Apart

di Acinorev
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Apart: I ***
Capitolo 2: *** Apart: II ***
Capitolo 3: *** Apart: III ***



Capitolo 1
*** Apart: I ***


Buonasera a tutti!!
È da anni che annuncio l'uscita di questo missing moment, ma il mio testardo blocco dello scrittore mi ha sempre messo i bastoni tra le ruote. Per cui sono anni che scrivo e riscrivo nella mia testa queste vicende, rischiando di perdere il senno.
Finalmente qualche giorno fa mi è tornata inspiegabilmente l'ispirazione e ho iniziato a scrivere, come quando ai bei vecchi tempi saltavo i pasti pur di non perdere il filo del capitolo.
Questo missing moment fa parte della storia di Emma ed Harry, direi che è risolutivo per certi aspetti della loro coppia. È ambientato a poco più di un anno dalla fine di "High Hopes". Inizialmente doveva essere una one-shot, ma la cosa mi è sfuggita di mano e si è allungata a dismisura, per cui ho dovuto dividere il testo in due parti (sempre che non ne esca una terza!): essendo troppo impaziente, ho deciso di iniziare a pubblicare la prima parte, mentre continuo a lavorare sulla seconda!!
Spero davvero possa piacervi. Sarò felicissima di qualsiasi commento vorrete lasciare, sia in positivo sia in negativo.
Un abbraccio e buona lettura!

PS. come ho consigliato anche su Wattpad: brace yourself!!

 

 

18 aprile 2018
10:43 pm
 
«Ammettilo…»
Harry fece scivolare quella parola appena sussurrata tra le scapole nude di Emma, afferrando i suoi fianchi impazienti con malizia. «Avevo ragione» concluse, baciandole la pelle.
Emma non poteva vederlo, alle proprie spalle, ma era sicura stesse sorridendo. Lei fece lo stesso, inarcando appena la schiena. «No.»
«Testarda.»
Avrebbe voluto rispondergli sfacciatamente, ma alla sua bocca sfuggì solo un gemito privo di pudore: Harry aveva spinto il bacino contro di lei, coprendole il seno con le mani audaci. Voleva farle percepire la propria eccitazione: una dispettosa minaccia ed un passionale invito.
Emma chiuse gli occhi e si morse un labbro, muovendosi lentamente in sintonia con il suo corpo in un chiaro assaggio di ciò che entrambi stavano aspettando ed allo stesso tempo ritardando. Ringraziò il letto sotto le loro ginocchia, ad impedirle di cedere. «Se credi che questo basti a farmi cambiare idea…» scherzò provocatoria.
Lui sorrise sul suo collo, per poi lambirle il lobo di un orecchio. «Non c’è bisogno di farti cambiare idea» replicò, portando una mano tra le cosce di Emma e facendola sussultare per il desiderio. «Il modo in cui hai svaligiato tutte le loro scorte di sushi parla da sé.»
Emma era distratta dalle mani di Harry, intente a percorrere il suo corpo con lascivia, a soffermarsi sui suoi punti più sensibili e a tormentarla. «Non ho mai detto che non sia un buon ristorante giapponese» spiegò dopo qualche secondo, troppo impegnata a tenere a bada gli istinti più accesi e a riordinare i pensieri offuscati. «Solo che non è il migliore della città.»
«Infatti è il migliore dell’intera contea» ribatté lui, incapace di abbandonare la sottile disputa nata dalla cena conclusasi solo poco prima: avevano impiegato diverso tempo a scegliere il ristorante giusto e nessuno dei due aveva ancora deposto le proprie preferenze. Entrambi, sicuramente, non si dispiacevano affatto di cosa avrebbe comportato. «O persino dell’intera regione.»
Emma non rispose, reclinò il capo all’indietro e lasciò che Harry le baciasse la mandibola. «Stai parlando troppo» mormorò, percependo il proprio autocontrollo scemare inevitabilmente.
Harry non si fece ripetere due volte quelle parole, che più di un rimprovero sapevano di preghiera: entrò in lei con decisione e consapevolezza. Le circondò l’addome con le braccia nascondendo il viso sulla sua schiena e solleticandole la pelle con i capelli corti. Emma trattenne il fiato per pochi istanti, accogliendo l’unione che tanto aveva agognato ed assecondando i movimenti ritmici di Harry.
Doveva ancora abituarsi a percepire Harry dentro di sé senza alcuna barriera a separarli, ma non credeva ci sarebbe mai riuscita: era una sensazione della quale non si capacitava e che l’aveva fatta letteralmente tremare quando per la prima volta l’aveva conosciuta. Sentiva che non avrebbero potuto sperimentare oltre, sapersi più vicini, che un tale piacere non poteva essere sostituito o raggiunto in nessun altro caso.
Abbandonata ad una intimità ormai indiscutibile, gemette senza vergognarsene ed ansimò quando Harry rispose con una reazione simile, accelerando le sue spinte e rendendo più profondo il loro contatto. Allungò una mano all’indietro per raggiungere i capelli di Harry e stringerli in un pugno, mentre lui cercava la sua bocca per baciarla sfacciatamente.
Emma era sopraffatta, si sentiva in una prigione di piacere che, se da un lato la soffocava per la passione che non riusciva a contenere, dall’altro le faceva implorare di averne ancora.
«Ammettilo» ripeté Harry con la voce mozzata, probabilmente intento a non perdere completamente la propria lucidità.
Incredula per la sua perseveranza, Emma gli tirò appena i capelli mentre lui le stringeva possessivamente i fianchi. Preferì ribattere senza pronunciare nemmeno una parola: portò le mani sulle sue e si allontanò appena dal suo bacino, mordendosi un labbro per quella spiacevole ma necessaria interruzione. Si voltò a guardare Harry, che ansimando la stava osservando con un cipiglio confuso ed infastidito sul volto: continuò a tenere in ostaggio i suoi occhi e con una lentezza disarmante per entrambi andò di nuovo incontro all’erezione di Harry. Si occupò lei di dettare il ritmo e la velocità dei movimenti, di ristabilire le priorità e di rimettere al suo posto l’orgoglio così simile al proprio con il quale conviveva da anni.
Harry gemette più forte, restando inerme ed arrendendosi a lei in modo piuttosto mite: si sedette sulle proprie ginocchia ed Emma lo seguì, frastornata dalla posizione diversa ed appagante. Continuando ad ondeggiare sul suo bacino, si concentrò sul piacere che Harry le stava donando sfiorando i suoi punti più sensibili.
«Ammettilo.»
Emma si ribellò a quell’ulteriore invito imprimendo maggiore velocità ai propri movimenti: percepì Harry perdere momentaneamente il controllo sulle deliziose sevizie che le stava infliggendo, abbandonarsi appena sul materasso come se il suo corpo avesse accusato un duro colpo alla sua stabilità. Forte di questi dettagli, non si mostrò compassionevole: continuò incessante nel suo tentativo di ammansirlo, accecata dal piacere che sentiva crescere nel basso ventre, e si voltò per cercare la sua bocca, ansimando contro di essa in uno scambio di respiri.
Conosceva ormai alla perfezione qualsiasi reazione che era in grado di provocare in Harry, qualsiasi particolare che poteva far presagire qualcosa o sperare in altro: avere un tale controllo su di lui era inebriante. Per questo non ebbe alcun dubbio su ciò che stava per accadere quando Harry iniziò ad andarle incontro con il bacino in modo confuso, aggrappandosi ai suoi fianchi senza smettere di sfiorarle le labbra. «Vieni» gli sussurrò guardandolo negli occhi, in un imperativo che non lasciava scampo.
In quel gioco di pretese e dispetti che era la loro relazione e che si rifletteva anche nei momenti più intimi, non era mai chiaro se il cedere di uno fosse una disfatta o una gentile concessione all’altro. Nemmeno in quell’istante Emma avrebbe potuto dire con certezza se l’orgasmo totalizzante di Harry fosse una dichiarazione di sconfitta o un dono offertole come una maledizione, ma non se ne preoccupò: accettò senza domande e senza discussioni l’irrigidirsi del corpo che tanto amava, l’accelerare del respiro umido tra le proprie scapole, la sensazione di calore che ne derivò. Si prese persino del tempo per percepire ogni granello di emozione sin nelle ossa, ansimando senza allontanarsi o osare muoversi: non era ancora pronta ad abbandonare Harry, a dover fare i conti con la separazione.
Harry portò una mano sul suo collo, accarezzandolo piano, e camminò con le dita sulla sua mandibola fino a posarsi sulle sue labbra: la invitò a voltarsi e lei lo guardò colma di amore insaziabile, sibillino. Sapeva di doversi aspettare delle piacevoli ripercussioni per il modo in cui l’aveva trascinato nella cieca passione, e non poteva negare di aspettarle con smania: anzi, le provocò consapevolmente ancora una volta. Si avvicinò quanto più poteva alla sua bocca, data la posizione, gli sfiorò il naso e gli respirò sul viso illudendolo di un qualcosa che gli negò subito dopo: «Non lo ammetterò mai» dichiarò a bassa voce, accennando poi un sorriso vittorioso che si allargò quando lui scosse la testa, ancora ansante.
«Sei terribile» rispose lui, rubandole un bacio dispettoso. Con una mano tornò sul suo seno, poi sul suo addome: nessuno aveva intenzione di muoversi, Harry era ancora dentro di lei. «Davvero, davvero terribile» aggiunse, raggiungendo la sua intimità ed iniziando a torturarla sapientemente al fine di portarla là dove lei l’aveva costretto senza pietà solo poco prima.
Emma abbandonò il capo all’indietro e sospirò di piacere, impaziente di concedergli una rivincita ed allo stesso tempo di riscuotere la propria ricompensa. Avrebbe voluto ringraziare Dio per quel momento.
 
 
19 aprile 2018
11:37 am
 
Emma si tamponò il viso con l’asciugamano per eliminare le ultime tracce di umidità sulla sua pelle. Aveva notato con sconforto il disordine che governava i suoi capelli, ancora raccolti nella parvenza di una coda, ma stava tergiversando nel porre rimedio: ciò che più attirava la sua attenzione era la presenza di profonde occhiaie a testimoniare la notte insonne appena trascorsa.
Ma era giusto assegnare meriti e colpe di un tale viso stremato.
Il merito era di Harry, che l’aveva posseduta fino a sfinirla e che si era concesso a lei altrettante volte.
La colpa, invece, era del ristorante giapponese che li aveva ospitati a cena la sera prima. Erano riusciti a raggiungere un accordo, lei ed Harry: l’avevano decretato il miglior ristorante della città, della contea e della regione, ma solo nel causare terrificanti indigestioni. La passione che li aveva uniti per gran parte della notte, infatti, aveva dovuto cedere il posto al nauseabondo vomito e al doversi alternare in bagno per ben altri impellenti bisogni intestinali.
Al solo ricordo Emma sospirò e si lavò nuovamente i denti, arrivando a perdere il conto di quante volte avesse già provveduto a farlo: non riusciva a sbarazzarsi del retrogusto amaro che le era stato imposto da quelle ore di malessere, nonostante l’aroma alla menta del suo dentifricio le pizzicasse la lingua.
Harry entrò nel bagno pochi istanti dopo, ancora assonnato, trascinando i piedi e strofinandosi il volto con le mani, mentre Emma lo seguiva tramite lo specchio appeso alla parete e ne apprezzava il fisico asciutto, la pelle rosea macchiata solo dai boxer che indossava. La abbracciò da dietro, appoggiando il mento sulla sua spalla sinistra e dondolandosi appena nello stringerla a sé. Gli occhi chiusi.
«Buongiorno» mormorò Emma lentamente, godendosi il calore derivante dal loro contatto. Gli si premette appena contro. «A tutti e due» aggiunse, riferendosi a qualcosa che si era svegliato con Harry e che poteva percepire chiaramente tra di loro.
Harry si mosse appena in risposta, alzò le palpebre e cercò il suo sguardo nello specchio. Si inumidì le labbra, nascose il viso contro il suo collo. «Buongiorno» replicò la sua voce roca.
Emma chiuse gli occhi e si concentrò sui lenti baci che lui le stava lasciando dietro l’orecchio. Sentiva il suo respiro sulla pelle e poteva immaginare nei minimi particolari il movimento della bocca dal quale proveniva, poteva ripercorrerne ogni lineamento e saggiarne il gusto senza toccarla. Ne era attratta. Ne era eccitata.
Spontaneamente si alzò sulle punte dei piedi, reclinando appena il capo per permettergli un accesso migliore, per chiedergli in silenzio di non smettere. E mosse il bacino contro di lui, con lentezza e piacere.
«Emma…» la ammonì Harry, tornando a guardarla tramite lo specchio. Aveva ancora le braccia intorno a lei.
Lei si morse un labbro, fingendo una incoerente innocenza. «Sì?»
«Non provocarmi» le consigliò lentamente. «Tua sorella arriverà a momenti.»
Emma portò le mani sulle sue, accarezzandole piano. «Io non ti sto provocando» si difese, senza poter ingannare nessuno. Le sue parole erano una chiara sfida ed Harry ne era tutt’altro che immune.
Senza interrompere il contatto visivo, Harry si avvicinò al suo orecchio. «Ah, no?» Sussurrò, in modo così sensuale da farla rabbrividire.
«No» rispose lei a bassa voce, intenzionalmente incapace di mitigare la passione con la quale stava cercando di contagiarlo.
Sapeva come dimostrare il contrario, sapeva come fargli capire che in quel momento nulla avrebbe ottenuto attenzione ed importanza a discapito del puro desiderio che sentiva crescere esponenzialmente, sapeva come convincerlo a seguirla, sapeva come intrappolarlo costringendolo ad accontentarla, sapeva come fargli credere di averlo fatto spontaneamente e generosamente.
Mentre un teso silenzio li avvolgeva, Emma spostò la propria mano verso il basso: tratteggiò una lenta discesa verso gli slip in cotone che la celavano pudicamente agli occhi voraci di Harry. E lui seguì quei movimenti tramite lo specchio, come rapito, forse incredulo e grato, fino a trattenere il respiro quando la mano di Emma si nascose dietro la stoffa.
Emma percepì la presa di Harry intorno al proprio corpo farsi più debole, ma non meno asfissiante. Per provocarlo ancora, emise un gemito leggero, continuando a darsi piacere sotto il suo sguardo attento. Non dovette aspettare molto per sentire il bacino di Harry iniziare a muoversi contro di sé con lentezza, per sentire la sua erezione crescere e soffrire nel restare intrappolata nei boxer.
Harry cercò il suo sguardo, schiuse le labbra e continuò a guardarla mentre le lasciava un bacio sofferto sulla spalla, mentre cercava di controllare il respiro che si faceva più veloce, mentre cercava di trattenere l’istinto di toccarla oltre sapendo che lei non gliel’avrebbe permesso. Ed Emma assecondava i suoi movimenti, senza interrompere i propri: aveva la gola arida, era accaldata, eccitata. Avrebbe voluto raggiungere Harry e toccare la sua pelle nuda, ma qualcosa le sconsigliava di farlo, promettendole ben altri e più intensi piaceri.
Harry arrivò a baciarle la mandibola, la guancia, spingendosi contro di lei con sempre più ardore ed aggrappandosi ai suoi fianchi con qualcosa di simile alla disperazione. Cercò di baciarla, ma Emma si ritrasse appena, ansante. Lui accettò il dispetto, ma non gli si arrese: le afferrò il viso con una mano e le leccò volgarmente le labbra, respirandole tanto vicino da spingerla a cedere ai suoi istinti e ai suoi sentimenti. Quando fu lei ad avvicinarsi spontaneamente alla sua bocca, accecata dal desiderio e dimentica di ciò che gli aveva imposto pochi secondi prima, Harry lasciò la presa e la guardò tramite lo specchio, per godere della sua rivincita.
Emma si sentì soffocare da una valanga di emozioni, dalla più carnale alla più platonica. Ne fu sopraffatta e per un attimo si sentì debole per l’orgasmo al quale si stava avvicinando: gemette senza trattenersi e si aggrappò al bordo del lavabo per avere un sostegno. Agli occhi di Harry questo dovette sembrare una legittimazione di ciò che anche lui stava provando e trattenendo, perché tenendola per il bacino la fece voltare verso di sé e la sollevò per farla sedere sul lavandino. Le spostò gli slip e si abbassò quanto bastava i boxer, prima di unirsi a lei con un movimento che li fece sospirare entrambi di sollievo e lascivia.
Emma continuava a sorreggersi alla superficie di ceramica, mentre Harry ondeggiava dentro di lei. «Mio Dio…» sussurrò lei, senza nemmeno rendersene conto. Allungò una mano e la strinse tra i capelli di Harry, provocando in lui una smorfia di fastidio ed una spinta più energica. Entrambi si andarono incontro come a volersi baciare, ma non lo fecero: si sfiorarono labbra contro labbra, riuscendosi a toccare solo quando l’uno o l’altra si inumidiva sfacciatamente la bocca fingendo di non farlo di proposito.
La loro sintonia non subì cambiamenti nemmeno quando il suono del campanello li richiamò alla quotidianità. L’ospite era alla porta, ma a loro non interessava. Emma era pervasa dal piacere, aveva iniziato a tremare impercettibilmente ed aveva serrato la bocca per evitare che qualsiasi gemito potesse sfuggirle ed arrivare ad orecchie indiscrete. Harry, invece, si impose il silenzio baciandole il seno e suggendole un capezzolo.
Lei raggiunse l’orgasmo quando Harry si dedicò alla sua intimità con le dita, incapace di resistere oltre e di trattenersi: si aggrappò al suo corpo, cercando di soffocare il piacere contro il suo petto e stringendogli le gambe intorno ai fianchi. Le mani sulla sua schiena nuda, contratta. Per Harry quello fu abbastanza e troppo: non aveva ancora finito di godere dell’eccitazione di Emma, che si irrigidì tra le sue braccia muovendosi contro di lei intensamente, al limite del piacere.
Il campanello di casa suonò ancora, più a lungo.
Emma ed Harry restarono inermi per qualche secondo, ansimando travolti da ciò che avevano appena provato. «Te l’avevo detto, di non provocarmi» mormorò Harry, prima che i loro respiri potessero regolarizzarsi. Lei sorrise e finalmente lo baciò.
 
Si erano resi presentabili il più in fretta possibile. Sfumata la passione che li aveva attanagliati e che aveva offuscato la loro lucidità, Emma si sentiva vagamente in colpa ed in imbarazzo al pensiero di cosa l’avesse trattenuta dall’accogliere in casa Fanny, la sua sorellina. Harry non se ne preoccupava affatto – non che la cosa la stupisse, conoscendolo – ma lei non poteva che sbuffare a disagio mentre si dirigeva verso la porta.
«Si può sapere cosa stavate facendo?» Esordì Fanny, guardando sua sorella con divertimento e sospetto non appena la porta si aprì.
Emma schiuse la bocca per rispondere, per accampare una scusa che potesse vincere sull’astuzia della quindicenne che le stava di fronte, ma Harry la anticipò: «Non vuoi saperlo, nanerottola» rispose, raggiungendole e salutandola con un largo sorriso.
Emma gli riservò una gomitata. «Ci siamo svegliati tardi» lo corresse in tono minaccioso, facendo entrare la sorella.
Fanny la ignorò, ben consapevole di chi fidarsi. «E mi spieghi perché ti ostini a chiamarmi in quel modo? Ormai sono anche più alta di entrambe le mie sorelle» protestò rivolta ad Harry, rimproverandolo per quel soprannome che le era stata affibbiato due anni prima, quando la pubertà non aveva ancora elargito regali.
«Di un centimetro e mezzo» precisò Emma, dirigendosi verso la cucina.
Fanny si strinse nelle spalle, lasciando sul divano la giacca di jeans e sistemandosi i capelli castani. «Ma sono comunque più alta di te.»
«Non preoccuparti, anche lei ha dei soprannomi» la rincuorò Harry, appoggiandosi allo stipite della porta con le braccia incrociate. Il viso malizioso. Emma si soffermò sui ricordi di qualche minuto prima, si sentì arrossire.
«Ovvero?»
«Questa è un’altra cosa che non vuoi sapere, nanerottola» rispose lui, alzando un sopracciglio.
«Non lo ascoltare, si diverte a prenderti in giro» intervenne Emma, tastando alla rinfusa gli oggetti su una mensola per cercare qualcosa da cucinare: o forse stava solo cercando di distrarsi dai pensieri poco appropriati che non riusciva ad eliminare.
Quando Fanny vide la sorella arrendersi alla confusione, posando le mani sui fianchi, decise di commentare: «Abbiamo in programma questo pranzo da due settimane, praticamente, e ancora non sai cosa cucinare?»
«Io so cosa cucinare» mentì, notando con la coda dell’occhio come Harry stesse arruffando affettuosamente i capelli di Fanny. «Devo solo…» Lasciò la frase in sospeso per alzarsi sulle punte dei piedi e cercare qualcosa tra stoviglie ed altri prodotti in scatola.
«Harry?» Chiamò poi, incrociando le braccia al petto con fare infastidito.
Fanny era accoccolata contro di lui, circondandogli il busto con una mano. «Cos’hai combinato?» Gli chiese con complicità.
«Giuro innocenza» replicò lui, fintamente ingenuo.
Emma assottigliò lo sguardo ed indicò il mobile con un cenno del capo. «Com’è possibile che se io ti chiedo di comprare qualcosa da mangiare, finisci sempre per dimenticartene o per sbagliare, mentre se Fanny deve venire a pranzo da noi non manchi mai di farle trovare i suoi biscotti preferiti?»
«Li hai comprati davvero?» Civettò Fanny, guardandolo con adorazione e saltellando sul posto in modo infantile: Emma si chiese quanto tempo sarebbe passato prima di vederli di nuovo battibeccare come due bambini dell’asilo.
Harry si strinse nelle spalle. «Me li sono trovati davanti, al supermercato» raccontò con noncuranza.
Emma alzò gli occhi al cielo. «Tu non vai al supermercato» gli ricordò.
«Se Fanny deve venire a pranzo sì, ci vado» precisò lui, cercando di farla ridere. Chiunque avrebbe creduto che fosse un modo per indispettirla, ma Emma conosceva bene l’affetto fraterno nato tra i due, il modo in cui Harry stravedeva per la piccola di casa.
Fanny si era precipitata a controllare che il proprio vizio fosse stato effettivamente esaudito, e questo diede modo ad Emma di avvicinarsi ad Harry. Lui la baciò lentamente. «Non essere gelosa» le sussurrò sulla bocca per non farsi sentire. Con una mano le accarezzò il fianco, l’addome, il seno, il collo. «Non puoi essere gelosa» aggiunse.
Negli occhi i momenti appena trascorsi nel loro bagno, l’unione indiscutibile che li legava.
 
 
11 Maggio 2018
08:37 am
 
Il corpo di Emma era un orologio svizzero.
Soprattutto da quando aveva iniziato ad assumere la pillola anticoncezionale, il suo essere donna era scandito da tempi precisi e regolari, prevedibili e rassicuranti. Mai un ritardo. Nemmeno di un giorno.
Proprio per questo motivo, Emma era sull’orlo di una crisi di nervi. Non riusciva a spiegarsi sette giorni di ritardo: o meglio, una spiegazione poteva esserci, ma era statisticamente improbabile ed infinitamente più semplice da ignorare. Da una settimana a quella parte, ogni mattina Emma si era svegliata con la speranza di vedere una macchia di sangue sulla sua biancheria, di avvertire quei lievi crampi al basso ventre che preannunciavano il fisiologico avvenimento: ma ogni mattina aveva trattenuto il fiato inutilmente, deglutendo un ingombrante nodo alla gola e sospirando profondamente.
Non sapeva come sentirsi a riguardo, non voleva saperlo. Per lo più si costringeva a non sentire affatto, spaventata da eventuali aspettative o timori: non poteva permettersi di dar spago ai propri pensieri, non prima di essersi accertata della situazione. Credeva ne sarebbe stata sopraffatta.
Metodica nel portare avanti il suo ingenuo piano, quella mattina aveva atteso che Harry – l’ignaro Harry - uscisse per andare a lavoro ed aveva recuperato dalla borsa il test di gravidanza acquistato in farmacia il giorno prima. Aveva letto una decina di volte le istruzioni nella confezione: le prime cinque perché per l’ansia che le attanagliava lo stomaco non aveva prestato attenzione alle parole, le altre cinque perché voleva essere certa di non commettere errori e forse anche per rimandare l’inevitabile.
Era rannicchiata sulla tavoletta del gabinetto, con le ginocchia piegate contro il petto e le braccia a tenerle strette. Dondolava ritmicamente su se stessa come a volersi rassicurare, mentre il labbro inferiore rischiava di sanguinare per la forza e l’insistenza con le quali lo stava torturando. Aveva appoggiato il test sul lavandino di fronte a lei e stava aspettando che il timer impostato a tre minuti suonasse e la trascinasse nella realtà: fissava quel bastoncino di plastica come se fosse una bomba pronta ad esplodere, qualcosa di estremamente pericoloso e terrificante. Ma ne era anche attratta: più volte aveva represso l’istinto di alzarsi e sbirciare prima del tempo, come se avesse potuto affrettare le cose con la sua sola volontà. Nonostante non si sentisse affatto pronta, era impaziente di sapere.
Quando il timer trillò nel piccolo bagno, Emma sussultò e per poco non cadde a terra. Lo silenziò frettolosamente e sentì del sudore freddo impossessarsi delle sue mani: si inumidì la bocca, alzando il mento per convincersi di avere ancora un minimo di contegno. Fece un passo avanti ed il suo sguardo guizzò brevemente sulla sua immagine riflessa nello specchio: il suo viso era contratto in una smorfia tesa, che la spinse a serrare gli occhi per imporsi quanta più calma potesse racimolare. Si concesse qualche respiro profondo e quando percepì l’ansia asfissiante retrocedere e lasciarle spazio, sollevò di nuovo le palpebre e serrò la mascella.
Si avvicinò ancora al lavandino, allungò una mano tremante ed afferrò il test di gravidanza.
 
 
12 Maggio 2018
09:30 am
 
Emma si appoggiò alla parete con una mano, cercando di regolarizzare il respiro più che poteva. Si sentiva avvampare, si passò una mano sul collo come a volerlo liberare da una presa soffocante ed inesistente. Si guardò per un attimo intorno, vagamene infastidita dall’odore pungente di detersivo con il quale la signora delle pulizie stava lavando le scale, e fissò con astio il cartello scritto a mano che indicava che l’ascensore era fuori servizio.
Con la bocca secca ed il cuore in preda alla frenesia, dovuta non solo allo sforzo fisico, si affrettò a percorrere le ultime due rampe di scale. Si fermò davanti alla porta in legno scuro, ansimando e passandosi una mano tra i capelli.
Suonò il campanello, ma in qualche modo non le sembrò sufficiente: iniziò a bussare vigorosamente, prima con le nocche, poi con il palmo della mano. Udì borbottare dall’interno dell’appartamento, ma anziché esserne tranquillizzata si sentì in dovere di continuare.
Pete spalancò la porta con un cipiglio nervoso sul volto ancora assonnato. La squadrò con la mascella serrata: «Si può sapere che diavolo ti prende?!».
Emma ignorò la sua domanda e lo spinse debolmente di lato per intrufolarsi in casa.
«Certo, fai pure…» lo sentì lamentarsi dietro di lei, sovrastato dal rumore della porta che si richiudeva.
Emma trasse un profondo respiro, strinse i pugni e si decise ad affrontarlo. Si voltò di scatto, guardandolo negli occhi e forse anticipando parte del suo stato d’animo: Pete, infatti, corrugò la fronte e rilassò appena la linea dura della bocca. «Kent?» La chiamò, come per riscuoterla.
Emma iniziò a frugare nella propria borsa, mentre Pete chiedeva nuovamente cosa stesse succedendo ricordandole che quello era il suo unico giorno di riposo. «… Quindi voglio sperare che sia una cosa ur-» stava finendo di dire, quando lei gli mise frettolosamente qualcosa tra le mani, interrompendolo.
«Ho fatto un test di gravidanza» esclamò, come se quelle parole le stessero ustionando la lingua ed il suo corpo non vedesse l’ora di vomitarle fuori. «Anzi, ne ho fatti due. Per… sicurezza.»
Pete spalancò gli occhi, osservando brevemente i due bastoncini tra le sue mani. «Ma che cazzo…!» Sbottò una volta capito di cosa si trattava, facendo cadere a terra i test e storcendo la bocca in un’espressione disgustata. Strofinò le mani contro i pantaloni del proprio pigiama, prima di rivolgere lo sguardo verso Emma.
Lei si chinò per raccogliere da terra i colpevoli di tutta la situazione: non sapeva nemmeno perché li avesse portati con sé, forse erano l’unico appiglio tangibile di quello che stava accadendo.
Avrebbe voluto rimandare il momento in cui avrebbe dovuto incontrare gli occhi sconcertati del suo migliore amico.
«Kent, lo ripeto: che cazzo sta succedendo?»
Emma sospirò nuovamente, fece vagare gli occhi reticenti sull’arredamento del salotto, ma alla fine dovette obbligarsi a proseguire. «Sono incinta.»
Pete smise di respirare, lo sguardo assente di chi non riesce a scendere a compromessi con la verità. Le sue mani continuavano a sfregare meccanicamente contro le sue cosce, ma debolmente, come se anche loro fossero state distratte da quella notizia. «Incinta?»
Lei annuì, mordendosi le labbra. Attese, incapace di controllare il fremito che la percorreva.
Pete inarcò le sopracciglia, sembrò soppesare la situazione, ma ne uscì sconfitto. Si passò una mano sulla nuca rasata, abbassando e scuotendo il capo. Senza guardare Emma, si diresse verso il divano e vi si sedette con un sospiro frustrato.
Emma lo seguì, incerta. «Pete, per favore» lo pregò, con una voce spezzata che non corrispondeva al suo stato d’animo fino a quel momento, ma che rifletteva qualcosa di più profondo. Si sedette accanto a lui, deglutendo a fatica. «Ho bisogno… Ho bisogno che tu sia quello lucido tra i due, perché io non… Non ne sono in grado, ora come ora» ammise lentamente, percependo il panico intorpidirle le dita.
A quel punto Pete la guardò, ma senza il fastidio con il quale l’aveva spontaneamente accolta o il momentaneo disgusto che l’aveva seguito: semplicemente la osservò per incamerare la sua richiesta, mosso dal dovere che il loro legame gli imponeva. Improvvisamente Emma si sentì più al sicuro.
«Ne sei sicura?» Le chiese Pete, azionando il suo lato logico e pragmatico. Forse quello che Emma aveva smarrito e che stava cercando.
Emma annuì nuovamente, sistemandosi meglio sul divano. «Ho un ritardo di una settimana. Io non… Non ho mai ritardi» spiegò, come mille volte aveva ripetuto a se stessa: a volte per smentire una possibilità che ormai si era concretizzata, a volte per giustificarla. «Ieri ho fatto un test ed è uscito positivo. Ne ho ripetuto un altro oggi… Tra pochi giorni farò gli esami del sangue, ho già preso appuntamento dal ginecologo.»
Pete continuava a fissarla negli occhi, anche se lei di tanto in tanto distoglieva lo sguardo per concedersi una tregua. «Harry lo sa?»
Il cuore di Emma si accartocciò su se stesso. «No» rispose flebilmente. «Non ancora» aggiunse.
Aveva intenzione di dirglielo, ma non si sentiva ancora in grado di farlo. Doveva prima scendere a patti con se stessa. Se con Pete si era concessa di comportarsi spontaneamente e di lasciar trasparire tutta la sua gamma emotiva senza alcun freno, era solo perché lo temeva di meno: Harry era tutt’altro discorso, Harry… Harry meritava di più, e lei voleva sentirsi pronta a concederglielo.
Non sapeva nemmeno come fosse riuscita a mantenere una maschera di tranquillità nelle ventiquattro ore precedenti, a dormire accanto a lui senza renderlo conscio del proprio respiro artefatto.
Pete si inumidì le labbra ed inspirò profondamente: sembrava stesse cercando le parole giuste da dire, senza volersi sbilanciare. Forse non sapeva come reagire perché non aveva ancora capito come si sentisse Emma, perché non avrebbe voluto sbagliare.
Emma decise di spiegarsi meglio, o forse semplicemente non poteva più frenare il flusso dei suoi pensieri. «Non lo stavamo cercando-» riprese di getto. Iniziò a torturarsi le mani in grembo, abbassò lo sguardo, poi ricominciò più lentamente. «Certo, qualche volta ne abbiamo parlato e… Ci abbiamo fantasticato un po’ su» continuò, interrompendosi brevemente per riscaldarsi al ricordo delle chiacchierate in piena notte, sussurrate sulla pelle nuda. «Ma non abbiamo mai deciso di avere un bambino, non ora almeno. Io prendo la pillola, Pete. E giuro che non l’ho mai dimenticata, insomma, faccio tutto da manuale!» Nel pronunciare quell’ultima frase, si lasciò sfuggire un sospiro frustrato, passandosi le mani tra i capelli: era un fondamentale particolare del quale non riusciva ancora a capacitarsi. Sapeva che nemmeno la pillola anticoncezionale era in grado di fornire una protezione al cento per cento, ma si rifiutava di credere di essere davvero in quella misera percentuale sfuggita ad un controllo universalmente riconosciuto.
Pete l’aveva ascoltata con attenzione, rilassando la postura. Le diede qualche istante per regolarizzare il respiro. «Credo che ora sia inutile pensare a come sia potuto succedere…» disse poi, impregnando la sua voce di rassicurazione. «È successo» aggiunse, stringendosi nelle spalle come a voler sottolineare qualcosa di ovvio. Emma ne fu banalmente rinvigorita: che qualcun altro oltre lei prendesse atto della cosa poteva farla sentire sollevata, come se fino a quel momento lei avesse vagato sola e disorientata in una massa informe di infime domande, di possibilità infinite e paure sconfortanti. Aveva bisogno che qualcuno la trattenesse con i piedi per terra, che la costringesse a resistere al panico più cieco.
«Quello che mi interessa…» riprese Pete, «è sapere come ti senti tu. Sei incinta, Emma». Le posò una mano sulla coscia, avvicinandosi appena. «Ne siamo felici?»
Emma si immerse negli occhi cerulei di Pete e vi scorse uno sconfinato affetto, una calda promessa non pronunciata. Vi lesse indiscutibile appoggio, ma soprattutto libertà. Libertà di sentimento. Si sentì legittimata a provare qualsiasi cosa le venisse più naturale, certa che dall’altra parte avrebbe trovato un porto sicuro.
A quel punto il respiro le si mozzò in gola per un singhiozzo che la sorprese all’improvviso, mentre timide lacrime le riempivano gli occhi umidi. Sorrise apertamente e tirò su con il naso, per poi riappianare le labbra e coprirsi il volto con le mani. Non riuscì a pronunciare una risposta, perché semplicemente non fu in grado di trovarla: era offuscata da troppi pensieri sovrastanti per potersi definire felice all’idea di una gravidanza, ed anche se dentro di sé sapeva che portare in grembo il figlio di Harry aveva un significato totalizzante per lei, per il momento non riusciva a scardinare il concetto da tutto il resto.
Pete la abbracciò dolcemente, lasciando che lei nascondesse il volto contro il suo collo.
 
Non era andata a lavoro, non se l’era sentita. Era troppo distratta.
Era rimasta a casa a riorganizzare i propri pensieri e le proprie emozioni, o almeno a provarci. Dopo l’incontro con Pete, si era liberata di un grosso macigno che le pesava sulle spalle: lo shock iniziale si era tramutato lentamente ma inesorabilmente in chiara consapevolezza, ed una volta realizzata a dovere doveva solo essere interpretata nelle sue sfaccettature.
Come aveva confessato a Pete, né lei né Harry avevano mai progettato di avere un bambino, limitandosi a parlarne come di una possibilità lontana. Emma aveva sempre saputo di voler diventare madre e da quando aveva consolidato la storia con Harry aveva intrecciato indissolubilmente quella sua sicurezza al suo nome. Era un qualcosa che sapeva per certo sarebbe accaduto, ma che non si era ancora azzardata a soppesare sul serio.
Per questo motivo, quando il test di gravidanza era risultato positivo, avevano prevalso l’assoluta sorpresa e la completa assenza di controllo sulla situazione. Emma non avrebbe mai rinnegato quella gravidanza: era stato l’inaspettato a paralizzarla, a spaventarla più di qualsiasi altra cosa. Aveva sempre creduto che avrebbe avuto un bambino quando si fosse sentita pronta e preparata, ma questo le era stato negato: era stata catapultata in un sogno strabiliante, per il quale si sentiva però disarmata.
Inoltre il suo pensiero andava inevitabilmente ad Harry.
Ogni volta che avevano sfiorato l’argomento, lui era sempre sembrato propenso ad assecondarla: era certa che anche lui avrebbe voluto un figlio, prima o poi, ma non sapeva se sarebbe stato altrettanto flessibile nell’accogliere l’idea così all’improvviso. Forse avrebbe reagito come Pete, inizialmente pietrificato dalle sue parole, anzi sicuramente si sarebbe ammutolito e avrebbe messo su quell’espressione tesa e quasi imbronciata che Emma conosceva bene, in attesa di esprimersi a riguardo. Forse avrebbe anche tirato fuori gli stessi timori già noti, come i soldi che avrebbe voluto mettere prima da parte per assicurare alla famiglia una certa stabilità economica o la casa non adeguata che avrebbero dovuto cambiare. Ma Emma era anche convinta che Harry avrebbe infine ceduto arrendevolmente al pensiero del loro bambino e che ogni altra cosa avrebbe perso di importanza: memore dei suoi occhi verdi persi in fantasie lontane su ipotetici nomi e scuole da frequentare e percependo ogni giorno l’amore che li univa, le sembrava impossibile dipingere un altro scenario.
Si decise che non avrebbe avuto senso rimuginare su quale reazione avrebbe avuto chi, perché dentro di sé sentiva che in ogni caso avrebbero affrontato tutto insieme. Se Harry avesse iniziato a saltare per la gioia, lei l’avrebbe imitato prendendolo per mano. E se Harry avesse invece mostrato incertezza, lei avrebbe aspettato al suo fianco ricordandogli cosa rappresentavano insieme, senza giudicarlo per una reazione che lei stessa aveva avuto.
Rassicurata da quei pensieri, si trovò a sorridere tra sé e sé e a far scivolare lentamente una mano sul proprio addome piatto. Si sentiva infantile nel compiere quel gesto, ma era l’unica cosa che potesse corredare il suo stato d’animo in quel momento.
Lo scattare della serratura attirò la sua attenzione, riscuotendola: Harry era tornato dal turno in officina. «Diamine…» borbottò, accorgendosi dell’arrosto che si stava bruciacchiando sotto i suoi occhi stralunati. Lo girò nella padella e diede una rassettata anche alle patate nel forno, mentre si ripeteva mentalmente di mantenere la calma. Si era ripromessa di custodire il segreto fino alla visita con il ginecologo, per cui doveva impegnarsi a non destare sospetti.
«Ciao» mormorò Harry dietro di lei, afferrandola dai fianchi e baciandole una spalla. Emma rise silenziosamente, godendo del calore del suo respiro. Si voltò ed accettò un bacio a fior di labbra.
«A cosa dobbiamo questa sfacciata dimostrazione di doti culinarie?» Le domandò con un ampio sorriso sul volto, senza lasciare la presa dai suoi fianchi e attirandola verso di sé.
Emma inarcò la schiena per continuare a guardarlo negli occhi. Gli passò le dita su una macchia d’olio sulla tempia e gli sfiorò il naso con il proprio, scherzosamente. «Non posso viziarti, una volta tanto?»
Voleva viziarlo, sì. Voleva viziarlo e renderlo partecipe per quanto possibile della felicità incontenibile che si faceva sempre più spazio in lei.
Voleva anche scusarsi per l’attesa inconsapevole alla quale lo stava costringendo.
Harry la baciò di nuovo, questa volta con più malizia. «Sai che puoi farlo tutte le volte che vuoi» sussurrò. «Non chiedo altro.»
«Ah, sì?» Domandò Emma, ricambiando la sua provocazione. «Non pensavo fossi così bisognoso.»
Un soffio più intenso lasciò le labbra di Harry, mentre lei lo attirava a sé dall’orlo superiore dei suoi jeans. «Bisognoso è una parole forte» mormorò contro la sua bocca, arrendendosi alle sue mani, intente ad abbassargli la zip. «Più che altro mi definirei…» Lasciò la frase in sospeso. Emma si inginocchiò di fronte a lui e per un attimo Harry abbandonò il capo all’indietro, come incapace di assistere alla scena. Tornò a guardarla quando lei prese a giocare con i suoi boxer, sorridendogli provocatoria.
Emma si inumidì le labbra lentamente, senza abbandonare i suoi occhi. Sfiorò con una mano la sua erezione, che cresceva ancora intrappolata dietro la stoffa, e lo fece sospirare per l’impazienza. Si avvicinò, respirando con le labbra schiuse contro di lui, e gli abbassò i boxer.
Harry gemette senza che lei lo toccasse.
Emma lo prese tra le mani, con movimenti controllati che sapeva lo avrebbero torturato. Lui si appoggiò con una mano alla cucina, mentre con l’altra le afferrava i capelli debolmente come a volerla pregare di non fermarsi. Quando lei si avvicino con le labbra alla punta della sua erezione, Harry spinse il bacino in avanti impercettibilmente, facendola sorridere.
«Cristo-» mormorò Harry, catturato dal suo gioco snervante.
Emma mosse le mani avanti e indietro, guardandolo dal basso. «Io credo che bisognoso sia esattamente la parola giusta» precisò lentamente, macchiando la voce di sensualità.
Harry si lasciò sfuggire un verso di frustrazione: si piegò su di lei, facendo leva sui suoi capelli per attirare il suo viso verso il proprio, e la baciò sfacciatamente, con urgenza. «Sì, è la parola giusta» ammise contro la sua bocca, mordendola. «Ho bisogno che tu smetta di parlare.»
Emma gli leccò le labbra, alzando un sopracciglio. «Bastava chiedere» disse con finta innocenza.
 
 
16 Maggio 2018
03:23 pm
 
«Ancora non capisco che diavolo ci faccio qui» borbottò Pete, incrociando le braccia al petto e guardandosi intorno con la tensione ad irrigidirgli i lineamenti del volto. Lanciava occhiate cariche di disagio alle donne in avanzato stato di gravidanza che lo circondavano, così come ai poster ricchi di rappresentazioni anatomiche di genitali femminili.
Emma si schiarì la voce e raddrizzò la schiena, sperando che nessuno lo avesse sentito. «Sei venuto perché mi vuoi bene» gli ricordò, osservandolo mentre lui sbuffava contrariato. «E perché faresti di tutto per supportarmi» aggiunse, addolcendo il tono.
Pete alzò gli occhi al cielo.
Emma l’aveva supplicato di accompagnarla all’appuntamento dal ginecologo: il giorno prima aveva eseguito gli esami del sangue ed era in attesa del referto, inoltre voleva fargli alcune domande, ma non avendo ancora parlato con Harry – i quattro giorni più lunghi della sua vita – né con la sua famiglia e non volendo andare da sola, Pete le era sembrato la soluzione più semplice.
«Signorina Clarke?»
Emma scattò in piedi nel sentir chiamare il proprio nome, incrociando lo sguardo della segretaria che la invitò cordialmente ad accomodarsi nello studio. Pete borbottò un “Finalmente” alle sue spalle, dal momento che l’orario dell’appuntamento era passato da un pezzo, ma la seguì senza protestare oltre.
Il Dottor Jills era seduto dietro la sua scrivania, con la testa calva china su un foglio sul quale stava scribacchiando. «Prego, prego!» Esclamò, prima di alzare lo sguardo e salutare entrambi con un ampio sorriso. Le rughe intorno agli occhi piccoli ed infossati lo facevano sembrare ancora più affabile del tono di voce morbido e gentile.
Emma era agitata, si ritrovò a sospirare in un sorriso e ad avvicinarsi spontaneamente a Pete.
«Signorina Clarke? Giusto?» Chiese conferma lui, mentre le faceva cenno di sedersi.
Lei annuì ed accettò l’invito, mentre Pete la imitava al suo fianco.
«E lei è il suo compagno?» Continuò il Dottor Jills.
Pete strabuzzò gli occhi. «No, no» si affrettò a correggerlo, schiarendosi la voce.
«No, lui… è Pete, un mio caro amico» intervenne Emma, sentendo la necessità di andargli in aiuto.
Il ginecologo sembrava stupito e lievemente confuso, ma non si pronunciò oltre. «Bene, direi allora di procedere» disse, cercando qualcosa tra le varie cartelle sulla sua scrivania.
Pete si raggelò nel posare gli occhi sul lettino ginecologico e su alcuni strumenti riposti lì accanto, mentre Emma tentava disperatamente ed inutilmente di adocchiare i risultati dei suoi esami tra tutte le scartoffie lì davanti.
Il Dottor Jills rimase in silenzio per qualche istante, sfogliando un sottile fascicolo ed aggiustandosi il nodo della cravatta. Emma avrebbe voluto scuoterlo dalle spalle per spingerlo a parlare, a dire qualsiasi cosa: in compenso prese a stritolare la borsa che teneva sulle proprie gambe.
«Allora…» esordì il ginecologo, caricando Emma di impaziente aspettativa. «Prima mi permetterete qualche domanda di rito, hm?» Domandò, giocando con la penna tra le sue mani e provocando delusione nei suoi due interlocutori: da una parte, Emma aveva sperato di andare dritti al punto in modo da troncare l’ansia che continuava a tormentarla; dall’altra parte, Pete forse aveva avuto la stessa speranza, ma solo per uscire di lì il prima possibile.
Il Dottor Jills raccolse scrupolosamente l’anamnesi della sua paziente, interrogandola anche sulla sua famiglia e sul padre del bambino – nel pronunciare quelle parole aveva lanciato una rapida occhiata a Pete, che si era subito accigliato. Le aveva poi chiesto da cosa fosse nato il sospetto della gravidanza, se e quando avesse già fatto un test, e se avesse sperimentato sintomi particolari nelle ultime settimane.
«Prima di parlare degli esami del sangue di ieri, vorrei farle un’ultima domanda» continuò il ginecologo, schiarendosi la voce. «Lei ed il suo compagno avete rapporti completi regolari?»
Pete si strozzò con la sua stessa saliva. Emma si voltò a guardarlo vagamente imbarazzata, battendogli una mano sulla schiena per rassicurarlo e forse anche per temporeggiare. «Scusate» disse lui, guardandosi intorno mentre sedava la sua improvvisa tosse stizzosa.
Emma sospirò e tornò a guardare il Dottor Jills. «Sì, direi di sì.»
Lui annuì, come nel cercare una risposta più profonda in quelle poche parole. «E usate altre precauzioni, oltre la pillola anticoncezionale?»
«No» rispose lei piano.
Pete tossì nuovamente.
A quel punto la conversazione deviò sul suo ciclo mestruale, sulla data delle ultime mestruazioni e su altre informazioni che stavano facendo impallidire Pete sempre di più.
«Dottor Jills, mi scusi…» esordì Emma durante una pausa di pochi secondi, nella quale il ginecologo stava appuntando alcuni dati sulla sua cartella. «Io non capisco» continuò. «Prendo la pillola da anni, penso di non aver mai dimenticato di assumerla, sono sempre attenta all’orario… Ho persino una sveglia che me lo ricorda…»
Lui sorrise bonariamente, come di fronte ad un bambino ingenuo. «Signorina Clarke, capisco i suoi dubbi. Partiamo dal presupposto che anche la pillola anticoncezionale, nonostante la sua straordinaria efficacia, non è mai del tutto infallibile» le ricordò. «Inoltre può essere ostacolata da diversi fattori: il caso, innanzitutto» proseguì, con una punta di divertimento nella voce che mise vagamente a disagio Emma e che fece corrugare la fronte di Pete. «Ma anche farmaci, disturbi gastrointestinali… La pillola anticoncezionale è un medicinale, d’altra parte: qualsiasi alterazione nel suo assorbimento può minarne il funzionamento. Da come mi ha già detto, lei non ha assunto alcun farmaco negli ultimi mesi, giusto?»
Emma scosse il capo.
«Mai avuto vomito? Diarrea?»
Emma schiuse le labbra, trattenne il respiro.
Nella sua mente spiccarono a galla i ricordi di una notte trascorsa tra le braccia di Harry, di ritorno dal ristorante giapponese nel quale avevano cenato. I ricordi dell’indigestione che aveva colpito entrambi poche ore dopo. La loro immagine accaldata riflessa nello specchio del bagno.
Pete le diede una leggera gomitata, come per riscuoterla: probabilmente aveva indugiato un po’ troppo a lungo su quei pensieri.
«Le è tornato in mente qualcosa?» Indagò il Dottor Jills.
Emma balbettò, passandosi una mano tra i capelli. «Sì, in effetti… sì. Il mese scorso siamo andati a mangiare fuori e quella notte abbiamo avuto una brutta indigestione…»
Il ginecologo sembrava aver appena appreso un pezzo mancante del puzzle, risultando persino troppo entusiasta di quell’informazione. «Si ricorda che giorno era?»
Emma ricostruì l’accaduto e rispose ad ulteriori domande, senza prestare davvero attenzione. Riusciva solo a chiedersi come avesse potuto essere così ingenua da non averci pensato prima: si vantava della sua assunzione scrupolosa della pillola, ma aveva mancato di soffermarsi su quel particolare.
Si riscosse quando sentì il ginecologo introdurre le sue analisi del sangue.
Persino Pete, al suo fianco, si sporse impercettibilmente in avanti.
I valori delle beta-HCG erano consistenti con la presunta data del concepimento. «Lei è incinta di circa quattro settimane, signorina Clarke» decretò il ginecologo, con un largo sorriso sul volto.
Emma si ritrovò a saltellare sulla sedia in preda alla felicità, afferrando spontaneamente la mano di Pete.
Certo, il test di gravidanza le aveva già anticipato gran parte della sorpresa, ma era diverso sentire un professionista ufficializzare la cosa a fronte di valori ematici, spiegazioni mediche e date calcolate. Come quando aveva detto a Pete della gravidanza e lui le aveva ripetuto che non importava come, ma che era successo, provocando in lei un immenso senso di sollievo, allo stesso modo le parole del ginecologo avevano rimarcato ancora una volta la legittimità della sua emozione.
«Ok, ok» esclamò il Dottor Jills, cercando debolmente di porre un freno all’entusiasmo. «Prima di lanciarci in festeggiamenti, direi di procedere ad una veloce ecografia.»
Emma si paralizzò. Pete fece una smorfia di dolore nel sentire la propria mano venire inconsapevolmente stritolata.
«A questo punto della gravidanza l’embrione è ancora piuttosto piccolo, per cui sarà molto difficile vederlo. Ma potremmo dare un’occhiata alla camera gestazionale. Per il battito del cuore, invece…» Fece una pausa, nella quale spiò l’espressione di Emma: probabilmente era ciò che più gli veniva richiesto. «… temo che per quello dovremo aspettare ancora un pochino.»
Emma non nascose a se stessa una certa delusione: era ovvio che non vedesse l’ora di sentire battere il cuore di suo figlio, ovvio che avrebbe voluto accelerare la natura a proprio piacimento. Ma decise di non abbandonarsi ciecamente all’entusiasmo: sia perché non le sembrava il caso di rendersi imbarazzante di fronte al proprio medico, sia perché la mano di Pete stava diventando pericolosamente blu. Lasciò la presa, scusandosi con aria pentita.
Pete scosse la testa per nascondere un sorriso genuino.
«Se vuole accomodarsi, signorina…» Proseguì il ginecologo, indicandole con una mano il lettino alla sua destra. «Effettueremo una ecografia addominale ed una transvaginale-»
Fu interrotto da un altro eccesso di tosse di Pete.
Il Dottor Jills lo guardò con un sopracciglio alzato. «Ovviamente il suo accompagnatore può aspettare fuor-»
«No.»
«Sì, grazie
Avevano risposto all’unisono.
Emma corrugò la fronte e fissò Pete. Abbassò la voce nell’avvicinarsi a lui. «Pete, per favore. Non lasciarmi da sola.»
«Kent, quell’uomo sta per infilarti un affare su per…» Si fermò, sospirò e si passò una mano dietro il collo. «Ci dovrebbe essere Harry, qui. O tua sorella. O chiunque altro non abbia particolari problemi nel vederti… in certe circostanze.»
Il ginecologo rise allegramente: evidentemente non avevano parlato a voce abbastanza bassa. «Ma per questo non c’è alcun problema! Lungi da me esporre al pubblico i genitali delle mie pazienti» si affrettò a dire con un umorismo tutto suo, alzandosi in piedi. «Pensate che a volte nemmeno i loro compagni vogliono assistere! Eppure c’è un semplice stratagemma.»
Pete ed Emma lo seguirono con lo sguardo nella stanza. Lui afferrò un paravento color panna e lo sistemò accanto al lettino, poi indicò lo schermo appeso al muro. Si rivolse a Pete: «Lei potrà comodamente osservare la scena al di là del paravento».
Pete non sembrava convinto: la sua espressione tradiva un innato istinto a fuggire il più lontano possibile.
«Per favore» sussurrò Emma, afferrandogli di nuovo la mano.
Lui la guardò negli occhi per qualche istante. «Voglio che questo venga messo agli atti. Voglio potertelo rinfacciare per il resto della vita» decretò, lasciandosi scappare un sorriso quando Emma gli saltò al collo per ringraziarlo.
Qualche minuto dopo, Emma era decisamente rigida mentre si sdraiava sul lettino.
Il paravento era posizionato in modo che solo il suo corpo fosse coperto: poteva vedere Pete, se girava il capo alla sua destra. In un certo senso la rincuorava. Sapeva di essere stata egoista nel convincerlo a rimanere, ma era anche convinta che Pete fosse solo molto imbarazzato e che in fondo avrebbe fatto questo e altro per lei. Non aveva torto nel sostenere che quel momento dovesse appartenere ad Harry: anche Emma si sentì vagamente in colpa nel pensarci, ma in fondo era solo una visita di controllo dove quasi sicuramente non si sarebbe visto nemmeno l’embrione. Lei ed Harry avrebbero avuto momenti ben più significativi da affrontare insieme.
Il suo battito cardiaco era accelerato, impaziente, e lei stava sperimentando un certo distacco dalla realtà: non vedeva l’ora di scorgere qualcosa sullo schermo appeso contro la parete, così tutto il resto perdeva di importanza e di sostanza. Difatti non ascoltò, anzi non registrò tutto ciò che il Dottor Jills le disse sulle sue strutture anatomiche regolari e “ben predisposte”, né si lasciò possedere dall’imbarazzo o dal fastidio quando l’esame si fece più invasivo: la sua attenzione si ringalluzzì solo quando il ginecologo si soffermò su un’area confusa a lei poco chiara.
«Eccola» disse, manovrando lo strumento tra le sue mani per ottenere una migliore visuale. «Questa è la camera gestazionale, come potete vedere».
Ad Emma venne spontaneo sorridere, emozionata.
«Come pensavo, l’embrione non si vede» proseguì allora il ginecologo. «Ma non voglio si creino allarmismi: come ho detto precedentemente, la gravidanza è appena agli inizi, il piccolo sarebbe comunque troppo timido per farsi vedere!»
Emma continuò ad osservare quel sacco scuro dalla risoluzione scarsa, percependo il petto in fiamme a causa del suo significato.
Si voltò verso Pete e lo trovò incantato di fronte allo schermo, con le labbra semi chiuse e gli occhi immobili, ammaliati.
Il Dottor Jills si dovette accorgere della dinamica, perché si schiarì la gola ed alzò la voce: «Tutto bene, lì dietro?»
Emma rise, commossa, mentre Pete si riscuoteva facendo un passo indietro. «Certo, ehm… Sì, tutto bene.»
 
Il tempo aveva inspiegabilmente accelerato da quando lei e Pete erano usciti dallo studio medico, camminando con disattenzione perché impegnati nel guardare le piccole fotografie in bianco e nero che il ginecologo aveva stampato.
Emma si era ritrovata davanti alla sua porta di casa senza nemmeno accorgersene, senza nemmeno avere il tempo di prepararsi.
Era ufficiale: non aveva più scuse per rimandare il momento. Doveva parlare con Harry.
Voleva parlare con Harry. Disperatamente.
Sentiva di non essere più in grado di contenere dentro di sé le sue emozioni, ma soprattutto percepiva la viscerale necessità di condividerle con lui, con la persona che più amava al mondo.
Nascose le fotografie nella borsa, insieme al referto degli esami. Prese un gran respiro e si sistemò i capelli.
Harry doveva essere già tornato dal lavoro.
Quando si decise ad aprire la porta di ingresso, notò che la casa era silenziosa. Non c’erano segni di Harry, e per un attimo temette di essere sola e di dover rimandare il momento ancora una volta.
Lasciò la giacca di pelle sul divano, accanto alla borsa, e si tolse le scarpe. Poi si avviò in punta di piedi verso la camera da letto, dove a volte Harry si appisolava dopo un estenuante turno di lavoro.
La porta era accostata, Emma la spinse con i polpastrelli, premurandosi di non far rumore. Vide Harry sdraiato sul fianco sinistro, nel loro letto: le dava le spalle, aveva il respiro lento e regolare. La luce calda di quel pomeriggio inoltrato accarezzava i suoi lineamenti ed impregnava la stanza.
Inspirò a fondo, forse cercando di assorbire qualsiasi briciolo di coraggio disponibile e di modulare l’istintiva e potenzialmente pericolosa avventatezza: non aveva programmato cosa dirgli, né come farlo. Si avvicinò al letto lentamente, chiedendosi se Harry stesse dormendo o se la stesse semplicemente aspettando.
Si sdraiò accanto a lui, facendo cigolare sommessamente le molle della rete: anche lei sul fianco, fissava la sua schiena curva, i suoi capelli mori. Allungò una mano e la posò delicatamente tra le sue scapole. «Ehi…» mormorò piano, accarezzandogli una spalla ed un braccio.
Harry si mosse piano, afferrando la sua mano e portandosela alla bocca per posarvi un bacio leggero. «Sei tornata, finalmente» disse contro la sua pelle, prima di lasciare la presa: aveva la voce impastata, assonnata.
Emma annuì come se lui avesse potuto vederla, ritrasse a sé la mano: non sapeva dove metterla, se toccarlo e dove. Decise di stringersela al petto, nell’attesa. Chiuse gli occhi ed inspirò il profumo di Harry: gli era così vicino da percepire persino il calore del suo corpo.
«Come è andata la tua giornata?» Gli chiese dopo qualche istante: una domanda di circostanza non inusuale nel loro rapporto, ma anche terribilmente insignificante di fronte a ciò che stava introducendo.
Harry sospirò. «Al solito…» rispose, come disinteressato: sentiva che stava per scivolare in un sonno profondo. Emma non sapeva se avrebbe preferito guardarlo negli occhi: in un certo senso parlare alla sua schiena rilassata era in grado di rassicurarla, la faceva sentire come protetta.
«Harry?» Lo richiamò lei, per attirare la sua attenzione.
«Hm?»
«Devo dirti una cosa» ammise, tornando a toccare la sua schiena: la sfiorò solo con le dita, disegnando percorsi leggeri e senza meta. Il cuore le rimbombava nella cassa toracica.
«Se stai parlando della felpa che hai scolorito in lavatrice, stai tranquilla… Lo so già» la rassicurò Harry, aggiungendo un’ombra di divertimento nella voce. «L’ho trovata nascosta in fondo all’armadio qualche giorno fa.»
Emma sorrise apertamente, affondando momentaneamente il viso nel cuscino. «Non l’ho nascosta» precisò lei a bassa voce, sulla difensiva. Gli accarezzò la pelle nuda del collo, l’attaccatura dei capelli: lo vide rabbrividire appena, tornò tra le sue scapole. «Ma non parlavo di questo.»
«Un’altra felpa, allora? O un paio di mutande?» Indagò Harry.
Se da una parte la rincuorava l’atmosfera di candida confidenza tra di loro, dall’altra rendeva tutto estremamente più difficile.
«No, Harry, io...» Sospirò. In quel momento decise che preferiva decisamente non guardarlo negli occhi. «Sono incinta» disse piano, poggiando l’intero palmo della mano sulla sua schiena, come per percepire il suo respiro o lo scaturire di qualsiasi altra emozione.
Lo sentì irrigidirsi, invece.
Harry si mise a sedere, continuando a darle le spalle. Emma fece lo stesso, incapace di decifrare quella reazione.
«Come…» Harry si schiarì la voce, si passò una mano tra i capelli. «Come è possibile?»
Emma indietreggiò appena, il suo corpo rilasciò parte della tensione come se avesse subìto una sconfitta: aveva aspettato avidamente una sua risposta, qualcosa che avrebbe potuto aiutarla nell’interpretare quel momento, ma la voce che l’aveva raggiunta non aveva rispettato le sue aspettative. Anzi, le aveva infrante: era piatta, vuota.
Ed Harry continuava a non guardarla.
A differenza di pochi istanti prima, Emma avrebbe dato qualsiasi cosa per averlo di fronte a sé, anziché dover essere costretta ad immaginare l’espressione sul suo volto. All’improvviso percepì una mancanza assoluta, uno svantaggio.
Nonostante la sensazione di essere sull’orlo di un baratro, Emma decise di aggrapparsi alla promessa che aveva fatto a se stessa, alla promessa di affrontare tutto insieme e di concedere ad Harry il tempo ed il modo di reagire come meglio credeva, accompagnandolo in quel percorso. Si inumidì le labbra, sedendosi sulle ginocchia: gli occhi puntati sulla sua nuca. «Il ginecologo mi ha spiegato che in caso di vomito o… o di disturbi intestinali, la pillola non viene assorbita come dovrebbe e c’è il rischio che non funzioni, se in quei giorni ci sono stati rapporti. Ricordi quando siamo andati a cena in quel ristorante giapponese?»
Emma lo ricordava bene, ma con una sottile patina di amarezza: paragonare la passione di quella notte e del giorno seguente alla tensione sconosciuta che li stava avvolgendo in quel momento era intollerabile. «Il ginecologo pensa che quello potrebbe essere il giorno del concepimento» aggiunse, ripercorrendo brevemente la conversazione avuta nel suo studio.
Ogni secondo di silenzio che passava, aggiungeva un peso insopportabile sul petto di Emma, un freno alla genuina felicità che l’aveva animata fino a poco prima. Un monito che destava in lei un sospetto che non riusciva a dissipare: sperava con tutta se stessa che Harry da un momento all’altro le mostrasse anche solo un briciolo del suo stesso entusiasmo, che quantomeno si voltasse a guardarla negli occhi, ma lui continuava a restare fermo, a non dire niente, a torturarla.
«Harry?»
Il suo nome sfuggì alle sue labbra in una preghiera appena sussurrata.
Harry non la accolse.
«Avresti dovuto saperlo» disse soltanto, in tono quasi accusatorio.
Emma corrugò la fronte. «Cosa?» Chiese ingenuamente, anche se dentro di sé sapeva a cosa si stava riferendo.
«Questo» rispose lui con ovvietà, concedendosi per un fuggevole istante di scomporsi e di alzare appena la voce. Poi riacquistò il controllo, sospirando e rilassando la schiena. «Che ci sarebbero stati problemi in caso di vomito e tutto il resto.»
Emma avvertì le ultime parole incrinarsi mentre uscivano dalla sua bocca, come se anche lui si fosse accorto del loro significato. Si ritrasse come se avesse appena ricevuto un calcio alla bocca dello stomaco, rabbrividì. «Problemi?» Ripeté, la gola secca, il respiro irregolare.
Improvvisamente una consapevolezza diversa si impadronì del suo corpo incredulo: forse Harry non voleva un bambino, in fondo. Forse era stata accecata dal proprio entusiasmo e aveva finito per attribuirlo ingenuamente e speranzosa anche a qualcun altro. Forse si era illusa, forse si era sbagliata.
Si rese conto che la promessa che aveva fatto a se stessa era troppo difficile da rispettare.
Un limpido terrore iniziò infatti a percorrerle il petto, accompagnato da un marcato senso di protezione, svuotandola di qualsiasi logica ed imponendole una difesa serrata, irragionevole ed istintiva. Emma si portò una mano sull’addome, stringendo tra le dita la stoffa della sua camicetta ed abbassando lo sguardo per un breve momento, per cacciare vie le lacrime che avevano iniziato ad accalcarsi nei suoi occhi. Quando riportò lo sguardo su Harry, senza nemmeno pensarci disse qualcosa che le provocò un dolore atroce, qualcosa che voleva essere una rassicurazione a se stessa ed un ammonimento ad Harry: «Io non ho intenzione di abortire».
Singhiozzò subito dopo, coprendosi la bocca con una mano per nascondere quel suono gutturale e fonte di vergogna. In minima parte anche per nascondere parole che aveva già pronunciato.
Harry si voltò all’improvviso, quanto bastava per guardarla da sopra la spalla. Respirava nervosamente: i suoi occhi erano intrisi di rabbia, di un furore cieco e ferito. Emma vi lesse disgusto e al solo pensiero che quella reazione fosse stata dettata da una sua volontà, da qualcosa riguardante il loro bambino, singhiozzò di nuovo.
Harry si alzò frettolosamente, afferrando un paio di scarpe nell’angolo della stanza.
Emma lo seguì inciampando sul pavimento freddo. Senza prevederlo, lo trattenne per una mano: forse sperava di scorgere anche altro nei suoi occhi, forse sperava che lui leggesse qualcosa nei propri. Ma Harry serrò la mascella e scosse impercettibilmente la testa: «Vaffanculo, Emma» disse soltanto, prima di divincolarsi dalla sua presa ed uscire dalla stanza.
Lei restò inerme al centro della loro camera da letto, sola ed ansante. Si lasciò cadere a terra, non oppose più alcuna resistenza alle lacrime.
 
Harry era uscito subito dopo la loro discussione, Emma non sapeva dove fosse andato.
Lei era rimasta lì, ad aspettarlo.
Seduta sul pavimento, con la schiena contro il letto e le mani tremanti.
Il sole era tramontato, cedendo il posto all’oscurità rischiarata solo dai lampioni in strada e ad una lieve brezza che di tanto in tanto faceva rabbrividire Emma, riscuotendola dal torpore.
Emma non riusciva a pensare lucidamente. Ogni volta che provava a tirare le fila di ciò che era successo, gli occhi di Harry le tornavano alla mente vanificando qualsiasi suo tentativo: avevano creato in lei una ferita apparentemente insanabile, che la faceva piangere come una bambina e che allo stesso tempo bruciava ad ogni lacrima salata che provocava.
Non riusciva a capire, a capacitarsene.
Continuava a confrontare l’Harry che aveva immaginato scherzosamente da chi avrebbe ereditato gli occhi il loro ipotetico primogenito, all’Harry che l’aveva completamente respinta, che si era persino rifiutato di guardarla. Come potevano coesistere? Di quale avrebbe dovuto fidarsi? Per quanto volesse convincersi del contrario, le veniva spontaneo credere all’Harry che le aveva dato le spalle, perché l’aveva fatto di fronte ad una realtà e non di fronte a fantasticherie lontane.
Posto di fronte ad un fatto, era fuggito.
Emma avrebbe voluto dire per paura, ma non c’era nulla a sostegno di quella tesi. Harry si era semplicemente allontanato da lei sia fisicamente sia emotivamente, si era distaccato per poi accusarla di essere stata irresponsabile, come a volerle attribuire una colpa di qualcosa di scomodo, di un problema. Quella parola tormentava Emma oltre ogni tolleranza: le ronzava nelle orecchie, avvolta dal tono roco di voce che lei amava e che in quel momento odiava con tutta le stessa. Racchiudeva la loro differenza di vedute: ciò che per Emma era fonte di gioia, per Harry era un problema che avrebbe potuto essere evitato con un po’ più di attenzione.
Emma odiava ammetterlo, ma dentro di sé sentiva crescere un subdolo senso di colpa, come se Harry avesse toccato un tasto dolente che lei aveva trascurato fino a quel momento: non vi si era mai soffermata, perché non credeva che un bambino – il loro – avesse bisogno di colpevoli da condannare. Eppure lei si era persino ritrovata a chiedersi se Harry avesse ragione, se davvero lei avrebbe dovuto essere più attenta, più responsabile. Quel pensiero la ricoprì di vergogna più delle parole stesse di Harry.
E quando Emma aveva cercato di difendersi da una possibilità che la terrorizzava e che nasceva dalla reazione distante di Harry, quando gli aveva detto chiaramente che lei a quel bambino non avrebbe mai rinunciato, lui ne era rimasto disgustato. Le era impossibile pensare che lui disprezzasse tanto l’idea di diventare padre, per gli stessi motivi per cui si era precipitata a dirgli di essere incinta convinta che ne avrebbero festeggiato insieme: eppure doveva arrendersi all’evidenza. Forse Harry non disprezzava l’idea, ma non la condivideva nemmeno. Possibile che avesse davvero considerato l’opzione dell’aborto e che si fosse sentito orgogliosamente estromesso dalla decisione quando lei l’aveva escluso categoricamente?
Possibile che tra loro si fosse appena interposta una gelida voragine insuperabile?
 
Erano circa le quattro del mattino, Emma non era ancora riuscita ad addormentarsi e non credeva che ci sarebbe mai riuscita.
Harry non era tornato, il che la rendeva ansiosa e preoccupata: aveva anche messo da parte ogni suo sentimento, ogni ferita ed ogni traccia di orgoglio nel chiamarlo al cellulare. Una sola volta. Senza ricevere risposta. Era stata tentata di contattare Zayn, ma non avrebbe potuto né voluto spiegargli la situazione.
Era costretta ad aspettare.
Si alzò dal letto e si recò in cucina a piedi nudi, cercando il pavimento freddo per aggrapparsi ad un qualche stimolo esterno che non riguardasse Harry. Si preparò un thè caldo, ne bevve solo metà: in fondo era stato solo un pretesto per occupare il tempo. Una volta lavata la tazza nel lavandino, decise che poteva essere una buona idea pulire l’intera cucina.
Stava mettendo a posto l’ultima stoviglia, quando Harry fece scattare la serratura della porta d’ingresso.
Emma si voltò spontaneamente, trattenendo il respiro ed afferrando un bicchiere per far finta di essersi alzata per bere, anziché per cedere ad una mania ossessiva di pulizia.
Harry aveva il viso stanco, ancora teso: non la guardò, come se lei non fosse nemmeno lì, a pochi metri da lui. La superò ed Emma lo ascoltò chiudersi in bagno ed azionare la doccia.
Serrò la mascella. Avrebbe dovuto parlargli? Aprire nuovamente il discorso? Chiedergli dove era stato e fargli promettere di non sparire mai più nel nulla? Sinceramente non voleva farlo, né ne sarebbe stata in grado.
Decise di rimettersi a letto, raggomitolata su se stessa, e chiuse gli occhi forse nella speranza di nascondersi a così tante verità scomode, forse per fingere di dormire. Ma inutilmente.
Harry non tornò a letto dopo la lunga doccia.
Nel buio del loro appartamento, Emma spiò in salotto attenta a non far nessun rumore: scorse la figura di Harry sdraiata sul divano, immobile.
Distante.
 
Poche ore dopo, quando la sveglia di Emma suonò sul comodino, riscuotendola da un sonno breve e leggero, la casa era silenziosa. Emma si passò una mano sul viso, prendendo atto del mal di testa che sicuramente non l’avrebbe lasciata in pace molto presto.
Il letto accanto a lei era vuoto e per un attimo, un solo fuggevole attimo, Emma pensò semplicemente che Harry doveva essersi già alzato per andare a lavoro come tante altre mattine. Ma le lenzuola erano ben stirate nella sua parte di materasso, fredde e solitarie: le suggerirono che quella non era una mattina normale.
Emma si alzò ed andò in salotto: lo trovò vuoto.
Harry non c’era.
 
 
19 Maggio 2018
06:46 pm
 
«Buon compleanno!» Esclamò Emma tra i capelli mossi di Fanny, stringendola in un abbraccio affettuoso. Sua sorella minore lo ricambiò, ringraziandola in un sorriso. Era strano vederla crescere così velocemente, osservarla trasformarsi in una piccola donna: ed era ancora più strano ritrovarsi ad articolare pensieri simili, degni di una prozia anziana.
«Ed Harry dov’è?» Domandò Constance, non appena le sue figlie si furono separate. Teneva il piccolo Christopher tra le braccia, ormai un ometto di poco più di un anno dai lineamenti dolci come quelli di Melanie ed i capelli scuri come quelli di Zayn. Gli occhi azzurri furbi e curiosi.
Emma sospirò. «Io sto bene, mamma, grazie» borbottò per temporeggiare. Quando si accorse che tutta la famiglia la stava osservando, si sentì in dovere di precisare: «Non credo riuscirà a venire, il suo capo l’ha di nuovo riempito di straordinari» inventò, infilando le mani nelle tasche posteriori dei suoi jeans e stringendosi nelle spalle. Distolse lo sguardo da quello di sua madre, deglutendo a vuoto il disagio che le opprimeva la gola.
Fanny corrugò la fronte. «Strano, non mi ha detto niente» commentò, prendendo tra le mani il suo cellulare forse per ricontrollare le loro conversazioni in caso le fosse sfuggito qualcosa.
«Ed io che gli ho anche preparato il suo sformato preferito!» Si lamentò Constance, evidentemente dispiaciuta dalla notizia.
«Mamma, ti ricordo che è il mio compleanno: dovresti compiacere me» precisò Fanny, scuotendo la testa.
«Quel ragazzo si fa sfruttare» intervenne Ron, alzandosi dalla poltrona e massaggiandosi la schiena là dove l’avanzare dell’età pesava di più. «Straordinari fino a quest’ora? Pazzesco…»
Melanie prese tra le braccia Christopher, che aveva iniziato a piagnucolare. Zayn le era accanto e ne approfittò per accarezzare il viso del figlio e per offrirgli un dito da stritolare nella sua presa infantile. «Magari riuscirà a passare più tardi» disse speranzosa, cercando di modulare lo sconforto che sembrava aver conquistato l’intera casa. Guardò Emma con un velo di sospetto, ma sua sorella distolse immediatamente lo sguardo, schiarendosi la voce ed affrettandosi a seguire Constance in cucina fingendo di essere interessata alla torta che aveva preparato per l’occasione.
La verità era che Emma non aveva idea di dove fosse Harry, né sapeva se sarebbe venuto alla festa di compleanno di Fanny, anche se ne dubitava fortemente. Dal giorno in cui gli aveva detto di essere incinta, non avevano più parlato. A malapena si erano visti. Lui la ignorava, ma soprattutto la evitava: andava sempre prima a lavoro, tornava sempre più tardi, usciva sempre più spesso. E se anche stranamente si trovavano entrambi a casa, lui non sembrava tollerare di stare per più di due minuti nella stessa stanza. Inutile dire che non dormivano nemmeno più insieme: solo la notte scorsa l’aveva sentito entrare cautamente nella loro camera, sdraiarsi lentamente nel letto facendole trattenere il fiato. Ma si era alzato poco dopo, quando Emma aveva osato lasciarsi sfuggire un respiro appena più profondo, e si era mossa impercettibilmente. Era come se lui non riuscisse a starle accanto, come se non lo sopportasse.
Con il passare del tempo Emma era riuscita a modellare le proprie emozioni, anche se non era propriamente convinta di esserne completamente responsabile: la sua sofferenza si era lentamente travestita da rabbia ed insofferenza. Il risentimento aveva iniziato a scalzare il dolore, l’orgoglio lo rivestiva come una corazza e la testardaggine aggiungeva il suo contributo. Si sentiva intrappolata in un circolo vizioso, dove Harry si allontanava ogni ora di più e lei di conseguenza era sempre meno disposta a fare il primo passo.
«L’ho farcita con il cioccolato, sai che Fanny ne è golosa» stava spiegando Constance, con le guance arrossate dal calore umido della cucina, dove in forno stava ancora cuocendo qualcosa.
Emma approfittò di un suo momento di distrazione per rubare una tortina invitante.
Il suono del campanello riscosse entrambe.
«Chi può essere?» Domandò sua madre tra sé e sé, corrugando la fronte.
Emma sentì una disperata speranza farsi spazio nel suo torace, spiazzata subito dopo da un’incredula disillusione. Si recò in salotto per capire cosa stesse succedendo.
La voce entusiasta di Fanny la pietrificò. «Harry!» Gridò genuinamente, mentre lui varcava la soglia di casa con un misurato sorriso: lei gli si gettò addosso, abbracciandolo e facendolo barcollare appena. «Pensavo non venissi! Emma ci ha detto che stavi facendo gli straordinari» si spiegò. Gli occhi di Harry vagarono sui presenti, fino ad individuare Emma dall’altra parte del salotto: come ormai succedeva da tre giorni, scottato dalla sua presenza, distolse subito lo sguardo. Emma serrò la mascella, rabbrividì. «O era solo per farmi una sorpresa?» Continuò Fanny, carica di allegria.
Harry annuì. «Beccati» sospirò, stringendosi nelle spalle. Le scompigliò i capelli e fece un passo indietro, mentre Ron gli si avvicinava: «Iniziavo a preoccuparmi per i tuoi orari da stakanovista» commentò bonariamente, stringendogli una mano.
Emma si limitò ad assistere alla scena da lontano, con la voglia di fuggire. Tutta la sua famiglia si era radunata attorno ad Harry per brevi convenevoli e lui si ostinava a comportarsi normalmente, con la sua solita aria affabile e beffarda: lei era l’unica esclusa, l’unica che si ostinava a tenere a distanza. Oltre all’amarezza per quel muro insormontabile che le impediva di fare anche solo un passo verso di loro, Emma sentì crescere la rabbia per un dispetto che avrebbe preferito non ricevere: era sicura che Harry l’avesse fatto apposta, che avesse consapevolmente deciso di contraddire le sue aspettative sul fatto che non sarebbe venuto pur di evitarla e dar retta al proprio orgoglio, che avesse deciso di procedere solo per farle un torto, per metterla in difficoltà e per sottolineare ancora una volta il loro nuovo rapporto. O forse Emma era solo troppo fragile, ferita ed arrabbiata per ammettere che magari Harry aveva semplicemente rispettato un impegno preso. Per fermarsi a pensare che la festa di compleanno di Fanny fosse abbastanza importante per lui da costringerlo a condividere il suo stesso spazio vitale per più di qualche secondo. Che fosse più importante del provare a condividere il loro letto.
Un moto irrefrenabile di gelosia la pervase. Fanny era aggrappata al braccio di Harry, mentre lui chiacchierava con Zayn del più e del meno: Emma si vergognò della tentazione di urlare.
Incrociò nuovamente lo sguardo consapevole di Melanie, e nuovamente lo ignorò.
 
Non sapeva cosa l’avesse spinta a farlo, da cosa ne avesse tratto la forza ed il coraggio necessari: forse ne fu responsabile la tensione aumentata esponenzialmente durante l’intera cena, o i continui sguardi eloquenti ed inquisitori di sua sorella maggiore, quelli confusi di sua madre quando Emma non si era seduta accanto ad Harry, la costanza di Harry nell’ignorarla continuamente e con costanza, la voragine al centro del suo petto, la voglia di condividere con la sua famiglia una notizia che avrebbe dovuto essere fonte di gioia e che invece sembrava essere un completo disastro. Eppure Emma l’aveva seguito.
Harry si era allontanato per fumare una sigaretta in giardino e prima che Zayn si potesse alzare per fargli compagnia, lei l’aveva seguito: Melanie aveva spontaneamente appoggiato una mano su quella di suo marito per consigliargli di restare lì, ed Emma gliene fu grata.
Lo trovò seduto su una delle sedie in vimini, lo sguardo perso nel buio.
Emma si chiuse la portafinestra alle spalle, per evitare che qualcuno li sentisse. Non sapeva cosa avrebbe dovuto o voluto dirgli, ma era mossa da un istinto irrefrenabile ed illogico di confrontarsi con lui.
Era come se Emma non fosse lì, Harry non sembrò riconoscere la sua presenza: aspirò del fumo lentamente, assottigliando gli occhi. Lei gli restò affianco, non ebbe il coraggio di stargli di fronte, anche se dentro di sé avrebbe voluto obbligarlo a guardarla.
«Non pensavo saresti venuto» esordì a bassa voce, cercando di tenere sotto controllo il proprio respiro: lasciò libero il proprio cuore, invece, sicura che su quello non avrebbe potuto esercitare alcuna autorità neppure volendo.
Passarono diversi secondi, secondi in cui Emma sentì il bisogno di piangere per la frustrazione causata dal silenzio insopportabile che li divideva. Non era mai stata così lontana da Harry, non aveva mai sentito di essere impotente di fronte a lui, di non essere in grado di scalfirlo, di essere invisibile ai suoi occhi.
«Tu non sapevi se sarei venuto» la corresse Harry, così piano da farle chiedere se l’avesse solo immaginato, spinta dal desiderio viscerale di sentirlo parlare, parlarle. Era immobile, la sigaretta tra le dita, il respiro lento. «Così hai pensato di indovinare cosa avrei fatto. Ultimamente sembra che tu non possa farne a meno» aggiunse, alzandosi in piedi e spegnendo la sigaretta nel posacenere lì accanto.
Emma era confusa, non riuscì a rispondere coerentemente.
Per la prima volta da giorni, Harry si fermò davanti a lei. Le sue iridi serie, rabbuiate da una tensione che non era ancora diminuita e che aveva un solo bersaglio.
Emma non riusciva a capirlo, corrugò la fronte. «Perché?» Domandò. «Perché sei così arrabbiato
Lui non rispose.
Lei si sentì sprofondare, privata di qualsiasi appiglio che avrebbe potuto trarla in salvo. Si sentiva persa. Semplicemente persa.
«Vuoi… Vuoi che mi scusi per non essere stata attenta? Per essere rimasta incinta?» Sbottò, con la voce spezzata. «Vuoi che mi scusi per aver dato per scontato che ne saresti stato felice? Che saresti stato felice all’idea del nostro bambino?»
Se possibile, Harry assunse un’aria ancora più gelida.
«Mi dispiace» continuò lei, senza sapere come riuscisse a parlare senza crollare a terra, senza cedere alle gambe che le tremavano, ai polmoni che faticavano a respirare. «Mi dispiace averlo pensato».
Se ne pentiva.
Era una delle cose che più la faceva soffrire.
Quella e gli occhi di Harry, che ancora una volta le riservarono chiaro disprezzo prima che lui la superasse e rientrasse in casa.


 

 

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Capitolo 2
*** Apart: II ***


Buonasera!!
Piccola precisazione prima di lasciarvi alla lettura: ho dovuto spezzare ulteriormente la storia,
per cui ci sarà una terza ed ultima parte, non appena finirò di scriverla.
Nel frattempo grazie di tutto e buona lettura! Ci "leggiamo" di sotto!

 

23 Maggio
01:46 am
 
Era sicura che fosse un ricordo.
Percepiva l'inconfondibile sole pomeridiano di quel pomeriggio di tanti anni prima, la sensazione di completa e rassicurante pace. Persino l'odore di primavera ero lo stesso, così come il rumore del vento contro il proprio corpo.
Era sdraiata nel campo dove aveva imparato a guidare e ad amare, immobile, rilassata. Solo il proprio respiro la scuoteva impercettibilmente: stava cercando di immergersi il più possibile in quell'atmosfera nostalgica, pronta a ricavarne ogni briciolo di consolazione.
Sapeva che se avesse aperto gli occhi, avrebbe trovato Harry accanto a sé, con una sigaretta tra le labbra ed il viso adolescenziale illuminato candidamente. Sapeva che l'avrebbe potuto considerare eternamente suo in quel minuscolo istante.
Egoisticamente andò alla ricerca di quella sicurezza.
Sollevò le palpebre e si voltò alla propria sinistra, senza accorgersi del sorriso mite che le stava inclinando la bocca. «Harry...» sussurrò spontaneamente.
Harry era seduto sulla coperta di lana. Accanto a lei, come previsto, ma di spalle: teneva le braccia nude intorno alle ginocchia piegate. Non la guardava.
Emma ebbe la netta impressione che, anzi, Harry non volesse guardarla.
Un cupo sentore iniziò a pesarle nel petto. Le si seccò la gola.
Si tirò a sedere, reggendosi su una mano e iniziando a sentir mancare il tepore del sole sulla propria pelle. Il nome di Harry scivolò di nuovo dalle sue labbra, con più esitazione.
Allungò una mano per toccargli la schiena, ma il solo fruscio di quel lento movimento attirò l'attenzione di Harry: lo provocò. Lui si voltò appena, quanto bastava a trafiggerla con uno sguardo furioso, disgustato. Lontano.
Emma trasalì, riportandosi la mano al petto con il terrore nel cuore.
Si svegliò nella sua camera da letto. Al buio.
Era confusa, frastornata da quello che inizialmente riteneva essere un sereno ricordo e che si era rivelato un presagio più che attuale. Era piombata di nuovo nella realtà.
Stavolta allungò la mano lungo il materasso, verso il posto che sapeva essere tremendamente vuoto, freddo. Quando la ritrasse a sé, non lo fece con paura, ma con una dolorosa e rabbiosa rassegnazione.
 
 
25 Maggio 2018
11:58 am
 
«Ho sempre pensato che voi foste una coppia strana, ma devo dire che state superando voi stessi» commentò Pete, sistemandosi meglio sul divano: la testa appoggiata su uno dei braccioli e le gambe del tutto distese, rilassate. Emma stava tagliando delle verdure sul bancone della cucina: l’aveva invitato a pranzo per non sentirsi troppo sola. Harry non lavorava, quel giorno: non sapeva dove fosse andato. L’aveva guardato uscire restando appoggiata all’uscio della camera da letto, con le braccia incrociate al petto ed uno sguardo eloquente, sperando di ricevere una risposta a qualcosa di non pronunciato ad alta voce. Lui l’aveva ignorata. Poi aveva provato a chiedergli dove fosse in un messaggio scarno, esitante, ma l’aveva fatto inutilmente.
«Dovreste parlarne, Kent. Non potete davvero pensare di andare avanti così» continuò lui.
Erano tutte cose che Emma sapeva già, che si ripeteva giorno dopo giorno, ma alle quali non riusciva a porre rimedio. «Lo so, Pete» sospirò, con una smorfia di fastidio all’ennesima ondata di nausea di quella mattina: si era svegliata all’alba con un lieve conato di vomito, che poi aveva lasciato il posto ad una nauseabonda sensazione che l’aveva accompagnata ad intervalli regolari fino a quel momento. Che fossero già le nausee mattutine?
«Lo sai, ma non fai niente di concreto a riguardo» precisò Pete. «Avrete un bambino, il non parlarne non cancellerà la cosa: o pensate di trascorrere nove mesi in completo silenzio ad odiarvi da lontano?»
Emma sospirò nuovamente, posando il coltello e spostando il peso da un piede all’altro. «Ho provato a parlarci, ricordi?» Domandò retorica, riferendosi alla festa di compleanno di Fanny. «Tutto quello che ho ottenuto è stato silenzio ed un’occhiataccia.»
Pete si tirò a sedere sbuffando. «Quello non è stato parlare. Insomma, quanto è passato? Nove, dieci giorni? Non è normale, e soprattutto non è normale per due come voi.»
Emma si voltò con aria esausta. «Cos’altro dovrei fare, Pete? Partendo dal presupposto che secondo me non dovrei fare io il primo passo, se provo a chiamarlo non risponde, se oso stare in casa mentre c’è anche lui sembra che preferirebbe morire piuttosto che starmi accanto…» Si passò una mano sull’addome, percependo uno strano crampo di dolore.
«Chiudilo a chiave da qualche parte ed obbligalo a parlarti.»
Emma alzò gli occhi al cielo.
«Non importa chi farà il primo passo. Dovete parlare, Kent. Dovete spiegarvi…»
«Cos’altro c’è da spiegare? Mi sembra che sia tutto abbastanza chiaro.»
«Invece io credo che entrambi abbiate detto delle cose sbagliate e che vi siate fraintesi» ribatté Pete, stringendosi nelle spalle. «Come d’altronde fate nel novanta per cento delle volte…»
Emma scosse la testa.
«E poi non l’hai ancora detto alla tua famiglia: di’ un po’, vuoi aspettare che lo vengano a scoprire dalla tua pancia che cresce inspiegabilmente?»
«C’è ancora tempo per quello» sorrise Emma, non cadendo nella sua provocazione. L’immagine del suo corpo trasformato dalla gravidanza le balenò nella mente. «Perché tu lo sappia, voglio solo aspettare di chiarire le cose con Harry, in modo da poterglielo dire insieme e da poterne essere felici».
«Ah be’, allora immagino che Constance scoprirà di essere nonna una volta che il pargolo sarà nato» sospirò Pete, sfruttando un’iperbole per stuzzicarla. «O quando le arriverà l’invito per la festa dei suoi diciotto anni.»
«Piantala, sei il solito esagerato» lo sgridò bonariamente.
Lui si abbandonò contro lo schienale del divano, assumendo un’aria fiera. «Quando ti deciderai ad ascoltarmi, la tua vita sarà improvvisamente più semplice» le promise.
Emma rise, arresa alla sua presunzione, ma si ritrovò a trasformare il sorriso in un’altra smorfia di disagio.
Pete se ne accorse, perché inclinò il capo e si accigliò. «Qualcosa non va?»
Lei si sentì avvampare, si piegò su se stessa per accogliere un’intensa fitta di dolore che le trafisse il basso ventre facendola gemere.
«Emma?» Pete si era alzato in piedi e si stava avvicinando, preoccupato.
Emma avvertì una sensazione di gelo avvolgerla, il cuore scoppiarle in gola e qualcosa di umido tra le sue gambe: senza riuscire a raddrizzarsi per il dolore che le stava intorpidendo l’addome, guardò verso il basso e notò un rigolo di sangue colare nel suo interno coscia sotto i pantaloncini del pigiama. Mancò un respiro ed iniziò ad ansimare, allungando una mano per toccare quella macchia estranea che portava con sé un presagio in grado di farla rabbrividire.
Alzò gli occhi su Pete, senza riuscire a metterlo a fuoco per le lacrime che spontaneamente le avevano appannato la vista. «Pete…» sussurrò. La voce un suono rotto e basso, tremolante.
Un'altra fitta di dolore la fece inclinare in avanti, per appoggiarsi al tavolo e non cadere. Le venne da vomitare.
«Emma, che succede?» Ripeté lui, al suo fianco, afferrandola per un braccio. «Che c’è? Che succede?!»
Emma sentì le gambe tremare, minacciarla di non riuscire più a reggere il suo peso: il sangue continuava a colare lungo la sua coscia ed Emma non riusciva più a respirare. Un terrore irrazionale le tolse il fiato ed un'unica paura le paralizzò i pensieri.
Scoppiò a piangere come se non avesse spazio dentro di sé per contenere tutto ciò che la stava attraversando e avesse bisogno di rilasciare parte della tensione. Iniziò ad iperventilare, mentre Pete imprecava al suo fianco reggendola per non farla scivolare a terra. Tra le lacrime, Emma si appigliò all’unico pensiero che si ergeva stoicamente nella sua mente, imperturbato: «Harry…» biascicò tra un singhiozzo e l’altro, accasciandosi contro Pete e tenendo una mano sul proprio addome contratto. «Ti prego, chiama Harry. Pete, per favore. Ho bisogno di Harry, io…» si interruppe per lamentarsi a causa di un crampo che le fece serrare i pugni. Aveva bisogno di lui, della sua presenza.
Pete afferrò il telefono dal tavolo, aveva le mani tremanti. Lo udì avviare la chiamata, ma senza ricevere risposta. Così anche una seconda volta.
«Ora chiamo un’ambulanza, Emma. Hai bisogno di un’ambulanza!»
Emma era seduta a terra con la schiena contro Pete, tremava per il dolore e per il panico. Si sentiva terribilmente debole. Il viso bagnato dalle lacrime, la bocca socchiusa e distorta da alcuni versi sommessi, le braccia avvolte intorno al proprio addome. Un inutile scudo. Sul pavimento chiaro, una macchia di sangue che la inorridiva: non voleva pensare a cosa potesse significare, non voleva pensare, non voleva crederci.
Nascose il viso sul petto di Pete. «Chiama Harry, Pete… Ti prego, chiamalo. Ho bisogno di lui, ti prego…» Lo supplicò ad occhi chiusi, in una cantilena straziante che sfuggiva al suo controllo: articolava quelle parole ripetitive con la stessa istintiva necessità che la portava a respirare meccanicamente. Intanto sentiva Pete parlare al telefono con un operatore, fornendogli l’indirizzo di casa e spiegandogli cosa era accaduto.
«Cazzo! Non lo so! Cinque… no, quattro settimane? Io non lo so
Emma percepì il proprio corpo contrarsi nuovamente, si morse un labbro per non cedere ai gemiti di dolore che le riempivano la gola. Pete le stava facendo delle domande, ma lei non riusciva ad ascoltarlo lucidamente, a distinguere le sue parole. Aveva le orecchie piene dei propri respiri, ma non riusciva a saziarsi dell’ossigeno che i suoi polmoni cercavano di incamerare: percepiva la frequenza respiratoria aumentare sempre più, e man mano rendere meno efficiente ogni inspirazione. E continuava a singhiozzare, mentre Pete le accarezzava il capo e la scuoteva per attirare la sua attenzione, continuando a parlarle senza che lei potesse comprenderlo.
Pochi istanti più tardi, Emma perse i sensi.
 
 
05:23 pm
 
Emma aveva dei ricordi confusi e sfuggenti delle ore precedenti, come se fossero delle macchie disordinate e sbiadite nella sua memoria.
Ricordava vagamente l’essersi risvegliata nell’ambulanza, il cercare di rispondere alle domande dei soccorritori senza riuscire ad articolare bene le parole, perché ancora tremante.
Pete seduto accanto a lei, pallido e rigido: una mano stretta nella sua.
Il dolore come sottofondo costante di quei momenti annebbiati.
Il suono ritmico ed accelerato del monitor al quale l’avevano collegata, che le rimbombava nella testa come se non potesse sentire da sé il cuore scalpitante che le si agitava nel petto.
La maschera per l’ossigeno che le dava fastidio e che aveva cercato più volte di togliersi.
Altre domande sconnesse che non riuscivano a raggiungerla.
L’ago che entrava nel suo braccio per il prelievo del sangue: il sollievo che le regalò lo sperimentare un altro tipo di dolore.
Pete che imprecava al telefono contro qualcuno, masticando le parole con il disprezzo a contorcergli le labbra.
Il nome di Harry schiacciato tra di loro.
Erano tutti dettagli che nella sua mente non riusciva a collegare tra loro, come se le fosse impossibile coglierne il senso generale. Come se non li avesse vissuti in prima persona.
Eppure c’erano altri ricordi ben più nitidi, dove il tempo sembrava essersi dilatato e aver rallentato, che non le lasciavano alcuna speranza alla quale aggrapparsi. Nessuna speranza dietro la quale nascondersi.
Ricordava l’arrivo dei suoi genitori, il viso di Constance deturpato dalla preoccupazione mentre le chiedeva come mai non le avesse detto niente, come in una supplica materna ed impotente. Ron al suo fianco, affranto ed incapace di parlare.
I bellissimi occhi azzurri di sua sorella Melanie arrossati dalle lacrime, quelli smarriti della piccola Fanny.
Il vuoto della stanza asettica del Pronto Soccorso, dove l’infermiera l’aveva lasciata sola per pochi minuti, in attesa.
Harry al di fuori di quella stanza, in piedi nel corridoio, con un’espressione sconvolta ed il petto ansante, una mano tra i capelli disordinati e gli occhi che si spostavano su di lei e la pregavano. Qualcuno che gli diceva di non poter entrare, lui che urlava in risposta. La porta che si richiudeva lasciando entrare il medico.
Il freddo del gel sul suo addome e poi tra le sue gambe.
Una voce estranea che la informava che all’ecografia non era visibile alcuna camera gestazionale.
Il suo grembo vuoto, sullo schermo dell’ecografo.
Le parole “aborto spontaneo completo”.
Il resto non poteva dire di ricordarlo.
Immaginava che qualcuno l’avesse spostata in un’altra stanza, tirando le tende intorno al suo letto per donarle un po’ di privacy. Immaginava che qualcuno avesse informato la sua famiglia.
Harry.
Immaginava che qualcuno le avesse lavato le gambe, rimuovendo gli ultimi residui di sangue: forse sua madre, ma non ne era sicura. Era stato un tocco familiare, naturale. Protettivo. Immaginava che qualcuno avesse aggiunto una coperta al suo letto, vedendola rabbrividire in posizione fetale. Immaginava che un infermiere le avesse somministrato un antidolorifico, perché il dolore si stava affievolendo lentamente.
Immaginava che qualcuno l’avesse accompagnata in bagno, sorreggendola per compensare le sue gambe ancora intorpidite. Immaginava che qualcuno le avesse asciugato il viso quando bagnato da lacrime silenziose.
 
Immaginava che avrebbe dovuto trovare qualcosa di più dell’inerzia per affrontare quel momento.
 
 
07:10 pm
 
Constance era seduta accanto al suo letto, le stava accarezzando i capelli dolcemente, come faceva quando Emma era bambina e non riusciva a dormire. Non si era alzata da lì nemmeno per un momento, non l’aveva lasciata da che ne aveva lucida memoria.
Emma continuava ad assentarsi. Non fisicamente, ma si accorgeva di scivolare via di tanto in tanto. Quando in un sonno leggero più simile all’incoscienza, quando in pensieri lontani che le facevano fissare il muro senza mai sbattere le palpebre. C’erano ancora cose che accadevano accanto a lei delle quali non riusciva a tener traccia, come se fossero privi di sostanza.
Stava cercando di ricordare proprio uno di quei tasselli, quando sentì bussare alla porta: non si mosse, restò sdraiata sul fianco destro, dando le spalle alla porta che si era appena aperta.
Udì Constance inspirare profondamente, accarezzarle il capo ancora una volta ed alzarsi dalla sedia.
Emma ascoltò il rumore di alcuni passi: li riconobbe subito, senza alcuno sforzo.
Sapeva che non era la prima volta che Harry le stava vicino. Nella confusione della sua memoria aveva una sbiadita percezione del suo profumo accanto a lei, del suo tocco su di lei: ma in qualche modo non riusciva a collocarlo in nessun ricordo in particolare.
In quel momento, invece, Emma era stranamente conscia della sua presenza.
Mentre Harry si avvicinava, infatti, il dolore si avvinghiò al suo cuore e crebbe fino ad essere troppo opprimente. Emma serrò la mascella come se stesse aspettando di ricevere un duro colpo e volesse essere pronta ad incassarlo, gli occhi chiusi nel voler fingere che quella non fosse la realtà.
Fu improvvisamente investita dalla possibilità che Harry non fosse vittima della sua stessa sofferenza.
Uno dei pochi ricordi che aveva era il suo viso straziato nello scorgerla nel letto d’ospedale, eppure non era sicura che quell’espressione dipendesse dal bambino che avevano appena perso, quanto più dalla possibilità di perdere lei. Forse aveva accolto con sollievo ciò che era accaduto: una soluzione al problema.
Ed era furiosa con lui.
Harry l’aveva lasciata sola. In un momento così delicato, in un momento in cui Emma aveva temuto non solo per sé stessa ma anche per il loro bambino, Harry l’aveva lasciata sola. E solo perché troppo intento ad evitarla, troppo impegnato a dar retta al proprio orgoglio per rispondere al telefono o anche solo per dirle dove fosse andato. Era qualcosa per cui non sapeva se e quando l’avrebbe perdonato.
Harry si sdraiò alle sue spalle con movimenti misurati, cauti: accolse contro di sé il corpo fragilmente raggomitolato di Emma, facendola irrigidire e trattenere il respiro. Le baciò il capo così piano da risultare in una carezza, respirando tra i suoi capelli, ma nonostante Emma potesse sentire la delicatezza dei gesti di Harry, non riusciva ad accettarli. Provava un acuto dolore nell'averlo vicino, come mai era successo prima.
Cercò di farsi ancora più piccola di quanto già non si sentisse, cercò di fuggire senza potersi muovere. «Vattene via» sussurrò con una voce che non riconobbe: piatta, vuota, esausta.
«Per favore…» rispose Harry, azzardandosi a stringerla a sé. «Per favore, Emma…»
Emma singhiozzò di fronte a quelle preghiere, non si oppose alle lacrime che le rigavano il volto e bagnavano il cuscino. «Vattene» ripeté flebilmente.
Harry immerse il viso nei suoi capelli, le accarezzò un braccio. «Ti prego, Emma.»
Non le era chiaro come la presenza di Harry potesse rappresentare nello stesso momento la sua più atroce tortura ed il suo balsamo riparatore: era l'ultima persona che voleva accanto a sé, ma sapeva anche che era l’unica che le avrebbe potuto fornire conforto con il suo calore, quella che aveva invocato disperatamente quando aveva avuto più paura.
Ma non bastava.
«Ti prego…» La voce di Harry si spezzò: forse se Emma si fosse voltata a guardarlo avrebbe visto i suoi occhi umidi di lacrime. Il solo pensiero di quella possibilità la fece sprofondare in un antro ancora più profondo e buio.
Si ribellò alla sua stretta, piangendo senza riuscire a trattenersi. Cercò di farlo allontanare con movimenti stanchi e decisi. E quando lui tentò di trattenerla, di restare al suo fianco, Emma cedette: «Vattene! Vattene, ho detto!» Sbottò ad alta voce.
«Emma…» Harry era in difficoltà, non riusciva a toccarla con la sua solita sicurezza, non sapeva cosa dire e come farlo, non riusciva ad affrontarla o forse non riusciva ad affrontare niente di tutto ciò, nemmeno se stesso.
«Lasciami stare, non toccarmi!» Urlò Emma, straziata. «Vattene via, cazzo!»
Stava ancora cercando di divincolarsi, quando la porta si aprì e qualcuno giunse in suo aiuto.
«Harry?» Era Constance. Probabilmente era stata attratta dalle grida di sua figlia: il suo richiamo era stato pronunciato a bassa voce, ma senza lasciare modo di contraddirlo. Subito dopo accorse anche un’infermiera: la compagna di stanza di Emma doveva aver suonato il campanello per attirare l’attenzione su quello che stava accadendo dietro le tende tirate.
Harry si mosse solo dopo qualche istante, forse sperando di essere trattenuto o forse semplicemente incapace di agire: Emma lo sentì allontanarsi dal suo corpo con reticenza e lentezza, congedandosi con un'ultima carezza di supplica che non venne accolta.
Lei tornò a respirare solo quando sentì il vuoto e la solitudine circondarla.
 
 
26 Maggio 2018
06:03 am
 
Emma aprì gli occhi a fatica, abituandosi alla flebile luce che illuminava la stanza: si sentiva disorientata, non sapeva che ore fossero. Quando si guardò intorno, si accorse di qualcuno addormentato sulla sedia lì accanto, con il capo poggiato sul suo letto.
Melanie.
«Mel?» La chiamò, sfiorandole i capelli bruni. «Mel, svegliati.»
Melanie alzò di scatto la testa, con il respiro accelerato e le dita ad asciugarsi un angolo della bocca. «Che c’è? Che succede? Ti senti male?» Domandò velocemente, vagamente confusa.
«No, sto bene» rispose Emma, sentendosi in colpa per aver generato una tale stato d’ansia nella sorella.
Lei si rilassò all’istante, pian piano tornando alla realtà e lasciandosi alle spalle un sonno scomodo e teso. «Hai… Hai bisogno di qualcosa?»
Emma scosse la testa, senza riuscire ad abbozzare un sorriso. Batté delicatamente la mano sulla porzione di materasso accanto a lei: «Vieni qui» le disse, invitandola a raggiungerla.
Melanie sorrise, invece. Si stiracchiò la schiena e si sedette accanto a lei, allungando le gambe sopra le coperte e lasciando che Emma appoggiasse il capo sulla sua spalla.
Restarono in silenzio per un po’.
«Non dovevi rimanere» sussurrò infine Emma. «Christopher-»
«Christopher è con suo padre» la interruppe Melanie, con un tono che non ammetteva repliche. «Mia sorella, invece, è in una stanza d’ospedale» aggiunse, lasciando che la sua voce si macchiasse di un’emozione difficile da gestire: le passò un braccio intorno alle spalle e la strinse a sé.
Emma doveva scusarsi. «Mi dispiace non avervi detto nulla, io…» provò, incapace di continuare. Aveva la gola arida e le parole sembravano non collaborare.
«Non devi preoccuparti di questo» la rassicurò Melanie, dolcemente. «Sappiamo perché non l’hai fatto…Più o meno.»
Emma corrugò la fronte, trattenne il respiro. «Harry…?»
Possibile che avesse raccontato alla sua famiglia cosa era accaduto tra di loro? Trovava impossibile che si fosse aperto riguardo qualcosa che non aveva affrontato nemmeno con lei.
«Non esattamente.»
«Non capisco, Mel.»
Melanie sospirò. «Avevo già iniziato a sospettare che qualcosa non andasse tra di voi: sai, dalla festa di Fanny» le ricordò, confermando il suo intuito infallibile. «Poi quando Harry è arrivato in ospedale, diciamo che Pete… Non l’ha accolto benissimo, ecco.»
Emma si sforzò di ricostruire ricordi che non aveva. Si sforzò di ricostruire voci concitate fuori dalla propria stanza che non era riuscita a decifrare sul momento e che ancora le sfuggivano.
«Penso che fosse solo sconvolto, non penso ce l’avesse davvero con Harry. Credo che stesse cercando di proteggerti: non deve essere stato facile per lui vederti in quello stato.»
I suoi pensieri si soffermarono sul suo migliore amico, sulla mano che aveva tenuto stretta la sua per tutto il tragitto verso l’ospedale: un’ondata di tepore la avvolse, facendola sentire in debito con Pete, ricolma di eterna gratitudine.
«Quindi sì, insomma… Quando Harry è arrivato, Pete gli è scagliato contro, praticamente. Gli ha chiesto perché ci avesse messo tanto a rispondere al telefono e gli ha detto che se lui non si fosse ostinato a giocare a nascondino per tutto questo tempo e si fosse deciso ad affrontare la cosa, a quell’ora ci sarebbe stato lui al tuo fianco… Che tu… Che tu avevi chiesto di lui, prima di… Be’… Prima di svenire.»
Melanie parlava come se non fosse a proprio agio nel riportare quelle parole, quei dettagli tanto intimi che non spettavano a nessun altro. Come se quegli stessi dettagli non fossero stati sbraitati nel bel mezzo del corridoio del Pronto Soccorso, persino di fronte ai suoi genitori.
Emma si strinse impercettibilmente alla sorella. Stava cercando di immaginare la scena, il viso di suo padre, gli occhi adirati di Pete.
Melanie le accarezzò un braccio. «Capisco che tu volessi dircelo quando le cose si fossero… calmate» continuò, comprensiva. «E non devi preoccuparti: mamma e papà non ce l’hanno con te» aggiunse, andando a toccare un punto in fondo al cuore di Emma che scalpitava per essere rassicurato. «Né con Harry.»
Come innumerevoli altre volte nei giorni precedenti, Emma percepì gli occhi bagnarsi di lacrime. «Mi dispiace, Mel. Mi dispiace che sia andata così, che voi l’abbiate scoperto così. Mi dispiace avervi fatto preoccupare, io… Mio Dio, io non pensavo…»
«Non dirlo nemmeno per scherzo, Ems» la interruppe Melanie, passandole una mano sul viso per asciugarle le guance e per distrarla dai suoi stessi singhiozzi miti. «Non hai niente di cui scusarti, mi hai capito? Niente
Passarono abbracciate diversi minuti, accarezzandosi a vicenda per un respiro più profondo o per pensieri troppo duri. Emma cercò di trarre da quel contatto ogni briciola di conforto che potesse ricavarne: era così stordita e debilitata da arrivare persino a rimpiangere la sua coscienza confusa ed annebbiata delle ore precedenti, che in qualche modo l’aveva schermata da gran parte del dolore. Ora che era vigile e pienamente in sé, una valanga di pesi e consapevolezze si era rovesciata su di lei, investendola senza darle il tempo di prepararsi né di attutire il colpo. Si sentiva sopraffatta, intrappolata.
Aveva perso il suo bambino, il loro bambino.
Sperimentare un così forte senso di perdita dopo soli pochi giorni dall’aver scoperto di essere una madre, era qualcosa di cui non si capacitava e che allo stesso tempo non credeva potesse essere altrimenti. Era stata privata della vita di suo figlio, della vita in potenziale che lo aspettava e nella quale lei l’avrebbe accompagnato come in un privilegio. E tutto senza un chiaro perché, come se quel destino fosse toccato a lei per semplice casualità: sarebbe stato più semplice trovare un motivo a ciò che era successo, dare un nome al responsabile, anziché dover ascoltare un medico balbettare sconfortato nello spiegarle che era impossibile stabilire con certezza la causa dell’aborto.
Il suo bambino non c’era più e lei non poteva incolpare nessuno, nessun fattore di rischio, nessuna patologia meschina, nessun raro imprevisto. Niente.
Le restava solo il vuoto.
«Il dottore ha detto che oggi potresti essere dimessa» spiegò Melanie, riportandola alla realtà. «Se non te la senti di tornare a casa, puoi venire da me… O stare da mamma e papà.»
Tornare a casa.
Da Harry.
Si chiese cosa stesse facendo. Come stesse.
Di nuovo ebbe la spiazzante sensazione di provare una sofferenza non paragonabile alla sua.
Ad Emma venne nuovamente da vomitare, ma cercò di non muoversi per non dare altre preoccupazioni a Melanie.
Riacquistata una blanda lucidità, una parte di lei si rifiutava di credere che Harry potesse essere anche solo minimamente sollevato per ciò che era accaduto. Che potesse essere così meschino. Che potesse essere capace di sentimenti tanto subdoli. Non dopo aver visto i suoi occhi il giorno prima, non dopo aver sentito le sue mani tremare nello stringerla.
L’altra parte, ben più ingombrante e rumorosa, era terrorizzata alla sola idea di quella possibilità.
Ma quello non era l’unico motivo per cui aveva timore di rivederlo.
C’era ancora il risentimento ad animarla. Un risentimento ingombrante, pericoloso.
Emma non riusciva ad accettare che fossero rimasti vittima dell’incapacità di comunicare che li aveva messi alla prova durante gli arbori della loro storia, ma che si era rianimata nell’occasione peggiore. Non riusciva a credere che avesse potuto creare tanti danni, che li avesse separati nel momento in cui più avrebbero avuto bisogno di restare uniti.
Più si lasciava andare a questi pensieri, più ne sentiva altri scalciare per farsi spazio, provocandole un forte mal di testa.
«Qualsiasi cosa sia successa tra te ed Harry…» disse Melanie, salvandola ancora una volta dal suo subconscio. «Ems, io ero lì con lui quando il medico ci ha detto che… Be’, che avevi avuto un aborto spontaneo». Fece una pausa, forse per concederle del tempo. «Credimi, Ems, la sua reazione non è stata quella di qualcuno che non vuole un bambino».
Emma riprese a piangere contro ogni briciolo di volontà.
Non sapeva come riemergere dalla confusione, come elaborare quel nuovo tassello che contraddiceva gran parte delle sue convinzioni. Non sapeva come combattere la profonda rabbia che sentiva nei confronti di Harry, l’odio che era arrivata a provare nel sentirsi abbandonata, e contemporaneamente come accettare la disperazione provata anche solo nel sapere o immaginare che anche lui ne avesse sofferto, solo e chiuso fuori dalla sua stanza d’ospedale. Erano sentimenti così contrastanti da lasciarla inerme.
«Harry ti ama. Lo sai bene. Lo sappiamo tutti» riprese Melanie, stringendola di più a sé. «L’abbiamo visto
Il modo in cui la sorella pronunciò quelle ultime parole, suggerì ad Emma che avessero un significato ben più profondò. Si passò la manica del pigiama sul naso ed alzò il viso per guardarla negli occhi, per cercare una verità innegabile: le tornarono in mente i momenti confusi in cui qualcuno di non chiaro l’aveva lavata, vestita, assistita in quel letto d’ospedale, e in cui lei aveva dato per scontato si trattasse di sua madre. I momenti in cui era troppo estranea alla realtà per rifiutarlo con lucido distacco, perché era molto più semplice fare ciò che le veniva naturale: accettare il suo tocco. «È stato lui, ieri…?»
Melanie annuì. «Mamma ci ha dovuto litigare per poter stare un po’ da sola con te.»
 
Era riuscita a mangiare qualcosa per colazione.
Aveva ancora un vago senso di nausea, ma credeva dipendesse più che altro dal frastuono nella sua testa.
Il dolore addominale non era ancora passato completamente: ogni tanto sembrava si assopisse momentaneamente, solo per poi sorprenderla con crampi infimi che le facevano trattenere il respiro. Se anche per un solo istante Emma riusciva a svuotare la mente, quelli tornavano puntualmente a tormentarla, trascinandola nella realtà.
Le perdite di sangue si erano fatte sempre più rade, anche se il dottore le aveva già preventivato che probabilmente sarebbero durate qualche giorno. Emma non tollerava le macchie sulla sua biancheria e sugli assorbenti che le aveva comprato Constance: cercava di cambiarsi senza guardare, serrando gli occhi, i pugni. Il cuore.
Il medico era andato a visitarla dopo la colazione: una volta visionati gli esami ematici di quella mattina, se non ci fossero state complicanze, l’avrebbero dimessa.
Emma stava rispondendo ad un messaggio di Pete per aggiornarlo in merito, quando il cellulare prese a squillarle tra le mani.
Sullo schermo lampeggiava il nome di Harry.
Per qualche secondo Emma soppesò il da farsi, percependo il cuore in gola, ma non ebbe tempo di decidere, perché la chiamata si interruppe prima che lei potesse toccare lo schermo per rifiutarla o accettarla.
Il moto di pentimento e mancanza che ne seguì, bastò a farle capire cosa avrebbe dovuto scegliere.
Stava per chiamarlo a propria volta, quando il telefono squillò di nuovo.
Emma rispose senza esitare. «Pronto?» Esalò velocemente, come per paura di non aver fatto in tempo. Subito dopo si accorse di essersi sbilanciata, si impose una certa calma.
Harry, dall’altra parte, sembrò stupito di aver ricevuto una risposta, perché la sua voce stranita e cauta le arrivò all’orecchio solo dopo alcuni istanti. «…Emma?»
Lei non disse niente, raggomitolando le gambe al petto.
Non era certa di volergli parlare, forse aveva solo bisogno di sentirlo, pur mantenendo il distacco dietro al quale necessitava di nascondersi. Per certi versi si sentiva un’ipocrita nel cercare la sua voce, dopo averlo rifiutato con tanta enfasi. La verità, però, era piuttosto semplice: non aveva le forze per prendere decisioni lucide, calcolate o addirittura coerenti; era nettamente più semplice abbondonarsi all’istinto. Inoltre vigeva ancora un blando senso del dovere all’interno del suo cuore: in un universo alternativo, se Harry fosse stato in ospedale ed Emma a casa, lontana da lui, a prescindere da qualsiasi litigio avessero appena affrontato e dall’insormontabile rabbia a dividerli, Emma non avrebbe sopportato di non ricevere risposta ad una chiamata.
Glielo doveva.
Forse lo doveva persino a se stessa, pur non essendone ancora consapevole.
«Come stai?» Domandò Harry lentamente, misurando il proprio tono di voce.
Emma chiuse gli occhi. Respirò profondamente e si dimenticò di articolare a parole quello che sentiva, quasi come se l’avesse già fatto.
Harry doveva averlo capito, perché non le chiese altro.
«In ospedale non vogliono che rimanga più di una persona» spiegò invece, lasciando trasparire un impotente astio. Sembrava voler giustificare la sua assenza. Emma si chiese se quella decisione fosse stata influenzata dalle discussioni del giorno prima. «E tua madre… Abbiamo stabilito dei turni».
“Mamma ci ha dovuto litigare per poter stare un po’ da sola con te.”
Emma cercò di immaginare come si fossero evolute le trattative: si chiedeva se Constance risentisse Harry, se Ron… Melanie l’aveva rassicurata a riguardo, ma Melanie aveva anche un’indole estremamente ottimista e comprensiva, in grado di avvolgere di una patina simile tutto il mondo intorno a sé. Emma sperava soltanto che fosse stata sincera.
Immaginò Harry, obbligato a starle lontano in un assurdo paradosso. Lo immaginò con una sigaretta dopo l’altra tra le dita, in preda al nervosismo.
«Tu come stai?» Mormorò Emma spontaneamente, cedendo a quella domanda che la stava torturando subdolamente. Non sapeva cosa volesse sentire in risposta: forse egoisticamente voleva che ammettesse un dolore opprimente che l’avrebbe fatta sentire meno sola, forse…
Come lei poco prima, nemmeno Harry rispose.
«So che oggi probabilmente ti dimetteranno, me l’ha detto Melanie» disse lui dopo qualche secondo. «E so che ti ha proposto di andare da lei se…»
Stavolta toccò a lui sospirare. Emma conosceva così bene ogni sua reazione, da poterlo vedere davanti a sé mentre si passava una mano tra i capelli, frustrato.
«Io ti aspetto qui, Emma» continuò, con la voce bassa e roca impegnata in una promessa. «Ti aspetto a casa.»
Emma nascose il viso nel cuscino, forse per ovattare i respiri difficoltosi che la stavano incalzando.
«Perché torni da me… Vero?»
Più che le sue parole incrinate da un timore fatto di cristallo, più che il suo tono supplichevole e caldo, Emma dovette considerare i propri sentimenti: li sentiva urlare a squarciagola, battere con calci e pugni contro il muro difensivo che aveva eretto intorno al suo cuore rinforzandolo di debole logica, ammaliati dalla voce di Harry come da una sirena. Lo reclamavano.
Emma lo sapeva bene, ed era la cosa che più la metteva in difficoltà. Non riusciva a conciliare il dolore e la rabbia con i propri bisogni ed il proprio amore. Era dilaniata da un contrasto che mai avrebbe voluto affrontare.
Evitò di pensare, si affidò di nuovo all’istinto.
 
 
02:03 pm
 
La prima cosa che Emma notò non appena entrata in casa, fu il pungente odore di candeggina.
Si guardò intorno, il salotto era vuoto. Fece particolare attenzione a non soffermarsi sul bancone della cucina sul quale si era piegata il giorno precedente, vittima di un dolore gelido.
Harry comparve dal bagno l’istante successivo, infilandosi alla rinfusa una maglietta: doveva aver sentito la porta aprirsi. I suoi occhi si fissarono su di lei quasi sapessero già dove trovarla, ma si arrestò come se fosse comunque sorpreso di vederla lì. «Ciao» disse piano, deglutendo a vuoto.
«Questi te li porto in camera, va bene?» Domandò Constance, entrando in casa ed interrompendo un momento sospeso nel tempo, in cui anche Emma era rimasta immobile ed in silenzio. Inerme.
Sua madre portava con sé la borsa con gli abiti sporchi che aveva usato in ospedale: aveva insistito ad accompagnarla personalmente fin dentro casa, Emma d’altra parte aveva insistito nel dire che non ci fosse bisogno anche per tutto il resto della famiglia di accompagnarla. Era grata della loro presenza, anche se in alcuni momenti avrebbe preferito essere completamente sola.
Harry fece un passo avanti, era a piedi nudi. «Lascia stare, Constance. Ci penso io» si affrettò a dire, sollevando una mano per invitarla a consegnargli la borsa. Non c’era traccia di ostilità nella sua voce, ma Emma poteva cogliere chiaramente l’implicita richiesta dietro quelle parole.
Constance esitò per un breve istante, prima di avvicinarsi a lui per accogliere il suo consiglio: «Ovviamente per qualsiasi cosa chiamami pure» esclamò, voltandosi verso Emma con apprensione.
Emma si inumidì le labbra, stringendosi nelle spalle. Era ancora ferma davanti alla porta. «Certo, mamma.»
Sua madre poi posò di nuovo lo sguardo su di Harry. «E questo vale anche per te» continuò, come ci si rivolgerebbe ad un bambino testardo.
Lui annuì, ma sembrò non registrare quella mano tesa verso di sé. «Ci penso io» ripeté soltanto. «Grazie.»
Constance sospirò, ma non si mosse. Il suo istinto materno era evidentemente in difficoltà: per quasi tutto il tragitto in macchina aveva cercato di convincere sua figlia a restare a casa loro per qualche giorno, ma Emma aveva l’impressione che non fosse tanto lei ad averne più bisogno, quanto i suoi genitori. Era chiaro che non riuscissero a tollerare il pensiero di perderla d’occhio, scottati dalle ventiquattro ore precedenti e vittime di un senso di protezione innato.
«Mamma, puoi andare… Davvero» intervenne Emma, cercando di sbloccare la situazione. Si sentiva esausta, aveva bisogno di silenzio e di ridurre al minimo le dinamiche intorno a sé.
Constance le si avvicinò e le prese le mani tra le sue. «Mi raccomando» mormorò, prima di abbracciarla dolcemente. Emma si irrigidì e si sforzò di ricambiare l’abbraccio, chiudendo gli occhi per non sentirsi obbligata a posarli su Harry.
Poi si separarono, Constance le accarezzò i capelli e si voltò verso Harry un’ultima volta, rivolgendogli l’accenno di un sorriso. «Ci vediamo presto» promise, prima di uscire dall’appartamento.
Non appena lo porta si chiuse dietro di lei, Emma sospirò sonoramente, abbassando di nuovo le palpebre per racimolare delle energie e per godersi la bolla di solitudine nella quale si era barricata: non era sola in casa, ma la presenza di Harry non risultava invadente come quella di chiunque altro, in quel momento. Non sapeva spiegarselo con esattezza, eppure nonostante fosse la persona che aveva partecipato alla sua distruzione, era anche quella che più riusciva a metterla a proprio agio.
Harry si massaggiò il collo. «Hai già mangiato?» Le chiese a bassa voce. Non era esitante, ma sembrava voler valutare e studiare ogni sua eventuale reazione.
Emma annuì e in un attimo di consapevolezza si rese conto di essersi tuffata in un qualcosa forse più grande di lei, per quanto necessario: aveva preso la decisione di tornare a casa da Harry, seguendo un malsano istinto che sembrava essere l’unica cosa ancora indiscutibile della sua vita, non soggetto ad errori di calcolo, interpretazioni o valutazioni errate. Ed ora che era tornata, doveva anche restarci. Convivere con Harry e con tutto ciò che si era frapposto tra loro. Doveva affrontarlo.
«Io…» iniziò, schiarendosi subito dopo la voce. «Io credo che andrò in camera a… a riposare un po’.»
A respirare, avrebbe voluto dire. Ma pensò fosse ovvio.
Harry sembrò essere deluso dalla sua risposta, ma cercò di non darlo a vedere. Di fatto serrò la mascella ed annuì vigorosamente, come per convincersi che fosse una buona idea. «Ok» rispose. «Io ho preso qualche giorno libero dal lavoro…»
“Ci penso io.”
Non ebbe bisogno di dire altro, era evidente il significato dietro le sue parole. Emma notava come si stesse sforzando di mettersi a sua completa disposizione: per amore, sicuramente.
Per senso di colpa, forse.
Per qualche istante restarono entrambi in silenzio, guardandosi negli occhi a qualche metro di distanza. Quando Emma si riscosse, si diresse verso la loro camera camminando lentamente e mordendosi un labbro.
Si chiuse la porta alle spalle e si sdraiò a letto senza nemmeno cambiarsi d’abito.
Percepì il profumo familiare delle lenzuola ed un nodo di angoscia si sciolse al centro del suo petto. Con una mano sfiorò il tessuto sotto di lei disegnando linee astratte e senza programmarlo appoggiò il palmo contro il cuscino di Harry. Egoisticamente lo tirò a sé e vi sprofondò il viso, inspirando a fondo la sua fragranza.
Era una parte di lui che non poteva risanarla, ma che poteva consolarla.
Una parte di lui che avrebbe potuto usare e che non avrebbe potuto farle del male.
Una parte di lui completamente innocua.
 
Le sue palpebre erano pesanti come macigni, per cui aprì gli occhi con una certa difficoltà.
Si sentì confusa, era ormai buio e non sapeva di preciso che ore fossero.
Non aveva nemmeno il cellulare con sé, doveva averlo lasciato con tutte le altre cose nella borsa che Constance aveva affidato ad Harry.
Non sapeva per quanto avesse dormito. Il letto accanto a lei era vuoto, come lo era ormai da diversi giorni.
In sottofondo poteva udire il lavorare stanco della lavatrice.
Sentì di nuovo un forte odore di candeggina. Fastidioso. Insistente.
Decise di alzarsi per seguirlo: la sua andatura era instabile, perché ancora assonnata e debole per un sonno profondo e senza sogni.
Quando aprì la porta, socchiuse gli occhi per proteggersi dalla luce del salotto.
Harry era di fronte alla cucina, vestito come quel pomeriggio ed intento a lavare per terra.
Emma restò a guardarlo per diversi secondi: si soffermò sui suoi movimenti energici, quasi rabbiosi, e notò che si stava concentrando su un’unica porzione del pavimento. Su un punto che Emma non ebbe problemi a collocare nei proprio ricordi.
Lei seduta contro Pete, a singhiozzare frasi sconnesse.
Il sangue che le percorreva la coscia nuda.
La macchia sulle piastrelle sotto di sé.
Con una mano afferrò lo stipite della porta, stringendolo come per cercare un appiglio. Le sembrò di vacillare ed un moto di nausea le annodò lo stomaco, al quale cercò di resistere deglutendo a fatica. Continuava a ripercorrere i momenti di panico che l’avevano intrappolata e stordita, e mentre i ricordi frammentati si susseguivano nella sua mente, altri pensieri estranei cercavano di intromettersi con caparbietà.
Harry che tornava a casa dall’ospedale e scorgeva il suo sangue sul pavimento.
Harry che ascoltava Pete mentre gli rinfacciava di non esserci stato in un momento simile.
Harry che veniva a sapere di come Emma avesse chiamato il suo nome prima di svenire.
Harry che era solo con le sue consapevolezze.
Harry che continuava a lavare con la candeggina una macchia di sangue e di colpa.
Ad Emma venne di nuovo da piangere, ma era così stanca di farlo, che cercò con tutta se stessa di rigettare indietro le lacrime e di resistere. Non sapeva come immagini mai vissute potessero ferirla a tal punto da oscurare momenti ben impressi sulla sua pelle, non sapeva come la sofferenza di un’altra persona potesse risultare così intensa da sbiadire la propria.
La parte più difficile fu muovere il primo passo. Emma aveva ancora dei freni ben strutturati a proteggere la sua integrità, e si erano azionati a dovere di fronte alla possibilità di sommare al proprio dolore quello di qualcun altro. Ma lei li aveva ignorati e dopo il primo passo aveva continuato a camminare, fino ad arrivare alle spalle di Harry.
Lui non si era ancora accorto di lei, probabilmente assorto in pensieri distanti ed impegnato in movimenti frustrati. Emma allungò una mano con esitazione, toccandogli la spalla con i polpastrelli delle dita: «Harry?» Lo chiamò a voce bassa, lenta.
Harry sobbalzò, voltandosi di scatto.
I lineamenti del suo volto erano tesi in un’espressione turbata, gli occhi scuri, le sopracciglia aggrottate.
Emma ne fu intimorita, aveva l’impressione che un movimento o una parola di troppo avrebbero potuto farlo cadere in mille pezzi.
Percepiva dal suo sguardo che era combattuto, che stava trattenendo dentro di sé qualcosa di troppo ingombrante: forse un pensiero, forse un desiderio, forse un bisogno. Qualsiasi cosa fosse, portava il nome di Emma.
Emma…
Emma che spontaneamente portò una mano verso il suo viso, incerta nello sfiorargli una guancia con le dita, come per chiedergli di tornare alla realtà. Emma che non sapeva se fosse in grado di fungere da sostegno per qualcun altro, che non sapeva nemmeno se lui lo meritasse.
Se possibile, Harry si irrigidì ancora di più sotto il suo tocco. Le sue mani stritolarono l’asta della scopa che non avevano abbandonato, le sue nocche si tinsero di bianco per lo sforzo. Emma pensò che stesse combattendo una lotta contro se stesso e contro di lei: forse, memore di come lei l’aveva cacciato via quando aveva provato a starle accanto il giorno prima, non osava ricambiare il contatto per paura di invadere nuovamente i suoi confini, non osava goderne per paura di esserne privato all’improvviso. Ma era evidente, chiaro come poche altre certezze della sua vita, che lo bramasse più di ogni cosa.
Emma posò il palmo della mano sul suo viso, in un debole invito. Rabbrividì, come se non fosse più abituata a sentirlo così vicino. Harry chiuse gli occhi, respirò a fondo.
Si rilassò.
Chinò la testa per andarle incontro, per strofinare la pelle contro la sua mano in una carezza a lungo desiderata.
Quando sollevò le palpebre, le sue iridi erano più tranquille, meno torbide: inesorabilmente fisse nelle sue. Harry si mosse piano, in modo da avere la bocca contro il palmo della sua mano, che era rimasto fermo: non l’aveva assecondato, ma non si era nemmeno scostato. Non la baciò, si limitò a respirarci contro lentamente.
Emma era stravolta da una miriade di sensazioni diverse ed in conflitto l’una con l’altra: ognuna la tentava con tesi quasi del tutto convincenti, che però finivano per essere l’esatto contrario di quelle di tutte le altre. Era un vortice incessante di tentazioni e timori, di necessità viscerali e di privazioni calcolate.
Era assordante.
Decise di aggrapparsi al primo pensiero che fosse riuscita a distinguere in quella confusione, senza sapere se se ne sarebbe pentita.
«Vieni a letto?» Domandò in un sussurro.
Improvvisamente nella sua mente calò un pacifico silenzio, scandito dai battiti regolari del suo cuore.
Forse per la prima volta Emma pronunciò quelle parole senza alcuna traccia di malizia nella sua voce, ma nell’esclusiva speranza di concedere del conforto a se stessa e agli occhi tormentati che continuavano a scrutarla a pochi centimetri di distanza.
Harry annuì con un movimento impercettibile, non disse nulla.
Si sdraiarono l’una di fronte all’altro, senza toccarsi. Abbastanza vicini da udire i rispettivi respiri, ma sufficientemente lontani da non potersene cibare.
Continuarono a guardarsi in silenzio, immobili, fino a quando Harry scivolò in un sonno profondo.
Emma restò ad osservarlo ancora per qualche minuto, riappropriandosi di tutti quei dettagli che per giorni le erano sfuggiti e che continuava ad amare di un amore odiato. Poi si alzò, incapace di tornare a dormire per il pomeriggio passato in quello stesso letto: si avviò verso il bagno ed azionò la doccia.
 
 
27 Maggio 2018
05:36
 
Emma teneva tra le braccia un neonato dalla pelle rosea ed ancora increspata, infagottato in una coperta di lana cucita a mano. Lo osservava senza capacitarsi della sua purezza, gli sorrideva dondolandolo delicatamente per farlo addormentare. Quando vide i suoi occhi chiudersi lentamente, alzò il viso per guardare Harry, al suo fianco: era seduto accanto a lei, con una mano accarezzava il capo del loro bambino.
Emma si cibò dell’amore che riusciva a scorgere nei suoi occhi, lo sentì alimentare quello che lei stessa stava covando dentro di sé. E quando non riuscì più a contenerlo, spostò di nuovo lo sguardo sul loro bambino, come per trasferirne almeno una parte nel suo corpicino esile e caldo.
Ma tra le sue braccia non vide nulla.
Il bambino era scomparso.
Al suo posto una chiazza di sangue disordinata che imbrattava la vestaglia di Emma e le lenzuola sotto di lei.
Emma provò a gridare, alzando le mani davanti al proprio viso per l’incredulità.
Nessun suono uscì dalla sua bocca. Forse nemmeno un respiro.
Si sentì scuotere debolmente.
«Emma?»
Si svegliò di soprassalto, ancora vittima del panico che l’aveva impietrita in quell’incubo orrendo. Stava piangendo con singhiozzi irregolari.
Harry le era accanto: il chiarore dell’alba filtrava dalla finestra ed illuminava parzialmente i lineamenti del suo volto preoccupato. «Era solo un sogno» mormorò, cercando di marcare le sue parole con un conforto accogliente e rassicurante. Non la stava toccando, se non per la mano che aveva lasciato sulla sua spalla dopo aver cercato di svegliarla.
Emma chiuse gli occhi e si concentrò sul proprio respiro, chiedendosi quando avrebbe potuto riprendere a respirare naturalmente, senza doverci pensare. Senza doversi obbligare.
Aveva provato una gioia indescrivibile in quei pochi secondi di sogno artefatto, le sembrava di riuscire ancora a percepire il peso leggero del loro bambino nell’incavo delle sue braccia, il suo profumo infantile. Avrebbe voluto non conoscere quella gioia, nemmeno nel sonno: avrebbe preferito immaginarla e rimpiangerla senza averla mai sperimentata.
La perdita, invece, quella la conosceva bene.
Era stato un crudele replay di una sensazione già vissuta e che ancora non la abbandonava.
Emma si nascose il volto tra le mani, forse vergognandosi di una fragilità così evidente, delusa e ferita da un tradimento messo in atto dal suo stesso corpo. Dalla sua mente.
Harry la attirò a sé lentamente, quasi dandole il tempo di rifiutarlo. Lei non lo fece.
Si lasciò guidare sul suo petto, dove abbandonò il capo inspirando il profumo di ammorbidente della sua maglietta. Lasciò che le sue braccia la stringessero contro il suo corpo definito. Reale.
Continuò a piangere sommessamente per qualche minuto, incapace di trattenersi: la prima lacrima aveva sancito un permesso implicito per tutte le altre, che si susseguivano ininterrottamente e senza pietà. Emma ormai non sapeva nemmeno per cosa stesse piangendo, di preciso: troppe emozioni si stavano mescolando nei suoi occhi umidi, troppe da poterle distinguere. Sentiva solo la necessità di sfogarle, di lasciarle andare.
E se da una parte il petto di Harry fomentava il suo pianto, dall’altra lo cullava teneramente.
Harry aveva iniziato ad accarezzarle i capelli con movimenti tanto leggeri da essere quasi impercettibili. Emma stava cercando di concentrarsi su quelli: sperava che potessero distrarla e calmarla, che potessero fornirle la pace che stava disperatamente cercando. Sotto il suo orecchio percepiva il cuore di Harry scandire il tempo regolarmente, lentamente: Emma sperò di potersi sincronizzare con quel suono sordo ed ovattato.
Spostò il viso per avvicinarsi all’incavo del suo collo, godendo del suo calore. Harry posò una guancia contro il suo capo, serrando appena la presa intorno alle sue spalle: le lasciò un bacio tra i capelli, prolungato.
Emma chiuse gli occhi ed inspirò a fondo.
Si accorse di avere ancora le pelle umida, ma anche dell’assenza di nuove lacrime a tormentarla.
Mosse una mano sull’addome di Harry, in un gesto spontaneo che mille altre volte li aveva caratterizzati. Si fermò quando venne sfiorata dal pensiero di come le cose fossero diverse, in quel momento: chiuse la mano in un pugno debole.
Harry dovette accorgersi della sua esitazione. Le sollevò il mento con dita senza incontrare resistenza, ma procedendo con estrema cautela. Emma non l’aveva mai visto così esitante nei suoi confronti, così spaventato ed allo stesso tempo deciso a procedere.
Incontrò il suo sguardo, lo sostenne.
Harry le si avvicinò e per qualche istante fece riposare la fronte contro la sua: nel suo respiro una nota di angoscia. Poi le baciò uno zigomo con lentezza e dedizione, portandola ad abbassare le palpebre: Emma ebbe più l’impressione che stesse raccogliendo tra le labbra i residui delle sue lacrime, che li stesse eliminando uno ad uno. Continuava a lambire la sua pelle senza tralasciare nemmeno un millimetro, senza staccare mai completamente la bocca dal suo viso, riscaldandola con il suo respiro.
Emma si sporse istintivamente verso di lui, forse alla ricerca di un conforto che nessuno le stava negando, forse abbandonandosi ad un bisogno irrazionale che inibiva qualsiasi freno si fosse mai imposta e che ignorava qualsiasi causa l’avesse mai distorto. Nel muoversi sfiorò accidentalmente le labbra di Harry.
Entrambi si arrestarono, ma nessuno dei due si ritrasse.
Aprirono gli occhi, si osservarono in silenzio.
Fu Harry a baciarla.
Le catturò la bocca in un contatto casto che stonava con la sua indole. Le sue labbra erano ancora bagnate dalle tracce di lacrime delle quali si erano cibate fino a poco prima. Emma ne percepì il sapore salato. Subito dopo percepì il suo.
Sentì qualcosa dimenarsi dentro di sé impazientemente. Avrebbe giurato che si fosse sciolto un intreccio di tensione che rischiava di spezzarla. Era bastato quel semplice sfiorarsi per scatenare in lei una simile reazione.
Emma si definì terribilmente egoista quando ricambiò il bacio di Harry, schiudendo le labbra ed invitandolo a non fermarsi. Egoista per il modo in cui lo stava usando consapevolmente per lenire una ferita da lui stesso provocata. Egoista per il modo in cui sapeva che quello che non sarebbe bastato a farla guarire. E per il modo in cui aveva comunque deciso di approfittarne.
Harry la baciava con dolcezza, sembrava che con i movimenti delle sue labbra le volesse sussurrare lente rassicurazioni ed eterne promesse. Il suo braccio era ancora intorno alle sue spalle, l’altra sua mano si era posata sul suo collo per accarezzarlo: aveva le dita fredde. Emma era quasi sdraiata sul suo corpo.
«Mi sei mancata così tanto» lo udì mormorare contro di sé, lasciandosi scappare un respiro sofferto dal quale traspariva quanto gli costasse non abbandonarsi completamente al trasporto che stava sperimentando, quanto gli costasse misurare i propri movimenti e rispettare i suoi. Emma era completamente rapita dal contatto che li univa, e per un attimo si chiese se avesse davvero udito quelle parole o se le avesse solo immaginate, spinta dall’ardente bisogno che nutriva di ascoltarle.
Portò una mano sul suo viso, lo percepì irrigidirsi appena e poi sciogliersi sotto il suo tocco.
Anche ad Emma era mancato.
Come l’aria.
A volte pensava che era per quella asfissiante mancanza che aveva difficoltà a regolare i propri respiri, che le sarebbe venuto molto più semplice controllarli se lui fosse stato accanto a sé. E di nuovo si trovò contesa tra la causa del suo male e la medicina che avrebbe potuto alleviarlo, identiche nella sostanza.
Harry le accarezzò la bocca con la lingua, baciandole di nuovo la guancia, il mento, la mandibola. «Avevo così bisogno…» sussurrò di nuovo sulle sue labbra, muovendo la mano tra i suoi capelli. «… di questo».
Emma non riuscì a reprimere un gemito ribelle al suo controllo. Non un gemito di piacere, ma di dolore.
Si ritrasse come scottata, lasciando Harry confuso a pochi centimetri da lei.
Fu come essere investita da una scomoda lucidità razionale. Come se le sue difese si fossero serrate intorno a sé al più piccolo sensore di pericolo, cedendo il posto all’artiglieria pronta all’attacco.
Ad Harry non sfuggì quel dettaglio. La osservò allontanarsi senza trattenerla, ma serrando la mascella.
Emma si mise a sedere piegando le ginocchia al petto ed avvolgendole con le braccia. Non lo guardava.
Harry la imitò, ma stese le gambe lungo il materasso. Non riuscì ad attendere una sua reazione, la precedette. «Sei ancora convinta che a me non freghi un cazzo, vero?»
Non aveva alzato la voce, ma fu come se avesse urlato.
Emma trattenne il fiato.
«Sei convinta che per me sia stato comodo perdere il nostro bambino, no?» Continuò, senza darle tregua.
Era la prima volta che Harry lo nominava.
La dolcezza con la quale l’aveva toccata fino a pochi secondi prima, la delicatezza con la quale le aveva anche solo respirato accanto, erano svanite, rimpiazzate da un’amara rabbia. Evidentemente anche lui aveva delle misure di protezione e di attacco. «Credi che di conseguenza io non abbia diritto di stare male, che io non abbia diritto di dirti certe cose, di ammettere che ho bisogno di te per superare tutta questa merda».
Harry la conosceva a fondo, a volte era in grado di leggerla così bene da spaventarla. Aveva capito cosa la stesse trattenendo, almeno in parte. La leggera, ma fondamentale differenza tra loro due, in quel momento, era che Harry aveva cercato di mettere da parte una consapevolezza che lo feriva per poter andare avanti con lei. Emma invece si rese conto di essere decisamente passiva in quella dinamica. Quasi arresa.
Stava riflettendo su questo particolare, ma Harry decifrò il suo silenzio come una conferma dei suoi sospetti.
«Non ci posso credere» sibilò tra i denti, alzandosi frettolosamente dal letto. I movimenti dolorosamente simili a quelli di qualche giorno prima. «Non ci posso credere, cazzo.»
Emma fece appena in tempo a registrare il fatto che lui se ne stesse andando di nuovo e che lei avrebbe voluto fermarlo, quando sentì la porta di casa sbattere con un tonfo che la fece sobbalzare. Si alzò di scatto, respirando velocemente carica di rimorso e confusione. Mosse qualche passo verso il salotto, come se avesse potuto rimediare.
Avrebbe dovuto fermarlo, avrebbero dovuto parlarne.
Ma allo stesso tempo le sembrava assurdo trovarsi di nuovo in una situazione simile. Possibile che ci fosse la necessità di trattenersi a vicenda, dovuta all’incapacità di restare e di affrontare il problema?
La porta d’ingresso si riaprì inaspettatamente, ed Harry entrò a passi veloci e rancorosi. Gli occhi deturpati da un’orribile dolore rivolto verso di lei. «Come cazzo puoi anche solo pensare che io non volessi quel bambino?!»
Stavolta urlò davvero, a pochi centimetri da lei. Emma indietreggiò di un passo. Le labbra socchiuse.
Lo osservò per un breve istante, decise di reagire. Se lo impose.
«Tu…» iniziò, inumidendosi le labbra e raccogliendo la voce. Abbassò velocemente lo sguardo, forse per farsi coraggio: quando lo riportò nei suoi occhi, finse di averne trovata qualche briciola in più. Doveva appellarsi alla rabbia che covava dentro, altrimenti il dolore l’avrebbe resa muta ed inerme. «Tu non mi hai nemmeno guardata, quando ti ho detto di essere incinta» gli ricordò, senza alzare il tono di voce. Si stupì della sicurezza nel suo tono: sperò che non tradisse il caos che celava. «Mi hai detto che avrei dovuto essere più attenta» continuò, marcando quella parola con una certa incredulità. «Che avrei dovuto sapere che ci sarebbero potuti essere dei problemi». A quel punto Emma trovò naturale far leva sul rancore che provava. «Dio, Harry, hai parlato del nostro bambino come di un problema!»
Harry sembrò indietreggiare, la sua postura perse parte della sua rigidità. «Per questo hai creduto di dover mettere in chiaro che non avresti mai abortito?» Le domandò gelidamente. Un contrattacco.
Il ricordo dello sguardo disgustato di Harry di quel pomeriggio la colpì profondamente. «Cos’altro avrei dovuto pensare?»
Un lampo di risentimento gli attraversò gli occhi. «Non avresti dovuto pensare proprio un cazzo!» Sbottò, gesticolando. «Mi conosci, Emma. Cazzo, mi conosci!» Continuò, battendosi una mano sul petto come a ricordarle di cosa stessero parlando. «Non capisco come tu abbia potuto cedere direttamente alla possibilità che io non volessi un bambino, anziché fermarti a pensare che forse ero solo scioccato e magari spaventato! E ho sbagliato a parlare in quel modo, ho sbagliato… Va bene. Ma perché non hai pensato che fossi semplicemente un coglione spaventato? Perché hai pensato direttamente che non volessi il bambino? Non merito nemmeno il beneficio del dubbio?! Non ti ho forse dimostrato abbastanza?!»
Emma sbatté le palpebre, non si rese nemmeno conto di aver ricominciato a piangere. Ormai era un sottofondo costante delle sue giornate. «Io…» balbettò. E se ne vergognò.
Harry non mostrò alcuna pietà. «Pensi davvero che avrei mai potuto chiederti di abortire?» La incalzò, abbassando il tono di voce ma affilandolo fino a farle temere di poterne essere succube. «Pensi davvero una cosa del genere? Hai davvero una considerazione così bassa di me?»
No.
Emma non lo pensava assolutamente.
Ricordava perfettamente il momento in cui aveva pronunciato quelle parole. Non l’aveva fatto per una paura specifica, ma per un istinto di protezione. Era un fatto, una constatazione espressa per chiarire un impegno. Non era stata la conseguenza di un reale pericolo.
Improvvisamente riuscì a decifrare meglio lo sguardo che Harry le aveva rivolto quel giorno, l’orrore che la sua insinuazione aveva provocato in lui. Si sentì in colpa per un’accusa così ingiusta, in colpa per un dettaglio che nel suo cieco dolore e nel suo egoismo superficiale non aveva affatto considerato, troppo presa a leccare le proprie ferite per riconoscere quelle di qualcun altro.
«No» sussurrò allora. Le tremavano le mani.
Harry la guardò come se non le credesse.
«Ho avuto paura» spiegò, abbassando nuovamente gli occhi sui propri piedi nudi.
Lo sentì sospirare, lo immaginò passarsi una mano tra i capelli per sfogare il nervosismo.
«Io non vedevo l’ora di dirtelo» continuò lentamente. «Per giorni ho aspettato di poterlo fare. Ed ero convinta che ne saresti stato felice, che-»
«Ne eri così convinta, che alla prima occasione hai-»
Emma lo interruppe semplicemente alzando lo sguardo. Harry non disse altro.
«Ero convinta che ne avremmo festeggiato insieme» riprese lei dopo qualche istante. «Immaginavo che all’inizio saresti stato un po’ stranito, che… Ma mi ero ripromessa di starti accanto fino a quando non avessi accettato la cosa.»
Harry non parlò, ma la sua espressione sembrava complimentare il suo miserabile e fallito tentativo di tenere fede alla sua promessa. Anche lei non ne era fiera: era venuta completamente meno al suo piano non appena le sue più candide aspettative erano state minacciate.
«Ho avuto paura» ripeté soltanto, fragile.
Harry scosse la testa, respirò profondamente. «E ti basta avere paura per accusarmi di volerti far abortire? Sei davvero così egoista?»
Emma serrò i pugni lungo il proprio corpo, indurì lo sguardo. Un moto di rabbia la portò a spingerlo via con le mani sul petto. «Vuoi smetterla?!» Gridò, con il viso infiammato. «Sei solo un ipocrita! Hai appena finito di giustificare la tua reazione dicendo che eri spaventato, ed ora te ne stai qui a guardarmi dall’alto verso il basso quando io cerco di spiegarti che è la stessa cosa che è successa a me!» Non riusciva a controllarsi. «Non osare giudicarmi, Harry. Tu mi hai fatto sentire in colpa per essere rimasta incinta. Tu… Tu mi hai fatta sentire in colpa per il nostro bambino, per qualcosa che avevi definito un problema! Quindi smettila di essere un tale ipocrita! Smettila di darmi contro solo perché ti senti ferito quanto me!»
Avevano sbagliato entrambi e nello stesso modo, Emma se ne rendeva conto solo ora.
Harry era rimasto scioccato dalla notizia della gravidanza, aveva forse temuto di non essere pronto, ed aveva reagito con un distacco che Emma aveva anche previsto, ma usando parole che non aveva neanche immaginato di sentire. Aveva reagito nell’unico modo che avrebbe potuto trascinare Emma in una terra di sconforto e paura. Aveva reagito egoisticamente, attaccando in modo da nascondere le proprie fragilità.
Emma d’altra parte aveva risposto alle sue parole incoerentemente. Come se la persona dalla quale era corsa per comunicarle la notizia, sicura dell’entusiasmo che avrebbero condiviso, fosse improvvisamente un’estranea: come se lei avesse perso ogni capacità di decifrare i suoi comportamenti, gli stessi con i quali conviveva da anni. E aveva finito per pronunciare parole altrettanto taglienti. Aveva reagito nell’unico modo che avrebbe potuto portare Harry ad allontanarsi ancora di più, inorridito e risentito. Aveva reagito egoisticamente, attaccando in modo da nascondere le proprie fragilità.
Restarono a guardarsi per qualche secondo, entrambi con i petti ansanti. Tesi. Esausti.
Harry si portò entrambe le mani tra i capelli, sospirò sonoramente e chiuse gli occhi, abbandonando il capo all’indietro e muovendo passi stanchi e privi di meta. Emma lo fissava senza muoversi, senza sapere cos’altro fare e cos’altro dire.
Harry voleva quel bambino.
Lo voleva.
Lo voleva quanto lei.
Un doloroso squarcio al centro del petto fece singhiozzare Emma miseramente. Pensò che le avrebbe risucchiato le forze, che da quella ferita avrebbe perso energie fino a restare vuota, ormai abituata a perdere pezzi di sé ininterrottamente. Invece sentì qualcosa infiltrarsi in lei strisciando lentamente in quella stessa apertura. Aveva l’impressione che fosse simile al sollievo.
Harry si voltò nell’udire il suono strozzato proveniente dalla sua gola e stavolta sembrò non esserne immune.
La raggiunse con pochi passi decisi. Emma ebbe la sensazione che l’avrebbe baciata non appena fosse stato abbastanza vicino, e credette di non aver bisogno di altro. Invece Harry le racchiuse il viso tra le mani e le sfiorò il naso con il proprio, imponendole la propria presenza quasi a volerle ricordare cosa significasse, come a voler riportare entrambi alla realtà. Emma non sapeva se fosse colpa della sua vista offuscata dalle lacrime, ma pensò di scorgere i suoi occhi verdi inumidirsi.
«Non sai cosa darei per vederti con quel bambino tra le braccia» disse Harry, serrando la presa sul suo viso e senza distogliere lo sguardo.
Emma perse ogni controllo.
Prese a piangere convulsamente, affondando il volto sul petto di Harry e perdendo coscienza dei propri confini tra le sue braccia, che la stringevano contro il suo corpo come a volerla inglobare. Era rincuorante avere qualcosa intorno a sé a tenerla insieme, a non permetterle di sgretolarsi.
Harry continuò a sostenerla anche mentre le gambe di Emma cedevano, obbligandoli a scivolare sul pavimento del salotto.
Emma aggrappata al suo collo e rannicchiata contro di lui.
Prima che potesse essere rapita nuovamente da pensieri opprimenti, di qualsiasi natura fossero, Harry posò un bacio sulla sua fronte, cullandola per chiederle di calmarsi o forse semplicemente per accompagnarla in quel baratro di emozioni.
Emma reagì al suo tocco serrando la presa intorno al suo collo, premendo il viso contro il suo.
Stavolta fu lei a baciarlo, ma non con la stessa cautela di poco prima.
Fu un bacio esausto, impaziente.
Un bacio disordinato, bagnato. Interrotto dai suoi testardi singhiozzi.
Incoraggiato dalle mani di Harry premute sulla sua schiena, nel cercare di avvicinarla a sé il più possibile.
Scomodo per la posizione.
Un bacio fatto di gemiti dettati dal pianto irrefrenabile e da un bisogno ben più caparbio.
Harry le scostò i capelli che le si erano appiccicati al viso e lei si spostò in modo da avere le gambe intorno al suo bacino, in modo da poterlo guardare negli occhi senza difficoltà, in modo da avere la sua bocca a sua completa disposizione.
Si spinse contro il suo petto, facendolo sospirare. Gli morse un labbro senza dispetto, lui percorse la sua mandibola con baci umidi e languidi, fino ad arrivare ad un punto particolarmente sensibile sotto il suo orecchio.
Ad ogni tocco delle sue labbra, Emma riacquistava briciole di forza e controllo su se stessa.
Ad ogni tocco delle sue labbra, cresceva la dipendenza che ne derivava.
Harry fece passare le mani sotto la sua maglia, accarezzandole la schiena fino ad arrivare alle sue scapole.
Emma mosse il bacino sul suo, spontaneamente, e l’attrito fece rabbrividire entrambi. Lo baciò di nuovo, respirò nella sua bocca mentre le sue dita fredde raggiungevano il suo seno. Gettò all’indietro il capo, godendo di quel contatto inebriante e continuando a muoversi su di lui lentamente. Sentiva la sua eccitazione tramite i pantaloni della tuta.
Harry le afferrò i fianchi e la trattenne, come a volerle imporre di fermarsi. Per compensare quel gesto, le baciò la gola, leccando i punti dove aveva posato le labbra in precedenza.
Emma riconobbe il limite che le veniva imposto. Tornò a guardarlo negli occhi, ansimando contro la sua bocca. «Hai detto che ne avevi bisogno» gli ricordò in un sussurro, mossa dalla necessità di donargli tutto ciò che era in suo possesso. Non per un senso di malizia, ma in nome di un conforto che non avrebbero potuto ricavare diversamente.
Harry si inumidì le labbra, aveva il respiro accelerato. «Io ho bisogno di te, non…»
Emma si sollevò appena sulle ginocchia, per poi scendere su di lui con una lentezza disarmante per entrambi. «Anche io ho bisogno di te» gli assicurò, riposando la fronte contro la sua. «Così tanto, Harry…»
Lui la baciò con urgenza. Non fu chiaro se per metterla a tacere o se per invitarla a non fermarsi.
Emma decise di non perdersi in tentativi vani di interpretazione. Aveva una viscerale necessità di Harry, di tutto quello che rappresentava e che poteva pesare su di lei fino ad azzerarla: sentire i suoi respiri impazienti infrangersi sulla sua pelle, percepire la sua erezione sotto di sé e lo sforzo che gli costava non assecondare i suoi movimenti, udire quei flebili gemiti che gli lasciavano le labbra tra un bacio e l’altro… Lei non era di certo pronta ad un rapporto completo, non sapeva quando si sarebbe sentita a proprio agio nel farsi nuovamente sfiorare, ma era convinta che avrebbe goduto del piacere di Harry, di un piacere non solo fisico.
Aveva sempre pensato che l’amore fosse altruismo. E nulla come quel momento, nulla come il bisogno dirompente di sentire crescere il suo piacere fino a stordirla, poteva confermare quel concetto.
Emma fece scivolare la sua mano. Avvertì i suoi addominali contrarsi brevemente sotto il tocco delle sue dita.
Tergiversò lungo i suoi fianchi nel tentativo di convincerlo a lasciarsi accarezzare senza esitazione, dandogli la possibilità di fermarla ma allo stesso tempo sconsigliandogli di farlo. Restò a pochi millimetri dalla sua bocca, guardandola con ardore mentre lui appoggiava le mani sul pavimento come arreso al suo destino. Emma rimpianse la stretta sul suo bacino, quelle dita arpionate nella sua pelle, e decise di bilanciare quell’improvvisa assenza con altro.
Giocò brevemente con l’elastico della sua tuta, per poi nascondere la mano al di sotto della stoffa e raggiungere la sua erezione. Harry ansimò in risposta, avvicinandosi alla sua bocca per baciarla in una sorta di ringraziamento e di supplica.
Emma aveva iniziato a muovere la mano avanti e indietro, godendo del suo calore, delle labbra che avevano iniziato a torturare le sue, dell’unione imparagonabile dei loro corpi, della sintonia con cui riuscivano a cercarsi e a nutrirsi anche con mille problemi alle spalle. Emma sentiva crescere il piacere anche nel suo basso ventre: una sensazione che la stranì e che la portò a rallentare il ritmo dei suoi movimenti. L’ultima cosa che l’aveva scosso era stato un dolore lancinante, in confronto al quale quel sottile piacere sembrava una colpa di cui vergognarsi.
Forse era ingiusto provare qualcosa del genere.
Forse era precoce.
Forse Emma era una persona orribile.
Harry la distrasse posandole una mano sulla guancia. «Guardami» le ordinò, reclamando i suoi occhi velati di una patina amara. Emma gli ubbidì, sperando di poterne trarre forza. O forse coraggio.
«Vorrei essere dentro di te» le disse con la voce spezzata, arsa dal piacere. «Qui, adesso.»
Emma trattenne il respiro, stordita. Sentì il bacino di Harry andarle incontro per compensare i suoi movimenti più radi. Ebbe l’impressione che stesse cercando di trascinarla con sé pur non toccandola, che avesse colto i suoi pensieri inespressi e volesse porvi rimedio.
Harry le si avvicinò all’orecchio, stringendo la mano tra i suoi cappelli. «Vorrei essere tra le tue gambe, mentre mi tocchi» sussurrò con lascivia, arrendendosi subito dopo ad un sospiro sofferto.
Emma si lasciò sfuggire un gemito, chiuse gli occhi. Riprese a muoversi intorno alla sua erezione.
Lui le morse il lobo dell’orecchio senza convinzione. «Vorrei respirare su di te» continuò, provocandole un piacevole fitta che le fece inarcare appena la schiena. «Sentire il tuo odore… il tuo sapore».
Harry tornò a guardarla negli occhi, le sfiorò le labbra ed aprì la bocca contro la sua, senza baciarla. «Ma più di tutto vorrei essere dentro di te» ripeté, chiudendo una mano sulla sua ed iniziando a dettare un ritmo lento, che fece ansimare entrambi.
«Vorrei muovermi così… Lentamente.»
Emma sentiva il petto in fiamme, avrebbe voluto disporre di un appiglio diverso dalle spalle di Harry, che invece sembravano condannarla ad un destino che si avvicinava sempre di più. Con l’altra mano Harry tornò sul suo seno, iniziando a torturarle il capezzolo. «Sì, così… Come ti piace tanto» la incalzò, sentendola reprimere un verso di piacere nel mordersi un labbro.
Le baciò il collo, succhiando la pelle e respirandoci sopra. «E proprio mentre fai questa faccia…» le promise, baciandole una guancia e sfiorandole il naso per attirare la sua attenzione, per renderla consapevole di come la stesse osservando e di come la stesse adorando. «… proprio in quel momento vorrei spingermi ancora di più dentro di te.»
Harry guidò la sua mano in movimenti più decisi sulla sua erezione, gemendo di conseguenza. «Più a fondo.»
Emma non riusciva a respirare.
«Più veloce.»
«Harry…»
«Sì?»
Harry raccolse quel nome appena sussurrato come una richiesta imprecisa, ma irrinunciabile. Emma non la articolò, reclinò il capo all’indietro lasciando che lui riprendesse a camminarle sul collo con le sue labbra morbide, immergendosi nel calore della sua mano aperta sul suo seno.
«Vorrei sentirti venire mentre sono ancora dentro di te.»
Emma sfiorò la punta dell’erezione di Harry con le dita, scostandosi dalle sue indicazioni, e lo sentì tendersi sotto il suo tocco. Percepì il suo corpo sussultare per qualche istante, delle parole confuse strisciare via dalla sua mascella serrata. E il suo orgasmo fu così totalizzante da spingerla sull’orlo della perdizione.
Orlo che Harry non era affatto disposto a lasciarsi sfuggire.
La baciò ancora una volta, come per prometterle qualcosa. Poi le sollevò la maglia e con entrambe le mani si dedicò al suo seno, fino a posarci la bocca per morderlo e saggiarlo. Fino a leccarlo così sfacciatamente da provocare in Emma un brivido irresistibile, un gemito più forte e prolungato. Fino ad obbligarla a stringere le gambe intorno al suo bacino come a voler trattenere l’orgasmo che la stava scuotendo nel profondo.
Fino ad azzerarla.


 

Be',  che altro dire?!
Io sinceramente sono prosciugata dallo sforzo che mi costa scrivere queste scene (e quelle che poi leggerete): è davvero estenuante, soprattutto dopo anni di blocco. Ritornare di botto con un tale carico emotivo è un pochetto difficile! Difatti spero di non aver fatto un casino e di aver esposto al meglio cosa succede tra questi due poveri disperati. So che il punto di vista di Emma non è semplice: in un momento simile è a dir poco altalenante ed incoerente, quindi altrettanto difficile da descrivere.
Non so in quanti si aspettassero un aborto spontaneo: forse ho infranto i sogni di chi si aspettava di leggere di un piccolo Harry in miniatura. Ma sapete che io e le cose semplici non andiamo d'accordo.
Pubblicare questa parte della storia è un sollievo: è da anni che ho in mente di scriverla, per cui è da anni che convivo con scene simili nella testa, consapevole di dover spezzare i cuori di Emma ed Harry più di una volta. Mi porto dietro un vago senso di colpa.
In ogni caso, come sempre spero che questo "capitolo" vi sia piaciuto. Sapete che sono il mio più grande critico, ma aspetto comunque eventuali pareri (positivi o negativi che siano!).
 
Un abbraccio,
Vero.


 

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Capitolo 3
*** Apart: III ***



27 Maggio 2018
04:15 pm
 
Alle nove Harry accompagnò Emma ad eseguire gli esami del sangue prescritti dal Dottor Jills per un controllo di routine. Per fortuna il tutto non durò molto - Emma aveva sviluppato una certa avversione per gli ambienti sanitari – e loro quasi non si rivolsero la parola: erano sospesi in una sorta di tregua precaria dai loro problemi, come se la discussione di sole poche ore prima avesse concesso loro di riprendere fiato in attesa della successiva e prolungata apnea, come se i sospiri di desiderio che avevano condiviso stessero esaurendo il loro effetto lenitivo. Un cupo presentimento era percepibile nel modo in cui si toccavano, in cui si guardavano.
Più tardi nella mattinata, Emma ricevette la visita di sua sorella Melanie e di Zayn: Harry si era dileguato poco prima con la scusa scarsamente credibile di dover andare a fare un po’ di spesa. I due si trattennero per circa un’ora tergiversando fino all’ultimo, quando furono obbligati ad uscire per andare a prendere il piccolo Christopher all’asilo nido. Con immensa gratitudine da parte di Emma, non le rivolsero molte domande, ma entrambi, a turno, si erano guardati intorno almeno una volta come per scovare la presenza di Harry. Emma non aveva detto niente a riguardo.
Harry tornò per pranzo e cucinò per entrambi, sordo all’insistenza con la quale Emma cercava di rendersi utile. Lei continuava ad evitare le piastrelle dove si era accasciata tra le braccia di Pete: non voleva guardarle, né metterci piede. Aveva il vago sentore che non fosse l’unica ad aggirare il tavolo piuttosto di non passare da lì.
Mentre Harry lavava i piatti, schivando lei mani di Emma che di tanto in tanto cercavano di rubargli una stoviglia per aiutarlo, ricevettero la telefonata di Adam Styles: il padre di Harry non aveva voluto disturbarli con visite a sorpresa, a suo dire, anche se dalla voce impaziente si era dimostrato piuttosto in difficoltà nel rispettare quella sua decisione. Il suo tono comprensivo ed affettuoso aveva intenerito Emma, che l’aveva rassicurato e ringraziato, prima di salutarlo con gli occhi lucidi.
Quando Constance la chiamò per avvisarla che lei e Ron sarebbero passati a trovarla da lì a poco, Harry si ricordò improvvisamente di aver dimenticato qualche altra vaga commissione e scomparve di nuovo. Emma era convinta che fossero due i motivi dietro le sue frettolose uscite: sicuramente desiderava lasciarle dell’intimità con la sua famiglia, ma con altrettanta certezza credeva che non si sentisse a proprio agio nel rivederli. Era persino possibile che se ne vergognasse.
I suoi genitori le portarono uno sformato magicamente avanzato per intero dal pranzo appena trascorso – straordinariamente simile al preferito di Harry, forse un discreto tentativo di mostrare vicinanza. Le promisero che Fanny sarebbe andata a trovarla il giorno dopo: Emma l’aveva sentita al telefono, più volte di quante non si fosse aspettata da una quindicenne vagamente introversa. Anche loro, come Melanie e Zayn, avevano cercato di capire se Harry fosse presente in quel momento. Fu Ron l’unico a chiedere se andasse tutto bene “in casa”: Emma aveva annuito accennando un sorriso incerto e sperando di risultare convincente, ma non si era sentita pronta a scoprire le carte e ad affrontare il discorso con loro. Come le aveva anticipato sua sorella maggiore, non le erano sembrati arrabbiati o risentiti né con lei né con Harry, ma semplicemente apprensivi.
Dopo un paio d’ore, nelle quali Constance aveva insistito per pulire l’intera casa da cima a fondo nonostante non ce ne fosse bisogno, Emma si sentiva letteralmente esausta. Un vago senso di colpa le bussò nel petto, ma non la trattenne dal porre l’accento su un’improvvisa debolezza per la quale si sentiva in dovere di riposare. Constance e Ron si dileguarono scusandosi per il disturbo e mettendosi a sua completa disposizione per qualsiasi cosa.
 
Messaggio inviato alle ore 04:15 pm
A: Harry
“I miei se ne sono andati… Puoi tornare, se vuoi”
 
Avrebbe voluto chiedergli di tornare, ma si era trattenuta dal farlo.
Nonostante avesse intenzionalmente cercato la solitudine, si scoprì debole nel goderne. A disagio.
La casa le sembrava particolarmente vuota, tanto da risultare soffocante.
Inoltre in qualche modo non riusciva a stare lontano da Harry. Non dopo quella mattina, non dopo ciò che le aveva detto. Non dopo il conforto impagabile che le aveva donato.
“Non sai cosa darei per vederti con quel bambino tra le braccia.”
Sapeva che avevano affrontato solo una parte dei problemi che li avevano divisi, ma nonostante questo era lui che cercava nella stanza quando sua sorella la osservava con compassione. Quando suo padre le stava accanto con la paura di vederla cedere da un momento all’altro. Era lui che cercava quando le mani le tremavano appena sotto la pietà che tutti gli altri le mostravano inconsapevolmente.
La ferita di Emma era ormai ulcerata, infetta. Era consapevole del tempo che avrebbe impiegato a risanarsi, del dolore e della pazienza che l’avrebbero accompagnata nel processo. Ma nulla le vietava di godere di un placebo, nulla le vietava di cercare un balsamo che avrebbe potuto alleggerire le sue pene.
Nulla le vietava Harry.
 
Harry tornò a casa poco dopo.
Non si tolse nemmeno la giacca, si diresse semplicemente verso di lei per racchiuderle il viso tra le mani e saggiarle le labbra lentamente, lasciandosi sfuggire un sospiro. Emma pensò che in quel gesto ci fosse la dimostrazione di quanto i loro bisogni fossero simili, di quanto la lontananza di quelle poche ore avesse messo a dura prova entrambi.
Harry non approfondì il bacio. Le accarezzò il collo con una mano fredda e lasciò che lei posasse il viso sul suo petto, abbracciandola. Lei stava ingenuamente cercando di sincronizzare i loro respiri, come se avesse potuto aiutarli a stare meglio, quando il suo cellulare squillò nella tasca dei suoi pantaloni. Rispose distrattamente, senza controllare il mittente, ma soprattutto senza allontanarsi da Harry. «Sì?»
«Kent, ehi!»
Harry dovette udire la voce ovattata proveniente dal suo cellulare, perché subito si irrigidì come infastidito, allentando la presa intorno al suo corpo.
Emma alzò gli occhi su di lui, non lo trattenne quando cercò di allontanarsi senza guardarla. Si schiarì la voce. «Ciao, Pete.»
«Come stai?»
Harry si andò a sedere sul divano, togliendosi le scarpe e la giaccia ed allargando entrambe le braccia sullo schienale. Il capo abbandonato all’indietro, le palpebre abbassate.
«Ehm, bene, Pete. Grazie» rispose senza convinzione. Le dispiaceva essere così distante, soprattutto con la persona che le era stata accanto nel momento più buio che potesse ricordare. Cercò qualcos’altro da dire, ma Pete la anticipò senza smorzare il tono incalzante: non l’avrebbe mai costretta in aspettative scomode.
«Io e quella rompiscatole di Nikole pensavamo di passare a trovarti, questa sera» la informò. «Le ho detto che magari non hai voglia di vedere nessuno, soprattutto lei e tutto il casino che si porta puntualmente dietro. Ma non sono riuscito a convincerla.»
Emma sorrise al pensiero dei suoi due amici.
L’ultima volta che aveva visto Pete, erano entrambi ancora in ospedale, ma lei era così confusa da non riuscire a distinguere la sua presenza con lucidità. Si erano sentiti spesso, anche contravvenendo alla ben nota repulsione per il contatto umano di Pete: Emma aveva snocciolato qualsiasi parola le venisse in mente per esprimere anche solo in parte la gratitudine che provava nei suoi confronti. Lui, d’altra parte, l’aveva trattata con accondiscendenza per evitare di sbraitarle contro che non doveva permettersi di ringraziarlo.
Con Nikole si sentiva in debito, invece. Oltre a non averle detto niente della gravidanza, era stata anche l’ultima a sapere del suo ricovero in Pronto Soccorso. Emma se ne era scusata più volte, mentre l’amica piangeva al telefono sostenendo che non era importante e che non avrebbe dovuto preoccuparsi.
Avrebbe voluto rivedere entrambi, ma non credeva che quel giorno ne sarebbe stata in grado.
L’incontro con Melanie ed i suoi genitori l’aveva stremata.
Ed Harry era ancora immobile sul loro divano.
«Pete, mi dispiace… Stasera non sarei di buona compagnia, non… Oggi a casa c’è stato un via vai non indifferente, ed ora mi sento letteralmente esausta» cercò di scusarsi, massaggiandosi la fronte con una mano. «Possiamo vederci domani, magari?»
«Certo, figurati, non c’è problema!» Pete si affrettò a dire. «Questo mi dà l’opportunità di chiamare Nikole e di dirle un grande, anzi gigantesco, soddisfacente e presuntuoso: “Te l’avevo detto!”» scherzò subito dopo, forse cercando di alleggerire la conversazione.
Emma abbozzò una breve risata. «Non darle fastidio.»
«Io? Infastidirla? Mai.»
«Bugiardo.»
Pete restò in silenzio qualche istante. «Ci sentiamo domani, allora.»
Emma annuì, cercando di aggrapparsi al tepore che quella promessa portava con sé. «A domani.»
Dopo aver posato il telefono sul tavolo, si avvicinò al divano e si sedette accanto ad Harry. Avvertì la tentazione di abbandonarsi contro il suo corpo, che sembrava invitarla a farlo, ma si trattenne.  «Harry?» Lo chiamò a bassa voce, quasi a non volerlo disturbare. Il cipiglio sulla sua fronte le suggeriva che si stava addentrando in pensieri rischiosi.
Lui si inumidì le labbra, sospirò. Si chinò in avanti per appoggiare i gomiti sulle ginocchia, passandosi le mani tra i capelli.
Emma non sapeva se toccarlo.
Dopo qualche secondo Harry si voltò a guardarla, appoggiando uno zigomo sul suo pugno chiuso. La osservò con calma, senza lasciarsi sfuggire nessun dettaglio di un volto che conosceva già a memoria. Schiuse le labbra come a voler parlare, ma non disse niente.
Lei corrugò le sopracciglia, confusa.
Harry raddrizzò di nuovo la schiena, sospirò di nuovo, sfregando brevemente le mani sulle proprie cosce. Sembrava che il suo corpo non riuscisse a trovare pace, così come probabilmente la sua mente.
Emma si mosse di conseguenza, senza sapere se allontanarsi o avvicinarsi.
«Pete ha ragione» esordì Harry in poco più di un sussurro. Gli occhi fissi sulle sue mani.
Lei si ritrovò a risparmiare respiri, come se investita dal presagio che presto ne avrebbe avuto più bisogno. La telefonata di Pete doveva aver innescato qualcosa nella sua mente, qualcosa che l’aveva portato ad isolarsi e a riflettere: ne era un chiaro segnale il fatto che Harry si fosse teso al solo udire la sua voce, che si fosse allontanato come per allontanare anche l’idea del legame tra Pete ed Emma. In fondo era stato proprio Pete ad anticipargli quali fossero le sue colpe: forse in un luogo inadatto, forse in modo inappropriato, forse toccando il suo orgoglio prima ancora che i suoi sensi di colpa. Emma sapeva di dover annoverare quell’episodio tra i pensieri rabbuiati di Harry.
Lui si voltò e cercò i suoi occhi, serrando i pugni. «Avrei dovuto esserci io con te, l’altro giorno.»
Emma era incapace di rispondere. Distolse lo sguardo.
Lui allungò una mano e con l’indice le sollevò il mento come per invitarla a guardarlo. «Avrei dovuto essere lì con te» ripeté, come per impedirle di fuggire da quella verità. «Scusa, Emma» aggiunse lentamente.
Era la prima volta che pronunciava quella parola da quando lo conosceva. Aveva sempre dimostrato pentimento, quando necessario, aveva sempre trovato un modo per farsi perdonare e per apparire sincero, ma non aveva mai chiesto esplicitamente scusa. Emma si rammaricò del fatto che avesse scelto quell’occasione per farlo, che l’avesse fatto quando lei non avrebbe potuto gioirne internamente, quando uno “scusa” non avrebbe potuto risolvere niente.
Emma si ritrasse, interrompendo il leggero contatto con il quale lui aveva cercato di tenerla legata a sé.
Il discorso si era orientato verso qualcosa di difficile, tanto da sembrare insormontabile: qualcosa che aveva aleggiato su di loro fino a quel momento, minacciandoli dall’alto e privandoli di una via di fuga. Ebbe l’impressione di aver varcato un confine senza possibilità di ritorno, che il limbo dietro al quale si era barricata si stesse sgretolando, non lasciandole più alcuna scelta. Harry aveva pronunciato quelle parole forse nella speranza, o addirittura nella convinzione che li avrebbero aiutati. Ma non sapeva di sbagliarsi terribilmente.
Aveva appena sancito il termine della tregua.
Emma avvertì l’ormai familiare e fastidiosa sensazione delle lacrime che si accalcavano dietro ai suoi occhi. Cercò di spingerle indietro, di non lasciarle trasparire.
Era stato infinitamente doloroso arrivare alla conclusione di aver commesso entrambi un errore simile, quando avevano discusso quella mattina. Riconoscere di aver ceduto alla paura e di aver parlato istintivamente, senza progettare quello che avrebbe rappresentato una ferita per l’altra persona. Capire di essersi fraintesi. Era stato doloroso, certo, ma era stato anche relativamente semplice.
A questo punto, però, non c’era più nulla di semplice.
Emma aveva sepolto molto in fondo dentro se stessa il viscerale rancore che provava nei confronti di Harry per averla lasciata sola. Il risentimento per l’abbandono che le aveva inflitto per orgoglio. L’aveva nascosto sotto l’ingombrante sofferenza per il bambino mai conosciuto e sotto il terrore che Harry avrebbe potuto non volerlo, sotto l’ustione provocata dalle parole di Harry e sotto il senso di colpa per le proprie. Aveva cercato di respingerlo il più possibile, perché consapevole del pericolo che celava in sé e della difficoltà che avrebbe comportato estinguerlo.
Non si trattava più di un comportamento spontaneo e dettato dalla paura. Non era qualcosa pronunciato d’istinto e senza pensare. Era la chiara conseguenza di una scelta ben studiata, di una distanza ben calcolata che, per quanto ingenua, aveva causato qualcosa di così grave da somigliare ad un tradimento.
Emma poteva perdonare più facilmente uno scatto d’ira o una difesa improvvisa, ma non sapeva come affrontare un’intenzione elaborata consapevolmente.
Harry sembrava non volerle dare il tempo di ragionare.
«Il pensiero di come devi esserti sentita…»
Lei serrò la mascella, continuando a non guardarlo. Era impegnata con tutte le sue forze a restare distaccata dalle sue parole, a non lasciare che innescassero ricordi ancora troppo vicini.
Harry si passò di nuovo le mani tra i capelli, forse sperando di allentare la tensione. «Quando ho saputo che hai chiesto di me prima di… Cristo, Emma…»
Emma chiuse gli occhi, una lacrima sfuggì al suo controllo. Solo una.
Non voleva pensare. Non voleva ammettere, ricordarsi che quello era davvero accaduto.
«E quando sono tornato a casa, c’era il tuo sangue sul pavimento» Harry abbassò la voce nel pronunciare quelle poche sillabe. Emma singhiozzò sommessamente, incapace di trattenersi. Ripensò al pungente odore di candeggina che ancora si poteva percepire. «Il tuo sangue… Come una cazzo di punizione.»
Emma arpionò lo schienale del divano con una mano. Forse per reggersi, forse per impedirsi di colpire Harry.
«Mi dispiace» continuò lui. «Avrei dovuto esserci» ripeté ancora. Il tono roco incrinato dal rimorso.
«Ma non c’eri» gli ricordò Emma lentamente, finalmente voltandosi a guardarlo.
Harry dovette percepire qualcosa di gelido nei suoi occhi, perché sembrò risentirne.
«Hai scelto di non esserci.»
Restarono in silenzio per qualche secondo.
«E proprio tu parli di punizioni?» Gli chiese con un falso stupore nella voce. Parlava piano, stava cercando di misurare tutto ciò che poteva controllare: era convinta che un solo tassello fuori posto avrebbe potuto scatenare il caos che imperturbava nel suo petto. «Non era forse per punirmi che sei sparito per giorni? Che mi hai evitato?»
Harry la guardava esterrefatto, i suoi respiri avevano iniziato ad accelerare. «Se avessi saputo-»
Emma lo interruppe alzandosi di scatto dal divano e lasciandosi sfuggire un verso carico di frustrazione. Avrebbe voluto continuare a mantenere la calma, ma si ritrovò ad urlare. «Non funziona così! Non funziona così, cazzo!» Sbottò, voltandogli per un attimo le spalle con le mani sulle tempie. Quando riportò gli occhi su di lui, cercò di trasmettergli qualcosa che non era sicura sarebbe riuscita ad esprimere a parole. «Non puoi pentirti dei tuoi comportamenti quando il danno è fatto! Non puoi startene qui a dirmi quanto tu ti sia sentito una merda mentre io passavo il momento più brutto della mia vita senza di te! È solo colpa tua se è successo!»
Harry si era alzato, allungando istintivamente una mano verso di lei ma ritraendola subito. 
«Ti ha sconvolto il fatto che io abbia chiamato il tuo nome prima di svenire? Mentre pensavo di perdere il nostro bambino? Mentre sanguinavo sul nostro pavimento?» Emma non riusciva a fermarsi, aveva di nuovo la vista appannata dalle lacrime. Le bruciava la gola per le urla. «Ti dirò di più, Harry. Io non ti ho chiamato, io ho pregato Pete di portarti da me! E- non mi toccare, cazzo!» Gridò, quando lui provò di nuovo ad avvicinarsi, ammutolito. «Non mi toccare» ripeté freddamente.
«Tu eri la persona di cui avevo più bisogno» riprese, stavolta abbassando la voce tremante. «Nonostante non ci parlassimo da giorni, mentre perdevo il bambino che ero convinta tu non volessi, eri comunque la persona che volevo al mio fianco.»
Harry fece un passo indietro.
«Invece tu… Tu eri troppo impegnato ad evitarmi, a non rispondere alle mie chiamate, a non rispondere nemmeno ad un misero messaggio, a scappare della stanza se per caso mi azzardavo ad essere presente. Non mi hai mai chiesto come stessi. Se fossero iniziate le nausee. Se andasse tutto bene. Mai. Non te ne è fregato un cazzo, non in confronto al tuo ego ferito!»
Emma non aveva mai visto Harry non trovare le parole per replicare, ma non ne traeva alcuna soddisfazione. Era solo il sintomo della crepa nel loro rapporto.
«A cosa ti ha portato tutto questo?» Continuò, senza aspettarsi una risposta. Serrò i pugni. «Io voglio essere più importante del tuo orgoglio. Voglio poter sbagliare sapendo che non te ne andrai per giorni. Voglio sentirmi in grado di affrontare qualsiasi cosa sapendo che tu sarai al mio fianco. Che non mi lascerai sola». Puntò gli occhi nei suoi, vuoti perché sconfitti. «Non voglio più sentirmi così sola.»
Harry era immobile, inerte.
Emma sapeva, dall’espressione del suo viso, che non avrebbe replicato. In fondo sperava che non lo facesse, perché non credeva che le sue gambe l’avrebbero sostenuta ancora per molto.
Si voltò e si allontanò, dirigendosi verso il bagno.
 
Si diede un’ultima occhiata allo specchio.
Credeva di poter scorgere un’ombra scura nei propri occhi, impregnata dell’orrore che l’aveva pervasa quando durante la doccia aveva notato altro sangue scivolarle lungo la coscia. Le perdite si stavano facendo più rare ed erano sempre meno abbondanti, ma erano dettagli che non riuscivano a consolare Emma. Ogni volta che scorgeva quel rosso intenso, il suo stomaco si serrava in una morsa di ribrezzo.
Le guance avevano riacquistato un colorito roseo grazie al vapore umido che aleggiava nella piccola stanza. Emma evitò di pensare che fosse anche dovuto al pianto silenzioso che si era concessa sotto il getto caldo della doccia: forse se le lacrime si fossero confuse con l’acqua, avrebbe potuto far finta che non esistessero.
Si sentiva frastornata, instabile.
Aveva bisogno di dormire e di svegliarsi solo il giorno dopo.
Si avvolse i capelli nell’asciugamano e si legò in vita l’accappatoio. Afferrò la maniglia della porta, ma non la abbassò: si concesse pochi secondi per raccogliere qualche straccio di energia, prima di decidersi ad uscire.
Harry era seduto contro la parete accanto alla porta, con un ginocchio piegato ed un braccio a riposarci sopra: la stava aspettando. Emma sobbalzò nello scorgerlo all’angolo del suo campo visivo. Era decisa ad ignorarlo, ma lui glielo impedì.
«Dovresti iniziare a pensare che quello è stato anche il momento più brutto della mia vita» disse lentamente, impedendole di fare un altro passo. Non la guardava. «E che probabilmente non mi perdonerò mai di non averlo affrontato con te.»
“Non sai cosa darei per vederti con quel bambino tra le braccia.”
«Mi chiedo se tu riuscirai mai a perdonarmi.»
Emma esitò, ma non gli rispose. Non avrebbe saputo cosa dire.
Si chiedeva la stessa cosa.
Lo superò e si diresse in camera da letto.
Non cenò quella sera. Si addormentò presto in un letto vuoto.
Quando si svegliò nel mezzo della notte, Harry non era accanto a lei, ma per la prima volta da giorni non credeva la stesse allontanando orgogliosamente. Sembrava le volesse concedere spazio.
 
 
28 Maggio 2018
09:24 am
 
Uscì dalla camera da letto e trovò Harry intento a preparare del thè. Emma si avvolse intorno alle spalle una piccola coperta di cotone che avrebbe dovuto proteggerla dalle temperature in ribasso di quella mattina piovosa. Le ciabatte provocarono un flebile fruscio sul pavimento mentre camminava, Harry si voltò a guardarla ed increspò le labbra in una linea bizzarra, un impacciato segno di riconoscimento.
Emma si mordicchiò l’interno di una guancia, in silenzio.
Non aveva fame, per cui si limitò a sedersi al tavolo sbadigliando, ancora assonnata. Harry afferrò la tazza di thè fumante e si appoggiò al bancone della cucina, soffiando piano sul liquido scuro e sorseggiandolo lentamente.
Non era facile decidere come comportarsi, destreggiarsi tra la quotidianità di quella semplice scena e la straordinarietà del punto in cui si trovava la loro storia. Era come vivere una realtà incompleta, dove Emma faceva compagnia ad Harry durante la colazione consumata in cucina, ma senza poterlo toccare. Senza volerlo toccare.
«Posso venire con te?»
La domanda di Harry la colse di sorpresa e carpì la sua attenzione: si era quasi dimenticata dell’appuntamento dal Dottor Jills previsto per quella mattina, o forse aveva inconsapevolmente represso quel pensiero in un angolo della sua mente.
Non era da Harry chiedere il permesso di fare qualcosa, soprattutto non con quell’innocenza ad accarezzargli la voce. Di solito si mostrava piuttosto egocentrico nelle sue decisioni e, se anche fingeva di chiedere un parere, finiva per ignorarlo genuinamente a seconda dei propri interessi. Emma era stranita da quel suo lato quasi premuroso, ma non lo guardava con sospetto: ne era anzi rassicurata.
Non era poi così cieca da non accorgersi dei gesti nei suoi confronti. Solo la sera prima, Emma gli aveva intimato di non toccarla, gli aveva rinfacciato mancanze incolmabili e aveva evitato di rispondere ad una insinuazione pessimistica riguardo il loro futuro. Gli aveva vomitato addosso un carico emotivo non trascurabile, che l’aveva persino reso inerme ed incapace di rispondere. Era quasi normale che di conseguenza Harry le chiedesse di accompagnarla all’appuntamento, come per sapere se poteva ancora vantare quel diritto.
Ma per quanto fosse normale, era anche superfluo.
Emma sarebbe stata la più grande ipocrita della storia, se avesse davvero pensato di escluderlo. Gli aveva detto di non voler mai più sentire una solitudine così straziante e lo credeva davvero. Non voleva essere sola nemmeno nello studio del Dottor Jills. Anzi, non si trattava nemmeno di un concetto così egoista come il semplice rimanere soli: Emma più che altro non voleva affrontare più nulla senza di lui.
«Certo» gli rispose, stringendosi nelle spalle.
 
L’ultima volta che era stata in quella piccola sala d’attesa, Pete, seduto nervosamente al suo fianco, sospirava regolarmente e frequentemente, agitandosi sulla sedia in legno ogni volta che posava accidentalmente lo sguardo su una delle riviste illustrative ginecologiche o sulle caviglie gonfie di una delle donne incinte lì presenti. Intanto Emma cercava di non scattare in piedi ogni volta che la segretaria passava davanti alla porta, troppo impaziente ed entusiasta nell’attesa che qualcuno chiamasse il suo nome.
In quel momento, invece, era tutto completamente diverso. Il contrasto era quasi soffocante.
Harry le era seduto accanto, ma, a differenza di Pete, sembrava non essere affatto turbato da ciò che lo circondava. Non perché fosse tranquillo, ma perché provava completo disinteresse per qualsiasi cosa al di fuori di loro: era concentrato su altro e niente poteva reggere il confronto. Emma poteva scorgere la sua orgogliosa determinazione nel verde dei suoi occhi, nelle dita nervose.
Emma cercava di attingere parte della sua compostezza, ma non per combattere una snervante agitazione: al contrario, per imporsi una forma e per evitare di appiattirsi sulla sedia in preda alla completa apatia. Era svuotata di qualsiasi emozione l’avesse accompagnata durante la visita precedente. L’unica ombra che di tanto in tanto la minacciava, era la nausea al pensiero di ciò che la aspettava.
Sperò che l’orario dell’appuntamento slittasse per un improvviso ritardo nella tabella di marcia, ma il destino sembrò farsi beffa dei suoi desideri: la segretaria chiamò il suo nome alle undici in punto, proprio come da programma. Emma sbarrò gli occhi e trattenne il respiro.
Harry si era già alzato, muovendo i primi passi in direzione dello studio medico. Quando si accorse che era l’unico ad aver reagito, si voltò ed osservò Emma per qualche istante. Tornò indietro e le afferrò delicatamente una mano, che lei stava serrando intorno alla giacca piegata sulle sue ginocchia: in qualche modo le chiese di nuovo il permesso, non a parole, ma tramite la cautela con la quale l’aveva toccata. Quando lei non lo respinse, la aiutò ad alzarsi. «Andiamo?» Le domandò a bassa voce.
Emma annuì, lui le lasciò la mano lentamente: sembrava non voler approfittare delle tregue che lei gli concedeva. Emma d’altra parte sentì la necessità di mostrarsi più generosa: si chiese se per compiacere i bisogni di Harry o i propri.
«Ah, signorina Clarke! Ben arrivata!» La salutò il Dottor Jills, di nuovo seduto dietro la sua scrivania: il tono garbato era impregnato di qualcosa di molto simile alla compassione, era più composto, trattenuto.
Emma sollevò l’angolo della bocca nell’orribile copia di un sorriso. «Buongiorno» lo salutò, entrando nello studio seguita da Harry.
Il Dottor Jills spostò l’attenzione su di lui, con una patina di stupore sul viso: magari si era aspettato di rivedere Pete. Emma si affrettò a presentarlo: «Lui è Harry» esclamò. Forse avrebbe dovuto aggiungere qualcos’altro, ma dentro di sé quel semplice nome racchiudeva mille significati: a volte si stupiva di come fosse necessario descriverli agli altri, di come potessero non essere così evidenti.
Il ginecologo annuì, facendole cenno di accomodarsi. Si soffermò brevemente su come Harry la stesse accompagnando con una mano al centro della sua schiena, come per guidarla o anche solo per farsi sentire alle sue spalle. «Certo, capisco» commentò, osservandoli con attenzione.
Harry ed Emma si sedettero davanti alla scrivania.
Il Dottor Jills non le diede tempo di ambientarsi, né di prepararsi. «Vorrei dirvi subito quanto io sia rammaricato per la vostra perdita» esordì, utilizzando la stessa voce con la quale il medico del Pronto Soccorso aveva comunicato ad Emma dell’aborto in atto. Lei serrò la mascella, improvvisamente le mancava il fiato.
Né lei né Harry risposero.
Il Dottor Jills sembrò non aspettarsi che lo facessero. Rovistò lentamente tra le cartelle davanti a lui, ne recuperò una ed iniziò a leggerla. Con gli occhi ancora fissi su quei fogli di carta, domandò: «Per caso ha portato con sé il referto dell’ecografia che avevamo fatto durante la scorsa visita?»
Un movimento impercettibile al suo fianco attirò l’attenzione di Emma: all’improvviso le sovvenne che Harry non sapeva praticamente nulla di quella visita, né del fatto che si fosse già sottoposta ad una ecografia, nonostante non fosse nemmeno visibile l’embrione. Emma aveva nascosto le fotografie con l’intento di fargliele vedere quando gli avesse detto della gravidanza, ma le cose non erano andate esattamente come previsto: da allora non le aveva più toccate.
Si schiarì la voce e sporse al ginecologo la cartellina con tutta la sua documentazione. «Sì» affermò. «C’è anche il referto del Pronto Soccorso». Era grata di non dover nuovamente ripercorrere a parole l’intera vicenda, che fosse tutto scritto nero su bianco: aveva già dovuto farlo al telefono, quando l’aveva chiamato per informarlo dell’accaduto e per prenotare l’appuntamento, ma fortunatamente il ginecologo aveva mostrato comprensione e non l’aveva obbligata a scendere in dettagli dolorosi, limitandosi a domande indispensabili e dirette.
Il Dottor Jills annuì soddisfatto e prese a sfogliare i vari referti. Emma riconobbe subito quello dell’ospedale: era stropicciato, portava i segni di quando l’aveva stretto incontrollabilmente tra le mani come a volerlo minacciare o pregare di cambiare versione.
Lanciò una veloce occhiata ad Harry: notò che si era lievemente sporto in avanti, forse nel cauto tentativo di scorgere l’ecografia che aveva attirato la sua attenzione. Dovette percepire lo sguardo di Emma su di sé, perché dopo pochi istanti lo incrociò con un velo di domande senza risposte.
Entrambi si riscossero solo quando il Dottor Jills riprese la parola. «Nonostante l’evento assolutamente doloroso, è stata fortunata ad aver espulso quasi completamente… da quanto emerge dal referto… sì, di aver espulso praticamente del tutto la camera gestazionale.»
Emma non credeva che la parola “fortuna” avrebbe mai potuto essere accostata a ciò che era successo.
«Quando la gravidanza è alle prime settimane, è molto più facile che il materiale venga eliminato spontaneamente tramite il canale vaginale. Nel suo caso è possibile che sia avvenuto nel corso dell’emorragia, e forse senza nemmeno che lei se ne accorgesse.»
Emma corrugò la fronte. «No, io… Non…»
Nei suoi ricordi e nei suoi incubi vedeva solo sangue vivo. E forse se proprio doveva esserci qualcosa di fortunato, era proprio quel dettaglio: non sapeva come avrebbe reagito nello scorgere qualcosa tra le sue perdite ematiche.
Il Dottor Jills riprese subito dopo. «Ovviamente oggi faremo un’altra ecografia per accertarci che non ci siano effettivamente residui e che non sia necessario intervenire farmacologicamente per completare la pulizia dell’utero.»
Ad Emma venne di nuovo la nausea.
«Ha avuto ulteriori perdite in questi giorni?»
Lei annuì.
«Ha notato qualche cambiamento nella frequenza o…?»
«Sono meno frequenti» rispose a fatica. Prese a stringersi le mani l’una con l’altra. «E meno abbondanti.»
Il Dottor Jills soppesò le sue parole. «Bene. Con il passare dei giorni diverranno sempre più rade, ma ovviamente se così non fosse non esiti a contattarmi. Ha avuto altri disturbi?»
Emma scosse la testa. Lo osservò recuperare altri fogli dalla sua scrivania e leggerli tra sé e sé.
«L’emoglobina è stabile. I valori delle beta-HCG sono in discesa, compatibilmente con l’aborto avvenuto ed il numero di giorni trascorsi. Ci vorrà ancora un po’ affinché si azzerino, ma avremo modo di ricontrollarle alla prossima visita.»
I valori delle beta-HCG erano consistenti con la presunta data del concepimento. «Lei è incinta di circa quattro settimane, signorina Clarke» decretò il ginecologo, con un largo sorriso sul volto.
Emma inspirò a fondo, cercando di fuggire dalla sua stessa mente. Sentì Harry guardarla, ma non era in grado di accertarsene.
Si distaccò dalla realtà come tante altre volte era successo negli ultimi giorni: si assentò quasi del tutto, restando collegata alla realtà tramite un flebile filo di coscienza. Partecipava alla conversazione e rispondeva alle domande del Dottor Jills, lo ascoltava spiegarle ciò che avrebbe potuto sperimentare da lì in avanti come conseguenza dell’aborto, suggerirle alcuni accorgimenti che sarebbe stato saggio assumere, consigliarle di evitare rapporti intimi completi almeno fino al termine delle perdite ematiche. Eppure non registrava tutte le informazioni consapevolmente.
La bolla ovattata nella quale si era barricata scoppiò qualche minuto più tardi, quando il filo di coscienza che la ancorava a quello studio venne strattonato vigorosamente dalla voce di Harry. «Perché è successo?» Domandò soltanto.
Emma si voltò a guardarlo, stupita dal suo intervento ed altrettanto dai suoi occhi concentrati, attenti. Melanie le aveva detto di aver tenuto aggiornato Harry sulle notizie mediche, durante il suo ricovero in ospedale: era sicura gli avesse anche detto che era impossibile stabilire le cause dell’aborto con certezza. Ma Harry sembrava non volersi accontentare di un passaparola stentato: non sembrava scettico, solo avido di informazioni.
Emma realizzò con un vago rammarico quanto effettivamente Harry fosse stato costretto ad un ruolo marginale in quei momenti.
Il Dottor Jills unì le mani sulla scrivania, sospirò. «Purtroppo questa è una domanda alla quale non posso rispondere» commentò sconfortato. «È accaduto troppo presto. Con una madre in perfetta salute, in quest’epoca gestazionale si possono fare solo supposizioni azzardate.»
Emma ed Harry restarono in silenzio. Di nuovo la straziante sensazione dell’assenza di un colpevole.
Il ginecologo li osservò, si rilassò sulla sedia. «Non voglio che-»
«Potrà avere altri figli?» Harry lo interruppe. Emma spalancò gli occhi, trattenne il respiro. «Il fatto che abbia già avuto un aborto…» Quella parola stonava terribilmente tra le labbra di Harry. «C’è il rischio che succeda di nuovo?»
Harry le aveva già detto che avrebbe voluto quel figlio più di qualsiasi altra cosa, per cui non avrebbe dovuto stupirsi nel sentirlo cercare informazioni riguardo all’eventualità di future gravidanze. Eppure le era difficile aggrapparsi a quella lontana speranza ed era altrettanto difficile scontrarsi con il puro terrore che ne derivava. Emma non sapeva se sarebbe mai stata in grado di rivolgere al ginecologo quelle stesse domande.
«Un primo aborto spontaneo è un precedente ed un fattore di rischio, certo, ma non implica necessariamente aborti successivi» spiegò il Dottor Jills. «Per quanto sia orrendo da dire, rientra nelle statistiche. Quasi il 37% delle donne ha un aborto spontaneo entro l’ottava settimana di gravidanza e, a parte nei casi di malattia materna nota, è quasi sempre impossibile stabilirne la causa, soprattutto nelle primissime settimane gestazionali. In seguito ad un primo aborto sporadico, il rischio di incorrere in un secondo aborto aumenta, ovviamente, ma non diventa assolutamente una certezza.»
Fece una pausa.
«Non voglio che abbiate paura di tentare una seconda gravidanza, se è questo che volete» aggiunse poco dopo. «Dopo un primo aborto, nel 90% dei casi la seconda gravidanza procede fisiologicamente.»
Emma tentava con difficoltà di affiancare alle proprie cieche ed irrazionali paure la sicurezza delle statistiche.
Fu di nuovo Harry a parlare al suo posto. «Come facciamo a sapere se siamo in quel 90%?»
Il Dottor Jills lo guardò con comprensione. «È impossibile testare i genitori fino ad avere una certezza matematica di quando potrebbe verificarsi un aborto. Ci sono certamente esami che possono analizzare alcune delle possibili cause, come disordini genetici non noti, ma per il resto è un’impresa pressoché impossibile, soprattutto se si tengono in conto i problemi che potrebbero derivare dall’embrione stesso o qualsiasi altra complicanza non prevedibile. Il mio consiglio è di prendervi del tempo per elaborare l’accaduto… E di riprovarci in futuro senza aver paura di quello che potrebbe o non potrebbe succedere, per il semplice fatto che non è dato di sapere. Non siamo di fronte ad un caso di infertilità, voglio che questo sia ben chiaro. Come vi ho detto, gli aborti spontanei sporadici sono molto frequenti, purtroppo, ma non pregiudicano di per sé la capacità di una donna di portare a termine una gravidanza.»
Emma non riusciva a distinguere esattamente tutte le emozioni che la stavano animando. Non sapeva dire se a prevalere c’erano lo sconforto ed il pessimismo, o la mite speranza di un’altra gravidanza. Sapeva solo che, accanto lei, Harry le faceva compagnia in quell’altalenare di sensazioni.
Il Dottor Jills aspettò qualche secondo, dando loro il tempo di esprimere altri dubbi o di porre altre domande, ma alla fine si arrese al loro silenzio. «Ed ora, se per voi va bene, proseguirei con l’ecografia della quale abbiamo parlato poco fa» annunciò, alzandosi dalla sedia ed aggirando la scrivania, mentre faceva cenno ad Emma di accomodarsi sul lettino.
Il Dottor Jills si affrettò a recuperare il paravento che durante la visita precedente aveva interposto tra Emma e Pete, ma si arrestò nel sentirsi osservato. Harry aveva già spostato la propria sedia accanto al lettino da visita, aspettando che Emma finisse di prepararsi senza alcun imbarazzo: guardava il ginecologo con un cipiglio confuso sul volto. Un eloquente cipiglio.
Il Dottor Jills, infatti, si sciolse dall’imbarazzo con una risata bonaria. «Scusate» esclamò, rimettendo a posto il paravento. «Ricordando il giovanotto dell’altra volta, ho dato per scontato che… Ma no, no. È stato sciocco da parte mia» aggiunse, raggiungendoli serenamente, quasi con soddisfazione.
Harry assottigliò lo sguardo e lo puntò su Emma, che intanto si stava sdraiando.
Lei si sentì in dovere di rispondere prima ancora di sentirlo elaborare la domanda. Ce l’aveva scritta sul viso serio. «Alla prima visita ho chiesto a Pete di accompagnarmi» disse a bassa voce, cercando di nascondere anche a se stessa quanto le sue parole le suonassero improvvisamente come il sunto di un errore. Non le era sembrato sbagliato in quell’occasione, ma forse solo a causa del timore e del proprio egoismo: nel sapere quanto Harry tenesse a quel bambino, ora non poteva eludere il pentimento che provava.
Harry serrò la mascella. Non rispose, ma non per questo non disse niente. Si voltò e prese ad osservare il Dottor Jills, che stava preparando gli strumenti e si stava infilando i guanti.
Emma si riscosse solo quando iniziò la visita.
La familiare sensazione del gel sul suo addome la fece rabbrividire. Teneva lo sguardo fisso sul muro alla sua sinistra, cercando di evitare del tutto lo schermo dell’ecografo o quello appeso di fronte al lettino. Si sentiva tesa al punto di temere di spezzarsi da un momento all’altro. Il Dottor Jills non parlò durante l’esame addominale, ma solo alla fine: «Ora tocca all’ecografia transvaginale» la avvertì. «Potrebbe darle più fastidio rispetto alla scorsa volta.»
Emma serrò le palpebre e trattenne il respiro, mentre sentiva la punta dell’ecografo sfregare contro di sé. Allungò una mano alla sua destra, alla cieca, ed afferrò l’avambraccio di Harry, affondando le dita nella sua pelle. Harry le coprì la mano con la sua.
Non voleva sottoporsi a quell’esame. Non voleva scontrarsi per l’ennesima volta contro la realtà, come se non ne avesse già avuto abbastanza.
Una volta inserito l’ecografo, Emma poté ricacciare in gola il gemito di dolore che aveva cercato di trattenere. Sentì la pressione allentarsi, nonostante continuasse a percepire una sensazione fastidiosa al basso ventre, che si esacerbava ad ogni movimento del ginecologo.
«La parte peggiore è passata» annunciò il Dottor Jills, come a volerla consolare.
Emma sospirò a fondo, riaprì gli occhi lentamente. Aveva freddo, le stavano sudando le mani. Si voltò verso Harry e lo trovò con gli occhi fissi su di lei, come se la stesse aspettando. Decise che preferiva perdersi nelle sue iridi indecifrabili, piuttosto che nell’intonaco color pastello delle pareti.
«Bene» esordì il Dotto Jills dopo qualche istante, senza interrompere i movimenti dell’ecografo. «Direi che non ci sarà bisogno di alcun intervento farmacologico. Non sembra ci siano residui all’interno dell’utero.»
A quelle parole, vide Harry voltarsi verso lo schermo che gli stava di fronte. Lo vide perdere parte della compostezza che l’aveva caratterizzato fino a pochi istanti prima, lasciare spazio alla disillusione e all’arrendevolezza.
Emma venne meno a qualsiasi istinto di sopravvivenza senza nemmeno rendersene conto. Seguì lo sguardo di Harry verso le immagini in bianco e nero, confuse ed in lieve movimento. Inutilmente cercò quella piccola macchia nera che alla prima ecografia l’aveva fatta gioire su quello stesso lettino: la cercò pur sapendo che non c’era.
Emma era vuota.
Era una sensazione orripilante, che le mozzava il respiro.
Lasciò la presa sull’avambraccio di Harry e si portò entrambe le mani sul volto: se non poteva resistere al pianto soffocato che la stava minacciando, poteva almeno cercare di nasconderlo.
Avvertì il Dottor Jills rimuovere delicatamente la sonda. «Vi lascio soli per qualche minuto».
Emma udì dei rumori ovattati intorno a sé, il chiudersi di una porta.
Sentì la mano di Harry posarsi tra i suoi capelli, accarezzarla dolcemente. «Ehi…»
Si vergognava così tanto della propria debolezza, di quel costante stato di fragilità al quale era relegata. Non le importava di essere sdraiata in posizione ginecologica, nuda e con l’addome scoperto, ancora imbrattata di gel e con il volto rigato dalle lacrime, in una scena patetica e drammatica. Le importava solo di essere vuota e inerme. «Mi dispiace, non volevo piangere… Io…»
«Emma, di cosa stai parlando?»
Lei non gli rispose.
«Guardami.»
Non lo fece.
Harry spostò la sedia più vicino, facendola gracchiare contro il pavimento. «Emma, guardami.»
Emma non oppose resistenza quando Harry le scostò le mani dal viso. Tirò su con il naso, si strinse nelle spalle come per farsi più piccola e passare inosservata, per quanto impossibile.
Ma non aveva nulla da temere dallo sguardo di Harry, dal modo in cui le prese ad accarezzare di nuovo i capelli, dal modo in cui appoggiò la fronte alla sua respirandole vicino, quasi a volerle donare un ritmo che potesse contrastare i suoi singhiozzi sconnessi.
 
Una volta tornati a casa, Harry si sedette stancamente al tavolo del salotto e si accese una sigaretta, fumando con aria assente. Emma lo osservò per pochi istanti, sicura che qualcosa lo stesse disturbando: da quando erano usciti dallo studio del Dottor Jills, non si erano più rivolti la parola. In alcuni momenti Harry le riservava una premura così intensa da farle tremare le gambe, ma in altrettanti piccoli gesti sembrava allontanarsi da lei come a ricordarsi di qualcosa, quasi fosse combattuto tra l’istinto di starle accanto e la logica che cercava di trattenerlo. Avrebbe potuto essere sconvolto quanto lei dal peso emotivo che la visita del Dottor Jills aveva comportato, ma qualcosa nel suo comportamento le suggeriva che ci fosse dell’altro.
Emma non capiva di cosa si trattasse, ma non poteva dire di essere pronta a scoprirlo: era stremata.
Andò a lavarsi per temporeggiare e per sbarazzarsi delle tracce di gel ancora sul suo corpo, eppure quando tornò in salotto sentì di nuovo una morsa di preoccupazione allo stomaco. Harry non si era mosso di un centimetro, ma nel posacenere davanti a lui giaceva qualche mozzicone di sigaretta in più.
Emma gli si avvicinò con cautela, o forse con timore. Non aveva le forze di affrontare qualsiasi cosa stesse aleggiando tra di loro, quel presagio amaro che li avvolgeva, ma non poteva ignorarlo.
Si sedette accanto a lui ed aspetto qualche secondo, sperando reagisse alla sua presenza.
Non lo fece.
«Harry?» Mormorò allora, allungando una mano per sfiorargli un braccio. «Cosa c’è?»
Prima che potesse toccarlo, lui si scostò. «Lascia stare» sbottò, mordendosi un labbro ed aspirando nuovamente dalla sigaretta.
Emma era confusa: era rabbia quella nella sua voce. «Ha-»
«Sto cercando di non…» Harry la interruppe con il nervosismo a smorzargli la voce, sospirò. «Lasciami stare.»
Da una parte era un suo diritto avere dello spazio per pensare, per elaborare qualsiasi cosa lo stesse agitando a tal punto. Lei per prima aveva impugnato quello stesso diritto più e più volte, anche in modo egoista ed infantile. Dall’altra parte, però, Emma temeva che il suo spazio potesse espandersi fino ad escluderla, come era già successo. E se lucidamente avrebbe potuto giungere ad un compromesso, lasciarlo solo e provare a parlargli più tardi, istintivamente finì per arrendersi alla paura. I suoi meccanismi di regolazione erano ormai compromessi.
«No» disse soltanto, ritraendo la mano.
Harry si voltò, lo sguardo carico di risentimento.
«Parlami, Harry.»
«Finiremmo per litigare» le preannunciò lui, duro, nervoso. Sembrava una bomba pronta ad esplodere. «Ed io non voglio litigare. Te lo chiedo per favore, Emma.»
Lei inarcò le sopracciglia. «Litigare?» Era convinta di aver ripetuto quella parola nella sua mente, invece le scivolò via dalle labbra. Harry le chiedeva di evitare un litigio secondo lui inevitabile e questo non faceva altro che rendere più insistente la curiosità di Emma, la sua necessità di non lasciare che nient’altro si aggiungesse alla lista di cose pronte a dividerli.
Harry tornò con lo sguardo sul posacenere, in silenzio. Muoveva ritmicamente e velocemente la gamba destra sotto al tavolo. Non resistette a lungo alla tentazione, al suo debole tentativo di farlo aprire. «Perché hai chiesto a Pete di accompagnarti?» Le domandò infatti, diretto. Spense energicamente la sigaretta, tornò a guardarla con le braccia incrociate. In attesa.
Emma aprì la bocca per dire qualcosa, la richiuse subito dopo. Le tornò in mente come Harry l’aveva guardata quando l’aveva saputo: avrebbe dovuto immaginare che non avesse semplicemente accantonato la cosa e che la stesse solo rimandando, eppure non pensava potesse innervosirlo in quel modo.
«Perché non sei venuta da me
«Volevo essere sicura prima di dirti della gravidanza: avevo fatto un paio di test, ma non ero sicura che… Insomma, prendevo la pillola, pensavo che magari…» ammise Emma a bassa voce, aveva la gola secca. «Quando te l’ho detto ero appena tornata dalla visita: volevo solo essere sicura.»
Harry non era soddisfatto di quella risposta, corrugò la fronte, incredulo. «E non hai pensato che a me sarebbe piaciuto accompagnarti, anche se non ne eri sicura?» Le chiese indispettito. «Dovevi andare da Pete
«Perché continui a dire Pete in quel modo? È di lui che si tratta? Sembra che tu sia g-»
«Geloso?» La anticipò lui, prima di alzarsi con un gesto frustrato e fare qualche passo accanto al tavolo. Emma lo seguiva con la confusione nel cuore, ma Harry non le diede tempo di articolare un pensiero coerente a riguardo. «Geloso del fatto che la mia fidanzata sia andata da un altro a dirgli che pensava di essere incinta? Geloso che si sia fatta accompagnare da lui alla prima visita dal ginecologo? Alla prima ecografia, cazzo?!» Serrò la mascella, cercò di calmarsi. Poi continuò. «Geloso perché avrei voluto esserci io al suo posto? Perché spettava a me essere lì?»
Emma dovette arrendersi alle sue parole. Abbassò lo sguardo, strinse i pugni. Non aveva una giustificazione per la mancanza nei confronti di Harry: era vero, aveva voluto coinvolgerlo solo dopo aver saputo con certezza della gravidanza, ma non aveva scuse sul perché non avesse pensato che Harry avrebbe voluto essere coinvolto anche in quei momenti. Perché non gliel’aveva concesso?
«Mi dispiace, Harry» si scusò, tornando a guardarlo. «Quando ho fatto il test ero confusa, non potevo crederci. Sono andata da Pete solo perché sarebbe stato più facile, perché magari mi avrebbe aiutato a schiarirmi le idee prima di parlare con te e-»
Mentre pronunciava quelle parole, un fitto senso di incoerenza la pervase.
Non sfuggì nemmeno ad Harry, che la osservò con lo sguardo sottile di chi prova rancore. «A te era concesso essere confusa, allora. A te era concesso. Quanto tempo ti sei presa con Pete per schiarirti le idee? Scommetto molto di più dei tre minuti che hai concesso a me
Emma fu colpita dalla quella verità, anche se non ne fu stupita: aveva già riconosciuto il proprio fallimento nel tentativo di permettere ad Harry di reagire come meglio credeva senza scoraggiarsi. Quello che non aveva mai fatto, però, era soffermarsi a confrontare lo svantaggio di Harry con il privilegio che lei si era donata nel prendersi tempo per elaborare la notizia della gravidanza.
Strinse i pugni lungo i fianchi. «Mi dispiace» ripeté. «Forse sono stata una stupida, ma volevo parlartene quando avrei potuto farlo senza dare di matto. Pensavo ti meritassi almeno questo». Gli afferrò una mano per evitare che si allontanasse, infastidito. «Ho sbagliato a non dare a te la stessa possibilità: me l’ero ripromesso. Te lo giuro, Harry: mi ero ripromessa di accettare qualsiasi tua reazione, ma… Te l’ho detto, te l’ho già detto: in quel momento ho avuto troppa paura.»
Harry la ascoltò in silenzio, il petto agitato.
Emma scorse nel suo comportamento la possibilità di continuare. «E riguardo la visita…» riprese, ammorbidendo la presa sulla sua mano quando capì che Harry non se ne sarebbe andato. «Per quanto io avessi cercato di affrontare la cosa, non riuscivo ancora a capire come fosse possibile: volevo essere sicura che non ci fossero errori. Non sapevo che durante la visita avrei fatto un’ecografia: era talmente presto che non si vedeva nemmeno l’embrione. E in quel momento ero così felice che riuscivo solo a pensare alle ecografie successive, a quelle dove ci saresti stato anche tu e dove si sarebbe visto il nostro bambino, non… Non pensavo che quella per te potesse significar-»
«Cristo, Emma, smettila di darmi per scontato!» La interruppe gridando. «Non pensavi che volessi assistere alla prima ecografia, non pensavi che volessi un bambino… Con chi cazzo credi di stare, si può sapere?! Ti è tanto difficile non pensare solo a te stessa?!»
Emma si sentì accaldata, scottata da quelle accuse e dal modo in cui le proprie parole erano state ignorate così drasticamente. Alzò la voce anche lei, nel mettersi in piedi per fronteggiarlo: si preparò all’ennesimo errore dettato dal dolore. «Stai davvero dando a me dell’egocentrica? Proprio tu? Devo ricordarti che dopo aver saputo che ero incinta hai passato dieci giorni ad ignorarmi, senza chiedermi assolutamente niente a riguardo? Ed ora urli contro di me, mi dai dell’egocentrica, incazzato perché ti sei sentito escluso-»
«Tu mi hai escluso!»
«Eppure quando ne hai avuto la possibilità non hai fatto un cazzo, Harry!» Lo contraddisse. «Io avrò anche sbagliato, ma tu non sei molto più coerente di me: dov’era la tua voglia di partecipare, in quei maledetti dieci giorni?»
Harry la trafisse con uno sguardo risentito. «Sono così stanco di sentirti sminuire qualsiasi cosa io dica o pensi. Te l’ho detto, io quel bambino lo volevo: non l’hai perso solo tu. Lo abbiamo perso entrambi. E se io ho sbagliato a reagire in quel modo quando mi hai detto di essere incinta, me ne sono già scusato, ma non significa che lo volessi meno di te. Non significa che non mi penta ogni cazzo di giorno del mio comportamento e di non esserti stato accanto come avrei dovuto. Non significa che io non possa essere geloso di qualcuno che si è preso alcuni dei pochi momenti… alcuni dei momenti che avrebbero dovuto essere nostri. Continui a mettermi in dubbio, come se io non avessi diritto di provare certe cose, ma io le provo, Emma. E se tu non hai voglia di sforzarti un minimo per capirlo, se non hai voglia di ascoltarmi, spiegami con chi cazzo ne dovrei parlare. Mi chiedi di parlarti, ma non mi ascolti.»
“Lo abbiamo perso entrambi.”
Emma si era barricata dietro la convinzione di essere l’unica a provare determinate emozioni e una così profonda sofferenza, si era raggomitolata in un antro di solitudine così buio da non riuscire a estendere lo stesso diritto a qualcun altro. Sembrava che l’aver combattuto relativamente sola per quel bambino, la costringesse ad affrontare la perdita altrettanto sola.
Ma Harry in fondo aveva ragione.
Non era stata solo Emma a perdere il bambino. L’aveva perso anche lui. E gli errori che aveva commesso non toglievano significato a quella verità, né potevano delegittimare i suoi sentimenti a riguardo. Forse Harry aveva fatto bene ad accusarla di egocentrismo, forse Emma era davvero cieca nel non riconoscere di non essere l’unica a provare dolore.
«Io sto cercando di rimediare» riprese Harry, incessante. «È difficile, cazzo se lo è, ma sto cercando di fare tutto quello che posso, Emma. Se hai bisogno di urlare e di urlare contro di me, io ci sono. Se hai bisogno di piangere, io ci sono. Ci sono persino se hai bisogno di stare sola. Ma ogni tanto anche io ho bisogno di qualcosa. Ogni tanto anche io ho bisogno di te.»
“Lo abbiamo perso entrambi.”
Emma avrebbe pensato che Harry le avesse tirato un pugno in pieno petto, se le sue mani non fossero state lungo i suoi fianchi, inerti. Possibile fosse stata così egoista? Possibile che non si fosse resa conto di quanto stesse usando Harry e l’amore che provava nei suoi confronti per risanare una propria ferita, senza curarsi affatto della sua? Magari pensando che si sarebbe rimarginata di riflesso?
All’improvviso le tornò in mente l’immagine di Harry che si sdraiava dietro di lei nel suo letto d’ospedale, che provava a toccarla e a stringerla pregandola di non rifiutarlo. L’immagine di come invece lei l’aveva cacciato via, annebbiata dal dolore e dalla rabbia e convinta che stesse cercando di starle vicino, ma che fosse mosso soprattutto dal rimorso. L’immagine di come lei non aveva pensato nemmeno per un attimo che anche Harry in quel momento stesse sperimentando un dolore lancinante e che avesse solo bisogno di stare lì con lei.
Emma non trovò parole adeguate per rispondere a quella richiesta straziante, né per esprimere il disgusto che provava per se stessa. Restò semplicemente in piedi, a fissarlo con la bocca socchiusa e tremante.
Harry distolse lo sguardo e si sedette di nuovo al tavolo. Improvvisamente il suo corpo si era rilassato, come se non avesse più alcuna vitalità ad animarlo, a tenderlo.
Emma fu tentata di esprimere tramite il contatto ciò che non riusciva a mettere in parole, ma poi cambiò idea. C’era qualcos’altro che avrebbe potuto funzionare, che avrebbe potuto essere utile non solo a se stessa ma anche e soprattutto a lui.
Si diresse in camera da letto, chiedendosi cosa stesse pensando Harry del fatto che si era allontanata senza nemmeno rispondergli. Quando tornò, stringeva tra le mani le fotografie della prima ecografia: nel recuperarle non le aveva guardate. Harry continuava a tenere lo sguardo fisso sulla superficie del tavolo, giocherellando distrattamente con l’anello al suo indice sinistro: Emma decise di riporle proprio dove i suoi occhi sembravano essersi incantati.
Aspettò in piedi al suo fianco, stringendosi le mani l’una nell’altra, ma Harry non si mosse nemmeno di un millimetro. Sembrava non averle viste, non averle nemmeno notate. Le sue spalle continuavano ad alzarsi ed abbassarsi ritmicamente in base al suo respiro calmo e regolare.
Dopo qualche istante, Emma si chiese se dovesse dire qualcosa, ma Harry la anticipò. Lentamente posò gli avambracci sul tavolo, ai lati delle fotografie: la sua schiena si tese. Harry incastrò le mani tra i propri capelli, senza parlare.
Quando Emma notò le sue spalle sussultare senza alcun rumore ad accompagnarle, non comprese subito cosa stava accadendo. Solo quando i sussulti si fecero più frequenti ed un singhiozzo sommesso arrivò alle sue orecchie, realizzò che Harry stava piangendo.
Non l’aveva mai visto piangere.
Aveva giurato di aver visto i suoi occhi inumidirsi e la sua voce incrinarsi in due occasioni, ma non aveva mai visto il suo viso rigato di lacrime. Non aveva mai percepito il suo respiro interrotto dai singulti. Non aveva mai assistito ad una così totale assenza di difese.
Non sapeva come reagire.
Allungò una mano per toccarlo, ma la ritrasse subito dopo, esitante.
Ci riprovò l’istante successivo: non appena gli sfiorò la spalla, Harry rispose a quel contatto voltandosi ed afferrandola per un polso per attirarla a sé. Non le diede nemmeno il tempo di scorgere il suo viso, lo nascose contro il suo addome stringendola tra le braccia e continuando a singhiozzare contro di lei. Emma trattenne il fiato, stupita e con il cuore infranto nell’assistere alla scena: lo abbracciò a sua volta e si chinò su di lui fino a posargli la bocca tra i capelli.
«Anche io sono qui per te» gli sussurrò, in una promessa che mai in quel momento doveva essere rimarcata.
Harry sollevò il volto: i suoi occhi acquosi ed arrossati la studiarono, come per valutare le sue parole, come per decidere se fidarsi. Emma gli prese il viso tra le mani, accarezzandogli le guance con i pollici per asciugare le lacrime: sostenne il suo sguardo, nonostante non le fosse facile. Sapeva cosa stava cercando.
«Io ci sono, Harry» gli ripeté, avvicinandosi a lui fino a respirargli sulla pelle.
Harry si sporse in avanti e la baciò.
Glielo fece giurare.
 
 
29 Maggio 2018
05:47 pm
 
Harry era dovuto tornare a lavoro: il suo capo si era categoricamente rifiutato di allungare il suo permesso, ignorando senza rimorsi il fatto che avesse ancora settimane intere di ferie da smaltire ed ore di straordinario da recuperare.
Era la prima volta in cui Emma era obbligata ad affrontare la sua prolungata assenza da quando era tornata dall’ospedale: erano trascorsi solo pochi giorni, ma erano stati così intensi da farle credere di aver passato mesi interi tra quelle quattro mura a leccarsi le ferite, a litigare, a piangere, ad amare. Ritrovarsi improvvisamente senza Harry era stato piuttosto debilitante: Emma si aggirava per casa senza uno scopo, sbirciando l’orologio ad intervalli regolari solo per appurare che il tempo si era schierato contro di lei. Avrebbe potuto uscire e prendere un po’ d’aria, ma non si credeva dell’umore giusto per permettersi una passeggiata solo il sole caldo di quel giorno. Avrebbe potuto chiamare la sua famiglia e loro avrebbero litigato per decidere chi si sarebbe trasferito a casa sua pur di farle compagnia, ma Emma non stava cercando una compagnia qualsiasi – che anzi era in grado di spaventarla: cercava solo la sua. Avrebbe potuto contattare Pete e cercare sfogo nei suoi modi duri, ma rassicuranti, eppure persino lui sembrava inadeguato per i suoi bisogni. Per cui non aveva messo piede fuori dall’appartamento, quasi come un animale timoroso barricato nella propria tana in attesa del ritorno del compagno.
Harry era leggermente in ritardo. Emma lo stava aspettando appoggiata contro lo schienale del divano, le braccia incrociate ed il labbro inferiore torturato da leggeri morsi impazienti. Picchiettava il piede contro il pavimento, ma era inutile mettere fretta al trascorrere dei secondi.
Quando udì le chiavi scattare nella serratura della porta, si raddrizzò all’istante e sentì il cuore alleggerirsi. Eccolo, sembrava gridarle. Emma si era riscoperta avida della sua presenza come non mai.
Harry entrò con aria stanca, sospirando nel chiudersi la porta alle spalle e nel togliersi le scarpe all’ingresso. Emma fece spontaneamente qualche passo in avanti per andargli incontro, ma si arrestò quando un vago pudore le impedì di mostrarsi così smaniosa. «Bentornato» gli disse, quasi imbarazzata.
Lui le si avvicinò massaggiandosi il collo con un mano. «Come stai?» Le domandò, la voce roca.
Emma si alzò sulle punte per potergli sfiorare la bocca, allacciando le braccia intorno al suo collo.
Ora meglio, avrebbe voluto replicare, nella più banale e veritiera delle risposte. Sentì la tensione allentare la presa, sciogliersi.
«Ti stavo aspettando» mormorò invece, accarezzandogli le labbra lentamente, godendo del suo respiro caldo.
Harry si lasciò accogliere dai suoi baci lenti, affondò una mano tra i suoi capelli e l’altra al centro della sua schiena per invitarla a stringersi di più al suo corpo. «Eccomi» sussurrò: sembrava offrirsi a lei completamente.
Emma reagì a quella semplice parola mordendogli un labbro, imprimendo un velo di passione nel tornare a baciargli la bocca: posò le mani sul suo petto, stringendo nei pugni il tessuto della sua maglia come a volerlo maledire. Aveva l’imprescindibile necessità di compensare l’intera giornata trascorsa senza di lui, quasi fosse una ricompensa per i propri sforzi.
Harry si accorse del cambiamento nei suoi movimenti, le respirò contro la pelle, mentre lei lambiva l’angolo della sua mandibola. «Emma… Dovrei farmi una doccia» protestò debolmente.
«Non mi importa» replicò lei, masticando le parole tra i baci che continuava a lasciare lungo il suo collo. Qualcosa di molto simile alla bramosia le impediva di fermarsi, o peggio ancora di controllarsi. Aveva così bisogno di Harry, che nessun razionale avrebbe potuto ostacolarla, non ora che lo aveva finalmente tra le braccia.
Lui reclinò il capo all’indietro quanto bastava ad incoraggiarla, ma non abbastanza da autorizzarla. «Emma…»
«Non mi importa» ripeté lei, tornando a torturargli le labbra per farlo tacere, per convincerlo a dare e a ricevere.
Harry sospirò contro la sua bocca e si lasciò contagiare dalla sua insistenza. Si arrese a quella lotta che non aveva combattuto con convinzione. Fece scivolare le mani lungo la sua schiena, fino ai suoi glutei: li afferrò e se la tirò contro, facendole emettere un flebile suono di stupore e desiderio. Harry la sollevò ed Emma avvolse le gambe intorno al suo bacino, abbassando il viso verso il suo per non interrompere il contatto tra le loro bocche affamate.
Si diressero verso la camera da letto: Harry dovette fermarsi un paio di volte, perché troppo concentrato sulle sue labbra umide per badare a dove mettere i piedi senza inciampare. La fece sdraiare sul letto, seguendola senza più alcuna esitazione: Emma percepiva il suo desiderio crescere ad ogni carezza più sfacciata che le dedicava.
Per qualche minuto continuarono a baciarsi come due adolescenti infantili, come forse nemmeno anni prima erano stati in grado di fare: lentamente, assaporando la pelle l’uno dell’altra, accarezzandosi con la lingua, avvolti da una passione tenera e mite, nostalgica. Il corpo di Harry era sdraiato per metà sul suo, una gamba incastrata tra le sue, ma le sue mani erano stranamente ferme, anche se non innocue.
Emma non poteva disprezzare la quiete che quella vicinanza innescava in sé, nel suo petto e tra i suoi pensieri: il potere che aveva nel riportare un certo equilibrio. Eppure non poteva e non voleva ignorare il fuoco che ardeva al di sotto di quella stessa blanda pace, il caos dirompente che era pronto ad esplodere e a divorarla: portava il nome di Harry e mai come in quel momento il masochismo l’aveva ammaliata a tal punto.
Diede un’ultima carezza alla guancia di Harry, tracciando il profilo della sua spalla e poi passando a disegnare i contorni dei suoi fianchi. Percepì il suo corpo tendersi ad ogni carezza e desiderò averlo su di sé, nudo. Da quanto tempo non accadeva? Da quanto tempo non respiravano l’una sull’altro, così vicini da non potersi distinguere? Una sottile dichiarazione di colpa era pronta a sporcare quei pensieri nostalgici, ma Emma tentò con tutte le sue forze di sopraffarla e di accantonarla.
Harry lesse le sue intenzioni con una tale semplicità da farla tremare. Si sfilò la maglietta, reprimendo un respiro sofferto per i pochi secondi nei quali aveva dovuto abbandonare la sua bocca, ed Emma approfittò del momento per fare lo stesso con la propria. Non persero tempo ad osservarsi, preferirono toccarsi con crescente avidità: Harry doveva aver già percepito l’assenza del reggiseno al di sotto del suo pigiama in cotone, ma le massaggiò un seno come se non avesse mai sperato di poterlo sfiorare direttamente. Vi posò le labbra e lo morse delicatamente, lo leccò provocando un gemito in Emma. Lei intanto non sapeva come evitare di impazzire, come districarsi tra ogni più piccolo lembo di pelle che la invocava: continuava a delineare gli addominali poco definiti dell’addome di Harry, il suo petto e la linea sporgente della sua clavicola. Non le sembrava di poterne avere abbastanza, non credeva di poter sopravvivere a tentazioni così numerose ed imperative.
Emma strinse un fianco di Harry mentre lui tracciava un percorso umido lungo il suo addome: passò le dita al di sotto dei suoi pantaloni, sperando di poterli far scomparire ad un solo tocco. Le sembrò che Harry soffrisse nel prendere atto delle sue intenzioni. Quando tornò a respirarle sul volto, infatti, il suo petto era ormai ansante: «Meglio di no» disse, parlando sulla la sua bocca ma senza risultare convincente.
Emma lo ignorò e cercò di abbassargli i jeans lungo i fianchi, che Harry spinse contro il suo corpo.
«Emma…»
«Voglio sentirti» si giustificò lei. «Su di me. Contro di me.»
Harry sembrò quasi singhiozzare per quanto quelle parole lo scossero. «Credi che io non voglia la stessa cosa?» Replicò, baciandola di nuovo come per riversare in lei ciò che stava cercando di spiegarle. Posò una mano sul suo collo, invocò il suo sguardo: «Sai quanto sarebbe difficile averti qui, così…» Le si fece più vicino, se possibile. «… E non poter andare oltre?»
Emma lo capiva. Ricordava le parole del Dottor Jills, la necessità di evitare rapporti completi fino al termine delle perdite ematiche, che non l’avevano ancora abbandonata. Sapeva che, arrivati a quel punto, sarebbe stata letteralmente un’impresa non cedere alla tentazione e trattenersi. Sapeva che sarebbe stata una tortura per entrambi. Eppure sapeva anche che c’era di peggio: glielo ricordò. «Non è più difficile fermarsi adesso?» Sussurrò, in tono quasi supplichevole. Non sentiva anche lui quella smania viscerale ed irrefrenabile?
Harry sospirò in un bacio sofferto, impaziente: evidentemente concordava con lei, ma allo stesso tempo sembrava si stesse offrendo volontario ad una condanna crudele. Emma cercò di andargli incontro sfilandosi i propri pantaloncini e gli slip, mentre Harry continuava a accarezzarle l’addome con i palmi delle mani aperti, come a voler toccare di lei quanto più possibile.
Notando la sua esitazione, Emma ebbe l’impressione di essere sul punto di bruciare viva. I jeans di Harry erano troppo stretti, non riusciva a raggiungere la sua erezione al di sotto della stoffa, per cui sfregò la mano contro il cavallo dei pantaloni. Lentamente, facendolo irrigidire. «Non possiamo fermarci adesso» gli ripeté.
Harry si inumidì le labbra, boccheggiò per un istante. «Invece dovremmo» tentò.
Emma lo baciò per distrarlo dalle sue motivazioni e sperando di abbassare le sue difese. Con l’altra mano afferrò la sua e la fece scivolare verso la propria intimità: «Sei sicuro?».
Harry imprecò, per un attimo vendicandosi con un morso appena più accentuato, poi si affrettò a spogliarsi e tornò su di lei. Emma rabbrividì nell’averlo contro di sé, si prese qualche istante per godere del suo peso che le mozzava il respiro con desiderio, il profumo della sua colonia mischiato all’odore di olio dell’officina e ad una punta su sudore acre.
Una volta ceduto terreno, però, Harry non era solito elargire molti altri privilegi.
Sfuggì alle mani di Emma che gli stavano stringendo le spalle, alla sua bocca vorace, e si chinò sul suo petto per baciarle le lentiggini. Lei gli afferrò i capelli e chiuse gli occhi, invitandolo a non fermarsi: Harry, d’altro canto, non l’avrebbe fatto nemmeno se l’avesse pregato. Le saggiava la pelle come se non potesse saziarsene, manifestando ad ogni tocco quanto fosse intensa la mancanza che fino a quel momento l’aveva tediato. Tergiversò per qualche istante al di sotto del suo ombelico, poi respirò sul suo pube facendole inarcare la schiena. Emma si concesse un solo sguardo, trovò Harry ad osservarla con la bocca sulla sua pelle: la risposta definitiva alla sua provocazione. Serrò gli occhi quando percepì la sua lingua accarezzarla con movimenti lenti e sapienti, alternati a veri e propri dispetti passionali. Emma gemeva sotto il suo tocco, incapace di resistere all’eccitazione che la stava sconvolgendo: afferrò le lenzuola tra i pugni stretti e serrò la mascella, ma appena credette di non riuscire più a trattenersi, Harry si interruppe e scivolò verso il suo inguine, dedicandosi a baciare con delicatezza il suo interno coscia e le fini smagliature bianche che lo decoravano.
Emma si abbandonò sul materasso, completamente svuotata. Arrabbiata. «Harry, stavo per-»
«Lo so» la anticipò, inginocchiandosi tra le sue gambe e chinandosi su di lei. «Non ho ancora finito» le promise. O forse la minacciò.
Emma respirava velocemente, stordita. Raggiunse la sua erezione ed iniziò a muoversi lungo di essa in base ai gemiti che Harry riversava direttamente nella sua bocca: voleva ripagarlo con la stessa moneta e voleva fingere che non servisse anche ad appagare un proprio bisogno, voleva costringerlo a sperimentare il suo stesso sadismo e voleva sentirlo arrendersi tra le sue mani.
Harry si concesse qualche minuto di piacere e le concesse qualche minuto di generosità, prima di scostarle la mano con un sospiro mozzato. Si sdraiò sul suo corpo accaldato, la baciò sfacciatamente fino a farle chiedere cosa stesse aspettando, ma prima che lei potesse effettivamente formulare quella domanda, iniziò a muoversi su di lei: la sua erezione sfregava contro la sua intimità in un contatto che Emma non riusciva a sopportare per quanto risultava piacevole ed allo stesso tempo doloroso. Gettò il capo all’indietro, Harry prese a succhiargli un lembo di pelle al di sotto della sua mandibola.
Aveva ragione, era difficile resistere. Dover sottostare ad un limite, per quanto imposto da ragioni mediche, era straziante per chi come loro non potevano concepirsi altrimenti. Emma continuava a sperare che da un momento all’altro Harry entrasse in lei facendola gemere, continuava a ripercorrere ricordi di quando riusciva a percepirlo dentro di sé, ma puntualmente era strappata da quei pensieri dalla realtà dei fatti, dal non poter oltrepassare una linea invisibile e punto cardine del proprio desiderio. Dal non volerlo nemmeno fare, perché era comunque una sevizia che la stava portando all’orgasmo.
Per un istante i movimenti sempre più intensi di Harry portarono la sua erezione a scivolare in basso, verso l’intimità di Emma: entrambi gemettero sonoramente, stringendosi l’uno all’altra come per affrontare insieme quel piacevole dolore. Harry esitò impercettibilmente prima di posizionarsi meglio. «Cristo, Emma…»
«Lo so» lo rassicurò, avvolgendogli le braccia intorno al collo ed alzando il bacino verso di lui per pregarlo di non fermarsi.
«No, non lo sai» ribatté lui, ricominciando ad oscillare contro il suo corpo, ansante e sudato. Emma gli rubò un bacio, ma non venne ricambiata con la stessa lucidità: lo conosceva abbastanza bene da sapere che il modo in cui si stava muovendo, persino il modo in cui stava respirando manifestava il piacere che stava crescendo a dismisura in lui. «Te l’ho detto anche la prima volta…» disse Harry, appoggiando la fronte contro la sua. «Tu non sai cosa si prova a stare dentro di te.»
Un tiepido ricordo della notte trascorsa a casa di un Harry diciannovenne le invase il petto.
«Ed ora mi costringi a…»
Non terminò la frase. Un gemito gli rubò la parola.
«Non ti costringo, io-»
«Come se avessi altra scelta» precisò Harry, affondando ancora una volta sul suo corpo e provocando un attrito che gli fece raggiungere l’orgasmo.
Emma affondò le dita nelle sue spalle, percependo l’umidità sul proprio addome ed i singulti di Harry sopra di sé. Continuò ad andargli incontro con il bacino per rincorrere un piacere simile, finché lui non fu di nuovo in grado di muoversi ritmicamente: non dovette aspettare molto prima di soffocare un urlo di piacere contro la sua bocca.
«Io non ho scelta, Emma.»
 
Si svegliò lentamente, così come si era assopita: non doveva aver dormito molto, perché la luce diurna illuminava ancora la stanza. Si sentiva stranamente riposata, avrebbe osato dire persino tranquilla.
Harry la stava osservando con un braccio piegato sotto il viso.
Erano entrambi sdraiati sul fianco, così vicini da sfiorarsi ad ogni respiro. Ancora nudi.
Emma non credeva al destino, né tanto meno ai suoi segni e ai suoi significati nascosti, ma non poteva negare un sottile filo conduttore che arrivava fino a quel momento. Poteva rivivere il giorno in cui si era sdraiata alle spalle di Harry, quasi nascondendosi al suo sguardo, per dirgli del loro bambino: lo stesso giorno in cui Harry non si era voltato a fronteggiarla nemmeno una volta, decretando un apparente rifiuto che l’avrebbe tormentata per giorni interi. Con la stessa intensità, ma con una marcata fitta di dolore, poteva ricordare come Harry si fosse sdraiato alle sue, di spalle; erano in una camera d’ospedale, entrambi abbattuti e sofferenti: uno in cerca di un disperato conforto, l’altra completamente sorda a qualsiasi cosa non riguardasse il dolore lancinante che provava, decisa a rifiutarlo con ogni briciolo di forza in suo possesso. Poteva ricostruire quando aveva trovato Harry intento a lavare il pavimento con della candeggina che non avrebbe cancellato anche i ricordi, quando l’aveva riportato a letto: quella volta si erano sdraiati l’uno di fronte all’altra, ma distanti, come a voler mantenere un fittizio senso di protezione che un centimetro in meno avrebbe completamente sopraffatto; poco dopo avevano cercato di consolarsi a vicenda in un contatto straziante e carico di parole non dette, stridente per ciò che nascondeva e rimandava.
Anche il quel momento erano l’uno di fronte all’altra, ed Emma non credeva nelle allegorie, ma le era impossibile non notare come fossero vicini, diversi. Come se la loro posizione potesse rappresentare anche l’evoluzione del loro rapporto.
Non pensava che i loro problemi fossero scomparsi, era convinta che avrebbero dovuto lavorarci ancora molto. Avevano scoperto le proprie fragilità, si erano rinfacciati errori e sofferenze, si erano accusati e si erano scusati: non avevano mai effettivamente risolto quei punti critici del loro rapporto, forse perché non ancora in grado di affrontarli a dovere, ma erano stati sinceri e trasparenti nel prenderne coscienza.
Emma era convinta che qualcosa fosse cambiato tra loro, che qualcosa si fosse mosso.
Forse erano pronti.
Una volta abbassata ogni difesa e deposta ogni arma, forse erano pronti a combattere insieme anziché l’una contro l’altro.
Harry le accarezzò il viso con le dita, aveva l’espressione pensierosa.
Emma posò una mano sulla sua.
«Ricordi quando ti ho chiesto se saresti mai riuscita a perdonarmi?» Domandò Harry in un sussurro, fingendo di essere concentrato su un particolare del suo volto prima di incontrare i suoi occhi.
Lei annuì. «Harry, abbiamo entrambi delle cose da perdonarci» gli assicurò a bassa voce, cercando di smorzare il tono colpevole con cui le aveva parlato. Non voleva individuare vittime e carnefici: per quanto fosse difficile non abbandonarsi a quella tentazione, non voleva farlo.
Harry si inumidì le labbra: le era così vicino, che quel semplice movimento la fece reagire impercettibilmente, spingendola ad avvicinarsi come per baciarlo. Il suo sguardo sembrava volerla contraddire, ma non venne sostenuto da alcuna parola a riguardo. «In alcuni momenti sembra che tu non riesca nemmeno a guardarmi in faccia» disse invece, di nuovo concentrandosi sulle lentiggini sui suoi zigomi anziché sui suoi occhi. Le spostò una ciocca di capelli ricaduta sul viso. «In altri momenti invece sembra che tu non voglia altro che me. Prima… Prima sembrava tu non avessi bisogni di nient’altro. Solo di me.»
Emma lo ascoltava attentamente, senza sapere se e cosa rispondere. Non le era chiaro dove volesse arrivare.
«Ho visto cosa ti ho fatto, Emma» mormorò piano, serrando la mascella. «Ho visto a cosa ti ho ridotto.»
«Harry-»
«Non voglio che tu cerchi di perdonarmi per i motivi sbagliati» la interruppe.
Lei corrugò la fronte, confusa.
Harry le posò una mano sul fianco, leggera ma difficile da ignorare. «Non voglio che tu faccia come con Miles, che torni da me solo perché è più semplice o perché sarebbe peggio starmi lontana.»
Improvvisamente le fu chiaro a cosa si stava riferendo. Per quanto lo trovasse assurdo, però, non poteva ritenerlo incomprensibile.
Quando Miles l’aveva tradita, Emma aveva provato a lasciarlo fallendo miseramente: la sofferenza che aveva provato era stata così intensa da riportarla sulla sua soglia di casa poco tempo dopo, alla ricerca di chi l’aveva ferita tanto e che avrebbe potuto anche alleviare le sue pene. Emma ed Harry avevano discusso a lungo sul suo comportamento da codarda, lui si era stupito di quel suo lato fragile e spaventato: Emma non voleva perdonare Miles per il tradimento che le aveva inflitto, ma doveva farlo per restare a galla.
Forse Harry pensava che, nonostante tutte le colpe che gli aveva addossato e tutto il dolore che le aveva procurato, Emma non l’avesse lasciato per paura di quella solitudine che gli aveva così duramente rinfacciato. Forse temeva che anche e soprattutto in quella situazione Emma cercasse di restare aggrappata a qualcosa, a lui, pur di non sprofondare in un abisso di sofferenza. Che non lo facesse in onore del sentimento che li legava, ormai macchiato da rimorsi e condanne, ma solo per spirito di sopravvivenza.
Emma non poteva ritenerlo folle nel pensare qualcosa del genere. In fondo inizialmente l’aveva egoisticamente usato per i propri confusi bisogni: persino quando credeva di odiarlo con tutta se stessa, aveva usato l’amore nei suoi confronti per attenuare un dolore che altrimenti l’avrebbe divorata in breve tempo. L’aveva respinto lucidamente e più volte, impugnando con fierezza tutti i motivi dietro la sua rabbia, solo per poi cercarlo quando si sentiva troppo debole per andare avanti.
“In alcuni momenti sembra che tu non riesca nemmeno a guardarmi in faccia… In altri momenti invece sembra che tu non voglia altro che me.”
Eppure mentre usava Harry per lenire le proprie ferite e queste iniziavano a guarire sotto il suo tocco, la sua mente ed il suo cuore avevano iniziato a riemergere dalla foschia e dai sentimenti ciechi. Emma aveva iniziato a capire che se aveva avuto bisogno di lui anche nel momento in cui più l’aveva disprezzato, era perché nessun’altro avrebbe potuto sortire l’effetto desiderato: e non era un bisogno impersonale, ma ben preciso. Aveva iniziato a capire che la solitudine che l’aveva terrorizzata non era una solitudine egoista. Emma non avrebbe voluto qualcuno con lei nel momento più spaventoso della sua vita: aveva avuto Pete, e non le era bastato. Aveva avuto tutta la sua famiglia, la sua amata e devota famiglia: non le era bastata.
Emma avrebbe voluto solo Harry, l’uomo che amava con tutta se stessa e nonostante tutto.
«Harry…» Emma sospirò il suo nome, improvvisamente incapace di articolare tutti i suoi pensieri ad alta voce. Decise di impegnarsi a farlo, però: glielo doveva. In onore di quella sincerità e trasparenza che erano riusciti a raggiungere così faticosamente, glielo doveva. «Tu e Miles non siete nemmeno lontanamente paragonabili. Spero che tu questo lo sappia.»
Qualcosa nello sguardo di Harry si indurì momentaneamente. «Tempo fa avresti detto la stessa cosa di lui» le ricordò.
«Sì, forse l’avrei fatto» confermò lei, accarezzandogli la mascella con la punta delle dita, forse cercando di farla rilassare. «Ingenuamente l’avrei fatto.»
Harry sembrò infastidito da quella verità, ma non si allontanò.
«Ma non pensi che le cose siano cambiate?» Gli domandò.
«Sì, sono cambiate, Emma. Ed è proprio questo che-» Harry si interruppe respirando profondamente. Aspettò qualche istante prima di riprendere, come per riordinare le idee, anche se Emma notò nel suo tono di voce lo sforzo di essere sincero ed allo stesso tempo il timore di esserlo. «Siamo arrivati a questo punto perché ci siamo feriti a vicenda. Io ti ho ferito. Ti ho deluso così tanto proprio perché le cose sono cambiate, proprio perché io e Miles non siamo lontanamente paragonabili: ma mi chiedo se sia ancora così e se tu sia rimasta qui solo perché può aiutarti. Mi chiedo se il modo in cui ogni tanto mi guardi… Mi fa avere paura di perderti, Emma.»
“In alcuni momenti sembra che tu non riesca nemmeno a guardarmi in faccia.”
«Di quale Emma ti fidi di più?» Chiese lei, cercando di rassicurarlo. «Di quella che non riesce a guardarti perché è spaventata e ferita? O di quella di poco fa, che non vede altro che te?»
“In altri momenti invece sembra che tu non voglia altro che me.”
«Non si tratta di fiducia» le rispose.
Emma sbuffò piano. Non sapeva come esprimere una rassicurazione che non era pienamente in grado di rivolgere nemmeno a se stessa. «Harry, io voglio provare ad aggiustare le cose» riprovò, con più decisione. «Non so quanto sarà difficile o quanto ci vorrà. Sicuramente ci saranno altre volte in cui starti vicino mi farà male…» Harry distolse lo sguardo, irrequieto di fronte a quella prospettiva. Lei cercò di trattenerlo con una mano tra i suoi capelli. «Probabilmente ci saranno volte in cui anche tu vorrai urlarmi contro» aggiunse. «Ma voglio provarci» gli ripeté. «E non perché da sola è più difficile. Voglio provarci perché lo sarebbe senza di te». Fece una pausa, analizzò il respiro di Harry e le sue labbra increspate, nervose. «È una differenza quasi invisibile, ma fondamentale.»
Harry rilassò appena le spalle, la sua corazza scalfita da quelle parole, eppure non sembrava ancora convinto. Sembrava ostinarsi a ripercorrere nella mente ogni volta in cui Emma l’aveva respinto in preda al rancore e confrontarla con ciò che lei gli stava dicendo, alla ricerca di discrepanze in grado di farlo vacillare.
Emma lo osservò per qualche istante, strinse i suoi capelli tra le dita. «Se davvero non mi credi, se hai così paura che io resti per i motivi sbagliati… Dammene di giusti, Harry.»
Harry spostò lo sguardo sulla sua bocca, ma non disse niente. Il suo silenzio le stava opprimendo il petto, facendo oscillare pericolosamente le briciole di determinazione che aveva impilato per guardare oltre il suo muro difensivo.
«Io sono spaventata quanto te, ma sono disposta a provarci» insistette Emma. «Non possiamo farlo insieme?»
A quelle parole Harry riportò gli occhi nei suoi, la studiò. «Solo se lo vuoi» rispose lentamente, stringendo la presa sul suo fianco. «Solo se lo vuoi davvero, Emma.»
La sua voce roca si era avviluppata in una minaccia.
«Credi che te lo chiederei, altrimenti?» Ribatté, percependo la frustrazione crescere ed implodere. Gli si avvicinò fino a toccargli le labbra: lui le respirò contro, le sfiorò la bocca incapace di resistere, ma non la baciò. «Se io non ti amassi…» Si fermò, abbassò le palpebre per scoraggiare lacrime invadenti, risvegliate dal sentimento che aveva appena confessato e ricordato anche a se stessa. «Se io non ti amassi così tanto, credi che te lo chiederei?»
Emma non riusciva a concepire come potesse esistere un amore tanto profondo da risultare nella più devastante arrendevolezza e contemporaneamente nella più intoccabile determinazione. Non riusciva a capacitarsi di come potesse esistere un amore in grado di rendere tollerabili ferite altrimenti imperdonabili, in grado di compensarle e di promettere loro una cura altrimenti irraggiungibile. Un amore così viscerale da essere lo stendardo della speranza. Persino della fede.
A quel punto Harry la baciò.
«Voglio che te lo ricordi» sussurrò sulle sue labbra umide, accarezzandole il corpo, avanzando un pretesa incontestabile. «La prossima volta che non riuscirai a guardarmi-»
Emma gli morse un labbro, gli prese il viso tra le mani e cercò i suoi occhi. «Ti sto guardando, Harry» gli assicurò.
Lui la ignorò, testardo, come consapevole della pena che lo attendeva, pronto a scontarla e convinto di meritarla. «Voglio che ti ricordi di quanto mi ami» riprese, con meno presunzione di quanta ne avrebbe usata in altre circostanze.
Lei si chiese come avrebbe potuto mai dimenticarsene. Era l’unica cosa che non aveva mai messo in dubbio, il centro della sua esistenza. Il punto saldo al quale si era sempre aggrappata anche mentre tutto intorno a sé sembrava sbiadire e confondersi.
«Ed io mi sforzerò ogni giorno di ricordarti quanto…» Harry lasciò in sospeso la frase, lasciandosi scappare un respiro sofferto che si infranse nell’ennesimo bacio.
«…Quanto io amo te.»


 
Fine.
 


 
Al termine delle precedenti storie, ho sempre salutato i lettori consapevole che avremmo ancora parlato di Emma ed Harry. Al termine di questa, invece, so che si tratta di un addio a questi due tremendi, testardi, antipatici, maledetti, meravigliosi personaggi.
Li lasciamo così, pronti a ricominciare da un punto di rottura piuttosto doloroso: consapevoli di tutti gli errori commessi, ma soprattutto dell'amore che non può esserne vittima.
A questo proposito vorrei specificare una cosa: quando questa storia era ancora una vaga idea, pensavo che avrei descritto anche il ritorno alla normalità di questa coppia. Nella realtà, invece, ho capito che sarebbe stato impossibile, a meno di non creare un'altra long (cosa che sarebbe stata forzata). Le ferite che si sono procurati sono piuttosto importanti e non credo che nello spazio di qualche capitolo avrebbero potuto essere affrontate interamente. Per questo motivo ho preferito descrivere le dinamiche di Harry ed Emma fino al punto in cui entrambi si rendono conto di cosa li ha coinvolti e di cosa sono disposti a fare per rimediare: come emerge (spero) dal testo, il fulcro del processo di guarigione di questi due era evitare orgoglio e dolore e tirar fuori tutto ciò che è stato fatto/detto di sbagliato, in modo da poterci lavorare insieme e non più l'una contro l'altro.
Potrebbe sembrare un finale aperto, ma chi conosce Emma ed Harry sa che in fondo non lo è.
Ancora una volta spero di aver descritto decentemente l'avvicendarsi di tutte le loro sensazioni. Mi preoccupa la complessa sfera emotiva di Emma, ma anche quella di Harry, che posso farvi arrivare solo tramite descrizioni esterne e tramite le interpretazioni di Emma (che spesso non è attendibile: la storia in fondo è raccontata dal suo punto di vista, ma senza che lei sia un narratore onnisciente!). Ho voluto cercare di dipingere come la loro relazione sia fondamentale per entrambi nonostante ciò che è accaduto, ponendo l'accento su come entrambi siano causa di dolore per l'altro, ma anche l'unico conforto disponibile.
È strano pensare a come tutto è iniziato, a come fossero i personaggi in "Little girl" e a come li ritroviamo qui. In un certo senso sono fiera di loro, e spero che anche voi possiate apprezzarli con i loro infiniti difetti. Mi diverte sempre molto leggere commenti di chi si arrabbia con Emma per qualcosa che dice, o con Harry per qualcosa che fa: spesso ci dimentichiamo che nella realtà ognuno di noi commette errori pazzeschi e sbaglia a parlare per orgoglio o paura. Forse nelle storie ci aspettiamo sempre qualcosa di meglio rispetto alla realtà, ma io credo che quelli siano più sogni (detto ciò, io sono la prima a commentare le scelte di questi due idioti, mentre scrivo: vi assicuro che lo spettacolo può essere piuttosto patetico ahahah).

Be', non so bene cos'altro dire, se non GRAZIE. Grazie davvero e semplicemente di tutto: Harry ed Emma sono arrivati fin qui grazie a voi.
 
Io vi saluto con tanto affetto, sperando di risentirci per altre storie.
 
Un abbraccio,
Vero.
 

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