after the storm

di ice_chikay
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I ***
Capitolo 2: *** II ***
Capitolo 3: *** III ***
Capitolo 4: *** IV ***
Capitolo 5: *** V ***
Capitolo 6: *** VI ***
Capitolo 7: *** VII ***
Capitolo 8: *** VIII ***
Capitolo 9: *** IX ***
Capitolo 10: *** X ***
Capitolo 11: *** XI ***
Capitolo 12: *** XII ***
Capitolo 13: *** XIII ***
Capitolo 14: *** XIV ***
Capitolo 15: *** XV ***
Capitolo 16: *** XVI ***
Capitolo 17: *** XVII ***
Capitolo 18: *** XVIII ***



Capitolo 1
*** I ***


After the storm

(note in fondo al capitolo)


But there will come a time, you'll see,
with no more tears and love will not break you heart,
but dismiss your fears 
Get over your hill and see
what you find there
with grace in your heart 
and flowers in you hair


Era un placido pomeriggio autunnale. Una brezza leggera smuoveva le fronde degli alberi e l’erba nei prati: nascondeva in sé la promessa del freddo che presto sarebbe arrivato, ma lasciando ancora un ricordo dell’estate che era da poco finita. Il sole era già basso sull’orizzonte, il cielo volgeva verso il rosso e l’arancione del tramonto imminente. La campagna era silenziosa e sonnolenta, nelle poche case sparse tra i campi si cominciavano ad intravedere le candele e le lampade accese, pronte a rischiarare la sera.

Una figura a cavallo tirò le briglie per fermare il suo incedere e rimase qualche istante immobile, lo sguardo perso nel paesaggio collinare, con i suoi alberi, staccionate e le montagne in lontananza, con le cime già innevate. La donna – poiché di una donna si trattava – inspirò profondamente mentre un lieve tremito le percorse mani strette intorno alle briglie. La strada proseguiva senza ulteriori deviazioni verso un paese che si scorgeva in lontananza, ma lei svoltò a destra, su uno stretto sentiero che si inoltrava tra gli alberi. Non era sufficientemente largo per farvi passare un carro ed era ancora intralciato da erba ed arbusti, come se fosse stato tracciato solo da qualche animale che vi fosse passato più e più volte. Gli alberi tuttavia erano abbastanza distanziati gli uni dagli altri, quindi procedere era piuttosto agevole.

Dopo una mezz’ora, il bosco si aprì nuovamente a sinistra su terreni aperti ed erbosi, ondulate colline a perdita d’occhio. Il bosco proseguiva sulla destra dove più in là si ricongiungeva con le foreste che scendevano dalle pendici delle montagne. Qualche centinaio di metri più avanti, il portico rivolto verso i campi e il comignolo di un camino verso le montagne, era visibile una piccola casa, costruita prevalentemente con grandi tronchi di legno. La finestra che dava verso il sentiero da cui la viaggiatrice era sbucata era scura, come se la casa fosse disabitata. La donna rimase ancora qualche attimo ad osservare la costruzione, quasi come se una nuova – o antica – incertezza la bloccasse.

Da vicino, la casa sembrava meno piccola di quanto avesse creduto all’inizio. C’erano tre scalini che facevano accedere al portico sul quale si aprivano due finestre ed una porta. Camminandoci intorno, la donna scorse un orto, un pozzo di pietra, una piccola casetta di legno che, a giudicare dalla quantità di paglia e dalla porta chiusa solo per metà, fungeva da stalla ed una tettoia addossata alla parete della casa, ricolma di ciocchi di legna perfettamente tagliati e sistemati con ordine. Quella vista la fece sorridere.
I suoi passi sul portico fecero gemere il pavimento di legno ed anche questo non la sorprese. Bussò alla porta un paio di volte, ma senza convinzione, come se non si aspettasse che qualcuno le rispondesse. Quindi, dopo qualche istante di ennesimo silenzio, provò a girare la maniglia della porta, che si aprì senza indugio.

La casa era composta da due stanze. La prima, sulla quale si apriva la porta, aveva a destra la cucina, con una vecchia stufa a legna metallica ed un lavabo di pietra sotto alla finestra che si scorgeva all’uscita del sentiero. Davanti alla porta c’era un tavolo di legno massiccio grezzo e semplice, con quattro sedie attorno, anch’esse di semplice fattura. A sinistra della porta vi era la rete di un letto, con un materasso sopra coperto da una pezza di stoffa verde militare, del tipo dal quale si sarebbero potute tagliare delle uniformi. Infine, sul muro opposto alla porta, davanti al divano improvvisato, c’era una poltrona malmessa ed un camino. Accanto al camino, vi era una seconda porta che si apriva su un piccolo corridoio dal quale si accedeva alla seconda stanza, ad un piccolo ripostiglio pieno di scope, secchi e saponi, e ad un gabinetto. Sul pavimento del corridoio si apriva una botola, con il suo occhiello di ferro.
A quella vista la donna rabbrividì vistosamente.

La camera da letto era piccola, ma confortevole. Il letto non era proprio a due piazze, ma una trapunta colorata ed una testiera di legno rozzamente scolpita lo facevano sembrare molto invitante. L’arredamento era completato da un armadio - anch’esso di legno e senza specchio - un ciocco che fungeva da comodino, qualche mensola con dei libri ed un grosso baule scuro ai piedi del letto. La donna accarezzò distrattamente la coperta, esaminandone la fantasia a patchwork. Con qualche esitazione, si lasciò vincere dalla curiosità ed aprì l’armadio. Al suo interno erano appesi pochi abiti maschili: due paia di pantaloni, qualche camicia e maglione, una sciarpa, un paio di lenzuola di ricambio. Tutto era perfettamente stirato e profumava di bucato. La donna si concesse un sorriso malinconico, inspirò profondamente e poi richiuse l’anta.

Alla fine, si convinse ed aprì il baule.

Trovò al suo interno ciò che aveva involontariamente cercato con lo sguardo dal primo istante in cui i suoi piedi avevano varcato quella soglia.

Il meccanismo di movimento 3D giaceva, immobile e scintillante, sopra ad un paio di divise militari, un cappotto e un mantello verde, con l’immancabile stemma del Corpo di Ricerca ricamato sopra. La donna trattenne il fiato. Aveva visto quelle uniformi continuamente, anche dopo la fine della guerra, persino lei stessa conservava le proprie in un ripiano dell’armadio, eppure vedere le sue le fece uno strano effetto: come se si stesse affacciando su un passato remoto che cercava allo stesso tempo di custodire e dimenticare. Sollevò una vecchia scatola di latta e la aprì. Al suo interno giaceva una grande quantità di distintivi rappresentanti le Ali della Libertà. Avevano tutti i bordi frastagliati, come se fossero stati tagliati di fretta dalle uniformi sui quali erano stati cuciti. La donna sentì gli occhi che cominciavano a pizzicarle. Cercò di guardare verso il soffitto per impedire alle lacrime di formarsi mentre chiudeva rapidamente la scatola e la rimetteva a posto.
Sospirò lentamente e si chiese per la milionesima volta cosa ci facesse davvero lì. Sentiva un dolore dentro al petto, come se qualcosa si fosse contratto dentro di lei, portandole il cuore in gola e allo stesso tempo facendole contorcere lo stomaco. Era un dolore che conosceva bene, con cui conviveva da più di due anni, che la lasciava in pace solo quando qualcosa riusciva a distrarla a sufficienza. Trovarsi in quella casa, al contrario lo acuiva.
Tornò di nuovo nella prima stanza con la fronte corrucciata, sentendosi in colpa per aver curiosato in giro senza permesso. Il sole stava ormai scomparendo e lei era quasi certa che il proprietario della casa non sarebbe tornato per quella sera.
Senza neanche accendere una candela, si stese sullo spoglio materasso sotto alla finestra inspirando di nuovo l’odore di pulito che si espandeva anche dalla vecchia coperta di stoffa militare. Poi chiuse gli occhi e pregò di addormentarsi.
 


Il giorno dopo fu altrettanto solitario.
La donna si svegliò alle prime luci dell’alba e rabbrividì nella fresca aria ancora azzurra. Si alzò lentamente, ma con un unico movimento fluido, con la grazia di una ballerina. Si avvicinò alla finestra e guardò fuori dalla finestra, in direzione del sentiero. Le fronde degli alberi del bosco ondeggiavano lievemente nel vento. Attorno a lei c’era un completo silenzio, interrotto ogni tanto solo dal cinguettio di qualche uccello mattiniero. Si ritrovò a pensare che era da molto tempo che non sentiva un silenzio del genere. Forse da quando aveva lasciato la casa dei suoi genitori. Abbassò lo sguardo sul piano sgombro della cucina, poi si accucciò davanti agli armadietti al di sotto del lavabo e li aprì, come cercando qualcosa.

Sorrise non appena vide in bella mostra un vecchio bollitore di ghisa ed un paio di tazze, accanto ad una scatola di latta che conteneva, già poteva sentirlo dall’odore, delle foglie di tè nero essiccate. Prese la scatola tra le mani e la aprì, tuffandoci dentro il naso. Sentì una nuova ondata di nostalgia che la sopraffaceva. Rimase immobile, con il profumo de tè che la avvolgeva, persa dietro chissà quali lontani ricordi. Rimise a posto la scatola ed uscì dalla casa, chiudendo la porta alle sue spalle.

Scese dal portico e si avviò alla stalla, dove il suo cavallo la aspettava. Prese delle gallette da una delle bisacce legate alla sella e tornò a sedersi sul prato davanti alla casa. Lanciò uno sguardo all’orto sulla sua destra: tutto sembrava essere perfettamente organizzato. Era strano immaginarlo mentre curava delle piante però. Forse era l’idea di lui che facesse nascere qualcosa ad essere sbagliata, si ritrovò a pensare. Lui che non aveva fatto altro che togliere vite per così tanti anni.
Sobbalzò, sorpresa dai suoi stessi pensieri. Non è neanche vero, e tu lo sai…
Lui aveva sempre fatto di tutto per salvare chi aveva attorno. Anche quando non c’era nessuna speranza, anche quando l’unica speranza era racchiusa in lui. Era piuttosto lei, che aveva continuamente tolto vite e speranze in modo completamente egoistico, non per la salvezza di sconosciuti, non per la salvezza del mondo, ma solo per la salvezza di…

Rabbrividì di nuovo, stringendosi nel cappotto troppo leggero. Non sarebbe mai dovuta venire. Sono passati due anni, cosa speri di trovare? Eppure sapeva che non c’era nessun altro posto al mondo dove avrebbe potuto cercare quello che le serviva. Per fare cosa? Andare avanti? Lo sai che non c’è niente avanti…
Si passò una mano tra i capelli, accarezzando la cicatrice che le segnava la fronte sull’occhio destro, facendo il paio con quella sullo zigomo sotto l’occhio, poi addentò la galletta, seguendo il sole che sorgeva dalle montagne in lontananza.
 


Passarono tre giorni. La sera, quando faceva buio, la donna entrava nella casa e dormiva sul materasso davanti al camino. La mattina usciva di nuovo e trascorreva la giornata ad aspettare sul prato, mangiando gallette e di tanto in tanto accudendo il cavallo. Non le dispiaceva aspettare, non era mai stata una persona impaziente. Oh Eren, eri così diverso da me…
A dirla tutta, le piaceva stare da sola in quella radura. Le piaceva la vista davanti alla casa, così immensa e libera, senza mura o palazzi che la bloccassero. Le piaceva il rumore del vento tra le fronde del bosco, il canto degli uccelli, l’acqua gelida che tirava fuori dal pozzo, la piccola volpe che ogni tanto faceva capolino dal sentiero per venire a studiare quella strana intrusa che passava tutta la giornata sul prato o sul portico.
Le piaceva soprattutto la sensazione data dalla consapevolezza che praticamente nessuno al mondo sapesse dove si trovasse in quell’istante. Era la prima volta nella sua vita che decideva di se stessa in autonomia. Era scappata da questa libertà per altri due anni, dopo che il mondo era crollato ai suoi piedi. Adesso invece sentiva che la libertà di poter stare quattro giorni da sola, seduta in un prato senza fare assolutamente nulla, fosse la cosa più preziosa che avesse mai posseduto in tutta la sua vita. Allo stesso tempo era terrificante, perché voleva dire che era davvero sola, per la prima volta. Non c’era nessuno ad aspettarla, nessuno che si preoccupasse di lei, nessuno di cui preoccuparsi.
 


La sera del quinto giorno, capì che lui stava tornando perché qualcosa cambiò nell’aria.

Le fronde si muovevano allo stesso modo di sempre nel vento ormai freddo, il sole scendeva sull’orizzonte come tutti gli altri giorni, ma l’atmosfera era cambiata completamente. Poteva percepire il suo approssimarsi, come il crescere di una sensazione, come l’arrivo della pelle d’oca, un lieve pizzicore alla base della nuca.
D’improvviso si sentì inquieta.

Si concentrò per mantenere lo sguardo verso i campi e le colline davanti alla casa, senza guardarsi attorno con impazienza.

Lui uscì dalla foresta alle spalle della casa accanto al suo cavallo, che trasportava alcuni sacchi ricolmi sul dorso. Era la stessa persona che popolava i suoi ricordi, nonostante fosse anche profondamente diverso. Il suo incedere era sempre aggraziato e sicuro, anche se non riusciva a nascondere un lieve zoppicare della gamba sinistra. Il suo viso era incorniciato dal solito doppio taglio di capelli neri, ma una benda scura gli copriva l’occhio destro da cui una cicatrice partiva verso la fronte ed il mento, segnando le labbra sulla destra. La mano destra non aveva più l’indice e il medio, tranciati di netto appena sopra le nocche, ma le altre dita erano quelle lunghe ed affusolate che lei ricordava, la ruvidità ed i calli identici a quelli che caratterizzavano le sue.

Indossava un giaccone di pelle foderato di pelliccia, un capo adatto ai cacciatori, e stivali che arrivavano a metà polpaccio, anch’essi imbottiti. Era uno strano abbigliamento per lui, era strano non vederlo in verde e neanche con le sue giacche e camicie inamidate. Sembrava che quella figura uscita dalla foresta fosse una versione più selvaggia e rude del Capitano che lei era abituata a ricordare. Eppure, stranamente gli si addiceva.

L’uomo camminò fino alla stalla. Ancora prima che notasse il cavallo che aveva usurpato il posto del proprio, la donna sapeva che lui aveva già percepito una presenza nella radura. Tutto in lui trasudava la sua solita sicurezza. Chiunque fosse l’intruso che lo stava aspettando, avrebbe aspettato finché non gli fosse stato comodo. Era il padrone di quelle terre e i suoi gesti lo rendevano lampante. Non aveva fretta. Non si voltò nella sua direzione prima di aver accompagnato il cavallo vicino alla stalla ed aver accarezzato la sua criniera con fare rassicurante.

La donna si alzò in piedi, rendendosi molto più visibile. Sentiva il cuore batterle in petto con forza, ma una strana calma si impossessò di lei. Era la calma che lui le aveva sempre – o quasi – trasmesso e ritrovarla in un istante le fece trattenere il fiato.

A questo punto, lui si voltò.

Per un istante, mentre il suo sguardo la inquadrava, l’occhio visibile rimase impassibile come sempre. Poi, in un battito di ciglia, si spalancò, riconoscendola.
Nessuno disse niente per qualche istante, né fece cenno di muoversi incontro all’altro, l’unica cosa che si agitava era il vento che le scompigliava i capelli, che le arrivavano ormai fino alle spalle.

Poi, le labbra di lui si separarono impercettibilmente.

«Mikasa»

La sua voce era la stessa di sempre: bassa, ma non troppo profonda, tagliente come una lama. Un brivido le percorse la schiena: non pensava che l’avrebbe mai più sentito pronunciare il suo nome.

«Capitano»

 
​Ciao a tutti!
E' la prima volta che scrivo - e soprattutto pubblico - una fanfiction. I personaggi di questo manga e il loro livello di profondità mi hanno ispirato (e il lockdown ha dato una mano!) ed ho scritto questo slowburn rivamika. Non ho finito di scrivere la storia, ma per ora ho già diversi capitoli pronti :) 
Spero vi piaccia! 

Chikay

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Capitolo 2
*** II ***


note in fondo!

II
 
L’uomo si voltò di nuovo verso il proprio cavallo.

«Non ti hanno insegnato che si dovrebbe chiedere il permesso, prima di portare il cavallo nella stalla di qualcun altro?»
Anche se era nascosto alla sua vista, Mikasa avrebbe potuto giurare che un angolo della sua bocca si fosse sollevato, come una parvenza di sogghigno.

«Volevo chiederlo al pozzo, in effetti, ma poi ho pensato che la casa si sarebbe ingelosita…»

Lui si voltò, sul viso l’esatta espressione che lei aveva immaginato l’istante prima.

«Chi l’avrebbe mai detto che in due anni avresti acquisito il senso dell’umorismo…».
Le fece un cenno con la testa, per indicarle di avvicinarsi, poi riprese «Porta queste sacche sul portico. Qui vicino c’è una sorgente, vado a lavarmi. Tu intanto aspettami dentro.»

Tornò dopo mezz’ora con i capelli bagnati ed in camicia, con il giaccone tra le braccia. Mikasa l’aveva aspettato seduta al tavolo.

«Che cosa c’è nei sacchi? Puzzano di bruciato» chiese lei a bruciapelo, mentre lui stava ancora chiudendo la porta alle sue spalle.

Levi si strinse nelle spalle mentre si voltava per appendere la giacca ad un piolo che sbucava dal muro.
«Carne affumicata. Nel bosco ho costruito un affumicatoio. Carne di cervo.»
Poi, con un sospiro, si accucciò per prendere le tazze, il tè ed il bollitore. Alla donna non sfuggì il lieve stringersi della sua mascella, come se il movimento gli provocasse dolore.

«E così sei diventato un cacciatore?»

Lui restò in silenzio, come ponderando le sue parole, mentre accendeva la stufa.

«Lo sono sempre stato» disse poi, la voce quasi un sussurro.

A Mikasa sembrò che il suo cuore saltasse un battito, ma lui non le diede tempo di riflettere troppo a lungo sulle sue parole, perché si sollevò, voltandosi verso di lei per guardarla negli occhi.

«Com’è andata la missione? Hanji sta bene? Connie?»

Mikasa sorrise lievemente ed annuì. «Stanno bene. La missione è stata…beh, incredibile.»

Questa volta fu lui a sorridere, ma era un sorriso amaro. «Il libro di Arlet aveva ragione su tutto? Distese di ghiaccio e albe verdi e continenti di sabbia?»

Mikasa abbassò lo sguardo. Erano passati più di due anni, ma ogni volta che qualcuno nominava Armin o Eren o gli altri, sentiva la solita morsa che le stringeva le viscere, impedendole di respirare.

«Più o meno…» rispose. «Hanji e Connie sono tornati a Mitras adesso. A redigere rapporti e studiare tutti i materiali che abbiamo riportato indietro»

Levi versò l’acqua calda nelle tazze ed il profumo del tè si espanse nell’aria immediatamente.

«Sì, immaginavo. Historia mi ha scritto che sareste tornati da lei.» Quindi poggiò le tazze sul tavolo e si sedette vicino a Mikasa.

«Sei in contatto con Historia?»

«Ogni tanto scrive una lettera» fece un movimento della testa, come a voler indicare un luogo in lontananza «arrivano alla posta in paese.»

«Ti ha chiesto di entrare a far parte della sua guardia personale?»
Questa volta, Levi sorrise davvero, guardandola negli occhi, con aria complice «In tutte le lettere».
Mikasa ricambiò il sorriso. «Già, l’avevo immaginato.»

Levi si stiracchiò, stendendo le braccia mentre si dondolava all’indietro sulla sedia, poi incrociò le mani dietro alla nuca. Mikasa lo guardò con curiosità: il vecchio capitano Levi non si sarebbe mai comportato così davanti a lei.

«Per ora sto bene qui. Non che la pensione di guerra sia un bottino, ma non ho bisogno di molto.»

Rimasero in silenzio per qualche secondo, mentre sorseggiavano il tè ancora caldo. Quel sapore riportò Mikasa indietro e in un istante si rivide al quartier generale del Corpo di Ricerca, attorniata dalla sua squadra, che ormai non esisteva più.

«E tu? Tornerai a Mitras?» domandò lui, lanciandole uno sguardo di sottecchi.
Da questa distanza ravvicinata, la ragazza si soffermò sulla seconda cicatrice che segnava lo zigomo e la guancia del capitano, sotto quella che gli aveva sfigurato l’occhio. Era incredibile pensare che fosse sopravvissuto all’esplosione di una lancia fulmine. Floch l’aveva dato per spacciato e così anche Zeke… Già, vi sarebbe piaciuto…

«Oi, mocciosa. Ti ho fatto una domanda»
Mikasa si riprese dai suoi pensieri ed alzò di nuovo lo sguardo sul suo unico occhio. «Non lo so… ho bisogno di rifletterci su»

«è per questo che sei venuta qui?»
Levi roteava la tazza con noncuranza nella mano sinistra, ma Mikasa sapeva che diceva sul serio, nonostante il tono della voce fosse neutrale come al solito. Era presto per rispondere a quella domanda. La ragazza prese tempo sorseggiando di nuovo il tè.
«Perché no…» disse poi, facendo spallucce «mi piace qui. È bello, fuori dalle mura.»
«Le mura non esistono più, dentro o fuori ormai è uguale» la schernì lui.
«Già, infatti è proprio perché è uguale che ti sei stabilito qui, fuori Shiganshina, no?» lo rintuzzò lei, una punta di malizia nello sguardo. Lo conosceva troppo bene e da troppi anni, poteva mentirle quanto voleva, ma lei sapeva perfettamente come mai fosse andato a vivere lì.
«Ma guarda che brava investigatrice…» la prese in giro lui, alzandosi. Aprì la porta ed afferrò i quattro sacchi che Mikasa aveva lasciato sul portico. Si diresse verso il corridoio ed aprì la botola nel pavimento. Esitò un istante, trattenendo il fiato, poi scese di sotto e scomparve.

Risalì dopo un minuto e alla ragazza sembrò che avesse il fiato corto.
«Stai bene?» chiese, cauta.
«Cosa?» lui sembrò risvegliarsi da qualche pensiero, per poi poggiare il suo sguardo nuovamente su di lei «Non sono ancora così vecchio da avere problemi a fare quattro scalini, ragazzina… a proposito, quanti anni avresti ormai?»
«Ventitré»
«Tch. Vai ad accendere il camino. Questo povero anziano ha bisogno di scaldare le sue ossa» Le rispose, con un nuovo lieve sogghigno.
 
Il buio scese all’improvviso e la serata proseguì tranquilla. Levi preparò una minestra di verdure, mentre Mikasa accese il camino ed apparecchiò la tavola. La ragazza non poteva fare a meno di sorridere tra sé di tanto in tanto: dopo più di un anno e mezzo in giro per il mondo, quella serata così tranquilla in quella baita spartana la fece sentire a casa. Rimasero zitti per quasi tutto il tempo mentre preparavano la cena, nessuno dei due era un chiacchierone e si conoscevano da così tanto tempo che il silenzio reciproco era familiare, non imbarazzante.
Anche durante la cena si scambiarono poche parole, il rumore delle stoviglie e quello degli schiocchi della legna che bruciava erano i soli a rompere il silenzio. Mikasa seguiva con gli occhi la mano sinistra di Levi, che impugnava il cucchiaio. Ormai era diventato abilissimo ad usarla, come se fosse stato mancino da sempre.
La ragazza rabbrividì mentre le tornavano alla mente quei giorni lontani, in cui aveva combattuto al suo fianco, temendo che quella menomazione gli impedisse di spingere i grilletti del movimento 3D. Non aveva più potuto combattere come prima, ma quasi nessuno se n’era accorto. Era riuscito a nasconderlo a tutti gli altri, ma non a lei. Mikasa non poteva scordare quel momento di esitazione, quello sguardo che lui poteva rivolgere solo a lei, che era l’unica che poteva capirlo davvero. Ricordava di avergli fatto un cenno con la testa e in quel cenno aveva concentrato tutta la sua energia. “Ce la puoi fare. Io so che ce la puoi fare. E se io lo so, allora è vero” gli aveva detto, senza aprire bocca. Poi entrambi avevano spiccato il volo, nella città in fiamme, per l’ultima volta.


Dopo cena, Mikasa rimase seduta a tavola, mentre Levi sistemava e lavava i piatti. Quando fu soddisfatto dell’ordine che regnava di nuovo incontrastato in cucina, il capitato tornò a sedersi, facendo tintinnare davanti a sé due bicchieri ed una bottiglia di vetro piena a metà di un liquido ambrato.
Ne versò in entrambi i bicchieri, prima di porgergliene uno.  La ragazza non si fece pregare ed in un istante ne svuotò in gola tutto il contenuto. Levi alzò un sopracciglio, mentre iniziava a sorseggiare la sua porzione.

«Non ti reggerò la testa se finirai a vomitare sui tuoi stessi stivali» borbottò, con il solito tono infastidito. Mikasa sorrise in silenzio, prima di spingere il suo bicchiere vuoto verso di lui, che con uno sbuffo lo riempì di nuovo.

«Prenditi la camera da letto. Tanto lo sai, io non dormo molto.»

«Pensi che dovrei accettare?»

Levi aggrottò la fronte, per la prima volta guardandola con aria interrogativa. «Preferisci dormire nella stalla?» aggiunse quindi, incrociando le braccia.
Mikasa si lasciò scappare una risata leggera, prima di prendere un altro sorso di alcolico. «Ma no, non parlavo della stanza, capitano. Mitras. Pensi che dovrei accettare? Lavorare per Historia e tutto il resto?»

Levi poggiò il gomito sinistro sul tavolo e si stropicciò gli occhi con pollice e indice.

«Non chiamarmi così. Non sono più il capitano di nessuno.»

Mikasa non disse niente, in attesa della risposta.

«Perché no… sei giovane. E sei il soldato più forte dell’umanità» Levi si strinse nelle spalle, prendendo un altro sorso «Potresti fare carriera. Avere dei mocciosi che lavorano per te» Sorrise, senza guardarla. Poi il sorriso si spense come un lampo, con un sospiro. «Oppure puoi tornartene dall’altro lato dell’oceano, ci sarà pure un posto meno merdoso di questo sputo di isola, no?»

Mikasa puntò il suo sguardo dritto nel suo unico occhio.

«Levi… lo sai qual è la cosa più incredibile del resto del mondo? Che fuori da Marley i giganti non esistono. Non sono mai esistiti. Sono favole. Nessuna di quelle persone potrà mai capire.»

Rimasero di nuovo in silenzio. Il cuore di Levi prese a battere così forte che temette lei potesse sentirlo. L’orrore che era stata la sua intera vita nel resto del mondo non era altro che una storia per spaventare i bambini. Il capitano avvicinò il naso al bicchiere, per scacciare dalle narici quel fetore orribile di interiora di umano e corpi di giganti in decomposizione che era sicuro non lo avrebbe lasciato mai.

«Buon per loro» mormorò sprezzante, prima di bere di nuovo.

Poi si alzò di scatto. «Vado a sgranchirmi fuori. Non aspettarmi sveglia.» Indicò con la testa la porta della stanza prima di continuare «Se hai freddo, c’è un’altra coperta nell’armadio.»

Mikasa annuì con un sorriso lieve, mentre si alzava dalla sedia.

«Oi, ragazzina, non curiosare in giro, intesi?»

La ragazza annuì abbassando lo sguardo. Sperò che lui non si accorgesse della sua espressione colpevole, visto che curiosare era stata esattamente la prima cosa che aveva fatto quando era arrivata nella sua casa, qualche giorno prima.

Senza più aprire bocca, andò nella camera da letto e si preparò per la notte, indossando una camicia leggera. L’idea di dormire nel letto di Levi la faceva sentire stranamente inquieta. Avevano dormito uno accanto all’altra molte volte negli anni, ma questo era diverso. Questo era il suo spazio personale e lei sentiva di aver avuto accesso a qualcosa di molto privato e prezioso. Il cuscino e le lenzuola profumavano di quell’odore di pulito che era così tipicamente suo.

Perché sei qui? Si chiese per la millesima volta, prima di chiudere gli occhi. Nelle orecchie solo il vento che frusciava tra le fronde ed il verso in lontananza di un gufo.
 
***
Fumo. Denso, polveroso, che si infila dritto in gola, fino ai polmoni. Il caldo degli incendi scoppiati dappertutto. Una città interamente in fiamme. Rovine di palazzi crollati, grida, pianti in lontananza. La luce delle fiamme che sale fino al cielo, confondendosi con le stelle e la luna.
Le mani strette sui grilletti, il mantello nero che svolazza con forza attorno al suo viso, colpendole le spalle.


Accanto a lei, delle persone. Mikasa si volta. Jean, Hanji, Connie alla sua sinistra. Il capitano alla sua destra, che le mostra il lato del viso senza ferite.

Mikasa si accorge di star tremando. Si passa una mano sugli occhi, con rabbia, per cercare di vedere meglio. Sente la mano di Jean sulla sua spalla, ma si divincola, avvicinandosi a Levi.

Sono fermi su cumuli di macerie, il delirio intorno a loro continua. Mikasa segue lo sguardo di Levi e scorge una donna che piange disperata, abbracciando il corpo inerte del suo bambino, ricoperto di sangue e polvere.

I giganti delle mura sono tutti intorno a loro, innumerevoli, enormi. Senza fretta e senza espressione, si avvicinano al Gigante Colossale, Armin, che sta fermo, al centro di uno spiazzo, le spalle rivolte ai suoi compagni ed il volto verso Eren, il Gigante d’Attacco.

Apre le braccia, alza le mani. Un gesto di pace. Poi il gigante abbassa la testa ed Armin sbuca dalla sua nuca. È minuscolo rispetto alla grandezza del suo gigante, un piccolo puntino irrisorio, che non lancia neanche uno sguardo ai giganti delle mura che si avvicinano mestamente, ma inesorabilmente.

Mikasa respira. Non si è accorta che stava trattenendo il fiato. Sa che Armin sta comunicando con Eren, in quella strana dimensione irreale, ma non può sapere cosa gli stia dicendo.

Levi accanto a lei si sporge in avanti e stringe i pugni. Mikasa percepisce il guizzo dei muscoli sotto l’uniforme nera, sa che lui è pronto a scattare. Hange, Connie, Jean le si fanno più vicini.

La tensione è palpabile.

Ti prego, ti prego, ti prego, ti prego… è tutto quello che il cervello di Mikasa riesce a pensare.

Armin continua, ma Mikasa guarda solo Eren. Il suo gigante è voltato di tre quarti verso Armin, non si è neanche girato completamente per fronteggiarlo.
Mikasa tiene fisso lo sguardo su di lui.
Sente che gli occhi le pizzicano per la polvere, le nocche sono sempre più bianche per la tensione che le fa stringere i grilletti a più non posso.


D’improvviso, sente qualcosa di caldo sulla sua mano destra ed abbassa lo sguardo di scatto. La mano di Levi si è poggiata sulla sua, il tocco leggero, quasi impercettibile. Non la guarda, i suoi occhi sono sulla scena che avviene in lontananza, ma Mikasa sente un’ondata di emozione che sembra quasi travolgerla.
Ha la nausea. Lascia la presa sul grilletto e ruota il polso, prendendo la mano di Levi con la propria. Entrambi stringono la presa.


Mikasa si accorge solo in quel momento del suo cuore che batte all’impazzata. Stringe la mascella perché d’improvviso è consapevole che se non lo facesse, anche i suoi denti prenderebbero a battere. La mano di Levi, stretta alla sua, è l’unica àncora che la tiene ancora in piedi, senza sente che crollerebbe in mille pezzi per la tensione.

Riporta gli occhi sui giganti in lontananza. I giganti delle mura sono sempre più numerosi intorno ad Armin, che ha smesso di parlare. Il gigante di Eren lo fissa, tutto il mondo sembra fermarsi in un istante.

Mikasa smette di sentire il rumore delle fiamme, il calore, la polvere. L’unica cosa che percepisce è il tamburo che ha al posto del cuore ed il suo respiro erratico.

E la preghiera, che continua a ripetere nella sua testa Ti prego, ti prego, ti prego, ti prego…

Poi, Eren abbassa lo sguardo. Resta come in meditazione per un attimo, poi fa un gesto col capo.

E il suo mondo cade in mille pezzi.

«No…» mormora qualcuno, incredulo. Mikasa non sa se sia stato Levi, Jean, Connie o persino lei stessa a parlare.

Nel giro di un secondo, i giganti delle mura sono sopra Armin, lo assalgono da ogni direzione, strappando brandelli del suo corpo, incuranti del vapore che lui emana, cercando di scacciarli.

Mikasa sente qualcuno che grida, è un grido quasi animale, di agonia. Poi si accorge di essere lei a gridare.

Eren si allontana, senza neanche guardarsi alle spalle.

Le persone intorno a lei si muovono, sente Hange ordinare qualcosa, ma le parole non hanno senso per lei. Con la coda dell’occhio, vede dei giganti delle mura che si avvicinano, ma anche questa informazione le sembra irrilevante.

Scatta in avanti. Armin, Armin, Armin.

Qualcuno la afferra per bloccarla. Jean. Mikasa si divincola con tutta la sua forza e si libera, gridando ancora. Sente la potenza degli Ackermann scorrerle nelle vene. Deve arrivare ad Armin. Deve salvarlo.

Sente Hange richiamarla, ma non importa. Non importa niente in questo momento. La vista le si annebbia. Un flash di Armin ed Eren da bambini, le spalle affiancate, entrambi chini sulle pagine del libro del nonno Arlet.

Qualcuno la ferma di nuovo e questa volta la presa è stabile.

«Dobbiamo andare». È Levi, le parla all’orecchio. Mikasa lotta con tutte le sue forze, digrigna i denti, grida. Il capitano non molla la presa, la solleva. Mikasa sente che lui la tira indietro, verso gli altri, lontano dai giganti.

«Lasciami andare!» grida, cercando di liberare le braccia bloccate sui fianchi dalla presa d’acciaio delle braccia di Levi, che la immobilizza da dietro. Prova a scalciare, a dimenarsi.

«Lasciami andare!»


«Dobbiamo andare» ripete lui, a voce più alta per sovrastare le sue urla, il tono secco, imperioso.

«Lasciami!» continua lei «Armin! Armiiiin!»

«Non c’è più niente da fare» continua lui «Dobbiamo andare…Sono troppi…Dobbiamo andare» e questa volta la sua voce sembra incrinarsi per un istante, la sua presa si fa ancora più stretta.

Che cos’è che percepisce il quel suo cambio nel tono di voce? Che cos’è quella stretta nel petto che sente crescere come un macigno? Tristezza. Levi la stringe. «Non c’è più niente da fare» ripete, questa volta quasi dolcemente.

D’improvviso, la verità la colpisce come uno schiaffo sul viso. Gli occhi le si riempiono di lacrime impiastricciate a polvere. La vista si annebbia. Infiniti corpi di giganti si affannano l’uno sull’altro. Armin non si vede più. Brandelli di carne volano in aria verso le stelle. È una carneficina.

«No…» mormora Mikasa «NOOOOO» grida un attimo dopo. In un istante, la forza la abbandona. Il suo corpo le sembra pesantissimo, le braccia di Levi che la stringono sono l’unica cosa che le impedisce di piombare a terra.

Si sente singhiozzare, quasi come se quei suoni non provenissero davvero da lei, quasi come se guardasse la scena dall’esterno.

«Dobbiamo andare via» mormora di nuovo Levi al suo orecchio, mentre la trascina all’indietro.

«Armin…» continua a ripetere lei tra le lacrime.

«Armin non c’è più» dice la voce di Levi, ma questo non può essere vero, questo è assolutamente impensabile. È impensabile che Eren abbia ordinato ai giganti di uccidere Armin, è assolutamente impossibile. È impossibile perché Eren ed Armin sono cresciuti insieme, perché si amano come fratelli, perché cinque anni fa Eren ha fatto di tutto perché Levi lo salvasse col siero, lo ha colpito, non si è arreso neanche quando lei, Mikasa, si era lasciata convincere da Hange dell’impossibilità di scegliere Armin al posto di Erwin Smith. Tutto questo è semplicemente surreale, non è vero, non può essere vero. Eren non è così, Eren è buono, vuole salvarli.

«Mikasa…» e sentirlo pronunciare il suo nome così, con la voce rotta, come se anche lui stesse soffrendo…ma soffrendo per cosa? Tutto questo non è vero, non può essere vero, adesso entrambi torneranno da lei, come se niente fosse, gomito a gomito come per tutta la loro vita.

«…l’Eren che conosciamo noi non esiste più» mormora la voce di Levi, mentre la trascina via, al riparo. Mikasa ha smesso di lottare, ha smesso di divincolarsi, sente solo il suo corpo squassato dai singhiozzi e dalle lacrime.

«Non è vero, non è vero…non è vero…» sente dire alla sua voce, quasi un lamento, una cantilena, che cresce d’intensità nel pianto.

«Mikasa…» la voce di Levi continua a ripetere «Mikasa… Mikasa…»



 
«Mikasa!»
Mikasa aprì gli occhi di scatto. Intorno a lei era sparita la città in fiamme, il fumo e la polvere. Si trovava in una stanza buia, in un letto che profumava di pulito, la Luna sopra gli alberi fuori da una finestra chiusa. E Levi, le mani sulle sue spalle, seduto sul letto davanti a lei.

Lo guardo di lui era fisso sul suo viso, la fronte corrucciata, la stretta delle sue mani ferrea sulle sue braccia. La ragazza si guardò intorno disorientata, tornando con la mente al presente. Era solo un sogno… Si passò la mano destra sugli occhi, asciugandosi le lacrime.

«Stavi urlando…» mormorò Levi, il tono di voce piatto, ma le mani sempre sulle sue spalle.

«Io… sto bene» rispose Mikasa, spostando lo sguardo sulle proprie mani, in grembo. «Era solo un sogno… sto bene» continuò, stavolta con voce più ferma, prima di tirare su col naso.

La presa del capitano sparì in un istante. L’espressione preoccupata sul suo viso sostituita con una leggermente tesa. Se non lo avesse conosciuto bene, a Mikasa sarebbe sembrato quasi in imbarazzo.

«Scusa, per averti svegliato…»

«Non stavo dormendo.»

Uno strano silenzio scese tra di loro. Mikasa sentiva il battito del suo cuore che tornava ad un ritmo normale.

«Mi dispiace, era solo un incubo…» ripeté lei, sentendo di doverlo rassicurare.

«Sì, lo hai già detto…» borbottò lui. Poi le lanciò uno sguardo deciso, eloquente. Uno sguardo di qualcuno che sapeva la verità.

«Mi succede, a volte…di fare incubi così…» proseguì la ragazza, quasi tra sé e sé, guardando le dita della mano sinistra di Levi, che continuavano ad allargarsi e flettersi sulla gamba dei suoi pantaloni.

Il capitano non rispose.

Fu solo in quell’istante che la ragazza si accorse dello sguardo di lui, fermo di sottecchi sulla sua spalla, che era sfuggita alla bretella della camicia da notte era esposta e pallida, alla luce della luna.

Si sentì avvampare. Sentì la mano che scattava a sistemare la camicia da notte, mentre Levi, come risvegliato dai propri pensieri, le lanciava uno sguardo allo stesso tempo spaesato e – questa volta sì – imbarazzato, spalancando l’occhio sinistro.

Il capitano scattò in piedi in un lampo, allontanandosi con un solo movimento dal letto e prendendo a fissare un punto indefinito sul pavimento.

«Bene, allora…torno di là» borbottò, avvicinandosi alla porta. Prese fiato prima di parlare di nuovo: «Se vuoi, posso mettere dell’acqua a bollire. Per una camomilla.»

Mikasa sorrise tra sé, la fronte ancora corrugata nel tentativo di capire cosa stesse succedendo davvero.

«No, grazie. Non volevo disturbarti»

Levi rimase però fermo sulla soglia, appoggiato allo stipite. Lei lo sentì sospirare. Era indeciso.

«Stavi chiamando Armin…» mormorò, voltandosi in parte verso di lei. Nei suoi occhi era tornato lo sguardo serio di sempre, ogni traccia di titubanza era sparita. Questo era lo sguardo del capitano che si occupava di un membro della sua squadra in difficoltà, senza curarsi di provocargli imbarazzo. «Sei sicura di stare bene?»

«Levi…tu li sogni mai? I tuoi vecchi compagni»
Il suo sguardo rimase impassibile, fisso negli occhi di lei, ma non rispose.
«…E quando ti svegli, stai mai bene?»

Levi si voltò di nuovo verso la porta aperta, ed annuì impercettibilmente.
«Cerca di riposare…» disse, prima di chiudersi la porta alle spalle.

Mikasa rimase di nuovo sola nella stanza. Distrattamente, la mano destra andò ad accarezzare quella spalla che lui stava guardando. Si distese di nuovo, sprofondando nel cuscino con un sospiro. Si erano scambiati mille sguardi: nervosi, complici, arrabbiati, indifferenti, anche empatici. Ma mai, mai prima di allora lui l’aveva guardata così. Da pari a pari. Da uomo a donna.

Mikasa rabbrividì impercettibilmente, d’improvviso spaventata di trovarsi lì. Sentì le sue guance scaldarsi e tirò più in alto la coperta, fin sotto al naso. La guerra era finita da un pezzo, la vita era andata avanti, in qualche modo. Lei era cresciuta, aveva conosciuto nuove persone, vissuto nuove esperienze. Aveva riso di nuovo, qualche volta. Eppure più si era allontanata, più distanza aveva messo tra lei ed il capitano, più si era cementificata in lei la certezza che solo lui era in grado di capirla.
Solo lui aveva condiviso ciò che era successo e l’aveva vissuto come lei. Le sembrava che lui fosse la sola persona sulla faccia della terra che poteva davvero comprenderla. E questo la terrorizzava e tranquillizzava allo stesso tempo. Lui era la roccia stabile, l’unica certezza rimasta nella sua vita. Era l’incorruttibile Capitano che l’aveva affiancata negli anni più fulgidi della sua vita, nonché l’unico altro essere vivente del suo clan.

Stasera però sentiva che qualcosa era cambiato impercettibilmente e la cosa la rendeva nervosa.

«Non essere sciocca…» bisbigliò al soffitto. Non è successo assolutamente niente. Smettila di immaginare cose che non esistono…

Irrequieta, si sistemò su un fianco e prese a pugni il cuscino, per dargli una forma più confortevole, convinta di non potersi più addormentare per quella notte.

Pochi minuti dopo, dormiva di nuovo, il viso rasserenato e la pelle di porcellana esposta alla luce della luna.


 

Per coloro che leggono il manga, come vedete la mia storia si discosta dal canon...ma l'ho scritta intorno al capitolo 129/130, scrivendola adesso sarebbe molto diversa! Ho deciso di lasciarla così come l'avevo immaginata inizialmente! Spero si capisca il passaggio tra i sogni, scritti in corsivo e al presente, e la storia! :)

 

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Capitolo 3
*** III ***


III


La mattina seguente, venne risvegliata da un rumore ritmico. Thud…thud… Qualcosa di pesante che sbatteva su qualcosa di duro.

Mentre i suoi sensi si riaffinavano, sentì che a quei suoni seguivano dei versi di fatica. Ne riconobbe la voce. Si alzò stiracchiandosi e rabbrividendo nella pungente aria mattutina autunnale. Agguantò la propria giacca di pelle e se la mise sulle spalle prima di affacciarsi alla finestra.

Levi le dava le spalle mentre tagliava ciocchi di legna con una vecchia accetta. Era a torso nudo e sulla pelle della sua schiena, la ragazza scorse qualche gocciolina di sudore scorrere sui muscoli e sulle cicatrici. Ecco le scapole che si flettevano all’indietro mentre le braccia si alzavano con l’accetta. Le vertebre sotto al collo che comparivano sotto la pelle mentre l’accetta cadeva sul ciocco. Il verso di sforzo che seguiva.

Lo sguardo di Mikasa scese più in basso, verso una grande cicatrice che partiva all’altezza della vita ed arrivava fino all’attaccatura dei pantaloni, a destra della colonna vertebrale. Era lunga una ventina di centimetri e sporgeva quasi violacea a contrasto con la carnagione pallida del capitano. Era larga ed aveva i bordi piuttosto frastagliati, non un bel vedere.

La ragazza strinse le labbra, mentre lui si sollevava, passandosi l’avambraccio destro sulla fronte, per asciugare il sudore. Senza preavviso, voltò la testa piantando lo sguardo dritto in quello di Mikasa, che spalancò gli occhi e si sentì arrossire. Non portava la benda sull’occhio e la ragazza, nonostante l’imbarazzo, ne osservò il volto libero da ripari. La cicatrice gli passava esattamente a metà della palpebra destra, che non riusciva a sollevarsi completamente a causa della ricucitura coi punti che l’aveva richiuso. L’iride e la pupilla erano quasi grigi, incolori.

Mikasa si voltò di scatto e si allontanò dalla finestra. Grandioso. Non bastava la situazione di ieri notte, adesso si faceva pure beccare a fissarlo mentre non indossava la camicia. Si affrettò a rivestirsi prima di recarsi in cucina, dove Levi ovviamente l’aveva già preceduta, una camicia a quadri stropicciata addosso.

«Se vuoi guardarmi senza camicia basta chiedere, ragazzina. Non c’è bisogno di spiarmi»

Era ovvio. Mikasa sapeva benissimo che non gliel’avrebbe fatta passare liscia, eppure non riuscì ad evitare di abbassare lo sguardo verso il pavimento, volendo sprofondare dalla vergogna non appena sentì il calore salirle alle guance.

«Volevo solo capire cosa fosse quel rumore…» borbottò a voce bassa, pentendosi immediatamente di non aver risposto con sarcasmo non appena lo sentì sogghignare.  

«Forza, mangia qualcosa, si sta facendo tardi…» continuò lui, col suo solito tono autoritario mentre si stiracchiava. Mikasa piegò la testa di lato, sul volto un’espressione interrogativa. Levi sbuffò.

«Non crederai certo di poter stare qui scroccando un letto e del cibo senza fare nulla» Incrociò le braccia «Per chi mi hai preso, per tua madre?»

La ragazza sorrise tra sé, prima di avvicinarsi alla cucina, dove due fette di pane imburrato la aspettavano su un vecchio piatto sbeccato. Due tazze di tè fumanti erano già a tavola. Mikasa si sedette e cominciò a mangiare di gusto, accorgendosi solo in quel momento di quanta fame avesse.

«Cosa prevede il piano di oggi, capitano?» domandò col boccone ancora in bocca.
Levi le scoccò uno sguardo di puro disgusto. «Che schifo… ma sei cresciuta in un porcile? Tch!»
Mikasa scoppiò a ridere, lasciandolo interdetto. Forse era la prima volta che rideva davanti a lui così apertamente. «Certe cose non cambiano mai, eh capitano?»

Lui era rimasto immobile a guardarla ridere, con la tazza a mezz’aria. Aveva un’espressione indecifrabile, probabilmente stupita, che lo ringiovaniva. Mikasa sorrise di nuovo, mentre dava un altro morso alla fetta di pane.

Levi si riscosse: «Già, la tua testa dura è una di quelle. Ti ho già detto di non chiamarmi così.»

Un lieve senso di disagio strinse la gola della ragazza. Lui aveva lo sguardo sul fondo della sua tazza. In un istante, fu come se si fosse accorto di aver fatto trasparire qualcosa che voleva nascondere e così aggiunse: «Ma anche se non sono più nell’esercito, questa è casa mia, quindi farai comunque come ti dico.»

«Agli ordini!» esclamò Mikasa scattando in piedi, sul volto una espressione irriverente. Forse era colpa del sole che entrava allegro dalle finestre, del cinguettio degli uccelli sugli alberi o del cielo azzurro come l’oceano, o forse era la presenza di Levi, ma Mikasa si sentiva incredibilmente di buon umore quella mattina.

«Smettila di giocare come una bambina, vatti a mettere qualcosa addosso. Ti aspetto fuori»


Levi condusse Mikasa nel bosco, portando con sé due seghe ed una carriola. Non dovettero camminare molto prima che il sentiero curvasse bruscamente verso destra e davanti a loro si aprisse una sorta di spiazzo tra gli alberi, dove erano accatastati per terra una serie di tronchi, ancora pieni di rami. Dopo aver lanciato uno sguardo alla legna, Mikasa si voltò in direzione del sentiero che proseguiva in parte nascosto dal sottobosco rigoglioso. «Dove si va da quella parte?» domandò, parlando per la prima volta da quando erano usciti di casa.

«Verso la sorgente di cui ti ho parlato ieri» rispose lui, porgendole una delle due seghe. Poi proseguì spiegandole a grandi linee la dimensione nella quale avrebbe dovuto tagliare i tronchi.

Lavorarono in silenzio per tutta la mattina. Attorno a loro la foresta era piena di vita. Mikasa si accorgeva continuamente di distrarsi per via di qualche insetto o animale o per il semplice gioco di luci del sole tra le fronde, ma cercò di non darlo a vedere. Quando uno dei due terminava di segare un tronco, caricava i ciocchi sulla carriola e li portava vicino alla casa, pronti per essere accettati in seguito.

«Come mai stai già accumulando tutta questa legna?» domandò Mikasa mentre sedevano sul portico verso mezzogiorno a mangiare pane con formaggio e carne secca.

Continuando a masticare in silenzio, Levi fece un cenno con la mano destra, alludendo ai campi sterminati davanti a lui. «Tra pochi giorni qui sarà tutto ricoperto di neve» disse poi.

La ragazza quasi sputò l’acqua che stava bevendo in quel momento. «Cosa? Ma siamo ancora in autunno! Non fa ancora così freddo!»

«Tra pochi giorni lo farà»

Mikasa gli lanciò uno sguardo di sbieco. «E come faresti a saperlo, tu che sei…» ma si bloccò, prima di proseguire la frase. «Come faresti a saperlo?» ripeté dopo essersi schiarita la gola.

«Come faccio a saperlo io che sono cresciuto nella Città Sotterranea, intendevi?» Levi ricambiò il suo sguardo con un ghigno sghembo che gli sollevava un angolo della bocca.

Mikasa non disse niente.

«Ti ricordo che ho vissuto in superficie più o meno quanto ci hai vissuto tu, ragazzina.» Ma poi il ghigno si allargò ancora «Ma se sei così sicura puoi scommetterci su».

«E chi ti dice che resterò ancora qualche giorno per verificare?»

Levi si strinse nelle spalle. «Un presentimento» mormorò con aria beffarda.

Sul viso di Mikasa apparve una copia della sua stessa espressione. «Non ti facevo uomo da gioco d’azzardo…soprattutto uomo da scommesse azzardate»

«Ci sono molte cose che non sai di me, Mikasa…» mormorò lui e lei sentì uno strano formicolio risalirle sulla pelle delle braccia e sulla nuca. «…E tutta la mia vita è stata una scommessa azzardata»

Rimasero in silenzio per qualche istante. Poi Mikasa parlò di nuovo:
«E cosa vorresti scommettere, sentiamo…»

«Oi, modera il tuo tono. Io non voglio scommettere proprio nulla, sei tu che non ti fidi delle mie previsioni»

«E va bene. Se ho ragione io, dovrai rispondere a una mia domanda»

Levi alzò un sopracciglio «E se avessi ragione io?»

«Risponderò a una tua domanda» rispose lei, alzando involontariamente le sopracciglia.

«Non voglio farti nessuna domanda. Quello che so già mi basta e avanza»

Mikasa sospirò con aria estenuata «D’accordo. Se avrai ragione tu, farò il bucato con l’acqua gelida del pozzo innevato»
Levi corrugò la fronte «Con l’acqua fredda il bucato non viene bene» ma proseguì sollevando le mani a mo di resa non appena la ragazza aprì la bocca per rispondere «D’accordo, scommessa accettata». Poi le porse un’altra fetta di pane.


 
Dopo pranzo, Levi sparì per circa un’ora, per andare alla famosa fonte a lavarsi. Mentre aspettava che tornasse, Mikasa strigliò entrambi i cavalli e diede loro un po’ di biada. Erano due bellissime creature, di quella particolare razza che aveva sempre accompagnato il Corpo di Ricerca nelle sue spedizioni. Certo, la vita che conducevano adesso era decisamente diversa da quella di prima, la fatica di correre ininterrottamente per ore e soprattutto il pericolo di essere schiacciati dai giganti era sparito. Il cavallo di Levi nello specifico era particolarmente coccolone. «Non somigli proprio al tuo padrone, eh piccolo?» mormorò la ragazza con dolcezza, mentre gli accarezzava la criniera scura.  

Levi ricomparve poco dopo, ma entrò in casa senza quasi degnarla di uno sguardo. Ne riuscì un’istante dopo, stringendo tra le mani un asciugamano di lino grezzo accuratamente piegato. Glielo porse accennando con la testa al sentiero che entrava nel bosco. «Vai a lavarti» ordinò con tono imperioso.

Mikasa aggrottò le sopracciglia, ma nondimeno prese l’asciugamano. «Non soddisfo i tuoi standard di pulizia?»

«Precisamente»

«E se non ne avessi voglia? Posso lavarmi con l’acqua del pozzo» In effetti in tutta franchezza, alla ragazza non andava di allontanarsi proprio adesso dalla casa: il vento aveva ripreso a soffiare e la temperatura si era abbassata considerevolmente. Il pensiero di doversi immergere in un ruscello gelido non era il massimo.

Levi la osservò in silenzio dalle scalette che conducevano al portico, con un’espressione quasi misteriosa.

«Scommetto che ti piacerà…» disse poi, passandosi la mano sinistra tra i capelli umidi, i muscoli dell’avambraccio evidenti sotto la pelle chiara.

«Oggi sei proprio in vena di scommesse…» borbottò Mikasa, abbassando lo sguardo sul pezzo di stoffa tra le sue mani.

«Questa sarà la prima che vincerò contro di te» Detto questo, entrò in casa.
La ragazza guardò la porta richiudersi e fece un sospiro profondo.
Rassegnata, si avviò sul sentiero.
 

«Ma perché devo lavarmi! Tanto mi risporcherò tra cinque minuti, mamma!”
«Smettila di fare tutte queste storie, Eren! Se vuoi andare di nuovo a giocare con Armin vedi di fare come ti dico. Se tuo padre tornando a casa ti troverà in questo stato, vedrai cosa succederà!»
«Dai, Eren, andiamo…»
«Lo vedi? Perché non cerchi di somigliare un po’ di più a Mikasa?»
«Ma lei è una femmina
 

Mikasa sorrise tra sé, stringendo più forte l’asciugamano. Se solo sapessi com’era diventato bravo a pulire la casa, grazie al Capitano, ne saresti incredula, Carla…

Mentre era ancora persa nei suoi ricordi, la ragazza superò la radura dove avevano tagliato i tronchi curvando a destra sul sentiero. Pochi metri dopo, davanti ai suoi occhi si aprì uno spettacolo che la fece restare a bocca aperta. «Che bastardo…» sogghignò, riferendosi a Levi.

Era arrivata alle pendici di una collina erta e rocciosa, sulla quale gli alberi e il sottobosco si arrampicavano tenacemente. In basso, una sorgente aveva scavato una sorta di vasca naturale grande a sufficienza per accogliere diverse persone. Ma la cosa che più colpì la ragazza, erano le spirali di vapore caldo che si alzavano dall’acqua: era una sorgente termale.

Intorno alla vasca, una miriade di fiori bianchi e soffioni rendeva il paesaggio quasi onirico. L’unico segno di presenza umana era una piccola panchetta di legno vicino alla parete rocciosa ed una cesta poggiata sopra di essa.

«Hai pensato proprio a tutto, eh Levi?» mormorò tra sé, prima di lasciare l’asciugamano sulla panca. Si spogliò con un brivido, ormai il vento era decisamente gelido. Lanciò uno sguardo alle sue spalle, come per assicurarsi di essere davvero sola. Poggiò gli abiti nella cesta e, senza altro indugio, si infilò nella vasca.

Un brivido di piacere le percorse il corpo non appena il calore dell’acqua la avvolse. Accidenti, se era bello… Ok Capitano, questa scommessa te la concedo…

Mikasa non ricordava neanche quand’era stata l’ultima volta che si era sentita così rilassata: poteva quasi sentire i suoi muscoli sciogliersi nel caldo abbraccio della sorgente. Un bagno caldo era qualcosa di raro nel loro mondo: a casa Jaeger doveva sempre sbrigarsi per far sì che l’acqua non fosse troppo fredda per Eren e successivamente nell’esercito, già era tanto riuscire a lavarsi decentemente, figuriamoci se c’era il tempo per rilassarsi così.

La ragazza espirò lentamente e chiuse gli occhi, percependo il battito del suo cuore che rallentava. Si chiese come dovesse apparire quel posto con la neve. Più passava il tempo, più Mikasa cominciava a capire perché Levi avesse scelto proprio quell’angolo di mondo per sistemarsi. Poteva giurarci, la fonte termale doveva aver fatto gran parte del lavoro di convincimento.

Sorrise, mentre pensava a lui nell’acqua calda. Quel posto gli si confaceva. L’istante dopo arrossì, rendendosi conto che aveva appena pensato al capitano che si faceva il bagno. Senza vestiti. Per fortuna non c’era nessun testimone che potesse vedere le sue guance rosse.

La sensazione dell’acqua calda era così perfetta che Mikasa non aveva alcuna intenzione di uscire ed asciugarsi. Rimase immersa molto a lungo, finché cominciò a notare che il sole era ormai scomparso dietro gli alberi della collina. A quel punto, a malincuore, uscì dalla vasca e si asciugò in tutta fretta. L’asciugamano di Levi aveva quel suo inconfondibile profumo di stoffa pulita e la fece sorridere sovrappensiero.
Si passò una mano sulle labbra, quasi per confermare a se stessa di star davvero sorridendo.

In un attimo, il sorriso le morì sulle labbra.
Le succedeva spesso.

Non appena si scopriva contenta o semplicemente serena, il senso di colpa montava senza che lei potesse impedirlo. Jean, Sasha, Armin, persino Eren avrebbero adorato quel posto. Era così ingiusto che non avessero vissuto abbastanza a lungo per scoprirlo insieme a lei, per godersi la pace.

Il pensare ad Eren la rese ancora più cupa. Aveva fallito con lui, era sua responsabilità più di tutti. Quand’era cambiato tutto quanto? Quale era stato il momento in cui avevano superato la linea di non ritorno? Perché lei non se n’era accorta mentre stava succedendo? Non avrebbe dovuto cogliere i segnali prima di chiunque altro? Com’era possibile che Eren avesse deliberatamente messo a morte Armin?

«Voi Ackerman non siete altro che schiavi. La verità è che io ti ho sempre odiato»

Sentì che i suoi occhi si riempivano di lacrime ed il suo sguardo si faceva sfocato. Dentro di sé, nel profondo del suo cuore, Mikasa sapeva che le parole di Eren non potevano essere vere. Sapeva che lui le aveva voluto bene, davvero, teneramente. Se non come un amante, certamente come un fratello. Ne era certa, la sua ragione ne era certa. Eppure il dubbio che fosse vero, che lei non fosse stata altro che un peso, a volte la attanagliava così strettamente che sentiva di non poter nemmeno respirare. Non era forse altrettanto certa che lui amasse Armin?

E poi c’era la questione della sua discendenza. Se avesse dovuto nominare la persona che meno di tutte le sembrasse schiavo di qualcuno, avrebbe pensato al Capitano.

Possibile che fosse stato davvero il suo sangue a farle amare Eren? Ed anche se così fosse, avrebbe fatto qualche differenza? Quello che aveva provato per lui era la cosa più reale della sua vita, era la sua vita. Chi aveva il diritto di giudicare i suoi sentimenti e stabilire se fossero leciti? Nemmeno Eren aveva questo potere.

La ragazza si riscosse di nuovo dai propri pensieri. Si passò una mano sul viso per cancellare ogni traccia di lacrima. Era per scoprire qualcosa di più sugli Ackerman che era andata da Levi? Mikasa scosse il capo, lui non conosceva nemmeno il suo cognome fino a pochi anni prima, come poteva saperne più di lei?

Perché sei qui? si chiese di nuovo. Ormai quella domanda sembrava quasi una litania da ripetersi in continuazione. Non riusciva a trovare la risposta. Probabilmente sperava che fosse lui a scoprirla al suo posto. Il pensiero le fece comparire un ghigno amaro sul volto. Che codarda…

Senza neanche accorgersene, aveva ripercorso tutta la strada fino a casa, mentre il crepuscolo cominciava ad imbrunire. Le giornate si erano decisamente accorciate.

Le finestre del cottage illuminavano la radura e un filo di fumo saliva dai comignoli del camino e della stufa. Mikasa scorse la figura di Levi seduta davanti al tavolo. Sembrava stesse leggendo qualcosa. Salì le scale del portico e si sentì improvvisamente più tranquilla. Fece un ultimo respiro profondo, assaporando il profumo dell'erba umida e del bosco, poi aprì la porta.

Levi era seduto al tavolo, dandole le spalle. Davanti a lui erano sparsi fogli volanti fittamente scritti e alcuni grossi volumi stampati nei quali erano inseriti diversi segnalibri. L'uomo teneva una penna nella mano sinistra, un piccolo calamaio era appoggiato davanti a sé ed una grossa scatola di latta, di quelle che contenevano materiale per le spedizioni militari, era aperta per terra accanto alla sua sedia. Mikasa scorse al suo interno altri fogli. 

«Com'era la fonte?»

Non si voltò per parlarle. Al contrario si chinò di più verso il tavolo, concentrato su qualcosa che stava leggendo.

Per un attimo, Mikasa cercò una risposta pungente da rifilargli, ma poi il ricordo dell'acqua calda e soprattutto la curiosità verso la scena che si svolgeva davanti ai suoi occhi, ebbero la meglio. Le sembrava quasi di ritrovarsi di nuovo nell'ufficio del Capitano, al quartier generale, mentre lui era sommerso da pratiche e scartoffie.
 
«Incredibile» ammise quindi, con un sospiro. «Cosa stai facendo?» chiese quindi, quasi timidamente, mentre si sporgeva sopra di lui per guardare meglio. 
 


In un istante riconobbe i timbri su quei registri, le schede dettagliate e persino alcuni nomi. Erano i registri del Corpo di Ricerca, quello delle reclute e quello delle morti. Gli altri fogli erano relazioni di missioni, lettere personali, appunti di archivio, tutto contrassegnato dal timbro delle due ali incrociate. Levi aveva un grosso quaderno davanti a sé, le due pagine esposte erano bianche, a parte per un nome in alto a sinistra seguito da due date, separate da circa vent'anni. 

Un'ondata inaspettata di panico e sorpresa le percorse il corpo come una scarica elettrica. «Che diavolo è tutta questa roba?» sbottò, allontanandosi di un passo, verso la porta. 

 
Levi si voltò verso di lei, la preoccupazione riflessa nell'unico occhio che poteva guardarla. 

«Stai bene?» le chiese, con un tono quasi esitante che non gli apparteneva, o che comunque lei non riconosceva. 

Mikasa si ricompose. Certo che stava bene, aveva visto ben di peggio di un qualche registro delle perdite. Ignorò la sua domanda, limitandosi a fissarlo. Levi si voltò di nuovo verso il tavolo, ma senza darle completamente le spalle come prima. Appoggiò il braccio sinistro sullo schienale della sedia, la penna ancora tra le dita affusolate. 

«A dire la verità, speravo mi aiutassi...» mormorò, lo sguardo basso verso la scatola di metallo aperta ai suoi piedi. Siccome lei non accennò né a muoversi né ad aprire bocca, riprese:
«Sei stata al Memoriale, a Mitras?» 
 
Un groppo le si strinse nella gola. Si stavano avvicinando pericolosamente ad un argomento che lei non aveva alcuna intenzione, né capacità, di affrontare. Annuì.
 
Levi si stava riferendo ad una idea che Historia aveva fatto realizzare nella capitale: nel parco cittadino era stato costruito un lungo muro di mattoni rossi, sui quali erano stati scritti i nomi di tutti i soldati morti nella guerra contro i giganti e nella guerra contro Marley. Era circondato da aiuole fiorite, alberi imponenti, un luogo che doveva trasmettere pace. Era stata una bella idea, un modo per portare rispetto a chi aveva sacrificato tutto per il bene superiore. 
 
Il capitano si strinse nelle spalle. «Sono solo nomi, però...» proseguì «...nomi che per la maggioranza delle persone non significano niente. Forse qualcuno potrà ricordarsi di Erwin, o di Keith Shadis o di Pixis... ma tutti gli altri? Nessuno ricorderà più niente di tutti loro...eppure tutti avevano famiglie, una storia. Sai quello che intendo, non erano solo un nome su un muro.»
Mikasa lo osservava gesticolare mentre si spiegava. Uno strano brillio gli accendeva l'occhio, un vago colorito rosato gli era salito alle guance. La ragazza raramente lo aveva visto così accalorato, anzi, ora che ci pensava, forse era la prima volta che lo vedeva così. 
 
Mikasa ripensò al Memoriale. A come il nome di Eren non vi comparisse. A come questa decisione di Historia le avesse allontanate completamente. Ormai non si parlavano neanche più - lavoro escluso -, ma questo non lo sapeva nessuno. 
 
«Hange ed io abbiamo pensato di scrivere un registro diverso, nel quale raccontare dei soldati del corpo di ricerca. Chi erano, da dove venivano...» si strinse di nuovo tra le spalle «...cose così...» 
 
La ragazza restò in silenzio a guardarlo, processando quelle informazioni. Era ancora incerta se essere più scioccata dal progetto in sé o dal fiume di parole di Levi. Anche lui doveva essersi reso conto della stranezza della situazione, perché aveva smesso di guardarla e continuava a gingillarsi la penna tra le dita con aria quasi nervosa.
 
«Solo...» riprese lui a parlare «...non è facile scrivere con questa».
Sollevò la mano sinistra e lanciò uno sguardo beffardo alla ragazza, quasi sfidandola a commentare.
«Sono lento, con la sinistra... potrebbe farmi comodo se fossimo in due...» Si tirò a sedere più dritto e la sua fronte si accigliò: «Ma prima fammi vedere come scrivi, ragazzina. Non voglio certo rovinare il lavoro con la tua scrittura incomprensibile.»
 
Mikasa si rilassò: la familiarità del suo tono secco e brusco la rassicurò. 

«Che mi dici di lui» proferì, il tono duro, drizzandosi sul posto. Era una domanda, ma sembrava un'affermazione.
Levi capì immediatamente: un lampo guizzò nel suo occhio e la fissò con quella sua espressione decisa, adamantina, che poteva piegare il volere di chiunque. 

«Includerai anche lui?» chiese di nuovo la ragazza, fissandolo a sua volta, senza neanche sbattere le palpebre. Sentiva il suo cuore battere all'impazzata. Era la prima volta da anni che si avvicinava a parlare di lui con qualcun'altro. 

«Me lo stai davvero chiedendo?»

Mikasa e Levi rimasero in silenzio, a guardarsi negli occhi.

Cos’era che la ragazza aveva percepito nella voce del capitano? Rimpianto? Dolore? Mikasa spalancò gli occhi. Lo aveva ferito. Lui, che l’aveva salvata dalla condanna più terribile della sua vita. Che l’aveva salvata dalla disperazione ed il rimorso che l’avrebbero mangiata viva, più di quanto già non facessero? Che si era caricato il suo fardello sulle spalle senza battere ciglio? Non importava, però. Aveva bisogno di esserne certa, anche a costo di ferirlo, altrimenti avrebbe preso le sue cose e sarebbe andata via da quella casa per sempre.

Abbassò lo sguardo, sentì il sangue che le saliva al viso, facendola arrossire per la vergogna. Eppure non restò in silenzio: «Rispondi alla domanda…»

Levi sospirò, passandosi la mano destra sul viso. Le lanciò uno sguardo.

Lei era rimasta in piedi davanti alla porta, senza il coraggio di guardarlo in faccia.

Il colore sulle sue guance la rendeva ancora più bella. Non era più la ragazzina arrabbiata che aveva conosciuto tanti anni fa. Era una donna, una bellissima donna, che soffriva. Ed era forse l’unica persona al mondo con cui condivideva lo stesso dolore. Si sorprese dei suoi stessi pensieri. Che diavolo ti prende?

«Conosci già la mia risposta, Mikasa…» rispose, la voce bassa e più roca di quanto si sarebbe aspettato.

Il silenzio scese di nuovo tra loro. Nessuno dei due si mosse, lei con gli occhi ancora bassi, lui che la guardava, senza riuscire a distogliere lo sguardo, per quanto volesse farlo.

«Scusa…» disse lei dopo qualche istante, con un sospiro, stropicciando l’asciugamano che stringeva ancora tra le mani. «Non avrei dovuto dubitare» aggiunse poi.

Levi si alzò, con deliberata lentezza.
Le andò davanti.
Mikasa teneva lo sguardo fisso sui propri piedi, il cuore un tamburo impazzito nel suo petto, la mente completamente vuota.

Sentì le dita di lui sotto al suo mento, che le imponevano di rialzare lo sguardo. Dopo un istante di resistenza, alzò gli occhi e li piantò nel suo, che era così vicino.

Quando era successo che si era avvicinato così tanto? Distavano meno di un avambraccio. Se avesse voluto, Mikasa avrebbe potuto appoggiarsi al suo petto senza neanche fare un passo.

Poteva sentire il suo inconfondibile odore di pulito e cotone. La tentazione di crollare tra le sue braccia era tanto forte quanto il terrore di aver solo pensato di volerlo davvero fare.

Cercò di allontanare di nuovo lo sguardo, ma lui strinse la presa sul suo mento e la forzò a tornare a guardarlo negli occhi. Era completamente serio e inespressivo, come sempre. Il suo sguardo era così penetrante che Mikasa era sicura che gli stesse leggendo dentro. Era sicura che lui sentisse il suo battito impazzito.

Levi rimase immobile, a fissarla negli occhi per quello che le sembrò un tempo infinito ed invece era appena un battito di ciglia. Poi, in un istante, lo vide abbassare lo sguardo sulle sue labbra. La ragazza sentì il calore salirle al volto come una vampata. L’attimo dopo, lui aveva lasciato il suo viso e si era allontanato con un sospiro, andando di nuovo verso il tavolo.

«Non importa…» borbottò, con tono stanco. Si passò una mano sul viso. «Allora, mi aiuterai?»

La ragazza annuì, mentre una mano correva ad accarezzare il proprio viso, improvvisamente freddo per la subitanea mancanza della mano di lui. «Se…» si schiarì la gola, cercando di rallentare il battito nel proprio petto «…se la mia scrittura soddisferà i tuoi standard…»

«Lo spero. Perché non potrei neanche chiederti di cucinare mentre io lavoro. Sei pessima ai fornelli.»

A questa affermazione, lo sguardo di Mikasa scattò di nuovo in alto, verso di lui, sul volto un’espressione piccata. Lui stava sorridendo, aspettandosi la sua reazione, ma senza guardarla. Stava di nuovo sfogliando i registri.

«Lo sai che è vero, Ackermann…»

«Sei tu che sei troppo viziato…» ribatté, sorridendo a sua volta, sollevata che le cose tra loro fossero appena tornate alla normalità.

Ma lo erano davvero? Mikasa si sentiva come se si trovasse su un terreno instabile, che le stava inesorabilmente scivolando sotto i piedi. Alzò di nuovo lo sguardo su di lui, in piedi accanto al tavolo, le mani appoggiate ai lati del registro, i capelli in avanti sulla fronte, che gli nascondevano gli occhi. Il profilo netto, la mascella serrata e ben visibile, gli avambracci duri come acciaio che sbucavano dalle maniche arrotolate di un grosso maglione di lana blu. Non lo aveva mai visto indossare qualcosa di così informale, eppure gli sembrava bellissimo. Ma che diavolo stai pensando? Arrossì di nuovo, incredula, arrabbiata con se stessa.

Prima che lui tornasse a guardarla, affrettò il passo verso la camera da letto, dove andò a poggiare l’asciugamano ed a riprendere fiato. Possibile che tutt’a un tratto trovasse il capitano attraente? Scosse la testa con uno sbuffo. Non essere ridicola.
 
Ciao a tutti! Ecco un nuovo capitolo :) Spero vi piaccia!
Per la prima volta in questo capitolo è comparso anche il punto di vista di Levi...nei prossimi capitoli avrà ancora più spazio. :)

 

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Capitolo 4
*** IV ***


IV


Passarono altri quattro giorni. La mattina, Levi e Mikasa lavoravano per preparare il cottage all’arrivo dell’inverno, mentre il pomeriggio si dedicavano al registro della Legione Ricognitiva. Levi aveva raccolto moltissimo materiale con l’aiuto di Hange da Mitras e le pagine da riempire erano fin troppe. Mikasa, che aveva dimostrato di avere una calligrafia sorprendentemente chiara ed elegante, si era completamente gettata a capofitto nel lavoro, dopo i suoi dubbi iniziali. Il ritmo delle loro giornate era calmo, ma non pigro. I due non parlavano molto, ma entrambi trovavano la presenza dell’altro in qualche modo rassicurante.

A Mikasa sembrava di essere tornata a far parte di un ingranaggio ben oliato nel quale le diverse rotelle si muovevano in sincronia senza sforzo. La mattina, Levi la svegliava con la colazione già pronta sul tavolo, a pranzo mangiavano carne essiccata e pane, mentre a cena lui cucinava le verdure dell’orto. La quantità di tè che veniva preparata ogni giorno era piuttosto considerevole, così come quella del liquore ambrato che consumavano dopo cena, prima che lei si ritirasse nella camera da letto. La ragazza aveva cominciato a dormire serenamente, come non le succedeva da anni. Ogni mattina si risvegliava completamente riposata, senza ricordarsi neanche di un incubo. Era quasi un miracolo. Sapeva che per Levi non era lo stesso: le occhiaie scure onnipresenti sotto i suoi occhi erano il segno lampante che come al solito lui non riuscisse a dormire per più di un paio di ore, ma era una condizione talmente radicata per lui che non ne parlava mai.

Il freddo era diventato sempre più pungente. Due giorni prima, Levi le aveva dato uno dei suoi maglioni spessi di lana, stanco di vederla tremare nella sua giacca di pelle autunnale. Mikasa ormai sapeva bene che in breve avrebbe perso la sua scommessa e si aspettava di veder apparire la neve da un momento all’altro. Quasi ogni giorno, si ritagliava un’oretta di tempo per andare a immergersi nella fonte termale: era il momento che preferiva della giornata.
Stare con Levi era rilassante: non doveva riempire i silenzi di parole vuote, entrambi erano liberi di essere le persone taciturne che erano.

Ogni tanto lo sorprendeva a fissarla con il suo sguardo impassibile. Non sapeva perché lui lo facesse, se la stesse studiando in cerca di qualche sintomo di follia, se la osservasse come si osservano incuriositi gli animali selvatici che si incontrano inaspettatamente in un bosco o se semplicemente non si fosse ancora abituato ad una presenza discreta ma costante nella sua vita solitaria. Anche lei si accorgeva di guardarlo, quasi sovrappensiero. Dopo la prima volta in cui l’aveva sorpresa mentre tagliava la legna, lui non aveva più commentato quando se ne rendeva conto. Era diventata quasi un’abitudine per lei, i suoi occhi lo cercavano continuamente, quasi in cerca della rassicurazione che lui fosse ancora lì intorno. Quando per esempio spariva per andarsi a lavare, Mikasa non poteva evitare di lanciare continui sguardi fuori dalla finestra, nell’attesa di vederlo ricomparire. Era completamente assuefatta alla sua presenza, la sua figura gli trasmetteva una sicurezza e fiducia incontrastate.

Anni prima, aveva visto molte persone guardarlo in questo modo: la sua prima squadra, la seconda - di cui aveva fatto parte -, Eren, Armin, l’intero Corpo di Ricerca, la gente comune che incrociavano per strada…persino Erwin Smith, lo guardavano così. Lo sguardo di completa certezza che se il Capitano Levi fosse presente, non sarebbero mai stati sconfitti. Per lei era sempre stato diverso: innanzitutto ci aveva messo molto tempo a fidarsi davvero di lui e poi la loro somiglianza, le sue capacità fisiche così simili a quelle di lui, l’avevano sempre fatta sentire quasi sul suo stesso piano. Era sempre riuscita a vedere al di là di quella ostentata sicurezza che alimentava la speranza dell’intero corpo di Ricerca e probabilmente dell’intera umanità dentro le mura.

Adesso la situazione era capovolta: la gente comune probabilmente lo vedeva come un vecchio eroe di guerra, non aveva più bisogno di affidargli tutte le sue speranze. Mikasa al contrario sentiva che la sua presenza, il suo volto, i suoi capelli, le sue braccia, persino le sue cicatrici erano l’unica cosa a cui potesse appoggiarsi per non sbriciolarsi e scomparire. Aveva deciso di smettere di analizzare queste sensazioni, la situazione era quella che era, niente di più e niente di meno. Tutto ciò che doveva fare era lasciare che le giornate continuassero a questo modo, pregando che il tempo di dover andare via fosse il più lontano possibile. Lei si sentiva fatta di sabbia, lui ai suoi occhi era diventato una roccia, infrangibile e forte.
 



La mattina del sesto giorno, quando si svegliò non sentì nell’aria l’ormai classico profumo di tè nero. L’immediata paura che lui non fosse lì le fece comparire istantaneamente un groppo in gola. Si fiondò fuori dalle coperte come un fulmine, senza indossare il maglione sulla camicia da notte o le scarpe e corse nell’altra stanza. Il bollitore era poggiato sul piano della cucina accanto alle due tazze, ma la stufa era spenta. Di Levi nessuna traccia.

Si voltò così velocemente verso la finestra dall’altro lato della stanza che il collo quasi le fece male. Lui era fuori in giardino. Un’ondata di sollievo la travolse. Poi si accorse di cosa stesse facendo: stava allargando la stalla, per far sì che anche il suo cavallo potesse stare al coperto. Aveva già smontato la parete in fondo ed ora stava costruendo la nuova struttura con filagne e lunghi chiodi.

Senza neanche tornare nella stanza per infilarsi gli stivali, corse fuori. Scese le scale del portico e proseguì sulla nuda terra infischiandosene del freddo. Gli arrivò alle spalle e lo abbracciò d’impeto, tuffando il viso tra le sue scapole, senza dargli tempo di accorgersi del suo arrivo. Lo sentì irrigidirsi per la sorpresa, poi le sue mani afferrarono i suoi polsi e li allontanarono dal suo petto.

«Ma che fai, sei impazzita?» esclamò «Toglimi le mani di dosso!» continuò, sciogliendo l’abbraccio ed allontanandosi. Le lanciò uno sguardo corrucciato, ma senza guardarla negli occhi, poi si voltò di nuovo verso la stalla.

«Lo sto facendo per il cavallo, non certo per te…» borbottò, le guance leggermente colorite.

Mikasa non riusciva a smettere di sorridere.


«Torna dentro, prima di congelarti» proseguì lui con tono burbero, incrociando le braccia al petto «Continua da sola coi registri…io oggi penso a finire questo.»

«Levi?»

«Hm»

«Grazie»

Il colore sulle sue guance si fece leggermente più intenso, prima che facesse un cenno col capo verso la casa. «Fila via, forza»
La ragazza non se lo fece ripetere e tornò sui suoi passi, il sorriso sempre stampato sul volto. Si sentiva come se avesse appena ricevuto un regalo.
 


La mattinata trascorse tranquilla. Il rumore ritmico del martello e della sega accompagnarono Mikasa mentre proseguiva con il lavoro dentro casa. A metà mattina aveva preparato il tè e lo aveva portato fuori al capitano, che aveva afferrato la tazza senza nemmeno degnarla di uno sguardo. La ragazza non poteva fare a meno di sorridere nel vederlo comportarsi così: cercava di darsi un tono pur di non ammettere che stava facendo qualcosa di carino per lei. Mikasa sapeva che era inutile sprecare parole, entrambi sapevano bene qual era la verità.
Tornata dentro, infilò qualche ciocco nella stufa e nel camino, si sistemò il pesante maglione celeste sulle spalle e riprese a scrivere. Il celeste non era un colore che avrebbe immaginato su di lui, si chiese come gli stesse. Immaginarlo nel maglione che lei stessa stava indossando in quel preciso istante fece accelerare impercettibilmente il suo battito.

Lavorare in casa di mattina era inusuale per lei in quella nuova routine, ma leggere e scrivere con la luce naturale del sole, anziché con quella delle lampade ad olio era molto piacevole. Si chiese se questo sarebbe stato quello che avrebbero fatto entrambi, una volta arrivata la neve. Con la mente ancora distratta, sfogliò le pagine del registro dei soldati dell’Armata Ricognitiva e quello delle relazioni dei Comandanti e degli ufficiali, arrivando all’anno 844. In quel periodo il Comandante era ancora Keith Shadis.

Scorse rapidamente i nomi dei cadetti che erano entrati nel corpo di Ricerca, poi qualcosa attirò la sua attenzione come una calamita: tre nomi erano stati aggiunti in seguito, a distanza di un paio di mesi dagli altri. Farlan Church, anni 21. Isabel Magnolia, anni 17. Levi, anni circa 20.

Il primo impulso fu quello di chiamare il capitano a gran voce, poi Mikasa si bloccò con all’ultimo. Lanciò uno sguardo fuori dalla finestra: Levi stava ancora lavorando con le assi, in camicia a causa del caldo dello sforzo fisico. Sentendosi quasi in colpa, come se stesse origliando segreti dietro una porta, la ragazza riprese a leggere.

Ogni tanto nel quartier generale aveva sentito storie sull’arrivo del Capitano nell’esercito, ma lei non era tipo da ascoltare pettegolezzi ed inoltre non le interessava poi molto. Sapeva che era cresciuto nella Città Sotterranea e che era stato arruolato da Erwin Smith in persona, il resto non le era mai sembrato rilevante. Fino ad ora.

Si concentrò sul registro delle relazioni degli ufficiali, dove trovò vari appunti:
Tre nuove reclute scovate personalmente da Erwin Smith. Tre ladri e assassini della Città Sotterranea. Arrestati da Erwin e Mike, barattata loro libertà in cambio di ingresso nella Legione. A detta di Erwin e Mike e basandosi sui rapporti della Gendarmeria – che non è mai riuscita a catturarli – hanno una ottima tecnica di uso del movimento tridimensionale (rubato). Ad esclusione di Church, analfabeti. Sprovvisti di addestramento militare. KS”

Mikasa lanciò un altro sguardo verso la finestra, a questo punto pressoché certa che quello che stava leggendo dovesse restare privato. Lui continuava a dargli le spalle, mentre segava le ultime assi.

12 Marzo 844. Caposquadra Flagon Turret: il Comandante Shadis ha affidato alla mia squadra i tre criminali del sottosuolo, nonostante le mie remore sul loro ingresso nel Corpo di Ricerca. Erwin Smith e Mike Zacharius ne sono stati esonerati. Le tre reclute non hanno il minimo rispetto per il Corpo di Ricerca, non conoscono neanche il nostro saluto. Magnolia e Church tentano di mantenere un comportamento civile e, sbruffonaggine a parte, sembrano volersi inserire nella squadra. L’ultimo, Levi, che sembra essere tra i tre il capo, ha un carattere irrispettoso e insopportabile, che gli altri due cercano visibilmente di contenere”

Mikasa sorrise. Certe cose non cambiano mai, eh…

20 Marzo 844. Caposquadra Flagon Turret: Prima prova per le tre nuove reclute nel percorso di allenamento nel bosco. La loro abilità col movimento 3D è molto elevata. Levi è molto dotato con le lame, probabilmente per la sua esperienza come delinquente. Impugna la lama destra al contrario, mi duole ammettere che funziona. Il suo temperamento, tuttavia, non migliora. È schivo e restio. Magnolia e Church si stanno integrando meglio nella squadra. I tre sono molto legati tra loro, inseparabili. Erwin e Shadis intendono portarli nella prossima missione fuori le mura, io mi sono opposto.”

Isabel Magnolia e Farlan Church…Mikasa non aveva mai sentito questi nomi. Eppure erano entrati nell’esercito insieme a Levi, per di più conoscendolo da prima. Le loro abilità sembravano essere interessanti. Come mai nessuno dei veterani che erano già nel Corpo allora li aveva mai nominati?

D’improvviso un brivido le percorse il corpo. Attratta da un presentimento, aprì il registro delle missioni fuori le mura ed arrivò alla ventitreesima. Senza mettersi a leggere i resoconti, sfogliò le pagine finché non trovò quello che stava cercando: la lista dei caduti. 

La lista era incredibilmente lunga. La spedizione doveva essere stata un disastro. 

Erano morti entrambi.

 I loro nomi erano tracciati in bella calligrafia sotto quelli degli altri componenti della squadra di Flagon Turret, morto anche lui. A quanto pareva, Levi era l’unico della squadra ad essere sopravvissuto. 

Mikasa si sentì stringere un nodo in gola. Rimase immobile a fissare quei nomi sulla pagina. Erano morti alla loro prima spedizione fuori le mura e lo avevano lasciato solo. Si chiese se Levi fosse stato con loro quando erano stati uccisi, se fosse rimasto ferito nel tentativo di difenderli. Si chiese se fossero cresciuti insieme fin da piccoli, come avevano fatto lei, Eren ed Armin. Se Eren ed Armin fossero morti quel giorno lontano a Trost, cosa ne sarebbe stato di lei, da sola nell’esercito?

Mikasa non sapeva nulla della vita di Levi nella Città Sotterranea, adesso d’improvviso scopriva che prima di unirsi all’armata ricognitiva non sapeva neppure leggere e scrivere e probabilmente non conosceva neanche la sua vera età. Come mai Erwin si era interessato di tre criminali del sottosuolo? Mikasa si chiese come fossero quei due: che aspetto avessero, quale fosse il loro rapporto con lui. Sentì che gli occhi le pizzicavano: alzò lo sguardo verso il soffitto per impedire alle lacrime di formarsi. Anche lui aveva perso i suoi due amici d’infanzia. 

Fece un respiro profondo e si ricompose. Tornò indietro alla prima pagina su quella spedizione e cominciò a leggere i resoconti. Il giovane e brillante Erwin Smith aveva ideato una nuova formazione da testare in una missione di diversi giorni. La prima giornata era stata positiva ed i soldati avevano raggiunto senza problemi la loro base fuori le mura. Levi, Farlan e Isabel si erano già messi in mostra per aver ucciso da soli un paio di giganti senza alcun aiuto. Alla missione aveva partecipato anche Hange, a quei tempi semplice soldato. Il disastro era avvenuto il giorno dopo: una nebbia fittissima, forte pioggia e vento avevano praticamente azzerato la visibilità, sfilacciando la formazione ed isolando diverse squadre, lasciate in balia di moltissimi giganti, di cui un paio anomali. Uno di questi anomali era il responsabile dello sterminio della squadra di Turret. Era stato Levi da solo ad ucciderlo, facendolo letteralmente a pezzi. 

Un rumore improvviso la fece sobbalzare sulla sedia. Si voltò di scatto per guardare la figura di Levi che si stagliava sul profilo della porta. Era così assorta nella lettura che non si era accorta del suo arrivo. Lui rimase a guardarla con la mano ancora sulla maniglia, con la fronte corrugata. 

«Oi, cos’hai da fissarmi, non ti sei accorta dell’ora?»

Mikasa balbettò qualcosa in risposta, accorgendosi solo in quel momento che era giunta l’ora di preparare il pranzo. 

«Che diavolo hai, si può sapere?» rispose lui, senza muoversi di un millimetro dalla porta. 

«Levi» La ragazza sollevò di nuovo lo sguardo verso di lui, la voce ora più calma e misurata. Qualcosa nel suo sguardo lo mise in allarme. «Sono arrivata alla ventitreesima spedizione oltre le mura.»

L’effetto delle sue parole fu immediato: Levi si pietrificò sul posto, mentre un lampo di emozioni si affacciava sul suo viso, prima di tornare imperscrutabile come sempre. Mikasa continuò:

«Penso che questa parte dovresti scriverla tu»

Lui abbassò lo sguardo ed andò verso la cucina, dove iniziò a tagliare il pane dandole le spalle. 

«Ok» 

La sua voce era neutra come al solito, ma a Mikasa non la dava a bere. 


Il capitano preparò il resto del pranzo in silenzio, poi la precedette sul portico e si sedette sulla panca alla destra della porta d’ingresso. La ragazza lo seguì e gli si mise accanto. Lui le passò il pane e companatico, mentre iniziava a mangiare la sua porzione. 

«Mi dispiace…» mormorò lei, dopo qualche minuto «Per Isabel Magnolia e Farlan Church»

Levi rimase con lo sguardo sui campi, l’espressione del viso neutrale come sempre. «È stato tanto tempo fa» rispose poi.

Mikasa si strinse tra le spalle. «Lo so, ma…»

Lui la interruppe, indicandole la stalla con un cenno della mano destra. «Finisci tu di sistemare la stalla. Restano da inchiodare un paio di assi e passare la vernice.»
La ragazza annuì, continuando a mangiare in silenzio per il resto della pausa. 

 
Quando quella sera rientrò in casa, la stalla era completata ed i due cavalli vi riposavano dentro, finalmente entrambi protetti dal vento. Levi stava riponendo con cura i fogli e registri nella cassa di latta, mentre una pentola sobbolliva sulla stufa, spandendo nell’aria un profumo di zucca e rosmarino. Fu lui a parlare per primo, il che la sorprese: 

«Ho quasi finito con la ventitreesima spedizione. Mi mancano pochi nomi. Continuo dopo cena.»

«Ok» rispose lei mentre prendeva le stoviglie ed apparecchiava la tavola.  Non era giusto chiedergli altro, Mikasa sapeva bene quanto potesse essere doloroso scavare nel proprio passato. Lei non aveva nessun diritto per fargli domande, anche se avrebbe voluto potergli dire quanto lo capisse. 

Cominciarono a mangiare in silenzio come al solito, solo che quella sera l’atmosfera era molto diversa. A Mikasa sembrava di camminare in equilibrio sul filo di un rasoio: avrebbe voluto dire qualcosa, ma sentiva di non avere abbastanza confidenza per farlo. Fu di nuovo lui a parlare per primo:

«Smettila di fissarmi come se fossi un cucciolo abbandonato» sibilò con aria seccata «Non la voglio la tua pietà. Le persone muoiono, è inevitabile.»

Mikasa abbassò la testa, lo sguardo sulla propria mano che rimestava la minestra col cucchiaio. Annuì.

«Quindi stai bene...»

«Certo che sto bene. Se dovessi piangere ogni persona che ho visto morire...o che ho ucciso...» si strinse nelle spalle «...non avrei più lacrime né forze»

Mikasa si voltò di scatto verso di lui, incredula. «Non ti ho mai visto piangere!» esclamò, con gli occhi spalancati per la sorpresa. Quell’espressione la faceva sembrare una ragazzina.

«Beh sai, Ackermann...» l’estremità destra delle sue labbra si incurvò in una sorta di ghigno «...sono una persona riservata».

La ragazza arrossì e distolse lo sguardo. Non riusciva proprio a pensare che il capitano potesse piangere, era come immaginare che le fiamme del camino improvvisamente diventassero fredde, anziché brucianti.
 
«Tu, Jaeger e Arlett mi ricordavate noi» la sua voce la fece voltare di nuovo. Levi si stava stiracchiando, poi si alzò col piatto in mano. «Forse è per questo che non volevo moriste»
Mikasa sentì il proprio battito accelerare. Levi si versò un’altra mestolata di minestra, poi si strinse nelle spalle. «Non è che abbia fatto proprio un bel lavoro...» aggiunse con sarcasmo.

«Beh, io sono viva...»

La sua voce leggera lo fece voltare. I loro sguardi si incrociarono. Levi era diventato di nuovo serio, la fissava con tutta la sua intensità, come soppesando il significato delle sue parole.

«Sì, tu lo sei...»

Restarono in silenzio, gli occhi negli occhi. Levi ancora in piedi davanti alla cucina, lei seduta col cucchiaio in mano. Poi, un ciocco di legno schioccò nel camino e fu come se quel suono li avesse risvegliati. Il capitano distolse lo sguardo e andò a sedersi di nuovo. 

«Sai...» riprese Mikasa mentre lui continuava a mangiare «...puoi parlarmi di qualsiasi cosa, se vuoi». Arrossì.

«Ah sì?» le rispose, con tono canzonatorio «Cos’è, Connie e Hange ti hanno insegnato come essere socievole?»

Mikasa non si riuscì a trattenere e gli mollò uno scappellotto sul braccio «Smettila! Sono seria...» Avrebbe voluto mantenere un tono offeso, ma non riuscì a trattenersi dal sorridere. Levi abbozzò un sorriso a sua volta, dopo aver spostato il braccio ed averle lanciato un’occhiataccia per il colpo ricevuto.

«Lo so. Grazie.» aggiunse poi. 

«Domani andiamo in paese. Devo fare rifornimento di diverse cose. Ricompreremo anche il liquore, visto che ti sei finita tutta la bottiglia» Non degnò di uno sguardo l’espressione indignata della ragazza e continuò a parlare «La distilleria è proprio lì. I proprietari sono alcune famiglie della Città Sotterranea, molti si sono trasferiti fuori le mura, dopo che Historia ha assegnato loro diversi appezzamenti.»

Mikasa annuì. «Sì, Hange ci ha tenuto al corrente durante il viaggio. Ci ha detto che sei stato tu ad occuparti dell’evacuazione della Città Sotterranea...»

«Già. Il mio ultimo compito nell’esercito»

«È stato strano?» Levi la guardò con aria interrogativa, così la ragazza riprese a spiegarsi: «Intendo...tornare lì. C’eri mai tornato da quando eri andato via?»

«È stato strano per te tornare a Shiganshina?»

Mikasa annuì. «Voglio dire…è tornata alla vita, somiglia alla città che era. Però...non è più casa mia»

«No, non ero mai tornato là sotto. E sì, è stato strano...più o meno» Levi si alzò e prese il liquore ed i bicchieri. Ne era rimasto poco, così lo versò interamente. 

Mikasa allungò il braccio per raggiungere il proprio bicchiere, poi all’ultimo cambiò idea inaspettatamente. Senza pensare alle conseguenze di quello che stava per fare, poggiò la propria mano sinistra sulla destra del capitano. Levi abbassò lo sguardo senza dire niente, ma senza scostarsi. Un istante dopo, ruotò il polso, così da far toccare il proprio palmo con quello di Mikasa. Poi le strinse la mano, il tutto senza mai distogliere lo sguardo dalle loro dita, ora intrecciate.

Mikasa si sentiva il cuore in gola ed allo stesso tempo era calmissima. Sentiva il calore della mano di Levi che si irradiava in tutto il suo braccio. Proprio come quella notte…

«A volte provo questa strana sensazione… Ti capita mai di sentirti in colpa? Per essere ancora viva, intendo…»
La voce di Levi era quasi un sussurro. La sua presa era salda, nonostante l’assenza di indice e medio. Mikasa annuì, senza distogliere lo sguardo dalle loro mani.

«Ogni istante»

«Già. È la condanna dei sopravvissuti.»

«Levi…com’erano Isabel e Farlan?» Lui prese fiato per interromperla, ma lei fu più veloce e riprese a parlare: «Tu conosci tutto di Armin e di… io non so niente di loro, invece»

Levi bevve un grande sorso, poi le lanciò uno sguardo. Un lieve sorriso triste gli passò sul viso, ma lei non lo vide, perché aveva gli occhi bassi.

«Perché ti importa? Sono morti tanti anni fa…» nella sua voce c’era una sincera curiosità.

Mikasa alzò lo sguardo e lo incrociò col suo. Strinse la presa sulla sua mano, percependo i suoi calli e le cicatrici. Forse era per l’alcool, forse per il vento freddo che soffiava fuori dalla finestra, forse era per la stalla…ma quella sera le sembrava di non avere più paura di parlargli schiettamente, col cuore in mano.

«Perché mi importa di te…» mormorò, senza timidezza.

Levi spalancò gli occhi per un istante, sia quello sinistro che quello cieco. Poi abbassò lo sguardo e cercò di allontanare la mano, ma la presa di Mikasa lo bloccò. Le lanciò un altro sguardo incerto, ma adesso anche lei era tornata a guardare le loro mani sul tavolo.

Bevve un altro sorso. Sentì il calore dell’alcool che gli scendeva nella gola, bruciandola piacevolmente.

«Isabel era… chiassosa. E sfrontata.» sorrise tra sé «Le piacevano gli animali. Aveva un vero talento coi cavalli. Aveva grandi occhi verdi. Rispondeva sempre per le rime. A ripensarci ora, ne abbiamo dato di filo da torcere a Farlan. Lui era il più riflessivo, sapeva anche leggere.»

La ragazza azzardò ad alzare gli occhi. Lui stava guardando fuori dalla finestra, le fiamme del camino gli illuminavano il profilo affilato.

«Era molto intelligente. Doveva sempre tenermi a bada…» Gli sfuggì un suono a metà tra un sospiro ed una risata. Le lanciò uno sguardo, lei aveva una strana espressione sul viso, una sorta di sogghigno ironico.

«Dubito che qualcuno possa tenerti a bada…» lo canzonò, bevendo a sua volta.

Levi sollevò il bicchiere e fece il gesto di brindare. «Touché»

«Forse è il destino dei più forti. Sopravvivere a chi si ama…» disse lei, guardando fuori dalla finestra a sua volta.
Levi strinse di nuovo la presa sulla sua mano.

«Forse sì. Ma forse il nostro destino è anche quello di ricordarli» disse poi, lanciando uno sguardo alla cassa di latta che conteneva i registri. «O almeno questa è la mia scelta»
 

Ciao a tutti! Ecco un nuovo capitolo... Un po' del passato di Levi è venuto a galla, spero vi piaccia! 
Nel prossimo capitolo ci sarà un po' d'azione (: 
Fatemi sapere cosa ne pensate! 
Grazie

Chikay

 

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Capitolo 5
*** V ***


La mattina dopo, Mikasa venne svegliata da dei colpi sulla porta della camera da letto. 

«Muoviti, siamo già in ritardo» 

La ragazza si alzò con uno sbuffo esasperato e si vestì in silenzio. Indossò come sempre il maglione azzurro di Levi ed uscì dalla camera per andarsi a sciacquare la faccia con l’acqua gelata del pozzo. Levi era seduto a tavola. Aveva sostituito i suoi vestiti da boscaiolo con dei pantaloni neri ed una camicia bianca ed il suo classico foulard attorno al collo. Se non fosse stato per le cicatrici, a Mikasa sarebbe sembrato di aver fatto un salto nel passato. 

«Non sapevo fossero richiesti abiti eleganti per andare in paese…»

«Anche se l’avessi saputo, non avresti niente da mettere, Akermann… sono giorni che indossi i miei maglioni»

Mikasa sentì il calore salirle al volto, così si diresse verso la cucina per prendere la sua tazza di tè.

Levi continuò: «è anche per questo che voglio andare presto. Dovresti comprarti qualche vestito in più…»

«Vuoi vedermi in abito da sera?»

Levi sbuffò «Non voglio vederti ibernata. Non hai abiti abbastanza pesanti per l’inverno. E rivoglio i miei maglioni indietro»

Mikasa prese la tazza e la fetta di pane imburrato e si andò a sedere. «OK non agitarti, riavrai le tue cose»

Lui nel frattempo si era alzato ed aveva preso qualcosa dalla sua branda. Mikasa lo riconobbe subito: era il cappotto militare per le occasioni ufficiali. Ricordava di averlo indossato dopo la ripresa di Shiganshina durante la consegna delle loro medaglie da parte di Historia. 

«Usa questo. La tua giacca è troppo leggera ed io non ne ho altri»

«è quasi commovente la tua attenzione alla mia temperatura corporea…» borbottò la ragazza mentre mordeva il pane con aria di sfida.

«Ridi pure, ragazzina. Poi mi darai ragione…»

«D’accordo, nonnetto…»

Levi le lanciò uno sguardo di totale disappunto, che non fece altro che farla ridacchiare. «Mocciosa…» sibilò lui a denti stretti mentre afferrava la benda e se la sistemava sul viso. 



 
Poco dopo, a cavallo, Mikasa ringraziò interiormente la testardaggine del capitano, perché senza il cappotto militare, il freddo sarebbe stato piuttosto fastidioso. 

Lasciare la radura le trasmise uno strano senso di apprensione: era come uscire da un territorio sicuro e familiare. In tutti quei giorni non aveva praticamente mai pensato seriamente alla proposta di Historia, Mitras era completamente uscita dai suoi pensieri. Adesso, l’idea di rientrare a contatto con la società la fece rimpiombare nella realtà tutto d’un tratto. Non poteva pensare di restare da Levi per sempre, era l’ora di riflettere seriamente sul proprio futuro. 

Futuro… Ormai quella parola non aveva più alcun senso. Ma d’altronde lo aveva mai avuto? Da quando i suoi genitori erano morti ed Eren era entrato nella sua vita, pensare al futuro era diventato qualcosa di inutile. Il suo futuro ed il suo presente erano con Eren, tutto il resto non aveva importanza. Che senso aveva riflettere su cosa fare della sua vita, quando ormai la sua vita non esisteva più? Mikasa si sentiva come un guscio di conchiglia svuotato: all’apparenza era bello, forte, ma al suo interno non c’era rimasto più nulla a parte l’eco del passato che era stato...che continuava a riecheggiare come il rumore del mare. 

Il suo cavallo seguì quello di Levi e la condusse dopo poco al di fuori del sentiero, sulla strada in terra battuta dalla quale era arrivata, giorni fa. Il capitano prese a destra e Mikasa lo seguì, lanciando uno sguardo alle proprie spalle, verso la strada che aveva percorso arrivando da Mitras. 

«In paese ci divideremo. Io ho delle commissioni da sbrigare, tu vatti a comprare dei vestiti.» 

La voce del capitano la risvegliò dai propri pensieri. L’idea di separarsi da lui, seppure per poco tempo, la fece sentire in apprensione. Trattenne involontariamente il fiato.

«Ce li hai dei soldi?» continuò lui, la voce leggermente annoiata.

«Chi ti credi di essere, mia madre?» rispose lei con sarcasmo, mentre spronava il cavallo per portarsi accanto a lui. 

Levi alzò le sopracciglia e la guardò, per niente impressionato.

«Che commissioni devi sbrigare?»

«Fatti gli affari tuoi»

Questa volta fu Mikasa ad alzare un sopracciglio e guardarlo male.

Levi sospirò: «Devo andare alla posta, fare qualche provvista per l’inverno… ci incontreremo a mezzogiorno alla locanda. È sulla via principale, non dovresti avere difficoltà a trovarla.»
La ragazza annuì, lasciando scorrere lo sguardo sul paesaggio attorno a sé.



Passarono un altro paio di minuti, poi d’improvviso, qualcosa cambiò. Mikasa percepì Levi irrigidirsi a cavallo, il corpo proteso in avanti, i muscoli tesi, lo sguardo d’improvviso glaciale.
Mikasa sentì come se un cubetto di ghiaccio le fosse scivolato giù nella gola, ghiacciandole tutto il corpo dall’interno.

«Qualcosa non va» La voce di Levi risuonò bassa e calma nelle sue orecchie, tagliente come la lama di un coltello. Per un attimo, la ragazza fu certa che avrebbe visto uno o più
giganti sbucare da dietro gli alberi. In un istante, lui era tornato ad essere il Capitano del Corpo di Ricerca.

Fece un cenno con la testa, verso il paese, la fronte sempre più corrugata.
Mikasa seguì la direzione del cenno e finalmente scorse ciò che aveva attirato la sua attenzione:

Una colonna di fumo nero si alzava in lontananza, al di sopra delle chiome degli alberi.
«Un incendio?» mormorò, quasi tra sé.

Senza risponderle, Levi spronò il cavallo e partì al galoppo. Mikasa sentì una scarica di adrenalina percorrerle il corpo, tutti i sensi completamente all’erta come non le capitava da mesi. Poi, si affrettò a seguirlo.


 
Sbucarono fuori dal bosco ed il paese fu immediatamente visibile. Poco fuori dalle prime case, una grande costruzione che somigliava ad un magazzino in pietra di almeno due piani, era quasi completamente avvolta dalle fiamme. Tutt’intorno, una folla di gente si affrettava con secchi d’acqua riempiti nel canale che passava accanto alla strada, ma l’incendio sembrava avere decisamente la meglio.

«Merda…» sibilò il capitano «…è la distilleria»
Questa volta, fu Mikasa a precederlo al galoppo.

Non appena furono abbastanza vicini, alcune delle persone riunite attorno alla distilleria gli corsero incontro, chiamandoli a gran voce.

«Capitano!» «Capitano Levi!»

Levi tirò le redini ed arrestò la sua cavalcatura a pochi metri dalla costruzione in fiamme.

«Avete chiamato la Gendarmeria?» domandò con tono secco, deciso.
Un brillio di fiducia si accese immediatamente negli occhi di tutti i paesani.

Fu una donna a rispondere per prima, annuendo: «Due uomini sono partiti verso il paese vicino per farli venire con i carri botte. Ma qui rischia di esplodere tutto!»

Levi smontò da cavallo con un unico movimento fluido. A Mikasa però non sfuggì lo stringersi della sua mascella quando il ginocchio sinistro si piegò sotto il suo peso. Lui si voltò verso di lei e le fece cenno di seguirlo, poi si affrettò verso la distilleria. La ragazza lo seguì rapida come un gatto, tra due ali di folla che si aprirono intorno a loro come davanti a dei salvatori promessi.
Sentì che la gente ripeteva i loro nomi sussurrando, quasi come una preghiera.

A qualche metro dalla porta spalancata della distilleria, vi era un gruppo di persone sporche di fumo e fuliggine. Due uomini cercavano di trattenere una donna che gridava e piangeva, cercando di divincolarsi per correre nel rogo.

«I miei bambini! Lasciatemi! I miei bambini»

In un istante, Mikasa si ritrovò con la mente in una città completamente rasa al suolo. Le urla di una madre che stringeva al petto il suo bambino senza vita le riecheggiarono nelle orecchie. E poi erano Shiganshina, Trost, Stohess a susseguirsi davanti ai suoi occhi ancora una volta. Deglutì con forza, mentre sentiva il suo cuore accelerare. Si sforzò di concentrarsi di nuovo su Levi, che aveva raggiunto quel gruppo.

«Che cosa è successo?» chiese, gli occhi fissi sull’incendio.

Non appena la donna che gridava sentì la sua voce e lo riconobbe, gli si lanciò ai piedi, abbracciandogli le caviglie. Il viso sconvolto dal dolore, le lacrime che scendevano dai suoi occhi e si impiastricciavano nella fuliggine.

«Capitano, i miei bambini! I miei bambini…salvate i miei bambini!»

Levi le si inginocchiò davanti, prendendole i polsi e sollevandola da terra, per guardarla negli occhi.
«Dove sono i tuoi bambini?» domandò, quasi strattonandola. Mikasa sentiva crescere un senso di nausea: era pressoché certa di immaginare benissimo dove si trovassero i bambini. E se era come pensava, difficilmente potevano essere ancora vivi. La donna non riusciva più a parlare, continuava a gemere tra le lacrime.

Uno dei due uomini che la stava tenendo lontana dal fuoco si intromise: «I suoi figli erano dentro quando è scoppiato l’incendio. Dormivano nella casa al piano di sopra. Noi lavoratori siamo riusciti a fuggire portando fuori la padrona…ma i bambini…»

Levi si voltò verso di lei, nel suo sguardo vi era pura determinazione. Mikasa gli si fece accanto, mentre lui si alzò e si tolse il cappotto. La ragazza fece lo stesso.

«Datemi due secchi d’acqua» ordinò il capitano alla folla. Due ragazzi si affrettarono a porgerglieli.
Levi ne prese uno e se lo versò sulla testa, trattenendo rumorosamente il fiato per il freddo. Rabbrividendo, Mikasa copiò i suoi movimenti e l’instante dopo si ritrovò zuppa da capo a piedi, pronta per quello che sarebbe successo dopo.

«Datemi quelle sciarpe» ordinò di nuovo Levi ai due ragazzi, che passarono a lui e Mikasa i rudi pezzi di tela che tenevano avvolti attorno al collo. I due soldati iniziarono a legarseli sul viso.

«Capitano non potete entrare là dentro…è un suicidio!» provò a protestare il dipendente della distilleria che aveva parlato prima. Levi lo gelò con lo sguardo, facendolo zittire in un istante.

«Sei pronta?» chiese poi a Mikasa, una lieve inflessione nella voce, quasi dolce. Vuoi rischiare di nuovo la vita sotto il mio comando?
Lei annuì impercettibilmente.

Levi si chinò di nuovo davanti alla donna in lacrime: «Come si chiama il maggiore dei tuoi figli?»

La donna alzò di nuovo lo sguardo su di lui, prendendogli rapida le mani tra le sue:
«Si chiama Levi»

Il capitano annuì.
«Ti riporterò i tuoi figli»

Liberò le mani dalla stretta della donna e si rivolse a Mikasa:
«Andiamo» mormorò, prima di correre dentro.
 


 
Una volta varcata la soglia, il calore delle fiamme li investì in pieno. A Mikasa sembrò di essere appena entrata all’inferno. Si coprì istintivamente il volto con le mani. Le fiamme erano dappertutto, avvolgevano ogni tavolo, muro, finestra, i grandi macchinari di metallo della distillazione, riempiendo l'aria con il loro frastuono. 

«Lì!» gridò Levi indicandole delle scale in fondo allo stanzone. «Attenta al soffitto!» 

La ragazza alzò lo sguardo: il soffitto in legno era già seriamente danneggiato. In alcuni punti, briciole di legno infuocato stavano già cadendo di sotto. Le travi potevano crollare da un momento all’altro. 

«Se quei cosi esplodono siamo spacciati…» gridò la ragazza indicando le grandi botti contenenti il liquore, accatastate nell’angolo in fondo a sinistra. 

Levi annuì impercettibilmente, lanciandole uno sguardo. «Andiamo!»  

I due corsero verso le scale, avvolti da un calore quasi insopportabile. Levi la spinse in avanti, costringendola a salire per prima. Se solo avessimo il dispositivo di movimento 3D… si ritrovò a pensare mentre scattava verso il piano di sopra.

Non appena mise piede sul pianerottolo, uno scricchiolio sinistro la fece voltare di scatto indietro. Levi era arrivato agli ultimi scalini quando la scala incendiata crollò di botto sotto il suo peso. Mikasa scattò in avanti senza pensare, mentre lui scalciò con forza gli scalini sotto di sé per riuscire a spingersi abbastanza in alto da raggiungere il pavimento del piano di sopra. Riuscì ad aggrapparsi con la punta delle dita. 

Mikasa gli prese il braccio destro ed afferrò la sua giacca già asciutta ed insieme riuscirono a tirarlo su. La ragazza non sapeva se quello che sentiva scorrere sulla propria schiena fosse sudore o l’acqua che si era gettata addosso. Rimasero seduti per qualche istante, entrambi riprendendo fiato. 

«Merda…» sibilò lui tra i denti stretti, la mano sinistra che stringeva il ginocchio. 

«Capitano, la scala… come faremo a scendere…»

Levi le lanciò uno sguardo imperturbabile dei suoi, alzandosi in piedi con un gemito. «Un problema alla volta. Troviamo i bambini»


Davanti a loro si apriva un corridoio di quelli che dovevano essere stati alcuni uffici di contabilità. In fondo vi era un’altra porta serrata. I fogli di carta degli uffici incendiati volteggiavano nelle stanze come piccole farfalle di fuoco. Mikasa ne allontanò rapida uno che le era andato a posarsi sulla spalla. Nel fare questo, si distrasse a sufficienza quasi da infilare il piede in un buco che si era creato nel pavimento di legno. Riuscì ad evitarlo all’ultimo e con lo sguardo scorse le fiamme al piano di sotto. 

«Attento al pavimento! Sta crollando tutto!» Gridò verso di lui, che adesso avanzava per primo verso la porta chiusa in fondo al corridoio. Merda, non ce la faremo mai a tornare indietro… 

Levi spalancò la porta ed entrambi si ritrovarono in quella che sembrava la cucina di una casa. Il fumo era scuro e denso, alcune finestre erano ancora integre. Le fiamme lambivano la parete di sinistra, ma il lato di destra, dove si aprivano altre due stanze, sembrava più stabile. 

«Levi! Ragazzi!» gridò il capitano, mentre apriva la prima porta sulla sua destra.

Una fiammata uscì violenta e lo avvolse. Lui barcollò all’indietro, Mikasa lo tirò a sé lontano dalle fiamme. 

«Maledizione…» disse lui, spegnendo rapidamente con le maniche le poche fiamme che gli si erano attaccate ai capelli e ai vestiti.
La stanza davanti a loro era completamente in fiamme, senza più il pavimento. Mikasa sentì il suo stomaco attorcigliarsi. Se i bambini erano stati lì, non c’era più niente da cercare ormai. 

Il capitano non perse tempo a riflettere e corse verso la porta successiva. Dopo un attimo di esitazione, la aprì con un calcio. La stanza era in condizione decisamente migliore rispetto a quella precedente: le fiamme lambivano solo la parete confinante con la stanza accanto ed anche il fumo era più rado. 

Sulla sinistra vi era un letto singolo ed un cassettone ancora completamente integri, mentre una culla sulla destra aveva le lenzuola in fiamme. 
Mikasa si lanciò in avanti verso la culla con il cuore in gola, ma la trovò vuota. Si girò verso Levi, con un’espressione costernata sul volto. 

«Levi! Dove siete?» gridò il capitano, guardandosi attorno. 

«Capitano…» iniziò Mikasa «...non sono qui...dobbiamo andare via…» 

Ma poi, da sotto il letto, si sentì una vocina che riusciva a malapena a sovrastare il fragore assordante del fuoco:
«Siamo qui!» 

Un’ondata di sollievo si sprigionò nel petto di Mikasa, mentre guardava Levi accucciarsi accanto al letto e tirare fuori due bambini di circa quattro anni il primo e sei mesi il secondo. 
Il più grande dei due stringeva l’altro a sé con fare protettivo. Entrambi erano completamente sporchi di fumo e tossivano rumorosamente. 

«Io so chi sei! Sei il capitano Levi dell'Armata Esplorativa!» gridò il bambino più grande, lanciandosi letteralmente tra le braccia del capitano. «E tu sei Mikasa Ackermann!» 

«Sì, piccolo. Ci ha mandato la tua mamma. Adesso vi portiamo fuori di qui» rispose il capitano, scompigliando i capelli del bambino che portava il suo nome. 

«Io non ho paura! Ho protetto mio fratello come un soldato del Corpo di Ricerca!»

«Sei stato molto coraggioso…» 

«Levi…» si intromise Mikasa impaziente «Non c’è più tempo» 


Il capitano si alzò in piedi, prendendo in braccio il lattante. Si rivolse al piccolo Levi: «Tu andrai con Mikasa, dovrai tenerti stretto a lei e non mollare mai la presa, pensi di poterlo fare per me, piccolo?»
Il bambino si drizzò in piedi ed imitò il saluto dell’esercito. «Signorsì, Signor Capitano!» gridò prima di lanciarsi verso Mikasa, che fece appena in tempo ad afferrarlo nel suo slancio. Sentì le braccia e le gambe ossute del bambino che si stringevano attorno al suo collo e sulla sua vita. 

Levi infilò l’altro bimbo sotto la sua giacca, tenendolo con il braccio destro mentre questo iniziava a piangere e strillare, fermandosi solo per tossire. 
«Andiamo via da questo inferno» ordinò il capitano, prima di tornare indietro da dove erano venuti. 


 
Tornati nella cucina, Levi corse verso la finestra e la spalancò_ il salto era decisamente troppo alto. Poi si accorse delle pesanti tende che scendevano praticamente dal soffitto fino a terra.
«Aiutami con queste» disse, strattonando la prima. Con l’aiuto di Mikasa, riuscirono a tirarle giù. Il fumo intanto si faceva sempre più pesante, era ormai molto difficile sia vedere che respirare, nonostante la finestra aperta.

«Troviamo un coltello»

Mikasa aprì freneticamente i cassetti della cucina, mentre lanciava sguardi preoccupati al corridoio dal quale erano venuti. Le fiamme si facevano sempre più vicine. Trovò un coltello lungo ed affilato e corse verso il capitano. Insieme, strapparono le tende per farne delle strisce più sottili e le annodarono per creare una corda.

«Bene, andiamo» ordinò Levi prima di lanciarsi nel corridoio.

Il pavimento sotto i loro piedi era messo sempre peggio. Il caldo era diventato insopportabile. Mikasa non riusciva quasi a respirare, mentre il bambino le si stringeva addosso con tutte le sue forze.

«Attenta!» gridò il capitano afferrandola per il braccio, mentre la sua gamba destra sprofondava in un nuovo buco infuocato. Con l’aiuto di lui, riuscì a liberarsi e rimettersi in piedi, mentre il piccolo Levi gemeva di paura. C'è mancato poco... pensò tra sé.

Arrivarono al ballatoio dal quale prima partivano le scale ormai scomparse. Lingue di fuoco sempre più alte lambivano le pareti. Levi fu scosso da una serie di colpi di tosse. Mikasa gli fu subito accanto, troppo concentrata sulla fuga per avere davvero paura.

«Ok» disse lui, dopo essersi ripreso «Leghiamo la corda al parapetto. Vado prima io. Testo la corda e se qualcosa va storto, vi prendo al volo…»

«Sei impazzito? Io peso meno, scendo per prima!» ribatté lei mentre fissavano la corta alla balaustra di ferro battuto.

«Fai silenzio Ackermann e fa’ come ti dico per una buona volta!»

Levi non le diede il tempo di rispondere, lanciò la tenda di sotto ed in un istante iniziò a calarsi. La stoffa si tese e scricchiolò per lo sforzo. Mikasa strinse i pugni così forte che pensò di essersi conficcata le unghie nei palmi delle mani. Poi finalmente Levi toccò terra. Al piano di sotto l’incendio era avanzato ancora, avevano troppo poco tempo.

«Va tutto bene Mikasa, venite giù!»

La ragazza riassestò meglio il peso del bambino e iniziò a scendere. Scalare una corda non era un esercizio semplice neanche per lei e le sue braccia iniziarono a tremare per lo sforzo.
L’istante dopo si sentì improvvisamente leggera: fu una bella sensazione finché non si accorse che il bambino era svenuto e stava cadendo di sotto. Riuscì a fermarlo afferrando la sua maglietta con la mano sinistra, mentre il braccio destro che sosteneva ormai da solo il loro peso le mandò una scarica di dolore dritta nella spina dorsale.

«Levi! Levi, svegliati!»
Il capitano gridò dal basso. Il bambino si risvegliò di soprassalto ed agguantò il braccio di Mikasa con tutte le sue forza, piantandole le unghie nel polso e nella mano. Iniziò a piangere e gridare. Mikasa strinse i denti, lo sforzo era così immane che il solo parlare l’avrebbe distratta.

«Mikasa!» la voce del capitano la richiamò «Devi lasciar andare il bambino!»

A quelle parole, il piccolo Levi cominciò a dimenarsi disperato, aggrappandosi con ancora maggior forza al braccio della ragazza. «No! No, Mikasa ti prego non lasciarmi cadere!»

«Ehi! Levi! Ascoltami!» gridò allora il capitano

«Guardami, ragazzino!» il suo tono era così deciso che il bambino non poté fare altro che eseguire i suoi ordini e guardarlo. «Ho bisogno che tu sia coraggioso per me, ok?» Il piccolo annuì. «Puoi fare questo per me?» Levi annuì di nuovo.

Il capitano annuì a sua volta. «Molto bene, ragazzo. Adesso ho bisogno che tu lasci andare il braccio di Mikasa.»

«Io…io…non posso!» gridò il bambino tra le lacrime.

«Certo che puoi! Ti fidi di me, piccolo?»
Il piccolo Levi annuì titubante, tirando su col naso.

«Molto bene. Ti prometto che ti prenderò a volo. Ma adesso devi lasciarti cadere, ok?»
«Sì, capitano»

«Bravo ragazzo. Al mio tre ti lascerai andare…uno…» Mikasa sentì la presa sul suo polso diminuire leggermente. «…due…tre!»

Il bambino lasciò andare e con un grido di terrore cadde giù, tra le braccia di Levi che lo prese al volo, nonostante stringesse ancora il fratellino. Il piccolo tuffò la testa sulla spalla del capitano lasciandosi andare in singhiozzi disperati.

Mentre il capitano lo calmava, Mikasa riprese a scendere, stringendo i denti per le scariche di dolore che le attraversavano a ondate tutta la schiena e soprattutto la spalla destra.

Una volta a terra, Levi le ripassò il bambino, che le si avvinghiò di nuovo addosso continuando a piangere. La ragazza gli accarezzò i capelli. «Sei stato bravissimo Levi…» gli mormorò all’orecchio.


 
I due ripresero a percorrere il lungo magazzino.

«Ci siamo quasi…» mormorò Mikasa al bambino, mentre seguiva la figura del capitano, ormai pressoché indistinguibile a causa del fumo nero che li avvolgeva.

Erano circa a metà strada verso l’uscita, quando qualcosa attirò la sua attenzione: una grossa trave del tetto si staccò e cadde verso le botti di alcool che miracolosamente erano rimaste ancora integre.

A Mikasa sembrò di vedere la scena al rallentatore: la trave che cadeva, le scintille che partivano da tutte le parti, una delle botti che si spaccava. Con l’orrore negli occhi, si voltò di nuovo.

«LEVI!»
Lui non fece neanche in tempo a voltarsi del tutto.

Poi, la forza di una esplosione li spinse in avanti, sollevandoli. Mikasa strinse le braccia attorno al piccolo Levi e le sembrò di volare di nuovo, come quando andava a caccia di giganti. Poi sbattè la schiena contro qualcosa di molto duro e d’improvviso tutto fu buio.




 
«Le abbiamo chiamate Lance Fulmine».
Mikasa apre gli occhi. Si trova in una delle aule del quartier generale dell’Armata Ricognitiva. Hange è davanti a lei, con un gesso in mano e sta indicando dei disegni sulla lavagna alle sue spalle.

Mikasa si volta, alla sua sinistra sono seduti Armin ed Eren, alla sua destra Jean, Sasha e Connie. Riesce a scorgere altri soldati attorno a sé, compresi Erwin Smith e Levi, entrambi in piedi vicino alla porta.

La voce di Hange riprende a parlare: «Si attivano con un grilletto simile a quello del Movimento 3D. Non sappiamo quante ne serviranno per abbattere il Gigante Corazzato, ma ognuno di noi ne avrà solo due a disposizione, quindi è importante non mancare il bersaglio, chiaro?»

Tutti annuiscono.

«Mi raccomando, la cosa più importante è allontanarsi abbastanza prima di tirare il detonatore. Una roba di queste può farvi saltare in aria in mille pezzi se siete troppo vicini»

«Col cavolo che mi faccio uccidere da una stupida lancia, dopo tutto quello che abbiamo passato…» le sussurra Eren nell’orecchio, con tono nervoso. Mikasa si volta a guardarlo. È vicinissimo. Ne osserva il profilo, i capelli che quasi gli ricadono sugli occhi verdi.

«Qualcuno ha delle domande?»

Mikasa alza la mano. Hange e tutti gli altri la guardano.

«Sì, Mikasa?»

Mikasa apre la bocca per parlare, poi si blocca. Un pensiero le passa per la testa: tutto questo non sta succedendo davvero. Io non sono davvero qui.

Eren si volta verso di lei, le scuote una spalla. «Ehi, tutto bene?»

Mikasa lo guarda. «Tu sei morto»

Eren spalanca gli occhi. Poi tutto diventa buio. Qualcuno la scuote con forza. Forse Eren?



 
Una voce lontana la raggiunse nelle profondità di quel buio.

«Cazzo, Ackermann svegliati!»

Mikasa provò a sollevare le palpebre. L’odore pesante del fumo, la difficoltà di respirare, il dolore alla schiena, tutto tornò in un istante.

«Non osare morirmi tra le braccia, hai capito?» Riconobbe quella voce. Levi. Spalancò gli occhi.

Il capitano la teneva sollevata. Era completamente ricoperto di polvere, una ferita all’attaccatura dei capelli sanguinava lungo tutto il suo viso, sporcandogli l’occhio buono. Lo vide passarsi con rabbia la mano sulla faccia, per cercare di pulirsi e guardarla meglio. Alle spalle di Levi, il bambino più grande la guardava con altrettanta apprensione, mentre il piccolo continuava a strillare.

Sbattè le palpebre e finalmente mise tutto a fuoco. Erano ancora dentro l’edificio in fiamme, ma si trovavano sopra un cumulo di macerie. La parete alla sua destra era mezza crollata, aprendo una breccia verso l’esterno. Le sembrò di poter ascoltare le grida della gente del posto.

«Sto bene» mormorò, mentre un lampo di sollievo balenava sul viso di Levi. La aiutò ad alzarsi e nel farlo Mikasa constatò che grazie al cielo sembrava non essersi rotta nulla. Prese di nuovo in braccio il piccolo Levi e finalmente seguì il capitano fuori dal muro crollato.

L’aria fresca la investì con tutta la sua forza e la ragazza inspirò a pieni polmoni, abbassando la sciarpa che le copriva la faccia, quasi incredula di averla di nuovo scampata. Levi le zoppicava davanti, mentre costeggiavano il fianco dell’edificio.

Scorsero le uniformi del Corpo di Gendarmeria che era arrivato con i carri botti e stava innaffiando la distilleria per cercare di domare le fiamme.

Sbucarono lateralmente tra la folla. Non appena vennero riconosciuti, tutti gli furono letteralmente addosso.

«Mamma!» gridò il piccolo Levi, balzando giù dalle sue braccia e correndo a perdifiato verso la madre, che li guardava incredula in lacrime.

«Ce l’hanno fatta!» «Capitano Levi!» «I bambini sono salvi!»

Le grida continuavano in un crescendo di entusiasmo. Levi scostò le braccia che cercavano di fermarlo e depose il lattante tra le braccia della donna della distilleria.

«Capitano…avete salvato i miei bambini…» singhiozzo lei, stringendo i figli al proprio petto.

Levi non disse niente. Mikasa scorse un tremito nelle sue mani che la mise in qualche modo in allarme.

Il resto della gente del villaggio gli si accalcò intorno. Qualcuno le porse dell’acqua, qualcuno cercava di ripulirle il viso con delle pezze bagnate.

«Lo sapevo che ce l’avreste fatta!» gridò l’uomo che prima aveva cercato in tutti i modi di dissuaderli, cercando di afferrare il capitano per il braccio. Levi si divincolò e riprese a camminare, facendosi spazio tra la folla, come per tornare sulla strada ed allontanarsi.

«Dobbiamo andare…» lo sentì dire, con un tono incerto che non gli si confaceva. L’uomo cercò di fermarlo di nuovo: «Lasciate almeno che vi aiutiamo a ripulirvi. Stanno arrivando i medici, dovreste farvi controllare!»

«Ho detto che dobbiamo andare!» rispose Levi, a voce alta, spingendolo via con tutta la sua forza. L’uomo barcollò all’indietro, interdetto. Levi riprese a camminare, sempre più velocemente verso la strada e le prime case del villaggio.

Mikasa sentì che qualcosa non andava. Si affrettò alle sue spalle.

«Grazie per la vostra offerta, ma siamo di fretta. Stiamo bene» mormorò verso l’uomo e tutti gli altri che continuavano a stargli attorno.


Levi aveva affrettato ancora il passo, ora stava quasi correndo. Mikasa continuò a seguirlo, lanciando ancora qualche ringraziamento alle offerte dei paesani ormai alle loro spalle.
Il capitano raggiunge le prime case e si infilò in una stradina laterale.

Non appena la ragazza svoltò a sua volta, lo vide appoggiato alla parete di una casa, piegato in due, che vomitava. 

 
Ciao! 
Ecco il nuovo capitolo della storia...questa volta vi lascio con un po' di suspance! :)
E' il primo capitolo con un po' d'azione, spero di aver reso bene l'idea e che vi sia piaciuto!

Fatemi sapere cosa ne pensate e tranquilli...non vi lascerò a lungo col fiato sospeso, il prossimo capitolo è in arrivo.

Chikay



 

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Capitolo 6
*** VI ***


Ciao a tutti! 
Con un po' di ritardo ecco il nuovo capitolo...volevo pubblicarlo entro venerdì scorso, ma il capitolo 138 ha vagamente distolto la mia attenzione...sto ancora processando a dire il vero!

Volevo avvisarvi che in questo capitolo si parla in parte di episodi legati al disturbo da stress post traumatico. E' una tematica delicata che mi sta molto a cuore e che tornerà qui e là nel resto della storia. Mi sembra giusto avvertirvi nel caso qualcuno avesse problemi a leggere di certi argomenti. 

Detto questo, buona lettura! 


 
VI


Mikasa trattenne il fiato, mentre sentiva la preoccupazione scoppiarle dentro in un secondo. Gli si fece immediatamente accanto, mentre lui si ripuliva la bocca con la manica della giacca. 

«Capitano, stai bene? Forse dobbiamo tornare indietro dai medici!»

Levi la scostò e fece un passo avanti, appoggiando il fianco al muro alla sua sinistra. Le sue mani ripresero a tremare mentre si allentava con foga il foulard attorno al collo. 

«Cazzo, non di nuovo…» mormorò tra sé e sé. Cercò di fare un respiro profondo, senza riuscirci.

«Io...» provò ancora a parlare, mentre i suoi respiri si facevano sempre più corti ed erratici. 

Un attimo dopo, le gambe cedettero sotto al suo peso ed il capitano si ritrovò seduto per terra, con la schiena appoggiata al muro.

«Levi!» gridò Mikasa con orrore, accucciandosi davanti a lui, senza sapere cosa fare.

«Non...non riesco...a respirare…» mormorò lui cercando disperatamente di prendere aria, mentre il suo respiro si faceva ancora più veloce. Si aggrappò al braccio di Mikasa, che la ragazza aveva poggiato sulla sua spalla per sostenerlo e strinse la presa. 

«Vado a chiamare aiuto, aspetta qui»

A quella proposta, i suoi occhi si spalancarono terrorizzati. Questo la spaventò a morte: non aveva mai visto il capitano così, neanche nei momenti più disperati. 

«Ti prego...non...lasciarmi…»

In quell’istante, Mikasa finalmente realizzò cosa stesse succedendo. Levi stava andando in iperventilazione, lo sguardo perso che ormai non riusciva più a metterla a fuoco. 

«Levi. Guardami.» ordinò. 

Lui stava ormai perdendo conoscenza, il respiro completamente senza controllo, le mani che tremavano mentre dei gemiti di dolore gli sfuggivano dalle labbra dischiuse.

«Ehi! Guardami!» ripeté lei, prendendogli il viso tra le mani e costringendolo a guardarla negli occhi. 

«È tutto ok. Stai avendo un attacco di panico. Sono qui. Sei al sicuro.»

«Non...riesco…» mormorò lui con un tono quasi impercettibile, mentre delle lacrime si formavano nel suo occhio scoperto, impiastricciandosi con il sangue che gli imbrattava il viso. 

«Sì, che puoi. Guarda me. Segui il mio respiro, ok?» 
La ragazza aumentò la velocità dei suoi respiri, per cercare di far sì che lui potesse copiarla. 

Lui deglutì e gemette, poggiando di nuovo le mani sulle braccia di lei, mentre cercava di voltarsi.  

Mikasa non glielo permise. Si sporse in avanti e appoggiò la propria fronte su quella di lui. Poteva sentire i suoi respiri erratici sul viso. Chiuse gli occhi, cercando di trasmettergli tutta la calma di cui era capace. 

«È tutto ok...sono qui con te...sei al sicuro» mormorò dolcemente, rallentando gradualmente il respiro, per far sì che lui le andasse dietro. 

A Levi sfuggì un singhiozzo spezzato che le fece stringere il cuore. Le si appoggiò completamente addosso, lasciando che lei lo sostenesse. Mikasa gli accarezzò la guancia destra con delicatezza. 

«Va tutto bene...puoi farcela...non ti lascio…»


 
Dopo un tempo che le parve infinito, finalmente anche il respiro di lui cominciò a rallentare. 

Rincuorata, gli passò una mano tra i capelli, cercando di scostarli dal suo viso, ma senza allontanare la propri fronte dalla sua. 

Levi singhiozzò di nuovo, questa volta con frustrazione, poi alzò le mani ancora tremanti e si coprì il volto, allontanandosi impercettibilmente all’indietro. 

Mikasa lo tirò di nuovo a sé, facendogli poggiare la fronte nell’incavo tra il proprio collo e spalla ed iniziò a carezzargli la schiena e la nuca, abbracciandolo delicatamente. 

«Va tutto bene Levi, respira. È finita...» Lo disse rivolto a lui, ma anche lei rilasciò un sospiro di sollievo, mentre sentiva le proprie mani che tremavano impercettibilmente.
 
 
 
Rimasero fermi per circa un minuto: Levi appoggiato con la fronte alla sua spalla, Mikasa che lo stringeva, passandogli la mano destra sulla schiena. I respiri di lui si facevano via via più regolari, anche se qualche gemito continuava a sfuggirgli dalle labbra appena dischiuse. 

Qualcosa era cambiato in Mikasa. Aveva visto il capitano ferito, dolorante – anche spaventato – altre volte, ma ogni volta le aveva sempre trasmesso la sensazione di avere comunque tutto sotto controllo. Lo aveva visto gestire gli attacchi di panico di tanti commilitoni, non avrebbe mai creduto che un giorno sarebbe potuto succedere anche a lui. Si rese conto con certezza cristallina che l’immagine che aveva costruito di lui le era appena crollata di nuovo davanti agli occhi, lasciandole vedere l’uomo vero, vulnerabile, sofferente, che lottava come lei per affrontare i postumi di una guerra che era durata tutta la sua vita e lo aveva lasciato con cicatrici ben più profonde di quelle che sfregiavano il suo viso. 

Alla fine, Levi si scostò, appoggiandosi con le spalle al muro. Le lanciò uno sguardo esitante, poi abbassò gli occhi e poggiò i gomiti sulle proprie ginocchia. 

Mikasa sapeva di non essere nella posizione di poter parlare per prima, così rimase in silenzio ad osservarlo con la coda degli occhi. Dopo un primo momento in cui si era sentita quasi in imbarazzo per averlo visto così – per aver varcato a gamba tesa i confini della sua riservatezza – adesso paradossalmente si sentiva ancora più a suo agio. Sapeva bene che per lui non era la stessa cosa: Levi non mostrava mai a nessuno le sue debolezze, tantomeno ai suoi sottoposti. Si aspettava che provasse vergogna per ciò che era successo e che la respingesse di nuovo con freddezza.

«Sto bene» mormorò lui, la voce piatta, lo sguardo basso.

«Levi…» provò ad iniziare lei, ma venne prontamente interrotta.

«E tu? Stai bene?» 

Per la prima volta da quando erano usciti insieme dalla distilleria in fiamme, Mikasa si ricordò di quanto avevano appena vissuto. La mano sinistra scattò distrattamente verso la spalla opposta, stringendola per controllare eventuali danni. L’articolazione era ancora un po’ dolorante, ma non le sembrava nulla di grave.

«Sì...tutta intera»

Levi si alzò cautamente, la mano sinistra sempre stretta attorno al ginocchio, la mascella serrata ed evidente sotto lo spesso strato di polvere e sangue che gli ricopriva ancora il volto. Mikasa lo imitò in silenzio.

«Merda...siamo disgustosi…» sibilò il capitano cercando di ripulire le maniche della propria giacca «Vieni, conosco un posto dove possiamo ripulirci…» 

«I cavalli ed i cappotti...aspettami qui, torno indietro a prenderli» si intromise lei.

Lo vide esitare. Era combattuto tra l’idea di dimostrarle che stava bene ed il disagio che gli avrebbe provocato tornare indietro tra la gente. Strinse i pugni, ma non disse niente. 
Mikasa si avviò da sola sui propri passi. 
 


 
Quando tornò indietro dopo aver recuperato le loro cose, Levi la guidò fino all’unica locanda del paese. Legarono i cavalli su un lato dell’edificio prima di varcarne la soglia che si apriva sulla strada principale. L’insegna che si muoveva placidamente nel vento autunnale recitava “La scala di pietra”. Mikasa aggrottò la fronte di fronte alla stranezza di quel nome, ma non commentò. 

Non fecero neanche in tempo ad entrare, che una voce profonda e gioviale li accolse. 

«Levi, ragazzo! Forza, entrate!»

Mikasa spalancò gli occhi incredula. Ragazzo? Chi diavolo era che aveva il fegato di chiamare il Capitano Levi dell’Armata Ricognitiva a quel modo? 

Ad aver parlato era l’oste, un uomo alto e grosso come una montagna. Aveva folti baffi e barba brizzolati, una bandana a coprire la calvizie, braccia grosse e muscolose ed una prominente pancia che dava qualche indizio su quali fossero i suoi piaceri preferiti. 

L’uomo spalancò le braccia a mo’ di invito, spostandosi da dietro al bancone per venirgli incontro. Il resto della locanda era deserto, probabilmente sia per l’orario che per gli avvenimenti alla distilleria, che di certo avevano attirato quasi tutti i paesani. 

«Rufus, devo chiederti un favore» cominciò il capitano, fermandosi appena oltre la porta, con Mikasa subito dietro di lui. 

«Qualunque cosa per gli eroi della giornata!» Levi puntò uno sguardo interrogativo sull’uomo che gli si avvicinava.

«Credevi che le vostre gesta di poco fa nella distilleria rimanessero nascoste? Ne sta già parlando tutto il paese e non è successo neanche mezz’ora fa» proseguì Rufus prima di assestare una sonora pacca sulla spalla di Levi.

«Per questo siamo qui. Siamo sporchi fino al midollo… possiamo usare la tua fontana per darci una lavata?»

«Te l’ho già detto, tutto quello che ti serve. A te e a questa dolce fanciulla»

Levi gli lanciò uno sguardo seccato. «Non è una dolce fanciulla, è un soldato, mostra un po’ di rispetto»

Rufus si rivolse alla ragazza, profondendosi in quello che sembrava un inchino impacciato. 
«Le mie scuse, miss Ackermann, se vi avessi involontariamente offeso»

«Non c’è problema…» mormorò lei, ancora interdetta dallo scambio di battute tra i due. 

Rufus indicò col braccio la porta al di là del bancone.
«Conosci la strada, ragazzo, fate come se foste a casa vostra…»

Il capitano spostò il peso da una gamba all’altra, senza però avanzare. «Siamo coperti di polvere, non vorrei sporcarti tutto il pavimento…»

Ma Rufus lo interruppe esasperato: «Oh per la miseria, Levi! Credi che m’importi? Forza, andate!» e detto questo provò a spingerò dentro. 

Levi si divincolò allontanandogli il braccio: «Smettila di toccarmi. Cercavo solo di essere gentile, vecchio»

Rufus scoppiò in una sonora risata che fece quasi sobbalzare Mikasa. Levi sbuffò e proseguì verso la porta, con lei al suo seguito.


Sbucarono nel cortile della locanda, al centro del quale vi era una fontana con una grossa vasca di pietra, simile a un fontanile di campagna. Sul lato opposto rispetto alla locanda, c’era una tettoia che fungeva da stalla, attualmente vuota, fatta eccezione per un vecchio ronzino che si mise ad osservarli mentre scuoteva placidamente la coda. A sinistra, su un paio di funi tese, erano stese delle lenzuola e degli asciugamani. Levi si diresse lì e ne prese un paio.

Mikasa nel frattempo si avvicinò al fontanile ed immerse una mano nell’acqua limpida. Trattenne il fiato un po’ più rumorosamente di quanto avrebbe voluto, e Levi si voltò di scatto verso di lei, i sensi all’erta, in allarme.

«È fottutamente gelata» borbottò verso di lui, mentre osservava le sue spalle che si rilassavano.

Levi sospirò, avvicinandosi e togliendosi la giacca.

«Lo so… Mi dispiace, è il primo posto che mi sia venuto in mente…»

Mikasa non era abituata a sentirlo scusarsi: era sicuramente quello il motivo per cui si sentiva in imbarazzo, non certo perché lui stava iniziando a slacciarsi il foulard e la camicia.

«Va più che bene, non preoccuparti…Voglio dire, è meglio di niente» farneticò, lanciandosi ampie quantità di acqua gelida in faccia per distogliere lo sguardo dalla sua schiena ormai nuda.

Levi trattenne il fiato a sua volta quando immerse le braccia nell’acqua, ma poi sospirò con sollievo mentre si sciacquava il viso, il collo ed i capelli.

 
«Come vi siete conosciuti, tu e Rufus?»

Un sogghigno gli fece curvare un lato delle labbra e Mikasa provò un’immediata sensazione di sollievo nel vedere un’espressione meno tesa sul suo viso.

«Tanto tempo fa, l’ho battuto a braccio di ferro»

«Per “tanto tempo fa” intendi…»

«…Nella Città Sotterranea, sì, esatto»

«Oh…» fu il solo commento che Mikasa riuscì a fare. Con una titubanza che non le apparteneva, sbottonò la camicia a sua volta e rimase in canottiera. Levi si voltò in quell’istante, afferrando l’asciugamano. Le lanciò uno sguardo penetrante dei suoi, il suo occhio si mosse lungo tutto il suo corpo, come per esaminarla.
Mikasa sentì il calore salirle al volto, anche se sapeva che lui stava solo controllando che non ci fossero ferite evidenti. Si affrettò a strofinarsi le braccia.

«Quindi… ragazzo, eh?»

«Non provare a ripeterlo, ragazzina»

Mikasa ridacchiò.
Ripresero entrambi a lavarsi.

«Levi?»

«Hn?»

Mikasa si morse il labbro inferiore, per un attimo incerta, poi proseguì:
«Prima, nel vicolo…»

Vide Levi irrigidirsi. I muscoli della schiena si tesero in un istante.

«…hai detto “non di nuovo”… ti era già successo?»

Levi rimase in silenzio per qualche secondo con le mani appoggiate al bordo del fontanile che sorreggevano il suo corpo sporto in avanti. Poi annuì con un sospiro.

«Da quanto tempo…»

Anche questa volta, si prese il suo tempo prima di rispondere. Poi disse: «Da dopo Shiganshina»

Mikasa spalancò gli occhi, incredula. Shiganshina risaliva a tanti anni prima, c’erano stati quattro anni di pace, poi la guerra, poi questa nuova strana, definitiva pace senza giganti. In quasi tutto quel tempo, lei era stata accanto a lui, ignara di tutto.

«Non sono la persona che tu pensi, Mikasa…»
La sua voce era piatta, il tono era quello di sempre, ma non riusciva a celare completamente una punta di commiserazione. Si strinse nelle spalle, sempre senza guardarla.

«…sono un rottame»

Mikasa si voltò verso di lui, mentre un sorriso triste le distese leggermente le labbra.

«Quante volte ti è successo?»

«…ho perso il conto»

Questa volta la ragazza non riuscì a controllarsi e trasalì rumorosamente, con sorpresa. Lui le lanciò uno sguardo e si raddrizzò, voltandosi verso di lei e mostrandole il torso nudo, sul quale una cicatrice vistosa come quella sulla schiena compariva sul fianco, sbucando dal bordo dei pantaloni.

«Non è sempre come prima» proseguì, passandosi la mano sinistra nei capelli «…a volte è…» deglutì «…diverso.»

Tornò a guardarla in viso, mentre un’espressione quasi beffarda gli alterava i tratti.

«So cosa pensi…» allargò le braccia «Il soldato più forte dell’umanità. Un po’ deludente»

«Qualcun’altro ne è al corrente?»

«Hange…e… Armin»

Mikasa distolse lo sguardo, fissandolo sulle proprie mani.

«La prima volta…ero con lui» Levi sorrise malinconicamente «Mi ha salvato la vita»

«Non sei un rottame»

Lo sentì sbuffare. «Come vuoi, Mikasa…»

«Sono seria»

Il suo tono lo fece voltare verso di lei. Mikasa poteva sentire il peso del suo sguardo, nonostante non avesse ancora alzato il proprio dalle mani immerse nell’acqua.
«Non sei un rottame»

Con deliberata lentezza, sollevò il viso e lo guardò negli occhi. Lui rimase in silenzio. All’apparenza, quella poteva sembrare l’espressione stoica di sempre, ma la ragazza stavolta riconosceva la domanda nascosta dietro di essa: come fai ad esserne così sicura?

Restarono in silenzio per quello che sembrò essere un tempo lunghissimo, continuando a guardarsi negli occhi.

Lo so e basta, Levi.

Infine, sentendosi stanca come non le succedeva da anni, Mikasa si strinse nelle spalle.

«…un po’ danneggiato, forse. Ma niente che non si possa sistemare» disse quindi, con tono leggero.

Lo sguardo di Levi si addolcì impercettibilmente, prima di abbassarsi.

Rialzò il viso di scatto, inspirando rumorosamente quando lei lo schizzò con l’acqua gelata. Allargò le braccia - ricoperte di un fitto reticolato di cicatrici – e corrugò la fronte, mentre lei ridacchiava.

«Pensa bene a quello che fai, ragazzina»

«Lo sto facendo» rispose lei, con tono provocatorio, lanciandogli uno sguardo di sfida.

Non lo vide neanche muoversi, ma l’istante dopo sentì le sue mani sulle braccia e l’acqua gelida del fontanile la avvolse quando lui ce la spinse dentro. La ragazza si ritrovò completamente immersa nell’acqua, fatta eccezione per la testa e per le gambe dalle ginocchia in giù, ancora appoggiate sopra la vasca. Gli lanciò uno sguardo esterrefatto, mentre tratteneva il fiato per il freddo gelido.
Levi sogghignò, stringendosi nelle spalle.

«Merda! È gelata!»

«Non dire che non ti avevo avvisato»

Mikasa gli lanciò uno sguardo estenuato, prima di provare a tirarsi fuori dal fontanile, senza avere successo.

Tese una mano verso di lui «Sarai contento…almeno aiutami ad uscire»

Lui le prese il braccio sbuffando. A quel punto capì di aver commesso un errore. Con un’espressione dispettosa, la ragazza gli sorrise. L’istante dopo era immerso nel fontanile anche lui, praticamente caduto addosso a lei.

«Diamine, Mikasa!» sibilò
«Chi la fa l’aspetti!» ribatté lei mentre per un istante un'espressione biricchina le illuminava gli occhi. Lui le lanciò uno sguardo torvo e lei per tutta risposta gli schizzò di nuovo la faccia.

«Hai finito?»

«Altrimenti che fai?»

Fu solo dopo aver pronunciato la frase, che Mikasa si rese conto della posizione in cui si trovavano. Lui aveva le braccia – immerse nell’acqua – che le circondavano i fianchi. I loro visi erano vicinissimi, poteva toccare il suo petto con il proprio. Erano così vicini che la ragazza sentiva il respiro uscire dalle sue labbra dischiuse ed accarezzarle il viso. Sarebbe bastato spingersi avanti di qualche centimetro perché le sue labbra sfiorassero quelle di lui…

Si sentì avvampare. Distolse lo sguardo mentre si schiariva la gola e provava a divincolarsi. Levi fu d’improvviso anche lui cosciente della situazione e si spinse indietro con troppa forza, quasi cadendo giù fuori dalla vasca.

«Se non ti comportassi come una ragazzina tutto il tempo, non dovrei fare proprio niente…» borbottò, cercando di darsi un contegno mentre si frizionava con l’asciugamano.

Mikasa si tirò finalmente a sedere sul bordo della vasca, guardandosi i pantaloni zuppi con disappunto. «Se non avevo bisogno di vestiti nuovi prima, adesso ne ho decisamente bisogno, grazie a te»

Levi sollevò le sopracciglia, prima di rabbrividire nel vento gelido che aveva ricominciato a soffiare. Le porse nuovamente la mano e questa volta Mikasa si lasciò aiutare a mettersi in piedi.

«Il negozio di vestiti è a due passi da qui. Dividiamoci e vedi di comprarti qualcosa di pesante. Io andrò alle poste e poi ci rivedremo qui alla locanda»
La ragazza annuì prima di precederlo di nuovo all’interno.




 
Una volta che Mikasa fu uscita, Levi si lasciò cadere pesantemente su uno sgabello davanti al bancone. Rufus aveva già messo a scaldare un bollitore sul fornello.

«Quindi…tu e Mikasa Ackermann, eh?»

Il capitano gli lanciò uno sguardo annoiato e schioccò la lingua, prima di allungare la mano sinistra verso la tazza ora piena.

«Nient’affatto…»

«E allora perché è qui?»

«Credo non abbia altro posto dove andare»

Rufus gli scoccò uno sguardo di sbieco, mentre Levi fissava il fondo della sua tazza facendola roteare.

«Che vuoi dire?»

«È complicato» Levi si passò la mano destra tra i capelli, sospirando.

«Ho visto come vi guardate, Levi… non mi sembra ci sia niente di complicato»

Levi corrugò la fronte, ma non disse niente.

Era vero. Qualcosa era cambiato nel suo rapporto con Mikasa. Si sorprendeva a guardarla più di quanto non volesse ammettere. Si ripeteva che lo faceva per controllarla, assicurarsi che fosse ancora in piedi, che non stesse crollando a pezzi, ma non ne era più così sicuro. Quando lei sorrideva, qualcosa gli si attorcigliava nello stomaco. Si era assuefatto alla sua compagnia discreta come non avrebbe mai creduto possibile. A volte provava questo strano impulso di allungare la mano e toccarla. Passarle una mano sulla guancia o sui capelli, o prenderle la mano, come aveva fatto il giorno prima. Poi la ragione per fortuna subentrava quasi sempre, bloccando questi istinti sul nascere. Perché Levi nel profondo sapeva bene cosa Mikasa ci facesse da lui. E non c’entrava niente questo strano legame che si stava stringendo tra loro.


Un lampo di città infuocata, il vapore del più grande gigante del mondo che si decomponeva gli passarono davanti agli occhi in un istante. Occhi verdi che lo fissavano. Determinazione contro dubbi.


Levi si passò una mano sul viso, scacciando quei ricordi.

«Ehi ragazzo, sei ancora tra noi?» la voce di Rufus lo fece tornare al presente.

«Non è giusto per lei stare qui. Alla fine, lo capirà…» mormorò Levi, quasi parlando a se stesso.

Rufus lo guardò intensamente, cercando di leggere in quella testa dura, ma non commentò.

«Avete messo su uno show piuttosto impressionante giù alla distilleria…Il lupo perde il pelo, ma non il vizio, immagino…»

Il capitano si strinse tra le spalle. «Che vuoi farci, noi eroi siamo fatti così…» ma si concesse un ghigno sarcastico, che precedette di appena un attimo la manata rifilatagli dall’oste.

Lo sguardo di Levi si posò su un giornale poggiato sul bancone. Allungò la mano per avvicinarlo ed osservare meglio la fotografia che spiccava in prima pagina. Dalla guerra, diverse delle tecnologie avveniristiche di Marley si erano diffuse anche a Paradis e la fotografia era una di queste, assieme al telegrafo e ad alcune – rarissime – automobili.

Non appena riconobbe le due figure che spiccavano nel dagherrotipo, Levi rimase senza fiato. La sua espressione doveva essere cambiata parecchio, perché Rufus lo guardò preoccupato: non lo aveva mai visto così espressivo da quando lo conosceva. Levi era rimasto letteralmente a bocca aperta.

«Cazzo…» mormorò.

«Qualcosa non va?» Rufus aveva letto quel giornale ieri e niente di quanto c’era nella foto o di quanto era scritto nelle pagine gli avrebbe provocato una simile reazione. Corrugò la fronte continuando a guardare il capitano.

Levi si riscosse, cercando di dissimulare il suo stupore. «Posso tenerlo?»

«Ma certo…Se mi dici che diavolo hai visto in quella foto»

«Diciamo che riguarda il discorso che facevamo prima…»

«Non vedo come la regina Historia possa rientrare nel discorso…»

«Non importa, lascia perdere. E tieni la bocca chiusa» tagliò corto Levi, mentre piegava il giornale e lo infilava nella tasca del suo cappotto.
L’oste si strinse nelle spalle e aggiunse una dose non indifferente di acquavite alla sua tazza di tè con assoluta nonchalance.
 
 




Mikasa varcò la soglia della sartoria ancora quasi completamente zuppa. Sperava che i proprietari non se ne avessero a male. Una donna di mezza età le venne incontro sistemandosi un camice bianco pieno di spilli addosso. «Mi dispiace, siamo ancora in pausa pranz….oh cielo, cara! Ma cosa ti è successo?»

La ragazza allargò le braccia a mo’ di scusa, ma prima ancora che potesse rispondere, la sarta finalmente la riconobbe.

«Mikasa Ackermann!» sobbalzò portandosi una mano sul petto con aria teatrale «Oh cara, grazie, grazie per tutto quello che hai fatto per noi! E per la distilleria!»

Le si avventò contro, afferrandole un braccio e trascinandola più all’interno dell’ampio locale, riempiendola di complimenti. Mikasa non sapeva bene come rispondere a quelle esplosioni di entusiasmo che ogni tanto aveva dovuto subire da quando la guerra era finita. Si sentiva solo profondamente in imbarazzo e restava praticamente in silenzio tutto il tempo.

«Cosa possiamo fare per te, cara?»

«Io…ho bisogno di vestiti invernali, parecchi vestiti invernali. Maglioni, stivali, un cappotto…»

«Non serve dire altro! Abbiamo tutto quello che ti serve!» cinguettò la sarta continuando a stringerle il braccio. Mikasa cercò di divincolarsi educatamente, ma la presa si fece ancora più ferrea.

«Conti di restare in questa zona per l’inverno?»

Mikasa si trovò a riflettere su quella domanda. Finora si era limitata a restare da Levi senza fare piani e lui sembrava dare per scontato che sarebbe rimasta ancora a lungo a casa sua. La cosa le fece accelerare il battito cardiaco impercettibilmente, mentre qualcosa sembrava agitarsi nel suo stomaco.
«Sì…» mormorò esitante alla fine.

«Oh splendido!» esclamò la donna, allontanandosi finalmente dalla ragazza per andare a tirar fuori una enorme quantità di vestiti da sportelli e cassapanche per poggiarli sul bancone al centro del negozio. «Risiedi alla locanda, cara?»

«No, io…» Mikasa si schiarì la gola «…sono ospite del Capitano Levi»

Abbassò lo sguardo imbarazzata, mentre sentiva di arrossire sotto lo sguardo eloquente e civettuolo della proprietaria.

«Ohhh….ma certo…» commentò quest’ultima, farcendo le sue parole con quante più allusioni fosse possibile infilare in così poche sillabe.

Mikasa si schiarì di nuovo la gola, prendendo a giocare con il lembo della sua camicia. Era certa che la notizia che Mikasa Ackermann avrebbe passato l’inverno a casa del Capitano Levi era appena diventato il pettegolezzo più succulento di tutto il paese. Sospirò, sentendosi d’improvviso vulnerabile e giovane.

La donna, dal canto suo, smise di tormentarla e prese a mostrarle di tutto. In breve, selezionarono diverse cose. Mikasa si riteneva abbastanza soddisfatta, tutto le sembrava di ottima fattura e non troppo costoso. D’improvviso, la sarta aprì l’ennesimo guardaroba e gli occhi della ragazza vennero immediatamente attratti da una sottoveste di raso e pizzo rosa pallido. Trattenne il fiato e spalancò gli occhi. Ovviamente, la venditrice se ne accorse in un istante.

«Cosa ne dici, cara?» iniziò, appoggiando la sottoveste sul bancone «Ti starebbe d’incanto…oh avessi un fisico come il tuo non indosserei altro!»

Mikasa deglutì, ma decise di non commentare che quel fisico derivava da anni ed anni di guerra, una cosa che fa cambiare un po’ la percezione su cose così futili come vesti di seta.

«Sono sicura che anche il nostro Capitano apprezzerà…» continuò la donna a bassa voce, avvicinandosi a Mikasa con fare confidenziale.

Mikasa avvampò fino alle orecchie. Sentì la pressione sanguigna che aumentava con un sordo thud fin nelle tempie al solo terrorizzante pensiero che Levi la vedesse con quella cosa addosso.

«Oh io…» balbettò cercando di nascondere il suo imbarazzo senza riuscirci minimamente «no…è che mia madre aveva una sottoveste simile…» riuscì infine a dire. Era vero,

Mikasa la ricordava bene quando si avvolgeva in un vecchio kimono per nascondersi dal freddo pungente della loro baita, ma la sarta non le credette neanche per un istante. Alzò le sopracciglia ed arricciò le labbra. «Sì, certo, cara… come dici tu…»

La donna prese la sottoveste e gliela porse: «Non vorresti provarla?»
Mikasa scosse il capo con un po’ troppa enfasi. «Io…non credo che ne avrò bisogno, grazie.»

«Ecco cosa facciamo, cara. Questa qui la offre la casa, d’accordo?»

«Non posso accettare!»

«Coraggio, non fare storie. Consideralo un regalo per il tuo aiuto alla distilleria! Ecco, lo metto nel sacchetto e non ne parliamo più!»

Prima che Mikasa potesse protestare ancora, la sarta ficcò la sottoveste sotto a tutti gli altri vestiti e si voltò per andare ad arraffare qualcos’altro. La ragazza si accarezzò il collo incerta, ma non osò obiettare.

«E adesso, l’ultima cosa che ti manca è una bella sciarpa.» Le lanciò uno sguardo da sopra la propria spalla, come per studiarla «Scommetto che il bordeaux è il tuo colore!»
Scese dalla scaletta di legno sulla quale era salita per raggiungere gli scaffali dietro al bancone e le porse un pezzo di stoffa rosso.

Mikasa sentì il cuore precipitarle nello stomaco. Aveva tra le mani una sciarpa rossa, morbida, corposa. Praticamente identica alla sua sciarpa. Vide le sue mani che iniziavano a tremare debolmente, ma le sembrava di essere lontanissima, di guardare la scena dal di fuori, come se quelle fossero le mani di qualcun altro. Qualcosa nella sua espressione doveva essere cambiata, perché la donna corrugò la fronte e le posò esitante una mano sul braccio.

«Stai bene, cara?»

Mikasa provò ad aprire la bocca, ma ci ripensò e si limitò ad annuire. D’improvviso ebbe voglia di piangere. Avvicinò la sciarpa al viso e vi tuffò dentro il naso, quasi per nascondersi. Profumava di pulito e di caldo. Non c’era niente che somigliasse all’odore di Eren. La consapevolezza della mancanza del suo odore le fece stringere le labbra. Niente poteva più avere l’odore di Eren ormai…

«Sei sicura? Sembri sconvolta…»

Mikasa annuì di nuovo. Fece un grande respiro ed abbassò la sciarpa, cercando di rivolgere un sorriso incerto alla sarta. «Preferirei un altro colore…» riuscì infine a mormorare.
La donna sembrò sollevarsi nel sentirla parlare di nuovo e prese ad annuire con foga. «Ma certo, ma certo! Cosa ne pensi di un bel blu?»

Blu. Acqua. Oceano. Armin.

Mikasa scosse di nuovo la testa, questa volta meno titubante. «Avreste una sciarpa nera?»

«Nera, cara? Non vorresti qualcosa di più colorato? Hai scelto solo abiti grigi e marroni…non preferiresti qualcosa di più allegro?»

Mikasa si ricordò di una conversazione con le altre ragazze. Historia e Sasha sostenevano che gli abiti si abbinassero allo stato d’animo e che i loro colori potessero influenzarlo. «Io indosso sempre qualcosa di chiaro quando mi sento giù, e sto immediatamente meglio!» le risuonò nella mente la voce di Historia. Probabilmente avevi ragione…

«Nera andrà benissimo, grazie.»



 
Cosa ne pensate? 

Ammetto che non è stato facile scrivere la prima parte di questo capitolo, ancora adesso non sono soddisfatta al 100%, ma spero di aver reso l'idea! Non ricordavo se in "No regrets" l'oste con cui Levi si sfida a braccio di ferro avesse o meno un nome...così ho deciso di chiamarlo Rufus (: 

Spero di poter postare il seguito al più presto, 
grazie a tutti voi che state leggendo!

Chikay

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Capitolo 7
*** VII ***


Ciao! Questa volta sono riuscita a rispettare la scadenza che mi ero imposta, quindi ecco un altro capitolo, anche se vi avverto che è più breve del solito! 

In questo capitolo c'è una scena un po' forte: ho lasciato comunque il colore arancione perché non è descritta visivamente, ma fatemi sapere se pensate che debba cambiare il colore della storia in rosso! 

Altre note in fondo al capitolo :) 

 
Water, is taught by thrist.                            L'acqua, è insegnata dalla sete.
Land - by the Ocean passed.                     La terra - dall'oceano attraversato.
Transport - by throe -                                  Lo slancio - dall'angoscia -
Peace - by it's battles told -                        La pace - la raccontano le battaglie - 
Love, by Memorial Mold -                           L'amore, dalle lapidi della memoria - 
Birds, by the Snow.                                    Gli uccelli, dalla Neve. 






VII



«Non posso farlo»
Mikasa abbassa lo sguardo, per nascondere le lacrime che le si stanno formando negli occhi.
Serra i pugni.
 
Attorno a lei cala il silenzio. 
Stringe le labbra, cercando di smettere di tremare, poi alza lo sguardo verso Annie.
«Lo so che ho detto che l'avrei fatto. Ma non posso»
 
«Mikasa...» comincia Connie «L'unico modo per fermare tutto questo è fermare...»
«Lo so, Connie!» sbotta, con la voce rotta. Si asciuga con foga una lacrima che le è scesa sulla guancia destra, proprio sopra la sua cicatrice. 
«So tutto quanto...ma io...io...» un singhiozzo le sfugge dalle labbra. 
 
È impossibile, non posso farlo. Non posso farlo. 
Sente il suo corpo tremare, ma non riesce a impedirlo. Scuote la testa, lentamente, tutte le sue forze tese nello sforzo di impedirsi di crollare in lacrime. 

Sente Hange spostare il peso da una gamba all'altra «Mikasa...» mormora la Comandante, la voce bassa, il tono dolce.
Sa che proverà a convincerla, ma è tutto inutile. Potrà dire che lo farà quanto vogliono, ma la verità è che non ci riuscirà mai. 
 
Prima che Hange possa continuare, una voce risuona decisa nel silenzio. 
 
«Lo farò io»
 
Il viso le scatta verso l'alto, alla sua destra. 
Levi è leggermente scostato dagli altri, in piedi, con lo sguardo che vaga su tutto il gruppo tranne che su di lei.
 
Hange alza le sopracciglia.
 
«Molto tempo fa, durante il processo, ho detto che se Eren avesse perso il controllo l'avrei fermato. È solo per questo che Eren è entrato nel Corpo di Ricerca. Mi sembra che questo momento sia arrivato.»
 
Levi gela con lo sguardo Hange, impedendole di aprire la bocca per controbattere. Poi si volta verso Annie.
 
«Eren fa parte della mia squadra. Non è responsabilità di Mikasa fermarlo. È mia»
 
Il cuore le sbatte impazzito contro le costole. Sente le lacrime che continuano a formarsi e sono troppe per impedire loro di scendere sulle sue guance. Sente crescere dentro di sé una sensazione opprimente, mista di sollievo e disperazione. 
 
Levi si volta verso di lei. I loro sguardi si incontrano. Il capitano le parla abbassando la voce, un'espressione di tristezza dipinta sul suo volto sfregiato. 
«Non devi farlo tu»
 
Finalmente, Hange riesce a riprendersi a sufficienza dalla sorpresa per esclamare: 
«Levi, stai ancora guarendo...non possiamo… permetterci di fallire, c’è troppo in ballo»
 
Levi scatta verso di lei, i muscoli che guizzano sotto l'uniforme ricoperta di polvere e sangue. 
«Credi che non lo sappia? Io sono il soldato più forte dell'umanità. Se dico che lo farò, vuol dire che lo farò»
 
Il silenzio scende di nuovo. 
 
Il dolore è troppo forte. La consapevolezza di quello che sta per succedere le sprofonda nello stomaco come un masso in un pozzo. Scoppia in lacrime.
 
In un attimo si sente avvolta in un abbraccio, stretta forte. Jean la circonda con le sue braccia. Si è mosso immediatamente, senza riflettere. Lo sente accarezzarle la testa, sotto lo sguardo desolato di tutti gli altri. Ecco cosa resta del 104esimo cadetti e del Corpo di Ricerca: un gruppetto sparuto di persone ferite e tristi. 
«Va tutto bene, ci sono qui io...» mormora Jean poggiando la guancia sulla sua testa. Lei si lascia sfuggire un singhiozzo. 
 
Hange sospira, passandosi una mano sul viso. Mikasa sa che sta guardando Levi con un misto di rassegnazione e tristezza. Sa bene quanto tutti gli altri che le probabilità che lui sopravviva sono infinitamente scarse. 
«Ok, allora... è deciso. Tutti quanti cercate di riposare adesso. Partiamo tra due ore»
 
Gli altri cominciano a muoversi, sistemandosi nelle rovine del vecchio mulino semi distrutto dal passaggio dei giganti. 
Lei fa un sospiro e cerca di calmarsi, spingendosi via da Jean, che la guarda con preoccupazione.
 
«Grazie...sto... meglio ora, ma ho bisogno di stare da sola, ok?» La sua voce risuona estranea persino alle sue orecchie.
Lui le lancia uno sguardo malinconico. 
Le accarezza una guancia. 
«Ok, ma se hai bisogno di me, sai dove trovarmi...» 
Lei annuisce, lui si allontana. 
 
Fuori dal mulino ormai è rimasto solo Levi, oltre a lei.
 
«Ho bisogno che tu faccia una cosa per me...»
La sua voce, inaspettata e roca, la fa girare di scatto.
 
«Se io dovessi...essere ferito di nuovo, o peggio...» si interrompe, distratto alla vista del suo viso striato dalle lacrime. 
«Ho fatto una promessa a Erwin»
 
Lei resta in silenzio, in attesa.
 
«Gli ho promesso di uccidere il Gigante Bestia» Allarga le braccia e sulle sue labbra appare un sorriso sghembo, sarcastico «A quanto pare non è così facile»
 
«In ogni caso...» riprende, tornando serio «Promettimi che lo farai»
 
C'è qualcosa di differente nella sua espressione ora. Se non lo conoscesse così bene, le sembrerebbe che la stia supplicando. 
 
Annuisce lentamente. È un piccolo prezzo in cambio di quello che lui si è offerto di fare. 
 
Lui cambia espressione, adesso sembra quasi sereno. Abbassa lo sguardo, mentre un lieve sorriso malinconico gli distende le labbra ferite. 
 
«Grazie...» dice quindi, sollevato. 
 
Lei fa per voltarsi, ma la sua voce la ferma al suo posto.
 
«Sai, non avrei mai voluto che finisse così...Mi dispiace»
 
«Lo so, Capitano». Ed è vero: per quanto lui sia sempre stato freddo con loro e anche duro, sa che sta dicendo la verità. Si è sempre preso cura di loro, li ha sempre difesi. 
 
«È la cosa più difficile del mondo. Lasciare andare qualcuno che ami»

Lei alza lo sguardo e lo incrocia col suo. Da quando a Shiganshina ha salvato Armin sacrificando Erwin, Mikasa si è sempre sentita parzialmente in colpa nei suoi confronti. Ha ottenuto ciò che voleva, ma il costo è stato che lui sacrificasse una delle poche persone davvero importanti. Anche stavolta, a sentirgliene parlare, abbassa lo sguardo sui propri piedi. 

 
Sta facendo la cosa giusta? È davvero la cosa giusta permettere che lui lo fermi a qualsiasi costo? 
 
«È la cosa giusta...» dice lui. La testa le scatta di nuovo verso l'alto, sul volto un'espressione scioccata. Può leggerle nella mente, ora?
«È difficile. Ma è la cosa giusta»
 
Qualcosa dentro di lei si assesta. Lui ha sempre saputo cosa dire a tutti loro per confortarli. 
 
«Riposa un poco, ok?» La sua voce è leggera, dolce. Mikasa annuisce. 
«Anche tu»
 




Mikasa aprì gli occhi. Fuori era ancora buio, ma il vento si era placato e nel cielo di nuovo limpido brillava la luna. Intorno a lei, il silenzio era assoluto: persino i consueti rumori della foresta si erano fermati.

Sospirò rabbrividendo sotto la coperta. La temperatura era scesa ancora. Con la mente ancora rivolta all’indietro nei suoi ricordi, si alzò, inquietata da quel silenzio irreale. Non appena in piedi il volto le si aprì in un sorriso. Aveva appena perso una scommessa…

Fuori dalla sua finestra, il paesaggio era completamente innevato. L’erba era stata sostituita da un manto soffice e bianco che luccicava ammiccante sotto la luna. Gli alberi sembravano usciti da una fiaba invernale e la stalla somigliava ad una casetta ricoperta di glassa di zucchero, simile ai biscotti che Carla cucinava il 25 dicembre, per la Festa delle Mura.

Si chiese se Levi se ne fosse già accorto. L’indomani sarebbe stato ancora più fastidioso del solito…sorrise di nuovo. La visione della neve era riuscita a quietare le angosce che non la facevano dormire. Ripensò a Jean con una punta di rimpianto: non era mai riuscita a ricambiare i suoi sentimenti, nonostante lui le fosse rimasto sempre accanto e l’avesse difesa da tutti, persino da Eren.

Decise di andarsi a preparare una camomilla: il freddo era diventato pungente anche in casa e sicuramente Levi era ancora sveglio a leggere uno dei suoi libri, non lo avrebbe certo disturbato.

Percorse il corridoio in punta di piedi, dopo essersi gettata distrattamente una coperta di lana sulle spalle a mo’ di scialle.


Al contrario di quello che credeva, Levi stava dormendo, seduto su una delle due poltrone davanti al camino, ormai pieno solo di braci ardenti.

Mikasa si bloccò sui suoi passi, interdetta, a guardarlo. Aveva la gamba sinistra stesa davanti a sé, il braccio destro in grembo e la testa appoggiata sul poggiatesta sinistro della poltrona. Il viso era disteso, le labbra appena dischiuse.
Sembrava un ragazzo.
Cercò di ripensare se l’avesse mai visto dormire prima, fatta eccezione per quando era stato ferito dalla lancia fulmine, ma non le venne in mente nulla: avevano passato molte notti insieme, ma anche quando i loro turni di guardia non coincidevano, lui era sempre sveglio e vigile, in disparte.

La ragazza rimase immobile ed in silenzio, per non disturbarlo. Si sorprese ad osservare il lento movimento del suo petto che si alzava ed abbassava coi suoi respiri rallentati. La luce azzurra della notte e quella arancione dei carboni gli rischiaravano il volto. Era una visione così pacifica – ed insolita – che Mikasa non riusciva a distaccarsene.

D’un tratto, lui si mosse leggermente, per sistemare meglio le spalle sullo schienale e le parve di scorgerlo rabbrividire. Con un gesto lento ed aggraziato, si tirò via la coperta dalle spalle. In punta di piedi gli si avvicinò, trattenendo il fiato per paura di svegliarlo. Dolcemente, gli sistemò la coperta addosso. Impulsivamente, allungò la mano e gli accarezzò la guancia ferita. Lui non diede cenno di essersene accorto. Mikasa sorrise. Era felice che riuscisse a dormire dopo una giornata come quella. Decise di lasciar perdere la camomilla e, dopo avergli lanciato un ultimo sguardo, se ne tornò in camera, rintanandosi nuovamente sotto le coperte.
 




 
«Mamma»
 
«Mamma, ho fame...»
 
«Mamma, ti prego...»
 
«Svegliati...»
 
«Ti prego, svegliati...»
 
«Ho fame...»
 
«Ho detto SVEGLIATI!»
 
«Ti prego... mammina... ti prego... ho paura»
 
«Mamma... che devo fare? ...dai, SVEGLIATI!»
 
Il suo corpo è freddo e immobile. Quando Levi la scuote, le sembra di muovere una enorme bambola di pezza. 
 
«Mammina...hai detto che saresti stata bene. Me l'hai promesso...»
 
La sua vista si fa sfocata per via delle lacrime che si formano negli occhi. 
 
«Ti prego non lasciarmi...»
 
Si accoccola sul letto accanto a lei, stringendosi attorno al suo braccio destro, inerme. Il suo corpo inizia ad essere squassato dai singhiozzi. 
 
«Ti prego...me l'hai promesso...»
 
Un dolore inimmaginabile gli stringe il petto. Le lacrime scendono senza freni mescolandosi al muco del naso ed impiastricciandogli il viso. Dei lamenti disperati gli scappano dalla gola prima che possa anche solo provare a fermarli. 
 
«Me l'hai promesso, mamma. Hai detto che saresti guarita. Che saremmo stati sempre insieme. Non puoi morire, ok? Non puoi...Che devo fare, mamma? Ti prego SVEGLIATI!» Le parole iniziano a perdere coerenza, trasformandosi in gemiti. 
 
Gli sembra di star piangendo da ore, stretto attorno al braccio che diventa sempre più freddo. Nella sua mente nient'altro che cieca disperazione. 
 
Dei passi risuonano sul legno malconcio del corridoio, fuori dalla stanza. Un brivido di allarme fa rizzare i capelli corti sulla sua nuca. Levi trattiene il fiato. 
 
«Kuchel!» 
 
Levi riconosce quella voce. Il terrore gli stringe la gola. Nessuno deve trovarlo in quella stanza, lo sa bene. La mamma glielo ripete sempre: "Lo sai cosa ti succederebbe se qualcuno ti trovasse...ti manderebbero nelle miniere. E io non ti rivedrei più. O peggio..." Levi ripete nella sua mente "...finiresti al bordello del signor Hunt. E nessun bambino sopravvive più di due mesi." 
 
I passi si fermano davanti alla loro porta. Senza altra esitazione, sguscia in terra e si stende sotto al letto. Non ha tempo di arrivare all'armadio, il suo nascondiglio abituale. La porta si spalanca l'istante dopo. Levi trattiene il fiato, mentre il suo sguardo si fissa sui due stivali che avanzano, illuminati dalla lampada che arde nel corridoio. 
 
«Kuchel ma che cazzo fai! Dormi ancora?» la voce dell'uomo è impastata e incerta. Levi sa che questo vuol dire che è ubriaco. 
 
Non sta dormendo, porco bastardo! 
 
Vede i piedi avvicinarsi al letto. La rete cigola quando l'uomo prova a scuoterla. Levi stringe gli occhi e cerca di accoccolarsi ancora di più. Vorrebbe solo scomparire. Risvegliarsi e sentire la voce di sua mamma, sapere che è stato tutto un brutto sogno. Che adesso lei aprirà gli occhi e risponderà al signor Blunt, farà quanto deve e lo sbatterà fuori dalla camera tra dieci minuti. E poi lui uscirà dal nascondiglio e lei gli sorriderà e lo chiamerà "amore mio", gli accarezzerà i capelli e andrà tutto bene. Deve solo riuscire a tenere gli occhi chiusi e tutto questo incubo svanirà. 
 
«Non me ne frega un cazzo se hai sonno Kuchel!» 
La voce del signor Blunt che grida gli fa spalancare di nuovo gli occhi. Sente il cuore sbattergli contro le costole come un animale in gabbia. 
 
«Ho pagato ed esigo quello che mi spetta»
Levi sente il suono della cinta che viene slacciata. Uno dei due stivali sparisce, mentre qualcosa di molto pesante sale sul letto, facendolo cigolare di nuovo. La rete scende pericolosamente vicino alla sua testa, mentre lui si rintana verso il muro. 
 
Non sta dormendo, vattene via! 
 
Il letto prende a cigolare ritmicamente. L'orrore travolge Levi come un'ondata gigantesca. Gli sembra di non poter respirare. Lei è morta, cazzo! Deve togliere le sue luride mani da lei, adesso! 
L'impulso di uscire allo scoperto e tirarlo via diventa così forte che Levi sente di dover vomitare. Si ficca in bocca le nocche di indice e medio e le morde con tutte le sue forze. Il dolore gli da’ qualcosa su cui concentrarsi, il sapore del sangue gli riempie la bocca e gli impedisce in parte di fissarsi sul ritmico movimento del letto e sui grugniti sempre più forti del signor Blunt. 
 
Il solo pensiero di quello che sta succedendo è così terribile e inimmaginabile che Levi si lascia sfuggire un singhiozzo. Sconvolto, si tappa la bocca con così tanta forza che le unghie gli si conficcano nella guancia. Attende con trepidazione che succeda il disastro: che il signor Blunt lo abbia sentito e che adesso si metta a cercarlo, ma l'uomo è troppo preso da quello che sta facendo e non accenna a fermarsi, anzi, la spalliera del letto prende a sbattere sulla parete. 
 
Dopo quello che sembra un secolo, l'uomo emette un verso ributtante e finalmente il letto smette di muoversi. Il secondo stivale torna a poggiarsi sul pavimento, mentre l'uomo si rimette in piedi. Levi sente nuovamente il rumore della cinta.
 
«Dio mio, puttana...Rimettiti in sesto per la miseria...stupida donna...» 
 
Vede i suoi piedi barcollare incerti verso la porta, rimasta spalancata per tutto il tempo. Lo sente esitare, forse un dubbio finalmente gli è passato il quel cervello marcio. Ma poi senza altro indugio, sbatte la porta alle sue spalle. 
 
Levi non riesce a smettere di tremare. Gli sembra che il suo corpo sia completamente fuori dal suo controllo. Vorrebbe strisciare fuori dal letto, ma non riesce ad allungare le braccia e le gambe. Il dolore alle dita si è trasformato in un sordo pulsare del sangue. Cerca di fare un respiro profondo, ma non ci riesce. Scoppia di nuovo in lacrime. 
 
Forse...forse se resta sotto al letto, al sicuro, tutto questo sparirà. Forse sua mamma è fuori, è andata a comprare il pane...sì, deve essere così… starà sicuramente tornando adesso, forse è già sulle scale. Adesso sentirà i suoi passi leggeri in corridoio, non è così?
 
Continua a piangere, sempre più forte. Non riesce più ad impedirsi di singhiozzare, mentre il dolore cresce di istante in istante. 
Dopo ore, o giorni, o attimi - non è in grado di capirlo - si trascina fuori. 
 
Si volta. 
 
Lei è lì, immobile come prima. Ha la camicia da notte alzata fin sopra l'ombelico, le gambe magre aperte e nude. Levi si aggrappa al letto, comincia a gridare tra le lacrime. Afferra la camicia da notte e la tira giù. Stringe gli occhi. 
 
Non è vero, non è vero, non è vero, non è vero...
 
Un refolo di vento caldo e profumato d'erba gli fa spalancare gli occhi. 
 
Si accorge di indossare l'uniforme del Corpo di Ricerca e di essere sporco di sangue. Le sue mani stringono un sacco di stoffa ed un cordino. 
Nel sacco di stoffa, non ancora richiuso, giace il corpo senza vita di Petra.
 
I suoi occhi color nocciola lo fissano inespressivi, vitrei. Le sue labbra sono sporche di sangue. 
 
Levi allunga la mano destra e con dita tremanti le abbassa le palpebre. 
 
«Mi dispiace...»
 
Se solo fosse stato più veloce... se solo non li avesse lasciati soli... se solo...
 
Alza lo sguardo verso gli altri sacchi allineati e chiusi. Una morsa gli stringe la gola, mentre un dolore a ondate si irradia dalla sua gamba sinistra. 
 
Il braccio destro di Petra sporge ancora fuori dalla stoffa. Levi prende la sua mano tra le sue. La sua pelle gelida lo fa rabbrividire. 
 
Non ero neanche lì con lei... questo pensiero lo coglie di sorpresa, lasciandolo disorientato per un attimo. Ripensa a lei, quella mattina, mentre facevano colazione insieme, come tutti i giorni. Ricorda la grazia con cui gli aveva servito il tè, il tono dolce con cui lo aveva avvertito di fare attenzione perché era ancora troppo caldo. 
Lo sapeva? Lo immaginava che quella sarebbe stata l'ultima volta che sarebbero stati insieme? 
Aveva avuto paura quando era stata colpita? Aveva avuto tempo di avere paura? Aveva pensato a lui? Al fatto che l'avesse lasciata sola?
 
Chiude di nuovo gli occhi, imponendosi di fare un respiro profondo. 
Avvicina la mano di Petra alle sue labbra. La fronte si contrae in uno spasmo di dolore. 
 
Oh Dio...perché deve succedere di nuovo tutto questo? 
 
«Levi...»
Una voce flebile gli fa aprire gli occhi di scatto. 
 
Davanti a lui c'è Mikasa, stesa per terra, completamente ricoperta di sangue. Una ferita enorme le attraversa la spalla e il petto, il sangue zampilla fuori senza controllo. 
 
Levi spalanca gli occhi con orrore. 
Che diavolo succede?
 
Si guarda intorno. Riconoscerebbe questo posto ovunque: sono vicini a casa, nella radura dove avevano accumulato i tronchi da tagliare. 
 
Questo...dev'essere per forza un sogno perché Mikasa sta bene, ne è sicuro, era tutta intera fino a un momento fa, tutto questo non è vero. Non può essere vero. 
 
La stretta delle dita di Mikasa attorno alla sua mano fa ritornare la sua attenzione su di lei. 
Silenziose lacrime le scivolano dagli angoli degli occhi a mandorla. 
 
Prova a parlare, ma è come se avesse in gola una manciata di sabbia. Prova di nuovo: «Mikasa, cosa è successo?»
 
Lei sussurra: «I giganti sono tornati...Zeke è tornato»
 
Il terrore è una strana creatura. Pensi di averlo cacciato via e invece lui si è semplicemente acquattato in un angolo remoto della tua mente, pronto a saltellare fuori come un cagnolino irriverente.
 
Sente il battito accelerare, praticamente fuori controllo. 
 
«Cosa?!» esclama con voce strozzata, mentre si strappa il foulard dal collo e con la mano libera tenta inutilmente di tamponare lo squarcio sul corpo della ragazza. Il pezzo di stoffa si intride di sangue in un baleno.
 
«Perché mi hai lasciato da sola?» singhiozza Mikasa, mentre la sua presa si fa sempre più debole.
 
Il cervello di Levi cerca di processare quello che sta succedendo, ma gli sembra di essere una trottola impazzita. Deve essere un sogno, è PER FORZA un sogno… Mikasa stava bene, non c’era nessun gigante ieri sera…
 
Eppure, un dubbio finalmente si insinua. Sua madre e Petra…la loro morte è reale, i suoi ricordi di quegli istanti sono reali…possibile che anche questo sia un ricordo di qualcosa di realmente avvenuto?
Levi strizza gli occhi, cercando di ricordare, disperato.
 
«Levi…dov’eri…»
 
La sua voce, piena di dolore, gli fa spalancare gli occhi.
 
«Io…io…» prova a rispondere, mentre sente lacrime formarsi negli occhi. Dio ti prego, non anche lei…
«Io non ricordo…»
 
«Non voglio morire…»
 
«Andrà tutto bene…» le parole gli escono in automatico, anche se la situazione è disperata. Mikasa ormai fa fatica a tenere gli occhi aperti. Levi la tira a sé, stringendosela al petto. Si accorge di star tremando.
 
«Non ti farò morire, non ti farò morire…»
 
«È tutta colpa tua…se solo fossi stato qui…»
 
Le sue parole gli risuonano nell’anima come una condanna senza scampo. Sente un singhiozzo sfuggire dalle sue stesse labbra, mentre stringe ancora di più la ragazza a sé. Il suo cervello continua a vorticare: spezzoni di immagini senza senso si rincorrono senza tregua, ma nulla sembra poter spiegare la scena che sta vivendo.
Che cosa è colpa sua? Come fa Zeke ad essere ancora vivo? Che diavolo sta succedendo…
 
«Levi…glielo avevi promesso…»
 
Un brivido gelido, forte come una scarica elettrica, gli percorre la colonna vertebrale.
Come fa lei a saperlo? Ne hanno finalmente parlato? Possibile che non si ricordi neanche di una conversazione del genere?
 
Sente il suo respiro farsi erratico, affannato, mentre quello di Mikasa diventa sempre più flebile contro l’incavo del suo collo.
 
«Lo so…Ho fatto del mio meglio…» Sente le lacrime che iniziano a scorrergli sulle guance. Da quanti anni è che non piangeva? «Mi dispiace…ti prego resisti…»
 
Con uno sforzo immenso, Mikasa solleva la mano e gli accarezza la guancia destra.
«Lo so…non importa…ti prego non farmi morire…»
 
La mano destra di Levi – completamente insanguinata – scatta su quella della ragazza, stringendola con troppa forza.
 
«Shhh…va tutto bene…sono qui ora, non ti succederà niente…» continua a ripetere, mentre i singhiozzi si fanno sempre più dolorosi ed il suo petto si contrae, quasi i polmoni fossero incapaci di fare il loro dovere.
 
«Resta con me…non chiudere gli occhi…»
 
Ma la ragazza appoggia di nuovo il capo sulla sua spalla e Levi sente la sua mano perdere la presa sul suo viso.
 
«No. No, no, no, Mika resta con me…»
 
Mikasa ha chiuso gli occhi.
 
«Ti prego non farmi questo…»
 
Levi sente un sospiro di lei che gli sfiora la clavicola. Poi più niente.
 
Il gelo si impossessa delle sue viscere. Stringe la ragazza a sé con tutte le sue forze, mentre inizia a tremare convulsamente. Sbarra gli occhi ed affonda il viso nei suoi capelli, incredulo, disorientato, sconvolto.
 
«Ti prego non lasciarmi anche tu…»
 
Ti prego, ti prego, ti prego…
 




Levi si svegliò di scatto, quasi balzando in piedi dalla poltrona. Si guardò attorno, completamente terrorizzato, il respiro fuori controllo, il cuore che rischiava di scoppiargli nel petto. Era a casa. Era notte, non riusciva a percepire neanche un singolo rumore dal bosco.
Quel silenzio lo gettò nel panico.
 
Scattò in piedi senza pensare, con la mente che correva più veloce di un cavallo imbizzarrito. Corse verso la camera da letto, ma si fermò davanti alla porta chiusa. Non si accorse neanche della coperta che aveva addosso e che ora giaceva in terra.
 
Trattenne il fiato. Il terrore di quello che avrebbe trovato al di là di quella porta lo costrinse ad appoggiarsi al muro con la spalla. Poi, finalmente trovò il coraggio di abbassare la maniglia e sbirciare nella stanza.
 
Mikasa dormiva tranquilla sotto la trapunta che gli aveva regalato Hanji. La luce della luna le illuminava il viso rilassato, le labbra dischiuse.
 
Levi si accorse di aver rilasciato un sospiro che non sapeva neanche di aver trattenuto. Si lasciò scivolare in terra, con la schiena appoggiata alla parete. Nascose il viso tra le mani tremanti, mentre un fiotto di sollievo lo inondava, lasciandolo quasi tramortito.
 
Non era reale, non era reale, non era reale…
 
Dopo qualche istante, si sentì abbastanza calmo da potersi tirare nuovamente in piedi. Si appoggiò allo stipite della porta e rimase a guardarla dormire, riempiendosi gli occhi con quella immagine pacifica e cercando di dimenticare quell’orribile incubo.
 
Andava tutto bene… erano soltanto gli strascichi di quello che era successo alla distilleria, niente di più. Quando l’aveva vista in terra, ricoperta di polvere e detriti dopo lo scoppio delle botti... I bambini, la fuga, tutto era scomparso in un istante mentre si era accucciato accanto a lei, cercando di svegliarla. Il solo pensiero di perderla…
 
Che diavolo stai facendo?
 
Levi sospirò. Ciò che aveva detto a Rufus era la verità: non era giusto per lei restare lì. Era giovane, forte, capace, che senso aveva nascondersi in quel bosco insieme a qualcuno come lui? Non aveva niente da offrirle. E ciò che aveva scoperto dalla foto sul giornale non faceva altro che confermargli il fatto che lei avesse altro di più importante da fare. Sapeva di doverglielo dire. Sapeva pure che quella notizia l’avrebbe fatta soffrire, immensamente. Corrugò la fronte, in un moto di stizza. Non era giusto che fosse lui a dirglielo. Perché doveva essere sempre lui a causarle i dolori più grandi?
 
Bugiardo.
 
Non vuoi dirglielo perché sai che andrà via.
 
Sospirò di nuovo, mentre un sorriso sarcastico gli incurvava le labbra. Gli sembrava quasi di sentire la voce di Erwin che lo canzonava. Era vero anche questo: non voleva che andasse via. Non aveva forse diritto anche lui di godere di un po’ di compagnia dopo tutto quello che aveva passato?
 
Tu non meriti nessuna compagnia.
 
Prima che potesse decidersi a tornare nell’altra stanza, gli occhi di Mikasa si socchiusero.
 
«Levi…» mormorò la ragazza.
 
Levi sentì il calore salirgli al viso e ringraziò internamente il buio della notte, che lo nascose.
 
«Io stavo…non intendevo…» farneticò, mentre si accarezzava il dietro della nuca.
«Stai bene?» Mikasa lo interruppe, tirandosi su poggiando il peso sul proprio gomito. Un fremito di preoccupazione le percorse la fronte.
 
Levi annuì. «Mi dispiace, non riuscivo a dormire…e…»
 
Mikasa alzò il sopracciglio, mentre un sorriso sornione le illuminava il volto. «Veramente dormivi come un angioletto poco fa»
 
«Diciamo che ha preso una brutta piega…»
 
Lei capì. Abbassò lo sguardo per un attimo, temendo di averlo messo a disagio. Poi un pensiero le balenò nella mente e tornò a guardarlo, con un’espressione ironicamente sconsolata. Levi abbozzò un sorriso a sua volta, senza capire, sorprendendosi a pensare che fosse bellissima.
 
«Sembrerebbe che tu abbia vinto la tua scommessa…» Dopo aver parlato, Mikasa lasciò andare un lungo sospiro.
 
Solo in quel momento Levi ricollegò il perché del silenzio assordante che lo aveva atterrito. Lanciò uno sguardo fuori dalla finestra e finalmente vide il paesaggio completamente innevato. Si strinse nelle spalle.
 
«Te l’avevo detto»
 
«Lo so, ma non m’importa. È troppo bello là fuori, sono contenta di aver perso.» Sorrise di nuovo, questa volta per davvero, lasciandolo senza fiato. C’era una dolcezza nella sua espressione che gli fece attorcigliare le viscere.
 
«Levi…grazie»
 
Il capitano la guardò con aria interrogativa, senza capire.
 
«…per avermi fatto restare»
 
In un istante il cuore di Levi precipitò giù nello stomaco. Abbassò lo sguardo. Sapeva che non appena le avesse mostrato cosa aveva scoperto, tutto questo sarebbe finito. Lei sarebbe andata via, probabilmente per sempre. Magari avrebbe potuto seguirla…

Il solo fatto di averlo pensato gli fece trattenere il respiro. Stava forse impazzendo? Stare lontano da lui era l’unica cosa che lei doveva fare. L’unica cosa che tutti dovevano fare. Tutto ciò che toccava finiva irrimediabilmente per rompersi. Non poteva permettersi che succedesse anche a lei.
 
«Non volevo svegliarti. È tardi, torna a dormire» Fece per voltarsi e tornare sui suoi passi, ma la sua voce, dolce, lo bloccò di nuovo:
 
«Sei sicuro di stare bene, vero?»
 
«Sono adulto, Mikasa. Dovresti smetterla di preoccuparti per me» Suonò più brusco di quanto avesse voluto.
 
«Lo so…ma… non posso»
 
Levi chiuse gli occhi, continuando a darle le spalle. Sospirò.
 
«Beh, prova con più impegno»
 
Tornò in salotto senza darle il tempo di rispondere. Aprì la porta di casa ed uscì sul portico, rabbrividendo nella fredda notte invernale.

 

Ve l'avevo detto che sarebbe stato un po' corto! 

Spero vi sia piaciuto, sono stata molto incerta fino all'ultimo perché quasi senza accorgermene è diventato piuttosto brutale...

Nel prossimo capitolo finalmente scoprirete qualcosa di più sul ritaglio di giornale!

Infine...il 25 dicembre è la "Festa delle Mura" eheh :) Ho pensato a quale potesse essere una ricorrenza simile al Natale nel loro mondo e quindi magari il giorno di "fondazione" della mura potrebbe funzionare :P 

La poesia è di Emily Dickinson (se non avete mai letto niente di sui ve la straconsiglio)...ho letto una sua raccolta di poesie mentre scrivevo questa storia, qualche mese fa, e tantissime mi hanno fatto pensare ai personaggi di AOT, quindi ho deciso di includere qualcosa! (traduzione mia) 

Grazie mille a tutti voi che leggete e a voi che commentate! 

Chikay

 

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Capitolo 8
*** VIII ***


Ciao a tutti! 
Ecco un nuovo capitolo, sono in campagna e la connessione lascia un po' a desiderare e quindi non volevo impazzire per caricarlo, ma alla fine ci provo ;) 
Altre note in fondo! (PS: se non avete letto il capitolo 138 del manga non leggete le note in fondo al capitolo!)



VIII


 
Levi era cambiato.
Nei giorni successivi all'incidente nella distilleria, era diventato molto più scostante e nervoso. 
Continuava a farle trovare i pasti pronti, a lavorare con lei sui registri del Corpo di Ricerca, ma al di là delle comunicazioni essenziali aveva praticamente smesso di parlarle. 
Cercava di evitarla il più possibile sbrigando da solo tutte le attività che richiedevano di uscire di casa, come occuparsi dei cavalli, prendere l'acqua al pozzo o recuperare la legna per camino e stufe. 
All'inizio, Mikasa aveva deciso di non commentare, per evitare di dare troppa importanza a quella che poteva essere una brutta giornata successiva a qualcosa che lo aveva spaventato, però dopo più di una settimana, la ragazza cominciava a preoccuparsi seriamente. 
 
Continuava a ripercorrere continuamente gli avvenimenti di quella giornata, cercandovi il momento nel quale avesse fatto qualcosa di sbagliato. L'unica cosa che le veniva in mente era sempre il suo attacco di panico. Lì per lì, il fatto che lei lo avesse aiutato non sembrava aver cambiato le cose tra loro, ma ormai quella sembrava essere l'unica spiegazione possibile: il capitano si sentiva in imbarazzo. 
O forse era stato quella notte, quando si era svegliata e l'aveva trovato sulla porta della camera? Avrebbe dovuto trattenersi dal dirgli che ormai non poteva più fare a meno di preoccuparsi di lui? 
Era stato in quel momento che aveva sorpassato un confine che non era stata in grado di vedere?
 

La sua presenza sembrava infastidirlo. Ormai Mikasa aveva quasi paura di fargli domande inerenti al loro lavoro temendo che lui finalmente decidesse di cacciarla. Si sentiva ferita, come non credeva che avrebbe mai più potuto sentirsi. Dopo tutto quello che aveva passato, non avrebbe mai creduto possibile soffrire per qualcosa di così futile come qualche giorno di broncio, eppure era così.
Non si meritava di essere trattata così, soprattutto dopo tutto il tempo che avevano passato insieme. Alternava momenti di rabbia, nei quali assumeva un'espressione ancora più scostante di quella di lui e gli lanciava continue occhiatacce, ad altri in cui l'idea che lui le chiedesse di andare via la faceva piombare in una cupa disperazione. 
 
Continuava a chiedersi se non fosse lei a dover proporre di andarsene. La sua presenza chiaramente non gli faceva più piacere, tutt'altro. Forse avrebbe dovuto tirare fuori quel briciolo di orgoglio che ancora le restava e andar via, magari dopo una bella frase velenosa a effetto. 
 
Oppure – e questa era l'opzione che la atterriva di più – avrebbe dovuto provare a parlargli, per chiedere cosa ci fosse che non andava. Non sapeva cosa fare. Aveva persino pensato di scrivere ad Hanji, per chiederle non si sa quale consiglio, ma ovviamente aveva cancellato l'idea dalla sua mente un istante dopo. 
 
Continuava a crogiolarsi nel suo disagio attimo dopo attimo. Non riusciva neanche a godersi la neve o la fonte termale come prima. 
 
 

Il decimo giorno, erano entrambi seduti al tavolo a lavorare sulle carte del corpo di Ricerca, mentre fuori imperversava una tempesta di neve e vento che faceva tremare i vetri delle finestre. Era da poco passata l’ora di pranzo, ma il cielo era così cupo che sembrava già notte. Levi aveva già acceso le lampade ad olio e alimentato il fuoco nel camino con alcuni grossi ciocchi. Entrambi indossavano due maglioni ciascuno e guanti di lana senza dita.

Mikasa stava ricopiando in bella la storia piuttosto incredibile di una ragazza di nome Ilse. Il capitano confrontava alcune lettere con i registri ufficiali. Se non fosse stato per il silenzio pesante e teso che si emanava dal suo compagno, la ragazza non avrebbe potuto chiedere di meglio per quella giornata invernale.
Dopo due ore di completo mutismo, si decise ad aprire la bocca per prima, trovandosi davanti a una incongruenza della storia che richiedeva una conferma.
 
«Puoi aiutarmi di nuovo a rimettere in fila questi passaggi?»
 
Levi sbuffò rumorosamente mentre alzava gli occhi al cielo.
 
Una scarica di rabbia attraversò Mikasa a quella ennesima dimostrazione di insofferenza, ma riuscì a contenersi e mantenere un’espressione neutrale.
 
«Che diavolo c’è di così difficile, si può sapere?» sbottò lui, strappandole il volume dalle mani.
 
Mikasa non ci vide più.
 
Sentì il sangue salirle alla faccia ed afferrò il bordo del tavolo con così tanta forza che le nocche sbiancarono all’istante.
 
«Ok, adesso basta.»
 
La sua voce era così fredda e statica che le sembrava fosse stato qualcun altro a parlare.
 
«Che cazzo c’è che non va? Avrai intenzione di dirmelo prima o poi?» continuò, con la fronte corrugata e lo sguardo fisso sul viso di lui, sul quale era appena passato un barlume di sorpresa, sostituito immediatamente da un’espressione innervosita e minacciosa.
In un altro momento, anni prima, Mikasa si sarebbe intimidita, ma adesso la rabbia e l’esasperazione erano troppe.
 
«Che cazzo c’è lo chiedo io» sibilò lui «Sei uscita di senno? Torna a lavoro e smettila di distrarti»
 
Le gambe di Mikasa la fecero scattare in piedi quasi senza che lei se ne accorgesse.
La sedia gracchiò spostandosi all’indietro e sul volto di Levi si dipinse per un attimo un’espressione infastidita per il rumore, che la fece arrabbiare ancora di più. Sentiva il pulsare sordo del sangue nelle orecchie, aveva voglia di prendere a pugni quella sua faccia insofferente.
 
«Sono dieci giorni che a malapena mi parli. Si può sapere che diavolo ti ho fatto?»
 
«Smettila di comportarti come una mocciosa.»
 
«Smettila tu di comportarti come un bambino. È per via del tuo attacco di panico, dico bene? È per il tuo fottuto orgoglio
 
Levi sospirò, passandosi una mano sul volto. Sembrava stanco. Sapeva che questo momento sarebbe arrivato?
 
«Beh…» continuò lei «non me ne frega un cazzo del tuo orgoglio, rimettiti in sesto, per tutte le Mura!»
 
«Mikasa…» cominciò lui mentre la ragazza gli si avvicinava incombendogli sopra «Adesso basta.»
 
Per un istante, la sua sicurezza vacillò davanti al tono adamantino del capitano. Poi una nuova ondata di rabbia la scosse. Senza pensarci due volte, si voltò di scatto e si diresse verso la branda.
 
«Bene» esclamò «Me ne vado.»
 

Si accucciò davanti alla branda ed allungò il suo braccio sotto di essa, per raggiungere la sua sacca da viaggio. Non appena la sua mano sinistra si strinse attorno allo spallaccio della borsa però, le sembrò di toccare qualcosa che non aveva mai notato prima. Al tatto sembrava essere una piccola scatola di latta. Distratta per un istante dal suo intento, la tirò fuori, incuriosita.
 
A quel punto, si sentì strattonare verso il centro della stanza. Levi le aveva afferrato il polso destro e l’aveva tirata via dalla branda. Non si era neanche accorta che si fosse mosso, era stato veloce e silenzioso come sempre. Alzò lo sguardo su di lui, nervosa e stupita.
 
E l’espressione sul suo viso la lasciò ancora più interdetta. Levi per un attimo le sembrò spaventato. Poi la sua fronte si corrugò di nuovo, a nascondere i suoi pensieri.
 
«Non essere ridicola, dove pensi di andare con questa tempesta?»
 
«Dovunque, basta che sia lontano da qui.»
 
Levi le spinse via il polso, guardandola dall’alto in basso visto che lei era ancora per terra.
 
«Bene, fai come ti pare.»
 

Mikasa rimase ferma per un attimo, valutando la situazione, con la scatola ancora stretta nella mano sinistra. Ecco, era fatta. Il danno era irreparabile. Adesso avrebbe preso le sue cose e sarebbe andata via per davvero. Lo sapeva che non poteva durare. Eppure… sentì gli occhi che le pizzicavano. Non era giusto. Non aveva fatto niente di male, perché lui la respingeva così? Perché era così crudele?
 
«Dammi quella scatola»
 
La sua voce la riscosse da quei pensieri. Alzò lo sguardo su di lui, senza capire. Si era praticamente già scordata di quella inutile scatola, ma il suo viso la mise in allarme. Lui aveva teso la mano aperta verso di lei, aspettando che gli consegnasse quanto richiesto. Perché diavolo gli importava di quella stupida scatola adesso? Non sembrava importargli che lei andasse via per sempre, ma era così interessato a quella fottuta scatola?
 
Mikasa corrugò la fronte e strinse la scatola con entrambe le mani. Per un istante pensò che lui stesse scattando in avanti per strappargliela, poi vide che si era trattenuto. Solo i muscoli della mascella si erano tesi come corde.
 
«Cosa c’è adesso a proposito di questa stupida scatola» Non vedi che sto per andare via? Non farai nulla per fermarmi? Come può importarti di qualcos’altro adesso?
 
«Ridammela» ordinò di nuovo lui.
 
Non sapeva perché, ma era chiaro che vederla con quella scatola tra le mani lo innervosiva. E adesso innervosirlo, scalfirlo, era l’unica cosa che Mikasa voleva.
 
Aprì il coperchio.
Levi scattò in avanti e provò ad afferrarla, ma lei era pronta e riuscì a divincolarsi alzandosi in piedi.
 
«Non aprirla. Non capisci»
 
Certo che non capiva. La situazione aveva preso una piega completamente sorprendente. Che diavolo stava succedendo? Mikasa si sentiva disorientata. L’unica cosa da fare era quella che lui le aveva appena ordinato di non fare.
 
Aprì la scatola e ne tirò fuori una pagina di giornale. Corrugò la fronte, senza capire.
 
«Mikasa…»
 
Questa volta la sua voce era calma, quasi triste. Questo cambio le fece scattare gli occhi in alto, verso di lui. Levi teneva le braccia avanti, con esitazione, come se si fosse trovato davanti ad un animale selvaggio pronto ad attaccare. Cosa leggeva nei suoi occhi? Era…rimpianto?
 
In un istante, la rabbia si tramutò in paura. Non capiva. Cosa stava succedendo?
 
Abbassò di nuovo lo sguardo sulla pagina di giornale e la dispiegò, facendo cadere la scatola ai suoi piedi. Al centro della pagina c’era una foto.
 
Una foto di Historia sul trono con un bambino seduto sulle ginocchia. Suo figlio. Per un istante non realizzò quello che stava vedendo, il solco tra le sue sopracciglia si fece più marcato.
 
Poi, in un attimo, realizzò.
 
Forse chi non lo aveva conosciuto bene non avrebbe notato la somiglianza in maniera così palese, ma per lei era lampante. E sapeva che era così anche per Levi.
 
Quello che era seduto sulle ginocchia di Historia era senza alcun dubbio il figlio di Eren.
 
Aveva solo poco più di due anni nella foto, ma era già la copia sputata di Eren da bambino, Mikasa non aveva dubbi.
 
Sentì le ginocchia cederle e si appoggiò con le spalle al muro, alzò lo sguardo disorientato sul capitano, che era rimasto immobile al suo posto.
 
Sentì i battiti del proprio cuore risuonarle nel petto. Le mani iniziarono a tremarle.
Il dolore si diffuse dentro di lei come un liquore bruciante che le scendeva nella gola. Era attonita.
 
Non può essere vero…
 
Credeva di aver già raggiunto tutte le profondità del dolore esistenti, riguardo ad Eren. Era impreparata a questo. Credeva che avesse almeno il diritto di soffrire più di tutti gli altri. Quel diritto esclusivo al dolore era l’unica cosa che l’aveva sostenuta.
Era LEI l’unica che poteva DAVVERO soffrire per lui.
Era lei l’unica che lo aveva amato davvero e che poteva ricordarlo e difenderne la memoria davanti a tutti. Era lei la persona che gli era stata più vicino in assoluto in tutta la sua intera vita. Era lei l’unica che aveva provato la sua tenerezza, seppure non nel modo in cui aveva sempre sperato.
 
Historia non aveva nessun diritto di farle questo…
 
Il solo pensiero di loro due insieme le mozzò il respiro. Il pensiero di tutte le volte in cui erano stati insieme alle sue spalle, il pensiero di lei che portava in grembo suo figlio… E non le aveva detto niente, neppure una volta, neppure dopo la guerra… doveva venirlo a scoprire così, da una foto sul giornale che non aveva neanche…
 
Un’altra consapevolezza si fece spazio strisciando tra i suoi pensieri. Lui lo sapeva. Lui lo sapeva e non ti ha detto niente.
 

Alzò lo sguardo mentre una nuova ondata di odio rischiava di sopraffarla. Levi era rimasto immobile, sempre con le braccia sollevate davanti a sé, come a dimostrare di non essere una minaccia.
Mikasa strinse il giornale accartocciandolo nella mano, mentre la sollevava verso di lui.
 
«Da quanto lo sapevi»
 
«Mikasa…»
 
«Da quanto tempo, Levi?» lo interruppe lei, quasi gridandogli in faccia, ma cercando di trattenere il tremito del proprio corpo.
 
Levi sospirò ed abbassò le braccia, sconfitto.
 
«Da quando siamo andati in paese»
 
La certezza che lui si stesse comportando così male con lei a causa di quella foto le piombò addosso con tutta la forza di un gigante. Era così arrabbiata e ferita che le veniva quasi da ridere.
 
Senza neanche rendersene conto gli fu addosso e lo spinse con tutta la sua forza. Lui arretrò, ma non era abbastaza: avrebbe voluto vederlo cadere a terra.
 
«Non avevi NESSUN diritto di tenermelo nascosto» gridò, spingendogli un indice accusatorio sullo sterno. Era esterrefatta.
 
«Calmati»
 
«Non dirmi di calmarmi. Non osare dirmi di calmarmi!»
 
Levi fece un passo in avanti, ma lei si ritrasse all’istante. Sentiva un groppo in gola crescerle di istante in istante. Le sembrava di non poter nemmeno respirare.
 
«Lo so che sei ferita…» provò di nuovo lui, ma lei lo interruppe di nuovo, mentre la vista le si annebbiava. Calde lacrime presero a scenderle sulle guance. Le spinse via rabbiosamente col bordo della manica.
 
«Tu non sai niente di come mi sento, hai capito? Tu non sai NIENTE di me»
 
Sapeva di essere ingiusta, ma aveva troppe emozioni contrastanti dentro di sé e lui era l’unica persona su cui poterle sfogare, tanto più che l’aveva tenuta all’oscuro per dieci giorni, come una stupida. Pensò a Connie e Hanji a Mitras: ormai dovevano aver incontrato il bambino anche loro. Probabilmente sapevano la verità da prima di lei. Le sembrò di aver ricevuto un’altra pugnalata al cuore.
 
Lo spinse di nuovo, con tutta la sua forza, ma lui stavolta le bloccò i polsi.
 
«Come hai potuto non dirmelo?!»
 
Cercò di divincolarsi, ma la sua presa era ferrea. La sua fronte era sempre corrugata, ma la rabbia era sparita, sostituita dalla preoccupazione. Adesso si preoccupava per lei? Mikasa sogghignò tra sé. Un po’ tardi ormai…
 
«Lasciami»
 
«Hai tutto il diritto per avercela con me, ma adesso calmati»
 
«Ho detto LASCIAMI ANDARE» gridò di nuovo strattonandolo con tutta la sua forza. L’istante dopo gli tirò un calcio sul ginocchio sinistro. Lo vide stringere i denti per il dolore e per un meraviglioso istante si sentì trionfante. Lui la spinse via ed abbassò lo sguardo.
 
«Smettila di comportarti come una povera pazza» La compassione era sparita dal suo tono, che era ritornato imperatorio come ai vecchi tempi «Questo non modifica neanche di una tacca quello che c’era tra te ed Eren.»
 
Nessuno aveva mai nominato esplicitamente il suo nome in sua presenza da più di due anni. Sentire il suono di quelle due sillabe la fece rabbrividire. I tremiti che le percorrevano corpo si fecero più intensi. Si appoggiò di nuovo al muro con la schiena, incredula.
 
«Non pronunciare il suo nome»
Questa volta la sua voce uscì come un mormorio. Non era neanche sicura di aver parlato davvero.
 
«Perché non dovrei, uh? Perché sono stato io ad ucciderlo?»
 
Le mani di Mikasa scattarono da sole sulle sue orecchie. Non dirlo, non parlare così.
 
«Sì, esatto, Mikasa. Eren è morto e né io né tu possiamo farci niente.»
 
Mikasa scosse la testa convulsamente, mentre le lacrime ricominciavano a scorrerle sulle guance, fino alle labbra e al mento.
 
Cosa sono stata mai io per Eren? Perché ha preferito Historia a me?
 
«Stai zitto. Non avevi nessun diritto di non dirmelo»
 
«Hai ragione e mi scuso per questo. Avrei dovuto dirtelo prima, non così.» Levi alzò le sopracciglia «Ma vista la tua reazione forse non avevo tutti i torti»
 
«È per questo che mi tratti di merda da dieci giorni, non è così? Per non dover avere a che fare con le reazioni di una povera ragazzina pazza, dico bene?»
 
Levi abbassò lo sguardo, la mano sinistra sempre stretta sulla coscia che Mikasa aveva colpito.
 
«Non è così…» mormorò
 
«Sei un codardo» lo interruppe lei «Mi fai schifo»
 
E d’improvviso, con un unico gesto fluido, agguantò il giaccone, aprì la porta e si precipitò fuori nella neve.  
 
 



Folate di vento la avvolsero. I fiocchi di neve le vorticarono impetuosi sulla faccia mentre si precipitava giù per le scale e correva davanti a sé. Il buio era quasi completo, fatta eccezione per le luci della casa alle sue spalle e per un pallido chiarore tra le nuvole, dove doveva nascondersi la luna.

Il freddo le entrava dentro ad ogni respiro, infiammandole la gola. Le lacrime le impedivano di vedere dove metteva i piedi ed in breve incespicò e cadde in ginocchio. Le fronde degli alberi del bosco si scuotevano con foga. L’ululato del vento nascose i suoi singhiozzi, che via via si ruppero in un pianto disperato.

Si strinse nella giacca, dondolandosi avanti e indietro.
Era troppo.
Gli avevano tolto anche il diritto di soffrire. Eren e Historia glielo avevano tolto. Dopo avergli mentito – per quanto tempo? – dopo averla tradita, abbandonata. Armin lo sapeva? Qualcun altro era al corrente? Era lei la sola a non averlo mai saputo?

Si sentiva completamente sola.

 
Aveva sempre pensato che il suo compito, il suo scopo, l’unico motivo per cui avesse senso che fosse rimasta viva fosse quello di ricordarli. Di ricordare Armin, di ricordare Eren. Di essere la testimone vivente della loro amicizia, del modo in cui erano cresciuti. Della persona che Eren era, non del mostro che era diventato.

Credeva di essere l’unica custode di tutto questo. L’unica che lo avesse davvero conosciuto e amato ad essere rimasta in vita. Adesso scopriva che non era così. Che Historia aveva molto più diritto di lei di soffrire. Ripensò alla loro discussione a proposito del Memoriale, del fatto che la regina avesse omesso il nome di lui. A quanto lei l’avesse accusata, sentendosi in diritto di farlo, giudicandola.

Adesso si rendeva conto di quanto le doveva essere sembrata ridicola e patetica. E di quanto Historia stesse soffrendo nel prendere quella decisione, in un modo che Mikasa non avrebbe mai capito.
E poi c’era il bambino. Una copia vivente del padre. A che serviva che Mikasa si ricordasse di lui ormai? Non c’era possibilità che qualcuno si scordasse delle cose buone che Eren era stato.

A cosa serviva che fosse sopravvissuta?
Che senso aveva tutto questo?
 

Lui non ti ha mai voluto. Questo non cambia nulla, è solo una conferma di quello che sai benissimo. L’hai sempre saputo.
 
Nonostante cercasse di mettere insieme dei pensieri razionali, il dolore era troppo forte. Era come se qualcuno le avesse strappato il cuore dal petto.
 
Quanto tempo sarebbe servito per lasciarsi morire di freddo lì fuori, nella tempesta?
Sarebbe bastata quella notte?
Istintivamente, affondò le mani nella neve, mentre percepiva il gelo risalirle nelle gambe ormai inzuppate.
 
 

 
Non sapeva per quanto tempo fosse rimasta lì seduta per terra, con la mente piena di pensieri e immagini ed allo stesso tempo completamente vuota, come anestetizzata. L’unica cosa che le sembrava reale era il dolore sordo che ineluttabile che le riempiva il petto, impedendole di respirare e di smettere di singhiozzare.
Lentamente, il silenzio e l’immobilità presero il posto dei singhiozzi.
 



Percepì la sua presenza senza aver sentito nessun rumore che lo preannunciasse. Sapeva che Levi era alle sue spalle, in piedi, in silenzio. Non fece nessun gesto per invitarlo a farsi avanti né per scacciarlo. Rimase ferma con la testa china sul petto e le lacrime che le irritavano la pelle. Sentiva il suo corpo tremare, ma non aveva freddo. Non provava niente.
 
«Mikasa, fa troppo freddo. Torna dentro»
 
Il capitano dovette alzare la voce per sovrastare il ruggito del vento.

La ragazza non si mosse.

Si sentì improvvisamente ridicola. Quanto doveva apparire patetica ai suoi occhi? Tutta questa scena solo per qualcuno che non l’aveva mai voluta e che era morto da più di due anni. Questo pensiero le fece tornare un po’ di rabbia. Chi diavolo era lui per poterla giudicare? E perché mai adesso le importava così tanto cosa lui pensasse di lei?
 
«Per favore. Vieni dentro.»
 
La sua voce era meno ferma del solito. Qualcosa traspariva dietro al suo solito stoicismo.
 
Mikasa si alzò lentamente, continuando a dargli le spalle. Lo sentì avvicinarsi.
 


«Levi…hai mai pensato di…sai, farla finita?»
 
Le sue mani le strinsero le braccia, di scatto, per voltarla. Non se lo aspettava, non credeva neanche fosse così vicino. Il movimento fulmineo le fece quasi perdere l’equilibrio, ma lui la sostenne, bloccandola. La guardò con la fronte corrugata e le labbra strette.
 
«Che cosa hai detto?»
 
Mikasa abbassò lo sguardo, incapace di sostenere la rabbia che leggeva sul suo viso, senza riuscire a capirla.
 
«Quale diavolo è la ragione per cui sono sopravvissuta? Sono inutile»
 
Sentì il dolore prima di accorgersi di quello che era appena successo. Si portò istintivamente la mano sulla guancia sinistra, dove lo schiaffo di lui l’aveva colpita con forza. Alzò di nuovo lo sguardo, incredula.
 
Levi era furente.
 
«Non ti azzardare mai più a parlare così davanti a me. Sono stato chiaro?»
 
Mikasa era così sorpresa dalla sua reazione che non riuscì a rispondere nulla. Socchiuse le labbra e spalancò gli occhi, mentre sentiva la guancia pulsare dolorosamente.
 
«Decine, centinaia di persone sono morte perché tu potessi essere qui ora. Credi che volessero morire? Credi che non preferirebbero essere qui al tuo posto adesso a piangersi addosso anziché sotto metri di putrida terra?»
 
La spinse indietro. Mikasa non lo aveva mai visto così arrabbiato. Era esterrefatta.
 
«Tu gli devi la tua vita. Hanno dato tutto per me e te. La tua vita non appartiene più a te soltanto. Non mi importa quanto tu sia triste o disperata. Dimostra un po’ di fottuto rispetto, per tutte le Mura! Tu vivi anche per loro, glielo devi capito? Quindi non venirmi a parlare di suicidio e altre cazzate simili. Non lo meritano…»
 
Aveva le guance arrossate e adesso stringeva i pugni strattonandola per il bavero della giacca.
 
Quando si accorse di quanto lei fosse senza parole, la lasciò andare malamente e si passò una mano sugli occhi, poi tra i capelli, abbassando lo sguardo.
Rimasero in silenzio, l’uno davanti all’altra, ma senza guardarsi. Levi aveva il fiato corto.
 
Mikasa sospirò, lasciando andare il fiato che aveva trattenuto. Il suo scatto di rabbia che l’aveva così sorpresa le aveva rimesso tutto in prospettiva. Si asciugò le lacrime con la manica sinistra e poi appoggiò la mano destra sulla spalla di lui, mentre tirava su col naso. Lui non si mosse.
 
«Hai ragione»
 
Stavolta fu lui a guardarla con sorpresa. Forse era la prima volta che la sentiva dirlo.
 
«Non avrei dovuto dire quelle cose.»

Senza darsi il tempo di pensare altrimenti, Mikasa sollevò di nuovo la mano e questa volta la appoggiò sulla sua guancia sinistra. Levi trattenne il fiato, forse perché la sua mano era ghiacciata, forse per qualche altro motivo.
 
«Ho esagerato. Scusa» continuò.
 
Levi sollevò la propria mano sinistra e la poggiò su quella di lei, fissandola negli occhi con quel suo sguardo intento e scrutatore che Mikasa riusciva a malapena a sostenere. Sentì qualcosa agitarsi nel suo stomaco. Erano vicinissimi, avvolti dalla gelida tempesta di neve.
 
Lui le strinse leggermente la mano, mentre gliela allontanava dal suo viso, abbassandola, ma senza lasciarla.
 
«Scusami anche tu» mormorò poi, mentre guardava le loro dita intrecciate.
 
«Sono pronta ora, torniamo dentro.»
 
Levi annuì e si voltò, lasciandole andare la mano. Mikasa sentì immediatamente la spiacevole sensazione di freddo percorrerle le dita non appena lui si allontanò.
 
Rientrarono dentro in silenzio e Mikasa sospirò, in qualche modo rincuorata dal calore sprigionato dalla stufa e dal camino. Le sembrava di essere tornata a casa dopo un lungo viaggio.
 
«Dovresti cambiarti, se non vuoi rischiare di ammalarti» disse Levi senza guardarla, mentre andava a riempire il bollitore.
 
«Levi, ti dispiace se vado in camera? Io…vorrei stare da sola per un po’» La sua voce le sembrò quasi troppo dolce.
Dopotutto che lui non si fosse comportato correttamente era la semplice verità: l’aveva tenuta all’oscuro di quella notizia senza alcun motivo valido. Ma le sue parole di poco prima avevano come sgonfiato la sua rabbia.
Aveva il diritto di essere ferita ed arrabbiata, ma c’era davvero bisogno di tutta quella scena? C’erano cose peggiori di una storia d’amore e di un bambino innocente. Non avrebbe dovuto essere felice per Eren? Non avrebbe dovuto essere felice del fatto che una piccola parte di lui potesse continuare a vivere in suo figlio?

Si morse il labbro inferiore, combattuta.
 
La voce di Levi la fece ritornare al presente: «Certo, vai pure» si strinse nelle spalle «Io resterò qui»

 
Eccovi svelato il contenuto della foto sul giornale! 

A lungo sono stata convinta che il padre del figlio di Historia fosse Eren per vari motivi, tra cui il fatto che il rapporto tra loro due mi aveva sempre intrigato un sacco... adesso, ad un solo capitolo dalla fine del manga, non ne sono più così convinta! Direi che ormai manca poco per scoprirlo ;)

Per quanto riguarda le differenze dal manga, direi che qui è comparsa la maggiore: nella mia storia non è stata Mikasa a uccidere Eren (ammesso che sia davvero morto nel capitolo 138, ma credo di sì) ma Levi... nei prossimi capitoli ne saprete di più. 

Come sempre, spero il capitolo vi sia piaciuto...fatemi sapere! :) 

Chikay

 

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Capitolo 9
*** IX ***


Ciao a tutti!
Ecco qui il nuovo capitolo, ma vi avviso: sarà un po' corto! 
Grazie a tutti voi che leggete, veder crescere le visualizzazioni è bellissimo :) 
Buona lettura

 
IX
 


Mikasa rimase rannicchiata sul letto a lungo. Era difficile capirlo dal cielo, visto che ormai faceva buio presto e fuori la tempesta non accennava a placarsi, ma era certa di aver saltato la cena e che ormai fosse l’ora in cui di solito andavano a dormire. Non aveva fame né sete e, avvolta nella trapunta, non aveva neanche freddo.
Da quando erano rientrati in casa, aveva smesso di aver voglia di piangere. La tristezza e la rabbia si erano sostituite con una sorta di quieta malinconia: il sentimento predominante che provava ogni volta che pensava ad Eren ormai. Abbozzò un sorriso beffardo: credeva di averlo conosciuto meglio di chiunque altro, ma più passava il tempo e meno ne era convinta. Non aveva mai neanche capito le motivazioni dietro alle sue azioni mostruose, non riusciva ancora a capacitarsene. Una storia d’amore e un figlio erano molto più comprensibili di un genocidio.

Che sciocco che sei stato, Eren… avresti potuto avere tutto questo: una famiglia, un figlio… e invece hai mandato tutto al diavolo, per cosa?
 


Dopo qualche ora, la tempesta finalmente si calmò, ma Mikasa non aveva ancora sonno. Allungò le lunghe gambe sul letto e rimase a fissare il soffitto. Fuori dalla finestra il cielo si era finalmente liberato dalle nuvole e la luna si rifletteva libera sui prati innevati. Stava quasi pensando di alzarsi, per dare un’occhiata fuori verso la stalla, quando un leggerissimo bussare sulla porta la fece voltare.

Mikasa rimase in silenzio, così dopo qualche secondo la maniglia si mosse lentamente ed uno spiraglio di porta si aprì, permettendo a Levi di sporgersi nella stanza. Non si aspettava di vederla sveglia, ma anni di pratica gli permisero di nascondere la sorpresa.

«Mi dispiace di averti disturbata. Volevo controllare che stessi bene»
 
La ragazza gli sorrise lentamente e scosse la testa «Non mi hai disturbata. E sto bene, credo»
 
Levi abbassò lo sguardo sulle sue labbra e rimase un istante in silenzio. Poi fece per accomiatarsi, ma Mikasa lo bloccò: «Levi?»
 
«Hn?»
 
Lei mosse la testa, per indicarle il lato vuoto del letto. «Vieni qui»
 
Lui alzò le sopracciglia, con un’espressione sorpresa che lo rendeva più giovane, ma non accennò a muoversi, come se le parole di Mikasa necessitassero di una qualche conferma.
 
«Per favore, tienimi compagnia» sussurrò lei scostandosi ulteriormente per lasciargli spazio.
 
Quasi meccanicamente, Levi aprì la porta ed entrò. Si andò a sedere sul letto dandole le spalle, con il viso rivolto verso la finestra ed emise un suono a metà tra uno sbuffo e un sospiro. Sembrava un adulto che acconsentisse senza troppa convinzione alla richiesta di un bambino.
 
«Non sono molto bravo a tenere compagnia»
 
«Non sono una persona esigente» lo canzonò Mikasa mentre lui le lanciò un’occhiataccia da sopra la spalla.
 
Levi allora si stese lentamente accanto a lei, con le caviglie incrociate, la mano destra sotto la nuca e la sinistra poggiata sulle costole. Sapeva che Mikasa lo stava guardando, ma si concentrò per tenere lo sguardo fisso sul soffitto.
 
Rimasero in silenzio, immobili l’uno accanto all’altra. Finalmente a Mikasa sembrò di essere di nuovo a suo agio vicino a lui. Il silenzio teso che li aveva avvolti nell’ultima settimana era stato di nuovo rimpiazzato da quel silenzio familiare ed accogliente che avevano condiviso da quando lei era arrivata.
 

Levi si schiarì la voce, poi parlò senza guardarla:
 
«Scusa per non avertelo detto subito. È solo… non volevo essere di nuovo io. A farti soffrire a causa di Eren»
 
Levi si sentiva strano. Percepiva il calore del corpo di Mikasa a poca distanza dal suo, come una forza elettrica che lo avvolgeva a ondate. Aveva voglia di allungare la mano sinistra e toccarla, per vedere se quella sensazione si sarebbe intensificata. Non era mai stato così vicino a lei in quel modo. Gli sembrava che il suo cuore avesse preso un ritmo diverso. Cercò di calmarsi senza mostrarle quanto la sua vicinanza lo turbasse, ma non era sicuro di riuscire a nasconderlo. Si sentiva completamente esposto.
 
Mikasa rimase in silenzio a guardarlo. Quella confessione così inaspettata l’aveva colpita. Non aveva mai pensato a quanto fosse costato al Capitano fare quello che aveva fatto ad Eren. E certamente non aveva mai pensato che per lui fosse stata dura anche perché sapeva che avrebbe fatto soffrire lei.
Osservava il profilo affilato dell’uomo che conosceva da tanti anni – che l’aveva vista crescere – e le sembrava di scoprire una persona completamente diversa per la prima volta.
Da quando era andata a vivere lì, aveva già provato questa sensazione di scoperta diverse volte. Si chiese quanti altre moltitudini vivessero in lui e si rese conto di avere voglia di scoprirlo.
Provava l’irresistibile impulso di allungare la mano e toccarlo. A pensarci bene, si sorprese di aver avuto il coraggio di chiedergli di restare con lei. Era strano perché le sembrava contemporaneamente una richiesta totalmente avventata e assolutamente ovvia.
 
«Lo so che stasera non l’ho dimostrato, ma so cavarmela» sussurrò quindi, senza staccare lo sguardo dal viso di lui.
 
Levi sollevò un sopracciglio ed abbozzò un accenno di sorriso sghembo. «Lo so bene» Il sorriso si allargò «Anche se stasera non l’hai dimostrato»
 
Mikasa gli assestò un leggero pugno sul fianco, cercando di mostrarsi offesa, per poi finire a sogghignare assieme a lui.
 
Levi si voltò lentamente verso di lei e rimase a guardarla, con quello stesso sorriso abbozzato di un attimo prima.
 

Erano vicinissimi, occhi negli occhi. A Mikasa sembrava che il suo cuore fosse diventato un passero che le frullava nella cassa toracica. Voleva toccarlo di nuovo, ma l’immobilità che si era imposta le sembrava una tortura dolcissima.

Levi dal canto suo si era completamente perso nel suo sguardo, cercava di sondarne l’umore, la sofferenza, ma in realtà non riusciva più a concentrarsi su nulla.
Con uno sforzo che gli sembrò tremendo, riuscì a voltarsi di nuovo con il viso verso l’alto. Poi parlò:
 
«E adesso che lo sai… cosa pensi di fare?»
 
Mikasa aggrottò le sopracciglia e sbatté le palpebre un paio di volte, senza capire.
 
«Cosa vuoi dire?»
 
Levi sospirò.
 
«Non andrai da Historia? A conoscere il bambino…»
 
Quell’idea la stupì. Non le era neanche passato per la mente una singola volta. Perché mai avrebbe dovuto andare da loro? Non aveva niente a che fare con lei.
 
«Perché dovrei?»
 
Levi si voltò di nuovo verso di lei. Corrugò la fronte nel tentativo di leggere la sua espressione. Si strinse nelle spalle.
 
«Siete cresciuti insieme. Eri come una sorella per lui» Le sue parole riecheggiarono in Mikasa come un pugno alla bocca dello stomaco. Un dolore sordo, subito trasformato in triste accettazione mentre sul suo viso si disegnava un sorriso mesto.
Levi riprese: «Non vorresti conoscere il figlio di Eren?»
 
Mikasa distolse lo sguardo, spostandolo sulle proprie mani che cincischiavano con la trapunta. Non sapeva cosa rispondere.
 
«Io penso che dovresti andare»
 
Lo sguardo le scattò di nuovo verso di lui, mentre le labbra le si schiudevano in un sussulto.
 
Levi si strinse di nuovo nelle spalle, senza distogliere lo sguardo dal suo viso.
 
«Penso solo che se fossi al posto di Eren vorrei che qualcuno parlasse a mio figlio di me»
 
Era vero. Mikasa non ci aveva pensato. Per l’ennesima volta non riusciva a fare la cosa giusta, non ci arrivava e basta. Chinò il mento, mentre sentiva gli occhi riempirsi di nuovo di lacrime.
 
«Historia può farlo…»
 
Le dita di Levi le accarezzarono il mento mentre glielo riangolavano, per poterla guardare di nuovo negli occhi. La luce della luna si rifletteva sulle sue lunghe cicatrici. Le stava sorridendo debolmente.
 
«Certo che Historia può farlo. Ma non può farlo come lo faresti tu»
 
Ancora una volta, Mikasa socchiuse le palpebre per sfuggirgli. Due calde lacrime le scesero sulle guance. Poi, lentamente, si voltò con tutto il corpo verso di lui, stendendosi sul fianco destro. Levi aveva ancora l’indice piegato sotto il suo mento e non accennava a distogliere lo sguardo.
 
«E tu? Vuoi che io vada a Mitras?» mormorò la ragazza così piano che non era neanche sicura che lui l’avesse sentita.  
 
«Che tu vada via è l’ultima cosa che voglio»
 
Anche lui aveva quasi sussurrato, ma le sue parole le fecero scivolare un brivido elettrico giù per la schiena. Spalancò gli occhi di scatto, giusto in tempo per vedere un’espressione triste sul suo viso. Poi lui si voltò di nuovo verso il soffitto e il tocco caldo delle sue dita sul mento sparì. Levi espirò lentamente, Mikasa poteva seguire il lento movimento del suo petto che si abbassava.
 
Levi riprese: «Ma ciò che voglio io non è quasi mai la cosa giusta». Abbozzò un mezzo ghigno.
 
Mikasa si voltò a sua volta, tornando stesa sulla schiena. Voleva valutare davvero le considerazioni di lui, ma le sue ultime parole non facevano che rimbombargli nella testa, confondendola. Sentiva questo strano calore nel petto, qualcosa di piacevole, sorprendente ed eccitante.

Levi a sua volta sbatté le palpebre, cercando di mettere a tacere l’inaspettato istinto di voltarsi e stringerla tra le braccia e non lasciarla più andare. Gli sembrava di avere il fiato corto, di essere stato completamente avventato, pazzo, che diavolo gli era saltato in mente?
Non aveva il coraggio di voltarsi di nuovo a guardarla, mentre fingeva assoluta noncuranza. Sentiva il sangue pulsargli nelle vene. Avrebbe dato qualunque cosa per sapere cosa stesse pensando Mikasa ed allo stesso tempo la sola idea lo terrorizzava.
 
Rimasero in silenzio per un po’.

Mikasa riprese a pensare al bambino. Si pentì di aver accartocciato il giornale senza neanche leggere il suo nome. Quello che diceva Levi era giusto. Eren avrebbe certamente voluto così. Ma ne era poi così sicura? Di nuovo la solita domanda che continuava a farsi da più di due anni: era sicura di conoscere davvero così bene Eren? Di sapere cosa contasse davvero per lui?

Che tu vada via è l’ultima cosa che voglio. Arrossì. Possibile che lui…? Era difficile concentrarsi su cosa fare con quella frase che le ronzava nella testa. Ripensò al tocco delle sue dita sul suo viso e sentì più calore salirle alle guance.
 

«Hai ragione» disse poi, quando riuscì a rimettere in fila qualcuno dei suoi pensieri.

Levi si voltò così velocemente che Mikasa trasalì. Per un istante vide passare un’ombra dolorosa negli occhi di lui, sia quello cieco che quello che la guardava, poi il volto tornò alla solita espressione neutrale di sempre.

«Andrò a conoscere il bambino. Se Historia vorrà»

Levi inspirò profondamente, poi si voltò di nuovo appoggiando entrambe le mani sullo stomaco. Mikasa lo vide stringere la mascella. Questo la fece sorridere, sapendo come sarebbe continuato il suo discorso.
 

«Ma non voglio andarci adesso»
 
Sentì lo sguardo di lui che le studiava il viso, ma aveva fatto in tempo a girarsi. Sorrise tra sé.
Levi sentiva il proprio cuore rimbombargli contro le costole.
 
«Non credo di…essere pronta. Ci sono delle cose che devo capire prima, per conto mio. Un giorno lo farò, andrò da Historia. Solo…» si strinse nelle spalle «non adesso, ok?»
 
Levi sorrise tra sé. Gli stava chiedendo il permesso?
 
«Non sono più il tuo capitano, Mikasa, non hai bisogno della mia approvazione»
 
«Forse un po’ ne ho bisogno… spero che non ti dispiaccia»
 
Levi sollevò le sopracciglia con fare rassegnato «Non mi stupisce, sei sempre una mocciosa, dopotutto…»
 
Mikasa si sollevò di scatto appoggiandosi al gomito destro ed incombendo in parte su di lui, mentre i raggi della luna le illuminavano il viso beffardo.
 
«Già, forse lo sono, dopotutto…»
 
Levi le lanciò uno sguardo soddisfatto, ma gli sembrava di essere l’unico ragazzino tra i due. Si sentiva nervoso, inesperto, goffo. Sollevò la mano sinistra e con l’indice le toccò la punta del naso. Mikasa rise e lo spinse via. Poi si stese di nuovo, sistemandosi più comodamente sul cuscino ed avvicinandosi – inavvertitamente? – a lui ancora un po’. La sua spalla destra gli toccava la sua sinistra.
 
«Davvero non vuoi che vada via?» bisbigliò senza guardarlo.
 
«Sì»
 
Mikasa non avrebbe mai creduto che una singola sillaba potesse riempirla di così tanta trepidazione. Si sollevò di nuovo, guardandolo negli occhi.
 
Levi sbatté le palpebre, poi ricambiò lo sguardo. Il suo viso sembrava quello di un’altra persona: tutta la solita indifferenza era sparita, sostituita da esitazione? Timore? La guardava come se tutto il suo destino dipendesse dalla sua prossima singola mossa.
 
Mikasa abbassò lo sguardo sulle labbra di lui, tagliate di netto dalla cicatrice. Appena dischiuse, sottili eppure morbide, almeno all’apparenza. Ispirò, incerta.
 
Poi, come per rompere quella tensione, lui distolse lo sguardo, muovendosi per sistemare meglio il cuscino sotto la testa. Mikasa sorrise tra sé appena. Non c’era nessuna fretta.
 

Non appena lui smise di muoversi, la ragazza si stese di nuovo, appoggiando la testa sulla sua spalla. Sentì il suo braccio sinistro che si spostava, per circondarle le spalle e poi accarezzarle il braccio e il fianco. Nonostante i due maglioni di lana, il tocco delle sue lunghe dita sul suo braccio la fece rabbrividire, non certo di freddo. Tirò su la trapunta, coprendoli entrambi.
 
«Vorresti dormire qui, stanotte?» mormorò.
 
Lui aveva chiuso gli occhi. Annuì impercettibilmente, poi aggiunse: «Ok»

 

Mi raccomando, fatemi sapere cosa ne pensate! :) 
In questo periodo sono in campagna, con camino sempre acceso e doppio maglione addosso...mi sento molto affine a Levi e Mikasa nella baita! :P 




 

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Capitolo 10
*** X ***


Ciao a tutti!
Ecco un nuovo capitolo!
Avrei voluto pubblicarlo prima, ma questo week end i mondiali di pattinaggio hanno avuto tutta la mia attenzione :P 
Grazie a tutti voi che state leggendo e commentando, vi aspetto con altre note in fondo al capitolo!

Chikay


X

 
La mattina dopo, Mikasa si svegliò alle prime luci dell’alba. Era ancora appoggiata alla spalla di Levi, che le dormiva accanto. Il suo viso era disteso, le labbra appena dischiuse. Le venne voglia di accarezzargli la guancia e sistemare una ciocca di capelli che gli attraversava la fronte, ma si trattenne per paura di svegliarlo.
 
Lentamente si divincolò dal suo abbraccio e scese dal letto. Si diresse verso la porta, silenziosa come un gatto, quando un’idea le balenò in mente, bloccandola sui suoi passi. Lanciò un nuovo sguardo verso Levi, indecisa. Probabilmente era una cattiva idea e se lui si fosse svegliato, sapeva che glielo avrebbe proibito.
 
Così, ancora più silenziosamente di prima, si avvicinò al baule di legno ai piedi del letto. Lo aprì lentamente ed i suoi occhi vennero immediatamente attratti dal suo contenuto: l’uniforme del capitano, ma soprattutto il suo meccanismo di movimento tridimensionale.
Represse un leggero tremolio delle mani facendo un respiro profondo. Con lentezza disarmante, afferrò il meccanismo e provò a sollevarlo senza fare rumore. Completamente assorta, cominciò a tirarlo fuori dal baule. D’un tratto, una tanica di gas sbatté contro la custodia delle lame, producendo un lieve tintinnio. La testa della ragazza scattò verso l’alto, gli occhi atterriti si fermarono su Levi, certi di trovarlo sveglio.
 
E invece il capitano rimase immobile, con il petto che si alzava ed abbassava ritmicamente sotto la trapunta. Mikasa si distrasse per un attimo. Ancora non le sembrava vero di aver dormito insieme a lui. Sentì il battito del cuore accelerarle nel petto.
 
Aveva osservato tante volte Eren dormire ed ogni volta lo aveva guardato con apprensione, attenta ad ogni minimo segnale che potesse indicarle qualcosa di sbagliato. Questa era la prima volta che guardare qualcuno che dormiva le sembrasse tanto tranquillizzante.
 
Si rese conto che il suo rapporto con Levi si poteva riassumere proprio in questo: Mikasa si era sempre occupata di proteggere chi le stava a cuore, di vigilare su di loro, sempre pronta a scattare all’occorrenza. Era sempre stata forte per gli altri. Ma con Levi…
 
Da quando lo conosceva, non aveva fatto altro che toglierle pesi dalle spalle. Era lui ad essersi occupato sempre di lei, naturalmente, come se fosse una cosa ovvia. Ripensandoci, si rese conto che lui era sempre stato l’unico davanti al quale avesse ammesso la possibilità di sentirsi debole. Forse perché lui era davvero più forte di lei, forse perché sapeva leggerle dentro come nessun altro.
 
Era l’unico che era sempre riuscito a tranquillizzarla, anche quando nessun altro si era nemmeno reso conto della sua inquietudine. Mikasa sapeva che il capitano era stato così con tutti, ma non le importava di avere l’esclusiva: la sola cosa importante era che lui riusciva a farla sentire sicura. Non perché non fosse abbastanza forte da affrontare qualunque cosa, ma perché sentiva che l’avrebbe affrontata accanto a lei. O al suo posto, se lei non ce l’avesse fatta.
 
Fu attraversata da una fitta di rimorso: non era giusto rubargli il meccanismo 3D senza permesso. Dopo un attimo di esitazione però, la voglia di librarsi tra gli alberi e la possibilità di farlo davvero dopo più di due anni passati a sognarlo ebbe la meglio.
 
Raccattò tutto quanto e sgattaiolò fuori.
 
Uscì sul portico, eccitata come non lo era da anni. Il sole era già alto in un cielo completamente terso, dovevano aver dormito più di quanto pensasse. Si allacciò le cinghie con una velocità quasi frenetica, non stando più nella pelle.
Chiuse gli occhi per sentire meglio la sensazione delle strisce di cuoio sulle gambe e sulla vita. Non indossava un meccanismo 3D da anni, eppure ciascun movimento le sembrava assolutamente naturale, come se non avesse mai smesso.
 
Corse verso il bosco, con le dita già infilate nei grilletti.
 
Si fermò. Chiuse gli occhi ed inspirò lentamente, sentendo il freddo pungente dell’inverno che le incendiava i polmoni. Espirò tra le labbra dischiuse.
 
Lanciò uno sguardo agli alberi davanti a sé, poi sparò i rampini. L’istante dopo volava come un proiettile ed una risata fiera le scoppiò nel petto.
 
Si ritrovò ad urlare dalla gioia. Lei, sempre così silenziosa. Dio, quanto le era mancato.
 
La foresta attorno a lei non era altro che un parco giochi, il vento freddo le fischiava nelle orecchie, raggi di sole le illuminavano il viso quando riuscivano a oltrepassare la coltre di foglie. Voleva andare veloce, il più veloce possibile. Sparava i rampini in modo da effettuare continue deviate. In volo, tirò fuori due lame e volteggiò come un fulmine, tranciando qualche ramo, prima di sparare di nuovo i rampini e salvarsi dall’impatto con la terra a pochi centimetri di distanza.
 
Prese ancora più velocità, inoltrandosi più in profondità nel bosco. Aveva già superato di parecchio tutto il territorio che aveva coperto con Levi. Aveva gas, era tutto ok, poteva spingersi più lontano. Avrebbe fatto in tempo a tornare prima di pranzo volando alla massima velocità al ritorno.
 
Non c’era niente di cui preoccuparsi.
 
Le sembrò di averli lì con sé. Non solo Armin ed Eren, ma tutta la sua vecchia squadra, i cadetti del 104esimo reggimento. Sarebbe stato bellissimo giocare con loro a quel modo, le sembrava quasi di sentire le loro risate, le loro incitazioni, la sfida che inevitabilmente sarebbe nata tra Eren e Jean, gli scherzi di Reiner, le risate di Sasha e Historia, le raccomandazioni di Marco. A quei tempi non aveva fatto molta amicizia, come suo solito. Era troppo impegnata a stare attenta ad Eren. A ripensarci adesso, avrebbe voluto comportarsi diversamente, assaporare di più la loro presenza. Ma era sempre così: riusciva ad apprezzare le cose solo quando le perdeva. La presenza di Eren era stata completamente totalizzante. Mentre saltava da un ramo all’altro con la grazia di una vespa, si ritrovò a domandarsi come sarebbe stata la sua vita se Eren fosse davvero morto, quel giorno a Trost.
 
Scosse la testa, lanciandosi di nuovo verso il vuoto. Non aveva senso farsi queste domande. Cercò di ricacciare le immagini degli altri dalla propria testa, voleva sentire solo il vento, l’adrenalina, nient’altro.
 
Sorpassò una minuscola radura, nel quale sorgeva una piccolissima costruzione di legno con un comignolo spento. Si chiese se si trattasse dell’essiccatoio a cui Levi aveva accennato il primo giorno.
 
In un baleno le scomparve alle spalle.
 
Superò un paio di torrenti di montagna, a sinistra le parve di scorgere un lago. Il paesaggio innevato era incredibilmente bello, le venne voglia di tornarci a cavallo assieme a Levi.
 
Perse il conto del tempo.
 
Aveva proseguito praticamente in linea retta per diversi chilometri, riscaldata dalla propria adrenalina nonostante il vento gelido che scuoteva le fronde degli alberi.
 
Rimpianse di aver perso il proprio movimento 3D. Avendone due, avrebbe potuto usarlo insieme. Decise di scrivere ad Hanji per chiederle di spedirne un altro.
 
Si lanciò a capofitto verso il sottobosco, ruotando su se stessa come una trottola, poi sparò un rampino verso un gruppo di alberi alla sua destra, quando all’improvviso sentì un rumore metallico sospetto.
 
Si sentì sbalzata all’indietro quando un cavo non si ritrasse al suo posto, trascinandola verso il basso e torcendole le spalle.
 
Non ebbe paura. Provò a ritirare il rampino destro per rilanciarlo prima dell’impatto, ma sapeva che era pressoché impossibile.
 
Lasciò andare i grilletti e si aggrappò a degli arbusti per cercare di frenare la caduta. In parte funzionò, perché quando si ritrovò a rotolare tra la terra e la neve sentì di non avere niente di rotto.
 
Si voltò per stendersi a pancia in su, respirando rumorosamente.
 
«Cavolo»
 
Scoppiò a ridere. Rideva così forte che non riusciva neanche a riprendere fiato.
 
Quando riuscì a calmarsi si tirò a sedere. La neve le aveva bagnato il maglione e all’improvviso iniziò a sentire freddo. Si chiese che ore fossero. Sotto le fronde degli alberi era difficile determinare la posizione del sole.
 
I rampini del lato sinistro del meccanismo 3D erano andati. Il sistema non riusciva più a ritrarli e quindi anche spararli era impossibile. Mentre arrotolava manualmente i cavi, cominciò a rendersi conto di quanto fosse lontana da casa, senza neanche una giacca, in pieno inverno e senza che nessuno sapesse dove si trovasse. La mano destra le scattò automaticamente verso il collo, quasi a sistemare meglio la sciarpa rossa che ormai non c’era più.
 
Sospirò.
 
Si slacciò il meccanismo 3D e lo accostò accanto al tronco di una grande quercia. Strappò diversi rami dagli arbusti lì attorno e lo ricoprì formando una specie di piccola capanna. Sperava sarebbe bastato per ritrovarlo, altrimenti Levi gliel’avrebbe fatta pagare cara. Prima di andarsene, sganciò un grilletto ed una lama…non sapeva quali animali vagassero per il bosco innevato, ma non aveva nessuna intenzione di diventare la cena di un lupo o di un orso.
 
Fatto questo, si voltò verso la direzione dalla quale era arrivata ed iniziò a camminare. Doveva assolutamente tornare prima del buio.
 
Continuava a ripetersi che andava tutto bene, che le sarebbe bastato proseguire in quella direzione per qualche ora perché tornasse tutto a posto. Il sole sembrava ancora alto, giusto? Non c’era motivo di preoccuparsi troppo.
 
Ma via via che camminava il freddo le cominciò a sembrare più pungente, l’aria nei polmoni bruciava. Era sicura di star camminando nella direzione giusta? Non riusciva a riconoscere nessun punto di riferimento, all’andata aveva fatto la strada da tutta un’altra prospettiva.
 
Cercava di mettere a tacere il pensiero di essersi persa che, come un veleno, le stava annebbiando la mente.
 
Non vagava a piedi in un bosco a quel modo da quando era andata a vivere con gli Jaeger a Shiganshina. Probabilmente se fosse cresciuta nella baita dei suoi, il pensiero di trovarsi da sola in pieno inverno nel bel mezzo di una foresta non l’avrebbe neppure inquietata. Il rumore dell’acqua che scorreva la fece riemergere dai propri ricordi. Sentì il cuore accelerarle il battito.
 
C’erano due torrenti dopo la casetta di legno!
 
Lasciò andare un sospiro, un po’ più certa di essere sulla strada giusta.
 

 
***
 



Levi socchiuse lentamente le palpebre. Per qualche istante non riuscì a capire dove si trovasse. Si sentiva al caldo, avvolto in qualcosa di morbido. Poi si rese conto di essere a letto, nella stanza che ormai era diventata di Mikasa. Il sole era già alto in cielo ed illuminava lo scarno mobilio.
 
Non dormiva così bene da anni. Diamine, non ricordava neanche quando fosse stata l’ultima volta che si fosse svegliato così riposato.
 
Si stiracchiò lentamente, come un gatto.
 
Poi sospirò, sprofondando di nuovo la nuca nei cuscini. Mikasa doveva essere già in piedi, Levi si chiese che ore fossero. Non gli sembrava vero di aver dormito così a lungo.
 
Sentì le proprie labbra stendersi in un sorriso mentre ripensava alla notte prima. Gli sembrava di sentire ancora il peso della testa di Mikasa sulla propria spalla, il calore del suo corpo stretto a lui. Si era addormentata prima di lui, che era rimasto immobile, per paura di risvegliarla. Il pensiero del suo respiro caldo alla base del collo gli fece scorrere un brivido elettrico giù per la schiena.
 
D’improvviso ebbe paura di alzarsi e di incontrarla.
 
Che tu vada via è l’ultima cosa che voglio.
 
Si passò le mani sul viso, cancellando quell’abbozzo di sorriso.
 
Cosa doveva fare? Doveva mandarla via? Sospirò. Gli sembrava che lei fosse diventata l’unica àncora che lo tenesse ancora legato a chi era veramente. L’unica figura nella sua vita solitaria che sapesse la verità su di lui, su chi fosse. Ogni volta che pensava a quando lei se ne sarebbe andata, gli sembrava di dissolversi.
 
Si tirò a sedere lentamente, pronto ad affrontare la giornata come se la notte precedente non fosse mai avvenuta.
 
Poi qualcosa di insolito catturò il suo sguardo. Il baule ai piedi del letto era spalancato.
 
In un istante si accorse di essere in piedi, mentre una scarica di terrore inaspettato gli mozzava il respiro. Scattò verso il baule, pur essendo certo di cosa mancasse al suo interno. Il meccanismo di movimento 3D era sparito. Si appoggiò con le mani sul letto, reprimendo un conato di vomito che lo scosse dall’interno.
Calmati. Fece un respiro profondo, contando all’indietro da cinquanta mentre cercava di riprendere il controllo. L’incubo di qualche sera precedente sembrava d’improvviso sempre più verosimile.
 
Sei a casa. Zeke e i giganti sono morti da anni. Sei al sicuro. La guerra è finita.
 
Quando gli sembrò di essere nuovamente in sé, aprì di nuovo gli occhi. Chiuse il baule di scatto e indossò un altro maglione per mitigare il gelo improvviso che sentiva in tutte le ossa. Uscì dalla stanza e si diresse verso la cucina. Mikasa non c’era.
 
Levi aprì la porta ed uscì sul portico. Era una bella giornata, il sole splendeva alto e giocava tra i rami innevati degli alberi.
 
È solamente andata a farsi un giro nel bosco. Anche tu lo hai fatto, all’inizio.
 
Era più di un anno che Levi non usava il movimento 3D. L’ultima volta si era da poco trasferito nella baita ed aveva deciso di andare a caccia. Non era stata una buona idea. Quando le lame avevano trafitto un cervo ignaro con la sua solita precisione da assassino, Levi era crollato. Aveva ucciso e torturato tantissime persone nel corso della sua vita, eppure erano stati gli occhi vitrei di quel cervo che avevano segnato il punto di non ritorno. Si era reso conto di non avere più la forza per uccidere a quel modo. Aveva riposto il meccanismo nel baule e si era comprato un fucile.
 
Ogni tanto aveva pensato di riprovare, solo per lanciarsi tra gli alberi, ma ogni volta qualcosa lo aveva frenato. Non era più sicuro per lui. Sapeva di camminare costantemente sul filo di un rasoio. E se avesse avuto un’altra crisi mentre si trovava a 30 metri da terra? Al solo pensiero di precipitare nel vuoto si sentì mancare il respiro e si appoggiò alla balaustra del portico.
 
Sapere Mikasa da sola nel bosco non gli piaceva affatto. Non controllava il meccanismo da mesi…e se fosse stato difettoso?
 
Mikasa è brava quanto te. Sa cavarsela.
 
Sospirò di nuovo, poi si diresse verso la stalla.
 
Tornerà prima di pranzo.
 
 

Ma l’ora di pranzo passò senza che la ragazza fosse riapparsa.
 
Levi provò a distrarsi riprendendo il lavoro sui registri. Di mangiare non aveva nessuna voglia, quindi si riempì la solita tazza di tè ed aprì il quaderno al punto dove erano arrivati. Si distrasse osservando la scrittura ordinata di Mikasa. Il modo in cui arrotondava la curva delle “l” e il segno leggero dei puntini sulle sue “i”. Sorrise involontariamente, mentre poggiava le dita sull’inchiostro ormai secco ed accarezzava la pagina, quasi come avrebbe voluto fare con lei. Quasi come aveva fatto la notte prima.
 
Prese un sorso di tè, maledicendosi in silenzio per essersi scottato la lingua.
 
Lanciò un altro sguardo fuori dalla finestra, ma anche questa volta non la vide apparire da nessuna parte. Si passò una mano sugli occhi, poi prese il pennino e ricominciò a scrivere.
 
 


Un paio di ore dopo, mentre il sole cominciava a calare all’orizzonte, la sua preoccupazione aveva raggiunto un livello che non era più possibile ignorare. Tra poco sarebbe stata notte e lei era uscita senza neanche il cappotto. Non aveva torce, né protezione…la foresta era pericolosa, ma con la neve poteva essere fatale anche senza incontrare animali selvatici. Passare la notte all’aperto voleva dire rischiare la vita.
 
Si vestì, indossando la sua giacca e stivali da cacciatore foderati di pelliccia. Ricaricò le munizioni nel fucile, arrotolò un paio di coperte, prese con sé guanti, carne secca, acciarino e lampada ad olio. Cercava di procedere senza ascoltare i pensieri sempre più inquietanti che gli affollavano la mente.
Quando uscì di casa, il freddo lo avvolse come una morsa. Sistemò meglio la sciarpa attorno al collo e si diresse verso la stalla.
 
Doveva essere successo qualcosa, altrimenti Mikasa sarebbe già tornata. Non avrebbe rischiato di trovarsi nel bosco di notte.
 
Magari è semplicemente andata via.
 
Questo pensiero lo bloccò per un attimo sui suoi passi. Poi scosse la testa: non sarebbe andata via a quel modo, senza avvertirlo e soprattutto senza il suo amato cavallo. Non sarebbe scappata così… senza lasciargli nemmeno un biglietto perché non si preoccupasse…giusto?
 
No, era certamente andata nella foresta col meccanismo 3D. Un meccanismo 3D che non controlli da mesi.
Inspirò. Non c’era tempo da perdere per quegli stupidi sensi di colpa, doveva trovarla prima che fosse in pericolo.
 
E se si fosse ferita? Se fosse caduta?
 
Levi montò in sella ed accese la lampada ad olio. Sotto gli alberi il crepuscolo stava avanzando più rapidamente che nei campi intorno alla casa e già era difficile vedere chiaramente, soprattutto per chi avesse un solo occhio da usare.
 
Trovò le due file parallele di impronte nella neve, che gli indicarono il punto preciso nel quale lei aveva spiccato il volo. Quella vista lo rincuorò: almeno stava andando nella direzione giusta.
 
La neve era alta, ma il suo cavallo per ora non sembrava esserne infastidito. Procedette speditamente nel folto della foresta, superando in pochi minuti la radura della legna con il bivio verso la fonte termale. Per qualche motivo era certo che lei non fosse andata lì. Il suo istinto gli intimava di continuare ad inoltrarsi verso i laghi.
 
Dopo poco, ricominciò a nevicare. Levi imprecò a bassa voce, sperando che quella stupida neve non coprisse le poche tracce che lei avrebbe potuto lasciare. Chiamò il suo nome a gran voce, quasi per provare a squarciare il silenzio sempre più pesante che gli si addensava intorno, ma come si aspettava, non ebbe risposta.
 
Le ombre si allungavano sempre più scure. Levi sentiva il sangue pulsargli nelle orecchie.
 
“Quale diavolo è la ragione per cui sono sopravvissuta? Sono inutile”
 
Le sue parole della sera prima non volevano lasciarlo in pace. Un sospetto subdolo cominciava a strisciargli nella mente. E se avesse deciso di farla finita? Se avesse voluto volare per l’ultima volta prima di… prima di…
 
Le orribili immagini dei suoi incubi gli annebbiarono la vista. Mikasa ricoperta di sangue. Mikasa che lo supplicava di aiutarlo. I suoi occhi spenti, senza più vita.
 
Deglutì, mentre sentiva il suo battito accelerare.
 
Spronò il cavallo con troppa rabbia. Doveva sbrigarsi.
 
 

Perse il senso del tempo. Gli sembrava di procedere da ore e l’unico segno della sua presenza era stato un ramo trovato sul sentiero, tranciato di netto con una lama e ormai prossimo ad essere ricoperto dalla neve. Quel taglio così preciso poteva essere stato fatto solo con lame affilate come quelle del meccanismo 3D. Si sforzava di restare calmo, ma ormai era chiaro che qualcosa non andasse. Il solo pensiero di ritrovare il suo corpo senza vita era troppo: doveva seppellirlo nel fondo della sua mente, per impedirgli che lo bloccasse. Non avrebbe dovuto già aver superato l’affumicatoio? Stava procedendo nella direzione giusta?
 
La sua lampada non faceva abbastanza luce. Dietro ogni tronco, si aspettava di vedere qualche gigante immobilizzato dall’assenza di luce. Si sentiva piccolo e insignificante come non gli succedeva da quando aveva smesso di vivere nella Città Sotterranea.
 
Ti prego, non essere ferita…
 
Provò a chiamarla di nuovo, ma la sua voce riecheggiò nel vuoto. Si lanciò uno sguardo intorno, per controllare di non aver inavvertitamente attirato qualche predatore.
 
Mentre procedeva nuovamente in silenzio, osservando le nuvolette di vapore che si alzavano dalle froge del cavallo, ripensò di nuovo ad Eren. All’ultima volta che lo aveva visto. Si passò distrattamente una mano sul ginocchio sinistro. Ripensò alla promessa che gli aveva fatto. Si chiese se l’avesse davvero mantenuta. Se fosse stato proprio questo, ciò che Eren intendeva. Sospirò.
 
Dove sei, sciocca ragazzina…
 
Poteva decidere di ignorarlo, ma non poteva più non ammettere che la sua vita era cambiata in meglio da quando era arrivata lei. I giorni avevano assunto un nuovo ritmo, gli incubi erano meno frequenti, il tempo non gli sembrava più qualcosa di inutile, perché lei l’aveva riempito di significato. Il solo pensiero di perderla…
 
Strinse i denti. La chiamò di nuovo.
 
Nessuna risposta.
 
Dopo chissà quanto tempo, qualcosa attirò la tua attenzione. Un lieve barlume in lontananza. Che fosse arrivato all’essiccatoio? Che ci fosse qualcuno che aveva acceso un fuoco nella piccola costruzione? Che fosse lei? Sentì la speranza che gli riempiva il petto, quasi sopraffacendolo. Si sforzò di sedarla: poteva sbagliarsi, poteva trattarsi di qualche cacciatore. Non poteva essere certo che fosse lei. Spronò nuovamente il cavallo, che nitrì stizzito in risposta. Levi non se ne curò: doveva sapere.
 
 
 
***

 

 
Proprio mentre la luce del Sole si faceva sempre più flebile e la neve ricominciava a cadere, gli occhi di Mikasa, ormai un po’ abituati alla penombra, scorsero quello che le parve un miraggio: la figura piccola e oscura dell’essiccatoio le si parò davanti quasi all’improvviso. Lasciò andare un sospiro che non si era neanche accorta di star trattenendo, mentre i suoi denti smettevano di battere. Avanzò il più velocemente possibile, per quanto i suoi piedi e ginocchia congelati le permettessero.

Spalancò la porta con troppa forza, provocando un baccano che fece volare via una coppia di gufi che si era appostata sul tetto della capanna.

Dentro, il buio era completo. Avanzò a tentoni, allungando le mani davanti a sé. I suoi piedi sbatterono contro qualcosa sul pavimento. Si accucciò e tastò delle pietre che delimitavano un punto fuoco, con un braciere di metallo al centro. A quattro zampe, procedette l’esplorazione, trovando alcune pelli e pellicce in un angolo della costruzione. Sentì delle lacrime di sollievo inumidirle gli occhi, mentre si buttava una pelliccia sulle spalle.

Sulla parete opposta alla porta, vi era un mobiletto di metallo ed accanto una pila di legna perfettamente ordinata. All’interno del mobiletto Mikasa trovò dei cerini e delle esche. Li strinse a sé come tesori inestimabili e finalmente il terrore di morire di freddo nel cuore della foresta lasciò posto alla speranza.

Sprecò qualche fiammifero per via delle mani troppo fredde che non la smettevano di tremare, ma alla fine riuscì ad accendere un piccolo fuocherello che le permise finalmente di guardarsi intorno.

La capanna era quasi completamente spoglia. A parte il mobiletto, le pellicce e la legna che aveva già trovato, Mikasa scorse dei grossi ganci di metallo appesi alle travi del tetto ed alcune graticole accatastate sulla parete opposta. Sotto le pellicce, vi era del pagliericcio che la ragazza immaginò dovesse fungere come giaciglio per situazioni di emergenza come quella, oppure come ulteriore esca per il fuoco. Sotto al mobiletto di metallo, Mikasa scorse anche un bollitore ed una tazza di metallo.
 
Pensare a Levi le fece aggrottare la fronte. Si chiese se fosse molto preoccupato per lei. Se fosse arrabbiato perché aveva preso il movimento 3D senza chiedergli il permesso. Sperava di non averlo spaventato troppo. Domani alle prime luci dell’alba si sarebbe messa di nuovo in cammino e sarebbe finalmente tornata a casa.
Come al solito era stata troppo impulsiva.
 
Si rannicchiò vicino al fuoco, ricoprendosi con le pellicce. Finalmente aveva smesso di tremare. Ripensò al calore del corpo di Levi accanto al suo, la notte prima. Arrossì. Ripensò a quando si era sollevata sul gomito e lo aveva guardato dall’alto in basso, incerta se fare ciò che sentiva ormai di desiderare. Le sue labbra sottili, appena dischiuse, il suo profumo di pulito, il lieve sentore di tè nero nel suo respiro. Il ricordo del suo sguardo sperso, quasi intimidito, la fece sorridere.
 
Chissà cosa ne avresti pensato Armin… Avresti mai potuto immaginarlo? Io e Levi, insieme, a vivere nel folto del bosco fuori Shiganshina?
 
Io e Levi… Levi… che ha ucciso Eren al posto mio.
 
Il sorriso le si spense sulle labbra. Razionalmente, lo ringraziava ogni giorno per averle impedito di essere lei a doverlo fare, ma inconsciamente? Levi aveva posto fine all’esistenza della persona che aveva significato tutto per lei. Che era stato tutto il suo mondo. Mikasa si sentì all’improvviso una traditrice. Non avrebbe dovuto evitarlo, proprio lui, tra i pochi sopravvissuti?
 
Non avevano mai parlato di quei momenti. Dopo, Levi era ferito troppo gravemente e anche Mikasa aveva passato un periodo oscuro di cui non aveva quasi nessun ricordo. Una volta in grado di stare di nuovo in piedi, Hanji l’aveva portata con sé in giro per il mondo. Non aveva mai saputo nulla degli ultimi attimi di vita di Eren. Aveva pensato a lei? Aveva pensato a Historia?
 
Sospirò, rannicchiandosi ancora meglio sulla paglia.
 
Stava per addormentarsi, quando sentì un rumore provenire dall’esterno. Poteva essere… il nitrito di un cavallo?
 
Senza pensare scattò in piedi.
 
Levi?

 
Lo so, lo so! Non odiatemi per avervi lasciato così in sospeso :P 

Spero che il capitolo vi sia piaciuto nonostante Levi e Mikasa siano stati separati per la prima volta dall'inizio della storia. Questo ha dato modo a entrambi di riflettere sull'altro in maniera un pochino inusuale e servirà per il proseguimento della vicenda :) 

Fatemi sapere cosa ne pensate! 

 

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Capitolo 11
*** XI ***


Ciao a tutti!
Dai, dopo solo due giorni pubblico il seguito...lo scorso capitolo era troppo di passaggio! Ricordo a tutti che questa storia è stata scritta adattandosi alle mie previsioni di come sarebbe andato a finire il manga diversi mesi fa, quindi chi legge il manga ovviamente ormai sa in cosa si sia discostata dal canon...per chi non legge il manga (o non è arrivato al capitolo 138) sappiate che quello che ho scritto non corrisponde in tutto alla storia originale, ovviamente non vi dirò in cosa coincide e cosa no...quindi se volete evitare questi spoiler non leggete le note in fondo a questo capitolo. 

Detto questo, buona lettura! Penso che dovrete aspettare qualche giorno per il capitolo successivo (Pasqua e compleanni vari mi terranno un po' impegnata credo!), ma credo ne varrà la pena ;) 

Fatemi sapere come sempre che ne pensate, i vostri commenti sono sempre una gioia! 

Chikay

 
XI
 


La porta della capanna si spalancò. La luce rossa di un fuoco all’interno illuminò la sua figura slanciata lasciandole il viso nell’ombra.
 
Il sollievo gli esplose nel petto lasciandolo per un attimo senza fiato. Saltò giù dalla sella ed avanzò verso di lei, sempre più veloce. Anche lei fece qualche passo verso di lui.
 
Le arrivò addosso in un istante. Le afferrò le braccia con irruenza, quasi strattonandola. Poi, senza darsi il tempo di riflettere, affondò il viso nell’incavo tra il collo e la spalla di lei, mentre la stringeva a sé. Inspirò tremante il suo odore.

Credeva di non aver mai provato un sollievo così grande in tutta la sua vita.
Sentì che lei lo abbracciava a sua volta e strinse ancora di più la presa. Era vagamente cosciente del fatto che rischiava di farle male, ma non riusciva a lasciarla andare.
 
«Levi…»
 
Fu l’intonazione della sua voce che lo fece allontanare di scatto. Qualcosa non andava.
Non appena fu a una distanza sufficiente, si accorse delle lacrime che le brillavano negli occhi.
Le afferrò il viso tra le mani, senza alcuna grazia, esaminandole la testa, i capelli, il mento.
 
«Sei ferita?»
 
Finalmente le mani di Mikasa si posarono sulle sue, fermando il loro movimento forsennato.
 
«Sto bene»
 
Levi la guardò negli occhi, interdetto.
 
«E allora perché piangi?»
 
Gli occhi di Mikasa si riempirono di nuove lacrime.
 
«Perché sono felice di vederti»
 
Gli si accasciò contro, nascondendosi sulla sua spalla e singhiozzando sommessamente. Levi rimase immobile per un istante, poi la abbracciò di nuovo, questa volta con delicatezza, quasi temendo di romperla. Appoggiò la guancia sinistra sulla sommità della sua testa e prese ad accarezzarle i capelli.
 
«Va tutto bene…sono qui»
 
Continuò a cullarla per qualche secondo, incurante del freddo che li avvolgeva, del cavallo che si avvicinava, della luna che splendeva sulle fronde. Incurante di tutto.
La sentì calmarsi, il ritmo del suo respiro farsi più leggero ed i singhiozzi interrompersi.
 
«Sei venuto a cercarmi?» la sentì mormorare nascosta nelle pieghe del suo giaccone e della sua sciarpa.
 
«Certo che sono venuto a cercarti, sciocchina»
 
Mikasa si rimise dritta. Levi la vide mordicchiarsi il labbro inferiore, per impedirsi di piangere di nuovo.
 
Un’ombra di sorriso gli attraversò il viso. Lei se ne accorse, perché il suo sguardo si fece impercettibilmente più dolce.
 
Levi sollevò la mano destra e la poggiò sulla sua guancia.
 
«Cosa è successo? Mi hai fatto preoccupare da morire»
 
Lei si sporse in avanti ed appoggiò la fronte su quella di lui. Chiuse gli occhi e mormorò: «Scusa».
 
Il suo respiro caldo lo investì in pieno. Per un istante Levi fu contemporaneamente sicuro di doversi allontanare immediatamente e di doverla stringere ancora di più. Rimase immobile. Chiuse gli occhi.
 
«Il tuo meccanismo 3D è difettoso» la sentì sussurrare.
 
«Te l’avrei detto, se solo me l’avessi chiesto…» si sentì risponderle. Ma non era sicuro di aver parlato davvero, perché tutto ciò che riusciva a sentire era il calore sprigionato dal punto di contatto tra le loro fronti e il suo respiro sul suo viso e l’unica cosa che voleva era spingersi in avanti e…
 
Si staccò di scatto. Mikasa sembrò perdere l’equilibrio per una frazione di secondo, ma lui la stabilizzò stringendole di nuovo le braccia.
 
«Sei sicura di stare bene?»
 
Lei annuì, ma represse un brivido. A Levi non sfuggì.
 
«Entriamo dentro, ti stai congelando»
 
Mikasa lo seguì docilmente nella capanna. Una volta entrati, Levi si mise ad armeggiare col fuoco ed il bollitore, sollevato di aver qualcosa da fare che potesse impedirgli di starle vicino senza risultare scostante.
 
«Starai morendo di fame. Prendi» le disse, porgendole la bisaccia che conteneva la carne secca. Mikasa si sedette sul pagliericcio vicino al fuoco. Lui finì di sistemare il bollitore e gli si sedette accanto, senza staccarle gli occhi di dosso, mentre lei iniziava a masticare.
 
«Che ti è passato per il cervello, si può sapere?»
 
Lei si strinse nelle spalle, lanciandogli uno sguardo complice.
 
«Non lo so. Ho solo sentito di averne voglia» La vide abbassare lo sguardo sulle sue dita che giochicchiavano con la striscia di carne. «Mi dispiace di averti fatto preoccupare…»
 
«Non importa. L’importante è che tu sia tutta intera»
 
Mikasa sollevò di nuovo lo sguardo, abbozzando un sorriso. Levi voleva accarezzarla di nuovo. Non gli era mai sembrata così bella.
 
«Sai cosa ho pensato per tutto il tempo? Voglio dire…finché il tuo meccanismo non ha cercato di uccidermi»
 
«Che cosa hai pensato?»
 
«Che sarebbe stato bello volare così con tutti gli altri. Intendo così, senza giganti.»
 
Levi distolse lo sguardo. Pensò a tutte le ore di allenamento che aveva trascorso con Erwin, con la sua squadra. In un istante gli tornarono alla memoria tutte le sfide, le battute, le risate. Si ritrovò a sorridere.
 
«Già. Lo sarebbe»
 
Mikasa gli si fece più vicina ed inclinò il viso verso sinistra, come per osservarlo meglio.
 
«Mi piace quando sorridi»
 
Levi si voltò di scatto, spalancando gli occhi: «Cosa?!»
 
 Poi corrugò la fronte, per nascondere il suo imbarazzo.
 
Lei ridacchiò. Lui si voltò di scatto, sentendosi d’improvviso innervosito, senza sapere per quale motivo.
 
«Non essere ridicola»
 
«Non sono ridicola, sono sincera»
 
Forse per la prima volta in tutta la sua vita, Levi non sapeva come rispondere.
 
«Sei arrabbiato?»
 
Questo gli fornì la giusta scappatoia. Assunse un’aria vagamente sconsolata e sbuffò. «Non sono arrabbiato. Ho perso la speranza di insegnarti un po’ di educazione. Sei un caso perso.»
 
«Levi?»
 
«Cosa?»
 
«È da ieri che penso a Eren»
 
Il suo cambio di argomento improvviso lo fece tornare con lo sguardo su di lei. Mikasa osservava le braci roventi, il pezzo di carne ormai scordato in grembo. Senza riflettere, allungò la mano sinistra e le prese la mano destra. La strinse delicatamente, mentre sentiva il suo sguardo spostarsi su di lui.
 
«Lo so»
 
Rimasero in silenzio per qualche secondo. Mikasa ruotò il polso, per stringere a sua volta la sua mano, palmo contro palmo. Dita intrecciate.
 


«È per questo che sei qui, no?». Sentì che Mikasa lo guardava senza capire, così continuò:
 
«Mikasa, è per questo che sei venuta a cercarmi, tutti quei giorni fa. Per chiedermi di Eren»
 
Non era neanche sicuro di aver scelto consciamente di parlarle di Eren, ma adesso che l’aveva fatto sentiva di essere nel giusto. Incatenò il suo sguardo negli occhi di lei, spalancati per la sorpresa. L’incertezza che ormai gli causava esserle vicino era scomparsa, lasciandolo risoluto come non si sentiva da anni.  Dentro di sé era assolutamente certo di quanto aveva detto: Mikasa era venuta a cercarlo solo per chiedergli questo. Le strinse la mano.
 
«Forse hai ragione» rispose la ragazza, mentre un sorriso triste le compariva sulle labbra. Per un istante, Levi fu incerto se dirle tutto o continuare a tenerla all’oscuro.
 
«Sono anni che ci penso… forse quello che è successo ieri me ne ha solo dato conferma» proseguì sempre senza guardarlo.
 
«È solo che mi sembra di aver dedicato tutta la mia vita a proteggere un’illusione, più che una persona»
 
Gli lanciò uno sguardo furtivo, come per assicurarsi che lui la stesse ascoltando mentre pronunciava la confessione più intima che avesse mai fatto ad anima viva. Lo sguardo di Levi era impassibile, fisso su di lei.
 
Proseguì: «Ho sempre creduto di star proteggendo la persona più importante della mia vita. Invece ho protetto soltanto me stessa. Ho continuato a illudermi di conoscere una persona che non è mai esistita, perché se avessi ammesso di essermi sbagliata…»
 
Si interruppe per un istante, trasalendo.  
 
«E non è solo questo…è che non solo non era come io credevo, ma alla fine… si è lasciato mangiare dalla vendetta e ha sacrificato tutto, anche i suoi amici. Anche me.»
 
Levi abbassò lo sguardo e rimase in silenzio. Gli unici suoni nella casetta erano quelli degli schiocchi della legna tra le fiamme.
 
«Ti sbagli»
 
La sua voce era ferma, ma dentro di sé il capitano non sentiva altro che subbuglio. Stava facendo la scelta giusta? Non doveva piuttosto permetterle di rassegnarsi e proseguire con la sua vita? Non avrebbe fatto peggio? Le ultime parole di Eren gli riecheggiarono nelle orecchie. Stava per infrangere la sua promessa.
 
Sentiva lo sguardo di Mikasa sul proprio viso, ma continuò a fissare le loro mani intrecciate. Sospirò, raccogliendo il suo coraggio.
 
«Mikasa… c’è qualcosa che devo dirti»
 
 



 
Fumo. Vapore. Un caldo dannatamente infernale.
 
Levi ansima, appoggiandosi all’elsa della sua spada conficcata nelle ossa gigantesche del gigante più enorme del mondo. Sente che le sue forze lo stanno abbandonando.
 
Sangue e sudore gli colano sulle bende che gli coprono le ferite sul viso. Gli impediscono quasi di vedere. Deve resistere.
Cerca di raddrizzarsi.
 
Davanti a lui, giace Eren. Non ha più le braccia e le gambe ed anche il viso è una maschera di sangue. Levi lo sente rantolare, mentre un vapore denso e compatto fuoriesce dalle sue ferite. I solchi sotto gli occhi, segno della trasformazione in gigante, sono profondissimi.
 
Sa che deve farlo. Non ci sono alternative e non ha più tempo, Zeke potrebbe arrivare da un momento all’altro se gli altri non riusciranno a fermarlo. Deve finire quello che ha iniziato.
 
«Fallo, capitano»
 
La voce di Eren lo coglie di sorpresa. Nonostante sia rauca e flebile, Levi vi sente la stessa caparbietà che ha sempre avuto. Stringe con più forza la presa sulla spada.
 
«Eren…non deve essere per forza così. Fermati, dannazione.»
 
«Non mi fermerò mai»
 
«Ma perché, maledizione! Puoi ancora salvarti»
 
Eren si volta verso di lui e lo fissa con uno sguardo che gli fa venire la pelle d’oca. Per la prima volta da quando è iniziata quella lotta forsennata, Levi sente di avere paura.
 
«L’unico modo per fermarmi è uccidermi. E non hai più molto tempo per farlo, Levi.»
 
Il capitano lancia uno sguardo alle sue spalle, dove la battaglia continua. Eren lo vede tentennare. Levi sa che deve farlo.
 
«Era l’unico modo capitano. Avevate bisogno di un mostro contro cui unire le forze. Ora ce l’avete avuto. Era l’unico modo per avere la pace. Per liberare tutti voi»
 
Levi gli si avventa contro. Sente una rabbia bruciante che gli infiamma il petto, gli sembra di non poter nemmeno respirare. Gli afferra il bavero della camicia.
 
«Non ti azzardare a fare il martire con me, ragazzino! Non avevi nessun diritto di decidere da solo, sono stato abbastanza chiaro?»
 
«Era l’unico modo per proteggervi…e tu lo sai»
 
«Non accetto queste cazzate! Sei solo un pazzo, Eren! Hai ucciso milioni di persone, Armin è morto per causa tua! Jean, Sasha sono morti per causa tua, cazzo!»
 
Due lacrime silenziose scendono giù da quegli occhi verdi. Levi sente tremare tutti i propri muscoli.
 
«Mi dispiace per Armin… ma era l’unico modo. L’unico modo per farla rassegnare.»
 
Levi lo lascia andare e quello che resta di Eren cade di nuovo sulle ossa fumanti.
 
«Grazie capitano. Per non averlo fatto fare a lei. Per non avermi fatto recitare fino alla fine»
 
«Stupido moccioso! Poteva andare diversamente, non lo capisci? Bastava ti fidassi noi, cazzo…»
 
«Capitano, una volta mi hai detto che l’unica cosa che possiamo fare è non rimpiangere le decisioni che prendiamo. E restare fedeli a quello che abbiamo deciso di fare. A volte ho deciso di affidarmi a voi, ed è andata bene… o è andata male…a seconda delle occasioni. Ma stavolta doveva essere così. E non rimpiango niente, perché adesso Paradis sarà libera e voi con lei.»
 
Non si è neanche accorto di essersi mosso, ma l’istante dopo Levi si accorge di averlo colpito con un pugno. Lo sente sputare del sangue tossendo. La mano destra, le dita mozzate ancora non guarite gli fanno risalire un dolore sordo fino alla spalla. Sente di star tremando. E non ha più tempo.
 
«Non avevo scelta, era l’unico modo»
 
«C’è sempre una cazzo di scelta!»
 
Levi scatta, solleva la spada e la spinge sulla gola di Eren. Fa pressione, ma non abbastanza per trafiggerlo.
 
Eren lo guarda e sorride. Altre lacrime si formano nei suoi occhi.
 
«Lo so che non ne ho il diritto, ma ho bisogno che tu mi prometta qualcosa». Levi sbuffa, senza rispondergli. Abbassa lo sguardo sulla sua lama, cercando la forza per finirla.
 
«Per favore, proteggila per me»
 
Lo sguardo di Levi scatta di nuovo verso Eren.
 
«E per favore, lasciale credere a tutto questo. Lasciale credere che io sia un mostro. In fondo, non sono altro che questo.»
 
«Eren…»
 
«Per favore Capitano. Lascia che mi odi»
 
«Non ti odierà mai»
 
«E allora aiutala a farlo. Non dirle niente. Ti prego»
 
Levi sospira. Poi annuisce impercettibilmente.
 
Eren sorride.
 
E l’istante dopo, Levi affonda la lama. Un fiotto di sangue schizza verso di lui, inzuppandolo.
 
Un tremito attraversa la terra. È come se il cielo stesse facendo un respiro.
 
Prima che Levi possa accorgersi del fatto che tutti i giganti delle mura si sono immobilizzati, il dolore esplode in maniera così forte che è sicuro di essere morto.
 
Abbassa lo sguardo e le vede. Lunghe unghie del gigante bestia, conficcate sulla sua gamba sinistra, sul suo ginocchio, coscia, bacino, schiena.
 
Zeke è arrivato.
 
Levi si sente sollevare, la mente ormai scollegata dal corpo. Lampi di luce accecante gli passano davanti agli occhi.
 
Poi, si accorge di star precipitando.



 

Ecco qua la mia versione di come siano andate le cose durante la battaglia finale! 
Devo dire che alcune somiglianze con il canon ce le ho trovate e mi hanno fomentato un sacco! Eheh
Mi riferisco al fatto che alla fine l'ultimo pensiero di Eren sia stato rivolto a Mikasa e che le abbia chiesto di dimenticarlo...nella mia storia Eren ovviamente non ha parlato direttamente con Mikasa, ma ha pensato a lei e si è augurato che lei superasse la sua morte continuando a vederlo come un mostro, facendo promettere a Levi di non dirle nulla della loro ultima conversazione... Mi sembrava troppo scontato che fosse Mikasa a uccidere Eren e Levi a uccidere Zeke, quindi nella mia versione li ho scambiati...invece poi come al solito Isayama nel manga ha completamente smentito i miei pensieri e devo dire che mi è piaciuta moltissmo la malinconia/insoddisfazione di Levi nell'uccidere Zeke (zero gloria e senso di vendetta compiuta) e la dolcezza di Mikasa nell'uccidere (fino a prova contraria!!) Eren...quindi grande Isayama! 

L'altra somiglianza che mi ha fatto troppo ridere è stato che nella mia storia durante la battaglia finale Levi si fosse seriamente ferito il ginocchio sinistro...e così è stato anche nel canon, quando per salvare Connie un gigante riesce a mordergli la gamba! Che buffo eheh


;)

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Capitolo 12
*** XII ***


Ciao a tutti!
Mi dispiace di avervi fatto aspettare a lungo per questo nuovo capitolo: volevo pubblicarlo ieri, ma poi ho avuto bisogno di un po' più di tempo per metabolizzare il capitolo 139. Non posso credere che sia davvero finito! 
Ho anche modificato leggermente la descrizione di questa storia perché ormai sono ufficialmente alternativa al canon :P 
Se volete commentare il capitolo del manga, scrivetemi pure in privato!!

Per quanto riguarda la mia storia: questo capitolo in realtà è in parte affine al 139 perché anche qui c'è una sorta di "conclusione" (capirete leggendo). 
E' il primo dei capitoli che ho scritto dopo aver iniziato a pubblicare la storia qui su EFP! 
L'ho scritto tutto di getto e devo dire che ci sono molto affezionata, quindi non siate timidi e commentate :) 

Vi consiglio due brani da ascoltare mentre leggete: Stay alive, di Gonzales e Ada Plays della colonna sonora di Ritorno a Cold mountain. 

Spero davvero vi piaccia!

Chikay

 

XII
 



Mikasa aveva perso il conto del tempo.
 
Dopo che Levi aveva terminato il suo racconto, era sceso il silenzio nell’affumicatoio. Lei aveva stretto le ginocchia al petto e ci aveva nascosto il viso.
 
Era vagamente cosciente del fatto di star piangendo sommessamente, ma non riusciva a capirne il motivo fino in fondo.
 
Sentiva il suo petto espandersi, per accogliere più aria. Come se per due anni i suoi polmoni si fossero rifiutati di fare un respiro profondo, di quelli che riempiono tutta la cassa toracica. Come se per due anni fosse stata in apnea, aspettando il momento per ricominciare a respirare.
 
Processare le parole di Levi era troppo difficile. Per adesso le bastava questa strana sensazione. Il suo corpo le pareva d’un tratto leggerissimo, capace di balzare in aria, più in alto delle cime degli alberi, più in alto del vento. Non era propriamente una sensazione piacevole. Ma non era neanche spiacevole. Aveva voglia di correre fuori all’aperto, ma era contemporaneamente certa di non essere in grado di muovere neanche un muscolo.
 
Per favore, proteggila per me
 
Uno strano calore si stava espandendo a partire dal suo petto. Le sembrava di sciogliersi dall’interno, come se fino a quel momento avesse avuto tutti gli organi fatti di ghiaccio e solo adesso, lentamente, costantemente, stessero tornando ad essere di carne.
 
Lo sapeva. Lo aveva sempre saputo. Non poteva giustificare ciò che Eren aveva fatto, le scelte che aveva compiuto, ma avere la conferma che l’avesse fatto per loro – seppur con un massacro che alla fine ne aveva decretato la condanna a morte, sacrificando Armin – cambiava tutto.
 
Non era felice, no. Non era nemmeno sollevata. Non era soddisfatta, né rincuorata. Ma dal momento in cui aveva ascoltato le parole di Levi era cambiata per sempre. Era d’improvviso libera. Libera.
 
Un singhiozzo le spezzò per un attimo il respiro. Riprese fiato, sorpresa, mentre sentiva le lacrime infittirsi. Sapeva che Levi era accanto a lei, ma che non osava toccarla.
 
La tristezza arrivò tutta insieme. Ma non era per il motivo che si sarebbe aspettata: si sentiva triste perché d’improvviso era cosciente che la storia tra lei ed Eren, che la storia della sua vita fino a quel momento, era giunta alla conclusione. Qualcosa nel suo cuore aveva messo la parola “fine” a tutta la loro vicenda.
 
E poi arrivò la nostalgia, leggera come il tocco di una piuma. La nostalgia di qualcosa di troppo importante e ormai irrimediabilmente concluso. Era una sensazione languida, calda, pulsante. Il ghiaccio dentro di sé continuava a sciogliersi senza sosta.
 
Non si sentiva in pace. Non era serena. Per un istante si sentì in colpa, perché sapeva però che la pace, la serenità sarebbero arrivate prima o poi. Che la sua vita sarebbe continuata anche senza Eren, che non era suo il fardello di vivere anche per lui e per Armin. Che la sua vita sarebbe continuata al di fuori di Eren.
 
Che lei era viva, e fragile e danneggiata, ma la sua vita non era stata una farsa. Che l’amore tra lei ed Eren era stato reale per lui, tanto quanto lo era stato per lei. Che le sue ultime parole di commiato da questa vita erano state per lei, anche se non aveva voluto che fosse lei ad ascoltarle.
 
E che con quelle parole, lui adesso le stava dicendo addio per sempre. E grazie a quelle parole lei adesso aveva il diritto di ricordarlo con amore, con tutte le sue debolezze e difetti.
 
Il dolore non sarebbe sparito. Probabilmente non sarebbe sparito mai. Il rimpianto per la vita che avevano avuto, per la loro infanzia felice, per l’amicizia stretta nelle difficoltà di una lotta impari contro i mostri, la mancanza – a volte quasi fisica – delle sue braccia, del suo viso, della sua voce, delle risate condivise con gli altri sarebbe rimasto con lei per sempre.
 
Però stranamente adesso le sembrava quasi una cosa bella. Un tesoro prezioso da custodire, più che un veleno da somministrarsi per continuare a soffrire, sentendosi troppo in colpa per essere l’unica sopravvissuta.
Era come se si fosse spezzato un incantesimo.
 
Era stato lui a spezzarlo. Lui, che adesso le sedeva accanto in silenzio. Lui, che aveva compreso il motivo del suo ritorno nella sua vita ancora prima che fosse pronta ad ammettere di saperlo anche lei.
 
Lui che l’aveva riaccolta come se non si fossero mai separati. Come se potesse leggerle dentro perché la sua anima era uno specchio della propria. Lui, la sola persona con cui lei poteva essere debole e danneggiata ed incapace di affrontare le sfide e la pressione, ma non per questo senza valore.
 
Lui, la sola persona con cui si fosse mai sentita viva da quando la guerra era finita, ma forse ad essere sinceri anche da prima. La cui sola presenza sapeva consolarla, confortarla, senza neanche bisogno di una sola parola.
 
Era lui che aveva spezzato l’incantesimo che Eren aveva creato, quando aveva deciso di tenerla all’oscuro per sempre.
 
Un’improvvisa realizzazione le fece spalancare gli occhi.
 
“Lascia che mi odi”
“Non ti odierà mai”
 
Eren la conosceva fin da quando erano bambini. Erano cresciuti insieme, avevano condiviso tutto. Eppure lei non era riuscita a capirlo, così come lui non era riuscito a capire lei. Se davvero aveva creduto che lei potesse riuscire a odiarlo, se davvero credeva che lei avrebbe potuto mettere un punto, voltare pagina credendolo il mostro che tutto il mondo aveva voluto che lui fosse, Eren non sapeva nulla di lei.
 
Ma Levi – Levi – invece sapeva. Non ti odierà mai. Lui sapeva.
 
D’improvviso fu di nuovo cosciente del suo corpo, dell’odore del fuoco, del tocco delle pellicce sulle sue spalle. Del respiro leggero dell’uomo che le sedeva accanto in silenzio. Di quello che doveva fare.
 
Di quello che avrebbe dovuto fare già da tempo. Non poteva più perdere tempo, le sembrava di vedere la sabbia di una clessidra scivolarle tra le dita, senza che lei potesse fare nulla per fermarla.
 
«Levi» mormorò, senza ancora alzare il viso dalle ginocchia.
 
Lo sentì trattenere il fiato. Sapeva che la stava guardando, che si tratteneva dal toccarla per paura di romperla irrimediabilmente.
 
«Sono qui»
 
L’inflessione della sua voce era decisa, anche se leggera. Mikasa sentì il suo cuore prendere il volo come in un battito d’ali di farfalla.
 
Alzò il viso, rigato dalle lacrime ma sereno, e si voltò. Lui le sembrò stupito per un attimo, poi incerto. Probabilmente si stava ancora chiedendo se avesse fatto bene a parlarle. A infrangere la promessa che aveva fatto ad Eren.
 
Mikasa sollevò la mano sinistra e la poggiò sulla guancia di lui. Levi trasalì appena, ma non si scostò.
 
«Lo so» mormorò lei. E sapeva che lui aveva capito che in quelle due sillabe c’era molto di più di quanto lei adesso non fosse in grado di esprimere.
 
Le sembrò di sentirlo appoggiarsi ancora di più alla sua mano. Lo vide chiudere gli occhi, le palpebre abbassarsi e le ciglia scure distendersi, lo sentì respirare a fondo, con il naso accostato al suo palmo, come per inspirare il suo odore.
 
«Levi, grazie»
 
Lui aprì di nuovo gli occhi, il suo sguardo impassibile sostituito da un’espressione allo stesso tempo spaventata e risoluta. Mikasa fu certa che anche lui sapesse cosa stava per succedere.
 
Si spinse impercettibilmente in avanti, verso di lui. Abbassò lo sguardo sulle sue labbra. Aveva paura, ma non era mai stata così certa di qualcosa in tutta la sua vita. Sentiva il suo cuore battere impazzito nell’anticipazione di quello che le sue labbra avrebbero avuto il coraggio di fare.
 
Ormai erano vicinissimi, Mikasa sentiva il suo respiro leggero sul viso.
 
Chiuse gli occhi, prese fiato.
 
Poi lo baciò.




 
 
***
 




 
Quella notte, Levi capì molte cose.
 
Capì che l’amore non doveva più essere una debolezza da combattere. E capì che essere debole era meraviglioso. Che poteva permettersi il lusso di non essere in controllo, senza per questo crollare in mille pezzi. Che poteva affidarsi a lei, che il suo corpo sapeva tutto quello che c’era bisogno di sapere, che i suoi baci, le sue labbra, le sue carezze avevano il completo potere su di lui.
 
Mentre osservava Mikasa, il suo corpo, la sua pelle nuda, il suo viso, le sue labbra muoversi su di lui, sicura ed esitante allo stesso tempo, mentre assaporava il suo sapore, la fragranza della sua pelle, mentre ascoltava i suoi respiri lievi, rapidi, i suoi gemiti, capì che aveva completamente frainteso tutto quello che aveva sempre sentito dire sull’amore.
 
Si sentiva vagamente frastornato, la mente annebbiata e completamente riempita solamente da lei. Si sentiva contemporaneamente preda e cacciatore, voleva abbandonarsi al suo controllo, sentiva le sue labbra sulle sue, sul suo collo, mentre i sospiri gli sfuggivano dalle labbra dischiuse. Voleva tutto di lei, il suo corpo, la sua pelle di porcellana che poteva stringere tra le sue braccia, senza più nessuno strato che si frapponesse tra loro.
 
Per la prima volta da anni, la sua mente non era più affollata da dubbi. Tutto ciò che importava era quella ragazza, quella donna, meravigliosa e forte e fragile e bellissima che assecondava i suoi movimenti, che lo accoglieva così com’era: debole, danneggiato, imperfetto. Che accarezzava le cicatrici che costellavano il suo corpo, con la quale si sentiva vivo per la prima volta da anni.
 
Quello che stava succedendo era uno spartiacque. Levi sapeva che ci sarebbe stato un prima e un dopo. Che sentire il corpo di lei muoversi sopra di lui, ascoltare il suo respiro affannoso mescolarsi col proprio, percepire le gocce di sudore scorrere sui loro corpi avrebbe cambiato tutto. Che i suoi occhi, che lo guardavano languidi, leggermente lucidi, ardenti, lo avevano fatto prigioniero e che lo sarebbe rimasto per sempre, completamente alla sua mercé. E che questa era una cosa buona.
 
Sapeva di amarla, era certo di amarla.
E quando lei le si rannicchiò addosso, ancora nuda e ansimante, sotto le pellicce che li coprivano dal freddo e si addormentò con la testa poggiata sulla sua spalla, ne fu ancora più certo.
 


 
***
 
 



«Levi, sta arrivando l’alba, apri gli occhi»
 
Levi socchiuse lentamente le palpebre. Sentì il calore del fuoco e delle pellicce sulla pelle ancora nuda, ma l’aria frizzante dell’alba invernale che entrava dalla porta aperta lo fece rabbrividire impercettibilmente.
 
Mikasa era in piedi sull’uscio, voltata di tre quarti verso di lui. Indossava il suo maglione azzurro, che aveva finito per tenersi anche dopo averne comprati di propri. Il cielo era ancora di un color indaco scuro e con quella scarsa luce, il capitano non riusciva a leggere l’espressione sul suo volto.
 
Credeva che avrebbe avuto paura di svegliarsi accanto a lei, dopo quello che era successo la notte prima, paura di aver fatto qualcosa di irreparabile che l’avrebbe allontanata per sempre, ma si accorse di non averne per nulla.
 
«Dai, vieni a vedere» lo incitò lei, mentre il cielo assumeva una sfumatura più celeste, con le nuvole bianche che si tingevano lentamente d’oro.
 
Si liberò delle pellicce e si rivestì frettolosamente, lasciando che i maglioni gli spettinassero i capelli più di quanto già non fossero. Le si avvicinò in silenzio e finalmente poté vedere che lei gli stava sorridendo.
 
Mikasa si voltò di nuovo verso il cielo con fare impaziente. «Guarda le nuvole»
 
Levi lanciò uno sguardo distratto alle nuvole, prima di voltarsi di nuovo verso di lei. Osservò il suo profilo delicato, il modo in cui i capelli le incorniciavano la fronte, prima di ritrarsi dietro il piccolo orecchio sinistro. Ne studiò l’espressione serena, cercando inconsciamente di serbarne un ricordo il più dettagliato possibile.
 
«Non sono bellissime?»
 
La voce di Mikasa lo riscosse dalla sua contemplazione, ma non abbastanza per ricordarsi di cosa stessero parlando.
 
«Uh?»
 
Mikasa gli rifilò un’occhiata rassegnata mentre alzava il sopracciglio.
 
«Le nuvole!»
 
Levi staccò lo sguardo a malavoglia dal suo viso per alzarlo verso il cielo. In effetti, la luce dell’alba illuminava le nuvole di sfumature rosee e dorate, che spiccavano contro il resto del cielo finalmente azzurro e terso. Si ritrovò col pensiero alle albe che precedevano le spedizioni oltre le mura: a quei tempi, contenevano l’anticipazione del pericolo, la promessa della libertà di terre inesplorate, l’adrenalina dell’ignoto. Con una esitazione tutta nuova, si chiese invece che cosa avrebbe portato quella nuova alba, che stava condividendo con lei.
 
«Ci sono dei paesi, lontani da qui, molto freddi, sai? Dove l’alba ha tutti i colori dell’arcobaleno. Ci sono delle specie di strisce colorate che si muovono così…»
 
Tornò di nuovo a guardarla, mentre lei parlava e gesticolava cercando di spiegare di quelle strane albe colorate. Aveva temuto di svegliarsi perché non sapeva come si sarebbe dovuto comportare con lei dopo la notte precedente. E invece lei sapeva perfettamente cosa fare. Levi si soprese a pensare che dopotutto tra i due, il moccioso fosse proprio lui. Mikasa si muoveva, parlava, lo guardava con tutta la naturalezza che lui non credeva di poter ritrovare mai più, ma che invece ora gli sembrava assolutamente ovvia.
 
Eppure percepiva chiaramente la differenza. La sua voce gli sembrava più dolce e più decisa, il suo sguardo – che ogni tanto gli accarezzava il volto, tra un’osservazione del cielo e un’altra – conteneva la promessa di qualcosa di nuovo che gli faceva aumentare il battito nel petto. La sua intera postura era come più rilassata, come se qualcuna delle preoccupazioni che le facevano raddrizzare le spalle fosse sparita in un istante.
 
Si chiese come dovesse apparire lui ai suoi occhi. Anche lei vedeva dei cambiamenti? Doveva vederli per forza, perché a Levi sembrava di essere diventata un’altra persona. Si sentiva insicuro, ma non gli sembrava una cosa spiacevole. Istintivamente sapeva che lei aveva tutte le risposte che gli servivano. Che gli sarebbe bastato seguire il suo esempio per non commettere errori.
 
Si strinse nelle spalle: «A me sembrano le solite nuvole» borbottò infine, aprendo bocca per la prima volta da quando si era svegliato.
 
Mikasa sbuffò, strappandogli un sorriso perché era esattamente la reazione che si era aspettato.
 
«Sei senza speranza» rispose lei, voltandosi per guardarlo di nuovo, mentre la ciocca di capelli le sfuggiva da dietro l’orecchio distendendosi sulla fronte.
 
Levi allungò automaticamente la mano per risistemarle i capelli. Esitò per una frazione di secondo, non sapendo come fare per toccarla di nuovo. Poi la percepì trasalire impercettibilmente, quando le sue dita le sfiorarono la guancia e l’orecchio. Mikasa si voltò leggermente verso il suo palmo aperto e vi nascose le labbra, inspirando il suo odore e portando lo sguardo ad incrociarsi col suo.
 
Levi pensò che quelle lunghe ciglia e quegli occhi allungati l’avessero appena stregato perché si ritrovò in un istante con la gola completamente secca. Rimase in silenzio, a guardarla negli occhi, sperando che il tempo trovasse il modo di allungarsi e di lasciarli lì così ancora per un po’.
 
«Torniamo a casa» mormorò poi. Lei annuì in silenzio, senza allontanare la guancia dalla sua mano.


 

Dai, almeno dopo il finale agrodolce del manga, arriva un po' di gioia! :P

Spero davvero vi sia piaciuto questo capitolo... a breve tornerò con il seguito ;) Intanto voi fatemi sapere cosa ne pensate!



 

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Capitolo 13
*** XIII ***


Ciao! Ecco il capitolo numero 13!
Come vedrete, è un po' diverso dal solito...la narrazione della storia si interrompe un po', riprenderà nel prossimo capitolo...
ma credo che vi piacerà ;) 
Altre note in fondo.


 
XIII




 
«Cosa stai facendo?»
 
La sua voce gli arrivava da dietro le spalle. Mikasa non distolse lo sguardo dal registro che stava continuando a consultare da diverse ore. Lo sapeva seduto sulla branda, dietro di lei, alla sua sinistra. Sentiva il suo sguardo penetrante addosso, sapeva che la stava osservando ormai da un po’, in silenzio.
 
«Tu che cosa dici?» rispose infine senza girarsi. Afferrò il pennino e lo intinse nell’inchiostro, pronta a scrivere qualcosa sul suo foglio di appunti.
 
«Fermati»
 
La sua voce era imperiosa, le stava dando un ordine.
 
Mikasa non si prese la briga di rispondere, anzi posò la punta della penna e iniziò a scrivere.
 
Lo sentì alzarsi, ma tenne lo sguardo incollato sulle pagine davanti a sé. Sentì che le si avvicinava, poggiando le mani sullo schienale della sua sedia.
 
«Ho detto di fermarti» ripeté lui, questa volta abbassando la voce, con le labbra vicine al suo orecchio.
 
Mikasa sollevò un angolo delle labbra, ma continuò a scrivere.
 
«Visto che non prendo più ordini da te, penso che finirò quello che sto facendo»
 
Lo sentì chinarsi lentamente e trattenne il fiato, immaginando cosa sarebbe venuto dopo.
«Che mocciosa seccante…» sussurrò lui, con le labbra accostate al suo collo. Mikasa rabbrividì impercettibilmente, ma non lasciò ancora la penna.
 
Levi le posò un bacio sul collo. Poi un altro, mentre la circondava con le proprie braccia, infilando le mani sotto i due strati di maglioni. Mikasa chiuse gli occhi, cercando di non dargliela ancora vinta.
 
«Ti ho detto…» un altro bacio «…di smettere…» le accarezzò il collo «…di scrivere»
 
Mikasa cercò di scostarlo, mentre sentiva il proprio battito accelerare. «Di questo passo non finiremo mai il lavoro!» provò quindi a protestare.
 
La voce di Levi risuonò, bassa e roca, vicino al suo orecchio:
 
«Non me ne frega un cazzo del lavoro»
 
Mikasa sentì la pelle d’oca risalirle sulle braccia e sulla nuca. Sentì Levi sorridere, perché sapeva che ormai lei si era arresa.
 
«Prova solo a rimproverarmi domani e vedrai…» mormorò quindi, mentre si voltava lentamente verso di lui.
 
Lo vide stringersi nelle spalle, mentre un sorriso sghembo gli attraversava le labbra. Mikasa rimase per un istante senza fiato.
 
«Se saprai soddisfarmi…»
 
Mikasa gli assestò un colpo sulla spalla. Riuscì solo a mormorare «che stronzo…», prima che le labbra di lui raggiungessero le sue.
 
 


 
***
 



Mikasa chiuse gli occhi e sospirò lentamente, mentre l’acqua calda della sorgente termale faceva rallentare lentamente il battito del suo cuore. Stare a mollo nella fonte bollente circondata dalla neve era un piacere che non avrebbe mai saputo descrivere. Non si era mai sentita così rilassata in tutta la sua vita.
 
Riaprì gli occhi, distratta dall’imprecare sotto voce di Levi, che si stava sfilando i vestiti in fretta e furia.
 
«Dannazione, fa un freddo cane!» borbottò lui, mentre lanciava gli abiti nella cesta sul bordo della vasca e compiva i due passi che lo separavano dall’acqua calda.
 
Mikasa ne osservò il corpo nudo. Era ancora un fascio di muscoli, ma era dimagrito rispetto agli anni del Corpo di Ricerca. Le cicatrici lasciate da Zeke – che partivano sul fianco sinistro e scendevano fino a sotto il ginocchio – risaltavano violacee sulla pelle diafana, insieme a una miriade di altri segni che la ragazza non poteva riconoscere altrettanto facilmente. Sapeva che quelle ferite gli avevano lasciato un dolore cronico costante, ma non era ancora riuscita a capire di che tipo di intensità si trattasse.
In corrispondenza dei punti dove per tanti anni avevano scivolato le fibbie di pelle del meccanismo di movimento 3D, la pelle era più lucida, segnata probabilmente in modo indelebile.
 
Levi si immerse trattenendo il fiato. Mikasa chiuse di nuovo gli occhi. Lo sentì avvicinarsi ed infine sedersi accanto a lei, spalla a spalla.
 
Per qualche minuto rimasero in silenzio. Levi posò distrattamente la propria mano sinistra sulla sua coscia, appena sopra al ginocchio, e la carezzò leggermente con il pollice. Mikasa distese gli angoli delle labbra, poi posò la mano su quella di lui.
 
«Come hai trovato questo posto?»
 
Non glielo aveva mai chiesto, le era semplicemente sembrato il luogo perfetto per lui. A pensarci bene, non avevano mai parlato molto di quello che era successo a entrambi dopo la guerra. A grandi linee sapevano cosa l’un l’altro aveva fatto, ma adesso il fatto che fossero stati separati per più di due anni le sembrò inverosimile.
 
«Intendi la fonte termale?»
 
«Intendo tutto questo posto…la radura, il bosco, la fonte…»
 
Levi si strinse nelle spalle: «Cercando»
 
«Per una volta potresti provare a essere meno elusivo?»
 
«Non saprei, sei divertente quando ti innervosisci»
 
Mikasa gli lanciò un’occhiataccia, poi si alzò le sopracciglia con fare superiore e smise di guardarlo: «Va bene nonnetto, tieniti pure i tuoi segreti»
 
Levi sospirò. «Ero qui con i coloni che hanno costruito Ludlow, il paese qui vicino. Ho trovato questa radura per caso…»
 
Mikasa si sistemò meglio, piegando le gambe e passandole sopra la sinistra di lui. Levi le cinse le ginocchia con il braccio sinistro senza smettere di parlare.
 
«Non pensavo di sistemarmi qui. A dire la verità non avevo ancora idea di cosa avrei fatto…una volta finita la missione, intendo. Ma poi ho trovato questa fonte e ho pensato “‘fanculo, voglio restare qui per un po’”» Si concesse un sorrisetto, lanciandole uno sguardo complice.
 
Mikasa annuì: «Non posso che condividere…»
 
Levi la guardò negli occhi: «Era questa la domanda?»
 
Lei aggrottò la fronte, senza capire.
 
«La domanda che mi avresti fatto…se io avessi perso la scommessa, voglio dire»
 
Mikasa scosse il capo. «No, ti avrei chiesto quando è il tuo compleanno»
 
Levi sollevò le sopracciglia. «Tra tutte le domande che avresti potuto scegliere, vuoi sapere quand’è il mio fottuto compleanno?»
 
«Comunque ho perso, per cui puoi anche non dirmelo»
 
«Il venticinque dicembre»
 
Mikasa alzò un sopracciglio. «Il venticinque dicembre è la festa delle Mura»
 
«Accidenti, sei perspicace…»
 
«Il venticinque dicembre di quale anno? Il 650?»
 
«Mi stai chiedendo quanti anni ho?»
 
«Ma no…lo so che oltre una certa età è maleducazione!»
 
Levi sbuffò e le spinse via le gambe. Abbassò lo sguardo e qualcosa nello stomaco di Mikasa si contrasse.
 
«Sono troppo vecchio per te»
 
Le sue parole le scatenarono sentimenti contrastanti: sapeva che lui riteneva vero ciò che aveva appena detto – che per qualche motivo non si sentiva adatto a lei – eppure allo stesso tempo era la prima volta che si avvicinavano a parlare di quello che stava succedendo tra loro e la cosa le fece accelerare impercettibilmente il battito cardiaco.
 
«Probabilmente» disse infine, lasciando che un sorriso ironico le distendesse le labbra. Levi schioccò la lingua, mentre le lanciava un’occhiataccia, ma Mikasa sapeva che era il suo modo di lasciar perdere il filo accidentato dei suoi pensieri.
 
Rimasero in silenzio di nuovo e la ragazza gli si riaccostò. Levi le passò il braccio dietro la schiena e lei appoggiò la testa sulla sua spalla, mentre i vapori dell’acqua calda li avvolgevano.
 
«Bene, direi che è il mio turno» disse lui, dopo essersi schiarito la voce.
 
Mikasa si voltò di scatto, mentre sul volto si formava un’espressione incredula: «Vuoi chiedermi quand’è il mio compleanno?»
 
«Non essere ridicola, mocciosa, so benissimo quand’è il tuo compleanno»
 
La ragazza spalancò gli occhi, completamente stupita. Poteva giurare di aver visto lo sguardo del capitano raddolcirsi per un istante davanti a quella sua inaspettata reazione infantile.
 
«Sono stato il tuo superiore per anni, ricordi? Ho letto il tuo fascicolo» spiegò lui con tono seccato. Mikasa sospirò appoggiandosi di nuovo alla sua spalla, in un certo senso delusa, ma senza capirne fino in fondo il motivo.
 
 
«Perché non sei rimasta a Hizuru?»
 
Mikasa rimase in silenzio, soppesando le sue parole. Era una domanda che si era posta tante volte, quando era stata lì in viaggio dopo la guerra, con Hanji e Connie. Kiyomi le aveva chiesto ufficialmente di trasferirsi lì, in quanto discendente del clan Shogun. Levi prese ad accarezzarle lievemente il fianco su cui si posava la sua mano, lasciandole il tempo per riordinare i suoi pensieri.
 
«Non era il mio posto» mormorò infine.
 
Sentì Levi fare un respiro profondo, ma rimanere in silenzio, per lasciarle il tempo di continuare a elaborare.
 
«Kiyomi mi ha offerto una vita da ambasciatrice, ricchezze…forse per qualcun altro potrebbe sembrare un sogno, ma semplicemente… non è ciò che sono»
 
Si azzittì d’improvviso, sperando con tutto il cuore che Levi non le chiedesse allora chi fosse, perché si accorse di non averne idea. Abbassò lo sguardo sulle proprie mani, adesso giunte in grembo. Lentamente avvicinò le ginocchia al petto e le cinse con le proprie braccia.
 
Levi restò in silenzio per qualche istante, continuando ad accarezzarla lentamente. Poi si voltò e le posò un leggero bacio sulla fronte.
 
«Per ora resta qui» sussurrò poi.
 
A Mikasa sembrò che tutto il tumulto dei suoi pensieri si placasse in un istante.
 



 
***




 
«Levi»
 
«Levi, svegliati!»
 
Lo scosse con forza. Lui le dava le spalle, steso sul fianco sinistro, e stringeva il bordo del letto con così tanta forza che le sue nocche erano completamente bianche. Aveva la fronte imperlata di sudore e alla ragazza sembrava di sentirlo tendere tutti i muscoli del suo corpo. Ne osservò la fronte corrugata e l’espressione sofferente, mentre un mormorio di dolore gli sfuggiva dalle labbra socchiuse.
 
«Svegliati!»
 
Lui spalancò gli occhi all’improvviso, quando lei lo tirò per farlo stendere a pancia in su. Prese aria con foga, quasi boccheggiando, mentre spostava lo sguardo attorno a sé cercando di mettere a fuoco dove si trovasse. Mikasa allontanò di scatto le proprie mani, d’improvviso incerta su come agire. Lesse nei suoi occhi dolore e sgomento. Levi ansimò ancora, poi finalmente la riconobbe e un po’ della paura scomparve dal suo sguardo.
 
Lo sentì espirare e vide il pomo d’Adamo muoversi sulla sua gola. Gli accarezzò una spalla, poi posò la mano sul suo petto, dove sentì il ritmo imbizzarrito del suo cuore.
 
«Va tutto bene, era solo un incubo…» sussurrò dolcemente, cercando di calmarlo.
Levi la scostò malamente e si mise a sedere sul bordo del letto, dandole le spalle. A Mikasa non sfuggì il fatto che stesse tremando. Lo vide passarsi una mano sul viso e poi tra i capelli, prima di incassare il capo tra le spalle, guardando per terra.
 
«Non era un incubo, era un ricordo»
 
Parlò lentamente, senza voltarsi a guardarla. Lei gli si fece più vicina, osservando la camicia inumidita dal sudore che si tendeva sulla sua schiena incurvata.
 
Gli si accoccolò accanto, carezzandogli lentamente le spalle. Levi non fece niente per allontanarla, ma rimase con lo sguardo basso, mentre stringeva i pugni per impedire alle sue mani di continuare a tremare. Espirò lentamente, con esitazione. Mikasa sapeva benissimo che stava ancora cercando di scacciare le immagini che aveva visto in sogno dalla sua testa.
 
«Sono qui, se vuoi parlarne»
 
Levi si voltò verso di lei, senza il coraggio di alzare lo sguardo per incontrare il suo. Un brivido gli percorse la schiena, vibrando sotto il palmo che Mikasa aveva lasciato tra le sue scapole.
 
«Non voglio parlarne…» mormorò infine e dopo un istante aggiunse – con la voce ancora più bassa - «Vorrei solo riuscire a non pensare»
 
Finalmente sollevò lo sguardo verso i suoi occhi e Mikasa sentì che il cuore le saltava un battito. Nella sua espressione lesse una supplica, un bisogno, che le fece stringere le viscere. Sollevò la mano destra per spostare la ciocca di capelli che gli era ricaduta disordinatamente sulla fronte e poi proseguì carezzandogli la guancia ed il collo, prima di posarsi sulla sua clavicola.
 
Si sporse in avanti. «Bene allora…» mormorò, quasi sfiorando le labbra di lui con le proprie.
 
Levi allora si mosse di scatto, afferrandole il viso tra le mani e avventandosi addosso a lei con un’irruenza che Mikasa riconobbe immediatamente come disperazione.
 
Si ritrovò distesa sul letto di schiena, con il peso di lui che la teneva ferma, mentre le sue labbra si muovevano ansiose sulla sua bocca, sul suo collo.
 
Una scarica di adrenalina le attraversò il corpo, mentre sentiva le sue mani che le accarezzavano le gambe, sollevandole la camicia da notte.
 
«Sei bellissima…» mormorò lui, quasi sovrappensiero. Il cuore di Mikasa spiccò il volo: non le aveva mai detto niente del genere prima di allora. L’emozione venne sostituita in un istante dal desiderio, non appena lui ricominciò a baciarle il collo.
 
Senza esitare, lo strinse tra le braccia capovolgendo la situazione, fino a ritrovarsi seduta sopra di lui.
 
Gli afferrò i polsi, bloccandoli ai lati della sua testa. Levi ansimò, in attesa, con le guance più colorate del solito. Poi si morse il labbro inferiore.
 
Mikasa si prese un altro attimo di tempo per rimanere a guardarlo, cercando di imprimersi nella memoria quel momento. Poi si chinò verso di lui, lentamente.
 
«Adesso ti farò scordare tutto»




 
***
 



 
Mikasa sospirò lentamente, alzando lo sguardo dal libro che stava leggendo per spostarlo verso la finestra della cucina, quella che dava verso il sentiero nel bosco.
L’orologio sopra il camino ticchettò per il cambio dell’ora.
Quella mattina si era svegliata più tardi del solito, da sola per la prima volta dopo diversi giorni.
L’assenza del cavallo del capitano e una serie di impronte sulla neve fresca verso il paese le avevano dato abbastanza informazioni per immaginare dove Levi si trovasse.
 
La mattinata era trascorsa lentamente ed ora la ragazza aspettava inquieta che lui tornasse, mentre sentiva il proprio stomaco che cominciava a brontolare. Sbuffò innervosita e si alzò per mettere un altro paio di ciocchi di legna nel camino.
 
Riprese a leggere, sicura di non riuscire a concentrarsi a sufficienza.
 
E invece dopo quello che le sembrò un istante – ma che doveva essere almeno una buona mezz’ora – sentì la porta della stalla che si chiudeva e poi i passi di lui sulle scale del portico.
 
La porta si spalancò, lasciando entrare Levi, completamente bardato contro il freddo invernale. Il capitano le lanciò uno sguardo e un cenno col capo, prima di accingersi a togliere il giaccone e gli stivali sporchi e innevati, facendo attenzione a non bagnare il pavimento immacolato più del necessario.
 
«Ehi» lo salutò lei, mentre lo osservava appendere il giaccone e la sciarpa sull’attaccapanni accanto alla porta. «Dove sei stato?»
 
Lui prese un piccolo involucro dalla tasca del giaccone e glielo lanciò tra le mani. Nonostante fosse distratta, i suoi riflessi non la tradirono e la ragazza riuscì a prenderlo al volo.
 
«In paese» rispose infine lui. Poi accennò col mento al pacchetto che ora lei teneva in grembo. «Quello è per te»
 
Mikasa sollevò le sopracciglia interdetta, osservando il pacchetto prima di spostare il suo sguardo stupito di nuovo verso di lui.
 
«Mi hai fatto un regalo?!» esclamò incredula, prima di sogghignare. «Che galantuomo…»
 
Levi la fulminò con lo sguardo, prima di voltarsi un po’ troppo velocemente per raggiungere il tavolo, dove poggiò la bisaccia stracolma che aveva con sé.
 
«Non essere ridicola» borbottò mentre svuotava la borsa «Ti ho solo preso una cosa che ti serviva»
 
Mikasa sorrise tra sé, riportando l’attenzione sull’involucro tra le sue mani. Si sentiva stranamente emozionata mentre scioglieva il nodo di spago che teneva insieme il pacchetto. Procedette con cautela, per paura di rompere qualsiasi cosa vi fosse all’interno.
 
Lanciò un’occhiata a Levi prima di proseguire. Lui la stava osservando, ma corrugò la fronte non appena si vide scoperto e distolse nuovamente lo sguardo.
 
Il pacchetto conteneva alcuni rocchetti di fili colorati, un ditale, alcuni aghi da cucito.
 
«Parlavi sempre dei ricami che facevi da ragazzina…» borbottò lui a mo’ di giustificazione, aggrottando ancora di più le sopracciglia quando si accorse di essere arrossito.
 
Sul viso di Mikasa si spalancò un sorriso così luminoso che Levi per un attimo temette di restarne abbagliato. La vide accarezzare i rocchetti con la punta delle dita, con quello stesso sorriso smagliante sempre stampato sul volto.
 
Mikasa si voltò verso di lui, osservandolo con dolcezza. Si sentiva felice, completamente felice. Si accorse di non sentirsi in colpa per questo. Sentì il proprio cuore battere veloce. Era un miracolo. Cercò di riprendere il controllo di sé, cercando di non far trasparire tutta l’emozione che quel semplice gesto le aveva provocato, non voleva metterlo a disagio più di quanto già non fosse.
 
«Levi, grazie»
 
Lui per tutta risposta si voltò dandole le spalle e iniziando ad armeggiare sul piano della cucina.
 
«Sono solo degli stupidi fili, non farne tutta questa grande storia» protestò a bassa voce.
 



 
***
 



 
«Non smettere»
 
«Di fare cosa? Di accarezzarti i capelli?»
 
Mikasa era seduta sulla branda e stava leggendo un vecchio libro di poesie che aveva trovato in fondo all’armadio. Levi era avvoltolato in una coperta di lana che aveva visto giorni migliori e sonnecchiava accanto a lei, con la testa appoggiata sulla sua coscia destra.
 
Si era preso un grosso raffreddore da quando, due sere prima, avevano dovuto liberare il tetto dalla troppa neve. Da allora non aveva fatto altro che tossire, starnutire, soffiare il naso e lamentarsi, finché qualche ora prima – vinto da qualche linea di febbre – si era steso accanto a lei.
 
Mikasa abbassò lo sguardo su di lui, sorridendo impercettibilmente prima di spostare la mano destra dalla sua nuca alla fronte, per controllarne la temperatura. Levi teneva gli occhi chiusi, con la coperta che lo avvolgeva fino a sotto il naso, lasciando intravedere le guance arrossate.
Senza aspettare che lui lo chiedesse di nuovo, riprese ad accarezzargli la nuca rasata. Levi sospirò.
 
«Mia madre lo faceva spesso»
 
La sua voce era appena un mormorio, ma lei lo sentì come se avesse gridato. Colta di sorpresa dalle sue parole, distolse l’attenzione dal libro.
 
«Come si chiamava tua madre?» osò chiedere un attimo dopo, posando il retro della mano sulla guancia destra di lui, appena sotto l’occhio, per rinfrescarlo.
 
«Kuchel»
 
Mikasa non disse niente. Riprese ad accarezzargli la testa, ma chiuse il libro e lo posò alla sua sinistra. Alzò lo sguardo verso il camino, dove un paio di grossi ciocchi di legna scoppiettavano quietamente.
Non sapeva nulla della sua famiglia, fino a pochi istanti prima non gliene aveva mai neppure accennato. Ipotizzò che dovesse essere vissuta nella Città Sotterranea, ma neanche di quello poteva essere certa.
 
«Doveva volerti molto bene…» bisbigliò, sperando di non star commettendo un errore.
 
Levi sospirò, sempre senza aprire gli occhi. «Sì, è così…»
 
Mikasa si fece di nuovo silenziosa. Voleva chiedergli altro, ma sapeva di star camminando su una china molto ripida e non voleva interrompere quello strano momento di confidenze. Decise che l’unico modo per farlo aprire, fosse di condividere qualcosa anche lei:
 
«Anche la mia. E Carla Jaeger. Erano due donne amorevoli. A volte…mi mancano ancora, dopo tutti questi anni»
 
«Quale delle due ti ha insegnato a ricamare?»
 
La sua domanda la soprese. Lanciò uno sguardo distratto verso la tovaglia nuova di zecca che ricopriva il tavolo. Mikasa ci aveva ricamato un motivo floreale lungo tutti i bordi. L’aveva terminata proprio due giorni prima.
 
«Mia madre. Era bravissima»
 
«E ti somigliava?»
 
La ragazza rifletté per qualche istante, aggrottando appena le sopracciglia nel tentativo di ricordare meglio.
 
«Direi di sì. Di certo non somigliavo molto a mio padre…era biondo!» esclamò poi, lasciandosi sfuggire una risata appena accennata.
 
«Davvero?!» esclamò lui aprendo gli occhi per un istante, prima di venire scosso da qualche colpo di tosse. Mikasa istintivamente iniziò ad accarezzargli energicamente la schiena, per riscaldarlo ancora di più.  
 
Levi si mosse per accoccolarsi meglio nella coperta. Chiuse di nuovo gli occhi.
 
«Credevo che tutti gli Ackermann fossero bruni come noi…» borbottò poi, con una punta di risentimento nella voce, che la fece sorridere.
 
«Sarebbe improbabile, non trovi?» propose, cercando di non soffermarsi su come l’avesse fatta sentire l’ascoltarlo pronunciare la parola “noi”.
 
«Anche che ci siano persone con forza e abilità straordinarie e capaci di non avere il cervello fottuto dai cavolo di giganti, eppure eccoci qua…» protestò Levi, con la voce roca.
 
«Non hai tutti i torti…»
 
«E tu ancora che te ne stupisci…»
 
Mikasa riprese a grattargli la nuca delicatamente. Levi si lasciò sfuggire un mugolio soddisfatto dalle labbra nascoste nella coperta. Alla ragazza venne in mente un vecchio gatto randagio e diffidente con cui aveva fatto amicizia a Shiganshina, dal quale alla fine era riuscita ad ottenere pure delle fusa. Sorrise tra sé pensando a quella evidente somiglianza.

«E Kenny?»
 
Lo sentì irrigidirsi alla sua domanda. Lo vide aprire gli occhi ed immaginò che stesse guardando verso il camino, anche se non poteva esserne certa perché poteva osservare solo il profilo destro, con l’occhio sfregiato.
 
«Kenny cosa?»
 
Il suo tono era secco, all’erta. Durante il periodo in cui avevano dovuto affrontarlo – quando Historia ed Eren erano stati rapiti dalla famiglia Reiss – il suo legame con Kenny Ackermann era sembrato evidente a tutti, ma tutto ciò che il capitano aveva condiviso con la squadra era stato il metterli in guardia, spiegando che avrebbero combattuto con qualcuno che condivideva le sue stesse abilità. Mikasa, come molti altri, si era domandata se Kenny fosse suo padre ma – come tutti gli altri – non aveva mai osato chiedere nulla, nonostante la curiosità derivante dalla scoperta di condividere il loro clan.
 
«Era tuo…»
 
Levi la interruppe: «No».
 
Lo sentì muoversi irrequieto, innervosito, per mettersi di nuovo più comodo. Lei rimase in silenzio. Infine, lui sospirò di nuovo e chiuse di nuovo gli occhi.
 
Proprio quando Mikasa pensò che l’argomento fosse definitivamente chiuso, Levi parlò di nuovo:
 
«Era il fratello di mia madre»
 
La curiosità le ardeva dentro, sempre più forte, ma la ragazza sapeva bene che con delle domande dirette non sarebbe arrivata da nessuna parte. Si sentiva come se stesse approcciando ad un animale selvatico da addomesticare: doveva procedere con cautela, dimostrando di non essere una minaccia. Si chiese d’improvviso se Hanji o Erwin Smith sapessero ciò che lei aveva appena scoperto o se fosse la prima a cui lui ne parlasse.
 
«Oh…» si lasciò sfuggire dalle labbra.
 
«L’ho scoperto solo quando l’ho visto l’ultima volta… non me l’aveva mai detto»
 
Una punta di rimpianto gli accese la voce. Mikasa si chiese quale fosse stato il rapporto tra i due. Lo sentì espirare lentamente. Riprese ad accarezzargli i capelli. Mille altre domande le affollavano la mente. Vorrei sapere tutto di te…
 
 
 
«Mikasa?»
 
«M-hm?»
 
Levi si voltò lentamente per incrociare il suo sguardo. La vide sorridergli incoraggiante. Tirò fuori dalla coperta la mano sinistra e le prese la sua destra, prima di risistemarsi di nuovo di lato, infilando anche la mano di lei dentro l’involto di coperte. Mikasa sentì il battito accelerarle quietamente. Si sorprendeva sempre quando lui agiva così spontaneamente. Non avevano mai parlato di quello che stava succedendo tra loro e a volte la naturalezza con cui lui agiva la sconcertava. Sentiva dentro di sé un calore costante, che cresceva quieto, come quello delle braci di un camino. Niente e nessuno in tutta la sua vita l’aveva fatta sentire così. Strinse la presa sulle dita di lui, mentre aspettava che riprendesse a parlare.
 
«Raccontami di dove sei cresciuta…» chiese lui, quasi sussurrando. La ragazza si chiese se si stesse lentamente addormentando.
 
«Va bene, Capitano»
 
«Ti ho già detto mille volte di non chiamarmi così…»
 
«Non mi sembrava ti dispiacesse così tanto, l’altra sera a letto…»
 
«Tsk»
 
La ragazza ridacchiò appena tra sé, prima di parlare ancora:
 
«Era una baita in un bosco. Proprio come questa. C’erano tantissimi alberi…e un bellissimo giardino di fiori…»
 
«Sembra bello…»
 
Mikasa sorrise, prendendo a carezzargli il dorso della mano col pollice. Stava per riprendere, ma lui la precedette:
 
«Potresti piantare dei fiori anche qui…»
 
Non sapeva spiegarsi il perché, ma sentì il formarsi delle lacrime. Se le asciugò velocemente, sperando che lui non se ne accorgesse.
 
Una casa. Levi le stava dando una casa.
 



 
***
 



 
«Che accidenti è quella roba?»
 
Mikasa avvampò fino all’attaccatura dei capelli.
 

 
 
Era tutto il pomeriggio che Levi tirava a lucido la casa come un forsennato. Per sfuggire alle sue grinfie, la ragazza si era rintanata in camera da letto non appena lui aveva finito di sistemarla e per impiegare il tempo, stava risistemando i vestiti e le coperte nell’armadio.
 
Da un sacchetto dimenticato sotto una pila di maglioni grigi e marroni, era risbucata la sottoveste di seta rosa che la sarta di Ludlow le aveva regalato, mesi prima. Mikasa se ne era completamente dimenticata e comunque anche ricordandosela il gelo e la neve che avvolgevano la baita non le avrebbero certo suggerito di usarla.
 
Tuttavia, incuriosita dal ritrovamento, aveva deciso di concederle un tentativo e di provarsela indosso. Superando la pelle d’oca che le ricoprì gambe e braccia non appena si sfilò dai suoi vestiti caldi, si lasciò scivolare l’indumento da sopra la testa.
 
La seta era così morbida che sembrava un velo d’acqua, ed il colore rosa si sposava perfettamente con la sua pelle candida. La sarta in effetti sapeva il fatto suo.
 
Era ancora intenta ad accarezzare la stoffa liscia e perlacea che la avvolgeva, quando Levi spalancò la porta, alla ricerca di uno scopettino che aveva lasciato su uno dei ciocchi che fungevano da comodini accanto al letto.
 
Non appena la vide con quella sottoveste addosso, il suo sguardo impassibile si trasformò. Aggrotto le sopracciglia e Mikasa fu certa di capire come si dovesse sentire una preda davanti allo sguardo implacabile di un falco che scendeva in picchiata.
 


«Questa?» balbettò, distogliendo lo sguardo dal suo volto e portandolo sulle proprie mani, ancora ferme all’altezza dei suoi fianchi.
 
Non si accorse neppure che lui si fosse mosso, ma l’istante dopo si ritrovò incollata con le spalle al muro, il corpo di Levi premuto contro il suo, i suoi gomiti appoggiati ai lati della sua faccia. Un brivido di eccitazione la percorse come una miccia accesa.
 
«Cazzo, Ackermann…» sussurrò lui a mezzo centimetro dalle sue labbra, con quella sua voce roca che le accese un immediato calore nel basso ventre «…vuoi farmi impazzire?»
 
Mentre il suo braccio sinistro rimase piegato sul muro accanto alla sua testa, con la mano destra cominciò ad accarezzarle il fianco, la gamba, poi risalì sul suo ventre piatto, fino a raggiungerle il seno. Mikasa si lasciò sfuggire un gemito leggero dalle labbra.
 
«Forse…» rispose poi cercando di suonare ammiccante, ma lui aveva cominciato a baciarle il collo, poi la clavicola e le sembrava che il suo cervello si stesse scollegando dalla sua capacità di emettere frasi di senso compiuto.
 
«Da dove salta fuori questa roba?» chiese lui, sogghignandole addosso, mentre spostava anche l’altro braccio per stringerla, pronto a sollevarla contro la parete.
 
«Un regalo…» sospirò lei, sperando ardentemente che lui la smettesse una buona volta di parlare.
 
Invece la sua risposta lo fece bloccare all’istante. Si allontanò da lei quel tanto che bastava per fissarla di nuovo negli occhi, questa volta con un’espressione dura, minacciosa.
 
«Un regalo di chi?»
 
Lei per un attimo non capì la sua reazione, poi la realizzazione le illuminò il volto di un sorriso selvaggio, quasi vittorioso. Il capitano era geloso.
 
Fu tentata di provocarlo ancora, ma poi le sembrò una perdita di tempo inaccettabile. Allungò la mano e gli strinse il bavero del maglione, tirandolo a sé per baciargli le labbra violentemente. Levi la lasciò fare, ma rimase in attesa della risposta.
 
«Della sarta di Ludlow…» mormorò quindi lei, iniziando a posare dei baci languidi, aperti, sulla sua gola «…credeva che avresti apprezzato…»
 
«Ricordami di…» provò a rispondere lui, interrompendosi l’istante dopo per lasciarsi sfuggire un suono a metà tra un gemito e un sospiro quando lei raggiunge il punto specifico sotto la sua mascella sinistra «…ringraziarla quando la incontro»
 
«Che ne dici di…» riprese lei, trasalendo quando lui le strinse una coscia con forza, portandosela sul bacino «smettere di parlare e di scoparmi, Capitano?»
 
Si guardarono per una frazione di secondo. Lui aveva gli occhi lucidi e il tono della voce di lei, così autoritario e volgare gli accese un brillio nello sguardo che le fece attorcigliare lo stomaco. Non poteva resistere un secondo di più. Lo tirò di nuovo verso di lei per baciarlo, mentre lui la sollevava, spingendola di nuovo verso il muro.
 
«Ai tuoi ordini»
 



 
***
 




«Si può sapere che hai da fissarmi?»
 
«Non ti sto fissando, ti sto guardando. È diverso»
 
«Se lo dici tu…» borbottò Levi prima di riprendere il suo lavoro.
 
Era nel piccolo gabinetto della casa, davanti al lavabo di porcellana sul quale era appeso un piccolo specchio rettangolare senza cornice. Era a torso nudo e si stava rasando la nuca e sistemando le ciocche di capelli.
 
«Vuoi una mano?»
 
«Ti sembra che abbia bisogno di una mano?»
 
«Non lo so, a me non manca nessun dito…»
 
Levi schioccò la lingua senza risponderle.
 
«Perché sei qui comunque? Non hai del lavoro da fare?» riprese lui senza guardarla, curvandosi ancora di più per avvicinarsi allo specchio. Mikasa seguì il movimento delle vertebre che si palesavano premendosi contro la pelle bianca della sua schiena. Come al solito provò l’impulso di allungare la mano e toccarlo, ma invece rimase con le spalle al muro ed incrociò le braccia.
 
«Ti ho preparato una cosa da assaggiare, sbrigati a finire qui» Detto questo, si voltò e si allontanò verso la cucina.
 
 
Levi la raggiunse pochi minuti dopo, rivestito di tutto punto. Storse il naso non appena entrò nella stanza.
 
«Cos’è questo odore
 
«Si chiama “caffè”. È una specie di tè forte. A Marley lo bevono tutti.» spiegò lei, posando davanti a sé due tazze piene a metà di un liquido scuro e denso. Levi la guardò diffidente.
 
«E cos’avrebbe che non vada il tè, tutto d’un tratto?»
 
Mikasa sbuffò, sbattendo con troppa forza la zuccheriera sul tavolo, prima di sedersi. «Il tè non ha niente che non vada. Era per farti assaggiare una cosa diversa»
 
«Hmpf» Il capitano si sedette con calma e prese a roteare la tazza, ignorando come al solito il manico.
 
La ragazza aggiunse una cucchiaiata di zucchero nella propria tazza e poi prese il primo sorso.
 
«A me piace» annunciò alzando le sopracciglia, con tono di sfida.
 
Levi sospirò, con un’espressione platealmente rassegnata, come se stesse cedendo solo ed esclusivamente per accontentarla. Poi prese un sorso anche lui.
 
Il suo viso si contrasse immediatamente in un’espressione schifata. Mikasa, pur innervosita, non riuscì a evitare di scoppiare a ridere.
 
«Ma è amarissimo!» sbottò lui, lanciandole uno sguardo quasi offeso.
 
«Te l’avevo detto che è forte!»
 
«Puah…e questa schifezza a Marley la preferiscono al tè? Non mi stupisce che siano dei selvaggi» continuò, allontanando subito la tazza sul tavolo.
 
Mikasa continuò a ridacchiare. Levi poggiò il gomito sul tavolo ed il mento sulla propria mano.
 
«E sentiamo, cosa avresti pensato di fare per farti perdonare questo tentativo di avvelenamento?»
 
«Farmi perdonare? Sei tu che devi ringraziarmi… per fortuna che ci sono io ad aprirti a nuove esperienze»
 
Si pentì immediatamente della propria scelta di parole, perché lo sguardo di Levi assunse subito una connotazione maliziosa.
 
«E a quali altre nuove esperienze vorresti aprirmi?»
 
Mikasa sospirò con aria drammatica «Ah se solo l’avessero saputo, tutti quei soldati che ti veneravano: il Capitano Levi Ackermann della Squadra Operazioni Speciali è un pervertito»
 
Levi sorrise, prima di alzarsi per andare a lavare le due tazze.
 
«Ero una persona rispettabile, prima che arrivassi tu»


 

Eccoci qua! 
Spero vi siate divertiti a leggere queste sorte di one-shot che vi raccontano un po' della vita di Levi e Mikasa dopo la notte nell'affumicatoio. 


Tra l'altro credo che - finita la storia - scriverò una one-shot tipo spin off approfondendo la storia di Levi malaticcio e Mikasa che lo accudisce...ho dovuto resistere tantissimo per impedirmi di allungarla troppo, era quasi irresistibile (ma sarebbe stata troppo sproporzionata rispetto agli altri episodi). 

Non temete, dal prossimo capitolo la storia tornerà a seguire un ritmo più canonico, ma è stato divertente per me "staccare" un po'!

Ultima cosa: Ho scritto "a Hizuru" e "a Marley" anche se immagino sia più corretto dire "In Hizuru" e "In Marley" essendo dei paesi e non delle città, però mi suonava malissimo! 

Fatemi sapere come al solito cosa ne pensiate!


Chikay :) 
 

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Capitolo 14
*** XIV ***


Ciao!
Scusate per la lunga pausa, ma ho avuto una bella influenza (per fortuna non covid!) e ho dovuto aiutare i miei genitori a svuotare delle stanze di casa loro che dovevano ristrutturare...potete immaginare il caos di impacchettare milioni di libri e oggetti...un incubo!
Per fortuna eccomi di nuovo qui: questo capitolo, lo vedrete, è un po' diviso in due parti...nella prima ritroverete il punto di vista di Levi, devo dire che sono molto affezionata a quella sezione...spero piaccia anche a voi! 
Altre note in fondo ;) 



 

 
XIV
 


Passarono i giorni, le settimane, i mesi.
 
Quasi inaspettatamente, si era già fatta fine febbraio.
 
Da quella notte nell’affumicatoio, la vita di Levi era cambiata completamente. Non nella routine – che era rimasta più o meno invariata da quando aveva iniziato a nevicare – era cambiato tutto il resto.
 
Se qualcuno gli avesse mai provato a dire che un giorno avrebbe vissuto in campagna, fuori dalle Mura, assieme a Mikasa Ackermann, probabilmente gli avrebbe riso in faccia. Eppure…
 
Si era reso conto, per la prima volta in vita sua, di cosa volesse dire essere sereno. Di cosa volesse dire essere completamente, irrimediabilmente assuefatto alla presenza di qualcuno. C’erano giorni in cui non riusciva quasi ad allontanare il suo sguardo da lei, non che l’avrebbe mai ammesso ad alta voce.
Si soffermava di continuo ad esaminarne i gesti, l’inflessione della voce, gli sguardi che gli lanciava, il suono della sua risata – che stava diventando sempre più frequente – il profumo della sua pelle…
 
Era ancora incredulo: tutto questo non poteva star succedendo davvero, non a lui. Si sforzava di apprezzare la sua presenza giorno per giorno, allontanando con dedizione ogni pensiero rivolto al futuro.
 
A volte tuttavia non ci riusciva. Il pensiero – la certezza – che prima o poi tutto questo sarebbe finito, lo faceva piombare in momenti di cupo nervosismo. Mikasa se ne rendeva conto ogni volta, ma non gli aveva mai chiesto spiegazioni, limitandosi a lasciarlo stare.
 
Era tutto troppo bello per essere vero e Levi lo sapeva bene. Un giorno, la vita vera sarebbe tornata, reclamando Mikasa indietro. Più passavano i giorni, più si avvicinava il momento del disgelo, più Levi sentiva crescere l’ansia dentro di sé.
 
Non la meritava; non l’aveva né l’avrebbe mai meritata. C’erano oscurità insondabili dentro di lui, azioni spaventose che aveva compiuto, istinti malvagi che tornavano a maledirlo nel sonno, che l’avrebbero tenuto per sempre lontano da lei, per quanto adesso si illudesse che non fosse così.
 
Semplicemente, non era abituato a tutta quella felicità. Certe volte si svegliava nel cuore della notte, con la gola così stretta che gli sembrava di essere senz’aria, convinto che avrebbe trovato il letto vuoto, che fosse stato tutto un sogno, che lei fosse andata via per sempre, com’era giusto che facesse.
 
E invece lei era sempre lì, accanto a lui, addormentata sulla sua spalla, con le gambe avvinghiate alle sue, il respiro tenue che gli riscaldava la base del collo.
 
Era lì ogni giorno, quando lavoravano insieme sul registro del Corpo di Ricerca, quando cucinavano la cena in silenzio, quando si lamentavano per il freddo e per il vento, quando facevano l’amore.
 
Fare l’amore con lei era qualcosa di completamente assurdo. Per tutta la vita, Levi aveva creduto che il sesso fosse solo un mero sfogo di istinti animali. Fin da quando era nato, aveva sempre saputo quali azioni abiette comportasse la lussuria. Finché avrebbe avuto vita, non avrebbe mai scordato quello che aveva visto e sentito nella stanza di sua madre. Il sesso era una schifosa debolezza, un’ignomia irrispettosa, non aveva niente a che fare con i sentimenti. E quando vi aveva ceduto lui stesso – per quanto raramente – tutto ciò che aveva sentito dopo era puro e semplice disgusto di sé.
 
Con Mikasa era completamente diverso. Aveva scoperto che, prima di tutto il resto, il sesso era un nuovo modo di comunicare, esclusivamente loro, privato, segreto, e per questo prezioso.
 
A volte bastava guardarla sistemarsi una ciocca di capelli dietro l’orecchio, lanciargli uno sguardo distratto dall’altro lato della stanza, che Levi sentiva di perdere completamente il controllo delle proprie azioni, che non poteva che cedere a un impulso imbattibile, che lo costringeva a stringerla a sé, irruento ed ingordo. Quelle volte facevano l’amore così come avevano combattuto: cercando di sopraffarsi l’un l’altro, brutalmente ammaliati dalla loro stessa passione bruciante.
 
Altre volte sostituivano quella frenesia ed impazienza con un languore e una dolcezza che lo lasciavano completamente stordito. Non avrebbe mai creduto di potersi sentire così vicino, così connesso, ad un’altra creatura vivente. In quei momenti si sentiva vulnerabile – esposto – e sentiva che si fosse staccato da lei anche solo per un istante, se avesse smesso di guardare dentro quegli occhi scuri e allungati, avrebbe semplicemente cessato di esistere. Sentiva quasi un dolore fisico, un bisogno innato di essere unito a lei, di leggere il suo sguardo, che era sempre luminoso, e che gli faceva capire, senza che venisse pronunciata una singola parola, che lei sapeva tutto questo e che anche lei provava qualcosa di simile. Erano le volte in cui avrebbe voluto dirle che la amava, avere il coraggio di pronunciare delle parole che lo spaventavano ancora troppo profondamente.
Certe altre volte, usavano il sesso per ammansire le ansie, i ricordi e gli orrori che si scatenavano in loro. Cicatrici del loro passato che riprendevano ad infettarsi, sconvolgendoli di nuovo. Quelle volte l’amore era un balsamo lenitivo, un antidolorifico, una dolce droga che li quietava, distogliendo le loro menti dal terrore che rischiava di sopraffarli. Gli sembrava di essere ubriaco, di annaspare, di volersi dissolvere in lei.
 
Si continuava a sorprendere costantemente di quanto lei apparisse naturale e a suo agio con lui. Provava sempre una punta di incredulità quando lei lo sfiorava distrattamente, gli passava una tazza di tè, rideva per qualcosa che lui le aveva detto, lo aiutava a sistemarsi quei maledetti bottoni della giacca che proprio non volevano avere a che fare con le dita della sua mano sinistra. Si sentiva leggero. Vivo.
 
Si divertiva con lei: i loro continui battibecchi, nati già ai tempi della Squadra Operazioni Speciali tenevano sempre viva una scintilla di eccitazione. Ogni giorno si sorprendeva a svegliarsi non sapendo cosa aspettarsi.
 
Aveva cominciato a dormire di più. Per qualche motivo, la sua vicinanza riusciva a tranquillizzarlo abbastanza da farlo riposare il doppio di quanto non facesse prima. A volte sentiva dentro di sé un’energia irrequieta che lo spingeva a muoversi, che gli faceva venire voglia di scoppiare a ridere senza motivo, lasciandolo incredulo: davvero una persona poteva cambiare così tanto?
 
A Rufus era bastato un solo sguardo per capire che le sue supposizioni erano diventate finalmente realtà. Ogni volta che andava in paese e si fermava alla locanda, il vecchio oste non faceva altro che deriderlo. Levi non riusciva a controbattere, accennava un sorriso ad occhi bassi, sentiva di arrossire, poi finalmente riusciva a ritrovare il suo contegno e faceva in modo di cambiare argomento, non senza accorgersi dell’espressione soddisfatta del vecchio amico.
 
Aveva pensato diverse volte di scrivere ad Hanji, ma alla fine non l’aveva mai fatto. Raccontarle di Mikasa avrebbe reso il tutto troppo reale. Temeva che rivelando a qualcun altro quello che stava succedendo, inevitabilmente avrebbe fatto sì che tutto si trasformasse in un’illusione, che tutto finisse. Custodiva il segreto convinto che, una volta condiviso, tutto si sarebbe sciolto come neve al sole. Se c’era una cosa di cui era certo, comunque, era che Hanji l’avrebbe capito. A volte gli mancava molto, quella maledetta quattr’occhi.
 
Così, cercando di non pensare al futuro, cercando di vivere esclusivamente l’attimo presente, la sua vita con lei andava avanti di giorno in giorno. Si sforzava di stare attento a tutti i segnali, a cogliere in anticipo il momento in cui tutto sarebbe cambiato di nuovo, il momento in cui quella felicità gli sarebbe di nuovo stata strappata di dosso.
 


 
***
 




Quella mattina, Mikasa si era offerta di andare in paese. Era praticamente passato un mese dall’ultima volta che aveva messo piede fuori dalla loro radura e così la giornata particolarmente tersa ed il loro bisogno di un po’ di rifornimenti le avevano fornito la perfetta scusa per sellare Sid, il suo amato cavallo.
 
Nonostante il sole ed i vari strati di abiti invernali che aveva addosso, l’aria frizzante di febbraio la fece rabbrividire. Non nevicava da più di una settimana e la neve aveva iniziato lentamente a sciogliersi. La ragazza si chiese quanto ancora avrebbe dovuto aspettare per l’arrivo della primavera. Aveva amato l’inverno, il calore della loro casa e della pelle di Levi, ma adesso cominciava ad essere impaziente: voleva muoversi, esplorare di più la foresta ed i laghi, aspettare l’arrivo dei fiori e degli animali.
 
Vivere nella baita aveva riportato alla luce ricordi della sua infanzia che credeva persi per sempre. Aveva ricominciato a ricamare e a fare la maglia, sotto lo sguardo assorto di Levi che cercava di ricopiare i suoi movimenti completamente impacciato dall’assenza delle due dita. Ripensando alle lamentele per i suoi scarsi risultati, la ragazza ridacchiò tra sé, mentre il cavallo la portava finalmente sulla strada principale, sgomberata di recente dalla neve.
 
Ripeté mentalmente la lista delle cose che doveva acquistare a Ludlow, lanciando uno sguardo distratto alla strada verso Mitras alle sue spalle. Nessun viaggiatore osava ancora intraprendere viaggi troppo lunghi, con l’inverno ancora in corso. Anche l’arrivo della posta era rallentato e così l’ufficio del telegrafo – che conteneva anche uno strumento ancora più magico, chiamato telefono – era diventato il centro della vita del villaggio.
 
Ripensò per l’ennesima volta all’idea di provare a contattare Connie. Sapeva che era diventato a tutti gli effetti l’assistente di Hanji, perché così lei aveva scritto a Levi in una lettera. Entrambi avevano chiesto al capitano se avesse sue notizie, ma Mikasa sapeva che lui non aveva mai risposto a quella domanda. Capiva i motivi che lo avevano spinto a quella decisione: raccontare ai loro vecchi compagni avrebbe reso la cosa completamente ufficiale e avrebbe perso parte di quella segretezza che la affascinava, tuttavia ultimamente aveva iniziato a sentirsi in colpa verso quei due: dopotutto era sparita senza lasciare tracce e sebbene avesse il sospetto che Hanji immaginasse ben più di quanto non lasciasse trasparire nelle sue lettere, non era giusto farli preoccupare per lei.
 


In paese si diresse subito all’emporio, passando davanti al cantiere attorno al rudere della distilleria. La ricostruzione del magazzino era ricominciata, ma non si sarebbe conclusa prima dell’estate. Scorse la proprietaria con il piccolo Levi che le scorrazzava affianco e li salutò con un gesto della mano. Il bambino si sbracciò verso di lei emozionato e con le guance rosse per il freddo. Mikasa gli sorrise allegramente, prima di proseguire.
 
Non ci mise molto a racimolare tutto quello di cui aveva bisogno: i due soci dell’emporio riuscivano a rifornirsi della merce da Shiganshina nonostante la neve. Erano una strana coppia: uno dei due, Chris Lodger, era originario di un paese oltre il Wall Rose, mentre Bozo, un uomo tarchiato dai lunghi baffi neri e gli occhi color del ghiaccio, proveniva dalla Città Sotterranea. Si erano incontrati alla partenza della spedizione per la colonizzazione delle terre ed avevano deciso di fondare una società. Mikasa non poteva immaginare un’accoppiata più improbabile, con Lodger così alto e allampanato, balbettante e bravo a far di conto e Bozo così rumoroso e allegro, eppure funzionavano benissimo. Ogni volta che li vedeva, pensava che avrebbe voluto raccontare di loro a Sasha.
 

Finite le compere, decise di concedersi un boccale di birra da Rufus, prima di affrontare di nuovo la strada verso casa. Era ormai quasi ora di pranzo quando varcò la soglia della locanda e venne avvolta immediatamente dal calore dei due camini accesi e dal chiacchiericcio degli avventori che si avvicendavano intorno al bancone durante la pausa pranzo.
 
Scorse Lily che serviva a un paio di carpentieri due bicchieri di acquavite e le fece un cenno di saluto. Lily aveva lunghi capelli biondi, un fisico abbondante e le guance sempre arrossate. Era più grande di Mikasa di qualche anno, ma veniva anche lei da Shiganshina. Una volta le aveva raccontato che era riuscita a fuggire dal massacro per pura fortuna, restando orfana anche lei. Dopo la riconquista del Wall Maria aveva provato a tornare a vivere lì ma, esattamente come Mikasa, non aveva ritrovato niente di familiare in quella nuova versione della città e così aveva deciso di partire con i coloni. Le era andata bene: meno di un anno prima si era innamorata e sposata.
 
Mikasa avanzò verso il bancone con qualche difficoltà, cercando di schivare gli altri clienti con le due bisacce ricolme appese alle spalle e finalmente riuscì a sedersi su uno sgabello davanti all’oste. Rufus la salutò con un cenno, prima rivolgerle la sua attenzione:
 
«La solita birra scura, Miss Ackermann?»
 
La ragazza annuì concedendogli un sorriso, mentre si sistemava più comodamente con le borse ai propri piedi.
 
«Qual buon vento ti porta a Ludlow? Il ragazzino scontroso ti ha mandato al suo posto?»
 
Mikasa sorrise tra sé a sentire quel soprannome, prima di rispondere: «Le solite cose, Rufus, un po’ di rifornimenti necessari… e poi avevo voglia di cavalcare un po’»
 
«Hai incontrato qualcuno di insolito?»
 
La domanda inaspettata e soprattutto il tono falsamente disinvolto dell’oste la fecero tornare con lo sguardo verso di lui, che nel frattempo le aveva poggiato davanti il boccale di coccio ricolmo di birra fresca.
 
«Che vuoi dire?» si ritrovò a chiedere, interdetta.
 
Rufus mulinò la sua manona nell’aria, come a voler scacciare qualche pensiero molesto. «Ma no, niente… vecchi pregiudizi duri a morire…»
 
Nel vedere che la ragazza continuava a fissarlo, chiaramente non rassegnata a lasciar cadere il discorso, l’oste riprese: «Ieri è arrivato un gruppetto di Polizia Militare. Classici stronzi. Hanno fatto un po’ troppe domande in giro e non mi piace come si guardano intorno: come se tutto fosse loro» si strinse nelle spalle, mentre passava uno strofinaccio sul bancone per asciugarlo.
 
«Non mi sono mai piaciuti. Guardano noi della Città Sotterranea come se fossimo tutti ratti di fogna» Qualcosa nel suo tono di voce cambiò impercettibilmente; Mikasa sentì un’intonazione minacciosa e cupa che stonava con i movimenti blandi dell’uomo e che la fece rabbrividire impercettibilmente. Ogni volta che parlava con qualcuno di loro – qualcuno che era venuto dal Sottosuolo – si rendeva conto che tutti i racconti che aveva sentito a proposito di quel luogo dovevano essere molto meno spaventosi della realtà.
 
«Ad ogni modo…» La voce di Rufus la riscosse dai propri pensieri «…poco fa sono andati via, hanno preso la strada per Mitras»
 
 

Qualcosa di molto freddo scivolò nella gola di Mikasa. Non poteva essere la birra, non ne aveva preso nemmeno un sorso. Sentì i sensi che la mettevano in allerta, mentre un presentimento stranamente allarmante le si accendeva nel cervello.
 
«La strada verso Mitras, hai detto?»
 
Rufus si accorse della sua inquietudine e le lanciò uno sguardo attento. Mikasa fu subito certa che qualcuno dei suoi sospetti si era appena trasferito anche a lui.
 
«Che genere di domande hanno fatto?» si sforzò di chiedere, mentre sentiva i suoi muscoli scattare ed il cuore aumentare i suoi battiti. Tutto ciò che voleva era fiondarsi fuori dalla taverna e tornare a casa. Non capiva cosa nel racconto di Rufus l’avesse messa così in guardia, si rendeva perfettamente conto di star esagerando, eppure… Non essere sciocca: è normale che ogni tanto delle pattuglie girino per i nuovi villaggi.
 
«Domande. Sulla gente, su come vanno le cose, sul…» si bloccò, aprendo maggiormente gli occhi e fermando il movimento delle mani sul boccale che stava asciugando. Alzò lo sguardo su di lei, prima di riprendere, questa volta quasi bisbigliando:
 
«…sull’incendio alla distilleria»

Mikasa scattò in piedi senza neanche essersene resa conto.
 
Rufus cercò di rassicurarla: «Probabilmente non è niente…» mormorò mentre lei si abbassava per riprendere le due bisacce. Ma lo sguardo che si scambiarono confermò a Mikasa che qualcosa stonava decisamente troppo anche per lui.
 
«Erano armati?» si ritrovò a domandare, cercando di mantenere casuale il timbro della propria voce.
 
Rufus si rabbuiò all’istante: «Quelli lo sono sempre».
 
«La birra te la pago la prossima volta» sussurrò Mikasa, prima di voltarsi ed uscire senza aspettare la sua risposta.
 
Le borse ricolme la rallentavano mentre camminava con passo sempre più spedito verso la stazione di posta, dove aveva legato Sid.
Cercava di pensare razionalmente alla situazione, provando a calmare la strana ansia che sembrava averle riempito il petto di botto. Perché mai avrebbe dovuto essere preoccupata per una pattuglia di Polizia Militare? Levi e lei non erano più nell’esercito e quando ne facevano parte li avrebbero considerati loro colleghi, in un certo senso.
Perché l’idea di sapere che una pattuglia si fosse interessata alla distilleria la metteva così all’erta? Non avevano nulla a che spartire con loro, non stavano facendo niente di male, non erano disertori né traditori. Historia era loro amica.
 
Eppure più si continuava a ripetere che la sua era una reazione totalmente esagerata, più sentiva di voler correre a casa il prima possibile. Istintivamente si tastò la cintura, dove l’elsa del suo pugnale non la rassicurò quanto avrebbe voluto. Sapeva di averne un altro nascosto nello stivale destro. Si tirò il cappuccio della mantella fin sopra la fronte.
 

Salì in sella dopo aver assicurato le borse al cavallo con velocità quasi febbrile. Partì immediatamente, maledicendo a bassa voce un carro che arrancava lentamente, occupando quasi tutta la strada e costringendola a rallentare per poterlo superare.
 
Non appena gli impedimenti finirono, spronò il cavallo per affrettarne l’andatura.
Fuori dal paese, appena dopo la distilleria, la strada faceva varie curve, circondata dagli alberi innevati, prima di riprendere in linea retta verso Mitras, con il bosco nel quale si nascondeva la loro radura sulla sinistra.
Il sentiero che conduceva a casa loro era distante molti chilometri dal paese, ma una volta finite le prime curve, la ragazza sapeva che avrebbe avuto una visuale libera sulla strada e sui campi. Non sapeva neanche lei cosa si aspettasse di vedere: sperava di non scorgere proprio nessuno.
 
Sid avanzò galoppando, mentre lei studiava le tracce sulla strada bagnata, scorgendo qua e là le impronte degli zoccoli di diversi cavalli. Dalla loro disposizione, ipotizzò che la pattuglia fosse composta da circa sei cavalcature, ma d’altronde quei segni potevano essere stati lasciati da più cavalcature in momenti diversi.
 
Quella strana ansia non voleva lasciarla. Il suo istinto le diceva di correre più veloce ed allo stesso tempo di far rallentare il cavallo, per produrre meno rumore.
 
Dopo quello che le parve un tempo infinito, finalmente sbucò sul rettilineo.
Non erano altro che un pulviscolo in lontananza, ma la ragazza scorse immediatamente la pattuglia della polizia militare sulla strada.
Erano molto più avanti di lei, e sulla strada a parte loro non c’era nessun altro viaggiatore. Non dovevano essere distanti dal sentiero che conduceva alla loro radura.
 
Uno strano magone si impossessò di lei, impedendole di deglutire. Si sforzò di mantenere l’andatura del cavallo a una velocità regolare, che non potesse raggiungere le loro orecchie, mentre la sua mente continuava a ripetere sempre le stesse parole: Non svoltate a sinistra, non svoltate a sinistra, non svoltate a sinistra…
 

Strinse gli occhi per aguzzare la vista. In perfetta sincronia, li vide sfoderare i fucili. Poi – ormai certa di quello che stava succedendo – li vide imboccare il sentiero nel bosco.
 
 


Il cervello le andò in tilt per un secondo, mentre si lanciava al galoppo al loro inseguimento. Ora che erano entrati nel bosco, il suono della sua corsa forsennata non li avrebbe raggiunti comunque. Mentre pungolava il cavallo con i tacchi, protendendosi in avanti come se potesse aiutarlo a farlo correre di più, cercava di pensare cosa diavolo stesse succedendo, ma non riusciva a venirle in mente niente. Non era mai stata brava a ragionare quando qualcuno a cui teneva sembrava essere in pericolo, agiva d’impulso e basta.
 
Contava i secondi che credeva li separassero da casa loro, mentre sentiva il suo cuore sbatterle con sempre più forza contro le costole. Era così concentrata che quasi non si accorse di uno strano salice piangente che stonava con il resto della boscaglia. Tirò le redini con quanta più forza poté e Sid scartò bruscamente a sinistra, con un nitrito stizzito.
 
Circa un mese prima, Levi le aveva mostrato un altro sentiero che congiungeva la radura e la strada verso Ludlow e che partiva all’altezza di quell’albero. Siccome era molto più accidentato e scomodo per le cavalcature, non lo usavano quasi mai, anche se in linea retta era una scorciatoia. Visto il poco uso, il sottobosco era più rigoglioso e Mikasa fu costretta a rallentare per impedire che il cavallo si ferisse.
 
L’effetto sorpresa era tutto ciò che le restava. Si maledisse per non aver preso con sé uno dei due fucili di Levi, mentre cercava di concentrarsi per sentire rumori sospetti. Sentiva la paura riempirle il petto e la gola come un veleno. Cercò di calmarsi: Levi era il soldato migliore della storia, non si era mai fatto cogliere di sorpresa neanche da lei, avrebbe sentito gli zoccoli della polizia militare da centinaia di metri di distanza.
Però loro erano in sei, armati di tutto punto. Per quanto forte, Levi era pur sempre umano e senza il movimento 3D come poteva mettersi al riparo?
 


 
Lo sentì mentre superava un tronco di albero messo di traverso.
 
Lo sparo riecheggiò come un tuono. Tutti gli altri suoni della natura si zittirono per un istante, mentre Mikasa stringeva così forte i denti che lì sentì scricchiolare.
 
Strinse la presa sulle briglie, cercando con tutta la sua forza di restare concentrata. Un solo colpo di fucile era un avvertimento, doveva per forza essere un avvertimento.
 
Finalmente arrivò nel punto in cui i due sentieri si ricongiungevano, per poi aprirsi sulla radura. Scese da cavallo senza quasi farlo fermare, poi afferrò le briglie e lo legò ad un albero. Si avvicinò di soppiatto senza produrre neanche un rumore. Aveva solo due pugnali e restando tra gli alberi del bosco sarebbe stata troppo distante per colpire qualcosa vicino alla casa. Non poteva neanche gettarsi nella mischia correndo da laggiù: i soldati l’avrebbero vista ed avrebbe perso l’effetto sorpresa, oltre a esporsi completamente alle loro pallottole.
 
Imprecando tra sé, si accucciò dietro il tronco di una quercia e si sporse lentamente dietro un cespuglio di alloro, restando nell’ombra delle sue foglie per sbirciare verso casa.
 

I soldati erano disposti in semicerchio intorno alla casa e le davano le spalle. Quello che doveva avere il grado più alto era più avanti rispetto agli altri ed era l’unico che non teneva il fucile puntato. Aveva folti capelli grigi, tagliati corti, e le spalle larghe e ben piazzate. Mikasa seguì la traiettoria delle loro armi e finalmente riprese a respirare: Levi si affacciava alla porta di tre quarti, il fucile puntato davanti a sé dalla cui canna usciva un leggerissimo rivolo di fumo. Era stato lui a sparare.
 
«Capitano Ackermann, non c’è bisogno di tutta questa ostilità!» gridò l’uomo di spalle, con un tono beffardo che non fece altro che accrescere la rabbia in Mikasa.
 
«Dì ai tuoi uomini di abbassare i fucili» gridò Levi in risposta, non spostando di un millimetro il proprio. Mikasa sapeva che teneva la testa dell’ufficiale sotto tiro.
 
«Suvvia, Capitano… non potete biasimarli, sapendo chi siete è normale che si vogliano difendere. Un paio di loro hanno servito con Kenny Ackermann qualche anno fa…»
 
Levi sbatté le palpebre, distraendosi per un istante. Mikasa trattenne il fiato, ma si accorse subito di essere stata l’unica a notare quell’attimo di tentennamento. Levi strinse ancora di più la presa sul fucile.
 
«Che cazzo ci fate nella mia proprietà?» domandò, con il suo solito tono di voce ferreo e imperturbabile.
 
«Ma come, Capitano… eppure credevo foste un uomo intelligente! Siamo qui su incarico del Consiglio Militare Supremo, le lettere che avete ricevuto negli ultimi mesi non vi suggeriscono nulla? Siamo qui per consegnarvi una sollecitazione ufficiale…» detto questo infilò una mano nella giacca e ne tirò fuori una grossa busta di cartone marroncina, che sventolò qualche secondo davanti a sé.
 
Mikasa aggrottò le sopracciglia: di che diavolo stava parlando?
 
Ma venne riscossa immediatamente dai propri pensieri perché non appena l’ufficiale fece avanzare il cavallo verso il portico, Levi sparò di nuovo, questa volta vicino alle zampe dell’animale, che si impennò impaurito, rischiando di far cadere il proprio padrone.
 
In un istante lo schiocco all’unisono dei cani di tutti i fucili le fece stringere la presa sul pugnale. Forse scattando in avanti sarebbe riuscita a colpire i due soldati più a sinistra prima che questi si potessero accorgere di lei. Prima che potesse passare all’azione, l’ufficiale riuscì a placare il suo cavallo e, perso tutto il suo contegno beffardo, gridò:
 
«Adesso basta lurida feccia del Sottosuolo! Credi che non sappia chi sia in realtà il grande Levi Ackermann? Vent’anni fa ero di pattuglia nella Città Sotterranea, so esattamente che rifiuto tu sia, canaglia!»
 
«Se sai chi sono, sai che il prossimo colpo non sarà un altro avvertimento»
 
A Mikasa non sfuggì il brivido che percorse l’ufficiale e i suoi uomini al suono minaccioso e cupo della voce di Levi.
 
«Anche questa è l’ultimo avvertimento» riprese il militare, ritrovando un po’ di contengo mentre sventolava di nuovo la busta «Se non arriveranno risposte, la prossima volta tornerò con un ordine. E se l’accoglienza sarà calorosa come oggi, niente mi impedirà di porre fine alla tua misera vita»
 
Levi aprì la porta ed uscì lentamente sul portico, abbassando leggermente in fucile. Lasciò andare un suono a metà tra un ghigno ed uno sbuffo, prima di allargare le braccia. Mikasa strinse la presa sul pugnale, pronta a muoversi.
 
«Perché non ci provi adesso, così ti risparmi il prossimo viaggio?» disse Levi, ma il sarcasmo era completamente sparito dal suo tono.
La minaccia sottesa alle sue parole era talmente lampante che la ragazza si sentì rabbrividire. Un paio di soldati si lanciarono degli sguardi preoccupati tra loro, ad un altro iniziarono a tremare le mani che stringevano il fucile.
L’ufficiale raddrizzò le spalle, mentre gettava la lettera sulla neve. Stava eseguendo degli ordini, quindi Mikasa sapeva che non poteva permettersi di provare ad ucciderlo, per quanto ne avesse chiaramente una gran voglia.

 
Alzò di nuovo lo sguardo verso Levi e quasi trasalì quando si rese conto che lui la stava guardando. Durò solo un istante: Levi scosse leggermente la testa, come per dirle di non entrare in azione, poi tornò con lo sguardo sull’uomo a cavallo.
 
«E Mikasa Ackermann?» domandò l’ufficiale, ritrovando il tono canzonatorio di prima, che Mikasa immaginò accompagnato ad un ghigno.
 
Levi aggrottò le sopracciglia, cercando di restare impassibile, ma sollevò di nuovo il fucile.
 
«Che cosa a proposito di lei?»
 
«Qualcuno ci ha detto che è stata vista in tua compagnia a Ludlow, tempo fa… hai idea di dove possa essere?»
 
«Non so dove sia» sibilò Levi a denti stretti, puntando lo sguardo dritto sul volto dell’uomo e tenendolo di proposito ben lontano dal punto dove lei si nascondeva.
 
«Oh beh… cercheremo altrove allora…» rispose l’uomo.
 
«Che diavolo volete da lei» chiese Levi a denti stretti. Mikasa pregò che i soldati non cogliessero la sfumatura di preoccupazione nella sua voce. Si sentiva impotente: ora più di prima doveva restare al coperto, finché non avesse capito cosa diavolo stesse succedendo.  
 
L’ufficiale si lasciò sfuggire un ghigno. «Oh beh, al Comandante Dok piace sapere dove si trovino i nostri preziosi eroi di guerra…soprattutto quelli vicini ad Eren Jaeger»
 
Un brivido le percorse la schiena con violenza. D’improvviso sentì tutto il freddo della neve attorno a sé. Lanciò uno sguardo atterrito a Levi, che continuava a non guardarla.
 
«Se avete finito con queste stronzate, tornate da dove siete venuti» ordinò il capitano con tono imperatorio, mentre accennava al sentiero con la canna del fucile.
 
L’ufficiale riprese le briglie e risistemò il fucile nella fondina. I suoi uomini rilassarono impercettibilmente le spalle.
 
«Non appena disgelerà ci faremo risentire, capitano» Infilò talmente tanto disprezzo nell’ultima parola, che a Mikasa venne voglia di uscire dalla boscaglia per prenderlo a calci.
 
Detto ciò, l’uomo lanciò un ultimo sguardo a Levi prima di far voltare il cavallo e precedere la sua pattuglia verso l’imbocco del sentiero. Finalmente Mikasa poté studiarne il viso: doveva avere circa una cinquantina d’anni, aveva una barba curata e sfuggenti occhi azzurri. Probabilmente non aveva mai visto un gigante in vita sua, si ritrovò a pensare sprezzante.
 
Gli altri uomini lo seguirono immediatamente, sotto lo sguardo attento di Levi che stringeva ancora il fucile tra le braccia. Mikasa se li vide sfilare accanto, così vicini che poteva sentire i respiri pesanti delle loro cavalcature. Rimase immobile finché non li vide sparire nel folto della boscaglia.
 


Aspettò ancora qualche secondo, per precauzione, prima di correre verso la radura. Levi, nel frattempo, era sceso dal portico ed aveva raggiunto il punto dove era stata lanciata la busta di carta, leggermente inumidita dalla neve. La guardò avvicinarsi, ma non si mosse verso di lei. Qualcosa nel suo sguardo glaciale la mise stranamente in allarme. Si sentì per un istante come se fossero stati catapultati nel passato, prima della guerra, quando andavano in missione contro i giganti. Levi la guardava con quella stessa durezza, come se ancora non fosse successo niente tra loro, come se Eren fosse ancora vivo.
 
Parlò, per scacciare quella sensazione spiacevole: «Stai bene? Rufus ha provato ad avvertirmi, ma avevano troppo vantaggio…ho corso più che ho potuto…» farneticò, cercando di riprendere fiato.
 
Levi alzò la mano destra e le carezzò il braccio. Un’espressione meno dura si affacciò sul suo viso mentre abbozzò un sorriso. Mikasa sentì il sollievo inondarla.
 
«Sto bene» rispose lui «Polizia militare» sibilò con astio prima di sputare per terra «…lo sai come sono fatti. Niente di cui preoccuparsi»
 
Fece per voltarsi, ma Mikasa gli bloccò il braccio, costringendolo ad alzare di nuovo lo sguardo su di lei.
 
«Di che diavolo parlavano»
 
Un’ombra attraversò il viso del capitano. Lo vide stringere la mascella, distogliendo di nuovo lo sguardo dai suoi occhi.
 
«Di niente di importante» rispose lui, questa volta fissandola negli occhi con così tanta determinazione che a Mikasa sembrò di venire scottata. Le stava ordinando di non impicciarsi.
 
Ma Mikasa non era mai stata brava a seguire gli ordini.
 
Strinse la presa sul suo braccio. «Non rifilarmi queste stronzate»
 
Vide la rabbia accendersi nel suo unico occhio sano. Si divincolò dalla sua presa con uno strattone.
 
«La cosa non ti riguarda» sentenziò, prima di incamminarsi verso casa, stringendo la lettera con un po’ troppa forza.
 
«Certo che mi riguarda!» sbottò lei.
 
Levi si voltò lentamente verso di lei, fissandola con uno sguardo di derisione che la lasciò senza parole. «Perché dovrebbe riguardarti? Perché vieni a letto con me? ...non sei mia moglie, Mikasa»
 
Mikasa sbatté le palpebre lentamente, sbigottita. Per un attimo si sentì ferita, poi finalmente l’esperienza le fece aguzzare l’ingegno: si comportava così per tenerla lontana dalle informazioni che le stava nascondendo. Poteva averla ingannata una volta, con la foto di Historia e suo figlio, ma questa volta vedeva dritto dentro i suoi sporchi trucchi.
 
«So cosa stai facendo Levi e stavolta non attacca!» gli gridò dietro, ricominciando a camminare per raggiungerlo.
 
Lo vide salire le scale del portico – senza più degnarla di uno sguardo –  appoggiandosi con troppa forza al corrimano. La mano gli scattò come al solito verso il ginocchio sinistro e per un istante la rabbia di Mikasa venne sostituita dalla preoccupazione.

 
Levi entrò in casa e prima che lei potesse realizzare e fermarlo, lanciò la lettera dritta tra le fiamme del camino. Non aveva neanche aperto la busta.
 
Mikasa trasalì rumorosamente, lanciandosi verso le fiamme che ormai avevano completamente avviluppato la carta.
 
«Sei impazzito?!»
 
Levi sbuffò, raggiungendo la bottiglia di acquavite sulla credenza ed un bicchierino. Lo riempì quasi fino all’orlo, prima di buttarlo giù in un unico sorso. Poi si lasciò cadere pesantemente su una sedia, espirando.
 
«So già quello che c’è scritto» sibilò, lanciandole uno sguardo freddo e distaccato che le fece venire la pelle d’oca.
 
Una rabbia impetuosa rischiò di travolgerla. Si ritrovò in piedi senza neanche essersene accorta, con le mani strette a pugno, le unghie quasi conficcate nei palmi. Voleva colpirlo, esattamente come prima avrebbe voluto prendere a pugni quello stupido ufficiale e tutta la sua combriccola.
 
«Sei uno stronzo» riuscì a sputare tra i denti stretti «Quelli parlavano di altre lettere. Perché non mi hai detto niente, eh?» si odiò, perché sentì che la voce le si incrinava «Non ti fidi di me?»
 
Finalmente lui la guardò di nuovo. Le lanciò uno sguardo interdetto, quasi sorpreso, certamente combattuto. Si morse il labbro inferiore. Mikasa sentiva gli occhi riempirsi di lacrime. Si rese conto di avere paura. Non sapeva cosa stesse succedendo, perché quegli uomini ce l’avessero con lui e una enorme quantità di immagini minacciose le invasero il cervello.
 
Levi sospirò, poi si stropicciò gli occhi con pollice e indice. Dopo averlo aspettato per mesi, d’improvviso seppe che il momento che temeva era arrivato.
 
«Non fare la bambina, lo sai che mi fido»
 
«Ma non è vero, Levi! Dio, devo farvi proprio pena…nessuno di voi si è mai fidato di me. Mi avete tenuto sempre all’oscuro»
 
«Voi chi?»
 
Le persone che amo avrebbe voluto rispondere con tutta se stessa. Invece si morse la lingua e rimase in silenzio, incrociando le braccia, maledicendo quelle lacrime traditrici che le brillavano negli occhi e sentendosi debole ed impotente.
 
Sentiva lo sguardo di lui sul viso, ma non le importava. Lo sentì sospirare di nuovo, come per prendere una qualche risoluzione, poi parlò:
 
«Vogliono che torni a Mitras»
 
Mikasa alzò la testa di scatto, piantando uno sguardo duro sul suo viso.
 
«Perché?»
 
Levi si alzò lentamente per andare a riempire di nuovo il suo bicchiere e quello di Mikasa. Parlò dandole le spalle:
 
«Ci sono stati dei disordini»
 
«Che genere di disordini?» domandò lei, con voce più titubante, mentre si avvicinava al tavolo. Sentiva il cuore che accelerava il suo ritmo, mentre qualcosa di viscido le si attorcigliava nello stomaco.
 
«Disordini…che il Consiglio Militare Supremo vuole affibbiare a qualcun altro. Qualcuno con esperienza. Dannati conigli…»
 
 Un brivido le percorse la spina dorsale violentemente. D’improvviso sentì di avere la nausea. C’era solo un tipo di esperienza che Levi aveva in quantità e di cui loro mancavano. Ma non poteva essere niente del genere, no?
 
Si accorse di non riuscire a muoversi. Strinse con forza lo schienale della sedia a cui era riuscita ad avvicinarsi. Le sembrava di avere il cervello rinchiuso in una spirale che la riportava sempre allo stesso pensiero.
 
 «Mikasa…» la voce di Levi la fece tornare in sé. La stava guardando con la fronte corrucciata; l’istante dopo una qualche realizzazione gli fece spalancare gli occhi. Le si fece più vicino, le carezzò le mani.
 
«Non si tratta di giganti» mormorò e Mikasa sentì sparire il groppo in gola che le stava impedendo di respirare. Si sedette lentamente e bevve di botto tutto il bicchierino che Levi aveva poggiato sul tavolo. Il bruciore dell’alcool nella gola la tranquillizzò un poco.
 
«Tra gli umani ci sono mostri ben peggiori…» aggiunse lui, sprezzante, prima di sedersi a sua volta.
 
«Perché vogliono te? La polizia militare si occupa di queste cose da sempre. Cosa c’entra l’armata ricognitiva?» C’era qualcosa che le sfuggiva. Levi era in congedo, con la gamba sinistra danneggiata per sempre, perché volevano proprio lui?
 
«L’armata ricognitiva non c’entra niente» disse lui, dopo qualche attimo di silenzio nel quale aveva fatto roteare lentamente il liquore nel suo bicchiere «Si tratta della Città Sotterranea…»
 
«Cosa?!» esclamò lei, spalancando gli occhi per la sorpresa «Credevo che fosse stata chiusa una volta per tutte!»
 
Levi rimase in silenzio, continuando a fissare il proprio bicchiere.
 
«Ufficialmente è così. Ma i ratti di fogna tornano sempre a casa»
 
Alla ragazza non piacque per niente il suo tono.  
 
«Cosa vogliono che tu faccia?» si costrinse a chiedere, mentre sentiva il sangue pulsarle nelle tempie.
 
«Che mi infiltri» rispose lui, atono, mentre teneva lo sguardo incollato alle sue lunghe dita che stringevano il bicchiere.
 
Mikasa trattenne il fiato. Non le piaceva, non le piaceva per niente. Era troppo pericoloso. Non era giusto. Lui aveva già sacrificato abbastanza, non era compito suo risolvere questo ennesimo casino. Si era guadagnato quella pace che stavano vivendo. E poi lei non voleva che lui fosse di nuovo in pericolo.
 
«Historia ne è al corrente?» chiese poi, cercando di calmarsi.
 
Levi schioccò la lingua. «Historia fa parte del Consiglio Militare. Certo che lo sa»
 
«Ti hai mai scritto di suo pugno in merito?» incalzò la ragazza. Non poteva credere che Historia le facesse questo. Non le avrebbe permesso di portarle via anche Levi.
 
«È la regina. Non ha bisogno di scrivere di suo pugno queste cose»
 
«Non posso credere che lo permetta! Lei sa cosa hai passato, non può…»
 
Levi la interruppe: «Mikasa, non importa chi ha scritto cosa, la realtà è questa»
 
«Ma non possiamo lasciare che vada così! Che hai intenzione di fare? Dobbiamo pensare a qualcosa! Non vorrai accettare!»
 
Levi scattò in piedi, quasi facendo rovesciare il bicchiere. «Senti…» la interruppe di nuovo, quasi trattenendo la sua voce per mantenere un tono neutrale. Dondolò leggermente sul posto, prima di appoggiarsi alla sedia, come se il movimento fosse stato troppo inaspettato anche per se stesso. «…Non so che dirti, Mikasa. Ho bisogno d’aria»
 
Si voltò ed aprì la porta con violenza. Il sole di quel bel pomeriggio invernale invase la stanza. A Mikasa sembrò completamente fuori luogo. Si alzò in piedi, spingendo indietro la sua sedia.
 
Levi si voltò di nuovo verso di lei, ma con lo sguardo incollato al pavimento. Allungò la mano sinistra davanti a sé, come per segnalarle di non muoversi. «Tu resta qui»
 
Detto questo, uscì e si chiuse la porta alle spalle.


 

Lo so, lo so, non mi odiate per avervi lasciato così in sospeso...spero di aggiornare presto con il resto della storia! Cosa ne pensate di questo nuovo risvolto? Che sia la fine della loro vita nella radura? ;) 
Fatemi sapere!

Chikay



 

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Capitolo 15
*** XV ***


Ciao!
In questo capitolo (un po' breve) si introduce un altro personaggio molto molto importante. Non sarà la prima volta in cui se ne parlerà. Spero vi convinca, altro alla fine del capitolo ;) 


 


XV
 
 
«Levi? Sei ancora qui?»
 
«Sì»
 
La porta si apre lentamente. Levi sente Hanji entrare, ma rimane immobile. La sente avvicinarsi alla sua sedia, poi fermarsi accanto a lui.
 
Si concede un sospiro leggero, prima di parlarle: «Hai bisogno di me? I ragazzi stanno meglio?»
 
Hanji allunga una mano e la poggia sulla sua spalla destra. Gliela stringe delicatamente. Levi sposta lo sguardo sulle proprie mani. Sono completamente sporche. Ricoperte di sangue, terra, sudiciume. Un tremolio gliele smuove appena.
 
«Sì, stanno riposando. Dovresti provarci anche tu»
 
Levi sbuffa appena. Si sente stanco come mai nella sua vita. Ma non riesce a muoversi da quella sedia.
 
Davanti a lui, steso su un letto, giace il corpo di Erwin. Hanji gli ha coperto il volto con il suo mantello verde con le ali incrociate. L’avambraccio e la mano sinistra sono scoperti, così come parte del busto insanguinato e le gambe.
 
«Sto bene» mormora, ma è più una risposta automatica che la verità. La verità è che, a parte una stanchezza esagerata, non sente niente.
 
Sa che il dolore arriverà, ne è sicuro. Riflette quasi con distacco chiedendosi perché non sia già esploso, come per Isabel e Farlan, come per sua madre, come per la sua squadra.
 
Gli sembra di avere la mente completamente intorpidita, come se non fosse in grado di processare gli avvenimenti di quella giornata. Non riesce nemmeno a infastidirsi per il suo stato, per la sporcizia che lo ricopre da capo a piedi, per il sangue che gli imbratta la faccia, ormai rinsecchito.
 
«Hanji…»
 
Si rende conto di star parlando senza quasi essersi accorto di volerlo fare.
 
«Sì?»
 
«Mi dispiace. Per Moblit»
 
Sente la sua presa stringersi sulla spalla. Automaticamente alza la mano destra e la poggia su quella di lei. Non ha ancora la forza di guardarla in viso.
 
«Lo so» sospira lei, dolcemente. «Siamo rimasti solo io e te, eh?»
 
Qualcosa gli si stringe nello stomaco. Sente un groppo crescergli in gola. Serra di più la presa sulla mano di Hanji, incapace di parlare di nuovo.
 
«Sono felice che ci sia tu con me…» continua lei, mentre la voce le si incrina. La sente passarsi l’altra mano sugli occhi, uno dei quali è sparito sotto una spessa benda sporca.
 
Levi resta in silenzio. Sente i battiti del suo cuore risuonare a un ritmo strano, rallentato. Sta succedendo davvero? O sta succedendo solo nella sua testa? Si sente completamente svuotato. Sente vagamente il bisogno di ripensare a prima, ma gli sembra di cercare di vedere sotto una patina opaca di acqua increspata. Si passa la mano sinistra sugli occhi.
 
«Levi…» la sente titubare, dovrebbe essere preoccupato dalla domanda che teme gli faccia, ma resta impassibile, con gli occhi incollati alla mano di Erwin, che adesso gli sembra troppo immobile. «…cosa è successo al di là del muro?»
 
Lascia andare un sospiro tremolante. Rivede tutto: i suoi compagni che abbattono i giganti, sente la sua voce che sentenzia di stare attenti, di non volere morti inutili, ricorda il suo compagno che gli intima di riposarsi, perché dovrà affrontare il Gigante Bestia, che ci penseranno loro a finire gli ultimi giganti rimasti. E poi la pioggia di pietre, come proiettili, che abbattono chiunque, dilaniando i suoi soldati in mille pezzi, come granate. Ricorda l’incredulità quando si era accorto di cosa stesse succedendo. Lo sguardo di terrore di quei novellini. Quei novellini che lui ed Erwin hanno condannato a morte.
 
Rabbrividisce. Sente come di dover vomitare, ma cerca di deglutire e sopprimere quella sensazione.
 
Deve essere rimasto in silenzio troppo a lungo, perché Hanji sospira di nuovo. «Non fa niente, ne parliamo domani…e comunque Floch ha già raccontato qualcosa»
 
Ricorda l’istante dopo aver abbattuto il Gigante Bestia, quando si era guardato intorno, cercando qualcuno, chiunque, che respirasse ancora, per iniettargli il siero. Ricorda la paura con la quale aveva guardato quei corpi martoriati, sapendo inconsciamente che stava cercando il suo. Che la speranza di trovarlo ancora vivo era così dolorosa che rischiava di sopraffarlo. Levi sa bene che la speranza è una cosa molto pericolosa: ti riempie il cuore con delle illusioni per poi abbatterti senza pietà. È la tortura più terribile, perché è inevitabile.
 
«Levi… che cosa faremo senza Erwin?»
 
È appena un sussurro, la voce di Hanji. Del Comandante Zoe.
 
«Non lo so…» risponde. Ma si rende conto che Hanji ha bisogno di qualcosa di più, c’è una vulnerabilità nella sua voce che gli comprime i polmoni. «Entreremo in quella cazzo di cantina. E poi ucciderò il Gigante Bestia»
 
Hanji sposta la mano dalla sua spalla sinistra, per accarezzargli le scapole. Levi riappoggia il gomito destro sul ginocchio.
 
«Hai ragione» Questa volta la voce della donna è meno tremolante. «Faremo così. Un passo alla volta, insieme»
 
Hanji si muove verso la porta, accennando al fatto che deve andare a controllare gli altri. Levi la chiama mentre lei è ancora sull’uscio. Lei si volta e per la prima volta lui ha il coraggio di guardarla negli occhi. Esita.
 
Pensi che abbia fatto la scelta giusta? Potrai mai capirmi?
 
Sente le parole premergli nella gola come qualcosa rimastogli di traverso. Ma non dice niente.
 
Hanji abbozza un sorriso. «Raggiungici, quando te la senti»
 
Si chiude la porta alle spalle, lasciandolo da solo. Trasalisce appena quando si rende conto di averlo pensato. Il suo corpo sarà pure li, ma per la prima volta Levi si rende conto che Erwin non c’è più. D’improvviso gli sembra di congelare. Sente il suo corpo tremare. Le dita di Erwin sembrano troppo lunghe, troppo strane, gli sembrano sistemate in una posizione innaturale. Sembrano finte. Levi vorrebbe toccarle, per rimetterle a posto, ma è vagamente cosciente di non potersi muovere, anche se non capisce perché.  
 
È sotto shock? Si sentono così tutti quei soldati che è suo compito far rinsavire durante le battaglie? Levi non riesce a capirlo, si sente anestetizzato. Probabilmente è solo stanco morto. Non c’è un singolo muscolo del suo corpo che non gli dolga.
 
«Erwin…» sussurra all’improvviso, quasi come se temesse di svegliarlo. Quasi come se stesse cercando di svegliarlo.
 
Resta immobile ad ascoltare il silenzio che riempie la stanza. Ripensa alla sensazione spiacevole che aveva provato quando Erwin e Zackely gli avevano affidato il siero, prima di partire per Shiganshina. Lo sapeva – l’aveva saputo in quell’istante – che quella storia non poteva finire bene. Aveva sentito un presentimento nefasto calargli addosso ed anche questa volta il suo istinto aveva avuto ragione.
 
Il pensiero di sopravvivere ad Erwin non lo aveva mai neanche sfiorato, prima che lui perdesse il braccio in battaglia. Era certo che sarebbe morto combattendo per lui. Quale scherzo del destino lo aveva portato ora in questa stanza?
 
Sa che questa è l’ultima volta che potrà stare da solo con lui. Vorrebbe dire qualcosa, vorrebbe rimettere in ordine qualcuno dei pensieri che hanno iniziato ad affollare la sua mente annebbiata, ma Erwin non è più lì, non lo sta più ascoltando. Che senso avrebbe chiedergli scusa per non aver ucciso quella dannata bestia? Che senso avrebbe rinnovare la sua promessa, ripetergli che prima o poi porterà a termine il suo ultimo ordine? Che senso avrebbe dirgli che la sua vita gli sembra improvvisamente senza senso, completamente sbandata? Che si sente perso e solo e tradito dalla sola persona che gli abbia mai donato uno scopo? E che non ha alcun diritto di sentirsi così, visto che la sola causa di tutto questo è stata una sua scelta?
 
Si alza lentamente e barcolla quando le sue gambe quasi non reggono il suo peso. Una nuova ondata di stanchezza si abbatte su di lui. Avanza lentamente verso la porta, si sente quasi mancare mentre si appoggia allo stipite.
 
Deve dormire.
 
Sta per uscire, ma esita, incerto se voltarsi di nuovo.
 
China il capo.
 
Apre la bocca, poi la richiude. Gli umani hanno riconquistato il Muro Maria, per la prima volta hanno davvero vinto contro i giganti. Levi non pensa di essere uno sprovveduto, ma non si aspettava di dover pagare un prezzo così alto.
 
Sospira senza dire nulla, poi – un passo dopo l’altro – lascia Erwin alle sue spalle.
 
 

 
***
 
 



Mikasa si svegliò disturbata da un suono strano che non riuscì a riconoscere. La luna era ancora alta fuori dalla finestra, doveva essere notte fonda. Levi non era nel letto.
 
Era tornato a casa verso ora di cena. Aveva preparato da mangiare quasi senza parlarle e anche lei aveva mantenuto un atteggiamento astioso. Era più facile avercela con lui che affrontare la paura che le stringeva la gola con una morsa sempre più stretta. Era andata a dormire per prima e si era addormentata da sola. Dallo stato delle coperte sul suo lato del letto, capì che lui non l’aveva mai raggiunta.
 
Ancora annebbiata dal sonno, continuava a non capire cosa potesse provocare quello strano raspare. Si alzò in piedi e si lanciò una coperta sulle spalle, prima di aprire la porta della stanza.
 
Il resto della casa era nella penombra, illuminata soltanto dalle fiamme deboli del camino e dalla luna che entrava dalle finestre. Mentre cercava Levi con lo sguardo, capì cosa producesse quello strano rumore:
 
Lo trovò in ginocchio per terra, tra la cucina ed il tavolo, con un tino di legno pieno di acqua e sapone accanto a sé ed uno spazzolone stretto tra le mani, con le quali sfregava il pavimento con così tanta forza che Mikasa temette potesse consumarlo.
 
«Levi…» mormorò mentre la fronte le si aggrottava «che stai facendo?»
 
Notò il leggero profumo di sapone che aleggiava nella stanza. Il riflesso delle luci sulla superfice bagnata del pavimento del resto della casa le segnalò che il capitano doveva essere all’opera da un bel po’.
 
«La casa è disgustosa, cazzo…» sibilò lui tra i denti stretti, senza accennare nemmeno a fermare il suo movimento forsennato. Emise un verso di fatica mentre spingeva di nuovo le mani avanti e indietro, cercando di cancellare dello sporco che – Mikasa ne era certa – era sparito da un pezzo.
 
«Levi…» ripeté di nuovo, titubante, mentre gli si avvicinava in punta di piedi, quasi temendo di farlo scattare. «È notte fonda… vieni a letto, domani finiamo insieme» aggiunse quindi, tendendo una mano verso di lui.
 
Lui la ignorò completamente. Non alzò neanche il viso per guardarla. Continuò a strofinare il pavimento, lasciandosi sfuggire un gemito misto di fatica e frustrazione. Quando lei si accorse di come le sue mani tremassero mentre stringevano spazzola, si inginocchiò davanti a lui.
 
Con delicatezza posò le mani su quelle di lui e gliele strinse con decisione, interrompendo il suo lavoro. Le mani di Levi erano congelate. Mikasa rabbrividì.
 
«Levi, parlami. Cosa c’è che non va?» Si accorse di non riuscire a nascondere tutta la sua preoccupazione dietro la dolcezza del suo tono. Si chiese se anche Levi ne fosse cosciente.
 
Levi strinse ancora di più la presa sullo spazzolone. Tenne la testa china, ma Mikasa notò il serrarsi delle sue mascelle e l’irrigidirsi dei tendini sul suo collo. Restò in silenzio, per lasciargli il tempo di risponderle. Le sembrava quasi di poter sentire fisicamente il blocco nella gola di Levi, la tensione in tutto il suo corpo. Avrebbe fatto di tutto per lenire quella sofferenza. Era così preoccupato per l’incursione di quella mattina?
 
La sua voce la riscosse dalle sue riflessioni:
 
«A volte mi manca così tanto che mi sembra di non poter nemmeno respirare». Aveva parlato a voce così bassa che Mikasa avrebbe quasi potuto non sentirlo.
 
«Cosa? Il Corpo di Ricerca?» provò a chiedere, allentando la presa sulle sue mani per iniziare a carezzargliene lentamente il dorso con i pollici.
 
Levi alzò il viso, ma tenne lo sguardo incollato a terra. Accennò un cenno di diniego scuotendo appena la testa.
 
«Erwin»
 
Mikasa gli lanciò uno sguardo, leggermente sorpresa. Sapeva del loro forte legame, ma Levi non aveva mai più parlato di lui dopo Shiganshina, né a lei, né a nessun altro della loro squadra. Non sapeva praticamente niente della loro storia, a parte lo strano modo in cui si erano conosciuti e il fatto che Levi fosse sempre stato molto protettivo nei confronti del Comandante. Non sapeva se i legami degli Ackermann fossero la verità, non sapeva se Erwin fosse stato per lui ciò che Eren era stato per lei.
 
Allungò la mano destra e gli accarezzò la guancia, con deliberata lentezza, come per non farlo fuggire via al suo tocco. Levi rabbrividì, ma non si scostò.
 
Mikasa si schiarì la voce: «Certo, è normale. Eravate amici»
 
A quelle parole, Levi scattò in piedi, accennando un suono a metà tra una risata sprezzante e uno sbuffo.
 
«Amici? Erwin non aveva amici… aveva solo pedine. Pedine da usare per i suoi scopi» Prese a vagare per la stanza come un animale in gabbia, passandosi la mano destra sul viso.
 
«Non ero altro che questo» riprese, parlando sempre più veloce, quasi farneticando, mentre il calore gli colorava le guance «Mi ha tirato fuori dal Sottosuolo per i suoi scopi…è stata una vera fortuna che Farlan e Isabel siano morti subito… così è stato ovvio che mi legassi a lui, mi ha raggirato con quei suoi soliti discorsi profondi del cazzo ed il gioco era fatto… a volte mi chiedo se alla fine non li avrebbe mandati a morte lui in qualche missione suicida, se non fossero stati uccisi dai giganti…così che non avessi inutili distrazioni…»
 
Mikasa lo fissava con gli occhi spalancati, attonita e assolutamente certa di dover restare in silenzio. Levi comunque non le avrebbe permesso di interromperlo perché riprese, quasi mangiandosi le parole per la fretta di pronunciarle.
 
«No, Mikasa, non eravamo amici… per essere amici si deve essere pari. Lo sai quando è stata l’unica volta in cui siamo stati amici veramente?» spalancò le braccia, senza smettere di muoversi irrequieto, cambiando il peso sui piedi, gesticolando. «…Quando a Shiganshina gli ho ordinato di rinunciare ai suoi cazzo di sogni e di andarsi ad ammazzare per distrarre Zeke Jaeger, di fare da esca per me»
 
Si lasciò cadere seduto sulla branda, poggiando i gomiti sulle ginocchia e nascondendo il viso tra le mani, mentre riprendeva fiato.
 
Mikasa si alzò e gli andò davanti in silenzio, prima di accucciarsi di nuovo davanti a lui. Gli accarezzò i polpacci lentamente, senza dire nulla. Sentiva il suo respiro affrettato mentre qualcosa dentro di lei si comprimeva, come se qualcuno le stesse strizzando le viscere dall’interno.
 
«Kenny aveva ragione» riprese lui a bassa voce, quasi ansimando «Non siamo altro che schiavi»
 
Mikasa strinse involontariamente la presa sulle sue gambe. L’eco di un’altra persona che le diceva quelle stesse parole le invase la mente, ma la voce di Levi la riscosse di nuovo:
 
«E vuoi sapere qual è la cosa più patetica? Che adesso non vorrei altro che un suo ordine»
 
Inspirò forte col naso, mentre le sue mani riprendevano a tremare.
 
«Non so che devo fare» mormorò un attimo dopo, quasi con vergogna, senza osare guardarla. «Non so che cazzo devo fare». Inspirò, mentre il respiro gli si rompeva.
 
«Da quando è finita la guerra…da quando Zeke è morto…non so più che devo fare»
 
Se mai un uomo come Levi potesse crollare, Mikasa immaginò che sarebbe stato simile a quella confessione a fior di labbra.
 
«Lo sai cosa ho continuato a chiedermi oggi da quando quei soldati di merda sono venuti qui?»
 
Mikasa scosse il capo, pur sapendo che lui non la stava guardando.
 
«…a cosa Erwin vorrebbe che facessi»
 
Si passò le mani tra i capelli, stringendosi il retro della nuca, incassando ancora di più il collo tra le spalle curve.
 
«Vorrebbe che tornassi sottoterra? Vorrebbe che aiutassi il governo? È questo il mio dovere? Mi chiederebbe di farlo?»
 
Mikasa sollevò la mano destra e gli carezzò l’avambraccio sinistro.
 
«E tu Levi? Tu cosa vorresti?»
 
Levi trasalì appena al suono della sua voce.
 
«Io?» sembrò stupito dalla domanda, poi riprese: «Vorrei non aver dovuto ucciderlo. Vorrei che fosse ancora vivo. Vorrei che mi dicesse cosa devo fare»
Mikasa sentì le lacrime formarsi negli occhi. Sapeva perfettamente di cosa parlasse Levi: provava quella sensazione ogni giorno, da quando Eren era partito da solo verso Marley, lasciandola indietro.
 
«Lo capisco…» sussurrò dolcemente, stringendo appena la presa sul suo braccio. «Ma cosa vorresti tu, per te stesso?»
 
«Questa domanda non ha nemmeno senso!» protestò lui, con enfasi «Volevo solo sopravvivere. Poi Erwin mi ha tirato fuori da quella fogna, mi ha dato un cazzo di scopo, una missione… Non c’è mai stato altro, lo capisci? Non c’è nient’altro ormai. Io non…» ansimò, cercando di riprendere fiato. Deglutì.
 
«Io credo che Erwin avrebbe voluto che tu fossi felice» mormorò Mikasa, quasi sorpresa di avere l’ardire di aprire bocca. Levi lasciò andare uno sbuffo sarcastico, ma prima che potesse ribattere, lei riprese:
 
«Levi, Erwin ti voleva bene e tu lo sai» Alzò la voce per sovrastare la risposta che sapeva sarebbe arrivata «Vuoi sapere come faccio a saperlo? Quando Eren è stato rapito da Berthold e Reiner, lui non ti ha fatto venire con noi in missione. Eri ancora convalescente e ti ha lasciato a casa. Ci ha anche rimesso un braccio. E non rispondermi che era per averti in forma per le missioni successive, non è vero. Eren era la nostra unica speranza. Riprendercelo era la massima priorità. Eppure, lui ti ha ordinato di restare indietro»
 
Levi sollevò il viso, allontanando le mani. Una lacrima gli scese sulla guancia dall’occhio sinistro. Mikasa trasalì. Sul volto di lui comparve un’espressione incredula, mentre raccolse la lacrima con l’indice.
 
«Oh..» gli sfuggì dalle labbra. Per un attimo un’espressione sorpresa gli comparve sul viso. Poi un misto di tristezza e rabbia gli contrasse i tratti.
 
«Non guardarmi!» le gridò, spingendola via. Nascose gli occhi tra i palmi delle mani. Un singhiozzo gli scosse le spalle.
 
«Levi…» sussurrò lei, spalancando gli occhi incredula.
 
Levi stava piangendo. «Ti ho detto di non guardarmi, cazzo!» ringhiò, cercando di combattere quei sussulti, con scarsi risultati. Mikasa si alzò sulle ginocchia, avvicinandosi a lui. Gli passò le mani sulla schiena, Levi appoggiò la fronte sulla sua spalla, continuando a nascondere il viso tra le mani.
 
«Non fa niente, tanto sto piangendo anche io…» mormorò lei, mentre sentiva le lacrime scenderle sulle guance. Non fece niente per fermarle, né per asciugarle. Respirò tremolante, piangendo insieme a lui.
 
C’era qualcosa di strano nel piangere insieme. Ormai vivevano insieme da mesi, facevano l’amore, mangiavano, lavoravano, condividevano tutto, ma questo era qualcosa di diverso. A Mikasa sembrò per un istante di essere al centro dell’universo. Sentì come una forza che si sprigionava dai loro corpi e li legava indissolubilmente, come una catena infrangibile. Condividere quelle lacrime le sembrò d’improvviso il legame più profondo che potesse mai essere sperimentato. Fu certa d’improvviso che amare volesse dire questo.
 
Dopo un attimo o forse un minuto, o forse un’ora, Levi affondò il viso nell’incavo del suo collo e la strinse a sé con così tanta forza che le mozzò il respiro per un attimo, come se lei stesse scappando e lui cercasse di trattenerla. Sentì le sue lacrime bagnarle la camicia da notte.
 
«Mi dispiace…» biascicò tra i singhiozzi, rabbia e rimpianto impiastricciati in quelle poche sillabe. Sperò che lei capisse tutte le implicazioni nascoste in quelle poche sillabe.
 
«Lo so. Dispiace anche a me»
 
«Non so cosa devo fare…»
 
«Ci inventeremo qualcosa, ok? Scriveremo ad Historia»
 
«Vorrei che avesse visto cosa c’era al di là dell’Isola. Vorrei che l’avessero visto tutti loro…che sapessero che la loro morte è servita a qualcosa»
 
«Io penso lo sappiano…» sussurrò Mikasa, credendoci davvero per la prima volta.
 
«Io…» mormorò Levi, poi trasalì, restando in silenzio. Lei gli accarezzò la schiena, tenendo la guancia poggiata sulla sommità della sua testa.
 
«Sì?» provò a incoraggiarlo.
 
«…non voglio stare senza di te»
 
Mikasa sentì il petto riempirsi di qualcosa di caldo, intenso. Era mescolato alla compassione, alla tristezza, ma era pulsante e ardente. Sentì il cuore accelerare il suo battito. Lo strinse più forte, desiderando di non lasciarlo andare mai più.
 
«Dovunque tu andrai, io verrò con te…» sussurrò, quando riuscì a ritrovare la capacità di parlare. Non era mai stata così certa di qualcosa.
 
Levi trattenne il fiato poi singhiozzò di nuovo, dolorosamente.
 
 



 
«Mikasa, tutto questo è sbagliato. Devi andare via» biascicò, con la voce roca.
 
Sapeva che sarebbe finita, ne era stato certo ancora prima che cominciasse. La spirale di violenza e orrore che era stata tutta la sua vita lo stava richiamando a sé e non avrebbe permesso che Mikasa ne rimanesse invischiata. Doveva farla andare via prima che fosse troppo tardi. Era stato troppo egoista. Come aveva potuto pensare di meritarsi tutto questo? Come aveva potuto illuderla di poterle dare qualcosa che lui neanche conosceva?
 
Non voleva morire sottoterra. Quella spinta era stata l’unica cosa che l’aveva mantenuto in vita anche nei momenti più disperati e pericolosi. Sarebbe diventato un traditore se avesse disobbedito agli ordini del Consiglio Militare. Avrebbe avuto una condanna a morte pendente sulla testa. Come poteva permettere che lei subisse la stessa sorte solo per restargli accanto?
 
Ma avrebbe avuto la forza per mandarla via ormai? Levi non ne era più così sicuro.
 
La voce della ragazza lo riscosse dai suoi pensieri: «Cosa?» mormorò, basita, allontanandosi di scatto da lui.
 
Il freddo che si insinuò tra loro gli gelò il petto. Pensò che quello fosse ciò che lo aspettava d’ora in poi. Sospirò. Poi le mani di Mikasa gli incorniciarono le guance, costringendolo ad alzare il mento verso di lei. Serrò gli occhi, cercando di sfuggirle. Sentì i suoi pollici che gli asciugavano le lacrime.
 
«Va’ da Hanji e Connie. Non saresti mai dovuta restare qui» Le parole gli sembrarono fiele in bocca. Non aveva la forza di guardarla. La sentì tremare debolmente. Mettiti in salvo.
 
«Tutto questo è uno sbaglio. L’ho sempre saputo. Se non faccio quello che mi chiedono, sarò un traditore. Non ti trascinerò in questa storia. È meglio così»
Mikasa spinse la fronte contro la sua. Levi amava quando lo faceva: sentiva quel contatto, respirava il suo respiro, teneva gli occhi chiusi per percepirla con tutti gli altri sensi. Stavolta gli sembrò una tortura. Si chiese se sarebbe stata l’ultima volta in cui lei lo avrebbe stretto così.
 
Poi, lei lo baciò. Levi spalancò gli occhi, colto alla sprovvista. Mikasa aveva ricominciato a piangere. La vista delle sue lacrime fu come un pugno allo stomaco. Automaticamente le passò una mano tra i capelli. Lei tenne gli occhi chiusi e lo baciò di nuovo. Levi rimase immobile, interdetto. Il sapore delle sue labbra salate era inebriante, ma si impose di non ricambiarla.
 
«Levi…» sussurrò lei, passando a sua volta le mani nei suoi capelli, premendo il suo corpo contro di lui «Va bene. Andrò via, se è questo quello che vuoi»
 
Per un istante, credette che il suo cuore avesse smesso di battere. L’attimo dopo, un dolore sordo, oscuro, gli scese giù per la gola. Sentì di star tremando. Era quello che voleva. Era la cosa giusta. Eppure non si era mai sentito così disperato in tutta la sua vita. Si spinse contro di lei, incapace di parlare.
 
«Se i soldati torneranno, andrò via. Ma ti prego, non allontanarmi prima di allora. Ti prego, regalami altro tempo con te. Non sprecherò un solo istante. Mi basterà per il resto della mia vita, te lo prometto»
 
Lo baciò di nuovo. Le sue parole stavano facendo breccia nella sua volontà. Un dolore diverso, quasi dolce, rassegnato, gli stava annebbiando i pensieri. Socchiuse le labbra, catturò quelle di Mikasa tra le sue. Gli sembrò la cosa più giusta che avesse fatto in tutta quella giornata. Inspirò con forza, catturandole il viso tra le mani, ricambiando il bacio con tutto il trasporto che possedeva. La sentì singhiozzare.
 
«Te lo prometto Levi. Se Historia confermerà la missione, andrò via per sempre»
 
Gli sembrò una condanna definitiva. Sarebbe stato meglio se l’avessero ucciso quella mattina. Ma il pensiero di avere ancora del tempo per stringerla, per assaporarla, per inebriarsi di lei era sufficiente per convincerlo che non l’avrebbe mai allontanata prima del tempo. Se doveva essere un’egoista, lo sarebbe stato fino in fondo, fino alla dannazione.
 
«Mikasa…» sussurrò, mentre riprendeva fiato prima di baciarla di nuovo. Sentì le proprie mani che le scendevano sui fianchi, tirandola verso di sé. Lei si alzò e gli si sedette in grembo, circondandogli la vita con le sue lunghe gambe.
 
Le parole si erano trasformate in ansiti, mentre le loro bocche si cercavano disperatamente.
 
«D’accordo…» biascicò, mentre le baciava la gola, poi la clavicola sbucata dalla camicia da notte che aveva abbassato sulla sua spalla d’avorio «Stai con me…» sentì le sue unghie che gli graffiavano la schiena. Si morse un labbro, mentre un gemito gli sfuggiva dalle labbra «…finché non ci costringeranno a svegliarci»
 
«Finché tu vorrai» rispose lei, prima di baciarlo di nuovo, e questa volta senza lasciarlo più andare.



 
Spero davvero di non avervi delusi, so quanto sia difficile trattare il rapporto tra Levi ed Erwin che è uno dei più interessanti del manga.
Spero di aver fatto trasparire che ovviamente Levi non pensa tutto quello che ha detto, o almeno non pensa solo questo... quando qualcuno a cui teniamo scompare, a volte ci sentiamo traditi - delusi - anche se quella persona non ha nessuna colpa...e anche se razionalmente ne siamo ben coscienti. Ma certe volte tirare fuori questi pensieri è l'unico modo per imparare ad andare avanti. Mi auguro davvero che tutto questo traspaia!
Non temete, i nostri eroi torneranno a parlare di Erwin. 

Fatemi sapere come sempre cosa ne pensiate! ;) 

Chikay

 
 

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Capitolo 16
*** XVI ***


Ciao a tutti!
Scusate per la luuunga pausa, ma questo periodo è davvero pieno pieno e non ho mai tempo di mettermi a scrivere come vorrei. Sono stata incerta su questo capitolo molto a lungo, non ero mai convinta...ma alla fine ho deciso di pubblicarlo lo stesso, spero vi piaccia!
Almeno - per farmi perdonare il ritardo - è abbastanza lungo!
Se avessi dato nomi a ciascun capitolo, questo si sarebbbe intitolato "Prime volte" ;) 
Spero davvero di avere tempo di scrivere di più nei prossimi giorni, anche perché non mancano molti capitoli alla fine della storia (che ho ben stampata e chiara nella mia mente), quindi non vorrei allungarmi troppo...ma chissà se ci riuscirò! Incrociamo le dita...

Vorrei davvero ringraziare di cuore tutti coloro che si sono presi il tempo per lasciare uno o più commenti: mi avete fatta davvero felice :) 

Il capitolo salta un po' tra i punti di vista di Mikasa e Levi...spero non vi scombussoli troppo!
Detto questo, buona lettura: fatemi sapere cosa ne pensate!


 


XVI
 
 
Passarono altri giorni.
 
La mattina dopo, Levi aveva scritto ad Historia. Una volta imbucata la lettera, avevano smesso di parlare di quello che era successo. Di quello che si erano detti.
 
Arrivò marzo e la neve smise definitivamente di cadere. Arrivò il tiepido sole della primavera, le prime gemme sugli alberi, il canto dei fringuelli tra i loro rami.
 
La certezza della loro separazione li cambiò. Avevano smesso di parlare sia del futuro che del passato. Levi sentiva un peso che gli comprimeva il petto ogni volta che la guardava. Non riusciva più ad allontanarsi da lei. Rivedeva continuamente il suo viso bagnato dalle lacrime, la risentiva digli che sarebbe andata dovunque pur di stare con lui. Non capiva perché lei avesse ceduto così facilmente quella notte: credeva che avrebbe dovuto costringerla, respingerla con frasi velenose, ferirla fin oltre il limite del perdono per convincerla ad andare via. Forse aveva semplicemente capito quello che lui aveva sempre saputo nel profondo: che quella era solo una parentesi nella sua vita, che stare con lui era un enorme errore. Avrebbe voluto ringraziarla per averlo capito, per non averlo privato di quegli ultimi giorni insieme, invece rimaneva in silenzio, troppo spaventato di accorciare ancora quegli ultimi momenti.
 
Non frenava più il suo istinto di toccarla, come per assicurarsi che fosse ancora lì. Cercava di imprimersi nella mente tutte le immagini di lei che svolgeva i suoi compiti: lei che sorseggiava una tazza di tè, lei che ricamava un tovagliolo, lei che annodava distrattamente i capelli che ormai le erano cresciuti fin sotto le spalle, lei che alzava lo sguardo dai fogli che stava scrivendo per guardarlo negli occhi.
 
Pensava che quel dolore gli si addicesse. Era stato troppo felice nell’ultimo periodo, ma non sapeva che farsene di quella felicità. Non era in grado di gestirla, né di capirla. Questa scadenza che era caduta come un fulmine sulla loro vita era molto più comprensibile. Levi aveva sempre perso tutto nella vita: presto o tardi non si aspettava nient’altro che questo. Saperlo, rendeva il suo tocco più leggero, il suo sguardo più caldo, più dolce il modo in cui la baciava, più forte il modo in cui la stringeva.
 
Sapeva che Mikasa provava una sensazione simile. Lo capiva da come anche lei si soffermava a guardarlo di continuo, da come gli stringeva le braccia quando erano a letto, quasi per impedirgli di svanire, dal sorriso tenue che le attraversava il volto, un sorriso che nascondeva una comprensione così profonda che a volte Levi si sentiva trasparente.
 
Cercava di non pensare alla Città Sotterranea, ma era praticamente certo che Historia gli avrebbe confermato quanto contenuto su quelle lettere.
 
 
 


Anche Mikasa si sforzava di non pensarci, ma non poteva credere che Historia avrebbe acconsentito a spedirlo di nuovo là sotto.
Il solo pensarlo le scatenava una rabbia così forte che a volte se ne sentiva sopraffare. Pensare che la loro vita in quella baita aveva una data di scadenza che incombeva le faceva provare un senso di ingiustizia che le sembrava di non aver mai sperimentato prima. Avrebbe voluto battere i piedi per terra e gridare per sfogare quel senso di impotenza.
 
Non poteva neanche credere che Levi fosse così ingenuo da pensare che lei l’avrebbe lasciato andare. Anni prima, in una discussione come quella di quella notte, si sarebbe ribellata, avrebbe gridato, si sarebbe arrabbiata. Alla fine avrebbe solo ottenuto di permettere a Levi di respingerla, di ferirla così tanto che il suo orgoglio non avrebbe retto. Si sorprendeva a pensare a quanto fosse cambiata. Quella notte, dopo un attimo di sgomento, aveva capito che doveva assecondarlo per impedirgli di distruggere il tempo che potevano ancora condividere.
Se c’era una cosa che Mikasa aveva capito, in tutti quegli anni di guerra, era che la vita era breve ed effimera come un soffio di vento. Non sapeva perché, non capiva come fosse possibile, ma adesso stringeva tra le mani un tesoro troppo inestimabile per permettersi di sprecarlo.
 
I giorni in quella baita potevano finire da un momento all’altro, se Historia avesse confermato la missione, perché era sicura che Levi non avrebbe mai voltato le spalle alla loro regina. Mikasa si sarebbe dannata piuttosto che gettarli via.
 
A volte si sentiva vagamente offesa dal fatto che lui credeva davvero che lei l’avrebbe abbandonato. Come poteva essere così cieco? L’avrebbe seguito in capo al mondo ormai, fin nelle viscere della terra se ce ne fosse stato bisogno. E se lui si fosse opposto, avrebbe trovato il modo di convincerlo.
 
Ogni tanto si chiedeva come avesse fatto a non innamorarsi di lui anni prima. Come aveva potuto considerarlo insensibile e ostile? Adesso tutto ciò che vedeva era premura e fascino. Si soffermava ad osservare come i capelli gli ricadevano dolcemente sulla fronte quando si chinava per leggere, come le sue lunghe dita affusolate stringevano gli utensili da cucina, come espirava ad occhi chiusi quando si immergeva nella fonte calda, come le lanciava quel suo sorriso sghembo che gli incurvava un angolo della bocca quando lei lo raggiungeva, come dondolava il piede nervosamente quando toccava a lei pulire qualcosa, cercando di trattenersi dal criticarla.
 
Sperava di non scordare mai il profumo di cotone pulito che era così profondamente suo. Il sapore delle sue labbra, il lieve sentore di tè che le riempiva la bocca quando lui la baciava.
 
L’idea che la loro vita nella baita sarebbe finita le scavava nel petto una cavità sempre più profonda, che si riempiva di uno strano rimpianto languido. Voleva sfruttare ogni istante del tempo che restava loro in quel luogo incantato. Si convinceva che quella missione sarebbe stata davvero l’ultima per loro e che poi sarebbero potuti tornare lì, ma non sempre riusciva a scacciare i presentimenti nefasti che le si affollavano nella mente. Non avrebbe mai sopportato di perdere anche lui. Il solo pensiero di saperlo in pericolo, il solo immaginare che lui potesse essere ferito, o peggio… le mozzava il respiro in gola. Ma finché avrebbe avuto vita, avrebbe fatto tutto quanto in suo potere per impedirlo.
 
 

 
***
 



 
La mattina del decimo giorno, Mikasa si svegliò con i raggi di sole che irrompevano dalla finestra della camera da letto. La neve si era in gran parte sciolta nei campi davanti alla casa, resisteva solo nel bosco, dove l’ombra delle fronde riusciva ancora a preservarla. Il cinguettio di alcuni uccellini le rubò un sorriso disteso, mentre si stiracchiava. D’improvviso le balenò un’idea nella mente. Scattò fuori dal letto senza perdere tempo.
 
Levi era in cucina e stava versando il tè nelle loro due tazze. Mikasa lanciò uno sguardo distratto all’orologio e capì che era l’ora in cui di solito veniva a svegliarla. Le lanciò uno sguardo distratto mentre continuava a preparare la colazione.
 
«Buongiorno»
 
Mikasa gli si avvicinò, per strusciare la spalla contro il suo braccio sinistro.
 
«Mi è venuta un’idea» sentenziò senza rispondere al suo saluto.
 
Levi le lanciò un’occhiata impassibile prima di dirigersi con le due tazze verso il tavolo, dove aveva già disposto i piatti e le fette di pane.
 
«Devo preoccuparmi?» chiese infine, sedendosi al suo solito posto prima di soffiare sul contenuto della propria tazza.
 
Mikasa sorrise misteriosa: «Forse un po’…»
 
«Tsk»
 
La ragazza continuò, mentre afferrava una fetta di pane: «Hai visto che bella giornata? Perché non andiamo a fare una gita verso i laghi?»
 
Lui sollevò il sopracciglio sinistro e piegò leggermente la testa verso sinistra per guardarla meglio.
 
«E questa idea da dove sbuca? Fa ancora troppo freddo per stare tutto il giorno a cavallo»
 
«Oh dai, coprendoci a dovere non sarà un problema! È ancora presto, dovremmo farcela!» protestò lei, mentre spalmava della confettura sulla sua fetta.
 
«E poi siamo indietro con i registri…non abbiamo più molto tempo per finire» ribatté lui, bloccandosi di colpo quando si accorse dove il discorso li stava portando.
 
Mikasa abbassò lo sguardo.
 
«Proprio per questo voglio andarci» confessò «Non voglio dover lasciare questo posto senza essere andata fin laggiù…» aggiunse poi, a voce bassa.
 
Levi sospirò. Un silenzio teso si espanse tra loro. Il tacito accordo che aveva impedito loro di parlare di quello che sarebbe successo tra pochi giorni scricchiolava sotto le implicazioni di quelle poche frasi.
 
«Non la smetterai di tormentarmi se non ci andremo, dico bene?» chiese infine il capitano, mentre un’espressione rassegnata e vagamente divertita si faceva strada sul suo volto.
 
Mikasa sorrise apertamente «Decisamente no» esclamò, ficcandosi in bocca l’ultimo pezzo di pane.
 
«Mocciosa che non sei altro…» borbottò lui, cercando di nascondere il suo sorriso dietro la tazza di tè.
 
 
 

 
Poco dopo, erano entrambi a cavallo nella stessa direzione che Mikasa aveva percorso quando si era avventurata nel bosco con il meccanismo di movimento 3D di Levi.
La giornata era molto bella: i raggi di sole filtravano tra le fronde degli alberi, molti dei quali non avevano ancora tante foglie sui propri rami. Uccellini e altri animaletti riempivano l’aria con i loro versi, mentre qui e là già si potevano scorgere i primi bucaneve e crochi nel sottobosco ancora in parte innevato. Levi si portò le mani a coppetta davanti alla bocca e vi alitò per riscaldarsi le dita. Mikasa gli lanciò uno sguardo ironico:
 
«Soffri troppo il freddo, si vede che sei vecchio»
 
«Un giorno o l’altro mi offenderò»
 
«Nah…ti piaccio troppo per avercela con me!»
 
L’attimo dopo realizzò cosa aveva appena detto e quasi si morse la lingua. Levi arrossì appena, fissando lo sguardo sulle orecchie del proprio cavallo.
Dopo un altro lunghissimo secondo di silenzio imbarazzante, la guardò di nuovo, sorridendo beffardo:
 
«Un po’ di modestia non ti farebbe male…ultimamente stai diventando un po’ troppo supponente»
 
Mikasa si soffermò ad osservare la benda che gli copriva l’occhio destro. Spesso Levi la indossava quando si allontanavano da casa. La ragazza doveva ammettere che gli stava molto bene: gli dava un’aria poco raccomandabile che gli si confaceva.
 
«Devo aver preso esempio da te!»
 
 


Continuarono a battibeccare a lungo, mentre proseguirono sul sentiero. Superarono l’affumicatoio, dove Mikasa scorse Levi che la osservava con uno sguardo fin troppo esplicito perché lei riuscisse a non arrossire.
Proseguirono ancora, guadando con grande attenzione i due torrenti che si erano ingrossati a causa dello scioglimento della neve.
Quindi svoltarono verso sinistra, invece di continuare nella direzione che Mikasa aveva percorso da sola.
Dopo circa un’altra ora nel bosco, sbucarono su una strada in terra battuta abbastanza ampia da poter essere percorsa con dei carri. Mikasa se ne stupì: non aveva idea che ci fossero altri insediamenti da quelle parti.
 
Levi colse il suo sguardo ed accennò alla sua sinistra con la testa: «C’è un insediamento di pescatori da quella parte. Vieni, per di qua»
 
Si infilò in uno stretto sentiero al di là della strada. Se fosse stata da sola, Mikasa non l’avrebbe mai notato. Proseguirono nuovamente nella fitta boscaglia. Le sembrò di perdere il conto del tempo, ma questa volta non era preoccupata, perché Levi era con lei. Si accorse che la vegetazione stava leggermente cambiando: tra gli alberi c’erano molti più abeti e conifere.
Ad un tratto, le sembrò di scorgere uno strano luccichio tra i tronchi più distanti. Sentì il battito del cuore accelerarle nell’anticipazione. Spronò il cavallo per farsi più vicino a quello del capitano.
 
Sbucarono su un piccolo prato che digradava lentamente verso le acque più azzurre e limpide che Mikasa avesse mai visto. Davanti a loro si allargava un paesaggio mozzafiato: un grandissimo lago incastonato tra foreste di conifere e betulle con delle alte montagne ancora innevate sullo sfondo. Il lago era così ampio che aveva diverse insenature che restavano celate dietro le fronde degli alberi, mentre il sole di mezzogiorno faceva splendere le sue acque. La ragazza si accorse di avere la bocca aperta per la meraviglia.
 
 



Levi ne osservava l’espressione con un sorrisetto appena accennato sulle labbra. Vederle gli occhi che brillavano davanti a quello spettacolo gli strinse il cuore in una morsa: si accorse di provare nostalgia per qualcosa che stava ancora vivendo. Continuò a studiarle il viso, ormai completamente rapito, quasi indifferente allo spettacolo intorno a loro. È che tutto sembrava impallidire davanti a lei. La sua spontaneità, la sua grazia, le implicazioni contenute in quelle iridi misteriose: Levi voleva serbarne il ricordo per sempre.
La prima volta che aveva trovato quel punto panoramico era rimasto a bocca aperta esattamente come lei. Il colore dell’acqua aveva la stessa identica sfumatura degli occhi di Erwin.
 
Se fosse tornato nel sottosuolo, quella avrebbe potuto essere l’ultima occasione per vedere ancora quel colore. Sentì il petto contrarsi. Un’ondata di angoscia gli mozzò il fiato, come gli succedeva spesso negli ultimi giorni. L’azzurro del cielo e dell’acqua. Il verde dell’erba e delle foglie. Erano colori inimmaginabili per chi era cresciuto come lui. Per quanti anni fossero passati da quando si era unito al Corpo di Ricerca, Levi non riusciva ancora ad abituarsi alla loro meraviglia.
 
«È… è…» la voce di Mikasa che cercava inutilmente di trovare delle parole, lo distolse da quei pensieri.
 
Sorrise di nuovo.
«Lo so» le rispose.
 
 
Mikasa scese da cavallo e camminò fino a raggiungere la riva delle acque. Sentì il sole scaldarle il viso e sorrise estasiata. Quel luogo era un paradiso. Si accucciò ed immerse le dita nell’acqua gelida. Si voltò verso Levi, che era sceso a sua volta e stava legando le briglie dei cavalli ad un piccolo frassino.
 
«Ci facciamo un bagno?»
 
Levi si voltò verso di lei così velocemente che Mikasa per un istante non si accorse del suo movimento.
 
«Sei completamente pazza…» protestò lui scuotendo la testa.
 
Mikasa scoppiò a ridere. «Scusa capitano, a volte prenderti in giro è troppo divertente!»
 
«Tsk!»
 
 
Mikasa era cambiata da quando era andava a vivere con lui, Levi se accorgeva sempre più spesso. Ripensare a quella mocciosa scontrosa e ostile che aveva conosciuto tanti anni prima e paragonarla a questa ragazza sorridente, che amava prendersi gioco di lui, che a volte scoppiava a ridere apertamente, che si guardava intorno con quegli occhi spalancati e limpidi, sembrava quasi un errore. Aveva un sorriso speciale, che riservava ad occasioni come quelle: le illuminava tutto il volto, facendole brillare lo sguardo. A volte Levi avrebbe voluto saper dipingere, o avere una macchina fotografica, per immortalarla in quei momenti. Per avere una prova tangibile di quello splendore.
 
Da ragazzino, credeva che non avrebbe mai scordato il viso di sua madre, invece ormai tutto ciò riusciva a ricordarne era una pallida imitazione. Sperò con tutto il cuore di riuscire a ricordare il sorriso di Mikasa per sempre, finché fosse stato in vita.
 
«Vuoi mangiare? Si è fatto tardi…te l’ho detto che era lontano» le chiese, ancora vicino ai cavalli.
 
Lei annuì, tendendo il braccio e la mano sinistra verso di lui, per richiamarlo vicino a sé.
 
Levi tirò fuori le proviste da una delle bisacce e le si accostò. Lei nel frattempo si era seduta sul prato asciutto, riscaldato da quel sole stranamente caldo. Il capitano le si sedette accanto, tirando fuori il pane dallo strofinaccio che lo proteggeva.
 
 
Presero a mangiare in silenzio, lasciando che i loro occhi si riempissero di quello spettacolo. Il calore del corpo di Mikasa, pressato contro il suo braccio e la gamba sinistri si irradiava nonostante tutti gli strati di vestiti che indossavano. D’improvviso, una realizzazione gli balzò alla mente, facendogli corrugare la fronte.
 
«Cosa c’è?» chiese Mikasa.
 
«È la prima volta che faccio una gita con qualcuno» confessò, leggermente incerto.
 
Mikasa ingoiò il boccone con enfasi prima di spalancare gli occhi ed esclamare: «Intendi…in tutta la tua vita
 
Levi si limitò a stringersi nelle spalle, adesso leggermente imbarazzato. Era una cosa così normale andare in gita, per gli altri? Si sentì insicuro. Non voleva ribattere con qualche frase sulla Città Sotterranea e la sua assenza di normalità, perché non voleva che lei lo pensasse di nuovo lì sotto.
 
«I miei mi portavano spesso in posti come questo…» riprese invece lei, senza indagare oltre. A quelle parole, Levi si incupì: credeva di averla portata in un posto speciale, invece veniva a scoprire che per lei non era niente di nuovo. Tirò un ciottolo in acqua, mettendoci un po’ troppa forza.
 
«…ma un lago così grande non l’avevo mai visto» concluse lei, appoggiandoglisi ancora di più addosso. Levi si sentì uno stupido quando si accorse di star sorridendo di nuovo.
 
«Sì, neanche io. Oceano escluso, intendo» biascicò in risposta, prima di dare un altro morso al proprio pranzo.
 
 

Finito di mangiare, Mikasa si avventurò sulle sponde, mentre Levi rimase sul prato a guardarla, continuando di tanto in tanto a lanciare qualche pietruzza nell’acqua, per osservare i cerchi concentrici che si formavano sulla sua superficie.
 
Mikasa scomparve. Tornò qualche minuto dopo, con le mani che stringevano un grosso mazzetto di fiori. Levi riconobbe alcuni bucaneve e primule, ma non seppe identificare tutti gli altri. Non appena vide che lanciava sassi nell’acqua, poggiò i fiori accanto a lui e raccolse anche lei un ciottolo.
 
Lo lanciò di piatto, con un secco movimento del polso. Il sasso rimbalzò tre volte sulla superficie dell’acqua prima di affondare. Levi non riuscì a celare l’espressione stupita che si affacciò d’improvviso sul suo volto. Mikasa ridacchiò.
 
«Come hai fatto?» mormorò lui interdetto. Lei sorrise ancora di più.
 
«È un gioco. Eren, io e tutti i bambini lo facevamo sempre da piccoli» trattenne appena il fiato, come tutte le volte che lo nominava, poi ritrovò il suo contegno e continuò: «Alzati, ti insegno»
 
Scelse per lui un sasso piatto e levigato e glielo porse. Gli fece rivedere il movimento corretto, piegandosi sul ginocchio destro. Il suo sasso questa volta fece solo due rimbalzi. Mikasa si strinse nelle spalle, facendogli poi cenno di provare. Levi provò a impugnare il sasso con la mano destra, ma senza indice e medio era praticamente impossibile tenerlo come faceva lei. Con uno sbuffo lo passò nell’altra mano. Erano passati oltre due anni, ma ancora non si era abituato a quel cambio forzato.
 
Provò a imitare il movimento di Mikasa e lanciò il sasso con tutta la sua forza. Quello rimbalzò una…due…tre…quattro…cinque volte prima di affondare. Levi si voltò versò di lei con l’espressione più luminosa che Mikasa gli avesse mai visto. Sembrava un ragazzino che esultava per aver vinto a un gioco.
 
Mikasa gli gettò le braccia al collo, esultando con lui.
 
 
 


Qualcosa di piccolo e freddo cadde sulla guancia di Levi. Un attimo dopo, un’altra goccia d’acqua gli rotolò sulla palpebra sinistra. Poi sulle labbra.
Levi spalancò gli occhi l’istante prima che le gocce di pioggia sporadiche si trasformassero in un temporale scrosciante. Balzò in piedi assieme a Mikasa, che si era risvegliata esattamente come lui.
Si erano addormentati sul prato dopo una sfida all’ultimo sangue di rimbalzo di sassi sull’acqua. Levi non aveva idea di quanto tempo fosse passato, ma il cielo azzurro ed il sole che li avevano illuminati per tutta la giornata erano scomparsi dietro delle nuvole così nere che sembrava già essersi fatta notte.
 
Corsero indietro, cercando di ripararsi dalla pioggia sotto le fronde degli alberi. Il tiepido calore di marzo era stato sostituito da un vento pungente di tramontana, che fece rabbrividire il capitano già zuppo fin dentro le ossa.
 
«Cavolo!» esclamò Mikasa, lanciandogli uno sguardo furtivo. Tornare a casa sotto quella pioggia era impensabile. Levi lanciò uno sguardo verso le nuvole, chiedendosi quanto sarebbe potuto durare quel temporale.
 
«Forse se restiamo sotto gli alberi…» propose lei titubante.
 
Levi sbuffò appena, prima di prenderla per mano. La trascinò vicino ai cavalli. Le lanciò uno sguardo. I suoi capelli erano già grondanti d’acqua. Prima di montare in sella, le sistemò il cappuccio del mantello sulla testa.
 
«Seguimi. So io dove ripararci»
 
Mikasa annuì lievemente, sfiorandosi il cappuccio con la punta delle dita, mentre un sorriso le si accennava sul volto.
 
 
 

Levi la guidò di nuovo per il sentiero dal quale erano sbucati. La pioggia non accennava a diminuire, anzi il buio sembrava aumentare ed i lampi dei fulmini seguiti dal rimbombare dei tuoni diventavano sempre più frequenti.
Levi aveva lo sguardo duro e teso fisso sulla strada davanti a sé, mentre Mikasa – nonostante il freddo pungente – stranamente trovava la situazione quasi divertente. Era quasi come un’avventura. Un’avventura senza pericoli, perché quei rombi e quei lampi di luce non erano segno della trasformazione di qualcuno in gigante, erano semplicemente sintomi di un temporale primaverile. Era anche curiosa di sapere dove lui la stesse conducendo. Che avesse costruito un altro rifugio di fortuna da qualche parte lì intorno? Mikasa si sentì quasi elettrizzata nel pensare a cosa sarebbe successo in un altro piccolo affumicatoio tra i boschi.
 
Sbucarono di nuovo sulla strada in terra battuta. Questa volta, anziché attraversarla e proseguire nel bosco, Levi svoltò a destra, in direzione del villaggio di pescatori di cui le aveva parlato quella mattina. Lanciarono i cavalli al galoppo, sempre più zuppi, finché dopo poco sbucarono su una lunga spiaggia con un molo di legno e diverse barche tirate a secco. Dall’altro lato della strada, c’erano una decina di case di pietra grigia, con tetti in ardesia, alcune delle quali provviste di capanni nei quali Mikasa scorse reti, altre barche e altro materiale per la pesca. Per strada non c’era nessuno, ma molte delle finestre che affacciavano sulla strada erano illuminate. Levi sfrecciò senza indugio verso una delle ultime case: una costruzione a due piani con un capanno e un piccolo giardino. Mikasa notò subito il denso fumo uscire dal comignolo sul tetto, immaginando subito un caldo ed accogliente caminetto acceso.
Levi fermò il cavallo all’altezza del capanno e ce lo spinse dentro, facendo cadere una pila di secchi di latta che fecero un gran baccano, facendolo imprecare tra i denti. Anche stavolta Mikasa lo imitò, sistemando Sid alla sinistra di una piccola barchetta a remi ancora in costruzione che occupava gran parte del capanno.
 
Smontati da cavallo, la ragazza si avvicinò al capitano:
 
«Levi dove siamo?»
 
«Stai tranquilla, conosco queste persone. Chiederò loro di ospitarci finché non smetta di diluviare»
 
Senza ulteriori spiegazioni, lui prese fiato ed uscì di nuovo sotto la pioggia scrosciante, ma Mikasa gli bloccò il polso, tirandolo di nuovo a sé. Guardare il suo profilo affilato contornato dalle ciocche di capelli gocciolanti era troppo per resistere ai suoi impulsi. Prima che Levi potesse chiederle cosa volesse, lo strinse a sé, baciandolo con forza sulle labbra. Levi si staccò lentamente, con un’espressione vagamente apprensiva dipinta sul viso.
 
«Che fai? Ci vedranno dalla casa…» protestò, senza troppa convinzione.
 
Mikasa continuava a guardarlo, completamente rapita. Le labbra leggermente dischiuse, la benda scura che gli copriva parte delle cicatrici, i capelli corvini grondanti: non le era mai sembrato tanto bello.
 
«Non mi importa» sussurrò, premendo il suo corpo contro di lui, prima di iniziare a baciargli il collo. Nonostante la sua riluttanza, Levi li lasciò sfuggire un gemito leggero, che infiammò ancora di più la sua fantasia.
 
«Vieni con me nel capanno…» sussurrò lei mentre infilava le mani tra i suoi capelli.
 
«Mikasa…»
 
«Ti prometto che non te ne pentirai»
 
Si guardarono negli occhi. Mikasa scorse il fuoco ormai divampante nello sguardo di lui, che aveva serrato la mascella e ora le stringeva i fianchi con fin troppa forza. L’istante dopo la sollevò, spingendola contro il muro del capanno, mentre le loro labbra si scontravano. Con la stessa grazia di sempre, Levi la tenne stretta a sé, mentre entrava al riparo. Mikasa si sentiva ardere, non poteva aspettare un momento di più. Si strinse ancora di più a lui, con un’urgenza che soprese anche se stessa.
 
Levi rise appena, senza staccare le sue labbra da quelle di lei. «Tranquilla, non scappo»
 
Fecero l’amore di fretta, contro il muro, spogliandosi appena quel tanto sufficiente, senza mai staccarsi l’uno dall’altra, con un desiderio e un’irruenza che li travolsero come un’onda.
 
Si ritrovarono seduti per terra e ansimanti, ricoperti di polvere, con le schiene appoggiate alla parete del capanno. Mikasa trasse un respiro profondo, appoggiando la testa alla spalla di Levi. Lui sollevò la mano destra per accarezzarle una guancia, mentre cercava ancora di rallentare il ritmo forsennato del suo cuore. Il solo pensiero che a breve tutto questo sarebbe finito, le mozzò il respiro nella gola.  La sola idea di stare lontana da lui era inconcepibile.
 
«Ehi, va tutto bene?» Il ritmo del suo respiro doveva averla tradita.
 
«S-sì…» rispose titubante.
 
L’attimo dopo, Levi le prese il viso tra le mani ed appoggiò la fronte contro la sua. I loro respiri ancora affannati si mescolarono. Mikasa chiuse gli occhi, cercando di imprimere quella sensazione nella sua memoria.
 
«Ti amo» mormorò lui, con le labbra che potevano quasi sfiorare quelle di lei.
 
Mikasa spalancò gli occhi, mentre sentiva il cuore cambiare il suo ritmo. «Cosa?» le sfuggì dalle labbra, il tono allo stesso tempo sorpreso e commosso.
 
Levi non aprì gli occhi e non le diede modo di allontanarsi.
 
«Lo sai che è così» sussurrò poi.
 
Mikasa si sentiva la testa leggera. Sollevò le mani per poggiarle su quelle di lui, che le circondavano ancora le guance. «Levi…» mormorò, incapace di dire altro. Sentiva i battiti del proprio cuore rimbombarle nel petto, provava una felicità così profonda che le sembrava di non poter riprendere fiato.
 
Si sporse in avanti, eliminando quel minuscolo spazio che separava le loro labbra. Lo baciò delicatamente, dolcemente, mentre percepiva ancora la presa di lui sul suo viso, le gocce di pioggia che scivolavano dai loro capelli, il respiro affrettato di lui. Avrebbe voluto che quel momento durasse in eterno.
 
Levi fu il primo a staccarsi. Le lasciò andare il viso ed abbassò lo sguardo, abbozzando un sorriso quasi impercettibile prima di tirarsi in piedi.
 
«Vieni andiamo, prima che ci prendiamo qualche malanno»
 

Corsero sotto la pioggia, mano nella mano, fino a raggiungere la porta della casa. Il capitano suonò il campanello un paio di volte, rabbrividendo mentre delle folate di vento gelido li avvolgevano.
 
La porta si spalancò qualche secondo più tardi, rivelando la figura di una donna sulla quarantina, con lunghi capelli castani ricci e dei vistosi orecchini pendenti colorati. Levi lanciò il proprio cappuccio all’indietro, rivelando meglio il suo volto. L’espressione della donna – prima interrogativa – si aprì in un sorriso rilassato.
 
«Capitano! Quanto tempo! Che ci fate qui? Prego, entrate, non restate sotto la pioggia!» la donna si scostò per farli passare, poi si voltò verso il corridoio alle sue spalle e gridò:
 
«Abel! Non indovinerai mai chi è appena arrivato!»
 
Levi e Mikasa entrarono in casa, inondando lo zerbino di acqua e fango.
 
«Mi dispiace disturbarvi. Il temporale ci ha colti di sorpresa, devo chiedervi ospitalità» spiegò il capitano, restando in piedi accanto all’uscio, visibilmente contrariato per il sudiciume che stava portando in casa.
 
La donna scosse il capo con enfasi: «Nessun disturbo, nessun disturbo. Lo sapete che siete sempre il benvenuto in casa nostra» poi, voltandosi nuovamente verso il corridoio gridò ancora: «Ragazzi! È arrivato il Capitano Levi!»
 
Mikasa si tolse il cappuccio e cercò di guardarsi attorno. Si trovavano in uno stretto corridoio, illuminato da una lanterna ad olio che irradiava la sua luce gialla e calda sulle pareti di legno della casa. Scorse una porta in fondo al corridoio ed una sulla sinistra, la seconda delle quali era aperta. Sentì qualcosa muoversi rumorosamente al piano di sopra, ed uno strano grattare che proveniva dalla stanza aperta.
 
«Grazie Debra. Lei è Mikasa, Mikasa Ackermann» rispose Levi, facendole riportare l’attenzione sulla donna. Mikasa si tolse a sua volta il cappuccio ed allungò la mano verso di lei.
 
«Piacere»
 
Il voltò accogliente di Debra si aprì in un caldo sorriso. Mikasa notò che aveva i due incisivi leggermente accavallati, ma il difetto le donava uno strano tocco di fascino. La ragazza si chiese chi fossero quelle persone.
 
«Mikasa Ackermann è un onore avervi a casa nostra, siete la benvenuta. Prego, prego, lasciate i mantelli e le giacche sull’appendiabiti. Vi darò dei vestiti asciutti, se non vi dispiace.»
 
Prima ancora che potesse avventurarsi alla ricerca di abiti asciutti, dalla porta sulla sinistra sbucò un’altra persona. Era un uomo, di circa cinquant’anni, con i capelli ancora biondastri e una barba corta e folta. Ma ciò che attirò l’attenzione di Mikasa fu un altro particolare: l’uomo non aveva le gambe.
 
Erano tagliate entrambe all’altezza delle ginocchia. Al ginocchio sinistro era attaccata una gamba di legno con un puntale di ferro, mentre la destra era lasciata così com’era. Per stare in piedi, l’uomo aveva una gruccia di legno sotto l’ascella, che teneva saldamente con la mano destra.
 
«Che mi venga un colpo Levi! Da quanto tempo era che non passavi? Saranno almeno sei mesi!» esclamò l’uomo, avanzando lentamente verso di loro.
 
«Abel, non dovevi scomodarti» protestò Levi, avanzando nel corridoio per andargli incontro.
 
«Sciocchezze! Un uomo non può neanche andare ad accogliere i propri ospiti?» rispose Abel. L’istante dopo intercettò lo sguardo interrogativo di Mikasa che – colta in flagrante – abbassò gli occhi arrossendo, prendendo a districarsi disordinatamente dal giaccone zuppo.
 
«Abel, lei è Mikasa»
 
«Splendido, splendido. Benvenuti. Venite a riscaldarvi accanto al fuoco, sarete congelati!»
L’uomo rientrò nella stanza da cui era venuto. Debra e Levi provarono a seguirlo, ma la porta in fondo al corridoio si spalancò di botto, rivelando una rampa di scale che saliva verso il piano di sopra. Tre ragazzini si spinsero l’un l’altro nel corridoio, ormai decisamente troppo affollato. Mikasa riuscì a stento a trattenere una risatina: ma quante persone c’erano in quella casa?
 
«Capitano!» i tre ragazzi gridarono all’unisono. Il più piccolo, che doveva avere circa otto anni, scattò in avanti e si avvinghiò alle gambe di Levi, rischiando di fargli perdere l’equilibrio.
 
«Danny fai attenzione!» lo riprese Debra, poi si rivolse agli altri due figli, che dovevano avere circa quindici e dodici anni: «Joshua, Thomas, tornate di sopra e prendete degli abiti asciutti per i nostri ospiti. Di corsa!»
 
I due sparirono di nuovo su per le scale. Il piccolo Danny invece non aveva nessuna intenzione di mollare il capitano, che cercò a fatica di seguire Abel nella stanza.
 
Qualcosa di strano si attorcigliò nello stomaco della ragazza, nel vedere Levi che accarezzava la testa del ragazzino.
 
Finalmente, riuscirono a entrare nella stanza accanto che si rivelò essere un salotto accogliente, ricolmo di mobili e suppellettili. Vi era un camino con un paio di divani grossi e comodi, un massiccio tavolo da pranzo con le sue panche e sul fondo una cucina stracolma di utensili e stoviglie.
 
«Prego, prego accomodatevi!» esclamò Debra, mentre si dirigeva verso la cucina «Metto a fare il tè!»
Senza fermarsi un attimo, si affaccendò intorno ai fornelli e tirò fuori dalla credenza una grossa crostata a cui mancavano già alcune fette.
 
Mikasa si sentiva vagamente frastornata, le sembrava di venir sballottata in giro senza capire molto di dove si trovasse e di chi fossero quelle persone così accoglienti e soprattutto così in confidenza con Levi.
 
Seguì il capitano ed Abel che si avvicinarono al camino. L’uomo si sedette pesantemente su una poltrona con un sospiro, mentre Levi rimase in piedi, rabbrividendo vistosamente mentre il calore delle fiamme iniziava a riscaldarlo. Il piccolo Danny gli rimaneva avvinghiato alle ginocchia. Mikasa sorrise appena.
 
«Danny, lascia stare Levi. Vieni a sederti qui dal tuo vecchio» ordinò Abel al bambino, che eseguì le sue istruzioni con riluttanza.
 
«Allora» riprese il padrone di casa «qual buon vento vi porta?»
 
Prima che Levi potesse proferire parola, come due fulmini i ragazzi più grandi si fiondarono nella stanza, ciascuno stringendo una pila di vestiti asciutti. Joshua – il maggiore – si avvicinò a Levi, mentre l’altro – di cui Mikasa non aveva memorizzato il nome – le si accostò arrossendo vistosamente, prima di porgerle quanto aveva portato. «P-per lei miss…» borbottò ad occhi bassi. Mikasa sentì Abel ridacchiare.
 
«Grazie» rispose lei, cercando di suonare il più cordiale possibile. Venne riscossa dalla voce di Debra che indicò una porta accanto alla cucina: «La dispensa. Potete usarla per cambiarvi. Tornate qui e vi servirò il tè»
 


 
Fecero come era stato loro indicato e in un attimo si ritrovarono in uno sgabuzzino stracolmo di scaffali e vivande varie. Levi rabbrividì ancora, mentre iniziava a togliersi di dosso i vestiti bagnati. Mikasa lo copiò meccanicamente, facendosi scivolare addosso una camicia ed una lunga gonna bordeaux. Era un po’ troppo grande per la sua misura, ma la arrotolò un paio di volte in vita per evitare che le cadesse.
 
«Levi» sussurrò poi, mentre lo guardava infilarsi in dei pantaloni di fustagno un po’ troppo grandi ed in un maglione color crema infeltrito. Si distrasse un attimo quando scorse gli addominali definiti che scomparivano sotto gli strati di stoffa. Erano strani quegli abiti addosso a lui, ma come al solito era perfetto con tutto. «Chi sono queste persone?»
 
Levi sogghignò appena, sollevando un angolo della bocca. «Temo che ti toccherà essere socievole per una volta»
 
Mikasa sbuffò: «Senti chi parla…»
 
Levi riprese: «Conosco Abel da una vita. Da dopo Shiganshina si sono trasferiti qui. È stata una delle prime comunità fuori dalle mura. Sono pescatori»
 
«Sì, questo l’avevo capito…» borbottò la ragazza in risposta, cercando di fare chiarezza in quelle poche informazioni che il capitano le aveva appena dato.  
 
Levi si strinse nelle spalle: «Ogni tanto vengo a trovarli. Dai, fatti coraggio e torniamo di là» la canzonò di nuovo.
 
 
 

Al tè e crostata seguirono una quantità spropositata di spuntini che condussero tutti verso una cena a dir poco sontuosa. Mikasa e Levi non mangiavano così tanto da…beh, forse da mai. Debra aveva cucinato diversi sformati, un pasticcio di pesce, delle alghe fritte francamente deliziose ed un dessert cremoso alla panna, il tutto senza neanche sapere in anticipo che avrebbe avuto degli ospiti per cena. Visto che la pioggia non accennava minimamente a diminuire, i due proprietari di casa avevano decretato praticamente da subito che Levi e Mikasa avrebbero passato la notte nella stanza degli ospiti, con grande eccitazione dei loro figli.
La serata era animata da una conversazione fittissima. La famiglia di pescatori e Levi non avevano praticamente mai smesso di parlare di avvenimenti e persone di cui Mikasa non sapeva assolutamente nulla. Si limitava a stare seduta accanto al Capitano, strizzati su una delle due panche insieme al secondogenito – Thomas – mentre ascoltava il suo delle voci, il suo della sua voce. Era così strano sentirlo parlare così liberamente, vederlo sorridere insieme ad altre persone, mentre le sue guance prendevano colore, un po’ per il caldo quasi opprimente nella stanza, un po’ per l’alcool che Debra continuava a versargli nel bicchiere senza ascoltare proteste. Era la prima volta che lo vedeva così. Si chiese chi fosse davvero Abel. C’erano così tante cose che non conosceva del passato di Levi che a volte si sentiva insignificante. Lui praticamente sapeva tutto della sua vita, la conosceva da quando era una ragazzina ed aveva conosciuto quasi tutte le persone importanti della sua vita. Si rese conto per l’ennesima volta di non sapere quasi nulla di lui. Attorno a lei gli altri continuavano a chiacchierare e a ridere, ma Mikasa si sentì d’improvviso completamente sola. Cosa ci faceva in quella casa? Chi erano quelle persone? Che senso aveva che lei fosse lì?
Abbassò lo sguardo sulle proprie mani, ora giunte in grembo, che giochicchiavano con il lembo della sua camicia. Si sentiva fuori luogo. Non aveva praticamente aperto bocca per quasi tutta la sera, limitandosi a sorridere mestamente alla conversazione altrui e a rispondere quando veniva interpellata direttamente. Era di troppo, come sempre.
 
Quasi sussultò, quando la mano destra di Levi si poggiò sulle sue, stringendole appena. Non aveva distolto lo sguardo dagli ospiti, stava continuando a parlare di una qualche esplorazione che aveva compiuto mesi prima, eppure Mikasa seppe all’istante che aveva percepito che qualcosa non andasse in lei. Le strinse la mano sinistra con maggior decisione e lei sentì il cuore che aumentava il suo battito.
Senza bisogno di parlarle le stava dicendo tutto quello che contava: che lui la voleva lì, che lei era importante, che sapeva quanto fosse a disagio, ma che non era sola, perché c’era lui lì con lei. Sospirò appena, alzando lo sguardo verso di lui. Levi le lanciò uno sguardo di sbieco, abbozzando un sorriso che la rassicurò ancora di più, prima che una domanda del piccolo Danny gli facesse voltare il capo. Ma non lasciò andare la sua mano.
 
Mikasa ripensò a quello che era successo nel capanno, qualche ora prima. A quello che lui le aveva detto con un filo di voce. A quelle parole che l’avevano lasciata senza fiato, così incredula e felice che non era riuscita neanche a rispondere. Sapeva che lui provava per lei forse lo stesso trasporto che lei provava per lui, ma sentirselo dire chiaro e tondo era un’altra cosa.
 
La voce di Abel la riscosse dalle sue riflessioni: «Allora, Mikasa…eri nel Corpo di Ricerca. Conoscevi anche tu mio cugino Farlan?»
 
Lo sguardo della ragazza scattò in alto, verso il padrone di casa, mentre un’espressione incredula le si dipingeva sul volto, facendole spalancare gli occhi. Sentì la presa di Levi sulla sua mano farsi d’improvviso quasi troppo ferrea.
 
Prima che avesse modo di rispondere, il capitano si intromise, con un tono secco: «No, è troppo giovane. Non era ancora nell’esercito»
 
Mikasa si schiarì la voce: «Purtroppo non ne ho avuto il piacere» mormorò l’istante dopo. Levi lasciò andare la sua mano.
 
«Levi ti ha mai raccontato di come lui e mio cugino mi abbiano salvato la vita pagandomi il passaggio per la superficie?» proseguì Abel, evidentemente indifferente alla strana sensazione di disagio che si era appena propagata tra gli altri commensali.
 
«Abel» intimò il capitano, con un tono imperatorio che non ammetteva repliche. Mikasa gli lanciò uno sguardo preoccupato, mentre vedeva la sua fronte aggrottarsi.
 
«Che c’è» protestò Abel, mollando una manata sulla spalla sinistra di Levi così forte che avrebbe fatto cadere chiunque altro giù dalla panca «Ancora restio a farti riconoscere i tuoi meriti. Cazzo, Levi, se non fosse per te intorno a questa tavola non ci sarebbe seduto nessuno!» esclamò bonario, buttando giù un altro sorso enorme di birra.
 
Levi abbassò lo sguardo. A Mikasa non sfuggì lo stringersi della sua mascella. Raramente le era sembrato così a disagio.
 
Si scambiò uno sguardo preoccupato con Debra e Joshua – palesemente imbarazzato dalla mancanza di tatto del padre – e prima che questi potesse riaprire bocca, Mikasa lo precedette:
 
«Debra, potrei avere un altro po’ di dolce? Era squisito!» esclamò con fin troppo entusiasmo «Potresti spiegarmi la ricetta?»
 
La donna colse al volo l’occasione e si lanciò in una lunga e complessa digressione culinaria che distrasse anche il marito.
 
Mikasa faceva finta di ascoltare, ma teneva d’occhio Levi, che sospirò lentamente, prima di alzare lo sguardo verso di lei. La ragazza lesse nei suoi occhi un tacito ringraziamento, che le colorò appena le guance.
 
 
 
 

La serata proseguì senza altri intoppi e finalmente giunse l’ora di andare a letto. I ragazzi salirono al piano di sopra dopo qualche lamentela poco convinta –  visto che stavano morendo di sonno – e Levi si alzò per seguirli, immediatamente copiato da Mikasa.
 
«Conosci la strada!» li salutò Debra, alludendo alla camera degli ospiti, prima di alzarsi a sua volta ed andare ad aiutare il marito, che oltre a non avere le gambe ormai sembrava piuttosto sbronzo.
 
Levi le sorrise prima di uscire dal salotto, con Mikasa al suo fianco che lo osservava in silenzio. Sospirò. Era stanco, anzi esausto. Niente di quella giornata era andato nel verso giusto, non vedeva l’ora di gettarsela alle spalle, sempre se fosse riuscito a chiudere occhio. Non avrebbe dovuto acconsentire alla gita fino al lago, tanto per cominciare. Sapeva che era troppo lontano per andare e tornare in giornata, soprattutto col meteo instabile di marzo. Non avrebbe dovuto chiedere ospitalità ad Abel e Debra, il modo in cui lo guardavano gli faceva stringere le viscere fino a provocargli la nausea. A volte si sentiva in colpa ad evitarli, era affezionato ai ragazzini e poi gli sembrava irrispettoso nei confronti di Farlan, ma era più forte di lui. E poi l’errore più grave di tutti: aver detto quelle parole a Mikasa nel capanno.
 
Si morse il labbro inferiore mentre saliva per le scale e camminava verso la stanza più in fondo al corridoio. La camera che gli si aprì davanti era semplice e pulita: vi era un letto matrimoniale con una trapunta azzurra, una stufa di porcellana accesa nell’angolo, un paio di sedie e un piccolo guardaroba. La finestra dava sul retro della casa, verso gli alberi che circondavano l’insediamento. Fuori continuava a piovere imperterritamente. Si stupì vagamente del fatto che Debra non gli avesse neanche chiesto se andasse bene per loro condividere la stanza. Erano diventati così palesi?
 
Si lasciò cadere pesantemente con la schiena sul letto, espirando rumorosamente con lo sguardo fisso sul soffitto, il più lontano possibile da Mikasa, che chiuse la porta alle sue spalle.
 
«Che è successo ad Abel»
 
La sua voce richiamò la sua attenzione. Era una domanda, ma dal tono sembrava più un ordine a parlarle. Si complimentò interiormente con lei per aver preso il discorso del loro passato così alla lontana, ma ovviamente non le disse nulla in merito.
 
Si sistemò le mani dietro la testa, sospirando di nuovo. Chiuse gli occhi solo per un istante. Pessima idea. Una serie di immagini poco piacevoli gli vorticò nella testa immediatamente. Riaprì gli occhi di scatto, poi con un gesto stizzito si sfilò la benda dal viso, lasciando respirare le sue cicatrici. Mikasa come al solito non gli mise fretta: rimase a braccia conserte appoggiata allo stipite della porta.
 
«Lo chiamavano il Morbo del buio» disse alla fine, sentendo la sua voce più roca di quello che avrebbe voluto. Mikasa rimase in silenzio, aspettando che approfondisse. Era quasi snervante quanto fosse diventata abile nel leggerlo.
 
«Ne soffrivano in tanti, credo dipendesse dalla mancanza di sole. L’unico modo per salvarti, se ti prendeva, era salire in superficie. Iniziava dalle gambe, poi proseguiva a tutto il resto del corpo. Alla fine morivi coi polmoni incancreniti e senza più nessun arto.»
 
Mikasa annuì e prese a togliersi gli stivali con noncuranza. Levi sbuffò: quell’indifferenza era tutta una tattica e lui lo sapeva bene, non le avrebbe dato la soddisfazione di guidare ancora questo tira e molla.
 
Riprese: «Quando Abel salì in superficie era troppo tardi per le sue gambe, ma almeno è sopravvissuto»
 
Mikasa lasciò andare un sospiro soddisfatto quando i suoi piedi furono finalmente liberi, poi andò ad appoggiarsi con i gomiti sull’alta spalliera di legno in fondo al letto, puntando il suo sguardo su di lui, che continuava a fissare il soffitto.
 
«Tua madre è morta così?»
 
Questa non se la aspettava. Si voltò di scatto verso di lei, senza riuscire minimamente a nascondere la sorpresa che gli accese il volto. Lo stupì anche il tono di lei: così tranquillo, come se gli avesse chiesto una cosa qualunque. Come se la morte di sua madre fosse un argomento che avesse mai trattato con anima viva prima d’ora.
Si voltò di nuovo, con gli occhi nuovamente verso il soffitto, mentre gli sembrava di sentire il suo respiro accelerare un po’ troppo.
 
«No»
 
Mikasa non insistette. Non gli chiese nient’altro, rimase semplicemente appoggiata al letto, pensando a chissà cosa. Levi gliene fu vagamente grato, come diavolo erano finiti a parlare di sua madre, poi?
Il fatto che lei però non si spostasse da lì lo mise leggermente in allarme: l’interrogatorio non era ancora finito. Si passò faticosamente la mano destra sugli occhi. Voleva solo che quella dannata giornata finisse.  Allo stesso tempo si sentiva in collera con se stesso perché chissà quanto tempo gli era ormai rimasto da trascorrere con lei: giorni? Una settimana, un mese? E non riusciva a mettere da parte il suo cazzo di carattere neanche per cinque minuti.
 
«Scusa» mormorò «Sono solo stanco»
 
 


Si misero a letto senza altre parole.
 
La stanza era buia, illuminata vagamente solo da qualche stella temeraria che stava facendo capolino tra le nuvole sfilacciate.  Il calore della pesante trapunta e la morbidezza del materasso e dei cuscini fecero sospirare Mikasa di piacere, mentre si accoccolava meglio. Levi rimase steso a pancia in su, con gli occhi aperti e la mente che vagava senza sosta. Quella immobilità lo innervosiva, avrebbe preferito alzarsi ed uscire di casa, ma si sentiva davvero troppo stanco per farlo davvero. Si chiese per l’ennesima volta cosa sarebbe successo una volta che Historia avrebbe confermato la sua missione. Il pensiero di tornare lì sotto forse per mesi lo fece rabbrividire. Non era più quello di una volta: era mezzo cieco, col ginocchio fottuto e la mano destra che non poteva più usare i pugnali come prima, era certo che non sarebbe mai più tornato in superficie una volta scesa quella scala di pietra. L’idea di non poter rivedere mai più il cielo lo lasciò come sempre senza fiato. Si costrinse a trarre un profondo respiro, ma gli sembrò tremolante e incerto.
 
«Levi…»
 
La voce di Mikasa lo fece sussultare, era certo che si fosse ormai addormentata. Si voltò verso di lei, che lo stava guardando accoccolata sul fianco destro. Sul volto aveva un’espressione indecifrabile, che a Levi sembrava dolce, ma anche misteriosa.
 
«Sono qui» sussurrò.
 
Mikasa allungò il braccio sinistro e gli accarezzò la spalla, come per cercare la conferma alle sue parole.
 
«Riguardo a prima, nel capanno…» riprese lei. Levi si irrigidì all’istante. «Anch’io ti a…»
 
La interruppe: «Non dirlo»
 
Mikasa sospirò. «Perché?»
 
«Perché non dovresti»
 
Si scostò dal tocco di Mikasa, ma sentiva ancora il suo sguardo su di lui. Alla fine, si mise a sedere con le gambe fuori dal letto, dandole le spalle.
 
«Cosa non dovrei, dirtelo o essermi innamorata di te?» Stava ancora sussurrando, ma il tono della sua voce si era acceso. La stava facendo arrabbiare. Levi non rispose, si limitò a fissare le proprie mani, poggiate sulle ginocchia. Sospirò. Sapeva che questo momento sarebbe arrivato dall’instante in cui aveva realizzato cosa si era lasciato sfuggire nel capanno. Era stato più forte di lui, quelle parole erano scappate dalle sue labbra senza che la sua volontà potesse fermarle. E poi non era certo di volerle davvero fermare: presto si sarebbero separati, probabilmente per sempre, per quanto fosse egoista, una parte di sé voleva che lei lo sapesse.
 
La sentì alzarsi dal letto e girarci intorno, finché non si trovò in piedi davanti a lui. Levi tenne lo sguardo basso, sperando con tutto se stesso che lei decidesse di far cadere il discorso ed altrettanto convinto che non l’avrebbe mai fatto ormai.
 
«Levi…» il tono spazientito di lei lo fece quasi sorridere, poi Mikasa espirò lentamente e si inginocchiò davanti a lui, per cercare di guardarlo negli occhi. Gli afferrò le mani con forza. Levi non fece nulla per liberarsi, ma tenne gli occhi il più lontano possibile da lei.
 
«Perché non dovrei?» stavolta la sua voce era dolce. Levi poteva immaginare perfettamente il sorriso triste sul suo volto senza neanche doverla guardare. «Perché non dovrei amare la persona migliore della mia vita? La persona che mi è sempre stata accanto, che mi ha sempre aiutato…anzi, che ha sempre aiutato chiunque avesse intorno? Che mi ha reso la persona che sono oggi? Che mi ha sostenuto quando il mio mondo è crollato in pezzi? Che mi abbia donato una nuova casa, una nuova vita quando pensavo che sarebbe stato impossibile per sempre?»
 
Levi chiuse gli occhi. Voleva dirle di fermarsi, di smettere di parlare, ma la sua gola era completamente secca. Sentire quelle parole gli stava stringendo qualcosa dentro. La certezza di quanto tutto questo fosse sbagliato lo schiacciava. Non avrebbe mai dovuto farla restare, non avrebbe mai dovuto permetterle di innamorarsi.
 
«Perché non dovrei amare l’unica persona al mondo uguale a me?» proseguì lei.
 
Levi spalancò gli occhi, cogliendola di sorpresa. Vide le sue guance arrossate, gli occhi a mandorla leggermente lucidi. Le rivolse uno sguardo duro, prima di tornare a fissare le loro mani.
 
«Questo non dirlo mai. Tu non sei come me.»
 
Si accorse che le sue mani avevano iniziato a tremare. Fece un respiro tremolante, sotto lo sguardo di Mikasa che era rimasta improvvisamente in silenzio.
 
«Mikasa, io…» respirò di nuovo, incerto su come continuare. Incerto di voler continuare. Il terrore di esporsi lo colse alla gola «…non sono la persona che tu pensi, ok?»
 
La sentì stringergli le mani, che continuavano a tremare. Imprecò interiormente: quand’era diventato così debole?
 
«Ci sono cose che ho fatto… nell’esercito e anche prima, nel sottosuolo…la mia anima è macchiata. Per sempre. Quindi non dire che sei come me. E non pensarlo nemmeno»
 
Cercò di imprimere un po’ di forza nel suo tono di voce, ma non era certo di esserci riuscito. Trasalì quando lei gli accarezzò la guancia sinistra e voltò la testa per cercare di allontanarsi dal suo tocco.
 
«L’hai fatto per sopravvivere. Anche io a nove anni…ho ucciso delle persone che avevano ucciso i miei genitori e volevano farmi del male. Questo fa di me una persona da disprezzare?»
 
Levi sbuffò sprezzante. «Mikasa, ho ucciso persone perché mi avevano sfiorato nel modo sbagliato. Sai come ho pagato il passaggio di Abel in superficie? Non sono una brava persona. È per questo che Erwin mi ha voluto con sé…perché sono un criminale. E ho continuato ad esserlo anche sotto il suo comando»
 
E continuerò ad esserlo sempre.
 
«Levi, io so chi sei» La sua voce era ferma. E bellissima. «Lo so più di chiunque altro.»
 
Mikasa si alzò e si sedette sul letto accanto a lui. Levi continuò a tenere lo sguardo lontano da lei.
 
«Niente di quello che mi potrai dire mi farà mai cambiare idea su di te.»
 
Qualcosa di strano si mosse dentro di lui. Com’era possibile tutto questo? Com’era possibile che lei lo amasse a prescindere?
 
«Qualunque cosa tu abbia mai fatto e qualunque cosa farai non potrà mai cambiare quello che provo per te. Non puoi fare niente per impedirmelo» continuò a mormorare lei.
 
«Anche se dovessimo separarci…anche se dovessi cacciarmi via…Levi, non smetterò mai di amarti»
 
Il suo sguardo scattò in alto senza che Levi potesse impedirlo. La guardò, completamente sconvolto. Il suo cuore gli sbatteva con forza contro le costole. Mikasa lo guardava con quello stesso sorriso, triste e bellissimo, che lui aveva immaginato sul suo viso quando non aveva il coraggio di guardarla. Si accorse di non poter parlare.
 
«Ti amerei anche se non lo meritassi. Ma non è così»
 
Si chiese come fosse possibile, come fosse possibile che lei sapesse sempre trovare le parole giuste per parlargli. Come fosse possibile che provasse amore per qualcuno come lui. Era troppo bello e allo stesso tempo troppo terribile per essere vero. Levi non sapeva se sarebbe mai stato in grado di accettarlo.
 
Mikasa si mosse verso di lui, appoggiando la propria fronte sulla sua. Il suo profumo lo avvolse, confortante ed elettrizzante come sempre. Levi chiuse gli occhi e lasciò che lei gli prendesse di nuovo le mani.  
 

«Spiegami come diavolo fai…» mormorò
 
La sentì sorridere appena, prima che la sua voce dicesse: «A fare cosa?»
 
«A rigirarmi sempre come più ti piace» Si ritrovò a sorridere impercettibilmente anche lui.
 
Aprì gli occhi e vide che lei lo stava già guardando, con un ghigno appena accennato sulle labbra.
 
«Te l’ho detto Capitano Ackermann, ti conosco troppo bene»
 
Levi rimase in silenzio.
 
«Questo ti spaventa?» mormorò lei, titubante, senza allontanarsi. Levi sussultò. Annuì lentamente, mentre il suo cuore riprendeva di nuovo ad accelerare. Ammettere a voce alta il terrore di saperla capace di conoscerlo veramente, di sapere chi fosse davvero era troppo.
 
«Levi…spaventa anche me. Che tu veda dentro di me e d’improvviso capisca…che non sono altro che la mocciosa che hai sempre pensato. Che ti renda conto di esserti illuso su di me…mi fa così paura che a volte non riesco neanche a respirare»
 
Il tremolio della sua voce lo fece scattare. Le prese il viso tra le mani, chiuse di nuovo gli occhi.
 
«Questo è impossibile Mikasa» le rispose.
 
Lei gli prese le mani e le abbassò. Allontanò il viso dal suo e sollevò le palpebre. La luce della luna che stava sorgendo illuminò i loro volti. Mikasa abbozzò un sorriso, mentre il suo sguardo magnetico si ancorava all’unico occhio di lui che poteva ancora vederla.
 
«È impossibile perché mi ami?»
 
Levi trattenne il fiato. Scrutò la sua espressione calma. Era giunto il momento di mettere da parte tutto il resto.
 
«Sì. Perché ti amo»
 
E allora il viso di lei si aprì in uno di quei sorrisi che lo lasciavano senza fiato. La vide arrossire appena, abbassare le ciglia per nascondersi per un attimo, i denti bianchi che facevano capolino tra le sue labbra distese. Sollevò di nuovo lo sguardo e questa volta il sorriso si trasformò in un’espressione birichina.
 
«E mi amerai per sempre?»
 
Senza capire come fosse possibile, Levi si accorse di star sorridendo a sua volta.
 
«Adesso non allargarti, mocciosa» borbottò, tirandola verso di sé per stringerla. Affondò il viso nell’incavo del suo collo, tra i suoi capelli setosi. Inspirò lentamente, mentre la sentiva ridere. 


 

Sono stata così indecisa! Volevo che si dichiarassero esplicitamente, ma temevo che fosse troppo "presto" o troppo fuori dai personaggi...però alla fine come al solito mentre scrivevo le cose mi sono un po' sfuggite di mano e la situazione si è evoluta così eheh...spero vi sia piaciuto :) 

Grazie ancora per i commenti...ma ne aspetto di nuovi! :) 
Buona festa della Repubblica a tutti!

Chikay

 

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Capitolo 17
*** XVII ***


Ciao a tutti!
Lo so, sono passati tipo due mesi dall'ultimo capitolo e non sapete quanto avrei voluto pubblicare prima! Ho la storia ben stampata nella mia mente e direi che - oltre a questo - dovrebbero mancare circa 4/5 capitoli. Purtroppo non ho avuto modo di scriverli per un bel motivo: ho scoperto di essere incinta e la nausea mi perseguita appena mi siedo davanti a un schermo (tv, telefono, computer...un'agonia! :P) Quindi limito la permanenza al pc solo per il lavoro...Adesso sembra andare meglio, quindi spero di riprendere a pubblicare con più continuità già da settembre. 

Detto questo: il capitolo è piuttosto breve, perdonatemi! Ma penso fosse necessario...non vedo l'ora di scrivere e farvi leggere il resto, come sempre fatemi sapere cosa ne pensate!

Baci e buona fine estate

Chikay

 


XVII
 
Sta scappando via.
 
Sta scappando via con Eren.
 
Perché Eren è vivo, Mikasa ne è assolutamente certa. Rapire Eren era il suo piano fin dall’inizio, ma Mikasa non glielo permetterà.
 
È veloce e resistente, ma Mikasa è più determinata. Nessuno potrò fargli del male se lei è presente.
 
Mikasa aumenta la velocità, sparando i rampini sempre più rapidamente. Percepisce vagamente delle figure sparse alla base degli alberi. Sono dei soldati e sono morti. Mikasa stringe i denti, che fossero la squadra di Eren?
 
Qualche angolo della sua mente si chiede come sia possibile che sia rimasta l’unica ad inseguire il Gigante Femmina. Dov’è finito il resto dell’Armata Ricognitiva? Non possono certo essere morti tutti, no? Armin, Jean, Sasha, Connie…erano tutti più distanti, saranno sicuramente al sicuro. Adesso non ha tempo di pensare a loro. Li relega in fondo ai suoi pensieri e si concentra di nuovo.
 
È pronta a sferrare il suo attacco. Non le importa di morire. Deve salvarlo.
 
Prende fiato, pronta a lanciarsi di nuovo in avanti, ma qualcosa d’improvviso le mozza il respiro. Qualcuno l’ha appena afferrata in volto, facendola dirottare dalla sua traiettoria. Mikasa trattiene a stento la rabbia, prova a divincolarsi, poi finalmente si accorge di chi si tratta: è il Capitano Levi, quel maledetto.
 
Apparentemente è l’unico che le sia andato dietro. Che voglia salvare Eren anche lui? Ripensa al processo, a tutti i calci che gli ha rifilato e la rabbia la assale di nuovo. A quanto pare tutti i discorsi razionali di Armin che le ha spiegato i motivi dietro quell’atteggiamento – che solo così il Capitano Levi ha potuto salvare la vita ad Eren – non hanno poi fatto così breccia dentro di lei. È difficile restare lucida quando si tratta di Eren.
 
«Se lo attacchi frontalmente non avrai scampo»
 
La voce del Capitano Levi è tagliente come le sue lame. Mikasa prova a divincolarsi di nuovo, innervosita dal trovarsi in quella posizione fuori controllo, ma la presa di lui è troppo ferrea.
 
«Eren potrebbe essere morto»
 
«È vivo!» si ritrova a gridare con quanto fiato ha in gola. Levi le lancia uno sguardo e sembra capire qualcosa. «Ne sono sicura!» ripete lei.
 
Lui annuisce appena. «Tu fagli da diversivo, io lo attacco. Non provare a colpire la nuca, è inutile. Non proveremo a ucciderlo, dobbiamo solo riprendere Eren, sono stato chiaro?»
 
Qualcosa si mischia dentro di lei insieme alla determinazione: Mikasa crede che sia speranza. Dopotutto dicono che sia il soldato più forte dell’umanità, giusto? Eren si fida di lui.
 
Mikasa annuisce.
 
Levi le lancia un altro sguardo e la lascia libera. Al suo cenno, Mikasa sfreccia in avanti.
 
 



 
Un fischio insistente la risvegliò dai suoi sogni. Si accorse di essersi addormentata ancora seduta al tavolo, con la testa poggiata su tutti i fogli sparsi dei registri. Sbatté le palpebre un paio di volte prima di riuscire a capire che il rumore che sentiva proveniva dal vecchio bollitore sul fuoco.
 
Si tirò a sedere, stiracchiando la schiena anchilosata. La voce di Levi le arrivò alle sue spalle. Doveva essere vicino ai fornelli.
 
«Alla buon’ora!» Una punta di divertimento riuscì a sfuggire al suo tono esasperato. Mikasa sorrise.
 
Si era addormentata mentre stavano lavorando sulla cinquantasettesima spedizione fuori le Mura. Era stata la prima spedizione di Mikasa. Un vero disastro. Eppure lei ed i suoi amici erano riusciti tutti quanti a cavarsela.
 
«Scusa, devo essermi addormentata»
 
«Ma non mi dire…» Levi le si avvicinò, porgendole una tazza di tè. Quando lei fece per avvicinarla alle labbra, lui posò le dita sul bordo, di fatto impedendoglielo. «Attenta. È bollente»
 
Mikasa gli lanciò un leggero sorriso, prima di posare la tazza davanti a sé. Levi rimase in piedi, accanto alla finestra alla sinistra della porta. Fuori pioveva ininterrottamente da ore. Quella primavera non voleva proprio saperne del sole.
 
Mikasa spostò lo sguardo sul registro aperto sul tavolo. Si accorse che Levi aveva finito di scrivere i resoconti riguardanti i membri della sua prima squadra: Oulo Bolzado, Eld Jin, Gunther Schultz e Petra Ral. Erano morti tutti quanti durante quella spedizione. Mikasa li ricordava a malapena. Dovevano essere stati buoni soldati, se Levi li aveva scelti personalmente per far parte della Squadra Operazioni Speciali, eppure non avevano potuto niente contro Annie.
 
Alzò lo sguardo su di lui, sempre immobile accanto alla finestra. Aveva l’espressione imperturbabile di sempre. Mikasa si chiese se stesse pensando a loro in quel momento. Avvicinò di nuovo le labbra al bordo della tazza, ma si ritrasse nuovamente quando sentì il calore investirla.
 
Un lampo illuminò la loro radura d’improvviso, seguito da un tuono così forte che fece tremare le pareti.
 
«Posso chiederti una cosa?»
 
Si sorprese di aver avuto l’ardire di parlare. Levi non si voltò verso di lei, ma annuì lentamente.
 
«Avrei voluto chiedertelo tanto tempo fa, ma c’erano altre priorità allora…»si interruppe, d’un tratto incerta se proseguire. Levi non le mise fretta. Lei finalmente riuscì a sorseggiare il suo tè. Poi riprese:
 
«Eri arrabbiato con Annie? Voglio dire, durante l’Alleanza. Dopotutto, ha ucciso la tua squadra»
 
Levi espirò lentamente, con la tazza di tè sempre stretta tra le dita. Poi si voltò verso di lei, con la sua espressione indecifrabile.
 
«Sei ancora arrabbiata con Gabi, per quello che ha fatto a Sasha?»
 
La domanda la colse di sorpresa, ma non esitò un solo attimo:
 
«Sì»
 
Levi rimase in silenzio.

«Capisco perché l’abbia fatto…ma non riesco a non avercela con lei» continuò, abbassando lo sguardo sulla propria tazza. Sasha le mancava ogni giorno. Come al solito, si era accorta di quanto fosse importante solo nel momento in cui l’aveva persa.  C’erano così tante cose della sua nuova vita che avrebbe voluto condividere con la sua amica, così come con Armin.
 
«No, non ce l’ho con Annie»
 
La voce di Levi la riscosse dai suoi pensieri. Lo vide stringersi tra le spalle.
 
«Era una ragazzina. Lo eravate tutti. Addestrati per uccidere. Lei era già in guerra, eravamo noi a non saperlo»
 
Mikasa sollevò le sopracciglia. «Si vede che sei più saggio di me. Io non riesco ad essere così distaccata». Il tono di voce le uscì più piccato di quanto non avesse desiderato.
 
Il capitano abbozzò un sorriso amaro. «È andata così. La vita è così»
 
Questa volta, la ragazza rimase in silenzio. Già, la vita era così: ti toglieva tutto di continuo, ogni volta che speravi di aver guadagnato qualcosa, di esserti meritato qualcosa. Si chiese quando avrebbero avuto notizie da Historia. Trattenne il fiato, sapendo di dover parlare a Levi di un’iniziativa che aveva preso giorni prima. Cercava di trovare il momento giusto da un paio di giorni, senza mai convincersi a farlo. L’ultima scusa che si era trovata era proprio il resoconto di quella spedizione, che li aveva impegnati ininterrottamente.
 
«È per Sasha e la mia squadra che sei strana da un paio di giorni?»
 
Lo sguardo le scattò verso di lui, mentre un’espressione colpevole le balenò per un istante sul viso. Ovviamente Levi se n’era accorto. Poggiò la tazza sul tavolo e prese a giocherellare con il cucchiaino. Sentiva lo sguardo di lui addosso, ma non un’altra parola gli uscì dalle labbra, mentre aspettava che lei riordinasse i propri pensieri.  
 
«Levi…devo dirti una cosa»
 
Lo sentì spostare il peso da una gamba all’altra, d’improvviso a disagio. Gli lanciò un’occhiata e lesse la tensione sul suo viso, le labbra ridotte a una sottile linea dritta.

 
«Ho scritto a Kiyomi giorni fa. Vorrei scoprire di più su di noi…intendo sugli Ackermann. Gli unici posti dove poter cercare sono Hizuru e Marley…»
 
Lo sentì trattenere il fiato. Lo guardò di nuovo e lo vide voltarsi verso la finestra. Corrugò appena la fronte, non aveva neanche finito di dire quello che aveva pensato e la reazione di lui la lasciò per un attimo spiazzata.
 
«Quando pensi di partire?»
 
La sua domanda le fece spalancare gli occhi per la sorpresa. Credeva che volesse partire senza di lui?
 
«Levi…non vorresti venire con me?»
 
Ci aveva pensato a lungo e alla fine le era sembrata l’unica soluzione possibile per evitargli la missione nel sottosuolo o una vita come traditore. Potevano espatriare, vivere in Hizuru, lasciare Paradis per sempre. Non le importava di dover voltare le spalle a tutto quello che era stata la loro vita fino a quel momento, lo avrebbe fatto all’istante pur di restare con lui, pur di tenerlo al sicuro.
 
Levi si voltò di nuovo verso di lei, così velocemente che la fece quasi sussultare. La fissò con uno sguardo indagatore così intenso che lei temette di non riuscire a sopportarlo. Si nascose dietro le sue lunghe ciglia, fissando le proprie mani.
 
«Stai dicendo che vorresti che scappassi dagli ordini di Historia?»
 
La durezza della sua voce le fece aggrottare la fronte. Qualcosa di nervoso le si agitò d’istante nel petto.
 
«E tu stai dicendo che hai già deciso che accetterai la missione?» sbottò d’improvviso, fissandolo mentre sentiva il proprio cuore accelerare. Strinse i pugni. Inconsciamente, era sempre stata certa che lui non avrebbe mai voltato le spalle ad Historia, ma sentirglielo ammettere la fece infuriare. Non si voleva prendere neanche la briga di consultarla, prima di decidere?
 
Levi sbuffò, riportando lo sguardo fuori dalla finestra. Mikasa lo vide dondolarsi sul posto, come se volesse avvicinarsi, ma qualcosa glielo impedisse. Aggrottò ancora di più la fronte ed incrociò le braccia, per impedirsi di lanciare all’aria il tè e tutti i registri.
 
Cercò di mantenere il suo tono di voce il più distaccato possibile, ma sapeva di non star facendo un buon lavoro: «E quando avevi intenzione di dirmelo?»
 
Levi non rispose. Il suo silenzio la fece arrabbiare ancora di più.
 
«Rispondimi» sentenziò, gelida.
 
Levi le lanciò uno sguardo così velenoso che lei si sentì scottare. «Dovresti andare a Hizuru. È una buona idea»
 
Mikasa scattò in piedi ancora prima di essersene resa conto. Strinse con forza il bordo del tavolo, mentre le nocche le si sbiancarono all’istante. Usò tutto il suo contegno per impedirsi di andare a colpirlo con tutte la sua forza.
 
«Sei davvero così cieco da credere che ti farò tornare nella Città Sotterranea senza venire con te?» non riuscì a controllare la sua voce: le uscì troppo forte e troppo tremolante rispetto alla freddezza che avrebbe voluto imprimerle.
 
Levi trasalì. Per un istante la sorpresa che gli attraversò il viso, prima di scomparire sotto la solita espressione dura e fredda, la ferì: lo pensava davvero? Credeva davvero che non avrebbe fatto di tutto per andare con lui? Credeva davvero che lo avrebbe abbandonato? Mikasa immaginava che avesse semplicemente assecondato la sua promessa di abbandonarlo per non dover affrontare la discussione che stavano avendo ora, ma era sempre stata certa che lui sapesse che non l’avrebbe mai lasciato di sua spontanea volontà. E invece quella sorpresa le fece capire di aver recitato la sua parte in maniera più convincente di quanto avesse mai sperato.
 
«Non pensarci nemmeno per scherzo» la durezza della sua voce la fece rabbrividire impercettibilmente. Poi le venne da ridere: come poteva essere così ingenuo?
 
«Prova a impedirmelo» ribatté, spingendo avanti il mento.
 
Lo vide stringere pericolosamente la presa sul bordo della sua tazza.
 
«È fuori discussione»
 
Mikasa abbassò lo sguardo sulle proprie nocche sbiadite. Cercò di calmarsi mentre non sentiva altro che cieca rabbia.
 
«Tu faresti la stessa cosa per me». Si accorse di aver quasi sussurrato. D’improvviso si sentì completamente vulnerabile. Fino all’istante in cui aveva pronunciato quelle parole, ne era stata assolutamente certa: adesso un senso di insicurezza la invase: a parti inverse lui non avrebbe lottato per starle accanto come lei intendeva fare? Era così ligio agli ordini e alle regole?
 
«È diverso» lo sentì dire «tu non sai come sia là sotto» e poi aggiunse, a voce più bassa «Specialmente per una ragazza»
 
«Certo che non lo so!» sbottò l’istante dopo, quasi coprendo le ultime parole di lui «Tu non me ne parli mai! E comunque ormai sarà diverso, non sai neanche tu come sarà lì sotto!»
 
«Sarà peggio! Non lo capisci?» esclamò lui, con così tanta enfasi che Mikasa spalancò gli occhi «Le poche persone decenti ormai vivono in superfice! Ci saranno solo criminali…e vittime»
 
«Un motivo in più per venire con te!» rispose lei, quasi gridando per sovrastare la sua immediata protesta «Sono più forte di te, tu sei ferito. Metti da parte il tuo cazzo di orgoglio per una volta!»
 
Levi spalancò gli occhi, e Mikasa vi lesse un dolore che le strinse lo stomaco.
 
«Lo sai benissimo che l’orgoglio non c’entra» mormorò lui, distogliendo lo sguardo da lei, per riportarlo fuori dalla finestra. Si sentì in colpa per avergli detto quelle cose, ma il dolore che gli aveva causato le sembrò per un attimo un’opportunità per cambiare tono e provare a convincerlo di nuovo.
 
«Ti prego, lascia che venga con te» mormorò, rilasciando la propria presa sul tavolo.
 
«No.»
 
Il tono secco di lui, che non si era neanche voltato per guardala di nuovo, la mandò di nuovo in escandescenze. Sbatté un pugno sul tavolo e finalmente Levi si voltò di scatto per guardarla di nuovo.
 
«Lo farò lo stesso, mi hai capita?» si ritrovò a gridare, esasperata.
 
«Tu non farai un bel niente!» ribatté lui, mentre anche il suo tono si rinforzava.
 
Mikasa spalancò le braccia con aria di sfida: «E come pensi di fermarmi, sentiamo»
 
Levi strinse le labbra, poi disse: «Scriverò ad Historia. Sarà la mia condizione per partecipare alla missione»
 
Per un attimo, Mikasa sentì la terra sparirle da sotto i piedi. Poi, un sorrisetto beffardo le deformò i tratti: se l’unico modo che Levi immaginava era di provare a farla fermare da qualche inutile soldato, voleva dire che stava per vincere.
 
«Tutto qui? Credi che mi spaventi qualche inetto della polizia militare?»
 
Levi strinse la mascella. Mikasa lo vide quasi tremare nello sforzo di restare immobile. La presa della sua mano sinistra sulla tazza fece oscillare pericolosamente il tè contenuto al suo interno.
 
«Dannazione, Mikasa!» sbottò lui, mentre la tazza gli si infrangeva tra le dita. «Cazzo!»

 
Oltre al tè caldo e ai pezzi di porcellana che sbatterono fragorosamente al suolo, un fiotto di sangue gli invase immediatamente il palmo della mano.
 
La ragazza scattò subito verso di lui. Levi stava già provando ad accucciarsi per raccogliere i cocci, ma Mikasa lo fermò, agguantandogli il braccio. Lui si divincolò dalla sua presa, con un’espressione torva. Lei sbuffò, lanciandogli un’occhiata eloquente, prima di riprendergli di nuovo il polso.
 
«Non fare il bambino»
 
Lo sguardo di Levi si incrociò di nuovo col suo. Per un attimo credette che avrebbe fatto di nuovo resistenza, invece sospirò, prima di aprire lentamente le dita per permetterle di controllare il danno.
 
Non appena fece ciò, altro sangue sgorgò da un paio di tagli che gli attraversavano il palmo.
 
«Siediti, la devo medicare» ordinò lei, voltandosi verso la cucina, per raggiungere il pensile più a sinistra, dove conservavano il materiale di pronto soccorso.
«E non provare a raccogliere quei cocci. Pulisco io dopo» aggiunse dopo un istante.
 
Lo sentì sospirare rassegnato, prima di sedersi come gli era stato ordinato.
 
La ragazza prese delle garze, filo di sutura, un ago e del disinfettante. Lui la stava aspettando con l’avambraccio poggiato sul tavolo ed il pugno chiuso, a debita distanza dai registri trascritti di fresco, con un’espressione aggrottata dipinta sul volto.
 
Mikasa gli afferrò il polso senza grazia e gli fece cenno di aprire la mano, prima di versare sui tagli una generosa quantità di disinfettante. Levi strinse la mascella, ma non fece altri commenti.
 
I tagli erano piuttosto profondi. La ragazza premette con forza le garze sul palmo della mano, ma sapeva di doverli ricucire. Non era un compito che amava particolarmente, a dirla tutta le aveva sempre fatto un po’ impressione. Fece un respiro profondo mentre inseriva il filo nella cruna dell’ago.
 
«Vuoi che ti dia qualcosa da mordere?» domandò mentre completava quell’operazione.
Levi sollevò un sopracciglio: «Per chi mi hai preso?»
 
Mikasa gli lanciò un’occhiataccia: «Cercavo solo di essere gentile» borbottò, prima di ficcare l’ago nel palmo di lui con un po’ troppa forza.
 
Levi ispirò l’aria tra i denti, ma non si mosse.
 


Rimasero in completo silenzio per tutto il tempo in cui Mikasa lo ricucì, la lite di poco prima aleggiava ancora su di loro come una nuvola nera. Una volta terminato, versò altro disinfettate sulla mano e quindi la avvolse nelle bende pulite.
 
Indugiò, tenendo ancora la mano di lui tra le sue, incerta.
 
Poi parlò, senza il coraggio di guardarlo negli occhi: «Non ce la faccio a restare in disparte se so che sei in pericolo». La sua voce le sembrò quella di una ragazzina patetica.
 
Levi sospirò, prima sollevare la mano destra e poggiarla su quelle di lei: «Lo so»
 
Si guardarono. Mikasa lesse qualcosa negli occhi di lui che le fece saltare un battito: c’era tenerezza, sotto una coltre di paura mista a determinazione. Lui le strinse le mani.
 
Rimasero di nuovo in silenzio, occhi negli occhi.
 
«Sei troppo testardo» mormorò lei, dopo qualche istante.
 
Lui sollevò di nuovo il sopracciglio: «Sono in buona compagnia»
 
Mikasa abbassò lo sguardo sulle loro mani congiunte. D’improvviso sentì le lacrime gonfiarsi negli occhi, ma non voleva che lui se ne accorgesse.  
 
«Levi…» Non sapeva come continuare il discorso, a dirla tutta. L’ultima carta che le restava era quella di supplicarlo, ma non ne ebbe il tempo perché lui la interruppe:
 
«Vieni a Mitras. Troverò il modo di restare in contatto. Se avrò bisogno di aiuto te lo farò sapere, te lo prometto»
 
Mikasa rimase in silenzio. Quella concessione era più di quanto si sarebbe aspettata, eppure non sembrava bastarle. Alzò lo sguardo, rivelando quelle lacrime accumulatesi tra le ciglia. Lui stava guardando ancora le loro mani giunte.
 
«Potresti non avere il tempo di chiedere aiuto…» Le parole le sfuggirono dalle labbra. Sentì la sua voce tremare. Il solo verbalizzare ciò che più temeva le fece stringere lo stomaco.
 
«Potrei non averlo neanche se fossi infiltrata anche tu. E potresti non averlo neanche tu, non potremo essere sempre nello stesso posto»
 
Mikasa deglutì. Ciò che Levi diceva era vero: era troppo famosa per poterlo seguire dovunque come un’ombra, avrebbe dovuto avere un ruolo più attivo anche lei. «So badare a me stessa»
 
Lo vide abbozzare un sorrisetto appena accennato, con le mani sempre strette alle sue. Il silenzio sembrò dilatarsi tra loro, ma stavolta le nuvole che prima lo affollavano sembravano dissiparsi.
 
«Faremo così. D’accordo?» Il punto di domanda insito nel tono di voce di lui le fece battere il cuore. Lui alzò lo sguardo e lo fissò nei suoi occhi. Lo vide stringere le labbra in una linea sottile, mentre aspettava che lei rispondesse, che gli desse la sua approvazione. Mikasa si sentì d’improvviso calma. Era la soluzione migliore, adesso se ne rendeva conto. Sarebbe stata a Mitras, il più vicino possibile per aiutarlo se fosse stato necessario. Era ovvio che poteva non bastare, i pericoli potevano essere così tanti che poteva sembrare una promessa vuota. Ma era una sua promessa e Mikasa si fidava. Per quanto le sembrasse la cosa più difficile che la vita l’avrebbe mai costretta a fare, si rendeva conto che avrebbe dovuto lasciarlo andare.
 
Si schiarì la gola, cercando di far sparire quel groppo che sembrava impedirle di parlare: «Se Historia confermerà la missione».
 
Questa volta Levi sorrise davvero. Era quel suo sorriso che gli incurvava solo un angolo delle labbra, di cui Mikasa si era resa conto di non poter più fare a meno.
 
«Se Historia confermerà la missione» ripeté lui.
 
Si guardarono negli occhi, entrambi certi che quello sarebbe stato il loro destino. Entrambi certi che la loro vita nella foresta sarebbe finita.  
 

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Capitolo 18
*** XVIII ***


Ciao a tutti!
Ebbene sì, sono ancora viva e questa storia anche! 
Diciamo che avere un piccolo essere che dipende completamente da me e che ha orari completamente random non è la cosa più comoda per poter scrivere tranquillamente...per cui ho dovuto accantonare il pc, ma non l'immaginazione...infatti in lunghe ore passate a fare da culla umana, la storia l'ho ben definita ed in realtà sto già pensando alla prossima! 
Questo dovrebbe essere il terzultimo capitolo...ma il prossimo potrebbe essere molto lungo e quindi finire tagliato in due, vedremo!
Non ho avuto molto tempo di rifinire e rileggere nel mio solito modo maniacale, quindi perdonatemi se la scrittura vi sembra meno sistemata...in effetti è così!
Spero vi piaccia e che stiate tutti bene :) 
Altre note in fondo

Chikay

 






XVIII
 
«Era per questo che volevi tanto fare una pausa?»
 
Levi si appoggiò con le mani sulla balaustra del portico. Una brezza leggera gli accarezzò il viso. Finalmente la primavera sembrava ufficialmente arrivata ed il sole splendeva in cielo da tutta la giornata. Mikasa gli dava le spalle, accucciata sul prato vicino al pozzo. Portava i capelli legati con un nastro di raso azzurro ed indossava una camicia leggera che lasciava trasparire la forma definita delle sue scapole.
 
Levi inspirò profondamente e gli sembrò quasi di poter percepire il suo profumo. Mikasa si voltò verso di lui, lasciando che un paio di ciocche di capelli sfuggissero al loro laccio. Alzò un braccio per ripararsi gli occhi dal sole.
 
«Chi si vede! Cominciavo a credere che fossi un vampiro…» lo canzonò. Lo sguardo di lui si fermò involontariamente sulla sua mano sporca di terra davanti alla sua fronte. Mikasa lo notò immediatamente e sogghignò. «Ti sembrerà incredibile che qualcuno possa davvero apprezzare lo sporcarsi le mani, eh?»
 
Levi si strinse nelle spalle. La pelle candida di Mikasa sembrava quasi traslucida in quella luce del primo pomeriggio.
 
«Cosa stai facendo?»
 
Lei sorrise appena, poi usò la stessa mano che le copriva gli occhi per indicare intorno a sé. «Spero che ti piacciano i mughetti e le violette»
 
Levi rimase per un attimo in silenzio, sorprendendosi di quanto quell’accoppiata di fiori gli sembrasse perfetta per lei. «Perché lo fai?»
 
Mikasa sbuffò, quasi spazientita. A Levi ricordò una donna rassegnata davanti alle continue domande ovvie di suo figlio. Quell’idea gli fece corrugare appena la fronte.
 
«Perché sono belli. E profumati. Ci sono altre ragioni per piantare dei fiori?»
 
Levi strinse di nuovo le labbra mentre qualcosa di viscido gli scivolava giù per la gola. Perché lo fai anche se sai che tra poco andremo via per sempre? Abbassò lo sguardo sulle proprie mani ancora poggiate sulla balaustra.
 
La voce di lei lo richiamò al presente: «Perché non mi fai compagnia? Si sta bene al sole»
 
Lui esitò qualche istante, riempiendosi gli occhi con quella immagine così pacifica. Non sapeva se preferisse rimirarla da lontano, affaccendata in quel compito insolito. Poi alla fine scese gli scalini e si appoggiò al muro del pozzo con la schiena ed i gomiti. Lei gli lanciò un sorriso distratto prima di riprendere a ricoprire i semi e i bulbi con la terra. «Tranquillo, non mi ci vorrà ancora molto»
 
«L’uomo che pianta la ghianda non è colui che starà all’ombra della quercia» si ritrovò a mormorare sovrappensiero.
 
«Come dici?»
 
Levi lasciò che lo sguardo vagasse in direzione della casa e del bosco: «Era una cosa che diceva Erwin»
 
Mikasa annuì riprendendo il suo lavorio: «Sì, sembra una cosa che avrebbe potuto dire». Levi non disse nulla, si limitò a inspirare la brezza primaverile ancora un poco pungente.
«Mi piace l’idea di questo posto pieno di fiori» riprese la ragazza «Anche se non sarò qui a vederli, potrò sempre immaginarmelo e sapere che corrisponde al vero»
 
Levi pensò che se la frase di prima si addiceva ad Erwin, questa era proprio da lei. Le labbra gli si distesero per un istante in un sorriso involontario. «Tsk, sei proprio una mocciosa sentimentale»
 
Mikasa volse il viso verso di lui, lasciando che il sole investisse il suo sorriso, ora più evidente. «Già, forse hai ragione»
 
«Sempre che i tuoi fiorellini non secchino…» la punzecchiò.
 
«Scommetto che tu nella storia eri l’uomo che non avrebbe neanche creduto che la ghianda potesse germogliare»
 
Levi distese un angolo delle labbra nel suo sorriso sghembo, mentre si stiracchiava, avvolto nel suo maglione azzurro: «Suppongo di sì»
 
«Forza, abbi un po’ di fede!» lo rimbrottò lei.
 
«Avevo fede in lui» si ritrovò a rispondere, senza pensare. Era una confessione che non credeva avrebbe mai fatto ad alta voce, neppure con Hanji, ma non si sentiva a disagio, c’era qualcosa di ormai familiare nella malinconia che circondava i ricordi che lo legavano a Erwin.
 
«Lo so» rispose lei, guardandolo di nuovo «Direi che facevi bene»
 
Levi si voltò, appoggiando gli avambracci al pozzo e piegando la schiena leggermente in avanti. Davanti a lui spaziavano i campi aperti, ricoperti di nuova erba verde. Qualche nuvola si inseguiva in un cielo azzurro.
 
«Pensi che gli sarebbero piaciuti i miei fiori?»
 
Levi sollevò un sopracciglio, guardandola con aria scettica: «Pensi avessimo tempo di parlare di fiori e di intrecciarci i capelli? Cosa diavolo vuoi che ne sappia!»
 
Mikasa ridacchiò, stringendosi nelle spalle.
 
Levi fece schioccare la lingua, ma dopo qualche secondo di silenzio aggiunse: «Sapeva apprezzare le belle cose, però» Nonostante quello che vedevamo ogni giorno. Forse proprio a causa di ciò che vedevamo.
 
Sentì lo sguardo di Mikasa su di sé, ma rimase a guardare il paesaggio. Si ritrovò a pensare che con Erwin ancora vivo alla fine della guerra, tutto sarebbe stato molto diverso. Sospirò, scacciando quei pensieri inutili dalla testa.
 
«Quando hai finito ci andiamo a fare un bagno alla sorgente» sentenziò.
 
«Non lo vuoi proprio questo fango in casa o vuoi vedermi senza vestiti alla luce del sole?»
 
Levi si ritrovò a pensare che la luce della luna le donava ancora di più, ma non disse niente.
 
«Non ti si può nascondere proprio nulla… Dai, sbrigati»
 
 
 
**



 
Levi stava dormendo. Per essere precisi, dormiva un attimo prima. Un rumore leggero lo aveva riscosso dai suoi sogni scuri e vischiosi, come il Sottosuolo. Socchiuse lentamente le palpebre, lasciando che l’occhio si adattasse alla penombra della camera illuminata fiocamente dalle sole stelle. La luna non era ancora sorta. Ancora intorpidito, non riconobbe subito la fonte di quel rumore, che gli parve una sorta di ritmico e soffuso guaito.
 
L’istante dopo lo riconobbe: lo aveva sentito migliaia di notti passate con la Legione Esplorativa. Era il suono di qualcuno che piangeva tentando di nasconderlo per non farsi sentire dai compagni di bivacco. Era il suono della paura che ti attanaglia le viscere, quando sai che il giorno dopo potresti morire dilaniato tra i denti di un mostro.
 
Ma c’era qualcosa che non andava perché la Legione Esplorativa non esisteva più e la guerra era finita e lui non si trovava in un rifugio di fortuna circondato da commilitoni. Realizzò cosa significava nell’istante successivo.
 
Si voltò lentamente sul fianco sinistro, verso di lei. Allungò la mano destra per sfiorarle la spalla, accorgendosi solo ora che i suoi singhiozzi trattenuti imprimevano un lieve movimento al materasso.
 
«Ehi»
 
Mikasa quasi sobbalzò, ma non fece niente per girarsi verso di lui. Levi vide la coperta muoversi in corrispondenza del suo braccio che si spostava per permettere alla mano di asciugare le lacrime.
 
«Dio, scusa…non volevo svegliarti»
 
«Stai bene?»
 
«Cosa? Sì, certo…non è niente»
 
Levi espirò lentamente tra le narici, continuando a carezzarle lentamente la spalla destra.
 
«Un incubo?» si azzardò a chiedere, ma per tutta risposta ricevette un altro singhiozzo, stavolta persino più forte. Le si avvicinò, ormai il suo petto toccava le scapole di lei. «Mikasa…guardami»
 
Credeva che avrebbe fatto ancora resistenza, invece – seppur con riluttanza – la ragazza si voltò. Il suo volto era completamente rigato dalle lacrime, lacrime che ancora le riempivano gli occhi a mandorla. La vide stringere le labbra, per impedire a un ennesimo singhiozzo di sfuggirle involontariamente.
 
«Levi…»
 
La sua voce rotta gli fece stringere qualcosa nel petto, mozzandogli il fiato.
 
«Ehi…» si ritrovò a bisbigliare, a pochi centimetri dal suo viso «Non mi sembra che non sia niente…» Spostò la mano destra e la poggiò sulla sua guancia, usando il pollice per asciugarle l’occhio.
 
La vide mordersi il labbro inferiore. C’era qualcosa che non voleva dirgli. Una strana preoccupazione, mista a qualcosa di simile alla delusione, gli fece corrugare la fronte. Si trattava di Eren? Si sentì d’improvviso inadeguato. Avrebbe dovuto essere qualcun altro a condividere il suo letto e le sue angosce?
 
«Levi…» ripeté lei, prima di affondare il viso nell’incavo tra il suo collo e la spalla.
 
«Sono qui…» rispose lui, carezzandole ritmicamente la schiena, in attesa che lei trovasse il coraggio di parlargli.
 Restarono in silenzio per qualche secondo, i singhiozzi di Mikasa sembrarono crescere di intensità anziché acquietarsi, poi lei parlò: «Ho paura…»
 
Prima che lui potesse chiederle qualsiasi cosa, Mikasa riprese: «Non posso perdere anche te, ok? Non posso…»
 
Un brivido freddo gli percorse la spina dorsale, mentre la stringeva a sé con più convinzione.
 
«Il solo pensiero che qualcuno ti faccia del male…il solo pensiero di non rivederti più…» un singhiozzo più forte la fece interrompere. Levi le posò un bacio sulla fronte.
 
Non voleva mentirle: sapeva bene che ciò che Mikasa temeva poteva diventare vero da un momento all’altro. E sapeva perfettamente cosa lei provasse: ogni volta che si separavano, anche se per poco, anche se in quella campagna apparentemente pacifica, qualcosa dentro di lui si tendeva. Si accorgeva di controllare l’orologio di continuo, pensieri di pericoli immaginari gli affollavano la mente. Se fosse stata lei a dover andare da sola nella Città Sotterranea, era quasi certo che sarebbe impazzito. Ma sentirla piangere tra le sue braccia gli provocava un dolore quasi fisico ed il bisogno di rassicurarla pulsava dentro di lui come uno slancio improrogabile.
 
«Lo so. Se lo ripeti a qualcuno, Ackermann, giuro che ti faccio fuori…ma succede anche a me, quando non ti tengo d’occhio»
 
Il suo tono – tra il canzonatorio e lo stizzito – riuscì a smettere di farla piangere.
 
«Davvero?» la sua voce flebile gli sembrò quella di una bambina.
 
Levi annuì. «Vogliamo ricordare tutte le volte che ti ho salvato il culo? Sarai anche forte, ma sei sempre stata troppo irruenta»
 
Il tono piccato con cui Mikasa gli rispose, sempre nascosta sulla sua scapola, lo fece sogghignare: «Stavi cercando di consolarmi o di insultarmi?»
 
«Entrambe le cose. Non so perché, ma con voi mocciosi funziona»
 
Mikasa si scostò per lanciargli uno sguardo truce: «Sei incommentabile». Levi le sorrise, spostando le mani dalla sua schiena per andare ad asciugarle le guance arrossate.
 
«Non mi piace quando piangi»
 
Lei abbassò di botto lo sguardo, sfuggendo ai suoi occhi. Lui le prese il mento tra le dita superstiti della mano destra e la costrinse a sollevarsi di nuovo verso di lui.
 
«Lo so che fa paura, ma la vita è un cazzo di rischio e non potremo esserci sempre l’uno per l’altro, ok? Non riesco a mentirti e dire che andrà sempre tutto bene, ma ho fiducia in te ed ho fiducia anche in me.»
 
Mikasa lo fissava con sguardo attento, il suo respiro lieve le sfuggiva dalle labbra e gli riscaldava il volto.
 
«E ti prometto che farò di tutto per non farti piangere. Anche a costo di dovermi divertire un po’ meno in missione, d’accordo?»
 
Lei ridacchiò. A Levi finalmente si sciolse quel groppo in fondo alla gola che gli dava fastidio ad ogni respiro.
 
Mikasa annuì. «Va bene, capitano». Levi distese le labbra in un sorriso appena abbozzato.
 
«Possiamo restare un altro po’ abbracciati?» domandò lei l’istante dopo.
 
Levi per tutta risposta la strinse di nuovo a sé, appoggiando la propria guancia sinistra sulla testa di lei.
 
Rimasero in silenzio, ad ascoltare ciascuno il respiro dell’altro. La radura fuori dalla finestra era completamente avvolta nel silenzio.
 
Stava per riaddormentarsi, quando sentì le mani calde di Mikasa insinuarsi sotto il maglione e la maglia, raggiungendo le cicatrici che gli costellavano la schiena. Emise un verso sommesso, che poteva ricordare le fusa di un gatto, sentendo le sue carezze sulla pelle. Il viso di lei si insinuò sulla sua scapola e le sue labbra gli raggiunsero il collo. Non aprì gli occhi. Mikasa lasciò una scia di baci quasi impercettibili sulla sua pelle. Lui la strinse con più forza. La assecondò quando lei gli sollevò i vestiti e glieli passò sopra la testa, scompigliandogli i capelli.
Le labbra di lei raggiunsero le sue l’istante dopo. La loro morbidezza contrastava con le sue labbra screpolate dal freddo. Il suo sapore dolce lo travolse come tutte le volte. Si era ripromesso di lasciarla fare, ma mandò al diavolo le sue intenzioni un attimo dopo, stringendole i capelli con forza, assaltandole le labbra con foga, ascoltando il lieve gemito che le sfuggì al suo attacco.
 
La sua voce sussurrata gli mandò un brivido elettrico giù su tutta la schiena: «Voglio sentirti»
 
Levi sogghignò, mentre affondava languidamente verso il suo petto, semi scoperto dalle sue dita che le avevano sbottonato in parte la camicia da notte.
 
«Allora tieni gli occhi chiusi» rispose, la voce roca, il desiderio sempre più forte, mentre la imprigionava sotto di sé.
 
 

 
**
 


 
Mikasa allungò le braccia sopra la testa per sgranchirsi la schiena. Accolse il suono della colonna vertebrale che scrocchiava con un mugolio di piacere, prima di chinarsi nuovamente sul foglio davanti a sé per dare una soffiata all’inchiostro fresco che aveva appena finito di depositare sulla pagina sotto forma di lettere e ghirigori.
Era un fresco pomeriggio primaverile, la luce del sole brillava fuori dalla casa ed invadeva la cucina ed il tavolo dove la ragazza era come sempre a lavoro. Levi era uscito in mattinata, diretto verso Ludlow per il solito giro di provviste e per controllare l’arrivo della posta, anche se nessuno dei due lo aveva menzionato esplicitamente. Aveva detto a Mikasa che avrebbe mangiato un boccone da Rufus prima di rimettersi in strada, così la ragazza aveva proseguito il loro lavoro da sola, interrompendosi giusto il tempo per mettere qualcosa sotto ai denti.

La flora e la fauna del bosco tutt’intorno a loro si erano ormai risvegliati, riempiendo l’aria con i loro suoni e colori. Un paio di giorni prima avevano scoperto una radura completamente tappezzata di campanule azzurre, che li aveva lasciati senza fiato. La volpe che aveva accolto Mikasa il giorno ormai lontano del suo arrivo, era tornata ad affacciarsi, spingendosi sempre più vicina alla casa, incoraggiata dai regalini culinari che Mikasa le lasciava, nonostante le proteste accorate di Levi, che non voleva “bestiacce” nei dintorni.
 
Il loro lavoro stava proseguendo senza intoppi e stavano ormai scrivendo della vittoria – per non dire strage – di Shiganshina, intervallando la scrittura con la cura dell’orto, finalmente libero dalla neve e dalla pioggia battente che sembrava aver finalmente lasciato il posto alle belle giornate. Mikasa adorava lavorare la terra, la riportava alla sua infanzia. Dopo tanti anni nell’esercito non se lo sarebbe mai immaginato, ma quella semplice vita campagnola le si addiceva. Aveva cominciato a ricamare un nuovo set di lenzuola di lino, che portava avanti la sera dopo cena, mentre Levi appoggiato alle sue gambe leggeva i suoi libri davanti al camino. Aveva iniziato a provare una nostalgia nuova verso i suoi genitori: non si sentiva più triste per la loro morte, ma avrebbe voluto che avessero potuto conoscere la Mikasa di ora, questa strana creatura silvestre che anche lei a volte riconosceva a stento. Si ritrovava a fantasticare anche su Eren ed Armin, chiedendosi che tipo di persone sarebbero diventate dopo la guerra, anche se le riusciva difficile immaginarli a vivere come persone comuni. Soprattutto Eren.
Le era anche capitato di sognarli, ma non erano stati incubi o ricordi dolorosi. Si era risvegliata quasi rasserenata.
 
Sospirò, appoggiando il mento al palmo della mano sinistra, mentre la mano destra tracciava ghirigori d’inchiostro su un foglio di brutta. Il sole cominciava ad abbassarsi e di Levi non vi era ancora alcuna traccia.

Decise di fare una pausa dalla scrittura preparando una torta di mele.
Prese gli ingredienti dalla dispensa e dispose tutto con cura sul piano della cucina, prima di accendere la stufa sotto al forno. Poi iniziò ad impastare la farina, le uova, il burro per preparare la pasta frolla. Immaginava già l’odore piacevole di mele cotte e cannella avvolgerla e sorrise, immaginando i commenti di Levi, che l’avrebbero certamente sminuita, per evitare di doversi complimentare per avergli preparato la sua torta preferita.
 
Si astrasse completamente, tanto che non si accorse minimamente del suo arrivo. Sentì la porta aprirsi alle sue spalle proprio mentre infornava la torta. Si voltò di scatto ed il sorriso radioso che aveva sul viso si spense all’istante.

Le bastò uno sguardo al capitano per capire che era successo qualcosa. Il qualcosa che aspettavano ormai da giorni e giorni.
 
Levi le lanciò uno sguardo serio e tagliente, prima di voltarsi per togliersi la giacca ed appenderla. Mikasa trasalì, trattenendo il fiato. Un groppo alla gola le impedì di pronunciare parola. Sentì il cuore che prendeva a scalpitarle in petto come un puledro imbizzarrito. Osservò Levi che apriva la borsa, con una lentezza che le sembrò disarmante, e che estraeva una busta. Mikasa riconobbe immediatamente il timbro di cera lacca che l’aveva chiusa.
 
«Allora?» le sfuggì dalle labbra d’improvviso, prima di riuscire a impedirselo. La sua voce ruppe un silenzio così pesante che le sembrò più rumorosa di un tuono.
Levi sospirò, avvicinandosi a lei. Poggiò la busta sul tavolo, premendola con forza con le dita della mano sinistra.
«Giudica tu stessa» rispose, prima voltarsi ed uscire di casa, richiudendosi la porta alle spalle.
 
 
Mikasa prese la busta tra le mani tremanti e fece due lunghi respiri per calmare il ritmo del suo cuore. Poi tirò fuori la lettera di slancio e riconobbe subito la scrittura rotondeggiante di Historia.
L’agitazione era tale che non si prese nemmeno la briga di leggere davvero quanto vi era scritto, scorse rapidamente il foglio con gli occhi, soffermandosi solo sulle parole che le sembrarono essenziali.

 
Caro Capitano…non ero al corrente…ho provveduto a sistemare…impegno meramente di consulenza…hai già servito abbastanza questa corona…gli alti ufficiali ne sono informati…non potresti mai essere un traditore…spero che tu stia bene…con affetto

 
Il sollievo esplose in Mikasa in modo così violento che la ragazza dovette appoggiarsi con la mano sinistra sul ripiano della cucina. Si sentì ansimare, mentre rileggeva la lettera – questa volta con più calma – per essere certa di quanto vi fosse scritto.
Era tutto vero. Levi era libero e non sarebbe dovuto tornare di nuovo nella Città sotterranea. Mikasa si portò la mano che ancora stringeva la lettera davanti alla bocca, quasi nascondendo un accenno di risata che voleva sopraffarla.

Era talmente abituata che le cose andassero per il peggio, che la peggiore delle possibilità si verificasse, che questa svolta l’aveva colta completamente di sorpresa. Fino a due secondi prima era completamente certa che Levi avrebbe dovuto tornare in missione, che si sarebbero dovuti separare ed andare via dalla radura, che lei avrebbe dovuto lottare con le unghie e con i denti per poterlo aiutare, senza sapere davvero se avrebbe potuto farlo. E adesso d’improvviso si ritrovava così: con la certezza che Historia li aveva liberati con una semplice lettera dai suoi più grandi timori.
 
Finalmente, un sorriso radioso che le scoprì persino i denti, si fece strada sul suo viso. Si voltò di scatto verso la porta da cui era uscito Levi, immaginando di trovarselo davanti, felice quanto lei.
Poi, all’istante, si rese conto che c’era qualcosa che stonava in tutto questo: Levi non era sorridente, non sembrava sollevato. Era uscito sbattendosi la porta alle spalle e Mikasa lo poteva vedere dalla finestra, appoggiato con gli avanbracci al parapetto del portico, lo sguardo perso nei campi davanti a sé.
 
Mikasa aggrottò le sopracciglia, incerta. Poi uscì. Rimase alle sue spalle, con la lettera ancora stretta nel pugno. Levi percepì la sua presenza ed incassò ancora di più la testa tra le spalle, mentre con l’unghia del pollice sinistro grattava via un’incrostazione dal legno della balaustra.
 
«Te l’avevo detto che Historia non poteva esserne al corrente» la sua stessa voce le sembrò troppo metallica, troppo fredda, mentre l’unica cosa che avrebbe voluto fare un attimo prima sarebbe stato esultare con lui «Sarà stata un’idea di quell’idiota di Dok. Te l’avevo detto che non poteva essere vero. Sei libero…»
 
«Già. Così pare…»
 
Le rispose senza voltarsi a guardarla. Mikasa lo sentì sospirare a malapena.
 
«E allora perché sembra che ti abbiano appena dato la peggiore delle notizie?»
 
Levi non rispose, si limitò ad ondeggiare impazientemente sulle proprie gambe, interrompendo il lavorio del pollice e raddrizzando la schiena giusto quel tanto che gli permetteva di tornare a guardare verso l’orizzonte. Mikasa lo conosceva troppo bene, le sembrava di sentire nella propria gola quel groppo che gli impediva di parlare. Fece un passo incerto verso di lui.
 
«Levi… non è compito tuo raddrizzare tutte le ingiustizie di questo mondo…»
 
A quelle parole, lui le lanciò uno sguardo, mentre un sorriso amaro balenava sulle sue labbra spezzate. Poi abbassò di nuovo il viso verso le proprie mani.
 
«Ero sicuro di dover andare…» si lasciò sfuggire un attimo dopo, a voce così bassa che se Mikasa non avesse prestato attenzione probabilmente non l’avrebbe nemmeno udito.
 
«Lo so»
 
«Lo sai che sono il migliore per questa missione…»
 
«Ci sarà pur qualcuno abbastanza in gamba tra la Gendarmeria e la Polizia Militare…»
 
Levi sollevò di nuovo il viso verso di lei, con un’espressione mista tra il sarcasmo e la vulnerabilità.
 
«Tsk. Ma fammi il piacere…»
 
Mikasa sorrise a sua volta, eliminando la distanza che si frapponeva ancora tra loro. Lo vide incassare di nuovo il capo tra le spalle, mentre si riappoggiava ai gomiti sul parapetto.
 
«Finiranno per essere feriti…o più probabilmente uccisi. Dovrei essere io ad andare…lo sai anche tu» Si dondolò di nuovo impercettibilmente sul posto. Mikasa abbozzò un sorriso leggero: si era aspettata queste parole dall’istante in cui era uscita sul portico. Sacrificarsi, gettarsi nelle missioni più impossibili per evitarle agli altri…era la natura di Levi, agiva così da quando lei lo conosceva. Quella consapevolezza le fece accelerare in un attimo il cuore. Allungò le braccia ed incorniciò il viso di lui tra le mani, con la lettera pressata sulla sua guancia sinistra, forzandolo a girarsi leggermente verso di lei.
 
«Non puoi saperlo, ok? E comunque me ne infischio. È di te che mi importa»
 
Questo lo fece sorridere davvero, quel suo sorriso sghembo, insolente, che le toglieva il respiro. «Diamine Ackermann, lo sai che sei davvero insensibile?»
 
«Lo so. Sono sempre stata un’egoista»
 
Levi per tutta risposta chiuse gli occhi e sospirò, appoggiando la propria fronte a quella di lei e cingendole la vita con le braccia.
 
«Come ti senti?» sussurrò lei a un centimetro dalle labbra di lui.
 
«Onestamente?» rispose Levi «Sollevato»
 
«E ti senti in colpa per questo?»
 
Levi rimase con gli occhi chiusi, ma abbozzò un sorrisetto laterale. «Un po’»
 
Mikasa si sporse leggermente in avanti e posò un bacio leggero sulle labbra di lui.
 
«Questo perché sei troppo buono. Dovresti essere un po’ più egoista anche tu»
 
Il sorriso di Levi si tramutò in una specie di ghigno: «Questa non me l’aveva mai detta nessuno»
 
«Probabilmente perché se ci avessero provato gli avresti staccato la testa a morsi»
 
Il riuscire a strappargli una risata – una vera risata – la riempì di gioia.
 
«Probabilmente hai ragione…»
 
 
 
 
**
 
 
 

«Dicevi sul serio a proposito degli Ackermann?»
 
Mikasa alzò lo sguardo dalla fetta di torta sbruciacchiata che aveva nel piatto e lo portò su Levi, che le sedeva di fronte, senza capire. Corrugò la fronte a mo’ di risposta.
 
Lui posò la forchetta sul lato del piatto e si strinse nelle spalle.
 
«Il tuo piano di andare a Hizuru. Per scoprire qualcosa di più sugli Ackermann. O era solo una scusa per scappare da qui?»
 
Mikasa rimase ancora in silenzio, questa volta pensando ad una risposta sincera da dargli. In effetti quell’idea era nata così, come scusa per convincerlo ad andarsene evitando la missione nella Città Sotterranea, ma dall’istante in cui l’aveva formulata, si era accorta che c’era qualcosa di più oltre a questo. Prima di riuscire anche solo a proporla a Levi, si era sorpresa ad immaginarsi in viaggio insieme a lui, senza obblighi militari e soprattutto senza guerra. L’idea di una ricerca, di una nuova avventura, insieme in questo modo nuovo e incredibile l’aveva affascinata da subito. Aveva smesso di pensarci quando aveva capito che lui non si sarebbe mai sottratto al volere di Historia, l’idea era stata accantonata in un cantuccio della sua mente dal quale ogni tanto Mikasa la tirava fuori, giusto per confortarsi, per giocare al gioco dei “e se…” nei momenti in cui si sentiva più disperata. Immaginare un mondo diverso nel quale avrebbero potuto andare liberi ovunque avessero voluto era come una pastiglia dolce che le si scioglieva in una bocca riarsa.
 
Mandò giù il boccone e bevve un sorso d’acqua, concentrando lo sguardo sulle proprie dita. Non capiva perché, ma d’improvviso si sentì vulnerabile, come una bambina che proponga un gioco troppo infantile ad un amico ormai cresciuto.
 
«M-hm…sì, dicevo sul serio» rispose infine, prendendo ad arrotolarsi una ciocca di capelli attorno all’indice.
 
«È deciso allora. Una volta finito con i registri.»
 
Mikasa spalancò gli occhi per la sorpresa. «Dici davvero?»
 
Levi si strinse nelle spalle. «Mai stato così serio»
 
 «Credevo non ti importasse di questa roba»
 
Levi si alzò e si diresse verso la credenza, da cui tirò fuori la bottiglia di acquavite di Ludlow e due bicchieri. «Infatti non mi importa molto. Ma mi piace l’idea di viaggiare per un po’.»
 
Mentre tornava al tavolo, la ragazza rifletté sulle sue parole. La consapevolezza di non dover andare nuovamente in missione doveva averlo liberato di un peso enorme. La prospettiva di viaggiare assieme a lui risbocciò nuovamente nella sua mente, riempiendola di immagini rosee ed elettrizzanti. Represse un sorriso che non voleva apparisse troppo entusiasta.
 
«Potremmo andare dovunque, se non ti importa del Clan Ackermann perché vuoi andare proprio ad Hizuru?»
 
«È vero, non me ne importa un accidente della storia degli Ackermann. Se mi sentisse Hanji mi prenderebbe a male parole, curiosa com’è su queste storie di giganti…però importa a te, giusto? Per cui mi sta bene»
 
Questa volta Mikasa sorrise davvero. Levi si bloccò a guardarla, prima di versare l’alcool nei bicchieri. Per vederla sorridere così, nessun viaggio assurdo era un prezzo troppo elevato.
 
Il sorriso di Mikasa si tramutò in un’espressione complice: «Direi che questa decisione necessita un brindisi»
 
«E cosa pensi che avessi preso i bicchieri a fare?» Rispose lui, prima di porgergliene uno e sollevare il proprio: «Ai nuovi progetti»
 
Mikasa lo copiò ed andò a cozzare il bicchiere con il suo: «Alle nuove avventure»
 
Si lanciarono uno sguardo intenso che durò più di quanto entrambi avrebbero pensato. Poi bevvero tutto d’un sorso e sbatterono i bicchieri sul tavolo con forza, sorridendo. Entrambi pensando al sottinteso nascosto in quello sguardo che si erano lanciati prima di bere: che i nuovi progetti e le nuove avventure le avrebbero vissute assieme.


 

Non ve la aspettavate questa svolta, eh?
Ebbene sì, Levi è libero dalla missione nella Città Sotterranea, ma i guai relativi a questa storia non sono ancora del tutto finiti...lo scoprirete nel prossimo capitolo.

Ma visto che non so tra quanto riuscirò a pubblicarlo, ho concluso questo capitolo in modo positivo...così almeno non ho lasciato nesusno con fiato sospeso o con troppa tristezza! 

Spero vi sia piaciuto, fatemi sapere come sempre che ne pensate!

Ciaaaao!
Chikay

 

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