The Haunting of Heydon Hall

di Marti Lestrange
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** PROLOGO ***
Capitolo 2: *** CAPITOLO UNO ***
Capitolo 3: *** CAPITOLO DUE ***
Capitolo 4: *** CAPITOLO TRE ***
Capitolo 5: *** CAPITOLO QUATTRO ***
Capitolo 6: *** CAPITOLO CINQUE ***
Capitolo 7: *** CAPITOLO SEI ***
Capitolo 8: *** CAPITOLO SETTE ***
Capitolo 9: *** CAPITOLO OTTO ***
Capitolo 10: *** CAPITOLO NOVE ***
Capitolo 11: *** CAPITOLO DIECI ***
Capitolo 12: *** CAPITOLO UNDICI ***
Capitolo 13: *** CAPITOLO DODICI ***
Capitolo 14: *** CAPITOLO TREDICI + EPILOGO ***



Capitolo 1
*** PROLOGO ***


L’Istituto Correttivo per Giovani Maghi e Streghe di Haydon Hall non è un bel posto, e basta una sola occhiata per dirlo, ma James Sirius Potter è costretto a trascorrervi un intero anno, per scontare una punizione che in fondo sa di meritare. Quando mette piede nella Scuola non si aspetta, però, che l’atmosfera da incubo lo trascinerà in un incubo vero, con radici profonde in parti della storia magica che nessuno vuole più ricordare, segreti di famiglia e purezza di sangue, lacrime e morte. Una storia in cui la giovane Emma Nott, studentessa ribelle appena arrivata alla Scuola, non può non rimanere invischiata, il richiamo del suo stesso sangue troppo forte per opporsi.

 

Titolo: The Haunting of Heydon Hall
Tipo di storia: longfic
Rating: arancione
Genere: horror, romantico, sovrannaturale
Personaggi: James Sirius Potter, Michael Corner, nuovo personaggio, Pansy Parkinson, Theodore Nott
Coppia: varie
Tipo di coppia: het, slash
Contesto: nuova generazione, dopo la II guerra magica/pace
Note: lime
Avvertimenti: /

 


«Hai detto che era una storia di fantasmi, ma non lo è. È una storia d’amore.» / «È la stessa cosa».

 


 

THE HAUNTING OF HEYDON HALL

 

“And I can go anywhere I want
Anywhere I want, just not home
And you can aim for my heart, go for blood
But you would still miss me in your bones
And I still talk to you (when I’m screaming at the sky)
And when you can’t sleep at night (you hear my stolen lullabies).”

 

“E posso andare ovunque voglio
Ovunque voglio, ma non a casa
E tu puoi mirare al mio cuore, volere il mio sangue
Ma sentirai comunque la mia mancanza nelle ossa
E ti parlo ancora (quando grido al cielo)
E quando non riesci a dormire la notte (senti le mie ninnenanne rubate).” 
Taylor Swift, my tears ricochet

 

 

PROLOGO

 

 

Heydon Hall, Norfolk

Nessuno sa quando tutto è cominciato, qui alla grande casa. C’è chi dice che l’inverno del 1981 sia stato uno dei più duri, sia per coloro che vivevano al villaggio, sia per chi abitava tra queste mura fredde e spoglie; c’è chi asserisce che non ci sia stata primavera più bella di quella che ne è seguita, quando cespugli di rose sono cresciuti, a maggio, nei giardini e tra le siepi, e si sono arrampicati sulla facciata ovest, per poi morire ai primi freddi successivi. 

Al villaggio non è rimasto nessuno a testimoniare quegli anni e ciò che qui si è consumato, e che ha trovato la sua fine in divampanti urla e fughe frettolose in notti senza luna. Nessuno ricorda più la bella dama nera che ha occupato queste sale, ammantata di oscurità e figlia di Ecate e della notte più buia e di una magia ancestrale anziana come il mondo. Nessuno è rimasto a rimembrarne il bel viso e la bocca aggraziata e gli occhi di pece, i capelli neri e lunghi come una coperta e le mani sottili da pianista, la levità con la quale camminava e il sorriso triste di chi ha amato tanto, fino a spezzarsi il cuore. 

Più nessuno sa quando tutto è cominciato, neanche noi, noi che custodiamo i segreti di Heydon Hall e ne conserviamo le chiavi. Un giorno, un giorno lontano e grigio, semplicemente tutto è finito, la dama non s’è più vista, le porte sono rimaste spalancate sul giorno e sulla notte, e sui giorni e le notti che sono seguite; la natura ha preso il sopravvento e si è insinuata laddove la vita umana le ha lasciato spazio; le rose sono nuovamente cresciute a primavera, sulla facciata ovest, sono entrate dalle finestre e hanno invaso le stanze; i ragni hanno costruito le loro tane nell’oscurità più tetra, sotto lenzuola muffite e grigie di polvere e ricordi, in angoli sperduti e anfratti di solitudine; tutto si è imbiancato, dal vecchio grammofono alla specchiera, dalle librerie ancora mezze vuote di libri che non giungeranno mai al letto disfatto e mai ricomposto di un amore folle e solo, dal pianoforte scordato al giardino d’inverno avvizzito e rachitico di rami spogli e decadenti di morte. Non c’era nulla che raccontasse di risate e di sorrisi e di baci, nulla che testimoniasse la gioia e l’amore e la vita, nulla che ricordasse a chi sarebbe giunto chi lì aveva vissuto, fino al suo ultimo respiro in una notte di fine inverno. 

Noi custodiamo Heydon Hall da ormai vent’anni, da quando è diventata una scuola e rumori di piedi e risate e urla di ragazzi e ragazze ne impregnano le stanze. Tutto sembra tornare a nuova vita, a settembre, alla morte dell’estate, quando gli studenti fanno ritorno e noi apriamo le porte, arieggiamo le stanze, spalanchiamo le finestre e rifacciamo i letti e riempiamo la dispensa. Allora prendiamo le chiavi, le scegliamo e le usiamo una ad una dal grosso mazzo d’acciaio, finché non arriva l’ultima, la più pesante, di spesso e pesante ferro, e con questa, invece di aprire una porta, ne chiudiamo un’altra, quella grande, a due battenti, che conduce - laddove tutto si è consumato, laddove tutto ha avuto luogo, laddove tutto è finito. Laddove vive Lei

Noi abbiamo imparato a conviverci, a riconoscere le sue intemperanze, seppur rare, ché di anno in anno diventa sempre più debole, la sua presenza, come se si stia cristallizzando, per sempre immobile nel tempo e nello spazio che si è costruita, e abbiamo imparato a non disturbarla, cosicché lei non disturbi noi. Sappiamo quando camminare in punta di piedi, quale asse non calpestare, quale finestra tenere chiusa per non far entrare il gelo; sappiamo quali odori la evochino - le rose, il fuoco, le mandorle dolci - e quali suoni la richiamino come un’eco - la canzone “Moonlight Serenade” di un certo Glenn Miller, il cui disco è ancora poggiato sul grammofono, bianco di polvere e rimembranze dolorose di un tempo passato. Ricordiamo il giorno preciso di marzo in cui accendere candele bianche e spargere salvia e tenerci lontani dall’ala ovest. 

Sa essere anche una presenza confortante, sempiterna e immutabile, colei che rimane, colei che non se ne va, colei che è la casa, Heydon Hall, e che impregna ormai le sue stesse mura. Molto spesso le parlo, le racconto le mie giornate, è come se fosse una vecchia amica, un’amica di lunga data, un’amica che sa ascoltare, paziente e mite. Lei non mi parla mai, però, tiene per sé la sua triste storia d’amore e di dolore, mantiene celato il suo passato, chiuso a doppia mandata nel suo cuore spezzato. Sento le urla, però, nelle notti difficili, in cui la luna è piena e alta nel cielo, o quando si mischiano agli urli del vento e della pioggia durante le tempeste. Solo così riesce a esprimere la sua pena e a sguinzagliare la sua rabbia e a sfogare il suo dolore. Solo così mantiene vivo il suo ricordo.

Nessuno sa quando tutto è cominciato, qui alla grande casa. Neanche noi, noi che custodiamo i segreti di Heydon Hall e ne conserviamo le chiavi.

 


 

Note.

Intanto, se siete arrivati sin qui, grazie. Questa storia nasce come sequel ideale di “Death in the Night”, la long sulla Nuova Generazione che ho da poco concluso, ma vorrei tranquillizzare i nuovi lettori perché non è necessario averla letta, per seguire questa nuova storia, quindi non temete, non ci saranno riferimenti incomprensibili e tutto sarà spiegato a dovere. 

Questo è un prologo particolare, è scritto in prima persona e al tempo presente, schema che non ritroveremo nei capitoli successivi, e a narrare è un personaggio che non è James Sirius, ovviamente, si sarà capito, e sono curiosa di vedere se ne capirete l’identità leggendo i prossimi capitoli. Dicevo, è un prologo particolare dove mi sono calata con tutti e due i piedi nella giusta atmosfera horror, che è poi il genere di questa storia. Non ho particolari precisazioni da fare, a parte che la scuola di Heydon Hall è di mia invenzione e ne saprete di più nel capitolo 1, dove finalmente arriverà James. 

Penso che qualcuno abbia riconosciuto la citazione prima del titolo, in caso contrario, arriva da “The Haunting of Bly Manor”: è una serie tv horror e la potete trovate su Netflix, ve la consiglio. Anche il titolo di questa storia è un esplicito rimando a Bly Manor e a “The Haunting of Hill House”, e in generale tutta questa storia sarà pesantemente influenzata da tutto il mio bagaglio horror accumulato negli anni, con libri, film e altro. Tornando alla citazione, trovo che descriva alla perfezione il clima di “The Haunting of Heydon Hall”, che appunto vuole essere anche una storia d’amore, e di famiglia, e di antiche storie e ricordi. 

Spero che questo prologo via abbia incuriosito, fatemi sapere cosa ne pensate ♥︎ L’aggiornamento con il capitolo 1 arriverà lunedì 9 novembre. 


A presto, Marti 🐍

 

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Capitolo 2
*** CAPITOLO UNO ***


PRELUDIO

 

 

Casa Potter, 31 agosto 2023

Fu molto strano dover partire il trentuno di agosto, invece che il primo di settembre, come ogni anno da sette anni a quella parte. James si svegliò presto dopo aver dormito poco e male ed essersi rigirato tra le lenzuola stropicciate per tutta la notte. Quel giorno era un giorno bello e luminoso, l’ultimo dell’estate, il primo che James avrebbe trascorso all’Istituto Correttivo per Giovani Maghi e Streghe di Heydon Hall, nel buco-di-culo del Norfolk, lontano da tutto e tutti - lontano dal Quidditch, lontano dalla sua famiglia e i suoi fratelli e i suoi cugini, lontano dai suoi amici. Aveva sempre e solo sentito parlare, di quella scuola, e sempre in termini scoraggianti: un posto dove venivano “spediti” i ragazzi difficili, i teppisti, i piccoli delinquenti e, in generale, tutti i giovani maghi e streghe che si macchiavano di qualche crimine ma che non era il caso di spedire ad Azkaban, la prigione dei maghi. 

Certo, continuava a pensare di esserselo meritato, quell’anno di “servizi utili da prestare alla comunità” che gli era stato assegnato a seguito di ciò che era successo a Hogwarts, ma non poteva fare a meno di pensare a quanto gli rodesse, vedere i suoi amici andare avanti con le loro vite, ricevere i risultati dei M.A.G.O. con una consapevolezza tutta diversa, cioè che un nuovo capitolo delle loro esistenze stava per iniziare, fuori da Hogwarts e nel mondo. Lui invece aveva aperto la lettera con gli esiti senza nessun mordente, aveva letto la sfilza di ottimi, brillanti voti (a dispetto di tutto ciò che era successo, non aveva mancato di eccellere, come sempre) e poi l’aveva mollata sul tavolo della cucina, ed era stata sua sorella Lily a trovarla e a raggiungerlo nella sua stanza e a dirgli per prima quanto fosse stato stupefacente - e «un grande, grandissimo secchione». Sua madre Ginny aveva insistito per festeggiare, quella sera, e aveva preparato la sua torta preferita - la torta alla melassa - solo per lui, e suo padre Harry lo aveva abbracciato e gli aveva detto quanto fosse fiero di lui, e suo fratello Albus aveva borbottato un «grandioso» prima di fiondarsi sulla torta. 

Per lui, non c’era davvero niente da festeggiare, ma si era sforzato di sembrare riconoscente, per gli sforzi di sua madre (non era in grado di preparare una torta alla melassa buona quanto quella di nonna Molly, ma James ripagava sempre il suo impegno mangiandosela tutta) e il sorriso benevolo di suo padre e i battibecchi tra i suoi fratelli, e solo Godric sapeva quanto gli sarebbe mancato, tutto questo! Non aveva fatto altro che ripensare a quanto fosse stato imprudente e stupido e avventato, a fare ciò che aveva fatto, in gennaio, quando sua cugina Rose era corsa a chiamarlo nella loro Sala Comune e lo aveva pregato di seguirla e lui aveva preso il Mantello e non aveva indugiato neanche un solo istante. Ricordava come fosse ieri il corpo di Karl Jenkins (un Serpeverde della stessa età di Albus), steso a terra, immobile nella morte, gli occhi spalancati sulla notte - e i volti terrorizzati e preoccupati dei presenti, della cugina Roxanne, della sua compagna Caitlin Finnigan, di Scorpius Malfoy, e infine di suo fratello Albus, che era l’unico fermo sulle gambe, ma che lo aveva guardato come un condannato a morte guarderebbe la sua unica possibilità di evasione. E così aveva fatto ciò che lo aveva cacciato in quel casino: aveva Trasfigurato il corpo di Jenkins in una pietra e quella pietra era stata gettata da Albus nel Lago Nero, e tutti avevano pensato che fosse finita, che la potessero scampare, e che tutto sarebbe tornato come prima. 

Non avevano però fatto i conti con gli Auror, precisamente con il loro (quasi) cugino Teddy Lupin e il suo fedele collega Roger Davies, che avevano scavato talmente tanto che alla fine il corpo di Jenkins era riaffiorato alla superficie quasi subito e le voci di un possibile assassinio erano corse di bocca in bocca per tutto il castello, provocando una cacofonia di ipotesi, pettegolezzi e illazioni - nonostante fosse stato pienamente appurato che la causa della morte era riconducibile ad un ritorno di fiamma della stessa bacchetta della vittima. 

Il caso aveva trovato una relativamente rapida conclusione, un mesetto dopo, quando lui e Albus erano andati a confessare tutto quanto ai due Auror, e i loro cugini e amici li avevano seguiti a ruota, ché più nessuno era stato in grado di convivere con un tale peso, con la mera consapevolezza di aver taciuto, e di aver nascosto, e con lo stigma di sentirsi colpevoli di qualcosa che in verità nessuno di loro aveva fatto. E così, erano stati tutti puniti: Scorpius, Rose, Roxanne e Caitlin avevano ricevuto la pena più lieve, che consisteva nel rinunciare al Quidditch, a Hogsmeade e a qualsiasi tipo di divertimento e diversivo, a Hogwarts, unito ad una punizione decisa dalla preside McGranitt e un mese di servizio utile; a tutto questo, per Albus, si erano aggiunti due mesi di servizio utile, quindi in totale erano diventati tre. A lui era toccata la fetta più grossa della torta della vergogna: un intero anno di servizi utili, ovviamente unito a tutto il resto del pacchetto. In più, gli avevano piazzato un incantesimo di Localizzazione che gli impediva di uscire dai confini di Hogwarts e, durante i mesi estivi, da quelli di casa Potter, ma che fortunatamente gli avevano tolto prima della sua partenza per il Norfolk. Quindi, non solo lo avevano privato della squadra di Grifondoro (e aveva dovuto guardarla arrivare terza, un risultato ben misero ma che almeno non li aveva visti arrivare ultimi), ma gli avrebbero anche impedito di andare avanti con il suo futuro e con i suoi progetti, che prevedevano che un selezionatore gli offrisse un posto in qualche importante squadra di Quidditch. E invece niente, era andato tutto in fumo. 

Non passava giorno in cui non pensava di esserselo meritato, e non passava giorno in cui non se ne fosse pentito o non si fosse maledetto per la sua avventatezza, ché se solo avesse avvertito il professor Paciock di ciò che era appena successo, forse le cose sarebbero andate diversamente. Ma poi guardava suo fratello Albus e pensava che aveva fatto tutto per lui, per proteggerlo e aiutarlo, e la rabbia e l’amarezza svanivano, e tutto ciò che restava era solo una quieta accettazione e una sorta di magra consolazione: in fondo, sarebbe potuta andare molto, ma molto peggio. 


🥀
 

Theodore Nott, che aveva rappresentato legalmente lui e gli altri al Ministero, lo venne a prelevare intorno all’una. Ginny gli aveva preparato un sandwich veloce, ma James lo aveva spiluccato, senza un reale appetito, e aveva atteso Theodore seduto sul divano di casa, il baule che solitamente usava ad Hogwarts pieno delle sue cose e uno zaino poggiato a terra contro il divano. Aveva salutato Harry quella mattina, prima che l’uomo andasse al lavoro. Quel giorno non poteva proprio mancare, avevano organizzato una riunione importante, altrimenti sarebbe rimasto a casa per vederlo partire. Sotto sotto, James aveva preferito così. Non avrebbe sopportato di vedere suo padre guardarlo andare via, magari con quel suo sguardo dispiaciuto che gli faceva sempre ballare lo stomaco dipinto sul volto. Si erano abbracciati e Harry gli aveva detto che sarebbe andato tutto bene, che confidava in lui, e che era sicuro che lo avrebbero lasciato andare via prima grazie alla sua buona condotta. James si era chiesto come mai suo padre insistesse tanto nel crederlo un modello indiscusso di comportamento e un figlio perfetto, quando gli aveva dato prova di non esserlo affatto, ma le domande erano state inevitabilmente archiviate, come accadeva sempre da qualche mese a quella parte. 

Udì il “crack” della Smaterializzazione e poi il suono del campanello. Ginny corse alla porta e fece entrare Theodore nel piccolo ingresso ordinato e lo accompagnò fino in salotto. Theodore era proprio lo stesso Theodore di sempre, con i vividi occhi azzurri e il completo d’alta sartoria e l’immancabile valigetta in pelle di drago. Gli sorrise. 

«Eccolo qui», disse. 

James si alzò e gli andò incontro. «Ciao, Theodore», lo salutò allungandogli una mano, che l’uomo strinse amichevolmente. 

«Vedo che sei pronto.»

James annuì. «Ti stavo aspettando.»

«Ottimo, ottimo, allora direi che possiamo avviarci, no?»

«Posso prepararti una tazza di tè, Theodore?» intervenne Ginny, le mani appuntate sui fianchi. 

L’uomo scosse la testa. «No, grazie, Ginny, sono di corsa. Accompagno James e poi torno di filato al Ministero per un’udienza.»

Ginny sembrò deglutire a fatica, forse aveva sperato di trattenerli lì ancora un pochino. James distolse lo sguardo da sua madre e lo puntò sul suo Magi-Avvocato. 

«Possiamo andare.»

In quel momento, Albus e Lily entrarono in salotto. Quella mattina, James li aveva pregati di non scendere, ché non voleva indulgere nei saluti, o si sarebbe solo sentito peggio di quanto già non si sentisse. A quanto pareva, i suoi fratelli avevano l’arte della disobbedienza nel sangue. 

«Albus, Lily», esclamò. «Cosa ci fate, qui?»

«Ti vogliamo salutare, testa di zucca», rispose Albus. «Non è evidente?»

«Hai preso un sacco di E ma rimani uno zuccone, James Sirius Potter», rise Lily. 

Lui li guardò e non potè che sciogliersi in un sorriso e allora loro gli si avventarono addosso per abbracciarlo e si strinsero, tutti e tre insieme, come non facevano da tanto tempo. 

«Prometti di scrivermi?» gli chiese Lily, la testa nascosta nel suo collo.

«Sì, sì, prometto», rispose. 

«Mi dispiace, Jamie», sussurrò Albus senza guardarlo in viso e James si rendeva conto quanto gli fosse costato dirlo, proprio a lui. 

«Non ci pensare, fratellino. Te l’ho detto», rispose altrettanto sottovoce scompigliandogli i capelli, e finalmente Albus alzò lo sguardo, ed entrambi si sorrisero.

«Non vorrei mettervi fretta, ma io temo di averne molta», disse Theodore facendoli tornare alla realtà.

James vide Ginny rivolgergli uno sguardo di fuoco prima di spostarlo su loro tre, sciogliendosi in un sorriso. «Forza, ragazzi, è ora», disse solo. 

James annuì e rivolse un’ultima occhiata ai suoi fratelli, che erano rimasti abbracciati. «Prendetevi cura l’uno dell’altra, voi due. E non litigate troppo.»

Albus mise su il suo solito ghigno d’ordinanza e Lily lo guardò scuotendo la testa, rassegnata ma divertita. James voltò loro le spalle e abbracciò brevemente sua madre, che lo strinse forte e lo baciò su entrambe le guance. James notò che piangeva, lei che non piangeva mai, e sperò solo di uscire di lì quanto prima per non doverla guardare. Non poteva sopportare la vista di sua madre in lacrime per colpa sua. 

«Sta’ attento, okay? E tieniti fuori dai guai. Intesi», disse, perentoria, la voce rotta.

«Tranquilla, Ginny, a Heydon Hall sarà impossibile per lui mettersi nei guai», disse Theodore, ondeggiando sulle gambe. 

Ginny lo guardò di nuovo male e così James intervenne. «Non preoccuparti, starò bene.»

Poi raccolse lo zaino e se lo mise in spalla. Alzò lo sguardo su Theodore e questi si avviò alla porta. Uscirono fuori dai confini di casa Potter, oltre i quali sarebbero riusciti a Smaterializzarsi. Ginny, Albus e Lily li guardavano dal ciglio della porta di casa, la prima in mezzo ai figli, un braccio intorno alla vita del maggiore, che la superava di gran lunga in altezza, e un braccio sulle spalle della minore, che le si accoccolò contro il fianco proprio come quando era piccola. James li guardò un’ultima volta e poi mise una mano sul braccio di Theodore, mentre con l’altra teneva saldamente il suo baule. Avrebbero eseguito una Materializzazione congiunta per raggiungere il Norfolk. James distolse lo sguardo dalla sua famiglia per puntarlo su Theodore. 

«Allora, James, andiamo?»

 

 

 

THE HAUNTING OF HEYDON HALL

 

CAPITOLO UNO

 

 

“Il sentimento più forte e più antico dell’animo umano è la paura, 
e la paura più grande è quella dell’ignoto.”
H. P. Lovecraft, Supernatural Horror in Literature

 

 

Heydon Hall, Norfolk, 31 agosto 2023

«E così questa è la famosa Heydon Hall, eh?»

Theodore gli assestò una pacca sulla spalla che forse voleva essere d’incoraggiamento, ma che James odiò profondamente. Aveva finito per apprezzare Theodore, forse gli voleva anche un po’ di bene, per essergli stato vicino durante il processo e i mesi turbolenti e difficili che erano seguiti, ma in quel momento non riusciva a non sentirsi seriamente demoralizzato. 

 

[HEYDON HALL]

 

Heydon Hall si stagliava davanti a loro in tutta la sua decadente e trionfale e grigia bellezza, proprio oltre i muri che ne delimitavano i confini e oltre i quali i due si erano Smaterializzati. 

«Ti piacerà, ne sono certo.»

James dubitava seriamente che quel posto potesse piacere a chicchessia, ma non replicò. Non ne aveva la forza, in quel momento. Così, Theodore fece levitare il suo baule e insieme percorsero il lungo viale sterrato. A destra e a sinistra si estendeva il parco della vecchia magione e verso est sorgeva un boschetto che sembrava fare tutto il giro della casa. La facciata era imponente, man mano che si avvicinavano, fatta di solidi mattoni rossi che però erano crepati in più punti, come se la manutenzione fosse l’ultimo pensiero dei suoi occupanti. Vi si aprivano grandi finestre cinte da colonnine e numerosi comignoli ne affollavano il tetto. Theodore bussò alla grande porta a due battenti e, nell’attesa, James alzò lo sguardo e gli sembrò di vedere un’ombra muoversi dietro una delle alte finestre dell’ala ovest, ma fu un movimento talmente rapido che alla fine pensò di esserselo immaginato. 

Un vento freddo, inusuale per quella stagione, e che senz’altro anticipava l’autunno, gli scompigliò i capelli, prendendo a soffiare furioso. Le cime degli alberi che si innalzavano proprio dietro l’ampia costruzione si agitavano furiose. Il cielo si rannuvolò all’improvviso, il sole rimase nascosto dietro spesse nuvole nere, portatrici di tempesta. James rabbrividì nella camicia leggera che aveva indossato quella mattina e rivolse un’occhiata a Theodore. Questi teneva le sopracciglia aggrottate e, sentendo addosso lo sguardo di James, si girò e gli sorrise, incoraggiante come sempre.

«Il tempo è pazzo, oggigiorno, non c’è che dire», commentò, ma James non ebbe modo di replicare perché finalmente la porta di Heydon Hall si aprì. Si dischiuse, sarebbe stato meglio dire, su un ingresso immerso nella penombra, quasi come se all’interno fosse già calata la notte e non fosse solo l’una del pomeriggio. Sulla soglia apparve un uomo e James avrebbe potuto giurare che, ad una prima occhiata, gli sembrò di vedere il vecchio Gazza. 

 

[I VECCHI CUSTODI]

 

«Sì?» gracchiò guardandoli da sotto un monocolo. Osservandolo meglio, James realizzò che non era per niente come Gazza: era alto, e ben vestito, nonostante gli indumenti sembrassero provenire da un’altra epoca, la barba non troppo corta ma curata e i capelli che vertevano più al bianco che al nero. James notò inoltre che indossava una giacca da camera rosso bordeaux, di certo non una di quelle giacche che indossi quando aspetti ospiti, ma piuttosto che ti metti addosso appena sceso dal letto la mattina, o per fumare la pipa comodamente seduto in poltrona, magari a sonnecchiare davanti al caminetto acceso. 

Si riscosse quando Theodore parlò. «Sono il MagiAvvocato Nott, signor Pince1. Sono qui per accompagnare il ragazzo, si ricorda?»

Il signor Pince (e il nome non gli era nuovo, ma non ricordava dove lo avesse già sentito) squadrò Theodore dall’alto in basso, dubbioso e confuso. Poi spostò lo sguardo su di lui e James si sentì raggelare. Rabbrividì, ma continuò a fissare Pince a sua volta. 

«Signor Nott», esclamò un’altra voce, una voce femminile. Accanto a Pince si materializzò (e non magicamente) una donna alta quasi quanto lui, tutta vestita di nero, con in testa la sommità di capelli biondi e cotonati più alta che James avesse mai visto. Ora lo fissava attraverso un paio di occhialini sottili, dorati, la bocca inclinata in una linea dritta e dura, ma divertita. «Oh, ecco qui il signorino Potter», continuò. 

«Madama Pince1», la salutò Theodore sporgendosi in avanti e facendole il baciamano. Madama Pince! La vecchia bibliotecaria di Hogwarts! Ecco dove aveva già sentito quel nome. Quella che aveva davanti non era evidentemente la stessa persona che ricordava, e James pensò che, visto che Theodore aveva chiamato “signor Pince” anche il vecchio rimbambito con il monocolo, lei doveva essere la moglie, e lui - il vecchio rimbambito - era quindi il fratello, o un semplice parente, della Madama Pince che ricordava. Ora che aveva ricostruito tutto l’albero genealogico della famiglia Pince, si sentiva ancora più stupido. 

«Perdonate il caro Forrest, il trentun agosto è una giornata sempre molto movimentata, per noi, come sapete», spiegò lei sorridendo a Theodore. «Il viaggio è andato bene?»

«Benissimo, grazie», rispose quindi il MagiAvvocato. «E mi dispiace lasciare qui il signor Potter così, e andarmene su due piedi, ma temo di essere di corsa.»

«Quindi non prende neanche un buon tè?» Madama Pince sembrava delusa, e James pensò a quanto dovesse farle piacere prendere il tè con Theodore, rifacendosi gli occhi e mandando a letto quel gufo del marito. Gli scappò quasi da ridere, ma si trattenne. 

Grosse gocce di pioggia cominciarono a cadere dal cielo, improvvise e gelide. Picchiavano sul terreno con forza e, in breve, James sentì la camicia più che umida. 

«Sarà meglio che vada», esclamò Theodore. Si girò verso di lui, quindi. «James, mi raccomando, confido in te. Per qualsiasi cosa, non esitare a contattarmi e a mandarmi un gufo. Sapere che tu ed Emma2 sarete nello stesso posto per un anno intero mi consola, e non sai quanto!»

«Emma?» esclamò James scostandosi dalla fronte un ciuffo di capelli ormai bagnato fradicio. «Emma verrà qui?»

«Sì, sì, ma non te l’ho detto? Che sbadato, che sono! Va bene, sarà meglio che mi sbrighi, addio James… i miei omaggi, Madama Pince… signor Pince…» e così dicendo caracollò giù per il viale di corsa - correva bene, Theodore, si vedeva che era allenato - e scomparve non appena ne ebbe varcato i confini. 

«Sarà meglio entrare, signorino Potter», gracchiò Madama Pince.

James, riluttante, la seguì all’interno, mentre il signor Pince richiudeva la porta dietro di lui. Alzò lo sguardo per osservare l’ambiente intorno a sé e dimenticò per un momento Emma Nott: davanti gli si dischiudeva un’ampia hall dalla quale partiva un elegante doppio scalone di marmo che conduceva al ballatoio del secondo piano; dall’ingresso si diramavano quattro corridoi e James pensò a quante volte si sarebbe perso, là dentro. Un grande e sontuoso lampadario di cristallo pendeva dal soffitto decorato con affreschi, disegni di angeli e putti grassi che gli sorridevano benevoli ma che lui trovò soltanto inquietanti. 

«Lasci pure il suo baule accanto alla porta.» Lo riportò alla realtà per l’ennesima volta la voce della Pince. «Lamb3 avrà cura di portarlo nel suo alloggio.»

James si chiese chi diavolo fosse Lamb, ma non lo esplicitò ad alta voce. 

«Forrest, perché non torni di là, eh?» sussurrò quindi la donna al marito, avvicinandoglisi. «Accompagno io il nuovo arrivato dal preside, tu non ti stancare.»

Forrest Pince annuì e il monocolo tremolò per un lungo istante. Poi gli rivolse un’ultima occhiata e se ne andò strascicando i piedi ai quali, James notò solo in quel momento, portava un paio di pantofole. 

«Mi segua, per favore, la accompagno dal preside Corner.»

James si affrettò a star dietro a Madama Pince, che camminava in modo incredibilmente veloce, per una donna della sua età. Da dietro sembrava un piccolo uccellino nero, tutta vestita di scuro e ondeggiante, e camminava a piccoli ma rapidi passi. Imboccò il secondo corridoio a destra e ben presto sbucarono in quella che doveva essere l’ala est della casa, che si apriva in un’altra grande hall, elegante e luminosa, questa volta, nonostante il cielo grigio all’esterno. La Pince procedette e superò un grande tavolo di marmo sul quale erano poggiate delle pergamene, dei volantini Ministeriali e altri fogli che però James non riuscì a decifrare. Si fermò davanti ad una porta a due battenti al fondo di un piccolo corridoio cieco, il cui pavimento era interamente ricoperto di moquette rosso rubino. Si voltò verso di lui e sfoderò la bacchetta e per un istante James pensò che volesse Schiantarlo. Invece la agitò e lui venne investito da un fiato di aria calda e piacevole che, in breve tempo, gli asciugò la camicia e i capelli. «Non avrai mica pensato di presentarti al preside conciato in quel modo, eh, ragazzo?» James non ebbe modo né tempo di replicare: Madama Pince bussò e attese solo qualche secondo prima che una voce dall’interno diede loro il permesso di entrare. 

 

[IL PRESIDE]

 

Sbucarono in un ufficio piuttosto ampio. Le pareti erano letteralmente tappezzate di librerie, scaffali su scaffali, alti fino ai soffitti ariosi, e stipati di libri, antichi volumi e documenti, ma per lo più libri. In un angolo, James individuò un tavolo di marmo molto simile a quello visto nella hall, sopra il quale era poggiata una grossa gabbia dorata, nella quale riposava una splendida civetta dalle lucide piume grigie, sfumate verso il nero, che le donavano un aspetto suggestivo e misterioso. Dietro la grossa scrivania in legno scuro non sedeva nessuno, però, e James si chiese chi avesse risposto e, soprattutto, dove fosse. 

«Grazie, Cordelia, lasciaci», continuò la voce di prima, proveniente da un qualche punto imprecisato del grande ufficio. James si domandò, stupito, quanto effettivamente fosse grande, quel posto.

Cordelia Pince gli rivolse un’ultima occhiata in tralice e poi si ritirò, silenziosa, quasi avesse le rotelle, e richiuse la porta. James rimase solo - o quasi. Rivolse un’altra occhiata alla civetta, sentendola lamentarsi nel sonno, e le si avvicinò. Si chinò ad osservarla, e ad osservarne il magnifico piumaggio. Non aveva mai visto un esemplare così bello, prima. Alla base della gabbia, inciso in armoniose e distinte lettere argentate, c’era scritto solo un nome, che James immaginò fosse il nome dell’animale: Athena.

«Athene noctua.»

James sobbalzò, perché questa volta la voce arrivava proprio da dietro le sue spalle. Si voltò e si ritrovò faccia a faccia con un uomo piuttosto alto, dai capelli scuri spruzzati qua e là d’argento, e due incredibili occhi azzurri, in quel momento cinti da un paio di finissimi occhialini, che minacciavano quasi di spezzarsi da un momento all’altro. Indossava una lunga veste che somigliava in modo spiazzante ad una vestaglia da camera, molto simile a quella del signor Pince, ma più lunga, gli arrivava fin sotto le ginocchia, ed era di un bel blu cangiante trapuntato di stelle dorate. James trovava tutto estremamente bizzarro.

«Come, prego?» rispose quindi, deglutendo.

«Athene noctua», ripetè l’uomo sorridendogli furbescamente. «È il nome latino della civetta, ovviamente. Esemplari affascinanti, non è vero, signor Potter?»

James si strinse nelle spalle. «Be’, immagino di sì…»

«La povera civetta è rimasta avvolta da un alone di mistero e sfortuna per parecchi secoli, sai?» continuò l’altro imperterrito, aprendo la porticina della gabbia senza fare troppo rumore. «Gli Egizi pensavano che un suo verso preannunciasse la morte e nel Medioevo veniva associata niente meno che alla stregoneria. Perspicaci, questi Medievali, eh?» Ridacchiò, e James sorrise, non sapendo bene né cosa dire, né cosa fare.

«Invece nell’Antica Grecia veniva adorata, e associata alla dea Atena, e proprio da qui deriva il nome che le diedero i latini, Athene noctua. Noctua, notturna, della notte. Oggi, comunemente, i Babbani la raffigurano nei portafortuna, ci pensi?»

James, di nuovo, non sapeva cosa dire, e così si limitò ad annuire. L’uomo allungò un dito e carezzò amorevolmente le penne del volatile, che si mosse inquieto nel sonno, ma non si destò. Poi richiuse la gabbia e tornò a guardare James. Rimasero a fissarsi per un lungo istante, durante il quale James si chiese se non fosse un po’ tocco. 

«Molto bene», esclamò quindi l’altro battendo leggermente le mani e avviandosi alla scrivania. Si slacciò la vestaglia e James, seguendolo, ebbe modo di intravedere un pantalone grigio e una camicia bianca, un abbigliamento decisamente sobrio che stonava con tutto il resto. Gli fece cenno di accomodarsi e James, dopo essersi sfilato lo zaino e averlo poggiato a terra, prese posto in una delle due poltroncine di fronte alla scrivania, ovviamente blu. Notò che il piano in legno era letteralmente ricoperto di fogli, pergamene, piume d’oca e libri chiusi o aperti, in un caos indicibile che avrebbe fatto storcere il dritto naso della preside McGranitt. Solo in quel momento fece caso alla parete dietro la scrivania, dove non solo si apriva una grande finestra dalla quale si vedeva, perfettamente simmetrico, il lungo viale che conduceva a Heydon Hall, ma sulla quale era riprodotta la volta celeste, il cielo blu indaco e milioni di stelle. I suoi ricordi di astronomia erano troppo arrugginiti per riconoscere esattamente tutte le costellazioni raffigurate, ma individuò senz’ombra di dubbio quella dello scorpione e della bussola, prima di sentirsi osservato e di spostare lo sguardo sull’uomo che gli sedeva di fronte. Sulla scrivania di fronte a lui era poggiata una targhetta dorata, e sopra era riportato un nome: Michael Corner. Theodore glielo aveva citato, ma se n’era scordato. Quella volta erano presenti anche Ginny ed Harry e ricordò che sua madre si era quasi strozzata con il tè, ma ovviamente non ne aveva capito il motivo. 

«Benvenuto a Heydon Hall, James», esclamò quello sorridendogli. Aveva dei denti piccoli e perfetti, bianchissimi, ma nel complesso gli rivolse un sorriso benevolo che James reputò come sincero e affabile. «Allora, che te ne pare del mio umile istituto?»

«Be’…» cominciò lui grattandosi la nuca. «Ho visto molto poco, venendo qui, ma mi sembra… insomma… bello.»

Si diede mentalmente dello stupido: bello era l’unica cosa che era stato capace di dire? E poi, non era certo l’aggettivo giusto con il quale definire Heydon Hall. Forse inquietante sarebbe andato meglio. O sepolcrale. O sinistro.

«Bene bene, sono sicuro che andremo molto d’accordo, noi due», continuò Corner facendogli l’occhiolino. «Quando Theodore mi ha contattato per chiedermi cosa ne pensassi, all’idea di averti qui un anno intero a renderti utile, be’, non ho potuto fare a meno di accettare di slancio. Quello che è successo non ti definisce, James, come, allo stesso modo, le monellerie dei miei ragazzi non li definiscono, questo è un concetto che ho molto a cuore, e vorrei che ci riflettessi sopra, durante la tua permanenza qui a Heydon Hall.»

James annuì. In fondo, Corner aveva ragione: ciò che era successo con Karl Jenkins non lo definiva, e non lo avrebbe definito mai. Lui non era “colui che aveva Trasfigurato un cadavere”, ma era solo James Sirius Potter, niente di più e niente di meno. 

«Penso che Theodore ti abbia solo accennato quali saranno le sue mansioni, qui…» andò avanti il preside cambiando discorso e appoggiando i gomiti sulla scrivania, le dita cinte le une con le altre. Gli occhialini sobbalzarono leggermente sul naso armonioso. 

James annuì. «Mi ha detto che sarebbe stato lei a illustrarmele, signore.»

Corner si lasciò sfuggire un sorriso e scosse la testa. «Certamente, certamente. In primis, niente “signore”, qui dentro. Non mi reputo così vecchio da necessitare una tale formalità.»

James si limitò a guardarlo, la bocca leggermente aperta. Quell’uomo si stava rivelando una vera sorpresa e si chiese cos’altro ancora stesse riservando per lui sotto quella sua stramba vestaglia. 

«In secundis, le tue mansioni. Ti occuperai principalmente della sorveglianza dei ragazzi durante le ore di buco e nelle ore dedicate allo studio in biblioteca o nelle aule apposite, ma accompagnerai anche gli studenti del primo anno dal loro dormitorio alle aule, ogni mattina, e dalle aule alla sala refettorio, a pranzo, e così via durante tutto il resto della giornata. Così facendo alleggerirai notevolmente il lavoro del signor Pince e della signora Parkinson4

«Il signor Pince, cioè il marito di Madama Pince?»

«Oh, no, non il vecchio signor Pince, ma il giovane. Lambert Pince. È il figlio dei signori Pince, che sono i nostri preziosissimi custodi. Si occupano di Heydon Hall da più di vent’anni, sai?»

Ecco perché il vecchio signor Pince era così decrepito. Avrebbe dovuto immaginarlo. 

«A tale proposito, più tardi Lambert ti mostrerà la tua stanza, che si trova nel corridoio del personale. E avrai modo di conoscere lui e la signora Parkinson, che ti affiancheranno nel tuo lavoro di sorveglianza e scorta. Ti invito ovviamente a rispettare i tuoi colleghi e a seguire i loro consigli e le loro indicazioni, ma riceverai le tue mansioni direttamente da me, e da nessun altro, intesi?»

James annuì prontamente. Sembrava che stesse particolarmente a cuore, a Michael Corner, da chi ricevesse gli ordini, e si chiese cosa questo avrebbe implicato, per lui, nell’immediato futuro. 

«Molto bene. Non credo che tu conosca come funziona qui, ma quando arrivano i ragazzi le loro bacchette vengono prelevate e conservate in un posto sicuro. Vengono restituite loro ogni mattina, subito dopo colazione, prima di scortarli nelle rispettive aule, questo per mantenere alto il livello di sicurezza della scuola ed evitare incidenti di sorta, e voglio che tu capisca l’importanza di questa misura, James. È una delle regole più ferree di Heydon Hall, ma è niente di meno che necessaria.»

«Certo, certo», borbottò James. «Lo capisco, ovviamente.»

«Ben intesi, tu potrai tenere la tua, eh. La regola vale solo per i ragazzi.»

«La ringrazio, sign—», ma Corner alzò le sopracciglia talmente tanto che queste andarono a fondersi con il ciuffo di capelli che gli ricadeva scomposto sulla fronte, e così James lasciò morire la frase. 

«Ottimo, ci sono domande?»

James scosse la testa. «No, per adesso è tutto chiaro.»

«Bene benissimo», esclamò l’altro alzandosi. James lo imitò. «Sai ritrovare la via per l’ingresso principale, vero? Cordelia Pince ti attende là e io devo finire di tradurre un vecchio manoscritto dal sanscrito.»

James inarcò le sopracciglia, non potè farne a meno. 

«Ah, sì, una cosuccia da niente», rispose Corner davanti alla sua espressione mezza stupita e mezza perplessa. Agitò una mano. «Ci vediamo stasera a cena, James. Ciao ciao.»

James agguantò lo zaino e gli diede le spalle, ma venne richiamato dal preside proprio mentre richiudeva la porta. Fece capolino nello studio. «Sì?»

«Dimenticavo un’altra delle importanti regole di Heydon Hall: l’accesso all’ala ovest è severamente proibito. Per intenderci, il corridoio che si apre proprio alla sinistra della porta d’ingresso. È pericolosa, e per questo motivo l’abbiamo chiusa. È sempre stata chiusa.»

«Va bene. Nessun problema», replicò, e un altro cenno da parte del preside gli fece capire che aveva davvero terminato. Chiuse la porta e fece un sospiro. 

Per Godric, non immaginava certo che il preside sarebbe stato un completo scoppiato. Poco male, gli sembrava che fosse decisamente malleabile e che gli avrebbe lasciato più libertà di quella che sperava di ottenere. 

«Salve.»

 

[LAMB]

 

James sobbalzò e quasi urlò per lo spavento, mentre una figura alta e vestita di scuro spuntò letteralmente da dietro una statua. Era un uomo dai capelli castani tagliati corti e gli occhi chiari e lo osservava interessato e incuriosito. 

«Scusa, non volevo spaventarti», continuò. Aveva una voce buona, però, e così James cercò di tranquillizzarsi. «Sono Lambert. Lamb. Il figlio dei coniugi Pince, i custodi.»

Allungò una mano e James gliela strinse. Fu una stretta molle e incerta e la pelle della mano dell’uomo era umidiccia e sudata, così James ritirò subito la sua. 

«Tu devi essere James Sirius Potter, invece.»

«Sì, sono arrivato pochi minuti fa.»

«Mia madre me lo ha detto. Ho portato il tuo baule nella tua stanza. Vieni, ti accompagno.»

James lo seguì di mala voglia, ma cercò di imporsi di essere amichevole e gentile, in fondo Lamb sarebbe stata una delle sue uniche compagnie, durante quell’anno lunghissimo. Ottimo, sembrava promettere proprio bene. 

 

🥀

 

La sua stanza si rivelò essere molto meglio di quanto si fosse aspettato - e di quanto avesse temuto. Era composta da un letto ad angolo proprio sotto la finestra, che affacciava sul parco sul retro della casa e dalla quale, sorprendentemente, James avvistò un campo da Quidditch. Si era portato dietro la sua scopa, nonostante sapesse di non avere alcuna occasione di usarla, ma averla con sé lo faceva sentire al sicuro, quasi come se fosse un amuleto, ma anche una parte di sé che non lo lasciava mai. Nell’angolo opposto c’era un armadio, piccolo ma nel quale sarebbe riuscito a far stare tutte le sue cose e, accanto, uno scrittoio che sembrava antico e una poltrona un po’ sdrucita posizionata vicino ad un caminetto. Certo, non era camera sua, a casa, con i poster del Quidditch e le foto con la sua famiglia e i suoi amici, ma in fondo sarebbe potuta andare molto peggio, visti i preamboli. Non c’erano ragnatele e tracce di polvere e sembrava che fosse stata pulita di recente, in vista del suo arrivo. Il suo baule era stato poggiato ai piedi del letto e James avrebbe avuto modo di sistemare il tutto dopo cena, anche perché venne trascinato da Lamb nella sala del personale, dove ebbe modo di conoscere la sua ultima collega. 

 

[PANSY

 

Pansy Parkinson era una strega alta, vestita di bianco. I capelli castani le ricadevano ai lati del viso in modo ordinato e gli occhi chiari, nonostante fossero glaciali, lo osservarono con interesse e curiosità. Sembrava molto meno inquietante di Lamb - e dei signori Pince - e James sperò tanto di non sbagliarsi. Aveva bisogno di qualcuno di lucido con il quale parlare sensatamente. 

«Andavo a scuola con tuo padre, sai?» gli disse lei con voce bassa e roca, quando si furono seduti a prendere il tè che aveva appena preparato. La stanza consisteva in un piccolo spazio nel quale erano stipati una cucinetta assemblata con scarti provenienti da vari periodi storici non meglio identificabili, un tavolaccio di legno disseminato di righe e profonde (e inquietanti) incisioni, due poltrone piuttosto scolorite ai lati del piccolo camino - che era già acceso nonostante si fosse solo, quasi, in settembre - e alcune sedie scompagnate che avevano visto giorni migliori. Però l’ambiente era caldo e accogliente, e a James ricordò tantissimo La Tana. Dei signori Pince non c’era traccia e già solo per questo, tirò un bel sospiro di sollievo. Aveva capito che il signor Pince gli metteva ansia e che Cordelia Pince gli ricordava un corvo denutrito, e averli intorno sarebbe stata dura, di questo era già sicuro. 

Lamb aveva preso posto sospirando e gemendo e lamentandosi del male alle ossa, mentre Pansy aveva alzato gli occhi al cielo e gli aveva versato del tè, intimandogli di stare zitto o James sarebbe scappato a gambe levate. Gli sembrava una donna insicura, quella Pansy Parkinson, perché le mani le tremavano mentre versava il tè, e aveva rabbrividito quando gli aveva stretto la mano, e ora lo guardava sospettosa, come se lui celasse qualche segreto inconfessabile e violento. Quando gli disse della scuola e di Harry, per poco non si bruciò con il tè. 

«Andava a scuola con mio padre?» esclamò. 

Lei annuì. «Oh, sì, solo che io ero in Serpeverde. Non sono sempre stata gentile con lui, temo.»

«Mio fratello è in Serpeverde», chiarì James, a volerle far capire che nella sua famiglia non si badava più ad un concetto arcaico e ormai superato come la differenza e la rivalità tra case diverse.

«Oh, una volta era diverso», disse Pansy sorseggiando dalla sua tazza, come se gli avesse letto nel pensiero. Si chiese in modo allarmante se la donna praticasse la Legilimanzia, ma scacciò via quel pensiero. Si stava facendo suggestionare da quella casa scricchiolante e sinistra. 

«Non attaccherai con quelle vecchie storie sulla purezza di sangue, eh, Pansy?» abbaiò Lambert ridendo. «Non credo che a James interessino, lui è un ragazzo, solo delle vecchie barbose come te stanno ancora dietro a certe fandonie.»

«Ah, sì?» lo attaccò lei guardandolo malissimo, gli occhi ridotti a due fessure. «Allora quali storie vorresti raccontargli, sentiamo? Le tue bellissime storie di paura, forse?»

James voltò di scatto la testa verso Lambert. L’uomo lo guardava da sotto la sua tazza, e aspettava solo che gli facesse un cenno di assenso. 

«Non ho paura di alcune vecchie storie, ma sono curioso», rispose quindi lui incrociando le braccia al petto, sprezzante del pericolo. Non aveva mai avuto paura dei fantasmi e altre simili fesserie e non avrebbe di certo iniziato ora. 

 

[STORIE DI FANTASMI]

 

«Oh, be’, non c’è molto da raccontare, tranne che questa casa puzzolente è infestata», cominciò Lamb inclinando la testa in modo inquietante. James sentì Pansy sbuffare: non ci credeva, oppure aveva troppa paura per aver voglia di stare a sentire. Probabilmente entrambe le cose. «Un fantasma si aggira tra queste mura vecchie di secoli, trascinandosi dietro la sua infelicità e la sua miseria. C’è chi dice che sia lo spirito di un’amante tradita e abbandonata che ha posto fine alla sua stessa vita tagliandosi le vene, qualcun altro invece asserisce che è il fantasma di un’assassina, che in questa casa ha perpetrato i suoi orridi crimini prima di trovare la morte per mano del marito, disperato davanti ai corpi senza vite delle sue piccole bambine.»

«Certo, ovviamente doveva essere stata per forza una stronza», commentò solo Pansy scuotendo la testa. 

«Le leggende non le ho mica messe in giro io, sai?» si difese Lamb spalancando la braccia, impotente. «In ogni caso, è da anni che non si fa né vedere, né sentire, sembra quasi che abbia trovato la pace, finalmente, ovunque ella sia.»

«Voi l’avete mai vista?» chiese James. Non era rimasto granché impressionato da quella storia. Sembrava che Lamb gli stesse per raccontare chissà quale paurosa sventura, ma non era niente di più di qualsiasi altra cazzata sui fantasmi sentita in vita sua, vero o presunta che fosse. Lui lo sapeva, com’erano fatti i fantasmi, ci aveva convissuto per sette lunghi anni, ed erano tutto tranne che spaventosi. A parte forse il Barone, ma quella era un’eccezione.

I due si scambiarono un’occhiata fugace, prima che Pansy volgesse gli occhi alla finestra e Lamb tornasse a guardarlo. «Io l’ho vista. Ero un ragazzino e ho sempre vissuto qui, sai, insieme ai miei genitori. Non sono mai stato a Hogwarts, ho studiato con mia madre e con i professori dell’istituto.»

James si chiese come fosse possibile non frequentare Hogwarts, ma siccome il pensiero della sua ormai vecchia scuola gli faceva male, lo scacciò dalla mente. 

«Vieni al punto, Lamb», lo incalzò Pansy, spazientita.

«Ci arrivo, ci arrivo», replicò l’altro scocciato. «Insomma, stavo tornando proprio da queste parti, nel corridoio del personale, ed ero da solo, ed era già calato il buio. E l’ho vista. Si stagliava contro la porta che conduce all’ala ovest, alta e grigia e spaventosa.»

L’uomo rabbrividì e James notò che aveva la pelle d’oca, gliela vedeva sul pezzo di avambraccio lasciato scoperto dalla camicia scura. 

«Mi ha guardato con due occhi di fuoco… Ovviamente sono scappato a gambe levate e, quando ho raggiunto mia madre, lei prima è venuta a vedere cos’avessi visto, dopo averla lungamente pregata, piangendo a dirotto, e poi mi ha dato una di quelle sculacciate così epiche che non la scorderò mai e poi mai. Tanto che non ho più visto niente.»

«Non ha perso il vizio di sculacciarti, però, eh Lamb?»

Lamb si girò e questa volta furono i suoi occhi a mandare bagliori. «Non parlare di cose che non conosci, Pansy. Tu non sai niente di mia madre.»

«Sì, sì, a parte che è una vecchia megera», borbottò lei alzandosi e poggiando la tazza ormai vuota nel lavandino.

«Ripetilo!» esclamò Lamb alzandosi in piedi. 

James non sapeva se alzarsi e intervenire o dire semplicemente qualcosa per placare quel battibecco che si stava trasformando in un litigio. Ma ci pensò Michael Corner. Il preside entrò nella stanza (indossava ancora la vestaglia blu, e con la solita disinvoltura di prima) e passò uno sguardo da Pansy a Lamb e ritorno.

«Cosa succede, qui? Ho sentito delle voci alte.»

«Tutto bene», esclamò James alzandosi. «Pansy e Lamb mi stavano raccontando del vecchio fantasma di Heydon Hall.»

Corner lo guardò come non lo aveva mai guardato, durante quella loro prima conversazione, nel suo studio. I suoi occhi azzurri erano gelati, due grossi pezzi di ghiaccio, ma fumavano, letteralmente. Lo guardava come se avesse appena detto che Lord Voldemort era tornato, con un misto di ira, sconcerto e puro e semplice terrore. Michael Corner aveva paura, allora. Aveva paura dei fantasmi.

Quell’ombra strana passò, però, e l’uomo ritrovò il suo sorriso scanzonato. «Il vecchio fantasma? Non esiste nessun fantasma, a Heydon Hall, sono solo delle vecchie e stupide storie di un paesino di campagna. Non farti spaventare dal buon Lamb, lui ama stupire i nuovi arrivati.»

James rivolse uno sguardo a Lambert, che però sembrava tutto, tranne che convinto.

 

🥀

 

[LA PRIMA CENA]

 

Quella sera, cenarono nel refettorio, un’ampia sala disseminata di tavoli, che però in quel momento erano tutti deserti, almeno finché non sarebbero arrivati gli studenti, il giorno successivo. James mangiò bene e si complimentò con Madama Pince, che si occupava della cucina, e lei gli rivolse un raro sorriso. Il preside Corner tenne letteralmente banco, raccontandogli delle sue avventure e delle sue esplorazioni in giro per il mondo, dal Sudafrica alla Tanzania, dalla Mongolia al Brasile. Era un esploratore e uno studioso e conosceva un sacco di lingue e culture diverse. James scoprì che era stato in Corvonero e non se ne stupì affatto. 

Al termine della cena, declinò il caffè offertogli da Pansy e si congedò per andare a dormire. Aveva voglia di starsene un po’ per conto suo, e poi era stanco morto. Durante il resto del pomeriggio, Lamb lo aveva portato in giro per la casa, instancabile, per mostrargli tutto quanto. Durante le loro peregrinazioni, gli aveva spiegato come funzionava la scuola, dettaglio che il preside Corner, nel suo inconcludente benvenuto, si era scordato di esplicitare. Funzionava proprio come ad Hogwarts: gli studenti erano divisi in sette anni, le materie erano pressoché le stesse, ma semplificate (e senza quelle facoltative), e si iniziava il primo settembre e si finiva il trenta giugno. Inoltre, vigeva una disciplina ferrea, soprattutto da parte degli insegnanti, e i ragazzi venivano mandati lì a scontare le pene per i loro piccoli e grandi crimini per decisione dei genitori oppure del Ministero della Magia. In ogni caso, erano come gatti randagi costretti a convivere in uno spazio ristretto, o cani ringhianti che anelavano solo alla libertà. In nessun caso, secondo Lamb, bisognava dar loro confidenza, o avrebbero cercato in tutti i modi di approfittarsi della situazione. Avevano perso la nozione del tempo e James era riuscito giusto a farsi una doccia, nella vasca antiquata ma pulita del suo piccolo bagno personale, prima di cambiarsi per la cena.

«Sicuro che non rischi di perderti, ragazzo?» gli chiese Cordelia Pince sorseggiando il suo caffè e osservandolo da sopra la sua tazzina.

«Ho la mappa di Heydon Hall tutta qui, ormai», rispose lui picchiettandosi la testa. «Merito di Lamb.» E gli rivolse un sorrisone che l’altro ricambiò, raggiante. Aveva capito che ci andava davvero poco, per farselo amico. 

«Allora buonanotte!» esclamò Corner. 

«Buonanotte a tutti.»

«E sta’ attento al fantasma, piccolo Potter», pigolò Pansy  scoppiando a ridere. Lui rise a sua volta e poi uscì. Raggiunse la sua stanza senza problemi e si richiuse la porta alle spalle. 

 

[JAMES VEDE COSE IN CUI NON CREDE]

 

Capì subito che c’era qualcosa di strano: il suo baule non era più ai piedi del letto, chiuso, ma accanto alla vecchia poltrona, aperto. Aggrottò le sopracciglia e si avvicinò per sbirciare all’interno, ma era tutto in ordine. Pensò ad un qualche stupido scherzo di Lamb o, più probabilmente, di Pansy, e lo sistemò dove stava. Ne tirò fuori il pigiama e lo buttò sul letto. Si tolse le scarpe e le calze e si sfilò il maglione dalla testa. Sbottonò la camicia e l’appese nell’armadio. Poi andò in bagno per lavarsi i denti. Si guardò allo specchio, il viso stanco, i capelli spettinati, gli occhi castani accesi. In fondo, non era andata poi così male. Si tolse gli occhiali per sciacquarsi il viso e li poggiò sulla mensola sopra il lavandino. Si lavò la faccia e agguantò un asciugamano, ma proprio in quel momento la vide. Fu solo un’ombra, uno spostamento rapido di oscurità contro la luce della stanza alle sue spalle. Scosse la testa e si rimise gli occhiali in tutta fretta, ma non c’era più nulla. 

Finito di lavarsi, tornò in camera. Il baule era di nuovo accanto alla poltrona, aperto. Si immobilizzò e rimase a guardarlo per un lungo momento, incerto. Si sentiva un vero stupido a pensare ciò che stava pensando: lui che indugiava con la mente su quelle vecchie storie di fantasmi? Si riscosse, però, quando gli venne in mente che Pansy doveva aver atteso dietro la porta della sua stanza che andasse in bagno, per poi entrare e giocargli nuovamente quel terribile scherzo. La immaginò ridersela di gusto. Questa volta lasciò il baule dov’era, però, si tolse i jeans e indossò il pigiama e si mise sotto le coperte. Spenta la luce, ben presto si addormentò.
 


Note.

Prima qualche nota “tecnica”:

1. I signori Pince sono personaggi di mia invenzione; Forrest Pince è il fratello maggiore di Madama Pince, la bibliotecaria di Hogwarts
2. Emma Nott è un personaggio di mia invenzione, figlia minore di Theodore
3. Lamb come Lambert Pince, personaggio di mia invenzione, figlio dei signori Pince
4. Parkinson come Pansy Parkinson, penso non abbia bisogno di presentazioni

 

Allora, intanto bentornati qui su questi lidi ♥︎ Vorrei aprire queste note ringraziando tutti coloro che hanno recensito e seguito il prologo, l’accoglienza è stata più che calorosa e ha superato qualsiasi mia aspettativa (generalmente molto basse, chi mi conosce lo sa). Detto ciò, ecco qui finalmente il primo capitolo di questa storia, che si apre con un doveroso preludio che vuole essere una sorta di introduzione, una “preparazione” al capitolo vero e proprio, con un riassunto veloce di ciò che è successo in “Death in the Night”, che diventa spiegazione per chi non ha letto l’altra long (ho promesso che ogni cosa sarebbe stata chiarita, avete visto?). 

 

Avrete notato la strana “organizzazione” del capitolo, con l’inserimento di questa specie di “sottotitoli” prima di ogni paragrafo: vuole essere un esperimento, un po’ come quando nei vecchi film in bianco e nero facevano passare quelle schermate con i titoli, spero abbiate capito, in caso contrario prendetela come viene, a me piaceva l’idea quindi la manterrò anche nei capitoli successivi.  

 

James giunge finalmente alla scuola di Heydon Hall e fa la conoscenza per prima cosa dei custodi della casa, i signori Pince, che come specificavo nelle note sono imparentati con la bibliotecaria di Hogwarts (che io in “Death in the Night” ho mandato in pensione, ma dettagli), visto che Forrest Pince è il fratello maggiore; Cordelia è la moglie di Forrest, ovviamente. Spero di avervi piacevolmente sorpresi con la comparsa del preside Corner, il caro vecchio Michael. La conversazione con James vuole ovviamente omaggiare quella di Harry con Silente, sono sicura abbiate colto il riferimento. 

Non ho resistito all’idea di introdurre Pansy Parkinson, un personaggio che non richiede presentazioni, e che avrà un ruolo determinante negli equilibri di Heydon Hall. Su di lei non voglio anticiparvi nulla, sappiate solo che ne vedrete delle belle 👀 Le storie di Lamb sul fantasma non corrispondono a verità, nel senso che la storia dietro la dama di Heydon Hall è tutt’altra, ma anche qui ho la bocca più che cucita 🔮

Il capitolo si conclude con una fantasmagorica apparizione, alla quale ovviamente James non crede e che re-interpreta a suo modo.

 

Concludo queste note eterne augurandomi che questo primo capitolo vi sia piaciuto, siamo entrati nel vivo della storia e ci siamo calati nell’atmosfera di Heydon Hall, conoscendone gli occupanti. Nel prossimo capitolo arriverà la nostra Emma, la co-protagonista di James, e sono sicura vi piacerà tantissimo 😏 


Fatemi ovviamente sapere cosa ne pensate ♥︎

A presto, Marti 🐍

 

Ps per anticipazioni e spoiler, potete seguirmi su Instagram.

 

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Capitolo 3
*** CAPITOLO DUE ***


Il capitolo di oggi è tutto dedicato a mia sorella Alice,
visto che è il suo compleanno,
e se avessi voluto pianificare la pubblicazione
proprio di questo capitolo, proprio oggi,
probabilmente non ci sarei riuscita,
ma ci ha pensato il caso; tanti auguri ♥︎

 


 

THE HAUNTING OF HEYDON HALL

 

CAPITOLO DUE

 

 

“Questi luoghi non vanno bene 
per l’immaginazione.
In questi luoghi, la notte non è foriera
di sogni tranquilli..”
H. P. Lovecraft, Il colore dallo spazio

 

 

Heydon Hall, Norfolk, 1° settembre 2023

«Quel posto è libero?»

Emma Nott alzò la testa dal suo libro, scocciata. Puntò lo sguardo su una ragazza bionda, inquadrata nel vano d’entrata del suo scompartimento (o che almeno aveva amato definire tale finché quella non era arrivata a disturbarla), vestita di tutto punto nemmeno stesse andando ad un ricevimento e un sorriso fin troppo educato e solare dipinto sul bel viso. Emma lanciò uno sguardo al sedile di fronte (sul suo aveva disseminato la giacca che si era tolta d’impeto, il diario rilegato in pelle di drago dove appuntava i suoi pensieri e redigeva la sua lista nera, sempre in aggiornamento, alcuni libri e carte di caramelle che aveva mangiato per farsi passare il nervoso) e annuì, seppur di malavoglia. 

 

[ISABELLE]

 

«Oh, grazie!» La ragazza le sorrise ancora e poi entrò, trascinandosi dietro non uno, ma ben due bauli. Emma notò che a tracolla portava una borsetta nera decorata con delle borchie e storse il naso. Le borchie facevano così cafone finto metallaro dei primi anni 2000 che cercò di dimenticarle. La guardò faticare mentre cercava di issare i bauli (che sicuramente contenevano cose utilissime) sopra la reticella, ma non mosse neanche mezzo muscolo per darle una mano. Anzi, si divertiva un mondo. Alla fine, l’altra si sedette sbuffando, ma le rivolse comunque un sorriso. 

«Non mi sono presentata, che maleducata che sono», iniziò. «Mi chiamo Isabelle. Isabelle Williams. Ma puoi chiamarmi Izzy, o Iz, come vuoi», aggiunse tendendole la mano. 

Emma si sporse per stringergliela, pensando già a quanto quella Izzy dovesse amare chiacchierare. Proprio come lei, eh. 

«Emma Nott. Puoi chiamarmi Emma.»

Isabelle scoppiò a ridere. «Bella, questa! Sei simpatica.»

Ah, be’

Emma le rivolse un sorriso forzato che sperava sembrasse tale e poi riprese in mano il suo libro, augurandosi che Isabelle capisse l’antifona e la lasciasse in pace. La ragazza sembrò arrivarci, all’inizio, perché si sporse dal finestrino per osservare la banchina della stazione di Liverpool Street dalla quale stava per partire il loro treno, che le avrebbe condotte nel buco-di-culo del Norfolk, ultima destinazione per un intero anno scolastico. Che schifo di vita.

I suoi genitori l’avevano accompagnata alla stazione, e suo padre Theodore fin sul binario segreto dal quale sarebbe partita, ma lei aveva insistito perché se ne andasse. Non era più una bambina che salutava dal finestrino, eccitata ed elettrizzata all’idea di iniziare Hogwarts, anzi, era incazzata nera, e sarebbe stato meglio per tutti salutarsi lì e ognuno per la propria strada. Alla fine del precedente anno scolastico, ne aveva combinata un’altra delle sue, e questa volta, a quanto pareva, si era spinta un po’ troppo oltre, o, come le aveva detto la preside McGranitt con la sua consueta furia calma, quella era stata la goccia che aveva fatto traboccare il calderone. Pensava che appiccare il fuoco a dei vecchi arazzi polverosi e tarmati fosse stato più un favore alla comunità che motivo di punizione ma, in base a ciò che ne era derivato, non doveva essere stato così per tutti. E così i suoi genitori, convocati entrambi al castello, avevano assicurato alla McGranitt che avrebbero preso seri provvedimenti, e quindi, per evitare l’espulsione, avevano deciso di spedirla un intero anno all’Istituto Correttivo per Giovani Maghi e Streghe di Heydon Hall, e con riserva, cioè non era affatto detto che, alla fine dell’anno, le avrebbero accordato il permesso per tornare a Hogwarts. C’era la concreta possibilità che dovesse terminare i suoi studi a Heydon Hall. Bell’affare. 

«Tu non hai nessuno?» Era da un po’ che Isabelle non la interpellava, forse due minuti esatti. Un’infinità di tempo.

«Come, prego?»

«Mi chiedevo: non hai nessuno da salutare? Che ti abbia accompagnata?»

«Oh, no, sono orfana.»

«Oooooooh», sussurrò Isabelle portandosi entrambe le mani al viso. «Mi dispiace tanto.»

«Sono cose che succedono», bofonchiò Emma cercando di non ridere. «Ero molto piccola quando è successo.»

«E com’è successo? Se posso chiederlo…»

«Stavano facendo un safari in Africa. Incidente stradale1. Sai, mio padre non era poi così abile a guidare le automobili come voleva far credere a tutti… Ma io ero molto piccola, non me li ricordo, praticamente.»

Fin da piccola, amava inventare storie, che molto spesso si rivelavano essere non solo semplici storie di fantasia, ma vere e proprie panzane che rifilava agli altri, e alle quali tutti inevitabilmente credevano - tranne coloro che la conoscevano bene, ovvio, ma non erano molti. 

Isabelle la guardava, gli occhioni azzurri sbarrati. «Che tragedia.»

Emma annuì. «Sono cresciuta con mia nonna, ma sai, lei ultimamente sta poco bene. Psicologicamente, intendo. Ha parecchi problemi legati al suo… » indugiò, facendo una pausa teatrale, «…al suo passato oscuro.»

Gli occhi di Isabelle assunsero la dimensione di due piattini. Emma se la stava rigirando intorno al dito e se la godeva un mondo. 

«Non mi piace parlarne, sono sicura che capirai.»

«Oh, certamente, figurati.»

«Invece tu? Non mi pare di averti mai visto, a Hogwarts.»

 

[I NOTT]

 

Emma sapeva benissimo che Isabelle non frequentava Hogwarts, altrimenti il suo cognome, “Nott”, non avrebbe potuto far altro che rievocare vecchie storie, ricordi sepolti nel tempo ma mai veramente dimenticati, un retaggio che lei, e non solo lei, si portava dietro da sempre, e che non l’avrebbe lasciata mai. Era dura, essere una Nott. Emma era cresciuta con due genitori molto diversi ma allo stesso tempo sempre concordi, fermi nelle loro posizioni e determinati a dare a lei e ai suoi fratelli un’educazione per bene e un rigore quasi marziale. Suo padre Theodore era un giocherellone e la viziava da matti, come non aveva mai viziato i suoi fratelli, l’accontentava sempre e cedeva sotto quello “sguardo da cerbiatta” (come le diceva lui), tenero ma furbetto. Sua madre, Victoria, era forse più severa, ed era quella che aveva più riguardo per le apparenze, ma che le aveva insegnato a tenere duro, ad affrontare le asprezze della vita a testa alta, a non cedere mai, e a non mettere da parte i principi per l’omologazione, a non sottomettersi a nessuno, a non provare vergogna per chi era e per il nome che portava. Era stata sua madre a forgiarla. Ed Emma era quella che le somigliava di più, sia caratterialmente sia fisicamente. I gemelli Caleb ed Elizabeth (detta Lizzie), più grandi di lei di due anni, erano l’immagine di Theodore: occhioni azzurri come il cielo, labbra piene e capelli castani, tranquilli, pacati, miti, ma scherzosi e pieni di vita e di cose da fare e di amici da frequentare. Lei, invece, era proprio come sua madre: lunghe gambe magre, capelli e occhi scuri, un bel caratterino e fin troppi fantasmi a tormentarla. 

 

[IL RACCONTO DI ISABELLE]

 

«Sono nata e cresciuta negli Stati Uniti», cominciò a spiegare Isabelle, contenta di essere stata invitata a discorrere di se stessa. «Ho frequentato Ilevermony fino allo scorso anno. Poi mia madre è morta», il viso le si rannuvolò, «e sono stata spedita dai miei unici parenti in vita, i miei zii inglesi. Avrei dovuto cominciare il mio sesto anno ad Hogwarts, a settembre, ma dopo una sola estate gli zii hanno deciso di mandarmi a Heydon Hall per correggere la mia iperattività, cito testualmente.»

«Che simpatici», commentò solo Emma, ed era sincera, questa volta. 

«Da morire. In realtà mio zio è un Babbano e non ci capisce moltissimo. Mia zia era la sorella di mamma, è anche lei una strega, ma sembra quasi aver abbracciato lo stile di vita del marito, se capisci cosa intendo.»

«In pratica si è trasformata in una Maganò.»

Isabelle annuì. «In pratica sì. Terribile. A casa loro vivevo quasi da reclusa, e ovviamente non potevo usare la magia, ma un giorno è capitato. La zia mi ha chiusa nella mia camera perché le avevo risposto male durante una cena, e mi hanno lasciata lì dentro, senza cibo e con solo l’acqua del lavandino del mio bagno personale a impedirmi di collassare. E allora ho usato la magia per sradicare la porta», aggiunse scrollando le spalle. «Ho fatto un macello, Emma. Ero così incazzata che ho continuato a distruggere cose lungo il mio cammino, fino a quando mia zia non è intervenuta chiamando il Ministero. Ed eccomi qui, sulla strada per la redenzione.»

Emma si lasciò sfuggire un sorriso. Isabelle cominciava a starle simpatica e quasi si pentì di averle rifilato la palla sui suoi genitori, ma ormai era tardi per correggersi. 

«Be’, vedila così: almeno te li sei tolti dai piedi per un po’. E, se tutto andrà bene, il prossimo anno sarai a Hogwarts, poi diventerai maggiorenne e sarai libera di andare per il mondo. E tanti saluti a quegli infami.»

«Mi piace il tuo modo di vedere le cose», ridacchiò l’altra. «Spero solo che le voci che girano su Heydon Hall siano solo vecchie superstizioni…» Rabbrividì ed Emma aggrottò le sopracciglia.

«Lo vuoi sentire un racconto del terrore, Emma?»

Quest’ultima ridacchiò. «Non ho paura di alcune vecchie storie, ma sono curiosa.2»

 

[STORIE DI FANTASMI]

 

Isabelle si sistemò meglio sul sedile e solo in quel momento Emma realizzò che si erano lasciate Liverpool Street alle spalle da un pezzo, erano ormai in piena campagna, e il treno sfrecciava in mezzo al verde e all’azzurro. All’orizzonte, però, si intravedevano spesse nuvole temporalesche.

«Si dice che la casa sia infestata dal fantasma di una donna», prese a raccontare Isabelle abbassando la voce. «Qualcuno racconta che si tratta di una donna impazzita tra quelle mura, rinchiusa in una stanza dalla sua stessa famiglia, desiderosa di renderla innocua e inerme, e ogni anno, il trentuno di ottobre, esce dalla sua stanza e uccide chiunque trovi sul suo cammino. Qualcun altro, invece, parla di una martire che, dopo essere stata maltrattata dalla matrigna, si è tolta la vita, ma ha continuato a perseguitare la malvagia donna fino alla fine dei suoi giorni, facendola impazzire e, infine, morire di paura. Da quel giorno, il fantasma della povera ragazza vaga tra quei corridoi, senza né pace né requie, e ogni anno qualcuno perisce sotto la sua spaventosa magia. Insomma, di qualsiasi versione si tratti, parliamo di un fantasma veramente incazzato, e non oso immaginare cosa possa fare, un fantasma incazzato.»

«Be’, ammettendo che esista, e ne dubito fortemente, cosa potrebbe fare, sentiamo? Ribaltare mobili? Far tremolare i quadri appesi alle pareti? E altre cose così tipicamente paranormali per suggestionare i creduloni? Wow, che paura», ed Emma agitò le mani sotto il naso di Isabelle, solo per darle fastidio, e questa scosse la testa. 

«Non capisci, Emma, un fantasma incavolato non è mai da sottovalutare.»

«Ho vissuto cinque anni con fantasmi che scorrazzavano per Hogwarts e non ne ho mai visto uno incavolato. Solo il vecchio Barone è inquietante, ma non ha mai mosso un dito contro noi Serpeverde», raccontò, fiera.

Isabelle incrociò le braccia al petto, strofinandosi le braccia come se avesse freddo. «Ho sentito parlare dei vostri fantasmi, ovviamente.»

«Ecco, ti posso assicurare che non c’è nessun fantasma, a Heydon Hall, Izzy. E, se anche ci fosse, lo farei scappare io.»

«Sei troppo forte, Emma.»

Emma le sorrise. «Me lo dicono in tanti.»

 

🥀 

 

[HEYDON HALL E LA CONFISCA DELLE BACCHETTE]

 

Heydon Hall si apriva di fronte ad Emma, stagliata contro il cielo tempestoso, nero di nuvole cariche di pioggia. Era solo un giorno di inizio settembre, ma sembrava già autunno, quando fa subito sera. Le finestre della magione erano tutte illuminate, ad accezione del gruppo a ovest, e il portone di legno a due battenti era aperto. Emma percorse il viale accanto a Isabelle e in mezzo agli altri studenti, allungando il collo per osservare e intravedere non solo la casa, ma anche il parco che la circondava tutt’intorno, e che l’avvolgeva nelle sue oscure spire. Il viale di accesso sterrato conduceva alla rotonda antistante l’ingresso principale, e un gruppo di folti alberi, alti e scuri, si innalzava a est, per andare poi a perdersi nel giardino sul retro. 

«Mi chiedo perché quelle finestre siano buie», cominciò Isabelle sussurrandole nell’orecchio a bassa voce. «E se fossero le vecchie stanze del fantasma?»

«Di quale versione?» replicò Emma, divertita.

Un ragazzo che camminava davanti a lei si girò e le rivolse un sorrisetto, per poi tornare a dirigersi verso Heydon Hall. Emma però non riuscì a interpretarlo, né in chiave ostile né in chiave amica, e quindi non replicò.

«La versione in cui la donna è stata rinchiusa, no?»

Emma non rispose, capì di non avere la forza per contraddire Isabelle e le sue strenue convinzioni. Capiva anche che il suo scetticismo non potesse essere valido per tutti.  

Giunti infine alla porta principale, davanti a loro si palesò una donna, tutta vestita di nero, i capelli biondi acconciati morbidamente sopra la testa e un paio di occhialini dorati che avrebbero fatto concorrenza a quelli della vecchia McGranitt. Rivolse uno sguardo severo a tutti, dai veterani del settimo anno fino ai tre o quattro bambini del primo, che parevano sul punto di svenire o vomitare. 

«Benvenuti, benvenuti.» Aveva una voce posata e dal timbro elegante, ed Emma immaginò che fosse una custode o una cosa simile. Era così diversa da quel pulcioso di Gazza, però, che le venne da ridere, ma si trattenne, non voleva farsi riconoscere senza neanche aver messo piede all’interno. 

«Benvenuti, e bentornati, a Heydon Hall, miei cari», proseguì la donna. «Per i nuovi arrivati, mi presento: sono Madama Pince, custode delle chiavi e di ogni cosa, viva o morta, che qui a Heydon Hall sia conservata.»

Viva o morta? Emma sentì Isabelle aggrapparsi alla sua manica, e non ebbe la forza di scrollarsela di dosso, in quel momento. Molto probabilmente la vecchia pipistrella amava alimentare le voci sui fantasmi per incutere timore ai novellini. 

«Siete pregati di dividervi nei soliti gruppi per età, mentre i neofiti sono invitati a raggiungermi qui, per cortesia.»

Emma fece un passo avanti e si trascinò letteralmente dietro Isabelle, che tutto voleva tranne che avvicinarsi troppo alla custode. Emma incontrò nuovamente lo sguardo del ragazzo che le aveva sorriso, ma lo distolse in fretta. Alla fine, un discreto gruppetto composto da quelli del primo anno e da pochi altri nuovi arrivati come lei e Isabelle si raccolse intorno a Madama Pince, che osservava ognuno di loro molto attentamente. Il suo sguardo indugiò un po’ più a lungo su di lei, come se la conoscesse, ed Emma immaginò che suo padre dovesse aver accennato al fatto che sarebbe venuta, visto che era una sorta di patrocinatore di Heydon Hall.

«Come da consuetudine, siete invitati a consegnare le vostre bacchette, che vi saranno restituite solo durante le ore dedicate alle lezioni. Questa è una delle regole più ferree e importanti di Heydon Hall, spero che tutti voi collaboriate in modo da vivere più serenamente possibile i giorni che vi aspettano qui.»

Ad Emma lo aveva raccontato suo padre, ovviamente, ma Isabelle sembrava esserne all’oscuro, perché si girò verso di lei, terrorizzata. «Consegnare la bacchetta? Come sarebbe a dire?»

«È la regola della scuola, Izzy, non possiamo fare altro che farcela andar bene.»

Gli altri studenti intorno a loro avevano già tirato fuori le loro bacchette, accalcandosi intorno alla Pince, che intanto aveva tirato fuori una specie di piccolo baule, dove a quanto pare avrebbe raccolto le bacchette dei ragazzi. 

«Forza, non facciamoci riconoscere già il primo giorno», continuò Emma sospingendo Isabelle verso la custode. 

«Dite il vostro nome poco prima di lasciar cadere la bacchetta nello scrigno, per cortesia», stava spiegando la donna. «Quando vi verrà ridata, lunedì mattina, prima delle lezioni, vi basterà pronunciare nuovamente il vostro nome e la bacchetta tornerà da voi.»

Isabelle si fermò di fronte a Madama Pince, che la guardava da sotto gli occhiali. «Forza, ragazza, o faremo tardi a cena.»

Isabelle sembrava davvero ricalcitrante all’idea, non si dava pace, ed Emma la sospinse ancora un po’ più avanti. Okay, nemmeno lei saltellava all’idea di consegnare la sua bacchetta e rimanerne sprovvista, togliere ad un mago la bacchetta era un po’ come tagliargli una gamba, o un braccio, o privarlo di un pezzo di cuore, ma suo padre aveva insistito tanto su quella regola, le aveva assicurato che sarebbero stati tutti al sicuro, lì, e che requisire le bacchetta significava che nessuno, tra gli altri studenti, avrebbe mai potuto cercare di aggredirla, anche solo per scherzo. Per contro, Emma aveva portato con sé un volume di incantesimi avanzati trovato nella biblioteca della madre e si era ripromessa che si sarebbe esercitata con i non-verbali durante le ore in cui le era permesso tenere la bacchetta, senza farsi scoprire, solo per prepararsi e tenersi pronta a qualsiasi evenienza. In fondo, sarebbe stata circondata da ragazzi difficili e talora turbolenti che non conosceva e non voleva che qualcuno la trovasse impreparata o che la considerasse un anello debole. 

Dopo che Isabelle si fu decisa, quasi al limite delle lacrime, arrivò il suo turno. «Emma Nott», pronunciò, scandendo bene le parole. Scambiò quindi una veloce occhiata con la Pince, che la osservava con attenzione, proprio come l’aveva osservata poco prima, e poi lasciò cadere la bacchetta nello scrigno. A quel punto, un fulmine squarciò il cielo, e tutti sobbalzarono per lo spavento. Tutti tranne la Pince, che rimase imperturbabile. Emma sentì Isabelle attaccata al suo fianco, tutta tremante. La custode si sporse in avanti per lanciare un’occhiata indagatrice al cielo sopra di loro. 

«Forza, forza, prima che inizi a piovere», disse quindi, il tono di voce risoluto e spiccio. E così, Emma e gli altri furono sospinti verso l’interno, mentre il resto dei ragazzi consegnava le bacchette. 

 

[RICHIAMI]

 

Emma alzò lo sguardo ad osservare gli stucchi, le dorature, gli intarsi, e quel soffitto affrescato con angioletti e puttini su un cielo azzurro da fiaba. Mille e più candele fluttuavano intorno al grosso lampadario appeso al soffitto. Un elegante scalone di marmo conduceva al ballatoio del piano superiore e dal centro della hall si snodavano quattro corridoi. Emma si soffermò ad osservare quello alla sua sinistra, che conduceva, presumibilmente, vista la posizione, alla parte della casa in cui le finestre erano rimaste spente, e sentì quasi come una vertigine avvolgerle la testa, e una forza magnetica farle prudere la gambe, come a volerla sospingere proprio lì, al fondo di quel passaggio, laddove regnava il buio. 

«Emma!»

La voce agitata di Isabelle la riportò alla realtà. La ragazza era ferma di fronte a lei e la guardava preoccupata. 

«Che c’è?» chiese lei scuotendo la testa, come a voler cacciare via la vertigine. 

«Ti ho chiamato tre volte», spiegò l’altra. «Stanno tutti andando a cena.»

Effettivamente, il resto della scuola si era già incamminato, e loro erano rimaste in piedi nella hall ormai vuota. 

«Stai bene?»

«Sto benissimo, sì. Andiamo.»

 

[LA PRIMA CENA]

 

Con la mente ancora scombussolata (ché Emma non riusciva a dare una concreta spiegazione a ciò che le era appena successo, tranne che tutto ciò fosse, alla fin fine, da imputare alla stanchezza del viaggio e allo stress provocatole da tutte quelle novità), seguì Isabelle fino al refettorio, che si rivelò essere un’ampia sala (anche se non quanto la Sala Grande, ovviamente), ben illuminata e disseminata di tavoli da circa quattro o cinque persone ciascuno, che li avevano occupati senza alcuna logica apparente. Con sgomento, Emma notò infatti che tutti sembravano aver trovato un posto, tranne lei e Isabelle. Il suo sguardo venne però catturato dai due tavoli posti al fondo della sala, nello specifico da uno dei due, al quale era seduta proprio la persona che, sulla carta, aveva meno a che fare con Heydon Hall: James Sirius Potter. 

Ovviamente, sapeva tutto del caso Jenkins, quella Rita Skeeter aveva scritto un bell’articolo piuttosto esplicativo e dettagliato su com’era andata a finire la faccenda, per il clan Potter-Weasley, e quindi tutti sapevano che James Sirius - il brillante e vivace e perfetto James Sirius - avrebbe trascorso un anno a Heydon Hall per “svolgere servizi utili alla comunità”. Inoltre, Emma aveva chiesto delucidazioni al padre e anche se lui le aveva detto nulla di più di ciò che era stato scritto sul Profeta, aveva aggiunto però che si sentiva molto rassicurato dal fatto che lei e James avrebbero trascorso un intero anno sotto lo stesso tetto - quasi come se si aspettasse che quel babbeo di un Grifondoro la potesse tenere d’occhio. Forse era più vero il contrario, visto che era stato lui ad aver Trasfigurato il corpo (morto) di Karl, e averlo gettato nel Lago Nero complice del suo fratellino Albus, mica il contrario. Certo, quel risvolto della vicenda le aveva permesso di guardare James con occhi diversi, quasi con il rispetto che solitamente intercorre tra “delinquenti” e “combina-guai”, ma l’idea di trovarselo tra i piedi l’aveva ridimensionata. Avrebbe preferito di gran lunga Albus, lui sì che sapeva come divertirsi, e poi era un Serpeverde proprio come lei. La sua cotta per il fratello Potter di mezzo, che l’aveva resa una primina ridicola, ai suoi tempi, si era ovviamente spenta, quando, durante il suo terzo anno, era uscita per alcuni mesi con lo stesso Karl, ma, soprattutto, quando aveva fatto coppia fissa con Braden Warrington, ex cacciatore della squadra di Quidditch di Serpeverde ed eterno ragazzaccio, per buona parte del suo quarto anno. Ora come ora si vergognava del flirt con il primo, ma doveva riconoscere che il tempo passato con il secondo, oltre a farle guadagnare parecchie punizioni, le aveva fatto decisamente passare i turbamenti deliranti - e allarmanti - per Albus Severus Potter. 

«Emma, quel ragazzo ci sta chiamando?» La voce di Isabelle la riportò nuovamente alla realtà - e a Heydon Hall. Seguì la direzione del dito dell’amica e notò il ragazzo di poco prima agitare una mano verso di loro, come a volerle chiamare. Fece loro segno di sedersi e, siccome non c’era più posto, Emma lo raggiunse, trascinandosi dietro Isabelle. Accanto a lui sedeva un altro ragazzo, sorridente, il che la fece ben sperare. 

«Grazie per averci invitato qui», disse subito Isabelle sedendosi. 

«Vi ho viste in difficoltà e ho pensato di venirvi in aiuto», rispose il ragazzo. 

Emma ebbe modo di osservarlo meglio, ora, alla luce delle candele. I capelli scuri sparavano da tutte le parti, scomposti e spettinati, ma ad arte, e gli occhi verdi erano segnati da due sottili linee nere di trucco; indossava una vecchia t-shirt di una qualche band Babbana che doveva chiamarsi Pink Floyd e che aveva visto tempi migliori, dato che sembrava macchiata e scolorita in più punti, anche se non sporca; alle mani portava un anello per dito ed Emma notò anche gli orecchini e i numerosi piercing alle orecchie, e forse ne intravide anche uno sulla lingua. Le sorrise e allungò una mano a presentarsi. 

«Archibald Fletcher3, è un piacere», disse. 

 

[ARCHIE E TYLER]

 

«Potete chiamarlo Archie, però, Archibald è troppo serio, per lui», intervenne l’altro ragazzo, che sembrava altissimo anche da seduto e aveva un fisico da giocatore di Quidditch, largo di spalle e quasi plastico, ma occhi buoni e sinceri e scherzosi.  Archie gli sorrise, ma in modo del tutto diverso da come aveva appena sorriso a loro due, maliziosamente complice.  

«Tyler ha ragione, solo mia nonna mi chiamava Archibald, pace alla sua anima.»

Isabelle sospirò. «Mi dispiace per tua nonna, Archie.»

«Grazie, fiorellino.»

Intanto, Archie continuava a tendere la mano verso Emma, così lei si affrettò a stringergliela. La presa fu decisa e forte e le piacque a pelle. «Emma Nott», disse quindi. 

«Nott come Theodore Nott?» esclamò il ragazzo chiamato Tyler, mentre Archie sbarrava gli occhi.

Emma annuì. «È mio padre, sì.»

«Tu sei la pargoletta di Theodore?» esclamò Archie. «Ma che sorpresa!»

«Noi adoriamo Theodore», proseguì Tyler, allungando una mano per stringere a sua volta quella di Emma. «Io sono Tyler Jordan4, è un piacere conoscerti, sento che andremo d’accordissimo.»

Emma gli strinse la mano sorridendo. Sentiva che le stavano simpatici, Archie e Tyler.

«Ti avverto che Tyler è il mio ragazzo, quindi tieni quelle lunghe gambe lontane da lui» aggiunse Archie, scoppiando a ridere, e Emma non potè evitare di unirsi a lui, seguita a ruota da Tyler. Quei due le stavano decisamente simpatici, come chiunque sia capace di prendersi poco sul serio. 

«Ehm ehm.» Isabelle palesò la sua presenza schiarendosi la gola ed Emma decise che quello era appena entrato nella sua personalissima lista chiamata “suoni molesti e fastidiosi”. 

«Io sono Isabelle Williams, ma potete chiamarmi—»

«Izzy o Iz», la precedette Emma ridacchiando. Alzò gli occhi al cielo verso Archie e lui trattenne una risata. Emma sentì addosso lo sguardo sottile di Isabelle, ma non si girò. 

«Proprio così. Izzy o Iz. O Isabelle, se vi piace di più», proseguì quindi l’altra come se niente fosse. 

Sia Archie, sia Tyler le strinsero la mano. «Isabelle andrà benissimo», disse il primo. 

Non proseguirono la loro conversazione, però, perché dal fondo della sala, ora in silenzio, giunse un grattare di legno sul pavimento ed Emma osservò un uomo alto vestito di blu mettersi in piedi e alzare le mani, come a voler salutare e includere tutti i presenti nel suo abbraccio. Lei ed Isabelle si affrettarono a prendere posto al tavolo.  

«Il preside Corner», sussurrò Archie. 

 

[ANCORA REGOLE]

 

«Bentrovati a Heydon Hall», iniziò l’uomo. «Vorrei dare un particolare benvenuto ai nuovi arrivati di quest’anno, e vorrei che tutto il resto di voi faccia lo stesso.»

I presenti imitarono il preside e applaudirono per dare il benvenuto alle nuove leve, chi partecipe, chi svogliato. Emma notò che alcuni ragazzi, seduti ad un tavolo sul fondo del refettorio, rimasero a braccia conserte, incrociate sul petto, forse in segno di dissenso o di disprezzo. 

«Drake Flitt5 e la sua cricca», le spiegò Archie, che a quanto pare aveva deciso di farle da guida. «Tieniti al largo da loro se non vuoi guai.»

Emma osservò per un attimo i quattro ragazzi seduti, le cui facce non promettevano niente di buono. Uno di loro intercettò il suo sguardo, ma lei lo distolse in fretta, puntandolo nuovamente sul preside, che si apprestava a continuare il suo discorso. L’applauso intanto si era spento.

«Mi presento ad uso esclusivo dei neofiti. Io sono il preside Corner e qui rappresento la massima autorità, tra tutti, e sono colui che mantiene l’ordine e il rispetto tra queste mura. Invito chiunque abbia un problema a farmi visita, senza indugi e senza dubbi, sono certo che qualche studente più grande vi saprà indicare la via per il mio studio.»

Emma guardò Archie, che sollevò gli occhi a voler dire «è fatto così, che ci possiamo fare?». 

«Vorrei spendere due parole ora, in modo che dopo cena potrete dirigervi nelle vostre stanze per sistemarvi e mettervi comodi. Come anticipato dalla nostra preziosa Madama Pince», e lanciò un bacio all’indirizzo della custode, seduta allo stesso tavolo di James Potter, e che rispose con un formale cenno del capo, ignorando tutto il resto, «la regola numero uno di questo Istituto è la requisizione delle bacchette, sono certo che comprenderete la necessità che ci spinge a farlo, cioè la vostra sicurezza, che qui viene messa al primo posto, come condizione sine qua non per portare avanti questa scuola, e che mi assicuro venga rispettata da tutti.» Fece una pausa, in modo che i presenti registrassero le sue parole. Emma si chiese in quanti avessero compreso l’espressione “sine qua non”. «Vi invito inoltre a rispettare gli insegnanti che tutti i giorni vi affiancheranno in aula», e indicò con un gesto fluido della mano i volti dei presenti seduti al suo stesso tavolo. Emma non si perse ad osservarli più di tanto, però, rimanendo concentrata sul preside Corner. «Oltre i professori, che mi seguono direttamente nella gerarchia dell’istituto, mi aspetto che trattiate con il dovuto rispetto anche i miei collaboratori scolastici», e questa volta indicò il tavolo di James. «Il signor Pince, la signora Parkinson e il nostro nuovo acquisto, che rimarrà con noi per tutto quest’anno, il signor Potter.»

Tutta la sala prese a mormorare ed Emma spostò lo sguardo su James, che sedeva composto e serio, vestito come gli altri due seduti accanto a lui e che dovevano essere “il signor Pince e la signora Parkinson” citati dal preside. Immaginò che il primo fosse in qualche modo imparentato con i custodi e che quello seduto accanto a Madama Pince fosse il marito, che però non sembrava particolarmente sveglio, doveva riconoscerlo. 

«Prima di indulgere con la cena, vi invito a rimanere lontani dall’ala ovest della residenza, il cui accesso è severamente vietato a voi ragazzi, nel modo più assoluto. Spero di essere stato chiaro, in merito.»

Emma si sporse verso Archie. «Per questo le finestre erano spente? Perché l’accesso all’ala ovest è proibito?»

«Guarda che erano accese, le finestre», replicò Archie sbarrando gli occhi. «Vero, Ty? Diglielo, a Emma, che erano accese.»

«Oh, sì, certo, era tutto illuminato. Lo fanno sempre, il primo settembre.»

Emma scosse la testa. «Se cercate di farmi paura, avete scelto la persona sbagliata, avreste dovuto puntare su Isabelle.»

«Hei, io mi limito ad ascoltare le storie», protestò l’altra.

Archie e Tyler scoppiarono a ridere. Intanto, Madama Pince e i tre inservienti presero a girare per la sala spingendo ognuno un carrello, distribuendo i vassoi con la cena a tutti i presenti. Ad una prima occhiata, il cibo sembrava molto lontano dai succulenti standard di Hogwarts, ahimè. 

«Quindi vuoi dirmi che non credi alle storie di fantasmi, Emma Nott?» le chiese Archie ghignando e ringraziando la signora Parkinson che gli porgeva il vassoio. Le mani della donna tremarono per un momento, mentre il suo sguardo si spostava su Emma, osservandola con curiosità.

Cercando di ignorare l’occhiata indagatrice, Emma scosse nuovamente la testa. «Non ci credo per niente, Archie. Nemmeno da bambina riuscivano a farmi paura e di certo non cominceranno adesso.»

«Sei un osso duro, allora.»

«Oh, sì, è durissima», commentò Isabelle ringraziando a sua volta la Parkinson.

«Sono solo pratica.»

«E scettica, mi pare di capire.» Tyler prese il vassoio e si avventò sul piatto di pasticcio. 

«Sono sicuro che riuscirò a incrinare quella tua armatura da piccola soldatina, cara la mia Emma.» Archie si sfregò le mani prima di apprestarsi a lanciare uno sguardo schifato al suo vassoio. 

Infine fu la volta di Emma di prendere il vassoio dalle mani della signora Parkinson. 

«Emma Nott?» le rivolse la parola quella. «Sei la figlia di Theodore?»

Lei annuì guardinga. Gli altri tre osservavano la scena, attenti. 

«Andavo a scuola con tuo padre, sai?6» continuò la donna, mentre il suo viso si apriva in un sorriso. «In Serpeverde.»

«Oh, davvero?» Theodore le aveva sempre parlato poco del periodo trascorso a Hogwarts, e per ovvi motivi, ed Emma aveva sempre fatto poche domande, quasi nessuna. Di quel periodo, nella vita di suo padre era rimasto solo Draco Malfoy, che per loro era sempre stato come uno zio. Ricordava bene quando Scorpius veniva a casa Nott con il padre (e la madre, quando Astoria Malfoy era ancora viva) e loro bambini venivano mandati in giardino a giocare. Se la Parkinson non era mai stata nominata, a quanto pare faceva parte di quei ricordi che suo padre avrebbe preferito archiviare. 

«Per qualsiasi problema rivolgiti pure a me, Emma, sarò felice di aiutarti.» Così dicendo, caracollò via con il suo carrello. Emma la seguì con lo sguardo, oltre la sua spalla, per poi tornare a guardare i suoi nuovi amici. 

«Che culo, Emma, Pansy ti ha presa in simpatia», commentò Archie. 

«Sei fortunata, odia quasi tutti, qui dentro», aggiunse Tyler agguantando un panino.

Lei scrollò le spalle. «Se lo dite voi.»

«Allora, Archie, quelle vecchie storie?» chiese Isabelle. Fece una smorfia davanti al pasticcio e allontanò leggermente il vassoio. 

«Ah, sì, torniamo alle cose importanti, Archie.» Archie sorrise a Tyler e poi si sporse sul tavolo, allontanando completamente il suo vassoio, come se non fosse interessato a cose così banali come il cibo. «Si dice che l’ala ovest sia la dimora di un fantasma, cocche», iniziò. 

 

[ANCORA STORIE DI FANTASMI]

 

«Il famoso fantasma incazzato? Grazie, questa storia la so già.»

«Vuoi stare zitta e ascoltare, cara la nostra scettica?»

Emma alzò gli occhi al cielo. 

«Ottimo, così ti voglio. Dicevo che l’ala ovest è la dimora di un fantasma, il fantasma di una donna che, molto tempo fa, abitava in quelle stanze. Le storie dicono che la donna sia scappata e abbia trovato rifugio qui a Heydon Hall, ma che tra queste stesse mura abbia anche trovato la morte. Abbandonata dal suo unico e grande amore, sembra che abbia dato alla luce un bambino da sola, e che da sola l’abbia visto morire, e che infine sia morta lei stessa, sia per le complicazioni del parto, sia per il troppo dolore. Dolore per l’abbandono, dolore per la solitudine, dolore dopo aver appreso che l’amore della sua vita non l’aveva raggiunta non perché non l’amasse, ma perché a sua volta aveva trovato la morte. L’oblio sembrò l’unica degna fine ai suoi tormenti. In molti sostengono che il suo spirito aleggi ancora tra questi corridoi e queste stanze e che non trovi pace, perché anche la morte l’ha privata di quell’amore tanto sofferto e anelato, e persino del bambino perito tra le sue braccia, lasciandola completamente sola. Soltanto la sua anima è rimasta a infestare queste terre, e ogni notte prende a vagare, pesante e lieve al tempo stesso, cercando vittime che possano saziare la sua fame, e il suo desiderio di vendetta.»

Archie arrivò alla conclusione del racconto a voce sempre più bassa, guardandosi intorno con occhiate a effetto, cercando di calare Emma e Isabelle nella giusta atmosfera. Isabelle si torceva le mani e sembrava quasi sull’orlo delle lacrime, mentre Emma non potè resistere e scoppiò a ridere, e in faccia ad Archie, per giunta, che tanto si era impegnato per mettere loro paura con quella vecchia panzana.

«Le fa ridere, Archie», disse Tyler sorridendo. «Capito? Le fa ridere

«Non hai paura della signora di Heydon Hall, ragazza?»

«Più che paura, mi fa pena, questa povera anima che deve sopportare tutti voi, tutti i giorni, e vedere le vostre brutte facce.»

Archie sollevò le sopracciglia. «Ah, e così non hai paura. Bene, ti farò cambiare idea, una sera di queste, signorina Nott, tienilo bene a mente.»

«Sono curiosa di vedere cosa ti inventerai, signor Fletcher, e se sarà all’altezza di questa storia.»

«Ricorda che qui a Heydon Hall tutti crediamo alle vecchie storie. Tutti noi.»

 

🥀

 

«Procediamo con ordine, per favore, senza correre e senza spingere, grazie.» La voce decisa e sonora di Pansy Parkinson cercava di indirizzare le ragazze verso il loro dormitorio sane e salve, ma le più piccole, quelle appena arrivate, continuavano a guardarsi intorno spaventate, quasi terrorizzate. Quelle più grandi, del settimo anno, si impegnavano per farle sentire a loro agio, mentre quelle degli anni dal terzo al quinto si ostinavano a mettere loro paura con strani versi che volevano imitare quelli di un fantasma ma che risultavano più somiglianti ai ragli di un asino, e l’effetto era quanto meno bizzarro, più che spaventoso. Emma le guardava con le sopracciglia inarcate, indecisa se trovarle più cretine o più bisognose di compatimento. Nell’indecisione, si limitava ad osservare in silenzio, le braccia incrociate sul petto. 

 

[ENNESIME REGOLE]

 

Giunsero ben presto al dormitorio femminile e tutto quel pandemonio cessò - fortunatamente. La stanza consisteva in un lungo corridoio fiancheggiato da due file di letti singoli,  una trentina in tutto, identici, uno accanto all’altro, posizionati sulle due pareti opposte. Accanto ad ogni letto c’era un comodino e, ai piedi, erano posizionati i bauli, che qualcuno aveva scaricato dal treno e fatto levitare fin lì. Al fondo dello stanzone si apriva una porta, sopra la quale era appeso un cartello che recitava la scritta “toilette femminile”. 

«Dormiremo tutte insieme?» le chiese Isabelle sottovoce.

«A quanto pare», commentò solo Emma. «Ti aspettavi una suite, Izzy?»

L’altra non rispose, e si limitarono a rimanere in silenzio mentre Pansy le conduceva all’interno. 

«Vorrei che le nuove arrivate si facessero avanti, le altre ragazze possono raggiungere i loro letti.»

Il gruppo si disperse: qualcuno si accomiatò da Pansy con un “buonanotte” e raggiunse quindi il proprio letto, mentre altre, tra le quali Emma e Isabelle e le spaventate ragazzine del primo anno, rimase lì dov’era. 

«Qui è dove dormirete nei prossimi mesi», iniziò la Parkinson. «Al fondo del corridoio c’è il bagno, con le docce comuni, mentre ai piedi del letto troverete il baule con i vostri effetti personali, che vi invitiamo a lasciare dov’è per questioni di ordine.»

«Sul letto vi abbiamo lasciato la divisa, insieme ad un ricambio e ad una divisa sportiva. Gli indumenti sporchi vanno lasciati negli apposita cesti nel bagno e non in giro per il dormitorio, qui nessuno vi fa da servo, voglio che sia chiaro.»

Annuirono tutte, mentre una bambina particolarmente piccola piangeva silenziosa. Pansy la ignorò deliberatamente. 

«Le luci si spengono alle nove esatte, non un minuto prima, non un minuto dopo», continuò. «Dovrete farvi trovare sotto le coperte, con il pigiama, alle nove meno cinque minuti per il giro d’ispezione serale, dopo il quale non vi sarà più possibile lasciare il dormitorio, per nessuna ragione, a parte emergenze così impellenti che prevedano l’intervento di uno degli inservienti.»

«Io sono ovviamente il vostro referente,  ma potrete rivolgervi a chiunque tra noi, che sia io, il signor Lamb o il signor Potter, senza alcun problema, per qualsiasi cosa. Ovviamente, evitate di disturbare per sciocche ragioni o per consolare stupidi piagnistei», e rivolse un’occhiata obliqua alla bambina piangente, che la guardò e singhiozzò ancora più forte. 

«Avete esattamente venticinque minuti per cambiarvi e mettervi a letto. La colazione si svolge in refettorio dalle otto alle otto e trenta, dopo quell’orario non vi sarà più servita, quindi ci aspettiamo, e pretendiamo, puntualità assoluta. Domani e domenica le lezioni non si svolgeranno e sarete chiamati a partecipare ad attività propedeutiche nelle aule dedicate allo studio o in biblioteca. Da lunedì, le lezioni si avvieranno regolarmente alle nove in punto, vi saranno date istruzioni più dettagliate durante la colazione. Domande?»

«Quindi durante questo fine settimana ci renderete le bacchette?» chiese una ragazza che doveva avere all’incirca tredici anni.

Il viso di Pansy si rannuvolò, andando a somigliare al cielo fuori, carico di nuvole scure dalle quali cadeva una pioggia fitta e sottile. «Certo che no. Le bacchette vi saranno rese solo lunedì, poco prima di iniziare le lezioni. Altre domande che però non siano stupide ne abbiamo?»

Tutte scossero la testa e così Pansy, per contro, annuì. «Molto bene, tutte ai vostri letti, allora. Ci rivediamo tra poco per l’ispezione.»

Fecero quasi in fretta a individuare i loro letti che, per la gioia di Isabelle, risultarono vicini. L’uniforme consisteva in una gonna a pieghe, calzettoni o calze a maglia spesse, camicia bianca, cardigan a trecce, cravatta scura e blazer, tutto in nero profilato di grigio. Almeno non era di un colore improbabile. Emma ripose tutto nel baule e tirò fuori il pigiama. 

«Non c’è un minimo di privacy, qui dentro», sentì Isabelle borbottare, guardandosi intorno con il pigiama in mano, indecisa. 

«Allora voi americani ce lo avete, il senso del pudore», commentò Emma ridendo sfilandosi la maglia per indossare quella del pigiama, senza farsi alcun tipo di problema. La nudità non costituiva per lei un tabù. 

Isabelle storse il nasino all’insù. «Ero abituata con le mie compagne di stanza, ma qui… Tutti ti guardano.»

«Nessuno ti guarda, Izzy. E poi, anche se fosse, non vedrebbero nulla che non hanno già visto, ti pare?»

Lei sembrò rifletterci sopra e poi scrollò le spalle. «Ovviamente hai ragione. Sono una stupida.»

«Lo hai detto tu, non io», replicò Emma alzando le mani, e sentì Isabelle ridacchiare dietro le sue spalle. 

Prima di infilarsi sotto le coperte, Emma ispezionò il comodino, che ovviamente era vuoto, e individuò una ragnatela, abbastanza grande, con relativo ospite, tesa tra il comodino e il letto. Alzò gli occhi al cielo.

«Cominciamo bene», annunciò. «Ragni.»

«Oddio, spero di non trovarne, mi fanno un’impressione…» replicò Isabelle chinandosi a controllare il suo letto. 

Emma prese una scarpa e fece fuori il malcapitato ragno, che aveva osato mettersi sul suo cammino, e controllò sotto il letto, ma non c’era nient’altro.

«Trovato qualche mostro?» chiese a Isabelle.

«No, per fortuna.»

 

[ORA DI DORMIRE]

 

Infine, si infilarono sotto le coperte, che fortunatamente si rivelarono essere morbide e calde, con lenzuola profumate di pulito e stirate. Se c’era una cosa che Emma odiava, erano i letti che non fossero il suo o, per meglio dire, i suoi, cioè quello di casa e quello di Hogwarts. Un po’ le mancavano i tendaggi verdi e la risatina di Rosalie quando si ficcava nel suo letto per raccontarle gli ultimi pettegolezzi mentre le altre dormivano. Le mancava tutto, del castello, persino i Grifondioti.

Si riscosse quando Pansy tornò per l’ispezione, che si rivelò essere niente di più che un camminare avanti e indietro per il dormitorio per quattro volte e un lanciare occhiate profonde e sottili qua e là. Passandole accanto prima di uscire, la donna le sorrise, ed Emma si voltò verso Isabelle facendo una smorfia. L’altra trattenne una risata.

«Spengo le luci. Buonanotte a tutte.»

Le candele si spensero per magia e nello stanzone calò l’oscurità. Il letto di Emma era proprio sotto una delle grandi finestre e la luce della luna, parzialmente filtrata dalle nuvole, entrava però a illuminarle i piedi. 

«Buonanotte», sussurrò Isabelle.

«’notte», rispose lei.

 

🥀

 

[URLA NELLA NOTTE]

 

Emma non seppe bene quanto dormì. Forse due ore, forse dieci minuti. Si ridestò improvvisamente e malamente quando un grido terrificante squarciò l’immobilità della notte scura. Si alzò a sedere di scatto, sveglissima, insieme a tutte le altre ragazze. Il grido sembrava provenire dal bagno al fondo del corridoio, insieme al rumore di tonfi sordi contro il legno della porta, come se qualcuno dall’interno vi stesse battendo sopra. Emma si voltò e vide che il letto di Isabelle era vuoto, le coperte che quasi toccavano terra, il cuscino scomposto. Era l’unico letto vuoto e quindi capì da chi provenissero le urla. Si alzò in fretta e, a piedi scalzi, raggiunse volando il bagno. La seguirono un paio di ragazze più grandi, mentre altre due cercavano di rassicurare le bambine più piccole e intimavano alle altre di restarsene a letto. 

«Isabelle!» gridò Emma raggiunta la porta. «Isabelle, sei tu?»

Poggiò una mano sulla maniglia e, oltre a trovarla fredda, freddissima, quasi gelata, come se fosse calato di getto l’inverno, non riuscì ad aprire la porta. Trafficò per un po’ ma senza risultati. «Isabelle! Izzy! Rispondimi!»

«Non si apre?» le chiese una ragazza alta e ben piazzata. «Vuoi che provi io?»

Emma annuì. La paura cominciava ad infiltrarsi nelle sue membra, paralizzandola come un gas letale. Aveva paura per Isabelle e per ciò che stava succedendo dall’altra parte: a giudicare dalle urla che continuavano ad arrivare, la ragazza doveva stare proprio molto male.

La compagna del settimo tentò di aprire, si sforzò per bene, ma niente da fare, la porta non cedette di neanche un millimetro. «Sembra che sia chiusa dall’interno…» buttò lì Emma.

«Non ci sono chiavi, qui», spiegò un’altra ragazza, minuta tanto quanto la prima era alta. «È una delle regole degli spazi comuni di Heydon Hall: niente chiavi.»

«Allora come diavolo fa ad essere chiusa, questa porta, per Salazar?» esclamò Emma, che stava decisamente perdendo la pazienza. 

«Andate a chiamare Pansy», propose qualcuno, mentre Emma si avventava contro la porta, anche se con scarse speranze. 

«AIUTO!» continuava a gridare Isabelle da dentro. «VATTENE VIA, LASCIAMI IN PACE, LASCIAMIIIIIIII!»

«IZZY!» gridò Emma, sobbalzando quando sentì che Izzy, dall’altra parte, sbatté proprio contro la porta con tutto il suo peso, facendola tremare, quasi come se qualcuno l’avesse sollevata sopra la testa per poi scagliarla via con forza. «Isabelle, resisti, abbiamo chiamato aiuto!»

Dall’altra parte arrivava ora solo un pianto sommesso, cadenzato ma disperato, uno di quei pianti di gola che ti mozzano il respiro nei polmoni e che colano paura e angoscia e terrore. Emma sentiva il respiro mozzato di Isabelle attraverso il legno della porta e così si chinò, inginocchiandosi a terra, una mano aperta a palmo poggiata contro il legno, anche quello gelato, ora, proprio come la maniglia pochi istanti prima. Sembrava quasi che il bagno si trovasse al Polo Sud e che il freddo penetrasse a ondate attraverso il legno spesso. 

«Isabelle?» la chiamò. «Sono Emma, mi senti?»

Isabelle singhiozzo ancora più forte. «NO, PER FAVORE, BASTA, NON DI NUOVOOOOOOO!»

Giunsero altre pacche sul legno ed Emma venne sbalzata all’indietro da una forza sconosciuta e ignota, finendo con il sedere sul pavimento. La ragazza minuta e bionda la raggiunse per aiutarla a rialzarsi e in quel momento sopraggiunse Pansy, seguita a ruota da James Potter. Emma vide la ragazza accanto a lei arrossire e stringersi nella camiciona da notte che indossava. Potter era ancora vestito, e così Emma dedusse che non dovevano aver dormito poi chissà quanto, allora. Pansy raggiunse la porta, il viso contorto dalla preoccupazione, e James si chinò su di lei tendendole una mano per aiutarla a rialzarsi. Emma lo ignorò: era capacissima di tirarsi su da sola. 

«Tutto bene?» le chiese lui. «Cos’è successo?»

«Abbiamo sentito le urla anche noi. Eravamo a metà strada quando la signorina Park ci ha raggiunto per avvertirci», spiegò Pansy. Poi puntò la bacchetta contro la porta, mormorando un incantesimo, ma, con sgomento di tutti i presenti, anche la magia sembrò inefficace contro ciò che stava succedendo nell’altra stanza. Emma scambiò un’occhiata sgomenta con James, prima di rivolgersi a Pansy. 

«Ci hanno svegliato le urla. Quando ho visto che Isabelle Williams non era nel letto accanto al mio, e mancava solo lei, ho capito, e così sono corsa qui con altre ragazze. La porta non si apre, sembra chiusa dall’interno—»

«Ma qui a Heydon Hall non abbiamo—»

«Non abbiamo chiavi, lo so», completò Emma, e lei e Pansy si guardarono, preoccupate. «Non vuole aprirsi e non so cosa diavolo stia succedendo là dentro, Isabelle grida e sembra terrorizzata e—»

Emma dovette interrompersi perché sentirono un cigolio, e tutti si voltarono a guardare la porta riaprisi lentamente, centimetro dopo centimetro. Emma fece un passo avanti ma James la trattenne agguantandola per le braccia. Emma andò a sbattere con la schiena contro il suo petto e sentì per un attimo il suo profumo invaderle le narici. 

«Non è sicuro, Nott», le intimò lui. «Lascia fare a noi.» Lei avrebbe voluto replicare ma, in quella situazione, anche la sua linguaccia tagliente l’aveva come abbandonata. 

Rimase lì in piedi con le altre due ragazze più grandi mentre Pansy e James entravano cautamente nel bagno. Non arrivarono rumori, per un attimo, fin quando non sentirono Pansy fare il nome di Isabelle. Allora Emma non resistette oltre e si precipitò all’interno. Isabelle era rannicchiata dentro una delle docce, l’acqua aperta e fredda che le colava addosso, inondandola e inzuppandole il pigiama leggero. Tremava e piangeva. Anche le altre docce erano accese, tutte quante. James si affrettò a chiudere l’acqua e, con un colpo di bacchetta, fece lo stesso con le altre docce. Pansy si chinò di fronte a Isabelle. Emma notò immediatamente che i vetri delle finestre erano tutti rotti, quasi come se fossero esplosi, e il vento e la pioggia penetravano all’interno, fragorosi e impetuosi. Inoltre, le piastrelle erano crepate e rotte in più punti e le panche disposte al centro della stanza erano capovolte e il legno sventrato. Certo quella non era opera di Isabelle. 

Emma raggiunse Pansy e James e si chinò accanto alla sua amica. «Nott, ti avevamo detto di stare fuori», protestò la donna. 

«È mia amica», disse solo Emma allungandosi ad accarezzare il viso di Isabelle, ma quella si scostò violentemente, singhiozzando più forte, cercando e trovando rifugio tra le braccia di Pansy, fuggendo da lei

«La donna, la donna, la donna, la donna», sussurrava Isabelle, preda del terrore più profondo, e con voce talmente bassa che Emma si chiese se fosse reale o solo frutto della sua fantasia. La sua mano quindi rimase lì, ferma a mezz’aria, immobile. La sorpresa provocata dalla reazione di Isabelle, tanto brutto quanto inaspettato, l’aveva raggelata più di quanto non l’avesse fatto il legno della porta, poco prima. La mano le ricadde in grembo, mentre la delusione la invadeva come prima l’aveva invasa la paura, e ora si mischiavano, letali e penetranti, mentre una vocina flebile ma oscura le sussurrava nell’orecchio che era tutta colpa sua, che qualsiasi cosa fosse successa in quella stanza, ora Isabelle aveva paura di lei

Alzò lo sguardo e vide che Potter la stava guardando.

 


 

Note.

1. Il (finto) racconto di Emma sui suoi genitori vuole essere un omaggio al film “Jumanji” (ovviamente, l’unico, vero “Jumanji”, cioè la pellicola del 1995)
2. Parallelismo con la battuta di James nel capitolo uno: «Non ho paura di alcune vecchie storie, ma sono curioso»
3. Archibald Fletcher è il pro-nipote di Mundungus Fletcher ed è un personaggio di mia invenzione
4. Tyler Jordan è invece figlio di Lee Jordan e anche lui è un personaggio di mia invenzione; chi ha letto “Death in the Night” ha sentito nominare suo fratello maggiore, JJ, nel capitolo 11 
5. Drake Flitt è figlio di Marcus Flitt, altro personaggio di mia invenzione; lo conoscerete meglio più avanti
6. «Andavo a scuola con tuo padre, sai?»: rimando alla stessa battuta che Pansy rivolge a James nel capitolo uno

 

Eccoci qui con il (tanto atteso) capitolo due, più che altro perché ci tenevo a presentarvi Emma Nott. I lettori di “Death in the Night” l’hanno già sentita nominare, gli altri hanno letto il suo nome la prima volta nello scorso capitolo, ma comunque nessuno di voi l’aveva mai conosciuta, prima d'ora. Sono piuttosto fiera di Emma, e spero tanto che possa piacere anche a voi - anche perché è la co-protagonista e occupa una sostanziosa fetta di questa storia ♥︎ In questo secondo capitolo succedono un bel po’ di cosette: Emma fa delle nuove conoscenze e giunge finalmente a Heydon Hall, dove comincia ad ambientarsi; Archie rompe il ghiaccio fin da subito con le sue storie di fantasmi e, proprio quella stessa sera, qualcosa di misterioso e spaventoso accade alla sua amica Isabelle (in merito a ciò, tenete a mente tutto quanto, mi raccomando, ma voglio mettervi la pulce nell’orecchio su Izzy, cioè non amatela troppo, o rischiereste di prendervi un bel palo più avanti 👀). 

 

Spero tanto che questo capitolo vi sia piaciuto, io come al solito non vedo l’ora di leggere cosa ne pensate, quindi fatevi sotto ♥︎ vi lascio come al solito il mio contatto Instagram

 

A lunedì prossimo,
Marti 🐍

 

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Capitolo 4
*** CAPITOLO TRE ***


THE HAUNTING OF HEYDON HALL

 

CAPITOLO TRE

 

 

“Spesso, l’orrore oltre il limite estremo
Paralizza pietosamente la memoria.”
H. P. Lovecraft, I ratti nei muri

 

 

Heydon Hall, Norfolk, 2 settembre 2023

Emma trascorse il resto della notte quasi in bianco. 

 

[I PENSIERI DI EMMA]

 

Dopo la scena occorsa in bagno, dove Isabelle si era ritratta da lei, terrorizzata e spaventata, Emma si era limitata ad osservare James Potter che, con un’inaspettata dolcezza e premura, prendeva in braccio la ragazza per portarla in infermeria, mentre Pansy apriva la strada e lanciava rassicurazioni alle bambine più piccole, ancora tremanti, e raccomandazioni alle ragazze più grandi. Isabelle si era abbarbicata addosso al suo salvatore, le braccia a cingergli il collo, ed Emma ne poteva osservare il viso, parzialmente nascosto dalla spalla di Potter, gli occhi serrati. Dentro di sé, già macinava pensieri. Sulla porta, Pansy le aveva intimato di tornarsene a letto e di stare tranquilla, ché Isabelle era in buone mani. Osservando i tre allontanarsi, Emma aveva sospirato, le sopracciglia aggrottate, e poi si era rimessa a letto. Prima che una delle ragazze del settimo spegnesse le luci, aveva lanciato un’ultima occhiata al letto ancora sfatto e scomposto di Izzy per poi mettersi a fissare il soffitto, la mente ottenebrata dalle immagini dello scenario che le si era profilato davanti una volta aperta la dannata porta del bagno. O meglio, una volta che quella dannata porta si era aperta, da sola. Non aveva capito bene cosa fosse successo, non esattamente. Sembrava quasi che qualcosa - o qualcuno - fosse chiuso in quella stanza con Isabelle, che aveva continuato a sussurrare sempre quelle due parole - la donna - almeno finché Potter non l’aveva raccolta da terra. La donna. Cosa voleva dire? Chi era la donna citata dalla ragazza? E, soprattutto, c’era davvero? Emma aveva pensato si fosse trattato di pura e semplice suggestione: Izzy credeva ai fantasmi, le aveva raccontato una storia lei stessa, sul treno, e sembrava essersi bevuta il racconto di Archie, a cena, e doveva aver semplicemente messo insieme tutte quelle informazioni e quelle insensate paure e la sua mente aveva dato il via alla visione, un viscerale prodotto della sua fervida immaginazione. Non c’era altra spiegazione possibile, e soprattutto razionale. Non c’era e basta. 

Il mattino la trovò quindi in uno sfiancante stato di dormiveglia, a metà tra un sogno e il calcio che ti riporta alla realtà, alla quale riemerse quando la voce di Pansy irruppe nel suo subconscio, ridestandola con un sussulto. «Giù dalle brande, tra quindici minuti la colazione vi aspetta in refettorio.»

Emma si mise a sedere, stropicciandosi gli occhi e i capelli. La ragazza nel letto accanto al suo, che doveva essere del settimo anno, era già seduta ad allacciarsi le scarpe, e la guardò facendola sentire tremendamente inadatta e vergognosamente in ritardo. Entrando in bagno si era aspettata di trovare lo stesso disastro di quella notte ma, senza sapere quando e come fosse successo, era stato tutto sistemato. A quanto pareva, qualcuno era venuto a riparare i danni e ora le panche erano tornate come nuove, e al loro posto, e i vetri erano stati riparati, così come le piastrelle. Era nuovamente tutto immacolato e bianco, asettico. Emma venne spintonata da alcune ragazzine, che si affrettarono ad entrare per lavarsi e cambiarsi. 

Fu l’ultima, e si attardò consapevolmente in dormitorio perché voleva dare un’occhiata al bagno più da vicino e senza altri occhi addosso, almeno non più di quanti già non ne avesse: tutte la ricordavano seduta accanto a Isabelle, a cena, e forse pensavano che fossero amiche, ma Emma non si sentiva affatto amica di Isabelle, non più di quanto lo fosse dello stesso Potter o del suo vicino di casa. Le dispiaceva che Izzy fosse stata male e che le fosse capitata… be’, qualsiasi cosa le fosse capitata, e alla quale non riusciva a dare un nome, e tanto meno a definire, ma ovviamente non quanto le sarebbe dispiaciuto per Rosalie Greengrass1, per esempio, giusto per pensare ad un nome. 

 

[TUTTO IN ORDINE]

 

Dopo aver indossato l’uniforme (che non era poi così male, alla fine), Emma tornò in bagno. Le mani appuntate sui fianchi, si guardò intorno. Davvero non c’era più traccia di ciò che era successo la sera prima e si chiese se, forse, non si fosse immaginata tutto: la panche sventrate, i vetri scoppiati, le piastrelle rotte… E l’acqua. Acqua dappertutto. Passò una mano sulle piastrelle che ricoprivano le pareti e rabbrividì per un momento quando la pelle ne sfiorò la fredda superficie. Ritrasse di scatto la mano, e la guardò per un attimo, come se il gelo l’avesse scottata. Si spostò nelle docce, ma anche lì sembrava tutto immobile e immoto, come se nulla fosse accaduto, in fondo. L’immagine di Isabelle accovacciata nella doccia più vicina le balenò in mente, e subito dopo tornò il suo sguardo terrorizzato, come se la causa di tutto quel trambusto fosse lei, proprio lei: Emma

Il suo sguardo venne catturato da una fila di ragni, che ordinatamente sfilavano sulla parete di fondo, accanto alla finestra. Emma si avvicinò, ma quelli scomparvero, veloci, andandosi a infilare in una delle intercapedini tra il muro e il serramento. La presenza dei ragni non la turbava, in fondo si trattava di un edificio molto vecchio, era normale trovarne. Si decise a uscire dal bagno, e dal dormitorio. Per raggiungere il refettorio avrebbe dovuto passare per la hall, visto che ci si arrivava da un altro dei quattro corridoi principali, e si chiese se tutti fossero ancora a colazione, visto che non incontrò anima viva. Giunta all’ingresso, si guardò intorno. Alle sue spalle, il corridoio dal quale era appena emersa; alla sua destra, il passaggio che l’avrebbe condotta al refettorio, dal quale provenivano rumori di risate e chiacchiere. Lanciò un’occhiata al corridoio che conduceva all’ala ovest, ma distolse in fretta lo sguardo quando sentì lo stomaco brontolare. Si sforzò di contenersi e osservò invece l’ultimo corridoio rimasto: quello riservato al personale, dove immaginò dovesse trovarsi l’infermeria nominata da Pansy, nella quale, la notte prima, avevano portato Isabelle. Non potè evitare di pensare se arrischiare una visita, soprattutto per scoprire qualcosa di più su ciò che era successo, ma anche per verificare come Izzy si sarebbe comportata nei suoi confronti. 

 

[OPS, EMMA DID IT AGAIN]

 

In un attimo, il pensiero si tramutò in azione: imboccò quindi il passaggio, ma si nascose quasi subito dietro una statua quando vide il vecchio signor Pince emergere da una stanza. Ringraziò la scarsa illuminazione del corridoio, la sua prontezza di riflessi dopo anni di malefatte a Hogwarts e l’apparente torpore incline al coma del vecchio vegliardo, che passò oltre senza neanche accorgersi della sua presenza. Lo guardò strisciare le pantofole e scomparire nella hall, e poi proseguì. Buttò un’occhiata nella stanza appena lasciata da Pince e notò che si trattava di una specie di salottino, con una cucina acciaccata, un tavolo con delle sedie spaiate e un paio di poltrone sfondate che risalivano probabilmente allo scorso secolo. Emma storse il naso e, quando rimise il becco in corridoio, per poco non le prese un colpo. 

«Cosa ci fai tu qui?» esclamò James Potter. 

 

🥀

 

[EMMA HAPPENS]

 

«Mollami, Potter.»

James aveva condotto Emma Nott proprio dietro l’angolo, nella rientranza della parete nella quale si apriva la porta dell’infermeria. Lì la luce era ancora più scarsa, ma un paio di candele illuminavano in parte il volto della ragazza. James si rese conto che i loro visi erano vicinissimi e così si scostò, alzando le mani. Non era stata sua intenzione trascinarla via così, ma vederla lì appostata a spiare in giro lo aveva spiazzato, e non voleva che qualcuno la vedesse. La conosceva di nome, Emma Nott, per via della sua “reputazione di combina-guai” indiscussa di Hogwarts, ma non le aveva mai parlato direttamente. 

«Scusa, non volevo farti finire nei guai il tuo secondo giorno», si difese. 

Emma lo guardava con il fuoco negli occhi e il respiro leggermente corto, forse per lo spavento di ritrovarselo lì dietro le sue spalle. Oppure credeva ai fantasmi?

«Paura del fantasma di Heydon Hall, Nott?»

Lei storse la bocca. «Ti piacerebbe, Potter. È il fantasma ad avere paura di me, semmai.»

«Be’, a giudicare dai tuoi modi, mi sa che hai ragione.»

«Senti chi parla, non sono io quella che trascina ragazze nei corridoi.»

«Che ci fai qui, Emma?»

«Emma? Non ci siamo mica presentati, tu e io.»

James alzò gli occhi al cielo: stava già cominciando ad esasperarlo, ma era divertimento, quello che sentiva al fondo delle sue viscere? 

Scosse la testa. «Okay, allora riformulo: cosa ci fai qui, Nott

«Potrei farti la stessa domanda.» Incrociò le braccia al petto, guardandolo risoluta, un sopracciglio alzato. 

«Si dà il caso che io sia un membro del personale, qui, se non te ne fossi accorta.» E si picchiettò la piastrina dorata che portava appuntata sulla camicia bianca della divisa, con sopra scritto “Sig. J. S. Potter”. Emma gli rivolse un’occhiata disgustata che lui ignorò.

«Quindi cos’hai intenzione di fare, denunciarmi?»

Lui fece finta di rifletterci sopra, grattandosi il mento. «Forse no, se ora torni in refettorio con tutti gli altri.»

Emma scosse la testa. «Nah, neanche per idea. Sono venuta a trovare Isabelle, voglio sapere come sta.»

«Come sei premurosa… Siete diventate grandi amiche, eh?»

«Neanche mor—», ma Emma si interruppe davanti al suo viso trionfante. Eccola lì. Allora gli stava dicendo delle palle, proprio come pensava.

«Sento di odiarti, sai?»

James scrollò le spalle. «Sono cose che capitano.»

«Comunque non me ne vado lo stesso. Voglio davvero capire cos’è successo stanotte.»

Ora James l’osservò, ripensando a ciò che avevano trovato quando lui e Pansy erano entrati nel bagno delle ragazze: legno distrutto, vetri e piastrelle rotti e acqua dappertutto, e quella ragazza nuova, Isabelle Williams (che lui aveva notato seduta allo stesso tavolo di Emma Nott e altri due ragazzi, quella sera a cena), rannicchiata dentro una doccia, l’acqua che le inzuppava il pigiama, bagnata fino al midollo e tremante, quasi come se avesse appena visto… James ricacciò indietro quella parola nei meandri più profondi della sua mente. Si rifiutò persino di pronunciarla, anche se solo con se stesso. E quando Emma era entrata e aveva cercato di toccare Isabelle, quella si era ritratta come un gattino terrorizzato di fronte ad un Doberman ringhiante. Che cosa l’aveva spaventata tanto? E che cos’aveva provocato quell’inferno in terra, là dentro? E chi era “la donna” che la ragazza continuava a nominare, febbrile e preda dei suoi stessi spasmi? 

«Perché Isabelle si è allontanata da te?»

Sembrò aver tirato fuori proprio la domanda che non avrebbe dovuto essere posta, almeno non in quel momento, ché vide Emma chiudersi a riccio, e il suo volto farsi ostile e sospettoso. 

«Sarà stata ancora spaventata per ciò che era appena successo…»

«E allora perché ha cercato rifugio da Pansy? E si è fatta prendere in braccio da me?»

«Non lo so, forse perché le piaci?»

James alzò gli occhi al cielo. «Okay, tralasciando le cazzate, ho visto com’è andata: tu hai cercato di toccarla e lei è come scappata via da te, come se…»

 

[RIFLESSIONI E IPOTESI]

 

«Come se avesse paura», concluse lei sospirando e distogliendo lo sguardo, puntandolo a terra. James notò solo in quel momento che indossava la nuova divisa e si stupì nel constatare quanto le stesse bene. Si riscosse quasi subito, però, e prima di sentirsi ridicolo.  

«Be’, effettivamente la ragazza che è venuta a chiamarci ha detto che la porta era chiusa, ma qui non ci sono chiavi, quindi mi chiedo come sia potuto accadere», rifletté James cominciando a camminare avanti e indietro, mentre Emma rimaneva appoggiata alla parete. «E siete senza bacchetta: quindi come ha fatto Isabelle a ridurre il bagno in quello stato?»

«Stamattina era tornato tutto in ordine», disse lei, senza ostilità, questa volta. «Il bagno, dico», specificò davanti all’occhiata perplessa che James le lanciò. 

«Sarà venuto qualcuno a sistemare? Pansy, o più probabilmente Lamb.»

«Chi è Lamb? Quello alto con la faccia lunga e slavata che sembra uscito dal manicomio?»

James trattenne una risata. Non voleva che Emma si beffasse dei suoi nuovi colleghi davanti a lui, ma effettivamente doveva ammettere che aveva ragione. Evitò però di risponderle in merito. 

«Spero che non sia stato lui, immaginarlo vagare per il nostro dormitorio la notte, al buio… mi fa accapponare la pelle…»

«Quindi non ci credi», buttò lì James. «Ai fantasmi.» L’altra lo guardò e lui credette che avesse capito benissimo a cosa faceva allusione, ma ci tenne comunque a specificare.

«Mi sembra di averti fatto capire che no, non ci credo. E secondo me nemmeno tu, Potterino.»

«Non chiamarmi Potterino», le intimò. «E comunque no, non ci credo nemmeno io, ma devi ammettere che Isabelle sì, ci crede, e questo potrebbe averla indotta a immaginare tutto quanto, a immaginarsi cose che non esistono.»

«Archie Fletcher ci ha raccontato la storia della signora di Heydon Hall», spiegò Emma. «Questo spiegherebbe il panico di Izzy. Lei ci crede, a queste cazzate. E poi, ora che ci penso, in treno mi ha raccontato che i suoi zii l’hanno rinchiusa nella sua camera, quest’estate… È una storia lunga», specificò quando James le rivolse un’occhiata sconvolta e spiazzata. «Questo aggiungerebbe un tassello a tutta la spiegazione: ha avuto una crisi di panico quando, per una qualche ragione, la porta si è chiusa, e forse, assalita dalla paura, ha distrutto il bagno. E il panico potrebbe averle anche impedito di aprire la porta, che in realtà è rimasta aperta per tutto il tempo. Semplice», concluse quasi senza fiato, ma soddisfatta e trionfante, la bocca atteggiata ad un sorriso compiaciuto. 

James annuì. «Potresti avere ragione… Anche se non mi convince che una come Isabelle, e per giunta sola, sia riuscita a conciare così il bagno. Insomma, quelle panche erano messe davvero male…»

«Potrebbe aver fatto qualche magia anche senza bacchetta… Come quelle che ci ritrovavamo a fare da piccoli, senza volerlo, quando la magia si manifestava in noi e rompevamo vasi e vetri.»

«Sì, anche se non sono ancora convinto. Ed è difficile che un mago adulto usi la magia a livelli così ancestrali, senza una bacchetta.»

«Devi ammettere però che le circostanze erano straordinarie. Isabelle era preda del panico e dei brutti ricordi, uniti alla suggestione per le storie di fantasmi, e mettici anche il temporale che infuriava fuori…»

«Penso che sia una ricostruzione piuttosto fedele e plausibile, ma ovviamente quando parlerò con lei riuscirò a farmi un’idea migliore», concluse James. «Ora è meglio se torni dagli altri, o ti caccerai davvero nei guai, Em—, Nott», si corresse.

«Emma va bene», bofonchiò lei a mezza voce e James non potè fare a meno di sorriderle. «Ma comunque non vado proprio da nessuna parte. Ormai ci siamo dentro insieme, quindi entro con te. James.» E incrociò nuovamente le braccia, guardandolo severa. 

James alzò gli occhi al cielo, reazione standard da qualche minuto a quella parte, e si diresse alla porta. 

«Lascia almeno far andare avanti me, okay?»

Emma annuì e sembrò trovarsi d’accordo con lui, almeno in quell’occasione. James aprì e sbirciò dentro. 

 

[IN INFERMERIA]

 

L’infermeria era costituita da una stanza piuttosto ampia che somigliava in modo sconcertante all’infermeria di Hogwarts, che lui aveva visitato parecchie volte sia da paziente, per via degli infortuni che si era procurato giocando a Quidditch, sia da visitatore, per andare a trovare altri membri della squadra o amici colpiti da qualche incantesimo. Quattro letti erano posizionati lungo la parete sotto tre grosse finestre e la luce del sole filtrava piano. In uno dei quattro era distesa Isabelle, i capelli biondi sparsi sul cuscino e gli occhi chiusi. Proprio davanti all’ingresso, separata dal resto da un separè in tessuto azzurro montato su ruote, era posizionata una scrivania, alla quale sedeva una donna possente, una delle donne più grosse che James avesse mai visto. Era vestita di verde acido, proprio come chi lavorava al San Mungo, e stava appuntando qualcosa su una pergamena. Lui fece cenno ad Emma di aspettare ed entrò. La donnona si girò e lo osservò per un momento, per poi sorridergli apertamente. 

«Posso?» chiese lui sfoderando la sua classica espressione-da-bravo-ragazzo che conquistava sempre tutti, da diciotto anni a quella parte. 

«Oh, sì, vieni avanti, caro.»

«Mi spiace disturbare, sono venuto a vedere come sta la paziente», spiegò. «Sono James Potter, lavoro qui», e indicò la piastrina col suo nome.

«Oh, sì, Justine mi ha parlato così bene, di te. Justine è la guaritrice che era qui stanotte. Io la sostituisco durante il giorno.»

Quella notte, era stata chiamata una guaritrice dal San Mungo, che era giunta piuttosto in fretta, Smaterializzandosi ai confini. La donna era stata poi scortata in infermeria da Lamb e si era occupata di visitare Isabelle, dopo che Pansy le aveva prestato i primi soccorsi. Si era complimentata con l’altra donna per l’abilità e la prontezza con la quale aveva preparato una Pozione Corroborante per la paziente, e poi li aveva spediti ad attendere fuori mentre se ne occupava lei. Prima di rimandarli tutti a letto, aveva assicurato al preside Corner (che era stato ovviamente avvertito e si era presentato con la sua solita vestaglia blu, ma questa volta sopra un pigiama viola, che spuntava da sotto e che gli lasciava scoperte le caviglie, e la faccia assonnata ma preoccupata) che Isabelle Williams si sarebbe rimessa, ma che aveva bisogno di giorni di convalescenza per riprendersi dallo shock subito, e poi si era complimentata nuovamente con Pansy, e anche con lui, definendolo un «caro, caro ragazzo». 

«Sì, be’, ho solo fatto ciò che tutti avrebbero fatto, in una circostanza simile», si difese lui. 

«Hai mai pensato di fare il guaritore, caro? Sembra quasi che tu abbia una dote innata per ammansire il prossimo…»

James si grattò la nuca, arrischiando uno sguardo alle sue spalle e alla porta socchiusa, dietro la quale sapeva che Emma se la stava spassando un mondo a sentirlo destreggiarsi là dentro. 

«Veramente pensavo al Quidditch, ma non sarebbe male avere un piano B… Riguardo al suo lavoro, mi dica: le piace?»

La donna gli fece cenno di avvicinarsi. «Siediti qui, vado a preparare un buon tè e torno.»

Indicò la porta alle sue spalle, che molto probabilmente si apriva su una stanza di servizio. James annuì prontamente. La donna, che si chiamava Lisa (era scritto sul badge che portava attaccato alla casacca verde acido), gli sorrise e si dileguò. Allora James si voltò verso la porta d’ingresso mentre Emma infilava la testa all’interno. Le fece cenno di entrare e lei richiuse la porta.

«Hai fatto colpo, Potter», lo prese in giro spintonandolo leggermente. 

«Sta’ zitta, per Godric. Sbrighiamoci, piuttosto, non so quanto ci metterà a fare il tè.»

«Chiudila dentro, no?»

«Come, scusa?»

 

[LE TENTAZIONI DI EMMA]

 

Emma scrollò le spalle. «Quello che ho detto. Chiudila dentro, poi quando abbiamo finito la lasciamo andare. E mentre ci sei lancia un Muffliato alla porta, anche.»

«Non posso farlo», protestò lui, che a quel punto capì perché Emma venisse considerata una vera e propria “delinquente”, a Hogwarts.

«Sì che puoi, per Salazar come sei barboso!» esclamò lei alzando gli occhi al cielo. «Lo farei io, se avessi la bacchetta. E non voglio privarti della tua, non mi va di metterti le mani addosso o potresti farti strane idee.»

«Okay, okay, lo faccio, va bene!» cedette James, esasperato ma divertito. Eccolo di nuovo, quel divertimento che lo stupiva. 

E così lanciò un Colloportus e un Muffliato, sotto lo sguardo divertito di Emma, che sicuramente gongolava all’idea di averlo corrotto. 

«Allora sei davvero come dicono tutti a scuola, tu», le disse tornando da lei. 

«Cioè? Incredibilmente bella e interessante e intelligente?»

James la ignorò. «Tutti dicono che sei una delinquente fatta e finita. Materiale per Azkaban, insomma.»

James capì di aver detto la cosa sbagliata, e se ne pentì un istante dopo. Il viso di Emma si adombrò e ogni traccia di divertimento svanì. 

«Non fa ridere, Potter. Sei più divertente quando tieni il becco chiuso.»

 

[JAMES FA DANNI]

 

«Scusa, mi è uscita male…» tentò di scusarsi. Gli dispiaceva davvero aver tirato in ballo Azkaban quando davanti a lui aveva una persona che di cognome faceva “Nott”, soprattutto perché non era giusto che le colpe degli avi ricadessero sui loro discendenti. 

«Be’, sapessi cos’hanno detto di te, durante tutto l’anno scorso…»

«Le voci mi sono arrivate e credimi, non me ne frega niente.»

Ora Emma lo guardava guardinga, come un grosso felino osserva deliziato e interessato la sua prossima preda e valuta quanto sia effettivamente facile azzannarla. 

«Hai davvero trasfigurato il corpo di Jenkins?»

James si aspettava che quella domanda sarebbe giunta, prima o poi. Era un po’ come un Erumpent nella stanza.  

Annuì, ché non aveva senso mentire, no?

Anche Emma annuì, imperturbabile. «Sono uscita con lui, sai? Quando facevo il terzo anno.»

James arricciò le labbra. «Ah, sì? E questo come ci è utile, ora?»

«Non lo è», rispose Emma scrollando le spalle. La sua aggressività sembrava essersi ritratta. «Te l’ho detto solo perché era un vero coglione, Karl, sai? Quindi non ti crucciare troppo per lui.»

James sbarrò gli occhi. Come diavolo erano finiti a parlare di Karl Jenkins? E perché Emma gli stava praticamente dicendo di non preoccuparsi per ciò che aveva fatto? Non ci capiva più nulla. 

«In fondo, anche tu saresti stato materiale da Azkaban, comunque», aggiunse, e James sentì la sorpresa affievolirsi. «Quindi non te la tirare tanto, Potter.»

Così dicendo gli diede le spalle per raggiungere il letto di Isabelle. James sospirò, pensando a quanto fosse incredibilmente strana Emma Nott. E divertente. E attraente. Ricacciò però prontamente al fondo della sua testa quella voce molesta.

 

[IL RACCONTO DI ISABELLE]

 

Isabelle Williams dormiva, ma si destò subito, non appena Emma la chiamò piano. Aprì gli occhi e li girò tutt’intorno, posandoli prima su di lui. Gli sorrise e James ricambiò, incoraggiante. Ma poi il viso della ragazza si accartocciò, quando vide Emma. Si allontanò da lei, quasi come si era scostata quella notte, ma ora lo fece più lentamente, visto che nel braccio aveva infilato un ago che le iniettava una sostanza blu nelle vene, probabilmente un elisir per mantenerla idratata e in forze. 

«Izzy», la chiamò nuovamente Emma. «Non devi avere paura, non vogliamo farti del male.»

«Ci riconosci? Sai chi siamo?» le chiese James sedendosi ai piedi del letto, mentre Emma rimase in piedi. 

Isabelle annuì piano, ma non rispose.

«Molto bene», proseguì lui, ché aveva capito che la sua voce la teneva più tranquilla, a differenza di quella di Emma, per qualche strana ragione a loro ancora ignota. «Volevamo sapere come stavi… Sai, dopo quello che è successo questa notte…»

«Ci siamo preoccupati molto, Izzy.»

James convenne che Emma era molto brava a mentire e a suonare convincente. Doveva tenerlo a mente per il futuro. 

Isabelle, dal canto suo, osservò l’altra ragazza con gli occhi sbarrati e il suo respiro cominciò a farsi affannato. Allora lui allungò una mano a toccare quella di lei e la vide girarsi a guardarlo. 

«Non devi avere paura di noi.» Ripetè le stesse parole di Emma di poco prima, cercando di suonare tranquillo e rilassato. «Io mi chiamo James. James Potter.»

Con la cosa dell’occhio, vide Emma alzare gli occhi al cielo, ma non le badò. 

«Ti ricordi cos’è successo, Izzy? Posso chiamarti Izzy, vero?» aggiunse sorridendole.

La ragazza annuì, e sembrò leggermente più tranquilla.

«Cos’è successo, Izzy?» ripetè. «Sembravi così spaventata…»

Lei tergiversò e tentennò per un lungo momento, e James temette quasi che non avesse capito, o che, peggio, non avesse alcuna intenzione di parlargli.

«Ero in bagno», cominciò, la voce leggermente arrochita. «Improvvisamente ho sentito freddo… freddissimo… Un fulmine lontano e… e i vetri si sono rotti… Allora sono corsa alla porta, ma… » Isabelle faceva delle lunghe pause, un po’ come se non riuscisse a ricordare, un po’ come se non trovasse le parole. O, ancora meglio, come se ne fosse spaventata. 

«La porta era chiusa?» la incalzò Emma. Isabella si lamentò e nascose per un momento il viso nel cuscino, mugugnando, e stringendo più forte la mano che James ancora tratteneva nella sua. Così fece un cenno ad Emma di tacere, era meglio lasciarla parlare, visto che la sua voce la turbava. Emma scosse la testa, contrariata, ma non disse nulla. 

«Izzy?» la chiamò lui. «Cos’è successo dopo?»

Isabelle riemerse ed evitò di guardare Emma, come se non esistesse. «La porta era chiusa e io… io non riuscivo ad aprirla… Ho battuto, e chiamato aiuto, ma nessuno… nessuno mi sentiva, con quel temporale… E poi… » fece un’altra pausa, questa volta più lunga, e James sentì la mano che le tremava, e tutto il corpo la seguì a ruota. Gli si avventò addosso, cercando rifugio nelle sue braccia, e James non potè fare altro che accoglierla, spiazzato da una tale richiesta di conforto e stupito, e come paralizzato, dalla paura che l’attanagliava. Lanciò uno sguardo ad Emma, che per tutta risposta fece finta di vomitare dietro la sua spalla. Allora lui picchiettò leggermente la schiena di Isabelle, scostandola e facendola risedere sul letto. Lo metteva un po’ a disagio, tutta quella situazione, e improvvisamente desiderò solo finirla lì e uscire. L’aria cominciava a farsi spessa e pesante e un freddo innaturale gli stava come risalendo dalle gambe, minacciando di sopraffarlo. Si alzò in piedi di scatto, sistemandosi meglio gli occhiali sul naso, che Izzy gli aveva quasi fatto saltare via, e notò che Emma lo osservava in modo strano. 

«Non abbiamo molto tempo, Izzy.»

La ragazza sembrò capire e annuì. «Quello che è successo dopo lo ricordo appena, in realtà. Ricordo solo il freddo, e il buio, e la paura… una paura senza nome… una paura mai provata in vita mia…»

«Chi c’era dentro al bagno con te, Isabelle?» intervenne Emma. «Chi c’era? Una donna?»

Isabelle la guardava con gli occhi sbarrati, ora. 

«Izzy, mi capisci? Capisci cosa ti sto chiedendo?» Emma le si avvicinò e l’altra si appiattì contro la spalliera in ferro del suo letto. James osservava la scena, indeciso se intervenire o meno. «Hai parlato di una donna, Isabelle. Chi era? Dimmelo. Chi c’era con te in quella stanza? ISABELLE!» L’afferrò per le spalle, scuotendola, e James si affrettò a trattenere Emma, scostandola dalla paziente, che intanto si era rannicchiata su se stessa, scoppiando a piangere. 

«Va’ fuori, Emma», esclamò James. «Per favore, va’ fuori e aspettami lì.»

A sorpresa, Emma obbedì. Ora sembrava proprio un drago in gabbia e le mancava solo il fumo dal naso per completare l’opera. James la guardò uscire e sbattersi la porta alle spalle. Poi si rigirò verso Isabelle. 

«Non ricordi altro, Isabelle? Nulla che possa farci capire come aiutarti?» Cercò di risultare il più gentile e dolce possibile, solo così la ragazza avrebbe parlato di nuovo.

«Io non… non me lo ricordo, James… È come se… come se qualcosa… o qualcuno… fosse lì con me, e mi scuotesse, e mi prendesse e mi… » esitò «… e mi sollevasse. Non ricordo altro, scusa…» E immerse il viso nel cuscino. James comprese che non gli avrebbe detto altro, e così le carezzò per un attimo i capelli prima di andarsene. 

Sulla porta, si ricordò di liberare la povera Lisa, e poi si affrettò ad uscire. Emma lo aspettava fuori, e lui la prese per un gomito, trascinandola nella sua camera, poco lontana. 

 

[IN CAMERA DI JAMES]

 

«Ah, questo era il tuo obiettivo sin dall’inizio, allora.»

«Smettila di fare così, okay?» esclamò lui, spazientito.

Emma rimase in silenzio, forse capendo l’antifona. James prese a misurare la stanza a grandi passi. Notò che il baule era di nuovo ai piedi del letto e si chiese se si stesse immaginando cose o se fosse davvero la realtà. 

«Non abbiamo cavato un’acromantula dal buco», constatò. 

«Un ragno», esclamò Emma, indicandogli il pavimento. 

Un grosso ragno nero stava sgattaiolando silenzioso sotto il letto di James, ma lui fu più lesto, e lo schiacciò con un piede. 

«Che riflessi… Dimenticavo che sei un ottimo Cercatore, Potter.»

«Cos’è? Un maldestro tentativo di compiacermi?» le chiese ripulendo la suola della sua scarpa con un incantesimo non verbale. 

«Nah, non è da me. Comunque ci sono un po’ troppi ragni, per i miei gusti, qui…»

«Hai paura?»

«Ancora, Potter? Io non ho paura di niente», asserì lei inarcando le sopracciglia.

«Mio fratello ha paura dei ragni.»

«Chi? Albus?»

James annuì. 

«Ti manca, eh?»

Lui scrollò le spalle. Non voleva parlare di Albus, o di Lily. Tornò quindi sull’argomento-Isabelle. «Ancora non capisco che cosa possa aver distrutto il bagno in quel modo… Isabelle non ha saputo dirmi altro.»

Emma si strinse nelle spalle. «Neanche io, sinceramente. Immagino che non lo sapremo mai. In fondo, se Isabelle non ha parlato con te, non so con chi lo farà.»

«Cosa sono, io? Uno psicologo?» si difese James. Era già stato definito così, di recente, da sua cugina Lucy, e non aveva voglia di ripetere l’esperienza.

«Nessuno è lo psicologo di nessuno, qui. Solo noi possiamo curare le nostre inquietudini.»

«Quindi pensi che la vicinanza di un’altra persona non serva, ad alleviare un dolore?»

«Forse sì, forse no, ma non per tutti. C’è anche chi se ne sta bene da solo.»

James non replicò, ma si chiese se Emma stesse parlando proprio di se stessa. 

 

🥀

 

«Ti ho vista», canticchiò Archie nel suo orecchio. Emma si voltò di scatto e lo osservò prendere posto al suo stesso tavolo, al refettorio. Era ora di pranzo e si stava sforzando di assaggiare le verdure stra-bollite che vorticavano nel suo piatto, ma senza successo. 

 

[PARLANDO CON ARCHIE]

 

«Archie», esclamò a mo’ di saluto. «Ciao anche a te.»

«Ti ho vista», ripetè sussurrando, sporgendosi verso di lei. 

Emma inarcò le sopracciglia, interrogativa. «Cosa stai cercando di dirmi?»

«Sto cercando di dirti che ti ho vista scivolare fuori dal corridoio del personale con quello stra-figo cosmico di Potter, ecco cosa», esclamò l’amico prima di zittirsi e ringraziare Lamb, che gli stava porgendo un vassoio. Emma osservò l’inserviente caracollare via e poi tornò da Archie: aveva appena definito James Potter stra-figo? Seriamente? 

Okay, okay, doveva ammettere che era molto carino. E sexy. Anche con quell’orrenda divisa del personale addosso… E quegli occhiali storti gli davano un certo non so che… Emma scosse la testa e tornò alla realtà. 

«Ti sei distratta, eh?» E Archie le indicò il punto che stava fissando e in cui, si rese conto Emma troppo tardi, stava seduto proprio James. Così lei scosse la testa e girò la sedia in modo da non vederlo. Archie continuava a sorriderle come un ebete, però, e a guardare Potter. 

«Ti piace? Te lo posso presentare, se vuoi.»

Archie alzò gli occhi al cielo. «Che scema, che sei. Comunque no, grazie, si dà il caso che ami follemente Tyler, ma tu, tu sei libera come l’aria, giusto? Non puoi farti scappare quel bocconcino, è talmente bello

«Basta, Archie, sto cercando di mangiare», protestò lei.

Archie agitò una mano, lanciando un’occhiata ai loro piatti. «Stai davvero cercando di mangiare quella roba? Tu sei matta. Lo sai che Tyler si fa mandare scorte di cibo da suo fratello JJ? Se dovesse venirti fame, non hai che da chiedere… Inoltre, so come sgattaiolare nella cucina della vecchia pipistrella, quando vuoi.»

«Madama Pince?»

Archie annuì. «Tiene nascoste là dentro ogni genere di prelibatezze e mi chiedo perché prepari queste schifezze», e allontanò da sé il vassoio. Agguantò solo le clementine e se le fece scivolare nella tasche del blazer. 

«Comunque», continuò incrociando le mani sul tavolo e guardandola, enigmatico. «Vuoi dirmi cosa stavate facendo tu e Potter, stamattina? Mentre tutti noi eravamo a colazione? So già che non mi dirai del sesso furioso, tranquilla, ti perdono.»

Emma cercò di ignorare l’ultima frase dell’amico, anche se… anche se l’immagine di lei e James appoggiati ad una parete a… no, basta, doveva chiudere fuori quel pensiero, Archie le faceva male alla salute. 

«Siamo stati a trovare Isabelle», rispose, e si lanciò a raccontargli per filo e per segno cos’era successo la sera prima, e anche quella mattina. Evitò di dirgli che Izzy sembrava avere paura di lei, però, preferendo tenere per sé quel dettaglio. «E quindi abbiamo pensato che la turbolente rievocazione di quel ricordo, legato all’estate trascorsa con gli zii demoniaci, unito a quelle storie sceme, abbia innescato tutto quanto.»

 

[COSA NE PENSA ARCHIE?]

 

«Ovviamente qui a Heydon Hall non si parla d’altro», commentò Archie. «La notizia è trapelata in fretta e stamattina a colazione era l’argomento generale davanti al porridge bisunto.»

«Quindi? Tu cosa pensi?» 

«Io cosa ne penso?» Archie si riappoggiò alla sedia e incrociò le braccia al petto. «Va bene, ti dirò cosa ne penso, ma non te la prendere con me.»

Emma annuì, chiedendosi perché avrebbe dovuto prendersela con lui. 

«Io penso che sia tutta colpa del fantasma della signora di Heydon Hall», snocciolò Archie. 

Ah, ecco perché. Emma non potè far altro che sollevare gli occhi al cielo, infastidita, e fu una reazione pressoché automatica, la sua. 

«Ecco, vedi perché ti ho chiesto di non prendertela con me?» protestò Archie.

«Non me la prendo con te, Archie, ma la prendo con questa stupida e arcaica superstizione alla quale sembrate credere senza indugio. Non c’è nessun dannato fantasma.»

Archie sbarrò gli occhi e trattenne il respiro, mentre le pesanti porte del refettorio si chiusero improvvisamente, e con un tonfo sepolcrale. Il suo amico sobbalzò sulla sedia, e così fecero tutti i presenti nel refettorio, come se fossero stati subitaneamente colti dal panico. Emma li osservò uno ad uno (non era rimasta molta gente, seduta ai tavoli sparsi) e, su tutti i visi, lesse solo sgomento e paura. Paura. Eccola di nuovo. 

James si alzò e si diresse alle porte per riaprirle, e le lanciò un’occhiata mentre tornava a sedersi, ma Emma distolse lo sguardo in fretta. 

«Archie Fletcher e una nuova amica.»

 

[CHARLES BAKER]

 

Entrambi si voltarono ed Emma si ritrovò di fronte il ragazzo che la stava guardando la sera prima, uno del gruppo di Drake Flitt indicatole da Archie durante la cena. Era alto e magro, teneva la giacca della divisa buttata su una spalla e un voluminoso ciuffo di capelli nerissimi gli ricadeva sulla fronte. La stava fissando con un paio di voluminosi ma freddi occhi azzurri, interessato, come si osserva un animale esotico in una teca. 

«Non me la presenti, Archie? La tieni tutta per te, eh?»

Emma lanciò un’occhiata al suo amico, che sembrava parecchio infastidito. «La tengo al largo da voi, Baker.»

Il ragazzo alto scoppiò a ridere e parecchie paia di occhi si voltarono verso il loro tavolo, per distogliere lo sguardo altrettanto velocemente. Solo Potter sembrò abbastanza interessato (o coraggioso?) da continuare ad osservarli in tralice, mentre ritirava i vassoi lasciati sui tavoli dagli studenti.

«Mi presento da solo, allora. Charles Baker2», e allungò una mano verso di lei, sorridendole. Aveva un sorriso storto e vagamente inquietante, e nonostante Emma dovette riconoscere, almeno con se stessa, che era davvero carino, non le piacque per niente il modo in cui la stava guardando. 

«Emma Nott. Scusa se non ti stringo la mano, sono germofobica», replicò sorridendogli apertamente, seppur in modo forzato. 

Il sorriso parve svanire per un istante dal viso di Baker, mentre ritirava la mano, per poi ricomparire, come se si fosse accorto di aver abbassato la guardia. «Emma Nott, hai detto? Sarai mica figlia del MagiAvvocato Theodore Nott?»

«Proprio lui, in carne e ossa, quindi non ti conviene tirare la corda come tuo solito, Baker», intervenne Archie trionfante. 

Baker sembrò essere d’accordo, perché lo guardò, deluso e infastidito. Anzi, lo guardò come si guarda un insetto molesto. Emma decise che non le piaceva per niente.

«Interessante», commentò solo l’altro. Si passò una mano tra i capelli ed Emma notò Archie alzare gli occhi al cielo. Intanto, James si stava facendo sempre più vicino, ed era evidentemente in ascolto, ora. «Be’, spero che avremo modo di fare amicizia, Emma. Quello laggiù è il mio solito tavolo», e le indicò il tavolo al quale era seduto la sera prima, «puoi essere mia ospite ogni volta che vuoi. I ragazzi saranno entusiasti di conoscere la figlia di Theodore. Pensaci, invece di fare compagnia ai perdenti. Ci vediamo in giro.»

«O anche no», commentò Emma, mentre Archie lo salutò agitandogli il terzo dito dietro la schiena sottile. 

«Ma chi si crede di essere, quello?» esclamò quindi rivolta all’amico.

«Il padrone della scuola? Suo padre è un finanziatore, ma lui è un piccolo delinquente incallito, e la verità è che i genitori non lo sopportavano più e così lo hanno spedito qui, all’inizio dell’anno scorso. Qualcuno dice che lo abbiano beccato a spacciare delle sostanze allucinogene ricavate dai pungiglioni dei Billywig, quasi al confine con Notturn Alley…»

Emma inarcò le sopracciglia. «Con quella faccia da damerino che si ritrova?»

Archie annuì, compito. «Ah-ah. Comunque è entrato subito nella cricca di Flitt, si sono amati a prima vista, quei due.»

«Tutto bene?»

 

[MEGA FUSTO]

 

Entrambi si voltarono ed Emma incontrò nuovamente lo sguardo di James, che ora era in piedi proprio dove un attimo prima si trovava Charles Baker. 

«Sì, tutto benissimo, grazie», replicò lei quasi freddamente. Non era una donzella in difficoltà bisognosa di aiuto, chi si credeva di essere, pure Potter? 

«Ciao!» esclamò quindi Archie, il viso radioso. Allungò una mano verso James. «Piacere di conoscerti, io sono Archie. Archibald Fletcher, a dire il vero, ma per tutti sono solo Archie. Soprattutto per te

James gli sorrise e gli strinse la mano, guardandolo però vagamente dubbioso. «James Sirius Potter. Sai che il tuo cognome non mi è nuovo?»

«Oh, lo spero bene! Il mio pro-zio Mundungus mi raccontava sempre di tuo padre, il mitico Harry Potter. Hanno combattuto insieme durante la Seconda Guerra Magica.»

«Sì, forse mi ricordo qualcosa… vecchi racconti di mio padre…» commentò James pensieroso grattandosi il mento. Emma ormai lo riconobbe come un suo automatismo, che scattava quando rifletteva sopra qualcosa. Distolse in fretta lo sguardo, però, quando James la beccò a fissarlo, e si affrettò a sbucciare una clementina. 

«Chi era quel tipo? Vi ha dato problemi?»

«Charles Baker. È un tipaccio», spiegò Archie volenteroso. «Giragli alla larga, è un consiglio, tanto ha il culo parato perché il padre sgancia Galeoni per la scuola e il preside Corner se li intasca tutti quanti.»

James inarcò le sopracciglia. «Non lo facevo così venale…»

«Lo diventi, quando il tetto comincia a fare acqua e le pareti a ispessirsi per la muffa e i calcinacci cadono in testa ai tuoi allievi.»

James scrollò le spalle. «Be’, effettivamente…»

«Comunque tutto sotto controllo, Emma lo ha cacciato via con la sua innata simpatia.»

Emma alzò lo sguardo e sorrise furbescamente. «Ricordati che potrei sempre accettare il suo invito, Fletcher.»

«Quale invito?» chiese James.

«Pensavo che avessi origliato tutto, Potter.»

«Non tutto tutto

«L’ha invitata al suo tavolo, ma ovviamente Emma non ci andrà perché è una brava ragazza e perché mi vuole troppo bene», si intromise Archie. «Giusto?»

Emma scrollò le spalle. «Se continuerai a parlarmi di quel maledetto fantasma, potrei anche valutare l’offerta, sai?»

Archie sbarrò gli occhi. «Ti ho detto di stare attenta a come parli del fantasma di Heydon Hall, piccola Nott.»

«Credi al fantasma di Heydon Hall, Archie?» chiese James.

«Assolutamente sì, e dovreste farlo anche voi, scettici. Siete fatti l’uno per l’altra, a quanto pare, mostriciattoli.»

La faccia di James assunse un inusitato colorito violaceo ed Emma tirò un bel calcio ad Archie da sotto il tavolo. Lo osservò soffrire in silenzio, gli occhi socchiusi. 

«Sarà meglio che te ne torni al lavoro, Potter, c’è qualcuno che ti sta osservando da un po’…» buttò lì Emma, indicandogli quindi Madama Pince, ferma come un gufo impagliato accanto al tavolo delle autorità. Lo fissava da sotto quei maledetti occhialini dorati. 

James si sporse a recuperare i loro vassoi e li poggiò sul carrello. «Se avete bisogno di me, non esitate a chiamarmi, e io correrò. Non mi piace, quel Baker.»

«Non abbiamo bisogno del tuo aiuto, Potter, grazie lo stesso», chiarì Emma decisa ficcandosi in bocca uno spicchio di clementina. Voleva chiarire la sua posizione: lei non era una donzella in difficoltà

«Oh, grazie, James, lo terremo a mente», disse invece Archie rivolgendogli un ultimo sorriso sornione. James si allontanò senza dire altro.

 

[DONZELLA IN DIFFICOLTÀ]

 

«Perché lo tratti così?»

«Perché non ho bisogno dell’aiuto di nessuno, testone. Tantomeno di un Potter.»

«Come sei esagerata», sbuffò Archie. «Non si rifiuta mai l’aiuto di un mega fusto. Mai

«Parla per te.»

«Be’, quando ti renderai conto che il fantasma di Heydon Hall è reale e non il frutto della nostra fantasia, allora potresti aver bisogno di aiuto, sai? Anche se spero che quel giorno non arrivi mai, lei è sempre molto violenta, con voi scettici.»

«La smetterai mai, Archie?» gli chiese, spossata, ingoiando l’ultimo boccone di clementina.

L’altro scosse la testa. «Ricorda le mie parole, signorina Nott: un giorno verrai da me e mi dirai, “avevi ragione, Archie, scusa se ho dubitato di te”.»

«Okay, va bene, me lo ricorderò, sei contento?» Emma era esasperata ma anche divertita. La faceva sorridere, quell’assurda convinzione di Archie. 

In tutta risposta, lui annuì, felice e soddisfatto.

 

🥀

 

Lo sbattere di una finestra. 

Il vetro che si rompe.

L’aria della notte filtra nella stanza e cala il gelo.

Pelle d’oca e membra tese e labbra tremule.

La donna si piega, inarca la schiena e chiude gli occhi. 

Le mani aggrappate al pavimento sporco, trascina scie di sangue e morte.

Apre gli occhi e grida.

Grida grida grida.

Le urla squarciano la notte e il gelo. 

 

[IL SOGNO]

 

Emma si svegliò di soprassalto. Era seduta nel suo letto, nel dormitorio silenzioso e buio. A Heydon Hall. 

Lanciò uno sguardo intorno ma tutte le altre ragazze dormivano. Il letto di Isabelle era ancora vuoto. 

Si lasciò ricadere sul cuscino e si passò una mano sugli occhi. Aveva fatto un sogno assurdo. Un incubo, forse. Immagini fatte di sangue e urla, solo e soltanto urla. E morte. 

Mandò al diavolo Archie e le sue maledette storie, e chiuse gli occhi, cercando di riaddormentarsi. Era stata una giornata lunga, quel primo giorno a Heydon Hall, e tutto quel vorticare di cose, e volti, ed eventi l’aveva sopraffatta, turbandola più di quanto si sarebbe aspettata. 

Già quasi nel sonno, la sua mente rievocò per un momento un profumo sconosciuto, che aveva sentito di sfuggita, ma non ricordava dove, né di chi fosse. Così si riaddormentò.

 

A pochi passi da lei, una fila di ragni trovava rifugio sotto il baule di Isabelle Williams.

 

Lo sbattere di una finestra. 

Il vetro che si rompe.

L’aria della notte filtra nella stanza e cala il gelo.

Pelle d’oca e membra tese e labbra tremule.

La donna si piega, inarca la schiena e chiude gli occhi. 

Le mani aggrappate al pavimento sporco, trascina scie di sangue e morte.

Apre gli occhi e grida.

Grida grida grida.

Le urla squarciano la notte e il gelo.

 


 



Note

1. Rosalie Greengrass: compagna di classe di Emma in Serpeverde, figlia di Daphne Greengrass e personaggio di mia invenzione
2. Charles Baker: OC di mia invenzione

 

Bentornati qui con il terzo capitolo di questa long. Sembra ieri che pubblicavo il prologo, sono sconvolta 😳 Detto ciò, in questo capitolo leggiamo per la prima volta della “premiata ditta Potter-Nott” e spero che le loro interazioni vi siano piaciute come io ho adorato scriverle. James ed Emma fanno visita ad Isabelle in infermeria cercando di scoprire qualcosa di più, ma non concludono granché tranne constatare l’ostilità di Izzy nei confronti di Emma e la sua “predilezione” per James. Vi posso dire che tutti i nodi verranno al pettine, ma dovete avere pazienza 🔮 Inoltre, facciamo la conoscenza di un nuovo personaggio, Charles Baker, sicuramente da tenere d’occhio 👀 Ci tengo a specificare infine che il pezzo sul “mega fusto” è un chiaro e aperto riferimento al cartone “Hercules” della Disney. 

 

Concludo ringraziandovi per la calorosa accoglienza riservata ad Emma (e in generale a questa storia) e invitandovi come sempre a farmi sapere cosa ne pensate ♥︎ mi sto divertendo un sacco a leggere tutte le vostre teorie 👀 Nel prossimo capitolo vi attende una scena particolarmente inquietante ma intrigante, e non aggiungo altro 🤐

 

A lunedì prossimo, Marti 🐍

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Capitolo 5
*** CAPITOLO QUATTRO ***


THE HAUNTING OF HEYDON HALL

 

CAPITOLO QUATTRO

 

 

“Le fondamenta per una leggenda, 
sussurrata e sinistra, 
c’erano tutte.”
H. P. Lovecraft, Il colore dallo spazio

 

 

La grande stanza è silenziosa, immersa nella notte scura. Poche rade stelle illuminano il cielo e la luna è celata dietro colti di tempesta. I giorni trascorrono tutti uguali, qui alla grande casa. Uno dopo l’altro, dopo l’altro, dopo l’altro, in una sequela infinita fatta di eterni istanti e anni rapidi. Il tempo si dilata, si distende, si rannicchia su se stesso, non rimane mai lo stesso, cambia costantemente, mentre i cieli fuori mutano veloci, dal giorno alla notte, dalla notte al giorno, sole e luna, stelle e aurore, mentre io non mi muovo, rimango uguale a me stessa, cristallizzata in questo spazio fuori dallo spazio, in un tempo eterno. 

 

Solo quando gli studenti ritornano, allora comincio a muovere dapprima gli occhi, poi le dita, e da lì le braccia, fino alle gambe e ai piedi, mi disincastro dalla mia dimensione alzandomi a fatica dal letto nel quale affondo, e torno così a vagare, tra i corridoi e le sale, nelle stanze che un tempo erano deserte, negli anfratti nascosti dai quali osservo la vita scorrermi attraverso e al fianco, un giorno dopo l’altro, dopo l’altro, dopo l’altro. Ogni anno è sempre così: mi risveglio, mi alzo, cammino, e poi torno a dormire, e sogno, e oblio me stessa, per poi tornare a svegliarmi, alzarmi e camminare, così per anni e anni e anni, in un ciclo immutato e immutabile che è il mio purgatorio. 

 

Qualcosa cambia quando la vedo la prima volta. La attiro a me con un richiamo fatto di carne e sangue e ossa, e lei mi attira con la stessa forza, qualcosa che scorre attraverso di noi e che non conosco, che mi spaventa e mi sa di pace allo stesso tempo, qualcosa che non sento da tanto, troppo tempo. Ora la guardo dormire, nel piccolo letto nella grande stanza, accanto ad altre vite, mentre la sua anima pulsa rossa e io la posso vedere, mi chiama e mi parla, e non posso fare a meno di rispondere. E così la guardo tutta la notte, le resto accanto e conto i suoi respiri, e i battiti del cuore indomito che le rimbomba nel petto, e gli infinitesimali movimenti delle ciglia mentre sogna. 

 

Forse sogna di me? Forse sogna per me? Il suo nome mi rimbomba nella testa, sommerge tutto quanto, mi avvolge come un canto: Emma Nott.

 

🥀

 

Heydon Hall, Norfolk, 9 settembre 2023

James doveva ammettere che la prima settimana trascorsa a Heydon Hall non era stata poi così male. 

 

[LA PRIMA SETTIMANA]

 

Dopo l’incidente che aveva visto coinvolta Isabelle Williams, non era successo nulla degno di nota, o comunque nulla di insolito o strano. La ragazza era ancora in infermeria e, secondo quanto riferito da Pansy Parkinson durante un tè bevuto insieme a Lamb nella cucina del personale, stava seriamente tirando la corda, adducendo scuse su scuse, e inventandosi sempre nuovi malanni e malori, per non dover levare le tende dall’infermeria e cominciare la nuova routine della scuola. Lisa la guaritrice veniva a visitarla due volte al giorno, per il resto, era Pansy ad occuparsi di lei, arrivando a perdere la pazienza innumerevoli volte - James aveva capito che la pazienza non era la dote più spiccata della sua nuova collega. Ogni giorno, Isabelle stava male per qualcosa di nuovo, un mal di testa per colpa del quale non riusciva ad aprire gli occhi; una fotosensibilità eccessiva che aveva costretto Pansy a tirare tutte le tende e ad accendere solo un paio di candele; incubi notturni che avevano scomodato persino un luminare del San Mungo, che le aveva fatto esami accurati che si erano conclusi però in un buco nell’acqua, ché la paziente non aveva nulla che non andasse; crisi di pianto che scoppiavano nel bel mezzo della giornata e che scuotevano l’infermeria (e anche i nervi di Pansy). In un paio di occasioni, Isabelle aveva addirittura chiesto di lui, e Pansy le aveva risposto che non era opportuno avanzare richieste di quel tipo, ché James non era un suo amico o il suo fidanzato, ma un membro del personale della scuola, e con questo aveva chiuso il discorso, e Isabelle non aveva più detto nulla che lo riguardasse - per sua fortuna. Sentiva già le prese in giro di Emma Nott risuonargli nelle orecchie. 

 

[EMMA]

 

A proposito di Emma, la incrociava un sacco di volte nei corridoi e, anche se entrambi facevano finta di non vedersi ed evitarsi, era chiaro che i loro sguardi rimanevano incatenati un po’ troppo a lungo, per due che pretendevano di non conoscersi davanti agli altri, e poi finivano per farsi dei resoconti dettagliati quando in giro non c’era nessuno, nascosti in qualche anfratto buio e stretto. Durante quegli incontri che sapevano di illegalità e clandestinità, James non riusciva a sentirsi immune alla scarica di adrenalina che sentiva nella spina dorsale, così come al fascino che Emma incarnava per lui, che si manifestava in un vago prurito alle mani, ad un nodo nello stomaco pesante come una pietra e in un caldo decisamente fuori stagione, soprattutto nei freddi corridoi di Heydon Hall. E ritrovarsela davanti al viso, a pochissimi centimetri, stretti in qualche nicchia che una volta aveva forse ospitato una vecchia statua, l’uno di fronte all’altra, gli faceva girare la testa. Il suo lieve profumo gli rimaneva sotto il naso per ore, e il suo viso gli si stampava dietro le palpebre e non se ne andava neanche dopo essersi lavato la faccia con l’acqua fredda - gelata - ed essersi poi buttato a letto, sperando con tutto il cuore di addormentarsi. Sentiva nelle viscere come un richiamo animale, qualcosa che non aveva mai provato prima, un inusitato e inusuale desiderio di toccarla, di sfiorarle anche solo per sbaglio una spalla, di avvicinarlesi senza nemmeno accorgersene. Sapeva bene cosa voleva dire, non era né un cretino, né uno sprovveduto, ma cercava allo stesso tempo di reprimersi, e di darsi un tono. Lei era off-limits, per tutta una serie di ragioni, e una di queste, forse la più valida, era che lui rappresentava l’autorità, e lei era una studentessa. Per giunta, era figlia di Theodore Nott, e, cosa più importante, James non capiva esattamente cosa lei sentisse nei suoi confronti, anzi, pensava che non avrebbe mai potuto sentire nulla, che le sue pulsioni erano a senso unico e, al termine di quei contorti ragionamenti, finiva per sentirsi un vero stupido. 

 

[LA ROUTINE DI JAMES]

 

Quindi cercava di non pensarci e basta e di andare avanti con la sua routine, che ormai, dopo una settimana, si era ben consolidata. Ogni mattina si alzava, si cambiava, e faceva colazione con il resto del personale nella cucina privata - e la colazione la preparava Pansy, e c’era quindi sempre qualcosa di buono, a differenza della colazione che preparava Madama Pince per i ragazzi, povere anime. Dopo colazione, Pansy e Lamb si recavano a prendere gli studenti nei dormitori per scortarli a colazione, e James li attendeva in refettorio, dove poi aiutava i colleghi a distribuire i vassoi. Ormai si era abituato ai sussurri e ai pettegolezzi che giravano mentre lui faceva il suo lavoro, ed era inevitabilmente sotto gli occhi di tutti, in quelle occasioni, ma aveva imparato a fregarsene, e quasi non li sentiva più, i bisbigli che, nella maggior parte dei casi, si chiedevano come mai fosse finito lì. A distanza di una settimana, era arrivata voce che quella fosse la sua punizione per ciò che aveva combinato l’anno prima a Hogwarts. Aveva anche capito, però, che l’incidente con Jenkins gli aveva costruito attorno un’aura di rispettabilità e quasi di sacralità e ammirazione, da parte degli studenti di ogni età, che non perdevano occasione per fare qualche dispetto a Lamb o al vecchio signor Pince, ma che non si azzardavano ad alzare dito contro di lui. James, dal canto suo, era rimasto piacevolmente sorpreso da tutto ciò, e anche lusingato, e si era stupito doppiamente quando aveva capito che quella situazione non gli creava disagio o senso di colpa, ma orgoglio, del sano e puro e, neanche a dirlo, inaspettato orgoglio. Si ritrovava a domandarsi se non si stesse trasformando in un “ragazzaccio”, ma cercava di scacciare via quel pensiero, anche se lo faceva ghignare e non poco. Quindi, una volta finita la colazione, si recava nello studio del preside e prelevava lo scrigno con le bacchette, ed era compito suo distribuirle agli studenti poco prima che raggiungessero le rispettive aule per le lezioni. Durante la mattinata scortava le classi degli studenti più piccoli qua e là, da una lezione all’altra, e poi tutti si ritrovavano in refettorio per il pranzo. Durante il pomeriggio si ripeteva la routine delle lezioni, ma molto spesso veniva spedito in biblioteca, utilizzata anche come aula studio, dove gli toccava vigilare e stare attento che i ragazzi presenti rigassero dritto. Non era certo il compito più divertente del mondo, ma notava sempre con piacere e soddisfazione che in sua presenza gli studenti si comportavano bene. Infine, raccoglieva tutte le bacchette sulla porta del refettorio, prima che tutti andassero a cena. La serata si concludeva quasi sempre nella cucina del personale, quando Pansy si versava due generosi bicchieri di Firewhisky (era incredibile come quella donna reggesse l’alcol) uno dopo l’altro, e correggeva il tè di Lamb facendogli l’occhiolino. James si limitava invece ad una Burrobirra, non gli era mai piaciuto il gusto del whisky, e Pansy rideva del fatto che avevano cominciato a comprarle apposta per lui, “visto che era un bambino”. James si lasciava prendere in giro, scuotendo la testa in silenzio e sorridendo. Se ne stavano lì loro tre, per almeno un’oretta, a volte chiacchierando della giornata appena trascorsa, lagnandosi dei ragazzi, altre volte rimanendo in silenzio, ognuno immerso nei proprio vorticanti pensieri. 

 

[IL RICORDO DI CASA]

 

Era in quei momenti di silenzio che James pensava a casa sua, ai suoi fratelli, e a ciò che dovevano star facendo a Hogwarts in quei giorni. 

Lily gli aveva scritto, raccontandogli come stava e com’erano andati i primi giorni del nuovo anno - il suo quinto anno, per l’esattezza. Aveva mollato Alexander Baston1, con il quale aveva cominciato ad uscire l’anno prima, ché voleva concentrarsi sullo studio e sul Quidditch. Durante l’estate le era arrivata la spilla da Prefetto, e aveva preso quell’incarico davvero sul serio. Ginny ed Harry le avevano regalato un gufo nuovo, visto che era solita usare quello di Albus, per festeggiare, e si erano entrambi commossi (anche se solo suo padre aveva pianto, ovviamente), dichiarandosi fierissimi di Lily. Albus aveva fatto finta di vomitare e James aveva abbracciato la sorella, chiedendole come si sentisse all’idea di essere diventata Prefetto, a differenza dei suoi fratelli maggiori. Lily, in tutta risposta, aveva replicato che non si era minimamente stupita della cosa, considerati gli “elementi”, e tutti erano scoppiati a ridere allegramente (ed Harry aveva smesso di piangere, per loro fortuna). Inoltre, Rose era stata promossa a Capitano della squadra, per lo stupore generale di tutti, Alexander Baston compreso, che aveva scritto una lunga lettera a James in cui gli chiedeva come mai non lo avesse raccomandato per il ruolo, lui che era stato suo compagno così lungamente, e si domandava se avesse fatto o detto qualcosa di sbagliato che potesse averlo offeso e bla bla bla, e James gli aveva risposto rassicurandolo che sì, era un amico, e tale sarebbe rimasto, ma che no, lui non aveva espresso nessuna preferenza, visto che la metà dei membri della squadra erano suoi parenti (anche se, a onor del vero, James aveva pensato che l’unico per il quale avrebbe mai potuto mettere una buona parola sarebbe stato Louis, ma anche Louis aveva finito Hogwarts, quindi niente). Come prima cosa, Rose aveva assicurato a Lily il posto da Cercatore che era stato di James senza nemmeno rifare i provini. Lily aveva aggiunto che invece li avrebbe fatti, com’era giusto, a dispetto di ciò che poteva dire la cugina. Infine, aveva allegato i “cari saluti” di Albus. Per Godric, quanto gli mancavano! 

 

[MAGRE CONSOLAZIONI]

 

Ciò che rendeva sopportabile la permanenza a Heydon Hall era, inaspettatamente, il rapporto che stava costruendo con Lamb e con Pansy, che si erano rivelati gentili e disponibili, con lui, facendolo sentire a casa e tra amici. Certo, erano strambi, persone particolari e con la loro bella dose di stranezze, ma in fondo erano buoni - anche se Pansy celava una certa dose di spietatezza, al fondo degli occhi, glielo leggeva nello sguardo quando gli studenti la facevano dannare. Si era ripromesso di mandare una lettera a suo padre, sia per raccontargli come andavano le cose nel buco-di-culo del Norfolk, sia per chiedergli se si ricordasse di Pansy Parkinson, ma ancora non aveva trovato il tempo. 

Un’altra delle cose che amava era accompagnare gli studenti all’allenamento di Quidditch, che costituiva l’unica “ora d’aria” loro concessa durante tutto il semestre invernale. Lui si limitava a sedere ai lati del campo, in attesa che la sessione di volo terminasse, e intanto sognava di volare, osservava quei piccoli furfanti fare, a tratti svogliatamente, tutto ciò per cui lui avrebbe dato tutti i Galeoni in suo possesso per poter fare di nuovo, cioè salire su un manico di scopa e partire, volare con il vento tra i capelli e la pressione nelle orecchie, sotto la pioggia o nel sole, non importava, bastava solo volare. 

Una notizia inaspettatamente bella giunse proprio un sabato mattina, a poco più di una settimana dal suo arrivo a Heydon Hall. Pansy lo raggiunse in cucina e gli disse che il preside Corner voleva parlargli e di raggiungerlo nel suo studio. 

«Che cosa vuole?»

«Cosa posso saperne, io, cosa vuole da te», rispose Pansy borbottando e dandogli le spalle, mentre armeggiava con la teiera. James la guardò stranito e si congedò, diretto nell’ufficio del preside. Una volta davanti alla porta, si lisciò l’uniforme prima di bussare, come se fosse un timido studentello alle prime armi. Un «avanti» soffocato gli diede il permesso di entrare. 

 

[LA PROPOSTA - INDECENTE? - DI MICHAEL CORNER]

 

Appena messo piede nello studio, ciò che James vide fu solo fumo. Anzi, vapore. Vapore acqueo che vibrava nell’aria, sospeso davanti a lui come una nube. Tossicchiò. 

«Vieni avanti, James, non aver paura, è solo vapore», sentì la voce del preside arrivargli ovattata. Così chiuse la porta e fece qualche passo avanti alla cieca, rammentando vagamente gli eventuali ingombri scorti durante la sua prima e unica visita al preside, il giorno del suo arrivo a Heydon Hall. Gli occhiali appannati gli impedivano di vedere alcunché, così allungò le braccia davanti a sé e, quando finalmente poggiò le mani sullo schienale della poltroncina posta di fronte alla scrivania, tirò un sospiro di sollievo. A quel punto, sentì Corner borbottare qualcosa e il vapore si diradò all’improvviso, andandosi a raccogliere in una bottiglia sinuosa dal collo elaborato e dipinta di blu posta su un tavolino basso. James si asciugò gli occhiali nel bordo del maglione, e sbarrò gli occhi quando il preside gli apparve: indossava solo un paio di “mutandoni” bianchi, come quelli che gli uomini usavano nel 1800, era a petto e piedi nudi e stava in piedi su un tappetino blu. Il petto era ricoperto da stille di sudore e i capelli scuri erano bagnati. Nonostante l’aria da topo di biblioteca incallito, James potè constatare che l’uomo aveva un fisico asciutto e tonico, e scorse anche alcune cicatrici su un fianco, reminiscenze forse di un passato avventuroso occorso nelle sue esplorazioni della Cina. Tra le mani teneva uno spadone di foggia orientale, che si affrettò a posare non appena incontrò lo sguardo di James. Gli sorrise. 

«Spero di non averti spaventato, ragazzo!»

«No, affatto.»

«Ottimo, ottimo. Scusa un secondo.» Così dicendo si stiracchiò un paio di volte la schiena, avanti e indietro, facendola schioccare pericolosamente, e infine agguantò un asciugamano e se lo passò sui capelli e sul petto, lanciandolo poi da qualche parte dietro le sue spalle. 

«Se non faccio allenamento ogni mattina, poi sto male per tutto il giorno», spiegò raggiungendo la scrivania e sedendosi. James prese posto di fronte a lui, chiedendosi in quale gabbia di matti fosse finito. 

«Voleva parlarmi?»

«Ah, sì, giusto. Allora», cominciò, ma poi si perse guardandosi intorno alla ricerca di James non sapeva cosa. La scena comica si concluse quando Corner Appellò la sua vestaglia blu, e la indossò sopra il petto nudo. «Dicevamo… Ah, sì! Ti ho convocato nel mio studio perché ho una richiesta un po’… inusuale, diciamo, e imbarazzante, anche, da farti, ragazzo.»

James deglutì e immagini di lui a petto nudo e con i mutandoni, impegnato in qualche sessione di allenamento con il preside Corner, gli affollarono la mente. Cercò di scacciarle. 

«Come ben sai, è il professor Roberts ad occuparsi degli allenamenti di Quidditch», continuò Corner.

James annuì. Mikael Roberts2 era l’unico docente col quale avesse intrattenuto un qualche tipo di rapporto, per definirlo in qualche modo: si incontravano sempre quando James scortava i piccoli del primo e del secondo anno agli allenamenti di volo e l’uomo, alto e ben piazzato, scambiava sempre volentieri quattro chiacchiere con lui. Discorrevano più che altro di Quidditch, commentando con enfasi la stagione appena iniziata e le probabilità di una o dell’altra squadra di portarsi a casa il Trofeo Nazionale. Tutti gli altri docenti erano alla stregua di fantasmi: andavano e venivano da Heydon Hall silenziosi e frettolosi. Arrivavano in fretta la mattina e, con altrettanta fretta, se ne andavano la sera. Roberts era diverso.

«Purtroppo al professor Roberts è arrivata una sostanziosa offerta da una squadra, che non posso nominare per questioni di riservatezza, che gli ha proposto di unirsi al team dei preparatori atletici. Purtroppo per noi, ovviamente», specificò il preside incrociando le lunghe dita. «Siamo contenti oltre ogni ragione per il nostro caro Mikael, ma qui mi si pone davanti un urgente problema: come rimpiazzarlo?»

Una strana idea cominciò a farsi largo nel cervello di James, ma la cacciò via, ché non voleva illudersi con falsi entusiasmi e rocamboleschi scenari e visioni. 

«L’anno scolastico è già iniziato e non saprei davvero dove andare a sbattere la testa, ora come ora. Quindi quello che ti chiedo, e che mi mette in imbarazzo perché davvero mi sento un approfittatore, è: ti andrebbe di sostituire il professor Roberts come insegnante di volo, James? Non te lo chiederei se non fossi disperato.»

James si limitò a guardare l’uomo di fronte a sé, mentre quel piccolo pensiero martellante gli esplose finalmente in testa, e centinaia di fuochi d’artificio gli scoppiarono davanti agli occhi, accecandolo ma riempiendolo di una gioia così sottile e pura, come non ne provava da tempo. Lui, insegnante di volo. Sarebbe tornato a volare. 

«Posso pensarci?»

La sua risposta sotto forma di domanda sembrò spiazzare Michael Corner, che aggrottò le sopracciglia, leggermente confuso. 

James sorrise e non seppe trattenersi oltre. «Sto scherzando, ovviamente. Accetto volentieri, se può aiutarla in questo momento di stallo», si affrettò ad aggiungere, ché non voleva suonare come un ingrato. 

Il viso di Corner si aprì in un sorriso. «Questo è il mio ragazzo!» esclamò. «Sapevo che non mi avresti detto di no.»

«C’è solo una cosa che mi sento in dovere di specificare.»

«Tutto quello che vuoi, ovvio.»

«Non mi è permesso giocare a Quidditch. Nel senso che per tutto il corso dello scorso anno scolastico la scopa mi è stata requisita e sono stato rimpiazzato nella squadra… insomma, non mi era permesso giocare.»

Corner agitò una mano con noncuranza. «Mio caro, lo hai detto tu stesso: non ti era. Era. Nel passato. Per quanto mi riguarda, qui non sei a Hogwarts, e d’altronde non ci sei più in ogni caso, ti sei diplomato, quindi puoi benissimo giocare a Quidditch, non c’è nessuna regola che lo vieti qui a Heydon Hall. Infine, io detengo l’autorità entro questi confini, e io decido e dispongo come mi pare e piace.» Il suo sembrava un discorso definitivo, così James annuì. Per un momento aveva avuto paura che quella brillante e nuova prospettiva che gli si era dipanata davanti fosse sul punto di crollare miseramente, come un castello di carte, solo per via della sua “punizione”. E invece Michael Corner sembrava essergli venuto in aiuto, ancora una volta. Non credeva alla sua fortuna. 

«Quindi siamo d’accordo? Mi farai questo favore?»

James annuì nuovamente e con enfasi. «Con piacere.»

«Ottimo!» esclamò Corner battendo le mani. «Inizierai martedì. Ti farò avere il calendario delle lezioni di Roberts. Ah, ovviamente è inteso che non verrai pagato, credo che questo sia chiaro.»

«Certamente, chiarissimo.»

«Inoltre, dovrò parlare con Madama Pince per riorganizzare i tuoi impegni come inserviente, si capisce che non potrai essere a disposizione come prima, ora che hai un nuovo compito, e anche più importante degli altri.»

«Sono sicuro che troveremo un modo per organizzare il lavoro.»

«Lo penso anche io, sì sì, senz’altro. Ora non voglio trattenerti oltre ed è quasi ora di pranzo. Darò l’annuncio del nuovo incarico questa sera a cena.»

Suonò come un congedo, così James si alzò, salutò e uscì. Fuori dall’ufficio, si sfogò saltellando sul posto, gridando silenzioso e godendosi quel bellissimo momento di infinita felicità. 

 

🥀

 

«Archie?»

«La mia risposta è no, Emma.»

 

[EMMA PERSEGUITA ARCHIE]

 

Calò il silenzio, mentre Emma spostava la sua sedia più vicina a quella di Archie. Tyler assisteva alla scena ridendo sotto i baffi. 

«Archie? Lo sai che sei il mio migliore amico, vero?»

«Stai cercando di corrompermi? Guarda che l’ho capito.»

Emma gli sorrise sbattendo le ciglia.

«Lo sai che questa tecnica degli occhioni non funziona, no? Sono gay.»

Emma alzò gli occhi al cielo. «Lo so, scemo. Stavo cercando di impietosirti.»

«Aaaaaaaah», esclamò Archie battendosi la fronte con una mano. «Sembravi tutto tranne che pietosa, lasciatelo dire.»

«Uffa, Archie, ma come sei noioso!»

«Non sono noioso, sono solo prudente. E dovresti esserlo anche tu.»

«Effettivamente ti sei un po’ rammollito, Archie Fletcher», intervenne Tyler sorseggiando dal suo bicchiere. 

Archie gli lanciò uno sguardo di fuoco. «Stanne fuori, Ty. Non sai di che parli, tu non ci sei stato.»

Tyler alzò le mani in segno di resa e si appoggiò allo schienale della sua sedia, le braccia incrociate sul petto, divertito. Si voleva godere lo spettacolo comodamente.   

«Avresti dovuto immaginare che dal momento che mi avresti detto che eri stato nell’ala proibita, allora mi sarebbe venuta voglia di andarci, quindi è tutta colpa tua», disse Emma, risoluta. 

Quel pomeriggio, Archie le aveva raccontato che, l’anno scorso, era stato chiuso nell’ala proibita da Drake Flitt e i suoi scagnozzi. Nel cuore della notte, lo avevano imbavagliato e preso per le mani e per i piedi e trasportato fino all’ala ovest e scaricato come un pacco postale, da solo, al buio, insieme al fantasma della Dama di Heydon Hall. Aveva aggiunto che quella era entrata nel triste novero delle nottate più brutte della sua vita. Ovviamente Emma non aveva resistito al fargli domande ma Archie era stato piuttosto vago, come se davvero conservasse un ricordo turbato di ciò che era successo. Emma non metteva in dubbio che fosse stata una brutta esperienza, visto che si trattava di un vero e proprio atto di bullismo perpetrato da Flitt e la sua cricca di delinquenti, ma ovviamente non credeva a tutta la parte sul soprannaturale. In ogni caso, la stuzzicava il pensiero di avventurarsi in quelle sale, solo per verificare di persona la sua teoria, cioè che non ci fosse nessun fantasma maledetto, in quella casa, e fosse tutto frutto della suggestione dei singoli. Archie non era d’accordo, sia con l’idea di comprovare la teoria di Emma, ma soprattutto con la prospettiva di tornare là. 

«Avrei dovuto immaginare che sei curiosa come una scimmia, carina», protestò Archie alzando gli occhi al cielo. «Perché non ci vai con il tuo partner in crime, piuttosto?»

«Chi, Potter?»

«Ah-ah, vedo che hai pensato subito a lui, la cosa mi fa gongolare e non poco», rispose Archie guardandola furbescamente. 

Emma gli diede uno spintone e scosse la testa. 

«Okay, non vuoi replicare perché ho colto nel segno, perfetto, vado avanti e ripeto: perché non ci vai con Potter? Da quanto ne so, si dice in giro che sia in possesso di un Mantello dell’Invisibilità», aggiunse abbassando la voce, «che era stato di suo padre.»

Emma alzò le sopracciglia. «Davvero? Be’, ci farebbe comodo, in questo caso, ma no, ti ricordo che James potrebbe denunciarmi al preside e non ho voglia di vedere mio padre piombare qui domani, non so se rendo l’idea.»

«Certo, certo. Allora vacci con Tyler.»

Quest’ultimo si mosse sulla sua sedia, a disagio. «Non tiratemi in mezzo, per favore. Io lì non ci metto piede.»

«Scherzavo, non ti ci manderei mai, tesoro», disse Archie sporgendosi verso il fidanzato e baciandolo teneramente. 

«Bene, allora è deciso: andiamo noi», disse Emma.

«Okay, okay, va bene, hai vinto», esclamò Archie sbuffando. 

Emma sorrise, soddisfatta. Lo aveva preso per sfinimento, ed era davvero contenta, ma anche elettrizzata all’idea di dimostrare ad Archie prima, e al mondo poi, che aveva ragione lei. 

 

🥀

 

[AVVENTURA NOTTURNA]

 

Aspettarono che tutti dormissero. Emma indossò il cardigan sopra il pigiama e si infilò le scarpe e sgattaiolò fuori, silenziosa. Senza bacchetta a illuminare il buio, era dura camminare nella notte, ma le alte finestre di Heydon Hall facevano entrare la luce della luna e delle stelle e così Emma riuscì a raggiungere la hall senza particolari inconvenienti. Archie l’aspettava nascosto in una nicchia, dietro una statua di Apollo, e la chiamò a bassa voce per farle capire che era già lì. 

«Mi sto schiantando per la paura», esordì.

«Smettila di fare il fifone», rispose Emma trascinandolo fuori. 

Si guardarono intorno e siccome non c’era nulla tranne il buio della notte a circondarli, tenendo Archie per mano per evitare che battesse in ritirata, Emma si diresse al corridoio che conduceva all’ala ovest. Non aveva paura del buio, non ne aveva mai avuta, neanche da bambina, a differenza dei suoi fratelli. Era dell’idea che le persone ne fossero terrorizzate solo perché, al buio, i contorni delle cose assumevano strani e grotteschi contorni, ma pensava che, sostanzialmente, rimanessero invariate, tali e quali a com’erano durante il giorno. A tutto ciò si sommava la paura dell’ignoto, di ciò che ti attende oltre la soglia che demarca il reale e l’irreale, ma Emma aveva una mente troppo razionale per soccombere a tale paura, e sfidava la coltre di buio a testa alta, avventurandosi al suo interno a passo fermo. E così fece quella notte. Tirandosi dietro Archie, sempre più riluttante e recalcitrante, giunse al fondo del corridoio, dove si ergeva la porta che delimitava l’ala proibita. Ovviamente era chiusa, dettaglio che però Archie si era dimenticato di specificare. O forse no? Forse non se n’era dimenticato, ma l’aveva omesso di proposito. 

«Archie», ringhiò Emma a bassa voce. «La porta è chiusa, tu ne sai qualcosa?»

«Chiusa? Oh, no, certo che no. Quando Flitt e company mi ci hanno portato era aperta.»

«Secondo me lo hai fatto apposta, invece. Tu sapevi che era chiusa.»

«Insomma, Emma, penso che abbiamo ricevuto la nostra bella dose di terrore, per questa notte, non trovi? Torniamocene a letto.»

«Io non ho visto nessun terrore, signor cagasotto», protestò lei. 

«Cagasotto? Che infamia!»

«Lumos!»

Si voltarono entrambi al suono di una terza voce che arrivò alle loro orecchie da dietro le loro spalle. Archie quasi gridò ed Emma gli mise una mano sulla bocca per zittirlo. 

La luce di una bacchetta fluttuava letteralmente a mezz’aria e, nel mezzo secondo che Emma impiegò per formulare un pensiero, quel pensiero le comparve davanti agli occhi: James Sirius Potter, che apparve da sotto il suo famoso Mantello dell’Invisibilità, la bacchetta illuminata stretta in pugno. 

 

[OH-OH]

 

«—eims?» bofonchiò Archie da sotto la mano di Emma, che ancora gliela premeva sulla bocca. 

«James?» esclamò lei. «Cosa ci fai, qui?»

«Ti conviene liberarlo prima che ti morda», rispose quindi James indicandole Archie. 

Emma allora liberò il suo amico e si beccò un’occhiataccia indispettita prima di tornare a guardare il nuovo arrivato.  «Allora? Ci hai seguito, vero?»

Il ragazzo annuì. «Vi ho sentito parlare, dopo cena, mentre tornavate nei vostri dormitori.»

«Stai cominciando a diventare inquietante, Potter.»

«Ho solo un buon udito. E mi trovavo nel posto giusto, al momento giusto.»

«Come sono contento di vederti!» esclamò Archie affiancandolo. «Emma mi stava tenendo in ostaggio.»

«Archie!» protestò Emma. Guardò James. «Non è vero, ovviamente, eravamo qui di comune accordo.»

James annuì. «Sì, lo so. Pensavate di entrare, vero?» e indicò la porta chiusa alle loro spalle. 

Archie scosse la testa nell’esatto momento in cui Emma annuì. James spostò lo sguardo da uno all’altra, confuso. E così Emma dovette ammettere il suo desiderio di visitare l’ala proibita e di aver chiesto ad Archie di accompagnarla, ché voleva dimostrargli che non c’era nessun fantasma incazzato, là dentro, ma solo polvere e probabilmente ragni. 

«Allora, facciamo così», propose James. «Tu Archie te ne torni a letto, e io farò finta di non averti visto, d’accordo?»

Archie lo guardò, stupito ma anche grato. «Posso? Senza punizione?»

«Senza punizione. Ovviamente, dovessi imbatterti in qualcun altro dei miei colleghi, allora saranno cavoli tuoi.»

«Si capisce», convenne l’altro annuendo risoluto.

«Smamma, forza, prima che cambi idea.»

«Vi lascio soli, piccioncini», pigolò Archie affrettandosi a sgattaiolare via. 

Emma lo guardò allontanarsi a labbra strette. Il giorno dopo lo avrebbe strigliato per averla lasciata sola con Potter in piena notte. E parlando di Potter: cosa credeva di fare? «Cosa credi di fare?» gli chiese quindi.

«Noi entriamo, no?» rispose James scrollando le spalle. Emma lo guardò ad occhi sbarrati, stupita dalla sua intraprendenza, mentre l’aggirava, scostandola leggermente e con garbo toccandole un braccio, per fermarsi di fronte alla porta chiusa. 

«È chiusa a chiave», gli disse poggiando una mano, quasi senza accorgersene, laddove James l’aveva appena toccata. 

«Dimentichi che ho questa», le fece notare lui alzando la bacchetta. La puntò contro la serratura della porta e borbottò «Alohomora», ed Emma osservò il pesante portone in legno a due battenti schiudersi davanti a loro. 

James le fece l’occhiolino. «Visto?»

«È un incantesimo piuttosto banale, Potter, lo avrei fatto anche io se solo avessi avuto la bacchetta», disse lei incrociando le braccia al petto. 

James alzò gli occhi al cielo e poi raccolse da terra il mantello. Lo nascose in una nicchia accanto alla porta, che ospitava la statua di un puttino alato, e tornò a guardarla. 

«Prima le signore», e le indicò la porta aperta. Emma scosse la testa, divertita, e fece un passo avanti. 

 

[L’ALA OVEST]

 

Ciò che li accolse oltre la soglia era un’ampia sala, che si espandeva nella notte e si spingeva fino alle finestre sul lato corto. La luce della luna filtrava dalla fila di finestre alla loro sinistra e, unita a quella della bacchetta di James, dava loro un’idea abbastanza chiara di ciò che li circondava. Era una specie di salotto privato, a giudicare dai mobili coperti da lenzuola bianche che affollavano il pavimento. C’era un caminetto, nel quale erano cresciute delle giunchiglie e dove si apriva una grossa ragnatela argentata e, sulla mensola sopra di esso, erano poggiate delle foto incorniciate. Emma ne prese una in mano ma solo per constatare che il vetro era rotto e questo impediva di vedere in faccia i soggetti della fotografia contenuta nella cornice, e così per tutte le altre sistemate sulla mensola bianca di polvere. Così la rimise al suo posto, tornando a guardarsi intorno. Una scala a chiocciola in ferro battuto conduceva al piano di sopra ed Emma si sporse per lanciare un’occhiata attraverso il vano scuro e buio, ma ovviamente non si vedeva nulla, a parte la notte. 

James le camminava a fianco, tenendo alta la bacchetta per fare luce, silenzioso come un gatto. Arrivarono al fondo della sala e scoprirono che le finestre si aprivano come una porta e conducevano in una sorta di giardino d’inverno verandato, dove si affollavano piante di ogni tipo e dimensione e colore. Alcune erano morte da anni, mentre altre, sorprendentemente, resistevano nel tempo. 

«Meglio non entrare, qui», disse solo James. «Non sappiamo quanto sia vasta la veranda, potrebbero averla stregata e rischieremmo di perderci, al buio.»

«Ci possiamo tornare di giorno?» gli chiese Emma poggiandogli una mano sul braccio. 

James lanciò un’occhiata rapida alla sua mano e poi tornò a guardarla in viso. Annuì. «Forse. Se fai la brava», ghignò.

Emma alzò gli occhi al cielo. James la stupì prendendole la mano e, ancora più a sorpresa, baciandogliela. Lei lo guardò con gli occhi sbarrati, immobile. Non sapeva cosa fare e cosa dire davanti a quel gesto tanto inusitato e sorprendente. 

«E questo per che cos’era?» gli chiese alla fine sorridendo.

James scrollò le spalle. «Per niente. Mi andava.»

La lasciò davanti alla portafinestra e si allontanò. Emma si girò a guardarlo e rimase immobile per un altro istante prima di corrergli dietro. 

 

[L’EFFETTO DI JAMES SIRIUS SU EMMA]

 

Stare accanto a James la mandava in confusione, e questo era un dato di fatto. Sentiva come una sorta di elettricità statica percorrerla da capo a piedi, pervadendole le membra e annebbiandole la mente. Quando si sfioravano per sbaglio, stretti in qualche anfratto della casa, intenti ad aggiornarsi sulle ultime novità e i pettegolezzi che giravano per la scuola, Emma tratteneva il respiro, e una forza catalizzatrice la spingeva a cercare un contatto, e allora diventava impavida, gli toccava un braccio o una spalla, gli si avvicinava così da sentire su di sé il suo respiro caldo, e di nuovo quel profumo che non le dava né pace né tregua, e tornava a tormentarla nel cuore della notte, quando non riusciva a dormire e il pensiero di James la rendeva ancora più inquieta. Si sentiva davvero una stupida, a provare quelle cose per Potter, ma si divertiva a tenere la bacchetta dalla parte del manico e a stuzzicarlo in tanti modi diversi. A volte le reazioni di James trovavano una conferma, altre volte, come in quell’occasione, la lasciavano spiazzata e sorpresa. 

Lo raggiunse e insieme scoperchiarono un divano e una grossa nuvola di polvere li fece tossire. Il lenzuolo grigio, che una volta doveva essere stato bianco, ricadde a terra, ed Emma accarezzò la stoffa del divano, che nonostante il tempo sembrava quasi nuovo, come se fosse stato utilizzato ben poco prima di essere coperto. 

«Sembra quasi che non ci abbia vissuto nessuno, qui», constatò James dando voce ai suoi stessi pensieri. 

Emma annuì. «Stavo pensando la stessa cosa. La stoffa del divano è praticamente nuova.»

Uno scricchiolio e un tonfo li fecero sobbalzare e si ritrovarono spalla a spalla, James con la bacchetta sollevata, in guardia contro la notte. La portafinestra che avevano aperto poco prima si era richiusa con un tonfo sordo ed entrambi sospirarono, rilassando i nervi tesi.

«Comincio a pensare che Archie abbia ragione…» disse James. «Questo posto è inquietante.»

«Non ti ci mettere anche tu, per favore», sbuffò lei spintonandolo. 

James le sorrise mordendosi un labbro ed Emma distolse in fretta lo sguardo, schiarendosi la voce. Doveva cercare di mantenere la calma. Datti un contegno, Emma, è solo Potter, pensò. James Potter, per Salazar.

Si avvicinò alla scala mentre James era impegnato a curiosare sotto un altro lenzuolo. Lanciò di nuovo un’occhiata al vano buio che si apriva là sopra e poi salì qualche gradino. La scala vacillò e scricchiolò, ma le sembrò abbastanza stabile da permetterle di salire. 

«Cosa stai facendo?» sentì la voce di James arrivarle da sotto.

Si girò a guardarlo. «Sto salendo, no?»

«Emma, no—»

 

[EMMA FA DI TESTA SUA]

 

Ma lei ovviamente lo ignorò. Salì quasi di corsa i restanti gradini, mentre tutta la scala ondeggiava sotto di lei, ma sbucò al piano di sopra sana e salva. Tossì per via della polvere, e si rese conto che era più buio rispetto al piano di sotto, lì la luce della luna non arrivava, filtrata da qualcosa che le impediva ogni accesso. Sentì la scala scricchiolare di nuovo e, dopo pochi secondi, James spuntò accanto a lei e portò la luce. 

«Cosa credevi di fare?» esclamò quasi gridando. «Avresti potuto farti male, la scala avrebbe potuto cedere…»

«Ma non ha ceduto», replicò Emma. «O sbaglio?»

«Ti è andata bene. Non sappiamo da quanti anni stia qui ad arrugginire.» James sembrava proprio sconvolto, e spaventato. 

«James, ehi», disse Emma afferrandogli un braccio. Non era riuscita a farne a meno, di toccarlo di nuovo. Lo sentì tremare sotto la sua presa. «Sto bene, vedi? Hai ragione, ho fatto una cazzata, ma ormai è fatta ed è andata bene.»

James annuì, ma sembrava ancora adombrato. Lei lo lasciò andare e si voltò per guardarsi intorno. L’ambiente era vasto quasi quanto il piano di sotto, e ogni singola superficie era ricoperta di polvere, spessa e bianca. Le finestre che affacciavano sul parco erano interamente ricoperte di rovi, ed erano quelli che impedivano alla luce da fuori di penetrare all’interno. 

«Rose», constatò Emma. Sua madre le faceva crescere in giardino, a casa Nott, erano la sua passione da sempre, da che Emma ne aveva memoria. E, quando era ora, le coglieva e le metteva in un vaso e il loro odore dolciastro pervadeva sempre il salotto per giorni e giorni. Era un po’ l’odore della sua infanzia, di giorni spensierati e selvaggi trascorsi sull’Isola di Wight3 e nella sua campagna. 

 

[LA CAMERA DA LETTO INQUIETANTE]

 

«Questa doveva essere la camera da letto padronale, a giudicare dai dettagli», disse James avvicinandosi al letto. Non era stato coperto da un lenzuolo, a differenza dei divani, e la struttura in legno marrone del baldacchino era bianca di polvere, così come la vecchia coperta rosa e i cuscini. Su uno di essi si notava ancora il solco della testa di chi doveva averci dormito, anni addietro, per l’ultima volta, ed Emma rabbrividì quasi senza volerlo. Okay, forse non c’erano i fantasmi, ma senz’altro era tutto davvero inquietante, James aveva ragione. 

Poco distante dal letto stava un tavolino da toilette con specchiera, con tanto di poltroncina per sedersi ancora posizionata lì di fronte. Emma si avvicinò, incuriosita da tutti quei cassettini che l’attiravano come una calamita. Si sedette e tossì leggermente. Tutta quella polvere la stava mettendo a dura prova e doveva avere il pigiama sporchissimo, ma non se ne curò. Sul ripiano in legno erano ancora poggiati dei gioielli e alcune boccette che dovevano contenere del profumo e altri trucchi. Sentì James avvicinarsi e, dallo specchio, lo vide in piedi dietro di lei. Si sentì in qualche modo rassicurata dalla sua presenza e così allungò una mano ad aprire il primo cassetto. Ne aprì alcuni prima di trovare il fascio di lettere. Erano parecchie, le buste ingiallite e sgualcite dal tempo, ma ancora in discreto stato, visto che probabilmente il cassetto le aveva preservate dall’aria che avrebbe potuto consumare la pergamena. Erano chiuse con un nastro rosa antico e c’erano dei fiori secchi - delle rose, di nuovo delle rose - infilate nel fiocco. 

«Lettere?» chiese James.

«Ah-ah», confermò Emma. «A quanto sembra, lettere d’amore», e gli indicò il nastro e i fiori. «Forse di chi abitava a Heydon Hall in passato. Sono rimaste qui tutti questi anni.»

«Le lettere della signora di Heydon Hall?» azzardò James. 

Una corrente d’aria fredda penetrò nella stanza ed Emma rabbrividì. Sentirono una porta sbattere di sotto e James si avvicinò alla scala per lanciare un’occhiata. In quel momento, Emma alzò il viso e, dietro di lei, un volto di donna urlante, i lunghi capelli neri ai lati del viso, comparve per un istante riflesso nello specchio. La ragazza cacciò un urlo e si alzò di scatto, lasciando cadere le lettere a terra. James la raggiunse subito.

 

[COSA VEDE EMMA?]

 

«Cosa c’è?»

«Ho visto…» cominciò lei indicando lo specchio. Ovviamente ciò che aveva intravisto era già scomparso ed Emma, inevitabilmente, si chiese se non si fosse immaginata tutto quanto. Era facile lasciarsi tentare dalla suggestione, in quelle stanze buie e pregne di ricordi antichi di persone che non c’erano più. «Non lo so cos’ho visto», concluse scuotendo la testa con forza, come a voler cacciare via quell’immagine, il viso martoriato dalla morte e dal dolore, quel grido espressivo e terribile che ne deformava i tratti, la bocca aperta e il buio che conteneva, i capelli che ne contornavano il viso come una coltre scura e mortifera. Rabbrividì. 

«Emma?» chiese James prendendola per le spalle. Lei riaprì gli occhi e lo guardò. Ora era in piedi di fronte a lei, gli occhiali leggermente storti sul naso, e le loro fronti quasi si sfioravano. Erano quasi alti uguali ed Emma poteva guardarlo negli occhi. «Cos’hai visto nello specchio?»

«Una donna», soffiò lei. «Una donna orribile.»

Vide James deglutire. «La dama di Heydon Hall? Era lei?»

«Come faccio a sapere se era lei, Jamie? Non ho mica una sua foto in tasca.»

Si rese conto di averlo appena chiamato “Jamie”, e anche lui. Le sorrise. «Jamie, eh?»

Lei scosse la testa, spazientita ma in fondo divertita. «Mi è scappato, non abituartici. Potter

«Va bene, è ora di andarcene di qui. Per stanotte abbiamo visto abbastanza.»

Stavano per scendere quando Emma si ricordò delle lettere, così tornò indietro e le raccolse da terra. Lanciò un’ultima occhiata guardinga nello specchio, ma non vide più nulla. Con ancora maggior convinzione, pensò che si fosse solo immaginata tutto quanto e che si fosse trattato di uno stupido scherzo generato dalla sua immaginazione, dai racconti di Archie e dal clima che si respirava in quelle sale. Mentre scendevano la scala, l’ultima cosa che Emma vide fu una fila di ragni che si rifugiava sotto la specchiera.

 

🥀

 

«Sei sicura di stare bene?» le chiese di nuovo James.

«Sto bene, papà.»

 

[JAMES FA IL CAVALIERE]

 

Lui ed Emma si erano appartati in una delle loro fidate nicchie, a pochi passi dal dormitorio femminile. James aveva riaccompagnato la ragazza, nascosti sotto il Mantello dell’Invisibilità per non essere scoperti. L’ultima volta che aveva usato il Mantello con qualcuno era stato con sua cugina Rose, che era più bassa di Emma ed occupava meno posto. Ora si erano ritrovati a dover dividere un esiguo spazio, e sentirla stretta al fianco lo aveva provato. Si era sfilato il Mantello con un sospiro di sollievo, una volta al sicuro nella nicchia. Erano di nuovo uno di fronte all’altra, e sentiva Emma tremare leggermente per il freddo della notte. Le puntò addosso la bacchetta e un fiotto di aria calda uscì dalla sua punta. La vide guardarlo sorpresa e le sorrise. 

«Corri a letto, stai morendo di freddo.»

«Prima voglio sapere se hai intenzione di denunciarmi a Corner.»

James scosse la testa. «Se avessi voluto denunciarti a Corner ti avrei riaccompagnata subito al dormitorio, mica sarei venuto in esplorazione con te, zuccona.»

«Zuccona? Non osare, Potter.»

«Mi piaceva di più Jamie.»

Si sorrisero. Emma scosse la testa. «Non tirare la corda, ragazzo. Ricordati che sono una studentessa, sei tu a trovarti in una posizione di potere, qui.»

«Oh, no, non credo proprio, signorina», protestò James ridendo. «Qui c’è solo una persona che tiene le briglie.»

Si guardarono per un istante, durante il quale James sentì lo stomaco accartocciarsi. Durante tutta la loro avventura notturna, non aveva desiderato altro che sentire Emma accanto a sé, e di sentirla sotto le mani, ma ovviamente si era trattenuto, quel tanto che era stato capace. Quando l’aveva vista salire quella maledetta scala, la testa gli era esplosa. Le era andato dietro e, quando l’aveva vista, incolume e solo un po’ sporca di polvere, avrebbe tanto voluto abbracciarla e baciarla con ardore, ma si era trattenuto, com’era giusto e conveniente. Si era solo molto arrabbiato con lei per aver rischiato il collo. 

 

[DI NUOVO VICINI]

 

Alla luce fioca della bacchetta, notò uno sbaffo di polvere scura sulla sua guancia e allungò un dito per rimuoverlo. Sembrava quasi che Emma avesse trattenuto il respiro, ma non potè esserne certo. 

«Ho rimosso le prove del nostro misfatto», disse solo. «Buonanotte, Emma.»

Lei annuì, e vide il suo petto rilassarsi, quasi come se avesse davvero trattenuto il respiro per un istante. 

«Buonanotte, Jamie.»

 



Note.

1. Alexander Baston: figlio di Oliver; personaggio di mia invenzione
2. Mikael Roberts: personaggio di mia invenzione
3. Isola di Wight: dove ho idealmente collocato casa Nott; isola a sud dell’Inghilterra

 

Ciao a tutti e ben ritrovati qui con questo nuovo capitolo di The Haunting, che spero vi sia piaciuto! Io non vedevo l’ora di farvelo leggere perché entriamo davvero nel vivo della storia, Emma e James si avventurano nell’ala proibita, scoprono delle lettere e, soprattutto, Emma vede qualcosa di sconvolgente, qualcosa che lei si rifiuta di accettare ma che in qualche modo sarà l’inizio di ciò che avverrà da qui in poi. In tanti avete speculato sui ragni, e vorrei rassicurarvi tutti escludendo eventuali implicazioni legate alla Camera dei Segreti e al Basilisco, non si tratta di nulla del genere, ma solo di un modo di rappresentare il fantasma di Heydon Hall. Avrei potuto utilizzare anche i pipistrelli, per esempio, ma era decisamente poco pratico, all’interno di una casa. James ed Emma riflettono anche sul loro “rapporto” e su ciò che sentono l’uno per l’altra, e sono contenta che vi siano piaciuti molto, nello scorso capitolo, questa era un’altra cosa per la quale ero in ansia, ma insomma, è andata bene, e questa “premiata ditta” vi accompagnerà per tutto il corso della narrazione. Vi sta piacendo molto anche Archie e davvero ne sono contenta, si merita molto amore, lui. Su Izzy ci sono pareri contrastanti e sono curiosa di leggere come si evolverà la cosa. Riguardo invece il fantasma e la misteriosa dama di Heydon Hall, non posso ovviamente dire nulla 🔮 Vi anticipo che nel prossimo capitolo si svelerà un altro tassello della storia, assisteremo al primo allenamento di Quidditch di Emma con il “professor Potter” (rido al pensiero) e, ovviamente, taccio su ciò che accadrà in seguito 👀

 

Colgo l’occasione per ringraziare tutti voi, per le vostre belle parole, per i lettori silenziosi, per tutti i visitatori (sono tantissimi, non me lo aspettavo) e per l’entusiasmo che avete riservato a questa storia ♥︎ 

 

Vi lascio il mieo contatto, per chi volesse aggiungermi: Instagram

 

A lunedì prossimo, Marti 🐍

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Capitolo 6
*** CAPITOLO CINQUE ***


THE HAUNTING OF HEYDON HALL

 

CAPITOLO CINQUE

 

 

“Su quale linea di confine la follia 
ha termine e la realtà ha inizio? 
È possibile che persino 
quella mia paura conclusiva 
sia stata mera illusione?”

H. P. Lovecraft, L’ombra su Innsmouth 

 

 

Rosham Village, 15 luglio 1969

Carissimo,

è così strano essere a casa senza di te. La campagna qui intorno è un tripudio
e ogni fiore, ogni foglia, ogni nuvola, mi ricorda le nostri estati. Mi manchi e
la natura me lo rammenta ogni giorno. 

Il villaggio è sempre uguale, i pettegoli anche. Scappo dalle sue vie, che
sussurrano segreti e voci, e mi perdo nel tuo parco. Il passaggio segreto sembra
sia rimasto tale e faccio sempre attenzione a che nessuno mi osservi mentre lo
attraverso. Non potrei permettere che qualche malintenzionato faccia irruzione
e chissà cos’altro. 

Siedo sulle rive del laghetto e osservo i cigni dormicchiare e amarsi, mi perdo
nel roseto e penso a tua madre che si occupa dei fiori, leggo appoggiata al ramo
della nostra quercia e, in tempo per il calare del buio, mi alzo e, prima di andare,
ripasso con le dita le nostre iniziali incise, chiudo gli occhi e ti immagino qui,
vicino a me, ricordo il tuo sorriso scanzonato e bello e i tuoi occhi grigi di pioggia.
Vorrei che ora quella pioggia mi potesse bagnare, così ti sentirei accanto a me,
ma non piove da quattordici giorni,
tu non ci sei da quattordici giorni, e cerco
di immaginarti in mezzo alla campagna irlandese, e forse sei felice?, ti diverti?
Mi auguro con tutto il cuore di sì. 

 

Io attendo il tuo ritorno. Altri quattordici giorni. 

 

Sempre tua,
E.

 

Mount Stewart, Irlanda del Nord, 18 luglio 1969

Mia adorata E.,

scusa se la mia risposta ha tardato di qualche giorno rispetto al solito,
ma mia cugina non è riuscita a passarmi prima la tua lettera senza destare sospetti.
Qui il clima è teso e mia madre scalpita per tornare a casa,
mentre mio padre è restio a lasciare sua sorella prima del termine stabilito.
Un giorno o l’altro scoppierà un casino e tutti
si renderanno conto di che matrimonio malato sia il loro.
Per quel momento spero di essere molto lontano da qui,
insieme a te, dove niente e nessuno potrà separarci e farci del male.

Saperti lì a Rosham Village, tutta sola, mi stringe il cuore.
Vorrei salire sulla scopa e raggiungerti, e stringerti,
ma so che non posso, so che mi fermerebbero subito
e dovrei dare mille spiegazioni e tutto ciò che voglio
è non metterti in pericolo, e non esporti con i miei genitori,
sarebbero capaci di distruggere tutto - di distruggerti - con il loro veleno. 

Qui in Irlanda il sole sembra non uscire mai,
il cielo è grigio (tu diresti come i miei occhi, da poetessa che sei)
e le giornate trascorrono lente e pigre.
Fortunatamente ho la compagnia di mia cugina.
Sentiamo molto la tua mancanza e parliamo quasi sempre di te,
forse più di quanto dovremmo, credo abbia una pazienza infinita e
spesso mi ha fermato dal dire cose che avrebbero compromesso tutto. 
Le sono debitore in tanti modi diversi, ma questo lo sai già. 

Tutto ciò che desidero è tornare a casa,
è la prima volta nella mia vita che non vedo l’ora
di rivederne le guglie e le torri maledette,
perché vorrebbe dire riabbracciarti, e baciarti,
e stringerti in qualche stanza vuota,
mentre il mondo fuori scompare e rimaniamo solo noi,
solo e soltanto noi. 

 

Poco meno di quattordici giorni, adesso, mio amore.

 

Sempre tuo. 

 

🥀

 

Heydon Hall, Norfolk, 10 settembre 2023

Emma lasciò cadere le lettere sul letto, sospirando, pensierosa. Era domenica e il dormitorio era silenzioso. Tutte le sue compagne stavano ancora dormendo e il letto di Isabelle, accanto al suo, era ancora vuoto e freddo. 

Nelle ore subito successive all’alba, Emma si era svegliata, disturbata, come se una corrente d’aria fredda le soffiasse sul collo. Si era guardata intorno, ma ovviamente non c’era nulla, a parte altri letti e i respiri delle ragazze che spezzavano l’immobilità della stanza. Ovviamente non c’era nulla: cosa si era aspettata di vedere? 

 

[IL RICORDO DI QUELLA NOTTE]

 

Ciò che era successo quella notte nell’ala ovest era impresso dietro le sue palpebre, a fuoco. E ciò che aveva visto nello specchio si mischiava a ciò che Emma credeva di aver visto: era comparso davvero il volto di una donna oppure se l’era semplicemente immaginato? Solo perché si trovava in quella camera da letto inquietante, pregna di polvere e ricordi andati in fumo, tracce di una vita ormai spezzata che però pesavano come macigni e puzzavano di morte? Solo perché Archie le aveva riempito la testa con quelle assurde storie di fantasmi e spettri? Lei era abituata ai fantasmi, a Hogwarts, e non somigliavano per niente a ciò che aveva visto - o creduto di vedere - in quello specchio. Tutto ciò di cui era certa era però la paura: aveva avuto veramente paura, in quei pochi istanti. Una paura fredda e glaciale che le era strisciata addosso come un manto di ghiaccio, per trascinarla via con sé, in sepolcri di ossa e cenere. Rabbrividì sotto le coperte e se le tirò fin sotto il mento. Non voleva ripensare oltre a quella cosa, qualunque fosse stata la sua natura. 

 

[LE LETTERE]

 

Appena sveglia aveva afferrato il fascio di lettere trovate nel cassettino e le aveva sfogliate rapidamente, aprendo con cautela il fiocco e sciogliendo il nastro che le teneva insieme. Le rose secche erano scivolate sulla coperta, sgretolandosi sotto i colpi impietosi del tempo. Emma le aveva spazzate via: non le voleva sul letto, le ricordavano quella stanza immobile e putrefatta. Le lettere sembravano ordinate, addirittura in ordine cronologico, come se la persona che le aveva conservate le avesse poi sistemate con cura dopo averle ricevute. Di una cura quasi maniacale. Emma aveva sfilato le prime due, e aveva notato che, sulle buste ingiallite, non era indicato né nome né cognome del destinatario. Incuriosita, aveva cominciato la lettura. 

Ora si soffermò ad osservare il riflesso del sole sulla parete di fronte a lei, non riuscendo a smettere di pensare a E., la misteriosa ragazza che attendeva il suo innamorato, al quale era legata da un amore contrastato e pericoloso, per colpa della famiglia di lui, che avrebbe potuto rovinare tutto, e addirittura arrivare a farle del male. Si chiese quanto disfunzionale potesse essere una famiglia che impediva al figlio di essere felice. Si sentì immensamente fortunata, ad essere figlia di due genitori che non l’avevano mai giudicata, e che non le avevano mai impedito di fare le sue scelte, anche se a volte poteva voler dire cadere e farsi male. Solo così avrebbe imparato la lezione, le dicevano sempre. La pazienza dei suoi genitori sembrava però essersi esaurita quando avevano deciso di spedirla a Heydon Hall. «O questo o l’espulsione da Hogwarts, Emma», le aveva spiegato suo padre, ed era stato più che chiaro. Era sicura però che non avrebbero mai e poi mai contrastato una sua storia d’amore, chiunque fosse stato l’interessato. 

 

[JAMES]

 

Il pensiero di Emma andò a James e subito dopo si diede della deficiente: come le veniva in mente di pensare a Potter proprio in quel momento? Il comportamento del ragazzo la notte prima l’aveva mandata in paranoia, doveva riconoscerlo. Le aveva baciato la mano e aveva continuato a guardarla in quel modo strano che le faceva accartocciare lo stomaco, e poi si era spaventato a morte quando lei era salita sulla scala, ma ovviamente chiunque si sarebbe preoccupato, al suo posto, no? Non voleva dire niente. Proprio niente. 

 

🥀

 

Heydon Hall, Norfolk, 12 settembre 2023

James si sentiva stranamente nervoso. Gli prudevano i palmi delle mani e gli sembrava anche di aver sudato come un troll. 

 

[LE LEZIONI DI QUIDDITCH]

 

Quella mattina aveva iniziato le lezioni di Quidditch, come gli era stato chiesto dal preside Corner. Per prima cosa, era partito dal gruppo formato dai ragazzini del primo e del secondo anno, che richiedevano una vera e propria formazione, visto che la maggior parte di loro non era mai (o quasi mai) salito su una scopa, prima. Qualcuno se la cavava perché gli era stato insegnato qualcosa durante l’infanzia, e qualcun altro, per lo più del secondo anno, era più avanti grazie alle lezioni impartite l’anno prima dal professor Roberts. Ma gli altri erano quasi tutti delle frane e James si era dato da fare per indirizzarli e guidarli. Al termine della lezione gli erano sembrati tutti entusiasti e, quando lo avevano salutato, lo avevano fatto con una luce nuova negli occhi. E James si era sentito di nuovo nel suo elemento. E felice. Di una felicità pura, come non accadeva da giorni. Finalmente, da che aveva messo piede a Heydon Hall, si sentiva completo. E di nuovo se stesso. 

Nelle prime due ore del pomeriggio aveva avuto a che fare con il gruppo intermedio, cioè quello formato dai ragazzi del terzo, quarto e quinto anno, e, a dispetto delle aspettative, si erano comportati bene. Incredibilmente, sembravano rispettarlo, nonostante non fosse poi così più grande di loro, ma lo guardavano e lo ascoltavano in modo attento, seguivano le sue indicazioni ed era difficile che rispondessero male. Insomma, anche in quell’occasione il riscontro era stato positivo. Ora, nelle ultime due ore del pomeriggio, lo attendeva l’ultimo gruppo, quello del sesto e settimo anno, e James sapeva, anzi, era certo, che quelli li avrebbero dato problemi. Li dividevano pochi anni e lui non era una figura così marziale e seria da incutere timore e reverenza, non era come il vecchio professor Thompson1, l’insegnante di trasfigurazione di Heydon Hall, che riusciva a zittire un’intera classe solo con la sua inquietante presenza. No, lui era solo James Sirius Potter, un diciottenne qualsiasi. 

Aveva preparato le scope (quelle in dotazione alla scuola e usate per gli allenamenti) e la scatola con le palle, sistemato il campo e ordinato i coni utilizzati per il riscaldamento. Era tutto pronto e i primi studenti cominciarono ad arrivare al campo alla spicciolata, ma divisi per anni. Prima giunsero quelli del sesto anno. Indossavano già tutti la tenuta regolamentare del Quidditch di Heydon Hall, molto simile a quella di Hogwarts: un pantalone bianco, una felpa (in questo caso nera per tutti, il colore della scuola) e un paio di scarpe comode. James si accorse di aver allungato il collo per cercare Emma in mezzo agli altri, e la scorse alla fine del gruppetto, camminava fianco a fianco con Archie Fletcher e i due parlavano fittamente. 

 

[PENSIERI SU EMMA]

 

In quei due giorni l’aveva vista pochissimo, e solo di sfuggita, ai pasti e nei corridoi. Lei aveva sempre replicato ai suoi saluti con un cenno della testa o della mano e James l’aveva vista pensierosa e distratta, non tanto perché non si fermava a parlare con lui (sapeva che non era saggio che altri li vedessero chiacchierare, lui era pur sempre un membro del personale della scuola), ma perché leggeva nei suoi occhi una certa lontananza, come se fosse immersa in pensieri vorticanti e immensamente grandi. Non avevano avuto modo di parlare e discutere di ciò che era successo sabato notte, e James era curioso di sapere se Emma avesse cominciato a leggere le lettere trovate, anche se, curiosa com’era, era sicuro di sì. Inoltre, avrebbe volentieri pagato più di qualche galeone per sapere cosa le passasse per la testa. Soprattutto perché, se n’era reso conto a posteriori, ragionandoci lucidamente, durante la loro “avventura notturna” lui aveva finito per esporsi, intenzionalmente o no, prima baciandole la mano e poi manifestando tutta la preoccupazione che lo aveva assalito quando l’aveva vista salire su per quella scala dissestata, tutta la paura che potesse succederle qualcosa. Si era esposto senza nemmeno farlo apposta e, a dire il vero, a ripensarci ora, si sentiva anche un po’ un babbeo, ma ormai era fatta, non avrebbe potuto tornare indietro neanche volendo - e forse non lo voleva. Quindi si era limitato ad attendere un momento in cui poterle parlare e ad osservarla da lontano. 

Lei ed Archie si fermarono di fronte a lui e salutarono insieme ai compagni. Archie gli rivolse un sorrisetto ed Emma lo guardò negli occhi, dritta al punto. James distolse lo sguardo per un solo momento, sentendosi disorientato. «Benvenuti», cominciò. «Prima di iniziare attendiamo quelli del settimo. Penso stiano arrivando.»

 

[DRAKE FLITT]

 

Infatti il gruppetto dell’ultimo anno stava marciando in direzione del campo proprio in quel momento. Il campo si trovava nel retro di Heydon Hall ed era diviso dalla grande casa da un sentiero erboso, che in quel momento era fangoso per la pioggia che era caduta il giorno prima. A capo della delegazione James notò subito Drake Flitt, quello che gli era stato additato come studente più turbolento della scuola. Alto e largo di spalle, James doveva riconoscere che era proprio un bel tipo, nonostante non gli piacesse affatto la luce che gli brillava perfida in fondo agli occhi verdi. Non aveva una faccia da bravo ragazzo, Drake Flitt. Si fermò davanti a lui, le mani nelle tasche dei pantaloni della divisa e il sorriso sghembo. Sfacciato. James ricambiò lo sguardo con ostinazione e fermezza, gli occhi fermi. Non aveva certo paura di Flitt e del suo fascio di muscoli. Un paio di altri energumeni lo affiancarono, probabilmente i suoi scagnozzi. Ovviamente, Charles Baker, il cretino impomatato del quinto anno che aveva fatto un po’ troppo lo spiritoso con Emma, mancava all’appello: James aveva avuto a che fare con lui nella lezione precedente, e lo aveva trovato decisamente silenzioso, senza i suoi amici a dargli man forte. Non era nemmeno granché a Quidditch. James ne era stato segretamente compiaciuto, e si era anche dato dello stupido per quella competizione senza quartiere che lo rendeva solo estremamente immaturo. E fuori luogo, visto che era un suo “studente”. Ma sotto sotto non poteva che esultare a vedere che Baker, nonostante il bell’aspetto da fantoccio col ciuffo, non fosse poi granché. Drake venne raggiunto anche da un paio di ragazze, che dovevano far parte della sua cricca, e una delle due, dai lunghi capelli rossi, gli strinse il braccio, possessiva. James immaginò fosse la sua ragazza.

«Bene, visto che ci siamo tutti possiamo cominciare», iniziò distogliendo lo sguardo da Flitt. 

 

[L’ALLENAMENTO]

 

«Come dobbiamo chiamarla?» intervenne proprio quest’ultimo. James tornò a guardarlo, aggrottando le sopracciglia. «Potter, professore o signore?» Sentiva del sarcasmo, nella voce del ragazzo, ma decise di ignorarlo. 

«Non sono un insegnante, sostituisco solo in via temporanea il professor Roberts in attesa che venga chiamato un sostituto», spiegò. «E non sono così vecchio da essere considerato un “signore”. Potter andrà bene. O James, per chi preferisce.» Lanciò uno sguardo ad Emma e Archie, ai quali si era unito anche Tyler, e tutti e tre gli sorrisero. Quel sorriso valse come diecimila incoraggiamenti. 

«Chi si offre volontario per sistemare i coni per l’allenamento?»

«Allenamento?» esclamò la fidanzata di Flitt, gli occhi sbarrati. «Cosa vuol dire allenamento?» la imitò a ruota la sua amica. 

«Allenamento», rispose James incrociando le braccia al petto. «Non è una parola complicata. Cinque sillabe. Vuol dire quello che sapete benissimo, quindi niente domande stupide.»

«Roberts non ci faceva mai fare allenamento», continuò Flitt, rimarcando la parola come se fosse un insulto. 

«Io non sono Roberts, come potrete notare.»

«Oh, certo, sicuramente non sei Roberts», esclamò Archie ridacchiando. Emma gli diede una gomitata nelle costole e l’amico si zittì. 

«Per poter giocare bene c’è bisogno di un allenamento come si deve», spiegò. «Corsa, stretching, riscaldamento muscolare. Adesso se qualcuno per cortesia avesse voglia di sistemare i coni a distanza di un metro l’uno dall’altro, qui a bordo campo, mi farebbe un favore.»

Archie emerse dal fondo del gruppo trascinandosi dietro Emma, che però sembrava piuttosto recalcitrante. «Eccoci.» 

«Molto bene, grazie Archie, grazie Emma.» James si accorse di averli chiamati per nome, e si sentì addosso gli sguardi di tutti i presenti. Ottimo, bravo James. Archie rideva sotto i baffi mentre Emma lo guardava contrariata. Fece finta di niente, però, o almeno cercò. 

«Voi altri cominciate a correre, forza.»

Tutti i presenti gli diedero le spalle e gli obbedirono. Lui si avvicinò a Emma e Archie, che intanto si erano messi all’opera. «Come sono andate le prime ore di lezione, professor Potter?» gli chiese Archie. 

Lui scrollò le spalle. «Stranamente bene, prima che arrivasse Flitt.» Lanciò uno sguardo al gruppo e notò che Drake correva, sì, ma li osservava ad occhi stretti. 

«Lascialo perdere, si diverte a provocare», spiegò Archie dandogli un buffetto sul braccio. «La maggior parte delle volte non sa cosa dice.»

 

[JAMES È PALESE]

 

Emma gli dava le spalle, chinandosi per sistemare i coni. James distolse in fretta lo sguardo, imbarazzato. Non voleva che Archie notasse la direzione dei suoi occhi, ma quando vide che lo stava guardando capì di essere stato scoperto. Per Godric, non poteva farci niente se quella ragazza lo attirava come una calamita. 

«Non preoccuparti, manterrò il segreto», gli sussurrò Archie rigirandosi un cono tra le mani. «Però secondo me—»

«Okay, Fletcher, unisciti al gruppo, grazie», lo interruppe James trattenendo una risata. Questi alzò gli occhi al cielo e si allontanò, l’andatura caracollante e gli orecchini che attiravano i raggi del pallido sole. 

«Il grosso del lavoro l’ho fatto tutto io, maledetto Fletcher», esclamò Emma raggiungendolo. 

«Unisciti anche tu agli altri, Nott», rispose James ad alta voce. Emma lo guardò alzando un sopracciglio e poi, scuotendo la testa, visibilmente contrariata, raggiunse Archie e Tyler. 

Per tutta la durata del riscaldamento, James rimase in mezzo al campo, in piedi, ad osservare e zittire i più rumorosi e chiacchieroni, tra i quali l’onnipresente Archie. Oltre che guardare Emma, ovviamente. Si accorse di essersi incantato più di qualche volta e si riscosse solo perché qualcuno lo richiamò alla realtà. Doveva darsi un tono. E subito. 

 

[L’ALLENAMENTO PROSEGUE]

 

La fase successiva della lezione si svolse ovviamente in aria. A ogni studente toccò una scopa e, in modo stranamente ordinato, si issarono in cielo per un giro di ricognizione. James aveva diviso il campo in due metà e aveva sistemato, con il pronto aiuto di Tyler, degli anelli aggiuntivi che venivano usati per formare due campi di gioco separati. Formò quattro squadre e assegnò dei ruoli. A Emma andò il ruolo di Cercatrice, perché era agile e scattante, e lei non potè fare a meno che sorridergli quando James le sussurrò «acchiappa il Boccino per me, Nott», senza essere sentito dagli altri. A Flitt andò il ruolo di Battitore, perché aveva assicurato a James che lo aveva ricoperto durante tutti e quattro gli anni trascorsi a Heydon Hall. Roberts gli aveva raccontato che nella scuola si teneva un piccolo campionato interno, che era stato però soppresso due anni prima, a seguito di un incidente che aveva visto coinvolti un ragazzo del quinto anno e uno del secondo e James si chiese ora se quel ragazzo del quinto non fosse proprio Flitt, insieme alla sua mazza. Ma ormai era tardi per dirgli di no, quindi l’osservò alzarsi in volo, strafottente come quando camminava. 

Le due ore di lezione volarono. Alla fine, James dovette ammettere che quei ragazzi non se la cavavano poi tanto male, anzi, qualcuno di loro avrebbe benissimo potuto sostituire tanti giocatori di Hogwarts, e forse avrebbero addirittura fatto meglio. Dovette riconoscere, seppur a malincuore, che Flitt era davvero bravo: padroneggiava la mazza come se fosse un’appendice del suo braccio e la passava dalla mano destra a quella sinistra con estrema naturalezza, come se fosse ambidestro. James aveva evitato per un pelo parecchi colpi di Bolide durante la lezione, ma solo perché non teneva gli occhi dove doveva, ma su Emma: la seguiva con lo sguardo durante la sua ricerca del Boccino, si soffermava ad accarezzarne il profilo, i capelli scompigliati e le gambe flessuose, la linea della schiena e la bocca concentrata. Archie lo aveva salvato in corner in numerose occasioni, prima che un Bolide vagante gli spiaccicasse il cervello. 

«Stia attento, professor Potter, occhi sulla partita», rideva Archie e James gli lanciava occhiate di fuoco che provocavano nel ragazzo eccessi di profonde risate. 

Anche Tyler non se la cavava male, come Cacciatore, e James pensò che avrebbe benissimo potuto tentare la carriera del professionismo, e glielo disse al termine della lezione. La squadra formata da Flitt, Emma e Tyler aveva vinto più partite in quel mini-torneo improvvisato, e così toccò ai perdenti, tra i quali Archie, il compito di mettere via gli anelli e i coni. 

«Hai mai pensato di fare qualche provino?» gli chiese. Vide Flitt tendere le orecchie, lì vicino. 

Tyler scosse la testa. «Sinceramente no. Mio padre sarebbe anche d’accordo, lui adora il Quidditch da sempre, ma mia madre no. Lei vorrebbe per me una carriera al Ministero, come quella di mio fratello, ma non ha ancora capito che non fa per me.»

«Tuo fratello lavora al Ministero?»

«Ufficio Auror», Tyler gli sorrise cautamente. «Tuo padre è il suo mito. Credo abbia una sua foto sul comodino.»

James scoppiò a ridere. «Non ci credo.»

«No, scherzavo, ma poco ci manca. Si chiama Jasper Jordan, ma tutti lo chiamano JJ, non so se ti sia mai capitato di sentirlo nominare. Molto spesso lavora con tua cugina Molly.»

«Oh, sì, JJ!» esclamò James battendosi una mano sulla fronte. «Molly ne parla benissimo. Ma guarda un po’, JJ è tuo fratello.»

«Chi lo direbbe mai, eh?» Tyler si strinse nelle spalle, improvvisamente imbarazzato e quasi in difetto.

«Be’, non posso dire di conoscerlo, e non conosco bene neanche te, ma per quel che ho visto hai talento, Tyler. Non sprecarlo. Ci penserai?»

Tyler annuì. «Ci penserò, James. Grazie.» Gli sorrise, come se fosse il primo, vero complimento ricevuto in tanti anni. 

«Non ci starai mica provando col mio ragazzo, eh, Potter?» esclamò Archie avventandosi su Tyler e baciandolo sulla guancia.

James rise. «Affatto. Mi stavo solo complimentando con lui per il suo talento a Quidditch.»

«È bravissimo, vero? Tanto quanto io sono pessimo, lo so, lo so», si affrettò ad aggiungere Archie. «Dovrebbe proprio giocare in qualche squadra.»

«È quello che gli ho detto. Ha promesso che ci penserà.»

Archie diede un pizzicotto sulla spalla a Tyler. «Il mio campione. Dài, andiamo a cena, muoio di fame.»

«Fai la strada con noi?» gli chiese Tyler.

James lanciò un’occhiata oltre le loro schiene. Emma si stava attardando, lui sperava di proposito, intenta a raccattare tutte le scope lasciate qua e là dai suoi compagni. Gli lanciò un’occhiata in tralice, ma la distolse in fretta. Archie si voltò e seguì lo sguardo di James. Poi tornò a guardarlo, sogghignando. «Credo che James debba mettere in ordine, Tyler, ANDIAMOCENE.» Così trascinò via il suo fidanzato, sbalordito e stupito. 

«Ci vediamo a cena», gridò loro dietro James. 

Archie agitò una mano senza voltarsi e James li osservò scomparire lungo il viale, ormai quasi buio. Si voltò verso Emma, che lo guardava dalla panchina. Aveva radunato tutte le scope e attendeva, le mani intrecciate di fronte a sé. James la raggiunse. 

 

[JAMES RIMANE SOLO CON EMMA]

 

«Hai volato bene, oggi.»

Lei incrociò le braccia al petto, guardandolo furbescamente. «Mi hai osservato bene, eh?»

Cazzo. Beccato. 

Si passò una mano dietro la nuca, cercando di temporeggiare. «Be’, come ho osservato tutti voi.»

Le labbra di Emma si piegarono in un sorriso. «Va bene, farò finta di crederci.»

«Dài, aiutami a portare dentro le scope», le disse. Le loro mani si sfiorarono mentre afferravano i manici di scopa, e si guardarono rapidamente, per poi distogliere lo sguardo altrettanto rapidamente. James fece strada all’interno di un basso edificio che ospitava quello che era stato l’ufficio dell’ormai ex professor Roberts, costituito da una piccola scrivania, due sedie, alcuni schedari e un armadio. L’uomo aveva lasciato un poster dei Ballycastle Bats appeso ad una parete. James ripose le scope nell’armadio ed Emma gli passò quelle che teneva tra le braccia. Seguì la scatola con le palle da gioco. Infine James chiuse tutto a chiave, che poi si mise in tasca. Emma sedeva sul bordo della scrivania e lo guardava. James giurò che gli stesse guardando il sedere mentre era chino a chiudere l’armadio, ma ovviamente non poteva esserne certo. Quella prospettiva lo elettrizzò, ma cercò di darsi un tono, come cercava di fare da due ore a quella parte.

«Ti ho vista poco, in questi giorni», cominciò mettendolesi di fronte. 

Emma scrollò le spalle. «Sono stata impegnata con le lezioni. E con le lettere trovate nell’ala ovest», aggiunse. 

Ecco, era certo che le stesse leggendo. 

«Hai scoperto qualcosa di interessante?»

 

[JAMES ED EMMA PARLANO DELLE LETTERE]

 

Emma tirò fuori di tasca un paio di lettere, leggermente stropicciate, e glielo agitò sotto il naso. «Sono per lo più lettere d’amore, tra una certa ragazza che si firma con una E puntata e un ragazzo senza nome. Non compare mai il suo nome, in nessuna delle lettere lette sinora, né in quelle a lui indirizzate, né in quelle scritte di suo pugno. C’è solo qualche indizio sul luogo, vengono citati questo Rosham Village e Mount Stewart, che a quanto c’è scritto si trova in Irlanda del Nord.»

«Inoltre, sembra essere stato un amore contrastato, quasi impossibile, visto che la famiglia di lui sembra piuttosto inquietante e anche violenta, a tratti. Lui cerca di proteggere E. a tutti i costi, parlano di scappare insieme, un giorno, per coronare il loro sogno d’amore.»

James trattenne una risata. A parlare di antiche storie d’amore gli sembrava di essere finito in una di quelle fiction radiofoniche che ascoltava nonna Molly la domenica sera, su Radio Strega Network, e che facevano sempre scappare tutti, durante le cene di famiglia alla Tana, uomini e donne indistintamente. Solo Hugo finiva per fare compagnia alla nonna, commentando con lei la puntata. 

«Ti sto imbarazzando, Potter?» ghignò Emma, divertita.

«Vagamente», ammise lui arricciando il naso. «Ma vai avanti.»

 

[GIOCARE CON IL FUOCO]

 

«No, prima voglio sapere perché ti sto imbarazzando, sono curiosa.» Emma si raddrizzò e James se la ritrovò ad un palmo dal naso. Deglutì, nervoso. Avrebbe potuto baciarla, per farle capire quanto poco fosse imbarazzato, ma si trattenne. Non era tanto la storia, a renderlo irrequieto, ma piuttosto il sentirla uscire dalle sue labbra. Capì che la desiderava più di quanto avesse pensato in prima battuta, e fece un passo indietro. 

«Non sono un tipo sentimentale», si difese quindi. «E sapere che probabilmente E. è la vecchia dama di Heydon Hall mi rende inquieto.»

Emma aggrottò le sopracciglia. «Anche tu pensi che sia lei, vero?»

«E chi altri? Abbiamo trovato le lettere nella sua cassettiera, no?»

«Tavolino da toilette», lo corresse l’altra. 

«Tavolino da toilette, d’accordo», le fece il verso lui, alzando gli occhi al cielo. Emma allora alzò una mano e gli afferrò il colletto della felpa. Era di nuovo pericolosamente vicina.

«Non prenderti gioco di me, Potterino», lo attaccò. Si leccò le labbra e James si sentì venire meno. Doveva allontanarsi da lei. Le prese la mano e, giocando al suo stesso gioco, gliel’abbassò, e, lentamente, la guidò fino alla scrivania, dove la fece riappoggiare. Emma non staccò gli occhi da lui neanche per un istante, improvvisamente mansueta e silenziosa. Poi James si appoggiò alla scrivania anche lui, le braccia incrociate sul petto. 

«Stavamo parlando della dama di Heydon Hall, giusto?»

Vide Emma annuire. «Quindi è lei. Non può essere altri che lei.»

 

[DI NUOVO LA DAMA DI HEYDON HALL]

 

«Tu l’hai vista», le ricordò James, cauto. «L’hai vista riflessa nello specchio, non è vero?» Era tornato nuovamente su quel punto, dopo averglielo chiesto quella notte nell’ala ovest, ma la risposta di Emma allora non lo aveva convinto, e lui ci aveva pensato e ripensato, arrivando sempre e solo alla stessa conclusione: Emma aveva visto una donna, o almeno così aveva detto in un primo momento («una donna orribile») e James aveva stampata dietro le palpebre la sua espressione terrorizzata, non l’avrebbe scordata mai. Un pensiero scomodo si stava facendo largo nella sua mente, un pensiero che escludeva fantasticherie, immagini distorte create dalla mente, allucinazioni o suggestioni di sorta, un pensiero che ne abbracciava un altro, ancor più spiazzante e terrorizzante, un pensiero che gli si insinuava nelle viscere pian piano, come un veleno lento, ma che non riusciva a lasciarlo indifferente. 

Emma si mosse irrequieta. «Qualsiasi cosa abbia visto, me la sono immaginata, okay?» ribatté quindi. Si alzò e rimise in tasca le lettere. Sembrava aver chiuso il discorso, e James la imitò, staccandosi dalla scrivania. Non voleva insistere, preferendo prendere le cose per gradi. 

«Rosham Village, hai detto?» chiese James mentre Emma si dirigeva alla porta dell’ufficio. Lei si immobilizzò, continuando però a dargli le spalle. 

«Sì, Rosham Village», rispose.

 

[ROSHAM VILLAGE?]

 

«L’ho già sentito nominare, ma sinceramente non mi viene in mente nulla, ora», continuò lui grattandosi il mento.

Emma si voltò e lo guardò in modo strano, con due occhi che non le aveva mai visto. Sembrava quasi che avesse nuovamente visto un fantasma. Nuovamente?, rifletté James. Quindi stava ammettendo con se stesso che effettivamente Emma aveva visto un fantasma, quella notte? Scosse la testa per allontanare da sé quel pensiero. «Mi verrà in mente, presto o tardi.»

«Torniamo alla scuola, prima che faccia buio.»

Così James seguì Emma fuori. 

 

🥀

 

[I PENSIERI DI EMMA]

 

Uscendo dal campo, Emma non riusciva a smettere di pensare a due cose: Rosham Village e James Sirius Potter. Decise di affrontare quei due pensieri uno alla volta, concentrandosi e facendo ordine. Quando James le aveva chiesto conferma sul nome del villaggio, una folgorazione l’aveva colta proprio lì, su due piedi, e l’aveva lasciata stupefatta e confusa. Ecco dove aveva sentito nominare Rosham Village: proprio lì sorgeva la tenuta di famiglia di sua madre. Come aveva fatto a non pensarci prima? Certo, sua madre non parlava mai volentieri del suo passato, della sua infanzia trascorsa negli Stati Uniti, di ciò che l’aveva spinta a tornare in Inghilterra, e della sua famiglia di origine. Era un discorso che non affrontava mai e solo se veramente costretta. Quindi quel nome era ricorso nella vita di Emma poche, pochissime volte, e solo sussurrato o bisbigliato, mai urlato, come se contenesse esso stesso una maledizione. E che straordinaria coincidenza, che proprio quel nome ritornasse in quelle missive dimenticate e polverose, ultima testimonianza di un amore bello ma sofferto. Preferì tenere per sé tutti quei pensieri, però. Le sembrava quasi inappropriato, un qualcosa di scomodo che doveva sforzarsi in tutti i modi di tenere celato. Sapeva che James non l’avrebbe giudicata, ma allo stesso tempo temeva il suo parere, temeva di leggere qualcosa, al fondo dei suoi occhi, che avrebbe potuto ferirla.

E qui si agganciava il suo secondo pensiero, cioè James Potter. Niente da fare, non c’era verso di schiodarlo dalla sua mente - e a quanto pare anche dal suo corpo, viste le sensazioni provate poco prima nel piccolo ufficio. Si era sentita osservata durante tutto l’allenamento, e le piaceva essere guardata da lui, le piaceva sentire i suoi occhi accarezzarne la figura e seguirne i movimenti, le piaceva intrappolarlo senza lasciargli alcuno scampo, anche da lontano. Si era attardata di proposito al campo, aspettando che Archie e Tyler se ne andassero, e, fortunatamente, dovevano aver capito l’antifona, o almeno Archie, perché le aveva rivolto un’occhiatina maliziosa per poi scappare via con Tyler sottobraccio. Nell’ufficio lo aveva provocato, amava vedere le sue mille e più reazioni dipingerglisi in faccia, non era assolutamente in grado di controllarsi, di camuffare ciò che provava e sentiva, di far finta che lei non gli facesse effetto, e ovviamente Emma sguazzava nelle difficoltà di James, e andava avanti a provocarlo, ancora e ancora, ché forse un giorno lui avrebbe ceduto e l’avrebbe accontentata, baciandola senza tante cerimonie. Anche se era sicura che sarebbe stata lei a fare il primo passo, James Potter era un vero cavaliere. Si dominava a stento, ma resisteva. E le piaceva ancora di più, per questo. E quando le aveva preso la mano e l’aveva spinta verso la scrivania, senza irruenza, ma con la sua solita gentilezza che era come un marchio, per lui, una medaglia che portava appuntata sul petto, Emma si era sentita morire. Non era riuscita a smettere di guardarlo, di guardargli quelle labbra morbide e belle, desiderando solo di allungarsi un po’ di più e annullare ogni distanza, seppur minima, visto che erano praticamente una addosso all’altro. Quando James le si era seduto accanto, lei era tornata a respirare, e aveva cercato di andare avanti con la conversazione come se niente fosse. Ora si sentiva molto meglio, l’aria fresca della sera settembrina le sferzò il viso spiacevolmente accaldato e lei chiuse gli occhi per un attimo. 

Camminavano lungo il viale che li avrebbe ricondotti a Heydon Hall, e camminavano lentamente, come se entrambi volessero ritardare il momento in cui si sarebbero dovuti separare, lei diretta al solito tavolo, con Archie e Tyler, lui a servire la cena con Pansy e Lamb. Ovviamente, si sarebbero cercati con gli occhi per tutto il tempo, ne era certa. Quel pensiero la destabilizzò e si costrinse a fermarsi per un momento. «Tutto bene?» le chiese James voltandosi. 

 

[ANCORA RIFLESSIONI]

 

Lei annuì e lo raggiunse. «Sì, scusa, ero pensierosa.» Ovviamente, non gli avrebbe detto la verità. 

«Pensavi alle lettere?»

«E. scriveva da Rosham Village, non da Heydon Hall, quindi dev’essere giunta qui in un secondo momento, non trovi?»

James la guardò e annuì. «Plausibile, sì.»

«Mi chiedo quindi cosa sia successo, cosa l’abbia spinta a lasciare Rosham Village per questa casa isolata in mezzo al nulla. E da come ha conservato le lettere scambiate con il ragazzo misterioso, sembra quasi che il destino sia stato loro avverso, alla fine, e che, per qualche ragione, non siano potuti stare insieme, e—», ma Emma si interruppe, quando si accorse che James era rimasto indietro. Si voltò e lo vide fermo in mezzo al viale, le braccia distese lungo i fianchi, la testa leggermente rialzata, gli occhi sbarrati. Guardava verso la casa, così Emma si girò in fretta e seguì la direzione del suo sguardo. Tutto ciò che vide fu solo la facciata di Heydon Hall, le finestre dell’ala est illuminate, quelle dell’ala ovest spente e buie. Non c’era niente che potesse attirare l’attenzione, almeno non tanto da fermarsi all’improvviso e fissare impalato un punto imprecisato lì di fronte. Raggiunse James e lo afferrò per un braccio, riscuotendolo. Come destatosi da un lungo sonno, lui si riscosse e la fissò. 

 

[COS’HA VISTO JAMES?]

 

«Tutto bene?» gli chiese.

«Sì… sì, almeno credo…», rispose lui confuso, passandosi una mano sul viso.

«Eri impalato. Guardavi fissamente la casa…» Un pensiero cominciò a formarlesi in testa, ma Emma cercò di scacciarlo. Non era possibile. Proprio no. 

«Cos’hai visto?» gli chiese quindi, visto che quel pensiero molesto non voleva darle tregua. 

James la guardò nuovamente. «C’era una donna, alla finestra del secondo piano.»

«Sarà stata Madama Pince…»

Il ragazzo scosse la testa. «Era una finestra dell’ala ovest, Emma.»

Lei non potè evitare di rabbrividire. «Sono tutte spente, James, come hai fatto a vedere una donna?»

«Erano accese», esclamò lui prendendola per le spalle. «Erano tutte accese, capisci?»

Emma non lo aveva mai visto così sconvolto, sembrava fuori di sé, un po’ per la paura, un po’ per lo sconcerto. 

«Okay, okay, frena», disse lei, pragmatica. «Potrebbe essere stato il riflesso delle finestre a est, non pensi?»

James scosse la testa. «So cos’ho visto, Emma. Ne sono sicuro. C’era una donna alla finestra del secondo piano, penso che sia la finestra della camera da letto che abbiamo trovato l’altra notte. Penso che sia—»

«Non dirlo», esclamò Emma tappandoli la bocca con una mano. 

 

[DI NUOVO QUEL PENSIERO]

 

Si guardarono per un lungo istante ed Emma poteva sentire le labbra di James contro la sua pelle, e la cosa la destabilizzava, e si aggiungeva alla paura senza nome che le aveva attanagliato le viscere per ciò che era appena successo, per ciò che James le aveva raccontato, e anche per ciò che tutto questo significava. Non poteva permettersi di indugiare in simili idee. Non c’era nessun fantasma, a Heydon Hall.

James le afferrò il polso e lei ammorbidì la presa. Le baciò il palmo della mano e lei sentì una corrente elettrica propagarsi per tutto il corpo. Non era il momento, quello, per fare delle cose del genere, avrebbe voluto gridargli. James Potter, mi confondi, per Salazar

«So cos’ho visto», disse lui continuando a tenerla per mano. «È la stessa cosa che hai visto tu in quello specchio.»

Lei scosse la testa. «Non esiste, James. Non esiste nessun fantasma.»

«Ne sei sicura? Sei così sicura delle tue convinzioni? Non stai cominciando a mettere in discussione tutto quanto?»

Sì, avrebbe voluto dirgli. Sto mettendo in discussione tutto quanto, ma per te, per causa tua, e di come mi fai sentire, non per quel dannato fantasma e una storia insensata. 

«Non posso credere che tu lo stia pensando. Mi sembra di sentire Archie.»

«Non ho detto di esserne sicuro. Sto solo dicendo che sto cominciando a pensare che non sia poi così improbabile.»

Lei annuì e lanciò un’occhiata alla grande casa. Era tutto immutato, tale e quale a prima. 

«Lascerò aperta una porta», gli concesse. «Solo un piccolo spiraglio, però. Voglio vedere cosa succederà.»

Lanciò quindi un’occhiata alle loro mani ancora intrecciate e lo trascinò verso Heydon Hall. 

 

🥀

 

Sola nel suo letto, le coperte tirate fin sotto il mento, Emma si soffermò ad osservare le ombre degli alberi là fuori che la luna disegnava grottesche sulla parete, pensierosa. 

 

[LA TEORIA DI EMMA]

 

Aveva promesso a James che avrebbe lasciato aperto un piccolo spiraglio, ma ciò che le si apriva di fronte, nonostante il buio e l’oscurità e il mistero dell’ignoto, le si srotolava davanti agli occhi con un’allarmante chiarezza. Non voleva dirlo ad alta voce, e nemmeno pensarlo, ma era quasi certa che ciò che non voleva nominare fosse là, tra quei corridoi, in quelle vecchie stanze, riflessa negli specchi e affacciata a qualche finestra, nascosta nell’ombra ma urlante di rabbia e dolore e lacrime. E forse era stata proprio lei a turbare Isabelle, quella sera, nel bagno, distruggendo cose e rompendo vetri e ferendo un essere umano con un’indicibile crudeltà e una voracità ultraterrena. Era lei la donna sussurrata dalla sua compagna, la donna dei suoi incubi e dei suoi tormenti, colei che l’aveva accolta nel peggior modo possibile e immaginabile. E se davvero E. era la dama di Heydon Hall, quello spirito irrequieto e arrabbiato che non sembrava trovare né quiete né pace, allora doveva essere successo qualcosa di davvero brutto, nella sua vita, per indurla a rimanere ancorata alla terra, a quel mondo di sofferenza e inquietudine e rancore, proprio laddove era stata maggiormente infelice - e sola. Cosa l’aveva resa ciò che era diventata? E perché? L’amore così bello e forte delle sue lettere non l’aveva protetta dai pericoli del mondo fuori, e quello stesso mondo l’aveva inghiottita e fagocitata, masticata e sputata fuori, un globo di fumo e vento e polvere, animo spaventato e spaventoso che mai avrebbe trovato consolazione, in questo suo eterno purgatorio di mattoni e ricordi. Si chiedeva come fosse possibile, si chiedeva come potesse essere così diversa dai fantasmi con i quali aveva convissuto per tutti quegli anni, si chiedeva cosa potesse fare per darle la pace che meritava, e che anelava - che doveva anelare. 

Emma chiuse gli occhi, cercando di scacciare via quei pensieri, ma quella notte avrebbe sognato il volto di E., il volto riflesso nello specchio, i bei lineamenti stravolti per un attimo dalla rabbia e dall’ira cieca, gli occhi scuri come braci, i capelli neri che dovevano essere stati di seta, il vestito bianco che sembrava un abito da sposa. Avrebbe sognato la dama di Heydon Hall.

 


 

Note.

1. Professor Thompson: personaggio di mia invenzione


Molto bene, bentornati qui con un nuovo aggiornamento. In questo capitolo scopriamo un altro piccolo tassello della storia della dama di Heydon Hall: un brandello della sua giovinezza e di questo amore travagliato ma bello, e proprio tra le righe delle lettere trovate da Emma nello scorso capitolo. Inoltre, come promesso, abbiamo letto del primo allenamento del “professor Potter” e, soprattutto, James ed Emma che, ancora una volta, stentano a resistere all’attrazione che provano l’uno per l’altra. Qualcuno di voi mi ha scritto che “manca poco” prima che la tensione si rompa, ma ahimè, chi mi conosce sa che amo lo slow burning, quindi dovrete pazientare ancora un po’ anche qui 😏 Il finale del capitolo si conclude con un’altra apparizione, questa volta per il nostro Jamie, e con le riflessioni tormentate di Emma, che piano piano sta cedendo all’irrazionalità. Sono come sempre curiosissima di conoscere le vostre teorie, ne avete tante e diverse e io mi sto divertendo un sacco a leggerle 👀 Riguardo il prossimo capitolo, vi anticipo solo che ci sarà una festa, più in là non mi spingo 🔮

 

Vi ringrazio come sempre per l’entusiasmo che mi state dimostrando ♥︎

 

A lunedì prossimo, Marti 🐍

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Capitolo 7
*** CAPITOLO SEI ***


THE HAUNTING OF HEYDON HALL

 

CAPITOLO SEI

 

 

“La paura è la rinuncia alla logica, 
l’abbandono volontario 
di ogni schema razionale. 
O ci arrendiamo alla paura 
o la combattiamo; 
non possiamo andarle incontro 
a metà strada.”
S. Jackson, L’incubo di Hill House

 

 

Heydon Hall, Norfolk, 15 settembre 2023

«Sono così contento che sia venerdì», sorrise Archie accogliendo Emma al tavolo della colazione, quella mattina. La ragazza prese posto e, come prima cosa, si versò del caffè.

 

[SI CONCLUDE UN’ALTRA SETTIMANA A HEYDON HALL]

 

Quella che si era appena conclusa era stata una settimana davvero impegnativa. I professori di Heydon Hall facevano sul serio, e li avevano letteralmente caricati di compiti; fortunatamente, Emma si era portata avanti col lavoro e per il lunedì successivo doveva solo ricopiare un tema già imbastito sugli incantesimi non verbali che aveva affidato loro la professoressa di Incantesimi, Evelyn Moore1 (una donna sulla quarantina d’anni, alta e bionda e seria, che però ad Emma era stata istantaneamente simpatica). Quindi, le sue giornate erano trascorse, oltre che in classe, quasi sempre in biblioteca o in aula studio, dove aveva svolto i compiti sotto l’occhio attento di Pansy o di Lamb. Lanciò un’occhiata di getto al tavolo delle autorità e notò James che usciva dalla porta di servizio con il carrello e dei vassoi con la colazione. Sembrava stanco, aveva disegnate delle ombre scure sotto gli occhi, come se avesse dormito poco, o addirittura poco e male. I loro sguardi si incrociarono ma Emma seppellì subito il suo nella ciotola di cereali che aveva appena riempito. 

«Problemi in paradiso?»

Alzò la testa di scatto per osservare Archie, che la osservava a sua volta con quel suo solito ghigno furbo che la mandava su tutte le furie ma che allo stesso tempo la faceva sorridere. Scosse la testa. «Finiscila, Archie, non ci credo al paradiso.»

«Ah, no?» Archie scrollò le spalle. «Be’, secondo me James sarebbe capace di farti cambiare idea, cocca.»

Emma gli allungò un calcio sotto il tavolo e Archie imprecò a labbra strette, ma non troppo, e si beccò un rimprovero da Lamb, che passava di lì in quel momento. Archie replicò chiedendo scusa ma rivolgendogli una linguaccia dietro le spalle. Emma intanto rideva sotto i baffi.

 

[VARI PENSIERI]

 

Archie ovviamente scherzava, ma non scherzava poi così tanto, e andava molto vicino alla realtà, solo che non era pronta ad ammetterlo, non ad alta voce. Non era pronta per riconoscere che le piaceva James Sirius Potter, che la sua vicinanza le faceva girare la testa e tremare le gambe, che solo vederlo da lontano la mandava in confusione, ma non vederlo affatto la mandava in paranoia, e quindi si accontentava di spizzichi e bocconi, ché era sempre meglio di niente. Dopo quel martedì sera non avevano quasi più parlato, presi com’erano stati entrambi con i rispettivi impegni. Era vero che non c’erano state novità, la vita a Heydon Hall sembrava scorrere tranquilla, fin troppo tranquilla, e pure gente come Flitt e la sua cricca non sembrava avere voglia di fare casino, almeno non quanto Emma si era aspettata da certi racconti ascoltati da Archie. Combinava molti più guai lei ad Hogwarts di tutti gli amici di Flitt messi insieme, ma si rendeva conto che Heydon Hall era molto più rigida, e senza bacchetta molti maghi sapevano fare ben poco. Infine, non c’era più stata nessuna strana manifestazione, nessuna apparizione inquietante e tantomeno nessuna traccia del famoso e temuto fantasma di Heydon Hall. Quindi, tutto ciò che era successo precedentemente non aveva significato nulla, e non aveva trovato nessun nuovo riscontro.

«Per. Le. Mutande. Di. Merlino.» Il tono di voce sorpreso di Archie la riportò alla realtà. Seguì la direzione dello sguardo del suo amico e capì cosa lo aveva tanto scioccato: Isabelle Wiliams aveva appena varcato le porte del refettorio, sulle sue gambe, vestita di tutto punto con l’uniforme della scuola e la borsa dei libri in spalla. 

 

[IL RITORNO DI ISABELLE]

 

Si guardò intorno per un momento, mentre tutta la scuola sussurrava e si spifferava nelle orecchie. Il nome di Isabelle volò di bocca in bocca ed Emma cercò subito James, trovandolo fermo accanto ad un tavolo, mentre serviva la colazione ad alcune ragazze. Era piuttosto sorpreso anche lui, ma si riprese quasi subito, continuando a svolgere il suo lavoro come se niente fosse. Cercò di prendere esempio da lui e ingollò un po’ di caffè. 

«Hai visto chi è appena tornato dal regno dei morti?» insistette Archie guardandola ad occhi sbarrati.

«Ho visto, sì. Aveva finito i malanni?»

Archie per poco non si strozzò con il porridge ed Emma prontamente gli batté sulla schiena, premurosa. 

«Ciao, ragazzi.» Si girarono entrambi. Isabelle era in piedi davanti al loro tavolo e li guardava sorridendo. «Vi sono mancata?»

Archie tossì ed Emma continuò a battergli sulla schiena. «Scusalo, si stava strozzando col porridge, quando ti ha vista.» E le sorrise, ma dentro sentiva i muscoli tendersi nello sforzo di sembrare gentile quando in realtà avrebbe voluto mandarla al diavolo. Non aveva dimenticato come Isabelle l’avesse rifuggita, neanche fosse stata una malata di Spruzzolosi, durante la capatina sua e di James in infermeria. E ovviamente non aveva dimenticato come avesse spudoratamente flirtato con Potter per tutto il tempo, giocando la carta della poverina. 

«Sto molto meglio, comunque, grazie per averlo chiesto», continuò quindi la ragazza incrociando le braccia al petto. Assunse un cipiglio contrariato, ora, che Emma avrebbe volentieri preso a sberle. Respirò a fondo, ma Archie la precedette. «Oh, siamo così contenti di vedere che ti sei ristabilita da… » fece una pausa e guardò Emma, dubbioso, «… da cosa, esattamente? Sai, abbiamo sentito un sacco di voci divergenti in merito.»

Emma per poco non si strozzò a sua volta. Cercò di trattenere una risata: la vista di Isabelle che avvampava, se di vergogna o collera o entrambe, non lo sapeva, era impareggiabile. Da vittima si era trasformata in vittima patetica, avrebbe dovuto pensarci prima di comportarsi male con lei. Emma non era persona da dimenticare un torto subìto, e doveva ammettere che Izzy non le era mai stata troppo simpatica. 

«Guarda un po’ chi è tornato tra noi.»

«Ecco, ci mancava solo lui», borbottò Archie sottovoce alzando gli occhi al cielo. 

 

[ARRIVI INATTESI]

 

Drake Flitt e la sua ragazza affiancarono Isabelle, uno da una parte e una dall’altra, come due diavoli tentatori. La ragazza sorrise ai nuovi arrivati. «Ciao», salutò facendo la ruota. Probabilmente aveva avuto modo di conoscerli, perché non sembrò sorpresa della loro presenza lì accanto a lei. 

La ragazza di Flitt, che Emma sapeva chiamarsi Dotty2, anche se non ricordava il cognome, carezzò una guancia di Izzy e le sorrise. «Vieni a sederti con noi, bellezza.»

«Sì, Isabelle, quello è il tavolo giusto», concordò Drake rifilando un’occhiataccia ad Archie, che lo fissava ad occhi stretti. 

«Potete tenervela», intervenne Emma incrociando le braccia al petto e rilassandosi sulla sua sedia. Drake la guardò. «Non sappiamo che farcene delle bugiarde, noi.»

Isabelle le rivolse un’ultima occhiata pseudo-ferita prima di allontanarsi con Dotty, che le teneva un braccio intorno alle spalle, come a volerla consolare per chissà quale torto. Ad Emma non importava un fico secco di Isabelle Williams. 

«Mi piace la tua lingua lunga, e Charles aveva ragione: sei un tipetto interessante, Emma.»

«Per te solo Nott, Flitt, grazie.»

Lui sollevò le sopracciglia, ma la sua espressione era divertita. «Stasera siete invitati alla mia festa», aggiunse sporgendosi sul tavolo, e abbassando la voce. «Il tuo ragazzo sa già tutto, Fletcher. Sarà divertente avervi intorno.» Così dicendo fece l’occhiolino ad Emma e si allontanò, le grosse spalle fasciate nel blazer della divisa, i capelli castani spettinati. 

Emma si voltò verso Archie. «La sua festa? Quale festa?»

 

[TYLER E LA FESTA DI FLITT]

 

In quel momento, Tyler li raggiunse, sedendosi, il fiato corto. «Scusate, mi sono tagliato facendomi la barba e senza bacchetta è un casino, sono dovuto passare in infermeria, e avete visto chi è tornato? L’ho incrociata mentre entravo, non mi ha neanche risposto quando l’ho salutata.»

«Okay, amore, frena, o ti verrà una sincope, d’accordo?» intervenne Archie poggiandogli entrambe le mani sulle spalle. Tyler lo guardò e gli sorrise e annuì. L’altro gli carezzò le guance, come ad assicurarsi che stesse bene e fosse tutto intero. «L’abbiamo appena vista, la principessina», replicò quindi. «Se n’è appena andata al tavolo di Flitt. Oltre che al diavolo.»

«Be’, meglio così per noi, giusto?»

«Giusto», convenne Emma assaggiando i suoi cereali, che ormai erano diventati una poltiglia informe e umidiccia. 

«Cos’è questa storia della festa di Flitt, a proposito?» continuò Archie facendo un cenno severo della testa a Tyler. «Ci ha detto che tu sai già tutto.»

«Sì, ha sparso la voce poco fa, e io l’ho visto prima di correre in infermeria», spiegò il ragazzo bevendo un sorso di succo di zucca dal bicchiere del fidanzato.

«Quanti belli incontri, stamattina», commentò Archie sprezzante. 

Tyler lo ignorò. «Organizza una festa nelle segrete, stanotte. Mezzora dopo lo spegnimento delle luci. Come lo sapete? Vi ha invitato?»

«Ci ha appena invitato, sì», rispose Emma.

Fecero una pausa tattica perché James si avvicinò col suo carrello. «Tyler», lo salutò. «Vassoio uno o due?»

«Nel vassoio uno c’è il caffè, vero?»

 

[JAMES E LE SUE INTERRUZIONI TATTICHE]

 

James annuì, distogliendo lo sguardo da Emma. Si erano guardati per un lungo istante, prima che Archie non le rifilasse un calcio sotto il tavolo, ripagandola con la sua stessa moneta. Emma trattenne a stento un’imprecazione. 

«Prendo l’uno, allora, grazie.»

James lasciò a Tyler il vassoio e poi tentennò, come se fosse indeciso. «L’ultima volta mi sono quasi beccato un insulto, ma ve lo chiedo lo stesso: tutto bene con quel Flitt? Vi stava dando fastidio?»

«Oh, no», si affrettò a rispondere Emma. Un po’ troppo veloce, forse. Difatti, James la guardò con sospetto. «In realtà è venuto qui solo per invitare Izzy al suo tavolo e per dire cazzate. Lo abbiamo cacciato via», aggiunse. 

James annuì di nuovo e le sorrise, prima di allontanarsi con il carrello. 

«Ci saresti andato lo stesso, anche senza di me?» continuò quindi Archie sospettoso, tornando all’argomento della festa. Emma espirò, contenta che quello lo avesse distratto dal farle battute su James. 

Tyler, in tutta risposta, alzò gli occhi al cielo. «Ovviamente no. Sai che nemmeno mi piacciono, queste pagliacciate.»

«Ma come fa a organizzare feste? Non rischia di venire scoperto, scusate?» chiese Emma. 

«Ne organizza una più o meno ogni trimestre», raccontò Tyler. «In realtà non lo hanno mai scoperto, quindi continua a organizzarle da quando è arrivato qui.»

«Non sono mai stato invitato, prima di oggi», aggiunse Archie. «Tyler sì, ma ha sempre rifiutato per rispetto nei miei confronti.»

«Quindi dobbiamo andarci», disse Emma risoluta. 

 

[EMMA VUOLE ANDARE ALLA FESTA]

 

Okay, Flitt non le piaceva, ma non avrebbe mai rinunciato all’opportunità di fare festa e divertirsi, soprattutto in un contesto così austero come Heydon Hall. Le mancavano le festicciole in sala comune o in dormitorio, e sperava di rivivere un po’ quelle atmosfere. In più, sarebbe stata con Archie e Tyler e la cosa la rassicurava. 

«Dobbiamo andarci?» ripetè Archie guardandola con occhi sbarrati.

Emma annuì. «Certo. Soprattutto perché voi non ci siete mai andati, e poi così ci divertiremo insieme.»

«Non ha torto, Archie», convenne Tyler.

Archie alzò gli occhi al cielo e sbuffò. «So già che me ne pentirò.» 

 

🥀

 

Quella sera tirava un’aria diversa, nel dormitorio delle ragazze. Le più grandi, dal quinto anno in su, che erano state tutte invitate alla festa di Flitt, andarono a letto vestite di tutto punto, la coperta tirata fin sotto il mento, per non farsi scoprire da Pansy che sarebbe passata a spegnere le luci. Quasi tutte sembravano essersi portate abiti luccicanti e setosi da casa, come se si fossero aspettate di ricevere quell’invito, prima o poi, ed Emma lo ricollegò al racconto di Tyler sulla cadenza trimestrale delle “famose” feste di Drake Flitt. 

Lei si era limitata a indossare la gonna della divisa, con sopra una canotta e una camicia spessa: ovviamente non aveva con sé nulla di adatto, così si era dovuta arrangiare. E poi pensava che Flitt non si meritasse il suo impegno. Si mise a letto anche lei, imitando le altre, e si scambiò uno sguardo d’intesa con le due ragazze del settimo che occupavano i letti di fronte al suo. Isabelle era seduta sul letto di Dotty, al fondo dello stanzone, e la rossa stava finendo di acconciarle i capelli. Le due ridevano come galline e un’altra ragazza del settimo del giro di Flitt, di nome Sophia2, intimò loro di andarsene a letto perché Pansy era stata avvistata in cima al corridoio, ed era diretta proprio lì. Allora Izzy corse a letto e si ficcò sotto le coperte ed Emma evitò deliberatamente di guardarla. Quella mattina, la bionda aveva finito di fare colazione al “tavolo delle celebrità”, per poi sedersi lontana da lei a lezione, ed evitarla per tutto il resto della giornata. Nel pomeriggio, durante l’allenamento di Quidditch, Isabelle aveva portato a James un certificato firmato dalla guaritrice che l’aveva assistita in infermeria e che la dispensava dall’attività fisica. James aveva storto il naso ma non aveva protestato e l’aveva spedita a sedersi su una panca a bordo campo. Per la gioia di Emma, Izzy non era rimasta affatto seduta, ma non aveva fatto altro che infastidire James, parlandogli a raffica e senza interruzione, per tutta la durata delle due ore di allenamento, durante le quali Emma fu così distratta che non acchiappò il Boccino d’Oro neanche una volta, e la sua squadra perdette tutte e tre le partitelle. Flitt aveva detto ad alta voce che la sua Cercatrice non aveva tenuto gli occhi sul Boccino come doveva, alludendo quindi alla sua distrazione, ed Emma, incavolata nera, aveva raccolto le sue cose e se n’era andata senza nemmeno salutare James, né tantomeno guardarlo negli occhi. Sapeva che non era colpa sua se Isabelle aveva fatto la scema ma in qualche modo prendersela con lui le era sembrata la strada più semplice, ché forse era un modo per convincersi di lasciarlo perdere e di toglierselo dalla testa. 

Pansy, ora in piedi sulla porta, osservò e sondò la stanza come faceva sempre, e poi, dopo aver augurato loro la buonanotte, spense le luci e uscì. Tutte loro attesero, quasi trattenendo il respiro. Emma si guardò intorno e, alla luce della luna, circa mezzoretta dopo, vide Dotty alzarsi e passare davanti ai letti delle compagne più grandi, facendo loro cenno di seguirla. Emma si alzò e, con già le scarpe ai piedi, andò dietro alla rossa, che intanto era stata prontamente raggiunta da Izzy e Sophia. Percorsero la strada che le divideva dalle segrete in silenzio, a parte qualche risatina che Dotty, ben calata nel suo evidente ruolo di leader e guida, si affrettò a sedare. Non dovettero camminare poi molto, nel buio quasi pesto di Heydon Hall, pieno di scricchiolii inquietanti e strane ombre rannicchiate nelle nicchie. Per raggiungere le segrete bastò loro arrivare nell’ingresso e imboccare una rampa di scale celata dietro una porta a muro, che scendeva fitta nell’oscurità. Al fondo si intravedeva un bagliore, però, come se qualcuno volesse fare loro strada nella notte. Emma non aveva paura ma la ragazza che le aveva camminato accanto aveva tremato per tutto il tempo, se per la paura o per il freddo non lo sapeva, forse entrambi. 

Si fermarono di fronte ad una parete di pietra, in mezzo ad un corridoio mediamente lungo che doveva corrispondere a tutto il primo piano della casa e che, poco oltre, si perdeva nel buio. Quattro o cinque torce accese illuminavano quel tratto e doveva essere quello il bagliore che si intravedeva dalla cima delle scale. Dotty si avvicinò alla parete e vi poggiò una mano. Emma la sentì bisbigliare e, come se avesse appena fornito una parola d’ordine, la parete si aprì all’interno. Ad Emma ricordò l’ingresso alla sala comune di Serpeverde e un fiotto di nostalgia le attanagliò lo stomaco, ma cercò di ricacciarlo indietro. 

 

[LA FESTA DI DRAKE FLITT]

 

Al di là della porta si apriva una delle segrete di Heydon Hall, uno spazio piuttosto vasto senza finestre, che in quel momento era illuminato da centinaia di candele sospese a mezz’aria (e di nuovo le sembrò di essere tornata a Hogwarts, e il fiotto di nostalgia tornò a farle male), mentre una musica della quale non seppe imputarne la provenienza era talmente alta che Emma si stupì che ancora nessuno li avesse scoperti. Un lungo tavolo era addossato alla parete e ospitava ogni tipo di drink disponibile sul mercato, oltre che roba da mangiare in quantità. Individuò Archie e Tyler proprio lì davanti, intenti a riempirsi i bicchieri. Li raggiunse e Tyler fu il primo a vederla arrivare.

«Emma!» esclamò abbracciandola. 

«Oh, eccoti qui, finalmente!» gridò Archie agitando il suo bicchiere. 

«Ma avete visto che roba?» chiese lei continuando a guardarsi intorno, sbalordita. «Come diavolo fa a organizzare tutto senza farsi scoprire? E senza magia?»

I suoi amici si strinsero nelle spalle. «Lo chiamano l’asso nella manica di Drake», spiegò Tyler abbassando la voce e avvicinandosi al suo orecchio. «Qualcuno dice che riesca a rubare la sua bacchetta dallo studio di Corner, dove vengono custodite durante la notte, ma ovviamente sono solo voci.»

«Be’, però spiegherebbero molte cose», convenne Emma. 

«Ma come ti sei vestita, tesoro?» esclamò Archie indicando la sua gonna della divisa.

Emma alzò gli occhi al cielo. «Scusa se non mi sono messa in lungo, Fletcher, ma non mi sono portata niente di carino da mettere. Sai, pensavo di andare in una scuola correttiva, non in un covo di festaioli.» 

Archie rise e Tyler le poggiò una mano sulla spalla. «Saresti carina anche in pigiama, Emma, non dare ascolto a questo brontolone.»

«Grazie, Tyler, tu sì che sei un amico.»

«Ma guarda un po’ chi è arrivata.»

Tutti e tre si voltarono quando Charles Baker si accostò ad Emma. Indossava uno smoking ed Emma lo reputò sin troppo elegante e impomatato per una festa del genere. 

«Stai andando a sposarti, Baker?»

Lui sorrise, divertito. «Sì, Nott, con te.» Le prese la mano e gliela baciò ed Emma non fu abbastanza lesta da sfuggirgli. La ritirò subito, però, mentre Charles continuava a sorriderle in un modo che forse voleva risultare accattivante, ma che a lei non piacque per niente. E poi come osava baciarle la mano? Solo Potter poteva. Il pensiero di James la fulminò. Avrebbe tanto voluto averlo lì con lei, ma si rendeva conto che era un’idea folle: il ragazzo faceva parte del personale, se fosse stato lì probabilmente li avrebbe denunciati tutti quanti al preside Corner. E poi, non aveva deciso di toglierselo dalla testa? 

«Posso prenderti qualcosa da bere?» le chiese Charles.

«No, grazie, non bevo», rispose lei incrociando le braccia al petto. Charles continuava a guardarle le gambe e lei si sentiva a disagio, così si voltò verso Archie e Tyler, che intanto erano ammutoliti, e, prendendoli per mano, li trascinò verso il centro della segreta. 

«Andiamo a ballare, scusaci, Baker», gridò dietro al ragazzo, lasciandolo accanto al tavolo come il fesso che era.

«Non smetteva di farti la radiografia, quello», disse Archie sconvolto. «Devo ammettere che è davvero bello, anche se stronzo.»

«Per Salazar, Archie!» imprecò Emma. Si confusero in mezzo ala gente che ballava e scansarono Sophia avvinghiata per la lingua ad una delle ragazze del sesto. 

«L’avessi detto io mi avresti cruciato.» Tyler lo guardò con disapprovazione e reticenza. 

«Vero», convenne Archie alzando le sopracciglia, «ma ho solo dato un parere oggettivo, amore.»

«Comunque qui si stava parlando di Emma, mi sembra.»

«No, non si stava parlando di Emma», intervenne lei. «Non c’è niente da dire, su Emma. Charles Baker non mi interessa, mi sta antipatico e gli avrei tirato un pugno, avesse continuato a fissarmi come faceva.»

«Certo che non ti interessa, a te piace troppo Potterino, vero?» rise Archie strizzandole le guance.

«Mamma mia, Archie, come sei noioso», sbuffò Tyler. «La vuoi lasciare in pace sì o no?»

«Voi siete noiosi», replicò l’altro. «Emma, smettila di fare la suora, e buttati, ragazzi come Potter non rimangono liberi a lungo, sai?»

Emma alzò gli occhi al cielo, guardandosi intorno nella stanza gremita. Era incredibile quanti ragazzi del quinto, sesto e settimo ci fossero a Heydon Hall, non se n’era resa conto fino a quel momento. «Vado a prendermi qualcosa da bere, visto che Charles sembra essere sparito», disse quindi. 

«Possiamo lasciarti sola o…?» iniziò Archie buttando le braccia intorno al collo di Tyler e cominciando a muoversi sul posto. 

«Non siete mica i miei genitori», rispose lei. «Divertitevi.»

Lanciò loro un’ultima occhiata e si allontanò. 

 

🥀

 

[LA FESTA DI FLITT SI RIVELA UNA NOIA]

 

Emma trascorse l’ora successiva nelle seguenti attività: annoiarsi, osservare la gente ballare, annoiarsi, ballare insieme ad Archie, annoiarsi, spettegolare con Archie sugli inciuci della scuola, annoiarsi, pensare a James e a cosa stesse facendo, annoiarsi, bere un miscuglio improponibile di Burrobirra, Firewhisky e succo di pera che le frizzò la gola e le provocò anche un po’ di nausea, annoiarsi, chiacchierare con Tyler e ridere di Archie, annoiarsi, ripensare a James e a cosa stesse sognando, annoiarsi e, ovviamente, evitare come la peste Charles Baker. Quella festa non si rivelò essere il divertimento che aveva sperato fosse, alla fine tutti si limitavano solo a ballare come cretini e a bere fino a star male, e molto spesso rimaneva sola perché Archie e Tyler ballavano insieme oppure si appartavano nel corridoio per pomiciare e chissà che altro. Durante una delle loro misteriose sparizioni, Emma dovette sorbirsi la pietosa scena di Isabelle che ballava al centro della pista insieme a due amici di Flitt. Uno le baciava il collo e l’altro continuava a sollevarle il bordo del vestito per infilarle una mano nelle mutande, ed Emma si disse che avrebbe dovuto farsi i fatti suoi, ché Isabelle era abbastanza grande per fare le sue scelte, lei non era mica sua madre o sua sorella maggiore. Si chiese però con disappunto quando la ragazza timida e pudica della prima sera in dormitorio, che aveva timore di spogliarsi e cambiarsi davanti alle altre compagne, avesse lasciato il posto a quella nuova Isabelle, spregiudicata ed “espansiva”. Proprio quando Emma si decise ad alzarsi, però, per andare lì e dire a quel tizio di tenere le mani apposto, Flitt la precedette. Afferrò i due ragazzi per il retro delle loro camicie e li allontanò a calci. Rude ma efficace. Emma vide Isabelle protestare, mentre rimaneva da sola al centro della pista. E in quel momento i loro sguardi si incrociarono. Emma capì subito che le avrebbe dato problemi quando la vide avvicinarsi a passo di marcia, il bicchiere in mano. 

«Cos’hai da guardare, eh?» l’aggredì. «Te ne stai lì seduta e ti godi lo spettacolo?» 

 

[LA SCENATA DI IZZY]

 

I presenti intorno a loro si zittirono ed Emma notò Flitt, Baker e Dotty che osservavano la scena da poco lontano, ma senza intervenire. 

«Quale spettacolo? Se alludi a quello in cui tu ti rendi ridicola, allora sì, me lo stavo godendo.»

Isabelle la guardò ad occhi stretti. «Pensi di essere tanto migliore di me, eh? Con le tue gonnelline perfette e il nome che porti e l’amicizia con Potter.»

Emma assottigliò lo sguardo.

«Credi che non me ne sia accorta? Credi che non abbia notato che ti piace? Che ti dà fastidio quando gli sto intorno? Be’, se non stai attenta potrei anche portartelo via, un giorno di questi.» E la bionda di fronte a lei scoppiò a ridere di gusto, mentre Emma cercava di trattenere la rabbia. Certo, Isabelle non era mai stata un fulmine, ma quando l’aveva conosciuta sul treno sembrava innocua, un po’ stupida ma alla mano, irritante ma poco pericolosa. Quando si era trasformata in una stronza? Fulminante, la colse il pensiero che Izzy, sul treno, le avesse probabilmente rifilato un sacco di cazzate riguardo ciò che era successo a casa dei suoi zii, proprio come aveva fatto lei riguardo i suoi genitori. Forse avevano giocato lo stesso gioco senza saperlo. Okay, la loro amicizia era naufragata miseramente quasi subito, sia perché Emma non aveva voluto impegnarsi, sia perché Izzy non si era rivelata il tipo di persona più compatibile con lei, ma il fatto che la bionda stesse tirando fuori tutte queste recriminazioni nei suoi confronti proprio ora era una cosa che non comprendeva. Forse avrebbe dovuto esporsi prima, vista e considerata la situazione.

«Fai pure, ti avviso però che le cose vanno fatte in due, bisogna vedere se lui ci sta», replicò quindi sorridendole malignamente. Era pur sempre una Serpeverde, non si faceva mettere i piedi in testa da niente e nessuno, lei, tantomeno da Isabelle Williams. 

Quest’ultima, in tutta risposta, fece un passo avanti, come a volerla assalire, ma questa volta fu Baker a salvare la situazione. La trattenne prontamente per la vita, mentre la ragazza si lasciava sfuggire un urlo. Emma si limitò a guardarla ad occhi sbarrati, sperando che fosse stato l’alcol il colpevole per quel suo deliberato, ma scampato, colpo di testa. 

«E mi sono accorta che mi hai detto solo cazzate sui tuoi genitori, Emma», gridò ancora Isabelle mentre Charles la trascinava via. «Me ne sono accorta subito! Sei una stronza, capito? Una stronza!»

Emma rimase dov’era, appoggiata alla parete, il bicchiere ancora stretto in mano, mentre Isabelle veniva portava via proprio da Dotty. Sentì Flitt dirle di riaccompagnarla in dormitorio, prima che la situazione degenerasse. In quel momento, venne raggiunta da Tyler. 

«Tutto bene? Ho visto Dotty che trascinava via Isabelle, che continuava a fare il tuo nome…»

«Tutto bene. Mi ha gridato contro, ma penso fosse mezza ubriaca», spiegò lei stringendosi nelle spalle. «Questa festa fa davvero schifo.»

«A tal proposito, credo che Archie abbia esagerato.» Tyler le indicò un punto della parete opposta: Archie vi stava appoggiato, seduto per terra, la testa storta, e le mani che fendevano l’aria senza un apparente senso logico. Senza parlare, Emma seguì Tyler e, quando lo raggiunse, il suo amico la guardò da sotto in sù, sorridendole. 

 

[ARCHIE HA ESAGERATO]

 

«Oh, Emmina», biascicò. «Come shei bella… Lo shai che shei proprio bella bella bella? Shecondo me Potter ti vuole…»

«Okay, Archie, quanto hai bevuto?» gli chiese piegandosi sulle ginocchia per guardarlo in viso.

«Ma poco…»

«Quanto ha bevuto?» chiese alzando lo sguardo su Tyler.

«Penso che il problema sia stato uno di quei mix che ha preparato Flitt…» spiegò il ragazzo passandosi una mano dietro la nuca. «Non so cosa ci fosse dentro, sinceramente, gli ho detto di non berlo ma sai com’è fatto… Subito stava bene, ma è da qualche minuto che straparla…»

«Ti conviene portarlo a letto, prima che beva qualcosa d’altro», convenne Emma rialzandosi. «Dài, ti aiuto a rimetterlo in piedi.»

Presero Archie per le braccia, uno per parte, e lo aiutarono a tirarsi su. Era magro, Archie, tutto pelle, ossa e qualche muscolo di poca importanza, e fu facile aiutarlo a restare in piedi. Lo portarono fuori in corridoio, che era un po’ più fresco rispetto all’interno della segreta, e lo sentirono sospirare. 

«Da qui ce la faccio da solo, Emma», disse Tyler. 

«Ne sei sicuro?»

«L’ho già fatto altre volte», spiegò. Suonava amareggiato ed Emma si chiese quante altre volte il suo amico avesse passato il limite e quante altre volte Tyler ne avesse raccolto i cocci. 

«Mi raccomando, fate attenzione.»

«Anche tu, mi scoccia lasciarti qui da sola…»

Emma scrollò le spalle. «Non preoccuparti, tra poco me ne torno a letto anche io.»

Tyler le diede la buonanotte e Archie biascicò un saluto e poi lei li osservò sparire, inghiottiti dal buio delle scale. Si passò una mano tra i capelli e sospirò. Sperava che Archie sarebbe stato meglio, e pensò che sicuramente avrebbe vomitato tutto, ma una bella dormita lo avrebbe aiutato. Emma si rifugiò in una nicchia del corridoio, dietro alla statua di un angelo, e si sedette in penombra, appoggiando la testa alla fresca parete di pietra, chiudendo gli occhi per un attimo. Il litigio con Isabelle non l’aveva lasciata così indifferente, ma più che scossa si sentiva ancora infuriata. Le parole di Izzy su James la portarono a riflettere sulla natura del loro rapporto, e soprattutto su ciò che lei sentiva di provare per Potter. 

«Come mai tutta sola, Nott?» Emma, riscossa dai suoi pensieri, si voltò di scatto e si ritrovò accanto Charles, le mani in tasca, poggiato alla parete della nicchia. «I tuoi cavalieri serventi se ne sono andati, ho notato.»

 

[CHARLES TORNA ALL’ATTACCO]

 

«Archie non stava bene», spiegò lei stringendosi le braccia al petto. 

«Era decisamente ubriaco», rilanciò il ragazzo ridendo.

Emma lo guardò male, alzandosi prontamente. «Me ne vado a letto, se non ti dispiace.»

Charles le si parò davanti, però, impedendole di uscire dalla nicchia e di proseguire lungo il corridoio e verso le scale. «Non così in fretta, dài.»

Emma sollevò lo sguardo su di lui. «Fammi passare, Baker.»

Lui l’afferrò per un polso, sospingendola verso la parete. Emma cercò di liberarsi, ma senza successo: la presa del ragazzo era davvero forte. Lui la immobilizzò contro la parete di pietra con il suo corpo, ed Emma sentì sul viso il suo fiato, che sapeva di alcol. «Mi fai girare la testa, Emma Nott.»

«Mollami, Baker, o giuro che mi metto a urlare», esclamò lei facendo forza contro il suo petto con i palmi delle mani. 

«Urla pure, con questa musica non ti sentirà nessuno…» Ed Emma sentì una mano di Charles carezzarle una gamba, per poi risalire pericolosamente verso l’alto. 

 

[L’ARIA GELIDA E LA FINE DELLA FESTA]

 

In quel preciso momento, accaddero tre cose: Emma si avvicinò, pronta a mordergli un orecchio con tutta la forza che aveva in corpo, in un disperato tentativo di liberarsi; si immobilizzò a mezz’aria quando una forte corrente di aria gelida percorse i loro corpi, e anche Charles si fermò e la sua mano lasciò andare la gamba di Emma, che non aveva mai sentito così freddo in vita sua, sembrava proprio di trovarsi in cima alla torre più alta di Hogwarts nel bel mezzo di una tormenta di neve; infine, nel corridoio scoppiò un putiferio. Voci alte e urla si diffusero per tutta la segreta, rimbombando lungo le pareti di pietra. Emma fece un passo avanti per vedere cosa stesse succedendo, ma Charles la trattenne. «Ferma, potrebbero averci scoperti», le soffiò in un orecchio. Lei si allontanò da lui con uno strattone, ma rimase dov’era. Tutto ciò di cui proprio non aveva bisogno, in quel momento, era venire scoperta ad una festa illegale, con tanto di alcolici. 

Intravide James correre dentro la segreta, e il suo cuore perse un battito. Lamb e Pansy lo seguivano da vicino. Allora li avevano davvero scoperti. Tyler aveva detto che nessuno aveva mai sospettato di Flitt, e tanto meno lo aveva scoperto, e le sue feste erano sempre state al sicuro. Qualcosa doveva essere cambiato, allora, ma cosa? 

Ci fu un fuggi fuggi generale ed Emma notò Flitt e i suoi compari correre via. Gli organizzatori della festa se l’erano data a gambe, allora. Ottimo

«Mi sa che ci toccherà rimanere qui nascosti per un bel po’…» disse Charles sedendosi. Emma lo guardò male. Lui le fece cenno di sederglisi accanto, ma lei gli diede le spalle, continuando ad osservare la folla che scappava e urlava, nascosta nella penombra della nicchia. Sperava che il caos si placasse presto, in modo da potersene andare a letto. Intanto, si chiese cos’avesse originato l’aria gelida che aveva sentito poco prima e la imputò all’imminente arrivo di James e degli altri, che dovevano aver aperto la porta nascosta e aver quindi provocato una corrente d’aria. Il solito pensiero l’assalì, ma cercò di cacciarlo via. Non era il momento di indulgere con la mente su tali scenari, visto e considerato che erano passati tre giorni senza che nient’altro succedesse, lì a Heydon Hall. Tre giorni non sono poi così tanti, le sussurrò una voce nella sua testa, voce che però cercò di mettere a tacere.

«Bene bene, cos’abbiamo qui?»

 

[BECCATI]

 

Emma si riscosse e si ritrovò di fronte Lamb, la bacchetta sollevata a illuminare la nicchia dove lei e Charles erano nascosti. Li aveva scoperti. Per Salazar, era davvero nei guai. Lamb li trascinò fuori afferrandoli per le spalle, mentre Charles protestava e minacciava di chiamare il padre se solo avessero osato torcergli un capello. Lamb lo ignorò e li scortò entrambi all’interno della segreta, dove un capannello di sfortunati studenti che non erano riusciti a scappare attendeva al centro della stanza, tenuti sotto tiro da Pansy. 

«Guarda un po’ cos’ho trovato, Pansy», trillò Lamb, soddisfatto come un bambino a Natale. 

In quel momento, James entrò nella segreta subito dietro di loro. Emma lo vide affiancarli, e guardarli ad occhi sbarrati. «Cosa succede?» chiese. 

«Li ho scoperti qui fuori, erano appartati in una nicchia a fare porcherie», spiegò Lamb. Emma aprì la bocca per protestare ma l’uomo la guardò male, zittendola. «Chissà cosa dirà papino, eh, Nott?»

Emma guardava solo James, solo e soltanto lui, ma James distolse lo sguardo, ed Emma non capì se era più ferito, amareggiato o deluso. Molto probabilmente tutte e tre le cose messe insieme e lei si sentì uno schifo. Ma si sarebbe spiegata, avrebbe fatto valere le sue ragioni. Era sicura che il giorno dopo l’avrebbero portata dal preside, e Corner le sembrava un uomo ragionevole, cosicché avrebbe sicuramente prestato ascolto alle sue rimostranze. Certo, non poteva negare di aver partecipato alla festa, ma gli avrebbe detto che Charles aveva cercato di trattenerla contro il suo volere e sperava che questo avrebbe chiarito la sua posizione, almeno agli occhi di James. Non voleva che pensasse che stava pomiciando proprio con Charles, o che stesse facendo chissà che altro.

«Ho raccolto i nomi, domani li scorteremo dal preside Corner», disse Pansy prendendo in mano la situazione. Lanciò un’occhiata a James e poi a Emma, che intanto cercava di incontrare lo sguardo di Potter, ma lui non la guardava deliberatamente, e non potè fare a meno di notare le sue spalle tremanti sotto la stoffa leggera della camicia. Sembrava arrabbiato ed Emma avrebbe tanto voluto che non andasse a dormire con quel pensiero in testa, di lei e Charles Baker, ma non sapeva come fargli capire che non era successo niente, proprio niente, e mai niente sarebbe successo. Poi pensò che forse James non era arrabbiato perché era geloso, quello era stato un pensiero fin troppo vanesio, da parte sua, ma forse era semplicemente deluso dopo averla trovata lì, nel bel mezzo di una festa illegale, proprio quando sembravano aver trovato una buona intesa. 

«Andiamocene a dormire, allora», disse James. «Qui non c’è più nulla da fare.»

«Forza, marmocchi, si torna di sopra», li incitò Lamb. «Li accompagno io, i ragazzi, James?»

Quest’ultimo annuì, passandosi una mano dietro la nuca, come faceva sempre quand’era confuso e stanco e spiazzato. Ormai Emma lo conosceva bene.

 

[SI TORNA A LETTO]

 

Uscirono ordinatamente dalla stanza, senza proteste. Nessuno degli studenti beccati sembrava aver voglia di lamentarsi, anzi, tenevano tutti la testa bassa, come tanti cani bastonati. James apriva il corteo davanti a tutti, poi venivano le ragazze con Pansy, e Lamb chiudeva la fila con i ragazzi. Emma intravide Sophia e la sua ragazza, ma loro evitarono di guardarla. Charles, al fondo, sembrava aver perso la voglia di protestare e lagnarsi, e se ne restava in silenzio, almeno per una volta nella sua vita. 

Emma si allontanò cautamente senza che Pansy se ne accorgesse e raggiunse James, affiancandoglisi. Voleva spiegargli cos’era appena successo e soprattutto cosa non era successo.

«Dovresti restare con le tue compagne», disse solo lui senza neanche guardarla.

«Volevo parlare con te», si difese lei. «Non è successo niente con—»

«Non mi interessa cos’è successo e cosa no, Emma, ti ho detto di tornare dalle tue compagne», la interruppe lui. «Non ti conviene aggravare ancora di più la tua posizione.»

«Ti voglio spiegare, sembravi arrabbiato, e…»

«Sono arrabbiato, ma non per i motivi che credi tu. Con chi ti sbaciucchi non è affar mio.»

Emma non perse tempo a sentirsi ferita per ciò che lui le aveva appena detto, perché un urlo agghiacciante la travolse. Proveniva dal fondo del gruppo e lei si fece subito spazio a spintoni per vedere cosa stesse succedendo. 

 

[L’INCIDENTE DI CHARLES]

 

La scena che le si aprì di fronte era scioccante: Charles fluttuava a mezz’aria, le mani che annaspavano di qua e di là, mentre cercava in tutti i modi di togliersi dalla gola un altro paio di mani, lunghe e magre e bianche, due mani che si protendevano da un corpo di donna avvolto in una veste bianca, i lunghi capelli neri a cingerle il viso parzialmente nascosto, ma che Emma avrebbe riconosciuto tra altri mille. La dama di Heydon Hall stava cercando di strangolare Charles. Stringeva con tutte le sue forze e Charles agitava i piedi in aria, senza possibilità alcuna di liberarsi. Emma rimase ferma immobile per un attimo, paralizzata dall’orrore più nero. Allora era vero, era tutto vero: le voci, i racconti del terrore di Archie, le apparizioni nello specchio e alla finestra, quelle lettere maledette… Era tutto vero

James la raggiunse e l’affiancò e lo sentì trattenere un respiro. Forse fu grazie a lui se Emma ritrovò la parola. «NO, BASTA, LASCIALO ANDARE!» 

Come se la dama di Heydon Hall l’avesse sentita e ascoltata, si girò a guardarla, e fu uno sguardo infinitamente triste quello che le rivolse prima di mollare la presa su Charles e svanire. Il ragazzo ricadde a terra, le mani alla gola arrossata, cercando di riprendere fiato. Sembrava stare davvero male. Alcuni compagni lo accerchiarono per aiutarlo, ma Pansy e Lamb si fecero largo per intervenire per primi. 

Gli altri si voltarono verso Emma, guardandola ad occhi sbarrati, sorpresi e scioccati da ciò che era appena successo. Sentì addosso anche lo sguardo di James, ma fu il suo turno di non guardarlo, adesso. Che cos’era appena successo, quindi? Aveva davvero chiesto al fantasma di lasciar andare Charles? E il fantasma le aveva davvero appena obbedito?


 


 

Note.

1. Evelyn Moore: personaggio di mia invenzione
2. Dotty, Sophia: Dorothy Brown e Sophia Park, personaggi di mia invenzione

 

Bentornati qui con una nuova settimana e un nuovo capitolo di questa storia. Vi avevo promesso una festa, e una festa vi ho dato, e anche piuttosto movimentata: nel finale, il fantasma di Heydon Hall cerca di fare del male (addirittura di uccidere?) Charles - e non che non si sia meritato un po’ di violenza, visto il suo comportamento con Emma, ma insomma, questa volta la nostra “dama” si spinge davvero oltre. Nel prossimo capitolo affronteremo le conseguenze della festa, e ovviamente le riflessioni dei nostri ragazzi 👀

 

Concludo ringraziandovi come sempre per l’affetto che state dimostrando a questa storia ♥︎

 

A lunedì prossimo, Marti 🐍

 

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Capitolo 8
*** CAPITOLO SETTE ***


THE HAUNTING OF HEYDON HALL

 

CAPITOLO SETTE

 

 

“Di giorno sapevo riconoscere 
in questi dubbi gli sciocchi balbettii 
trascendentali che erano, 
ma di notte mi era molto più difficile. 
Di notte i pensieri 
hanno la spiacevole abitudine 
di sfilarsi il collare e correre liberi.”
S. King, Mucchio d’Ossa

 

 

Heydon Hall, Norfolk, 16 settembre 2023

Misurava la stanza a grandi passi, James. Si era svegliato presto, assillato dai pensieri, tormentato da sogni vividi ma torbidi in cui correva lungo un corridoio buio senza fine, e correva e correva, senza mai vedere la luce, correva e correva, senza posa e senza fiato, per poi ridestarsi madido di sudore, nel suo letto a Heydon Hall. Quello che era successo la sera prima non lo lasciava in pace, gli affollava la mente di immagini distorte, lo portava a dubitare dei suoi stessi occhi, di ciò che aveva visto e che allo stesso tempo auspicava di non aver visto, e pensava che forse avrebbe preferito non vedere affatto, qualsiasi cosa si fosse trattato, se un’allucinazione, una suggestione o la pura e semplice realtà, che si era trasformata in pericolosa irrealtà. 
 

[COS’È REALMENTE ACCADUTO?]
 

Lui ed Emma sembravano gli unici ad aver visto il fantasma di Heydon Hall e ora, a dirlo ad alta voce nella sua testa riecheggiante pensieri e idee come una sala vuota che amplifica il suono e lo rigetta fuori, sentiva di aver fatto un po’ pace con la sua irrazionalità, con quella parte della sua anima che si rifiutava di accettare ciò che non rientrava nello spettro della materialità, della sua parte razionale, appunto, di ciò che si poteva toccare con mano e che sfuggiva ad ogni regola. Ora sentiva di aver messo i pezzi al loro posto, nonostante la paura che gli attanagliava le viscere e che cercava di ricacciare giù, nei profondi abissi del suo animo, laddove non sarebbe stata in grado di nuocergli. Era una strenua battaglia, quella, fatta di attimi di estrema lucidità alternati a momenti di buio sconforto, questi ultimi costellati di incubi terrificanti e spaventose visioni, quando anche la carne gli faceva male, sentiva i muscoli tirare e i legamenti squagliarsi sulle ossa, e le ossa vibrare e fremere, insieme ai denti, tremanti nelle loro culle come infanti terrorizzati, e le mani strette intorno alle braccia a graffiare via la pelle che bruciava, e gli occhi serrati su mondi di tenebra e sangue, di quell’inferno che gli si spalancava davanti dopo un purgatorio eterno fatto di giorni e notti tutti uguali, di passi in corridoi riecheggianti un’eco di morte, di specchi coperti da drappi e cuscini mai sprimacciati e lettere che puzzavano di fiori appassiti, come un vecchio cimitero dalle tombe scoperchiate su neri abissi formicolanti di vermi e mostri. E, quando l’incubo finiva, rimaneva solo James, con se stesso e il suo sudore e l’ottenebrante convinzione che era tutto vero, che  aveva davvero visto quello spirito, devastato e crudele, stringere le sue lunghe mani bianche intorno al collo di Charles Baker, che era realmente accaduto e lui era lì, lì davanti, a guardare, senza riuscire a dire o fare nulla per fermarlo. 

 

🥀

 

«Sicuro di non volere un altro po’ di caffè, James?»
 

[DOVERI]
 

Lui scosse la testa e ringraziò comunque Pansy. Era seduto al tavolo della cucina del personale e lui, Pansy e Lamb avevano appena bevuto una tazza di caffè ciascuno, per poi avviarsi in infermeria dove avrebbero ricevuto i genitori di Charles Baker. La sera prima era stata chiamata la stessa Guaritrice che aveva prestato soccorso a Isabelle, e Charles aveva trascorso la notte in infermeria, preda dei deliri e della febbre. James era andato a letto con l’immagine della sua faccia insolitamente violacea, gli occhi fuori dalle orbite, i capelli scuri scomposti, ed era riuscito a scacciarla solo verso l’alba, quando le prime luci del nuovo giorno gli avevano permesso di dormire un pochino, ma che comunque non era bastato a fargli passare le occhiaie violacee che gli erano apparse sotto gli occhi. 
 

[EMMA]
 

Ora, mentre insieme a Lamb e Pansy si avviava in infermeria, non potè fare a meno di pensare ad Emma, a come dovesse stare e come dovesse sentirsi dopo tutto ciò che era successo. Aveva gridato, e il suo grido aveva fermato il fantasma, questo era indubbio. Per tutti gli altri, Baker fluttuava ad un metro da terra, preda di indubbie difficoltà respiratorie, e proprio il richiamo di Emma aveva messo fine a quello strano fenomeno. Già immaginava le voci e i sussurri. Quando Charles era caduto a terra, tutti i presenti si erano rivolti ad Emma, l’avevano guardata e osservata come si guarda e si osserva uno strano fenomeno, o una qualche manifestazione di magia oscura e sconosciuta, e proprio per questo temuta e rifuggita, o semplicemente una persona talmente strana da risultare ostile. Nella concitazione del momento, James non era più riuscito a guardarla negli occhi, che lei aveva tenuto ostinatamente puntati a terra, e avrebbe dato qualsiasi cosa per indovinarne i pensieri, come si ritrovava a fare molto spesso, da che la conosceva. Averla sorpresa a prendere parte alla festa illegale di Drake Flitt gli aveva impedito di cercarne lo sguardo con più impegno e volontà, e l’aveva guardata andare a dormire con le spalle leggermente curve e l’aria mesta. Si era impedito di cercare delle risposte che, in quel momento, gli sarebbero servite almeno per togliersi dalla testa quel tarlo fastidioso, l’immagine di Emma e Baker appartati in corridoio, al buio, e le loro facce quando Lamb li aveva sorpresi, e le altre mille immagini alle quali lui stesso aveva dato origine e che avevano alimentato il suo stato d’animo inquieto come una miccia in un pagliaio. Era andato a dormire pensando ad Emma che baciava Charles e a Charles che la stringeva come lui avrebbe desiderato stringerla, da giorni, e si sentiva uno stupido e un babbeo, a ripensarci ora, alla luce del sole, ma sentiva dentro le lame della gelosia tagliargli le viscere, lentamente e con ferocia, e quelle stesse lame avevano ferito Emma senza vergogna, la sera prima, quando le aveva detto che non gli importava, quando in realtà gli importava eccome. Non voleva darle l’idea di sentirsi ferito, e che ciò che era successo lo aveva tramortito peggio di dieci Schiantesimi in pieno petto, e che pensare a lei e Charles gli intontiva la testa e lo faceva barcollare; non voleva scoprirsi, ché quando si trattava di aprire il cuore a qualcuno, temeva quasi che quel cuore gli sarebbe stato spolpato, raschiato via come un cucchiaio sul fondo di una ciotola quando si cercano le ultime briciole, e di quelle briciole ci si ciba, come un parassita dei sentimenti; non voleva attaccarsi a lei, e provare qualcosa, qualsiasi cosa, per timore che quel qualcosa gli sarebbe stato portato via, e che alla fine si sarebbe ritrovato privo e vuoto, pesato sulla bilancia e ritenuto mancante. E allora si ammantava di silenzio e risentimento, che era sobbollito in lui durante la notte e che lo aveva tenuto sveglio insieme al pensiero del fantasma, che lo aveva consumato e consumato, ancora e ancora, mentre immagini così vivide da far male gli abbagliavano gli occhi. Dentro di sé, sapeva di non essersi mai sentito così, prima, di non aver mai covato nel profondo quel fuoco che ora lo accendeva, di non aver mai sentito quelle lame scavarlo e tagliarlo e marchiarlo, di non aver mai sentito quei richiami, per nessuno. E, proprio per questo, era arrabbiato. Era arrabbiato perché, mentre lui provava tutto questo, Emma forse lo provava per qualcun altro, e giocava con lui, giocava con Charles, giocava con tutti, e rideva pensando a quanto fosse stupido. Allo stesso tempo, però, pensava a lei e a come stesse, a cosa pensasse, se avesse non dormito proprio come non aveva dormito lui. Era arrabbiato ma non poteva fare a meno di volerla accanto, e questa cosa lo dilaniava. 
 

[LA PARTENZA DI CHARLES]

 

I genitori di Charles Baker attendevano in infermeria. James cercò di estraniarsi dai suoi problemi per focalizzarsi sul momento e su ciò che andava fatto. Il padre era un omone alto e grigio di capelli, distinto e vestito di scuro; la madre era l’immagine del figlio, i capelli neri, la carnagione diafana e gli occhi di diamante, sembrava occupare un posto nel mondo quasi per caso o per sbaglio, come se fosse strano per lei trovarsi lì, viva, in quel momento. Era seduta sul bordo del letto e stringeva la mano del figlio tra le sue, silenziosa nella sua preoccupazione. A James ricordò moltissimo Astoria Malfoy, quando era ancora viva e accompagnava Scorpius a King’s Cross, elegante e composta, lo sguardo lontano di chi si considera di passaggio. 
 

[SPECULAZIONI E PREGIUDIZI]

 

James lasciò Pansy nel ruolo di ambasciatore, affiancata dal preside Corner, che si trovava già nella stanza, vestito elegante e senza la consueta vestaglia blu, il cipiglio serio e le braccia incrociate sul petto. Subito dopo arrivarono tre Medimaghi del San Mungo, che avrebbero preparato e predisposto il trasferimento di Charles presso la struttura ospedaliera, come consigliato dalla Guaritrice e come deciso dai signori Baker. Charles venne così spostato su una barella, lamentandosi sommessamente, e la barella venne poi fatta Levitare fuori dall’infermeria da uno dei Medimaghi. I signori Baker, insieme al preside Corner, seguirono Charles fuori. Pansy si avvicinò e sospirò. 

«Che brutta storia», commentò solo, le mani puntellate sui fianchi. 

«Chissà se al San Mungo riusciranno a capire cosa gli è successo», aggiunse Lamb grattandosi il mento. 

«Non ne hanno idea?» chiese James, fingendosi interessato.

Pansy scosse la testa. «Alcuna. Lo abbiamo visto tutti, cos’è successo, ma io stessa stento a crederci.»

«Certo che è stato proprio strano, eh. Quello che ha fatto la Nott», specificò Lamb.

James si tese come una corda di violino. 

«Cosa vorresti dire?» abbaiò Pansy rivolta al collega.

«Vorrei dire che è stato strano, che qualsiasi cosa stesse facendo del male a Baker, si sia fermata proprio quando la Nott le ha urlato di finirla lì.» Si strinse nelle spalle e James avrebbe tanto voluto cancellargli quell’espressione soddisfatta dalla faccia.

«So a cosa stai pensando, Lambert, e la mia risposta è no. Non può essere stata lei, non ha mai fatto del male a nessuno, prima.»

Eccoci, pensò James. Ci stiamo avvicinando alla verità, allora

«Non ho insinuato proprio nulla, io», si difese l’altro. «Però devi ammettere che potrebbe essere andata proprio così, Pansy, e forse, dico forse, Emma Nott potrebbe aver trovato il modo di controllarla e utilizzarla per i suoi scopi.»

«Ha sedici anni», intervenne James cercando di mantenere la calma e la lucidità necessarie a non spaccare la faccia a Lamb. «Come potrebbe aver evocato un fantasma, per controllarlo e addirittura aizzarlo contro un’altra persona? Si tratta di magia veramente avanzata.»

«È una Nott, devo ricordarvi cosa significa?»

James vide la mascella di Pansy contrarsi pericolosa. «Ancora con questa storia? Siamo davvero ancora qui a parlarne?»

Lamb si chiuse a riccio, James lo notò non appena lo sguardo di Pansy gli si posò addosso. E capì a cosa entrambi si stessero riferendo: Lamb si permetteva di insinuare cose su Emma solo per il cognome che portava e Pansy cercava di difenderne la dignità. Per James, il mondo non si divideva in buoni e cattivi, come se fosse così semplice tracciare una riga e scindere la bontà dalla cattiveria, no, il mondo era fatto di grigi, di tante tonalità diverse, e se a volte il male si annidava nel bene, tenace come un tarlo, altre volte il bene trovava la via attraverso le spire del buio. Non era così facile inquadrare una persona solo per il suo cognome, non facile come tanti avrebbero voluto far credere. James era stufo di tutti quei discorsi vecchio stile, radicati ad un’epoca ormai finita e passata, ad un periodo delle loro vite sepolto nel tempo. La diffidenza e la paura erano state lasciate indietro, volutamente dimenticate in una stanza vuota chiusa a chiave, e non c’era più spazio per i pregiudizi e le caste. 

«Penso che siano discorsi sterili, ora come ora», intervenne quindi guardando entrambi i colleghi, che si fronteggiavano e si osservavano ad occhi stretti. «Emma non sarebbe stata in grado di evocare il vostro fantasma, punto. Smettiamola di tirarla in mezzo. Quello che è successo stanotte è stato un incidente spiacevole che sono sicuro al San Mungo saranno in grado di spiegare.»

Pansy si girò a guardarlo, studiandolo. «Sei un vero pacificatore, Potter. Proprio come tuo padre.»

James deglutì. Gli faceva piacere essere accostato a suo padre, ma allo stesso tempo avrebbe voluto scrollarselo di dosso, e con esso la pesante eredità che rappresentava: lui non era Harry Potter, il salvatore del mondo magico, il bambino che è sopravvissuto, lui era solo James Sirius, un ragazzo di diciotto anni che cercava di ritagliarsi un posto nel mondo. 

«Dobbiamo andare a prendere i ragazzi e portarli da Corner per la punizione, dico bene?» Gli altri due annuirono in risposta. «Bene. Andiamo, allora.»

Si divisero in silenzio e senza aggiungere parola. 

 

🥀

 

Raccogliere i ragazzi portò via più tempo del previsto e James e Lamb, seguiti dagli studenti che sarebbero andati dal preside, raggiunsero Pansy e le ragazze davanti all’ufficio di Corner. Il gruppo femminile era formato solo da Emma e altre due sue compagne e James sentì lo sguardo della ragazza addosso, ma non girò il suo. In quel momento non sarebbe riuscito a gestirlo, non sarebbe stato in grado di reggere quelli occhi accesi addosso, doveva cercare di mantenersi professionale e focalizzato su ciò che era necessario. 


[DAL PRESIDE CORNER]
 

Senza dire niente, Pansy bussò e tutti attesero finché un «avanti» alto e chiaro non accordò loro il permesso di entrare. Michael Corner era in piedi davanti alla finestra che affacciava sul parco e dava loro le spalle. Si voltò quando tutti furono entrati e sistemati di fronte alla scrivania. Li guardò con occhi severi, serissimi, e sembrava arrabbiato, come James non lo aveva ancora visto dacché era arrivato a Heydon Hall. 

«Non vi chiederò di accomodarvi, visto che non si tratta di una visita di piacere», iniziò prendendo posto. Incrociò le mani sul ripiano di mogano e soppesò i ragazzi in silenzio. James si sentiva quasi uno di loro. «Ciò che è successo stanotte mi ha profondamente deluso. Non mi sarei mai immaginato che cose del genere accadessero sotto il mio tetto, qui, nella scuola che ho promesso di mandare avanti, con l’obiettivo di raddrizzarvi e rimettervi sulla retta via.»

«Sento veramente di aver fallito la mia missione, oggi, oltre che sentirmi profondamente amareggiato e abbattuto. Pensavo che il clima che si era venuto a creare tra queste mura fosse sufficiente a farvi sentire al sicuro, e a vostro agio, nonostante il vostro passato e i vostri trascorsi. Qui per me siete tutti uguali, e sapete come la penso: ciò che avete fatto non vi definisce.» Corner fece una pausa e si stropicciò gli occhi stanchi con due dita. «Oggi, ne sono un po’ meno convinto. Oggi, ciò in cui ho sempre creduto, e ciò che ho sempre cercato di insegnarvi e farvi capire, è un po’ meno vivo dentro di me rispetto a ieri, e questa cosa mi rende davvero triste. Non avrei mai pensato di arrivare a ricredermi, un giorno di questi.»

James cercò Emma con lo sguardo, azzardò un’occhiata, e la vide ferma in piedi, tra Pansy e una delle sue compagne, serissima, lo sguardo puntato sul preside. Corner aveva ragione: non erano definiti da ciò che avevano fatto, e da ciò che erano stati in passato, ma a volte il vecchio seminato torna a inficiare il nuovo, e vecchie abitudini che si credono sepolte tornano a tentarti. 

«Ho predisposto delle punizioni per voi, che occuperanno il vostro fine settimana», continuò il preside sospirando. Abbassò gli occhi su un foglio di pergamena e lesse rapidamente. «I ragazzi verranno impiegati da Madama Pince nel lavaggio dei pavimenti del primo piano», e James sentì come un’onda di sconforto propagarsi tra i ragazzi accanto a lui, ma ovviamente nessuno osò fiatare. 

James sapeva com’era andata, aveva sentito Emma, Archie e  Tyler parlarne, durante la colazione. I tre amici si erano zittiti quando lo avevano visto accostarsi al loro tavolo, ma non abbastanza in fretta. James sapeva che dietro a tutto c’era Drake Flitt e aveva davvero sperato di beccarlo in flagrante, ma probabilmente era riuscito a scappare, e nessuno aveva fatto il suo nome, nemmeno Emma, che anzi si era trincerata dietro uno strano silenzio. 

«Alle tre signorine coinvolte spetteranno tre compiti diversi», proseguì l’uomo. «La signorina Park aiuterà in cucina durante la preparazione dei pasti di stasera e domani; la signorina Bernard1 si occuperà di sistemare, rassettare e pulire il dormitorio femminile, da cima a fondo; infine, la signorina Nott penserà a sistemare e catalogare in ordine alfabetico i volumi della biblioteca di Heydon Hall. Ovviamente, il tutto senza l’ausilio della magia, ma del solo e dignitoso olio di gomito. Spero che ognuno di voi possa fare esperienza da queste punizioni e pensarci quindi due volte prima di infrangere nuovamente le regole di questa scuola. I vostri genitori ne saranno informati via gufo. Questo è tutto, potete andare.»

In quel momento, James notò la mano di Emma alzarsi. Corner la notò e la guardò incuriosito. «Signorina Nott?»

«Vorrei sapere come sta Charles, signore», spiegò lei. «Abbiamo saputo che è stato portato al San Mungo…»

Nell’ufficio calò il silenzio. Ora, tutti guardavano Emma col fiato sospeso. James sentì nuovamente le lame infierire sulle sue budella e si chiese cosa le fosse passato per la testa a chiedere di Charles, proprio lei, quando tutti l’avevano guardata in quel modo strano la sera prima. 

Corner però la soppesò in silenzio, annuendo. «Il signor Baker è stato portato al San Mungo per accertamenti, sì, e dietro decisione dei signori Baker. Le sue condizioni sono stabili, ma non posso esprimermi riguardo la prognosi, si tratta di informazioni riservate, spero che capiate. Se non ci sono altre domande, vi invito a seguire la signora Parkinson per l’inizio delle vostre punizioni», concluse.

 

🥀

 

Heydon Hall, Norfolk, 17 settembre 2023

Emma alzò lo sguardo al grosso orologio appeso esattamente al centro della grande parete alle sue spalle, tra due finestrone che lasciavano entrare la luce del sole di metà settembre.
 

[LA PUNIZIONE DI EMMA]


Sbuffò. Era chiusa in quella vecchia biblioteca dal giorno prima, le avevano concesso solo di assentarsi per i pasti principali, era ricoperta di polvere e ragnatele, le facevano male gli occhi a forza di stringerli per leggere i titoli incisi sugli antichi tomi e non ne poteva davvero più di quella punizione. Certo, pensava di essersela cavata, rispetto alle punizioni di Sophia e Jo, le sue compagne, la prima bloccata in cucina in compagnia di quella pipistrella della Pince, la seconda affaccendata a pulire da cima a fondo il dormitorio, magari con Pansy che le stava col fiato sul collo per controllare che non battesse la fiacca. Tutto sommato, sistemare e catalogare i libri della biblioteca non era poi così male: per lo meno era da sola, Lamb era passato a controllarla solo un paio di volte e sempre di sfuggita, come se avesse di meglio da fare, e poteva starsene lì a pensare per conto suo senza interferenze. 
 

[TEORIE]

 

Ovviamente, pensare la portava inevitabilmente su chine pericolose, la faceva scivolare verso scenari di orrore e una meraviglia che sapeva di orrido. Durante la notte immediatamente successiva all’incidente di Charles aveva dormito malissimo. Si trattava del secondo incidente ai danni di uno studente, da che era iniziata la scuola, ed Emma si era chiesta con insistenza se si trattasse davvero di un buffo caso, ma le coincidenze non puzzavano di torbido, quindi si era detta che un filo rosso doveva legare a stretto giro ciò che era successo a Isabelle e poi a Charles, e che quindi il fantasma di Heydon Hall avrebbe potuto essere responsabile non solo del quasi strangolamento di Baker, ma anche della devastazione del bagno delle ragazze nel quale Izzy era rimasta coinvolta, visto e considerato che la ragazza aveva parlato di una “donna”, e con insistenza, come se ci fosse stato qualcuno, insieme a lei - forse il fantasma della signora di Heydon Hall?, lo spirito arrabbiato di colei che aveva abitato quelle stanze e che lì aveva trovato la morte e che ora sembrava volersi vendicare in modi violenti? Se sì, che cosa le era successo? Quella domanda turbinava nella mente di Emma come un vortice che non le dava tregua, e la lettura delle lettere trovate nella specchiera non l’aiutava a disfarsi di quel sospetto. Il fatto è che quelle vecchie missive l’attiravano come un magnete, non riusciva a staccarsene, e tirarle fuori da sotto il materasso e leggerle era la prima cosa che faceva quando sorgeva il sole e le prime luci le permettevano di distinguerne le parole sulla pergamena sgualcita e ingiallita dal tempo. Annotava le sue riflessioni sul suo diario, che nei primi giorni a Heydon Hall aveva quasi dimenticato, chiuso nel suo baule in mezzo ai vestiti Babbani che non le sarebbero più serviti per un po’, e lo aveva tirato fuori proprio quella mattina, quando aveva rinunciato all’idea di dormire e aveva deciso di buttare giù le sue inquietudini, sperando quindi di fare chiarezza - almeno con se stessa. L’immagine del viso di Charles Baker, violaceo nello sforzo di respirare, il collo cinto strettamente da quelle mani bianche e lunghe, da pianista, le era rimasta impressa dietro le palpebre e non era riuscita a scacciarla per tutta la notte. 
 

[IL PENSIERO VERTE SU JAMES]

 

In più, era andata a letto col pensiero di James, e di saperlo deluso dopo averla scoperta alla festa clandestina di Flitt. Era sicura che lui li avesse sentiti parlare, lei, Archie e Tyler, quel venerdì mattina, e che quella stessa sera avesse atteso con pazienza di agire, insieme a Pansy e a Lamb. Era probabile che fosse sceso nelle segrete già sapendo di trovarla lì, e questa cosa non le dava pace. A questo si sommava lo scrupolo all’idea che James la pensasse in qualche modo “intima” di Baker, non tanto per l’atto in sé (in fondo, era libera di pomiciare con chi diavolo voleva, lei), ma quanto per il fatto che Baker era un coglione, e lei non voleva essere associata ai coglioni. Non riusciva bene a capire perché il giudizio di Potter le importasse così tanto, perché immaginare di aver perso punti ai suoi occhi la facesse ammattire, da quando in qua si prendeva il disturbo di voler apparire bene davanti a uno come James Sirius Potter? Non era nemmeno il suo tipo, in fondo. Eppure, le sussurrava una voce. Eppure ti piace. Per Salazar, le piaceva davvero Potter? Raccogliendo mentalmente tutto ciò che era successo, tutti gli episodi e tutte le sensazioni, sì, doveva ammettere, almeno con se stessa, che Potter le piaceva, e le piaceva anche tanto. Forse troppo. Abbastanza da mandarla in paranoia, e trasformare quella paranoia in inquietudine, e l’inquietudine in agitazione, per sfociare infine in tensione, affanno e cruccio. Quel cruccio la portò a buttare un occhio all’orologio, in piedi sulla scala poggiata ad uno degli scaffali in legno scuro e massiccio antichi di secoli, proprio tra la lettera R e la lettera S. Erano le quattro e non ne poteva più. Così scese dalla scala in tutta fretta e poggiò il libro che aveva in mano (“L’oniromanzia e la giusta interpretazione dei sogni”2 di Selina Sapworthy3) scaraventandolo letteralmente su uno dei tavoloni ancora pieni di volumi da riordinare. 
 

[ALLA RICERCA DI POTTER]
 

Era fermamente intenzionata a cercare Potter. Voleva parlargli e spiegargli cos’era successo, anzi, cosa non era successo, con Charles, voleva chiarire la sua posizione, e soprattutto voleva parlargli di ciò che aveva visto, aveva bisogno di dirlo a qualcuno e non avrebbe potuto essere che lui, ché ormai erano accumunati da questo destino comune nella ricerca della verità sulla dama di Heydon Hall. Non lo vedeva dalla sera prima, quando lui aveva servito la cena al capo opposto del refettorio rispetto al suo tavolo, non gli parlava dalla sera della festa, e quella domenica a colazione non lo aveva visto. A pranzo aveva mangiato in biblioteca, Archie era stato spedito da Pansy a portarle qualcosa ed erano riusciti a scambiare due parole (il suo amico sembrava essersi ripreso bene dalla sbronza). Ma ora basta, anche se non aveva ancora finito il suo compito avrebbe trovato James e avrebbero parlato. Aveva quasi sperato che lui la passasse a trovare, ma non si era fatto vivo e la cosa la mandava in bestia, oltre che in paranoia. Così uscì dalla biblioteca a grandi passi, diretta al corridoio del personale. Non incontrò nessuno, per fortuna, e immaginò che si trovassero tutti in aula studio per fare i compiti per l’indomani. Emma era riuscita a terminare di ricopiare il tema di incantesimi la sera prima, dopo cena, appena rientrata in dormitorio, sotto lo sguardo curioso di metà delle sue compagne. Nessuna aveva osato chiederle come fosse andata la punizione tranne Sophia e Jo, che si erano avvicinate e si erano sedute sul suo letto e tutte e tre avevano così sfogato la loro frustrazione. Dotty si era limitata a dirsi dispiaciuta per la loro sorte, e aveva aggiunto che anche Drake ci era rimasto male, ma Emma dubitava che fosse sincera, per lo meno in merito al suo ragazzo: Drake non sembrava tipo da dispiacersi per qualcuno, tantomeno per i suoi compagni, che considerava più come dei subalterni. 

Raggiunse così la stanza di James e, dopo aver fatto un respiro profondo, bussò e attese. Dall’interno non giunse neanche mezzo rumore e così cercò di abbassare la maniglia, ma ovviamente la porta era chiusa a chiave. Avrebbe dovuto immaginarlo. Si passò una mano tra i capelli e sbuffò. Poi le venne in mente la saletta che aveva scoperto giorni e giorni prima, quando la mattina successiva l’incidente di Isabelle era sgattaiolata fin lì per cercare di infilarsi in infermeria. Superò due o tre porte chiuse e trovò la stanza che stava cercando. Irruppe all’interno senza nemmeno chiedere il permesso e trovò James e Pansy seduti uno di fronte all’altra, al tavolo malconcio, con una tazza di tè davanti. Si voltarono entrambi quando la videro entrare, sorpresi. 

«Nott!» esclamò Pansy. «Si può sapere cosa ci fai qui? Dovresti essere in biblioteca.»

«Lo so», rispose lei, e poi spostò lo sguardo su James. «Avrei bisogno di parlare con Potter. È urgente.»

Nella piccola stanza calò il silenzio. James sosteneva il suo sguardo, imperturbabile, mentre Pansy passava il suo da uno all’altra, quasi come se stesse assistendo ad una partita di tennis. 

«È urgente, dici?» asserì alla fine, un sopracciglio alzato. Emma la guardò e annuì. «Be’, in questo caso possiamo fare uno strappo alla regola.» E le sorrise nel modo in cui ti sorride chi ha indovinato senza indugi i tuoi intenti più celati, anche se ti sforzi in tutti i modi per tenere sù la maschera. Pansy aveva capito perfettamente cosa le passava per la testa ed Emma si sentì avvampare, come non le accadeva quasi mai. 

James si alzò in silenzio e le fece segno di uscire. «Torno subito, Pansy», disse solo. Emma lo precedette fuori ma non si fermò, proseguendo fino alla biblioteca. Sapeva che lui la stava seguendo. Si arrestò solo quando giunse davanti ad uno dei tavoli sui quali stava lavorando e si voltò, le braccia conserte, in posizione di difesa. James teneva la mani in tasca e ora che erano soli, Emma lesse sul suo viso una strana espressione concentrata, e quasi affranta. Stava per prendere parola, ma lui la zittì alzando una mano. «Vorrei iniziare io, se non ti spiace.» Emma si limitò ad annuire, stupita dalla piega iniziale di quella conversazione che, nella sua mente, era apparsa tutto tranne che così. 


[SCUSE E CHIARIMENTI]
 

«Vorrei chiederti scusa», iniziò quindi Potter. «Venerdì, subito dopo la festa, sono stato sgarbato, e maleducato, e ho detto delle cose che non pensavo affatto. Tu dovevi essere sconvolta per quello che era appena successo, e volevi spiegarti, ma io non volevo sentire, e alcune…», esitò, «alcune cose… mi hanno impedito di pensare lucidamente, e me ne vergogno, spero che non penserai male di me per questo.»

Emma non poteva credere alle sue orecchie. Okay, non aveva affatto immaginato che quella conversazione prendesse una piega del genere. Avrebbe voluto replicare, ma capiva anche che James smaniava per proseguire, quindi si trattenne, chiedendosi però con vivo interesse, e una certa dose di eccitazione, quali fossero le fantomatiche cose che avevano mandato in confusione James Potter.

«Tra ieri e oggi sono stato scostante, ti ho evitato di proposito perché non sapevo cosa dire, o meglio, sapevo cosa dire ma non sapevo come dirlo, e per me è stranissima, questa cosa.» Quasi gli scappò un sorriso e si passò una mano dietro la nuca. «Avrei dovuto chiederti come stavi, e dirti che mi dispiaceva averti trovata alla festa di Flitt, e che avevo sentito tutto quello che tu, Archie e Tyler vi siete detti, a colazione, e ne ho approfittato, e non avrei dovuto perché siamo amici, anzi, avrei dovuto avvertirvi, avrei dovuto dirvi di non andare, e questa cosa mi fa vergognare doppiamente del mio comportamento.»

Ora calciava via sassi inesistenti, fissandosi le scarpe, ed Emma si trattenne nuovamente dal parlare. O dal correre ad abbracciarlo e dirgli che andava tutto bene, che ci era rimasta male per tutte quelle cose, ma che ormai non avevano importanza, niente aveva più importanza, le importava solo sapere che non era arrabbiato con lei, e che erano ancora amici. Solo amici?, le sussurrò quella voce, ma lei la scacciò.

«Insomma, mi dispiace davvero. E immaginandoti preoccupata per Baker, mi sono informato con Corner e mi ha detto che il trasferimento è andato bene, e stanno già facendo i dovuti accertamenti, e che ci terrà aggiornati sulle sue condizioni.» Ora alzò gli occhi su di lei, in silenzio. 

«Ti sei informato su Charles?» ripetè lei. 

Il ragazzo annuì. 

«Sei incredibile, Potter», commentò quindi scuotendo la testa. «Comunque grazie, effettivamente mi spiacerebbe saperlo morto, ma allo stesso tempo non me ne frega niente di lui, quindi puoi anche evitare di sprecare il tuo tempo dietro a quel coglione.»

James sbarrò gli occhi, sorpreso e quasi divertito. «Io pensavo…»

«Lo so cosa pensavi», lo precedette Emma stringendosi nelle spalle. «E ti spiegherò ora ciò che avrei voluto spiegarti venerdì sera. Sediamoci.»

Presero posto uno accanto all’altra su due sedie di legno scomodissime, al tavolo ingombro di libri e volumi. Emma accavallò le gambe e poggiò un gomito sul ginocchio. 

«Quando siete arrivati nelle segrete, Charles e io eravamo fuori in corridoio, dentro una nicchia, è vero, ma non stavamo facendo porcherie, come ha detto quel deficiente di Lamb», iniziò quindi. «Poco prima ero uscita per aiutare Tyler con Archie. Aveva bevuto un po’ troppo e così Tyler lo ha portato a letto. Sono andata a sedermi nella nicchia, cercavo un po’ di pace e tranquillità, avevo appena litigato con Isabelle e non mi andava di tornare alla festa ma nemmeno di andarmene, e così mi sono nascosta lì.»

«Tu e Izzy avete litigato?»

«Questa è un’altra storia, te la racconto dopo. Comunque, Charles è arrivato in quel momento a disturbare la mia pace. E ci ha provato con me. Io l’ho respinto, ovviamente», aggiunse subito dopo, appena vide il viso di James adombrarsi. Allora gli importava. Gli importava eccome. «Peccato che siate arrivati voi tre subito dopo. Così siamo rimasti lì dietro sperando di non essere beccati, ma Lamb ci ha ovviamente scoperti, e il resto lo sai.» Aveva omesso di proposito di scendere nei dettagli di come Charles ci aveva provato con lei. Era un ricordo che ancora le dannava l’anima e la turbava: Charles aveva allungato le mani più del lecito e lei non era riuscita a reagire come avrebbe dovuto, cioè assestandogli un bel calcio nelle palle. Quel gesto l’aveva come paralizzata, e Charles era più forte di quanto era sembrato in un primo momento. Non voleva però che James la guardasse come si guarda una vittima, e non voleva rischiare che se la prendesse con Charles, se e quando questo sarebbe rientrato a Heydon Hall. Certo, se lo meritava, ma non voleva che James finisse nei guai per colpa sua. 

«Ci ha di nuovo provato con te? Lo Schianterei», commentò quindi. Ecco, come volevasi dimostrare. 

«Non è necessario», si affrettò ad aggiungere Emma posandogli una mano sulla sua. «Gli ho fatto capire che non sono interessata, e spero che abbia recepito il messaggio, questa volta.»

«Mi sento ancora di più un coglione, ora.» James le strinse la mano ed Emma si sentì invadere da un calore talmente intenso che faceva fatica a stare seduta. E faceva fatica a trattenersi dal saltargli addosso per dimostrargli quanto poco fosse interessata a Charles Baker. 

«Non devi, anche se mi sarei davvero sentita meglio se tu mi avessi ascoltata subito, sai? Ho passato un giorno e mezzo pensando che mi odiassi, mi sono fatta un sacco di storie mentali e paranoie e ti immaginavo deluso e arrabbiato con me, e in più mi sentivo malissimo per tutto quanto, per essere andata a quella festa di merda che era uno schifo, per aver ceduto e averci trascinato anche Archie e Tyler, che hanno quasi rischiato di venire scoperti, per essere stata scoperta a mia volta, e non oso immaginare cos’avranno detto e pensato i miei genitori quando hanno ricevuto il gufo da Corner, mio padre avrà scosso la testa, deluso e amareggiato, cercando però di placare mia madre, anche lei delusa ma arrabbiata, della stessa rabbia che provo io con me stessa, e poi mettici la paura, la dannata paura provata quando quel cavolo di fantasma ha stretto il collo di Charles, lo ha quasi ucciso, James, capisci?, ha quasi ucciso Charles, e io l’ho visto, questa volta l’ho visto, come vedo te ora, e perché continuo a vederlo?, perché io?, perché la mia voce lo ha fermato?, la mia voce, James…» La voce le si incrinò e si spense, e un groppo di lacrime le si formò in gola, impedendole di proseguire. Aveva parlato senza nemmeno prendere fiato, eruttando fuori tutta la sua inquietudine e la sua paura. 

James era rimasto ad ascoltarla, paziente, e ora le stringeva entrambe le mani, forte, e il suo tocco era caldo e rassicurante. Emma cercò di normalizzare il respiro, ma sentiva il panico bollirle dentro. 

«Stai avendo un piccolo attacco di panico. Respira, Emma», le sussurrò James facendolesi vicino. «Albus ne ha spesso, devi cercare di respirare a fondo, ampi respiri di petto. Chiudi gli occhi e concentrati.»
 

[IL PANICO DI EMMA]
 

Emma obbedì, cercando di tenere fuori tutto quanto, tutte le immagini che nelle ultime ore le affollavano la mente e non le davano pace. La voce di James era rassicurante quanto il suo tocco e lei cercò di immaginare solo loro due, lì seduti, chiusi nella loro piccola bolla, dove niente e nessuno avrebbe potuto far loro del male. 

Riaprì gli occhi e James era ancora di fronte a lei, e le sorrideva, cercando di scacciare via la preoccupazione che però gli si annidava negli occhi. «Stai meglio?»

Emma annuì. «Sì, grazie.»

Lo vide allungare una mano e carezzarle una guancia, tenue come sempre. Aveva un modo di toccarla che era diverso da qualsiasi altro modo Emma avesse mai conosciuto e questa cosa la spiazzava, ma allo stesso tempo la faceva capitolare, ogni giorno un po’ di più. 

«L’ho visto anche io, Emma», disse quindi. «L’ho visto anche io, il fantasma.»

Emma sbatté le palpebre, incredula. «Lo hai visto anche tu?» 

«Ho visto quello che hai visto anche tu, sì. Quindi non pensare di essere sola in tutto questo, okay? Ci siamo dentro insieme.» 

«Lo abbiamo visto solo noi, però. Nessun altro sembrava averlo visto…»

«Penso di sì. Non so bene perché, sinceramente, visto che qui tutti ci credevano ben prima di noi, ma nessuno sembra averlo mai visto, in fin dei conti.»

«Quindi è vero. Ci crediamo. Lo hai appena detto.»

James annuì lentamente. «Sì. Lo abbiamo visto entrambi, non può essere stata un’allucinazione o una suggestione, è impossibile. E poi considera che qualcosa ha davvero tentato di strangolare Charles, ho visto i segni sul suo collo. Non ce lo siamo immaginato, Emma, è tutto vero.»

Emma si alzò in piedi e si avvicinò ad una delle finestre, osservando il parco, pensierosa. Dirlo ad alta voce lo rendeva ancora più vero. E terrificante. 

«Abbiamo appena gettato al vento la nostra razionalità, lo sai, vero?» gli disse quando James le si affiancò, le mani in tasca.

«Lo so. E non pensare che mi stia bene. Affatto. Ma devi ammettere che un sacco di cose acquistano un senso, ora.»

«Pensavo all’incidente di Isabelle. Quando l’abbiamo trovata parlava di una donna, ne era terrorizzata. Il fantasma della dama di Heydon Hall potrebbe aver fatto tutto quel casino.»

«Ci pensavo anche io. Quando abbiamo parlato con lei in infermeria ne sembrava ancora turbata.»

«Era turbata anche da me, però», obiettò Emma girandosi a guardarlo e cercando i suoi occhi. «Eccoci di nuovo qui, a cercare un collegamento tra me e tutta questa storia da pazzi.»

«Troveremo delle risposte, Emma», asserì James voltandosi verso di lei. «Ti aiuterò a scoprire la verità. Siamo insieme in questa cosa, d’accordo?»

Lei gli sorrise, sentendosi al sicuro per la prima volta dopo tanto tempo. Non si era nemmeno resa conto di essere spaventata da quella connessione, da quel trait d’union che pareva legarla a quello spirito terrorizzato ma arrabbiato, che non sembrava trovare requie e sfogava la sua violenta ira su chiunque le si parasse davanti. La presenza di James le infondeva la giusta dose di coraggio di cui si sentiva priva. 

«Dài, ti aiuto a finire qui», disse quindi lui spezzando la stasi di quel momento.

«E se Pansy lo scoprirà?»

«Non penso che ci verrà a disturbare, sai?»

Emma lo guardò di sottecchi, sfoggiando uno dei suoi sorrisi furbi. Parlare con lui, riportare tutto in carreggiata, l’aveva fatta sentire bene. Sentiva di essere tornata la solita, vecchia Emma. 

 

🥀

 

Li osservo parlare ma loro non mi vedono. Ormai ho imparato a manifestare la mia presenza, quando lo desidero, quando un vortice di emozioni confuse mi ottenebra la mente e tutto ciò che sento è solo il richiamo della morte, che mi spinge a esigerne altra, ancora e ancora, ma solo per proteggerla, sempre e solo per preservarne la vita, dell’unica e sola persona che, in tutti questi anni, ha saputo smuovermi: Emma

 

Il richiamo del sangue è forte, mi pulsa dentro, in questa pallida manifestazione di ciò che sono stata, in un’altra vita che ora sembra così lontana - in altri respiri che ora sono perduti. Ma è il suo respiro che mi sta a cuore, è lei che adesso è tutto. E lui con lei, quel ragazzo con gli occhiali e gli occhi d’incanto, voce gentile e mani salde, che le sorride ed è come se fosse il sole, e lei la sua luna. 

 

Percepisco un legame, un sentimento che pensavo di aver dimenticato, ciò che un tempo muoveva il mio mondo, e che ho perso per sempre, ma che per loro vive ancora, anzi è appena nato, ed è come un mite tepore, un calore che si irradia dai loro corpi giovani, un’orbita nella quale si muovono all’unisono, una bolla che li contiene entrambi e li protegge dal mondo e dai suoi pericoli. 

 

E vederla sorridere, e saperla al sicuro, è diventata ormai la mia unica ragione, l’unico senso in quest’eterna perdizione, il solo motivo che mi smuove. E continuerò a proteggerla da tutti coloro che oseranno ferirla e che cercheranno di farle del male. Continuo a guardarli sorridere.


 


 

 

Note.

1. Bernard: Josephine ‘Jo’ Bernard, personaggio di mia invenzione
2. “L’oniromanzia e la giusta interpretazione dei sogni”: titolo di mia invenzione
3. Selina Sapworthy: autrice citata nella Harry Potter Wiki

 

Bene bene, eccoci qui con un nuovo capitolo, ormai le settimane volano e non faccio in tempo a pubblicare un capitolo che è già ora di quello successivo! Allora, questo capitolo 7 è più breve del solito, chiedo venia a chi di solito mi scrive che ama i miei corposi capitoli, ma è più che altro un collegamento, un unire i punti dopo ciò che è successo alla festa di Flitt. Sia Emma, sia James sono rimasti molto turbati dall’accaduto (sia in relazione al fantasma, sia in relazione al loro rapporto, ovviamente) ed Emma ha decisamente sfogato la sua inquietudine con James, nel finale, ma l’importante è che i due si siano chiariti. Il capitolo si chiude con un bel (o almeno spero XD) pov della nostra dama, che osserva i due “piccioncini”. In merito a ciò, le vostre teorie sono sempre più interessanti, e io le sto raccogliendo tutte con piacere, sono davvero curiosa di leggere cosa ne pensate 👀 quindi mi raccomando continuate a dirmi la vostra! 

 

Nel prossimo capitolo torneranno le lettere, ci sarà un bel momento a tu-per-tu tra i nostri ragazzi, e compariranno nuovissimi guai per Emma, quindi non mancate 🔮

 

Questa storia ha raggiunto e superato le 50 recensioni, quindi grazie di cuore, e visto che ci si rilegge il 28/12, auguro a tutti voi un buon Natale, per quanto possa esserlo in questo brutto periodo; vi abbraccio ♥︎

 

A presto, Marti 🐍

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Capitolo 9
*** CAPITOLO OTTO ***


THE HAUNTING OF HEYDON HALL
 

 

CAPITOLO OTTO

 

“Adesso che la casa si è impadronita di noi, 
forse non ci lascerà più andare.
S. Jackson, L’incubo di Hill House

 

 

Rosham Village, 10 gennaio 1973

Mio amore,

ti scrivo queste brevi righe per ricordarti che ti penso, ogni giorno più intensamente di quello precedente, e così ti amo. Sapere che l’indomani partirai per una pericolosa missione mi travolge, mi macererò nella preoccupazione che ti accada qualcosa, e non dormirò finché non ti saprò al sicuro, nuovamente a casa, lontano dalla minaccia della morte. Sapere che Rodolphus e Rabastan saranno con te mi rassicura, so che vi guarderete le spalle come avete sempre fatto, e come farete sempre, ma nonostante ciò, sai bene cosa penso e come la penso, sarei molto più serena se tu non dovessi esporti così, ma so anche quanto tu sia attaccato alla Causa, e non potrei mai, e dico mai, privartene. Sta’ attento, però, io conservo nel cuore la promessa del tuo ritorno. 

La tua amata,

E.

 

 

Heydon Hall, Norfolk, 18 settembre 2023

«Sembra che tu abbia appena visto un fantasma.» La battuta con la quale Archie l’accolse al tavolo della colazione l’avrebbe anche fatta ridere, in diverse circostanze, ma quel giorno ebbe solo il potere di renderla irrequieta - più di quanto già non fosse. 

 

[UNA NUOVA SETTIMANA]

 

Gli lanciò una smorfia e prese posto. Ovviamente quella notte aveva dormito male, e si era svegliata presto per leggere altre lettere. In verità ne aveva letta solo una, una lettera inviata dalla ormai ben nota “E.” al suo uomo misterioso, nella quale, per la prima volta da che Emma si era imbarcata in quell’impresa, comparivano due nomi propri, due nomi da uomo, due nomi che le aleggiavano nella mente e che sembravano volerle dire qualcosa, qualcosa di cui però le sfuggiva il significato. Dopo una sfilza di lettere d’amore scambiate tra i due indicativamente tra il 1969 e il 1973 (anno al quale per ora era arrivata a leggere), Rodolphus e Rabastan non le suonavano nuovi: la sua memoria aveva cercato febbrilmente, aveva rovistato tra le sue rovine alla ricerca di una giusta collocazione, ma quella mattina non c’era stato verso di venirne a capo e così aveva gettato la spugna, si era alzata, aveva fatto una doccia calda e si era preparata per quel nuovo lunedì di lezione. 

«Non sono in vena di battute, Archie, non te la prendere», replicò. Intravide James avvicinarsi al loro tavolo con il carrello dei vassoi e attese con pazienza. 

«Be’, allora non ti piacerà quello che sto per dirti.»

Tyler assestò un calcio al fidanzato sotto il tavolo, ma ormai Archie aveva sganciato la bomba e quella manifestazione di disaccordo non lo turbò minimamente. Emma lo guardò inarcando le sopracciglia, incuriosita. 

 

[L’INVITO DI JAMES]

 

Intanto, James li aveva raggiunti, e le allungò il vassoio sorridendole. Lei lo prese con entrambe le mani, che sfiorarono inavvertitamente quelle di lui. Si guardarono e una corrente elettrica le si propagò in tutto il corpo, facendola rabbrividire. Sentiva addosso gli occhi dei suoi amici, ma non le importava. 

«Stai bene?» le chiese quindi.

Annuì. «Sono stata meglio, ma sono in piedi.»

«Ora non posso fermarmi, o la Pince mi Crucia, ma vediamoci in biblioteca in pausa pranzo, d’accordo? Porto io qualcosa da mangiare.» Lui la guardò aprendo per bene gli occhi, ed Emma capì che voleva parlare della loro indagine, ma che non poteva dirlo davanti ad Archie e Tyler. 

«Okay, ci vediamo lì», replicò solo lei. Potter le lanciò un ultimo sorriso e poi si allontanò. 

Emma cominciò a versarsi il caffè nella tazza, come se niente fosse successo. Sapeva che Archie moriva dalla voglia di chiederle spiegazioni, infatti bastò attendere solo qualche secondo. 

«Da quando in qua vi date appuntamenti, voi due?»

 

[NON È UN APPUNTAMENTO]

 

Emma lo guardò. «Non è un appuntamento.»

«A me sembra un appuntamento. Un classico appuntamento-alla-Heydon-Hall, dove non c’è un tubo da fare per chilometri e chilometri e allora l’unica occasione di pomiciare è rintanarsi in biblioteca e nascondersi dietro qualche scaffale impolverato, Emma, la mia furbetta.»

Emma quasi scoppiò a ridere. «Pomiciare? Noi non pomiciamo.»

«Oh, sì, a parte che ci credo poco, gli hai lanciato un’occhiata della serie “prendimi, sono tua”, ma, anche se ci credessi, secondo me è solo questione di tempo prima che vi infrattiate dietro qualche cespuglio o in qualche stanza vuota. Anzi, non capisco perché non sia ancora successo, sinceramente. Tyler, per favore, dille qualcosa.»

«Qualcosa?» replicò l’altro scrollando le spalle. Lui ed Emma si guardarono e lei soffocò una risata dietro una forchettata di uova strapazzate, mentre lui scuoteva la testa e Archie lo subissava di insulti.

«Non posso mai contare su nessuno, a parte me stesso, qui.»

«Cosa mi volevi dire, a proposito?» cambiò discorso Emma. «Prima, quando hai detto che non mi sarebbe piaciuto.»

«Ah, sì», rispose Archie mettendosi meglio a sedere. «Non lo hai sentito, il brusio, quando sei entrata?»

«Brusio? Quale brusio?»

Archie alzò gli occhi al cielo. «Girano delle voci, Emma. Voci su ciò che è successo a Charles venerdì notte…»

 

[GIRANO DELLE VOCI]

 

«Be’, succede. I presenti tendono sempre a ingigantire un incidente quando lo raccontano a chi non c’era, è normale. E quel racconto cambia, passando di bocca in bocca. Cos’è venuto fuori?, che Lamb ha tentato di strangolare Baker?»

Archie e Tyler rimasero in silenzio, guardandola preoccupati. Emma continuò a mangiare le sue uova, ma lanciò qualche occhiata intorno a sé, osservando il refettorio affollato. Prima non ci aveva fatto caso, forse perché era immersa nei suoi pensieri, ma effettivamente un sacco di gente era girata a guardarla, e nel mentre sussurrava cose, e qualcuno addirittura faceva l’imitazione di un fantasma, guardandola, e ridendo con i propri vicini. I suoi occhi si posarono sul tavolo di Flitt: erano tutti presenti, ovviamente tutti tranne Charles; Dotty era appollaiata sul braccio di Drake, mentre Sophia era chinata verso Jo e le parlava nell’orecchio, e quest’ultima (che aveva occupato il posto di Charles) osservava Emma come si guarda uno spettacolo grottesco e spaventoso ma che non possiamo fare a meno di fissare (Emma ripensò a loro tre, sedute sul suo letto a raccontarsi delle rispettive punizioni, e pensò a quanto le persone potessero essere false e infide). Gli altri scagnozzi di Flitt mangiavano in silenzio e Isabelle sedeva all’altro lato di Dotty, ma guardava Emma dritta in faccia, con un ghigno molto poco amichevole, le braccia conserte poggiate sul tavolo, mentre uno dei tirapiedi di Drake (che Emma riconobbe come quello che, alla festa, aveva cercato di insinuarsi sotto il vestito di Izzy) si sporse a versarle il tè. 

«Sarebbe la prima volta nella storia», iniziò la bionda ad alta voce, in modo che la sentissero tutti, «che uno studente di Heydon Hall viene espulso dopo neanche un mese di scuola, vero Dotty?»

Quest’ultima rise, con quella sua risata alta e sguaiata. Emma strinse i pugni sotto il tavolo. 

«Oh, penso proprio di sì», confermò quindi la rossa. 

«Be’, io sarò in prima fila quando Emma Nott verrà scortata fuori di qui come una criminale», asserì Isabelle continuando a guardarla. Emma sentì Tyler trattenerla per un braccio, sussurrandole che non ne valeva la pena; Archie aggiunse che voleva solo provocarla e farle rischiare un’altra punizione, o peggio. Isabelle distolse quindi lo sguardo da Emma solo per ringraziare il suo nuovo ragazzo con un bacio approfondito ed Emma distolse lo sguardo a sua volta, schifata, tornando a guardare i suoi amici. 

«Gira voce che tu riesca a controllare il fantasma di Heydon Hall», spiegò infine Archie a bassa voce, «e che tu gli abbia ordinato di fare del male a Charles.»

Emma sbarrò gli occhi, incredula. Non riusciva a credere che la gente potesse pensare tutto questo, che addirittura fosse arrivata a ipotizzare una tale follia, e tutto perché si era messa a gridare, e il suo grido aveva fermato il fantasma. 

«Il fatto che Charles levitasse a mezzo metro da terra e che mani invisibili stessero cercando di strozzarlo ha portato tutti a pensare al fantasma», continuò Archie. «Ma non era mai successo che il fantasma se la prendesse con noi studenti, almeno non in questo modo, così rabbioso, e deliberatamente violento…»

 

[IL COMPORTAMENTO DEL FANTASMA]

 

«Cosa intendi dire, Archie?» abbaiò Emma stringendo la sua forchetta così forte che immaginò di ridurla in tanti coriandoli di metallo. 

«Io non intendo niente, Emma, cosa vai a pensare?» si difese l’altro strabuzzando gli occhi e prendendole una mano. «Ti sto solo raccontando come stanno le cose, perché penso che sia meglio per te sapere tutto. E saperlo da noi.»

«Che il fantasma non sia mai stato violento con noi è un dato di fatto», intervenne Tyler, come sempre posato e misurato. «In tanti anni non si era mai sentito di aggressioni di questa portata agli studenti, ma solo di porte sbattute, vetri rotti, qualche bagno allagato e cose così, ma ora gli incidenti sono diventati due e la gente cerca spiegazioni dove non ce ne sono e, ovviamente, un capro espiatorio da incolpare.»

«Voi sapete che io non c’entro niente», disse Emma. «Per quanto ritenga Charles un pallone gonfiato, non gli farei mai del male.»

«Emma, con noi non devi giustificarti, né devi darci spiegazioni», continuò Tyler. «Sappiamo com’è andata, ce l’hai raccontato, e ci fidiamo di te.»

Quando domenica Archie era venuto in biblioteca a portarle il pranzo, Emma gli aveva raccontato per bene ciò che era successo la notte di venerdì, visto che il giorno prima non avevano avuto modo di parlarne, nel caos del refettorio. Aveva evitato di dirgli che aveva visto il fantasma di Heydon Hall cercare di strangolare Charles, sia perché non voleva ammettere di averlo visto, e quindi di crederci, ma anche perché questo dettaglio la metteva in una posizione scomoda e strana, in tutta quell’assurda situazione. Men che meno gli aveva detto che le sue parole erano riuscite a salvare Baker. 

«Tutti dicono che ti sei messa a gridare e che il fantasma ti ha ascoltato e si è fermato», aggiunse Archie stringendosi nelle spalle. «Io sinceramente trovo assurda tutta questa storia. Ammettendo anche che il fantasma potrebbe effettivamente c’entrare qualcosa, non vedo come mai dovrebbe dare ascolto proprio a te, senza offesa, ovviamente.»

«Nessuna offesa», replicò Emma. «Comunque non ho gridato di lasciarlo andare, è stato più un grido di orrore, insomma, Charles levitava e aveva tutta la faccia viola, ed eravamo tutti scioccati e sorpresi e inorriditi, in quel momento. E poi scusate, sono tutti così sicuri che c’entri il fantasma? Lo hanno visto? Anzi, qualcuno lo ha mai visto, in tutti questi anni?»

Quell’interrogativo le ronzava in testa da un po’: lei e James potevano vedere lo spirito che aleggiava nei corridoi di Heydon Hall, e ormai si erano messi l’anima in pace, a tal proposito, nonostante lo scetticismo iniziale, ma perché solo loro?, qualcun altro, in passato, lo aveva visto? 

«Che io sappia no, nessuno lo ha visto, né quella sera né mai», spiegò Archie. «Semplicemente ci crediamo, e basta.»

«Parleranno di questa cosa ancora per qualche giorno, finché non arriverà un argomento più ghiotto, sta’ tranquilla», intervenne Tyler cambiando argomento e finendo il suo tè. 

Emma lanciò un’altra occhiata alla sala, e individuò altre paia di occhi che, curiosi, la osservavano quasi come se stesse per scoppiare da un momento all’altro, riversando su tutti i presenti la sua ira. 

«Sei quella nuova, è normale che ti abbiano eletta come nuovo obiettivo», disse Archie. «Ogni anno succede. Ricordati che sei la figlia di Theodore, sei intelligente e una figa pazzesca, e in più sei amica di Potter. Ecco fatto.»

 

[HOGWARTS E HEYDON HALL]

 

Emma gli sorrise, rigirando il cucchiaio nella sua tazza. Non gliene importava niente che parlassero (o sparlassero) di lei, ad Hogwarts era abituata ad essere argomento di disquisizione per tutto ciò che combinava, ma in quel caso era tutto vero: quando tutti si giravano a guardarla entrare in Sala Grande era perché aveva davvero allagato il corridoio del terzo piano; quando l’additavano a lezione era perché aveva appena fatto qualche dispetto al professor Paciock, e i presenti attendevano che si scatenasse il putiferio; quando provocava sussurri nei corridoi era perché qualche Caposcuola o insegnante la stava scortando dalla McGranitt dopo l’ennesimo atto di vero vandalismo. Questa volta era diverso, questa volta la ritenevano responsabile di un tentato omicidio, o di una deliberata aggressione, e non le stava bene, proprio per niente. Sapeva però che le voci di corridoio restano solo voci, in mancanza di prove concrete, e sapeva anche che si sarebbero placate, non appena fosse successo qualcosa di nuovo e interessante. 

Cercò James con gli occhi e lui la stava già guardando. 

 

🥀

 

[IL PRANZO DI JAMES ED EMMA]

 

Emma lo raggiunse intorno alle dodici e trenta. Mise la testa all’interno, guardandosi intorno, come per accertarsi che non ci fosse nessuno, ma ormai James aveva capito che la biblioteca era forse la zona meno frequentata dagli studenti di Heydon Hall, ed era proprio per questo che le aveva dato appuntamento lì - anche se definirlo “appuntamento” lo faceva sentire un cretino, ché non era un appuntamento, o per lo meno non nel senso più comune del termine; era solo un’occasione per fare il punto su tutta quell’astrusa faccenda. Se solo un mese prima gli avessero detto a cosa sarebbe andato incontro nel buco-di-culo del Norfolk, non ci avrebbe creduto. Dopo tutto ciò che era successo nel corso di quell’anno, un altro guaio era proprio l’ultima cosa di cui aveva bisogno, considerato anche il fatto che, da quando era a Heydon Hall, aveva già infranto non sapeva quante regole, che apparentemente non sembravano riguardarlo, in quanto membro del personale dell’istituto, ma che sapeva lo facevano indirettamente, visto che era lì per “scontare una pena” e non per fare villeggiatura. E tanto meno per andare a caccia di misteri con Emma Nott, la cui presenza aveva cambiato tutte le carte in tavola, facendogli gettare alle ortiche ogni cautela e ogni freno. Era come se lei desse fuoco alla sua miccia, a quell’animo Grifondoro che, mai come in quei giorni, tendeva a prevaricare, e a tirare fuori il combina-guai che era in lui, quella parte scanzonata e quasi bambinesca che nel corso degli ultimi mesi aveva in parte soffocato, e sepolto sotto strati e strati di rigore e ammenda. Si sentiva di nuovo il James Sirius Potter che conosceva - si sentiva di nuovo se stesso.

Fece segno ad Emma e lei entrò, richiudendosi la porta alle spalle. Lo raggiunse e lui, senza dire niente, le fece strada fino al tavolo più lontano, al fondo dell’ampia sala, che era molto più grande (e polverosa) di quanto si fosse aspettato in un primo momento. 

«Wow, hai svaligiato la dispensa della pipistrella, Potter?» esclamò Emma sorpresa, sfilandosi il blazer e poggiandolo allo schienale di una sedia, osservando allo stesso tempo il piano del tavolo, dove James aveva riversato il contenuto delle sue ruberie: sandwich ripieni con arrosto, maionese e insalata; succo di zucca; due porzioni del pasticcio di carne che la Pince aveva preparato per pranzo e che gli sembrava promettere bene; alcune fette di torta alla carota che Pansy aveva sfornato solo per loro, e che James aveva sgraffignato con la scusa di «mangiarle più tardi». 

Lui si passò una mano dietro la nuca. «Nah, ho solo preso qualcosina qua e là… Spero che il pasticcio sia buono, sembrava invitante…»

Emma si girò e gli rivolse un sorriso talmente grande e bello che lui dimenticò improvvisamente ciò che stava per dire solo per fermarsi e guardarla. Gli venne una voglia repentina di baciarla, ma si trattenne, come succedeva da tanti giorni a quella parte. Doveva rimanere concentrato sul motivo per cui entrambi si trovavano lì. 

Dapprima mangiarono in silenzio. Emma sembrava affamata. «Da quanti giorni non mangi?»

«Il cibo che ci portate a tavola non è mai così buono», spiegò lei allontanando la ciotola che conteneva il pasticcio, che aveva svuotato in silenzio, quasi senza alzare gli occhi. «Quindi ho una fame arretrata di giorni.»

James si lasciò scappare un sorriso e addentò il suo sandwich. «Quando senti i morsi della fame non hai che da bussare alla mia porta, ci metto un attimo a sgusciare in cucina a prenderti qualcosa di buono.»

«Mi sembra solo una scusa per attirarmi in camera tua, questa, Potter.»

James tossì, quasi strozzandosi con un pezzo di arrosto di tacchino che gli era rimasto in gola. Emma intanto lo guardava divertita da sotto le ciglia, mentre beveva dal suo bicchiere.

«Be’, anche se fosse?» rispose quindi riprendendosi.

Vide Emma assottigliare lo sguardo e si guardarono per un momento, prima che la ragazza scuotesse la testa, ridacchiando. «Con quella faccina e quegli occhiali storti sei poco credibile a fare il misterioso, sai?»

Come un riflesso incondizionato, James si sistemò gli occhiali sul naso, ed Emma rise più forte. «Sei uno spasso.»

«Sono contento di farti ridere, allora.»

Lei gli sorrise e poi finirono di mangiare in silenzio, ognuno immerso nei suoi pensieri. Finite anche le ultime briciole di torta, e sgombrato il tavolo, Emma si chinò per frugare nella sua borsa poggiata a terra. James cercò di non fissarle le gambe e così spostò lo sguardo fuori dalla finestra: quel giorno era scesa una nebbiolina che sapeva di profondo autunno e una brina leggera aveva ricoperto l’erba dei prati nelle prime ore del giorno. Lì nel Norfolk sembrava già di trovarsi alle porte dell’inverno. 

Emma poggiò sul tavolo il plico delle lettere trovate nella specchiera, nell’ala proibita, e sfilò la prima, aprendola con cautela, vista la delicatezza della pergamena, e girandola infine verso di lui. «Leggi questa.»

 

[ANALIZZANO LE LETTERE]

 

James, incuriosito, fece come gli era stato detto. Al termine della lettura si sfilò gli occhiali per un momento e si stropicciò gli occhi. Sperava che quei due nomi scomparissero, ma quando riappoggiò lo sguardo sulla lettera, erano ancora lì, a risvegliare vecchi fantasmi e dolori. 

«Le lettere che coprono gli anni dal 1969 al 1973 sono tutte lettere d’amore», cominciò Emma incrociando le braccia sul tavolo in mogano. «Quindi ti risparmierò la fatica di leggerle, l’ho già fatto io e mi è bastato.»

«Sei allergica alle dichiarazioni d’amore, Nott?» la prese in giro lui.

La vide alzare gli occhi al cielo. «Secondo te? Comunque», aggiunse, cambiando in fretta argomento, «in questa compaiono finalmente due nomi, dopo tutto il mistero che la nostra E. e il suo innamorato si sono trascinati dietro. Due nomi che mi dicono qualcosa, ma che non sono riuscita a contestualizzare. So che li conosco, o almeno dovrei conoscerli, ma niente da fare.»

James la guardò per un momento in silenzio, indeciso. Forse Emma notò il suo tentennamento, perché alzò un sopracciglio. «Cosa non mi vuoi dire?»

James sospirò. «Rodolphus e Rabastan, Emma. I fratelli Lestrange.» Vide un guizzo di comprensione nel suo sguardo. «Erano due Mangiamorte.»

 

[I MANGIAMORTE]

 

Calò il silenzio, mentre uno stormo di uccelli si alzava in volo dal prato là fuori, salendo sempre più in alto e perdendosi nel cielo grigio. 

«Come ho fatto a non arrivarci, eh?» commentò Emma distogliendo lo sguardo da lui e giocherellando con l’angolo già leggermente spiegazzato della lettera. 

«Be’, nessuno va in giro a parlare dei Mangiamorte, non più. Ci sono parole che sono state sepolte, chiuse in un cassetto, e che difficilmente vengono ritirate fuori, o almeno non nella vita di tutti i giorni.» A James vennero in mente i racconti di suo padre, che quando aveva compiuto undici anni, l’estate prima di iniziare il suo percorso a Hogwarts, gli aveva raccontato tutto ciò che era successo durante le due Guerre Magiche, non gli aveva risparmiato niente, nessun dettaglio e nessuna morte, ché pensava che fosse giusto, per lui, sapere, e conoscere gli eventi e comprendere i sacrifici di chi, prima che lui nascesse, aveva contribuito a salvare il mondo magico dalla spaventosa minaccia di Voldemort. Lo aveva reputato abbastanza maturo e si era assicurato che iniziasse Hogwarts ben conscio di chi era, e da dove proveniva. Aveva fatto lo stesso con Albus e Lily e tutti loro non lo avrebbero mai ringraziato abbastanza per quella prova di cieca fiducia in tre undicenni sprovveduti e con la testa sulle nuvole, cresciuti in tempo di pace, e che mai avrebbero conosciuto gli orrori di una guerra - o almeno così speravano tutti. 

«I miei genitori hanno taciuto parecchie cose», disse Emma aggiustandosi le pieghe della camicia, quasi come se gli avesse letto nel pensiero e avesse visto il suo ricordo di Harry, seduto sul suo letto, mentre sua madre Ginny era rimasta in cucina e si sentivano i rumori delle pentole mentre preparava la cena. «Ovviamente sappiamo tutto delle Guerre, i miei fratelli e io», specificò. «Ma è come se la mamma non avesse voluto scendere nei dettagli, non so se mi spiego… Quasi come se ci avesse raccontato una versione edulcorata di ciò che è successo in quegli anni, forse dovuta al fatto che lei non era nemmeno in Inghilterra. È cresciuta in America, è arrivata a Londra solo dopo la guerra», spiegò di fronte allo sguardo incuriosito di James. «E papà è sempre stato vago, troppo vago… Ma lo capisco, insomma, l’eredità che si trascina dietro non è qualcosa che sbandieri ai quattro venti, il tuo lignaggio ti perseguita come una maledizione e tutto ciò che vuoi è solo lasciartelo alle spalle, fare tabula rasa e ricominciare, crearti una tua identità - un’identità che ti rappresenti.»

James credeva di capire la posizione di Theodore Nott. Nonostante non fosse mai stato un Mangiamorte, Theodore era figlio di Mangiamorte, di quel Frederick Nott1 che era stato tra gli accoliti più vicini a Voldemort, e tra i più fedeli, e aveva sempre portato quel macigno sulle spalle, strenuamente, e finalmente era come se si fosse in parte alleggerito di qualche fardello, ora che aveva una famiglia tutta sua, e sentiva quindi di poter drizzare nuovamente la testa e vivere la sua vita. Suo padre gli aveva sempre parlato di Theodore Nott in termini amichevoli, reduce di anni di rinnovata collaborazione - e quasi amicizia - con il MagiAvvocato che, molto spesso, incontrava tra i corridoi del Ministero o nelle aule del Wizengamot. Forse non sarebbe mai stato amico di Theodore quanto lo era di zio Ron, ma c’era rispetto, un sentimento parimenti importante. 

«Siamo cresciuti dietro due diverse barricate», replicò James, «e con due modi diversi di guardare al passato, ma è proprio quel passato che in qualche modo sta convergendo qui, ora, in queste lettere.»

Emma annuì, tornando a guardarlo, finalmente. «Pensi che il misterioso innamorato di E. fosse anche lui un Mangiamorte, vero?»

James si grattò il naso. «I nomi dei Lestrange ci conducono lì, Emma. Chi se non un altro Mangiamorte partirebbe in missione con due Mangiamorte? Nel 1973 era già iniziata la Prima Guerra Magica, Voldemort spandeva già terrore ovunque, molto probabilmente i fratelli Lestrange e quest’uomo misterioso erano in procinto di partire per una missione assegnata loro proprio da Voldemort stesso.»

 

[E.]

 

«Per adesso non abbiamo altre piste, però, mi pare», convenne Emma ripiegando la lettera. «Invece, riguardo la nostra misteriosa E., possiamo solo pensare che sia morta qui, a Heydon Hall, nonostante prima abitasse in questo Rosham Village, da dove sono partite tutte le lettere, finora, a parte quelle che i due si scambiavano a Hogwarts, presumibilmente durante l’anno scolastico.»

«Pensi che sia morta qui perché il suo fantasma non se n’è andato?»

Emma scrollò le spalle. «Presumo di sì. Solitamente i fantasmi non rimangono ancorati al luogo nel quale sono morti?»

«Non necessariamente», dissentì James. «A volte ritornano laddove hanno lasciato qualcosa in sospeso, oppure al luogo dove sono stati più felici, o in quello dove hanno vissuto un grande dolore. Però che E. sia morta qui trovo sia una teoria più che plausibile, ora come ora.»

«E dev’essere morta nel dolore», rifletté Emma torcendosi un capello, pensierosa. «Altrimenti non si spiegherebbe la sua rabbia. Stamattina ho fatto qualche domanda ad Archie senza dare nell’occhio e sia lui sia Tyler mi hanno detto che non ha mai fatto del male agli studenti, prima, e sembra addirittura che nessuno l’abbia mai vista, qui a Heydon Hall.»

«Nessuno l’ha vista ma tutti ci credono?»

«È quello che gli ho detto anche io. Tutti sono portati a credere alla sua esistenza senza nessuna riserva, ma nessuno ha mai trovate prove della suddetta esistenza. È bizzarro.»

«Be’, che questo posto fosse bizzarro direi che era assodato. Ben più che bizzarro, aggiungerei», replicò James ridendo. 

 

[TENSIONE]

 

«E chi doveva capitare in questa gabbia di matti se non noi due?» esclamò Emma alzando gli occhi al cielo. «Giuro che di solito i guai li combino, è difficile che mi vengano a cercare.»

«È colpa mia, quindi», disse James arricciando le labbra. «Attiro guai come una calamita.»

«Ecco perché mi attiri, allora.»

Tra loro calò il silenzio, ma un silenzio carico di elettricità statica. James sbarrò gli occhi e sentì gli occhiali scivolargli un po’ sul naso, mentre Emma distolse lo sguardo, fissando un punto imprecisato dello scaffale di fianco a loro, tutto pur di non guardarlo in faccia. 

«Okay», prese la parola, ché ormai non sopportava più quel silenzio, e voleva placarlo - e placarsi - tornando a parlare del loro “fantasmagorico problema” e concentrandosi nuovamente su quella questione, ignorando quindi i sussulti del suo stomaco e quelle voci nella sua mente che gli sussurravano di alzarsi e baciarla. Non aveva mai visto Emma così imbarazzata, lei che di solito aveva sempre la risposta pronta e non mancava mai di usare quella sua lingua tagliente per dare risposte altrettanto taglienti. «Stai suggerendo che il nostro arrivo a Heydon Hall c’entri qualcosa con il risveglio, se così vogliamo definirlo, del fantasma?»

 

[ALTRE TEORIE]

 

Emma gli sembrò infinitamente grata per essere tornato sull’argomento principale della loro strana riunione. «In parte… Ho riflettuto un po’ su ciò che è successo dal primo settembre a questa parte, ed effettivamente dei collegamenti ci sono, e non si possono ignorare. Tyler mi ha detto che il fantasma si è sempre e solo manifestato con i soliti, vecchi trucchi: lo sbattere di una porta e i vetri rotti di una finestra, cose così, ma niente di più sostanzioso. Quest’anno, invece, aggredisce ben due studenti, e in più si mostra ad altri due, che saremmo noi. Non lo trovi… come dire… un caso un po’ troppo casuale? Puzza di schema.»

James annuì, questa volta grattandosi il mento. «Ieri abbiamo parlato di Izzy e delle parole che continuava a ripetere la sera dell’incidente… A questo punto, l’idea che il fantasma ne sia responsabile è indubbia. Potrebbe addirittura averlo visto, non credi? Continuava a parlare di una “donna”, in fondo.»

«Sì, penso che l’abbia visto. Chissà se anche Charles…»

«Mi sono dimenticato di dirti che sono riuscito a fare qualche domanda alla Guaritrice», esclamò James, «la stessa che è venuta per aiutare Isabelle, e mi ha detto che Charles non ha proferito parola, che la mattina dopo gli ha chiesto se ricordava cos’era successo, gli ha parlato anche il preside Corner e poi i suoi genitori, ma lui non ha parlato con nessuno di loro. Sembrava quasi in uno stato di shock talmente profondo da aver perso qualsiasi facoltà, persino la parola. È per questo che lo hanno trasferito al San Mungo.»

Emma annuì, mordendosi un labbro. «Potrebbe averlo visto, allora. Potrebbe aver visto il fantasma tentare di strangolarlo. È per questo che era in shock, o per lo meno, più di quanto fosse fisiologico esserlo dopo aver rischiato di morire, voglio dire.»

«Quindi le due aggressioni sono collegate», ribadì James. 

«E sono collegate a me», aggiunse Emma, seria. Sospirò.

«Collegate a te?»

«Sì», confermò lei. «Insomma, Isabelle era mia amica, no? O almeno lo è stata in un primo momento, prima che tutta la situazione degenerasse e non cominciasse a gridarmi addosso e a darmi della pazza furiosa…» James avrebbe voluto chiederle ulteriori spiegazioni, ma preferì lasciarla proseguire. «E Charles… be’, ci ha provato con me, quella sera, non una ma due volte», fece una smorfia. «Mi viene da pensare di c’entrare qualcosa, capito? E non dimentichiamoci che ho fermato il fantasma, gli ho impedito di uccidere Charles…»

«Okay, okay, frena un attimo», esclamò James. «Partiamo dal presupposto che okay, va bene, Isabelle e Charles avevano avuto dei contatti con te, ma in fondo anche con altri. Sappiamo che, quella prima sera, Izzy era seduta non solo con te, ma anche con Archie e Tyler, dico bene?»

Emma annui lentamente. «Come fai a saperlo? Ci osservavi?»

«Io osservo tutto, Emma Nott, dovresti averlo capito», rispose lui sbrigativo, ché non voleva darle l’impressione che il suo sguardo fosse stato catturato da lei sin da quella seconda sera a Heydon Hall. «Tornando a Izzy, come dicevo, anche Archie e Tyler potrebbero essere collegati. In fondo, sappiamo che tra Archie e Charles, e in generale il gruppo di Flitt, non scorre buon sangue. Niente ci vieta di pensare che Archie possa c’entrare qualcosa.»

Emma scosse la testa, decisa. «Izzy aveva paura di me, non di Archie. Poi la cosa sembra esserle passata, quando ha scelto la via dell’aggressività, ma comunque questo non cambia le cose. Non cambia il fatto che aveva paura di me, e non me lo spiego, ancora adesso, alla luce di ciò che sappiamo. E aggiungici che sono stata io a fermare il fantasma, James. Ho detto ad Archie che non era vero, che era stato un caso, ma noi sappiamo com’è andata.»

James non replicò, si limitò a guardarla, ché non sapeva esattamente cosa dire, per contraddirla. Effettivamente, le sue asserzioni avevano un senso. Non c’era molto altro da dire contro di esse. 

«Mettiamo che sia così, per un momento», disse quindi poggiando i palmi delle mani sul tavolo, come a volersi aggrappare con tutte le sue forze a quel legno caldo, giusto per non affondare. «Mettiamo che tu sia in qualche modo collegata al fantasma. Perché? Perché lo saresti? Ci hai pensato?»

La ragazza seduta di fronte a lui osservò per un attimo il parco fuori dalla finestra, e la sua immota calma - e James osservò lei, il suo profilo armonioso, la curva della mascella e delle labbra piene, i capelli castani raccolti sulla nuca con una piuma, la clavicola che sporgeva dal colletto della camicia aperto, la cravatta allentata sul collo. Si aggrappò ancora più strettamente al tavolo, ma stava quasi per scivolare, sentiva la pelle dei palmi sudata e tutto il corpo pizzicare. 

«Penso che dovremmo scoprirlo, no?» disse infine lei guardandolo. «Penso che, in qualche modo, sia tutto collegato, e che se scopriremo l’identità di E., allora capiremo anche il perché del nostro collegamento. Possiamo solo sperare che non accada altro, nel frattempo, visto che già tutti pensano che io ne sia responsabile.»

 

[EMMA RIFERISCE LE VOCI A JAMES]

 

James aggrottò le sopracciglia. «Cosa vuol dire?»

Emma allora gli raccontò la “storia fantastica” che circolava a scuola, che lei in qualche modo controllasse il fantasma di Heydon Hall e che lo avesse aizzato prima contro Isabelle e poi contro Charles, e aggiunse anche le reazioni del tavolo di Flitt, quella mattina, in particolare di quelle di Izzy, e finì per raccontargli anche del loro litigio, alla festa di venerdì sera. 

«Pazzesco! Come fanno a pensare una cosa del genere? Lo sanno che evocare e controllare un fantasma sono tipi di magia che rientrano nelle Arti Oscure, sì?»

«Forse lo sanno, ma poi si ricordano del mio cognome, e la razionalità va’ a farsi benedire», spiegò lei rassegnata scrollando le spalle. Sembrava delusa e amareggiata e James avrebbe voluto poter fare di più per aiutarla e consolarla, per ribadire che il cognome che portava non la definiva, così come il passato maledetto dei suoi avi. 

«Spero solo che queste voci non giungano alle orecchie dei signori Baker», aggiunse lei. «Archie mi ha detto che il padre è un pezzo grosso, e fa generose donazioni alla scuola, e spero che Heydon Hall non debba rimetterci perché loro mi ritengono responsabile.»

«Come potrebbero?» rispose James. «Non hanno nessuna prova, a parte qualche pettegolezzo di un gruppo di diciassettenni stronzi.» La vide sorridergli, e riacquistare un po’ più di fiducia. «E poi scusa, chi se ne frega di Heydon Hall. Ci siamo procurati già fin troppi guai, in questo posto, che vada pure a fuoco.»

 

[L’IRA DI HEYDON HALL]

 

In quel momento, il vetro della finestra accanto a loro esplose. La violenza dell’urto li investì in pieno, mentre entrambi si accucciavano sul tavolo, le teste nascoste sotto le braccia. Quando osarono sollevare il capo, una corrente d’aria autunnale, frizzante e fredda, aveva invaso il loro rifugio tra gli scaffali, portando con sé l’inquietudine di un’intera stagione e il sentore dell’inverno che impregnava il cielo. James si accorse che Emma gli aveva afferrato una mano, stringendogliela spasmodicamente in quell’attimo di paura che aveva assalito entrambi. Si separarono, ora, senza una parola, solo con un fuggire di sguardi, e si alzarono. Fissarono i pezzi di vetro sul pavimento antico, e poi si lanciarono un’occhiata.

«Mi viene da chiedermi», cominciò quindi James, «se scoprire la verità, tutta la verità, su Heydon Hall, ci servirà. Che cosa faremo, una volta che ne verremo a capo? Sempre se ne verremo a capo. Come potremo convincerla a fermarsi?»

Emma si limitò a restituirgli lo sguardo, silenziosa. 

 

🥀

 

Piena di tutte le riflessioni fatte insieme a James, e ancora scossa per via dell’incidente della finestra (Potter aveva riparato tutto con un colpo di bacchetta, come se non fosse mai successo), Emma tornò di corsa in dormitorio prima della lezione di Pozioni, visto che si era accorta di aver dimenticato il libro nel baule. Aveva scoperto che gli studenti più grandi avevano più libertà di movimento all’interno della scuola rispetto a quelli più piccoli, ed era per questo motivo che era riuscita dapprima a raggiungere James in biblioteca senza problemi, e poi a dirigersi in dormitorio per cercare il libro. Molto spesso Pansy, che accompagnava le ragazze qua e là, accordava alle più grandi il permesso di raggiungere le classi senza di lei, vuoi un po’ per negligenza, vuoi perché aveva imparato a fidarsi. Insomma, Emma riuscì a raggiungere il dormitorio senza intoppi, e quello che trovò una volta entrata le mozzò il fiato in gola. 

 

[SCRITTA COL SANGUE]

 

Il letto di Isabelle era interamente ricoperto di una sostanza rossa che sembrava senza ombra di dubbio sangue, spesso e corposo. Emma si accostò al letto, dove tra l’altro il cuscino era stato stracciato e ora piume galleggiavano in alcune pozze di sangue che si era raccolto qua e là, mentre altre si erano semplicemente attaccate alla sostanza, a creare uno spettacolo che definirlo macabro suonava riduttivo. Emma si portò una mano alla bocca, e solo dopo qualche istante si rese conto che il sangue era stato usato per formare una scritta, che ricopriva tutto quanto il letto: “LASCIALA IN PACE O TE NE PENTIRAI”. 

Fece qualche passo indietro, andando quasi a finire lunga distesa sul suo stesso letto. Lasciala in pace o te ne pentirai: chi diavolo era stato?, chi avrebbe mai potuto compiere un’azione così grottesca, e infima, e terribile come quella? Un pensiero rapido l’assalì: la signora di Heydon Hall. E se fosse stata lei? E se, per via di quello strano legame viscerale che sembrava unirla ad Emma, avesse voluto mettere in guardia Izzy e intimarle quindi di lasciarla in pace? Era fin troppo visionario, doveva ammetterlo, ma lì per lì non si sentì di escluderlo. In fondo, lei e James avevano appurato che un legame c’era, era inutile negarlo, e Isabelle, in quanto vittima del primo incidente, era ormai entrata nel mirino del fantasma, e i rapporti non propriamente distesi con Emma non la mettevano in una luce favorevole. Improvvisamente si rese conto di essere sola e che la sua presenza lì avrebbe potuto comprometterla, farla sembrare colpevole, cosa che non era. 

 

[NUOVI GUAI]

 

Come se quel pensiero le avesse attirate lì, Shay2 (la sua vicina di letto) e un’altra ragazza del settimo di nome Joanna2 (la stessa che l’aveva affiancata durante l’incidente di Izzy e che aveva provato a forzare la porta), entrarono in quel momento nella stanza. Emma sentì il rumore dei passi e, anche se avesse voluto nascondersi sotto un letto o in bagno, non ci sarebbe riuscita. Dapprima le due ragazze non si resero conto del disastro, si limitarono a salutarla e a chiederle cosa ci facesse lì. Emma non rispose, non ci riuscì. Si sentiva girare la testa e avrebbe dato tutto quanto in suo possesso per rendersi invisibile e scomparire. La guardarono stranite, e infine si resero conto di tutto quanto. 

«Per Merlino!» esclamò Shay portandosi una mano alla bocca. Joanna fece un passo avanti, come a volersi assicurare che ciò che stava vedendo fosse effettivamente reale, e poi spostò subito lo sguardo su Emma, guardandola come si guarda qualcosa di ostile e pericoloso, proprio come l’avevano guardata tutti quanti in refettorio quella mattina, come se fosse un fenomeno da baraccone. 

«Sei stata tu», sussurrò spostando nuovamente lo sguardo sul letto. «È il letto di Isabelle, quello…»

«Sì, è stata lei!» quasi gridò Shay. «Leggi la scritta, —anna.»

«Non sono stata io, idiote», esclamò Emma. Okay, quell’idiote le scappò, non avrebbe dovuto dirlo, anche perché le procurò solo altri sguardi irosi e inorriditi e ostili, però insomma, lo erano davvero, idiote, quelle due, per pensare che lei sarebbe stata in grado di squartare, cosa?, un maiale, a giudicare da quanto sangue c’era, per scrivere velate minacce sul letto di una sua compagna di scuola. 

«Vado a chiamare Pansy», disse quindi Joanna. 

«Non lasciarmi qui da sola con lei», quasi piagnucolò Shay. 

«Cosa pensi che ti succeda, eh?» disse quindi Emma. «Non sono stata io, vi dico!»

«Cosa succede qui?» esclamò quindi Pansy entrando nella stanza, il cipiglio severo. «Perché non siete tutte in classe?» 

Ottimo, pensò Emma. Di male in peggio.

«Venga a vedere cos’ha combinato la Nott», disse Joanna.

Pansy si avvicinò con le sopracciglia aggrottate, incuriosita, e si piazzò davanti al letto di Izzy, proprio accanto alla stessa Emma. La donna non batté ciglio, si limitò ad osservare, pensierosa. Si avvicinò ancora un po’ per leggere bene, e poi rivolse ad Emma un lungo sguardo. 

«Sento puzza di guai», disse solo. 

«Non sono stata io», si difese ancora Emma.

«Sì che è stata lei, l’abbiamo vista», snocciolò Shay tutto d’un fiato. Tutti si girarono a guardarla.  «L’abbiamo vista. Non è vero, Joanna?» aggiunse voltandosi verso l’amica. Le due si guardarono per un attimo, e poi Joanna annuì con convinzione. «L’abbiamo colta in fallo, signora Parkinson», confermò.

Emma non poteva credere alle sue orecchie. «State scherzando, spero? Stanno scherzando», aggiunse rivolgendosi a Pansy. «Non sono stata io, e loro sono arrivate qui solo qualche minuto dopo di me, stavo cercando il libro di Pozioni… Il letto era già così…»

Pansy la guardava, le mani appuntate sui fianchi. «Penso sia arrivato il momento di convocare suo padre, signorina Nott.»

 

🥀

 

James aveva appena salutato Emma fuori dalla biblioteca. La ragazza era già quasi in ritardo per la lezione di Pozioni, e doveva ancora correre in dormitorio per recuperare il suo libro, quindi si erano ripromessi di aggiornarsi nel caso fosse successo qualcosa d’altro, qualsiasi cosa, anche un dettaglio. Ciò che era appena successo gli dava da pensare: era come se la casa riflettesse le intemperanze della sua vecchia occupante, di colei che non aveva mai abbandonato quei corridoi, e quelle stanze, e il vetro fosse scoppiato quindi come conseguenza della sua velata minaccia - anche se ovviamente molto astratta, ché non aveva nessuna intenzione di “bruciare Heydon Hall”. Lo aveva riparato senza problemi, ma quel pensiero lo martellò durante tutto il percorso che lo separava dalla sua stanza. Aveva un’oretta libera e ne voleva approfittare per farsi una dormita, visto che ormai la notte rimaneva sveglio ore e ore, un po’ a pensare al fantasma, e più di un po’ a pensare a Emma. Si diede del cretino, ché avrebbe dovuto fare qualcosa quando lei gli aveva fatto la battuta sul sentirsi attirato da lui, e si punì mentalmente per essere così poco propositivo, aveva preso fin troppo da suo padre e molto poco da sua madre - quest’ultima una sera aveva raccontato ai figli quanto avesse penato dietro a “quell’occhialuto di Potter” e alla sua indecisione. 

 

[SCRITTA COL SANGUE — DI NUOVO]

 

Quando entrò nella sua stanza, qualsiasi altro pensiero lo abbandonò improvvisamente. Sulla parete sopra il suo letto campeggiava una scritta, rossa e spessa. Per un momento pensò che fosse sangue, poi ricacciò via quell’insensatezza, per infine riabbracciarla quando l’ebbe guardata più da vicino. Sbarrò gli occhi. 

“STALLE VICINO. STAI VICINO AD EMMA. HA SOLO TE E IO NON POSSO RAGGIUNGERLA”, questo c’era scritto. In alcuni punti il sangue - ché ormai c’erano pochi dubbi, in merito - era colato sul muro, a creare un insieme grottesco degno di uno scenario dell’orrore. 

Stai vicino ad EmmaIo non posso raggiungerla… 

Qualcosa gli scattò nella testa, rapido come un fulmine che illumina il cielo nero della notte: la signora di Heydon Hall. Non poteva essere stata che lei. 

 

[IL FANTASMA TORNA A TROVARLO]

 

Come in risposta ai suoi dubbi, il suo volto gli apparve riflesso nello specchio appeso accanto al letto, i capelli scuri lisci sul volto, un mezzo sorriso a incurvarle le labbra sottili. Era molto diversa da quella sera in cui aveva tentato di strangolare Charles. James sobbalzò, ma rimase a guardarla, finché quella non svanì, parte integrante della parete alle sue spalle - parte integrante di Heydon Hall.


 


 

Note.

 

1. Frederick Nott: nome da me inventato per Nott, uno dei primi e più fedeli Mangiamorte 
2. Shay e Joanna: Shay Michaels e Joanna Ridgeport, personaggi di mia invenzione

 

Bentornati con questo capitolo post-natalizio ♥︎ spero che abbiate passato bene questi giorni! In questo capitolo il mistero che aleggia intorno al fantasma di Heydon Hall trova nuovi sbocchi e imbocca nuove piste, e sono curiosissima di sapere cosa ne pensate, a proposito della comparsa di due importanti (ma scomodi) nomi come quelli dei fratelli Lestrange 🔮 le vostre teorie sono sempre state più che interessanti e non vedo l’ora di scoprire cosa questa nuova rivelazione vi aggiungerà. Emma e James continuano a “provocarsi” e vi anticipo che nel prossimo capitolo la tensione raggiungerà il culmine ed esploderà, ma ovviamente, le cose non andranno esattamente “bene”, e sul resto taccio 🤐  Il capitolo si chiude con un’altra macabra manifestazione, e un’apparizione finale per il nostro Jamie: cosa provocherà questo nuovo guaio ad Emma?, quali saranno i risvolti?, e Theodore arriverà davvero a HH? Vi lascio come sempre con questi, e numerosi altri, interrogativi belli aperti, e mi godo le vostre bellissime teorie 👀

 

Se volete potete seguirmi su Instagram.

 

Ci risentiamo lunedì prossimo, il giorno del mio compleanno, tra l’altro, e saremo già nel 2021, quindi colgo l’occasione per augurarvi un buon anno nuovo, e che sia meglio di quello appena trascorso ♥︎ e grazie per il vostro continuo appoggio alla storia e ai suoi protagonisti! 

 

A presto, Marti 🐍

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Capitolo 10
*** CAPITOLO NOVE ***


THE HAUNTING OF HEYDON HALL


 

CAPITOLO NOVE

 

 

“Quello che non sai non può farti male, vero? 
Se un uomo attraversa una stanza buia 
dove c’è una voragine, 
se ci passa a pochi millimetri, 
non c’è bisogno che sappia che 
c’è mancato poco a cascarci dentro. 
Non c’è bisogno di avere paura. 
Basta che le luci restino spente.”
S. King, Cujo

 

 

Heydon Hall, Norfolk, 18 settembre 2023

«Non sono stata io», si difese ancora Emma.

«Sì che è stata lei, l’abbiamo vista», snocciolò Shay tutto d’un fiato. Tutti si girarono a guardarla.  «L’abbiamo vista. Non è vero, Joanna?» aggiunse voltandosi verso l’amica. Le due si guardarono per un attimo, e poi Joanna annuì con convinzione. «L’abbiamo colta in fallo, signora Parkinson», confermò.

Emma non poteva credere alle sue orecchie. «State scherzando, spero? Stanno scherzando», aggiunse rivolgendosi a Pansy. «Non sono stata io, e loro sono arrivate qui solo qualche minuto dopo di me, stavo cercando il libro di Pozioni… Il letto era già così…»

Pansy la guardava, le mani appuntate sui fianchi. «Penso sia arrivato il momento di convocare suo padre, signorina Nott.»

 

[NUOVI GUAI CONFERMATI]

 

Emma la fissò come se le avesse appena detto che quell’anno avrebbero annullato il Natale. «Mio padre?»

«Venga con me», rispose solo la donna facendole un cenno del capo. «Voi due ripulite tutto, non voglio che le bambine più piccole lo vedano o finiranno di strillare a Pasqua», aggiunse rivolgendosi alle altre due ragazze. 

«Dobbiamo pulire?» esclamò Shay. 

«Perché?» protestò quindi Joanna. «Cosa c’entriamo noi?»

«Non voglio sentire una parola di più», alzò la voce Pansy, gli occhi sbarrati. «Avete sentito cosa vi ho detto.» Così dicendo girò loro le spalle senza degnarle di un altro sguardo. Emma rivolse loro un sorrisetto, segretamente compiaciuta che Pansy avesse lasciato a quelle due vipere quell’incombenza. Le altre due la guardarono malissimo, ma lei si limitò a dar loro le spalle e a seguire Pansy fuori. Quest’ultima non disse una parola finché non raggiunsero la saletta riservata al personale, che in quel momento era deserta, fatta eccezione per il signor Lamb, che sedeva in poltrona fissando un punto imprecisato del tappeto sdrucito. Alzò solo vagamente gli occhi quando le vide entrare, ma poi tornò alla sua avvincente attività. 

 

[DA SOLA CON PANSY]

 

Pansy fece cenno ad Emma di sedersi su una sedia, mentre lei rimase in piedi, guardandola dall’alto. 

«Spero che non dicesse sul serio, prima…» iniziò quindi Emma spezzando il silenzio. «Se convocasse mio padre—»

Pansy la interruppe alzando una mano. Emma si rimangiò ciò che stava per dire, cioè che non avrebbe sopportato di leggere altra delusione negli occhi di suo padre, non dopo ciò che era successo negli ultimi tempi. L’aveva mandata a Heydon Hall fiducioso che quel posto l’avrebbe fatta riflettere sui suoi errori, e ora lo stavano per convocare per dirgli che sua figlia non aveva riflettuto affatto. I suoi genitori non le avevano ancora scritto dopo aver ricevuto il gufo che li informava della festa clandestina e della sua conseguente punizione, e quel silenzio la preoccupava. Sentiva la nausea salirle ad ondate, incentivata da ciò che era appena successo in dormitorio, da quelle parole scritte col sangue, dal loro significato, e da chi doveva averle scritte: la signora di Heydon Hall. Ormai non aveva più dubbi. Si chiedeva solo perché, perché avesse deciso di metterla nei guai in quel modo. Se davvero il significato implicito di quelle parole era difenderla, e quindi “mettere in guardia Isabelle”, allora esplicitamente l’avevano solo messa in casini ancora peggiori di quelli dai quali il fantasma ci teneva tanto a proteggerla. Stava complicando le cose senza volerlo, ed Emma avrebbe tanto voluto dirle di smetterla, ché era in grado di difendersi da sola, come aveva sempre fatto. 

«È la procedura. Alla luce di ciò che è appena successo, unito ai fatti di venerdì notte, mi sento in dovere di convocarlo, temo che un altro gufo non basti.» Era tornata a parlarle in modo informale, come aveva sempre fatto, ma la cosa non la consolava.

«Non sono stata io», tentò di difendersi nuovamente Emma. «Lo giuro.»

Pansy la guardò, pensierosa, le braccia conserte. «Mi piacerebbe crederti, Emma, ma quelle ragazze dicono di averti colta sul fatto, ed eri l’unica in quella stanza che avrebbe avuto motivo di farlo.»

«Mi odiano!» esclamò lei saltando in piedi. «Mi odiano da quando sono arrivata, ecco perché stanno cercando di incolparmi! Vogliono vedermi espulsa!»

«Abbassa la voce, per favore, non stai parlando con Potter, ma con me», rispose l’altra guardandola severamente. Emma si rimise a sedere, sentendosi pungere sul vivo con quell’accenno a James, l’ennesima persona che avrebbe visto delusa da lei. In quel momento, si rese conto che quel pensiero era forse il peggiore, lo scenario più scoraggiante che potesse dipingerlesi davanti: James che la guardava deluso, amareggiato, e che la osservava andar via da Heydon Hall, lasciandolo solo con il fantasma - lasciandolo solo e basta. 

«Le prove parlano chiaro, e non posso escludere così su due piedi la testimonianza di due persone, mi dispiace. Oggi pomeriggio scriverò a tuo padre e gli chiederò di presentarsi qui domani stesso. E lui e il preside decideranno il da farsi insieme.»

In quel preciso istante, un pianto disperato spezzò la tensione e l’apparente calma della stanza. Emma sobbalzò e si rannicchiò su se stessa, le mani sulle orecchie. 

 

[IL PIANTO DI HEYDON HALL]

 

Non aveva mai sentito un pianto tale, intriso di disperato e agghiacciante dolore, come se la persona dal quale proveniva fosse preda di immani sofferenze, se fisiche o mentali, o entrambe, non avrebbe saputo dire, ma enormi sì, e tali da scuotere i muri e l’intero edificio. 

«Emma?» sentì Pansy chiamarla. «Emma, cosa succede?» Le si accucciò accanto e la prese per le spalle. Emma intanto era scivolata sul pavimento, la testa avvolta dalle sue stessa braccia, e Pansy cercò di farla riemergere da quel suo mondo fatto di sofferenza e dolore. Quel pianto le penetrava nelle tempie e non le dava pace. Azzardò uno sguardo a Pansy, chiedendosi come facesse ad essere così calma. I suoi occhi le danzavano sul viso, preoccupati, ma non sembrava turbata.

«Il pianto», biascicò quindi Emma. «Questo pianto… Mi sta trapanando la testa…»

«Quale pianto, Emma?»

Alzò la testa a guardare la donna di fronte a lei. Possibile che non lo sentisse? Possibile che lo udisse solo lei e nessun altro? Girò lo sguardo su Pince: l’uomo aveva alzato la testa dal tappeto e la guardava. La guardava come se sentisse - la guardava come se sapesse. Due file di lacrime gli solcavano le guance rugose. 

 

🥀

 

Emma camminava a passo spedito lungo il corridoio, diretta in biblioteca. 

 

[L’EMMA FURIOSA]

 

Con tutto quello che era successo, ormai la lezione di Pozioni l’aveva persa, e l’ora di buco prima di quella di Erbologia era intenzionata a trascorrerla in solitudine, cercando di sbollire in santa pace. Se avesse incontrato anche solo un essere umano, in quell’esatto momento, se lo sarebbe mangiato tutto intero. Era a Heydon Hall da soli diciotto giorni e avrebbero già convocato suo padre per la sua - presunta - cattiva condotta. A Hogwarts non aveva mai tenuto segreta la sua irrequietezza, e non si era mai nascosta dietro una menzogna quando veniva colta in fragrante, nell’atto di compiere una malefatta (o subito dopo), anzi, ne rivendicava la colpevolezza quasi con orgoglio. Invece questa volta era diverso, questa volta lei non c’entrava niente con quelle grottesche e inquietanti scritte comparse sul letto di Isabelle, e sentiva di odiare a morte Shay e Joanna per le loro bugie. Mai come in quel momento avrebbe avuto bisogno di qualcuno che semplicemente le dicesse «lo so, Emma, che non sei stata tu, io ti credo», e invece si ritrovava sola - a parte per la rabbia che le inondava il petto e non la faceva né ragionare, né respirare. 

A pochi passi dalla biblioteca, incontrò forse l’ultima persona sulla terra che in quel momento avrebbe voluto incontrare: James. In realtà, se avesse dovuto essere completamente sincera con se stessa, allora avrebbe dovuto ammettere che Potter avrebbe potuto essere l’unico in grado di placarla - e forse l’unico in grado di crederle. Dall’altro lato, però, non voleva confessargli quell’ultimo guaio, la goccia che aveva fatto straboccare il calderone, ciò che avrebbe potuto costituire la base per la sua espulsione da Heydon Hall. 

James era poggiato ad una parete e sembrava che stesse riflettendo. Se ne staccò quando la vide arrivare, ed Emma non ebbe modo di fare dietrofront o quanto meno nascondersi. 

«Ti stavo cercando», cominciò lui. 

«Ah, sì? Ora mi hai trovata, quindi ciao», rispose solo superandolo senza neanche guardarlo. 

Lo sentì raggiungerla e affiancarlesi. «Pansy mi ha detto cos’è successo in dormitorio…»

Emma aprì la porta ed entrò. All’interno non c’era nessuno, come sempre. «Devo finire un tema, Potter, non ho tempo.»

«Perché non ne vuoi parlare?»

Alzò gli occhi al cielo, raggiungendo il tavolo al quale avevano pranzato insieme solo un paio di ore prima, sbattendo la borsa con fragore. «Secondo te? Non ho niente da dire.»

«Ho sentito la storia da Pansy, voglio sentirla da te, ora», insistette lui incrociando le braccia sul petto, risoluto. E dannatamente cocciuto. 

«E io non ho nessuna voglia di raccontartela, tanto non mi crederesti, come non mi crede nessuno, in questa stupida scuola», esplose lei. «Come possono pensare che sia stata io? Quella scritta è stata fatta col sangue! Pensano davvero che io sia così pazza da sgozzare un maiale e usare il sangue per imbrattare il letto di una mia compagna? Solo perché di cognome faccio Nott, allora pensano che il sospetto sia dovuto?»

«Emma, io non penso—» iniziò James facendo un passo avanti, ma lei alzò una mano a fermarlo. Non voleva che lui la compatisse, non voleva che se ne uscisse con qualche bel discorsetto edificante e pieno zeppo di spiccia morale da quattro Zellini in pieno stile-Potter, non aveva né la voglia, né la forza per stare ad ascoltarlo. 

«Non mi interessa cosa pensi, Potter», disse quindi, e sentì la sua stessa voce uscire dalla gola dura come l’acciaio, e fredda come il ghiaccio. Voleva ferirlo, voleva allontanarlo, solo così sarebbe stata completamente sola, proprio come si meritava, proprio come era giusto. «Forse pensi che siamo amici, ma non è così. Non mi servono le tue stupide prediche da Grifondoro.»

Lo vide adombrarsi per un momento, ma il ragazzo non si mosse, non retrocedette neanche di mezzo centimetro. «Lo so perché fai così. Ti conosco. Sei tale e quale a mio fratello.»

Emma scosse la testa, ridendo, e quella risata le uscì più come un ghigno. Fece qualche passo avanti per raggiungerlo, e gli si fermò ad un palmo dal naso. Lo vide deglutire. «Tu pensi di conoscermi, ma non mi conosci affatto.» Allungò una mano e gliela passò sul petto, continuando a guardarlo da sotto le ciglia. «Ci sono cose di me che non capirai mai, Potter, per quanto tu ti possa sforzare.»

James la stupì afferrandole la mano e scostandogliela dal suo petto, ma senza lasciarla andare. «Aiutami a capirle, allora.»

Lei scosse la testa e si liberò dalla sua presa. Rise. «Sembri crederci davvero, la cosa quasi mi commuove. Il fatto è che nessuno vuole avere a che fare con una come me, con un cognome così scomodo come il mio.»

«Non farla tanto lunga, Emma», esclamò quindi James alzando leggermente la voce. «Il migliore amico di mio fratello di cognome fa Malfoy, e ti ricordo che esce con mia cugina. E Albus stesso è fidanzato con una Zabini. Credo che questi siano solo stupidi pretesti che tiri fuori perché non vuoi scoprirti, non vuoi abbassare la guardia, con nessuno e tanto meno con me.»

 

[UNA BRECCIA NEL MURO]

 

Lei lo guardò con occhi sottili. Era incredibile come riuscisse a fare breccia, sempre e comunque, ma lei non lo avrebbe lasciato entrare, no, avrebbe difeso quel residuo di muro che si era erta intorno. Si rese conto che non aveva desirato altro che vederlo cadere, da quando aveva conosciuto James Potter, non aveva desiderato altro che lui lo facesse crollare - la facesse crollare - ma in quel momento realizzò anche che quel crollo l’avrebbe lasciata scoperta, e indifesa, sotto quegli attacchi. Si sentiva spaccata a metà: da un lato desiderava che James fendesse le sue difese, dall’altro ne era terrorizzata, ché mai nessuno ci era andato così vicino, pericolosamente vicino. Capì anche che Potter quel suo cuore, oltre che tenerlo al sicuro, avrebbe benissimo potuto spezzarlo, in tanti piccoli frammenti, talmente fini che ricomporlo sarebbe risultato impossibile. E allora si trincerava dietro il suo essere Serpeverde, dietro il suo cognome, dietro un assalto che era una difesa. 

«Non sai di cosa parli, Potter», rispose quindi, abbassando lo sguardo sulla borsa e cominciando a tirare fuori dei libri a caso. Sostenerne lo sguardo e mentire stava diventando sempre più difficile, per lei. 

Lo vide avvicinarsi con la coda dell’occhio, e fermarlesi di fianco. Si ritrovò a trattenere inevitabilmente il respiro. «Mi puoi ascoltare solo un attimo? Per favore.»

«Devo finire un tema, ho detto», replicò risoluta. Si allontanò per avvicinarsi ad uno dei ripiani, facendo finta di leggere e scorrere i titoli, mentre cercava di riprendere fiato, sperando che Potter si stancasse e se ne andasse - proprio come facevano tutti. 

Invece lo sentì dietro di sé, e quando lui le afferrò un braccio, con fermezza ma anche con gentilezza, e la fece voltare verso di lui, lei fece cadere il libro che aveva sfilato dallo scaffale, e questo colpì il pavimento con un tonfo sordo. Ora guardare James divenne insostenibile: i suoi occhi caldi lampeggiavano, e la guardavano come non l’avevano mai guardata fino a quel momento. Emma non riuscì a decifrarli, ma tutto ciò che sentì le compresse la gabbia toracica, stritolandole le vertebre, e scese fin nello stomaco, sventrandoglielo, e poi giù nelle gambe, che ora sembravano di gelatina. La mano di James sul suo braccio era calda, caldissima, così come il suo fiato quando le parlò, a pochi centimetri dal suo viso già accaldato.

«Ho trovato una scritta anche io», snocciolò tutto d’un fiato, molto probabilmente per paura che lei lo interrompesse di nuovo. Quello che James non sapeva era che lei non era più in grado di interromperlo, o di fermarlo, ché si sentiva alla sua mercé, come mai le era capitato nella vita, prima di quel momento. «Sulla parete sopra il mio letto. Diceva solo “stai vicino ad Emma, io non posso raggiungerla”. Lo capisci? Capisci cosa significa, vero? Quindi, quando fai il diavolo a quattro dicendo che tutti ti pensano colpevole, per favore non generalizzare. Io non sono tutti. Io ti credo, Emma. Io ti credo.»

 

[GRAVITÀ]

 

Emma non seppe cosa la spinse a farlo, se la gravità che li avvolgeva, una gravità tutta loro che annullava ogni distanza, o se quel qualcosa che l’aveva spaccata in due, annullando ogni sua resistenza, o se per quella forza che l’attirava e allo stesso tempo la sospingeva in avanti, ad afferrargli il davanti della camicia per tirarlo a sé, i loro corpi finalmente a contatto, le labbra unite, un cozzare di denti e la lingua di lui sulla sua, gli occhiali che volavano via e le mani che si cercavano, svelte, quelle di lui sulla sua vita, a tenerla stretta a sé, quelle di lei intorno alla sua nuca, a non volerlo lasciare andare, la schiena poggiata allo scaffale, solo la stoffa sottile della camicia a separarli. Emma gli passò una mano tra i capelli, mentre James scese a baciarle la mascella, e i loro sospiri erano altissimi in quelle sale deserte. Le mani sottili di Emma scivolarono sul suo petto, cercando i bottoni della camicia, ché sentiva che non avrebbe trovato pace finché non gliel’avesse tolta. James si lasciò spogliare, mentre era tornato a baciarle le labbra, in un modo in cui non l’aveva mai baciata nessuno - Potter se la cavava davvero bene. Emma gli passò le mani sul petto e lo sentì tremare sotto il suo tocco, sperando quindi che nessuna lo avesse mai toccato così, prima di lei. Quando però gli prese una mano e se la infilò sotto la gonna, in un chiaro ed esplicito invito ad approfondire, lo sentì irrigidirsi sotto il suo tocco, frenandola. Stupita, alzò lo sguardo su di lui. 

«Non penso sia il caso, Emma…» le disse. 

Lei aggrottò le sopracciglia. In poche, semplici parole, Potter aveva ucciso il momento. Lo odiò un pochino. 

«Okay, nessun problema…» replicò allontanandolo con uno spintone. Lui barcollò leggermente, guardandola con occhi sbarrati e sorpresi. Emma si sistemò la camicia, infilò i libri a casaccio nella borsa e afferrò la giacca. 

«Emma…» lo sentì iniziare. 

«Sono in ritardo per Erbologia.»

«Emma, non intendevo—»

«Non ho capito se hai più paura per la tua virtù o per la mia, Potter, ma in entrambi i casi non parliamone più. Sono in ritardo, ci vediamo in giro.» Così dicendo gli rivolse un’ultima occhiata e si diresse all’uscita, il passo svelto. Voleva mettere quanta più distanza poteva tra sé e James Potter. 

 

[MAI SOLO AMICI]

 

Nessuno l’aveva mai respinta, e si sentiva doppiamente cretina per essersi esposta così, per averlo invitato ad andare oltre senza prima essere sicura che fosse propenso a farlo, per aver abbassato la guardia così facilmente. Ora si chiedeva come le cose sarebbero potute tornare come prima, ma la semplice risposta era che non potevano, niente sarebbe più stato lo stesso, d’ora in poi, non da quando l’aveva baciata così, non da quando lo aveva baciato così. Avevano superato il limite e non c’era possibilità di rimediare. E lei e Potter non sarebbero mai stati solo amici. Dentro di sé, era sempre stata ben conscia del rischio che stavano correndo, le avvisaglie c’erano tutte, ma pensava anche che, una volta che uno dei due avesse fatto il primo passo, allora sarebbe stata tutta discesa, ché il problema era stato sempre e solo uno: chi avrebbe ceduto per primo? E invece James pensava che “non fosse il caso”, per tutta una serie di ragioni che Emma non comprendeva, e che forse nemmeno voleva comprendere. Forse non le importava. Tutto ciò che le importava era che James Potter l’aveva respinta, e il nodo che ora sentiva allo stomaco era un concerto di vergogna e rabbia e frustrazione che avrebbe richiesto molto tempo per sciogliersi. 

Si ficcò in un bagno e si guardò allo specchio. I capelli erano sconvolti, la camicia era stropicciata, e aveva le labbra e il collo rossi laddove James l’aveva baciata. Lasciò cadere la borsa e la giacca a terra e si chinò per sciacquarsi il viso con l’acqua fredda. Aveva esattamente cinque minuti per correre fino all’aula di Erbologia e sperò ardentemente che Archie non si accorgesse di niente, l’ultima cosa che voleva era farsi fare il terzo grado da lui. 

Uscendo dal bagno, l’occhio le cadde su una fila di ragni che, pazientemente, sfilava sotto uno dei lavandini e scompariva in una fessura del pavimento. 

 

🥀

 

La guardo dormire, quella donna spregevole. Sembra dormire il sonno dei giusti, anche se immeritatamente. So tutto di lei, la morte ti regala chiarezza, seppur in mezzo alle tenebre; so tutto del suo cognome, del suo passato, di chi è stata e chi ha servito; so tutto di lei. Non si merita di respirare la stessa aria di Emma, non si merita di avere l’opportunità di camminarle accanto, starle vicino, senza sapere che io darei qualsiasi cosa per essere al suo posto, per poterle anche solo sfiorare una mano. 

 

Ho pianto calde lacrime di angoscia e dolore, oggi. Emma non si merita di non essere creduta, e sto male al pensiero che ora soffra per causa mia, per qualcosa provocato da me. Il fatto è che volevo solo avvertire quella stupida ragazza bionda di cosa sarebbe andata incontro se solo avesse continuato nella sua vile opera di derisione nei confronti della mia Emma. Voglio che si senta osservata, e tenuta d’occhio; voglio che si senta in pericolo, e costantemente in bilico tra la vita e la morte; voglio vederla soffrire come lei fa soffrire Emma. 

 

E adesso tocca a Pansy Parkinson. Adesso pagherà per ciò che ha detto e fatto, per le sue vuote minacce, per le sue sporche intenzioni. Pagherà e rimpiangerà tutto quanto. Sono accecata da una rabbia senza controllo e senza quartiere, mi sento potente, come non sono mai stata in tutta la vita, sento il sangue scorrermi dentro anche se non ho più un corpo che lo contenga, sento la testa esplodermi, e devo canalizzare la mia ira, devo farla uscire

 

Così mi inchino sopra il letto di Pansy, le sussurro parole di morte all’orecchio, e incubi pieni di terrore e angoscia, ma senza svegliarla, no, non le darò il piacere dell’evasione da quel sogno, anzi, la terrò imprigionata in esso finché mi aggraderà. La faccio alzare, poggiare i piedi nudi sul pavimento freddo. Indossa solo una stupida camicia da notte rosa ed è così patetica. 

 

Ci avventuriamo fuori, nel corridoio buio, e solo la luce della luna, sempiterna amica e sorella, illumina la nostra via - nonostante non ne abbia alcun bisogno. Lentamente, faccio procedere Pansy in avanti, i piedi che si trascinano dietro lo sporco e la polvere, gli occhi chiusi e le mani protese davanti a lei. Ad un occhio esterno, sembrerebbe solo una sonnambula; ma internamente, la sento soffrire. 

 

Apro l’ingresso alle mie stanze, le pesanti catene cadono a terra con un tonfo sordo. Ora Pansy lascia le impronte sulla polvere spessa, ma non si ferma - io non la faccio fermare. Entriamo nel giardino d’inverno, un misto di piante sempreverdi e magici fiori che si schiudono a mezzanotte e poi periscono, e natura morta da anni, rinsecchita e secca, rimasta lì come un grottesco e triste souvenir della vita. 

 

So benissimo dove voglio condurla. Alzo lo sguardo sul ballatoio in ferro battuto, sulla scala a chiocciola, molto simile a quella installata all’interno, ma che non è mai stata stabile, almeno non quanto dovrebbe esserlo per reggere una persona adulta. Ed è proprio ciò che desidero. 

 

La spingo in avanti, la osservo salire, un piede davanti all’altro, mentre tutta la scala cigola e geme e soffre - così come geme e soffre lei stessa, ossa scricchiolanti e muscoli intorpiditi e il cuore palpitante di angoscia e di un nero timore senza nome. Le mie labbra si incrinano in un sorriso.

 

Continua a salire, Pansy, e più sale, più il volto di Emma mi invade lo sguardo. È così bella. E intelligente. E coraggiosa. È tutto ciò che ho sempre sperato di essere, ma che non sono stata. Ed è proprio il pensiero di Emma a farmi vacillare, ed esitare. Il contatto mentale con Pansy si rompe e il suo grido terrorizzato è ciò che mi riscuote dal torpore. 

 

La guardo, aggrappata alla ringhiera, là in alto, il volto trasfigurato dalla paura, e mi guarda anche lei, e dentro le sue orbite vuote, ricolme di orrore e sgomento, riesco a vedere il mio riflesso. Mi sta guardando. Mi vede. Lei sa

 

Mi lascio dissolvere con una risata alta e amara, abbandonandola al suo triste, ma meritato, destino. Nessuno correrà a salvarla. Nessuna la sentirà. La notte ingoierà il suo richiamo. 

 

🥀

 

James era andato a dormire scombussolato e tremendamente desolato. 

 

[STUPIDO STUPIDO STUPIDO]

 

Non penso sia il caso, Emma…”: quanto era stato deficiente? Quanto? Quelle parole gli rimbombavano nella testa da ore, da quando Emma se n’era andata dalla biblioteca come una furia e lo aveva lasciato lì, la camicia aperta sul petto, il viso arrossato e la testa nel pallone. 

“Emma…”

“Sono in ritardo per Erbologia.”

“Emma, non intendevo—”

“Non ho capito se hai più paura per la tua virtù o per la mia, Potter, ma in entrambi i casi non parliamone più. Sono in ritardo, ci vediamo in giro.”

Si vergognava come un verme, a ripensarci. Stupido stupido stupido. E ancora stupido. Cioè, desiderava baciare Emma da giorni, non riusciva a tenere la mani al loro posto e si sentiva costantemente irrequieto, e poi cosa combinava? Quando finalmente la situazione si era spinta più in là, lui se n’era uscito con quelle parole patetiche… Stupido stupido stupido. 

A cena di Emma non c’era stata neanche l’ombra, e la immaginò seduta sul suo letto, a cercare di stregare una bambola voodoo che lo rappresentasse - e a ragione. Lui aveva distribuito i vassoi come un fantoccio senza vita e senza linfa, non si era avvicinato nemmeno per sbaglio al tavolo di Archie e Tyler, per paura che Archie gli leggesse tutto in faccia, e non aveva rivolto loro neanche un mezzo sguardo. Poi se n’era andato mestamente, la coda tra le gambe, e aveva rifiutato la solita compagnia serale di Pansy e Lamb nella stanza del personale, adducendo un mal di testa improvviso, prendendo la sua tazza di tè e rintanandosi in camera sua. Si era fatto una doccia quasi fredda, mentre il pensiero di Emma non riusciva a uscirgli dalla mente. Stupido stupido stupido. Pensava che ora, molto probabilmente, non gli sarebbe più capitata un’altra occasione, che Emma non avrebbe più voluto saperne di lui, anche perché come avrebbero fatto a gestire l’imbarazzo che si sarebbe inevitabilmente creato tra loro e derivante dall’aver intrecciato le lingue a quel modo? No, Emma non gli avrebbe più rivolto la parola, e forse nemmeno uno sguardo - e gli sarebbe stato solo bene. Per Godric, perché aveva aperto quella boccaccia? 

 

[LA GIUSTIFICAZIONE DI JAMES]

 

A sua discolpa, poteva dire che aveva fermato Emma non per il gesto in sé - anzi, la cosa lo eccitava parecchio e non era uno sprovveduto, sapeva cosa fare - ma più perché qualcuno avrebbe potuto scoprirli e vederli, e alla figuraccia causata da quell’evidente e compromettente situazione si sommava anche la regola che i due avevano infranto senza alcun tentennamento, cioè “nessun rapporto sentimentale tra un membro del personale e uno del corpo studentesco”. Anche la loro amicizia era tecnicamente fuori luogo, per questo avevano sempre cercato di non dare nell’occhio e non farsi vedere insieme, figuriamoci se fosse trapelato che erano stati scoperti a darci dentro in biblioteca. Emma sarebbe stata espulsa e lui cacciato via, e chissà cosa ne sarebbe stato del suo anno di servizi utili… Probabilmente avrebbe finito per scontarlo da un’altra parte. Certo, per lui non sarebbe stato un grosso problema, ma non si poteva dire lo stesso per Emma. E non voleva che lei finisse in guai seri per colpa sua - e di una pomiciata, che seppur rovente e decisamente eccitante, li avrebbe spediti entrambi fuori da lì senza passare dal via. 

Tutte quelle motivazioni, che lì per lì gli erano sembrate più che sensate, ora, analizzandole e pensandole alla luce di quanto era successo dopo, gli erano apparse solo come una stupida e banale scusa per non approfondire, e forse ad Emma erano apparse come un fermo rifiuto, e una prova tangibile di quanto fosse stata avventata a baciarlo. Quindi doveva sentirsi una stupida anche lei - seppur mai quanto lui. No, nessuno lo avrebbe battuto, in quanto a stupidità, neanche tutte le Isabelle Williams del mondo messe insieme. 

Dopo la doccia aveva bevuto il suo tè ormai freddo e si era messo a letto, cercando di prendere sonno, ché forse lo avrebbe aiutato a dimenticare. Forse, si sarebbe svegliato il mattino dopo e si sarebbe reso conto che era stato tutto un sogno, e che avrebbe avuto ancora un’occasione, con Emma, che non aveva mandato tutto al diavolo con la sua stupidità. Nutriva scarse speranze, in merito, ma cullarsi in quell’illusione lo faceva sentire meno scemo - anche se di poco. Pochissimo. 

 

[GRIDA NEL CUORE DELLA NOTTE]

 

Quando si ridestò, nel cuore della notte, gli sembrò di aver dormito per un tempo eterno, quando in realtà l’orologio sul comodino segnava solo l’una e mezza. Un grido spaventoso aveva scosso le fondamenta stesse di Heydon Hall. James afferrò gli occhiali e la bacchetta, accese la luce e uscì in corridoio. Lamb era sulla porta della sua stanza, i capelli spettinati e solo mezzo occhio aperto. 

«Cosa diamine succede?» esclamò. 

Da un’altra porta emerse il viso mummificato di Cordelia Pince, i bigodini in testa e le labbra strette. «Lambert?» chiamò il figlio con voce stridula ma autoritaria. «Cosa succede, Lambert?» 

Lui corse dalla madre. «Non ti preoccupare, mamma, torna a letto…»

«Sembra che arrivi dall’ala ovest», convenne James sulle spine. Desiderava correre fin là e verificare cosa stesse succedendo. 

«L’ala ovest…» cominciò la Pince, gli occhi sbarrati.

«Torna a letto, mamma!» esclamò ancora Lamb, la voce stridula tanto quanto quella della sua esimia genitrice. Sembravano due cornacchie sparute dalle gambe sottili. 

«Avete sentito anche voi?» La voce baritonale di Corner irruppe nel corridoio. Il preside era l’unico membro del corpo insegnante a dormire a Heydon Hall. Indossava una vestaglia sopra il pigiama ma sembrava sveglissimo, come se non stesse affatto dormendo. «Sembrava la voce di Pansy…» James si chiese da quando la donna fosse diventata solo “Pansy”, per il preside, ma tenne quella domanda per sé, non era il momento di fare speculazioni. 

Senza aggiungere nulla, James si diresse alla porta della collega, che era l’ultima del corridoio, e la trovò spalancata. All’interno, le coperte erano scostate, come se la donna si fosse alzata, ma le ciabatte erano ancora al loro posto. 

 

[DOV’È PANSY?]

 

«Pansy non c’è», disse tornando in corridoio. 

In tutta risposta, Corner gli diede le spalle, correndo via senza dire niente, probabilmente diretto all’ala ovest. James scattò in avanti.

«Lamb, tu e madame Pince andate a controllare i ragazzi e le ragazze nei dormitori, avranno sentito tutto e avranno bisogno di rassicurazioni, io corro dietro al preside», snocciolò tutto d’un fiato. 

Lamb aprì bocca per replicare, ma James non gli diede il tempo. Gli lanciò un’ultima occhiata d’intesa e corse via. Quando raggiunse l’ala ovest, vide il bordo della vestaglia di Corner scomparire dietro l’angolo. Lo seguì, varcando la soglia della stanza che, giorni prima, aveva esplorato con Emma.  Ora le grida erano altissime, e stridule, e intrise di terrore. Era inequivocabilmente la voce di Pansy. Intravide il preside entrare nel giardino d’inverno, così corse in avanti per raggiungerlo. Una volta entrato, vide tutto quanto: Pansy era in piedi sul vecchio e arrugginito ballatoio in ferro battuto, leggermente accoccolata sulle ginocchia, la camicia da notte rosa sporca di polvere, i capelli arruffati, e gli occhi spalancati per la paura. Quando li vide, le urla si placarono leggermente, unendosi però ai singhiozzi. 

 

[PANSY È IN PERICOLO]

 

«Pansy…» cominciò Corner riacquistando l’uso della parola. James gli si affiancò e gli lesse in viso la stessa paura di Pansy, lo stesso terrore cieco. Notò che gli tremavano le mani. «Cosa…» Non riuscì ad articolare nient’altro, così James decise di prendere in mano la situazione. Gli si piazzò davanti e lo prese per le spalle. 

«Preside Corner, ci penso io, okay? Lei resti qui.»

James fece qualche passo avanti, ma Corner lo afferrò per un braccio. Lui si voltò a guardarlo, trattenendo un’imprecazione. Non c’era tempo per esitare troppo, il ballatoio rischiava di cedere da un momento all’altro, facendo cadere Pansy nel vuoto. James non era sicuro che la magia sarebbe servita, in quel caso. 

«Dovrei andare io», disse il preside lanciando un’occhiata a Pansy. «Dovrei essere io a salvarla, io—»

«Non dica sciocchezze», lo interruppe James. «Io sono più leggero e, non si offenda, più agile. Andrò a prendere Pansy e la porterò giù sana e salva, si fidi.»

Lo vide annuire, di nuovo muto come un pesce, ma boccheggiante. Così James gli diede le spalle e alzò gli occhi su Pansy, che continuava a gemere impaurita. 

 

[JAMES PRENDE IN MANO LA SITUAZIONE]

 

«Ora ho bisogno che mi ascolti, Pansy», cominciò. Lei lo guardò, singhiozzando più forte. Almeno le urla si erano placate. «Ho bisogno che, lentamente, tu ti sposti di qualche centimetro verso la scala, piano piano. Così sarà più facile per me venirti incontro e aiutarti a scendere. Vuoi?»

«Ho paura…» la sentì sussurrare. «Se lei… Se lei tornasse…»

Lei

Era possibile che si riferisse al fantasma?

James cacciò via quel pensiero che, in quel momento, non gli era di nessun aiuto.

«Lo so che hai paura», continuò lui, imperterrito. «Lo so bene. Ma ho bisogno che tu faccia questa cosa per me, solo così riuscirò ad afferrarti la mano e farti scendere da lì.»

«È stata leiLei mi ha messa qui…»

«Ti credo, Pansy.» James preferì incoraggiarla e assecondarla. «Ti credo e ti capisco. E guarda, noi siamo corsi ad aiutarti, vedi? Il preside Corner e io siamo qui per te.»

«Michael», sussurrò quindi lei spostando lo sguardo sul preside, come se non lo avesse ancora visto. Era strano sentirlo chiamare per nome, ma James immaginò che fosse quasi normale, per due persone che lavoravano insieme da tanto tempo, e a così stretto contatto. Sentendosi chiamare, Corner sembrò ridestarsi dal suo torpore. 

«Pansy…» rispose facendo un passo avanti e affiancandosi a James. «Pansy, ascolta James. Per favore

James pensò che in quel “per favore” fossero racchiuse molte cose, più di quelle che i due lasciavano intendere, ma anche in quel caso preferì non farsi altre domande. Fece qualche altro passo avanti, fermandosi ai piedi della scala. Sembrava molto più pericolante e dissestata di quella che avevano salito lui ed Emma nell’altra stanza e deglutì. Dentro di lui si insinuò un piccolo dubbio, una stilla di rimorso per essersi offerto di salire prima di Corner, una goccia di egoismo che lo spingeva a dirsi che avrebbe benissimo potuto farsi gli affari suoi, invece di continuare a rischiare la vita, da dannato Grifondoro qual era - e che sarebbe rimasto sempre. Ma poi il coraggio tornò a invadergli ogni terminazione nervosa, insieme all’adrenalina, e si sentì nuovamente pronto a tutto. 

«Sto salendo, Pansy, ma prima ho bisogno che tu faccia quella cosa per me. Per noi», aggiunse, sperando che il pensiero del preside l’aiutasse e le infondesse coraggio. Finalmente, dopo tanto pregare, Pansy strisciò in modo maldestro di qualche centimetro, avvicinandosi all’imboccatura della scala. James fece allora un respiro profondo e mise un piede sul primo scalino. La scala ondeggiò pericolosamente, e lui si fermò qualche secondo, ponderando la situazione e sperando che la fortuna lo assistesse. Con cautela, un passo dopo l’altro, facendo attenzione che la struttura reggesse, James riuscì a raggiungerne la cima. Da lassù, si accorse che il ballatoio era davvero in alto, e capì perché Pansy fosse così tanto terrorizzata. Lui era abituato alle altezze, giocando a Quidditch, ma ovviamente capiva che non poteva essere così per tutti. Il preside Corner intanto si voleva rendere utile e si era quindi messo a reggere la scala, cercando di tenerla ferma per evitare che oscillasse troppo. James intanto si era accucciato di fronte a Pansy e le aveva teso una mano. La donna gliela strinse, e lui cercò i suoi occhi, intenzionato ad infonderle un po’ di coraggio. 

«Ci siamo», disse quindi a bassa voce, quasi come se temesse che parlare troppo forte avrebbe potuto farli precipitare entrambi nel vuoto. «Ora, con calma e lentamente, scendiamo, d’accordo? Il preside Corner è qui sotto che ci aspetta.»

Vide Pansy annuire, ma senza dire niente. James l’aiutò, sempre tenendola per mano, a fare qualche altro passo, ed entrambi sedettero sul primo scalino, il fiato corto per l’agitazione. James ponderò nuovamente la situazione, anche se ovviamente non c’era proprio nulla da ponderare: ora che era arrivato lassù, non gli restava che scendere. Avrebbe potuto far Levitare Pansy fin giù, ma non era sicuro di esserne in grado, così si voltò verso di lei e cercò di sorriderle, incoraggiante. «Si scende», disse solo. Pansy annuì nuovamente, ma senza guardarlo: ora aveva lo sguardo puntato su Corner. «Al mio tre, tu vienimi dietro. Non ti lascio andare, okay?» La donna annuì una seconda volta. «Uno… due… » James inspirò copiosamente, «… tre!»

 

[SI SCENDE]

 

La discesa fu velocissima. Macinarono tutti e dieci gli scalini come se stessero volando, e arrivarono al fondo esausti, come se avessero corso per dieci chilometri. Pansy si lasciò cadere nelle braccia di Corner, che l’afferrò subito, i riflessi pronti. James invece si accasciò a terra, sfinito. La scala aveva oscillato davvero tantissimo e continuava a cigolare pericolosamente sopra le loro teste.

«Spostiamoci da qui sotto», riuscì ad esclamare lui senza fiato. E così si trascinarono fuori dal giardino d’inverno, nuovamente all’interno di Heydon Hall. James riaccese la bacchetta e si lasciò cadere su uno dei divani coperti da lenzuola, sospirando e chiudendo gli occhi. Per un momento, mentre scendeva da quella maledetta scala, aveva davvero temuto che sarebbe crollato tutto sulle loro teste. 

 

[PANSY E MICHAEL]

 

Quando riaprì gli occhi, vide che Pansy e Corner erano seduti sul divano di fronte al suo, la prima letteralmente accoccolata sul petto del secondo, che la stringeva a sé, le labbra a baciarle i capelli e a sussurrarle affettuose parole di conforto. Ciò che aveva vagamente intuito e presagito si stava ora rivelando fondato: Pansy Parkinson e Michael Corner avevano una relazione. Da non crederci.

James allora si alzò in piedi. Era stufo e stanco e voleva davvero tornarsene a letto, anche se prima avrebbe dovuto farsi un’altra doccia per scrollarsi di dosso tutta la polvere e le ragnatele. Guardò la coppia che gli sedeva di fronte. 

«È meglio portarla in infermeria, vuole che avverta la guaritrice?»

Corner si alzò in piedi, e aiutò Pansy a fare lo stesso. Le drappeggiò la sua vestaglia sulle spalle magre e gliele cinse con un braccio. 

«Andiamo in infermeria, intanto, così Pansy potrà stendersi un attimo», rispose Corner. «Dopo aver avvertito Lamb - può chiamare lui la guaritrice - tu te ne torti a letto, però, ho abusato abbastanza del tuo aiuto, per stanotte.»

James annuì. «Non deve preoccuparsi, ho aiutato volentieri.»

Corner gli sorrise, il viso teso e stanco, e poi si avviò fuori, sempre con Pansy al suo fianco. James corse avanti per precederli e li scortò fino in infermeria, dove il preside fece stendere una Pansy ancora tremante su uno dei letti, rimboccandole le coperte fin sotto il mento. James li lasciò soli, e uscì per andare a cercare Lamb. Lo trovò fuori dalla stanza del personale, agitato e impensierito. 

«James!» esclamò quando lo vide arrivare.

«I ragazzi sono okay?» lo anticipò James.

Lamb annuì. «Sì, stanno tutti dormendo. Ma cos’è successo?»

«Ora ho bisogno che chiami subito la guaritrice, Lamb. Poi vai in infermeria, là troverai Pansy e il preside Corner, che ti spiegherà tutto.»

«Va bene, vado subito. Tu stai bene?» gli chiese poggiandogli una mano sul braccio.

«Sto bene, sì, non preoccuparti», annuì James. Poi guardò Lamb correre via e si trascinò quindi nella sua stanza. Richiuse la porta e vi si appoggiò contro, chiudendo gli occhi. Si sentiva davvero stanco. Stanchissimo. 

 

[JAMES È FINALMENTE SOLO]

 

Ebbe la forza per togliersi il pigiama lurido e farsi un’altra doccia, cercando di lavare via la polvere e lo sporco che si sentiva ancora addosso, appiccicato alla pelle. Ripensò a ciò che era successo, alle mille mila ipotesi e teorie che gli si erano formate in testa, ma soltanto una lo dominava, e gli impediva di valutarne delle altre: il fantasma di Heydon Hall aveva attaccato volontariamente Pansy, l’aveva condotta fin lassù e aveva cercato di farla fuori. Non c’era altra spiegazione per la scena che si era svolta nel giardino d’inverno. E quel che era peggio era che c’era una precisa ragione per la quale il fantasma doveva aver deciso di attaccare Pansy, l’unica, possibile ragione che, da qualche tempo a quella parte, la spingeva a fare ciò che faceva: proteggere Emma. Pansy aveva incolpato Emma di aver imbrattato il letto di Isabelle, decidendo di convocare Theodore, e Pansy ora veniva punita dal fantasma, addirittura rischiando la sua stessa vita. James si chiese fin dove la dama si sarebbe spinta, in quel suo gioco pericoloso, quali tasti sarebbe arrivata a toccare e quali atti di efferata violenza sarebbe giunta a compiere, pur di proteggere Emma. E si domandò anche cosa l’avesse fermata, questa volta. Durante l’incidente con Charles era stata Emma, ma ora? Ovviamente, nessuno sarebbe stato in grado di fornirgli la risposta che cercava, nessuno tranne la stessa Pansy. Avrebbe dovuto parlarle, non appena si fosse ripresa, e sperava presto, visto che la sua testimonianza poteva rivelarsi decisiva per le loro indagini. Le loro indagini? Esistevano ancora, queste indagini? Oppure Emma era fermamente intenzionata a evitarlo e a cancellarlo dalla sua esistenza? 

 

[ANCORA RAGNI]

 

James indossò un pigiama pulito, si rimise gli occhiali e tornò in camera. Sotto la finestra, una fila di ragni caracollava a nascondersi in un’intercapedine. 

 


Note.
 

Be’, intanto TANTI AUGURI A ME 🥳 ebbene sì, oggi è il mio compleanno, e giorno di pubblicazione di questo (da me attesissimo, ché non vedevo l’ora di farvelo leggere) capitolo nove. I nostri eroi finalmente sfogano almeno un pochino i loro bollenti spiriti ma, MA, James non tiene chiusa la sua boccaccia e rovina tutto. Pensavate davvero che sarebbe stato /così/ facile? AH AH chi mi conosce sa quanto sotto sotto io sia crudele 👀 Vabbe’, a parte gli scherzi, io spero tanto che questo capitolo vi sia piaciuto perché, oltre che al primo limon— EHM, bacio, tra Emmina e James, leggiamo anche ciò che è successo alla cara, vecchia Pansy, tutto perché non ha creduto ad Emma e ha deciso di convocare Theodore (che tornerà nel prossimo capitolo, quindi tenetevi forti perché il decimo sarà esplosivo); molti di voi avranno pensato “ben le sta”, lo so. E invece la relazione tra lei e Corner ve l’aspettavate? Non credo, fatemi sapere cosa ne pensate, mi raccomando - e non solo di questa 🔮

 

Concludo queste note mettendovi al corrente che ho terminato i capitoli già scritti e pronti per la pubblicazione, quindi non è affatto detto che io riesca a pubblicare regolarmente ogni lunedì, d’ora in avanti; insomma, adesso i capitoli dovrete attenderli, e spero che questa cosa non vi faccia scappare, anzi, che sia occasione di ulteriore suspense 👀

 

A presto e grazie mille come sempre, Marti 🐍

 
 

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Capitolo 11
*** CAPITOLO DIECI ***


THE HAUNTING OF HEYDON HALL


 

CAPITOLO DIECI

 

 

“Il mistero dell’amore è più grande del mistero della morte.”
O. Wilde

 

 

Heydon Hall, Norfolk, 19 settembre 2023

James camminava avanti e indietro sulla porta di Heydon Hall. E attendeva. Quella mattina, il preside Corner gli aveva chiesto di accogliere Theodore Nott quando sarebbe giunto all’istituto, intorno alle nove, come concordato via gufo con Pansy. 

 

[CHIACCHIERE CON MICHAEL]

 

Inoltre, avevano anche parlato di ciò che era successo la sera prima, James seduto di fronte alla sua scrivania e Corner in piedi a scrutare il parco della tenuta dalla finestra. 

 

«Pansy come sta?» gli chiese prendendo posto.

Corner si voltò e James notò quanto fosse stanco: due pesanti borse viola gli erano apparse sotto gli occhi piccoli, e sembrava che non avesse più preso sonno, dopo l’incidente. 

«Sta meglio, per fortuna», rispose. «A tal proposito, le ho brevemente raccontato cos’è successo, stamattina, al suo risveglio. Ha insistito per sapere tutto, nonostante volessi evitarle i dettagli. Mi ha detto di ringraziarti per il tuo aiuto, in attesa che possa farlo lei stessa.»

James scosse la testa. «Ho fatto solo ciò che avrebbe fatto chiunque altro, se fosse stato lì.»

«Oh, no, non penso», lo contraddì il preside. «Hai dimostrato un grande coraggio, James, un coraggio che tanti uomini adulti possono solo sognarsi.» A James sembrò quasi che stesse parlando un po’ di se stesso, ma ovviamente non fece domande inopportune, non aveva con l’uomo un tale grado di confidenza da potersele permettere. «Spero che tu sia riuscito a dormire, dopo…»

«A malapena, l’adrenalina mi ha tenuto sveglio un bel po’ di tempo.» 

Oltre che gli strenui tentativi di stanare i ragni che si erano rifugiati sotto la mia finestra, pensò. Alla fine si era dato per vinto e si era buttato a letto, per poi addormentarsi dopo un tempo esageratamente lungo. 

Intanto Corner si era voltato di nuovo verso il parco, le mani intrecciate dietro la schiena, in una posa evidentemente riflessiva. 

«Preside Corner?» lo chiamò James. Doveva chiederglielo, anche se dubitava che l’uomo gli avrebbe detto davvero ciò che pensava, in merito. L’altro si girò e ne incontrò lo sguardo. «Cosa pensa che sia successo, questa notte? A Pansy, intendo.»

Lo vide sospirare, e prendere posto. Si sfilò gli occhiali e si stropicciò gli occhi stanchi. Poi tornò a guardare James. «Ho passato tutta la notte in infermeria», cominciò, e James lo immaginò seduto accanto al letto di Pansy, magari a tenerle una mano. Okay, basta fantasticherie stupide, pensò. «E ho pensato a talmente tante cose, ipotesi surreali e strane teorie… Poi sono arrivato alla semplice, e più scontata, soluzione, e proprio parlando con la signora Parkinson. Nessuno di noi lo sapeva, ma soffre di sonnambulismo. Per questo era solita chiudersi a chiave nella sua stanza, la notte, per evitare di andarsene in giro per Heydon Hall e, magari, fare del male a sé e agli altri.»

Sonnambulismo? Nah, James non ci credeva per niente. O meglio, credeva che lo fosse, visto che lo aveva asserito Pansy stessa, ma non credeva che fosse la causa di quello scampato incidente. L’idea però che Pansy potesse essersi inventata la storia del sonnambulismo solo per giustificare l’accaduto gli balenò nel cervello veloce come un Boccino. E decise che sarebbe andato a parlare con lei, con la scusa di verificare come stesse. 

Annuì, quindi, bevendosi la versione di Corner: quanto l’uomo sapeva?, quanto a fondo conosceva la storia di Heydon Hall?, e credeva al fantasma allo stesso modo nel quale tutti, indistintamente, lì a scuola, ci credevano a loro volta?, e aveva sentito le parole di Pansy su una Lei misteriosa?

 

«Ho paura… Se lei… Se lei tornasse…»

«È stata lei… Lei mi ha messa qui…»

 

James non aveva alcun dubbio: il fantasma della dama di Heydon Hall era responsabile di ciò che era successo a Pansy. Non poteva che essere Lei, la Lei che la sua collega aveva nominato con tanta paura, con tanto cieco terrore nella voce. E sembrava l’unica spiegazione sensata (per quanto insensata) a quell’incidente. 

«Ha senso», commentò solo alla spiegazione del preside, continuando ad annuire. Non pensava che fosse il giusto tempo per scoprire le sue carte, o comunque per avanzare teorie e ipotesi con Corner, ché l’uomo era ancora piuttosto scosso e pensieroso, e in qualche modo assente, come se il suo corpo fosse lì con lui ma la sua testa fosse da tutt’altra parte - forse con Pansy?, a macerarsi nella preoccupazione?, a chiedersi se lei si sarebbe mai ripresa del tutto da quello shock? 

«Riguardo la mia reazione di stanotte, invece…» cominciò quindi Corner distogliendo momentaneamente lo sguardo da lui, come se gli creasse imbarazzo parlarne. E forse era davvero così. «Ero molto preoccupato che a Pan—, la signora Parkinson», si corresse in fretta, arrossendo leggermente, «potesse succedere qualcosa di irreparabile e irrimediabile. Si trovava ad un’altezza pericolosa, e vederla lassù mi ha… be’, mi ha paralizzato… Soffro le altezze, io, sai? Quindi è stato come essere lassù con lei, ecco… » James non lo aveva mai visto così nervoso, e annuì energicamente per incoraggiarlo a continuare. «Quando siete scesi ero così sollevato… così sollevato che l’ho presa in braccio di slancio… volevo solo portarla via da lì. E rendermi utile dopo il tuo prezioso apporto, aggiungerei.»

James cercava di trattenere le risate: era divertente assistere allo spettacolo di un uomo adulto alle prese con le sue “faccende di cuore” come se fosse un quindicenne. Già solo pensare alle parole “faccende di cuore” lo faceva ridere. Per fortuna riuscì a darsi un contegno.

«E poi dopo… sul divano…»

A quel punto, James alzò una mano ad interromperlo. Non poteva sostenere oltre quel discorso così imbarazzante per entrambi. Corner lo guardò sbarrando gli occhi, sorpreso.

«Non ho bisogno di spiegazioni, davvero», disse. E gli restituì lo sguardo, sperando che il preside capisse cosa in realtà gli volesse trasmettere.

L’uomo allora annuì e gli sorrise, arricciando le labbra comicamente e schiarendosi la gola. James quindi si alzò in piedi, sapendo che la loro conversazione era bella che conclusa. 

«Più tardi passerò a trovare Pansy», disse ancora. «Voglio salutarla e vedere come sta.»

Corner annuì nuovamente. «Penso sia una buona idea. Tra l’altro, tu e Lambert sarete piuttosto oberati di lavoro, ora che la signora Parkinson è in convalescenza, mi dispiace.»

«Nessun problema, ce la caveremo.»

 

James aveva poi salutato ed era tornato alle sue mansioni. Aveva distribuito la colazione, e aveva notato l’assenza di Emma. Aveva chiesto spiegazioni ad Archie, ma ovviamente lui sembrava non saperne molto più di lui. Parlarono brevemente di ciò che era successo in dormitorio, e che aveva coinvolto nuovamente Isabelle, ripromettendosi di aggiornarsi su eventuali novità. Anche Archie e Tyler sembravano preoccupati: l’assenza di Emma pesava come un macigno. James immaginò che fosse ancora arrabbiata e turbata per via della convocazione di Theodore, e poi temeva che lo fosse anche per via di ciò che era successo tra loro in biblioteca, ma aveva evitato di dirlo ad Archie. Sperava tanto di rivederla il prima possibile. Voleva sapere come stava e, soprattutto, scusarsi per la sua stupida e insensata reazione, sempre se lei avesse voluto starlo a sentire. C’era la concreta possibilità che lo mandasse al diavolo senza nemmeno dargli il tempo di aprire bocca. 

 

[ARRIVA THEODORE]

 

In quel momento, la comparsa di Theodore Nott al fondo del lungo viale lo riscosse dai suoi turbinanti pensieri. Accantonò per un momento Emma e il ricordo del loro bacio e si sbracciò per fare segno a Theodore di raggiungerlo. L’uomo percorse la distanza che li separava a passo serrato e, quando James potè finalmente vederlo in viso, notò che era piuttosto teso e preoccupato, certamente per via dell’oggetto della sua convocazione lì a Heydon Hall.

«Bentornato, Theodore», lo salutò. 

«Avrei preferito farvi visita per una motivazione meno grave, Jamie, ragazzo mio», lo salutò a sua volta. 

James gli aveva teso una mano, ma l’uomo, oltre che stringergliela, lo tirò a sé in un abbraccio così paterno che James si rese conto improvvisamente quanto gli mancasse suo padre, il suo abbraccio che sapeva di sapone ed erba appena tagliata (quella del giardino, che Ginny lo costringeva sempre a sistemare a giorni alterni, cosa che lui in realtà faceva volentieri perché diceva che lo rilassava e lo teneva lontano dal “turbine di casa”) e, in generale, la sua caotica famiglia, compresi i cugini e gli zii e i nonni Weasley. Gli mancava casa

«Tutto bene? Come ta la cavi qui?»

«Benone, non mi posso lamentare», rispose quindi James quando si separarono. «Più che una punizione sembra una vacanza, Corner mi ha addirittura chiesto di insegnare Quidditch.»

«Oh, lo so bene, ovviamente il caro, vecchio Michael mi ha informato di tutto, e in realtà mi ha chiesto se fosse una buona idea, sai? Prima di dirtelo, intendo.»

James sbarrò gli occhi, sorpreso. 

«Oh, sì», reiterò Theodore. «Mi ha scritto e io sono stato più che entusiasta di fornirgli il mio positivo riscontro in merito. “Penso che sarà bravissimo”, gli ho scritto. “Un insegnante nato”. E così è stato, mi pare di capire, no?» Lo guardò da sotto gli occhiali che quella mattina aveva deciso di indossare e si mise a ridere. James si unì a lui, ma poi si ricordò del suo compito. «Meglio che ti porti da Corner, non vorrei che ti desse per disperso…»

«Un momento, James», lo trattenne l’altro afferrandolo per un braccio. Lui si voltò a guardarlo, interrogativo. «Come sta Emma?»

 

[«COME STA EMMA?»]

 

La domanda ovviamente lo spiazzò. Perché lo aveva chiesto proprio a lui?

«Perché lo chiedi proprio a me?»

Theodore sorrise sornione. «Mia figlia mi ha scritto più di qualche lettera, da quando è qui. Ti ha nominato parecchie volte. Ho solo pensato foste diventati amici. Ho sbagliato?»

James non riuscì a negare. Proprio non riusciva a non essere sincero, con Theodore Nott. «Siamo amici, sì.»

L’altro sembrò soddisfatto e annuì. «Quindi? Come sta? Sinceramente, Jamie.»

Lui sospirò, passandosi una mano dietro la nuca. Avrebbe potuto raccontargli tutto, era così facile aprirsi con il MagiAvvocato, e poi sembrava che fosse piombato lì proprio al momento giusto. Stava servendo a James la possibilità di sfogarsi su un piatto d’argento, ma lui non pensava che fosse il caso di accettare l’offerta, per quanto allettante fosse. 

«Non benissimo, visto ciò che è successo di recente», rispose quindi. «Prima la storia della festa, e poi quella della scritta… Penso che sia normale, che non stia propriamente bene, ecco.»

«Tu cosa ne pensi?»

Un’altra domanda spiazzante alla quale James avrebbe tanto voluto non rispondere, perché la risposta sarebbe stata troppo insensata, troppo piena di orrori, per poter anche solo essere compresa, o accettata, da Theodore: sì, tua figlia è turbata perché ha questa strana connessione con un fantasma, sai, il fantasma che aleggia nei corridoi di questa casa, e pensiamo anche che la voglia proteggere, infatti sta aggredendo chiunque si metta sulla strada di Emma, e la cosa la fa sentire doppiamente peggio. No, non avrebbe proprio potuto dire la verità su ciò che pensava. 

«Io penso che Emma si sia solo trovata al posto sbagliato nel momento sbagliato, tutto qui. La sera della festa c’era un sacco di altra gente, in tanti sono scappati, altri sono stati puniti come lei, ma erano una minoranza. Alla fine, Emma si è presa la colpa anche di chi è fuggito, e ha scontato la sua punizione senza fiatare. Parlando invece della scritta… penso che in tanti l’abbiano presa di mira, o comunque in antipatia, non so bene per quale motivo, e che qualcuno abbia voluto farle un dispetto, e far ricadere la colpa su di lei.»

Theodore annuì, pensieroso, grattandosi il mento. James avrebbe voluto dirgli - a lui e a tutti - che anche lui aveva trovato una scritta, sul muro sopra il suo letto, ma semplicemente non poteva, ché si era arrovellato il cervello fino allo sfinimento, ma l’unica spiegazione che sarebbe stato in grado di fornire era quella in cui il fantasma di Heydon Hall ne era responsabile, ma quanto le autorità della scuola erano disposte a transigere su quella fantomatica presenza?, e addirittura giustificarne l’esistenza?, o decidere che sì, la colpa era sua e quindi Emma era libera di andare? E poi, qualcuno avrebbe potuto dirgli che lo diceva solo per scagionare la sua amica, o addirittura ritenerlo responsabile dell’intera faccenda, e non poteva proprio permettersi di essere sbattuto fuori e lasciare quindi Emma sola in quel casino. Infine, un po’ si vergognava del contenuto di quella scritta, del messaggio che la dama aveva voluto trasmettergli: stai vicino ad Emma… io non posso raggiungerla… Si vergognava anche solo all’idea di parlarne con Theodore, figuriamoci con Corner o altri. 

 

[THEODORE E JAMES PARLANO DEGLI INCIDENTI]

 

«Questa notte è successa una cosa», proseguì quindi James, e gli raccontò brevemente quello che era accaduto a Pansy, e anche della parte da lui ricoperta nell’aiutare la donna. 

«Sei stato davvero coraggioso, James», commentò Theodore poggiandogli una mano sulla spalla. «Spero che la signora Parkinson si rimetta presto…»

«Oh, James, eccoti qui!»

La voce di Lambert Pince interruppe la loro conversazione. Lamb veniva loro incontro dal corridoio del personale, l’andatura caracollante e il viso grigiastro. 

«Ti ho cercato dappertutto, sai?» aggiunse. Li raggiunse e salutò Theodore stringendogli una mano e poi tornò a guardare James. «Il preside Corner mi ha detto di dirti di passare dal dormitorio femminile, raccogliere la signorina Nott e scortare padre e figlia nel suo studio, per favore.»

James annuì. Allora il suo augurio di rivedere presto Emma si era prontamente avverato. Ora, però, la prospettiva di parlarle per la prima volta dopo ciò che era successo lo atterriva e gli faceva battere forte il cuore nel petto. Deglutì e osservò Lamb caracollare via. 

«Ho avuto modo di riflettere sugli incidenti che finora si sono succeduti», iniziò Theodore mentre James gli faceva strada verso il dormitorio femminile, le mani improvvisamente sudate. «Prima quella ragazza americana… poi il figlio dei Baker… e infine la Parkinson… Non era mai successo nulla di simile, qui a Heydon Hall, prima di quest’anno.»

Fosse giunta da un altro, a James quella puntualizzazione avrebbe puzzato di bruciato, come se si volesse mettere il dito nella piaga a rimarcare il fatto che quei tre incidenti erano occorsi proprio quell’anno, proprio l’anno in cui lui ed Emma erano giunti all’istituto, ma si trattava di Theodore, quindi pensò di non preoccuparsene eccessivamente. 

«Sì, ho saputo…»

«È strano, non trovi? Ed è strana la modalità in cui questi incidenti sono avvenuti, anche. La prima ragazza che rimane chiusa in bagno, e poi ne esce traumatizzata; quel ragazzino… Charles… che rischia di morire perché qualcosa lo voleva strangolare… E poi la tua collega, che come hai detto si ritrova su quel ballatoio e quasi cade e si rompe l’osso del collo… Insomma, sono cose che danno da pensare, queste.»

Ovviamente, Theodore doveva esserne stato informato, e anche piuttosto dettagliatamente, dal preside Corner, perché sembrava essere al corrente a menadito di ciò che era successo a Isabelle e Charles. A quanto pareva, i due uomini si tenevano in contatto più di quanto a James era sembrato di capire all’inizio. E il rimarcare la parola “qualcosa” gli diede da pensare: che Theodore fosse davvero conscio dell’esistenza del fantasma? O anche solo delle dicerie che gli correvano intorno?  

«Sì, ovviamente fa pensare», convenne quindi lui. Si fermò di fronte alla porta del dormitorio femminile e guardò Theodore in viso. «Stiamo ancora cercando una spiegazione razionale ai primi due incidenti, ma con Isabelle non abbiamo cavato un’acromantula dal buco, mentre con Charles non abbiamo neanche parlato…»

«Stiamo?, abbiamo?» gli chiese Theodore guardandolo da sotto gli occhiali, l’espressione furba che lo faceva assomigliare ad un gatto. 

James avrebbe tanto voluto sprofondare nel pavimento per non riemergerne più. Evitò di rispondere, però, schiarendosi la gola e bussando alla porta. Temporeggiò qualche secondo e poi la dischiuse leggermente. 

 

[JAMES RIVEDE EMMA DOPO IL BACIO]

 

Infilò la testa nella stanza e si ritrovò Emma a pochi centimetri, la mano sospesa in aria, probabilmente nell’atto di aprire la porta. Si paralizzarono entrambi, e James trattenne il respiro. Quella mattina Emma aveva raccolto i capelli in una coda bassa che le lasciava scoperta la mandibola e James si perse ad osservarne la linea, e scese sul collo, deglutendo. Pensare che solo il giorno prima l’aveva baciata lo mandava in paranoia. E pensare al fatto che aveva combinato un casino lo faceva vergognare. 

«Allora?» La voce di Emma lo riscosse dai suoi pensieri. La guardò in viso. 

«Allora cosa?»

«Ti ho chiesto permesso», chiarì lei, le braccia conserte, un sopracciglio alzato. «Ma a quanto pare eri troppo impegnato a fissare il mio corpo.»

James aggrottò le sopracciglia e si allontanò dalla porta per permetterle di uscire. 

 

[EMMA E THEODORE]

 

Emma non lo degnò di uno sguardo e gli passò accanto per poi rifugiarsi nel caldo abbraccio del padre. James non l’aveva mai vista così arrendevole, e vulnerabile, come in quel momento, piccola tra le braccia forti di Theodore, che la strinse a sé in silenzio, il mento poggiato sulla sua testa. James si sentì un intruso, un estraneo capitato per caso in casa d’altri, a disturbare uno spazio privato e intimo, a turbare un momento di debolezza, quasi come se fosse un ladro e stesse rubando loro qualcosa. Si passò una mano dietro la nuca e abbassò lo sguardo a terra, fissandosi le scarpe, lievemente imbarazzato. 

L’attimo passò quando sentì Theodore schiarirsi la voce. Alzò gli occhi. «Ci accompagni da Michael, James?»

Lui annuì soltanto, superandoli per fare loro strada. Procedettero in silenzio, James davanti e i due Nott dietro di lui. Si congedò una volta arrivati davanti alla porta del preside. «Ho fatto il mio dovere», disse quindi, le mani buttate nelle tasche. Sentì addosso lo sguardo di Emma, ora, ma non ebbe il coraggio di guardarla. «Vi lascio.»

 

[ANCORA RINGRAZIAMENTI]

 

«James», disse Theodore facendo un passo avanti e scostandosi dal fianco della figlia per un momento. «Ti voglio ringraziare. Stai facendo tantissimo per Emma», e James non potè fare a meno di guardarla, solo per un attimo, ed Emma si limitò ad alzare gli occhi al cielo e scuotere la testa, «le stai accanto e le hai dato la tua amicizia, e significa tanto, per me.»

Ora James era decisamente imbarazzato. “Le hai dato la tua amicizia”, sì, be’, il giorno prima le aveva dato più della sua amicizia, e deglutì al pensiero, e probabilmente arrossì anche. Si permise un’altra occhiata ad Emma e la vide fissarlo, solo fissarlo, senza occhi al cielo e smorfie e labbra strette. Lo guardava in un modo in cui non era mai stato guardato e si sentì vacillare dal desiderio lancinante di scostare Theodore e baciarla, lì davanti a lui. Ovviamente si trattenne, stringendo i denti.

«Non devi ringraziarmi, Theodore, davvero», rispose quindi sorridendo all’uomo di fronte a lui e sistemandosi gli occhiali sul naso per mascherare il suo imbarazzo. 

Theodore si limitò a sorridergli e James alzò una mano a mo’ di saluto, allontanandosi a passo svelto. Aveva caldo e aveva decisamente bisogno d’aria. 

 

🥀 

 

Emma alzò gli occhi ad osservare il cielo. Quel giorno era di un limpido azzurro, decisamente inusuale per la stagione, e i rami ormai spogli degli alberi erano protesi verso l’alto, come a volerne saggiare le profondità. 

 

[CHIACCHIERE CON THEODORE]
 

Sentì suo padre sospirare accanto a sé, mentre sedeva su una delle panchine di pietra del piccolo cimitero, situato nel parco posteriore di Heydon Hall. Emma non lo aveva mai notato, forse perché dalle finestre era nascosto alla vista, riparato e raccolto dietro una piccola macchia con parecchi alberi sempreverdi che lo celavano da occhi curiosi. Le venne in mente di raccontarlo a James, ma poi si ricordò, con una fitta lancinante all’altezza dello stomaco, che teoricamente si era ripromessa di non parlargli e non cercarlo, dopo quello che era successo. 

 

[PROPOSITI E RESPIRI]

 

La delusione per essere stata respinta le bruciava ancora dentro come un fuoco divampante che non sembrava volersi placare. Rivederlo le aveva smosso qualcosa dentro, anche se aveva cercato di non darlo a vedere, come faceva sempre quando c’era da affrontare i suoi sentimenti: ergeva un muro altissimo tutt’intorno, per impedire alle persone di raggiungerla, e di capirla, e indossava una maschera fatta di supponenza, orgoglio e sarcasmo, e quasi di aggressività. Graffiava per evitare di venire ferita a sua volta, tirava fuori le unghie prima che qualcun altro potesse coglierla di sorpresa, attaccava per difendersi. Ma ora, seduta accanto a suo padre, davanti a quelle vecchie lapidi ricoperte di licheni e muschio, con solo il cielo sopra di loro e l’immobilità di quella giornata di metà settembre che li circondava, sentiva di poter nuovamente respirare, come non faceva da giorni, probabilmente da quando era arrivata nel Norfolk, e se ne rese conto solo in quel momento. L’aria tagliente dell’autunno le penetrò nei polmoni e poggiò le mani aperte sulla nuda pietra, che era fredda, gelida come ghiaccio, ma quel gelo le fece bene, quel gelo le diede vita e coraggio. 

«Mi dispiace», disse quindi rompendo il silenzio. 

 

[LE RASSICURAZIONI DI CORNER]

 

Avevano parlato brevemente con Corner e il preside li aveva rassicurati sul fatto che non avrebbe preso nessuna contromisura ai danni di Emma, aveva già scontato una punizione in merito agli eventi della festa clandestina, e non gli sembrava il caso di rincarare la dose per un fatto che nessuno era stato in grado di comprovare a tutti gli effetti. C’erano due testimoni oculari, a quanto pareva, sì, ma c’era da dire che nessuna delle due sembrava in buoni rapporti con Emma, anzi, a Corner erano arrivate all’orecchio tutte le voci poco lusinghiere che circolavano sul conto della ragazza, e pensava che qualche studente l’avesse presa di mira per una serie di ragioni, tra le quali forse essere la figlia di Theodore, quindi vicina all’autorità; inoltre, la situazione corrente di Pansy Parkinson distraeva il preside da qualsiasi altra questione, ponendo la faccenda delle scritte in secondo piano. Insomma, Emma era libera di andare, ovviamente con riserva: la scuola avrebbe tenuto non un occhio, bensì due occhi aperti, nei suoi confronti. Emma aveva tirato un sospiro di sollievo e la prima cosa a cui aveva pensato appena uscita dallo studio di Corner era stata che non avrebbe lasciato solo James, non che così non avrebbe deluso i suoi genitori, che così non avrebbe deluso se stessa, no, che non avrebbe lasciato solo James. Stupida stupida stupida. 

«Mi dispiace avervi deluso», continuò quindi fissandosi le scarpe, un paio di vecchie Converse nere scolorite. «Non immagino quanto sia arrabbiata mamma…»

«Non ci hai deluso, Emma», rispose Theodore. «Non potresti deluderci mai, lo sai.»

Emma continuò a guardarsi le scarpe, improvvisamente imbarazzata. 

 

[PRINCÌPI DISATTESI]

 

Parole come quelle avevano sempre il potere di metterla quasi a disagio, come se non fosse particolarmente avvezza ai complimenti. Forse era dovuto al fatto che i suoi genitori avevano dato a lei e ai suoi fratelli un’educazione rigida, che non voleva dire che erano stati duri con loro, no, ma che avevano loro fatto capire la disciplina, il duro lavoro e i sacrifici, oltre la necessità di abbassare la testa, di tanto in tanto, quando proprio non c’era altra soluzione. Emma si rendeva sempre più conto di aver disatteso alla grande quei princìpi, di essere andata in qualche modo contro tutto ciò che le era stato insegnato sin da piccola: a Hogwarts infrangeva le regole, si comportava male, rispondeva agli insegnanti, litigava con alcuni compagni e, in generale, “cercava rogne”, mettendosi nei guai un giorno sì e l’altro pure, rischiando la sospensione per poi, alla fine, essere trasferita a Heydon Hall e al suo Istituto Correttivo. Comprendeva di essere stata una delusione cocente, anche se suo padre insisteva nel dirle il contrario. 

«Emma», iniziò Theodore girandosi a guardarla. «Mi puoi guardare, per favore?» Lei si voltò, seppur di malavoglia, ma cercando di non darlo a vedere. «Nonostante tutto quello che hai combinato in tutti questi anni, rimani sempre nostra figlia. Niente e nessuno potrà mai cambiare questo fatto, e niente e nessuno potrà mai farci cambiare idea su di te. Non siamo delusi, Emma, bensì preoccupati. Temiamo che tu possa perderti, prendere una strada pericolosa senza possibilità di tornare indietro. Vogliamo che tu sia felice, capisci?»

Era davvero tanto, ciò che suo padre le aveva appena detto. Stranamente, sentiva le prime stille di lacrime premerle agli angoli degli occhi. Dopo tutti quei giorni di sconforto e buio e dubbi, quelle parole la ferirono più di qualsiasi altra cosa, ma la ferirono benevolmente, con quel calore e quell’affetto che solo suo padre aveva mai saputo infonderle. Annuì soltanto, incapace di replicare. 

 

[LE PREOCCUPAZIONI DI THEODORE]

 

«Prima il gufo con la notizia della festa clandestina, e poi la convocazione da parte della Parkinson, tutto nel giro di qualche giorno, ci siamo preoccupati», spiegò l’uomo. «Tua madre era intenzionata a piombare qui sul piede di guerra, “non è possibile che sia lì da venti giorni e sia già finita in qualche guaio, Theo”, mi ha detto, camminando su e giù per il salotto con una mano sul fianco e l’altra alla bocca, sai come fa quando è turbata.»

Emma si ritrovò malgrado tutto a sorridere. Sì, sapeva benissimo com’era sua madre da preoccupata, era come un leone in gabbia che si aggira in poco spazio, famelico e desideroso di uscire, solo per proteggere con i denti e le unghie ciò che era suo. 

«Le ho dovuto impedire di venire, sai? Era davvero intenzionata a “spaccare il culo di Corner”, così ha detto. È dannatamente americana quando fa così.»

«Immagino la scena», commentò Emma ritrovando la parola. Il nodo in gola si era sciolto leggermente e si sentiva meno male all’idea di aprire bocca, ora. 

«Sarebbe successo un finimondo, quindi ho pensato bene di venire da solo. So come parlare con Michael, ci conosciamo da una vita. E sapevo che sarebbe andata a finire bene, ma ciò non toglie che rimango, rimaniamo», specificò, «preoccupati per te, Emma.»

«Sicuro che la mamma non sia arrabbiata?» chiese lei. 

 

[PORTI E SPECCHI]

 

Sapeva che suo padre era il suo porto sicuro, la casa laddove sarebbe sempre potuta tornare e dove avrebbe sempre trovato due braccia pronte a stringerla, un bacio sui capelli prima di dormire, per scacciare gli incubi, e delle vecchie storie per farla addormentare, ma sua madre era il suo specchio, era il riflesso di tutte le sue insicurezze, e tutti i suoi dubbi, e tutte le sue paure; sua madre era come lei, era quel leone in gabbia, furente e furioso, pronto solo a irrompere; sua madre era il suo riflesso, aveva i suoi stessi occhi pieni di fantasmi e tempeste, aveva il suo stesso coraggio dirompente, così poco Serpeverde e così tanto Grifondoro da sconvolgerla sempre, aveva quella stessa luce nello sguardo, e lo stesso temperamento acceso di ribellione e sfida e libertà. Sua madre era anche tutto ciò che la frenava, ma che allo stesso tempo la inibiva, la spingeva a infrangere le regole e a cercare guai, solo per poter leggere nei suoi occhi il disappunto e la delusione, solo per assaporare quel brivido che la faceva sentire viva e accesa. Alla fine della giornata, era il giudizio di sua madre quello che temeva, e che anelava in egual misura.

«Lo sai com’è fatta», rispose suo padre alzando gli occhi al cielo. «Subito si è arrabbiata, ha sbattuto porte e rotto un vaso, che poi ho sistemato, e abbiamo discusso perché le ho detto di non metterti pressione, e lei ovviamente ha tirato fuori la solita storia dei vizi e delle debolezze, ecc ecc. Quella sera ho dormito sul divano», aggiunse ridendo, «ma la mattina dopo mi ha chiesto scusa e siamo riusciti a parlarne civilmente. Tua madre ti vuole così bene, Emma… È per questo che si arrabbia così tanto, con te… E siete così simili, voi due.»

«Me lo dici sempre», sbuffò lei. 

«E continuerò a dirtelo sempre. Avete la stessa luce negli occhi.»

Rimasero in silenzio per un attimo, durante il quale Emma spostò lo sguardo sulle lapidi poco lontano, e su una statua di una giovane donna che prima non aveva notato, eretta dietro una lapide a forma di croce, e parzialmente nascosta dall’edera rampicante che l’aveva ricoperta. 

 

[VICTORIA]

 

«Com’era la mamma da giovane?» chiese improvvisamente, d’istinto. Era una domanda che aveva sempre voluto porre al padre, ma che non era mai riuscita a formulare. «Non parla mai della sua giovinezza, e dell’America, e dei suoi genitori…»

Vide Theodore distogliere lo sguardo e guardare lontano, oltre le lapidi, e gli alberi, e verso l’orizzonte celato, come se, con quell’occhiata, potesse evocare vecchi ricordi e storie, direttamente da quel passato che entrambi, sia lui sia sua moglie, badavano bene a non dissotterrare.

«Era impetuosa», rispose quindi infine. «Per questo ti dico che era come te - che è come te. Quando l’ho conosciuta mi ha colpito con la forza di cento Bolidi, dritti nello stomaco e nel petto, mi ha folgorato. Non avevo mai conosciuto una ragazza come lei, e nemmeno ne avevo mai vista una uguale in quanto a bellezza, aggiungerei.» Emma ridacchiò. Ovviamente, come tutti i figli, sentire i genitori dilungarsi in complimenti reciproci la metteva a disagio. «Tua madre rappresentava una novità, per me, tutto ciò che c’era di diverso, e quasi esotico, nella mia piatta esistenza di allora. Eravamo reduci da una guerra che aveva sconvolto ogni equilibrio, Emma, e stavamo raccogliendo i cocci di una società divisa e spezzata, con famiglie piene di lutti e un sacco di funerali. L’aria era tesa, ma c’era voglia di ricostruzione. E di perdono.»

«Io sono stato perdonato. Sono riuscito a tornare a Hogwarts per completare la mia istruzione come si deve e quell’anno è stato forse il più duro di tutta la mia vita. Non avevo mai avuto molti amici, e tantomeno sinceri, e quell’anno ho capito cosa volesse dire veramente la solitudine. Solo lo zio Draco mi è stato accanto, ci siamo ritrovati dopo tanto tempo e ci siamo tesi una mano. Credo che sia diventato il mio migliore amico proprio allora. Il fratello che non ho mai avuto.»

Emma sapeva ovviamente quanto fosse radicato il rapporto tra suo padre e Draco Malfoy, ma Theodore non le aveva mai raccontato come tutto era nato, tra loro. 

«Tornando a noi, come ti dicevo ho finito i miei studi, ho preso dei buoni M.A.G.O. e ho deciso di intraprendere la carriera di MagiAvvocato1. Avevo ancora dei buoni agganci al Ministero, ma ovviamente alcuni di quelli si sono rivelati nulli, e ho preferito fare tutto da me, mi sono tirato su le maniche e ho abbassato la testa. Ho iniziato un tirocinio presso l’Ufficio Applicazione Legge Magica, e tutto il resto lo sai. Ho conosciuto tua madre il suo primo giorno al Ministero, era appena arrivata per iniziare anche lei il mio stesso tirocinio. È piombata nell’Atrium come un tornado. Ed è entrata nella mia vita senza più uscirne.»

«Eri proprio sotto un treno, eh, papà?» rise Emma spintonandolo, e prendendosi gioco di lui.

L’uomo si passò una mano dietro la nuca e le ricordò in modo lancinante James. Ricacciò via quel pensiero, però, non era il momento adatto per sentirsi patetica. 

«Sono sotto un treno per tua madre da esattamente ventiquattro anni, Emma. Non mi sono ancora mosso, da lì.» Emma annuì, sorridendo tra sé e sé. «Tornando a noi: mi vuoi dire cosa c’è che non va? Ha a che fare con quella vecchia storia del fantasma, vero?»

 

[IL FANTASMA?]

 

Emma alzò di scatto la testa e lo guardò negli occhi, trattenendo il respiro. Cosa sapeva suo padre del fantasma di Heydon Hall? Esitò per un momento, raccogliendo le idee, cercando di capire cosa potesse effettivamente dirgli e cosa no - e, soprattutto, fin dove potesse spingersi senza sembrare una pazza. Si rendeva conto che quel racconto aveva tutti i termini per suonare surreale, persino nel loro mondo. E poi, nel suo cervello aveva collegato i pezzi, e ciò che ne era uscito era un quadro per nulla allettante della situazione, con quel riferimento a Rosham Village che ancora le vorticava nella testa. Ciò nonostante, sentiva di non poterne fare parola, non ancora, e tantomeno con suo padre, anche se forse aveva davanti una delle poche persone in grado di aiutarla a dipanare quella matassa, ma proprio non poteva, e forse non voleva, ché scoprire tutta l’eventuale verità la spaventava a morte. 

«Sono successe delle cose inspiegabili, ultimamente», iniziò.

«Jamie me lo ha detto.»

«Jamie? Da quando è diventato solo Jamie?» chiese lei con una smorfia. 

Theodore agitò una mano e ridacchiò. «Mi sta simpatico, quel ragazzo. Ha la testa sulle spalle e un grande senso di responsabilità. Ed è anche molto intelligente.»

«Okay, basta così, mi viene da vomitare», lo fermò alzando le mani. 

«Non mi hai scritto che siete diventati amici? Problemi in paradiso?»

Emma guardò il padre ad occhi sbarrati. Da quando era così intenzionato a combinarle il matrimonio?

«Papà!» esclamò quindi. 

«Che c’è? Che ho detto? Mi siete sembrati tesi, prima, avete litigato?»

«Sì, abbiamo litigato, ma non sono affari tuoi, okay? Ora basta parlare di Jamie.»

«Jamie, eh? E da quando?» la scimmiottò Theodore, guardandola con dipinta in viso una strana espressione compiaciuta che non le piaceva per niente.

«Non usare le mie stesse carte contro di me, non ci sto», si difese. «Possiamo tornare al discorso principale, ora?»

«Sono successe delle cose inspiegabili, dicevi.»

Emma annuì. «Prima l’incidente di Isabelle, poi quello di Charles, e ieri Pansy. C’è un minimo comune denominatore, in tutto questo, però.»

Suo padre la guardava e, silenziosamente, la invitava a proseguire. 

«Il fantasma di Heydon Hall», snocciolò prima di pentirsene. 

«Il fantasma, dici?»

«Il fantasma. So che può sembrare assurdo, e forse lo è», aggiunse in fretta. «Isabelle ha più volte dichiarato che c’era una lei, chiusa in bagno mentre nessuno da fuori riusciva ad entrare, e non ci sono chiavi, a Heydon Hall; Charles levitava a mezz’aria mentre diventava tutto viola in faccia e rischiava di morire, io l’ho visto; e Pansy… non lo so, non so come siano andate esattamente le cose, ma non è casuale che si sia ritrovata in cima a quel ballatoio, nell’ala proibita, incapace di scendere e senza ricordare come ci sia finita», disse tutto d’un fiato. Non gli raccontò dell’escursione nell’ala ovest insieme a James, e delle lettere, e di ciò che lei aveva visto, più di una volta, e di ciò che anche James aveva visto, e dei vetri infranti in biblioteca, e della scritta trovata da James in camera sua, e della presenza poco rassicurante dei ragni. Omesse tutto questo, ché già si sentiva abbastanza cretina così, senza rischiare di essere trascinata al San Mungo d’urgenza e rinchiusa in qualche stanza con le pareti imbottite. 

Theodore distolse lo sguardo e nuovamente si perse all’orizzonte lontano, sospirando. «Tu e James state ficcando il naso in giro, vero?»

Dal suo tono, Emma capì che era una domanda retorica, la sua. Probabilmente, glielo aveva già detto James, oppure lo aveva capito e basta. In fondo, era uno dei MagiAvvocati più brillanti del Mondo Magico non senza una ragione. 

«Smettetela di ficcare il naso, Emma.»

Le parole di suo padre la riscossero, facendola quasi sobbalzare. Le aveva pronunciate con un tono diverso, quasi perentorio pur senza l’intenzione di intimorirla, anzi, più con la volontà di metterla in guardia. 

«Queste non sono quasi mai belle storie, di amori edificanti e vite piene di sole», continuò. «Se davvero c’è una presenza in questa casa, e si comporta in questo modo, allora vuol dire che è tutto tranne che benevola. Per questo voglio che la smettiate di curiosare in giro e pensiate solo a stare fuori dai guai, intesi?»

Come gli avrebbe mai potuto spiegare che il fantasma era pericoloso per tutti tranne che per lei? Come gli avrebbe mai potuto raccontare di come il fantasma attaccava chiunque la offendesse o la minacciasse o la infastidisse? Come gli avrebbe mai potuto raccontare di come si sentiva vicina a quella donna misteriosa, leggendo quelle vecchie lettere, e quanto anelasse a scoprire tutto quanto, di lei, tutto ciò che potesse finalmente portarla a svelare la verità? Poteva promettere a suo padre che si sarebbe tenuta lontana dai guai, ma sarebbe stata una promessa vana e vuota, ché in cuor suo sapeva che sarebbe andata fino in fondo a quella faccenda, a qualsiasi costo. Ora annuì, però, desiderosa solo di tranquillizzarlo.

«Niente più giocare agli Auror, voi due», aggiunse quindi Theodore ridendo. Era tornato quello di sempre, dopo averla guardata per un attimo con quegli occhi strani, intrisi di paura e sgomento. Si alzò in piedi, ed Emma lo imitò. 

 

[SALUTI E RACCOMANDAZIONI]

 

«Devo tornare in ufficio, temo. Mi aspettano per un consulto al Terzo Livello.»

Lei annuì. «Io rimango qui ancora un attimo.»

Suo padre tese le braccia ed Emma vi si rifugiò, aspirando ancora un momento il suo buon profumo - profumo di casa - e quel calore rassicurante che l’avrebbe scaldata anche in mezzo al gelo.

«Prenditi cura di te, d’accordo?»

«Saluta la mamma da parte mia. E i gemelli.»

«E tu fai pace con Jamie.»

Emma alzò gli occhi al cielo. «Papà…» borbottò.

Lui scoppiò a ridere e le pizzicò una guancia prima di avviarsi. Emma agitò una mano a mo’ di saluto quando lui si girò un’ultima volta a guardarla dalla soglia di Heydon Hall, per poi sparire all’interno. Lei attese ancora un attimo e poi si voltò verso le lapidi. 

 

[LA BEN NOTA CURIOSITÀ DI EMMA]

 

Aveva appena promesso a suo padre che si sarebbe tenuta lontana dai guai, e nonostante non fosse stata una vera promessa, infrangerla nel giro di pochi minuti la faceva sentire comunque in colpa, vagamente, così cercò di scacciare via quella sensazione di disagio e fece qualche passo in direzione del piccolo cimitero. Prima di dirigersi alla lapide che la incuriosiva, quella con la statua di una giovane donna, osservò quelle che la circondavano, e constatò che le scritte erano ormai tutte sbiadite e cancellate dal tempo e dall’incuria. 

 

[E.M.R.]

 

Chinatasi sull’ultima lapide, invece, e scostando un ramo d’edera che era sceso a ricoprirne la superficie, sentì il cuore accelerare e la sorpresa quasi la fece vacillare. Sulla pietra si poteva ancora leggere un’iscrizione, compresa di date e di alcune iniziali. 

 

E.M.R. 
3 gennaio 1953 — 16 marzo 1981

 

e il suo infante
16 marzo 1981 — 16 marzo 1981

“Il mistero dell’amore è più grande del mistero della morte.”

Qui giace la nostra amata Eliza 
e il di lei troppo presto perduto infante.

 

Emma si chinò poggiandosi sui talloni, le mani sulle ginocchia, il respiro corto. Quelle erano davvero troppe informazioni da elaborare e digerire, per lei, proprio quel giorno. 

 

[LA TOMBA DI ELIZA]

 

Quella che aveva davanti era, senz’ombra di dubbio, la tomba di E., il misterioso fantasma di Heydon Hall. Eliza. Ecco qual era il suo nome. Eliza. Senza neanche pensarci, Emma allungò una mano e sfiorò la nuda pietra ricoperta di umidità e muschio, sfiorò quella data di nascita e di morte, il 16 marzo 1981, quando il figlio di Eliza era venuto alla luce, ed era morto. Ecco cosa non le dava pace, ecco cosa la teneva ancorata a quei corridoi e a quelle stanze, senza pace e requie, ecco cosa non la faceva passare oltre: la morte del suo bambino. Le dita di Emma rimasero lì, su quella data maledetta, mentre un vento turbinoso scuoteva i rami degli alberi sopra di lei, facendola rabbrividire. Un suono di vetri rotti la riscosse: proveniva dalla casa. Alzò lo sguardo, ma non vide nulla di sospetto, almeno non da dove si trovava lei al momento. 

 

[IL TORMENTO DI EMMA]

 

Sentiva dentro lo stesso turbine sollevato dal vento tutt’intorno, sentiva uno scrociare rumoroso che era come un uragano, e la scuoteva e la strattonava, mentre il peso di mille pietre la trascinava verso il basso, su quella terra umida, su un tappeto di foglie secche e fangose, e non le importava di sporcarsi, non le importava di niente, adesso, non mentre la realtà di ciò che poteva essere davvero successo a Eliza la investiva in pieno, con la forza di mille treni. Una donna era morta dando alla luce il suo bambino, e il bambino era morto, e forse era da sola, spaventata, impaurita, terrorizzata, e quel pianto, quel pianto che aveva sentito in sogno, e che aveva sentito riecheggiare tra i muri di Heydon Hall, quel pianto era il suo, un pianto di un amore perduto, di un dolore raccolto e solo, di una vita spezzata. Qualcuno doveva averli trovati e almeno aveva dato loro una degna sepoltura, e quel qualcuno doveva essere stato vicino a Eliza, tanto vicino da scegliere la lapide, incidere quelle parole di dolore e disperazione e amore, sempre e ancora amore, e mettere lì quella statua. Emma alzò lo sguardo su quest’ultima e sentì un singhiozzo strattonarle la gola e, dal petto, risalire su, finché non eruppe fuori dalle sue labbra, scuotendola. Sprofondò la testa tra le ginocchia e si concesse il lusso delle lacrime, si concesse una pausa, si concesse di essere debole. Aveva trattenuto quel nodo nel petto per giorni e giorni, senza nemmeno saperlo, lo aveva trattenuto ché non amava sentirsi debole, ed esposta, anche se solo con se stessa. Tutto ciò che era successo le precipitò addosso: l’incidente di Izzy e la paura che aveva letto nei suoi occhi; ciò che era successo a Charles e la sua faccia viola mentre Eliza cercava di ucciderlo e il grido di Emma che l’aveva fermata; le lettere trovate nell’ala ovest e la prima volta in cui aveva visto il fantasma e la paura che l’aveva fatta sobbalzare; i pianti e i vetri rotti e le luci e i ragni e il vento e le scritte; il sangue, il dolore, la perdita; la morte.

 

[SUGGESTIONI]

 

Sentì un alito di vento caldo su una guancia e alzò la testa di scatto, guardandosi intorno allarmata, gli occhi sbarrati. Non c’era nessuno intorno a lei, o lì accanto, solo quella maledetta lapide e l’amara realtà dei fatti. Si asciugò via le lacrime e si schiarì la voce, dandosi mentalmente della stupida per tutte quelle suggestioni eccessive. Si alzò e si tolse via alcune foglie che erano rimaste attaccate ai pantaloni e poi lanciò un’ultima occhiata all’iscrizione sulla pietra. E.M.R.: non le diceva nulla, niente di niente. Non conosceva, e non aveva mai sentito, nessuno che portasse quelle iniziali. Non che si fosse mai immaginata di conoscere Eliza, ma forse quel contatto che sembrava essersi instaurato tra loro, seppur terrificante, sotto certi aspetti, le aveva forse fatto pensare a un qualche tipo di legame, tra lei e la dama di Heydon Hall. Eliza. Nemmeno sapere il suo nome per intero l’aiutò a dipanare quel mistero. La colse l’idea di consultare le lettere, magari rileggere quelle già lette in precedenza, e finire quelle che le rimanevano, che non erano poi molte, ché voleva scoprire se qualche indizio le fosse sfuggito, o se ci fosse ancora qualcosa da portare alla luce. Così si allontanò rapida dal cimitero, diretta al dormitorio. Il preside le aveva accordato la giornata libera per cercare di rifiatare, ed era certa che nessuno l’avrebbe disturbata.

 

🥀 

 

Emma aveva riletto tutte le lettere, le aveva analizzate nuovamente, ma senza scovarvi ulteriori indizi. 

 

[ANCORA LE LETTERE]

 

Era tornata a sedersi sulla panca dove aveva parlato con suo padre, da lì poteva vedere la tomba di Eliza e quella presenza, invece di spaventarla e inquietarla, le era stranamente di conforto. In quel momento avrebbe tanto voluto cercare James e raccontargli tutto, ma era decisa e ferma nel suo proposito di non parlargli, per cui avrebbe cercato di andare al fondo della faccenda da sola, per quanto le fosse possibile. Le rimanevano quattro lettere e le lesse tutte d’un fiato, ma erano solo lettere d’amore, come tante altre che E. - Eliza - si era scambiata con il suo misterioso amante. Qualcosa doveva essere cambiato, però, per loro, intorno al 1975, perché Eliza menzionò, per la prima volta, suo fratello, che però non chiamò mai per nome. A quanto pareva, tra i due uomini non scorreva buon sangue, ma Eliza ne parlò solo in una lettera e poi più nulla, come se quel fratello così astioso fosse stato cancellato con un colpo di bacchetta. La scoperta più sconcertante, ma che in qualche modo l’aiutò a ricomporre quel mosaico di ricordi e pezzi di vita, fu scoprire che i due amanti alla fine erano riusciti a sposarsi, nonostante le ritrosie della famiglia di lei. Eliza doveva essersi trasferita a casa del marito, perché ad un certo punto le missive facevano un consistente salto temporale, di ben tre anni, fino alla penultima lettera, datata marzo 1978, dove non erano riportati però dettagli significativi. L’ultima, invece, era datata novembre 1980, solo qualche mese prima della morte di Eliza, ma era spaiata: c’era solo la lettera del marito di lei, e non la sua risposta. Dov’era finita la lettera di Eliza? E perché non era insieme a tutte le altre? 

 

[L’ULTIMA LETTERA]

 

Emma accantonò per un momento quegli interrogativi e si accinse a leggere. 

 

Rosham Village, 17 novembre 1980

Amore mio,

innanzitutto come stai? Posso scriverti solo poche righe, Lui mi sta aspettando, e sai quanto poco ami aspettare. Stiamo partendo e sei ampiamente al corrente dell’importanza di questa missione per la nostra Causa. Mi preme sapere come stai, come ti senti e, ultimo ma non meno importante, come sta il nostro bambino. Il pensiero di te che attendi il mio ritorno, e del mio capo reclinato sul tuo ventre, accanto a te - accanto a voi - mi infonde la forza per combattere, ancora e ancora, fino alla fine. Un giorno tutto questo finirà, arriverà un nuovo tempo di ordine e rigore e potere, per tutti, e noi saremo insieme per sempre, mano nella mano, a costruire il nostro futuro e la nostra stirpe. Ad accudire il nostro amore. Scusa per queste poche righe, tesoro mio, le chiudo rinnovandoti il mio amore e le mie promesse.

Sempre tuo. 

 

Emma lasciò cadere la lettera sulle gambe. Finiva lì. Le lettere finivano lì. Non c’era più nulla oltre quella data, non c’era la risposta di Eliza, niente di niente. Controllò ancora una volta, ma solo per ottenere i medesimi risultati. 

 

[ALTRI INTERROGATIVI]

 

Cos’era successo nel novembre 1980? Qualcosa doveva essere andato storto, altrimenti nulla avrebbe spiegato la fine della loro corrispondenza. Dall’altra parte, Emma convenne però che non necessariamente doveva essere accaduto qualcosa di tragico: in fondo, l’amato di Eliza poteva anche essere tornato a casa, da sua moglie e il suo bambino non ancora nato, e aver vissuto con loro i mesi che li separavano dalla morte di lei, ma allora perché Eliza era morta a Heydon Hall?, perché lì e non a Rosham Village, dove presumibilmente si trovava la casa che divideva col marito? La sua mente era affollata di mille interrogativi, che si succedevano caotici e fulminei. Per ogni domanda si dava il doppio delle risposte, e dopo ogni risposta sorgeva il doppio delle domande. Emma capì che non ne sarebbe venuta a capo facilmente. In mano aveva qualche elemento in più, ora che aveva scoperto che Eliza aveva dato alla luce un bambino, già morto o che era morto subito dopo il parto, e che era stata sepolta nel parco di Heydon Hall, ma quegli elementi l’avevano portata unicamente ad una sola conclusione: non c’era nessun legame di sangue tra lei ed Eliza. Quell’eventualità l’aveva sfiorata tante volte, ma lei l’aveva ricacciata via. Ora, tornava a pensarci a mente lucida e quella era l’unica cosa certa di tutto quel caos: non era imparentata con il fantasma di Heydon Hall, la stirpe che il marito di lei sperava di portare avanti era perita insieme a quella moglie tanto amata ma perduta e al loro bambino. Tutto questo gettava un’ombra di ulteriore mistero sulle motivazioni che avevano spinto Eliza a proteggerla e a difenderla, anche se molto spesso con risultati disastrosi. Ancora una volta, Emma sentì urgente l’esigenza di cercare James, di raccontargli ogni cosa, da cima a fondo, di fargli vedere la lapide e leggere quell’ultima lettera, e magari di farsi abbracciare da lui, e confortare, e sentirsi protetta e al sicuro, come solo poche altre persone nella sua vita sapevano farla sentire. Ovviamente, l’orgoglio vinse ancora una volta. Si alzò in piedi e raccolse le lettere e, dopo aver lanciato un’ultima occhiata al cimitero, rientrò in casa.

 


 


Note.

1. Tutto l’headcanon di Theodore Nott è di mia invenzione. 

 

Intanto, chiedo umilmente scusa per il ritardo con il quale giunge questo aggiornamento. Come vi avevo accennato nelle note al precedente capitolo, ora non ho più nulla di pronto quindi gli aggiornamenti sono schiavi della mia ispirazione e del mio tempo, ma comunque mi pare doveroso chiedervi scusa per l’attesa. Diciamo che questi sono stati giorni un po’ così dove la scrittura mi ha un pochino lasciata a piedi, ecco. Però sono qui, con un capitolo veramente lungo (parliamo di 8k parole), e vi chiedo scusa anche per questo, ma come avete appena letto, si è trattato, a mio modesto parere, di un capitolONE, dove sono successe davvero un sacco di cose e se ne sono scoperte altrettante. Ritroviamo Theodore e so che vi era mancato molto; scopriamo qualcosa in più sulla mamma di Emma, che mi piacerebbe esplorare molto ma non è questa la giusta sede, quindi sto pensando ad una oneshot; Emma e James sono alle prese con le loro paturnie, che non dureranno a lungo, quindi non preoccupatevi 👀 ; infine, assistiamo alla sconcertante scoperta di Emma in merito alla dama di Heydon Hall, a Eliza, con il ritrovamento della lapide e di ciò che vi è inciso. Sono curiosissima di leggere le vostre opinioni e teorie in merito 🔮

 

Nel prossimo capitolo ritornerà Archie (visto che lo avete chiesto a gran voce), succederà una cosa piuttosto importante 👀 e, per finire, Emma prenderà una decisione drastica 🔮

 

Concludo con un “a presto”, spero di riuscire a sfruttare questo rush ispirato e a mettermi subito al lavoro con il capitolo 11. Vi informo che non manca molto alla fine di questa storia, i nodi arriveranno presto al pettine. 

 

Marti 🐍

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Capitolo 12
*** CAPITOLO UNDICI ***


THE HAUNTING OF HEYDON HALL


 

CAPITOLO UNDICI

 

 

“Memorie e possibilità
sono addirittura
più spaventose
della realtà.”
H. P. Lovecraft, Herbert West, rianimatore

 

 

Heydon Hall, Norfolk, 22 settembre 2023

Emma uscì dalla cucina e si guardò intorno lungo il corridoio. Sembrava tutto sgombro. Fece qualche passo avanti, solo per lasciar cadere per terra la ciotola che aveva riempito di cibarie varie rubata dalla dispensa della signora Pince. 

«Cazzo!» esclamò, spaventata. «Archie! Per Salazar!»

Il suo amico la prese per un gomito e la trascinò verso una delle nicchie nel muro, e senza tante cerimonie, per giunta. Emma cercò di scrollarselo di dosso, ma senza successo: il ragazzo era più forte di quanto pensasse. 

«Mi vuoi lasciar andare?»

«Perché se no? Mi scateni addosso il fantasma di Heydon Hall?»

Emma strinse gli occhi mentre Archie si limitò a guardarla, tenendola ancora stretta per il gomito, quasi come se temesse che gli sarebbe potuta sfuggire da sotto il naso.

«Non sei divertente.»

«Lo so, ma sai anche che cosa non è divertente?»

Lei non replicò, non le sembrava una domanda che necessitasse una vera risposta, quella. 

 

[LO SFOGO DI ARCHIE]

 

«Non è divertente quando la tua nuova amica, quella che pensavi fosse diventata la tua migliore amica, mi correggo, ti sta evitando da giorni; quando ai pasti non si fa vedere; quando tenti di avvicinarla tra una lezione e l’altra ma lei sparisce sempre, svicola via come una biscia qual è; quando senti che qualcosa sta andando a puttane ma non puoi fare niente perché NON SAI NIENTE, niente di niente, e ti senti una comparsa sullo sfondo, inutile. Ecco cosa c’è di non divertente.»

Emma distolse lo sguardo e Archie la lasciò andare, e lei sentì improvvisamente freddo laddove lui le aveva poggiato una mano contro fino ad un secondo prima. Si rese conto di provare freddo da giorni, da quando, precisamente due giorni prima, aveva svelato una parte di quella verità dietro il mistero di Eliza, il fantasma di Heydon Hall; da quando si era ritrovata sola, ma solo perché era troppo codarda per accogliere nuovamente qualcuno nella sua vita. Credeva che fosse più facile, credeva che fosse più semplice. 

«Ora puoi scappare via come hai fatto altre volte», continuò Archie indicandole il corridoio oltre la statua. 

Questa volta, però, Emma alzò gli occhi su di lui. Non avrebbe pianto, no. Aveva pianto due giorni prima, e lei non era avvezza alle lacrime, non tanto quanto era comune. Solo che il modo in cui il suo amico la stava guardando glielo rendeva estremamente difficile. 

«Dicevi davvero, prima?» Archie alzò un sopracciglio, forse stupito e sorpreso di non vederla scappare via. «Quando hai detto che sono la tua migliore amica.»

Lo vide distogliere lo sguardo e alzare gli occhi al cielo. Si lasciò sfuggire un sorriso che suonò più come un ghigno. «Sì, ero fottutamente serio, signorina. Io sono sempre serio.»

Ora fu il turno di Emma di alzare gli occhi al cielo. «Da quando sei diventato così scurrile?»

«Da quando mi fai perdere la favella, mia cara. Esce fuori il ragazzino dei bassifondi che sono stato.»

Archie non le aveva mai parlato così bene della sua vita prima di Heydon Hall, non si era mai aperto con lei, e sotto quell’aspetto erano molto simili, due persone chiuse che cercano di sopravvivere al loro passato. 

«Scusa», continuò quindi lei guardandosi le scarpe. «Scusa se sono sparita.»

Lo sentì sospirare. «Mi sono preoccupato, Emma. Lo sono ancora adesso.»

 

[LE PREOCCUPAZIONI DI ARCHIE]

 

Lei si sedette alla base della statua della dea Atena e sospirò, torcendosi le mani. Archie la imitò e prese posto accanto a lei. 

«Ho parlato con Potter, ieri.»

Emma alzò la testa di scatto e si girò a guardarlo. Cosa voleva dire?

«Come?»

«L’ho cercato io, questa volta. Gli ho chiesto se sapeva cosa ti stesse succedendo, come mai mi evitassi, eccetera eccetera… Diciamo che mi ha solo in parte rassicurato.»

«Cosa ti ha detto?» Emma non pensava che James gli avesse raccontato del bacio, sembrava un dettaglio troppo personale e tra lui e Archie non c’era una confidenza di quel tipo. 

«Mi ha detto che non poteva dirmi nulla, quindi mi ha fatto davvero incazzare, ma sai, non potevo esagerare, è pur sempre un membro del personale di questa scuola, e Merlino non voglia che finisca di nuovo in mezzo ad una strada, non è proprio il momento… Comunque, ha poi aggiunto che non c’entravo nulla, con la tua voglia di defilarti, che non ero responsabile della tua misteriosa assenza, e che anzi, se fossi riuscito a parlarti e a starti vicina avrebbe dormito sonni più tranquilli, e per Morgana quant’è sentimentale, Potterino, mi stava venendo la nausea, te lo giuro.»

Di riflesso, Emma gli assestò un pugno su una coscia, mettendoci tutta la forza che era in suo possesso. Nessuno poteva prendersi gioco di James, tranne lei. Si sentì immensamente ridicola, a ritrovarsi lì a sorridere tra sé e sé, conscia del fatto che James non stesse effettivamente dormendo sonni tranquilli a causa sua, internamente soddisfatta ma anche un po’ in colpa. 

«Cos’è successo tra voi? Avete litigato?»

Ad Emma sembrò di sentire nuovamente suo padre, ma Archie non era suo padre, era un suo amico, forse uno degli amici più amici che avesse mai avuto, e in quel momento decise che quell’amico meritava sincerità, almeno sotto quell’aspetto. Non poteva essere totalmente sincera sulla storia di Eliza, ma poteva esserlo su ciò che concerneva James. 

 

[EMMA PARLA AD ARCHIE DI JAMES]

 

E così si ritrovò a raccontare ad Archie tutto quanto, dall’inizio alla fine, compreso come si sentiva lei, e come si era sentita quando James l’aveva rifiutata, e a quanto in realtà le mancasse, e ammetterlo, lì davanti a lui, per la prima volta ad alta voce, le provocò solo altro tormento, ché ora la sua mancanza le faceva male doppiamente, e se solo fosse stata più impulsiva, ora si sarebbe alzata e sarebbe corsa a cercarlo per dirgli che non gliele importava niente del resto, ma che le importava solo di lui. Chi era la sentimentale, ora?

«—azz», commentò quindi Archie alla fine del racconto. «E io che pensavo foste già passati all’altra fase…»

Emma gli rifilò un’altra pacca sulla gamba. «E dài, sii serio.»

«Io cerco di essere serio, ma poi voi due piccioncini mi servite queste succulente cibarie su un piatto d’argento e come faccio a mantenere il mio solito aplomb?»

«Per Salazar, che noia, già mi pento di averti raccontato tutto, Fletcher, davvero.» Emma fece per alzarsi, ma si sentì trascinare nuovamente giù, col culo sulla nuda e fredda pietra.   

«Okay, okay, cercherò di fare il serio, ma non posso prometterti più di questo.» La guardò negli occhi con quel suo sguardo furbo e lei si sciolse, sorridendogli. «Bene, lo prenderò come un assenso. Be’, non è che io sia così esperto di questioni di cuore, in fondo ho avuto un solo grande amore, nella mia vita, e lo conosci.»

 

[“QUESTIONI DI CUORE”]

 

«Sei stato solo con Tyler?» gli chiese stupita.

«No, ragazzina», rispose lui dandole un buffetto sul naso. «Non essere sciocca e non giocare alla naïve con me. Lo so che sei una furbetta. Ma detto ciò, ovviamente non sono stato solo con Ty, ma Ty è stato il mio primo ragazzo, cioè, la prima storia veramente seria, e vera, della mia vita.»

C’era un sottotono di tristezza e rimpianto, nella sua voce, ed Emma avrebbe tanto voluto chiedergli spiegazioni, indagare sul suo passato, ma quello non era il momento, e non era nemmeno così sicura che Archie le avrebbe parlato volentieri di sé. In ogni caso, non era così sprovveduta da provarci, almeno non ora. Si chiese quante cose il suo amico avesse effettivamente vissuto, in sedici anni di vita, ma immaginò fossero tante, forse troppe da ricordare, e addirittura raccontare. 

«Dicevo, di faccende di cuore, e che schifo questa scelta di parole, bleah, non me ne intendo poi molto, però una cosa l’ho capita, di tutto questo tsunami emotivo e ormonale.»

Emma si girò a guardarlo, trattenendo a stento una risata. Anche lei cercava di essere seria, in fondo.

«Cosa?»

«Vi piacete, stupidina. E anche tanto. Insomma, ho captato delle turbolenze a sud già durante il vostro primo incontro, voglio dire, a chi non tremerebbero le ginocchia di fronte a quel viso così splendido e dalle proporzioni classiche, a quegli occhi spettacolari, e a quell’intrinseca e innata goffaggine che lo rendono solo più attraente?»

«Archie», ringhiò Emma. 

Lui agitò una mano di fronte al suo viso, e con noncuranza. «Dicevo, è normale ritrovarsi attratti da James Sirius Potter. In più, lo circonda quell’aura di mistero, e bada bene, non un mistero particolarmente oscuro e intricato, ma più un mistero legato al suo passato, a ciò che si è portato dietro qui a Heydon Hall, un fardello che gli pesa addosso più di quanto non voglia far intendere.»

«E tu, mia cara, tu sei come un calcio nelle budella, per lui, sei ciò che lo accende, la sua miccia, ciò che non capisce ma verso il quale allo stesso tempo è attratto, come una falena dalla luce. Anche tu sei un bel mistero, Emma Nott, non pensare il contrario. Avete trovato pane per i vostri denti, tutti e due.»

«Tutto questo ciarlare dei pregi di Potter dove ci porta esattamente, di grazia?» lo interruppe lei, ironica.

Archie le pizzicò un braccio ed Emma cercò di non reagire urlando. «Non si interrompe il vate, miscredente. Dicevo… Oltre all’evidente attrazione fisica che vi porta a orbitare l’uno intorno all’altra come due piccoli corpi celesti senza gravità, e ovviamente a toccarvi, e a cercarvi, e a condividere fluidi corporei, AHI, MI HAI FATTO MALE!»

Emma gli aveva dato un altro pugno, l’ennesimo, questa volta sul braccio, e in questo caso il ragazzo non era riuscito a non mettersi a strillare, tanto da costringerla a tappargli la bocca con una mano. Archie borbottò qualcosa, a metà tra un lamento e una protesta. 

«Se non urli, ti lascio andare.»

L’altro annuì e, una volta libero, si spostò di qualche centimetro da lei, come a voler mettere una certa distanza di sicurezza tra lui e la sua aggressiva compagna. 

«Passando oltre la faccenda dell’attrazione, tra voi c’è qualcosa di più, e non lo penso solo io, che sono un insignificante e superficiale bastardo, ma anche Tyler, che è una persona profonda e sa il fatto suo. Ne abbiamo parlato ieri, dopo la mia chiacchierata con Potter. È stato lui a consigliarmi di cercarti fuori dalla cucina, ha detto di averti insegnato come intrufolarti per rubare il cibo, tempo fa, e che saresti stata di sicuro affamata dopo giorni di latitanza.»

Emma non potè che sorridere. Tyler, il silenzioso e riflessivo Tyler, così diverso dal suo rumoroso fidanzato, sembrava conoscerla bene. 

«È evidente che ci sia qualcosa, giuro, io ho persino pensato al nome da darvi, e sono sicuro che apprezzerete.»

 

[JEMMA]

 

«Il nome da darci?» chiese Emma aggrottando le sopracciglia.

«Jemma1», rispose l’altro prontamente, annuendo. «L’unione dei nomi James ed Emma. Jemma. Semplice, no?»

Emma finì per scoppiare a ridere, non riuscì a farne a meno, questa volta. Archie si unì a lei e risero per un po’, finendo per tenersi entrambi lo stomaco con le braccia. 

«Be’, devo ammetterlo», disse alla fine Emma. «Se te lo ripeti senza sosta nel cervello, alla fine è persino carino.»

«È carino, l’ho scelto io.»

«Okay, d’accordo, è carino», concluse lei alzandosi in piedi. Si sentiva vagamente più leggera, ora che si era aperta con qualcuno, e Archie era anche riuscito a farla ridere e a farla sentire di nuovo una sedicenne. Ovviamente, aveva omesso tutta la parte che la faceva preoccupare e far torcere lo stomaco, cioè quella legata ad Eliza e a ciò che sembrava legarle insieme, ma davvero non sarebbe riuscita a spingersi fin lì, per quanto bene volesse all’amico. Non sapeva se Archie si fosse bevuto la sua mezza verità, cioè che era James la causa del suo mal de vivre, ma sperava tanto che fosse così.

«Dove vai?» le chiese lui. «Non ho mica finito.» Emma annuì, ma rimase in piedi, guardandolo con curiosità. «In definitiva, penso che dovreste parlare. Questo vostro cercarvi e rincorrervi non vi fa bene, ed è un chiaro sintomo di ciò che vi angustia. C’è qualcosa di irrisolto, tra voi, d’accordo, lui ti ha ferita, d’accordo anche qui, ma penso che lui si trovi più in difficoltà di te, in questo momento, visto che non sa letteralmente che pesci pigliare, e oltretutto non sa come avvicinarti senza rischiare l’osso del collo, e conta che non ha nemmeno un amico brillante come me col quale confidarsi, insomma, è uno sfigato, quel Potter.»

«Va bene, va bene, ho capito, lo cercherò e gli parlerò.»

«Brava la mia Emma», esclamò Archie alzandosi a sua volta. «Magari stasera, dopo l’allenamento di Quidditch? Che ne dici? Posso sgombrare il campo per te.»

«Non lo so, Archie, non affrettiamo le cose, adesso, okay? Ho promesso che gli parlerò, ma con i miei tempi. Se sarà stasera, sarà stasera, se no ci penserò domani.»

«Be’, è già una conquista per Miss Costipazione, no?»

«Direi di sì», rispose lei facendogli una boccaccia. 

In quel momento, una chiara imprecazione della signora Pince li riscosse entrambi. La donna stava sbraitando contro chiunque avesse trafugato cibo dalla sua dispensa e lo avesse smollato nel bel mezzo del corridoio, aggiungendo che non si spreca la roba da mangiare, e qualcosa sulla povertà nel mondo che però nessuno dei due capì bene, perché intanto la corva era rientrata nel suo regno sbattendosi la porta alle spalle. Entrambi scoppiarono a ridere e sgusciarono fuori dalla nicchia, prima di venire scoperti, affrettandosi lungo il corridoio in direzione della sala mensa.

«Che ne dici di fare un vero pasto, ora?» propose Archie cingendole le spalle con un braccio.

Emma annuì, circondandogli la vita. «Muoio di fame.»

 

🥀

 

«Basta cazzate! Cos’avete, oggi? Giù dalle scope, tutti qui!» 

 

[L’ALLENAMENTO NON VA COME DOVREBBE]

 

James non si sentiva quasi più la gola a forza di gridare. L’allenamento stava andando malissimo, quel giorno, i ragazzi erano distratti e continuavano a spifferare l’uno con l’altro nonostante dovessero concentrarsi sul volo e sulla partita che avevano improvvisato. James pensava di chiedere l’autorizzazione a Corner per organizzare una sorta di mini torneo interno, con tanto di squadre (miste per età e capacità, in modo da equilibrare il tutto) e partite ufficiali, ma ciò che stava vedendo in quel momento gli stava facendo decisamente cambiare idea. Quel venerdì, i ragazzi degli altri anni erano stati attenti e avevano volato bene, ma quelli del sesto e del settimo sembravano da tutt’altra parte. Solo Emma, Archie e Tyler si impegnavano come al solito e non si perdevano in chiacchiere inutili e risate inopportune e stupidi bisbigli. Ora, dopo l’ennesimo errore di Flitt, che aveva spedito un Bolide contro Joanna Ridgeport, che giocava nella sua stessa squadra, quasi prendendola in pieno, James era arrivato al punto di non ritorno e li aveva richiamati tutti per strigliarli. Se c’era una cosa che non ammetteva era la distrazione e la sufficienza: il Quidditch era uno sport divertente ma pericoloso, non si poteva, e doveva, abbassare la guardia, mai. 

Li guardò, tutti radunati di fronte a lui, e cominciò a camminare avanti e indietro, come un leone in gabbia. «Si può sapere che vi prende, oggi?» cominciò. «Durante il riscaldamento avete chiacchierato più del solito, ma ho lasciato correre, lascio sempre correre, il venerdì, visto che il fine settimana è vicino e siete stanchi, ma non transigo quando le distrazioni vengono portate con voi sulla scopa. Poco fa, Drake per poco non prendeva in pieno Joanna con un suo Bolide, vi rendete conto della gravità della cosa o no?»

«Be’, non è successo, no?» intervenne Drake scrollando le spalle, sbruffone come suo solito, sufficiente come pochi. Sembrava quasi annoiato, appoggiato mollemente alla sua scopa, le sopracciglia inarcate. James avrebbe tanto voluto rimettergli a posto quell’espressione odiosa, ma doveva essere imparziale, e non cedere alle sue antipatie. 

«Non è successo, ma ci è mancato davvero poco, Drake. Avresti potuto farle molto male.»

 

[LA SUPPONENZA DI FLITT]

 

«L’infermeria è lì apposta. Mi sembra che ultimamente sia anche piuttosto gettonata, o sbaglio?» 

Alcuni risero, tra i quali la sua fidanzata Dotty e un paio di suoi amici del settimo. Izzy, seduta sulla panchina lì vicino (ancora non partecipava agli allenamenti), sbarrò gli occhi e si portò una mano alla bocca, ma non disse niente. James non sapeva se ci fosse rimasta male o se fosse solo divertita o, più probabile, stupita e colpita dal “coraggio” dell’amico. 

James, dal canto suo, assottigliò gli occhi. Notò Archie, al limite del suo campo visivo, fare un passo avanti, per essere però subito trattenuto indietro da Emma e Tyler. Cercò di ignorarli, non sapeva se sarebbe stato in grado di reggere lo sguardo di Emma su di sé, e si limitò a fissare Drake con occhi di fuoco. 

«Penso che non sia il caso di scherzarci sopra, Flitt. Delle persone sono state male, se non te ne sei accorto.»

«Oh, sì, tutta la scuola se n’è accorta, vero ragazzi?» continuò l’altro guardandosi intorno, solo per ricevere sguardi di approvazione da parte dei compagni e teste che annuivano. 

 

[FLITT RINCARA LA DOSE]

 

«Guarda caso, tutto è successo quando tu e la tua amichetta siete arrivati qui.»

«Come, prego?» James sperava di aver frainteso, sperava che Flitt non stesse davvero parlando di ciò che pensava stesse parlando. 

«Tu e la Nott. Siete amici speciali, no? Sempre lì a sussurrarvi nell’orecchio e mettervi le mani addosso…» Flitt sghignazzò e con lui tanti altri. Dotty Brown era aggrappata al suo braccio e aveva nascosto il viso nelle pieghe dei suoi vestiti, in preda ad un riso sfrenato. «Credevate davvero che nessuno lo avesse notato?»

Ora fu il turno di Archie e Tyler di trattenere Emma, come James ebbe modo di notare. I tre si stavano avvicinando sempre di più al gruppo degli altri compagni, ma James evitò come prima di guardarli. Non avrebbe dato a Flitt la soddisfazione di coglierlo in fallo. 

«Penso proprio di non doverti dare nessuna spiegazione, signor Flitt», tornò a rivolgersi a lui in modo formale, per mettere quanta più distanza e freddezza poteva dal ragazzo. 

 

[JAMES CEDE ALLE PROVOCAZIONI]

 

«La signorina Nott e io ci conosciamo perché andavamo entrambi a Hogwarts, cosa che non si può certo dire di lei.» Sapeva che aveva appena giocato sporco, che si era probabilmente abbassato allo stesso livello del suo interlocutore, pungolandolo laddove sapeva avrebbe trovato carne molle per affondare la sua spada, ma non poteva passare oltre, e quella faccenda era troppo invitante, troppo a portata di mano, per non essere tirata fuori. Alcuni fischiarono alla provocazione, ma Flitt si limitò a ghignare. Annuì, spostando lo sguardo intorno, per poi puntarlo di nuovo su James. 

«Io non sarò andato a Hogwarts, ma almeno non sono un assassino», buttò lì, scrollando le spalle come faceva sempre. 

 

[DRAKE FLITT PASSA IL LIMITE]

 

Il suo sorriso si aprì in un ghigno ancora più ampio. Sembrava un gattone grande e grosso, perfido e acciambellato sul suo trono fatto di ossa. James lo odiò profondamente. Tutti i presenti trattennero il respiro, mentre lui si limitò a guardare Flitt, le mani strette a pugno che gli formicolavano e gli occhi stretti. 

«Ritira quello che hai detto.» La voce di Emma si levò in mezzo al campo silenzioso e teso, e suonò come una bomba. Tutti si girarono a guardarla, James compreso. La guardò per la prima volta direttamente da che era arrivata e il cuore gli perse un battito. Era così bella, lì in piedi in mezzo ai suoi amici, i capelli leggermente spettinati dopo l’allenamento e il viso arrossato per la rabbia, i lineamenti tesi e contratti, le labbra arricciate e gli occhi… gli occhi lampeggiavano di mille fuochi. 

«Scusa, non ti ho sentita bene…» continuò Flitt voltandosi a guardarla.

«Mi hai sentito eccome, coglione», rispose lei, e i presenti trattennero nuovamente il respiro. Archie si portò una mano alla bocca, indeciso se ridere o meno. James vide Tyler tirargli una manica e scuotere la testa. «Ritira quello che hai detto, non sai di cosa parli.»

 

[IL CASO JENKINS]

 

James non aveva mai parlato ad Emma di cos’era successo l’anno prima, a Hogwarts, e del caso Jenkins, del ritorno di fiamma che lo aveva ucciso durante una discussione con Albus, e di come suo fratello avesse chiesto il suo aiuto per nascondere il corpo, e di come poi James lo avesse trasfigurato in una pietra e gettato nel Lago Nero, e di come tutto ciò lo avesse segnato. Non aveva parlato a Emma delle settimane che erano seguite, delle indagini di suo cugino (o, per meglio dire, quasi cugino) Teddy Lupin, dei sospetti, della paura, dei sensi di colpa; non le aveva raccontato di come alla fine lui e Albus avessero deciso di confessare, di togliersi quel peso dallo stomaco e affrontare le conseguenze di ciò che avevano fatto2. Probabilmente Emma aveva saputo tutto per vie traverse, tramite i giornali e le voci di corridoio, ma mai una volta gli aveva chiesto niente, mai aveva insinuato cose, mai si era permessa di ficcare il naso. Forse aveva capito che, per lui, non era facile parlarne, non era facile tirare fuori tutto di nuovo, proprio quando pensava di stare cominciando a lasciarsi quella storia alle spalle. 

«So benissimo di cosa parlo, Nott», tornò all’attacco Flitt. Il suo tono trasudava sarcasmo. «Tutti sanno di cosa sto parlando. Forse tu non te lo ricordi… Forse ti sei scordata di Karl Jenkins. Perché non vai a rinfrescarti per bene la memoria su cosa gli è successo per colpa di Potterino, qui…»

«Flitt, basta così», intervenne James, ma sentì la voce morirgli in gola quando vide Emma scattare in avanti verso il compagno di scuola. Le mani di Archie e Tyler non furono abbastanza veloci per agguantarla, e lei si fiondò addosso a Flitt. Anche James fece un passo avanti, mentre i presenti si aprirono in due ali, per permettere ad Emma di raggiungere il suo obiettivo. 

 

[PER FLITT SI METTE MALE]

 

Quando Dotty gridò, James seppe che era successo qualcos’altro, perché Emma all’improvviso si fermò, a pochi passi da Drake. Anche Izzy urlò, alzandosi dalla panchina, e iniziando a singhiozzare sommessamente. Stava succedendo di nuovo: il corpo di Flitt levitava a diversi passi da terra, e levitava sempre più sù, sempre più sù, come se fosse senza peso. Il ragazzo gridava e agitava le gambe, ma sembrava che una forza disumana e invisibile lo avesse preso per la maglia e lo stesse sollevando. James spostò lo sguardo su Emma, che ora era in ginocchio e fissava Flitt, in alto, gli occhi pieni di lacrime, le mani sulle guance. Emma vedeva qualcosa che nessun altro sembrava vedere. James le si affiancò rapidamente, scivolando sugli stinchi e in mezzo al fango. L’afferrò per le spalle, voltandola. Gli occhi della ragazza erano colmi di terrore e paura. 

 

[LO SHOCK DI EMMA]

 

«Emma!» esclamò. «È lei, non è vero? È il fantasma?» Le si avvicinò per parlarle sottovoce, in modo che solo lei sentisse, e la scosse leggermente per le spalle. Emma annuì ma non disse niente, sembrava incapace di proferire parola. James tornò a guardare Flitt, che ora veniva sballottato di qua e di là, come se quella forza invisibile lo stesse strattonando e tirando. La folla lì sotto era in preda al panico: qualcuno gridava, qualcuno piangeva, qualcuno era addirittura corso via, diretto alla scuola. 

James ed Emma vennero affiancati da Archie e Tyler, visibilmente preoccupati, se non direttamente per Flitt, sicuramente dalla reazione di Emma. James alzò gli occhi su di loro. 

«Archie, Tyler, ho bisogno che facciate una cosa per me», disse concitato. «Tyler, corri a chiamare Corner. Più in fretta che puoi.» Senza nemmeno rispondergli, Tyler corse via, letteralmente volando verso Heydon Hall. 

«Archie», continuò James volgendosi verso l’altro ragazzo,  «porta via Emma, accompagnala nella sua stanza e fai in modo che ci resti, non mi interessa come, anche con la forza.» Archie annuì, e si chinò sull’amica. 

James lo aiutò a farla alzare e cercò un’ultima volta gli occhi di Emma. «Hei», le disse dolcemente. «Emma, guardami.» Lei si sforzò di guardarlo, e ora li dividevano solo pochi centimetri. Non erano mai stati così vicini, a parte quando avevano condiviso quel bacio in biblioteca. James poteva sentire il suo fiato caldo sulle sue stesse labbra. La tentazione di baciarla era tantissima, ma non era quello né il momento, né il luogo adatto. «Emma, voglio che tu vada con Archie, ce la puoi fare, d’accordo?» La vide alzare lo sguardo su Drake, che stava ancora vorticando in aria, sempre più in alto. Sembrava fuori controllo. James notò gli occhi di Emma riempirsi nuovamente di lacrime e allora la tirò a sé, abbracciandola con delicatezza, premendole le mani aperte sulla schiena, solo per farle capire che era lì per lei, accanto a lei, e non la lasciava andare. Notò che era ricoperta di sudore freddo e tremava, e allora rivolse lo sguardo ad Archie, che li guardava teneramente, nonostante la preoccupazione. «Mettila a letto, per favore, è in stato di shock.»

L’affidò all’amico, che le circondò le spalle con un braccio, mentre Emma si aggrappava alla maglia di James e non sembrava intenzionata a lasciarlo andare. «Emma, vieni, dobbiamo andare», le sussurrò dolcemente Archie carezzandole un braccio. 

«Vai con Archie, Emma», le disse James prendendole il viso tra le mani e cercando nuovamente i suoi occhi. «Ti prometto che dopo verrò a cercarti, okay? Lo giuro.» Lei sembrò credergli, perché lo lasciò andare, per poi farsi guidare da Archie lontano da lì. Rimase a guardarlo, la testa voltata all’indietro, e lui rimase a guardarla, almeno finché potè, finché lei non si girò e il contatto si ruppe. Aveva visto il fantasma fare del male a Drake, non c’era altro che potesse spiegare e giustificare la sua reazione. 

 

[JAMES CERCA DI RISOLVERE L’ENNESIMO CASINO]

 

Ora, James si concentrò su Flitt. Appellò la sua scopa e prese il volo, intenzionato a fare qualcosa per impedire al fantasma di far degenerare la situazione. Heydon Hall non poteva permettersi un morto, il Ministero avrebbe mandato un Auror o due (l’idea di suo cugino Teddy che tornava ad indagare intorno a qualcosa che lo vedeva coinvolto gli fece male allo stomaco), oppure sarebbe stata costretta a chiudere. James si figurò il volto di Corner, tutta la sua immensa tristezza e impotenza e delusione. Non doveva accadere. 

Raggiunse in pochi secondi Flitt e cercò di allungare una mano per caricarselo sulla scopa, ma il suo corpo venne strattonato via, di qualche metro più sù e di lato. Ovviamente, il fantasma non gli avrebbe permesso di risolvere la cosa così a buon mercato. Tentò un’altra volta, ma Flitt venne portato ancora più sù. Ora gli altri erano solo macchie indistinte a terra, molto lontano da loro. James si chiese fin dove il fantasma si sarebbe spinto. 

 

[JAMES FA UN ULTIMO TENTATIVO]

 

Dopo l’ennesimo tentativo andato a vuoto, James notò che Drake aveva ormai perso i sensi, dopo tutto il terrore e lo spavento, e per il dolore che probabilmente doveva trapassargli le membra in quel momento. E allora James tentò un ultimo assalto, con qualcosa che suonava molto stupido ma che considerò come l’ultima risorsa prima della fine. Si sentiva i polmoni sofferenti e affaticati per l’altezza e non osava guardare giù per verificare quanto lontani fossero dal terreno. Non soffriva di vertigini, ovviamente, ma pensava che fosse meglio evitare, altrimenti sarebbe impazzito. 

«Signora di Heydon Hall?» domandò. «Lo so che può sentirmi… So che è arrabbiata, in questo momento, lo capisco, lo sono anche io. So che lo sta facendo per Emma, per proteggerla… La voglio proteggere anche io.» Si sentiva davvero stupido, lì fermo a mezz’aria a parlare col vuoto. Non era sicuro che avrebbe funzionato, ma cominciò ad acquisire sicurezza, per cui continuò. «Flitt è pessimo, so anche questo, ma è solo un ragazzo. È ottuso, e ha paura di ciò che può minacciare la sua supremazia in questa scuola, è un bullo fatto e finito, ma è un ragazzo», ripetè. «Ha solo diciassette anni.»

 

[LA TEMIBILE IRA DELLA SIGNORA DI HEYDON HALL]

 

In quel momento, la vide. Gli apparve davanti, teneva tra le mani un lembo della maglia di Flitt, ed era vestita di bianco. Il suo viso era acceso e contratto di una collera senza nome, e sembrava una dea, i capelli scuri sulle spalle e una luce dorata a circondarle le membra. Sembrava una dea bellissima e terribile, altissima nella sua ira e capace anche di spaccare il mondo in due, se solo lo avesse desiderato. James non aveva mai visto nulla di più spaventoso. Bello, fulgido, algido, ma spaventoso. Deglutì. 

 

[ELIZA]

 

«Mi chiamo Eliza.» La sua voce gli rimbombò nella testa, e quel nome risuonò come un’eco tra le pareti del suo cranio - e nel suo cuore. «Non sono la signora di niente, James Sirius Potter, solo di questo luogo buio e doloroso nel quale mi trovo.» 

«Eliza», cominciò lui, guardandola a fatica. Sentiva tutto il corpo tirargli e dolergli. Non avrebbe resistito sulla scopa, a quell’altezza, ancora a lungo. Non sentiva neanche più i rumori e le voci che provenivano da terra. Sembrava quasi che si trovassero in un limbo, sospesi a metà tra la vita e la morte. Forse era davvero così. Forse gli sarebbe bastato davvero poco per varcare quella soglia e perdersi nelle tenebre. Il pensiero di Emma gli fece male. Il pensiero di non rivederla più minacciò di spaccargli il cuore. E il pensiero di non poter più riabbracciare la sua famiglia fu il colpo di grazia: calde lacrime gli scendevano lungo le guance, ora. «Ti prego… Se vuoi davvero bene ad Emma, allora aiutami. Non resisterò ancora a lungo, qua sopra… Lascia andare Flitt, prima che sia troppo tardi. Non meriti di averlo sulla coscienza, non dopo ciò che hai già sofferto.»

«Tu non sai niente di me, di cos’ho sofferto, e non sai nulla della mia coscienza, Potter», parlò lei, gli occhi lampeggianti. Per quanto assurdo potesse sembrare, James pensò a quanto la donna assomigliasse ad Emma, in quel momento. Sussultò leggermente sulla scopa, tenendosi però saldamente al manico in legno. «Io faccio tutto per lei. Per voi. Non lo capite?»

Allora era vero. Allora c’era davvero un legame tra il fantasma di Heydon Hall - Eliza - ed Emma Nott. E lui con lei. 

«Proprio per questo motivo ti chiedo di risparmiarlo», insistesse lui allora. «Per favore, fallo per me. Fallo per Emma.» 

Rimasero a guardarsi a lungo, pochi secondi che a James sembrarono un’eternità. Chiuse per un momento gli occhi, quasi sopraffatto dalla fatica, a li riaprì velocemente quando sentì un tocco gelido sfiorargli la nuca. Eliza era a pochi centimetri da lui e ora poteva sondare quel suo sguardo acceso, quegli occhi scuri e caldi che contenevano il gelo. C’era qualcosa, al fondo, che però conosceva. C’era qualcosa che gli era noto, e che aveva già visto in altri occhi. 

Eliza non disse niente mentre gli depositava Flitt sulla scopa. James si affrettò a tenerlo su, anche se era difficile, vista la corporatura del ragazzo e la spossatezza che continuava a sentir crescere dentro. «Eliza—» cominciò, ma lei alzò una mano a zittirlo. Lo guardò con tristezza e nostalgia, sembrava che tutta la sua ira fosse sparita in un soffio di fumo. 

 

[CIÒ CHE ELIZA HA PERDUTO]

 

«Ciò che avete mi ricorda ciò che avevo anche io, un tempo…» iniziò spostando lo sguardo verso Heydon Hall. «Non lasciarla andare, James.» Il suo nome pronunciato da lei lo fece rabbrividire, ma lo irradiò all’interno come la luce di mille soli: conteneva tutto l’amore del mondo, e giorni dorati che sembravano infiniti, distese d'erba e il prato digradante di fronte ad una grande magione, una stanza in ombra e stille di sole che penetravano all’interno, due occhi verdi e un sorriso storto, capelli scuri e un’alta risata, e il lembo di un vestito bianco che spariva dietro un cespuglio. Quanto riemerse da quella che, più tardi, avrebbe definito una visione, Eliza gli sorrideva. «Non lasciarla andare», ripetè. «Emma ha bisogno di te.» Prima che lui potesse anche solo aprire bocca per parlare, Eliza svanì in un lampo di luce, lasciandolo vuoto e solo, ma qualcosa di incorporeo ma forte cominciò a sospingere la sua scopa verso terra, e James, con il corpo di Flitt addosso, ancora privo di sensi, si ritrovò a scivolare verso terra senza sforzo, con solo il vento che gli fischiava dolcemente nelle orecchie. Sperando che gli occhiali non gli scivolassero via dal naso, chiuse gli occhi e li riaprì solo quando incontrò il terreno duro, e un paio di mani lo afferrarono, chiamandolo per nome.

«James, ragazzo mio.» Era Corner. James lo guardò e si tirò su a sedere di scatto. Gli girava leggermente la testa, ma non ci badò. Si guardò intorno: il resto dei ragazzi lo circondava, e lo guardava come si guarda qualcosa di fenomenale, e sorprendente, anche; Flitt era coricato accanto a lui e Lamb cercava di farlo rinvenire, ma senza successo. 

«Portatelo in infermeria, ha perso i sensi lassù», disse quindi James ritrovando la voce. Gli uscì più roca di quanto si aspettasse e si schiarì quindi la gola. «Io sto bene», aggiunse mentre Corner gli tastava le braccia come in cerca di qualche ferita. 

«Ne sei sicuro? Siete scesi da un’altezza… be’, è incredibile che siate ancora tutti interi…» commentò il preside. «Un giorno di questi farò un infarto e allora mi avrete tutti sulla coscienza.» 

A James scappò un sorriso mentre si rimetteva in piedi. «Mi dispiace. Non so bene cosa sia successo, però.»

«L’importante è che tu stia bene.» Corner lanciò un’occhiata a Flitt e Lamb e li indicò con un gesto pratico della mano. «È meglio che dia una mano al signor Pince con il signor Flitt. Tu sei sicuro di stare bene, ragazzo?»

James annuì con vigore. «Aiutate Drake.» 

 

[JAMES CORRE DA EMMA]

 

Così, Corner gli diede le spalle e James si sentì libero di andarsene. Non gli importava che Flitt si riprendesse, in quel momento l’unica cosa a cui riusciva a pensare era Emma, e a quanto fosse stata spaventata e sconvolta. Non l’aveva mai vista in quello stato e voleva solo assicurarsi che stesse bene. Si allontanò dalla folla, e nessuno sembrò badare a lui. Si incamminò verso la scuola, sempre più velocemente. Incontrò la signora Pince, che attendeva il rientro degli altri sulla soglia della magione. 

«Signor Potter», esclamò la donna, stupita. «Si sente bene?»

James annuì. «Sto benissimo, madama Pince. Corner e Lamb stanno arrivando con un ragazzo bisognoso di assistenza, le consiglio di avvertire la guaritrice.»

«Santo cielo, dovremmo proprio pensare di tenerne qui una fissa, visto il numero di incidenti occorsi in questa scuola in neanche un mese.» Lo guardò sospettosa, ma James la ignorò. «È sicuro di stare bene?» 

Se qualcun altro gli avesse chiesto un’altra volta la stessa cosa, molto probabilmente sarebbe esploso. «Sicurissimo.»

La donna gli lanciò un’altra occhiata sorniona e poi si affrettò lungo il corridoio. James attese qualche secondo e poi quasi corse, diretto ai dormitori femminili. Sentiva la stanchezza invaderlo a ondate, battuta però dall’adrenalina per ciò che era appena successo: aveva davvero parlato col fantasma di Heydon Hall. Eliza. Doveva raccontarlo ad Emma, non appena fosse stata meglio. 

Arrivato ai dormitori, non la trovò da nessuna parte. Si passò una mano tra i capelli, preoccupato. Il suo letto era sfatto, come se fosse stata lì distesa fino ad un attimo prima. La cercò quindi in infermeria (che era deserta, ancora nessuna traccia di Flitt), in sala mensa, in biblioteca, e persino nella saletta del personale. Da lì, decise di tornarsene in camera. Aveva bisogno di sedersi e riprendere fiato, solo così sarebbe stato in grado di cercarla. Le sue ricerche terminarono però davanti alla sua porta. Emma era in piedi lì davanti, i pantaloni della divisa ancora sporchi di fango, le mani unite che si torcevano. Quando la vide le corse incontro, quasi scivolando sul pavimento lucido. 

 

[JAMES RITROVA EMMA]

 

«Emma?» La prese per le spalle, mentre lei sbarrava gli occhi, sorpresa ma sollevata? Era davvero sollievo quello che le leggeva nello sguardo? Sollievo misto a preoccupazione, però, come sempre negli ultimi tempi. «Stai bene? Perché non sei a letto?»

«Ti aspettavo.»

«Archie dov’è? Perché sei sola?»

«Mi ha messa a letto e io ho fatto finta di addormentarmi. L’ho sentito alzarsi e uscire.»

James alzò gli occhi al cielo. «Perché sei sempre così cocciuta? Dài, ti riporto al dormitorio…»

«No.» Emma gli afferrò un braccio, trattenendolo. Lo tirò a sé in un abbraccio, e James si ritrovò addosso a lei, con le sue braccia che lo stringevano spasmodiche, il suo viso nascosto nell’incavo del suo collo, il suo profumo tutt’intorno. Dopo un primo momento di sorpresa, James ricambiò l’abbraccio, cingendole la schiena e tenendola stretta, il suo naso tra i suoi capelli. Non seppe per quanto tempo rimasero lì, stretti, in mezzo a quel corridoio in penombra. Sentiva solo dentro di sé le sue viscere in fermento, le farfalle gli svolazzavano caotiche nello stomaco e qualcosa cresceva e cresceva, minacciando di inghiottirlo tutt’intero. 

«Cos’è successo, prima? L’hai vista, vero?»

Sentì Emma tremare lievemente tra le sue braccia, e la sua testa che si muoveva, annuendo. Lei si scostò leggermente per guardarlo in viso, rimanendo però stretta a lui. Gli tirava la maglia, come aveva già fatta al campo, come se temesse che lui potesse svanirle tra le dita come fumo - o come un fantasma. «Era lei. Ha afferrato Flitt… Come l’altra volta con Baker. È stato terribile. Lei era terribile.»

James annuì, carezzandole una guancia con le nocche. La guardava negli occhi, ora, e dentro di essi ritrovò ciò che aveva visto in un altro paio d’occhi, soltanto poco prima. Un “poco prima” che però sembrava un’eternità fa, quasi un’altra vita, o la vita di qualcun altro.

«Tu stai bene?» gli chiese. «Devi finirla di fare l’eroe o finirai ammazzato.»

James non potè fare a meno di ridere. «Come sai che ho fatto l’eroe?»

«Ti leggo nel pensiero, Potter. So che sei volato fin lassù per aiutare quello stronzo.»

«Be’, non posso dire di non essere lusingato da questa cosa. Sai anche cosa sto pensando in questo momento, allora.»

Emma scosse la testa. «Lo vorrei, ma non lo so.»

James le appuntò un capello dietro l’orecchio. «Sto pensando a quanto mi hai fatto preoccupare, prima. Mentre cercavo di salvare Flitt, non riuscivo a fare a meno di pensare a te… A come stessi…»

«James», iniziò lei. «Dobbiamo parlare.»

Lui annuì. «Mi dispiace di essere scappato via come un codardo. Quel giorno in biblioteca, quando… be’, hai capito», specificò. «Sono stato un coglione quasi quanto Flitt.»

«Ti devo dire delle cose. Cose importanti. E credo di averti perdonato quando prima mi hai abbracciata, giù al campo… E quando ho visto quanto eri spaventato per me…»

«Okay, parliamo. Vieni.» Così dicendo, si scostò da lei e armeggiò per un momento con la porta, aprendola e facendole cenno di entrare. Una volta al sicuro nella sua stanza, James si voltò a guardarla. Emma si stava controllando i pantaloni tutti sporchi, le labbra arricciate in una smorfia. 

«Avrei bisogno di lavarmi», buttò lì. «Puoi prestarmi dei vestiti?» Alzò lo sguardo su di lui, mentre James deglutiva a stento. Lavarsi? Vestiti? Lì, nella sua stanza? «James?» Lui si riscosse, annuendo. «Ma certo, apri il baule e prendi pure quello che preferisci.» 

 

[SAREBBE STATA UNA LUNGA SERATA]

 

Le indicò il baule e lei gli sorrise. La guardò frugarci all’interno, tirandone fuori pantaloni e camicie e soppesando alcune t-shirt. James non riusciva a staccarle gli occhi di dosso. Sembrava così diversa dall’Emma terrorizzata di qualche minuto prima, come se solo il fatto di trovarsi lì, con lui, al sicuro in quella stanzetta, l’avesse in qualche modo tranquillizzata. 

Dopo poco, Emma si rialzò. Tra le mani teneva un pacchetto di vestiti. «Ecco fatto.»

«Bene», commentò James. «Il bagno è da quella parte, trovi degli asciugami puliti sul mobile. Mentre tu sei dentro vado a prepararti qualcosa di caldo, ti farà bene.»

Emma lo guardò e gli sorrise, ma non disse niente. James le passò accanto e uscì, richiudendosi la porta alle spalle. Non sarebbe riuscito a restarsene lì, seduto sul letto, sapendo che Emma si trovava solo al di là di quel muro, nel suo bagno, molto probabilmente a farsi una doccia, per poi avvolgersi nei suoi asciugami. No, decisamente non ci sarebbe riuscito. Si appoggiò al legno fresco della porta e inspirò, chiudendo gli occhi. Sarebbe stata una lunga serata. 

 

🥀

 

Una volta tornato in camera, James aveva trovato Emma seduta sul suo letto a gambe incrociate e con addosso i suoi vestiti. Aveva scelto un pantalone del pigiama blu e ci aveva messo sopra una camicia azzurra, una delle preferite di James, tra l’altro, ché si abbinava bene ai suoi occhi. Sembrava piccolissima dentro quegli abiti così grandi per lei e James le aveva sorriso, per poi raggiungerla, e sederlesi di fronte. Le aveva preparato un sandwich con del pollo, che Emma aveva spazzolato mentre lui si faceva una doccia veloce. Poi le si era seduto di fronte, anche lui a gambe incrociate, e avevano bevuto il tè insieme, silenziosi. 

 

[JAMES ED EMMA PARLANO]

 

Dopo di che, era stato un fiume di parole. James l’aveva aggiornata per bene sull’incidente di Pansy, e le aveva raccontato di essere andato a trovarla, quella mattina in cui Theodore era venuto a Heydon Hall, solo che la conversazione avuta con la donna non aveva portato i risultati sperati: Pansy sembrava non ricordare assolutamente niente di ciò che le era successo soltanto la notte prima, come se il tutto fosse accaduto a qualcun altro e non a lei. Non ricordava di essere uscita dal suo letto, né di aver camminato fino all’ala ovest, né tantomeno tutto ciò che era avvenuto dopo, sul ballatoio. L’aveva salutata dopo poco, adducendo come scusa un’incombenza di cui doveva occuparsi. A quel racconto era seguito quello che era successo esattamente con Flitt poco prima, al campo, da quando Emma se n’era andata con Archie, fino al momento in cui James l’aveva trovata fuori dalla sua porta. James aveva omesso ciò che il fantasma gli aveva detto su di lei, ché non voleva turbarla o addossarle altre preoccupazioni. Quando le aveva rivelato il nome Eliza, però,  l’aveva vista sussultare leggermente, ma era andato avanti, imputandolo solo alla sorpresa provata nell’essere venuta finalmente a conoscenza del nome della loro dama misteriosa. Emma aveva quindi finito di ascoltare in silenzio, assorta nei suoi pensieri, pensieri che James forse non sarebbe mai stato in grado di raggiungere. 

A racconto finito, era stato il turno di Emma di metterlo al corrente della sua recente scoperta: gli raccontò della tomba che aveva trovato nel parco, di quelle iniziali, del nome Eliza (e qui James era stato in grado di interpretare il suo sussulto di pochi minuti prima), di quel bambino nato e morto in maniera tragica e, infine, di quell’ultima lettera, datata 17 novembre 1980, l’ultima della serie di lettere scambiate tra Eliza e il marito. James aveva pensato che la morte del bambino di Eliza poneva definitivamente fine a tutte le loro eventuali speculazioni su un possibile collegamento con Emma, e aveva imputato quindi il tutto a delle loro effimere suggestioni. Emma aveva chiuso il discorso proponendogli i suoi stessi dubbi, cioè che cos’era veramente accaduto in quel novembre di quarantatré anni fa, che cos’era veramente accaduto a Eliza e, soprattutto, a suo marito: era sopravvissuto?, se sì, dov’era andato?, cosa gli era successo?, se no, perché non era stato seppellito a Heydon Hall, insieme alla moglie e al figlio? C’erano un sacco di “se” e poche certezze, in tutta quella storia, e James si sentiva la testa come dentro una bolla. 

La stanchezza lo stava travolgendo a ondate, e ben presto, posate a terra le tazze del tè, lui ed Emma si ritrovarono stesi sul letto, così vicini che lui poteva sentire l’odore del suo stesso bagnoschiuma sulla pelle di lei, e il suo fiato che sapeva del tè al bergamotto appena bevuto insieme. Si sarebbe facilmente addormentato, lì accanto ad Emma, inebriato del suo profumo e della sua vicinanza, del suo corpo che lo chiamava come un magnete, e lo attirava vicino. Emma teneva una mano sotto la testa, e l’altra era mollemente poggiata sul materasso. Il colletto aperto della camicia lasciava intravedere la sua clavicola e James deglutì, cercando di non guardarla. Si puntellava con un gomito sul cuscino, la testa poggiata sul palmo della mano. 

 

[LA RICHIESTA DI EMMA]

 

«Ti devo chiedere una cosa», disse quindi Emma rompendo quel momento di stallo tra loro. Teneva gli occhi bassi e giocherellava con la manica troppo lunga della camicia. 

«Spara», rispose James cercando di suonare incoraggiante mentre cercava di non guardarla troppo intensamente. 

«Ho bisogno di andare a Rosham Village. Te lo ricordi? È saltato fuori in qualcuna delle lettere di Eliza, e tu avevi detto che ti ricordava qualcosa ma non sapevi bene cosa… Non è molto lontano da Heydon Hall, in verità…»

«Okay…?» James ricordò improvvisamente quando lui ed Emma avevano analizzato il contenuto della prima lettera di Eliza letta da Emma, dopo il primo allenamento di Quidditch. Quel nome, Rosham Village, non era più saltato fuori, da allora, e quasi se l’era scordato. 

Emma alzò gli occhi su di lui. «Ho bisogno di andare a Rosham Village perché lì si trova un posto che voglio visitare.»

«Quale posto?»

Emma sospirò, cambiando posizione, e sdraiandosi sulla schiena. Fissava il soffitto, ora. 

 

[LE RIFLESSIONI DI EMMA]

 

«Tutto questo parlare di famiglie mi ha fatto riflettere. Eliza ha in qualche modo perso la sua. Ha perso il suo bambino ed è molto probabilmente morta di parto, e non sappiamo se suo marito sia effettivamente morto prima di lei, potrebbe anche essere successo. La sua famiglia si è disgregata, perdendosi per sempre.» James non sapeva dove Emma volesse andare a parare, così rimase zitto, aspettando che proseguisse. «Insomma, ci sono un sacco di cose che, ogni giorno, diamo per scontate. Per esempio, immagino tu sappia dov’è nato tuo padre, no? O chi erano i tuoi nonni. Sai molte cose sulla famiglia Potter, nonostante tu non abbia avuto modo di conoscere nessuno di loro.»

James annuì. Certo, suo padre gli aveva raccontato tutto ciò che c’era da sapere su suo nonno James, il suo omonimo, e gli aveva detto quanto gli assomigliasse, ma anche quanto assomigliasse a nonna Lily. Gli aveva raccontato tutto quanto e lui non avrebbe mai potuto essere più grato a suo padre per questo. «Sì, certo», rispose quindi. «So tutto.»

«Io non so niente della famiglia di mia madre. Lei non ne parla, e nessuno le chiede niente. Papà è una tomba, ma lo capisco, non sta a lui parlarne con noi. Tutti i giorni, io dò per scontata mia madre pur non sapendo niente di lei. La conosco così poco… Lei è come un mistero impenetrabile, per me.»

«Potrebbe esserle successo qualcosa di doloroso? Forse è per questo che non le va di parlarne…?» buttò lì James. Non sapeva bene come affrontare quel discorso così delicato, e quali parole usare per far capire a Emma quanto volesse starle vicino, e cercare di aiutarla a capire. 

«Può essere, ma non pensi che noi figli abbiamo il diritto di sapere? Non so nemmeno dove abbia vissuto di preciso, prima di trasferirsi in Inghilterra dagli Stati Uniti. Non so come sia stata la sua infanzia, e il periodo della scuola… Non so come fosse fatta, ci sono così poche foto di lei prima di venire qui… E lei non le guarda mai volentieri, come se le facessero male. Non so nemmeno nulla dei miei nonni materni, solo che sono morti prima che lei decidesse di trasferirsi. Anzi, ha deciso di trasferirsi proprio per questo motivo.»

«E pensi che andare a Rosham Village possa aiutarti a ricostruire un tassello del suo passato? Del tuo passato?»

Emma annuì. «Lo penso.»

C’era ancora qualcosa che Emma non gli stava dicendo, qualcosa che aleggiava tra loro come uno spettro. 

«Sento che non avrò pace finché non ci proverò, finché non ci andrò», proseguì lei. «Rimarrà sempre dentro di me quella voce, insistente e caparbia, che mi urlerà di farlo.»

«Va bene, allora domani ci andiamo», acconsentì James, ché in fondo non avrebbe mai potuto negarle nulla. 

«No, James, non domani. Stanotte.»

 

[STANOTTE]

 

James sbarrò gli occhi e per poco non gli cedette il braccio sul quale era poggiato. «Stanotte

Emma annuì, tornando ad acciambellarsi su un fianco. Lo guardò negli occhi. «La prospettiva di trascorrere un’altra notte con questo pensiero mi fa impazzire.»

«Pensi che sia una buona idea? Andare via col buio, rischiando di venire scoperti?»

«È un rischio, sì, ma ho pensato che sarebbe meglio aspettare un po’… Magari potremmo andarcene intorno alle tre, che ne pensi?»

James annuì. Sì, aspettare il buio fitto sarebbe stato meglio. Sarebbero sgattaiolati fuori sotto il Mantello e avrebbero eseguito una Smaterializzazione congiunta appena fuori dai confini di Heydon Hall. 

«Come potrei dirti di no?» disse quindi, allungando una mano e carezzandole lievemente una guancia. Vide il viso di Emma aprirsi in un sorriso e seppe che stava facendo la cosa giusta, nonostante non fosse ben conscio di cosa stesse facendo, esattamente. Uscire con una studentessa e allontanarsi dalla scuola in sua compagnia per andare a indagare sul torbido passato della famiglia di lei non suonava benissimo, in effetti. Se li avessero scoperti, sarebbero finiti in un mare di guai, ma James sarebbe stato capace di seguire Emma anche in capo al mondo, se solo lei glielo avesse chiesto. 

«Non ti ho ancora detto qual è il posto che voglio visitare, a Rosham Village…»

«Qual è il posto che vuoi visitare, a Rosham Village?» ripetè lui sorridendole. La sua mano era ancora sulla sua guancia e siccome ad Emma sembrava non dispiacere affatto, James pensò che, per quanto gli riguardava, sarebbe potuta rimanere lì per sempre. 

 

[ROSIER HALL]

 

La vide fare un bel respiro, come a racimolare il coraggio necessario. «Rosier Hall3

«Rosier—» cominciò James, ma si interruppe. Aggrottò le sopracciglia, vagamente confuso. 

«Rosier Hall era la magione della mia famiglia», spiegò Emma guardandolo da sotto le ciglia. Sembrava preoccupata. «Il nome da nubile di mia madre era Victoria Rosier4

«Tua madre… Per Godric! E perché non lo sapevo?»

«Perché non vado in giro a sbandierare il cognome da Mangiamorte di mia madre ai quattro venti, ecco perché», rispose Emma concitata, ma non arrabbiata. Più che altro, sembrava solo stanca. 

Tra loro calò il silenzio, ma un silenzio buono. James rifletteva, ma tutto ciò che riuscì a cavarne fuori fu solo un guazzabuglio ancora più grosso. Victoria Rosier. Rosier Hall

«Lo so cosa pensi», riprese la parola Emma. «Quel cognome giustificherebbe ogni silenzio, ogni mistero e ogni desiderio di mia madre di non parlare del suo passato, e della sua famiglia.»

«Non lo stavo pensando, smettila di cercare di leggermi nel pensiero», cercò di scherzare James. Le scucì un sorriso e per lui costituì un’immensa soddisfazione. «Mi hai solo preso in contropiede, ecco.»

«Lo capisco. Mia madre non parla volentieri di chi è stata, e delle sue origini, e quindi né io, né i miei fratelli, ne parliamo mai volentieri. È come se fosse una parentesi ben chiusa, anche se non del tutto, su un passato che neanche si può nominare.»

 

[ANCHE NELLA TANA DI UN DRAGO]

 

«Emma», iniziò James tornando ad accarezzarle una guancia. Lei lo guardò negli occhi. «Non devi giustificarti, con me, né provare a cercare strane spiegazioni. Verrò con te a Rosier Hall, probabilmente verrei con te anche nella tana di un drago, se me lo chiedessi. Spero davvero che tu possa trovare le risposte che cerchi, laggiù.»

«Torneremo a indagare su Eliza domani, sei d’accordo?»

Lui annuì. «Sono sicuro che Eliza capirà.»

Rimasero in silenzio per un attimo, durante il quale Emma chiuse gli occhi, e sembrò quasi essersi addormentata, almeno finché non li riaprì, guardando James intensamente. Lui non aveva battuto ciglio neanche un secondo, e aveva continuato ad osservarla, intento. «Eri serio, prima?»

«Contestualizza il prima.»

«Quando hai detto che mi seguiresti anche nella tana di un drago, se te lo chiedessi.» Aveva parlato a bassa voce, come se temesse di disturbare - come se temesse la sua risposta. Forse pensava che lui le dicesse che scherzava? O temeva l’esatto opposto? James ovviamente non lo sapeva, così scelse la via della sincerità. 

«Ero serio, sì.»

Emma gli si fece più vicina, annullando quel poco spazio che ancora rimaneva tra loro. James se la ritrovò incastrata nell’incavo del suo braccio e, istintivamente, allungò l’altro braccio a stringerle la schiena. Emma si aggrappò alla sua t-shirt e lui la sentì inspirare ed espirare. James chiuse gli occhi per un attimo, assaporando quel momento, beandosi del corpo di Emma contro il proprio, del suo calore e del suo odore, e cercando di non pensare, però, a tutti i punti in cui le loro pelli si sfioravano, altrimenti sarebbe impazzito. 

«Sei stanca», le disse. «Dormi un po’, ti sveglio io quando è ora.»

La sentì muoversi leggermente nel suo abbraccio, per poi udire il suo respiro farsi regolare, segno che era già sprofondata nel sonno. Sembrava quasi che attendesse solo il suo bene stare per lasciarsi andare. James la tenne stretta a sé nel chiarore nebuloso della stanza, rannicchiati sul suo letto, mentre fuori calava la notte.


 


 

Note.

1. Jemma: ringrazio Ferao per aver coniato il nome della ship ♥︎ 
2. La vicenda di Karl Jenkins che ha visto coinvolto James la potete leggere in Death in the Night, l’altra mia long sulla Nuova Generazione, QUI.
3. Rosier Hall: la residenza della famiglia Rosier, che io immagino COSÌ; headcanon di mia invenzione.
4. Victoria Rosier: tutto ciò che riguarda Victoria e la famiglia Rosier che non rientri nel canon è di mia invenzione

 

Ciao a tutti, ri-eccomi qui con un nuovo aggiornamento (alla fine non vi ho nemmeno fatto aspettare tantissimo, dai, solo un paio di settimane — non lanciatemi niente, per favore). Allora, pensavo che questo capitolo sarebbe stato breve perché doveva essere SOLO un capitolo di collegamento con il 12, E INVECE sono di nuovo +8k parole, scusate davvero — in realtà sotto sotto spero che abbiate gradito il fiume di parole, sono un clown fatto e finito 🤡 Succedono un bel po’ di cosette anche qui. Intanto torna Archie, e torna giusto bene visto che lo avete richiesto in tante e a gran voce, e ovviamente col botto, in pieno stile-Archie; spero che il suo momento a tu-per-tu con Emmina vi sia piaciuto, io mi sono divertita un mondo a scriverlo. Poi succede un casino con Flitt, che in parte se lo merita, devo dire, ma qui Eliza rischia davvero di combinare un bel pasticcio. Questo sarà l’ultimo grosso incidente, vi avverto, anche perché ci stiamo avvicinando progressivamente alla verità. Intanto, Emma cerca di dipanare la matassa relativa a sua madre e alle sue origini e, BOMBA 💣, scopriamo finalmente il cognome da nubile di Victoria, cioè ROSIER 👀 Ed Emma è fermamente intenzionata a scoprire la verità sulla famiglia di sua madre 🔮 I nostri due piccioncini (cit. Archie) intanto hanno chiarito: portare avanti questo drama ancora a lungo non sarebbe stato produttivo, e avrebbe rischiato di annoiare, quindi; qui c’è molto fluff, come avete potuto notare, scusate anche per questo XD

 

Il prossimo capitolo sarà decisamente esplosivo, ve lo dico, è tipo IL capitolo, aspetto di scriverlo da quando ho iniziato questa storia, quindi avrò un’ansia da prestazione assurda, OTTIMO. Probabilmente vi farò aspettare un pochino, vi avverto già ora, ma per chi mi segue su INSTAGRAM, vi delizierò (?) con degli spoiler, come sempre.

 

Okay, vado prima che queste note superino la lunghezza del capitolo. Grazie come sempre a tutti voi che dimostrate entusiasmo e affetto per questa storia e i suoi protagonisti ♥︎

 

A presto, Marti 🐍

 

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Capitolo 13
*** CAPITOLO DODICI ***


 

Nelle puntate precedenti…

A Heydon Hall, Emma e James portano avanti la loro indagine sulla misteriosa E., il fantasma che infesta le stanze dell’antica dimora. James ha un incontro ravvicinato con la Dama durante un incidente in cui uno studente rischia la vita, mentre Emma trova la lapide sotto la quale sono sepolti Eliza e il suo bambino, nel giardino sul retro della scuola. I due ragazzi risolvono i loro problemi personali (si erano baciati in biblioteca e James si era comportato da perfetto idiota) ed Emma gli chiede di accompagnarla a Rosier Hall, l’antica dimora di famiglia che sua madre ha ereditato ma che ha chiuso ben prima che Emma nascesse. In questo capitolo, ecco cosa scopriranno i nostri eroi. 

[ DISCLAIMER: tutto l’headcanon riguardante la famiglia Rosier - a parte ciò che già sapevamo, ovviamente - è stato inventato da me ]



THE HAUNTING OF HEYDON HALL

 

CAPITOLO DODICI

 

 

“Mi sentii 
sull’ultimo margine
del mondo,
a scrutare nelle viscere
di un caos insondabile
di notte eterna.”
H. P. Lovecraft, Dagon

 

 

Rosier Hall, Norfolk, 23 settembre 2023

Emma si sentì scostare piano, e il suo nome sommessamente sussurrato da James la riscosse. «È ora», e poi qualche vestito infilato di fretta, James che le avvolgeva le spalle con uno dei suoi giubbotti, e il suo bacio lieve sulle labbra che non era un voler prendere, ma solo un voler dare, una rassicurazione sussurrata a fior di pelle. «Ne sei sicura?» Ad Emma era bastato annuire, un sospiro ed erano fuori da Heydon Hall senza che nessuno li vedesse, testimone solo la notte. La Materializzazione congiunta praticata da James fuori dai cancelli della scuola fu velocissima, un battito di ciglia ed eccoli dall’altra parte. 

Pioveva, in quella zona del Norfolk. L’acqua veniva giù a ondate da un cielo nero senza stelle e ben presto furono zuppi. Emma si guardò intorno, la mano ancora saldamente stretta in quella di James. Non volevano perdersi nell’oscurità di un luogo che nessuno dei due conosceva e, per Emma, quel tocco voleva dire stabilità. “Dove pensi che sia l’ingresso?” James urlò sopra il frastuono della pioggia. Aveva ficcato il mantello dell’invisibilità in uno zaino insieme ad altre cose che avrebbero potuto essere loro utili e aveva restituito ad Emma la bacchetta che, sorprendentemente, era riuscito a recuperare dallo studio di Corner prima di andare. Il preside dormiva nell’ala del personale e non nel suo studio, per fortuna, quindi aveva avuto via libera. E conoscere il modo di disincantare il baule dove venivano conservate le bacchette degli studenti era un vantaggio non da poco. 

 

[ROSIER HALL]

 

Emma sapeva che la tenuta era immensa, con un parco vastissimo a circondare la casa vera e propria che però assomigliava quasi più ad un castello che ad una semplice villa signorile nel cuore della campagna inglese. La ragazza si guardò intorno mentre la pioggia le scorreva addosso, annebbiandole la vista. Si scostò una ciocca bagnata di capelli da davanti agli occhi. E poi lo vide, fu come un bagliore in mezzo alla notte: un cancello alto. Lo indicò a James. «Laggiù.» 

«Andiamo,» rispose James tirandola per la mano, e lei lo seguì. La pioggia aveva già creato rivoli di fango ai loro piedi ed Emma sentiva le scarpe impregnarsi d’acqua e le punte dei piedi bagnati. Non vedeva l’ora di essere al coperto, per quanto entrare a Rosier Hall1 la spaventasse, oltre che eccitarla e incuriosirla. Era tutto lì, di fronte a lei: l’ignoto e la verità insieme. Non aveva mai fatto un salto nel vuoto di tale portata, infrangendo non sapeva quante regole tutte insieme, e probabilmente deludendo sua madre per sempre, quando la donna sarebbe venuta a saperlo - e lo avrebbe saputo di certo, era fuor di dubbio. Ma la verità che avrebbe potuto scoprire, ciò che si celava dietro quelle mura, le risposte che avrebbe trovato al di là, tutto era come un richiamo, per lei, qualcosa che la chiamava da tempo, l’attirava a sé e la reclamava: quel sangue che non era acqua e che le scorreva dentro come un’eredità, che le piacesse o meno. 

Tirò un bel sospiro quando lei e James si fermarono davanti al cancello. 

 

[IL CANCELLO È CHIUSO]

 

«È chiuso a chiave. Per Godric!» James imprecò, lasciandole per un attimo la mano per spingere con entrambe contro il ferro solido, che però non si mosse neanche di un solo millimetro. «Avremmo dovuto prevederlo.» 

«Prova con un Alohomora,» gli suggerì lei. 

James sfoderò la bacchetta, ma probabilmente un semplice incantesimo come quello non bastava per aprire un cancello di quel tipo, che doveva custodire una dimora così importante e antica da ogni possibile attacco esterno. 

«Cosa facciamo ora? Ce ne torniamo a Heydon Hall e pensiamo ad un altro modo per entrare?” 

Emma guardò James, ne cercò i bei lineamenti sotto la pioggia e la luce pressoché inesistente. Lui sembrò leggerle nel pensiero, perché sussurrò «Lumos» e il suo volto prese vita, e sembrava quasi grottesco sotto quella luce e quella pioggia, ma era pur sempre James, e sembrava davvero deluso che la loro avventura si sarebbe dovuta concludere ancora prima di iniziare. 

 

[IL SANGUE DI EMMA]

 

Emma rivolse un’altra occhiata al cancello e vi poggiò una mano sopra, proprio sopra al cuore della grossa e vecchia serratura, dove le due ali del cancello si congiungevano. Un “clang” li riscosse, un cigolio pervase l’aria elettrica di pioggia e umidità e un calore sconosciuto inondò il palmo di Emma, propagandosi fino al braccio e al petto. Lei ritrasse la mano di scatto, ma ormai era fatta: il cancello si stava aprendo. 

«Emma, hai appena aperto…»

Lei annuì velocemente. «Lo so. Lo so.»

«Hei,» James le si avvicinò, la prese per le spalle, ne cercò gli occhi che lei dapprima rifuggì, ma che poi non potè fare a meno di incontrare. «Andrà tutto bene, d’accordo? Ci sono io con te.»

Lei annuì di nuovo e accennò un sorriso. «Andiamo.»

 

[ROSIER HALL LI ACCOGLIE]

 

Percorsero il lungo viale che conduceva all’ingresso del castello correndo e tenendosi per mano, i piedi che sguazzavano nelle pozze di acqua e fango lungo il percorso. Sentirono il cancello richiudersi con un altro cigolio dietro le loro spalle, ma non si voltarono. Ora erano dentro. Rosier Hall li aveva accolti tra i suoi segreti, parte integrante dei suoi fantasmi così come delle sue leggende, pronte a dischiudersi davanti a loro come rose in boccio.

 

🥀

 

Emma riuscì ad aprire la grande porta a due battenti così come aveva aperto il cancello poco prima, semplicemente sfiorando il batacchio a forma di serpente. Intorno vi era intrecciata una rosa rampicante. 

L’interno era ovviamente polveroso, ma almeno il rumore della pioggia arrivava attutito e loro potevano stare all’asciutto. Lasciarono impronte scure sul pavimento a scacchi bianco e nero ricoperto di polvere del grande ingresso, il naso all’insù per captare quanti più dettagli possibili. Ora anche Emma aveva acceso la bacchetta e la teneva stesa davanti a sé come una spada, luce e protezione contro l’oscurità che premeva dagli angoli. 

 

[DENTRO ROSIER HALL]

 

Rosier Hall era proprio come Emma l’aveva tante volte immaginata: grande, immensa, antica. I soffitti alti erano affrescati; le pareti ricoperte di carta da parati a fiori e tappezzate di quadri di paesaggi; le scale elaborate che conducevano al piano di sopra si perdevano nel buio. I loro passi risuonavano in mezzo al silenzio immoto che, da anni, non era mai stato turbato. Emma rabbrividì al pensiero che nessuno, da tempo, ne solcava i pavimenti o ne sfiorava le pareti; che nessuno, da tempo, si sedeva su quei divani od occupava la poltrona accanto al fuoco; che nessuno, da tempo, dormiva in quei letti e, semplicemente, viveva quella casa. 

«Emma,» James la riscosse. Lei si voltò per guardarlo: era a poca distanza e la guardava con le sopracciglia aggrottate. «Tutto bene? Ti ho chiamata due volte…»

«Sì, sì, sto bene. Ero pensierosa…»

«Andiamo, di là c’è il salotto, così ci asciughiamo e accendo il fuoco.»

 

[IN SALOTTO]

 

Emma lo seguì nella sala adiacente che, come aveva accennato James, era proprio il salotto. I divani e le poltrone erano stati ricoperti da teli e vecchie lenzuola e i tappeti erano stati arrotolati e messi in un angolo. Cinque alte finestre si potevano aprire sul giardino ed Emma poteva vedere la pioggia imperversare sulle foglie e i cespugli incolti là fuori. Rabbrividì.

James lo notò, perché si affrettò a chinarsi davanti al vecchio camino con la bacchetta e ad accendere un fuoco, che scoppiettò nel silenzio, stranamente allegro. La luce improvvisa diede alla stanza nuove sfumature, un po’ meno inquietanti e più terrene. Emma osservò i lineamenti di James mentre era chino davanti al caminetto, la curva della sua mascella elegante, i capelli castani spruzzati sugli occhi, le mani agili. Stare accanto a lui la faceva stare bene, ogni paura e timore svanivano. Quando si rialzò con un sospiro, Emma ebbe modo di osservare la mensola sopra il camino con più attenzione: era uno di quei tipici luoghi da foto di famiglia incorniciate e ricordi, ma non c’era nulla che le rammentasse una famiglia, o che le infondesse calore famigliare, su quella lastra di marmo, ma solo elaborati soprammobili e vestigia di un tempo passato, serpenti qui e là e rose, rose ovunque. Emma sapeva che le rose erano care ai Rosier e questo sembrava una delle poche cose rimaste a sua madre Victoria che la collegassero in qualche modo a chi era stata e da dove proveniva.

 

[IL DIPINTO DEI SUOI AVI]

 

«James,» iniziò Emma, un passo avanti per guardare più da vicino. Sopra il camino era appeso un quadro. Emma sollevò la bacchetta per vederlo meglio: raffigurava tre persone. Due uomini erano in piedi dietro una sedia, sulla quale era seduta una donna. L’uomo più vecchio era vestito elegante, di un’eleganza composta e vecchio stampo. Ad Emma ricordava un po’ le vecchie foto di suo nonno che le mostrava suo padre, di un uomo tutto capelli (in quel caso biondi) impomatati e cravatte perfettamente stirate. Quest’uomo aveva i capelli scuri tagliati corti e aperti ai lati da una riga severa, un ciuffo lucido a ricadergli di lato. Ogni curva del suo viso severo ne era esaltata e i suoi occhi… i suoi occhi scuri mandavano bagliori. Teneva le mani sulla sedia di quella che era sicuramente la moglie, bionda, pallida, ma dall’espressione vacua come di chi sta occupando uno spazio nel mondo quasi per caso o per sbaglio, vestita di verde, elegante, i capelli appena acconciati e le unghie colorate di rosa sulle mani poggiate in grembo, composte. Fu l’altro uomo più giovane ad attirare l’attenzione di Emma, però. C’era qualcosa, in lui, qualcosa che l’attirava, qualcosa che gli brillava al fondo dello sguardo, una luce o una scintilla che Emma riconobbe, un barlume che aveva già visto, in altri occhi, ma più scuri, scuri quasi quanto questi erano verdi, due polle nelle quali era facile perdersi, verdi come quelli della donna che gli sedeva di fronte e sulle cui spalla poggiava una mano. 

Emma non riusciva a distogliere gli occhi dal quadro. Non era un quadro magico, i soggetti non potevano muoversi, ma erano fissi, per sempre prigionieri di quella tela, immobili e sinistri, per sempre giovani. 

«Emma,» iniziò James. La tirò per la manica e lei si scosse, guardandolo. «C’è scritto qualcosa, alla base del quadro.»

 

[I ROSIER]

 

Lei si rigirò ed effettivamente intravide delle parole, ma la polvere ricopriva la superficie della piccola targhetta posta alla base della cornice, così si alzò in punta di piedi e, con un lembo della manica ancora bagnata, la ripulì.

 

Damien Rosier e Medea Rosier2
E il di loro amato figlio Evan

Rosier Hall, agosto 1980

 

“Meglio regnare all’Inferno, che servire in Paradiso.”
Famiglia Rosier

 

«Meglio regnare all’inferno che servire in paradiso», rilesse James con voce incerta. «Sembra—»

«Il loro motto,» lo interruppe Emma, inghiottendo il groppo che le si era formato in gola. «Il motto della famiglia Rosier, lo conosco. Quand’ero piccola ho trovato per caso alcuni documenti sulla scrivania di mia madre, nel suo studio, ero andata lì a giocare ai miei giochi immaginari. Si era arrabbiata molto quando mi aveva trovata lì. Non ero ancora a Hogwarts ma ovviamente sapevo già leggere, mamma aveva insegnato a me e ai miei fratelli molto presto. Meglio regnare all’inferno che servire in paradiso. È tratta dal Paradiso Perduto di Milton.»

«Emma…»

 

[EVAN ROSIER]

 

Ma lei continuò. «È mio nonno. Evan Rosier.» Sospirò, e sentì la mano di James insinuarsi nella sua. Cercò di trattenere un po’ del suo calore. «Uno dei più pericolosi e spietati Mangiamorte della storia. Lo sapevo, ovviamente, ma leggerlo nero su bianco è tutta un’altra storia.» 

«Stai bene?»

«Non lo so. Credo di sì. In fondo, me lo aspettavo che avremmo trovato conferme scomode, qui, non certo verità edificanti.» 

«Tutti noi ci portiamo dietro eredità importanti.»

«Chi in un senso e chi nell’altro,» commentò lei amaramente, stringendo le labbra, arresa. 

«Mi assomiglia, credo,» disse ancora osservando Evan. «Di certo assomiglia molto alla mamma.»

«Vuoi sederti un minuto?»

«No, è meglio che continuiamo la ricerca.»

«Prima è meglio asciugarci, però, vieni.»

James la condusse via dal camino ed Emma distolse gli occhi da quelli di Evan Rosier. Suo nonno. 

 

🥀

 

Dalla bacchetta di James uscì un fiotto di aria calda e furono asciutti in pochissimo tempo. Emma gli permise di sistemarle i capelli mentre lei lo guardava in viso, così vicino, il suo tocco rassicurante dietro la nuca e le orecchie. 

 

[JAMES RASSICURA EMMA]

 

«Meglio?» le chiese sorridendo. 

Lei annuì. «Grazie.»

«Figurati, è una sciocchezza.»

«Grazie per tutto,» rettificò. «Per avermi seguita fin nella tana del drago. Immagino che trovarsi a casa di ex Mangiamorte non debba essere facile, per te…»

«Be’,» iniziò James scrollando le spalle. «Come non è facile per te. Come non sarebbe facile per nessuno.»

«Già… Ma comunque grazie.»

James cercò la sua mano ed Emma glielo lasciò fare. Aveva bisogno del suo tocco, di sentirlo ancora più vicino. Sentiva che gli ultimi brandelli di quel muro che tanto ostinatamente si era erta intorno stavano crollando, e forse era lei stessa che li stava abbattendo, era lei stessa che voleva vederli distrutti. 

Chiuse gli occhi mentre trovava rifugio tra le braccia di James, mentre gli cingeva la vita e affondava il viso nell’incavo del suo collo e quel profumo le ricordava casa, qualcosa di bello e rassicurante che l’avrebbe sempre accolta e protetta. Le braccia di James si chiusero teneramente attorno a lei, una mano al centro esatto della sua schiena, l’altra tra i suoi capelli, ancora tra i suoi capelli. 

«Andrà tutto bene,» le sussurrò, le labbra a sfiorarle la testa. «Andrà tutto bene.»

Emma si era ormai convinta che sarebbe andata proprio così. 

 

🥀

 

Una volta lasciato il salone, sempre con le bacchette spianate di fronte a loro a illuminare la notte, procedettero in avanti, decisi ad esplorare ciò che rimaneva del primo piano. 

 

[IN ESPLORAZIONE NELL’OSCURITÀ]

 

Rosier Hall però era immensa e nessuno dei due se la sentiva di avventurarsi troppo all’interno per timore di perdersi in quei meandri e in quell’oscurità pulsante popolata da demoni e fantasmi, e di non ritrovare più la strada del ritorno, di non ritrovare più la luce. Le pareti si stringevano loro addosso come se avessero le ruote e potessero avanzare e schiacciarli. Da ogni parte, macabri souvenir della tradizione oscura della famiglia affollavano le nicchie nei muri e nei corridoi di collegamento tra una sala e l’altra, come piccoli animali imbalsamati o sotto formaldeide contenuti in piccole teche di vetro polverose, Mani della Gloria di varie misure e dimensioni, fotografie in bianco e nero di avi accigliati vestiti di scuro, ceri neri consumati. Davanti ad un’ampia collezione di teschi, grandi e piccoli, Emma afferrò la manica di James e tirò. «Basta così,» sussurrò. «Non troveremo niente di utile qui, a parte questa robaccia.»

«Vediamo cosa c’è oltre l’ingresso?» propose James voltando la schiena ai teschi. 

Emma annuì e lasciò la stanza, con James che la seguiva da vicino. 

«Non che mi aspettassi niente di diverso,» commentò lei. 

«È raccapricciante, ma non badarci. Tutte le case come questa erano piene zeppe di artefatti oscuri.»

«Lo so, sicuramente anche quella di mio padre. Non dev’essere stato facile, affrancarsi da tutto questo.»

«Sicuramente no,» convenne James. Sbucarono nuovamente nell’ampio ingresso e tirarono un sospiro di sollievo: nonostante tutto, era sempre meglio di ciò che avevano trovato più in là. «Ora i Nott sono una famiglia rispettabile, però. Tuo padre ha fatto tanto per voi.»

Emma gli sorrise. Sapeva sempre come farle vedere il bicchiere mezzo pieno. 

 

[NELLA GALLERIA]

 

«Cosa pensi che troveremo?» chiese quindi lui facendo qualche passo avanti ed entrando in quella che, ad una prima occhiata, sembrava una sala più lunga e stretta delle altre viste sino a quel momento: non era una semplice sala, ma una galleria. «Sembra una galleria d’arte,» disse Emma, senza fiato di fronte alle statue disseminate qui e là e ai quadri appesi in abbondanza alle pareti. 

«Penso che fosse una specie di collezione privata di famiglia,» buttò lì James alzando la bacchetta ad illuminare cose qui e là. 

Si divisero, vagando per tutta l’ampiezza della lunga stanza. Emma posò lo sguardo su talmente tanti visi, e incontrò talmente tanti occhi, che si sentiva confusa e spersa. Ogni viso le rammentava qualcosa, ogni sorriso e ogni ghigno, ogni bagliore nascosto al fondo di quelle iridi. Nessun dipinto era stato stregato, e tutti i soggetti la guardavano immobili al di là. 

 

[DAMIEN E LE SUE SORELLE]

 

Si fermò di fronte ad un particolare quadro, però. Il suo bisnonno, quel Damien che era stato il padre di suo nonno, l’uomo serio e dallo sguardo pericoloso del dipinto appeso in salotto, era ritratto insieme a due donne, ora. Lui sembrava più giovane, e anche gli altri due soggetti lo erano, come se tutti e tre fossero stati catturati nella loro piena giovinezza, belli e scanzonati nonostante gli abiti eleganti e costosi che indossavano. 

Damien era seduto al centro. Tutti e tre si assomigliavano in modo sconcertante. La ragazza alla sua destra portava i capelli sciolti sulle spalle, ben acconciati e in ordine, e indossava un abito di velluto blu notte, e le sue belle labbra piene erano piegate in un sorriso enigmatico, lo stesso sorriso di Damien. Sembravano quasi gemelli, ma Emma non poteva esserne sicura. L’altra ragazza sembrava più giovane di loro, ancora una ragazzina rispetto ai fratelli più grandi. Portava i capelli, neri e lisci e lunghissimi, sciolti dietro la schiena, e indossava un vestito bianco con il colletto decorato che la faceva assomigliare ad un angelo. La carnagione nivea, i suoi occhi sembravano guardare oltre, sembravano vedere qualcosa che nessun altro intorno a lei poteva cogliere3

«Chi sono?» chiese James ad alta voce. Doveva averla raggiunta mentre lei era incantata ad osservare il dipinto.

Emma cercò una targhetta, ed eccola lì, alla base della cornice come in quella del salotto. Lo indicò a James. Questa volta non c’erano motti o citazioni celebri. 

 

Damien, la sua gemella Daphne3, e Druella3
Rosier Hall, 1944

 

Allora Emma aveva visto giusto: la ragazza in velluto blu doveva essere la gemella di Damien. Ripensò ai suoi fratelli, i gemelli Caleb ed Elizabeth. Erano così diversi, più luminosi. Damien e Daphne le trasmettevano solo qualcosa di viscerale, e torbido, e oscuro, come una maledizione che ti striscia addosso anche quando fuori è estate e tutto è dorato. Druella invece le sembrava solo tristissima, una vittima sacrificale pronta per essere messa in discussione. Pronta per essere venduta. 

«Mi piacerebbe saperne di più,» disse Emma, piegando la testa, persa per un momento negli occhi di Druella. 

«Emma, guarda qui,» James disse invece di rispondere alla sua riflessione. 

 

[LA STATUA]

 

Lei si girò e lo raggiunse, fermo di fronte ad una statua di marmo a pochi passi da lei. 

«Penso sia Evan,» spiegò lui indicandole la statua, che raffigurava, quasi sicuramente a grandezza naturale, un uomo alto e dalle spalle larghe, il profilo affilato ma bello, il corpo snello e muscoloso. 

«È lui,» convenne Emma, riconoscendo lo stesso uomo del quadro in salotto.

«Penso sia stata fatta dopo la sua morte, però, a giudicare dall’incisione alla base.»

«È latino, vero? Che dice?» chiese Emma, incerta. Non era mai stata granché, in latino, anzi, si considerava una vera e propria schiappa. 

«Quem di diligunt adulescens moritur4,» recitò James a voce bassa. «Muore giovane chi è caro agli dei.»

Le luci delle loro bacchette tremolarono per un momento, come fiamme di candele nel vento, e fuori un lampo esplose, illuminando il cielo e i loro visi e il bel profilo di Evan Rosier per sempre scolpito nel marmo. 

 

[LA MORTE DI EVAN]

 

Emma strinse la mano libera di James, rabbrividendo. «È morto giovane, questo lo so. In guerra. L’ho letto in un libro in biblioteca. Per mano di Alastor Moody.»

«Me l’ha raccontato papà, lo avevo dimenticato. Moody è stato un grande mago. Solo lui avrebbe potuto uccidere un Mangiamorte potente come Evan Rosier. Papà mi ha raccontato che però tuo nonno gli aveva portato via un pezzo di naso, al vecchio Malocchio,» aggiunse.

Emma scosse la testa. «È tutto così dannatamente assurdo. Siamo qui a parlare di maghi oscuri e Auror come niente fosse. Nella casa dei miei avi.»

«Inquietante, sì.»

«Proseguiamo,» Emma lo tirò via, distogliendo lo sguardo da Evan ancora una volta.

Non prestarono attenzione al resto della galleria, tornarono solo indietro, ripercorrendo la distanza che li separava dall’ingresso tenendosi per mano. Emma intravide gli occhi di Druella Rosier che sembravano seguirla passo passo, ma ovviamente era solo la sua immaginazione. 

 

🥀

 

[AL PIANO DI SOPRA]

 

Il piano di sopra era decisamente più inquietante di quello di sotto. Si snodavano diversi corridoi dalla balconata dalla quale, affacciandosi, si poteva guardare l’ingresso. «Quale?» chiese James guardandosi intorno. «Uno a caso, presumo, sono tutti uguali, visti così…»

Ma Emma non lo ascoltava. Un bagliore al fondo di uno dei corridoi richiamò la sua attenzione. E l’aprirsi cigolante di una porta pose fine alle loro elucubrazioni.

Si guardarono, e James deglutì. «Ne sei sicura? È tutto molto inquietante…»

 

[DI NUOVO EMMA E JAMES]

 

«Hai paura, eh?» chiese lei ridacchiando, e per un attimo tornarono ad essere i soliti Emma e James, che si prendevano in giro a vicenda e non perdevano occasione per ridere l’uno dell’altra. 

James alzò gli occhi al cielo. «Non ho paura per me. Ho paura di ciò che potresti scoprire, non voglio che tu soffra.» 

Emma sentì il viso aprirsi in un sorriso. Gli si avvicinò e lo baciò lievemente sulle labbra. «Ho la scorza dura, non preoccuparti.» 

«So che ce l’hai, ma certe verità hanno il potere di distruggere.»

«Devo sapere. Se in questa casa c’è anche solo una virgola che può aiutarmi a scoprire qualcosa in più, allora è qui che dobbiamo stare.»

«E io starò qui con te,» concluse James annuendo. Poi indicò il corridoio con un cenno del capo. 

 

[LA CAMERA PADRONALE]

 

In silenzio, procedettero in avanti. La porta rimaneva aperta, così entrarono, circospetti, le bacchette pronte. La stanza era deserta, a parte i mobili ricoperti di polvere. Il letto non era stato coperto dalle lenzuola come i divani e le poltrone e uno strato quasi solido di polvere e vecchiume ne imbrattava le coperte e i cuscini. Oltre al letto a baldacchino, intravidero un comò a cassetti e uno scrittoio. Una poltrona stava accanto ad una delle finestre. 

«Sembra la camera padronale,» mormorò Emma. 

«Perché questa stanza?» chiese James, dando voce ai suoi dubbi. «Perché proprio questa

Emma scrollò le spalle. «Non ci resta che scoprirlo.» 

Frugarono qua e là, James chino nel comò, aprendo con cautela i cassetti e trovando solo della vecchia biancheria, quasi sicuramente appartenuta a Damien e Medea Rosier. 

«È strano, frugare in mezzo alle mutande di gente morta da anni,» disse James, ed Emma non poté fare a meno di ridere. 

«Stai parlando dei miei bisnonni, attento a cosa dici.»

«Sì, non vorrei che mi succedesse qualcosa. Questa casa sembra riflettere i loro umori, anche se non abitano più qui da tempo.»

«Vecchie dimore magiche,» disse solo Emma a mo’ di spiegazione. «Un po’ come Heydon Hall riflette le intemperanze di Eliza.»

Se l’era dimenticata per un attimo, Eliza. Si ripromise che avrebbe scoperto anche quella verità, una volta archiviata quell’avventura notturna - sempre se non avesse innescato gravi conseguenze, come una sua possibile esclusione da Heydon Hall e chissà che severi provvedimenti ai danni di James. In quel momento non poteva permettersi di pensare alle conseguenze della loro bravata, però. E all’ennesima delusione che avrebbe dato ai suoi genitori. 

Nello scrittoio non trovò nulla di interessante. Sul suo ripiano c’erano ancora i vecchi trucchi di Medea, e boccette di profumo ormai stantio. I suoi gioielli erano stati riposti nelle loro scatole nel primo cassetto, ma Emma non li toccò. Molto spesso, i gioielli erano usati come veicolo di maledizioni e veleni nelle Arti Oscure e non voleva attirarsi altri guai addosso. 

«Emma!» la voce di James suonò allarmata sul finale e lei alzò lo sguardo dal cassetto aperto per puntarlo su di lui. 

 

[JAMES TROVA QUALCOSA]

 

Si trovava davanti ad uno dei comodini, e teneva in mano un foglio. Si girò a guardarla. Emma non seppe interpretarne lo sguardo: voleva dirle tante cose, ma allo stesso tempo non riusciva, come se la voce gli si fosse strozzata al fondo della gola. 

La ragazza fece qualche passo in avanti, il cuore aveva preso a batterle impazzito nel petto. «Cosa c’è?» chiese. 

James le tese il foglio ed Emma notò che era una lettera. Lo guardò, nuovamente incuriosita e sorpresa. «James?»

«Leggila e basta, okay?» rispose infine, passandosi una mano dietro la nuca ed espirando piano. 

«Dove l’hai trovata?»

«Era sul comodino. Aperta. Sembrava quasi che volesse essere trovata da noi…»

Emma dispiegò il foglio che ora stringeva tra le dita, e la cui superficie era ruvida per via della polvere che, a quanto pare, si era accumulata sulla carta per anni e anni. Deglutì e si apprestò a leggere. 

 

[LA LETTERA]

 

Newby Hall, Yorkshire5, 17 novembre 1980

Mio caro,

non ho saputo aspettare. Non appena ricevuta la tua lettera, ho pensato di doverti una risposta e di spedirtela quanto prima in modo che tu potessi trovarla a Rosier Hall al tuo ritorno dalla missione, stanco ma vittorioso, sempre vittorioso. Il bambino e io stiamo bene. Tua zia Druella mi ha detto che sarà una bambina, l’ultima volta che l’ho vista a casa dei tuoi genitori. Sai che non credo molto alla storia della Vista3 ma questa volta ho intravisto una strana luce nei suoi occhi, quando me l’ha detto. Penso di crederle. Una bambina. Cosa prenderà da me? E da te? Magari i miei capelli scuri? Spero i tuoi occhi, almeno, i più begli occhi del mondo. E il tuo coraggio, quel fuoco che ti accende dentro e che solo con me si acquieta in una calma d’amore e affetto. 

Sono preoccupata per te, non posso negarlo, ma tua cugina Cassandra5 cerca di distrarmi. Non possiamo goderci il parco della tenuta per via della pioggia, ma dentro si sta caldi e leggiamo poesie (io leggo poesie, Cassandra perde subito la pazienza), mangiamo biscotti e giochiamo con la piccola Alhena5. È dolcissima e ha gli stessi occhi di suo padre.

Concludo questa lettera lunghissima. Sono fiera di te, amore, fiera dell’uomo che sei diventato e del padre che sarai e del marito che non vedo l’ora di riabbracciare e tenere accanto a me per sempre. Mano nella mano, costruiremo il nostro futuro. Accudiremo il nostro amore.

Sempre tua, 

Tua moglie 

 

La lettera le scivolò dalle mani. 

Cadde a terra con una lentezza esasperante, ma Emma non ci badava già più. Eccola, la lettera mancante. Ecco il tassello che credevano di aver perso, l’altra faccia della medaglia di quell’ultima lettera letta a Heydon Hall, la lettera che credevano non sarebbero mai riusciti a spiegarsi. 

 

[LA LETTERA MANCANTE]

 

Sentiva le mani tremarle, ogni singolo osso del suo corpo urlava, ogni terminazione nervosa vibrava di sgomento e paura e dolore. Dolore. Lo stesso dolore che doveva aver provato Eliza, sola in quella casa troppo grande, a morire dando alla luce un figlio - una figlia - che aveva creduto di aver perso per sempre. 

 

[IL CERCHIO SI CHIUDE]

 

Eliza era sua nonna. La dama di Heydon Hall era sua nonna. E sua madre… Sua madre era figlia di Eliza, quella figlia tanto desiderata che Eliza aveva amato ancora prima di conoscerla, sulla quale Eliza si chiedeva da chi avrebbe preso gli occhi, e i capelli, e quel fuoco che ardeva dentro entrambi. 

Sua madre era tutto quello, ma gli occhi erano scuri. Gli occhi di Eliza, gli occhi che Emma aveva visto in quello specchio, i suoi stessi occhi. 

Si protese in avanti, si appoggiò ad una delle colonnine del letto a baldacchino. Non poteva essere, non poteva essere vero, il bambino di Eliza era morto, lei stessa aveva visto la sua lapide, fredda e dura.  

«Emma…» sentì James chiamarla, ma la sua voce le arrivò attutita. «Emma, stai bene?»

Lei fece qualche passo incerto, doveva uscire da lì, da quella stanza che l’aveva chiamata a sé, da quella lettera che sembrava troppo letta, stropicciata, come se qualcuno non avesse fatto altro che sondarne le profondità, alla ricerca di non sapeva bene cosa. Forse un perdono, le sussurrò una voce. Un’ammenda. O un ricordo. 

 

[UNA VISIONE]

 

Come in un flash, vide la vecchia Medea stesa in quello stesso letto, stanca e bianca, la lettera adagiata sul suo petto immobile. Qualcuno gliel’aveva sfilata via e l’aveva appoggiata sul comodino, un uomo senza volto vestito di scuro. Le dava la schiena, Emma non poteva vederlo in viso. L’immagine sbiadì ed Emma si ritrovò in corridoio. Era tutto illuminato, ora. Era giorno. La pioggia si era diradata e un sole invernale brillava dietro i vetri. 

Altre porte erano aperte, e lei entrò. Quella nuova stanza era più piccola della precedente e conteneva una culla, una culla bianca accanto alla finestra, nuova, che attendeva solo di essere riempita. Carta da parati allegra, un tappeto soffice, una poltrona accogliente. Una donna alta dai capelli scuri stava alla finestra e le dava le spalle. Emma sapeva chi era. Lo sapeva

«Eliza…»

Quando Eliza si voltò, Emma ne intravide il ventre rigonfio. La donna le sorrise. 

«Emma!»

 

[RISVEGLIO]

 

Emma chiuse gli occhi e si accasciò a terra e un paio di mani forti la presero per le spalle, scuotendola dolcemente ma con decisione.

«Emma, per favore, apri gli occhi…»

Emma aprì gli occhi. La stanza intorno a lei era buia, a parte per la luce che entrava dalla luna là fuori. Le nubi avevano lasciato il posto ad una notte serena. La bacchetta di James era poggiata a terra e faceva luce. Il suo volto era contorto dalla paura. 

«Emma, stai bene?»

Lei annuì. La stanza piena di sole era sparita. Eliza era sparita. La culla c’era ancora, però, accanto alla finestra, grigia di polvere. Non era mai stata riempita.

 

🥀

 

Emma riuscì a calmarsi. James l’aiutò ad alzarsi dal pavimento impolverato e le posò i palmi delle mani sulle guance. Il suo tocco era fresco ed Emma si sentì subito meglio.

«Sicura di stare bene? Possiamo fare dietro front quando vuoi.»

«Sto bene, davvero.»

James annuì, sospirando. «Okay.»

«Vorrei esplorare ancora la stanza qui di fianco…»

James lanciò un’occhiata alla porta che collegava la nursery - o almeno, quella che avrebbe dovuto essere una nursery - con la stanza attigua. 

«Emma…» cominciò lui, ma lei gli afferrò una delle mani che ancora erano poggiate sul suo viso. 

«James, per favore.»

«Cos’è successo poco fa? Hai visto qualcosa, vero?»

Emma sospirò. James abbassò le mani, ma tenne comunque stretta la sua, le dita intrecciate in mezzo ai loro corpi vicini. 

 

[SPIEGAZIONI]

 

«Penso di aver visto qualcosa, sì. Ho visto Medea Rosier, morta nel suo letto,» e indicò con la spalla la stanza dall’altro lato del corridoio. «Ha letto la lettera di Eliza fino alla fine dei suoi giorni, James, ecco perché la carta era così stropicciata. C’era un uomo, ai piedi del suo letto, quando se n’è andata… Penso di conoscerlo, ma non ne sono sicura…»

«Hai visto…» cominciò James deglutendo. «Hai visto una donna morta nel suo letto.»

Emma annuì. «Lo so che è assurdo, ma non più di tanto, dopo tutto ciò che abbiamo vissuto in queste settimane, non pensi?»

«Hai ragione. Ovviamente hai ragione.»

Gli raccontò anche del corridoio illuminato a giorno, della nursery soleggiata e che profumava di nuovo e di Eliza davanti alla finestra, incinta e vestita di bianco, che le sorrideva con amore e tristezza.

«Per Godric,» borbottò James. 

«Già. Ma non avevo paura, Jamie,» aggiunse lei in fretta. «Non avevo paura perché finalmente sapevo chi era Eliza. Mia nonna

«È incredibile. Se ci pensi, è incredibile.»

«Be’, non più di tanto. I segnali di un possibile collegamento con me c’erano tutti, ci sono sempre stati, e forse eravamo tutti e due talmente ciechi da non volerli vedere. Forse ci spaventava anche solo ipotizzare che fosse vero.»

«Ma tu hai visto la lapide, Emma. Me l’hai detto tu stessa. Su quella lapide c’era la data di morte non solo di Eliza, ma anche del suo bambino…»

«Potrebbero averla messa per depistare, magari. Forse i miei nonni materni sono scappati con mia madre in America, per quello lei è cresciuta là e solo successivamente è tornata in Inghilterra.»

«Sì, è plausibile, penso.»

«Magari ne sapremo di più, magari troveremo qualche altro indizio in quella stanza,» suggerì Emma. 

«Okay,» James annuì. «Andiamo, allora.»

 

[LA STANZA DI EVAN ED ELIZA]

 

Cautamente, aprirono la porta di collegamento. La stanza dall’altra parte era una camera da letto ma, nonostante la polvere e l’evidente stato di abbandono (nel quale versava tutta quanta Rosier Hall, d’altronde), questa stanza era molto diversa da quella padronale. Era meno cupa e inquietante. Sul letto c’era un’allegra coperta a fiori e le tende erano di pizzo bianco, non quei tendoni macabri di prima. C’erano un sacco di libri disseminati qui e là, chiaro segno che chi aveva occupato quella stanza amava leggere. Emma si soffermò sullo scrittoio e quindi si avvicinò. James la seguiva da vicino.

Sul piano di legno che una volta doveva essere stato di lucido mogano c’erano ancora alcune bottiglie di profumo e alcune scatole, oltre che un paio di orecchini di madreperla poggiati su un piattino. Un rossetto era stato lasciato aperto. 

«Nessuno è più entrato qui dentro da non so quanti anni,» convenne James. «Nella poltrona nell’angolo ci sono ancora appoggiati dei vestiti…»

«Penso fosse la camera da letto di Eliza ed Evan qui a Rosier Hall,» sussurrò Emma sfiorando gli orecchini. Sapeva che non le avrebbero arrecato alcun male. Si sentì un po’ più vicina ad Eliza, così, un po’ più parte di quello che era stato tutto il suo mondo. 

Su una scatolina erano state incise delle iniziali, così Emma la sollevò per pulirla dalla polvere e poterle leggere meglio: E. M. R. 

Di nuovo quelle iniziali. E. M. R. Ora, una parte di quel rebus le era più chiaro: E. come Eliza, R. come Rosier. Solo la M. le rimaneva ignota. La ricalcò con la punta dell’indice. 

«Chi eri, Eliza?» mormorò a se stessa. 

«Penso di aver trovato qualcosa di interessante.» La voce di James la riscosse dai suoi pensieri, così si girò a guardarlo: era in piedi vicino allo scrittoio accanto alla finestra e in mano teneva quello che sembrava un volume rilegato in pelle. «Il diario di tuo nonno.»

Emma si alzò e lo raggiunse, affiancandoglisi. James le passò il volume, che era di pelle marrone ed era marchiato con le iniziali di suo nonno, E. R. Emma lo aprì, sfogliandolo velocemente. Le pagine erano piene zeppe, scritte in una calligrafia piccola e stretta, la stessa delle lettere rinvenute a Heydon Hall, ma qui era molto più confusionaria, come se Evan non si fosse preoccupato di dover essere compreso e letto da qualcuno a parte se stesso. 

«Ci sono anche delle foto e dei disegni,» aggiunse James frugando nel cassetto. «Che ne dici se portiamo tutto di sotto e ci diamo un’occhiata? Qui si muore di freddo…»

Emma annuì. «Sì, andiamo.»

Uscendo dalla stanza, si rese conto di avere ancora in mano la scatolina con le iniziali di Eliza. Se la mise in tasca e seguì James al piano di sotto. 

 

🥀

 

[DI NUOVO DI SOTTO]

 

Sparpagliarono tutto sul tavolino del salotto. Seduti su un divano, uno al fianco dell’altra, scandagliarono ogni singolo reperto, pezzo per pezzo. Lì davanti a loro c’era quasi tutta la giovinezza di Evan Rosier - suo nonno. Ad Emma girava la testa, ma si abituò ben presto a questa nuova consapevolezza. Era comunque quasi paralizzante, trovarsi a Rosier Hall, laddove aveva desiderato trovarsi per tanto tempo, laddove il passato premeva forte contro i vetri ed esigeva di uscire, di sbucare fuori da ogni anfratto, colare fuori da ogni quadro come colore sciolto, strisciare con lentezza dal buio, e insinuarsi sotto pelle come un morbo. Era paralizzante guardarsi intorno e vedere solo desolazione, vecchi ricordi ormai sbiaditi di un passato lugubre che doveva essere stato pensato come grandioso e leggendario, qualcosa che sarebbe stato trasmesso non solo negli anni ma nei secoli, ciò che aveva reso grande e nobile la famiglia Rosier. Meglio regnare all’inferno che servire in paradiso, in fondo.  

 

[RICERCHE]

 

Emma lesse i diari, che coprivano un lasso di tempo che andava dal 1965 al 1980, a spizzichi e bocconi. Leggerli tutti con attenzione avrebbe richiesto ben più di una notte. Ritrovò nomi che aveva già conosciuto, come Eliza, finalmente scritto per intero, e Rabastan e Rodolphus Lestrange, nomi che non erano nuovi e che le evocarono i suoi compagni di dormitorio a Hogwarts, come Malfoy, Zabini, Greengrass, e altri che invece leggeva per la prima volta, come Cassandra Dolohov6 e Andromeda Black6, Andrew Travers7 e Thomas Mulciber7 e Charles Avery7

In mezzo trovarono un albero genealogico che Evan doveva solo aver abbozzato, scritto a matita, pieno di cancellature e ramificazioni. 

 

[L’ALBERO GENEALOGICO DEI ROSIER]

 

«Tuo cugino Morgan8 discende quindi dal ramo sfigato della famiglia,» convenne James studiando gli appunti di Evan, chino addosso a lei sul tavolino. 

Emma ridacchiò. «Questo lo sapevamo già, no? Non servivano le note di mio nonno.»

«Già.» E risero insieme, stemperando la tensione che si era accumulata loro addosso nelle ultime ore, alimentata dal clima sepolcrale che si respirava in tutta Rosier Hall. Emma si rese conto che senza James non sarebbe riuscita a resistere alla magia che la circondava, a quell’aura di oscurità che voleva inghiottirla, come se la casa la stesse un po’ aspettando, e stesse solo meditando di trascinarla nei suoi abissi neri e blasfemi per non lasciarla andare più. 

«Il mio bisnonno Damien era l’unico figlio maschio, ma aveva dei cugini, e Morgan discenderà da lì.» Emma tracciò con un dito la linea che congiungeva Damien Rosier a Vinda8 e Belial8 Rosier. «Questa Vinda è morta senza sposarsi, mentre questo Belial penso abbia dato origine al ramo della famiglia dal quale discende Morgan, non c’è nessun altro oltre lui…»

«La moglie di Belial, Lucille8, era francese, a giudicare dal cognome, Dubois,» notò James ricalcando il nome della donna sul foglio con l’indice. «Hanno avuto tre figli, Marc, Luc e Pucine8. Da uno dei due maschi potrebbe benissimo discendere Morgan. E questo spiega le vostre origini francesi…»

«Sì, lo penso anche io.» Lo sguardo di Emma cadde per la prima volta sul nome di Medea, scarabocchiato accanto a quello di Damien. «Medea era una Greengrass,» disse quindi, sorpresa. «Medea Greengrass2.» Pensò a Rosalie con un sorriso. «Tutto torna.»

«Ancora non abbiamo scoperto il cognome da nubile di tua nonna, però,» le fece notare James. 

Emma scosse la testa, mordendosi un labbro. Il nome di Eliza non compariva, segno che Evan doveva averlo compilato prima di sposarla o anche solo pensare di sposarla. 

 

[CASSANDRA LESTRANGE]

 

«Però abbiamo scoperto come si chiamava la famosa cugina di Evan, quella da cui andava molto spesso quand’era un ragazzino o dove a quanto ci risulta ha trovato rifugio anche Eliza,» disse James, e il suo dito si fermò sul nome di Cassandra Dolohov. I suoi genitori erano Daphne Rosier, sorella gemella di Damien, e Antonin Dolohov, Mangiamorte tristemente noto per essere stato uno dei più spietati accoliti di Voldemort - e anche uno dei più fedeli. Gli occhi di Emma si posarono sul nome di Druella Rosier, che aveva quindi sposato Cygnus Black e messo al mondo le sorelle Bellatrix, Andromeda e Narcissa. Era proprio vero che le Sacre Ventotto, le storiche e più antiche famiglie del mondo magico, erano tutte imparentate tra loro.

«Cassandra Lestrange, vuoi dire,» aggiunse quindi lei sospirando. «Ha sposato un Lestrange e ha lasciato l’Irlanda per lo Yorkshire. La conosco, anche se non l’ho mai incontrata.»

Sentì James voltarsi a guardarla, sempre seduto accanto a lei. Le loro ginocchia si toccavano e quel contatto le dava conforto. E calore. 

«Cassandra Lestrange è la nonna di Cassandra Zabini,» spiegò infine Emma voltandosi verso James. 

«La fidanzata di Albus?» esclamò quindi lui sgranando gli occhi. 

Emma annuì con un sorriso. «Proprio lei. Sua madre di cognome fa Lestrange, ha sposato uno Zabini.»

«Per Godric!» James si passò una mano dietro la nuca. «Non la sapevo, questa.»

«Allora ci sono cose che non sai della genealogia magica,» rise lei. «Mi stupisci, signor Potter.»

James scosse la testa, ridendo a sua volta. «Ebbene sì. Mi hai beccato.»

«Be’, immagino che uno non vada in giro a sbandierare un cognome come Lestrange ai quattro venti, no?»

«No, neanche in tempi di pace come questi.»

«Già. Io lo so perché Cassandra me l’ha raccontato, tutto qui. Essendo un misto tra Nott e Rosier, si sarà sentita compresa.»

«Assolutamente, posso immaginare.»

«Tu hai un cognome celebre, ma rimane il cognome di un eroe, Jamie,» rifletté lei scrollando le spalle. «È un altro tipo di sussurro quello che ti segue nei corridoi e ovunque tu vada. Non tutti i pregiudizi sono stati estirpati, sai?»

James le prese la mano. «Mi dispiace.»

Lei scosse la testa. «È tutto okay. Ci sono abituata, ormai. Ed è per persone come tuo padre che noi continuiamo a stare in Inghilterra, altrimenti saremmo stati costretti all’esilio.»

«Le colpe dei padri non dovrebbero ricadere sui figli.»

«Teoricamente.» Emma si alzò in piedi ma non lasciò andare la mano di James. 

«Vai da qualche parte?» le chiese lui, sorpreso. 

«Voglio andare a parlare con Cassandra Lestrange,» rispose, risoluta. «Sono sicura che ha le risposte che ancora cerchiamo su Eliza ed Heydon Hall.»

«Emma, sono letteralmente le quattro e trenta del mattino,» le fece notare James. «Non mi sembra il caso di andare a suonare il campanello di casa Lestrange a quest’ora, che ne dici?»

Emma alzò gli occhi al cielo. «Per Salazar, sono solo le quattro e trenta?»

«Dài, abbiamo ancora quelle fotografie da guardare. Possiamo stare qui e aspettare almeno che faccia chiaro.»

«Sei sicuro che sia una buona idea?» si morse il labbro.

«Tanto ormai l’abbiamo fatta grossa, cosa importa qualche ora in più in giro?»

«Hei, chi sei tu e che ne hai fatto di James Sirius Potter?»

 

[L’ANNO SCORSO]

 

James scoppiò a ridere, tirando Emma per la mano che ancora stringeva e facendola risedere sul divano, praticamente addosso a lui. 

«Pensavo che avessi ormai capito che tipo ero…»

«Mh, no.»

«Dopo ciò che è successo l’anno scorso, intendo.»

Emma si accigliò. «Non ci penso mai, a quello che è successo l’anno scorso.»

«Io ci penso sempre, invece.»

Emma allungò una mano ad accarezzargli una guancia. «Non ti ho mai chiesto come ti senti a riguardo, ma non perché non mi importi, ma perché non volevo sembrare curiosa o inopportuna. È chiaro che mi importa. Mi importa un sacco.»

«Lo so. Apprezzo il fatto che tu non mi abbia mai chiesto nulla, ma voglio solo dirti che avresti potuto. Puoi ancora, Emma. Puoi chiedermi tutto quello che vuoi.»

Emma gli sorrise. «E tu puoi parlarmi di tutto quello che vuoi. Sempre. Ogni volta che ne senti il bisogno.»

James l’attirò a sé, l’accolse nel suo abbraccio caldo e morbido. Ed Emma vi trovò rifugio, sospirando, afferrandogli un lembo della camicia per timore che potesse sparire. Rimasero lì così per un momento, poi James si chinò in avanti per afferrare il mucchio di fotografie. 

 

[LE FOTOGRAFIE]

 

Queste, a differenza dei quadri disseminati a Rosier Hall, erano magiche, quindi i soggetti si muovevano. Quasi tutte recavano una data scarabocchiata sul retro, anche se in alcuni casi l’inchiostro era sbiadito e neanche si leggeva più. 

Scorsero parecchie fotografie, anche se in alcune non conoscevano che un paio di visi. Evan era ricorrente, insieme ad altri volti che immaginarono essere parte del suo gruppo di amici, e che poi erano diventati quasi tutti Mangiamorte, impiegati accanto a lui nella causa di Voldemort. 

«Guarda, questa dev’essere Cassandra,» disse James soffermandosi su una fotografia in particolare che ritraeva Evan accanto ad una ragazza dai capelli castani e gli occhi verdi. Ridevano entrambi ed Evan le cingeva le spalle con un braccio. Erano giovani e felici. James le indicò la scritta dietro la foto: Mount Stewart, casa di Cass, luglio 1969.

«Penso sia l’estate di cui Evan scrisse in una delle lettere trovate ad Heydon Hall,» disse Emma riflettendo ad alta voce. 

«Ne sei sicura?» 

«Quelle lettere le ho lette e rilette, le so praticamente a memoria.»

«Erano belli, però.»

Emma annuì. «Già.»

«Tuo nonno ti somiglia, e a vederlo in movimento ancora di più.»

«Tu dici?»

«Ah-ah.»

Passarono avanti e trovarono una vecchia foto in bianco e nero dei fratelli Rosier: Damien, Daphne e Druella. Druella era vestita da sposa, la foto doveva essere stata scattata il giorno del suo matrimonio. La donna non sorrideva, però. Il suo viso non tradiva una singola emozione, neanche per sbaglio. Era piatto, statico, come se fosse in trance. Damien e Daphne le stavano accanto, in piedi ai due lati della poltrona sulla quale sedeva, entrambi con una mano sulle spalle della sorella minore. Era come se fosse in atto una guerra, una guerra silenziosa per chi avrebbe predominato su di lei, chi sarebbe riuscito a vincere, in quel gioco perverso quanto pericoloso e subdolo, la lealtà della bella e triste Druella - che era appena diventata Druella Black. Damien e Daphne recavano la stessa espressione sui bei visi molto simili eppure così diversi: possesso, sicurezza di sé, malizia. Al fondo dei loro occhi ardeva un fuoco talmente impetuoso che Emma riuscì a percepirlo comunque, nonostante il non-colore della vecchia fotografia. 

«Questi due non mi dicono niente di buono,» constatò James. 

«Tutta la famiglia era così. Non mi sorprendo che mia madre sia cresciuta lontana da loro, insieme ai miei nonni materni. Chissà cosa ne sarebbe stato di lei, qui…»

 

[FIGLI DEI DANNATI]

 

Dal mucchio di foto scivolò fuori qualcosa, e James la prese al volo. Era una pagina di un libro, che però era stata strappata, si poteva vederne il bordo frastagliato. 

«Figli dei dannati9,» recitò lui a bassa voce, quasi con timore. 

Il fuoco nel camino tremò e per poco non si spense. Un corvo nel buio urlò. Emma si fece più vicina a James, guardandosi intorno nel salotto con rinnovata circospezione. Era come se la casa intera li stesse non solo guardando, ma anche ascoltando, ora. Bramava di sapere - li voleva reclamare. 

«Sembra il titolo del libro dal quale la pagina è stata strappata,» continuò James con un sospiro. Sotto c’erano degli appunti vergati in inchiostro nero, mezzi pasticciati, come se fossero stati messi giù frettolosamente. «Ti dice niente?»

Emma scosse la testa. «No, un titolo così me lo ricorderei… È inquietante.»

In quella che ormai Emma sapeva riconoscere come la calligrafia di suo nonno Evan, erano appuntate parole, con riferimenti biblici e dal “Paradiso Perduto” di Milton, tra i quali il famoso motto di famiglia che ormai era ricorrente. 

«I Rosier hanno qualcosa a che fare con un angelo caduto,» James ruppe il silenzio che si era venuto a creare intorno a loro. «Qui c’è scritto, almeno da quanto si riesce a decifrare, è un po’ confuso, che Rosier è il demone che regola le passioni, l’amore come irrazionalità e possesso10. Be’. Cazzo.»

Emma si portò una mano alla bocca a trattenere una risata. «Pensavo che a questo punto avessi capito che famiglia disfunzionale era, la mia.»

«Be’, sì, ma questo… Si capiscono tante cose riguardo le arti oscure.»

«Già. E questi appunti presi proprio sulla prima pagina di questo volume… Figli dei dannati. Mi chiedo quali mostruosità possa contenere.»

«Meglio non saperlo, fidati.»

James girò il foglio, quasi più per sfizio che per altro, e sul retro trovarono un’ultima annotazione, quasi al fondo della pagina. 

«Figli dei dannati è l’unico volume sulla famiglia Rosier,» lesse Emma lentamente. Alzò gli occhi su James, che la guardò interdetto. E anche un po’ spaventato. «Stampato in tre copie, questa è l’unica che mi è pervenuta. Sarà mio dovere recuperare le altre tre e restituirle alla mia famiglia. Firmato, Damien Rosier.»

Il fuoco nel caminetto si spense del tutto, ora. 

Il buio calò tutt’intorno. 

 

[CALA IL BUIO]

 

Emma afferrò la mano di James e il foglio cadde a terra. 

«Ora lo riaccendiamo,» lo sentì dire. 

Un alito gelido le accarezzò i capelli, fugace ma solido. Emma scattò in piedi. 

«Sei stato tu?»

«A fare cosa?» James suonò stupito.

«Ho sentito qualcosa.»

«Che cosa?»

«Un tocco freddo sui capelli.»

«Emma…» iniziò James.

«Non sono pazza, okay?»

«Stavo per dire che era tutta suggestione, non che fossi pazza.»

«Per favore, riaccendi il fuoco.»

«Mi lasci andare la mano, per favore? Mi serve…»

Emma sospirò e lasciò la presa. Sentì James muoversi accanto a lei e allontanarsi. Non le era mai sembrato così remoto. E distante. 

Si risedette sul divano, raccogliendo le gambe e stringendosele al petto. Affondò il viso tra le ginocchia e sentì il rombo del suo cuore pulsarle nel petto. James aveva ragione: era tutta suggestione. 

«Emma!»

 

[DI NUOVO ASSENTE]

 

Si riscosse. Aprì gli occhi. Il salotto era nuovamente illuminato dal fuoco che ardeva nel camino. James era in piedi accanto a lei, e lei… lei era sdraiata a terra, sul pavimento, e da lì poteva vedere bene il soffitto affrescato. 

«Cosa?» esclamò mettendosi a sedere. 

La testa le pulsava e sentiva tutto il corpo tirarle, come se avesse corso a perdifiato fino a svenire. 

«Quando mi sono girato eri a terra ed era come se…» James era spaventato, Emma poté leggere la paura su tutto il suo bel viso. Le si sedette accanto e le accarezzò una guancia. «È successo quello che è successo al piano di sopra. Per un momento ti ho persa. Eri distante, lontana… Mormoravi cose in latino, ma non sono riuscito a capirci niente…»

Emma scosse la testa. «No…» rispose debolmente. «Odio il latino, lo sai.»

«Lo so. È per questo che mi sono spaventato da morire.» La mano di lui scese sul suo collo, tenera e morbida e delicata. 

«Sto bene.»

«Che è successo? Ti sei resa conto di qualcosa?»

«No. Un momento prima ero sul divano, ho solo appoggiato la testa sulle ginocchia e chiuso gli occhi, ed era tutto buio, e il momento dopo ho sentito la tua voce che mi chiamava e mi sono ritrovata stesa a terra,» scrollò le spalle. «Non so cosa sia successo.»

James si passò una mano sul viso. «Penso che dovremo andarcene di qui. Non mi piace l’influenza che questo posto ha su di te.»

«Sto bene,» insisté lei. Fece per rialzarsi e James la prese per un gomito per aiutarla. Si sedettero nuovamente sul divano. «Sto bene,» ripeté guardando il ragazzo negli occhi. Capiva che aveva bisogno di rassicurazioni. E lei davvero stava bene, nonostante i primi minuti di estraniamento e confusione.

James sospirò e annuì. «Okay. Okay.»

Emma gli sorrise. «Sei adorabile quando ti preoccupi per me. Potrei abituarmici…» 

«Io sono sempre adorabile, Nott. Tu non hai bisogno di un uomo che si preoccupi per te, però, giusto?»

«Be’, sì, giusto, però fa piacere avere James Sirius Potter che si preoccupa per me, ogni tanto.»

«Ah,» commentò lui ridendo. «Le cose stanno così, eh?»

Emma non rispose, si limitò a chinarsi in avanti e a cercare le sue labbra. James l’accolse, le sue labbra si schiusero per lei, pronte e calde. Emma lo baciò senza fretta, ora completamente immune a ciò che la circondava: esisteva solo James, e le sue mani sulla sua vita, il suo tocco gentile e ardente insieme. 

 

[INSIEME]

 

Fu un bacio diverso da quelli che si erano scambiati finora, anche se non erano tantissimi. Qualcosa li accendeva da dentro, li spingeva l’uno verso l’altra come due magneti incapaci di resistersi, le mani che divennero svelte sui loro corpi, lui reclinato sul divano, ora, e lei seduta sulla sua vita, le gambe strette intorno ai suoi fianchi, uno addosso all’altra, a voler annullare ogni distanza. 

Le mani di Emma si insinuarono sotto la camicia di James, sul suo petto snello ma scolpito, e lo sentì tremare sotto il suo tocco. Quando le sue dita scesero e cominciarono a sbottonargli i pantaloni, lo sentì gemere dentro la sua bocca, le loro lingue a esplorarsi. 

«Emma… Cosa fai?»

«Secondo te?»

James reclinò per un momento la testa a cercare i suoi occhi. Emma ne sostenne lo sguardo. 

«Sei scossa.»

«No che non lo sono. Voglio stare con te.»

«Sei con me.»

«Sai cosa intendo. Voglio te. Adesso. Ne ho bisogno.» Si chinò sul suo collo, ne tastò la pelle morbida, sentì la sua carotide pulsare sotto la sua lingua. 

«Qui?» chiese ancora lui, incerto. «In questa casa? Ne sei sicura?»

«Ha bisogno di essere esorcizzata,» sussurrò lei, la sua lingua a marcare i confini delle sue labbra. James gemette. Sotto di lei poteva sentire la sua erezione premerle addosso. «E io ho bisogno di te.»

«Emma…» 

La mano di lei scivolò dentro i suoi pantaloni e il gemito che scappò dalla bocca di James era un chiaro segno di quanto lo stesse portando al limite. 

 

[“MI PIACI DA MORIRE”]

 

«Mi piaci da morire, Jamie…» mormorò lei contro il suo orecchio. 

Ora le mani di James le stringevano le cosce ancora strette attorno ai suoi fianchi. «Anche tu mi piaci da morire.»

La mano di Emma non lo lasciò andare, accarezzandolo lentamente. James reclinò la testa contro la spalliera del divano. «Cazzo,» esclamò. 

«James, per favore…»

Allora lui la sollevò, la fece stendere sul divano, il viso nascosto nel suo collo e la sua erezione in mezzo alle gambe. Emma gli cinse la schiena, avvicinandolo ancora di più a sé mentre le loro bocche non riuscivano a smettere di cercarsi e, per un po’, rimasero lì, le membra allacciate e i corpi stretti, incastrati insieme, l’uno dentro l’altra, a riempirsi e colmarsi, schiavi dei loro respiri e dei tocchi in sincrono e dei baci a fior di pelle, in un compenetrarsi che era come trovare finalmente respiro, era come sentirsi completi dopo tanto tempo, un essere animato e pulsante che si muove all’unisono, un tutt’uno tremante e nudo, inerme nella luce del fuoco che getta ombre e fiamme, per poi ricadere sfinito da una vetta altissima, sudato e febbricitante di baci bagnati e un amplesso che sa di liberazione.

 

[UNA STANZA COME UN’ALTRA]

 

Nel mentre, Rosier Hall era insieme testimone e complice. I suoi muri avrebbero custodito ciò che avevano guardato, depositari di tutto ciò che avevano visto scorrere loro davanti. Il divano sotto di loro era come un’isola, le loro braccia la culla perfetta per quella notte che ancora non era finita. La stanza intorno a loro tornò ad essere soltanto una stanza.

 



Note

1. Ecco come mi immagino Rosier Hall.
2. Damien e Medea Rosier sono personaggi di mia invenzione. Potete ritrovare Damien nella mia raccolta sui Black, “In the name of the Black”. Medea è nata Greengrass. 
3. Daphne Rosier è un personaggio di mia invenzione, sorella gemella di Damien; la ritroveremo citata più avanti. Per quanto riguarda Druella, era stata davvero una Rosier, prima di sposare Cygnus Black, ma ovviamente tutto il suo personale headcanon è stato inventato da me, compreso il dono della Vista. Se volete potete leggere della mia Druella nella raccolta sui Black citata prima, qui.
4. Plauto, Bacchides, a. IV
5, Cassandra Dolohov è un personaggio di mia invenzione: cugina di Evan in quanto figlia di Daphne Rosier e di Antonin Dolohov. Alhena è la figlia che Cassandra ha avuto con Rabastan Lestrange, suo marito. Newby Hall nello Yorkshire è come mi immagino casa Lestrange.
6. Ho pensato che Eliza, Cassandra e Andromeda potessero essere state nello stesso anno a Hogwarts, e tutte in Serpeverde.
7. I nomi di battesimo di Travers, Mulciber e Avery sono di mia invenzione, non vengono mai citati dalla Rowling.
8. Morgan Rosier è un personaggio di mia invenzione. Chi ha letto “Death in the Night” lo ha conosciuto lì. Vinda Rosier è un personaggio introdotto in “Animali Fantastici”. Belial, Lucille, Marc, Luc e Pucine li ho invece inventati io.
9. Mi sono rifatta al titolo di una canzone degli Iron Maiden, “Children of the Damned”.
10. Tutte le (anche se poche) informazioni sul demone Rosier le ho reperite qui
 

Dopo più di un anno di attesa, spero che questo capitolo vi sia piaciuto. Assistiamo a tante rivelazioni, Emma scopre qualcosa in più sulla sua famiglia, compresa la rivelazione più grande di tutte: il fantasma di Heydon Hall, Eliza, è sua nonna. Nel prossimo capitolo, i nostri eroi faranno visita a Cassandra Lestrange, e il puzzle si arricchirà di altri tasselli importanti. Ovviamente il capitolo non è pronto, quindi dovrete aspettare, ma non temete, mi sono prefissata l’obiettivo di terminare questa storia, e di darle una conclusione a breve. 

Fatemi sapere i vostri pensieri e le vostre teorie in merito a questo capitolo e alla storia in generale 🔮 

A presto, Marti 🐍

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Capitolo 14
*** CAPITOLO TREDICI + EPILOGO ***


Nelle puntate precedenti…

 

La visita spettrale all'infestata vecchia magione dei Rosier ha portato a tante risposte, ma i dubbi di Emma e James rimangono. Dopo aver finalmente scoperto l'identità della Dama di Heydon Hall e il suo collegamento ad Emma, restano loro le ultime domande: qual è la misteriosa identità di E.M.R., la nonna di Emma? e com'è finita ad Heydon Hall, sola e triste e incinta? Rimane loro un'ultima visita da fare, gli ultimi fantasmi da espiare: Cassandra Lestrange potrà donare loro gli ultimi pezzi di verità mancante? Forse, soltanto allora Eliza potrà ricevere la pace che merita.

 

[ DISCLAIMER: tutto l’headcanon riguardante la famiglia Rosier e la famiglia di Eliza (di cui al momento non posso/voglio fare spoiler, ma capirete) - a parte il canon - è stato inventato da me ]

 


 

 

THE HAUNTING OF HEYDON HALL

 

CAPITOLO TREDICI

 

“Il dolore fu immenso,
qualcosa che,
se fosse stato un rumore,
sarebbe stato un tuono.”
S. King, Mucchio d’ossa

 

Rosier Hall, Norfolk, 24 settembre 2023

Il buio si era ritirato negli angoli, le ombre erano state assorbite dai muri, i fantasmi dormivano - era la luce del sole che li faceva fuggire. 

 

[UN NUOVO GIORNO]

 

Un raggio obliquo color arcobaleno fendeva la guancia di James, delicato, un’ombra di barba sulla mascella. Sembrava che stesse dormendo e così Emma ne accarezzò il profilo, dapprima con lo sguardo, poi con le dita, piano, ché non voleva rischiare di svegliarlo. 

Avevano ancora una cosa da fare, un ultimo passo incontro alla verità, e molto presto, forse, avrebbero saputo tutto quanto. C’era stato un momento, durante quella notte eterna, in cui Emma avrebbe bussato alla porta di casa Zabini senza indugio, nonostante l’ora tarda, avrebbe bussato fino a farsi sanguinare le mani, se necessario, solo per essere ascoltata, solo per sapere come. Era sicura che Cassandra Lestrange avesse tutte le risposte che cercava, ma se così non fosse stato? E se la donna si fosse rifiutata non solo di dire loro ciò che sapeva, ma anche solo di ascoltare? Allora Emma cos’avrebbe fatto? 

 

[COME DOVEVA ESSERE STATA LA VITA A ROSIER HALL?]

 

Cercò di scacciare via quei pensieri, in quel momento non l’aiutavano. Si guardò intorno, e si chiese come doveva essere stata la vita a Rosier Hall, quando i suoi occupanti ci vivevano e ne occupavano le stanze. Da ciò che aveva capito di Damien e Medea Rosier, non dovevano essere stati una coppia felice, e quella magione non doveva aver contenuto serenità, o affetto famigliare, o una calda accoglienza al rientro a tarda sera. Eppure, alla luce del sole, quel salotto sembrava solo un salotto. Un po’ impolverato, certo, e l’arredamento era davvero datato, trasudava vecchiume, ma Emma poteva immaginare una normale giornata di sole, magari in giugno, e le finestre aperte sul giardino, e una limonata fresca. Chissà come aveva vissuto la sua infanzia suo nonno, lì dentro. Chissà se anche lui aveva paura delle ombre che, quatte, si annidavano negli angoli, pronte a saltarti addosso. Chissà se anche lui preferiva di gran lunga stare fuori, dove niente e nessuno avrebbe potuto afferrarlo. 

“Sento i tuoi pensieri fare rumore.”

 

[JAMES È SVEGLIO]

 

Emma si voltò: James la guardava sorridendo, un po’ assonnato. 

“Scusa, ti ho svegliato?”

Lui scosse la testa. “Come stai?”

“Meglio.”

“Sei ancora sicura di voler andare dagli Zabini?”

Emma annuì. “Sì. Spero che Cassandra ci voglia ascoltare.”

“Sono sicuro che lo farà.”

Si sorrisero, mentre la mano di James trovava la sua, e tutto sembrava più vivo. 

 

🥀

 

Chelsea, Londra, 24 settembre 2023

Casa Zabini occupava un intero palazzo a Chelsea. Emma ci era andata numerose volte, sia come ospite di Cassandra Zabini, sia insieme ai suoi genitori durante uno dei tanti ritrovi di antiche famiglie, a Natale o a Pasqua. Le erano sempre piaciuti i muri bianchissimi, il cancelletto all’ingresso, le colonnine a segnarne la soglia, e l’edera che, regale, scendeva dal cornicione del piano superiore. Era tutto ben curato, quasi perfetto, e un po’ asettico, ma a Emma piaceva: era molto diversa dalle case di campagna che era solita frequentare con i suoi genitori, grandi magioni come Rosier Hall, contenenti manufatti ammuffiti di un tempo che fu, antiche vestigia di una nobiltà ormai estinta; casa Zabini era elegante, sì, ma mai affettata, ordinata pur senza essere scialba, tranquilla e diretta; non nascondeva nessun fantasma nelle sue nicchie e nelle sue sale. 

 

[CASA ZABINI, LONDRA]

 

Emma e James si Materializzarono all’ombra di una macchia di alberi nel giardinetto antistante la fila di case, tutte uguali, lungo la via, che a quell’ora della domenica mattina era tranquilla. Non si vedeva anima viva. Percorsero i pochi metri che li dividevano dalla casa senza dire una parola. Emma aveva ormai capito che i silenzi, con James, erano silenzi che poteva permettersi, silenzi in cui poteva trovare rifugio, in cui poteva indugiare e attendere, senza affanni. 

Esitò un attimo davanti alla porta d’ingresso verde scuro. Erano le undici, sperava davvero che non avrebbero disturbato nessuno. 

Guardò James ancora una volta e lui le restituì lo sguardo. Annuì. 

Emma bussò e attese. 

 

[ALHENA ZABINI APRE LORO LA PORTA]

 

La porta si aprì quasi subito. Alhena Zabini, dall’altra parte, la guardò negli occhi con curiosità e sorpresa. 

“Emma? Emma Nott?” esclamò. 

I capelli scuri erano raccolti dietro la nuca, e indossava un completo morbido camicia e pantalone blu, ed era a piedi scalzi. In mano teneva una tazza, come se l’avessero sorpresa ancora seduta al tavolo della colazione. 

“Scusa il disturbo,” Emma iniziò. “Se non fosse stato importante non sarei mai venuta qui la domenica mattina.”

“È successo qualcosa?” gli occhi azzurri della donna lampeggiavano. 

Emma scosse la testa. Vide Alhena indugiare su James, ma non fece domande. 

“Avremmo bisogno di parlare con tua madre, se è possibile.” 

“Mia madre? E per cosa?”

“Vorremmo sapere la verità su Eliza. Eliza Rosier, mia nonna.”

Alhena rimase in silenzio, ma un’altra voce spezzò l'immobilità di quel momento. “Da quanto tempo non sento pronunciare quel nome…”

 

[CASSANDRA LESTRANGE]

 

Si voltarono: Cassandra Lestrange era in piedi sulla porta del salotto, teneva in mano un vaso cinese con dei fiori all’interno. Era alta, e magra, vestita di scuro, i capelli completamente grigi, gli occhi verdi socchiusi. Emma non l’aveva mai vista nè conosciuta: ricordava che, alla fine del precedente anno scolastico, la sua amica Cassandra le aveva raccontato che sua nonna si era da poco trasferita da loro, aveva deciso di lasciare la casa di famiglia nello Yorkshire, ormai troppo grande per lei, e la figlia Alhena, dopo numerosi inviti, aveva finalmente ottenuto che la madre li raggiungesse a Londra. Cassandra Lestrange non appariva neanche più nei ritrovi tra famiglie, faceva vita ritirata praticamente da sempre, per quanto ne sapeva Emma.

“Mamma…” iniziò Alhena, ma l’altra donna alzò una mano a fermarla. 

“Va tutto bene. Venite avanti, voi due.” E così dicendo sparì di nuovo in salotto.

“L’avete sentita,” aggiunse Alhena con un sospiro. 

 

🥀

 

I primi minuti servirono loro per accomodarsi sul divano di fronte a Cassandra, e servirono ad Emma per presentarsi, e per presentare James, che venne studiato con attenzione, in quanto figlio del famoso Harry Potter, pur senza alcun giudizio o pregiudizio, e servirono ad Alhena per portare loro del tè e qualcosa da mangiare, dietro richiesta della madre. 

 

[NEL SALOTTO DI CASA ZABINI]

 

L’ambiente era raffinato, e saturo di ricordi. C’erano quadri dai soggetti più o meno recenti alle pareti, e fotografie sparse su ogni superficie. Cassandra occupava il centro del divano di fronte al loro, e Alhena si accomodò su una poltrona lì accanto. Emma e James bevvero del tè e mangiarono degli scones alla marmellata: si erano accorti di stare effettivamente morendo di fame, non mangiavano da qualche ora ormai. Cassandra lasciò loro il tempo di rifocillarsi. 

“E così volete sapere la verità su Eliza,” iniziò quindi la donna. 

“Sì, per favore,” rispose Emma annuendo. 

 

[EMMA RACCONTA A CASSANDRA DI HEYDON HALL]

 

Le raccontò ciò che stava succedendo a Heydon Hall, del fantasma di Eliza e della sua ira, di Rosier Hall e di quello che avevano scoperto tramite le lettere, e anche delle visioni di Emma di quella notte. Non tralasciò nulla: se voleva la verità da Cassandra Lestrange, era giusto che le desse verità lei stessa, e non bugie. 

Alla fine del resoconto, Cassandra si limitò ad annuire, silenziosa. Sembrava un gatto, valutava la sua preda e se ne stava acquattata in attesa di balzare. Era pericolosa, Emma se ne rendeva conto, e lo era stata, molto più di ora, un tempo. 

“Va bene,” disse quindi sospirando. “Siete intenzionati a sapere, e saprete. Senza sconti.”

Nessuno dei due replicò. 

E Cassandra Lestrange cominciò a raccontare.

 

[IL RACCONTO DI CASSANDRA]

 

“Conobbi Eliza soltanto a Hogwarts, quindi fu lei a raccontarmi della sua famiglia: i Moody. Abitavano in una casa semplice e modesta a Rosham Village, e tutto il villaggio dipendeva da Rosier Hall. I Rosier erano un po’ i signori locali, e la tenuta dava lavoro a non poche persone, tutte residenti in quelle vie. La popolazione non era poi molta, e nonostante non fosse un villaggio di soli maghi, come per esempio Hogsmeade, anche quei pochi Babbani che vi risiedevano sapevano, perché in qualche modo erano collegati a qualche mago o strega loro più o meno direttamente imparentato. 

I Rosier erano dei signori non poco severi, e freddi, poco inclini ai favori e alla misericordia. I Moody se ne tenevano ben lontani, fieri di non dover dipendere in alcun modo da loro. Il signor Moody, il padre di Eliza, lavorava al Ministero in un piccolo ufficio, la madre si occupava della casa e dei figli, Alastor ed Eliza. Conducevano una vita semplice. Ai ragazzi era severamente vietato anche solo avvicinarsi a Rosier Hall, ma Eliza non obbedì mai. Aveva otto anni quando conobbe Evan, e i due divennero amici, e complici. Non fecero parola con nessuno della loro amicizia e dei giochi che ideavano nell’immenso parco di Rosier Hall. E nessuno sembrava badare a loro, alla grande casa. 

Alastor era finito a Grifondoro, e quando Eliza arrivò a Hogwarts, pronta per lo Smistamento, si ritrovò divisa tra due fuochi: la preoccupazione di deludere la sua famiglia, e il segreto desiderio di finire insieme al suo amico Evan in una casa che, a casa Moody, era vista solo e soltanto in un modo. Il male. Come potete vedere, e come penso saprete, i pregiudizi erano duri da estirpare. Lo sono sempre stati.

Eliza alla fine finì a Serpeverde, per somma costernazione di suo fratello, che chiese persino a Silente se fosse possibile rifare lo Smistamento. Immaginate l’insolenza. Detto ciò, niente e nessuno poté modificare il responso del Cappello Parlante, e così si creò la prima, piccola frattura, come una crepa su una parete, nella famiglia Moody. Ma Eliza era felice, davvero felice, e questa era la cosa più importante, come mi disse anche lei. Avrebbe affrontato i suoi genitori, e la loro più che certa delusione, soltanto a Natale. Aveva tempo. 

Inutile dirvi che Eliza ci conquistò tutti. Era gentile, non giudicava nessuno, era sempre pronta ad ascoltare e a rivolgere buone parole a chiunque ne avesse bisogno. Le volemmo tutti bene quasi all’istante, e divenne una delle mie migliori amiche, quasi come la sorella che non avevo mai avuto. 

Vidi crescere il sentimento che la legava a Evan, mio cugino - era figlio di Damien, il gemello di mia madre Daphne. Volevo bene a Evan come a un fratello, e fui quindi la prima complice e testimone della nascita della loro storia d’amore. Crebbe pian piano, mutando da amicizia a qualcosa di più. Li aiutai a tenerlo segreto, ché nessuno fuori dalla nostra cerchia doveva sapere, altrimenti la voce sarebbe senz’altro arrivata ad Alastor, e non volevamo che facesse una scenata ad Eliza in mezzo a qualche corridoio, di fronte a tutta la scuola, magari facendola sentire in colpa, o addirittura che Evan si azzuffasse con lui per difenderla. 

Il segreto resse. D’altronde, eravamo bravi a tenere i segreti, ad agire nell’ombra. Eravamo i migliori. Gli anni di Hogwarts trascorsero quindi relativamente tranquilli, e trascorsero ancora più tranquillamente quando infine Moody si diplomò, prese i suoi M.A.G.O. e lasciò il castello per entrare all’Accademia per diventare Auror. Certo, la notizia lasciò l’amaro in bocca ad Eliza, soprattutto perché il fratello non ne aveva mai fatto parola con lei o davanti a lei, e i genitori, se sapevano, avevano fatto altrettanto. Si sentì tradita, ma in fondo, non se ne stupì più di tanto: era chiaro quale parte i signori Moody avevano deciso di prendere, e non fu certo la sua. 

Quando anche noi ci diplomammamo e lasciammo Hogwarts, Moody era ufficialmente diventato un Auror, ed Eliza decise che non poteva più tenere segreto alla sua famiglia ciò a cui teneva di più al mondo, cioè l’amore per Evan. E così raccontò tutto quando tornò a casa. Non la presero benissimo, ma neanche malissimo come si era aspettata. I suoi genitori si limitarono a rispondere che ormai era adulta e poteva fare le sue scelte da sola, e che, nonostante non approvassero la famiglia Rosier, speravano che Evan potesse in qualche modo renderla felice. Era un po’ come se fossero venuti a patti con la perdita della figlia minore già anni prima, nel momento in cui era stata Smistata in Serpeverde. Alastor invece non disse nulla, rimase solo lì a guardarla come se avesse avuto di fronte uno scarto della natura, qualcosa di immondo e putrido che meritava di essere tenuto lontano. Eliza mi raccontò tra le lacrime che non si era mai sentita tanto male, prima, non come sotto quello sguardo di pietra. Non mi era mai piaciuto suo fratello, ma da quel giorno lo odiai. 

Eliza non se la sentiva però di rimanere a casa Moody, non sotto l’occhio indagatore e sospettoso del fratello maggiore, così trovò rifugio a Rosier Hall, dietro invito di Evan. I due si sposarono nel giugno del 1975, se non ricordo male, nonostante le parziali ritrosie dei miei zii. Non erano particolarmente entusiasti della famiglia di Eliza, e lo manifestarono al figlio, ed Evan ne parlò con me e con Rabastan, che di recente era diventato mio marito. Avevano paura che Alastor Moody avrebbe dato loro dei problemi, ed effettivamente furono profetici. 

Eliza non viveva benissimo la vita a Rosier Hall, mi scriveva che era una casa sinistra che la sera e la notte sguinzagliava intorno i suoi fantasmi e i suoi demoni, e aveva spesso incubi, soprattutto quando Evan era fuori in missione e lei dormiva sola. Ma accettò la situazione, in fondo non aveva alternativa. Gli anni trascorsero all’insegna della preoccupazione e della tensione. Gli uomini che amavamo rischiavano la vita, e mettetevi nei nostri panni: eravamo solo mogli preoccupate che attendevano il loro ritorno a casa.

Durante quegli anni, Eliza vedeva raramente la sua famiglia, nonostante fossero a poca distanza, lì a Rosham Village. Intratteneva rapporti solo con sua madre Alicia, le due si vedevano fuori dalla tenuta, ovviamente, e si scambiavano regolari missive all’oscuro degli uomini Moody. L’unica sua certezza era Evan. Evan e l’amore che si erano giurati. Evan acquistò, segretamente dai suoi genitori, Heydon Hall, una tenuta parzialmente da ristrutturare sempre nel Norfolk, promettendo a Eliza che presto sarebbe diventata casa loro. Eliza poteva ovviamente contare su di me, avrei fatto qualsiasi cosa per aiutarla. 

La notizia della gravidanza arrivò provvidenziale. Rischiarò la vita di Eliza ed Evan, infuse loro speranza per quel futuro tanto nero che si intravedeva un po’ più in là. Ahimè, quel futuro prese forma nel novembre del 1980. Tutto ciò che so, lo so da chi era con Evan, da chi assistette alla scena. Moody lo riconobbe. A Evan cadde la maschera, e Moody lo vide, lo guardò dritto in viso, ma non esitò a scagliargli addosso qualsiasi maledizione conoscesse, tutto pur di vederlo cadere. Evan si difese, e strenuamente. Ma non bastò. La ferocia di Moody ebbe la meglio. 

Mi dissero che non esitò, né provò una qualche forma di rammarico per ciò che aveva indirettamente fatto a sua sorella, portandole via l’amore della sua vita. Niente di niente. Eravamo noi quelli cattivi. Certo. È una litania che è sempre bene ripetersi, ma che a tratti stride sinistra. Siamo tutti i buoni della propria storia, e i cattivi nella storia di qualcun altro. 

Eliza era a casa mia, quando la notizia arrivò insieme a mio marito, che era rimasto ferito nella lotta. Incolume ma ferito, e non solo nel corpo. Aveva perso un buon amico, quella notte. Ma Eliza aveva perso il marito, l’amore della sua vita, e il nostro dolore non meritava di offuscare il suo, così fummo forti per lei, non piangemmo, lasciammo che fossero le sue lacrime a bagnarci le guance. Non ci sentivamo nemmeno degni di piangerlo, non in confronto ad Eliza. 

Una volta passata la prima fase di dolore, però, Eliza riguadagnò abbastanza freddezza e fermezza da prendere la decisione di partire, di lasciare casa nostra per trovare rifugio a Heydon Hall. Mancava ancora qualche mese alla gravidanza, ma, morto Evan, nulla avrebbe impedito ai suoi suoceri di riportarla a Rosier Hall, e lì sarebbero senz’altro venuti a sapere della gravidanza, ormai troppo evidente da nascondere. Eliza non voleva che sapessero, aveva paura che le avrebbero strappato via il suo bambino alla nascita. Quel bambino non ancora nato rappresentava il frutto della sua unione con Evan, e anche l’ultimo ricordo del figlio che avevano appena perso, il figlio adorato, l’unico figlio che fossero mai riusciti ad avere. Quel bambino era sangue del sangue di Evan. L’erede dei Rosier. 

Eliza voleva impedirlo, e lottò fino alla fine per proteggere suo figlio. O sua figlia, come sarebbe meglio dire. Furono inutili i miei tentativi di convincerla a restare. Anche mio marito le promise protezione, avremmo fatto qualsiasi cosa per tenerla al sicuro e lontano dalla presa dei Rosier, ma Damien Rosier era potente, molto potente, le sue mani arrivavano rapide e ovunque, era uno della vecchia guardia, e nonostante non facesse più parte del braccio armato del gruppo, era tenuto in altissima considerazione. Roland, il padre di Rabastan, mio suocero, era un suo buonissimo amico. Mia madre stessa era nata Rosier. E poi, Eliza concluse, non voleva metterci in pericolo. Avevamo una bambina piccola a cui pensare. 

E così la lasciammo andare, anche se a malincuore. Promise di scriverci, e di darci sue notizie. Disse che avrebbe scritto a sua madre, chiedendole aiuto e assistenza con la gravidanza. Inutile dirvi che questo rimane uno dei miei più grandi rammarichi, ancora oggi penso a lei, e mi sento una vigliacca. Penso tuttora di non aver fatto abbastanza per aiutarla, e starle vicino, e proteggerla. Convivo con la mia parte di colpa ancora oggi. 

Ciò che accadde dopo mi arrivò frammentario, tramite Alicia Moody e la lettera che mi spedì prima di partire. Seppi che Eliza era morta di parto, un giorno di marzo del 1981. La signora Moody arrivò troppo tardi. In quella lettera, mi scrisse che la bambina era morta insieme ad Eliza, e che avevano scavato una fossa a Heydon Hall, e vi avevano messo una lapide a ricordarne per sempre il sacrificio. Lei e il marito avrebbero lasciato l’Inghilterra per sempre, lì non rimaneva loro più niente. Mi chiesi spesso cosa intendessero, visto che, a quanto mi risultava, avevano ancora un figlio, ma forse avevano imputato la perdita di Eliza anche ad Alastor, e alla sua mancanza di comprensione e affetto, o semplicemente erano troppo stanchi per continuare a vivere in quel mondo pericoloso. 

Non mi feci più domande sui Moody, finché Victoria Rosier non comparve nella mia vita, molto tempo dopo, quasi come un fantasma. Era l’immagine dei suoi genitori, Eliza ed Evan fusi insieme e di nuovo vivi, davanti ai miei occhi, belli e giovani. Victoria dipanò per me una parte di storia, così come io feci per lei. I suoi nonni le avevano raccontato solo una parte, e io fui in qualche modo orgogliosa di restituirle i ricordi mancanti. Lei mi raccontò che sua nonna aveva finto la sua morte, non ne aveva fatto parola con nessuno, neanche Alastor sapeva. Non potevano permettere che i Rosier venissero a sapere di lei, o sarebbero andati a cercarla anche in capo al mondo. Quando Victoria tornò in Inghilterra, dopo la Seconda Guerra Magica, Damien era morto ormai da tempo, in realtà morì qualche anno dopo i processi. Non si riprese mai dalla notizia della morte del figlio, gli venne un colpo, quindi gli fu consentito di rimanere nei confini di Rosier Hall a scontare la sua pena. Solo Medea resisteva ancora, ma era ferma nel suo letto, in quella casa da incubo. Delirava. E soprattutto, non rappresentava più alcuna minaccia per Victoria. E Victoria non ne aveva paura, d’altro canto. 

Trovai sollievo in lei, nelle parole affettuose che mi rivolse, nei ringraziamenti che mi riservò. Trovai ammenda. Non completamente, ma almeno in parte. Vederla viva, e così intelligente e bella, fu per me motivo di immensa gioia e conforto. Mio cugino e la mia amica sarebbero stati così fieri di lei… 

 

La voce di Cassandra andò scemando, e la donna si concesse di bere del tè dalla tazza che teneva tra le mani. Emma si distrasse osservandone le lunghe dita, cercando di elaborare tutte le rivelazioni che erano state fatte in quel salotto, in quella chiara mattina di fine settembre. 

 

[ELIZA MOODY ROSIER]

 

Sembrava tutto così surreale, così incredibile. Eliza era una Moody, Moody come quell’Alastor eroe di guerra, l’Alastor dei libri di storia, l’Alastor che tanti della generazione di suo padre avevano conosciuto, l’Alastor che aveva combattuto al fianco di Harry Potter, e lo aveva protetto, l’Alastor la cui statua campeggiava da qualche parte al Ministero, insieme ad altri martiri delle due guerre. 

 

[AUROR E MANGIAMORTE]

 

L’Alastor che aveva fatto così tanto per il Mondo Magico, e per le libertà di tutti loro, era molto diverso dal fratello che aveva ucciso a sangue freddo il cognato, l’amore della vita di sua sorella, senza nemmeno un indugio. Emma non era così sciocca da credere ciecamente a quell’unica versione della storia, e purtroppo Alastor Moody non era più lì per raccontarle la sua, di versione, ed era abbastanza sensata e razionale da pensare che, in fondo, la missione dell’Auror era quella, e non solo la sua, ma di tutti gli Auror: sterminare i Mangiamorte, e i maghi oscuri. Moody non aveva avuto esitazioni, neanche di fronte ad un viso conosciuto come quello di Evan Rosier. E doveva tenere a mente che di fronte a lei sedeva una moglie e una figlia di Mangiamorte che, nonostante ormai vivesse nella pace insieme a tutti loro, un tempo era stata complice di azioni inenarrabili, di nefandezze irripetibili. Emma era erede dei Nott, una delle famiglie più antiche e oscure, ma ne condannava aspramente l’operato, e si vergognava dell’eredità con cui tutti loro, figli della pace, dovevano fare i conti ogni giorno. 

“Scusate se non ho edulcorato il mio racconto,” proseguì Cassandra. Poggiò la tazza sul tavolino con un sospiro. “Ho pensato foste adulti abbastanza per ascoltarlo interamente.”

Emma annuì. “Ti ringrazio per la schiettezza. Era proprio ciò che volevo.”

L’aveva interrotta raramente, Emma. Effettivamente il racconto di Cassandra era stato così fitto, la sua voce così musicale e cadenzata, che l’aveva quasi ipnotizzata. Domande le affollavano la testa, ma sapeva che non avrebbe potuto porgergliele tutte. Non ne avevano il tempo, e Cassandra sembrava improvvisamente stanca, come se quel lungo parlare le avesse risucchiato via ogni forza.

“Mamma,” iniziò infatti Alhena, la voce preoccupata. “Dovresti riposare. Dovrebbe riposare, ora,” aggiunse rivolta ad Emma e James. 

 

[UN’ULTIMA DOMANDA]

 

“Penso che Emma abbia qualcosa da chiedermi, prima,” rispose invece la donna. Guardò Emma negli occhi, ed era come se potesse leggerle dentro - e forse poteva. Legilimanzia? Emma ne aveva sentito parlare a lezione, aveva studiato l’argomento. Ma in fondo, essere “letta” da Cassandra Lestrange non le importava poi così tanto. 

“Come hai fatto?” le chiese quindi. “Come hai fatto a venire a patti col tuo passato?, a rinunciare a chi eri?, a tradire le tue origini?”

 

[FIGLI DELL’OSCURITÀ]

 

“Vedi, mia cara, non penso di aver tradito le mie origini, non fino in fondo. Devi capire che a volte la vita ti mette davanti delle scelte, e queste scelte possono davvero determinare il destino di tante persone e, se non di tante, almeno di quelle che contano davvero per te.” Fece una pausa. “Io, come tanti altri, ero il prodotto di qualcosa. Mio padre era Antonin Dolohov, braccio destro di Voldemort, suo migliore amico dai tempi di Hogwarts, se si vuole credere che Voldemort abbia avuto amici, e mia madre era una Rosier, con tutto ciò che ne consegue. Ho poi sposato un Lestrange, e sapete tutto sui Lestrange senza che debba dirvelo io. Tutto questo per farvi comprendere che sono nata così, sono nata nell’oscurità, e nell’oscurità sono cresciuta. Era tutto normale, quello che i grandi facevano più o meno segretamente, era tutto normale vedere mio padre rincasare tardi, le mani sporche di sangue. Era normale rivivere la stessa scena con mio marito. Quella era la mia vita. Io amavo quelle persone, erano la mia famiglia. Eroi e cattivi, ricordate cosa vi ho detto?”

Emma annuì soltanto. James, accanto a lei, sembrava come impietrito. Non aveva quasi parlato, e lo capiva. 

“Eravamo un prodotto di un’epoca, un’epoca in cui scegliere da che parte stare poteva davvero determinare la differenza tra la vita e la morte. Bastava poco, era un confine labile. La sera potevi esserci e il mattino dopo potevi non esserci più. Eravamo abituati ad aspettarci qualsiasi cosa, in qualsiasi momento. Quella non era vita, ma l’ho capito soltanto dopo.”

“Voldemort ci capiva, lui aveva questo innato potere di attrarre, come falene con la luce. E noi gli ci siamo stretti intorno, lo ascoltavamo, e facevamo tutto ciò che era necessario, tutto ciò che lui ci chiedeva di fare perché era ciò che era giusto, per noi. Un’ottica distorta, certo, ma all’epoca non ne vedevamo le crepe. Ci credevamo tutti. Voldemort ha solo dato risposta ai nostri desideri più reconditi, ha dato forma alle manie di grandezza e predominio di una generazione.”

“Eravamo perduti, bambini cresciuti troppo in fretta che avevano perso di vista ogni valore, ogni remora. Eravamo pronti a tutto. Noi donne stavamo nelle retrovie, proteggevamo la casa e i nostri figli quando i mariti erano fuori, e cucivamo le ferite al loro ritorno. Non sempre erano ferite visibili. Molto spesso erano invisibili, erano fratture nell’animo, crepe che nessuno sarebbe riuscito a colmare, neanche noi, per quanto ci sforzassimo.”

“Dal canto mio, amavo mio marito. Non posso parlare a nome di tutte le altre, ma posso dire che fu ciò che mi salvò, e che salvò mia figlia, dal baratro. La Prima Guerra Magica ci lasciò sconfitti, un branco di derelitti privati dei propri cari. Alcuni erano morti, altri erano finiti ad Azkaban per non fare più ritorno. Un destino forse peggiore della morte.”

“Vivemmo nell’ombra, e nella vergogna. La Seconda Guerra Magica vide molti di noi ripetere le stesse scelte sbagliate della Prima, e che alternative avevamo? Chi ha cercato di svignarsela è morto, vi dice niente il nome Karkaroff? In quel periodo la vedemmo solo come una retribuzione del destino, un fío che quell’uomo aveva pagato per averci traditi tutti. Non fu facile rinunciare a tutto quanto una volta finita anche quella guerra. Ne uscimmo peggio che nella Prima, ma per sopravvivere, e per proteggere mia figlia, e permetterle di crescere libera, avrei fatto qualsiasi cosa. Essere stata cresciuta da mia madre mi aveva insegnato a essere spietata, ed ero pronta ad essere la più spietata per difendere la mia famiglia dal crollo.”

“Non ho potuto proteggere l’uomo che amavo. E in parte era giusto così. Mio marito aveva preso una strada sulla quale non potevo seguirlo, e non perché non lo amassi, ma perché lui amava me. Non mi avrebbe mai permesso di perdermi con lui, e con noi nostra figlia. E io ero troppo razionale per perdere di vista l’obiettivo: vivere per Alhena, solo e soltanto per lei.”

Madre e figlia si guardarono, e Cassandra prese tra le sue una delle mani della figlia, che la lasciò fare, silenziosa, forse in parte sopraffatta.

“Quindi, per rispondere alla tua domanda, Emma,” riprese Cassandra. “Sono scesa a patti con più di qualcosa, nella mia vita, e tutto per la donna che ora mi siede al fianco. E sono fiera di averlo fatto, non mi pento di nulla. Tutto il mio mondo, il mondo in cui sono nata e cresciuta, è andato distrutto per sempre, ma ho ritrovato tante cose che credevo di aver perso, persone che non pensavo avrei mai riabbracciato. Tante altre sono rimaste là, vive solo nei miei ricordi, per sempre giovani, proprio come i tuoi nonni. Qualcun altro è meglio invece che rimanga sepolto. I morti vanno lasciati in pace. Quindi, per favore, state lontani da Rosier Hall. Non c’è nulla di buono e sano in quel posto, è soltanto pieno di fantasmi carichi di risentimento. Non c’è nulla per i vivi, tra quelle vecchie mura.”

Emma annuì. “Non abbiamo alcuna intenzione di rimetterci piede. Da quanto mi risulta, mia madre non c’è andata mai.”

“Tua madre è stata molto saggia e prudente.”

 

[LE SCUSE DI CASSANDRA]

 

“Mi dispiace, giovane Potter,” disse ancora Cassandra. “Mi dispiace se ho detto qualcosa che ti ha ferito, o urtato. Mi rendo conto di aver parlato di persone importanti, e di aver toccato temi che fanno parte della tua eredità, del sacrificio che tuo padre ha compiuto per salvare questo mondo. Ti prego di perdonarmi, in fondo sono solo un’anziana donna che ancora indugia nei ricordi, e oggi mi avete fatto rammentare un’epoca della mia vita che non avevo nessun interesse a rammentare. Sto bene nella mia vecchiaia, circondata dai miei affetti.”

“È okay,” disse solo James. “Nessuna offesa.”

“Nessuna offesa può smuovere i vincitori, dico bene?” Cassandra si alzò con un mezzo sorriso e un sospiro, ed Emma capì che quello era un congedo. 

Si alzò anche lei, e James la imitò. 

“Grazie per averci raccontato questa storia,” disse quindi. “Grazie per il tuo tempo.”

“I diretti interessati non possono più raccontarvi la loro, spero di essere riuscita ad avvicinarmi alla verità il più possibile. Lo dovevo ad Eliza. E ad Evan.”

 

🥀

 

Una volta fuori, l’aria frizzante di quell’inizio autunno a Londra restituì ad Emma una scossa. Sentì i pensieri turbinarle nella testa furiosi e impazziti, il cuore le batteva forte. Non ci poteva credere: ora sapeva

 

[IL PENSIERO DI EMMA CORRE A SUA MADRE]

 

Il pensiero andò immediatamente a sua madre, e si chiese quanto sapesse della sua stessa storia, ma immaginò che sapesse pressappoco tutto quanto, grazie a ciò che le aveva detto sua nonna - la madre di Eliza - e grazie al racconto di Cassandra Lestrange, che anche lei aveva ascoltato molti anni prima. Capì molto meglio il suo essere schiva riguardo al suo passato, il non volerlo rivangare e ricordare, il non volergliene parlare. Era una ferita che non si sarebbe mai rimarginata del tutto, Emma lo sapeva. Improvvisamente, desiderò abbracciare sua madre, senza tante parole, solo per farle capire quanto ci tenesse, e quanto volesse starle vicina. 

“A cosa pensi?” le chiese James prendendole la mano. 

“A mia madre. Mi dispiace essere stata così dura, e avercela avuta con lei solo perché non voleva raccontarmi la verità. Mi sento una bambina.”

“Non sei una bambina, sei solo molto testarda. E poi non potevi certo immaginare che il passato di tua madre contenesse tutto questo, giusto?”

“No, certo. Pensavo solo che riguardasse il suo essere una Rosier, e tutti i problemi che ne conseguono.”

“Tua madre è stata molto coraggiosa, e anche tu lo sei stata. Sei arrivata alla fine di quel racconto tutta intera. Non è da tutti.”

“Si arrabbierà molto, vero? Con me? Per aver ficcato il naso? Per aver preteso di sapere quando lei stessa non voleva dirmi nulla?”

James scosse la testa e l’attirò a sé, tenendola stretta, ed Emma affondò nel suo abbraccio caldo, respirò il suo profumo buono, di casa e di sapone. 

“Tua madre ti vuole bene, Emma. E ormai sai tutto, che senso avrebbe arrabbiarsi?”

“Dobbiamo tornare a Heydon Hall. Subito,” disse lei, risoluta. “Dobbiamo porre fine a questa storia.”

“Va bene. Possiamo Smaterializzarci anche subito.”

“Tu come stai? Mi dispiace per quello che abbiamo scoperto su Alastor Moody, so come la pensi su di lui…”

 

[ALASTOR MOODY È STATO UN GRANDE AUROR]

 

“Va tutto bene. Sto bene,” rispose James scrollando le spalle. 

“Moody è stato un grande Auror, James. Nessuno mette in dubbio i suoi sacrifici. E il racconto di Cassandra era ovviamente di natura molto personale. Moody ha sempre fatto il suo dovere, né più né meno. Sarebbe stato incoerente a risparmiare Evan, e sarebbe andato contro tutto ciò in cui credeva e per cui combatteva.”

“Papà mi diceva sempre che era un uomo molto solo, quasi triste. Non sembrava aver mai conosciuto l’affetto, o l’amore.”

“Ha perso tutto anche lui, con la morte di Evan, e poi di Eliza. Ha perso sua sorella, e i suoi genitori se ne sono andati via tenendogli segreta l’esistenza di una nipote, e lasciandolo qui, solo, nel mezzo di una guerra. Non penso abbia vissuto una vita piena e felice, sai?”

“Sono d’accordo con te.”

“Ovviamente per Cassandra non ha avuto dubbi, né rimorsi, ma non possiamo saperlo. La sua storia è morta con lui.”

“Non lo sapremo mai.”

Emma scosse la testa. “Non lo sapremo mai.”

Soffiò un leggero venticello, che scompigliò loro i capelli e le chiome degli alberi intorno. 

“Torniamo a Heydon Hall?” le chiese quindi James. Emma prese la mano che lui le tendeva. 

 

🥀

 

Heydon Hall, Norfolk, 24 settembre 2023
 

[RITORNANO A HEYDON HALL]

 

La situazione a Heydon Hall era peggio di quanto si aspettassero. Si Materializzarono ai confini del parco e si diressero a passo spedito verso la scuola senza esitare. Si sentivano urla e schiamazzi e rumori di oggetti che si rompevano con fragore. 

Una volta arrivati più in prossimità della villa, notarono che tutta la scuola si era riversata sul prato lì di fronte, in preda all’agitazione. Le doppie porte dell’ingresso erano spalancate. In molti si voltarono verso di loro vedendoli arrivare e, tra questi, Emma riconobbe il viso sorpreso e sconvolto di Archie spuntare da sopra altre teste. Il ragazzo si staccò dagli altri e corse loro incontro, deciso.

 

[DI NUOVO CON ARCHIE]

 

“Dove cazzo eravate finiti, voi due?” esclamò quando li ebbe raggiunti. Li abbracciò entrambi, uno dopo l’altro. Emma lo lasciò sfogare. “Pensavamo che foste morti, per Merlino, o peggio, che il fantasma vi avesse rapiti e portati via con lui da qualche parte nell’aldilà, io vi ammazzo, lo giuro, vi ammazzo con le mie mani, mi avete fatto spaventare come un marcio, dannazione…” Andò avanti così ancora per un po’, senza quasi interrompersi, finché Emma non lo prese per le spalle e lo abbracciò di nuovo, e Archie si lasciò abbracciare, ora finalmente in silenzio. 

“Avevo paura di avervi persi, stronzi,” bofonchiò ancora, il viso nascosto nel collo di Emma. 

“Siamo qui, Fletcher, siamo tutti interi.”

“Buon per voi.”

“Cos’è successo, Archie?” chiese quindi James.

 

[IL RESOCONTO DI ARCHIE]

 

“Un casino. Il fantasma si è incazzato come una bestia e ha cominciato a far volare oggetti dappertutto. Nemmeno Corner è riuscito a far qualcosa. Tyler è stato sfiorato dal portaombrelli della Pince e Pansy gli sta ricucendo il sopracciglio, là,” e indicò un gruppetto di gente tra i quali potevano vedere Tyler, seduto sull’erba, e Pansy inginocchiata di fronte a lui, una bottiglietta in mano. “Forse è la volta buona che la vecchia pipistrella si decide a buttarlo, quel portaombrelli della malora…”

“Archie, ho bisogno che tu prenda in mano la situazione. Vai da Pansy e dille che ti ho detto di radunare gli studenti e di portarli al campo da Quidditch. È meglio che nessuno sia nei paraggi della scuola…”

“Avete intenzione di entrare, vero?”

James annuì. “Dobbiamo porre fine a questa storia.”

“Tanto non potrò dire nulla che vi faccia cambiare idea, suppongo?”

“Mi spiace, Archie,” intervenne Emma. “Sta a noi.” 

Archie annuì e sospirò. “Ok, d’accordo. Solo, state attenti. Promettetelo.” 

“Promesso,” disse Emma, e James la seguì a ruota.

 

[DENTRO]

 

Risalirono la poca distanza che li separava dalla casa insieme e poi si divisero senza parlare. Sentivano addosso gli occhi di tutta la scuola. Emma non si girò a incontrare lo sguardo di nessuno. Man mano che si avvicinavano, i rumori salivano di intensità e si facevano ancora più selvaggi e caotici. Era come se all’interno soffiasse un forte vento, o imperversasse un tornado. Oggetti di qualsiasi tipo volavano da ogni parte e, dall’altra parte della hall, il preside Corner e suo padre Theodore stavano aggrappati a uno stipite per cercare di non essere trascinati via con il resto, le bacchette spianate in un inutile tentativo di porre rimedio al disastro. 

Theodore li vide e fece per venire avanti, ma Emma alzò una mano a trattenerlo, e lui le obbedì. Sapeva cosa fare: avanzò, e si fermò al centro esatto dell’ingresso. James tentò di fermarla, sentì la sua mano sfiorarle un polso, ma lei non esitò. Il caos intorno sembrava non riguardarla affatto, come se camminasse in una bolla. Sapeva che Eliza non le avrebbe mai fatto del male. 

“Eliza,” la chiamò quindi. “Eliza, sono tornata. Sono qui.”

 

[LA CALMA]

 

Il vento si placò tutto d’un colpo, gli oggetti che, fino a un secondo prima, se ne stavano sospesi a mezz’aria come in un vortice, caddero fragorosamente al suolo, rompendosi in mille pezzi. Emma vide gli altri tre accucciarsi a terra, a ripararsi le teste da eventuali schegge impazzite. Lei non se ne preoccupò. 

 

[LA PROMESSA DI EMMA]

 

“Te la porterò qui,” continuò a gran voce. Era sicura che Eliza la stesse ascoltando, ovunque fosse nella casa. “Ti porterò qui tua figlia.”

 

🥀

 

Victoria apparve ai confini del parco, Materializzandosi nell’aria ancora tiepida del primo pomeriggio. 

 

[VICTORIA NOTT ARRIVA A HEYDON HALL]

 

Theodore le aveva inviato un Patronus, chiamandola a Heydon Hall con urgenza, e intanto erano riusciti a convincere Corner a raggiungere il resto della scuola al campo da Quidditch dietro richiesta di “tenere tutti al sicuro”. Erano rimasti solo Emma, suo padre e James - oltre che Eliza. 

Emma fece un passo avanti, desiderosa di raggiungere sua madre e di spiegarle, ma suo padre la trattenne. “È meglio che le parli io,” disse. 

Emma non protestò, nemmeno rispose. Semplicemente guardò suo padre caracollare giù per il prato, mentre sua madre cominciava a risalirlo per raggiungerli. 

 

[LA VICINANZA DI JAMES]

 

James non le disse nulla, la prese solo per mano, e attese con lei. Emma ricambiò la stretta. Gli era così grata, era così grata a James per ogni segno di vicinanza, per ogni manifestazione pacata di affetto, per ogni silenzio che mai si era sforzato di riempire con parole inutili e vane, ma che aveva semplicemente retto per lei, ché sapeva che il silenzio era esattamente ciò che lei anelava. 

 

[ALTRE RIFLESSIONI DI EMMA SU VICTORIA]

 

Guardando i suoi genitori parlare tra loro e discutere, una macchia di colore in lontananza, Emma rifletté sul fatto che quella doveva essere la prima volta che sua madre metteva piede a Heydon Hall, in più di quarant’anni di vita. Si chiese come doveva essere, per lei, piombare in uno dei luoghi dai quali era stata lontana, di sua volontà, tutto questo tempo. Non è che sua madre non avesse avuto occasione di venire a Heydon Hall, no, semplicemente non aveva mai voluto farlo, non aveva mai avuto alcun interesse a metterci piede. Emma la capiva. Ora che sapeva tutta la storia, la capiva molto più di prima. Le dispiacque averla trascinata lì nonostante tutto, e si chiese come sua madre dovesse sentirsi, a tornare nel posto in cui era nata e dal quale era stata strappata via - nel posto in cui era morta sua madre, dandola alla luce. 

 

[L’ABBRACCIO DI VICTORIA]

 

Quando finalmente i suoi genitori li raggiunsero, sua madre non disse niente, non pronunciò neanche una parola, solo attirò Emma a sé e l’abbracciò, la strinse forte tra le sue braccia, le accarezzò la schiena, e i capelli, le toccò le spalle e le braccia, come a volersi assicurare che fosse tutta intera. 

“Mamma-” cominciò Emma, ma Victoria non le lasciò il tempo di aggiungere altro.

“Va tutto bene,” disse. “Io sto bene, avevo solo paura che ti fosse successo qualcosa.”

Emma scosse il capo, mentre sua madre le prendeva le guance tra i palmi delle sue mani, calde, ed Emma si sentiva di nuovo una bambina. 

“Sto bene,” disse quindi.

“Ti ha fatto del male?”

“No, mai. Neanche una volta.”

Victoria annuì, poi si voltò verso James e gli sorrise. Gli tese una mano, che lui strinse ricambiando il sorriso. 

“Giovane Potter, noi ci vediamo sempre in occasioni particolari, vedo.”

“Temo che sia così, signora Nott,” rispose lui, il tono di voce dispiaciuto.

“Victoria, per favore. Qui non siamo in un’aula di tribunale.” Non smise di sorridergli. 

“Mamma, lo metti in imbarazzo,” intervenne Emma. 

“Oh, non era mia intenzione.”

“È tutto okay,” disse James. “Nessun imbarazzo.”

“Grazie per esserle stato accanto,” gli disse quindi Theodore mentre si decidevano a entrare a Heydon Hall. 

“Sarebbe andata lo stesso fino in fondo a questa storia, anche senza di me,” convenne James.

“Esatto,” concordò Emma. 

 

[VARCANO LA SOGLIA]

 

Nella hall, tutto era rimasto esattamente come pochi istanti prima: caos, e oggetti sparsi e rotti dappertutto. Avrebbero dovuto riparare e sistemare parecchie cose, una volta finita quella storia. 

Sua madre si guardava intorno, il viso alzato verso la balconata e la scala e i soffitti. Emma notò che le porte dell’ala proibita erano aperte. Oltre quelle, si estendeva l’oscurità, densa e fitta. 

“Per di qua,” disse quindi, prendendo sua madre per mano e accompagnandola in quella direzione. 

“Ne sei sicura?”

“Sì, è qui dove è successo.”

Si fermarono di fronte alle doppie porte, con Theodore e James che le seguivano da vicino. 

“Mi ero aspettata che avrei sentito qualcosa, entrando qui dentro,” cominciò Victoria a bassa voce. “Ma non sento niente. Solo vuoto, un vuoto immenso…”

“Pensavo che Eliza si sarebbe manifestata, una volta che avessi messo piede dentro la casa, ma a questo punto penso che mi abbia presa in parola, poco fa, e che ci stia aspettando oltre queste porte.”

Si voltarono verso i due uomini. 

“Non posso chiederti di seguirmi,” cominciò Emma rivolgendosi a James. “Potrebbe essere pericoloso, lì dentro.”

 

[IL SANGUE DI ELIZA]

 

“Noi non verremo,” disse Theodore prima che James potesse anche solo aprire bocca. 

“Non verrete?” chiese Victoria, stupita.

“È giusto che siate voi due. Siete la sua famiglia. E non so come potrebbe prendere la nostra presenza…”

“Non ha mai fatto alcun male a Jamie,” spiegò Emma. 

“Capisco cosa intende tuo padre,” intervenne Victoria annuendo. “È qualcosa che dobbiamo risolvere noi, e non perché lui abbia paura, o non voglia starci accanto, ma perché siamo noi il sangue di Eliza. Siamo delle Rosier.”

Emma annuì. Forse capiva cosa volevano dire. Si girò a guardare James, che la guardava a sua volta, sorridendole incoraggiante. 

“Andrà tutto bene,” le disse prendendole una mano. “E sarò qui fuori. Ti basterà chiamarmi e correrò da te.”

Emma lo abbracciò, incurante che ci fossero i suoi genitori, non provava alcun imbarazzo. James ricambiò la stretta, ed Emma gli depositò un piccolo e rapido bacio sul collo, dove sapeva che nessuno avrebbe visto, per poi posargliene un altro su una guancia. 

“Grazie,” disse solo. 

“Andate, ora,” Theodore le incoraggiò. 

Victoria non disse altro, e nemmeno Theodore. Le due donne si guardarono in viso, risolute. Annuirono, e poi, per mano, superarono le porte aperte e ne varcarono la soglia. 

 

🥀

 

Emma si era aspettata di trovare tutto come lo ricordava, e invece si fermò poco oltre l’ingresso, sorpresa da ciò che i suoi occhi stavano guardando, la bocca semiaperta, mentre ancora teneva la mano di sua madre nella sua.

 

[L’ALA PROIBITA È DI NUOVO VIVA]

 

Ogni traccia di polvere e abbandono era svanita nel nulla. L’aria era cosparsa di una vaga luce dorata, e un allegro fuoco era acceso nel caminetto. Emma poteva sentirne il calore sul viso. Tutto era in ordine, i bei tappeti a coprire il pavimento, i quadri appesi alle pareti, i divani e le poltrone come nuovi. Dalle finestre si vedeva il parco, e il cielo che, gradatamente, passava dal tramonto alla sera. Si intravedevano le prime stelle. 

“È tutto diverso,” sussurrò. Non riusciva a smettere di guardarsi intorno. Da lì poteva però intravedere le cornici sulla mensola sopra il camino, ed erano tutte vuote. C’era qualche particolare che strideva: la credenza non conteneva nessun piatto o pezzo di argenteria o bicchiere; il carrello dei liquori era vuoto, non c’era neanche una bottiglia; non c’erano fiori nel vaso cinese accanto alla finestra. Era tornato tutto a com’era quando Eliza era morta, ma Emma ricordò che quella era una casa che non era mai stata abitata. Nessuno si era mai seduto su quei divani a conversare dopo una lunga giornata, o durante i pomeriggi oziosi della domenica, nessuno aveva riempito la credenza o pensato di esporre foto e ricordi qua e là. Solo Eliza vi aveva vissuto, per un breve periodo, sola e in attesa di partorire, ben sapendo di aver perduto per sempre suo marito - ben sapendo che il suo cuore aveva smesso di battere e non sarebbe mai più tornato a casa, da lei, e dal bambino che stava aspettando. 

“Quando James e io siamo venuti qui, era tutto impolverato e abbandonato, e ora…” spiegò a sua madre.

“Emma…” iniziò però l’altra, tirandola per la mano e indicandole un punto poco distante.

 

[QUALCUNO LE ATTENDE]

 

C’era qualcuno, seduto su uno dei divani. Dava loro le spalle, e potevano intravederne solo la testa, dai lunghi capelli scuri. Il cuore di Emma cominciò a batterle forte nel petto. Sapeva chi era. Sapeva chi era la persona seduta. Le stava aspettando. 

Emma guardò sua madre e annuì. Non ebbero bisogno di parlare e spiegarsi. Fecero qualche passo avanti e, una volta superato il divano, la videro.

 

[ELIZA]

 

Era seduta esattamente al centro, ed era vestita di bianco, proprio come l’aveva sempre vista Emma nelle sue fugaci apparizioni lì a Heydon Hall. I capelli scuri erano sciolti ai lati del viso magro e sano. Gli occhi, altrettanto scuri, ma caldi, lampeggiarono quando le vide, quando finalmente ne incontrò lo sguardo. Si portò una mano alla bocca, quasi come se fossero stati loro i fantasmi. 

“Eliza…” cominciò Emma.

“Vi prego,” disse lei. La sua voce era quasi musicale. Emma si sentì accarezzata. “Vi prego, sedete.”

Obbedirono, ed Eliza allungò una mano oltre il tavolino che le separava, in un silenzioso e disperato gesto di vicinanza, in un’accorata preghiera. Emma vide sua madre guardare quella mano, ma poi anche lei allungò la sua a stringergliela, e gli occhi di Eliza si riempirono di lacrime a quel contatto. In un automatismo altrettanto silenzioso, si alzarono entrambe e si abbracciarono, ed Emma rimase a guardarle, era come se fossero due amiche, o due sorelle, e non madre e figlia, ma Victoria poteva stringere il corpo di sua madre, ed Eliza poteva stringere quello di sua figlia. Anche se su due piani diversi, erano di nuovo insieme.

 

🥀

 

[RICONGIUNGIMENTI]

 

Eliza volle abbracciare anche Emma. La ringraziò per averle creduto, per aver deciso di andare fino in fondo nello scoprire la verità, e le chiese di perdonarla per ciò che aveva fatto agli altri studenti e a Pansy. 

“Non era mia intenzione ferirli, ho sbagliato. Volevo solo proteggerti. Perdonami, Emma.”

“Staranno bene,” la rassicurò Emma. “Ti perdono.”

Sedettero, Eliza sul suo divano, ed Emma e sua madre su quello di fronte. 

“Mi dispiace per come sono andate le cose, Victoria,” iniziò. “Mi dispiace averti lasciata sola.”

Victoria scosse la testa. “Che scelta avevi? Non hai deciso tu di morire, no?”

“Ovviamente no.”

“Ora lo so. Quando sono nati i gemelli ho capito. Sono diventata madre anche io, e ho capito che ero stata egoista, e capricciosa, e ingrata, nell’odiarti come ti avevo odiata per tutti quegli anni.”

Emma vide Eliza mordersi le labbra, ma la donna non disse nulla. 

 

[IL DOLORE DI VICTORIA]

 

“Ti ho odiata per avermi abbandonata. Da quando ho saputo, da quando i nonni mi hanno raccontato com’eri morta, io non ho capito. Non ho capito, e ho preso a detestare persino il tuo ricordo, e non volevo che mi dicessero che ci assomigliavamo, non volevo avere niente di te, in me.”

“Lo so, è ingiusto. Mi dispiace raccontarti tutto questo, ma penso di doverti la mia sincerità. Odiavo tutto di me, e odiavo anche il mio nome, e le mie origini. Rosier. Quel cognome significava morte, e vergogna, e azioni talmente oscene e malvagie che per anni ho creduto che le nefandezze compiute da quel nome sarebbero venute a chiedermi il conto per tutta la morte che chi lo portava aveva arrecato al mondo. Generazione dopo generazione.”

“Tuo padre ti amava tanto…” disse Eliza. “Ancora prima di conoscerti. Avrebbe fatto qualsiasi cosa per te. Per noi.”

“Sono scesa a patti con tante cose, nella mia vita. Una di queste è Evan Rosier. Ho deciso di sforzarmi di ricordarlo come un padre, il padre attento e benevolo che forse sarebbe potuto essere, se solo fosse vissuto, chi lo sa, e il marito che tanto mia madre aveva amato, e dal quale era stata tanto amata, almeno secondo i racconti della nonna.”

“Non ti ha mai mentito. Fidati di me.”

“Come lo sai?”

“Lo so e basta. Con la morte si sanno molte cose che si ignorano in vita.”

“Mi dispiace per averti odiata,” ora la voce di Victoria si spezzò, e la donna si coprì il viso con le mani tremanti. Emma le cinse le spalle, mentre Eliza si alzava per sederle accanto. Le prese le mani, le tenne tra le sue. 

“Non devi piangere per me,” disse. “Non te lo permetto.”

 

[IL DOLORE DI ELIZA]

 

“Piuttosto, a me dispiace averti lasciata sola,” aggiunse, tornando a sedersi sul suo divano. Emma continuò a cingere le spalle di sua madre con un braccio. Si sentiva impotente, ma tutto ciò che poteva fare era stare ad ascoltare. “Non ho lottato abbastanza per te, avrei dovuto cercare di battere la morte, tutto solo per poterti stare accanto. E invece ti ho delusa, e ti ho lasciata sola. Il mio rimpianto più grande.”

“Eri sola,” intervenne Emma. “Eri tutta sola in questa casa vuota.”

“Mia madre arrivò troppo tardi per me, ma non per te, Victoria,” continuò Eliza dopo aver rivolto ad Emma un sorriso riconoscente. “Le feci promettere di portarti via, via da questa casa piena di tristezza e morte, via da questo paese in guerra, via dai Rosier. Le feci promettere di andare molto lontano, dove niente e nessuno di questa vita e questo mondo avrebbe mai potuto trovarti e farti del male. Le feci promettere di non dire niente, nessuno doveva sapere che eri viva, neanche mio fratello, o Cassandra. Le feci promettere di chiamarti Victoria Rosier e di raccontarti tutto, un giorno, di raccontarti chi eravamo, e di dirti che ti amavamo tanto. Tantissimo.”

“Lo ha fatto. Ha fatto tutto ciò che le hai chiesto.”

“Hanno sofferto?”

Victoria scosse la testa. “Se ne sono andati l’una dopo l’altro. In pace.” 

“Anche tuo fratello è morto. Tanto tempo fa, ormai,” spiegò Emma.

Eliza annuì. “Li incontrerò tutti nuovamente, penso. Forse.”

 

[IL PERDONO]

 

“Ti perdono,” disse quindi Victoria. Eliza si girò a guardare la figlia. “Ti perdono. Per tutto quanto.”

Gli occhi di Eliza si riempirono di lacrime e la donna aprì le braccia in un silenzioso invito, ed Emma e Victoria la raggiunsero sul suo divano, e si lasciarono abbracciare. 

“Grazie per tutto, Emma,” sussurrò sui suoi capelli. “Grazie per aver voluto sapere la mia storia.”

“La tua amica Cassandra non ti ha mai dimenticata,” spiegò Emma. “Ti vuole sempre molto bene, proprio come allora.”

“Cara Cassandra. Cara, cara Cassandra,” mormorò Eliza, sognante, rammentando ricordi di un passato ancora vivido. 

Emma sentiva il corpo di Eliza sfuggirle, come se stesse svanendo piano piano. 

“Eliza…” cominciò.

 

[IL TEMPO DI ELIZA STA PER FINIRE]

 

“Il mio tempo sta per scadere. Non c’è più nulla che mi tenga prigioniera di questa casa, attaccata a questo mondo terreno. Ho sistemato tutto ciò che avevo in sospeso.”

“Non te ne andare,” la pregò Victoria. “Resta ancora un po’.”

“Non è bene indugiare troppo in compagnia dei morti, figlia mia,” rispose Eliza accarezzandole una guancia. “Soprattutto quando ci sono i vivi ad attenderci.”

“Theodore capirà.”

“Theodore ti ama tanto.”

“Come papà amava te.”

Eliza annuì. “Lo so che ha fatto cose orribili, ma io lo amavo. Era così buono, con me. Lo è sempre stato.”

“Lo perdono,” disse ancora Victoria. “Forse l’ho perdonato tanti anni fa, quando sono tornata in Inghilterra e mi sono presentata come Victoria Rosier.”

Eliza le sorrise. “Sono molto fiera di te. Anche tuo padre lo sarebbe. Anzi, sono sicura che lo sia.”

Ora Emma poteva quasi vedere sua madre attraverso il corpo di Eliza. Sua nonna stava svanendo. 

 

[IL COMMIATO DI ELIZA]

 

“Chiudete gli occhi,” disse quindi la donna. Le strinse ancora di più a sé, ed Emma obbedì. Era sicura che anche sua madre fece altrettanto. “Vi voglio bene. E, anche se ora me ne andrò, e raggiungerò il mio caro Evan, sarò sempre con voi. Noi saremo sempre con voi.”

Emma sentì una lacrima calda colarle lungo la guancia. Un alito di aria fredda la riscosse, e l’attimo dopo aprì gli occhi, ed Eliza non c’era più, ed era il corpo di sua madre quello che stringeva, e che la stringeva a sua volta. La stanza intorno a loro era tornata grigia e polverosa. La magia si era spezzata. 

 

[PACE]

 

Le due donne si guardarono, e tornarono ad abbracciarsi, piangendo silenziose. Intorno a loro, l’aria non vibrava più come un tempo. Il fantasma di Eliza era passato oltre. Non avrebbe mai più abitato quei corridoi e quelle sale. Aveva trovato pace.

 

🥀

 

Rimasero abbracciate ancora un po’, finché non sentirono rumore di passi affrettati che le raggiungevano, e le voci di James e Theodore che chiamavano i loro nomi.

 

[JAMES E THEODORE ACCORRONO]

 

“State bene?” chiese Theodore abbracciandole. 

“Abbiamo sentito qualcosa, come uno strappo,” spiegò James. Emma lo sentì sedersi accanto a lei e, sgusciando via dall’abbraccio dei suoi genitori, si rifugiò in quello di James, e lui l’accolse come sempre. Il suo collo era caldo e rassicurante. 

“Se n’è andata,” spiegò, la voce attutita dal pianto. “Eliza se n’è andata.”

 

[L’ULTIMO REGALO DI ELIZA]

 

“Emma,” la chiamò James. La tirò per una manica, e lei si scostò. Tra le mani, James stringeva due cose: una fotografia e una rosa. “Erano poggiate sul tavolino,” spiegò. 

“Un ultimo regalo di mia nonna…”

La rosa era bellissima, sembrava appena sbocciata. Ma le rose fiorivano in maggio. Emma sorrise tra sè e sè. La fotografia era in movimento, e raffigurava Eliza, seduta sull’erba, vestita di bianco, il pancione già visibile, ed Evan era accanto a lei, un braccio dietro la sua schiena, ed entrambi sorridevano a chiunque li stesse fotografando.

“L’unica foto di famiglia,” sussurrò Emma. 

“Erano felici,” convenne James.

Emma annuì. Sorrise. “Molto felici.”

 

🥀

 

Regnava una strana quiete, a Heydon Hall. 

 

[LA QUIETE DOPO LA TEMPESTA]

 

Intorno a James c’erano ancora i resti del disastro causato da Eliza, e il resto della scuola non era ancora rientrato dal campo da Quidditch. Corner era stato richiamato da Theodore prima che l’uomo raggiungesse nuovamente la sua famiglia. Corner li aveva fatti sedere nel suo studio, dove avrebbero potuto godere di un po’ di tranquillità e di pace. James camminava nella hall, le mani in tasca. Diede un calcio a un pezzo di intonaco. I suoi occhi si soffermavano su tutto e su niente. 

Non poteva quasi credere che fosse tutto finito. Pensandoci, non era passato nemmeno un mese da quando aveva messo piede ad Heydon Hall, ed era davvero successo di tutto. Se qualcuno glielo avesse detto, probabilmente non ci avrebbe creduto. Avrebbe negato e si sarebbe fatto una risata. E invece… 

 

[I PENSIERI DI JAMES]

 

Gli eventi degli ultimi giorni lo avevano travolto, e l’unica cosa alla quale riusciva a pensare ora era Emma, seguita a ruota dai suoi genitori. Cos’avrebbero detto quando fossero venuti a sapere quello che era successo? Si sarebbero preoccupati, e subito dopo lo avrebbero guardato con delusione? Gli sembrava di aver lasciato qualcosa di irrisolto con suo padre, dopo il caso Jenkins e la sua punizione, gli sembrava che qualcosa fosse rimasto in sospeso. E ora questo. Non avrebbe mai riguadagnato la loro fiducia. Non sarebbero mai più stati capaci di guardarlo come lo guardavano una volta, con orgoglio misto a speranza. E fierezza. 

Si passò una mano sul viso e Corner apparve al fondo delle scale.

 

[CORNER]

 

“Potter, tutto bene?” gli chiese. 

Era piuttosto sconvolto, Corner, il completo gilet e pantalone marrone che indossava ricoperto di polvere, le maniche della camicia arrotolate, i capelli spettinati. Una delle lenti dei suoi occhiali si era rotta. 

James gli sorrise. “Temo che la stanchezza mi stia chiedendo il conto.”

“Lo capisco. Lo capisco davvero tanto,” rispose l’altro poggiandogli una mano sulla spalla e stringendo amichevolmente. “Vuoi andare a riposare un po’? Ho aiuto a sufficienza, sai?”

James scosse la testa. “No, non si preoccupi. Mi riposerò più tardi. Come stanno gli altri? Tutti bene?”

“Scossi, però sono tutti interi. Grazie per aver chiesto a Fletcher di portarli via di qui, prima non ho avuto modo di ringraziarti, nella concitazione, sai… Pan— La signorina Parkinson,” si corresse in fretta, arrossendo, “mi ha detto tutto.”

James sorrise. “Ho agito d’istinto, tutto qui. Pansy sta meglio?”

“Molto meglio. Non appena è scoppiato il putiferio è corsa in mio aiuto senza esitare. È una risorsa molto preziosa per questa scuola.”

“Sono contento che stia meglio.”

“James,” aggiunse Corner, ondeggiando un po’ sui talloni. “Ho mandato a chiamare tuo padre. Ho pensato fosse giusto avvertire lui e tua madre di quant’era successo.”

James se l’aspettava, ovviamente, solo non se lo aspettava così presto. Non protestò, però. “D’accordo. Mi sembra giusto.”

“Penso che stia arrivando.” Corner indicò un punto alle sue spalle, e James si voltò. 

 

[HARRY POTTER A HEYDON HALL]

 

Suo padre aveva quasi raggiunto il portone, e camminava deciso. Sul volto aveva dipinta un’espressione preoccupata. James fece qualche passo avanti.

“James…” cominciò Harry Potter, la giacca infilata al contrario e gli occhiali leggermente storti sul naso. 

“Ciao, papà.”

 

🥀

 

James ed Harry camminavano lungo il sentiero sterrato sul retro della casa, entrambi con le mani in tasca, entrambi silenziosi e pensierosi. 

 

[DEL TEMPO CON HARRY]

 

Harry aveva voluto sapere tutto, da cima a fondo, e aveva ascoltato come suo solito: senza interromperlo, senza replicare, senza interventi inutili. Annuiva e mugugnava qualche “sì” o “hm-hm” come a volergli dire “sto ascoltando” o “vai avanti”, ma nulla di più. James apprezzava la sua capacità di ascoltare, gli dava modo di raccogliere le idee e di non perdersi. In più, pensava davvero di avere voce in capitolo in ciò che esponeva e nelle argomentazioni che presentava. 

Sedettero su una panchina, dalla quale si poteva vedere la lapide di Eliza. La pietra era freddissima sotto di loro. Harry si prese ancora qualche minuto, al termine del racconto di James, forse per ponderare il tutto, o forse per pensare ad una risposta sensata. 

“Papà,” lo chiamò James quando il silenzio stava cominciando a protrarsi troppo a lungo. “Dì qualcosa, per favore.”

“Non sono arrabbiato,” disse quindi l’altro con un sospiro. “Se è questo che stai pensando.”

“Lo sto pensando, sì. L’ho pensato per tutto il tempo.”

“Non sono arrabbiato, e neanche tua madre lo è.”

Harry gli aveva spiegato che era stata bloccata al lavoro e lui invece era riuscito a sganciarsi e venire fin lì. Harry le aveva mandato subito un messaggio per tranquillizzarla e dirle che James stava bene. 

“Davvero, James. Eravamo entrambi molto preoccupati quando Michael ci ha mandati a chiamare, si capisce. Quando qualcuno ti avverte e ti dice che riguarda uno dei tuoi figli non puoi che preoccuparti.”

“Mi spiace avervi fatto preoccupare.”

Suo padre scosse la testa. “Noi siamo dispiaciuti, Jamie.”

James non replicò, aggrottò solo le sopracciglia, stupito. 

“Io e tua madre ne abbiamo parlato tanto, dopo la sentenza, e anche in queste ultime settimane… Temiamo di averti in qualche modo trascurato, di non averti fatto capire abbastanza quanto in verità ci teniamo, a te, quanto ti vogliamo bene. E che ci dispiace per come sono andate le cose l’anno scorso, con il caso Jenkins e tutto il resto, ci dispiace se ti sei sentito solo durante l’estate, o in qualche modo non capito da noi, e ci dispiace averti lasciato partire a settembre con tutti questi sentimenti dentro di te, questo caos… Avremmo dovuto fare di più. E adesso questo. Comincio a pensare che siano i guai a trovarti, e non il contrario, ma con un cognome come Potter, be’... penso sia inevitabile.”

James attese, nel caso suo padre volesse aggiungere altro, ma siccome l’uomo non parlò, allora lui si sentì autorizzato a replicare.

“Non mi sono sentito solo. O non capito. Solo, pensavo di avervi deluso. Pensavo che non mi avreste mai più guardato come mi guardavate, e che non sareste mai più stati fieri di me. Ho rovinato tutto…”

“Jamie,” lo interruppe Harry, cosa nuova per lui. Si girò a sedere sulla panchina per incontrarne lo sguardo. “Ascoltami bene. Quante cose ha combinato Albus in questi sei anni di scuola? E sedici anni di vita?”

A entrambi venne da sorridere al ricordo di Albus. 

“Non poche,” convenne James scrollando le spalle.

“Esatto. E ti sembra che lo guardiamo in modo diverso? Che lo abbiamo mai guardato in modo diverso? È nostro figlio. C’è una vasta gamma di cose e idiozie e guai che un figlio può combinare prima che un genitore lo guardi in modo diverso, sai? E voi non ci siete neanche vicini, a quel massimo. Vi vogliamo bene, e questo non cambia. Ci potreste dire, tutti e tre, che andrete a studiare i Bubotuberi in Thailandia e noi vi appoggeremmo.”

Ora James scoppiò a ridere, ed Harry con lui. “Per Godric, no. Non ci penso neanche. Ma effettivamente non posso garantire per Albus e Lily…”

“Esatto. E non mettere strane idee in testa a tuo fratello, per cortesia.”

James scosse la testa.

“Ottimo. Quindi per favore, non pensare che ti guarderemmo mai diversamente, Jamie. Di tutta questa storia che mi hai appena raccontato, l’unica cosa che riesco a pensare è quanto sia fiero di te, per come hai affrontato le responsabilità del tuo ruolo qui a scuola, per come sei stato accanto ad Emma Nott in un momento di vulnerabilità e bisogno, per come hai agito coraggiosamente, e col cuore, proprio come ti ho sempre insegnato. E Corner mi ha detto che oggi hai praticamente diretto la scuola in sua vece…”

“Oh, ho soltanto dato una mano.”

“A volte una mano è tutto ciò che serve agli altri, James. Ricordatelo. Non siamo arrabbiati. Siamo fieri di te.”

James sorrise. “Be’, ho un’altra cosa da dirti.”

 

[I PROGETTI DI JAMES]

 

“Okay.”

“Ci ho pensato in questi giorni, mi è balenato per la testa come conseguenza di tante cose. Sai che fino all’anno scorso avrei dato qualsiasi cosa per giocare a Quidditch a livello professionistico.”

“Certo che sì.”

“Poi tutto è andato come è andato, anche per via dell’anno che devo trascorrere qui. Va tutto bene,” aggiunse di fronte all’espressione dispiaciuta del padre. “L’ho presa meglio di quanto immaginavo. In realtà, mi ha fatto capire cosa vorrei fare una volta lasciato Heydon Hall. Vorrei fare quello che fa Theodore.”

Harry alzò le sopracciglia, stupito, ma di uno stupore puro e autentico. “Il MagiAvvocato? Davvero?”

James annuì con convinzione. “Mi piacerebbe studiare legge per aiutare gli altri, però. Un po’ come Theodore ha aiutato me l’anno scorso.”

Harry annuì. “Mi sembra un’ottima motivazione. Tua zia Hermione ne sarebbe entusiasta. Aspetta che glielo dica…”

“Ovviamente, non so se quanto successo l’anno scorso possa in qualche modo penalizzarmi, o impedirmi di accedere al percorso di studi, ma voglio provarci.”

“Dovremmo chiedere a Theodore, sono sicuro che saprebbe indicarci al meglio.”

“Penso che gliene parlerò, non appena ne avrò l’occasione.”

“Sono contento che tu abbia un obiettivo. Potresti cominciare a studiare qualcosina mentre sei qui a Heydon Hall a terminare l’anno, no? Ne posso parlare a Hermione. Ti faccio mandare qualche libro—”

“Papà,” disse James interrompendolo. Harry lo guardò, zittendosi. “Grazie.”

Harry gli sorrise e lo abbracciò di slancio, e James chiuse gli occhi, sentendosi nuovamente un bambino, quando suo padre lo consolava dopo che Ginny lo aveva sgridato, e gli diceva che a sua madre sarebbe presto passato tutto quanto, e di cercare di fare più attenzione, la prossima volta, e di non piangere perché sarebbe andato tutto bene, e lui era comunque il loro piccolo Jamie, il bambino più buono del mondo. 

Sopra di loro splendeva il sole. Andava tutto bene.

 

🥀

 

“Sei sicuro di non voler venire con me?” Emma gli chiese di nuovo.

“Sicuro. Hai bisogno di stare tranquilla. Io me la caverò. E poi non posso abusare troppo della pazienza di Corner…” rispose James, ridendo alle sue ultime parole.

 

[JAMES ED EMMA NEL PARCO]

 

Lui ed Emma si tenevano per mano al limitare del giardino. Senza volerlo erano finiti nei dintorni del campo da Quidditch, dove non si sentiva un rumore. Corner aveva concesso ad Emma di trascorrere un paio di notti a casa, per riprendersi e per stare con sua madre. Aveva esteso il permesso anche a James: lui avrebbe potuto andare dove voleva, a casa sua o a casa Nott, aveva carta bianca. James aveva però rifiutato, preferendo rimanere a Heydon Hall. Voleva dare una mano a Corner e al resto del personale con la ricostruzione, e sapeva che il preside aveva approvato la sua decisione dal luccichio nei suoi occhi quando glielo aveva comunicato, seduti insieme nel suo studio. Suo padre Harry era ripartito da poco per tornare al Ministero.

“Sarà stranissimo stare senza di te.”

“Sarà ancora più strano per me, qui. Non ho neanche più tua nonna a farmi compagnia…” e scoppiarono entrambi a ridere. Ora potevano riderne. Era bello. 

“Hai Archie e Tyler. E ormai Pansy ti adora.”

“Ho come l’impressione che passerà gran parte del suo tempo con Corner. Ora che sono usciti allo scoperto…”

“Era ora.”

James fece ondeggiare le loro mani unite, ed Emma gli sorrise. “Mi sembra di non averti ancora ringraziato abbastanza per questi ultimi giorni. Non solo per questi ultimi, ma per tutti i giorni, a dire il vero.”

“Non hai bisogno di ringraziarmi. Sai perché l’ho fatto. Lo rifarei, se necessario.”

“Non vedo l’ora che questi due giorni passino. Mi mancherai.”

James le sorrise, appuntandole un capello dietro l’orecchio. “Anche tu mi mancherai. Cerca di riposare, però, d’accordo? Ne hai bisogno.”

“Dovresti riposare anche tu.”

“Ho tempo a sufficienza. Le lezioni sono sospese fino a nuovo ordine, quindi non ci sarà molto da fare. Un sacco di studenti andranno a casa per qualche giorno.”

“Corner è stato molto generoso.”

“Già. Qui a scuola sarà tranquillo, a parte per chi si è offerto di restare per dare una mano.”

Si incamminarono senza programmarlo, diretti nuovamente alla scuola. Theodore e Victoria stavano aspettando Emma per tornare a casa Nott, ma prima avevano concesso loro un momento per parlare e stare insieme. 

“Allora mi penserai?” le chiese. 

Emma gli diede uno spintone. “Certo, scemo. Sempre.”

“Non mi chiedi se ti penserò?” aggiunse quindi dopo un attimo di silenzio. 

“No. So già che lo farai.”

Risero insieme, e James l’attirò a sé cingendole le spalle, ed Emma scivolò nel suo abbraccio. Si baciarono, fintanto che ne avevano ancora l’occasione, prima che fossero troppo visibili dal gruppo di adulti sulla soglia di Heydon Hall. Fu un bacio tenero, e lento. 

“Chissà come farò a sopravvivere due giorni senza questo…” commentò Emma sulle sue labbra. 

“Come ha fatto tutti questi anni, signorina Nott. È stata dura senza il sottoscritto, vero?”

“Ma smettila,” esclamò lei dandogli un pugno sul braccio. “Non te la tirare troppo.”

Discussero e battibeccarono ancora un po’ lungo il tragitto fino alla casa, dove li aspettavano i genitori di Emma e il preside Corner. 

 

[DI NUOVO A HEYDON HALL PER I SALUTI]

 

Si salutarono in modo composto. Theodore e Victoria lo ringraziarono ancora una volta per l’aiuto e la sua vicinanza ad Emma. Theodore gli strinse la mano con vigore. 

“Avevi detto di avere qualcosa di cui volevi parlarmi… Puoi rimandarla a quando tornerò ad accompagnare Emma tra due giorni?”

“Certamente, Theodore,” rispose James annuendo.

“Ci conto, eh.”

James sorrise, poi strinse ancora una volta Emma in un abbraccio. 

“Ci vediamo tra due giorni,” sussurrò lei sulla sua guancia prima di dargli un bacio.

“Tra due giorni,” rispose lui sorridendole. 

I tre si avviarono lungo il prato, Theodore facendo Levitare il baule di Emma e Victoria agitando un paio di volte la mano a mo’ di saluto, un braccio intorno alle spalle della figlia. Emma si voltò due volte, e tutte e due le volte James la salutò animatamente. La terza volta, il terzetto fermo poco oltre i cancelli, si guardarono e basta, erano troppo piccoli perché James potesse mettere a fuoco le loro espressioni. Infine, si Smaterializzarono. Andati. 

 

[E RIMASERO IN DUE]

 

James sospirò. Corner gli cinse le spalle con un braccio. “Bene, ragazzo mio. Che ne dici di qualcosa di forte?”

“Preside Corner?” chiese James, interdetto, le sopracciglia aggrottate. “È sicuro di stare bene?”

“Benissimo,” continuò l’altro mentre, insieme, si avviavano all’interno. “Noi due uomini ci meritiamo di farci un bel bicchiere di Firewhisky per affrontare questo finale di giornata in modo degno. In fondo, siamo colleghi.”

James non sapeva cosa dire. Si limitò a ridacchiare. “Be’, se lo dice lei, d’accordo.”

“Lo dico, lo dico. Ci sarà bisogno di carattere e forza d’animo nei prossimi due giorni, ma da un Potter non posso che aspettarmi questo e altro. Sono molto fiducioso.”

E con queste ultime parole, si chiuse le porte di Heydon Hall alle spalle.



 

EPILOGO

 

8 mesi dopo dopo circa

“Sei sicuro di aver preso tutto, Jamie?”

“Sì, mamma, sono sicuro.”

James scese le scale di casa Potter di corsa, la borsa di cuoio a tracolla, la camicia azzurra ben stirata sotto il completo giacca e pantalone blu scuro. 

Ginny Potter lo aspettava in salotto, le braccia sui fianchi in una perfetta - e assolutamente involontaria - imitazione di nonna Molly. Era anche lei vestita per il lavoro, nella sua solita tenuta d’assalto per la Gazzetta del Profeta: jeans morbido, camicia a quadri e scarpe da ginnastica. Sembrava una ragazzina. 

“Se ti accorgi che ti manca qualcosa, sai dove si trova l’ufficio di tuo padre.”

“Non andrò da papà a chiedergli in prestito una piuma, mamma, fuori discussione.”

“Va bene, come vuoi,” rispose lei alzando gli occhi al cielo. I due si guardarono per un attimo, non sapendo bene se scoppiare a ridere o meno. “Farai un figurone,” aggiunse quindi sua madre, avvicinandosi e sistemandogli la giacca. James era sicuro non avesse niente che non andava, ma la lasciò fare. “Sei agitato?”

Lui alzò gli occhi al cielo. “No, mamma. E ci sarà Theodore ad aspettarmi nell’Atrium, andrà tutto bene.”

“Ricordagli della cena di stasera.”

“Sì, Emma mi ha scritto che non vede l’ora, tra le altre cose.”

Ginny sorrise. “E io non vedo l’ora di conoscerla.”

Lui ed Emma avevano passato le vacanze di Natale a casa Nott, dietro invito di Theodore e Victoria, e quindi i suoi genitori non avevano ancora avuto modo di conoscere ufficialmente Emma. 

“Il mio ragazzo va fuori nel mondo,” continuò Ginny sospirando.

“Mamma, mi sarei aspettato questi discorsi da papà, non da te.”

La donna scoppiò a ridere. “So essere sentimentale anche io, sai? Sarà che sto invecchiando.”

James scosse la testa, sorridendo. Alla fine, una volta terminato l’anno di “punizione” scontato a Heydon Hall, Theodore gli aveva rimediato un posto come stagista presso il suo ufficio, dove James avrebbe potuto studiare e intanto lavorare a stretto contatto con lui. Era un’occasione che, James lo sapeva, non veniva data a tutti, e per questo gli sarebbe stato infinitamente grato. Non vedeva l’ora di cominciare. 

“Sarà meglio che vada,” disse quindi. “Ci vediamo stasera a cena.”

“D’accordo. In bocca al lupo per oggi.”

“Crepi.”

Si avviò alla porta. Una volta fuori, prima di Smaterializzarsi, si toccò la tasca interna della giacca. 

“In bocca al lupo per domani. Sono fiera di te. Ti amo, Emma.” Ripensò alle parole finali della lettera di Emma ricevuta la sera prima. Sorrise tra sé e sé al ricordo. Un calore famigliare gli si irradiò nel petto. 

Alzò ancora una volta lo sguardo a casa Potter. Qualche mese fa, la lasciava con la coda tra le gambe, pronto ad affrontare un anno all’Istituto Correttivo per Giovani Maghi e Streghe di Heydon Hall, nel buco-di-culo del Norfolk, come ammenda delle sue azioni, e ora la lasciava come un nuovo James, più adulto, più responsabile, più saldo. Non vedeva l’ora di iniziare questo nuovo capitolo. Si Smaterializzò con il sorriso sulle labbra. 

 

«Hai detto che era una storia di fantasmi, ma non lo è. È una storia d’amore.» / «È la stessa cosa».
 


Note:

Come anticipato in apertura di capitolo, l’headcanon che riguarda la famiglia Moody è stato inventato da me.

 

Ebbene, chi ci crede che ho completato questa storia? Nemmeno io, figuriamoci voi lettori. Dopo 13 anni ad Azkaban (cit.), eccoci qui alla fine di questa (lunghissima) corsa. 

Non mi voglio dilungare, però dovete sapere che questo capitolo ha vissuto una genesi travagliata. Vi spiego, per tutti coloro che non hanno seguito il mio sclero su facebook: dopo aver scritto circa 30 pagine, ho pensato bene di cancellare la cartella sul pc che ne conteneva il file e, non contenta, ho svuotato il cestino. Lo so, lo so. Non ditemi nulla perché LO SO. Una completa cretina. 
Potete immaginare la mia disperazione. Quella sera ero decisa: non lo avrei mai più riscritto, non avrei mai portato a termine questa storia. Poi mia sorella Alice (somma dispensatrice di consigli/tirate d’orecchio) mi ha minacciata (sì, proprio così, è dello Scorpione, sapete) e mi ha obbligata a rimettermi al lavoro subito, il giorno successivo. E così ho fatto. Credo di aver riscritto la parte che avevo perso in due giorni. E vi dirò: mi piace persino di più della prima versione. 
 

Non so quanto mi piaccia questo capitolo nella sua interezza, sarà che l’ho aspettato tanto, sarà che tutta la storia viveva in funzione di /questo/ capitolo, sarà che non sono mai contenta, ma ci sono parti che forse avrei voluto scrivere diversamente. Ma vabbe’, è andata così. Spero solo che vi sia piaciuto (fatemi sapere soprattutto le vostre impressioni sulla rivelazione dell'identità di Eliza) e che vi sia piaciuta la conclusione di questa storia che, come vi avevo promesso, non è stata solo una storia di fantasmi, ma una storia d’amore. Che è un po’ la stessa cosa.

 

Grazie ancora a mia sorella che mi ha affiancata in tutte le fasi di creazione e stesura e controllo di questa epopea (LOL), e grazie a tutti voi che siete rimasti con me fin proprio alla fine (cit.). 

 

Mi potete trovare qui, se volete, per aggiornamenti/contenuti riguardanti la scrittura e non solo: the.bleu.hoour

Dimenticavo! Se volete leggere qualcosa sui (miei) Rosier, vi consiglio la mia Dance of Death.


Grazie ancora,

Marti 🥀

 

P.s. Qui qualcos altro bolle in pentola: non mi sono scordata di Teddy Lupin 😌 E poi pensavo: vi andrebbe di leggere qualcosa su Michael Corner?



 

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