quali soldi? Quelli che guadagni mentre sei a scuola, Lazuli?"
Kate conosceva i suoi polli.
I gemelli tacquero.
La moto era molto utile per fuggire in fretta; Lapis aveva anche l’abitudine di usarla per andare a prendere Carly, sotto lo sguardo ferreo del padre di quest’ultima e anche per andarsene fuori citta’ per conto suo, per allenarsi a girarsi indietro e sparare mentre guidava.
Era caduto piu’ di una volta, ma grazie alla sua costanza ora riusciva a colpire meglio i fari e gli specchietti delle volanti che a volte li braccavano.
"Tu. Fila immediatamente su, in camera tua" Kate spinse Lapis su per le scale, parlando piano.
Una volta che fu sola con Lazuli,la mamma la guardò con occhi così duri e freddi che la ragazza non seppe mantenere il silenzio:
"Non lo vuoi sapere, mamma, e non te lo dirò mai. E guai se dai fastidio a mio fratello."

  C’erano tuttavia delle volte in cui Lazuli non poteva fare a meno di tornare a casa da sola.
Una volta entrò in casa con gli occhi lucidi e gonfi di lacrime; appena la vide Kate si alzò e corse ad abbracciarla.
Stretta alla mamma Lazuli proruppe in un triste pianto: “Non ce la faccio più...”
Kate le accarezzò i capelli e la lasciò sfogare: “Quando hai voglia ne parliamo, va bene?”
Lei assentì e si asciugò le ultime tracce del pianto. Se Lapis l’avesse vista si sarebbe preoccupato.
“Grazie...sei tanto cara.”
Abbraccio’ forte Kate, mentre la voce le si rompeva di nuovo. Si sentiva cattiva: la mamma, la sua mamma, si volevano così bene. Allora perché si ostinava a tenerla all’oscuro di tutto? Le stava spezzando il cuore.
Non poteva anche parlarle del vecchio, ora.
Come al solito nulla sfuggiva a Lapis:
“Insomma, dimmi almeno com’è? È alto, è basso? È tanto vecchio?”
Lazuli descrisse un uomo piuttosto piccolo e un po’ curvo, pelato e con la barba bianca.
“E poi? Come si veste?”
Lazuli si batté i pugni sulle cosce: “Questo è troppo!”
Lapis sorrise furbescamente: “No, sei tu che sei approssimativa: devi ricordarti il maggior numero di dettagli possibili” poi i suoi occhi si oscurarono “non posso mica ammazzare la persona sbagliata.”
“Ammazzare? Comunque ha barba e baffi molto bianchi, naso storto. Penso che superi abbondantemente i sessanta.”
Lapis stette zitto. Rimase incantato, mordendosi nervosamente il labbro, finchè si alzò di scatto e schioccò le dita:
“Ho capito! Adesso sì, ho capito chi è!”
Lei lo guardò incuriosita.
“Sì!” proseguì lui “ce l’ho presente: la prima volta che l’ho visto ero a lavare la macchina con Carly. Lei mi aveva detto che quello lì aveva lo sguardo da pazzo e che aveva paura che ci desse fastidio...ha lo sguardo da pazzo?”
Lazuli arricciò il naso e spalancò gli occhi mentre annuiva.
“Allora è lui! Vecchio schifoso, io lo ammazzo” ridacchiò il ragazzo “era vicino agli idranti; io ero andato lì a prenderne uno per sciacquare la macchina e questo continuava a dirmi vuoi che ti aiuti? Sembra pesante”.
“Fammi capire, prima mi supplica di aiutarlo all’incrocio perché poverino non ce la fa, poi va da te che sei sano e giovane e ti chiede se può aiutarti a portare l’idrante?”
Lapis sospirò con le mani sui fianchi: “Eh sì, a quanto pare. Io pensavo che fosse interessato a Carly."
Appena aveva visto, Lapis aveva lasciato l'idrante per terra e si era precipitato verso la macchina.
Aveva violentemente afferrato il vecchio e l'aveva scaraventato a terra, poi gli aveva assestato un pugno in pieno viso.
"Ma sei impazzito? Basta!” Carly si era lanciata giù dalla macchina l'aveva stretto, tremando "ti prego!"
Ma Lapis avrebbe continuato a colpire se due tizi lì all'autolavaggio non l'avessero bloccato, impedendogli di continuare e lasciando il vecchio libero di andarsene.
Ora che ci ripensava si era reso conto che aveva fatto piangere la sua Carly.
Il pensiero lo rattristò e lo scacciò: "...ma ora che ci penso c’era anche altre volte, anche la settimana scorsa! E all’autolavaggio ci sono andato da solo.”
La faccenda si stava facendo preoccupante; la cosa ridicola era che la gente normalmente si rivolgeva agli sbirri per queste cose.
Loro erano i primi ad avere guai con la polizia; poco tempo prima era stato Lapis a ferire un agente con un colpo di pistola.
Il ragazzo si chiedeva se avere sempre qualcuno alle costole fosse il prezzo da pagare per essere due teppisti. Se fossero stati responsabili, invece? Come tutte le persone sane di mente nel loro entourage si aspettavano da loro?
 
"Cosa farai dopo la scuola? Carly si iscrivera’ alla facolta’ di medicina, forse a West City."
Il signor Der Veer lo fissava mentre erano tutti e tre seduti a tavola, a casa di lei.
Lapis non lo sapeva.
Più tardi mentre l’uomo era fuori in giardino, i ragazzi erano ritornati sull'argomento.
“Medicina, allora?”
“In realtà quello che voglio e’ pediatria, ma devo iniziare con la materia comune, medicina."
“Pero’, West City; io rimarro’ bloccato qui, invece.”
"Ma no, Lapis. Finirai la scuola solo un anno dopo di me e West City non e’ cosi’ lontana.”
Carly gli aveva sorriso, stringendogli la mano e appoggiando la testa sulla sua spalla. Lapis si era sorpreso nel rendersi conto ancora una volta quanto fosse fortunato ad avere al suo fianco una ragazza così graziosa, tenera e affettuosa.
Bella, Carly? Non quanto lui, si rispondeva da solo; ma gli piaceva molto con quella chioma rossa, quelle lentiggini sbarazzine sul nasino a patata, sulle guance tonde e rosee, persino sulle palpebre.
Stavano così bene con i suoi occhi verdi.
"In ogni caso sono felice della tua scelta, devi proprio farlo. Così curerai bene i nostri bambini."
Carly era arrossita al pensiero. Lapis l'aveva guardata, divertito e innocente:
"Che c'è? Cosa ho detto?"
"I bambini..."
"Mi piacciono. Perché è così difficile da credere? Un giorno sarò un adulto responsabile" diceva con aria tronfia, indicandosi "e allora avremo i bambini. Ma non ora. Quando siamo vecchi, tipo venticinque anni."
Era una cosa seria per lui e ovviamente l’aveva gia’ detto anche a Lazuli, che pensava fosse insolito che suo fratello gemello potesse pensare a qualcosa di cosi’ lontano dallo stadio corrente della loro vita; tuttavia era certa che un giorno lui sarebbe stato un buon padre.
"Mi piacerebbe tanto."
"Sul serio?"
 Lapis le aveva riservato uno dei suoi rari sorrisi smaglianti e Carly era avvampata ancora nell’immaginarsi perfettamente, nel tempo di una decina d’anni, a portare in giro con orgoglio e bellezza una grande pancia rotonda, con dentro il loro bambino:
"Sì, amore. Ma quindi, nel tuo percorso verso l'essere un adulto responsabile cos'hai in mente di fare dopo la scuola? Quello che fai ora?"
Carly si chiedeva se ci sarebbero voluti davvero tutti quegli anni perché Lapis smettesse di essere un gangster. Lui non gliene aveva mai parlato, ma Carly lo sapeva lo stesso e aveva molta paura che il suo stile di vita l'avrebbe messo in pericolo.
Ci aveva pensato e ripensato e non aveva potuto fare a meno di piangere.
"Dai, Carly? No, su, non di nuovo. Vieni qui."
Lapis l'aveva abbracciata con un sospiro; l'aveva fatta piangere ancora.

Si riteneva una persona egoista, perché voleva solo divertirsi e provocare e finora si era altamente fregato di quello che pensavano gli altri. Ma si rendeva sempre più conto che fra gli altri c'erano tre persone di cui gli importava più di quanto gli importasse di se stesso: sua madre, sua sorella, e Carly.
Due su tre piangevano regolarmente per colpa delle sue malefatte.
Lapis amava Carly e si sentiva in pace insieme a lei, era felice di sperimentare sentimenti diversi da quello che provava per la sorella e per la madre. E poi lei gli dava quella stabilità che derivava dal non essere in un rapporto inspiegabilmente empatico come con Lazuli, in cui ogni gioia, ogni paura, ogni delusione, ogni inquietudine di uno diventavano anche dell’altro.
Se pero’ voleva davvero stare con lei, presto o tardi avrebbe dovuto smetterla. Si chiedeva come Carly avesse potuto sopportare questo di lui già per un anno e si imponeva di prenderla come una motivazione.
Perché faceva cosi’? Lui e Lazuli erano due ragazzi "dei quartieri per bene”, non era certo una questione di sopravvivenza.
Per Lazuli era semplice: soldi, soldi, soldi.
Lei voleva i soldi, amava i soldi, anche se alla mamma non erano mai mancati non le bastavano mai.
E lui? Voleva dimstrare qualcosa a qualcuno? Si annoiava?
Ci sarebbero state così tante cose che avrebbe potuto fare, ma era divertente accoltellare gente delle altre gang che gli dava fastidio, sparare, dimostrare dominanza.
Lui poteva benissimo passare la mattina in classe, il pomeriggio con la sua dolce Carly e la sera a comandare la gang.
Cos'avrebbe fatto dopo la scuola, allora?
 
Nella sfera familiare i fratelli insabbiavano tutto, anche se si rendevano benissimo conto che non potevano prendere in giro la loro madre.
Povera Kate!
I gemelli l’amavano con tutto il cuore, ma proprio non riuscivano a stare quieti e tranquilli.
“Comunque io lo ammazzo. Appena si azzarda a toccarti è morto” disse Lapis con tranquillità.
“No! Non voglio che ti mettano in prigione" disse lei, togliendo una ciocca di capelli dai suoi occhi.
Lui la rimise dov’era e prese le mani della gemella fra le sue:
“Laz, noi siamo delinquenti: prima o poi in prigione ci andremo lo stesso, quindi tanto vale”.
"Sei disposto ad andare in istituo per me?" ridacchiò "cos'è, finalmente ti sei stufato di scoparti Miss Perfezione?"
Lapis restò a bocca aperta, poi diede uno spintone a sua sorella e la fece cadere.
"Non osare. La prossima volta che parli di me e Carly in questo modo, ti tratterò come meriti. Non ti conviene."
Lei emise un gridolino, si rialzò e restituì lo spintone, volle essere arrabbiata ma non ci riuscì:
“Se dobbiamo perdere tutto, non voglio che paghi solo tu. Lo ammazzeremo insieme e ci metteranno dentro tutti e due. Non sopporto l’idea che ci separino”.
Lazuli pronuncio’ quelle parole ignorando il fatto che nei riformatori maschi e femmine venivano separati.
Lapis era ancora un bambino immaturo, ma Lazuli si rendeva benissimo conto di quanto le avrebbe fatto male la lontananza dal fratello.
Lei si vedeva come un sole e lui era la sua luna: tanti ragazzi erano stati gelosi delle attenzioni che dava a lui, togliendole a loro.
Ma a lei non importava: di ragazzi è pieno il mondo, di fratello gemello ne ho uno solo, si diceva.
Era legata a lui sin dal primo momento in cui aveva iniziato a esistere; avevano passato insieme i nove mesi nel ventre materno, si erano presi le stesse malattie, avevano condiviso anche i segreti più nascosti.
Le sembrava una presa in giro che lui venisse sbattuto in un istituto e lei no.
Dovevano sostenersi nel bene e nel male: fino alla fine del mondo.

 
  Kate si struggeva nella ricerca di qualcosa di mancante o di sbagliato nel suo lavoro di madre.
C’erano delle falle, era evidente, eppure le sembrava sempre di dare tutta se stessa per loro.
Aveva sempre preso in considerazione i loro problemi, aveva fatto di tutto per stabilirsi sulla loro lunghezza d’onda e per ascoltarli.
Erano restii, loro, anche se Kate percepiva l’amore incondizionato che nutrivano per lei.
Si era promessa di proteggere i suoi figli sin da quando erano ancora dentro di lei, si era promessa di essere una buona madre.
Bambini turbolenti e felici una volta, giovani adulti ormai: Lapis e Lazuli avevano compiuto diciotto anni e la gravità delle loro azioni poteva pesare molto di più da quel momento in poi.
Non poteva fare niente contro di loro: nonostante saltassero la scuola spesso, rimanevano a galla.
Non avevano mai perso un anno, né il preside aveva mai fatto chiamare Kate, perché fra quelle mura il loro comportamento era tollerabile.
Sembrava che ci tenessero a comportarsi bene a scuola per poter uscire di lì il piu’ velocemente possibile e dedicarsi a tempo pieno a quello che davvero importava loro.
Cose di cui Kate sapeva poco e niente, che andavano solo ad aumentare il suo senso di impotenza.
La loro infanzia era finita da tempo, ma solo quando Kate osservava il loro corpo si rendeva conto di quando fossero cresciuti.
Lazuli era diventata una bellezza: come lei era alta e slanciata, i suoi lineamenti erano cesellati.
Una Kate bionda, dicevano i conoscenti.
Era ormai una donna; si era sempre sentita più matura e più grande, ma non aveva più fretta di crescere e aveva dovuto riconoscere a Lapis di essere quasi al suo livello.
Anche Lapis aveva perso molti tratti fanciulleschi. Era sempre molto somigliante alla sorella e soprattutto alla madre, coi suoi capelli scuri che ormai gli arrivavano alle spalle; la sua voce si era ulteriormente abbassata, le spalle si erano fatte più grosse e i fianchi più stretti.
E poi era meno impulsivo di prima. Quasi quasi era più bello di Lazuli, pensava Kate.
Se qualche volta era capitato loro di litigare, ora meno che mai.
Si trovavano d’accordo praticamente su tutto ed erano molto accomodanti l’uno nei confronti dell’altra.
Quindi che problema c’era?
Nessuno, a parte il fatto che ultimamente Lapis era ospite abituale in più caserme. Aveva passato qualche notte in prigione e che anche sua sorella dava il suo bel daffare.
Nonostante tutto però, Kate li vedeva sereni: c’era stato un periodo, due anni prima, in cui lei sembrava spaventata e preoccupata e molte volte piangeva, mentre lui era nervoso e violento.
Come al solito non avevano voluto dirle gran che.
Kate sospirò: “Lazuli, pronta?”
“Solo un minuto, mamma.”
Kate ne aspettò dieci: “Hai fatto colazione?”
“Non ne ho voglia...”
Quello era un altro argomento per litigare, Lazuli che non voleva mangiare.
“Vuoi perderti la partenza?”
La ragazza fece capolino dalla porta della sua camera, sfoderando un gran sorriso a Kate:
“No, certo che no!”
Lazuli si mise davanti allo specchio e si spazzolò frettolosamente i capelli, che scendevano dritti come spaghetti proprio alla base del collo.
Non c’era bisogno che Kate le mettesse così fretta!
Quello era un giorno non-so-cosa-mettere e le ci era voluto del tempo per scegliersi gli abiti che riteneva più adatti.
Anche se doveva solo andare a vedere Lapis che gareggiava con la sua auto da rally, ci teneva a essere sempre in ordine.
Raggiunse Kate in macchina: “Ti ricordi mamma, quanto rompeva con il rally? Adesso sarà contento!” 
“Non vuoi guidare tu?”
 “Mm, non so, se proprio devo.”
Se sua figlia fosse stata come suo fratello, l'avrebbe gia' obbligata a lasciarla guidare.
“Le auto sono stupide, imparerò prima o poi”.
Kate alzò le spalle:
“Oh beh, contenta tu di dipendere sempre dagli altri.”
 
  Quella gara doveva essere davvero importante: era pieno di gente, pieno di automobili e di automobilisti, di ragazze con gli ombrellini e di musica.
“Sei emozionato?”
“Chi, io?”
Lapis ostentò un sorriso spavaldo a Carly, che a sua volta gli sorrise mettendogli le braccia intorno alla vita e la testa sul petto.
Lui era così: faceva tanto lo spaccone, ma lei sentiva benissimo quanto gli battesse forte il cuore per la trepidazione.
Lapis la strinse forte sollevandola, poi aprì la portiera ed entrò nella sua auto:
“Questa la dedico a te”.
“Ah sì? Grazie! Sicuro di non volerla dedicare a Lazuli?”
“Mah...quasi quasi.”
Carly abbassò l’ombrellino, corrugando la fronte.
Lapis stette per un attimo a guardarla, poi rise buttando all’indietro i capelli: “Scherzo! Prendi tutto sul serio, tu.”
Poi scese di nuovo per abbracciarla ancora, mordicchiandole dolcemente la guancia.
“Scemo!” lei gli diede uno scappellotto affettuoso; lui corse al volante e le ammiccò, chiudendo la portiera.
Poi mise in moto la macchina per scaldarla: non riusciva ad abituarsi al brivido del rally, delle derapate sulle strade tortuose e dei salti su quelle sconnesse.
Per quanto tempo aveva aspettato! Non fino ai diciotto anni che aveva compiuto da poco, ma il tempo gli era parso comunque infinito e spasimava per le auto, sapeva tutto, anche sul rally.
Tre anni prima Kate gli aveva concesso solo la macchina, ed era stato così che aveva conosciuto Carly.
Lapis ripenso’ alla discussione che aveva avuto con lei e suo padre due anni prima: ora sapeva con piu’ chiarezza che essere un pilota di rally avrebbe potuto essere una buona scelta per lui.
Ora come ora, qualche volta tornava a casa con qualche livido e anche se non vinceva tutte le volte non gli
importava: ogni gara era una lezione.
E un bel gioco.
 
  “Non è venuto il tuo moroso?”
Kate e Lazuli, sedute sulle tribunette, aspettavano l’inizio della gara. La ragazza guardava con aria annoiata le macchine che aspettavano di sistemarsi e le ragazze con gli ombrellini che andavano di qua e di là.
“Moroso. Certo, mamma, certo.”
Lazuli provo’ pena per sua madre, che non sapeva che in realta’ quello era solo stato un ragazzo che lei aveva rubato apposta a Sara per farci sesso un paio di volte, anche tre.
Sara l’aveva indispettita e lei gliel’aveva fatta pagare: ogni volta che era stata con quel tipo si era immaginata Sara piangere di rabbia, con le unghie finte conficcate nei capelli biondi finti.
Ora quasi rimpiangeva le sue azioni, perche’ Sara aveva tagliato tutti i ponti con lei, non la voleva nemmeno vedere.
“Quale moroso? Ci siamo mollati...”
Non ne aveva parlato nemmeno a Lapis, sapendo che lui l’avrebbe giudicata. Lazuli era quasi sicura che se al suo posto ci fosse stato il suo gemello maschio, nessuno avrebbe detto nulla; perche’ ovviamente se una donna va a letto con molti tipi allora non e’ rispettabile, ma se un uomo fa lo stesso allora e’ un casanova.
Se non fosse stata una femmina Lazuli avrebbe vissuto piu’ liberamente come un casanova, senza sentire il bisogno di nascondersi.
Era avanti anni luce a suo fratello, a tredici anni era già sveglia e a quattordici l’aveva fatto per prima volta; poteva invece contare sulle dita di una mano tutte le
persone con cui Lapis aveva fatto sesso, prima che si trovasse quella Carly.
Lazuli non era ancora riuscita a farsela piacere ed era sorpresa che Lapis non si fosse ancora stancato; pensava che gli piacessero donne più toste, non damigelle pallide e svenevoli.
“Non sarai per caso gelosa?” chiedeva lui, con una risata.
Lazuli era convinta che Carly stesse con lui solo per il suo aspetto, pensandolo come un principe azzurro o un’altra creatura del genere.
Che infantile, i principi azzurri non esistevano.
E loro due erano troppo diversi, una ragazza modello , gran secchiona, e il leader armato di una gang.
Lazuli si chiedeva per quanto ancora avrebbe dovuto sopportarla, ma viste le divergenze e anche il fatto che erano ancora liceali, si tranquillizzò.
Quella pin-up, soave e tettona era però oggettivamente gradevole, questo glielo concedeva.
Invidiava a suo fratello di avere qualcuno che lo amasse cosi’ com’era, infantile e coi denti storti, mentre lei era sempre costretta a respingere avances o ad accontentarsi, anche se alla fine lasciava comunque perdere.
“Ah...” commentò Kate “cos’aveva questo che non andava?”
Lazuli non sapeva cosa dire: non andava e basta!
“Le orecchie. Aveva le orecchie troppo grosse”.
A volte si arrabbiava per questo. Perche’ Lapis si e lei no, cos’aveva lei che non andava?
Lui lo capiva e cercava di non ferirla.
“Guarda Lapis” le disse Kate, distraendola dai suoi pensieri.
Lazuli l’aveva già visto da un bel po’, aveva portato la macchina sulla linea della partenza, aspettava appoggiato sul cofano chiacchierando col pilota al suo fianco, i capelli neri e la maglietta arancione si vedevano fin da lì.
“Dai fratellino, fai del tuo meglio. Sono qua che ti guardo.”
Lazuli sorrise, convinta che quell’energia positiva si sarebbe sicuramente trasmessa a lui, sostenendolo.
“Mamma, quanto abbiamo di differenza?” chiese poi di getto.
“Voi due? Un’oretta circa.”
Lei era la gemella grande e vedeva sempre Lapis come un fratello minore più bambino di lei.
Tuttavia aveva notato come fosse cresciuto, soprattutto negli ultimi tempi.
Sicuramente anche lui doveva aver notato che anche lei era cambiata. Lazuli era lieta che a Lapis non desse fastidio che lei fosse alta quasi quanto lui, senza tacchi; alcuni ragazzi con cui era uscita non avevano apprezzato questo di lei.
Kate sapeva che i gemelli si erano accorti dei reciproci cambiamenti fisici perché gliene avevano parlato in separata sede.
“...e mi sembra ieri, quando li tenevo in braccio.” Kate sorrise e gettò uno sguardò alla sua giovane donna, seduta accanto a lei, e al suo giovane uomo, che nel frattempo era salito in macchina e aspettava la partenza.
Al colpo di pistola, le macchine partirono mordendo ferocemente la strada.
Lapis stava andando bene: “Non devo andare subito troppo veloce, altrimenti rischio di ritrovarmi indietro dopo”.
Pensava e si concentrava sul volante e sulla strada, urtando aggressivamente le altre auto.
L’adrenalina gli scorreva forte in corpo, amava troppo imporsi sugli altri e mettersi in mostra. Oggi era diverso, oggi voleva vincere: lui era forte, lui era il più forte e gli altri dovevano adeguarsi.
Sapeva fin troppo bene che non doveva farsi prendere dalla smania di vittoria, altrimenti sarebbe ritornato come alla sua prima gara, quando aveva tagliato per primo il traguardo a spese di qualche altro pilota ed era stato squalificato.
Bell’inizio!
Quella volta si era talmente arrabbiato che, se non fosse stato per il pubblico, avrebbe sicuramente trascinato il giudice in un angolo e l'avrebbe persuaso, come sapeva fare.
“Povera me!” gli diceva sempre Kate “non bastavi solo tu a combinarmi disastri! Ora ci sei tu con la tua macchina.”
“Mamma, ma che significa?” interveniva Lazuli “anche tu cucini malissimo, ma noi non ci lamentiamo neanche, vero Lapis? E nemmeno ti diciamo che non devi farlo più!”
La solita, che si scambiava uno sguardo vittorioso col fratello e sbatteva le ciglia a lei.
“Quanto ero stupido...le cose bisogna farle discretamente” pensò, sterzando bruscamente e tamponando un avversario con il muso della sua auto.
“Scusa!” urlò, ridacchiando.
  “Dai amore, fallo per me...”
Lazuli fissava con sguardo assente la secchia, che era venuta a sedersi lì con loro e si tormentava le mani guardando le auto che correvano lasciandosi dietro una traccia polverosa.
“Che ti ha detto mio fratello prima di partire?” le chiese con eloquenza.
Lazuli faceva molta paura a Carly, nonostante fosse più vecchia dei gemelli di un anno:
“Niente. Mi ha detto che questa volta vuole vincere per me”.
Lazuli si sforzò di sorridere e riportò altrove le proprie attenzioni.
Era passato del tempo, ma non si sentiva mai pienamente serena. Cercava di non pensarci, ma del resto come dimenticare lo strano vecchio che fino a due anni prima li aveva pedinati entrambi?
“Sono proprio diventata psicotica" pensava tutte le sere, quando ancora prima di chiudere le imposte della sua camera cercava con gli occhi, giù in strada, il brillio di una barba canuta, la sagoma di una figura nascosta fra anfratti della via.
E si trovava proprio stupida, perché ogni volta si buttava sul letto e tirava un sospiro di sollievo.
“Secondo me quando avrò dei figli mi toccherà guardare sia le loro spalle che le mie” diceva fra sé.
Ormai non poteva più fare a meno di aguzzare la vista e i sensi ogni volta che usciva di casa, disentire uno morsa allo stomaco nello scorgere qualche anziano signore che alla fine era sempre innocuo.
Ostentava un’aria da dura, ma in realtà le sue gambe tremavano.
Lapis, beato lui, sembrava averla superata. E grazie, lui non era una ragazza! Erano quasi sempre le ragazze a venire stuprate per strada.
Lui non aveva però dimenticato la promessa che le aveva fatto, pistola di Kate sempre alla mano.
Mentre l’auto rossa di Lapis tagliava il traguardo, lei era ancora immersa nei propri pensieri e quando il grido di esultanza di Kate, Carly e altri spettatori la riportò con i piedi per terra era già troppo tardi.
Corse da Carly: “Ha vinto? Ce l’ha fatta?”
La fatina troietta continuava a saltellare entusiasta: “Non si capisce! Erano in due, lui e un altro, affiancati a cento metri dal traguardo. Continuavano a darsi delle botte ma nessuno ha ceduto e hanno tagliato insieme il traguardo. Adesso i giudici devono guardare i fotogrammi per decidere.”
Lazuli sorrise e si avvicinò alla madre: “Andiamo?”
Le tre donne scesero dalla tribuna e raggiunsero i piloti fra la polvere della linea di arrivo.
Lapis era già sceso e quando le vide corse loro incontro. Respirava freneticamente e le sopracciglia erano corrugate.
Incurante del polverone, Carly si diresse con passo spedito verso di lui, poi lo serrò in un abbraccio e lo baciò in maniera decisa, quasi aggressiva, mentre lui la teneva sollevata.
Lazuli restò a guardare con una leggera malinconia.
Poi cercò di distrarsi e si accorse di come suo fratello era conciato; era tutto sudato e la maglietta arancione aderiva ai muscoli nervosi della sua pancia, uno strato lieve di polvere gli ricopriva i capelli, rendendoglieli spenti: quando anche le altre lo notarono, tutte e tre scoppiarono a ridere.
“Beh?” chiese lui, irrequieto.
“Hai spazzato la pista? Sembri uno straccio per la polvere!” trillò Lazuli scompigliandogli i capelli.
Lapis la inchiodò con uno sguardo assassino.
“Volevo solo sdrammatizzare un po’ ” si giustificò lei, che capiva benissimo quanto potesse essere teso.
“Silenzio! Abbiamo i risultati!” annunciò il giudice “Michael, auto 99 e Lapis, auto 32, sono i nostri contendenti: secondo i fotogrammi, quindi effettivamente, anche se di un qualche millesimo di secondo...”
Finiscila di tirarla lunga. Dillo. Muoviti.” pensava Lapis dentro di sé.
“...il primo posto spetta all’auto numero 99. Michael!” gli amici gli si accostarono, il giudice gli strinse la mano e gli porse il primo premio, poi fece lo stesso porgendo il secondo premio al giovane Lapis, battendogli forte una mano sulla spalla.
“Bravi ragazzi, è stata una bella sfida. Siete stati grandi, sembravate un film d’azione! Continuate a correre” parlò piano in modo che lo sentissero solo loro due, poi li lasciò e tornò alle premiazioni.
Lapis salutò l’avversario e andò dalle sue donne. Si era lasciato andare e sorrideva.
La madre, la sorella e la fidanzata lo strinsero in un abbraccio collettivo:
“Bravo il mio bimbo!” sorrise Kate, dandogli un rumoroso bacio che lo fece diventare tutto rosso.
“Sei soddisfatto?” domandò Lazuli con dolcezza.
Lui annui’ discretamente, ma lei sapeva che si era divertito.
Che la gara era stata alla sua altezza.
Che aveva saputo farsi notare.
Che aveva trovato un degno avversario.
Che tutte e tre, lei, Kate e Carly erano lì ad incitarlo con il loro striscione, i loro capelli al vento, i loro sorrisi brillanti e lui ci aveva contato.
“Che questo è un momento di felicità perfetta senza intrusi o particolari spiacevoli” aggiunse Lazuli personalmente, pensando per un momento che niente avrebbe potuto infrangere la magia di quell’istante.
 
 
 
Ps: grazie a tutti coloro che leggeranno, inseriranno in qualche lista o anche recensiranno! Ho vinto la timidezza nell'espormi e nel pubblicare la storia, ma sono anche favorevole a tuttele recensioni, anche la bandiera rossa. L'italiano e' una lingua madre ma sono anni che penso, scrivo e parlo in inglese e non vorrei che la qualita' dei miei scritti ne risentisse. Dal canto mio non vedo l'ora di scrivere recensioni e scoprire nuovi autori.
Grazie ancora per la lettura e il vostro tempo.

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Capitolo 3
*** Fatti a pezzi ***


La musica del rave era alta.

Lazuli chiacchierava con un gruppo di amici appena fuori dal capannone. Faceva freddo nella notte autunnale, ma era sempre meglio che starsene dentro.

Il ragazzo che quella sera le piaceva le chiedeva se aveva freddo, se voleva rientrare, ma lei voleva starsene lontana dal frastuono e in tutta tranquillità si fumava la sua sigaretta.

Non era divertente dentro, c’era troppa gente.

Troppa gente fuori di testa; delinquente sì, ma drogata mai.

Il ragazzo era più basso di lei ed era tutta la sera che non smetteva di cingerle i fianchi, appoggiando comodamente la testa sulla sua spalla.

Lazuli ne era infastidita e cercava di farglielo capire:

“Io mi sto annoiando, me ne vado” asserì, buttando per terra il mozzicone e schiacciandolo con la punta delle tennis.

“Di già?” le chiese una dei suoi amici.

“Aspetto solo che mio fratello torni indietro visto che guida lui”.

Sempre colpa di Carly; Lapis l’aveva accompagnata a casa e adesso chissà dov’era…

Il cellulare le squillò e Lazuli trovò un messaggio: “Vengo tra un minuto.”

La ragazza lo lesse ad alta voce e si mise a ridere.

Accennò un passo e il ragazzo si mosse con lei, guidando i suoi movimenti sempre con quelle stramaledette mani.

“Ma allora! Non sono un manichino, so camminare anche da sola!”

“Scusami” sussurrò lui, intimidito “quindi adesso te ne vai? Così?”

Lazuli soffocò una risata. Cosa sperava di fare con lei?

Mentre aspettava si mise a pensare a suo fratello e a Carly: chissà se Lapis si era limitato ad accompagnarla, dato il tempo che ci stava mettendo per ritornare alla periferia di central City dove il rave si stava svolgendo.

Lapis arrivò di lì a poco, con la musica a palla e il finestrino abbassato.

Lazuli gli fu subito accanto e lo supplicò, aggrappandosi al suo braccio: “Andiamo via.”

“Aspetta! Io non sono stato qui nemmeno un’ora fra una cosa e l’altra, lasciami bere qualcosa.”

Lapis era sempre gentile quando le parlava, ciononostante sua sorella mise il broncio e tornò dal ragazzo:

“Ricordati che tu devi guidare!”

 Lazuli seguì Lapis con lo sguardo e poi tornò ai suoi amici.

Il ragazzo le stava alle costole e lei diventava sempre più nervosa: “Ok, va bene, ma le condizioni le metto io”.

Lo prese e lo trascinò per un braccio, passando davanti a Lapis che beveva in compagnia dei suoi amici del rally.

Mi auguro solo che siano analcolici” pensò, mettendosi in un angolo col ragazzo e iniziando a farsi baciare.

Il tipo era in gamba, dovette ammetterlo.

 Le sue mani scorrevano sapientemente sulle forme di Lazuli, sfiorandola teneramente come si sfiora un violino.

Lei si lasciava toccare e lo baciava con furia, conficcandogli le unghie nella nuca: si aggrappò incrociandogli le gambe attorno alla vita e lui la trasportò nello stanzino adibito a guardaroba.

Le mani delicate di lui adagiarono Lazuli fra i cappotti caduti sul pavimento e le si sentì prendere da un furore estatico: sì, quella sera voleva uscire di sé, dimenticarsi di tutto per un momento.

In un bacio infuriato gli morse le labbra, ma lui non parve accorgersene e quando lei, come per scusarsi, gli posò le sue sulle palpebre chiuse, le posò gratamente le mani sul seno.

Lei fece scorrere il dito sulla linea scura che correva sotto l’ombelico e scese sempre più giù, finchè lui non l’afferrò e le loro labbra tornarono ad unirsi.

 

Lapis inghiottì l’ultimo cocktail e si mise a cercare con gli occhi la sorella.

Nella stanza la cercò in pista fra la gente che ballava, ritornò al bancone dei drink, poi uscì dal capannone e guardò anche nel parcheggio.

“Avete visto Laz?” domandò ai suoi amici.

“Sì, ho visto che entrava là dentro con uno” gli rispose svelta la barista, indicando il guardaroba.

Lui trasalì: “Nel guardaroba…ok, grazie.”

Si diresse con lo sguardo fisso verso il fondo dell’enorme stanza.

“Ciao bello” ammiccò la barista, ma lui non se ne accorse nemmeno.

 

In quello stesso momento, le mani da violinista del ragazzo avevano afferrato con tenace garbo i seni morbidi di Lazuli per estrarli dallo scollo della maglia. Le mani della ragazza erano ancora fra le gambe del tipo, ma quando lui protese il viso verso il suo petto qualcosa la bloccò; ritrasse immediatamente le mani dal corpo del ragazzo e protesse il proprio.

Non sapeva spiegarsi, ma in quel momento stava succedendo qualcosa che a lei non piaceva, qualcosa di strano e sottile che non voleva le succedesse e restasse nella sua memoria.

“Basta!” urlò, spingendo via il ragazzo e ricomponendosi la scollatura.

Lui rimase attonito a guardarla mentre si alzava in fretta, correva verso la porta del guardaroba e usciva: “Ti saluto”.

Lasciatasi il guardaroba alle spalle, Lazuli fece un paio di metri a ritroso come un gambero e quando si volse di scatto sbatté sul petto di Lapis.

“Eccoti!” dissero all’unisono, poi lui le sorrise:

“Eccoti, dov’eri finita?”

“Ero con uno: possiamo andare a casa? Sei contento ora?”

Il ragazzo sospirò allargando le spalle: “Ah, sì! Adesso andiamo, volevo venirtelo a dire io”.

Lazuli guardò il cellulare: “Due e mezza, direi di sì, altrimenti la Kathryn ci fa il sermone”.

Suo fratello soffiò via una lunga ciocca di capelli che gli cadeva su un occhio, ricordandosi con disappunto che Kate si sarebbe scocciata a vederli tornare troppo tardi la mattina dopo:

“Sicura di voler andare?”

“Sicurissima”.

“Scusami, aspettiamo un attimo” disse lui.

Sentiva che non era il momento migliore per guidare, all’improvviso gli era calata la stanchezza.

Se Lazuli se ne fosse accorta, avrebbe cominciato a dirgli che era ubriaco, quando non era vero.

Che noia Lazuli, a volte: voleva troppo fare la maestrina, come se ne sapesse più di lui.

“Cosa c’è? Non stai bene?” Lazuli lo guardo’ con dolcezza e preoccupazione.

“Niente."

Il ragazzo scosse la testa con un sorriso. Ma un singhiozzo improvviso lo tradì e guardò la sorella con una finta aria di scuse.

"Lo sapevo che eri brillo" sbuffò Lazuli, anche se non era nelle sue intenzioni rimproverarlo.

"Sto morendo di fame…"

“Va bene, ci faremo lo spuntino delle 3.”

Poco dopo erano pronti per partire.

Non erano tanto in ritardo, a tornare a casa avrebbero impiegato una ventina di minuti.

Lapis alzò la musica al massimo e tutti e due iniziarono a cantare. Lazuli distese i piedi sul cruscotto e chiuse gli occhi: suo fratello guidava proprio bene, anche se non andava per niente piano.

La strada era deserta, la nebbia pesante nei campi ai lati della carreggiata.

“Cosa fai domani?”

“Starò da Carly, penso. Tu?”

“Boh; andrò con la mamma a comprare i vestiti. Sai, non ho una vita sentimentale intensa come la tua” rispose lei, con una punta di risentimento.

Lapis trasse un sospiro:

“Ancora…guarda che non dipende solo da te. Deve solo arrivare il tuo momento."

Lazuli stava per rispondergli, quando in un lampo vide qualcosa di bianco attraversare velocissimamente la strada:

“GATTO!”

Lapis non fece in tempo a chiederle niente, che per lo spavento improvviso sterzò e perse il controllo delle ruote: la macchina zigzagò nella corsia opposta e finì col muso in un campo.

La ragazza scese immediatamente e non appena realizzò che non era accaduto nulla di grave corse dall’altro lato della macchina e aprì la portiera:

“Stai bene?"

Anche Lapis scese e constatò che poteva ancora camminare con le sue gambe:

“Sì, io sì. Tu?”

Lazuli sentiva le lacrime che le inondavano gli occhi: l’ansia iniziò ad abbandonarla e si sedette sulla terra, trattenendo il pianto.

“No! Va tutto bene, non è successo nulla” Lapis l’abbracciò e l’aiutò ad alzarsi “stiamo bene, stai tranquilla”.

“Ma tu sanguini!”

Il ragazzo si guardò e scorse un filo di sangue che gli macchiava un ginocchio. Alzò le spalle, aveva solo picchiato la gamba contro qualcosa.

A Lazuli non piaceva quando suo fratello non stava bene o era ferito, anche quando la ferita era solo una macchietta rossa sulla stoffa dei pantaloni:

“Sei proprio una merda…sei uscito di strada”.

Lui la fissò: “Ah sì, io? Non mi pare che sia stato io a strillare come un’aquila, all’improvviso!  Mi hai fatto venire un infarto."

“C’era un gatto!” si difese lei “ha attraversato la strada e noi gli stavamo passando sopra!”

Lapis scavalcò il basso argine del campo e scrutò la strada; non c’erano segni di un incidente con un gatto:

“Lo so, l’avevo appena visto anche io e tra quello e il tuo urlo ho sbandato. Comunque non l’ho investito, se ne sarà andato”.

Si volse verso la macchina e guardò la sorella. E adesso?

Lazuli rispose allo sguardo, constatando le condizioni in cui versavano: la strada era deserta, non avevano modo di avvisare nessuno perche’ li a casa di Dio non c’era rete, la macchina era mezza dentro e mezza fuori da un campo (la macchina oltretutto  era la jeep di Kate),erano quasi le 4 della mattina, loro due avevano sforato abbondantemente la tabella di marcia e casa distava un buon quarto d’ora di macchina.

“Andiamo a piedi: oppure tiriamola fuori di qui” buttò lì.

“Stai scherzando, spero."

Era quasi inverno e c’era la nebbia, andare a piedi su una strada come quella sarebbe stato estremamente pericoloso. Avrebbero fatto la fine di un gatto.

Ormai erano lì e non potevano fare niente, tanto valeva provare a tirarla fuori: i gemelli afferrarono il paraurti della jeep e tirarono con tutte le loro forze, finchè non venne loro caldo per la fatica.

E, com’era nelle loro previsioni, la macchina non si mosse di un centimetro.

“Inutile, è troppo pesante” ansimò Lapis “porca miseria!”

Diede un calcio al paraurti e ritornò nell’abitacolo. Fece ripartire la musica e ritornò al fianco della gemella: “Almeno aiuterà a rendere meno inquietante questo posto”.

La ragazza osservò i contorni indistinti della campagna, nascosti nella bruma:

“Andiamo sulla strada. Qui è davvero inquietante con tutta la nebbia e poi nessuno ci vedrebbe”.

Con la musica alta, i due ragazzi si misero sul bordo della strada e aspettarono, ma non passò nessuno.

Tornarono vicino alla jeep.

“Ma secondo te è sempre così deserto?” Lazuli guardò il fratello con apprensione.

“Non ne ho idea…”

“Ti immagini? Se proprio adesso saltasse fuori il vecchio?”

Lapis sussultò, poi scosse la testa: “No no, Laz: per stasera è già abbastanza”.

Il tempo non passava.

Per eludere la piattezza di quella sinistra notte nebbiosa i gemelli ascoltavano la musica, salivano in macchina cercando di dormire ma erano troppo inquieti.

Lapis si mise a controllare la macchina per vedere se avesse subito dei danni: “Chissà nostra mamma; se non è andata a letto starà dando di matto."

Lazuli annuì, scrutando il mare di nebbia; sentì uno scricchiolio, come se la paglia che ricopriva il suolo venisse calpestata.

“Non ti allontanare! È pericoloso!”

Lazuli non riuscì a trattenere un gemito di sgomento, quando Lapis si sporse dalla macchina.

Non si era allontanato di un passo! Eppure quel rumore proveniva dal campo e lei l’aveva ben sentito.

“Andiamocene…” gemette “ho sentito dei passi”.

“Sicura? Spero non siano gli sbirri. Ci prenderebbero subito “.

Lazuli non sapeva se pensare al vecchio, che ormai non era che un lontano ricordo, oppure alla polizia, che invece era concreta e li braccava da tempo. Sarebbe stata una cattura facile, nel silenzio lattiginoso della notte.

Qual’era l’ultima che aveva combinato? Ah sì, lei e Lapis avevano dato fuoco ad un treno. Era stato solo un incidente, durante un inseguimento con un membro di un'altra gang.

La polizia non li aveva colti sul fatto, ma ormai erano due noti delinquenti e sicuramente qualcuno li stava cercando.

Lazuli sentì chiaramente un nuovo scricchiolio e trasse dalla borsa il suo coltellaccio.

Lapis si mise in ascolto al suo fianco; il rumore si fece più insistente e la ragazza ritirò la lama, frugò veloce nella borsa e puntò la pistola dritto davanti a sé.

“Ehi! Quella è mia!” Lapis gliela tolse di mano e le si parò davanti  “dai, spostati”.

"Veramente credo sia della mamma. Stai indietro!” 

Entrambi erano spaventati, il rumore di passi era ormai inequivocabile.

Lapis armò la pistola e parlò alla sorella con voce grave:

“Adesso sparo."

Non stava mica giocando; lo scricchiolio proseguì e il ragazzo premette il grilletto.

Il proiettile fendette la nebbia e si perse lontano, senza colpire niente.

“Ho paura, gli sbirri…” Lazuli nascose il viso fra i capelli di Lapis, le unghie piantate nel suo braccio.

Quando i vaghissimi contorni di una figura si intravidero lontano nella nebbia, Lazuli chiuse gli occhi e si strinse al fratello, che continuò a sparare senza remore. La figura si dissolse.

Lapis, col fiato corto, vide un piccolo oggetto rotolare da chissà dove vicino ai suoi piedi.

 Sembrava una prugna, era di metallo. Il ragazzo la guardò e all’improvviso si spaccò in due, lasciando fuoriuscire un vapore senso.

“Cosa succede?” Lazuli si sporse appena dalle spalle del gemello per guardare.

Questi iniziò a vacillare, indietreggiò di qualche passo e si accasciò riverso fra le sue braccia.

Lei urlò di spavento, senza riuscire a reggere Lapis che crollandole addosso a peso morto la fece cadere a terra: “Lapis? Oh Dio, alzati!”

La ragazza si mise in ginocchio, gridando e chiedendo aiuto. La situazione le stava sfuggendo di mano, si sentiva stanca e debole, stava  perdendo lucidità:

“Non è divertente; lasciatelo stare…ti prego, la polizia! Lapis, svegliati! La mamma…”

Col respiro sempre più corto e affannoso Lazuli scuoteva forte il suo gemello e lottava lei stessa contro un incomprensibile intontimento che la stava facendo addormentare.

Ciondolò in avanti con la testa, sforzandosi di tenere gli occhi aperti.

No,no! Ci hanno presi…la polizia…no” cadde su un fianco sopra a Lapis, mentre tutto intorno a lei sfumava.

 

Li aveva aspettati per tutta la settimana.

Giorni e notti interi passata a tendere l’orecchio ad ogni minimo rumore, a sperare che da un momento all’altro sarebbero entrati da quella porta e le avrebbero detto qualcosa.

Kate passò un'altra notte bianca, fra le lacrime, sul divano, mentre l’alba si avvicinava e la casa rimaneva vuota.

Non voleva nemmeno immaginarsi perché, l’angoscia le impediva di fare qualsiasi cosa.

“Torniamo massimo alle 3” le avevano detto, prima di uscire.  Avevano fatto un incidente con la macchina? Si erano fermati a casa di qualcuno senza avvertirla?

Si, dev’essere andata così” si era detta Kate “hanno tutti i loro giri”.

Così per altri quattro giorni.

Alla quinta notte insonne, Kate aveva preso in mano il telefono e aveva composto il numero.

Parlo con la polizia?”

Sì, mi dica signora”.

Devo denunciare una scomparsa. I miei figli”

 

Carly continuava a chiamare Lapis sul suo cellulare, ma da quattro giorni non trovava che la segreteria.

Era avvilita e preoccupata: perché lui non l’aveva più chiamata?

Non solo non l’aveva più visto da quando l’aveva accompagnata a casa la sera della festa, ma non le aveva nemmeno scritto un paio di righe.

Mi sta scaricando?” pensava, sempre più frequentemente e sempre più afflitta “eppure non è da lui!”

I suoi sospetti erano crollati quando aveva ricevuto a casa la telefonata di Kate. Erano crollati per fare spazio ad una paura indefinibile: nemmeno Kate lo vedeva più da quattro giorni, né lui né Lazuli.

Carly si struggeva, doveva essere successo qualcosa di grave: il suo Lapis non si sarebbe mai nascosto da Kate, lei lo sapeva, lo conosceva.

Perché sentiva che era in pericolo? Che c’era in ballo qualcosa di grave che gliel’avrebbe portato via?

 

 

“Ah! I gemelli” il poliziotto distese la faccia in un sorriso “i gangster. Certo che li ho presenti”.

Kate non avrebbe saputo a chi altro rivolgersi, visto come stavano le cose.

Sapeva benissimo che i rapporti fra i suoi figli e le forze dell’ordine non erano dei migliori, ma che fare? Non poteva certo mettersi a cercarli da sola.

“Da quanto sono spariti?”

“Oggi è l'ottavo giorno”.

Kate raccontò che la sera della presunta scomparsa erano usciti prendendo la sua auto ed erano andati a Central City. Lei era rimasta alzata ad aspettarli ma non erano ritornati.

“Sicura che non le stiano giocando qualche scherzo? Quei due sono tremendi, sa?”

Come no.

Un’altra poliziotta era entrata in quel momento:

“Cosa succede?” chiese al collega, guardando preoccupata Kate.

“Ci sono spariti i teppisti gemelli”.

La donna spalancò gli occhi: “Quelli del treno?”

“Sicuramente loro” le rispose il poliziotto “non lo sa, signora?”

Kate lo guardò perplessa.

“I suoi gentili fanciulli hanno dato fuoco a un treno poco tempo fa” tagliò corto la poliziotta.

“Un treno” mormorò Kate, prendendosi il viso fra le mani.

I poliziotti avevano iniziato le ricerche e avevano trovato l’auto di Kate in un campo, lungo la strada che portava a un capannone dove, effettivamente, gli adolescenti della zona organizzavano rave e vendite di sostanze poco ortodosse.

L’auto era lì, sbilanciata dentro il campo, la radio accesa, le portiere aperte.

Ma dei gemelli nemmeno l’ombra. Non avevano lasciato nemmeno un indizio, una traccia.

Il detective aveva comunicato a Kate e ai poliziotti che l’incidente non era stato grave, l’auto era in ottime condizioni e non erano state trovate tracce di sangue. Le ricerche effettuate nell’area circostante non avevano scoperto cadaveri né tracce di un omicidio.

Per quanto squallida fosse quella situazione, Kate si sentì minimamente sollevata.

“Mi viene da pensare che si siano allontanati dall’auto e possano essere stati rapiti. Il come non mi e’ ancora chiaro, e’ solo un’ipotesi. Dobbiamo sperare che siano vivi.”

“Guardate qui!”

Un agente si avvicinò a Kate e al gruppo di poliziotti, radunati vicino alla jeep. In mano teneva una specie di piccola bomba a mano; era aperta esattamente a metà, la forma era quella di un piccolo pallone da rugby.

Era fatta di metallo ed era vuota all’interno:

“Non capisco…detective, venga a  vedere un attimo”.

L’uomo mise l’oggetto sospetto sotto gli occhi del detective.

“Un bossolo?” Kate si accostò ai due e sbirciò fra le mani dell’agente.

“No, è troppo grande. E poi come si spiegherebbe l’apertura?” il detective lo prese e lo scrutò, lo soppesò con la mano, lo annusò.

“Sembrerebbe un ordigno esplosivo: ma all’interno è completamente vuoto e l’apertura è troppo regolare per essere stata causata da un’esplosione”.

Nessuno si era accorto della minuscola telecamera che, posta appena sotto un lembo metallico della spaccatura, osservava dettagliatamente ogni loro movimento.

 

 

 

Una luce fortissima dritta negli occhi appena appena aperti. Freddo, odore di ospedale, una sagoma china e sfocata che osserva.

Sono morta; abbiamo fatto un incidente. Sto morendo? La polizia mi ha maltrattata…”

Lazuli provò a muoversi, ma sentì il corpo pesante come pietra che non rispondeva ai suoi comandi, come se le avessero staccato la testa. Sentiva rumori acuti e stridii, voleva parlare ma dalla sua bocca uscivano solo suoni inarticolati. Spalancò un attimo gli occhi in un tentativo disperato, prima che la testa le girasse così forte da costringerla a rimettersi supina; e allora si addormentò di nuovo.

 

La prima cosa che Lapis vide, non appena si svegliò, fu un tubo pieno di sangue che si immetteva nel suo collo e un altro, in cui scorreva vorticosamente un liquido trasparente, che gli bucava il torace.

Quella visuale spazzò via i resti dello stordimento che ancora gli annebbiavano la vista.

Sgomento,  puntò i gomiti e si alzò: sembrava una sala operatoria, lui era completamente nudo, dolorante, disteso su un lettino.

La stanza era piena di macchinari che sembravano grossi computer.

Ma che diavolo…”

Guardò alla sua destra e alla sua sinistra e scorse recipienti di vetro e di ghisa, ognuno contrassegnato da una scritta stampata.

Uno era quello a cui era collegata l’altra estremità di uno dei due tubi, ma non seppe distinguere quale.

Ma dove sono?” 

Lapis fece per guardarsi alle spalle ma urlò e si premette forte il petto: quel tubo trasparente faceva terribilmente male.

“Laz?” chiamò, lasciandosi cadere all’indietro. Sentì un rumore, come di gradini scesi, e si volse da quella parte.

 “Dormi, ora; dormi che ti fa bene.”

Vide una specie di maschera calare dall’alto e cadergli sul viso: farfugliò qualcosa, poi si lasciò trasportare nell’oceano profondissimo di un sonno senza sogni.

 

Mi manchi. Torna da me.

Non so cosa sia successo, ma sappi che io sarò sempre l’appiglio a cui tu potrai aggrapparti.

Buonanotte amore mio. Ti amo.

Carly sospirava mentre scriveva il messaggio, sapeva che nessuno l’avrebbe mai letto.

 Premette invio e si appoggiò alla finestra della sua stanza. La neve era già caduta da un giorno, ormai l'anno era quasi finito.

Seduta sul davanzale interno, raggomitolata sotto una copertina, beveva una tazza di cioccolata. La notte di metà dicembre le pareva insopportabile nella sua calma ovattata: era quasi un mese che Lapis e Lazuli si erano dissolti nel nulla, quasi un mese che Kate accompagnava senza requie i detective nella loro ricerca, vivendo costantemente nell’ansia che un giorno li trovassero morti.

Anche lei stava iniziando a pensarci. E ogni notte piangeva.

Aveva sempre pensato che Lapis fosse quel tipo di ragazzo decisamente fuori dalla sua portata.

Lei, Carly, la più timida fra il suo gruppo di amiche, la più inesperta, la meno popolare: era ancora così a sedici anni, quando l'aveva incontrato.

Si ricordava che quel giorno era molto triste e non aveva molta voglia di scendere a dare una mano nel negozio di suo padre:

Siamo a corto di personale perché alcuni si sono ammalati, quindi dovrai aiutarmi coi clienti fino a nuovo ordine.”

Si ricordava benissimo che stava ammazzando il tempo osservando qualche modello esposto nello showroom, quando suo padre le aveva lasciato in tutta fretta un cliente da servire:

Pensaci tu al ragazzo, fagli vedere un po’ di modelli da giovani, nuovi e usati. Trattalo bene, mi raccomando!”

Il ragazzo in questione era piombato sfacciatamente nella sua vita con uno sguardo acuto e convinto.

Uno sguardo che aveva bruciato il suo cuore in un colpo solo; una ghiacciata improvvisa.

Gli aveva mostrato con fatica tutti i modelli che avrebbero potuto interessargli, poi lui se ne era andato senza nemmeno ringraziarla. I giorni erano trascorsi e, contrariamente alle sue aspettative, con la scusa della macchina il ragazzo era tornato in negozio e avevano iniziato a parlare.

Si chiamava Lapis e aveva quindici anni. Carly non aveva mai visto due occhi così.

 

 Così, ogni volta che in quei due anni aveva ripensato ai loro primi incontri, le erano riaffiorati alla mente tutti i sospiri, tutti i dubbi, tutti i pensieri:

Lui è troppo per me; non mi vorrà mai.”

Era uno dei pochi ragazzi che parlavano e anche tanto; a volte era un po’ pieno di sé.

Parlava volentieri e le diceva spesso quanto fosse stato grato alla sorte per aver messo Carly sulla sua strada e lei pensava la stessa cosa. Con lui era cambiata, era cresciuta: a furia di sentirlo ripetere quanto trovasse belli il suo viso e il suo corpo, che per lei era sempre troppo abbondante, aveva finito per convincersene anche lei e ormai non era più la ragazzina insicura di prima.

“Ma perché mi deve tornare tutto in mente?” si disse, guardando i lampioni che fendevano l’oscurità fuori dalla finestra.

All'improvviso le tornò un ricordo che le fece stringere il cuore.

Si ricordò del loro primo vero appuntamento, una settimana dopo l'incontro in concessionaria.

 

Lei era seduta nel giardino interno del liceo e sbocconcellava qualcosa; non aveva avuto tempo di andare a pranzo, l'indomani avrebbe avuto una verifica e doveva ancora studiare due lunghi capitoli di storia.

Però era lì a guardare per aria, non riuscendo a fare a meno di pensare a distrazioni varie.

"Yo."

Carly si era girata di scatto e aveva visto gli occhi che le facevano tremare le gambe, sì e no a un metro dai suoi.

"Ehi, Lapis."

Ecco, esattamente distrazioni di quel tipo.

Istintivamente si era lisciata la maglia e ravviata i capelli, nel frattempo lasciando goffamente cadere il libro.

Lui glielo aveva restituito con un sorriso sincero. Era la prima volta che Carly l’aveva visto sorridere: vide che aveva i canini leggermente inclinati, disallineati.

A lei sembrava che introducessero un po' di asimmetria che staccava con il resto del suo viso, ma senza stonare. Anzi, pensava che gli aggiungessero valore.

"Cosa fai qui?"

"...Vado a scuola?"

Carly non sapeva che anche lui frequentasse lo stesso liceo; le disse che di solito non veniva mai da quel lato.

"Come mai sei venuto allora?"

"Per chiederti se vuoi fare un giro con me."

Con lei? Diceva sul serio?

Mano nella mano con Lapis, quella volta Carly non aveva ripassato storia e non le era importato.

Era stato durante quel pomeriggio che si erano dati il primo bacio. Carly si era aspettata che lui sarebbe stato irruento, materiale. Era quella l’impressione che le dava: nonostante l’ancora presente scia della fanciullezza smussasse i suoi spigoli e arrotondasse le sue linee, Lapis non aveva un tipo di bellezza dolce e gentile. E poi il suo modo di essere era vivace e irriverente, il suo viso aveva un’espressione maliziosa, per cui Carly fu sorpresa dalla straordinaria delicatezza di cui invece lui le fece prova.

L’aveva baciata tenendola vicino al proprio corpo, con le mani nei suoi capelli, in un modo che voleva comunicarle la presenza della sua passione e anche l’assenza di fretta.

Carly aveva adorato baciare Lapis.

Ignorava se fosse perche’ era la prima volta che le succedeva, o se era perche’ si era presa davvero una brutta cotta per quel ragazzaccio dai lunghi capelli neri; avrebbe potuto baciarlo tutto il giorno.

"Guarda che se vuoi dartela a gambe, fallo prima di continuare con me."

Era sicura di quello che lei provava, ma pensava alle parole delle sue amiche, che di ragazzi se ne intendevano e che non facevano che dire che in generale volevano solo portarsi a letto una ragazza, per questo la corteggiavano:

"Se vuoi solo venire a letto con me, lascia perdere."

Aveva trovato il coraggio di essere schietta, ma pronunciando quelle parole aveva sentito una specie di formicolio lì, sotto il vestito. Un momento, Carly voleva?

"Perchè darmela a gambe? Non sto più nella pelle di fare l'amore con te."

Il formicolio si era intensificato e Carly aveva inziato a sudare.

Voleva saltargli addosso, ma si era trattenuta.

Forse era abituato così, per lui le tipe andavano e venivano?

Carly quasi non aveva creduto alle sue orecchie: "Wow, e me lo dici cosi’, senza peli sulla lingua. Cosa significa, una botta e via?"

Lui sembrava offeso, l'aveva guardata con una specie di broncio divertito:

"Eh no, Carly; voglio farlo con te molte, molte volte."

 

Era stanca e voleva dormire, ma non riusciva.

Fece per entrare nel letto, lo scrutava con le braccia incrociate e gli occhi colmi di lacrime; la nostalgia fu cosi’ forte che Carly si volto’ di scatto e rimase bloccata, pensando a quante volte ci aveva fatto l’amore in quel letto.

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Capitolo 4
*** Il ragno ***


Il vecchio dottore li aveva tenuti d’occhio per un paio d’anni.

Era successo così, per caso: aveva incontrato quei due giovani fuorilegge proprio mentre era in giro a cercare carne fresca per i suoi esperimenti.

Il dottore costruiva macchine. Macchine molto sofisticate, con un’intelligenza artificiale ad altissimi livelli.

Erano talmente sofisticate che il dottore era un criminale.

Aveva, a suo tempo, lavorato per una delle piu’ famigerate organizzazioni militari che il Paese avesse mai visto, prima che uno stupido bambino di nome Son Goku decidesse di rovinare tuttp.

Il dottore era folle e folli erano i suoi obiettivi; con le sue macchine mirava ad annientare i suoi nemici personali, le studiava in ogni minimo dettaglio e il risultato era sublime.

Non erano macchine qualsiasi; il dottore costruiva androidi.

Ne aveva costruiti un’intera serie, sedici, ma molti erano stati poi distrutti dalle stessi mani che li avevano costruiti. C’era sempre un qualcosa che mancava, la loro intelligenza artificiale non riusciva mai ad essere quello che il dottore voleva. Troppo crudeli, troppo ribelli, troppo buoni.

 

Nelle sue ricerche, nel corso di anni e anni, era arrivato a comprendere come costruire anche cyborg.

E una notte, molti anni dopo, mentre girovagava in una zona mal frequentata di Central City si era imbattuto in una coppia di gemelli: giovani, belli, un maschio e una femmina, erano perfetti.

Erano delinquenti e nessuno avrebbe sentito la loro mancanza.

Il dottore aveva cominciato in modo molto discreto, tanto valeva la pena di aspettare che crescessero ancora di qualche anno.

La ragazza era stata facile da abbordare: gli era bastato fingersi un vecchiettino acciaccato che aveva bisogno di aiuto per attraversare la strada. Lei era molto carina e non gli negava mai il suo sostegno.

Col ragazzo invece non era stato così semplice: malfidente e dispotico, non si lasciava intenerire da un povero vecchio gentile.

Da quando aveva iniziato a tenere d’occhio anche lui, nemmeno la ragazza era più stata una preda facile: andavano sempre in giro insieme, è vero, ma ormai il più delle volte c’era qualche sgradevole intruso che li accompagnava.

Sapeva, grazie al fatto che non li perdeva mai di vista, che si erano accorti di lui.

La madre? Non occorreva eliminarla, non era un ostacolo fondamentale: i gemelli manco le avevano detto di lui.

Che fare, nonostante questo? Non gli toccava che aspettare quieto nell’ombra, tessendo la sua tela al meglio delle sue possibilità e aspettando che prima o poi le sue giovani vittime ci cadessero.

Aveva aspettato nell’ombra per due anni, osservandoli in ogni minimo istante, compiacendosi sempre più per la scelta felice che aveva fatto e per la fortuna che gli era capitata. In quei due anni li aveva visti crescere proprio come lui sperava e diventare più sereni; lo stavano pian piano dimenticando.

L’occasione più propizia doveva solo arrivare e lui non aveva fretta: a chi sa attendere le cose migliori.

E l’occasione era capitata una sera brumosa di novembre. Era una notte deserta, le due prede erano sole, nessuno l’avrebbe intralciato.

Era bastato far sbandare il gemello maschio e farlo impiantare con l’auto in un campo, dopodiché li aveva addormentati con dell’anestetico e se li era portati via; più semplice di così!

Il difficile era arrivato man mano che aveva iniziato a ristrutturarli: voleva dare loro una forza infinita, in modo che non sarebbero mai stati stanchi: niente avrebbe potuto arrestarli.

Avrebbero annientato tutti i suoi nemici, primo fra tutti Son Goku.

Ma costruire cyborg era un’altra cosa rispetto alle relativamente semplici macchine a cui aveva dato origine fino a quel momento: i due gemelli erano l’ennesimo tentativo, prima di loro altre persone erano state sequestrate per lo stesso fine.

Il progetto del dottore era estremamente delicato e tante cavie erano passate sotto i suoi ferri, fra le mura del suo laboratorio; i cadaveri si erano ammucchiati nel laboratorio, fallimento dopo fallimento.

Ci teneva che queste nuove carni non venissero sprecate; se il dottore voleva che le sue ultime creazioni mantenessero la loro parte umana, non poteva privare I gemelli delle loro funzioni vitali.

Mentre svolgeva per ore delicatissime operazioni a cuore aperto o interventi completi di ristrutturazione del loro intero corpo doveva assicurarsi di nutrirli e di mantenerli in vita.

Il loro corpo non era nemmeno la parte complicata del lavoro; il dottore non si era mai trovato a dover manipolare e plasmare secondo le sue volontà due menti già formate, due vite che già da diciotto anni facevano il loro corso.

Doveva fare in modo che per nessuna ragione si ricordassero chi erano, da dove venivano e perché si trovavano lì, sarebbe stato fatale per il suo progetto.

Ogni tanto si svegliavano mentre lui, armato di tutta la sua pazienza e del suo genio, li convertiva lentamente in organismi cibernetici; bastava addormentarli di nuovo, ma i lavori procedevano molto a rilento.

Quando il dottore finì, poco più di un anno dopo il rapimento, provò ad attivarli: doveva ancora perfezionarli, perciò voleva testare le loro abilità.

Ho fatto in modo che sappiano che devono uccidere Son Goku; spero di aver fatto un buon lavoro.”

Il dottore ripulì i gemelli dalle tracce dell’ultimo intervento, li dotò di nuovi abiti, scollegò i tubi e attese. Passò quasi un’ora, ma non si ridestarono.

Ecco…ho fallito ancora: mi aspettavo di creare due cyborg e mi ritrovo altri due cadaveri…” il dottore strinse i pugni e rimase a guardare il maschio, il primo che aveva completato.

Alzò un attimo lo sguardo e vide che la femmina si stava muovendo, seguita quasi immediatamente dal fratello.

Un lampo di vittoria gli accese lo sguardo stralunato: era fatta! Era riuscito a dare vita per la prima volta a due cyborg.

I due gemelli si svegliarono e rimasero seduti, a guardarsi.

“Buongiorno, miei cari” li salutò il dottore “come vi sentite? È tutto a posto?”

I due ragazzi non risposero; si limitarono a studiarlo con uno sguardo piatto.

“Mi presento: io sono il dottor Gero e sono il vostro creatore. Penso che voi due già sappiate il vostro nome e il lavoro che vi ho affidato”  si avvicinò al ragazzo “chi sei tu?”

Il ragazzo alzò lo sguardo su di lui: “Cyborg numero Diciassette.”

“Molto bene. E il tuo compito è?...”

“Uccidere Son Goku e seminare terrore fra gli umani."

“Proprio così. E tu, qual è il tuo nome?”

“Cyborg numero Diciotto. E insieme a numero Diciassette devo seminare morte e distruzione. Per questo sono stata creata” la ragazza rispose con un sorriso.

“Sembra proprio che stiate bene” disse il dottor Gero, con soddisfazione “questo è il mio laboratorio, nonché la vostra casa: potete andare dove volete, ma attenzione a non guastarmi i macchinari”.

“Stia tranquillo dottore” annuì Diciassette.

“Può fidarsi di noi” sorrise Diciotto.

Il dottore tornò al computer a cui stava lavorando e lasciò i neo-cyborg a esplorare il suo istituto di ricerca.

I due gemelli si sentivano un po’ intontiti, come se fossero stati sotto l’effetto di una droga che li faceva parlare totalmente a caso. Fisicamente si sentivano in forma, anzi, talmente pieni di energia che sembrava loro assurdo sedersi per riposarsi o addirittura mettersi a dormire. Non avevano nemmeno fame; insomma, quasi mai, e quando avevano bisogno ci pensava il dottore.

Il dottore era severo, ma si occupava di loro.

“Guarda, Diciassette!” una volta la ragazza aveva spalancato una porta e se l’era ritrovata in mano, il pomello della maniglia accartocciato come un foglio di carta “ho un casino di forza! Guarda!”

Lui aveva scosso la testa ridendo: “Sciocchezze!”

Si era messo a volare per la stanza e all’improvviso aveva puntato una mano verso una parete: un raggio fotonico era scaturito dal suo palmo e aveva incenerito all’istante gli sfortunati computer che si trovavano lì.

“Wow, siamo fortissimi!”

“Per forza. Vi ho installato un reattore di forza infinita” li rimbeccava lo scorbutico dottore.

Il vecchio si arrabbiava quando Diciassette e Diciotto continuavano a devastare tutto in quel modo: “Se non la smettete vi disattiverò! Ricordatevi che siete ancora in prova…la vostra vita dipende da come vi comportate.”

Ma loro non l’ascoltavano e andavano avanti a giocare: del resto, cosa doveva aspettarsi? Teenager cyborg o teenager umani, restavano sempre due teenager, per di più con un passato tutt’altro che tranquillo.

Ogni tanto il dottore li disattivava e li metteva a dormire in capsule speciali: funzionavano bene, anche se erano un po’ vivaci. Dopotutto, l’energia eterna dovevano pure consumarla!

Gli sembravano anche fin troppo svegli. L’importante, però, era che non si ricordassero nulla relativo alla loro vita da umani: la grande paura di Gero era che i ricordi affettivi riaffiorassero alla loro mente, gli altri erano di poco conto.

“Possibile che in questo posto non ci siano manco dei vestiti?!” diceva scocciata Diciotto: di certo doveva essere un retaggio, esattamente come per Diciassette che si lamentava, dicendo che voleva guidare la sua auto.

Correggere nella mente: reminiscenze umane troppo vive si appuntava lo scienziato.

Un giorno capitò che il dottore non fosse al laboratorio. I gemelli restarono da soli, in compagnia di altre creazioni addormentate e del continuo brusio dei computer e dei macchinari.

Come d’abitudine, presero a ficcare il naso dappertutto. Diciassette trovò un pezzo di lamiera, lo appallottolò e iniziò a giocarci come se fosse stato un pallone: “Incredibile, prima non l’avrei mai potuto fare.”

Giocava come un bambino, calciando la palla di lamiera in alto e stoppandola col petto.

Diciotto lo guardava distrattamente, ma ascoltandolo ebbe un piccolo sussulto:

“Prima? Quando? In che senso?”

“Prima” il ragazzo alzò le spalle con noncuranza “non so: prima e basta”.

Lei saltò in cima ad un gigantesco computer e lì si sedette, pensosa.

“Cosa c’è? Cos'è questo rumore?” il fratello la raggiunse con un balzo e le si sedette accanto “rimbomba, mi dà fastidio".

Quale rumore? Diciotto si mise in ascolto e si accorse che proveniva da dentro di lei.

Tum tum tum.

Si toccò il seno sinistro e sentì col tatto il battito del proprio cuore, reso più rapido dall'agitazione che provava in quel momento.

Poteva essere vero?

"Mi batte il cuore?"

Restò con la mano premuta sul petto ancora per un momento, poi toccò il petto di Diciassette e sentì il suo sangue scorrere nelle vene.

“Ah sì! Anche a te. È normale? Siamo esseri artificiali” poi scosse la testa visibilmente turbata "c’è qualcosa che non quadra: me ne sono resa conto in questi giorni."

“Ti senti male? Il dottore ti dà noia?” si allarmò lui.

“Ma va’” rise Diciotto “non c’entra il dottore! È come se sia io che te fossimo in una specie di limbo. Mi spiego?”

“No, sii più chiara: cosa c’è che non va?”

“E’ come se ci fosse qualcosa che devo ricordarmi perché è vitale, però non so cos’è: è come un sogno.” 

Per la prima volta dacché si ricordasse, gli occhi di Diciotto erano tristi. Sembrava che avesse perso qualcosa di molto importante e lui intuiva che non riusciva a spiegarsi.

“Io so una cosa: siamo gemelli.” 

“Beh, ma questo lo so anche io! Ma c’è dell’altro…mi sento così stordita” sconsolata, la ragazza si prese le ginocchia fra le braccia e vi appoggiò la fronte.

“Se mi viene in mente qualcosa te lo dirò” le assicurò lui, incoraggiante.

 

Col passare dei giorni, il dottor Gero osservava attentamente i due cyborg, prendendo appunti nel caso in cui gli fosse toccata un’importante modifica. Preferiva evitarla, prendere di nuovo i ragazzi e aprirli sarebbe stato scomodo e rischioso: aveva sempre a che fare con due organismi viventi, non poteva modificarli a suo piacere come faceva con i suoi famosi androidi.

Aveva potuto modificare loro la pelle, rendendola liscia e inscalfibile; aveva potuto modificare loro i denti e le ossa, ora infinite volte più resistenti del materiale che i semplici umani usavano per rivestire esternamente gli shuttle; aveva potuto cancellare loro la memoria e dotarli dei dati a lui necessari.

Ma non era onnipotente: non aveva potuto strappare loro gli organi, né tantomeno i ricordi che la parte più nascosta della loro mente celava.

Non poteva davvero annientare chi erano, era questo il rischio che si era preso.

E poi non erano calmi e obbedienti, tutt’altro. Lo interrompevano sempre, facendo irruzione mentre lui stava lavorando e mettendo il laboratorio a soqquadro.

“Voglio ascoltare la musica! Mi sto annoiando”

“Non è meglio che tu vada a dormire, numero diciassette?” gli rispose una volta, seccato.

“Non ho sonno! Io e Diciotto vogliamo la musica!”

“Va bene, va bene! Avrete la musica!” il dottore si spostò in un’altra sezione del laboratorio e accese un computer.

Il ragazzo sogghignò: “Posso dirle una cosa, dottor Gero? Lei è una rottura di scatole”.

 “E tu sei un ragazzino disobbediente” grugnì il vecchio “tu e lei dovreste portarmi più rispetto”.

Diciassette rivolse lo sguardo al cielo e sospirò, battendo nervosamente un piede a terra: “Allora, la nostra musica?”

 

 “Ancora un po’ e si metteva a urlare!”

Appena il dottore ritornò ai suoi esperimenti, Diciotto non riuscì più a trattenere una risata.

“Ti ho fatto mettere la musica” sottolineò lui.

“Si si, grazie fratellino."

Era proprio uno spasso tirare fuori dai gangheri il dottore; prima o poi dovevano riuscirci.

“Io rimango sempre della mia idea: se ci dà fastidio, lo sopprimo”.

Diciassette lo disse come se fosse la cosa più normale del mondo. Sua sorella stava ballando, ma si arresto e corse da lui: “Cos’hai detto? Ripetilo, ti prego!”

Diciassette sgranò gli occhi e ripeté: “Lo sopprimo, lo ammazzo, lo elimino. Gli farò qualcosa!”

Lei tremò, prendendogli i polsi:

“Mi ricordo” i suoi occhi luccicavano di ansia e di frenesia “Mi ricordo, lo dicevi anche prima! Non mi ricordo perché, ma le tue parole eccome!”

“Davvero?”

“Eh sì! Mi avevi detto se ti tocca, è morto ma non mi ricordo di chi parlassi. E mi avevi anche fatto comprare un coltellaccio, tu avevi una pistola. Dio! Mi sembra un secolo fa…”

Lo sguardo di Diciassette si accese:

“La mia pistola! È vero!” si girò sul fianco destro e non la trovò nella tasca dei pantaloni, bensì in una fondina “eccola qui! Dici questa?”

La mostrò a Diciotto, che la scrutò con attenzione: “Non mi ricordo esattamente se era questa, ma so il perché la possiedi”.

“E io me ne ero completamente dimenticato!” lui allargò le braccia e si mise una mano sulla fronte “grazie, Lazuli, per avermelo ricordato.”

Questa volta la ragazza tremò visibilmente: “Lazuli?”

Diciassette si morse la lingua:

“Oh scusa. Diciotto, volevo dire.”

Lei sentiva una tempesta infuriarle dentro. Qualcosa stava per esplodere, qualcosa che era stato nascosto e che non avrebbe dovuto esserlo.

Si volse verso il fratello, lentamente, senza la forza di parlare: “...Lapis?”

Si sentiva le labbra secche e una stretta al cuore: “Lapis, sei proprio tu! Mi sto ricordando…”

Affinità inaccessibili agli altri li univano da sempre.

Dovettero ringraziare questo, quando all’improvviso si videro passare davanti agli occhi una sequenza di scene già viste, solo dimenticate.

La musica suonava e suonava e in quel momento una canzone da discoteca fece esplodere la polveriera.

“Questa canzone! Questa canzone era alla festa dell’altra sera! Mentre io ero fuori a fumare e aspettavo te che eri andato via.”

“Sshh. Parla piano!” l’avvertì lui “è vero, mi sta tornando tutto in mente. Ti ricordi di quando abbiamo fatto il patto di sangue? Il rito tribale! A te non piaceva.”

Lazuli si sforzò di mantenere un tono di voce basso:

“E ti ricordi di quando non mettevi mai il casco perché dicevi che ti schiacciava la cresta? Eravamo piccoli.”

Lapis annuì e la guardò serio: “Qualche anno fa c’era uno che ci pedinava, te lo ricordi? Per quello la pistola."

Lei aggrottò la fronte e si mise a pensare: sì, un vecchio che la seguiva, che seguiva anche lui; un vecchio con la barba e i baffi.

“...un vecchio con lo sguardo da pazzo?”

Poi trattenne il fiato, quando finalmente i pezzi del puzzle si ricomposero.

Lei afferrò violentemente Lapis e lo scosse stringendo la sua maglia, che si lacerò presto sotto la stretta.: “E’ LUI! E’ IL DOTTOR GERO!”

Senza la barba adesso, era lui che li aveva seguiti, rapiti e che aveva messo un numero al posto del loro vero nome.

Lapis teneva la testa bassa e i pugni stretti.

Col respiro corto battè il pugno su una scrivania e la ridusse in pezzi: “Cane!”

Calpestò i resti della scrivania, ridendo nervosamente: “Cane maledetto. E’ stato lui a cambiarci. Ecco perché non ci ricordiamo più niente. Ecco perché adesso siamo cyborg.”

Lazuli annuì: “Lo so. E dobbiamo eliminare il suo nemico. È per questo che ci ha creati”.

Se li aveva ristrutturati da capo a piedi, doveva aver tagliato la loro pelle e ravanato al loro interno, forse asportato degli organi per rimpiazzarli con dei circuiti; doveva anche averli visti nudi mentre loro giacevano tramortiti.

Lui non ci ha creati" sibilò lui alterato, sforzandosi di non alzare la voce  “noi esistevamo già, lui ci ha cambiati, per farci fare quello che vuole lui; non voglio pensare a cosa ha fatto per cambiarci, altrimenti vomito."

 

I gemelli si sedettero per terra, silenziosi, ponderando l'enorme verità che avevano scoperto. Dunque era così, li aveva strappati alla loro vita per farli a pezzi e poi ricostruirli e non solo. Doveve aver fatto qualcosa nella loro testa, in modo che sapessero gia’ cosa dovevano fare, lo riconoscessero come padre e obbedissero ai suoi comandi. Dover uccidere Son Goku suonava naturale, era semplicemente una cosa che andava fatta.

La morte non era un tabu’, una soglia sacra da non oltrepassare, Lazuli sentiva la sua nuova energia eterna che ribolliva, improvvisamente era diventata ansiosa di uccidere:

“Io non posso perdonarlo: dobbiamo fare qualcosa, assolutamente”.

Il ragazzo accennò un sì: “Lo so, sorellina; ogni cosa a suo tempo”.

Dovevano essere cauti, il dottore aveva gia’ dichiarato loro di poterli disattivare come gli pareva e piaceva.

Gli occhi di Lapis si incupirono: “Ci ha portato via la nostra identità e le nostre memorie…non mi ricordo quasi niente su di me, ma se non ci ha creati lui vuol dire che siamo nati.”

Lazuli sospirò costernata: “Non è a lui che dobbiamo la vita, è certo, ma nemmeno io riesco a ricordarmi a chi dovremmo essere grati per davvero.”

“Una donna” indugio’ lui, un pollice fra le labbra “nostra madre. E anche un vero padre.”

La ragazza si sentì montare la rabbia di nuovo: “Ma noi ce li abbiamo? È tutto confuso.”

“Lapis e Lazuli; sono questi i nostri nomi, non è vero?” lui diventò ansioso all’improvviso.

“Come hai fatto a ricordartene?”

Lapis la guardò e scosse la testa: non avrebbe saputo risponderle, gli era venuto così naturale.

Almeno una cosa non gliel’aveva portata via, quel vecchio folle.

Dovevano difendere almeno i pochi ricordi che restavano loro, proteggerli a qualsiasi costo.

Dovevano aspettare il momento in cui si sarebbero fatti giustizia. Con quella nuova forza sarebbe stato una cosa da niente.

Lapis diede una pacca amorevole alla sorella e le sorrise per sollevarle il morale:

“Quella notte siamo finiti in un campo con la macchina e volevamo tirarla fuori, ma non ce l’abbiamo fatta: adesso la potremmo sollevare con una sola mano”.

“Ma quindi noi non siamo morti, no? E siamo sempre umani, non siamo diventati dei robot”  chiese lei.

“Abbiamo cuore e sangue, no che non siamo morti! E siamo mezzi umani, mezzi macchine.”

In quel momento della loro vita, piu’ che la composizione del loro corpo, la cosa importante era che non si dimenticassero di quanto erano appena riusciti a ricordare: erano convinti che se l’avesse saputo, il dottore avrebbe fatto di tutto pur di spazzare via quell’ultimo frammento di memoria autentica. Dopo essersi sbarazzati del dottor Gero, cos'avrebbero fatto? Dovevano si’ uccidere quel Son Goku, ma anche trovare un modo per ritornare alla loro vita normale.

“I nostri nomi, ricordi sparsi di quando eravamo più piccoli…non dobbiamo dimenticarceli per nulla al mondo, Lazuli."

 

 Al dottor Gero stava venendo il dubbio che i cyborg serbassero ricordi: lui aveva detto una volta che gli sarebbe piaciuto poter rivedere la sua auto –la sua auto! Si ricordava.

Il dottore li osservava con molta più attenzione da quando si era accorto che chiacchieravano a bassa voce; in più, negli ultimi tempi, si divertivano a fargli sempre più dispetti.

“Ma secondo te possiamo ancora mangiare? ” chiese una volta Lapis alla sorella.

“Ah ecco le tue vere preoccupazioni, la macchina e il cibo. Non vedo perchè no, ma credo che possiamo farne a meno: io non ho mai fame e sto una meraviglia.”

Lui aggrottò le sopracciglia e guardo’ un pacchetto di patatine che aveva rubato da un cassetto, da quache parte nel laboratorio: “Voglio vedere cosa succede, se mangio queste.”

Si mise una manciata di patatine in bocca e la ingoio’, sotto lo sguardo interrogativo di Lazuli.

“Allora?”

“Niente. Ah no, guarda, ora le mie dita sono arancioni.”

Lapis si puli’ sui propri pantaloni e si guadagno’ uno sguardo disgustato dalla sorella.

“Perché quella vecchia capra ci dà sempre da bere quelle cose nauseanti?”

“Non ho idea, bro. Magari perché così lui perde meno tempo."

Così venne loro in mente uno dei tanti scherzi che presero a giocare al dottor Gero.

Lui era solito dar loro da bere solo una miscela di sali, oligoelementi e altre sostanze essenziali per l’organismo, visto che secondo i suoi calcoli i due ragazzi non avrebbero avuto bisogno di nutrirsi, ma solo di idratarsi per non far surriscaldare e malfunzionare il loro reattore.

Ad un certo punto i gemelli si rifiutarono categoricamente di berla.

Mi fa venire il mal di testa” diceva lui.

Mi fa sentire stanca” piagnucolava lei.

Allora il dottore inventava soluzioni diverse, ma ognuna aveva qualcosa che non andava; si azzardavano pure a chiedere cibo solido.

Il dottore doveva scendere nella città più vicina, tornava al laboratorio e pensava di accontentare i numeri diciassette e diciotto che si rimpinzavano, poi facevano scene assurde e davano la colpa a lui, accusandolo di volerli rovinare; naturalmente stavano bene e sopportavano benissimo sia il cibo umano che le bevande; stavano solo fingendo con l’unico scopo di far ammattire il dottore.

Correggere sistema digestivo: non tollerano più le miscele apposite che preparo per loro, devo aver sbagliato qualcosa,  scriveva il dottore.

Ma gli sembrava strano, per cui fece loro degli esami che gli diedero l'esito che si aspettava.

Oltre a questo, si divertivano a spegnere e accendere tutti i macchinari a loro piacere e a rompergli le attrezzature.

Avendo installato dei chip nel loro cervello che contenevano anche informazioni relativa al combattimento e all’uso del loro nuovo ki artificiale, a volte Gero li faceva combattere, annotando minuziosamente i dettagli sulle loro performances: lui era piu’ forte, ma lei era piu’ violenta.

Insieme erano esplosivi.

Facevano finta di sbagliare a lanciare ki blast e distruggevano spesso oggetti innocenti e molto importanti per lui.

Spesso protestavano dicendo che non avevano voglia di combattere e che avrebbero preferito dormire, ma quando era il momento di riposarsi nelle capsule, si riprendevano e stavano talmente bene che ricominciavano a tormentarlo con la musica, i giochi o altre stupidaggini.

Correggere nella mente: troppo poco coinvolti nella missione, dispettosi, ribelli.

Ormai il dottore era fermamente convinto che doveva disattivarli per apportare le modifiche necessarie: aveva raccolto abbastanza dati nella sessione di prova, dopotutto il momento di uccidere il suo nemico non era ancora arrivato e i cyborg dovevano essere perfezionati.

 

 

Successe un giorno, mentre erano seduti a chiacchierare, a sfogliare di nascosto gli appunti del dottore e a parlare mangiando caramelle.

“Non stiamo dando un po’ troppo dell’occhio? Se continuiamo così, si arrabbierà e ci farà rimanere inerti.” suggeri’ Lazuli, preoccupata.

“Ma è così divertente!” rideva Lapis  “lo stiamo tirando scemo.”

La ragazza si stava fissando in uno specchio, rimirandosi da veri angoli: “Sono contenta che ci siamo ricordati i nostri nomi, ma devo proprio dirlo, sono cosi’ stupidi e volgari. Lazuli, che nome da escort.”

“A me il mio va bene...” Lapis alzo’ le spalle con disinteresse, mentre giocherellava con una piccola bustina di plastica gialla.

“Anche se, guardami: il mio corpo e’ meraviglioso. Farmi pagare per spogliarlo e ritrovarmi le lenzuola piene di soldi, non sembra poi cosi’ male.”

“Non osare...”

“Oh sì signore, quanti soldi farei. Che c’e’ di male, perche’ sono femmina? Mica la darei via, gliela farei solo vedere.”

Lapis provo’ a rimuovere dalla sua mente le immagini di sua sorella nuda seduta in braccio a qualche tipo, che lei gli aveva appena evocato. Non che non l’avesse mai vista in bikini, ma il pensiero lo disturbava comunque.

“Guarda qui. Cosa vuol dire?" le mostrò una strana incisione sulla grossa fibbia del suo orologio da polso. Sapeva che era il suo, esattamente come la pistola.

"Per L. da C. ; L. sono io, C. invece?"

Lo sguardo smarrito di sua sorella gli fece ancora una volta realizzare il crimine che il dottore aveva compiuto su di loro.

“Fosse l’ultima cosa che faccio, dovesse anche farmi dormire per un secolo; lo uccideremo, gliela faremo pagare, ricordatelo.” disse tagliente lui.

Lo scricchiolio fastidioso della plastica attiro’ l’attenzione di Lazuli. Strappo’ la bustina dalle mani di suo fratello.

“Che fai? L’ho preso perche’ credevo che fosse zucchero, invece e’ una roba di carta, o stoffa, non ho capito. Ce n’e’ un cassetto pieno nella stanza con tutte le nostre cose.”

La ragazza si senti’ a disagio nel riconoscere improvvisamente la bustina gialla. Senza bisogno di aprirla se la mise in tasca, poi si diresse quasi correndo verso la stanza.

Apri’ l’armadio e ci trovo’ camici bianchi e da ospedale, stracci, traversine, dei bastoncini di cotone e altri oggetti da toeletta.

E le bustine gialle. Un cassetto pieno, gia’.

Non erano nella loro scatola, di quelle che Lazuli si era ricordata di aver preso dallo scaffale del supermercato tutti i mesi in un’altra vita, ma riposte li’, pronte all’uso.

-Oh porca puttana, no...-

Si senti’ un palla di nervi nella pancia, volle sputarla ma si sedette semplicemente sul pavimento, sgomenta.

-Laz? Ti senti bene?-

Lapis la vide guardare il cassetto pieno di “bustine di zucchero” e poi inconsapevolmente guardarsi.

Lazuli era molto piu’ che schifata.

Come aveva appena detto lei stessa, era femmina.

Lo sgomento assoluto che aveva provato nell’apprendere che il suo essere femmina aveva continuato imperturbabile a manifestarsi durante tutto quel tempo, nonostante la conversione in cyborg era durato un niente; era stato soppiantato da un disgusto viscerale nel pensare che per tutto il tempo fra il rapimento e il risveglio, quando era stata incosciente, il dottore non l’aveva lasciata nel suo stesso sangue, la’ sul tavolo operatorio.

Si era servito del contenuto di quelle bustine.

Le labbra e le sopracciglia di Lapis si erano incurvate in direzione opposta mentre si era accucciato al fianco della sorella, guardando la sua espressione orripilata, che lentamente si era trasformata in uno sguardo feroce.

Senza parlare si alzo’ e Lapis capi’ che stava andando a cercare il dottore; le mise un braccio davanti, esigendo spiegazioni.

Quando Lazuli gli rivelo’ quello che aveva appena scoperto, anche Lapis si senti’ infiammare dallo stesso disgusto primordiale.

Il fatto che quel bruto si fosse avvicinato con le sue rozze dita al corpo morbido di sua sorella era una motivazione sufficiente, ancora piu’ importante della vendetta.

-Lascialo fare a me.-

Lapis credette di scorgere un tremito sulle labbra della sorella. Le mise una mano sulla spalla, annuendo. Insieme si avviarono verso la scrivania del dottore, avvicinandosi con passo deciso e fiero mentre lui non si girava.

Poi lo videro protendere il braccio -un aggeggio nero e rettangolare nella sua mano- prima che le tenebre si richiudessero di nuovo su di loro.

 

 

Quella nuvola non sembra un uomo ciccione?”

A me sembra una montagna.”

Carly era distesa su un fianco sull'erba odorosa a guardare le nuvole e sorrideva con aria trasognata mentre accarezzava i capelli setosi del suo primo amore:

Cos'è che ti piace di più di me? Dimmelo ancora.”

Tutto. Ma per rispondere alla tua domanda, che sei molto sexy ma non lo fai apposta. E a te?”

Fra tutto, scelgo i tuoi colori e il tuo sorriso.”

Ma dai! Non quello.”

Lapis aveva chiuso la bocca e involontariamente aveva toccato uno dei suoi canini con la punta della lingua: “Vorrei fare sistemare i denti, mia mamma mi ha dato il permesso; ma il dentista dice che devo solo lasciare stare.”

Esatto, lascia stare!” Carly lo guardava teneramente “fa parte di te.”

Non capiva come mai Lapis fosse tanto fissato con un difettuccio così lieve da non essere nemmeno un problema medico. Lei amava quei piccoli dettagli di lui.

Lui aveva fatto una smorfia: “Mia sorella a volte mi prende in giro.”

Allora è solo cattiva, sta a vedere che lei e’ perfetta...Aspetta, hai una sorella? In che classe è?”

Sì. In classe con me.”

 

Era passato tanto tempo, in teoria circa due anni, in pratica cento.

Ultimamente le capitava spesso di avere ricordi teneri e innocenti dei primi giorni della loro storia d'amore. Ma ormai Carly temeva che presto o tardi avrebbe perso tutto quello che ricordava. Col passare dei mesi, persino le sensazioni avrebbero smesso di essere un ricordo ancora vivido, perché il tempo è vincitore.

Tutto quello che riusciva a fare era crogiolarsi nell’enorme vuoto che sentiva dentro il proprio cuore; era come un abisso che la risucchiava in basso, più forte di lei.

Sapeva che non c’era niente di più deprimente che piangere sul latte versato.

Se solo avesse dato retta ad almeno uno dei ragazzi che si erano fatti avanti in tutto quel tempo, avrebbe almeno avuto qualcuno al suo fianco, per compagnia: ma ne valeva davvero la pena? Non ci riusciva.

Il solo pensiero la ripugnava; nella sua mente c’era sempre lui, un chiodo fisso che non le dava mai pace.

Come avrebbe potuto trovare attraente, interessante qualsiasi altro uomo dopo Lapis? Era stato amore a prima vista.

Le mancava da morire; le mancava la stretta delle sue braccia attorno ai suoi fianchi, le mancavano i baci sul collo e i morsettini affettuosi. Le mancava tutto, aveva bisogno di lui.

Si ricordava degli sguardi maligni e pieni di invidia delle sue amichette il giorno in cui gliel’aveva presentato. Le venne da sorridere.

Chissà se lui sentiva la sua mancanza, quando le notti si facevano lunghe e fredde; o se si era trovato un'altra da tenersi fra le braccia.

Ormai Carly stava per compiere ventun anni.

Le era capitata casualmente fra le mani una fotografia: ironia della sorte, mostrava quello che lei non voleva vedere.

Era una foto subacquea.

Si ricordò di quando lei e Lapis avevano deciso di passare un paio di settimane al mare per festeggiare il loro primo anno insieme. Si ricordava tutto, anche il viaggio in macchina con il sole in faccia e i bagagli che volavano a destra e a manca sul sedile posteriore. Per fortuna nessuno li aveva fermati per chiedergli la patente, che lui non aveva ancora. Erano stati dei giorni stupendi in cui finalmente aveva capito che aspettare tutto quel tempo ne era valsa la pena: quante volte aveva sospirato, considerando le sue amiche fortunate anche se i loro morosi erano brutti, stupidi o ignoranti.

Si ricordò della ragazza con la fotocamera subacquea: “Facci una foto!”

Lei e Lapis si erano tuffati nel mare, il loro bacio era stato lungo e tenero.

Carezzò la fotografia, osservandola in ogni minimo dettaglio: la sabbia bianca del fondale, l’acqua verde attorno ai loro corpi abbracciati, i capelli fluttuanti che si mischiavano nella luce rifratta dalla superficie dell’acqua; il costume a fiori hawaiiani di lui, il proprio bikini rosa, le bollicine d’aria fra le labbra.

Carly se la strinse al cuore:

 “Amore mio…”

Ormai aveva perso le speranze: erano due anni che lei, Kate e i detective cercavano i gemelli.

Lei si diceva in continuazione che doveva essere forte e non lasciarsi vincere dallo sconforto. Doveva farlo almeno per Kate, che non perdeva mai la speranza che un giorno li avrebbe ritrovati.

Come facesse a possedere tutta quella forza, Carly non lo sapeva: vedeva che era provata, tutti l’avrebbero capito, ma non si arrendeva mai.

Aveva persino lanciato un appello in televisione, ricavandone solo dei complimenti per la sua bellezza e per la sua tenacia.

Kate non sopportava i complimenti; continuava a dire di aver fallito, che una cagna sarebbe stata miglior madre di lei, che era tutta colpa sua.

Come non capirla? Anche se per Carly, Kate era una donna straordinaria.

Solo vederla però la faceva morire di nostalgia, era troppo uguale a suo figlio: avevano lo stesso viso,  gli occhi che l’avevano così colpita e i delicati capelli neri in cui le piaceva tanto deporre baci erano la sua eredità.

Ma in fondo che colpa ne aveva?

Mi sarei aspettata proprio di tutto, che mi scaricasse, che si stancasse: ma che morisse no, non avrei mai voluto neanche pensarlo.”

Non voleva credere che lui fosse morto, ma era un pensiero sempre più distruttivo nel suo cuore afflitto.

Non poteva scappare da lui.

Si ricordava delle volte in cui andavano a ballare, saltando e ridendo fino a essere tutti sudati, e poi restando abbracciati. Quante volte si era fatta dei film mentali, correndo nel futuro: ogni volta che lui la teneva per mano o la baciava lei vedeva già la loro casa, si vedeva madre dei suoi bambini.

Lui diceva sempre che lei era la tenerezza fatta a persona. 

Carly avrebbe dato il mondo per sentire ancora una volta la bocca morbida di Lapis sulla sua; per poterlo ancora sentire spingersi dentro di lei.

Era stato l’unico.

Aveva nostalgia di come lui la accarezzava prima di affondare dentro di lei con la sua brusca delicatezza, di come a volte lui si addormentava esausto con la testa sul suo grembo. Poi quando si svegliava facevano merenda; non chiedeva mica la luna, loro due apprezzavano le piccole cose.

La sua mente si era adattata in modo strano a quel trauma e alla depressione: aveva un vero e proprio orgasmo tutte le volte che si ricordava di quei momenti così intimi con lui.

Le piaceva tantissimo anche quando andavano a fare dei giri in macchina che erano peggio di una giostra e al ritorno rimanevano insieme a guardare il tramonto; Carly aveva perso il conto di tutti  i dolci e le porcherie che avevano mangiato seduti sul tetto della macchina.

Meno male che tu mangi” le diceva lui, sempre con la bocca piena.

Perché? Chi è che non mangia?”

Lazuli.”

Diventava triste quando ne parlava. Carly sgranava gli occhi, cos’aveva che non andava? Quella ragazza era alta e snella con un corpo forte e sodo; lei, se mai, che era piccolina e tendente al formoso, avrebbe avuto più da preoccuparsi per il fatto di corrispondere meno all’ideale imposto dalla societa’, invece che dare retta a Lapis che la rimpinzava come un’oca all’ingrasso, non calcolando minimamente che Carly si era allargata a furia di mangiare come lui.

Ma la verità era che non le importava: aveva il ragazzo dei suoi sogni, che l’amava così com’era, cos’avrebbe potuto importarle di qualche kg in più? Sembrava che a Lapis non dispiacesse nemmeno un po'.

Non mangia quasi niente, persino quando mia mamma ci porta a casa le cose che ci piacciono”.

Ma non devi preoccuparti amore, magari non ne ha voglia e basta”.

Lui alzava la testa e sorrideva: “Non mi preoccupo: ce n’è di più per me.”

Carly aveva sempre apprezzato il fatto che lui non la facesse mai sentire inferiore alla sua gemella, anche se doveva esserle legato da dentro molto più di quanto lo fosse a lei.

Non gliel’aveva mai fatto pesare.

Cosa avrebbe dato pur di toccarlo, di parlargli, di dirgli quanto lo amasse? I ricordi erano tutto quello che aveva, doveva cercare di non perdere Lapis anche lì.

Si ricordava di quanto le piacesse passargli le dita lungo la linea della mascella, sulle spalle, sulla sporgenza sulla gola.

 

Perché il destino ci ha fatti incontrare?” si diceva Carly nelle giornate buie in cui si interrogava su cose profonde. Ma poi scuoteva la testa e respingeva quel pensiero, così futile e banale, una frase ad effetto per romanzi rosa adolescenziali.

Non doveva cadere in quel circolo vizioso, non si doveva permettere di dimenticarsi il valore di quei momenti trascorsi con lui.

Chissà cosa gli era successo, chissà se l’aveva pensata prima di morire? Ormai non si chiedeva più se la stesse pensando nel presente. Quanti propositi si erano fatti! E ora era tutto finito.

Nei suoi sogni migliori lo immaginava fra le braccia di un bell’angelo che non era lei, poi si svegliava e piangeva.

Lei non era Kate: aveva il diritto di non essere forte.

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Capitolo 5
*** Indimenticabile ***


Il dottor Gero non avrebbe voluto farlo: era rischioso, per lui in primis.

Ma guardando preoccupato ora la porta del suo laboratorio, ora il braccio da cui una mano gli era stata divelta lasciando spenzolare i cavi gocciolanti, si decise che quella era proprio la sua ultima possibilità.

Vegeta, Piccolo e gli altri amici di Son Goku erano diventati più forti di quello che aveva previsto; anche se non così forti da poter contrastare le sue due carte vincenti.

Non voleva che gli avversari prendessero il sopravvento e tuttavia era combattuto perché nonostante avesse apportato tutte le modifiche necessarie, attivare di nuovo i modelli 17 e 18 era un pericolo non indifferente.

Dal rapimento erano passati tre anni, le sue micro telecamere avevano costantemente tenuto d’occhio i movimenti delle forze dell’ordine e della madre dei gemelli; era una testa durissima quella donna, non si era ancora arresa? Poco importava, le sue volontà stavano per compiersi, nessuno avrebbe potuto trovarli e presto anche lei sarebbe finita all’altro mondo, come tutto il resto dell’umanità.

Non sarei mai voluto arrivare a questo punto, ma ormai sono con le spalle al muro…” il vecchio aveva in mano il controller d’emergenza e stava fermo tra le due capsule sigillate “spero solo di averli sistemati a dovere”.

Era finalmente convinto; no, era riluttante.

Il dottore scacciò via il timore e si accinse a spingere il primo bottone.

Per lui era un déjà-vu quando il primo dei due cyborg mise piedi fuori dalla capsula, squadrandolo con sguardo indolente.

“Ben svegliato, numero diciassette."

Il ragazzo non fece una piega, poi si voltò e gli rivolse l’abbozzo di un sorriso:

“Buongiorno, dottor Gero.”

“Che meraviglia, mi hai salutato!”

 “Ho rispetto per mio padre."

Il dottore stringeva il controller di emergenza e notava con sollievo che lo sguardo del ragazzo era sveglio, ma non troppo.

 “Sembra che ce l’abbia fatta…allora adesso il numero diciotto” il dottore premette il pulsante della seconda capsula e anche la ragazza fece un passo avanti.

“Buongiorno dottore!” la sua voce era limpida e squillante “vedo che è diventato un cyborg anche lei”.

Il vecchio gettò uno sguardo ai cavi elettrici che pendevano giù da uno dei polsi: certo, anche lui voleva una lunga vita e un corpo potenziato.

I gemelli sembravano star bene:

“In verità, quando vi ho attivati la prima volta per mettervi in prova, mi sono accorto che avevo investito troppo sui reattori di energia infinita, quindi era molto difficile tenervi a bada, non obbedivate mai…ma ora come ora potete iniziare subito a lavorare: i nostri nemici ci stanno cercando e tra poco arriveranno qui, mi raccomando, dovete ucciderli tutti, dal primo all’ultimo. Chiaro?”

“Agli ordini!” trillò Diciotto.

“Ricevuto” le fece eco Diciassette.

All’improvviso si udirono dei rimbombi sordi, mentre polvere e frammenti di intonaco cominciavano a cadere da muri e soffitto.

“Eccoli, sono loro! Fateli fuori!”

Il dottore era estatico: finalmente poteva realizzare il suo sogno, finalmente la sorte giocava al suo fianco, finalmente i cyborg erano pronti, perfetti, feroci, a sua completa disposizione.

“E’ il momento! Dovete uccidere!”

Nel trionfo della sua gloria, il dottore non si era accorto dell’ombra che, silenziosa e micidiale come un predatore, si era spostata dietro di lui in un battito di ciglia; e continuò a non accorgersene, quasi stentò a realizzare che quel cacciatore furtivo gli aveva sfilato il controller di mano:

“Numero diciassette! Che stai facendo?!”

“Cos’è questo?” il ragazzo se lo rigirò fra le mani, scambiandosi cenni d’intesa con la sorella “il telecomando per fermarci nelle situazioni critiche…cos’è, hai paura di noi?”

Il suo tono di voce si era fatto tagliente e sprezzante, anche i suoi occhi erano cambiati, erano acuti, freddi e calmi. 

Il dottore indietreggiò, forse rendendosi conto di quello che aveva fatto; e non fece in tempo a reagire, che il ragazzo strinse leggermente la presa sbriciolando il controller. I colpi alla porta aumentavano d’intensità.

“Ehi ehi ehi! Che stai facendo? Ti sono saltati i circuiti?” gli urlò “ devi fare quello che ti dico, i nemici sono là fuori!” 

“Ne abbiamo piene le scatole di dormire, stronzo.”

All’esterno del laboratorio, il gruppo di “nemici” attendeva, prendendo a botte la porta che non si spostava minimamente.

I gemelli e Gero sentirono una voce piena d’ira appena fuori dal laboratorio:

Io sono l’unico che può sistemare la faccenda! Voi andatevene via!”

Subito dopo la porta inizio’ a gemere sotto un potente ki blast, finche’ non si piegò, scardinata, cadendo al suolo con fragore d’inferno.

I nemici rimasero stupiti nel trovarsi di fronte, oltre al dottore, un paio di ragazzi che stentavano a superare i vent’anni.

“Non lasciatevi ingannare solo perché sembrano innocui" disse a denti stretti un ragazzo dai capelli chiari che portava uno spadone.

“Non dovete assolutamente sottovalutare i nostri nemici” il dottore si sforzò di controllarsi e di mantenere un tono di voce calmo “sono loro che mi hanno dato parecchio filo da torcere e che hanno sconfitto il numero diciannove.”

Diciassette si volto’, sgranando gli occhi freddi: “Ah, c’era Diciannove? E com’era? Tipo noi?”

No. Era un vero androide.

Diciotto si fece avanti, sorridendo malignamente:

“E come mai non l’hai fatto come noi se tanto ormai sei in grado? Avevi paura di non poterlo controllare? Va bene, peccato però che se vuoi vincere ti serviamo noi.”

I gemelli non degnarono di uno sguardo il gruppo di combattenti fuori dal laboratorio, i cui occhi -di tutti i presenti- fissavano con stupore e sgomento il dottor Gero che batteva il pugno e sbraitava contro di loro, che non smettevano di fare domande scomode, che stavano gia’ ricominciando a curiosare dappertutto, che non sembravano calcolare I suoi ordini.

Diciassette faticava a sopportare la voce del dottore.

E la sua faccia.

E la sua esistenza, direttamente.

“Che ne dici di stare zitto? Noi combattiamo quando abbiamo voglia”.

Che cos'aveva detto! Il dottore era sgomento:  se solo avesse ancora avuto il telecomando...

Diciotto ridacchiò e calpestò i resti contorti del telecomando, dirigendosi verso un’altra capsula ancora sigillata.

Quando il vecchio si fiondo’ su di lei e l’afferro’ per un braccio, intimandole di allontanarsi, la cyborg lo guardò con disprezzo e lo fece volare a terra con una gomitata. Come osava mettere le sue manacce addosso ad una ragazza?

Il dottore strinse i pugni, cercando di tenere a bada la frustrazione. Gi sembrava che non dovesse assolutamente far fiutare la sua ansia a quelle due cose che aveva appena risvegliato :

“Provateci solamente a disobbedirmi. Sara’ sonno eterno, questa volta. Sonno e possibilmente smaltimento.”

Diciassette osservava la scena divertito, senza fare una piega: “Dai sorellina, apri la capsula.”

“Numero diciotto, che stai facendo? Sei sorda?”

Nel momento in cui la ragazza premette il pulsante, Gero sbraitò e fece per dirigersi verso di lei, ma non finì di parlare che un rantolò gli tagliò il respiro, i capillari oculari gli scoppiarono e il dolore gli contorse la faccia in una smorfia animalesca.

Guardò la parte sinistra del suo torace e vide una mano che gli sbucava sul davanti attraversando corpo e abiti; non avrebbe avuto bisogno di voltarsi, ma lo fece e si ritrovò faccia a faccia con il numero diciassette e i suoi occhi.

I nemici del dottore guardavano, senza riuscire a proferir parola.

Fin dal principio, dal primo istante in cui li aveva convertiti aveva temuto questo momento. Lui stesso li aveva dotati di una forza sovrumana e terribile. E adesso? Lui si era tirato addosso la loro ira, adesso stavano giocando con la loro preda.

Erano furiosi e lui sapeva il perché, era convinto di essere riuscito a cancellare anche le parti più recondite della loro memoria; perché sapeva che prima che li disattivasse stavano parlando di lui, si stavano ricordando, stavano prendendo coscienza della mostruosità che avevano subito.

Ora aveva quello che voleva, due guerrieri disumani e assetati di sangue.

Del sangue sbagliato; il dottore si vide già morto.

 Diciassette estrasse il braccio con calma piatta e rimase dietro il dottore, mettendosi le mani in tasca.

“Tu sei mio; tu sei la mia creazione; obbediscimi!”

Quella fu l’ultima cosa che riuscì a dire, prima che il cyborg sferrasse un accenno di calcio e la testa gli venisse troncata di netto, finendo scaraventata sul pavimento con clangore metallico.

Il gruppo di nemici non riuscì a trattenere gemiti d’indignazione, mentre la testa di quello che avevano pensato fosse il nemico da abbattere rotolava verso di loro. Solo uno disse qualcosa, attirando su di se’ lo sguardo divertito di Diciotto.

E siccome la testa ancora parlottava, numero diciassette spiccò un balzo e ci saltò sopra con tutto il suo peso, mentre un lago di liquido scuro si allargava sul pavimento di acciaio.

 

 

Cos’avrebbe mai potuto sperare, il vecchio Gero, che sul serio sarebbe riuscito a cancellare completamente la memoria dei due giovani cyborg?

Si era altamente sbagliato: loro si ricordavano benissimo che la prima cosa che dovevano fare, non appena il dottore si fosse degnato di svegliarli, era toglierlo di mezzo.

Quando era uscito dalla capsula, Diciassette aveva dato un’occhiata fugace prima al telecomando, poi alla gemella ed era bastato, si erano già messi d’accordo.

Si erano ricordati tutto quello che si erano promessi, appena in tempo prima di venire disattivati e il loro cervello ulteriormente modificato; d’altronde, non avrebbero mai potuto dimenticarsi che lui era il mostro che li aveva catturati, trasformati in macchine e derubati di ricordi che ormai avevano perduto per sempre, lui doveva pagare e morire.

Era stato sufficiente fingersi buoni ed obbedienti quanto bastava per conquistarselo; ai gemelli aveva dato un po’ fastidio, all’inizio, interpretare il ruolo degli storditi con il cervello annacquato, ma era per una buona causa.

“E così è fatta; schifoso animale” Diciassette sputò sui resti del dottore, disgustato.

“Che finezza!” commentò acida Diciotto “ma…mi ricordo che avrei dovuto farlo io. Mi hai rubato la sola possibilita’ che avevo di ucciderlo.”

Suo fratello trasse un sospiro: “Che differenza c’e’? Tu, io, siamo dalla stessa parte.”

Diciotto increspo’ il labbro, infastidita dalla sua incapacita’ di ricordare come mai ci tenesse a farlo fuori con le sue mani, anche se suo fratello era dalla sua parte.

Mentre loro due confabulavano, il ragazzo con la spada non se ne stette con le mani in mano. Unico conoscitore reale della forza dei due cyborg, fu quello che fece la mossa piu’ sensata, dal loro punto di vista: eliminarli.

Mise tutto il suo potere in un’ondata incandescente di energia, che in un lampo colpi’ il laboratorio segreto del defunto dottor Gero, causando un’esplosione che sventro’ la montagna.

“...L’abbiamo ucciso, anzi io l’ho ucciso perché ci dava noia e perché ci ha trasformati in due cyborg: prima eravamo umani, Diciotto, non ricordi?”

I gemelli, per evitare l’esplosione, si erano stabiliti su un piccolo altopiano poco distante. Non erano certi che fosse sgomento quello che i loro occhi potenziati mostrarono loro, dipinto sulle facce del gruppo che li aveva attaccati; ma sarebbe stato molto divertente se fosse stato esattamente cosi’.

Diciotto getto’ a terra la capsula che non erano ancora riusciti ad aprire, fra una cosa e l’altra:

“Non c’è altro, no?”

Cos’altro poteva esserci? Era una ragione sufficientemente motivante.

“Sicuro, Diciassette? Niente niente?”

“Niente niente."

Teoreticamente, a quel punto, sarebbe toccato loro iniziare l’opera di distruzione per cui erano stati attivati dal dottore, ma in realtà non ne avevano nessuna voglia: non era divertente e soprattutto avrebbe significato eseguire gli ordini.

“Manco morto!” sogghignò Diciassette “anche noi cyborg abbiamo bisogno di un obiettivo nella vita. Possiamo usare i nemici del dottore per giocare.”

Diciotto era molto curiosa di conoscere l’occupante della capsula:

“Cominciamo con aprire questa scatola: c’è scritto 16, vediamo chi è.”

Avrebbero ripescato quel gruppetto, in un modo o nell’altro. Ora erano troppo occupati.

Al tocco di Diciotto, la capsula ricomincio’ ad aprirsi; lei la scoperchio’ con una pedata.

Un androide enorme, dall’aspetto di un uomo dai brillanti capelli rossi e dai tratti aquilini, il numero sedici si alzò e si mise a scrutare l’ambiente intorno a lui; quando Diciassette lo salutò non rispose, limitandosi ad un timido sorriso.

Il ragazzo si lamentò con la sorella del fatto che il loro nuovo amico non spiccicasse parola: l’unica cosa di cui si degnò di informarli era che anche lui era stato creato con l’unico scopo di eliminare Son Goku.

La sinergia fra i loro interessi diverti’ Diciassette:

“E va bene, allora ci metteremo a cercarlo; però andiamo in macchina, così è più divertente!”

“E dove la prendiamo una macchina?”

“La rubiamo.”

Diciotto sbuffò; quanto era infantile suo fratello, volando l’avrebbero subito trovato e invece no, dovevano andare in macchina; lei le aveva sempre odiate, erano così stupide e inutili.

“Vedo che non sei cambiato, anche da umano eri fissato.”

Il ragazzo si lasciò sfuggire un gemito:

“Parla lei! Adesso sto ancora aspettando che tu mi chieda di andare a comprare dei vestiti; perché tanto lo so che me lo chiederai, è solo questione di tempo.”

Diciotto ingoiò il rospo stizzita; era vero, voleva proprio chiedergli di fare una sosta nella città più vicina: come poteva andare in giro con quegli stracci ignobili che le aveva messo il dottore?

Era un outfit decisamente carino, ma il dottore l’aveva scelto; era colpevole e disgustoso, aveva avuto la presunzione di prendere decisioni al posto suo.

 

I due cyborg gemelli, seguiti da Sedici, trovarono presto un’auto con cui girare e fare shopping.

Lei era entrata in una boutique e si era costretta a rubare dei vestiti che non le piacevano; tanto, a detta sua, non si poteva sperare di trovare di meglio lì dentro.

Presto erano arrivati gli sbirri, prontamente chiamati dai proprietari del fugone e dei vestiti che i due ragazzi si erano portati via.

“Volete smetterla di fare resistenza?” urlò lo sceriffo quando Sedici si era liberato dalle manette che gli avevano messo.

La loro stizza suscito’ una risata canzonatoria da parte di Diciotto che, sfilando con grazia davanti agli agenti, con i polsi ammanettati sollevo’ una delle loro auto per lanciarla lontano. L’auto si schianto’ contro una delle rupi innevate che costeggiavano la strada lasciando i poliziotti attoniti, mentre sia lei che Diciassette facevano a pezzi le manette e, risaliti sul furgone, riprendevano il viaggio come se niente fosse.

“Dimmi, Sedici, anche tu eri un ragazzo umano prima, non è vero?” chiese Diciassette al nuovo compagno d’avventure, non appena si lasciarono alle spalle gli agenti scioccati.

“No. Io sono stato costruito dal nulla” gli rispose, sempre con quel sorriso gentile.

A Sedici stavano simpatici i due ragazzi; erano esaltati e anche strafottenti, pensavano di saper fare tutto loro. Ma erano molto giovani, pensava, tanta esuberanza era passabile a quell’età.

 

 Da quanto tempo non vedevano più una notte!

E per di più era la prima notte  dopo la liberazione dal dottore: ormai era morto, non c’era più niente che potesse turbare la felicità dei due gemelli, erano liberi come due aquile.

Il posto dove si fermarono con il furgoncino era di una bellezza onirica, evidente persino ai loro occhi indifferenti. La strada era scoscesa ai lati e una ripida distesa d’erba argentea scendeva velocemente fino al nastro di acqua scintillante che scorreva in fondo al dolce pendio.

L’aria di montagna era secca, pungente e corroborante; entrava nei polmoni inebriandoli, lasciandosi dietro una sottile nota di natura vergine.

“Sa di pino…e poi di ghiaccio, di animali; e di torta ai lamponi”.

“Torta ai lamponi? Dove la senti?” Diciotto si era sporta dal finestrino a fianco di Diciassette, annusando l’aria notturna. Lei sentiva una scia piacevole di legni, fuoco e calore di esseri viventi.

“Di là” lui puntò il dito davanti a sé, verso l’infinità argentata e scura che si estendeva sotto i loro occhi “là! Ci saranno delle case, anzi ci sono se guardi bene. Arriva da lì.”

Diciassette inspirò profondamente, piacevolmente stupito dal fatto che potesse usare il senso dell'olfatto e che l'acquolina in bocca fosse la naturale risposta neurologica che ebbe a quello stimolo. Sembrava che avessero sempre i loro sensi umani, solo migliorati e aumentati.

La ragazza guardò un po’ meglio e scorse in lontananza un gruppo di poche case arroccate, probabilmente distavano almeno dieci km in linea d’aria.

“Non ti serve mangiare" tese l'orecchio verso di lui "cos'è questo fracasso, i tuoi circuiti?"

Diciassette, che si stava annoiatamente tormentando una lunga ciocca di capelli scuri, alzò lo sguardo di scatto: “No, il mio stomaco. Ora andiamo?”

Sorrideva furbo e divertito.

“Mangiare-guidare, guidare-mangiare, ecco tutto il contenuto dei tuoi chip. Sempre il solito. Sei un cyborg inutile.” gli disse Diciotto esasperata, ma suo fratello non la stette a sentire e la prese per mano, costringendola a librarsi in aria insieme a lui.

“E dai non ti costa niente, voliamo! Poi ritorniamo qui.”

“Numero Sedici, fa’ la guardia alla macchina!” fece in tempo a gridargli la ragazza.

L'androide sorrise e si distese comodamente sul tetto del furgoncino, assaporando felice la notte e il silenzio.

 

La finestra era leggermente aperta dietro la grata in ferro battuto. La casa era calma e addormentata, le tende sventolavano nel buio. Chiunque fosse sceso in cucina e si fosse avvicinato alla finestra avrebbe scorto due facce graziose che facevano capolino con occhi color del ghiaccio.

Ma nessuno era alzato a quell’ora, il rubinetto non gocciolava nemmeno, il tavolo era apparecchiato per la mattina dopo e in mezzo troneggiava un’alzatina con una splendida e profumatissima torta alla frutta.

“Eccola lì! Visto, te l’avevo detto.”

“Io non entro, ti aspetto qui” rispose Diciotto senza muovere un muscolo.

“Fa’ quello che ti pare” replicò lui senza guardarla “e levati di qui.”

Appena lei si fu allontanata, Diciassette appoggiò le mani sulla grata metallica, la divelse dal muro e la gettò a terra.

Con l’agilità di un gatto entrò dalla finestra, prese il bottino e uscì.

“Che bambino sei! Siamo venuti fin qui per prendere un dolce, ma ti rendi conto? Noi dovremmo distruggere tutto sghignazzando come due indemoniati.” Diciotto lo rimproverò, sorridendo divertita.

“Lo so, ma chi se ne importa! Quel pezzo di metallo schifoso è morto: noi due possiamo fare tutto quello che vogliamo, quando lo capisci dimmelo” le rispose lui di malavoglia, dandole un colpetto condiscendente sulla testa.

Quando tornarono, Sedici era ancora disteso a contemplare la bellezza della notte argentea: appena li vide sorrise stanco e si preparò a scendere, tanto ormai lo spasso era finito e la quiete anche.

I due ragazzi si sedettero sul ciglio della strada, lui a divorare la sua torta,  lei a riflettere osservando il ruscello.

Diciotto raccolse un po' di acqua nel palmo della mano e se la mise in bocca. Le piacque la sensazione di fresco che sentì propagarsi nel suo petto e continuò a bere finché non fu soddisfatta.

“Sai, mi ricordo una notte come questa” sospirò ad un certo punto, ravviandosi il caschetto "tempo fa, quando eravamo ancora umani.” 

La ragazza sospirò ancora, portando lo sguardo al cielo e sentendo un’improvvisa tristezza gelarle il cuore.

“Prendine un po’, non farla mangiare tutta a me” le sorrise Diciassette, offrendole quel che rimaneva del dolce ai lamponi “mi sembri moscia: un boccone di questa e ti senti meglio poi, fidati."

Se solo tutti i problemi avessero potuto sparire con un po’ di zucchero…

La bionda scosse la testa, poi guardò la distesa scoscesa di erba argentata che ondeggiava al vento e d’impulso afferrò Diciassette per la maglietta, trascinandolo di sotto.

Risero come due bambini mentre rotolavano a briglia sciolta verso il ruscello, incuranti dell’erba umida che li sporcava tutti e dei sassi che non sentivano sotto la schiena.

Ridevano ancora a crepapelle quando la corsa si arrestò, lasciandoli vicini a pancia in su, coi capelli intrisi di rugiada e qualche traccia di terra sulle guance, sul naso o sulla fronte.

“Da quando hai due buchi alle orecchie tu?”

Diciotto era sicura che suo fratello non avesse mai portato orecchini ad anello, prima d’ora.

Questi trasalì, tastandosi i lobi; ne aveva avuto uno, ma non si ricordava anche dell’altro:

“Sarà stato lo stronzo.”

Si trascinò bocconi fino al torrente, poi ci immerse un dito e iniziò a tracciare cerchi immaginari; chiuse gli occhi e trasse un profondo respiro, lasciandosi fluire nei polmoni il fresco che si alzava dall’acqua: “Hai ragione, me la ricordo anche io una notte tipo questa: avevamo dieci anni –più o meno- ed è stata la volta in cui abbiamo fatto il patto di sangue”.

“Il patto di sangue?” Diciotto si appoggiò ai palmi delle mani e avanzò con il sedere fino a raggiungere suo fratello “la roba tribale?”

Il ragazzo le rivolse un sorriso smagliante: “Sì!”

“Lo rifacciamo? So che la prima volta ero stata io a oppormi, ma ne sento il bisogno: è come se adesso vivessimo una nuova vita”.

Diciassette continuava a giocare con l’acqua: “Stiamo vivendo una nuova vita. Una vita sconclusionata e oziosa dove non siamo legati a nessuno, perché non abbiamo nessuno”.

Non è vero, c’è numero Sedici."

Diciotto non diede voce ai propri pensieri, perché si rendeva benissimo conto che il loro nuovo amico era appunto nuovo.

“Va bene, lo rifacciamo. Però non so cosa possiamo usare per tagliarci” disse lui.

“La tua pistola! Tanto va bene anche se ci facciamo un buco.” 

Diciassette si ricordava ancora di possedere un pistola e se la puntò alla mano premendo il grilletto, ma non successe nulla perché il proiettile rimbalzò contro la sua pelle.

I gemelli rimasero un istante a guardarsi e poi scoppiarono di nuovo a ridere, continuando a spararsi a vicenda solo per il gusto di vedere i proiettili che rimbalzavono, o talvolta si appiattivano sui loro corpi; quando la riserva di colpi finì avevano le lacrime e il mal di pancia.

“Perché abbiamo riso così tanto? In fondo non è così divertente…” disse lei, strusciandosi nell’erba.

Il gemello si limitò a guardarla cercando di riprendere fiato; non lo sapeva neanche lui, probabilmente erano contenti per tutto quello che era successo prima ma anche tanto stanchi per il resto. Era stata una risata liberatoria, come per dire dottor Gero, va’ a quel Paese, noi facciamo quello che vogliamo, siamo felici e usiamo i nostri poteri per rubare auto, vestiti e torte.

“Come facciamo a rifare il rito tribale se non c’è niente in grado di tagliarci?” Diciotto riprese il discorso, sconsolata.

Il fratello si guardò intorno alla ricerca di qualcosa, poi scosse la testa facendo ondeggiare i capelli: “Non lo so…spiaccicati contro qualcosa”.

Anche lei diede uno sguardo ai dintorni. Rocce? No. Pezzi di legno? Men che meno.

Se una pistola non aveva fatto loro niente, cos’avrebbero potuto tentare?

“Ho un’idea! Chiediamolo a Sedici.”

“E no, quel buono a nulla non c’entra; queste sono cose nostre, capito?”

Diciotto detestava suo fratello quando era così ottuso: a lei non fregava niente, bastava solo che qualcuno riuscisse a farle una piccola ferita.

“Allora hai un’idea migliore, capo?” gli disse sarcastica.

“Sì, i nostri denti."

Era una buona idea.

Diciassette guardò il proprio riflesso nell'acqua. Il ricordo della sua insicurezza riaffiorò con energia dalle profondità della sua memoria.

"Ah. Ho ancora questi" pensò con risentimento, strofinando col pollice uno dei due denti storti. Ora odiava Gero ancora di più, cosa gli sarebbe costato dargli una sistemata?

I gemelli riuscirono a procurarsi una minuscola ferita sulla mano.

“E così rifacciamo il patto di sangue: tu sei la cosa piu’ importante che ho, Diciotto, ti difenderò fino alla morte” disse solennemente lui, premendo la bocca sulla mano della sorella.

Lei sorrise fra se’ e se’ con tenerezza, per via di quelle parole semplici e allo stesso tempo profonde.

“Anche tu sei la cosa piu’ importante che ho, Diciassette. Avrò sempre cura di te”.

 

“Secondo me noi abbiamo il diritto di divertirci” asserì Diciotto lapidaria “siamo due macchine. O siamo persone?"

“Che te ne frega?”

La ragazza continuò a guardare la volta celeste: era un oggetto o una persona? Cosa le rimaneva?

“Io a volte mi sento come se fossi una cosa che non ha diritto a fare quello che fanno le persone” sospirò “non riesco a capire cosa siamo.”

“…cyborg,  che alla lettera vuol dire persone con degli impianti meccanici; numero Sedici invece è un androide dalla testa ai piedi” disse lui “se anche noi fossimo come lui, non avremmo tutti i nostri sensi aumentati, né i nostri ricordi sparsi. Ne avevamo già parlato, ti ricordi?”

“Sì. E mi ricordo che ad un certo punto ci era venuta in mente una cosa importantissima che non dovevamo assolutamente dimenticare. Qualcosa che ci riguardava in maniera molto intima…Diciassette” chiuse gli occhi e si girò verso di lui: “noi siamo gemelli?”

“Beh sì, è naturale. Perché mai me lo chiedi?”

Diciotto aggrottò le sopracciglia e lo fissò intensamente:

“Secondo te…cosa significa essere gemelli?”

Il ragazzo proruppe in una risata fragorosa: “Non lo so! Non sono mica un dizionario!”

Poi le spiegò che voleva dire che erano sempre stati insieme, fin dall’inizio.

“E qual è l’inizio?”

“Penso da quando lo schifoso ci ha creati…siamo gemelli perché ci ha creati insieme.”

Diciotto credeva che lo fossero anche da umani, altrimenti come avrebbe fatto a ricordarsi che suo fratello era sempre stato patito di motori?

“Me lo sento, è così. Da sempre.”

 

/

 

Nel distretto di Central City la notte era appena scesa quando Kate senti’ bussare alla porta.

Era appena tornata dal suo solito giro nell’isolato. Il quartiere residenziale della cittadina era piacevole a vedersi, ma anche piuttosto monotono. Kate si divertiva a trovare le differenze fra le varie case che, tutte quasi uguali, incombevano sui marciapiedi eleganti.

La sua non faceva eccezione, con la classica finestra absidale ed i mattoni rossi a vista.

Quella sera, quando il sole aveva iniziato a tramontare, Kate era uscita per il suo giretto e aveva trovato l’intero isolato ad aspettarla li’ fuori.

C’erano tutti: i Ward coi loro sei figli, uno dei quali aveva ventun anni, come in teoria Lapis e Lazuli. La signora Schroeder, della casa di fronte alla sua, che li aveva curati tante volte quando erano piccoli e Kate aveva dovuto correre al lavoro.

Il proprietario dell’edicola locale col suo bassotto al guinzaglio.

E altri, della strada parallela alla sua e di altri quartieri lontani come Sara, quella che era stata amica di sua figlia e George Der Veer, della concessionaria.

Sua figlia Carly le aveva inviato un biglietto, non aveva voluto lasciare il campus; il peso emotivo era troppo grande per lei.

Era successo che, tre giorni prima, la polizia aveva avvistato a Orange City una ragazza che avevano pensato potesse essere Lazuli.

Il cuore di Kate si era ulteriormente spezzato quando era stato appurato che non era lei.

Ma quel triste episodio aveva riacceso una fiamma nel cuore della gente, una fiamma che ora brillava da tante candele, fra le loro mani.

Se Kate si era sentita riscaldare il cuore da una dimostrazione di affetto cosi’ bella, aveva pianto quando si era gettata sul letto.

Non sapeva se per l’amarezza, o per il fatto che cosi’ tante persone avevano vegliato per loro.

Quante persone vi vogliono bene. Quanto siete amati.”

Quello le aveva fatto capire che se era riuscita a crescere i suoi bambini in modo che quelle persone ora fossero li’ per puro amore, forse non era stata una madre pessima.

Quando un’oretta piu’ tardi Kate senti’ bussare, stava per coricarsi.

Aprendo la porta, vide un poliziotto che non arrivava ai trent’anni, con un bouquet semplice fra le mani. Kate lo riconobbe solo quando lesse il suo cognome, Weiss, su una targhetta che lui portava sul petto.

“Kathryn, mi dispiace disturbarla a quest’ora. Volevo venire alla piccola veglia che i suoi vicini hanno organizzato, ma non ho fatto in tempo. Ecco.”

Le porse i fiori con infinito rispetto, guardandola negli occhi con tristezza verissima.

“Ho sentito di Lazuli, mi dispiace tanto. Non so nemmeno cosa dire...Arrivederci.”

Lei lo guardo’ voltarsi e scendere piano gli scalini che portavano alla sua porta.

“Aspetta, per favore! Entra pure, Bruno.”

 

Bruno sorseggiava una tazza di te’, seduto nella cucina di Kate. Lei osservava la sua uniforme pulita, le sue unghie curate e i suoi rasta corti, che quasi sembravano i riccioli stretti che ricordava.

“Ne hai fatta di strada, vero? Non sembravi molto interessato a questo tipo di carriera, quando uscivi con la mia Lazuli.”

Bruno aveva passato l’esame a pieni voti due anni prima. Confesso’ a Kate che era stata proprio Lazuli a ispirarlo a intraprendere quella strada.

“Avevo vent’anni, al tempo, nessun futuro in mente. Quando lei mi ha lasciato, sono stato molto triste; mi aspettavo che non saremmo durati a lungo, lei era piccola. Ma ero molto innamorato, Kate, davvero. Anche se era facile pensare che io mi stessi approfittando di lei.”

Kate l’aveva effettivamente pensato. Era sicura di aver involontariamente guardato storto quel ragazzo ogni volta che aveva bussato alla porta per venire a prendere Lazuli.

Chissa’ se Bruno ci era rimasto male, tutte le volte che aveva visto dallo specchietto retrovisore Kate in piedi sulla soglia di casa che lo osservava, dura, con le braccia incrociate.

La madre realizzo’ che quello doveva essere stato il primo amore di sua figlia, quello con cui lei aveva scoperto l’amore e il sesso.

“Quando Lazuli mi ha lasciato, mi sono chiesto se fosse perche’ non ero abbastanza per lei. Si comportava da teppistella, ma era ambiziosa e intelligente. Sicuramente io, che avevo abbandonato la scuola e passavo la giornata a fare niente, non ero abbastanza per lei.”

Bruno aveva rivelato a Kate che aveva preso il diploma e poi si era iscritto all’accademia di polizia. Vedere una brava ragazza come Lazuli diventare una delinquente l’aveva ispirato non solo a combattere il crimine, ma anche a cercare di stroncarlo sul nascere.

Lei l’aveva lasciato perche’ lui aveva messo il naso nei suoi affari.

“Non potevo fare piu’ niente per Lazuli, nemmeno per suo fratello Lapis. Ma potevo aiutare altri a non prendere quella strada. Salvare altre Lazuli da se stesse.”

Kate si senti’ piena di orgoglio per lui, l’agente Weiss aveva fatto un salto di qualita’ incredibile. Tutto per amore della sua figlia adorata.

“Non l’ho mai dimenticata, sa? Ho avuto altre ragazze, ma Lazuli sara’ sempre Lazuli.”

Kate gli verso’ un’altra tazza di te’:

“Dicono che una bella donna sia indimenticabile. Ma sono fiera di te, per aver visto che la mia Lazuli fosse molto di piu’. Ti ringrazio. Sono felice che sia stato tu a iniziarla all’amore.”

Bruno non aveva mai cancellato dal cellulare alcune foto di lui e della ragazzina dagli occhi gioiello. Foto di sette anni prima, delle loro mani intrecciate -latte e caffe’- di lei seduta sulle sue ginocchia con quel cappello da rapper in testa.

Non ebbe cuore di mostrarle a Kate. Ancora con quel rispetto immenso, sfioro’ la sua mano:

“Non perda la speranza, non la perda mai. Li riporteremo a casa. Ha la mia parola.”

Quando l’agente Weiss lascio’ la casa, era gia’ mezzanotte.

Ferma sulla soglia, con le braccia incrociate e una lacrima fra le ciglia scure, Kate lo guardo’ abbassarsi e accendere altre due candele e andarsene.

Getto’ uno sguardo alla strada ormai vuota, nella notte profonda, prima di chiudere la porta.

Non smettero’ mai di cercarvi. Ve lo prometto.”

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Capitolo 6
*** Una brutta china ***


Diciassette e Diciotto passavano il loro tempo girando in macchina e cercando di tirarla più lunga possibile: dovevano cercare Son Goku, avversario chissa’ quanto antico del dottore, ma a loro cominciava a non importare pressoché nulla.

L’avrebbero fatto perche’ si, ma non era una questione personale.

Vagavano per far trascorrere le giornate, per cercarsi un obiettivo in quella nuova vita che appariva così vuota e insignificante.

Non avevano piu’ avuto scontri da quando avevano rubato il furgone. Una gang di bikers e quella squadra di poliziotti a cui Diciotto aveva distrutto l’auto non contavano.

Prima del furgone c’era stata una piccola battaglia con Vegeta, il namecciano e compagnia bella, quelli che li avevano accolti al loro risveglio; niente di rilevante, li avevano massacrati senza troppo sforzo.

Senza contare il fatto che Diciassette era intervenuto per una pura questione di accordi col gruppo, Diciotto aveva combattuto quasi da sola; ancora piuttosto arrabbiata con suo fratello per non averle dato il tempo di ammazzare Gero con le sue mani, in nome di una promessa dimenticata, aveva deciso che quella volta sarebbe stato il suo turno.

Non avevano ucciso nessuno, no; era più divertente che si ricordassero l'umiliazione.

Mentre aveva torturato il saiyan che poteva cambiare colore di capelli a comando colpendolo in viso e stancandolo facendosi inseguire, Diciotto gli aveva spezzato le braccia, godendo del rumore delle ossa che scrocchiavano sotto i suoi colpi, uno per lato. Ora riusciva quasi a intuire perche’ quei guerrieri amassero tanto combattere, sconfiggere un avversario degno dava un senso quasi di onnipotenza. E lei sapeva che era una delle due creature piu’ potenti che attualmente esistevano sulla Terra. L’altra era Diciassette; lei lo tollerava solo perche’ sapeva che lui era speciale per lei. Altrimenti nulla le avrebbe impedito di fargli chiudere quella boccaccia larga che si ritrovava, tanto larga quanto quella di Vegeta, che ora giaceva a terra, respirando a malapena.

Essere bella e intelligente era gia’ abbastanza per avere il mondo ai suoi piedi; essere cosi’ e per di piu’ in possesso di poteri con cui poteva soggiogare a suo piacimento quello stesso mondo, non aveva prezzo.

Alla fine, essere una cyborg non era cosi’ male.

Dopo il pestaggio, Diciotto si era lasciata incuriosire da un membro del gruppo in particolare. Era un ragazzo basso e pelato che, a differenza degli altri, non sembrava essere sempre in preda a quella foga patetica di combattere gente piu’ forte. Lui se ne stava in disparte, osservando gli altri e poi assistendoli.

Eccone uno un po’ piu’ intelligente, senza istinti masochisti.”

Il respiro rantolante di Tien, che Diciassette aveva quasi strozzato e le ossa sbriciolate del presuntuoso Vegeta erano tornati come nuovi dopo che il ragazzo -Crilin, era quello il suo nome?- aveva dato loro una specie di pastiglia verde.

Penso’, sempre con quella curiosita’, che nella sua discrezione lui potesse essere il membro piu’ prezioso: senza cure, gli altri non avrebbero piu’ potuto alzarsi in piedi.

Quando lei, Sedici e Diciassette si erano congedati, un po’ delusi dalla scarsa resistenza del gruppo, lui stava letteralmente tremando; e allora la maliziosa Diciotto, stuzzicata da quella dimostrazione di debolezza, aveva voluto fare un po’ la cattiva e l’aveva baciato sulla guancia.

Era così anche prima, le piaceva giocare coi ragazzi.

Sedici li accompagnava, restando quasi sempre in silenzio; parlava solo se interpellato.

Per tutta la durata dello scontro aveva quasi ignorato i cyborg, standosene piantato li’ sulle strada a giocare con gli uccellini, con leggero disappunto di Diciassette.

Proseguendo nel loro viaggio in macchina, I gemelli e Sedici si allontanavano sempre di piu’ dal distretto di North City.

A un certo punto Diciassette fermo’ il furgone e scese a scrutare l’aria attorno a sé, subito raggiunto da Diciotto:

“C’è stato qualche cambiamento nella pressione dell’aria, magari l’eruzione di un vulcano; beh, molto lontano da qui, in ogni caso.”

“E’ alla periferia di una città lontano laggiu’, dietro quelle creste; due grandi potenze si stanno scontrando.” 

Sedici si unì ai ragazzi sul ciglio della strada e indico’ loro la direzione ovest con un cenno del capo.

“Ah! Hai un power radar e non ce l’hai manco detto?” fece Diciassette prepotente, guardandolo con aria seccata.

“Beh, non me l’avete chiesto.”

Sedici era troppo maturo per arrabbiarsi con i ragazzi.

E poi non ne valeva la pena, era questione di carattere, come lui era calmo loro erano gasati ma alla fine non erano così male : erano stati loro a toglierlo dal suo sonno artificiale.

Diciassette gli aveva domandato chi fossero i contendenti, ma Sedici non aveva saputo rispondere perché non erano inclusi nel suo database: “Posso solo dirvi che uno dei due ha una forza che eguaglia la vostra”.

Diciotto sbarrò gli occhi, in quelli del suo gemello comparve un’espressione innervosita e allo stesso tempo divertita.

“Vuoi startene zitto? Mi sa che lo schifoso ti ha messo un radar difettoso: non so cosa tu abbia capito, ma non me ne frega, perché non c’è nessuno più forte di me a questo mondo”.

Il cyborg getto’ in faccia all’androide quell’affermazione, gonfiando il petto; Diciotto si risenti’ per la risposta aggressiva e ingiusta che Sedici si era sentito dare; guardo’ Diciassette con occhi taglienti e riprese posto nell’abitacolo del furgone.

Lo schifoso doveva essere per forza il dottor Gero, concluse Sedici; non era la prima volta che Diciassette lo chiamava così, dovevano aver litigato prima che lui venisse riacceso.

E per l’ennesima volta concluse che stare in silenzio era sempre la cosa migliore.

“Stanno combattendo vicino alla città” chiese Diciotto “ma allora dov’è la gente?”

 

Kate non guardava quasi mai il telegiornale, non le interessava più.

Aveva ben altri problemi, irrisolti; non le fregava niente di quelli altrui, soprattutto quando non mancava cosi’ tanto a Novembre, al terzo anniversario della scomparsa dei suoi figli.

Ormai non riusciva più nemmeno a stare male, non aveva più lacrime. Era questo che la preoccupava, il niente.

Temeva che in un certo senso sarebbe morta, una volta che avesse smesso di provare emozioni, per quanto sgradevoli. L’assenza totale di sentimenti equivaleva a una specie di morte interiore.

I detective stavano ancora cercando e lei aveva creduto con tutto il cuore alla promessa dell’agente Weiss, ma ormai era inutile tentare e pretendere  l’impossibile; non c’era mica tanto da questionare.

Magari prima li avevano anche portati all’estero, quante volte aveva sentito dire di bambini e ragazzi che vengono rapiti e poi venduti in altri Paesi?

Venduti o ammazzati.

I detective sospettavano che, per Lazuli, c’entrasse qualcosa con la tratta delle bianche; per Lapis invece, qualcosa con le gang della città?

Ma secondo loro era comunque possibile che una sorte analoga fosse toccata anche a lui.

Kate dunque non aveva il minimo interesse per i problemi altrui, ma quando per caso aveva sentito la notizia di sfuggita, alla radio in macchina, era rimasta amareggiata e, in un certo senso, inquieta.

Aspettò il telegiornale fin quando la notizia le apparve chiara e dettagliata sullo schermo.

Era successo che in una città all’estremo nordovest tutti gli abitanti erano spariti; così, dall’oggi al domani, senza lasciare traccia. 

Sembrava che l’intera area fosse stata completamente evacuata.

Insomma, le tracce c’erano eccome: in quel momento il cameraman riprendeva in tempo reale le strade deserte della città, su cui erano stesi o ammucchiati tantissimi vestiti.

Esattamente come quando lei, o al tempo Lazuli, li metteva sul letto; pantaloni o gonna, maglietta, maglione, per abbinarli o semplicemente per riporli.

Erano lì, vuoti e leggermente mossi dal vento, a popolare le strade silenziose della città come un corteo di lapidi. I giornalisti trovarono alcune finestre aperte e ripresero stanze vuote, abbandonate, ferme per sempre nell’ultimo momento in cui erano state vissute.

A Kate venne un groppo in gola, i vestiti erano mollemente poggiati sulle sedie e sembrava che conservassero ancora l’impronta del corpo attorno a tavoli apparecchiati, adagiati su poltrone, letti, divani. Sembrava che gli ex abitanti avessero abbandonato tutto così com’era lanciandosi in una fuga disperata.

Non dovevano aver avuto successo; Kate ebbe un brivido, c’era qualcosa che non andava.

Qualcosa di funesto e di terribile nella calma morta di quel posto. Non avrebbe saputo spiegarlo a parole, ma quelle immagini non le piacevano.

Sembrava che fosse successo qualcosa di veramente brutto, non un suono, non un segno di vita, a parte la voce dei coraggiosi giornalisti che un solo canale, Z TV, aveva inviato a investigare:

“Qui non si vede niente…ci stiamo solo chiedendo come mai sia pieno di vestiti.”

Un maniaco sessuale? Sì come no, un maniaco sessuale che spoglia e sequestra un’intera città!

Kate scacciò quell’ipotesi, mentre raggomitolata sul divano si sorprese nervosa a mangiarsi le unghie.

E si sentì il gelo invaderle il cuore quando il giornalista cacciò un grido e la telecamera cadde per terra, interrompendo le riprese.

 

Se fosse lo stesso motivo? Se anche Lapis e Lazuli fossero scomparsi così?” si chiese Kate quella sera, cercando di prendere sonno. Anche quello, ormai, era pretendere l’impossibile.

Ormai non dormiva quasi più; l’unica occasione in cui era stata ridotta a uno stato di tenace insonnia era stato quando era incinta di Lapis e Lazuli.

I bambini si muovevano e io mi arrabbiavo come una stupida, fino a piangere di stizza…e adesso quanto li rivorrei qui con me.”

Giorno dopo giorno, i notiziari si facevano sempre piu’ lugubri; anche alla redazione di Z TV erano preoccupati perché i reporter non erano più tornati e in breve tempo erano stati scoperti anche i loro vestiti, esattamente sul luogo del delitto. Ormai era un caso unico.

Man mano che passavano i giorni, anche altre città delle zone limitrofe avevano subito la stessa sorte. Anche se sapeva che North City non era stata toccata, a Kate manco’ la presenza di spirito necessaria per prendere in mano il telefono e chiedere al signor Der Veer se sua figlia stesse bene. Forse quello che rimaneva della gente del nord si era spostata in massa verso posti piu’ sicuri, anche se non si poteva sapere se ci fosse effettivamente un posto sicuro, per quanto lo sarebbe stato.

Chissà quando tocca a noi? Chissà se verrà qui?”

E poi chi, si chiedeva Kate; ma tanto a lei cosa cambiava, poteva anche morire, non aveva più nulla da perdere. Le sarebbe solo piaciuto dire addio ai suoi bambini prima che questo fantasmagorico serial killer venisse a prenderla nella sua città.

 

 

In rotta verso i Monti Paoz, residenza di Son Goku, Diciassette aveva deciso di guidare fuori strada mentre Diciotto sbuffava, non lasciando alcun dubbio circa la sua disapprovazione.

Quella era una giornata storta per lei: dire che il suo umore era pessimo era un eufemismo.

Era da ore che un lieve dolore la tormentava, i muscoli addominali le tiravano in maniera fastidiosa.

Scopri’ in quella circostanza che poteva ancora provare dolore fisico.

E anche altre cose.

Certo, aveva combattuto di recente e Vegeta le aveva dato una testata pazzesca, ma la cyborg penso’ che lo sforzo e la botta che aveva subito non erano stati tali da lasciarle gli addominali indolenziti. Perche’ non erano gli addominali a farle male.

La consapevolezza di se’ era impressa a fuoco nel suo cervello, nonostante questo fosse stato modificato, e la ragazza ringrazio’ se stessa con un sospiro di sollievo quando si era ricordata di essersi rimessa nella tasca degli ultimi vestiti che aveva rubato la famosa bustina gialla.

Solo una cosa: ma che ho fatto di male, io?”

Cosi’, mentre armeggiava nel bagno della piccola stazione di servizio in cui i tre si erano fermati anche per rubare delle bottigliette d’acqua e qualche schifezza ricoperta di cioccolato, le torno’ anche in mente perche’ aveva chiesto a Diciassette di lasciarle ammazzare il viscido Gero.

Senti’ un brivido, pensando che avrebbe preferito continuare a non ricordarselo.

Quando era uscita dal bagno, aveva avvistato della gente -cassiere incluso- raccolta davanti alla televisione, affissa in alto su un muro. Borbottavano fra loro con sguardi sconcertati, mentre la tele mostrava una stanza piena di vestiti riposti qua e la’.

“Potrebbe essere camera mia.” aveva pensato Diciotto con un sorriso furbo mentre, approfittandosi della distrazione generale, si era presa con calma tutto quello che le serviva.

Attualmente stavano attraversando una bella foresta ombrosa e rigogliosa quando lei si spazienti’.

Senza proferire parola, usci’ dal finestrino abbassato fino alla vita e lancio’ un’onda di energia che fece terra bruciata davanti al furgone per almeno qualche km.

Si rimise a sedere, soddisfatta:

“Ne avevo abbastanza di questa strada accidentata.”

Venire sballottata sul sedile le aveva aumentato il fastidio.

Diciassette le aveva rivolto uno sguardo chiaramente infastidito: “Sei quella di sempre.”

“Una persona pratica e decisa?”

“Una bulla.”

 

I gemelli erano comodamente arrivati alla casa di colui che in teoria avrebbero dovuto trucidare. Ma era vuota, non c’era nessuno.

Sedici aspettava quieto nel furgone, come sempre.

Diciassette stava approfittando del rasoio e del sapone che aveva trovato in bagno mentre Diciotto faceva man bassa in camera da letto; il loro uomo doveva avere una moglie, Diciotto stava ribaltando i suoi armadi e i suoi cassetti, alla ricerca di qualche capo di suo gusto.

“Possibile che si vestano tutte così male? Queste umane, non sanno vestirsi! Oh.Mio.Dio.”

Era andata a lamentarsi con Diciassette e l’aveva trovato davanti allo specchio con la faccia insaponata, mezzo nudo per non bagnare la maglia e coi capelli legati.

“Che c’e’?”

“Non so. Il tuo petto e’ grosso.”

Il ragazzo sbuffo’, lavando la lametta sotto l’acqua e poi passandosela sul collo:

“E allora? E’ sempre stato largo.”

“Largo si’, ma ora sembri quasi pompato. Per i tuoi standard, intendo.”

Diciotto si ricordo’ che suo fratello aveva sempre avuto il six pack e una struttura fisica flessuosa, con spalle larghe e fianchi stretti; poi penso’ istintivamente che il bassetto che andava in giro conciato come un monaco Shaolin fosse bello tarchiato e robusto, invece.

Per i suoi standard?

“Meno male che sei stata magnanima, a rompere le braccia a Vegeta. Sedersi su di lui e soffocarlo con quel culone da pachiderma sarebbe stato crudele. Persino per te.”

Schegge di quarzo rosa fluttuarono intorno a Diciassette, conficcandosi ovunque per la forza dell’impatto; il ragazzo non aveva quasi percepito lo schianto del grosso soprammobile, che sua sorella aveva afferrato da un comodino per lanciarlo contro la sua schiena. Scosse la testa e la mise sotto il rubinetto; aveva notato che era piu’ muscoloso di quanto fosse mai stato, anche se si era ricordato che quando era umano aveva una panca e un bilancere in camera. Penso’ che c’entrasse sempre lo zampino del dottore.

Di nuovo alla ricerca di vestiti che non le facessero storcere il naso, alla fine Diciotto si dovette accontentare di un look basic ma tutto sommato non malvagio: jeans blu e maglietta bianca non guastavano mai.

Di solito preferiva colori chiari, luminosi e delicati: trovava che si accordassero cosi’ bene alla sua palette naturale fatta di capelli, occhi e pelle luminosissimi e chiari. Di solito lasciava il nero a suo fratello, trovava che sapesse portarlo molto meglio di lei, ma non seppe resistere al gilet trendy che trovo’ in un cassetto. Ci abbino’ dei guantini e delle ballerine.

Quando i gemelli si furono con comodo cambiati, lavati e sbarbati tornarono dal numero Sedici, chiedendogli dove potessero trovare Son Goku.

L'androide disse che dovevano spostarsi più a sud, su un’isola, dove si trovava la casa di un caro amico del loro uomo: poteva essere lì, anzi, doveva essere lì.

Lui e sua sorella ci erano rimasti un po’ male per aver centrato così presto il loro teorico obiettivo.

“Uffa…ci tocca fare 2700 km in volo verso sud. La fine del gioco” sorrise tra sé Diciassette.

“E tu non ti sei cambiato?”

Diciotto resto’ basita a vedere che Diciassette si era rimesso gli stessi vestiti, dopo la doccia. Quanto potevano fare schifo i maschi?

 

“Secondo te…ti ricordi quel tipo che ho baciato per finta?”

“Mm, bleah. Sì che me lo ricordo.”

I gemelli volavano alla velocità della luce, diretti assieme a Sedici verso la costa.

“Perché me lo ricordi?” le chiese Diciassette con aria nauseata.

Diciotto si lasciò scappare un risolino beato: “Boh, così! Era tenero!”

“Ma che schifo.”

Diciassette se ne stette zitto per tutto il tempo; sua sorella era infastidita che lui non interagisse con lei.

Permaloso dei miei stivali.”

Si era forse offeso per i commenti assolutamente non maliziosi che lei aveva fatto sul suo corpo?

“C’è una cosa di cui volevo parlarti…Diciassette, mi ascolti?”

Il ragazzo mugugnò senza guardarla.

“Non ho idea se per noi cyborg è lecito sognare, non so nemmeno se effettivamente il mio è stato un sogno.”

“Certo che noi possiamo. Lui no.” accenno’ al pacifico Sedici con aria di superiorita’.

“Beh, che fosse un sogno o una trance, ho avuto un ricordo” Diciotto volò più veloce in modo da essere vicinissima a suo fratello “c’era una donna, potevo sentire la sua voce e la vedevo abbastanza dettagliatamente; il suono della sua voce mi piaceva molto e lei era bella, aveva i capelli lunghi e scuri, gli occhi tipo i nostri. Assomigliava molto a te.”

“A me?” rise lui “ma che cavolo sogni, tu? Sei sicura?”

“Certo! Non sono ritardata” disse lei adirata “non mi ricordo cosa dicesse, non faceva niente a parte parlare. Non so a cosa collegarla.”

Diciassette sospirò: “E io nemmeno, se è questo che volevi sapere.”

C’erano molte cose che i gemelli desideravano sapere, ma a cui sembravano non avere accesso. La donna era probabilmente uno di quei ricordi.

Ormai Son Goku era vicino, presto si sarebbero annoiati di nuovo.

Diciotto rimase a pensarci e si senti’ rattristata nell’accorgersi che, giovane com’era, si sentiva gia’ vissuta, per di piu’ senza ricordarsi di tutte quelle esperienze che si sentiva sulle spalle. Aveva tutta una vita dietro di lei, ma nessun mezzo per imparare da quella vita.

Mentre suo fratello si divertiva a fare giri in macchina, a lei restava solo un oceano sconfinato di noia.

Quello che pero’ lei non sapeva era che presto la loro vita avrebbe perso la piattezza che l’aveva caratterizzata a partire dal risveglio.

Non avrebbero mai potuto immaginare che i loro guai non erano terminati con la morte del dottor Gero, anzi. Diciassette e Diciotto non avevano idea che la loro esistenza era solo una semplice parte di un progetto piu’ grande, a cui il dottore aveva lavorato tutta la vita.

Non sospettavano minimamente di essere braccati dalla Creatura.

 

 

A North City si respirava ansia mista a una generale svogliatezza, conseguenza di un sollievo collettivo.

Come i telegiornali avevano mostrato, stare chiusi in casa non proteggeva dal misterioso flagello che si portava via la gente, quindi tanto valeva non farsi prendere dalla psicosi e cercare di vivere normalmente. Quando le sparizioni avevano iniziato a spostarsi verso sud, tutti in citta’ avevano messo il naso fuori dalle proprie tane, annusando con circospezione l’aria fresca e constatando che non era toccato a loro, che erano incolumi e che non c’era piu’ motivo di dare di matto.

Questo aveva ripetuto Gage al telefono, cercando di tranquillizzare la sua famiglia che da East City lo chiamava per l’ennesima volta, ancora una volta lieta di sentire la sua voce.

Le lezione in universita’ erano tranquillamente continuate e presto la normalita’ sarebbe tornata con gioia nelle vite di tutti.

A chiamata terminata, il ragazzo lascio’ il campus insieme a un gruppo di conoscenti e si diresse al poligono di tiro locale. A quanto pareva, quello era un passatempo molto popolare li’ al nord, anche se Gage sapeva a malapena impugnare una semplice pistola.

Sotto gli occhi esperti del branco, scelse un modello sobrio e, prendendo la mira, strinse forte l’arma e vide il mondo esplodere davanti ai suoi occhi.

“Woo! Gage ha quasi fatto centro.”

Annui’ al resto del gruppo e, stanco per la concentrazione che aveva messo in quel solo colpo, si sedette a guardarli mentre si divertivano.

“Guardate che carina.”

“Oh, ma quanto e’ adorabile.”

“Quell’AK-47 sembra cosi’ grosso e cattivo fra le sue manine!”

“Si, ma guarda come sta appoggiato bene alle sue tette...”

“Dio bono, va che tette!”

Gage udi’ i discorsi intellettuali e le risate del branco e li vide tutti girati a guardare una ragazza di statura piuttosto piccola, dai pomellini rossi, che stava provando a sparare.

Gage ignoro’ gli schiamazzi prodotti dal gruppo, mentre si spostava verso l’ignara preda.

Guardo’ la cascata di capelli dal colore appariscente e, al di sotto, le cuffie che le coprivano le orecchie; lei le rimosse e si giro’ quando senti’ il suo tocco sulla propria spalla.

“Hai bisogno?”

Gli rivolse un bel sorriso, svelando denti bianchi: “No, ti ringrazio. Il fucile si e’ inceppato, forse non e’ stato pulito bene, non so...”

Lui la segui’ fino a un tavolino dove, sotto lo sguardo del branco, la ragazza smonto’, puli’ e rimise insieme l’arma, con velocita’ impressionante.

“Ora e’ a posto.”

Gage e gli altri la guardarono con gli occhi fuori dalle orbite mentre lei, carina da morire, sollevava un sopracciglio pallido:

“Cosa c’e’? Non sai come si smonta un fucile?”

“Puoi rifarlo?”

La ragazza ripete’ la procedura: “Riesco anche senza guardare.”

Giro’ la testa di lato e assemblo’ l’AK-47 un’ultima volta. Si preparo’ a colpire il bersaglio, i ragazzi che guardavano da dietro il calcio del fucile appoggiato sulla scollatura, teneramente picchiettata da minuscole, fitte lentiggini dorate e color terracotta. Una raffica di pallottole scaturi’ dall’arma e colpi’ la testa del bersaglio.

Quando fini’, la ragazza sorrise a Gage e guardo’ storto gli altri:

“Puoi dire a quei trogloditi dei tuoi amici di smetterla di sessualizzare il fucile e la mia scollatura?”

I trogloditi udirono e sussurrarono fra loro, mentre Gage osservava la ragazza legarsi i capelli in una lunga treccia.

“Io, quelli? Non li conosco!”

Lei schiocco’ la lingua e guardo’ il nulla alla propria destra; si mise le mani sui fianchi, portando l’attenzione di Gage sulle cosce bianche, carnose.

“Comunque, cosa fai qui? Io sono al penultimo anno di ingegneria.”

“A me mancano tre anni in veterinaria.”

Gage si stupi’ e guardo’ la ragazza mentre lei sparava un’altra scarica: “Veterinaria? E spari cosi’?”

“Si, e allora?” lei alzo’ il mento e si mise le mani in tasca “non e’ che devo per forza sparare a esseri viventi. Vengo qui solo per sfogarmi.”

Mentre si avviavano fuori dal poligono, Gage ripensava alla dimestichezza con cui l’aveva appena vista maneggiare que kalashnikov: “Devi essere bella incazzata, allora.”

“A volte, moltissimo.”

“Ma delle pistole semplici? Ci hai lasciati di stucco.”

“Grazie! No, non fanno per me. Ho imparato a usare quelle alle superiori, ora mi diverto di piu’ con le semi automatiche.”

Da quando era arrivata a North City, aveva preso l’abitudine di sopprimere l’angoscia e la depressione al poligono di tiro, nei momenti in cui non era assorbita dallo studio matto e disperatissimo, seduta qua e la’ nel suo appartamento nel campus, bevendosi litri di caffe’.

Sapeva che era sensibile alle sostanze eccitanti, ma aiutavano a perdersi.

Non era piu’ andata a Wst City per inseguire il suo sogno, diventare una pediatra. Era un progetto che apparteneva a un’altra vita in cui tutto era facile; le ricordava troppo dei bambini che non avrebbe mai avuto.

Ma suo padre aveva ragione: lei aveva un talento speciale, sapersi prendere cura di chi aveva bisogno. Lei lo sapeva e pensava che fosse stupido sprecarlo, percio’ all’ultimo momento aveva cambiato idea, mettendo una croce sulla facolta’ di medicina di West City e decidendo di dedicarsi ad altri tipi di creature.

“Ci servi in prima linea allora. Un cecchino come te forse sara’ capace di centrare in pieno chiunque abbia preso quei poveracci...”

Gage lo disse per scherzare, ma vide gli occhi della ragazza riempirsi di tristezza e il suo viso dolce contrarsi per la rabbia; sembrava un’altra persona.

“No, le sparizioni sono irreversibili. Quelli che scompaiono non tornano piu’.”

Stupito e mortificato dal sentire parole cosi’ lugubri uscire dalla bocca di quella persona dall’aspetto tanto radioso, Gage cerco’ di cambiare discorso:

“Come vanno le cose, per te? Hai paura? Io confesso che ne ho avuta...”

“A me non importa niente.”

Che aria da dura aveva, ora! Gage non poteva fare a meno di provare un senso di tenerezza per lei.

Anche se si rendeva conto che probabilmente avrebbe potuto castrarlo con un colpo di fucile.

Lei ripete’ che non gliene poteva fregare di meno se fosse scomparsa insieme a buona parte della gente, nonostante la sua futura carriera fosse abbastanza importante per lei.

“Scusami, comunque. Non intendevo essere scortese.”

Gage sospiro’ afflitto, convinto di essersi gia’ giocato le chances per poter continuare a parlare con la ragazza-cecchino.

“Dai, su. Via quel muso lungo da cane bastonato. Ce l’hai un nome?”

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Pensieri dell’autrice:

 

Mi sta capitando di sentirmi molto motivata nella scrittura di questa storia, e anche quasi in sintonia coi miei lettori e recensori (mi motivate tantissimo. Grazie di cuore). Mi sento abbastanza “meno timida” per condividere con voi dei pensieri che ho avuto durante la stesura di questo capitolo.

Mi ha sempre dato molto fastidio come Diciassette tratta Sedici: mi sembra che l’androide non si meriti delle risposte cosi’ brusche dal cyborg. Nell’anime ho sempre l’impressione che quest’ultimo lo tratti con sufficienza.

In questo capitolo ho voluto immaginarmi cosa potessero aver fatto i gemelli nel loro viaggio in macchina; ho voluto fare ancora trasparire l’amore di Diciotto per i vestiti e lo stile con il suo discorso sui colori. E’ una parentesi un po’ girly, ma penso che Diciotto abbia questo lato girly con la sua passione per i vestiti. E sono proprio dei vestiti a fare da apripista a una minaccia terribile che ora incombe sulla Terra e sui nostri cari cyborg. Diciotto che vede qualcosa alla tele, gli studenti di North City...ragazzi, non ne avete la piu’ pallida idea di quello di cui state parlando.

Ho voluto appunto includere il punto di vista di tre persone “normali”. Kate, che da casa guarda con ansia il telegiornale, e poi Gage e la ragazza-cecchino, la cui area e’ stata la prima ad essere vittimizzata dallo “scarafaggio ipertrofico” (come lo chiama Diciassette nel doppiaggio americano ^^).

Ho cercato di immaginarmi una situazione di paura e sconcerto come puo’ essere quella causata da Cell per chi assiste senza venire assorbito: Gage e’ un ragazzo normale di East City che si sente con la sua famiglia, che e’ lontana e preoccupata per lui.

La misteriosa ragazza-cecchino e’ un’altra studentessa che cosi’ misteriosa non e’; penso che la sua identita’ sia abbastanza “indovinabile” anche se ho scelto di tralasciare il suo nome in questo capitolo.

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Capitolo 7
*** Cadere nel nero ***


“And remember the darker the night
The more beautiful the morning light.”
-Ensiferum


 

 

 

  Un altro giro inutile.

Nella casa sulla costa non c’era nessuno, o meglio, c’era il gruppo che i gemelli avevano già steso una volta; Diciotto notò divertita che Crilin non mancava all’appello. Lui la guardo’ negli occhi e poi abbasso’ i suoi, come se si sentisse imbarazzato.

Il gruppetto si rifiutava categoricamente di dire dove fosse fuggito Son Goku.

“Guardate che se non vi decidete smetteremo di essere amichevoli” li avvertì Diciassette.

“Fate pure come volete”  Piccolo, il namecciano, si era fatto avanti con il suo sguardo fiero e accigliato, mentre la sua pelle smeraldina brillava al sole. Il ragazzo se lo ricordava, l’aveva steso con una manata la volta precedente “laggiù c’è un’isola su cui possiamo regolare i conti”.

Cosa c’era da regolare? Voleva prenderne ancora? Come al solito, i gemelli non ebbero bisogno di parlare per capirsi.

Alla fine i cyborg accettarono la sfuga e accompagnati da Sedici e da Piccolo si trasferirono su un isolotto in mezzo all’oceano, al largo dalla costa del Paese.

Diciassette era calmo: “Se non parlerai questa volta ti uccideremo per davvero, sei d’accordo?”

Il nemico ridacchiò, cominciando a prepararsi per lo scontro: si spogliò dell’ampio mantello e del turbante che portava.

Anche se voglio giocare, non lo capisco…vuole farmi perdere tempo? No, è solo uno stupido.” disse il ragazzo tra sé, rimboccandosi le maniche.

Il namecciano osservò i gemelli e il loro compare e vide con sorpresa che il bestione si era messo in disparte con degli uccellini fra le mani, mentre la ragazza biondissima si era maliziosamente seduta come se fosse stata al cinema. Davanti a lui c’era solo il ragazzo, che con la sua postura lo invitava all’attacco.

“Combatti da solo, n. 17?”

“Naturalmente.”

 

 

 “Siamo…siamo stati aggrediti.” 

L'uomo, disteso in un letto d’ospedale, parlava a fatica ai microfoni e i suoi occhi erano sbarrati, febbricitanti.

Kate era incollata al televisore e guardava; non avrebbe davvero voluto, ma era come un film dell’orrore dove non si riesce a coprirsi gli occhi per non vedere le scene più brutte.

“Lei dove si trovava al momento?” chiedeva con garbo il giornalista.

“In ufficio. Ero lì…mi ha preso e mi stava per uccidere.”

Il servizio era in fase di ripresa nell’ospedale di una città del centro.

A poco più di 200 km da qui” Kate si raggomitolò, stringendo la coperta sulle sue gambe.

La città era stata attaccata dal serial killer responsabile delle stragi del nord.

“Una grande… creatura” l’uomo spalancò ancora di più gli occhi “tutti quelli dei piani inferiori… li ha fatti sparire!”

I giornalisti aspettavano che l’uomo riuscisse a raccontare quello a cui aveva assistito; anche Kate attendeva, sudata, con le sopracciglia aggrottate: “Mio Dio, si è salvato…chissà che shock.”

“Usa la sua coda per trafiggere le persone e berle. Voi non ne avete idea.”

La città era sotto attacco e polizia e giornalisti l’avevano immediatamente raggiunta, constatando che quasi tutti gli abitanti erano stati risparmiati. Solo in un palazzo pieno di uffici erano state mietute delle vittime.

Fino al sesto piano gli agenti avevano trovato i soliti, spettrali vestiti abbandonati; al settimo, un gruppo di uomini ancora vivi. Erano stati tutti ricoverati in stato di shock e in quel momento i giornalisti ne stavano intervistando uno.

“Mi aveva a-afferrato e stava per risucchiare anche me..."

L’uomo ansimava mentre la sua voce cominciava a cedere.

“E poi cos’è successo?” lo aiutò il reporter “dov’è andata la creatura?”

“L-la creatura…si è fermata di soprassalto” ansimò l’uomo “mi ha lasciato andare…ha detto qualcosa…che non ho inteso."

“Ha detto?” chiese il giornalista “quindi la Creatura sa parlare…”

Kate trasalì. Una creatura, chissà che creatura poteva essere.

“Parlava, sì, molto bene. Come noi. Ha detto qualcosa tipo finalmente li ho trovati.”

L’uomo si fermò e prese fiato. Il giornalista gli passò dell’acqua.

“E poi…mi ha lasciato andare ed è volata fuori dalla finestra”.

 Ormai tutti i telegiornali ne parlavano.

Una creatura assassina che entrava negli edifici volando e beveva la gente.

Come?

Kate non riusciva a concepire una cosa del genere, come tutti del resto.

Alla tele dicevano di stare tranquilli perché erano passate alcune ore dall’attacco al centro e nessun’altra città era stata coinvolta.

Che senso aveva tutto questo? Cosa diavolo era la Creatura?

Anche alla tele la chiamavano così; Kate credeva che fossero uno o più serial killer, ma a quanto pare il solo che aveva potuto testimoniare non aveva descritto il suo aspetto, si era limitato a dire che sapeva volare e che probabilmente non era umana.

Gli alieni? Si, certo.

Kate non ci aveva mai creduto, specialmente ora. Non credeva nemmeno alla storia della Creatura.

Adesso i poliziotti osavano anche dirle che magari Lapis e Lazuli si erano volatilizzati per colpa di quella cosa.

Cervelli di gallina, tre anni prima questo essere, questa cosa, non era ancora comparsa.

“Siete tutti pazzi, giocate tutti a guardia e ladri, a fare gli agnelli predati dal lupo” diceva Kate con amarezza, ogni volta che, addolorata, spegneva la tele.

  

 

Non si era mai divertito cosi’ tanto. Quel Piccolo era un vero portento, non solo aveva iniziato lo scontro con un apparente vantaggio, sferrandogli potenti colpi con grande velocita’ fino a farlo barcollare. Gli aveva mostrato un arsenale fantasioso di colpi energetici degni del suo essere un guerriero esperto che probabilmente masticava arti marziali da prima che lui nascesse come umano.

Si erano divertiti e sfogati in un vero scontro corpo a corpo, pugni, calci, wrestling, uno spasso con la S maiuscola.

Se le suonavano forte ma nessuno dei due riusciva ad avere la meglio, perché quando sembrava che stesse per succedere il rispettivo avversario tirava sempre fuori un asso dalla manica.

Ci avevano dato talmente dentro che il namecciano, tentando inutilmente di bombardarlo con il suo hellzone grenade, aveva finito per distruggere l’isolotto.

“Smettila di giocare, Diciassette! Ancora un po’ e devo venire io a finirla.”

Diciotto si era stancata di guardare suo fratello che giocava con il nemico come il gatto fa col topo.

“Non ci penso nemmeno! Non mi sono mai divertito tanto da quando mi sono svegliato, quindi non rompere e lasciami stare!” le aveva urlato lui di rimando.

“Gli uccellini” mormorò Sedici sottovoce “se ne sono andati, per colpa di tutto il caos che hanno fatto…”

Piccolo e Diciassette erano atterrati su un nuovo lembo di terra, praticamente pari; Piccolo era migliorato moltissimo dall’ultimo scontro e ora riusciva a tenergli testa. Ma la vittoria era un’altra cosa, pensava orgoglioso il cyborg.

Il namecciano era un grande antipatico, non aveva ancora intenzione di parlare.

Continuarono a menarsi a non finire, per il gusto di farlo.

Ma mentre aveva iniziato quello scontro con l’intenzione di far fuori Piccolo, ora il cyborg sentiva nascere in se’ una specie di rispetto per quell’avversario cosi’ degno.

Diciassette era impressionato dal fatto che quel tizio gli stesse dando cosi’ tanto filo da torcere anche se sapeva che, mentre la sua energia era infinita, quella del nemico sarebbe presto o tardi scemata. Piccolo infatti era già stanco e respirava a grandi sorsi, ma all’improvviso quasi soffoco’ dallo sgomento e rimase con la bocca semiaperta e gli occhi sbarrati, fissi a guardare qualcosa alla sua destra.

“Cosa c’e’, Piccolo?”

Incuriosito, anche il ragazzo guardò in quella direzione e quello che vide gli causò un piccolo sussulto.

In cima a una rupe era apparsa una sagoma: un’alta figura sottile e dalle proporzioni poco umane che si stagliava scura sul sole pomeridiano.

Era lui.

Il cuore del namecciano si raggelò.

 

Era da giorni che stavano succedendo delle stragi nelle città: a partire dal nord, le persone scomparivano senza lasciare traccia. E succedeva tutti i giorni, più città al giorno.

La popolazione del Paese aveva subito un tragico salasso e Piccolo e i suoi compagni avevano indagato.

Avevano scoperto la Creatura: un essere malvagio dalla lunga coda acuminata, che si nutriva della forza vitale –e con essa del loro intero essere-  delle persone per riuscire ad aumentare la sua.

Aveva rivelato che in verità saziarsi della gente non gli interessava un gran che. Aveva fatto il nome delle prede che voleva disperatamente.

Voleva Diciassette e Diciotto.

 

Ora eccolo, li aveva trovati. Il nemico sapeva tutto, ma di certo i due gemelli non lo conoscevano.

“Chi…ma che roba è quello lì?!” Diciassette lo osservava, sicuro di non averlo mai visto in vita sua “Diamine, una cosa così brutta me la sarei ricordata.”

Sentendo le sue parole, anche Piccolo trasali’: com’era possibile? N. 17 non sapeva niente, ne’ della Creatura ne’ del tragico destino che lo attendeva.

Sedici scrutava il mostro con sguardo accigliato. Anche Diciotto lo guardò e si sentì spaventata: fin da bambina le erano sempre piaciute le storie dell’orrore, di mostri, di fantasmi…ma guardando quell’essere si sentiva la pelle d’oca, perché nessuno dei mostri o delle storie di cui aveva letto o sentito parlare erano così spaventosi.

La realtà in quel caso, era proprio vero, superava la fantasia.

Avesse qualcuno inventato la storia più paurosa del mondo, bene, mai e poi mai avrebbe potuto anche solo eguagliare la sensazione di angoscioso panico che effondeva dalla creatura che le stava davanti in quel momento.

Dal canto suo anche la Creatura osservava, pregustando il suo banchetto.

Disse il suo nome, Cell; chiamo’ i cyborg fratello e sorella; resto’ interdetto di fronte al gigante dal ciuffo rosso, non lo riconosceva.

“Non so cosa diavolo tu sia, ma fammi il favore, sei arrivato sul più bello: vattene, non vedi che sono occupato? Stavo combattendo io con lui” intimò lo sprovveduto Diciassette con tono canzonatorio.

Aveva provato una specie di nodo alla gola alla vista di quel coso, ma non l’avrebbe mai dato a vedere.

Il nemico in questione si risentì per quello che stava per fare, ma non ebbe scelta: “N. 17, sta’ attento! Cell ha intenzione di farti diventare parte di lui: se resti, ti assorbirà e tu morirai. Scappa!”

Diciassette volle rispondere a tono, ma non ci riuscì; pote’ appena vedere una specie di dardo aguzzo che serpeggiava verso di lui.

Era la coda del mostro, la coda più terribile che avesse mai visto. Una specie di lungo siluro acuminato.

Guizzava di qua e di là sempre tentando di trafiggerlo, ma lui era più veloce, riusciva sempre a scansarla.

No! Aveva sbagliato qualcosa…perché adesso era a terra, col mostro che lo inchiodava al suolo puntandogli la coda addosso?

Un soccorso inaspettato –e non richiesto- gli venne proprio dal namecciano, quello che fino a poco prima era intenzionato a fare fuori.

Piccolo calciò via il mostro e restò al fianco di Diciassette.

Com’era arrabbiato! Doppia umiliazione: non solo si era fatto colpire da quel coso, ma aveva anche dovuto sopportare che il suo nemico personale lo salvasse, come fosse una damigella in pericolo!

Che schifo, pensò dentro di sé. Che schifo assurdo.

Quando il mostro concentro’ il suo potere e si ricoprì di una luce che guizzava come fiamme, ai cyborg parve di distinguere delle forme fra di esse. Teschi dalla bocca spalancata, fantasmi, anime. Le anime di tutte le sue vittime.

Piccolo tento’ ancora di dare a Diciassette la possibilita’ di correre ai ripari, portando Diciotto.

“Ma cosa succede? Perche’ Piccolo e Diciassette non stanno facendo niente, sono stanchi?”

La ragazza era consapevole dello sguardo perso con cui si rivolse all’androide, che non aveva mai smesso di tenere d’occhio il campo di battaglia.

“No. Cell e’ troppo forte per loro. Non ce la fanno.”

Lasciando che lo sgomento non irrompesse al di la’ dei confini del suo volto, Diciotto torno’ a sedersi, confusa, non sapendo se credere o meno alle parole assurde che il saggio Sedici aveva appena pronunciato.

La Creatura era così forte che in breve ruppe la strenua difesa che Piccolo aveva tentato di opporgli: il valoroso guerriero che Diciassette voleva tanto sconfiggere era finito buttato in mare con un orrido squarcio nel petto, dopo che l’enorme Cell l’aveva sollevato come una bambola di pezza e gli aveva trapassato il torace con un’ondata di ki.

Ora non c’era più niente tra Cell e la sua preda: erano uno davanti all’altra.

Il ragazzo non riusciva a imporsi di stare calmo e calcolare la situazione e d’altra parte la Creatura non gliene diede il tempo: iniziò a martellarlo di colpi a una velocità assurda, voleva fiaccarlo per poi impadronirsene, gli aveva ripetuto le parole di Piccolo non appena Diciassette aveva iniziato a difendersi.

Disse loro che loro tre erano come pezzi di un puzzle, erano destinati a diventare una cosa sola.

I gemelli erano rimasti senza parole: ce l’avevano tutti con loro?

Prima il dottor Gero, che li aveva rapiti e trasformati.

Adesso questo mostro di merda, che intendeva incorporarli, aggiungerli a se’ per aumentare esponenzialmente il proprio potere, raggiungere la sua forma perfetta e realizzare il sogno di megalomania del dottore. Una volta che i due cyborg fossero diventati parte di lui, Cell avrebbe dominato il mondo.

Perche’ tutti volevano dominare il mondo e ammazzarsi fra di loro?

I due gemelli non volevano crederci.

“Non deve finire così, io voglio vivere a lungo!” Diciassette urlo’ quelle parole dettate spontaneamente dal suo cuore, cosi’ umano all’improvviso, mentre si fiondava contro la Creatura.

Quando finì di nuovo a terra il dolore era sconvolgente. Il ragazzo non riusciva manco a ragionare, sentiva solamente il sapore della sconfitta. 

E’ questo che si prova? E’ così che si sono sentiti quelli, quando siamo stati noi a infliggergli la disfatta? Fa così male?”

Cerco’ di puntare i gomiti a terra. Volle solo tossire, invece sputo’ sangue fresco.

Nel frattempo, giusto al lato del campo di battaglia, Diciotto strinse i pugni e abbasso’ lo sguardo. Anche se non se lo ricordava piu’, lei odiava vedere suo fratello ferito. La disturbava, la rattristava, la faceva arrabbiare. E a giudicare dallo stato in cui era ora, quel mostro doveva avergli fatto male. Davvero molto male.

Era la prima volta in cui la cyborg si accorgeva che il suo gemello, tanto sovrumano quanto lei, stava patendo dolore fisico.

Eppure non riusci’ a muoversi. Sedici, invece, si alzo’:

“Cosa vuoi fare, Sedici! Non andare, resterai ucciso anche tu!”

L’androide sorrise, forse toccato dalle parole della giovane cyborg:

“No, Diciotto. Devo fare la mia parte. Voi due siete bravi ragazzi, durante il nostro tempo insieme non avete arrecato danno inutile a persone o animali, avete rispettato questo pianeta. Ho apprezzato molto questo viaggio con voi.”

Diciotto lo guardo’ allontanarsi, sapendo che non avrebbe potuto fermarlo.

Cell incombeva sul ragazzo disteso a terra con il respiro corto: gliel’aveva detto di non lottare, se non fosse stato cosi’ testardo lui non avrebbe nemmeno dovuto torturarlo.

Vedendo il sangue che aveva perso e sentendosi umiliato, per la prima volta Diciassette si mise in empatia con i suoi nemici; se avesse potuto si sarebbe messo a ridere di nervosismo: mezzo uomo, mezzo macchina, era molto più umano di quanto avesse potuto e voluto credere.

Proprio lui, che nei momenti in cui la programmazione del dottore lo induceva a pensare che gli umani fossero una razza inferiore, aveva pensato che forse lo erano.

Si sentiva impotente e inerme, davanti ai suoi nemici e anche ai suoi alleati.

Sedici e Diciotto, perché non gli venivano in soccorso? Eppure avevano visto tutto.

Anzi, no, Sedici che non aveva fatto altro che dirgli di ritirarsi! Ma perché ascoltarlo, dopotutto il suo power radar era rotto…

Beati voi, vi invidio per essere così distaccati. Siete delle vere macchine, lo schifoso sarebbe fiero di voi.”

Cell interruppe bruscamente il flusso dei suoi pensieri, afferrandolo per la collottola e tenendolo sollevato da terra, mentre lui scalciava e si scrollava; non voleva guardare quella fisionomia mostruosa, il solo pensiero di finire divorato da quella cosa orribile gli rivoltava lo stomaco.

Il mostro non sopportava che si dimenasse e lo punì con un colpo alla schiena che gli tolse il fiato.

Quello che accadde in seguito fu come un film per lui.

La coda del mostro si apri’ a imbuto e Diciassette vide un buco sopra la sua testa, un buco nero e appena dopo un orrido budello palpitante; lui stesso che lottava con tutte le sue forze; Sedici che veniva a difenderlo; Sedici che combatteva contro il mostro.

Sedici che sfoderava una potenza inaudita, che proiettava raggi laser dai suoi occhi in faccia a Cell, che lo smembrava strappandogli quella coda. Diciassette degluti’ saliva e si senti’ spaventato ancora una volta nel vedere la coda ricrescere sulla schiena del mostro, mentre uno strano liquido schizzava intorno e scioglieva le pietre e il suolo su cui era stato proiettato.

Dopo un altro scontro Sedici getto’ la Creatura nelle viscere della terra, cosi’ a fondo che nessuno riusci’ piu’ a vederla. Carico’ un’onda titanica di energia e la diresse in quell’apertura nel terreno.

Da lontano, anche altri erano arrivati a guardare. Tien osservava senza fiato l’androide che era intervenuto a proteggere il cyborg e che ora come ora sembrava possedere una potenza immane.

Ora Sedici gli urlava di nuovo di scappare, incerto sull’esito del suo colpo. Ma la Creatura sembrava essere scomparsae e Diciassette, furioso e nuovamente pronto a combattere, inizio’ a chiamarla: doveva pagarla per l’umiliazione che gli aveva inflitto.

Si sfrego’ quella che doveva essere una botta sulla fronte e sputo’ altra saliva:

“Dove sei finito, scarafaggio ipertrofico, mostro? Guarda che sono qui, ti sto aspettando!”

E poi Diciassette udi’ una voce, lontana, una voce che chiamava il suo nome, la voce di Tien, uno dei nemici: “DICIASSETTE, DIETRO DI TE!”

E poi tutto quello che vide fu il nero; la luce del sole se n’era andata e intorno a se’ il ragazzo pote’ solo sentire il nero, il caldo, un senso di soffocamento. Un’angoscia mai provata gli mozzo’ il respiro e senti’ delle spire avvolgerlo fino a farlo gridare dal dolore:

"NO! Lasciami andare! Non puoi fare questo, io non voglio finire li’ dentro! Non sono pronto!"

Non seppe cosa lo spinse a gridare a squarciagola, anche se sapeva che era inutile; quando l’oblio lo avvolse totalmente, Diciassette capì che per lui era tutto finito.

 

 

 

In un altro angolo di mondo, Kate dormiva un sonno agitato. Nel suo incubo vedeva Lapis e Lazuli diciottenni, come erano stati all’epoca della scomparsa, che camminavano in un corridoio scuro, mentre un’ombra ancora piu’ scura si erigeva fluttuando dietro di loro, con occhi di brace e artigli che scrisciavano sui corpi dei suoi figli e li stringevano, spezzando le loro membra, facendoli gemere.

No, stai lontano dai miei bambini. Non vedi che sono spaventati?”

L’ombra si espandeva, ignorando le sue suppliche.

Kate si sveglio’ di soprassalto con le lacrime agli occhi, coperta di sudore freddo. Stette per un attimo seduta fra le lenzuola, finche’ non senti’ un dolore lancinante trapassarle il ventre e la schiena. Kate urlo’ e si getto’ sul letto mentre quel dolore le lacerava le viscere, come quando loro erano nati e lei aveva avuto le doglie.

Si senti’ senza fiato e le sembro’ di morire.

Mormoro’ i nomi dei suoi amatissimi figli, mentre singhiozzava, sola, nella sua casa vuota.

 

 

I presenti che assistettero alla scena e che videro il mostro emanare luce ed energia mentre si trasformava, non poterono fare a meno di sentirsi turbati.

“Il ragazzo! Il ragazzo!” aveva gridato qualcuno.

Il cyborg maschio era sparito, urlando in un modo cosi’ disperato che poteva voler dire solamente che aveva provato il terrore più assoluto. Davanti a uno spettacolo come quello, inconsapevolmente tutto il gruppo si sentì quasi unito, la cyborg, l’androide, gli umani, il namecciano. Senza che se ne accorgessero la linea fra bene e male, fra amici e nemici si era assottigliata e restarono per un momento a guardarsi, in una sorta di stupore.

Ma nessuno avrebbe mai potuto capire come lei si sentiva.

Sapeva solo che tutto quello che avrebbe voluto era lasciarsi sprofondare, ma invece no, doveva lottare per salvare almeno la sua vita.

Si meritava quello che le sarebbe accaduto? Forse.

Chissà cos’avevano pensato Sedici e persino i nemici, quando suo fratello era stato preso.

E Diciassette, chissà cos’aveva pensato lui.

Sicuramente il perché lei, la sua gemella, fosse rimasta a guardare l’intera trafila della sua rovina senza nemmeno muovere un muscolo per soccorrerlo, mentre lui urlava e supplicava la Creatura di lasciarlo vivere.

Sedici ci aveva provato. E anche quando la Creatura aveva tentato immediatamente di prendere anche lei, ancora una volta era sceso sul campo ed era rimasto gravemente ferito.

Lei aveva allora fatto qualcosa che non avrebbe mai immaginato, quel giorno lontano in cui aveva letto di nascosto alcuni appunti del dottor Gero. Guardando con rabbia il volto di Cell, ora illuminato da due agghiancianti occhi azzurri, occhi che aveva rubato a Diciassette, Diciotto si era messa una mano sul cuore e l’aveva sfidato:

“Se ti avvicinerai a me, faro’ esplodere la bomba che ho nel petto.”

Ma Cell sapeva che lei non avrebbe fatto in tempo a farlo; il cyborg che aveva assorbito minuti prima gli aveva dato una velocita’ e forza spaventose, mai provate prima. La ragazza sarebbe stata bella che assorbita prima di fare persino in tempo a esplodere.

E sentirselo dire prese le ultime speranze di Diciotto. Fu sicura di provare qualcosa che gli umani provano, un attacco di panico, quando Cell aveva tentato di convincerla a morire usando la voce di suo fratello.

Per un attimo, il suo cuore aveva smesso di battere e le sue ginocchia avevano tremato.

Allora, prima che Cell potesse avventarsi su di lei Tien era intervenuto, seppellendo il mostro ancora una volta con una raffica di kikoho, fin quando non era caduto a terra, esanime; se non fosse stato per i nemici, lei e Sedici non sarebbero mai riusciti a scappare via e a nascondersi su un’altra isola nell’arcipelago.

Ma lei? Che razza di mostro ignobile era, lei, che era rimasta lì a guardare imbambolata?

La cosa piu’ triste era che Diciotto sapeva che, se fosse stata al suo posto, Diciassette sarebbe stato il suo scudo; lui avrebbe lottato per lei, sarebbe caduto per lei. Ma lei non ci aveva nemmeno provato e l’aveva lasciato morire.

Cos’era diventata?

Probabilmente tutti stavano pensando la stessa cosa, che lei fosse appunto un ingrato e sgradevole personaggio.

Ma lei se ne strafregava, il dolore che aveva realizzato di provare era già abbastanza; seppe con certezza che alla fine non era così poco umana come aveva pensato, il suo cuore era spremuto, spappolato, a pezzi. Non riusciva nemmeno a parlare.

Diciotto non aveva mai sentito nessuno urlare così. E quelle grida rimbombavano nella sua testa come un'eco, con violenza inaudita.

Qualcosa dentro di lei si ruppe. Crollò in ginocchio, a terra, e lanciò un grido che non usci’ mai, mentre Sedici la portava via.

Era suo fratello, e adesso non c’era più.

Sparito. Dissolto. Chissà come.

Chissà se aveva provato dolore? Chissà qual era stato il suo ultimo pensiero?

Non ti vedrò mai più in questa vita. Ma presto verrà a prendermi; è quello che mi spetta per non averti aiutato, per aver infranto la mia promessa. Perdonami, fratello mio."

Diciotto aveva la morte nel cuore, sapeva a cosa stava andando incontro: lei non si era salvata, lei doveva solo morire più tardi.

Sapeva solo che dopo aver visto morire la persona che piu’ amava al mondo avrebbe desiderato non essere mai nata.

Adesso Cell, ancora piu’ enorme, ancora piu’ forte e ancora piu’ affamato era sopra l’arcipelago, cercava lei. E lei ansimava strozzata dall’angoscia, dalla tristezza, dalla paura che la spezzava in due.

“Non devi muoverti assolutamente: sta attaccando tutto quello che si muove sulle isole. Se stai ferma forse ti salverai”.

Diciotto sentiva Sedici senza ascoltarlo, tutto quello che voleva era sciogliersi e disperdersi come neve a primavera. Si strinse discretamente all’unico affetto personale che le era rimasto.

Di li’ a poco sentì un rumore secco poco lontano da lei e quando si girò sorprese il piccoletto, quello che le piaceva.

Fantastico. Che cosa ci fa anche lui qui?”

“Vattene di qui, subito. Se resti, verrai divorata da Cell e allora sarà la fine per tutti”.

Poi rimase zitto, con un’espressione alterata: “E non mi guardare così!”

Diciotto non si sentiva più padrona dei suoi nervi, che senza controllo la facevano muovere a scatti e sussultare. Era totalmente isterica, l’unica cosa che pensava era che non voleva credere di essere arrivata a quel punto: aveva sconfitto il dottor Gero, aveva riavuto la sua libertà. Non voleva morire, mangiata da un mostro poi!

Mentre lei era li’ impietrita ancora una volta, il ragazzo che li aveva attaccati al risveglio ora attaccava il mostro, calciandolo via ogni volta che lui cercava di fiondarsi su di lei.

E Diciotto vide anche Vegeta, che sembrava favorire Cell. La vendetta era un piatto che andava servito freddo, proprio lei ne era stata maestra; quel Vegeta che lei aveva umiliato ora avrebbe potuto vendicarsi di lei, lasciando che Cell la divorasse.

E lo fece.

Ma lei non riuscì più a pensare quando vide la Creatura dirigersi rapidissimamente verso di lei, con un sibilo acuto. Non ci furono parole per descrivere Crilin e Sedici che vennero immediatamente atterrati, né per l’angoscia che le esplose nel petto, per la luce accecante che a un certo punto le tolse ogni visuale.

Capendo che non aveva piu’ niente da perdere, in un impeto di rabbia Diciotto si lanciò contro la Creatura: “Sei un mostro!”

Calci e pugni non servirono a niente.

Non ci furono parole per la tenebra stretta che ad un certo punto l’avvolse come le spire di un serpente. L’ultima cosa che gli occhi di Diciotto, ancora accecati dalla luce, videro in un’agonia disperata era lei.

La donna bella dai lunghi capelli scuri. Il suo sorriso era bello, i suoi occhi ridenti come il resto del viso erano bellissimi. Le tendeva una mano; stringeva due bambini, maschio e femmina.

Due gemelli.

 

 

Pensieri dell’autrice:

 

Questo e’ stato un capitolo duro.

Queste due scene con Cell mi hanno traumatizzata quando ero piccola e mi riempiono tuttora di angoscia.

Condividero’ un aneddoto: da bambina pensavo che Cell nella prima forma avesse assorbito 17 trafiggendolo col pungiglione (e che il fatto che avesse fatto altrimenti con 18 riguardasse la trasformazione), perche’ non avevo visto la scena. La prima volta avevo sei anni e stavo guardando la puntata coi miei cugini piu’ grandi, ma intuendo che marcava male (i cyborg sono sempre stati i miei personaggi preferiti) a un certo punto mi son detta “no Maria, io esco” e me ne sono andata via, non riuscendo a sopportare di vedere la scena (salvo poi vedere mio cugino raggiungermi e gridare “Cell ha risucchiato C17!”. Fantastico, proprio quello che volevo sentire!). La scena con 18 mi aveva traumatizzata per il modo in cui urla :’( 17 sembra quasi infastidito nel doppiaggio italiano e nella versione originale, ma quello che dice qui quando Cell lo assorbe e’ preso dal doppiaggio americano e ho deciso di metterlo perche’ a parer mio era piu’ drammatico (mi ha fatto effetto vedere lui che quasi supplicava in quel modo, in contrasto al suo solito modo di essere).

Amo equalmente i due gemelli, ma in questa circostanza ho quasi odiato 18 per essere rimasta li’, dando 17 per spacciato. Ma sapendo che a lei importa da lui (una delle cose belle di Super, ci mostra di piu’ il loro legame) ho cercato di mettermi nei suoi panni e ho pensato che fosse perche’ era letteralmente impietrita. In questo caso, non posso giudicarla male. Se dovessi vedere una scena come quella svolgersi davanti ai miei occhi, anche la mia reazione sarebbe quella, probabilmente.

Cosa ne pensate?

 

Ps: I versi citati sono di “Last Breath” degli Ensiferum, la mia band preferita.

 

 

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Capitolo 8
*** Riscoprire una strada interminabile ***


 Un cielo azzurrissimo. Tanta tanta luce, Sembrava di essere più vicini al cielo da lì.

Quando Diciotto aprì gli occhi rimase sorpresa da tutto quell’azzurro; era il Paradiso?

Poteva anche darsi, ma allora lei che ci faceva lì?

Qualunque posto fosse stato, non si ricordava minimamente come ci fosse finita.

Discorsi e frasi arrivavano ovattati alle sue orecchie, i suoi sensi erano ancora in uno stato di torpore generale che Diciotto non riusciva a scrollarsi di dosso.

C’erano delle piccole mani protese sopra di lei; i suoi occhi non riuscivano bene a mettere a fuoco e non vide a chi appartenevano.

Ovunque guardasse c’era solo cielo.

All’improvviso si senti’ abbastanza bene per mettersi a sedere, quando si guardo’ intorno vide uno sterminato pavimento bianco, delle persone inginocchiate intorno a lei.

Le persone…il gruppo di nemici con Piccolo. E Crilin!

Diciotto scattò in piedi, studiando il nuovo ambiente con aria allarmata. Adesso ricordava.

L’ultima volta che aveva visto il piccoletto era stato quando lui aveva tentato di cacciarla via, prima che la Creatura le saltasse addosso e la inviluppasse nell’oscurità asfissiante da cui non si rendeva ancora conto di essere uscita.

Ebbe un ricordo improvviso di quel momento terribile e le viscere le si contrassero dolorosamente, mentre brividi di paura la scuotevano. Strizzo’ gli occhi fin quando il brutto ricordo svani’, per quella volta. Quando riuscì a tornare calma si rese conto che era viva, il suo corpo tutto intero: non avrebbe mai pensato che sarebbe stato ancora possibile.

E Diciassette? Perché lui non c’era?

La ragazza si muoveva a scatti guardandosi intorno, stava sulle difensive. Tanto per cambiare, la sua mente era annebbiata.

“Stai tranquilla, siamo al palazzo del Supremo, un posto sicuro. Son Gohan ha ucciso Cell, tu non devi più avere paura.”

A parlare era stato lui, il piccoletto. Le spiegò come il figlio undicenne di Son Goku avesse sconfitto la Creatura, ma Diciotto lo ascoltava distratta e confusa e non tenne a mente il nome dell’eroe che li aveva salvati tutti. Le venne fatto sapere che Son Goku, invece, era caduto in battaglia.

“Già, adesso non c’e’ nessuno al mondo piu’ forte di Gohan! Non ti conviene farci del male, né a te né all’altro!” le urlò contro uno del gruppo, un uomo coi capelli a spazzola che le pareva si chiamasse Yamcha. Si chiese dove avesse potuto sentirlo.

L’altro? Allora c’è anche Diciassette!” Diciotto si sentì invadere da una gioia vera.

Il piccoletto lanciò uno sguardo adirato a Yamcha e le raccontò tutto quello che era successo con Cell, rivelandole anche di come lui l’avesse soccorsa.

“Dovresti solo essergli grata: è merito suo se non sei morta durante la battaglia, e’ rimasto sempre al tuo fianco da quando Cell ti ha sputata fuori.” mormorò indignato Piccolo.

Diciotto non disse niente; non gliene importava.

 “Dov’è Diciassette? Cosa gli avete fatto?”

Crilin fece un cenno con la testa; Diciotto si scostò un poco e vide un ragazzino molto simile a Piccolo, un namecciano, che teneva le mani sospese sul corpo privo di sensi di suo fratello.

Diciotto corse al fianco del ragazzino e si inginocchiò precipitosamente: “Dimmi che è vivo!”

Parlava in fretta, col respiro corto.

Il ragazzino, il Supremo, le annuì mentre continuava a tenere le mani sospese in avanti. Le tolse all’improvviso, quando cielo incontro’ cielo: gli occhi azzurri di Diciassette si spalancarono e lui trasse un sospiro profondo, come se stesse facendo fatica a respirare. Si girò su un fianco, guardandosi attorno con la stessa aria di smarrimento che il gruppo aveva appena visto sul viso di sua sorella.

Quando il suo sguardò incontrò quello di Diciotto, entrambi si fissarono senza parlare.

Si guardavano mentre il loro discorso interiore cominciava a scorrere fluido e ricco, comprensibile a loro due soli.

Il Supremo si dileguò silenziosamente, rivolgendo alla coppia di gemelli un tenero sorriso che nessuno dei due colse.

Il discorso interiore continuò ininterrotto, fin quando le lacrime riempirono gli occhi di lei e la bocca di lui scoprì uno strepitoso sorriso; avrebbero potuto stringersi rotolando sul pavimento, ridendo e piangendo contemporaneamente, ma qualcosa che entrambi sapevano non essere gli sguardi dei nemici impedi’ loro di farlo.

Rimasero semplicemente a guardarsi a lungo, stupiti e sollevati nel vedersi vivi e vegeti.

“Diciassette, stai bene” iniziò lei, cancellandosi dal bel viso l’espressione che tradiva i suoi sentimenti piu’ profondi; ma si interruppe subito quando la volta celeste, da tersa che era, si fece minacciosa e buia.

“E adesso cosa succede?”

“Non lo so, vado a vedere. Stammi vicino.” Diciotto afferrò il gemello per una manica e se lo trascinò dietro, addocchiando un palazzo bianco; arrivarono ad una colonna e si nascosero lì dietro, cercando di vedere cosa stesse succedendo.

Il gruppo era raccolto intorno al giovane Supremo, che tendeva le mani verso qualcosa di luminoso posato ai suoi piedi.

“Che cos’è? Sembrano sassi” sussurrò Diciassette;

Lei guardò attentamente: “Sì, sono sette pietre luminose.”

Ciò che lasciò i due ragazzi con la bocca aperta e il naso in su fu un’enorme figura che si sprigionò da quelle pietre dalla forma sferica, innalzandosi verso il cielo e occupandolo in buona parte.

“Guarda! E’ un drago, tipo quelli delle stampe cinesi!” Diciassette indicò il cielo con un sorriso raggiante “che figata.”

La ragazza fissò ammaliata il luminoso animale, senza capire come mai si trovasse lì.

Qualcuno del gruppetto si era messo a parlare ma loro due erano troppo occupati a fissare il titanico drago per prestare attenzione alle loro parole. Parlavano con il drago!

I gemelli tesero l’orecchio alla voce di Crilin.

“Vorremmo riportare in vita tutte le vittime di Cell.”

Buona, un drago che esaudiva i desideri; c’è sempre tempo per stupirsi.

Diciotto pensò che se da umana le fosse capitato di incontrare una specie di genio della lampada versione animalesca, avrebbe voluto vestiti a volontà e un ragazzo degno di lei.

Pensando alla parola ragazzo si sentì frizzare il sangue. Ragazzo, compagno, qualcuno con cui condividere la propria vita. Un altro pensiero l’assalì.

Ad un certo punto Diciassette le diede un colpetto alla gamba: “Ascolta! Parlano di noi!”

“...Vorrei che tu potessi far tornare i cyborg 17 e 18 com’erano prima. Due esseri umani.”

Nonostante la distanza, la supervista dei cyborg permise loro di scorgere i luccichii che erano comparsi negli occhi scuri di Crilin, quando lui aveva espresso quella richiesta.

Diciotto trasalì, che razza di richiesta era? Entrambi volsero di nuovo lo sguardo al cielo, nel sentire una voce profondissima, più tonante di una tempesta.

Era il drago che parlava.

“Questa poi! Non ho parole…”

Diciotto non rispose al fratello, di parole non ne aveva nemmeno lei, il drago che parlava era l’ultimo della lista.

I due ragazzi tornarono a fissare Crilin, che aveva chinato la testa con un’espressione sconfitta.

“Il drago ha detto di no, vero?” Diciassette guardò negli occhi sua sorella. Aspettava la sua risposta con uno sguardo trepidante, che nutriva una speranza e un tormento.

Lei rimase stupita e si limitò ad annuire lievemente.

“Facciamo così allora!” il piccoletto aveva di nuovo alzato la testa “almeno questo fallo, per piacere. Potresti liberarli dall’esplosivo che hanno in corpo?”

Diciotto trattenne il fiato, Diciassette la guardo’ smarrito: “Che cosa?! Ma che sta dicendo?”

“La bomba, Diciassette…” la ragazza quasi lo ignorò. Sentiva il cuore in tumulto, era commossa.

Se solo Crilin avesse capito fino in fondo quello che stava chiedendo per loro!

“Mi dispiace, ma non ti seguo. Quale bomba, come…”

“SILENZIO.”

I gemelli rimasero a fissarsi, lui zittito, lei arrabbiata.

“Una volta avevo letto sugli appunti del dottore che nel nostro corpo c’è una bomba” gli spiegò lei “che può servire sia per attacco che per difesa.”

“Ah, scusami tanto se non me l’avevi detto.”

La voce cavernosa parlò di nuovo: “Questo posso farlo. Addio”.

Il drago finì di parlare e si dissolse in un’esplosione di luce, sparendo così com’era arrivato; istantaneamente il cielo ritornò azzurro.

“Non abbiamo più la bomba…” mormorò lei, tastandosi il petto, come alla ricerca di un rigonfiamento o di un peso che non aveva mai sentito, tranne che nel preciso momento in cui Crilin ne aveva fatto parola.

“Io mi sento come prima” le rispose lui “ho ignorato la sua presenza fino adesso.”

“Che strano.”

Diciassette che ignorava dettagli fondamentali perche’ era troppo occupato a pensare alle sue vaccate era qualcosa che davvero la soprendeva.

La mente di Diciotto era totalmente occupata da sentimenti che la mettevano tutta in subbuglio.

Grazie infinite…ti ringrazio tanto…”

Tenne quelle parole per sé, tornando ad ascoltare di nascosto i discorsi del gruppetto.

“Perché hai espresso il desiderio anche per Diciassette?” chiese l’uomo dai capelli a spazzola/Yamcha, guardando interrogativo Crilin.

Il piccoletto cambiò colore, Diciotto sentì chiaramente che la sua temperatura corporea e la pressione del suo sangue erano cambiate. Esattamente come i propri.

“Beh, a me piace Diciotto, ma per lei è più adatto Diciassette, no? Almeno sarà più felice insieme a lui...”

La ragazza sentì un verso strano e si girò verso Diciassette, che si spanciava dal ridere; lo guardò male e contorse la bocca.

“Ma l’hai sentito?! Oh, Diciotto, amore mio!”

Lei gli fece una smorfia. Non resistette più e uscì dal suo nascondiglio:

“Cretino!”

Il gruppetto si sorprese nel vederla balzare fuori all’improvviso.

“Io e Diciassette siamo fratelli gemelli!”

La ragazza restò per un po’ a guardare le facce lunghe dei presenti.

Sono proprio degli esseri limitati…” Diciassette aveva finito di ridere e, da dietro la colonna, era rimasto a guardare la scena.

“Beh comunque non ci sperare” proseguì lei, lanciata al galoppo “non me ne fregava niente dell’esplosivo che avevo in corpo, hai capito, testaccia?”

Diciotto cercò di calmarsi. Che scena della malavita stava facendo…però non poteva starsene zitta.

Continuava a rimuginare; perché per lei era così importante fargli sapere che non era impegnata?

Una persona con un minimo d’acume si sarebbe accorta che lei e Diciassette avevano la stessa faccia, pensò, ma come mai ci aveva tanto tenuto a spiegarglielo?

Troppa confusione.

Si voltò verso il “testaccia” e lo guardò.

Gli disse solo ci vediamo, prima di spiccare il volo lontano da lì.

 

 

“Potevi almeno aspettarmi, Diciotto, te ne sei andata via senza dire niente.”

I due gemelli volavano senza una meta.  Lei continuava a rimuginare, continuò fino a quando scesero a terra, sedendosi in un prato fiorito.

“Sorella...Non vorrei interromperti, ma dov’è Sedici? Non l’ho piu’ visto.”

L’ultima cosa che ricordava di lui era il suo scendere in campo e smembrare Cell.

Il resto dei ricordi che gli torno’ gli fece chiudere gli occhi all’improvviso, mentre sentiva un brivido lungo la schiena.

Diciotto si riscosse dai suoi pensieri e i suoi occhi s’incupirono mentre scosse la testa.

Guardò mestamente suo fratello, che a sua volta la fissava senza avere i giusti riferimenti per capire: “C’è qualcosa che io non so, Diciotto?”

“Sì, tante cose.”

“Allora andiamo con ordine” la rassicuro’, regalandole un sorriso “più importante, siamo vivi: io credevo che Cell ci avesse…”

Non riusciva a trovare le parole. Non sapeva cosa dire e la paura stava cominciando a salirgli.

 “Mi hanno raccontato tutto quelli là” disse Diciotto “Cell ci ha presi tutti e due: noi non ce lo ricordiamo perché eravamo come svenuti, ma eravamo vivi all’interno del suo corpo. Vivi e vegeti, tutti interi e perfettamente vitali.”

“Io mi ricordo.”

Diciassette seppe, allora, che tutto quello che pensava di essersi sognato mentre era stato intrappolato nel corpo di Cell era vero. Senti’ che anche Diciotto doveva aver visto la morte di Sedici. Una morte piena di onore, degna di come aveva vissuto. Era stato un androide di poche parole e di poche azioni, ma quelle poche parole e azioni sarebbero rimaste per sempre impresse nel cuore dei gemelli. Forse era a lui che il mondo doveva la vita: senza di lui Son Gohan non avrebbe mai raggiunto la trasformazione che gli aveva permesso di sconfiggere Cell, insieme a suo padre Son Goku.

“Ma se Crilin ha chiesto al drago di resuscitare chiunque sia stato ucciso da quel mostro, Sedici dev’essere da qualche parte. Voglio che tu venga con me a cercarlo.”

Il cyborg si era fermato a mezz’aria, le mani sulle spalle della sorella e gli occhi che non si davano pace, cercando di registrare i pensieri di lei.

“Non saprei, Sedici era completamente artificiale.”

“Ma scusa! Se è stato vittima di Cell, perche’ non dovrebbe essere tornato in vita? Vuoi dirmi che un fottuto drago resuscita-morti non puo’ resuscitare anche una macchina? Dai...”

Certo che Diciotto sarebbe andata con lui: Son Goku era morto, quindi per loro non c’era piu’ niente da cacciare. Ora potevano solo vivere liberi.

Avvistando un grande prato fiorito sotto di loro, Diciotto si fece seguire da suo fratello ed entrambi atterrarono, mettendosi comodi. Lei abbassò un attimo gli occhi e quando riprese a parlare la voce le tremava: “Diciassette…voglio chiederti scusa.”

Il ragazzo si ravviò i lunghi capelli: “Di cosa?”

Diciotto riuscì a inghiottire le lacrime: “Per non averti aiutato, quando Cell…”

Seduta fra le piante fragranti, la ragazza nascose il viso fra le ginocchia e lasciò che la voce tremasse senza controllo, mentre dei singhiozzi che non volevano uscire la scuotevano tutta.

“Perdonami Diciassette, ti prego; io non ho più capito niente…ed è stato orribile, io non sapevo cosa fare. Cos’hai provato?”

Diciassette fissò un punto indistinto all’orizzonte: “E’ indefinibile. È stato come morire.”

“Io prima mi sono sentita soffocare, poi non lo so.”

Sorvolò su quello che aveva appreso da Piccolo, su come Crilin l’avesse tenuta tra le sue braccia mentre davanti a loro infuriava la battaglia che si era conclusa con l’annientamento del piu’ terribile crimine prodotto dalla mente folle del dottor Gero. Quando tutto si era calmato l’intero gruppo -più loro due- si era trasferito nel posto in cui, poco dopo, i gemelli avevano ripreso conoscenza.

Diciassette le disse che credeva che si fossero sciolti o qualcosa di simile. Com’era possibile quello che sua sorella gli aveva appena raccontato? Non glielo chiese, ormai aveva perso il conto di tutte le cose impossibili che gli erano capitate.

Le disse anche qualcos’altro, che gli venne in mente quando ripensò a quello che aveva detto lei: “Se e’ vero che abbiamo visto e sentito tutto mentre eravamo prigionieri, allora e’ vero anche quello che abbiamo sognato?”

La ragazza non capiva.

“Mi ricordo del sacrificio di Sedici, della voce di Son Goku, e del fatto che sognavo sempre una ragazza. Non è quella che dici tu” Diciassette vinse sul tempo la sorella “una ragazza più o meno della nostra età: aveva dei bellissimi capelli rossi, si stringeva a me e mi abbracciava. Io la prendevo in braccio e la baciavo, eccetera.”

Diciotto vide suo fratello abbassare lo sguardo, imbarazzato, e cio’ la fece sorridere: “Quindi?”

“Quindi vorrei che tu mi aiutassi, oltre a Sedici voglio cercare anche lei: era così vero come sogno, io sentivo di volere tantissimo bene a questa ragazza, il suo corpo non mi era estraneo, come se davvero io con lei avessi...come se l’avessi conosciuta.”

La cyborg cerco’ di non ridere, intuendo quello che lui aveva voluto dire: “Hai detto che era rossa”.

“Sì.”

“Sicuro che non fosse Sedici?”

Diciassette si alterò: “Ti sembra che ci sia da scherzare?”

Magari era una che Diciassette conosceva da umano.

“…devo trovarla. Se l’avessi qui, in questo momento, la prenderei fra le mie braccia e non la lascerei piu’” Diciassette scrutò il cielo con aria sognante “se da umano la conoscevo, chiunque fosse, è stata qualcosa che mi ha salvato in un posto dove la salvezza non c’era.”

“Guarda che sei un cyborg, non una ragazzina con gli ormoni in tempesta.”

Poi fu lei ad abbassare lo sguardo: “Comunque non me lo scorderò mai, Sedici: spero che tu abbia ragione e che un giorno ci ritroveremo, tutti e tre.”


 

/

L’annuncio che la situazione Cell era finita era stato diffuso da ogni stazione radio, ogni canale televisivo, era su tutti i social network, su tutti i giornali, c’erano stato fuochi d’artificio e feste in tutto il Paese. Ora molti canali mostravano in tempo reale il campione del mondo Mr. Satan mentre rilasciava interviste, faceva Q&A con i fan, firmava foto. Quello, un esperto di arti marziali, era l’eroe che aveva sconfitto Cell, un pazzo di cui nessuno riusciva a capire l’identita’.

“Sara’ che sono sempre io a sospettare tutto, ma c’e’ qualcosa che non mi convince di lui. Non sembra provato da una battaglia come dev’essere stata quella contro quel tizio, Cell. Chiamare Orange City come lui, addirittura!”

Gage se la rideva: si rifiutava di adorare Mr. Satan e di spendere soldi per andare alla nuovamente battezzata Satan City, a schiacciarsi contro i cancelli del villone di Mr. Satan, nella speranza che la star sapesse che lui esisteva. Ridendo e scherzando, fra quelli che erano tornati a casa durante i Cell Games per stare con le loro famiglie e quelli che ora avevano intrapreso il viaggio della speranza per incontrare l’eroe, il campus era quasi vuoto.

Lui si era, come al solito, limitato a videochiamate e telefonate con la sua famiglia a East City:

visto che si stava per laureare, voleva passare con Carly tutto il tempo che poteva. Lei era tornata a Central City una volta sola, per fare un saluto a suo padre e assistere insieme a lui all’inaugurazione del monumento ai caduti.

Per tutto il tempo che avevano avuto a disposizione, le era piaciuto passare il tempo con Gage. Si era rivelato un tipo alla mano, facile da impressionare e che pendeva dalle sue labbra; risvegliava in Carly una compassione distante che, a volte, lei confondeva con la pieta’.

Gage avrebbe potuto essere.

Lui era stato implacabile fin dal giorno in cui si erano incrociati per la prima volta al poligono di tiro; lei per un po’ di tempo era stata indecisa.

Una cena qui, quasi un bacio li’, Carly finiva sempre per tirarsi indietro quando si doveva passare ai fatti. Non ci riusciva.

E Gage era un ragazzo cosi’ dolce; Carly sapeva che paragonarlo all’altro che se n’era andato era un errore madornale. Era sbagliato, terribilmente ingiusto.

Era inutile paragonare Gage dalla voce pacata al vivace Lapis; le belle braccia robuste di Gage e la varieta’ di sorrisi e sorrisetti sexy di Lapis, il marrone profondo e l’azzurro acceso dei loro occhi.

Non c’entravano niente l’uno con l’altro, ma la mente di Carly era marchiata a fuoco.

Stava cominciando a credere che avrebbe condotto una vita solitaria, con la forza dell’abitudine quell’idea di tranquillita’ cominciva a piacerle.

Ma poi, in pratica, eccome se Carly paragonava la maniera di baciare di Gage -tenera, ma ancora un po’ grezza- alla bocca morbida di Lapis, alla sua presa esperta quando la schiacciava in modo eccitante contro di lui.

Ovunque Lapis fosse ora, lei non poteva seguirlo. Era inutile cristallizzarsi su un capitolo della sua vita che era finito in modo cosi’ tragico, in una maniera che andava totalmente al di la’ del suo controllo, delle sue scelte.

Carly poteva pure fare finta che nulla in vita sua fosse andato terribilmente storto; pero’ il dolore della perdita e la nostalgia erano state enormi quando Gage, nell’intimita’ della sua stanza nel campus, si era tolto la maglia mentre si beveva con gli occhi le curve di Carly, spogliandola della sua biancheria semplice con uno sguardo che riluceva di emozione.

Quando si erano distesi, Carly aveva sussurrato scuse sincere mentre si immaginava ancora una volta il corpo di Lapis penetrare il suo.

“Io non ci riesco, Gage. Non riesco a dimenticare.”

Gage l’aveva implorata di parlare con lui, di lasciare che l’aiutasse. Mentre lei si era rivestita, dandogli le spalle, Gage le disse che l’amava; l’amava come non aveva mai amato nessuna, ma non poteva garantirle che avrebbe avuto la possibilita’ di aspettarla per sempre.

Cosi’ l’aveva guardata rivestire quella pelle eterea che lui non avrebbe mai assaporato, guardandola fra lacrime che non aveva versato mentre lei lasciava la stanza.


 

Gage era restato. Anche se sapeva che Carly non poteva dare di piu’, ci aveva provato ed era ormai determinato a trarre gioia da ogni piccola briciola di lei che riusciva ad accaparrarsi: il brillio dei suoi capelli color carota, parlare delle loro rispettive lauree e future carriere, la presenza di Carly alla discussione finale della sua tesi. Erano piccole pillole di felicita’ per Gage, cambiavano la sua giornata.

Dal canto suo Gage era diventato, durante quell’anno, l’ancora che aveva tenuto Carly attaccata alla realta’, salvandola. Non passava giorno senza che lei si sentisse in colpa per non aver potuto ricambiare i sentimenti di un ragazzo come lui.

Ebbe pero’ l’occasione di capire quanto Gage fosse comunque importante per lei un pomeriggio, mentre erano seduti a pranzare nella mensa dell’universita’.

Al fischiare beffardo dei suoi conoscenti, gli stessi con cui era andato al poligono quel pomeriggio, Gage abbassò gli occhi per l'umiliazione.

“Fa’ finta di non sentirli.”

Carly gli mise protettivamente un braccio sulla schiena, mentre origliava con attenzione i discorsi del gruppetto seduto al tavolo dietro al loro:

"Che sfigato, è un anno che le va dietro e non se l'è ancora portata a letto."

 "A letto? Non ha manco visto di striscio quei bazooka. Ma forse io potrei…"

Gage sussultò quando Carly sbattè con rabbia una mano sul tavolo; vide lo sguardo nei suoi occhi passare dalla pazienza alla furia assoluta e guardò con confusione e ansia mentre lei si girava e iniziava a camminare verso l'altro tavolo, un'aria di superiorità sulla sua fronte corrugata.

E poi le persone nella mensa assistettero a una scena incredibile: una giovane donna minuta che si avvicinava a un tavolo dove sedevano tre giovanotti che ridevano e le fischiavano dietro mentre lei puntava i piedi davanti al più grosso, un bestione di almeno cento kg, tanto grosso quanto Gage.

“Questo è da parte di una persona troppo gentile per farlo.”

Tutti la guardarono flettere il braccio e poi colpire il bestione in viso con un gancio amatoriale, ma efficace. Gli altri due smisero di ridere mentre il loro compare grugniva dal dolore tenendosi la mascella, accasciato sulla sua sedia. La gente applaudì e fischiò.

Altre ragazze a cui lo stesso scimmione aveva mancato di rispetto gridarono "vai così, sorella!" mentre Carly passava, andandosi a riprendere il suo posto vicino a Gage.

Gage era quasi ipnotizzato dalla gente che stava ancora facendo cori da stadio: "K.O., K.O.!"

Quasi non si accorse che il suo prode cavaliere si era seduto di nuovo vicino a lui, mentre scuoteva la mano per il dolore.

“Ti sei fatta male per colpa mia.” Gage si sentì ancora più giù, mentre le accarezzava la mano. Non era rotta, ma lui vide alcune macchie rosse, il cui colore sembrava livido sulla pelle bianchissima di Carly.

E adesso, ancora sanguinante per via del pugno, il bestione stava venendo da loro. Carly colpì di nuovo il tavolo, mentre Gage si alzò per affrontarlo.

“Cagasotto di un Gage! Hai problemi con noi e mandi lei?”

Carly non poté fare a meno di urlargli che era stata una sua decisione, i due uomini finirono lo stesso per risolvere la questione con una botta ciascuno, poi smettendola spontaneamente. Dopotutto non erano più al liceo.

Pochi giorni dopo, il torace di Gage era ancora viola e dolorante per la botta che aveva ricevuto dall'altro ragazzo.

“Che figura di merda, Gage...”

“Quel gancio sinistro non era poi così male. Non sapevo che fossi capace di pestare. Voglio dire, sei un cecchino ma continui a sorprendermi.”

La fece sorridere: “Mi è stato insegnato.”

“Da chi? In questo caso, potrei farmi dare qualche consiglio.”

“Qualcuno che conoscevo.”

Gli occhi di Carly si fecero di nuovo tristi. Erano seduti su una panchina all'interno del campus, guardando da lontano il ghiacciaio Grande Eden e i terreni del RNP, sotto di esso.

Se non fosse stato per la lotta che aveva provocato, Carly avrebbe trascorso la giornata a fare passeggiate nel RNP con Gage come avevano pianificato da tempo, e Gage non avrebbe gemito di dolore ogni volta che respirava.

Si vergognava molto di se stessa: “Non potevo non fare nulla. Non sopporto che ti trattino così.”

Gage si voltò verso di lei con un sospiro malinconico: “Ti ringrazio infinitamente per il tuo aiuto. Ma tutto questo, perderci la nostra giornata fuori, essere ridotto in questo stato, è successo perché io sono uno smidollato. Cosa ti è passato per la testa, speravi di metterlo K.O.?”

Carly sapeva di non poter mettere fuori combattimento un tipo di quelle dimensioni con la sua scarsa esperienza in combattimento, ma almeno era contenta di essere riuscita a fargli male.

“No, no Gage. È una questione molto più profonda. C'entro solo io.”

Carly voleva sempre fare qualcosa di buono per le persone a cui teneva. Ogni piccola buona azione nei loro confronti contava, per renderli felici, per ricordarsi quanto loro fossero importanti.

“Perché hai voluto difendermi?”

E così, spontaneamente, Carly gli disse tutto d'un fiato quello aveva iniziato ad approcciare, ma che non aveva mai finito, quella volta che era fuggita dalla camera da letto.

“Perché mi importa di te, anche se non posso darti quello che cerchi. Quando hai a cuore qualcuno e vuoi che lo sappiano devi agire subito, farlo adesso, senza aspettare domani. Perchè queste persone non saranno lì per sempre, il tuo tempo è limitato.

Un giorno sono lì e conti di passare la tua vita con loro, vuoi fare o dire qualcosa di carino solo per ricordare quanto li ami. E finisci per procrastinare, pensando di avere ancora molti giorni per farlo. Ma poi, ti giri un secondo e loro non ci sono più. Li hai visti solo il giorno prima e forse ci hai pure litigato: e quando se ne sono andati e basta, non puoi più rimediare a nulla. Non hai più la possibilità di dire loro che li ami. Se ne vanno troppo presto. Per sempre.”

La sua voce si spezzò, cercò di reprimere un singhiozzo.

Quando Carly aveva iniziato a parlare dell'amore della sua vita i suoi occhi si erano riempiti di lacrime, e non aveva potuto continuare. Gage capì una volta per tutte che non poteva farci niente, Carly non sarebbe mai stata sua. 

Era stata innamorata, una volta, poi l'aveva perso; aveva lasciato implicito che lui ora era morto. Questo la precludeva a lui: Gage si era detto che avrebbe potuto competere con qualcuno di più intelligente, di più virile, di più bello, di più simpatico. Chiunque il suo rivale in amore fosse stato, avrebbe potuto ragionare con una persona in carne ed ossa.

Ma con un morto, non poteva competere. Era un'entità perfetta, idealizzata. Probabilmente Carly continuava a rivivere in loop tutti i suoi ricordi con lui e Gage non aveva nessuna chance contro quello lì.

Paradossalmente quel giorno Gage trovò pace, apprendendo finalmente la verità dietro all'incapacità di Carly di amarlo.

E la lasciò andare. Liberò il suo cuore da un peso opprimente. Rinunciò a lei, all'impossibile.

 Quando per lui venne il momento di ritornare a East City, dopo la laurea, decise di dire addio a Carly. Sapeva che a lungo andare, per lui sarebbe stata una sofferenza insopportabile continuare a vedersi davanti quella che per lui era la ragazza piu’ bella del mondo, cosi’ vicina ma completamente inarrivabile.

Nel momento dell’addio si erano dati un lungo abbraccio, augurandosi una lunga vita felice. Una vita che non avrebbe piu’ incluso l’uno o l’altra.


 


 


 

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Capitolo 9
*** "Donne per il Futuro" ***



 

Erano passate settimane da quando avevano lasciato il piccoletto e gli altri al palazzo del Supremo.

Diciassette e Diciotto vagavano fra campi senza confini, gialli di grano maturo. Lui era chiuso in  se stesso e quasi non parlava.

Si sentiva afflitto; i ricordi dei sogni che l’avevano accompagnato durante l’orribile oblio della Creatura continuavano a riaffiorargli davanti agli occhi. Man mano che il tempo passava, l’immagine della ragazza dai capelli rossi diventava sempre più indimenticabile.

Chissà chi era; un antico ricordo umano, o il frutto di immaginazione e solitudine?

Si ritrovò a desiderarla appassionatamente, mentre nello stesso tempo si chiedeva se potesse essere possibile amare qualcosa di inesistente.

Continuava domandarsi se davvero avesse conosciuto la tenerezza di quel corpo, la radiosità di quel viso di cui non ricordava i tratti. Non ricordava più il suo nome ne’ il contesto che li aveva uniti.

Dannazione, era tutto così indefinito! Reale o meno, l’aveva persa. Tutto quello che gli rimaneva di lei era solo un sogno.

Vivido, sì, ma pur sempre un sogno.

Che brutto castigo gli aveva inflitto Gero, quanto avrebbe voluto ricordarsi. O avere un drago parlante a cui chiedere di farlo per lui.

Anche Diciotto pensava sempre. Ignorava chi fosse la ragazza di cui Diciassette le aveva parlato e si sentiva quasi gelosa, in quei momenti il gemello non aveva pensato a lei.

Si era ritrovata spesso a sentire in lontananza quella voce estremamente piacevole, evocatrice di chissà quali memorie. Il sogno iniziava sempre così, con lei seduta su qualcuno: al suo fianco c’era un bambino di massimo quattro anni, che lei poteva vedere in dettaglio.

Era bambino splendido: sui suoi begli zigomi c’erano delle efelidi, come se avesse passato molto tempo a giocare fuori sotto il sole, gli occhi stretti e allungati erano di un insolito azzurro, carico e chiaro, che raramente si vedeva accompagnato a capelli color nero puro.

Guardava nella sua direzione e sorrideva a lei, svelando fossette sulle guance; poi la voce che tanto le piaceva iniziava a cantare una ninna nanna e lei alzava la testa seguendo il suono… E allora la vedeva: la bella donna, che cantava e intanto con un braccio la stringeva a sé. Non ricordava il canto e nemmeno la melodia.

La bella donna dai connotati quasi identici a quelli del bambino sulle sue ginocchia; a Diciotto pareva di ricordare la sua voce da sempre, anche se non riusciva ad associarla alla persona. L’aspetto della donna non le diceva nulla, a parte un’eccezionale somiglianza con Diciassette.

Poi la scena cambiava di colpo e lei diveniva spettatrice: la bella donna che cullava due bambini, il maschio dai lineamenti dipinti e una femmina dai capelli quasi bianchi.

Sembravano tanto lei e Diciassette.

Quando i bambini si addormentavano la donna smetteva di cantare e protendeva un braccio verso di lei, come per afferrarle una mano.

Il sogno si interrompeva sempre lì, sul sorriso soave di quella fata meravigliosa, riempiendo Diciotto di malinconia ogni volta.

Era una scena estrapolata dal nulla, di primo acchito non c’entrava niente con lei; tuttavia la sentiva come sua, la voce della donna aveva un potere quasi ipnotico sui suoi sensi. Diciotto avrebbe affermato volentieri che fosse stato il primo suono che aveva sentito da quando il suo cervello aveva iniziato a funzionare.

Probabilmente Diciotto non l’aveva mai conosciuta, ma le sembrava quasi di provare una profondissima nostalgia per lei.

Ogni volta che guardava Diciassette pensava che fosse l’unico che conosceva ad avere le fossette e una combinazione di colori così inusuale; inevitabilmente le tornavano in mente la donna e soprattutto il bambino stretto a lei.

Tutto questo la frastornava. Era come un ricordo lontanissimo, talmente distante che non riusciva a collegarlo a qualcosa di concreto.

Se poi aggiungeva il pensiero del piccoletto, avrebbe preferito spararsi se avesse potuto.

Diciassette aveva detto che amava la ragazza dai capelli rossi, era possibile che lei amasse quel ragazzo?

Ogni volta che pensava a lui si sentiva tremare, come se avesse appena visto lo spettacolo più bello e toccante che la natura avesse mai offerto. E chissa’ perche’: bello di certo non era. Forte, neppure se paragonato a lei. Eppure qualcosa di Crilin l’attirava innegabilmente, forse il suo essere diverso. Sembrava che la sua vita non girasse intorno al lottare, nonostante sapesse farlo. Sembrava un tipo dal cuore puro, pronto a rischiare la pelle per le persone a cui teneva. Anche se lui sapeva che i Cell Games non erano posto per lui, era restato a fianco dei saiyan. Degli amici di una vita.

Anche se non ricordava niente riguardo alla sua vita amorosa, Diciotto sentiva che non aveva mai trovato nessuno che potesse darle la serenita’ vera che sentiva di volere, soprattutto in un momento in cui si sentiva ancora persa. Forse si rese conto che dopo aver toccato la morte con un dito, vivere con una persona capace di tranquillizzarla avrebbe potuto essere la sua redenzione.

Aveva avuto cosi’ tanta fortuna a essere ancora li’ dopo tutto quello che aveva passato, fra Gero e Cell: la vita non andava sprecata. E certe occasioni capitavano una volta sola.


 

Così i gemelli passavano la maggior parte dei loro momenti e per la prima volta lo fecero ognuno per sé.

“Senti, Diciassette, volevo dirti una cosa. Una cosa grossa.”

Diciotto si prese il suo tempo: “Pensi che ci sia un futuro per me? Con qualcuno?”

“Con il nano da giardino, dici? Ma guarda che sei gia’ impegnata con me.”

“Non ti azzardare a prenderlo in giro!”

Il ragazzo si passò vanitosamente una mano fra i capelli: “Secondo me se passi un dito su quella pelata fa gneek gneek, tipo vetro appena pulito.”

Diciotto gli afferrò una ciocca di capelli e la tirò con forza, ignorando le sue proteste. Ecco a cosa servivano i capelli lunghi come i suoi. Quando mai aveva pulito un vetro, quello li’.

Lei stessa si stupì di quello che le era appena uscito di bocca. Spiegò al fratello che credeva di provare per quello strano ragazzo la stessa cosa che lui provava per la rossa.

“Capisco” disse lui “quindi ci separeremo.”

Il respiro di Diciotto si fece trepidante: “No, in quell’eventualita’ vivremmo solo in case diverse; ricordati che tu sei la cosa piu’ importante che ho.”

Forse era arrivato il momento che ognuno prendesse la propria strada. Dopotutto, come già lei aveva precisato, si sarebbe solo trattato di vivere in due case diverse.

“Sai, penso di avere un obiettivo: io non so cosa sarà adesso della nostra vita, ma so che sono andata troppo vicina alla morte; non voglio più averci a che fare, sia come vittima che come assassina.”

Diciotto si senti’ soffocare nel ricordare il momento in cui la morte aveva avanzato verso di lei, con le sembianze di un essere enorme, dalla pelle screziata:

“Io credo che Crilin abbia qualcosa da offrirmi. Non vedi com’e’ pieno di qualita’ che noi non abbiamo, com’e’ diverso da noi? Forse potro’ vivere in pace se scelgo di dargli una chance. Non potrei fare niente di quello che facevo prima, qualsiasi cosa esso sia, non dopo aver quasi passato il limite. Mi capisci?”

Diciassette la intendeva alla perfezione. Anche se non l’aveva ancora espresso, nemmeno concettualmente, era chiaro che anche lui non avrebbe mai più perseguito l’obiettivo per cui il dottor Gero l’aveva convertito in una macchina.

Anche lui aveva un suo obiettivo. Lei e Sedici, li avrebbe trovati.

“Sono stanca di starmene qui fra i campi come una mondina” disse lei con un sorriso “ci troviamo una citta’ in cui fare un giro?”

“D’accordo. Adesso che ci penso è un’eternità che non mangio, ho un certo languorino.”

Diciassette rispose distrattamente, scrutando il cielo. Credeva di aver udito il rumore di qualcosa che volava: “Cos’era quello, hai sentito? Lassu’.”

Diciotto guardo’ fra le nuvole, dove suo fratello le stava indicando. Era irritante non poter percepire le aure come facevano Crilin, Vegeta, Piccolo…

Ma non potevano rimediare a quel difetto, per cui restarono per un po’ a guardare il cielo sereno decorato da cumuli bianchi come cotone, densi e corposi, senza mai sapere se qualcosa o qualcuno fosse appena passato di la’.


 

/

Si era risvegliato con il sole che batteva sulla sua tuta pesante, riscaldandola. Era una giornata perfetta di sole, luminosa, ventidue gradi, pressione alta. Anche se i suoi sensori gli aveva detto tutto quello che doveva sapere sull’ambiente intorno a lu, gli era piaciuto rendersi conto del calore del sole sulla massa del suo corpo supino.

Il grande ring di pietra bianca non c’era piu’: quella che era stata una bella prateria fuori da Central City era ora terra morta, una terra di nessuno profanata da enormi voragini e costellata da rupi ridotte a mucchi di sassi. Non c’era piu’ vita li’ intorno.

I sensori ottici e gli scanner gli avevano detto che era funzionante, “vivo”. Il suo ultimo ricordo era del piede. Il piede che lo schiacciava e prima di cio’ il proprio sorriso consapevole, con cui aveva abbracciato la fine.

Non seppe dove trovare Son Goku, non riusciva a percepire la sua aura da nessuna parte. Avrebbe dovuto ricominciare la sua ricerca da capo, anche se sapeva che l’obiettivo del dottor Gero ormai non lo riguardava piu’. Non dopo tutto quella che aveva vissuto. Avere e ricordare dei vissuti era straordinario per lui che non avrebbe dovuto vivere, ma solamente dormire in una capsula come spetta a chi si vede dare l’etichetta di fallimento completo, la meno complessa fra le ragioni che la mente di quello scienziato folle aveva celato.

Poi erano arrivati loro, un ragazzino impertinente con la malizia incisa nello sguardo e una ragazzina altera, ma fragile nella sua pelle indistruttibile.

I numeri 17 e 18 gli avevano dato la possibilita’ di sperimentare cio’ che per gli umani – o anche per dei cyborg- si chiamava vita, ma che per lui era semplicemente essere attivo.

Li aveva visti morire. Prima Diciassette, poi Diciotto. Aveva tentato di tutto per proteggerli, ma non era bastato.

In seguito lui era stato portato da Crilin ai quartieri generali della Capsule Corp., dove il dottor Brief e sua figlia Bulma lo avevano riparato. Guardando la sua tuta si accorse che il simbolo della Capsule era ancora appiccicato sopra quello del Red Ribbon. Era riapparso sulla Terra ancora meglio di come l’aveva lasciata, di nuovo com’era stato prima che Cell lo distruggesse con un ki blast.

Era questa la cosa piu’ strana, che i suoi circuiti non registravano. Ed essendo i Brief un altro ricordo ancora miracolosamente intatto nel suo processore, decise che quello era il punto da cui doveva ripartire. Dopotutto, se loro erano stati in grado di ripararlo avrebbero anche potuto spiegargli com’era possibile che fosse di nuovo al mondo.

Le nuvole correvano veloci nel cielo sopra di lui, una profondissima quiete lo invase.

Sedici si libro’ in aria, volando veloce in direzione di West City; l’urgenza gli fece dimenticare, per quella volta, di ammirare il panorama.


 


 

Il dottor Brief sedeva nel salotto della sua grande casa, guardando cartoni in compagnia del suo nipotino. Bulma era a cena fuori, in citta’; si stava godendo un po’ di pace con suo marito, tornato a casa di recente dopo la battaglia con Cell, vivo per miracolo.

Quando un tintinnio giunse alle orecchie del bambino, scatendando la sua curiosita’, il dottor Brief dovette sforzarsi per tenerlo fermo. Era molto piccolo, ma sembrava gia’ decisamente piu’ forte di quanto sua figlia fosse stata a quell’eta’:

“Oh Trunks, hai sentito? Suonano alla porta.”

Il dottor Brief serro’ il bambino in una stretta sicura mentre si avviava nell’ingresso della villa, prima di sbirciare nello schermo del citofono:

“N.16! Come mai qui? Entra pure.”

L’androide dovette chinarsi per passare dalla porta.

“Ah-tah!”

Il piccolo Trunks saluto’ il nuovo ospite con un’espressione assolutamente seria, alzando in aria un braccino morbido come se volesse dargli il cinque.

Sedici si limito’ a sorridere a Trunks, senza perdere altro tempo in preamboli ansiosi:

“Cell mi ha distrutto. Mi sono svegliato sul luogo dei Cell Games. Funziono ancora.”


 

Da quella volta in cui il dottor Brief lo invito’ a entrare in casa, Sedici resto’ con loro. La famiglia lo incoraggio’ a rimanere; non aveva nessun posto dove andare, per di piu’ avevano gia’ appurato che il gigante era innocuo per loro, anche se per precauzione il dottore e sua figlia lo riesaminarono. Non trovarono la bomba che loro stessi avevano tolto; Sedici era tornato in vita nello stesso formato in cui loro l’avevano lasciato.

Gli scenziati gli avevano detto che Son Gohan aveva ucciso Cell; dopodiche’, uno dei loro amici doveva aver espresso un desiderio al drago Shenron, un desiderio che aveva riportato in vita tutte le vittime del mostro.

Sedici era stato una vittima di Cell. Per un momento spero’ che quello significasse che anche Diciassette e Diciotto erano vivi, ma poi si ricordo’ che loro due non erano semplici vittime della Creatura: nel momento in cui erano state vittime di Cell, erano diventati Cell. E se il mostro era stato distrutto, anche i suoi amici se n’erano andati con lui.

Il pensiero rattristo’ Sedici. Senti’ la tristezza in lui, se non nel cuore in qualche altro posto indefinito.

In quella enorme casa, l’androide aveva tutta la quiete che poteva desiderare. C’era anche un giardino altrettanto enorme, in cui lui amava restare seduto a guardare il cielo e ad osservare gli animali. Visto che era capace di stare fermo per ore, gli uccelli di citta’ -picccioni, passeri, merli, corvi- si appollaiavano sul suo grosso corpo.

Anche il gatto di casa era ritornato a trovarlo, ricordandosi di lui. Si acciambellava nella sua mano con la coda che spenzolava giu’.

Sedici pensava che quella fosse la quintessenza della gioia di essere al mondo.

Un giorno si era voluto avventurare fuori dai confini di casa Brief e aveva trovato un giardino in citta’. Era stato incuriosito da alcuni cigni che aveva visto scivolare con grazia sullo specchio d’acqua in cui della gente remava su piccole barche. Era entrato fino alla vita nell’acqua per accarezzare quegli animali totalmente nuovi per lui, candidi e aggraziati ma gracchianti e pronti a morderlo. Il custode del giardino si era sgolato nel tentativo di chiedergli di uscire dal laghetto; poi era arrivata la polizia che l’aveva portato in centrale, con la scusa di non aver obbedito agli agenti che gli avevano ordinato di raggiungerli sulla riva. I cigni non si potevano toccare, era vietato.

Gli agenti erano rimasti perplessi dal suo nome e a Bulma era toccato andare a ripescarlo, scusandosi imbarazzata da quel testardo vagabondo:

Il cugino di mio marito non e’ di qui, mi dispiace!”

Nessun problema, dottoressa Brief!”

Vegeta era irritato dalla presenza dell’androide in casa sua: quello era il suo territorio, il posto in cui viveva con sua moglie e suo figlio. Un posto in cui i nemici non erano i benvenuti. Da quando sua moglie e i suoi suoceri avevano invitato l’uomo di latta a restare, lui aveva passato ancora piu’ tempo ad allenarsi da solo.

Sedici non aveva bisogno della compagnia dei Brief. Quando non era in giardino se ne stava tranquillo nel laboratorio del vecchio scienziato. A volte anche il bambino della casa gattonava verso di lui e si attaccava a una delle sue possenti gambe, osservandolo con un misto di meraviglia e divertimento come se capisse che Sedici era speciale, diverso da tutti gli altri adulti a cui si era abituato.

Apprendeva le abitudini degli umani osservando lo stile di vita dei Brief. Di sera, una volta che il bambino era stato coricato il dottore e la moglie si ritiravano in camera da letto e la dottoressa amava leggere mentre seguiva alla tele un podcast, Donne per il Futuro.

Un’abitudine che Vegeta non approvava:

“Perche’ metti sempre queste boiate? E io quando me lo guardo un film?”

“Avresti tutto il tempo. Non e’ una stupidata, e’ quel podcast a cui sono stata invitata anche io.”

Essendo una delle menti piu’ eccelse del suo tempo, CEO della Capsule Corp e ancora piuttosto giovane, Bulma Brief era stata subito invitata dai produttori del podcast a ispirare altre menti brillanti a fare la differenza nel mondo. Aveva raccontato delle sue invenzioni e gli ascolti erano saliti alle stelle dopo che lei aveva rivelato che il progetto dei suoi sogni era costruire una macchina del tempo, quella volta in cui l’avevano chiamata per discutere della situazione Cell: ormai quasi tutti sulla Terra sapevano che costui era stato un efferato terrorista, ma volevano capire che armi aveva usato per compiere massacri di quella portata. Sembrava essere stato a conoscenza di tecnologia superiore a quella delle milizie reali.

Bulma era quasi andata in panico nel trovarsi a dover fornire su due piedi una spiegazione che i terrestri avrebbero potuto credere.

Dopo di lei erano state intervistate altre donne, ogni sera c’era un profilo diverso, da ragazzine prodigio a attrici e soldatesse. L’ultima era stata la giovane figlia del campione del mondo che aveva confessato a quel microfono tutta la sua determinazione nel seguire le orme del padre, una determinazione che la stava gia’ rendendo una promessa nel campo delle arti marziali.

“Poveraccia, tutta fuffa, tutte illusioni. E se andassi io a dire a quella mocciosetta che suo padre e’ una truffa immane? Che ne sanno i Satan di allenamento, di arti marziali, che ne sa il mondo!”

Dall’episodio con la figlia di Mr. Satan Vegeta non aveva piu’ sopportato quel programma fatto per entusiasmare terrestri senza vera forza e ogni volta che Bulma lo guardava, lui se ne andava con uno schiocco della lingua. Bulma non ci faceva caso: se lui era il Principe dei Saiyan, quella era casa sua. Una che lavorava duro come lei aveva ben il diritto di guardarsi quello che le pareva e piaceva, a fine giornata.

Una sera capito’ che Vegeta non riuscisse a evitare di vedere un pezzettino di podcast prima di battere la fiacca.

Chiamo’ Bulma con voce arrabbiata: “Che ci fa quella li’ nel podcast? Quella dannata di una cyborg.”

Tutta la famiglia corse a vedere. Bulma e i suoi genitori stettero a guardare senza riuscire a rispondergli. L’episodio di quella sera coinvolgeva un’altra CEO, a capo di una rete di centri antiviolenza nel distretto di Central City.

“Guardala! Dimmi se non e’ quella gran troia.”

Quando Bulma arrivo’ nella stanza e osservo’ il televisore, vide una donna vestita con classe, che ogni tanto mentre parlava si lasciava scappare qualche sorriso che marcava due fossette sulle guance. I suoi occhi colpivano come pugnali, e non solo per il colore che bucava lo schermo con la sua trasparenza d'acquamarina; sembravano spaventati ma anche temprati e forti, come se lei avesse fatto la guerra.

Anche se Bulma non aveva mai visto i due cyborg e non poteva fare paragoni, il profilo della CEO era troppo diverso da quello di un’assassina ciberneticamente rinforzata. E poi da quello che lei sapeva, i cyborg erano molto piu’ giovani di quanto quell’imprenditrice apparisse.

Se invece fosse stata proprio n. 18, Bulma riusciva a capire come mai Crilin avesse completamente perso la testa: quella donna irradiava una forza d’animo fuori dal comune, tuttavia riuscendo anche a sembrare vulnerabile, quel genere di vulnerabilita’ che faceva inconsciamente cadere in ginocchio molti uomini terrestri. L’illusione perfetta.

Ebbe la saggia idea di svelare l’arcano portando n.16 di fronte alla tele, proprio nel momento in cui la telecamera inquadrava la donna con un primo piano.

Sedici osservo’ il suo familiare viso a cuore, i suoi familiari occhi dal taglio allungato. L’androide registro’ l’immagine dei suoi capelli ben pettinati e dei suoi zigomi tesi. I suoi scanner gli comunicarono le proporzioni del viso della donna, matematicamente molto simile a quello della sua defunta amica, che il suo processore gli fece ricordare:

“Questa donna non e’ n. 18.”

Il saiyan, che fino a quel momento aveva troneggiato sulla poltrona inveendo contro lo schermo, si alzo’ e spintono’ l’androide: “Osi dire che sono stupido? Quella e’ la tua piccola, preziosa cyborg: credi che non la riconoscerei, anche se quando l’ho incrociata i suoi capelli erano biondi?”

Se e’ cosi’ allora voglio sapere in che salone e’ andata.”

Bulma ridacchio’ fra se’ pensando che i capelli di quella donna non potessero essere piu’ diversi da quello che Vegeta stava descrivendo: se erano stati tinti, erano molto credibili. Era andata da uno bravo!

“Perche’ non puo’ essere lei? Avanti, dimmelo.”

Il Principe si porto’ nel campo visivo dell’androide, guardandolo con il sussiego di chi sa di avere dalla sua parte una teoria incrollabile.

Ma Sedici gli restitui’ uno sguardo grave e freddo, come solo un umano artificiale poteva fare:

“N. 18 e’ morta. Io non ho potuto aiutarla. Questa donna non e’ n. 18.”


 


 

A Bulma pareva parecchio strano che suo marito fosse convinto così fermamente che quella donna in tele fosse il cyborg n.18. Persino n. 16 gliel'aveva detto chiaro e tondo!

In fondo, gira che ti rigira Vegeta era sempre il solito Vegeta, normalmente Bulma non dava molto peso alle sue incazzature e ai suoi capricci e per quella volta aveva tenuto in conto la componente psicologica nella reazione di suo marito: n. 18 era la donna che gli aveva spezzato ossa e orgoglio, un saiyan orgoglioso, fissato e ossessionato come lui doveva vederla ovunque ormai.

Ma c’era qualcosa che le diceva che le parole di Vegeta non erano cosi’ strampalate, per una volta; Bulma sapeva che non avrebbe scoperto molto digitando "cyborg n.18" nel motore di ricerca, per cui cercò la donna del podcast. Mal che andasse sarebbe stato interessante scoprire chi era, visto che era una tipa abbastanza brillante da essere stata invitata in un podcast dove lei stessa, Bulma Brief, aveva parlato.

La sera prima, per colpa del battibecco non aveva ascoltato tutto ma si ricordava che la donna aveva fatto qualcosa di rilevante durante i Cell Games.

"CEO Central City Cell Games podcast donne" digitò sulla tastiera, non ricordandosi il suo nome. Le foto che trovo’ ritraevano la stessa donna molto bella, dall’espressione seria e altera; guardando con attenzione tutte le foto che riusci’ a trovare, Bulma penso’ che decisamente non era una bionda tinta. Trovò una recente intervista e il link per riguardare il podcast.

Scoprì così che Kate Lang, quello era il suo nome, aveva finanziato l'allestimento tempestino di strutture per l’aiuto agli sfollati durante il regno di quel terrorista.

Grazie al suo lavoro, fin da giovanissima Bulma aveva avuto il privilegio di conoscere una realtà che molti suoi compagni umani, quasi tutti, ignoravano totalmente.

Alieni, capacità sovrumane, mostri e sfere magiche facevano parte del suo quotidiano.

Ma essendo pur sempre una di loro, pensava spesso a cosa dovesse passare per la testa di quei poveri tapini che, di tanto in tanto, si vedevano succedere tragedie del calibro di un’estinzione di massa senza nemmeno capire il perché. Per cui si stupiva della loro creativita’ e presenza di spirito: quella Kate Lang non solo aveva aiutato a trovare posti in cui le persone in crisi potessero stare, ma aveva anche messo in ballo un'iniziativa per aiutarli su un piano pratico.

Bulma rivide parte del podcast:

Come le e’ venuta l’idea di mettere in piedi un servizio “pacchi fuga”?”

Fin dall'inizio di questa situazione Cell, le chiamate nei miei centri sono calate di colpo. E intorno all'inizio dei Cell Games, quando tutti erano praticamente sotto coprifuoco, dovevo fare qualcosa per aiutare chi si trovava intrappolato a casa propria con qualcuno di abusivo; visto che in quelle circostanze le persone che avevano bisogno non potevano venire al centro antiviolenza, abbiamo portato il centro antiviolenza da loro. Avevo in programma di lanciare quel mio ultimo progetto dopo la fine della situazione Cell, ma grazie a chi ha creduto in noi abbiamo potuto iniziare in un momento di estremo bisogno. Ora Escap’Box sara’ permanente.”

Bulma ascoltò con le sopracciglia alzate mentre la CEO parlava della sua iniziativa Escap'Box. Aveva donato delle scatole contententi prodotti essenziali alle famiglie che erano state toccate dalla crudeltà di Cell, ma anche altre contenenti buoni per un biglietto del treno e altra attrezzatura da fuga per chi aveva purtroppo dovuto scegliere fra il fuggire un terrorista pazzo o una persona abusiva. Anche ora dopo la sconfitta di Cell, quell’idea nata da una mente amorevole in una situazione di paura e incertezza avrebbe continuato ad esistere. Era un bel contributo alla societa’.

Bulma era restata a guardare di nuovo il primo piano di Kate Lang, ipnotizzata da quegli occhi pazzeschi.

"Niente e’ tanto importante quanto le persone care. E io e i miei meravigliosi collaboratori ce l'abbiamo messa tutta per aiutarvi."

Bulma continuo’ a scorrere col mouse e le capito’ poi sott’occhio un’altra pagina web in cui si parlava di quella stessa donna: aveva partecipato ad una puntata della trasmissione Io Ti Trovero’ tre anni prima.

La scienziata sentiva stringersi il cuore man mano che leggeva la storia di quella povera mamma che aveva perso da un giorno all’altro i figli, un ragazzo e una ragazza di diciotto anni. Erano spariti nel nulla e lei non li aveva piu ritrovati. Erano stati rapiti e uccisi.

Cioe’, questa qui e’ tre anni che non ha piu’ i suoi figli con se’ e trova ancora la forza di fare del bene a dei perfetti sconosciuti?”

Bulma uso’ quella lettura come promemoria, per quando ormai le veniva da pensare che paragonati ai vari saiyan, namecciani, androidi e cyborg vari i terrestri fossero deboli e pietosi: non tutta la forza si misurava in ki, e se la forza d’animo di quella donna umana fosse stata ki, Bulma era sicura che avrebbe potuto portare la Terra sulle sue spalle.

Ma trasali’ all’improvviso quando vide, inclusa nell’articolo, una foto dei due figli di Kate Lang:

Suppongo che quando si parla di somiglianze fisiche ci sono due tipi di genitori e figli: Vegeta e Trunks, e lei e i suoi gemelli.”

Tutti e due erano quasi uguali fra loro e a lei, ma mentre il maschio condivideva gli stessi toni gioiello della madre la femmina aveva capelli biondi. Era una bella ragazza, dallo sguardo da gatto. Sicuramente se fosse stata in una stanza con lei, Bulma si sarebbe girata a guardarla. Il suo aspetto sembrava abbastanza memorabile affinche’ uno come Vegeta se ne ricordasse...

“Sedici! Papa’!”

Senza alzarsi dalla sedia nel suo studio, Bulma resto’ col fiato sospeso finche’ l’androide non entro’ nella stanza, con Trunks e il gatto in braccio.

“Cosa ci fai li’, tu? Vieni qui.”

Quando la madre prese Trunks dalle braccia del grosso androide, il bambino inizio’ a piangere, tendendo le manine verso “Se-hi”. Questa, poi: ora il suo amato bebe’ preferiva quella specie di hippie vestito di verde a sua madre! Si chiese se Sedici poteva vedere e capire che lei si era offesa.

Ma lui se ne resto’ rispettosamente in disparte, finche’ Bulma gli rifece la domanda a bruciapelo, girando il monitor nella sua direzione, tenendo il puntatore sulla foto della ragazza:

“Sedici, ho bisogno che tu guardi bene e mi dia la risposta che credi piu’ giusta: questa ragazza e’ n. 18?”

Allora Bulma vide un’espressione che non avrebbe mai creduto possibile per un androide, nemmeno per un modello super avanzato come n. 16: un’espressione di sgomento, commozione ed affezione.

Bulma rimase incredula a guardare Sedici correre a tenere il monitor, che fra le sue mani sembrava un tablet, mentre non faceva che ripetere una parola, un nome:

Diciotto.”

 

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Capitolo 10
*** Una camicia rosa, il Commando e un parco ***


Non sapevano dove si trovavano. Avevano volato per un po’ alla ricerca di una citta’ ma non avevano ancora trovato quella che faceva al caso loro. Vedevano solo villaggi e paesoni di medie dimensioni, posti decisamente non adatti per atterrare e passare inosservati: erano quel genere di posti in cui tutti si conoscevano e due gemelli dai capelli neri e biondissimi e dagli occhi identici color ghiaccio erano di certo una vista che attirava l’attenzione, piu’ attenzione di quanto loro volessero in quel momento. Ammirarono il paesaggio sempre piatto, solo piatto, finche’ non sorvolarono una metropoli.

“Che cos’e’ quella?”

Diciotto non seppe identificare la citta’, ma Diciassette si fermo’ all’improvviso, a mezz’aria, dritto al di sopra di una torre altissima. Era un grattacielo che terminava in una grossa cupola. Lui scese finche’ i suoi piedi non la toccarono, seguito da una Diciotto piuttosto spazientita:

“Siamo atterrati qui, probabilmente tutti ci hanno visti. Grazie, Diciassette. Davvero.”

“Stai zitta. Questa e’ West City, siamo in cima a Dream World, qui e’ troppo in alto perche’ ci vedano e quindi non c’e’ motivo per quel tono di voce acido.”

Il ragazzo si sedette a gambe incrociate su Dream World. Si era ricordato di quel posto perche’ ci era gia’ stato. Quando? Prima, ovviamente. Durante quella dannata vita che Gero aveva cancellato, dimenticandosi pero’ qualche pezzo. Erano proprio quei pezzi che lo sfinivano. Dream World era solo un’altra riminescenza, un altro tassello che non faceva altro che girargli per la testa senza trovare il suo posto, tormentandolo inutilmente. Da quando Diciassette aveva riacquistato i sensi e si era ricordato dei sogni che aveva avuto durante la prigionia di Cell, non era piu’ riuscito ad essere tranquillo. Aveva cercato di non mostrarlo a Diciotto, per essere lasciato stare, ma si sentiva irrequieto e irritabile. Ovviamente Diciotto se n’era accorta: era facile capire l’umore di Diciassette, specialmente quando lui aveva gia’ declinato due occasioni per rimpinzarsi. Non una. Due.

Se era cosi’ nervoso da non voler nemmeno mangiare, Diciotto penso’ che doveva essere proprio grave. Si avvicino’ a lui, che scrutava l’orizzonte con uno sguardo torvo e il mento sulle ginocchia, gli parlo’ con tono gioviale:

“Dimmi un po’ di Dream World, che cos’e’?”

“Un parco divertimenti.”

“E tu ci sei stato?”

“Probabilmente.”

“Cosa ti ricordi?”

“Un serpente di peluche. Era molto brutto.”

Diciotto ridacchio’ per quella risposta inaspettata e appoggio’ la testa contro la spalla del fratello. Lui sembro’ gradire la sua presenza.

“Va bene. Siamo a West City, che facciamo ora?”

Il ragazzo non rispose, non aveva nessuna voglia di rinunciare al suo capriccio. Avrebbe continuato a non voler fare niente fin quando un po’ del casino nella sua testa si fosse calmato. Ci sarebbe voluto anche molto tempo...Pero’ a un certo punto si accorse che, lontano in linea d’aria, una distesa sterminata di automobili di ogni genere e tipo gli faceva l’occhiolino. Un parcheggio.

I suoi occhi brillarono.

Nel momento in cui l’attenta Diciotto si accorse delle sue intenzioni, Diciassette era gia’ in volo.


 

Kate aveva lavorato duro per dare il suo contributo al mondo durante i Cell Games, quel periodo di follia pura che si era concluso con altra follia. Ma anche se i caduti erano inspiegabilmente ritornati e lei si sentiva felice per chi si era perso e poi ritrovato, non si sentiva toccata fino in fondo: se Lapis e Lazuli erano morti, lei non era stata lì con loro. Cosa poteva contare tutto il resto?
Kate si sentiva ormai vicina al fondo, al niente che tanto temeva. Non riusciva più a sorridere spontaneamente alle persone care, non riusciva più a versare una lacrima o a prestare la giusta attenzione ai fatti che le accadevano intorno.

Senti’ vibrare il cellulare e lesse con apatia l’invito di “Ronan del podcast” a cena, per il sabato seguente; di gia’? Kate non aveva nessuna fretta, quel produttore televisivo avrebbe anche potuto aspettare.

Quando le avevano chiesto di partecipare al podcast, aveva deciso che non aveva niente da perdere a parlare di Escap’Box e della sua rete antiviolenza Domani: mal che andasse, lei avrebbe ancora una volta dichiarato che se quel Cell era morto, la violenza era viva e sempre prospera e lei non avrebbe rinunciato alla prima linea in quella lotta. Visto che aveva fallito come madre, voleva non farlo almeno come donna. Il mondo e la sua citta’ avevano un bisogno disperato di lotta contro la violenza, specialmente da quando quella piaga del Commando Magenta si era mangiata un pezzo di citta’.

Era un male che era venuto prima di Cell ma che era ancora li’. Kate ogni volta pensava ai suoi figli e al fatto che quei maledetti potevano benissimo avere a che fare con la sparizione dei gemelli: negli ultimi anni l’agente Bruno Weiss in persona aveva rischiato molto cercando di sorvegliarli.
Rientrando a casa, Kate si accorse da lontano della sagoma di un uomo nel portico di casa sua: non avendola vista arrivare continuava a bussare alla sua porta, poi a camminare avanti e indietro con le mani in tasca.

“Apri la porta! Madre dei cyborg, apri!”

Kate fu colpita dalla sua camicia rosa baby a maniche corte e dai capelli ritti in su, come a sfidare la forza di gravita’. Appena si accorse del rumore delle scarpe di Kate sul marciapiede, l’uomo si volto’ e la squadro’ con uno sguardo duro e compatto come ossidiana.

“Posso aiutarla?”

Mentre l’uomo sembrava voler abbattere la porta con i suoi pugni, Kate butto’ li’ quelle parole di pura cortesia ma a dir la verita’ si senti’ inquieta di fronte a quello sguardo’ cosi’ arrabbiato e a quell’attitudine minacciosa.

“Diamine, sei uguale a lei. Anzi, a loro: se i cyborg fossero fusi insieme sarebbero te.”

Vegeta si era innervosito a vedere che anche la madre era piu’ alta di lui. E si stava innervosendo ancora di piu’ a vedere lo sguardo di smarrimento sulla sua faccia. In fondo a quello smarrimento c’era, forse, persino della derisione: quell’umana si stava probabilmente chiedendo chi fosse quell’ometto strano che bazzicava fuori da casa sua, dicendole cose che non capiva.

Mentre l’uomo frugava nella sua tasca, Kate prese furtivamente il suo taser dalla tasca del blazer e lo attivo’, tenendolo nascosto dietro la schiena. Non smise di fissarlo nemmeno quando con la mano libera apri’ il foglio piegato svariate volte che lui le aveva dato. Era una foto stampata.

“17 e 18 sono gemelli, vero?.” Vegeta la guardo’ restare a bocca aperta, mentre la diffidenza/derisione si scioglieva nei suoi occhi “tu devi dirmi dove sono, voglio un rematch con loro.”

“Con chi?”

“Con i tuoi figli, donna!”

Prima che Kate potesse scappare, urlare o rendersi conto di quello che stava succedendo, l’uomo basso dai capelli ritti le fu addosso.

La serro’ cosi’ forte che per quanto si dimenasse Kate non riusci’ a sfuggirgli: la teneva per la vita, serrata contro il fianco, mentre correva e sembrava insensibile alla scossa del taser sul suo petto.

“Aiuto! Presto!”

L’unica opzione che le rimaneva era urlare a pieni polmoni, ma la gente che assiste’ alla scena era ammutolita. Sballottata dalla corsa, Kate non capiva: era impossibile che una persona fosse cosi’ forte, nessuno poteva rimanere in piedi e correre trasportando un’altra persona con una scossa che percorreva tutto il corpo. Kate smise di farsi male nel tentativo di dargli pugni e si strinse involontariamente a lui quando le sembro’ di non toccare piu’ terra coi piedi. Quando apri’ gli occhi, Kate si rese conto che quella che vedeva sotto di lei era Central City.

Stava volando.

STAVA VOLANDO?

Alzo’ gi occhi torturati dal vento sull’uomo che volava veloce, la zazzera irsuta che sbatteva di qua’ e di la’ stile bandiera. Kate aveva perso il taser; inizio’ a urlare e a picchiarlo di nuovo, finche’ non le parve di sentire una risata rauca.

Sempre tenendola saldamente, Vegeta colpi’ quell’urlatrice seriale di taglio sulla nuca. Lei svenne all’istante.

Lotti fino all’ultimo, neh? Apprezzo la tua volonta’. Ma preferisco fare questo tragitto in tranquillita’.”

Sentendo quel corpo lungo e magro diventare un peso morto, il principe se lo appoggio’ sulla spalla come un sacco di patate e continuo’ a volare verso casa sua.


 

Non appena aveva trovato sua moglie, suo suocero e l’androide davanti al computer Vegeta si era fatto dire da loro chi era Kate Lang, dove viveva e chi era n.18 per lei. Una volta stampata la foto che ritraeva i suoi figli Lapis e Lazuli, senza dubbio 17 e 18, si era discretamente congedato e poco dopo tutta la famiglia Brief aveva sentito la piccola onda d’urto provocata dall’aura sprigionata dal principe durante il suo decollo. Sedici l’aveva seguito, volando lontano. Vegeta era stato troppo veloce perche’ Sedici riuscisse a stargli appresso per cui, quando i suoi sensori lo informarono che Central City era vicina, l’androide atterro’ nel primo isolato che trovo’.

Sembrava una vecchia zona periferica. Era un posto che ululava quando il vento passava fra i suoi grattacieli, vecchi e malmessi. Non c’era nessuno per strada; molti degli ingressi di quei grattacieli erano sprangati da saracinesche arrugginite o da assi di legno inchiodate senza precisione. Anche se tutto sembrava deserto, gli scanner termici di Sedici gli dissero che molte persone lo stavano osservando da dietro quelle finestre scure, dietro angoli e cassonetti.

Sedici non aveva visto molto di terrestri, come vivevano e quali erano le regole che scandivano la loro esistenza, ma era certo che quell’isolato non era un posto normale da umani. Gli scanner lo informarono anche di un’ingente quantita’ di armi da fuoco, nascoste dove si nascondevano gli umani.

Noto’ un palazzo piu’ nuovo degli altri, piu’ pieno di gente. Sulla porta a vetri intonsa figurava un emblema rosso in cui l’androide distinse una C e una M.

Non appena Sedici si fu fermato a studiarlo, la porta si apri’ e tre umani armati gli andarono incontro. Sembrarono quasi spaventati dalla mole dell’individuo che si trovarono davanti: alto ben piu’ di due metri, con una cresta, orecchini ad anello e lineamenti duri e prominenti.

“Cosa ci fai qui, smilzo? Nessuno va e viene nel quartiere generale del Commando.”

Ma non era un pericolo, grosso, stupido e pure disarmato. Uno degli uomini rise e si volto’ verso la porta aperta:

“Ehi, boss! Vieni qui, c’e’ una decisione da prendere. ”

L’uomo riporto’ di nuovo lo sguardo su Sedici: non toccava a lui decidere cosa farne, ma nessuno si addentrava cosi’ spudoratamente nel cuore del loro territorio per poi andare a raccontare tutto in dettaglio alla polizia. Non era mai successo. Nessuno che non era il Commando era mai uscito vivo di li’.

“Voglio sapere se sono a Central City. Dov’e’ Central City?”

Sedici continuo’ a guardare in basso, in faccia ai suoi interlocutori che non gli risposero; li vide salutare con un cenno della testa una quarta persona che rimase sulla soglia del palazzo, sigaretta in una mano e fucile d’assalto nell’altra.

“Boss, lo manda la polizia?”

Uno degli scagnozzi si avvicino’ al capo della gang, sussurrando al suo orecchio. Ma il capo non parve preoccuparsi della visita di quella straordinaria opera della genetica.

“Non so quale sia la risposta migliore, Big Ginger. Questo era un pezzo di Central City, prima. Fino a tre anni fa, quando ce lo stavamo ancora disputando coi Neri. Ma poi siamo stati fortunati, i Neri si sono sciolti da soli ed ora tutto quello che vedi e’ mio. Sono Cloe, Cloe Mafia. Benvenuto.”

Sedici non strinse la mano che la giovane donna gli tese. Resto’ a guardare il suo viso, armonioso e sbarazzino, gli occhi svegli truccati delicatamente di nero; poi lo sguardo di lei smise di ridere e ritrasse la mano con un sospiro.

“I miei ragazzi del Commando Magenta ora controllano tutto il sobborgo. Tu devi essere nuovo in citta’, tutti sanno di chi e’ questo posto. Intrufolarsi dove persino la polizia deve stare molto attenta e’ ammirevole. Ragazzi, facciamo un applauso” Cloe incito’ i tre uomini che erano andati incontro a Sedici ad applaudire rumorosamente “un applauso per il coraggio di…?”

“Androide n.16.”

“Sei un androide? E io sono il Re!”

Sedici aveva parlato piu’ di quanto fosse solito fare. Era chiaro che Vegeta e la madre di Diciassette e Diciotto non si trovavano li’. Si appresto’ a girare I tacchi, ma piu’ uomini uscirono dal palazzo e lo tennero fermo, mentre Cloe si avvicinava:

“Io sono davvero il re di questa citta’. Che me ne importa di quel vecchio cane bacucco, qui e’ tutto mio. Le cose funzionano cosi’: ora tu mi hai sfidata entrando nel mio territorio e assaggerai le mie pallottole a frammentazione, la mia arma scelta, hanno preso tanta gente per me. Poi andro’ dalla tua famiglia, non guardo in faccia a nessuno, dammi qualche ora e li trovero’. Anche i bambini. Capito?”

“Tu non rispetti questo pianeta. Tu uccidi bambini?”

“Mm, capita” Cloe sorrise con gli occhi bassi “ma sono esasperanti! Dio, quanto urlava quel ragazzino che ho calato in una vasca di soda qualche tempo fa...Continuo a sentire quella vocina trapanante nelle orecchie.”

Sedici non seppe come reagire a quelle parole: da quando era stato attivato aveva conosciuto la crudelta’ solo attraverso Cell. Non pensava che anche gli umani potessere essere cosi’. Coi circuiti che lavoravano a fatica su questioni di quel tipo, Sedici si convinse che la sola differenza fra Cell e questa donna era che lei non aveva il potere del primo. Ma la loro anima pareva uguale ai suoi occhi.

“Ora ti devo salutare, Androide n.16. Non sei piu’ il benvenuto.”

Al segnale del capo, tutti gli scagnozzi mollarono la presa su di lui e si ritirarono nell’edificio appena prima che lei lo investisse con una raffica di pallottole: Sedici fu colpito alla testa, al petto, alle spalle e Cloe rideva mentre sparava. Sparo’ finche’ tutto quello che vide fu un polverone. Ansiosa di vedere a terra un grosso cadavere martoriato, poso’ il fucile a terra e aspetto’ che la polvere si dileguasse. Ma non credette ai suoi occhi quando vide quel corpo ancora in piedi, senza segno dei suoi preziosi proiettili. Era li’ e ora la guardava con disapprovazione. Piu’ veloce dei riflessi della donna Sedici afferro’ il fucile da terra e lo spezzo’ in due fra le dita, come un rametto. Volse lo sguardo al cielo, avvertendo la presenza di una nota forza combattiva, poco prima di vedere Vegeta sfrecciare di nuovo verso West City.

Non volle perdere altro tempo li’ con il Commando Magenta, ma prima di alzarsi in volo scocco’ un’occhiata freddissima a Cloe: “Ti capitera’ quello che meriti, prima o poi. Non spetta a un androide come me massacrare una come te, ma spero che ti troverai spalle al muro contro qualcuno che non e’ di questo stesso avviso.”

Il manipolo di delinquenti osservo’ il gigante volare via, non capendo fino in fondo cio’ a cui aveva appena assistito.

 

Bulma si diceva sempre che dopo aver vissuto qualche anno con Vegeta, non c’era piu’ niente che lui potesse fare per soprenderla. Percio’ lo sgomento la fece saltare sulla sedia, impreparata allo spettacolo che vide mentre era tranquilla in cucina a dare la pappa a Trunks.

Suo marito irruppe nella stanza attraverso la porta di servizio. Aveva la sua solito espressione incavolata e teneva in mano qualcosa, qualcuno.

“Vegeta! Che hai fatto? Chi e’?”

Trunks aveva iniziato a piangere con la porta sbattuta da suo padre e ora pianse ancora piu’ forte, lasciato solo al tavolo da sua madre che si era avventata a soccorrere la donna inconscia e riversa fra le braccia del principe. Il suo collo era un unico livido bluastro.

Bulma riconobbe i capelli neri e lisci di Kate Lang: “Perche’ e’ qui?”

“Non voleva parlare. Almeno qui potremo discutere tranquillamente.”

La mente di Vegeta inizio’ a vagare senza che lui lo facesse apposta, mentre la ramanzina di Bulma suonava attutita, come se lui si fosse chiuso in una capsula. Cosa che aveva onestamente voglia di fare: non aveva ucciso quella donna, dannazione! L’aveva solo tramortita perche’ non aveva piu’ sopportato i suoi schiamazzi. Certo, quel colpo leggero al collo avrebbe potuto tranciarle il midollo spinale o qualche vertebra, ma non era successo. Non si sapeva mai come maneggiarli, quei terrestri. Forse questa Kate non era Crilin o Yamcha, non poteva colpi da un saiyan senza crepare. Era come sua moglie.

Vegeta ritorno’ al presente con la sua testa, giusto in tempo per vedere Bulma col cellulare in mano e suo padre tentare di prendergli la donna dalle braccia: “Lascia, la porto giu’ io.”

“Pronto? Si Crilin, per favore, portami un senzu, anche mezzo.”

Il dottor Brief usava il suo laboratorio anche come infermeria e Bulma osservo’ gli uomini di casa scendere le scale.

“Vegeta ha fatto uno dei suoi soliti casini. Ah, gia’ che sei, devi vederla. E parlare con lei. E’ la madre di n.17 e n.18.”


 

Mentre i Brief si erano ritrovati fra le mani una situazione scomoda e, da qualche parte nel mondo, i gemelli cominciavano per la prima volta a pensare a un futuro tutto loro, qualcun altro sapeva perfettamente dove andare e stava perseguendo il proprio metodicamente, con calma e determinazione professionali; Carly studiava sempre a North City e sin dall’inizio dell’universita’ i suoi tirocini erano stati per lo piu’ sessioni di prova non retribuite, presso una grossa istituzione a due passi dalla citta’: il RNP era una vasta riserva faunistica, forse la piu’ grande al mondo, un posto famoso che Carly aveva visto molte volte in tele.

Durante questi brevi tirocini aveva gia’ avuto la possibilita’ di studiare come si deve il suo animale scelto, l’aquila gigante alpina. Poco dopo la partenza di Gage in primavera ne aveva iniziato un altro, il terzo quell’anno.

Carly sapeva che le sue giornate sarebbero state piene anche quella volta, ma che avrebbe vissuto piu’ intensamente: ogni volta che si trovava li’ in quel posto meraviglioso a imparare cose utili per il suo lavoro e per la stesura della sua tesi si sentiva più serena, si convinceva che forse aveva trovato pace. 

“Speriamo che continuero’ a vederti qui da noi. Chissà, forse ci sara’ un posto a tempo pieno per te.”

Erano solo voci che Leni, la direttrice delle risorse umane, le aveva riferito dopo una reunione con altri dirigenti. Carly aveva intenzione di lavorare ancora piu’ duramente per assicurarsi quella posizione e il proprio futuro; le piaceva anche passare del tempo con Leni, che tirocinio dopo tirocinio era diventata un'amica e con cui non sentiva la differenza di dieci anni.

Leni non era l’unica persona con cui Carly aveva interagito li’ dentro. C’erano altri veterinari e gli zoologi, che incrociava tutti i giorni; era piacevole scambiare due chiacchiere con loro ma si trattava di semplici colleghi temporanei sui quali Carly non investiva il tempo necessario per stabilire rapporti.

Durante i suoi giri nel parco Carly aveva incrociato anche i botanici e le guide turistiche, cosi’ come le guardie forestali. Coi loro fucili spianati, questi ultimi non le ispiravano nessuna simpatia, fatta eccezione per uno: John era un signore sulla sessantina coi capelli cortissimi e bianchissimi e il naso sempre rosso. Era gentile e alla mano, quando dei turisti passavano dai vari posti in cui era stazionato lui li invitava a prendersi un caffe’ insieme. A Carly aveva regalato un suo vecchio libro sugli uccelli che popolavano l’area del Grande Eden e le aveva persino fatto un bel bastone di legno d’abete:

“Quelli da trekking in metallo leggero e con l’impugnatura ergonomica sono i migliori, ma almeno questo ti ricordera’ di noi quando sei in universita’.”

Non aveva mai posseduto un oggetto di legno intarsiato a mano. Si disse che sarebbe diventato un cimelio di famiglia. Le sarebbe piaciuto passare piu’ tempo con John, che era una miniera di informazioni interessanti, un vero montanaro. Ma spesso con lui c’era la sua apprendista, una ragazza che la superava in statura di almeno quindici centimetri e che vedendola anche da lontano ogni volta le urlava ehi cupcake!”.

L’apprendista, la top ranger, era a quanto pare la star fra le star per il fatto che fosse stata la prima ragazza a ottenere quel titolo e a mantenerlo per ormai due anni. E tutti si aspettavano che avrebbe continuato a tenerselo visto che era capace di fare il suo lavoro meglio di chiunque altro, con efficienza straordinaria. John era molto orgoglioso di lei, anche se non tesseva mai le sue lodi. Quella tipa era fastidiosa, anche se Carly riusciva a evitarla se evitava John negli orari di lavoro.

Quindi, per ragioni varie, Carly aveva stretto un legame d’amicizia solo con Leni, che le ispirava fiducia ed era, contrariamente a lei, estroversa. A sua volta, Leni ammirava la determinazione assoluta di Carly e il fatto che lavorare con lei fosse una meraviglia.

Era affidabile e umile ma sapeva sempre cosa voleva: non aveva dubbi sul fatto che quella brillante ragazza dai lunghi capelli pel di carota sarebbe stata una preziosa aggiunta al team con cui stava già collaborando.

Quando Carly era libera, Leni la invitava a fare escursioni con lei: aveva fatto amicizia anche con i genitori della direttrice, che conoscevano la riserva come le loro tasche e avevano istruito la studentessa sulle migliori escursioni. Carly aveva trovato un posto che le piaceva, vicino a un lago, dove una grande roccia confortevole prendeva sempre il sole. Le piaceva andarci con Leni e parlare, guardare lontano col binocolo, riposarsi e fare foto.

Parlavano della vita; Leni le raccontava del suo divorzio, ma nonostante il legame d’amicizia per Carly non era facile aprirsi. Si ricordava, pero’, che in fin dei conti non serviva a nulla serbarsi tutto quel dolore. Parlarne con qualcuno era sicuro e anche catartico: aveva accennato solo a Gage ciò che era accaduto con Lapis e i pensieri e i ricordi rimasti erano estremamente personali, alcuni quasi indecenti. Ma a Leni aveva parlato di Gage dalla A alla Z, di come gli aveva voltato le spalle scappando dalla camera da letto.

“Sei una tipa ambiziosa, cerchi la perfezione? Quel Gage sembrava un tipo a posto.”

“Era un bravo ragazzo. Veramente bravo. Pensi che fosse la mia occasione?”

Leni l'osservò scuotere la testa e abbassare gli occhi con aria amareggiata.

No. Leni non la conosceva ancora profondomente, ma si era accorta che quella ragazza era inconscia di essere una che cercava il brivido:

“Mi pare di capire che tu ti fossi davvero affezionata a questo Gage, ma niente di piu’. Non ti stimolava abbastanza, era un po’...noiosetto. Non sei una tipa da principe azzurro.”

“Invece si’.”

“Ma non vuoi quello che ti issa sul cavallo e ti porta al castello. Vuoi il principe azzurro che ti dice “si, ma prima del castello andiamo a fare qualcosa di divertente, a cui tu puoi battere il 5 e rubare le briglie mentre lui ti tiene stretta e si fa due risate assieme a te. Ho ragione?”

Carly annui’ interiormente.

“Ecco perche’ Gage non ha mai avuto una possibilita’.”

Era in parte vero, anche se non ci aveva mai pensato: “Ho sempre creduto di essere una tipa non avventurosa. Ho lo stesso taglio di capelli da sempre.”

“E che c’entra? Perche’ altrimenti, da ragazza di citta’ che sei saresti venuta a lavorare al Royal Nature Park, oggettivamente meno confortevole di una clinica? Perche’ non sei restata in citta’ a curare animali domestici? Perche’ ti piace l’avventura.”

Le due amiche restarono a fissare il lago, le increspature che il vento tesseva sulla sua superficie: "Allora, visto che Gage non era un buon candidato, come dev'essere l'uomo perfetto?"

Carly rispose con le cose che si era tenuta stretta. Innamorato di lei, passionale, sincero, intelligente, scherzoso, doveva farla ridere. Begli occhi, bel sorriso.

Leni le sorrise con affetto: "Wow, davvero il ragazzo dei sogni."

Lo sguardo di Carly si perse fra le acque del lago: azzurre e trasparenti, come gli occhi che non aveva mai dimenticato.

“Lo era.”

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Capitolo 11
*** Scuoti la gabbia ***


Quando aveva udito le parole di Bulma, Crilin si era sentito il cuore esplodergli in petto.

Come per Bulma, l’assurdita’ era stata parte della sua vita ormai da molto tempo e ci aveva fatto pace, ma c’erano cose che ancora gli mozzavano il fiato. E una di queste era stata la conversazione che aveva avuto al telefono con la sua amica.

Prese in fretta il sacchettino coi senzu e si precipito’ a rotta di collo in direzione della Capsule Corp.

La madre di Diciassette e Diciotto, la madre di Diciassette e Diciotto...”

Si ripeteva quelle parole a non finire, mentre il cielo fra la Kame House e West City sembrava non finire piu’. Crilin rischio’ persino di andare in collisione con un aereo di linea, sovrappensiero com’era. Lo evito’ all’ultimo secondo.

Anche se era in volo, non resistette al richiamare Bulma sul cellulare:

Fammi capire, Vegeta l’ha picchiata?”

No, per amor del cielo. A quanto pare voleva sapere da lei dove sono i cyborg e l’ha portata qui di peso.”

Vegeta che rapiva un’umana per trovare i cyborg? Ah certo, i due non avevano ki che gli Z Warriors potessero percepire, per cui erano impossibili da trovare. Ed evidentemente il saiyan non aveva voglia di andare alla cieca. Bulma non poteva vedere la faccia di Crilin, ma siccome capiva che quello zuccone doveva brancolare nel buio circa quella faccenda, gli racconto’ del podcast. Di come Vegeta avesse scambiato Kate Lang per 18, di come lei aveva scoperto che Kate era la madre di due gemelli umani che avevano le stesse sembianze dei cyborg.

N.16 l’ha confermato.”

N.16? E’ vivo??”

A quanto pare tu l’hai resuscitato. Sai, quando hai chiesto a Shenron di riparare ai danni di Cell. Dev’essere ancora a Central City, ha seguito Vegeta quando e’ andato a prendere la signorina Lang.”

Quando arrivo’ a casa di Bulma lei, trafelata, lo condusse al letto dove la madre della donna che gli aveva rubato il cuore giaceva addormentata.

Crilin trasali’: persino messa li’ in un letto ospedaliero, spettinata, con un collare ortopedico e un cavo che misurava il battito cardiaco attaccato al suo dito indice, era il ritratto di sua figlia. Dei suoi figli.

Lui si senti’ immensamente stupido. Non riusciva a capacitarsi di come non avesse potuto vedere subito che i cyborg avevano un legame di sangue, cosi’ somiglianti com’erano. Ma in verita’, che quella ragazza che gli aveva fatto provare il mitico colpo di fulmine avesse un gemello, cyborg anche lui, non gli era mai passato per l’anticamera del cervello. Quando se li era trovati di fronte, Crilin aveva pensato ad altro che a giocare a trova le somiglianze.

“Che ci fa anche lui qui, ora? Casa mia non è un lazzaretto!”

Seduta al capezzale di Kate, Bulma sbuffò. Il mondo non girava intorno a lui: “E buon pomeriggio a te, Vegeta.”

Il principe si sedette da qualche parte nella stanza, guardandosi intorno senza interesse.

Una volta che entro’ in possesso del senzu, Bulma lo sminuzzo’ e lo sciolse in una flebo. Presto i presenti videro Kate Lang rizzarsi seduta, con un sospiro. Sembrava spaventata, disorientata. A Crilin parve di rivedere il risveglio dei gemelli, su al palazzo del Supremo.

Ma lo spavento si trasformo’ presto in collera e la donna guardo’ duramente la prima persona su cui il suo sguardo era caduto:

“Lasciaci andare. Subito.”

Il senzu aveva riparato le sue lievi ferite; Kate si strappo’ il collare con un gesto freddo e preciso e, vedendo che era ancora completamente vestita si diresse verso Vegeta, passando oltre Crilin e Bulma senza nemmeno guardarli. L’uomo dalla camicia rosa rise sonoramente e le restitui’ quello stesso sguardo, non intimorito dalla sua voce tagliente:

“Dimmi dove sono i cyborg, quante volte devo chiedertelo? Vediamo chi si stanca prima.”

Kate ricordo’ quello che il tipo era andato farneticando, prima che la portasse su in aria e che lei perdesse conoscenza. La foto dei suoi figli, quelle parole senza contesto, cyborg, i cyborg, che lui ripeteva fino a sfinirla. Ma a sentirlo parlare cosi’ tanto dei suoi figli, un dubbio l’aveva assalita. Un dubbio che le fece stringere i pugni e gli occhi.

Il principe la lascio’ fare: resto’ assolutamente calmo quando lei prese un alambicco di vetro da un piano di lavoro e lo frantumo’, sbattendolo con un grugnito contro la sua fronte.

“Sei stato tu...tu hai preso Lapis e Lazuli, i miei bambini? Ridammeli!”

Crilin sgrano’ gli occhi nell’udire la donna senza paura chiamare Diciassette e Diciotto con i nomi che lei aveva dato loro. Il ragazzo capi’ in un istante quanto profondo era stato l’impatto della sua richiesta al drago: quei due erano stati davvero umani, persone normali, figli di una madre. Lui li aveva liberati da una bomba, aveva dato loro la possibilita’ di incontrare di nuovo quella loro madre, se l’avessere voluto. Quella donna, li’ in piedi a lottare in nome di un amore senza limiti, li aveva cresciuti nel suo corpo e dati alla luce, li aveva visti crescere. Crilin provo’ un sentimento che lo travolse; un sentimento che lo fece sentire piu’ vicino a Diciotto.

“Vedi, Crilin, da chi ha preso sua figlia?”

Vegeta si scrollo’ di dosso le schegge di vetro, mentre Kate si senti’ riempire da una strana inquietudine nel vedere ancora una volta che quell’uomo pareva invulnerabile: non gli aveva fatto niente. Il principe si giro’ verso la donna e l’afferro’ per il bavero della giacca.

“Ma tu sai chi sono io?” tuono’ “come osi?”

Bulma e Crilin osservavano, pronti a intervenire ma anche assorbiti da quella scena appassionante:

“Ehi, Bul, non dovremmo fare qualcosa?”

Bulma fu sorpresa dalla freddezza di mente che Kate Lang stava mantenendo, mentre un alieno che avrebbe potuto ucciderla con una sola mano la strattonava con foga.

“Non me ne potrebbe importare di meno, di chi sei tu: ma se sei quello che ha preso Lapis e Lazuli, ne risponderai a me. Non si tolgono i figli alle loro madri. Mai.”

In quel momento gli occhi di quella umana erano cosi’ freddi e taglienti che avrebbe potuto passare per una macchina assassina anche lei. Inaspettatamente, quelle parole lapidarie fecero riflettere Vegeta.

Si ritrovo’ a pensare al momento in cui Cell aveva freddato Trunks del futuro, alla propria disperazione: in quel momento, anche lui era stato un genitore che aveva perso un figlio. La sua reazione era stata chiara, cristallina nella sua mente. In quel momento aveva voluto annientare il mostro, fare tutto quello che era in suo potere per vendicare suo figlio. Quella era una madre che ne aveva persi addirittura due. Per una volta, Vegeta rinuncio’ alla collera. Chiuse gli occhi e mollo’ la presa:

“Io non c’entro, pazza lunatica. E’ stato il dottor Gero, ma ormai non importa piu’. N.17 l’ha ucciso, io l’ho visto farlo.”

“Chi e’ n.17?”

“Tuo figlio, diamine! Gli ha tagliato la testa con un colpo solo.”


 

Kate si sentiva vuota.

Lei non era un’assassina, non aveva mai ucciso. Eppure, nel trovarsi di fronte a quello che credeva fosse il carnefice dei suoi figli, penso’ che avrebbe potuto farlo: lei era una madre, non c’era niente al mondo che non avrebbe fatto per loro. Uccidere era solo un punto di quella lista.

Ma poco dopo il suo castello era crollato; lui aveva dichiarato la sua innocenza e lei gli aveva creduto, istantaneamente. Per quanto minaccioso e scorbutico l’uomo dai capelli ritti non ce l’aveva negli occhi. Anche se non voleva crederlo, Kate non gli aveva letto in faccia quel crimine orribile. Non era lui.

Tutto quello che le rimaneva era un pugno di rabbia inerte. Ancora una volta.

Abbattuta, si era lasciata cadere sul letto in cui si era svegliata. Avrebbe voluto che quel Vegeta e tutto quello che era uscito dalla sua bocca fossero solo uno scherzo.

Avrebbe voluto tornare indietro di poche ore, quando non sapeva se accettare o meno l’invito di Ronan del podcast. Prima che quel Vegeta spuntasse nella sua vita, causandole ancora piu’ guai, ancora piu’ lacrime: Kate non riusciva piu’ a capire per cosa sentirsi sollevata o per cosa sprofondare ancora di piu’. Il suo cervello si rifiutava di credere.

A Bulma sembro’ di sentirla piangere in silenzio.

Kate rizzo’ la schiena sentendo qualcuno toccarla. Vide la donna che si era presa cura di lei sedersi di nuovo al suo fianco:

“Spero che tutto si sistemera’, che ritroverai i tuoi gemelli. Forse anche loro ti stanno cercando.”

Kate sapeva di avere gia’ visto quella donna.

“Bulma Brief, piacere. Questa e’ la mia impresa Capsule Corp.”

“Dottoressa Brief. Che onore.”

Kate le strinse la mano e un piccolo barlume di gioia le riaccese gli occhi. Aveva ben presente quella scienziata, era una persona che aveva sempre ammirato per la sua intelligenza, per il fatto che si fosse fatta strada in un mondo che era quasi monopolio degli uomini riuscendo anche ad essere madre. Era la dimostrazione che non si deve sempre scegliere cosa sacrificare.

“Ti ho sentita parlare al podcast, sai? Per quello che hai fatto, sei stata grande. Mi dispiace per mio marito, per tutto questo. Non so come scusarmi.”

Bulma e Crilin stentavano a immaginarsi quello che doveva passare per la testa di quella povera mamma: in pochi minuti aveva appreso che i suoi figli erano diventati cyborg, avevano assassinato il loro carceriere e a quanto pare erano vivi.

In un altro dei suoi momenti eroici, Crilin prese le mani di quella Diciotto scura:

“Io li ho conosciuti, Lapis e Lazuli. Li ho visti anche qualche tempo fa...ti assicuro che sono vivi e vegeti, anche se non so dove si trovino. Avverti la polizia, continua a cercarli! Non possono essere cosi’ lontani, devono saltare fuori.”

Una parte di Kate voleva credere a Bulma Brief e a quel ragazzo vestito come un monaco Shaolin. Voleva credere che lui li avesse incontrati, prova che non erano stati uccisi e che quindi prima o poi lei li avrebbe ritrovati. Lo voleva con tutta se stessa.

Ma la speranza era pericolosa, troppe volte aveva creduto a gente che credeva di averli visti o conosciuti. Era sempre finita in niente.

Era naturale che lei avrebbe continuato la sua ricerca, ma non avrebbe accettato aiuti da sconosciuti che non fossero poliziotti.

“Vuoi che ti accompagni a casa? Possiamo andarci in macchina, Central City e’ abbastanza vicina. O puo’ accompagnarti Crilin, se preferisci.”

Kate diede alla dottoressa Brief un cenno d’assenso. Guardandola lanciare a Crilin delle chiavi, penso’ che di certo non avrebbe voluto tornare a casa in volo.

Mentre scendeva con Kate nei garage della Capsule Corp., Crilin continuava a ripetere quel nome nella sua mente: Lazuli, Lazuli. Suoni vellutati, dolci come miele.

“Ehm...signorina Lang, ti va se parlo dei tuoi figli durante il viaggio?”

Da come lei lo guardo’ Crilin capi’ da chi i cyborg avevano ereditato la capacita’ di lanciare coltelli con gli occhi. Contrariamente a quello che aveva pensato, non c’entrava niente con le loro modificazioni.

Il guerriero scelse una delle macchine che Bulma gli aveva messo a disposizione. Osservo’ Kate chiudere seccatamente la portiera e storcere il viso da lui:

Questa sara’ una luunga guida...”

Non disse mai alla madre che Diciotto l’aveva baciato e che lui l’aveva stretta a se’ quando lei non sapeva nemmeno di essere ancora viva, accarezzando il suo viso e i suoi capelli. Non le disse che aveva rischiato il mondo per lei, letteralmente. Perche’ Crilin l’amava.

Aveva saputo di amarla fin da quel momento che sembrava ormai lontano, quell’istante in cui aveva calpestato il telecomando sotto gli occhi sbarrati di lei.


 

/

Di nuovo per strada. Di nuovo in macchina.

Nel momento in cui suo fratello aveva visto il parcheggio, Diciotto sapeva gia’ che avrebbe dovuto prepararsi mentalmente alla sua tediosa ossessione per la guida. Diciassette aveva trovato un SUV e ne aveva studiato la cromatura nera opaca, bella tamarra, poi senza preavviso aveva affondato il pugno nel finestrino e aveva tolto il blocco portiere. Dopo aver smanettato con qualche cavo era uscito dal parcheggio investendo in pieno un altro sfortunato veicolo sulla sua traiettoria.

“Ora dove stiamo andando? Son Goku e’ morto, ti ricordo.”

“Dobbiamo trovare un posto dove stare, no?”

Avrebbero potuto andare di nuovo alla Kame House; dove viveva Crilin, esatto. Diciotto si spazientiva quando suo fratello faceva domande senza pensare. Se c’era qualcuno che avrebbe aperto casa propria per loro, era il piccoletto. Gia’ che c’erano, guidare per guidare…

Avevano guidato per un giorno e una notte, ben oltre il limite di velocita’, fin quando ad un certo punto la macchina aveva esaurito il carburante. Diciotto aspetto’ che suo fratello la precedesse lungo la strada senza marciapiedi: discretamente e con soddisfazione, emise un ki blast che polverizzo’ quella tamarrata di un SUV.

I gemelli non sapevano in che distretto si trovavano ora. Diciotto continuava a guardarsi intorno, pensosa. La nebbia che le avviluppava il cervello era ancora persistente, ma fu come se le venne inflitto un colpo al diaframma quando vide in lontananza una mastodontica insegna a neon.

“Diciassette, ti ricordi quello?”

Un centro commerciale, Stella del Centro.

“Si’, ci andavano qualche volta, io e te. E qualcosa mi dice che siamo nel distretto di Central City. Mi accompagni a prendere da mangiare?”


Poco dopo i gemelli erano immersi nel vociare chiassoso del centro commerciale.
“Questi sì che sono vestiti!”
Nessuno riusciva ad accorgersi di Diciotto che, veloce come un lampo, afferrava dagli scaffali quello che più le piaceva per infilarlo in una borsa. Si era persino accollata il compito di prendere dei vestiti nuovi anche per suo fratello.
“Certe abitudini sono dure a morire, vero?” Diciassette la guardò e si mise a ridere “anche prima avevi sempre una borsa stile tata magica.”
Tata magica, che roba e’?”
Il ragazzo la fissò, scandalizzato: “Come chi è? Quella che aveva il potere di riordinare le stanze con uno schiocco di dita e che metteva tutto, anche le lampade da pavimento, in una borsa. Era un film, nostra mamma ci cantava sempre la canzone quando eravamo piccoli.”
Questa volta fu lei a guardarlo con gli occhi fuori dalle orbite: Diciassette si ricordava di loro mamma?
“Certo che no. Però mi ricordo questo particolare; mi accompagni a prendere da mangiare?”
Diciotto iniziò a scartabellare una pila di top paillettati, innervosita dalla sua amnesia: non si ricordava della tata magica, ma in ogni caso una che aveva solo quel tipo di “potere” era sfigata.
 
  Diciassette non sopportava sua sorella: l’aveva accontentata, l’aveva accompagnata a fare man bassa in buona parte dei negozi di trucchi, vestiti e roba da donna che c’erano lì dentro. Lei l’aveva costretto a cambiarsi, consegnandogli dei vestiti che aveva preso poco prima. Coi suoi vecchi vestiti in una busta, erano già dieci minuti che lui aspettava su una panchina perché lei doveva fare la pipì.
Il ragazzo guardava alternamente le proprie scarpe e la gente che usciva da una porta di vetro che si apriva e si chiudeva alla sua destra. Al di là si vedevano delle donne sedute mentre altre le pettinavano.

Che due palle. Ogni tanto Diciassette guardava dentro, osservando divertito tutte quelle signore coi capelli bagnati, gonfi a riccioli o nascosti da caschi che sembravano aggeggi da astronauti.
Si girò e si accorse del suo riflesso in uno degli specchi e rimase a guardarlo. Fu così che vide che anche la donna di fronte a quello specchio lo stava guardando. Per qualche strano motivo gli sembrava quasi sua sorella.
Poi si tolse la cuffia che lei gli aveva calcato in testa. Che senso aveva una cuffia quando persino li’ dentro faceva caldo?
La donna continuava a guardarlo. No, lo stava fissando. Prima aveva alzato lo sguardo sul riflesso nello specchio, poi si era voltata e gli aveva inchiodato addosso i suoi occhi.
Il cyborg non si prese il tempo di notarne il colore.
Si sentì prendere da un’agitazione strana, infondata, come se si fosse trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato. Qualcosa gli diceva che doveva andarsene di lì.
Si alzò di scatto e corse via, proprio mentre la donna abbandonava di corsa la poltrona per gettarsi sulla porta.
 
Adesso tornerò da Diciassette. Poverino, mi starà aspettando…” 
Diciotto era appena uscita dal bagno: girò l’angolo e vide suo fratello che le veniva incontro, camminando con passo nervosamente spedito.
Senza proferir parola lui l’afferrò violentemente per un braccio e la condusse velocemente verso l’uscita sul tetto.
“Oi? Cosa ti è preso, non volevi da mangiare?” Diciotto lo seguì quando lui volo’ via, visibilmente irritata “Diciassette? Che diavolo hai?”
“Non mi parlare.” mugugnò lui senza guardarla in faccia.

 

Quando i gemelli videro dall’alto un edificio in rovina in piena campagna, ci si sistemarono. Addio Kame House, ormai. Diciassette aveva rovinato i piani di Diciotto con i suoi atteggiamenti, ancora una volta.
In quella specie di rustico avevano trovato pentole, sacchi di coperte, quattro brande, il tutto in una stanza in buono stato, col tetto ancora integro.
Diciotto stava diventando isterica, non riusciva a capire cosa stesse succedendo a suo fratello. Da quando l’aveva prepotentemente portata via dal centro commerciale non le aveva più rivolto la parola, gli parlava ma lui non reagiva.

Si era strappato di dosso i vestiti nuovi e aveva rimesso quelli di sempre, aveva preso posto su una delle brande e lì era rimasto, rannicchiato e con la faccia rivolta al muro.
Diciotto aveva usato l’unica arma che le rimaneva, forza bruta a parte:
“Su, Diciassette, guarda fuori: volano bistecche! E cheeseburger, te li stai perdendo!”
Tutto quello che ne ricavava era un raggomitolarsi ancora più stretto.

Una volta si era appisolato. Per tutta la durata di quel mini pisolino aveva mugolato e scalciato e poi era messo a rigirarsi furiosamente:

“No! Merda!”

Non era un vero sonno, ma Diciotto penso’ che lui stesse sognando; si era buttato all'indietro, picchiando la testa contro il muro e lasciandoci delle crepe. Era riuscito a strapparle una grassa risata.

Ancora assonnato, Diciassette si era sfregato un occhio e aveva intuito dalla postura di sua sorella che lei richiedeva spiegazioni:

“Ho sognato che stavamo distruggendo una citta’. Una figata, non c’era nessuno. Un macello assurdo, solo io e te. Poi arrivava un super saiyan, combatteva con noi e mi uccideva. Mi tirava un ki blast nelle palle...”

Lei rise ancora. Rise forte indicandolo, le vennero le lacrime: “Minchia se sei scarso! Un super saiyan, Vegeta?”

“Non saprei, ma prima di me uccideva te. Ti disintegrava. Boom.”
Diciotto smise subito di ridere.

Dopo quel breve episodio, Diciassette era ridiventato apatico. Sua sorella si stava preoccupando che c’entrasse qualcosa con la sua parte cibernetica: magari qualche processore gli era andato in tilt e l’aveva fatto diventare catalettico, o magari era scarico.
 “Ma perché mi viene da pensare una cosa del genere? Siamo cyborg sofisticatissimi, cioè esseri umani imbottiti di circuiti e reattori…” 

Poi si convinse che lui stesse continuamente pensando alla sua rossa e perciò fosse scombussolato. Dopotutto, quello era stato il suo umore negli ultimi tempi.
Diciotto si annoiava, per cui parlava con suo fratello anche se sapeva che non le avrebbe risposto: “Strano: perché in un posto così abbandonato c’è una stanza ristrutturata e abitabile come questa? E cosa vogliono dire quei graffiti?”
Aveva notato un emblema dipinto su un muro, sembravano quasi due lettere. C e M.

Al terzo giorno passato li’ con Diciassette che faceva i capricci, la noia fu così forte che Diciotto non ce la fece più. Torno’ alla Stella del Centro per avere un po’ di tempo da dedicare a se stessa.

Ritorno’ in un negozio che la attirava e ci passo’ minuti felici senza il desiderio di rubare, ma solo provare e vedersi bella. Stava guardandosi allo specchio mentre indossava un prendisole giallo colza, volteggiando discretamente per far girare la gonna a ruota.

“Lazuli?”

Diciotto senti’ qualcuno parlare forte.

“Lazuli!”

Diciotto si giro’ e vide una ragazza che la fissava, quasi con shock. Se voleva uno specchio, ce n’erano degli altri. Perche’ doveva dare fastidio a lei?

“Laz, vecchia troiona! Sei proprio tu?” la ragazza le corse incontro e le prese le spalle, poi la strinse e sorrise “splendida come sempre. Mi sei mancata tanto. Tutto e’ perdonato.”

Diciotto si libero’ dall’abbraccio e la guardo’ con fastidio: “Chi sei? Che vuoi da me?”

“Ma come? Sono io, Sara.”

Diciotto non l’aveva mai vista. Doveva averla scambiata per qualche altra vecchia troiona.
“Sempre la solita scoppiata, davvero non ti ricordi di me? E dov’eri finita, tutti ti stanno ancora cercando. Tua madre e’ disperata.”

Sua madre?

La confusione nella testa di Diciotto si fece sempre piu’ grande. Sentiva che quelle parole avevano un senso remoto, ma l’incapacita’ di collegarle alla sua realta’ le diede un altro attacco di panico. Quando quella Sara si avvicino’ per un altro abbraccio, Diciotto la spinse via con un colpetto; Sara sbatte’ contro uno scaffale qualche metro dietro di lei, che cadde a terra con un tonfo e ne butto’ giu’ altri a sua volta, come un domino.

Che maldestra. Era nervosa…

Turbata dalla forza inaudita dietro a quel gesto, Sara mantenne le distanze da Lazuli ma la guardo’ con occhi malinconici, massaggiandosi un braccio sanguinante.

“Lazuli, perche’? Mi hai ferita, guarda...”

“Non so chi tu sia, ne’ tu hai idea di chi sono io. Non mi parlare mai piu’.”

Fini’ per prendere con se’ il vestito giallo. Sotto gli occhi increduli di Sara, Diciotto corse fuori dal negozio cosi’ velocemente che lo spostamento d’aria causato dal suo passaggio fece cadere altri scaffali. Il nodo allo stomaco si serro’ ancora piu’ stretto, duro.

Il perche’, non lo sapeva nemmeno lei.

Ma qualcosa rallento’ la sua corsa. Sospiro’, girandosi a guardare Sara che si stava rialzando da terra. Con l’aria di chi non vuole demordere, Diciotto si mise una mano fra i capelli e si ridiresse nel negozio.


 

Intanto, nell’edificio diroccato le ore passavano; ad un certo punto Diciassette udì berciare e abbaiare, mentre dei passi lontani rimbombavano su per le scale che conducevano alla stanzetta ammobiliata. Anche se si stava quasi addormentando il suo udito sopraffino gli consentì di accorgersene; tuttavia continuò beatamente a ignorare tutto, anche quando un quartetto di uomini con un cane dall’aspetto aggressivo comparve rumorosamente nella stanza e senza complimenti lo accerchiò.
“Ehi, tu” esordì uno, cominciando a pitoccarlo con forza “come ci sei entrato qui? Vattene subito!”
Acciambellato sulla branda con la faccia verso il muro, il cyborg non si mosse né li degnò di un’occhiata.
“Ma chi è?” disse un altro.
Il primo continuava a toccacciarlo insistentemente: “Ma roba da matti! Ehi topo di fogna, alzati di qui. Sei nel territorio del Commando Magenta.”
Alzò la voce e gli assestò un pugno fra le scapole. Diciassette non reagì.
“O ti alzi subito o ti ammazziamo” ringhiò un terzo, facendo cioccare sul pavimento qualcosa di metallico.
“Balle! Lo ammazziamo subito!” il primo che era entrato diede una spallata a quello con la mazza di metallo, gliela strappò di mano e la fece sibilare in direzione della testa di Diciassette, che la bloccò con una mano e si alzò in piedi, lasciando di stucco l’uomo.

L’unico membro del gruppo che non aveva ancora parlato ruppe il suo silenzio, osservando perplesso il viso dell’intruso: “Ma e’ un ragazzino!”
Diciassette gettò uno sguardo piatto e veloce al gruppetto: erano in quattro, come pensava.
Sembravano banditi, erano di mezz’età e portavano abiti di pelle con l’emblema CM, Commando Magenta, oltre che varie armi come catene, coltelli, sbarre e mazze metalliche; uno teneva in mano un fucile d’assalto.

Il cane ringhio’ e annaspo’ nel tirare con forza la catena crudele che gli stringeva il collo mentre Diciassette lo guardava, serio.

Uno dei banditi libero’ la bestia, spingendola malamente col piede : “Avanti, Botz: sbrana!”

Ma Botz non attacco’, come se avesse capito che l’animale di fronte a lui era piu’ forte. Quando vide Diciassette alzare una mano istintivamente si accuccio’ per terra, guaendo e guardando in su con occhi dolci mentre cominciava a fidarsi delle carezze che ricevette. Sempre tenendo salda la mazza di metallo, il cyborg guardo’ storto l’uomo che aveva dato un calcio al cane.
Quello che teneva l’altra estremita’ della mazza era rimasto interdetto, ma si riscosse presto e cercò di togliergliela di mano.
Diciassette fece un sorrisetto di scherno, tirando leggermente se la prese.
“Ma tu guarda ‘sto stronzo!”

Un altro bandito sbuffo’ oltraggiato, caricando il fucile e sparando.
Aveva mirato dritto all’occhio destro del cyborg, ma si sentì le ginocchia tremare quando il proiettile si spiaccicò come burro sulla sua cornea.
Il ragazzo mise Botz al sicuro, sbatté innocentemente le palpebre e con elegante ferocia si fiondò sul primo che gli capitò a tiro: con una mano lo afferrò per la giacca e lo lanciò giù dal balcone della stanza; l’urlo flebile del bandito si prolungò fino a venire rimpiazzato da un tonfo e da un crash udibile solo ai timpani rinforzati del giovane.

Diciassette guardo’ gli altri con occhi duri, cattivi: “Ops. E’ scivolato.”
“Tu sei pazzo!”

Quello col fucile scarico’ a più non posso tutti i colpi, mentre gli altri tentavano di dare addosso a Diciassette. Lui alzò un braccio e devio’ la traiettoria delle pallottole, alcune rimbalzarono contro il muro e altre si spezzarono a contatto con la sua mano nuda. Il cyborg colpì uno dei due con un raggio fotonico, si accorse che portava una pistola e la prese in prestito, ricordandosi all’improvviso di aver perso la sua da tempo.
“No! Non spararmi!”

Appena vide il ragazzo avvicinarsi il bandito getto’ a terra il fucile svuotato, alzando le mani in segno di resa.
Diciassette scopri’ i denti in una specie di sorriso beffardo. Mise la canna della pistola contro il suo naso: “Ehi, veramente tu hai sparato per primo.”

Quando il bandito fini’ a terra supino, non aveva piu’ una faccia.
Quello che era stato colpito dal fascio di energia rantolava e si contorceva per terra, Diciassette ebbe la compassione di finirlo con un colpo di pistola: “Tanto è comunque morto.” 
Il silenzioso, l’ultimo rimasto, tremava; in mano stringeva un coltello, che lascio’ cadere. Diciassette si preparo’ a uno svogliato interrogatiorio:
“Dimmi tutto quello che devo sapere. Chi e’ il Commando Magenta?”

L’uomo non riusci’ a guardarlo in faccia; se il capo fosse venuta a conoscenza anche di una sola parola che lui stava per dire, probabilmente gli sarebbe costata la vita. Ma in quel momento, quel ragazzo di fronte a lui gli faceva paura. Molta, molta di piu’ di qualsiasi Cloe Mafia.

“Siamo la gang di Central City, siamo stanziati poco lontano da qui. Cloe Mafia e’ il nostro leader, fin dai tempi dei Neri...”

“Chi sono i Neri?”

Il bandito confessò ogni dettaglio sul Commando: controllavano l'intero traffico di droga nel distretto di Central City, all'occasione erano anche sicari. Il loro trafficante di armi, nonché maggior cliente era un signorotto negli Yunzabei Heights; il loro quartiere generale comprendeva da solo sei isolati per un totale di due km quadrati.

Avevano ottenuto più potere dopo la sconfitta dei Neri, una gang defunta di cui nessuno aveva mai visto i leader. Lui ricordava due figure in nero che di tanto in tanto assaltavano gli isolati in cui i luogotenenti erano stazionati e prendevano tutti i soldi. Uno dei due concludeva sempre quei raid con delle sparatorie che per quanto violente, non uccidevano mai nessuno. La loro fortuna era cambiata con un incidente:

“Non abbiamo avuto prominenza fino al giorno del treno. Qul giorno ci siamo scontrati con i leader dei Neri e Cloe ha smascherato la ragazza... l'ha ceduta alla polizia. Non proprio lei ma il suo DNA, un capello sul suo passamontagna. Da quando abbiamo messo la polizia alle calcagna dei Neri tutto è andato in discesa per noi. Tre anni fa dopo i leader sono scomparsi. Noi...abbiamo ucciso gli altri.”

Il bandito cercava di capire quale fosse la natura di quell’assassino sanguinario che si era preso il suo edificio. Registro’ quanti piu’ dettagli pote’. Il viso da ragazzo dai tratti spigolosi, la sciarpa arancione legata intorno al collo, I canini appuntiti, gli orecchini ad anello. I suoi occhi ghiacciati e il suo alito caldo, contro la propria mano. Fu proprio quel binomio a scombussolarlo nel profondo: uno sguardo cosi’ tanto freddo da sembrare meccanico e il calore di un corpo umano non potevano stare insieme, non ne capiva la ragione: era una paura animale, quella provata dalla lepre prima di essere infilzata dagli artigli dell’aquila.

Ebbe solo un pensiero: appena quella mattina Cloe aveva tenuto una riunione speciale e aveva informato tutti loro, i suoi ragazzi, che il giorno prima aveva crivellato di colpi un intruso e che costui non era morto. Le pallottole non avevano perforato nemmeno i suoi indumenti.

“Tu...Sei tu l’androide n.16?”

“Cyborg n.17, se mai. Come conosci Sedici?” ruggi’ il ragazzo, inginocchiato di fronte a lui.

Il bandito era cosi’ vicino al suo viso da riuscire a vedere un’ombra scurire il suo sguardo, le pupille dilatarsi.

“Ho solo sentito parlare di lui, ti giuro! Nemmeno...nemmeno Cloe sa dov’e’ andato. Ti prego, ti prego, sono solo un semplice scagnozzo. Non ho fatto del male all’androide.”

Diciassette ebbe un tuffo al cuore. Abbasso’ lo sguardo per un momento e si senti’ felice. Sedici era vivo ed era la’ fuori, esattamente come aveva pensato lui.

Il bandito teneva le mani alzate, respirando affannosamente.

Diciassette non aveva dubbi sul fatto che Sedici fosse incolume, non gli interessava questo Commando Magenta. Annoiato da come il bandito non potesse portarlo da Sedici e non avendo piu’ nulla da chiedere, sparo’ un colpo che lo uccise immediatamente.
 


Diciassette si sentiva bene. Ci volevano proprio quei quattro bifolchi! Gli avevano dato una sferzata di adrenalina, si sentiva di nuovo in sé.
Così questo era un covo di banditi…”

Si tolse la sua maglia nera, macchiata di sangue, poi diede un rapido sguardo alla stanza: c’erano frammenti metallici di proiettile, tre cadaveri.
Alzò le spalle e in un lampo incenerì i resti dei due banditi, non voleva che sua sorella lo sapesse e si preoccupasse. Poi saltò giù sull’acciottolato del cortile, dove giaceva il primo che aveva ammazzato. Sentendo odore di carne essiccata, il cyborg si avvicino’ al cadavere e trasse dalla sua tasca un pachetto di bocconcini per cani.

La caduta era stata notevole e il cranio dell’uomo si era aperto come un uovo, schizzando roba qua e là con un effetto aerografo.

Bleah…”  

Diciassette storse il naso: anche se era mezzo macchina, anche se aveva per qualche minuto sperimentato con divertimento il modo Terminator, lo spettacolo disturbo’ il suo stomaco vuoto. Si affrettò a distruggere anche l’ultima traccia di quel massacro.

Nella stanzetta, Botz era uscito dal suo cantuccio e guardava Diciassette con la testa inclinata.

Il ragazzo gli diede i bocconcini e rimase ad accarezzarlo. Botz sembrava chiedergli “vuoi giocare con me?”

“No, scusami. Ora voglio riposare un po’. Se vuoi, resta. A dopo.”

Botz si godette gli ultimi grattini sul collo e si distese sul pavimento. Non avendo più niente da fare, Diciassette si tolse le scarpe, la cintura e la sciarpa; si mise comodo sulla branda e chiuse gli occhi non accorgendosi che, per la prima volta da quando era diventato cyborg, era scivolato in un vero sonno.

/

Sedici aveva visto molti piu’ umani di quanto avesse mai immaginato in quei pochi giorni. Aveva visto in poco tempo tante sfumature di terrestri dalla gioia della sana famiglia Brief alla crudelta’ di quella donna gangster. I suoi circuiti lo facevano pensare e ripensare a quella Cloe, a come un’umana potesse uccidere altri umani con cosi’ tanta leggerezza.

Mentre camminava pensoso per le strade di Central City, Sedici aveva sentito qualcosa, un lieve aumento di potere da parte di qualcuno che conosceva. Non sapeva se un androide come lui potesse provare speranza, ma Sedici voleva che quell’energia appartenesse a uno dei cyborg: aveva appreso dai Brief che, per ragioni oscure, loro due si erano separati da Cell prima che questo venisse ucciso, quindi erano vivi e tutto quello che lui doveva fare era trovarli.

Il segnale che l’aveva attirato ora aveva smesso di manifestarsi, ma Sedici gia’ sapeva da dove provenisse. Volo’ di nuovo sopra il territorio del Commando evitando di guardarlo, fino a giungere in campagna.

Vide un edificio solitario. Una vecchia casa di pietra, diroccata ma robusta.

Sedici la perlustro’ e non vi trovo’ nessuno. Salendo all’ultimo piano, apri’ una porta e boccheggio’ per lo stupore quando vide Diciassette. Era tutto intero, vivo; giaceva su un fianco, aveva gli occhi chiusi e non si era accorto di lui, ma Sedici constato’ che stava bene. Stava solo dormendo.

Ai suoi piedi, anche un grosso cane bianco con orecchie rosa a punta sonnecchiava. I movimenti di Sedici erano stati troppo leggeri e non aveva un odore vivo, il cane aveva continuato a russare tranquillo.

Sedici penso’ che fosse curioso che Diciassette potesse dormire come un umano, non gliel’aveva mai visto fare durante i giorni che avevano passato insieme in giro per il mondo, prima di Cell.
E l’androide si sorprese delle sue stesse emozioni, constatando che poteva provare divertimento: senti’ la voglia di ridere nel vedere che Diciassette stava sbavando sul cuscino.

Lo lascio’ stare e si sedette vicino alla finestra, aspettando Diciotto.


 


 


 


 


 

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Capitolo 12
*** Solo ad una chiamata da te ***



 

Partiamo!

Porta una pagnotta, un coltello e una lampada nella borsa

La passione che mio padre mi ha lasciato

Lo sguardo che mia madre mi ha rivolto.


 

La terra gira, ti nasconde

I tuoi occhi brillano nella luce splendente

La terra gira, trasporta te

trasporta noi, che ci incontreremo un giorno.


 


 


 

Poco prima dell’arrivo dei gemelli alla casa diroccata...

Il sole negli occhi e il calore di giugno erano insopportabili. Non c’era mai stato cosi’ tanto traffico sull’A1, pareva che all’improvviso tutti volessero andate a Central City. Anche se procedevano lentamente, Kate aveva la nausea. Col mal d’auto si doveva guardare la strada, ma lei voleva ostinatamente evitare ogni contatto visivo con Crilin, anche periferico.

Da quando avevano lasciato la Capsule Corp. era rimasta girata su un fianco, col finestrino leggermente aperto.

“Ehm...signorina Lang, se vuoi posso mettere l’aria condizionata.”

Poverino, quel ragazzo. Tentava di attaccare bottone, probabilmente cercava di consolarla e di essere civile. Sembrava anche lui a disagio a trovarsi ad avere a che fare con lei, anche se non l’aveva guardata come se venisse dallo Spazio. Kate era abituata agli sguardi della gente e aveva sempre saputo che non metteva gli estranei a loro agio: i suoi occhi e i suoi lineamenti non trasmettevano cordialita’. Tuttavia, chi la conosceva sapeva che non era una persona fredda e altezzosa. Non lo era piu’.

Anche sua figlia Lazuli era esattamente cosi’, in piu’ era pure maliziosa: era intimidatoria e ci marciava. Se questo Crilin aveva davvero conosciuto i suoi figli, forse aveva gia’ familiarita’ con quel tratto che tutti e tre condividevano.

“...In ogni caso, quando hai spaccato il vetro in faccia a Vegeta...ci vuole un bel fegato. Tanto di cappello.”

“Perche’ Vegeta e’ invulnerabile e sa volare, giusto? Me lo sono sognata?”

No, era vero. Ma Crilin penso’ che non fosse di certo il momento giusto per dire a quella donna che il marito di Bulma era il principe di una razza aliena quasi estinta, capace di distruggere pianeti e di trasformarsi.

Se Kate nuotava in un mare di dubbi dopo quello che le era stato detto, anche Crilin scoppiava dalla curiosita’. Per dio, aveva davanti la madre di Diciotto! Durante il viaggio aveva stentato a trattenersi dal chiederle informazioni sui gemelli, su com’era stata la vita con loro, quali erano le loro cose preferite, quando era il loro compleanno. Piccole cose che lo incuriosivano.

“Immagino che anche...il padre dei gemelli sia preoccupato.”

Crilin ebbe quasi paura che lei potesse picchiarlo. Non gli avrebbe arrecato alcun danno, ma lui aveva capito di che pasta era fatta.

“Altamente improbabile. Li ho cresciuti io, da sola.”

Evitando piu’ che pote’ lo sguardo del suo curioso interlocutore, Kate soppeso’ con attenzione i vantaggi del pronunciare parole che non erano state dette per piu’ di vent’anni. Non aveva mai raccontato a nessuno tutta la storia, nemmeno agli stessi gemelli. Era sempre stata una delle cose piu’ intime che aveva. Ma ora, paragonate a gente che volava e ai suoi figli che erano diventati cyborg a quanto pare, le sue avventure non le parvero piu’ cosi’ private. Improvvisamente le sembro’ naturale parlarne.

“...la nostra non e’ stata una storia d’amore; io e lui siamo stati insieme giusto il tempo di concepire i gemelli.”

Kate aveva passato tutto quel tempo a chiedersi se lui lo sapesse; lei non gliel’aveva mai detto, ma il ricordo che aveva era di un uomo intelligente.

Crilin odio’ che il traffico avesse ripreso a scorrere; voleva dare tutte le sue attenzioni a Kate Lang.

“Non li amava?”

“Oh, li avrebbe amati.”

La vide sorridere mentre pensava forse a qualche ricordo, o a quelle stesse parole che in altre circostanze non avrebbe mai confessato.

Kate non volle assolutamente lasciare che le si leggesse in faccia il flashback che stava vivendo. Le ritornò in mente quel lontano mattino di settembre nel distretto di South City. Lei in piedi sulla banchina ad aspettare la nave Ragamuffin, pallida e sfinita ma con le guance in fiamme. Ventiquattro anni, Lapis e Lazuli solo una promessa di vita rannicchiata sotto le pieghe del vestito; e il loro padre che piangeva, dicendo addio alla ragazza del suo cuore. Sapeva che doveva lasciarla andare.

“Spiegami un po’. La natura della relazione fra te e i miei figli.”

Quando la guardo’ e vide una nuova vivacita’ nei suoi occhi, Crilin penso’ che in quel momento assomigliasse tantissimo a Diciassette. Resto’ imbambolato per un attimo:

“Io ero li’: quando sono stati attivati.”

Brutta parola. Pessima scelta.

“Loro...sono stati programmati per essere nostri nemici. Ma si sono ribellati al dottor Gero, non sono mai stati carnefici disumani.”

Il volto di Kate ritorno’ impenetrabile e Crilin si maledi’ per le sue infelici scelte lessicali. Ma era la verita’ nuda e cruda. E in un certo senso sentiva che quel grado di verita’ era tutto quello che voleva, doveva dare alla madre. Lei non avrebbe accettato menzogne.

“Io ho avuto l’occasione di fare qualcosa per loro e l’ho fatto. Ora loro sono liberi. Possono vivere in pace.”

Forse Kate avrebbe preferito non saperlo.

Attivati, dottor Gero, disumani.

Se da un lato si stava convincendo ad accettare che quella fosse la verita’, la sua testa si rifiutava sempre di credere che due cyborg potessero persino essere qualcosa di reale. Istintivamente si prese la testa fra le mani, per non farla scoppiare.

Ormai erano quasi a Central City, Kate guardo’ fuori dal finestrino:

“Frena la macchina, Crilin.”

Lui la guardo’ stupito: “Non siamo ancora a casa tua.”

“Io scendo qui. Buona vita.”

Kate penso’ di lasciarsi tutta quella faccenda alle spalle scendendo dalla macchina e incamminandosi verso un posto che aveva visto, in cui avrebbe potuto schiarirsi le idee mescolandosi alla folla e distraendosi con il baccano della musica nei negozi.

“Aspetta! Devo portarti a casa!”

Senza girarsi a guardare Crilin, Kate continuo’ spedita verso l’edificio dalla grande insegna, facendo un gesto a caso che voleva essere di ringraziamento. Conosceva bene la Stella del Centro, Lazuli ci andava sempre. Tutte le volte tornava con vagonate di roba più o meno comprata.

Quel giorno Kate aveva deciso che si sarebbe fatta una messa in piega: se non avesse fatto qualcosa per distrarsi era sicura che le sarebbe venuto un infarto. Andare dal parrucchiere la rilassava.

Come si aspettava il centro commerciale era affollato e mentre la parrucchiera la pettinava, dallo specchio Kate guardava la gente passare come una fiumana. Vedeva benissimo anche le persone sedute su una panchina a riposarsi.
 C’erano un nonno che mangiava il gelato in compagnia della sua nipotina, una ragazza che scriveva al cellulare e una donna che portava una sciarpa sui capelli; ma quello che aveva immediatamente attirato la sua attenzione era stato un ragazzo.
Portava  una cuffia in testa, dei jeans neri e delle scarpe da tennis, la maglia smanicata era bianca. Sembrava annoiato, continuava a battere i piedi sul pavimento e teneva le braccia vigorose incrociate sul petto.
Kate non aveva una buona visuale da quello specchio, ma si era accorta che aveva un bel profilo; le ricordava quello di Lapis.
Alzò le spalle, tanto ormai credeva di vederli dappertutto.
Continuava a guardarlo, fantasticando su quanto le sarebbe piaciuto che quel bel ragazzo fosse stato suo figlio.
Siccome continuava a fissarlo attraverso lo specchio, vide anche che si era tolto la cuffia.
Kate ci rimase di sasso; le nocche delle sue mani sbiancarono quando lei afferrò i braccioli della poltrona, col sudore freddo.

Ora anche il ragazzo la stava fissando.
“Lapis…” il respiro di Kate era un soffio.

Non voleva crederci, non riusciva a crederci. Sull’orlo del pianto, si alzo’ dalla poltrona e coi capelli ancora bagnati corse più veloce che poteva verso l’uscita del salone: “Lapis!”
Ma nello stesso istante in cui Kate aveva raggiunto la porta il ragazzo si era già dileguato.
 

Crilin non se n’era andato via. Non sapeva se Kate sarebbe ritornata presto, ma non se l’era sentita di piantarla li’. Era rimasto in macchina ad ascoltare la musica, guardando le auto che passavano. Dallo specchietto, da cui poteva vedere l’ingresso della Stella del Centro, il guerriero aveva improvvisamente scorto un bus passare, e appena dietro qualcuno che aveva corso fin quando il bus non era stato troppo veloce da inseguire. La sua attenzione fu attirata dalla lucentezza di una chioma nera.

Di fretta, Crilin rimise la macchina in moto e costeggio’ Kate, che con gli occhi e il viso rosso camminava con fare arrabbiato:

“Signorina Lang! Non avevi bisogno del bus, ero qui.”

Freno’ all’improvviso quando lei gli taglio’ la strada per risalire in macchina.

Lui non oso’ domandarle cos’era successo; sembrava avesse visto un fantasma.

Coi capelli tutti bagnati, Kate inchiodo’ Crilin con uno sguardo che non ammetteva repliche:

“Alla centrale di polizia. Ora.”

Diede una sberla sulla mano a Crilin e armeggio’ nervosamente col navigatore, risparmiando a lui il compito di inserire l’indirizzo.


“Ho visto mio figlio.”

Kate battè le mani sulla scrivania del detective. Tre anni di vuoto, in cui ogni tredici febbraio aveva scritto delle lettere riassuntive e dei pensieri per il loro compleanno. Cosi’ tanto tempo passato a soffrire. Era stata cosi’ vicina a lui, il destino le aveva fatto ballonzolare quella possibilita’ davanti agli occhi per poi togliergliela senza remore.

Crilin era seduto di fianco a Kate, e lei era cosi’ nervosa ed emozionata che non gli aveva nemmeno impedito di seguirla. Ora riusci’ a spiegarsi la sua reazione e trasali’ nel rendersi conto che i gemelli erano stati ancora una volta a un passo da lui. Dannato ki dei cyborg, se solo fosse stato come il suo Crilin li avrebbe trovati all’istante. Chissa’ dove se n’erano scappati, questa volta.

Chissa’ se avrebbe rivisto ancora la sua Diciotto, la sua Lazuli.

Il detective aveva convocato la squadra che si stavano ancora occupando del caso gemelli. Non erano riusciti a contattare il capitano, ma potevano gestire Kate da soli. Non c’era bisogno di disturbare il capitano mentre era in pattuglia nel quartiere piu’ pericoloso di tutto il distretto.

“Ne sono sicura, credetemi, quello era Lapis: l’ho visto con i miei occhi!”
Un agente cliccò col mouse, sul suo desktop apparve una foto, che mostrò a Kate:

“Ecco, questa è una foto di suo figlio, risale all’epoca della scomparsa. Sicura che fosse veramente lui, signora?”
Crilin guardo’ di sfuggita e vedere Lapis prima che diventasse n.17 gli fece venire nostalgia di qualcosa che non aveva mai perso. Li’ era solo un normale ragazzo umano, ancora ignaro dei terrori che l’aspettavano. Ripensò all'attuale Diciassette, stupendosi nel vedere che dall'esterno nessuno avrebbe mai capito che oramai era, in teoria, un’arma.

Il guerriero si senti’ pero’ sollevato nel pensare che almeno per ora i terrori erano finiti.

Kate rimase davanti allo schermo, guardando ossessivamente ogni particolare dell’immagine: “Non è cambiato di una virgola…”
“Come scusi?”
“Non è cambiato. Il Lapis che ho visto io è totalmente identico a questa foto.”
Il detective si sedette di fronte a lei: “Signora. Quando Lapis è scomparso aveva diciotto anni se non mi sbaglio, giusto?”
“Sì. È esatto”.
“E adesso, stando a quello che ci ha detto lei, è vivo e ne avrebbe ventuno, compiuti.”

Kate annuì. Che razza di domanda era, non era capace di fare una semplice addizione?

Se solo Kate avesse accettato quello che le era stato detto! Crilin strinse i pugni dal nervoso nel vedere come lei si intestardiva a volersi affidare alla polizia: lui, Bulma e Vegeta le avevano gia’ detto che erano vivi.
Il detective sospirò costernato: “Mi dispiace, ma non penso davvero che il ragazzo che lei ha visto fosse lui. Sa com’è, anche se ormai a quell’età non si cambia più tanto è impossibile non cambiare di una virgola in quel lasso di tempo. Specialmente per un giovane uomo, a ventun anni si e’ meglio strutturati che a diciotto. Mi corregga”.
Effettivamente il ragionamento del detective filava. Era vero, non era di certo come passare dall’adolescenza all’eta’ adulta, ma effettivamente non era possibile. Lapis era perfettamente uguale a come se lo ricordava, tranne ovviamente per i vestiti.

“Ma era lui! Ne sono sicura!”
Kate avrebbe potuto sbagliarsi su qualsiasi cosa, ma non su suo figlio. E Lazuli? In teoria avrebbe dovuto esserci anche lei, e di sicuro c’era.
Però Kate si rendeva sempre più conto della sua componente emotiva, un fattore che di sicuro giocava in prima fila in tutta quella faccenda: possibile che quel giovane dai lunghi capelli neri fosse stato solamente un’allucinazione?

“La sua teoria è certamente valida, detective; ma mi dica solo, in quanti hanno questo aspetto?”

Tutti si girarono a guardarla; cosi’ tante persone e fisionomie passavano sotto gli occhi di quei poliziotti, ma quella tavolozza gioiello di capelli nerissimi e occhi di acquamarina, quelle fossette sulle guance? Per quanto li riguardava erano effettivamente solo di Kate Lang.

E di suo figlio Lapis, già.

Davanti a quella verita’ inconfutabile, il detective ammise che forse lei non si era sbagliata.

“Va bene, signora. Vale la pena prendere la sua testimonainza in considerazione.”

Sotto lo sguardo ferreo di Kate il detective prese in mano il telefono; l’apparecchio suonò a vuoto nelle mani, chiamando finalmente il capitano Weiss.

 

/

 

Quando aveva abbandonato il quartier generale del Commando Magenta Sedici era volato via, stando rasente alla cima degli edifici.

Non si era allontanato molto: presto le sirene insistenti di un’auto della polizia lo avevano incuriosito. Si era stanziato su un balcone fatiscente e i suoi sensori ottici avevano registrato subito un poliziotto con un megafono in mano:

“Signore, scenda a terra. Subito.”

Gli ricordo’ quella volta a West City, quando si era illegalmente immerso in quel laghetto per accarezzare i cigni.

“Mani in alto, dove posso vederle.”

I suoi circuiti calcolarono che il poliziotto lo credesse affilliato a quella mostruosa Cloe.

Il poliziotto sembrava stupito dal suo aspetto, ma non indugio’ ad ammanettarlo.

Contrariamente a quanto aveva fatto quando Diciassette e Diciotto avevano rubato il furgone, non le spezzo’. Si diverti’ giusto nel vedere che nonostante i suoi sforzi, il poliziotto non riusciva a farlo entrare in macchina.

“Non serve, non sono Commando Magenta. Il Commando Magenta e’ malvagio.”

“E come faccio a crederti? Eri li’. Nessuno a parte noi e loro bazzica qui intorno.”

Sedici gli regalo’ il suo sorriso stanco. Non seppe come i suoi processori gli permisero di distinguere il suo rango:

“Capitano, ho parlato con il Commando. Lei mi ha sparato, temeva che io raccontassi a voi di loro. Se mi credi, io voglio raccontare quello che so.”

Il capitano Weiss pattugliava da mesi l’area rischiosa del quartiere generale, sperando che succedesse quello che era successo ora: catturare un membro del Commando o qualche testimone alle loro attivita’ che non era ancora diventato cadavere.

Erano criminali efferati ma furbi, eludevano i poliziotti che non uccidevano.

Weiss sapeva che la missione che si era scelto era particolarmente pericolosa. Solo due settimane prima, Cloe Mafia in persona aveva ucciso alcuni dei suoi colleghi.

Bruno non temeva molto per se stesso, visto che cercare di minare il Commando era il suo obiettivo. Temeva per la sua famiglia; tutte le sere la sua fidanzata, che presto sarebbe stata sua moglie tornava a casa prima di lui e non si dava pace finche’ non sentiva le sue chiavi girare nella serratura. E lo abbracciava stretto, lieta che il Commando non l’avesse fatto fuori, poi gli dava uno schiaffo per l’ansia in cui l’aveva fatta vivere per un altro giorno.

Bruno penso’ a lei e alla bambina quando finalmente si ritrovo’ fra le mani quel gigante pronto a parlare. Forse quella era la sua opportunita’.

L’aveva portato in una piccola centrale, una succursale di quella grossa in cui lavorava di solito col detective che si stava ancora occupando del caso di Lapis e Lazuli.

Sedici gli descrisse minuziosamente tutte le persone che aveva visto: grazie ai suoi sensori ottici pote’ fornire una stima precisa della loro statura, della loro eta’. Aveva descritto anche le armi da fuoco che aveva visto, dando ai poliziotti la possibilita’ di rintracciare il percorso che avevano fatto, da chissa’ dove fino alle mani del Commando.

“Il tuo contributo e’ di qualita’ eccezionale,…?”

“Sedici.”

Bruno si gratto’ il mento nell’udire quel nome, ma non ci penso’ su: “Sedici. Potremmo avere bisogno del tuo supporto durante questa settimana.”

 

 

/

 

Sara era sul pavimento del negozio ancora dolorante; si senti’ afferrare per le spalle e sollevare. Si ritrovo’ Lazuli ancora di fronte, con il solito sguardo algido.

“Cosa ti e’ preso? Devi ridarmi quel vestito, io lavoro qui e ti ho lasciato compiere un altro furto. Vecchia bagascia…”

Sara sembrava usare gli insulti come termini affettivi. Le sembrava che Sara avesse gia’ dimenticato che lei l’aveva ferita; non c’era rancore nei suoi occhi.

L'aspetto di Sara le diceva qualcosa, qualcosa che si perdeva nella distanza fra lei e il mondo a cui Gero le aveva fatto dire addio. Era come se Diciotto sapesse che Sara aveva sempre prediletto quel look di orecchini pendenti e coda alta, quei capelli biondi scuri che sfumavano in biondi chiari, tanto chiari quanto i suoi (ma finti). Si ricordava forse quegli occhi blu profondo e il sorriso gioviale, gli zigomi prominenti e ampi. E voleva tanto ricordarsi di lei.

Sperava che Sara potessi dire qualcosa che avrebbe fatto scattare un ricordo nella sua mente. Per cui stette al gioco:

“Allora, cos'hai fatto mentre io ero sequestrata?”

“Ho trovato lavoro qui. E ho fatto un capolavoro.”

Piena di orgoglio Sara le mostrò la foto di una bambina piccola con qualche ciocca di capelli ricci, dalla pelle e dagli occhi ambrati. Aveva sei mesi.

“Questa è la mia Amelia.”

Fra i due l'amante dei bambini era Diciassette e non lei, ma innegabilmente gli occhi di quella bambina le smossero qualcosa dentro, Diciotto era sicura di conoscerli. Erano del padre.

Era così strano, si sentì amareggiata; in tutto quel tempo, Sara aveva fatto in tempo a diventare madre. Chissà com'era stato; da un giorno all'altro aveva messo al mondo un altro essere umano.

“Se chiedi a me, Laz, è la cosa più bella del mondo. A me è piaciuto essere incinta, mi è piaciuta anche la fase in cui Amelia si svegliava ogni due ore. Anche se bon, il mondo era in tumulto per quella storia di Cell. Poi per tutte non è così, questa semplicemente la mia esperienza.”

Sara le parlò del terrore della situazione Cell, un argomento di cui Diciotto non volle conversare.

“Ma in tutto questo, dov'è Lapis?”

“Chi?”

“...bah, tuo fratello.”

Ah, Diciassette. Era rimasto indietro, si sentiva poco bene. A proposito, presto o tardi a Diciotto sarebbe toccato tornare indietro e scuoterlo fuori da quel capriccio.

“Hai detto qualcosa a proposito di mia madre?”

Sara si gratto’ la testa; le disse di aspettare che finisse il suo turno, era una commessa in quel negozio: “Penso che sia meglio parlare con calma, mentre ci beviamo qualcosa.”

La cyborg aveva aspettato la fine del turno seduta su un divanetto nella sezione scarpe. Le fece male non avere piu’ il minimo ricordo di Sara: quella ragazza sembrava niente male, era qualcuno con cui parlare.

Poco dopo, Sara guardava esterrefatta Lazuli bersi il suo sesto te’ freddo.

“Sembra che tu abbia sempre meno di vent’anni. Hai una pelle cosi’ bella perche’ bevi tanto?”

Bere tanto. Certo...”

Diciotto fece per masticare una cannuccia, ma si trovo’ in bocca un pezzo di plastica tranciato con precisione.

“In ogni caso, da quello che so tua madre non ha mai smesso di cercarti negli ultimi tre anni. Non voglio offenderti, ma io pensavo tu fossi morta. Immagina quando ti ho rivista in negozio.”

Chi era sua madre?

La parola le faceva effetto, lei era una figlia. Aveva una madre. Avrebbe potuto rivederla?

“Non importa piu’, ora sono tornata. Portami da lei.”

“Non saprei come...”

Diciotto guardo’ Sara comporre un numero sul cellulare. Noto’ di sfuggita un anello di fidanzamento al suo dito.

“Ma qualcuno forse puo’ farlo.”

Cosi’ stava per succedere, Sara l’avrebbe ricondotta da questa fantomatica madre. Un altro passo verso una vita che aveva perso, un altro strattone alla gabbia: piu’ liberta’ era li’, ad una chiamata telefonica da lei. Presto sua madre sarebbe stata li’.

Ma Diciotto era sola. Sola di fronte a una delle cose piu’ sconvolgenti che avrebbero potuto accaderle, ritrovare la vera persona a cui doveva la vita.

Diciotto non era pronta, era cosi’ piccola di fronte a quell’enormita’. Doveva tornare da Diciassette. Doveva farlo ora.

Sara si sentiva messa alle strette. Sapeva che i gemelli erano spariti da delinquenti, e ora per quanto riguardava la legge erano tornati da delinquenti. La loro sparizione aveva lasciato in sospeso certe questioni penali, come il rogo del treno. Anche se i poliziotti propendevano anche per altri colpevoli, il Commando Magenta, i gemelli andavano comunque arrestati. Ma erano appena ritornati. Dovevano almeno andare a casa dalla loro mamma e se Sara avesse fatto quella telefonata, sarebbero stati arrestati. Forse, con un po' di fortuna, la persona che Sara stava per chiamare avrebbe per una volta accantonato il dovere. Aveva una possibilità su due.

“Ehi, tesoro. Non indovinerai mai chi c’e’ qui con me, mi e’ venuto un colpo! Laz, vuoi parlare con...”

Parlando al telefono Sara aveva abbassato gli occhi per meno di un secondo. Quando li rialzo’, rimase a guardare solo un posto vuoto di fronte a se’.

Lazuli era sparita.

 

 

/

Bruno non voleva credere alle sue orecchie. Aveva ricevuto una chiamata scioccante: avevano trovato Lazuli. La sua fidanzata ci aveva parlato. Lazuli in carne ed ossa le aveva detto che era stata rapita e che ora era tornata.

Bruno sapeva che doveva credere a Sara, se lo sentiva che lei aveva detto la verità.

Lazuli le era sembrata in buono stato: il suo aspetto era quello di sempre e non sembrava malata, anche se Sara aveva capito che faceva fatica a ricordarsi della sua vita prima del rapimento.

Bruno non riusciva a smettere di pensarci. Lei era viva, esisteva ancora. Lei era tornata. In quel caldo pomeriggio alla centrale, Bruno continuava a sfogliare il fascicolo del suo caso e si arrovellava su cosa fare, cosa dire a Kate: nel momento in cui avessero trovato i gemelli, un arresto era il dovere.

“Qualcosa ti turba, capitano Weiss.”

“Ah, Sedici. Sembri sempre così tranquillo, come fai?E’ un vecchio caso. Potremmo avere la possibilità di catturare due gangster che erano spariti e che ora sono tornati.”

“Catturare criminali è un nobile dovere.”

“Sicuramente, ma questo è un caso strano. Io conosco bene la madre di questi due e non ho cuore di dirle come si svolgono le procedure. Sono costernato. Dovrò negarle di stare coi suoi figli.”

Sedici guardò casualmente nel fascicolo e vide una foto dei cyborg. Erano proprio loro.

Ormai grazie ai Brief sapeva la loro storia. E adesso qualcuno aveva visto Diciotto, erano vivi. Erano lì vicino.

Scusandosi col capitano Weiss, Sedici aveva lasciato di corsa la mini centrale di polizia. Aveva bisogno solo di camminare per strada, doveva pensare. Doveva capire le informazioni che i suoi stessi circuiti stavano registrando, a proposito del suo stato d'animo. Era stato allora che aveva sentito la forza combattiva di Diciassette.

 

/

 

Presente

 

Diciotto volava.

Volava e una strana sensazione di angustia le aveva fatto ritornare quel nodo alle budella. Alla vista della vecchia casa di pietra, perse quota ed entrò dalla finestra della stanzetta.

“Diciassette, devo parlarti. Ti prego, ascoltami.”

Vide che dormiva come un sasso; lo poncionò ma lui la spinse via e si girò dall'altro lato.

Ok! Allora fa' quello che ti pare.”

“Lascialo, sta riposando.”

Lei non seppe se stupirsi della bestia massiccia sul pavimento, che ora aveva rizzato le orecchie, o della voce che riconobbe all'istante.

Ebbe quasi paura di alzare gli occhi, temendo che fosse solo la sua immaginazione.

Ma le inconfondibili tuta verde e cresta rossa erano reali.

Lei mormorò il nome del suo amico, del suo compagno di avventure. L'androide dalla grande potenza che l'aveva protetta.

Istintivamente si portò una mano alle labbra nervose, guardando un punto fisso sul pavimento.

E po sentì le sue grandi mani sulle spalle.

“Diciotto. Sei tornata.”

Quando alzò gli occhi incontrò quelli dell'umano artificiale. Senza pensarci, con un sospiro buttò le braccia intorno al collo di Sedici, in quello che fu il suo primo abbraccio dopo tre anni. Non aveva mai piu’ abbracciato nemmeno suo fratello e ora era lì, come per volersi assicurare di stare davvero toccando l'amico che credeva di aver perso per sempre.

Nella sua mente, Diciotto non riusci’ ancora a trovare un modo per ringraziare Crilin.

Sapeva che era stato lui.

E Sedici gioi’ di quel contatto con l'amica di una vita, quel capolavoro della biomeccanica che sembrava minuscola fra le sue braccia. A quel punto il cane dalle orecchie a punta si svegliò.

Iniziò ad abbaiare e a ringhiare, saltando su Diciassette: era il suo nuovo padrone e doveva difenderlo da ben due intrusi.

Il cyborg si dovette svegliare per forza.

“Che vuoi, Botz? Sta' giù.”

Sedici e Diciotto guardarono quel cane sbarliccare Diciassette in faccia, scodinzolando allegramente. E al ragazzo non dava fastidio, Botz riusci’ a strappargli una risata allegra.

Si stiracchio’ con soddisfazione e si rinfilo’ le scarpe. Seguendo Botz che trotterellava, lo sguardo di Diciassette cadde su sua sorella. E su…

“Sedici?!”

Il cyborg rimase attonito per un attimo. Forse stava ancora sognando.

“E’ proprio lui, bro. Guardalo.”

Diciassette si protese istintivamente per dare all’amico una pacca solida, sincera. Con uno sguardo volle dirgli che se non fosse stato Sedici a trovarlo, lui l’avrebbe fatto.

Piu’ tardi, mentre il sole tramontava, Diciassette gli disse grazie per averlo difeso:

“Quel pugno staccabile era una figata.”

“Ho semplicemente fatto quello che dovevo fare.”

“Ma sappi che non restereai piu’ forte di me per sempre.”

 

Sedici era rimasto li’ con loro. Si era messo in un angolo, con Botz che non smetteva di annusarlo.

“Traditore...”

Diciassette guardo’ infastidito il cane, che ci aveva messo pochissimo a non voler piu’ rinunciare alle moine dell’androide.

Sedici non parlo’ piu’. Lascio’ Diciassette a sua sorella,che sembrava scoppiare dalla voglia di parlare:

“Mentre tu dormivi e io ero via, ho ritrovato un’amica che avevo quando ero umana. Lei ci puo’ portare da nostra madre.”

“Anche io posso. Ho visto nostra madre.”

Diciotto si senti’ mancare il fiato, ma Diciassette non demorse: pochi giorni prima, quella donna al centro commerciale gli aveva fatto un effetto talmente strano che per un sacco di tempo non era riuscito a pensare ad altro.

Quando si erano guardati dritti in faccia lui si era sentito rimescolare tutto, come se un uragano gli fosse scoppiato dentro. I suoi occhi sembravano raccontargli storie dimenticate, le storie che Gero aveva voluto che dimenticasse.

Si era sentito mancare il respiro, era stato più forte di lui; non aveva voluto affrontare quella donna e il carico di emozioni che si portava dietro. Per questo era scappato via, nonostante vederla gli avesse procurato una sensazione di calorosa familiarità che l’aveva riportato indietro ai tempi antecedenti al rapimento.

Più ci pensava, Diciassette, più gli sembrava di averla già vista prima. Nella sua catalessi aveva continuato a meditare, su quando e su come l’avesse incontrata.

E poi, a raffica, gli erano venuti in mente frammenti di ricordi sparsi; e con tempismo sbalorditivo, si era sentito la mente improvvisamente più libera dalla foschia che vi aveva permeato per gli ultimi tre anni.

“Nostra madre? Ma sei pazzo?”

Come faceva lui a sapere che era proprio loro madre e non un'altra persona che avevano conosciuto? E nel caso fosse stata lei, perche’ diavolo se l’era lasciata scappare.

A Diciassette era onestamente sembrata sua sorella, quando aveva incontrato il suo viso nel riflesso dello specchio:

“E tra l’altro, onestamente, quante persone sono così?”

Diciassette si indicò, facendo ridere Diciotto.

“Ma piantala di vantarti...”

“C’e’ poco da fare; il mio non è un fenotipo comune, e’ un dato di fatto.”

Wow, Diciassette sapeva persino contestualizzare un parolone come fenotipo.

Ma lui aveva avuto una buona intuizione.

In cuor suo, Diciotto sapeva che aveva sempre portato con se’ lo sguardo di sua madre. Una presenza che aveva vegliato su di lei, che non l’aveva mai abbandonata.

“Dobbiamo andare andare da lei.”

Sedici era intervenuto, raccontando quello che aveva appreso dal capitano Weiss. Si penti’ di aver causato ai suoi amici quello sguardo mortificato che vedeva nei loro occhi.

Ma aveva un piano. Aveva solo bisogno che qualcuno lo aiutasse. C’era bisogno che chiunque poteva aiutare riunisse gli sforzi.

 

/

 

Ancora una volta, Bulma apri’ la porta a Sedici.

“Sii-ti!”

Trunks si butto’ in avanti cosi’ velocemente che lei non ebbe altra scelta che cederlo al gigante.

“Dov’eri finito? La madre dei cyborg e’ stata qui, se era lei che cercavi.”

“Ancora lui...”

Una voce risuono’ da dentro la casa; Sedici vide Vegeta in fondo alla stanza, oltre la porta, con le mani sui fianchi e un’aria ostile.

Con un’urgenza e un’apprensione che sembrarono ancora una volta troppo umane per un essere artificiale, quella straordinaria creazione rispiego’ alla scienziata i piani del capitano Weiss.

“Lui non sa che io li conosco. Lui deve prenderli, sono ordini. Ma io sono dalla parte di Diciassette e Diciotto.”

Bulma ripenso’ a quanto l’amore e la forza di Kate Lang l’avevano impressionata. Ormai si sentiva dentro fino al collo in quella triste vicenda familiare che stava per trasformarsi di nuovo in gioia. E il dare una gioia immensa a tre persone era fattibile. Solo ad una chiamata da lei.

Se voleva fare la sua parte doveva far si’ che quella donna si ricongiungesse coi suoi figli senza intoppi e noie:

“Ah, ma certo, ci penso io a questo capitano Weiss. Entra, parliamone” Bulma strizzo’ l’occhiolino all’androide “e tu vieni qui. Santa pazienza...”

Tolse il suo piccolo da Sedici proprio mentre si stava arrampicando sulla sua altissima spalla.

 

 

 

“Cosa le diremo? Come farà a crederci? È un’umana basic.” Disse Diciotto al fratello, seduta di fianco a lui vicino ad un camino. Poi rimase silenziosa, a guardare nel niente fumoso di quel tetto.

Ognuno dei due gemelli si stava costruendo la sua conversazione personale. Chissà che effetto avrebbe fatto parlare con la mamma dopo tutto quel tempo.

Diciotto si era ricordata all’improvviso della donna del suo sogno e tutto nei suoi pensieri aveva combaciato. Ecco perche’ non se l’era mai scordata. Ecco perche’ assomigliava a suo fratello.

La gioia di quel passo in piu’ verso la liberta’ l’aveva pervasa e quando Sedici li aveva spinti a volare con lui fino a quel tetto, i gemelli l’avevano seguito. Li aveva fatti rimanere li’, senza dare loro spiegazioni.

Dovete fidarvi. Vi fidate?”

Ovviamente. Sedici era il loro unico amico.

E poi avevano capito.

Cercarono con gli occhi Sedici, ma non riuscirono piu’ a scorgerlo.

 

Polizia, presto! Chiamo per denunciare l’apparizione dei leader dei Neri. Lapis e Lazuli.”

Dove sono?”

Stella del Centro. Fate presto! Stanno scappando sul tetto!”

Stia tranquilla, signora. Manderemo subito un’unita’.”

Il poliziotto che aveva ricevuto quella telefonata anonima si precipito’ dal capitano Weiss; Bruno afferro’ delle manette e una pistola, con la sua squadra si lancio’ a sirene spiegate per le strade della citta’, verso il centro commerciale.

Doveva essere lui a fare quell’arresto. Un arresto che non sapeva ancora come svolgere.

“Fate largo! Polizia!”

Gli agenti correvano fra i piani pieni di gente, cercando di non travolgere nessuno nella loro corsa.

“Via! Polizia!”

Corsero a perdifiato fino al tetto: in due si gettarono contro la porta sprangata. Bruno aveva il cuore in gola. Quando la porta cadde, fu il primo a correre sul tetto.

Gli altri poliziotti si misero in formazione dietro di lui, pistole puntate.

“Mani in alto! Lapis e Lazuli, siete in arresto per il rogo del treno regionale CC-4820.”

Bruno fece nervosamente il giro del tetto. I suoi colleghi si raccolsero intorno a lui:

“Capitano...mi dispiace.”

Bruno si guardo’ intorno e non vide nessun Lapis e Lazuli, ma solo altri tetti.

Tetti, camini, sporcizia mossa dal vento.

 

 

Kate aveva ragione, i suoi figli erano vivi e vegeti, come quelle persone le avevano sempre detto; Bulma Brief l’aveva chiamata per dirle che erano a West City, sul tetto di un palazzo.

Aveva guidato a rotta di collo verso la grande metropoli e si era gettata sulle scale antincendio, su, su fino al tetto. Kate correva e non sentiva la stanchezza: lei ci aveva sempre creduto, in fondo al suo cuore la speranza non era mai morta. Un misto incerto di gioia e dolore le faceva dolere il cuore, correva mentre le lacrime le si imprigionavano fra i capelli come perle.

Avrebbe voluto gridarlo al mondo intero, scriverlo in cielo con un aereo; tutta quella speranza non era stata vana, i suoi bambini erano vivi e lei stava andando da loro. Avrebbe voluto inventare un nome per il sentimento che la stava sconvolgendo fin nel profondo del suo essere.

Lei era lì, ormai era questione di minuti; stava salendo le scale, chiamava ad alta voce.

I gemelli non riuscivano a muoversi, ma sentivano che ogni passo che stava portando la mamma verso di loro toglieva un altro pezzetto della loro barriera mentale.

Pezzo per pezzo si stava sgretolando. Per sempre.

Avevano sempre creduto di essere svegli e coscienti da quando il dottore li aveva attivati con l’ordine di uccidere il suo nemico, ma in realtà erano stati come dei morti viventi, senza più alcuna possibilità di ricordare quella che era stata la vita vera; non si erano mai sentiti vivi, ma solo affittuari di un’esistenza posticcia e senza legami che non era la loro. 

Kate spalanco’ una vecchia porta arrugginita, che dava su un tetto vetusto pieno di camini fumanti e di cenere. Quando li vide si fermo’; il suo cuore gonfio di amore faceva male, cosi’ male che prese il volo.

Un respiro lieve, trepidante di emozioni: quando Diciassette e Diciotto si voltarono, tre paia di occhi di ghiaccio si incontrarono. Kate era di fronte a loro.

La gabbia crollo’ all’istante, una volta per tutti. Erano liberi.


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Pensieri dell’autrice:

 

Eccoci giunti a uno dei momenti clou. Un momento che e’ stato atteso con ansia e che mi fa capire che ho fatto bene a mettere da parte la timidezza; condividere con voi lettori e recensori questa storia e’ stata una scelta che mi riempie di gioia e soddisfazione, vi ringrazio di avermi seguita fin qui.

E’ stato un capitolo molto intenso da scrivere, avevo quasi paura che non sarei riuscita a metterlo insieme. E quando l’ho visto finalmente insieme e’ stato un gran sollievo.

Ho voluto dire qualcosa sul passato di Kate, perche’ una domanda popolare fra i miei lettori e’ “chi e’ il padre biologico di Lapis e Lazuli?”. Qui Kate accenna a lui, a un pezzo della sua vita che non ha mai confessato a nessuno prima di farlo con Crilin.

In questa storia non trattero’ nel passato di Kate, lo faccio in modo esaustivo nella mia original, Muted. E’ una storia drammatica ambientata circa vent’anni prima di questa e la protagonista e’ una giovane Kate :)

A proposito, cerchero’ di aggiornate quella ogni due settimane, mentre aggiorno questa fanfiction ogni lunedi’.

Grazie a tutti coloro che apprezzano questa storia per aver creduto in me.

 

Ps:
La canzone che ho citato e’ Kimi no Nosete/Carrying you, l’OST de “Il Castello nel Cielo.” di Studio Ghibli, di cui ho tradotto il ritornello dall’inglese.

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Capitolo 13
*** Reset ***


 

Nessuno dei tre voleva credere a quel momento.

In un modo o nell’altro i due gemelli l’avevano sempre aspettato, così come Kate che nelle sue notti insonni non si era arresa all’oblio.

Quando in quel crepuscolo loro occhi si incontrarono, il sole andava a morire dietro un mare di nuvole che promettevano pioggia.

Quella era la loro ricompensa, quello era il loro momento; per tutto l’amore che quella sera venne trasmesso di cuore in cuore e di occhi in occhi, beh, alcuni aspettano una vita per un momento così.

Fu Kate ad avvicinarsi per prima; il sorriso che tanto piaceva a Diciotto, di cui non si era mai dimenticata, splendeva sul suo viso e le accendeva gli occhi di una luce e di un amore che nessuno aveva mai visto.

Camminava lenta, sbatteva le palpebre e ogni tanto tirava su col naso, mentre tendeva la mano ai due gemelli.

Erano proprio loro, come li ricordava. I loro occhi erano quelli di sempre, anzi, piu’ sereni. Senti’ di nuovo tutto l’affetto che provavano per lei.

In quel momento non penso’ a quello che le era stato detto; cyborg o meno, erano solo i suoi amatissimi figli. Si erano girati insieme a guardarla, come quando erano piccoli.

Quando la distanza fra lei e Diciassette e Diciotto fu praticamente nulla, Kate li guardò ancora e con infinito affetto se li strinse.

“Mamma?” Diciassette mormorò quelle cinque lettere con la voce rotta; allora Kate lo incoraggiò annuendo e gli carezzo' una spalla.

“Mamma.”

Afferro’ la mano di Kate e poi la tiro’ a se’ in un abbraccio, piegandosi su di lei, mentre l’emozione gli faceva stringere gli occhi e aggrottare le sopracciglia.

Diciotto guardo’ Kate accarezzare i capelli di suo fratello e dargli un bacio affrettato sulla fronte, prima di tendere un braccio verso di lei per invitarla ad avvicinarsi. Finalmente aveva davanti la bellissima donna che la cullava quand’era piccola, quella a cui non aveva mai smesso di pensare.

Il destino senza ritorno che Gero le aveva inflitto era stato ribaltato, non c’era più niente a raggelarle il cuore: Kate era sua madre, l’unica persona a cui doveva la sua esistenza, la persona che era. Non riusciva a credere di averla di nuovo li’ davanti, ma non stava piu’ sognando.

Mentre Diciotto si abbandonava all’abbraccio della mamma, sentì che tutto quello che le era successo dopo Cell l’aveva preparata a quel momento; tutto ciò che di brutto era successo svanì, spazzato via dalla magia di quella stretta.

Erano intrecciati tutti e tre in un tenero abbraccio, inghinocchiati insieme sul pavimento.

Con i gemelli stretti così contro il suo petto, così vicini a lei, a Kate sembrò per un istante di ritornare indietro di ventun anni a quando li aveva ancora dentro, a quando aveva versato il suo sangue per loro, sola in quell’ospedale, dando loro il benvenuto alla vita.

Credeva che non avrebbe mai più sentito qualcuno che la chiamava mamma; il cuore le esplodeva, piangeva e li stringeva, stringeva forte, nessuna cosa brutta glieli avrebbe ancora strappati.

Diciassette non riusciva a esprimere le sue emozioni, sapeva solo che quello era il punto di arrivo di tutto, che Kate era la persona a cui doveva essere grato per avergli donato la vita; lei e nessun altro. Riusciva solo a pensare di aver vinto contro l'ignobile dottor Gero, che aveva preteso di mettersi al posto di Kate e di fargliela dimenticare.

Diciotto non voleva lasciare quella stretta che sembrava infuocarle l’anima di amore e di pienezza, anche se ad un certo punto l’emozione la sommerse. Un sentimento così forte da squassarla da capo a piedi, lei, così forte. Dovette abbandonare l’abbraccio e sedersi un momento.

 Una telecamera li guardava, sospesa a mezz’aria a riprendere la scena sul tetto; ma questa volta non c’erano occhi cattivi a osservare i gemelli attraverso la sua lente.

Alla Capsule Corp., Bulma guardava il video in diretta insieme a Sedici e a Crilin.

Era stato cosi’ facile, alla fine. Una semplice chiamata anonima era bastata per sviare completamente le forze dell’ordine, cosi’ ossessionati dal trovare Lapis e Lazuli com’erano. In cuor suo la scienziata penso’ che nonostante tutto era solo un bene che gli Z Warriors fossero i veri protettori della Terra, non si poteva contare molto sui poliziotti.

Toccando uno schermo, zoommo’ il video e sorrise vedendo Kate e i cyborg sedersi insieme sul tetto e guardare il sole sparire.

“E cosi’, tutto e’ bene quel che finisce bene.”

Blocco’ il tablet e scambio’ uno sguardo d’intesa con il suo vecchio e nuovo amico.

“Finisce bene, dipende per chi.”

Tutti si voltarono a guardare Vegeta, appoggiato a un muro con una lattina di birra in mano: “Io il mio rematch con quei mocciosi non l’ho avuto.”

 

 

Era passata una settimana da quando Kate aveva smesso di essere sola, con lei c’erano di nuovo i suoi Lapis e Lazuli e tutto era tornato a posto. Una settimana in cui non si era stancata di guardarli, di toccarli, di abbracciarli. Quei tre terribili anni ora avevano perso il loro potere su Kate: lei scoppiava di felicita’, a volte piangeva nel bel mezzo di un discorso per la pura gioia di poterli ancora avere li’.

Tuttavia era perplessa: le sembrava che i suoi figli fossero stati lobotomizzati. Sorpresi si guardavano intorno, come se facessero fatica a ricordarsi che quella era la loro casa.

“Bambini miei, ho bisogno che voi mi raccontiate cosa è successo; capisco che vogliate godervi la serenità di questo momento, ma io sono stata tutti questi anni in pena…”

Quando aveva chiesto loro di raccontare cosa fosse successo, erano diventati tristi e le avevano risposto che era una storia lunghissima e molto dolorosa. Volevano tempo, una pausa: erano appena tornati da lei.

Kate rimuginava sulle parole di Vegeta e Crilin, ma rimaneva lo stesso di stucco quando constatava che sembravano aver dimenticato chi fossero. Quando lei li chiamava per nome non rispondevano, come se quei nomi non fossero stati i loro. Poteva essere vero? Chiunque li avesse trasformati in cyborg aveva cancellato la loro memoria? Era un’ipotesi che avrebbe spiegato tutto, anche episodi come il giro in macchina il giorno prima.

 

Il primo posto dove Diciotto era stata riportata dai propri passi era la sua camera da letto: non appena erano arrivati a casa da West City, lei era corsa nella sua stanza ed era rimasta sulla soglia a guardare il suo letto, le pareti, gli armadi. E si era ricordata, quelli erano i suoi effetti personali.

Si era diretta verso l’armadio con un sorriso: “I miei vestiti…”

Un vecchio istinto l’aveva portata a toccare il parquet sotto il tappeto, in un punto che solo lei conosceva. Rise sotto i baffi, estraendo da uno scompartimento segreto una bella pila: “E i miei soldi.”

Intanto, Diciassette si divertiva a guardare le foto:

“Mi ricordo tutto, adesso: quella foto là, è stata la mia prima gara di rally!”

Diciassette aveva riso entusiasta, indicando una foto incorniciata sul muro del salotto, dove c’era lui con i capelli ancora sopra alle orecchie e la sua macchina rossa.

“Mamma, ce l’hai ancora la mia macchina?”

“Certo, tesoro. È nel garage.”

Kate l’aveva seguito ed era rimasta a guardarlo mentre toglieva il lenzuolo che copriva con cura la sua bella auto da rally.

“Ti porto a fare un giro!”

Kate aveva cercato di dire di no, ma con una velocità che l’aveva sconcertata suo figlio le aveva preso la mano e l’aveva praticamente infilata dentro l’auto.

Poco dopo Kate e Diciassette erano ritornati, lei aveva gli occhi sbarrati. Diciotto aveva guardato suo fratello e una delle sue scarpe che pendeva maciullata dal suo piede perfettamente illeso.

“Cos'hai fatto, Diciassette?”

Senza fare apposta lui aveva premuto il pedale del freno troppo forte:

“Ho dovuto fare da me per frenare; peccato per la scarpa.”

Si era slacciato quel che rimaneva della calzatura e si era avviato a buttarla nella spazzatura. Kate aveva raccontato alla figlia di come lui aveva fatto un buco nella portiera con un calcio e piantato il piede nella strada in discesa, salvandoli da un incidente e non facendosi nemmeno un graffio. 

L’aveva seguito in cucina: “Lapis, andiamo in ospedale, per favore. Ti sarai rotto qualcosa.”

Kate aveva tuttavia osservato che il suo ragazzo stava benissimo. Lui le aveva dato un abbraccio veloce per consolarla, guardando Diciotto che scuoteva la testa con uno sguardo arrabbiato.

La mamma non sapeva nulla. Non sapeva cos’erano diventati, di quello che aveva loro fatto il dottor Gero, della Creatura. Forse non avrebbe mai capito. Diciassette e Diciotto sapevano che se davvero l’amavano, prima o poi avrebbero dovuto parlarle della loro conversione, dirle come stavano le cose. Ma per il momento volevano solo un po’ di serenita’, se non avessero fatto nulla di sospetto Kate non se ne sarebbe accorta. Alla fine erano diversi dentro, fuori non erano niente che Kate non conoscesse.

Si aspettavano anche che con il ritrovamento della mamma sarebbero stati investiti da un fiume di ricordi ma tutto fu quieto, lento. Anche se Kate aveva raccontato la sua versione dei fatti, di quanto lei avesse penato, in quei giorni non aveva voluto rivangare a lungo quel periodo buio.

Aveva altri progetti:

 “Scusate, bambini, se devo lasciarvi soli: bisogna festeggiare e voglio fare tutto da me.”

Si era chiusa nella sua grande cucina dagli armadietti di legno color salvia, che ora i gemelli ricordavano, e aveva passato tre ore spentolando come una forsennata. Aveva fatto capolino fuori dalla porta indossando ancora il suo grembiule, accompagnata da una dolce scia:

“Potete entrare ora.”

Invito’ i gemelli a sedersi al tavolo, quel tavolo rotondo di legno chiaro su cui avevano fatto disegni e compiti da piccoli.

“So che il vostro compleanno e’ gia’ passato, ma dobbiamo festeggiare l’essere di nuovo insieme. Mi sono impegnata tanto...”

Kate dispose sul tavolo il frutto dei suoi sforzi, una torta molto scenografica decorata con cioccolato fuso e fragole, amorevolmente disposte a raggiera. I gemelli rilevarono un sottile odore di bruciato, anche se la torta sembrava a posto. Aveva, in verita’, un ottimo aspetto.

La mamma taglio’ cerimoniosamente tre fette e poi si alzo’ di scatto, aveva dimenticato qualcosa.

Pensando che fosse molto strano che Diciassette non si fosse gia’ mangiato la sua porzione, Diciotto stette a guardare la propria e la saggio’ con la forchettina: una cremina in mezzo a due strati di pan di Spagna dalla consistenza sempre piu’ molliccia man mano che ci si allontanava dalla crosta. Diciotto non aveva toccato cibo solido per anni, a dir la verita’ non le mancava per nulla.

E ora non ne aveva voglia, si sentiva ancora in subbuglio per l’emozione della riunione.

Kate ritorno’ con una teiera fumante. Aveva grandi speranze e guardo’ soddisfatta suo figlio, che stava masticando: “Allora, tesoro? Ti piace?”

Lui annui’ timidamente.

Diciotto allontano’ il piattino da se’ con una smorfia ma senti’ un gran calcione, sotto il tavolo: alzando gli occhi incontro’ le sopracciglia corrugate e lo sguardo gelato di suo fratello.

Lui mimava con le labbra le parole non ci provare; gli venne da ridere nel vedere Diciotto sacrificarsi a mangiare un pezzo della sua fetta. Quando madre e sorella si girarono sputo’ discretamente in un tovagliolo e imbosco’ il resto della sua.

Dovevano essere terribili come bugiardi, perche’ Kate abbasso’ lo sguardo: “Fa schifo, vero? Sapevo che la crema pasticcera e’ una roba delicata...”

Aveva voluto impressionarli, destreggiandosi in cucina con in mente qualcosa di speciale. Non voleva arrendersi al fatto che era una pessima cuoca. Non era nemmeno capace di preparare una torta ai suoi figli.

I gemelli si sentirono in colpa, Kate aveva dedicato a loro tre ore del suo tempo e loro non erano nemmeno riusciti a farla contenta.

Piu’ tardi Diciotto aveva massacrato il suo spazzolino, cercando di lavarsi via dalla bocca il sapore orrendo di quel nobile tentativo.

Era rimasta stancamente davanti allo specchio, a guardarsi: “Mi dispiace per la mamma, ma quello era un crimine contro l’umanita’.”

“Sei meravigliosamente ironica, sai?”

“...mi restera’ sullo stomaco per due giorni.”

Diciassette era in piedi contro il muro. Stava sfogliando una rivista, mentre faceva compagnia a sua sorella e rideva della tossicita’ della torta:

“No, impossibile. Ti va in circolo quasi immediatamente, se non ti sono ancora apparsi bubboni verdi in faccia probabilmente sei fuori pericolo, ti e’ andata bene.”

Era vero che gli appunti del dottore li aveva letti anche lei; loro due potevano vantare il lusso di non fare mai indigestione, era un effetto collaterale dei loro sistemi potenziati che lavoravano in fretta. Ma a Diciotto venne male a pensare che per un periodo di tempo ancora da definire avrebbe dovuto rinunciare alla sua nuova, comodissima dieta solo per non far insospettire Kate.

 

 

Purtroppo per loro, non era nella natura di Kate restare con le mani in mano senza porsi domande. Era confusa, molto confusa. E anche piuttosto eccitata, quell’eccitazione che fa venire il mal di pancia. I racconti che le avevano fornito fino a quel momento avevano spiegato solamente il perché fossero spariti: ma c’era molto di più, Kate lo capiva, perché mancavano molti punti che avrebbero potuto saldare le troppe cose che non riusciva a spiegarsi e le parole di Vegeta e Crilin.

Aveva bisogno di sentire la verita’ da loro.

Era con Lapis nella propria camera e quel compito scomodo era toccato a lui perche’ carta avvolge sasso. Diciassette aveva brontolato, ma si trattava solo di dirle la verita’:

“Io ti racconterò tutto ma tu non devi dare fuori, me lo prometti?”

Kate scattò, prima che lui iniziasse a parlare: “Una cosa. Tu chi sei, Diciassette? Il mio Lapis?”

“Sono sempre io: ci sono alcune cose che sono cambiate, ma altre sono rimaste le stesse. Non devi avere paura, va tutto bene.”

Kate si alzò di colpo e si mise a percorrere la stanza in lungo e in largo:

“No, non lo accetto, non ti ricordi nemmeno il tuo nome! Cosa ti hanno fatto?”

Il ragazzo sospirò, prendendole le mani e stringendogliele con amore; Kate avverti sulle dita il calore umido del suo respiro.

“É semplice. Diciotto e io ora siamo cyborg.”

Il ghiaccio si specchiava nel ghiaccio: Kate lo guardava dritto negli occhi, con uno sguardo di sfida che rivaleggiava il suo.

Non mi credi? Credi di sapere tutto tu, vero?”

Diciassette si infurio’, senti' una rabbia indefinita che doveva far uscire.

La mamma era sempre stata così : pensava di avere sempre tutto sotto controllo, che la vita e il mondo fossero un puzzle che lei sapeva sempre come incastrare. Ma gliel'avrebbe fatta vedere lui:

“Alzati.”

Kate si senti’ un attimo confusa dall’ira che aveva percepito nell’aria e dallo sguardo penetrante che suo figlio le rivolse.

Dopo che Kate si fu alzata dal letto, con una mano lo afferrò lo divelse dalla parete, sollevandolo sopra la testa.

Kate si allarmo’ subito: “Smettila! Mettilo giù, ti fai male!”

Diciassette le fece un sorrisetto furbo e, afferrando il letto anche con l’altra mano, scrollò via infastidito le coperte e il sottile materasso.

“Lapis!” 

Il ragazzo ignorò sua madre e mantenne il letto sollevato.

“Diciassette.”

Lui alzò la testa in risposta e rimase a guardare interrogativo l’espressione frastornata di lei, appoggiando il letto a terra. Diciassette stette ad aspettare una reazione da parte della madre e non vedendola arrivare sorrise di nuovo: fulmineo riprese il letto fra le mani e allargò le spalle potenti.

Kate non fece in tempo a gridare quando sentì il rumore stridente dell’acciaio che iniziava a piegarsi; lo sgomento le dilatò le narici quando suo figlio inarcò lievemente le sopracciglia e serrò la morsa.

Lo scheletro martoriato del letto cigolò, mentre cadeva a terra in pezzi; il rumore riempiva la testa di Kate, stordendola.

Senza parole e con l’angoscia che le saliva al petto, vide una debole luce irradiare dalle mani di Diciassette e riflettersi sui resti del letto che lui ancora stringeva; la luce crebbe velocemente d’intensità, la pesante massa lucida si restrinse e iniziò a gocciolare sul pavimento.

Oh…” 

Kate si ritrasse contro la parete, le gambe non la reggevano.

Diciassette gettò il metallo a terra con uno schianto e fece un respiro profondo. In quel momento entrò anche Diciotto; guardò prima la carcassa sul pavimento e poi Kate tutta tremante, rasente al muro, terrorizzata da quello che doveva appena aver visto.

Diciotto le tese le braccia e Kate ci si rifugiò, la ragazza chiuse gli occhi e iniziò ad accarezzarle i capelli: “Mamma mamma mamma mamma….”

Quante volte Kate l’aveva fatto con lei!

Diciotto si avvicino' al fratello e alzo' la mano per dargli uno schiaffo.

Poi si fermo', stringendo i denti, temendo di causare un altro incidente:

“Potevi farne a meno…ma proprio davanti a lei? L’hai spaventata a morte, e' gia' la seconda volta.”

“La sua testardaggine mi dava sui nervi. Non si fida di ciò che non vede.”

Diciotto si rivolse a Kate, appoggiata al suo seno con gli occhi sbarrati: “Ti porto di sotto mamma, ti distendo sul divano; tu riposa e stai calma.”

Perche' suo fratello doveva essere un idiota?

Si caricò la madre in spalla con un movimento fluido, poi saltò giù dalla tromba delle scale e la depose dolcemente sul divano. La coprì e sorrise, poi si dileguò.

 

“Sei contento adesso che ti sei fatto vedere?” urlò Diciotto quando furono soli “adesso addio, chi può dirle qualcosa…cazzo!”

Colpì con un calcio un pezzo di letto. Diciassette la fissava immobile.

Adesso come gliel’avrebbero spiegato? Sempre che la mamma si fosse ancora avvicinata a loro.

Kate aveva solo visto suo figlio che sollevava un letto d’acciaio e lo schiacciava come una lattina di Coca Cola; tutte le madri che ritrovavano figli scomparsi scoprivano poi che glieli avevano trasformati in mezze macchine con riflessi, sensi, forza e velocita' sovrumane: normalissimo, di cosa dovevano preoccuparsi?

Adesso come le avrebbero spiegato che, nonostante l’enorme potere che ormai possedevano, non erano cambiati? Ci avrebbe creduto ancora che i numeri 17 e 18 erano sempre in grado di provare emozioni e sentire tutte le sensazioni che avevano sentito da umani?

“E comunque…”

“Sshhh” Diciassette zittì la gemella “la mamma si sta calmando, respira regolarmente.”

Diciotto si mise in ascolto e cessò di parlare ad alta voce.

Kate intanto, dal suo divano, sentiva i gemelli discutere animatamente, anche se le parole le arrivavano attutite dal soffitto e dalla tappezzeria e lei non riusciva a distinguerle bene.

Era rimasta letteralmente impietrita: quello che aveva visto non l’aveva fatto Lapis.

Si snervava cercando il nocciolo di una questione totalmente folle: cos’era diventato suo figlio? E soprattutto, Diciassette era davvero suo figlio? Una persona normale non avrebbe mai potuto sollevare e distruggere una massa d’acciaio senza fare una piega; una persona normale non avrebbe mai potuto spostarsi con dei movimenti così veloci e silenziosi.

Quello che Diciassette aveva fatto era assurdo.

A Kate sembrava di essere finita in un film di fantascienza dove i suoi figli erano due specie di terminator, esattamente come Vegeta e Crilin avevano cercato di spiegare.

In tal caso, cosa doveva aspettarsi?

Eppure Kate si ricordava benissimo di quando, poco prima, lui le aveva preso le mani; era stata certa della sua stretta febbricitante e lievemente sudata, del tremito dei suoi polsi.

Un terminator non si emoziona. Come dimenticare poi il loro abbraccio pochi giorni prima, lo scambio di emozioni che era avvenuto su quel tetto a West City? Un terminator non si emoziona davanti a sua madre, una madre non ce l’ha nemmeno.

E poi la pelle così normalmente calda e soffice, con quel suo profumo che gli aveva sempre sentito addosso. Impossibile, una macchina non è calda e viva.

Kate aveva percepito il tepore della vita irradiare dal corpo dei suoi figli, tutto in loro era vivo, pieno di vita come lei si aspettava che fosse.

Eppure quella carne morbida e calda era una morsa letale capace di stritolare l’acciaio senza lasciarsi sfuggire neanche la minima goccia di sangue.

Ma lui gliel’aveva detto chiaro e tondo: siamo cyborg.

Kate era stata avvertita a dovere, era colpa sua se era stata troppo caparbia.

Questo unico pensiero martellava le sue tempie sfatte, mentre ancora scossa dalla paura e dalla tensione cercava di riprendersi e calmarsi. Ma non voleva starsene lì mentre i suoi figli erano lì con lei, dopo tanto tempo:

Tanto dormire proprio no.”

Si alzò a fatica e si diresse verso le scale; subito la porta al piano di sopra scattò e i gemelli fecero capolino dal pianerottolo.

“Stai lì mamma, scendiamo noi” disse lei.

Entrambi saltarono giù.

No no no, vi fate male!” pensò Kate istintivamente, ma in un nanosecondo fece due più due e si trattenne “allora, non dovevano parlare?”

“Vado io?” chiese Diciassette.

Sua sorella scosse il capo: “Ecco mamma, forse è meglio che te lo diciamo in due. Ora ci credi che siamo cyborg?”

 

 

“Perché non me ne avete parlato prima, quando ha iniziato a farvi stalking?”

Kate non ci sarebbe mai arrivata: un vecchio che per due anni li aveva pedinati per poi rapirli. Mentre raccontavano, a Diciotto era ritornata in mente la sera della festa: quel ragazzo che l’aveva spogliata, l’incidente, la paura,  la loro lotta inutile contro l’intontimento, il guizzo bianco che li aveva portati fuori strada in tutti i sensi.  E si sentiva ancora più consapevole, riusciva a immaginarsi come Kate si fosse sentita non vedendoli più tornare.

“E adesso quel vecchio dov’è?”

“Morto” Diciassette aveva alzato le spalle.

Kate si sostenne la fronte, guardando in basso:

“Hai ucciso un uomo…”

“Sì. L’ho ucciso, se vuoi ti racconto anche come…”

“L’hai decapitato con un colpo solo.”

I gemelli sussultarono e fissarono Kate. E per Kate venne il momento di raccontare quello che i suoi figli non sapevano:

“Prima di trovarvi, ho incontrato delle persone. Gente che vi ha conosciuto.”

Il ragazzo la ignorò e i suoi occhi si fecero freddissimi: 

“Io ho ucciso lo schifoso perché era uno scienziato pazzo. È lui che ci ha rubato tutti i ricordi, in modo che non ci saltasse mai in mente di liberarci di lui, ma il nostro obiettivo fosse solo quello di uccidere Son Goku.”

A Diciotto si scaldo’ il cuore a sapere che Crilin aveva conosciuto Kate e che quest’ultima sembrava avere una buona opinione di lui. E senti’ un altro tipo di soddisfazione nell’apprendere che Vegeta non si sarebbe mai dimenticato di lei.

“Posso sapere cosa vi ha fatto per farvi diventare cyborg?”

“Non c’e’ molto da spiegare, visto che qualcuno ha voluto mettersi in mostra…” la biondissima guardò storto il suo gemello.

Diciassette sospirò e rivolse alla madre uno sguardo furbescamente contrito:

“Mi dispiace mamma, non volevo.”

 

 

Kate si era liberata da un peso. Sapere cos’era successo a Lapis e Lazuli e riuscire ad accettare la verita’ erano stati una liberazione. Era una verita’ che la scombussolava ancora, ma era sicura che presto o tardi si sarebbe abituata alla nuova fisiologia dei suoi figli.

Tuttavia, fu meno facile di quello che pensava.

Si ricordava che, nei momenti più difficili, si era appellata ai forum per madri disastro, era andata a sentire le conferenze e i seminari degli specialisti, si era informata su internet.

Di materiale ne aveva accumulato; li chiamava tutorial.

Tutorial per figli adolescenti; per figli adolescenti scatenati; per figli adolescenti delinquenti.

Ma Kate ci avrebbe messo la mano sul fuoco, avrebbe potuto scartabellare e analizzare l'intero Internet e tutte le biblioteche e gli archivi del mondo, ma era sicura che mai e poi mai avrebbe trovato qualcuno che le dicesse cosa fare con due figli cyborg.

Non aveva avuto il dubbio che si fossero bevuti il cervello: i gemelli erano stati estremamente chiari, la lucidità che avevano messo nel raccontarle tutto era incredibile e paurosa.

Nemmeno loro due sapevano con esattezza cos’avesse fatto quel pazzo che li aveva trasformati. Kate se lo chiedeva senza sosta, per lei era una cosa inconcepibile, nel suo immaginario i cyborg erano così enormi tutti di ferro, non ragazzi in carne e ossa.

Per lei era impossibile pensare che i suoi Lapis e Lazuli, così normali dall’esterno, al loro interno avessero delle unità e dei processori fortissimi.

Le sembrava stranissimo vivere a contatto con dei marchingegni di tale calibro.

Diciotto/Lazuli le aveva ricordato che non erano robot:

“Siamo sempre persone perfettamente vive, solo con delle parti meccaniche e un po’ di forza. Non abbiamo cavi e circuiti, siamo al 99% carne e ossa.”

Avevano tutti i loro organi, nervi e il sangue che era sempre lo stesso, un cuore che batteva e sentiva. Le avevano raccontato che il pazzo non era mai riuscito a cancellarla del tutto da loro e che perciò non le avevano mai tolto un pensiero; questo bastava a renderli persone in tutto e per tutto.

 “Cosa faccio, cosa faccio?”

Come ci si rapportava con due androidi, anzi con due cyborg?

E non due cyborg qualsiasi, i suoi figli; ciò che aveva amato di più e che amava tuttora.

Si sentiva immensamente stupida: prima che le raccontassero cos’era successo li aveva trattati normalmente, come due persone.

Ma perché sono persone!”

Ora si sentiva ingessata, impedita.

Non aveva paura che le facessero del male, ma le bastava vederli e pensava wow, ho davanti a me due cyborg veri e si bloccava.

Si augurava che non ci stessero male; l’ultima cosa che voleva era proprio che pensassero che lei non volesse più bene a loro due quando invece li amava, come e più di prima.

Da lì aveva cominciato a fare pasticci, si era resa ridicola.

Cosa mangiano i cyborg?

Le avevano persino detto che il loro reattore aveva una riserva di energia infinita e che quindi molto spesso non dormivano; non serviva, lo facevano quando ne avevano voglia.

Era piacevole farlo, tuttavia, li faceva sentire "normali".

La mattina si era ritrovata a bussare alle loro porte con la colazione, Diciotto l’aveva esaminata prima di rivolgerle uno sguardo piuttosto deluso: “Mangiali tu”.

“Ma se non sai neanche cosa vi ho preparato!”

“Si invece” la ragazza aveva additato il vassoio “questo nei bicchieri è detersivo per me e benzina per Diciassette, l’odore lo sente anche lo schifoso giù all’inferno.”

“Beh, credo che…”

“È veleno; possiamo morire.”

Kate si era sentita molto stupida; come un’altra volta quando lei si era seduta a tavola a mangiare e aveva spiegato che se avevano bisogno di ricaricarsi con la corrente c’erano le prese, anche se non avrebbe saputo dire se fossero le prese giuste.

“Giusto, dobbiamo ricaricarci come il cellulare o il rasoio” le aveva fatto notare sua figlia, piuttosto spazientita “se proprio ci consideri degli elettrodomestici, beh non siamo così primitivi!”

Allora Kate aveva proposto loro un piatto di bulloni, dadi, pezzi di plastica e persino una vecchia forchetta: “Questo va meglio?” 

“Ma fammi il favore!”

Diciotto si era coperta la faccia con le mani, indecisa se ridere o piangere.

“Sul serio, mamma?” Diciassette aveva preso la forchetta e l’aveva triturata sotto i denti “questa roba posso masticarla, ma non digerirla. Ma finche’ non si prova...che dici, Diciotto?”

L’esasperata Diciotto l’aveva obbligato a sputarla con un ceffone sulla nuca. Era rimasta a riflettere, rigirandosi un bullone fra le dita:

“…mamma, tu la vorresti mai questa roba? Vuoi farci stare male?"

Kate aveva già una collezione di figuracce.

Come quando li aveva beccati che stavano andando a lavarsi: “No! L’acqua no! Volete andare in corto?”

“Ovviamente. Come l’asciugacapelli e il tostapane.”

La mamma ci era rimasta di sasso anche per un’altra cosa che aveva chiesto a Diciotto. Con sua enorme sorpresa la ragazza le aveva confessato che anche da cyborg aveva sempre avuto le mestruazioni:

“Purtroppo nemmeno un genio della biomeccanica come lo schifoso può niente contro la potenza dell’ormone femminile!”

Kate era allibita: “Quindi volendo potresti restare incinta…E tuo fratello?”

Diciotto era scoppiata a ridere: “Non penso potrebbe restare incinto.”

 

I giorni passavano e con l’aiuto di Kate Diciassette e Diciotto recuperavano i loro ricordi; un lavoro faticoso e complesso, fatto di amore, pazienza, risate e occhi che si spalancavano o si incupivano. Erano stati loro a chiederglielo.

“Guarda, Diciassette, eri ancora carino qui” stavano sfogliando un album di vecchie foto, che ritraeva i gemelli durante i loro primi anni. In una che piaceva a Diciotto c’erano loro due ancora pelati, in braccio a Kate che porgeva loro i seni per allattarli.

Kate si sentiva in dovere di colmare i terribili vuoti che quel dottor Gero aveva aperto nella sfera intima dei suoi figli.

Ora riuscivano a contestualizzare i loro nomi, anche se le avevano chiesto di chiamarli coi numeri.

“Voi due chiamatevi come vi pare, ma io userò i nomi che ho scelto per voi quando eravate ancora nella mia pancia” diceva Kate.

Loro due le avevano rivolto uno sguardo quasi spietato. Non potevano più essere Lapis e Lazuli, non dopo quello che era successo loro. Anche se erano sempre i figli di Kate e anche se l'amavano, tutto era cambiato; dentro di loro, specialmente.

Kate cercò di capire e accettò la loro richiesta, anche se per lei i numeri non avrebbero mai rimpiazzato i loro nomi.

Non mancavano certo i brutti ricordi della Creatura che ogni tanto li visitavano, specialmente quando decidevano di dormire, ma di questo non avevano fatto parola alla mamma.

Kate a sua volta si interrogava sul destino dei suoi figli. Cosa ne sarebbe stato di loro adesso? Sapeva che non avrebbe potuto tenerli con sé per il resto della loro vita.

Era passato quasi un mese da quando erano tornati, molte volte aveva taciuto la verita’ al capitano Weiss. Non sapeva per quanto ancora avrebbe potuto farlo, una cosa come il ritorno dei gemelli non poteva restare in uno scatolino.

“ C'è qualcosa che devo dirvi. La polizia vi sta cercando e ho il sentore che se non trovate un modo per giustificare la vostra innocenza, vi arresterà. So dell'incidente del treno. So anche che voi due eravate a capo dei Neri.”

A Kate si era spezzato il cuore quando l'aveva saputo. Non si era mai immaginata che i suoi figli delinquenti fossero coinvolti così profondamente in attività criminali. O forse, all'epoca della sparizione, aveva rifiutato di considerarlo.

I Neri, quella gang che il Commando Magenta aveva menzionato. Due figure in nero.

“Innocenza, già. Per quel che ne so io, avremmo potuto essere noi. Perche’ non mi ricordo niente.”

Kate non aveva avuto paura degli occhi e della voce taglienti di suo figlio: loro dovevano essere innocenti. Non poteva perderli ancora.

“Come se fosse un problema scappare da una stupida cella.”

“Diciassette, smettila.”

Diciotto aveva fermato suo fratello dal continuare ad angosciate Kate, che aveva ragione. Loro due erano sopravvissuti a cose orribili, non sarebbe certo stato uno stupido arresto a riportarli via dalle persone care.

Kate le aveva detto che era stata una morosa del capitano Bruno Weiss, di sicuro lei sarebbe riuscita a ragionare con lui senza usare metodi troppo drastici, non se la sentiva di contare su Diciassette per qualcosa che richiedeva discrezione.

Capì che questa volta toccava a lei prendere le redini della situazione e sistemare il casino, tirarne fuori lei e Diciassette. Era arrivato il suo turno di fare qualcosa per lui, da sorella maggiore, da persona ancora scossa dal fatto che fosse rimasta impietrita mentre Cell si prendeva suo fratello.

 

Chiamò lei stessa il capitano. Quando lui varcò la porta di Kate e vide i gemelli, gli manco’ l’aria.

“Prima che ci arresti, calma un attimo. Dobbiamo spiegare.”

Bruno rimase incredulo davanti a Lapis in carne ed ossa, che gli era venuto incontro con la stessa aria da duro annoiato che ricordava. Stette a guardarlo lì in piedi, slanciato e forte, più alto di lui. Non era invecchiato, solo cresciuto.

“Sono felice di vederti, Lapis.”

Si strinsero la mano formalmente. Per un momento il capitano non riusci’ a non guardare i suoi occhi.

“La persona che mi ha tolto il passamontagna è l’attuale leader del Commando, Cloe Mafia, no?"

Il capitano perse la favella quando vide lei.

Lazuli dagli occhi gioiello. Lazuli dal viso sexy e innocente. Lei, vera, ancora lì.

Entrambi capirono che avrebbero voluto salutarsi con un abbraccio, ma nessuno dei due lo fece.

“Ascolta mio fratello, Bruno. E aiutaci a ricordare.”

Diciotto aveva saputo chi Bruno fosse nel momento in cui aveva visto i suoi occhi.

Gli stessi occhi della piccola Amelia, sua e di Sara.

Mentre Diciassette spiegava la situazione a Bruno, lei vagava con la mente; le sembro’ strano ma magnifico che due persone che erano state piuttosto importanti nella sua vita fossero ora insieme, avessero creato una famiglia. Le circostanze della sua sparizione li avevano uniti.

Si disse che almeno aveva fatto qualcosa di buono durante i suoi anni da delinquente.

Bruno invece stava affrontando un dilemma, lo stesso che l’aveva tormentato riguardo all’arresto: ora quei due ragazzi avevano trovato la loro madre e volevano vivere in pace, lui stesso pensava che il Commando fosse il vero responsabile dell’incendio. Il suo dovere di poliziotto era proteggere e servire, ma anche discernere e accettare che la maggior parte delle situazioni non erano bianco o nero. Destreggiarsi nel grigio e scegliere il meglio era il suo vero dovere.

Non ebbe altra scelta che essere onesto con loro:

“Lapis, Lazuli, io non so cosa fare.”

Lei si era alzata in piedi e l’aveva guardato con serieta’ e compassione:

“Lo so io, cosa fare. Andrò da Cloe Mafia, nessuno mi fermi.”

Bruno aveva tentato di seguirla, ma la presa ferrea di Lapis l’aveva fatto rimanere seduto.

Doveva darle fiducia; lei sapeva quasi sempre cosa fare.

 

Diciotto si mise in volo. Appena atterrò dove anche Sedici era atterrato qualche tempo prima, non pote’ fare a meno di notare lo squallido contrasto fra quella terra di nessuno e l’ordinato, pulito quartiere residenziale di Kate. Guardo’ quello che anche Sedici aveva visto, prima che potesse darsi la pena di cercare fu subito intercettata da una ragazza dall'aria ingenua:

“Qual buon vento ti porta da queste parti, Lazuli dei Neri? Sei viva...”

Aveva capelli bianchi, decolorati, e sopracciglia scure; portava una coroncina di fiori finti in testa.

Ora Diciotto se la ricordava. Si ricordava il suo volto arrabbiato mentre le strappava la maschera che proteggeva la sua identità. Si ricordava del cocktail molotov che le aveva lanciato, a cui Diciassette aveva sparato prima che la colpisse.

“Una questione rapida, il treno: costituitisci e ti lascero’ tranquilla.”

A lei non importava del Commando in se’, non era li’ a fare il giustiziere.

“Non così in fretta, amore, non così in fretta. Tu ora sei risorta da chissà dove e vieni a dire a me cosa fare. Solo che mentre eri via, qui abbiamo voltato pagina. Tu non sei nessuno ora. E io, io ho questa città in pugno.”

Diciotto la guardò alzare il pugno chiuso prima di trarre una pistola dalla cintola e appoggiare la canna contro il suo zigomo.

“Chi ha mandato l'androide n.16, sei stata tu? Va che roba...ancora qui a rovinare tutto, a sabotare la mia rete d'azione.”

L'incontro con un uomo inscalfibile che diceva di essere un androide e la sparizione di quattro dei suoi luogotenenti nel quadrante est del suo territorio non potevano essere semplici coincidenze.

“Quattro uomini avevo, in quella casa diroccata ad est. E sono spariti. Te lo richiedo, hai mandato tu l'androide n.16?”

Diciotto riusci’ a trattenere la reazione spontanea al nome del suo amico, pronunciato inaspettatamente dalla gangster.

“Sedici non ti riguarda. So che sei tu stata a incendiare quel treno nel tentativo di incendiare me, ora devi avere le palle di prenderti le tue responsabilita’.”

Il disprezzo sul viso di Cloe stupi’ Diciotto:

“Non so di cosa tu stia parlando, sei in combutta con la polizia? In ogni caso, non mi incastrerai usando le tue proverbiali gambe a fisarmonica.”

Per Cloe, quella ladruncola da quattro soldi poteva usare i suoi mezzucci e corrompere ogni poliziotto del distretto, ma se pensava di essere una minaccia si sbagliava di grosso: solo lei aveva uomini e armi a sua disposizione.

Diciotto ripensò all'unica casa diroccata che avesse presente, quella con la stanzetta ammobiliata dove lei e Diciassette si erano sistemati prima che Sedici li ritrovasse. Apparteneva al Commando Magenta, c'erano gli uomini di Cloe lì. Lei era rimasta lì molto poco e non aveva fatto sparire nessuno, ma possibile che Diciassette…

“Va’ a casa, Lazuli. Non far piangere la tua mamma.”

Diciotto diede a Cloe uno sguardo feroce, stringendo la canna della pistola:

“Confessa il rogo del treno, subito. O te lo farò fare.”

Cloe sentì caldo e guardò esterrefatta la canna della pistola diventare rossa incandescente, poi scoppiare. Si protesse gli occhi mentre la sua rivale si allontanava. Prima che lei andasse via, le punto’ il dito contro:

“Io invece so che ci siete tu e Lapis dietro la morte dei miei luogotenenti! E il momento di una mia vendetta è giunto da tempo. Ci saranno ritorsioni, Lazuli. Ci saranno ritorsioni.”

 

 

 

 

 

 

 

 

Pensieri dell’autrice:

 

E riprendiamo qui il cliff hanger del capitolo scorso! Finalmente Kate e i suoi adorati gemelli sono di nuovo insieme e sono felici, anche se forse non tutto va come Kate aveva previsto. Dopo un tentativo laborioso da Great British Bakeoff Kate ci resta male che ai cari non piaccia la torta, ma questo e’ un tratto saliente di Kate, lei detesta cucinare. E la cucina detesta lei (e in questo mi sono ispirata a me).

Ho cercato di essere realistica sulla reazione di Kate alla conferma della verita’; non mi immagino che effetto possa fare di ritrovarsi due figli cyborg, ma sono certa che farei anche io delle figuracce se succedesse a me!

Ho fatto un’ipotesi sulla fisiologia dei cyborg, che ne dite? Immagino che a loro non possa venire mal di pancia perche’ per me ha senso, ma sono d’accorto con Diciassette quando dice che mangiarsi una forchetta sia tutto sommato un’idea stupida che non funziona :’) io e il mio lettore Teo pensavamo anche che loro due si possono ammalare, ma senza avere noie come noi umani basic.

E in tutto questo, la felicita’ della piccola famiglia non e’ ancora assoluta perche’ il passato da delinquenti dei gemelli torna a tormentarli. Cloe Mafia sfida Diciotto, che e’ paziente.
Con Cloe e il suo atteggiamento spregiativo riflettevo su una questione che, per esperienza, considero vera: a volte sono le donne ad essere piu’ crudeli con altre donne. Anche se bon, Cloe e’ crudele con tutti. Nel prossimo capitolo vedremo cosa sta facendo la nostra piccola veterinaria-cecchino; ci sara’ anche l’introduzione di un personaggio abbastanza importante, da tenere d’occhio.

Grazie di tutto, lettori e recensori. La motivazione che mi date e’ enorme.

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Capitolo 14
*** Nel RNP ***


Nel frattempo, nel Nord del pianeta, Carly aveva terminato il suo terzo giro di volontariato e si era candidata come stagista, ma a pagamento questa volta.

Anche se era una studentessa d’eccellenza le sue speranze di essere accettata non erano molto alte: chissa’ con quanti altri futuri veterinari, bravi come e piu’ di lei, avrebbe dovuto competere per entrare nel Royal Nature Park, si era ritenuta gia’ abbastanza fortunata.

Il distacco da Gage, che era diventato il suo migliore amico, la spinse pero’ a osare: aveva cosi’ trovato il coraggio di mandare il suo curriculum alle risorse umane. Leni le aveva confessato che la decisione non dipendeva solo da lei, ma che ci avrebbe messo una buona parola.

Una sera aveva ricevuto una chiamata dalla sua amica la direttrice:

E’ fatta, piccola. Al consiglio d’amministrazione e’ piaciuto il tuo studio sull’influenza aviaria, ma piu’ di tutto il tuo lavoro con gli aquilotti l’inverno scorso: cominci lunedi’.”

Per la prima volta da quando aveva diciannove anni, Carly si era sentita veramente felice. Un contratto a tempo determinato, da luglio a novembre, era meglio di quanto si fosse mai immaginata.

All’inizio aveva rifiutato l’alloggio che le era stato offerto, nonostante fosse pagato dalla direzione del parco: avrebbe avuto un coinquilino e se c’era una cosa che Carly temeva della vita da universitaria era il condividere il proprio alloggio con perfetti estranei. Le era toccato farlo durante il primo anno a North City, quando era arrivata a semestre gia’ iniziato e tutti gli alloggi studenteschi erano gia’ presi. Era stato abbastanza sgradevole per lei.

Voleva restare da sola; per di piu’ si immaginava qualcosa di scomodo come una baita senza acqua corrente. Aveva rispettosamente rifiutato, era disposta anche a fare da pendolare fra il suo prezioso monolocale in citta’ e il luogo di lavoro come era successo in precedenza.

Ma quella era la prima volta in cui doveva timbrare il cartellino, la prima volta al parco in estate: Carly non aveva fatto i conti con il doversi alzare ogni mattina alle quattro per riuscire ad arrivare puntuale alle sette, fra strade strette e tortuose e ingorghi spettacolari creati dalla miriade di turisti che in alta stagione invadeva il RNP come un’orda di barbari. Tutto lavoro, diceva Leni, tutto lavoro.

Carly era tornata dalla sua amica, quasi pregandola di darle quella famosa sistemazione e sperando che fosse ancora disponibile. Pazienza per i coinquilini. E per il fatto che probabilmente non si sarebbe rasata le gambe per quattro mesi.

Nonostante il signor Der Veer le avesse detto che avrebbe continuato a pagare l’affitto del monolocale anche durante la sua assenza, Carly fece come quando era partita la prima volta: sabato mattina impacco’ allo stremo la sua auto. Si porto’ via i suoi libri e film preferiti, tutti i vestiti, si porto’ via le pentole e persino il suo serpente di peluche gigante.

Era quello che aveva vinto a Dream World anni prima, quando dopo aver girato in varie giostre fino alla nausea lei e Lapis avevano provato a vincere peluches pescando delle papere di plastica.

Quel serpente era brutto, ma brutto forte: un salsiccione di pelo economico di un improbabile colore arancio fluo, con gli occhi a palla in fuori e la bocca perennemente aperta.

“‘Sto coso e’ l’unico serpente con una lingua umana, anziche’ biforcuta. Gli da’ un’aria da scemo.”

Ogni volta che lo guardava Carly sentiva ancora Lapis ridere e rideva anche lei, ora come allora. Ma non c’era piu’ Lapis che camminava al suo fianco, facendola ridere dal cuore.

Arrivo’ al villaggio dove si trovava la sua nuova casa. Quando Leni le lascio’ le chiavi dell’alloggio 36B, al piano terra di un grande chalet bianco, Carly si trovo’ in un bilocale semplice ma pulito e spazioso.

“La tua coinquilina e’ Lillian, ha la tua eta’. E’ una brava ragazza, la-”

“La top ranger? Non mi dire che e’ lei!”

Quella che la chiamava sempre cupcake. Quella che portava i pantaloni cargo ma per qualche strano motivo non sembrava tozza.

Leni non capiva molto quale fosse l’emozione che aveva fatto avvampare la sua amica: “E’ stata un’idea di John, ma anche io penso che possiate andare d’accordo.”

Mah; cos’aveva lei da spartire con una ranger?

“Per me, se c’e’ qualcuno che puo’ sollevarti il morale e’ proprio Lillian; tu saresti una presenza serena per lei, che ti importa del suo lavoro? In ogni caso i suoi orari sono molto diversi dai tuoi, se volete fuggirvi come la peste e’ facile farlo.”

Visto che le sarebbe toccato vivere con quella strafottente, era una consolazione.

Sola nel nuovo appartamento, Carly curioso’ in giro cercando di capire che tipo quella Lillian potesse davvero essere. In fondo non la conosceva, sapeva solo cosa faceva; in quel momento non si ricordava nemmeno che faccia avesse.

Apri’ il frigo e non trovo’ nulla di incriminabile: almeno la sua coinquilina aveva una dieta decente, non l’avrebbe torturata con la deliziosa roba grassa che lei cercava di evitare.

Nella camera, dove due letti singoli erano separati da un como’ di legno smaltato di bianco, Carly vide alcune foto incorniciate: il denominatore comune era una ragazza magra e muscolosa con una bella abbronzatura e un viso ampio che dava l’impressione di essere piatto, su cui ridevano due begli occhi neri. Ora Carly se la ricordava. Perfetto, nella sua vita doveva esserci sempre la stangona magra di turno. Almeno questa qui non sembrava un mix di ennui, odio per il prossimo e bellezza che toglie il fiato; non le faceva paura.

Una foto la ritraeva in una palestra, con una fascia azzurra fra i capelli e un enorme bilanciere alzato sopra la testa; sembrava che stesse partecipando a una gara di sollevamento pesi.

Lillian doveva essersi preparata all’arrivo di Carly, i suoi vestiti e i suoi prodotti di bellezza occupavano solo la parte sinistra del guardaroba e del mobiletto del bagno. Carly passo’ il sabato a sistemare le sue cose in giro per l’appartamento e quando si fece sera rimase alla finestra della camera a guardare la stradina che conduceva dal centro del villaggio a un pratone dietro lo chalet. Noto’ divertita che le imposte di legno massiccio erano intarsiate con motivi di cuori e stelle alpine. Cerco’ di aspettare il ritorno della top ranger ma, stanca, si addormento’ mentre il letto di fianco al suo non era ancora stato toccato.

Credette di sentire rumore verso le due di mattina, ma non era curiosa di incontrare la sua coinquilina.

Le ragazze fecero conoscenza il giorno seguente. Per tutta la mattinata Lillian fu solo un grumo sotto le coperte e una chioma mogano sul cuscino, poi verso l’una Carly se la vide apparire in cucina ancora assonnata, mentre lei scriveva al computer.

Si scuso’ per essersi svegliata cosi’ tardi, era il suo giorno libero:

“Finalmente sei arrivata! Leni mi aveva promesso te giorni fa, ma poi la cosa era finita in niente. Jenny, giusto? Zoologa?”

“Carly. Veterinaria.”

“Che stupido nome! Io sono terribile a ricordarmi, poi hai una faccia da Jenny.”

Carly non era di certo un tipo aggressivo ma visto che le sarebbe toccato vivere con quella tizia impudente, tanto valeva mettere le cose in chiaro fin da subito. Se Lillian aveva intenzione di comportarsi cosi’ ancora per molto, sicuramente anche lei avrebbe trovato un modo per complicarle la vita:

“Giusto per dire: me la cavo piuttosto bene con fucili e pistole, quindi fai tu.”

Non era sicura che l’avesse detto per scherzare.

Un lampo giocoso aveva acceso i suoi occhi, che erano davvero neri come nelle foto, e Lillian si era definitivamente svegliata: “Uuh, gagliarda.”

Aveva alzato le mani, divertita, prima di frugare nella tasca della giacca che aveva lasciato su una sedia, quando era tornata all’alloggio la notte prima. Ne estrasse il proprio porto d’armi:

“Non solo so farlo anche io, ma mi pagano per farlo.”

“Brava! Quindi voi guardiaparco ve ne andate in giro a fucilare la gente?”

“Seh, troppa grazia. Ma posso farlo se serve.”

Di malintenzionati ne aveva buttati fuori, ma non era mai servito ricorrere alle armi durante i due anni in cui Lillian aveva lavorato li’.

Le due donne si scrutarono in silenzio con uno sguardo teso, ma nonostante tutto Lillian era allegra: il piu’ delle volte le sue giornate lavorative erano piuttosto solitarie, quando tornava a casa era sempre da sola. Anche se petulante, quel cupcake gigante della sua nuova coinquilina era una persona con cui interagire.

Fingendo di essere arrabbiata Lillian si sedette al tavolo, incrociando le gambe distese e smanettando col cellulare.

Allora Carly noto’ le sue pantofole: bianche, pelose, con una grossa scritta nera tutta in maiuscolo, I HATE su un piede e GEOGRAPHY sull’altro.

Suo malgrado, non riusci’ a non ridere: soffoco’ la risata, che usci’ comunque sotto forma di una specie di grugnito. Lillian si era permessa di dirle che il suo nome era stupido, quando lei per prima se ne andava in giro con quelle ciabattazze kitsch.

I hate geography. Auguri.”

“Vero?” Lillian rise di gusto “quanto sono stupide queste ciabatte? Me le ha prese mia mamma su internet, nelle foto avevano la scritta Good Morning o qualcosa del genere, non che fosse meglio. Ho anche una maglia cosi’, era un set...”

Le ragazze si trovarono a ridere insieme di quanto fosse pericoloso comprare roba su internet a prezzi troppo stracciati. Cosi’ Lillian e Carly condivisero insieme un momento di allegria, dimenticandosi che per un momento si erano state antipatiche.

Nata e cresciuta fra quelle montagne, Lillian aveva subito notato l’accento della sua nuova coinquilina: “Tu non sei del Nord, no?”

“Central City.”

“Wow, come va laggiu’?”

Era passato cosi’ poco tempo da quando il terrorista Cell aveva usato il distretto centrale come arena per le sue mattane. Central City, insieme alla capitale del Nord, era stata la citta’ che aveva pagato il tributo piu’ alto in vite umane: Cell aveva spazzato via le milizie reali con una sola mano.

Quando il terrorista era stato sconfitto tutti erano inspiegabilmente tornati, come se fossero stati resuscitati, ma la citta’ aveva gia’ eretto il monumento ai piedi del quale la gente aveva posato ghirlande di papaveri rossi. Quella sarebbe diventata una tradizione: Central City non dimenticava, anno dopo anno avrebbe continuato a ricordare a tutti il coraggio di quei soldati di fronte alle ore piu’ buie.


 

Da quello che Carly aveva capito, Lillian era una specie di poliziotta; doveva sempre assicurarsi che non ci fosse gentaglia in giro per il RNP, passava molto tempo in pattuglia.

Toccava a lei anche prendere parte al soccorso di turisti o animali in difficolta’, la prima volta che era successo era stato quando stava ancora imparando il mestiere. John era stato la’ con lei:

“Era un incendio, c’erano tutte ‘ste bestiole che correvano, correvano impazzite in direzione opposta alla nostra mentre un aereo gettava acqua sulla foresta. Non potrei mai fare il pompiere, era terrificante.”
"A casa devono essere orgogliosi di te."
"Ma mia madre pensa che io passi la giornata a fare passeggiate e a nascondere pranzi al sacco dall'orso Yogi; francamente va bene così."
Sua madre era una fifona che Lillian accusava di tutti i propri problemi. Aveva lottato per scegliersi la carriera che voleva, se fosse stato per sua madre sarebbe rimasta sempre in casa:
“Sai com'è, se esci di casa puoi prenderti il famoso colpo d'aria. Nessuno conosce l’origine di questa misteriosa malattia, ma se te la prendi sei morto.”
Carly non poteva dire molto su sua madre, lei aveva tagliato la corda otto anni prima.
La specialita’ di Lillian era il mantenimento dell’ordine, ma in pratica le capitava anche di fare lavori di tutt'altro tipo; le piaceva raccontare ai turisti come funzionavano le cose e visto che ultimamente si era sentita irrequieta, aveva chiesto a John di farle fare dei tour e dei turni di notte. Ecco perche’ quando Carly era arrivata non si erano viste.

“Visto che sono piu’ forte del 99% della gente che lavora qui, faccio spesso anche manutenzione. Ieri ho fatto un muretto a secco, mi fanno ancora male le braccia.”

Lillian era cosi’ forzuta e resistente da essere stata campionessa olimpica di sollevamento pesi a soli diciotto anni. Le sue qualita’ fisiche erano sia genetica che allenamento, poteva sollevare centodieci kg.

Carly era impressionata oltre ogni dire. Era curiosa di sapere se anche lei avrebbe potuto farlo, col giusto allenamento. Lillian aveva riso. Le aveva detto senza ricamarci su che se tutto quel ben di Dio era da andarci pazzi, non era adatto a quel particolare exploit:

“Persino per me non e’ cosi’ facile; alla fine sono umana anche io.”


 

C’era una miriade di insediamenti all’interno del RNP, fra cittadine e villaggi se ne contavano circa duemila. Ma solo da Viey, dove vivevano Carly e Lillian, ci si godeva il panorama emozionante del Grande Eden che, con la sua enorme lingua di ghiaccio, li guardava dritti in faccia.

A volte di notte Carly restava fuori dalla casa ad ascoltare lo scrosciare grave del torrente in fondo al dirupo, guardando il cielo: da Viey si vedeva la Via Lattea, ritagli di cielo diamantino che spuntava fra i fianchi scuri dei monti.

Carly si era affezionata in fretta alla vita bucolica del parco, al suo nuovo minuscolo villaggio: non era altro che un gruppo di chalet dai balconi di legno intarsiato, grondanti di gerani coloratissimi, raccolto intorno a una piazzetta dominata da un antico forno e un lavatoio di pietra. La maggior parte degli abitanti di Viey aveva piu’ di cinquant’anni, ma gente come lei e Lillian abbassava l’eta’ media. Carly si divertiva a bere l’acqua di montagna pura e gelida che zampillava dalla fontana di pietra, anche se la prima volta le aveva fatto venire il mal di stomaco. Le piaceva anche chiacchierare con una vecchia signora in grembiule rosa che era sempre li’ a fare il bucato.

“Si’, ho una lavatrice ma mi piace lavare a mano. Cosa ci fai qui, tu? Lillian parlava di te.”

Carly era li’ per lavorare sulla riproduzione dell’aquila gigante alpina:

“Quest’anno sono nati piu’ piccoli del solito, non e’ stupendo? E’ l’animale su cui sto scrivendo la mia tesi.”

L’aquila non era solo un lavoro o un animale amato, era diventata per Carly un emblema, uno stile di vita: quando le guardava, sia libere in volo che fra le sue mani amorevoli e guantate, coi loro occhi attenti sembravano dirle “punta in alto”.

Leni aveva voluto assicurarsi che Carly fosse contenta a Viey e con Lillian.

Quella ragazza era eccezionale, non per niente era acclamata come la migliore ranger del RNP: John pensava, e Leni era d’accordo, che potesse un giorno sostituirlo. Era una brava persona, ma in tanti facevano fatica a rapportarsi con lei. La maggior parte della gente non riusciva a gestire il flusso supersonico dei suoi discorsi, poteva pronunciare mille parole in due minuti; non si stancava mai, aveva l’argento vivo addosso, per i piu’ era troppo. Ma Leni ci aveva visto giusto, da quello che Carly stessa le aveva raccontato sembrava che avrebbe saputo come prendere Lillian.

Una sera, coricandosi, lei e Lillian erano restate a lungo a parlare e Lillian le aveva proposto il salto dalla torre altissima per la mattina seguente: a una decina di giorni dopo essere diventate coinquiline non sapevano ancora quasi niente l’una sull’altra e Lillian aveva voluto condividere con Carly il suo posto preferito.

“E’ il posto in cui mi sfogo meglio, non vedo l’ora di portarti domani! Non so se Leni te l’ha detto, sono iperattiva.”

“Ah, ci credo. Se non ti mangiassi le tue nove uova per colazione, prima di mezzogiorno crolleresti senza forze. Sono lieta che tu non abbia scelto una valvola di sfogo sbagliata.”

Lillian non riusci’ a contestualizzare appieno l’ultima frase pronunciata da Carly, ma fu toccata dalla sua intuizione. Che fosse iperattiva anche lei?

Carly era una che lavorava sodo, aveva un sacco da fare, ma le trasmetteva comunque moltissima serenita’: quando Lillian voleva parlare e parlare lei la lasciava sfogare senza darle la tara, anche se stava ben attenta a non prolungare inutilmente le discussioni. Sembrava che capisse com’era fatta, che aveva bisogno di far uscire quei flussi di pensieri e parole. Carly la ascoltava davvero. Carly non la ignorava.

Spalmata sul letto, Lillian la guardo’ mentre apriva una bottiglietta d’acqua e prendeva dal como’ la confezione di pastiglie. Quella cupcake parlava davvero poco di se’, ma Lillian aveva ipotizzato che avesse una relazione seria con qualcuno visto che impeccabilmente tutte le sere si prendeva la pastiglia.

“Io non vorrei mai quella roba, non la prendevo nemmeno quando stavo col mio ex. Mi disturba che degli ormoni di sintesi circolino nel mio corpo.”

Carly fisso’ con commiserazione Lillian legarsi in uno chignon i capelli rossi hennati, lisci e spessi, il suo migliore ornamento:

“Non dirmi che sei una di quelle che credono nei complotti stile “Big Pharma ci uccidera’ tutti”.”

“Ma per chi mi prendi?”

Carly era stata impegnata per tre anni, quella della pillola era una vecchia abitudine che non voleva dimenticare.

“Siamo sempre noi donne a doverci sottoporre a contraccettivi invasivi, mentre tutto quello che i nostri partner devono fare é impacchettare il pacco. Ti piaceva farti...riempire?”

Lillian aveva esitato a finire la frase, sopraffatta da uno strano pudore. Si’, le piaceva, Carly non aveva nessun problema ad ammetterlo; si era messa a ridere, perchè quella fulminata doveva farlo suonare come una volgarità?

“Visto che davi carta bianca al tuo ex, come mai è ex?"

"Una lunga storia. Si è messo nei guai e un giorno tre anni fa è sparito. Non l'ho mai più rivisto. Ho avuto solo lui in vita mia e per quel che vale, per me eclissava completamente l'intero genere maschile*.”

Lillian non aveva mai sentito nessuno parlare cosi’ di un moroso, tantomeno ex: “E lui com'era?"

“Era...io ero il brutto anatroccolo, quando lo vedevi pensavi "ma è vero?"”

Lillian la guardò sorridere e arrossire, mentre faceva un gesto nervoso e afferrava un peluche dalla testiera del letto, un serpente.

“Era anche intelligente, ma sconsiderato. Era come te, un finto estroverso e non stava mai fermo. Forse era iperattivo anche lui, non lo sapro’ mai. Questo coso bruttissimo l’abbiamo vinto insieme a Dream World. Ma basta così, parliamo d'altro."

Parlarne un po' con Leni aveva sbloccato Carly, aver imparato a dare voce al dolore le toglieva un peso. Ma doveva essere a piccole dosi.

Lillian aveva così tante domande. Si chiese se fosse la prima persona a cui Carly raccontava quella parte così dolorosa della sua vita:

“Quindi ex ma non per scelta...Sai che capisco perche’ ti piacesse? Per quanto contorto possa sembrare provavo lo stesso per il mio ex, anche se mi ha mollata e sono ancora inviperita con lui. Ero molto innamorata di lui e se non fosse che non mi piacciono i contraccettivi invasivi, avrei lasciato che...ecco.”

"Diventi timida tutto d'un tratto?"

Finta estroversa.

Lillian penso’ a quanto quella descrizione le corrispondesse. Sentendosi felice di quella conversazione ma anche imbarazzata, volle spegnere la luce. Guardo’ la dolce, triste Carly seduta sul letto nella sua graziosa camicia da notte, il serpente e l’acqua ancora in mano:

“Comunque, per quanto ti riguarda, ti sistemo io: un po’ di tempo qui e prenderemo il malumore a calci in culo. Domani si salta!”


 

Appena sopra Viey c’era un campanile antichissimo, molto piu’del villaggio stesso. Quel rudere aveva una qualita’ speciale, l’essere in cima a una rupe che dava sull’intera valle. Un centinaio di metri di sotto scorreva un torrente. Da li’ si poteva ammirare il panorama ancora meglio: Lillian e altri suoi colleghi avevano costruito proprio li’ un passatempo che per loro era diventato una tradizione da ripetersi una volta alla settimana per mantenere saldo lo spirito di gruppo, come diceva John. Avevano attaccato al rudere delle corde elastiche legate a una specie di imbragatura, in cui ci si poteva sedere per rimbalzare nel vuoto.

Leni ne aveva gia’ parlato a Carly, insistendo su quanto quella pratica fosse scellerata e pericolosa.

Pensando che la direttrice fosse troppo vecchia per apprezzare certe cose, Carly prese posto nell’imbragatura sotto lo sguardo fiero di Lillian, aiutata da un ragazzo alto e abbronzato, dai capelli ricci.

“Attento alla mia cupcake, Joel. Per lei e’ la prima volta.”

Li’ tutta imbragata, Carly vide altre due colleghe di Lillian squadrare severamente la sua pelle biologicamente incapace di produrre quantita’ decenti di melanina e il suo fisico non perfettamente atletico come il loro, possibilmente allenate a fare su e giu’ per i sentieri tutto il giorno, tutti i giorni. Sembrava che volessero dirle “tu qui non sopravviverai”.

Carly penso’ istintivamente che i ranger erano antipatici per default, anche se alla fine quella con cui le toccava vivere non era cosi’. Prima che potesse formulare un’ipotesi su come mai quegli antipatici non portassero altra uniforme che un parka blu per quando faceva freddo, si trovo’ proiettata giu’ dalla rupe a una velocita’ che la fece urlare.

Rimbalzando su quell’altalena, le urla di spavento si erano trasformate in gridolini di gioia, mentre le sembrava di poter arrivare a disegnare con un dito nella neve fresca e polverosa del Grande Eden.

Quando il suo turno fini’, John si complimento’ con lei: “Pero’...la prima volta, uno su due di questi qui ha vomitato.”

Il vecchio ridacchio’ accennando con la testa ai ragazzi e ragazze il cui dovere, aveva lasciato intendere, era di avere una certa prestanza fisica.

Carly non aveva vomitato, ma togliendosi l’imbragatura si era sentita fluttuare ed era rimasta per un po’ seduta su una roccia, aspettando che i suoi organi tornassero nella loro posizione originale.

Aveva temuto cosi’ tanto di dover condividere il suo alloggio con Lillian, ma gia’ un mese dopo aver cominciato il lavoro li’ le dispiaceva che fosse difficile che si incrociassero sul lavoro. Lillian era tutto l’opposto di quello che Carly aveva temuto, sembrava che sapesse capire il suo dolore pur avendo un carattere completamente diverso.

Col passare dei giorni, Carly stessa si ritrovò a non veder l'ora di arrivare a sera e raccontare a Lillian come fosse andata la sua giornata. Si sentiva un po' triste quando non si incrociavano a casa, anche se c'era poco tempo per sentirsi triste, i suoi giorni erano ancora piu’ pieni ora che era una dipendente: anche se si occupava principalmente delle sue aquile, sembrava che avesse dimestichezza nell’essere un'ostetrica per altri animali. Quando c'erano un parto o dei piccoli in ballo, chiamavano lei. Si disse che la sorte era ironica: se aveva scelto di non occuparsi di bambini, ora si prendeva cura degli aquilotti e dei piccoli stambecchi, dei puledrini, degli agnelli.

In poco tempo lei e Lillian si erano avvicinate cosi’ tanto che quest’ultima si era sentita presto pronta per le confidenze. Di punto in bianco, mentre svolgevano normali attivita’ quotidiane come spazzare il pavimento o fare il letto, Lillian le faceva domande profonde sulla vita o si metteva a parlare di cose molto intime. Quella volta, la ranger le aveva fatto un domanda a bruciapelo mentre insieme lasciavano la piazzetta di Viey con le mani rosse e una cesta di panni freschi di lavatoio:

“Com'è stata la tua prima volta, Carlona?”

Ormai sapeva perche’ la chiamava cosi’: Lillian si era stufata di dire “Carly tettona”, un epiteto inscindibile che andava detto tutto, anche se contratto in una sola parola.

“Dipende. Prima prima o seconda che conta come prima?"

"Prima. Io, è stato a casa sua.”

Mentre Carly le passava il bucato da stendere, Lillian aveva narrato di come fosse accaduto piuttosto tardi per gli standard contemporanei, aveva gia’ finito il liceo e quello era stato il suo primo moroso “i suoi erano via...È stato emozionante, una lunga notte romantica, una roba da film, ah! E tu?"

“Niente film. Una sveltina nella Subaru.”

Si misero a ridere insieme. Anche se capiva che Carly non avesse voglia di parlarne, Lillian si sarebbe aspettata qualcosa di più romantico.

"Te l'ho detto, quella è stata la seconda volta."

Lillian le confessò che farlo in macchina era sempre stata una sua fantasia.

"...no, evita. Certo, cambia se sei in macchina o sulla macchina. Ma macchina è, punto. Dopo quella volta io sono tornata a casa con un occhio nero.”

Cos'aveva detto a suo padre? Ballando. Si era presa una gomitata in discoteca, ballando.

“E tu lo vedi ancora qualche volta, questo ex?"

“Oh, cara...quasi tutti i giorni.”

Piu’ tardi, con tutto il bucato steso che ondeggiava nel pratone dietro casa, Carly si era distesa su un muretto a rileggere degli appunti che aveva copiato sul cellulare, mentre Lillian sedeva sotto un albero con il suo tablet; la sua fronte era corrugata.

Sentendola continuamente sbuffare e sbattere un piede a terra, Carly l’aveva raggiunta sotto le fronde del melo:

“Sei arrabbiata? Cosa succede?”

Sbircio’ lo schermo e vide qualche tabella, delle foto di rocce e della valle. Lillian sospiro’, gettando il tablet nell’erba:

“E’ una situazione di merda. La montagna sta per venire giu’, su a Noiresylve: John ha dato a me il compito di evacuare il villaggio, dovro’ dire alla gente di abbandonare le loro case...”

Lillian anticipo’ qualsiasi tipo di domanda Carly potesse farle: la gente li’ in montagna era attaccata alle loro case, erano tesori di famiglia che erano stati passati di generazione e generazione. Le sarebbe toccato fare un lavoro scomodo, dire agli abitanti di Noiresylve di sloggiare o di farsi schiacciare, sorbirsi le loro proteste e lamentele.

Carly era costernata dal vedere la sua nuova amica frustrata.

“Ecco un lato poco pratico del dover tutelare la gente che vive qui, spesso ti ritrovi fra le mani situazioni di questo tipo. Che puoi fare quando la montagna minaccia di franare, se non farli andare via? Puo’ crollare in un mese come in un giorno. Che situazione...”

John avrebbe coordinato lo sfollamento della gente e l’emissione ufficiale dell’allerta frana. Per le prossime settimane non sarebbe convenuto aggirarsi nel settore nord del RNP.

Chi lo sapeva quando l’imprevedibile montagna avrebbe deciso di radere al suolo Noiresylve. Cadere, doveva cadere. A lei non fregava nulla.

Carly aveva messo il suo cellulare sotto il naso di Lillian: non riusciva a scegliere di che colore prendere il vestito per la discussione della sua tesi, era indecisa fra nero e verde pastello.

“Oh giusto, altro che frana.”

Forse felice di quella distrazione, Lillian l'aveva abbracciata. Sembrò guardarla come per dire che se il suo senso della moda preferiva outfit pratici per andare in montagna, aveva comunque degli standard:

“Quel color pastello sembra fatto per stare addosso a te! Col nero sembreresti malata, pastello tutta la vita. Quando discuti la tesi?”

“L'anno prossimo.”

 

 

 

 

Bruno aveva finito per seguire Lazuli. Aveva dovuto promettere a Lapis che qualsiasi cosa Lazuli gli avesse detto, si sarebbe fidato di lei.

E Bruno voleva fidarsi: voleva parlare con lei, porle mille domande, trovare insieme un modo per incastrare l’intoccabile capo del Commando Magenta.

Ma prima che potesse arrivare con la sua volante nel posto in cui sperava di trovare Lazuli, ricevette una chiamata:

Capitano Weiss? Parlo con lei?”

Una voce femminile, leggera. Silenzio assoluto in sottofondo.

Un velo di sudore gli copri’ la fronte: “Qui capitano Weiss.”

Si’, la sto guardando in questo momento. Scenda dalla macchina, senza pistola. Se si gira a destra, vedra’ che le sto venendo incontro disarmata. Dobbiamo parlare.”

Senza fare in tempo a chiudere quella chiamata senza nome, Bruno vide la famigerata Cloe Mafia avanzare verso di lui con la sua lunga gonna di tulle bianco e i suoi sandali tintinnanti di campanelline. Conosceva il suo volto dalle foto, ma vedersi davanti agli occhi una ragazza dall’aspetto cosi’ fine e saperla una dei piu’ efferati criminali che battevano il suolo del distretto centrale, gli faceva uno strano effetto.

“La sua amichetta e’ appena venuta a parlarmi, ecco perche’ sono disarmata” giro’ su se stessa con le mani alzate, mostrando a Bruno la propria sincerita’ “sono di cattivo umore, mi ha letteralmente fatto esplodere la pistola...e che sbatti tornare a casa a prendermi un fucile. A lei va bene, d’altro canto, Weiss: non e’ da tutti entrare qui senza farsi crivellare.”

Cloe si avvio’ verso la macchina di Bruno, ancheggiando. Si sedette aggraziatamente sul cofano ancora caldo.

“Noi vi abbiamo fatto un favore, capitano. Lasciamo stare che tre anni fa avevo grandi piani...non ho avuto molta soddisfazione perche’ i leader dei Neri sono spariti, pouf! Voi poliziotti dovreste esserci grati, ci abbiamo pensato noi a trucidare il resto di quella gang di ladruncoli e a togliervi l'incombenza. Dove ci siamo noi, nessun’altra gang osa andare: semplice, no? In cambio, lasciateci stare.”

Bruno voleva ammanettarla e portarla via; quella donna era colpevole di cosi’ tanti crimini che niente avrebbe potuto salvarla. Lo sapevano tutti, ma nessuno diceva niente. Perche’ Bruno sapeva che mentre lui e Cloe sembravano soli, gli scagnozzi della gangster lo circondavano nascosti negli edifici del loro quartiere generale. Se si fosse azzardato a toccarla, l’avrebbero ucciso.

Cloe sorrise, accarezzando i capelli di Bruno:

“Non posso permettere che i Neri si raggruppino di nuovo, non ho tempo e risorse da buttare. Sa una cosa, agente Weiss? Dica a quella spocchiosa dalle sopracciglia albine, perche’ so che la vedra’ prima o poi, che se non si costituira’ io mi occupero’della piccola famiglia Weiss al completo. Ah, e che se lei fosse stata presente quando io ho preso il sopravvento l’avrei chiusa in uno stanzino con la sua famiglia. Prima mi sarei sbattuta a sangue il suo delizioso fratellino, non mi fraintenda capitano, sono una brutta persona ma odio gli sprechi. Poi l'avrei ucciso di fronte a lei e alla madre. Avrei poi ucciso la madre e infine avrei fatto fuori lei. Ma visto che ora sono ritornati, non e’ mai troppo tardi! Io sono Cloe Mafia e colleziono nemici morti: altre gang, poliziotti impiccioni, intere famiglie. Oggi lei e’ fortunato, ma sia lei che Lazuli dovete ricordarvi di lasciare al Commando quello che è del Commando.”

Cloe schioccó le dita e un’altra donna apparve. Sfilò il badge di Bruno dalla sua cintura, mentre Cloe rideva del suo essere disarmato in quel posto così sbagliato.

Bruno sapeva che lei era seria; era famosa per le sue arringhe e la sua boria, ma tutti sapevano che era capace di fare quello che predicava. Tuttavia, in quel momento il pensiero che lei potesse fare quello che voleva, sapendo di essere intoccabile, gli parve insopportabile:

“Io sono la legge, qui, per te, e di fronte alla legge ci vuole molto di piu’ che del trash talk.”

 

Guardo’ Bruno allontanarsi col mento in su, mentre Cloe restava a fissarlo: Diciotto aveva sentito tutto, aveva digrignato i denti così forte da provare fastidio.

Quando vide Bruno salire di nuovo sulla volante e accendere il motore, lo blocco’:

“Perche’ sei venuto a parlare con quella pazza? Non capisci che non puoi scendere a patti con lei?”

“Lazuli...io lo so che non siete stati voi. E io e gli altri dobbiamo provarlo.”

Diciotto sali’ sulla volante e guardo’ Bruno guidare, accigliato. Non aveva intenzione di dirgli che ci avrebbe pensato lei a risolvere le cose con il Commando, che non voleva la polizia di mezzo: scoprire le sue carte con Bruno avrebbe forse significato esporre la sua natura, un rischio che non voleva correre.

“Tu devi smetterla di inseguirli.”

Il tocco di Bruno sulla sua spalla la riempi’ di malinconia.

“Se non ci pensa la polizia, chi deve proteggere la città? Mr. Satan?"

“Per dio, hai altri colleghi.”

Bruno fermò la macchina poco lontano da un negozio di articoli per l'infanzia: “Ora scusami, ma ho promesso ad Amelia un peluche. Ci vediamo, Laz.”

Diciotto lo aspettò fuori dal negozio, vedendolo uscire con un coniglietto di peluche in mano gli si parò di fronte:

“Amelia conta per te, no? Quelle persone non hanno scrupoli e tu hai Sara e la bambina, cose che contano davvero! Non sacrificarle per il lavoro, per la gloria, non sacrificarle a quella donna.”

Arrivata alla fine della frase, si stupi’ di quanto le sue stesse parole suonassero vere anche per lei.

Una famiglia. Cose che contano davvero. Piu’ della gloria e della vittoria.

“Ma voglio fare la differenza.”

Il capitano si incammino’ verso la volante, dove nel frattempo altri due agenti l’avevano raggiunto con Lazuli che lo rincorreva:

“Sei solo stupido allora!”

Diciotto era rossa di rabbia. A cosa serviva essere cosi’ potenti se poi non era neanche capace di impedire a quel pazzo di un poliziotto di farsi ammazzare? Era ancora li’ sul marciapiede, di fronte a lui, a rimuginare.

Un fischio lontano la distrasse.

Diciotto non aveva mai amato cose per cui suo fratello impazziva, macchine, barche, armi da fuoco. Si ricordò all'improvviso che da ragazzina lo prendeva in giro quando lui diceva con convinzione incrollabile che avrebbe voluto saper distinguere il rumore dei vari tipi di artiglieria. Ora da cyborg avrebbe potuto. Ma lei, Diciotto, sentì solo il fischio.

Non seppe cosa fosse quel fischio basso che arrivava da lontano, un sibilo, un soffio leggero ma terribile attraverso l'aria.

Se ci fosse stato Diciassette, probabilmente lui avrebbe capito di cosa si trattava. Se Diciassette fosse stato lì, forse avrebbe gridato ai presenti di gettarsi a terra, o forse avrebbe solo fatto un gesto discreto con la mano. Nessuno si sarebbe accorto di niente.

Ma il suo gemello non era lì; quando il fischio diventò chiaro e vicino, Diciotto aveva già sentito il pungolio sulla sua schiena e il rumore argentino di piccoli frammenti di metallo che piovevano sul granito ai suoi piedi.

Bruno la stava ancora guardando con cipiglio: aprì la bocca per parlare ma il respiro gli mancò quando un'orrida ferita gli si aprì nell'addome. Il coniglietto di peluche cadde a terra, si macchio’ di sangue.

Il colpo era stato così violento che Bruno era stato scaraventato contro la vetrata del negozio da cui era appena uscito, dietro di lui.

La gente per strada iniziò a urlare e a correre; i poliziotti si affannarono sul collega, gridando nelle loro walkie-talkie “Agente a terra! Agente a terra!

Bruno copriva con una mano la sua ferita troppo grande. Sussultava ad ogni respiro.

“Shh, Bruno...”

Con le labbra che tremavano, Lazuli si chinó su di lui e gli prese l'altra mano, sussurrando per calmarlo e confortarlo in quegli ultimi momenti.

Lui cerco’ i suoi occhi: “Lazuli. Mia Lazuli.”

Il capitano Weiss fisso’ per sempre nella sua memoria l'immagine del viso di Lazuli, dei suoi capelli splendenti nella luce calda del tardo pomeriggio.

Diciotto non seppe mai che Bruno non si era mai dimenticato di lei; stette a guardare l'intero volume del suo sangue disperdersi in una pozza scura. Una sola, piccola goccia d'acqua cadde sulla mano di Bruno e rotoló giù. Quando Diciotto vide di nuovo chiaro, si accorse che era una lacrima.

La sua lacrima.

 

 

 

 

 

 

Pensieri dell’autrice:

 

In questo capitolo abbiamo due situazioni molto diverse: da un lato il felice incontro fra la nostra Carly e la frizzante ranger Lillian (le sue ciabatte saranno di Wish o Aliexpress?), entrambe appassionate ed eccellenti nel loro lavoro e dall’altro Diciotto che riesce a versare una lacrima davanti alla violenta morte di Bruno, il suo primo amore: la continuazione di quest’ultima scena sara’ parte del prossimo capitolo, Lazuli.

Io immagino il Royal Nature Park (che esiste in DB) come il posto che preferisco al mondo, il Parco Nazionale del Gran Paradiso (Valle d’Aosta), molti toponimi e persone che ho inventato sono ispirati a posti e a persone veri: il mio villaggio, Vieyes, e’ davvero come “Viey” che descrivo qui: quattro case, due fontane, un vecchio forno e una chiesa. E molti dei pochi abitanti sono guardiaparco (e vecchie signore che lavano a mano per scelta); non potevo non sfruttare questa piccola parte autobiografica, e’ il mio omaggio da immigrata al posto che sara’ sempre nel mio cuore.

Il serpente di Carly, lo stesso che Diciassette menziona nel capitolo 10, e’ ispirato a un peluche che ho io a casa da dieci anni,di nome Orochimaru “Orociock” proprio cosi’ brutto e scemo, vinto alle giostre in Italia :)

E quello che Carly dice di Lapis, marcato con l’asterisco, e’ un piccolo omaggio a uno dei miei personaggi letterari preferiti: e’ una citazione (ovviamente cambia il sesso del complemento oggetto) di Sherlock Holmes a proposito dell’amore della sua vita, Irene Adler.

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Capitolo 15
*** Lazuli ***


 Diciassette era rimasto a casa da solo con Kate. 
Contrariamente a quanto si era aspettato, annoiarsi un po’ in un ambiente felice, protetto e sicuro lo faceva stare bene. Era giunto in quella casa quando era solo una cosina, portato a mano da Kate in un trasportino; ci aveva vissuto la maggior parte della sua vita e ora cominciava a ricordarsela davvero. La sentiva sua.
 Mentre la mamma lavorava nel suo ufficio, una bella stanza luminosa al piano terra di cui il ragazzo non aveva memoria, lui aveva oziosamente passato un paio d’ore davanti alla tele a riempirsi di popcorn e roba gassata, poi era rimasto incantato a guardare la lavatrice che centrifugava i panni. Verso sera aveva udito Kate alle sue spalle, mentre si avvicinava a lui.
“Sono strano se mi immagino che sia un oblò che dà sullo Spazio?”
Kate digitava al cellulare, sorrise nel vedere suo figlio seduto per terra, col naso in su verso di lei:
“No, anzi, è consolatorio. Anche quando eri piccolo ti piaceva.”
Guardando la centrifuga, il cyborg si era messo a meditare e si era ricordato di Botz. 
“Ehi mamma. Se portassi un cane a casa?”
Kate sapeva usare benissimo i suoi occhi stretti e freddi. Meno male che lui aveva chiesto...
In ogni caso l’aveva preso Sedici, visto che quel pitbull traditore aveva adottato l'androide come nuovo padrone dimenticandosi completamente di lui. Falso come una moneta da un milione di zeni.
Diciassette sentiva un presagio strano nel suo cuore: qualcosa gli diceva che non era normale che Bruno Weiss e sua sorella non fossero ancora tornati.
La mamma si stava ancora aggirando per la lavanderia con il telefono in mano:
“Tra un po’ è ora di cena, tua sorella sicuramente non ne vorrà sapere. Di cosa hai voglia?”
Gli dispiacque dirle che quella sera non avrebbe mangiato con lei: 
“Un’altra volta. Sai dove abita Bruno?”

 Senza pensarci, Diciassette aveva seguito quell'istinto e si era ritrovato a Central City città, a bussare a una finestra. Non aveva modo di sapere dove si trovasse il capitano e diede per scontato che fosse in compagnia di Diciotto.
Erano le sei di sera, Sara stava giocando con Amelia prima di metterla a dormire; udì un rumore proveniente dalla camera matrimoniale ed ebbe quasi un infarto nel vedere Lapis alla finestra. Lapis dal sorrisetto beffardo e dai capelli lunghi, era proprio lui: il tempo non l’aveva derubato dalla sua allure, lo avrebbe riconosciuto fra mille. 
Come era successo con Lazuli, si sentì spontaneamente felice di vederlo.
La sua voce le giunse attutita dai doppi vetri:
"Sara, non fare domande...stanno arrivando. Rimani qui su con la bimba, io starò alla porta."
Mentre Diciassette era appostato alla porta d'ingresso dei Weiss e si concentrava per evocare quella mossa che aveva fatto una volta sola, ma che prometteva figaggine e divertimento, Sara era restata impalata nella camera della bambina.
Non capiva, ancora una volta era confusa: Lapis le aveva detto di sfuggita che Bruno era con Lazuli e che era quasi sicuro che lei e Amelia fossero nei guai. Doveva fidarsi di lui; l’ansiosa mamma capì all’improvviso, il cuore si agitò impazzito nel suo petto nel vedere in lontananza un'auto mangiarsi l’asfalto, dalla campagna fino a casa sua. In un batter d’occhio un gruppo di uomini armati abbandonò il veicolo e corse verso la sua porta.
“No!”
Ignorò come Lapis avesse previsto il loro arrivo, come avesse potuto arrivare lì da lei proprio in quel momento. Una ritorsione da parte del Commando Magenta era sempre stato, per Sara, un pensiero angoscioso che infine si stava avverando. Bruno aveva rischiato troppo in quegli ultimi anni e ora Cloe Mafia si era spazientita. Bruno…
Col respiro corto, afferrò Amelia e la chiuse a chiave nel bagno.
 Le fece male sentire la sua bambina piangere e lamentarsi, mentre scendeva in salotto. Sara vide oltre la soglia della porta spalancata gli uomini di Cloe Mafia tutti in fila sul marciapiede, come un plotone d’esecuzione, fra lei e loro solo Lapis. 
Da solo. 
Scazzatamente seduto per terra.
"Lapis! Quelli sono il Commando, vattene via!"
Per Sara, il bel Lapis non era nient’altro che il fratello della sua amica e incidentalmente anche il compagno di classe con cui aveva condiviso il brivido di sbaciucchiarsi durante gli intervalli affollati e troppo brevi della scuola media, allora le era sembrata una cosa molto osé. Era sicura che lui non ricordasse più quegli episodi di inizio adolescenza, ma a lei ritornò in mente. Si sorprese a sentirsi improvvisamente preoccupata per la sua incolumità, in quel momento.
Lui le fece un cenno, invitandola a lasciarlo stare.
Sara era così spaventata e sconvolta da non riuscire a ribellarsi, ad arrabbiarsi. Poteva solo osservare.
Quando ormai era sicura che i gangster avrebbero travolto quel pazzo di un Lapis nella loro corsa verso di lei, Sara vide qualcosa che le tolse il fiato. 
Guardando due dei gangster correre a tutta birra per varcare la soglia e poi rimbalzare violentemente, le sembrò di essere in una casa degli specchi: i due uomini che avrebbero dovuto ormai essere nel suo salone si erano insaccati contro un vetro, uno specchio che non sapevano fosse lì, e ora giacevano sul marciapiede con una gran botta in testa, storditi e doloranti.
Lapis emise una risata sguaiata e li salutò.
Altri imitarono i primi due, uno sbattè così forte da procurarsi un grosso taglio sulla fronte. Sara lo fissò sgomenta mentre ritornava alla carica,  accanendosì con pugni e calci contro quella cosa che sembrava bloccare ogni ingresso in casa sua.
Amelia continuava a piangere, chiusa in bagno; il criminale furente e agguerrito era a pochi centimetri da Lapis, Sara ebbe l’impulso di agguantare il ragazzo e tirarlo via di lì. Ma per quanto tirasse e stringesse, il corpo di lui non si mosse di un millimetro.
“Che bell’abbraccio mi stai dando, Sara!”
Diciassette ammiccò malizioso, spingendo la ragazza a lasciare la presa sul suo petto.
“Che succede? Non riescono a entrare,...” 
Lui si stava divertendo un mondo, quei delinquenti non avevano la più pallida idea di quello che stava accadendo. Nel momento in cui quel testardo cercò ancora di varcare la soglia, Diciassette si innervosì involontariamente: uno sfrigolio di elettricità riempì le orecchie di Sara.
La promessa sposa di Bruno vide l'uomo schiacciarsi contro quel vetro invisibile, mentre strani lampi verdi lo circondavano. Sarà urlò quando la forza della scossa lo gettò in strada, sulla carreggiata, un autobus che passava in quel momento inchiodò in tempo.
Diciassette non aveva previsto la scossa: guardò incuriosito il suo campo di forza fulminare lo scagnozzo che ci si era scagliato contro, come comandato dal suo stesso umore.
Un altro scagnozzo sparò, i proiettili esplosero contro la barriera. 
Vicino alle scale, Sara si era rannicchiata sul pavimento, attonita di fronte a quella tempesta elettrica. La squadra di tirapiedi di Cloe Mafia si fiondò verso Diciassette, ma non superò mai la soglia di casa Weiss.
Il cyborg sbuffò con enfasi, vedendo altri cinque del Commando a terra, morti; finiva sempre per ammazzare qualcuno ogni volta che li incrociava. 
Questa volta non era colpa sua, tutto quello che lui aveva fatto era provare la sua mossa figa proprio per evitare spargimenti di sangue davanti agli occhi di un’altra umana basic; se quelli là erano stati zucconi ignoranti e si erano buttati a capofitto, non era colpa sua.
Tuttavia gli piacque, sogghignò appagato: si era improvvisamente ricordato che sapeva proiettare campi di forza, l'aveva fatto una sola volta contro Piccolo ed era qualcosa di unico che non aveva visto fare a nessun altro. Decise che doveva continuare a farne, sì; avrebbero potuto diventare la sua mossa preferita, un giorno.
Ma che fulminassero chiunque ci entrasse in contatto era una novità anche per lui. Meglio, si era superato.
Sara non poteva vedere niente, si sforzò di capire cos’avesse fatto quel suonato di uno; e osservando bene, vide una pellicola iridescente brillare di un riflesso verde nella luce che entrava dalla porta.
 "Cos’era quello?"
Ancora seduto per terra Lapis si voltò verso di lei, respiro concitato e occhi freddi: "Non avvicinarti alla porta. Non toccarlo."
Inizialmente Sara non ebbe paura; afferrò un cuscino dal divano e fece per buttarlo fuori, ma sentì di nuovo l’elettricità sfrigolare e vide il cuscino bruciare.
“Oh mio Dio. Oh mio Dio, oh mio Dio…”
Non sapeva cosa dire. Non volle capire. Si azzardò a osservare ancora la soglia della porta e non vide più le iridescenze. Gettando un occhio all’artefice di quella stregoneria lo vide rimettersi in piedi e stirarsi.
Lapis sembrò rilassarsi. Alzò un dito e la ammonì, prima di uscire:
"Vai a prendere la tua bambina, ora. Niente domande.”
Alzò educatamente una mano in segno di saluto e lasciò Sarà da sola, mentre lei lo guardava allontanarsi per strada con le mani in tasca. Vide Lapis prendere possesso del veicolo con cui gli uomini di Cloe erano giunti a casa sua e lo seguì con lo sguardo, mentre lui si dirigeva verso la periferia con un braccio fuori dal finestrino.


  Bruno le aveva voluto bene. Era stato una creatura fragile, lei l’aveva lasciato morire davanti ai suoi occhi. Mentre si era accorta di aver pianto, si era sentita improvvisamente sola, vulnerabile.
Istintivamente, un solo pensiero aveva lampeggiato dentro di lei, senza che Diciotto ne capisse la ragione:
“Diciassette, ti prego, corri! Ho bisogno di te!”
Dopo l’ultimo sguardo con Bruno, il suo primo amore, la cyborg si era voltata con il cuore che batteva forte e i denti ancora stretti. Aveva sentito vari buchi sulla sua maglietta, all'altezza delle scapole.  
Mentre un’ambulanza sopraggiungeva e un miscuglio di poliziotti, medici e curiosi si accalcava sul marciapiede Diciotto scorse, molto lontano su un tetto, la sagoma di Cloe Mafia stagliata controluce; i suoi capelli sventolavano, il metallo della canna di un fucile brillava. 
Anche se era così lontana Diciotto vide quella signora del dolore sorridere, prima di sparire.
Diede un’ultima carezza alla fronte fredda di Bruno. Con infinita delicatezza posò la sua nuca sul marciapiede e sotto gli occhi spalancati dei passanti si alzò in volo, lasciando un piccolo cratere dietro di sé.

 Nello squallore muto del quartier generale, la donna-macchina bussò alla porta vetrata, linda ed elegante. 
"Ah, la ragazzina del treno."
Quando la porta scricchiolò sui suoi cardini, Diciotto riuscì ancora a sentire l’odore del metallo e della polvere da sparo; era un odore di sentenza definitiva che la colpì come uno schiaffo mentre la sua espressione era già di ferro, cesellata, di fronte a Cloe Mafia. 
"Tre cose: uno, le mie sopracciglia sono bionde platino, non albine."
Senza aspettare una reazione da Cloe, Diciotto la colpì al viso con un manrovescio che la fece girare su se stessa. 
Aspettò di avere la gangster di nuovo in posizione frontale e l’afferró per le spalle, con calma:  
"Due: per l'agente Bruno Weiss e la sua famiglia, bastarda."
Aumentó appena la pressione della sua stretta. Ancora frastornata, Cloe aveva ogni intenzione di chiamare man forte; udì lo schioccare di qualcosa che viene lacerato e divelto, non sentì nulla. Si preparò a comporre il numero del suo carnefice più crudele, ma quando vide Lazuli dei Neri tenere in mano le sue due braccia, strappate dal suo torso, tutto il dolore del mondo la invase. Urló come un animale. 
Diciotto lasciò cadere le membra, con un'espressione disgustata; gettò Cloe a terra con un calcio l’osservò un momento contorcersi e gridare.
Sembrava che la leader del Commando avesse perso la ragione. 
Diciotto non aveva ancora finito: sprangò con gesti lenti la porta e tirò le tende di quella che sembrava una lobby. Capì che c'era un limite al dolore che un corpo umano poteva sopportare, tuttavia la confortò pensare che in quel momento il limite l'avrebbe imposto lei. 
Si inginocchió e tiró forte i capelli di Cloe, strappandone una ciocca.
Anche se urlava di dolore, Cloe la guardò col disprezzo più nero:
"Va’ all'inferno!"
Non impressionata dallo scempio che stava commettendo, Diciotto ascoltò i gorgoglii della gangster e attivò il registratore dal cellulare che aveva sottratto a Bruno:
“Dì la verità sul rogo del treno. Avanti.”
Cloe ansimò e sputò addosso alla sua aguzzina: 
"...Brutta sgualdrina. Te li sei fatti tutti, prima di sparire. L'agente Weiss, sì. Ti farò marcire in prigione a costo di rimetterci la pelle: se pensi che io...che io mi sottometteró, perché tu sei forte, sei anche deficiente."
Diciotto non si scompose. Saltò sulla gangster come aveva fatto con Vegeta quando gli aveva rotto l’altro braccio; camminò avanti e indietro calcando il passo sui soli due arti che le rimanevano, per non ucciderla, per farla soffrire.  
Calpestó le gambe di Cloe fin quando non furono tutte molli. Le sue urla divennero quasi una droga.
Coi capelli e le braccia strappati, con le gambe maciullate, Cloe si mise a ridere.
Poteva avere lei, ma anche con la sua morte il Commando avrebbe continuato a conquistare.
Diciotto era stufa. Afferrò la donna per la giacca e la sollevò a braccia tese: 
“Confessa.”
Si rese conto che Cloe era al limite. Sempre tenendola in alto, le diede una ginocchiata che separò la gamba destra della gangster dal suo stinco. La tenne così fin quando Cloe urló in una maniera abbastanza atroce da far capire a Diciotto che il dolore inflittole era ormai impossibile. 
“CONFESSA! ”
E allora, Cloe cominciò a parlare. Con voce tremante di dolore e di odio, disse cos’era successo su quel treno tre anni prima. Quelle parole che avrebbero permesso a Diciotto e a suo fratello di mettere la loro vita criminale nel dimenticatoio, una volta per tutte, non erano che un piccolo file audio di trenta secondi. 
Troppo velocemente per essere registrata da qualsiasi cervello umano, Diciotto infilzó Cloe nell'addome con un tubo di metallo. La spinse di nuovo contro il muro, tenendola per il collo.
 “Tre: per aver pensato di toccare la mia famiglia, vergognati di esistere.Ti porto i saluti di Lapis."
Con il sangue di Cloe che pioveva scuro e pesante sul suo seno la cyborg tirò il tubo verso il basso, squarciando il corpo di quella donna malvagia dall'addome fino in mezzo alle gambe.
Non guardó i suoi occhi. Vibró il suo tubo e le fracassò il cranio.
La tensione si abbassó e lo stress lasciò la sua presa. Ripulendosi alla meglio dalle tracce della tortura, Diciotto abbandonò la sua arma e si sedette per terra, di fronte a quel cadavere spezzato. Era la cosa peggiore che lei avesse mai fatto. Niente energia, niente sfere né raggi. Solo la sua immensa forza, alimentata da una rabbia altrettanto grande.
Diciotto si girò a guardare quegli organi esposti e stracciati, che pulsavano ancora. Sentí la nausea salire, una sensazione di soffocamento; vomitò qualcosa di acido lì per terra.
Solo allora si sentí meglio.

 Non seppe per quanto tempo era restata in dormiveglia su quel pavimento, ma un'ondata d'energia forzò Diciotto a ridestarsi. Di punto in bianco si ritrovò proiettata contro un muro mentre un calore torrido avvolgeva la stanza, trasformando l'edificio in rovine. Le sembró di bruciare. 
Udì un cigolio e si scansó per evitare una trave di metallo, che cadde con clangore infernale al suolo portando con sé quasi tutto il piano superiore. 
"Toc toc! Qualcuno in casa?" 
La cyborg udí una voce e dei colpi alla porta; si abbassò in tempo per schivarla, sentendo il ferro battuto sfiorare le punte dei suoi capelli prima di schiantarsi contro la parte opposta della lobby.
Diciotto vide la sua silhouette nel riquadro della porta che lui aveva divelto. Guardò appena fuori dal riquadro della porta e tutto quello che vide fu rovine, distruzione.
Un wipeout così rapido e su quella scala non poteva essere stato eseguito da mani interamente umane. I suoi vestiti erano un po' bruciacchiati, doveva essersi blastato da solo mentre radeva al suolo l'intero quartiere generale del Commando.
"Ah, eccoti! Tutto é crollato qui fuori; ho lasciato questo palazzo in piedi perché sospettavo tu fossi qui."
Sembrava che avesse in mano un machete, o un'ascia. Lì controluce, con quell'arma in mano e i capelli spettinati aveva un'aria eroica che rese orgogliosa la gemella grande. Ma l'entusiasmo di Diciotto si sgonfiò quando lui sembrò mordere e strappare un pezzo dell'arma.
Eccolo lì.
Cosa ci faceva Diciassette con in mano un'enorme bistecca attaccata ad un osso?
Lui alzò spalle:
"Era dei banditi. Li ho fatti fuori, ma odio gli sprechi."
Guardó col naso arricciato quello che rimaneva dell'edificio in cui aveva trovato sua sorella. Si fermò a pochi passi da lei, buttò giù il boccone senza masticarlo:
"Miseria. Eri arrabbiata."
"Se lo meritava."
"Posso contare i pezzi?"
Diciotto gli diede uno sguardo piatto. Lui frugó nella tasca dei pantaloni e le lanciò il badge di Bruno.
"Dove l'hai trovato?"
"Ce l'aveva uno di quei mafiosi" Diciassette gettó al suolo l'osso, togliendosi dai denti i resti della cena "ridallo tu a Sara."
Sara era viva!
"Perchè io? L'hai trovato tu."
"Glielo ridaremo insieme, va bene? Pensavo solo che il gesto avrebbe avuto più valore se fatto da te."


 Quando aveva raso al suolo il quartier generale, Diciassette aveva fatto irruzione in ogni covo di scagnozzi fin quando non aveva trovato il badge del capitano, e quella buona bistecca. Avviandosi poi in cerca di Diciotto, aveva riconosciuto un passo e un abbaiare familiari sul terreno scottante.
"Ah, guarda chi si vede.” 
Aveva sorriso, allungando la mano per accarezzare Botz.
Come ogni volta che si trovava in presenza di quello strano animale con gli occhi trasparenti, il grosso pitbull aveva abbasato le orecchie e guaito ma aveva finito per arrendersi al tocco gentile. Pensando di essere veloce aveva tentato di azzannare la bistecca.
“Eh no, falsone!”
Diciassette si stava rassegnando. Era chiaro che ormai quel cane sarebbe rimasto con il suo amico, Botz aveva praticamente adottato Sedici. 
Che traditore pazzesco...
"E così li hai uccisi tutti."
In piedi vicino al cane Sedici aveva guardato il cyborg, incavolato. Diciassette se ne era fregato, non poteva permettersi che il Commando creasse ulteriori noie. Era per a mali estremi, estremi rimedi ed era chiaro che, per quanto scomodo fosse anche per lui, sradicare definitivamente quel cancro dalla città era qualcosa che andava fatto. 
Se Sedici si intestardiva a non uccidere mai, se non Son Goku se fosse stato in vita, quello era un problema suo.
Continuando a fare grattini al cane, rivolse a Sedici uno sguardo leggermente canzonatorio: "Che farai, ora? Sarai un coinquilino di Vegeta a vita?"
"Stimo il capitano Bruno Weiss. So che è morto. Voglio fare quello che faceva."
Un androide poliziotto, perché no? 
Sedici vide le caratteristiche fossette apparire sulle guance del cyborg.
Visto che Son Goku non era più un’opzione, era giusto che Sedici trovasse uno scopo. Quello di Diciotto era una vita intima e tranquilla, quello del suo amico una vita dedicata a proteggere.
Ma Diciassette non sapeva ancora il suo, si sentì un po’ vuoto nell’udire la domanda di Sedici:
"Questo pianeta ha bisogno di protezione. La sua gente, la sua natura. Tu cosa farai?"
Tutto quello che restava del regno del Commando era una palazzina ora malconcia la cui porta di vetro e ferro battuto, anche se malleata dal calore della sua energia, era ancora riconoscibile. Diciassette si era avviato in quella direzione, ansioso di incontrare di nuovo Diciotto:  “Comincerò con l’andare a prendere mia sorella e tornare da nostra madre. L’abbiamo piantata lì ancora una volta.”

 Diciotto si rigirò fra i palmi quel badge freddo.
Sara...
Si sentiva mortificata. Si era sentita libera dopo aver ucciso Cloe Mafia, lei non sarebbe più stata una minaccia e la confessione che le aveva estorto avrebbe significato tranquillità sia per loro che per Kate, ma tutto quello era stato pagato con la vita di Bruno. 
Quando Diciotto era andata via di casa dopo aver parlato con lui si era promessa di sistemare le cose. Ora, una famiglia era incompleta. 
“Sei triste perchè non hai salvato Bruno. Chiedi al tuo nano, penso che saprà come fare” Diciassette scompigliò con affetto i capelli della sorella, seriamente convinto dell’ultima frase che aveva pronunciato “vieni, Diciotto. Sedici e mamma stanno aspettando.”
La cyborg afferrò la mano che il gemello le tendeva. Quando fu in piedi, lo abbracciò.
Strinse la sua persona preferita, quel coetaneo solo una manciata di centimetri più alto di lei (senza tacchi!). Ripensò alle parole che lei stessa aveva detto a Bruno, suo fratello era qualcosa che contava davvero. E ripensò a quella richiesta disperata d’aiuto che aveva formulato nella sua testa nel momento della morte di Bruno, in un attimo di lucidità. 
“Grazie...
Forse non era stata completamente inutile.
“Grazie a te le Weiss sono salve. Anche se quello che sa fare barriere sono io.”
Diciassette sapeva perchè sua sorella l’avesse ringraziato. 
Tutto d’un tratto aveva capito perché avesse sentito il bisogno di andare a casa di Bruno, cosa fosse quell’istinto che l’aveva guidato lì prima che il Commando arrivasse. Quell’istinto che l’aveva poi portato fino al quartiere generale.
Quell’istinto era lei, Diciotto.
Appoggiò il mento sulla testa della sorella, sentendo fino in fondo che se c’era una cosa che né Gero, né Cell né tutte le sue avventure avevano cambiato era quello che lui e lei erano. Due fratelli uniti da un legame profondissimo, solo loro. Niente che nessuno avrebbe mai potuto dissolvere.
 
 Qualche giorno dopo l’inspiegabile incendio-terremoto che aveva colpito solo quella parte di Central City, numerose teorie avevano iniziato a fiorire qua e là.
Qualcuno aveva giurato di aver visto tre persone con un cane, in piedi a discutere su quel luogo che ormai non esisteva più, il quartiere generale del Commando Magenta. Sfortunatamente nessuno di loro era sopravvissuto. La catastrofe aveva inghiottito edifici e corpi indiscriminatamente e altri cinque membri erano stati trovati sulla via principale della città. Sara aveva menzionato un malfunzionamento della messa a terra di casa sua, o del traliccio dell'elettricità lì vicino.
“Si tratta ovviamente di fake news, di sbagli e imprecisioni.” 
Mr. Satan ormai era un esperto anche di disastri naturali. Z TV lo aveva invitato a parlare di quel fenomeno straordinario.
“Si vede che Cell ha dato inizio a questa tendenza, distruggere cose con effetti speciali! Ma bisogna ascoltare me, io me ne intendo, sono il campione del mondo!”
Kate guardava la tele, alzando gli occhi al cielo alle parole di quel buffone.
“Sicuri di non saperne niente?”
Lapis e Lazuli la guardavano, un po’ offesi: stava forse permettendo di dare loro dell’impresa demolizioni? 
“Niente, davvero?”
Kate non volle farsi troppe domande, ma come sempre conosceva i suoi polli. Anche da cyborg.
Il Commando non esisteva più. Per la prima volta in tre anni la gente fu libera di camminare in quella parte di città. Anzi, ci si gettarono a centinaia, accendendo torce luminose, suonando musica, facendo cortei con striscioni. Ora finalmente si respirava una vera aria di libertà.
Con tutta quella libertà in giro, Kate si interrogava sul destino dei suoi figli. Cosa ne sarebbe stato di loro adesso? Sapeva che non avrebbe potuto tenerli con sé per il resto della loro vita
La risposta le venne un giorno da Lazuli.
"Mamma...pensi che undici anni siano una differenza troppo grande per funzionare? Per essere una coppia."
"Stai parlando di Crilin?"
"Forse..."
Diciotto si sentì sollevata nel ricordarsi che Crilin era stato uno delle persone che avevano fatto sì che loro due e Kate si rincontrassero.
Oh, Crilin. Ricordandosi anche di questo dettaglio, sentì una stretta al cuore e la voglia di sorridere. 
Anche Kate sorrise, con gli occhi bassi e una risatina enigmatica che sua figlia non riuscì a capire fino in fondo: 
"No. Undici anni non sono niente.”
Diciassette aveva ragione, se c’era qualcuno che poteva aiutarla a riportare Bruno in vita, era lui. Crilin aveva, con quelle sfere magiche, ripopolato la Terra dopo la situazione Cell.
Ma Diciotto era consapevole che Bruno non fosse la sola ragione. Indipendentemente da lui, aveva sempre pensato di voler andare a bussare a quella casetta rosa in mezzo al mare.
Lei voleva andare da Crilin.
“Mamma, sono felice di averti ritrovata e starei qui con te per sempre” mentre parlava la stringeva “però anche Crilin mi aspetta. Se devo ringraziare che mi sia capitato tutto questo casino, lo farò per lui”.
Kate si chiedeva chi fosse davvero Crilin. Si era rifiutata di conoscerlo durante quel viaggio in macchina, ma a quanto pare lui aveva fatto innamorare sua figlia: si immaginava un uomo capace di amarla e allo stesso tempo di incuriosirla, di difenderla ma anche di tenerle testa. 
Kate era convinta che la sua figlia cyborg fosse sempre la stessa Lazuli che non si accontentava mai. 
Diciotto non aveva potuto fare a meno di notare come, quasi contro la sua volonta’, la tristezza fosse scesa sottile sullo sguardo di sua madre.
“Tu sei la persona che mi ha dato la vita, non vorrei mai deluderti. Potrei aspettare, restare qui con te ancora un po’.”
“No, figlia mia! La vita non aspetta.”
Kate afferro’ con commozione la mano di Diciotto, mentre delle lacrime che non volevano scendere accendevano i suoi occhi. In quel momento, sembravano letteralmente due gemme. Diciotto senti’ un moto di tenerezza a vederli.
“Sei convinta di questa persona?” 
Kate non aveva potuto fare a meno di chiederglielo, ma dedusse che se davvero era pronta a partire di nuovo verso orizzonti che a lei erano sconosciuti doveva valerne la pena.
E alla fine Kate lo sapeva, doveva lasciarla crescere.
“So che la mia decisione varrà per una vita” Diciotto aveva annuito, con un cenno deciso.
Mai Kate l’aveva vista così sicura di sé.
Diciassette naturalmente sapeva già tutto; la notte prima della sua partenza per sicurezza avevano rifatto il rito.
“Ormai siamo più tribali delle stesse tribù!” aveva riso lei, lanciando in aria il cuscino appoggiato sul suo letto.
“No, ormai siamo dei vampiri: io avrò bevuto tre ettolitri del tuo sangue!”
Si erano guardati a lungo, poi lui aveva rotto quel silenzio carico di malinconia: 
“Sei davvero sicura? Pensi che quello ti renderà felice?”
“Non lo so, lo accetto e basta.”
“Vai così, alla cieca?”
“Ho trovato il senso che voglio dare alla mia vita. Riporterò in vita Bruno e poi vivrò in pace con Crilin.”
 Prima di partire, Diciotto volle parlare a Diciassette. Ancora non poteva credere al sogno incredibile che aveva fatto qualche notte prima: era spettatrice di una scena del passato, in cui guardava una ragazza dal volto indefinito gettarsi fra le braccia di suo fratello. 
Rivide lui afferrarle saldamente la vita e stringerla contro di sé, mentre lei gli baciava la bocca in una maniera assolutamente intima, un misto fra passione e gelosia.
In quel momento seppe che quella ragazza e Diciassette erano davvero esistiti.
E seppe anche quello che voleva. 
Voleva baciare Crilin con quell’intensita’, voleva per sé quello che aveva sentito scorrere fra Diciassette e la sua rossa.
Diciassette reagì con un sospiro, lei credette di vedere una traccia luminosa nei suoi occhi.
La nostalgia che quel ricordo imperituro gli suscitava era disperata e viscerale, così potente che gli faceva male. 
Era come se qualcosa dentro di lui si strappasse e sanguinasse ogni volta che ci pensava: e quando il culmine del dolore passava, lo lasciava esausto e demoralizzato.
Se lei era davvero esistita, e ora sapeva che c’era stata nel suo ieri, era comunque un’umana.
Cosciente di quello che era diventato, era per il bene di tutti che se ne stesse per sempre lontano da lei, che mantenessero per sempre le distanza.
“Finisce così? Vuoi arrenderti allo scenario che l’ignobile Gero ha scritto per te? Non rinunciare a vivere. Non rinunciare al diritto di essere felice.”
Diciotto non voleva credere che Diciassette volesse gettare la spugna.
Ma non c’era piu’ niente da fare, lei era un’umana senza nome e lui era un cyborg.
La distanza fra loro era enorme. Anche se fosse riuscito a riaverla, Diciassette non aveva alcuna garanzia che lei sarebbe stata li’ per lui e che avrebbe voluto stare con lui. Diciotto e lui ne avevano gia’ parlato e lei aveva archiviato l’argomento sotto l’etichetta autocontrollo, ma Diciassette non riusciva a pensare se sarebbe stato fattibile per lui vivere una storia d’amore con una persona che avrebbe rischiato la vita solo al suo tocco. Chissà. 
Però, aveva abbracciato Kate e lei era ancora tutta intera.
“Lei e’ reale. Va’, trovala e vivi felice con lei: io so quanto la vuoi.”
Cosi’, quella ragazza aveva la benedizione di Diciotto.
“E come lo sai?”
“Lo sento quando ne parli, lo sento in te. Questo e altro.”
“Altro? Dimmelo.”
Diciotto sorrise diabolicamente e sogghigno’: “Beh, fratellino, se proprio vuoi saperlo posso letteralmente vedere quando sei troppo contento. Dannati pantaloni stretti, neh?”
Diciotto vide suo fratello incupirsi mentre le sue guance accennavano un rossore; continuo’ a ridacchiare pensando che fosse divertente, lui non doveva mica vergognarsi.
“Quindi, adesso? Dovrei ancora guardarti in faccia?” mormoro’ lui.
“Come vuoi, io me ne andro’ a vivere libera. E tu ricorda sempre che sei quello che scegli di essere. Non lasciare che le nostre tribolazioni e disavventure siano la sola cosa a definirti.”
Si erano salutati solo con uno sguardo, prima che lei volasse via verso il futuro. 
Kate riuscì in minima parte a comprendere l’arrivederci lunghissimo che si erano detti in quegli attimi. 
A presto, ci rivedremo, ricordati di me.
Kate non se ne era manco accorta che sua figlia sapeva volare.

 Diciotto sapeva dove andare.
Volo’ per un tempo indefinito, vedendo i paesaggi cambiare sotto di lei, finche’ la terra non lascio’ spazio al mare e a tante isole. Vide in fretta la graziosa casa di legno rosa in mezzo alle briciole di terra di un arcipelago e, atterrata, busso’ alla porta.
Le apri’ Tien, l’uomo con un terzo occhio in fronte: 
“Crilin! Vieni, c’e’ qui la cyborg...ehm, quale sei?” 
“Diciotto.” 
Quando il piccoletto venne alla porta, sia lui che Diciotto si salutarono con un sorriso, mentre avevano il cuore in gola. Lui non fece in tempo a parlare, lei entro’ e lo prese per mano, trascinandolo fino al divano. 
Crilin fece segno ai suoi amici/coinquilini di uscire e, tremante, si sedette di fianco a Diciotto: “Ciao.”
“Ciao...”
Cosi’, si era ricordata di lui. Non gli aveva mentito quando gli aveva detto “ci vediamo”.
E ora? 
Restarono a fissarsi a lungo, occhi scuri che dicevano “mi impegnero’ per farti sempre felice” e occhi azzurri che rispondevano “lo so”.
Cosi’, ripensando al bacio impetuoso e carico di erotismo che la ragazza dai capelli rossi aveva dato al suo fratello gemello, Diciotto si getto’ in avanti a baciare quel viso un po’ bambino, dalla delicata carnagione rosea. Chiuse gli occhi e strinse la nuca morbida di Crilin, mentre prendeva il braccio di lui e lo avvolgeva intorno alla propria vita. Diciotto continuo’ a baciare Crilin appassionatamente finche’ lui non si stacco’ da lei, la guardo’ teneramente e grido’ agli altri abitanti della casa, che facevano capolino dalle finestre, di andarsene via.

 
 

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Capitolo 16
*** Fuori pericolo ***


Il cielo tuonava da un pezzo.
Era da mezzogiorno che minacciava di piovere con quei nuvoloni gonfi e scuri, poco amichevoli. Qualche gocciolina di pioggia stava iniziando a cadere solo ora, dallo strato di nembi che ormai non lasciava intravedere nulla. Si asciugò il viso con la mano aperta, per non permettere alla pioggia di distrarlo facendogli chiudere gli occhi.
Con quella spessa cortina non poteva vederla, sarebbe potuta sbucare da sopra le nuvole in qualsiasi momento, come un fulmine; avrebbe solo fatto molto più male.
Senza la possibilità di vedere e di percepire ki, Crilin si sentiva privo di sensi.
E sapeva che doveva stare al gioco e usare l’udito: era a quello che lei lo stava allenando.
Un altro tuono rimbombò da qualche parte. Lui si era preso solo una frazione di secondo, quando aveva voltato la testa, ma fece in tempo a pentirsene. La avvertì arrivare da sopra, pote’ proteggersi il volto.
Quando il suo avambraccio si scontrò con quell’altro su cui anche una spada si era spezzata, l’impatto causò  a sua volta un altro tuono e una raffica.
Crilin si sforzò  di non gridare quando quel contatto gli provocò una specie di taglio netto dal gomito fino al mignolo. Il braccio era sicuramente rotto, ma lui andò avanti e lo usò per colpire.
Lei rideva scansando i colpi, non turbata dal sangue di lui che si mescolava alla pioggia, su nel cielo, sotto i nembi illuminati da fulmini.
Crilin riusci’ ad assestarle una gomitata in pieno viso e si senti’ fiero, ma quando vide la macchia rossa all’angolo delle sue labbra, le stesse che aveva baciato prima di lanciarsi in aria, rimpianse amaramente la sua mossa. Si preoccupo’ sul serio, sentendosi in un momento non piu’ un guerriero ma un violento.
Ma lei aprì la bocca per ridere e socchiudendo gli occhi gli mostrò solo la punta della sua lingua.
Si leccò la piccola ferita e tossicchiò:
“Fighetta.”
Possibile che ogni santa volta che riusciva a colpirla, Crilin doveva rovinare tutto?
Volò veloce fin quando non lo agguanto’ per la maglia, sollevandolo  in alto come per esporlo ai fulmini che ogni tanto trapassavano le nuvole.
“Woah, Diciotto! Ero solo dispiaciuto…”
“Oh diamine…io sono il tuo avversario in questo momento. Basta che una sia bella e tu ti distrai.”
“Non una, tu.”
Crilin non era decisamente un tipo che si faceva ammaliare da ogni donna che vedeva, in parte perche’ quando si trattava di donne la sua autostima era inesistente. In secondo luogo, gli avevano spezzato il cuore più volte di quanto gli importasse tener conto; ma quella donna li’, la ragazza a mezz’aria vicino a lui non solo lo distraeva, lo stregava. Completamente.
Per Diciotto impazziva, non aveva paura che lei lo vedesse.
Ancora non ci credeva: era in giro per il mondo con lei, perche’ quasi un mese prima lei gliel’aveva chiesto.

E’ per me che sei venuta qui?”
“Per due motivi. Uno sei tu, sì.”
“E l’altro?”
Fuori dalla Kame House, le onde gentili facevano scricchiolare i minuscoli sassolini e pezzi di conchiglie che decoravano la battigia; Diciotto le aveva fissate per un momento, come ipnotizzata. La domanda di Crilin l’aveva riportata al presente.
“…So che anche tu mi desideri, che mi trovi bella, penso che tu mi abbia voluta fin da quando mi hai vista per la prima volta. E io ci ho pensato molto da quando mi sono svegliata su quel pavimento, in cielo: io voglio stare con te. Ma prima di tutto, ho bisogno che tu mi aiuti a riportare in vita una persona cara, che ho perso.”


Quella giornata piovosa avrebbe segnato l’ultima tappa di quel viaggio che a Crilin sembrava ancora un sogno: la sfera a tre stelle era nascosta da qualche parte in quelle vecchie miniere.
La ricerca li aveva portati in giro per il mondo, equipaggiati solo con una piccola valigia e il radar cercasfere di Bulma. Fortunatamente Muten ne aveva ancora uno alla Kame House, lui e Diciotto si erano risparmiati un volo fino alla Capsule Corp. e una perdita ulteriore di tempo nel resuscitare il suo primo fidanzato.
Ma, Crilin? Sei proprio cotto eh, quella gnocca ti chiede di resuscitare il tipo che ha fatto il colpaccio piu’ grosso di tutti e tu dici di si’?”
E Muten aveva per la prima volta conosciuto l’udito sopraffino della cyborg: “Ti chiamano il Genio, ma a me sembri ritardato. Lui ha una famiglia, voglio farlo per loro.”

Lei non doveva giustificarsi di nulla col Genio ma ci teneva che tutti capissero che intenzioni aveva, visto che per gli amici e alleati di Crilin lei era ancora una macchina, una minaccia, qualcosa di colpevole fino a prova contraria.
Forse per la prima volta in vita sua, Diciotto era non era interessata ad usare un uomo. Persino Bruno che ora apprezzava tanto all’epoca era stato un mezzo, un passaporto da mostrare a sua madre per affrancarsi dall’infanzia. Aveva finito per passare ben otto mesi con lui, ma il motore del suo attaccamento a lui non era stato l’innamoramento. 
Crilin invece era stato la ragione per cui lei aveva scelto di separarsi da suo fratello e da Kate. Lui le aveva insegnato a sognare, a sperare. Che si poteva scegliere di vivere sereni.
Erano partiti nella stessa giornata in cui lei era arrivata alla Kame House. Le Sfere del Drago, quei sassi che Diciotto aveva visto quella volta, erano nascoste in ogni dove. Potevano essere in cima a montagne, sul fondo dell’oceano, nel nido di rospi giganti. Sapendo volare e avendo un radar a disposizione avrebbero potuto trovarle tutte in qualche ora ma entrambi, con quella complicita’ appena nata, si erano silenziosamente messi d’accordo sullo sfruttare quell’occasione per passare del tempo insieme. Senza i vari Genio e Yamcha che se non avevano qualcosa da ridire sulla sua natura biomeccanica, allora guardavano il sedere a Diciotto.
Anche Crilin era stanco di sentirli confabulare su come fossero ansiosi di tastarlo e vedere se fosse tanto vero quanto appariva. 
Prima di andar via, Crilin aveva frugato nel comodino di Yamcha e si era portato via un bel po’ dei suoi preservativi. Tanto lui ultimamente li teneva li’ come portafortuna.
“Mi dispiace per gli altri, in casa. La Kame House non e’ il posto migliore per conoscerci, dovremmo aspettare un altro momento.”
Lei l’aveva guardato con malizia: “Non preoccuparti. Sono paziente.”
Avevano preso quel viaggio con filosofia, godendosi ad ogni sfera i paesaggi e le genti diverse che la Terra offriva, dormendo ora in motel e B&B ora in mezzo alla natura. Posti in cui nessuno poteva sbirciare e interrompere.
Si addormentavano distesi vicini dopo lunghe, instancabili sessioni di baci, desiderosi di arrivare a quel di più che continuavano a promettersi l’un l’altra, tuttavia sempre frenati da qualcosa che non era pudore o disagio.
Diciotto aveva ormai memorizzato tutti i posti che avevano visto, ma uno le era rimasto particolarmente impresso. Era stata la volta della sfera a sette stelle, il radar li aveva portati fino a un poco frequentato paesaggio marittimo nel Nord. Falesie bianche dall’aspetto friabile restavano tranquille ammollo in acque profonde e turchesi; una brezza fresca aveva rovinato tutti i loro selfie, sbattendo il caschetto di Diciotto in faccia a Crilin.
Avrebbero potuto volare fino al punto in cui la sfera era nascosta, sotto l’acqua, attaccata ad un pezzo di quelle scogliere che si erigeva solitario in mezzo al mare, ma affittarono una barca a remi. Crilin insisté affinche’ Diciotto lo lasciasse remare e la guardo’ con occhi innamorati mentre lei si distendeva contro la prua, baciata dal sole e solleticata dal vento.
“Com’e’ che conosci Son Goku?”
“Eh, eravamo ragazzini. Lui era un pupillo del Genio, io volevo esserlo e siamo diventati migliori amici” rise col cuore a vedere, da dietro gli occhiali da sole, un sopracciglio di Diciotto sollevarsi “si’, il Genio e’ un grande maestro di arti marziali. Non lo diresti mai, vero?”
“Se era il tuo migliore amico, come mai non e’ tornato in vita?”
“E’ complicato…”
Avevano fatto a gara per nuotare fino ai piedi della torre/falesia e ripescare la loro quarta sfera. Nella luce tenue delle profondità le rocce sembravano paesaggi mitici, Crilin si era distratto a guardarli. Diciotto aveva visto la sfera per prima e l’aveva calciato via.
Quando la notte era scesa, si erano infilati in una specie di grotta li’ sul pezzo di falesia in mezzo al mare. Avevano parlato e condiviso una cena semplice, panini al prosciutto. Diciotto aveva accettato il suo, troppo svogliata per darla ad intendere ancora una volta a quel bassetto che le chiedeva sempre come mai non volesse mangiare, visto che poteva. Avevano acceso un piccolo falo’ e avevano iniziato a raccontarsi storie di paura che li avevano solo fatti ridere:
“…e cosi’ la strega del Decimo Ponte maledisse la coppia che aveva soggiornato in quell’hotel. Quando la sera andarono a dormire, un demone del buio, dalle orbite vuote e pelle nera, li afferro’ da sotto le coperte. E bam, se fossi stata io al loro posto l’avrei incenerito e fine della storia.”
Diciotto sapeva raccontare: camminando con fare furtivo intorno al fuoco, saltava ogni tanto con le mani ai lati del viso, mimando strani mostri.
“Ti ricordi questa storia da quando eri umana?”
“No, l’ho inventata ora.”
Quel mimare le storie si era trasformato in una danza scoordinata, dettata dalle risate di Crilin e dai gridolini allegri di Diciotto.
Lei voleva sfogarsi, rendendosi conto di quanto doveva essere goffa rideva ancora di piu’. Alla danza erano seguiti quei baci, uno schema che ormai avevano imparato a conoscere: per la prima volta i baci avevano accompagnato lo sfilarsi mutuale di abiti e scarpe, e prima di rendersene conto Crilin si era ritrovato a torreggiare su quella ragazza alta e fiera ora distesa sulla nuda terra della grotta, a sua disposizione. 
Si era riempito gli occhi di ogni dettaglio della sua pelle sudata, del fuoco che giocava con la tonalita’ pallida dei suoi capelli proiettando riflessi simili all’alba. Guardo’ la pelle quasi traslucida di quella creatura che poteva ucciderlo solo stringendolo, tanto chiara e tenera che lui poteva vedere i tracciati delle vene salire senza interruzione dalle cosce al ventre, fino al seno e al collo e alle braccia. Quasi si commosse di fronte a una bellezza che a lui pareva cosi’ grande, incontenibile eppure concentrata in quelle vene azzurre e in quei delicatissimi capezzoli rosa.
“Sei meravigliosa…”
Diciotto non si ricordava di cosa aveva sentito l’ultima volta che un uomo era stato dentro di lei; tuttavia seppe che quella nuova, straordinaria sensibilità tattile era qualcosa di impossibile e che il modo in cui il suo corpo, prima ancora della sua ragione, voleva l’uomo che ora aveva sepolto il viso e le mani fra il suo seno e in mezzo alle sue gambe non era una cosa da tutti i giorni. 
Si sorprese a gemere senza vergogna, a inarcare la sua schiena per lui e a chiedergli di andare più a fondo ad ogni spinta; voleva sommergere la carne di quell’uomo con la propria.

 Da quella volta, si erano dedicati l’uno all’altra con amore e passione. 
Diciotto aveva passato quasi un mese così, con l’uomo che si era scelta, e fu sorpresa di provare sulla sua pelle quando potesse essere bello vivere. Si congratulò per aver scelto di essere felice e seguire la sua strada, sicuramente Gero si stava rivoltando nella tomba pensando a quel terrestre che ogni giorno faceva gridare la sua bella creazione.
Da un giorno all’altro la vita le parve intensa, ricca, pura: a Diciotto sembrò di vivere in quel mese piu’ di quanto avesse fatto fino a quel momento. Si sentiva anche come se conoscesse Crilin da molto piu’ tempo, tanto era a suo agio. Le sembrava naturale spogliarsi per lui.
Non erano mai stanchi di amarsi. Crilin si indaffarava su di lei quasi con timore reverenziale, avere qualcuno di cosi’ prezioso fra le braccia lo faceva sentire privilegiato, moriva sempre dalla voglia di farla sua e allo stesso tempo si stupiva sempre in presenza di lei, qualcosa di superiore e ultraterreno.
E quando cominciava a vedere qualche centimetro di pelle in piu’ ce la metteva tutta per riuscire a trattenersi, perché’ solo guardarla spingeva certe sue funzioni a manifestarsi con tempismo disastroso. 
A Crilin piaceva spalmarsi su di lei e lasciarsi sfiorare la testa dal suo respiro, sentire il suo seno schiacciato contro il proprio torso mentre lei respirava. Non si capacitava di come gli altri potessero pensare che Diciotto non fosse una donna viva e vegeta, forse dovevano cercare “cyborg” sul dizionario. 
Dal canto suo, Diciotto gioiva della prodezza fisica dell’umano piu’ forte della Terra, la lasciava sempre soddisfatta. Le piaceva giocare, a volte si comportava da diva e se lo cavalcava senza dire ne’ A ne’ B, mentre altre poteva anche implorarlo in ginocchio.
Amava anche le cose romantiche, come quando erano in acqua e lui la portava in braccio camminando sul fondale, o quando le dava piccoli bacini affettuosi sul naso.
Si rese conto durante quel viaggio di non avere mai conosciuto il sorriso dell’amore; aveva sempre creduto di essere avanti anni luce a suo fratello, quando in realtà era sempre stata indietro. Tuttavia non volle illudersi: non voleva dire a Crilin quelle parole che forti come un incantesimo, ti amo, perché’ la loro storia era ancora troppo acerba, lui avrebbe fatto ancora in tempo a trattarla come un buco o come un trofeo.
Ma più i giorni passavano, meno Diciotto restava in guardia. E non sapeva se rallegrarsi di ciò, o meno.
Quel ruzzare e quel cercare li aveva portati fino a quelle vecchie miniere nell’Est a inseguire la sfera a tre stelle, l’ultima. Il radar suonava insistentemente in tasca a Crilin. Senza che lui capisse il motivo, Diciotto alzò un braccio ed emise una larga sfera di energia proprio mentre un fulmine stava per colpirli. Nel momento in cui il lampo toccò l’energia di Diciotto, la sfera esplose con un boato e lei esplose in una risata:
“Dai, andiamo via di qui prima che questo tempo ti frigga.”
Lui la seguì verso terra, ancora sbalordito: quella ragazza era persino più forte degli elementi. Era impressionante. Il braccio ferito gli faceva ancora male, si lasciò sfuggire un gemito.
“Cosa c’è, Cril? Oh…”
Prima che potessero abbattere il mucchio di roccia calcarea, bianca come ossa, Diciotto gli prese delicatamente l’arto che lei aveva ferito e facendo finta di niente si appoggiò la mano di Crilin sulla scollatura:
“Si’, lo so, il senzu…”
Prese il sacchettino dalla sua tasca e tenne il fagiolo verde fra le dita. Con un gesto fulmineo, se lo mise sulla lingua. Era lì che Crilin avrebbe dovuto ripescarlo. 
“Che peccato…ora se voglio guarirmi mi tocca baciarti ancora…”
 
 Poco dopo, le sette sfere erano riunite ai piedi della coppia.
Esattamente com’era successo su in cielo, Diciotto vide e udì ancora una volta il drago Shenron.
Non riusciva a staccare gli occhi di dosso dal suo colore verde e dagli occhi rossi, da demone.
“Coraggio, Diciotto. Esprimi il desiderio.”
Crilin le accarezzava inconsciamente la schiena mentre teneva anche lui il mento in su.
La cyborg aveva pensato molte volte a quello che avrebbe detto al drago. Come si riportava in vita un morto? Doveva specificare al drago di fargli dimenticare di essere stato deceduto e di distorcere le circostanze della resurrezione, affinché’ nessuno ci facesse caso?
“Riporta in vita Bruno Weiss. Più serenamente che puoi.”
Si sentiva ansiosa: aveva già visto il drago rifiutare un desiderio, se fosse successo anche a lei?
La carezza di Crilin si fece più calcata, mentre gli occhi del drago si illuminavano:
“Il tuo desiderio è stato esaudito.”
La morsa allo stomaco che attanagliava sempre Diciotto nei momenti di crisi non aveva fatto in tempo a farle male: era finita prima che lei potesse farsi venire un attacco d’ansia, in un batter d’occhio il drago era sparito e, ancora una volta, le sfere erano state proiettate ai quattro angoli del mondo.
Ancora incredula, Diciotto stette a rimirare il cielo scuro di pioggia, col viso fra le mani: “E’ fatta…”
Crilin le circondò la vita e, felice tanto quanto lei si strinse contro la schiena della donna che amava, ascoltando il battito del suo cuore:
“E’ fatta, piccola.”


  Bruno sentì un fortissimo mal di testa cavargli gli occhi e stracciargli le tempie. Era come se un’incudine fosse in bilico sulla sua fronte, il sangue pulsava veloce nelle sue orecchie. 
Aprì gli occhi di scatto, non riuscendo a mettersi seduto. Si accorse di essere in una grande stanza piena di brandine, in cui molta gente andava e veniva. Osservandoli brevemente vide che erano tutti un po’ sporchi, malconci. Sembravano barboni.
Lui si tastò il torso e le braccia, si accorse di indossare un paio di jeans e una camicia invece della sua uniforme. Appariva comunque elegante, come in abito da sera, paragonato a quegli uomini e donne lì intorno. Sentì più peli sul viso di quanto si ricordasse, non avendo a disposizione uno specchio si affidò solo al suo tatto: perfetto, anche lui era un barbone.
“E’ tempo di uscire, forza! Ritornate stasera alle otto!”
Con gli occhi ancora velati dal sonno e dall’emicrania, Bruno osservò l’uomo alto e robusto che stava perlustrando lo stanzone, facendo sbrigare gli altri a uscire.
“Mi scusi, che posto è?” 
L’uomo restò a guardarlo stupito:
“…Rifugio per senzatetto di Porta Alta, Central City. Finalmente ti sei svegliato, aspetta un attimo: Gladys!!”
Guardò con gentilezza Bruno mentre un rumore di passi rapidi, dalla falcata piccola, si faceva sempre più vicino.
Porta Alta, certo che sapeva dov’era. Non era forse il quel quartiere che si era fermato a prendere il coniglietto di Amelia?
Si chiese cosa ci facesse in un rifugio per senzatetto.
Gladys, una bella signora rubiconda, lo salutò con un sorriso caloroso: 
“Oh! Sono contenta che tu ti sia svegliato, sei rimasto a dormire qui per due settimane. Non ti abbiamo riportato all’ospedale perché’ abbiamo constatato che stavi bene.”
Guardò la carnagione color caffelatte di quel giovane uomo, di nuovo salutare, e si sentì confortata:
“Ti ricordi come ti chiami?”
Gli avevano raccontato in dettaglio che due settimane prima altri barboni l’avevano trovato addormentato per strada con ancora indosso un camice da ospedale, un coniglio di peluche e un’uniforme squarciata in una borsa, fra le sue mani: sembrava lui fosse scappato dall’ospedale in cui gli avevano ricucito quella grande ferita che lui sentiva ancora sul proprio addome, senza avere necessità di vederla.
Si era svegliato ogni tanto, gli diceva Gladys, ma solo per ripiombare nel sonno dopo pochi minuti. Non aveva saputo fornire al rifugio un nome o dei ricordi recenti.
Bruno non ci capì molto di quel discorso, la sua mancanza di riferimenti lo disturbò; ma se davvero era stato male, non aveva senso pretendere molto da se stesso.
“Bruno Weiss, capitano. Devo tornare a casa, la mia bimba mi sta aspettando.”
Nel presentarsi aveva avuto l’impulso di mostrare il suo badge, ma con sorpresa non l’aveva trovato alla cintola.

 Sara non aveva più avuto notizie di Bruno, da quando i suoi colleghi l’avevano chiamata per dirle che era diretto all’ospedale, in una corsa disperata contro il tempo. Era stata convinta, finora, di sapere che lui era già morto quando era arrivato sotto i ferri; si ricordava persino di aver assistito al suo funerale. 
Ma, inspiegabilmente, quei due fatti divennero all'improvviso un pensiero annebbiato nella mente di Sara. Ora le pareva di ricordarsi che Bruno era fuggito dall’ospedale, forse nel provare a tornare a casa da lei e Amelia. Nelle condizioni in cui si era trovato non aveva dovuto farcela. Chissà dov’era, ora.
“Dada?” 
Amelia aveva cominciato a parlare presto: ora, a quasi nove mesi, era il suo papà che cercava sempre. E ogni sera, portandosela a dormire con sé nel lettone, Sara piangeva per l’impossibilità di soddisfare quel bisogno della sua piccola.
Quando sentì suonare alla porta, Sara esitò: dopo quell’incidente con il traliccio e la messa a terra aveva avuto paura a toccarla, anche se sapeva che ora era tutto a posto. 
“Sara? Sono io. Ho dimenticato le chiavi.”
Lei trasalì, sentendo la voce del suo fidanzato fuori dalla porta. E quando l’aprì e vide Bruno, il suo bel mulatto sorridente coi rasta corti ben curati e una barba di almeno due settimane, non le interessò chiedergli dov’era stato, cos’era successo, se lei avesse davvero assistito al suo funerale.
Gli gridò “amore mio!” e si lasciò sollevare e far girare, sul marciapiede di fronte a casa. In quella sera di agosto i passanti applaudirono a quel bacio appassionato, un fotogramma estratto da un film romantico solo per loro, una piccola scena di paradiso lì fra il travertino e i lampioni di quell’elegante viale del centro città.
E nell’entusiasmo generale nessuno notò una presenza su uno di quei lampioni; Diciassette era atterrato lì poco prima, stringendo il badge di Bruno. Non aveva pensato che avrebbe potuto darlo direttamente al capitano, a quanto pare Crilin e Diciotto avevano espresso il desiderio al drago, erano stati più veloci di lui. Guardò benevolmente Bruno e Sara baciarsi ancora e ancora. 
 Più tardi, mentre Sara riposava sul petto di Bruno fra le lenzuola fresche, fu di nuovo attirata da un altro rumore sul balcone. Si infilò in fretta una vestaglia e uscì nella brezza serale. Non seppe a chi sentirsi grata per aver di nuovo Bruno fra le braccia, non aveva nemmeno mai capito come quell’incendio terribile avesse colpito solo il territorio del Commando, ma raccogliendo dal balcone il prezioso badge del fidanzato e piangendo dal sollievo, seppe che da quel momento in poi sarebbe andato tutto bene. 


 Erano le sei e mezza di mattina quando Carly chiuse a chiave l’appartamento. Canticchiò e armeggiò con le chiavi, pronta per un’altra giornata frenetica ma soddisfacente. Se due mesi prima le avessero detto che un’altra, nuova amica l’avrebbe inconsciamente aiutata a lasciare andare, si sarebbe anche arrabbiata. Ma ora mentre rimaneva a fissare la staccionata dei vicini con aria assente e il sole di inizio autunno che le batteva piacevolmente sulla schiena, pensò che finalmente ce l’aveva fatta.
Forse, forse stava lasciando andare. Finalmente si sentiva tranquilla. 
“Lillian?”
La studentessa si girò seguendo una voce e scorse un uomo giovane e alto arrivare dalla piazzetta; osservò con curiosità la barba folta e la coda alta e corta proprio in cima alla testa, un’isola di capelli in un mare di pelle cotta dal sole.
“Ciao! Sei Lillian, per caso?”
“No, la coinquilina. Lillian dovrebbe tornare a momenti.”
Lillian era uscita di casa presto per farsi la sua corsa. Ogni tanto andava su alla piana di Pessy, una grande prateria annidata fra le vette sopra a Viey a quasi tremila metri di altitudine. La prima volta che Lillian e Leni ci avevano portato Carly, lei aveva provato una sorta di fobia: il pianoro era qualcosa di enorme, uno spazio talmente vasto da sembrare soffocante e distorto da un obiettivo. 
La sua voce e ogni altro suono si erano perse fra le erbe e il cielo. 
Quello della piana era un sentiero duro che ogni volta rubava a Carly sei ore fra andata e ritorno. Lillian andava e tornava in due o poco piu’, portando ogni volta fiori freschi da mettere in cucina. Dopo averla vista fare quello Carly si era convinta che Lillian non fosse un essere umano normale. Mica per nulla era il top del top.
La veterinaria osservò l’uomo e lo invitò a prendere posto sulla panchina fuori dallo chalet; lui vide che nonostante i suoi gesti gentili, lei non vedeva l’ora che la lasciasse andare. Probabilmente era in ritardo al lavoro, si stava incamminando verso la sua auto; si intenerì a vedere quell’adorabile pel di carota tutta scottata così a disagio di fronte a un perfetto estraneo venuto apposta a casa sua.
“Rilassati! Devo lavorare con lei, ecco perché’ sono qui.”
 
 Lillian guardo’ Viey farsi sempre piu’ vicino: scendeva baldanzosa lungo il sentiero, contenta di essere riuscita a sorprendere molti stambecchi, all’alba, brucare indisturbati nella piana. Era soddisfatta, sembrava che la popolazione di stambecchi fosse stabile quell’anno, anche se da quello che diceva John erano meno del solito. Più i bracconieri si moltiplicavano, meno stambecchi si vedevano. La caccia era una pratica comune nel resto del Nord, ma era vietata tassativamente nel RNP; eppure tutti lì dovevano venire. 
Pur essendo una grande amante della selvaggina, Lillian non riusciva a capire come si potesse apprezzare una testa mozzata e imbalsamata nel proprio salotto. Ed era quasi sicura che quella mattina avrebbe dovuto trascinare della gentaglia giù a valle, dopo aver dato qualche schiaffone se necessario. L’ultima volta che si era trovata di fronte a un grande branco di caprioli aveva anche dovuto mettere la canna del suo fucile fra se stessa e un “cacciatore”.
Ma quella era stata una mattinata perfettamente serena, aveva incrociato solo degli escursionisti al rifugio in mezzo alla piana Pessy, raccolti intorno a un paiolo fumante. Vedere gli stambecchi l’aveva resa contenta, si era persino dimenticata di portare a casa quelle belle margherite giganti che erano tanto belle nelle praterie, ma puzzavano di piede in casa.
Dalla piazza di Viey Lillian non vide nessuna macchina parcheggiata, la Carly era già andata via. Convinta di non essere vista saltellò e cantò; non si aspettava certo di trovare qualcuno seduto comodamente sulla sua panchina ad aspettarla, ma improvvisamente si ricordò.
Leni le aveva detto che qualche giorno prima avevano assunto gente nuova, con tutta probabilità le sarebbe toccato un compare. John le ripeteva sempre che essere la migliore comportava anche quel tipo di responsabilità, istruire altri.
“Lillian, sei tu?”
“Ehilà...Ragnar?"
“...Brent, ma grazie per Ragnar!”
Lillian osservò divertita il suo look, un incrocio fra un hipster e un vichingo. Sembrava avere qualche anno più di lei, ma quella barba lunga lo faceva sembrare più vecchio. Si divertì ancora di più quando lui sgranò due occhi già grandi, color cielo:
“Minchia, sei MAGNIFICA. Una possente valchiria.”
Lillian aveva difficoltà a immaginarsi le valchirie fradice di sudore, accaldate e appiccicose nei loro shorts e reggiseno in microfibra azzurra. Alzò un sopracciglio, pensando che gliel’aveva mandato John e che quindi ormai le toccava tenerselo.
“Chiudi la bocca, che entrano le mosche. Sai che io sono la tua superiore, vero?”

 Il caso aveva voluto che proprio qualche giorno prima John scambiasse quattro parole con dei turisti. Erano una famiglia locale del Nord, amanti del RNP e assidui escursionisti da anni. Il capo guardiaparco aveva chiacchierato molto specialmente con il figlio maggiore, un entusiasta di storia e rievocazione storica. Era un’enciclopedia nel suo campo, sembrava vivace ed era abituato a stare fuori. Non era la prima volta che John assumeva nuovi dipendenti così: qualche buona chiacchiera sul lavoro era il modo migliore per valutare qualcuno, specialmente se voleva assumere ranger.
Brent era un sarto presso l’associazione di rievocazione, cuciva costumi storici e aiutava con l’organizzazione degli eventi; non era un lavoro molto assiduo, per cui era stato allettato dalla proposta di John. Avrebbe fatto qualcosa che gli piaceva, istruire la gente sulla storia del Nord.
Brent aveva raccontato dell’incontro con John mentre, con Lillian, scartabellava alcuni documenti in una biblioteca. Sapendo che Brent sarebbe stato stagionale e non proprio un collega stretto, visto che non faceva mantenimento dell’ordine, Lillian si era sentita sollevata.
“Ma John dice che è possibile rinnovare il mio contratto. Non so ancora decidermi, mi piace troppo fare rievocazione…”
Alla ragazza era venuta l’idea di fargli uno scherzo, come ogni tanto si faceva coi nuovi arrivi:
“Dici che sono magnifica, no?”
“Oh, sì. La tua bellezza è anche forza, trasudi potenza, sei-"
“Bene. Se entro il tramonto mi hai strappato tutte le erbacce da questo prato, usciremo insieme stasera stessa.”
Togliendosi la camicia e scoprendo una schiena muscolosa e abbronzata su cui spiccava un grosso tatuaggio, Brent si era messo all’opera: “Si’ signora!”
Lillian si era seduta su una staccionata a guardare Brent che mondava il grosso prato col sedere per aria mentre la botanica Bronwyn, appoggiata al legno di fianco alla ranger lo guardava severamente, scuotendo la testa:
“Ma non vedi che non sa che nelle praterie non ci sono “erbacce”? E poi tiralo via di lì, sta calpestando i fiori di montagna, sono delicati…”
Lillian pensava che coi suoi grandi occhi marroni, i capelli castani e il suo fisico minuto e femminile Bronwyn fosse la più bella ragazza del RNP. Ma credeva che fosse di una noia mortale: parlava sempre delle stesse cose, della gente che toccava i fiori, la sua cadenza e il suo tono di voce erano soporiferi.
Le ragazze erano restate lì a sorvegliare Brent fino alle sette di sera.
 “Ma dai, poveraccio…”
Bronwyn non sopportava Lillian, come si divertisse ad umiliare gli altri con la scusa di essere la migliore. Non era una giustificazione! 
Nel RNP c’era una specie di tradizione, uscire coi ranger.
Quelli di zoologia uscivano coi ranger, quelli del turismo e delle risorse umane uscivano coi ranger, i ranger uscivano coi ranger e Joel era il più aitante del gruppo. Alto e moro, capelli ricci lunghi, anche se lei aveva saputo che era un po’ un cretino era il sogno di Bronwyn. Ovviamente lui aveva scelto Lillian…lei era piu’ colta, piu’ bella, Lillian invece sembrava un uomo; ma erano tutti lì ad andare dietro a lei. 
Bronwyn aveva segretamente goduto quando poi l’aveva mollata. E ora anche quel vichingo imponente con due begli occhi azzurri sembrava già sbavare dietro a quella là. Non che fosse il suo tipo, ma che rabbia.
“Cia’, glielo vado a dire che era uno scherzo. Se vuoi, escici pure tu con lui.”
Facendo ondeggiare i capelli, Lillian si era diretta verso il povero Brent che ancora più arrostito e tutto sudato, si era seduto a riposare su una pietra.

 Brent non ci credeva ancora di essere un guardiaparco, pensava che facessero tutti un lavoro tipo quello di Lillian:
“No, anche se non hai le palle per gestire bracconieri e quelle robe lì ti chiami comunque “ranger”. Mica facciamo tutti le stesse cose, conservazione è importantissima.”
Doveva ritenersi fortunato, farsi assumere nel RNP era difficile, specialmente nella loro posizione.
Brent non lavorava sempre con Lillian, ma era stato incoraggiato da John a passare tempo con lei. Fosse dipeso da lui, non l’avrebbe mollata un attimo: al di là del fatto che la trovava molto attraente, sembrava anche una tipa piena di verve, non era mai a corto di parole e questo lo divertiva.
Per Lillian invece, Brent era come un cagnolino fastidioso: più lo cacciava via, più lui ritornava.
Ogni volta che lui si proponeva di aiutarla, lei lo fissava coi suoi occhi neri e duri e si indicava: "Due parole: top ranger."
Era la numero uno, di lui non se ne faceva niente, nemmeno delle sue avances.
Non aveva proprio voglia di trovarsi qualcuno; Joel aveva avuto il fegato di chiamarla la notte prima, ma lei aveva resistito e non era andata da lui, a fare sesso.
Non era la sua schiava: se pensava che lei sarebbe stata a sua disposizione ogni volta che aveva voglia, per poi non guardarla nemmeno in faccia quando si incrociavano, poteva anche placare i bollenti spiriti con la propria mano.
John avrebbe potuto schiaffare Brent a Joel, dato che anche lui si occupava di conservazione e turismo e che gli elementi nocivi andavano sempre a braccetto.
Invece ora eccola lì nella sua jeep, non pronta a farsi con Brent tutta la strada fino a Saint-Paul, dove lui abitava. Era una cittadina con un castello figo, appollaiata sull'altro versante della valle, proprio di fronte ai loro occhi. Lillian poteva già scorgerla.
"Ehi Lillian. Qual è il piatto preferito di un magazziniere?"
"Una bella scodella di "taci"?"
"No. Il TIMBALLO."
Brent rise della sua stessa squallida battuta. Gliene faceva sempre, diceva che facevano ridere perché non facevano ridere.
Al castello ci pensavano i custodi, lei era una guardiaparco; perché doveva andarci con Brent, miseriaccia?
"Comunque... Nel caso tu fossi proprio una conquista impossibile…"
Brent poteva anche sacrificare cento pecore a Odino, lei era una conquista impossibile; prima quell’hipster l'avesse capito, più malumore si sarebbe risparmiato. 
"....la tua coinquilina Der Veer è disponibile? È il tipo di ragazza a cui uno vorrebbe far avere figli, ha tanto l'aria da dolce mogliettina."
Lillian si girò a guardarlo mentre lui scrutava il cielo con aria sognante, attraverso il finestrino.
Pensò a quanto fosse facile lasciarsi abbindolare così da Carly, che se sembrava carina e coccolosa sotto sotto era una roccia: andava dritta come un treno verso qualsiasi obiettivo si fissasse, aveva due palle tante. E una gran bella mira quando sparava.
"Ma ti senti? Te lo dà lei dolce mogliettina, farle fare i tuoi figli…"
"Scherzavo! Mi attirano di più le guerriere come te."
Poteva capitarle qualcuno di peggiore di Brent?
“Ehi Lillian. Sai che malattia hanno quegli alberi?"
Alla guida, lei osservò sbuffando le conifere aromatiche che costeggiavano la strada: "...no."
"Ma come? Il DIABETE."
Lo vide gongolare da solo come un ebete e questa volta si morse la lingua per non ridere.
Cercava sempre di non ridere alle sue uscite, affinché lui capisse chi comandava.
Poteva capitarle di peggio, certo: Brent poteva darle fastidio in una miriade di modi diversi, ma almeno non era una minaccia. Quanto a potenza fisica, capacità ed esperienza non poteva allacciarle le scarpe.

 Una volta sbrigati i loro affari al castello, Lillian rimase con Brent su un parapetto a guardare la valle che serpeggiava nell’orizzonte. Era passato più di un mese da quando loro avevano lanciato l’allerta frana per Noiresylve. Nessuna frana era ancora caduta, ma mentre per i geologi ed i guardiaparco era solo questione di momenti, gli abitanti del villaggio erano furiosi: per tutte quelle settimane avevano dovuto vivere altrove, dispersi, per niente.
Perché’ nessuna frana era ancora caduta.
Sentendosi il cuore pesare al pensiero di quella questione, Lillian ebbe bisogno di chiacchierare:
“Noiresylve…hai presente Noiresylve?”
“Mm, certo. Siete riusciti a far sloggiare la signora Poyaz?”
Lillian leccò il cono gelato che Brent le aveva comprato e scruto’ la valle dalla forma a V, non riuscendo a vedere Viey dall’altra parte: “No…”
Era responsabilità sua tirare quell’elemento Poyaz fuori da Noiresylve, eppure era ancora là. Lasciare una residente in un luogo sotto allerta frana non solo avrebbe fatto vacillare il suo titolo, ma non se lo sarebbe nemmeno perdonato. In quel momento Lillian maledì l’essere tenuta in così alta considerazione: se fosse stata una tipo Brent, John non le avrebbe mai affidato un compito tanto delicato. Si immaginò cosa stesse provando John, perché lei era la sua allieva e quindi una parte dei suoi meriti o delle sue colpe era sempre, convenzionalmente e burocraticamente, anche sua. Anzi, John avrebbe pagato più di lei in caso di incidente.
L'unica opzione che le rimaneva era sollevare quella vecchia megera di peso e portarla via prima che venisse appiattita da un pezzo di montagna. Quello, o un miracolo. 
Un fottutissimo miracolo. 





Pensieri dell'autrice:

Non vedevo l'ora di scrivere questo capitolo, in cui vediamo l'amore sbocciare fra Diciotto e Crilin! Visto che sarebbe stato inappropriato per una storia a rating giallo, ho deciso di narrare più dettagliatamente e in separata sede di cos'è successo in quella grotta sulla falesia: ho pubblicato apposta una lemon, Quella prima volta, io e te, disponibile sulla mia pagina :)
Per il resto, abbiamo finalmente la famiglia Weiss riunita e anche il debutto di Brent, che per me è molto spassoso da scrivere! Anche a me divertono "le battute che fanno ridere perché non fanno ridere"; con lui sfogo la mia voglia ancora insoddisfatta della rievocazione storica, seguo su Instagram un sacco di rievocatori ma io, purtroppo, non ho mai avuto l'occasione di farlo. Parlo di vichinghi, ho esitato nel tirare in ballo un pezzo di storia vera in questo universo, ma poi mi sono ricordata che in DB ci sono anche nativi americani, quindi mi sono detta "e perché no i vichinghi?"
Come per altri posti che descrivo quando parlo del RNP, la "piana Pessy" esiste (si chiama solo con un altro nome) ed è davvero enorme e piena di stambecchi!!
Le frane sono purtroppo un rischio sempre presente in montagna e a volte capita davvero che schiaccino interi villaggi :(
Nel prossimo capitolo, "Miracolo a Noiresylve", vedremo come se la caverà la povera Lillian alle prese con una vecchia signora cocciuta!
Come sempre ringrazio chiunque mi legga per il sostegno e il tempo, e abbraccio virtualmente tutti i miei recensori.

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Capitolo 17
*** Miracolo a Noiresylve ***



L’allontanamento di Diciotto mortificò Diciassette.

A nulla serviva la stretta calorosa di Kate intorno alle sue spalle, anche se il contatto con lei lo faceva sentire bene.

Madre e figlio passavano molto tempo così, lui con la testa contro la spalla di lei, in silenzio; era come se una parte del gemello maschio si fosse staccata, anche se lui sapeva di non averla persa gli faceva comunque male. 

Lei era sua sorella, erano sempre stati insieme.

Era strano diventare adulti.

Restava molto tempo a riflettere sulla collezione di foto che loro madre aveva scattato negli anni, specialmente su quelle di lui da piccolo.

Le sue personali non aveva ancora avuto il coraggio di guardarle: troppe emozioni nelle ultimi due mesi, non aveva ancora finito di assimilarle.

Diciotto diceva di aver trovato un senso alla propria vita; non era tornata indietro dopo aver raggiunto il suo obiettivo, riportare Bruno in vita. 

Se la immaginava felice con Crilin.

Pensava anche a Sedici, che aveva deciso di unirsi alle forze dell’ordine. Aveva saputo che l’androide era diventato l’assistente del capitano Weiss e gli veniva da ridere a immaginarlo costretto nei panni di un poliziotto, anche se sapeva che essendo stata una scelta personale Sedici era soddisfatto.

E lui? Cos’avrebbe fatto, adesso che Diciotto se n’era andata? 

Avrebbe continuato a divertirsi con le macchine, avrebbe diviso la propria esistenza fra la casa della sorella e quella di Kate, avrebbe vissuto con lei fino a che non fosse morta e lui avrebbe ricominciato da capo e si sarebbe cercato qualcos’altro da fare.

Ritornare ad essere un gangster non pareva più un’opzione immaginabile.

Kate avrebbe voluto aiutare suo figlio in quel momento della sua vita, le sembrava così deluso, quasi annoiato. Era possibile che stesse vivendo un semplice momento di crisi; fra i due Lapis era certamente quello meno incline alle seghe mentali e alla malinconia.

C’era una cosa che lui doveva ancora sapere e che lei aveva esitato ad accennare, finora. Non voleva rischiare di mettere troppa carne al fuoco con lui.

“Lapis,...”

“Diciassette.”

“...sai che io non ero la sola ad aspettarti? Non volevo metterti fretta prima d’ora, ma 

penso che ormai tu dovresti dire a Carly che sei tornato.”

“A chi?”

 

Carly era la sua ragazza. 

Possibilmente l’amore della sua vita.

Kate l’aveva invitato a dare un’occhiata ad altre sue foto che erano state riposte con cura in una scatola, dentro il suo armadio.

Ritraevano lui stesso in compagnia di una ragazza dai capelli rosso chiaro, arancioni. Aveva una pelle molto bianca e sembrava che fosse felice insieme a lui. Benché fosse oggettivamente meno avvenente di donne come Diciotto o anche Kate, a Diciassette parve stupenda.

Occhi grandi, sorriso radioso, seno florido: per lui era proprio bella bella, se ne sarebbe quasi innamorato.

Ma si mordicchiò l’orlo della maglia, sospirando scoraggiato con le foto ancora in mano:

“Non so chi sia.”

Kate non era più in contatto con lei da tempo, ma scarabocchiò su un foglio un nome e un numero:

“Quando te la sentirai, potrai chiamare suo padre George.”

Kate voleva sperare che rivedere Carly avrebbe reso Lapis felice, ma sul piano pratico non aveva idea se lei fosse ancora libera, né di cosa fosse stato della sua vita.

Dal canto suo, Diciassette poteva solo fidarsi ciecamente della parola di Kate e non era sicuro che volesse farlo; non solo constatare ancora una volta che le cose che importavano davvero erano un vuoto nella sua testa l’aveva ancora privato di gioia e brio, ma era sempre convinto che non c’erano chance che lui avrebbe potuto ripartire da zero con quell’umana. 

Zero chance.

E no, Diciotto, il dilemma andava ben al di là del poterla uccidere con un colpo di reni, a letto; lui non voleva passare la sua vita con qualcuno che apparteneva a un passato ricco di dramma, qualcuno che non l’avrebbe mai capito e che l’avrebbe sempre, più o meno inconsciamente, temuto. Non erano tutti Kate. 

Kate aveva capito perchè era la mamma, ma gli altri?

Preferiva non vederla mai più piuttosto che passare per la gioia dell’essere di nuovo insieme a lei e poi subire un rifiuto, un rifiuto generato da un’incompatibilità ormai irreversibile. Pensò a quanto aveva amato lo sguardo negli occhi degli uomini di Cloe Mafia, quando il loro istinto animale aveva suggerito loro che lui non era come loro. Ma pensare di vedere quella stessa paura inconscia negli occhi di questa Carly lo terrorizzava.

Gli sembró che non ci fosse niente che poteva ferirlo di più che vedere terrore e sconcerto negli occhi di qualcuno di amato. Si sarebbe educato a vivere senza di lei. Col tempo, non gli sarebbe più mancata.

“Va bene,ci penserò io” mentì, prendendo il foglietto dalla mano di Kate.

Dubitò che sua madre non vedesse oltre,  ma ebbe fiducia nel suo rispetto.

Ripensò a quello di cui era capace: quando aveva deciso di sradicare il Commando Magenta aveva distrutto centinaia di vite alzando semplicemente la mano. E ci aveva goduto.

Lui non era sua sorella, non aveva detto no alla distruzione, non si era voluto trovare qualcuno che poteva aiutarlo a sembrare più un umano normale. Uno come lui sarebbe sicuramente stato un fidanzato di merda, nessuna ragazza umana avrebbe sognato un terminator distruggicittà, che volava e tutto.

Era una roba da codardo: non era forse il potentissimo cyborg n.17, che ora stava scappando? Per una volta voleva scegliere la strada facile, credendo che fosse la migliore per lui. 

Sarebbe finita così, era meglio essere soli che mal accompagnati.

In tutto quel rimuginare deprimente, si rese conto che non aveva finito.

Ricordarsi del Commando l’aveva riportato indietro ai giorni in cui era restato alla casa diroccata e aveva discusso con quello scagnozzo terrorizzato.

“Il nostro cliente principale è un signorotto negli Yunzabei Heights” aveva detto.

Il Commando non era ancora stato debellato del tutto. Lasciare in vita il loro cliente principale era come strappare il fusto di un’erbaccia e lasciare le radici nel suolo.

Doveva far fuori anche quel signorotto.

 

Kate stava tornando a casa dalla stazione della metro.

Sentì il cellulare che squillava e di malavoglia rispose a Ronan,quel produttore televisivo del podcast che ancora non ne voleva sapere di gettare la spugna con lei.

Che voleva? Quel famoso invito a pranzo? E che sabato fosse, almeno non l’avrebbe più tormentata. Stava ancora camminando per strada quando vide l'inconfondibile silhouette di Lapis schizzare fuori dalla finestra.

Lo chiamò a gran voce ma lui era già troppo in alto nel cielo. Ancora in ansia, Kate mollò il soprabito e la borsa sul divano e ascoltò col fiato sospeso lo squillo attutito del cellulare di Lapis.

L’aveva lasciato in camera sua…

In cucina trovò un biglietto:

 

Torno fra poco mamma, non preoccuparti. A presto.

 

La prima cosa che il cyborg fece era andare a prendere Sedici.

I poliziotti guardarono con stupore Lapis in persona camminare con la sua solita indolenza, ai più era ben nota, fra i corridoi della stazione. Lo guardarono dirigersi verso la scrivania di Sedici, quello grosso che ora lavorava col capitano.

“Ti stanno guardando tutti perchè eri un delinquente da umano?”

Sedici abbassò gli occhi verso il suo amico, che aspettava a debita distanza come se volesse che lui lo accompagnasse da qualche parte.

Diciassette rise fra sé e sé: 

“Voglio che tu venga con me. Per un giretto."

“Ti stai annoiando? Dov’è Diciotto?”

“Ah, non me ne parlare.” 

Aveva scelto Crilin. Quello gnomo da giardino con occhi da segugio; certo che si annoiava, ma era anche desideroso di vivere un’avventura con il suo migliore, nonché unico amico.

 

 “Non ucciderai umani…"

Sedici seguiva Diciassette in volo verso uno dei posti più remoti della Terra.

Gli Yunzabei Heights erano una grande isola che una volta era stata unita al distretto di North City. L’istmo che li univa era stato poi sommerso dall’oceano e ora quelle montagne erano diventate quasi un Paese a sé stante, separato in ogni modo dal continente settentrionale. Era un paradiso fiscale scarsamente popolato, in altre parole un posto perfetto per chi voleva riempirsi di soldi in modo poco ortodosso e vivere lontano dal trambusto delle grandi città.

“Chissà.”

Diciassette sapeva che Sedici aveva già notato il luccichio della pistola nella sua tasca. Anche se non ci aveva sperato, l’androide aveva continuato ad accompagnarlo. 

In effetti l’aveva seguito solo perché Botz era al campo di addestramento per cani poliziotto e quindi non aveva nessuno a cui badare, forse anche lui provava nostalgia.

 

 Presto, i due videro le guglie acuminate di Yunzabei bucare le nuvole qual è là e seppero che erano arrivati. 

Dall’alto si vedeva solo qualche villaggio sparso, mentre un grande castello troneggiava in cima a quella che doveva essere l’unica città degna di quel nome.

"Almeno lascia stare chiunque altro troverai…"

Sedici sperava che Diciassette non avrebbe fatto una strage; era sbagliato, non si faceva così. 

Cloe Mafia gli aveva insegnato molto sulla natura degli umani ma per Sedici uccidere essere così indifesi, per quanto malvagi, sembrava contro natura.

Quando loro due atterrarono nel cortile interno di quella magione enorme che sembrava un castello, un manipolo di uomini in giacca e cravatta puntò loro contro delle armi:

"Non si entra senza il permesso di Lord Shomu."

Erano tutti così. Non si poteva entrare dal Commando, non si poteva entrare da Lord Shomu...Sedici si disse che gli umani tenevano molto ai luoghi in cui vivevano.

Vedendo che quel gigante dai capelli rossi e quel ragazzino con la sciarpa arancione avevano continuato ad avvicinarsi, gli addetti alla sicurezza spararono. Era una tempesta di proiettili, si erano appostati in vari punti del cortile e sparavano da ogni angolazione.

Esattamente com'era successo a Central City, Sedici fu ancora una volta deluso:

esseri indifesi, sì, che però non esitavano ad attaccare con l'intenzione di uccidere. 

Pur non approvando, l'androide riuscii a capire il pugno di ferro che il cyborg preferiva sempre usare.

Con un sospiro accondiscendente, Diciassette continuò a lasciarsi colpire e puntò la pistola.

 

 Nel frattempo, il famoso Lord Shomu si era barricato nella sua enorme camera da letto, armato solo di una bomba a mano e della voglia di gettarla addosso a chiunque stesse seminando lo scompiglio nel suo cortile interno. Sporgendosi da una finestra aveva visto una quindicina delle sue guardie del corpo scappare come conigli e ritrarsi a mani in alto mentre due figure sospette si avvicinavano con passo lento e inesorabile verso la grande porta della sua casa, non ostacolate, come se fosse una passeggiata di piacere.

"Perchè non li fermate, incapaci?"

Lord Shomu era oltraggiato.

Avrebbe licenziato quei gorilla buoni a nulla dal primo all'ultimo, poco importava se un licenziamento così improvviso li avrebbe messi in difficoltà. 

A causa della natura del commercio che presidiava, Lord Shomu aveva molti nemici e il lavoro degli addetti alla sicurezza era tenere fuori qualunque tipo di intruso. E chiaramente quegli uomini non si erano dimostrati degni di difenderlo.

"La polizia sta arrivando qui su. Tu starai ben nascosto, capito? Poco ci manca che ti trovino qui…"

Il vecchio Shomu colpì con una pedata un ragazzetto che sonnecchiava sul grande letto circolare, abbracciato a qualche cuscino.

Il giovane sussultò e gemette quando Shomu lo afferrò per i polsi legati e lo spinse con violenza dentro un armadio.

Con la bomba a mano stretta nel pugno e le gocce di sudore che rotolavano dalla fronte al mento, Lord Shomu si preparò a mettere fine a quell'invasione.

Ma tremò lo stesso quando la porta chiusa a chiave si scosse e subito dopo un grande pugno attaccato a grande braccio vestito di verde penetrò un pannello di legno massiccio e, trovando la chiave nella serratura, l'aprì dall'esterno.

"Mammina…"

Il vecchio si paralizzò momentaneamente quando vide il resto del corpo a cui quel pugno apparteneva: non poteva essere una vera persona, era un titano. E di certo non aveva l'aria da poliziotto.

Il ragazzo al suo fianco aveva normali proporzioni umane, ma non sembrava meno minaccioso.

Aveva sentito che quei buzzurri del Commando Magenta erano tutti morti. Quella notizia l'aveva reso furioso, la sua fortuna ne avrebbe risentito. Non gli importava se quei due erano effettivamente sbirri o sicari mandati da qualche membro del Commando miracolosamente sopravvissuto. Di danni ne aveva già sofferti abbastanza.

Agguerrito, Shomu lanciò la bomba a mano e guardò il titano afferrarla come una pallina da golf e bruciarla con una specie di luce gialla che era scaturita dal suo palmo, prima che potesse esplodere.

Messo alle strette Shomu tirò fuori dall'armadio il ragazzo con le mani legate, a cui aveva appena ordinato di nascondersi.

Trasse un coltello dalla sua cintura e appoggiò la lama fredda contro la gola del suo ostaggio.

Sogghignò, nascondendo la sua paura: "Se voi-"

Lo sparo improvviso non sfiorò un capello al ragazzo, ma zittì per sempre Shomu. Il Lord crollò riverso con un piccolo buco sulla fronte.

Diciassette puntò di nuovo la pistola, ma Sedici gli mise una mano sulla spalla e lo dissuase con uno sguardo severo, scuotendo la testa.

Il ragazzo si era istintivamente stretto nelle spalle e guardò incredulo l'altro ragazzo che aveva ritirato la pistola con gesti ampi e lenti, affinché lui capisse che dopotutto non intendeva ucciderlo.

Tutto era successo nel silenzio generale.

Ora che Lord Shomu era morto, al ragazzo non sembrò nemmeno più di sentire il dolore dei suoi lividi e delle corde che gli facevano sfregare le mani una contro l'altra.

Si sentì di nuovo sé stesso, un grandissimo sorriso gli distese il volto e si vide andare incontro all'altro ragazzo urlando di gioia.

"Grazie! Grazie, grazie, ti amo!"

Passò le sue braccia intorno al busto di Diciassette e lo strinse, affondando la testa nella sua sciarpa.

Smise solo quando si accorse che l'oggetto della sua adorazione gli stava dando una bruttissima occhiataccia.

Attento a non rompergli nulla Diciassette si liberó da quell'abbraccio e spezzò le corde.

Sedici guardava l'ex ostaggio come si guarda un animale curioso allo zoo:

"Come ti chiami?"

"Ma come?...Mr. Yunzabei?"

Era il neo-eletto più bel giovane uomo in tutta l'isola!

I due continuavano ancora a guardarlo, aspettandosi una presentazione decente.

Il ragazzo raddrizzò la schiena e si passò una mano fra i capelli, con aria da bellimbusto:

"Reuben Rose! Ma potete chiamarmi Rosie."

Con le loro lacune in fatto di celebrità locali, il cyborg e l'androide si scambiarono uno sguardo divertito. 

Rosie era stato recentemente rapito da Lord Shomu, che oltre a succhiare soldi da chiunque gli capitasse a tiro aveva anche gusti particolari quando si trattava di scegliere qualcuno che gli scaldasse il letto.

Ora il ragazzo saltellava baldanzoso per la stanza, parlando al telefono con voce acuta.

"Ho finalmente potuto chiamare i miei genitori! Andiamo sulla spiaggia, mi incontreranno lì. Mi accompagnate?"

Sedici e Diciassette seguirono il ragazzo, attraversando la magione sotto gli occhi stupiti del personale e degli addetti alla sicurezza.

Che avevano da guardare?

Raggiunsero una piccola spiaggia e Rosie si mise a scrutare l'orizzonte:

"Shomu era un vero tiranno qui. Non ho potuto chiamare aiuto, avrebbe fatto uccidere i miei genitori. Se voi non foste arrivati a liberarmi sarei stato il suo toy boy, eww...mi ha fatto sequestrare subito dopo la mia incoronazione a Mr. Yunzabei. Per fortuna tutto quello che ha fatto é stato menarmi…"

Diciassette notò i suoi lividi. Pensò che Shomu non sarebbe mancato a nessuno.

"In ogni caso tu, signore, sei un vero macho. Quanto sei grosso? Che potenza!  Quel mento e quella cresta, whew!"

Rosie guardò con ammirazione Sedici, prima di iniziare a camminare intorno a Diciassette:

"Ma tu, caro mio, sei una gemma: con quella faccia da angioletto e poi quei pettorali e quella pistola…"

Diciassette indietreggiò involontariamente di un passo e aggrottò le sopracciglia:

"Potrei sputarti in un occhio e accecarti."

Rosie schioccò la lingua, portandosi i pugni al viso timido:

"Nah, non mi piace la violenza...sono super vanilla."

Rosie pensava che quel viso d'angelo e quell'energumeno stessero insieme, e quando chiese loro di parlarne tutti e due lo guardarono così male che lui preferì zittirsi fin quando non udì le eliche dell'elicottero di famiglia. Allora si sbracciò a salutare, saltando come se volesse raggiungere il cielo.

"Reuben! Tesoro!"

Vide sua madre corrergli incontro non appena l'elicottero toccò la spiaggia.

Suo fratello, sua sorella e suo padre la seguirono a ruota e tutta la famiglia Rose poté tirare un sospiro di sollievo.

"Ma cos'è successo? Sei scappato?"

Il signor Rose aveva temuto il peggio fin dal momento in cui aveva ricevuto la domanda di riscatto. Non aveva nemmeno osato chiamare la polizia, come gli era stato ordinato, ma ogni giorno si tormentava per non riuscire a superare la paura di chiamare soccorsi per il suo figlio maggiore.

"No, due poliziotti fighi sono venuti a salvarmi,grazie di averli mandati! Ragazzi,..."

Quando Rosie si girò verso l'ultimo posto in cui aveva visto i suoi salvatori, dietro di lui, fu sorpreso dal non vedere più alcuna traccia di loro due.


 Carly fu svegliata da Lillian che la scuoteva, continuando a chiederle se stesse bene. Aprì gli occhi di soprassalto e si ritrovò Lillian seduta sul suo letto. Indossava già il suo parka blu, aveva già messo l'eyeliner e fatto il suo bello chignon. Carly si accorse di essere tutta sudata:

"Che succede, Lillian?"

"Devo andare su a Chantey. Ti senti bene?"

Non molto. Si era appena svegliata di soprassalto da un sogno che non ricordava.

Lillian si era preoccupata per lei, per tutta la notte si era rigirata in continuazione nel letto; poi mentre lei era in bagno a prepararsi per raggiungere John alla casotta entro le sei aveva sentito Carly emettere piccole grida e gemiti. 

Per un momento le era venuto il dubbio che ci fosse un uomo con lei, visto il timbro particolare della sua voce mentre mormorava cose del tipo "Non smettere! Sì, così!"

Per un momento sperò che non fosse Brent. 

Le parve comunque improbabile, non era la prima volta che Carly lo faceva.

"Non c'era nessuno qui con te, vero?"

Da assonnata che era Carly diventò paonazza, rendendosi conto che l'aveva rifatto. Lo stesso sogno: lei di spalle in una sala, quando si girava incontrava il viso e le braccia di Lapis. Lui la sollevava e la stringeva prima di stenderla sul pavimento mentre lei lo aspettava già a gambe aperte.

Lasciare andare, un corno.

"Sia io che te dobbiamo farci una bella scopata, prima o poi. Ti trovo io qualcuno: ti piace Joel, per caso? Cretino purosangue assicurato! O Brent? Brent dice che sei carina."

Ancora una volta Lillian riuscì a farla ridere.

"No, grazie. Lo sai che non ciulo ranger."

Carly era sempre così ostinata nel credere che fossero tutti antipatici.

"...ride bene chi ride ultimo! È giunta l’ora, mi stanno aspettando. Ci vediamo."

 

 Lillian non aveva alcuna intenzione di salire a Chantey a piedi, era la casotta più scomoda del RNP ma per raggiungerla c'era anche una strada sterrata bella larga.

Ma non le toccò nemmeno andarci, John le comunicò di tentare ancora una volta di andare a prendere la signora Poyaz. A osservare il villaggio ed eventuali frane sarebbero rimasti lui e Brent.

Noiresylve sembrava un villaggio fantasma: camminando per le stradine Lillian udiva solo vento, uccellini e sciabordio di fontane-lavatoio.

Arrivata davanti all'unica casa ancora occupata, si preparò mentalmente a quello che doveva fare. Usò qualche tecnica di respirazione per calmare i nervi e poi osservò il suo dito indice incontrare il pulsante bianco del campanello. 

Suonò qualche volta, ma nessuno rispose. Capendo l'antifona, Lillian colpì la porta di legno massiccio intarsiato:

"Clémence Poyaz, deve lasciare la sua casa. Apra subito la porta."

Stesso silenzio immobile.

Tutto sembrava perfetto. Era una bellissima giornata di ottobre. Cosa sarebbe potuto accadere di brutto quando c'era un cielo da urlo come quello?

"Clémence Poyaz, ultimo avvertimento."

Bam bam bam.

Lillian aveva male alle nocche. Non ci pensò nemmeno a dare una spallata alla porta come vedeva fare nei film, si sarebbe provocata una lussazione.

Proprio quando stava per perdere le staffe uno spiraglio minuscolo si aprì, lasciando uscire un lieve sentore di erbe essiccate.

"Ancora voi ranger qui! Sciò sciò sciò."

Lo spiraglio si era presto trasformato in una porta spalancata e la faccia da luna piena della signora Poyaz, calcata come a forza su un grande corpo quadrato e vestito da un grembiule azzurro, si palesò davanti alla giovane guardiaparco.

"Clémence, faccia onore al suo nome. Non mi faccia mangiare il fegato nel tentativo di salvarle la vita."

Lillian non sapeva più che metodo usare con quella zuccaccia dura. Se nemmeno il pensiero di morire riusciva a scuoterla dalle sue convinzioni, una comune mortale come lei aveva ben poche speranze.

"Basta disturbarmi! Noiosi come delle mosche...ho detto che io la mia casa non la lascio. Sono troppo vecchia per farmi spaventare da una stupida frana."

Ammesso e non concesso che ci sia una frana e che voi altri non vi stiate inventando complotti per sfrattarci e vendere la terra.

Questo Lillian lesse sul volto della signora, anche se lei non osò pronunciare le parole.

"Sì, ho capito che non gliene frega. Ma se permette a me sì, perchè finisco nei guai!"

La signora Poyaz si grattò il suo chignon di dolce nonnina e mise una mano sulla spalla di Lillian:

"Andiamo, ragazzona, ti preparo una tazza di tè. Sembri così inacidita…"

Non sapendo per cosa sentirsi più offesa e ormai a corto di opzioni, Lillian afferrò quella donna bassa e cicciotta approfittando della sua distrazione.

Si mise a correre lontano dalla casa verso la sua macchina, una distanza che le parve più lunga a causa della signora Poyaz che mulinava le braccia, mentre scalciava con le gambette che non toccavano terra.

"Mettimi giù, screanzata! Ah! É così che tratteresti tua madre, tua nonna?"

Aveva già corso un centinaio di metri portando con sé ottanta kg di signora Poyaz; improvvisamente stanca, Lillian la mise a terra senza mollare la sua mano:

"Al diavolo la gentilezza. Scusami Clem, ma sei una GRANDISSIMA TESTA DI CAZZO. Metti in pericolo te e noi del RNP, non ascolti nessuno."

Perfetto. L'aveva insultata e rimossa con la forza dal suo domicilio. Avrebbe avuto spiegare molte cose a John…

"Io ti denuncio, stronzetta!" 

"Vaffanculo, capito? Vaffanculo! Vieni a valle con me ora."

La vecchia continuava a sbraitare, strattonando il braccio dalla presa irremovibile di quella ragazza fortissima:

"Io ti…."

L'aveva sentito anche Lillian.

Quel lieve tremolio nelle gambe.

Quel crack cupo e profondo che sembrava uscire dalle viscere della Terra. 

Quando la signora Poyaz smise improvvisamente di parlare entrambe si voltarono in tempo per vedere un masso enorme, più grande di un van, abbattersi con una traiettoria a parabola su un grande chalet. Proprio quello della vecchia; lei osservò la sua casa sventrata senza battere ciglio e Lillian fece una smorfia:

"Mi spiace, Clem..."

Il sasso era stato catapultato direttamente dalla montagna: una gigantesca nuvola di polvere si liberó da un fianco della valle mentre altri massi di quella taglia grandinavano su Noiresylve.

Entrambe le donne sapevano che erano solo ancora quelli piccoli, stavano preparando la caduta di un pezzo di montagna piú grande. Molto più grande.

"Aaaaaahhh la frana! Santo Supremo, Gran Sacerdote e tutti gli angeli, corri!"

Lillian non riusciva a capire cosa quella pazza andasse farneticando, ma si ritrovò ancora una volta a correre disperatamente portandosela sottobraccio; la megera strillava:

"Moriremo! Moriremo, ranger!"

"Lillian…"

Lillian faticava a correre con la vecchia che ora si era aggrappata a lei, stretta come una pallina.

Sperando in qualcosa a cui non sapeva dare nome Lillian si accovacciò dietro a un muro di pietra, lasciando che la signora Poyaz si stringesse alla sua giacca.

Chiuse gli occhi e si coprì la testa:

"E così arriva la mia ora. Una frana in montagna. Il posto che amo di più alla fine mi tradisce, non che sia una novità con le cose o persone che amo. Se devo morire almeno muoio da MVP. Mancherò a qualcuno? Che peccato, avevo appena rifatto l'henné e mi era uscito bello rosso come piace a me...Joel, va' a quel Paese! Ce l'avevi pure storto, non toccavi mai il mio punto G. Vacci anche tu Bronwyn, so che mi sparli dietro con le tue amichette. Addio John, grazie di essere stato un buon maestro. Brent, impara a essere un guardiaparco come si deve ma continua a fare il vichingo. Carlona, riprenditi il tuo bello, abbi tanti bambini e fai volare tanti rapaci. A voi tre ho voluto bene, siete la mia famiglia...oddio, anche Brent?! Addio. Top Ranger out."

 

Le due donne aspettarono la morte tutte vicine in una specie di abbraccio, con gli occhi chiusi.

Solo quando un tonfo tanto forte da far tremare la terra le fece rimbalzare e atterrare sul sedere, entrambe si resero conto di essere vive.

"Ranger, guarda! Guarda, la frana…"

Clémence fu la prima a guardarsi intorno, pitoccando ossessivamente la ragazza:

"Ranger. Ranger?!"

Lillian aveva ancora le palpebre strizzate, ma capendo che era tutta intera si alzò di scatto.

"LILLIAN! Cazzo! Mi chiamo Lillian."

Aveva ben cinque chiamate perse, fra John e Brent. Essendosi vista la morte in faccia, pochi minuti prima non aveva manco sentito il cellulare squillare.

Mentre seguiva la signora Poyaz verso il punto appena fuori da Noiresylve in cui una fetta di montagna grossa come una palazzina giaceva tranquilla, rispose al suo concitato collega:

"Cosa c'è, Brent?"

"Ha risposto...ha risposto! Yoo hoo! John, la valchiria é viva! Che sollievo…"

Avrebbe potuto dirgli che gli stava rispondendo dal Valhalla, ma in quel momento non aveva le forze per scherzare. Guardò in alto verso le vette, scorgendo più o meno Chantey ma non riuscendo a vedere Brent, che sicuramente vedeva lei.

"Come cosa c'è? Sei viva!"

"Fammi parlare con John."

"John é...in riunione. Oh, devo andare. Minchia Lilli, non sai quello che ho appena visto. Cosa ti sei persa."

"...La vita, quasi? Comunque dì a John, quando finisce con la sua riunione, che sto portando la signora Poyaz in ospedale per accertamenti, giù a Neuve Ville. Non preoccupatevi, vi raggiungo stasera a Saint-Paul."

Lillian potè finalmente tirare un sospiro di sollievo, la signora Poyaz era stata salvata ed entrambe stavano abbandonando il villaggio devastato con le proprie gambe, incolumi.

"In riunione, su a Chantey? Come no…"

Se Lillian aveva subito capito che Brent aveva detto una balla, ancora non sapeva come quell'enorme frana avesse evitato Noiresylve. Era pazzesco. 

Era un miracolo.

 

 Non fece in tempo ad arrivare la sera che Lillian fu convocata da John nel suo ufficio a Saint-Paul. Dovevano essere appena tornati da Chantey, e lei aveva giusto avuto il tempo di lasciare Clémence Poyaz alla sua famiglia.

John aveva detto che doveva parlare con lei, era la prima volta nella sua carriera che Lillian si sentiva preoccupata: la questione signora Poyaz era molto delicata, con ogni probabilità John non era soddisfatto. 

E se le avesse tolto il titolo di top ranger?

La ragazza inspirò profondamente e poi aprì la porta dell'ufficio del suo capo.

Lo trovò in piedi, mentre discuteva scherzosamente con Brent. Il suo segretario stava graffettando dei documenti, lasciandoli sulla scrivania dove un ragazzo molto giovane sedeva, intento a sfogliare rapidamente un libro. 

Cos'era, i suoi genitori l'avevano dimenticato lì?

Lillian vide che era la bibbia, il manuale con tutte le regole che John dava ai suoi ranger.

Un nuovo collega, dunque? O visto che sembrava più piccolo di lei, una mascotte...

"John, mi dispiace se non ho gestito bene la signora Poyaz."

"No, Lillian, non sei qui per questo, hai gestito la signora molto bene. Brava ragazza."

"Non ho davvero capito, la montagna è crollata. Cos'è successo?"

Brent alzó il mento accennando al ragazzo che leggeva:

"Lui é successo."

 

 "E così da oggi avrai due nuovi discepoli, Lillian. Io allevo te e tu allevi loro: sii me quando non ci sono, chiaro? Ora lascio voi giovani alle presentazioni. Arrivederci!"

Quando John se ne fu andato, il ragazzo si alzò e camminò avanti e indietro per l'ufficio.

Lillian si sentì infastidita dal fatto che la stesse ignorando, ma sorrise:

"Ehm...ciao?"

"Ehi."

"Hai sentito cosa ha detto il vecchio? Quando non c'è, é a me che devi render conto."

Il pivello iniziò a sfogliare un altro documento, sempre senza guardare Lillian; si spostò distrattamente una ciocca di capelli che gli cadeva dritta fra gli occhi.

"Oi! Ma mi senti?"

Lillian schioccò le dita, seccata.

"... Ti sentirei anche se tu fossi in cima al ghiacciaio. Respiri come una vecchia locomotiva."

Lillian era sbalordita. Diede uno sguardo assassino a Brent, che nel frattempo se la stava ridendo e si era appoggiato alla scrivania:

"Che figata il tuo stile, Sev! Sembri un gangsta cowboy. Posso chiamarti Sev, vero? Chiamami B se il mio nome è troppo lungo."

Lillian poteva chiamarli entrambi problema o perchè a me?

Scosse la testa per Brent che cercava disperatamente di attaccare bottone con la mascotte:

"Io invece sono un vichingo. Non un vero vichingo, quelli sono tutti morti, ma un rievocatore dell'era vichinga. Che figata i tuoi orecchini! Io ho il diamantino, e il trago."

'Il drago?"

"T. Trago."

"Ma smettila, fanboy" Lillian guardò di sottecchi Brent, prima di rivolgere due occhi a fessura all'altro "in ogni caso è da maleducati non guardare le persone in faccia quando ti parlano."

Sev non alzò nemmeno lo sguardo:

"Sto leggendo. È da maleducati interrompere."

Balle, stava solo sfogliando la bibbia e i documenti, anche abbastanza rapidamente; non si poteva leggere così.

Lillian incrociò le braccia: 

"Che dice la sezione sui falò?"

" "Chiunque accenda fuochi non autorizzati è punibile con multe fino a ..." "

Lei lo sapeva perfettamente ma fu sorpresa di sentirlo ripetere le parole della bibbia come se le avesse già memorizzate.

Brent guardò Lillian arrabbiarsi lentamente come una pentola a pressione che si scalda, si mise comodo su una sedia: sarebbero stati questi i suoi colleghi più stretti? Ci sarebbe stato da ridere ogni giorno, allora.

"Ok, ho finito. Ciao ciao."

Quando il ragazzino si alzò e si avviò verso l'uscita, per la prima volta Lillian riuscì a vedere qualcosa del suo viso.

Notò due mini Grande Eden che fissavano incuriositi i suoi capelli hennati di fresco. Lillian voleva fare apposta a non guardarli: erano un punto focale che sicuramente tutti notavano, lei non voleva dargli quella soddisfazione. Spostò l'attenzione sulle numerosi efelidi che aveva sugli zigomi, ricordandosi che le trovava belle sulle persone dai capelli scuri. Le sue guance erano rosse, come già bruciate dal sole d'alta montagna.

Avendo terminato di studiare l'ultimo documento della pila, lui lo mise nelle mani di Lillian e si congedò.

Brent canticchiava, girando sulla sua sedia come un bambino dell'asilo.

"Lilli, Lilli, mi raccomando...John ha messo Sev al mantenimento dell'ordine. Onestamente, penso ti renderà le cose più facili."

Che gliene fregava, a lei, di cosa pensava Brent. Che buon inizio! 

Si era lamentata dell'hipster, mentre l'altro sembrava anche peggio. Per di più le sarebbe toccato passare con lui ancora piú tempo di quanto non facesse con Brent. Davvero ottimo, prevedeva già tante litigate.

Quasi quasi odiava John.

Ma Lillian era Lillian, era la migliore e anche la sua superiore: se quello zingarello dei suoi stivali avesse cercato rogne, lei gliele avrebbe date.

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Capitolo 18
*** Il terzo moschettiere ***


Poco prima della frana a Noiresylve

 

Ci era mancato poco che altra gente vedesse le loro facce. La famiglia di quel Rosie era arrivata abbastanza in fretta per creare un po' di distrazione generale e permettere a Sedici e Diciassette di svignarsela. Ora, seduti sulla torre più alta del palazzo del defunto Lord Shomu osservavano le eliche dell'elicottero dei Rose roteare mentre portavano la famiglia a casa.

"Sono orgoglioso di te." ammise Sedici, strizzando l'occhiolino al suo amico e guardando all'orizzonte le terre del continente settentrionale. 

“Non ho ammazzato nessuno solo per non traumatizzare te” ribatte’ con finta modestia Diciassette, muovendo i capelli con fare altezzoso. No, aveva ammazzato qualcuno, quel lord petulante, ma era stato necessario.

“Immagino che tu debba ritornare a fare il tuo dovere, ora…”

“Central City mi aspetta.”

“Lo so, amico. Sono io ad essere orgoglioso di te.

DIciassette si chiese in quel momento come fosse possibile che Sedici non fosse come lui, solo mezzo macchina, perché’ l’espressione che gli vide sul volto gli parve totalmente umana. Sedici era colui che riusciva a toccare la parte migliore del suo essere cyborg. In quel momento Diciassette senti’ fortissimo il peso dell’ultimo discorso esistenziale che avevano avuto e decise che se qualcuno come Sedici, che secondo i piani del suo creatore non doveva nemmeno vivere era riuscito a trovare il suo posto nel mondo, lui non poteva non riuscirci. Sarebbe stato come buttare via qualcosa di prezioso, la propria vita. Quando Cell l’aveva preso, Diciassette aveva creduto di aver smesso di esistere, che la sua vita fosse finita. Era stato abbastanza fortunato da sopravvivere invece e ora doveva far onore a quel privilegio terribile che era la vita. Dicioto aveva deciso di prenderla in mano, di farne buon uso. Lui non era da meno, doveva solo trovare la sua opportunità. Ora voleva trovarla.

“Beh, stammi bene. Ci rivedremo presto, spero.”

L’androide diede una pacca affettuosa alla schiena del cyborg, che lo guardo’ spiccare ancora una volta il volo e dirigersi verso sud.

Lui invece resto’ a nord; non aveva mai visto North City, ma sapeva che la sua vita come cyborg era cominciata fra quei monti. Ripercorrere i primi passi della sua nuova esistenza gli fece uno strano effetto.

Dopo qualche ora passata a girovagare a piedi, si ritrovò’ nei pressi di un torrente argenteo dall’aria familiare. I lati della strada scendevano scoscesi fino al nastro d’acqua e la forma a U della vallata lasciava esposto ai suoi occhi potenziati un orizzonte verde e un villaggio rannicchiato in un avvallamento, sul fianco di una montagna. Si sentì’ quasi felice nel ricordare che aveva già’ visto quel posto, quella notte in cui lui e DIciotto avevano fatto il patto di sangue per la seconda volta.

“Forse posso fregare un’altra torta.”

Diciassette ebbe voglia di camminare ancora un po’ invece che di volare; si ricordo’ che ancora una volta aveva piantato in asso sua madre, ma fu lieto di non averla al seguito quando inizio’ ad andare di fretta, cosi’ di fretta che Kate si sarebbe rotta le gambe se avesse provato a stargli dietro. Aveva camminato per circa un’ora, addentrandosi in una suggestiva foresta. Penso’ di nuovo a Sedici, cosi’ pacifico e rispettoso verso gli esseri viventi, a cos’avrebbe provato a trovarsi in un luogo cosi’ tranquillo.

Gli avrebbe detto: “Shh, ascolta! Il mondo e’ vivo...”

Il cyborg chiuse gli occhi e ascolto’ i suoni quieti della vita che lo circondava. Senti’ l’urlo lontano di un’aquila che planava a molti metri dal suolo. Salto’ e la raggiunse senza nemmeno volare, per un momento Diciassette osservo’ da vicino il piumaggio bruno del rapace, scompigliato dal vento, le penne forti delle ali aperte come dita. Forse l’aquila si stava chiedendo che ci facesse un umano li, soprattutto come lei avesse fatto a non vederlo e sentirlo arrivare; se si pensa che un’aquila non possa avere una faccia perplessa, fu invece  proprio quello che apparve al cyborg. Lui fece in tempo a notare che aveva un contrassegno legato a una zampa, riusci’ a leggere “Pollo”. Forse era quello il suo nome, Pollo. Ridacchiò, chiedendosi quale idiota chiamerebbe mai un’aquila POLLO.

Poi l’animale si spavento’ e schizzo’ via; Diciassette ci rimase male e sospirò, pensando che non c’era bisogno di scappare cosi’. Rimase a mezz’aria, il vento che muoveva la sua sciarpa come se fosse una bandiera. L’aria li’ in alto era piu’ pulita di quella che si respirava a contatto col terreno, se la godette. Pensava a tutto e a niente, ascoltando il rumore del vento e del proprio respiro. Era cosi’, in uno stato di quiete completa, quando all’improvviso udi’ un crack debole e distante. E un altro. Sembrava roccia che si sbriciolava. Ora non era piu’ flebile, la montagna si lamentava con acuti e suoni gutturali che erano un baccano infernale per i timpani di Diciassette. I suoi occhi guizzarono intorno alla ricerca dello smottamento, da qualche parte nella vallata.

Poi fece una cosa relativamente nuova: avvio’ con la sua mente il programma di scannerizzazione e tutto divento’ rosso, come se lui stesse guardando attraverso un vetro colorato. Gli dava fastidio usarlo, l’aveva fatto solo quando aveva voluto prendere qualche info sull’ancora sigillato Sedici, quando Gero aveva ancora la testa sulle spalle. Vide le sagome intorno a lui scomporsi in semplici forme geometriche e vide letteralmente un pezzo di roccia vibrare, emettendo onde sonore mentre abbandonava la montagna.

“Eccola li.”

Volando ad alta velocita’, Diciassette scorse lo stesso villaggio che aveva visto in lontananza e da cui aveva rubato la torta, dritto sulla traiettoria della frana. 

Avvicinandosi in volo emise dei raggi energetici che ridussero i massi e i detriti in sabbia, anche se qualche sasso gli scappo’. Quando finalmente il piu’ grosso si decise a cadere, un pezzo di montagna grande quanto una palazzina, Diciassette lo poso’ sul fondovalle, là dove non avrebbe schiacciato nessuno. Aveva appena salvato un villaggio dalla furia di Madre Natura, si grattò la testa e si chiese come mai: nessuno gliel’aveva chiesto, ora era un supereroe?

Nel frattempo, da un punto strategico nella valle, due uomini osservavano la scena con il binocolo.

Brent e John erano saliti a Chantey e il nuovo ranger sentiva ondate di panico sbriciolargli le gambe, osso per osso. Lillian era li’ sotto...

“Porca l’oca, John. Guarda qua. Sbrigati! Cosa diamine ho appena visto?”

John si sentiva in colpa per aver mandato Lillian a prendere quella vecchia bisbetica. Se fosse andato lui forse avrebbe evitato la morte a una ragazza che, a ventidue anni, aveva ancora una vita intera dinanzi a sé. Lui era vecchio invece. Non gli interesso’ quello che Brent voleva che lui guardasse, finche’ non lo senti’ urlare ancora:

“Minchia! Guarda quel tizio.”

John si rialzo’ dall’erba fuori dalla casotta, prese il binocolo dalle mani dell’apprendista e resto’ a bocca aperta:

“Ma che diavolo?! Ha appena bloccato una cavolo di frana? E ora che sta facendo, salta su per la montagna come una capra?”

Brent si riprese il binocolo e si gratto’ la barba: “Ah, non saprei. Forse dovremmo andargli incontro.”

Se quel tizio aveva appena bloccato la montagna, allora Noiresylve non era stato completamente distrutto. Forse Lillian era viva!

Mentre John e Brent preparavano il fuoristrada e quest’ultimo si accingeva a chiamare la top ranger, si videro un ragazzo raggiungere la casotta in due salti. 

Dal canto suo Diciassette si senti abbastanza innervosito nel vedere, come pensava, che c’era gente li’. Lo stavano fissando.

“Ehi” John scese di corsa dalla macchina “cos’hai fatto? Ti abbiamo visto trasportare un pezzo di montagna e sparare cose colorate contro la frana.”

L’uomo guardo’ il giovane silenzioso dalla bandana arancione che ascoltava a malapena, rapito dal panorama.

“Cosa ci fai qui? A parte...quello che hai fatto.”

Diciassette era scettico e non sapeva come gestire quei testimoni indesiderati, ma quel posto era magnifico ed essere li gli aveva sollevato l’umore, per cui si mostro’ amichevole: si era perso sulla strada di North City, dov’era diretto.

“Sei andato una ventina di km piu’ in su. North City e’ giusto fuori dal parco, dietro quella cresta” John gli indico’ la direzione sud, ascoltando a malapena Brent che gli urlava qualcosa tenendo il cellulare in mano “come ti chiami?”

“Diciassette.”

“No, ascolta: chi sei?”

“Sei sordo?”

“Ok. Hai un indirizzo? Da dove vieni?”

Il cyborg rimase silenzioso: “Sono venuto in volo dagli Yunzabei Heights, dove ho appena fatto un raid” suonava troppo personale.

“Scusaci un momento” John si allontano’ con una mano alzata.

Diciassette si avvicino’ all’auto che vide parcheggiata li’ vicino. Rimase a rimirare quel bel fuoristrada dall’aspetto vissuto, quanto sarebbe stato divertente guidarlo su delle strade di montagna? Sentendo inavvertitamente i bisbigli dei due uomini, Diciassette venne a sapere che si trovava in un posto chiamato Royal Nature Park. Udi’ distrattamente anche un fischio quasi impercettibile:

“Ehi! La vostra jeep ha una gomma bucata.”

John e Brent smisero di confabulare fra di loro, controllarono le gomme e dissentirono.

“Gia’. Non riuscite a sentire, vero?”

I due lo guardarono perplessi e continuarono a discutere sottovoce, poi il piu’ vecchio si fece avanti: 

“Va bene, Diciassette. Hai fatto qualcosa di...pazzesco e io saltero’ tutto il quando, come e dove, perche’ non so cosa dire. Andro’ dritto al cosa. Io sono John, il capo dei ranger del RNP. Tu...”

“...posso venire con voi, se voglio, visto che siete interessati ad assumermi dopo quello che ho fatto con la frana; sareste lieti di avermi con voi, ma alla fine sono io che devo decidere, per cui dovrei pensarci. Ho sentito tutto. E ora cambiate quel pneumatico, porca miseria. O almeno lasciate che lo faccia io.”

John lo fisso’, interdetto: “...va bene. Cambialo tu.”

Lo sguardo stupito di John non mollo’ Diciassette un secondo mentre lui afferrava il paraurti del fuoristrada e lo metteva in posizione verticale, sfilava con facilita’ una delle gomme anteriori e  la sostituiva con quella di scorta. Non impiego’ piu’ di un minuto. Lo irritava come quei due potessero andarsene in giro con una gomma bucata, non dava loro fastidio pensare che la performance della macchina sarebbe stata scadente, che il cerchione avrebbe potuto rovinarsi? Quando fini’ porse a Brent la gomma bucata, con un sorriso scaltro. I due videro finalmente che era bucata e continuarono a fissare il ragazzino.

“Prego” Diciassette sospiro’ con aria annoiata e si sedette sull’erba “su cosa esattamente dovrei decidermi? Cosa mi state offrendo?”

“Grazie” John lo raggiunse e si sedette al suo fianco.

“John, Lillian ha detto che e’ scesa a Neuve Ville con la Poyaz…”

Brent cerco’ di inserirsi nella conversazione di John, con scarso successo.

“Brent e’ qua giusto da qualche tempo, per cui senti me: ti sto offrendo di diventare un guardiaparco, come noi due. Saro’ onesto con te, e’ un lavoro scomodo. Il riconoscimento che otterrai sara’ poco o niente perche’ la gente apprezza il parco, ma ignora tutto il duro lavoro che c’e’ dietro; ma sarai tenuto ad essere sempre rispettoso con la gente che vive qui e i turisti, devi essere pronto ad aiutare anche per stupidaggini. Sarai in giro con ogni tempo, a volte vedrai la morte di persone e piu’ spesso animali. Farai un sacco di straordinari senza venire retruibuito. Ti capitera’ di avere freddo, fame, sete, di non sentirti bene mentre sei in pattuglia e nell’immediato non potrai farci niente. Ma lo Stato ti dara’ uno stipendio decente, potrai avere una casa dentro al parco, se passi il test comportamentale anche un fucile. Sarai sempre professionale e onorerai la vita intorno a te. Sarai, come noi altri, custode di questa eredita’: aiuterai a proteggerla e a conservarla per noi e le generazioni a venire. Per quel che vale, quarant’anni che sono un ranger e per me e’ il miglior lavoro al mondo. Non vorrei fare cambio con nessun altro. Abbiamo la nostra liberta’, qui. E tutto questo.”

John indico’ con un ampio gesto il panorama, cosi’ bello che lo commuoveva sempre: “Tutto questo, ogni giorno, senza limiti. Non ti stanca mai. I dettagli su quello che farai, quando inizierai e dove starai saranno nel tuo contratto, eventualmente. Pensaci, non c’e bisogno che tu mi dia una risposta ora.”

Diciassette aveva ascoltato con attenzione ogni parola. Ripenso’ ancora alla direzione che voleva dare alla propria vita. Se avesse accettato l’offerta di John, non solo avrebbe reso fiero Sedici, ma avrebbe prima di tutto negato lo scopo per cui era stato convertito in cyborg. Avrebbe vissuto libero, con la capacita’ di usare il proprio corpo sovrumano per fare qualcosa di utile. Non era forse un passo in piu’ verso la pace e la normalita’ che tanto bramava, ultimamente?

Si immagino’ a vivere li, in pace con se stesso in quella rigogliosa foresta. Il suo potere gli sarebbe tornato utile per proteggere qualcosa di meraviglioso: più’ le sue scelte di vita lo allontanavano dalla sua programmazione, più’ si sentiva felice.

In piu’ ormai era adulto, aveva ventun anni. Ora che tutti (o quasi) i tasselli della sua memoria si erano ricomposti, trovarsi un lavoro era una cosa cosi’ magnificamente normale che gli avrebbe permesso di lanciarsi verso un nuovo capitolo. Di trovare un posto nel mondo. 

“Puoi averla anche ora; la mia risposta e’ si’.”

John gli batte’ il pugno sulla spalla: “Eccellente! Ora dobbiamo portarti al mio ufficio giu’ a Saint-Paul. Per me sei gia’ uno di noi, ma sai, scartoffie...in questi giorni incontrerai Leni delle risorse umane, lei ti fara’ un contratto e poi sarai ufficialmente un guardiaparco.”

Brent e John obbedirono involontariamente quando il ragazzo diede loro uno sguardo ghiacciato e li  informo’ che la jeep fino a Saint-Paul l’avrebbe guidata lui.

 

                                                         ~


 “Carly, tesoro mio, sono cosi’ contento che tu stia bene! Ho sentito della frana e mi e’ venuto un colpo.”

“Non preoccuparti, papa’, era in tutt’altro settore. E in ogni caso non ho nemmeno capito bene cos’e’ successo, nessuno lo sa.”

“Nemmeno io, in tele dicono che un pezzo di roccia si e’ staccato ma non e’ caduto. Va a sapere!”

Lillian non era ancora tornata a Viey, Carly sperava che non fosse ferita! Aveva contattato John, che le aveva dato tutte le spiegazioni. 

Ancora turbata dall’ennesimo sogno erotico da cui Lillian l’aveva scossa, la veterinaria aveva passato la sua giornata alla sua adorata piana Pessy per ammazzare il tempo, aspettando che gli aquilotti nascessero. Ora doveva tornare alla clinica e non vedeva l’ora di vedere schiudersi le uova che aveva tenuto d’occhio finora, con tanto amore. Sarebbe stato uno degli ultimi lavori della stagione, nel tempo di tre settimane doveva tornare a North City, dove sarebbe rimasta per qualche mese: un sacco di teoria ed esami erano in agguato dietro le mura della facoltà. Avrebbe fatto ritorno alla riserva solo più tardi, forse l'anno successivo. 

Era tanto in pena per quei piccoli: le uova erano state trovate in un nido che alcuni ornitologi avevano tenuto d’occhio e dichiarato abbandonato dalla madre da ormai troppo tempo; si era arrivati a una triste conclusione, visto che quegli uccelli non avevano predatori e che tutti erano sicuri del fatto che la mamma aquila non fosse morta di cause naturali. Il giorno in cui avevano portato le uova da lei in clinica e le avevano detto che probabilmente i bracconieri l’avevano presa, a Carly erano salite le lacrime.

“Cacciatori di merda” aveva sibilato la sera, a casa, ancora rossa dal pianto.

“Non fare di tutta l’erba un fascio. Quelli sono bracconieri, non cacciatori. Mio padre era un cacciatore e non ha mai ucciso madri e cuccioli.” le aveva detto Lillian, abbracciandola. 

Carly ringraziava che ci fosse rete sul sentiero che univa Viey alla piana, Leni le stava tenendo compagnia al telefono mentre lei scendeva. Ormai era abbastanza allenata da potercela fare in due ore. Quella frana avvenuta di prima mattina era gia’ chiacchieratissima: Brent le aveva persino detto che avevano ingaggiato un tipo che aveva preso in mano la frana:

 “Ti rendi conto, Leni? Questo dice un collega di Lillian. Secondo me fuma pesante..."

La voce della sua amica le arrivava un po’ spezzata:

“Ho sentito anche io! Sto andando proprio ora a Saint-Paul visto che c’e’ carne fresca."

Carly rise in silenzio, come sempre divertita dalle scelte linguistiche di Leni quando parlava dei guardiaparco. Molti di loro erano a Saint-Paul e spesso Leni passava casualmente di li’.

"Vuoi venire? Starò fino a sera con John a stampare qualche nuovo contratto e ad assistere al briefing delle nuove reclute. A volte ci sono dei fighi."

"No, grazie, sarò stanca. Ci vedremo domani."

Passarono due giorni prima che Carly e Leni si rivedessero. Gli aquilotti erano nati in quell’intervallo di tempo e quando Leni arrivò’ a trovare Carly alla clinica, lei era appoggiata all’incubatrice e li osservava come una mamma premurosa. 

“Devi vedere che energia e che appetito!” Carly si era sacrificata per vegliare sui piccoli, nutrirli e curarli. La tenevano molto impegnata e lei ne era felice, erano una tenera distrazione.

Leni sorrise alla vista dei cuccioli tutti rannicchiati fra paglia e rametti.

"Non mi chiedi nemmeno se c'era qualche figo?"

Carly forzò un sorriso: "Allora, com'è andata? Carne fresca?"

"Mio Dio” Leni prese a sventolarsi con un opuscolo “quello con la barba da vichingo, che gnocco: barba lunga ma ben curata, rasato, abbronzato, occhi gentili. Mi senti? Sembro una quindicenne con gli ormoni impazziti.”

 “Sì, Brent” Carly sorrise all’espressione attonita dell’amica “e’ di lui che parlavo l’altro giorno, lavora con Lillian ogni tanto. Lei dice che e’ una palla al piede.”

“Per Lillian tutti sono palle al piede. Ce n’era anche un altro, quello della frana. Avra’ una ventina d’anni, quindi alzo le mani.”

“Ah! Chi e’?”

“Non ho capito come si chiama, ma da quanto mi ha detto John quello li’ diventera’ sicuramente il top ranger, a breve. Ha voluto che gli dessi subito un contratto a tempo indeterminato”

“Oh…”

Carly non pote’ fare a meno di pensare alla sua amica: se ora nel RNP c’era un altro che poteva competere con Lillian, lei sperava che loro due non si incrociassero. C’erano delle possibilita’, ma Lillian non le aveva ancora parlato di lui.

“Il mio sesto senso mi dice che ci finiro’ a letto, con quel vichingo. Con quello nuovo vacci tu, ha degli occhi di ghiaccio che...che te lo dico a fare.”

“No Leni, non mi interessa.”

Carly sospiro’ e si mise a riordinare un piano di lavoro gia’ lindo. Si sentiva di nuovo triste e amareggiata, non dell’umore di uscire con qualcuno. Ranger, per giunta. 

“Ha anche un bel sorriso, per come la vedo io. Direi che  e’ il tuo tipo.”

Leni non aveva avuto alcuna intenzione di dire qualcosa di sbagliato, si era semplicemente ricordata di una conversazione che aveva avuto con Carly durante l’estate. Si rese conto di aver oltrepassato il limite quando Carly le urlo’ contro, con degli occhi furiosi che non le aveva mai visto, tutta la verita’ sulla sua sofferenza:

“Smettila, ti prego, smettila! Lasciami in pace. Sono stanca di dire a tutti che voglio stare da sola, sono stanca di dovermi giustificare per la cosa peggiore che mi sia successa e che non ho deciso. Vuoi sapere perche’, Leni? Vivo perennemente in lutto. Ho amato tantissimo qualcuno con occhi di ghiaccio e un bel sorriso, avrei dovuto essere sua moglie,...”

Leni senti’ un tuffo al cuore, mentre Carly cercava fra i singhiozzi delle parole che non servivano. Tante volte Leni si era immaginata che Carly avesse subito una brutta separazione, ma non certo che le cose fossero andate cosi’ male; non aveva mai davvero voluto, o osato, parlarne con lei. Si senti’ in colpa per tutte le volte in cui il suo comportamento insensibile doveva aver fatto soffrire la povera Carly, cosi’ giovane e cosi’ intelligente, la limpidezza del suo viso che mascherava tutta l’ingiustizia che le gravava sulle spalle.

Non riusci’ a ribattere quando Carly, tremante di rabbia e stress, le indico’ la porta della clinica.



 

 Lillian aveva ragione, i suoi “guai” erano appena cominciati. Era passata una settimana dalla frana e non solo quel moccioso sfacciato era ormai un suo collaboratore stabile, ma l’aveva anche obbligata a fargli guidare la jeep ogni qualvolta lei fosse con lui. Roba da pazzi, quando mai qualcuno obbligava Lillian?

“Ehi Lillian, non fidarti del fieno.”

Dallo specchietto lei guardo’ storto Brent ricambiare l’occhiata con divertimento, seduto comodamente sul sedile posteriore. Ogni tanto lei toglieva gli occhi sbarrati dalla strada e fissava il profilo di Diciassette, concentrato al volante, e i suoi capelli lisci scompigliati dal vento che entrava dal suo finestrino.

“...tutte balle!”

Diciassette rise fra sé e sé. Lillian non aveva la forza di ribattere alle freddure del vichingo; era troppo impegnata a stringere la maniglia sopra al finestrino mentre Diciassette lanciava la macchina giu’ per i tornanti a velocità’ poco sicure. Anzi, vietate.

“Vuoi ammazzarci tutti, matto? Rallenta...Curva! Oh mio dio!”

Ora le stava venendo il mal di mare.

“Ringrazia che sono venuto a prenderti fino a Viey, anziche’ aspettarti direttamente a Saint-Nicholas.”

“E’ la mia macchina!!”

Brent li guardava come un bambino guarda i genitori litigare:

“Ehi Sev. Sai che malattia hanno gli alberi di Natale?”

Diciassette alzo’ due occhi divertiti sul riflesso di Brent, nello specchietto: “...Il diabete. Perche’ mi chiami Sev?”

“Bravissimo!” Brent era felice che il nuovo collega che lui ammirava cosi’ tanto reagisse alle sue battute “Diciassette>Seventeen>Sev. Semplice.”

Il cyborg alzo’ le spalle, trovando che il ragionamento avesse il suo perche’. 

John aveva detto a Brent di andare a quel sito storico fuori dal villaggio di Saint-Nicholas, era un antico monumento a base di lastre di pietra ancora in fase di restauro, lui doveva scrivere il testo del pannello istruttivo per i visitatori che sarebbe poi stato messo davanti alle pietre, a lavoro finito. Il capo ranger aveva insistito che Lillian e Diciassette lo seguissero, visto che tutti e tre erano un gruppo nuovo che aveva bisogno di imparare a essere coeso:

“Ora che ho anche il terzo moschettiere, devo tenervi tutti insieme.”

“Io sono D’Artagnan!” Diciassette si era messo in guardia, sguainando una spada immaginaria.

“No, lei e’ D’Artagnan, perche’ sopporta voi due.” John aveva ammiccato a Lillian. 

Scherzi a parte, Lillian doveva valutare la sicurezza di quel vecchio sito storico prima che il RNP lo riaprisse al pubblico; Diciassette le avrebbe dato una mano.

Quando arrivarono al sito storico, Brent sputacchio’ una valanga di ipotesi su come quelle pietre dalla mole notevole fossero state messe in gruppi di tre, due verticali e una orizzontale, e poi in cerchio:

“...stiamo parlando di epoca preistorica: ognuna di quelle lastre di basalto deve pesare almeno cinque tonnellate e chiunque abbia costruito il monumento non aveva di certo una gru...forse avevano un Sev!”

Brent non si sarebbe mai dimenticato quello che l’aveva visto fare, su a Noiresylve. Esattamente come John, il vichingo non voleva per forza spiegarselo ma ai suoi occhi quel ragazzino era una specie di supereroe. 

“Chi l’ha fatto?” Diciassette alzo’ il naso, guardando un’enorme pietra orizzontale.

“Non lo sappiamo. Esseri umani normali, come noi.”

La giornata di Lillian migliorò’ notevolmente quando vide da lontano la graziosa silhouette di Bronwyn avvicinarsi a loro, arrancando sotto il peso del suo zaino.

“Che ci fai qui, ninfa dei boschi?”

Lei le indico’ un gigantesco cespuglio di rovi proprio dietro al monumento. Alcuni dei rami sembravano ricoperti da stiletti, tanto le spine erano grosse e lunghe.

“Devo vedere se ci sono degli animali che ci vivono. Bisogna che lo bruci, sei metri per quattro di rovi sono pericolosi per i turisti e infestanti per il resto del sottobosco. Oh, ehila!”

La botanica sorrise a Brent e Diciassette, poi si mise in disparte a fare il suo lavoro.

Mentre Brent prendeva note sul memo del suo cellulare Lillian spiegava a Diciassette, scandendo parola per parola come se lui fosse un idiota, che probabilmente avrebbero dovuto mandare qualcuno a riparare un pezzo di sentiero, lì’ intorno.

Quando tutti ebbero fame, Lillian spero’ che Bronwyn se ne andasse; ci mancava solo condividere un pasto con quella gallina.

“Signore e signore, ecco a voi il pranzo!” con grande gioia, il vichingo lancio’ degli involti ai suoi colleghi “meno male che ho fatto preparare degli extra, cosi’ Bronwyn puo’ mangiare con noi.”

Lillian esulto’ interiormente quando la vide afferrare tutta contenta la michetta farcita avvolta in alluminio che il ranger le aveva dato. Brent poteva essere fastidioso, ma aveva un grande cuore; aveva insistito per fermarsi in una bottega e comprare il pranzo per tutti.

“Lucien vende il lardo migliore, ricordatevelo! Non andate mai a Sant-Paul a prendere il pranzo al sacco, li’ ci sono solo mercatini per turisti.”

Bronwyn sembrava piu’ chiacchierona e civettuola del solito, aveva passato tutta la pausa pranzo a ridere coi due ragazzi esibendo un’aria disinibita ma anche aggraziata.

“Che gattamorta…” 

Lillian ne aveva avuto abbastanza, si era appartata e apprestata a fare un po’ di allenamento sollevando dal suolo una grossa pietra. Per fortuna ora Bronwyn se n’era andata.

"Usare una lifting stone e’ ottimo allenamento" Brent l’aveva sorpresa mentre lei era ancora li’ con la pietra che le schiacciava il seno. Si era spaventata e l’aveva lasciata cadere:

“Fammi indovinare, lo facevano i vichinghi?”

“Forse!”

Esponendo ancora una volta la schiena muscolosa e tatuata, Brent si appresto’ a sollevare lui stesso un’altra pietra. La lascio’ cadere poco dopo, tutto rosso e ansimante.

“Non male…”

Cercando di ignorare il fatto che Brent stesse facendo la ruota come un pavone ed evitando di soffermarsi sul suo fisico pompato, Lillian si sedette di fianco a lui e gli diede qualche dritta su come sollevare pesi.

“Che fate?”

Diciassette li aveva raggiunti senza che loro si accorgessero del suo arrivo. 

“Solleviamo pietre per allenarci. Fallo anche tu Sev, dai! Lilli, devi vederlo…”

“No, non sono abbastanza forte" menti’ spudoratamente.

E poi non era un fenomeno da baraccone, si era gia’ esposto abbastanza per la storia della frana. Si sedette tranquillo su un tronco, giocherellando con la sua bottiglietta d’acqua.

Brent lo guardo’ come se avesse detto la cavolata piu’ grossa del mondo, mentre Lillian alzo’ le sopracciglia con aria soddisfatta:

"Non ti sorprendere, Brent. Alla fine non tutti possono farlo."

Lo sguardo irritato del cyborg incontro’ gli occhi neri, brillanti di vittoria, dell’umana.

Ai ranger sembrò’ di non vederlo quasi alzarsi dal tronco, tanto si era mosso veloce; restarono a bocca aperta quando Diciassette afferro’ sia la pietra di Lillian che quella di Brent e senza sforzo apparente distese in alto le braccia, manco fosse una cheerleader che agitava pom-pom. Il ranger più’ giovane del RNP flesse le braccia e lancio’ le due grosse pietre lontano.

“Contenti ora?”

“Te lo dicevo che e’ fortissimo. Molto piu’ di te” bisbiglio’ Brent a Lillian.

“E comunque a che vi serve saper fare questo se non sapete nemmeno lottare?”

"Ora sei anche un esperto di lotta."

Lillian ritrovo’ il suo tono accondiscendente e alzo’ il mento.

"No, in verità. Piccolo sembrava un esperto, io dico solo che tu non sei efficace." 

Lillian non volle nemmeno sapere cosa lui stesse farfugliando. Chissa’ se quella rana dalla bocca larga avrebbe continuato a blaterare se lei gli avesse fatto assaggiare la forza dei suoi pugni.

“Raga...forse e’ meglio andare. Sono le tre e il sole andra’ sotto di qui a poco. Menatevi un’altra volta.”

Brent si preoccupava sempre, sembrava che fosse inevitabile che prima o poi Lillian e Sev avrebbero finito per fare rissa.

Ed era successo quella volta in cui lui e Sev erano seduti tranquilli a succhiare caramelle alla Coca Cola. Brent stava tranquillamente spiegando al ragazzo come tanti rievocatori novelli facessero l’errore di cucire i loro vestiti con filo di nylon anziche’ di lana, quando aveva visto Lillian incombere su Sev coi pugni stretti e occhi di brace.

Perche’ quella ragazza cercava sempre di attaccare briga? Diciassette si lecco’ le dita e si alzo’:

“Dai, togliti questo peso, dammi un pugno dove vuoi. Preferirei non nei coglioni, pero’.”

Il ragazzo sorrise beffardo a Lillian e si mise le mani suoi fianchi, promettendo solennemente che non avrebbe restituito il colpo. Brent pensava fosse pazzo, Lillian era una forza della natura, persino John avrebbe avuto paura di ricevere una botta da lei; Lillian stessa esitava. Per quando volesse ricostruire alla sua maniera il sorrisetto sprezzante del suo nuovo collega, si limito’ a colpirlo forte nello stomaco. Cosi’ non gli avrebbe fatto danni e si sarebbe tolta la soddisfazione.

“Ooooow Lillian…”

Brent strinse i denti e fece una smorfia, ma Diciassette non aveva sentito niente e non aveva fatto una piega. Lillian si era persino fatta male al polso, la sua espressione incredula fece ridere sguaiatamente il cyborg. Se solo lei avesse visto la sua stessa faccia! 

“Brutto...ti sei messo qualche protezione?”

Le sembrava che lui fosse d’acciaio. Continuava a guardarlo con un misto di rabbia e di stupore.

“No, guarda.”

Diciassette si era brevemente sollevato la maglia, lasciandole intravedere la sua pancia perfettamente illesa. Non aveva nemmeno un segno rosso.

“Va bene, stai calmo! Non denudarti.”

Lillian si giro’ stizzita, cercando di non guardare troppo il suo fisico. Cosa che la stupi’, perche’ vedere il lupo Fenrir sulla grossa schiena di Brent non le creava nessun problema. Non piu’, almeno.

Senza preavviso, Diciassette appoggio’ la mano sulla staccionata di legno vicino a lui e Lillian; lei si ritrasse e si spavento’, mentre una pioggia di schegge e polvere si disperse nel vento. Brent fischiava e applaudiva, lei non capi’ se il marmocchio era divertito o scocciato.

“E’ cosi’ che si tira un pugno.”

Diciassette torno’ tranquillo a riempirsi di caramelle e a chiacchierare con Brent, lasciando Lillian da sola vicino a quel tratto di staccionata di legno massiccio, ora completamente a pezzi.

 

 Nonostante Lillian fosse sempre piu’ irritata, la volta in cui provo’ vera e propria gelosia doveva ancora arrivare; fu una mattina in cui era con Brent e Diciassette a fare un censimento. Stava copiando dei dati su un computer, Diciassette scrutava la linea della foresta con aria concentrata:

"Zitti un attimo."

"Zitto tu e vai a prendermi una tazza di caffe’."

Lillian non aveva voglia di litigare, per cui evito’ di esprimere i suoi pensieri.

Il ragazzo insisteva:

"Non sentite che qualcuno urla? Vado a vedere."

Mentre Diciassette correva via, Brent e Lillian rimasero in ascolto; tutto quello che udivano era lo stormire del vento fra i pini. D'impulso si lanciarono dietro al loro collega, che avevano già perso di vista. 

Dopo aver corso per dieci minuti in salita senza vederlo, fin dall'altra parte del boschetto, Lillian si ritrovo’ vicino alle cave di basalto. Erano un posto abbastanza pericoloso dove di solito non andava nessuno, a parte chi ci lavoravai. Scorse un argine crollato, nel punto in cui il sentiero costeggiava un piccolo anfratto fra le rocce ora bloccato da un grosso ramo. Poteva essere esso stesso un albero, guardando in su la ragazza vide che si era staccato da un larice secolare. Una voce acuta sembrava rimbombare da lì sotto, le venne la pelle d'oca. 

"...dimmi che non c'è un bambino lì."

"Eh sì invece." 

Brent l’aveva raggiunta e cominciò a togliere piccoli detriti con eccitazione. Era la prima volta che gli toccava un salvataggio! Così poco dopo aver cominciato a lavorare lì, era onorato.

Lillian pensava al lato pratico: dovevano chiamare qualcuno con una gru o un muletto per spostare quel ramo e quei pezzi di roccia che coprivano l'anfratto.

"...ci servono mezzi pesanti. Non so quanto ci metteranno ad arrivare qua su, da North City."

"Ma ce l'abbiamo il mezzo pesante!" 

Il vichingo indico’ Diciassette, che riapparve dal giro di perlustrazione che aveva fatto lì intorno.

Lillian lo fissava interrogativa e Brent era fiducioso: se non aveva ben capito che diavolo avesse fatto con la frana, aveva visto benissimo Diciassette sollevare una jeep. Lei l’aveva visto solo sollevare due sassi e toccare un pezzo di legno. Diciassette guardò dentro l'anfratto, un tunnel buio che scendeva abbastanza in profondita’; poté’ vedere una bambina con lunghi codini, sporca di terra e tutta in lacrime prima che un senso di paura e soffocamento lo sommerse, dal nulla. Si sentì un cavallo impazzito scalpitare nel petto e l’adrenalina lo fece balzare all’indietro. Lillian e Brent non dovevano aver notato la sua reazione, solo Diciassette noto’ il tremore irrazionale delle sue stesse membra. 

“Possiamo fare qualcosa per te?”

Lillian lo guardo’ incuriosita mentre lui si prendeva un momento per respirare. Sembrava che non volesse andare li’ dentro…

Sporgersi ancora dal bordo di quel tunnel lungo e stretto fu un’impresa per Diciassette, ma avere i suoi colleghi li’ gli diede una botta inaspettata di sicurezza:

"Sta' buona, arrivo!"

Con una mano sudata spostò il grosso tronco; poi chiuse gli occhi, si infiltró fra le rocce e riemerse qualche secondo dopo con la bambina in braccio.

"Visto? Classico Diciassette."

“Fottuto bulldozer…”

Lillian cercava di capire come avesse potuto scendere li’ sotto e poi risalire senza bisogno di arrampicarsi.

Tutto sudato e col cuore ancora impazzito, Diciassette si affrettó a capire lo stato della piccola: "Come stai?"

"Mi fa male lì."

Era ferita a una gamba, sembrava che il suo stinco fosse rotto. A corto di idee, Diciassette si slegò la sciarpa e la usò come bendaggio, meglio che poté.

Probabilmente non l'avrebbe più recuperata, ma non era importante. 

"Posso portarti?" le chiese con un sorriso.

Quando la turista che aveva inavvertitamente smarrito sua figlia la riprese da tutti e tre i moschettieri, Lillian osservo’ John guardare con ammirazione la sciarpa della mascotte intorno alla gamba ferita della piccola. Il vecchio non si chiese come l'avesse tirata fuori.

“Ed eccolo che se ne va. Il mio titolo.”

Lillian era seduta sul bordo del sentiero, contemplando la scena con gli occhi bassi. Brent la guardava, costernato di vederla triste. Anche lui era rimasto un po’ deluso dal fatto che Diciassette se ne fosse fregato di loro e avesse fatto tutto da solo, cosi’ veloce da non dare loro nemmeno il tempo di reagire o aiutare, anche se per lui quello che contava era che una persona in pericolo fosse stata assistita con successo.

Quando John fini’ di congratularsi con Diciassette, Lillian scocco’ al giovane uno sguardo assassino:

“Che guerra sia” intimo’ con voce piena di rabbia, preparandosi a tornare a Viey.

Lillian continuo’ a pensare a quell’intensa, rocambolesca settimana per giorni. Ogni volta che vedeva Diciassette, pensava: al corpo scolpito nascosto sotto le sue magliette larghe, alla forza pazzesca di cui lei aveva visto cosi’ poco, ma che era sicura facesse impallidire le sue abilita’ da campionessa olimpica. All’inizio era stata solo curiosa delle stranezze di Diciassette, non c’era stata una vera inimicizia. 

Tuttavia, ora voleva sapere ogni cosa su di lui, voleva capire come potesse essere così’. Si sentiva piena di rabbia e odiava quel ragazzo che era spuntato dal nulla e le aveva mostrato, con menefreghismo totale, di essere un tosto vero. Sembrava che non ci provasse nemmeno a farla sentire inferiore. Gli veniva naturale.

Improvvisamente Lillian seppe che lei non era poi cosi’ straordinaria come credeva.

Lillian era una vincente, aveva sempre schiacciato la competizione in qualsiasi sfida la vita le aveva proposto: la sua forza di volonta’ l’aveva fatta vincere contro una madre oppressiva e la sua forza fisica l’aveva fatta primeggiare nello sport e nel lavoro, corroborando il suo mito.

Eppure i salvataggi che lei aveva fatto da sola durante la sua carriera si contavano sulle dita di una mano, in piu’ la maggior parte erano stati andare a prendere gente impaurita che era salita troppo in alto con il brutto tempo. Ai suoi occhi, Diciassette era stato piu’ rilevante in qualche giorno di lei in due anni.

Fu quella volta in cui il marmocchio odioso effettuo’ in pochi minuti un soccorso delicatissimo che Lillian capi’ definitivamente che non solo Diciassette era una gran minaccia per lei e la sua autostima, ma lei che non poteva assolutamente competere con lui. 




 

Pensieri dell’autrice:

Buona domenica a tutti! Questa settimana pubblico di domenica aniche' di lnedi', perche' so che domani non avro' tempo. Vivo con un tiranno di due anni e mezzo che dispone del mio tempo libero piu' di quanto faccia io! Siamo arrivati alla fine di un altro capitolo “Lapis-centrico”, adoro questo neologismo che la mia lettrice Karen ha coniato! Il prossimo vedra’ di nuovo le avventura di Lazuli e Crilin.

Qui, Carly non ne ha idea che il suo amato Lapis ora lavora nel RNP, ma ha finalmente trovato la forza di confessare a Leni cosa la tormenta.
Qui ho narrato di come mi immagino io l'assunzione di Lapis nel Royal Nature Park. Il discorso di John e' ispirato a quello che i miei amici ranger in Valle mi hanno detto nel corso degli anni, specialmente quando ero piccola!

Per il monumento che Brent studia mi sono ispirata a Stonehenge, un sito storico famosissimo qui nel sud del Regno Unito. Per il tatuaggio sulla schiena di Brent, che avevo gia’ menzionato, mi immagino Fenrir, un lupo della mitologia norrena figlio del dio Loki (il cui nome sara’ familiare a chi piace la mitologia...o la Marvel!). Il sollevamento delle pietre e' uno "sport" che si fa veramente nelle isole britanniche e nel nord Europa, soprattutto nelle gare di forza e nelle competizioni come lo "Strongman". Ne approfitto anche per annunciare a chi segue le avventure della giovane Kate in "Muted" che ho appena aggiornato!

Spero che queste note siano state utili! Un abbraccio e un grazie a tutti.

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Capitolo 19
*** Una linea rossa solitaria e linee sottili ***


"Allora, monachello, cosa ne pensi di questa composizione?"
"Secondo la teoria del colore, anche se le tonalità scelte dall'artista sembrano a caso, in realtà sono armoniche fra di loro. Quel vinaccia, scuro e freddo. Quel blu, scuro e freddo. E via discorrendo."
Crilin aveva studiato!
Meno male, Diciotto sarebbe rimasta frustrata se lui non avesse apprezzato: l’aveva trascinato dalla Kame House fino a West City per un’uscita insolita, quella mostra che esibiva i lavori dei pittori più celebri del momento. Ora, guardando insieme quel quadro dipinto a minuscoli tocchi di pennello, Diciotto non poteva che dargli ragione.
Si stavano godendo quella mostra passando da quadro a quadro mano nella mano, i tacchi delle chanel di Diciotto che risuonavano sul parquet del museo.
Certo, stare con un uomo basso non le impediva di mettersi le scarpe che le piacevano. Non capiva perché la gente dava per scontato che Crilin si sarebbe offeso.
Sembrava che adesso Crilin si divertisse ad osservare i colori come faceva lei. Da quando erano insieme si vestiva anche molto meglio, la maglia rossa che portava gli faceva molta più giustizia di quel suo vecchio gi arancio e blu.
"Interessarmi a ciò che piace a te non è un peso. Ma tanto so che ce l'hai ancora su con me."
"É esatto."
Lui andava sempre molto lontano per impressionarla, così lontano da non dirle nemmeno di no. Diciotto aveva già passato quattro bei mesi con Crilin: lui era dolce, era buono, era divertente. Era anche compiacente.
Troppo compiacente.
“Sai cosa, Cril? Mi chiedo come sia possibile che tu sia sempre d’accordo con me. Non mi contraddici mai, non sia mai che tu abbia da ridere sulle mie decisioni; anzi, non hai mai deciso niente perchè ti va sempre bene quello che penso io. Non è strano?”
“Ma Diciotto...sei la mia anima gemella e mi impegno per fare andar bene le cose, è normale che siamo in sintonia.”
“Essere in sintonia non vuol dire non avere idee proprie, non voler mai confrontarsi e discutere!”
Erano alla Kame House. Entrambi sapevano che sicuramente il Genio, Yamcha, forse anche Puar e Oolong stavano origliando fuori dalla porta della camera di Crilin; ma nessuno aveva la pazienza di arrabbiarsi con loro.
“Ti dà fastidio che io sia troppo buono?”
Crilin era un uomo buono, dal cuore puro; quella sua purezza era ciò che Diciotto amava di più in lui. Ma stava iniziando a riconoscere un andamento che le era già noto:
“Crilin...io ti amo per la tua bontà. Devi credermi quando dico che voglio stare con te, non provare a darmi della bugiarda! E non dirmi che non stai evitando di litigare con me, di contraddirmi e di esprimere la tua opinione per non fare passi falsi...per paura che io ti lasci. Perchè tu non sarai mai abbastanza per me, vero?
Io sono troppo e quindi per evitare che un altro piu’ bello di te mi conquisti tu devi compensare comportandoti da bravo schiavetto docile. Vero?”
Crilin si era seduto sul letto, col viso fra le mani: “E’ cosi’.”
Lui aveva paura di una competizione che lei considerava inesistente, sapeva come andavano le cose: uno come lui poteva metterci un millisecondo per perdere una come Diciotto. Era meglio non rischiare.
Ed evitando a tutti i costi di far infuriare Diciotto, aveva finito per farlo succedere. Era la prima volta che lui la vedeva rossa di stizza; lei era sempre stata calma, anche nei momenti più emotivi riusciva a mantenere una mente fredda. Non riusciva a vederla così ora, gli ricordava quando l’aveva vista terrorizzata prima che Cell la prendesse.
“Ma io voglio il vero te, il guerriero! Non uno straccio dei piedi.”
Non era quel tipo di donna. Non piu’, non con Crilin!
Diciotto l’aveva travolto con le sue domande: tutte le volte in cui avevano deciso cosa guardare in tele, dove uscire, le volte in cui lei gli aveva chiesto se stava bene con certi outfit, lui aveva risposto senza sincerità?
A volte si’, a volte no.
“Dimmi una sola cosa, Crilin. Quando siamo tornati qui dopo il desiderio e abbiamo parlato di quella cosa…”
Il Genio e Yamcha erano sull’attenti, dietro la porta:
“Quale cosa?”
“Shhh! Zitto, Yamcha! Fammi sentire.”
“Quando ti ho chiesto se vorresti fare un figlio con me, se volevi provare...non era un vero si’?”
Nella camera era sceso il silenzio. Gli impiccioni si erano guardati con occhi fuori dalle orbite:
“Un figlio? Ma lei non e’...”
“No, Yamcha, non e’ fatta di metallo.”
“E tu come lo sai?”
“Quella carne non e’ finta: guardala meglio quando salta e corre.”
Crilin si era commosso dalla gioia quando Diciotto gli aveva fatto quella domanda. Non solo era il suo modo di dire che vedeva tutto un futuro davanti a loro, ma era persino venuto da lei. Sarebbero stati una famiglia, un giorno…
Il fatto che fossero insieme da così’ poco non era rilevante né per uno né per l’altra, tutti e due sapevano di aver trovato la persona con cui condividere il resto della propria vita.
Il primo tentativo non era andato come volevano e Diciotto era stata assalita dalla fobia improvvisa che Gero le avesse tolto quella possibilità:
“Quando abbiamo visto quella misera, singola linea rossa tu eri davvero tanto deluso quanto me? Mi hai consolata perché’ davvero ti dispiaceva o era tutta scena?”
“Oh no...adesso dispiace anche a me.”
Yamcha sussurrava al Genio, con l’orecchio ancora appiccicato alla porta.
“Diciotto, io voglio tantissimo una famiglia con te. Davvero tanto. Continueremo a provare, non scoraggiarti. Tante coppie devono tentare per un po’.”
Il morale di Diciotto era a terra su quella questione. Di solito non pensava che un giorno avrebbe voluto diventare madre e anche quando ci pensava, lo vedeva come un progetto da attuare molto più tardi. Si era scoperta invece ansiosa e desiderosa.
Lei e Crilin ci stavano sempre provando, ma la cyborg aveva deciso di non pensarci nemmeno più: sapeva che Crilin aveva ragione, gli esperti consideravano normale metterci anche più di sei mesi, ma lei preferiva pensare ostinatamente che non poteva concepire e basta. E andando avanti a pensarlo ogni giorno, se ne convinse.
Ora, lì a West City davanti alle tele Crilin le circondò la vita e le posò la testa sul seno:
“Noi due ci amiamo tanto, ma siamo pur sempre una coppia giovane: a volte dobbiamo ancora imparare a conoscerci. Io voglio fidarmi di te, io mi fido di te! Il problema sono io...Quello che succede è che a volte i vecchi istinti ritornano, ho provato dispiacere tante volte con altre.”
“Io non sono altre.”
Si stavano abbracciando stretti, quando Diciotto fu infastidita dal cellulare che vibrava nella sua pochette:
Ancora mia madre...che rogna, ho già ignorato la chiamata tre volte! Che c'è, Kat? No, non ho idea di dove si sia cacciato, te l’ho detto. Come faccio a saperlo, non ho un radar! Se e’ per il tipo chiamami stasera, ok? Ciao.”
“Che succede, amore?”
“Niente, mio fratello ha piantato lì mia madre e lei ora è inviperita. Non te la raccomando..."
Crilin, che si ricordava bene di Kate Lang, le sorrise con tenerezza:
"Tua mamma ti fa sempre paura?"
"Scherzi? Da piccola sì, quando è arrabbiata sa dare certe occhiatacce... Ora, per Diciassette, sono cazzi suoi quando lei riuscirà a ripescarlo.”
 
~
 
Carly sedeva con Louisa in un bar non lontano dalla sua clinica, a Verny, l'ex capitale del Nord che giaceva interamente nei confini del RNP. Era contenta di lavorare lì perché preferiva Verny a North City, era come Carly si era sempre immaginata una città di montagna: un posto più idilliaco, con poco cemento.
Aveva sentito dire da Brent che era stato l'ultimo Re a far costruire una città nuova, più grande e moderna. L'aveva chiamata North City e da un giorno all'altro era diventata una delle città più importanti del mondo. Le mancava, però, lo spirito vissuto della vecchia capitale: a North City non c'erano strade di porfido e quei piccoli bar pittoreschi erano rari, si trovavano quasi solo franchising.
Carly non aveva avuto molte occasioni di incrociare la moglie di John ma essendo lei una zoologa veterana, la ragazza la vedeva naturalmente come una persona interessante da cui poteva imparare. Era da tempo che non si facevano una lunga chiacchierata
“Hai mai pensato di diventare zoologa anche tu, Der Veer?”
“Non proprio. Come mai?”
“Hai la testa da studiosa, Leni mi dice che sei un’eccellente ricercatrice.”
Carly sbuffò; era ancora furiosa con Leni, dopo che lei le aveva fatto la descrizione di Lapis con precisione sconcertante. Leni era stata la prima persona a cui Carly aveva confidato il suo dolore, quello era stato un colpo basso senza motivo:
“Leni, la signora delle scartoffie? Che ne sa lei, la lasci perdere.”
“Sì, ma se permetti io conosco il mestiere e ho voce in capitolo. Se mai ti stufassi di fare la veterinaria, vieni  pure da me.”
Louisa era colei che dirigeva i lavori di tutti i veterinari e zoologi del parco, sia quelli nella stessa posizione di Carly (stagisti, tirocinanti) che quelli ufficiali a tempo pieno. Proprio lei aveva insegnato a Carly che il Nord non era un posto così idilliaco come appariva; Carly era rimasta turbata quando aveva saputo che in tutta la regione, eccetto dentro al RNP, la caccia al lupo era una pratica non solo diffusa ma anche incoraggiata con ogni mezzo disponibile.
“Ma povere bestie! Dovranno pur mangiare anche loro. Avranno fame in inverno...”
“Ragazza mia, ringrazia i bracconieri: hanno spinto la nostra antilope di montagna quasi all’estinzione e da una ventina d’anni i lupi sono in sovrannumero: hanno iniziato a prendersi mucche, pecore, cavalli, cani, gatti. Bambini, a volte.”
Lì e in un’altra regione settentrionale, gli Yunzabei Heights, la gente arrivava persino a sparare ai branchi di lupi con gli aerei. I bracconieri avevano cacciato per anni la preda naturale dei lupi, volendo impossessarsi del suo attributo più esotico: a differenza delle altre antilopi quelle di montagna avevano un solo corno, di colore azzurrino verso la punta. I bracconieri vendevano questi corni per somme esagerate, anche migliaia di zeni. Louisa collaborava col governatore del Nord proprio su strategie di contenimento:
“Si deve anche stare attenti a non ucciderne troppi, però, altrimenti si rischia il sovrannumero di altre specie da loro predate.”
Era complicato mantenere l’equilibrio nel mondo: fra persone e persone, fra persone e animali. Carly non ci aveva mai pensato. Dopo quella discussione interessante con Louisa aveva preso a odiare i bracconieri ancora di più e quasi a invidiare Lillian, che aveva persino il permesso di sparare loro se serviva.
Ma Lillian in quei giorni non sembrava avere lo spirito per sparare a niente. Era molto demoralizzata, a volte tornava a casa e si sdraiava sul divano, altre si metteva quasi a piangere.
Quando verso le quattro Carly risalì a Viey era già quasi notte, ma trovo’ Lillian seduta sulla panchina fuori da casa loro, con aria abbattuta.
"Lillian, parla con me. Dimmi cosa non va."
Appena Carly si sedette, la ranger si appoggiò alla sua spalla con la testa facendo scivolare la sua fascia azzurra:
"Carlona...John mi ha affibbiato uno nuovo, un altro; devo tenermelo appresso, stargli dietro, fare la cazzo di babysitter. Sono stanca."
"Stanca, tu?"
Carly si sforzò di mostrarsi entusiasta, dando per scontato che Lillian l'iperattiva parlasse per iperboli. Non riusciva a prenderla sul serio.
"Guarda che anche io ho un limite. Per di più Brent non mantiene il ritmo, e’ uno svampito."
Il sarto part-time si lamentava sempre quando c'era lavoro scomodo da fare e sembrava pensare ai suoi raduni vichingheschi più di quanto dovesse; Lillian non riusciva ancora a capire come potesse essere ranger, con quello spirito.
"Noi non abbiamo il lusso di star lì con le mani in mano come Leni. È così dura ottenere un posto qui e a chi lo danno, a Brent."
Per quello che Carly ne sapeva Brent, il tizio con la barba che anche lei aveva incontrato era un ottimo divulgatore di storia; che importava se pensava comunque ai suoi hobby?
 "Magari lui è l'elemento comico."
"Sì, almeno fa ridere. L'altro è peggio di me, e sono io a dirlo!"
Carly si mise a ridere al pensiero di Lillian che si stancava a stare dietro a qualcuno della sua stessa specie.
“Beh dai, finché non è quello della frana…”
“Tesoro...E’ quello della frana! Non te l’avevo detto?”
“È vero che ha occhi azzurro ghiaccio?”
Carly ammutolì, rendendosi conto che ormai quelle parole le erano scappate.
“Yep. Perchè?”
Smettendo di aspettarsi una risposta dalla cupcake, Lillian si soffiò sulle mani arrossate dalla sera pungente e guardò in basso, scuotendo la testa:
"Se non sto attenta mi frega il lavoro da sotto il naso. Non crederesti quanti soldi gli ha dato John per fargli firmare quello stupido contratto. Cioè state calmi, dai!"
Lillian era parecchio suscettibile: sembrava punta nel vivo, nell'orgoglio. Si mise in disparte con il broncio, mormorando insulti.
Per lei, top ranger non era solo un titolo: lei faceva sempre del suo meglio e voleva essere rispettata per quello.
“È dai tempi del liceo che mi faccio un culo così, avevo già puntato questo posto e questa carriera. E ora arriva quel fenomeno che si prenderà di sicuro tutto il riconoscimento perchè mi frega lavori che dovrei fare io. Al diavolo!"
“Lillian...se al mondo esiste qualcuno di piu’ bravo di te non vuole automaticamente dire che tu non vali niente. Cerca di essere oggettiva.”
A Carly dispiaceva vedere la sua migliore amica così turbata; se non avesse saputo che lei non avrebbe gradito, sarebbe andata di persona a bussare alla porta di quell'aspirante top ranger per dirgliene quattro.
Lillian si lasciò cadere all'indietro :
"Sai la tradizione di far fare ai nuovi arrivati cose imbarazzanti, come ho fatto con Brent? Ho detto a Diciassette -dimmi tu che razza di nome è- di togliere le processionarie dal boschetto sopra a Saint-Paul, senza dargli protezioni.”
Le bestiacce proliferavano in autunno riempiendo i pini di bruchi urticanti; erano nocive per gli alberi stessi e anche per la gente e per mammiferi come linci e cervi, ma visto che da settembre al Nord poteva iniziare a nevicare da un momento all’altro i ranger di solito non dovevano intervenire, il gelo le uccideva.
Carly le riservò uno sguardo insolitamente duro:
“Lillian? Quelle sono pericolose!”
“Ma infatti doveva essere una sfida da declinare.”
La top ranger contava sul fatto che il marmocchio non lo facesse per davvero. Invece le aveva tolte tutte, larve, uova e adulti. Lillian non voleva neanche sapere quale stregoneria avesse fatto.
"Guarda che le processionarie possono fare molto male."
Il giorno dopo Diciassette si era presentato al lavoro fresco come una rosa, senza nemmeno bolli sulle mani. John l'aveva lodato come esempio di zelo ed efficienza.
"Male, a quello lì? Guarda, è una roba da farsi venire il mal di testa, tu non ne hai idea: a volte penso che se un carro armato gli passasse sopra, sarebbe il carro armato a farsi male."
Giorno dopo giorno, Lillian sparlava così tanto di questo Diciassette che per la sua coinquilina era diventata quasi divertente.
Avendola sentita anche da Lillian, ormai Carly credeva alla storia della frana; e agli altri aneddoti sulla forza prodigiosa di Diciassette che la sua amica le raccontava, nel suo bisogno disperato di catarsi.
E quando raccontava, Lillian si preoccupava nel vedere Carly sorridere tra sé e sé:
"Che c'è?"
"Niente. E’ sexy."
"La mia nemesi è sexy??"
"...no. La forza, la focosità, l'iniziativa."
Lillian non credeva allo stereotipo secondo cui le rosse dovevano essere delle pervertite vogliose ma Carly se la rideva, ammettendo di non essere la persona migliore per negarlo.
Come per ogni cosa che faceva, Lillian tutta la sua energia nel detestare il suo collega, e  Carly aveva i suoi dubbi:
"Ci metti così tanta foga nello sparlare di quel tipo, non è che ti piace? Sei ossessionata."
Lillian era solo frustrata; anche se confessò che almeno quanto a puro aspetto fisico, il marmocchio non era un disastro totale.
"Avevo capito che ti piacesse ancora Joel."
"Certo che lui mi piace sempre. Cioè, guardalo!"
 
 Sul lavoro, Lillian era troppo impegnata per pensare alla sua rivalità con Diciassette. Ormai novembre era alle porte e bisognava vigilare attentamente i sentieri e le murature, a causa delle tempeste che si abbattevano sul RNP con più forza nella stagione che precedeva le grandi nevicate. E quando la neve sarebbe caduta, tutti i ranger addetti al mantenimento dell'ordine sarebbero stati in guardia per valanghe e slavine.
Brent faceva da cuscinetto fra lei e la mascotte. Sembrava che il vichingo volesse passare con loro tutto il tempo che poteva e quando c'era Brent Diciassette non le sembrava così malvagio: rideva spesso e forte, anziché lanciarle frecciatine caustiche. Brent prendeva come oro colato tutto quello che il marmocchio gli diceva, soprattutto quando lo supplicava di allenarlo.
"Non ci posso fare niente."
"E impegnati, Sev! Non è sempre solo questione di forza."
Brent, sempre a torso nudo, si era messo in posizione per colpire Diciassette. Lillian era rimasta in piedi a guardarli mentre Diciassette si bendava.
"Uno, due, tre" Brent sorrise, caricando il colpo e vedendo che il suo avversario si era già spostato. Erroneamente, verso di lui "...quattro!"
Il suo pugno era finito in niente:  sempre bendato, Diciassette l'aveva afferrato per il colletto e ora lo teneva sollevato dal suolo.
"...ma come hai fatto, stavo facendo un finta! Mi metti giù?"
Lillian volle ridere, ma batté nervosamente le mani:
"Ok, manicomio! Se avete finito, mi accompagnereste a pattugliare l'area picnic là dietro?"
Lillian passeggiava tranquilla fra i boschi, con Brent e Diciassette che cercavano di camminare mettendo lo stesso piede davanti senza provare a nascondersi da lei:
"Come all'asilo…"
Quando raggiunsero una soleggiata area picnic, i ranger videro tre persone raccolte intorno al barbecue. Brent scorse quelli che dovevano essere quarti di un qualche animale arrostito:
"Ehi voi! Qui non si può cacciare!"
Delle specie di grandi bastoni bianchi e azzurrini spuntavano da una grossa borsa di plastica riposta nel bagagliaio aperto di un fuoristrada. Sangue colava dalla zip aperta.
Diciassette era in guardia. Sotto quello persistente del barbecue e del sangue delle antilopi di montagna uccise, sentiva odore di polvere da sparo.
Lillian notò che era zitto e sull'attenti.
"Coraggio, venite con noi. Su."
La ragazza afferrò la sola donna del gruppetto e la fece camminare davanti a sé.
Gli uomini rimasero indietro. Nel momento in cui Brent si avviò ad acciuffarli, Diciassette vide tutto al rallentatore; prima che Brent facesse in tempo a raggiungere i due bracconieri rimasti una specie di raffica fortissima lo investì, sollevandolo e gettandolo in un vicino cespuglio che lo inghiottì, facendolo sparire dalla visuale di chiunque si trovasse lì.
Tutto accadde nello spazio di qualche minuto.
Prima che la donna in piedi davanti a Lillian potesse trarre la sua pistola dallo stivale per sparare alla ragazza, si ritrovò il terzo ranger di fronte. Lui la spinse via violentemente, forse troppo, ma prima di sbattere contro un albero lei riuscì comunque a sparare un colpo, proprio quando anche uno degli uomini caricava il fucile. Al rumore dello sparo si unì il gemito di Lillian: colpita alla spalla, rovinò all'indietro su un tavolo da picnic. I due uomini cominciarono a sparare.
Diciassette si buttò su di lei e usò il suo corpo come scudo, coprendola completamente.
Ferita, confusa e schiacciata sotto Diciassette, Lillian udiva gli spari ma non capiva come mai nessun altro proiettile li stesse colpendo. Le sembrò di osservare i dintorni attraverso una specie di filtro verde.
Dall'altro lato del campo di battaglia anche chi sparava era confuso: i loro proiettili non avevano trapassato il corpo del ragazzo, il loro nuovo bersaglio. Ora si infrangevano contro una specie di cupola di vetro verde emettendo scintille come pietre focaie che si sfregano.
Prima che ci fosse il tempo di inserire nuove cartucce nei fucili Diciassette si assicurò che Lillian non stesse guardando, prese in prestito la sua arma e più veloce di un fulmine miró alle caviglie del duo. Gli uomini caddero senza ancora capire che erano stati colpiti.
Il cyborg corse a sollevare la donna che aveva sbattuto contro un pino; nel vedere il modo in cui la sua testa ciondolava imprecó fra i denti.
A volte Diciassette faticava a relativizzare.
Era un passo che testimoniava della crescita, quello che era successo con Cell era stato una lezione e lui si era stancato di prendersi in giro: non erano molti, ma di guerrieri più forti di lui ce n'erano. Vegeta, Son Goku, Son Gohan, lo stesso Sedici lo superavano. Per questo, pensando che loro erano piú forti, Diciassette si dimenticava spesso di quanto lui fosse comunque letale. Fin quando non accadevano incidenti come quello: aveva spintonato quella donna troppo forte perché lei sopravvivesse all'impatto. Era morta sul colpo.
"Appunto mentale per la prossima volta: non lanciare umani basic. Si rompono."
Il tempo dei casini era finito. Forse gli toccava davvero maturare: aveva un lavoro ora, proteggere, mantenere l'ordine. Ormai non poteva più ammazzare come gli pareva.
Come aveva fatto con il Commando Magenta, il cyborg incenerí discretamente l'unica prova della sua disattenzione.
Lillian ansimava con la faccia contro il tavolo di legno; le foglie di pungitopo si erano infilate ovunque addosso a Brent. Era stato sfortunato, proprio lì aveva dovuto cadere?
Si era perso tutta l'azione: ritornando nell'area picnic vide due bracconieri, anche se aveva creduto che inizialmente fossero tre. Strisciavano al suolo nel tentativo di spostarsi, gemendo per il dolore.
Vide Lillian distesa su un tavolo insanguinato e Diciassette che correva ad assisterla.
"Di...Sev, aiuto..."
Anche Brent accorse al tavolo. Anche se non ebbe tempo per porsi certe domande, vide che i vestiti del suo collega erano puntellati sulla schiena e sulle gambe ma che la pelle al di sotto era intonsa.
"Mi fa male!!"
"Non agitarti, ci penso io."
"Siamo a posto...Non spingere così! Ah!"
"Così ti faccio male?"
Diciassette prese Lillian in braccio, attento a non toccare la ferita.
"Raga…"
Forse era lo stress, ma a Brent scappò una risatina nell'udire i suoi colleghi scambiarsi una serie di doppi sensi.
"Non sto morendo, ti ho sentito! Smettila."
Lillian guardò il vichingo con cipiglio e poi urló ancora, tenendosi la spalla ferita.
Passando con Lillian in braccio Diciassette parlò piano, con aria grave:
"Lega quei due e portali giù dalla polizia. Dovrai infilarli tu nella jeep, li ho colpiti ai tendini e non si possono muovere. Ci vediamo."
Brent l'osservó correre via con Lillian e mentre andava a prendere la macchina chiamó un'ambulanza, e anche John.
Quando Diciassette uscì dalla foresta, tanta gente era lì a guardare. Un'ambulanza arrivò di lì a poco, a sirene spiegate.
John sopraggiunse con uno sguardo smarrito. Lillian si lamentava flebilmente, Diciassette la passò ai paramedici e li seguì nell'ambulanza:
"Vado io con lei."
Il vecchio ranger tenne la mano della sua apprendista e posò brevemente quella libera sulla spalla dell'altro, con gratitudine:
"Va bene, ma devo venire anche io."
Gli faceva male vedere Lillian soffrire. L'ambulanza partì prima che Brent facesse in tempo ad arrivare a valle con la jeep dei bracconieri. Quando i delinquenti feriti furono consegnati in fretta a un piccolo ambulatorio locale lui si sedette lí fuori e inizió ad annotare l'esperienza confusa che aveva appena vissuto.
“Pero’...che strano che quel vento forte mi ha spinto via proprio mentre quelli stavano per sparare…”
Sentì il rumore di un'altra macchina che parcheggiava, alzò lo sguardo e vide quella che doveva essere l'amica di Lillian, la veterinaria carina dai capelli rossi. Correva tutta trafelata verso di lui.
"Cos'è successo? Lillian, dov'è?"
"Tre...no, due bracconieri ci hanno attaccati con fucili da caccia."
Quando le spiegò cos'era accaduto, la ragazza si morse le unghie.
"É la mia migliore amica..."
Lei parlava in un sospiro, accettando la verità nelle sue stesse parole mentre qualche lacrima rotolava sulla sua guancia.
Istintivamente Brent le prese la mano e le sorrise:
"Non preoccuparti, Charley."
"Carly."
"Durante l'incidente abbiamo fatto squadra, Lillian non è mai stata sola. E poi con noi avevamo Sev, il nostro collega tosto, é tipo il tizio più tosto di sempre e si è praticamente buttato tra Lilli e i proiettili."
La ragazza si portò una mano alla fronte, mormorando un mio dio:
"E come stanno?"
"Lilli è in buone mani, ha solo una ferita superficiale. Diciassette, vivo, bene...É andato con John in ambulanza."
Il suo telefono suonò e il vichingo lesse con gioia un messaggio di John. Lillian era appena entrata in sala operatoria:
"Non è grave! Le stanno togliendo il proiettile ora, anestesia locale. John ha detto di non raggiungerli, torneranno con Lillian stasera o domani mattina."
La veterinaria sembrava ancora in subbuglio. A lui dispiaceva di non poterla tranquillizzare:
"Oh, Carly: mamma lumaca prepara la figlia per andare a scuola, e le dice…?"
"Vai piano?"
"...mi raccomando, fai la bava!"
 
 L'operazione di Lillian era durata poco più che un quarto d'ora. Il proiettile si era conficcato in profondità nel muscolo della sua spalla, lacerandolo, ma lasciando integre le ossa. Era una buona notizia.
John e Diciassette la ritrovarono distesa sul letto con una flebo che gocciolava nel suo braccio.
"Qualcuno di voi due vuole spiegarmi decentemente cos'è successo? Ho capito che c'erano due bracconieri."
Tre, corresse Lillian; due, ribatté il cyborg.
John fissò intensamente il giovane ranger:
"Quindi tu hai fatto da scudo umano a Lillian. Non ti chiedo nemmeno come…"
"Infatti, non indagare."
"E hai usato il fucile di Lillian per sparare ai bracconieri?"
"Certo. Non per ammazzare, ma se tagli i tendini non possono stare in piedi e dar noie."
John era furioso. Oltre che interrogare il ragazzo sulle sue evidenti abilità di tiratore, diceva che Leni dopotutto aveva ragione: Diciassette era troppo una testa calda per mettergli in mano un'arma, nonostante avesse fatto i test e fosse idoneo. Se però poi si prendeva quella della collega…
Lillian avrebbe dovuto godere vedendo il capo punire il suo rivale, effettivamente colpevole di un'infrazione. Ma improvvisamente quelle regole le parvero senza significato e si agitò:
"John per favore, lascialo stare. Mi ha salvato la vita, puoi lasciar correre?"
Il vecchio sostenne lo sguardo di Lillian. Sapeva che se Diciassette non fosse stato lì, lei sarebbe stata uccisa. Quei farabutti si stavano portando via anche un paio di antilopi, una la stavano arrostendo! Non era Diciassette quello che meritava una punizione, alla fine.
"Va bene, solo perché hai salvato lei. Ti terrò d'occhio."
Diciassette si era seduto sul letto e Lillian lo poncionò per invitarlo a ringraziare il capo.
Lillian pregò John di non avvertire sua madre dell'incidente: meno loro due si vedevano, meglio era.
Lillian sosteneva che quella donna sarebbe stata capace di denunciare tutto il RNP per aver permesso che lei si facesse male, anziché ringraziare lui e Diciassette per il loro aiuto. Il resto, anche se se l'era vista brutta e per un momento aveva pensato di morire, faceva parte del mestiere.
"...mia madre! Mi presti il tuo cellulare?"
Diciassette si ricordò all'improvviso che era quasi un mese che Kate non aveva sue notizie. Lui non era mai tornato a casa dopo il raid negli Yunzabei Heights. Kate doveva essere arrabbiata.
"Certo che sei un elemento, potevi tornare a salutarla...Se fossi mio figlio, ti avrei fatto fuori tempo fa."
"Tranquilla, penso di averla tentata molte volte."
La linea suonava a vuoto; Diciassette era un po' in ansia.
"Non ti ho ancora chiesto da dove vieni? Centro, vero? Hai lo stesso accento della mia migliore amica."
Dall'altra parte della linea Kate rispose quasi insultandolo.
No non era sparito, aveva per caso trovato un lavoro. , gli piaceva fare il guardiaparco al Nord. Non viveva in una casa pittoresca di legno e pietra ma in una palazzina normale, condivideva un appartamento a tre camere con due colleghi. Eh già, doveva ricomprarsi un altro cellulare perché non aveva voglia di tornare a casa.
Sistemata la questione mamma Diciassette stette a chiacchierare con Lillian. Senza ironia questa volta. Riuscirono a discutere civilmente, o quasi.
"Posso chiederti una cosa? Devo."
Lillian si preparò al peggio:
"Sì, spara."
"I tuoi capelli sono rossi ma le tue sopracciglia sono marrone chiaro."
"Si dice castano chiaro."
"Quindi qual é il colore finto? Perché uno dei due è finto, non ho dubbi. Super finto."
“E basta, ho capito!”
Tutto lì? Il segreto era che si tingeva i capelli ogni due settimane, con henné rosso freddo. Che scoppiato, sembrava essersi messo il cuore in pace ora che lei gli aveva svelato l’arcano. Lillian guardò i suoi canini particolarmente affilati:
"E quelle mini zanne sono le tue? Sai, visto che andava di moda rifarsi i denti stile vampiro qualche anno fa…"
La gente faceva quello, sul serio?
Lillian si aspettava che lui le dicesse di essere un quarto squalo o qualcosa del genere, ma forse quella volta ricevette una risposta onesta e anche decente:
"Ah, le mie mini zanne...Niente chirurgia plastica, è quello che la natura mi ha dato."
"Vieni qua Sev."
Quando Diciassette si spostò più vicino alla testiera del letto, lei gli mise le braccia al collo; a entrambi faceva abbastanza comodo starsi antipatici, tuttavia quella volta Lillian e Diciassette seppero che per un momento c’era una specie di scintilla, qualcosa di intangibile.
Favorendo un consenso implicito, lui reagì alla provocazione e la serrò in un abbraccio. Chiusero gli occhi e si scambiarono un bacio a stampo, seguito da altri a labbra schiuse.
Smisero solo quando lui iniziò a sghignazzare. Lillian iniziava a rendersi conto che le cose fra loro due avevano del potenziale per diventare ancora più scomode e imbarazzanti:
 “Cazzo. Per te è tutto così divertente, vero?”
“No ma tu sei strana, che ti prende? Dimmi qualcosa di romantico ora, già che ci sei."
"E a te che ti prende, eh?"
Il romanticismo non era la carta vincente di Lillian, perciò non esitò a dire a sua volta qualcosa di onesto: "...penso che mi piaccia il sapore della tua saliva."
"...Aiuto, non esagerare: sento le farfalle!"
Lillian si sentì offesa dalla sua smorfia mezza divertita e mezza spiazzata: Diciassette non era di certo nella posizione per prenderla in giro. Lo guardò mentre sorrideva sornione e si ravviava i capelli.
Lillian non capiva cosa cavolo fosse successo e non sapeva come sentirsi. Optò per la reazione più sicura, l'indifferenza da zitella acida:
"Senti, facciamo finta di niente, ci mancherebbe che ci pensi quando mi tocca vederti al lavoro. Ora che hai sfogato i tuoi istinti animali da maschio, sparisci di qui."
Per i suoi istinti, invece, lei poteva sempre incolpare i fumi dell'anestesia. Quella era una giornata da dimenticare; fra i bracconieri, il proiettile e il fatto che il marmocchio sapeva baciare era meglio stendere un velo pietoso.
"Se questo per te è sfogare…"
"Va', Sev."
Mentre Diciassette usciva, un'infermiera corse con urgenza nella stanza di Lillian. Era preoccupata, aveva ricevuto una notifica dal macchinario legato al dito della paziente: il suo battito cardiaco era salito all’improvviso, se non fosse sceso i dottori l’avrebbero sicuramente tenuta in ospedale per la notte.
 
~
 Un altro fatidico sabato era arrivato. Kate si trovava in difficoltà questa volta, era il terzo appuntamento e aveva proprio intenzione di farsi bella.
Per gli altri due non aveva dato molto peso alla cosa, aveva incontrato il buon Ronan nel suo solito look da lavoro: business chic, lo chiamava Lazuli. Visto che la patita di moda era lei, Kate la prendeva in parola. Al telefono la aveva detto che questa volta avrebbe dovuto osare del chic e basta.
Durante il primo appuntamento lei aveva voluto mantenere apertura mentale verso Ronan, ma aveva subito dichiarato che era molto impegnata con la sua rete di centri antiviolenza.
"Io sono reduce da una relazione durata otto anni e ora sono uno scapolone. Tu hai figli, se ricordo bene."
Ronan camminava di fianco a lei, nei giardini botanici di Central City. Avvezza a quel tipo di conversazione, Kate gli aveva risposto quasi automaticamente:
"Si’, un maschio e una femmina di ventun anni. Gemelli."
Anche se non aveva mai dipeso da loro per le sue scelte amorose, per lei contavano più di qualsiasi ammiratore.
"Sì, ora ricordo la storia. È incredibile...Dunque, spero che un giorno potrò incontrarli."
"Sicuro di volerti impegolare con il drago a due teste?"
Così aveva sempre chiamato i gemelli quando l’avevano fatta arrabbiare.
Kate non aveva paura di invecchiare: non mentiva sui suoi quarantasei anni compiuti da poco e gli occasionali capelli bianchi non le davano fastidio, ma ora che voleva farsi bella per un uomo era consapevole di non essere più al suo apogeo.
E se Ronan l'avesse trovata vecchia, appassita?
"Sei ancora più che guardabile, cara mia. Decisamente non puoi lamentarti. Invecchiando ti sei solo un po' indurita, anziché aver avuto un crollo del collagene; che male c'è a sfoggiare i tuoi zigomi killer?"
Al secondo appuntamento Ronan le aveva detto che i fili argentati fra i suoi capelli scuri sembravano stelle cadenti, era la cosa più romantica che Kate avesse sentito  negli ultimi vent'anni. Ronan capiva le sue insicurezze:
"Kate, ho quarantatre anni e mi troverei bene con qualcuno che ha già vissuto un po'. Non tutti gli uomini vogliono pollastrelle di prima penna."
Ronan non era un adone: era alto e un po' in sovrappeso, con un mento debole e tratti più delicati di quelli di Kate. Gli occhi verdi e innocenti erano ingranditi da occhiali quadrati dalla montatura spessa, un omaggio al suo regista preferito. Era un amante del cinema da sempre ma aveva preferito lanciarsi nella produzione di podcast quando ancora lavorava come talent scout.
La faceva ridere, era accattivante. Su quello Kate era molto esigente, non voleva annoiarsi. Pensò di sfuggita che suo figlio aveva ben preso da lei, in questo.
Ronan poteva essere degno di lei, anche se esteticamente molto inferiore: Lazuli stessa aveva preso posizione contro l'idea di bellezza convenzionale e Kate aveva apprezzato quella fonte d'ispirazione.
Si sorprendeva di percorrere tutti gli step dell'innamoramento ora negli -anta, così lontana dall'età in cui una ragazza si chiede ancora quando è il momento migliore per il primo bacio, o con che tipo di lingerie completare l'outfit.
Kate aveva delle ferite che non si erano mai richiuse.
Con il solo uomo che lei avesse mai amato tutto era stato un su e giù di emozioni estreme; se colui che le aveva dato Lapis e Lazuli era stato un fiume impetuoso, questo Ronan era un canale fatto per navigare; trasmetteva serenità e lentezza, una pace profonda.
C'erano affetto e devozione nel suo tono di voce e nel modo in cui canticchiava, stonato, mentre erano in macchina assieme. Era da poco che si frequentavano ma a volte Ronan le faceva dimenticare i dispiaceri con la sua capacità di scovare bellezza in attimi "banali".
Kate scelse il suo fidato tubino nero; alla fine decise che, fra tutto quello che avrebbe indossato i vestiti non erano molto importanti, voleva finalmente indossare un sorriso. Kate sorrise anche lì davanti al suo guardaroba, ricordandosi che per Ronan nessun outfit era mai perfetto senza un sorriso.
 
 
 
 
 
 
 
Pensieri dell’autrice:
 
Penso che in questo capitolo, a cui ho trovato un titolo solo nel momento in cui l’ho pubblicato, ci sia un po’ di azione emotiva per tutti, anche se penso che il big up sia di Diciotto e Crilin!
Che hanno anche avuto il loro primo litigio…
Nella mia versione è lei che propone di avere una famiglia e tutti sappiamo come va a finire, anche se per ora è  demoralizzata da quella sola linea rossa= test negativo :(
Anche Kate, dopo tanto tempo, trova qualcuno che la ispira e gli sta dando una terza possibilità’. L’omaggio di Ronan è a Woody Allen, che non potevo nominarlo perché non penso che esista nell’universo DB.

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Capitolo 20
*** Carpe Diem ***


 
 
 Diciotto sedeva in mezzo a un rumoroso pubblico. Se ci fosse stato, avrebbe pagato volentieri un posto nell'area VIP, in modo da non dover sentire continuamente, da ogni direzione, una confusione cacofonica di gente che faceva caciara, masticava, tirava su con la cannuccia, urlava, masticava,...
I rumori echeggiavano e il suo super udito era un inconveniente, in quel caso. Di fianco a lei sedeva una ragazza della sua fascia d'età, dall'aspetto delicato, che brandiva con entusiasmo un cartello su cui figurava il nome del lottatore (o della lottatrice) per cui lei faceva il tifo:
"Coraggio Cheetah! Spacca qualche naso!"
La ragazza smise di fare il tifo non appena si rese conto che la tizia in minigonna seduta vicino a lei -sicuramente una modella- la stava squadrando con un'innata alterigia.
"Ehi, che c'è. Sto solo facendo il tifo per il miglior combattente del torneo, il mio ragazzo. Il suo nome è Chet ma tutti lo chiamano Cheetah, indovina perché."
"Cheetah" stava combattendo in quel momento, stava vincendo l'ultimo combattimento del giorno  che l'avrebbe portato alle semifinali. Diciotto non aveva familiarità coi tornei di arti marziali. Non aveva voglia di discuterne, ma la ragazza la innervosiva e lei aveva argomenti solidi:
"Tanto il torneo Tenkaichi lo vincerà il mio ragazzo. È solo l'umano più forte della Terra."
"Ok carina, ma intanto questo non è il torneo Tenkaichi! Il prossimo sarà fra cinque, anni se non mi sbaglio e si fara’ a Papaya Island, come al solito..."
Diciotto rimase a osservare distrattamente i capelli color turchese della sua vicina e il suo outfit alla moda. Chissà se si stava rendendo conto che si stava scottando: il calore di fine ottobre non era più assassino nemmeno in quell'angolo della Terra, ma la sua scollatura era profonda e lei aveva un tipo di pelle poco adatto a permanenze prolungate sotto il sole; anche Diciotto cominciava a sentire un certo prurito sulle spalle e sul coppino, lasciato esposto dalla recente spuntatina al caschetto…
La tifosa prese il silenzio della modella come troppa insolenza da parte propria:
"...però non ti giudico, anche io fino a un paio di anni fa non sapevo nulla di queste cose. Nuove anche per te?"
"Più o meno."
"Il mio ex mi ha fatto scoprire il mondo delle arti marziali! Era patito e anche molto forte, poi ci siamo mollati, è successa la situazione Cell e ora non so che fine ha fatto. Ho incontrato Chet poco dopo e da allora lo seguo in ogni torneo, è un orgoglio per me vederlo vincere. E tu che fai qui, il tuo ragazzo è per caso Mr. Satan?"
Diciotto stava facendo la stessa cosa. Per Crilin le arti marziali erano un mestiere, prima che una passione; era così che si guadagnava da vivere. E vincendo spesso guadagnava piuttosto bene, solo che non partecipava mai abbastanza frequentemente per potersi permettere una casa propria. Ora, dopo che Diciotto gli aveva proposto di mettere su famiglia, quella della casa era diventata una nuova priorità e Crilin aveva deciso di mettersi sotto e partecipare a molti tornei. Quella, in una città non lontano dall’arcipelago del Genio, era la prima tappa della nuova avventura in cui l’umano e la cyborg si erano lanciati: sarebbero stati mesi eccitanti quelli davanti a loro e coi conseguenti guadagni di Crilin sarebbero anche potuti andare a vivere da soli. A Diciotto non dispiaceva l’idea di iscriversi e partecipare, quindi di vincere, ma in quel momento della sua vita sentiva di voler restare lontana da tutto ciò che era lotta, se non per sostenere Crilin.
Una volta che Chet “Cheetah” vinse la sua quota di duelli per la giornata, la ragazza si avviò a incontrarlo negli spogliatoi del complesso sportivo:
“È stato interessante discutere dei nostri morosi lottatori! Se il tuo vince e ce la fa a raggiungere i livelli di Chet, magari ci incroceremo ancora. Giusto per curiosità, chi è il tuo?”
“Crilin. Eccolo, sta entrando ora sul ring.”
Da lontano vide Crilin sbracciarsi per lei. Quando si voltò di nuovo verso la sua interlocutrice, le parve sbiancata e a disagio.
"Crilin della Tartaruga? C'è anche lui?"
"Si è iscritto all'ultimo minuto, ma eccolo lì."
Diciotto saluto’ con un sorriso, agitando il braccio.
"E tu sei la sua...wow. Solo, wow. Devo andare ora."
Dopo averla salutata ancora, la ragazza si dileguò come imbambolata, senza che Diciotto riuscisse a capire il motivo del suo repentino cambio d’umore.
 
 Il combattimento di Crilin duro’ letteralmente nove secondi. Ci volle poco al guerriero per spingere il suo avversario fuori dal ring, l’indomani avrebbe fatto lo stesso, fin quando non si sarebbe trovato alla finali e allora avrebbe...ancora fatto lo stesso. Vedere Diciotto sugli spalti gli dava un’incredibile energia: il fatto che lui facesse parte degli Z Warriors gli dava già tutto il vantaggio possibile e immaginabile nei tornei, ma con Diciotto lì lui si trasformava in un ninja. Era preciso, essenziale e aggraziato. Un vero prodigio, come il presentatore urlava il suo nome e la folla lo acclamava:
“Crilin della Tartaruga, signore e signori!”
Come la ragazza del Cheetah, anche Diciotto si ritrovò con Crilin negli spogliatoi vuoti, una volta che lui vinse tutti i dieci match dei quarti di finale; gli diede un bacio veloce e gli passo’ un asciugamano pulito.
"Sai che, considerando questo tipo di tornei in cui si usano arti marziali pure, senza ki o cose avanzate, non ho mai avuto tecnica migliore?”
“Mia madre direbbe che ti stai condizionando da solo perchè sai che sono qui, ma a me piace se la mia presenza ti aiuta.”
Diciotto si sedette a cavalcioni su Crilin, il cui gi non era nemmeno sudato.
"A quanto pare sei rinomato. Ma che cos'è quel nome?"
“È il mio nome d'arte, visto che il Genio della Tartaruga è il mio maestro."
"Ah, non è per questo fisico?" Diciotto parlò con voce sempre più roca e passò con malizia la punta dell’indice dalla sua fronte fino ai pettorali, poi la sua mano accarezzò gli addominali scolpiti “umano più forte del mondo...”
“Mmm...Diciotto...qui?”
Mentre lei gli deponeva piccoli bacetti giocosi sul viso e sul petto, Crilin le accarezzava inconsciamente i fianchi e i glutei. Sperava che nessuno entrasse in quel momento, perché la piega che le cose stavano prendendo gli garbava assai. Per la differenza di statura lui si trovò con la faccia immersa fra i seni della cyborg, mentre lei si toglieva il top e si scompigliava i capelli, forse per darsi l’aria sexy ma innocente della ragazza della porta accanto.
Diciotto amava quei momenti fugaci con Crilin, in cui l’eccitazione nasceva dal fatto che chiunque avrebbe potuto scoprirli; avevano imparato a sfruttare al meglio la situazione alla Kame House, una casa sempre piena in cui trovare intimità era difficile.
Ma Diciotto amava quella segretezza frettolosa, le sembrava il trionfo dei piccoli piaceri quotidiani sul destino scritto da Gero o compiuto da Cell; lei non avrebbe mai dovuto conoscere una vita fatta di attimi come quelli.
A volte non resisteva più alle tentazioni della vita e svegliava Crilin nel cuore della notte, per fare l'amore. La notte dopo la giornata al complesso sportivo era una di quelle.
Erano le quattro e il buio di fine ottobre era ancora spesso; nel letto dell'hotel di Satan City Diciotto giaceva prona, accoccolata a Crilin; si sentiva ancora piena del suo seme e sospirava, segretamente sperando ancora che il suo grembo non fosse un terreno sterile dove niente attecchiva.
Era certa che non le mancasse nessun organo, si chiese come mai il dottor Gero non le avesse rimosso il sistema riproduttivo: se quello che lui aveva avuto in mente per lei era l'annichilimento della razza umana, con chi pensava si sarebbe riprodotta? Con il solo maschio della sua stessa specie, suo fratello?
No. Decisamente no.
Lei e Diciassette erano le sole macchine mai create potenzialmente in grado di partorire figli, o di farli partorire a una povera umana.
"E infatti non siamo macchine."
Da quello che sapeva la fertilità poteva dipendere fattori genetici e quello era rassicurante per lei: a ventiquattro anni, quasi due in più di lei,  sua madre aveva concepito addirittura due gemelli senza sforzi particolari.
Le avevano anche detto che il modo in cui una gravidanza si svolgeva poteva essere influenzato da fattori genetici; a Diciotto tornarono in mente i racconti di Kate, a cui non aveva mai dato peso, ma che ora le mettevano apprensione. Sua madre aveva passato sei mesi su nove a vomitare, a volte  persino mentre era in giro per strada o faceva cose normali come caricare una lavatrice, o spazzare il pavimento.
Anche se non era matematico, Diciotto temeva che potesse accadere anche a lei: avrebbe detestato passare così tanto tempo in uno stato come quello, stravolta. Anzi, non l’avrebbe proprio sopportato; forse il fatto che il bambino che lei cercava tardasse ad arrivare non era poi così terribile. E poi ora c'erano in ballo tutti i tornei e il progetto di comprare casa, il tempo per un bambino sarebbe arrivato lentamente, senza fretta.
Riportando la mente al presente, la cyborg si chiedeva se il guerriero non si spompasse a starle dietro, ma quella era una paura facile da scacciare. La natura gli aveva dato un corpicino compatto ma aveva in sé un’energia, una determinazione che sconfinava oltre quel petto massiccio e gambe corte.
 
 
 Intanto nel Nord, nello chalet a Viey, mentre Carly l’aiutava a medicare la spalla in via di guarigione Lillian commentava il nuovo messaggio sul suo cellulare:
“È Bronwyn. Scrive Vuoi che ci troviamo?”
“Non ti sembra minimamente sospetto? Questa ti parla sempre alle spalle e poi dal nulla si interessa a passare tempo con te.”
“Magari vuole scusarsi, che ne parliamo…”
“Ma che scusarsi! Tu hai due colleghi maschi che da quello che mi dici sono appetibili, e lei ti sta usando per avvicinarsi a loro. Non dirmi che non l’avevi capito…”
A volte Lillian ragionava come un uomo tonto…
"Pensa, appena prima che mi mettessi con Lapis c'erano tante sciacquette che facevano così, persino quando eravamo già impegnati!"
"Lapis...così si chiama il tuo bello?"
"Chiamava. Sì."
"Ma perché sei così convinta che sia morto e sepolto!! La polizia non ha mai trovato il corpo, no?"
Da come Carly le disse di aver rimesso le sciacquette al loro posto e da come la guardò, a Lillian sembrò ancora una volta che la dolce Carly non fosse poi così dolce.
"Brent "si sta vedendo" con Leni, ma Sev…"
Esattamente come Carly aveva predetto, Bronwyn aveva smesso di interessarsi a lei il giorno stesso in cui Lillian era riuscita a convincere “Sevvy” ad uscire con lei una sera. Lillian era stata curiosa come una comare, ma il marmocchio non aveva rivelato molto di quell’appuntamento a parte che aveva trovato Bronwyn sgradevole e che si era quasi addormentato: nemmeno l'indiscutibile avvenenza salvava la noiosa botanica  dall’essere un pessimo partito per lui.
“E un’altra buona notizia per me, il mese prossimo proclameranno il top ranger. Yay.”
“Beh congratulati con lui allora, visto che ti ha salvato la pelle.”
Gli aveva già’ fatto le sue congratulazioni, e che congratulazioni! Lillian raccontò in poche parole cos’era successo in ospedale:
“E bon, il ragazzo ci sa fare. Cazzo…"
Concluse il discorso con un tono neutro, osservando un’eccitatissima Carly che squittiva e saltellava. Che creatura affascinante, quella rossina: ancora così restia  nel riaprire il suo cuore, ma sempre in grado di immaginarsi grandi cose per gli altri.
Innamorata dell'amore.
 
 
 Nel distretto di Satan City, Crilin arrivò in finale in un batter d'occhio e sconfisse senza sforzo persino il velocissimo Cheetah, portandosi a casa una lauta somma di zeni.
"Eh, che Chet non avesse speranze contro Crilin lo sapevo già."
Diciotto sorrise alle parole inconfutabili della tifosa entusiasta che aveva già incontrato.
"Se la cava. Dimmi come lo sapevi."
"Non per offenderti, Crilin è un ragazzo d'oro e ti auguro tutta la gioia del mondo, ma ci sono tante cose che so di lui e che lui sa di me. Cose tipo come mi piace dormire, dove sono i miei nei..."
Anche se sapeva che quella ragazza doveva sentirsi minacciata da lei, per la prima volta Diciotto percepì un sentimento sgradevole che non era rabbia,  né tristezza né paura: una cosa bastarda che le stava di nuovo facendo annodare le budella.
Era...era forse gelosia? Ma gelosia vera, non quella che sentiva nei confronti di suo fratello in certi frangenti. Era la paura che qualcuno le rubasse Crilin.
"Bene. Io avrò una vita per scoprirlo."
Quella conversazione le aveva fatto scattare qualcosa. Non che lei si sentisse inferiore a quella ex senza nome, anzi, lei era fortuitamente stata il boost di coraggio di cui aveva bisogno. Con una determinazione romantica di cui non si sarebbe mai creduta capace, Diciotto aveva ripetuto le parole da sola in camera da letto per qualche settimana, sperando che un giorno arrivasse il momento adatto per dirle a lui. Quello era il momento. E non voleva perdere tempo.
Diciotto scese vicino al ring dove Crilin stava ancora discutendo con altra gente del torneo, dove i giornalisti scattavano foto e intervistavano; e tutta la gente raccoltà lì mormorò, i flash scattarono mentre una supermodella passava noncurante fra loro, dirigendosi verso il vincitore Crilin ed abbracciandolo.
Così in quel luogo affollato Diciotto, proprio lei che si compiaceva del suo essere altera e mostrarsi di ferro con gli estranei, fece uno dei discorsi più lunghi della sua vita:
"Crilin...la nostra e’ una relazione nuova e, come dici tu, abbiamo ancora tanto da imparare l’uno dall’altra. Tra l’altro, io non sono la persona più semplice con cui vivere e tu ti stai impegnando fino in fondo per farmi felice, per far sì che siamo felici. E lo so che non ci siamo preparati ma non c'è bisogno di anelli e cose sdolcinate, perche’ abbiamo gia’ l’essenziale: stare con te mi rende felice, stai scrivendo con me un nuovo destino. Ti voglio per me, per davvero: forse starò pure andando troppo veloce, ma la verita’ e’ questa, Crilin, io non ho vissuto tutto quello che ho vissuto per innamorarmi e poi restare solo una tua ragazza, come altre a caso. Sappiamo cosa vogliamo e questo è quello che conta. Facciamolo. Sposiamoci."
Le parole non le si bloccarono in gola come aveva temuto, ma gli occhi restarono fissi in quelli del guerriero, dimenticandosi di studiare i dintorni e quindi non potendo impedire che una telecamera riprendesse quell'attimo, trasmettendolo sui vari grandi schermi del complesso sportivo.
Tutto il pubblico si alzò in piedi, applaudì e fischiò quando Crilin della Tartaruga disse di sì e sollevò la supermodella per poi baciarla, in un casché.
Guardando con stupore, la ragazza che aveva appena spinto la modella a fare un grande passo con Crilin non si dimenticò di filmare la scena col cellulare.
"Vai così fratè!"
"Congratulazioni! Tieniti stretta quella gemma di ragazza, non lasciartela mai scappare!"
"Che boss, Crilin!"
Con il cuore che impazzava nel suo petto, il guerriero batteva la mano contro quelle tese dei vari partecipanti al torneo avviandosi in città stringendo al suo fianco la meraviglia che presto sarebbe stata sua moglie.
 
 “Crilin! Ehi!”
Ancora immerso nel torpore della gioia vera, Crilin riconobbe una voce nella folla. Una voce che non aveva udito da molto tempo e che non pensava avrebbe udito ancora. Il timbro era squillante e gioioso, e alla voce si accompagnarono presto tanti passi piccoli e fitti.
La ragazza stava correndo, trascinandosi dietro il Cheetah.
“Sai cos’e’ pazzesco? Che sia io che la tua ex ci troviamo qui, fianco a fianco sugli spalti.”
“Voi due...voi due vi siete incontrate?”
“Crilin caro, non sapevo che fosse la tua ragazza quando ho attaccato discorso con lei! Era seduta vicino a me. E di me e te gliel’ho detto io."
“Ah, Marion…”
Crilin si passò una mano sul viso improvvisamente stanco; e anche il Cheetah sembro’ a dir poco stupito nell’apprendere che la sua ragazza era passata per il grande Crilin della Tartaruga!
“Ma non ti preoccupare, ormai e’ acqua passata. Vero, Marion?”
Diciotto guardo’ la ragazza dai capelli azzurri e lei sentì immediatamente una gran voglia di chiudere la conversazione.
“Certo, e’ acqua passata. Lei e’ con me ora. Gran bel duello, però. E congratulazioni per il tuo fidanzamento.”
Il Cheetah strinse la mano di Crilin e Marion tornó alla carica, abbracciando il suo ex:
"In ogni caso complimenti Crilin, ti sei assicurato una  bambola di quelle...dove l'hai trovata?"
A Diciotto non piacque tutta quella confidenza:
"Nel laboratorio di uno scienziato pazzo dopo che io sono stata attivata. Sai, non sono ne’ una modella ne’ una bambola: sono una cyborg."
Diciotto sembrava aver perso l’aura angelica che l’aveva circondata poco prima, quando aveva fatto la sua proposta davanti a uno stadio pieno.
Marion fece una risatina e poi si affrettò a congedarsi insieme al Cheetah.
Crilin ora aveva paura che Diciotto si arrabbiasse con lui, per il fatto che non le avesse mai parlato di Marion. Non intendeva proprio nascondere nulla, solo che quella ragazza apparteneva a un’era della sua vita così lontana da non essere più considerata rilevante. E se l’era della sofferenza che aveva patito con Marion era ormai distante da lui, era solo grazie a Diciotto.
Quando lui volle dirle tutto ciò, lei gli diede un bacio sulla fronte e i suoi occhi già stretti divennero obliqui:
“Stavo solo giocando con lei! E’ naturale che non me la prenda, quella non potrebbe minacciarmi in nessun modo…”
"E hai visto le loro facce quando hai detto “cyborg”?!"
Dando un bel cinque alla sua bella Crilin rise in maniera liberatoria, ricordandosi dello sguardo d'acciaio con cui Diciotto aveva guardato Marion e Chet, e del modo in cui questi erano sbiancati.
 
I due fidanzati finirono per spendere buona parte del premio di Crilin per l'imminente cerimonia. Mai il guerriero fu più felice di investire i suoi soldi.
Insieme scelsero due anelli d’oro semplici, le loro fedi nuziali, prima di lanciarsi alla ricerca di abiti adatti.
“Sicura che non vuoi dirlo a nessuno?”
Crilin si rilassava su un divanetto. La voce di Diciotto risuonava da dietro la tenda del camerino.
“No, per ora voglio una cosa tipo fuga romantica, solo io e te. Potremmo poi fare un’altra festa con i nostri cari, mi piacerebbe, ma prima veniamo solo tu ed io. Come sto?”
Lo strappo secco della tenda che si apriva non preparo’ Crilin alla visione di Diciotto in un vestito bianco corto, semplice e fresco. Una commessa le sistemo’ una veletta simbolica in testa, giusto per aiutarla ad entrare nel mood e  vedersi già’ sposina.
Diciotto aveva scelto il vestito dalla sezione “cerimonia” di quella boutique; non era un vero vestito da sposa, solo un abito da cocktail elegante. Proprio quello che voleva.
“Io…”
L’espressione stupita sul viso del suo fidanzato e la luce che gli baleno’ negli occhi nerissimi fecero intenerire Diciotto:
“Ora dobbiamo cercare un completo per te.”
 
 Il municipio era elegante. In effetti, nessuno si immagina mai che i municipi possano essere bei pezzi d’architettura con interni degni di palazzi signorili, ma quello di Satan City era una bellezza. In attesa di essere chiamati, i futuri sposi sedevano in una grande sala di marmo, colonne sottili color rosso smorzato si innalzavano dal pavimento a scacchi fino al soffitto a volte.
A Diciotto piaceva quell’estetica, penso’ che se casa sua fosse stata così si sarebbe sentita una principessa di fatto.
“Crilin: per questioni legali, ieri ho chiesto una cosa al nostro officiante. Voglio che tu mi chiami sempre Diciotto, perche’ e’ il nome con cui mi hai conosciuta, ma…”
"Mr. e Mrs. Crilin?"
Quando l'impiegata del municipio li chiamò, loro due non poterono fare a meno di ridere a quell'appellativo.
L'interno della saletta rivestita di pannelli di quercia era decorato con drappi e fiocchi di raso bianco, fronzoli di circostanza che dovevano servire per tutti i matrimoni non organizzati, come il loro. Le file di panche di legno erano vuote, visto che nessuno oltre a loro due avrebbe assistito a quella magia che si stava per compiere.
L'officiante, il sindaco della città, se ne stava in disparte con uno sguardo benevolo sul viso e un libro aperto fra le mani:
"Bene, buonasera Lazuli, Crilin; quando volete."
Crilin si emozionò a sentire qualcuno chiamare la sua promessa sposa con il suo nome di nascita. Ecco cosa gli stava dicendo, prima che venissero interrotti. Quello era il suo vero nome, quello che figurava sul certificato di nascita, quello legale. Già, perché quello che le aveva fatto Gero era tutto tranne che legale. Un pensiero veloce gli attraversò la mente: quanto avrebbe voluto chiamarla sempre col suo vero nome, un nome bellissimo musicale e degno di una creatura unica, preziosa come una gemma. Ma quello era un argomento che poteva attendere:
"E così...ci siamo."
Le mani di Crilin tremavano quando prese quelle di Diciotto e le infilò l'anello al dito. Guardò con occhi lucidi la donna dei suoi sogni, no, la donna che era un sogno divenuto realtà, lì in piedi davanti a lui nelle sue scarpette di raso. Guardò i suoi occhi felici, i capelli ornati da un pettinino di perle, le rose bianche e rosa che stringeva.
"Diciotto. Io spesso mi chiedevo perchè dovessi soffrire così tanto, come combattente e come uomo. Spesso sono stato considerato un perdente, uno sfigato, prima che dagli altri da me stesso. Anche se ho degli amici fidati, l'opinione che avevo di me stesso non cambiava, fino al giorno in cui ho visto te. Allora è successo l'incanto. Quando ti ho vista, quando mi hai baciato quella volta, tutto il resto è sparito. E sono così lieto che abbiamo accettato l'amore, sono così sommerso dalla gioia di averti, dall'avere il privilegio di dividere la mia sola vita con te. Tu mi hai reso coraggioso, mi hai fatto crescere e già mi hai dato cose che nessun altro, nemmeno Shenron, potrà mai darmi. Sei il mio lieto fine, Diciotto."
Quando lui finì di parlare, l'espressione sul viso di Diciotto era aperta, commossa. Gli sorrise, prendendo delicatamente la fede:
"Crilin. Prima di te quasi disprezzavo il genere umano, per motivi miei che ricordo poco, disprezzavo anche me stessa per non riuscire mai ad avere quello che cercavo. Poi è successo quello che è successo e io ho avuto paura. Tu sei sempre stato lì, attraverso tutte le tribolazioni della mia nuova vita. Ogni giorno il tuo sorriso mi rende felice. Sei diverso dagli altri e mi ami per quella che sono, non cerchi di cambiarmi anzi, ami quello che sono e accetti i miei vissuti. Tanti farebbero storie per i miei tacchi, lascia perdere la mia forza. E sono sempre più innamorata del tuo modo di vedere il mondo, sei un inno alla vita che rappresenta la parte migliore della mia rinascita. Tu hai dato senso a tutto questo, Crilin. Tu sei vita."
 Crilin non pote’ trattenere una lacrima. L’asciugo’ prima che potesse solcare la sua guancia e fece un piccolo sospiro. Per il sindaco, venne il momento di adempiere al suo dovere:
“Ora ripeti con me, Crilin: io, Crilin,...”
“Io, Crilin.”
“...prendo te, Lazuli come mia legittima sposa.”
“Prendo te...Lazuli, come mia legittima sposa.”
L’emozione continuo’ a scorrere mentre entrambi ripetevano la dichiarazione legale. Quando ebbe anche il consenso di Lazuli, il sindaco chiuse il suo tomo:
“E dunque, investito dal potere del distretto e della giurisdizione di Satan City, vi dichiaro ufficialmente marito e moglie. Coraggio, bacia la tua sposa.”
 
 Fuori dal municipio, Crilin non resistette piu’: se Diciotto voleva aspettare a dirlo ai suoi amici e famiglia a lui andava benissimo; c’era della gente che aveva ripreso l’accaduto allo stadio, ma i vari distretti erano praticamente Paesi diversi e quindi non c’erano molte possibilità’ che tutti nel Centro vedessero quel video filmato nel Sud-Est. In ogni caso lui moriva dalla voglia di dirlo a un’amica, alla sua migliore amica. Ne restava solo una, visto che Son Goku era morto.
La faccia allegra di Bulma apparve sullo schermo di Crilin:
“Ehi Bul! Ce l’abbiamo fatta!”
Alzo’ la mano per mostrare la fede, nella videochiamata, mentre Diciotto salutava timidamente.
Quando la chiamata termino’, Crilin strinse la vita di sua moglie e la porto’ in braccio fino alle porte del loro hotel, poi su per le scale e attraverso la soglia della loro stanza; aveva discretamente chiamato l’hotel, prima della cerimonia, e ora Diciotto si sorprese dei petali di rosa per terra, della luce soffusa, della musica soave e degli asciugamani piegati romanticamente a cuore sul letto.
“Crilin…”
Quando lui l’adagio’ sul letto lei sentì’ ancora una volta il nodo alla gola, ma questa volta era gioia. Gratitudine di essere viva, lì’ con lui. Lui abbassò il suo vestito e scoprì della delicata lingerie bianca. Sua moglie sembrava una nuvola, leggera, a metà strada fra cielo e terra. Le bacio’ le labbra distese in un sorriso:
“Mi dica pure, Mrs Crilin.”
 
 
 
 Era mattina presto nel RNP. Faceva ancora buio quando Leni arrivò al suo ufficio e si trovò di fronte ad uno scomodo mucchio di neve indurita che bloccava la porta. Cerco’ di spalarla, ma era diventata una specie di strato spesso di ghiaccio. Cerco’ di scioglierla nella maniera tradizionale nordica, sparandoci contro il fumo di scarico della sua macchina. Rischiava che Carly partisse senza salutarla come si deve: aveva l’amaro in bocca, loro due erano amiche e le cose non dovevano restare cosi’. Quel pensiero le fece perdere la pazienza con il ghiaccio, dopo mezz’ora di sgaso chiamo’ John:
“Qui Leni; sono bloccata fuori dal mio ufficio, mandami il ragazzino. No, non mi interessa se e’ stato in pattuglia tutta notte, nessuno gliel’ha chiesto. Presto!”
Mentre aspettava, Leni apri’ un messaggio sul suo cellulare. Era un video, una cosa che era diventata quasi virale in quei giorni: una giovane coppia in uno stadio, lei che chiedeva la mano di lui. Marion non era stata l'unica a filmare l’attimo di Crilin e Diciotto, alla fine era apparso online col titolo  "Supermodella propone al fidanzato lottatore in diretta."
“Ah, gioventù...non sprecare tempo a sposarti, stella bella, tanto tutto finisce in divorzio. Guarda me!”
Sapeva che quel genere di cose le faceva ancora male, ma non riusciva a non guardare.
“Che cos’hai lì?”
La direttrice sobbalzo’ quando l’aiuto che aveva richiesto apparve senza che lei se ne accorgesse. Blocco’ istintivamente lo schermo del cellulare:
“N-niente. Internet.”
Leni guardo’ in fretta il ragazzo che doveva aver appena buttato giù dal letto: si’, poteva essere stato in pattuglia tutta notte ma a Leni sembrava bello pimpante e sano come un pesce, dalle mani forti fino alle punte dei capelli lucenti. La guardava come per chiederle se non fosse capace di spalare della neve da se’.
“E’ troppo dura, non ci riesco. Dai Diciassette, non farti pregare.”
"Certo; dammi un porto d’armi, prima."
"Rifai il test comportamentale, ne abbiamo già parlato."
“Ma se li ho già’ fatti tutti e sono stato promosso!”
Leni non aveva mai messo in dubbio le sue eccezionali capacità ed efficienza: era sempre pronto, era estremamente forte e veloce, aveva riflessi lampo e per lui il lavoro non era mai abbastanza. Prenderselo a bordo era stata una mossa vincente, ma la legge era la legge: nessuno di loro poteva sparare senza avvertire, nemmeno quando i bracconieri erano colti sul fatto.
“Quello era prima che tu ti mettessi a mutilare bracconieri! E poi c’entra anche che ti sei fregato il fucile della tua collega, quindi doppia infrazione. Lo so che hai salvato Lillian e per questo abbiamo lasciato correre, ma le armi lasciale stare: tu devi rispettare le regole, che ti piaccia o no. Ti da’ fastidio eh, che ci sia io in carica e non un patatone come John...Ti dirò, senza gli antipatici come me, qui dentro tutti farebbero quel che vogliono. E non darmi la tara, ora!”
Leni soppresse la rabbia nel vederlo sbuffare con la sua solita sfacciataggine e le mani in tasca, la stava mandando mentalmente a quel Paese. Ma se John e  altri non avevano il fegato di mettere un freno alle sue mattane (quasi avessero paura che se li mangiasse!) lei non la teneva mica in pugno, no...
“Allora la neve spalatela da sola.”
Diciassette giro’ i tacchi e le fece una specie di saluto militare.
Leni non aveva voglia di litigare per cui riaccese la macchina e provò a finire di guardare il video virale. Ci mise un po’ a registrare che non aveva più il telefono in mano:
“...Ridammelo! Scendi di lì!”
Diciassette sghignazzava, seduto sul tetto della casetta-ufficio di Leni; lei non aveva idea di quanto lui fosse bravo a sottrarre oggetti elettronici dalle mani di prepotenti.
“Che video guardi, Leni? Ma cazzo...e’ mia sore-”
Diciassette si tappò la bocca, come se non volesse piu’ lasciarsi scappare la parola. Leni lo vide cambiare umore in un battito di ciglia, mentre lui guardava quel breve video quasi con shock.
Leni non poteva raggiungerlo lì dov’era, ma aveva già visto quasi tutto il video. Penso’ alla bella ragazza bionda che correva nello stadio e al viso buono e sorridente del suo neo fidanzato:
“...sorella? Tua sorella? Complimenti alla mamma allora.”
“Vista la nostra somiglianza fisica, sai che stai facendo un complimento anche a me? Grazie.”
“...No, non e’ vero!”
Diciassette abbandono’ il tetto e restituì il cellulare a Leni.
“Mia sorella si sposa e non mi ha detto niente...Già, meglio piantarmi in asso per uno gnomo da giardino di nome Gary, o Crilin, che importa.”
La sua incazzatura nei confronti di un pretendente della sorella che lui non doveva approvare quasi diverti’ Leni:
"Sorella minore, vero?”
“Maggiore. Di un’ora.”
“Ah…wow, sei un gemello?! E il fidanzato ti sta sulle balle perchè ti immagini che quando scopa lei scopi automaticamente te, per via di telepatia o perversioni del genere?”
“...no, miseria! Grazie degli incubi.”
Leni era così distratta a riguardare il video; quando alzo’ lo sguardo vide che il cumulo durissimo di neve si era trasformato in un'enorme pozzanghera, che le stava bagnando i piedi: non serviva più spalare.
Ringraziò e basta: la prassi, ormai, era dirsi “Eh, e’ Diciassette…” e non arrovellarsi troppo.
“Comunque, Diciassette, non posso darti un porto d’armi, ma penso che saprai già’  che le tue contribuzioni in seno al RNP sono eccezionali: ti dico già che il top ranger sei tu. Domani puoi prenderti il giorno libero, se vuoi.”
Lui non le rispose e si congedò con un cenno. Perfetto, un giorno libero gli avrebbe fatto comodo: un salto a Satan City se lo sarebbe fatto.
 
 
 
 
Pensieri dell'autrice:
Buongiorno a tutti cari lettori! Anche oggi pubblico di domenica.
Crilin e Diciotto si sposano. Toriyama ci lascia sempre immaginare come sia stato il loro matrimonio e io ho pensato che fosse Diciotto ad aver preso in mano le redini della situazione. Mi ha divertita gestire il matrimonio come una fuga romantica, con Diciotto che non ha bisogno di fronzoli ma non rinuncia all'aspetto romantico. Ho voluto anche dar voce ai miei pensieri su Crilin, un personaggio che vedo proprio in modo diverso ora da adulta, perché è colui che ha dato a Diciotto una vita calma e probabilmente piena di amore. E niente, adoro scrivere di quanto si meritino l'un l'altra!
Un capitolo Lazuli-centrico questo, decisamente.
Lapis/Diciassette compare poco ma quando appare deve fare qualche lapisata😁 e mi è piaciuto scrivere di Marion VS Diciotto.
Ci si aggiorna settimana prossima con il cap.21, Lillian. E si spera anche con Muted.
Grazie a tutti voi per avermi seguita fino a questo punto della storia!
 
Bonus: grazie a queste due bellissime fanart che ho trovato su internet posso mostrare a voi lettori come immagino L&L quando scrivo di loro, se fossero persone vere (altre volte li immagino come sono nell'anime/nel manga)😊 ci vanno molto vicino, anche se me li immagino piu’ cosi’ in Super quando sono sulla trentina.



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Capitolo 21
*** Lillian ***


Era tempo di lasciare Satan City. Il prossimo torneo di Crilin sarebbe stato a gennaio e per quanto i due novelli sposi avessero gradito quella mini luna di miele nel bell'hotel, si doveva tornare a casa.

"Io penso che luglio sarebbe adatto, che dici Crilin?"

Il bagaglio era pronto; il check-out era entro le dieci.

"Certo, amore. Una bella festa estiva."

Crilin si sentì amareggiato pensando che Son Goku non sarebbe stato lì per la loro seconda cerimonia, quella con tutti i cari. Udire un bussare deciso alla porta scacciò la tristezza. Crilin si aspettò di aprire al personale dell'hotel, ma rimase sulla soglia con una leggera tachicardia. Dal bagno, Diciotto lo senti’ quasi piagnucolare:

"...Di-di Diciotto!"

Crilin aveva già appurato che quello sguardo da "ti spezzo in due" non era una prerogativa solo di Diciassette, che incuteva a Crilin molto più timore di sua madre o persino sua sorella;  forse perché essendo lui un uomo, Crilin era capace di non farsi distrarre dalla sua bellezza e di percepire subito il pericolo. 

“Eeeehi...Diciassette.”

Crilin tentennava; Diciassette sorrise malizioso come quella volta in cui l’aveva fatto avvicinare a lui solo per il gusto di vederlo tremare:

"Vi ringrazio per la considerazione."

“Di nulla, bro." Diciotto apparve coi capelli ancora bagnati, scoccando al fratello uno sguardo severo. Il video virale...maledetto Internet “Se sei venuto fin qui per rompere, sloggia. Come hai fatto a trovarmi?"

All’alzata esasperata del suo sopracciglio, Diciotto spero’ che anche questa volta Diciassette capisse le sue ragioni, senza dovergli spiegare tutto. Una serie di coincidenze li aveva portati a voler fare quella specie di fuga romantica ed era successo. 

"Ora...ti aspetteremo per la festa con amici e famiglia l'estate prossima."

Crilin si sforzò di essere cordiale e offrì a Diciassette una tazza di tè. Il cyborg la serrò volontariamente e il rumore dei cocci fece sobbalzare il guerriero:

"Ops, colpa mia. Eh, dovro’ vedere...io lavoro, sapete?"

Diciotto sbuffò. Kate la teneva al corrente:

“Far niente nella foresta, sparare nel culo ai bracconieri…”

"Puoi dirlo forte!"

Con una risata Diciassette si distese sul letto, per poi rialzarsi con una smorfia disgustata. Immaginava cosa quei due avessero fatto in quel letto. 

"L'importante è che tu non lo spiattelli anche alla mamma. Non ora."

Parlando del diavolo, Diciotto vide una richiesta di videochiamata apparire sul suo cellulare. Kate era in compagnia di un uomo con gli occhiali:

"Ronan ecco i gemelli, Lapis e Lazuli. Ragazzi, il mio compagno Ronan."

Diciassette ignorò bellamente Ronan e il ruolo con cui Kate l'aveva presentato: 

"Ehi ma'. Diciotto si è-"

Ci fu clamore generale da entrambi i lati dello schermo quando, in diretta, Diciotto gli sferrò una gomitata che gli tolse il respiro; Diciassette stesso grugni’ e ansimo’ mentre del sangue affiorava alle sue labbra. 

Quasi dispiaciuto per il suo nuovo cognato, Crilin gli diede un fazzoletto: senza dubbio se Diciassette era più forte, Diciotto era più’ violenta.

A chiamata conclusa, Ronan guardo’ attonito la sua nuova compagna. Il caratterino di quella Kate bionda l’aveva scombussolato non poco:

“Ma...fanno sempre così?”

Kate, ormai, non si preoccupava più delle bizze dei suoi figli cyborg: 

“A volte.”

Ronan si stupì anche di come lei potesse mantenere così tanta calma. Sara’ stata la forza dell’abitudine:

“Spero che lui stara’ bene; sicura che il drago abbia due teste?"

 

 

 Il pomeriggio del 31 ottobre scandì la fine della permanenza di Carly nel RNP. I bagagli erano stati caricati, Lillian era appoggiata al cofano e la guardava con occhi da cucciolo.

“Ricordati di salutare Leni…”

Le migliori amiche si erano già date i grandi addii, ma c’era ancora qualcosa che Carly voleva dire:

“Il tuo collega ti piace o no alla fine?”

“E che ne so. Ha un gran bel culo.”

Oh, Lillian...

Se Carly fosse stata il ragazzo che si era quasi preso delle pallottole per lei, si sarebbe offesa.

“E non solo quello; anche gli occhi sono belli.”

A Carly venne spontaneo volgere i propri al Grande Eden, ma con discrezione, quasi se ne rimproverasse:

“...immagino. Meglio che ti concentri sul culo, almeno non e’ una visione che tornerà a tormentarti."

“Ma guarda che non è amore! Dico solo che una bottarella ci sta, ma non ho fretta." 

"Invece dovresti, se ti piace qualcuno non stare lì a cinquantarla, le occasioni capitano una sola volta e la vita va via veloce."

Carly era emozionata, la sua carnagione trasparente sembrava in fiamme. 

Lillian non seppe se quel discorso sensato riguardava Joel piuttosto che Diciassette. 

Guardare l’appartamento 36B svuotarsi dalle cose di Carly l’aveva stressata, si sarebbe sentita così sola senza di lei:

“Vedi di fare bene quegli esami. Ti rivoglio qui, presto.”

“Ci chiameremo spesso, tu potresti anche venire a trovarmi al campus.”

Le ragazze si abbracciarono strette nella piazzetta di Viey.

Partendo in direzione di North City e ricacciando indietro la malinconia, Carly guardo’ dallo specchietto Lillian e il villaggio diventare sempre più piccoli, finché non sparirono fra i tornanti incorniciati da pini innevati.

 

La casa sembrava ora vuota e fredda; Lillian ebbe un calo di umore e pianse singhiozzando, prese a pugni il cuscino.

L’iperattività non era stata la sua unica diagnosi, le avevano anche detto che era predisposta a sviluppare dipendenze affettive; con un lavoro intenso come il suo la smania di muoversi era nettamente migliorata, ma Joel era stato l’ultimo di una serie di brevi relazioni finite male. Quando lui aveva troncato la loro relazione novella, sentendosi soffocare, lei aveva capito che nessuno voleva i problemi che lei si portava dietro. Aveva cercato di controllarsi con Carly, a cui aveva subito voluto bene, per il terrore di allontanarla. Carly era l’amica perfetta che non aveva mai avuto e ora la sua assenza la frustrava più che mai. Ma Lillian si rese conto che non poteva superare il suo problema se si rifiutava sempre di prenderlo a due mani. Si sentì più calma dopo aver ascoltato la musica ed essersi fatta una doccia. 

Brent aveva un'utilità, dopotutto, era l’anima della festa. Era anche divertente ed eclettico, era gentile: non l’avrebbe mai trattata come aveva fatto Joel, né era sarcastico al limite della scortesia come Diciassette. Ma lei era troppo complicata per interessarsi a semplici bravi ragazzi,  doveva rappresentare per Brent quello che Joel era per lei. Chissà se l’aveva ferito, tutte le volte in cui aveva sgarbatamente rifiutato i suoi inviti agli eventi di rievocazione. 

Due settimane prima Brent le aveva detto che per Halloween avrebbe organizzato una serata a base di alcol e giochi vari, a casa sua e di Diciassette. Certo, non era eccitante come il salto dalla torre di Viey, ma era sempre meglio che restare da sola. Anzi, Lillian volle proprio combattere l’apatia mettendo molto impegno nel prepararsi. Che peccato che Carly fosse partita! Si sarebbe divertita di più con lei, forse.

Non rimpianse di non aver preso in prestito qualche costume dal campionario che Brent aveva cucito nel corso degli anni, quando si era interessata l’unico rimasto disponibile era la suora.

Sarebbe invece stata la strega e intendeva indossare qualche pezzo del suo periodo goth, riesumato per l’occasione: una gonna nera, a balze e abbastanza corta, un corsetto con fiocchi neri e viola che le dava un discreto décolleté, stivali al ginocchio, calze e reggicalze neri, faceva troppo freddo per le collant a rete. Alle dieci di sera era notte fonda; Lillian prese la prima giacca che le capitò a tiro, salto’ in macchina e si diresse verso Saint-Paul sotto il nevischio.

Brent le aprì la porta vestito da moschettiere cadavere, con tanto di spada arrugginita, occhi pesti e baffi finti e sfatti:

“Porca m...Bella! Eccoti."

Lillian rise a vedere la sua mascella toccare metaforicamente il pianerottolo e i suoi occhi fissi sulla parte centrale del suo corsetto. 

“...C’e’ anche Jessica Rabbit?

“Partita.”

Fra i festeggianti Lillian riconobbe John e Louisa, Leni, Joel, Bronwyn ed Elliott, il terzo coinquilino paleontologo. 

Non ci mise molto a constatare che i liquori facevano schifo; si sedette tranquilla a bere su un divano posizionato sotto una trave esposta, guardando la gente che chiacchierava e mangiava: 

“Dov’e’ Sev?”  

Lillian urlò e rovesciò il bicchiere quando una figura avvolta in un mantello nero si materializzò al suo fianco; era a testa in giù, si teneva alla trave coi piedi come un pipistrello:

“Merda! Mi hai spaventata.” 

"Quello era lo scopo."

Lillian ignorava secondo quale principio della fisica Diciassette potesse penzolare così; quando scese e si sedette con lei, Lillian osservò i pantaloni neri dal taglio elegante e la camicia dalle lunghe maniche a sbuffo: 

“Sei un moschettiere morto anche tu?”

“Ma no! Dracula.”

Fece un gesto scenografico con il grande mantello foderato di rosso e i capelli che non si tagliava da tempo, ora cadevano fin oltre le clavicole.

“L’altra opzione che mi restava era la suora...Tu invece non sei la locomotiva, peccato.”

"Raga, stasera non scannatevi."

Brent era preoccupato, ma ultimamente quei due quasi non interagivano. Diciassette non la provocava nemmeno, e Lillian non se la prendeva con lui per ogni minima cosa.

Quasi, Brent preferiva quando si scannavano.

Diciassette non si stava facendo menate tipo Lillian o Carly: una era stata solo una coccola e l'altra era un capitolo chiuso. Lui non doveva riaprirlo, sarebbe stato dolore per tutti.

 

 Verso mezzanotte Brent propose di giocare ad una versione alcolica del vecchio  “nomi, cose, animali e città": ma più la notte avanzava, più lui e Leni erano ubriachi, passando più tempo con le rispettive lingue in bocca che a giocare.

“Nomi con la L... Lillian!” Brent si guadagnò uno sguardo eloquente da Leni quando non disse il suo di nome “Lillian ti amoooooooooo!”

Lillian lo udì ululare all’unisono con la musica alta.

“Vediamo senza alcol in corpo…”

Bronwyn teneva ancora in mano la pallina con la lettera L: 

“Dai, gente! Altri nomi con la L.”

“Lamborghini! Lambo.” 

“Ma che cazzo…” Lillian riproverò Diciassette “quello non è un nome."

“E come no, è un bel nome.”

Poco dopo Bronwyn era andata a sedersi di fianco a Diciassette; lui sfogliava distrattamente un libro pescato lì intorno.

“Il bianco/nero funziona bene su di te.”

“Lo so.”

Da quando avevano avuto quell’interminabile appuntamento e  Bronwyn aveva solo sputato cattiverie su Lillian, lui l’aveva bollata come una carognetta rabbiosa. Per cui non si stupì quando Bronwyn alzò la testa con sussiego vedendo Lillian passare, e assicurandosi che tutti la sentissero urló:

“Certa gente aspetta Halloween solo per troieggiare! Cioè, non c'è bisogno di vestirsi come una battona!”

Un mormorio generale vibrò nella stanza: “Uuuuh...”

Diciassette ci mise mezzo secondo a registrare lo sguardo di Lillian che, prima di mostrare a sua volta superbia, gli era sembrato triste:

“Tu invece sei vestita come una tizia qualunque, ti si addice.”

L’intero salone esplose in un boato: “Ohhhhh ahia!”

Bronwyn squittì di rabbia; sembrava un chihuahua che ringhiava dietro a un husky.

Ormai Leni e Brent erano spariti dal grande salotto. Dracula finì a chiacchierare con la strega, mentre molta gente ballava e si versava alcolici addosso.

"Cosa stai leggendo?" Lillian gli prese il libro, Vela per Principianti. 

Che serviva la vela nel RNP?

"Non so navigare. Tutta cultura."

Lillian girò il volume: "Aspetta...io conosco Malina Klintsov-Samuels!"

"Chi?"

Gli mostrò la foto dell'autrice: "Ha scritto questo libro. Ci avevo parlato su Skype, ti racconterò un'altra volta, forse interessa anche te."

Diciassette ripose il libro e sospirò, guardando forse il ventesimo shot di vodka. Era la sua prima bevuta da cyborg:

“Davvero non la voglio...e’ abominevole.”

“E non bere, non è che ci si deve per forza ubriacare: io per esempio sono qui per passare una bella serata fra colleghi."

Gli afferrò un gluteo sodo come il marmo e lo strinse nella mano; Diciassette le diede una pacca così forte che lei barcollò all'indietro.

"Stupido! Mi hai fatto male."

L'aveva colpita senza farci caso, senza nessuna intenzione di ferirla. Ma rammentando che gli umani normali si rompevano, gli venne un po' d'ansia:

"Non volevo."

La sua era semplice sincerità, la serietà di un bambino che ha appena combinato un guaio. 

Lillian, che non aveva avuto pace sin dalla volta in ospedale, ripensò al fatto che la vita fosse troppo breve. Forse potevano ripartire da lì?

Aspettò che lui finisse il suo bicchiere e prese coraggio; il fatto che si fossero già baciati purtroppo non aiutava…Afferrò le spalle del top ranger e lo tirò verso di sé, senza trovare nessuna resistenza da parte sua. Bene, si era quasi immaginata che Diciassette le avrebbe sferrato un pugno per farle capire che non gradiva tutta quella prossimità fisica. Invece, Lillian stava cominciando a sognare mentre anche lui si avvicinava, mani salde sulle sue fossette di Venere. Lei si detestò un momento per pensare l'indicibile, quello che andava contro tutto ciò che era e in cui credeva: che la cupcake aveva ragione, la forza bruta di quel ragazzino poteva essere tanto, tanto eccitante. Non perché le piacesse il sadomasochismo, ma per il semplice fatto che era abituata a essere quella con la “forza maschile”. 

Ora voleva provare Diciassette, uno con della vera forza; poteva fare qualsiasi cosa…

Sempre persa nei suoi caldi pensieri, rimase lì con le labbra semiaperte, cadendo in avanti sul petto di Diciassette e accorgendosi a malapena che all’ultimo momento lui aveva indietreggiato: la sua pelle era calda e i suoi muscoli erano sodi, attraverso il tessuto leggero del costume:

"Aspetta un secondo-"

"Eh?"

Lillian alzò lo sguardo verso il futuro top ranger, proprio mentre questi si lasciava sfuggire un lungo rutto alcolico che la riportò una volta per tutte coi piedi per terra. Ovvio, da chi altro avrebbe dovuto aspettarsi una simile uscita?

"Ma come osi! Brutto maleducato, sottospecie di cazzone sfacciato, volgare,maiale.”

Alla fine quello era sempre Sev, uno svergognato di prima categoria che non perdeva mai un’occasione per prendersi gioco di lei, se l'era cercata...L'avrebbe lasciato volentieri a Bronwyn, si meritavano.

In effetti Diciassette non si era lasciato sfiorare dal dubbio di aver ammazzato l'atmosfera, l'indignazione di Lillian lo divertiva assai:

"E' la vodka, lasciami stare. E ho anche dei difetti."

"Da dove comincio? Essere uno scaricatore di porto senza freni inibitori, per esempio."

"Scaricatore di porto, perché?" Diciassette poteva anche essere un cyborg che non poteva ubriacarsi, ma si era pur sempre scolato una bottiglia di liquore e gli veniva da ruttare. Usò come unica accortezza coprirsi la bocca con la manica.

“Cribbio!”

“Oddio, mi spiace." Il suo sorrisetto perfettamente contraddittorio evidenziava le amabili fossette sulle sue guance.

“Non importa..." Lillian si strinse nelle spalle, le era passata la voglia.

Diciassette non era veramente dispiaciuto; per lui non era molto un problema, durante le serate alcoliche come quella altro che maniere. Lillian non pareva della stessa idea. 

"Bisognerà ben avere dei saldi principi nella vita, o no? Dimmi, Lill, cosa sarebbe mai la vita senza principi." 

Era del tipo ubriaco filosofo.

 "Minchia che principi! Mi fai crepare."

"Lo so, vero?” rise lui “meglio che crepare in una sparatoria."

Da quando quei bracconieri avevano puntato loro addosso i fucili e Diciassette si era gettato su di lei per proteggerla, Lillian non riusciva più a provare astio nei suoi confronti, anche se le dava fastidio che lui le avesse preso il titolo di top ranger. Non era ancora ufficiale, ma tutti lo riconoscevano già come tale.

Si chiese se l'avesse protetta per la stessa ragione per cui in ospedale…ma probabilmente Diciassette avrebbe fatto la stessa cosa con Brent, se fosse stato di fianco a lui al posto suo.

Nel frattempo tutti cercavano di spiare dal buco della serratura della camera di Elliott, dove Brent e Leni si erano rintanati.

"No dai, non ho parole. Cosa mi fate fare..."

John, che doveva essere l'autorità lì dentro, si scostò dalla porta della camera con fare altezzoso: 

"Un pollaio, questo è, altro che. Parlo per i miei, voi dovreste essere i tipi tosti. "

"E io lo sono sempre" asserì Lillian "ma questa tipa tosta ora ha freddo, quindi andrà a prendersi la giacca che ha lasciato in macchina."

Volle dare un'ultima possibilità a Joel, scambiando uno sguardo d'intesa con lui mentre si avviava fuori dal grande appartamento.

Per tutta risposta Joel scoprì che la porta della camera non era nemmeno chiusa a chiave così che quando tutti entrarono, videro che Brent e Leni erano così ubriachi che non ce l'avevano fatta a raggiungere il letto. Erano lì a ronfare sgraziatamente, buttati sul pavimento.

 

 Lillian rabbrividì, entrando in macchina e stringendosi la giacca sul corsetto; aspetto’ per un po’ ma alla fine, sentendosi già stanca, fece per mettere in moto la jeep. Erano le due passate. All'ultimo momento sentì bussare a un finestrino; alla buon'ora, finalmente Joel si era deciso a smettere di spiare Brent e Leni.

Ma abbassando il finestrino, vide due fari azzurri che di Joel non erano; brillavano anche nell'oscurità del parcheggio.

"Cosa c’e’ Sev."

"Non ti ho più vista. Tutto bene?"

Benissimo: teoricamente lei voleva restare e forse chiarire le cose con Joel, con cui aveva trascorso un anno di tira e molla solo per constatare che quel cretino se ne fregava altamente, al punto di preferire guardare due ciucatoni farlo piuttosto che farlo con lei. Pensare a Joel e a tutte le lacrime che aveva versato a causa della sua indifferenza le metteva rabbia:

“Quel mentecatto fa il prezioso, ma poi quando gli prende l’estro vuole venire da me a scaricare i suoi liquami...porco schifoso!”

"Ma...in macchina, sei sicura? Ti dico che non è così eccitante."

Lillian non sapeva se Diciassette fosse un coglione nato o se lo facesse apposta, ma aveva già esaurito la sua pazienza con lui quella sera; era troppo stanca persino per insultarlo.

"Tutto quello che hai evinto dal mio discorso serio e’ questo, bene...comunque la mia migliore amica dice che e’ scomodo.”

“Se ti scegli dei segaioli disadattati è solo colpa tua. E la tua amica sa quello che dice.”

Lui non le disse che gli restava qualche ricordo lontano di serate romantiche nella sua macchina rossa fiammante, forse con la donna rossa fiammante. 

Diciassette non pensava a Lillian in quei termini; non valeva la pena di lanciarsi in qualcosa di concreto con lei, alla fine non gli muoveva tutte le corde giuste. 

Sapeva che la forza dei suoi veri sentimenti non era stata scalfita dalla conversione, nemmeno al risveglio era stato apatico. La sete del sangue di Gero, Cell con il suo terrore e la riunione con Kate avevano mostrato al cyborg la potenza dell'istinto e delle sensazioni estreme. 

Pensare a Carly era quasi così: lei era intessuta nella sua memoria, era istintivo per lui evocare la sua immagine ed eccitarsi, piombare in quel sentimento travolgente e magnifico che con la sua grandezza lo logorava. 

Carly era impulso puro. Istinto profondo.

Al contrario Lillian, da cui era comunque attratto, poteva permettergli di mantenere il lato umano legato all'attrazione senza provare il dolore del fiume di vissuti, istinti ed emozioni che Carly portava con sé. 

Lillian era istinti leggeri; non era una brutta cosa.

Fu certo della leggerezza di Lillian fino al momento in cui lei scese dalla jeep e lo avvolse con un profumo inebriante e doloroso. 

La prima sensazione a palesarsi in Diciassette fu un contraccolpo nel sangue che lo paralizzò. Poi gli fece stringere il cuore e per un momento lui non respirò.

“Beh? Perché mi fissi?”

Senza pensare Diciassette si ritrovò a stringerla avidamente contro il proprio petto, la strinse fin quando lei gemette di dolore e lo supplicò di allentare la presa. 

Ma quel suo profumo -com'era possibile che non l'avesse mai sentito prima?- lo faceva impazzire, invadendogli la testa e facendolo tremare da capo a piedi. Sentiva che quel profumo era casa. Sempre senza curarsi di nient'altro intorno a lui, con gli occhi chiusi Diciassette affondò il naso nell'incavo della spalla di Lillian.

Piacevolmente sorpresa, Lillian rise e gemette quando si sentì stringere i fianchi e  sollevare. Diciassette aprì di scatto le labbra e le richiuse sulle sue; la issò senza sforzo sul tetto della macchina e in attimo fu completamente disteso su di lei, mentre ancora una volta si scambiavano baci profondi. Il cyborg cercava con affanno ogni centimetro della pelle dell’umana, il suo pene eretto premeva contro di lei. 

Lillian sbottonò la camicia immacolata, unico divisorio fra il proprio corsetto disfatto e il corpo di Diciassette. Lui non volle tirarla per le lunghe: si slacciò i calzoni e quasi con prepotenza sollevò la gonna di Lillian, sotto lo sguardo anelante di lei.

“Fai piano…” 

Lei parlò in un soffio, ma venne ignorata. Lillian lanciò un piccolo acuto e trattenne il fiato quando lui si affrettò a penetrarla. La prima spinta fu forte e improvvisa,  il corpo di Lillian si contrasse dal desiderio; i punti alla spalla erano saltati nel momento in cui Diciassette l'aveva bloccata contro il duro metallo della jeep, ma per ora non sentiva dolore. Lillian piegò le gambe a farfalla e aprì gli occhi per godere anche della vista del petto largo e muscoloso della sua nemesi, dei suoi tratti spigolosi, dei suoi occhi.

Oh, gli occhi! 

Si era immaginata che sarebbe stato intenso, eccitante, ma minchia

Diciassette si sfogò senza controllo, assecondando il suo impulso, non importava se leggero o profondo: doveva soddisfare un appetito vorace, e lei era un pasto da consumare in fretta. Si era perso in una dimensione da cui non sentiva i suoi stessi grugniti, né Lillian gemere ancora e ancora. Sapeva solo quello che il suo corpo voleva. Più si sfogava più voleva sfogarsi, lasciandosi trasportare da un cocktail di sensazioni fisiche che non ricordava di aver mai provato prima. Quando giunse alla fine della sua galoppata e il tumulto interiore si sparpagliò fuori da lui, strinse il corpo della collega e si lasciò sfuggire un lungo sospiro. Continuo’ a giacere sopra di lei.

Ancora fresca di estasi, Lillian rimase a sfiorargli la schiena e le spalle, ad osservare i suoi occhi ora fuggenti:

“E’ strano, vero?”

“Molto strano.”

“E se ci stai ripensando, ormai è tardi.”

Quelle parole valevano anche per lei. Avevano gettato il concetto di precauzioni dalla finestra, Lillian non l’aveva mai fatto così. Conosceva il suo corpo abbastanza bene da non allarmarsi, ma quello sì che era un motivo per scaraventarlo,  forse il solo motivo serio che Diciassette le avesse mai dato! Se n’era completamente fregato...

Tuttavia, sembrava che in quel momento ci fossero altri grovigli da snodare. Diciassette se ne stava in disparte, turbato e perplesso; il viso e il corpo di Lillian erano così tristemente nuovi, ma il suo profumo era il paradiso. Non ne veniva a capo:

“Non sono riuscito a ragionare con la testa...”

“Tranquillo, so con cosa hai ragionato.”

Per un momento Lillian gli aveva ricordato qualcosa. Lillian, quella ragazza che era lì per farlo ricominciare da zero, se avesse voluto. Anche i suoi capelli erano rossi, ma Diciassette sapeva anche che era stato il profumo a stregarlo. Profumo che, inspiegabilmente, sentiva sempre di meno più’ stava vicino a lei. 

"O qualcuno? Hai, la ragazza vero? Non ci posso credere..."

Lillian pensò di essere un’idiota totale, si era fatta illudere un’altra volta. 

"Non più..."

Per qualche strano motivo, Lillian seppe che era vero: in quel momento Diciassette le sembrava un libro aperto. Qualunque fosse il motivo dietro la sua esitazione, forse era per il meglio. Forse l’universo le stava dicendo che lei aveva decisamente passato il limite con Diciassette.

Mentre si risistemavano sul tetto della macchina, con l’adrenalina ancora in corpo ma tanta timidezza che ora li separava,  Lillian pensò che Diciassette non fosse proprio pessimo. Il suo atteggiamento strafottente non aiutava, ma forse non si meritava tutto il suo nervosismo. La sua gelosia le aveva annebbiato il giudizio, alla fine la mascotte non le aveva mancato di rispetto al contrario di Joel. 

Forse, se Lillian avesse smesso di essere così acida anche Diciassette l’avrebbe trovata più gradevole e quindi meno un bersaglio. Quella sera, dopo l’ultimo affronto subito da Joel, Lillian si impose di smetterla di pendere dalle sue labbra e, in contrasto, di smetterla di odiare Diciassette. Volle perciò abbordare un discorso che avrebbe voluto fargli già da tempo:

“Almeno c'è un pizzico di decenza in te: già mi umili al lavoro, se poi mi usassi come svuotapalle...”

“Che poesia! Poi chiami me volgare; comunque non me ne frega niente di umiliarti.”

“Oh, invece lo fai eccome."

Diciassette l'ascoltò fargli la lista delle cose che non capiva: come lui facesse a lavorare così tanto senza avere ripercussioni sul suo fisico, come potesse saltare dappertutto, toccare insetti urticanti, spostare macigni senza problemi e ingurgitare dosi da coma etilico come se fossero acqua fresca. Lanciarsi fra lei e dei proiettili a grosso calibro. 

Se Lillian fosse stata Carly gliel’avrebbe detto. Perché sapeva che, alla fine, la voglia che aveva di lei era più forte di quanto lui stesso calcolasse. Poteva anche ostinarsi a relegarla a un passato malinconico, ma la mancanza era indelebile.

Se Lillian fosse stata Carly e fosse stata lì con lui in quel momento, Diciassette avrebbe detto tutta la verità sulla sua natura, si sarebbe esposto completamente per non permettersi mai più di lasciarla andare. 

Ma Lillian non era Carly: non l’agognava. Anche se per un momento, per un minuto struggente ed inspiegabile, aveva creduto che fosse lei. E anche se la vista del suo seno, scoperto dal corsetto ancora slacciato, non lo lasciava indifferente:

“Mi tengo in forma, tutto qui.”

Lillian si era tolta la giacca per le vampate improvvise, ora le ricapito’ fra le mani e la stropiccio’. La vide insanguinata, la spalla iniziò a dolere di nuovo.

“Brutto villano...Guarda cos’hai fatto!”

Diciassette annusò un’altra folata del profumo e si lanciò ancora su Lillian. Lei urlò quando lui, di nuovo eccitato, le spacco’ un labbro con un morso.

Lui e le sue mini zanne…

Diciassette ignorò le giuste proteste di Lillian, le strappò l'indumento dalle mani e ci ficcò il naso. Lei lo guardava sniffarsi la giacca, perplessa: 

“Smettila, sembri un maniaco.”

“Dove l’hai presa.”

“Che ne so! Online?”

Lo sguardo di Diciassette era diventato duro, lui sembrava pronto a farle un interrogatorio crudele. Lillian si sentì invadere dalla paura: in quel momento il marmocchio sornione sembrava pericoloso, secondo una consapevolezza connaturata che non sapeva giustificare.

Preferì non rimuginare: 

“Per colpa tua mi dovranno ridare i punti e mi si gonfierà il labbro...Dicevamo, non mi prendere in giro: sei venuto qui e mi hai massacrata perché sei forte. Non negarlo, su."

“Non sono semplicemente forte, e paragonarti a me non è ciò a cui dovresti aspirare. Non puoi essere me, nel bene o nel male.”

“Ah, quel che è, fa nulla. Tu sei veramente su un altro livello, mi fai sentire molto mediocre, comune. Non l'ho presa bene…”

Il suo punto d'orgoglio era sempre stato essere più forte di qualsiasi altro tipo avesse incontrato, essere in grado di mettere fuori combattimento quei tipi che la deridevano per il suo corpo non femminile e quella sua forza.

"E poi tu fai e disfi quello che vuoi senza preoccuparti, non hai paura di niente."

"Sei fuori linea; odio quando pensi di conoscermi e dai per scontate certe cose su di me. Certo che ho paura! Ho paura di molte cose."

Diciassette era molto geloso dei suoi "sentimenti naturali": era normale avere paura. Sapere che aveva paura di qualcosa come chiunque altro era un ulteriore dettaglio che aggiungeva normalità alla sua vita.

"Quali cose?"

"I buchi, i cunicoli stretti" quando  aveva ripescato quella bambina sotto terra era andato in panico, aveva avuto un groppo in gola "E a volte ho paura della vita, come tutti. Non riesco a recuperare alcune cose che ho perso ma non ho altra scelta che andare avanti. Se ci penso è un fottuto incubo."

L'incubo su cui non aveva alcun controllo era il fatto che se essere un cyborg gli apriva molte porte, gliene precludeva altrettante.

"Ti stai aprendo a me...devi essere ubriaco fradicio."

"No, affatto; non posso ubriacarmi."

Lillian sapeva che per cose aveva voluto dire persone. Se gli mancava qualcuno, perchè non riallacciava i rapporti?

"Più facile a dirsi."

"Quindi sei un vigliacco. Un consiglio: non puoi tenerti tutto dentro. Ho lavorato a stretto contatto con te per questi mesi e sembra che tu pensi di non poter contare su nessuno, né per il lavoro né per la vita. Io avevo capito che scendere sottoterra era un problema per te, ma non ti sei neanche lasciato aiutare! Probabilmente pensavi che non ne sarebbe valsa la pena, visto che sai benissimo che nessuno è te. Fai sempre tutto da solo, tieni alla larga le persone perché pensi già da subito che non riusciranno a capirti, quindi non vuoi perdere tempo. Ho ragione?”

Non verbalmente, le disse di sì. 

Per Lillian, Diciassette poteva soddisfare la grandiosa definizione della maledettamente perspicace Carly: finto estroverso. Come lei.

“Credimi, capisco. A volte ci passo anche io.”

“Non sai di cosa stai parlando.”

“E se lo sapessi in parte? Sentire una mancanza senza sapere chiaramente cosa ti manca; l'eterno senso di insoddisfazione, il bisogno di sfogarsi e sentirti esplodere se non bruci quell'energia; doverti tenere perennemente occupato. Tu dici che io ti conosco solo superficialmente e hai ragione: ti sento simile a me ma allo stesso tempo mi sfuggi, non riesco a inquadrarti...Vorrei farlo, vorrei comprendere chi sei. Mi parlavi di principi, lascia che te ne dica uno anche io: cosa sarebbe la vita senza amici, eh? Essere solitari non deve voler dire essere soli." 

Diciassette si rese conto di quanto fosse solo. Non aveva nessuno tranne la sua famiglia e Sedici. Sarebbe stato così male avere un altro amico? Sapeva che avrebbe dovuto smettere di inventare scuse: la sua famiglia gli aveva già dimostrato che ciò che gli era stato fatto non era irreversibile, che poteva scegliere di essere una persona e non qualcosa fatto per uccidere. Tutti avevano amici. Accettarne qualcuno non avrebbe fatto male, anzi, lo avrebbe distratto e sarebbe stato un altro calcio in culo a Gero.

Inoltre, se lui e Lillian non erano già amici a parole lo erano di fatto: quando le avevano sparato, lui aveva voluto evitare che si facesse del male. Aveva pensato che sarebbe stato stupido lasciar morire un essere vulnerabile davanti ai suoi occhi, mentre quei proiettili non avrebbero fatto la differenza per lui. 

E alla luce di quella discussione con Lillian, ora lo colpiva il modo in cui si preoccupasse dell’incolumità dei suoi colleghi. Sì, insieme a Brent Lillian avrebbe potrebbe essere un’amica.

“Guarda te; sono dovuta arrivare al sesso per apprendere qualcosa di serio su di te.”

Diciassette aveva solo un anno in meno di lei, ma Lillian lo vedeva sempre come un giovincello. E in quel momento, vedendo le sue guance diventare più rosse provò quasi tenerezza:

“Ma bon, va bene così; ora dimentichiamoci di tutte le cose intime, se ti va, e iniziamo a essere due persone che si capiscono e si sostengono a vicenda...sono stanca di sentirmi nervosa al lavoro. Amici?”

Con uno dei suoi sorrisetti, Diciassette si avvicinò a Lillian, scherzosamente, come per cercare le sue labbra. Le strinse la mano:

“Va bene, amici. Ma non pensare che smetterò di essere me stesso solo perché siamo amici.”

 

 Di nuovo sola in macchina, Lillian constatò che doveva andare a farsi ricucire la ferita. Erano le 5 e l'ambulatorio più vicino a Viey, quello di Verny, avrebbe aperto alle 7.30. Perfetto, ci sarebbe stato tempo per la doccia e lo spuntino che necessitava. Guardando il motivo a grandi fiori della giacca, si accorse improvvisamente che non era la sua. Era troppo carina per essere sua.

"Toh. Non mi stava nemmeno troppo larga sulle tette."

Si imbarazzò a pensare al momento in cui avrebbe dovuto restituirla, strappata in alcuni punti e macchiata di sangue. Lillian non ci aveva fatto caso quando l'aveva pescata dall'armadio, ma quella giacca era stata dimenticata lì a casa.

Era della Carlona.









 

Pensieri dell'autrice:

 

😮


 

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Capitolo 22
*** Un Ladro in Cucina ***


 
Nella stazione di polizia nella periferia di Central City si respirava aria di festa.
Forse in quel periodo dell'anno anche i malviventi avevano di meglio da fare, e col Commando Magenta debellato agli agenti sembrava di avere quasi vita facile.
Era stato un anno di prodigi, fra la situazione Cell, la sua conclusione e infine la liberazione da Cloe Mafia. Tutto cadeva sotto la stessa categoria: eventi inspiegabili, casi aperti che sarebbero sempre rimasti tali.
In quel periodo festivo i poliziotti chiacchieravano, si ascoltava la radio.
"...ed è per questo che si pensa seriamente di nominarlo uno dei posti più sicuri del mondo."
“E’ un miracolo della natura!”
“Non ci sono più i disastri di una volta…”
"Ma dove?"
Bruno colse uno stralcio di un dibattito discusso con accento settentrionale e interpellò il tenente Glassier, suo vicino di scrivania. Glassier ascoltava spesso la stazione Antenna Verny, lo teneva informato sulla sua lontana terra natale.
"In una regione del Nord. Ascolti, capitano."
Molte voci si sovrapponevano nella trasmissione:
"È un record mondiale!"
"Infatti! Sentite che numeri: OTTANTA valanghe sono cadute dai monti nella catena del Grande Eden da ottobre a ora, ma il Royal Nature Park non ha registrato nessuna vittima. Questo dice il comunicato stampa del governatore del Nord e quindi vi dico, passatevi un bel capodanno in montagna!"
Glassier ascoltava, grattandosi i baffi:
"Pazzesco. Da che mondo è mondo la montagna è spettacolare ma gli incidenti sono sempre accaduti, parola di uomo del Nord."
Bruno sentì la radio informare gli ascoltatori che le strade del RNP non si erano quasi mai ghiacciate dall'inizio della stagione fredda. 
"Avranno delle spargisale da dieci e lode." commentava scettico il capitano.
“Persino il bracconaggio e’ ridotto all’osso.”
“Ah, pure?”
“E’ un miracolo della legge!”
"Central City ci comunica che se una tale situazione perdurerà, il Re premierà con una medaglia il capo della sicurezza del parco, John Dubochet."
"Ma chi, noi?"
Bruno non aveva sentito tale notizia. Si affrettò a cercare tutto su internet e vide che quello che Antenna Verny millantava era vero.
 
 La neve era arrivata a spolverare anche il distretto della capitale del mondo. Bruno doveva sbrigarsi a tornare a casa prima che la neve si ghiacciasse completamente sulle strade. Purtroppo per lui, lì non avevano le spargisale mirabolanti del Nord...
“Dove vai, capitano Weiss?”
“Come, Sedici? Andiamo a casa, le ragazze ci aspettano: celebriamo Natale stasera, ricordi? Amelia vorrà giocare con te mentre io e Sara finiamo di cucinare.”
Sedici aveva scoperto che Natale era una festa. Lì nel Centro si festeggiava primariamente lo stare insieme ai cari, ci si scambiava regali, eccetera.
Se fosse stato per Sedici sarebbe vissuto per strada, non gli serviva mangiare o lavarsi, ma si era affezionato alla famiglia di Bruno fin dalla volta in cui erano venute a trovarlo e lui le aveva incontrate. La giovane signora era molto amichevole e, bisognosa di un aiuto occasionale con la bambina, aveva accettato la proposta del capitano; in realtà Sara non era ancora legalmente la signora Weiss, ma vivendo con il capitano ed essendo la madre della sua progenie, Sedici la percepiva così.
Sedici era probabilmente senza domicilio fisso e sembrava una brava persona. Per di più, Bruno si fidava abbastanza di lui da affidargli l'incarico di bodyguard della sua famiglia. Da quando Cloe Mafia aveva mandato i suoi per far uccidere Sara e Amelia, anche se era successo qualcosa che ancora nessuno si spiegava Bruno voleva qualcuno di solido per proteggerle, non voleva più che alcun malintenzionato si avvicinasse alla sua casa. Il forte Sedici sembrava fare al caso suo.
"Perché non hai mai appetito, caro Sedici?" si preoccupava Sara.
"Sono un androide. Non ho bisogni come i vostri" ripeteva il gigante buono.
La cultura del Centro era tale che ognuno tendeva a farsi gli affari propri (motivo che spiegava anche la perdita di contatto fra Kate e i Der Veer), persino coi coinquilini. Per cui i Weiss lo presero in parola e non se ne parlò più.
Sedici lo stava accompagnando fuori dalla stazione quando Bruno ebbe un ripensamento:
“Ma forse siamo stati sconsiderati con te. Non devi tenermi Amelia stasera: se hai una famiglia da andare a visitare, fallo pure.”
La sua famiglia era probabilmente sparsa per il mondo. Sapeva solo dove fosse una parte di essa. L’altra parte, di cui aveva smarrito le coordinate, gli aveva rivelato cosa ne era stato di lei prima che lui e Sedici si separassero al Nord.
Approfittando del pomeriggio tranquillo alla centrale, Sedici decise di provare quella nuova usanza umana e di andare a trovare Diciotto alla Kame House.
 
 
 Aveva trovato gli occhi di Diciotto più sereni del solito, quando gli aveva aperto la porta. Sedici constatò che la vita con Crilin sembrava farle bene. Inesperto in materia di regali ma ricordandosi della passione di Diciotto per la moda, le aveva messo tra le mani dei begli appendiabiti di legno. Lei era tutta indaffarata a ultimare i preparativi nel salotto della casa, insieme a un gatto blu fluttuante e ad un maiale parlante che andava e veniva dalla cucina; anche se non chiacchierava con loro, sorrideva. A Sedici diede gioia vederla sorridere in maniera contenuta, ma vera e spontanea. In quel momento, gli sembrò fatta per vivere una vita semplice ed intima come quella che stava avendo ora; aveva dovuto aspettare Crilin per rendersene conto, ma era riuscita a stabilizzarsi. A Sedici sembrava persino che non si rendesse conto di qualcos’altro; anche se i suoi occhi gli parevano più vivi che mai c’era qualcosa in Diciotto, qualcosa di strano che l’androide faticava a identificare. Non era il suo potere, quello gli sembrava dirompente come ricordava, non era nemmeno la sua pelle diafana di natura; Sedici percepiva in lei un languore segreto, una vulnerabilità che Diciotto stessa ancora ignorava. L'androide attribuì queste sottigliezze al suo nuovo stile di vita totalmente umano: credette alla cyborg quando lei lo assicurò che stava bene.
Questo era stato a dicembre.
Dicembre era ora passato e la vita alla Kame House era continuata serena, fra i bisticci degli inquilini e le scorribande silenziose degli sposini.
Quando loro due erano tornati alla Kame House, gli altri li avevano accolti con una piccola festa e un “SOPRESAAA!”
Le belle notizie erano anche veloci; a questo punto, Diciotto non sperava nemmeno più che Kate non avesse visto il video.
Il mese di gennaio passava lento e tranquillo sull’isola del Genio.
"Luglio, allora. Non è così lontano e dobbiamo sbrigarci a spedire almeno gli inviti."
Il wi-fi del Genio prendeva anche in spiaggia, l'ufficio da cui Crilin e Diciotto solevano organizzare giorno per giorno la seconda cerimonia. Lui era incantato ad osservare lei che, usando simultaneamente due portatili, con la mano destra ultimava il layout degli inviti e con la sinistra scorreva varie pagine web senza perdersi una parola. Ora le toccava organizzare una vera festa e Diciotto  non sapeva da dove cominciare. Aveva anche organizzato degli appuntamenti per provare vari abiti. Secondo internet, un vero vestito da sposa non era una cosa da tutti i giorni: si sarebbe dovuta portare dietro qualcuno che le desse un parere. Le veniva in mente solo Kate, anche se Crilin le suggerì di invitare anche Bulma e Chichi, la vedova di Son Goku. Erano amiche di famiglia di lunghissima data e ormai lei e Crilin erano una famiglia.
"Vedremo: il vestito è mio e deciderò io chi portare."
A Crilin non sembrava che Diciotto leggesse, ma il suo cervello e i suoi occhi potenziati macinavano a tempo di record articoli su articoli, blog su blog e anche video di prove di abiti nuziali.
"Hai pensato alle tue damigelle?"
Ah già, il manipolo di comari responsabili di farla ubriacare all'addio al nubilato e di farla restare impeccabile durante il giorno designato.
"Forse Sara. È la mia sola amica, dopotutto."
Crilin sperava che Diciotto scegliesse anche Bulma...
A pochi metri da loro, Tartaruga apprezzava l’assenza di turisti nel suo mare e si concedeva lunghe nuotate, a volte seguita da Diciotto. Come Tartaruga, anche lei cercava un po’ di solitudine e il letto dell’oceano era perfetto. Lei riusciva a vedere anche laggiù, le pareva quasi di non essere sullo stesso pianeta dove era nata e cresciuta.
Gennaio vide anche l’apparizione di un misterioso ladro. Vari abitanti della casa si lamentavano quando, aprendo dispense e frigo, non trovavano quello che cercavano. Il più afflitto era Oolong:
“Ma come faccio ora a preparare i muffin se mi hanno mangiato i mirtilli?”
“...Si è preso anche il mio shake proteico. E i miei yogurt.”
Puar, il gatto fluttuante, guardava la faccia attonita di Yamcha e rideva sotto le vibrisse:
“Almeno i miei pâté non me li prende nessuno.”
Poi, quando meno se l’aspettavano si ritrovavano dispense e frigo pieni, come se il ladro avesse voluto prendere in prestito e poi ripagare.
Per coincidenza, questo restock avveniva quasi sempre dopo che Crilin e Diciotto tornavano da alcuni giri in città. Erano spesso in giro per visionare luoghi papabili per la festa e si occupavano anche delle compere.
Messo all’angolo dagli altri inquilini, Crilin aveva giurato la propria innocenza.
“E lasciate stare il mio ragazzo! Deve pur riprendere le forze, con tutte quelle che spende quando noi dormiamo.”
Muten ammiccò a Crilin da dietro gli occhiali, alzando entrambe le sopracciglia come per dirgli a buon intenditore, poche parole.
“Ma non sono io il ladro…”
Segretamente i residenti, tranne Crilin, pensarono di chiedere supporto alla sola persona in casa che nessuno poteva incolpare: Diciotto. Quella beveva e basta.
Non era incriminabile, soprattutto in quel periodo in cui la sua salute sembrava cagionevole per i suoi standard; aveva reclamato uno dei bagni della casa tutto per sé, guardando in cagnesco chiunque osasse obiettare. Gli occupanti della casa volevano sempre andare a parlarle, promettere di pagarla se lei avesse messo un freno a quell’assurda dimostrazione di slealtà fra amici. Lo sguardo di lei, tuttavia, li dissuadeva sempre.
Intanto, i furti non si fermavano; il ladro non era molto selettivo, sembrava solo che gli prendessero dei raptus, specialmente la notte, e che qualsiasi cosa su cui riuscisse a mettere le mani andasse bene:
"La mia conserva di ribes...l'avevo tenuta in serbo per l'arrosto della domenica!" Oolong non voleva nemmeno più sprecarsi a cucinare per quella banda di canaglie:
"Yamcha, razza di fogna, so che sei stato tu."
“Non io!”
Il Genio, proprietario della casa, sopportava quei bisticci fra gli inquilini ancora meno di dover condividere il bagno con tutti loro. Anche a lui venne la brillante idea di porre un deterrente: proprio quel deterrente dall'autorità indiscussa, completa di fisico flessuoso e occhi da femme fatale. Fu l'unico ad avere il coraggio di avanzare quella richiesta:
"Diciotto, senti me. Se mi sorvegli la casa e mi tiri fuori chi combina tutto 'sto scompiglio, ti do zeni."
Diciotto poteva dire di odiare la Kame House. Ma gli zeni, quelli non le facevano torcere il naso:
"Quanti."
"Abbastanza."
C'era una borsetta su cui voleva mettere le grinfie; costo 604,000 zeni.
"Non un centesimo di più, non uno di meno, Muten. Altrimenti addio."
"Eh altrimenti e altrimenti, ci sono anche altri modi in cui un vecchio scapolone come me, con il mio savoir faire ed esperienza potrebbe retribuiti."
Il Genio ridacchiò e non si stupì della smorfia in cui il bel viso della cyborg si distorse:
"Tch. La tua specie mi dà il vomito."
Muten si chiese se l'insulto fosse riferito al suo essere umano, o marpione; ma no, non era una metafora, lui la nauseava seriamente!
"Ehi? No no no, aspetta!"
Il vecchio si affrettò a scortare la ragazza fuori dalla propria camera quando lei, presa da conati persistenti, lo minacciò di rifargli la moquette.
Il Genio era piuttosto allibito: molte ragazze a cui lui aveva fatto battute salaci l'avevano trovato rivoltante, ma MAI in senso stretto.
Però in fondo, che ne sapeva lui di cosa piace alle cyborg…
 
 
 Anche se aveva abitato con Kate prima di andare a cercare Crilin, vivere in una casa piena di creature fragili era sempre un'esperienza nuova per Diciotto. Incuriosita dalla loro routine, fin da prima del matrimonio aveva provato a imitarli, intrigata dall'aria di pacifica normalità che le trasmettevano. L'unica cosa che non faceva mai era mangiare con loro. Quando Crilin e gli altri si ritrovavano a tavola lei si univa a loro per rispetto e cortesia, ma non toccava niente. Solo ultimamente, quando le veniva appetito di fronte alla tavola imbandita, si limitava ad assaggiare un boccone.
Quello sarebbe stato un buon anno, l'avrebbe cominciato come moglie di Crilin; il pensiero la faceva svegliare col sorriso molte volte, inclusa una mattina di quel gennaio, quando venne destata da un profumo delizioso. Crilin dormiva ancora, in posizione stella marina; senza svegliarlo Diciotto sgattaiolò fuori dal letto e scese in cucina.
Riconobbe l'inconfondibile aroma del burro che sfrigola nella padella e vide delle crêpes impilate su un piatto. La padella appena usata era ancora calda.
Senza pensarci su, Diciotto si sedette sul piano di lavoro e nell'intimità della casa addormentata se ne prese un paio; procedette poi a divorare l'intero piatto, mettendosi comoda ad osservare l’andirivieni del mare scuro fuori dalla finestra. Aveva mangiato più di quanto avesse mai fatto da quando era stata convertita e volle godersi la sazietà per il tempo che sarebbe durata.
Stette ancora un po' a guardare le onde avanzare e ritirarsi, lieta di constatare che almeno per quella mattina placare la nuova, impellente necessità di cibo solido non sarebbe stato un attentato al suo stomaco mal abituato.
“Vita a pancia vuota…”
A differenza di quando si limitava a bere, con il vero cibo non riusciva mai a soddisfarsi del tutto; quel piacevole senso di sazietà durava infatti pochi minuti. Poi sentiva di nuovo il vuoto siderale e le veniva voglia di riempirsi ancora. Era un loop, un problema totalmente nuovo per Diciotto. Ora capiva suo fratello, quando le sembrava famelico e rompeva perché aveva bisogno di mangiare...
"Finalmente anche tu ti sei arresa alla mia cucina."
La ragazza si voltò all'improvviso; vide Oolong sulla soglia della porta fissarla con un sorriso sul suo grugno.
"Avevo preparato la colazione per tutti ma fa niente, ne farò altre."
Il maialino aggiunse la postilla vedendo le sopracciglia inesistenti della cyborg incurvarsi.
"Fanne altre. Ora."
"Sì signora!"
Oolong si rimise ai fornelli sotto lo sguardo perentorio e impaziente di Diciotto. Alla fine era contento di fare qualcosa che quella ragazza apprezzasse.
Quando anche il Genio e Tartaruga si svegliarono e andarono in cucina, restarono di sasso nel vedere la regina dei ghiacci mangiare.
 
 
 Crilin era di nuovo in periodo di tornei e nel tempo libero e si allenava combattendo contro sua moglie. Era un allenamento anche per Diciotto, ma non di forza, di finezza: quando lottava con Crilin, Diciotto si allenava a dosare la sua potenza. Di solito lui faceva fatica lo stesso, lei restava comunque nettamente superiore sia in forza e velocità.
Crilin e Diciotto si allenavano intensamente dalla mattina alla sera, ma era soprattutto un divertimento; Diciotto voleva credere a suo marito quando lui le diceva che anche lei, essendo stata in origine un'umana, poteva diventare più forte con l'allenamento. Capiva come mai Crilin avesse fatto delle arti marziali il proprio mestiere: era una soddisfazione saper fare quello che solo pochi altri terrestri (e alieni) padroneggiavano. Contando che Son Gohan era mezzo saiyan, nessun terrestre oltre a Crilin e al suo maestro sapeva eseguire la kamehameha, nemmeno i gemelli dagli occhi cristallini.
Forse sarebbe stata una buona carriera anche per lei, le avrebbe permesso di sfruttare il suo corpo potenziato. Quello in cui Crilin la batteva era la tecnica: Diciotto non aveva un vero e proprio stile di combattimento, era giusto una ex gangster che si era ritrovata fra le mani un potere spropositato. Ma avrebbe presto cambiato pagina e forse anche lei si sarebbe fatta un nome, prima o poi. Ci pensava già dalla volta in cui aveva incrociato la Marion, quell’ex ochetta, e ora l’idea stava prendendo sempre più piede.
Però ultimamente Diciotto non era soddisfatta della sua performance: se qualcuno l'avesse guardata combattere probabilmente non avrebbe notato differenze, ma si sentiva fiacca. Lei era la sola creatura, insieme a Diciassette, in possesso di energia infinita; tuttavia in quel momento non poteva sentirsi più lontana da quella definizione.
Si convinse che qualcosa non quadrava e la convinzione venne finalmente comunicata quella volta in cui suo marito le stava insegnando una nuova tecnica: creare dal palmo della sua mano un disco di energia tagliente come una lama.
Era il Kienzan, la sua mossa personale.
A Diciotto era piaciuto un sacco da quando aveva visto Crilin farlo. L'aveva ammirato ancora di più quando i suoi amici le avevano detto che era un attacco ideato interamente da lui.
Si era sentita orgogliosa di lui.
Amorevole, creativo, integro, coraggioso: l'umano "puro" più forte del mondo, suo marito, era davvero l'uomo per lei. La vita continuava a dimostrarglielo.
Quella volta Crilin sarebbe apparso sul ring solo nel tardo pomeriggio e si era preso un momento per allenarsi con lei; stava per mostrarle come eseguire i giusti gesti per il kienzan, ma si era fermato quando Diciotto gli aveva chiesto time-out, si era inginocchiata sul pavimento del dojo e aveva vomitato.
Crilin si dispiaceva così tanto ogni volta che la sua adorata stava male, fisicamente o mentalmente.
"Va tutto bene, sono qui."
Crilin le aveva accarezzato la schiena, mettendole i capelli dietro le orecchie, come aveva già fatto altre volte durante quell’ultimo torneo.
Da quando la cyborg aveva iniziato a sentire il bisogno di nutrirsi di cibo solido era stata maluccio, le cose stavano così un giorno sì e l'altro pure. Forse qualcosa in lei non era più fatto per sostenere quel genere di dieta.
"Ho paura che qualche mia parte cibernetica stia avendo un malfunzionamento. Devo trovare qualcuno che può eventualmente sistemarmi."
Un medico normale non poteva capirne niente di cyborg, Diciotto era sicura.
"Hai ragione. Ti porto da Bulma, lei conosce la tua fisiologia. Sai, lei aveva persino riparato Sedici."
Era l’occasione perfetta per far visita a Bulma, visto che quel torneo si svolgeva nel distretto di West City.
Bulma, chi era quella lì? Ah sì, la scienziata amica di Crilin. Era la moglie del saiyan a cui lei stava antipatica, quello che l'aveva provocata e che lei aveva pestato senza pietà quella volta tre anni prima, poco dopo il suo risveglio.
Diciotto non aveva molta voglia di incontrare un'estranea, specialmente in un periodo in cui si sentiva molto vulnerabile. Si sedette in silenzio e con circospezione su un lettino nel laboratorio, simile ma diverso dall'ultimo in cui era stata.
Bulma riuscì a esaminare la ragazza solo perché aveva già studiato le cianografie dei cyborg: Trunks del futuro gliele aveva portate prima che Cell si manifestasse, lei ci aveva costruito il famoso telecomando. A dir la verità Bulma aveva potuto studiare solo quella del n.17, ma Diciotto non ne era a conoscenza e si stupì di quanto bene quella donna conoscesse il suo corpo ibrido. La ispezionò, testò e osservò con perizia e cura, prima di decretare la sua diagnosi:
“Una cosa è certa. Le parti meccaniche, per quanto piccole, hanno bisogno di manutenzione relativamente regolare per essere sempre perfettamente performanti.”
Era la prima volta che Bulma vedeva il cyborg n.18 dal vivo e per un istante, solo un piccolo istante, la sua sicurezza vacillò. Bulma Brief era una bella donna, lo era sempre stata e il suo aspetto le era sempre piaciuto; ma la moglie ventenne di Crilin era tutta un’altra storia. Era anche pericolosa. Ripensando alle foto che aveva visto e anche a Kate Lang, Bulma capì che il pestaggio selvaggio non era la sola ragione per cui Vegeta, un tipo che disdegnava -e quindi dimenticava- metà della realtà intorno a lui non si sarebbe dimenticato di lei. Dando per scontato che anche il somigliante n.17 avesse quel tipo di presenza, Bulma si chiese se Gero non l’avesse fatto apposta.
Ritornando al presente con la mente, ipotizzò che Gero aveva sicuramente previsto di dover svolgere manutenzione di tanto in tanto; ma ora che era bello che morto, Diciotto avrebbe potuto esserne in necessità. Invece Bulma constatò, per quanto il suo laboratorio le permise, che le parti cibernetiche della ragazza erano perfettamente a posto, il suo reattore di energia infinita non faceva eccezione.
"Mi sembri molto stressata e ricordati che alla fine lo stress non fa bene a nessuno, Diciotto. Nemmeno a te."
Crilin era intervenuto per lei:
"No Bulma. Quello che mia moglie intende dire è che ha riscontrato questi malfunzionamenti solo di recente, specialmente da quando ha introdotto cibo solido nella sua dieta."
"Ah! Ma guarda...aspetta, da quello che so l'altro cyborg ha avuto le sue stesse modifiche. Diciotto, sai se anche il n.17 è soggetto allo stesso tipo di malfunzionamenti?"
Assolutamente no. Da quel che ricordava Diciassette mangiava almeno quattro pasti al giorno perché gli andava di farlo, e stava benissimo.
"Mmm...eh, certo."
Bulma le aveva fatto altre domande, alcune piuttosto personali a cui la cyborg aveva rifiutato una risposta. Aveva spento tutti gli scanner e le macchine che aveva usato per ispezionare Diciotto:
"Non penso tu abbia bisogno di me, ma di un medico normale."
Gli occhi della ragazza guizzavano da Bulma a Crilin, da Crilin a Bulma, mentre quest'ultima le passava un biglietto da visita che aveva appena estratto da una cartella.
"Vedrai, sarai in buone mani. Puoi anche dirgli che sei una cyborg, non si scandalizzerà, è il nostro medico di famiglia..."
Diciotto fece un cenno col capo per ringraziare Bulma della sua cortesia. Se ne andò tenendo il braccio a Crilin, abbastanza freddamente. Era delusa da quella visita inconcludente, anche se era sollevata dal fatto che i suoi circuiti, almeno quelli, funzionassero. 
“Non preoccuparti, amore: starai meglio, presto, capita a tutti di avere periodi di stress. Prometto che  aiutero’ di più con il planning del matrimonio.”
Dolce, dolcissimo Crilin. L’aiutava gia’, a dir la verita’ lui faceva già di tutto per semplificarle la vita.
Proprio in quel momento Diciotto ricevette un messaggio di Kate. Le era stato recapitato qualcosa per lei:
“Lettera da Sara Keller, Lazuli. La busta dice “Non posso dire di si, senza averti qui”.”
Diciotto richiamo’ Kate e le chiese di aprirla: era un invito dalla sua amica Sara, prossima al matrimonio, ad essere la sua damigella d’onore.
 
Guardandoli avviarsi fuori dal giardino di casa sua, Bulma sorrise:
"Diciotto, cara…non ti ho detto quel che volevo dirti, lascio che ci arrivi tu da sola."
Da scienziata con altissimo QI, la dottoressa Brief restò ancora una volta stupita dal lavoro sublime del perfido Gero, il solo che sapesse creare combinazioni perfette di organismi viventi e cibernetica.
"Che ci faceva quella in casa mia??"
Vegeta, questa volta, era SICURISSIMO che fosse la cyborg e non una sua qualche parente stretta.
"...Quella stupida bionda robotica e rottamosa."
"Eh no, Vegeta. Prima di tutto è sposata, basta con gli appellativi. Secondo, è  tanto umana quanto me o ogni altra donna…"
Bulma camminò avanti e indietro, serafica, ancora persa nei suoi pensieri.
"Che vuoi dire? Diamine, donna, non parlare per enigmi."
"Vedrai, eh, vedrai" la scienziata si divertì a ipotizzare un conteggio, innatamente felice per il suo grande amico "in teoria la fine dell'estate avrebbe senso. Vegeta, credo proprio che per agosto o settembre il vecchio Muten dovrà aggiungere un posto a tavola. Sai, come abbiamo fatto noi.”
Vegeta strabuzzò gli occhi nel capire che, parlando di loro, Bulma stava alludendo al piccolo Trunks.
 
 
 
 
 
 
Pensieri dell'autrice:
 
Come pensavo, gli zeni di DB valgono più o meno come gli yen giapponesi odierni (così pensavo dice la Wiki di DB), quindi la borsetta che Diciotto desidera costerebbe per noi europei la bellezza di 5.000 euro. Al Genio costa cara la sua vigilanza! Ma più tardi vedremo che lei alla fine non gli chiederà un solo centesimo (ma la borsa le verrà comunque regalata da qualcun altro) e la ragione, furbetti miei, la si vedrà fra due capitoli.
 
 

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Capitolo 23
*** Gli occhi verdi dell'amore ***


 

"Oh amore mio, oh amore mio, ho pianto così tanto per te

Le notti solitarie senza sonno, ad anelare il tuo tocco."

                          -The Seekers

 

 

 

Carly era tornata al campus leggermente piu’ triste di quando l’aveva lasciato durante l'estate: si chiedeva come avesse fatto a passare ventidue anni in citta’ varie senza mai sentirsi soffocare. Di ritorno alla facoltà, gli spazi aperti del parco le mancavano già. Per di più era febbraio e il compleanno di Lapis si avvicinava a grandi passi: anche se ormai il concetto di "compleanno" non sussisteva più, era pur sempre un periodo difficile per lei. 

Tuttavia voleva farsi forza, stipulare una tregua: da quel 13 febbraio in poi avrebbe solo rivolto un pensiero al suo amato, ma non più lacrime. 

Basta con le lacrime.

Pensando positivo invece, era divenuta orgogliosa di Lillian: dopo la sua partenza, si era aspettata di dover gestire la malinconia dell’ex top ranger e si era organizzata in modo da avere almeno un’ora al giorno da consacrare a telefonate con lei. Ma non ce n’era stato bisogno; al di là degli impegni Lillian stessa le aveva detto che non alla fine non serviva. Un paio di giorni dopo la sua partenza, Carly l'aveva videochiamata per accertarsi che stesse bene e le era apparsa bianca come un cencio; Carly non sapeva che Lillian aveva, proprio per essere sicura, assunto la pillola del giorno dopo e stava soffrendo qualche effetto indesiderato. Ormai, loro due erano ormai così amiche che parlarsi una volta alla settimana bastava. Carly aveva capito che per Lillian era stato un traguardo, e si era anche sentita fiera di se stessa per averla influenzata positivamente: se all’epoca del loro incontro lo scorso luglio Lillian le aveva detto che loro due avrebbero preso la sua tristezza a calci in culo, Carly ora poteva dirlo delle dipendenze emotive di lei.

Puntare sulla qualità piuttosto che sulla quantità aveva giovato alla loro amicizia: erano più felici che mai di sentirsi, quando capitava che lo facessero. Ultimamente, però, Lillian le sembrava strana anche piu’ del suo solito:

"Carly, riguardo alla tua giacca che mi hai lasciato tenere...Con che detersivo facevi il bucato, di solito? Quando vivevi qui” le aveva chiesto una sera, guardandola con serietà attraverso la webcam.

"Quello della sottomarca nel flacone da cinque litri che usi anche tu. Perché?"

Sperava che Carly le dicesse il nome di una fragranza particolare ma no, non portava nemmeno profumi, era allergica: con la pelle che la cupcake si ritrovava, Lillian avrebbe anche potuto arrivarci da sé.

“Niente, chiedo per chiedere."

Carly si era vista chiudere la chiamata in faccia, cosi’ dal nulla. Lillian l’aveva richiamata il giorno seguente:

"Ma se si hanno amnesie parziali, se ci si dimentica interi pezzi di vita si può recuperarli? Chiedo per un amico."

 Il famoso “chiedo per un amico”...

"Non saprei. Non sono un neuropsichiatra, ma posso informarmi. Riguarda il tuo scopamico/nemico giurato, per caso?"

COLLEGA. Che tra l’altro e’ di Central City. Sei davvero sicura di non conoscerlo?”

Central City é un concetto molto ampio. È quello con gli occhi azzurri?" 

A Carly non piaceva molto la piega che la conversazione stava prendendo: "Biondo?"

"No, super moro."

Lillian le aveva già riassunto la situazione del suo collega di Central City. L’aveva addolorata, riusciva a immedesimarsi: 

“Deve andare da uno psichiatra, non è niente di vergognoso o denigratorio! Per un’amnesia non bastano rimedi casalinghi...Detto fra noi, al tempo io avevo paura che Lapis si dimenticasse di me, così gli avevo regalato qualcosa per ricordargli noi.”

"...Piuttosto, marcare il territorio."

"Era inteso come una cosa tenera! Sai, anche lui era moro-occhi chiari; se fossi stata tu, alle prime armi e con un ragazzo molto più bello di te cos'avresti fatto?"

 

 Nel RNP se la cavavano bene; avere Diciassette come top ranger era stata una svolta che, si diceva, sarebbe passata alla storia. Tutti sapevano che era grazie a lui che tutto stava andando surrealmente liscio quell'inverno. Era conoscenza comune implicita che fosse lui a far piovere sui villaggi, invece che farli distruggere dalle valanghe:

"Eh, è Diciassette."

I vecchi pensavano che fosse magico: tutto quello che capivano era che lui si metteva davanti a una valanga e questa svaniva in enormi nebbie, in agglomerati di vapore denso che si traducevano infine in lunghi acquazzoni. Qualcuno si trovava tre dita d'acqua in casa, ma era un inconveniente che tutti preferivano alle valanghe.

Diciassette aveva, conseguentemente, percepito retribuzioni notevoli. La nuova sicurezza del RNP portava quantità di turisti più ingenti del solito sui sentieri e nei rifugi, anche in bassa stagione.

Il nuovo top ranger aveva indirettamente dato un giro di vite al turismo invernale e all'intero Nord. La direzione non si risparmiava sui suoi assegni, era il minimo che poteva fare.

John e gli altri due moschettieri erano in posizione privilegiata. Per loro lui era una rockstar:

"Dovevi vederlo, Elliott. Pochi minuti e ha scavato un canale di scolo intorno a Noiresylve: così la Poyaz e gli altri la piantano di lagnarsi del pantano."

I moschettieri erano a Saint-Paul; Elliott sedeva sul divano fra Lillian e Diciassette, mentre Brent si adoperava a cucinare il pranzo: era un’occasione più unica che rara che lui, Sev e Lilli avessero lo stesso giorno libero. I lavori manuali gli piacevano proprio.

"Fottuto bulldozer."

Lillian ora non si risentiva più delle capacità del marmocchio; anche se non fossero stati amici, l'afflusso invernale di turisti aveva ispessito anche la sua busta paga.

Brent, tutto contento, mise davanti ai suoi coinquilini e alla sua ospite un glorioso piatto di nachos, ammiccando a quest’ultima:

“Vedi Lillian, con me non dovresti nemmeno cucinare, ti vizierei e basta.”

“Bella roba. Diventerei brutta, e grassa,…”

“Per me non saresti mai brutta e grassa."

Un silenzio imbarazzante scese nella stanza. I moschettieri mangiarono in religioso silenzio, fin quando il paleontologo emise una serie di mugugni soddisfatti:

“Questi nachos...ecco cos'è un orgasmo.”

“Sì, certo...” borbottò Lillian.

 

 Era pomeriggio inoltrato quando Diciassette si offrì di riaccompagnare Lillian. Doveva parlarle, le disse. 

Dalla sera di Halloween non l’avevano più rifatto; avevano voglia, ma non volevano. 

Era capitato che ci riandassero vicini, chiudendosi dove capitava per sveltine sempre solo tentate. Lillian aveva dovuto sforzarsi per far prevalere l’amor proprio: sapeva che dare un seguito a quella notte là  le avrebbe fatto male.

A lungo andare lei e Sev erano fatti per essere solo amici: erano troppo simili, avrebbero finito per scannarsi.

Lillian riuscì a non farne una malattia, nonostante volesse Diciassette e la sua bocca capricciosa, le labbra dolci quando sciolte in un bacio ma dure quando fisse in un sorrisetto, ciò che Lillian vedeva più spesso. Ed era giusto così.

Quanto a Diciassette, non le aveva reso le cose più complicate. 

Aveva capito quello che voleva; era stato così ingenuo a credere di potersi convincere a dimenticare Carly. Il lui che si era risvegliato dopo la situazione Cell l’avrebbe bastonato: 

"Devo trovarla. Se l'avessi qui ora, la prenderei fra le mie braccia e non la lascerei più" aveva detto a Diciotto, sentendo veramente quelle parole.

"Chiunque fosse, è stata qualcosa che mi ha salvato in un posto in cui la salvezza non c'era." 

Carly l'aveva davvero salvato nei giorni del terrore di Cell. A quel tempo, solo lo scorso giugno, ritrovare Carly era una priorità. E ora?

"Carly..."

In macchina, Lillian si dispiacque nel vederlo abbassare la testa con gli occhi chiusi, come se volesse trattenere un pianto. Stava forse pensando alle cose che aveva perso. Mentre lui guidava Lillian notò di sfuggita, per la prima volta, che la fibbia del suo orologio era incisa con delle lettere che lei non riuscì a distinguere.

Arrivati a Viey, rimasero nella piazzetta: 

“Volevi dirmi qualcosa, Sev?”

Diciassette si era prefissato l’idea di non dire a nessuno della conversione, a parte sua madre e Carly. Ma non aveva molte opzioni con Lillian, che sin dal momento in cui si erano incontrati voleva vederci chiaro. Ora che erano amici, sembrava quasi strano che lei non lo sapesse e celare la verità cominciava a pesare. 

Un’altra cosa che non aveva previsto: la verità pesava? 

In quel caso, parlare alla sua amica gli conveniva. Erano già molto in confidenza.

“Ok, Lillian. Ti ricordi quando mi hai fatto tutte quelle domande? Perchè riesco a fare quello che faccio.”

Era il motivo che gli stava venendo comodo al lavoro, ma che spiegava anche la sua amnesia e l’interruzione della sua relazione più importante; a Lillian non voleva certo dare lo spiegone, ma non sapeva che pretesto usare per essere chiaro e di poche parole:

“Ti ricordi quando ti ho detto che non ho avuto chirurgia plastica?”

“...le tue zanne non sono naturali alla fine?”

“Sì, il loro aspetto è naturale. Quello che posso farci è un altro paio di maniche.”

Lillian faticava a seguirlo, ma si incuriosì quando lui le chiese, visto che era la prima cosa che gli passava per la testa, di dargli qualcosa da masticare. Qualsiasi cosa.

"Se vuoi scroccarmi la merenda, scordatelo."

"Vuoi la verità o no?"

Senza vederci chiaro, l'ex top ranger accontentò la richiesta: frugò nel suo zaino e gli porse il suo opinel. Se ne pentì e urlò quando l'attuale top ranger staccò la lama con un morso. 

Lillian strillò per lo spavento di vederlo ferirsi, magari ammazzarsi. Diciassette si rigirò la lama in bocca prima di sputacchiarla sul bitume, tutta in pezzi.

Ci pensò un attimo: se ci fosse stata Diciotto gli avrebbe puntualizzato la sua apparente fissa con gli oggetti metallici, quando si trattava di fare una confessione a qualcuno. 

Beata Diciotto: tutti intorno a lei erano già a loro agio con il suo essere cyborg. Ma no, a lui toccavano umani basic e basta.

"Cosa...cos'era quello?"

"Il tuo coltello."

Che simpatico. 

"Sev!"

"Era la verità. Non parlo a vanvera."

E di nuovo quella trafila di smarrimento, incredulità e dimostrazioni che era successa anche con Kate.

“Non ci credo! Non e’ possibile…”

“Zero chirurgia plastica; ma chirurgia sperimentale, e illegale, effettuata da uno scienziato matto su ogni cellula del mio corpo -o quasi.”

Lillian non lo scorse muoversi, vide solo un guizzo impresso nell’aria intorno a lei; ma si trovò improvvisamente in alto nel cielo, filando veloce fino a una delle vette che incoronavano la grande piana Pessy. 

"Ah, diamine! Villano, che hai fatto?"

"Sono un cyborg, Lilli."

Diciassette era al suo fianco...l’aveva portata lì. Avevano appena volato.

"SEI COSA?"

"Un umano con innesti cibernetici, per farla breve."

"Terminator volante?"

Diciassette schioccò la lingua, mani in tasca e uno sguardo di sufficienza tutto per lei: 

Terminator è un androide. Io no.”

Lillian lo squadrò con meraviglia. Straordinariamente lucida, si chiese cosa lui potesse davvero fare, se quello che lei aveva visto fosse solo la punta dell'iceberg. 

"...quella volta coi bracconieri?"

"I proiettili non mi fanno niente."

Lei aveva la bocca secca:

"E la frana di Noiresylve?"

Diciassette scrutò il pianoro, lontano sotto di lui: fu abbastanza sicuro che niente abitasse una di quelle pareti rocciose. Una specie di raggio laser scaturì dalla sua mano protesa e colpì la roccia di fronte a loro.

La parete si divise in due, tagliata impeccabilmente. 

Diciassette non aveva scanner termici come quelli di Sedici, ma poteva lo stesso rilevare la presenza di persone ed animali. Una spiegazione che doveva tranquillizzare Lillian, ma che non sortì quell'effetto.

Nessuno di normale pensa mai, in vita sua, che un giorno incontrerà qualcuno che si offende se paragonato a un'iconica e badass figura della fantascienza, perché  "Terminator è scarsissimo, non può nemmeno creare esplosioni di energia."  

Quelle che gli aveva appena visto fare.

Ma proprio lei, Lillian, era lì al cospetto di un cyborg.

Per davvero. Non poteva non credergli, quando mai le sarebbe successo ancora? Sapeva che il mondo era un posto strano, ma questa era l’esperienza più strabiliante che lei avesse mai vissuto. Nella gelida atmosfera di quella folle altitudine, fu tutto ciò a cui Lillian riusciva a pensare.

"...perché sei un cyborg?"

"Eh, questo scienziato matto voleva vendicarsi di un nemico personale e così ha rapito e convertito me e mia sorella. Dopo la sconfitta di Cell ho ritrovato mia madre e lei mi ha aiutato a rimettere insieme dei pezzi. Alcuni, almeno. Tipo il mio compleanno.”

Sarebbe stato lunedì, il 13.

La mente di Lillian evase per un minuto, doveva trovargli un regalo…

Diciassette era stato un normale ragazzo di Central City, Lillian si disse che doveva strigliare per bene internet, così su due piedi tutto le sembrava così irreale. Doveva verificare in qualche modo, ma forse prima avrebbe dovuto scendere da quella vetta.

Sentì uno scatto da montagne russe e un risucchio, quando Diciassette l’afferrò di nuovo e lei si ritrovò giù all'alloggio 36B.

Cazzo...distruggeva anche città?

Gli occhi di Sev si fecero di nuovo sfuggenti:

"...Una volta. Ma erano solo due km quadrati, non qualificabili come citta’.”

“Ah bon, solo due km quadrati quindi un pezzo di città, questo mi fa stare meglio.”

 “Ora basta, tutto questo è troppo per te."

Lo disse più a se stesso che a lei; nonostante tutto la conversione era sempre qualcosa di indigesto, specialmente quando si sovrapponeva a situazioni umane com'era il doverla spiegare a qualcuno che meritava di saperlo, ma che non poteva capire fino in fondo.

"Quindi io sono andata a letto con un cyborg..."

Lui le ammiccò beffardo, proteso verso di lei con una mano al muro: 

“Con me; e mi sembra che non ti sia dispiaciuto, no? Però non chiamarmi più scaricatore di pile, non fa ridere."

"...e’ scaricatore di porto! E mi devi un coltello, per l'appunto."

Diciassette sogghigno’, come se quell'appellativo invece gli andasse bene:

"In onore al nostro patto, l'amicizia, ti ho detto chi sono. E tu non mi tradirai."

L'istinto suggerì a Lillian che quello era un ordine. Sapeva peró che Diciassette non le avrebbe fatto del male, erano amici. 

La confessione non impedì alla ragazza di continuare a vedere Diciassette come un uomo, di sentire sempre quella punta di desiderio; sulla soglia di casa, Lillian si spostò più vicina a lui e gli passò il pollice sulle labbra. Entrambi si guardarono per un lungo istante e poi si dissero un “no” perentorio.

 

 

 Lillian rimuginava. 

Era scombussolata: pensava a quanto avesse giocato col fuoco, all'inizio, a dichiarargli guerra. Per lui doveva essere stata ridicola, se davvero l'avesse odiata avrebbe potuto farla a pezzi con un dito.

Pensava a quanto fossero fortunati, lei e gli altri, ad avere Diciassette dal loro lato e non come nemico.

No, che follia era mai quella! Lui era solo un ragazzo e lei l'aveva ben verificato, certe cose non si potevano fingere. Ma poi…

Se nelle aree più urbanizzate del pianeta si tendeva a dimenticarsene, al Nord era ancora molto evidente e non si pensava altrimenti: l’uomo non poteva eguagliare la natura, lei e la sua potenza erano incomparabili. 

Ma Diciassette, con la sua abilità di volare, con la sua resistenza vicina all'invulnerabilità e la sua incalcolabile forza che gli permetteva di neutralizzare frane e valanghe in modi tuttora incomprensibili, Diciassette sfidava Madre Natura; lui le dava filo da torcere.

Lillian ripensava poi ai suoi comportamenti normali di tutti i giorni, le ritornava sempre in mente quello che avevano fatto.

Lui era un organismo vivente. 

E ora a guardarlo spaccarle della legna, un gesto normale, la sua voglia di documentarsi era sparita, quasi avesse paura di rompere l'incantesimo: dopotutto Diciassette era stato molto diretto e non c'era bisogno di scavare. Le sembrava persino che voler scavare le impedisse di accettare la verità.

Lillian stava iniziando a sentirsi di nuovo calma quando, nel prendere il bicchiere che lei gli porgeva, Diciassette rivelò ancora la fibbia dell'orologio.

E questa volta Lillian la vide bene: una dedica, “Per L., da C.”

"Diciassette...il tuo orologio?"

"Ha valore sentimentale. È stato un regalo di compleanno."

Quelle poche parole accesero una sinapsi di cui Lillian stessa si stupì. Un ricordo freschissimo balenò davanti ai suoi occhi, qualcosa che aveva forse il potenziale di far passare in secondo piano quello che Diciassette le aveva appena rivelato su di sé. E quello che le aveva detto era, dannazione, di essere un cyborg.

Diciassette continuò a farsi i fatti suoi, ma sembrò accorgersi dello stato di simil-shock di Lillian.

Qualche giorno prima Carly le aveva detto di aver regalato al suo bello un orologio con un’incisione, per il suo sedicesimo compleanno. 

Per Lapis da Carly. 

L. e C.

Carly le aveva parlato degli occhi azzurrissimi di Lapis, "anche lui un tipo moro-occhi chiari", del suo carattere falsamente estroverso.

"Oh dio…."

Le pareva ora chiaro come il sole! Non era un mistero, non era un segreto. Solo un unico, enorme, doloroso malinteso. 

Un malinteso che coinvolgeva i suoi due migliori amici; le sembrò di vivere l'intrigo di un romanzo. 

Tuttavia, la pressione emotiva era enorme e Lillian inizió ad iperventilare. Non seppe dove trovò la prontezza per prendere la situazione di petto:

“Vuoi dell’altro succo di mela, Lapis?”

“No, grazie.”

Quando se ne accorse, lui rimase con l’accetta a mezz’aria; i sensi di Lillian non registrarono subito che si era spostato di fronte a lei. Non c’era nemmeno bisogno che Diciassette la toccasse perchè Lillian si sentisse minacciata: ora non vedeva più il suo collega cazzone, non vedeva nemmeno il suo bellissimo amico. Vedeva il cyborg.

Il suo sguardo era assolutamente gelato, anche più della volta in cui le aveva chiesto della giacca; la giacca di Carly!

“Per te sono Diciassette. E basta.”

La sua voce era una specie di ruggito sommesso. Ma non negava…

In quel momento il telefono di Lillian squillò; la suoneria era una voce demenziale che faceva yodeling. 

Nonostante non volesse interrompere lo sguardo da pisciati sotto che spaventava gli umani basic a livello inconscio, Diciassette doveva smaltire lo stress; non poté trattenere una risata. 

Lillian era ancora spaventata, la risatina di Diciassette non sciolse la sua tensione. Gli porse il cellulare con mano tremante:

“Rispondi tu.”

Il telefono suonava; il cyborg premette il vivavoce.

“Lillian? Alla buon’ora. Non rispondi nemmeno ai messaggi…"

Silenzio di tomba.

“Lillian? Ci sei?” 

“Carly, la data di nascita di Lapis è il 13 febbraio?”

“Ehm...sì.” 

Non si ricordava di averlo detto a Lillian.

Diciassette dovette inghiottire un grumo di nervi. Lillian lo incitò a dire qualcosa, ma gli venne in aiuto:

"Carly. Ho Lapis."

"..."

"È qui con me. Dille qualcosa, su." aggiunse poi, guardando Diciassette con occhi che urlavano.

"Lillian, non è divertente."

Ci fu solo silenzio dopo l'avvertimento di Carly, inaspettatamente lapidario. Poi i ranger udirono uno scatto e lo schermo ritornó scuro.

"Carly è a North City, vive e frequenta l'università lì. Lei crede che tu sia morto, devi andare a vederla."

La mano e la voce di Lillian tremavano ancora. Entrambi sapevano che non era il momento per pretendere risposte e contesto. Era il momento di agire.

Lui fece per girare i tacchi ma all'ultimo minuto tornò da Lillian, la strinse in un vero abbraccio da amici e subito dopo decollò davanti ai suoi occhi.

 

 Era già sera quando Brent udì dei colpi incessanti alla porta; aprendola, trovò una Lillian sconvolta ma anche contenta:

“Beh? Tutto ok?”

"Porca merda, Bre."

A Brent mancava molto contesto fondamentale. Ma vedere la ragazza che amava così emozionata lo spinse a fregarsene di quell'invasione della privacy e l'abbracciò all'improvviso. 

Si ritrovò a dover rompere il ghiaccio:

“Vuoi che ti racconti tutti gli errori dei rievocatori? Ma non i principianti, quelli rodati tipo me.”

Per la prima volta l'espressione di lei era affettuosa: 

“Sì. Mi piacerebbe tanto che mi raccontassi.”

 

 

 Carly era lì al Nord. Diciassette stentava a crederci. Era volato come un missile da Viey all’università, giù a North City. Anche se un volo e una corsa attraverso il campus non potevano stancarlo, aveva l’affanno.

“Sai dov’è Carly Der Veer? Studia qui, viene da Central City.”

“Non saprei, prova in segreteria, in fondo a destra.” tagliò corto una studentessa, indicandogli una porta alla fine del corridoio.

Diciassette si gettò nel piccolo ufficio, dove una donna sulla sessantina batteva svogliatamente al computer.

“Carly Der Veer. È iscritta qui, studia veterinaria, ha i capelli rossi,-”

“Tesoro, calmati! So chi è la signorina Der Veer. Siediti, adesso.”

La segretaria interruppe lo scalmanato che era entrato quasi schiantando la porta, per poi appoggiarsi insolentemente alla scrivania quasi volesse scavalcarla. Niente la tratteneva dal mandarlo a quel paese e andarsene a casa, erano le sei e mezza ed era ora di chiudere baracca. Ma quel ragazzo sembrava avere davvero bisogno di una mano, per cui lo ascoltò, attendendo tuttavia che lui facesse come lei gli aveva chiesto e si desse una calmata. Ci volle qualche minuto prima che lo sguardo di lui smettesse di dardeggiare per la stanza:

“Ora dimmi, come mai la cerchi?”

Le parole gli uscirono di getto, e lo stupirono per il significato che trasportavano:

“...É mia moglie. Devo vederla.”

La segretaria noto’ che lui non portava la fede, ma soprassedette: ormai i giovani non si sposavano più, vivevano da subito insieme e facevano tutto proprio come se fossero marito e moglie. Per quanto la riguardava, lui diceva la verità:

“Si, la signorina studia qui; posso farle una telefonata.”

“Mi dica solo dov’e’ in questo momento.”

“Giovanotto, qui all’UNC proteggiamo la privacy dei nostri studenti. Non puoi nemmeno provarmi che la conosci…” 

Scartabellò un fascicolo e ne estrasse un foglio. Compose un numero sul suo vecchio telefono fisso: “Come ti chiami?”

“Diciassette.”

No, non così. C’era solo un nome con cui Carly lo conosceva, ed era da un po’ che non ci si presentava:

“Lapis.”

La segretaria gli annui’ con un sorriso. Discretamente, Diciassette studio’ il foglio con le informazioni su Carly. Memorizzo’ il suo numero di telefono e il suo indirizzo. Sussulto’ dentro alla vista della sua fototessera. Era lei, non c’erano dubbi. La ragazza delle foto a casa di Kate, l'entità vaporosa dei suoi sogni, Carly. Erano una sola cosa.

Era era solo una piccola foto, ma quegli occhi color giada erano cosi’ veri. 

Gli occhi dell’amore stesso.

“Pronto?”

Diciassette si ritrovò il cuore in gola ancora una volta: di nuovo la voce della sua Carly. Uno struggimento doloroso comincio’ a fare breccia fra carne e circuiti, una volta per tutte. Non sarebbe più tornato indietro.

“Signorina Der Veer, mi scusi per il disturbo, sono Margaret della segreteria; c’e’ suo marito Lapo qui per lei. Sì, sul serio."

Margaret fece un cenno di scuse nel cogliere l’espressione scocciata del ragazzo:

“Suo marito Loris."

Diciassette chino’ la testa, con falsa rassegnazione.

“...Mathis?”

Al terzo macello di quel nome semplice, a Diciassette venne quasi voglia di dare a Margaret uno schiaffo che le avrebbe torto il collo.

Anche se aveva i denti stretti e i pugni serrati, inspiro’ e chiuse gli occhi per qualche secondo: 

“Conta fino a dieci prima di fare qualcosa. Dai, non ci vuole tanto. Uno, due,...”

Fece come gli aveva suggerito Kate, che aveva sempre ragione: lui doveva evitare gli impeti di rabbia, che se non controllati gli avrebbero fatto fare un altro numero come il Commando o la bracconiera: “...dieci.”

Se il cyborg riuscì a calmare la rabbia, la necessità di parlare con Carly era sempre lì: salto’ sulla scrivania e strappo’ la cornetta dalla mano di Margaret.

“Carly. Carly?!”

Nessun suono proveniva dall’altra parte della linea: quando il ragazzo guardò la cornetta, si accorse che era tutta schiacciata nella sua mano:

“E merda!”
Piccoli pezzi di plastica rimbalzarono sul pavimento quando Diciassette restituì la cornetta a Margaret e si dileguò con il suo sorriso furbastro. 

 Lillian lo richiamò, tutta trafelata: era riuscita a estorcere in tempo un'ultima informazione a Carly, prima che lei le sbattesse il telefono in faccia. Carly non si trovava all'università in quel momento e lui doveva correre, doveva fermarla; doveva fermare il suo treno.

 

/

Ogni volta che pensava seriamente di mettersi il cuore in pace, qualcosa doveva succedere. Alla fine, si era aspettata che Lillian diventasse estremamente petulante per attirare la sua attenzione. Ma che pure lei le tirasse in ballo Lapis, quello no. Era troppo.

Come osava usare contro di lei le debolezze che le aveva confessato, come aveva fatto Leni? Ma con Lillian era molto, molto peggio: lei era quasi una sorella e l'aveva presa in giro. Proprio due giorni prima del compleanno di Lapis.

Senza esami in vista, Carly aveva deciso su due piedi che sarebbe andata a passare la settimana da suo padre; faticava a studiare in quei giorni e non voleva restare da sola. Non si sentiva abbastanza lucida da guidare.

Sentiva le dita insidiose della depressione arrotolarsi intorno al suo collo persino lì, nel viavai del binario C.

La partenza era stata l'ultima notizia che aveva comunicato a Lillian, per zittirla dopo decine di chiamate perse. Il telefono suonò brevemente e Carly lesse un altro  messaggio:

Lapis sta arrivando da te! Non salire su quel treno...

Scosse la testa e la sua attenzione fu attirata dal treno che, pronto ad un nuovo viaggio di dieci ore fino alla Stazione del Nord di Central City, apriva le porte per accogliere i passeggeri.

Simile a una fatina elegante nel suo cappellino e nel cappotto di lana rosa confetto, Carly attirò l'attenzione di altri viaggiatori quando il controllore fischiò e lei salì a bordo.

Il treno ad alta velocità uscì pigramente dalla stazione; Carly stava guardando con aria assente la neve sul suo finestrino quando ogni vagone del convoglio fu attraversato da uno schianto improvviso. Uno scossone inaspettato, che gettò passeggeri e bagagli sul pavimento del vagone come bastoncini da shanghai.

L'intero convoglio venne evacuato in fretta e furia nel clamore generale, fra le proteste dei passeggeri. Gli altoparlanti risuonavano della voce del pilota, che invitava all'ordine. I tecnici, i controllori e il pilota stesso si erano aspettati di trovare un ostacolo sulle rotaie, qualcosa che era sfuggito; ma il muso del treno era completamente, impossibilmente intatto.

I passeggeri erano concentrati sulla propria frustrazione e/o contusioni, più e più gente stava affollando le rotaie per curiosità o preoccupazione.

Tutti erano troppo impegnati per notare che, distaccato da tutto quello scompiglio, qualcuno camminava con calma sul tetto del treno, puntando la ragazza dalle lunghe trecce rosse che si faceva largo fra la calca.

Intanto Carly seguiva il tracciato delle rotaie con l'intenzione di riguadagnare il binario C e poi la biglietteria; si rassettava il cappotto, proteggendosi dalla fitta folla intorno a lei. Sentendosi chiamare per nome rivolse lo sguardo verso il treno, su in alto.

Carly sognò a occhi aperti; vide il suo Lapis saltare giù dal tetto e seguirla lungo la strada ferrata. 

Restò ferma per un attimo ad ammirarlo: era così tanto bello, pieno di vita come quando l’aveva accompagnata a casa quella sera lontana.

Maledettamente bello come aveva sempre voluto ricordarlo, con lo stesso sorriso tra l’allegro e lo strafottente, i capelli lunghi, gli  occhi appassionati che del ghiaccio avevano solo il colore.

Carly volle scacciare quel miraggio con un battito di ciglia. Non voleva più soffrire.

Proseguì senza remore, nascondendo le lacrime e voltando le spalle a quel fantasma.

Camminò veloce, quasi si mise a correre. Finchè una mano, una mano amorevole e reale l'afferrò delicatamente per il polso e arrestò la sua corsa. 

I muri e il soffitto aperto della stazione si sovrapposero all’immagine del sogno di Carly: lei e Lapis che si baciavano in una sala affollata.

Si sentì quasi cadere quando Lapis la tirò dritta sul proprio petto e le sue braccia la strinsero. La chiamava piano, ripetendo le cinque lettere del nome Carly come una preghiera mentre il suo cuore impazzito le vibrava contro il viso e il suo respiro tiepido le sfiorava i capelli. 

Carly inspirò il suo profumo e strinse la sua carne, morì d’amore a quel contatto.

Ma solo al sentire il battito del cuore del suo Lapis, l’uomo della sua vita, il suo unico amore, oso’ aprire gli occhi.

E non volle più chiudere i suoi; era tutto vero.

Lapis non riusciva a smettere di tremare.  Fu investito da quel sentimento che aveva tanto temuto: come si era allontanato così tanto da casa? 

Era innamorato, disarmato. Abbassò ogni difesa.

Si lasciò trafiggere dagli occhi verdi dell’amore. 











 

Pensieri dell'autrice:

Pubblico il cap. 23 con un giorno di anticipo perché sono ansiosa di pubblicarlo! In un solo capitolo abbiamo due bombe. Avevamo lasciato Lapis con Lillian in una compilation di "best of Lapis" e ancora una volta con lei dà il meglio di sé: le dice che è un cyborg.

E poi finalmente, finalmente la riunione con Carly! So che questo era un momento molto atteso, lo dedico soprattutto a Karen e a Vale (sappiate che adoro che vi sia partita la ship 😊). Grazie di essere arrivati fin qui.

Lascio anche due art by Dark: 

Carly 

 

20200116-094554

 

e baby Lapis&Lazuli

 

L-L

 

Se due capitoli fa vi ho lasciato quelle due fanart spettacolari che rappresentano perfettamente come mi immagino i cyborg se fossero reali, il mio schizzo (che non rende loro giustizia) è come me li immagino a 14 anni nel capitolo 1.

 

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Capitolo 24
*** Sogni che si avverano ***


 

Nella stazione di North City, la gente si era raccolta intorno a un treno fermato mentre era già in corsa, per curiosare; ma fra fischi e altoparlanti, quelle persone si erano anche trovate a fare da cornice ad una scena romantica, d’altri tempi. Un uomo molto giovane dall'aria fiera, chino in un bacio su una creatura eterea e delicata, le sue braccia strette intorno a lei. La gente guardava in silenzio, come a non disturbarli; ma loro non se ne sarebbero comunque curati, in quel momento non erano lì. Erano in un altro mondo.

Carly e Lapis, in piedi vicino a binari, si stringevano in un abbraccio come se non volessero lasciarsi più. 

Si abbracciarono forte, grati della presenza l'un dell'altra. Era magico e surreale sentire di nuovo il sapore l'uno dell'altra, accarezzarsi il viso fra un bacio e l'altro. Con quell'abbraccio si gustarono il corpo della persona amata sentendo il profumo di pelle, vestiti e capelli, approfittando della bellissima sensazione di sentirsi il tocco e il calore reciproco addosso. La loro memoria tattile non si era mai dimenticata del corpo del vero amore e ora non sembrava vero risondarlo con le mani, con la guancia e la punta del naso.

Carly non ci credeva, anche se le sue labbra lavoravano con desiderio quelle di Lapis, così morbide e piacevoli; il contatto con la sua pelle calda e più liscia di quanto ricordasse la faceva impazzire. 

Nell'abbandono totale dei suoi sensi Carly ebbe l'impulso di stendersi lì, su quel pavimento. Voleva così tanto stendersi sul pavimento. Lapis sembrò assecondarla ma poi si fermò, rimettendola in piedi mentre le ginocchia le cedevano già.

Il lieve residuo del profumo sulla giacca gli aveva dato quella scossa nelle vene, ma avere Carly lì con lui, sentire tutto il suo profumo e vedere finalmente il suo viso non era lacrime, ma assomigliava a un annegare tumultuoso. 

Il linguaggio del corpo di Carly era chiaro, gli aveva detto tutto quello che doveva sapere; e Diciassette non poteva aspettare. 

Non poteva più.

Fra lo stupore dei presenti, il ragazzo si prese la fatina in braccio e corse fuori dalla stazione in due balzi.

Carly rideva mentre Lapis correva per le strade della città, sempre tenendola contro di sé; rideva con acuti argentini nel vedere i capelli scompigliati di Lapis. Carly era felice, finalmente davvero felice. 

Era una risata liberatoria.

Capendo che Lapis la stava portando al suo monolocale, Carly pregustò quello che stava per succedere. Si sentì il cuore battere ancora più forte.

Stettero a baciarsi nell’ingresso buio del piccolo appartamento, la mano di lei che si infilava sotto tutti i vestiti del top ranger e quella di lui che prendeva, rivendicava il fervore fra le sue gambe. Diciassette non le strappò i vestiti di dosso: si prese il tempo, con gesti  insieme trasognati e arroganti, di toglierle capo dopo capo e di lasciarsi spogliare da lei, fin quando non si ritrovò a stringere sulla pelle nuda quell’altra pelle il cui profumo vivo lo attirava così tanto da fargli male. Carly palpitava, ogni suo tremito scuoteva il suo seno.

Diciassette sentiva i suoi capezzoli di velluto toccargli il petto; il desiderio che nasceva dal suo profondo gli era sceso nelle gambe, era diventato una stretta al cuore, una torsione alla bocca dello stomaco, infine era salito in testa.

Per un tempo infinito era restato senza di lei. E Carly era un meraviglioso paradiso sensoriale.

Per Diciassette non fu uno sforzo tenerla sollevata, schiacciata contro il muro; si lasciò guidare dal proprio corpo e cercò con foga l’odore di Carly fra le insenature e i monti del sul suo collo, dell'ombelico, delle articolazioni, del petto. Carly si lasciò cadere di lato su una credenza quando Lapis trascinò la lingua sulla parte più tenera delle sue cosce e affondò il viso fra di esse. 

Leccò avidamente, come se volesse raschiarle via la carne. Lei era morbida come burro, era solo dolcezza…

Diciassette si era già immaginato che la sua voglia sarebbe stata enorme, che quell'appetito feroce si sarebbe ripresentato al quadrato di fronte a Carly. La sua Carly, che era molto di più che semplice voglia, ma che rappresentava il culmine del desiderio.

Carly era roba seria. La fame che aveva provato con Lillian impallidiva dinanzi a lei: sapeva che, diversamente da Halloween, una sola sera non gli sarebbe mai bastata per soddisfarsi di lei. La voleva tante tante volte, senza sosta, forse nemmeno anni sarebbero stati abbastanza. Gli serviva tutto il tempo che aveva.

Quella sera, gioia e dolore divennero due volti della stessa emozione; lui era il cyborg 17, uno strano connubio di crimine ed umanità, denudato ora dell'armatura incrollabile che la consapevolezza del suo potere gli dava. La sua Carly, il suo tesoro era così piccola contro di lui, sopra e sotto di lui. Ma era ben più potente, lei controllava il tempo. E lo trascinava con sé.  

Ora dopo ora l'istinto di Diciassette ritrovava la via sulla splendida mappa di quel corpo fatto per amare: lui sapeva cosa fare e rivisse quel vagabondare in un'altra dimensione con infinita più potenza. Ma questa volta non vagava da solo, in quella dimensione c'erano lui e Carly. Lui non era solo entrato fino in fondo nel suo corpo, era inscindibile dalla sua mente.

Seduta su di lui, Carly trascinò le labbra sugli spigoli della sua mascella e dei suoi zigomi, lo abbracciò stretto:

“Buon compleanno, amore mio bellissimo.”

La mezzanotte era appena passata.

Ognuna delle tante volte in cui Diciassette lasciò il proprio segno nel suo ventre, il passato si mescolò al presente e lui ebbe allo stesso tempo quindici e ventidue anni. Carly sapeva che Lapis non parlava mai durante il sesso, ma quella notte le disse di amarla: glielo disse contro il muro, fra le coperte soffici, sul tavolo troppo corto per starci in due, per terra. L'amò con la drammaticità di una prima volta.

Ridiventò il ragazzino inesperto che si era arrampicato sul letto dalla trapunta rosa a casa del signor Der Veer, su quella sedicenne florida, carina, rossa come una mela. Era stata la prima volta in cui le aveva detto "ti amo".

In quel momento, i tre anni senza di lei non contavano più. Nei primi istanti del loro settimo anno insieme, Diciassette guardava quasi con la stessa soggezione e timidezza di allora il proprio sperma sulla pelle trasparente di Carly, sui suoi seni pesanti come frutta matura, fra le sue cosce, sul suo collo. E Carly, che non voleva arrendersi al sonno,  gioiva di quella sensazione sulla pelle tenendo chiusi i suoi preziosi occhi di giada, toccando, leccando. Lui era il solo al mondo che potesse segnarla in quel modo. Tutta quella bellezza, quel sacro, quella femminilità e fertilità erano sue. Carly era solo e soltanto sua.

Lui voleva Carly in ogni modo in cui un uomo può volere una donna, ma sentiva anche che per lei era lo stesso: lei voleva che lui fosse l'unico.

E glielo disse, addormentandosi, mentre erano ancora uniti. Carly scivolava nel sonno, fissando negli occhi Lapis e la sua bellezza che toglieva il fiato.

"Sai che ti amo, Lapis? Non ho mai smesso."

Lei restò nella dimensione onirica del dormiveglia, quasi si commosse nel sentire Lapis che ora ci andava piano, segretamente soddisfatta ed eccitata dai suoi orgasmi continui. Non si fermava più; ed era perchè si trovava lì con lei.

Diciassette non era stanco, ma si sentiva emotivamente stremato. Carly era un uragano. Ora voleva solo guardarla, non riusciva a togliere gli occhi da lei; e sentirle il proprio odore addosso lo faceva sentire invincibile.

"Wow…"

La guardò raggomitolarsi contro di lui. Restò ad accarezzarla, ad ammirarla, mentre lei finalmente si addormentava. 

 

 Carly si svegliò sola.

Non a casa di suo padre a Central City ma nel suo piccolo appartamento al Nord. Il sole batteva già sulle persiane. Doveva essere tarda mattinata.

Le 9! Doveva sbrigarsi a iniziare la giornata e poi mettersi sotto a studiare. Ma in tutta onestà, non c'era con la testa. Lei e Lapis che insieme, era stato un altro vaneggiamento?

In quel caso, si sarebbe trovata presto faccia a faccia con la realtà, aveva perso il conto di quanti sogni veri aveva fatto.

Però la realtà era proprio quella. Lei aveva ritrovato Lapis. 

Glielo disse un capello che non era il suo, lì fra le lenzuola; glielo urlò in faccia la troppo intensa sensazione di bagnato che sentiva lì sotto.

 Le chiamate perse sul cellulare non erano solo di Lillian. Avrebbe dovuto essere con suo padre in quel momento, probabilmente George stava andando a prenderla in stazione.

Seduta nel bagno a osservare la vasca riempirsi, Carly voleva tranquillizzarlo ma poteva solo mormorare scuse non sincere. George non seppe mai che sua figlia si stava tamponando le cosce con un fazzoletto, mentre al telefono gli diceva di non preoccuparsi per il suo cambio di programma.

Se da un lato lacrime di gioia scorsero libere, d'altro canto Carly non riusciva a smettere di pensare alla meccanica. Era strano: Lapis avrebbe potuto continuare tutta la notte, era venuto più e più volte nello spazio di un normale amplesso. Non aveva mai fatto così prima, Carly si chiedeva se fosse umanamente possibile. Ma ancora, era una cosa che aveva appena vissuto.

"Sono restata a North City, con Lapis."

 

Carly non sapeva dove Lapis fosse andato, ma si aspettava che avrebbe reclamato la colazione una volta tornato; in altre circostanze gli avrebbe detto di fare da sé, ma ora era ben contenta di preparare qualcosa per loro. Mise del porridge sul fuoco e apparecchiò la tavola.

"Lapis…"

Carly ripensava di continuo alle ultime ore della sua vita. Era incantata a mescolare il porridge nel pentolino, non riusciva a schiodarsi; solo il rumore improvviso della serratura la sbloccò. Il cuore iniziò a correre ancora nel suo petto, prima ancora che Lapis entrasse dalla porta del monolocale. Vedendola lì tutta trepidante le sorrise, le fece un occhiolino:

"Ecco qui.”

Le mise in mano un sacchetto di carta contenente panini ancora caldi e la tirò a sé.

"Lapis, sai che c'era una panetteria dietro l'angolo? Ancora un po' e andavi a Central City."

"Eh, a metà strada sono dovuto tornare indietro; quelli che avevo appena comprato erano finiti..."

Carly si intenerì a vedere il suo sorriso sghembo. Lo stesso, lo stesso di sempre. 

"Sei proprio tu..."

Si mise a ridere dal cuore, come solo lui sapeva farle fare. Gli mise le braccia al collo e inizió a baciarlo, col sacchetto di panini caldi ancora fra le sue mani:

"Comunque potevi restare qui con me. Avevo di che preparare la colazione, in casa.”

Diciassette sentì l’odore blando dell'avena e si ricordò all'improvviso di quanto detestava quella sbobba premasticata: Kate usava allungarlo con l’acqua per non farlo bruciare, mentre schizzava come una forsennata per la casa alle 6 di mattina. Anche se non la biasimava, Kate l'aveva traumatizzato a vita con scodelle di porridge insipido e comunque mezzo bruciato, da mangiare in fretta prima di lanciarsi in macchina. 

Divorò un altro panino:

"Mm. Triste."

Lo sguardo di Carly cadde poi sui pantaloni del pigiama, color lavanda coi fiocchetti (ecco dov'erano finiti) che lo lasciavano scoperto dal ginocchio in giù. Lapis era solamente una ventina di cm più alto di lei, ma era tutto gambe.

"Il mio pigiama! Che è successo ai tuoi pantaloni?"

Lui le parlò seccamente e abbassò gli occhi:

"Colpa tua."

Alla stazione, il solo contatto con Carly l'aveva fatto così sbarellare che non aveva saputo controllare il tempismo di certe...reazioni.

Carly ammiccò, arrossendo:

"Ohhh baby. Mi dispiace tanto." 

Quella era una grande, grandissima soddisfazione. Quindi Lapis era pure nudo sotto il pigiama....Carly gli sculettò contro il cavallo dei pantaloni e si avviò verso l'angolo cucina:

"Cià, dammi anche i tuoi vestiti; faccio una lavatrice."

Diciassette rimase a guardarla. La cosa speciale di Carly era che non lo devastava solo quando gli toccava il pacco, solo quando lui la guardava in pieno atto. Ogni gesto che lei faceva, chinarsi a raccogliere i vestiti da lavare, sedersi su una sedia e mangiucchiare un panino lo ammaliava, lo faceva eccitare. 

Diamine! Piccola volpe...

Si sentì di nuovo elettrizzato quando Carly distese e accavallò le sue gambe tonde e graziose, in un modo che gli fece intenzionalmente intravedere che sotto la gonnellina non indossava niente.

"Lascia che mi occupi io di te, ora. Sai, dopo ieri notte...vai e vai, dopo un po' la pistola finisce i colpi" lo provocò, accarezzandosi i capelli bagnati.

La candida Carly che parlava di armi da fuoco in quei termini, con quella sua vocina innocente…

"Dannazione."

Diciassette balzò al suo fianco, ripensando solo ora all'ultima novità che aveva scoperto sul suo corpo di cyborg:

"Ah, sciocchina: io posso sparare tutte le ammo che voglio, come un mitra. Sicura di voler giocare questo gioco con me?"

Carly sostenne il suo sorrisetto compiaciuto, vittoriosa; la stoffa chiara ed elastica del pigiama le mostrava in tempo reale il mitra alzarsi in posizione di attacco. Oh, lei era ben felice di giocare: Lapis era di nuovo suo e lei non poteva chiedere di più. Lo fece sedere e si inginocchiò sul pavimento, passandosi pomposamente un nastrino fra i capelli:

"Dopotutto, amore mio, oggi è ancora il tuo compleanno."

 

 

/

 

 Brent sedeva con aria paciosa a casa sua; insieme ad Elliott giocava alla playstation, schiamazzando e alzandosi di scatto per l'enfasi, ogni tanto:

“Kamikaze dietro di te! E bam…”

Elliott era un gamer più silenzioso di Brent; dopo essere morto per l’ennesima volta da quando avevano iniziato a giocare, si tolse le cuffie e fu il primo a sentire il campanello suonare. Avvicinò l'occhio allo spioncino e chiamò sottovoce:

"Psst, Brent! Valchiria alla porta. Supremo santissimo…"

Elliott aveva adottato il gergo di Brent, che usava quel termine per definire ragazze alte dall’aria energica. Il vichingo rizzò la testa come un suricate, senza volersi ancora avvicinare alla porta:

"Capelli rossi? Tanti e rossi…"

Dalla sua roccaforte dietro lo spioncino, Elliott strizzò ancora l'occhio:

"Non è Lillian.  Una strafiga spazialee-" 

Sul finire della frase Elliott perse la voce, come se l'avessero improvvisamente castrato.

Il paleontologo guardava dalla porta la nuova valchiria camminare avanti e indietro sul pianerottolo. Non voleva essere frainteso da Brent: Lillian era sicuramente un gran pezzo di ragazza, ma questa qui, oh Angeli! Un culo come quello l'aveva visto solo al cinema.

Brent si era sentito l'agitazione salire, ma era ridiscesa con una leggera delusione. Sembrava che non fosse Lillian a fargli visita. La sera prima, era sicuro che ci fosse stato qualcosa fra loro due quando l’ex top ranger si era gettata fra le sue braccia, tremante ed euforica al punto da sembrare che avesse fumato. Brent ancora non sapeva perchè Lillian gli fosse capitata fra le braccia in quello stato ma tenersela sul petto, avvolta in una coperta, gli aveva scaldato il cuore. 

Il sarto aprì la porta e cercò di darsi un contegno, non riuscendo tuttavia a trattenere lo stupore: la valchiria era una giovinetta dai capelli piuttosto corti, acconciati in due maliziosi codini bassi. Lo guardava con aria laconica. 

“Oh ciao! O meglio, accipicchia…ci conosciamo?”

Aveva in mano una piccola borsa di carta bianca, dall’aria elegante. Brent studiò il suo vestito corto e leggero e le scarpette delicate dal tacco medio, entrambi inadatti ad una giornata di metà febbraio. Al Nord era ancora pieno inverno. Non si ricordava dove poteva averla vista, ma qualcosa in lei gli era familiare.

La ragazza guardò oltre, sembrando più ansiosa di vedere casa sua che di interagire con lui. Che fosse stata mandata per condurre un’ispezione, per il fatto che in casa loro la musica era spesso a palla e qualche vecchio rompi li aveva denunciati? O forse era lì per l’erba di Elliott...

Brent si mise da parte con fare cavalleresco e la lasciò entrare. Lei si fermò ad osservare uno shuttle di Lego alto forse un metro, riposto in cima alla trave a vista più lunga. Elliott tentò di attaccare discorso con lei, farfugliando:

“Ti piacciono i Lego, anche a me piacciono i Lego! Ma quello è dell’altro coinquilino.”

“Lo so.”

“Vuoi vedere i miei?”

Lei ignorò i tentativi del paleontologo e continuò a guardarsi intorno nel salone. I ragazzi invece guardavano lei:

“Ehi, Bre. Questa qui è una con cui sei andato o cosa?”

“Ma secondo te una così la dà a me??"

Brent faceva fatica ad esprimersi. Trovarsi quella ragazza di fronte l'aveva praticamente ipnotizzato; se si fossero già incontrati Brent si sarebbe certamente ricordato di una ragazza così bella, fisicamente bella anche più di Lillian. Forse una compagna di scuola? No...Sicuramente non era una nordica, il suo accento lo rivelava. E poi, aveva il viso da gattona ma a Brent sembrava comunque piccolina, a occhio e croce poteva avere l'età di Lillian. Sempre tenendo le braccia incrociate sul petto, la valchiria disse qualcosa che sembrò fuori contesto:

"Hm, hai capito. Meglio di casa mia, guarda un po', non l’avrei mai detto...questa casa e’ bella. Comunque, no non ci conosciamo. E la do solo a mio marito."

Marito? Bastardo fortunato...I ragazzi cambiarono colore, erano convinti di aver parlato abbastanza a bassa voce. Elliott ritrovò la sua voce:

“In ogni caso, come possiamo aiutarti? Visto che non sei qui per Brent.”

Lei addocchiò il videogame in TV:

"Voglio giocare."

Certo, poteva fare tutto quello che voleva: l’avrebbero lasciata vincere, era troppo crudele umiliare un angelo. I gamer sorrisero quasi con tenerezza quando lei promise che li avrebbe fatti a pezzi: Warrior Duty IV era il suo gioco preferito, la valchiria non conosceva nessuno che l’avesse battuta su quei terreni popolati da cecchini in kefiah.

Quando il suo personaggio fece esplodere la testa a quello di Brent per l’ennesima volta la valchiria, ora in posizione di guardarli quasi con tenerezza, fece loro un favore e regalò consigli gratuiti:

“...Ero dietro di te. C’era anche un tiratore franco nascosto sul balcone, e un drone a ore tre sopra il tuo camion blindato: non l’hai visto?”

“...Ma ero concentrato a guardarmi le spalle da te e dal tuo bazooka!”

A Brent sfuggiva come lei potesse notare ogni minimo dettaglio della ricca grafica di Warrior Duty IV senza farsi venire un'emicrania.

“In ogni caso, ora che sei qui posso offrirti un margarita?” Brent era pur sempre il padrone di casa, dubitava che quella deliziosa sconosciuta con un anello d’oro al dito fosse venuta solo per giocare alla play.

“Anche se direi che più una tipa da Cointreau. Ghiaccio e fettina d’arancia?” 

La valchiria fece un gesto di dissenso:

 “Ho fame. Voglio mangiare.”

Lo disse in modo così perentorio che Brent ebbe paura che volesse mangiarsi lui. Il vichingo benedì il suo nuovo pallino, tirando fuori dal frigo una scodella di impasto per cookies:

 “Non so a te, ma a me piace di più crudo che in forma di cookies…”

Brent escluse che lei volesse mangiare dalla stessa scodella con lui ed Elliott e le porse una coppetta:

“Non mi hai ancora detto il tuo nome e come mai sei qui.”

“Diciotto. Oggi e’ il mio compleanno.”

“Tanti auguri! E’ un compleanno importante.”

“....Ventidue anni? Perché?”

Il numero cardinale era il suo nome, allora.

Elliott le fece notare che aveva lo stesso compleanno e la stessa età del loro terzo coinquilino. Brent si ricordò della borsettina con cui lei era giunta alla sua porta e  sentì un tuffo al cuore. Ecco perche’ era li: era un’amante di Diciassette?

“No, stupidino. Sua sorella.”

Oh già; ora i ragazzi se ne rendevano conto.

“Siete gemelli?” investigò Brent “...Cioè, siete uguali.”

“Sì, siamo gemelli, ma la nostra somiglianza non ha nulla a che vedere con quello."

"No no, volevo dire-"

"Lo so che volevi dire. Era comunque concettualmente sbagliato, siamo eterozigoti. Geneticamente due fratelli normali."

Brent rammentò le lezioni di biologia: giusto, due ovuli e due spermatozoi. 

La genetica potentissima di Kate aveva fatto sì che lei e Diciassette si assomigliassero però, diamine, lei  era una donna e lui un uomo, più diversi di così! Ma alla gente si scollegava il cervello a sentire la parola gemelli, pensavano che tutti dovessero essere identici. Era da quando erano nati che Kate non faceva che spiegarlo, soprattutto a quelli che l’avevano accusata di tingere i capelli di uno di loro due per distinguerli:

“Sono gemelli, come fanno ad essere un bruno e una bionda?”

 Da piccola Diciotto voleva mostrarglielo lei, in cosa differivano…

Quando la valchiria ebbe finito la terza porzione di impasto per cookie, si avviò verso l’ingresso. Brent la fermò:

“Diciassette non è qui. Non lo troviamo, John e’ furioso...Ma credo che lui avesse qualcosa per te.”

Nel frattempo, Elliott era andato a rovistare in camera di Diciassette. Diciotto gli disse che farlo con discrezione era lo stesso una brutta idea: lui si sarebbe accorto lo stesso che qualcuno aveva pitoccato nella sua stanza, qualcosa che odiava.

“...e’ una busta con un logo…”

Al sentire il paleontologo urlare la descrizione del logo, Diciotto cambiò idea e si fece portare il pacchetto. Pelle nera trapuntata apparve da carta velina color champagne, Diciotto trattenne il fiato.

Pazienza per Diciassette, la prossima volta si sarebbe degnato di mettersi d’accordo con lei per il loro compleanno, invece di farla venire in culo ai lupi per niente.

“Bene; Diciassette può permettersi di comprarmi la borsa che volevo, e io e mio marito dobbiamo vivere in una casetta affollata, con dei disagiati.”  

Ma non l’avrebbe mai detto al gemello; lui avrebbe solo alzato un sopracciglio, dicendole di fare qualcosa di utile nella vita. Diciotto porse a Brent il proprio regalo:

“Giocare a Duty è stato divertente. Da’ questo a mio fratello.” 

“Aspetta! Il colore preferito di Diciassette è l’arancio, vero?”

Brent doveva decidere che tintura usare per il regalo che avrebbe presto iniziato a preparare per lui; cavolo, averlo saputo si sarebbe messo al lavoro con un mese d’anticipo. L’aveva saputo da Lillian solo la sera prima.

Ni, il blu. L’arancio per i dettagli.”

“Voglio fargli una sciarpina, ha perso la sua...”

“Arancio, allora. Ora devo scappare a Central City.” 

A centinaia di km da li? I ragazzi erano di nuovo soli. 

“...se ne accorgerà che ho toccato le sue cose, vero? Cazzo...”

“Probabilmente, Elliott.”

Il paleontologo ritornò poi sulle proprie parole: 

"Ho dato della stragnocca spaziale alla gemella di Sev…"

"Ehh, che ti devo dire."

"Boia...Ma visto che sono uguali vuol dire che penso la stessa cosa di Sev?"

Brent rimuginò imbarazzato, grattandosi la barba. Elliott fissò la porta chiusa, pensoso: 

"Però lo è, vero?"

Il vichingo si limitò a riprendere il joystick; non intendeva rispondere a quella domanda.

 

 Diciotto era di umore fantastico quel giorno. E non solo per la borsa che pendeva da lei mentre volava e l’aria si ghiacciava sulle sue sopracciglia e sui suoi capelli. Sarebbe passata da Sara a darle l’invito in cui le chiedeva la stessa cosa, essere la sua damigella d’onore, ma ciò per cui fremeva era qualcosa che voleva fare in compagnia di Kate.

La cyborg sapeva già che la conversione le aveva regalato una sensibilità fisica impareggiabile: questo la rendeva cosciente, anche se non necessariamente consapevole, di quello che succedeva nel suo corpo. 

Per cui, non era passato molto tempo dal salto a casa di Bulma quando Diciotto aveva capito. Da metà gennaio aveva sentito degli strani segnali di energia, minuscoli e intermittenti, senza capire da dove venissero. Sembravano sempre intorno a lei; molto spesso si girava di scatto in un corridoio, le pareva di essere seguita. Ma finora non aveva collegato che quella presenza che sentiva era senza dubbio reale, solo non intorno a lei. 

Era con lei, dentro di lei.

Così, quando era stato finalmente ora di constatare che l’arrivo di febbraio avrebbe portato con sé il primo ritardo, la cyborg si rese conto che era possibile.

Con quella giustificazione che le lampeggiava in testa come una lampadina, Diciotto riusciva a spiegarsi i malfunzionamenti che l’avevano tanto disturbata. Non aveva avuto il coraggio di fare il test, tutti i tentativi finiti in nulla la facevano ancora soffrire. Non voleva più vedere quella linea rossa sola e soletta. Si diceva che voleva aspettare marzo prima di cantare vittoria, ma d’altro canto ormai Bulma le aveva messo la pulce all’orecchio. Resistere alla tentazione di confermare i suoi sospetti era stato durissimo, la faceva sentire irrequieta.

Si era ricordata che il lusso di avere una buona madre era quello, poter contare su un sostegno nei momenti di difficoltà. Non aveva bisogno di Crilin, nemmeno di Diciassette in quel momento. 

Solo e soltanto della sua mamma.

Trovò Kate nel suo ufficio, a Central City città. Senza lasciarle il tempo di capire cosa volesse da lei, Diciotto la trascinò nelle toilettes e si chiuse in un bagno.

“Lazuli? Stai bene?”

Contorcendosi per non toccare l’asse del water, Diciotto zittì sua madre:

“Se stai lì a farmi la posta non riesco: devo pisciare su un bastoncino.”

Non le disse altro. Kate, che ascoltava a malapena quando Lazuli le gridava dietro, fu improvvisamente scossa da quelle parole. Sua figlia stava davvero facendo quello che lei pensava?

“Lazuli?”

“Aspetta tre minuti, mamma.”

Quei tre minuti furono i più lunghi della sua vita. Diciotto voleva che finissero in fretta, non riusciva più a sopportare il rimbombo del suo stesso cuore. Bam, bam, nel petto, nelle orecchie, le parve assordante. Era così tesa che temeva avrebbe vomitato.

Kate aveva quasi paura di pronunciare quelle parole; la sua piccola, la sua bambina era cresciuta. Quando era successo?

“...Lazuli, sei incinta?”

Kate sentiva solo il suono del proprio respiro concitato, finché sua figlia non aprì la porta del bagno. Lazuli la guardava con due occhi carichi di emozione, come non glieli aveva più visti da quando era tornata.

Non parlava; Kate le vide fare un movimento minuscolo con la testa e incurvare le sopracciglia, mentre teneva una mano stretta contro le labbra e inspirava.

Kate scorse le due lineette rosse che molte donne consideravano famigerate; lei stessa le aveva percepite così al primo test, anni prima. Non riuscì a trattenere le lacrime, il viso di sua figlia era un sí più chiaro di qualsiasi test.

Era un sogno che si stava realizzando, alla fine Gero non le aveva rubato la possibilità di portare  e mettere al mondo una vita. Una creatura metà sua e metà dell'uomo che amava; Diciotto non sapeva neanche come sentirsi. Era un momento che oscurava tutti, ma proprio tutti i suoi fottuti tormenti.

Era come aveva ipotizzato in quei giorni febbrili prima di lanciarsi e fare il test: era rimasta incinta nell’anno passato. Quando Sedici le aveva fatto visita a fine dicembre probabilmente il bambino suo e di Crilin era già lì.

Sarebbe stata madre. All’alba del suo ventiduesimo compleanno, la vita aveva fatto a Diciotto il dono della maternità.

 

 

 Sentendo di nuovo il telefono suonare, Crilin interruppe l'allenamento e si sedette sulla sabbia fredda fuori dalla Kame House.

"Ehi Bul. Ti manchiamo?"

Bulma chiamava Crilin più spesso in quei giorni di quanto avesse fatto durante l'intero corso della loro amicizia.

"Volevo sapere come sta tua moglie."

"Il solito. È andata a trovare sua madre, ora."

Anche se Crilin non poteva vedere il suo viso, Bulma gli sembrava perplessa.

"Tienimi al corrente. Non so che imprevisti possano sorgere in questa situazione, ma ci penso..."

Quali imprevisti?

Crilin chiuse la chiamata quando vide Diciotto arrivare da lontano, in volo.

Come lei atterrò sulla spiaggia, non gli diede tempo di salutarla. Lo sollevò all'altezza della sua bocca e gli stampò un bacio sulle labbra.

"Diciotto, sei felice...cos'è successo?"

Lei si limitò a sorridere, senza esagerare. Gli porse un pacchettino regalo e guardò col batticuore mentre Crilin lo apriva.

"Un paio di calze? Che carine, grazie."

Crilin le sorrise mentre continuava a scartare il pensierino; un altro paio di calzini gli cadde di mano, lo afferrò prima che cadesse a terra.

"Altre calze!...Amore mio, va bene che sono un tappo ma queste non mi vanno bene." 

Si rigirò fra le mani la morbida maglia bianca:

"Sono minuscole, guarda, andranno sì e no a un bambino piccolo. Un momento..."

All'improvviso la fissò con gli occhi spalancati.

"Eh già..." Diciotto gli sorrise timidamente, con occhi amorevoli.

"No, tu...Ma davvero? Sei sicura?"

Diciotto gli mostrò il test di gravidanza che aveva tenuto in serbo e su cui spiccavano due grosse, grasse linee rosse. 

Il futuro papà sentì le lacrime appannargli la vista; guardò con un'espressione sconcertata quella meravigliosa ragazza, undici anni più giovane di lui, che gli dava una benedizione al giorno:

“Oh, quanto ti amo!”

Crilin strusciò la fronte contro quella di sua moglie; le sue mani corsero istintivamente a sfiorarle il ventre. Diciotto gli strinse la mano e pronunciò tre parole solo per sentirne il bellissimo suono, non perché fossero un'informazione ormai necessaria:

"Ce l'abbiamo fatta."

I sogni potevano avverarsi. Bisognava solo vivere.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Pensieri dell'autrice:

 

Qui Lazuli era praticamente babbo natale😁 è ufficiale, c'è Marron in arrivo! Mi ha divertita scrivere di Lazuli che solleva Crilin come si prende in braccio un bambino.

E non date retta a Lapis, il porridge è buono! È Kate che è master chef…scherzi a parte, se L&L sono quello che sono, Kate è un essere umano e basta e cerco sempre di essere realistica. Ci tengo a spezzare una lancia per lei, non voglio sia fraintesa: Kate si è sempre presa cura dei suoi bambini, ma realisticamente una mamma single di due gemelli dev'essere spesso di corsa...

 

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Capitolo 25
*** Divisione MI ***


 
Una volta all'anno, l’ex capitale del Nord Verny ospitava una grande fiera in cui turisti e locali potevano acquistare prodotti e artigianato locali e anche assistere a dimostrazioni di antichi mestieri.
Brent aveva una bancarella coi suoi abiti cuciti a mano, giusto di fianco a quella della sua famiglia. Suo padre produceva idromele.
"I Geirsson sono proprio una famiglia di artigiani!"
Lillian gli sorrise, ammirava genuinamente il modo in cui la passione di Brent fosse qualcosa che gli era stato trasmesso.
Proprio mentre Brent ed Elliott si accingevano a chiacchierare con il signor Geirsson, Lillian ricevette una chiamata. Si fece coraggio:
“Ahoy, Malinoski.Come vanno le cose dall’altra parte del mondo?”
“Va, va. Piuttosto, quando ti vedrò su questi lidi?”
“Mai. Non so perché tu stia ancora correndo dietro a me, tu dal RNP volevi il n°1 e io non lo sono più.”
“Il che non ti rende meno desiderabile. La mia offerta è sempre valida.”
“Ti ringrazio, Malina. Ma ora sono lontana dal tuo radar e temo che resterò qui. Ci sentiamo."
Raggiunse i suoi amici, intenti ad osservare una signora anziana che cardava della lana con un pettinino.
Brent le porse un bicchiere di idromele:
“Chi era, Lilli? È sabato sera.”
“Malina Samuels del Southern Archipelago National Park.
“Malina KS? La comandante del White Star?”
“Proprio lei, Elliott.”
Elliott capiva che Lillian non potesse darle un no secco:
“Quella donna comanda un cazzo di incrociatore.”
Brent si intromise, perplesso:
“Ma che razza di bracconieri hanno nel SANP?”
“Più violenti che qui, evidentemente. Malina è super hardcore, mentre voi puntate fucili lei li prende a cannonate in faccia.”
Elliott era un grande fan del capitano Klintsov-Samuels, che riteneva la donna più badass del mondo.
Malina voleva che Lillian lavorasse per lei:
"Pensa che potrei occuparmi di una nuova divisione del parco, ma onestamente la vedo dura persino per me…”
Elliott soleva partecipare ai discorsi dei suoi amici in maniera discreta, ma quasi rovesciò il suo idromele.
Era ovviamente a conoscenza dell’ultimo progetto a cui Malina aveva collaborato.
Il SANP si era esteso e aveva popolato un’enorme isola con animali rari, alcuni assomigliavano addirittura a mostri:
"Stai scherzando? La divisione MI? Non è a te che dovrebbero chiedere, se mai, è  roba alla portata di Se-"
Brent volle evitare ad Elliott di scavarsi la fossa da solo, dicendo a Lillian l'ultima cosa che voleva sentire. Lo trascinò di nuovo verso il proprio stand.
"Che cos'hai detto?"
"...Seri, ha detto: duri seri, tipo te!"
Brent salvò la situazione in extremis, con Lillian che li puntava come un toro imbizzarrito.
“Io piangerei di gioia a lavorare alla MI” esalò il paleontologo “qui scavo per cercare dinosauri morti, là hanno veri dinosauri.”
I tre amici discussero su come i guardiaparco di quella benedetta isola fossero praticamente dei militari.
La divisione MI era molto diversa dal RNP: era un’area unicamente adibita a riserva, abitata solo dagli animali e da chi ci lavorava. L’incentivo per i ranger era una somma di zeni ridicolmente alta, ma l'isola rimaneva comunque un’area rischiosa e continuamente presa d'assalto.
Il braccio destro di Malina, una ragazza dell'età di Lillian conduceva personalmente la difesa della MI, ingaggiando guerriglia coi bracconieri e coordinando la salvaguardia degli animali:
“Defiance è la miglior ranger al mondo."
Dichiarò Elliott, con aria pensosa.
Brent ridacchiò:
"Migliore di Sev?"
“Sev schiaccia quella lì, di gran lunga. Fidatevi di me.”
Nessuno al mondo poteva essere più certo di Lillian.
“Per difendere Sev, dev’essere gelosa…”
Brent rise al bisbiglio di Elliott.
Lillian cercò di finire la discussione:
“...Comunque, ogni tanto il capitano controlla se non voglio abbandonare questa nave. Tutto qui.”
“Se tu le dici di no e lei continua è vessazione” sospirò Brent “devi dirlo a John.”
“No, non lo è. Il perché lo spiegherò un’altra volta.”
I ragazzi annuirono; dimenticarono presto l’argomento vessazione e passarono il resto della serata a immaginarsi un duello fra il loro top ranger e quella del SANP (o l’incrociatore).
 
 
/
 
Non sapeva come dirglielo.
Doveva dire qualcosa, prima o poi sarebbe stato inevitabile: era meglio togliersi il pensiero subito, ma come trovare le parole giuste?
Pensava di averci ormai fatto l’abitudine, visto che sarebbe stata la terza volta, ma in realtà era ancora più dura.
La prima volta c’era stata anche Diciotto a dargli backup, di fronte a Kate; con Lillian era stato quasi divertente, era andata fin troppo liscia.
Ora la posta in gioco era altissima e Diciassette era da solo.
Fissava il nulla, seduto sulla lavatrice, spostando ogni tanto lo sguardo sul vetro appannato della porta del bagno. Diciassette intendeva parlarle non appena Carly fosse uscita di lì.
Non sapeva da dove cominciare: era stato rapito e trasformato in n°17, era irreversibilmente un cyborg, era andato a letto anche con Lillian.
Voleva solo stare in pace, lì a casa di Carly, con Carly accoccolata su di lui.
E invece doveva ancora rivangare giustificazioni e spiegazioni.
“Stai bene, amore?”
Carly sembrava un marshmallow, avvolta in vari asciugamani.
Guardandolo rimuginare con uno sguardo scuro, poco rassicurante, Carly si preoccupó.
“No. Tu devi sapere tutto, ma non so cosa dire.”
Carly stessa non sapeva cosa chiedergli: da una parte desiderava ovviamente sapere cos’era successo in quei tre anni, ma dall’altra avere di nuovo Lapis lì, vivo, era tutto quello che voleva. Il come non contava.
Aveva creduto di averlo perso per sempre, ma non era successo. Tutto il resto era superfluo.
Per cui, la sola cosa che fece fu sedersi sulla lavatrice al suo fianco. Gli afferrò un braccio, glielo baciò, ci strofinò il viso. Puntò i suoi dolci occhi in quelli taglienti di lui:
“Non devi dire niente; resta solo qui con me…"
Diciassette si sentì in soggezione davanti a quell’enorme dimostrazione d’amore.
Carly aveva davvero a cuore il suo benessere, più che il proprio; Carly era straordinariamente umana, Carly sentiva prima di capire.
Ed era proprio per quello che alla fine non c'era scampo, doveva dirglielo:
"Non devo, ma voglio."
"Sei tornato per restare, vero?”
“Tu mi fai stare bene…”
Nel linguaggio di Lapis, quello significava tutt'ora sì, voglio restare con te.
Quella coerenza fra passato e presente riempì il cuore di Carly e lei si ritrovò a piangere sommessamente di gioia.
C’erano molte domande che avrebbe voluto porgli, ma solo una l’assillava:
“Come mai ti fai chiamare Diciassette?”
“Riguarda tutto quello di cui devo parlarti.”
Diciassette, all'improvviso, si rese conto che se Carly sapeva che quello era il nome con cui lo conoscevano ora, doveva sapere anche di Lillian.
Lillian era il solo legame fra n°17 e Carly, e il cyborg si rifiutava di credere che Lillian non gliene avesse parlato.
Carly si raggomitolò contro il suo cuore, sfiorando col dito i suoi pettorali, osservando il suo pomo d’Adamo e la bella linea della sua mascella.
“...So di Lillian. So che lavori insieme a lei, che lei ti ha detestato, non hai idea di tutte le volte che l’ho calmata; l’ho incitata a congratularsi con te quando sei diventato top ranger, l’ho anche incoraggiata a…”
Diciassette le afferrò le spalle, sentì il suo respiro leggero contro la punta del naso:
“A…?”
“A farlo con te. Non potevo immaginare...In ogni caso Lillian è praticamente mia sorella, se tu hai rispettato lei hai rispettato me.”
Quelle parole abbatterono ancora le sue difese; nel bel mezzo della sua stessa confusione Diciassette si era aspettato di dover gestire altre lacrime e frustrazione, forse anche di peggio. Ma Carly gli aveva risparmiato tutto questo perché lo capiva, e basta.
Sgranò gli occhi, non staccandoli dalla giada di lei:
“Quindi...non mi odi?”
Carly gli diede un abbraccio repentino; lentamente gli depose piccoli baci su tutto il viso, succhiò e leccò le sue labbra.
I suoi occhi ora rilucevano:
“Lapis, Diciassette, amore mio grande: tu sei tutta la mia vita.”
Non avrebbe mai potuto odiarlo, quello che era successo con Lillian era stato un equivoco.
Quando Carly aveva unito i puntini, poco prima sotto la doccia, l’istinto le aveva fatto provare una grande rabbia verso Lillian ma anche verso Lapis. La rabbia le aveva suscitato altre emozioni forti che aveva soppresso da quando Lapis si era ripresentato nella sua vita con quella telefonata. Era stato un insieme di emozioni così forti che l’avevano scombussolata, ma a lacrime versate tutto si era fatto chiaro: se Lillian avesse voluto rubarle Lapis, perché mai gliel’avrebbe mandato non appena anche lei aveva messo insieme il puzzle?
Carly era abbastanza matura da concentrarsi su quello che aveva appena ritrovato, piuttosto che sul latte versato.
Il momento adatto per parlare era arrivato senza far rumore:
“Quindi sì, hai ottenuto il posto di ranger dopo la frana. Quest'ultima ha a che fare con il tuo nuovo nome, vero?”
Le difese si rialzarono: anche se lui non lo sapeva, era la paura di essere rifiutato dalla donna che voleva davvero.
"...Tu puoi chiamarmi come cazzo ti pare, ma ormai sono il cyborg 17: ho dei reattori e dei processori dentro di me, piantati da un pazzo che voleva usarmi come arma e che mi ha strappato alla mia vita con te. Appaio come tu mi ricordi, ma ora sono sovrumano."
Carly tremò di fronte ai suoi occhi improvvisamente freddissimi, ma capì che doveva diventare un pilastro. Con poco tempo per riflettere agì istintivamente: in quel momento toccava a lei prendere comando della situazione, proteggere lui. Qualcosa di cui non sarebbe mai stata capace prima che la vita la mettesse alla prova:
“Io ti credo: puoi disintegrare frane, puoi durare tutta notte. Ma non sei qualcosa che io temo: è successo quello che è successo e io voglio accettarlo, perchè voglio te. Dobbiamo trarre il meglio da questa situazione, insieme."
Tutto qui? E le domande come "ma i cyborg esistono?"
Niente stava andando secondo le sue previsioni; se la prima reazione di Diciassette fu il sollievo, l’ira subentrò prepotente.
Forse per Carly era tutto una presa in giro, il suo semplicismo gli fece stringere i denti:
"Che ci fai ancora qui, Carly, ti rendi conto che non è uno scherzo? Tutto questo non è una fantasia romantica, quando l’incanto finirà tu dovrai farci i conti: io non sono più lo stesso."
"...nessuno resta mai lo stesso! Perché la vita e il mondo cambiano, cambiano le persone. Se ci si irrigidisce di fronte ai cambiamenti, si muore.”
Carly gli accarezzò la pelle invulnerabile, sopra al cuore, guardandolo con amore assoluto:
“Tu sei tutto ciò che amo, soprattutto qui dentro. Mi sento a casa con te, anche se nemmeno io sono più la stessa."
Alla fine erano sempre Carly e Lapis; avevano solo vissuto un po’ di più.
Diciassette era ritornato, perché cyborg o umano sapeva che era destinato a lei.
"Temi che le mie parole siano state dettate dall'istinto, vero? Che domani mattina mi sveglierò terrorizzata dall'averti accanto? Io...non sono mai riuscita a dimenticarti, nemmeno quando il mondo mi diceva di farlo."
Carly aveva pianto di nuovo. Per il fatto che il peggio fosse passato e che ora fosse di nuovo lì stretta al suo Lapis, o Diciassette, non importava.
E Diciassette era a bocca aperta, ancora una volta disarmato; Carly riusciva sempre a toccarlo nella sua umanità, il suo era amore incondizionato.
Come essere capaci della forma più alta d'amore con così poche certezze, col divario profondissimo che li separava?
Forse quello che lui non capiva era che per Carly lui era la certezza, non c'era divario.
Perchè lo amava.
Lei l'aveva scelto ancora una volta per quello che era, e quello che era non dipendeva da Lapis o Diciassette.
Carly si aspettava un esaurimento da se stessa.
Invece, si sentì più pronta che mai a varcare quella nuova soglia con lui:
“Tanto mi hai già mostrato i vantaggi di non essere completamente umano.”
Lapis rise come lei amava tanto. Carly notò che si era legato i capelli con un suo elastico:
"Nuovo look?"
"Look pigro."
Brutto segno; voleva dire che le lunghezze iniziavano a dargli fastidio.
"A volte ti spuntavo io i capelli. Se vuoi, ho le forbici giuste in casa."
Al sicuro fra le braccia della sua donna, Diciassette promise che poco a poco le avrebbe raccontato la sua intera avventura.
E Carly lo rassicurò, perché avevano tutto il tempo che volevano: avevano una vita per dirsi tutto.
Il telefono di Lapis trillò.
"Oh…"
Carly lo sentì sussultare fra le sue braccia. Si sporse a leggere il messaggio, posando le mani sui polsi tremanti di lui:
 
"A settembre sarai zio. Ah, ho lasciato il tuo regalo ai tuoi coinquilini."
 
 
/
 
 John convocò Lillian ancora una volta.
“Dove diavolo è finito Diciassette. Se n’è sparito senza avvertire nessuno e mi ha piantato in asso.”
“John, lunedì era il suo compleanno. Si sarà preso qualche giorno di ferie.”
“E ciò mi rallegra. Ma se me l’avesse detto, mi sarei organizzato.”
Si erano abituati bene al RNP.
Quando c’era da sistemare un ponte pericolante, per esempio, John e Lillian avevano perso l’abitudine di contattare ditte varie, perchè con Diciassette non serviva. Così come non dovevano più preoccuparsi dell’attuazione di evacuazioni o di difese contro il maltempo, Diciassette gestiva tutto da sé.
“Lascia stare, John. Supplisco io.”
Era la seconda volta che Lillian gli chiedeva di lasciar correre con Diciassette: sembrava avessero sotterrato l’ascia di guerra.
Tuttavia, Lillian gli sembrò stressata.
“Non è niente. Malina mi ha richiamata e io le ho detto di no.”
John era un uomo paziente, ma questa volta si infuriò.
Congedò Lillian e accese Skype.
Non gli apparve il viso del capitano, ma di una bellissima giovane i cui occhi e sopracciglia bruni trasmettevano un ardore estremo:
“Defiance, meravigliosa donna a cui il suo capo relega sempre la corvée di parlare con me.”
“Non dirmi cazzate, Dubochet, Malina è la mia partner. Ed in questo momento è fuori col White Star.”
Defiance non si dimenticava mai di ricordargli di come Malina non fosse qualcuno che lui voleva inimicarsi.
"Sfida di nome e di fatto."
“Porto il mio nome con onore. Ho letto le vostre statistiche, bel lavoro con la sicurezza nel parco! Anche se al Nord i predoni giocano.”
“Bracconieri, vuoi dire.”
“Non darmi lezioni di lessico. Voi avete problemi di disastri naturali, caccia di frodo a volte, ma il Sud è il vero selvaggio: i bracconieri sciamano alla mia MI giorno e notte. Vedi tu.”
“Defiance...sminuisci tanto il RNP, ma intanto tu e Malina avete tentato ancora di fregarmi i miei ranger.”
“Solo una. Lillian mi ha informata di non essere più la meglio qualificata fra i tuoi ranghi, ma io sono interessata alla persona e non al titolo.”
“Voglio che voi due smettiate immediatamente di tartassare la mia apprendista. Non verrà mai da voi, se non lo vuole.”
“Rinnovare l’offerta di tanto in tanto non è tartassare.”
Lo era nel momento in cui diventava continuo:
“Dillo pure al comandante, non provateci nemmeno a fregarmi i miei ragazzi.”
“Fregare? Ti senti minacciato dalla competizione?”
Il punto era che non doveva esserci competizione: SANP-MI e RNP condividevano lo stesso scopo, preservare e trasmettere.
E Lillian era una nordica, teneva molto alla sua terra e non ci avrebbero rinunciato senza una ragione d’acciaio.
Gli occhi di Defiance assomigliavano a carboni ardenti, anche se il suo viso era calmo:
“...Suppongo perciò che quando lo scorso ottobre Lillian ha considerato il trasferimento al SANP ci fosse una motivazione d’acciaio. Non è quindi persecuzione, se la richiesta è avanzata da Lillian stessa. Un'ultima cosa: l'universo la vuole qui, non io. Venire a proteggere la Monster Island è il suo destino."
La giovane Defiance porse a John i saluti di Malina e scollegò la chiamata.
 
 
 
 “Che cavolo, Lillian? Per colpa tua ho fatto una figura da cioccolataio. Mi hai fatto lamentare con Defiance per il loro comportamento nei tuoi confronti, quando tu li hai contattati per prima! Perché non sei venuta a dirmi che volevi lasciare il RNP?”
Lillian non aveva mai davvero voluto lasciare casa sua.
“Mi hai fatto esporre a Malina, mi hai fatto gettare accuse infondate. Perchè volevi andare via?”
“Irrilevante, ora come ora. È stato mesi fa.”
“No, Lillian. Avresti dovuto dirlo A ME, il tuo capo. O anche a Leni, il MIO capo. Ci hai fatti cadere dalle nuvole e ora non posso difenderti.”
“Non ho bisogno di essere difesa!”
John ripensò alla cronologia di quei fatti: ottobre, ottobre…
Ahh!
“Lillian.”
La ragazza si bloccò sulla porta.
“...volevi andartene perchè ti sei sentita spodestata da Diciassette?”
Lei trattenne il fiato, le faceva sempre male ammetterlo. Malissimo.
“...sì.”
“E perché non sei venuta a parlarne?"
“Venire da te a piangere come una mocciosetta, a dirti in faccia vado perché non servo più ? Dirti onestamente che non avrò mai più alcuna speranza di essere la migliore?”
“...ma tu per me SEI la migliore.”
La ragazza restò a bocca aperta.
 Sì, l’aveva sentito: John le aveva appena detto le parole che aveva agognato per quasi tre anni, a cui ormai aveva rinunciato.
"No. Non più."
"Non me ne frega del titolo. Sai chi ho sempre pensato di nominare come mio successore? Te, Lillian."
"Ma…"
"Niente "ma". Pensavi al ragazzino, eh? Allora ascolta me: quando scende lui in campo non ce n'è per nessuno, nemmeno per me, ma da chi prende ordini anche lui? DA ME.
Se voglio una bomba la metto a top ranger, e Diciassette è la bomba. Ma se voglio un leader, allora lo metto a capo ranger. E saresti stata tu, dopo di me."
Diciassette era ancora inaffidabile, John sarebbe stato matto a dargli una posizione di comando; ma Lillian, se l'era allevata fin dal primo giorno con l'intento di farne il capo ranger.
Per John, Lillian era sempre la prima scelta.
L'attuale capo ranger abbassò lo sguardo:
"E invece non posso farlo ora, tu non hai fiducia in me. E nemmeno io mi fido più tanto di te. La pensione attenderà, c'è ancora bisogno di me qui."
 
/
 
Diciotto carezzava con cura l'abito fluido di raso color cielo che Sara aveva comprato per lei, gioendo dell'immagine che lo specchio le restituiva.
Sara aveva scelto personalmente l'abito delle damigelle e se quel dettaglio aveva fatto innervosire Diciotto quando aveva sentito Sara via messaggi, vedersi fluttuare in quel colore fatto per lei le aveva invece mostrato che Sara la conosceva davvero. Quello era forse l'abito più bello che Diciotto avesse mai indossato, uno splendido regalo per ringraziarla.
La futura sposa la guardava con aria trasognata:
“Wow, sembri una dea. E non serve nemmeno farlo ritoccare dal sarto."
Sara camminava nel salotto di casa sua, cullando Amelia:
“Sono contenta che il vestito ti piaccia, mi dispiace di averti comunicato i miei programmi così tardi; è stato tutto frenetico da quando Bruno é tornato, grazie di essere comunque la mia damigella d'onore.”
Diciotto ripensò alla violentissima morte di Bruno e sentì di nuovo dentro quella rabbia che le aveva fatto fare a pezzi Cloe Mafia.
Sara era stata davvero convinta che Bruno fosse morto, per cui durante quel lasso di tempo aveva smesso di organizzare il loro matrimonio. Poi lui era tornato, la vita quotidiana aveva ripreso il sopravvento e Sara si era trovata a spedire gli inviti alle sue due damigelle a febbraio, tre mesi prima del matrimonio.
“Non fa niente; anche io sono in ritardo sulla mia tabella di marcia.”
Diciotto non aveva la più pallida idea di quali fossero i compiti della damigella d’onore. Lei e Sara si erano trovate per fare un po’ di brainstorming, visto che anche la futura signora Weiss si sarebbe presto trovata in quella stessa posizione.
Diciotto aveva appena finito di compilare una lista di bar:
“Cosa ne dici di questo? Con “pompieri” e champagne.”
Sara le ammiccò:
“Pompieri per il mio addio al nubilato, Laz? Il mio uomo in uniforme ce l’ho già.”
"Sì ma non è uno stripper!"
A Diciotto venne un’idea lampo, chissà se a Crilin sarebbe piaciuto indossare un’uniforme e giocare ad arrestarla…
"E così vivi in riva al mare, che sogno!”
Diciotto alzò le spalle: davvero, che sogno la Kame House! Col Genio e i ventordici coinquilini.
Ma lei non doveva sputare nel piatto in cui mangiava: alla fine, era fortunata.
Un sorriso impercettibile e timido si dipinse sul suo viso:
“C’è solo una cosa, Sara. Non potrò bere con te, né alla serata né al matrimonio.”
“Come no! Sarai ubriaca fradicia insieme a me e Lacey.”
“No. Non posso bere.”
“...sarai mica incinta?”
Sara aveva scherzato, ma Lazuli la guardò in un modo che le fece portare a letto Amelia addormentata, correre di nuovo in salotto ed esultare:
“Ti d un consiglio, allora: non andare a cercare il vestito ora, vacci quando avrai il pancione gigante, sarà più facile valutare. Oddio....mamma Lazuli!"
Sara cercava di tergiversare, abbracciando la sua migliore amica. L’aveva ascoltata a bocca aperta quando le aveva confessato della fuga romantica con Crilin, questo mito d'uomo che si era accaparrato Lazuli e che lei doveva assolutamente incontrare.
Erano cresciute così tanto: da ragazzine casinare a mogli, a madri di famiglia.
Ma questo, ora: Lazuli aspettava, chi l’avrebbe mai detto…
Lazuli pareva così felice, voleva quel bambino.
Quando l’aveva rivista alla Stella del Centro, Sara aveva di nuovo avuto paura per lei. Paura che si rimettesse ancora nei guai, che non volesse calmarsi.
Invece Lazuli era finalmente pronta per una vita sana e tranquilla. Prima o poi serviva a tutti, nessuno poteva vivere per sempre sul filo del rasoio.
Ora Sara si sentiva quasi in dovere di essere un mentore per Lazuli, attraverso quella nuova avventura:
“Se hai bisogno di qualcosa, chiedi pure a me, ci sono già passata.”
“Qualsiasi cosa?”
Diciotto osservò Sara annuire cerimoniosamente:
“Faccio schifo se ti chiedo delle patatine con la marmellata di peperoncino?”
“Assolutamente schifo. Resta qui, vado al negozietto all’angolo a prendere la marmellata.”
Sara abbracciò ancora una volta la futura mamma e la lasciò sola in casa con la bimba.
Diciotto era stata abbracciata da Sara almeno una decina di volte. Ma non la disturbava.
Anzi, si sentiva bene.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Pensieri dell’autrice:
 
 
In questo capitolo abbiamo:
-Lapis che si trova ad affrontare ancora il suo passato ma viene sorpreso dall’amore di Carly
-Lazuli che vive un bel momento sereno con Sara. Nel capitolo 13 lei soffriva a vedere come la vita di Sara fosse progredita mentre la sua, a causa di Gero, era rimasta ferma. Qui le due amiche riflettono sui loro progressi.
-John che rivela i suoi piani per Lillian. Per lui Lill è sempre la migliore, anche se non è efficiente come Diciassette; pensavo che nella vita reale ci siano altre metriche che le capacità "tecniche" per considerare quanto qualcuno valga. John ha ragione, qui Diciassette non ha ancora la maturità che vediamo in Super: anche se sbaraglia la competizione è comunque ancora sconsiderato e inaffidabile, Lillian invece è stabile e ha più esperienza.
C'è poi un elemento che per ora sembra fuori contesto, ma che fa da foreshadowing ad avvenimenti futuri, la divisione MI: penso che tutti sappiate di cosa si tratta.
Conosciamo due persone prominenti che lavorano in un altro parco nazionale, il comandante (per chi segue Muted, e’ quella Malina!) e il capo MIR, che io immagino tipo una Rambo.
Ho riso del mio stesso scritto quando Elliott e Brent, da buoni nerd immaginano Lapis VS nave coi cannoni😅
(Per me vince Lapis, affonderebbe la nave).
Defiance occupa attualmente la posizione che 17 occuperà in Super e sarà il legame fra lui e la Monster Island.
Lei insiste con Lillian, anche se il ranger del RNP col nome in L che salverà cose non è Lillian! Parla di universo, che ne sa lei dell'universo, direte?
 
Ps. Il background della MIR sarà rivelato più tardi, ma quando John le dice “sfida di nome e di fatto” è perché  il suo nome in inglese significa appunto “sfida” o “provocazione”.
 
 
A bientôt!

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Capitolo 26
*** Sul filo del rasoio ***


Bulma esaminava gli ultimi scan del “cervello” di Sedici.

Doveva sempre impegnarsi a fondo per capirci qualcosa, nonostante lui fosse proprio l’androide su cui aveva lavorato. Migliaia di circuiti complicati, doveva condurre almeno due scansioni alla volta per registrarli tutti.

Sedici la guardava dal lettino del laboratorio della Capsule Corp. come quella volta in cui i Brief l'avevano aggiustato per la prima volta.

“Così dici che vorresti diventare più forte. Un upgrade, in pratica.”

“È corretto.”

“Questo è kachi katchin, uno dei materiali più resistenti conosciuti. Non solo è un ottimo conduttore, ma io e papà pensiamo possa integrarsi bene al tuo core.”

Sedici vide la scienziata maneggiare dei lunghi fili lucenti, sottili come capelli. Intendeva incorporarli nel suo “cervello”, avrebbero migliorato le prestazioni del processore, migliorando il suo tempo di reazione.

“Ho anche un coltello di kachi katchin” ammiccò Bulma “per tagliare la tua pelle. Se non funziona questo non so come possiamo fare.”

I laser super concentrati del laboratorio non avevano funzionato; Bulma era stata lieta di constatare che quel materiale funzionasse sulla pelle dell’umano artificiale, istintivamente si chiese se funzionasse anche sui cyborg.

Sedici non sapeva cosa aspettarsi da quell’upgrade. Bulma Brief gli aveva detto che se non fosse migliorato, non gli avrebbe fatto male.

Così, senza sentire dolore, lasciò che la scienziata continuasse il suo lavoro.


/

 

Era ormai l'una di notte. Nel distretto di Central City una graziosa tenuta di campagna risuonava ancora di musica allegra. La si sentiva anche nei frutteti, mischiata all'aria dolce di maggio.

"Non so davvero come ringraziarti. Sei stata la damigella d'onore perfetta, non so ancora cosa dire…"

Ormai la signora Weiss non si era più ritoccata il trucco. Poco prima aveva pianto di nuovo, durante la prima danza con suo marito Bruno, e ora stava per rifarlo seduta fra gli alberi in compagnia di Lazuli.

"Mi sono divertita, Sara. Ora conto su di te."

La sposina rimase a guardare la propria gonna voluminosa, l'orlo un po' sgualcito dalla felice e movimentata giornata. Sedici, che Bruno aveva insistito ad invitare, stava probabilmente correndo dietro alla bambina, i loro mariti erano ancora là a ballare con gli altri ospiti; era un momento solo per lei e per la sua migliore amica: Sara guardò Lazuli sorridere, seduta di fianco a lei su quella panchina. 

Anche Diciotto era contenta. Il matrimonio dei Weiss era stato un momento assolutamente sereno e lei e Crilin avevano entrambi sognato quando avevano visto la sala addobbata, i giardini decorati di quella tenuta presa in affitto per la giornata; Diciotto aveva sentito una nostalgia a cui non poteva dare nome quando Sara aveva camminato fino a Bruno a braccetto con suo padre, una dolce musica che scandiva i suoi ultimi passi da nubile. Lei li osservava, camminando dietro di loro, mentre si scambiavano sorrisi complici.

Ora come ora Diciotto cercava solo sollievo dall'ambiente affollato che era stato il dopo cerimonia. Si godeva l’arietta fresca sui piedi gonfi e arrossati.

"Hai ancora fame? Io non riesco manco più a tenere gli occhi aperti…"

Guardandola tenersi un piatto ricolmo in equilibrio sulla panza, Sara si chiedeva come quella Lazuli potesse mangiare così tanto. Quando lei aspettava Amelia aveva avuto le sue voglie assassine, ma Lazuli…

"Se non mangio ogni venti minuti mi sento male" tagliò corto la damigella "Il mio metabolismo è molto veloce."

Diciotto sperò che Sara non le chiedesse il perchè e il per come, non aveva voglia di spiegarle che se lei era una cyborg, quel bambino lì era interamente umano e lei doveva pure mantenerlo in vita nel suo grembo. Diciotto stessa non ne poteva più di mangiare in continuazione: le dava fastidio e una volta su due vomitava lo stesso, ma il peggio era comunque stare a digiuno. 

Si chiedeva a volte se lei era la stessa n.18 che si era svegliata in un laboratorio senza fame, né sete, né stanchezza.

Quando era rimasta incinta, Diciotto aveva creduto che nei mesi a venire non avrebbe sentito quasi niente, invece aveva scoperto che crescere un altro essere umano nel proprio corpo non era una passeggiata nemmeno per lei. Ogni tanto le tornava un pensiero; sapeva che Diciassette aveva ritrovato la sua ragazza dai capelli rossi, si augurava che lui stesse attento con lei.

La cyborg si era rassegnata a tutti i suoi fastidi, cercava di accettarli con filosofia, perché solo qualche mese prima aveva implorato di diventare madre. Era facile dimenticarsi dell’ardore del suo desiderio quando i disturbi la piagavano. Si stava abituando anche a vedere il suo corpo cambiare; era ormai a cinque mesi ed era strano vedersi con quella pancia che cresceva settimana dopo settimana, alla Kame House passava le ore davanti allo specchio, in varie pose. Diciotto pensava di essere sempre bella anche se non trovava sexy l'ombelico che sporgeva, si vedeva anche da sotto il vestito di raso. Prima della cerimonia, mentre si stavano preparando, se n'era lamentata con Crilin. 

Lui aveva guardato la damigella dal viso altero che poteva distrarre tutti dalla sposa, incoronata dall'oro-argento dei suoi capelli e maestosa in quei drappeggi azzurri...con quella panciotta e quel puntino che faceva capolino dal vestito. Era qualcosa di adorabile; ed era sua moglie.

Crilin era rimasto lì con lei ad accarezzarla, a sentire il loro bimbo che scalciava.

Diciotto era molto recettiva a ogni sensazione e sentiva nettamente quando il bimbo si rigirava, se era un calcio o una manata. La dottoressa che la stava seguendo a Satan City le aveva detto che di solito succedeva più tardi, ma nessuna donna normale aveva la sensibilità di Diciotto. 

Alla fine, però, soliti fastidi a parte era andato tutto bene.

Per cui Diciotto sentì una strana paura farsi lentamente strada in ogni fibra del suo corpo quando, di ritorno verso la casa, un dolore insidioso le soppresse il respiro nel petto e la costrinse a rallentare, a sedersi sulla stradina sterrata. 

Sara correva tenendosi la gonna sollevata, si fermò quando vide l'amica accovacciata per terra: sperò che non si stesse vomitando sulle scarpe, fu tentata dal fare una battuta.

Ma ogni traccia di scherzosità scomparve dal suo volto quando Lazuli si mise a sedere e Sara vide ciò che nemmeno la notte poteva nascondere: la gonna azzurro cielo stava cambiando colore.

Lazuli guardò Sara con un'espressione smarrita, terrorizzata, una domanda silenziosa senza interlocutori.

"Perché?"

Tutta la gioia di poco prima era sparita.

Sara tremò quando un brivido scosse Lazuli e sembrò togliere la brillantezza ai suoi occhi. Più i minuti passavano, più il vestito diventava scuro.

Sara doveva fare qualcosa, doveva chiedere aiuto. Fece per parlare ma fu interrotta.

“Sedici...chiama Sedici!"

Diciotto voleva saltare quello che stava vivendo, mandarlo avanti, non ricordarsene. 

Avrebbe voluto perdere i sensi, tagliarsi fuori da quel momento e risparmiarsi tutto il dolore che poteva; ma era perfettamente sveglia e lucida. 

Vedeva tutto.

Sentiva tutto.

Non riusciva a controllare il suo respiro e ogni boccata d’aria sembrava soffocarla.

Aspettando che Sara tornasse coi soccorsi Diciotto contrasse il viso e si raggomitoló, senza voce, in un lago di sangue.


/

 

 Aprendo la porta di casa sua a un bussare continuo e disperato, Bulma trovò Crilin. Il suo viso era rosso, dal volo e dallo sforzo di contenere una violenta preoccupazione: 

“Bul, aiutaci…”

La scienziata guardò esterrefatta oltre la soglia, dietro il suo amico: vide Sedici, alto e silenzioso come una torre, vide l’inscalfibile Diciotto stretta al suo petto, con asciugamani zuppi di sangue fra le gambe.

L'androide era arrivato in volo portando Diciotto e Crilin, così veloce che l'aria fresca della notte si era congelata loro addosso. Bulma osservò quel trio come ipnotizzata; quando la ragazza che lei credeva svenuta emise un rantolo e altro sangue colò sulla tuta di Sedici, quella leggera trance si ruppe. 

Si fece seguire in laboratorio:

“Papà! Presto! Vieni giù!”

Il vecchio dottore accorse agli alti richiami della figlia:

“Bulma, che succede?”

Giunse nel suo laboratorio con passo assonnato, ma nel vedere una ragazza giovanissima in condizioni che sembravano molto gravi si scosse. Guardando Sedici distendere Diciotto su un lettino, Bulma si infilò camice e guanti e preparò l'occorrente per l'intervento. Parlò a Crilin con fare così preoccupato, quasi sottovoce:

“Non c’è tempo, so cosa sta succedendo. Devo cucirle la bocca dell’utero se vuoi salvare il bambino, non c’è un minuto da perdere. Ho una possibilità su cento, al momento Diciotto non è consenziente: mi autorizzi a farlo?"

I Brief non erano ginecologi, ma erano gli scienziati più in gamba che lui conoscesse: se potevano progettare oggetti che si restringevano ed entravano in capsule, oltre che ad avere familiarità col lavoro del dottor Gero, Crilin doveva dare loro una possibilità. Scorse il dottor Brief coprire Diciotto con un telo verde e maneggiare degli strani fili lucenti e rigidi.

Una su cento. Ma cos’avevano da perdere, ormai?

“Salva il bambino, Bulma. Ma ti prego, non farla soffrire.”

 

 Sedici guardava la sua tuta striata di rosso vivo, e ancora una volta i suoi circuiti faticavano a districare un’informazione che era più pesante di un semplice input dei suoi sensori ottici.

“Il sangue...non ho mai visto tutto questo sangue.”

Si trovò a formulare un pensiero che non raggiunse la sua laringe artificiale: che Diciassette non lo vedesse mai.

Che non vedesse mai il pavimento del laboratorio, né la sua tuta, macchiati del sangue di sua sorella.

Diciotto aveva sempre saputo di amare la sua creatura ma solo in quel momento aveva capito quanto folle, smisurato fosse quell’amore.

"Perché a me."

Cos'aveva fatto, aveva volato troppo in alto, aveva mangiato troppo o troppo poco?

Bulma l'aveva guardata mentre lei, distesa su un lettino, si preparava con sguardo assente e stanco all'operazione:

"Diciotto,...tutto il tuo corpo ha una forza schiacciante, i tuoi muscoli sono potentissimi. L'utero è un muscolo, e le piccole contrazioni che si hanno normalmente tutti i giorni, nel tuo caso sono così forti da stare già spingendo fuori il tuo bambino. Temevo che potesse succedere, e ora devo riattaccare la placenta e suturare la tua cervice; lo farò con questi.”

Era stata una benedizione che Bulma avesse sotto mano i fili e gli utensili di kachi katchin, che aveva usato con Sedici pochi giorni prima.

Ed era probabilmente grazie a quell'upgrade che lui aveva tanto richiesto che il trio aveva potuto coprire la distanza fra le due capitali a tempo di record. 

“È la nostra sola speranza. Sii coraggiosa, piccola Diciotto."

Sfiorandole una mano, Bulma le parlò da donna a donna. 

Proprio lei, che un anno prima aveva costruito con orgoglio quel telecomando con cui Crilin avrebbe dovuto uccidere quella ragazza. 

Non sarebbe stato proprio uccidere, ma immobilizzarla, toglierle la coscienza; privarla della possibilità di vivere. Forse sì, in un certo senso era come uccidere…

I Brief avevano operato ininterrottamente per venti ore, litigando con i tessuti quasi impenetrabili della gestante.

Diciotto sentì dolore; non sapeva se le facesse più male quell'ago che le toccava la carne viva o il vedere ogni tanto le mani dei dottori tutte sporche del suo sangue. 

Si odiava con la potenza con cui era stata programmata per odiare la vita

Era stata solo un’illusa, si era davvero convinta di avercela fatta…

Aveva conquistato la sua serenità, sempre rimanendo una dei guerrieri più forti della Terra. Aveva sposato l’amore della sua vita, aveva concepito un suo figlio.

Tutto le si sgretolò dentro di fronte alla terribile, inesorabile verità: lei era il cyborg 18, lei dava la morte, non la vita. Lei non era più Lazuli.

Il suo corpo era fatto per uccidere, non importava chi. 

Un corpo assassino, spietato, da cui non poteva liberarsi. 

E in quel momento, il suo corpo stava uccidendo il suo bambino.  

C’era qualcosa di peggio che essere stata fatta a pezzi da Gero, ricostruita, cambiata, controllata, divorata da un mostro? 

Lei aveva ucciso quel bambino senza nemmeno provarci, perché in fin dei conti uccidere era l’unico linguaggio che il suo corpo di cyborg capiva. Quello era molto peggio. Diciotto non riusciva più a percepire quello sfarfallio dentro, ci si era così affezionata...

Anche se alla fine dell'intervento il dottor Brief annunciò che i suoi tessuti reggevano eccellentemente i punti di kachi katchin e che l'emorragia era stata fermata, Diciotto si sentiva completamente distrutta. 

 

 Crilin era restato tutto quel tempo in una piccola stanza adiacente al laboratorio. Di sua moglie vedeva solo il viso, che emergeva dal telo. 

Crilin non si era alzato nemmeno per bere o per andare in bagno. Voleva essere lì con lei a guardarla negli occhi, a baciare le sue labbra e a stringersi a lei.

C’erano altre volte in cui aveva avuto paura per lei.

Quando Cell aveva volato sopra quelle isole, cercandola; quando le era saltato addosso, buttando lui di lato come un moscerino; quando l’aveva risputata e per gli altri era stata solo una cyborg morta che non si aspettavano di rivedere. E lui, incurante dei presenti, era andato a riprendersela sperando che tutti avessero torto marcio. 

E ora la sua Diciotto era ferita. Lui voleva tanto portare un po’ del suo dolore.

Tutto quello che Crilin poteva fare era essere forte, per sé e soprattutto per lei.

Bulma lo trovò contro il muro coi pugni stretti.

"Crilin...Papà e io le abbiamo fatto un cerchiaggio super rinforzato. L'emorragia l'ha sfinita, deve riposare."

Crilin sapeva che il tasso di recupero accelerato di Diciotto aveva già risolto quel problema. Se lei stava riposando era perchè voleva farlo, ma il primo pensiero che Crilin ebbe, era che lui le avrebbe dato il suo di sangue se fosse servito a salvare lei e…

"Il bambino?"

"Non lo sappiamo" Bulma si sfregó un occhio arrossato "papà sta andando a prendere l'apparecchio per le ecografie, non ne avevamo uno qui. Ma da quello che ho visto il sacco amniotico era intatto,  e tu sei l'umano purosangue più forte del mondo. Forse il bambino è come te..."

Bulma aveva paura di fare ipotesi. Se lei si fosse sbagliata, e c'era il rischio che si sbagliasse, avrebbe causato ancora più dolore.

Crilin pianse. Non aveva voluto farlo davanti a Diciotto, ma non riuscì più a sopprimere il dolore.

 

Diciotto aveva voluto restare fra lenzuola pulite e silenzio riposante, anche se non aveva dormito dopo l'operazione.

Ogni tanto vedeva Crilin e Sedici osservarla; voleva parlare con loro e si sentiva pronta a lasciare il laboratorio con le sue gambe, ma aveva prima di tutto bisogno di un momento per sé. 

Il dolore dei punti era scemato da tempo; lei continuava a toccarsi la pancia, sempre tonda come doveva essere, sperando di sentire qualcosa. Tuttavia, in quello stato di agitazione estrema, l'adrenalina le ottundeva la sensibilità e lei lo sapeva.

Doveva solo aspettare che il dottor Brief ritornasse con l'apparecchio.

Quando tornò, Crilin e Sedici lo seguirono nel laboratorio. Fu come la prima volta, quando la ginecologa a Satan City le aveva fatto abbassare i pantaloni e le aveva mostrato il bambino, allora un segnetto indistinguibile in una giungla in bianco e nero.

Questa volta non era un più un segnetto. Diciotto e Crilin trattennero il fiato quando il dottor Brief mostrò loro quello che sembrava il profilo di una testolina.

"Non c'è l'audio, dottore?" sospirò Crilin "se schiaccia un bottone...si sente il battito."

Diciotto sperò con tutto il cuore di udire quell'altro cuoricino.

Quando il dottor Brief trovò il pulsante giusto e un rumore forte e ritmico riempì la stanza, una lacrima le offuscò la vista.

Il bambino era salvo. 

Diciotto era salva.

Crilin l'abbracciò stretta e Diciotto sentì una gioia profonda invaderla. Quello era il suono più bello del mondo…

Con un gran sospiro di sollievo, la cyborg si rilassò sul letto e piombò in un meritato sonno.

 

 Sedici guardava ora l'apparecchio riposto in un angolo, ora la pancia della sua amica. Non capiva.

"Che c'è, Sedici?"

Crilin gli sorrise, col viso ancora arrossato dal gran pianto.

"Cos'era, nel monitor?"

Crilin non sapeva che spiegazione dare a Sedici. Come si spiega la procreazione a un androide?

"Quello era...un altro essere umano, che sta aspettando di nascere."

L'umano artificiale non era a conoscenza di quella capacità della cyborg, lo sguardo gli si riempì di sgomento assolutamente vero:

"Diciotto ha assorbito un essere umano?"




 

/


“Ok, questa allora è la sua definizione di essere a posto?”

Elliott guardava di sottecchi la ragazza seduta di fianco a lui.

“Eh nooo…”

Era tutta vestita bene, con i tacchi e i capelli intrecciati con cura, una fetta di pizza in mano e il rossetto sbavato;

non aveva voglia di chiacchierare, vedeva la tele senza guardare. 

Elliott prese un’altra fetta dal cartone riposto sul tavolino e osservò la sua ospite: era carina, senza dubbio. 

Non il suo tipo, ma molto carina.

Qual era il suo tipo, dopotutto? Forse lui non aveva nemmeno un tipo...

“E così uscite stasera.”

Normalmente Carly preferiva la cortesia, anche quando la scocciava, ma quella sera era nervosa e dover chiacchierare con l’inquilino di Lapis alle 11 di sera le stava dando sui nervi.Non aveva altra opzione:

"Se Sev si schioda...Ridimmi, Elliott, com'è che siete coinquilini?"

"Io e Brent vivevamo già qui da due anni. Ma visto che c'era spazio, che Sev era nuovo e cercava un posto,...”

Carly si era aspettata di trovare anche Brent, ma a quanto pare era uscito. 

Era infine uscito con Lillian.

"...per me non gliela dà stasera, gliel’ho detto di non farsi aspettative.” rise Elliott.

Ah. Lillian era uscita col vichingo e non gliene aveva parlato... 

“Beh, Carly, l'ultima volta che ha voluto parlarti le hai tirato un ceffone! Perché, poi?”

 

Poco dopo la rivelazione dell'identità di Lapis-Diciassette, Lillian aveva invitato Carly a Viey per chiacchierare: 

"Carlona...Devo dirti una cosa."

Carly aveva notato che Lillian era diventata bianca come un lenzuolo. I suoi occhi scurissimi si erano velati di uno strato di lacrime impossibile da nascondere. Era scoppiata a piangere come una bambina:

"Sono andata a letto col tuo ragazzo.”

Beh, Lillian aveva passato il test: non aveva mai tramato sotterfugi alle sue spalle.

"Lo so, Lillian. Grazie di avermelo comunque detto."

Carly aveva aspettato che Lillian smettesse di piangere. No, non era arrabbiata; sì, sarebbero state amiche come prima. 

Ma prima di riprendere la strada di North City, Carly aveva fatto un saltino per dare a Lillian uno schiaffo simbolico su quella sua boccaccia.

"Ehi?! E questo da dove esce?"

L'ex top ranger l'aveva guardata allibita, sfiorandosi il labbro. Una parte di lei era quasi orgogliosa di vedere la cupcake tirare fuori le unghie per difendere il suo territorio.

A Carly era venuto da ridere:

"Nessun rancore, ma dovevo: Lapis è mio."

 

“Niente. Cose da donne.”

"Comunque Lillian dice che sei la morosa storica di Sev, ma…"

Carly sapeva dove Elliott volesse andare a parare:

"Lo sono; ci eravamo solo presi una pausa."

Avevano detto così a mezzo RNP. Per fortuna nessuno (esclusa Lillian) aveva indagato sulla loro storia e Lapis aveva dovuto dire poco e niente su di loro per tutto il tempo in cui era stato lì.

Meglio così.

Lapis era stato distante tutto il giorno; Carly era riuscita ad estorcergli che aveva un brutto presentimento, lui stesso non sapeva dire cosa riguardasse. 

La veterinaria aveva messo in atto la strategia della distrazione e gli aveva detto “molla tutto, stasera usciamo.”

Era salita a Saint-Paul tutta gasata, ma quando Elliott le aveva aperto la porta aveva visto che Lapis non era minimamente pronto per uscire.

“Tutto a posto?"

Diciassette era visibilmente inquieto, e anche molto convinto che Carly ed Elliott non se ne accorgessero.

“Tutto a posto.”

Con quelle tre parole e il calore umano di una tomba, aveva piantato Carly con Elliott e si era rintanato in camera.

Diciassette era anche incazzato, gli dava fastidio sentirsi così: era una sensazione che ravanava nel suo subconscio, senza controllo ed ingiustificabile. 

Mentre Elliott e Carly cenavano, il cyborg era rimasto disteso sul suo letto a scrutare nervosamente ora il soffitto, ora il regalo di Diciotto: per il compleanno gli aveva donato un coltello a serramanico, tipo quello che lui aveva rotto a Lillian. 

Già, doveva ancora ricomprargliene uno…

Diciassette ci giocava, il suo sguardo catturato dal manico freddo e brillante, del più bel punto di blu. Se lo strinse al cuore.

“Nel caso serva dirlo perché non ci arrivi, è lapislazzuli.”

Era tutto ciò che Diciotto aveva scritto sul biglietto. 

Ma Diciassette l'aveva subito riconosciuto; e sfiorando il manico prezioso del suo coltello ebbe un impulso, prese il cellulare e iniziò a digitare. Non fece in tempo a finire, un messaggio arrivò e lui l'aprì febbrilmente:

“Sto bene.”

Un secondo, “ti voglio bene”, arrivò poco dopo, come se Diciotto avesse esitato ma si fosse poi decisa a mandarlo.

Diciassette sentì quel nodo nel petto sciogliersi. Si lasciò ricadere sul letto, con gli occhi chiusi, sentendosi momentaneamente a corto della sua energia infinita. 

Ma non era più inquietudine o rabbia, era sollievo.

Diciassette guardò di sfuggita nello specchio, si leccò un pollice e lo passó su un sopracciglio arruffato: ora era impaziente di uscire con la sua ragazza.

Sorrise nello scrivere sul cellulare una risposta semplice ma completa:

“Anch'io sto bene, ora.”










 

Pensieri dell’autrice:

 

E in questo capitolo lazulicentrico, novanta minuti di applausi per Bulma! (Ancora una volta).

Lei è un eroe😎 ha salvato Marron…

Il materiale che lei usa è quello che compone i cubi con cui si allenano Goku e Gohan nella saga di Buu (se ricordo  bene) e l'operazione che effettua, il cerchiaggio cervicale, è una cosa reale che serve a quello scopo. 

Il contesto è un'altra mia ipotesi sulla fisiologia di 18. 

Viene naturale pensare che i cyborg non sentano dolore, o quasi.

Ma a parte il fatto che, come ci mostrano Cell VS 17 o i loro combattimenti in Super (tipo quando 18 si sloga la caviglia o quando Toppo lussa la spalla a 17), il dolore lo provano eccome, per me è tutto proporzionale: il loro corpo è rinforzato e hanno sicuramente una soglia più alta, ma se hanno tipo contrazioni muscolari anche queste sono più forti. Contando anche che i loro sensi sono sovrumani, per me è logico che sentano dolore. E niente, carrellata lunghissima per condividere con voi le mie teorie. Se voi ne avete altre, sarei curiosa di saperle!

Ho voluto anche riscrivere un po' del loro legame, era da tanto che non lo facevo!

 

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Capitolo 27
*** "Come ho conosciuto nostra mamma" ***


Carly fu riassunta al RNP prime che l'estate iniziasse: Leni le rifece lo stesso contratto dell'anno prima, anche se la veterinaria era ormai prossima alla fine degli studi e non avrebbe potuto lavorare lì da loro fino a novembre. L'ultimo anno sarebbe iniziato prima e finito dopo, in mezzo ci sarebbero state la discussione della tesi, la laurea e un trasloco o a Viey o a Saint-Paul. 

Quello era lo stretch finale, l'ultimo miglio da correre prima di concludere quel capitolo ricco che era stata l'università.

Quel tirocinio estivo (pagato!) sarebbe stato l'ultimo, ma questa volta Carly sapeva che un contratto a tempo indeterminato l'avrebbe aspettata: non solo se l'era guadagnato, se l'era proprio meritato.

Fortunatamente aveva potuto ritornare ad abitare con Lillian per il tempo dello stage; l’ex top ranger non ne poteva più di aspettare, Carly le era mancata…

Quando Leni gliel’aveva detto si era messa a saltare di gioia.

"Anche se abbiamo litigato, sappi che io ti sosterrò sempre e che sarò sempre orgogliosa e felice dei tuoi successi."

Leni le aveva sorriso, mentre Carly firmava il contratto.

"Leni, ti chiedo scusa. Per l'anno scorso…"

La direttrice sapeva che Carly usciva con Diciassette già da un po’. Erano una coppia di fatto.

"Meno male che tu non volevi i guardiaparco…"

Leni non lo disse, ma era contenta di vedere che aveva sempre avuto ragione e che quel teppistello era davvero il tipo per Carly, come lei aveva sempre pensato.

La direttrice aveva avuto i suoi dubbi su Diciassette, ma in ogni caso si fidava del giudizio di Carly: se lei stava con lui, in fondo (molto in fondo) non doveva essere il ragazzaccio che appariva. Sembrava che entrambi si rendessero più felici.

Carly non le aveva ancora raccontato tutta la storia, ma si promise che un giorno l'avrebbe fatto. Leni era sempre una delle sue migliori amiche, alla fine.

Al suo ritorno alla clinica per animali selvatici di Verny Carly era partita in quarta: il primo giorno aveva appena fatto in tempo a mettersi il suo camice che le avevano portato un falchetto molto sofferente, ma vivo. Dei turisti l’avevano udito cadere sulla loro roulotte.

"Quindi sei una zoologa, come la moglie di John?"

"No, una veterinaria."

Carly si infiló gli occhiali da vista e fece segno a Lapis di sedersi. Ma lui voleva guardare il falco, mentre pensava al fatto che per una volta le cose erano state facili e che il mondo era piccolo: che anche Carly lavorasse al RNP era stata la coincidenza più felice, quante probabilità c'erano? 

Gli sembrava di ricordare che Carly volesse diventare una pediatra, ma fu felice che avesse cambiato carriera:  era proprio destino.

Il falco era stato colpito apposta, con l'intenzione di ucciderlo; Carly schioccò la lingua, iniettando con perizia un anestetico locale.

"Bracconieri di merda, sul serio!"

Diciassette restò a osservare curioso la veterinaria ricucire l'ala del piccolo rapace, straziata da una pallottola. Anche il falco la guardava, roteando nervosamente due occhi quasi umani.

"Ancora un po' di pazienza."

Il rapace chiuse gli occhi quando Carly gli accarezzò la testolina col dito.

Il cyborg fu colpito dalla cura e dall'amore con cui Carly faceva il suo lavoro. Se fosse stato lui l'avrebbe svolto con le sue solite concisione ed efficienza, ma Carly non aveva fretta; se le coccolava proprio, quelle bestie. 

A Diciassette tornò istintivamente in mente ciò che aveva pensato da sempre: che lei sarebbe stata una brava madre.

Carly vide i suoi tratti ammorbidirsi:

"Che c'è?"

Diciassette ebbe voglia di accarezzare il falco come faceva lei. Con un sorriso Carly gli prese la mano e guidò i suoi gesti:

"Piano. Così."

L'animale abbassò la guardia quando sentì che anche l'altro bipede aveva un tocco delicato. 

Carly fu distratta dalle braccia abbronzate e sudate di Lapis, lasciate scoperte dalla maglia smanicata. Strinse più forte la sua mano, forse per lasciare che il tatto scoprisse qualcosa...

"Dunque, se il pazzo ha fatto quello che ha fatto col solo scopo di farti ammazzare quel tipo, non sei tecnicamente un terminator? Non Terminator, ma-"

"La finisci?"

La bocca serrata di Lapis tradì la sua voce calma. Si stava arrabbiando con lei?

"Non ho capito, tu puoi scherzarci su e parlarne quando ne hai voglia ma io non posso?"

"Precisamente."

"Va bene…"

Carly conosceva la profondità dei propri sentimenti, ma in quegli ultimi mesi ne era rimasta sorpresa: ciò che aveva per lui era un amore illimitato che le permetteva di vedere oltre se stessa e i suoi limiti. Qualcosa che oltrepassava anche l’empatia, la complicità, l'orgasmo, persino il concetto di amore. Era quasi mistico.

Ma certo. Si trattava di Lapis, la parte più importante della sua vita.

Per questo Carly capiva quando a volte le chiedeva di chiamarlo Diciassette, e di non usare Lapis con coloro che non l'avevano conosciuto da umano. Riusciva a cogliere il suo dilemma, la differenza fondamentale che sentiva in se stesso dopo un'esperienza così ultraterrena. Non aveva dubitato per un secondo che lui dicesse la verità. Razionalmente non aveva senso, ma era lì da vedere.

Anche se non lo mostrava, Carly era sempre angosciosa di apprendere di più sul suo essere cyborg, ma era sempre Lapis a decidere come e quando parlarne. Stava, però, mantenendo la sua promessa:

"Non hai idea di quello che ho visto. Il pianeta è pieno di mostri, terrori e pericoli. Ogni giorno la razza umana rischia l'estinzione a causa di alieni, creature e nemici che vogliono distruggere il pianeta. Non sono l'unico che può volare, là fuori c'è un intero gruppo di guerrieri che difendono la Terra. Diciotto ne ha sposato uno."

Questo le aveva detto Lapis la sera prima, seduti vicini fuori da un bar nel centro di Verny.

"Mi stai dicendo che anche alcuni di loro sono alieni?"

"Sì."

"Vuoi unirti a loro anche tu? Come Diciotto?"

"No, sto bene qui. Per un momento ho cessato di esistere: ora, qui con te vivo.”

Le cose non erano mai andate meglio per lui.

Carly pensava che fosse il suo amore a permetterle di capire cose altrimenti inconcepibili per la mente umana, l'esistenza di un mondo parallelo e incredibile. Non era qualcosa che era disposta a condividere con altri "semplici umani", nemmeno con Leni o il suo amato padre. Lapis avevano fatto lo stesso: Kate e Lillian sapevano solo che ora era un cyborg, la punta dell'iceberg.

Carly si considerava privilegiata, se non altro, per avere una tale comprensione del mondo. Diciassette era giunto a considerare la sua disavventura come una benedizione di conoscenza superiore e, grazie a lui, anche lei poteva accedervi.

Diciassette l'osservò ricucire la ferita e tagliare il filo.

"Ah, che cringe…"

I punti che Carly aveva cucito sulla pelle del rapace erano così irregolari.

"Li ho fatti bene.."

"No, sono distanziati a membro di bracco: questo 3 mm, quest'altro 8 mm! Guarda."

Ci mancava solo che Lapis si mettesse a scannerizzare e criticare tutto il suo operato:

" "A membro di bracco"...E come fai a dirmelo?"

Diciassette la guardò sornione. Ah, giusto. Nulla doveva sfuggire ai suoi nervi ottici super rinforzati. Carly osservò i suoi occhi, chiedendosi se fossero telecamere super precise.

Ma quello era un lavoro ben fatto, anche se la sua precisione non era industriale. 

"Cosa sono, uova di Pasqua per bambini cattivi?"

Carly guardò Lapis maneggiare delle uova di legno a grandezza naturale, dipinte per sembrare proprio vere:

"No, dovrò riuscire a metterle in un nido d'aquila."

Rimpiazzare uova non fecondate con fac-simili affinchè le aquile non ne deponessero di più e creassero uno squilibrio nel numero di aquilotti nati ogni anno era una pratica comune. 

"Devo prepararmi per quando sarà possibile salire al nido. È la prima volta che lo faccio e serve che Louisa chiami un elicottero."

"Pigliati le uova di legno. Saliamo ora."


/

 

“Muoviti, muoviti, muoviti!”

Lillian saltellava su un masso, pestava i piedi come a volerlo davvero far muovere; perché lei non riusciva a spostarlo?

Michel era sembrato piuttosto incavolato quando le aveva parlato al telefono un’ora prima: il primo pensiero che aveva avuto era “ma come fa ad avere il mio numero?”. 

Man mano che si era avvicinata all’alpeggio, Lillian si era ricordata. Era nella lista dei clienti di sua moglie, andava spesso a comprare il loro burro e il loro formaggio...

“Sembra quasi che tu voglia spostare il masso coi piedi.”

Michel apparve a Lillian in quel momento, lei si sentì molto imbarazzata:

“Qualcosa del genere…”

Michel le porse delle foto:

“Stamattina sono andato qui dietro nella piana per far pascolare le mie mucche. Salvo che non ho potuto. La roccia è venuta giù sulla prateria...Per favore, fa riordinare tutto il prima possibile, non posso permettermi di andare fino a North City per trovare un pascolo.”

Sfogliando le foto con la fronte corrugata, Lillian non riconosceva quasi la piana Pessy. Non ci era andata dallo scorso inverno, ma il versante che Michel aveva fotografato assomigliava più ad una pietraia che ad un pascolo.

“Michel, perchè chiami me? Cosa posso fare io?”

“...fai spostare ‘sto macello! Chiamo te perché sei quella che la gente chiama.”

“Sbagliato. È il top ranger che devi chiamare. No, non sono io.”

Lillian strappò un pezzo di una vecchia cartina che trovò nel suo zaino. Si ricordò della dimostrazione che Diciassette le aveva dato, colpendo una parete rocciosa su alla piana Pessy.

“Chiama il top ranger, che è  anche il responsabile di questo casino.” 

Lillian finì di scribacchiare e porse a Michel il pezzo di carta:

“Questo è il numero del mio collega, chiama lui. Se vuoi restare a guardare, portati pop-corn.”


/

 

 “Ehi non mollarmi! Più vicino, le mie braccia sono corte…”

Carly agitava i piedi nel vuoto cosmico sotto di lei, sostituendo l’ultimo uovo in quel groviglio di rametti, piume e ossicini che era il nido della loro aquila gigante alpina più vecchia, Pollo.

Pollo non si trovava lì, ma il suo nome era familiare a Diciassette.

“No che non ti lascio cadere…”

Il cyborg strinse più forte la vita della sua umana, lei emise un verso strozzato e gli sferrò un calcio.

Non tutti i nidi d’aquila erano a picco su dirupi, infatti Louisa le aveva detto di aspettare a fare quel lavoro. Quando Lapis l'aveva sollevata e portata lì in alto Carly aveva pensato che fosse una pessima idea, ma ora cominciava ad essere contenta: la sua superiore avrebbe apprezzato che tutto fosse già  stato fatto, prima che l’elicottero fosse anche prenotato.

“Se Louisa ti chiede come l’hai fatto, dà pure la colpa a me.”

Lapis le fece un occhiolino, rimuovendo momentaneamente un braccio dalla sua vita per togliersi i capelli dalla bocca.

“Ah!! Tienimi! Lo fai apposta?!”

Carly si stava divertendo, alla fine. 

Lapis le aveva anticipato che poteva volare, ma essere lì in alto con lui era un’altra cosa: sentirglielo dire non l’aveva preparata. 

Ora Carly voleva che lo facessero tutti i giorni. Mai in vita sua si era immaginata che un giorno avrebbe volato, portata dal suo amore bello. Era l'apogeo del romanticismo...doveva dirlo a Lillian. Alla fine, era stato positivo che anche Lillian sapesse che Lapis era un cyborg, lei poteva discuterne, riderne o anche piangerne con qualcuno!

“Quando l’ha confessato a me, mi ha quasi teletrasportata in cima al Severny senza dire nulla. Ero scioccata.”

Ora Carly non riusciva più a guardare la guglia che incombeva su Viey senza pensare a Lapis e Lillian che ci passeggiavano.

“Quindi quando ti gira tu sali nel cielo e poi ti butti giù in picchiata?” 

Carly aveva finito con il nido. Si aggrappò al petto di Lapis come una scimmia.

“A volte. È rilassante.”

Immaginava che lo fosse. Restò aggrappata a Lapis che anzichè giù, la portó su. Con gli occhi che brillavano e il suo sorriso sghembo, Diciassette appoggiò Carly sulla cima della rupe e poi inspirò tutta l'aria che potè.

"...Dobbiamo andare giù!" lo interruppe lei.

"Ma voglio fare una cosa!" la sgridò lui.

Carly guardò la valle spalancata davanti a loro, poi guardò Lapis prendere rumorosamente un'altra boccata d'aria.

"Oh no...che fa ora?"

"Yodelay-hee-hoo!"

Yodelayheehoo, yodelayheehoo ripeté l'eco. Carly si era aspettata delle parole imbarazzanti, o un rutto gigante. Gira che ti rigira, Diciassette era sempre molto Lapis.

"Bene, ora sei un montanaro stereotipato, contento? Scendiamo."

Il cyborg non se lo fece ripetere due volte; afferrò Carly e si strinse le sue gambe intorno alla vita, correndo fino a spiccare il volo, in picchiata, dalla cima della rupe.

Rise di gusto mentre Carly strillava, la voce distorta dalla velocità del volo. Lei strillò fin quando Lapis si mise a planare, allora Carly vide la meraviglia: il paesaggio sotto di loro come le aquile dovevano vederlo. La riempì di brio. 

Però Diciassette non si era accorto che forse lei non era fatta per volare così veloce;  quando finalmente toccarono terra e lui aprì la macchina, Carly ebbe un giramento e cadde lunga e distesa sul sedile posteriore.

 

 “Allora stasera vieni da me? Lillian sarà al lavoro.”

Carly strinse Lapis e lo baciò, prima di scendere dalla macchina.

“Arriverò verso le nove. Oh...” Lapis  rispose brevemente al cellulare “devo andare su alla piana Pessy.”

Diciassette lasciò Carly vicino alla croce che segnava l'ingresso a Viey e lei andò a piedi lungo la strada costeggiata di campi di patate, accompagnata da un vociare crescente. C'era una grande casa attaccata alla chiesa di Viey, un posto in cui ogni tanto venivano gruppi in vacanza da tutto il mondo in occasioni come settimane bianche.

Ora Carly vedeva bambini e ragazzini ovunque, nel cortile disseminato di ciuffi d'erba, sulla grande balconata di legno, vicino alla fontana-lavatoio.

Proprio lì c'era a un bambino che attirò l'attenzione di Carly; mugugnava e piagnucolava, continuando a girare intorno alla vasca.

Carly si avvicinò e notò un camion giocattolo sul fondo di pietra scura.

Anche il bambino la guardò. Rimase ad osservarla a bocca aperta quando lei gli sorrise e immerse il braccio nell'acqua.

"Robin, vieni qui. Lascia stare la signorina."

Una donna sopraggiunse e gli circondò affettuosamente le piccole spalle.

"Ecco qui."

Carly gli porse il camion, scrollandolo per asciugarlo alla meglio.

"Dì grazie alla signorina."

Robin guardò Carly con un sorriso estasiato:

"Grazie signorina! Non avevi paura a mettere il braccio lì?"

La donna, forse una maestra, disse che Robin aveva paura della pietra scura e rivestita da un sottile strato di alghe.

Robin era un bimbo magro dai ricci castani. Gli occhi erano profondi e caldi, come quelli di un cucciolo, il suo nasino grazioso era spruzzato di lentiggini. 

Carly lo sorprese a guardare le sue:

"Sì, visto? Anch'io ho molte lentiggini."

Aveva quattro anni, lo disse a Carly con le dita.

La maestra raccontò che erano arrivati in mattinata e ringraziò ancora Carly di aver aiutato il bambino.

"Dai, vieni a cena. Saluta la signorina.”

“Ciao ciao..."

Carly ricambiò divertita i saluti e si avviò verso casa.
Trovò Lillian intenta a sorbire una grande bibita, davanti alla tele:

“Cos’è che farai stasera?”

“Brent deve scrivere un documento e io vado a fargli compagnia.”

Carly le sorrise enigmatica; no, non era come pensava. Lillian non intendeva minimamente iniziare una relazione col vichingo. Quello che voleva, era dargli l’amicizia che entrambi meritavano.

“...Sono passata al fast food, ce n’è anche per te. Col caldo chi ha sbatti di cucinare…”

Carly afferrò al volo un hamburger:

“Chi sono tutte quelle persone nella casa delle colonie?”

“Ah già, l’anno scorso non sono venuti...Sono la casa famiglia, di solito restano un mesetto.”
“Casa famiglia? Tipo orfanotrofio?”
“Non dire così!”

La parola orfanotrofio, le insegnò Lillian, era desueta e mal connotata al Nord. E quelle persone venivano sempre dal Nord, davanti a loro Carly avrebbe dovuto dire casa famiglia. Era strano, al Centro orfanotrofio non era un termine offensivo…

 

 Robin era piccolo, ma gli piaceva guardare le bambine e le ragazze, e la signorina era per lui una bellezza universale, forse anche divina. Per quello che la sua mente infantile poteva considerare un innamoramento, si era innamorato di lei. La sua amica alta non lo ispirava invece, inconsciamente gli sembrava meno materna.

Quasi ogni giorno stava appostato sperando di vederla passare, quando la vedeva arrivare si fiondava alla fontana, ci buttava un giocattolo e poi glielo faceva ripescare. Non vedeva l’ora di ringraziarla con un abbraccio.

A Carly piacevano i bambini e non le dava fastidio.

"Ancora un po' e chiederai "posso tenerlo?" " scherzava Lapis, quando lei parlava di Robin. 

Alla fine i bambini piacevano sempre anche a lui, non sembrava indispettito da quella profusione di affetto. Anzi, Diciassette era divertito da come Carly conquistasse i piccoli.

Anche se i bambini della casa famiglia sembravano sani e normali, Carly pensava che Robin avesse bisogno d’affetto. Anche a lei piaceva quando lui appoggiava la testolina al suo petto.

“Perché non puoi essere tu la mia mamma?”

Gli abitanti di Viey erano soliti conversare con gli educatori. Vedendo che lui le si era così  affezionato, uno di loro parlò a Carly di Robin: era figlio di tossicodipendenti, il padre era morto di overdose quando lui aveva solo un anno e mezzo, da allora aveva vissuto nella casa famiglia. Non era adottabile. 

“Perché hai una mamma, Robbie. Solo che ora non sta bene,…”

 

Le signore di Viey non avevano un tubo da fare e spesso preparavano biscotti e confetture per i bambini; una volta Carly contribuì, riempì un cestino di ribes e lamponi apposta per Robin:

“Vieni oggi pomeriggio a prenderli, abito nello chalet col balcone a cuori.”

Robin era andato tutto contento fino a quello chalet:

"Signorina? Posso?"

Nessuno rispondeva; Robin era entrato dalla porta non chiusa a chiave e si era preso il cestino, poi aveva fatto il giro della casa e aveva sorpreso Carly con un uomo.

Erano solo due grandi che si baciavano, bleah, ma il bambino sentì un tuffo al cuore: per qualche strano motivo gli parve una cosa strana, il ragazzo dai capelli scurissimi sembrava volerla divorare. A Robin parve strano quando la signorina, con il seno palpitante e le gote in fiamme, gli sorrise:

“Stavamo giocando."

Il giovane dai tratti duri invece non parlò; incuteva a Robin molto timore.

A Robin la signorina non sembrava veramente un’adulta ma una sorta di creatura delle fiabe, coi suoi colori particolari e i vestiti che lasciavano scoperte membra bianche e morbide. Invece, l’uomo con gli occhi azzurri era un adulto vero e proprio. 

E gli portava via la signorina…

Quando lui arrivava, lei non lo guardava nemmeno più: salutava Robin e si avviava, tenendo l’uomo per mano.

Quel bacio che aveva spiato gli era rimasto impresso; una volta che capitò solo con lei, Robin le porse una domanda.

“Signorina, è così che si fanno i bambini?”

Carly diventò rossa:

“...Ma no, Robbie!”

“E com’è, eh?”

Chissà se Robbie aveva chiesto la stessa cosa anche ai suoi educatori? Carly si trovava a disagio, pensando che non spettava certo a lei affrontare l’argomento con quel ragazzino! Ma si considerava una donna di scienza e disse quello che avrebbe detto ai suoi di figli, quando ne avesse avuti. Una spiegazione corretta e vaga.

“Vedi, quando due grandi si vogliono molto bene…”

Robin non aveva nessuna aspettativa, quindi non fu sorpreso più di tanto. Carly pensò di averla scampata, ma lui non la mollò:

“È così che fa il signore con gli occhi azzurri con te? Tu gli vuoi molto bene…"

 

 Una volta che gli capitò ancora di vedere il ragazzo con la signorina, anziché scappare Robin gli tirò la maglietta fin quando lui non si abbassò per guardarlo:

“Che vuoi, folletto?”

Il bambino voleva toccargli i capelli lisci, sembravano morbidissimi, ma si limitò  a guardare i suoi occhi ridenti da furbastro con sincerissimo aplomb:

“...io voglio la signorina come mamma. Ma te non ti voglio, te sei molto cattivo.”

Il ragazzo rise fragorosamente, Robbie vide che la sua bocca era rossa come i lamponi e i ribes. 

“Ok, io vado.” 

Il ragazzo saluto' la signorina e si avviò fuori da Viey, non prima di aver scoccato a Robbie un occhiolino malizioso:

“E per tua informazione, saresti fortunato ad avere me come papà.”

Il signor Lenteney, seduto lì vicino insieme ai bambini e a un’educatrice, rimuginò con fare saggio e solenne:

“Lui era Diciassette, il top ranger. Non mi piace molto.”

"Ahh no, nemmeno a me."

L’educatrice sospirò pensosa e fissò lo sguardo su Carly e Robbie:

“Ragazza, che culo...”

 

 Una volta che Lapis se ne fu andato, Carly tornò a giocare con Robbie.

“Lui è cattivo con te, vero?"

Carly ridacchiò, osservando distrattamente altri bambini della casa famiglia, raccolti intorno al signor Lenteney che sgusciava noci con un coltello. 

Era vero che Lapis non ispirava dolcezza come faceva lei, non l’aveva mai fatto, ma non gradiva sentirlo chiamare così:

“No, perché mai? Non parlare così del mio ragazzo, non si giudica un libro dalla copertina.”

“Ma tu sei super dolce…”

Oh, caro...Carly scompigliò con affetto i capelli del bambino:

“Non preoccuparti. Non avere paura per me, Robbie.”

 

/


Non appena erano tornati a casa dalla Capsule Corp., Diciotto e Crilin avevano ufficialmente comunicato che la loro seconda cerimonia sarebbe stata posticipata all'anno seguente.

Diciotto e il bambino stavano bene, ma gli sposini non se la sentivano.

"Così il matrimonio non si fa settimana prossima, no?"

Kate aveva il viso rosso d'emozione quando per la prima volta era andata alla Kame House a trovare la sua bambina. 

Appena la vide la strinse forte e versò qualche lacrima.

Distesa a letto, Diciotto si sfiorò la pancia di sette mesi, alzando su Kate due occhi inquieti:

"No, dopo quello che abbiamo passato...Non posso dirti cosa significa vivere nell'ansia costante di perdere la mia bambina."

"Lo so, figlia mia. Lo so."

Crilin e lei avevano scoperto che era una femmina solo poche settimane prima. Era anche molto timida, nelle ecografie era solita incrociare le gambe.

Una bambina, una piccola Lazuli…

Kate non aveva potuto fare a meno di abbracciare la futura madre ancora più stretta. Sarebbe andato tutto bene, Lazuli avrebbe stretto la piccola prima che le foglie iniziassero a cadere.

"Ora della seconda colazione!"

Crilin entrò nella loro camera con una brocca di spremuta d'arancia e delle gallette di riso.

Non sapeva che sua suocera fosse lì e quando la vide in compagnia di Diciotto, la salutò con un solenne signorina Lang.

"Oh dai, chiamami Kate. Ormai siamo una famiglia. A proposito, voi tutti dovete ancora incontrare Ronan…"

Diciotto aveva sorriso alla parola famiglia, ma non era sicura di voler conoscere il nuovo compagno di Kate. Crescendo, l'aveva vista uscire con vari uomini, ma lei non aveva mai insistito affinchè uno di loro incontrasse i gemelli.

Questo Ronan doveva aver conquistato la sua inarrivabile madre. Forse, solo per quello si meritava il suo rispetto.

Diciotto avrebbe potuto sforzarsi.

"E guarda, colazione a letto. Che uomo da sposare..."

Crilin arrossì. Non sapeva mai decifrare completamente Kate Lang, soprattutto quando l'espressione dei suoi occhi gli sembrava quasi beffarda, stile Diciassette.

Tuttavia, Kate era sincera.

"Oh, infatti…"

Diciotto gli prese la mano e gli fece un occhiolino:

"Crilin é tutto mio."










Pensieri dell'autrice:

Tenetevi forte, la baby Lazuli (che poi e' una baby Crilin in parrucca) sta per arrivare! Lazuli e Crilin hanno scoperto che Marron e' una Marron :) e...il prossimo capitolo arrivera'. Loro due non si sposano a breve alla fine, rimandano all'anno prossimo. Vi anticipo che ci sara' una scena in cui Lazuli andra' a caccia del vestito in compagnia anche di Chichi e Bulma (penso che se una vuole un giudizio brutale, si deve portare Chichi!).
Poi c'e' Robin, che e' introdotto qui ma comparira' piu' tardi nella storia all'eta' di 8/9 anni con uno "status upgrade". E qui, Carly non ha nemmeno figli e si trova a dover rispondere a LA domanda imbarazzante che fanno i bambini, che disagio :')
E invece, ha chiesto alla persona giusta...
Tranquillo Robbie, prima o poi potrai abbracciare Carly e toccare i capelli di Lapis tutte le volte che vorrai.

 









 

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Capitolo 28
*** La piccola Marron ***


Il rumore di stoviglie infrante si udiva bene anche fuori dalla Kame House.

Sedici voleva concentrarsi sul pellicano che era riuscito a far posare sul suo braccio, ma il baccano dentro casa lo distraeva.

“Perché fa cosi’?”

“Eh, ormoni, roba da femmine...va a sapere.”

Sedici accettò la vaga spiegazione del Genio con riserva: Diciotto non era mai stata così, quello del suo nuovo comportamento era un pattern sconosciuto.

L’androide era arrivato alla Kame House poche ore prima, quando Crilin l’aveva chiamato. Quel giorno era il 21 agosto, il termine della gravidanza.

Diciotto aveva tutto sotto controllo: anche se la bambina non pareva volersi schiodare, la futura madre sapeva già che sarebbe stata ricoverata nella clinica più all'avanguardia di West City e che i Briefs avrebbero aiutato durante il parto. Bulma aveva consigliato a Crilin che si facesse così e ora anche Diciotto ne vedeva i benefici; aver pianificato la nascita dava una certa sicurezza.

Era già una settimana che Diciotto viveva senza cerchiaggio super rinforzato: i Brief avevano provato a toglierglielo per evitare brutte sorprese.

“E se qualcosa va storto e devono farmi il cesareo? Sai com'è, tagliare la mia pelle."

Quella volta, mentre Bulma le rimuoveva i fili di kachi katchin, era stata la prima in cui Diciotto le aveva rivolto la parola. La volta in cui glieli aveva messi era stata troppo sconvolta per pensarci, ma ora si vergognava di mostrarsi così nuda ad un’estranea.

Era anche preoccupata: come già sapeva, un'operazione chirurgica con strumenti normali sarebbe stata impossibile su di lei.

Bulma aveva solo contribuito ad accrescere la sua ansia: 

“In qualsiasi modo il parto si svolga, devi stare molto attenta: la bimba può morire se verrà schiacciata contro le tue ossa. La pressione che il tuo corpo eserciterà in quel momento sarà troppo grande per un bambino umano.”

La scienziata diceva che l'unica alternativa era che la bimba fosse in posizione ottimale per poter scivolare fuori senza venire pressata contro il bacino della madre. Era un bel problema.

“Ma ora pensiamo a toglierti questi fili perché se la tua stessa pressione muscolare ti fa scoppiare l’utero, anche tu puoi morire.”

Anche se era una cyborg. Già.

Ripensando a tutti quei problemi ingiusti, che mai avrebbe avuto se fosse stata una donna normale, Diciotto aveva voglia di fare i capricci. 

“Amore, non è colpa di nessuno…”

“Chi parla di colpe?” sibilò lei, scagliando un altro piatto “voglio solo restare in pace un po’! È chiedere tanto?”

“Amore…”

“Stai zitto!!”

Era meglio che lui non parlasse; tutto quello che Crilin aveva fatto era stato abbassarsi i pantaloni, lei invece ne aveva patite di ogni. 

Manco i piatti poteva lanciare correttamente; le scivolavano di mano, e con quella pancia poteva vedere a malapena dove metteva i piedi. Certo, fare delle brevissime scansioni della stanza per cercare di non pestare i cocci o non sbattere contro i mobili era nelle sue capacità, ma non ne aveva voglia: Diciotto non ne poteva più.

Dov’era finita la guerriera che aveva spezzato le ossa del principe dei Saiyan? I suoi riflessi assassini, il suo passo felino…

Lo spazio che la bimba prendeva fuori e dentro di lei era tanto, troppo.

Ogni volta che calcolava male l'area che lei occupava quando doveva passare, Diciotto stentava a riconoscersi.

Amava quella bambina, ma voleva che uscisse. Non stava ferma un attimo, non la lasciava in pace.

“Fammi parlare con lei…”

Crilin serrò sua moglie in un abbraccio, accarezzò il suo ventre teso e cominciò a cantare:

 

“Bella bambina

Dolce stellina 

Papà vuol tanto bene

A te e alla tua mammina.”

 

Molte volte Crilin cantava per la piccola, specialmente la sera a letto.

“Aaww!”

Yamcha e gli altri li stavano spiando, nascosti dallo stipite della porta. Era così strano vedere il loro amico parlare a quella panza, dal nulla, con un’espressione di beatitudine e anche gratitudine.

Diciotto sbuffava, quella filastrocca era inutile, ma in fondo era intenerita; la bimba era già affezionata al suo papà, ogni volta che sentiva la sua presenza si calmava.

"Arriva mamma tirannosauro!" 

Avvisò Yamcha, vedendo Diciotto dirigersi verso l’ingresso. Tutti si dispersero e fecero finta di niente, ben attenti a non farsi sentire dalle orecchie rinforzate della cyborg.

“Ehi, Sedici! Non oggi...”

L’androide carezzò il pellicano per salutarlo e andò incontro a Crilin e Diciotto.

“Ma non devo portarla a West City?”

“Era un falso allarme…e so volare anche da sola.”

La sua amica gli parlo’ senza interesse; camminava affaticata, con gli occhi bassi e le mani intrecciate in cima al ventre.

Chissà fino a quando la piccola avrebbe voluto farsi aspettare.

 

/

 

 "Senti, Lapis, perché hai rifiutato di vedere Lazuli dopo il suo intervento?"

"Perché non avevo tempo."

Diciassette fuggì a guardare fuori dalla finestra; l'hotel era posto appena sopra Verny e, come da Viey, la notte appariva densa e argentata.

"È tua sorella; dovevi trovare il tempo."

Carly aveva un dono per sollevare questioni esistenziali nei momenti meno opportuni. Avevano appena fatto l'amore, per la miseria...l'irritazione ne attirò l'altra e Diciassette grugnì frustrato al pensiero di Lillian (e anche di Brent ed Elliott). Per colpa loro, molte volte lui era costretto ad andare in un hotel per passare la notte con Carly, come un clandestino.

Quel messaggio che Diciotto gli aveva inviato al tempo del loro compleanno l'aveva scosso nel profondo.

Sua sorella era incinta.

Non era una cosa da poco, l'aveva toccato dritto nella questione più personale, la conversione in cyborg. Inconsciamente aveva proiettato il tutto su di sé, era una cosa enorme: Gero non li aveva annientati come umani, erano come gli altri in tutto e per tutto, alla fine. 

Sì, anche lui. 

Ogni volta che ci pensava sentiva una fitta al petto; non si sentiva pronto a vedere sua sorella con la pancia.

Carly lo raggiunse alla finestra. Guardò sconsolata il pizzo della sua vestaglia:

"Visto che avremo bambini, quando vedrai me incinta cosa farai? Mi eviterai?"

Era una questione che la inquietava non poco; dall'aura che Lapis stava emanando in quel momento a Carly sembrava che avrebbe davvero potuto fare così. Lasciarla da sola, per non affrontare qualsiasi reazione la questione avrebbe innescato nella sua testa. 

In fondo, Carly si vergognava di pensare così male di quello che sarebbe un giorno stato il padre dei suoi figli; e Diciassette pensava che quando lui e Carly fossero diventati genitori lui sarebbe stato un padre presente, normale, come si era sempre immaginato.

"No, perchè? Con Diciotto è diverso.”

Sapere che lei avrebbe avuto un figlio e vederlo coi propri occhi non era la stessa cosa.

Ma era destino che lui incontrasse Diciotto prima che partorisse: il giorno dopo, Kate li convocò entrambi a pranzo per conoscere il suo moroso. 

Diciassette rispose al messaggio sollevando la sola questione che gli parve rilevante: Kate non si aspettava che lui e Diciotto chiamassero Ronan papà, vero?

 

/

 

 Kate aprì la porta a Lapis e Carly: vederli insieme fui un flashback che quasi la ipnotizzò. Carly era esattamente come la ricordava, fresca, radiosa e soprattutto innamorata di suo figlio.

Lei e Kate ripresero la loro relazione da dove l'avevano lasciata e si salutarono con un abbraccio, come due vecchie amiche che non hanno bisogno di aggiornarsi anche dopo anni di silenzio. 

Kate le accarezzò maternamente una guancia; per lei Carly era un'altra figlia, una delle poche persone esterne al nucleo familiare il cui contatto fisico con la disturbava. 

Si sentì quasi in colpa di non averla più cercata negli ultimi tempi; aveva solo parlato con George, e raramente.

Ronan stava preparando il pranzo, accorse al fianco di Kate con un Bellini in mano; la sua pelle e i suoi vestiti profumavano di pesca.

“L’altra volta al telefono non è stata una presentazione adeguata. Ronan, ecco mio figlio, Lapis.”

Diciassette non sapeva che espressione assumere: sperò che gliene apparisse una minacciosa mentre stringeva la mano di Ronan solo per non mettere a disagio Kate.

“Piacere! Finalmente ti incontro. Ahia, questa sì che è una bella stretta decisa…”

Ronan rivolse alla sua compagna un sorriso sofferente e Kate lo spinse verso la ragazza rossa e carina:

“E lei è mia nuora, Carly.”

La stretta di mano con lei fu più clemente.

Lazuli non era ancora arrivata, Kate invitò tutti a sedersi a un tavolino basso completo di bei flûte di Bellini e stuzzichini vari appena preparati.

“Kate mi ha parlato di te, così sei il miglior guardiaparco del Royal Nature Park…

Diciassette non avrebbe certo risposto a una domanda retorica.

"Uomo di poche parole, eh?"

"No, fa il selvatico solo quando gli gira."

Il cyborg guardò la madre ammiccare a Ronan; si limitò a dargli un'occhiata di considerazione, dopotutto era maleducazione parlare a bocca piena. Fu così per caso che Diciassette trovò l'escamotage perfetto, che l'avrebbe salvato da un tedioso conversare con Ronan

 

 Arrivare con un leggero ritardo non solo è glamour, ma cementa una prima impressione di un certo tipo: una volta varcata la soglia di Kate, Diciotto guardò di sfuggita tutti i presenti. Tutti i loro sguardi erano per lei, soprattutto quello di Ronan.

“Missione compiuta.”

Il moroso di sua mamma era ovviamente molto meno bello di lei, ma forse era buono e simpatico. Ronan stava a Kate come Crilin stava a lei. Se era così, allora Diciotto poteva stare tranquilla per lei.

Mentre Ronan e Crilin si salutavano, Diciotto si soffermò leggermente più a lungo negli occhi del suo fratello gemello e della ragazza dai capelli rossi. 

“E lei è Lazuli, mia figlia…”

Le parole di Kate arrivavano quasi distanti, Diciotto strinse meccanicamente la mano del Ronan.

Ora se la ricordava: la secchia...quella che andava a letto con suo fratello!

Il ricordo della propria gelosia fu uno schiaffo leggero.

Tutti rimasero senza fiato quando, con gesti calcolati, Diciotto si prese la scena slacciandosi la giacca e rivelando una pancia tonda e sporgente, elegantemente vestita con una camicetta fatta apposta per valorizzarla.

Carly sentì Lapis sussultare mentre le stringeva la mano più forte. Si girò a guardarlo e vide che aveva un'aria calma, anche se non staccava gli occhi da Lazuli.

Anche lei non riusciva a smettere di guardarla: era proprio lei, Lazuli, sempre splendida, sempre irraggiungibile. La dolcezza del suo pancione non addolciva la qualità tagliente della sua bellezza, lei era grandiosa. 

Ma non era una divinità, solo una ragazza di un anno più giovane di lei: sua cognata, che stava per avere una figlia.

Carly alzò per abbracciarla e farle le sue congratulazioni. 

E Diciotto decise che non serviva più essere gelosa del fatto che Carly catalizzasse le attenzioni del fratello, perché lei stessa si sentiva più indipendente da lui.

Ricambiò Carly con una stretta simbolica e un piccolo sorriso sincero.

Diciassette annuì guardandola, ridandole quello stesso sorriso.


 Visto che era lì nella sua città natale con la mamma, Diciotto le aveva chiesto se volesse accompagnarla a fare un giro. Mentre si sistemava il trucco e si dava una spazzolata, Kate parlò con amore al suo Lapis: 

“Prima, quando ho chiamato Carly mia nuora ho notato che ti sei innervosito. Sappi che non intendevo metterti nessun tipo di fretta.”

Kate era così piena di tatto con lui. A volte apriva addirittura l’ombrello prima che piovesse:

“Non mi sono offeso.”

Kate aveva detto qualcosa di bello. Gli ritornò in mente come l’aveva definita alla Margaret: “E’ mia moglie.”

Sotto sotto sapeva di volere Carly come un pilastro nella sua vita, una presenza permanente. Il fatto che lui stesso l'avesse designata come sua moglie tradiva proprio questo.

 

 Aveva trovato sua sorella in camera, si era aspettato che dovesse prendersi una pausa dalla riunione familiare; sedeva sola sul suo letto, rimirava le tutine che Kate e Ronan le avevano regalato e canticchiava per la bambina agitata.

“Come si chiama?”

Anche Diciassette prese posto sul letto, abbastanza vicino perché lei notasse i suoi occhi accesi:

“Non sei ancora zio. Lo saprai a tempo debito.”

"Bella bambina; può uscire brutta, sai?"

"Scusa?!"

Porca miseria...i bambini non erano belli di default.

“Se la tua erediterà la fisionomia da rana io non ti mentirò in faccia.”

Anche quel Ronan gli ricordava una rana; sua madre e sua sorella erano proprio attratte da quella faccia lì. 

"Prova solo a fare commenti velenosi su mio marito e mia figlia e ti ammazzo."

Diciassette alzò le spalle, soddisfatto della provocazione. 

Le diede un biglietto:

"Carly ed io non sapevamo cosa regalarti. Compraci quello che ti pare."

Lui sorrise nel vedere le sopracciglia della sorella alzarsi per un millisecondo. Era un buono regalo molto generoso:

"Eh lo so, varrà più di casa tua."

"Almeno in casa mia ci vivo con mio marito."

Questa volta fu lei a sorridere.

"Ora di tornare a casa; ciao, Diciotto."

Lei sapeva leggere Diciassette. Durante tutto quel tempo era stato terribilmente nervoso. E ora non vedeva l’ora di andare via, di fuggire chissà cosa. Prima che lui lasciasse la stanza, riuscì a fermarlo sulla soglia:

"È una buona cosa, Diciassette. Anche per te."

In un soffio lei aveva capito tutti i sentimenti contrastanti che lui aveva a riguardo. 

Dilemmi profondissimi. Natura e contro natura.

Appoggiato allo stipite della porta, Diciassette restò a guardare la sorella e il suo ventre. Era una buona cosa…

Diciotto l'osservò mordicchiarsi nervosamente le labbra e voltarle le spalle.

 

 Poco dopo, Diciassette e Carly camminavano per strada, in cerca di un posto in cui lui potesse caricarsela in spalla e decollare verso nord, indisturbato.

 

Non aveva sofferto nel vedere che Diciotto si era fatta una famiglia mentre lui cazzeggiava, ma istintivamente pensava ancora alle implicazioni di quell’insperato indizio sull’estensione delle modifiche di Gero. 

Era possibile: lui e Carly, un giorno...

La tensione di Lapis era palpabile, ma Carly pensò che fosse stato bravo. Non doveva essere stato facile vedersi sua sorella gemella prossima al parto.

Carly sapeva che lui stava evitando di darle la mano perché le sue tremavano ancora.

"Pensa, tu sarai lo zio figo che le insegna le parolacce! E che la fa ridere con mille boiate…"

La cosa migliore era che Diciassette si vedeva davvero così, e Carly lo sapeva: i suoi occhi chiari erano ancora più luminosi. 

Era l'amore ad accenderli, un amore di cui lui nemmeno si rendeva conto.

Istintivamente Carly sentì i propri riempirsi di lacrime. In barba all’imbarazzo ostinato di Lapis, intrecciò le dita alle sue e gli poggiò la fronte sul petto:

"Ti amo tanto, tesoro mio."

 

/

 

 Era bello ma anche strano passeggiare con Kate nel centro di Central City con un buon gelato da leccare, come quando lei e Diciassette erano piccoli e si facevano tanti giri con Kate, camminando sulla stessa pietra. Era persino appoggiata a sua madre come allora, ma anziché darle la mano Diciotto aveva lasciato che lei la prendesse a braccetto.

Guardare Kate le metteva una certa malinconia: Diciotto era bella come sempre, anzi, la nuova pienezza delle sue forme la rendeva superlativa agli occhi di Crilin e degli altri uomini di casa, ma la sua percezione era radicalmente diversa.

Di solito Kate non era più bella di lei: le dava filo da torcere ma alla fine erano pari, Diciotto non era mai esteticamente inferiore, ovunque andasse faceva la sua porca figura. 

Ma ora si sentiva sfigurare davanti a sua madre, un quarto di secolo più vecchia ma raffinata ed elegante, mentre lei sembrava di aver perso il suo senso dello standard. Molte volte andando in giro nelle località balneari non distanti dall'isola del Genio aveva visto donne in ciabatte da spiaggia: 

"Ma come si fa? Andare in giro in città con quelle ciabatte sciatte."

E ora si guardava le infradito di gomma infilate ai piedi così caldi e gonfi che era un dolore anche solo calzare un paio di sandali. 

Era caduta così in basso; per amore di sua figlia doveva anche essere una sciattona ciabattona.

"Non conto nemmeno più i kg che ho preso. Dopo dieci ho smesso di voler sapere."

La ginecologa la pesava ad ogni visita, ma guai a lei se solo uno stralcio di conversazione arrivava alle orecchie di Diciotto.

"E mangia di meno" rise Kate “per esempio, anziché due coni gelato avresti potuto prenderne uno.”

"Ma ho fame, io…tu come facevi all’epoca?"

"Non penso di poterti dire gran che…"

La sola esperienza di Kate era stata una gravidanza gemellare, un contesto diverso in cui prendere peso era anche incoraggiato. 

"Io avevo una pancia che era il doppio della tua ma ero sempre più magra…"

Lazuli le fece una smorfia altera. Kate intendeva davvero consolarla, non aveva mai inteso come positivo il suo essere secca come un’acciuga!

Kate non fu sorpresa quando Lazuli le disse che anche se amava la bambina, faticava a gradire la gravidanza: per lei era stato esattamente lo stesso.

Il corpo di Diciotto aveva sopportato la mancanza dei super fili di kachi katchin, ma lei era sempre sul chi vive:

"Non posso più vivere senza riguardi come prima. Devo fare attenzione a tutto quello che faccio e non ci sono abituata."

Si sentiva ingrata e colpevole per pensare "non lo voglio fare più". 

Crilin aveva dovuto afferrare al volo la sedia che lei aveva tentato di lanciare in testa alla sua ginecologa: quella mentecatta le aveva quasi promesso che nausea e vomito sarebbero spariti dopo il primo trimestre, invece non l’avevano mai lasciata.

"In media, amore. La dottoressa aveva detto in media."

Crilin si era scusato con la povera ginecologa mentre con un leggero sudore freddo aveva accompagnato Diciotto fuori. Se sua moglie era già poco tollerante e intimidatoria, da incinta era ancora peggio. 

Era sempre nervosa e bastava un niente per farle perdere le staffe.

"É così frustrante, non vedo l'ora di riprendere controllo del mio corpo. Quando Alien uscirà, forse..."

"Lo so. Tieni duro e cerca di goderti questo momento della tua vita, se non riesci va bene lo stesso, si fa quello che si può."

Diciotto aveva paura anche di qualcos’altro:

“Crilin vuole venire nella sala parto con me, ma io non voglio.”

Quelle parole non fecero altro che risvegliare in Kate ricordi totalmente diversi:

“Questa e’ una decisione tua, non posso suggerirti nulla. Giusto tieni in conto che lui è il padre.”

Lei avrebbe voluto che il padre di Lapis e Lazuli fosse stato con lei, quando aveva partorito sola e spaventata?

Sì. A Kate sarebbe piaciuto.

“...ma se mi vedrà in quel frangente come farà a trovarmi di nuovo sexy? Voglio essere prima di tutto sua moglie, e sai…ahhhhhhhhhhhhh!!”

Era da quando aveva bussato alla porta di Kate che Diciotto sentiva fastidi di vario tipo. Era diverso dalla volta il cui aveva avuto un fitta pazzesca al fianco, perché la bambina si era seduta sul suo rene. Si sentiva tirare, non era dolore ma fastidio generalizzato.

Ma questa fitta era come un'orchestra di tante piccole fitte, aghi che si scagliavano contro ogni punto del suo addome. 

"Lazuli? Che succede?"

Diciotto si accorse che si era istintivamente inginocchiata. Sollevando lo sguardo trovò l'identico azzurro ghiaccio di Kate, riscaldato da una preoccupazione sincera.

Il primo impulso di Diciotto fu di verificare che non stesse perdendo sangue a fiotti, come quella volta terribile. 

Bene, niente sangue, poteva fare come diceva Kate, chiamare Crilin e andare a farsi controllare in una clinica lì in città: non era sicuramente niente, ma visti i suoi precedenti la prudenza non era mai troppa.



 

 I dottori che assistettero a quella nascita, nel piccolo ma efficiente ospedale di Central City, non si sarebbero mai dimenticati di quella ragazza che era giunta lì da loro con la bambina praticamente fra le gambe:

“Signora, sicura che ha iniziato ad avere le contrazioni solo poco fa?”

Che domanda del cavolo…

“Se ho detto cosi’, non era per dare aria ai denti! Uhhh!”

“C’e’ qualcosa che non va dottore?” chiese Crilin, a mente fredda.

“Le sto controllando la cervice ora...e’ completamente dilatata.”

Crilin aveva imparato che ci volevano ore ed ore affinché il corpo di una donna fosse pronto a dare alla luce, ma Diciotto era Diciotto. E i dottori non lo sapevano.

I dottori non avrebbero mai dimenticato quell’avvenimento sensazionale, quel parto prodigio che accadde in soli venti minuti e con esattamente tre spinte da parte della ragazza.

 

  I dolori divennero così forti che presto Diciotto non riusci’ piu’ a parlare; le contrazioni si susseguivano senza sosta una dopo l’altra e lei si sentiva come delle bombe esploderle nel ventre.

Questo non era quello che aveva pianificato. La sicurezza sfumò con l'imprevedibilità della vita che sopraffece i suoi minuziosi piani.

Era in un normale ospedale di Central City. Il migliore sì, ma dov'erano i Brief?

Non era sicura che ce l'avrebbe fatta senza di loro.

“Guarda te...io, il cyborg 18, che penso di non poter mettere al mondo mia figlia senza quei due umani.”

Non era ancora passato un quarto d’ora dall’inizio delle contrazioni.

All’improvviso una grandissima pressione irradio’ dal bacino della cyborg in tutto suo il corpo. Era la sensazione fortissima di essere schiacciata da un rullo, ma c’era qualcosa di ancora più forte che esortava Diciotto ad agire: la voglia sfrenata di spingere.

I medici guardarono sconcertati la futura madre balzare in piedi e aggrapparsi al letto; un getto di sangue vivo scaturi’ su linoleum e lei digrigno’ i denti.

Fu un dolore atroce. Un dolore così grande come non pensava esistesse. 

Visti i ritmi impossibili di quella nascita, i dottori temevano che l’utero di quella ragazza si sarebbe lacerato.

I dottori non sapevano che lei era un cyborg, mentre le dicevano che doveva smettere di spingere, altrimenti sia lei che la bambina sarebbero state in grave pericolo.

La assalivano con le loro nozioni, con le loro richieste. 

Diciotto voleva che Crilin le parlasse: poteva dirle qualsiasi cosa, bastava che le desse forza, che distogliesse la sua mente da quel dolore! Ma persino Crilin la incalzava con quegli avvertimenti mentre le prime lacrime gli rigavano già le guance. 

No, non poteva contare su Crilin: Diciotto doveva trovare quella forza in fondo a se stessa, nell’amore per sua figlia, nella volontà di provare il suo valore a quei medici che osavano dirle che se non si fosse lasciata portare in sala operatoria sarebbe stata spacciata.

Diciotto ridivenne la guerriera. 

Quella spinta, la seconda,  le strappò un grido profondo.

Crilin era sbalordito: sua moglie era una creatura quasi indistruttibile, eppure le grida che stava innalzando ora erano un inconfondibile messaggio di dolore. 

Dare alla luce era qualcosa su tutt’altro livello, persino per lei.

I medici rimasero quasi pietrificati quando la ragazza si accuccio’ per terra e batte’ i pugni così forte che il linoleum insanguinato non resse l’impatto; l’intera stanza tremo’ e le luci a neon scoppiettarono.

Quel 31 agosto, con la terza e ultima spinta la figlia abbandono’ il corpo della madre; fu un abbandono rapido e fluido, il guizzo di un girino.

Fu una nascita cruenta, ma veloce ed efficace.

Il nuovo padre guardo’ con orgoglio la nuova madre indaffararsi come una gatta intorno alla neonata. Diciotto prese fra le braccia la bambina ancora coperta dei fluidi della nascita, la strinse sul suo petto palpitante.  

“Ciao...amore mio…”

Se la tenne vicina, se la guardo’, struscio’ la sua fronte contro il suo piccolo corpo scivoloso.

Quello era il momento che Crilin aveva tanto aspettato: col cuore in volo, andò a incontrare la sua piccola appena nata.

“Eccoti qui…”

I suoi occhi erano pieni di gioia e d’amore quando le strinse tutte e due. 

I nuovi genitori sentirono a malapena il tocco delle ostetriche che la controllavano e l’avvolgevano in asciugamani puliti.

Era una neonata sana e ben pasciuta, gran urlatrice,  tutta rossa per lo sforzo di essere nata.

“Dammela…”

Diciotto si trascinò fino a un’ostetrica e fece per prendere la bambina, ma non riuscì a completare il gesto; cadde mollemente sulla schiena e caccio’ un altro grido, roco, la voce consumata da una nuova emorragia e dalla stanchezza. 

I medici si affrettarono a prenderla, con l’intento di riportarla a letto, ma lei li spinse via con un vigore decisamente fuori dal comune. 

Un’ammirazione nuova riempi’ tutti i presenti nel guardare quella giovanissima mamma arrancare abbracciata a quel mini marito: si calmò solo quando arrivo’ al letto sulle sue gambe ed ebbe la sua bambina di nuovo fra le braccia.

“Guarda, Cril...ha il tuo naso.” 

“E i tuoi capelli…”

Diciotto accarezzò la testolina della sua piccola; a quel contatto lei sembrò animarsi e sbatte’ con decisione il faccino contro il petto della madre. L’istinto e i ricordi recenti dei corsi in ospedale guidarono Diciotto ad aiutare la bambina nella sua prima poppata. 

Ma essere nata, essere scappata da un corpo assassino come quello era stato uno sforzo troppo grande: la piccola crollo’ esausta poco dopo aver appena sfiorato il seno della sua mamma con le sue dolci labbra.

Diciotto ripenso’ al solo nome che l’aveva fatta sorridere, su quel libro che Crilin aveva chiesto in prestito alla vedova di Son Goku.

“Marron. Cosi’ la chiameremo.”

La loro Marron, loro figlia. Guardandola, a Crilin parve che non avrebbe potuto chiamarsi in nessun altro modo; assaporo’ ogni parola sussurrata dalla sua amatissima moglie, la guardo’ con tutto l’amore che sentiva per lei:

“Siete la cosa più bella del mondo. Grazie, Diciotto. Grazie di questa creatura, grazie di esistere.”

Diciotto inalo’ il profumo della bimba, sapeva quasi di burro fresco; era l’alba di una vita nuova. 

Nascose il viso contro la piccola Marron, non voleva che Crilin vedesse le sue lacrime.

Macchina spietata, non più: lei aveva dato la vita, e lo scopo di Gero, i suoi circuiti e la sua potenza erano assolutamente irrilevanti davanti a tale immensità.

Aveva Marron, aveva Crilin, aveva la fortuna di poter dare e ricevere così tanto amore: cose che contavano davvero.

Prima di essere rapita e convertita, Lazuli era stata una delinquente dura a morire, poi era diventata il numero 18, una povera cosa bastarda, una donna a metà; si era domandata molte volte perché fosse toccato a lei, essere condannata a rimanere così immeritevole. 

Ma Crilin l’aveva incrociata sul suo cammino e le aveva dato il dono di un nuovo inizio, con una vita intima e semplice. 

Macchina e donna, guerriera e madre, Diciotto era tutto questo.

Non si era mai sentita tanto vicina al vivere.

Fin da prima di mettere piede fuori dalla sua capsula in quel laboratorio, Diciotto aveva quasi accettato che le stronze come lei non meritavano un lieto fine: ma alla fine, dopo tutte quelle prove e tribolazioni lei aveva trovato il suo nel dolce, coraggioso monaco Shaolin e nella bambina che lui le aveva dato.














 

Pensieri dell’autrice:

 

Che devo dire, Marron è naaaaataaaaa! 

Non è stata una nascita da film, ma dopotutto nella realtà il parto non è una cosa molto idealizzata…anzi, per nulla!

Povero Crilin, Lapis ne ha per tutti: e lo gnomo da giardino, e il nano, ora la rana...

È stato un capitolo molto laborioso, tant'è che pubblico in ritardo. 

Scrivere per me è molto più che un hobby, è una passione, un modo di esprimermi. E in questa storia lo sto facendo al 100%, voi che mi leggete potreste dire di conoscermi perché ci metto davvero tutto il mio cuore. 

Scrivere è anche un modo di prendermi cura di me e da metà marzo ho scritto ogni giorno, senza interruzione: questa fanfic, l'originale, l'OS,...

E straripo ancora di idee per questa ff! Ci sono ancora molte cose di cui voglio parlare, grandi cose sia per Lazuli che per Lapis.

Ma fra impegni familiari e personalità introversa ho bisogno di prendermi qualche settimana di pausa da questo hobby stupendo e totalizzante. Continuerò comunque a leggere e recensire!

Condividere i miei pensieri e trovare lettori (soprattutto come persone) così gentili e interessanti mi rende davvero felice, quest'esperienza non sarebbe la stessa senza di voi.

Per cui a tutti voi che leggete, recensite e seguite, proprio a tutti, dico grazie di cuore e auguro un sereno mese di agosto.

Vi do appuntamento per il 13 settembre con il capitolo 29, Super 18.

(No, non c'entra GT!)

 

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Capitolo 29
*** Super 18 ***



Dopo la fine dei Cell Games, Mirai Trunks era ripartito verso la sua epoca. Si era visto bambino fra le braccia di sua madre, aveva conosciuto suo padre e stretto la mano ai guerrieri con cui aveva combattuto fianco a fianco, aveva incontrato i falsi nemici 16, 17 e 18 e poi la vera minaccia, Cell. Era persino morto, era tornato in vita ed era anche riuscito a diventare un super saiyan. Forte di questa esperienza era sfrecciato via, lasciando quel mondo in uno stato di tregua.

Quello che il ragazzo del futuro non  sapeva era che quell'ennesimo viaggio temporale avrebbe avuto risvolti sull'epoca da cui si era appena congedato.

Le conseguenze dell'ultimo viaggio di Mirai Trunks erano rimaste ignote anche agli stessi abitanti della Terra. Nessuno si era accorto di nulla, nemmeno i guerrieri.

Mentre la gente celebrava ancora la pace, figure minacciose si profilavano agli orizzonti delle città, nascoste dalle erbe delle praterie, aspettando in bui antri il segnale per sorgere.

L'unico che aveva intravisto movimenti sospetti qua e là nel mondo era stato il giovane Supremo. 

Da tempo inquieto e a corto di risposte per spiegarsi quello stato d'animo, Dende si era un giorno affacciato al bordo del suo palazzo e li aveva visti

Sedici in tutto, sparsi qua e là nel mondo e pronti a risorgere. Più forti di prima. Erano ritornati, colori che erano stati uccisi e coloro che erano stati distrutti dalle stesse mani che li avevano creati.

Un'orda pronta a riassaltare la Terra, Cell era stato sconfitto da così poco…

Dende sapeva che affrontarli non era roba per lui. Tutto quello che poteva fare era usare i suoi poteri di dio per permettere ai suoi amici, gli Z Warriors, di evitare l'ennesima minaccia di estinzione del genere umano.

"Signore, questa è la carta magica che mi avete chiesto", Popo si avvicinò al limite del pavimento bianco e  fece un inchino al Supremo. Quando egli si voltò, vide la pergamena già fra le mani del demone dalle labbra scarlatte. 

"Signore. Se permette penso che fra tutti i guerrieri ce ne siano tre, in particolare, che possono aiutarci con questi nemici. Una di loro è facilmente accessibile."

Con il rotolo di pergamena magica lungo e disteso ai suoi piedi, Dende annuì a Popo e si concentrò per rievocare le immagini che aveva visto da lì su. Vide con soddisfazione le sue mani diventare luminose e imprimere i suoi pensieri sulla pergamena magica.

Dende si sforzò e spremette la sua memoria come un limone, fin quando le ultime immagini si trasferirono dalla sua mente alla carta. A incantesimo concluso il rotolo assomigliava ad un bingo book.

"Qui c'è tutto. Il loro aspetto, i dati che io come Supremo posseggo su di loro. I primi colpiranno fra poche settimane vicino a South City", dichiarò il giovane namecciano, tamponandosi il sudore sulla fronte e arrotolando la pergamena fra le mani. 

"Come quelli della volta scorsa?"

"Come quelli della volta scorsa, ma possono non essere gli stessi. Ecco, Popo. Dallo a lei."

 

 

Da un'altura, Sedici e Diciotto guardavano  con fare sospetto l'intera area di Saffron Town, grossa e pacifica, ubriaca di nebbia in quel pomeriggio dicembrino. La cyborg e l'androide stavano assistendo ad una scena che non avevano mai visto prima, ma di cui Bulma li aveva informati.

Il luogo dell'attacco si era spostato di poche miglia ed erano cambiati i nemici, ma la storia si stava ripetendo.

Le due figure avanzavano verso la città da una vicina increspatura del terreno, probabilmente l'entrata del loro covo. 

"Ok Sedici, due sono lì. Lasciami provare, prima."

Diciotto non aveva nemmeno cominciato e si sentiva già attanagliare dallo stress.

"Rilassati. Sai come farlo, ieri sei stata molto abile."

Il sorriso pacifico di Sedici, che lei e Diciassette avevano trovato così strano all'epoca degli schiamazzi con gli Z Warriors, ora la rassicurava. Sedici poteva certamente percepire la tensione dei suoi nervi, forse i suoi pochi circuiti si stavano anche scaldando. Ma sicuramente Sedici le avrebbe fatto complimenti solo per adularla. In questo, l'androide era una garanzia.

Diciotto pensò al fatto che la sicurezza della sua famiglia dipendesse anche da lei e si concentrò con un sospiro profondo. Lasciò che l'aria umida, pesante di mareggiate invernali le scendesse a fondo nei polmoni. Assaggiò con quel sospiro qualche spruzzo di sale e si preparò a concentrare il suo ki artificiale nel braccio che voleva rendere arma.

La cyborg sentì la presenza di ogni cellula del suo arto. Era un'ulteriore evoluzione della sua super sensibilità tattile. Ora sentiva le cellule cambiare, riassemblarsi, diventare qualcos'altro; e più la sua infinita energia fluiva, più la pelle e le vene mutavano. Il luccichio argenteo di quello che a prima vista sembrava metallo appagò lo sguardo insieme eccitato ed angosciato della ragazza. La sua mente vagò non appena vide quel luccichio scomporsi in tanti cubi minuscoli, in grumi sempre meno brillanti e sempre più neri.

"Oh no!"

Guardando il proprio arto collassare e infrangersi in frammenti, argentati e neri come schegge di specchio, Diciotto perse tutto il suo slancio. Il suo umore crollò e lei si chiese come fosse possibile che il giorno prima ce l'avesse fatta. Credeva ormai di essere più in là della fase cubetti

Diciotto chinò mestamente il capo, mentre i frammenti neri ed argentei si riunivano come attratti da un magnete fino a ricomporre il suo braccio, di nuovo un normale braccio ricoperto della sua solita pelle.

"Non ti abbattere, Diciotto. Sarà più facile con il nemico di fronte," Sedici si voltò all'improvvisa esplosione di energia che ruppe la calma vaporosa di Saffron Town. "Ora andiamo."

 

La gente che aveva avuto abbastanza coraggio, o era stata abbastanza stupida, da rimanere ad osservare quella battaglia manco fosse una partita di calcio o il torneo Tenkaichi era quasi divertita dall'abbinamento dei combattenti. Quando la ragazza bionda ed il gigante con la cresta erano arrivati e avevano ingaggiato gli uomini inquietanti in una lotta così veloce da risultare invisibile, lei si era scagliata sull'energumeno e a lui era rimasto il nano.

Mentre schivava i raggi laser che scaturivano dagli occhiali del suo avversario, Sedici non voleva perdere di vista Diciotto.

Sperava che avrebbe voluto tentare la nuova mossa in ogni caso. Doveva tentarla, perché il suo nemico le stava dando filo da torcere.

Anche se avesse voluto, Sedici non sarebbe potuto andare da lei.

"N°15, non mi lasci altra opzione che distruggerti", Sedici scannerizzò l'interno di quell'altro androide, quella creazione costruita come una brutta imitazione di un bambino, dalla pelle viola e dai vestiti che ricordavano quelli di un clown.

"Sempre se io non uccido te, n°16. Sei un fallimento", 15 colpì il gigante con le sue piccole mani, e tutta la città tremò quando lui aprì un buco cadendo sull'asfalto. "Ricordatelo. Anche se hai trovato degli amici."

La folla produsse un unico lamento di stupore nel vedere il nano dalla pelle viola afferrare di nuovo il gigante e scaraventarlo attraverso un grattacielo.

N°15 non aveva tempo da perdere: il n°16 era quello che era, ma non andava sottovalutato. Mai.

Volò fino a intercettarlo e preparò una sfera di energia: "Quello che sei, resti. Una macchina fallita. Addio, n°16."

La folla ormai non riusciva più a vedere, ma il gigante dal ciuffo rosso ora giaceva a terra, immobile, con un enorme buco che gli mangiava il torso dalle clavicole all'inguine.

N°15 sorrise soddisfatto. Il reattore del suo avversario era ormai distrutto.


 Nel frattempo, Diciotto aveva assistito a  tutta l'azione, fra un colpo al viso per suo avversario e i fendenti di lui per lei.

Quello spadaccino e la sua arma erano molto diversi da Mirai Trunks e dalla lama che si era spezzata contro il braccio di Diciotto. L'arma di n°14 non l'aveva ancora trafitta, ma le aveva tolto una ciocca di capelli, le aveva lasciato graffi e ferite sugli arti.

Voleva forse infliggerle una morte per mille tagli?

Nessuno aveva chiesto a quegli androidi di ritornare. E se Diciotto non avesse letto il rotolone palloso di Dende, non avrebbe mai capito perché erano tornati.

Quando quella strana creatura dalla pelle di pece si era presentata alla Kame House con il prezioso documento, Diciotto aveva capito che doveva trovare un modo per migliorarsi. Ne aveva parlato con Sedici.

"Devi diventare più forte di come sei ora. Ora come ora non potrai sconfiggere tutti quegli androidi, ma il Supremo sa che puoi migliorare."

Diciotto era stata oltraggiata dalle parole di Sedici. Lei non era abbastanza forte? 

"Mi stai dicendo che io devo farmi un upgrade? E Diciassette?"

"Diciassette è già in grado di produrre armi. Lui è già più forte di te."

Diciotto aveva ingoiato tutto il suo orgoglio. Approfittando del sonno di Marron, aveva seguito Sedici, che pareva vederci già più chiaro di lei. Avevano volato fino alla Capsule Corp.

Qual era l'arma di Diciassette? Sedici poteva fare quella cosa col suo braccio staccabile e poteva trasformare entrambe le braccia in cannoni.

E suo fratello? 

Diciotto pensava a questo mentre studiava il silenzioso 14. Con rapidità disumana la ragazza creò due kienzan e li scagliò simultaneamente contro il massiccio androide. Lo inseguì nella sua fuga e afferrò la sua lunga treccia di capelli neri, preparando un terzo kienzan.

I patti erano chiari: lei e Sedici avrebbero ucciso tutti gli androidi del dottor Gero, tornati in vita con quell'increspatura temporale, e in cambio avrebbero potuto continuare a vivere in pace sulla Terra. Era un lavoro semplice che le toccava svolgere gratis, ma almeno l'avrebbe aiutata a farsi una reputazione. E quei rottami andavano comunque ammazzati, meglio che la soddisfazione fosse sua che di un Vegeta qualsiasi.

Diciotto era rimasta sollevata nel sapere che c'erano solo sedici nemici da abbattere per lei e Sedici. Li avrebbero spenti per sempre uno dopo l'altro, come cacciatori di taglie. Almeno non c'erano altre versioni di lei, di Sedici, di Diciassette e…

Quando il gigantesco kienzan di Diciotto si infranse contro la pelle di 14, lei si ricordò. 

"I campi di forza. Sticazzi…"

Diciassette creava campi di forza. Sedici aveva ragione, lui era stato più forte di lei. Ma forse, ora non più.

Diciotto emise un sospiro strozzato quando la grossa mano di 14 si avvinghiò intorno al suo collo, sollevando in alto tutto il suo corpo. 

Faceva male! Diciotto sentiva male. Non riusciva a respirare, i tagli della spada sulla pelle pulsavano e si aprivano sempre di più…

Ma non era lei ad essere in svantaggio.

Attirando 14 così vicino a lei, Diciotto si era data la possibilità di attaccarlo una seconda volta a bruciapelo.

Sorrise, mentre il formicolio nel braccio diventava una sensazione piacevole…

 

La folla restava nascosta e osservava col fiato sospeso il gigante dalla cresta rossa cadere riverso.

Era morto, di sicuro. Nessuno poteva sopravvivere con il torace squarciato.

Il piccolo n°15 era diventato il gigante, torreggiando sulla massa supina di Sedici, pronto a distruggere anche il suo capo.

Ma il suo database non includeva le info più recenti. I circuiti di 15 non registrarono la ragione per la quale tanti fili fittissimi colmarono il vuoto che lui aveva lasciato al centro del corpo di n°16, formando una trama fitta come strati di tela di ragno.

Quei fili neri ristrutturarono perfettamente le parti mancanti di Sedici ed egli risorse, sotto lo sguardo sgomento della folla nascosta.

Altri terribili colpi scossero cielo e terra. Gli androidi si battevano corpo a corpo, schivando raggi di laser e ricevendo colpi che squassavano l'aria intorno a loro.

Momentaneamente stanca dal recente scontro, Diciotto si appostò su un grattacielo e, come quella volta due anni prima, guardò Sedici spiegare la sua potenza. Ma questa volta Sedici investì l'androide nemico con un fascio di energia che non sfiorò la città, ma si perse nell'iperboreo.

Sedici osservò la sua energia polverizzare il n°15; si sedette su uno spunzone di cemento armato e scannerizzò le ceneri calde sparse al suolo, unica prova del suo attacco contro un nemico.

Non fece in tempo a completare la scansione che una presenza alla sue spalle lo fece voltare. Sedici finì di nuovo a terra, la porzione superiore della sua testa rotolò al suolo, tranciata di netto.

"Canti vittoria troppo presto, amico!"

Il vero n°15 sbucò alle sue spalle. Sedici apprese solo in quel momento che poteva sdoppiarsi. Se solo avesse potuto percepire il ki artificiale...

 

 15 non poté completare la sua opera. L'ultima cosa che vide fu la figura del n°18 lanciata all'assalto su di lui, i suoi muscoli umani tesi nello slancio.

La folla emise un altro sospiro quando il corpo di 15 sfondò la strada, calcato da quello della ragazza.

"Tu sei solo poco più che un'umana. Non puoi competere con me e 14."

"14 è stato neutralizzato", Diciotto si concentrò, parlando con voce laconica.

Pensò a come questo vigliacco fra le sue mani aveva assalito Sedici a tradimento, sbucando alle sue spalle, e si inferocì.

L'energia riprese a fluire lungo il suo braccio e i cubetti, frammenti di specchio, mutarono in una lunga lama liscia e affilata.

Dalla polvere, Sedici osservava orgoglioso. L'androide nemico non poteva provare sgomento, ma Diciotto fu certa che la sua era una mossa che lui non avrebbe potuto prevedere.

"Io non sono una semplice umana. Io sono Super 18."

 

Ogni volta che doveva ricomporre la sua materia in quella lama acuminata, Diciotto sentiva una leggera scossa alla testa e per minuti lunghissimi nella sua mente, che erano solo pochi secondi per il mondo, fluttuava in uno stato di ipnosi in cui vedeva scene del passato in una maniera vivida e quasi violenta.

Prima di trafiggere con il suo braccio-lama l'occhio del subdolo 15, Diciotto rivide la scena del buco d'acqua. 

Scintille e particelle dorate ballavano sospese intorno a lei, in una bolla silenziosa. Altre scappavano dalla sua bocca, lei rimaneva senza fiato e scendeva, vorticava nella sacca d'acqua, la luce sempre più distante e il fondo del mare sempre più vicino.

Sedici sparò un raggio di energia che incenerì quel che rimaneva del vero 15 e quando solo il rumore del vento animò la città ormai in salvo, solo in quel momento la folla si lanciò nelle strade in cui i loro eroi stavano passando, volendo vederli da vicino, toccarli, insomma, volendosi mostrare a loro. Ognuno voleva che la ragazza e il gigante sapessero che avevano salvato delle vite. La gente voleva che loro sapessero che tutti loro esistevano.

C'erano così tante facce intorno a lei. La folla sfiorava Diciotto come per volersi accertare della sua presenza, o forse per il semplice piacere di toccarla con mano. Lei e Sedici, lama e cranio scoperchiato in bella vista, camminarono come generali trionfanti fuori da Saffron Town e non si voltarono a salutare i suoi grati abitanti.

 

"Sai che quello era mio?" buttò lì Sedici, vedendo che Diciotto si stava rilassando. I cubetti si erano ancora una volta frammentati e la massa della lama era caduta al suolo, prima di riassemblarsi nel solito arto della giovane donna.

"Certo. Ma volevo aiutarti", lei ammiccò sorniona, già sapendo che Sedici non avrebbe le creduto.

La prossima volta avrebbe dovuto lasciargli la soddisfazione di abbattere almeno un androide.

Sedici aspettó pazientemente che la parte superiore del suo cranio si rigeneresse.

"E in effetti ora il tuo corpo è esaurito", Sedici capì che Diciotto sarebbe presto svenuta e la prese in braccio prima che lei cadesse.

Si stancava molto più in fretta di lui. La sua energia era perpetua, ma quella nuova trasformazione era un salasso terribile.

Quando Bulma aveva testato il kachi katchin combinato al core di Diciotto, le aveva detto che solo i tipi ad energia infinita potevano sostenere il costo di un upgrade metamorfico. Ma Specialmente per una cyborg con una componente umana nettamente prevalente, riorganizzare la propria struttura fisica in un'arma ed adattarla ai ritmi di una battaglia era uno sforzo che avrebbe potuto danneggiarla. 

Nel torpore del post-lotta, cullata fra le braccia di Sedici, Diciotto si chiese quando sarebbe morta, a furia di esaurirsi. Tuttavia, nel frattempo si godeva i risvolti interessanti di quel potenziamento che aveva chiesto a Bulma non appena Popo l'aveva lasciata tutta sola con la pergamena.

"Il prossimo lo prenderai tu, Sedici."

Il corpo sa quando è tempo di smettere. Diciotto avrebbe cacciato un altro androide un altro giorno, per lei era ora di tornare a casa. La donna-macchina gemette sommessamente, tastandosi il seno gonfio. Si sentì la mano colma di latte, ormai il suo petto stava per scoppiare. Era ora di tornare a casa a nutrire la sua bambina.

 

 ~

 

 Marron guardava con stupore le facce sospese sopra di lei. Non riusciva a capire chi fossero, ma sorridevano e avevano un bell'aspetto: di certo non potevano essere facce cattive.

La testa di una di quelle persone era coronata da una mega cipolla di capelli biondi; sembravano un po' quelli della mamma, ma lei non era la mamma.

L'altra persona aveva due occhi brillanti molto divertenti da guardare, come quelli della mamma. Ma quei sopracciglioni scuri, della mamma certo non erano…

In ogni caso nessuno lì intorno sapeva di mamma, quindi non valeva la pena di passare da angioletto a demonio, reclamando latte con urla altissime e gettando nel panico chiunque si trovasse nella cameretta.

"Ciccina...è bionda", Sara accarezzò con tenerezza i ciuffetti sottilissimi di capelli praticamente bianchi che spuntavano qua e là sulla testa della figlia della sua migliore amica. "Una mini Laz."

Si risentì quando, dall'altro lato della culla, vide Lapis dissentire con gesti teatrali.

Ora Sara si ricordava i suoi modi di fare.

"Che c'è Lapis? Non trovi che somigli a tua sorella?"

"Per un cazzo. È lo gnomo in parrucca."

Diciassette represse un'altra risata. Gli venne in mente che se avesse detto quello che davvero pensava, gli sarebbe toccato sorbirsi la paternale dalle ben due donne presenti in quella stanza.

"No. Ha solo i suoi capelli e per me non è sufficiente come somiglianza."

"È vero, anche io non trovo che somigli a Lazuli. Nemmeno la carnagione è la sua."

Kate si avvicinò alla culla e scrutò con occhio critico la sua adorata nipotina.

Confidò al figlio e a Sara che quando Lazuli era nata, i dottori erano rimasti quasi stupiti dalla bianchezza della sua pelle.

"Lazuli è uscita già bianca come il gesso. Marron invece è rosina come suo papà."

Kate adorava guardare Marron e, segretamente, cercare le somiglianze. Ma non le comunicava mai ad alta voce, non si sapeva mai come qualcuno potesse prenderle...

Lazuli abitava così lontana da Central City che Sara aveva usato le sue vacanze di fine anno per andare a trovarla. Sarebbe rimasta a casa sua per una settimana, prima di tornare da Bruno e Amelia per Natale.

Diciassette invece aveva solo preso la giornata, soprattutto per fare da veicolo a sua madre. 

"Parli del diavolo…"

Il ragazzo si voltò verso la porta della camera da letto e vide Sedici e la sorella irrompere nella stanza, lui con un sorriso pacioso, lei con la maglia tutta bagnata e un'espressione inferocita.

Quando era arrivata a casa, gli altri inquilini della Kame House non avevano osato intralciare il suo cammino, persino Diciassette e Sara si fecero da parte quando la videro incombere sulla culla di Marron. La piccola fu felice di farsi prelevare e poi, accertatasi che quella era proprio la mamma, si ricordò di avere fame e iniziò a piagnucolare flebilmente, preludio di un pianto sfrenato. Marron continuò a strillare a gola spiegata mentre Diciotto si appartava con lei in un'altra stanza.

 

 Più tardi, mentre Marron dormiva e Sara e gli altri coinquilini della Kame House si intrattenevano per conto loro, Crilin, Diciassette e Kate erano ansiosi di sapere com'era andata a Saffron Town.

"Avete incontrato i nostri doppi, per caso?"

Diciassette volle sapere.

"Stando alle visioni del Supremo non esistono doppi di noi tre", proferì Sedici.

"Ma da qualche parte ce ne dev'essere uno del dottor Gero", rammentò Diciotto.

Kate rabbrividì nell'udire il nome del pazzo che le aveva sottratto i figli. Ormai lei conosceva segreti normalmente preclusi agli umani basic, sapeva che c'erano degli androidi che giravano liberi per il mondo, sapeva anche chi era il Supremo (nella sua patria, l'isola di Amenbo, la gente lo chiamava semplicemente Dio), ma le parole Dottor Gero erano quelle che ancora la riempivano d'ira.

"Stavo per dire che lo vorrei riammazzare io, ma forse vuole farlo lei…"

Kate si infuriò ulteriormente a causa del tono leggermente irrisorio che suo figlio aveva appena usato; se la sua forza non le avrebbe permesso di farlo, i suoi sentimenti valevano tanto quanto quelli dei suoi figli cyborg.

Kate scacciò quei pensieri e si concentrò su una questione che suo genero, Sedici e i gemelli non avevano ancora chiarito:

"Il Supremo ha parlato di sedici androidi su venti. Sedici perché mancano i doppi di voi tre e…?"

Il silenzio scese sulla spiaggia buia. Già. Loro tre e…?

Crilin, che era stato finora pensoso, si illuminò: "N°8."

Quattro paia di occhi freddissimi scrutarono Crilin come se avesse detto una castroneria. Ma il monaco non si lasciò intimidire:

"Voi non lo conoscete. Il n°8 è un cyborg del dottor Gero che ho incontrato da ragazzino, insieme a Son Goku. Vive in pace da anni e penso che sia ancora vivo, per quello non è tornato fra i sedici di Dende."

"Un cyborg? Quindi noi non siamo gli unici", Diciotto guardò Sedici spaesata.

Purtroppo lui non poteva aiutarla, il suo database non includeva nessun n°8.

Una creazione scartata dal dottor Gero in quanto totalmente inadatta al combattimento. Era docile e pacifista, odiava gli scontri ancora di più dello stesso Sedici.

"Forse dovremmo incontrarlo", accennò il grosso androide.

Crilin cercò di dissuaderlo: "Lui si sentirebbe minacciato da te. E anche da Diciassette e Diciotto. Non si unirebbe mai a voi."

"Bene, tanto non servirebbe", ridacchiò l'altera Diciotto. "Piuttosto, Diciassette, non ti senti in dovere di fare la tua parte?"

Diciotto sapeva che Dende aveva scelto lei fra tutti per espletare quella missione, ma se Diciassette li avesse aiutati il conteggio dei nemici avrebbe raggiunto zero più in fretta.

"Ah, non so…" 

Il ragazzo volle fare apposta a farsi desiderare. "Se voi due avete bisogno di me per forza,vuol dire che siete scarsi."

Diciotto aveva ritrovato la sua forza. Fulminea ricostruì il suo braccio in lama e di lì a poco Diciassette stava guardando frammenti dei suoi capelli cadere sulla battigia.

Kate e Crilin erano rimasti a bocca aperta. Sapevano che Diciotto era stata ulteriormente potenziata, ma non gliel'avevano mai visto fare. Lo stesso Diciassette rimase impressionato della trasformazione. Si sentì pungere sul collo e quando vide il sangue sulle sue dita, capì che sua sorella ora faceva sul serio.

Quel rasoio affilatissimo non era un'arma impiegata da lei. Era parte di lei.

"Porca miseria. Roba da matti."

"Quello è un taglietto piccolo. Non tirare la corda…"

Diciotto era abbastanza forte da poter lacerare la sua pelle rinforzata. Forse forse, fra pace interiore e lavoro lui era restato con le mani in mano....

"Ok, 18.2, ho colto il messaggio."

Lei sbuffò, spostandosi con grazia un ciuffo che svolazzava:

"Troglodita. Chiamami Super 18."

Quel suo darsi così tante arie diede a Diciassette ancora più voglia di prenderla in giro. Ma ancora una volta, si ricordò di frenare la lingua, soprattutto quando ci si metteva anche Kate.

Kate si era infatti spostata al fianco della figlia e le aveva posato con orgoglio la mano sulla spalla:

"C'è poco da ridere. Lazuli ha tutte le ragioni di darsi delle arie."

 

Quando arrivò l'ora di lasciare la Kame House, il cyborg maschio non si sentì pronto a partire.

Gettò uno sguardo alla sorella, seduta da sola nell'oscurità completa della spiaggia.

"Stavo scherzando. Sono fiero di te."

Doveva ammetterlo. Almeno Diciotto avrebbe smesso con quella faccia lunga.

Ma lei si limitò solo ad ammiccare: solo quando Diciassette le annunciò la propria partenza lei si decise a rompere il silenzio:

"Ogni volta che mi trasformo rivivo la mia caduta nel buco d'acqua. Ogni volta che la carne diventa acciaio e la corrente di energia percorre il mio corpo, succede ancora e ancora."

"Oh, quello!"

Nemmeno Diciassette se l'era dimenticato; Gero non era riuscito a cancellare dalla sua mente il ricordo della giornata in cui sua sorella era quasi morta.

Era stato durante quella vacanza al villaggio Rochelle, l'estate dopo il loro ottavo compleanno, quella volta in cui lui e Diciotto avevano visto l'oceano per la prima volta. Kate li aveva portati sulla costa Est, ignara del fatto che molte spiagge della zona presentavano dei buchi d'acqua.

Erano sacche nascoste sotto la superficie della distesa sabbiosa, molto difficili da vedere. Era facile colarci dentro a picco quando si correva sulla spiaggia. 

Era successo a sua sorella: un minuto prima lei stava correndo verso di lui, preparandosi a vincere quella partita di badminton.

Un minuto dopo era sparita dalla sua vista.

Diciassette riassaporò la sensazione di panico quando era corso a chiamare Kate, quando aveva visto sua madre scavare ossessivamente il bagnasciuga, fin quando le sue mani febbrili avevano trovato un pezzo di terreno paludoso. Il bagnino aveva immerso le braccia e aveva estratto Diciotto dalla sacca d'acqua.

Lei aveva già perso conoscenza.

Solo dopo una lunga serie di pressioni al suo torace, il bagnino era riuscito a farle espellere tutta l'acqua.

"Grazie a te mi hanno tirata fuori," ammise Diciotto, con un piccolo sorriso.

"Ma no, che dici, è stato il bagnino…"

Ma lui aveva chiamato Kate, lui l'aveva vista scomparire sottoterra.

Diciotto era stata curata e quella caduta nella pozza piena di scintille dorate era diventata solo un episodio da infarto da aggiungere alla collezione di Kate, insieme alla loro nascita e alla volta in cui Diciassette si era quasi strangolato.

Tante avventure che entrambi avevano archiviato, ma che ancora una volta ricordavano loro quanto fossero importanti l'uno per l'altra.

Solo la vigilanza innata con cui Diciassette seguiva sempre i suoi movimenti avevano salvato Diciotto. 









 

Pensieri dell'autrice:

 

Eccomi qui, ciao a tutti! Vi do di nuovo il benvenuto con questo capitolo dedicato principalmente a Lazuli. Da fan di DB a me piacciono le trasformazioni e visto che i  Super vediamo un netto miglioramento per il nostro caro Lapis, perché non inventarne anche uno per Lazuli. Vediamo quindi T-1000 ehm, "Super 18" ancora in modalità killer. L'ultima volta era stata nel capitolo 15 con Cloe Mafia, una situazione molto diversa da questa ma egualmente soddisfacente da scrivere. 

Qui menziono anche n°8, il "Frankenstein" che era presente in Dragon Ball, ve lo ricordate? 

Alcune fonti dicono che è un androide come 16, altre che è invece un cyborg creato da un cadavere. Io ho optato per averlo come cyborg quando comparirà qui.

Adoro scrivere questa ff e continuerò a farlo, tuttavia il mio tempo libero si è drasticamente ridotto (il mio bimbo ha smesso di fare i suoi sonnellini pomeridiani) e ho in ballo un progetto totalizzante. Per cui sono costretta a diluire la frequenza con cui aggiorno. Invece di domenica prossima, tornerò il con il capitolo 30, Situazione Sentimentale.

Vedremo Kate alle prese con un piccolo dilemma e ci trasporteremo brevemente su Monster Island.

 

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Capitolo 30
*** Situazione Sentimentale pt.1 ***


L'appartamento a Saint-Paul era silenzioso e mezzo vuoto. Elliott si stava impegnando a redigere quella dannata email; sedeva di fronte al suo computer da più di dieci minuti. 

Quella pagina bianca gli faceva paura, sembrava risucchiarlo all'interno del monitor ed Elliott non poteva fare a meno di fissarla.

Non doveva avere grandi aspettative. Era una richiesta personale, già, non per conto del Royal Nature Park, forse era quello il nocciolo dello stress. Ma in ogni caso, quelle che avrebbe ottenuto sarebbero state informazioni utili, cultura generale che non avrebbe fatto male a nessuno.

 

Cara signorina De Villiers,

 

No, forse a chiamarla per cognome si sarebbe offesa. Era giovane...

Elliott poteva scrivere l'introduzione dell'email anche dopo, il corpo del testo era quello che importava. Si trattava semplicemente di poter condurre un'intervista e, se possibile, osservare degli esemplari. Se Elliott avesse ricevuto un no non sarebbe stato un dramma. Eppure le sue mani tremavano.

Mani grosse, grasse, dalla pelle chiara.

Guardando le sue mani Elliott ripensò al suo migliore amico e constatò che lui era sicuramente un anti Brent: molliccio, biondiccio, bassino, con una zazzera né riccia né liscia che aveva vita propria e un didietro pesante, più tondo e alto di quello di molte ragazze che vedeva in giro. Non era il sogno estetico di nessuno.

E sapendosi così brutto, così poco mascolino e anche poco affascinante, Elliott capì che la vera ragione della sua paura non era l'intervista. 

Era la persona che doveva intervistare.

Finì la bozza della sua email e avendo udito che il suo migliore era rincasato, bussò con foga alla porta del bagno. 

"Ehi Bre, sei già tornato? Puoi aiutarmi un momento?"

L'acqua della doccia scorreva copiosa, ma il rumore non era così forte da giustificare l'assenza di risposta.

"Dai, brutto caprone fetente, finisci con la doccia e apri. Mi servi."

Brent ed Elliott erano amici dalle superiori ed erano soliti chiamarsi con appellativi gentili e delicati, un'espressione di amicizia tanto vecchia quanto l'amicizia stessa.

Troppo tardi Elliott si accorse che aveva disturbato il caprone sbagliato. Guardò un po' preoccupato l'altro coinquilino, in piedi sulla soglia del bagno, sopracciglia in posizione da incazzatura suprema e fisico fieramente scoperto da qualsiasi tipo di asciugamano o accappatoio.

"Ehi, Sev-o...dov'è Brent?"

Elliott sapeva che non doveva aspettarsi una risposta; si pigliò la porta sul naso senza battere ciglio.

Il senso di inadeguatezza investì ancora una volta il povero paleontologo. Se era un anti-Brent, figurarsi se non era anche un anti-Sev

Elliott avrebbe accettato aiuto da chiunque, quella sera, ma il solo coinquilino presente in casa non sembrava particolarmente ben disposto. Elliott era ancora in mezzo ai piedi quando Diciassette uscì dal bagno, questa volta salvietta-munito.

"...Non riesco a dormire!"

"E non dormire."

Quella fu l'ultima cosa che Elliott si sentì dire, prima di rimanere di nuovo da solo nel corridoio.




 

  La sera era abbastanza fredda, forse quella camicia di lino semplice che si era cucito in fretta e furia la settimana precedente era un po' troppo leggera.

Brent rabbrividiva: voleva sfoggiare il vegvisir ricamato in maniera stilizzata proprio sotto la chiusura a spago, quello era il secondo appuntamento e voleva essere al meglio di sé. La sua camicia semplice non era troppo pretenziosa né eccessivamente elegante per una serata al pub, ma valorizzava la sua alta statura e lasciava trasparire la forma dei suoi grossi pettorali, mostrando anche qualche pelo rossiccio qua e là.

Avevano appuntamento lì al pub, lei non aveva voluto che lui andasse a prenderla.

"Si sa mai che si pensi che sono la tua ragazza!", aveva detto, scocciata.

Il primo appuntamento era stata un'uscita in amicizia e lei esigeva che anche questo fosse così. A Brent stava bene, non aveva fretta, poteva lasciare tranquillamente che la donna dei suoi sogni dettasse il ritmo; non era ansioso di raggiungere certi obiettivi, per lei valeva la pena aspettare. Dopotutto, l'ultima volta che lei era stata con qualcuno, era stato quel cretino di un Joel. Brent capiva che Lillian non avesse fretta di spogliarsi per lui. 


 “Ti vuoi muovere? Non farlo aspettare, poveraccio", a Carly stava venendo il mal di mare a forza di vedere Lillian correre da una parte all'altra del suo monolocale. Fingeva di non essere su di giri "perché si trattava solo di Brent", ma il modo in cui stava ossessivamente cercando forcine e il suo reggiseno fortunato suggeriva altrimenti.

"È perché ci tengo a essere sempre bella. Per me, non per quello là."

"Certo…"

Carly l'osservava dal divano, già pronta per un sabato a base di film e riposo. Voleva godersi tutta la pace che poteva, si era presa una vacanza dallo studio. Anche Lillian era in vacanza ed era scesa in mattinata per passare del tempo con lei. Quella sera Lapis se ne voleva stare da solo. Lui e Carly avevano sempre fatto così, alcune serate insieme altre da soli.

 "In ogni caso fra tre giorni è l'ultimo dell'anno. Tu e Brent potreste venire con noi a vedere i fuochi d'artificio."

"Dove?"

"Qui giù."

C'era un motivo per cui Lillian era nervosa. E sì, in un certo senso riguardava Brent. Lei e Carly avevano già discusso l’argomento, ma ora c'erano delle posizioni da rivedere:

"Sto pensando di iniziare la pillola…"

Carly si sorprese genuinamente. Cos'era successo al non volere ormoni sintetici in circolo?

"Così hai piani per Brent…", ridacchiò maliziosa, arrotolandosi una ciocca di capelli così lunga che il dito le rimase impigliato.

Lillian fu grata di quella piccola svista che ammazzò un po' tensione.

"No, lo faccio per me! Un anno fa...non sai cos'è il vero terrore fin quando non passi un mese ad aspettare che ti vengano, e poi quando ti vengono ringrazi il cielo..."

Lillian voleva che non succedesse più. 

"Un anno fa hai rischiato una gravidanza e non me ne hai nemmeno parlato?” 

Carly ci rimase un po' male, tuttavia sarebbe finita lì se Lillian non avesse ribattuto:

"No no, non vuoi sapere."

Carly emise un sospiro strozzato di shock, le sue graziose labbra erano disposte ad O; l'ex top ranger iniziò a preoccuparsi quando la vide alzarsi di scatto dal divano e puntarla, con aria minacciosa.

Lillian si morse la lingua: era sempre la solita, parlava tanto, parlava troppo. C’era davvero bisogno che le desse quel genere di dettagli? Si era aspettata che la sua migliore amica non avrebbe capito?

Guardò la Carlona, che ora non sembrava arrabbiata-ma-adorabile: era incazzata nera,  pronta a prenderla a botte. Lillian indietreggiò, guardinga:

"Carly, Carly, no, aspetta, non ci abbiamo messo una pietra sopra?"

"TU, MENTECATTA...COME HAI POTUTO!"

Carly ora le stava proprio correndo dietro.

"Non accusare solo me! Ahhh!!"

Pronta o non pronta, Brent la stava aspettando. E non c'era momento migliore per lanciarsi fuori dalla porta e al sicuro in macchina, prima che quella furia la raggiungesse e le mettesse le sue belle manine paffute addosso.




 

 "Posso?"

"No."

Il paleontologo ignorò la risposta e sbarcò in camera di Diciassette; non ne poteva più di bollire da solo davanti a quella email. Elliott trovò il top ranger svaccato sul suo letto, con la luce spenta, la tele accesa, circondato da parecchie confezioni di pop-corn e cioccolato.

"Se sei qui per i Kit Kat vattene ora."

"Hahaha! Io sono grasso, tu hai i Kit Kat, ecco…" temporeggiò Elliott, guardando distrattamente la televisione. Immagini di zombie insanguinati che correvano nella notte lo divertirono. "Io sono Leggenda. Carino."

Elliott stava per rivelare a Diciassette come mai avesse disturbato la sua quiete, quando quest'ultimo lo interruppe.

Diciassette aprì il messaggio che gli era appena arrivato, una mano alzata ad invitare Elliott ad attendere.

Devo parlarti.

Un messaggio così ermetico da metterlo in guardia.

"Che c'è?"

Elliott si sedette rumorosamente sul letto del suo coinquilino, guadagnandosi un'occhiata perplessa.

"È Carly."

Elliott osservò Diciassette scuotere la testa, mentre digitava la sua risposta:

Domani. Puoi aspettare domani?

Sembrava che Carly fosse arrabbiata. La sua risposta repentina chiarì i dubbi sul suo stato d’animo:

Per caso sei in compagnia? Almeno chiedile se usa la pillola prima di procedere.

Elliott, che stava sbirciando, ebbe quasi un infarto:

"Ehm...Sev...che hai fatto?"

Diciassette non l'ascoltò nemmeno, si sentì pervadere da una rabbia impotente. Carly lo stava accusando di tradimento? 

“Ma che diamine...”

Chiamò Carly, ma il telefono suonava a vuoto. 

In piedi nel corridoio buio, Diciassette appariva furioso, assolutamente inavvicinabile. Non gli importò che Elliott ascoltasse, non diede il tempo a Carly di ribattere:

“Ma cosa significa...Che cazzo dici! Puoi dire di tutto su di me, ma accusarmi di metterti le corna? Sei fuori di testa."

Quando Diciassette cambio’ stanza, Elliott si sentì turbato da quel tumulto.

"Santi numi, è nei guai. Eppure non mi sembrava uno di quelli...davvero ha fatto le corna a Carly?"

Guardò la scorta di Kit Kat e se intascò uno, Diciassette non se ne sarebbe accorto. Cioccolato fondente, che bontà...

Ma il giovane coinquilino ritornò senza che Elliott se ne accorgesse. Non credeva di aver mai visto Diciassette così alterato, aveva quasi paura che venisse a sfogarsi su di lui. Ormai era troppo tardi per riporre il Kit Kat.

"Senti, tu mi sembri un tipo a posto, ma chiarisci con lei perchè è ingiusto che pensi male di te. Parlando di ragazze...per favore, Sev, puoi dirmi se questo va bene? Devo inviarlo a una ragazza…"

Diciassette era amareggiato e deluso, sentimenti a cui non era abituato. Aveva i suoi difetti, ma tradire la sua ragazza non gli era mai passato per la testa.

Quando Carly gli aveva detto che non considerava tradimento l'equivoco con Lillian si era sentito così sollevato, era stato quasi surreale. Cos'era saltato fuori ora?

C'erano due opzioni, o sventrare l'intera palazzina o cercarsi una distrazione; compiacendosi del suo inusuale autocontrollo, il cyborg lesse velocemente la bozza dell'email sul cellulare di Elliott.

Sapeva di non avere un'intelligenza emotiva particolarmente sviluppata, ma quello che Elliott aveva redatto non sembrava una richiesta romantica.

"Stai contattando questa persona per questioni di lavoro, a che ti servo io?"

"Perché sto scrivendo a una che, sostanzialmente, è la tua equivalente nei MIR,..."

"Io non ho equivalenti. Che roba sono i MIR?"

Il modo confuso e ansioso con cui Elliott narrava i fatti lo stava irritando.

Fra Carly e lui, aveva dovuto mettere in pausa Io Sono Leggenda proprio sulla scena che gli metteva più ansia, la morte del cane del protagonista. 

"I Monster Island Rangers. Certo, Defiance non proprio come te perchè tu sei praticamente una macchina, ma non posso presentarmi male, lei è figlia di Charles De Villiers, il maggiore. Quella gente non è plebea come noi."

"Plebeo sarai tu."

Nel ventesimo secolo esisteva ancora il concetto di classe sociale? Diciassette ignorò il paragone inconsapevole che era appena uscito dalla bocca del suo coinquilino, mentre Elliott continuava a parlare:

"È una ragazza molto in gamba, molto figa, insomma se lei accettasse di farsi intervistare da me sarebbe straordinario." 

"E perché chiedi a me?"

Se Elliott voleva incontrare qualcuno per parlare di paleontologia, poteva farlo da sé.

"Perchè sei il solo amico che ho che ha la ragazza…"

Diciassette lo scrutò con fare altezzoso:

"Ho già letto tutto. Mi sembra troppo lungo, se vuoi un'intervista chiedile l'intervista e basta. E ora ridammi quel Kit Kat."

"Come cavolo fa a saperlo?"

Elliott si separò dal cioccolato fondente, corresse il testo e riuscì infine a premere invio.

Visto che Diciassette non lo mandò via, si accomodò e si concentrò su Io Sono Leggenda, fino a quando il sonno non lo vinse.

Quando si risvegliò era quasi l'una di notte; trovò Diciassette ancora davanti alla tele, davanti ad un altro film. Non aveva ancora finito di mangiare.

"Ma tu non dormi? E sicuro che tutte quelle calorie prima di andare a letto ti facciano bene?"

Elliott il ciccione che gli parlava di calorie, che ironia.

"Faccio quello che mi pare, io. E il tuo cellulare ha suonato."

Senza fare apposta, Diciassette aveva visto il preview di una email.

La figlia del maggiore aveva accettato di farsi intervistare.


~

 

 La prima reazione che Elliott ebbe, una volta uscito dall’aereo, fu di proteggersi gli occhi da una violentissima luce. Non era un riflettore sparato in faccia, non era nemmeno un riflesso abbagliante. Era semplicemente il sole del Sud.

La signorina De Villiers gli aveva detto di atterrare sull’isola di Amenbo anziché a South City, il tragitto verso la Monster Island sarebbe stato più breve.

Durante il volo, la signora anziana seduta dalla parte del finestrino gli aveva detto che se si ha vissuto tutta la vita in un luogo tetro, la luce del Sud può quasi accecare.

Elliott non era cresciuto fra le ombre ma nell’altitudine dei suoi monti, dove la luce non mancava e il sole era forte e più vicino, eppure quel faro remoto che brillava sopra all'altro estremo del mondo era qualcosa di mai visto prima. Sembrava che i colori fossero più limpidi, come spogliati da un filtro, così vivi da ferire lo sguardo.

“Siamo solo a dicembre, non c'è così tanta luce ora…”, ridacchiò la stessa signora, avviandosi con Elliott verso l’uscita dell’aeroporto.

Defiance De Villiers gli aveva detto che sarebbe andata a prenderlo di persona per evitare perdite di tempo. Prima di decollare da North City, il paleontologo le aveva inviato la sua migliore foto, quella ufficiale da CV.

“Ho questa faccia qua”, le aveva scritto, imbarazzato.

Elliott aspettò vicino alla sezione sosta veloce, con gli occhi pronti a individuare un SUV nero con il marchio SANP. Quando lo vide, si sbracciò per fare segno alla signorina De Villiers di aspettarlo, sarebbe andato da lei. I suoi segnati furono interrotti dall’aprirsi di una portiera e 

la prima cosa che Elliott vide furono le sue gambe. Due gambe affusolate e forti e solide allo stesso tempo, soprattutto nude: lo sguardo del paleontologo salì fino ai corti pantaloncini color verde militare, su fino a una canotta su cui spiccava la sigla MIR, su e su fino a un viso disegnato da un pennello magistrale, simile a quelli che si vedevano al cinema. Infine, lo sguardo del povero Elliott seguì i movimenti di una dolce chioma bruna, libera nell’aria tiepida.

Quell’apparizione stupefacente che aveva lasciato il ragazzo a bocca aperta si era ormai avvicinata; Defiance sorrise divertita e quasi modesta, nel vedere un’altra fusione uomo-pesce:

“Signor Gontier?”

Elliott conosceva il viso della capo MIR dalle foto, sapeva che era bella, bellissima. Ma da vicino, dal vivo, toglieva il respiro. Elliott non riusciva manco a pensare a quello che avrebbe raccontato a Brent. Era una valchiria, altissima, maestosa, era impossibile non restare a guardarla. Per certi versi, forse a causa del portamento e dei lineamenti cesellati, gli ricordava la biondona diafana che si era ritrovato in casa, anche se questa era bruna che più bruna non si poteva. Gli sembrò di non aver mai visto un essere umano così bello; quella bionda per l’appunto era forse l’unica che poteva competere con lei, forse. E lui era stregato…

Ora gli stava sorridendo: dannazione, gli stava davvero sorridendo?

“Valchiria bruna tutta la vita, passo e chiudo.”

Elliott stava ancora aspettando di veder comparire su quel volto senza difetti una smorfia schifata. Defiance, dal canto suo, stava aspettando che il suo ospite si schiodasse:

“Signor Gontier, andiamo! Ho lasciato il lavoro per venirla a prendere ma non ho tutto il giorno. Venga con me in macchina.”

Elliott voleva fare conversazione con lei, voleva essere cortese, voleva dirle che aveva solo trentadue anni e che quindi non era un “signore”. Ma tutto ciò che il suo cervello poté formulare fu una domanda frivola ed inutile: cercando di non far cadere l’occhio sulla cintura di sicurezza, appoggiata al seno della signorina De Villiers, Elliott fissò di nuovo le sue gambe e notò che il suo sedile era più indietro del proprio:

“Ehm, Defiance, quanto sei alta?”

“1.83; com'è andato il volo?”

Defiance si accorse della tensione che martoriava quel giovane uomo venuto da lontano.

“Si rilassi, signor Gontier, non voglio mangiarla per colazione”, gli indicò la pittoresca cittadina pavimentata di porfido che stavano attraversando. “Questa è la Baia d’Ocra, il porto è dietro l’angolo, prenderemo presto il traghetto.”

“Potrò...vedere qualche esemplare oggi?”

“Naturalmente. Abbiamo più che altro mega-rex e pteranodrax.”

 

  Elliott guardava la scia d’acqua tracciata dal traghetto su quel pezzo di oceano. Avevano parcheggiato il SUV nella stiva ed erano saliti sul ponte a godersi il paesaggio. La baia formava una luna crescente, sembrava una cartolina. Elliott era grato che la grande presenza di tutta quella natura lo distraesse da quella di Defiance. Il traghetto passò di fianco ad una gigantesca torre di roccia scura, attorno a cui le acque erano più agitate.

“Quello cos'è?”

Defiance si lasciò inondare dal sole, seduta sulla ringhiera del ponte: 

“É Cape Moor. Sa perché ci sono sempre onde alte lì? Non l'annoierò con molta fisica, ma in poche parole, appena sotto la superficie del mare giace un profondissimo canyon, che non rompe le onde che arrivano dall'oceano aperto, anzi, favorisce la loro altezza.”

Gli assicurò che un paio di giorni al Sud sarebbero bastati per comprendere quanto la potenza dell’elemento acqua potesse essere spaventosa.

 

 Più tardi, quando il traghetto toccò le sacre sponde della Monster Island, l’emozione diede il magone ad Elliott. Era davvero una parte di mondo che ancora brulicava di vita arcaica, era incredibile. Esattamente come per la ragazza che la gestiva, nessuna foto poteva preparare alla realtà. 

Elliott si montò sulla spalla la sua go-pro e seguì Defiance nella giungla a bordo del SUV, alla ricerca di dinosauri. Non ci misero molto a frenare di fronte a una grossa orma a tre dita.

“Che dice, signorina? Per me è di un mega-rex.”

Entrambi abbandonarono il veicolo per osservare l’impronta. Elliott filmava e fotografava, Defiance spiegava alla sua telecamera come la divisione MI avesse acquisito quei dinosauri.

"Sbaglio o quello è un nido di pteranodrax?" affermò Elliott, guardando una collina lontana, al di là delle cime degli alberi. "Andiamo a vederlo?"

 

 Salendo e sbuffando lungo il sentiero che i MIR usavano regolarmente per controllare i pteranodrax, Elliott e Defiance incrociarono altri colleghi. A differenza dei ranger del RNP, quella della MI erano in maggioranza uomini. Elliott si chiese se fosse difficile per Defiance essere il loro capo, visto che raramente una ragazza così giovane comandava un manipolo di veterani.

"Posso aiutare?"

Fece per prendere lo zaino dalle spalle di Defiance, dominate da un pesante aggeggio somigliante a una grossa pistola ad arpioni. Lei si scansò, abituata a salire lì da sola:

"Se si chiede come mai mi sono portata dietro il lancia appigli...spero che non serva dimostrarlo."

Nell'udire un rombo lontano, Elliott si imbambolò sul sentiero.

Da lì su si poteva vedere il mare e lo sguardo di Elliott fu catturato da una grossa nave bianca che ne fronteggiava un'altra, l'eco che si udiva fin lì doveva essere i loro cannoni.

La nave bianca portava l'effigie della guardia costiera di South City, sulla sua grande bandiera il paleontologo riuscì a distinguere una stella bianca.

Il suo cuore accelerò. Non poteva crederci…

Defiance si divertì a guardarlo trasformarsi in pesce lesso una seconda volta:

"Come dicevo a John Dubochet Monster Island non ha mai pace, i predoni attaccano giorno e notte. La nave bianca è il White Star del capitano."

"Potremo incontrarla, vero?"

Il suo sguardo riluceva come quello di un bambino in un negozio di caramelle.

Era in compagnia di Defiance De Villiers, stava vedendo coi propri occhi l'incrociatore di Malina Klintsov-Samuels in azione.

La sua vita non era mai stata così eccitante.

Si dimenticò persino del nido di dinosauri a cui erano arrivati.

Go-pro sempre in azione, Elliott si era nascosto dietro ad una roccia:

"Ecco, vedete com'è grossa? Se mamma pteranodrax si mettesse in piedi, sarebbe tanto alta quanto una giraffa. Vediamo se possiamo avvicinarci…"

Defiance voleva trattenere il signor Gontier; pensava che fosse stupido avvicinarsi ancora di più al nido per riprendere la creatura da un’altra angolazione. Istintivamente, si toccò l’imbragatura di corda solida da scalata che si era allacciata alla vita, e tutti i moschettoni che ci aveva attaccato.

Defiance aveva esperienza coi dinosauri, sapeva che Elliott doveva allontanarsi prima che la creatura, che stava covando, si accorgesse di lui e…

Il rumore di un rametto calpestato dal pesante piede del nordico bastò per spingere il pteranodrax all’attacco: con una falcata che cancellò completamente la distanza coperta da Elliott con una corsa repentina, l'animale lo afferrò con le sue possenti zampe e si librò in aria, decisa a sfrecciare via:

“No!!”

Defiance doveva agire in fretta. Sapeva esattamente che protocollo seguire, ma sarebbe stata la sua prima volta.

“Scusami, mamma pteranodrax.”

L’appiglio saettò nell’aria e si agganciò a una scaglia della coda dell’animale. Mentre la lunga corda zigzagava e si tendeva man mano che il dinosauro si allontanava, Defiance si assicurò che tutti i moschettoni da scalata fossero nel posto giusto e si preparò al colpo di frusta, serrando la corda fra le mani e incurvando la schiena.

Quando la lunghezza della corda finì e la ragazza fu strattonata su in aria, la forza della trazione spremette i suoi polmoni e la fece inarcare all’indietro.

“Ahhh! È un mostro!” gridava Elliott, sicuro che da un momento all’altro il pteranodrax l’avrebbe lasciato cadere nel vuoto. 

Intanto, attaccata al dinosauro come una spia sulla scaletta di un elicottero, Defiance impugno’ la sua walkie-talkie e urlo’ nel vento:

“Codice rosso. Pteranodrax in fuga con civile. Forzate la sua traiettoria verso la laguna.”

Intanto, da terra, tutti i ranger e i turisti presenti sull’isola avevano alzato lo sguardo al cielo, rapiti da quell'insolito spettacolo. 

“Il re del cielo, signore e signori, il pteranodrax!” annuncio’ una guida turistica, aguzzando la vista nell'udire uno strillo ovattato dalla distanza. "E la nostra Defiance."

Un altro guardiaparco radunò le truppe; insieme, i MIR allestirono delle specie di armi a grosso calibro su dei cavalletti e presto sia lei che Elliott videro miriadi di freccette conficcarsi nel corpo del dinosauro, proprio mentre la bestia sorvolava una laguna.

“Tranquillanti!” gridò Defiance, cercando di dondolare verso le zampe dell’animale.

“Ci schianteremo!” piagnucolò Elliott, non potendosi assolutamente muovere.

I tranquillanti agirono rapidamente e presto il pteranodrax perse quota. Con uno straordinario colpo di fortuna, Elliott cadde come un sasso in una specie di laghetto, mentre il dinosauro atterrava su un masso vicino e si addormentava.

L’impatto con l’acqua era stato dolorosissimo: Elliot era caduto dall’alto e aveva incontrato il letto ghiaioso e poco profondo dello specchio d’acqua. Ma a parte tagli e lividi, era in buona salute. Si ricordò che non era stato il solo passeggero del dinosauro:

“Signorina De Villiers?!”

La laguna giaceva in una depressione del terreno ed Elliott non riuscì a scalare l’anello di roccia che la circondava. 

“Ecco, é morta. Si è schiantata. E tutto per colpa mia…"

Vide un elicottero passare sopra di lui e udì molte sirene avvicinarsi.

Presto vide una scaletta srotolarsi dalla cima della parete rocciosa. Un uomo dai capelli argentei si sporse per assicurarsi che Elliott non fosse già un cadavere scomposto:

“Tutto bene lì giù?”

 

 

 Defiance era viva e vegeta. Non era riuscita a slacciarsi tutti i moschettoni in tempo ed era rimasta impigliata fra le fronde della giungla che circondava la laguna. L’appiglio era ancora attaccato al dinosauro.

Quando Elliott e l’uomo che l’aveva soccorso arrivarono da quel lato della laguna, videro che altri guardiaparco stavano slegando il loro capo dal suo groviglio di foglie e corde. Elliott la vide camminare normalmente e guardarsi le mani tutte escoriate. Voleva correre da lei e abbracciarla, sollevato di vedere che stava bene. 

“Sei viva!!”

Elliott non riuscì a trattenere il sollievo e mandò a quel Paese le formule di cortesia che aveva finora impiegato.

“Si è attaccata ad un dinosauro in volo, si è schiantata ed è ancora in piedi. È una Sev.”

“La prossima volta ascoltala e non avvicinarti troppo a un pteranodrax”, lo ammonì il MIR dai capelli argentei. “Lei ha rischiato la pelle per te.”

Defiance stessa non era arrabbiata con Elliott. Seduta sul sedile dell’auto medica osservava l’infermiere curarle le mani.

Forse doveva investire in un paio di guanti: stringere la corda a mani nude e così forte le aveva fatto male.

Entrambe le vittime dell'incidente vennero medicate e subito congedate: fortunatamente, le loro ferite erano superficiali.

“Perchè non hai forzato il dinosauro ad atterrare nella foresta?”

Elliott non si rendeva conto che stava davvero associando Defiance a Diciassette. Per proprietà transitiva forse, pensava che anche lei potesse essere capace di qualsiasi cosa.

Tuttavia, la top MIR lo guardò come se lui avesse detto una grandissima stupidata:

“Forzato il dinosauro ad atterrare? Non so se si rende conto della forza di quelle bestie, signor Gontier. E’ umanamente impossibile sopraffare un dinosauro. Dovrei essere tipo una macchina.”

 

Mentre la giornata volgeva al termine, il plebeo nordico e la meridionale blasonata si incamminarono verso il bungalow di lei.

Defiance era diversa da come Elliott se l’era immaginata dopo il breve scambio di email. Si era aspettato una personalità più autoritaria, un modo di fare più marziale. Invece era molto più avvicinabile di Lillian, pareva a suo agio con lui tanto quanto lui lo era con lei.

Anche la divisione MI era diversa dal resto del SANP e dal RNP: al suo interno non c’erano città e villaggi a parte le lodge per turisti e gli alloggi dei MIR e del personale dell’isola: chiunque lavorasse lì ci viveva da solo.

“Le nostre famiglie non vivono qui con noi, la mia è a South City per esempio. Alcuni di noi hanno parenti sulle altre isole del distretto. L’isola è pericolosa per chi non è allenato.”

La sera stava scendendo. Elliott guardò altre coste accendersi di luci, dove le case delle famiglie dei MIR dovevano trovarsi.

 La go-pro era miracolosamente ancora accesa e stava continuando a filmare:

"Defiance, tu sei il capo ranger, ma come sei finita qui? Raccontami della tua carriera.”

“Per me tutto è iniziato da bambina, quando mia madre ha comprato questo terreno per ripristinarlo: Monster Island esisteva già molti anni fa, ma era caduta in disuso e lei ci teneva a riportarla agli antichi splendori . Sono sempre stata intrigata da questo posto, ci venivo coi miei genitori, ma prima di lavorare qui ho servito due anni nella Marina Reale, con mio padre.”

“Ricordiamo a chi guarda quanti anni hai, Defiance”, la interruppe Elliott, pieno d’ammirazione.

“A gennaio saranno ventitre. Ho servito dai diciotto ai venti, poi ho capito che volevo fare altro. Nel frattempo, mia madre e il capitano Klintsov-Samuels hanno decretato che l’isola era un bersaglio particolarmente amato dai predoni, così sono nati i MIR. Siamo ex soldati.”

Defiance era nata con un difetto cardiaco per il quale i dottori le avevano dato poche settimane di vita, nonostante fosse stata operata con successo poco dopo la nascita. 

“Ho sempre sentito che avevo qualcosa da provare, che potevo essere lasciare un'impronta nel mondo anche con questo handicap. Non mi posso sforzare come vorrei, ma si fa quello che si può", sorrise la giovane. Poi diventò seria e protese una mano verso la go-pro, ancora installata sulla spalla di Elliott. “Non ha filmato anche questo, vero?”

“E certo che sì, fa parte della tua storia. E dammi del tu.”

Elliott le chiese come lei e i suoi colleghi potessero gestire un territorio così esteso e pieno di esseri che potevano anche essere pericolosi. 

“Tutto quello che vedi e senti dire, è disciplina militare.”

Defiance conduceva la sua intervista con un sorriso, ma in fondo era frustrata: durante il soccorso aereo non c’era stato tempo per coordinare un salvataggio vero e proprio:

“Quello che è successo oggi, con te che sei stato lasciato nella laguna, è stato estremamente rischioso; non abbiamo avuto il tempo di allestire una rete, la bestia era troppo veloce e troppo potente. Spero che ci scuserai, Elliott.”

Elliott venne toccato da quelle parole; i MIR avevano fatto tutto l'umanamente possibile, contando la mancanza di tempo e anche il fatto che tutto era successo per colpa sua. Se non si fosse avvicinato al dinosauro, come lei gli aveva detto, nessuno sarebbe stato nei guai:

“Sono io che devo scusarmi. Sono fuori posto, sono d’intralcio a voi ranger. Bon, l’intervista la continueremo domani prima che io prenda il mio aereo, per oggi ne abbiamo avuto abbastanza. Grazie infinite di tutto.”

Sapeva che doveva andare, ma gli dispiaceva dover riprendere il traghetto e tornare in hotel. C’era ancora qualcosa che voleva fare, e il coraggio gli mancava. Era qualcosa che lo spaventava ancora di più di uno schianto a bordo di un mostro volante. Elliott già sapeva di essere irrimediabilmente attratto da lei, ma come poteva lui, un misero 5 sulla scala della bellezza, sperare di avvicinarsi ad un 10 tondo tondo?

E la bellezza era solo il minimo, le aveva persino dimostrato di essere una schiappa.

Eppure, Elliott non andò oltre la porta della soglia di quel bungalow nel cuore dei quartieri dei MIR:

“Defiance...vorresti…"

“Sì, certo. Andiamo al bar sul piazzale, sarà pieno di turisti ma non importa.”


 Seduti al bancone del bar, Elliott e Defiance ridevano raccontandosi aneddoti.

“Come sapevi che volevo prendere da bere con te? E come mai hai voluto?” urlò lui, cercando di sopraffare la musica alta.

“Beh, tutti e due abbiamo bisogno di un po' di svago; oggi e domani noi due lavoriamo insieme, ci stava.”

La tensione stava ricominciando a investire il paleontologo. Poter rimirare da vicino il caramello diletto della sua pelle e il riflesso delle luci nei suoi occhi intriganti, da zingara, era già un enorme privilegio; doveva essere realistico, le ragazze come Defiance non spettavano ai ragazzi come lui.

“Secondo te una così la da a me?”, aveva detto Brent a proposito della sorella di Diciassette. E Brent era già un bel 7 o anche un 8, praticamente un dio.

 La vista di una ciotola di olive e di un mazzetto di stuzzicadenti fu la distrazione che lo salvò dal suo martirio: Elliott si mise a trafiggere le olive con i bastoncini acuminati, finché non compose un cubo perfettamente regolare.

“Che fai?” Defiance appoggiò il mento al bancone per osservare la struttura più da vicino.

“Ti mostro il mio talento segreto. Qual è il tuo?” 

Tutti avevano un talento segreto: Brent cucinava, Carly era praticamente un cecchino, Lillian era una campionessa olimpica. E Diciassette era...Diciassette.

Defiance accettò la sfida e ordinò al barista di servirle una pinta della sua birra rossa favorita. 

Quando ebbe il bicchiere fra le mani, la ranger smanettò col suo orologio e si preparò a far partire il cronometro: “Questo, guarda e impara. Schiaccia qui.”

Non appena il dito di Elliott avviò il cronometro, Defiance iniziò a bere la sua pinta. Beveva con nonchalance, senza sbrodolarsi, sollevando il mignolo come se stesse sorbendo del tè da una tazzina. Appoggiò il bicchiere vuoto sul bancone, con un sospiro e iniziò a tossire. Elliott le mise premurosamente una mano sulla schiena:

"Non soffocare però!'

Sperava solo che lei non gli chiedesse di alzarsi finché i bollenti spiriti indotti da quel breve contatto si fossero riappiattiti. Il cronometro segnava a cifre chiare il numero 3.04. TRE SECONDI.

"Ok, è decisamente una Sev."

La guardò divertito: 

“Questo è il tuo talento segreto?”

“Non è molto, ma conosci qualcun altro che riesce a fare quello che ho fatto io in tre secondi?” lei incrociò le braccia sul petto, sorridendo soddisfatta.

“Ehm...il mio coinquilino; ma con la tua classe, solo te.”

“É ovvio! Aspetta, mi stai dicendo che bevo come un uomo?”

Ecco, lo sapeva. L’aveva offesa. Ora Defiance se ne sarebbe andata, facendo ondeggiare sotto il suo naso le graziose tasche sul suo sedere, e non avrebbe più voluto avere a che fare con lui. Ma Defiance non si mosse, si ravviò i capelli e armeggiò per legarli in una treccia: “Rilassati! Puoi anche dirmelo, perchè è vero!”


~

 

 Ronan non sapeva decidersi se dare il regalo alla sua Kate la notte di Capodanno od ora. Sedeva sul letto della loro stanza d'hotel, rigirandosi la scatolina fra le mani mentre lei era sotto la doccia.

Ma non ne poteva più di aspettare, anche solo per qualche giorno in più. Scoppiava dalla voglia di farle quel dono, ma aveva anche molto timore che lei non lo accettasse.

Kate era una donna molto pragmatica, a prima vista sembrava irraggiungibile; tuttavia, aveva un cuore d'oro. Ronan non aveva paura di lei, ma della propria delusione.

L'udì uscire dalla doccia e sedersi sul letto:

"Ce l'ho fatta, Ron. Scusami per averci messo tanto."

Ronan si voltò a guardarla mentre si pettinava i capelli umidi, così neri da sembrare blu. Si sentì invadere dall'amore quando lei gli sorrise.

Kate era felice. Davvero felice.

E vedere quella felicità sul suo viso lo sciolse completamente.

Senza dire nient'altro, Ronan si inginocchiò e le prese la mano.

"Ron?"

Nell'altra mano, Ronan teneva una scatolina di velluto rosso. Al centro, un delicato anello d'oro e acquamarina.

"Kathryn Alix Lang, vuoi sposarmi?"

Kate restò completamente spiazzata. Era commossa dal gesto del suo compagno, ma non sapeva cosa dire.

"Oh Ronnie...grazie."

Grazie.

Grazie??

Se Kate aveva avuto il sentore che la sua mancanza di risposta avesse potuto offendere Ronan, non sapeva come dirgli quello che davvero pensava.

E si rattristò quando lo vide ritirare la scatolina, chiusa seccamente, rialzarsi e camminare verso la finestra.

"...perdonami, Ronan."

"Stiamo insieme da un anno. Sappiamo tutti e due cosa vogliamo, non siamo più ragazzini che giocano a nascondino. Ci amiamo. Perché non puoi darmi una risposta?"

"Ronan, non viviamo nemmeno insieme…"

Kate non voleva scavare a fondo nelle motivazioni che la facevano propendere per il no. Tuttavia, sapeva che doveva al suo dolce, caro Ronan la sua completa onestà. 

"...non voglio rovinare tutto. Stiamo bene così come siamo, senza andare a impegolarci in un matrimonio. I matrimoni fanno separare la gente, non la uniscono. Mia madre, due matrimoni andati a rotoli. Mia sorella, divorziata dopo nove mesi di matrimonio. Non voglio questo per noi."

Le lacrime invasero prepotenti il campo visivo di Kate, nel rievocare quei ricordi dolorosi.

"Eppure non hai detto questo a tua figlia. Quando si è sposata non le hai detto che si è rovinata la vita. Perché invece a me dici questo? Perché pensi che falliremo?"

Kate strinse i pugni e li batté contro le cosce:

"Perché tu sei immaturo. Non sai rispettare un no, perché mi chiedi qualcosa se sai già cosa vuoi sentirti dire?"

Ah, quindi la vera risposta era no. Ovviamente non era quello che Ronan aveva sperato, ma era pur sempre una risposta. Non un grazie per evitare la risposta.

Kate si stupì di vederlo alleggerirsi, sospirare, togliersi i grandi occhiali quadrati per asciugarsi una piccola lacrima.

Per un momento sperò che volesse prenderla bene e dimenticarsi la prima cosa che lei gli aveva detto. Kate sperava che Ronan volesse sedersi con lei e parlare. Ma sentì il cuore diventare di piombo quando lui passò al suo fianco e si diresse verso la porta:

"Ho bisogno di farmi due passi. Ci vediamo a cena."

Kate restò sola e sconsolata a guardare la neve che cadeva fuori dalla finestra, soffice oblio luminoso.

Sapeva che la vera questione non era la paura di rovinare il suo rapporto con Ronan. In quel momento seppe che lei non era mai cambiata e che forse non sarebbe mai cambiata. 

Kate aveva sempre rifuggito le relazioni quando cominciavano a diventare serie. L'aveva fatto in passato, quando era stata giovane e calda di testa.

E ora, vecchia e sempre sola, l'aveva rifatto ancora una volta.













 

Pensieri dell'autrice:

 

Bentornati cari lettori!

Questo capitolo fa il punto della situazione per un po' di personaggi e per questo e’ bello lungo; non sapete quanto mi sono divertita a scriverlo, specialmente con Carly che per una volta non è carina e coccolosa (persino la tostissima Lillian s'è presa paura) e  con le (dis)avventure del signor Elliott Gontier.

Con lui tratto qualcosa che tutti o quasi provano, il sentirsi insicuri.

Elliott è fisicamente non un sex symbol e la sua personalità è pacifica e tranquilla, nel momento in cui si decide di provarci con una ragazza che giudica "troppo" per lui le sue insicurezze lo travolgono.

Ma non è il solo. Anche Brent si sente insicuro, anche Carly, anche Kate. E in altri capitoli anche Lillian, Crilin, Lapis e Lazuli.

Penso che sia qualcosa di normale e comune e ci tenevo a parlarne, soprattutto perché si parla molto dell'insicurezza delle donne ma molto di meno di quella degli uomini.

Non so cosa pensare del comportamento che Lapis e Carly hanno avuto l’una nei confronti dell’altro: e’ sempre stato nella natura di Carly l’essere un po’ melodrammatica, e in quella di Lapis di atteggiarsi a bad boy. Qui lei e’ gelosissima e lui le risponde in modo piuttosto aggressivo: secondo voi chi ha ragione?

Piccola nota che può essere utile soprattutto a chi legge la mia originale: Kate e’ l’ultima di cinque sorelle e Defiance è la figlia di una di queste, non dico quale. Già, lei e L&L condividono del DNA...e già che ci sono vi mostro come me la immagino ⬇⬇⬇⬇⬇⬇

 

cbng

 

Immaginatevi come si e’ sentito il buon pacioccone Elliott quando se l’e’ vista arrivare all’aereoporto. Questo capitolo aveva come scopo di essere comico, soprattutto con la scena del dinosauro :D Elliott gioca al geomag con gli stuzzicadenti e Defiance sa farsi pinte a tempo di record: tutti abbiamo talenti nascosti (il mio e’ piegare la lingua in tre, oltre che scrivere boiate), scrivetemi pure nelle recensioni quali sono i vostri!

Ho pubblicato prima perchè avevo tempo, ma vi do appuntamento domenica l'altra con "Situazione Sentimentale pt.2", in cui vedremo cosa succede a capodanno e in cui riprenderemo anche Lazuli e Cril.

E last but not least, condivido con voi la perla della settimana: ho iniziato a far guardare DB alla mia progenie, che forse a causa della testa rotonda e colorata ha chiamato Jiren “Ice cream”. Bon, io esco.

A presto!

 

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Capitolo 31
*** Situazione Sentimentale pt.2 ***


31. Situazione sentimentale pt.2
 
 
 
“Certo che è proprio strana, la loro bambina…”
“Lei da quando sa fare quello?”
“Shhhhhhh, non chiedere.”
Il Genio, Puar e Yamcha osservavano la piccola Marron battere le manine e ridersela di gusto, mentre i suoi genitori giocavano con lei.
Tutti e tre, così come Tartaruga, non se ne intendevano di bambini, eppure pensavano che la figlia del loro Crilin avesse gusti particolari: le piaceva vedere suo padre e sua madre che se le suonavano sulla spiaggia. Le piaceva ancora di più quando Diciotto si allenava a trasformare parti del suo corpo in lame e spunzoni: la mamma luccicava al sole, era un vero spettacolo.
Era successo che Marron e Crilin l’avessero vista per sbaglio da trasformata. Un giorno come gli altri Diciotto era stata avvertita da Sedici che uno degli androidi rinati sarebbe passato da quelle parti: lei l’aveva intercettato su nel cielo, volandogli incontro e tranciandolo in due prima che questi si rendesse conto che Super 18 stava volando a tutta velocità verso di lui. Nessuno aveva riconosciuto che androide fosse, quando un suo pezzo era caduto poco lontano dalla spiaggia del Genio. Crilin aveva avuto la soddisfazione di incenerire la carcassa, e Diciotto aveva rimesso piede a terra sotto gli occhi sconvolti di tutti i coinquilini. Solo Marron sembrava divertita dal suo braccio-lama.
E ora rideva ancora, sotto gli stessi occhi attoniti degli altri inquilini, mentre la sua mamma protendeva un dito verso di lei e lentamente, il dito diventava una lunga asticella tagliente.
“Non andare troppo vicino al suo faccino, amore. Non si sa mai…” si preoccupò Crilin, pizzicando la guancia di Marron.
Diciotto si sentì vagamente offesa da quelle parole: sua figlia era perfettamente al sicuro con lei, anzi, era da sola che rischiava di farsi male.
Da quello che le avevano detto Sara e Kate, che una bimba di esattamente quattro mesi sapesse rotolare, nel tentativo di gattonare, era decisamente inaudito. Ma Marron era già sveglia: voleva così tanto gattonare, a quel ritmo ci sarebbe riuscita prima di compiere un altro mesiversario.
Marron era una terrestre normale, con geni da terrestre. Diciotto pensava che potesse aver ereditato da Crilin la predisposizione a sviluppare una certa forza. Le modifiche che lei aveva subito da Gero non avevano toccato il suo DNA. Diciotto non ne era sicura, ma si rifiutava di pensare di far sottoporre la sua piccola a test per verificarlo.
Marron doveva crescere felice e normale, insegnarle a lottare sarebbe stato qualcosa che l’avrebbe aiutata sia a mantenersi sana che a difendersi. Marron era una bambina, e come tale sarebbe cresciuta: vestita da bambina, amando cose da bambina, comportandosi come una bambina.
Crilin era sollevato nel trovarsi d’accordo con sua moglie: non avrebbe voluto vivere una situazione come quella del suo migliore amico e Chichi. Le lotte su come crescere i figli erano un problema che la sua Diciotto non gli aveva nemmeno creato.
Sara aveva messo Diciotto in guardia su un argomento delicato, la vita di coppia:
“Ci passiamo praticamente tutte, perchè è umano: con la bambina piccola sarà più  difficile mantenere il tuo matrimonio, ma devi averne cura, sempre.”
Sara era una vera amica, anche se ignorava che Diciotto era la madre perfetta: lei non si stancava mai, poteva prendersi cura sia di Marron che del matrimonio senza avere un esaurimento nervoso. E da quello che leggeva su internet e che sentiva dire dalle altre mamme che incontrava dal pediatra e alle varie attività a cui portava Marron, quella era una fortuna inestimabile.
Anche se MArron a volte la innervosiva coi suoi capricci, che fortunata era Diciotto a non arrivare a fine giornata esaurita, dopo aver fatto giocare la bimba, averla allattata, averla curata: appena poteva saltava addosso a Crilin, perchè le mancava. Ogni volta che riuscivano a fare l’amore indisturbati Diciotto ripensava alle paure che aveva avuto: come avrebbe potuto trovarla ancora sexy dopo averla vista partorire?
E Crilin, dal canto suo, non ci pensava nemmeno. Ogni volta che era con lei non vedeva un corpo stravolto da una condizione fisica estrema, vedeva la sua bellissima moglie: gli capitava ancora di commuoversi quando lei si spogliava e lo attendeva, nuda e delicata.
Forse le cose fra di loro erano fin troppo rosee: anche lui si era aspettato di dover mettere la vita di coppia da parte, ma non era servito.
In quanti al mondo potevano godere di un così grande privilegio?
“E quindi oggi è l’ultimo dell’anno...che vuoi fare, Cril?”
Marron si era addormentata nel marsupio, legata al petto della sua mamma, e Diciotto era libera di svolazzare con Crilin sul pelo dell’oceano.
“Sull’isola di Amenbo, non lontano, fanno dei fuochi d’artificio spettacolari ogni anno, si vedono in lontananza persino da qui,” proferì lui dopo aver cercato in internet.
“Se ti piacciono i fuochi ma vuoi uscire dal Sud, allora ne fanno di belli anche a North City. Con concerti anche.”
“Mi viene da dire ‘così lontano?’ “ rise Diciotto, pensando che nessun posto al mondo era davvero fuori mano per loro.
“Sei mai stata a North City? Io l’ho vista solo da lontano,” rammentò Crilin, pensando a quel giorno in cui lui e gli altri Z Warriors avevano cercato Gero fra gli anfratti delle montagne.
“Solo di sfuggita…”
Diciotto ricordò all’improvviso i suoi ultimi momenti prima di incontrare Crilin, quando Diciassette aveva rubato quel furgone rosa. Era davvero successo a North City?
Crilin stava sfogliando la galleria immagini del motore di ricerca dopo aver cercato “North City fuochi d’artificio”.
Entrambi, in un momento, decisero che passare il Capodanno fra vette innevate, in un posto nuovo, sarebbe stato abbastanza eccitante. Facendosi l’occhiolino, si avviarono a preparare i bagagli: i fuochi e il concerto sarebbero iniziati alle 8, non avevano molto tempo da perdere.
 
/
 
 Mentre Diciotto e Crilin preparavano i bagagli in vista del Capodanno, sull'isola di Amenbo Elliott aveva appena stampato la sua carta d’imbarco. Era tempo di tornare a casa, Bent gli aveva persino comprato i biglietti per andare a vedere i fuochi d’artificio.
“Non posso accompagnarti più in là, ma grazie di essere venuto quaggiù,” Defiance era con lui vicino ai cancelli automatici che separavano le aree di transito dell’aeroporto della Baia d’Ocra dalla zona sicurezza.
Elliott non aveva voglia di riaprire il suo bagaglio a mano, di togliersi le scarpe e la giacca e di farsi passare al metal detector. Ma c’era qualcos’altro che gli dispiaceva ancora di più, a cui non aveva nemmeno il coraggio di pensare.
“Grazie a te dell’intervista”, il paleontologo sorrise alla capo MIR, tenendo salda la sua fedele go-pro. “Mi piacerebbe restare e vedere più dinosauri, più Monster Island, ma il mio visto scade oggi.”
Un visto, nel suo caso turistico, era necessario per accedere alla Monster Island ora come ora, ma Defiance sperava che non sarebbe sempre stato così.
Lei guardò con i suoi occhi sorridenti il viso malinconico di Elliott; rimasero a guardarsi senza parlare per un paio di minuti, prima che l’altoparlante annunciasse che lui doveva sbrigarsi.
“Vai, non perdere l’aereo l’ultimo dell’anno. Festeggi coi tuoi amici, no?”
“E tu?”
“Non lo so...qui si fanno dei fuochi d'artificio spettacolari."
Sarebbe stata sola?
Come un ragazzino che sta per imbarcarsi sul suo primo volo, separandosi dai genitori, Elliott non staccò gli occhi di dosso a Defiance nel varcare i tornelli e nel mettersi in coda, fin quando lei non scomparve dietro a una parete divisoria.
 
 Defiance l’aveva portato lì in anticipo. Era meglio così, il 31 dicembre poteva accumulare molti ritardi, gli aveva detto. Elliott passò molto tempo seduto non lontano dal gate, aspettando che il personale dell’aeroporto aprisse gli imbarchi per il volo. Si sentiva amareggiato; non sapeva dire per cosa, aveva passato due giorni di pura avventura: aveva visto dei veri dinosauri, era stato rapido da uno pteranodrax, aveva fatto il bagno in una laguna cristallina, nella tasca dei suoi calzoni c’era ancora qualche sassolino. Aveva conosciuto il corpo dei MIR, aveva stretto la mano alla mitica Malina Klintsov e aveva fatto le ore piccole, al bar con la figlia del maggiore De Villiers, che gli aveva raccontato tanti aneddoti.
Elliott sarebbe tornato al Nord arricchito. Era stata un’esperienza inestimabile, non se lo sarebbe mai dimenticato. Ora era pronto per un po’ di relax, erano stati due giorni intensi, quasi sfibranti. Eppure, partire gli dispiaceva. Non si sentiva ancora pronto ad andare via: avrebbe voluto fare un’altra gita all’interno dell’isola, avrebbe voluto passare altro tempo al bar con Defiance.
Defiance…
Elliott ascoltò distrattamente l’avviso del volo intercontinentale che l’avrebbe riportato direttamente a casa, al sicuro, fra i suoi amici che già l’aspettavano. Il senso di amarezza fermentò in ansia: Elliott batteva i piedi e sudava, in coda sotto il monitor che annunciava
“NORTH CITY, 18:00”
Avrebbe voluto toccare ancora una volta la sua pelle scura, forse avrebbe anche voluto stringerla, baciarla.
Il cuore gli batteva forte, cosi’ forte da coprire la confusione dell’aeroporto e la voce della hostess di terra:
“Passaporto, signore?”
Il paleontologo  guardava attraverso le grandi finestre del terminal aerei vari in fase di decollo, atterraggio o rullaggio; passo’ il documento alla hostess.
“Buon viaggio, signore.”
La donna sorrise al ragazzone di fronte a lei, restituendogli il passaporto.
Elliott era come imbambolato, guardando fuori; il terminal era fatto a semicerchio e lui poteva vedere tutto, le piste, i portici dell’aeroporto, la gente che parcheggiava nell’area sosta veloce, un vigile che arrivava a mettere la multa, pullman altissimi, gente che andava e veniva.
“Signore, prego, entri.”
Una macchina nera. Un SUV. Una ragazza alta, appoggiata alla carrozzeria, guardava verso il mare. Elliott sentì il suo cuore piombare giù nei piedi.
"Signore, si sente bene?"
La hostess aveva visto quel passeggero sbiancare all'improvviso e cercare di uscire dalla fila.
"Attento a dove vai!" protestò un uomo a cui Elliott pestò un piede, nella sua corsa fuori dal gate, attraverso tutte le zone dell'aeroporto da cui era appena passato.
"Scusi! Ops…mi spiace!"
Ogni tanto urtava qualcuno, mentre tutti lo guardavano. Elliott inciampó, col fiatone e la maglia completamente sudata, sperando con tutto il suo essere che fosse successo quello che lui pensava, e che lei non se ne fosse andata via nel frattempo.
 
 Defiance doveva tornare alla Monster Island. Forse poteva anche andare a South City, a passare il Capodanno coi suoi. Sua madre aveva inviato gli inviti per la sua solita grande festa già ad ottobre, Defiance sapeva che ci sarebbe stato da divertirsi. Le feste di Capodanno a casa non annoiavano mai, la signora De Villiers spendeva mezzo anno ad organizzare tutto nei minimi dettagli, dai costumi alle palline di vetro artigianali da attaccare ai vari alberi di Natale.
Avrebbe dovuto avvertirla che in un paio d'ore sarebbe stata a casa.
"Defiance,"
La capo MIR non aveva fatto in tempo a inoltrare la chiamata a sua madre; reagì al suo nome e un sorriso le sorse spontaneo.
L'ansimante paleontologo si sentì rinascere nel vederla sorridere; non c'era niente di più bello al mondo che il bianco del suo sorriso contro il caramello della sua pelle, del suo naso arricciato in quel sorriso.
"Elliott! Sei rimasto…"
 
 
/
 
Come Defiance stava facendo a migliaia di km di distanza, anche Carly sorrise a trentasei denti quando, nel cliccare sull'icona verde dell'app Skype, la facciotta rossa e sdentata di Robbie le apparve in prospettiva.
"Buonissimo ultimo dell'anno signorina!!!" cinguettò il bambino, felice come una Pasqua.
"Buon anno a te, piccolo mio."
"Guarda, mi è caduto il dentino.."
Quel sorriso con la finestrina fece sciogliere Carly; ogni volta che vedeva Robbie pensava che la sua adorazione per i bambini fosse conclamata...
L'educatrice Anna, a cui Robbie lasciava solo un angolino nel campo visivo della webcam, appariva imbarazzata, "Scusaci, Carly; voleva chiamarti ancora. Robbie, l'hai già chiamata la vigilia di Natale..."
"Non fa niente. Puoi chiamarmi tutte le volte che vuoi."
Carly si scusò se quella sera non avrebbe potuto stare molto al telefono. Trucco e parrucco pronti dalle 6, stava aspettando che Lapis finisse di prepararsi per poi andare a vedere i fuochi d'artificio di Capodanno.
Diciassette era rimasto lì nel monolocale a prepararsi con lei; ben nascosto in bagno, si pettinava all'infinito quei capelli già liscissimi che necessitavano a malapena della spazzola, per evitare di interagire con Anna e Robbie, desiderando che Carly la finisse presto con quella chiamata.
Anna era quella ragazza che l'estate precedente aveva visto Carly e Diciassette insieme, quella volta in cui il signor Lenteney aveva portato le noci ai bambini. Carly le aveva ispirato simpatia e aveva attaccato bottone con lei. Ogni volta che Robbie voleva chiamare Carly, Anna ne approfittava per salutarla e chiacchierare con lei.
"Allora verrete su a Viey l'estate prossima?" la veterinaria guardò con tenerezza gli occhi dolci del piccolo Robbie.
"Ci stiamo già organizzando…"
Carly sarebbe stata felice di vedere anche Anna.
Non appena Carly riattaccò, Diciassette si rimaterializzò nella stanza principale con un'espressione soddisfatta e un tempismo perfetto, "È lui che ha adottato te…"
Carly si mise a ridere, "Sei proprio un selvatico."
 
 Le rive dell'impetuoso torrente Dorée erano gremite di gente. Come ogni anno ci si raccoglieva lì, nel cuore di North City, per assistere ai famosi fuochi d'artificio e ai concerti di Capodanno.
C'era musica, c'erano bancarelle con street food e qualche rimasuglio di mercatino di Natale.
Carly e Diciassette raggiunsero Lillian e Brent, in piedi in una coda disorganizzata, accalcata intorno ad un camion che vendeva patate arrosto con formaggio fuso.
Appena arrivata, l'occhio di Carly cadde subito su Lillian e sulle sue gambe affusolate, chilometriche, sapientemente fasciate in leggings di pelle nera (ecopelle, ovviamente). Un bomber imbottito, nero con dettagli di paillettes, copriva i suoi fianchi stretti finendo appena sopra al suo piccolo culo perfetto.
"Già. Ha le gambe che vorrei."
Lillian non aveva bisogno di tacchi, degli scarponcini trendy proteggevano i suoi piedi dalla gelida poltiglia che ricopriva il marciapiede.
Brent riusciva a vedere un po' più in là oltre la folla, "Che coda, gente. Siamo qui da un quarto d'ora…"
Il vichingo cominciava a rabbrividire nei suoi vari strati di lino e lana.
Lillian fece un occhiolino a Carly, "Stai pensando quello che penso io?"
Carly si mise in punta di piedi, "Ci penso io."
"Cosa?"
Carly sorrise nel vedere che Lapis non si ricordava più, "Ti ricordi quando andavamo al mercato e grazie a me ci servivano per primi?"
Diciassette aveva rimosso; e il ricordo non ritornò nemmeno quando Carly si fece avanti e, incurante della neve, si slacciò il suo bel cappotto di lana rosa e lasciò che il resto della folla ammirasse il suo abitino rosso scollatissimo, dalla gonna a ruota.
Alzò la mano con un sorriso per farsi vedere dal ragazzo che prendeva le ordinazioni,che non tardò a volerla servire, "Andiamo?"
Guardando Carly camminare con Diciassette che le circondava gelosamente le spalle, e la scollatura che ondeggiava su e giù ad ogni passo, quasi sul punto di scoppiare, Lillian si mise le mani in tasca: "Già. Ha le tette che vorrei."
Diede uno scappellotto a Brent quando si accorse che il suo sguardo era caduto sul petto della Carlona.
 
 Presto tutti e quattro presero posto sugli spalti del teatro a cielo aperto in cui il concerto sarebbe presto iniziato.
"Ma Elliott? Che fine ha fatto?" indagò Lillian.
"Dovrebbe atterrare fra poco," Brent controllò l'ora sul suo cellulare. "In ogni caso sa dove trovarci."
Il quartetto si mise comodo, mentre la band cominciava a suonare.
 
 Nell'intermezzo fra concerto e fuochi, Lillian e Brent avevano perso di vista Carly e Sev e lei era andata a prendere del vin brûlé bello caldo dalla bancarella dei Geirsson.
"Pronta per i fuochi, Lillian?" chiese giovialmente il padre di Brent. Si conoscevano già, Brent le aveva presentato i suoi genitori in occasione della scorsa fiera di Verny.
“E due bicchieri belli pieni per te. Ciao, cara!" sorrise la signora Geirsson, passandole il vino.
Nel voltarsi per uscire dalla coda, con suo enorme imbarazzo Lillian scivoló su del ghiaccio e cadde a terra, spruzzando vin brûlé sulla neve e sulle gambe di una ragazza che passava di lì, in sandali alti aperti.
Il viso di questa, sorprendentemente non estraneo, si dipinse della lotta fra la volontà di dare a Lillian uno sguardo assassino e quella di mantenersi comunque cortese.
Lillian si sentì in soggezione, la stessa soggezione delle volte in cui si trovava davanti a Diciassette quando era torvo, "Ti...ho sporcata, mi dispiace."
"Non è niente," ribatté la passante in maniera concisa, ma non sprezzante.
Lillian vide di sfuggita che i suoi pantaloni bianchi erano strettissimi, di cotone leggero e strappati alle ginocchia; il corto pellicciotto e il top bustier che portava le lasciavano la pancia e il petto fuori, "Ma non ha freddo?"
"Si è fatta male…" disse una pacifica voce maschile, "ti sei fatta male?"
Un uomo in montgomery con un neonato legato al petto le tese una mano e l'aiutò ad alzarsi.
"Sono a posto, grazie! Buon anno…" Lillian aveva fatto una figura di merda con degli estranei, ma volle rimanere gentile
"Buon anno!" le augurò l'uomo, mentre la ragazza le fece un gesto veloce.
 
 
 "Che è successo Lilli?" chiese Brent, con tenerezza, vedendola arrivare coi leggings bagnati e senza vin brûlé.
"Sono scivolata e l'ho rovesciato addosso a una tipa, pensa te."
Almeno con tutto quel marasma a Lillian non sarebbe toccato incrociare di nuovo quella coppia...
Brent fece finta di fumare, sospirando nell'aria gelida, tenendo sott'occhio il grande schermo sul quale spiccava il conto alla rovescia, "Mancano ancora venti minuti buoni a Capodanno, sto congelando! Andiamo a berci qualcosa al caldo?"
Buona idea; il pub che lei e Brent avevano puntato aveva, tanto per cambiare, una lunga coda.
"Peccato che io non abbia le tette di Carly, vero?" Lillian era curiosa di vedere fino a che punto Brent potesse negare l'evidenza, nella sua missione di conquistarla, "ci tocca aspettare qui."
"O andiamo in un altro bar.
"Ma dai Brent davvero non le hai guardato le tette? Non ti disturba che io sia piatta?"
Perché le importava così tanto?
"E sì, le ho guardate ma primo, io ho occhi solo per te; secondo, non è che se tu non puoi allattare tutta North City allora sei piatta."
Brent aveva occhi solo per lei, non era una novità...Lillian scoppiò a ridere alla battuta involontaria del vichingo, ma presto rinsavì e gli diede una botta al braccio, "Ehi, è della mia migliore amica che stai parlando!"
Stavano per allontarsi alla ricerca di un posto in cui entrare e scaldarsi, quando attraverso la vetrata del bar Lillian vide Diciassette, girato di spalle con una ragazza. Lui sembrava a suo agio e lei continuava a toccarsi i capelli.
Lillian poteva vedere il viso di lei solo di tre quarti, ma quello che scorse furono contorni cesellati e una chioma ben pettinata in uno chignon alto. Se il colore dei suoi capelli e il pellicciotto azzurro chiaro che le lasciava scoperta la pancia non fossero stati gia’ abbastanza per renderla riconoscibile a Lillian, i pantaloni bianchi sporchi di vino completarono il quadro.
Brent vide Lillian incupirsi, praticamente attaccata al vetro, “Lilli, andiamo?”
“Sev!!” Lillian batte’ il pugno contro al vetro, chiamando forte.
Il vichingo si mise a guardare e vide Diciassette e la sua inconfondibile sorella (se si ricordava bene, la valchiria bionda che gli somigliava era la sorella), “Calma! Non ti sente.”
“Oh, ci sente benissimo. Sev! Mapporc’...”
Lillian aveva ragione, fra doppi vetri e confusione Diciassette l’aveva ben sentita. Quando sia lui che la ragazza si voltarono, Lillian si vide fissata da due paia di occhi identici.
"Oddio, vedo doppio?"
Lillian non poteva sentirli, ma vide Diciassette prorompere in una grassa risata, mentre la bionda ebbe bisogno di entrambi le mani sulla bocca per non fare lo stesso. Sicuramente stavano ridendo di lei, pensando “ma e’ la scema del vino!”
Lillian fece segno a Diciassette, se non avesse lasciato perdere quell’oca lei gli avrebbe tagliato la gola. Quando i due ragazzi uscirono dal bar, Lillian li accolse con un sorriso nervoso, "Diciassette, idiota, dov'è LA TUA RAGAZZA?"
Brent ci provo’, “Ehm, Lillian, questa e’-”
“...la scema del vino! Cioe’, la tipa del vino.”
La tipa del vino guardo’ Lillian con la pieta’ con cui si guarda un bambino cocciuto, Diciassette schioccò la lingua: entrambi avevano già capito cosa Lillian stesse pensando.
"Carly e’ a coccolarsi la sua bambina, con suo marito."
Lillian pareva ancora perplessa, mentre lui accennava alla ragazza con il capo.
“Lei è mia sorella gemella, Diciotto.”
Aveva una sorella gemella? E perché non gliel'aveva mai detto?
"Wow...due su due, complimenti alla mamma."
Lillian si ricordò che invece gliel'aveva detto, en passant, quando le aveva rivelato di essere un cyborg, "Ahhh ecco, tua sorella…"
Brent e Diciotto si erano già  incontrati e si scambiarono un breve cenno d’intesa. Diciotto fece lo stesso con Lillian.
Carly riapparve di lì a poco tenendo in braccia un bebè biondo come la sorella di Diciassette; l’uomo in montgomery la teneva per il gomito.
“E’ incredibile, non immaginavo che vi avremmo incontrati qui,” gli sorrideva lei. Carly riprese posto al fianco di Diciassette; lo zio si chinò subito a salutare la sua mini nipotina, la cui mano prensile non tardò ad afferrargli una lunga ciocca di capelli neri.
“Ah, anche tu qui! Tutto bene?" Crilin si sorprese a vedere la ragazza che era scivolata in compagnia dei suoi cognati.
Tutte le presentazioni furono fatte, e Crilin spiegò con gioia che quella era la coincidenza migliore che potesse succedere all’ultimo dell’anno.
Lilllian si sentiva fuori posto, mentre Brent era subito entrato in sintonia con Crilin. Diciotto si accorse dello sguardo inconsciamente turbato con cui Lillian non poteva impedirsi di fissare sia lei che Marron: "Tu sai, vero?"
Lillian si limitò ad annuire discretamente; non aveva avuto intenzione di fissare, ma la sorella di Diciassette era sicuramente la prima cyborg che lei avesse mai conosciuto che avesse procreato.
In fondo se anche la sorella era come lui, non c'era niente di cui stupirsi; ma con quella parola, cyborg, che la arrovellava sempre, Lillian aveva comunque finito per farlo. Inevitabilmente la sua mente era corsa a quel posto di cui non doveva parlare ad alta voce,
"Bon, quella volta l'ho proprio scampata bella."
Mentre tutti confabulavano, avviandosi verso le rive della Dorée in attesa dei fuochi, Diciotto camminava con Diciassette accennando alla ragazza che le aveva sporcato i pantaloni, “L’ex top ranger; te la sei fatta.”
“Mm, domanda o affermazione?” cercò di svicolare lui.
“Affermazione, assolutamente. Altrimenti come saprebbe?”
 
 
 Il gruppo di sei più Marron si era spostato "in platea" vicino alla Dorée e al grande palco da cui suonava ancora musica, su cui spiccava lo schermo gigante con il conto alla rovescia.
Ormai il Capodanno era nell’aria, l’eccitazione cresceva sempre di più. Sarebbe stato un altro buon anno per tutti, anche se nessuno sapeva cosa aspettarsi. Diciassette strinse Carly a sé, mentre l’aria cominciava a riempirsi di fischi e canti. Era contento che avessero ancora una volta fatto pace, era magico guardare il tempo passare e tenersela vicino. Ma una parte dei gemelli impediva loro di rilassarsi completamente, pensando e ripensando che mentre a North City si festeggiava bellamente, quegli androidi erano sempre in agguato in giro per il mondo. Diciotto, specialmente, sentiva questa minaccia più forte che mai; ne aveva ucciso uno poco prima di salire lì.
Il clamore collettivo divenne ancora più intenso quando l’intera città si mise a risuonare del conto alla rovescia.
Lillian si sentiva stanca, si era presa paura dopo aver visto Diciassette con Diciotto, ancora prima che sapesse il suo nome e la sua identita’. Voleva sedersi un attimo e riprendere un po’ di forze, ma un grande braccio arrossato la tenne su per la vita, “Allora Lillian, buoni propositi per l’anno che sta arrivando?”
“Insegnarti a tenere le mani al tuo posto.”
Brent le sorrise e le strinse la vita anche con l’altro braccio. Entrambi guardarono in alto.
5...4...3...2...1..!!!!
Una moltitudine di esplosioni colorate riempi’ il cielo. Colori, gioia, musica, rumore, vita.
"Buon anno!" urlò Carly, mentre Diciassette se la issava in spalla e lei indicava i lapilli colorati che sembravano toccare il lontano Grande Eden.
"Buon ano!"
Lillian guardo’ storto Brent. Ma lui continuo’ indisturbato, "Buon anoooo!"
Crilin, una mano su Marron dormiente e l’altra sulla nuca di Diciotto, iniziò l’anno con un dolce bacio; Diciotto si chinò su di lui e prese a baciarlo appassionatamente, incurante della folla intorno a loro. Presto anche Diciassette e Carly si appartarono a baciarsi vicino al guard rail che impediva ostinatamente ai festeggianti dal cadere nella Dorée.
Lillian era ancora appoggiata contro Brent, naso in su, rapita dai colori. Una lacrima di gioia si manifestò all’angolo del suo occhio, e quando la barba di Brent le punse il collo, mentre lui glielo baciava, Lillian non si allontanò.
Ogni membro di quel gruppetto stava cominciando l’anno insieme a qualcuno a cui voleva bene; chissà cos’avrebbe riservato loro il futuro?
La musica suonava e suonava, mentre Lillian accarezzava il viso del vichingo e, stringendosi al suo petto, gli dava con gioia il bacio che lui aveva aspettato fin dal primo momento che aveva posato gli occhi su di lei.
Carly li vide e sorrise senza interromperli, contenta forse più per lei che per lui.
Vide Lazuli venirle incontro e prenderla da parte.
"Sai che Crilin e io rifaremo la cerimonia a luglio, no? Se vuoi…"
Le diede una lettera sigillata; Carly l'aprì in fretta e vide che era una richiesta. Un invito ad essere una damigella di Lazuli.
"Wow...Non so cosa dire."
"Dì di sì", Diciotto le diede un timido sorriso e la lasciò sola.
Carly non era più la fatina troietta, ormai era parte della famiglia; non era ancora sposata con Diciassette, ma era come se fosse sua moglie. Aveva conosciuto entrambi prima che fosse cyborg. C'era stata nel suo ieri e sarebbe stata nel suo domani. Carly se lo meritava.
 
 Lillian stava ancora baciando Brent, quando un pensiero flash la fermò, “Ma quindi Elliott?"
Brent se la riprese, abbracciandola forte e ridendo, "Mentre noi siamo qui lui sarà ancora incastrato su un aereo. Grosso, miope e pure sfigato."
 
 
/
 
 Elliott guardava i fuochi d'artificio, disteso sulla barca a remi, coperto da un plaid. Era così diverso guardare le stelle da quell'angolo di mondo, si chiedeva se a casa si vedesse quello stesso cielo. Nella Baia d'Ocra i fuochi li lanciavano da barche come la sua, la luce si innalzava al cielo direttamente dal mare anzichè dalla terra. Ma le altre barche, i cui passeggeri avevano forse avuto la sua stessa idea, quasi non si vedevano nel buio. Il paleontologo beneficiava di una pace assoluta,lo spettacolo pirotecnico era come lucine nella distanza, e il frastuono era piccoli scoppi, come quelli del mais soffiato in padella…"E se remassimo indietro e ci prendessimo da mangiare?"
Defiance emerse al suo fianco e appoggiò la guancia sul suo petto.
"E buon anno anche a te. Restiamo ancora un po' qui…"
La sera di Capodanno era fredda sul suo busto nudo, puntellato di pelle d'oca; Elliott la coprì col plaid e la circondò con un abbraccio per non farle prendere freddo.
"A meno che io non ti dia fastidio."
Elliott non era sicuro di credere alle proprie orecchie, "Stai scherzando? Sono grato, anzi."
"Grato...come se ti avessi fatto un favore. Stupidino."
Elliott osservò Defiance spalancare gli occhi e arricciare leggermente le labbra. No no no, non doveva offendersi! Le diede un bacio sulla fronte, mentre il suo cervello girava e girava. Le orecchie non erano la sola parte di sé a cui non credeva, non credeva a nessuna parte del suo povero corpaccio, pelle a pelle con quello magnifico di Defiance De Villiers.
"È solo che...non ci credo."
Defiance si rivestì in fretta, prima che anche gli altri passeggeri delle barche la vedessero tutta nuda, "Beh, siamo qui, insieme. Vedi?" Gli strinse la mano, riappoggiandosi a lui.
"Eh...io sono brutto."
"Mmm mmm," lei si arrotolava al dito i ricci ribelli di Elliott.
"Sono povero."
"Mmm mmm."
"Insomma, che ci fa una valchiria come te con un bortolone come me?"
Defiance scoppiò a ridere a quella parola.
Bortolone non era nemmeno un termine che si usava al Nord, no, era un modo gentile con cui Elliott si definiva.
La valchiria gli baciò con affetto la sua guancia cicciotta e lo invitò ad appoggiare la testa contro la sua scollatura. "Oh, vieni qua  bortolone."
 
 
 
 
 
Pensieri dell'autrice:
 
E niente ottobre (periodo di camini accessi, foglie scricchiolanti e pioggia❤) è appena iniziato e qui già penso a scene di festa innevate. Quello sfigato di Elliott alla fine è meno sfigato di quello che tutti pensano, lui incluso…donne, troviamoci tutte qualcuno disposto a perdersi l'aereo e il Capodanno con gli amici per stare con noi🤗
Mi sono molto divertita a scrivere questi capitoli ludici in cui si fa il punto della situazione sentimentale di molti personaggi. Grandi cose aspettano i nostri protagonisti in questo anno nuovo (specialmente un* di loro) fra alti e bassi, tenetevi forte!
Vi do appuntamento venerdì l'altro con il cap.32, "Sedici, Diciotto e...Hacchan!" (mi viene più facile che la domenica, ora).
A presto!
 
 
 
 

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Capitolo 32
*** Sedici, Diciotto e...Hacchan! ***


32. Sedici, Diciotto e....Hacchan!
 
 
 
 
Crilin era stato chiaro: n°8 era un tipo pacifico che odiava il confronto.
Era però arrivato il momento di incontrarlo, Sedici e Diciotto si erano presi l’incarico.
Crilin, che aveva dapprima pensato di andare al Jingle Village, aveva preferito restare e prendersi cura di Marron: confidava in Diciotto.
E Diciotto stessa voleva conquistare quel traguardo, guadagnarsi la fiducia di un essere che si fidava poco del suo creatore, e di conseguenza anche di altre creazioni.
Il grosso androide avrebbe solo presidiato l'incontro, osservando la cyborg da lontano.
Loro due dovevano essere il più cauti, il più sensibili possibile se volevano avvicinare il n°8.
Diciotto era d'accordo con Sedici sul fatto che il suo aspetto minaccioso, così diverso dalla sua indole, incutesse un altro tipo di impressione.
Ancora una volta, era una situazione in cui la vita non richiedeva forza fisica ma forza d'animo. Diciotto meditava su questa verità, seduta al tavolino dell'unico café del Jingle Village.
Dalla descrizione di Dende, Diciotto doveva aspettarsi un umanoide dall'aspetto imponente, con cicatrici sulla fronte. Una specie di mostro di Frankenstein.
Diciotto aprì il rotolo e lesse altre info: Otto "Hacchan" (così amava farsi chiamare; era stato proprio Son Goku bambino a suggerirgli quel soprannome, Crilin aveva rammentato con nostalgia) scendeva tutte le mattine a quel café per aiutare a riordinare i rifornimenti. Si chiese se si fermasse mai a bere qualcosa di caldo, in quel posto perennemente innevato. Se potesse farlo. Si chiese se fosse davvero come lei e Diciassette.
Otto era il primo dei quattro modelli ad energia infinita, Diciotto era l’ultima.
Otto aveva terminato di consegnare al personale del café un carico di scatole chiuse, Diciotto l'osservò avviarsi.
Lo seguì, tenendo le distanze, sapendo che si era accorto di lei. Lo pedinò fino ad una casa dalla pianta circolare, simile a quella di Son Goku.
Diciotto non se la sentì di andarlo a ripescare lì dentro, "N°8."
Lui non si girò nemmeno a guardarla, preferì concentrarsi sulla porta di casa.
"Hacchan."
Nel sentirsi chiamare con quel nome, Otto si girò lentamente; a Diciotto parve di vedere una scintilla di gentilezza nei suoi occhi.
Per un momento Otto e quella ragazza sconosciuta restarono a controllarsi, a guardarsi. Lui era davvero impressionante, altissimo e straordinario con quel cranio squadrato e le cicatrici, l'assenza di sopracciglia. Poi la porta di casa sbattè e l'attimo di calma si perse.
Diciotto vide apparire una ragazza che poteva avere una decina d'anni più di lei. I capelli lisci e lunghi, di colore rosso chiaro, le ricordavano quelli di Carly.
“Stai indietro,” la donna in cuffia trasse una lunga pistola e l’impugnò saldamente.
Sapeva anche sparare come Carly?
Sentendo la tensione che si stava creando n°8 si agitò, sperando che la ragazza con la pistola si calmasse, "Suno…"
Suno era turbata dalla calma apparente dell'altra femmina a pochi passi da lei; nessuno aveva più cercato Hacchan da quando si era stabilito al Jingle Village. Nessuno poteva interessarsi a lui...a parte il Red Ribbon stesso. E se quella donna fosse stata mandata dal dottor Gero, se fosse stata una di loro?
“Hacchan ha una forza che tu non ti immagini, ma è troppo gentile, e la gente a volte gli dà noie. Il dottor Gero, suo creatore, voleva buttarlo via per questo; il generale White voleva renderlo suo schiavo!"
A Diciotto Gero aveva dato molto più che noie. Si sorprese nell'udire il nome dottor Gero pronunciato da una normale terrestre.
La Terra era un posto violento e pericoloso, Suno aveva dovuto imparare a proteggersi, "Hacchan è troppo buono e nobile per tutti voi. Peccato che non sia il mio caso.”
Diciotto si limitò a udire gli avvertimenti di Suno, che intendeva usare la pistola se lei non fosse sparita. L'umana sparò e la pallottola rimbalzò sulla spalla della cyborg.
Capendo la situazione, Hacchan si protese in avanti per proteggere Suno e sferró un potente pugno che non toccò nemmeno l'androide dai capelli biondi che era venuta a fargli visita; ella si era spostata sulla soglia di casa, così velocemente che Suno poté osservarla da vicino: sembrava vera.
Poteva anche essere troppo bella per essere vera, ma era viva e vera eccome. Non poteva trattarsi di un androide del Red Ribbon, doveva per forza essere una cyborg.
Hacchan ne aveva subito percepito la natura ibrida e difese la sua casa, "Lasciatemi stare, voi altri. Ho la mia vita al villaggio...mi accettano qui."
Diciotto capiva la volontà di difendere il sentirsi accettati e persino amati quando si era diversi, troppo diversi da chiunque altro; lei era stata estremamente fortunata.
Fece un passo verso di lui, "Ed è per proteggere la tua stessa vita e ciò a cui tieni che devi ascoltarmi."
L'umana Suno aveva già rinunciato a qualsiasi approccio con quella donna, sia di attacco che di difesa.
"So cosa si prova; io sono venuta un bel po' dopo di te, sono il n°18."
Hacchan la guardò con più curiosità,
"Oh cielo, c'è un n°18; ecco come sono,
così tanto dopo di me."
 
 
 Hacchan viveva con Suno, si prendevano cura l'uno dell'altra come fratelli. La ragazza  aveva conosciuto Son Goku ed era stata colei che (insieme al Saiyan) aveva fatto rimuovere la bomba da Hacchan, un po' come Crilin aveva fatto per i gemelli, solo senza Shenron di mezzo.
Suno non era estranea al concetto di cyborg e il trovarsi davanti a uno di questi era la prima cosa che aveva pensato vedendo il n°18, prima ancora di rimanere  colpita dalla sua bellezza; ora che la paura di lei era diminuita Suno, nel parlarle, non poteva fare a meno di guardarle gli occhi limpidi, molto freddi, e i tratti simmetrici, "Tutti gli androidi uccisi sono ritornati? E dove sono?"
"Io e Diciotto li stiamo cacciando. Noi vogliamo coinvolgere n°8."
Suno era ancora in guardia, seduta al tavolo di fronte a Sedici. Fuori da casa Hacchan si era accorto anche di lui e, accertatosi che era venuto in pace tale e quale il n°18, l'aveva invitato a uscire dal suo nascondiglio nei boschi.
Il simbolo della Capsule Corp. copriva quello del Red Ribbon, Hacchan lo considerò un buon segno.
"Per quale motivo lui dovrebbe essere coinvolto?"  Suno mise in tavola una pentola di brodo caldo e una grossa pagnotta a fette. Mise un mestolo di brodo in tazze, una per sé e una per Hacchan.
"Hacchan è un cyborg, ma fluidi come questa zuppa acquosa gli fanno bene; ha bisogno di idratarsi per mantenere la sua parte organica; immagino sia lo stesso per te," dichiarò la donna, posando la terza tazza di fronte alla sua ospite.
"Il Supremo stesso mi ha incaricata di eliminarli. Tu conosci mio marito Crilin, Hacchan."
Hacchan e Suno conoscevano bene Crilin; era quindi il marito di una cyborg del Red Ribbon?
Diciotto beveva il suo brodo con discrezione ma il suo stomaco brontolava, esigendo qualcosa di più sostanzioso.
Aveva appetito, ancora più di quando era incinta: produrre latte non stop richiedeva al suo corpo grossi introiti di energia.
Fin da prima della nascita di Marron, alla Kame House avevano pensato che la moglie di Crilin avesse pure una percentuale Saiyan, visto che pareva potersi mangiare l'equivalente del suo peso.
Eppure lei, l'alterissima Diciotto, si vergognava ancora di mostrarsi agli altri mentre mangiava; visto che la sua comoda dieta post-conversione sarebbe stata impraticabile ancora per mesi si era abituata a mangiare bocconi da uccellino,  se qualcuno si rivolgeva a lei con parole o sguardi non la sorprendevano mai a bocca piena; la imbarazzava che la guardassero masticare o sporcarsi con del sugo, le sembrava così triviale e così poco consono all'impressione glaciale che si doveva avere di lei!
Diciotto si trattenne finché poté, restando impassibile davanti a quella tavola semplice ma stuzzicante, fin quando non ebbe i crampi.
"Ma chi se ne frega."
Alla fine mangiare non era niente di speciale; lo facevano tutti, letteralmente tutti, tranne Sedici.
E questo Hacchan.
E gli altri sulla sua lista nera.
Suno e Hacchan guardarono con sorpresa il n°18 azzannare ben due fette di pane e ingurgitarle quasi intere; non avevano mai visto una creazione del Red Ribbon cibarsi di qualcosa.
"Povera, si sta mangiando anche il tavolo...La nostra aria fresca mette appetito."
Suno era cresciuta con quel dogma e pensava che il clima del Nord fosse un toccasana per tutti.
Sedici intervenne con una spiegazione e Hacchan seppe che il n°18 era praticamente una super umana, una terrestre potenziata. A parte il suo reattore di energia infinita, non tanto diverso dal suo, altro non era che materia organica ristrutturata.
Diciotto si era già imbarazzata comportandosi come una morta di fame; le era pure era venuto il singhiozzo, si era attirata risolini sommessi da Hacchan e Suno.
Forse era meglio continuare la spiegazione di Sedici, “Gero mi ha progettata così affinché  fossi una sorta di completamento per Cell. E Sedici," la cyborg accennò all'androide "è responsabile indirettamente per la sconfitta di Cell."
Ogni volta che Diciotto ripensava a Cell si sentiva rompere dentro. Era qualcosa che riusciva a dimenticare nella vita di tutti i giorni, perché quasi nessuno lo nominava ma quando le ritornava alla mente era un terribile assalto, qualcosa che la disturbava nel profondo. Lei era scappata a Cell per miracolo.
 Sarebbe stato per sempre un trauma e lei non poteva fare altro che darsi forza col pensiero che il mostro non sarebbe più tornato.
Tutti conoscevano Cell, ma quasi nessuno immaginava che egli e i cyborg fossero legati.
Hacchan non necessitò di molte spiegazioni, "Già, Son Gohan l'ha sconfitto, ma non sapevo fosse stato grazie a te!"
Il cyborg capì definitivamente che Sedici e Diciotto non erano una minaccia.
Ma Suno...
"Come facciamo a fidarci fino in fondo di voi? N°16 è un androide fatto e finito e n°18...non riesco a vederti come una vera umana. Anche se sei come Hacchan."
Hacchan stesso, creato a partire da un cadavere, sapeva che questa cyborg di ultima generazione era ancora diversa; la percentuale meccanica in lei era molto più bassa ed era sempre stata una ragazza viva.
Diciotto non sapeva come spiegare, le parole non bastavano.
Si ricordò che c'era una prova della sua umanità che non sarebbe mai sparita.
"Tu non potrai vedere. Ma n°8 sì," Diciotto diede un'occhiata fugace ad Hacchan e si sollevò la maglietta, rendendo visibile la tavola del suo ventre.
"Sei molto atletica, e allora?" la rimbeccò Suno.
Ma Hacchan vide quello che chi non aveva occhi potenziati non poteva scorgere; la pelle del ventre del n°18 era striata, come sfibrata, la grana non era uniforme.
"La mia pelle si è smagliata non molto tempo fa, quando aspettavo la mia bambina."
Suno trasalì, quella ragazza-cyborg aveva partorito?
"Ho concepito e dato alla luce una figlia, ha quasi sei mesi adesso. Puoi vedere tu stesso i segni."
Hacchan pensò per un istante a quanto avrebbe voluto vedere quella bambina, figlia di una creazione del Red Ribbon e del guerriero Crilin.
Il n° 18 era sempre stata un organismo vivente prima, durante e dopo la conversione in cyborg: il suo cuore non aveva mai smesso di battere sotto i ferri di Gero.
Era qualcosa di strabiliante, c'era da rimanere a bocca aperta.
N°18 aveva dato la vita, poteva nutrirsi, si stava togliendo il cappotto perché aveva caldo, aveva lasciato la sua saliva sul bordo della tazza.
“Sei l’unica di noi fatta così? L'unica del tuo tipo?”
“No.”
 
 
 
 /
 
 Diciotto e Sedici potevano ritenersi soddisfatti, il n°8 sembrava dalla loro parte. Sarebbe stato stupido non esserlo, visto che la nuova minaccia riguardava anche lui.
"Se c'è una copia del dottor Gero spero che non lo faccia fuori nessun altro. Questa volta tocca a me," ringhiò Diciotto, ben udibile a Sedici nonostante l'essere in volo ad alta velocità ovattasse ogni suono. Sedici intuì che Diciotto aveva voluto ammazzare Gero da molto tempo, anche se per un motivo o per un altro non l'aveva fatto.
Per la precisione, Diciotto aveva  desiderato ucciderlo con le sue mani dalla volta in cui, tre anni prima, aveva capito che il vecchio l'aveva toccata con dei tamponi ogni mese, nel periodo mestruale.
"L'incontro con n°8 è qualcosa da riferire a Diciassette. Lui non ne sa niente."
L'androide aveva ragione, nella sua impassibilità capiva sempre tutto; Diciotto sapeva come suo fratello odiasse cadere dal pero, era forse la cosa che odiava di più in assoluto. Quando lei e Crilin non l'avevano informato del loro matrimonio si era sentito escluso dalla vita di sua sorella gemella; quando si sentiva preso per i fondelli poteva diventare pericoloso.
"Sì, Sedici, dobbiamo riferirglielo. Lo vedrò da mia madre non appena troveremo una data."
Kate aveva avvertito i gemelli delle sue intenzioni, invitarli a casa sua per festeggiare il loro ventitreesimo compleanno. Era dai tempi dell'incontro con Ronan che Diciotto non si era ritrovata con Diciassette a casa di loro madre.
Avrebbe trovato un momento per parlargli di Hacchan.
 
 
 
 Ma prima ancora di compiere ventitré anni, Diciotto aveva qualcosa di urgente da fare. Aveva scelto apposta un atelier di Central City, affinché la sua damigella d'onore potesse esserci.
Aspettando Sara, seduta al coperto nel centro commerciale, Diciotto ascoltava distrattamente Bulma.
"Non ho capito cosa ci fa Yamcha qui. Sei il povero rimpiazzo di Carly?"
"Chi è?"
"La terza damigella di Diciotto, su!" Bulma si massaggiò la fronte, già stanca di stargli dietro.
Yamcha non conosceva questa damigella, "No! Volevo solo venire, ero curioso…"
"Continuava a rompere," commentò la futura sposa, guardando infastidita l'ora sul telefono.
"Queste sono cose da donne, zuccone vuoto e inutile che sei!... Ma alla fine è la sposa che decide."
Chichi, la vedova di Son Goku, pensava che i tempi fossero proprio cambiati: quando era stato il suo turno di scegliere l'abito da sposa non aveva portato mezzo mondo con sé.
Chichi sarebbe stata una semplice invitata alla cerimonia ma su suggerimento di Crilin, Diciotto aveva voluto invitarla alla caccia al vestito. Da quando Son Goku era morto lei era stata piuttosto sola, tutta presa fra la casa e un altro figlio. Ormai Goten aveva un paio d'anni, quell'uscita a base di cose da donne le avrebbe giovato.
Diciotto faceva fatica a guardarla negli occhi: anche se Chichi non si era mostrata ostile a lei, Diciotto sapeva che Gero l'aveva programmata per distruggere la sua famiglia. Era una consapevolezza dal retrogusto amaro, persino ora.
Le aveva pure fregato dei vestiti...
Yamcha era giunto alla Stella del Centro in volo, accodandosi alla cyborg; Bulma e Chichi, con uno dei velivoli della scienziata; Sara doveva ancora arrivare, avrebbe accompagnato Diciotto durante la sua pausa; Carly non aveva potuto raggiungerli, ma avrebbe assistito alle prove via videochiamata.
 Sara arrivò trafelata all'atelier al terzo livello del centro commerciale; il gruppo era già seduto in un elegante boudoir, Lazuli doveva essere nel camerino.
Colse un pezzo di conversazione dalla  damigella Bulma, quella dai capelli azzurri naturali, "...È vero, Chichi, la lingerie non è la parte più importante; quella è da salvare per il dopo."
Sara lo sapeva, era inutile passare la giornata a ripescarsi dalle chiappe un perizomino di pizzo, o addirittura farsi venire una vaginosi da biancheria scomoda, "Tanto sono sempre troppo ubriachi per apprezzare…"
"O troppo stupidi," sospirò la bella signora mora, Chichi. "La sera del matrimonio, quando gli sono apparsa in lingerie nera, mi ha detto 'perché ti sei travestita da strega?' "
Yamcha scoppiò a ridere, Goku era sempre Goku. Se pensava che il matrimonio fosse una pietanza, allora…
Bulma entrò online nella chat di gruppo "DDD-Damigelle Di Diciotto 🎉👰💍" e chiamò Carly.
Diciotto uscì di lì a poco in vestaglietta e pantofole col simbolo dell'atelier, andando incontro alla donna che l'avrebbe assistita nella sua scelta, "Sarà in spiaggia a luglio. Non voglio cose ingombranti, ma dev'essere un abito da sposa a tutti gli effetti."
L'addetta all'atelier le mostrò alcuni modelli, "Oh, in spiaggia, è molto di tendenza. Vanno modelli peplo, come questo. Vedo bene lo stile "Afrodite" su di te."
"Sì, quella scollatura fatta così ti si addice, hai delle belle spalle forti," la squadrò Chichi.
"Per lei credo ci voglia qualcosa di regale, questo vestito ci sta," commentò anche Carly, con cenni di assenso di Bulma e Yamcha.
Diciotto era modestamente dello stesso avviso; toccò con piacere la stoffa fluida di quel vestito, non vedeva l'ora di provarlo.
La tipa all'atelier l'aiutò nel camerino privo di specchi.
"Oh, sembra fatto per te...se vuoi, chiudi gli occhi e ti accompagno a farti vedere."
Diciotto volle regalarsi quella sorpresa.
Evitando di dare la mano, tanto si orientava benissimo anche ad occhi chiusi, apparve agli occhi stupiti del gruppetto.
"Oh, Lazuli! Un angelo."
"Stai d'incanto."
"Statuaria. Meravigliosa."
"Bastardo fortunato…"
"Questa è la misura del campionario, ma non avresti nemmeno bisogno di farla ritoccare dal sarto," concluse la negoziante.
Diciotto non era sicura, ma alla fine aprì gli occhi.
Fu speciale vedersi in abito da sposa, qualcosa di unico, un sentimento nuovo che le fece stringere il cuore e salire le lacrime. Era proprio lei, solo così bella come non si era mai vista. Un vestito degno di un altro cambiamento nella sua vita, una vita che non avrebbe più avuto se non fosse stato per tre persone importanti: fu grata che Crilin, Kate e Diciassette non fossero lì. Voleva lasciarli senza fiato, voleva che provassero quella sua stessa meraviglia il giorno della cerimonia.
Diciotto si rimirò civettuola; la scollatura profonda rendeva giustizia al seno arrotondato dalla maternità, le spalline che si legavano direttamente sulle clavicole e la gonna a plissé la facevano sembrare un'antica scultura.
Guardandosi meglio, notò che la stoffa del vestito e il modo in cui cadeva richiamavano molto quella del suo abito azzurro da damigella d'onore.
Il ricordo di lei in quel vestito si ricollegò pericolosamente a quello della grande emorragia, della vita della sua Marron appesa a un filo…
Pensando alla piccola, Diciotto sentì il petto inturgidirsi; meno male che non si era tolta il reggiseno e le coppette assorbilatte.
Diciotto dovette rinunciare a quel vestito, per quanto lo amasse, per quando ci si amasse dentro.
"Lazuli...per tutti noi è assolutamente sì," enunciò Sara, commossa, a nome di tutti.
Tutti potevano vedere che Diciotto aveva avuto il colpo di fulmine per il primo abito che si era provata. Normalmente la negoziante le avrebbe consigliato di valutarne anche altri, ma le lacrime di una futura sposa erano sempre l'indizio: non ci si commuoveva davanti a ogni bel vestito, ma solo davanti a quello speciale.
Diciotto non lasciò che tutti vedessero sul suo viso un motivo che forse solo Sara avrebbe capito; si incamminò ancora vestita verso l'appendiabiti.
Nessuno si aspettava che lei declinasse quel magnifico peplo.
"Cos'è questo?" La cyborg prese un top ricamato e una grande gonna, principesca e voluminosa, appuntati allo stesso appendino.
"Ah, è un completo, due pezzi. Puoi fare mix e match, è molto trendy."
L'idea era interessante: Diciotto voleva provare la gonna con un altro top, quello in stile boho non faceva per lei.
La negoziante le portò molti top diversi, cinguettando lodi, "Come per il peplo, potresti uscire di qui col campione, ti calzano come guanti. E con la tua statura puoi permetterti tutti i modelli che vuoi."
Diciotto era ancora turbata dalla sovrapposizione di quel ricordo doloroso. Ci pensò su un attimo, non sapendo bene cosa in quella frase le aveva dato fastidio. Forse era per il fatto che un'altra donna avesse giudicato il suo corpo o che anche lei, da ragazzina (seppur in maniera contenuta) fosse caduta nella trappola sociale del non sentirsi mai abbastanza magra, abbastanza adeguata.
Era decisa a trovare una risposta soddisfacente ma anche adatta a tenersi buona quella persona che doveva venderle il vestito.
La stroncò tutta d'un fiato, "Se lei capisse davvero come funzionano i modelli o anche solo i vestiti in generale saprebbe che no, non esiste un fisico o un'altezza a cui tutto sta bene. Io ho giusto il corpo che va di moda ormai da decenni, sono quindi favorita dalle case di moda che si ostinano a propinare a tutte tagli e lunghezze fatti per questo," fece scorrere la mano lungo il suo fisico, "quando in realtà la donna media è ben diversa da me."
Finì quella frase detta a velocità sostenuta e tono seccato apposta per disorientare la sua interlocutrice, con un'occhiata che non ammetteva repliche.
La negoziante si limitò a un sorriso di cortesia, facendo finta di nulla.
Bulma vide Carly sorridere dal suo schermo.
"Questa è la mia Lazuli," pensò con orgoglio la damigella d'onore.
Diciotto era spettacolare anche in quel due pezzi, persino nel pantalone che si provò giusto per curiosità. Ma nessun altro vestito le aveva dato emozione: erano solo bei capi addosso a una bella donna.
Quando la chiamata con Carly finì, Yamcha sussurrò una confidenza alle donne, "Quella damigella, Carla, è graziosa..."
"Yamcha! No!" lo avvertì Bulma.
"Lascia perdere!" le fece eco Sara, quasi all'unisono. Sara si ricordava di lei, era la ragazza di Lapis da un'eternità.
"È la donna di suo fratello" proclamò persino Chichi, accennando a Diciotto; aveva visto n°17 di sfuggita solo una volta, alla Kame House, ma si ricordava della sua aria poco amichevole. "Se ci tieni a tenerti la testa sulle spalle…"
Yamcha si ricordava che Diciotto aveva un fratello tanto cyborg m quanto lei: l'aveva anche visto, aria dispotica e occhi azzurri all'insù.
Forse gli sarebbe convenuto continuare a ricordarsi di quell'aria dispotica, e corpo super rinforzato; soprattutto in presenza di quell'invintante damigella tutta poppe e sorrisi.
 
 
/
 
Le relazioni a distanza potevano voler dire soddisfazioni e più focosità, ma anche tanto mal di cuore. Pur di stare con Defiance Elliott aveva accettato quella condizione ad occhi chiusi, ma come gli pesava ora sapere che, per esempio, non avrebbero potuto stare insieme il giorno del suo compleanno.
Lui non poteva più scendere al Sud e Defiance, dal canto suo, era incastrata con il lavoro.
Erano rimasti d'accordo che il 30 gennaio designato si sarebbero chiamati anche al pomeriggio.
Attendendo le 4.30 precise seduto al bar,
Elliott cercò di farsi piccolo quando vide Joel e Bronwyn entrare.
Anche Joel veniva da Verny ed Elliott se l'era ritrovato sempre in classe. Quando aveva scoperto che anche lui lavorava nel RNP, Elliott era stato grato che Joel non fosse paleontologo: sarebbe stato atroce incrociarlo spesso.
Egli, insieme ad altri fattori, aveva segnato l’inizio della sua insicurezza: sin dalle scuole elementari non era un’eccezione che Joel e altri bellimbusti lo aspettassero fuori da scuola per divertirsi a sue spese. Lo chiamavano “Porcelliott”, "monsieur porcello", “salsiccione” e altri nomignoli denigratori.
Senza permesso, Joel si sedette al tavolo di Elliott e osservò la sua merenda. "Ehi Elliott, che ci fai qui? Terzo pranzo o pre-prima cena?"
"A casa mia non prendeva il wifi e sono venuto qui a fare una chiamata. E tu?"
Joel guardò di sfuggita l'orologio, "Alle cinque ho una riunione con tutti i miei colleghi; per la competizione biennale, hai presente. Chi devi chiamare?"
Forse quella sarebbe stata la sua occasione...“La mia ragazza.”
“Wtf?” Bronwyn, che era rimasta ad attendere Joel vicino alla porta, si avvicinò solo per schernire Elliott. “E dove l’hai pescata tu una ragazza? Dando per scontato che sia viva e umana…”
Elliott non ci fece caso, “L’ho conosciuta a fine anno. Quando sono andato alla Monster Island.”
“Guarda che i bidoni dell’umido che uno si può limonare quando è ubriaco a Capodanno non contano come ragazza,” rincarò la dose Joel.
Elliott non aveva foto con Defiance e lei non aveva profili sui social, ma l'assenza può essere la miglior presenza ed essendo figlia di gente famosa, quando Elliott digitò Defiance De Villiers, Bronwyn ed Elliott videro i risultati suggeriti dal motore di ricerca:
Defiance De Villiers mir
                                altezza
                                compleanno
                                monster island
                                single
                                marina reale
                                genitori
 
Le sue foto si trovavano lo stesso su Internet.
“Azz! Guarda qui, Bronwyn. Va che bella fregnaccia," restò a bocca aperta Joel.
“Ma va là, se questa è la tua ragazza!” grugnì Bronwyn.
“E non solo è figa, è anche ricca sfondata,” Joel mostrò il suo cellulare alla botanica. “Che ha fatto Porcelliott per chiavarsela? È  la figlia di Charles De Villiers.”
A differenza dei due ragazzi, Bronwyn non aveva la più pallida idea di chi quel Charles fosse.
"Sai che sei famosa quando hai un infobox su internet…"
Leggendo questo box con una smorfia altera, Bronwyn si rese conto che sapeva benissimo chi fosse la madre di questa Defiance, “Fermi tutti...Rikki Lang?”
Bronwyn cliccò sull'hyperlink, andando alla pagina Wikipedia della signora De Villiers; si avvicinò ad Elliott con due occhi stretti a fessura, “Cioè, tu te la fai con la figlia di Rikki Lang?”
“Defiance e io stiamo insieme ma va beh…”
"La figlia di chi?" Questa volta era Joel a non sapere di chi Bronwyn stesse parlando.
“Una modella. Era così da giovane," Bronwyn cercò delle immagini e Joel rimase incantato a vedere dei ritratti a colori e in bianco e nero di una bellissima ragazza dagli zigomi sfiziosi e dai grandi occhi scuri.
Joel restò quasi imbambolato a osservare video della stessa ragazza che sfilava su passerelle.
"Era molto famosa negli anni '80 e '90, ora un po’ meno, si è ritirata e avrà una cinquantina d’anni. ”
Elliott non aveva ben presente la moglie del maggiore. Lesse l'introduzione della sua pagina Wikipedia:
"Rikki De Villiers, nata Erica Alix Lang è una proprietaria terriera, socialite, ambientalista, filantropa ed ex modella residente a South City. Appartiene alle famiglie Lang per nascita e De Villiers per matrimonio."
Tutti quei nomi di casate straniere confondevano Elliott, "Boh, ma alla fine quanti nomi e cognomi ha ‘sta benedetta signora?”
Guardando la foto sulla pagina, non seppe come mai qualcosa del suo viso gli fosse familiare; non era molto simile alla figlia, nonostante le due donne avessero in comune l’essere splendide.
Bronwyn pensò che quella snobbettina del Sud avrebbe mollato monsieur porcello non appena si fosse trovata qualcuno di bello e ricco. Ma Joel, rispondendo a chissà quale vecchio stimolo di fraternità, non riuscì a non essere orgoglioso di Elliott: quel tipo che aveva sempre giudicato senza speranze si era rimorchiato una bellezza piena di soldi, con un nome importante per giunta.
“Rispetto, fratè...oh, devo andare."
Schioccò le dita e Bronwyn lo seguì subito fuori dal bar.
Dopo aver visto ciò, Elliott si sentì sollevato per la sua amica, "Lillian,meno male; ti meritavi di meglio."
E fu così che Elliott si liberò finalmente del suo bullo, quel ragazzo che fin dalle superiori lo aveva deriso e fatto vergognare di sé.
Joel non si fece mai più beffe di lui.
 
 
 
 John era riuscito a radunare tutti i guardiaparco in una sala. Guardò i suoi ragazzi, dai più giovani sino ai propri coetanei. Alcuni confabulavano tra di loro, ridevano, altri se ne stavano al cellulare.
Guardando soprattutto quelli che avevano condiviso con lui quarant’anni di servizio, o quasi, John si chiedeva come mai in tutto quel tempo non fossero mai stati materiale da top ranger, o addirittura capo ranger. John aveva ancora in mente di fare del suo successore la seconda più giovane, la sua inestimabile Lillian.
Prima di Lillian, a top ranger c’era stato Fabien; Fabien aveva tenuto quella posizione per sei anni, prima che Lillian entrasse in scena.
Il loro mestiere era ancora uno di quelli che richiedeva esperienza, Fabien era dovuto arrivare ai quarant’anni per diventare il migliore.
Eppure gli ultimi due top ranger, poco più che ragazzini, avevano mostrato a John che più che gli anni di servizio contava con quanta intelligenza (e anche olio di gomito) lo si facesse: o si era trattato di due eccezioni di fila, o lui era troppo vecchio e non capiva più come andava il mondo.
“Ok guardie, come sapete quest’anno cade la nostra competizione biennale, la sfida delle cinque paludi. Ora, i più nuovi fra di noi non la conoscono, ma si tratta semplicemente di un allenamento. Le paludi sono terreni tutti uguali in cui noi dobbiamo saperci destreggiare come rane. È solo erba e acqua e alberi, eppure cambiano ogni volta, perché sono maledetti.”
John udì un riso soffuso alzarsi dalle file; certo, non si sapeva se gli acquitrini fossero davvero maledetti, era solo una diceria.
Ovviamente non avrebbero tutti intrapreso la sfida allo stesso tempo, o non ci sarebbero stati più guardiaparco per...fare la guardia la RNP.
“Vi dividerò in sei gruppi, il primo inizierà il giorno 9 febbraio. Per una settimana dovrete dare il meglio di voi su un terreno sconosciuto, specialmente per i nuovi. Ora voglio invitare l’ultima top ranger ad aver eseguito la prova a parlarne. Vieni qui Lillian."
“L’ho passata alla grande,” sussurrò lei a Brent prima di alzarsi e affiancare John nella piccola sala.
“Le cinque paludi sono un test di vita all’aria aperta, non una competizione,” l’ex top ranger mise un’enfasi particolare sulle ultime tre parole.
“Seh seh, per lei tutto e’ una competizione,” mugugnò Joel.
“Non ci sono punteggi e valutazioni e no, non è così che si sceglie il top ranger,” continuò Lillian, “è più che altro una valutazione personale: ognuno di noi capirà quali sono le proprie lacune. Non è una roba da boy scout, non è facile e sono io la prima a dirlo, é un test fatto apposta per mettervi a dura prova. Dormirete all’addiaccio in tenda, se non sapete farvi un fuoco vi toccherà mangiare roba cruda. Ma alla fine nelle paludi non è mai morto nessuno, qui abbiamo un certo standard di efficienza.”
Brent avrebbe dovuto essere eccitato, era così che si viveva all'epoca dei Vichinghi, senza le comodità odierne, ma la prospettiva di affrontare giorni e giorni nel nulla lo spaventava.
Lillian si era misurata con quella prova poco dopo essere stata assunta; si sarebbe sempre ricordata il senso di ansia che aveva provato in quella microregione disabitata in cui era facilissimo perdersi, fra lagune e nebbie.
John si reinserì nella conversazione, "E in queste circostanze speciali, tutti avrete diritto a un'arma."
La sala si animò di esclamazioni gioiose.
"Ma guarda che mi tocca fare per un fucile. Il boy scout del cazzo."
Joel fece finta di non sentire Diciassette, seduto fra lui e Brent.
Ci aveva già litigato col nuovo top ranger, che l'aveva letteralmente appeso a un pino. Joel era rimasto appeso a quel pezzo di ramo per ore, fin quando non era riuscito a liberarsi dalla sua giacca e a scendere. Aveva capito che attaccare briga con lui era sconveniente e pericoloso, ma a volte non resisteva proprio, "Zitto e suca, bropunzel."
Joel fece appena in tempo a finire la sua battutina, che si ritrovò con la fronte dolorosamente sbattuta contro il tavolo a cui sedeva.
Non aveva capito subito cos'era successo, ma imprecò ad alta voce tenendosi la zucca contusa; la stanza intera lo fissò.
Brent si era un po' spaventato quando aveva visto Diciassette toccare appena la schiena di Joel e fargli prendere una gloriosa zuccata. Tuttavia, sapeva che Joel era quello che cercava sempre rogne, "Lascialo perdere Sev, non ne vale la pena."
"Che succede? Possibile che non si può fare un discorso senza che finisca in rissa?"
Lillian, accigliata, guardò Diciassette dritto in faccia; lui le fece spallucce.
Molti dei presenti scossero la testa. Alcuni ammiravano quel ragazzo straniero, il guardiaparco più giovane di tutto il Nord; molti altri, vista la sua inclinazione a renderli obsoleti, o non lo soffrivano o lo temevano.
Joel continuava a mugugnare, tamponandosi la fronte insanguinata, "Tu hai dei seri problemi di comportamento, psicopatico."
Diciassette gli rispose con un mezzo sorriso diabolico, alzando le nerissime sopracciglia, "Shh, taci."
Spostò Joel con una manata, avviandosi verso l'uscita della sala.
John fu costretto a concludere la riunione.
Beccò il suo top ranger fuori, prima che se la svignasse, "Diciassette, guai a te. La mia tolleranza ha un limite."
Con lui, John si sentiva spesso un genitore che sgridava un adolescente ribelle, "e col cavolo che ti do il fucile per la prova, puoi anche scordartelo: con le tue capacità, sono certo che non patirai. Vediamo se la smetti di credere di poter fare quello che ti pare."
Diciassette ci rimase di sasso, contrariamente alle proprie aspettative: non gliene fregava né delle prediche di John né dell'aver ricordato a Joel chi comandava, ma le armi, diamine!
Aveva avuto una discussione di quel tipo anche con Leni, un anno prima. Che non gli servissero lo sapeva anche lui, ma erano bei giochi.
Possibile che lì dentro si impegnassero tutti per negargli un'arma?
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Pensieri dell'autrice:
 
Penso di avervi propinato un capitolo bello denso!
Il nome Hacchan è quello con cui Goku lo chiama in Dragon Ball (da hachi=8; Otto-chan) e ho voluto mantenerlo perché lo trovo adatto al personaggio. Ho immaginato come potrebbero reagire due tipi di cyborg, nell'incontrarsi!!
Amo scrivere molte sfaccettature della mia amata Diciotto e qui mi fa tenerezza quando c'ha famina perché allatta la piccolina😂
Il vestito che le piaceva me lo immagino in questo stile!
 
Questo capitolo era per di più Lazuli-centrico ma vediamo brevemente, come un promemoria per tutti noi, che Diciassette si è calmato ma non è esattamente un tesoro, spinge al limite la tolleranza di tutti: di Gero (dettagli), di John, di Lillian, di Kate, presto anche di Carly e di Diciotto.
John (cavoli che pazienza, 'st'uomo) ha ragione, assolutamente. Già non ha praticamente impunità, se poi nessuno ci prova ad affrontarlo addio.
Joel è un bastardo! Bropunzel è slang per definire un uomo dai capelli lunghi (bro=tizio +Rapunzel😅).
Elliott  invece è un tesoro e Defiance l'ha visto in lui. Il cognome della madre della MIR non vi dice nulla?
 
Infine ho buone notizie per tutti voi che seguite questa storia: ci si vede venerdì 30 (questo, non l'altro!) con il cap. 33 "Un Anno dopo".

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Capitolo 33
*** Un Anno dopo ***


33. Un Anno dopo
 
 
 
Dall’interno dell'elicottero Lillian guardava la distesa della cinque paludi al di sotto, e anche il suo malconcio ex seduto di fronte a lei.
"Belle le graffette in faccia, Joel. Sei caduto?"
"Continua a fare la finta tonta…"
"L'hai praticamente implorato."
Joel non capiva il perché Lillian difendesse colui che l'aveva spodestata: sicuramente se lo scopava.
Quando avevano annunciato il Gruppo 1, Lillian aveva grugnito di frustrazione.
Erano per lo più colleghi con cui non interagiva mai, signore e signori che avevano il doppio della sua età; c'era però Albane, compagna di liceo che era stata assunta al RNP praticamente insieme a lei; c'era anche Joel.
La sola cosa buona era che si sarebbe tolta il pensiero della sfida e avrebbe ripreso presto la sua normale routine.
"Sì bello tutto questo, ma come faremo quando la natura chiamerà?"
Lillian e Albane guardarono Joel con accondiscendenza, "Come se non sapessi che delle misure sanitarie sono state prese."
Certo, bazzicare fra gli acquitrini per guadagnarsi il diritto di sedersi in dei cubicoli di plastica non era eccitante, ma era meglio di niente.
Lillian e gli altri avrebbero passato la settimana del 9 febbraio a cercare di uscire da quell'enorme bacino d'acqua marcia, ora ingentilito cortesemente dall'inverno.
Come due anni prima l'elicottero atterrò su un isolotto al centro di quel territorio, lasciando un'impronta nella neve sempre fresca.
"Ok truppe. Sul lato nord avete l'oceano, ad ovest il distretto di North City, ad est e a sud il RNP. Buona fortuna e attenti alle aquile."
Una volta che John e l'elicottero fossero spariti, i guardiaparco avrebbero potuto decidere di fare gruppo oppure separarsi. Non c'erano regole, bastava che sapessero uscire di lì.
Ognuno stringeva un fucile e uno zaino carico di oggetti vitali: kit di primo soccorso, tenda e sacco a pelo, un pentolino, accendini, coltelli, corde, borracce, noodles instantanei. Package fornito da John, affinchè tutti partissero con lo stesso vantaggio.
Le cinque paludi erano totalmente disabitate, usate da anni dal governatore come area di rinaturalizzazione del Nord; non c'era rete, si sarebbero usati bussole, mappe e walkie-talkie. Come una volta.
 
 
 
 
 Dopo aver saputo che a Joel erano serviti cinque punti per la sua botta in testa, John aveva deciso che sgridare Diciassette non sarebbe stato abbastanza.
Aveva convocato altri capi e direttori apposta per discutere di lui.
"Bisogna fargli pesare la gerarchia, a quello lì, battere il ferro finché non si piega. Perché sa che non possiamo lasciarlo andare."
Leni aveva capito fin da subito il carattere di Diciassette. Solo ora John si rendeva conto che aveva chiuso un occhio con lui molte, troppe volte.
"Qui siamo troppo molli, Dubochet!" esordì il direttore delle pubbliche relazioni, "dallo in pasto a Klintsov-Samuels; vedi come lo tira dritto, lei."
Era stato ovviamente detto per scherzo, meglio che il SANP non sapesse nulla; poco ci mancava che quel rapace di Malina puntasse anche l'attuale top ranger.
Tuttavia, se c'era una cosa in cui i MIR eccellevano era la disciplina.
Erano militari.
E quel tipo di disciplina era quello di cui John aveva bisogno. Aveva sempre trattato i suoi ranger come una grande famiglia, un approccio giusto ma non privo di falle. I vantaggi che Diciassette apportava erano di gran lunga più rilevanti del suo atteggiamento da peste malefica,  tuttavia quella non era una scusa per farlo godere d'impunità.
John era certo che la sfida delle cinque paludi dovesse essere una delizia per lui: ottimo, sarebbe stato fra gli ultimi ad intraprenderla.
 
 
/
 
 
La mattina dell'8 di marzo, i gemelli passeggiavano per il loro verdeggiante sobborgo di Central City.
Diciotto, Crilin e Marron si sarebbero fermati da Kate per qualche giorno: c'era la loro festa di compleanno in ballo e Crilin avrebbe combattuto in quella zona.
Aveva ricominciato a partecipare ai tornei e moglie e figlia lo stavano seguendo.
Diciotto non aveva detto a nessuno, alla Kame House, che il 13 febbraio aveva compiuto gli anni: con la pressione psicofisica a cui si sentiva sottoposta, fra gli androidi e Marron, le mancava la voglia di stare dietro ad estranei.
Diciassette e Carly avevano rimandato la festa con i loro amici visto che Lillian, e Brent successivamente, sarebbero stati impegnati con quella merda delle paludi. Se John intendeva metterlo in castigo, poteva anche farlo; Diciassette aveva comunque diritto ai suoi giorni di ferie.
Aveva deciso di usarli per far contenta sua madre e lasciarla organizzare quella benedetta festa di compleanno.
Doveva allontanarsi per qualche giorno dal suo capo.
Come la sorella, anche lui aveva festeggiato con una cena romantica; Carly gli aveva semplicemente dato un bigliettino.
 
"Andremo a prendere il tuo regalo l'8, quando scendiamo a Central City."
 
Il compleanno ormai era passato, ma quella era la data su cui erano riusciti ad accordarsi tutti e tre (madre e figli).
"Ma quindi la mamma sta ancora con il Rana?" indagò Diciassette, osservando la sorella.
"Non si sono mai mollati!"
Al contrario: Ronan aveva accettato l'idea di Kate di convivere da lei.
Il gemello maschio fremeva di curiosità, Carly non aveva voluto dargli nessun indizio su quel fantomatico regalo. Gli aveva solo detto che era qualcosa di speciale per celebrare il loro ricongiungimento, un anno dopo.
Non vedeva l'ora che Carly prendesse l'aereo e atterrasse a Central City Highwick. Diciassette non stava più nella pelle di rivedere la sua ragazza indipendentemente dalla sorpresa, fra studio matto e nuove allerte valanga non si visti negli ultimi dieci giorni.
Probabilmente ora Carly sedeva ancora nella sua aula all'università, a dare il penultimo scritto della sua intera carriera di studentessa.
Anche Diciotto fremeva: quella conversazione con Hacchan le aveva pungolato i ricordi del dottor Gero. L'odio che aveva provato per lui, il motivo più importante per cui aveva voluto ucciderlo.
"Va bene, se comparirà un Gero 2.0 te lo lascerò fare fuori."
Diciotto si sentì punzecchiata dal tono svogliato di Diciassette; era come se lui trovasse la sua determinazione comica.
Erano seduti in un giardinetto non lontano da casa di Kate. Diciotto era riuscita a ritagliarsi del tempo con Diciassette prima che lui partisse a Highwick; voleva proprio parlargli di Gero.
Aspettò che alcuni passanti li lasciassero di nuovo soli, "Perchè, giusto? Perchè per tutto il tempo in cui ci ha operati mi ha toccata, Diciassette. Mi ha messo dei tamponi con le sue mani."
La ragazza rabbrividì alle sue stesse parole. Al solo ricordo della consapevolezza.
Lui non la stava nemmeno ascoltando, "E io? Non mi ha messo nulla?”
Ultimamente Diciotto non aveva pensato a suo fratello come un tonto; tuttavia, in quel momento stava capitando di nuovo. "Te ne metto uno io; in bocca."
Almeno avrebbe smesso di blaterare.
"No sul serio, ha lasciato che mi io pisciassi sotto?" Diciassette la fissò con uno sguardo risentito.
Altre persone nel parchetto si girarono a guardarli.
"...ti avrà infilato un catetere."
Diciassette le diede uno sguardo scioccato, "Allora vuol dire che mi ha toccato il...ma che schifo, porca miseria!"
Se n'era reso conto solo ora?
Diciotto era ancora lì a chiedersi perchè Gero non le avesse fatto un'isterectomia: lei doveva essere solo un'arma. Ma certo, persino nel ventunesimo secolo gli uomini ne sapevano poco e niente del ciclo; se lei fosse stata una scienziata pazza, avrebbe rimosso quella falla alla sua creazione.
Era però lieta che Gero non l'avesse fatto.
"Invece mi ha lasciato tutto. Mi ha lasciato Marron…"
"A me ha lasciato i coglioni."
Giusto per constatare la veridicità delle sue parole, Diciassette ci si diede una grattatina indiscreta. "E forse funzionano pure."
Diciotto volle sprofondare. Erano pur sempre in mezzo alla gente, altri passanti si erano voltati a guardarli. Davvero condivideva del DNA con lui?
"Che volgare! Ecco cosa accade, a stare in mezzo agli zulù.”
“I miei amici ti sembrano zulù?”
In effetti i poveri nordici non c’entravano niente, suo fratello aveva modi da camionista e basta.
“Sei uno scaricatore di porto."
"Ha! Me l'han già detto."
Ottimo. "Chi? Spero non una rag-"
"Una ragazza."
 
 
 
 
 
 Più tardi quel giorno, seduta al ristorante dell'arena, Kate osservava Lazuli alle prese con la merenda.
"Non per metterti fretta, ma appena possibile dobbiamo andare a casa. Lapis sarà già arrivato, Ron non tarderà."
Lazuli, in piena demolizione di un filetto da 1 kg,  le assicurò che avrebbe finito prima che Crilin uscisse dallo spogliatoio.
Tutta legata nel passeggino, Marron si lamentava: forse aveva fame anche lei.
Diciotto tagliuzzò con pazienza un pezzo del suo filetto.
"Mangia già quello?" si interessò la nonna.
Diciotto alzò le spalle, "Non lo so. Proviamo."
Marron perse tutto il suo entusiasmo. Non appena la mamma le mise in bocca un cucchiaio pieno, iniziò a piagnucolare più forte di prima, sputacchiando dappertutto. "E va bene, allora mangia quello che ti pare!"
Da quando aveva iniziato a svezzarla, Diciotto era spesso frustrata con Marron: la bimba di sette mesi faceva i capricci ogni volta che lei o Crilin cercavano di darle cibo che non fosse latte materno.
"Mangia, Lazuli. A lei ci penso io."
Kate si incaricò di calmare la sua nipote preferita (nonché l'unica).
A Diciotto veniva male al pensiero di quella fatica al quadrato, "Tu come facevi con due?"
"Non me ne parlare. Tu buttavi tutto a terra."
"E mio fratello."
"Da lui, dovevo nascondere la roba. Era grasso."
Non erano molte le persone che riuscivano a strappare una risata a Diciotto; tuttavia, la semplicità con cui la mamma le rivelò quel dettaglio la fece ridere di gusto.
Davvero Diciassette era stato grasso?
Kate vide Lazuli fare una smorfia e massaggiarsi la tempia.
“Le arene sono sempre così rumorose...mi rintronano.”
Kate, che pure odiava fracasso e caciara, stava proprio pensando che all’interno del ristorante una potesse passare un momento di pace con figlia e nipote.
Ma come Lazuli le aveva già spiegato, la sua sensibilità era amplificata.
“Per te c'è quiete ma io sento tutto rimbombare, mamma.”
Per lei non c’era mai silenzio assoluto, buio assoluto. I suoi sensi le creavano un unico super stimolo che non si arrestava mai. Kate si chiese come fosse il mondo che i suoi figli percepivano, un mondo accelerato oppure rallentato, vissuto appieno o ignorato nella sua velocità.
Erano proprio i sensi a dare a Lapis e Lazuli quella voglia di dormire, ogni tanto: ogni suono, ogni colore poteva diventare un sovraccarico emotivo per loro.
E ogni dolore forte solo era un graffio.
Kate vide la figlia arricciare il labbro,“Cosa senti, Lazuli, che io non colgo?”
“Cade a pennello; ora come ora c'è stato un piccolo terremoto. Niente di che, magnitudine bassa, direi intorno a 1.”
Così bassa che nemmeno i sismografi lo seppero mai.
Il cellulare di Kate squillò e lei lesse il messaggio con Marron ancora seduta sulle sue ginocchia, "È Ron, tra poco sarà a casa e inizierà a preparare la cena di compleanno."
Quella era una buona notizia per Diciotto: non sarebbe stata la mamma a cucinare!
 
 
 
“Dimmi cos'è!”
Diciassette si girò speranzoso verso Carly, tirando il freno a mano davanti a casa di Kate. Non aveva resistito: quando era approdato a Highwick aveva visto un servizio di affitto, aveva pagato di tasca sua ed era ripartito con Carly a bordo di un pulmino che poteva contenere almeno dieci persone. Una scelta diversa dal solito. Era arrivato in volo dal Nord e aveva lasciato la sua jeep a Saint-Paul.
“Cos’è cosa?” lo stuzzicò lei.
“Il mio regalo, diamine.”
Kate gli aveva lasciato le chiavi di casa al solito posto, sotto la mattonella traballante coperta dallo zerbino.
Si erano tutti accordati sul fatto che a lui non sarebbe fregato di andare a vedere Crilin combattere; non erano ancora tornati.
Diciassette andò a colpo sicuro nella grande cucina di Kate. Aveva sete, ma servì Carly per prima porgendole una grande tazza colma di succo di frutta; dopodichè si sedette tranquillo su un piano di lavoro a bere il succo a canna, ma una scossa improvvisa glielo fece andare di traverso.
“Bevi piano…” Carly parlava come si fa coi bambini.
“Woah, un terremoto. Magnitudine 0.97. Non l'hai sentito?”
E certo che non l’aveva sentito. “Umani basic…”
Alla ricerca dello scottex, Diciassette trovò un biglietto di Kate,
 
"Lapis: se torni qui per primo, montami il nuovo tavolo. Baci mamma."
 
 
"Baci mamma," le fece il verso, scocciato di essere preso per manovale.
Carly si sedette pazientemente sul divano ad osservare il manovale rimanere in maglietta e mettersi all'opera.
La microfibra aderente le lasciava intravedere i muscoli sulla schiena di Lapis, anse e curve che guizzavano ad ogni suo movimento.
Lapis l'aveva lasciata col ricordo di un corpo ancora di ragazzo, nervoso e in crescita. Un anno prima l'aveva ritrovato uomo, con tutto il suo equilibrio. Quando Carly gli teneva la mano le capitava di letteralmente sentire il peso del suo potere, ma a guardarlo quando si allenava da solo sembrava leggero, inafferrabile.
Era semplicemente delizioso.
Involontariamente lei serrò le gambe.
Diciassette si stava destreggiando tra vari tipi di vite, "Carly mi passi il trapano?"
"Non ce l'ho qui."
"Sarà giù. Vado io."
Carly lo seguì con gli occhi giù per le scale. Lo raggiunse silenziosamente fin nella fredda lavanderia.
"Non lo trovo…" si lamentava Lapis, girato di spalle alla porta.
Carly chiuse a chiave e spense la luce, attirando l'attenzione di lui.
"Torna su, io devo montare-"
"Siamo tutti soli in questa grande casa..."
Dieci giorni che non rivedeva il suo Lapis. Dieci.
Anche Diciassette rammentò; Carly si eccitò nel vederlo avvicinarsi, con gli occhi pieni di intenzione che risaltavano nella penombra.
Diciassette iniziò a baciarla e lei rabbrividì, nel seminterrato freddo, con la scollatura sbottonata e il fiato caldo di Lapis contro le orecchie.
Lo istigò ancora un po', "Lapis...in casa di tua madre? Ma non ti vergogni?"
Lo shock di Carly aveva il solo scopo di alimentare il fuoco e lui lo sapeva bene.
"Tanto quanto te."
Carly era l'unica che si ricordava che era successo anche prima, con Kate e Lazuli fuori di casa. Fece una giravolta che mostrò a Lapis le sue mutande: lui non doveva mai dimenticare che c'era solo un uomo al mondo che poteva andare fin sotto la sua gonna.
Per Diciassette baciare Carly era come dissetarsi, gli placava un bisogno e lo rimpiazzava con della pace, anche se più beveva di lei e più la voleva. E Carly si avvinghiava a lui, esigendo di essere stesa su qualche superficie. Così arrendevole, così eccitante.
Probabilmente avevano poco tempo a disposizione; Diciassette la prese in quella stanzetta, lì e subito.
Fu un attimo rubato, sotto a un vestito, nessun capo d'abbigliamento cadde sul pavimento di Kate. Fronte a fronte con il suo Lapis Carly gemette, quasi urlò; e non c'era nessuno in quella casa tranquilla che potesse constatare che non erano urla di dolore.
Diciassette non ebbe il tempo di raggiungere il suo apice a più riprese, come faceva di solito, e voleva godersi quell'unico orgasmo ancora di più; estrasse il seno di Carly dal vestito, distendendosi fra le sue gambe, spingendo, inalando il profumo di vita di quella pelle sottilissima e arrossata dal suo stringere.
Carly contrasse involontariamente gli addominali nel momento in cui Lapis versò il proprio seme nel suo grembo, le afferró i glutei e le cosce e trasse un respiro profondo, ad occhi chiusi.
Fu un capriccio che si tolsero, un piacere veloce ma intenso.
A Carly si riempì il cuore dalla tenerezza nel vederlo scambiare la sua pancia per un piccolo cuscino come ai vecchi tempi, le braccia strette intorno alla sua vita e quelle due ciocche ribelli in mezzo agli occhi; si alzavano e si abbassavano al ritmo del suo respiro.
Sapendo che non gli avrebbe fatto male lo strinse forte, tirò su con il naso; Lapis alzò lo sguardo e le fece dono di un sorrisetto birichino, di quelli che necessitano di labbra e occhi insieme.
Ogni tanto succedeva che Carly si facesse un piccolo pianto dopo l’amore, Diciassette si alzò da lei e le diede un bacetto sul naso.
“Alla fine il trapano me l'hai passato tu,” sorrise Carly.
Diciassette ebbe voglia di ridere, il mitra, il trapano...in realtà si eccitava moltissimo quando Carly parlava così, perché l'impressione visiva che si aveva di lei era piuttosto angelica.
Piccola volpe.
Si riallacciò i pantaloni, sghignazzando per conto suo.
"A che stai pensando?"
"Al fatto che mia sorella ha cinquanta coinquilini; dovrà sempre fare così."
Diciassette udì all’improvviso, da qualche parte fuori in strada, un rumore di passi che si avvicinavano.
Chi stava arrivando a casa della mamma? Che palle non saper percepire le aure.
Si lanciò su per le scale col trapano in mano ed ebbe cura di restare diligentemente chino sul lavoro da finire; ebbe un largo anticipo di due minuti su Ronan, che entrò canticchiando quando al tavolo mancava ormai una sola gamba.
Il Rana: aveva dovuto presentarsi lì mentre ce l'aveva ancora ritto, per accogliere il Rana.
“Ciao, Lapis! Hai montato quello?”
Ancora con quelle domande retoriche del cavolo; Diciassette alzò appena un angolo della bocca.
Kate diceva proprio il vero, quella era la parte più eloquente del viso del ragazzo.
Lapis sembrava scocciato, anche più del solito; e quando Ronan vide la futura nuora di Kate fare capolino dalle scale, tutta rossa, fece due più due. Si ritirò in cucina con le buste della spesa e strizzò l'occhiolino. Aveva avuto vent’anni anche lui, qualche tempo prima.
"Non guardarmi così, non lo dirò a tua mamma."
 
 
 
La festa di compleanno fu serena per tutti, persino per i gemelli. Kate li capiva per davvero, non li aveva messi in imbarazzo con regali inappropriati e canzoncine stupide. Furono semplicemente una famiglia serena che condivideva un momento di gioia.
Ronan era anche bravo a inventare cocktail e Diciassette aveva smesso di chiedere a Carly del suo regalo: era dal secondo bicchiere che lei rispondeva solo con risate sguaiate.
Non reggeva l'alcol...
Tuttavia, Carly sapeva benissimo che era arrivato il momento della consegna. Approfittando di un momento in cui Lapis era impegnato a conversare, frugò nella sua borsa alla ricerca del pacchettino, e anche del suo blister di pillole: erano le 10 in punto.
Carly scoprì, tuttavia, che il blister era già finito: si era dimenticata di mettersi in borsa quello nuovo.
"Pazienza, la prendo a casa."
Lei e Lapis sarebbero tornati al Nord quella sera stessa, lui lo stava dicendo a Kate proprio in quel momento.
Carly saltellò al suo fianco, "Lapis! Ho sonno e sto morendo di mal di testa, ma non mi sono dimenticata del tuo regalo!"
Gli porse una piccola scatola, senza loghi o fiocchi. Da quello che Diciassette poté annusare, conteneva qualcosa di metallico.
Diciotto e Kate sapevano già cosa fosse, "Apri la scatola!"
Erano chiavi. Chiavi di una macchina. Chiavi con l’inconfondibile logo a scacchi bianchi e blu.
 
 
 L'agognatissimo regalo si trovava a casa Der Veer; George non c'era, era andato a trovare la sua ex moglie e madre di Carly.
"Fa caldo qui dentro, Lapis! Aria condizionata!"
Diciassette aveva trascinato Carly nel pulmino e aveva parcheggiato davanti a casa sua.
"Ho già messo l'aria condizionata."
Era la prima volta che Diciassette la vedeva sbronza. Probabilmente sarebbe dovuto restare al monolocale ad occuparsi di lei, l'indomani; Carly non sapeva che sentirsi stralunata e con la testa in una morsa era ciò che l'aspettava.
“Pronto?” Carly puntò un telecomando verso il garage di suo padre.
E allora Diciassette la vide.
Dal garage illuminato i contorni eleganti di una spider nuova di zecca, pronta per essere guidata si profilarono ai suoi occhi.
"No...una Z4! Non ci credo!"
Carly rise dal cuore nel vedere Lapis lanciarsi fuori dal pulmino con le nuove chiavi in mano.
Respiro concitato, Diciassette accarezzò la carrozzeria di un discreto blu oltremare; con il cuore a mille si mise al volante.
Il rombo del motore lo fece quasi godere, un brivido di gioia lo percorse dalle orecchie fino ai talloni.
"Che figata pazzesca."
Carly era un mito, la donna della sua vita!
Ritornò di corsa al pulmino per abbracciarla, ma la trovò profondamente addormentata. Russava come un vecchio montanaro.
Diciassette non era pratico di sbornie, lui stesso non ne aveva: forse doveva andare a prenderle un’aspirina, Central City era piena di farmacie notturne.
Ma prima, una guida veloce con la sua nuova spider era di dovere.
Diciassette si assicurò di coprire Carly con la sua giacca e di distenderla sul sedile, almeno non si sarebbe svegliata tutta anchilosata; spinse il pulmino nel garage del signor Der Veer e sparì a bordo della Z4; finì per guidare tutta notte, solo a mattinata inoltrata si ricordò di non essere mai passato a prendere l’aspirina, e di aver lasciato Carly chiusa a chiave nel garage.
 
 
 
 
 
/
 
"Davvero ti ha piantata sola e con la sbornia?" rise Lillian, indaffarata ad aiutare Carly a fare gli scatoloni.
Era verissimo.
La sbornia era durata due giorni, Carly era restata prevalentemente a letto mandando all'aria la sua routine, senza studiare, col mal di testa.
La serata del compleanno era diventata un ricordo polveroso, tuttavia Carly si ricordava di essersi svegliata chiusa a chiave nel pulmino, con Lapis sparito chissà dove. Un mese dopo era ancora arrabbiata.
"Forse è per quello che ti ha proposto di vivere insieme."
"Non è ufficiale! Ne abbiamo solo parlato. Sai com'è Lapis..."
"E perchè siamo qui a fare scatoloni, allora?"
Carly non poteva vivere per sempre in quel monolocale, era ovvio.
O forse era scaramanzia?
Preferì non pensarci, "Devo fare la pipì."
Lillian rimase a ricoprire una scatola con nastro adesivo, "Poi aiutami! Sei già andata a fare la pipì cento volte."
Almeno Carly era cortese; al lavoro, i colleghi maschi la informavano in modo meno fine.
Di ritorno, Carly si mise a studiare il frigo. Stava forse già cominciando a vivere con la prospettiva di trasferirsi? La sola cosa pronta da mangiare che aveva lì era un barattolo di cetriolini quasi vuoto.
Lillian intanto sollevava qualche scatola, per divertimento.
“Ti rendi conto dello standard che ho intorno, io?" osservò Carly. "Mi sento un bradipo."
Lillian non era nemmeno sudata. In effetti, fra lei e Sev…
"Secondo te si può bere?"
La vera rossa rimirava la salamoia rimasta nel barattolo di cetriolini, ne assaggiò un sorso; constatando che quella robaccia brusca e salata le garbava Carly se la scolò tutta, con Lillian che la guardava col naso arricciato.
"Bleah...ma come cazzo si fa?"
"Sempre preferito il salato, io."
A volte il sapore dolce le dava persino fastidio.
Lillian fece finta di nulla e andò avanti a inscatolare pentole e libri.
Certo che ultimamente era strana, la Carlona: quando andava a casa sua le faceva aprire le finestre, "che puzza" di qua, "eh ma che odore" di là, si lamentava dell'odore del nuovo detersivo (Lillian aveva smesso di comprare quello della sottomarca nel flacone da 5 litri) o del detergente pavimenti.
Sarebbe stato figo se Carly e Sev si fossero trasferiti a Viey e avessero occupato l'alloggio 36A, l'appartamento di sopra.
Lei e Carly erano state coinquiline, avevano condiviso un tetto, una tavola, confidenze.
Ma ripensandoci, forse sarebbe stato troppo imbarazzante. Lei e Carly avevano condiviso molto di più che uno chalet.
 
 
 
La spider, gentilmente offerta anche dal signor Der Veer, non era stato il solo regalo a cui Carly aveva pensato.
Un pomeriggio portò Lapis ad una specie di ambulatorio, in una traversa del Viale della Monarchia.
"C'è un altro regalo che ti aspetta in verità. Non te l'ho già preso perché avevo bisogno della tua approvazione."
Diciassette annusò l'aria che filtrava impercettibile dall'edificio, sapeva di disinfettante e di animali.
Carly suonò e spinse la porta automatica; presto Diciassette si trovò in uno stanzone pulito, brulicante di gatti che giocavano, dormivano od osservavano gli umani con consueta superiorità.
Erano in uno dei gattili di North City.
"Dì, ti vuoi pigliare il gatto?" Diciassette provocò Carly con i suoi occhi irriverenti.
"È per il tuo compleanno!"
"Il mio compleanno...te ti vuoi pigliar il gatto e basta."
"Signorina Der Veer?"
Una donna andò incontro alla studentessa che aveva portato lì un gatto due settimane prima. Emanava un lievissimo odore di formaggio, Diciassette notò con sorpresa che anche la sua umana basic se n'era accorta.
Carly fece finta di grattarsi il naso, per coprirselo. Povera signora, aveva l'aria gentile ma puzzava un po'.
"Voglio sapere se la mia piccolina è disponibile per un incontro veloce."
"Cos'è, tua figlia?" masticò Diciassette, imbronciato, seguendo a braccia conserte Carly e la donna.
"Una figlia pelosa adottabile!"
"Che disagio."
Diciassette si mordicchiò la lingua per la noia, guardando la signora acciuffare una di quelle bestie fluide, senza spina dorsale, capaci di piegarsi in ogni angolazione.
La signora sapeva che quella studentessa doveva, giustamente, decidere insieme al suo ragazzo; a fine maggio sarebbero finalmente andati a vivere insieme, sempre se lui non avesse cambiato idea…
Sorrise a Diciassette, "La signorina Der Veer ci ha portato la gatta dopo averla sterilizzata a lezione. Io l'ho tenuta in serbo per lei, ieri una famiglia è passata e voleva portarsela a casa."
La giovane gatta su cui Carly aveva fatto quell'ultima esercitazione non aveva microchip, né un proprietario registrato.
Spesso chi svolgeva servizio civile in città portava animali abbandonati agli studenti di veterinaria. In cambio loro se ne assicuravano la salute prima di portarli a canili, gattili o rifugi vari.
Così era successo con la gatta che ora sedeva come una principessina fra le braccia di Carly.
"Eccola, è lei. Ti piace, amore?"
Diciassette andò ad osservarla da vicino e fu immediatamente divertito dai suoi grandi occhi azzurrissimi, dalle lunghe vibrisse e dai ciuffetti di pelo nero sulla punta delle sue orecchie bianche. Sembravano pennellini.
"Ha gli occhi come i tuoi," la signora che puzzava non riuscì a non guardare Diciassette.
Ma la gatta non doveva essersi sentita al sicuro: forse quell'altro umano che si stava avvicinando a lei non era come quella che la teneva in braccio!
Come Botz, come gli animali selvatici che ogni tanto Diciassette incrociava nel parco, anche la gatta si sentì istintivamente minacciata da lui.
"Oh no, non fare così!" Carly strinse la micia più forte mentre lei appiattiva le orecchie e, più velocemente di quanto ci si aspettasse da lei, morse il dito di Lapis.
La signora al formaggio si agitò, ma Diciassette era calmo. I denti acuminati della gatta non avevano nemmeno segnato la sua pelle: l'aveva lasciata fare.
E la gatta, a sua volta, rimase sorpresa da quella totale assenza di reazione.
"Visto?" sussurrò il cyborg, tenendo la mano protesa. "Non ti faccio niente."
Piano piano la gatta capì che non aveva niente da temere. Iniziò ad annusargli la mano e poi, forse in segno di pace, lo guardò in faccia ed emise un lungo "Meow" diplomatico.
"Sta parlando con me?" ridacchiò Diciassette. "Mi stai simpatica."
Si stava affezionando a quella pallina che aveva già riempito di peli la sua maglia scura; la gatta si era, infatti, spostata dalle braccia di Carly a quelle di Diciassette. Lui non aveva mai avuto gatti e fu confuso quando quella iniziò letteralmente a vibrare. Erano servite solo alcune carezze dietro alle sue orecchie-pennello.
Carly passò un braccio intorno alla vita del suo Lapis, "Si chiama Pencil. La prendiamo?"
Diciassette rispose con un sorriso deliziato, rivolto più alla gatta che alla sua ragazza. Guardò di sfuggita la sua coda, completamente bianca con solo una puntina nera; Carly aveva scelto un nome perfetto non appena la gatta le era stata portata.
Pencil si era ormai arresa alle coccole del suo nuovo padrone e lui non seppe resistere ai cuscinetti delle zampe, al nasino carnoso e alla sua pancina vibrante. Stava facendo le fusa, era contenta.
La scintilla era scoccata!
Diciassette si sentì ancora una volta grato, Carly sapeva sempre colpire nel segno: la gatta Pencil era un regalo che quasi rivaleggiava la Z4.
 
 
 
 
 
 
 
 
Pensieri dell'autrice:
 
Avrei dovuto pubblicare domani, ma poi mi sono resa conto che devo ancora preparare tutte le sorprese a tema Halloween per il mio bimbo, oggi mi viene comodo. Anyway…
Anzichè il viale della Repubblica, nel mondo di DB hanno giustamente il viale della Monarchia 😁
Piccola nota scema di una scrittrice scema: la gatta che rappresenta la prima adozione di Carly e Diciassette si chiama esattamente come lui. In lingua portoghese "lápis" vuol dire "pastello" o "matita". Inutile dire che da quando l'ho scoperto, tutte le volte che scrivo ci penso e sto male. Posso dedurre solo che Kate non sia portoghese o brasiliana 😂
Con il discorso di Kate e Diciotto penso a come delle persone con dei super sensi possano percepire il mondo...capisco che i cyborg vogliono stare da soli! C'è da farsi scoppiare la testa con tutto amplificato così.
La macchina regalata a "Lápis" è una BMW Z4, esistono davvero!
Questo capitolo è più narrativo e meno incisivo degli altri (ma solo se non siete lettori attenti😏).
Per ora ho ritrovato il mio vecchio ritmo, un capitolo alla settimana, huzzah!
Ci vediamo quindi venerdì prossimo col cap.34, "Fede, Speranza, Amore e Fortuna" (titolo alternativo, "Brace for impact, Lapis" )
 
 
 
 
Ps. Felice Halloween, con affetto e un po' di Abridged❤⤵(mettete i sottotitoli in italiano)
 
https://youtu.be/PHCGcVWst3E
 

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Capitolo 34
*** Fede, Speranza, Amore e Fortuna ***


34. Fede, Speranza, Amore e Fortuna
 
 
 
 
Verny era l’ultima località servita dalla grande strada che da North City si inerpicava su per la valle; l’ex capitale era molto più in alto della nuova e a inizio maggio c’era ancora delle neve a terra, in piccoli cumuli ammassati sui marciapiedi e fuori dalle case.
I passanti e i dirimpettai stavano sicuramente pensando che la ragazza in rosa, seduta a sbadigliare sulla staccionata fuori da casa sua, fosse la tipica pigrona fannullona che si fa servire e riverire dal suo uomo.
Chi si era fermato a guardare quello spettacolo ordinario, una coppia che si trasferiva in uno dei tanti chalet di Verny, non capiva come il ragazzo potesse fare avanti e indietro portando scatoloni impilati come si portano piatti in tavola.
Quando Lapis aveva iniziato a svuotare la jeep Carly aveva provato a dare una mano, ma lui aveva insistito di lasciarlo fare.
"Eh, si ammazza di bench press!" Carly si era giustificata con i loro spettatori, elargendo sorrisi e alzando le mani, prima di chiudersi dietro la porta della loro nuova casa.
La casa di Lapis e Carly.
Si trattava di uno chalet dal lungo balcone intagliato, ristrutturato di recente ma non spogliato dal suo antico carattere, quadrilocale a due piani.
La coppia avrebbe inaugurato la loro convivenza in una strada tranquilla della città che Carly preferiva al Nord.
Carly non sapeva che doveva ringraziare Lazuli, fin dalla volta in cui Lapis le aveva accennato quella possibilità.
Diciassette era rimasto impressionato oltre ogni dire dalla spider: esisteva un modo di ripagare la mitica Carly per un regalo così strepitoso?
Diciassette si era fatto coraggio e aveva chiesto consiglio alla sorella.
Forse doveva chiedere la mano di Carly!
No, doveva frenare i cavalli. Ronan e la mamma avevano appena rischiato di separarsi a causa di troppa fretta.
"Comincia con andare a vivere insieme a Carly, prima di pensare a nozze. Chissà da quanto aspetta che tu glielo chieda, poveretta."
Diciotto aveva ragione. Sempre ragione.
Prima che Carly compisse ventiquattro anni Diciassette l'aveva portata a vedere la casa, senza dirle che aveva già firmato un contratto d'affitto della durata di due anni.
Quando avevano varcato la soglia Diciassette percepito lo stress di Carly; l'aveva vista rilassarsi quando si era resa conto che la nuova casa era stata tirata a lucido con gli stessi prodotti che lei usava al suo monolocale. Diciassette aveva usato quell'accortezza, visto che negli ultimi tempi annusare certi detersivi metteva in crisi la sua Carly.
"Mi raccomando, niente profumazioni floreali!" l'aveva avvertito Lillian.
Ogni volta che andava a trovare Lillian e sniffava anche la minima scia di ibisco, patchouli o camomilla Carly sembrava sempre sul punto di rifarle la tappezzeria, dalle smorfie disgustate che faceva.
Carly non aveva dovuto attendere la fine di maggio: il giorno 2 Lapis le aveva augurato buon compleanno con un paio di chiavi.
Diciassette aveva guardato la dolce Carly tenersi in mano le chiavi di casa con aria incredula; gli era saltata fra le braccia come una molla e non era riuscita a trattenere le lacrime.
"Perchè non l'abbiamo fatto prima?"
Diciassette non ci aveva mai pensato.
"Non so. L'importante è che lo stiamo facendo ora."
 
 
 E così erano lì, in piena fase scatoloni, ma a casa. Insieme.
Pencil aveva occupato per prima il letto matrimoniale, il posto più comodo della casa, rivestito da un piumino vecchio ma soffice.
“Che ce ne facciamo di tre camere, Lapis?"
"Una per noi, una sala giochi e uno studio per te."
Diciassette aveva scelto apposta uno chalet spazioso, perché vivere nel minimo spazio sindacabile?
La casa non era arredata: la proprietaria dello chalet aveva solo fornito un armadio, due sedie, un letto e un divano.
"Domani andiamo a prenderci altri mobili e un divano decente, ne ho visto uno…"
Carly era seduta sul letto, ad ascoltare le fusa di Pencil; sorrise a Lapis, lieta di vederlo così eccitato da quella nuova fase della loro vita.
 
 Era scesa la sera, stava arrivando l'ora di mettere in ballo la prima cena nella casa nuova.
"Non abbiamo nemmeno un tavolo!" constatò Diciassette.
"Abbiamo un divano, amore."
Le dispense erano vuote, c'era la spesa da fare: ormai vivevano a Verny, non sarebbe servito guidare per trovare ristoranti, sushi bar, pub e chi più ne ha più ne metta.
Per Diciassette la soluzione era palese, "Carly, i miei poteri non includono far apparire dal nulla tavole imbandite. Usciamo."
"In fondo a te non serve mangiare…"
"Ma voglio mangiare."
Carly ridacchiò: avrebbe tanto voluto passare una serata fuori con Lapis, al ristorante, poi al bar a sbaciucchiarsi, se non si fosse sentita a pezzi. Era una stanchezza atavica che le si diffondeva dalle ossa, più forte della sua giovinezza.
"Mi dispiace, Lapis, sono veramente distrutta. Possiamo ordinare?"
Era da parecchie settimane che Carly era sempre assonnata, dormiva più del solito; va bene che era un'umana basic e che quelli si esaurivano subito, ma Diciassette non aveva mai visto nessuno dormire così tanto; si lasciò cadere sul sofà e Carly gli mise un braccio intorno alle spalle.
"Ok Carly, restiamo. Ma la cena la scelgo io."
 
 
 Poco dopo Diciassette stava distribuendo l’ordine appena arrivato:
"...due hamburger, le mie patate e... 'sta insalata?" rise, tenendo la scodella di plastica sospesa. "Che problemi hai?”
“Le patatine sono più caloriche!”
Certo, Diciassette sapeva come sarebbe finita: le donne non volevano mai le patatine ma poi le rubavano. Era una garanzia, un girlfriend problem: anche Brent lo diceva di Lillian.
Diciassette stava per entrare in piena modalità Terminator col suo triplo cheeseburger, quando a Kate saltò in mente di chiamarlo. Non poteva crederci…
“Scusami un attimo, Carly. Che c'è, Kitty Kat?”
Si avviò verso la loro camera, chiudendo la porta. Rimasta sul divano sola e affamata Carly iniziò a mangiucchiare le bustine di sale mandate dal pub, indecisa sul da farsi davanti a quegli invitanti spicchi di patate lasciati incustoditi. Allungò la mano e Pencil la fissò, indovinando i suoi pensieri.
"Ebbene? Solo una."
La gatta emise un piccolo meow di disaccordo: con le patatine, si sa, una tira l’altra e finiscono subito…
“Oh oh...E ora?”
Lapis era ancora al telefono, Carly non sapeva se avrebbe avuto il tempo di ordinargliene altre.
 
 
 
 Diciassette era stato lesto; tre giorni dopo il trasloco aveva finito di sistemare tutti gli scatoloni. Una mattina, il suono insistente del campanello lo interruppe dal piegare un cesto di bucato pulito; corse in giardino, sul retro, ad aprire il cancelletto.
Non si aspettava di certo di trovarsi davanti l'amica educatrice di Carly e quell'uccelletto che si atteggiava a suo figlio ad honorem. L'educatrice guardava Diciassette come per dire "ma non è un po' prestino?" , mentre lui prendeva sfrontatamente lunghi sorsi della sua birra mattutina.
 "Anna. E...tu."
Robbie, la bocca della verità, restituì a Diciassette uno sguardo che non scoppiava d'entusiasmo, "Oh, ancora te."
"Come sarebbe a dire 'ancora io' ?"
Robbie era veramente molto, molto onesto, "Io volevo Carly...Perché non ti manda via?"
"Robbie!" lo sgridò Anna, segretamente divertita.
Diciassette era indeciso sul ridere di tanta sfacciataggine (dopotutto lui era il primo ad essere sfacciatissimo) o se infuriarsi. Nel dubbio, si finì la sua birra.
"Carly sta dormendo; ripassate dopo," li liquidò.
Carly aveva comunicato ad Anna il cambio di indirizzo e a lei era toccato ripartire con Robbie, non appena il loro pulmino era approdato a Viey.
I due stavano per fare dietro-front, quando si udirono chiamare.
"Robbie, Anna! Finalmente!"
Carly salutava dal balcone, felice e in vestaglia, i capelli sciolti e i capezzoli gonfi, schiacciati contro la fibra malleabile della canotta; Diciassette fu per un attimo geloso che quegli estranei vedessero la sua Carly in un contesto così familiare, come se fossero alla pari con lui.
Il bambino iniziò a piagnucolare di gioia quando vide la sua fata della fiabe; Carly corse in giardino e se lo strinse con amore e nostalgia. Era cresciuto…
"Oh, mio piccolo Robbie! Mi sei mancato."
La veterinaria diede un abbraccio di benvenuto anche ad Anna, "Volete fermarvi a colazione? Abbiamo baked beans, pane fresco, uova, bacon,..."
Anna constatò che era quasi mezzogiorno. Forse avrebbero potuto fermarsi a pranzo.
Diciassette osservò Carly rincorrere Robbie e giocare a nascondino in giardino per forse mezz'ora, fin quando il bambino non si arrampicò su un albero e Carly rinunciò ad inseguirlo.
"Gioca con me! Giochiamo!" Robbie la incitava, non calcolando Anna e i suoi ordini.
Carly si era stancata, "Time-out per me. Puoi giocare con Diciassette."
La signorina accennò al ragazzo dagli occhi azzurrissimi, con chiara disapprovazione di quest'ultimo.
Robbie non aveva mai saputo il suo nome, non lo risparmiò "Che nome strano hai!"
"È ovvio che il suo nome è strano, loro due sono del Centro!"
Anna si arrampicava sugli specchi, sperando che il top ranger non se la prendesse.
 
 Più tardi, a tavola, Carly parlava con Anna di un tour al villaggio Niaz e Robbie scrutava Diciassette con circospezione. Se quest'ultimo si versava del tè o prendeva una striscia di bacon, Robbie se ne versava o ne prendeva il doppio; si riempiva la piccola bocca con fretta assoluta, fissando il ragazzo con aria tronfia.
"Animale…" lo ignorò questi.
Il tutto in silenzio totale.
La padrona di casa si stufò, "Voi due dovete imparare a tollerarvi. Robbie, Diciassette è il mio amore e sarà sempre con me; Diciassette, Robbie vuole solo affetto, se partecipi anche tu non patisci."
Il cyborg pensò che in fin dei conti non valeva la pena ingelosirsi: quello era solo un bambino; una persona in più che voleva bene alla sua ragazza. Spinse via il suo piatto vuoto con un sospiro, "E va bene, posso giocare con Robbie."
Il bambino non attendeva altro; sfrecciò fuori dalla cucina, correndo più veloce che poté.
"Attento che lui è veloce!" avvertì Carly; ma Diciassette lo raggiunse con una falcata e lo sollevò.
Robbie gridò, "Mettimi giù!"
"No!"
Diciassette lo lanciò così in alto che le ragazze urlarono di spavento. Robbie invece urlava di  di gioia e di sorpresa, non aveva mai giocato così con nessun grande.
"Wee! Sono un terrodattilo!"
Presto non fu chiaro chi si stava divertendo di più.
Diciassette si accorse di quanto la sua Carly avesse ragione: egli era diffidente con tutti, non solo con quel bambinetto.
Tuttavia aveva voluto fidarsi di lei, giocare con Robbie era risultato piacevole.
Ogni volta che Diciotto gli lasciava tenere in braccio Marron si sentiva felice, ogni volta che vedeva Carly con Robbie non riusciva a non pensare che i suoi figli avrebbero avuto la migliore madre.
Prima che Anna annunciasse l'ora del ritorno, Carly parlò ai maschiacci,
"Divertirsi insieme è bello, vero? Ora voglio che vi diate un abbraccio. Robbie…"
Il bimbo aveva adorato giocare con il ragazzo, ma era sempre molto cauto: si avvicinò a lui e gli mise timidamente le braccia intorno alla vita. Strinse la presa quando si rese conto che Diciassette non se lo sarebbe scrollato di dosso.
Sotto lo sguardo eloquente di Carly, anche Diciassette si chinò e restituì l'abbraccio.
Anna pensava quel giovane fosse il pacchetto completo: in gamba, di bell'aspetto, amante della natura e se la cavava persino coi bambini. Quella Carly era davvero fortunata.
Finalmente Robbie riuscì a fare quello che voleva fare sin dall'anno prima, toccò con soddisfazione i capelli del ragazzo.
Diciassette non aveva mai abbracciato altri bambini all'infuori di Marron, si sorprese della propria innata delicatezza: Robbie era magrolino e fragile, ci voleva un tocco leggerissimo. Sentì i suoi riccioli morbidi sulla gola, a toccarli sembravano quelle zolle convesse di muschio che si trovano nei boschi e nelle praterie.
E quel contatto fu caloroso, rasserenante. Alla fine, Diciassette aveva sempre amato i bambini.
 
 
Alle 21 la giornata di Carly volgeva al termine, gli appunti riletti per l'ennesima volta erano riposti sul comodino; per Diciassette, invece, era quasi ora di andare al lavoro.
Presto sarebbe stato il suo turno di vagare per quegli acquitrini marci, ma prima di ciò  gli sarebbe toccato restare in pattuglia a Saint-Nicolas.
"Sembra che Solway Solventi intenda usare il bacino di raccolta d'acqua piovana per smaltire rifiuti industriali. Ho bisogno che tu li colga in flagrante e li...dissuada," gli aveva ordinato John.
"Solway Solventi è pubblica, noi non abbiamo giurisdizione," aveva sbuffato Diciassette, di rimando. I suoi modi facevano comodo, adesso?
Il capo gli aveva mostrato un documento, ora che l'impresa era diventata privata e che aveva stretto accordi col RNP, la giurisdizione c'era eccome.
 Da quando Diciassette si faceva domande sulla giurisdizione prima di malmenare o persino disintegrare qualcuno?
Ah, certo, da quando John si era messo in testa di punirlo: quella era una fottuta punizione.
Sciarpa al collo ed elastico per capelli al polso, Diciassette era pronto ad uscire, ma Carly esigeva la sua compagnia fin quando non si fosse addormentata; visto l'andazzo, non ci sarebbe voluto molto. Diciassette tentò di rubarle un bacio.
"No ti prego, non mi baciare. Con l'alito che hai..."
"Ma se ho appena lavato i denti."
Carly gli diede uno sguardo da elementare, Watson. "Allora occorre rilavarli, no?"
Che sfrontata, stava imparando da lui.
Finse di non restarci male, “Hm. Ce l’hai con me.”
Carly non pareva voler litigare, “Non essere permaloso, Lapis: non è che siccome sei un cyborg e sei bello allora sei esente."
Sudore, alito cattivo e tutto; Diciassette non l'ascoltò, era lei ad essere stramba.
Carly si assestò fra coperte e cuscini, ripensando ad occhi chiusi alla piacevole mattinata con Robbie.
"Tu pensi mai alla direzione che vuoi dare alla nostra vita insieme?"
"Mah...Restare insieme."
"Potremmo adottare Robbie."
Robbie non era adottabile e Carly lo sapeva, le piaceva immaginare.
Per Diciassette la conversazione stava diventando scomoda, Carly non ne aveva mai abbastanza: erano appena andati a vivere insieme e lei si proiettava già in un futuro meno prossimo. E comunque...
"Adottare? Non vuoi più i miei figli?"
Quello sguardo sorpreso, quasi mortificato fece intenerire Carly: aveva sempre sognato di avere i figli di Lapis.
"Certo che sì! Ma una cosa non esclude l'altra, ci sono tanti bambini al mondo che necessitano di una famiglia, e alcuni di loro sono ad un villaggio da noi…"
Avrebbero potuto avere figli biologici e adottivi, perché no.
Carly stava pensando ad un piano B, nel caso lui non potesse più?
C'era stata l'esperienza di Diciotto, ma era una linea guida e non una garanzia. Diciassette non sapeva cosa realmente pretendere da se stesso,  ignorava fino a che punto la sua fisiologia fosse stata distorta.
Alle 21.30 Carly era già crollata dal sonno. Diciassette si prese un momento segreto per stringere quelle curve che tanto amava; fra le sue braccia il corpo di Carly sembrava più dolce del solito, il battito del suo cuore più veloce del solito; le legò i capelli in una treccia per la notte, lei si era scordata di farlo.
Infine, giacca e stivali addosso, il top ranger spense la luce e lasciò sola la sua bella addormentata.
 
 
 
 Gli anni da studentessa di Carly erano agli sgoccioli: l'indomani sarebbe stato il fatidico lunedì dell'ultimo esame, uno scritto conclusivo.
Ormai la stagione delle passeggiate in montagna era cominciata: sabato Carly avrebbe potuto aggiungersi a Leni e Lillian, ma non si era sentita abbastanza in forma. Il prossimo step importante sarebbe stata la consegna del diploma a settembre, un momento che si era immaginata per anni. Ogni tanto apriva l'armadio e guardava la tenuta elegante che aveva già comprato da tempo e che aspettava solo di essere indossata.
Domenica mattina Carly pensava a quel giorno speciale e ormai vicino, parcheggiando nella piazzetta di Viey e ignorando la spia della benzina.
Come sperava trovò Lillian al 36B, "Puoi farmi un favore?"
"Spara."
"Mi fai il pieno alla spider? Io l'ho riempita solo a metà."
Carly odiava l'odore della benzina, al punto di avere nausea e mal di testa ogni volta che l'annusava.
Al Nord non era come al Centro, nelle stazioni di servizio non c'era un benzinaio che riempiva il serbatoio.
Nonostante le zaffate di carburante le facessero sempre lo stesso effetto, Carly aveva imparato a non farne un dramma: era stato così da che aveva memoria.
Prima di salire a Viey, Carly aveva promesso a Lapis che avrebbe fatto il pieno alla spider; forse era stato un bene che non ci fosse stato un benzinaio in piedi vicino alle pompe, Carly l'avrebbe beccato in pieno quando i conati l'avevano assalita e lei si era buttata fuori dalla spider.
"Oh, deo! Va bene, vado ora, prima del mio turno. Giuri solennemente che non mi picchierai se ti ammacco la carrozzeria?"
"Questa è l'auto di Lapis, fai tu...Grazie dell'aiuto," Carly le affidò un mazzetto di zeni e le chiavi della Z4, la guardò partire.
Carly era scesa a Viey solo per Robbie, gli aveva promesso che avrebbero giocato insieme fin dalla volta in cui lui era andato a trovarla a casa.
Aveva ancora bruciore di stomaco e non riusciva a smettere di sbavare; forse doveva darci un taglio coi cibi super salati, era certa di essersi indotta il reflusso.
In ogni caso doveva riprendersi subito, per quella domenica c'erano Robbie e una sushi night in programma.
E l'indomani ci sarebbe stato lo scritto: non presentarsi per grane di salute che si era andata a cercare sarebbe equivalso a buttare via tutti quegli anni di sacrificio, ma anche di soddisfazione.
 
 Quando Lillian tornò a Viey con la Z4 piena di carburante e intonsa, trovò Carly bella arzilla in compagnia di alcuni bambini, nel cortile della casa delle colonie. Erano fradici.
"Abbiamo...fatto i...gavettoni!" ansimò Carly, intenta a saltare la corda a ritmo sostenuto.
Anna si avvicinò a Lillian, "Vieni anche tu domani? Io e Carly portiamo i bambini su a Niaz, a quell'alpeggio…"
Robbie, avvolto in un grande asciugamani, poncionò il braccio dell'educatrice, "Voglio venire anche io!"
"Solo se ti senti meglio."
Anna gli accarezzò i capelli umidi, rivolgendosi poi a Lillian, "É un po' giù di corda, oggi."
Ah, ecco. Alla guardiaparco sembrava strano che Robbie non si fosse attaccato a Carly a cozza. Probabilmente era troppo fiacco per saltare la corda.
 
 
 Diciassette non gradiva molto il fatto Carly fosse diventata così sonnolenta; doveva anche essere in ansia per il suo esame, per cui il cyborg aveva deciso, su due piedi, che un po’ d'aria d'alta montagna le avrebbe dato una svegliata. Quando quella bella domenica primaverile Diciassette finì il suo turno, andò a prenderla Carly e se la trascinò in spalla, in una delle loro gite a volo d’aquila; la parte preferita di Carly era quando rasentavano la superficie di un lago e lui la teneva salda, facendole fare una specie di sci d’acqua. Esplorando i siti più elevati del RNP il top ranger aveva trovato per caso un lago secluso, una gemma liquida incastonata fra guglie rosse. Era un posto pittoresco, difficile da raggiungere (le mappe davano quel sentiero per difficile, livello Escursionisti Esperti; ci volevano ramponi e corde, per intendersi). Diciassette ci andava spesso per conto suo, a rilassarsi.
Intorno al lago crescevano piante acquatiche dalle foglie lunghe e scure, e poco lontano si estendeva una striscia di terra, un piccolo campo di trifogli: Carly si era lanciata alla ricerca di quadrifogli, non riusciva mai a trovarne ma voleva provarci.
E quella volta ne trovò.
"Lapis, guarda! Ben due quadrifogli!"
Fece per correre da Diciassette e incespicò, cadendo sul soffice tappeto verde; anche Diciassette ci si distese.
"Dicono che ogni foglia abbia un significato," sorrise Carly, toccando le foglie una ad una. "Fede, speranza, amore e fortuna."
Tutte cose che avevano.
Carly aveva intenzione di mettere i quadrifogli ad essiccare nei suoi libri, come portafortuna; anche se non avessero avuto un effetto magico, l'avrebbero fatta sorridere.
"Dicono anche che chi trova quadrifogli incontrerà una persona da amare il giorno stesso."
"Ehm?" Lapis allargò le braccia, pomposo. Era stato presente nella vita di Carly già da un pezzo.
Carly arrossì d'amore, ravviandogli con delicatezza quelle ciocche di capelli che gli finivano sempre negli occhi, o in bocca.
"È vero, amo te. Voglio vivere come se ti incontrassi ogni giorno per la prima volta, perché l'intensità con cui sono innamorata di te è sempre quella."
Carly sentì una risata echeggiargli nel petto, "Da diabete."
Poco o tanto Diciassette era sempre smosso dall'espansività di Carly, ma punzecchiarla era quasi un dovere.
Carly si rigirava le piantine fra le dita, "Sempre il solito! E due quadrifogli...ohhhh!"
Carly puntò i gomiti e restò col fiato sospeso, fissando Lapis con un'espressione così stupita da rasentare lo shock: stava avendo un'illuminazione folgorante.
E poi confuse Diciassette sfrecciando via senza una meta precisa, correndo e saltando a caso.
Diciassette, una risata rimasta sulle labbra, assistette in silenzio al trionfo della sua gioia.
"Ehi Carly! Scendiamo ora, se non vuoi tornare tardi."
Non sapeva nemmeno se Carly lo stesse ancora ascoltando, la sua voce gli giunse dalla sponda del lago.
"...Tardi! Yeeeah!"
In tutto quell'esultare, Carly inciampò e sparì fra le erbe. Diciassette la trovò che ancora se la rideva, supina sull'acqua fredda. Il suo vestito era diventato trasparente.
"Cos'hai?"
Lei continuò a nuotare, "È meraviglioso!"
"Cadere nell'acqua gelida?"
Contenta lei…
L'udì emettere uno squittio-pigolio, mentre saltava e correva via di nuovo, con incredibile energia, come se non riuscisse a stare ferma.
Era capace di essere così contenta per due misere piantine, come non amarla? Otto anni e Diciassette mica lo sapeva, o se lo ricordava, che ne faceva una malattia per i quadrifogli.
 
 
Carly, Leni e Lillian avevano stabilito quella routine, le sushi night a inizio anno. Era diventato un appuntamento fisso, ogni domenica.
 "Noi tre non mangiamo sushi. Lo cancelliamo dalla faccia della Terra," proclamò Leni, separando le sue bacchette.
Per quella sushi night Carly non si era interessata al suo amato sashimi; visto che l'aveva ordinato ogni domenica fin da gennaio, doveva esserne stufa.
Lillian e Leni la guardarono spremere la bellezza di otto bustine di salsa di soia sul suo katsu curry.
"Io davvero...stai rovinando la pietanza!" l'ammonì Lillian.
"Te l'ho detto che amo il salato."
"Anche io. Ma fra salsa di soia e salamoia, sticazzi."
Leni si era persa quell'episodio, "Cos'ha fatto con la salamoia?"
"Una specie di dirty Martini, ma lasciamo perdere il Martini."
"Questo il mio corpo mi richiede; e io lo rispetto," concluse Carly, puntigliosa.
"È un ragionamento sano," meditò Leni.
E poi Carly si lamentava del mal di stomaco; Lillian l'aveva vista bersi l'aceto e leccarsi pure il sale a granelli.
Carly era soprappensiero e quando finì la cena si mise a toccarsi la vita, la pancia e le cosce. Ogni volta che si gratificava con un pasto soddisfacente le veniva da farlo, sentendosi in colpa.
"Che scema!" chiocciò Lillian "sta controllando se è magra…"
"Ma se le finisce tutto ." Leni allungò l'occhio sulla scollatura di Carly.
"Vero, va che bocce."
"Hai fatto un ritocchino?"
Carly si coprí il petto con le mani e fece una faccia scura, "Ti sembra che a me servano ritocchini?"
"Sei tutta burrosa," Lillian le pizzicò la pancia, ma Carly si accigliò.
"Sono una cicciona, vero?"
I suoi occhi diventarono pura giada, rilucenti di lacrimoni non scesi.
Leni diede una gomitata al six pack di Lillian, facendole un gesto di rimprovero.
"No e non userei la parola "cicciona" per insultarti."
Che succedeva a Carly? Di solito era Lillian a dirle di smetterla di vedersi grassa. Ora sembrava che le sue emozioni fossero in caps lock; Diciassette aveva ragione quando aveva detto esattamente così.
Carly si innervosiva, frignava, non sapeva perché faceva così.
"Ahh, hai le tue cose." Lillian le accarezzò i capelli.
"No," mugugnò Carly, con la testa sul tavolo.
"È successo qualcosa col Diciassette?"
Leni incolpava Lapis per default…
Carly sembrò dimenticarsi del suo stesso pianto, "Niente di negativo, anzi."
 
 
 
/
 
 
Nel frattempo, Crilin e Hacchan lottavano corpo a corpo.
Crilin non aveva visto quel cyborg per decadi, ma egli l'aveva salutato con amicizia: non erano proprio amici, ma una sorta di vecchi alleati.
“Ti sei seduto sugli allori, Hacchan?”
Crilin schivò un pugno e calciò il grosso corpo di n°8 nel terreno friabile.
“Comincio con te, poi passerò a lei,” Hacchan accennò con lo sguardo a Diciotto, che li osservava dall’alto di una galleria naturale. Si erano appartati a lottare in uno scenario di grotte altissime, illuminate da giochi di luce.
“Ne hai di strada da fare!”
Diciotto era sicura che Hacchan l’avesse sentita. Chissà perché li aveva accompagnati, Hacchan non era pronto per affrontare lei. Forse, aveva voluto approfittare del fatto che Kate le stesse tenendo Marron…passeggiò per quel sistema di caverne, allontanandosi fino a udire solo il rimbombo della lotta.
Era completamente sola in quei corridoi. O forse no…
Girando un angolo, Diciotto venne sorpresa da una sagoma in lontananza; contorni di un corpo massiccio e di un cappello a punta, retine artificiali dall’ombra rossastra.
Diciotto scattò fra l’acqua gocciolante e a mano nuda decapitò la sagoma, ascoltò il clangore. La testa rotolò per terra e si reinserì di nuovo sul corpo, come attratta da calamite. La faccia paffuta, bianchissima, da mimo ruotò a 360 gradi; guardò Diciotto con occhi freddi a mandorla che assomigliavano ai suoi, misera imitazione.
Diciotto preparò la sincronizzazione col kachi katchin e la sua mano rilucé.
“Fermati, 18.”
“Addio, 19.2.”
Diciotto attaccò nuovamente; 19.2 bloccò il suo braccio, tenendo salda la carne senza toccare la lama. “Il Supremo pensa che la minaccia sia io.”
La voce dell’androide era imparziale, la sua stretta lasciò segni sulla pelle di Diciotto.
“Tutti noi siamo irrilevanti, anche da rinati.”
Diciotto si divincolò; 19.2 cadde quando lei gli tranciò uno stinco. “Se Dende mi ha affidato questo compito, irrilevanti non siete.”
“Se questo è il tuo pensiero,18, che il Supremo salvi te e i tuoi simili.”
19.2 raccolse il suo stinco da terra e sfrecciò via attraverso la roccia.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Pensieri dell'autrice:
 
Rivelazione sul mio stile-interpretazione!
La mia ispirazione per Central City è Londra: nella versione in inglese di questa storia mi diletto un sacco perché L&L, Carly, i Weiss e Ronan (Kate solo a volte, è un'immigrata) si esprimono in inglese strettamente britannico, anche con lo slang. In contrasto, con quelli del Nord, del Sud o con gli Z Warriors non faccio attenzione a usare termini strettamente britannici. Tutto ciò che la traduzione vi lascia della mia associazione Centro-Regno Unito sono altri elementi, tipo Carly che propone ad Anna e Robbie la full English breakfast (che io adoro ma che non si fa tutti i giorni. È più una cosa da weekend).
Per questo capitolo...Io a Diciassette vorrei dire un paio di cosette, peccato che non posso entrare nella storia😅
E la povera Diciotto, non la lascio mai tranquilla. Il capitolo si conclude con un monito, voi tenetelo a mente, perché il senso salterà fuori presto o tardi!
Annuncio con piacere che anche questa volta riuscirò a pubblicare venerdì prossimo!
Vi aspetto con il cap.35, "La Varicella" (AKA "Benvenuti al Nord")
 
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 35
*** La Varicella ***


35. La Varicella
 
 
 
Quella mattina di fine maggio, a North City, Carly era rimasta in fila davanti al minimarket in compagnia di alcune signore anziane; erano quasi le 7, presto la saracinesca si sarebbe alzata. Carly avrebbe sbrigato i suoi affari e poi sarebbe scappata in università.
Carly pensò che fosse stupido non fare prima l’esame, si sarebbe creata una distrazione; ma forse, il dover aspettare la fine dell’esame e posporre sarebbe stata una distrazione ancora maggiore. Non c’era niente di peggio che restare sulla graticola.
Carly esitò davanti allo scaffale del minimarket, col cuore a mille, prima di fare un gran sospiro e prendere quella scatola. Quando la portò alla cassa, insieme ad una bottiglietta di Coca Cola Zero e un pacchetto di patatine, il cassiere le sorrise. Carly alzò le spalle, un po’ a disagio; pagò  in fretta e ritirò i suoi acquisti in borsa, correndo in macchina, impaziente di chiudersi in un bagno, sul campus.
 
 
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Nel frattempo nel distretto di Satan City, una figura bionda ed eterea si aggirava fra gli archi rampanti e le guglie di un'antica abbazia. Erano poche pietre nel bel mezzo di un prato molto piano e molto verde. Pietre ed erba sovrastavano delle scogliere non troppo alte, ma che godevano della luce giusta.
“In una chiesa...non ci avevo mai pensato.”
Non era una vera chiesa, ma la soggezione che evocava era quella. C’era qualcosa di magnifico in quella costruzione dilapidata, solo un’ombra di ciò che era stata.
Diciotto aveva pensato di fare tutto in spiaggia, la cerimonia, la festa. Ma ora, camminando su quella navata spezzata dalla natura che nel corso dei secoli aveva ripreso il sopravvento, sentì chiaramente che il momento in cui avrebbe giurato il suo eterno amore a Crilin, per la prima volta davanti a tutti coloro che contavano per loro, doveva accadere in un posto più suggestivo.
“Non costerà nulla,” sorrise Crilin, prendendole la mano e percorrendo con lei il resto della navata, fino ad un altare che non c’era, sotto un rosone senza vetrate.
“Lo so,” gli fece l’occhiolino Diciotto, capendo perfettamente quello che suo marito aveva inteso.
“Cosa gli chiederai? Io di riparare almeno i muri. E di non far intervenire poliziotti o quant’altro.”
Crilin non sapeva di chi fossero quelle rovine, potevano avere guai.
Diciotto rimuginò: c’era così tanto che potevano chiedere. Continuo’ a contemplare quella che doveva essere stata una balconata, “Un organo.”
Crilin sollevò le sopracciglia, “Yeah…”
La musica da matrimonio non era una cosa da niente: il momento in cui Diciotto, la sposa, avrebbe fatto il suo ingresso non era un attimo da dimenticare.
Doveva farli rimanere a bocca aperta; la musica doveva essere grandiosa. Tutto doveva essere esagerato.
Forse Crilin se lo stava già immaginando, “Organo e trombe, Diciotto?”
Diciotto saltò in cima al cerchio vuoto del rosone, a rimirare la magnificenza delle rovine, “Organo a canne, quello vero; e trombe.”
Sarebbe stato un sogno, un momento da fiaba: qualcosa che non avrebbero mai potuto ottenere da una spiaggia e basta.
 
 
/
 
Carly aveva chiuso con l'uni.
Mancava la laurea, ma ormai l’esame era fatto e il suo corso di studi era giunto alla fine.
Una volta messo il punto all’ultima riga della bella copia era salita per la valle, Carly aveva appuntamento con la casa-famiglia al campeggio La Pineta. Avrebbero intrapreso il sentiero per Niaz da lì.
Era forse uno dei giorni più belli della sua vita, Carly non riusciva a smettere di sorridere: stava soffrendo di un grave caso di settimo cielo.
Aveva dovuto stare attenta a guidare su per i tornanti, svampita com'era non voleva rischiare di fare un frontale con un autobus.
L'euforia le mise le ali ai piedi: parcheggiò all'entrata del campeggio e si mise a correre sulla strada sterrata, incontro a Lillian, Anna e ai bambini. Non vide Robbie.
"Sei in anticipo," sorrise Anna, guardando l'ora sul cellulare.
"Aspettiamo Robbie, allora. Come sta?"
Quando Carly era andata trovarlo solo ieri le era sembrato moscio.
Lillian parlò sopra ad Anna, "Andiamo senza di lui, è rimasto a Viey. Ha la varicella."
"Lui e Teresa, una collega; ci credi che Teresa non l'ha fatta da piccola?"
Anna invitò i bambini a raggrupparsi, ponendo una bandierina fra le mani della ragazzina più grande, "Andiamo, Carly?"
Carly seguì il gruppo verso l'uscita del campeggio, con uno sguardo perplesso.
"Finalmente sei una donna libera," Anna le mise amichevolmente una mano sulla spalla, ben ricordando i suoi anni da studentessa. "Com'è andato il test?"
"Eh, quale test?"
“L’esame….lo scritto conclusivo.”
La domanda di Anna le aveva dato il sudore freddo, “Positivo, nel senso alla grande.”
Ci volle un momento perché Carly si rendesse conto di quello che le era stato detto, a proposito di Robbie. E quando finalmente lo registrò, tutta la gioia che l'aveva investita prima sembrò riassorbirsi e poi espandersi in un sentimento altrettanto potente e totalizzante.
Tuttavia non era più gioia, né il benigno "mal di pancia da emozione" : era un dannatissimo attacco di panico!
Carly aveva abbondantemente sbaciucchiato e coccolato Robbie prima che Lapis la portasse al campo di trifogli; si sentì soffocare, si sentì morire.
Doveva allontanarsi di lì prima di svenire.
"Scusate...scusatemi."
Anna, Lillian e tutti i bambini guardarono perplessi Carly correre dove la strada sterrata la portava.
"Ehi, ti senti bene?...Cos'ha?"
Anna era preoccupata. Aveva visto Carly cambiare faccia.
"Non so, le corro dietro."
Lillian si avviò verso l'unico posto che trovò su quella stradina, nel punto in cui c'erano meno roulottes: i bagni pubblici del campeggio.
Nessun villeggiante si stava lavando o stava facendo il bucato, c'era silenzio assoluto.
"Carlona? Sono io, apri." Lillian iniziò a bussare a tutte le porte. "Mi stai facendo preoccupare. Che è successo?"
"Vai via…"
Una voce piagnucolosa, più da gattino spaventato che da essere umano, risuonò da dietro una porta. Carly uscì dal bagno e si appoggiò al lavandino; Lillian si chiese come si potesse essere così pallidi e così paonazzi allo stesso tempo.
"Per favore, sostituiscimi con Anna e i bimbi.” Carly cercò di ricomporsi, ma non riuscì a iniziare la frase senza sciogliersi in lacrime, “Io voglio andare a casa."
"Ok, va bene, ma prima dimmi cosa c'è."
Un uomo entrò innocentemente nei bagni pubblici per farsi gli affari suoi e si vide fissare insistentemente dalle ragazze, in piedi vicino ai lavandini.
Carly si incapricciò, "Non ho niente."
Niente?
"Col cazzo, Carly! Scusami, ma non prendermi per fessa."
Alcune ragazzine in costume entrarono in gruppo e si concentrarono nell'area docce.
Carly ingoiò una massa di lacrime e paura, "Non è niente, Lillian."
"No. Se vuoi che ti aiuti dimmi che hai," Lillian si impuntò. "Non puoi pretendere qualcosa da me e non dirmi nulla, mi fai stare in pensiero. Hai fatto male l'esame?"
Carly scosse la testa, in silenzio ostinato, come una bambina capricciosa.
"È perché Robbie si è ammalato?"
Lillian sapeva che inconsciamente o meno la Carlona trattava quel ragazzetto come se fosse figlio suo; era capibile che ora fosse in pena per lui, la varicella era così fastidiosa!
"La varicella l'hanno fatta tutti e di solito si sopravvive,"
"Io non l'ho fatta!" singhiozzò, ansimò, sibilò la vera rossa, con quella finta che cercava di consolarla. Era davvero in alto mare nel suo panico.
Lillian aveva il sentore che quello che la povera Carly temeva era la malattia stessa.
"Dai Carly...non avere così paura della varicella! Scommetto che adesso ti senti la febbre perché continui a pensarci. Come quando hai un insetto addosso e te lo tiri via, ma continui a sentirlo camminare ovunque…”
Carly si guardò intorno, circospetta; le ragazzine continuavano a schiamazzare, forse poteva parlarle con discrezione.
"Non posso fare la varicella..." mugugnò, non volendo arrivare ad accontentare la richiesta di Lillian.
Certo, nessuno moriva dalla voglia di prendersi una malattia esantematica che prevedeva il grattarsi come indemoniati.
Lillian sospirò, esasperata, quando il signore uscì dal bagno e Carly ridivenne muta come una tomba.
Quando furono di nuovo più o meno sole, Carly le disse qualcosa all'orecchio e Lillian restò a guardarla incredula, scioccata, totalmente ammutolita.
Poi, lentamente, Carly la vide portarsi le mani al viso, mentre gli occhi le si arrossavano.
Lillian emise una serie di gemiti, con gioia incontenibile strinse fra le sue braccia quella sorella figlia di altri genitori.
Carly mascherò di stizza la sua tempesta interiore, "Stai abbaiando, Lillian..."
"Ma tu non puoi dirmi queste cose, io piango!" Serrò la Carlona sempre più stretta, "Ti voglio troppo, troppo bene."
Carly si asciugò le lacrime; quei minuti di ansia l'avevano svuotata di tutta l'incontenibile energia con cui si era presentata al campeggio poco prima.
Tuttavia, vedere Lillian così contenta le restituì il sorriso e rimase silenziosa, mentre la sua migliore amica la squadrava da capo a piedi, "Sono io o non si vede niente?"
Carly ritrovò la forza e tirò un altro calcio a Lillian, intimandole a denti stretti di tacere.
"Non vedo l'ora! Vero che faremo insieme tutti i preparativi e che potrò venire a tutti gli appuntamenti con te?"
Lillian ripensava a quando si erano incontrate per la prima volta, alle battute che si erano scambiate, a tutte le volte in cui la Carlona aveva pianto il suo amore perduto e lei l'aveva consolata; Lillian le sarebbe stata accanto in ogni momento di quel nuovo, meraviglioso capitolo della sua vita.
"Verrò sempre con te e mi incaricherò SEMPRE di tutto,..."
Eccola che ricominciava.
"Lillian! Lillian. Fermati."
Carly le afferrò saldamente le braccia per obbligarla a smettere di muoversi.
Il bene che voleva a Lillian era tale che a volte Carly si dimenticava del fatto che ella fosse super eccitabile, logorroica, stancante. Il ritmo a cui stava parlando e pensando era troppo per Carly, sfinita nel fisico e nella mente dalle emozioni contrastanti dell’ancora breve giornata.
"Innanzitutto non farmi promesse a caso, Lillian, non puoi essere la mia ombra. Secondo, non sei tu che devi "occuparti" di me."
"Ah, eh già."
Pensando ai suoi due migliori amici, Lillian si sentì battere il cuore, "Tu e Sev, chissà che meraviglia. Sev?! La reaction?"
"Non sa."
Lillian avrebbe visto Diciassette al lavoro, più tardi; si chiese se sarebbe riuscita a interagire con lui senza pensare a Carly.
Carly fece a Lillian un discorso breve ma complicato, sottovoce.
"No, no, no!"
"Perché no?"
“Carly, per me è un errore madornale. E non perché Diciassette è un mezzo robot che può usare il monte Severny come peso per gli squat.” Lillian voleva essere obiettiva,"ma penso proprio che non si meriti di cadere dalle nuvole...non hai pensato a come si sentirà?"
Lillian che difendeva Lapis, incredibile; quante gliene aveva dette dietro, solo due anni prima.
Certo che Carly ci pensava, l'indecisione la stava tormentando da quasi ventiquattr'ore.
"Minchia, me lo fai impallare. 'Sev.exe ha smesso di funzionare'."
Carly non riuscì a non ridere, “Si tratta solo di ora o dopo. Alla fine è una decisione mia."
"Anche sua. Santo cielo, Sev...Altro che seminare distruzione, quel disgraziato che lo voleva Terminator si starà rivoltando nella tomba."
In verità Diciassette aveva seminato anche distruzione, nel RNP non lo sapevano e basta.
Alla fine, l'ex top ranger avrebbe sostituito Carly per accompagnare la casa-famiglia a Niaz. Non aveva altra scelta.
"Cosa devo dire ad Anna e agli altri?"
"Niente," Carly era seria assoluta. "Non dire proprio niente a nessuno."
Lillian fece per chiedere "perché", ma venne stroncata.
"Perché altrimenti ti stacco la testa a morsi."
"Come sei dolce…"
 
 
/
 
Tutti i coinquilini della Kame House dovevano stare attenti a dove mettevano i piedi.
Bastava girarsi senza guardare per pestare la bambina, e se la bambina veniva pestata anche loro prendevano pestoni. Una volta che Muten era inciampato su di lei e l’aveva fatta piangere Diciotto l’aveva scaraventato fuori, attraverso la parete della cucina.
Si era poi rifiutata di sistemarla.
Marron sapeva ormai quasi camminare, non c’era posto in cui non si infilasse e amava mettersi dietro la gente; Crilin stava inchiodando delle nuove assi di legno in cucina, Diciotto la prese in braccio prima che lei si infilasse fra i pioli della scala e rimase a guardarla sgambettare.
“Questa da grande gioca a calcio…” sorrise Yamcha, impressionato dalla velocità a cui Marron muoveva le gambe.
Il suo ciuffetto biondo platino era diventato abbastanza lungo da darle fastidio agli occhietti, Diciotto glielo fermava con accessori colorati. La mamma osservò i cinque dentini della sua bimba, le guance paffute, il naso quasi inesistente e gli adorabili rotolini ai polsi e alle caviglie. I suoi occhi erano di un colore particolare, un blu più scuro di alcuni marroni: come tutti gli occhi chiari cambiavano col tempo, e le ciglia così lunghe li facevano apparire quasi neri, a volte.
La sensazione impareggiabile di sentirsi amata e indispensabile, che Marron le comunicava con certi suoi sguardi, rendeva Diciotto appagata e meravigliata di essere madre; di avere qualcuno che si aggrappava a lei e la chiamava "Mauaua".
Si voltò verso Crilin, “Ci credi che lei era nella mia pancia?”
Diciotto ci pensava sempre, vedendo Marron crescere e svilupparsi mese dopo mese.
“É incredibile! Era così piccolina e ora guardala: ride, pensa, corre,” l’amorevole Crilin baciò le sue biondine, “Mi sbalordisce ancora adesso.”
Creare altri esseri umani da zero era davvero un miracolo.
Hacchan, diversamente da Sedici, riusciva a comprendere che Marron fosse uscita da n°18: era sempre stato in contatto con umani e non faticava più a vedere la cyborg in quella chiave.
“Io non avrei dovuto conoscere questa felicità,” gli aveva detto lei, il giorno delle grotte; Diciotto non aveva parlato di 19.2 e del suo monito.
“Perché eri un completamento per Cell?” aveva rammentato Hacchan.
Diciotto aveva annuito quasi con vergogna.
“Com'è successo?” Hacchan non conosceva la meccanica delle creazioni del Red Ribbon. “Com'è possibile che una persona diventi una batteria?”
Seduta nelle caverne, Diciotto aveva fissato un lucernario naturale sgocciolare dall'umidità.
“Solo Gero lo sapeva. A volte quando apro una porta su una stanza buia, ho paura che si restringa e mi inghiotta viva.”
In quel periodo intenso, ad un mese dal matrimonio, era capitato più spesso a Diciotto di svegliarsi a notte fonda da incubi a base di quel mostro. Si svegliava terrorizzata, non capendo lì per lì di essere al sicuro alla Kame House, con Crilin e Marron che respiravano beati al suo fianco. E quando si rendeva conto che l’incubo non era stato reale si scioglieva in un pianto che le raschiava la gola, che non la liberava.
Diciotto era terrorizzata.
Crilin allora l’abbracciava e solo contro di lui, fra le sue braccia, Diciotto riusciva a calmarsi.
Diciotto non parlava mai di Cell, di come si era sentita. Ma questo nuovo amico, Hacchan, la ispirava a farlo.
“Ancora adesso mi sogno di notte Cell che mi cattura con la sua coda, che mi risputa dalla sua bocca....”
Diciotto non era stata cosciente quando quello era successo, ma era una pensiero disturbante e il saperlo la sconvolgeva su così tanti livelli.
Le pupille di Hacchan si dilatarono dallo sgomento, “Non sono un umano completo, ma penso che sia impossibile non restare segnati da una cosa del genere.”
Un'esperienza come Cell era impossibile da dimenticare.
“Ma Cell è morto, lui non tornerà per te.”
Hacchan aveva sorriso con quel suo brutto viso dolce; aveva indicato il rotolo di Dende, fra le mani di Diciotto.
“La lista di tutti gli androidi nemici non quadra: va dal n°1 al n°7, dal n°9 al n°20 con l'eccezione di te e Sedici: ma ne manca uno, il n°17.”
“Ah, quello lì; é innocuo.”
“No, Diciotto, nessuno di loro è innocuo; non dobbiamo prenderne sotto gamba nessuno!”
La dedizione di Hacchan era ammirevole:
Diciotto gli disse che il n°17 poteva far male in altri modi, ma non era interessato a conquistare la Terra.
"É un tipo ad energia infinita? L'hai incontrato?"
“Hacchan...17 è mio fratello. Ed è il solo delio tipo.”
 
 
/
 
 
 
Guai a mai che il marmocchio arrivasse per primo a Saint-Nicolas e archiviasse il caso Solway Solventi senza di lei!
Prima, a Lillian toccava sempre quella soddisfazione; ora, quasi mai.
Diciassette non aveva avuto molta fortuna nelle sue pattuglie, non aveva colto nessuno sul fatto.
Non appena finì il tour con la casa-famiglia Lillian guidò fino al bacino di raccolta d'acqua piovana e, con fortuna e suo immenso piacere, beccò una donna dal fare sospetto nei paraggi. Era vestita da ufficio e fotografava il laghetto artificiale. Lillian si raddrizzò il cappello e scattò le a sua volta foto, "Solway Solventi è venuta a fare merdate nel posto sbagliato."
Lillian le prese la fotocamera compatta; la donna poteva essere vestita da ufficio, ma il suo atteggiamento era quello di una scagnozza.
“Ah-ah: non ti conviene,” avvertì la campionessa olimpica, quando la donna mostrò intenzione di toccarla.
“E tu chi sei?”
“La regina del Royal Nature Park."
"No, lei è una che fa finta di essere me."
La donna vide apparire dal nulla un ragazzo che doveva avere la metà dei suoi anni, aria da menefreghista e cuffie al collo.
Diciassette aveva udito Lillian litigare con la dipendente di Solway Solventi nonostante stesse ascoltando la musica.
Lillian ignorò le provocazioni, "Ciao Diciassette. Come stai??"
Lo guardava così insistentemente da farlo sentire a disagio. "Sloggia, Lill.”
Lillian non demorse, "Io benissimo E TU?"
"Devo fare questo lavoro ingrato."
La sua migliore amica stava studiando ogni spigolo del suo viso, "Non ti senti un po' su di giri? No, non i tuoi circuiti. Non sei...nervoso?"
"Ehm...no. Perché?"
Lillian gli stava forse augurando di sentirsi nervoso?
La malfattrice li lasciò bisticciare e cercò di svignarsela, ma il ragazzo le fece lo sgambetto e la bloccò a terra col piede.
"Caro, lui..." sospirò Lillian.
Il top ranger si rivolse seccamente alla tipa, "Smaltire rifiuti tossici qui é incosciente, illegale, dannoso, insomma, non farti più vedere.”
Il suo sguardo convinceva la farabutta ben poco, "Mi stai ledendo...ti denuncerò."
"Ti stava andando meglio con me che con lui," ridacchiò la ragazza, prima di lanciare la fotocamera compatta all'altro guardiaparco.
"Ridatemi la mia roba!"
Sev distrusse il congegno con un battito di palmi, mimando sottovoce il rumore di un'esplosione.
Lasció rialzare la donna, che si mise a inveire, "Voi mi trattate così perché il mio colore di pelle è diverso dal vostro! Bastardi razzisti."
A dir il vero, né Lillian né Diciassette avevano notato quel dettaglio.
"Brutta testa di…" Lillian l'afferró per il bavero, senza cerimonie; gente come lei le faceva venire voglia di menare le mani.
"Come osi! Il razzismo è una cosa seria, noi ti trattiamo come meriti perché sei un'imbecille!"
Lillian era un capolavoro.
La malfattrice fissó il ragazzo giocherellare con le sue cuffie e spalancare la bocca per riderle in faccia.
Non le piacque la sua risata.
 
 
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Elliott aspettava all’aeroporto di North City. L’aereo era appena atterrato e Defiance aveva solo un bagaglio a mano, potevano subito tornare a casa e passare una serata tranquilla.
Le porte automatiche della sezione “arrivi” sibilarono sui loro cardini e la silhouette alta e scura di Defiance si stagliò sulla folla. Elliott rimase ad aspettarla con le braccia aperte, l’accolse sul suo petto. “Ciao signor Gontier!” Defiance incrociò le gambe attorno alla sua vita e l'assalì di baci.
“Eccola qui! La mia zingarella,” Elliott cercò le sue labbra.
Che privilegio era annusare il profumo di sole della sua pelle, tenerle le mani sul sedere per non farla cadere. Defiance era rimasta attaccata a lui, con i suoi tredici cm "di troppo" e le ginocchia in bocca.
Portava scarpe impermeabili e un piumino lungo, quindici gradi in un pomeriggio di fine maggio erano pieno inverno per lei.
In macchina, Defiance studiò la luce pura ma allo stesso tempo gentile del Nord, le foreste di conifere, le montagne così alte.
Com’era diverso, il RNP: non era un’area esplicitamente isolata e delimitata come Monster Island, senza cartelli semplici al lato della strada (“Benvenuti nel Royal Nature Park”)  uno non sapeva nemmeno di esserci dentro.
Salendo verso Saint-Paul, Elliott era stato rallentato da altre automobili guidate con molta calma, fino a ritrovarsi accodato a un biroccino a tre ruote che trasportava fieno.
Tornare a casa stava prendendo più tempo del dovuto.
"Su, vai avanti!" mormorò Defiance. “É lentissimo e non dà strada!”
Non erano ancora usciti dal circondario di North City: Elliott le spiegò lì quasi tutti lavoravano nel settore primario e che quelle carrette lentissime erano molto comuni.
Monster Island era un posto più remoto del RNP, eppure sembrava più all’avanguardia.
Defiance sorrise a quella ruralità. "Benvenuti al Nord!"
 
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 Diciassette aveva consegnato la farabutta alla polizia di Saint-Nicolas, portandola in volo.
"Hai visto che faccia aveva?" se la rideva Lillian; aveva fatto quel tragitto aggrappata alla schiena di Diciassette e ora era indolenzita per lo sforzo di tenersi salda, ma anche per le risate.
La tipa di Solway Solventi aveva passato il breve volo ad urlare come una scimmia, Diciassette aveva scelto di portarla in quel modo per il gusto di spaventarla.
Dopo aver mollato la delinquente, era andato con Lillian a riprendersi la sua auto.
"E così domani tocca a te, Sev? Le paludi."
All'alba di giugno, finalmente.
Lo schermo sul cruscotto della Z4 si illuminò con la chiamata telefonica di Carly, Diciassette si rimise le cuffie.
"Ciao amore, torni a casa stasera?"
Diciassette voleva certamente passare la notte con lei, e lei voleva farlo passare dal supermercato.
"Carly, sono ancora su a Saint-Nicolas...cosa ti serve?"
"Gelato al basilico, lo vendono al super fuori da North City; ho provato una volta in uni e lo rivoglio…"
Voleva anche la Coca Cola.
"Guarda che ce l'abbiamo a casa. No non é zero. Dai piantala, non frignare. A presto."
"Ce c'è?" si interessó Lillian, vedendolo irritato.
"Carly vuole un gelato strano."
"E tu non vuoi prenderglielo?"
Carly poteva andare al supermercato anche da sola. "Io me ne torno a casa, cazzo; avere a che fare con gli idioti mi dà la fame post-canna, hai presente."
Lillian sogghignò, "Goditi essere così scanzonato finchè dura...Ti sei fatto una canna?"
"Scanzonato e fiero," il cyborg si batté una mano sul petto. "E no, era una metafora."
A Diciassette venne il dubbio di essere scortese, ma per una volta voleva pensare a se stesso.
Lillian lo guardò di sottecchi e si incamminò verso la sua jeep, borbottando.
"Se lei vuole quello sarà meglio che tu glielo prendi, altro che..."
"Scusa?"
"Ahh villano, fila a prendere il gelato per Carly!"
Lillian lo fissava, col dito puntato, come se la sorte dell'intero universo dipendesse da lui. Rimase in quella posa finché il marmocchio non si arrese; Diciassette sbuffò, le restituì un insulto mentale, tuttavia mettendo in moto la spider e sgommando verso North City.
 
 
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 La carretta e un semaforo rosso avevano bloccato Elliott per una ragione: Defiance si sarebbe fermata da lui per due settimane e il paleontologo non era sicuro che casa sua fosse adeguatamente rifornita.
"Abbiamo casa mia tutta per noi. Brent è andato dalla sua ragazza...o qualsiasi cosa Lillian sia per lui."
"Lillian Dahl? Quella Lillian?"
"La sola Lillian che conosco. Ci credi che lei e Brent non l'hanno ancora fatto?"
Persino Elliott aveva conquistato quella base già da tempo…
"Non ho fretta, l'ultimo che se l'è portata a letto è pur sempre quel bastardo, Joel." diceva l'ignaro vichingo.
"Ancora non so che cibi preferisci," Elliott confessò, tenendo la mano di Defiance fra le corsie del supermercato.
Defiance aveva gusti abbastanza semplici, quando si trattava di mangiare a casa.
Afferrò un pacchetto di pasta e sorrise felice, "Spaghetti in brodo. Comfort food, visto che fa freddo."
"Dici tipo ramen?"
"No, Elliott, spaghetti in brodo."
 
 
 A spesa fatta era ora di tornare a casa.
Non c’era posto per riporre il carrello dove era stato preso.
"Oh, no...torno subito."
Erano le 20 e il supermercato stava per chiudere, chissà fin dove Elliott sarebbe dovuto andare col carrello. Defiance rimase appoggiata alla macchina, a raccontare il Nord per messaggio. Intanto che aspettava, si avviò a buttare via la bottiglia d’acqua che aveva finito; la sua attenzione fu attirata dal fracasso di un motore in avvicinamento.
Fece appena in tempo ad attraversare la strada, nel parcheggio, che un'auto sportiva le passó dietro a velocità sostenuta.
"Idiota! 15 all'ora!" Defiance sbraitò, spaventata, riferendosi al cartello che segnava il limite di velocità.
Guardó la macchina parcheggiare fra altre due con un testacoda preciso al millimetro, senza fare danni.
Se non l'avesse visto, non ci avrebbe creduto: al Nord, o non andavano avanti o prendevano i parcheggi come piste da rally…
Defiance se ne lamentò con la madre:
 
Ho appena visto un parcheggio in derapata.
 
Rikki la deluse:
 
Forte! Hai fatto il video?
 
Al mondo dicevano tanto del Sud, ma almeno da loro la gente al volante era civilizzata.
 
Ma mamma, che tamarrata! Benvenuti al Nord.
 
Defiance sbatté la portiera e dal parabrezza guardò il tamarro scendere ed avviarsi verso il supermercato, non più così di fretta.
Era un ragazzo della sua fascia d'età, al cellulare; Defiance guardava, curiosa. Non aveva la faccia da tamarro.
Come se lui se ne fosse accorto, guardò Defiance dritta in faccia con un'espressione eloquente, come per dirle "e tu che cavolo vuoi?"
Non stava guardando a caso, guardava lei! Defiance si ricocentrò sul cellulare, non capendo cosa l’avesse incuriosita.
Nel frattempo Elliott era ritornato dall’altra parte del parcheggio.
Risalendo verso Saint-Paul, Defiance gli sembrò strana, “...Scusami, per averti fatta attendere.”
"No, ho appena visto come si parcheggia al Nord."
Elliott non capì.
“Un fighetto mi ha quasi investita con la sua Lambo, col suo catorcio del piffero,” inveì Defiance, adirata come una vecchia signora.
Dalla descrizione di Defiance, a Elliott non parve una Lamborghini; ma una macchina tamarra e bassa per lei era una Lambo e basta.
"In ogni caso mi sono segnata la targa, così possiamo denunciarla ai gendarmi.”
I predoni, i gendarmi; era divertente avere una ragazza del Sud e soffermarsi sulle differenze linguistiche.
“Certo, s’ha da fare.”
Elliott diede un'occhiata alla nota di Defiance: i gendarmi non si sarebbero smossi e quella non era una targa del Nord, ma doveva ovviamente difendere la sua ragazza; non si era fatto mai complessi in quel campo, ma si sa che la mente delle ragazze era complessa e che la sua auto non era proprio uno status symbol.
"Defiance, non ti dispiace se io non sono un fighetto da Lambo?"
Lei gli grattò la barba e gli baciò la guancia; a lei, il suo Elliott piaceva lumbersexual.
 
 
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All'atelier c'era ancora la signora che l'aveva servita quella volta a febbraio.
Quando questa alzò il capo, si trovò di fronte la ragazza bionda del peplo,
"Buon pomeriggio! Lazuli, giusto?"
Ogni volta che Diciotto doveva fare qualcosa di legale usava il suo nome di nascita. Era quello che figurava anche sulla carta di credito.
"Mi dispiace, cara, ma non abbiamo appuntamenti disponibili per un altro paio di-"
"Sono qui per il peplo."
Diciotto osservò la signora al bancone con uno sguardo quasi febbrile. Sperava che nessuno se lo fosse portato via, nel frattempo.
"Non mi serve riprovarlo. Il campione mi andava, ricorda?"
Alla donna era rimasto impresso come quella futura sposa innamorata del suo vestito avesse lasciato perdere.
Si illuminò a quelle parole, "È come se fosse stato qui ad aspettarti, per tutto questo tempo."
Diciotto non aveva smesso di pensarc, quello era il vestito che l'aveva fatta sentire speciale.
Sarebbe stato il suo vestito da sposa, non quello da damigella d'onore che si era macchiato di sangue. Due vestiti, due ruoli diversi, due ricordi: il ricordo che Diciotto avrebbe avuto di se stessa nel peplo bianco sarebbe stato diverso da quello della notte in cui aveva quasi perso Marron.
Si era imposta di non lasciare che l'ombra del dolore oscurasse la sua gioia, di rivendicare il diritto di sentirsi principessa.
Quando la negoziante tornò alla cassa con il vestito dei suoi sogni avvolto in un'elegante fodera, Diciotto sentì il cuore batterle.
Passò in fretta la carta di credito nel terminal e sospirò internamente quando lo scontrinò si arricciò sul bancone.
"È tuo, Lazuli. Ti auguro tanta felicità."
La donna le sfiorò la mano, passandole il suo acquisto.
Diciotto fu mossa da un impeto di felicità assoluta, "Anche io a lei."
 
 
 
 
 
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Pensieri dell'autrice:
 
Come sono contenta di aver trovato spazio per tutti e sotto 5000 parole! Sono felice di aver scritto sia di Diciotto e Crilin, che di Defiance ed Elliott, che di Diciassette e Lillian 😅 scherzi a parte, adoro descrivere la loro amicizia perché hanno più chimica della tavola periodica ( la chimica per me c'è anche in amicizia. C'è ogni volta in cui c'è intesa.)
Piccola precisazione sugli occhi di Marron: nell’anime sono o neri o azzurri, dipende dalla saga (la sua fisionomia cambia parecchio con la sua crescita) e quindi ho trovato un punto di incontro.
Infine...Eccoci al primo episodio del mio nuovo micro-arc, la Fiera degli Infarti! Qui Robbie fa venire un infarto a Carly, che a sua volta fa infartare Lillian (e anche Defiance ha un infarto, e uno shock culturale?).
Anche se descrivo il RNP come il mio amato Parco Nazionale del Gran Paradiso (VdA), Lillian non è italiana; eppure quel bussare a una porta e dire "sono io" è molto italiano😂
Dicevo in altre note che Carly è un po' melodrammatica. Le sta succedendo qualcosa di molto importante e Lillian l'avvisa che sta facendo una scelta pessima. Ci sarà tempo di sapere quale. Ma la domanda da un trilione di zeni  è, la Lillian saprà tenere chiusa quella boccaccia?

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Capitolo 36
*** L'altro Estremo dello Spettro ***


36. L'altro Estremo dello Spettro
 
 
 
 
 Carly aveva quasi avuto quella conversazione, quella sera stessa. Erano già le 21, eppure non riusciva a prendere sonno.
“Ti disturba se guardo qualcosa?” le aveva sorriso Lapis; suo malgrado, era troppo eccitato per quella stupidata inutile delle paludi. Già non gli serviva dormire spesso, poi se era anche elettrizzato non ne valeva proprio la pena.
Carly aveva guardato un pezzo di film con lui, “Amore, qual è il momento giusto per fare qualcosa di importante di cui non si è sicuri?”
Che strana domanda. Diciassette si era già trovato in una situazione simile, quando si era imposto di vuotare il sacco e colmare il vuoto di tre anni di Carly.
"...fattene una ragione e fregatene.”
 
 
 Di mattina presto, Carly l’aveva guardato spiccare il volo dal balcone di casa; lui non aveva bisogno dell’elicottero di John.
Lapis sarebbe stato una settimana nelle paludi, al suo ritorno lei avrebbe dovuto parlargli. Non sapeva come, ma doveva dire qualcosa. Era quasi tempo.
Cercando di colmare la testa d’altro, Carly si sentì costernata che la casa-famiglia sarebbe ripartita senza che lei potesse salutare Robbie, o persino Anna. Non le dispiaceva aver fatto di tutto per restare al sicuro dalla malattia, ma era in pensiero per Robbie, in piena fase acuta. Si sarebbe fatta aggiornare quotidianamente da Anna.
Con la volontà di prendersi cura di sé, invece, volle togliersi il tarlo: solo un test sierologico le avrebbe detto se stava incubando la varicella o meno.
Quella stessa mattina, Lillian l'accompagnò all’ospedale.
"Cercheranno gli anticorpi della varicella. Spero di non ne averne…"
Seduta al suo fianco nella sala d'attesa, Lillian sentì Carly rabbrividire impercettibilmente.
“Ti metterai il cuore in pace. Vedrai che starai bene.”
Più tardi, mentre Carly sospirava davanti a certe domande del questionario che l’infermiera le porse, il medico interpelló Lillian, "É sempre così bianca, lei?"
"Beh, é una rossa naturale diafana…"
Il medico si grattò il pizzetto e si rivolse all'infermiera, "Falle controllare anche i livelli di ferro."
Lillian si allarmò: Carly non stava bene?
"Siete sorelle?" indagò il medico.
"Sì" fu il pensiero istintivo della guardiaparco. “No, solo amiche.”
 
 
 
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Nel Sud-est era già piena estate.
Il Genio aveva portato la sua nipotina a fare un giro nel vicino Southern Archipelago National Park, Oolong e Tartaruga erano andati con lui; Yamcha e Chiaotzu erano rimasti in spiaggia ad allenarsi con Tien, che aveva deciso di fare visita.
Crilin e sua moglie erano soli; sapevano bene che quel momento intimo sarebbe stato sfuggente, come tutti gli altri lì a casa.
Per Diciotto il piacere era ancora più intenso quando lo facevano così, con lei schiacciata di faccia contro le lenzuola e tutto il corpo di lui appoggiato alle sue natiche.
La cyborg ansimava, dietro al bavaglio da lei stessa confezionato con la lingerie che si era tolta; l'umano le teneva le braccia legate dietro la schiena, le colpiva le natiche col bacino e con le mani; la carnagione di Diciotto era così delicata che quelle pacche lasciavano una lievissima idea di segno rosso; ad ogni colpo di reni e di mano ella serrava i glutei e il piacere di Crilin cresceva.
Ogni tanto Diciotto si girava indietro a guardare il corpo spogliato del suo uomo, eccitandosi alla vista dei suoi addominali scolpiti e sudati.
Quando lo facevano così Crilin si arrendeva subito; Diciotto lo sentì presto pulsare, nel liberarsi.
Diciotto aveva lacerato coi denti il pizzo del suo perizoma; senza parlare si mise supina, piegando le gambe a rana e lasciandogli vedere tutto.
Le sue carni erano invitanti, arrossate e umide come petali di rosa al mattino...ma non era passato nemmeno un minuto.
“Lascia che mi riprenda, Meraviglia. Non sono più un giovanotto."
Crilin ipotizzò che avrebbe potuto ricaricarsi subito, se fosse stato come lei.
“Immaginati: ancora e ancora, un getto dietro l’altro, boom boom."
"Devi proprio esprimerti così, Cril?"
Dal suo sorriso, Diciotto capì quanto il pensiero di poter avere orgasmi multipli e ravvicinati, lo eccitasse.
"Secondo te sarebbe possibile?"
“Non penso che serva essere come me."
E in ogni caso lei non possedeva un membro; era una conversazione imbarazzante, e Diciotto stessa non capiva come mai la trovasse tale.
Diciotto aveva avuto paura che Crilin non avesse più voluto farlo così con lei, dopo aver avuto Marron.
Sara le aveva confessato che Bruno, pur essendo sempre innamorato di lei, non riusciva a lasciarsi andare a certe pratiche con colei che era la madre di sua figlia.
“É convinto di farmi un affronto, di non portarmi rispetto. Che posso fare, Laz, obbligarlo?” sospirava, “no. Ma mi mancano certi momenti, quell’aspetto un po’ dirty.”
A Bruno stava a cuore la purezza; non era uno di quelli che imponevano alla moglie la sua visione delle cose, tuttavia non impazziva per i tatuaggi di Sara, trovava che rovinassero la sua delicatezza, la preferiva in lingerie bianca. Diciotto se ne ricordava; sapeva che erano stati i suoi colori eterei ad attirarlo fisicamente, quando avevano avuto solo quattordici e vent’anni.
Bruno era un uomo d’oro, ma Diciotto ammiccò maliziosa al suo, "Mi piace che lo vuoi sempre fare dirty con me."
"Che scelta mi dai, tu?"
 La camera risuonava solo del ventilatore sul soffitto e dei baci della coppia.
Diciotto si scostò da Crilin, infilandosi la sua camicia. Quando faceva così non otteneva mai il risultato sexy e vagamente dominato dei film, perché le camicie di Crilin le calzavano bene, “Ti do scelta su tutto, tranne che per una cosa: vai avanti ad impacchettarti il pacco e siamo tutti contenti.”
Diciotto non si sentì serena nel pronunciare quelle parole: erano fuori luogo, cosa c’entravano con quel piccolo momento di coccole?
“E perché non dovrei?” Crilin la guardò camminare verso il mini frigo che si tenevano in camera, cercare un sorso d’acqua fresca. “É per la discussione che abbiamo avuto l’altro giorno?”
Diciotto assentì.
Crilin voleva un altro figlio. E non solo lui, l’intera Kame House sembrava voler fare pressione su di lei affinché ne sfornasse un altro.
“Ma il fratellino?”
“Ma Marron la lasci da sola?”
“Perché non ne fai un altro? Alla fine non puoi rimanere incinta?”
“É perché sei una cyborg?”
Marron non aveva nemmeno un anno.
“Non sei felice con me e Marron?”
Crilin sgranò i grandi occhi, mettendo a fuoco i contorni di Diciotto, mezza nuda e vaporosa nella penombra.
“Diciotto...voi due siete la mia vita. Ma c'è sempre spazio per ancora più amore nel mio cuore.”
Il suo era un cuore così immenso: più amore dava, più gliene nasceva.
Oh, Crilin...
Diciotto non poteva impedirsi di sentirsi delusa da se stessa. Eppure sapeva che era sbagliato, persino dannoso sacrificarsi solo per fare contento lui. Le sue stesse felicità e serenità contavano tanto quanto quelle di Crilin: se Diciotto non si prendeva cura di sé, chi avrebbe dovuto farlo?
Crilin si curava di lei con straordinario amore, aveva sempre fatto di tutto per renderle la vita facile.
Era il tipo di marito che, quando lei era incinta e aveva avuto così male alla schiena da non riuscire a girarsi sul fianco, l'aveva girata e coccolata con cuscini e carezze, l’aveva calmata.
Ciononostante, la prima che doveva amarsi più di tutti, meglio di chiunque altro era se stessa, Diciotto.
“Io non voglio, Cril.”
Era così sbagliato non vedersi più nell'ottica di diventare madre? Lei aveva avuto un figlio, sua madre due, alcune donne non ne volevano e altre sognavano famiglie numerose. C'era un modo giusto o sbagliato di sentirsi riguardo alla maternità?
Forse era una cyborg e non capiva; doveva essere un suo problema, alla fine lei era ben strana, le altre volevano quasi sempre altri figli.
Marron ne era valsa la pena, Diciotto non avrebbe rinunciato a sua figlia nemmeno se avesse saputo che avrebbe patito per averla, ma non voleva passare ancora dalla gravidanza: aveva sofferto tanto nel trascinarsi per intere, eterne giornate a base di nausea, a ruminare come una vacca, obbligata dal suo stesso corpo a rimpinzarsi di continuo.
Certo, se voleva consolarsi le bastava discuterne con Kate, ma ormai sapeva che la gravidanza non era un’esperienza negativa per tutte.
Quando il Genio fu di ritorno e Crilin gli andò incontro, Diciotto restò sola col telefono; le capitò sotto mano un thread su Mum.net in cui tante utenti si lamentavano di come a loro mancasse la pancia, di quanto belli fossero stati i loro capelli e di come “i sintomi tipici fossero un mito da sfatare” dato che loro non avevano avuto nessuna nausea, nessun gonfiore. Le capitava spesso di leggere resoconti di quel tipo, che narravano una realtà aliena a ciò che lei aveva vissuto. Un estremo sconosciuto dello spettro.
“Bene, beate voi! ‘Ste zoccole.”
Forse il karma riparava quelle fattrici utili solo a farsi ingravidare con travagli lunghi e dolorosi.
Ma il karma non esisteva: Diciotto chiuse la pagina web, non senza segreta gelosia.
 
 
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All'alba di giugno l'ultima batch era riuscita ad approdare nelle paludi. Il test per gli ultimi quattro non avrebbe dovuto avvenire così tardi, ma tutti i guardiaparco erano stati molto impegnati e John aveva rimandato.
Églantine aveva sostenuto le cinque paludi alle porte dell'estate solo una volta, quindici anni prima, e non era impaziente: era meglio farla d'inverno, col caldo le paludi diventavano puzzolenti, afose, piene di insetti.
"Peggio di così non mi poteva capitare!" sospirò la donna, impugnando il suo fucile e calciando una zolla fangosa.
“Che noia,” si lagnò con enfasi il top ranger, lo sguardo basso a fissare le proprie gambe e quelle della collega, immerse fino alla coscia in una mucillagine bavosa, schiumosa, color vomito acido.
"Io non me lo sono meritato, Diciassette. Tu sì."
Églantine alluse alla riunione in febbraio; John aveva fatto apposta con lui.
"E di quello non mi pento."
"Bravo…"
Églantine non aveva mai collaborato con Diciassette, aveva giusto interagito con lui un paio di volte. Aveva la fama di essere arrogante, poco ortodosso, Églantine non era stata impaziente di essere in gruppo con lui.
Ma forse le conveniva stargli appresso, visto che quell'anno era proprio svogliata e che il ginocchio le doleva più del solito.
"Bene, io vado. Ci si vede…" ella annunció, guadando la melma.
"Aspetta!"
Diciassette sapeva che si sarebbe annoiato a morte, aveva quindi intenzione di darsi un po' più di divertimento. Églantine lo guardó slacciarsi dal collo la sciarpa di lana leggera e piegarla in una lunga striscia. Diciassette si abbassò dandole le spalle, "Mi aiuti?"
Voleva che lei lo bendasse.
"Ok...Perchè?"
La ranger annodò la sciarpa, attenta a non tirargli i capelli.
"Perchè così non ci vedo. Quindi sarà meno noioso."
Aveva sempre gli altri sensi, inutile prodigarsi in spiegazioni con Églantine.
Diciassette entrò immediatamente in contatto con l'ambiente: ascoltò i suoni diversi creati da varie piante e varie profondità di acqua, usò la pelle per sentire vibrazioni e assaggiò un campione d’aria con la punta della lingua.
“Che sei, un rettile?” rise Églantine, a vederlo.
"C'è un boschetto di là," Diciassette, accennó alle sue spalle. "Sarà meno afoso."
Églantine era quasi certa si ricordarsi che ci fosse. "Pazzesco."
Diciassette non aveva intenzione di passare la settimana con Églantine, né con quel grosso zaino da film comico in spalla: iniziò a frugarci dentro e a porgere alla collega le sue corde.
"A me non serve nulla, puoi prendere queste."
Poi le diede tenda e sacco a pelo, "E questi."
Creò una pila fra le braccia di Églantine quando posò in cima il pentolino, i noodles e gli accendini, "E questi. Se ti senti appesantita, passa il fucile."
"Come no."
Églantine sapeva che se avesse voluto, se lo sarebbe comunque preso.
Diciassette si era tenuto la borraccia e il kit di primo soccorso, li aveva agganciati alla cintura. Finalmente era pronto a partire.
"Diciassette? Posso accordarmi?"
Le cinque paludi erano una scusa per starsene un po' per conto suo, ma c'era il pericolo noia...lui era tenuto a piantare lì Églantine se gli avesse dato fastidio.
Alzò le spalle, accennando un "ok" col suo viso bendato.
 
 
 Dormire sul terreno paludoso sarebbe stato scomodo e insalubre. I grossi rami bassi del boschetto erano invece più adatti.
La notte era scesa e Diciassette era ancora bendato: disteso a pancia in su, lanciava sassolini in una cavità dell’albero su cui lui e la collega si erano appostati. Faceva sempre centro.
Églantine passò in rassegna tutti gli oggetti di prima necessità che lui le aveva mollato, "Non ti serve la torcia?"
"Eh? No, ho la visione notturna."
"Sei divertente."
Diciassette si tolse la benda e prese la sua torcia. L'accese, imitando il ronzio di una spada laser.
"Consegnati al lato oscuro della Forza," dichiarò all’albero, con un vocione minaccioso, continuando a far zigzagare il fascio di luce.
Dal sacco a pelo, Églantine sorrise. Il ragazzino doveva pur svagarsi; anche se era il top ranger e svolgeva compiti da grandi (e come un grande) ai suoi occhi Diciassette era praticamente un bambino.
 
 
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Louisa Dubochet aveva da tempo avvertito Carly che due delle mucche di Michel Crozier, proprietario dell’alpeggio situato fra Viey e la piana Pessy, avrebbero presto partorito.
Una mattina, ancora presto per lei, Carly si svegliò al vibrare insistente del suo cellulare: Louisa la voleva su all’alpeggio per dimostrare ad alcuni nuovi stagisti come si svolge un parto gemellare nelle vello grigio, qualcosa di inusuale in quella razza di mucche.
Carly non ne aveva davvero voglia, ma era un’opportunità che una superiore le stava dando per dimostrare a tutti quanto fosse brava: non poteva dirle di no.
Si diede un colpo di spazzola e di spazzolino, indossò dei pantaloncini e si accorciò ai polsi la maglia bella larga e lunga (era di Lapis) che aveva tenuto per dormire.
Si infilò un camice bianco e ne raccattò un altro in una borsa, insieme agli strumenti del mestiere; come colazione si concesse un goccio d’acqua da una fontana, andando di fretta verso la macchina.
 
 Leni era in fila al negozietto della signora Crozier, a comprare panna fresca da mangiare con le fragoline di bosco.
I lamenti delle mucche in travaglio risuonavano dalle stalle, non lontano dal negozio; Carly giunse lì dopo una lenta guida, gli occhi ancora velati di sonno. Salutò Leni con la mano, prima che Louisa la intercettasse.
"Little Bo Peep, ci siamo svegliate?"
Louisa guardò con eloquenza il proprio orologio; erano le 10.30, che ci faceva la sua veterinaria diletta ancora a letto alle 10.30?
"Animo, animo!” Louisa la buttò nella stalla, davanti ad un gruppetto di stagisti non retribuiti. “Ragazzi, lei è Der Veer, lavorava per me gratis. E lo sta facendo pure ora!”
“Questo é abuso di potere.”
Carly le avrebbe ribattuto, se avesse avuto energie da sprecare; ma quella mattina si era svegliata male, era a stomaco vuoto e si sentiva le vertigini.
Il signor Crozier restò un momento a presidiare la zoologa e i suoi ragazzi, mentre questi osservavano una vacca che girava intorno a se stessa, forse per trovare conforto dalle doglie.
Louisa si rivolse di nuovo al suo manipolo, "Der Veer qui c'ha la fissa degli uccelli, ma è un'artista coi parti: tira fuori vitelli come nocciole dal guscio. Quando era volontaria come voi, questo era il suo pane quotidiano."
Carly era tentata di piantare lì la zoologa, "Non è che 'c'ho la fissa', Louisa. È stata la mia specializzazione."
Fin dal suo primo stage Carly aveva avuto soddisfazioni con le nascite, ma anche tante difficoltà; non era facile convivere con parti che finivano male, anche se ciò faceva parte del mestiere e della vita, per quanto sgradevole.
Quando agnelli e vitelli le morivano fra le mani Carly piangeva, a casa da sola.
Una volta aveva scioccato alcuni apprendisti mentre, col cuore in subbuglio ma le mani e la mente sempre freddi, aveva scotennato sul posto un agnello che non era sopravvissuto alla nascita, per usare il suo vello. Lo si faceva per dare conforto alla mamma pecora, aveva dovuto spiegare.
 
 
/
 
Normalmente, quando John metteva in ballo la sfida delle cinque paludi, nessun’altro a parte i gruppetti di guardiaparco ci andava.
Diciassette, sempre seguito da Églantine, seppe per certo che la scia che annusò, non apparteneva agli altri due colleghi della batch.
“Cosa c’è adesso?” Eglantine esalò, stanca, guardando il top ranger bendato arricciare il naso e restare a braccia conserte.
Diciassette le aveva promesso che l’avrebbe condotta a un ruscello d'acqua pulita, le loro borracce erano vuote; ma ora Églantine non era più sicura che lui volesse attenersi ai piani.
“Se hai sete puoi bollirti la mucillagine,” egli tagliò corto, infatti. “Io, mi sa che ho da fare.”
“Mangiatela te la muscillaggine, Diciassette.”
“Mucillagine.”
“E io che ho detto?”
‘Muscillaggine’.”
Eglantine ancora si lamentava, gli stava urlando di attenderla; ma Diciassette era sfrecciato avanti, ancora cercando la fonte della scia.
 
 La furtiva figura che si era nascosta fra le tife, in quelle paludi rinomate per essere deserte, lanciò un gridolino quando si ritrovò vittima di un’imboscata. Con quel gridolino rivelò "all'aggressore" di essere una donna.
“Che ci fa qui una civile come te?”
Il ragazzo era bendato e la dipendente l’aveva visto una sola, ma i suoi tratti erano facili da ricordare. Quelli, e altro.
“Tu...qui, razzista?”
Fra tutti, le era capitato lui. Che culo.
“Ohhh. Anzi,” il ragazzo si schiarì la gola, la sua voce divenne tagliente. “Che ci fa qui un’incivile come te?”
“Non sai nemmeno chi sono. Non puoi vedermi.”
“Non mi serve.”
La malfattrice non lo prendeva sul serio. Si allontanò come se niente fosse, ma presto cadde di faccia nella melma: dal nulla, le acque della palude si erano agitate e una piccola onda l’aveva fatta rovesciare.
Diciassette ascoltò con piacere i vari vituperi di cui la malfattrice lo ricoprì, ma non era soddisfatto: volendosi davvero godere la faccia della donna, si tolse la benda e in un balzo fu a pochi centimetri da lei. Le rubò la giacca e il maglione, carichi di acqua marcia, e lei lo guardò strapparli in strisce lunghe e regolari, come bende di mummia, ad impossibile velocità.
Già, quel guardiaparco sapeva volare, cosa c’era da discutere?
Diciassette immaginava perché quella delinquente fosse lì.
“Tu e la tua azienda di merda dovete smetterla,” asserì, distrattamente, intento a legare fra loro le varie strisce.
“Se no?” lo sfidò la malfattrice.
“Se no, verrò a darti la caccia.”
“Non mi troverai.”
“Ti ritroverò sempre.”
Questa volta, lei gli credette. Seppe innatamente che egli doveva aver memorizzato il suo odore e il timbro della sua voce, il suo passo nel camminare.
E sapere di essere in balia di qualcuno come quel Sette-qualcosa, la malfattrice non riuscì a ribellarsi: si fece passivamente avviluppare in una specie di crisalide fatta dei suoi stessi vestiti. Iniziò a lamentarsi quando fu trasportata fino ad un albero e legata a testa in giù.
"Questo é maltrattamento! É immorale!"
"Perché invece quello che fai tu é etico? Non farmi ridere," sbuffò il guardiaparco.
La farabutta baccaiò, col sangue alla testa e una vena che si stava gonfiando sulla sua fronte.
“Sul serio non temi conseguenze legali, stupidino?”
“Io? Nah...”
Nel frattempo Églantine ansimava, scostando le tife; restò sgomenta nel vedere il top ranger raggirare con fare d’avvoltoio una persona legata.
“Volevi l'acqua?”
Diciassette frugò nella borsa della malfattrice e lanciò una borraccia piena alla collega; le fece un riassunto della situazione Solway Solventi e l’un tempo prevenuta Églantine si ritrovò ad apprezzare il suo sorrisetto diabolico.
La farabutta, appesa come un salame nel caldo di giugno, cominciava a sentirsi male, “Dammi l'acqua!”
“Sicura?”
Visto come l’aveva legata, qualora avesse dovuto andare in bagno se la sarebbe fatta sopra, non sotto. “Attenta a quello che desideri.”
Églantine trovava che Diciassette avesse ragione, ma non era convinta che lasciare quella persona appesa così fosse legale.
"Tirala giù, prima che tiri le cuoia."
"Oh, no. Ci vorrebbe un secchio da agganciarle al mento, così se se la fa sopra…"
Églantine, che aveva cinquantun anni compiuti, rimase un po' disturbata.
"Sei tremendo! Tirala giù e basta."
 
 
 
/
 
 
All’alpeggio dei Crozier, la mattinata procedeva lentamente.
"Maledette vello grigio. Tutte le altre razze figliano col freddo, ma non loro."
Carly esaminò le due vacche: quella che stava ancora girando su se stessa muggiva flebilmente, l'altra aveva il piccolo praticamente fra le zampe posteriori. Uno stagista si occupò della prima mentre Carly si mise al lavoro con la nascita più imminente; sedeva accucciata nella paglia soffocante e con una mano guantata aiutava il primo vitello a nascere, riposizionandolo nell'utero della madre.
Leni era venuta a farle compagnia,
"Non avrebbero dovuto chiamare te. E tu avresti dovuto declinare, non sei pagata."
"Non fa niente."
La direttrice sorrise con lei quando Carly estrasse il vitellino, piccino, tenero.
"Lo fai sembrare facile. È facile?"
"No."
Ultimamente Carly non sapeva più che svolta voleva dare alla sua carriera.
Il suo lavoro di veterinaria era molto pratico, reale, ma a lei piaceva troppo studiare: stare a contatto con gli zoologi l'aveva ispirata, il pensiero di dissezionare cadaveri non la disturbava.
Carly mise il neonato vicino alle mammelle della madre e pensò che le sarebbe piaciuto continuare a studiare, forse prendersi un dottorato. In ogni caso aveva ormai progetti più urgenti di cui occuparsi e avrebbe dovuto accantonare quell'idea per qualche anno. Si preparò a estrarre il secondo vitello che nacque in fretta, con una spinta poderosa.
Leni esultò, "Ce l'hai fatta! Brava Carly."
"Beh, questo é stato un miracolo."
La nascita gemellare che tanto aveva preoccupato i Crozier e anche i veterinari era invece stata relativamente facile.
La studentessa diede un colpetto affettuoso alla neomamma, che in quattro e quattr'otto si alzò in piedi, liberando uno schizzo caldo e scuro sul camice di Carly.
Leni si tappò il naso e soffocò una risata, ma restò meravigliata di come la sua amica riuscisse a stare calma davanti a quella visuale di budella, sangue ed escrementi.
"...? Cacca?" Carly si guardò il camice lordo, incredula e orripilata.
Lasciò che anche il secondo vitello iniziasse a succhiare, poi si cambiò in fretta il camice e guardò quello tutto sozzo a terra;si sedette contro una parete della stalla, emettendo un verso strozzato.
"Oh no…" il suo viso si contrasse dal disgusto, avvisò che le veniva da vomitare.
"Ferma, ferma!"
Leni si affannò a cercare un qualsiasi secchio vuoto, ma non fece in tempo; Carly finì per rigettare sul pavimento della stalla quei pochi sorsi d'acqua che aveva trangugiato prima di raggiungere l'alpeggio; restò un minuto con la testa all'indietro e gli occhi chiusi, ansimando per lo sforzo, e poi andò avanti a vuoto; Leni le tenne la lunga coda di cavallo, di un ramato così chiaro da sembrare biondo nella luce della stalla; si era concentrata sui capelli di Carly per darle un po' di privacy.
"Che spettacolo. Scusami, Leni."
"Sei stata fin troppo brava; dopo che una vacca ti ha scagazzato addosso, é veramente il minimo."
Anche Louisa era accorsa,  "Oh, oh, poverina! Come sei pallida...Vuoi qualcosa?"
Carly richiese della Coca Cola. Louisa corse dalla signora Crozier e ritornò con una bottiglia d'aranciata (l'aveva giudicata ugualmente utile).
Uno stagista dai guanti insanguinati si avvicinò, “Tutto a posto, Der Veer? Puoi aiutarmi con Carina?”
Come un pugile pronto ad affrontare un nuovo round, Carly si sciacquò la bocca e ritornò sul ring; guardò Leni con la coda dell'occhio, cambiandosi i guanti e inginocchiandosi dietro all'altra mucca ancora in travaglio. Mandò il tirocinante a sbrigare una faccenda e prese da parte la direttrice delle risorse umane.
Doveva fare quello che andava fatto.
"Senti, Leni. Devo comunicarti una decisione che riguarda il mio contratto col RNP e la mia carriera. Prima o poi lo dirò anche a Louisa."
"Non dirmi che non vuoi più lavorare con noi!"
Leni osservó con apprensione Carly mentre questa trafficava con Carina, ancora lottando contro il malessere.
"Devi cambiare il mio contratto. Visto che ho il termine per fine novembre, non comincerò a gennaio."
"Che termine?"
Alla direttrice venne un colpo, sapendo in cuor suo che la semantica non lasciava dubbi; tuttavia si sforzò di mantenere la calma, "Sei in attesa?"
Carly annuì, ancora concentrata su Carina, "Il dottore dice che nascerà il 30; in pratica, quando vuole lui."
"O lei..."
Leni non poté fare a meno di notare che sotto al nuovo camice pulito, Carly portava i pantaloncini sbottonati per fare spazio ad un ventre che cominciava appena ad arrotondarsi.
Si sentì un velo di sudore freddo sulla fronte, in barba al calore della stalla. Afferrò con foga l'amica, "Mio dio, la mia piccola Carly! Com'è, come ti senti?"
"Oggi, così così."
Carly era rimasta incinta quel pomeriggio d'inizio marzo, ma si era ricordata dei suoi cicli sballati solo nel giorno dei quadrifogli.
Quando aveva avuto la visita ginecologica era già di dieci settimane, due mesi e mezzo: aveva già passato un quarto della gravidanza ignorandola totalmente.
Sia lei che la creatura stavano bene, ma Carly si era preoccupata lo stesso di tutte le sue sushi night.
Si era sentita spaesata e quasi sotto shock dalla felicità. Durante tutto quel tempo lei non era stata Carly, ma Carly e il suo bambino. Tutto era cambiato.
 Si era stupita di come avesse potuto sorvolarlo.
Col senno di poi, ora giustificava la sonnolenza e le voglie di sale.
A dar retta ad Internet la gravidanza era quasi una punizione divina, per cui Carly si sorprendeva nel vedere le settimane passare senza che lei si trasformasse in una specie d'invalida. Pensava però che fosse sempre dietro l'angolo.
Leni ripensò a poco prima, "Ti vengono mai le nausee?"
"Eh, oggi."
Da quando l'aveva saputo Carly si era aspettata di dover rinunciare alla sua dieta normale, ma di solito non aveva problemi con quello che mangiava.
Si era aspettata di gonfiarsi, invece aveva perso tre kg. Si era preparata a provare perennemente disagio e a vomitare anche più di venti volte al giorno com’era successo a Lazuli, ma aveva appreso dal medico che la povera Lazuli era stata l'altro estremo dello spettro.
Le volte in cui le era capitato si contavano sulle dita d'una mano, succedeva con più probabilità quando le toccava annusare la benzina o i detersivi di Lillian. Le capitava di avere acidità di stomaco o di sentirsi stanca, ma il tutto era lieve e sopportabile.
Carly godeva di buona salute: era come se quella creatura volesse starsene lì il più tranquillamente possibile, senza far soffrire la madre.
Quella mattina era stato un caso a sé: che
brutto tempismo con il camice sporco, l'aveva fatta vomitare sul lavoro, davanti a tutti.
La cosa piú stereotipata che Carly potesse fare nel suo stato.
"A che mese sei?"
"Quasi undici settimane. Il terzo mese sta per finire…"
Carly ripulì il vitello che aveva appena estratto; fece per prendere un bicchiere, ma favorì direttamente la bottiglia di aranciata.
Dal nulla Louisa si intromise nella conversazione, facendo saltare il cuore in gola a Carly.
"Congratulazioni, Der Veer! Perchè non me l'hai detto subito, ora mi pento di averti fatta strapazzare. Il bambino è del top ranger, vero?"
"No, dello Spirito Santo," ridacchiò Carly.
"Per favore, Louisa, non sbandierarlo. Nemmeno a John," ordinò Leni, intuendo i pensieri di Carly.
"Io te l'avevo detto di starci attenta a Diciassette!"  Tartagliò Leni, "occhi azzurri, capelli neri lunghi, atteggiamento da teppistello...voilà, incinta."
Carly non era una ragazzina sprovveduta, non apprezzava essere trattata come tale; sospirò, mascherando la scocciatura con un mezzo sorriso.
"Veramente, mi dicevi che era esattamente il mio tipo; e perchè lo stai accusando? È il mio ragazzo da molto tempo ed entrambi volevamo un bambino, solo non ce lo aspettavamo così presto."
"Il tuo ragazzo da molto tempo?"
"Sì, dal liceo."
Avevano detto a chiunque aveva chiesto che si erano presi una pausa; a Leni, Carly aveva anche detto che era convinta che Lapis fosse morto. Il tutto non quadrava, ma Leni aveva smesso di pensarci.
Carly non vedeva l'ora di dirlo al suo Lapis; lei stessa l'aveva scoperto tardi e aveva deciso di aspettare la fine del famigerato terzo mese.
Quello era infatti il periodo più delicato, non voleva dire a Lapis qualcosa che sapeva l'avrebbe reso immensamente felice, per poi subire un aborto spontaneo. Era qualcosa che poteva succedere a ogni donna.
"Morale della favola, Leni: ecco cosa succede a dimenticarsi la pillola due volte di fila."
Durante le settimane precedenti ai quadrifogli Carly aveva continuato a prendersi la pillola, ancora ignorando che quella sola volta in cui se n'era scordata, combinata al non averla presa neanche il giorno successivo perché ancora ubriaca, era bastata.
Si diede una carezza alla pancia, che a Leni sembrò enorme tutto d'un tratto.
Anche a lei era capitato di dimenticarsi la pillola; si stupì nel vedere che la sua amica di dieci anni più giovane era così tanto fertile.
Tornando a Verny per un meritato riposo, Carly ripensò alle motivazioni della sua scelta: non voleva che Lapis fosse lieto e speranzoso per nulla. Sapeva cosa quel bambino rappresentasse per lui, poteva immaginarlo.
Forse stava sbagliando a fare così, gliel'aveva detto anche Lillian; non stava dando a Lapis molta fiducia, dando per scontato che lui non riuscisse a gestire un'eventuale perdita.
Ma era comunque a fin di bene.
 
 
 
 
 
 
 
Pensieri dell'autrice:
 
Eccoci al secondo episodio della Fiera degli Infarti. La vittima? Leni.
Ricordiamo una dichiarazione perentoria di Carly a Lillian, dal capitolo 17, "Io non ciulo ranger."
Mentre scrivevo quello, nella mia mente dicevo "uahahah vedrai": ora non si può più negare che un'eccezione è stata fatta (e niente popò di meno che col top ranger.)
L'appellativo di Louisa, "Little Bo Peep", è il titolo di una filastrocca diffusa nei Paesi anglofoni, che parla di una pastorella. Églantine dice bene che Diciassette é un ragazzino, ma ho come l'idea che gioco forza ora debba crescere.
Ora o mai più.
Però riconosciamogli che sta migliorando sul piano umano, coi colleghi. Se Églantine gli avesse chiesto di accodarsi a lui due anni prima, l'avrebbe mandata a quel Paese…
Questo capitolo era uscito lungo il doppio di quello che vi ho propinato oggi, per cui la sua seconda parte, "Buone Nuove" (e altri infarti) sarà disponibile venerdì prossimo.
Grazie a tutti i miei lettori e recensori per essere arrivati anche a questa parte, che per me é super importante: non ci è dato sapere nulla dei figli di 17, la mia interpretazione inizia qui, con il/la suo/a primogenito/a☺
 
 

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Capitolo 37
*** Buone Nuove ***


37. Buone Nuove
 
 
 
 
 
Il RNP fu di nuovo salvo quando, inspiegabilmente, una dei dirigenti di Solway Solventi presentò le sue dimissioni e la confessione del suo tentato crimine alla polizia.
Però tolta una noia ce n'era subito un'altra; si preannunciava un'estate lunga e intensa, il calore inatteso aveva sciolto la superficie del Grande Eden più in fretta del solito. Come le valanghe invernali, le esondazioni dei torrenti erano un rischio sempre presente e la Dorée non tardò a straripare dai suoi argini, spazzando via tutto l'operato agricolo/forestale che il villaggio di Épinel aveva effettuato negli ultimi anni su quegli ettari. Del bestiame era stato ucciso, gli argini e i muretti si erano completamente sbriciolati, i pascoli e il bosco appena piantato erano un'unica, profonda pozzanghera.
Elliott la buttò lì, credendo segretamente che ci fosse un fondo di verità, "Sei voluta venire qui per spiare come gestiamo le cose, per poi rivelarlo al comandante?"
Defiance era solo curiosa, "Guarda che il mio boss è mia madre, non Malina."
"Sua Altezza Erica Long?" sorrise Elliott.
"Rikki."
"Ma io, povero plebeo, non posso chiamarla per diminutivo!"
"È il suo nome; legalmente, da ventitré anni."
La capo MIR si sporcò di fango, camminando rasente a un granaio, "Che disastro. Fate qualcosa, per dio, ci vorranno mesi..."
Defiance vedeva la situazione dal punto di vista tecnico, sulla MI solo quel dopo sarebbe stato un codice arancio: eppure nessuno sul sito dell'esondazione, guardiaparco o civili che fossero sembrava di fretta, quasi fossero in attesa di un intervento della divina Provvidenza!
Elliott stesso non appariva disturbato.
Forse ci erano abituati e sapevano prenderla con filosofia, senza fare scenate. Alla fine che ne capiva una ragazza di South City del Nord.
"Ma che mesi," sancì il bortolone. "Aspetta che arrivi Diciassette."
"17 miracoli?"
"No! Con la D maiuscola, il nostro top ranger; è tipo te sotto steroidi, lo chiamiamo il terminator."
Che strano che Rikki non avessero intel su altri equivalenti di sua figlia, al di là di Lillian Dahl.
"Però, pure il numero di serie."
Defiance pensò di nuovo che i nordici fossero generalmente strambi; lei che aveva trovato che la bimba di Malina, Nastya, avesse un nome strambo.
"È per quello," rise Elliott. "Ma non dirlo mai davanti a lui."
 
 
/
 
 
Carly cercava ancora un modo per dare il notizione a Lapis, che sarebbe tornato a casa da un momento all'altro. In cuor suo la paura stava iniziando a dilagare, manco stesse andando all'ergastolo.
Ma forse Lapis avrebbe messo da parte la delusione del non aver appreso subito la notizia, a favore della notizia stessa.
Carly rimuginava, passando l'aspirapolvere nell'ingresso.
Sentì una leggera corrente d'aria filtrare al piano terra dalle scale, nonostante le finestre al piano superiore fossero chiuse.
Carly controllò camera per camera, temendo di vedere tende svolazzare, un riflesso nello specchio o di sentire rumori sinistri.
Doveva essere stato solo uno spiffero.
"Sono proprio svampita…"
Carly rise di se stessa; non fece in tempo a girare l'angolo, che si sentì agguantare da dietro e sollevare.
"Lasciami! Aiuto!"
Urlò a squarciagola, scalciò, tirò pugni, sfiancandosi in un dibattersi tanto disperato quanto infruttuoso.
Chiunque la stesse aggredendo non poteva aver scelto vittima più sbagliata...
"Carly, dai, basta!"
La ragazza udì ridere; smise di gridare e di picchiare solo quando si trovò, quasi senza accorgersene, con il viso contro i pettorali dell'aggressore; l'azzurro-gioiello del suo sguardo le fissava il viso sconvolto con un'espressione ridente ed affettuosa.
Carly si sciolse in lacrime, "Lapis?! Sei matto!"
Gli diede una sberletta sul braccio, tenendosi istintivamente una mano al ventre.
I singhiozzi erano incontenibili, "Non farlo più, non farlo più."
Emozioni in caps lock: Carly voleva restare seria, ma Diciassette si intenerì a vederla. Per quanto le sue abilità sul piano accademico o al poligono di tiro lo inorgogliessero, egli non riusciva a resistere alla sua dolcezza. Se la riprese, baciandole la fronte, le guance umide e infine la bocca; anche le sue labbra erano bagnate di lacrime.
Diciassette la sentì arrendersi a lui, l'afferrò per i fianchi e la sollevò, per il solo piacere di farsi solleticare dalla sua lunga treccia rossa.
E Carly non aveva mai resistito ai dettagli del viso di Lapis, anche quelli "fuori posto": le ciocche svolazzanti, gli adorabili canini pronunciati.
"Sii attento, caro, non stringermi forte…"
La voce le uscì soave, carica d'amore, Diciassette ne fu conquistato: aveva tanta voglia di lei. Di sentirla, prima ancora di averla.
"Non stringermi troppo..." ci riprovò Carly, toccandosi sommariamente il punto in cui aveva annodato i pantaloni della tuta.
"Ti ho fatto male?"
Carly sembrò illuminarsi, con la nuova frase che voleva pronunciare.
"No,..."
Non fece in tempo a dire altro, che il cellulare di Lapis suonò.
"Ahhh...lavoro," Diciassette compatì chiunque lo stesse chiamando.
Carly seguì con apprensione ogni suo movimento.
"Non ora, scordatelo. È già uscita e rientrata. D'accordo, le 5."
La Dorée era uscita dagli argini e c'era da sistemare il sito dell'alluvione, niente che Diciassette non potesse fare all'alba.
"Per chi mi prendono, non lo so. Ora voglio stare qui con te."
Diciassette si dimenticò che Carly aveva iniziato un discorso che la chiamata aveva interrotto.
E Carly, tanta era la gioia spensierata del momento, rimandò; volle godersi Lapis in tutto il suo brio, prima di attaccare coi discorsi seri.
Meravigliosi, ma seri.
 
 
/
 
Elliott era sempre a casa Saint-Paul con la sua MIR, Brent era stato gentilmente buttato fuori di casa.
Lillian non era riuscita a impedirsi di dirlo a Brent, una volta che erano a letto insieme.
“Stai scherzando? La nostra Carly, la bocciona?”
Gli appellativi di Brent erano così criptici...
Brent era stato colui che se n'era uscito con terminator, “Minchia Lilli, ti immagini gli spermatozoi di Sev? Anziché nuotare c’hanno il jet-pack."
Entrambi erano scoppiati a ridere.
Brent non sapeva cosa stava dicendo; Lillian era sempre la sola a conoscenza della fisiologia ibrida di Diciassette, ma pensava che sotto quell’aspetto egli non differisse da ogni altro uomo giovane e sano.
 
 
 Brent a sua volta non era stato più nella pelle e aveva dovuto messaggiare Elliott.
“Oh wow. L’ha tipo ingravidata con lo sguardo.”
Ascoltando distrattamente il messaggio vocale registrato da Elliott, Defiance si era fatta andare di traverso gli spaghetti in brodo; aveva quasi capito che parlasse di loro due.
"Dio me ne scampi."
"Oh, oh Defiance! La migliore amica della tipa del mio migliore amico è restata incinta, dal terminator."
"Sperminator," lo corresse lei, arrotolando spaghetti sulla forchetta.
Elliott ululò dal ridere.
"Tienitela stretta, è più unica che rara." Si disse.
Defiance aveva lo stesso senso dell'umorismo suo e di Brent. Era il pacchetto completo.
 
 
/
 
Diciassette era stato via solo una settimana, ma casa gli era mancata; forse stava diventando vecchio, si era affezionato a quattro mura.
"Non è la casa in sé, ma quello che rappresenta," gli spiegò Carly dandogli un buffetto. "Vieni ad aiutarmi con la cena?"
Diciassette si rivestì con calma; nel mentre, notò che sul comodino di Carly mancava il solito blister di pastigliette rosa, "Non hai preso la pillola?"
Presa in contropiede, Carly rimase fulminata sulla soglia della camera.
"...Ho smesso, Lapis."
A Diciassette salì lo sgomento, "Lo sai che non mi hai detto di venire fuori, vero?"
Carly inspirò profondamente e tornò a sedersi a letto. Il terzo mese era andato, il momento era arrivato.
"Non fa niente, ormai. Aspetto un bambino."
L'espressione di Lapis convinse Carly a sollevare con mano tremante la felpa che non si era mai tolta, e a stroncare i "Come?", "Quando?", "Non è possibile!"
Per una frazione di secondo Diciassette sentì una fitta assassina al petto, "Quanto tempo?"
Non ci aveva messo molto a darle un figlio: in effetti, era successo non appena il corpo di Carly gli aveva dato quello spiraglio.
Quando Diciassette vide il ventre di Carly, inequivocabilmente gonfio, gli si fermò il cuore. Era una cosa che lo riguardava nella maniera più intima che potesse immaginare, "E tu non l'hai detto a me?"
"L'ho scoperto tardi anche io! Due settimane fa, posso spiegarti..."
"Ti sei fatta beffe di me."
Carly poteva vedere solo uno spicchio dei suoi occhi gioiello, dietro le palpebre. Cercò una connessione con quello sguardo basso, "Non potevo dirtelo! E se avessi perso il bambino?"
"Avresti fatto finta di niente?" tuonò Diciassette, scattando in piedi, facendola sobbalzare.
Se così fosse successo la questione sarebbe morta nel silenzio, come se non fosse mai esistita?
Per la prima volta da quando si erano ritrovati, Carly provò paura. Gli occhi del suo amore, che normalmente trovava così irresistibili, ora erano inquietanti.
In quel momento, se mai non lo fosse già stata, Carly fu certa che Diciassette non era totalmente umano. Era facile dimenticarsene, nella vita quotidiana ella non si trovava mai a pensare "ora vado in giro col mio moroso cyborg", "vivo col mio cyborg".
L'amore le faceva dimenticare quello che Lapis era nella sua interezza, ed era giusto così.
Ma ora i suoi occhi chiarissimi e tanto, tanto freddi avevano poco di umano.
"Lapis…"
La futura madre sostenne quello sguardo, senza piangere: gli disse con semplicità e sincerità che era desolata.
Che ci aveva tenuto a non esporlo a un ipotetico dispiacere.
Diciassette era sempre stato onesto, anche se gli era costato dolore.
Non era stato facile parlarle della conversione, ma l'aveva fatto per sé e per loro.
Nella sua indignazione, Diciassette si accorse di come il suo cambiamento d'umore aveva spaventato Carly.
Negli ultimi due anni era riuscito ad accantonare il lato "macchina omicida" che sapeva sempre nascosto da qualche parte (non era così ingenuo da pensare di essersene disfatto). Carly l'aveva aiutato: aveva sempre avuto quel potere, farlo sentire in pace con se stesso. A lei Diciassette doveva la serenità che era riuscito a reintrodurre nella sua vita spezzata e ricucita.
"Ahah. No."
Diciassette mantenne Carly ad un braccio da lui. Sparì dalla sua vista senza che ella se ne accorgesse, solo il rumore della porta sbattuta di un'altra camera le indicò che ci si era barricato.
"Lapis?"
Carly bussò ripetutamente a quella porta, "Ti prego! Per favore..."
Non ottenendo risposta, Carly diede un calcio di sfogo.
Tutte le altre in cui aveva voluto fargli sfuriate, quando lui era ancora un gangster e si metteva nei guai, quando si chiudeva in se stesso e la trattava freddamente, non l'aveva fatto; ma ora, spinta al limite, Carly sentì in sé una rabbia esplosiva.
Non era certo così che si era immaginata quel momento. La sua pazienza era un pozzo profondissimo, che attingeva perpetuamente da quell'amore sconfinato che provava per Lapis. Ma a tutto c'era un limite.
Spiazzata su come sentirsi, Carly uscì dallo chalet mentre fuori già imbruniva. Si affrettò sulla strada, verso il centro di Verny, e quando si sentì abbastanza appartata chiamò Leni. Se cercava una persona che certamente non avrebbe difeso Diciassette, era lei.
"Ehi piccola. Alla fine io e Lillian ti diamo diritto di veto su cosa mangiare al posto del sushi, la domenica."
"Leni..."
Non c'era molto da capire, "Io lo strozzo!"
Carly cominciava a sentire il pizzicorio delle lacrime: non voleva cedere, non era più una piagnucolona, era una madre; anche se il bambino non era ancora nato, si considerava una madre a tutti gli effetti, "Ero sicura che volesse il bambino. È sempre stato quello che ci pensava di più fra noi due…"
Maledicendo la distanza, Leni le parlò dolcemente:
"Ok, Carly, lascia che sia onesta. Diciassette sarà un gran...ma tu gli hai tenuta nascosta la verità, sarà come minimo incazzato."
"Lo stai giustificando?"
"No, lo voglio sempre strozzare. Ma avresti dovuto mettere da parte i tuoi timori per compiere un atto di fiducia. Se non ti fidi di lui, perchè state insieme?"
"Non mi fidavo del mio corpo."
"È capibile. Ma non dare per scontato che non voglia il bambino solo perchè l'hai bombardato con un notizia del genere solo ora."
Leni le disse che per quanto avesse creduto nelle sue buone intenzioni, Carly aveva sbagliato.
"Carly, pronto? Sei ancora lì?" Leni le diede l'unico consiglio che giudicò pertinente. "Inutile piangere sul latte versato. Lasciagli assimilare questo malloppo emotivo,quando avrà finito di capire come si sente verrà da te. Abbi un po' di fede in lui. Potrei farlo io, figurati tu."
A Carly era venuto un altro attacco di panico: tutto quello che Leni potè fare fu ascoltarla piangere, impotente, aspettando che si calmasse.
"Tra un po' l'ufficio chiude. Vieni a casa mia, ci guardiamo un film stupido e ordiniamo la cena come ai vecchi tempi, io e te. Ti va?"
Carly si sentiva molto debole e aveva un po' di nausea, era così ansiosa da non avere nemmeno fame.
Tuttavia, ormai sapeva che non era certo il momento di saltare i pasti.
"Sì, certo. A presto."
 
 
 
 
 Quando Diciassette aveva preso coscienza del proprio livore, aveva cercato l’isolamento. E mentre se ne stava appoggiato alla porta chiusa che la sua Carly martellava di colpi, avrebbe voluto lasciare che una parte di lui gioisse di quel sogno che si era realizzato.
Con quel genere di verità non poteva più sentirsi disumanizzato, era la vittoria definitiva contro Gero. E a pensarci, Diciassette esultava.
Perciò, nemmeno lui stesso riusciva a comprendere la volontà di infuriarsi e macerare in quella furia. Sicuramente Carly ne stava soffrendo. E perchè gliel’aveva nascosto, Carly?
Il fatto che lei l’avesse fatto cadere dalle nuvole l’aveva messo sulla strada di pensieri cupi, fini a se stessi: forse Carly non gli aveva detto niente perché, inconsciamente, sapeva che lui non era un uomo normale, a dispetto di sangue che scorreva nelle vene e sperma che attecchiva.
N°17 era un terminator a cui era capitato di mettere un figlio in una donna umana. N°17 non poteva essere un buon compagno, un buon padre; era pericoloso, poteva uccidere senza nemmeno provarci.
Eppure Carly era restata.
Non le aveva mai detto quanto gli avesse fatto bene che lei fosse restata.
Amore incondizionato.
Forse avrebbe dovuto parlarne a Diciotto, ma si trattenne. Al di là del matrimonio in ballo non poteva sempre dipendere da Diciotto, come un impedito che non era nemmeno capace di assumersi le proprie responsabilità. Sua sorella avrebbe riso di lui, di quanto fosse immaturo e debole.
Pencil si avvicinò, ma uno sguardo del padrone le intimò di fare dietro-front e così fece. Rimase però a fissarlo, scontenta e sprezzante, come a volere l'ultima parola.
Diciassette collegò il suo cellulare all'impianto stereo, lasciando suonare i System, perfetti per il suo umore di merda: il suo account sul quel sito, contenente una playlist denominata proprio così, ne sapeva molto di più del suo modo di gestire la rabbia delle persone che aveva accanto.
Diciassette si lanciò in headbang selvaggio, al ritmo del pezzo "Toxicity".
Un bussare nervoso ed energico alla porta di casa interruppe il divertimento.
"Che vuoi?" grugnì a chiunque si trovasse dall'altro lato della soglia.
Era una giovane donna, capelli corti tinti di nero e allure da ragazzetto.
"Ehm, sono dalla casa dietro...tutto a posto?"
"Sì sto bene."
Bugia.
A Diciassette venivano sempre comodi i costumi del Centro, chiedere "come stai?" fra sconosciuti era una formalità a cui si rispondeva "bene, grazie."
A nessuno importava di sapere la vita degli altri, e grazie al cielo.
Lei sorrideva, a disagio, "Sicuro? Comunque ecco, puoi non sparare la musica come se fossimo al North City Open Air? Che adoro, ma sto cercando di fare dormire mio figlio. E di guardare Netflix."
Tese una mano, "Iris, in ogni caso."
"...Pino silvestre?"
Diciassette schioccò la lingua, con tono irrisorio; invece che stringerle la mano si ravviò la chioma, restando lontano da lei.
La giovane restò paziente con il ragazzo dall'accento straniero.
"...é il mio nome! Iris Cheney. Bon, stammi bene."
 
Quando la vicina tolse il disturbo, Diciassette tornò in camera ad ascoltare la musica.
"Sto uscendo dalla mia gabbia e stava andando così bene…" canticchiò all'unisono con la prima strofa.
Carly aveva lasciato lo chalet; a lui era rimasto il letto spalancato, il profumo della sua pelle e dei suoi capelli sul cuscino che Diciassette stringeva fra le mani. Ci aveva immerso il naso, per calmarsi.
Chissà dov'era finita, Carly. Era scappata da lui.
Diciassette si alzò a sedere, "...'cause I'm Mr. Brightside!"
Masticò le parole finali della canzone con un ghigno ironico, trovandole l'apoteosi dell'ipocrisia.
Lanciò la sveglia contro lo stereo e contro il cellulare, il tutto si frammentò ancora prima di arrivare a fare un buco nel muro.
Cadde il silenzio.
Forse ora Iris Cheney avrebbe potuto fare i suoi comodi.
 
Alle 3 di notte Diciassette era abbastanza svuotato per tentare un breve riposino, anche solo per prendersi una pausa simbolica dalla sua vita.
Ma il sonno non gli diede il conforto che cercava, la sua mente creò lugubri immagini di una feroce separazione fra Carly e lui; e di Carly che, a una settimana dal parto, abortiva suo figlio solo per fargli dispetto.
Si risvegliò nel mare salato del proprio sudore, rabbrividendo, col respiro mozzato. Pencil si era dileguata, la casa era ancora deserta. Perchè Carly non tornava a casa?
L'attese, irrequieto, fin quasi all’alba.
E poi si preparò per il suo turno.
 
 
 
 Alle 5 faceva abbastanza freddo per sfoderare il parka blu. I tre moschettieri, convocati da John per ispezionare il sito d'esondazione della Dorée, camminavano lungo una cresta: Lillian e Brent confabulavano, mano nella mano, mentre Diciassette appariva appena presente. Gli unici segni di vita percepiti dai suoi compari erano l'incedere per inerzia e la condensa del suo respiro che gli appannava gli occhiali da sole.
"Ehi fraté, come butta?" tentò Brent.
Lillian si affrettò sul sentiero per tenere il passo, "Il mio telefono...non riesco a bloccare lo schermo. Mi sistemi il telefono?"
"Io?"
Cosa faceva pensare a Lillian che lui se ne intendesse di oggetti elettronici? Non stava mica pensando…
Diciassette impuntò i piedi e si levò gli occhiali, "No…"
"Sì…"
"No."
Lillian si sforzò di alleggerirgli il morale, "A volte mi immagino che tu ti puoi sincronizzare. Tipo comandi mentali."
Diciassette non la considerò minimamente e a Lillian parve di essere tornata ai primi tempi in cui egli l'ignorava, se non per percularla.
Cercó di lasciarlo stare, doveva avere altro per la testa.
E lei sapeva pure cosa.
 
/
 
Per Elliott e Defiance era quasi arrivato il triste momento di separarsi. Ma prima dei grandi addii, in viaggio verso l'aeroporto di North City Defiance si fece lasciare giù alla stazione di polizia: c'era ancora una questione che voleva risolvere prima di tornare al Sud.
"Ha un numero di targa, signorina?"
Defiance passò al gendarme il foglietto, "Cosa farete adesso? Cercherete la targa nel database?"
"Ci proveremo, se non altro."
ll poliziotto non sapeva se sorridere davanti a un senso della giustizia così spiccato, o se ammirarlo.
"È fortunata signorina,” dichiarò il gendarme, dopo una ricerca veloce sul database. “La targa non è nostra, ma la proprietaria del veicolo risiede al Nord."
Defiance si protese verso il monitor: la foto e i dati di una ragazza, sul file elettronico, non erano quello che si era aspettata.
"Ufficiale, è un'auto rubata!"
Il poliziotto attese a chiamare direttamente la persona a cui la macchina era intestata.
"Il giorno dell'infrazione ho visto il colpevole, non era questa donna. Sono sicura."
Come se quella denuncia fosse una partita di Cluedo, il poliziotto decise di giocare con zelo, "Mi descriva questo colpevole. Età?"
"Una ventina."
"Etnia?"
"Come devo rispondere?"
"Altezza?"
"Tipo me."
"Segni particolari?"
Defiance si ricordava ancora ogni tratto del viso del tamarro: inclusi degli occhi penetranti come mai aveva visto di persona, ma forse solo su certe foto di famiglia che per lei erano preistoria, e che Rikki custodiva gelosamente.
 
 
 
/
 
 
La Dorée aveva allagato ettari ed ettari di campi e foresta. I ranger si misero presto al lavoro.
"Sev mi conti queste beole? Dobbiamo rifare il terrapieno."
Brent rimase a guardarlo, letteralmente ridendo sotto i baffi.
Diciassette diede all'ambiente circostante uno sguardo piatto che assomigliava a quelle lastre di pietra azzurrina.
"Sono 52. Quindi?"
"No, contale."
Diciassette cominciava ad infastidirsi, "4,8, 12…"
"No! Una ad una."
Diciassette gli fece un sorrisetto affettato, ad occhi stretti; prese ad impilarsi le beole sulla mano e si dileguò.
Il vichingo si sentì in dovere di giustificarsi con Lillian, "Ero curioso di sentire come conta Sev!"
"Come vuoi che conti?"
"Tipo '15, 16, io,' "
Il vichingo tenne a mente le beole che Sev aveva preso con sé e contò quelle che aveva lasciato.
Erano proprio 52.
 
Più tardi, Brent era dovuto correre a raccontare la storia del rudere di un alpeggio e Lillian ricevette una chiamata.
A Diciassette toccò sorbirsela in vivavoce, mentre lavorava al terrapieno.
"No, comandante, io non abbandonerò questa nave e il tuo primo ufficiale non vuole abbandonare la MI, Elliott è un altro compartimento nella sua vita."
A Diciassette non poteva fregare di meno, ma non aveva potuto non udire.
"Che vuole da te una del Sud, Lill?"
"Ti ricordi Vela Per Principianti?"
"Sì."
"Lei l'ha scritto. Tu lo stavi leggendo ad Halloween."
Diciassette ridacchiò a mezza bocca, "Tu ti ricordi di cosa stavo leggendo ad Halloween?"
"Mm mm." Lillian annuì, incerta se fosse qualcosa di positivo o meno.
"Cos'altro ti ricordi?"
"Ogni cosa."
Lillian soffrì all'aggressivo flashback di Diciassette coi capelli oltre le clavicole e  le mani sulle sue fossette di Venere; rifece esperienza del loro secondo bacio, del gusto di vodka alla fragola in bocca a lui, o nella propria; di lei sul tetto della macchina con le belle sopracciglia scure di Diciassette contro la guancia.
Tanto, troppo tempo fa.
La cosa peggiore era la non libertà di fronte ai ricordi: non sempre si poteva scegliere cosa tenersi e cosa dimenticare. E Lillian si sentiva in colpa per aver ricordato. 
"Comunque, se andassi alla Monster Island prenderei di più. Ma resterò qui."
"Vuoi andartene dai MRI?"
"MIR!" rise Lillian. "No, io resto. Ma come facevi a sapere che stavo parlando con una meridionale?"
Diciassette aveva solo voglia di starsene per conto suo ma visto che il lavoro andava fatto, sapeva che chiacchierare con Lillian l'avrebbe distratto.
Era grato che Lillian fosse lì, anche se non gliel'avrebbe mai detto; le fece un sorriso sornione, "Aveva quell'accento. Come mia madre."
"Dai? Sei dell'area di South City?"
Come se Lillian non sapesse che lui era nato e cresciuto a due passi da Central City!
"Non io. Mia madre. Credo anche mio padre."
Credeva…
Spontaneamente Lillian si rattristò per lui, ma non era il momento di aggiungere anche padri disertori al calderone.
Mentre i ranger continuavano la muratura a secco, con Diciassette che si sforzava di lavorare in sinergia con Lillian al suo ritmo da lumacone (invece di mandarla a quel Paese, evitando così di passare l'intera giornata su uno stupido terrapieno), una famiglia di quattro persone che passava di lì fece ciao con la mano.
"Passate un buon pomeriggio, state attenti!" Lillian trillò, lanciando uno sguardo al suo taciturno collega e parlando da sola, "e non prendetevela con lui, è bisbetico, gli saranno venute. A differenza della sua ragazza."
Lillian era ancora in piedi sul bordo della cresta quando Diciassette si materializzò dietro di lei; intuì cosa sarebbe presto accaduto e fissò quel villano con uno sguardo incredulo e indignato, "Ma vaff-"
E poi, con un colpo di mano di Diciassette volò dalla cresta, giù in un punto calmo e profondo della gelida Dorée.
 
 
/
 
Grondante d'acqua, Lillian corse a prendere nel bagagliaio una coperta in cui avvolgersi. La coperta non bastò a scaldarla e Lillian scese a North City in cerca d'una tazza di caffè caldo. Passando per una via, vide Bronwyn piangere fuori da casa sua.
Un'altra a cui marcava male...
Bronwyn non volle fare conversazione e continuò a singhiozzare; lasciò, però, il cellulare in bella vista,
 
Ok, ma la prossima volta che ti presenti con la biancheria color carne di mia nonna ti rimando indietro
 
Non c'era bisogno che Lillian tirasse ad indovinare il mittente.
"Bronwyn. Non devi subire questo."
"Ora mi cambierà con un'altra."
Non era la prima volta che Joel aveva qualcosa da ridire su di lei: ultimamente la criticava per la fragranza del suo bagnoschiuma, il colore delle sue mutande, la sua statura!
"Perchè non lo molli e basta? Quel cretino. Sai benissimo cosa vuole da te."
" 'Mollarlo e basta'! Poi sarei sola…"
"Meglio sola o col disamore di un cretino?"
"Ma io voglio lui," Bronwyn tirò su col naso.
Anche se non le piaceva quando, davanti a tutti, il suo moroso la chiamava "piccola idiota".
"Tutti hanno qualcuno. Tu ora il vichingo, persino quella palla di lardo di Gontier con quella boscaiola snobbettina…"
Non c'era nessuno fra le loro conoscenze  con cui Bronwyn non fosse stata velenosa: su di lei aveva detto e pensato peste e corna, le aveva dato della troia davanti ad una stanza piena di gente.
Alla fine, era una persona insicura che non sapeva stare sola.
"Io sono la belloccia di turno, nient'altro."
Bronwyn si considerava una piccola idiota. Anche i suoi genitori gliel'avevano detto, anche altri ragazzi.
"Chi t'ha chiamata idiota a parte Joel?"
"Non hanno bisogno di dirlo."
Il suo ex l'aveva mandata a fare shopping ogni volta che lei aveva voluto discutere seriamente; un collega con cui aveva messaggiato per un po' le aveva tirato un bidone al primo appuntamento.
"E anche quello stupido con gli orecchini, quando sono uscita con lui quella volta non mi ha cagata di striscio."
Interiormente, Lillian rise soddisfatta nel ricordare la volta in cui Bronwyn aveva tentato di usarla ed era stata ben ripagata, "Sì ma tu vai proprio a cercarli col lanternino, cosa pretendi?"
Non era facile uscire da una relazione, poco contava il tipo; Lillian stessa ci aveva messo del tempo per "disintossicarsi" da quello stesso bastardo, Joel.
"Lascialo perdere, non piangere e non sospirare per briciole. Sono tutto quello che Joel sa dare e tu sei una donna, non una formica."
Quando anche Lillian l'aveva capito e sentito, era stata una liberazione.
Bronwyn ora osava dirle di non farsi i suoi affari e che era invidiosa che fosse lei ad andare a letto con Joel.
Sul serio? Lillian aveva già avuto la sua bella giornataccia…
"Ma chi me lo fa fare a me, di fare la buona samaritana?" inveì, ancora gelata dall'acqua del fiume. "Io sono sempre quella in mezzo, devo sempre riparare tutto, consolare tutti, ascoltare i problemi di tutti e come vengo ripagata? Chi ascolta me? Ne ho piene le palle, cazzo!"
Con quella sfuriata rivolta alla vita stessa più che a Bronwyn, Lillian se ne andò per la strada, lasciandosi dietro una scia di goccioline.
Che stupida era stata, Bronwyn pensò di se stessa, ad andare a confidarsi con quella presuntuosa di Lillian.
Davvero, che megera quella lì.
 
 
/
 
 
Da quando avevano discusso, quel pomeriggio in camera da letto, lei aveva educatamente ma immancabilmente mantenuto le distanze.
La sera a letto gli dava la schiena, restava nel suo angolino attaccata al cellulare, in silenzio.
"Buona notte, amore..."
"Buona notte."
Crilin non voleva mai affliggerla. Eppure con quella storia del secondo figlio l'aveva fatta chiudere in un guscio così duro che ora, sua moglie Diciotto gli sembrava più inavvicinabile della cyborg sconosciuta tre anni prima.
Diciotto non era arrabbiata, ma delusa: si era abituata ad essere capita da Crilin quasi senza sforzo.
Crilin era empatico, sensibile, emotivo, molto più di lei; un tipo di uomo che il mondo considerava raro.
Lui aveva visto come si era svolta la gravidanza di Marron: era stato al suo fianco giorno e notte, a casa, nel laboratorio dei Brief mentre la ricucivano, nella clinica di Central City. Crilin aveva conosciuto i suoi tormenti, li aveva quasi vissuti con lei. E aveva il coraggio di pretendere un altro figlio da lei, di insistere!
"Molti padri considerano un secondo figlio. Non è un crimine, tu mi stai trattando ingiustamente," diceva.
"Come puoi essere così egoista? Io non ti darò un contentino dal prezzo così alto."
Avevano discussioni quasi tossiche, piene di pensieri che non sentivano loro, ma che enunciavano nella volontà di difendere il proprio punto di vista.
Diciotto era rimasta delusa dall'insistenza di Crilin, dalla sua inusuale mancanza di intuizione.
Tutto questo, unito a una frase che la tormentava dai bassifondi della sua mente, stava mettendo a dura prova la pazienza e la serenità di Diciotto.
"Tu stai qui a pestare i piedi, come fa Marron," quasi sibilava, indicando poi la finestra. "Là fuori ci sono gli androidi!"
Da quando si era denominata Super 18, Diciotto non aveva mai espresso preoccupazione per nessun nome della lista di Dende. Tuttavia, quello che 19.2 le aveva detto le era rimasto impresso.
Era stato a scoppio ritardato.
Diciotto se n'era accorta quando, persino con Hacchan, non aveva voluto parlarne.
E quando Crilin le chiese spiegazioni, Diciotto gli riportò le parole esatte della diciannovesima creazione:
"Che il Supremo salvi te e chi è come te."
Crilin ci riflettè, "È chiaro che parla di noi terrestri umani. Gli androidi fatti e finiti ti considerano un'umana."
Diciotto ripensò a quando aveva sconfitto 14, a Saffron Town. "Sei poco più che un'umana," le aveva detto, connotando la frase d'inferiorità.
Gli androidi nemici non vedevano Diciotto come "una di loro" e 19.2 aveva alluso semplicemente alla missione che Dende aveva dato a lei, Hacchan e Sedici: proteggere l'umanità dalla resurrezione delle macchine del Red Ribbon.
"Fossi in te, non perderei sonno pensando a 19.2."
"Non lo so, Crilin. È questo il punto."
Oltre al fatto che 19.2 era sopravvissuto al suo attacco, Diciotto aveva avuto la sensazione insondabile che ci fosse altro in quelle parole.
Fra quello e tutta la storia dei figli, Diciotto aveva bisogno di conforto. Doveva anche fare qualcosa che si era imposta, ma di cui si era scordata.
E lo fece col cuore pesante, sapendo che la vera ragione non era la necessità di informare, ma un bisogno di affetto che non poteva più ignorare.
 
 
 
 
 
 
 
Pensieri dell'autrice:
 
Due parole: team Defiance.
No. CHE DISAGIO!
Sicuramente la presa di coscienza della gravidanza è stata molto più serena e romantica con Diciotto e Crilin!
Nella mia interpretazione, Diciassette non è mai stato particolarmente accorto a non far soffrire le persone che egli stesso ama. Io cerco sempre di restare IC: penso che tutto ciò si addica al bad boy di Z, e qui è ancora a quello stadio della sua vita.
Ma non temere, Lapis, Carly 1.non è malvagia, 2.ama te e il tuo bambino ❤
Brent è tornato con le sue battute opinabili e abbiamo visto anche le grane di Diciotto. Secondo voi cosa vogliono dire le parole che tanto turbano la cyborg?
Last but not least: il padre di L&L non è un disertore, li avrebbe adorati (e fatti rigare dritti), se li avesse conosciuti😭
Vi do appuntamento venerdì prossimo con i fratelli che si scannano! "17 VS 18".
 
 
PS.
-dovrei farmi anche io la playlist "Umore di merda"
- MRI in inglese è la risonanza magnetica😂
 
 
 

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Capitolo 38
*** 17 VS 18 ***


38. 17 vs 18
 
 
 
Diciotto suonò il campanello una volta, due volte.
Nessuna risposta.
Sentì una presenza alla finestra e il suo sguardo incontrò quello di un animaletto, dall'altro lato del vetro.
Questa le era nuova; o forse, non più di tanto.
Il GPS aveva portato Diciotto dritta all'indirizzo che ella rilesse nei messaggi, giusto per essere sicura.
Diciotto suonò ancora, perse ancora la pazienza. Trasformò il dito in un'asticella nera rilucente e lo fece scivolare fra la porta e lo stipite, con un clac soddisfacente di serratura che scattava.
 
 
/
 
Seduta in ufficio, al lavoro, Leni era in pensiero per Carly. Non aveva lasciato che tornasse a casa sua, era restata sveglia a consolarla fin quando non si era addormentata, per sfinimento più che altro. Le aveva lasciato una copia delle sue chiavi di casa, provò a chiamarla per sapere come stesse ma trovò la segreteria.
Gliel’aveva detto che era una brutta idea…
Leni udì dall’esterno la voce di Brent; sembrava su tutte le furie.
“Ti sembra il modo, buttare la mia ragazza nella Dorée? Hai passato il limite.”
"La tua ragazza?"
Brent e Diciassette irruppero nell’ufficio di Leni.
"LA MIA RAGAZZA. Che tu nemmeno col dito devi toccare."
Leni li interruppe, “Siete venuti da me a disputarvi la virtù di Lillian?”
Brent scelse di ignorare la risatina secca, da sberleffo, che uscì dalla bocca di Diciassette.
“Ciao a te, Leni.  Digli che si è comportato da bastardo e sospendilo.”
“Non le ho fatto male, caso chiuso,” borbottò il top ranger, lasciando sulla scrivania di Leni un documento che lei doveva leggere attentamente.
“Il mio porto d’armi. Dammi il fucile, ora.”
“E a te chi te l'ha dato un porto d’armi?”
Leni non ottenne risposta.
Gli aveva messo i bastoni fra le ruote per quasi due anni, ma ora che aveva ottenuto il permesso e l'approvazione di John, a lei toccava fargli avere la sua arma d’ordinanza, come ogni altro guardiaparco idoneo.
“E si ritorna a sparare ai braccionieri!” reclamò Brent. “Lenchen, non hai sentito quello che ho detto?”
“E che ci posso fare io?” si indispettì Leni, a sua volta, già sufficientemente confusa. “Lillian mi sembra stare bene; farsi rispettare spetta a lei.”
Brent, indignato, lasciò l’ufficio; Diciassette si voltò per seguirlo.
“No, tu resta qui. Posso parlarti un attimo?”
Le sopracciglia aggrottate del ragazzo sembrarono ancora più nere, “Non ho tempo.”
“Invece sì, diamine.” Leni mantenne la calma. “Volevo solo dirti che per oggi puoi andare a casa. No, non ti sto licenziando, vai solo a prenderti il pomeriggio. John se la caverà.”
“Io non prendo ordini, men che meno da te.”
“Non me ne frega, Diciassette!"
sbottò Leni, il viso irremovibile e serio. Solo con quel mezzo ottenne l'attenzione di quel discolo, "Vai a fare pace con Carly.”
Diciassette si passò una mano fra i capelli legati, nervoso; spostò lo sguardo da Leni alla finestra, “Tutto qui?”
Era Carly ad essere in torto; lei l’aveva fatto soffrire, la sua era stata la reazione all’azione.
Leni gli dava ragione, parzialmente, “Sei tutto sottosopra, giustamente. Ma la cosa ti sta sfuggendo di mano: Carly ha un bambino dentro e tu ne sei responsabile, come puoi farla stare così in pena? Non capisci che è delicata?”
Certo che lo capiva…
 
 
 Diciassette non sapeva ancora se andare a prendere Carly a casa di Leni. Voleva un momento per sé, prima di tutto.
A casa guardò Pencil strusciarsi contro le sue caviglie, liberando nuvole di pelo; poteva quasi udire Carly che si lamentava del fatto che lui non l'avesse spazzolata.
La gatta non stava zitta un attimo.
"Ho capito! Lasciami arrivare!"
Diciassette trafficò in cucina e mise sgarbatamente a terra una scodella piena di crocchette, che Pencil ignorò: era impegnata a miagolare, il corpo teso verso il salotto.
"Ma non vedi, disgraziato, che non ho fame?" gli avrebbe detto, se solo avesse parlato la sua lingua.
Pencil condusse lo sguardo del suo scontroso padrone fino ad una poltrona in salotto, su cui Diciotto sedeva a gambe accavallate.
“Sei tornato, infine.”
Diciassette storse il naso e ritornò in cucina, senza dire una parola. Diciotto lo raggiunse, baldanzosa, “Alla fine non ero ancora venuta a trovarti. Complimenti, riesci sempre a procurarti case migliori della mia.”
"Diciotto, non mi riguarda. Vattene."
Le parlò con un tono così gelido che Diciotto non osò replicare, nell’immediato. Diciassette non scherzava, conosceva sua sorella: non sarebbe venuta a cercarlo senza un favore da chiedergli, qualche problema con cui assillarlo.
Di fronte a quella reazione che, in fondo, aveva temuto Diciotto perse la sua facciata di compostezza; il viso le si irrorò di colore, “No! Stammi a sentire...Ho bisogno di te.”
Diciotto voleva che suo fratello gemello fosse lì ad ascoltarla, senza se e senza ma come aveva sempre fatto: alle volte tutti hanno bisogno di essere semplicemente ascoltati, e che Diciassette fosse disposto a lasciarla parlare era tutto ciò che Diciotto chiedeva.
Aveva così tanto da dire: doveva rivelargli di Hacchan, doveva sfogarsi per le sue discussioni con Crilin.
“Quindi se ho un problema, non posso parlarne con te?”
Diciassette non si chiamava discarica lamentele, "I tuoi problemi non mi riguardano."
Diciotto lo seguì vicino alla porta aperta. La pietra che marcava la soglia si sbriciolò quando egli scattò su in aria.
La cyborg lo seguì sul fianco di una montagna, più in alto della tundra, a due passi dalle nevi perenni. Aveva forse tentato di seminarla.
Vedendola lì con lui, presenza non richiesta e molesta, Diciassette l'afferrò per il bavero.
Diciotto si agitò per liberarsi, “Ti sei bevuto il cervello?”
"Non me ne importa di te e delle tue cazzo di lagne," ringhiò Diciassette, di rimando.
Conficcò sua sorella in un muro di roccia, con una violenza intenzionale che fece scuotere la montagna sotto i loro piedi.
Diciotto non aveva mai visto suo fratello così.
Diciassette era colui che l'aveva sempre sostenuta, Diciotto non aveva mai dubitato di lui. E ora che aveva bisogno di lui, lui l’affondava nella sua ansia.
Nella loro vita avevano litigato, erano anche arrivati alle mani, ma questa volta era diverso. Lui era livido, le sue parole erano proprio velenose.
E quello stesso veleno salì in gola a Diciotto, dilagò nella sua voce.
"Come ti permetti?"
Non avevano combattuto l'uno contro l'altra dalla volta in cui Gero li aveva testati. Ma se era questo che lui voleva, Diciotto gli avrebbe ricordato chi era la queen. Non aveva mai permesso a nessuno in vita sua di trattarla così, figurarsi se sarebbe stato Diciassette ad arrogarsi quel diritto!
"Se hai voglia di prenderle da me fai pure, sono proprio dell’umore!”
Diciotto si scrollò i detriti dalla giacca stracciata e assunse una postura sdegnosa, come a volerlo incitare a colpire; gli avrebbe insegnato a tenere la sua linguaccia a freno, l'avrebbe martellato di botte fino a farlo svenire, l'avrebbe scaraventato così forte da fargli sputare sangue, altro che Cell.
“Ricordati sempre qual è il tuo posto. Io sono la prima nata, quella che conta: tu non sei altro che secondamento.”
“Bene.”
Il mondo intorno a lei andò in blackout, il colpo che Diciassette le sferrò in faccia l’accecò per un istante; quando Diciotto riaprì gli occhi, giusto pochi secondo dopo, le sembrò che niente fosse successo. Diciassette era in piedi di fronte a lei, come se non si fosse nemmeno mosso.
La cyborg sentì un dolore pulsante al naso, nelle orbite, nel suo intero cranio, vide del sangue gocciolare ai suoi piedi; le gocce cadevano una ad una, come all’inizio di un acquazzone. Spinse fuori tutta l’aria che aveva nei polmoni e altro sangue le schizzò dal naso, ma non si liberò da una nuova fastidiosa congestione.
Diciassette alzò il mento, con soddisfazione; la sorella venne ad attaccarlo con uno schiaffo che lo fece cadere, ma che causò dolore anche a lei.
Quel colpo diede inizio ad una lotta corpo a corpo fra i due fratelli fatta di colpi pesanti, carichi di rabbia, che cadevano alla cieca. Sulla montagna pezzi di roccia e lastre di ghiaccio franavano ad ogni colpo, perdendosi in silenziosi crepacci.
“Ti odio!” gridò Diciotto, col naso ferito che continuava a gocciolare; forzò Diciassette in posizione supina, mettendosi a cavalcioni su di lui, colpendolo dove capitava, “Ti odio quando mi lasci marcire nella mia angoscia!”
Diciassette non voleva ancora parlare: la sua indifferenza era la risposta peggiore di tutte, anche del disprezzo di prima. Diciotto gli piantò una poderosa ginocchiata in pieno petto, un colpo che egli sentì come un terremoto, energia dolorosa che si propagava in ondate da quell'epicentro fino ai suoi arti. Diciassette emise un lamento sommesso.
“Non mi merito di essere ignorata così, non me lo merito…”
Diciotto lo sollevò per la maglia, sbattendolo contro la stessa parete rocciosa su cui lui aveva fatto un buco usando lei; e in quell’occasione Diciassette le sferrò un violento colpo al fianco, con il suo stinco. Sembrava che non volesse attaccarla, ma solo difendersi: mentre Diciotto gemeva al rumore delle sue stesse ossa che si incrinavano e la botta la forzava a barcollare e a piegarsi, Diciassette rimase semplicemente a guardarla.
E il modo in cui la guardava, con sufficienza, nemmeno calcolandola come minaccia, fece imbestialire Diciotto. Gli posò il braccio-lama al centro del torace, tagliuzzando leggermente la sua maglia.
"Tanto non hai le palle di farlo. Io sarò sempre-"
"L'hai voluto tu."
La lama attraversò i tessuti potenziati di Diciassette come se fossero carta.
Ad ogni sorrisetto di scherno che aveva ancora la faccia di tolla di rivolgerle Diciotto rigirava il braccio, penetrando sempre più a fondo e facendogli stringere gli occhi.
"Stupida…" tossì lui, lottando per non crollare in ginocchio.
"Sta' tranquillo, vivrai."
Diciotto osservò con una certa ammirazione il solito Diciassette tenere alta la testa, ferirsi fino ai polsi nel bloccare la lama nella sua forte presa.
In quel momento, Diciotto aveva un netto vantaggio: eppure il corpo di Diciassette era pur sempre più efficiente del suo, più poderoso. Bloccata da quella resistenza, la lama infusa di energia infinita e kachi katchin non si muoveva, iniziava persino a creparsi.
Diciassette espirò con un ghigno subdolo, "Non ho sentito niente."
La cyborg femmina mal sopportò la provocazione: spinse la lama, fece malignamente pressione sul petto del cyborg maschio con il gomito dell’altro braccio.
Il dolore gli strappò un lamento profondo, gutturale; Diciotto incassò un durissimo colpo allo zigomo con un sorriso vittorioso; se l’intento era di seviziarlo e fargli proprio male, fu certa di aver centrato l’obiettivo. Diciassette si ostinava a colpirla per disperazione, ma non la scherniva più. Diciotto si seccò nel trovarsi a così poca distanza da Diciassette, quando questi fece una faccia e rigurgitò un fiotto di roba densa, sangue misto a bile, sul suo braccio-lama; lo punì con un pugno allo zigomo, a sua volta.
Diciassette volle abbandonare quella lotta con un ultimo gesto di sfida: estrasse lentamente la lama da sé con una sola mano (con l’altra si prese il tempo di pulirsi la bocca) e l’infranse in mille pezzi con la mera forza dei suoi muscoli.
Un tentativo impressionante, ma vano: con un battito di ciglia di Diciotto, la lama si riaggregò e rilucé al sole, pronta a colpire fino ad uccidere se colei che la brandiva avesse voluto.
“Diciassette...sei il solito testardo. Non hai ancora imparato quando è ora di abbassare la cresta.”
Diciotto aveva già provato la sua superiorità: evitò di trapassarlo da parte a parte e magari perforargli un polmone, anche se era tentata di farlo.
Leggendogli in viso la prima ombra del cedimento, Diciotto capì che aveva fatto sufficiente danno; forse aveva anche messo Diciassette in pericolo di vita.
 
 
 
 
 Si erano battuti con perfidia, con l'intenzione di farsi soffrire, gioendo della sofferenza mutuale.
Kate avrebbe pianto a vederli.
Quando Diciotto arrivò alla Kame House lasciò tutti scioccati; nessuno pensava che la cyborg potesse mai apparire così.
Camminava sbilenca, trascinandosi un piede, il volto tumefatto era incrostato di sangue rappreso, i vestiti ridotti a stracci sporchi; a ogni inalazione emetteva una specie di fischio.
"Cazzo…" borbottò Crilin, andandole incontro. Posandole una mano sul fianco per sostenerla, sentì un affossamento.
Marron iniziò a piangere, a vedere la sua mamma che sembrava un'altra.
Le lacrime della loro bambina fomentarono la rabbia di Crilin, "Chi ti ha fatto questo?" Ci avrebbe pensato lui con le sue stesse mani.
"Abbiamo fatto i conti, io e Diciassette."
"Oh…"
Ecco come litigavano due fratelli cyborg; l'impeto di vendicare la madre di sua figlia vacillò.
Diciotto annaspava e starnutiva, il Genio si prese la libertà di avvicinarsi. "Fammi vedere."
Con insolita docilità, Diciotto prese posto su un basso sgabello e lasciò che il vecchio le inclinasse il capo all’indietro. Il sangue iniziò a scorrerle giù per la gola, facendola tossicchiare.
Muten vide che lo zigomo e il setto nasale della quasi invunerabile Diciotto erano completamente schiacciati.
"Miseria...Crilin, senzu.”
“È stato l’altro cyborg?” chiese Tien, quasi incredulo.
“Muten conosce i rudimenti di primo soccorso,” ponderò Yamcha, “di certo però non ha mai sistemato il naso di tuo marito…”
Il senzu avrebbe aiutato, ma una manovra andava comunque fatta. Il Genio le infilò due batuffoli di cotone nelle narici, Diciotto trangugiò il fagiolo magico e si preparò al dolore, sapendo il fatto suo.
"Voi tutti non preoccupatevi per me: quella messa peggio non sono io."
 
 
 
/
 
Nel tornare a Verny Carly trovò la porta dello chalet aperta, nessun segno di Lapis nei dintorni.
Si era appena seduta al tavolo a rimestare senza voglia lo zucchero nel tè, quando Lapis irruppe in casa con fragore. Carly ansimò, fece cadere il cucchiaino.
Lapis le passò accanto, un ematoma sul volto pallido, le labbra senza colore e le mani piene di tagli. Carly fermò la sua corsa verso un’altra stanza, protendendo le dita verso la ferita aperta.
“Lapis! Oh dio!”
Diciassette sarebbe probabilmente tornato come nuovo, ma Carly perse un battito a vederlo conciato così.
Lui si voltò e andò a lavarsi via il sangue.
"Torni a casa da me così e pretendi che io non mi preoccupi? Dobbiamo andare in ospedale,” gli urlò Carly.
Diciassette non aveva intenzione di andare in nessun ospedale. Con una coltellata come quella ci sarebbe andata di mezzo la polizia.
"A casa mia ci torno come mi pare e piace. E a differenza vostra, IO non mi rompo."
"Se tu vuoi stare male, va bene. Ma non ti permetto di fare stare me così male!"
Carly ripartì come un treno su per le scale, sbattendo la porta della camera.
 
 Diciassette si adoperò a lavarsi e ad arrotolarsi attorno al busto vari giri di garza. Riusciva a prendere boccate d'aria, i suoi polmoni erano intonsi, ma ogni volta che respirava più profondamente chiudeva gli occhi e si conficcava i denti nel labbro per non gemere.
Riempì un bicchiere d'acqua fredda e si forzò a buttare giù un grande sorso; un lamento gli sfuggì e il suo bendaggio si macchiò di nuovo di rosso, era come bere alcol puro.
Udiva Carly trafficare, chiudere ante e cassetti; se la vide riapparire con un bagaglio a mano.
“Ti sono inutile, vero? Quando ti girerà di essere di nuovo il mio ragazzo e non una fonte d'ansia, vieni pure a riprendermi a Central City."
Diciassette sputò un coagulo scuro nel suo pugno, senza accortezze per lei.
"Tch. Se è così che vuoi gestire le cose, non penso dovremmo più vederci.”
Era orribile.
Come poteva trattarla così, “Non puoi! Non puoi lasciarmi ora.”
“Tu stai facendo di tutto per lasciare me."
Davvero lei e Lapis non potevano più funzionare?
Carly si era detta che non voleva più soffrire per lui, specialmente se lui sceglieva di essere così.
C’erano milioni di donne che venivano mollate in gravidanza, Carly mai aveva pensato che forse sarebbe stata una di loro.
Ma no, quello era solo un litigio e lei non doveva arrendersi.
Diciassette le afferrò un polso.
Voleva che Carly rimanesse in un momento in cui si sentiva a pezzi, voleva così tanto che gli stesse vicino e lo calmasse, che gli carezzasse i capelli e gli tamponasse le ferite.
Ma Diciassette non si concesse quel diritto: se lui era a pezzi era stata colpa di Carly, innanzitutto. E poi forse, segretamente, voleva restare solo come un cane. Voleva giustificare con quei tormenti il male che sicuramente stava facendo a Carly.
E allora la lasciò andare.
 
 
 
/
 
Il senzu aveva curato le ossa rotte, ma c’erano questioni che dovevano essere riparate con l’accantonamento di sentimenti come orgoglio e rabbia pura.
Diciotto lo trovò seduto sul letto, stagliato contro la luce del tramonto. Piangeva in silenzio, a grosse lacrime.
Diciotto andò a sedersi al suo fianco, e lui abbassò la testa, "Sono stato uno stupido. Quando sei tornata in quello stato, io...È colpa mia."
"Crilin, no."
Crilin la sentì carezzargli la pelle sensibile della nuca. Sapeva che con lei poteva piangere, pianse fino a inzupparle il seno, fino a che la tristezza si esaurì.
"Diciotto, lo so che è tuo fratello, ma-"
"No, lascia. Ne ha avuto abbastanza."
Diciotto lo guardava come per dirgli "sai di cosa sono capace".
Marito e moglie si distesero sul letto a guardare il tramonto.
"Ho considerato...Forse un giorno. Ma non posso prometterti niente, Crilin. E tu...non è un modo per convincermi. Potrei, forse, ma ho bisogno di tempo."
Diciotto e Crilin avevano finito per fare pace. A mente serena, Diciotto rammentò una delle sue più antiche dichiarazioni d'amore, fra tutto ciò che Gero le aveva lasciato ricordare: il patto di sangue era l’unica circostanza in cui Diciassette avrebbe dovuto versarne per lei.
Alla fine, certe reazioni profonde non cambiavano mai: Diciotto si sentiva a disagio sapendo che suo fratello era ferito.
E che era opera sua.
 
 
 
/
 
 
 Un’altra sera solitaria era scesa su Verny. Diciassette aveva male ovunque, dalle costole più basse sino allo sterno fracassato. Gli doleva abbassarsi o stirare i muscoli, non riusciva nemmeno a deglutire la sua stessa saliva.
Si era accucciato sul divano, piombando in un sonno cattivo impastato di veglia. Durante quella breve ibernazione della coscienza vide se stesso entrare a casa sua e trovarci Carly al termine della gravidanza, come sarebbe stata alla fine dell'anno. La vedeva sorridergli, vedeva Lillian sbucare dal nulla al suo fianco. In braccio teneva un bambino piccolo che le somigliava, pelle dalla grana dorata e occhi profondissimi; ma i sottili capelli color nero puro non erano di Lillian.
Poteva avere un paio d'anni, la stessa età della loro amicizia…
Il dolore fisico destò Diciassette: il taglio sanguinava ancora, la benda si era imbevuta d'acqua. 
Diciassette constatò che il suo stomaco era stato compromesso. Con dolore forse più psicologico che fisico, vide che era lungi dall’essere invincibile.
Sarebbe stata una ferita potenzialmente fatale se lui fosse stato ancora un umano basic; persino ora, conseguenze come disidratazione e avvelenamento del sangue potevano essere un problema.
Un fastidio, più che altro; gli era successo di peggio nei suoi ventitré anni di vita.
Rimase sul divano, gli mancarono le forze di fare qualsiasi cosa: se stava aspettando di rigenerarsi come un namecciano, non sarebbe accaduto.
"Hm. Non male."
Se da un lato era arrabbiato con Diciotto la sorella, doveva riconoscere il valore di Diciotto la guerriera.
 
 
/
 
Erano le 7 a Central City.
George Der Veer fu grato, questa volta, di vedere la figlia scendere dal treno alla stazione del Nord.
Era quasi un anno che non la vedeva.
 “Papi!”
Carly gli corse incontro, si buttò con forza fra le sue braccia, come quando era piccola.
“Carly Jane, questa è stata una sorpresa…”
George la baciò, Carly non mollava la presa: si sentiva protetta fra le braccia del suo papà.
“Vedo che i miei lardominali sono sempre comodi,” scherzò George. Era stata Carly, da bambina, a dare quel nome.
“Sempre…”
Se c’era un uomo di cui Carly poteva sempre fidarsi, era il grosso George.
Egi riuscì finalmente a incontrare gli occhi di sua figlia, sotto la frangetta spettinata. Si vedeva che era stanca, aveva appena viaggiato per dieci ore. C’era anche qualcos’altro, il papà glielo lesse in faccia, “Tutto a posto, principessa?”
Carly restò a fissarlo per un momento: le lacrime che si era promessa di trattenere ruppero gli argini della sua volontà.
“...No.”
Ancora sul binario, Carly si coprì gli occhi e si lasciò andare ad un pianto dirotto. George continuò a stringerla.
“Che dici, mi racconti davanti a un buon fish&chips?”
Carly annuì, ancora piagnucolando, “Con un mucchio di sale e aceto di malto…”
“E che fish&chips sarebbe, altrimenti?” George le prese il bagaglio e si avviò con lei fuori dalla stazione.
 
 
 
/
 
 
Anzichè riprendersi, Diciassette era solo stato peggio.
Di nuovo sul sito d’esondazione della Dorée Lillian lo guardò sgomenta, istintivamente indietreggiando di un passo. Diciassette sembrava proprio emettere ondate elettriche di "guai a chi mi tocca".
"Ehi Sev...non per dire, ogni centimetro di te è grandioso da cima a fondo, ma che faccia da galera! Che succede?"
Lillian non fece in tempo a ricevere una risposta; vide atterrare Diciotto, la gemella. Era arrivata da chissà dove.
Costei non prestò attenzione all’umana che, senza che lei la mandasse via, preferì dileguarsi.
Trovò Diciassette più torvo del solito: essere sovrumano gli permetteva lo stesso di farsi delle giornate normali ma due giorni di emorragia, senza nemmeno un goccio d’acqua l'avevano deturpato.
"Che vuoi, Diciotto."
"Chiederti scusa, no."
Era lui che aveva cominciato, lei aveva solo risposto alle provocazioni, "Ma aiutarti, sì."
Gli lanciò un sacchettino, Diciassette lo aprì senza curiosità. "Senzu?"
"Cril ne ha un po' a casa; prendine uno."
Diciassette non ne aveva voglia. Si limitò a scuotere la testa, come un ragazzino capriccioso.
Possibile che tutte le volte che Diciotto cercava di prendersi cura di lui, Diciassette doveva comportarsi da orso? Le faceva passare la voglia.
Diciotto stava cercando di sistemare la sua coscienza, più che suo fratello, "Avanti."
Com'era abituata a fare con Marron, aspettò che Diciassette si stancasse di fare i capricci e cercare di sputare. Gli posò il senzu in fondo alla gola, "Ti rimarginerà le ferite e riprenderai subito le forze."
Da come Diciassette si stava sforzando, grugnendo con una mano sul petto, a Diciotto venne il dubbio che stesse faticando a deglutire.
Lo forzò a sedersi con lei, "Ciuccialo come una caramella. Manco fosse un blocco di cemento, su…"
Diciassette era abbattuto fisicamente, ma la testa era quella di sempre; diede alla sorella uno sguardo altamente infastidito.
Quando il senzu fece effetto, Diciassette si toccò il petto con sollievo e si alzò a fronteggiare Diciotto, sfruttando ognuno dei suoi sei centimetri di statura in più.
"Mi hai fatto un buco nello stomaco."
"Con precisione chirurgica; tu mi hai rotto la faccia e l'anca."
"La camminata da cane bastardo ti dona. Mi hai sbrindellato la camicia!"
Diciassette aveva dovuto buttarla via.
Anche Diciotto, "Secondo te io la mia l'ho tenuta?"
Avevano esaurito gli argomenti per litigare a ping pong; da piccoli potevano andare avanti per ore.
"Mi hai fatto un bel servizio, te lo concedo," ammise Diciassette.
"E tu hai infranto la mia super lama: pazzesco."
Diciassette ne era stato capace. Era stato uno spunto di riflessione.
"Perdonami."
"Anche tu."
I due fratelli si sedettero vicini, grati di aversi lì.
Diciotto voleva vederci chiaro, "Ma alla fine, non vuoi dirmi come mai eri così?"
"Niente. Litigato con Carly."
Diciotto si sarebbe presto sposata, sperava che non si fossero mollati proprio ora.
“E tu, Diciotto?”
Diciotto non ne aveva più voglia.Abbracciò Diciassette, ponendogli una mano sul collo.
"Niente. Dormi."
Diciotto gli premette un punto vitale sulla nuca, facendolo sprofondare nel sonno. Ebbe cura di appoggiarsi la sua testa sul petto.
“Non sei pesante…” Diciotto se lo caricò in spalla, volò fino allo chalet.
L'adagiò con cura sul letto, lo lasciò in biancheria e lo coprì con il leggero piumino.
La prima nata sperò che il suo piccolo Lapis dormisse un lungo sonno riparatore.
Aveva appreso quella tecnica che coinvolgeva i punti vitali da Muten; dopotutto, più imparava meglio era.
Prima di andarsene si assicurò che la porta che dava sul retro, in cucina, fosse chiusa.
Fu allora che vide una famiglia rincasare: un ragazzone, un bambinetto di forse quattr'anni e una ragazza dai capelli neri finti. Quest'ultima,benché gracile, le parve in pieno secondo trimestre.
"Ugh…"
Ultimamente Diciotto vedeva famiglie in espansione ovunque.
 
 
/
 
Carly era rimasta sorpresa dalla gioia che suo padre aveva mostrato, quando gli aveva comunicato la gravidanza.
Si era aspettata che ne rimanesse scioccato, o che avesse pena di lei. Invece le aveva detto “che bel regalo mi avete fatto”.
“Non vuoi dirlo alla mamma?”
Carly non aveva nessuna intenzione di farlo sapere a quell’estranea; George avrebbe rispettato la sua decisione.
La tensione era stata stemperata davanti a un videogioco: a George era mancato giocare con Carly, gli era mancato proprio fare il papà.
Ogni due per tre le portava qualche leccornia, “Vuoi la cioccolata coi marshmallows?”
“No.”
"Cinnamon rolls?"
"No."
“Vuoi gli scones al cheddar? Del signor Cox."
Il loro vicino che aveva sempre condiviso con loro i suoi esperimenti culinari.
"Lo fai apposta, papà!"
Carly si arrese, prendendo uno scone dal vassoio. Si era anche resa conto della reticenza nell’esprimersi sui feroci litigi con Lapis, per paura che George pensasse male di lui.
“Non voglio che tu odi Lapis. Sono stata io a sbagliare e lui...è così...”
“Non potrei mai odiare Lapis,” la tranquillizzò George. “Ma tu sei mia figlia, non voglio che tu stia male a causa sua. Vorrei parlargli. Sai, uomo a uomo.”
Carly era stata molto agitata in quegli ultimi giorni, aveva anche intrapreso un frenetico viaggio in treno.
Fosse stato per lei si sarebbe fatta un'ecografia alla settimana, ma ora era proprio in pena. George volle accompagnarla e Carly voleva che lui fosse lì.
Il giorno dopo il suo arrivo a Central City Carly mandò un messaggio a Lapis,
 
Sto andando a vedere il bambino, con papà. Vieni?
 
 
Carly sperava che lui volesse raggiungerla.
Ma Lapis visualizzò senza rispondere.
 
 
 
 Padre e figlia sedevano nella saletta, aspettando il turno di Carly. Nel frattempo, su un altro piano dell’ospedale Sara saliva in ascensore col passeggino. Era lì con Amelia per un controllo di routine. Sara premette il tasto 2 e osservò le porte chiudersi; all’ultimo momento una signora le bloccò, per permettere ad un ultimo passeggero di entrare.
Guardandosi distrattamente intorno, Sara scorse gli inconfondibili tratti e colori del suo compagno delle medie, "Lapis! Qual buon vento?"
"La fretta."
Premette il tasto -1.
Sara non fece apposta a vedere dove Lapis era diretto, ma il pannello indicativo di fronte a lei diceva -1 Cure Prenatali.
Lo fissò, attonita, "Lapis?!"
Diciassette annuì seccamente, "Già. Ci vediamo."
 
 Scostò le porte del piano -1 appena prima che arrivasse il turno di Carly.
Al vederlo ella sentì il cuore farle un doppio carpiato nel petto, “Sei venuto!!”
L’abbracciò con tutte le sue forze; Diciassette si fece abbracciare.
“Carly Der Veer? Entri pure,” una dottoressa dall’aria amichevole invitò la gestante e i due uomini a seguirla.
 
 Diciassette si sentiva irrequieto nel vedere Carly distesa su un lettino, gli occhi rilucenti d’emozione e la pancia completamente scoperta.
Un’inquietudine sconosciuta, che scaldava.
La dottoressa si mise all’opera con una specie di scanner.
"É stato un attimo," disse serenamente Carly, forse rivolgendosi a se stessa.
"Eh, alla vostra età…"
Il sorriso della dottoressa contagiò immediatamente i Der Veer, la sonda mostrò la silhouette nitida e definita di un corpicino.
"Amore! Guarda!"
Carly trattenne il respiro; si lasciò sfuggire una lacrima e cercò urgentemente la mano di Lapis; guardò insieme a lui il bambino che si stirava, movimenti che lei non poteva ancora sentire.
“È la prima volta per il futuro papà, vero?”
La dottoressa notò gli occhi di quel ragazzo, sembravano gemme, e il leggero tremito del suo labbro.
Diciassette pensava sempre che gli altri non si accorgessero del suo umore; poteva anche avercela con Carly (eccome se ce l'aveva con lei) e pretendere che non gliene fregasse nulla, ma non poteva restare indifferente a ciò che stava vedendo.
Tutto era diventato così reale.
Ogni grande esperienza era una cosa a sé: Diciassette aveva vissuto avventure incredibili, eppure vedere coi suoi occhi quella figura umana in miniatura, separata da lui solo da pochi strati di pelle sottile, lo lasciò senza fiato.
Era stato un attimo e aveva cambiato per sempre il corso della sua vita.
"Mio figlio…"
George udì Lapis sospirare piano, si soffermò su di lui; rivide il bulletto di quindici-sedici anni che veniva a prendere Carly con la moto e s'intenerì.
"Un bambino che cresce nel ventre materno è un miracolo da vedere. E quello è il tuo, ragazzo."
Carly era fatta per vivere e amare: lui le aveva donato un boost di vita che il terreno ricco del suo corpo si era bevuto avidamente.
Il seme aveva attecchito, e ora lui stava guardando il fiore.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Pensieri dell’autrice:
 
Diciotto evita di infilzare a oltranza suo fratello, che magnanima😅 Quella in vantaggio qui era lei hands-down.
Riflessione sui miei personaggi preferiti⤵
 
Ricordiamoci sempre che i cyborg non sono carini e coccolosi. Il loro scontro, pieno di rabbia tra l'altro, doveva essere rude e crudo.
Nonostante i loro progressi, loro due restano non particolarmente efficienti ad assimilare le loro stesse emozioni e a conviverci. Specialmente Diciassette. Diciotto sa essere molto stronza, ma alla fine resta una brava sorella! Io la vedo più adulta di lui, in Z. E Diciassette continua a fare lo stronzo con Carly, ma infine non resta indifferente a suo figlio...
Nessuno è perfetto, io sto sempre molto attenta a non idealizzare 17 e 18; penso di essere stata IC. Lo spero almeno.

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Capitolo 39
*** Un Desiderio ***


39. Un Desiderio






 

 Si era risvegliato dal nulla, in una fredda mattina di dicembre.

La sua memoria era stata un vuoto per giorni, aveva vagato per chilometri senza una meta, senza una direzione.

La gente che l'aveva incrociato per strada gli aveva annuito, come se fosse uno di loro.

Era stato un viandante, incompleto, fin quando la memoria non gli era ritornata.

Allora aveva gridato. Si era torturato i capelli, graffiato la pelle, con le sue mani. Di nuovo due, le sue mani.

Come un ragno si era arrampicato fino alle rovine della sua roccaforte, là dove il vento soffiava gelido a qualsiasi ora, in qualsiasi stagione. 

Aveva gridato ancora davanti alle rovine.

Pezzi di roccia ghiacciata, resti di pavimento, la carcassa arrugginita delle pesantissime porte in metallo.

Respirando rabbia frenetica era sceso nelle camere nascoste del suo seminterrato: i suoi piedi avevano calpestato schegge di vetro e altre lamiere.

Niente era più cresciuto lì sotto.

Anziché urlare e sbraitare era imploso.

Un uomo abietto resta un uomo, abietto: la rabbia e la frustrazione avevano risvegliato in lui bisogni impulsivi e violenti da sfogare. Era riemerso nel mondo e si era aggirato nella regione; aveva violentato un paio di umane e nell'ucciderle con le sue mani, ad atto compiuto, gli ultimi istanti della sua vecchia vita avevano invaso il suo cuore da disgraziato, ridotto a un acino d'uva passa da più tempo di quanto riuscisse a ricordare.

Aveva rammentato la crescente sensazione di angoscia che l'aveva pervaso fin da prima di premere quel bottone, il senso di vittoria che aveva provato per un momento.

E poi, il non sentirsi più le gambe. 

Aveva ricordato il suo stesso sguardo fisso sul soffitto della sua fortezza, su coloro che da oltre la soglia guardavano con uno sguardo incredulo, forse quasi compassionevole nei suoi confronti. 

Non gli era rimasto più niente prima di morire, solo un ultimo pensiero di conforto: che il suo assassino avrebbe presto rimpianto di essere nato, patendo un destino straziante anche solo da vedere.

Peggiore della morte, dal suo punto di vista.

 

 Era tornato in quel seminterrato buio, una segreta. Aveva camminato su quelle schegge di vetro, aveva accarezzato i resti dei computer.

La solitudine gli era stata amica.

Senza capire come, aveva appreso che loro erano vivi. E che tutti gli altri erano tornati. Si era ricordato che poteva volare, fra altre cose. Cercare le sfere gli aveva rubato una settimana di tempo, era andato alla cieca.

Quando aveva visto il drago per la prima volta, il desiderio era stato facile da pronunciare.

Rivoleva indietro il frutto di anni di lavoro. E uno spazio in cui lavorare.

E perché no, anche un dispositivo di localizzazione: per trovare sia una della sue armi, l'unico alleato che avesse mai avuto, che il suo bersaglio.



 

/

 

Il momento più atteso dell'anno era quasi giunto, il matrimonio di Diciotto sarebbe avvenuto in due giorni. Le damigelle erano in fermento, la chat di gruppo faceva vibrare i cellulari svariate volte al minuto.

In quei mesi si erano divise i compiti: Sara, damigella d'onore, era stata in carico dell'addio al nubilato, Bulma e Carly si erano divise altri incarichi.

 

Ragazze oggi vado a ritirare i regalini per gli ospiti. Alla fine la stola la volete abbinata al vestito o al bouquet di Diciotto? 

 

La dottoressa Brief aveva aspettato a comprarle per tutte e tre, visto che non si erano ancora messe d'accordo.

Diciotto aveva rivelato che il pezzo forte del suo bouquet di seta sarebbero state rose color bordeaux e cipria.

Le damigelle erano tutte e tre di fenotipo chiaro (inclusa Sara, nonostante il suo biondo lazuliano fosse frutto di deco), non volevano assomigliare a dei confetti giganti.

Non avevano preso lo stesso abito, ma avevano cercato di coordinarsi col colore: la scelta era caduta sui toni medio-scuri del turchese, del verde malachite. 

Diciotto aveva approvato la scelta.

Quello di Carly era un abito al ginocchio che strizzava l'occhio agli anni '50, non aveva dovuto cercarne un altro: la gonna ampia e strutturata, dalla stoffa rigida, avrebbe nascosto la sua pancia di cinque mesi.

 

Ma perché la chiamiamo "Diciotto"? Io non l'ho ancora capito.

 

"Io lo so!" Rise Lillian, leggendo il messaggio di Sara. Era distesa prona sul letto dove Carly stava disponendo quattro graziose trousse. La sua idea era di creare kit d'emergenza per la sposa e loro tre.

Lillian la guardava disporre nelle trousse il contenuto di parecchi cestini: fazzoletti, articoli vari da toeletta, creme solari, paracetamolo, mascara waterproof, salviettine, preservativi, cicche alla menta.

Carly aveva disposto tutto in maniera super organizzata, pensava ad ogni dettaglio.

"Io già ti immagino supermamma a cui non sfugge nulla." 

" 'Super' non penso proprio, Lillian," Carly non la guardava nemmeno, indaffarata come un'ape operaia.

"E questo cos'è?" La ranger prese una specie di rotolo di scotch da un cestino.

"Booby tape." 

Lillian non sapeva manco cosa fosse.

Sara non conosceva i veri segreti, ma sapeva della gravidanza; il caso aveva voluto che incrociasse Lapis all'ospedale di Central City, ma Carly poteva contare su di lei, erano d'accordo che fosse meglio che Lazuli non sapesse nel suo grande giorno. Carly era appena entrata nelle sue grazie…

La gravidanza stava andando liscia, Carly era sempre a -3 kg, una cosa che non si sarebbe mai aspettata e che non sapeva se considerare persino negativa. Il dottore che aveva presidiato il test sierologico le aveva detto di tornare a discutere con lui. Anche se non stava incubando la varicella.

Lapis sarebbe andato con lei, alle 5 del pomeriggio quel giorno.

"Ci credi? Mi ha detto che ho fatto la varicella tempo fa, ma in modo asintomatico."

Carly era rimasta stupita e sollevata da quel risultato. Si inginocchiò davanti a una valigia aperta, si mise a piegare il completo di Lapis.

"In tinta con la sua macchina," Lillian afferrò la giacca, chiedendosi se fosse fatto apposta; il completo era color blu oltremare, una tonalità che onorava gli alti contrasti di Diciassette. Oltremare era solo un altro nome per lapislazzuli.

"Io ovviamente lo so. Valigie quasi fatte," Carly si distese supina sul letto, con un gran sospiro di soddisfazione. L'indomani sarebbe stata una lunga giornata sfiancante.

Appena dopo essere tornati da Central City, Carly aveva dovuto chiedere a Lapis di cambiare i programmi, "Non possiamo andare in aereo? Almeno parte del viaggio, non me la sento di fare tutto in macchina."

Era dallo scorso inverno che avevano programmato di andare a Satan City in macchina.

"Puoi tranquillamente dormire, Carly. Perchè tanto guido io."

Erano riusciti a non litigare per due giorni…

"Lasciamelo dire in un linguaggio che anche tu capisci: il dottore dice che non è sicuro per me affrontare una guida così lunga."

"Ti pare che io tiri il lungo al volante?"

Era come parlare al muro.

A Diciassette era venuto il dubbio di aver risposto male quando Carly non aveva nemmeno protestato. Si era solo buttata sul letto, forse desiderando di potersi addormentare e risvegliarsi quando lui avesse smesso di comportarsi da ragazzino immaturo.

Diciassette aveva cercato in fretta dei biglietti da North City a Satan City, ma per il weekend era tutti esaurito, anche la prima classe: Satan City era il punto di partenza da cui la gente raggiungeva in traghetto l'esteso Southern Archipelago.

Più tardi si era ripresentato da Carly con due fogli stampati.

"All'ultimo momento vuoi prenotare l'aereo...in macchina si va lo stesso, ma solo fino a Central City."

Carly aveva preso i biglietti fra le mani, senza leggere.

"Highwick?"

"No, Berkhamstead."

L'aeroporto più fuorimano…

 

 Lillian guardava Carly arricciare il labbro,  quasi le dispiaceva essere di così buon umore.

"Mentre tu e Sev siete al matrimonio, io andrò con Bre a uno dei suoi eventi. E a cena da Ulf e Annelin."

"Chiami già i Geirsson per nome?" Carly sembrò ritrovare il brio, era estremamente felice per Lillian.

"Beh, ho sempre dato loro del tu. E poi, io e Brent...già da un po'."

Come sempre, Carly si riempì di gioia nel sentirsi raccontare le avventure amorose della sua sorella mancata.

"Non avevo mai visto Brent coi capelli sciolti," Lillian stessa non capiva come non gli venisse mal di testa. "Sono lunghissimi! Per un maschio, intendo, non come i tuoi."

Ogni volta che si facevano delle belle cavalcate nel Valhalla, il vichingo si scioglieva la chioma per lei.

"È una cosa che fa sesso, vero?" ammiccò Carly.

Lillian non sapeva come mai avesse aspettato così a lungo, "Brent è fantastico, mi tratta come una regina. Sembra che ami darmi piacere anche più di riceverne, è la prima volta che mi succede."

"Bene, Lillian," Carly le accarezzò il braccio, voltandosi a guardare dalla finestra. "È giusto che questo onore, che essere il pioniere spetti unicamente a Brent."

Ci furono pochi secondi di silenzio, prima che Lillian ricominciasse a raccontare.

Carly iniziò a saltare di gioia e ad abbracciarla.

"Ma puoi fare questo, Carlissima?"

"Perchè? Ho due gambe."

Lillian non ne sapeva niente ma pensava che una, da incinta, non potesse saltare così. Evidentemente non era il caso di Carly; le venne improvvisamente voglia di toccarle la pancia.

"Ti prego ti prego ti prego!"

A Carly dava fastidio che gliela toccassero ma visto che Lapis non si sprecava, non la disturbava se era la sua migliore amica a farlo. La pancia era lievitata, seppur non fosse ancora ingombrante; le sembrava di avere un piccolo palloncino tutto in avanti.

"Non si può più dormirci sopra," sospirò Carly, pensando a tutto il tempo che passava a cercare una posizione comoda per dormire; tutto quel suo rivoltarsi dava sui nervi a Lapis, che aveva smesso di fare finta di dormire di fianco a lei.

"Cosa fai alla tua mamma, mini Sev o mini Carly," Lillian sorrideva fin quasi alle lacrime, sperando di sentire una qualche risposta da lì dentro. Non ci aveva mai pensato, ma che figo era avere un'amica incinta? 

Lillian non credeva che avrebbe mai voluto esserlo, ma vederlo su Carly era qualcosa di nuovo e curioso.

Guardò interrogativa Carly, rammentando un dettaglio importante, "Non hai paura che sia come Diciassette?"

"Bono?"

No, quello non la preoccupava.

"Un po' terminator. Tipo che quando scalcia ti spezza le costole, mi sto preoccupando per te."

"Non penso sia possibile."

Per fortuna di Carly le modifiche di Lapis erano solo sue, non erano un tratto ereditabile. 

Probabilmente.



 

/

 

Due giorni. 

Era tutto lì, il tempo che la separava da quel giorno che aveva pianificato sin dal primo matrimonio-fuga romantica.

Questa seconda cerimonia le stava mettendo ancora più ansia, forse perché ci sarebbero stati tutti quelli che contavano nella sua vita.

Era l'ansia da emozione, le schiacciava il cuore, ma Diciotto gioiva nel sentirla. Significava che stava facendo la scelta giusta, che era felice della sua vita.

Crilin sedeva al suo fianco, su una pietra sfusa in quella magnifica abbazia in rovine. Il sacco fra le sue mani sembrava pesare, conteneva una buona parte della loro cerimonia.

"Siamo stati fortunati a poter avere il rimborso. Con il catering, i tizi della decorazione e del padiglione," sorrise la cyborg, cercando di lenire la sua stessa tensione. Si sedette di fianco a Crilin.

Il padiglione in spiaggia era stato il loro piano, fino a quando non avevano scorto le rovine dell'abbazia sulla scogliera.

Il guerriero alzò lo sguardo alla volta sventrata, al rosone senza vetri.

"In due giorni, immaginati questo posto…" Sarebbe stato perfetto. Il contenuto del sacco cioccò con rumore di palle da bowling, "Quando vuoi, amore."

 

 Come la prima volta, Diciotto rimase spiazzata di fronte alla mole e alla presenza del drago Shenron; la sua aura era percepibile anche per lei, un'essenza soprannaturale.

Le sfere brillavano di luce propria, ai piedi della coppia.

"Posso chiederlo io?" Diciotto si rivolse a  Crilin con il suo solito sguardo da gatta, ma il lucore che lo imperlava tradiva come si sentisse davvero.

Quando aveva riportato in vita Bruno aveva avuto paura di formulare il desiderio a Shenron, ma questa volta sarebbe stata una strada in discesa.


/

 

Il dottore riordinò i fogli sulla sua scrivania e fece sedere la giovane coppia nel suo studio, "Carly, non hai la varicella. Ma c'è una piccola carenza di ferro da sistemare, quindi ti darò dei supplementi."

Una carenza? Carly se ne sentì in colpa. La creatura di Lapis era forse in pericolo per colpa delle sue sviste? 

Carly si impose di non piangere, "Ma come...Cerco sempre di mangiare equilibrato e prendo le vitamine."

Era una cosa relativamente normale, la rassicurò il medico. Il problema era quando degenerava in anemia.

"Il volume del tuo sangue è aumentato, come succede normalmente, causando una minor concentrazione di emoglobina.  Succede, con la formazione della placenta. Non è colpa tua ed é improbabile che crei sofferenza al feto."

"E a lei, invece?"

Diciassette si sentì alle strette in quello studio, all'improvviso. Vedeva benissimo quanto Carly fosse pallida, percepiva il palpitare frettoloso del suo cuore.

In quel momento ebbe il timore insidioso che suo figlio fosse come lui e le stesse facendo del male. Anche se, con tutta probabilità, era una creatura umana normale. Come Marron, figlia di Diciotto.

Diciassette rimuginò sulle parole del medico, aveva bisogno di tranquillizzarsi.

Carly aveva tanta voglia di stringergli la mano. "Quindi non é grave?"

"No, non è anemia. Ti prescriverò dei supplementi di vitamine B12 e C, aiuteranno con l'assorbimento del ferro. Ritorna pure a fare un prelievo alla ventesima settimana, il mese prossimo."

Il medico si alzò per accompagnare la signorina Der Veer e il padre del bambino alla porta; sorrise benevolo, percependo lo stress di quest'ultimo. "Vedrai che la mammina si riprenderà con pochi accorgimenti semplici: tu falle bere un bel bicchiere di succo d'arancia tutte le mattine, mi raccomando."

 

/

 

Crilin e Diciotto si erano già stabiliti nell'hotel a Satan City. Tutti i loro vestiti e le loro cose erano state disposte con cura nella loro suite. Con l'intervento di Shenron non c'era molto da fare, ormai.

La notte dell'antivigilia del matrimonio, Diciotto non era restata a letto con Crilin. 

Camminava silenziosa sul parquet scuro, gettando occhiate timide al suo peplo, appeso in cima ad un armadio nella stanza adiacente alla camera da letto.

La stanza in cui Diciotto si sarebbe preparata insieme alle sue damigelle; in cui avrebbe fatto una domanda importante ad una persona ancora più importante.

Si era ricordata con molto ritardo che le serviva qualcuno che percorresse la navata a braccetto con lei. 

Le era venuto in mente che non avrebbe potuto fare come Sara, né come le altre del suo entourage.

Ma voleva camminare a braccetto con qualcuno di speciale. La scelta era stata naturale, immediata.

Diciotto non vedeva l'ora di comunicarla alla persona designata.


/


Diciassette e Carly erano partiti da Verny prima che il sole spuntasse. Lui aveva preso molto sul serio le parole del medico e non aveva lasciato che Carly uscisse di casa senza aver bevuto mezzo litro di spremuta fresca dietro alle sue nuove medicine; l'aveva quasi forzata e lei aveva finito per scognarsi, non aveva voluto la colazione.

Diciassette non aveva voglia di litigare per quello, voleva solo pensare a godersi la guida: considerato il suo uso dell'acceleratore, in otto ore sarebbero stati al Centro.

Avevano appena passato North City quando a Diciassette toccò sorbirsi le lamentele di Carly.

"Per favore, vuoi fermarti al prossimo autogrill?"

Dovevano essere a Berkhamstead entro mezzogiorno, così da avere il tempo di fare il check-in e prendere l'aereo con calma. Se tutto fosse andato come previsto, si sarebbero sistemati in hotel a Satan City intorno alle sei.

Quando Carly aveva accettato di essere una damigella era stata eccitata e onorata, ma ora le veniva male al pensiero di quella giornata già lunga. Una volta a Satan City si sarebbe dovuta trascinare all'addio al nubilato. Erano solo le sette e mezza, era sveglia dalle quattro e solo dopo mezzanotte avrebbe potuto concedersi un po' di riposo. Non era nemmeno certa che giornate così frenetiche e la Z4 lanciata a 180 km/h sull'autostrada fossero roba sicura per la sua salute. Prendi la jeep, gli aveva detto, è più sicura per i tragitti lunghi.

Che ne sai tu di auto, aveva ringhiato lui. 

Tuttavia quello che la faceva stare peggio era il trattamento del silenzio che Lapis le stava ancora riservando. 

Gliel'aveva detto che doveva fare la pipì, ma lui aveva tirato dritto, per tutta risposta le aveva passato una bottiglia vuota.

"Mi stai prendendo in giro? Ma anche no."

Smise di ridere quando si rese conto che Lapis non aveva alcuna intenzione di fare pit-stop.

Diciassette accese la radio, visto che non riusciva a fare stare zitta Carly.

Non seppe se gli dispiaceva tenerla sulle spine così o se aveva finito per non sopportare più le sue richieste, ma quando furono all'altezza di Ginger Town si fermò infine in un autogrill. 

"Fai quello che devi fare e torna subito."

Inchiodò, spense il motore e se ne stette sulle sue, mentre Carly scendeva dalla macchina contando delle monete dal suo portafoglio.  

"Smettila di comportarti così! Ti ho già chiesto scusa, se continui è per puro sadismo."

Con le lacrime e una sensazione di mal di pancia nervoso, Carly sbattè la portiera e si allontanò.

Era passata mezz'ora e Diciassette era rimasto ad arrostire in macchina. Voleva senza dubbio continuare a fare l'arrabbiato per chissà quanto, ma in fondo al cuore sapeva che si stava preoccupando per lei.

In piedi di fronte alla porta del bagno delle donne, la sentì piangere.

"Carly. Esci di lì."

Udendo Lapis bussare, Carly scorse allo specchio il proprio viso completamente rosso e dagli occhi gonfi, aveva fatto bene a non truccarsi quella mattina. Voleva stare lì e piangere in pace, sfogarsi finché le pareva senza dare la soddisfazione al cyborg di vederla soffrire così tanto a causa del suo atteggiamento da stronzo.

"Carly. Se non esci, ti tiro fuori io."

Diciassette non aspettò. La porta era chiusa a chiave ma lui non se ne accorse nemmeno quando la spinse per aprirla.

Trovò Carly tutta accaldata, non solo in viso ma anche sul collo e sulle spalle. L'afferrò pragmaticamente per un braccio e la trascinò fuori dal bagno, avevano perso mezz'ora.

"Non che sia così importante, ma c'è il matrimonio di Diciotto in ballo."

Ovvio, Diciotto era quella che importava di più per lui. Carly non aveva la forza di lottare e rispondere a tono, quella mattina:

"Puoi almeno lasciarmi mangiare prima di ripartire? Mi è venuta la nausea."

La nausea da fame, sensazione che Gero aveva cancellato dall'organismo di Diciassette. Con il respiro affannoso, la pelle bianca come panna e le vene quasi fluorescenti sulla scollatura, Carly gli diede ancora una volta quell'impressione di estrema fragilità.

Si erano messi in viaggio prima dell'alba, c'era ancora molta strada da fare e lei non aveva mangiato nulla nelle ultime dodici ore. 

Diciassette guardò la coda al bancone dell'autogrill, dove vendevano cibo e bevande. Sospirò.

"Ok, vado a prenderlo io."

Portò Carly vicino a una panchina, interamente occupata da persone che chiacchieravano e sorseggiavano caffè caldo.

Un uomo anziano alzò per caso gli occhi dal giornale, vide una giovane coppia in piedi lì vicino. Lei era graziosa, molto pallida; notando che era in attesa le offrì immediatamente il suo posto, il ragazzo lo ringraziò con un cenno del capo e si mise in fila.

Se Diciassette si sentiva sorpreso da quel gesto di civiltà, si risentiva anche del fatto che uno sconosciuto a caso potesse prendersi miglior cura della sua Carly. Grugnì irritato, desiderando di poter spazzare via quella fila.

Sulla panchina, l'uomo guardò la ragazza appoggiata allo schienale; si vedeva che non stava bene, anche se lei diceva il contrario.

"Le serve aiuto, signorina?"

Qualche lacrima le era rimasta fra le ciglia bionde, le ciocche di capelli sulle sue tempie erano madide di sudore.

"Oh, non è niente, solo il ferro…"

Carly si sforzò di dare corda al gentile estraneo, che le porse una bustina di zucchero.

"Prenda questo, nel frattempo. Ne porto sempre un po' nel caso in cui cominci ad avere cali di zucchero." 

Carly sorrise educatamente, strappando la bustina e leccando il contenuto.

L'anziano le raccontò di essere in viaggio verso la costa sud, avrebbe passato il mese di luglio con i suoi nipoti. 

"Voi due siete molto giovani, vero?"

"Io ho ventiquattro anni, Lapis ventitré."

Carly parlò con nonchalance, stringendo gli occhi per un improvviso dolore alla schiena; aveva usato il vero nome del suo ragazzo sapendo che non avrebbe più rivisto quell'uomo.

Chiacchierarono fino a quando Diciassette non tornò con le braccia cariche di bottiglie d'acqua, brioches imbottite di formaggio e prosciutto e caramelle.

Tutti e tre condivisero la colazione; Carly era contenta che Lapis fosse stato abbastanza gentile con il vecchio. 

Aspettando che Carly riprendesse un po' di colore, il cyborg ascoltò pacificamente chiacchiere a cui non prese parte.

Un messaggio di Sara fece vibrare il cellulare di Carly.

 

Dove siete?

 

Diciassette si alzò e le tese la mano, senza fretta. "Ripartiamo?"

Poco dopo, il vecchio gentile accettò altre brioches e pastiglie alla frutta e salutò la giovane coppia; osservò il ragazzo portare via la futura mamma, tenendole una mano sulla schiena.

 

 Poche ore dopo Diciassette e Carly camminavano nei corridoi dell'aeroporto, separati, fra di loro la stessa distanza tenuta da tante altre persone che si avviavano verso gli imbarchi.

Erano arrivati in anticipo come pianificato. 

"Royal Airways vi dà il benvenuto a Central City Berkhamstead. Ora locale, 11.55."

L'altoparlante rintronò Carly.

Diciassette lasciò la valigia sulla bilancia e rifiutò ogni tentativo di comunicazione con la hostess di terra. 

Il suo passaporto aveva sette anni, risaliva a prima del rapimento; nella foto lui era ancora umano basic, i suoi capelli erano più corti e portava un solo orecchino. E quando il passaporto fosse scaduto? 

Era una questione seria: "come ti chiami?" (Diciassette) o "qual è il tuo nome?" (Lapis). 

Il cyborg continuò a pensarci passando per l'area sicurezza, così mal vigilata e inefficace dal proteggere aerei e passeggeri da veri malintenzionati; calcolando le persone che non aveva mai veramente perso e le cose che poteva comunque fare, non c'erano molti svantaggi nell'essere n°17. 

Ma se c'era una cosa che era stata più semplice, nella vita di Lapis Lang, quella era stata non avere dubbi su chi fosse.


/

 

Gli invitati erano quasi tutti giunti all'hotel. Bulma attendeva di incontrare una cliente particolare, l'aspettava vicino al suo velivolo, una valigetta nera dall'aspetto blindato alla mano.

Restò a guardarla arrivare dalla porta principale dell'hotel, le strinse la mano, "Signorina Lang."

"Dottoressa Brief."

 Kate invitò Bulma ad aprire la valigetta con uno sguardo: era curiosa di vedere cos'aveva comprato con tutti quegli zeni.

La scienziata maneggiò con cura le chiusure e l'arma contenuta all'interno, porgendola alla sua cliente.

"Eccola qui; normalmente la tecnologia della super pressione viene applicata all'ingrosso, soprattutto nei nostri robot industriali, ma è stato più facile del previsto. Metti il dito qui."

Bulma aveva progettato quella pistola in modo che non creasse vittime accidentali: c'era un piccolo display vicino al grilletto, la scienziata invitò Kate a scannerizzare le sue impronte digitali una ad una.

Una volta completata quella procedura, l'arma avrebbe risposto solo a lei.

Kate rimirava il suo acquisto, soddisfatta ma improvvisamente titubante, "E questo è abbastanza per difendermi dal tipo di gente a cui tu e i miei figli siete abituati?"

"Beh, dipende da chi ti trovi davanti. Ma il getto d'acqua che la mia creazione può produrre taglia rocce come burro. Avrei potuto costruirti una pistola ad energia, ma questa è più veloce: purtroppo non sono ancora in possesso della giusta tecnologia per creare reattori perpetui."

Come quelli di Lapis e Lazuli, pensò istintivamente la mamma.

"Per questo ho scelto la super pressione idrica. Tu non dovrai mai ricaricare l'arma." Bulma le mostrò un pannello interno, "Questo dispositivo assorbe vapore acqueo 24/24: sulla Terra, la pistola è perennemente carica."

Kate aveva chiesto a Bulma di costruirle un'arma seria, l'esperienza di Vegeta e del taser le aveva insegnato quanto fosse indifesa, che armi normali non bastavano.

Non si aspettava un'arma ad acqua, ma aveva piena fiducia in Bulma Brief.

Ripose la pistola e chiuse la valigetta con un sorriso compiaciuto sulle labbra.



 

 L'addio al nubilato sarebbe cominciato di lì a poco. Bulma si sistemò a tracolla la fascia "Bridesmaid" e andò ad incontrare Sara e Diciotto sulla soglia del boudoir dalle luci soffuse in cui avrebbero festeggiato.

La futura sposa si era presentata con una tenuta che Bulma non si sarebbe mai dimenticata: grandi lettere rosa urlavano "BRIDE TO BE" sulla sua t-shirt bianca, appoggiata fra i codini alti c'era una tiara scherzosa di plastica e pom pom rosa.

Tutto quel fluff era a metà fra il tenero e l'ironico, in dissonanza stridente coi tratti affilati della futura sposina e la sua espressione seria di natura.

"Stiamo aspettando solo Carly, poi siamo pronte." Proclamò Diciotto, giocherellando con una ciocca di capelli sottili e luminosi come vetro soffiato.

Sara si aspettava quasi che Carly non venisse; non aveva risposto a nessun messaggio nell'ultima ora, doveva essere morta di fatica.

Sposa e damigella d'onore si erano infine avviate nel boudoir, che non era molto lontano dalle porte dell'hotel: l'attenzione di Bulma fu catturata da un ragazzo con in mano un sacchetto del supermercato che passò al fianco della cricca di festeggianti, ignorandola volutamente. Aveva il fisico forte e flessuoso del combattente veloce, i capelli erano lunghi per un uomo; nerissimi, anziché biondi. 

"Diciassette?"

Con quegli occhi e quelle fattezze, altri non poteva essere che lui. Era la prima volta che Bulma lo vedeva, ne rimase sorpresa.

Nemmeno lui aveva mai incontrato Bulma.

"Stiamo aspettando Carly per l'addio al nubilato, glielo puoi dire?"

"Sta dormendo. Non la sveglierò."

Diciotto e Sara accorsero.

"Ma mia cognata?"

Diciassette si prese un momento per ammirare come sua sorella era combinata. Cercò di non ridere. "Lasciala stare. È molto stanca."

Bulma si azzardò a fare un commento, che non concluse mai.

"Ho detto di lasciarla stare."

La dottoressa rimase un po' spiazzata davanti al tono davvero freddo e duro di Diciassette; sperò che la terza damigella stesse bene. 

"Che modi, Lapis…" sbuffò Sara; aveva avuto ragione su Carly.

Diciassette fece per correre via, ma non prima di aver scattato una velocissima foto a Diciotto. Se la filò con una risata, non ascoltando quello che lei gli stava urlando.

 


La cricca aveva scelto di non avere il boudoir tutto per sé, erano in poche e sarebbe stato piatto, imbarazzante.

Si erano però prenotate un tavolo, quello basso circondato da belle poltrone sontuose.

Bulma tirò su dalla sua cannuccia, "Ci siamo solo io e Trunks, alla fine."

Che santa, Chichi. Si era offerta di tenerle Trunks per la serata.

"Vegeta non ha voluto venire…mi dispiace, io ci ho provato."

La scienziata notò lo sguardo interrogativo di Sara. "Mio marito. Ce l'ha su con Diciotto da quando lei l'ha menato. Sarò franca, in quel periodo della sua vita se l'é cercata…"

Lazuli che menava un uomo? Sara era sempre più confusa…

Diciotto sorrise, mostrando un accenno di denti. "Tranquilla. Non è importante."

Afferrò il suo cosmopolitan e lo tracannò in un sorso. Lei aveva fatto il suo dovere, mandare l'invito anche a Vegeta; se lui non aveva voluto presentarsi, cavoli suoi.

"Laz ma non stai ancora allattando?"

"Certo. Mica volevo che queste scendessero, prima di entrare nel mio vestito." Diciotto spinse il petto in avanti, con enfasi.

Bulma condivise una teoria che le era balenata in testa, dopo aver visto Diciotto bere un cocktail e allattare la bambina subito dopo, "Lei, l'alcol lo metabolizza così in fretta che al latte non ci arriva nemmeno."

"Laz…" 

Sara avrebbe dovuto sentirsi meno confusa?

Il brusio nel boudoir calò quando un presentatore in smoking occupò un piccolo palco e si mise a provare il microfono.

Sara sorbí il cocktail, nascondendo un sorriso compiaciuto.

"Sa sa sa...eccoci qua! Questa é una serata speciale," alzó un braccio, proprio a mo' di show, al suono di un concerto di trombe, "l'inizio della vita maritale…" altro concerto di trombe, "di una donna spa-zia-le! Diciotto!"

Un occhio di bue sorprese Diciotto con uno sguardo imbarazzato e un altro bicchiere davanti al naso.

"Hotel Ryz, fatevi sentire! Diciotto si sposa!"

Il presentatore la indicò con un gesto galante. Le altre persone nel boudoir furono contagiate dall'atmosfera, si girarono a guardare la ragazza illuminata.

Presto il locale si riempì di applausi e fischi da stadio.

La festa si scaldò quando un'insegna a neon stile vintage si accese sul palco: la scritta "Congratulazioni", sovrastata da un ironico simbolo, il numero 18 barrato.

La musica si fece suadente e un gruppo di avvenenti, statuari giovanotti comparve sul palco: un pompiere, un poliziotto e altri in uniforme.

Un'uniforme che consisteva solo in slip succinti, in scarponcini di pelle nera e in un copricapo. Il boudoir esplose dei fischi di altre ragazze.

Bulma e Sara fecero il tifo, mentre il gruppo iniziava a danzare.

 

Il karaoke era iniziato a mezzanotte.

Bulma non ci aveva messo molto a sciogliersi. 

"Sex bomb, sex bomb, you're a sex bomb." Cantava sul palco con una tizia a caso, un braccio del poliziotto intorno alle spalle, facendo segno a Diciotto di salire lì.

Diciotto ballava discretamente giù dal palco, il boudoir si era quasi trasformato in una discoteca. Aveva voglia di salire e partecipare al karaoke. Tantissima voglia.

Diciotto ci teneva alla sua reputazione glaciale, ma era pur sempre una ragazza di ventitré anni, amante del divertimento. Le serate folli della sua adolescenza erano un ricordo piacevole che Gero le aveva portato via.

E poi l'avevano già vista mangiare e tracannare cocktail, peggio di così?

Si preparò a salire.

"Digiuotto! Maglia bianca!"

Una voce nota le arrivò alle orecchie, dall'entrata del boudoir.

Una voce che cantilenava, vecchia e impastata, imbarazzante.

La festeggiata distinse nitidamente la figura ricurva del Genio, sostenuta da due ragazze prorompenti. Doveva essere ubriaco marcio, era arrivato fin lì dall'addio al celibato?

"Diciotta, voglio mettere la mia faccia nelle…"

Diciotto fece un cenno imperioso a un buttafuori, sperando che il vecchio non vomitasse nel boudoir. 

"Uno stripper sta bevendo sambuca dal mio ombelicooo!" urló Sara, sopra la musica, rivolgendosi sia a Lazuli che passava di lì sia alla ragazza distesa sul suo stesso tavolo. Lo stripper scambió un cenno d'intesa con l'altra ragazza e Sara, questa ci mise un po' a comprendere.

"Ah, no, non posso. Sono sposata." Mostrò il suo anulare inanellato. Gli altri due annuirono e si congedarono da lei con un saluto.

Sara era color rosso scarlatto. Diciotto si chiese come avrebbe potuto presentarsi nella sua suite in sole cinque ore, per vestirsi insieme a lei.

"Laz, troiona, vieni qui!" Sara si ricoprì il ventre sbrodolato di liquore, "Non dirlo a mio marito, che mi fa una testa così altrimenti. Mie intenzioni, solo innocenti. Mi stavo divertendo."

Diciotto sorrise alla sua migliore amica. Lo sapeva.

"Stai tranquilla, Sara. Quello che succede al mio addio al nubilato, resta nell'addio al nubilato."

Inclusa la sua performance da karaoke. Nell'udire le prime note di Wannabe, Diciotto si trascinò dietro Sara.

La signora Weiss era troppo ubriaca per ricordarsi di lei che cantava, in ogni caso.







 

Pensieri dell'autrice:

 

Buongiorno cari lettori!

Ammetto di essermi divertita da morire a descrivere il delirio alcolico, era da un po' di capitoli che non c'era un delirio alcolico.

Piccola nota: oltremare, è davvero un sinonimo di lapislazzuli. In antichità, il pigmento ottenuto dalla pietra sminuzzata veniva chiamato in Italia "oltremare" per via della sua provenienza (so che per esempio l'Afghanistan esporta lapislazzuli). Fine di DarkWinter-Alberto Angela.

É un colore molto simile alle tennis di 17 in Z, sembra fatto apposta! Io, in ogni caso, l'ho fatto apposta.

È stato un capitolo felice, nonostante si sia aperto con uno scenario piuttosto tetro. Non sono solo Crilin e 18 a dare il titolo al capitolo!

Lillian si preoccupa per Carly, ma Carly stessa ha ragione: il figlio suo e di 17 non é "un po' terminator" (sarebbe orribile per la povera Carly se così fosse!)

 

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Capitolo 40
*** La migliore Madre che si possa avere ***


40. La migliore Madre che si possa avere
 
 
 
Il truccatore e la parrucchiera erano arrivati prima dello champagne.
Erano le 6 di mattina, il sole filtrava in quella suite dell'hotel Ryz e la vestizione della regina era finalmente cominciata.
La parrucchiera teneva il ferro per le beach waves in una mano e un fiore di ibisco, color arancia sanguinella, nell'altra.
Se Diciotto aveva spostato la festa all'abbazia, voleva comunque indossare la spiaggia.
Seduta in poltrona, in vestaglia di seta, si faceva coccolare e tirava ad indovinare chi sarebbe arrivata per prima.
La prima damigella a bussare fu Carly.
Apparve timidamente dalla porta, con indosso il suo vestito turchese e la sua sottoveste voluminosa.
"Donna di cultura…"
La vista della damigella/cognata soddisfò il lato modaiolo di Diciotto: un tempo le donne usavano sempre le sottovesti, nel caso di Carly la sottoveste era un elemento chiave per dare all'outfit le linee desiderate. Ormai andava di moda il fast fashion con fodere cucite direttamente nelle gonne e nei vestiti, a supplire in modo immeritevole il concetto di sottoveste. Diciotto storse il labbro, ripensando a quando da ragazzina aveva riempito il suo armadio di fast fashion, senza ascoltare Kate che le diceva che quei capi da un pugno di zeni erano stracci, che la couture era un'altra cosa, che era meglio avere meno capi ma averne di seri. Kate la signora elegantona coi suoi robe-manteau e le calze sempre dello stesso colore delle scarpe, Lazuli che aveva espresso la sua ribellione a ció coi suoi jeans strappati e i top a pancia fuori.
"Mi dispiace per ieri, Lazuli. Proprio non ho potuto."
Carly sembrava abbastanza fresca e riposata, ora. Diciotto le andò incontro, "Hai dormito?"
"Così così."
"Mio fratello ti dà noie?"
"No, morivo di fame."
Se mai era lei che dava noie. Lapis si era fatto un giretto per Satan City alle 2.30, Carly si era svegliata con la fame atavica e se il minibar aveva la Coca Zero, il servizio in camera non prevedeva razioni extra large di patatine e nuggets.
Diciotto notò che Carly indossava già i tacchi e si era legata al petto la stola rosa cipria, come un grande fiocco. Non era così che si portava una stola, di solito.
Tuttavia, le stava bene.
 
 
 "Ogni donna sta meglio truccata, truccarsi non vuol dire farsi mascheroni da Instagram." Sara si tracciava l'attaccatura delle ciglia superiori con una linea sottile di matita nera. "Sai, quelli con le ciglia finte che sembrano scope."
Diciotto si godeva la sua vestizione ad occhi chiusi, "Io di solito metto solo il mascara, per le mie ciglia trasparenti."
Si rivolse poi al truccatore, quasi perentoria, "Ricorda, ho il pop di colore sulle labbra. Sono chiarissima, basta un niente per farmi un trucco che mi sovrasta e mi fa sembrare volgare."
"Devi usare i marroni, Laz, non il nero. I marroni sembrano nero su di te."
 
 Bulma era arrivata lì senza reggiseno: Carly le aveva dato il suo booby tape, un'invenzione a metà fra lo scotch e le bande adesive usate dai fisioterapisti.
La scienziata guardava nello specchio il suo seno che era ancora sodo, anche se non più come un tempo. "Io non so se questo basta, Carly. Va bene tutto ma non ho più la tua età, straborderò."
"Lascia fare a me." Carly le dispose tre lunghe strisce di booby tape a U, da un capezzolo all'altro, passando per il coppino. Le avrebbe lasciato libere la schiena e la scollatura. La scienziata fu sorpresa di vedere che il booby tape sfidava davvero forza di gravità.
"Wow." Si rimirò, tastandosi il busto. "E per fare dire wow a me…"
Carly fece l'occhiolino; le porse il booby tape che aveva comprato per sé, lasciando Bulma perplessa.
"Ma allora il tuo scotch non fa il lavoro pesante?”
"Assolutamente sì e lo adoro, ma a me fa male il seno; mi serve la vecchia e fidata impalcatura."
Si scostò il vestito dal petto e Bulma vide un reggiseno semplice, dall'aspetto solido e affidabile.
"Oggigiorno ci sono molti più modelli di quando io avevo la tua età," le sorrise Bulma. "Sopra una certa taglia si trovavano solo robe noiose da mia nonna in carriola."
"Ma anche adesso, i negozi normali si fermano alla coppa DD…"
Se c'era un capo di abbigliamento in cui Carly era ferrata, erano i reggiseni.
 
 
 Fra i flash dei fotografi e qualche goccia di champagne sul pavimento, le damigelle aiutarono la regina nell'ultima fase della vestizione: la fecero scivolare nel peplo senza che il tessuto toccasse le sue beach waves o le sue guance impreziosite di fard. Il booby tape lasciava che i suoi seni si toccassero al centro, come due nuvolette fluttuanti.
"Quasi non ci credo che queste sono le mie tette…"
Diciotto si lasciò scappare quel pensiero: si sentiva non solo splendida, ma anche sexy.
Non le capitava mai di sentirsi entrambi.
"Troppo sexy per quello scapestrato del mio amico," ammiccò Bulma.
"Se Crilin è uno scapestrato…" per Carly era un patatone. Scapestrato era ben altro.
Sara finì di annodarle una spallina sulla clavicola: guardò Lazuli sposa nella sua interezza e sentì la commozione minacciare i suoi occhi truccati di fresco. "Una dea. Ora il fiore."
Diciotto prese la mollettina a fiore di ibisco, fatto di seta, e se l'appuntò su quelle ciocche che aveva il tic di mettersi dietro l'orecchio.
Nel frattempo era arrivata una seconda bottiglia, la damigella d'onore riempì di nuovo il flûte della sposa.
"Prima che ti metti il rossetto, brindiamo a te."
"A te!" Bulma alzò il suo flûte di champagne, Carly di succo d'arancia.
A brindisi terminato Diciotto notò che Carly non aveva voluto lo champagne.
"Lei non regge l'alcol," le ricordò Sara. "Vorrà salvarsi lo sballo per la festa."
 
 
 
 Alle 10 le damigelle avevano lasciato la suite, a Diciotto mancavano solo il bouquet e il velo. Ormai era quasi il momento, sarebbe apparsa all'abbazia in mezz'ora.
Aspettava, sola nella stanza. Camminava avanti e indietro nella suite, temendo di consumarne i tappeti e i parquet.
Sentiva quell'appuntamento come uno dei più importanti della sua vita. Aveva le mani sudate, continuava a inghiottire saliva bollente e le pareva di avere di nuovo una bomba dentro.
E quando udì bussare alla porta, non seppe se la gioia si fece ancora più dolorosa o se la bomba nel suo cuore si sciolse.
"Lazuli, posso?"
La gonna fluida del lungo abito monospalla precedette Kate, sulla soglia della suite.
Kate si trovò sua figlia vestita di tutto punto davanti agli occhi, posata lì, per farsi guardare.
Madre e figlia restarono una davanti all'altra, entrambe stupite dalla bellezza reciproca, entrambe consapevoli di cosa quel momento significasse.
La mamma non riuscì a parlare; avanzò sui suoi tacchi, lentamente, come a non voler sbattere le palpebre. E la figlia fissò i dettagli delle sue sottili ciocche argentee, mescolate a quelle nere in uno chignon da vera signora; dei pendenti di rubino, quelli di sua nonna (anni prima, la nonna di Kate le aveva donato molti gioielli).
Quasi era un affronto, per i rubini, essere così vicini ai suoi occhi.
Kate parlava con quegli occhi, che si erano riempiti di lacrime. "Dimmi, Lazuli."
La sua voce tremava.
Nella sua testa, Diciotto aveva enunciato mille preamboli con cui avanzare la sua richiesta a Kate. Ma esattamente come Kate aveva pensato, senza riuscire a dirlo, che lei fosse bellissima e che non ci credesse a vederla in abito da sposa, anche Diciotto fu solo capace di poche parole.
"Mamma, mi darai il braccio?"
La stanza era silenziosa, il sole di luglio che l'aveva invasa si era fatto soffocante.
"...vorrei camminare lungo quella navata con la persona che mi ha cresciuta, che mi ha sempre amata, che è sempre stata lì per me. Mi darai il braccio, mamma?"
Forse non aveva nemmeno il diritto di chiederglielo. Quando aveva perso il diritto?
Diciotto ebbe paura del silenzio.
Guardò la donna in blu imperiale accanto a lei, che aveva sempre una marcia in più: centimetri in statura, intelligenza, fortezza.
Sua madre Kate dagli stessi, indimenticabili occhi obliqui, dal cuore valoroso più del suo.
Diciotto la rivide ragazza, lì al suo fianco, con gli stessi capelli setosi e il famoso vestito arancio che i gemelli non avevano mai visto, se non in foto.
E ripensò a se stessa, figlia ingrata, una goccia di vita sopravvissuta alla disperazione, piombata nell'esistenza di Kathryn Lang con la forza di un big bang.
Lei che aveva fatto patire Kate ragazza fin dal primo momento in cui aveva esistito, rivendicando come proprio il terreno del suo corpo, logorandola dall’interno con le sue unghiate e i suoi calci, portandola in fin di vita quando aveva voluto nascere.
E quello era stato solo l'inizio.
"Alla fine io cosa ho fatto di buono per te? Sono stata solo una sanguisuga. Una gramigna."
Kate aveva fatto di tutto per amore di Lapis e Lazuli. Non aveva saputo fare altro che amarli. "Che io abbia sofferto tanto per te, figlia mia, è vero. Per voi. Ma vi ho amati dal primo istante, e ne è valsa la pena."
"Sicura, mamma?"
"Per voi, lo rifarei."
Kate era così innamorata dei suoi figli. Le sue gemme preziose.
Una lacrima restò imprigionata fra le sottilissime rughe all'angolo del suo occhio.
"Certo che ti darò il braccio…" Kate accarezzò Lazuli sulla testa, dove il bianco perlaceo delle radici virava a delicato oro.
Diciotto avrebbe tanto voluto essere per la sua Marron quello che Kate era per loro. "Mamma, grazie. Per tutto quello che hai fatto. E scusa, per tutto quello che noi ti abbiamo fatto."
Erano adulti sereni, ora: al sicuro dall'oceano di dolore da cui Kate aveva creduto, per molti anni, di non essere riuscita a salvarli.
Le guance della mamma si imporporarono, "Mi dispiace di non essere stata la madre che tu avresti voluto. Ho sbagliato tante volte con te, e con Lapis."
Lazuli, amatissima figlia infedele, aveva condotto sua madre alla disperazione con ribellioni senza scopo e scelte autodistruttive che non l'avevano portata da nessuna parte.
"No! Non dire così." Diciotto le strinse la mano, d'impulso. Era diventato così urgente; prese Kate per le spalle e alzò lo sguardo per incontrare il suo. Ora era lei ad avere il tremito nella voce.
"Tu sei la miglior madre che si possa avere."
Kate rise e pianse insieme, non voleva piangere ora e rovinarsi il trucco…
"Lazuli, giusto perché tu lo sappia, in questo giorno speciale tuo padre ti avrebbe dato il braccio. Il tuo vero padre."
Kate riusciva sempre a colpirla. Diciotto non si sarebbe mai aspettata quelle parole e non seppe mai se l'altra lacrima che era scesa sulla guancia di sua madre riguardasse l'emozione della giornata o il ricordo di un uomo che aveva amato, ventitré anni prima.
Non era quello il momento, ma Diciotto notò come non sapesse nulla di suo padre.
Avanzó una richiesta per la prima volta, "Un giorno vorrei che tu mi parlassi un po' di lui. Non so nemmeno il suo nome."
"Il suo nome…"
Kate sussultò, interrotta da un sobbalzo improvviso che si diffuse dalla porta chiusa a chiave attraverso tutta la suite. Un pezzettino di stucco dorato cadde dal soffitto in testa a Lazuli.
"Mà!"
L'hotel non stava crollando, era stato solo un colpo alla porta. Seguito da un altro.
"Mà? Sei lì dentro?"
Kate si divertì a vedere Lazuli disfarsi delle lacrime e diventare rossa di rabbia.
Le lacrime scomparvero anche a lei, "No, non sono qui."
Diciotto udì le damigelle protestare e squittire, Sara urlare “Vai via!”.
Una risata spontanea le salì fino agli occhi; si tolse il pezzetto di stucco dai capelli, guardò Kate alzarsi prima di lei. Erano pronte.
 
 
/
 
Una Rolls Royce d’epoca, bianca e decorata con tulle rosso, attendeva la sposa e la sua squad fuori dall’hotel Ryz.
Bulma era abituata al lusso; per Kate, in un’altra vita, lusso e prestigio erano stati realtà quotidiana; eppure, l’eleganza dell’auto e dell’autista era riuscita a stupirle entrambe.
Diciotto, Sara e Carly guardarono a bocca aperta la macchina, era come salire su una giostra: dava i brividi, era emozionante.
“Shenron e io ci intendiamo, quando si parla di classe.”
Diciotto non aveva chiesto niente di particolare: aveva solo pronunciato la parola “eleganza”.
“Ti sei persa uno spettacolo pietoso, ieri sera,” Bulma attizzò la curiosità di Carly.
“Lazuli che cantava la canzone delle Spice Girls?” si azzardò la damigella d’onore.
“No! Indovina chi si è presentato nel boudoir? MUTEN! Bello marcio d’alcol.”
Muten...Muten...ah sì, il Genio, una specie di figura paterna per suo cognato; Carly fece vagamente mente locale.
“Cos’hanno combinato all’addio al celibato? Lapis ti ha detto qualcosa?” chiese Sara.
“Non é andato…”
Carly si era addormentata alle 7 di sera, appena arrivata in hotel. Si era aspettata che Lapis fosse andato con Muten, Yamcha ed altri all’addio al celibato di Crilin. Invece, quando si era svegliata nel cuore della notte l’aveva trovato seduto di fianco a lei, a guardarla.
Forse l’aveva coccolata mentre lei dormiva, forse Carly ricordava la sua mano fra i suoi capelli. O forse Muten e Yamcha erano una compagnia così peggiore che Lapis aveva preferito restare con lei.
 
La Rolls Royce seguì la strada fuori da Satan City, alle 10.30 in punto raggiunse la cima piatta e verde delle scogliere.
La pietra bianca sembrava completare il paesaggio; le guglie dell’abbazia erano baciate dal sole, come puntali luminosi. Il rosone sfavillava di vetrate colorate. La bobina della storia era stata riavvolta da Shenron solo per loro, solo su quel pezzetto di terra.
Nel vedere sua madre e le sue damigelle meravigliarsi davanti all’abbazia, Diciotto sentì un moto nel cuore: orgoglio e commozione, legati, piegati su loro stessi come morbide sciarpe.
Una musica leggera suonava da dietro le porte aperte: la musica che intratteneva gli ospiti, preludio dell’arrivo più atteso della giornata.
Stava per accadere; era tutto vero.
Sara porse a Diciotto il suo bouquet di seta. Bulma e Carly stringevano i propri, sistemando il velo della sposa sui gradini. La presa di coscienza del momento esplose in Diciotto, un bagliore d’amore e gioia così forti da farle aprire le mani e lasciare cadere il bouquet, ma Kate era già da lei. La rassicurò, le diede un ultimo abbraccio.
Si chinò e le rimise i fiori in mano, stringendo le mani intorno agli steli, intorno a quelle di Lazuli. “Ci sei, bambina mia. Sei pronta.”
 
 
 Gli ospiti parlottavano ancora, seduti sulle panche. In piedi vicino all’altare Crilin si mordeva le guance, si stiracchiava le dita sudate, guardava l’organo sulla balconata, la porta investita di luce che accecava. Guardava Trunks correre dietro a Goten, con Chichi che si scusava di loro con coloro a cui i bambini passavano fra le gambe, tiravano la gonna o urlavano vicino.
Crilin pensò al suo migliore amico, che non poteva essere lì. Nel diluvio di luce della porta gli parve quasi di vedere Son Goku, circondato d’energia dorata. Gli parve quasi di sentire la sua mano sulla spalla.
Crilin incontrò lo sguardo benevolo del testimone, Gohan, il suo braccio allungato verso di lui. “Ci sei, amico.”
Crilin si voltò a raccogliere anche gli sguardi benevoli degli altri suoi testimoni: Piccolo, Yamcha. Diciassette.
Non aveva mai ricevuto uno sguardo così benevolo da Diciassette.
La musica d’intrattenimento sfumò e una fanfara di trombe annunciò le prime note della marcia nuziale. Trombe apparse da chissà dove in cima alla balconata suonavano all’unisono, lasciando gli spettatori con il naso all'insù.
Quando l’organo attaccò con le sue note regali, potenti, che scuotevano il cuore fino all’anima Crilin restò senza fiato.
Diciotto camminava raggiante lungo la navata addobbata di rosso, a braccetto con Kate.
Madre e figlia, una più bella dell’altra, avevano tutti gli occhi su di loro. Le damigelle le seguivano.
Crilin non riuscì a non piangere: Diciotto vestita da sposa, Diciotto con il velo sul viso, ma con occhi così brillanti che nessun velo non poteva nascondere.
Diciotto vestita da dea, che camminava verso di lui in armonia con le note dell’organo.
L’organo suonava da sé, operando quieto la sua magia dal suo angolo di balconata; accompagnò con un ultimo crescendo i passi della sposa, guidandola all’altare proprio al momento del finale.
Quando l'abbazia fu di nuovo silenziosa il Genio apparve al fianco degli sposi e i rispettivi testimoni si sedettero ai lati dell'altare, le donne a sinistra, dietro Diciotto, gli uomini a destra dietro a Crilin.
Crilin non volle nasconderle le sue lacrime. Le sollevò delicatamente il velo.
 “Diciotto, quando ti ho vista fra le montagne eravamo nemici. Ma già da allora non ho potuto impedirmelo, mi sono innamorato.”
Il fiore di ibisco fra i suoi capelli. Il delicato rossetto rosso, rosso melograno. Un altro colpo al cuore.
“E quando ero con te, su quell’isola...eravamo ancora separati, da un destino che pensavamo non ci risparmiasse, dall'impossibilità di essere insieme. Era impossibile, ma tu eri già tutto per me. Non avrei mai dimenticato i tuoi occhi. In ogni mio pensiero, in ogni mio respiro. Eri tu.”
Diciotto era così amata. Un amore che tagliava le parole in gola.
La sposa sentì lo sguardo di sua madre su di sé, lo sguardo che le diede la forza.
“Crilin. Se c'è una cosa che la vita in questi ultimi anni mi ha insegnato una cosa, è il suo essere imprevedibile. Il futuro è sempre un mistero e amare é un'avventura, ma non solo; amare é duro lavoro, amare a volte fare paura.”
Da dietro le spalle di Lazuli, Carly guardò Lapis e vide che anche Lapis la stava guardando. Si erano guardati allo stesso momento, nell’udire le stesse parole, ed egli aveva alzato il labbro in un breve, timido sorriso che non era arrivato fino agli occhi.
“Ma sono certa, Crilin, che con te al mio fianco non c'è sfida che non potrò affrontare.”
A Bulma non sfuggì la mano sul viso di Chichi, la sua testa bassa, contro la spalla di suo padre.
Sara notò con quanto amore Bruno, Amelia fra le braccia, stesse guardando lei; e con quanto orgoglio stesse guardando Lazuli, la ragazza che aveva creduto di non aver potuto salvare. La figlia che, in una fredda notte, aveva promesso a Kate avrebbe riportato a casa.
Kate vide che Lapis guardava sua sorella con puro stupore, come se non riuscisse a vedere altro; vide che anche Ronan era orgoglioso di Lazuli. E quell’orgoglio, quel bene che traspariva dal suo sguardo la convinse una volta per tutte che sì, Ronan la meritava.
Meritava lei e i suoi figli nella sua vita.
Crilin si avvicinò alla sua Diciotto, che avrebbe sposato ogni giorno. Le rimise il suo anello d’oro, parlò guardando le sue mani lavorare attorno alle proprie, anulare, anello, carezza sul dorso.
“Sei la donna più coraggiosa che abbia mai conosciuto: mi dai forza, speranza, mi rendi migliore Diciotto. Sei tutto ciò che ho sempre sognato, e ho tanta voglia di continuare questo viaggio insieme: la nostra vita.”
Crilin la vide cercare Marron con lo sguardo e si commosse ancora di più.
Diciotto gli strinse la mano e lo invitò a guardare nel rosone. La luce colorata della vetrata si era trasformata in un caleidoscopio, il rosone aveva assunto l’aspetto di un portale, no, di uno schermo televisivo perturbato da lievi interferenze.
Gli ospiti emisero un flebile “oohhh” di sgomento. L’immagine di un giardino verde, ben curato, illuminato da un cielo rosa li sorprese.
“É un live?” sussurrò Bruno all'energumeno con tre occhi seduto di fianco a lui.
Tien si grattò il mento. “Credo proprio sia un altro pianeta.”
L’abbazia intera udì il gemito di Chichi, quando tre facce apparvero nel rosone: un primate, un insetto gigante e un uomo dalla chioma irsuta e il viso gioviale.
“Chi c'è? Che succede?” chiedeva costui, conosciuto dalla maggior parte delle persone sedute lì dentro. Piccolo, che non aveva espresso nessuna emozione fino a quel momento, sciolse il nodo delle sue braccia e fece un passo avanti.
"Mi sto sposando, Goku!"
Diciotto guardò compiaciuta Crilin esultare e tendere le braccia al suo migliore amico. Lui e Son Goku si salutarono, si sbracciarono, quasi urlarono. Diciotto aveva distratto Crilin sulla fine dell’enunciazione del desiderio: un momento con Goku era stata la sorpresa che aveva voluto donargli.
Era rimasta un po’ delusa alla vista di Son Goku, stazionato sul pianeta di re Kaioh, morto ma con l’aspetto che tutti avevano conosciuto. Si era aspettata un guerriero dall’aria tosta, come Vegeta o se stessa. Sembrava invece un tipo tranquillo, che salutava moglie e figli come se fosse in procinto di tornare a casa.
A Diciotto venne spontaneo guardare Sedici in faccia, ma Sedici era impassibile.
Goku non smetteva di dire al suo migliore amico quanto fosse felice per lui.
“Tua moglie sembra gentile…dov'è Vegeta?”
Goku si sporse in avanti, guardando attraverso il rosone i testimoni dello sposo.
"Oh dai, Piccolo in completo! E Yamcha, vecchio lupo! Gohan, guardati, in cravatta...e tu?"
Goku si sforzò, ma non riconobbe il ragazzo coi capelli legati in una coda e gli orecchini ad anello. Da lí non si vedevano bene tutti i dettagli ma no, non era Vegeta, era troppo alto. E troppo poco muscoloso. Accidenti, non l'aveva mai visto.
"Lui é il cognato di Crilin, Goku, ora stai buono e lascia parlare me,” il Genio, l’officiante, si rivolse alla platea. La cerimonia doveva ben continuare.
“Siamo qui, oggi, noi tutti che vogliamo loro bene, a celebrare l’amore di Crilin e Lazuli. Questo qui, che ho conosciuto da bambino, ora è papà, è marito. Wow. E lei...Lazuli non è una ragazza come le altre. Hai ragione, Goku. Io ne ho conosciuta di gente, nella mia lunga vita, ma una ragazza così, caro Crilin mio, non so che fortuna ti è capitata. Manco tu lo sai. Lazuli, sei la ragazza perfetta per lui.”
Gli ospiti, e gli sposi, non poterono fare a meno di sorridere a quel discorso raffazzonato, ma sincero. Il Genio stava dicendo solo la stupenda verità.
"E ora baciatela, su."
 
 
 
 
 
 
Pensieri dell'autrice:
 
 
E così, ecco il capitolo dedicato esclusivamente alla tanto attesa cerimonia coi cari degli sposi! Con una videochiamata sorpresa con Goku.
Vero che nessuno si aspettava Goku? Invece Diciotto, con quel pezzo di desiderio, ha reso felice sia Crilin che Chichi, Gohan e Goten💖 Qui siamo in piena estate, ma nel nostro mondo mancano SEI giorni a Natale. Wow. Con questo capitolo vi auguro buone feste, Natale e anno nuovo, vi ritroverò nel 2021, sperando che porterà tempi migliori per tutti.
Come devo fare ogni tanto, mi prenderò una pausa. Cercherò comunque di essere presente come lettrice, ma col capitolo 41 "Niente Cuori infranti a un Matrimonio", ci rivedremo venerdì 22 gennaio.
Grazie per essere stato presenti fin qui, 40 capitoli mi sembrano così tanti, eppure ho così tanto da dire.
Vi auguro delle buone feste e tanta serenità!
 
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 41
*** Niente Cuori infranti a un Matrimonio ***


41. Niente Cuori infranti a un Matrimonio
 
 
 
Avere un drago magico che ti organizza il matrimonio è una chance che nessuno, o quasi, si lascerebbe scappare.
Diciotto e Crilin, seconda volta marito e moglie, si erano dati un cinque segreto quando, dopo la corsa mano nella mano lungo la navata dell’abbazia, avevano seguito i loro ospiti fuori dalle maestose mura e si erano ritrovati, portati dalla magia, su una caletta non lontana, insenata fra quelle falesie non troppo alte ricoperte di pratoni verdi.
La damigella d’onore aveva stretto un polso alla sua migliore amica, dallo stupore.
“Oh mio dio, Lazuli! Ma quanto avete speso?”
“La stessa tariffa che per la resurrezione di tuo marito.” Aveva ammiccato Diciotto fra sé e sé, “Sapessi, Sara...”
Sulla caletta sorgevano varie strutture in vetro colorato, ferro battuto e stoffa elegante. Assomigliavano a incroci fra padiglioni art nouveau e yurte, uno stile di gazebo decisamente inedito che fu una sorpresa totale anche per gli sposi: esattamente come per la Rolls Royce, non avevano dato indicazioni.
“Shenron wedding planner dell’anno.”
Crilin era sincero. E fece ridere Diciotto di gusto.
Sotto i padiglioni, tavole imbandite riposavano in bella mostra, in attesa dell’orda di ospiti affamati.
“Se Vegeta avesse saputo di tutto questo cibo, se ne sarebbe fregato e sarebbe venuto!”
Mai Chichi, occhi ancora vivissimi dalla videochiamata attraverso il rosone, aveva illuminato Bulma con parole più giuste.
“Cià, portiamo qualcosa al papà?” si consultò la scienziata con Trunks.
"Quanta roba,” si meravigliò Ronan. “Hai pagato te?”
Kate continuò a sorbire il suo cocktail pieno di ghiaccio.
Un virgin mojito (falso mojito!) alla mano, Carly ammirava l’angolo bar; il padiglione-yurta proteggeva dal sole cocente un tripudio di frutta intagliata e pronta da mangiare sotto forma di spiedini, bottiglie colorate di liquori, drink scintillanti già fatti.
“Fammi compagnia, Carly.”
Diciotto le apparve alle spalle, quasi spaventandola. Si prese un paio di shot si chissà quale roba che lei non poteva bere. “Facciamoci due shot insieme.”
“No, Lazuli, ti ringrazio.”
“Stai dicendo di no alla sposa?”
Diciotto voleva scherzare, eppure sapeva di aver messo Carly a disagio. Carly era la sola a ricordarsi di quanta soggezione avesse provato di fronte a Lazuli, i primi tempi.
Ora come ora, però, la damigella emanava una certa grinta spavalda. “Eh, già; devo dirti di no.”
“Ti senti bene?”
“Benissimo!” Carly svicolò, parlando in tono rassicurante, allontanandosi con una scodellina colma di fragole, mirtilli e ananas a tocchetti.
Diciotto cercò con le dita uno spiedino di ananas, scosse la testa e sospirò.
 
 Una pellicola invisibile proteggeva le tavolate da vento ed acqua, intrattenendo i commensali con piccoli arcobaleniad ogni spruzzo di sale.
La gente chiacchierava e mangiava.
Lo stupore di Ronan era passato, fra una forchettata di carpaccio e l'altra.
"Splendida festa, Lazuli e Crilin, congratulazioni. E ora, Lapis, avrai una bella concorrenza da battere quando sposerai Carly."
Il Rana cercava così tanto di fare il simpatico...
La damigella con la stola lo guardò un po' spaesata, masticando religiosamente la sua bistecca stracotta.
"O anche io, quando sposerò Kathryn."
"Ronnie…"
Ronnie si beccò un calcetto di avvertimento, sotto il tavolo.
"Che c'è, ora non posso manco fantasticare?"
"Non spezzatevi il cuore al mio matrimonio, voi due." Li fulminò la sposa.
"Ma davvero," si azzardò lo sposo, con una gomitata amichevole al cognato. "Progetti, voi due?"
Il livello di cringe nella conversazione aveva già raggiunto soglie che Diciassette non poteva tollerare; il cyborg si alzò repentinamente dal tavolo d'onore, sbattè il suo tovagliolo sulla sedia e piantò lì madre, sorella, fidanzata e rane varie.
Nessuno fece in tempo a vedere dove se l'era filata.
"Ehi! Che ho detto?" Crilin fece per andargli dietro.
"Mmm, lascialo perdere," asserì pacifica Kate, senza staccare gli occhi dalla sua forchetta.
"Io...a volte mi perplime," farfugliò Ronan.
"Ventitré anni, e oltre." Sospirò Kate, che con tutta la sua pratica come madre di Lapis, mai si era abituata ai suoi sbalzi d'umore. Era solito per lui fare l'altalena: un momento era leggero e scanzonato, uno spirito allegro, un momento dopo assumeva atteggiamenti selvatici e provocatori, quasi aggressivi.
Quante volte Kate si era mangiata il fegato, con lui!
Carly sperò che non le servissero due decadi; anch'ella voleva alzarsi e andarsene, ma Lazuli sembrava già abbastanza turbata e no, lei non avrebbe rovinato la festa a Lazuli.
Non dopo tutti i suoi grandi sforzi, per giunta.
 
/
 
 Non appena furono abbastanza sazi, gli ospiti si sparpagliarono fra padiglioni vari e bellezze naturali. Le damigelle avevano riservato, con la complicità dello sposo e di Kate, un'altra sorpresa a Diciotto.
Da un computer era partito uno slideshow casalingo, con varie foto di Diciotto da piccola, poi con Crilin (c'era pure il selfie col caschetto tutto scompigliato, dalla volta in cui si erano messi a cercare le sfere per resuscitare Bruno.); tutti avevano emesso un gemito di tenerezza quando era apparsa una foto in cui Diciotto allattava Marron, guardandola con occhi inconsciamente adoranti, e in cui Crilin la guardava in quella stessa maniera. Molte foto di momenti semplici quotidiani si susseguirono nello slideshow, sotto gli occhi di tutti; tranne che di Piccolo, andatosene per conto suo.
Piccolo e anche un altro.
Lasciandosi alle spalle la piccola folla di ospiti, Diciotto si tolse i suoi sandali dolorosi e si avviò verso il padiglione-bar, quasi vuoto.
Svaccato su una poltrona coi piedi su un tavolo, suo fratello guardava le onde lontane con occhio vitreo; si era slacciato la camicia e il papillon, le ciocche di capelli che erano sfuggite alla coda erano appiccicate alle tempie.
"Non hai guardato il mio slideshow…"
"Non mi perderò la sua nomination agli Oscar."
Simpatico come un calcio sui denti; avevano appena avuto la peggiore lite della loro vita e lui era ancora così! Errare è umano, perseverare è diabolico.
"Ne hai veramente voglia."
"Di che."
"Di giocare ancora all'allegro chirurgo."
“Mi sto spanciando dal ridere.”
Che battuta da Brent...
Diciotto raccolse le sue gonne e si sedette a cavalcioni sul tavolino, "Conosci il detto: non affogare le noie nell'alcool, sanno nuotare."
Diciassette bevve un sorso dalla bottiglia di rum che teneva in mano. "É inutile, questo non fa niente per me."
"Allora non hai scuse. Alza il culo e datti un contegno, mi metti in imbarazzo."
Diciassette alzò istintivamente le sopracciglia; guardò Oolong canticchiare e trascinare sempre più persone in un grezzissimo trenino ma giusto, quello imbarazzante era lui.
Se Diciotto non mostrava sul suo viso nemmeno la metà delle emozioni che provava, questo non la rendeva meno intuitiva nel riconoscere quelle degli altri:
"Poverina, Carly. Sembra che abbia il morale a terra. Vi state mollando?"
Guai a Diciassette se si fosse permesso di rovinarle la SUA giornata con l'annuncio che lui e Carly si erano mollati.
Chichi e Sara irruppero nel padiglione-bar, sghignazzando; poi la vedova si avvicinò con occhio scrutatore al gemello maschio. “Ma tu chi sei?"
Le sembrava che Diciotto fosse ancora più alta. E che aveva fatto ai capelli? Poi Chichi notò la Diciotto più piccola e bionda, "Quante Diciotto!”
Anche Gohan e da Sedici sopraggiunsero: Marron e Amelia stavano sedute fra le mani dell'androide come in cestini, un würstel croccante in mano a ciascuna. Goten e Trunks seguivano, mangiando due hot dogs ciascuno.
Chichi, che era stata giuliva fino a quel momento, si sciolse di punto in bianco in un mare di lacrime; un vero pianto a singhiozzoni, appoggiata al figlio maggiore.
“E ora mi sale la rabbia! Dimmi tu se si può.”
Sara le carezzava pazientemente la schiena. "Oh, Chichi. Sono solo i fumi dell'alcol."
“Ditemi voi, che ingrato! Preferisce restare morto che tornare da moglie e figli!”
I gemelli sapevano che stava parlando di Son Goku. E contrariamente a quanto gli ultimi eventi nella sua vita sentimentale potevano fargli credere, alla fine Diciassette non era il peggior fidanzato del mondo.
"Perchè sei qui da solo?" Incalzò ancora Diciotto, senza però attendere una risposta. "Merda. Vi siete mollati."
"No, qui nessuno si molla o si vuole male, chiaro? Non oggi."
Kate subentrò, sperando che Lazuli si dimenticasse dei capricci di Lapis e ritornasse al fianco di Crilin, a godersi la sua festa.
"E ora sono cazzi amari per te..."
Vedendo che Kate aveva assunto l'atteggiamento da dittatore, come le volte in cui loro erano piccoli e lei aveva detto "dopo facciamo i conti", le venne da ridere al pensiero che sarebbe toccato a Diciassette; Kate aveva un dono per rigirare le parole ed estorcere informazioni.
Quando la sposa se ne fu andata, Kate si sedette di fianco a Lapis.
"Ecco che la mamma interrompe il dramma," la schernì lui, con la sua solita insolenza.
Ma Kate non aveva voglia, o tempo, di stare dietro ai suoi capricci:
"Lo sai che è stupido rifiutare un aiuto disinteressato?"
Lapis non voleva parlare. Preferiva restare da solo a tracannare rum, con un'invisibile cortina di malumore che pendeva sopra di lui.
Era strano: quella era una festa, il matrimonio di sua sorella, Kate si sarebbe aspettata che la sua natura frizzante avrebbe sopraffatto le sue evidenti emozioni negative. Invece, come Kate aveva già capito fin dai suoi primi anni di vita, Lapis era tale e quale a suo padre: vivace di default ma perseverante in ira e malumori.
Doveva essere grave; e lei doveva dargli uno strattone metaforico.
Gli fregò la bottiglia di rum e guardò il suo viso, indurito dall'incazzatura:
"Senti, va bene che sei un cyborg ma mi preoccupo per la tua salute. Ora basta con le rogne, datti una sistemata e vai a fare compagnia a Carly. Se io fossi lei e tu ti presentassi conciato così, non te la farei passare liscia."
Diciassette scattò in piedi, il cuoio delle sue suole fece un rumore di nacchere.
"Fantastico! Anche tu dalla sua parte."
"Ci sono parti?"
"Io mi sto comportando da stronzo e lo so, ma lei è stata..."
Gli mancarono le parole; poi parlò d'istinto, sperando che Kate non peggiorasse la situazione con consigli non richiesti e domande.
"Carly aspetta un figlio, lo sapevi? No? Bene, per tre mesi non mi ha detto niente e poi sono caduto dal pero, come un cazzo di idiota. Io...non ci riesco."
Riacciuffò la bottiglia e se la scolò tutta.
Nero di rabbia si aggirò per il bar con la mano destra stretta a pugno contro le labbra, mangiucchiandosi il dito indice. Diciassette guardava Kate, che sicuramente non sapeva come sentirsi. Così si era sentito lui per colpa di Carly: elettrocardiogramma piatto.
"Ehi mà. Ti è caduta la mascella?"
Sicuramente a Kate era caduta la mascella; le donne avevano osservato la damigella nella sua armatura di stola per tutto quel tempo, erano giunte ad una conclusione sensata; alla fine, ci erano tutte passate prima di lei.
Kate aveva capito, ma sentirlo dire da Lapis le aveva dato un colpo al cuore; di quelli benevoli, da emozione. Forse non lo vedeva grande abbastanza? Forse, nel suo cuore di mamma, sapeva che lui era immaturo?
Kate era quasi certa che lui fosse così arrabbiato per una questione d'orgoglio, non gli andava giù che Carly l'avesse preso per fesso. Era anche sicura che Carly avesse avuto i suoi motivi, ma in quel momento lei era lì per fare il suo lavoro di mamma e Lapis era sempre il suo bambino, anche ora a ventitré anni suonati e futuro padre.
Dal canto suo, Diciassette fu grato a Kate per non averlo investito con mille reazioni e domande. Alla fi lo capiva, era sicura, solo del bene poteva venire da lei.
"Tesoro, sei contento?"
Quella fu la sola cosa che gli chiese.
Lapis le rispose con voce grave e uno sguardo nervoso. "Sì..."
"E allora, è tutto quello che importa. È così facile farsi prendere dal rancore e alimentarlo, ma poi diventa tossico. Non lasciare che i sentimenti negativi ti facciano dimenticare quanto tu sia privilegiato."
Poche, semplici parole: Kate era una benedizione.
Improvvisamente tutto si fece chiaro nel suo cuore.
O forse, quella capacità di sua madre di cambiargli la prospettiva in quattro e quattr'otto lo faceva sentire ancora più idiota.
Kate ridacchiò, invitandolo a esserle grato e basta; gli sfiorò un braccio, riabbottonandogli la camicia sul petto.
"Posso?"
Accennò al papillon ancora disfatto e prese la sua alzata di spalle per un sì.
E non gli chiese se potesse abbracciarlo, perchè lui avrebbe detto di no e lei l'avrebbe comunque fatto.
Kate strinse il suo amato figlio, fin quando non sentì quei muscoli che sembravano acciaio rilassarsi. Finalmente.
"E congratulazioni."
Kate volle sapere se Carly si era scusata; l'aveva fatto, aveva riconosciuto il suo sbaglio.
“Ora vai: non devi assolutamente stressare quella povera ragazza,” gli disse Kate.
“Vuoi farmi sentire in colpa?”
Agli uomini bisognava sempre spiegare tutto: “Lapis, la gravidanza è come correre una maratona per nove mesi. Nella vita di una donna, è uno dei momenti in cui la salute cardiaca è fragile, anche per una ragazza giovane e sana come Carly. Non tutti siamo sovrumani."
 
/
 
A luglio il sole tramontava tardi nel Sud-Est, ma verso le sette la luce era già cambiata sul bagnasciuga. Carly aveva fatto una piccola scorta di ciottoli piatti e rotondi; con i piedi nudi e la gonna annodata sulle cosce prendeva la rincorsa e lanciava i sassi, per farli rimbalzare sul pelo dell'acqua.
Un uomo dalla statura immensa e capelli di fiamma non molto diversi dai suoi la guardava, seduto in disparte.
Carly finì per attaccarci bottone, "Come ti chiami?"
"Mi identifico come androide n°16."
Il famoso Sedici? "Ohh."
Lei era l'umana di Diciassette. Era del tipo benigno come i Weiss, come i Brief; non come Cloe Mafia.
Sedici cominciò a fare qualche passo nell'acqua bassa, osservando le capriole dei delfini al largo.
"Ti piace il mare, Sedici?" Sorrise Carly. "A me sì, anche se non mi piace la 'vita da spiaggia'."
"Quindi il bagno con me non lo fai?"
Bulma era apparsa dal nulla e in silenzio totale aveva buttato una capsula sulla sabbia, era sparita in un camerino ed era riapparsa col vestito verde malachite in mano ed un bikini addosso. "Ho costumi anche per te."
Bulma aveva equipaggiato i kit d'emergenza con capsule come quella. Ne aveva messe a disposizione anche per gli ospiti.
"Con 'sto caldo e tutto 'sto mare, è un oltraggio non fare un bagno. Mettiti in costume, dai!"
"Ho le vene e la cellulite."
“É naturale.”
Bulma fece segno a Sedici di aspettare. Convinse in un qualche modo Carly ad arrampicarsi con lei sulla spalla del gigantesco androide e presto le due damigelle si trovarono al largo, circondate dai delfini.
"Io mi butto!"
Con un ponfo, Bulma cadde nell'acqua scura. Emise un gridolino di gioia quando sentì il primo delfino sfiorarle il braccio.
"Sedici, mettila giù."
"No, aspetta!"
L'androide prese Carly da sotto le ascelle e la posò delicatamente in acqua, mentre questa scalpitava.
Immersa fino al collo, Carly gemette di fastidio: sapeva che i delfini l'avrebbero trovata interessante e che si sarebbero strusciati addosso a lei.
Se li era immaginati lisci e quasi gommosi. Invece erano viscidi. E le passavano di fianco e fra le gambe come siluri, uno la fece finire con la faccia sott'acqua.
"Oddio! È ENORME!"
Ansimò Carly, mentre Bulma se la rideva a crepapelle.
 
Di ritorno alla caletta, la dottoressa Brief si asciugò in fretta, e il peso di vestito e capelli fradici gravava su Carly. La damigella che aveva perso la stola al largo rabbrividiva e si sentiva la febbre, voleva disperatamente dormire e in più un'ondata di nausea le aveva fatto girare forte la testa. Proprio ora doveva avere un attacco di nausea?
Dopotutto era ancora in debito con il suo fisico, che l'aveva implorata di rallentare il ritmo; era chiaro che tutta l'ansia e la stanchezza accumulata negli ultimi dieci giorni avrebbero avuto ripercussioni negative su di lei.
Bulma le diede del paracetamolo del kit d'emergenza e la spedì nel camerino a cambiarsi; quando fu uscita le mise un grande telo da mare intorno alle spalle e la fece sedere su uno scoglio. Carly tirò su col naso, sputacchiando in un fazzoletto.
Sedici rimase turbato nel vedere l'umana di Diciassette a disagio, "Qual é il problema?"
"É stanca morta e piena di ormoni: ha un mini umano in pancia."
Carly sobbalzò, "Bulma?! Che dici?"
La scienziata ammiccò e le spazzolò affettuosamente una ciocca di capelli, usando il pettine del kit.
"Oh tranquilla! Ce ne siamo subito accorte. E poi Sedici è così intelligente, merita di imparare."
Sedici era così allibito.
Carly si sentì ancora una volta il cuore fare un triplo carpiato. Lo sapeva anche Lazuli?
 
 Bulma e Carly non avevano fatto caso al sentiero scavato nella falesia che, come un parapetto, offriva una vista dall'alto sulla caletta.
Il Genio e Puar si erano originariamente appostati lí per guardare il panorama ma in seguito, come ogni volta, le cose col vecchio erano degenerate e ora Puar guardava senza stupore la sua faccia da pervertito.
“Non mi dire che stai guardando le scollature delle damigelle."
“Ma che damigelle! Quelle sono damigiane.”
 
A mente più chiara, Diciassette cercò sua sorella prima ancora di andare da Carly; stava ancora giocando a nascondino o aveva bisogno della sua presenza?
Diciotto non era con altri ospiti a ballare, giocare o fare il bagno; Diciassette la trovò rintanata nel bagno.
"Che ci fai qui?"
Era seduta su un cesso, da sola, assorbita da chissà quale attività.
"Lasciami."
Voleva una pausa dall'alta densità sociale della festa. Anche se era la sua festa.
"Ti trovi di fronte ad un avversario potente. Che incantesimo usi?" Lesse Diciotto, ad alta voce.
Diciassette non seppe se si stava rivolgendo a lui. "Incantesimo?"
Diciotto alzò gli occhi al cielo.
"É un gioco stupido su internet. In che casa di Hogwarts saresti."
Il genere di cose che si fa quando ci si annoia. A volte Lillian e Carly giocavano con quei test sui social, Che pianta sei, Quali saranno le tue ultime parole.
I gemelli si erano ricordati che a Lazuli piaceva Harry Potter; aveva tutti i libri a casa di Kate.
Diciotto continuò a leggere le opzioni della risposta, "Beh me lo chiedi anche? Crucio."
L'incantesimo-tortura che causa atroci dolori a chi lo subisce. Diciassette alzò un sopracciglio, "Ma perchè? Disarmali, se mai."
Diciotto era sempre la solita bulla. Quasi squittì dal divertimento quando lesse il risultato.
" 'Serpeverde! Faresti qualsiasi cosa per ottenere potere'."
Se c'era qualcuno che Diciassette conosceva e che poteva appartenere a quella casa, era proprio sua sorella.
Prese il cellulare di mano a Diciotto, voleva giocare.
"Io tanto lo so cosa ti esce," sogghignò la sposa, andando davanti allo specchio a ritoccarsi la cipria.
Diciassette prese quel gioco più sul serio di quanto si aspettasse.
"Becchi qualcuno che bara agli esami finali. Cosa fai?" Lesse le risposte in fretta. "Dargli il 5, tanto tutti barano."
Diciotto guardava la sua fronte corrugata, "Rilassati, é solo un gioco! Vuoi che ti legga io il risultato?"
Diciassette premette lo schermo e lasciò che Diciotto si riprese il telefono.
Vide un sorriso poco raccomandabile apparire sul suo viso e si sentì agitato, "No! Non dirmi…"
Diciotto continuò a sogghignare, " Ovvio che sei Grifondoro. Sei quasi lo stereotipo."
"Ma...No!"
Diciassette non ci andava matto per Harry Potter, ma gli piaciucchiava, lo divertiva. E la sua casa preferita era Serpeverde, i cattivoni ambiziosi, sofisticati e di classe. Non quei buonisti sempre allegri preferiti dalla massa, che l'hanno sempre vinta solo perché hanno il protagonista fra i loro ranghi.
"Ahh, se solo leggessi i libri…" Diciotto continuò a leggere dal cellulare.
"Diciassette, tu sei coraggioso, una testa calda, spavaldo al limite della stupidità e moriresti per ciò che ami."
Quel piccolo gioco le aveva risvegliato certi ricordi che le fecero stringere il cuore.
Perché tutto nella sua vita doveva riportarla all'orrore che aveva vissuto?
Diciassette si stava sistemando i capelli davanti allo specchio, con un accenno di muso lungo.
"Già. Tu invece sei un serpentaccio."
Diciotto doveva dirgli qualcosa di importante. Rimase di fronte a lui finché la sua presenza non lo obbligò ad alzare lo sguardo.
"Oggi però mi hai lasciato tutta la gloria. Sai, perché è il mio giorno." Diciotto rise sincera; apprezzava quello sforzo.
Diciassette non era sicuro dove lei volesse andare a parare.
Con movimenti vecchi quanto la loro esistenza, naturali, Diciotto l'abbracciò; un abbraccio delicato, sereno, tenero, come nessuno dei due ricordava.
"Grazie, Diciassette."
"Di cosa?"
"Sai di cosa."
Un abbraccio che significava che era contenta per lui. Più fiera di quanto non fosse mai stata. Anche se come al solito pensava di farla passare per scema, che lei non capisse.
Gli diede una carezza sul braccio, "E chissà, forse da un Grifondoro e una Corvonero può saltare fuori un piccolo Serpeverde."
 
/
 
 
 
 
Quando Carly si ridestò, la mattina dopo il matrimonio, si rese conto che Sedici e Bulma l'avevano riaccompagnata all'hotel Ryz prima che si sentisse troppo male.
"Vado a prendere Diciassette," aveva dichiarato Sedici.
"No, lascia stare Diciassette," si ricordava di avergli detto.
Poi si era addormentata in braccio a Sedici durante il tragitto, non si era manco svegliata quando la Brief e l'androide l'avevano infilata sotto le coperte.
La damigella di Lazuli non aveva assistito al taglio della torta nuziale, che era stato programmato per le otto di sera.
Se ne dispiacque; si sentiva meglio, però, quindi non era vero dispiacere.
Aveva proprio dovuto dormire, il suo fisico le aveva detto basta.
Sperava solo che Lazuli non si fosse offesa.
Diciassette aveva quasi litigato con Sedici: l'androide era andato a cercarlo con veemenza, allarmato; gli aveva ripetuto la strabiliante spiegazione di Bulma.
"Lo sapevi?"
"Certo che lo sapevo, scemo di un Sedici, il mini umano nella pancia l'ho messo io."
Il pacifico Sedici si era incavolato al sentirsi chiamare scemo, si era caricato il cyborg sotto braccio e l'aveva portato di peso all'hotel.
Diciassette aveva cercato di liberarsi, senza risultato: quello sforzo l'aveva ripulito dall'incazzatura che gli era rimasta.
E adesso a mattina inoltrata, vedendola svegliarsi, Diciassette accolse Carly con i suoi succo d'arancia e supplemento di ferro. E con un tono di voce più morbido del solito.
"Allora?"
Il ragazzo non riuscì a impedirsi di far trasparire la sua preoccupazione. Ormai, alla fine, non poteva più essere freddo con lei.
Coi capelli profumati di lenzuola Carly si accoccolò contro il petto di Lapis.
"Posso abbracciarti?" Lo pregò.
Diciassette cominciava ad avvertire i morsi del rimorso, per dieci giorni aveva fatto stressare la sua diletta; la madre del suo bambino.
Mentre Diciotto e Crilin tagliavano la torta, Diciassette era rimasto immobile a fianco di Carly che dormiva; le aveva sussurrato "Perdonami",  trascinando una mano gentile sulla curva del suo ventre.
Ora la sentiva fremere leggermente fra le sue braccia, il cuore le batteva all'impazzata.
Le posò le labbra in cima alla fronte e restò così, mentre Carly lo stringeva sempre più forte.
"Perdonami, Lapis. Perdonami."
Si scostò da lui per guardarlo negli occhi, nel pronunciare quelle parole; per guardare ogni suo lineamento perfetto e perfettamente immobile.
Lapis stava cercando qualcosa dentro di sé; Carly lo conosceva e sapeva che quando la posta in gioco era alta, Lapis perdeva la sua aura irriverente e tendeva a volere onestà assoluta.
"Vuoi restare con me o no?"
Diciassette aggrottò le sopracciglia: che domande erano quelle?
Carly gli aveva dato il dono della verità, aiutandolo a comprendere che Gero non l'aveva completamente snaturato; aveva sempre voluto Carly, aveva sempre voluto dei bambini con lei.
"Perchè se non puoi perdonarmi, non possiamo stare insieme."
Carly non riusciva a concepire un'idea di stare insieme irrorata di irritabilità e rancore. Non era sostenibile.
Sentì un vuoto ancora più grande scavarsi nel suo petto, non riusciva e non voleva pensare a quello scenario: lei aveva pianto già così tanto per Lapis, fin dalle volte in cui erano ragazzini e lei lo vedeva sprecare la sua intelligenza e la sua energia in attività losche.
Carly puntò due occhi lucidi in quelli di Lapis e gli afferrò le spalle, obbligandolo a guardarla:
"Tu sei l'amore della mia vita e io non posso perderti ancora! Ne morirei. Voglio che tu capisca che so di aver sbagliato. Se tu vuoi andare via, non voglio che sia per un mio errore. Non ho mai voluto ferirti."
"Ma l'hai fatto."
"E tu hai ferito me!"
La rabbia poteva diventare tossica e trasformarsi in pugnali con cui era facile ferire, rompere. E fino a quel momento Diciassette e Carly si erano pugnalati a vicenda, intrappolati in quella tossicità.
Il cyborg osservò la sua Carly in piedi sulle sue ginocchia arrossate, con la dolcezza scritta in viso e quell'altro essere invisibile attaccato a lei. Diciassette, nel suo profondo, sapeva che non voleva andarsene: voleva essere testimone, giorno per giorno, del miracolo che lui stesso aveva compiuto.
La creatura era un altro motivo per cui voleva restare, ma il primo era sempre Carly.
Per la seconda volta quel giorno ( la prima per Carly, visto che si era appena svegliata) Diciassette le toccò timidamente il ventre.
Ora sapeva come immaginarsela, quella cosina lì dentro; aveva visto le sue gambe e le sue braccia flettersi.
"Non vedo l'ora di sentirlo scalciare…" Sospirò Carly, con aria ancora un po' mogia.
Ma in un attimo il suo il respiro e il suo sguardo si fermarono nella più assoluta meraviglia. "Lapis!!'
Strinse la sua mano e lo vide girarsi veloce, nascondere una luce negli occhi che forse era arrivata alle guance.
Il bambino si era mosso, per la prima volta.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Pensieri dell'autrice:
 
Rieccomi risorta, buon anno a tutti in ritardo!
Spero che stiate tutti bene e che l'ambiente intorno a voi sia positivo. Qui nel Regno Unito è un disastro, per cui ci vuole un bel capitolo positivo🙂
Ci tenevo a tornare con un capitolo sì dedicato alla coppia di sposi, ma in cui volevo mostrare un po' i piccoli drammi di tutti (Ronan che non ha ancora conquistato i gemelli, Chichi e la sua vedovanza, etc.).
Ho voluto dare spazio anche ai personaggi minori, visto che fanno parte della festa e della vita di Crilin e ormai di Diciotto.
 Mi piace anche fare interagire personaggi umani basic e Z Fighters&co., come qui Sara e Chichi.
Kate ha il dono di rigirare le parole: nemmeno io so se i gemelli lo sanno ma prima di averli, quando viveva ancora sull'isola di Amenbo, Kate era un'avvocatessa coi fiocchi🙄
Mi immagino che contrattare selvaggio abbiano fatto lei e i suoi figli nel corso della loro vita insieme😂
E grazie a Kate...hallelujah, Diciassette fa pace con Carly, questa volta per davvero!
50 punti a Grifondoro.
 
 
Ps. Ho davvero visto delle fanart con i personaggi di db e il cappello di hp!
Pps. Ho fatto anche io uno di quei test su internet e la mia casa è Ravenclaw (Corvonero)😎
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 42
*** Questa Volta, per sempre ***


42. Questa Volta, per sempre
 
 
 
 
 
 
 
19.2 aspettava pazientemente che il sensore completasse la scansione delle sue impronte digitali artificiali.
Un androide dalle fattezze di un uomo basso, dal volto maligno, lo aspettava dietro le pesanti porte; camminarono insieme fino a raggiungere il seminterrato, in cui il supercomputer troneggiava di nuovo, come se fosse sempre stato lì.
“Sono più di uno, 19.2.”
“Sono quattro in tutto.”
19.2 lo sapeva, anche se aveva visto solo tre di loro.
Il vecchio risorto li attendeva seduto al supercomputer. “E voi due siete gli unici rimasti?”
“Affermativo,” informò 19.2, dando un’occhiata veloce ad uno dei suoi stinchi. “Gli altri sono stati eliminati.”
“Peccato. Un vero peccato.” Il vecchio premette un pulsante e un sarcofago nero scese dal soffitto, molleggiando sui suoi tubi d’ossigeno.
19.2 e 9 (colui che era stato modellato a partire dal Comandante Red) avevano visto il loro creatore lavorare intensamente, come una volta, eppure non conoscevano il piano fino in fondo.
Osservarono senza emozione il sarcofago aprirsi, la creazione emergere in un nuovo risveglio.
Il suo aspetto appariva lo stesso, ma questa volta la sua programmazione era basilare: il creatore aveva fretta e il risultato di quella rinascita precoce era stato un essere molto più rudimentale.
Nemmeno l’ombra della biologia complessa e sofisticata della prima volta, ma qualcosa di ancora più animalesco, con una mente poco sviluppata a confronto.
Niente trasformazioni in vista, poiché la nuova sua programmazione non prevedeva integrazione, ma solo smaltimento.
Era, insomma, una versione rozza e bruta di ciò che era stato, ma il creatore non aveva più in mente lo stesso sogno di grandezza: per la vendetta bastava la semplicità, anzi, era anche meglio.
Una delle funzioni del suo capolavoro era stata persino ottimizzata…
Gli androidi del Red Ribbon non potevano provare emozioni: tuttavia 9 sembrava cercare di districare dai suoi circuiti un’informazione sconosciuta, pesante, un input datogli dalla presenza della creazione dalla pelle screziata.
“Questa volta ho fatto in modo che non resti niente di ciò a cui egli si unisce,” disse il vecchio. “Non importa se organico, o inorganico. Ma devo vedere se funziona.”
19.2 non provò paura o pietà quando 9 indietreggiò rapidamente, seguendo un istinto più forte della programmazione.
19.2 sapeva che un sacrificio andava fatto: sarebbe stato o lui, o 9.
E per il dottore 9 non era mai stato importante, l’aveva smantellato lui stesso.
In piedi, col volto artificiale composto, 19.2 osservò il capolavoro mutilare 9 con un movimento della gamba, appena percettibile persino agli occhi del dottore.
Occhi che brillavano di vittoria nel vedere la nuova funzione in azione: il corpo fatto a pezzi di 9 sbattacchiò sul pavimento, prima di venire attirato come da una calamita contro il corpo della creazione. E allora, il metallo e tutte le componenti che fino a pochi secondi prima erano state un corpo si misero a fumare, si rammollirono, si dissolsero, si riassorbirono nella pelle della creazione.
Il dottore sorrise soddisfatto, il capolavoro lo seguì quando egli lasciò la stanza.
Il laboratorio era stato ristrutturato da Shenron com'era stato prima che venisse distrutto dagli amici di Son Goku.
Il vecchio vagò nelle sue camere sotterranee e ritrovò l’armadio, quello con i camici bianchi appesi e il cassetto traboccante di bustine gialle.
Recuperò il baule in cui aveva riposto gli indumenti che lui stesso aveva rimosso, e poi conservato come un trofeo. Erano gli unici che aveva tenuto.
Non dovette cercare a lungo per trovare quello di cui aveva bisogno.
Erano in quattro: i più urgenti erano due e il dottore non stava più nella pelle, perché oh sì, poteva andare peggio.
Così tanto peggio di quello che aveva fatto passare loro la prima volta.
Nonostante avesse dispiegato uno stormo di telecamere-insetti, non era riuscito a individuare dove si trovasse lui.
In ogni caso, era da lei che voleva andare per primo.
"Farsi inseminare...Deplorevole, mia cara. Quanto sei caduta in basso."
Quanto era caduto in basso anche lui: il creatore si sentiva sempre responsabile di qualsiasi bassezza le sue creazioni commettessero, ma poteva usare il tutto a suo vantaggio. E l'occasione perfetta sarebbe presto capitata.
A lei voleva togliere tutto, prima di toglierle la vita. A lui, il suo assassino, voleva infliggere momenti infiniti di tortura.
Voleva straziare la carne che lui stesso aveva rinforzato, voleva piegare la sua volontà e spezzare ogni vento di orgoglio, facendogli rivivere lo stesso terrore atavico che aveva provato la prima volta di fronte alla fine.
Terrore, tortura e poi uno smaltimento senza ritorno. E questa volta, il creatore sarebbe stato lì a guardare; questa volta, sarebbe stato per sempre.
Elettricità e nuova forza sfrigolarono dai palmi del dottor Gero, eccitato fin quasi all’orgasmo dai suoi pensieri.
Passò un indumento al suo capolavoro, sempre in piedi alle sue spalle.
"Cerca…"
Il mostro dilatò i buchi che aveva per naso, inspirò una grande boccata d’aria attraverso l’indumento; Gero guardò con soddisfazione le sue pupille verticali allargarsi e la sua testa scegliere trovare la direzione, come l’ago di una bussola.
 
/
 
Un mesetto era passato dal matrimonio. Gli sposi erano partiti per un paio di settimane verso uno dei primi posti che avevano visto come coppia, le scogliere friabili lambite dal freddo mare del Nord.
Diciotto e Crilin rividero la torre bianca, solitaria ed erosa da vento ed acqua, dentro cui avevano trovato una sfera del drago e anche il posto in cui il futuro era stato suggellato dalla loro prima unione.
Era stato solo due anni prima.
Diciotto era sempre la stessa ragazza, solo in una fase completamente diversa della sua vita.
Ora, a casa ad aspettarli c’era la loro piccola Marron: che il 31 di quel mese avrebbe spento la sua prima candelina.
Dopo il lusso dell’hotel Ryz, gli sposi avevano passato la luna di miele ad esplorare ulteriormente quella parte di mondo: due settimane in una casetta dipinta di blu a due passi dalla spiaggia, cieli stellati e tuffi da altezze che avrebbero fatto storcere il naso (o venire un ictus) ai turisti umani basic. Se solo ce ne fossero stati.
Contrariamente alla parte montuosa e rinomata, verso ovest, Il Nord-Est era già caduto in bassa stagione; per Diciotto e Crilin era meglio così.
“Scommetto che dagli zulù sono ancora pieni, invece.”
“Ma perchè li chiami così,” rise Crilin, chiudendo la porta della casetta non appena Diciotto fu uscita, con il loro unico bagaglio.
“Ormai è tradizione. E fa arrabbiare mio fratello.”
Crilin diede un’occhiata al contenuto della borsa di tela color giallo paglierino: era il regalo per il loro futuro nipotino, un tenero orsacchiotto grande quanto un marmocchio di sei mesi, con una copertina attaccata. 
Crilin si preparò a spiccare il volo verso Verny, tenendosi il cappello di paglia. “Sicura che tua mamma possa tenerci Marron altri due giorni?”
“Marron non è niente confronto a quello a cui è abituata,” tagliò corto Diciotto.
Kate l’aveva rassicurata giusto la sera prima, si era presa una piccola vacanza dal lavoro per poter passare del tempo con la bimba.
Diciassette e Carly avevano invitato i cognati casa loro, una volta finita la luna di miele; Diciotto ci era stata la volta in cui lei e Diciassette avevano litigato, ma nessuno dei due considerava quella una vera visita. La cyborg capì che era ansiosa di consegnare al gemello il regalo per il suo bambino.
 
 
 Crilin e Diciotto trovarono solo Carly, più rotonda e meno tesa del giorno del matrimonio; Diciassette sarebbe rincasato solo verso le 21, potevano iniziare la cena senza di lui.
La padrona di casa, la gatta Pencil e i cognati si sistemarono in giardino a bere limonata e a godersi fra le chiacchiere l’ultimo sole della stagione.
“Io ho sempre saputo che era una femmina,” rammentò Crilin. “Io e Diciotto non avevamo preferenze particolari, tu?”
“Io vorrei un maschietto,” disse Carly, in tutta onestà. Un maschietto che ereditasse  la bellezza che lei non poteva dare. Quando l’aveva detto a Lapis, lui le aveva risposto solo “Mah…”
“Di solito i maschi vogliono maschi; si illudono che così avranno la vita più facile.” puntualizzò Diciotto.
“Si illudono,” ripeté Carly, nella sua testa. Lapis diceva che non avrebbe voluto essere nei panni di Kate e passare quello che lui le aveva fatto passare. Non voleva trovarsi alle prese con un mini sé: meno aveva di lui, meglio era.
 
 
 Carly aveva mostrato la casa e la cameretta, ancora in fase di arredo.
Poi le due cognate erano rimaste un attimo sole. Diciotto guardava Carly fare smorfie, nel chinarsi a disporre il loro orsetto nel lettino ancora vuoto.
“Tutto bene?”
“Sì, certo.”
Carly era tutta un sorriso. Ma poi si sciolse dal nodo della cortesia e si lasciò cadere sulla sedia a dondolo, sconsolata.
“Sto prendendo delle pastiglie, mi danno la nausea, e il reflusso, e vattelapesca...Stavo meglio prima.”
Carly era stata speranzosa in vista dell’appuntamento della settimana precedente, quello per controllare il ferro;  tuttavia le cose non erano andate come sperava, anziché sparire la carenza si era evoluta in una leggera anemia.
Quante cose nella gravidanza di Diciotto non erano andate come lei si era aspettata!
“Oh poverina. Io sono stata torturata da quei sintomi,ti capisco.”
Diciotto non avrebbe mai immaginato che le sarebbero uscite parole di conforto così esplicite per la ragazza dai capelli rossi, la fidanzata storica di Lapis, rimasta in quella di Diciassette per miracolo.
E la sorpresa doveva essere stata ugualmente grande per Carly; Diciotto la vide cambiare faccia e ritrovare l'entusiasmo.
"Sai che ho iniziato a sentire i calci? Era ora...Sarà che il grasso attutisce."
Carly osservò Lazuli già sapendo, dallo sguardo di lei, di aver detto una puttanata. "Sono sempre a -3 kg, eppure vivo di patatine, hamburger, lasagne. Giuro! Chiedi a Lapis."
"Nessuno reagisce alla stessa maniera. Non devi giustificarti."
Il potere dell’empatia era sorprendente.
"Sai una cosa? Mi aspettavo di vedere qualcosa, ma non la mia intera pancia muoversi,” confessò Carly, ormai lanciata. Da quando il bambino aveva scalciato per la prima volta, non si era più fermato.
"Ehh, invece. Vedrai quando inizia a schiacciarti gli organi."
"Penso lo faccia già…"
I "guizzi di pesciolino” erano stati per Diciotto la cosa più bella del mondo, nonostante tutto.
Da allora, Marron era cresciuta così in fretta: Diciotto si ritrovava a pensare, ultimamente, che era stato facile difendere sua figlia quando ce l’aveva dentro.
Ci sarebbe sempre riuscita, ora che era esposta al mondo? Dopo tutta la merda che le era successa, dopo tutto quello che aveva sofferto, Diciotto aveva sempre paura che gliela portassero via.
 
 
/
 
Carly relativamente prossima al terzo trimestre non era la sola con la nausea: nel frattempo, in un minimarket di Saint-Paul, Elliott e Lillian guardavano divertiti la faccia schifata di Brent di fronte alla bottiglia di Malibu.
“Brrrr. Non riesco più a vederlo, nemmeno a pensarci, senza farmi salire la nausea."
“C'è da aspettarselo,” meditò Elliott, "Dopo la volta in cui siete tutti finiti in coma etilico."
Brent posò il liquore e consultò la sua ragazza, “Dovremmo rifare Halloween! Ma da te, quest'anno."
“Per vedere te che fai il pagliaccio e fare anche finta di conoscerti? No, grazie.”
Lillian era diventata improvvisamente acida.
“Ahhh, tipo quando ti ha detto ‘Lillian ti amoOoOo’ e si è buttato da...da cosa ti eri buttato, Bre?”
“Boh, il divano.”
“E questo e’ niente,” Elliott provocò Lillian. “Io ero l’unico sobrio, mi sa. Il tuo vichingo invece ha quasi inchiodato la tua amica Leni.”
Lillian si rivide la scena; Brent avrebbe voluto rimuovere.
"Ma...? Lo sai?"
"Tutti sanno."
"Comunque, Gontier, io ero sobrissima." Intervenne Lillian, pomposa.
"Uuuuuh!!"
Elliott la guardò come se gli avesse fatto una rivelazione. "Quindi non era l'alcol quando hai palpato la marmorea chiappa di Diciassette?"
"Cosa?!" 
A Brent saltò il cuore in gola: questa gli era nuova.
La conversazione non era più divertente per Lillian. "Pfff, ma dai! Fra tutti Diciassette? Vi pare? "
“Perché?" Provocò Brent. "È orrendo, Diciassette?”
“..B-bah!”
Perché Elliott non era stato fatto marcio, mezzo morto su qualche poltrona? A quel tempo non aveva ancora terminato la sua relazione decennale con la maria, a favore di Defiance De Villiers.
“Chissà che schifo le faccio io, allora…” valutò Elliott.
“Hai palpato Sev, Lillian, non negarlo; e Sev ha rifiutato le tue avances con un rutto atomico, quando tu lo stavi...iiiaahoii !"
Elliott aveva una bella voce da contralto: il cestino pieno di Lillian gli era appena capitato sulla parte più bassa della panza.
“Ma che davvero?" Brent, non sempre un grande ascoltatore, si mise a ridere in un modo che fece girare la gente nella corsia del minimarket.
"Yep, visto tutto; e anche sentito."
"E io dov'ero?... Aspè, non mi sono tappato Leni, vero?”
Il vichingo non aveva mai saputo cos'era successo dopo che si era addormentato sul pavimento di Elliott.
“Nah, sei crollato prima. Ti ho trovato di mattina, nel tuo vomito.”
“Ahh meno male! Altrimenti raga, vi immaginate che disagio? Tapparmela una sera a caso e poi ritrovarmela sul lavoro."
Lillian si incamminò, "True story."
“Quindi quest'anno Halloween da Lillian!"
"Ma se casa mia è un buco e la tua è enorme!"
"Da me, mai più.”
L'irremovibile paleontologo aveva passato la mattina del primo novembre a riordinare l'appartamento e a scrostare fluidi corporali da tavoli e pavimenti, con l'aiuto occasionale di John.
Dopo la trafila che Elliott le aveva appena rievocato, Lillian aveva ancora meno voglia di festeggiare a casa sua.
“Credevo Diciassette avesse pulito.”
Era curiosa di sapere cos'aveva fatto una volta sceso dalla jeep, dopo la loro famosa discussione.
“Mm no. Diciassette è apparso dalla porta alle 5 e mezza,” rammentò Elliott, come se fosse ieri. "Mi ha fissato, ha sboccato nel mio cactus e se n'è andato via di nuovo.”
Forse Lillian non avrebbe dovuto chiedere.
Brent si grattò la barba, “Ahh, ecco che fine ha fatto il cactus.”
Lo squillo del cellulare salvò Lillian dal disagio: erano i campeggiatori.
"Lavoro?"
Brent si sporse dalla spalla della sua ragazza, abbracciandole la vita.
"Yep, devo andare su a Neuve Ville."
 
 Era dall’inizio dell’estate che Lillian stava sorvegliando una piccola comunità nascosta nei boschi fra Noiresylve e Neuve Ville.
Erano forse una trentina di persone, la maggior parte erano uomini che partivano di mattina per andare al lavoro giù a Neuve o su a Noire, e tornavano alla sera. Quasi nessuno sapeva che erano lì, non facevano rumore, erano puliti, non accendevano nemmeno fuochi per non farsi scoprire.
L'ex ex top ranger Fabien si era imbattuto nel loro accampamento in una delle sue pattuglie, dopo che il suo pick-up si era fermato e uno di quei campeggiatori gliel’aveva fatto ripartire. Non sarebbe mai capitato lì, se non ce l'avessero portato.
“Prima abitavamo in zona, in case normali."
Il portavoce scelto del gruppo aveva spiegato che tutti loro svolgevano lì nel Nord-Ovest, costosa regione turistica, lavori stagionali che potevano pagare loro solo il vitto. D’inverno erano molti di meno, e usavano termosifoni elettrici.
Lillian e Fabien non erano principesse sul pisello, eppure si chiedevano come si potesse vivere così: soprattutto quando andava due cifre sotto zero, di solito cominciava a novembre.
“Siamo anelli deboli della società. Non possiamo permetterci i prezzi inflazionati degli affitti e così ci siamo arrangiati. Resteremo qui, fin quando qualche guardia forestale non ci denuncerà e saremo costretti ad abbandonare questo rifugio.”
I due ex top ne avevano parlato a John, chiedendogli di non diffondere troppo il verbo: se nessuno sapeva che fossero lì, ficcati dietro ad una scarpata, fuori mano dai sentieri battuti da turisti, animali e guardiaparco stessi, voleva dire che non davano fastidio.
Fabien, col suo pick-up resuscitato, aveva dovuto guidare per mezz’ora prima di rimettersi sulla strada provinciale da cui era venuto.
“Alla fine non sono elementi di disturbo, non saremo noi a rimuoverli.”
Fabien e Lillian non portavano niente a quel gruppo, né il gruppo chiedeva mai. Ciononostante avevano offerto i loro contatti e con essi la loro disponibilità:  erano isolati sul fianco della montagna, non si sapeva mai.
Lillian si era immaginata di passare la fine del pomeriggio da Brent, a provare la collana che Annelin Geirsson aveva fatto per lei, da mettere col suo vestito da vichinga; ma quando si presentò al l'accampamento, si era sentita addosso molte più di trenta paia d’occhi.
“Avevate detto che potevamo restare.”
Il portavoce dei campeggiatori le aveva dato un foglio stampato: copia-incolla della bibbia, sezione falò, campeggi e tutto, validato dal timbro ufficiale del RNP ma senza firma.
“Non abbiamo infranto regole. Non toglieteci la nostra casa.”
Lillian si sentì prudere le mani, vedendo chiaramente che qualcosa era stato fatto alle sue spalle.
“Chi vi ha detto di andare via?”
“Uno di voi, quello con i capelli scuri e lo chignon; ci ha minacciati di smantellare tutto e di chiamare la polizia."
Il portavoce abbassò lo sguardo, avvilito. "Ci ha chiamati pezzenti."
Lillian avvertì una fitta al fianco: era il dolore pungente del non avere più l'autorità che le serviva.
“Ma sei sicuro? Questo avviso ve l’ha dato il top ranger?” Chiuse gli occhi, inspirò. “Il mio superiore?”
“Chissà. Ha solo detto che era una guardia forestale.”
Lillian non sentiva più tutti gli occhi del gruppo su di lei, una volta che ebbe rabbia e cellulare a portata di mano.
Il campeggiatore osservò la guardia simpatica contrarre i suoi muscoli da scultura barocca, nel portarsi il cellulare all'orecchio; la sentirono lanciarsi in una serie di invettive con tono volutamente controllato.
"Dove sei, disgraziato, miserabile,ignorante,-...Noiresylve? Benone, scendi. Non me ne frega, DEVI SCENDERE ORA."
La guardarono concludere la telefonata e sedersi compostamente su una panchina.
 
 
 Poco dopo, il gruppo più Lillian reagì al rumore di una derapata che si udì fin da lì. In un tempo troppo breve per percorrere il sentiero, si videro arrivare un giovanotto con lo chignon e le fossette sulle guance.
Questi non li guardò di striscio, riservando solamente uno sguardo malizioso alla collega.
"Ti auguro che ti stia crollando il mondo addosso."
Lillian continuò l'assalto, "A me no, ma a loro sì! Brutto rottame."
"Vacci piano."
Da un momento all'altro i campeggiatori avevano visto il ragazzo cambiare occhi; si zittirono improvvisamente, forse senza nemmeno sapere perchè, ma Lillian non si scompose.
"Perchè devi essere crudele? Queste persone non hanno dove andare, con che coraggio?..."
Diciassette non aveva idea del motivo di tanto spregio; Lillian gli schiaffò il foglio spiegazzato in pieno petto.
Allora un membro del gruppo si fece avanti, squadrando Diciassette da capo a piedi.
"No guardia, lascialo in pace. In verità non l’abbiamo mai visto."
"Non è lui di cui parlavo," intervenne il portavoce.
Lillian era già convinta che dicessero il vero: non si poteva confondere Diciassette.
"Allora chi ha fatto 'sta carognata?”
“Quello che ci vuole sfrattare ha i capelli lunghi e scuri, sì, ma non è questo ragazzino: non ha i ricci.”
Lillian riuscì finalmente ad identificare il colpevole, "Cane rognoso!"
“Questo avviso avrebbe peso solo se l’avessi redatto io.”
Il cyborg appallottolò il foglio e il gruppo assistette ad un’incredibile autocombustione.
“Sborone…” Lillian guardò la carta incenerita cadergli di mano: era ancora furiosa, ma si sentiva sollevata.
“ll mio nome è Diciassette, qui comando io. E non ho problemi con voi."
Respiro collettivo di sollievo; alzata di occhi di Lillian, "No, il suo nome è Modesto."
“Allora su di te ci...contiamo." Rise un campeggiatore molto giovane. "E se torna l'altro?"
“Gli spacco la faccia.”
Diciassette notò che Lillian si era allontanata con passo pesante. E che, per una volta, non era colpa sua.
“O  sarà lei a farlo.”
Il top ranger rimase solamente ad osservarla, sospirando, con le mani in tasca.
"Forse dovresti andare a cercarla..." Gli suggerì in un sussurro il ragazzino.
E difatti la voce di Lillian risuonò presto dalla foresta.
"Sono arrabbiata, non vieni a cercarmi?!"
 
 
 
 In fila nel café di Neuve, Diciassette sospirava seccato. “Vaffanculo Lill, Bergman fa carognate e tu pensi subito a me.”
“Ha detto capelli-...credevo fossi tu."
"Perchè, di base, mi ritieni una carogna."
"No! Ora no."
Lillian si era pentita; il suo migliore amico era molte cose, ma non era una carogna.
"E prima lo pensavi?"
"Assolutamente."
Il risentimento era già svanito; Diciassette rise fra sé, "Mi devi delle scuse."
" 'Fanculo Sev, è colpa tua; la prossima volta non pettinarti come Joel."
Diciassette si tolse l'elastico, le ciocche drittissime gli ricaddero sotto le clavicole in tutto il loro pigro eccesso. "Toh, contenta?"
Lillian scelse di guardare altrove.
"Comunque li capisco, gli affitti qui stanno diventando proibitivi."
Diciassette prese senza voglia due tavolette di cioccolato dal bancone. "Sì, il mio è alto; ma dopotutto, faccio talmente tanti più soldi di te…"
"Hi guys!" Cinguettò il barista. "Ordine?" 
"Ehm...la cioccolata e due americano."
Lillian si alleggerì di una banconota, mettendosi in coda verso un'altra parte del bancone, “Che facevi su a Noiresylve?”
Diciassette le sembrava nervoso, non si era neanche dato il tempo di sedersi con lei: si era fatto fuori le tavolette di cioccolato in fretta, in piedi.
“Mezzo villaggio ha fatto baracca e burattini, sul serio. Presto Dubochet mi chiederà di salire a fare la guardia.”
A Noiresylve la gente si lamentava di incursioni paurose.
A Lillian venne da ridere: se solo Clémence Poyaz avesse alzato le chiappe con lo stesso zelo, quando tutti l’avevano avvertita della frana!
“Ho parlato con alcuni di loro, vedrò di cosa si tratta. Certo che quel villaggio è  veramente sfigato.”
Diciassette trangugiò in pochi sorsi il suo caffè ancora bollente; solo dopo si rese conto del nome scarabocchiato dal barista sul suo bicchiere. "Ma che ca-...?"
Lillian lo accolse con un sorriso sornione. “Buonasera, Settore.”
“Ignorante analfabeta, è una N...?" Diciassette sgranò gli occhi, con sincera sorpresa. “Ma sono ritardati?! Pure il numero sbagliato.”
“Ci sta!" Lillian rise sotto i baffi; quasi le piaceva quella storpiatura.
"Tu...sei tanto.” 
Settone sfoderò il sorriso da diavolo, sopracciglia-occhi-bocca. “Grazie.”
Lillian gli mostrò il nome scritto a pennarello sul proprio bicchiere, "...Tilia."
"Bel nome di merda."
Da che pulpito.
"A propisito: come chiamerai il settino o la carletta?”
Carly aveva stilato un elenco di nomi a tema natura. Diciassette non ci aveva ancora pensato bene, ma a entrambi piaceva l'idea di onorare il loro stile di vita; Carly si lamentava di non aver ancora trovato un nome da maschio che la convincesse pienamente, ma quello non era proprio un problema: Diciassette sperava fosse femmina.
 
 
 
/
 
La sera si preannunciava con un tramonto rosso ciclamino, riflettendosi in un bagliore contro il vetro della cucina di Kate.
Ronan stava caricando la lavastoviglie, ascoltando distrattamente la sua compagna al telefono.
"Puoi anche lasciarmela fino a domenica, se vuoi, mi diverto con lei. Domani? Va bene, Lazuli, vi aspetto. Buona serata. Saluta Lapis e Carly."
Ronan pensava che, in un mondo ideale,  sarebbe stato bello farsi una famiglia con Kate. La quale gli ricordava che alle soglie dei cinquanta il tempo di restare incinta era passato; era contenta così, come nonna.
Ma il produttore del podcast non si riteneva inferiore a colui che aveva giaciuto con Kate ventiquattrenne: aveva trovato soddisfazione nell'accudire Marron, le si era affezionata come se fosse sua, di sangue.
"Penso che per Marron, il nonno materno sarai solo ed unicamente tu," Kate gli appoggiò la testa sulla spalla, guardando insieme a lui il tramonto.
Ronan le baciò i capelli. "Sarebbe un onore…"
"In questa famiglia non si dà importanza al sangue."
Kate aveva smesso di credere che il sangue fosse il criterio più importante molti anni prima, prima che i suoi figli fossero anche solo un'idea.
Marron stava già dormendo da un pezzo, nella camera che Lazuli aveva occupato per i primi diciott'anni della sua vita.
Kate andò a controllarla ancora una volta, investita dalle reminiscenze vaporose dei suoi primi mesi come madre; i tempi in cui si svegliava di soprassalto e controllava febbrilmente le culle a fianco del suo letto, temendo che i bambini non respirassero.
Ma la stanza di Lazuli era una bolla perfetta di calma: le tende erano tirate con cura, la luce della sera filtrava serena dalle persiane e illuminava con un singolo raggio i ciuffetti di capelli perlescenti dentro alla culla.
La nipotina era calma rispetto a due gemelli, tuttavia Kate arrivava a fine giornata stravolta: quasi si addormentò nel guardare Marron che dormiva abbracciata alla calzina che si era tolta.
E nel torpore del loro sonno, nonna e nipote non videro la finestra.
Non videro che, a un metro dalla culla, delle gambe erano lentamente spuntate da dietro le tende; e che, con silenzio tombale, dei piedi avevano toccato il pavimento.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Pensieri dell'autrice:
 
Un buon venerdì a tutti voi!
Siamo ormai oltre i 40 capitoli e sono onorata di avervi ancora qui.
Pochi capitolo fa avevo accennato al "figuro" (grazie Teo del neologismo) che vediamo qui in azione. E altri non è che il dottor Gero. Lo sapevate?
"Tutti sanno", cit. Elliott
(Tra l'altro che sessista Gero, si incavola solo con Diciotto perché ha procreato.)
È stato un capitolo ansioso che ho spezzato con momenti più leggeri, ho scritto di un momento di empatia fra cognate, della coppia Diciassette/Lillian 😂😂 scherzo!
Scherzo, ma mi piace la loro inconsapevole ambiguità, come se fossero una coppia mancata (e con questo non sto dicendo che lui lascerebbe Carly per Lillian. Spero abbiate colto il messaggio). Gli insulti di Lillian a Diciassette sono come le Pringles, uno tira l'altro!
Ora sappiamo che Diciassette vuole una femmina e Carly un maschio, secondo voi cos'è?
Sono anche curiosa di sapere di cosa pensate si tratti, il piano del dottore.
Vi do appuntamento a venerdì prossimo, con il capitolo "Il Ritorno dell'Incubo"😏

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Capitolo 43
*** Il Ritorno dell'Incubo ***


43. Il Ritorno dell'Incubo
 
 
 
 
 
Diciotto aveva lasciato lo chalet di Verny piena di voglia di rivedere la sua bambina. Ma solo poco dopo, sorvolando Central City e arrivando infine al quartiere residenziale di Kate, quella vecchia sensazione terribile, la morsa allo stomaco, era ritornata dal nulla e si era chiusa sulla sua gioia come mandibole di squalo.
Non si udivano sirene; le luci rosse e blu di parecchie volanti lampeggiavano attorno alla casa di Kate.
Diciotto corse veloce, Ronan le venne incontro non appena la vide: aveva il fiatone, il suo viso e le sue sclere erano rossi.
“Lazuli, Lazuli. Tua madre e Marron sono sparite.”
Le disse in fretta che aveva voluto chiamare subito lei e Lapis, ma che la polizia l’aveva fermato per interrogarlo.
Ronan aveva visto Kate prima che lei andasse a controllare Marron, l’aveva attesa a letto fin quando il sonno non l’aveva vinto; la mattina seguente, tutto quello che aveva trovato nella camera di Lazuli era stata una finestra leggermente aperta.
“Pensavo che si fosse addormentata con la bambina, non volevo disturbarle. Avrei dovuto andare prima. Avrei dovuto…”
“Ronan, non è colpa tua.”
Crilin era sopraggiunto, nel frattempo. Meno male, perché Diciotto non voleva nemmeno sentire il resoconto dell’accaduto; non era in grado di consolare ed ascoltare.
“Abbiamo trovato questo, nella stanza.”
Un poliziotto mostrò a Diciotto e Crilin un sacchetto trasparente per le prove, in cui la scientifica aveva inserito qualcosa.
Una bustina gialla.
Tutti avvertirono improvvisamente un gran calore, si trovarono in difficoltà a mettere a fuoco i contorni di Diciotto: l’aria stessa, intorno a lei, sembrava rovente.
“Signorina Lang, dobbiamo farle alcune domande,” un poliziotto si avvicinò a Lazuli. “Dobbiamo avvertire il signor Lang.”
“Ma è qui,” disse un collega.
“No, il figlio."
Diciotto rivolse uno sguardo lampo ai poliziotti, “Voi non farete niente.”
Costoro erano tipi duri che non si lasciavano dire cosa fare, eppure nel vedere lo sguardo di Lazuli Lang, occhi così chiari da essere più inquietanti che belli, si bloccarono.
Non si seppero spiegare come mai le obbedirono seduta stante.
 
 La sua Marron non era lì; Diciotto era una mamma che non aveva più trovato la sua bambina, perché gliel'avevano presa.
Agli occhi dei poliziotti Diciotto era stata calma, perfettamente gelida, ma dentro gridava; gli occhi dardeggiavano lungo il viale, analizzando ogni centimetro cubo di realtà. Nella confusione che dilagava da dentro a fuori di lei, lo sguardo di Diciotto cadde sull’imboccatura ombrosa di un sentiero. Qualcosa di bianco, che si rivelò essere una faccia, fece un giro quasi completo: 19.2 si accertò che la creatura ibrida davanti a lui fosse proprio n°18 e quando lo seppe sparì su nel cielo, come un razzo; la cyborg lo seguì senza pensarci.
“Diciotto! Aspettami!”
Ma Crilin non li seguì mai: la furia con cui Diciotto si era alzata in volo aveva creato una raffica, e la raffica aveva sollevato le volanti della polizia in una specie di tornado; il compito di proteggere una casa dai veicoli in caduta ricadde su di lui.
 
 
 
 
Diciotto non riconosceva l’angolo di mondo verso cui 19.2 aveva cominciato a scendere.
Non c’era niente intorno a loro ma lande desolate, pietraie e, più lontano, mare color d’acciaio.
19.2 aspettava che lei lo seguisse camminando, mantenendosi sempre a distanza di sicurezza da lei.
Silenzioso, imperturbabile.
il cuore le pulsava nella testa, in gola, ma
nonostante il non sapere dove fosse sua figlia (e anche sua madre) la dilaniasse, Diciotto non voleva dargli la soddisfazione di sentirla implorare.
19.2 si addentrò in una galleria di roccia, Diciotto riconobbe tutto d’un tratto il labirinto di grotte intorno a sé, quello in cui aveva incontrato l'androide per la prima volta.
Lo strazio si sospese per un momento, Diciotto udì un flebile pianto.
Il pianto di Marron.
In quello stesso momento una presa delicata, ma durissima, si impossessò di Diciotto, bloccò la sua corsa verso Marron.
No! Diciotto andare da loro!
Doveva trovarle, doveva vederle: Marron doveva rimanere forte per lei.
Perchè le sembrava che, invece, la sua bambina piangesse sempre più piano?
 
 
Fiaccato dal repentino salasso, il corpo della cyborg si era rilassato fra le braccia del dottore: Gero gioiva nel percepire  un'ingente quantità d’energia fluire in lui, attraverso i suoi palmi.
I bottoni assorbi-energia erano una delle poche cose che avevano funzionato senza intoppi, quando si era scontrato con gli alleati di Son Goku. Adesso era tornato forte abbastanza da riuscire a usarli su 18: tuttavia, egli intuiva di avere una finestra di tempo limitata, prima che il reattore le mandasse in circolo una nuova, massiccia dose di ki artificiale.
Gero voleva certamente che lei fosse cosciente, quando avrebbe ferito a morte le due umane a cui voleva tanto bene; ma prima di darle il colpo di grazia, era smanioso di riuscire a varcare quella soglia oltre cui non si era spinto prima.
Lasciò che 18 cadesse supina, ascoltò il gemito che emise nel suo stato forzato di fragile veglia.
Gero inspirò: il corpo del cyborg femmina era quello che aveva conosciuto meglio; nelle pause dal lavoro di ristrutturazione, aveva passato lunghi momenti seduto su una sedia a contemplarlo.
Molte volte la sua mano era stata avida e le dita nodose avevano accarezzato, penetrato, ma le labbra di Gero non avevano mai sfiorato la sua bocca e il suo seno.
 
Una spossatezza indicibile le teneva il corpo inchiodato al suolo; le sue membra erano di pietra, pesanti e immobili, il sentirsi senza energie le fiaccava anche la mente.
Le sembrò di essere la spettatrice di un film, la sua vita, nel vedere Gero incombere su di lei e sedersi sul suo bacino. Diciotto udiva suoni secchi, qualcosa che si strappa: fece fatica a rendersi conto conto che era la sua maglietta.
Le mani di Gero tiravano la stoffa e lei si sentiva già nuda.
Diciotto lottò per tenere quel volto lontano dalla propria pelle, ma il dottore bandì quella resistenza, i palmi delle mani gli sfrigolarono.
"18, mia bellissima creazione, non ti vergogni?"
Una scossa elettrica spremette il fiato dai polmoni di Diciotto, schiacciò la sua testa all'indietro, la fece rimbalzare convulsamente.
Diciotto gridava senza controllo, strilli di puro dolore fisico come mai si era sentita emettere.
Non sapeva che quelle scosse interferivano con uno dei pochi elementi meccanici nel suo corpo: il dispositivo di disattivazione, inserito fra le sue vertebre.
Quando lo shock cessò, Diciotto rimase completamente esaurita; le sembrò di non avere più ossa.
Gero accarezzò la punta bruciata di una ciocca di capelli. "Non ti vergogni di esserti lasciata fecondare da un triste omuncolo?"
Marron piangeva, non capendo cosa stava succedendo, scioccata nel vedere la sua mamma inanimata saltare e rimbalzare.
L'omaccione bianco che la teneva stretta ora non era la nonna.
Era bagnata, aveva fatto la pipì.
Gero poteva ignorare quel pianto lagnoso, ma non i due pugnali piantati nella sua schiena: gli occhi della madre, legata e imbavagliata.
Lei era così uguale al n°17, Gero percepiva tutto lo sfotto, tutto lo schifo che lei provava per lui.
Doveva essere un comportamento innato che la donna non sapeva manco di avere.
Per Gero, quell'atteggiamento della madre era lo stesso contro cui lui aveva lottato, e mai sradicato dai figli.
I Lang lo disprezzavano; lui non era degno di loro.
 
 
Come osava Gero parlare così del suo compagno di vita? Diciotto non poteva difendersi ma dentro di lei la rabbia cresceva: si sarebbe unita a quella che già c'era e quando questa polveriera fosse scoppiata, l'esplosione sarebbe stata grandiosa.
Il pianto di Marron le era arrivato alle orecchie da lontano, per un momento aveva sospeso la tortura. Diciotto si alzò a sedere, senza dire una parola, colpendo il suo aggressore con una testata.
Quando Gero si rese conto che non vedeva più  da un occhio, un altro shock mozzò il respiro a Diciotto.
Il dottore sorrideva di piacere, nel vederla impazzire dal dolore.
“Lazuli! Basta, per carità!”
Totalmente ignorata da 19.2, Kate gemeva dietro al bavaglio, tirava le corde che le legavano i polsi a terra; corde che non le permettevano altro che un tocco veloce alla fondina segreta legata alla sua schiena.
Quel pazzo aveva osato avvicinarsi a lei e al suo sangue con le sue mani plebee e Kate ne era indignata, ma la cruda realtà era che non c'erano speranze: le avrebbe uccise tutte e tre e lei non avrebbe potuto impedirlo, perché era debole.
Le corde erano troppo strette, il tempo per fare qualcosa di rilevante era sempre meno. Kate si guardò i pollici con rammarico, con il brivido di chi sa che l'unica via d’uscita è quella che passa attraverso il dolore.
Come suo figlio, Kathryn Lang era una che si lanciava nella fossa del leone senza rimpianti, o forse senza calcolare il leone.
Forse Lapis non era solo come il padre e aveva anche qualcosa di lei, dentro (fuori, era parecchio ovvio).
Guardare Marron e Lazuli, e pensare a Lapis, diede a quella mamma innamorata tutto il coraggio di cui aveva bisogno.
Kate aveva premuto il grilletto una volta sola, in una fase della sua esistenza così lontana che era ormai un'altra vita. Tuttavia, questa volta sarebbe stato facile.
Kate lasciò che il suo panico completasse la sua metamorfosi in rabbia feroce; fece un sospiro, preparandosi a spezzare le sue stesse ossa.
 
 
 Il vecchio Gero si era sempre ritenuto troppo in alto per quello. Ma 18 era inerme, quella era la sua opportunità e lui non era più lo stesso. Ormai tutto quello che voleva era fare il peggio per vendicarsi.
Gero diede un ultimo strattone alla maglia di 18, si accinse a fare lo stesso coi pantaloni.
La creazione lottò per coprirsi il seno dal ruvido viso, gemette nella sua impotenza, si contorse per liberarsi da quel corpo invasore; non le rimaneva altra difesa che il suo disprezzo.
“Shhhhh”  Gero intimava prepotente, leccandole con fretta collo e orecchie. Baciava il suo viso e mordeva il suo petto con la premura frettolosa dell'amante che ancora esita, ma era disturbato costantemente dai pianti della piccola Marron.
Pianti a pieni polmoni che creavano confusione e lo frastornavano, impedendogli di assaporare in tutta serenità il suo bottino.
"Falla stare zitta!”
Andò da 19.2 e prese Marron per i capelli, per pura rabbia.
“Stai zitta, non ti sopporto più! Zitta!"
Gero era di spalle, ubriaco di se stesso, quasi isterico: non vide che l'altra umana si stava lanciando verso di lui, pronta a fare ciò di cui nemmeno lei si credeva capace.
Gero aveva dato a 19.2 il comando di rimanere immobile con in braccio la bambina: e intanto Kate avanzava a grandi falcate, stringendo una pistola fra i pollici spezzati.
La madre si abbassò il bavaglio e sfidò Gero con voce bassa e carica di ira, guerra e amore assoluto. Una voce che Diciotto non aveva mai sentito uscire da lei.
"Mia figlia e mia nipote no, bastardo."
Un getto d'acqua super pressurizzato scaturì dalla pistola della Capsule Corp., colpendo il dottore con abbastanza forza da portarsi via tutta la sua scapola e spaccare la roccia dietro di lui.
Un grande caos di polvere, roccia e vapore calò nella caverna come un sipario, solo 19.2 intervenì buttando Kate contro una dura parete.
L'androide procedette a scannerizzare il polverone, alla ricerca del suo padrone, ma quella che si trovò davanti fu 18. Gli occhi duri e la bocca serrata, aveva un volto da vero terminator.
19.2 percepì il suo braccio, ora una gigantesca ascia nera, scendere inesorabile come la mannaia di un macellaio.
Diciotto spaccò 19.2 a metà, ansimò di fronte i suoi resti: la sola vista di Gero che toccava Marron, e di Kate che interveniva per lei aveva aveva ravvivato il fuoco nel suo cuore e l’energia nel suo corpo.
La forza di Diciotto era così grande, molto più grande di quello che Gero poteva arginare.
 
 
Non avendo modo di percepire dove sua moglie e l’androide fossero andati, Crilin aveva fatto la sola cosa che gli era parsa sensata: era andato da Sedici a casa dei Weiss, poi entrambi si erano diretti a nord.
"Dobbiamo andare a prendere Hacchan. E Diciassette."
“No, Crilin. Andiamo da Diciotto ora.”
Il miglior giudizio di Sedici aveva permesso a Crilin di raggiungere le grotte proprio mentre 19.2 si stava ricomponendo: Sedici lo colpì con una sfera d'energia che bruciò ogni suo frammento.
Non appena vide n°16 e Crilin, Gero fuggì ancora una volta il campo di battaglia.
Volava tutto storto, dopo che Kate e la sua pistola gli avevano portato via un pezzo di busto. Sedici caricò il suo pugno e lo spedì, veloce come un missile, sulla traiettoria di Gero.
Ma il dottore fu troppo veloce; Sedici richiamò indietro il pugno e guardò Crilin stringere Marron, e Diciotto sollevare da terra la donna che assomigliava a lei e Diciassette.
Vide che lo scheletro di quest'ultima presentava varie fratture: le mani, un braccio, le costole.
 
 
 
/
 
Sembrava che Noiresylve dovesse sempre produrre grane nelle giornate più spettacolari.
La mattinata era splendida, una di quelle che abbelliscono il mondo.
La staccionata che bordava la strada di Noiresylve non era stata completata e Diciassette si era preso la briga di legare i paletti con fil di ferro.
Lavorava appoggiato al prato odoroso, lasciando che il sole irrorasse i suoi zigomi di qualche ultima efelide estiva.
Che peccato, non si era portato neanche una birra per celebrare la bellezza della giornata.
Il messaggio di Lillian lo interrupe.
 
Io sono già su a Chantey. Vieni?
 
Lillian, a Chantey?
Sarebbe stato interessante se ci avesse portato delle birre.
Diciassette era rimasto a digitare una risposta con il fil di ferro in bocca; si ricordò di tranciarne un pezzo con un morso preciso.
"Ma sei matto? Ti romperai i denti."
Una voce gli entrò da un orecchio e gli uscì dall'altro. Diciassette vide con la coda dell'occhio una ragazzetta, lì sola.
"Almeno me li rifaccio."
Tutti nel RNP sapevano che il top ranger era strano, ma non avevano mai visto fino a che punto.
Diciassette scelse di ignorare la sua sigola compagnia, ma presto il brusio intorno a lui lo indusse a voltarsi.
E quello che vide fu la totalità dei noiresylvani in procinto di cominciare un esodo, chi a piedi e chi in macchina.
Una macchina passò impolverando tutti, Diciassette l'afferrò per il paraurti e il guidatore si sporse dal finestrino, pigiando forte il clacson.
"Che hai fatto alla mia macchina?"
"Niente. Dove andate?"
La ragazzetta assunse una postura da generale, il petto gonfio d'orgoglio a due centimetri da quello del top ranger.
"Fai lo splendido, Edward denti di forbice, ma non sai che stiamo andando via dalla cosa?"
Diciassette ridacchiò; che delle mattane stavano succedendo lì l, lo sapeva eccome. "Quale cosa?"
"La cosa!"
L'avevano vista; di notte, nelle strade.
"Non accendiamo più la luce..."
"Che vita è questa? Ce ne andiamo."
Diciassette si stava spazientendo; pensando che sicuramente Lillian stava guardando, balzò poco più in alto sulla montagna e tornò con un enorme parallelogramma arrugginito (una vecchia barriera anti-massi).
"Buona fortuna!"
Parecchie facce lunghe lo videro piantarlo con forza nella strada dai fianchi scoscesi, impedendo qualsiasi tipo di andirivieni.
 
 
Lillian aveva udito gli schiamazzi fin su alla casotta.
"Ma se davvero stanno scappando, non li avrai mica intrappolati?"
"Se hanno voglia, possono comunque passare a piedi. Ho solo complicato loro la vita."
Nessuno aveva chiesto a Lillian di seguire Diciassette lì.
"Scusa, io ero qui quando il primo casino con la frana è successo. Quindi devo essere testimone anche di questo."
Diciassette non aveva voglia di interagire con lei. Qualcosa l'aveva reso nervoso, ancora una volta. Forse era il non sapere cosa.
Nel dubbio, si era proposto di restare alla casotta fino a sera tardi e c'era della legna da raccogliere per la stufa.
"Io comincio ad andare."
Lillian gli rispose dalla minuscola cameretta, "Ti raggiungo subito."
L'essere lì all'insaputa di John le dava il brivido dell'avventura, come quando era ancora top ranger e metteva il capo ranger davanti al fatto compiuto.
Scarponi allacciati, Lillian scostò la tenda dalla finestra e ammirò il cielo d'agosto.
"Che meraviglia. Cosa mai potrà succedere in una giornata così?" Energizzata, Lillian balzò verso la porta; ma all'ultimo momento, prima di chiuderla, le sembrò di percepire un movimento.
Uno sventolare lieve, un moto impresso nei suoi occhi.
"Settone?"
Nessuna risposta dalla casotta.
Lillian alzò la voce, "Diciassette?"
Tornò verso la finestra, allungando la mano...
Fu allora che una strana sagoma si profilò dietro la tenda, fuori dalla finestra. Senza un suono, i contorni di una testa biforcuta e di due mani si appoggiarono al vetro, il vetro si crepò dove fu toccato.
Lillian lanciò un urlo e si scapicollò fuori, nella corsa più disperata della sua vita. Correva senza direzione fra i boschi intorno a Chantey, col fuoco nei muscoli, continuando a guardarsi alle spalle.
La corsa si arrestò solo quando Lillian si scontrò con qualcosa, esalando un lamento nel rimbalzare a terra.
La ranger si sentì afferrare per le spalle, gridò e lottò, poi si rese conto conto che si era imbattuta in Diciassette.
"Lill? Che modi. Sembri impazzita."
Gli aveva fatto cadere di mano la pila di legni che aveva raccolto per la stufa...
“Diciassette!”
Lillian inspirava grandi boccate d'aria, una mano che tentava di arginare i suoi rantoli, “C’era una cosa! Nella casotta…"
“Hai un fucile e sei corsa via?”
“C’ERA UNA COSA!” pianse Lillian, non riuscendo più a controllarsi, trovando assurdo che le prime parole che il cyborg le aveva detto fossero “hai un fucile”.
Diciassette sbuffò scocciato, imponendosi indifferenza verso l'udire la definizione la cosa anche da Lillian.
Lillian emise un altro gemito strozzato e istintivamente prese Diciassette, se lo trascinò in un’altra corsa sfrenata.
Diciassette stava pensando a quali nomignoli irrisori dare a Lillian per filarsela dalla cosa invece che comportarsi da buona ranger, quando udì.
Diciassette non poteva percepire ki, ma poteva udire.
E quel passo lontano, da qualche parte nel bosco, era chiarissimo alle sue orecchie e alla sua memoria.
Il passo risuonava lontano, ma non lo sarebbe stato per molto.
Diciassette afferrò Lillian e si appostò con lei sotto un piccolo dislivello del terreno, riparato da una tettoia di radici secolari. Era quasi una grotta, un posto secluso.
“Non parlare.” Diciassette ordinò a denti serrati, premendo una mano sulla bocca di Lillian.
Adesso i passi erano udibili anche a lei. Chiunque fosse, non stava avendo cura di tendere un’imboscata e non farsi sentire.
Lillian ansimava e iperventilava, con le prime lacrime agli occhi; si strinse a Diciassette, mentre i passi attutiti dal tappeto di aghi di pino si aggiravano, avanti e indietro.
Facendole segno di continuare a tacere, Diciassette usò la mano libera per stendere una pellicola all’entrata del nascondiglio.
Tap, tap. Ormai la cosa doveva essere in piedi sul bordo del dislivello. Poteva anche essere lo spettro della morte stessa, dal sudario nero, lo scudo verde li avrebbe protetti.
Cyborg e umana restarono con il fiato sospeso, fin quando i passi si fecero più lontani.
Diciassette non tolse la barriera, e ne furono grati…
“Uaaaah! Oddio!”
Lillian urlò a squarciagola quando una specie di anguilla dalla testa acuminata si puntellò contro la barriera, che ogni volta che veniva colpita emetteva un suono magnetico.
La cosa che li stava attaccando faceva ribrezzo a Lillian, per quel poco che vedeva, eppure non riusciva a non guardare.
Diciassette invece non guardava; teneva la mano alzata, come a mantenere il suo campo di forza, e il sopracciglio rivolto al suolo. I suoi occhi erano bassi, come indifferenti al dardo che voleva colpire loro.
Tutto quello che sperava era che lo scudo non fallisse, che non si incrinasse.
Lillian continuava a piangere e ad urlare.
E infine l’attacco cessò, i passi si allontanarono.
“Merda! Cazzo!”
Sull'orlo di una crisi di nervi, Lillian cercò calore e conforto tra le braccia di Diciassette.
Ma egli era muto, spento, un braccio mollemente appoggiato a lei.
Sembrava che in quel momento non ci fosse alcuna comunicazione possibile con lui.
Diciassette la nemesi era stato inespugnabile, ma Diciassette l'amico aveva le emozioni scritte in faccia.
In quel momento sembrava regredito a colui che Lilian aveva incontrato due anni prima, un messaggio da decodificare; e lei ne aveva perduto la chiave.
“Diciassette, cos’hai? Cos’era?”
Diciassette alzò il mento, come per darsi un tono, pronunciando con timbro chiaro “Niente. Non era niente.”
Ma Lillian non si calmò, ancora concentrata sul proprio spavento. E quando le lacrime cominciarono ad esaurirsi, lo sgomento fu ancora più grande: allora, solo allora, Lillian si accorse che la maglia del top ranger era fradicia di sudore.
Ancora più della sua.
Il suo amico cyborg era quasi invincibile, le aveva una volta detto di "aver paura di molte cose" praticamente solo per compatirla.
E ora Diciassette respirava appena, più per inerzia che per bisogno di ossigeno.
Lillian gli mise una mano sulla schiena: ciò che stava percorrendo con violenza il suo intero corpo non era una corrente leggera, come da freddo o anche da ansia.
Quello era PANICO.
Diciassette stava tremando.
 
 
 
 
 
"Cazzo...ma cosa cazzo era…"
Lillian continuava a girare per la casotta, imprecando, con le mani fra i capelli, febbricitante. Riempì due tazze d'acqua del rubinetto, bevve e tornò da Diciassette.
Lo guardò mandare giù con fastidio un sorso di circostanza.
"Cosa facciamo, top ranger?"
Diciassette non poteva dichiarare che fosse quello: non poteva essere certo al 100%, ma al pensiero si sentiva morire.
Lillian doveva lanciare un'allerta catastrofe, non importava quale.
"Tu, fai il tuo lavoro; mantieni l'ordine, lancia le sirene, dì a tutti di barricarsi in casa,..."
Diciassette voleva dimostrare a Lillian di avere la situazione era sotto controllo, ma l'ansia stringeva e stringeva, se la sentiva salire in gola.
Lillian, che non era nata ieri, capì che toccava a lei aiutarlo; gli circondò i polsi con le dita, tentando di sentire le sue pulsazioni, ma Diciassette rifiutò il contatto con lei.
"Odio vomitare; mi viene da vomitare."
"Ma va', stai tranquillo. Respira, per favore."
Lillian sfiorò e osservò le mani di Diciassette, in quel momento fu scioccata dal contrasto fra la sua pelle che non poteva ferirsi e le emozioni taglienti dentro di lui.
Esattamente come lei stessa, Diciassette non stava morendo: era solo un attacco di panico, di cui il top ranger aveva evidente vergogna.
"Senti un po', Settone," Lillian riuscì a strappargli un debole sorriso, "Farò come hai detto. E tu?"
"Io andrò a cercare mia sorella."
Doveva avvertirla, la vita di Diciotto era tanto in pericolo quanto la sua.
Ma prima doveva fare qualcosa di ancora più urgente; doveva salvare la sua Carly.
 
 
 
 Diciassette non fece in tempo ad entrare nello chalet. Un uomo sconosciuto l’aspettava fuori dalla porta, lo guardava come se avesse qualcosa di disperato da dirgli ma volesse ancora accertarsi della sua identità.
Il suo corpo era quadrato, la sua fronte chiodata e la sua mascella erano quadrate. Era un androide.
"N°17,” Hacchan dichiarò a bruciapelo.“Il dottor Gero è tornato. N°18 è stata attaccata.”
 
 
 
 
 
 
 
 
Pensieri dell’autrice:
 
 
Well…non c’è molto da dire, a parte che spero che abbiate odiato Gero! E’ dall’inizio della storia che penso che doveva essere lui il vero cattivo (e personalmente trovo che Gero sia un cattivo coi fiocchi: mastermind, perverso, malato, ambizioso). Credo che ormai tutti sappiate cos’è la cosa 😊
Questo capitolo e i due che seguono sono stati elaborati e rielaborati fino all’ultimo, perché mai prima d’ora mi sono trovata così in difficoltà nel rendere qualcosa. Per cui, ho dovuto accantonare la mia attività di lettrice per questa settimana, ho letto meno del solito, per cui dico ai miei autori preferiti, aspettatemi!
CI rivediamo venerdì prossimo (ho pubblicato prima, questa settimana, per questione di comodità), con il capitolo Fare Qualsiasi cosa per Amore.
Buon fine settimana a tutti!
 
 
 
 

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Capitolo 44
*** Fare qualsiasi Cosa per Amore ***


44. Fare qualsiasi Cosa per Amore
 
 
 
 
 
 
Quello non era un pomeriggio diverso dagli altri.
Carly aspettava il turno al municipio di Verny, la multa da pagare fra le mani; le toccava metterci la faccia, visto che la Z4 era intestata a lei.
Aveva trovato nella cassetta della posta una multa di 20,000 zeni, per eccesso di velocità. L’infrazione era stata commessa nel parcheggio del supermercato appena fuori da North City: Carly si era quasi maledetta, ricordandosi che a giugno era stata lei a mandare Lapis laggiù, a prenderle il suo fottuto gelato al basilico.
“Ma pensa te, quello lì. Non posso proprio fidarmi.”
E lei che con quegli zeni avanzati voleva comprare un vestito. E un tiragraffi.
Chissà se tutta la gente impaccata in quella sala afosa doveva pagare le stupide multe dei loro stupidi partner; Lapis manco rispondeva al telefono, Carly non vedeva l'ora di fargli la ramanzina.
Doveva essere così irritante essere seduti vicino a lei, si immaginava Carly: la sedia era scomoda e lei continuava a rigirarcisi, a farla scricchiolare.
La coda allo sportello era lunga e Carly decise di sgranchirsi le gambe, passeggiando per il municipio in cerca di una macchinetta dell’acqua: aveva fatto bene a portarsi le sue pastiglie di ferro, se le avesse lasciate a casa avrebbe saltato una dose.
Mentre beveva, Diciassette entrò come un treno dalle porte principali.
"Lapis! Una multa?!"
Carly andò da lui sventolando il foglio ma Diciassette la disinnescò, stringendosela con tutto l'amore di cui era capace.
"Ti amo tantissimo," le disse piano, cogliendola di sorpresa.
Non che Lapis non glielo dicesse mai, ma non era il tipo da farlo spesso.
Non lo era mai stato.
"Anche io ti amo tantissimo," Carly volle guardare il suo viso. "Cosa succede?"
Diciassette baciò Carly come quando erano ragazzini, stringendola a sé con possesso e gelosia. Inspirò il suo profumo di donna, caldo e rassicurante, poi la trascinò con lui verso la porta.
"Devi venire con me, non puoi restare qui."
Se davvero era successo quello che lui pensava, nessun posto al mondo sarebbe stato sicuro, ma non poteva lasciare Carly a Verny. Doveva allontanarla da lui, spedirla a Central City col primo volo disponibile.
Carly gli faceva domande confuse, ma a Diciassette non importava che capisse.
Era un pomeriggio come gli altri a Verny, ma mentre Lapis la incalzava ad uscire dal municipio a Carly parve che il cielo fosse diventato più scuro.
Dal nulla delle sirene angoscianti, quelle che segnalano un attacco o una catastrofe imminente avevano cominciato a risuonare fra le vallate della regione, da Verny fino al Jingle Village.
Il top ranger trovò il sangue freddo di rispondere al cellulare, lasciando che Carly udisse quello che Lillian gli aveva appena comunicato: tutto era pronto, stavano aspettando l’arrivo dei militari.
C’era una vietta quieta fuori dal municipio; Diciassette prese Carly in disparte, si mise in ginocchio di fronte a lei e le baciò il ventre. Non era mai successo; quel gesto intenerì Carly tanto quanto la scioccò, “Lapis, cosa sta succedendo?”
“Qualcosa di terribile.”
Come glielo avrebbe spiegato?
Ma Carly sentiva, prima di capire.
E in quel momento sentiva che forse c’era ancora qualcosa che non conosceva, in Diciassette.
Hacchan attendeva di portare via Carly. Il grosso cyborg non aveva mai conosciuto il gemello di Diciotto, si era sorpreso nel vederlo in compagnia di una ragazza in stato di gravidanza.
Ma sì, gliel’avevano detto: n°17 era l’unico come Diciotto.
Hacchan e Diciassette avevano sentito delle presenze funeste avvicinarsi, qualcosa che andava al di là del ki; c’era un odore strano di bruciato nell’aria, il ranger cercò istintivamente la colonna di fumo che non aveva bisogno di vedere.
“Ce la farai.” Carly abbraccio’ Lapis. Lo abbracciò con tutta la sua determinazione ed il suo amore. “Ce la farai, cyborg 17.”
“Vai…”
Diciassette spinse Carly da Hacchan, con l’ordine di portarla da suo padre.
Carly mormorava piano un addio che non voleva essere un addio, barcollando trascinata da Hacchan, guardando indietro per vedere Lapis.
 
 
/
 
Il dottor Gero sapeva che il Capolavoro aveva localizzato 17. E anche lui stesso, seppur troppo tardi, era riuscito a rintracciare il suo assassino: le telecamere-insetto gli avevano mostrato pochi fotogrammi parecchio interessanti: le azioni di 17 erano state tanto deplorevoli quanto quelle di 18, Gero non comprendeva cosa spingesse i suoi cyborg a volersi mettere al livello degli umani puri.
Ma ciò aveva alzato le aspettative che Gero aveva per 17: ora c’erano altre carte da giocare, per fargli del male.
Nella sua folle eccitazione, Gero aveva sparso distruzione lungo la sua traiettoria di volo; una sfera d’energia era caduta su una stazione di servizio, la pompa della benzina era esplosa poco dopo. Il fuoco aveva già cominciato a salire attraverso la foresta, sulla montagna sopra Neuve Ville.
Presto nessuno nel RNP capì per cosa le sirene stessero suonando, un incendio o un attacco. Nessuno sapeva dove l’esercito fosse ma tutti, in quell’ordinario pomeriggio di fine agosto, tutti uscirono di casa a guardare.
 
 
/
 
Diciotto non aveva avuto il coraggio di chiedere a Sedici o a Crilin di restare in panchina. Anche se voleva che uno di loro vegliasse su Kate e Marron, sapeva che Sedici e suo marito volevano essere con lei, per amore suo o per senso di giustizia.
Diciotto aveva dovuto aspettare che Bulma arrivasse con un velivolo da West City: poi aveva abbracciato forte la sua Marron e aveva affidato a Bulma anche Kate, aveva guardato Crilin prenderla in braccio e posarla nel velivolo. 19.2 l’aveva gettata contro la roccia e una costola rotta le aveva ferito un polmone, il tempo ora contava.
Diciotto non riuscì a dire loro "Addio" quando Bulma ripartì con il suo velivolo, portando Kate e Marron al sicuro a casa sua.
Diciotto doveva rivederle.
 
 
/
 
 
Fu strano rivedersi nello stesso posto, tutti quanti, uniti da un contesto così infelice.
Sedici, Diciassette, Diciotto. E Crilin.
Crilin si sentiva fuori luogo, ma non gli importava.
Diciotto si lasciò scappare un gemito debole; Diciassette, appena di fianco a lei, sfiorò la sua maglia strappata e il reticolo di vene sul suo collo, unici segni visibili della tentata violenza.
Una vista che lo fece ruggire, sottovoce. "Che cosa ti ha fatto?"
Diciotto non aveva dubbi sulle intenzioni del fratello; lo guardò dritto in viso, seria e drammatica. "Non dimenticare. Devo ucciderlo io, con le mie mani."
E infine, anche Gero piombò dal cielo in quel piccolo bosco pericolosamente vicino a Verny.
Diciotto sfoderò la sua lama, Sedici e Crilin si prepararono all’attacco.
Dal suo solo occhio funzionante il dottore guardava sfacciatamente lei: non era andato fino in fondo, l’avrebbe fatto se non fosse stato per la madre.
Gero ero ancora tutto storto, la sua schiena tutta mangiata dal getto d’acqua.
Quelle nuove mancanze fisiche lo rendevano ancora più furioso, faticava a concentrarsi.
Tuttavia non gli sfuggì che il suo assassino era distratto. 17 era lì, ma la sua mente era altrove: ii suo sguardo angustiato (sì, Gero l’aveva visto! E quella paura inespressa era già una vittoria) analizzava ogni cosa intorno a lui, tranne il dottore.
Stava attendendo qualcosa.
Gero osservò bene il volto gia’ noto del suo assassino. Bello tanto quanto quello di lei, ma nient'altro che pura simmetria.
Si ricordava di averli scelti apposta così, ma con n°17 non c'erano pulsioni: davanti a lui Gero ribolliva solo di brama, un sorriso sincero gli spuntò sul viso.
“Sì, creazione illustre, so cosa stai cercando: ti accontento subito.”
Gero fece un gesto con la mano e i quattro restarono si attesero un attacco.
Invece, tutto quello che udirono furono i passi. Inconfondibili, come la sua aura.
“Ma quello è...”
Crilin riprovò tutti i sentimenti della prima volta: quando Bulma e Mirai Trunks gli avevano mostrato quelle foto, quando le notizie della gente che spariva avevano iniziato a circolare.
Una sagoma si stagliò contro la densa semi-oscurità degli abeti, Diciotto si sforzò di non distogliere lo sguardo; in silenzio, il suo arto si diramava in tante lame.
Sedici guardava con lo stesso cipiglio della prima volta; le sue gambe l’avevano portato davanti ai cyborg, solo di un passo.
La Creatura emerse dal bosco, il movimento della sua coda così veloce da risultare solo un fischio.
Diciassette non reagiva e Cell lo guardava come l’aveva guardato la prima volta.
“Penso che sia arrabbiato, per essersi fatto sfuggire voi due la volta scorsa.”
Gero camminava attorno a Cell che restava immobile, limitandosi ad occhiate feroci: la sua sola presenza era abbastanza.
Cell era lo stesso ma gli occhi quasi incandescenti e le costole che spuntavano da lembi di pelle, sfilacciati come vecchie bandiere, lo facevano sembrare uno zombie.
E cosi’, Gero l’aveva ricostruito.
“È stato un vero incidente che nemmeno io avevo previsto. Ma quando vi riassorbirà, con la sua nuova fisiologia non succederà più. Non esisterete più.”
“Pensi che lo stesso trucco funzionerà due volte con me?” proclamò infine Diciassette, sentendo che questa volta avrebbe davvero potuto difendersi.
Gero aveva proprio voglia di iniziare da lui.
“Vedremo. Tuttavia, credi non sappia che tu hai disperso il seme per...come la chiami, la tua diletta?”
L'angoscia, che era stata finora teorica, prese la forma definita di un abisso.
E Diciassette, che non se l'aspettava, ci sprofondò. "Non sono affari tuoi."
“E che che n°8 è in fuga con lei?”
La soddisfazione domino’ spudoratamente il volto di Gero; il mostro inizio’ a cercare, a girare la testa.
Cell si alzò in volò, seguendo la direzione. La sola direzione.
E quando Diciassette si lanciò all’inseguimento di Cell, Gero scagliò dai suoi palmi un flusso di elettricità: dolore assoluto che immobilizzò Diciassette come folgore.
Il dottore si mise in pace, ad ammirare ancora una volta gli effetti della scossa sul dispositivo di disattivazione.
 
 
 
 Hacchan si muoveva più veloce di un’auto, seguendo il tracciato della grande strada ma non uscendo dalle foreste che la costeggiavano. Carly sedeva al sicuro sulle sue spalle, consapevole che qualcosa di più grande di lei stava succedendo, ma incapace di non essere in pena. Poi quel grosso cyborg si era arrestato.
“Hacchan?”
“Sta arrivando.”
“...?”
“Cell.”
Hacchan addocchiò una struttura metallica, più in alto su quella stessa montagna.
Era un acquedotto, forse un posto abbastanza sicuro: Hacchan saltò con Carly fin là, ruppe facilmente la catena che bloccava l'accesso a un vano interiore.
"Tu resta qui, non fiatare. Azzera la tua aura."
Carly non sapeva come azzerare l'aura. "Non mi lasciare!"
Si protese verso Hacchan, mentre questi già chiudeva le porte.
Hacchan aveva promesso a Diciassette di tenerla al sicuro: nell'attesa di portare Carly all'aeroporto, sprangò di nuovo la porta e restò al suo fianco, sperando che se Cell li avesse trovati lui avrebbe potuto difendere entrambi.
 
 
 
 Gero era risorto più forte: Crilin si sentì intimorito nel vederlo combattere contro Sedici e Diciotto, e allo stesso tempo torturare Diciassette. Ogni tanto il raggio diventava più luminoso e una nuvola di elettricità circondava Diciassette, che allora tratteneva grida e si lasciava cadere.
Nonostante tutto, Gero non riusciva ad ottenere da lui lo stesso piacere sadico che aveva ottenuto con 18, gli stessi dolore atroce e danni fisici.
Non appena le altre due creazioni e Crilin si erano avventati a soccorrere, Gero aveva alzato una mano e uno stormo fitto, le telecamere-insetto ora equipaggiate di spunzoni di ki, era piovuto su di loro, infrangendosi, spezzando, ferendo.
Crilin riuscì a liberarsi da quel nugolo che voleva dargli una morte per mille tagli, lanciò una kamehameha che Gero non potè completamente assorbire.
Gero imprecò quando, approfittando della distrazione, n°17 immise nel raggio-scossa una quantità di energia tale da dissiparlo.
La Creatura non si vedeva, Sedici capì che doveva essere lui a distrarre il creatore: l'attirò lontano da quel piccolo bosco, schivò i raggi-scossa e tempestò il dottore di pugni e sfere d'energia.
 
 
Crilin e i gemelli volarono ad intercettare Cell, che rispuntò puntualmente dalla foresta: sembrava che questa volta non avesse tanta fretta di assorbire.
Il face-off a mezz'aria fra Cell e i cyborg e la lotta pesante fra Sedici e Gero avevano attirato l'attenzione dei civili.
La gente di Verny e dei villaggi limitrofi aspettava ancora l'esercito; nel frattempo, assistevano con ammirazione a quella battaglia che nessuno poteva capire.
"Guardate in cielo! Sono uccelli?"
"Aeroplani?"
"No," proruppe Brent, arrivato fin lì dopo che Lillian gli aveva parlato in modo confuso di un attacco. "Sono amici miei! Diciassette e Diciotto."
 
/
 
Cell avviò quella battaglia doverosa con due simultanei, fiammeggianti makankosappo.
I gemelli schivavano e paravano; Diciotto vibrava la sua lama di kachi katchin, con l'altra mano lanciava minuscoli dardi dello stesso materiale. Ogni volta che Cell li schivava piovevano sui tetti delle case, trasformando le beole in lastre nere e lucide.
Crilin non voleva essere inutile anche quella volta, a guardare dalle file laterali quelli forti che combattevano. Rievocò il giorno in cui Cell l'aveva privato di Diciotto, aveva creduto per sempre; volò veloce su in alto, per porsi davanti al sole.
Ma Cell aveva capito: puntò il pungiglione verso il guerriero e sparò un getto di quella stessa sostanza che aveva sciolto le pietre, quando Sedici gli aveva strappato la coda.
Diciassette si spostò davanti a Crilin per fargli scudo, ma capì di aver fallito quando udì un grido e vide che Crilin stava perdendo quota: il suo braccio, ora un grumo di ossa e pelle annerita, fumava e bruciava.
Anche Diciassette era stato colpito: la manica della sua maglia si era dissolta e la sua pelle era rossa, scottata.
"Crilin!"
Diciotto accorse, così come Cell, coda spalancata; Diciassette si intromise con un ringhio roco, il suo pugno rilucente di verde collise contro la lastra del petto di Cell.
L'impatto fu cupo e profondo, rimbombò come bassi ad un concerto nelle orecchie della gente; il mostro precipitò, trapassando una montagna.
Diciotto sorreggeva Crilin; Diciassette ansimava a mezz'aria, occhi irrequieti alla ricerca del suo incubo.
Questa volta fu Diciassette ad avanzare una richiesta importante: "Andate via. Adesso."
Diciotto lasciò cadere le braccia lungo i fianchi.
Gero non sarebbe stato più forte di loro; Cell, invece, non era un nemico che Diciassette poteva affrontare solo.
Quella era una seconda chance e non c'era più tempo di avere paura di Cell, ma come poteva Diciotto abbandonare Diciassette al suo destino, ancora una volta?
"Fidati, sorella."
Lei non aveva mai visto Diciassette combattere così. Ironia e scherno erano sempre stati parte di lui, ma ora persino il modo in cui si spostava i capelli era aggressivo.
La paura era diventata rabbia, Diciassette voleva uccidere Cell tanto quanto lei voleva uccidere Gero: sul campo di battaglia c'era Carly, niente era come la prima volta.
Però…
Diciotto vide che, per un millisecondo, Diciassette aveva girato gli occhi all'indietro. Aveva tossito e tirato su col naso, qualche goccia di rosso brillante gli era caduta sulle labbra.
Diciassette era più resistente di lei, chissà quanto, si era liberato da solo dalle scosse di Gero; Diciassette non aveva avuto emorragie sottopelle che lasciavano vedere disegni a rami, le sue ferite erano interne.
Ma il suo dispositivo di disattivazione, perturbato dalla scossa, si comportava quasi come un interruttore. Probabilmente non se ne rendeva conto; Diciotto, già stata vittima di quell'attacco, l'aveva capito.
"No! Resterai ucciso."
Riconobbe le stesse parole che aveva detto a Sedici.
Diciassette prese la testa della gemella fra le mani e l'obbligo’ a guardarlo.
"Fidati. Fidati di me."
Tutto poteva andare perduto: Cell da risorto era cambiato, se lei e Diciassette fossero stati assorbiti non sarebbe restata traccia di loro.
Diciotto capiva, tuttavia, che ci sarebbero sempre stati nuovi Cell e che Diciassette voleva prendere posizione contro di loro.
Per se stesso. Per suo figlio.
Quel figlio che non meritava di nascere in un mondo dove i Cell e i Gero potevano distruggere e creare dolore senza che nessuno osasse farli a pezzi.
La gemella grande sentì il cuore gravarle nel petto, ma sapeva che doveva dare a Diciassette il diritto di proteggere.
Lascio’ con Crilin lasciarono il campo di battaglia, Cell non riuscì a seguirli: una moltitudine di campi di forza lo fece rimbalzare fra terra e cielo, stordendolo, bloccando. Muovendosi velocissimo fra i quattro punti cardinali Diciassette colpiva Cell con tutte quelle barriere, estensioni delle sue membra, indossando di nuovo il suo sorriso da diavolo.
 
 
/
 
Nel frattempo, Sedici era atterrato rovinosamente fra le beole e il legno di una diroccata frazione di Verny, più in basso nella valle.
Gero non era più riuscito a bloccare nessuno col suo raggio-scossa, quasi per ripicca aveva iniziato a spostare grossi pezzi di roccia e a lasciarli cadere sulle case periferiche dell’ex capitale. La gente aveva iniziato a correre, a urlare e Sedici era rimasto fra Gero e la città, come un antico guardiano.
Le persone lì sotto avevano fatto tutto il possibile, avevano radunato ranger, poliziotti, pompieri. I vari proiettili che costoro avevano lanciato non avevano leso Gero, ma avevano contribuito alla confusione che già dal colpo di Kate aveva depistato le sue azioni e la sua presenza di spirito, senza che egli ne fosse conscio.
 
 
Andando incontro a Diciotto e Crilin, Otto rimase scioccato dalle ferite di lui.
“Hacchan!”
Diciotto aveva reagito per prima a quella voce nota: percorrendo con gli occhi una parete rocciosa, aveva visto la lampadina che era la testa di sua cognata sporgere dal vano di un acquedotto.
“Che ci fa lei qui? Credevo l’avessi portata via!” Diciotto rimproverò Hacchan, senza prestare attenzione a Carly.
Diciotto non sapeva che la tensione della situazione stava corrodendo la sua calma abituale: non riusciva a fermarsi dall’aggredire verbalmente il povero gigante, che non riusciva manco a reagire.
Hacchan si era messo in disparte, in un angolo di quel vano stretto, la testa fra le ginocchia.
“Diciotto! Amore!” Crilin, la testa appoggiate sulle ginocchia di Carly, aveva alzato una mano. “Ci sono già Cell e Gero che vogliono attaccarci. Non possiamo dividerci.”
Aveva ragione.
Carly prese il coraggio a due mani, accennò col mento a Hacchan.
“È colpa mia, Lazuli. Gli ho chiesto di restare.”
“Non potete restare!” la zittì Diciotto. “Non so per quanto tempo Diciassette può resistere, solo contro Cell!”
Tutti parlavano di Cell, ma Carly non ne veniva a capo. Cell, quello che aveva ucciso tanta gente, prima che Lapis tornasse da lei?
Lazuli le diede solo un breve cenno d’assenso.
Crilin si toccò il braccio corroso, valutando la situazione dal punto di vista di Carly: l'acquedotto era fiancheggiato da un precipizio, le sarebbe stato impossibile saltare.
Non sapeva se fuggire da lì avrebbe significato morte certa per lei: Cell e Gero si sarebbero accorti di ogni spostamento, Gero la voleva morta.
"Diciotto, mi dispiace." Disse Hacchan, ormai demoralizzato, dal suo angolino. 'Io non posso difenderla."
In battaglie come quella c'erano sempre brividi e dramma, ma c'era anche la possibilità facilissima di perdere fiducia in sé.
Diciotto si sentiva in colpa: Hacchan era una delle creature più sensibili che conosceva, e lei l’aveva trattato male. Proprio quando serviva che tutti loro fossero uniti.
Diciotto soffriva nell'ammettere a se stessa che nessuno, in quel vano, avrebbe potuto difendersi da Cell.
Cell ubbidiva a Gero e Gero gli aveva ordinato di trovare Carly. Chissà quanto tempo avevano prima che Cell sopraffacesse Diciassette ed eseguisse gli ordini?
Diciotto doveva tornare da Diciassette, aveva un bisogno disumano di lottare al suo fianco.
C'era solo una cosa che poteva fare.
"Io posso. Usate me."
Diciotto guardò il viso serio dei presenti, il ventre di Carly.
Si procurò un taglio nel braccio, lasciò che il sangue scorresse a terra.
Diciotto non era un androide: privarsi di parti del corpo le toglieva sangue, nervi, vita.
Quell'ultimo anno passato come Super 18 era stato troppo breve ed ella non era pronta, ma aveva forse altra scelta davanti a quella ragazza indifesa?
Non poteva lasciarla morire. Doveva farlo per Diciassette, e per suo figlio. 
Ancora inviluppata dagli strascichi dell’attacco nelle grotte, Diciotto non si sentiva forte.
Si chiedeva se privarsi di così tanta forza vitale avrebbe potuto ucciderla.
La prima volta davanti a Cell Diciotto aveva guardato scioccata, sapendo che Diciassette sarebbe morto per lei. 
Ora era il suo turno; Diciotto avrebbe fatto qualsiasi cosa per amore.
Carly non si accorse di tutto quello che la sua cognata sentì, nel cuore e nella testa.
Lazuli, infatti, era soltanto diventata un tono più pallida.
Il sangue di Diciotto era diventato solido, aveva preso la forma di un'arma che la cyborg mise fra le mani di Carly, “Ho sentito che sei una buona tiratrice.”
Quella fu l’ultima cosa che disse.
 
 
/
 
Era inspiegabile, inammissibile, ma stava succedendo: Diciassette sentiva la sua forza, e anche il suo stato di coscienza, andare e venire, cambiare direzione nei suoi circuiti e nelle sue vene come corrente alternata.
Doveva essere qualcosa di passeggero, perché lui non poteva sentirsi così.
Diciassette sapeva già che quello di fronte a lui era un nemico che non perdonava, ma doveva trovare un modo. Sentì il brivido amaro della storia che si ripete, nel vedere Cell aumentare la sua terribile aura e rompere il campo di forza in cui era stato chiuso.
“Ricorda che sei mio fratello, 17: tu mi hai aiutato a raggiungere la perfezione, ma poi ti ho perso...”
Diciassette si spostava così veloce da sembrare vari turbini di vento: colpi, scariche di energia piovevano su Cell come una tempesta, ma il Capolavoro non perdeva la calma.
“Tu vuoi emulare una vita da umano, fratello.“
Nel vortice creato dai suoi stessi movimenti, Diciassette fu sorpreso dagli occhi di brace di Cell, apparsi così vicino al suo viso.
Non c’era tempo di avere paura. Non poteva permettersi di avere paura.
“Ma sarai sempre più simile a me che a loro, 17: anche se ti forzi a non esprimerlo, in fondo a te ci sarà sempre il male.”
Il cyborg non lo sentì nemmeno; Cell non era degno di rivolgergli la parola.
Diciotto era arrivata, correndo nella foresta, proprio in tempo per assistere al gran finale.
Sotto gli occhi sbarrati della sorella, e della città di Verny, Diciassette fece qualcosa che nessuno si spiegò: in un impeto che a tutti parve completamente insensato si scagliò su Cell.
Stava ancora guardando la coda, che era rimasta piegata dietro la schiena del mostro; non aveva sentito subito il trauma del suo corpo trafitto, né della sua spina dorsale recisa.
Diciassette guardò scioccato il fascio luminoso che entrava sotto il suo costato e usciva dall’altro lato: un taglio mostruoso, ancora occupato dall’energia del nemico, lo spaccava dalla gola alla pancia.
E con la violenza di uno tsunami che spazza via tutto, il dolore arrivò tutto insieme.
Diciassette spalancò gli occhi, ma il grido annegò nel sangue.
Il mondo cominciò a diventare nero, il volto di Cell si fece sempre più lontano, voci e rumori si mescolarono in un vortice.
Diciotto e una città intera tacquero quando, lì a mezz'aria, Cell tolse il fascio d’energia dal corpo incosciente di Diciassette.
Il cyborg cadde dall’alto a peso morto, con un tonfo che spezzò il terreno.
 
 
 
 
 
 
 
Pensieri dell’autrice:
 
Beh...ditemi voi.
(Appuntamento alla settimana prossima, e preparatevi: sarà una bomba)
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 45
*** Non e' finita finche' non e' finita ***


45. Non è finita finché non è finita
 
 
 
 
Il suo viso era coperto di terra e aghi di pino, la terra era intrisa del suo sangue.
Diciotto era arrivata troppo tardi, adesso non guardava neanche il sangue; aveva il terrore di sentire freddo.
Aveva paura che se avesse toccato la pelle di Diciassette e l’avesse sentita fredda, avrebbe smesso di vivere.
Diciotto non fiatava.
Era incredula, in diniego. Non poteva essere accaduto una seconda volta.
Ma forse, non era questione di presto o tardi; forse, non c’era nessuna speranza per loro.
Tutti avevano sentito la forza del colpo che aveva sconquassato Diciassette. Persino gli umani di Verny avevano percepito un’onda d’urto invisibile; Gero e Sedici si erano voltati, interrompendo la loro lotta.
Poi il dottore aveva assaltato Sedici, a tradimento, mentre questi stava correndo in soccorso dei suoi alleati ancora una volta; Gero aveva calpestato il corpo dell’androide, finalmente percorso dalle sue scosse e aveva raggiunto Cell.
Cell non aveva ancora fretta di smaltire: Gero sapeva che avrebbero vinto di nuovo, tanto valeva dedicarsi anche ad altre cacce minori.
Forse libero dall’attenzione di tutti, Gero aveva comandato: Cell avrebbe finito 17 più tardi, era ora di andare a prendere la sua umana.
 
 
 
 
 
/
 
Il vano era buio e stretto, soprattutto per una mole come quella di Hacchan. Tutto quello che il grosso cyborg voleva era contribuire. Forse, per la prima volta, lottare.
"Se Cell ritorna perfetto, sarà la fine per tutti."
Carly passeggiava nel piccolo spazio chiuso.
Non sapeva cosa rispondere, era ancora molto confusa e i calci nelle costole non la lasciavano respirare: anche il figlio di Lapis era agitato.
Una mano avanti e indietro sul ventre e l’altra stretta attorno all’arma fatta di Lazuli, Carly guardava Hacchan con veemenza e anche timore.
Aveva troppe cose da fare per lasciarsi ammazzare: in primis vivere la sua vita con Lapis e il bambino, poi ritirare la sua laurea in settembre.
"Quel...terrorista ha ucciso così tanta gente nella mia città. Perchè ce l'ha con noi?"
"Cell non è sempre stato quello che tutti hanno visto in TV. Prima era incompleto."
Davvero Diciassette non le aveva detto niente?
Hacchan si girò verso di lei, grave. "Cell è destinato a nutrirsi dei n° 17 e 18. E la volta che tutti l'hanno visto in TV, era successo."
Carly non poté contenere lo shock, man mano che Hacchan le spiegava biologia impossibile e raccontava ciò che aveva saputo da Diciotto: ora lei poteva spiegarsi certi umori di Lapis e la nuova, insidiosa avversione per gli spazi chiusi.
Non erano idiosincrasie da ragazzaccio.
Era trauma.
"Ma non glielo permetteremo!" Carly imbracciò l'arma/sangue di Lazuli, ruotò un quadrante vicino al grilletto. "Io non glielo permetterò."
Lei era intrepida, come la sua Suno. Hacchan le sorrise con affetto, con paura.
"É per questo che devo andare, ora. Lui è qui."
 
 
 
Otto non lasciò che Cell si avvicinasse all'acquedotto e vedesse Carly coi suoi occhi. Corse lontano da lì e vide Cell che inseguiva Crilin in volo.
Serviva qualcuno che restasse all'acquedotto, Crilin scambiò col cyborg un semplice cenno di intesa e continuò a volare.
Infine, Cell atterrò di fronte ad Hacchan: voleva renderlo un'opportunità.
"Non ti importa chi sono," Hacchan vibrò un colpo. "Ma a me importa chi sei tu. Tu sei Il Male."
Hacchan vibrava ed incassava colpi con dignità, generava correnti d'aria con le braccia e respingeva i getti corrosivi del suo nemico.
Hacchan voleva combattere ricordando il motivo per cui si era unito a Sedici e Diciotto: in ogni sua mossa diede sfogo a tutto il suo amore per il mondo, che Cell minacciava.
Pensava al suo villaggio, pensava a Suno.
Cell, invece, non aveva niente a cui pensare. Come aveva fatto con 9, investì Hacchan con una raffica che lo derubò delle sue componenti cibernetiche: grossi pezzi dei suoi arti, della sua testa e del suo torso si scardinarono da lui e atterrarono su Cell, fondendosi con la sua pelle.
Cell non sperperò altre energie sul cyborg mutilato: riprese il volo sulle tracce di Crilin, verso la sua prima preda.
 
 
 
Crilin le aveva detto che non poteva usare da sola l'arma che conteneva l'energia di Diciotto: il rinculo l'avrebbe sbattuta contro qualcosa e come minimo si sarebbe ferita, com'era successo a Kate quello stesso giorno.
"Lo faremo insieme. Io o Hacchan premeremo il grilletto, tu punterai la canna."
Gli occhi di Carly erano limpidi, asciutti. "Va bene."
Crilin respirò profondamente ed uscì dal vano: accolse Cell con una scarica di scatter bullet, dando la possibilità ad Hacchan danneggiato di raggiungerli senza venire attaccato, e a Carly di prepararsi a prendere la mira.
Quel fucile era così pesante, in ogni senso.
Era armato della vita di Lazuli, Carly sapeva, era fatto del sangue che scorreva anche nella creatura dentro di lei: Carly non aveva il diritto di mancare il colpo e sprecare Lazuli.
Incinta di sette mesi, determinata ed irresponsabile come non mai, sapeva ancora come impugnare un'arma: la strinse a sé e lasciò agire la sua memoria muscolare.
Voleva che il mostro che aveva fatto soffrire atrocemente il suo Lapis la guardasse, mentre lei gli sparava.
Crilin stava ancora lottando, sapendo che la sua difesa avrebbe presto ceduto; Hacchan aveva zoppicato fin dentro al vano e Carly non si era permessa di reagire al suo corpo smantellato —ora circuiti, ora carne viva— né di chiedersi se anche l’interno di Lapis fosse così.
Hacchan vide il labbro tremante di Carly, che poco prima l'aveva difeso da Diciotto; le posò una mano sulla spalla, le sorrise.
"Ce la farai, sei valorosa. N°17 ha scelto te, dopotutto."
In altre circostanze, Carly l'avrebbe abbracciato. Quelle parole di incoraggiamento la convinsero a lottare con le forze che aveva, non importava se poche o molte.
Crilin aveva ostacolato Cell e le sue intenzioni di avvicinarsi al vano; Cell l'aveva sollevato dal collo, ponendolo controluce, strappando il moncone di braccio corroso. Crilin non poteva eseguire un vero colpo del sole con un braccio solo, ma era riuscito a incanalare nelle pupille del mostro un breve bagliore.
"HACCHAN!"
Con un calcio il guerriero aveva allontanato Cell, l'aveva spinto verso il vano nell'acquedotto.
Carly aveva sussultato e gridato alla vista del mostro, la sua mano era scivolata sul grilletto. Ora le quattro dita di Cell erano protese verso Carly, sempre più vicine; presto avrebbe stracciato la manica della sua camicetta, lacerato i tessuti della sua spalla.
Ma Carly non era priva di sostegno: la mano di Hacchan si avvolse, forte e sicura, attorno alla sua, attorno al grilletto. I suoi movimenti erano stati così veloci, surreali.
La mano di Cell stringeva già la sua camicetta, ma Carly scelse di non temerlo: Cell era solo, lei no.
Con Hacchan che impugnava l’arma con lei, non per lei, Carly non poteva fallire.
Gli occhi di giada dell’umana sfidarono quelli di brace del mostro mangiauomini: solo allora Carly attivò l'arma e sparò.
Si udì un breve ronzio meccanico, l'arma vibrò così forte da strapparle un urlo per lo sforzo.
E poi un’enorme scarica di energia, un raggio molto più grande della canna che l’aveva prodotto scosse la terra, sbriciolò la roccia ed abbagliò i guerrieri e gli spettatori.
La sola vicinanza di quell'energia aveva derubato Carly di ogni sua forza, Crilin la vide accasciarsi fra le braccia di hacchan. Vide anche, coi propri occhi, il corpo di Cell dissolversi in quel raggio.
 
 
/
 
Diciotto inseguiva il proprio mostro nella foresta, tagliandogli la strada con una trama di lunghissime lame sottili, proiettata nel cielo sopra di lui, affollandogliela e intrecciandogliela intorno.
Diciotto correva, concentrazione al massimo e bersaglio in vista: e proprio in quel momento Diciotto non potè più sostenere il suo stesso attacco, tutta l'energia in lei parve scoppiare.
Una forza smisurata si ritirò dal suo reattore, un risucchio mortale la sfranse fin dentro alle ossa; sangue schizzò dai suoi occhi come un pianto, da ogni cavità del suo corpo, ogni poro della sua pelle.
Diciotto atterrò supina, momentaneamente accecata e stroncata dal riversarsi della sua stessa forza vitale; sfigurata dall'amore.
La sua arma era stata usata.
Restava Gero, ma Cell era fatta: la cyborg creata con scopi omicidi aveva salvato quattro vite.
Anche Hacchan contava, ormai.
“L’ho fatto per te, Diciassette?”
Diciotto ansimava a terra, sola coi propri pensieri, ignorando per un momento il campo di battaglia.
Dapprima udì il rimbalzare di qualcosa che cade dall'alto; poi un grido lontano, la voce di Crilin, trapanò il suo cervello.
“DICIOTTO, NO! LA TESTA!”
Diciotto non sapeva che la testa si era salvata e che ciò gli aveva permesso di rigenerarsi.
Diciotto non vide che Cell si stava rigenerando, tronco, arti, dita: aveva creduto di aver vendicato Diciassette, fin quando non aveva ripreso controllo sulle sue terminazioni nervose e aveva visto la Creatura di nuovo in piedi.
Fu quella vista ad inchiodare Diciotto; quella e la paura di quel nuovo Cell così bestiale, che ora puntava verso di lei la sua coda di nuovo spalancata.
Gero guardava, a braccia conserte; forse aveva capito che non poteva trastullarsi tanto, o forse vedere Diciotto così ferita nel corpo —dal suo stesso colpo— e nella mente —dal trauma— gli aveva dato l’orgasmo che cercava.
La coda scendeva e scendeva, Diciotto era congelata dallo shock, incapace di muoversi.
Ancora una volta.
Prima che la cyborg potesse urlare, Cell cominciò ad emettere versi strozzati e a scalpitare coi piedi sollevati da terra. Sembrava che una garrota lo stesse strangolando e che lui stesse cercando di liberarsene.
Diciotto vide Gero deflettere un kienzan di Crilin, ma farsi colpire dal pugno di Sedici.
Diciotto vide anche la garrota: un braccio stretto a torchio attorno al collo della bestia, che la tirava indietro, via da lei.
E dietro la bestia, Diciotto vide lo sguardo sanguinario e gelato di Diciassette.
Il suo corpo era avvolto da un’aura che divampava verso l’alto, in fiamme nere.
Diciassette era ancora in piedi, ancora quasi dimezzato: si rendeva conto che si stava dando una possibilità, forse la sua ultima.
La sagoma lontana di Carly che si sporgeva dall’acquedotto gli fece capire che la forza per concludere tutto era ancora sua: non era finita finché non era finita.
Lo sguardo stupito di Diciotto riuscì quasi a divertirlo, ma non sorrise: si sentiva sporco di sangue e non voleva che lei vedesse.
“Fidati di me,” le disse ancora, questa volta solo con gli occhi.
Senza tergiversare, Diciassette proiettò la sua prigione boreale intorno a Cell.
E il mostro, per un momento, non capì cosa stava accadendo: si dibattè nel campo di forza, colpendolo con pugni così forti da creparlo come un vetro, ma al comando di Diciassette le incrinature si ricomposero, si scurirono.
Presto, la barriera verde si venò di nero lucente.
Tutti sentirono Gero bestemmiare e gridare, quando i muri della barriera-prigione si chiusero su Cell e si trasformarono in un inferno esplosivo.
Il rumore attutito di quell’esecuzione rimbombava basso, scuoteva gli oggetti nelle case; risuonava con la stessa emozione regalata dai fuochi d’artificio, riempiendo di brividi e speranza chi lo ascoltava.
Diciassette bombardò Cell nella barriera senza sosta, per parecchi minuti, affinché il suo peggior incubo, colui che aveva abbassato la guardia nell’attesa di smaltirlo per sempre, non tornasse mai più.
Il cyborg manteneva la mano alzata, ma era caduto di nuovo; la sua schiena rotta non l’aveva più sorretto.
"Cosa succede?" Annaspò Crilin, senza aspettarsi una vera risposta.
"Il colpo di Cell lo sta ammazzando, è già in insufficienza organica e…Che cosa?!"
Sospettoso già dalla vista del nuovo colore della barriera, Sedici scannerizzò frettolosamente Diciassette per capire cosa stesse davvero succedendo nel suo corpo.
Prono, Diciassette teneva le braccia protese: le sue vene non erano scoppiate con la scossa di Gero, ma mentre la forza vitale fluiva in massa fuori da lui e nella barriera, il cyborg sentiva ogni parte delle sue braccia comprimersi, implodere.
Diciotto guardava incredula quello che anche Sedici aveva visto: Diciassette riluceva dall'interno, attraverso le sue ferite, ora colmate da un lucore scuro che lei conosceva bene.
Come poteva essere?
La barriera era una bolla di ki incandescente, l’energia che si stava scatenando tra i suoi confini era densa, pesante: sotto tutto quel peso lo strato nero esterno non mantenne più la sua forma sferica e iniziò a collassare, a restringersi.
L'aura di Cell era appena percettibile.
E allora Crilin e Sedici colpirono insieme il campo di forza: un ultimo gesto di ausilio per un loro fratello in fin di vita, e di affermazione di sé.
 
 
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Mentre una battaglia fra esseri sovrumani si consumava alla porte di Verny, il fuoco consumava un altro angolo di RNP.
La foresta incendiata da Gero continuava a bruciare: i pompieri, già non numerosi, si erano affrettati a spegnere il punto di inizio dell’incendio, la stazione di servizio.
La gente era in panico, John si mangiava il fegato: dov'era l'esercito? Non avevano udito le sirene?
Per di più, ancora una volta, aveva permesso alla sua allieva di rischiare la vita.
"Lillian, non puoi salire sulla montagna!"
"Devo! Là ci sono delle persone."
I campeggiatori. Coloro di cui nessuno aveva fatto parola a John.
Gli incendi erano la bestia nera di Lillian Dahl, sin dai suoi primi giorni come guardiaparco.
Eppure, insieme a Fabien, aveva percorso i tornanti lambiti dalle fiamme, tossendo nel fumo era corsa fino alla radura.
Pochi campeggiatori erano rimasti, molti erano fuggiti in tempo, altri non avevano avuto tempo. Uno di loro piangeva sul corpo di un giovane, il ragazzino che aveva rivolto la parola a Lillian e Diciassette solo pochi giorni prima.
Tutti corsero nel pulmino dei ranger.
Bon, i campeggiatori sopravvissuti erano stati recuperati: Fabien, ora alla guida, aspettava solo che Lillian partisse con loro.
Ma Fabien aveva capito cosa Lillian volesse fare, vedendola alzare lo sguardo verso est.
"Il serbatoio? Non starai pensando..?"
Lillian stava pensando.
"Lillian? I pompieri spegneranno la foresta col liquido estintore. Dall'aereo!"
I pompieri, i pompieri. Lenti, inefficienti e troppo pochi.
L'interstardita ex top ranger guardava lo tsunami di fuoco che li circondava. "Vedi forse aerei qui in giro?"
 
 
Prima di tornare a fondovalle coi campeggiatori, Fabien accettò di guidare ancora in mezzo all'incendio e di darle le munizioni del suo fucile; Lillian si mise poi a scalare il sentiero fino a un'enorme cisterna quasi inaccessibile, appollaiata nel vuoto, poco lontano da lì.
Donna VS elemento fuoco, quello che Lillian stava cercando di fare era quasi sovrumano: se Diciassette fosse stato lì….Se solo Diciassette fosse venuto in soccorso a tutti loro!
Ma Diciassette non c'era e Lillian era da sola. Come una volta. Come aveva sempre voluto.
Alla fine della piccola scalata Lillian percorse un ponte massiccio e imbracciò il suo fucile; non aveva mai sparato nelle vesti di ranger, le cose sarebbero potute andare storte in cento modi diversi. Alla fine lei non era il Settone, un Terminator; non era nemmeno la Carlona, che dietro all’aria naive e a quella pancia che sembrava un pianeta nascondeva una temibile mira da cecchino.
Ma Lillian non poteva restare lì, piena di dubbi e di pallottole, ad aspettare che la cisterna riversasse da sé tutto il suo contenuto.
Non fare niente, alla fine, equivaleva lasciare che le fiamme continuassero a inghiottire la montagna: quanta gente aveva già perso la casa, dei cari, la vita?
Lillian era riuscita a superare la sua paura del fuoco, non guardava il fuoco sotto di sé, ormai non aveva niente da temere.
Sparò a raffica contro la base della cisterna, l'acqua compressa lì dentro iniziò a zampillare attraverso ogni piccolo buco, ancora timidamente.
Sparare richiedeva più sforzo di quanto sembrasse.
Lillian svuotò tutte le sue cartucce, grata di poter fare lo stesso con quelle di Fabien: non appena lo strappo aperto dagli spari continui fu abbastanza ampio, la potenza dell'elemento acqua e la gravità finirono il lavoro.
Investendo il ponte, Lillian e un pezzo di valle infuocata, una massa che avrebbe riempito un lago proruppe dal suo contenitore in un vero e proprio muro d'acqua.
 
 
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Gero era ancora in piedi a guardare il Capolavoro venire distrutto dal suo assassino (e da Sedici e Crilin).
Aveva capito che presto o tardi sarebbe toccato a lui, era solo contro tutti e nessuno l'avrebbe risparmiato.
Tuttavia, non se ne sarebbe andato sgozzato come un animale.
Gero concentrò tutta la sua forza, sembrò accendersi della sua stessa energia: il suo corpo mezzo artificiale era teso allo spasimo in tutte le direzioni, mani verso il cielo e piedi verso la terra. Occhi puntati sul massiccio dietro di sé.
Quell'angolo di mondo sentì il terremoto, la forza del vento, il peso del monte Severny che si sradicava da terra ed ascendeva verso la stratosfera.
Presto nessuno lo vide più, ma i cyborg e l'androide seppero che la roccia era stata spostata sopra Verny.
E quando Gero l'avrebbe lasciata cadere, la catastrofe sarebbe stata incalcolabile.
I gemelli avevano smesso di sanguinare, ma erano ancora stremati.
Gero, vibrante di energia magnetica, appariva così calmo: consapevole del suo svantaggio, ma determinato a lottare fino all'ultimo.
Quando il dottore mollò la presa, infinite tonnellate di roccia divennero un meteorite: Gero avrebbe abbandonato quella battaglia con una strage, qualcosa che avrebbe lasciato una cicatrice. Una città intera, con tutti i suoi abitanti, sarebbe stata cancellata dal mondo.
Sedici e Crilin volarono a rotta di collo verso le case: dovevano distruggere il Severny da sotto, prima dell'impatto.
 E ancora, quello sarebbe servito solo a contenere i danni. Si rassegnarono, schiaffeggiati dal vento che precedeva lo schianto; caricarono i loro hell’s flash e kamehameha.
Ma il Severny non toccò mai la città: la roccia non resse l'impatto contro una cupola iridescente, quasi invisibile, che all'ultimo momento l'aveva intercettata.
Non ne era mai stata fatta una così estesa.
La deflagrazione rimbombò sotto la cortina, l'onda d'urto abbattè i tralicci e alzò le onde nel mare lontano, città e villaggi persero tetti e vetri, una tempesta di sabbia oscurò lo scudo sospeso al posto del cielo.
Gli abitanti sentirono una scossa nell'aria; lo scudo emetteva piccoli lampi, creò una sovratensione che saturò la griglia elettrica e accese tutte le luci di Verny.
Infine i lampioni, le insegne dei negozi e le lampadine scoppiarono tutti insieme.
 
La rete elettrica di mezzo mondo andò in corto: ne parlarono al telegiornale, ma nessuno seppe mai che un cattivo aveva lanciato una montagna contro una città, e che un campo di forza l'aveva resa sabbia.
Nel salotto di Bulma Marron sedeva, grassa e pacifica, davanti alla tele. Trunks giocava con un tablet, ma entrambi i bambini protestarono quando l’apparecchio fischiò e lo schermo diventò nero.
West City si lamentò, quando i treni smisero di funzionare e tutti dovettero tornare a piedi dal lavoro.
 
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La città di Verny assomigliava ad un deserto, ma era ancora in piedi.
Dopo l’ultimo sforzo, Diciassette aveva ricominciato a tossire ed era ricaduto a terra; Diciotto non poteva percepire il ki, ma aveva sentito.
Non le importava più del freddo sulla pelle, voleva tenerlo. Voleva restare accanto al suo esanime gemello minore.
Un’altra di quelle scosse terribili la colpì da dietro: un formicolio intenso le percorse tutto il corpo, la chiazzò di nuove emorragie sottopelle, la lasciò in ginocchio.
Gero incombeva col braccio teso, ancora desideroso di raccogliere il suo tributo.
Diciotto sentiva il gusto del sangue in bocca, ma un movimento soltanto diede al suo corpo seviziato la ragione di tornare a combattere.
Era stato il movimento provocatorio degli occhi di Gero, puntati su Diciassette.
Gero schivò un calcio rabbioso, ma Diciotto era pronta: liberò una mitragliata di schegge dal suo braccio-lama, tanti minuscoli aghi che investirono il dottore come una folata di vento solido.
Gero rimase bloccato sul posto col volto contorto, quasi pietrificato.
Crilin, Sedici, Hacchan, Carly e Verny guardarono la gemella maggiore raccogliere tutta la sua rabbia: per ciò che quel mostro di uomo aveva fatto, per quello che avrebbe voluto fare, per la vita di Diciassette.
Aveva solo ventitré anni; avevano avuto solo diciotto anni!
Con un gesto che le richiese molta più forza e fortezza di quanto immaginasse, Diciotto strinse il pugno.
E allora Gero, ormai nero e lucente di kachi katchin, si ruppe in mille pezzi come uno specchio.
Per sempre.
Un numero incalcolabile di frammenti catturò la luce del pomeriggio, restituendola al sottobosco ombroso in mille sfaccettature.
I frammenti furono polvere. Diciotto potè finalmente respirare.
 
 
 
/
 
Venti minuti dopo lo scatto dell'allarme, l'esercito trovò  la città di Verny sepolta dalla sabbia, spazzata dal vento.
Mortalmente silenziosa.
Si era già nel post-catastrofe: qualche corpo giaceva in case ammaccate, alcuni vivi cominciavano ad uscire dai propri nascondigli ed altri erano in piedi su balconi e terrapieni.
Anche un velivolo era arrivato, dalla vicina West City; due donne e un vecchio l'avevano lasciato, correndo.
Poi c’era una ragazza.
Malmessa e sofferente, camminava fra le schegge della vittoria e si inginocchiava sul corpo di un caduto.
Diciotto lo girò sulla schiena per vedere il suo volto: gli occhi chiusi, le labbra serene, le ciocche di capelli sul naso, il taglio che lo spaccava appariva persino più stretto.
Sembrava dormisse.
Qualsiasi forza avesse mantenuto Diciotto in vita fino a quel momento, all’improvviso le venne meno: strinse Diciassette e pianse piano, senza farsi sentire.
Diciotto piangeva e tutti guardavano.
Hacchan teneva ferma Carly, che singhiozzava col viso coperto.
Una voce risuonava lontana, “Signora, non può avvicinarsi!”
“No! Fatemeli vedere!”
Un’altra voce, disperata, ribatteva.
“Signora!”
“Lapis, Lazuli! Sono i miei figli, fatemeli vedere!”
Diciotto udì vagamente Kate, da qualche parte nella folla; si girò a cercarla, ma non fece in tempo.
L’ultima cosa che Diciotto si vide fare, mentre il suo corpo cadeva a fianco di quello di suo fratello, fu lei che prendeva la sua mano.
 
 
/
 
 
Diciassette si arrampicava su un sentiero, lungo una costa sconosciuta.
Camminava come se sapesse dove andare, non sentendo il dolore della sua ferita, guidato da un cielo al tramonto.
I suoi passi lo conducevano fino alla penisoletta dove il sentiero terminava, un lembo di terra che l’acqua erodeva con rabbia, come a rivolerlo per sé.
Lì sorgeva una casa bianca; più lontano, un faro arroccato rappresentava l’ultimo baluardo di presenza umana in quel paesaggio drammatico, giurassico.
Diciassette si sentiva l'ultimo uomo rimasto al mondo, o forse il primo di una stirpe.
Il ruggito delle onde l'attirò sul retro del faro, il cyborg scorse una figura infantile in bianco che gli dava le spalle, osservando sfrontatamente il pericoloso spettacolo.
Diciassette non riconosceva la costa frastagliata e i vestiti del bambino —sembrava una qualche divisa sportiva— la scritta Dragons e il disegno stilizzato di un drago sulla sua schiena.
Eppure, una parte di lui voleva riconoscere.
Quando il bambino guardò di lato e rivelò la bozza del suo profilo, Diciassette seppe di essere nel passato: stava guardando se stesso da piccolo.
Lapis bambino non si curava di Diciassette, non aveva dispiaceri, scattava foto allo stesso mare che minacciava di farlo cadere; si rigirava fra le mani una scatolina di legno laccato, recante l’iniziale M.
Diciassette osservò Lapis da piccolo correre nella sua direzione, con gli occhi bassi per non inciampare: riconobbe come propri il movimento dei capelli neri, la piega della palpebra sugli occhi all'insù.
Lapis bambino tese la scatolina a Diciassette: voleva che lui l’avesse, glielo disse col suo stesso sorriso e con gli occhi che erano proprio i suoi, da sempre e per sempre.
Ma fu solo quando Diciassette vide i suoi occhi, finalmente da vicino, che non si riconobbe più.
Il ragazzino, uguale a Lapis da piccolo tranne che per gli spicchi delle sue iridi, chiuse la mano di Diciassette attorno alla scatolina: con calore, come se gli volesse bene.
Diciassette voleva chiamare il bambino, le sue labbra conoscevano il suo nome e lo pronunciavano! Ma la sua mente non lo rammentava, le sue orecchie non udivano.
Il bambino reagì, come se si fosse sentito chiamare, ma il loro tempo insieme era scaduto: un abisso si aprì dietro al faro.
“Sono io, Diciassette! Aspettami.”
Un risucchio siderale strappò il paesaggio intero da lui, o lui da quel paesaggio.
Diciassette urlò ancora l’inudibile nome, “Aspettami in questo tempo.”
La costa frastagliata e il bambino scomparivano, Diciassette cadeva nel vuoto; atterrava e correva, quasi fluttuando, nel corridoio del suo chalet a Verny.
Prima che Diciassette aprisse la porta della sua camera, quella dimensione si sgretolò attorno a lui ed il sogno ebbe fine.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Pensieri dell'autrice:
 
Phew...posso finalmente srotolarmi le maniche! Azione+emozione (e rendere ogni personaggio partecipe) è un equilibrio delicato che mi ha fatta lavorare sodo, ma che sono contenta di condividere con voi.
Rileggendo il tutto, ci vedo un sacco di Naruto vibes. Se c'è qualche fan di Naruto fra i miei lettori (oltre a te, Vale) forse ve ne sarete accorti.
 
Vorrei poi spendere due parole per il trip di Lapis. Non è la prima volta che in momenti di stress si fa dei bei trip grazie a sogni (anzi, è ben la terza).
La prima è stata quando ha sognato che Mirai Trunks distruggeva lui e Lazuli, cosa che è assolutamente successa...ma in un'altra linea temporale: mi sa che ho introdotto nel capitolo 11 che forse lui ha questa capacità. Qui è quasi convinto di essere nel passato, voi cosa dite?
In ogni caso, non dimenticatevi né del trip né della scatola con la M: sarà parecchio importante più tardi nella storia😏
 
 

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Capitolo 46
*** Liberazione ***


46. Liberazione
 
 
 
 
 
L'aereo che spargeva liquido estintore ronzava nel cielo, da qualche parte sopra il RNP.
A terra, anche il defibrillatore speciale del dottor Brief emetteva un ronzio crescente; Bulma squittì spaventata, quando le due piastre metalliche crepitarono a contatto con il petto nudo del ragazzo, sollevandolo di poco da terra.
La gente e i militari osservavano, muti.
Kate guardava col fiato sospeso, piena di speranza tenace; Diciotto riposava calma e tranquilla fra le sue braccia, Kate inspirava il profumo dei suoi capelli sciolti.
Bulma aveva constatato subito che lei non era in pericolo di vita, sarebbe stata la prossima in lista.
“Ancora,” ordinò Brief alla figlia.
Il cursore del loro defibrillatore speciale era già spostato sul massimo.
“Papà, basta!”
“Che cavolo vuoi che usi, Bulma, guantini di velluto e polvere di fata?"
"La sua schiena…"
"Lo so, è rotta. Ma questo qui è un cyborg e io devo dargli uno shock al cuore.”
Un'impresa ardua; il vecchio Brief non si scompose nell'enunciarla, la gente che guardava emise un gemito collettivo di incredulità.
“Ma che, davvero?”
Brent guardò Lillian, scandalizzato; ottenne da lei solo un’alzata di spalle.
“E cosa pensavate che fosse...”
Brief alzò gli occhi alla reazione dei suoi compari terrestri.
Meno male che si era portato qualche attrezzo di primo soccorso da casa; quando erano arrivati lì Crilin, con un braccio solo, gli aveva urlato qualcosa di confuso e un minuto dopo lui e Bulma avevano strappato quel che rimaneva della maglia del cyborg. Sei volte le piastre del defibrillatore avevano crepitato, senza che Diciassette desse segni di vita.
In verità il suo cuore si era già fermato, per meno di un secondo: il defibrillatore era speciale, non magico, ma Brief ipotizzava che se avesse perturbato il dispositivo di disattivazione, ci sarebbe stata qualche speranza.
Quel cyborg più morto che vivo aveva uno squarcio lungo quanto tutta la sua metà superiore: persino il dottor Brief credeva che non sarebbe vissuto a lungo, se non fosse stato per l’upgrade che Bulma gli aveva fatto.
“Lui non l'ho toccato,” specificò la scienziata, alquanto incredula davanti alla vena nera e lucida che ora univa i due lembi della ferita. “Solo Sedici e Diciotto.”
“Interessante…”
Il dottore si era preparato a dare l’ennesimo shock al cuore di n°17, ma il battito era riapparso all’improvviso. Debole, ma regolare. Anzi, in lenta crescita.
E dal nulla la mano del ragazzo si era stretta gentilmente, come se egli stesse sognando di tenere qualcosa.
 
 
 
 
 I Brief avevano trasportato a West City i gemelli, la loro madre e il resto delle loro famiglie ed alleati.
In quel laboratorio che ormai conosceva, Kate era rimasta a guardare Crilin e Carly che non cedevano al sonno, ma perseveravano nel tenere la mano dei suoi figli addormentati.
Sì, ora stavano solo dormendo. Erano vivi.
“Senzu?”
Crilin cercò di pescare nel suo sacchettino, con un braccio solo era complicato; Carly lasciò la mano di Lapis e si sporse per aiutarlo.
Kate ormai aveva abbastanza presenti i fagioli magici, Bulma ne aveva usato uno per curarle le ossa rotte, poco prima.
“Ti ricrescerà il braccio adesso?”
“No, quello dovrò chiederlo a Shenron.”
“E chi è Shenron?”
Crilin si mangiò un senzu, lanciandolo in aria. “Senzu, Carly?”
Carly sembrava troppo triste e/o arrabbiata per un senzu. O forse non le serviva.
"Perchè non dai il senzu anche a loro, non ti salta in mente che ne hanno bisogno?" Carly indicò i gemelli con un gesto della mano.
"Lazuli ha sofferto emorragie multiple, Lapis...non so da dove cominciare."
I Brief non erano equipaggiati per fare ai cyborg una flebo di senzu, come avevano fatto con Kate, non c'erano aghi adatti.
C'era da aspettare che fossero abbastanza coscienti da assumere senzu oralmente.
E per accelerare la ripresa di coscienza Sedici si era pacificamente lasciato attaccare degli elettrodi, che avrebbero collegato il suo reattore a quello di Diciassette e Diciotto.
Serviva che il suo ravviasse il loro, erano fortunati ad averlo li.
“Mamamam…”
Marron chiamava, implorava; gattonava sul letto in laboratorio, tirava la maglia calda e sudata della sua mamma senza che ella si svegliasse.
 
 
Erano quasi le undici di sera. Nella cucina di casa sua, Bulma guardava Carly rimuovere una tazza piena da sotto la macchinetta. Le aveva già proposto di prestarle dei un pigiama,
"Tu dovresti dormire, tanto che puoi. Non bere caffè."
Carly non rispondeva, ma i suoi sguardi e le sue movenze strabordavano di nervoso.
Era restata seduta al capezzale di Diciassette da quando erano arrivati lì, ora stava facendo di tutto per non addormentarsi.
Bulma non poteva biasimarla.
La signora Brief apparve in cucina, un velo di stanchezza sui suoi tratti gentili.
"Bulma, ho messo la bimba a dormire nella vecchia culla di Trunks. Non ho disturbato Kate Lang per chiederle se andava bene, spero vada bene…"
Quel piccolo gesto toccò Carly attraverso tutti gli strati della sua preoccupazione.
E visto che l'empatia è contagiosa, venne naturale alla signora Brief attaccare discorso con la compagna di Diciassette.
"Non disperare, figliola. Quel ragazzo deve svegliarsi, Bulma dice che ora è stabile."
Carly era così in pensiero che non riusciva nemmeno a parlare col bambino; continuava a fissare il suo caffè, sperando forse di leggerci risposte positive.
“Maschietto o femminuccia?"
"Non ne ho idea, abbiamo deciso di tenerci la sorpresa."
"Ahhh. Insolito, raro di questi giorni!” la madre di Bulma proclamò, quasi sognante. “Ormai noi umani abbiamo quasi controllo sulla natura, con tutta la nostra tecnologia, a volte ci si dimentica di rallentare e godersi i ritmi naturali. Che bella cosa mantenere un legame con una vita più semplice."
"Veramente, visto che io voglio un maschio e Lapis una femmina, preferiamo non saperlo. Sa, giusto per scongiurare ogni possibile litigio."
Carly disse tutto d'un fiato, nei suoi pensieri. "Già, vero?"
 
 
/
 
Diciotto si sentiva febbrosa e rimbambita e dolorante.
Attorno a lei c'era solo buio, da cui sbucavano teschi urlanti. I teschi che erano apparsi nell'aura di Cell, la prima volta che l'aveva visto.
Diciotto vedeva una Bulma gigante osservarla dall'alto.
"Le facce. Sta vedendo le facce."
Come spiegare che non vedeva facce,ma solo teschi?
Il buio si espandeva: buio totale, corrosivo, buio che avviluppava e annegava.
La voce di Marron le era giunta da lontano e, come non le succedeva da tempo, Diciotto aveva riaperto gli occhi col petto colmo di latte.
Il laboratorio dei Brief fu la prima cosa che vide, poi incontrò presto il sorriso estasiato di Crilin.
"Piano con la mamma, tesoro."
"Mama-maaaaam!"
Marron l'assalì coi bacini più dolci e bavosi del mondo: le tenere labbra di sua figlia ridiedero a Diciotto il benvenuto alla vita.
Come avrebbe fatto senza Marron?
Kate si era seduta sul letto, Sedici guardava tutti dalla sua poltrona, in un angolo.
I vari Brief, Carly e Hacchan accorsero alla porta, quasi a non volersi perdere il risveglio.
Diciotto credette di rinascere nel vedere tutti, non era mai stata così felice di vedere tanta gente insieme.
Fu allora che vide Diciassette, disteso nel letto di fianco al suo, vivo.
Guardava lei.
 
 
/
 
Kate aveva appena fatto in tempo a vedere i loro occhi e a sentire la stretta del loro abbraccio; i gemelli si erano svegliati insieme e Bulma aveva urgentemente somministrato loro il senzu.
Erano ripiombati nel dormiveglia subito dopo, mentre il senzu riparava vene stracciate e ossa rotte.
Quando Diciassette si svegliò il sole era appena sorto; sua sorella e Sedici non c'erano, Kate dormiva nel letto di Diciotto, Crilin su una sedia lì di fianco.
Le sue mani erano vuote, per quanto ravanasse nelle sue tasche il cyborg non trovò nessuna scatola. Pazienza.
Sentendosi finalmente in sé, si rigirò per alzarsi e per poco non diede una gomitata a Carly.
Addormentatasi a chissà che ora, si strinse a lui nel percepire che si era allontanato.
Era il ritratto della tenerezza, bianca e rossa, la treccia mezza disfatta e il pigiama che conteneva solo metà del pancione.
Diciassette la baciò, gli scappò un sorriso come quando la vedeva andare in giro per casa con la maglia alzata, per mostrargli "quanto era carino il bambino".
Quello poteva essere, più o meno, un momento a tu per tu col bebè: Diciassette si immaginò Carly dire "Non vuoi salutare il tuo papà?" e tastò la pancia con delicatezza, come a sollecitare la creatura.
Che di rimando spinse in avanti piedi e gomiti, molte volte di seguito: la vista di quelle gobbette di fianco alla sua mano fece sentire Diciassette più che fortunato.
Il bambino gli stava facendo le feste.
Tutto quell'entusiasmo disturbò il sonno materno, Carly si girò con un grugnito; la pacchia era finita.
Cell e Gero erano stati disintegrati, Diciassette e Diciotto erano sopravvissuti, ancora una volta.
Adesso la loro vita privilegiata li attendeva, Diciassette poteva dire di stare davvero bene.
Sedici e Diciotto dovevano essere sul terrazzo, li udiva conversare.
"Buongiorno, principessa."
Diciotto alluse al sole già forte nel cielo, vedendolo arrivare.
Sedici e Hacchan, che era stato riparato quella stessa notte, guardavano i gemelli osservarsi: speravano che avrebbero fatto quello che chiaramente volevano fare.
Ma forse abbracciarsi era troppo da umani basic: Diciassette raggiunse la sorella vicino alla ringhiera e le mise un braccio intorno alla spalla, Diciotto appoggiò la testa contro la sua clavicola.
Restarono così a guardare gli ettari di giardino dei Brief, ascoltarono la città che si svegliava.
"Ce l'abbiamo fatta. Io e te."
"Non solo. Avresti dovuto vedere anche la mamma."
Avevano avuto tutto il supporto dei loro cari, ma erano anche diventati più forti.
"Quando hai trasformato Gero in vetro e l'hai disintegrato, figata."
"Non era vetro. E quando tu hai bombardato Cell nella barriera, rispetto."
"Grazie per quello che hai fatto."
Carly aveva raccontato a Diciassette di Diciotto e della sua arma.
"Figurati. Ho pagato il mio debito."
"Non eri in debito."
Invece sì; per quella prima volta di fronte a Cell. Diciotto voleva che lui sapesse che non aveva mai smesso di penare, da quella volta.
Voleva dirgli che non c'era nulla che non avrebbe fatto per lui.
"Sembra che tu stia imparando a gestire i tuoi campi di forza sempre meglio. Proiettarne uno su Verny,..."
"È stato uno dei rischi che ho corso."
Rischi...
Diciotto sentiva il cuore di Diciassette, forte come sempre. Come doveva essere.
"Ma cosa ti è passato per la testa? Buttarti così su Cell, non hai minimamente pensato…?"
"Dovevo fargli abbassare la guardia."
Diciassette sapeva che la sua forza non sorpassava ancora quella di Cell, ma che c'era un modo di uscirne vincitore: si era sorpreso del suo stesso modo di pensare, due anni prima non avrebbe mai speso tempo ad architettare strategie di combattimento.
"E se non avesse funzionato?"
"Ma ha funzionato."
Più che circuiti e fisiologia sovrumana, ciò che rendeva i gemelli delle macchine era la loro implacabilità: non importava quanti danni accusassero o per quanto a lungo la lotta durasse, Diciassette e Diciotto potevano andare avanti fino all’ultimo.
Alla fine non erano crollati per mancanza d’energia, ma per ferite gravissime.
Anche Sedici lo sapeva.
"Se il kachi katchin non ti avessero chiuso la ferita saresti morto. Sapevi di poterci contare?"
Durante la notte il dottor Brief aveva scannerizzato il cyborg maschio e aveva trovato minuscole schegge innestate nel suo sterno, come se fosse stato trafitto da una lama e la lama gli si fosse rotta dentro.
La sua guarigione da kachi katchin era stata così lenta, perchè il materiale non era stato direttamente integrato al suo reattore.
"Non ne avevo idea."
Diciassette si sbottonò la camicia e rimase a guardare: della sua orrenda ferita non era rimasto nulla, se non una lunga linea che scendeva fino ai suoi retti addominali, come tracciata a matita.
Il kachi katchin.
Diciotto l'aveva protetto e salvato, alla fine.
 
 
/
 
Nonno Ronan era atterrato a West City mentre Marron era ancora impegnata col suo riposino pomeridiano.
Diciotto guardava fuori dalla finestra del secondo piano, aspettando che sua figlia si svegliasse: Diciassette e Carly stavano in disparte sotto la pergola, Bulma guardava il suo orologio con fare apprensivo.
Kate era sparita dalla circolazione.
Il clima che si respirava quel pomeriggio era quello del sollievo di essere vivi, tutti parevano di buon umore.
Quella volta, Bulma ringraziò che Vegeta era partito ad allenarsi per qualche giorno nella stanza dello spirito e del tempo: non seppe mai né di Cell, né della battaglia, né dei vari Red Ribbon che gli scienziati Brief stavano ancora ospitando.
Diciotto osservò con sospetto Ronan e l'assistente di Bulma appartarsi in un gazebo sul retro del giardino.
Sarebbe andata volentieri a curiosare se il suo udito sopraffino non le avesse portato alle orecchie i lamenti ancora flebilissimi di Marron che si stava svegliando.
Andò a prendersela e se la cullò, baciandole la testolina.
"Mi dispiace, amore mio," Diciotto disse tristemente, nei suoi pensieri. "Domani è il tuo compleanno e non ti abbiamo preparato niente…"
Una festa nel giorno X. Qualcosa di normale alla portata di ogni cazzo di genitore, a cui ogni bambino ha diritto. Marron aveva il diritto ad una vita normale! Ma forse, prima avrebbe capito che sua madre e suo padre non erano normali, meno avrebbe sofferto.
O forse era ancora facile, per Diciotto, vedere tutto più nero.
"Mamam?"
Marron si raddrizzò contro il petto della mamma, carezzandole il viso con le sue goffe manine grasse; sembrava si stesse preoccupando del suo sguardo triste.
A volte Diciotto si chiedeva se, fra le due, la consolatrice fosse Marron. La sua bambina sentiva il suo dolore, e glielo curava.
"Credevo di non vederti più…"
La cyborg stette così, in piedi nel corridoio, a lasciarsi scaldare dall'amore. Quando fu ora di apparire in giardino, madre e figlia furono accolte da festoni e trombette, da una musica allegra.
Palloncini rosa gonfiati a tempo di record decoravano il giardino, conducevano i passi di Diciotto fino al gazebo in cui Ronan e l'assistente avevano combinato sotterfugi: su un tavolo apparecchiato di rosa una torta di compleanno, con tanto di candelina, aspettava l'ospite d'onore.
Era una festa. La festa per il primo compleanno di Marron.
Kate fece un occhiolino alla stupita Diciotto: la torta era stata un lavoro a quattro mani, grazie all'aiuto della signora Brief nessuno si sarebbe intossicato.
Tutti avevano seguito mamma e figlia nel gazebo: una trombetta si srotolò poco lontano dalla faccia di Diciotto, "Buon compleanno Marron!"
Solo Crilin poteva avere un braccio solo ed essere comunque così felice.
 
 
 La festeggiata non godette della presenza della sua intera famiglia, o di altri bambini che non fossero Trunks, ma Crilin e Diciotto pensarono subito che non era così importante: avrebbero rifatto un'altra festa alla Kame House, dopotutto erano specialisti del celebrare le occasioni importanti due volte.
"Se mia figlia avesse saputo, vedevi che festa ti organizzava."
La signora Brief era la ragione per cui Diciotto aveva mangiato con gran piacere la torta: meritava di sapere che quella piccola, semplice festa era perfetta così.
Era il giorno 30 di agosto, uno prima del tempo, ma nessuna occasione era più perfetta per celebrare Marron, la vita in generale.
Guardando sua figlia ridere, mangiare torta e strappare i pochi pacchetti, Diciotto pensava che non poteva chiedere di più.
Anche Kate stava finendo la sua fetta.
“Come si vede che non l’hai fatta te.”
Lapis pensò di rincarare la dose, sbucandole da dietro e facendole cadere il piatto di mano.
“L’ho...fatta anche io.”
Da suo figlio, Kate non ottenne altro che un sorrisetto: ma tutto a posto, quello era default.
Diciassette si sedette di fianco alla madre, guardando le sue mani totalmente prive di recenti cicatrici di guerra.
“Diciotto me l’ha detto; te che blasti Gero, è badass.”
Kate arrossì a quelle parole, “Grazie, tesoro. Ora dimmi cosa vuoi davvero.”
Lapis aveva troppo di meglio da fare che stare lì a lodarla, infatti il permesso sembrò sollevarlo.
A Diciassette era rimasta solo una minima percentuale dei suoi ricordi pre-conversione, sapeva di non poterci fare affidamento.
“Mà, da piccolo io portavo divise sportive?”
Glielo chiese a bruciapelo, prima che la rabbia per il furto dei suoi ricordi si riaccendesse.
Sarebbe stato totalmente irrilevante, ora più che mai.
Kate non se l’aspettava.
“Beh, sì…giocavi a calcio. Ho ancora il tuo completo blu.”
Blu. Che delusione.
Kate si rattristò nel capire che Lapis era turbato; desiderò essere nella sua testa per poterlo fare stare meglio.
Chiedere per chiedere, il cyborg volle sapere se il sentiero fra le rocce esistesse.
“Nel distretto di South City c’era un tratto di costa chiamato proprio Costa Giurassica, come la descrivi tu.”
Diciassette era diventato ansioso, "Che fine ha fatto?”
“L’hanno spianata per farci delle spiagge, divisa in terreni da vendere; questo quando avevo la tua età.”
Kate si strinse nelle spalle, non più afflitta per quella conclusione di quanto Diciassette non fosse.
Una bellezza naturale che non esisteva più: di bene in meglio.
Diciassette aveva voglia di mandare Kate a quel Paese, ma non per colpa di Kate.
“Mà, sei del Sud e non ci hai mai portati lì manco una volta: vergognati.”
Kate non lo lasciò finire, “Sapevo io cos’era meglio per te; ho le mie ragioni.”
Il suo tono lapidario dissipò tutti gli istinti provocatori.
Diciassette sospirò in maniera teatrale, incamminandosi verso un altro angolo di giardino. “Ritiro quel che ho detto, Signora Madama.”
Sempre così con lei, guai a parlarle del Sud.
 
 
 
Il pomeriggio volgeva al termine, ma le visite non erano ancora finite: la signora Brief accompagnò nel giardino interno un piccolo gruppo, tre uomini e una ragazza.
"Ehi fraté!"
Brent diede una pacca a Diciassette, John ed Elliott gli andarono incontro col sorriso.
E come un bolide Lillian li spintonò e saltò praticamente in braccio al top ranger, per la pura gioia di vederlo vivo e intero.
I suoi amici avevano viaggiato fino a West City per venire a trovarlo, per vedere se stesse bene: Diciassette non se lo sarebbe mai immaginato, quando Gero l'aveva riattivato.
"Quei due sono bravi ragazzi…"
Bulma sorseggiava champagne e ripensava ai racconti di Mirai Trunks. Un altro tempo, un’altra storia, altri Diciassette e Diciotto.
Ora che la battaglia di Verny era già passato, Brent aveva rammentato le vere cose importanti.
"Sev spiegami. È vero? Sei un cyborg?"
Diciassette annuì.
“Tu sei…” Elliott spostò lo sguardo da Sev a Carly. "Ma lei è…"
“E allora?” Carly stroncò quella conversazione.
“Il jet pack.” Brent sussurrò a Lillian.
“Cosa?” Si intromise anche Ronan.
Presto i più nuovi detentori della verità iniziarono a battibeccare, finché Diciotto non intimò di andarsi a cercare cyborg sul dizionario. "Non siamo qui per le F.A.Q."
“Anche Lazuli?”
Ronan si azzardò a chiedere a Kate.
"Immagina quello che suo marito ha passato," sussurrò Elliott a Brent, accennando a Crilin.
"Immagina quello che Carly ha passato."
I due amici risero come cretini.
Diciassette pure.
"Piantatela." Diciotto sibilò, invece. "Zulù…"
John ripensò al primo incontro con Diciassette, a tutte le valanghe che non erano cadute in due anni.
Anziché fargli dare di matto, la verità gli parve estremamente logica.
"Ora si spiega tutto.”
Diciassette alzò solo un angolo della sua bocca.
“E io che per scherzo lo chiamavo il Terminator…"
Elliott non ci credeva, mentre digitava quello scoop pazzesco alla MIR del suo cuore.
 
 
/
 
 
Prima che la liberazione fosse completa occorreva riparare i danni.
Crilin era anche sicuro di rivolere indietro il suo braccio, per cui l'intervento di Shenron era da chiedere ancora una volta.
Quella stessa sera Bulma accompagnò il suo amico ferito nell'ennesima ricerca delle sfere.
"Spero che Shenron non si stufi di me. Negli ultimi due anni l'ho visto quattro volte," ponderò Crilin.
Bulma radunò le sfere ai loro piedi, il cielo si annerì e il drago fece il suo maestoso ingresso.
"Shenron, per favore, ripara ogni danno a cose e persone occorso durante la battaglia di Verny,...Ma senza riportare indietro Cell e Gero."
Crilin sperò di aver scelto bene le sue parole.
"Il tuo desidero è stato esaudito."
Crilin sentì uno schiocco e un formicolio; quando l'abbaglio della dispersione di Shenron calò, potè di nuovo muovere dieci dita.
 
 
/
 
 
 
Settembre
 
 
Si era svegliata prestissimo, quando fuori era ancora buio e il ghiaccio non si era ancora sciolto; quello era il giorno del diploma, occorreva prendersi tutto il tempo persino nella vasca.
Diciassette era quello che non aveva bisogno di dormire, eppure Carly riusciva a batterlo sui tempi: quando si trattava di prepararsi riusciva a far passare Diciassette per lento.
E infatti egli era rimasto disteso a guardarla andare di qua e di là, impegnatissima con capelli, ombretto e rossetto che dovevano essere a dir poco perfetti.
"Anzichè far niente, o ti sistemi o vai a preparare la macchina."
Carly aveva ordinato, con qualche forcina in bocca e cipiglio da militare.
La mattinata era passata in un batter d'occhio, era quasi ora di andare quando Diciassette era riapparso in camera portandosi dietro una scia fredda.
"La macchina è pronta, c'era giusto da scrostare il parabrezza."
"Sei uscito a scrostarlo così?"
Lo specchio ridava a Carly il riflesso di Lapis ancora spettinato, con indosso solo i pantaloni del suo completo e la sua cravatta arancione.
Era quasi ora di andare e lui era ancora mezzo nudo.
"Lapis, la tua giacca?"
"Lavata e stirata mentre tu ronfavi."
"Io però sono già vestita."
Due anni addietro Carly aveva comprato un tailleur, l'aveva gelosamente custodito nell'armadio in vista della cerimonia della consegna dei diplomi.
Quando aveva comprato quel tailleur, il giorno in cui si sarebbe riunita a Lapis non era nemmeno più un sogno.
Mai Carly avrebbe pensato che alla fine avrebbe indossato un wrap dress, perché sarebbe stata incinta di Lapis.
Era qualcosa che la faceva sentire completa; sorrideva radiosa davanti a quella prova schiacciante dell'amore che il ragazzo più bello del mondo le riservava, mentre faceva girare la gonna davanti allo specchio.
Forse era la maternità, e non la sua tenuta fine, a farla sentire così felice di essere se stessa.
Diciassette si avviò a prendere la camicia dall'armadio, ma finì per soffermarsi su Carly: voleva riempirsene gli occhi.
Proprio come si erano immaginati dieci anni prima, Carly stava portando in giro quella pancia con orgoglio e bellezza.
Se per Diciassette lei era sempre stupenda, ora era uno spettacolo.
Era tanto orgoglioso di lei, la sua secchiona d'eccellenza, colei a cui aveva dato del seme e che lo stava ricambiando con un'intera primavera.
L'amore della sua vita, finché avrebbe vissuto.
Le mancavano solo le scarpe: Carly aveva rifiutato delle ballerine, si sarebbe messa i tacchi che aveva comprato a costo di camminare come un T-Rex.
"Ma vedi dove vai?"
"No!" Carly fece un passo incerto verso di lui, "Come sto?"
"Fuori misura."
Lapis non le stava mica guardando l'outfit.
Carly si sistemò la scollatura, "E me ne vanto."
Tutto andava a meraviglia, Carly si sentiva incredibilmente carica e il ferro le era persino risalito.
Non fece in tempo a cadere da quei tacchi, Lapis la sorprese con un abbraccio, le baciò il collo, le strinse la vita.
In pubblico si limitavano a tenersi per mano e Carly si sedeva su Lapis, ma in privato era tutto diverso: la gente non aveva idea di quando Lapis potesse essere affettuoso in privato.
Restarono davanti allo specchio, era bello guardarsi mentre si coccolavano.
Stavano bene insieme; presto sarebbero stati ancora meglio.
Poi Carly spinse via Diciassette, gli diede la sua spazzola.
"Ora preparati, ruffiano; papà è appena atterrato e noi siamo in ritardo!"
 
 
 
 
 
Final-Art-RGB  
 
 
 
 
Pensieri dell'autrice:
 
 
E vissero tutti felici e contenti!
Non so quale sia stata la parte che ho amato di più scrivere (forse voi ne avete una che avete preferito leggere!) in questo capitolo conclusivo dell'Ansia Arc, privo di ansia e con la spiegazione di come mai Diciassette è sopravvissuto alle sue ferite.
Alla fine il legame fra lui e Diciotto è il mio leitmotiv preferito.
 
Alla settimana prossima, in cui vedremo momenti mamma-figlia e padre-figlio.
Vi ho lasciato anche una sorpresa: Carly e Diciassette nel giorno della laurea🙂 dipinti da quella che é diventata la mia artista di fiducia, Syadworld (andatevela a vedere su internet!). E cosí loro due non vogliono sapere se é maschio o femmina, accetto ancora scommesse!
 

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Capitolo 47
*** L'Asilo, Top Ranger e Hot Wheels ***


47. L’Asilo, Top Ranger e Hot Wheels
 
 
 
 
 
 Settembre era arrivato anche nel Sud-Est.
Diciotto era stata così preoccupata di non poter dare a Marron un compleanno normale, il suo primo per giunta.
Invece Marron aveva finito per essere viziata e coccolata ben due volte: la signorinella aveva affondato faccia e mani in un altro dolce e in altri regali, non appena era tornata alla Kame House con mamma e papà.
Diciotto non aveva mai apprezzato fino in fondo i suoi coinquilini, che la irritavano con la loro presenza sola.
Ora, però, capiva che erano parte della sua famiglia: volevano bene a Marron, erano stati presenti nella sua vita fin dal primo giorno.
 Ora un appuntamento importante aspettava Marron: aveva compiuto un anno e il primo giorno di nido era alle porte.
Crilin l'aveva iscritta all’Orizzonte Luminoso di Satan City un mese prima che nascesse: ormai nelle grandi, popolose città si faceva così, sul formulario da riempire si arrivava a chiedere la data del termine.
Uno zainetto con una tartaruga di gomma in rilievo, un cappottino e delle scarpine nuove erano apparsi vicino all’appendiabiti all’inizio del mese; incutevano una certa ansia, una certa fretta, ma Diciotto non aveva ancora parlato a nessuno di quanto volesse stare con sua figlia per tutto il tempo che poteva.
 Anche se la cyborg aveva un enorme vantaggio in termini di tempo ed energie, a volte le capitava di sentirsi ancora frustrata da quanto la cura di Marron la stancasse. Quelle volte Diciotto pensava che i suoi gesti diventassero meccanici, un po' asciutti: anche Marron doveva sentirsi frustrata, Diciotto non riusciva a biasimare la sua irritabilità.
Altre mamme dicevano che era normale.
"A volte, nei momenti di sconforto, rimpiangevo addirittura che voi due foste nati," le aveva confessato Kate.
Kate, la quasi perfetta.
Averlo saputo da lei aveva incoraggiato Diciotto ad accettare i suoi umori bassi.
In quel periodo si sentiva non solo felice di essere lì per sua figlia, ma anche sollevata: aveva interiorizzato che le sue debolezze non la rendevano una cattiva madre, e che non avrebbe più potuto immaginare una vita senza Marron.
Diciotto usò ogni secondo di quei giorni pre-asilo per sentirsi fortunata ad avere sua figlia con sé.
Ogni gesto semplice, prepararle i pasti, legarle i capelli, aveva assunto un po' di magia. Niente era scontato.
"Vuoi che le dia io la pappa?" Chiaotzu chiedeva, stupito di non percepire tensione nell'aria nemmeno quando Marron ci metteva un'ora a mangiare.
In quell'ora Diciotto non pensava alla sua noia, alle lancette che quasi non si muovevano: usava quel tempo per osservare il modo in cui Marron preferiva venire imboccata, per rendersi conto della bellezza del sole sui capelli già luminosi che lei le aveva dato.
Il nasino sembrava ancora quasi assente, ma era così carino quando Marron alzava il mento.
Quelli erano tutti dettagli preziosi che la frustrazione quotidiana (e normale) le aveva quasi nascosto.
Fu nel fine settimana prima del giorno fatidico che madre e figlia fecero una sorta di pace: la mamma divenne più rilassata e sorridente, la bimba ne risentì subito e seguì a ruota.
 
 
 
 L'asilo non aveva niente di speciale, visto da fuori. Era un edificio moderno e noioso, rallegrato solo da altra gente come loro tre: famiglie che accompagnavano bambini piccoli attraverso la porta, alcuni non camminavano nemmeno.
Diciotto continuava a ripetersi che non era così difficile: aveva ucciso il suo nemico mortale, diamine, lasciare Marron al nido era una cosa da niente!
Crilin guardava la loro bambina camminare al suo ritmo, dando una mano a lui e una alla sua mamma.
“Immagino che tu sia eccitata e anche nervosa, Marron.”
Come poteva Crilin essere così gioviale?
L'asilo era stata un'idea nata per sollevare Diciotto dall’incarico di mamma a tempo pieno, quando la maternità era ancora una cosa teorica...e adesso a Diciotto sembrava uno spreco di soldi.
L’aula in cui Marron avrebbe passato tre giorni alla settimana per i prossimi mesi sembrava accogliente, sicura, pensata per il suo benessere: eppure la madre voleva sentirsi insostituibile, il suo umore la rendeva inconsciamente cieca all’eccitazione della figlia.
Una maestra, una ragazza forse più giovane di Diciotto, accoglieva i genitori e mostrava ai bambini dove riporre scarpe e zainetto.
Gli occhi di Crilin si colmarono di orgoglio e nostalgia, nel vedere il nome di Marron stampato su un armadietto: sarebbe stato il suo primo spazio totalmente per sé.
"Marron della Tartaruga!"
La maestra era amichevole, esperta conquistatrice di piccoli.
“Conoscerai nuovi amici oggi?”
Marron non parlava, ma il suo sorriso era una risposta inequivocabile.
Diciotto rabbrividì a sentirla chiamare per nome e cognome. Il cognome era stata una scelta su cui lei e Crilin avevano riflettuto a lungo. Il giorno in cui l'avevano registrata all'anagrafe di Satan City, avevano optato per darle quella specie di cognome con cui Crilin si identificava.
Diciotto aveva fatto di tutto affinché il suo cognome, Lang, restasse fuori dai giochi. Le faceva già abbastanza strano usarlo per sé.
“Hai dato un abbraccio?”
La maestrina sapeva che il primo giorno di nido poteva essere molto più duro per i genitori che per i bambini.
Diciotto voleva stringere la sua Marron più forte che poteva, dimenticarsi che stringere forte non le era permesso. Sentì un pezzo di cuore allontanarsi da lei, man mano che Marron passava oltre gli arrivederci tristi ed iniziava ad esplorare quel nuovo territorio.
 
 
 Da quel primo giorno era passata solo una settimana, eppure era sempre triste e dura lasciare lì Marron.
Quando il momento di separarsi arrivava, Diciotto pensava sempre "ancora un po' ", non voleva che le sue braccia la lasciassero andare.
Non sapeva se sarebbe stato così, senza Gero e Cell.
Crilin era impegnato coi suoi allenamenti, spesso l’incombenza di portare Marron all’Orizzonte Luminoso ricadeva su Diciotto.
Una mattina la cyborg non era riuscita a tornare alla Kame House: aveva accompagnato la bambina dentro e si era seduta fuori dall’edificio, aspettando le 16.
Diciotto non si era neanche accorta di stare guardando in basso, fin quando una voce non estranea non l’aveva obbligata a cambiare posizione.
“Non ci credo! Sei tu!”
Diciotto riconobbe immediatamente gli occhi e capelli azzurri, l’aria allegra.
Ricordava perfettamente anche il suo nome, ma era più soddisfacente fingere disattenzione e mandarla via.
“Scusami, non ti conosco.”
Marion indicò la fede al dito di Diciotto e il suo sorriso divenne ancora più ampio.
“Io invece mi ricordo, sei la moglie di Crilin. Che ci fai qui?”
Diciotto alzò un sopracciglio, avrebbe potuto porle la stessa domanda.
La ex era tenace, “Ohhhh! Avete un topottolo o una topottola adesso?”
Come si faceva ad essere così entusiasti per il figlio di qualcun altro?
“Io ho appena portato la mia, cavoli...a volte penso di non farcela.”
Marion si sedette sullo stesso muretto dove sedeva Diciotto, in un lampo il sorriso era sparito.
“Lo so. Passerà, un giorno.”
La modella non parlava mai molto, ma quelle poche parole fecero intendere a Marion che forse erano sulla stessa barca.
“La mia topottolina è così cara, dovresti vedere come guarda me o Chet ogni volta che la lasciamo. Mi spezza il cuore."
 Si sistemò la corta gonna, cercò di non piangere.
Diciotto fece spallucce.
“Alla mia piace l'asilo.”
“Ti viene difficile lasciarla, vero?”
“...Forse.”
Per tutta la durata di quella conversazione, Diciotto aveva tenuto lo sguardo dritto davanti a sé, inconsciamente rifiutando il dolore che l'accomunava all'ex di suo marito. Rifiutando anche conforto.
Marion scattò in piedi, nascondendo di nuovo tutto dietro ad un sorriso abbagliante.
"Se non hai da fare, ti va un caffè? Così non ci pensiamo più."
Un caffè con una stupida ex, o con un'altra mamma in pena?
Era un buon dilemma.
Diciotto le diede solo un accenno di sorriso, "Non so. Magari un'altra volta."
Marion accettò quell'eventualità e continuò la sua giornata; Diciotto rimase di nuovo sola fuori dal nido.
Ex o non ex, le aveva dato un po' di speranza.
Il dolore, anche quello insensato di non sapersi separare bene dalla propria figlia non era un fardello da portare tutta sola: al mondo c'era sempre qualcuno con cui condividere esperienze.
E per fortuna o purtroppo, quella Marion la capiva perfettamente.
 
 
 
/
 
Col desiderio di Crilin tralicci e tetti abbattuti si erano rieretti, la sabbia si era ritirata dal circondario di Verny e si era compattata in una massa sempre più spessa e alta: il monte Severny era riapparso al suo posto nella valle, gli era pure ricresciuta la neve in vetta.
Nessuno poteva spiegarsi quell'evento, né il ritorno delle vittime, ma il governatore del Nord aveva indetto una cerimonia per tutti: civili, ranger, militari.
Chiunque poteva assistere a ciò che la stazione radio Antenna Verny aveva anticipato due anni prima, la consegna di una medaglia a John Dubochet.
Gli occhi del capo ranger si erano arrossati, sia per la medaglia che per la consapevolezza che qualcun altro avrebbe ricevuto lo stesso premio: un guardiaparco eccezionale che aveva comprato tempo prezioso e fatto ritorno nel bel mezzo dell’incendio peggiore della storia del Nord, per salvare dei campeggiatori invisibili. Qualcuno che aveva sfidato Madre Natura.
Non tutti i presenti in quella sala conoscevano la cronologia dei fatti, tanto meno la loro causa, ma tutti si immaginavano di chi il governatore parlasse. Era ovvio, non poteva essere altrimenti.
Lillian era seduta proprio di fianco a lui, pronta ad applaudirlo non appena fosse andato sul palco per farsi decorare. Se lo meritava, in fin dei conti.
Lillian non ascoltò il governatore chiamarlo, volle distrarsi.
Tuttavia, il governatore aveva chiamato un altro nome e poi aveva smesso di parlare, come se attendesse una persona che non si era palesata.
Brent fu il primo ad incoraggiarla, ma Lillian ancora non ascoltava.
Cercava di capire come mai Diciassette fosse ancora lì, anche lui la stava guardando.
“È Lillian…”
I campeggiatori salvati da lei con l’aiuto di Fabien, Fabien stesso e tutti gli altri ranger la guardavano.
“Lillian Ingrid Dahl?” chiamò ancora il governatore.
La top ranger si guardava intorno con aria stranita; il brusio crescente di un’intera sala la spronava ad alzarsi.
“È la mia ragazza!”
L’orgogliosissimo vichingo si alzò e diede il via ad uno scroscio di applausi.
"Ma chi io?"
Lillian non riusciva a crederci.
“Sì, tu, scema.”
L’ex top ranger le strizzò un occhio: se entro tre secondi non avesse alzato quel culo secco dalla sedia, a prendere la sua medaglia ci sarebbe andato lui.
Lillian corse sul palco, spinta dagli applausi di tutti e dai fischi del suo ragazzo.
Era un sentimento quasi surreale.
“Per il tuo straordinario valore, ed eccezionali servigi alla comunità.” Il governatore le passò la medaglia intorno al collo.
Inchinandosi sotto quel piccolo grande peso, Lillian incontrò lo sguardo consapevole di John.
Avrebbe voluto fare un discorso, invece poteva solo ridere e piangere insieme. Il suo viso giovane, grazioso ed arrossato dalle lacrime di gioia trasmetteva incredibile serenità.
Lillian aveva guardato quella platea ormai sua, aveva visto l’ammirazione dei suoi colleghi e dei civili che erano venuti lì per lei; aveva visto la sua amica del cuore applaudirla; aveva visto un vero sorriso, non un sorrisetto, sul viso della sua nemesi.
Non c’era traccia di provocazione nel suo sorriso. Fu l’unica volta, in quella linea temporale, in cui Diciassette vide Lillian piangere.
Per lei, il riconoscimento di Diciassette contava forse più di ogni premio.
E infine Lillian aveva visto sua madre; sua madre che non applaudiva, ma che la guardava come solo una madre fiera e grata può guardare.
I campeggiatori raccontarono di come Lillian fosse andata a prenderli e avesse insistito per fare quello che aveva fatto, ma Lillian non udiva altro che il suo cuore inzuppato di gioia.
Il giorno dopo, il nome e la foto della top ranger erano su tutti i media.
 
 
 
/
 
 
"Ta-da!"
In quella videochiamata, Carly fu lieta di mostrare ad Anna il suo diploma già incorniciato.
"Era questa la novità? Congratulazioni!"
Anna cercava di essere briosa, Carly lo meritava, ma c'era qualcosa che doveva dirle.
"Ho notizie di Robin."
Il tono di Anna mise Carly sul chi va là; era la prima volta che la contattava per parlarle di lui, nemmeno con la varicella l’educatrice era stata cosi’ tesa.
"È stato a trovare sua madre."
La madre di Robbie viveva in un centro di disintossicazione. Anna era stata autorizzata a farle vedere il bambino, in occasione del suo quinto compleanno.
"Sono stata lì tutto il tempo, la madre...non sta rispondendo bene ai trattamenti. Se non vivesse lì, assumerebbe ancora sostanze."
Per Robbie, la prospettiva di tornare ad avere una famiglia era sempre più lontana.
Carly non sapeva cosa dire.
Aveva pensato peste e corna su sua madre da quando se n'era andata, non aveva nemmeno voluto che sapesse che aveva messo su famiglia e che si era laureata.
Ma forse una madre drogata che non aveva veramente intenzione di cambiare era peggio di una assente.
"Sembrava che vedere Robbie fosse un obbligo per lei; era il suo compleanno, non gli ha manco fatto un pensierino. Lui ci è rimasto così male che non ne ha parlato con nessuno."
Diciassette non aveva partecipato alla discussione, ma aveva ascoltato tutto.
E quando mostrò il cellulare a Carly, Carly richiamò Anna.
"Una sorpresa? Non dovevate, grazie."
"È stata un'idea di Diciassette…"
Carly era rimasta quasi basita dal fatto che quel gesto gli fosse venuto spontaneo.
Il piano era ricevere Anna e Robbie a casa per una consegna speciale: Anna credeva che la policy della casa-famiglia lo permettesse, ma era necessario discuterne con la direttrice.
L’indomani Carly e Diciassette giunsero alla casa-famiglia, stupendo tutti con la novità che non avevano affidato a Skype.
"Ma...che meraviglia!"
Anna si trattenne dal fare una carezza a Carly. "Quindi quando siamo venuti a trovarti a maggio…?"
"Eh sì."
I bambini erano ancora più meravigliati. Vociavano, osservavano la signorina con stupore e sgomento, si erano raccolti intorno a lei manco avesse aperto un pacchetto di caramelle.
"Guarda quanto ha mangiato!"
"Come mai mangi così tanto?"
Teresa li invitò all'ordine e svelò l'arcano.
"La signorina è così perchè aspetta un bebè."
Robbie era esterrefatto: poteva una creatura così eterea come Carly fare bambini, come le altre grandi?
“A volte fa tipo pesciolino.” Carly carezzò i boccoli di Robbie, gli prese la manina. “Vuoi sentire?”
Robbie e altri bambini sentirono e videro qualcosa muoversi dentro Carly, sotto le loro mani.
E allora Carly fu investita da una raffica di domande.
“È un bebè pesce o un bebè umano?”
“Esploderai?”
“Ti esce dalla bocca?”
“Posso vedere il bambino ogni giorno quando sarà qui?”
"Come ci è arrivato un bambino nella pancia?"
La signorina rispose a tutte, tranne che a quell'ultima.
 
 
Anna aveva detto alla direttrice della casa famiglia che valeva la pena parlare con Carly e Diciassette. La coppia aveva acconsentito a incontrare quella donna dall'aria sicura e capace che li fece accomodare su due poltrone.
"Niente paura, non è un’interrogazione a sorpresa.”
Vista l'età di quei due, quell'analogia era ancora pertinente.
"Per ovvi motivi, quello che faccio sempre è incontrare chi entra nella cerchia dei miei ragazzini."
"Naturalmente," sorrise Carly, più aperta al dialogo possibile.
"Conoscete Robin perché siete amici di Anna?"
Carly raccontò del loro primo incontro, a Viey.
La direttrice parve intenerita. "Aspirate ad avere Robin in affido, un giorno?"
"No," tagliò subito corto Diciassette.
Carly avrebbe tanto voluto dire di sì.
"Non per ora. Volevamo solo chiedere il suo permesso per consegnargli...."
"Sì, Anna me ne ha parlato: se vi va di fare piacere a Robin, fate pure."
La direttrice non aveva problemi con estranei che visitavano i suoi ragazzini, anche se non erano educatori, animatori o insegnanti; bastava fossero a posto.
Nemmeno quella volta fece eccezione: rimase ad osservare quella coppia per tutto il tempo in cui restarono alla casa-famiglia, non perdendosi nessuno dei loro gesti, nessuna occhiata speranzosa e piena di affetto che Robin riservava loro.
 
Pochi giorni dopo, Diciassette aveva preso un giorno libero solo per poter essere presente alla fatidica consegna.
"Hai idea di quanti zeni ho pagato 'sta roba? Quella faccia di bicchiere non ha avuto niente da ridire, meglio per lei."
Lapis era pazzesco, ne aveva per tutti. Carly non sapeva da dove gli uscissero, ci azzeccava pure.
"Una faccia così bislunga e cascante, non ti fa pensare a un bicchiere?"
"È vero." Carly non poté non ridere. "Chissà cosa pensa la direttrice dei tuoi denti."
"...Colpo basso."
Diciassette ebbe tempo solo per una mezza faccia scura: il campanello suonò puntuale.
Il pacco su cui Pencil passeggiava era più grosso di Robbie; il bambino entrò timidamente in cucina e lo scartò piano.
"È per me..."
"Regalo di Carly e Diciassette," lo rassicurò Anna.
Man mano che una mega pista/garage emergeva dalla carta regalo, il respiro di Robbie era sempre più corto.
"Hot Wheels?"
Robbie emise un lungo lamento da cucciolo, pianse: ciò che stava provando sommergeva totalmente il suo cuoricino. "Davvero è per me?"
Non era vero che i grandi erano tutti dei traditori: Robbie poté infine lanciarsi fra le braccia dei due grandi che preferiva al mondo.
 
 
Diciassette montò la pista in fretta e Robbie si affannò a prenotarsi del tempo con lui.
"Vuoi giocare con le Hot Wheels con me?"
"Stai scherzando?”
Il cyborg non seppe resistere alle Hot Wheels, né a quella bella pista piena di ascensori a molla, leve, tornanti di plastica arancione.
Robbie gli mise una macchinina sotto il naso, "Che cos'è questa?"
Diciassette non aveva bisogno di leggere il nome. "1969 Camaro."
"Non è una Panda?"
"Non bestemmiare."
"Mia mamma aveva la Panda."
"Ugh..."
Anna e Carly li avevano guardati giocare insieme con sorpresa e anche piacere, prima di lasciare loro la cucina.
"Stai facendo pratica per quando arriva il vostro?"
"Avete bisogno di qualcosa?"
Diciassette non prestò loro attenzione, intento com'era a decorare il garage con gli appositi adesivi. Anche Robbie era troppo impegnato per attaccarsi alle gonne della signorina.
Tutto andò bene fin quando non arrivò l'ora della merenda.
"Sfamami!"
Carly se l'era già svignata, toccava a Diciassette gestire quel folletto che gli tirava i jeans con insistenza.
"Sfama il bambino!"
Cos'altro c'era da fare?
Poco dopo, una quantità di toast al formaggio che poco c'entrava con il concetto di merenda uscì dal forno, per la gioia di entrambi i maschi: le ragazze non dovevano aspettarsi che Diciassette desse a Robbie biscottini biologici o crudités.
Il bambino imitò il ragazzo e addentò un toast, "Mmm, cos'è?"
"Si chiama mangia e taci."
"Mangia e taci,.." Bofonchiò Robbie, meditando su quella specialità particolare.
"Non parlare a bocca piena, animale."
"Diciassette?"
"Che c'è?"
"Perchè parli a bocca piena?"
Ecco come mai Carly e il nano malefico si intendevano così bene, entrambi mettevano i puntini sulle i.
Nemmeno con la merenda Diciassette riuscì a farlo smettere di poncionarlo: poco dopo, Robbie prese a lamentarsi e a saltellare con urgenza.
"Devo andare!"
Il cyborg udì Carly e Anna filarsela da dietro la porta, sghignazzare di lui. Da non crederci.
Robbie aveva voluto che Diciassette stesse a guardia della porta.
Quando tutto fu fatto, il padrone di casa fu lieto di vedere che il bagno non era tutto spisciazzato.
"Tira l'acqua e lavati le mani."
"Sì signore!"
Il bambino aspettò che Diciassette lo seguisse.
"Ritorniamo a giocare?"
"No, ora tocca a me."
Robbie lo guardò slacciarsi la cintura. "Posso stare qui e vedere?"
La porta gli si chiuse gentilmente sul naso.
 
 
 
Robbie aveva l'attenzione di Diciassette già da un'ora. Incredibile.
"Meno male che non è sera, con tutto questo marasma chi lo farebbe dormire?"
Anna si allarmò davanti al numero di lattine e bottiglie vuote che i maschi avevano impilato in una specie di piramide.
Robbie ci aveva puntato contro un pezzo di pista, quando lanciò una macchinina e le lattine crollarono una dopo l'altra esultò.
"Hai visto che roba? Voglio buttare giù tutto!"
Era così felice, voleva che Diciassette lo guardasse essere contento.
"Hai scoperto l'acqua calda."
"Acqua calda?"
"Che distruggere roba è figo."
Robbie guardò da sotto gli occhi brillanti di Diciassette e le sue narici lunghe e strette: era riuscito a sederglisi in braccio per ben dieci secondi, prima di farsi rimuovere.
"Perchè non posso stare vicino a te?"
"Perchè no."
"Ma stai per avere un bebè, no? E quando il bebè vuole starti vicino?"
Ancora coi puntini sulle i; sembrava che Robbie si stesse impegnando per metterlo a disagio.
Diciassette aprì una lattina e la trangugiò in un colpo, come aveva fatto con tutte le altre.
Robbie lo trovò interessante.
"Ohhhhhhhh! Come fai?"
Ma per Diciassette il discorso serio non era chiuso.
"Una cosa alla volta. Il bebè è mio, quando vorrà stare con me ci starà e basta."
Ormai Robbie non riusciva più a restare tanto tempo in braccio a Carly, il bebè di Diciassette lo spingeva via.
"Perchè io non posso stare con te?"
Perchè, perché, perché.
Diciassette dovette controllarsi un attimo.
"Robin. Sei qui con me."
Carly e Anna spiavano da dietro la porta, col fiato sospeso.
Robbie si sentiva quasi deluso e di nuovo in soggezione, ma non osava mostrarlo a Diciassette; quel momento tutto suo con il ragazzo dagli occhi azzurri era stato autentico e reale, Robbie se lo sarebbe sempre ricordato.
In un mondo ideale, Carly e Diciassette avrebbero potuto essere la sua opportunità, quanto gli sarebbe piaciuto...
Ormai Robbie si stava innamorando anche di Diciassette, che però non era la signorina: era un vero grande e diceva i no, metteva i paletti, Robbie non doveva dimenticarsene.
Robbie non poteva permettersi di stare in braccio a Diciassette e farsi calmare dal battito del suo cuore, perché non era suo.
Quello era un pensiero pesante da formulare nella sua testolina e il bambino non l'aveva messo a parole, ma il non detto era stato colto.
Quando poco prima Diciassette l'aveva carezzato frettolosamente, Robbie aveva persino avuto l'impulso di chiamarlo...quella parola con la P che gli era tristemente estranea.
Il cyborg si accorse della delusione.
"Non...offenderti."
Disse, impacciato, senza guardare Robbie; svuotò un'altra lattina.
Offendersi? A cinque anni non era più un moccicone!
"No no! Ora mi dici come fai?"
"Ti insegno."
"Davvero?"
Alla fine Robbie si stava quasi dimenticando dell coccola a cui il ragazzo non si sentiva ancora pronto: imparare qualcosa da lui, ancora meglio.
L'ammirazione che quel nano gli riservava per una cosa così stupida restituì il sorriso anche a Diciassette.
"Sì, davvero. Vai a prendere un bicchiere."
"Ci sono altre cose che sai fare?"
"Tu non ne hai idea."
A Robbie, Diciassette dava l'idea di poter fare un sacco di roba da film: inseguimenti con le macchine, spaccare assi di legno con un pugno,...
Robbie andava farneticando di come avrebbe adorato apprendere da lui tante cose da maschiaccio.
"Fra tutti proprio da me?"
"Loro dicono che tu sei un maschiaccio."
L'indice di Robbie rivelò che le donne stavano ancora spiando: Diciassette ricambiò i loro sguardi con un gesto e un sospiro di sollievo, a segnalare la catastrofe-pianto appena sventata.
 
 
 
 
 
 
 
Pensieri dell'autrice:
 
Mi ero dimenticata che il mio primo EFPcompleanno è appena passato: già, il 26 febbraio la mia storia, e la mia permanenza qui come autrice hanno compiuto un anno.
Ho dovuto fare molte pause durante la stesura di questa long, ed è probabile che ne farò altre prima di concluderla. Volevo dire a chiunque mi legge, e agli amici che mi recensiscono, che non avrei mai immaginato che EFP sarebbe stata un’esperienza così ricca, che mi avrebbe dato il coraggio di mettere da parte la timidezza e tentare il mio sogno nel cassetto, diventare una scrittrice (ci sono più vicina di quanto non sia mai stata).
EFP mi ha soprattutto dato degli amici che io considero veri, a tutti gli effetti anche se non ci siamo ancora incontrati.
Questa è stata una sorpresa ancora più grande dell’attenzione che la mia storia ha ricevuto e sta ancora ricevendo.
Se qualcun altro di voi lettori vuole palesarsi a me, fatelo pure, sarò felice di “conoscervi”.
Fine della comunicazione di servizio :)
 
Per il capitolo…No, non mi sono ispirata al mio nano malefico e alla sua ossessione per tutto ciò che si muove con un motore (è fissato particolarmente con le auto. Mi commuovo, mio figlio e 17 hanno qualcosa in comune :')  ).
Abbiamo anche visto Marion che torna! Nessuno se l’aspettava neh? E Lillian che si prende la medaglia al valore, parliamone? Senza essere sessista o robe varie, io dico che quella donna ha cinque palle e che se la merita tutta.
Nel prossimo capitolo ne succedono delle belle: si viaggia a Sud, ci sarà anche un mostro.
"Monster Island SOS", alla settimana prossima 👋👋
 

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Capitolo 48
*** Monster Island SOS ***


 
 
 
48. Monster Island SOS
 
 
 
 
 
 
Halloween s'aveva da fare, solo non da Lillian.
“Va beh che il tuo chalet è enorme, ma anche tu sei enorme: dove la trovi la voglia di ospitare una festa?”
“Non so, Lillian. Istinto del nido.”
Travestita da fantasma, Carly era intenta a portare pietanze da festa nel salone allestito.
“Che ci fa lei qui?”
La festa non sarebbe cominciata per un’altra ora: Diciassette guardò storto Lillian che appendeva ragnatele finte, finì di legarsi sulla fronte una fascia di stoffa.
“Calmati un po’, sono venuta ad aiutare Carly.”
Diciassette gironzolò intorno al tavolo imbandito, ma fece finta di niente quando il nuovo passo da papera di Carly ne preannunciò l’arrivo.
“Non toccare niente,” lo avvertì lei, che non era nata ieri.
Alle 21 gli ospiti erano arrivati e la festa era ben cominciata.
“Perché mi fai questo? Il Malibu…”
Lillian si era vestita dal liquore al cocco con cui si era sbronzato due Halloween prima: Brent ci era rimasto male.
“Ti aspettavi tipo una porno infermiera?”
Brent evocò l’immagine dello stacco di coscia della sua adorata.
“A dirla tutta? Sì.”
“Sai da cosa dovevo vestirmi, invece?” urlò Lillian sopra la musica, maliziosa.
“Da me! Da TOP RANGER.”
Diciassette, che passava di lì, sbuffò per compatirla.
“Suca, Sev! Suca!”
Lillian ballicchiò e gli fece ciondolare la medaglia del governatore davanti al naso.
“Stai dando spettacolo perché sono io?”
“Ovvio.”
Elliott fu l’ultimo ad arrivare e arrivò in compagnia.
“Ribenvenuta al Nord!”
Brent, vestito da antico patriarca/santone, brindò in onore della capo MIR.
“Sei una cheerleader, Def? E...tu cosa sei, fra?”
Quella coppia somigliante all’articolo il sembrava appena uscita da una partita. Venivano, in effetti, dallo stadio di North City.
“Abbiamo messo alla prova il nostro amore,” ammiccò Defiance, circondando il bortolone con le sue lunghe braccia.
“...Con una partita di basket.”
Nel continente meridionale tutti impazzivano per il rugby e la pallacanestro, proprio quella sera la principale squadra di basket di South City aveva giocato contro quella della capitale del Nord.
Defiance strinse il pugno, la passione le fluiva dagli occhi alle labbra.
“North City Yetis VS South City Dragons.”
Quella breve conversazione innocente era giunta fino alle orecchie del padrone di casa, facendogli salire il cuore in gola.
“Cos’é Dragons?”
Elliott fu lieto di vederlo.
“Ah, Diciassette. Finalmente posso presentarti alla mia Defiance.”
Ella restò per un momento ipnotizzata a guardarlo.
“Il famoso terminator?”
Elliott le aveva detto le ultime? Diciassette lo guardò male.
“Sapessi come ti ho chiamato io...”
Defiance faticava ancora a credere che quel ragazzo normale, vestito da ninja, fosse un vero cyborg.
Ma alla fine lei lavorava alla divisione MI: la maggior parte della gente non credeva ai dinosauri eppure c’erano, per davvero…
Essere al suo cospetto la intrigava, le veniva da interagire con lui, ma più di ogni altra cosa Defiance era impressionata dai suoi occhi: sembravano identici a quelli inconfondibili delle foto, ma non era nei vecchi album di Rikki che Defiance aveva già incrociato il volto del terminator.
Pensò, ripensò.
Diciassette vide la ragazza di Elliott sconvolgersi e avvicinare a lui il suo dito.
"Tu...con la tua Lambo maledetta!"
Giugno. Parcheggio a North City.
Anche Diciassette si ricordò di lei.
“Sei tu che m'hai fatto prendere la multa?”
 
 Brent si era davvero offeso per il costume.
“E qua con te ci finisco ancora io.”
Il ninja si appoggiò al muro di fronte alla bottiglia di Malibu.
“Che disagio, Sev.” Lillian distolse lo sguardo. Troppi ricordi.
"Scusa, ma puoi girare al largo e non parlarmi stasera?"
Diciassette capì fin troppo bene.
Quando Lillian passò le toccò una chiappa con la punta delle scarpe, godendo dell'espressione oltraggiata che ricevette. “Già, che disagio.”
“Che disagio…”
Si lamentava anche Carly, sentendosi pesante e scomoda.
Bronwyn le impilava piatti e bottiglie sul pancione, si adirò quando la sua costruzione cadde.
"Riesci a star ferma?"
"Non sono stata io."
Carly si difese con un sorrisetto segreto.
"Io non ho ancora una pancia così. Ehi, guarda che differenza io e Carly."
Si beò Bronwyn, un po' acida, quando Lillian si sedette con loro.
Carly era cinque mesi più avanti di lei.
Lillian aveva la luna storta, i suoi occhi neri brillavano.
"Sai chi non guarda, Bronwyn? Joel, perché ti ha piantata."
Lillian si beccò uno sguardo alla Sev da Carly. Solo allora corse dietro a quella gallinaccia, per scusarsi.
Nel frattempo, Elliott aveva radunato tutti i presenti attorno alla sua ragazza, doveva mostrare il suo superpotere.
“Def! Def! Def!”
Defiance si sentiva onorata a rifare il suo trucco della pinta in mezzo a quei cori da stadio.
“Tre secondi, gente!" Elliott l'applaudì.
Defiance posò il bicchiere, inalò e tossì educatamente.
Il rossetto non aveva una sbavatura, la sua era arte.
Ci provarono a sfidarla: Leni fu troppo lenta, Brent segnò i tre secondi ma un terzo della pinta gli finì nella barba.
Altri e altre si innaffiarono tutti, sputacchiarono, fallirono. Altroché farlo come lei…
Alla sconfitta tribù nordica non rimaneva che un ultimo vendicatore.
Defiance batté le mani, smaniosa.
“Fatti sotto, terminator!”
Sul serio questa voleva andare da lui ad atteggiarsi? Contenta lei...
"Stracciala fraté!"
Brent doveva difendere il suo onore.
“Facile. Due secondi, due pinte.”
“Sev! Sev! Sev!”
Così fece, senza sbrodolarsi né sputare.
Era divertente, ma minchia che fastidio. Diversamente dalla MIR, a lui non veniva certo da tossire educatamente.
Defiance sogghignò, a braccia incrociate.
“Non sei male. Peccato che il mio vero superpotere non sia bere la pinta, ma farlo con classe!”
Si arrampicava sugli specchi, Diciassette si annoiò.
"Senti, va' a cagare."
Defiance rise più forte e batté il cinque al suo bortolone.
“Te l’avevo detto che lui lo fa, ma non come te.”
Elliott era sempre dalla sua parte.
“Due secondi. Suca!”
Urlò Lillian, di rimando.
 
 
 
 
/
 
 
 
All'inizio di novembre, Rikki introdusse su Monster Island una mandria di neoceratopi.
Era stato un passo importante, pensato a tavolino per molti mesi.
Dieci giorni dopo i dinosauri si erano ben ambientati: Rikki, Malina e Defiance non consideravano un problema i mega-rex, i loro nemici naturali.
E poi era successo l'imprevedibile: un mostro si era palesato, attirato dai nuovi succulenti arrivi.
Era piombato su Monster Island e aveva iniziato a portarsi via neoceratopi.
Era una creatura che tutti credevano estinta, venuta da chissà dove; poteva attaccare qualsiasi cosa su Monster Island, era ben peggio dei mega-rex.
Rikki De Villiers si era trovata un bel pasticcio fra le mani, neoceratopi predati a parte: come si gestiva un mostro senza farlo fuori?
Nonostante i suoi fossero i venti ranger migliori al mondo, Rikki doveva risolvere la questione senza fare rischiare la vita a nessuno.
Doveva anche evitare che Malina Klintsov si stufasse e puntasse i suoi cannoni: quella creatura era pregiata, alla fine.
Rikki conosceva i MIR uno per uno, non avrebbe mandato nessuno a farsi ammazzare da un eparviere.
 
Tuttavia, Defiance era lì sulla soglia della sala da pranzo, ad ascoltare sua madre parlare di quel mostro.
"Sta decimando i dinosauri, dovremmo ucciderlo prima o poi. O noi o Malina."
"Figlia, Monster Island è il mio business, uccidere va contro il nostro interesse ed ethos. Faremmo una figura del cavolo."
Ma non voleva mandare nessuno.
"Quindi come risolviamo il problema?"
"Ci sto pensando. Potrei rivalutare l'idea di non farvi affrontare l'animale. Se non voi, chi può farlo..."
Defiance rimuginò: per quanto fuori dalla scatola, una soluzione c'era. Era quasi ovvia.
"Aha! Potrei portare qualcuno da fuori."
Non conosceva le reali capacità della soluzione, ma da quello che Elliott le aveva detto valeva tentare.
"Siamo fortunati, mamma."
Rikki rimase a guardare Defiance messaggiare con Elliott; aveva baciato e abbracciato quel ragazzo quando l'aveva incontrato, ma per quanto le stesse simpatico non sembrava avesse le competenze adatte.
Defiance le porse il proprio cellulare, "Chiama questo numero."
Vide la faccia di sua madre mentre leggeva il nome del contatto, alzò un sopracciglio.
"Monster Island e noi siamo nel tuo interesse, vero?"
Rikki guardò il cellulare della figlia come se stesse per autorizzare il lancio di testate nucleari.
"Vero. Ma questo?"
Non era con aiuti esterni che Rikki risolveva i problemi, ma le circostanze erano disperate e, in fin dei conti, non era un disonore.
Defiance insisteva che il vecchio nordico avrebbe dato loro accesso alla soluzione, Rikki si fidava di sua figlia.
Del capo MIR.
Defiance le lasciò il cellulare, "Decisione tua, mamma. Ricorda che devi essere un po' elastica."
 
 
 Rikki chiamò quel numero dal suo ufficio.
Non aveva bisogno di presentazioni.
"Non importa come ho ottenuto il numero, c'è qualcosa che vorrei discutere con lei."
"Un eparviere, accidenti. Pensavo che fosse lei a trattare di creature fantastiche, Madame De Villiers."
"Lei ha qualcuno che può aiutarci."
"Se mi sta chiamando per la mia-"
"No, non la signorina Dahl. Anzi, accetti le mie scuse per quanto riguarda lei."
"Cosa vuole, Madame?"
"...non voglio nulla, signor Dubochet, questo é un SOS. Devo prendere in prestito il terminator."
 
 
/
 
 
 
Nessuno aveva mai visto un eparviere, ma tutti sapevano cos'era, un po' come si sapeva di fenici e draghi.
John convocò Diciassette e gli parlò della proposta di Rikki De Villiers.
"Ragazzo, se non ce la fai tu sono spacciati."
"Lo cavalcherò pure, 'sto eparviere."
Diciassette non vedeva motivo di fallita.
Seriamente, però, tutto dipendeva da Carly: se Carly si sentiva pronta a restare da sola, sarebbe andato. Andare alla famosa Monster Island in volo avrebbe reso tutto molto più veloce.
"E così il bimbo nascerà presto," John gli sorrise "Come ti senti, Diciassette?"
Era troppo per lui. A volte gli sembrava quasi uno scherzo crudele, per ricambiarlo delle sue malefatte.
"Non so."
Per quanto positivo, era un malloppo emotivo da digerire. L'ennesimo.
Carly, tuttavia, non gli permise di farsi menate; gli diede un lungo bacio di congedo sulla soglia di casa.
Sembrava anche più eccitata di lui.
"Sono così fiera di te! Vedranno di cosa sei capace."
Carly sentiva che era quasi ora, ma lei e il bambino stavano sempre bene.
"Il primo figlio tende persino a nascere in ritardo. Questo dice anche tua sorella."
E poi, lei era un'adulta fatta e finita: Lapis sarebbe andato e tornato senza preoccupazioni.
Diciassette partì con John quel pomeriggio, era il giorno 15 di novembre.
 
 
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Al Sud era ancora mattina.
Defiance incontrò Diciassette e John al porto della capitale.
"Grazie di essere qui. Vi aspettavamo per domani, credevamo prendeste l'aereo…"
Rikki e il comandante Klintsov sarebbero arrivate di lì a poco.
“Salve, Obedience.”
Il cyborg esordì, provocatorio ma non bellicoso.
Defiance aveva la stessa voglia di giocare, "Salve a te, Tressette."
Poco dopo un incrociatore bianco spartì le basse acque del porto e allungò una passerella sul molo.
Diciassette si coprì con il suo ampio cappuccio, seguì John e Defiance dentro quella nave che lo fece restare col naso all'insù.
Non era particolarmente appassionato di navi, eppure quella lì gli stava facendo nascere l'amore.
Defiance se ne accorse e sorrise,
"Benvenuti sul White Star. Ci porterà a Monster Island."
La MIR si coprì naso e bocca con una mascherina, ne diede una a John e una a Diciassette: chiunque a bordo doveva portarla.
John non se l'aspettava.
"Defiance, c'è qualche problema?"
"Non si sa mai che germi la gente si porta da tutto il mondo: i neoceratopi sono ancora delicati, chiunque mette piede qui dentro e sull'isola deve premunirsi."
I soccorsi dal Nord si erano appena premuniti di mascherina, quando una donna che ne indossava una decorata con strass apparve in cima a un ponte.
"É solo prassi, ci tocca. Spero che non ve la prendiate se non si stringeranno mani, oggi."
Rikki De Villiers in persona era dovuta scendere in campo, questa volta.
Il vecchio le annuì con rispetto.
"John Dubochet." Defiance lo spinse gentilmente verso di lei. "E questo è Diciassette, il pezzo grosso."
Fra cappuccio e maschera, tutto quello che Rikki poté mettere a fuoco del pezzo grosso furono sopracciglia nere come ali di corvo, e...
"Mamma! Che occhi. Se per un film dovessero dare il ruolo di qualcuno senz'anima, saresti tu."
Quella era un'affermazione parecchio offensiva.
"Madame?" La redarguì Dubochet.
Diciassette aveva preferito non reagire, per il bene di tutti.
"Oh perdonami, caro, non mi fraintendere.
Una mia sorella aveva occhi uguali ai tuoi, così chiari e brillanti che suscitavano reazioni miste…"
Quella sorella era morta da più di vent'anni; Rikki non pensava che avrebbe mai rivisto qualcosa del genere, era stato quasi uno shock.
Peccato non potergli vedere il resto del viso.
"Sono venuto qui dal Nord per parlare di sua sorella?"
Gli occhi spettacolari si erano fatti duri, quando Diciassette aveva infine parlato. Non era lì per ascoltare piagnistei, né per farsi valutare esteticamente.
"...Certo, venite all'aperto. Il comandante vi farà il briefing."
 
 Malina Klintsov indossava mascherina ed uniforme, era di bassa statura e la sua chioma bionda ulteriormente schiarita dal sole attirava l'attenzione.
Camminava rapida, con un tablet in mano.
"L’eparviere è mostro-uccello dall'apertura alare di cinque metri, con una faccia quasi umana e artigli duri come l'acciaio."
Diciassette si stava divertendo con l'accento di tutta quella gente, sembrava di sentir parlare sua mamma. Guardò sullo schermo l'illustrazione che raffigurava la fantastica creatura: il piumaggio blu cangiante, il lungo collo con una faccia alla fine.
"Abbiamo ragione di credere che senta e percepisca. É molto intelligente, come noi umani. Perció stai attento."
Malina guardò al di là della sua spalla, per rivolgere al cyborg uno sguardo eloquente. Chissà se sapeva; Diciassette si sentiva a suo agio con la maschera, dopotutto.
Tutto quello che Diciassette doveva fare, Defiance e Malina spiegarono, era mandare via l'eparviere da Monster Island. Poteva prenderlo e lanciarlo, poteva combatterlo, non importava.
Bastava che non lo facesse fuori.
"Chi vuole vedere la mia barca?"
Malina si era ovviamente rivolta al pischello, che pareva non stare più nella pelle di andare a farsi un giro, anziché rimanere lì sul ponte.
Pareva grande e vaccinato e Malina non aveva modo di capire la sua età, ma qualcosa le suggeriva che era un pischello.
Forse era la sciarpa sbarazzina, color mandarino, che spezzava la tenuta total black -chiodo, jeans, anfibi-.
Malina gli mostrò velocemente la cabina di controllo, la sala macchinari, i fighissimi cannoni.
Diciassette era meravigliato dal White Star, anche se non poteva impedirsi di pensare che lui quei cannoni li avrebbe piegati con un colpetto.
Una volta sull'isola, i turisti non sarebbero stati d'intralcio.
"Eparviere a parte, controlliamo gli ingressi con il pettinino: senza maschera non si entra. Sapessi quanta gente non si mette la maschera e pretende comunque di entrare!"
C'era davvero gente così incivile da non preoccuparsi dei dinosauri?
A Diciassette salì un po' del disprezzo per il genere umano che Gero aveva provato a installargli. Lo sentiva nei circuiti.
"Eh sì, così tanti incivili non la mettono," Malina alzò le spalle. "Fosse per me, gli sparerei dietro."
Rikki fece una faccia, "Malina!"
"Carino."
Diciassette si era più o meno fatto un'idea di quelle tre marie.
La vecchia De Villiers, Dio no.
Defiance, meh ok...
Il comandante Klintsov? Ok!
"Ecco il nido." Defiance indicò una struttura fungiforme in lontananza.
John cercò la cima di quella collina, "Si vede anche da qui…"
Erano arrivati a Monster Island. La nave entrò attraverso un canale che conduceva ad una laguna, attraccò quando l'acqua si fece troppo bassa.
Diciassette era lì per quell'eparviere, eppure il pensiero della sfida non era ciò che più lo riempiva di adrenalina.
Il Nord era diverso dal Centro, ma non radicalmente. Quando Diciassette ci si era trasferito gli era sembrata un'estensione di casa, con un clima e una luce simile, era solo molto meglio per lui.
Iniziando a scendere verso South City per incontrare Defiance, Diciassette aveva visto invece che il Sud sarebbe stato un'esperienza nuova.
Guardarsi intorno lo ricaricava: rocce brune e acqua ciano, vegetazione vivissima.
Il Nord casa, rassicurante. Il Sud era avventura, eccitante.
Chissà cos'aveva spinto Kate a tagliare tutti i ponti, se era stato solo per il signor genitore.
Diciassette apprezzò istantaneamente Monster Island: pensó di riflesso che gli sarebbe garbato fare lì la domanda per cui aveva comprato l'anello tempo prima.
 
 
 I MIR si erano appostati con gru, un carro armato e anche armi sotto la collina su cui il mostro aveva nidificato.
Il White Star galleggiava non molto lontano.
Alcuni ranger si erano preparati a ricevere l'intervento dei nordici con telecamere e microfoni parabolici.
"Ora dobbiamo spegnere i cellulari, anche voi due. Per le interferenze."
Malina ordinò e tutto l'equipaggio obbedì.
Defiance era al corrente della situazione. "Lascia che Diciassette lo tenga acceso. La sua ragazza è al nono mese di gravidanza."
"Fa niente." Diciassette spense il telefono. Gli dava noia che si sapessero i fatti suoi.
"Ma pensa te!"
Defiance sperava che Elliott non avrebbe mai agito così, eventualmente.
"Oh caro!"
"Congratulazioni."
Malina e Rikki rimasero a bocca aperta, Diciassette non le biasimò: con la sua faccia disadatta da teppista, persino lui si sarebbe trovato poco credibile come padre di famiglia.
Tutti vennero riportati al qui, ora dagli strilli dell'eparviere: troneggiante nel suo nido, ben più imponente dei mega-rex più grossi, un neoceratopo fra gli artigli.
"Un altro?" Gridò Rikki, con rabbia.
Ogni volta che vedeva gli umani o i loro attrezzi muoversi, il mostro gracchiava e scatenava folate di vento con le sue immense ali.
Nonostante nessuno potesse avvicinarsi, pareva sofferente.
"Che è successo qui?"
John non si spiegava la  discarica di tettoie, legni e automobili ammaccate sparsa sotto la collina.
Diciassette vedeva ogni dettaglio del mostro, anche senza cannocchiale.
"Lo state stressando…"
Rikki abbassò i grandi occhiali da sole, "Come?"
"Lo state stressando. Ecco perché prende le vostre auto."
Defiance si sentiva irritata dal suo tono accondiscendente.
"Bene, vagli a mettere un po' di sale in zucca."
Detto fatto: sotto gli occhi increduli di tutti, il ranger-cyborg balzò senza sforzo dal White Star al nido.
 
 
L'eparviere non aveva paura del nuovo intruso, che non urlava da megafoni né puzzava di pallottole.
Non appena Diciassette atterrò con gli anfibi sul nido l'animale prese a guardarlo con i suoi grandi occhi gialli, ruotando la testa di novanta gradi ed emettendo una serie di clic e trilli.
Faceva un po' impressione.
La sua faccia era inquietante, soprattutto il suo corpo era enorme.
Diciassette non sapeva come approcciare una creatura fantastica: cominciò dal povero neoceratopo che si dibatteva debolmente tra gli artigli.
 "Zì, non dovevi prendertelo; devi riportarlo giù."
Il mostrò storse ancora di più il collo, guardandolo come per dire non mi piace essere preso in giro.
"Cosa vuoi? Non ho pistole, é solo la mia bottiglia dell'acqua."
L'uccello lo fissava; Diciassette dovette buttare la borraccia, gli sembrava anche che avrebbe dovuto scoprire il suo volto.
Quando dichiarò che non l'avrebbe fatto, l'eparviere si infuriò e sbattè le ali.
una casotta di legno poco lontana cadde, Diciassette si lamentò della polvere negli occhi.
Malina Klintsov aveva dichiarato che l'eparviere era senziente, percepiva.
Era probabilmente spaventato dai MIR, sembrava che volesse vedere la faccia del suo interlocutore prima di ascoltarlo.
"Ok, posso togliermi solo il cappuccio."
Tanti binocoli si alzarono dal White Star e dalla terra, quando il sole rimbalzò sulle lunghezze setose di Diciassette.
Purtroppo il gesto di levarsi il cappuccio aveva turbato il mostro.
Malina fu la prima a sentirsi il cuore in gola quando l'eparviere scattò pericolosamente verso il pischello.
Forse anche lui poteva ora vedere le efelidi sugli zigomi.
Diciassette non soffrì la collisione col volto dell'eparviere: si sedette a gambe incrociate nel nido, con le mani alzate, aspettando che l'uccello capisse che non gli avrebbe fatto del male.
 
 
/
 
Al Nord era sera: Brent, Elliott e Lillian si presentarono allo chalet di Verny con tutto l'occorrente per una lunga gaming night.
"Per caso Diciassette vi ha istruiti di venire qui?" Li interrogò Carly, a braccia incrociate.
Elliott alzò le spalle, "Veramente questi erano i programmi."
Già, avevano deciso di fare una gaming night da settimane.
Pazienza se Diciassette non c'era.
Presto tutti e quattro ordinarono pizze e furono davanti alla grande TV in salone, a nerdare. Non fecero in tempo a mettere il gioco nella console che Carly era già in piedi sul divano, in piena modalità battaglia con il suo joystick.
Sembrava stesse per scoppiare.
"Immagina se partorisce mentre Sev è via e ci siamo qui noi…"
Brent guardò la tele in modo assente.
"No! È presto." Lo rassicurò Lillian.
 
Una pizza, varie partite e due ore dopo erano le 23, Carly era andata a cambiarsi e gli amici stavano facendo una pausa dal gaming selvaggio. Fu allora che udirono un lamento.
"Che cos'è?"
"É il gatto?"
Pencil dormiva tranquilla nel suo cestino.
Il suono si ripetè, quasi da lontano.
Lillian la buttò lì, "Forse qualcuno sta avendo una colica?"
Tutti si guardarono.
"Carly?!"
 
Irruppero nella stanza di Carly, la trovarono intenta a lavarsi i denti e a guardare un video dal cellulare.
"Non stai partorendo?"
"...no?"
Anche Carly aveva sentito: uscì con gli altri sul balcone, un altro lamento risuonò da qualche parte in strada.
"Forse dobbiamo andare a vedere se qualcuno si sta sentendo male."
Lillian e Brent si lanciarono alla porta dello chalet di dietro, inequivocabile fonte dei lamenti.
Col loro bussare, l'interno della casa divenne silenzioso.
"Iris, aspetta!" Chiamò una voce.
I ranger si trovarono faccia a faccia con una ragazza minuta dai capelli neri tinti.
"Tutto bene? Abbiamo sentito…"
"Oh, scusatemi! Sono...uhhuuu!"
La ragazza si afferrò il ventre, tanto grande quanto quello di Carly.
Lillian rabbrividì.
"Iris?" Un ragazzone con l'accento dell'Est passò frettolosamente per l'ingresso e corse a sostenerla. "Scusateci...mia moglie é in travaglio."
"Vi ho svegliati?" Ansimò Iris, quasi con rammarico.
I ranger la rassicurarono. Dopo essersi accertati che nessuno aveva bisogno, fecero ritorno.
 
Gli altri potevano anche restare a dormire lì, Carly aveva dato la buona notte: non vedeva l'ora di coricarsi, si sentiva così scomoda.
Era sempre la solita golosa, ma una pizza intera era ormai una scelta infelice: si sentiva un pitone che ha fagocitato una zebra, non c'era Coca zero che tenesse.
Carly non era più carina: i piedi erano spariti dalla sua vista, la maglia di Lapis cadeva come un sacco sull'insieme indistinguibile del seno e del ventre.
E sotto la maglia, la pelle tirata come un tamburo le pareva la mappa di qualche città, con strade azzurre e verdi.
Carly si chiedeva come Lapis facesse a non trovarla repellente, ma ovviamente erano menate tutte sue.
Verso l'1 di notte Elliott, Brent e Lillian stavano seriamente pensando di togliere il disturbo, Carly stava probabilmente dormendo.
Però...ancora una partita! C'erano ancora tante bevande da finire.
Nel vivo dell'ultima giocata della serata intravidero Carly passare goffamente, prendere le chiavi della macchina e mettersi in spalla una borsa.
"Chiudete a chiave quando andate via."
"Va bene soré!"
"A dopo."
"Ci vediamo."
Carly lasciò casa.
Il silenzio cadde.
I tre si guardarono. "Carly?!"
Si lanciarono dietro di lei sul vialetto ghiacciato.
"Carly, che succede? Dove stai andando a quest'ora?"
Carly puntò il telecomando e aprì le portiere. Rimase per un momento a riposarsi.
"All'ospedale. Sto perdendo le acque."
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Pensieri dell'autrice:
 
Io ora mi immagino il logo del panettone Le Tre Marie con le facce di Rikki De Villiers, Malina Klintsov e Obedience.
17 la chiama così per prenderla in giro, semanticamente l'obbedienza è abbastanza opposta alla provocazione/sfida/ribellione (=defiance).
Direi che ce n'è di roba in questo capitolo: dal costume da Malibu (😅), il rimando al trip di 17 (Dragons), Rikki che fa commenti cringe (spoiler, sua sorella è viva e végeta), il mostro mangia dinosauri (sticazzi) a Carly che ha le acque rotte.
Baby 17 sta arrivando😱 preparatevi.

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Capitolo 49
*** La mia Vita per te ***


49. La mia Vita per te
 
 
 
 
 
 
Era buio, all’1 di notte. La condensa si era ghiacciata sulla strada verso l’ospedale di Verny, sulla quale la jeep di Brent volava.
Elliott sedeva davanti e Lillian di dietro, con la Carlona. Nessuno dei tre aveva mai visto un parto in corso, ma tutti pensavano ci sarebbero state molte più urla.
“Sono solo all’inizio,” disse Carly, tranquilla, stringendo la maniglia sopra la portiera ad ogni sobbalzo. Avrebbe avuto parecchie ore davanti a sé per urlare come una disperata.
Poco prima, nonostante si sentisse tutta tirare Carly era riuscita a chiudere occhio. Pronta a rigirarsi nel letto ancora una volta, si era accorta che qualcosa non quadrava: un'ondata di acqua calda le aveva inzuppato i pantaloni del pigiama.
O era diventata incontinente, oppure…
“Oddio. Oddio, sta accadendo. È tutto vero.”
Che quel bambino dovesse prima o poi uscire, era certo. Carly non sarebbe arrivata al 30 novembre, ma una volta passate le trentasette settimane ogni momento era buono.
Aveva creduto di essere mentalmente pronta…
Eppure, solo preparandosi per andare in ospedale aveva pienamente capito che la sua vita sarebbe cambiata in poche ore.
Dopo tutto quel tempo, il bambino di Lapis stava arrivando.
Prima di salire tutti in macchina, Carly e gli amici avevano chiamato Sev, che non aveva risposto. Chissà come se la stava passando con l’eparviere.
Brent vide che la quasi mamma era abbastanza stressata da quel pensiero.
“Ehi Carly; un uomo entra in un caffè, splash!”
La battuta faceva ridere perchè non faceva ridere; Carly voleva ridere, ma la sua mente era altrove. Troppo lontana da lì.
Elliott continuava a chiamare Diciassette, Brent portava la borsa che Carly aveva preparato solo poche settimane prima e Lillian le circondava con amore le spalle.
Carly era agitata: al corso prenatale aveva imparato che, diversamente dai film, pochissimi travagli iniziano con la rottura delle membrane.
Era un cliché televisivo che stava accadendo a lei.
Un’infermiera fece stendere quella ragazza incintissima su un lettino e le attaccò un monitor alla pancia.
Notò che ella era accompagnata da tre persone diverse.
"Cos'abbiamo qui? Mamma Mia?"
Elliott fu il solo a cogliere il riferimento cinematografico.
"Ah no, nessuno di noi è il padre."
"Due mamme?"
Lillian alzò gli occhi al cielo.
E Carly sbottò, "Il mio ragazzo é a South City, ok?"
"Ohh! Mi dispiace…"
"No, non così."
Carly era nervosa, ascoltava il rumore regolare che il monitor attaccato a lei diffondeva nella stanzetta.
L’infermiera non era preoccupata, il battito cardiaco fetale pareva ottimo.
“Quanto distano le tue contrazioni?”
Bella domanda.
Purtroppo, come si faceva al Centro, gli ospedali ammettevano una partoriente solo quando le contrazioni si riducevano a intervalli di cinque minuti.
Nonostante si aspettasse che sarebbe arrivato presto, Carly non aveva ancora dolore.
La combriccola la riaccompagnò e rimase allo chalet con lei.
Gli uomini si appostarono sul divano in salotto, fra cuscini e coperte; Lillian riaccese la stufa in cucina e il fuoco nel camino della camera di Carly.
Si distese di fianco a lei, occupando il posto di Diciassette.
“Eccoci qui, Carlona. Cerca di dormire un po’.”
Le carezzò i capelli e la coprì per bene col piumone.
Quella sarebbe stata una lunga notte: Carly agognava Lapis, sperava che l’avrebbe raggiunta presto, ma nel frattempo era lieta che i suoi migliori amici fossero lì. Non era sola.
 
 
/
 
 
"Rikki, tiralo via di lì!!"
Ordinò il comandante, preoccupata che l'eparviere facesse del male a Diciassette.
"Sono debole di cuore..."
"Tu comandi una nave da guerra!"
"Sì ma quello é un bambino. Fallo scendere."
Rikki rivolse la sua attenzione a John Dubochet, che non sembrava minimamente preoccupato.
"Penso siate molto fortunati."
Chissà se al RNP erano tutti così.
"È curioso che sapessimo tutti della signorina Dahl, ma non di lui."
Il capo ranger era geloso di Diciassette.
"Non ha mai chiesto."
La proprietaria di Monster Island immaginava che avere un cyborg fra i suoi ranger permettesse a John di avere tutto super organizzato, le grane risolte in fretta.
John era, in effetti, molto orgoglioso.
"Ah, sicuro come l'oro: con Diciassette vado tranquillo."
"Non vi spaventa?"
Diciassette non era pronto per una posizione da leader, era ancora troppo caldo di testa, ma John credeva fosse già cresciuto.
"È un esercito in un solo uomo, mi fido di lui. L'unica cosa che sarei reticente a fargli eseguire è il massaggio cardiaco."
Tutti i ranger di John erano allenati in primo soccorso, ma il pensiero di farsi comprimere il petto da Diciassette era spaventoso per chiunque.
Defiance e i MIR, nel frattempo, allungavano i microfoni parabolici e tentavano di capire su cosa il ranger del RNP e la bestia stessero convenendo.
Diciassette sedeva ancora comodo, guardava il casino che l'eparviere aveva seminato su quell'isola.
"So che è divertente, ma non puoi continuare a spaccare tutto. Qui non sanno gestirti, devi andare via."
Chiamavano quell'uccello mostro ma a casa di Diciassette i mostri erano ben altro.
L'eparviere fu forse indispettito da quelle parole molto chiare. Tentò di aggredire coi suoi artigli, gracchiò quando uno di questi si ruppe contro l'avambraccio di Diciassette.
L'isola esclamò, Defiance guardò con un collega attraverso la telecamera.
"Hai ripreso quello?"
Il MIR non credeva ai suoi occhi.
"Ma di cosa è fatto?"
"È un cyborg."
L'eparviere si era fatto male e si era arrabbiato: quella lezione gli stava insegnando che doveva fare come l'umano (che non gli pareva davvero un umano) diceva.
"Zì, hai fatto tutto tu..."
Diciassette non era fiero di sé, l'animale si era ferito solamente toccandolo.
Stava capendo che vedere animali sofferenti gli dava più fastidio che vedere gente in pena.
Era strano? Forse.
Gliene fregava? No.
Sarebbe diventato un animalista? Ma per favore.
Così come il semplice non essere il killer sanguinario che Gero aveva voluto non lo rendeva un santo, preoccuparsi di più di altre creature che non fossero umani non faceva di lui un fanatico animalista.
Diciassette odiava gli -ista, gli estremi.
Dopotutto anche Carly era un'amante degli animali, senza diventare esagerata.
Ah, Carly. Chissà come stava, se gli aveva scritto dei messaggi…
I clic e i trilli dell'eparviere distrassero Diciassette dal suo rimuginare.
L'uccello staccò un grosso pezzo di carne dal povero neoceratopo e lo buttò ai piedi di colui che aveva dimostrato di sapergli tenere testa.
I MIR esclamano in disagio; John guardava dal binocolo.
"Sta facendo così in segno di tregua?"
Sembrava Pencil quando gli portava bestioline stecchite o persino spazzatura, comunicandogli nella sua lingua silenziosa “Ho ucciso questo per te!”.
"No non lo voglio."
Risposta inaccettabile: l'eparviere riprese a girare la testa in modo inquietante, mantenendo lo sguardo fisso sul volto dell'avversario a cui aveva offerto parte della preda. Credendolo incapace di iniziare da solo il mostro strappò un lungo brandello per lui, glielo mise in mano.
Diciassette guardò tutti con la coda dell'occhio.
"Me lo devo davvero mangiare?"
"Accettalo!" Ordinò Defiance con un megafono.
"Alcuni animali fanno così. Offrono la preda al loro avversario, in segno di rispetto. Se l'avversario rifiuta…"
Defiance spiegava e rideva fra sé, grata che non stesse toccando a lei.
Diciassette fece finta, abituato a Marron e alle sue torte di sabbia.
Ma l'eparviere non era Marron: capì immediatamente che aveva declinato la sua offerta.
Offeso, si alzò in volo, minacciando maliziosamente di fare altro casino.
"E va bene! Guarda!"
Diciassette si abbassò la mascherina e azzannò la pellaccia super coriacea di quel povero neoceratopo.
Che gli toccava fare, solo perché a Monster Island non sapevano gestire un mostro gigante.
"Zoomma!" Ordinò Rikki, quasi con urgenza, a un MIR non capiva quello che stava vedendo.
"Nemmeno certi proiettili perforano la pelle di un neoceratopo. Come ha fatto?"
Il cosciotto di neoceratopo era un blob disgustoso da masticare, una volta sotto i denti era viscido ma fibroso e scricchiolava come sabbia.
Diciassette seppe che, alla fine, Kate non l'aveva immunizzato con decadi di pessima cucina.
Perché tutto doveva essere un assalto ai sensi? Di solito erano la vista o l'udito.
Diciassette sapeva già che non poteva ingannare quel pollo da guerra maledetto: mandò giù quell'obbrobrio che voleva tornare su, gli venne un conato davanti alle telecamere dei MIR.
Si diede della mezza sega, le telecamere erano pure live...
"E se vomita?" Ansimò il comandante.
"I cyborg vomitano?" Chiese un MIR.
Che domanda...
L'eparviere invece non faceva domande, voleva solo che non lo si imbrogliasse.
Quando si accertò con i propri occhi che il suo avversario aveva deglutito, fece una specie di sorriso, un'ultima serie di clic e trilli e volò via senza portare il neoceratopo.
Nessuno lo rivide mai più.
 
 
 Diciassette scese dal nido e fu accolto dagli applausi di tutti, da altre telecamere piantate contro la sua faccia mascherata.
Si erano tutti aspettati che sarebbe stato un compito ostico, forse anche una lotta da film d’azione.
Diciassette stesso ci era quasi rimasto male, non era stato così eccitante. Alla fine, negoziare con un mostro era meglio che coi bracconieri.
Il lavoro era finito. I MIR salutarono il ranger del Nord con rispetto e incredulità, il White Star attraccò di nuovo a South City.
Prima di congedarsi dai consulenti, Malina diede a Diciassette il suo biglietto da visita.
John non poteva quasi crederci.
"Mi fai bracconaggio anche con lui, adesso? Davanti ai miei occhi?"
"Dubochet! Sto solo parlando col ragazzo. Diciassette, se mai ti andasse di lavorare per noi…"
Diciassette stava bene al RNP e non era interessato a Monster Island, almeno non per il futuro prossimo: al Nord c'era lavoro anche per Carly, avrebbe ripreso non appena il bambino avesse compiuto cinque mesi.
Diciassette voltò le spalle al White Star, Malina gli sfiorò la schiena.
"E poi niente inverno qui."
"A me piace l'inverno."
Diciassette cominciava a non gradire la confidenza che il comandante si stava prendendo con lui.
Aveva anche fretta di tornare.
Rikki avvertì John che avevano un appuntamento con un avvocato: si doveva trattare legalmente la questione che Diciassette aveva risolto sul piano pratico, bisognava lasciare una traccia scritta del compenso che lui avrebbe ricevuto, e altre cose noiose che Kate conosceva meglio di lui.
Dopotutto, Monster Island era un’impresa.
Defiance andò da Diciassette.
"Ehi terminator, lo vuoi uno spuntino?"
"Sta' zitta."
Rikki condusse i nordici in uno dei suoi salotti.
"No sul serio, fermatevi per l’appuntamento e per un tè. Ma un momento, forse Diciassette non beve perchè è un cyborg?"
"Sì, beve."
Tagliò corto Defiance, non dimentica di aver praticamente perso contro di lui.
"Se vuoi che rifacciamo, qui e ora."
Le propose lui, ambiguo.
Al diavolo il tè.
"Sai cosa? Sì!"
"Cosa diamine...”
Diciassette si era infine tolto la maschera e, incurante di Rikki che (finalmente) lo fissava con due occhi più spiritati di quelli dell'eparviere, aveva riacceso il cellulare: trovò cinquantadue chiamate perse da Carly e dal resto della combriccola.
Erano le 4 del pomeriggio del 15 novembre, a South City, ma il suo cellulare segnava le 7 di mattina del 16.
I messaggi con insulti non erano stati risparmiati, un altro messaggio-minaccia di morte gli arrivò da Lillian in tempo reale.
Il suo cuore cominciò a battere forte.
"Urca." Defiance si avvicinò e vide la raffica di messaggi.
E quando Diciassette fece un'espressione che sfoderò le sue fossette, anche Rikki si avvicinò.
"Oh sì…"
Si azzardò persino a stringergli con calore le spalle. "Che meraviglia. Pizzicato dagli angeli sulle guance, tratti affilati, occhi a mandorla..."
L'espressione schifata/sprezzante di Diciassette era tragicomica.
Defiance perse le staffe, "Mamma!! Giù le mani e scusati immediatamente!"
Sua madre era particolare, in senso benevolo e non faceva mai nulla per malizia, ma a volte superava davvero il limite. La spinse via e aspettò di farsi ingoiare dal pavimento.
Il telefono del cyborg continuava a squillare. Doveva andare.
Malina tentò inutilmente di fermarlo, "Aspetta, l’appuntamento con l’avvocato?"
John Dubochet sarebbe rimasto.
"Per quella basto io, Diciassette deve tornare: sta nascendo suo figlio."
Non c'era più tempo per nessun rematch; Defiance gli corse dietro, incapace di raggiungerlo in aria.
"Sono felice per te, auguri! Ma la prossima volta ti straccio, ricordatelo!"
"L'importante è crederci!"
Diciassette le fece l'occhiolino e volò verso nord.
Quando l’avvocato lasciò la residenza De Villiers, Defiance trascinò la madre in privato.
"Sei stata morbosa, ma di brutto. Ha fossette e occhi azzurri, e allora? Vogliamo farne un caso di stato?"
Il terminator non c'entrava niente, non era la reincarnazione della sua defunta zia.
Ma Rikki sembrava esasperata, incompresa.
Era un caso di stato!
"Senti, Defiance, io non sono né Dio né un test del DNA ambulante. Ma che Dio mi fulmini se quel ragazzino non è un Lang."
 
 
/
 
 
 
Carly gemeva, accucciata sul parquet di camera sua. Gridava ogni volta che una contrazione stringeva, con scioccante dolore.
Non sapeva più in che posizione stare.
Lillian si sentiva così impotente: era inginocchiata dietro di lei con i palmi premuti contro le sue reni, era terribile vedere la sua amica del cuore stare così male e non essere capace di aiutarla.
Carly si vergognava ad urlare come si sentiva fare nei film, ma non poteva impedirselo: era tutta la notte che soffriva, tutti avevano dormito solo due ore.
Brent leggeva una pagina web, tanto valeva provare.
“Ha le contrazioni nella schiena anziché davanti, prova a massaggiarla così...”
Elliott stava cominciando a chiamare anche Defiance, visto che Sev non aveva ancora risposto.
“Tieni,” le porse con affetto una barretta di cereali. Erano le 7 e Carly doveva cercare di mangiare qualcosa, il travaglio si preannunciava lungo. I cinque minuti di intervallo fra una contrazione e l‘altra sembravano ancora un obiettivo irraggiungibile.
Tutto quello che si poteva fare era distrarre Carly, cercare di farla restare comoda fra un dolore e l’altro.
Presto Carly non ce la fece più e implorò gli amici di portarla in ospedale. Arrivò al reparto maternità zoppicando, mezza portata da Brent. Dovevano fare una pausa ogni volta che una doglia le serrava la schiena.
Un controllo veloce rivelò che Carly era dilatata abbastanza per venire ammessa:
l'amore della vita del cyborg n°17 si era buttata sul letto e aveva guardato fuori dalla porta aperta.
 Una ragazza dai capelli neri finti camminava avanti e indietro, stoica, capace di stare in piedi.
Un'ostetrica era venuta a prenderla.
"Iris, nella piscina! È pronta."
Carly provò per un attimo invidia che quell'Iris stesse avendo semplici contrazioni, non coliche renali.
“Appena lo vedo, lo ammazzo.” Masticò la top ranger. Non aveva mollato la Carlona per un secondo.
“Arriverà...”
Seppur la sua voce fosse solo un filo, Carly non perdeva mai la speranza.
E infine Diciassette la trovò su quel letto, entrando dalla porta col fiatone.
Solo dall'espressione sul viso di Carly si poteva evincere il livello di dolore che la stava affliggendo.
"Villano! Alla buon'ora!" Lo rimbeccò Lillian.
Ma Diciassette non si era quasi accorto di lei. Si fiondò da Carly, martoriato dal vederla soffrire così...per colpa sua.
Era stato lui a renderla così.
Ma Carly lo stringeva a sé, lo chiamava piano, Lapis, Lapis,  stravolta ma con occhi trasfigurati dall'amore.
Non c'erano colpe, lì: Carly stava mettendo al mondo suo figlio, ed era la cosa migliore che Diciassette avesse fatto.
"Ti amo tanto, Lapis."
Diciassette non voleva separarsi da quell'abbraccio con lei.
"Sono qui."
 
 
 
Era di nuovo sera.
Carly non si ricordava nemmeno se tutto era pronto a casa, aveva lasciato la cucina disordinata.
"Ma quindi quando torneremo a casa col bambino sarà tutto disordinato? Mi viene male..."
Come poteva iniziare un nuovo capitolo della sua vita con la casa a soqquadro?
Diciassette non diede adito a quella corrente ormonale.
"Pensa che torneremo a casa col bambino."
Carly aveva passato le ultime ore in uno stato quasi letargico, fra la benefica vicinanza di Lapis e il fastidio di dottori e ostetriche che la esaminavano con occhi e mani.
In origine i piani di Carly non avevano previsto l'anestesia epidurale, ma poco dopo essere arrivata in ospedale si era resa conto di quanto fosse stanca: erano già state tredici ore -senza sollievo- di dolore logorante.
Doglie come le sue erano le peggiori, tutti lo sapevano: Carly non voleva arrivare così al momento in cui sarebbe toccato a lei spingere, aiutare il figlio suo e di Lapis a venire alla luce.
Lapis era lì vicino a lei, la guardava, la toccava, era così bello coi capelli sciolti e i suoi orecchini.
Carly si ritenne, per un attimo, la donna più fortunata della Terra: perchè sapeva che quella sofferenza era la conferma finale che il seme di Lapis fosse germogliato in lei.
Realizzarlo la fece piangere di gioia, abbracciò Lapis e gli confessò quei pensieri un po' sdolcinati: non aveva segreti per lui.
 
 
 
 La combriccola non intendeva lasciare l'ospedale fino a che Sev non fosse venuto a dire loro che il bebè era nato.
Era quasi mezzanotte.
Lillian si era appisolata fra le braccia di Brent, si svegliò con un gran sussulto e un "Ahh, cazzo!"
"Brutto sogno, Lilli?"
Quello era un eufemismo, la top ranger si sfregò faticosamente un occhio.
"Ho sognato che mi facevano un taglio cesareo d'emergenza."
"Whaaaat?! Tu e Bre-"
"No!!"
Entrambi zittirono Elliott, ad alta voce, ed egli alzò le mani.
"Allora sicuramente sei solo preoccupata per Carly."
Per fortuna Carly stava bene, le cose stavano solo andando per le lunghe.
Il breve sogno di Lillian era stato di quelli che sembrano veri: meno male che non lo era, nella vita reale la maternità non faceva per lei, non avrebbe mai scelto di tirarsi addosso tali preoccupazioni!
Lasciò che l'incubo sfumasse in sciocchezza.
"E niente, io poi ero preoccupata perché il neonato era tutto spettinato."
"Perchè sei una perfezionista," la rassicurò Brent, sfiorando una ciocca dei suoi capelli.
"Perchè ti piace quando tutto è sotto controllo."
E grazie, a chi non piace?
"Magari in una realtà parallela è successo davvero, che ne sai?" Alzò le spalle Elliott.
"Potresti essere tipo una matrona da 200 kg, con sette figli."
Il multiverse? Che menate da nerd!
Lillian preferiva restare nel suo universo.
"Anche se avessi sette figli resterei comunque figa."
Non era il tipo da parlare di se stessa così, ma ci voleva.
"Ecco, diglielo Lilli!" Brent le batté la mano sulla coscia. "Però sarebbe bello, sette-"
"No."
Brent pareva quasi esaltato, "C'ero io in sala operatoria con te, no?"
La risposta uscì da Lillian veemente, quasi arrabbiata.
"Eh non mi chiedere dettagli, non ricordo!" In realtà ricordava benissimo.
 
 
 
 Diciassette guardava con meraviglia -e un po' di disagio- la sua Carly che combatteva come una leonessa il culmine delle contrazioni, mostrandogli ancora una volta come non tutta la forza fosse misurabile in ki e imprese sovrumane.
Era impressionato da come la sua compagna potesse non morire, nel tentare tentare disperatamente di arginare quel dolore che non la lasciava nemmeno parlare, con il cuore a mille e le ossa che si spostavano per lasciare passare il piccolo.
"Allora... i nomi, amore?" Carly ansimò.
Diciassette doveva distrarla.
"Qual era il nome da maschio che piaceva anche a me?"
"Heathcliff…"
"Heath, sì. Invece-"
"Forza, Carly, stai andando bene. C'è una testolina lì," interruppe l'ostetrica, con le mani sulle cosce della rossa.
Carly si sentiva come se stesse spingendo una zucca fuori dal grembo, la sua pancia era così grossa e sporgente che non vedeva nulla al di là delle sue ginocchia: era, perciò, ignara dello spettacolo a cui Lapis stava assistendo.
"Bimbo è pel di carota…" L'ostetrica descrisse.
Lapis tremò inconsciamente e Carly ebbe un moto di tenerezza.
"Come me, amore! Come me…"
Carly stava provando il dolore peggiore della sua vita, nonostante l'anestesia, ma quello era un momento incredibile, magico: quel giorno lontano in cui era scesa di malavoglia in concessionaria non si sarebbe mai immaginata che, una decina di anni dopo, quel ragazzo bellissimo sarebbe stato lì a vederla partorire. Carly si sentiva onorata.
E nemmeno Diciassette, fra tutte le sue (dis)avventure, si sarebbe immaginato che avrebbe avuto ancora diritto all'amore: che avrebbe continuato la sua vita con Carly, che l'avrebbe vista cambiare giorno per giorno mentre suo figlio le cresceva dentro.
E che infine sarebbe stato lì. Da un laboratorio sterile ad una sala parto.
Diciassette non diceva niente, ma pensò che era lui ad essere onorato.
Il viso di Carly divenne rosso vivo mentre spingeva con tutte le sue forze.
"Dai. Fra poco potrei portarti del sushi."
Diciassette riuscì a farla ridere.
E alla fine, dopo venticinque ore, la madre diede l'ultimo grido e il bambino scivolò fuori da lei.
Diciassette rimase a guardare l'ostetrica rimuovere il brandello di sacco amniotico che copriva il piccolo viso.
E quando quello fu tolto, Diciassette fu colpito da due occhi obliqui e curiosi che lo guardavano nei suoi.
Fino in fondo, dentro al cuore.
Il volto di Diciassette fu la prima cosa che quegli occhi nuovi videro della vita.
Carly sembrava svenuta, ma il personale medico assicurò che era solo stanchezza momentanea.
"Papà, prendila tu mentre io taglio il cordone." Chiamava un'ostetrica, vedendolo quasi imbambolato.
C'era spazio per un altro grande amore nella sua vita? Diciassette si sentiva ebbro di emozione, come quando aveva incontrato Carly di nuovo.
Forse l'amore l'avrebbe ucciso.
"Ragazzo? Mi hai sentita?"
"Diciassette…"
Diciassette reagì solo alla voce di Carly.
E appena lo vide reagire, l'ostetrica ritentò di comunicare con lui mettendogli la creatura fra le braccia.
"Ecco, tienila così."
Ci mise un po' a elaborare.
E poi la tenne stretta.
Sua figlia.
La bambina che aveva tanto desiderato.
Diciassette aveva temuto che non sarebbe stato capace di gioire.
Che qualche meccanismo sarebbe scattato nella sua testa, facendogli credere che non meritava tutta quella pienezza, rendendogli impossibile da credere che quella nuova vita fosse il suo sangue.
Ma le cose terribili che Diciassette aveva vissuto non dovevano essere le sole che lo definivano: c'erano ancora cose meravigliose in un mondo che pareva fare così schifo.
E della meraviglia più grande, Diciassette era l'artefice.
Come aveva vissuto tutto quel tempo senza di lei? Quella bambina era l'alfa e l'omega, la ragione di tutto.
L'avrebbe amata fino alla morte, era solo così che Diciassette amava davvero.
N°17 inspirò con gli occhi serrati e il viso basso, contro la sua manica.
Ricordava male il gusto salato della gioia incontenibile, quella che trafigge il cuore.
L'ostetrica sorrise: le lacrime dei neopapà l'intenerivano, specialmente dei neopapà con l'aria da duro come quello lì.
La sua piccola gli stava raggomitolata fra le mani, forse non si era ancora resa conto di non essere più nel ventre.
L'ostetrica se la riprese per un controllo di routine e poi la posó sul seno di Carly.
Solo allora, vedendo la bambina fra le braccia della sua amatissima madre, Diciassette si rese davvero conto che era papà. Erano una famiglia.
"Congratulazioni, ragazzi. Una bella bambina di 3 kg e 8."
Carly strinse il frutto di tanta vita insieme: tolse delicatamente la patina cremosa che ancora ricopriva le sue guance, guardò gli occhi che già le ricordavano altri occhi che amava da impazzire.
Aveva atteso nove mesi per quello.
Cercò le labbra di Lapis.
"Ce l'abbiamo fatta, amore mio…"
Ce l'avevano fatta, tutti e tre insieme.
Carly prese la mano di Lapis e la posò sul fagottino. Ripensò a quella domenica di fine maggio, quando aveva trovato quei quadrifogli e aveva saputo che lei c'era.
Fede, speranza, amore e fortuna.
"È lei il nostro quadrifoglio. La nostra Clover."
Diciassette sfiorò con un dito il suo nasino a bottoncino, ascoltò i suoi primi versetti.
"Tutta la mia vita è per te."
E l'amò per sempre.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Pensieri dell'autrice.
 
 
E niente, che devo dire? È nata la figlia di Diciassette😭😇
 
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 50
*** Fairspeir ***


 
 
50. Fairspeir
 
 
 
Era la mattina più tardi, qualche ora dopo la nascita di Clover.
Madre e figlia dormivano beate fianco a fianco, la figlia avvolta protettivamente in una copertina e la madre finalmente prona.
Il padre le guardava, ancora incredulo, ma soprattutto fiero.
Non aveva sonno, aveva forse un po' sete, la maglia che l'emozione gli aveva fatto sudare cominciava appena ad infastidirlo.
Chino sulla culla, Diciassette voleva solo guardare Clover per lunghi istanti.
Voleva guardarla più di quanto volesse tenerla.
"E bravo, hai fatto la tua rossina. Una carletta."
Anche Lillian la guardava.  La top ranger era così estasiata di essere diventata zia che aveva mandato una foto di lei con Clover in braccio persino a sua madre.
Ovviamente la prima cosa che la signora Dahl aveva fatto era stata infartare, e poi chiedere "Ma è tua?".
"No, io sono solo la zia…"
Parlava fra sé e sé, rivolgendo occhiate affettuose a quella persona minuscola, ma completa di ciglia rade e unghiette ancora morbide.
Diciassette la teneva d'occhio, con le labbra dure.
"Perchè devi sempre essere in mezzo ai piedi? In tutti i momenti importanti?"
Quello doveva essere un momento solo suo con sua figlia, finalmente fuori da quella pancia.
I suoi amici avevano portato Carly a partorire mentre lui era letteralmente dall'altra parte del mondo, per una notte intera erano rimasti tutti saccagnati su quelle atroci sedie della sala d'attesa.
Ad aspettare la piccola Clover, anche loro.
Eppure lui non era contento.
Lillian faticava a guardare Diciassette senza sentirsi in colpa, per sciocchezze sue assurde. Il suo tono dispotico la distrasse, facendola rimanere male, ma Lillian cercò nel suo cuore un po' d'empatia.
"Beh, é questo che fanno gli amici. Che ti piaccia o no, Settone-Sev-Diciassette-Lapis, tu sei il mio migliore amico. E quindi io sono qui."
A volte serviva solo che qualcuno gli ricordasse che non era solo. Che a volte la gioia è più grande quando è condivisa.
Alla fine Lillian non si prendeva tutto il braccio, non era stata invadente.
"Cosa pensavi, che mi lanciassi subito a sbaciucchiarla?"
Proferì Lillian, con aria altezzosa.
Ma bastò uno sguardo di Diciassette per farla ridere, in un modo che la fece confessare senza parole: era pur sempre Lillian, c'era voluto un autocontrollo pazzesco affinché rimanesse calma di fronte alla bimba dei suoi migliori amici.
Affinché non saltasse in braccio ai suoi migliori amici stessi.
Brent diede una pacca non gradita a Sev, "No ma ti rendi conto di che giorno è oggi?"
"Domenica?"
"Guarda il telefono."
Domenica...17 novembre.
"Fraté tua figlia è nata nel giorno col tuo numero. Questo è amore."
"Ti immagini a scuola?” Ci si mise anche Elliott. “ ‘Come si chiama tuo padre?’ ‘17’.”
“ ‘Il giorno in cui sei nata?’ ‘17’."
" ‘Colore preferito?’ ‘17’."
 
 
 
Quando Diciotto arrivò all’ospedale di Verny, gli zulù erano già partiti.
Clover non aveva nemmeno ventiquattr’ore di vita, ma sembrava già curiosa del mondo.
Diciotto le restituiva quello sguardo attento, gli occhi della bimba sembravano ancora più all'insù, spinti dalle guance pienissime.
"Sei un po' cicciona."
Come suo padre da piccolo.
"Pensa che è arrivata due settimane in anticipo." Disse Carly con orgoglio.
Lei che era stata preoccupata per il ferro, per essere stata a -3 kg fino al terzo trimestre. Eppure sua figlia era bella grassa. Bella in salute.
"Visto, dove sono finite tutte le lasagne e le patatine." Diciotto cullò la nipotina. "Piccola sanguisuga cicciona."
"Com'è che l'hai chiamata?" Scattò Diciassette.
Diciotto non aveva ancora smesso di allattare, e di avere per la testa quel nomignolo senza malizia.
 "Calmati! Chiamo così anche Marron."
 
 
 
 La notte dopo l'ingresso di Clover nel mondo, Diciassette passeggiava nei corridoi del reparto maternità con la neonata appoggiata alla spalla.
Non sapendo che canzoncina cantarle le descriveva il corridoio buio, in cui altri genitori camminavano come faceva lui.
"Una processione di zombie."
Gli altri genitori non erano freschi come una rosa.
"Ehi! Mr. Brightside!"
Il cyborg udì qualcuno parlare imitando l'accento del Centro: la vicina di casa, Iris Cheney, si stava riferendo alla sola volta in cui lei e Diciassette si erano incrociati.
Quella serata in cui Carly era praticamente scappata da casa era stata uno dei momenti più bassi che Diciassette ricordasse. Strinse più forte la sua bimba.
"Allora hai guardato Netflix?"
La vicina rise, cullando il suo neonato; osservò la copertina rosa, il linguaggio del corpo del ragazzo straniero.
"Sei in brodo di giuggiole con la tua."
"Qualcosa del genere."
Iris Cheney e Diciassette avevano la stessa età, due bambini nati lo stesso giorno, i loro chalet si toccavano sul retro.
Eppure non avevano avuto altra occasione di incrociarsi.
Quando fu mattina, Iris volle andare a salutarlo prima di tornare a casa e incrociò anche Carly per la prima volta.
"Ah, lei è tua moglie? Sei un fiore."
Quella compagna di maternità era sicuramente stanca, ma sembrava così felice di aver partorito che era quasi luminosa.
"G!" Chiamò Iris. "Vieni a conoscere i nostri vicini!"
Il marito -il ragazzone con l'accento dell'Est- accorse al richiamo e lasciò cadere il trasportino vuoto.
"Carly?!"
Carly, che stava allattando Clover, si coprì in tutta fretta ed ebbe un tuffo al cuore.
"Gage…"
Diciassette ed Iris rimasero ad osservare: i loro marito e compagna si conoscevano?
"Iris, ecco, questa è Carly."
"Quella Carly?"
La ragazza dell'uni di cui si era innamorato ma che aveva dovuto lasciare perdere.
Iris osservò i suoi occhi grandi, l'aria preraffaelita.
"Ora capisco…"
Diciassette era l'unico a non capire.
"Chi è questo tipo?"
Tre anni prima Gage era tornato ad East City, ma poi aveva conosciuto Iris e si era ristabilito al Nord.
"Che coincidenze! E ora siamo qui, ognuna di noi con il proprio marito e un figlio!"
Iris non era maliziosa. Lo era ancora meno di Carly, ma Carly non prese bene quelle parole. Diede a Gage uno sguardo sincero.
"Sono davvero felice. Hai trovato l'amore della tua vita. E io ho ritrovato il mio."
"Ma non era morto?"
'No. É complicato."
Diciassette si stava innervosendo, sia coi vicino che con Carly. Era lì, diamine.
"Mi spiegate?"
Iris scrisse il suo numero su un foglietto e lo diede a Diciassette.
"Ma certo. A casa nostra, davanti ad un tè. Non appena vorrete."
 
 
 
/
 
 
5 mesi dopo
 
 
 
Marron aveva trovato una chiocciola in un vaso di gerani. "Mami mami mami!"
La prese delicatamente fra le dita e mimò rumori di motore, la mise sotto gli occhi di Diciotto.
Ancora una volta, Diciotto era fuori dallo chalet ad aspettare che Diciassette tornasse. Scalpitava nei suoi sandali bassi, ma quella volta non usò il kachi katchin come chiave.
"Attenta a non spaccare il guscio, Marron."
"Zizo."
La bimba lasciò malamente cadere la sua chiocciola e indicò la fine del vialetto.
Diciassette era apparso con Clover sottobraccio, confabulando con una donna che sembrava avere il doppio della sua età.
Diciotto scelse di non restare in ascolto, ma guardò lei passargli un grande foglio arrotolato, stringergli la mano con un sorriso.
"Zizizo."
Diciassette si inginocchiò a carezzare Marron, diede alla sorella una breve occhiata. "Che ci fai qui?"
"Miele d'acacia." Diciotto alzò una borsa di tela. "Ciao, Diciassette."
Se aveva così voglia di mangiare quel prodotto locale, avrebbe potuto comprarlo online.
"No, volevo proprio passare di qui."
Diciotto aveva sempre piacere di vedere suo fratello, ma era anche curiosa:
Carly le aveva detto per messaggio che a volte tornava a casa più tardi del solito, stava preparando qualcosa di speciale.
Lo seguì dentro casa.
“Chi era quella donna con cui parlavi?”
Diciassette rifuggì la domanda, posò foglio arrotolato e bambina sul tappeto del salone.
Clover rotolò verso sua zia e sua cugina, tutto quello che diceva era un brrrrrr senza interruzione, con vari toni di voce.
"Perchè fa così?"
Si interessò Diciassette, divertito da sua figlia che parlava e parlava.
Diciotto scambiò con la nipote uno sguardo complice, le accarezzò il sottile codino di capelli rossi in cima alla testa.
"Perchè é piccola."
Diciotto non aveva freddo, di solito. Ma si dimenticava sempre che aprile a Verny voleva dire ancora fine dell'inverno, il suo prendisole giallo lasciava esposta la pelle d'oca.
Sul divano Diciotto si avvolse in una coperta, sbadigliò.
"Diciassette, hai del paracetamolo?"
"Armadietto in bagno. Sei malata?"
Diciotto faceva la sua porca figura col trucco delicato, i capelli sciolti e l'outfit estivo, ma sotto sotto non sembrava sana come un pesce: ci mancava solo che venisse a casa di Diciassette a tossire e a diffondere i suoi germi!
"Non ho l'influenza."
Era stato ricorrente nelle ultime quattro settimane iniziare la giornata fiacca e col mal di testa. E non solo.
"Forse un'aspirina é meglio."
La cyborg si tappò il naso e prese la piccola pastiglia di paracetamolo più in fretta che potè.
"No aspirina per me. Dunque, chi era la tipa?"
“Una con cui sto lavorando a qualcosa.”
“Mmm. Qualcosa cosa?”
Doveva proprio tirargli le parole di bocca.
Era dall’inizio della primavera che Diciassette era impegnato con un altro progetto, non essere più ufficialmente top ranger gli lasciava più tempo di farlo. Anche per un cyborg del tempo in più poteva essere prezioso.
Diciotto era sulle spine, un sentimento che odiava.
"Si può sapere? Non lo dico a Carly."
"Sto mettendo in ballo una sorpresa."
"Ah, vuoi dire…" Diciotto mosse le dita della mano sinistra, la fede scintilló.
"No, non per ora. Un giorno."
Diciassette intendeva sposare Carly, alla fine. Certo, perché no?
"Credevo l'avessi messa incinta un'altra volta e che volessi finalmente sposarla."
Diciotto sorrise, intrigata.
"No! Ma perché?"
Il suo tono trasudava rimprovero.
La gemella maggiore lo stava solo stuzzicando, Diciassette non era il solo che amava farlo.
"Se non la proposta, allora cos'è?"
Diciassette sospirò, con le mani in tasca e lo sguardo sfuggente.
"Fairspeir."
"??"
Diciassette si sarebbe forse pentito delle parole che gli stavano per uscire di bocca. Ma d’altro canto, Diciotto era la persona perfetta per condividere. Trasse il cellulare dalla tasca e aprì una mappa.
“Qui.”
Diciotto zoommò nel punto indicato da un puntatore rosso.
“E? Diciassette, questa è foresta.”
“Ti porto a vedere.”
 
 
 
 La cura calma che Diciassette metteva nel riporre Clover nel seggiolino e nel legarla con la cintura era quasi contraddittoria ai modi abituali che lui mostrava.
“Andiamo fuori strada. Pronta?”
Lo sguardo brillante della figlia incontrò quello del padre: Diciassette si sentiva rasserenato dal comunicarle le cose divertenti che faceva con lei.
Clover guardava il papà e sorrideva senza denti, la ricerca di un piede da afferrare ostacolata da una gamba troppo burrosa.
“Perchè non andiamo in volo?”
Si lamentò Diciotto dal sedile posteriore, con Marron seduta in braccio.
Se fosse stata una donna umana, Diciotto avrebbe messo in pericolo sua figlia.
“Sai che non volo con Clover.”
Diciotto si allarmò quando vide Diciassette in procinto di aprire una lattina di Red Bull.
"Non osare! Non bermi quello schifo in macchina."
Diciotto odiava anche solo il pensiero di quell'intruglio, per non parlare dell'odore.
Perfetto, le era tornata la nausea.
Tecnicamente Diciassette non era ancora salito in macchina, ma aveva appena trovato un pretesto per farle dispetto.
"Se no?"
"Se no ti vomito sul sedile. Per davvero."
Il sorrisetto compiaciuto del gemello maschio sparì veloce.
Prima di metterle degli occhialini da sole e accendere il motore, Diciassette si prese un altro momento per guardare sua figlia.
Data l'età, i tratti della piccola Clover non erano ancora perfettamente definiti.
Nasino a bottoncino e rutilismo facevano propendere la somiglianza verso i Der Veer, ma gli occhi erano di Diciassette. Non proprio per il colore (verde o azzurro? Ancora non si capiva), senza dubbio per la forma.
 
 
/
 
La jeep di Diciassette uscì da Verny e si inerpicò su una strada di terra battuta, non troppo lontano dall'ex capitale, ma abbastanza a fondo nella foresta.
Il sentiero finì davanti a fitte siepi di recinzione ed un cancello impacchettato in plastica spessa.
Al di là, Diciotto vide i tetti spioventi e gli alti camini di quello che sembrava un conglomerato di case.
O forse un unico grande tetto, un’unica enorme casa.
 
 
fairspeir  
 
Diciassette aveva le chiavi del cancello, parcheggiò nel letto di ghiaia del vialetto.
Diciotto alzò lo sguardo verso l’unica enorme case e vide tegole rosso cupo, non beole.
Finestre ad abside senza imposte intagliate; mattone esposto e facciate bianche con travi scure a vista, non pietra grigia posta a secco.
La casa aveva pure un nome tutto suo, più vecchio dei gemelli e scandito in piastrelle vicino alla porta.
In un momento, davanti a Fairspeir, Diciotto dimenticò di essere al Nord.
Le parve di essere a casa: casa sua, il Centro.
Si strinse nel parka blu che Diciassette le aveva prestato, un moto di nostalgia le pungolò lo stomaco. Non si accorgeva mai di quanto il Centro le mancasse.
“So cosa stai pensando: ‘che ci fa una casa vecchio stile Centro quassù?’. La tipa con cui parlavo era l’architetto.”
Diciassette srotolò il foglio che si era portato dietro.
Diciotto intuì dal disegno che fra le modifiche c’era un occhiolino più esplicito all’architettura tradizionale settentrionale.
Beole e legno intarsiato.
“Non ti azzardare. E’ perfetta così.”
“Vedremo. Credevo che Fairspeir non fosse abbastanza sfarzosa da attirare le tue simpatie.”
“Infatti è una topaia, i miei gusti non sono certo questo.”
Diciotto gli schiaffò in mano il foglio e si allontanò a piccoli passi.
Diciassette aveva già infilato la chiave nella grossa toppa del portone.
“Non vuoi vedere l’interno?”
 
 
 Dentro Fairspeir tutto era in attesa.
Nessuno l'aveva abitata negli ultimi sei anni e i soffitti a cassettone languivano nelle ragnatele, i metalli erano opachi e l’acqua dei rubinetti rossastra.
I passi di Diciassette risuonavano sul parquet consunto.
“Ho abbattuto un muro l’altro giorno, così questo sarà uno spazio unico. Un salone, immagina. Con un grande camino.”
Diciotto aveva paura che Clover gli cadesse di mano, trasportato com’era dalla visione che stava avendo della casa che aveva comprato di nascosto.
“A Carly andrà bene tutta questa segretezza?”
Diciotto immaginava che se avesse comprato casa, un giorno, avrebbe apprezzato vederla coi suoi occhi prima di scrivere assegni.
“Carly si fida di me. Non come te.”
Carly non sapeva nemmeno che Fairspeir esistesse.
"Come va fra te e Carly?"
"Lei ha il suo lavoro, io il mio. E con Clover, abbiamo il cuore colmo."
Diciotto poteva letteralmente sentire il suo cuore battere più forte, con la bambina che si strusciava e nascondeva il faccino fra i suoi capelli.
Tutto quello era molto poetico, ma...
“E il sesso."
Diciassette alzò le sopracciglia. E un angolo delle labbra.
"Scusa?"
"Fate ancora sesso?"
"...Mmpf. Sempre!"
Diciotto conosceva troppo bene Diciassette e la sua mimica facciale: non serviva vergognarsi, se lui non era mai scarico Carly era una neomamma umana normale...
Diciassette aprì una porta a doppio battente, sul retro della casa.
“E questo spazio diventerà una sala giochi. Te la immagini?”
“No, a dire il vero.”
Che noia, Diciotto. Che noia mortale.
Non vedeva mai niente con gli occhi della mente.
Clover rotolava sul parquet in cerca di Marron, i codini di Marron rimbalzavano ad ogni salto fiero: si sentiva un fenomeno, paragonata a quella pallina di lardo che non sapeva nemmeno starle dietro.
“Va che sta rotolando. La perdi di vista.” Diciotto mise in guardia l’altro genitore, meno pratico.
Diciassette alzò le spalle, con una risata secca.
“Viene spesso qui con me. Tanto a sua madre non può dire nulla.”
Con l’aiuto dell’architetto Diciassette sperava che tutto sarebbe stato pronto per la fine dell’anno. Non aveva assunto lavoratori per occuparsi della ristrutturazione, voleva farlo da sé, aveva iniziato non appena aveva messo la firma Lapis Lang sui documenti per l’acquisto.
“Quindi l’hai comprata coi tuoi soldi. Questa...questo chalet?”
Questa magione.
“Con quelli di chi, se no.”
“Della mamma?”
“Ti pare?”
E Diciotto viveva ancora alla Kame House…
Rikki De Villiers aveva pagato Fairspeir.
Con quel lavoretto dell'eparviere Diciassette aveva ricevuto un compenso abbastanza alto, il resto era stato preso in prestito e sarebbe stato restituito alla banca prima che Clover avesse messo piede in una scuola.
La "debole" luce settentrionale perse ancora un po' di intensità, con il progredire del pomeriggio, ma Diciotto non aveva fretta di andare via: Marron si stava sfogando a correre come una pazza in quegli spazi vuoti, avrebbe dormito bene quella sera.
Diciassette aveva adagiato Clover sul pavimento, con perizia tecnica Diciotto lo guardò cambiare la bimba e darle un biberon.
Era bravo a tenerla, ad aiutarla a succhiare dalla tettarella in posizione ottimale.
"Quando Carly é al lavoro ci penso io."
Carly era tornata alla clinica dei suoi giorni di studentessa alla fine di marzo.
Gli aveva inviato una foto del suo ufficio, con la targa:
 
Carly Der Veer - Veterinario
 
Il posto che Leni le aveva originariamente assegnato per gennaio, nel primo contratto. Prima che lei e Diciassette si appartassero nel seminterrato di Kate e che lei si dimenticasse di prendere la pillola, grazie ai troppi cocktail di Ronan.
A Carly dispiaceva non vedere Clover durante gli orari lavorativi, ma era anche felice di poter finalmente varcare la soglia della clinica con una laurea in mano.
Aveva lasciato quelle stanze come tirocinante, era tornata attesa da tutti come veterinaria a tempo pieno.
Tenersi un bimbo piccolo appresso non era appannaggio delle mamme, Diciassette adorava tenersi Clover: quattro giorni su sette la portava con sé al lavoro (gli altri, la lasciava al nido), di notte lui solo si curava di andare a pescarla dalla culla e di cambiarla.
La metteva di fianco a Carly affinchè prendesse il latte e molte volte Carly non si svegliava nemmeno, mentre la piccola poppava.
"Scusa se mi permetto, ma non sarebbe stato più semplice darle latte artificiale?"
Visto che Diciassette non aveva bisogno di dormire.
Tecnicamente l'aveva proposto a Carly, ma lei voleva allattare, era stata testarda come un mulo.
Si tirava persino il latte al lavoro.
Per Carly, portare e partorire la figlia di Diciassette era stato un onore, al di là di essere romantico e farla sentire completa: aveva amato la sua gravidanza, sentire la presenza di Clover dentro, ma averla fra le braccia era infinitamente meglio.
Voleva nutrirla con il suo latte, niente le avrebbe fatto cambiare idea.
Diciotto capiva: lei stessa aveva provato il bisogno di sentirsi necessaria, attraverso il latte, ad una creatura uscita da sé.
 
 Più tardi, Diciassette giocava con Marron e Diciotto passeggiava con Clover in braccio.
La teneva sollevata davanti agli occhi, per guardarla, e Clover vocalizzava.
"La ma canterina cicciona."
A Diciotto piacque il modo in cui la luce naturale colpiva le piccole iridi, tenne Clover sollevata...per troppo tempo.
"Oh no!"
Sua nipote le aveva vomitato sul décolleté.
"Porca puttana, Clover."
Irritato dall'imprevisto, Diciassette la prese repentinamente e diede a Diciotto un paio di salviettine per pulirsi.
Non tutti i loro momenti padre/figlia erano idilliaci. Spesso e volentieri, Diciassette perdeva la pazienza.
Clover capì che il papà era arrabbiato, spalancò gli occhi e iniziò a piangere.
E sentendola piangere a dirotto, anche Marron provò il bisogno irrefrenabile di unirsi a lei.
Diciotto voleva rimproverare la scelta linguistica di Diciassette, ma si scusò e lo lasciò nella futura sala giochi, solo con due marmocchie urlanti.
Diciassette la trovò fuori dalla stanza, a vomitare in un tombino.
La compostezza con cui Diciotto aveva affrontato quel piccolo incidente era ammirevole -si era ritoccata il lucidalabbra davanti ad uno specchietto, prima ancora di riprendere una boccata d'aria. Questione di priorità- ma fece ridere Diciassette.
Se tutte le volte che Clover lo sporcava si fosse sentito male, avrebbe passato le giornate con la testa nel cesso.
Marron raggiunse madre e zio, trascinandosi dietro Clover come se fosse un orsacchiotto.
"Mami mami...bua?"
A Diciassette sembrava che Marron fosse avvezza a vedere la mamma stare male e ad andare a consolarla: la cosa non gli piacque.
Diciotto non aveva niente da vomitare ma si riabbassò di nuovo sul tombino, curata dalla sua piccola infermiera.
"Ancora?"
Diciassette le diede altre salviettine, si sedette di fianco a lei su una panchina arrugginita.
"Guarda che è peggio per me da provare, che per te da guardare." Diciotto bevve da una borraccia, osservando accigliata il mezzo sorriso di suo fratello. "Cazzo ridi?"
"Niente. Potere di ricattarti."
Diciotto faceva la finta tonta.
"Tu sai della casa. E io, ora, di questo."
Diciotto concentrò la sua attenzione su un rovo tutto attorcigliato.
"Vedi una ragazza stare male e pensi subito a quello: non credi sia un po' cliché?"
"Non 'una ragazza', Diciotto. Te."
Diciassette era intuitivo solo quando voleva lui.
"Tsk. Per quello che ne sai tu, non ho digerito. Tutto qui."
"Che cosa, il paracetamolo?"
"!..Proprio così."
Forse Diciassette non era contento solo perché ora poteva effettivamente ricattarla: lei era sempre sua sorella, una volta gli aveva detto "é una buona cosa".
Diciotto strinse il parka blu intorno ai suoi stinchi nudi, più per vulnerabilità che per freddo.
Certo che con tutte le balle che poteva raccontare a suo fratello, l'indigestione era la meno credibile: lei e Diciassette non avevano di quei problemi.
Diciotto continuò a guardare quel rovo, con il mento sulle ginocchia.
"Ci sono già passata, da questa merda."
Era diverso dalla volta prima ma certe cose non cambiavano, purtroppo.
Diciassette l'aveva detto quasi per prenderla in giro, ma quell'ammissione gli fece saltare un battito.
Sua sorella gemella, la persona a cui era più legato al mondo…
"Ok, però non dovresti parlarne in questi termini."
Ovvio che Diciotto pensava sempre a quello che avrebbe avuto in cambio, una volta passato il tormento.
Aveva persino pensato a farsi disattivare da Bulma per saltare tutta la merda, ma era giunta alla conclusione che non avrebbe perso un anno di crescita della sua Marron.
E nemmeno della piccola Clover, ora.
Diciassette non se l'aspettava.
"Come ti senti? Paracetamolo a parte."
"La verità? Ho un po' paura. Preferirei che non fosse successo."
Quanto aveva sofferto, in quella ricerca di Marron che le era sembrata così lunga! Ora non aveva cercato, e Marron aveva poco più che un anno e mezzo.
"Sei n°18."
"Questo non vuol dire essere onnipotente."
"Nah, vuol dire che vincerai questo rodeo. Ti conosco."
Ancora una volta, lei era fortunata.
Non tutti avevano qualcuno su cui contare senza se e senza ma.
"Se lo dici tu..."
Prima ancora di sua figlia, suo marito, sua madre, Diciotto aveva suo fratello gemello.
Diciassette prese in braccio Clover e la ripulì dal terriccio umido in cui si era rotolata.
"Ora non fare troppo attendere quel poveraccio."
"Tipo te?"
"Chiamalo. O vado a prendere il Red Bull."
Diciotto non aveva bisogno di chiamare Crilin, gliel'avrebbe detto una volta a casa.
Restituì il parka blu al legittimo proprietario, si preparò a spiccare il volo con Marron e salutò Fairspeir con lo sguardo.
"Diciassette, grazie per avermi mostrato la tua casa."
Diciassette le rispose solo con un altro mezzo sorriso.
Ma prima di lasciarla andare, diede a Diciotto un piccolo buffetto sulla guancia.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Pensieri dell'autrice:
 
 
E siamo alla fine di un mini arc!
Un anno fa non immaginavo che sarei arrivata così lontano con questa storia e che avrei avuto tante soddisfazioni.
Date da voi, lettori, grazie di essere qui dopo letteralmente CINQUANTA capitoli.
Chi non mi ha ancora lasciato un parere potrebbe farlo ora, per celebrare il numero 50😊
La casa che ho messo in foto esiste davvero nel mio quartiere (anche se non si chiama Fairspeir) e mi fa sognare a guardarla: adesso quando ci passo davanti immagino che sia di 17...
Qui 18 è tornata e si è ripresa subito la scena😮
Ve lo aspettavate? No? Nemmeno lei!
Ci rivediamo giovedì prossimo: sarà ambientato quattro anni dopo...nell'anno del 25esimo torneo Tenkaichi.
 
 

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