Il viaggio

di ely_trev
(/viewuser.php?uid=234583)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12 ***
Capitolo 13: *** Capitolo 13 ***
Capitolo 14: *** Capitolo 14 ***
Capitolo 15: *** Capitolo 15 ***
Capitolo 16: *** Capitolo 16 ***
Capitolo 17: *** Capitolo 17 ***
Capitolo 18: *** Capitolo 18 ***
Capitolo 19: *** Capitolo 19 ***
Capitolo 20: *** Capitolo 20 ***
Capitolo 21: *** Capitolo 21 ***
Capitolo 22: *** Capitolo 22 ***
Capitolo 23: *** Capitolo 23 ***
Capitolo 24: *** Capitolo 24 ***
Capitolo 25: *** Capitolo 25 ***
Capitolo 26: *** Capitolo 26 ***
Capitolo 27: *** Capitolo 27 ***
Capitolo 28: *** Capitolo 28 ***
Capitolo 29: *** Capitolo 29 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Mi sveglio di soprassalto, non riesco a respirare. Ormai mi succede sempre più spesso: provo la netta sensazione di cadere nel vuoto o di essere spinta sott’acqua; a volte, perfino da sveglia.
Impiego qualche secondo prima di riprendere piena coscienza di me e di dove mi trovo e, quando alla fine ci riesco, il primo pensiero che mi sovviene alla mente è una domanda: sto facendo bene a tornare?
Apro le imposte della camera d’albergo dove mi sono fermata per la notte e la finestra mi restituisce l’immagine di una città che non mi mancava. Un quartiere “tranquillo”, uno di quelli che la notte si ferma: tante macchine abbandonate in ogni dove, che arrancano persino su strisce pedonali e marciapiedi, muri sporchi e saracinesche imbrattate dalle più volgari scritte, ma, in sottofondo, il silenzio della periferia che dovrebbe trasmettere serenità.
Il pensiero va a qualche anno prima, quando quelle strade apparivano diverse e tra quelle vie ci si giocava in tanti; a volte, in occasioni che a me sembravano di festa, anche fino ad una certa ora di sera, specialmente d’estate. Oggi è raro, se non addirittura impossibile, trovare un cortile con dei bambini.
Torno a respirare con regolarità, ma il sonno ormai è passato e l’afa che attanaglia la stanza non aiuta a conciliare un buon riposo.
Mi sdraio svogliatamente sulle coperte e accendo distrattamente la tv, che mi rimanda l’immagine di alcuni vecchi telefilm, che, però, hanno il sapore amaro della nostalgia: quelli erano i telefilm della mia infanzia e della mia adolescenza, quelli davanti ai quali ho perso ore ed ore, ridendo di cuore o piangendo drammaticamente quando la mia coppia preferita incorreva in qualche intoppo di sceneggiatura, magari perché uno degli attori aveva deciso di lasciare il cast. Oggi si chiamerebbero ship, allora era soltanto una fissazione fuori luogo, che, però, colpiva tutti, indistintamente. I primi neofiti di internet, anche in assenza di social network, riuscivano già allora a scatenare dibattiti su quale fosse il compagno migliore per questo o quel personaggio.
Adoravo quei telefilm, anche se penso che, in un certo qual modo, durante il corso della vita, mi hanno sicuramente causato qualche trauma.
Sorrido davanti alla semplicità di quelle storie: magari nella vita fosse tutto così semplice! Probabilmente non sarei fuggita da questa città che mi ha visto crescere, né mi sarei rifiutata di tornare nei luoghi della mia infanzia. Invece avevo tagliato i ponti con il mondo.
Nonostante sia passato del tempo, non so ancora dire se ho fatto la scelta giusta oppure no, ma un giorno ho deciso di frapporre tra me e il mondo una distanza minima invalicabile. I miei rapporti sociali si sono ridotti quasi esclusivamente a quelli obbligatori per lavoro, ma, se posso, evito anche quelli. Il solo sentir suonare il telefono mi innervosisce. E, forse per questo, ho deciso di non tornare più. Almeno fino ad oggi.
Questo ritorno al passato mi sta rendendo più ansiosa di quanto non sia mai stata, ma non è per il motivo del mio viaggio, anche se è tragico ed inevitabile, perché parte stessa della vita.
Maria mia non c’è più. Maria mia, come la chiamavo da piccola. La mia seconda madre, come il titolo di una delle tante telenovele che lei vedeva assiduamente e che aveva fatto vedere pure a me.
Un male incurabile l’ha portata via in meno di venti giorni. Meglio per lei, che non aveva sofferto, ma, egoisticamente, peggio per noi, che non avevamo avuto modo neanche di abituarci all’idea.
Non la vedevo più tutti i giorni, non andavo più a cena a casa sua, ma il solo sapere che lei era lì riusciva a donarmi una sicurezza che improvvisamente non ho più.
Lei non mi ha mai perdonato il colpo di testa che mi ha portato lontano e ora, mentre sto facendo ritorno, per un attimo ho anche pensato che me l’abbia fatto apposta: morire e lasciarmi tutte le sue cose… Così, tanto per farmi tornare…
Il sole comincia a fare capolino dagli spiragli delle persiane, mentre le immagini continuano a scorrere sullo schermo della televisione, ritmate quanto quelle canzoni di sottofondo, che rievocano alla mente il ricordo di momenti spensierati ormai perduti.
Mi alzo svogliatamente; il solo pensiero di rimettere piede nel mio vecchio quartiere mi fa venire voglia di risalire in macchina e scappare il più velocemente possibile. Ma Maria era così: metà della sua vita trascorsa sempre nella stessa casa, tra cose dette e cose non dette. E ora mi sta costringendo inesorabilmente a tornare sui miei passi.
Camminare per quelle vie mi mette addosso una sensazione stranissima. Riconosco le strade, i palazzi, lo spiazzo dove giocavo a pallone, ma tutto mi sembra immerso in un’atmosfera quasi surreale: più della metà degli appartamenti e dei negozi sono sfitti e quel vuoto che vedo intorno a me, a tratti, sembra amplificare il disagio che mi porto addosso. Non riconosco nessuna delle persone che incontro, in giro ci sono molti stranieri. Se non fosse per qualche sparuto riferimento spaziale, stenterei quasi a dire di aver vissuto qui.
Mi avvio verso il portone, zigzagando tra le moto parcheggiate nel vialetto e ripensando a quando, un tempo, nonostante la protesta di qualche condomino, quello spazio era tutto per noi bambini, ma soprattutto per me e per il mio amichetto. E, in un solo istante, torno indietro nel tempo di più di tre decadi.
Entro nell’androne del palazzo, un androne largo e spazioso, tipico delle costruzioni degli anni ’60, che, però, lascia intravedere l’incuria di un immobile sul quale vengono effettuati i soli improrogabili interventi obbligatori, ma non anche quelli di ordinaria gestione: la proprietà, infatti, unica e appartenente ad una società, non ha mai manifestato interesse ad effettuare una manutenzione che andasse oltre i meri obblighi di legge. Così è sempre stato e, probabilmente, così sarà per sempre.
Sono a un bivio: la scala A, sulla sinistra, è quella dove abitava il mio amico del cuore e la scala B, sulla destra, quella dove abitava Maria. Mi avvio da quest’ultima parte, percorrendo il breve corridoio che conduce alle scale. Salgo al primo piano, giro la chiave nella toppa – rigorosamente al contrario, circostanza che mi ha sempre colpito – e finalmente entro in casa, avvolta da un’infinità di sensazioni, che mi riportano alla mente una pari quantità di ricordi. Al contrario dell’esterno, qui tutto sembra familiare: gli odori, i colori, la semioscurità che ha sempre segnato un appartamento soffocato da mobili, suppellettili, piante e animali. Per quanto Maria fosse sempre stata una persona elegante, con il tempo, era finita per diventare quella che ho sempre definito una mezza accumulatrice.
All’improvviso, però, ho di nuovo cinque anni: canticchio felice il ritornello della canzone “Mamma Maria” e mangio pennette al burro e parmigiano seduta sul letto, mentre in tv scorrono le immagini dei cartoni animati che Italia Uno mandava in onda alle otto di sera, appuntamento fisso al termine del quale Maria mi riaccompagnava a casa.
Quasi senza accorgermene sono davvero in camera da letto, seduta di nuovo su quel materasso troppo alto, che ancora oggi non mi permette di arrivare con i piedi per terra, mentre osservo con nostalgia questo piccolo appartamento troppo pieno, dove, però, sono stata felice negli anni della mia infanzia.
A pensarci bene, non credo di essere più stata felice come allora.
Apro il cassetto del comodino e sobbalzo quando, osservando la luce verde della radiosveglia che per anni ho avuto il compito di riposizionare ad ogni cambio di orario, noto con stupore che sono passate quasi due ore da quando ho rimesso piede in questa casa. Ma il tempo, si sa, è relativo, e io mi trovo nuovamente a guardarmi attorno, senza decidermi ad iniziare la stesura dell’inventario per il quale sono tornata. Un po’ perché, sicuramente, non ho voglia di chiudere definitivamente uno dei pochi capitoli veramente sereni della mia vita e un po’ perché sento che mettere mano in quei cassetti, seppure non mi sia mai stato formalmente negato, equivale comunque ad entrare nell’intimità di una persona che, invece, ha sempre tenuto per sé i suoi segreti e lo ha fatto talmente bene che perfino io, che ero la persona affettivamente più vicina, ho riscontrato difficoltà addirittura a fornire alcune informazioni burocratiche necessarie per la sepoltura.
Punto dritto agli oggetti considerati più importanti da Maria e da lei esplicitamente indicati come quelli da prendere subito: l’oro chiuso nella cassaforte sotto la finestra del salone – e in particolare un orologio – e un piatto d’argento nascosto dietro un considerevole numero di buste vuote, infilate nell’intercapedine che si forma tra due mobili contigui, che non possono aderire l’uno all’altro a causa delle rifiniture.
Ecco fatto, Maria! E adesso? Da dove continuo?
Comincio dalla camera da letto, dai cassetti pieni di gioielli, finti o di alta bigiotteria, per arrivare all’armadio: otto ante piene di qualunque cosa, dalla tuta alla pelliccia: una quantità infinita di borse e vestiti sembra quasi voler esplodere da quegli sportelli, troppo pieni per riuscire a rendersi veramente conto di quello che contengono. E poi la vedo: una scatola come tante che nasconde un’enorme sorpresa per me. Lettere. Tante. Ricevute da Enrico, il marito. O pseudo tale, non ho mai capito bene. Nella vita di Maria, anche la cosa più banale diventava un mistero e forse queste lettere sapranno darmi delle risposte in più. Un’altra immagine mi passa all’improvviso davanti agli occhi: sono sempre bambina, in quella casa stracolma; era una giornata di grandi pulizie, una di quelle che mi piacevano tanto perché il mio compito era quello di arrampicarmi dappertutto, tra armadi e soppalchi, gatti e una varietà infinita di piante, per fare da passamano e sistemare tutte quelle lenzuola e quelle coperte che lei diceva dovevano essere il corredo per il mio matrimonio. Ero proprio arrampicata su quella scala alta, troppo per una bambina così piccola, e l’ho vista: quella scatola di cartone blu, nascosta sopra quell’armadio immenso, lontana dagli occhi indiscreti: i miei, quelli del suo secondo compagno Ennio e, probabilmente, quelli dello stesso Enrico.
Che cos’è?” le chiesi.
Me lo ricordo come se stessi vivendo quel lontano istante proprio oggi. Era una domanda innocente la mia; di certo, non potevo immaginare che dentro quella scatola ci fosse uno spaccato di vita così intimo.
Decido di portare quella scatola con me: non so se Maria vedrebbe bene questa invasione della sua privacy, ma forse servirà a me per conoscere un po’ di più la mia seconda madre. Con lei sono stata bene. L’ho abbandonata, in un certo senso, quando, da adolescente, sono diventata insofferente agli adulti, ma con lei ho vissuto dei momenti molto belli, di quelli che considero i migliori della mia vita. Ecco, la mia vita. Non so se in questo momento sono proprio in grado di rituffarmi nel mio passato: sono scappata dai luoghi e dalle persone che lo rappresentano e non ho mai avuto il coraggio di affrontarlo. Sono consapevole che ci sono persone che vivono situazioni ben più gravi e difficili della mia, ma so anche che ho sofferto, tanto. E che l’equilibrio che mi sono creata oggi è talmente precario che questo viaggio che mi sono trovata costretta ad affrontare può farlo saltare del tutto. Tutto è stato particolare nella mia vita: il mio ruolo all’interno della famiglia, il mio rapporto con i miei pochi amici e perfino il mio rapporto lavorativo. Fino a quando sono diventata così cinica che ho preferito nascondermi anche da me stessa piuttosto che prendere coraggio e affrontare quelli che erano i miei problemi. E che, in fondo, lo sono ancora oggi. Sempre lì, sempre presenti, anche se chiusi dentro la valigia che mi sono portata dietro il giorno che ho deciso di andarmene.
Richiudo la scatola e, per quella sera, decido che può anche bastare così. Lascio preparate all’ingresso le prime buste che ho predisposto ed esco da quella casa, chiudendo bene a chiave la porta d’ingresso. Ripercorro di nuovo il portone, con i suoi corridoi che portano alle due scale, e mi tornano in mente le mille corse di una bambina spensierata, che presto si sarebbe sentita schiacciata da tutto quello che la circondava. Eccola là, la scala A, quella dove abitava Alessandro, il suo più caro amico. Almeno così credeva quell’innocente bambina che ancora riusciva a fidarsi di qualcuno.
Chissà che fine avrà fatto” mi domando istintivamente. Il mio buon vecchio ex migliore amico, come l’avevo soprannominato in quella specie di diario epistolare scritto per anni ed iniziato proprio in quello che io avevo sempre ritenuto essere il momento più cupo e triste della mia vita, quello in cui avevo cominciato a vivere la mia quotidianità senza di lui, trascinato via da quello che, per me, allora, era un insensato trasloco che mi stava allontanando da una delle persone più importanti della mia vita. Ci ho creduto in quell’amicizia… Dio solo sa quanto ci ho creduto e quanto ho cercato di impegnarmi perché quella distanza, minima ma comunque incolmabile per un’adolescente in crisi, non mi portasse via il mio migliore amico. E alla fine ho fallito. Miseramente. Di tanto impegno e di tanta fiducia non è rimasta che la delusione provata quando ho preso coscienza che di me non gliene importava più niente. No, non è vero: mi sono rimasti anche ricordi. Tanti. Di due bambini che si amavano come fratelli e che hanno condiviso tantissimo. Peccato che oggi facciano un male tremendo, che quando mi sovvengono alla mente, mi torturino come lame affilate che giocano su una ferita ancora sanguinante.
Scaccio via il pensiero di Alessandro - l’ho detto di non essere pronta ad affrontare i fantasmi nel mio passato - ed esco dal palazzo con una strana sensazione di mancanza d’aria.
Ma perché mi fa ancora questo effetto?” mi domando alzando lo sguardo verso quel balcone del terzo piano dove abbiamo passato interminabili giornate a giocare. È il dolore di quella perdita, che razionalmente non attribuisco lui direttamente, quanto ad una crescita diversa che ha portato le nostre differenze caratteriali ad avere la meglio su di noi, uno degli ostacoli che non riesco a superare. E lo sento da quel fiato che mi manca e da quegli occhi che mi bruciano se solo ripenso a quel bimbetto biondo e riccioluto, che è stato una parte importante di me e che all’improvviso ho perso, in un modo che ancora oggi, a distanza di anni, non riesco a comprendere fino in fondo.
Salgo in macchina guardandomi attorno e faticando ancora a sentirmi a casa, anche se quelli sono i luoghi dove sono cresciuta. Metto in moto e inizio a camminare, senza sapere neanche bene dove andare e quando, alla fine, torno in hotel, provo un misto di nostalgia e di senso di rifiuto che mi mette a disagio. Apro il pc e istintivamente inserisco nel campo di ricerca il nome che avevo dato a quel file dove scrivevo il mio diario, custode di una buona parte della mia vita: “The empy book – A story about life and friendship”. Come dedica, una frase di un filosofo iraniano che recita molto direttamente: “Ecco: una mano amica ti si tende. Stringila, dunque, e intanto a te domanda se un giorno da nemica ti colpirà”. Perché Alessandro mi aveva colpito, eccome… Anche se, con il senno di poi, capisco che non c’era cattiveria in lui, mi ha comunque causato una ferita che non si è ancora rimarginata e che forse non lo farà mai del tutto. È strano riprendere in mano quei testi: a distanza di così tanti anni, tutto sembra perdersi nei meandri della memoria. Eppure una volta avevano senso. Una volta tutto aveva senso.
Caro amico ti scrivo / così mi distraggo un po’ / e siccome sei molto lontano / più forte ti scriverò. / Da quando sei partito / c’è una grossa novità: / l’anno vecchio è finito ormai / ma qualcosa ancora qui non va”. Cominciava così la prima lettera, come l’incipit della canzone di Lucio Dalla. Me la ricordo ancora la giornata in cui la scrissi, come fosse oggi. Alessandro e la sua famiglia avevano traslocato da poco più di tre mesi, ma, con l’estate di mezzo, quasi non me ne ero accorta fino a quel momento: una grigia giornata autunnale, un’assemblea scolastica a cui io, come le altre volte, non avevo partecipato, una giornata passata totalmente in isolamento, senza incontrare nessuno, neanche i miei genitori, impegnati nell’attività di famiglia… All’improvviso, avevo visto davanti a me un lungo periodo di solitudine. Insieme a quell’anno scolastico, aveva preso il via anche uno dei momenti più brutti di tutta la mia vita. Fu per questo che, su quel quaderno immacolato che avevo comprato per la scuola, mentre ero seduta su una panchina in attesa di cominciare la prima lezione del nuovo anno di catechismo, decisi di mettere nero su bianco i miei pensieri, la mia voglia di stare con Alessandro, il rimpianto di non aver passato più tempo con lui e la ferma determinazione a far in modo che nulla ci separasse, neanche quella distanza che il destino aveva frapposto tra noi.
Beata ingenuità!
Alessandro si ambientò quasi subito nella nuova città e, a poco a poco, anche il nostro legame scemò. Anche se io non sono riuscita ad ammetterlo per tantissimo tempo e, forse, alla fine, l’ho fatto con modi e tempi del tutto sbagliati, accusandolo di aver tradito un’amicizia, senza considerare che, forse, in realtà, eravamo solamente cresciuti con modi e tempi del tutto diversi. Magari a causa di quella separazione, sì, ma che lui, in fondo, aveva subito quanto me. Ci ho messo nove anni a staccarmi da lui e alla fine l’ho fatto, forse malamente, decidendo di dare un taglio netto riempiendolo di recriminazioni. Ma anche subendo il taglio che aveva voluto dare lui, quando, tempo dopo, rispose al mio invito a trovare un modo nuovo di stare insieme, scrivendomi che non mi sarei potuta integrare nella sua nuova vita e che, al tempo stesso, non voleva più dedicarmi spazio, perché – cito le sue testuali parole “non era capace di dividere la sua vita in vari compartimenti”. Anche se non era questo che gli chiedevo. Ma è stato a quel punto che ho deciso di prendere un’accetta e rompere definitivamente tutti i legami, compreso l’affetto che ancora provavo per lui, nascondendo a me stessa anche quello che di bello c’era stato. E solo adesso mi sto rendendo conto che ho sempre fatto così: quando le cose smettono di andarmi bene, preferisco cancellare tutto, forse nell’ingenua convinzione che, in quel modo, io possa seppellire anche tutti i miei rimorsi e tutti i miei rimpianti, come, però, non sono mai riuscita a fare. E, forse, oggi posso dire che è stato questo modo di affrontare le avversità che mi ha portato ad allontanarmi da questi posti che un tempo consideravo casa mia e che oggi fatico addirittura a riconoscere; come, d’altro canto, fatico a riconoscere quel ragazzo ritratto nelle foto postate sui vari social network, tra mille altri compagni e in cerca di mille altre avventure. È strano constatare come due persone che sono state così unite possano, invece, trovarsi ad essere totalmente estranee l’una per l’altra. I ricordi, però, soprattutto quelli belli, sono lì, indelebili, come macchie d’inchiostro che il pennarello della vita ha lasciato sulle dita di due bambini allegri e spensierati.
Sfoglio senza leggere il mio “empty book”, quel diario lungo quasi 150 pagine sulle quali ho versato le lacrime più amare della mia vita, quindi apro la cartella “Music” sul mio pc, un contenitore che, nel tempo, si è riempito della musica più disparata, e mi lascio andare alla colonna sonora della mia esistenza. Quando ho veramente voglia di casa faccio così. Non importa che, poi, dalle casse, si spargano le note della sigla del cartone animato o del grande classico; ogni canzone mi dice qualcosa. E poi ho sempre amato la musica. E cantare. Non che io sia particolarmente intonata, ma cantare mi ha sempre donato una gioia immensa. Quando canto è come se fossi leggera come l’aria e non trascinata giù da tutti i pensieri negativi che mi inchiodano a terra.
Ed eccomi di nuovo piccola: sono nel giardino condominiale, sotto casa di Alessandro, e lo chiamo urlando a squarciagola la sigla di “Holly e Benji”. Oppure quella di “Forza Sugar”. Te lo ricordi Sugar, Alessandro? Quando lo abbiamo conosciuto, abbiamo passato interminabili giornate correndo intorno all’isolato, facendo finta di affrontare uno dei suoi faticosissimi allenamenti, impegnati anche, non ricordo per quale motivo, a non farci vedere dai negozianti di turno quando passavamo davanti ai loro locali. E Sam? Te lo ricordi “Sam, il ragazzo del west” e quell’assurda abitudine che avevamo preso di legarci al collo un fazzoletto ripiegato, come se fosse stata la sua bandana? Che scemi che eravamo! Ma che risate!
Oppure no, ora lo sento: c’è Umberto Tozzi in sottofondo, con la sua celeberrima “Ti amo”. La sto ascoltando nella macchina di Luigi, un amico di mio cognato, mentre con lui e un’altra decina di persone, tra le quali mia sorella, ci dirigiamo nella provincia senese per trascorrere un sereno ponte festivo sulla neve. In quell’occasione ho praticamente costretto mia sorella a portarmi con lei, perché, tra i tanti partecipanti alla gita, c’era anche la figlia di una sua amica, altra presenza costante nella mia vita fino agli anni dell’adolescenza: Marika. Buffo come, anche in questo caso, ho visto diminuire, fin quasi a sparire, tutti gli incontri che avevamo. Eppure c’è stato un tempo in cui quelle ore trascorse insieme erano quasi sacre, tanto da non poter sprecare nemmeno un minuto di quelli che ci venivano concessi, svegliandoci all’alba anche nelle giornate di festa per vivere appieno tutto ciò che avevamo la fortuna di condividere. E poi nulla, l’adolescenza si è messa di mezzo e i nostri giochi di bambine sono stati accantonati, con meno dolore rispetto a quanto è avvenuto con Alessandro, forse perché, in realtà, il distacco da Marika è avvenuto con molta più naturalezza e molta meno rabbia. Ci siamo viste ancora, di tanto in tanto, fino alla mia definitiva partenza, ed ogni volta era bello e nostalgico allo stesso tempo, perché non c’era più quel tempo quotidiano dopo la scuola a renderci complici nei giochi e nel divertimento, ma, allo stesso tempo, c’eravamo sempre noi, io e lei, ancora insieme nonostante tutto.
Sorrido richiamando alla mente quella gita in montagna estorta ai nostri familiari: io e lei, vestite con delle improponibili tute dai colori sgargianti, coperte da cappelli di lana calzati fin sopra gli occhi, impegnate a sconfiggere la nostra paura di lasciarci andare, a bordo del nostro bob preso in affitto, giù per una discesa che ci sembrava fin troppo ripida. Fu un’Epifania molto ricca quella: a parte la vacanza e la gioia di condividere una camera d’albergo senza la supervisione di un adulto, ci furono regalati moltissimi giochi in scatola, che ancora tengo gelosamente custoditi nell’angolo destinato ai ricordi. Molti doppi, però, a dimostrazione di un’assenza di furbizia di chi ci era vicino: che ce ne saremmo dovute fare di due giochi uguali quando quei giochi si facevano in compagnia e noi eravamo sempre insieme?
La musica, ora, è cambiata di nuovo: c’è Vasco Rossi e la sua “Stupendo”. La prima volta che l’ho ascoltata avevo undici anni; mi sembrava una canzone strana, trasgressiva. Un po’ come la proprietaria della musicassetta, Annetta, un’altra amica di mia sorella dai comportamenti un po’ border line. In quel periodo, però, aveva un bambino piccolo e passava molto tempo a casa. E io con lei, a trascorrere le mie mattine d’estate, giocando con il piccolo di casa e mettendo in mostra il mio innato istinto materno, mentre aspettavo Alessandro che tornava dal centro estivo dove era stato iscritto. Io no. Ho sempre odiato quegli agglomerati di persone e quelle poche volte che mi sono lasciata tentare ho sempre rimpianto la mia decisione di aderire a quelle iniziative.
La seconda volta che l’ho ascoltata con attenzione ero più grande e lavoravo da poco. Gino, il capo, lo vedevo come un alieno da temere. E poi, un pomeriggio, disse di non disturbarlo perché doveva portare a termine un lavoro quando sua madre mi mandò da lui per chiedere informazioni su un’altra questione. Spaventata, attraversai il corridoio che portava alla sua stanza e mi sorpresi nel trovarlo a scrivere con la musica accesa, il sorriso sulle labbra e una positività che non ho più visto in nessun altro. In quel momento è cambiato qualcosa: non era più Gino il capo, un’entità astratta di cui avere paura. In quel momento, si era trasformato in una persona, forse una delle migliori che abbia mai conosciuto. Non che non abbia avuto i miei problemi con lui, in fondo siamo tutti esseri umani, ma non ho mai più trovato nessuno come lui, capace di farmi sentire sicura di me stessa e delle mie capacità, rispettata e speranzosa nei confronti di un futuro che, davanti ai miei occhi, si è sempre colorato di nero, tranne quando lui diceva che avrei potuto ottenere dalla vita tutto quello che desideravo. Anche se poi non è stato così. Sono andata semplicemente avanti, in realtà rimanendo immobile in tutti quelli che sono stati i miei problemi da sempre.
Ora le casse risuonano “Il treno” di Cocciante. La ascoltava sempre Franco, il marito di mia cugina, un’altra di quelle persone che mi ha fatto porre più perché di quelli che si meritava. La canzone, però, è bella: quando l’ascolto, penso sempre alla vita che scorre, come i paesaggi descritti in quelle strofe poetiche accompagnate da una musica melodica che trasmette un’immensa nostalgia. Dove mi aveva condotto il mio di treno?
Improvvisamente sento di aver perso la mia identità e sono sola in quella stanza così impersonale, in compagnia solo di un passato che, per sua natura, è destinato a non esserci più. Ho sempre pensato che le persone siano la somma delle esperienze vissute e allora perché io, nonostante sia circondata da una montagna di ricordi, mi sento vuota come se fossi un contenitore di cartone pronto per essere gettato via? Cosa sono diventata oggi? Chi sono?
Il caldo è asfissiante, nonostante il condizionatore acceso, e la mia insofferenza si fa sentire sempre di più. Spengo il computer e faccio nuovamente quello che avrei fatto a vent’anni: seguo l’istinto e mi metto in macchina, alla ricerca di me stessa, inseguendomi nei luoghi che hanno fatto parte di me. Nel mio quartiere no, questo è appurato. Allora ricomincio da un luogo più facilmente raggiungibile: Contigliano.
Come quando avevo vent’anni, mi ritrovo alla guida della mia macchina, a tarda notte, diretta verso la provincia reatina. Allora per trascorrere un’ora insieme al mio buon vecchio ex migliore amico, oggi non lo so neanche io perché. Ma il cuore mi dice di andare e voglio agire senza pensare troppo a cosa possa essere giusto e cosa no.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


1993
Ho sempre amato l’estate: le scuole che si chiudono, gli impegni che rallentano, la possibilità di giocare praticamente tutto il giorno e anche buona parte della notte. Perché no, non ho mai avuto imposizioni di orario serale, questo lo devo ammettere. Così, ogni volta che posso e specialmente d’estate, quando non sono più costretta ad alzarmi presto per via della scuola, ho sempre assecondato la mia indole da “gufo”, trascorrendo interminabili ore notturne in compagnia solo di me stessa. Perché sono sempre state poche le persone che godevano della mia tolleranza. Figuriamoci della mia amicizia. Alessandro. Una di queste, sicuramente, è Alessandro. Sarà per questo che quando, tutti gli anni, verso la metà di luglio, la sua famiglia prendeva in affitto una casa in campagna e si trasferiva lì fino alla fine di agosto, a me prendeva sempre una piccola fitta di malessere.
Restavo sola.
Quest’anno, però, è diverso. Quest’anno sono stata invitata anche io. Quest’anno avrei trascorso qualche giorno di vacanza con loro.
Erano stati pochi i tentativi di fare una vacanza fuori di casa. Due, per la precisione, uno avvenuto un paio di anni prima e uno avvenuto l’anno precedente. Ed erano miseramente falliti.
Del tentativo di fare campeggio con i ragazzi della parrocchia è meglio non parlarne, non so neanche come mi venne quell’idea.
L’idea di trascorrere qualche giorno con mio cugino e la sua famiglia, invece, mi allettava parecchio, anche perché il figlio, Armandino, il mio fratellino di elezione, era piccolino e, anche se sembra brutto a dirsi, era il mio giocattolo preferito. E difatti il problema, alla fine, non fu lui. Fu che non riuscii mai a sentirmi a casa.
Andare con Alessandro, invece, non mi sembra vero. Nemmeno in questo momento, quando, in preda all’euforia, sto preparando la borsa con i vestiti, il costume e il mio inseparabile cappellino estivo, mentre mio padre cerca di convincere il suo amico Giancarlo ad accompagnarci tutti nella nostra allegra scampagnata con la nostra nuova macchina. Appuntamento: uno dei bar del paese.
Mi sembra tutto così utopico che il breve viaggio che ci separa dal piccolo paese di campagna mi sembra durare un’eternità. Non riconosco neanche i nomi delle località indicate sui cartelli stradali, se escludiamo Rieti, perché è stata nominata a scuola come una delle province del Lazio, e Greccio, luogo che, confusamente, nella mia memoria, mi sembra di aver visitato da piccola, ma del quale ricordo solo che fu terra ospitale di San Francesco.
Ma a me non importa. A me importa solo che sarei andata in quello sperduto paese di cui quasi nessuno conosce l’esistenza per stare con il mio amico. E chi se ne frega se mio padre continua a dire che lì non troverò niente. Avrei trovato Alessandro e questo mi bastava. D’altro canto, mio padre ha sempre preso in giro tutti quelli che andavano in vacanza in posti meno turistici del suo luogo natale. Praticamente tutti, visto che lui è nato in uno dei posti più belli d’Italia. E anche io. Ma non per questo non ci può essere del bello anche altrove. Sì, sono certa che questi giorni con Alessandro saranno bellissimi.
Arriviamo a destinazione in tarda mattinata e, come previsto, la mamma del mio amico è lì ad aspettarci per farci strada, attraverso strette stradine di campagna, per qualche centinaio di metri, verso la casa che hanno preso in affitto. Sempre quella, da tanti anni, di fianco alla casa dove vive il figlio più grande con la sua famiglia.
La casa presa in affitto è modesta: un ingresso al pian terreno, utilizzato come camera da letto per il fratello di Alessandro e l’unica camera da letto della casa, utilizzata dai loro genitori. Una stretta scala conduce al piano inferiore, dove ci attendono un piccolo bagno ricavato in un sottoscala, una cucina appena sufficiente a contenerci tutti e una sala da pranzo, abilmente trasformata nell’ennesima camera da letto, la nostra.
Tutto intorno c’è solo prato incolto, qualche casa sparuta e tanta voglia di libertà, una gioia per noi bambini abituati a vivere nella soffocante metropoli.
I miei genitori vanno via quasi subito – a nessuno dei miei accompagnatori piace quel posto – e finalmente io rimango sola con Alessandro e la sua famiglia.
La prima sensazione che provo è libertà. Ho sempre fatto un’immensa fatica ad adattarmi a luoghi diversi da casa mia, ma quella volta mi sento libera. E poco importa se sono ospite, perché nessuno, in quella famiglia, mi hai mai fatto sentire così. E poco importa se, di tutte le mie cose, ho con me soltanto una borsa scura che, normalmente, sono solita riempire più di musicassette e videocassette che di vestiti. Lì non mi servono. E poco importa se non ci sono mamma e papà, per qualche giorno sarei stata semplicemente io.
Il bello della vacanza in un piccolo paese di campagna è la mancanza di ostacoli e di vincoli, quegli stessi vincoli che, in città, ti fanno sentire schiavo di una routine che, spesso, è eccessiva anche per un bambino.
Le nostre giornate scorrono serene, tra una tazza di latte e cioccolato – divisa in due, per risparmiare, perché la famiglia di Alessandro ha da sempre problemi economici – mille corse in bicicletta, pomeriggi nella piscina del paese e serate trascorse davanti ai videogames, prima quelli del bar – tappa d’obbligo, dopo cena, per il gelato che non poteva mancare, almeno per noi bambini – e poi quelli del fratello nerd, che alla fine è sempre costretto a cacciarci dalla sua stanza per poter riposare in pace.
Tante sono le risate, anche in compagnia dei nipotini di Alessandro, i figli del fratello che vive nella casa di fianco, e veloce è il tempo che corre inesorabile, fino al termine della mia settimana di vacanza.
Mentre torno a Roma sento tanta nostalgia, anche se so che a breve partirò per il mare con i miei genitori. Eppure, la semplicità di quei luoghi e della nostra stessa vita in quei luoghi, con la nostra indipendenza e l’autonomia che avevamo, sento già che mi mancano.
Chissà se potrò tornare…

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


1995
Come avevo immaginato non è stato facile tornare, nonostante gli espliciti inviti ricevuti. Mio padre, stanco di sentirmi parlare di pallone e videogames, si era messo in testa di allontanarmi dal mio amico perché, come dice lui, la sua vicinanza mi fa perdere la mia femminilità. Buffo modo di farmi capire che, così come sono, non gli vado bene e che preferirebbe vedermi vestita con una bella gonnellina a giocare con le bambole… Sinceramente non so se chi sono io dipenda da Alessandro, ma so che non è tenendomi lontana da lui che mio padre può ottenere qualcosa di buono da me. E comunque adesso sono qui e voglio godermi questa nuova vacanza in questo posto che i miei continuano a considerare sperduto e che io continuo a considerare un po’ casa mia. Sarà che qui mi sento finalmente bene, che la tensione si allenta, che tutto sembra più bello…
Peccato solo che quest’anno io sia capitata nello stesso periodo di Stefano. No, il cugino di Alessandro proprio non lo sopporto. Ogni volta che ci capita di passare un pomeriggio insieme, a Roma, finiamo sempre con il litigare. D’accordo, io sono tremenda e non perdo occasione per fargliene passare di tutti i colori, compreso farlo camminare in ginocchio per tutto l’androne del palazzo dove vive Alessandro solo perché mi ha fatto arrabbiare, ma a me lui sta antipatico perché ruba il tempo che Alessandro avrebbe dedicato a me. Ecco, lo ammetto: sono gelosa. Mi dico sempre che per fortuna abita dall’altra parte della città e adesso me lo ritrovo qui nello stesso periodo. Pazienza, me ne farò una ragione. Per fortuna si è portato dietro un amichetto, un certo Giorgio. Magari non mi disturberà tutto il tempo. Anche se adesso siamo tutti e quattro insieme a scorrazzare in bicicletta, perdendoci nelle strade di paese e sentendoci grandi solo per aver attraversato vari passaggi a livello. A un certo punto seguiamo una stradina non asfaltata che ci fa addentrare in un castagneto, fino ad un cancello che delimita una proprietà privata, cosa che non ci esime dal varcare comunque l’ingresso e proseguire, fino a trovarci nel mezzo di una fattoria, pedalando a perdifiato, inseguiti dai cani che facevano la guardia.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


OGGI
Mi desto all’improvviso dai miei pensieri. Come cambiano le cose con il tempo!
Giorgio, il bambino che era con noi durante quella vacanza, è morto adolescente per un incidente domestico, uno di quelli che ci fa domandare come diavolo è possibile che accadano ancora certe cose.
E Stefano… C’è stato un momento in cui ho frequentato molto più Stefano di Alessandro.
La vita è veramente strana.
Percorro una via che conosco ancora a memoria, nonostante il tempo trascorso e, nonostante i cambiamenti apportati dal tempo alla strada, oggi meno rettilinea e più ricca di rotonde, e in meno di un’ora sono all’ingresso del paese, dove tutto sembra essersi fermato. Non so neanche più dove oggi abiti esattamente il mio buon vecchio ex migliore amico, ma non sono qui per incontrarlo. Sono qui per osservare di nuovo questo posto che ci ha visti giocare e ridere insieme e, personalmente, anche pormi tante domande. E chissà che oggi non cominci a fornirmi anche qualche risposta.

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


1998
Questa non è una vacanza come un’altra. Questo viaggio è iniziato con un furgone pieno di mobili e finisce in una casa che non è quella degli altri anni.
Quando, lo scorso gennaio, la mamma di Alessandro mi ha comunicato che, alla fine della scuola, la loro famiglia si sarebbe trasferita qui ho sentito il mondo crollarmi addosso. L’ho avvertita: non era solo la nostalgia, senso di solitudine, no… era paura. Paura che quel trasloco ci potesse dividere.
Non lo so cosa succederà, per adesso cerco di godermi la vacanza, ma ho talmente tanta paura che vorrei non staccarmi mai da lui.
Siamo appena arrivati, pronti a goderci i nostri giorni insieme e il suo scooter nuovo di zecca, mentre, durante l’ultimo giretto di perlustrazione, incappiamo in un posto di blocco serale che ci fa guadagnare una bella multa, il sequestro del motorino e il viaggio di ritorno verso casa sull’auto dei carabinieri, neanche fossimo due banditi.
Se tanto mi dà tanto, questa vacanza inizia proprio bene…
Con Stefano, però, le cose vanno un po’ meglio, tanto che la mattina vado anche a casa sua per aiutarlo a fare un po’ di compiti delle vacanze.
Il nostro duo sembra sempre di più assomigliare a un trio e le risate non mancano, anche quelle notturne, tra me e Alessandro, tanto che, complice una passione per una trasmissione televisiva sul pronto soccorso, oltre ai soliti giochi, passiamo la notte a chiacchierare su quale sarebbe il comportamento più adeguato in questa o quella situazione di pericolo.
Ma i giorni, purtroppo, volano via e anche quella vacanza finisce. L’ultima forse davvero serena.

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


OGGI
Entrando nel paese, scorgo sulla mia destra una piazzetta piena di adolescenti in vacanza, dove a volte abbiamo bighellonato anche noi, e tiro dritta, passando davanti ai giardini pubblici, fino alla casa dove il mio buon vecchio ex migliore amico ha vissuto per anni. Nonostante tutto, adoravo quella casa. Anzi, più che quella casa, adoravo e adoro ancora il punto in cui si trova: in cima ad una salita, poco prima di entrare nel borgo vecchio, a strapiombo su una vallata.
Accosto la macchina e raggiungo la me adolescente che si rifugiava spesso su quel muretto, ogni volta che tornava in questo paese, e ripensava a tutto ciò che non era come prima, a tutto ciò che era cambiato.
È ancora lì quell’adolescente, intenta a scrutare l’orizzonte con un libro in mano e le cuffie nelle orecchie ed è allora che capisco che Alessandro, il mio buon vecchio ex migliore amico, è stata una parte importante di me, una parte fondamentale di me, ma che il nostro cammino comune si è inesorabilmente concluso con la nostra infanzia. Quell’adolescente inquieta seduta su quel muretto cercava sicuramente la pace, non il suo amico che non era più parte di lei.
Adesso era chiaro: anche se per anni ho alternato fasi di rabbia e di tristezza infinita, non capivo che si era semplicemente chiuso un capitolo della mia vita. Un capitolo bello, bellissimo, ma inesorabilmente superato.
Sorrido, colpita da questa nuova consapevolezza, e mi siedo per un lungo momento su quel muretto dove ho trascorso interminabili ore con lo sguardo perso e sento nascere in me un principio di serenità che non provavo più da tanto tempo.
Accarezzo con le mani la pietra fredda, lancio un ultimo sguardo alla casa dove Alessandro non vive più e, tornata alla guida della mia auto, mi dirigo nuovamente verso la parte bassa del paese: c’è la piazza dove i carabinieri ci hanno fermato, sequestrandogli il motorino appena comprato, il bar dove abbiamo trascorso interminabili serate estive mangiando gelati e giocando ai videogiochi, la cabina telefonica da dove, prima dell’avvento dei cellulari, telefonavo a casa una volta al giorno quando ero in vacanza qui, il negozio dove compravamo biscotti e cioccolata e poi c’è lei, la strada che porta alla casa che i genitori di Alessandro prendevano in affitto in estate durante quegli anni felici, una strada di campagna, buia, che noi percorrevamo in bicicletta, lasciandoci guidare solo dal nostro istinto. Istinto che, per inciso, non ha mancato di farmi personalmente finire tra i cespugli.
Però ripensare a tutto questo mi mette allegria.
Ecco, Alessandro è questo: Alessandro rappresenta la spensieratezza infantile. Inutile chiedersi come e perché le nostre strade si fossero divise; eravamo semplicemente destinati a camminare lungo due percorsi che a un certo punto si sono allontanati.
Parcheggio l’auto e continuo a sorridere, camminando al buio, a passo sostenuto, mantenendo un contatto tattile con la siepe alla mia destra, lungo quella strada che da bambina percorrevo in bicicletta, e provo un senso di benessere che avevo praticamente dimenticato.
Rivedo tanti episodi di quando ero piccola: le corse in bici, le nuotate in piscina, le partite ai videogiochi, le nottate a parlare… Ma per la prima volta non li rimpiango…
Allungo la mia passeggiata fino alla fonte dove mi fermavo a lavare la mia prima automobile e poi fino alla famosa casa, per tornare, infine, sulla strada principale e avviarmi nuovamente verso la mia macchina parcheggiata. Tutto mi sembra piccolo, distante, ma presente da qualche parte dentro di me. Sento che questa serata improvvisata mi ha lasciato qualcosa, quindi posso tornare a dormire, anche se ormai è quasi mattina.
Torno in albergo e riaccendo il computer, senza il quale non sono capace di prendere sonno, ma prima di voltarmi dall’altra parte, apro al volo un video su Youtube, realizzato, in un momento creativo, con alcune foto personali, e mi fermo in un punto ben preciso. Eccola lì, una bella foto estiva di due bambini appena conosciuti. Estate 1987: lei, capelli neri e lunghi, indossa un vestitino a sfondo bianco con i fiorellini gialli e arancioni; lui, capelli biondi e ricci, indossa dei pantaloncini gialli e una canottiera bianca con i bordi rossi e un disegno sul davanti. Sono seduti su un vaso bianco, sul balcone di casa di lui. Si conoscono da qualche giorno e lei, già allora, lo abbracciava tenendoselo ben stretto.
Come siamo diversi, oggi!
Stavolta sorrido senza rimpianti: Alessandro resterà sempre parte di me, ma il fatto che oggi sia un capitolo chiuso della mia esistenza è un’evoluzione naturale della vita, non un mio personale fallimento.
Ripenso al mio “empty book”: quanto tempo perso riformulando sempre gli stessi pensieri, quando bastava così poco per rendersi conto che la vita è semplicemente un’evoluzione continua.
Mi addormento serena e per la prima volta da tanto tempo dormo tranquilla per diverse ore. Quando mi risveglio, sento che qualcosa è cambiato dentro di me.
La mattina mi mette addosso voglia di fare, ma soprattutto voglia di partire, per continuare a scoprire i luoghi che hanno fatto parte di me.
Da quando ho iniziato a lavorare, mi sono concessa spesso dei viaggi, più o meno lunghi, ma improvvisamente mi rendo conto di essermi allontanata sempre di più dalle mie origini.
Senza pensarci troppo, preparo uno zaino veloce e mi rimetto alla guida della mia auto in direzione del mio paese natale. Vi arrivo circa tre ore dopo e la prima tappa obbligata è il grande parcheggio a ridosso dell’area pedonale, oggi protetto da sbarre automatiche e pieno di vetture in sosta, un tempo vigilato da personale umano e amichevole e molto più libero, cosa che, personalmente, mi consentiva pazze corse in bicicletta, come se non ci fosse un domani. Sempre sotto lo sguardo vigile di Alfonso, il parcheggiatore, che mi aveva preso molto in simpatia, come se fossi una di famiglia. L’ho perso di vista qualche anno dopo il suo pensionamento, chissà oggi come starà.

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Capitolo 7 ***


1991
Arriviamo davanti la porta della nostra casa a notte inoltrata, come ogni volta che veniamo qui. Questa casa è sempre stata un porto di mare, frequentata da una moltitudine di parenti e da tutti i loro amici, compresi i miei. E questa volta non è diverso: a parte gli amici di mia sorella e di mio fratello, con me c’è la mia amica Marika e la circostanza mi rende felicissima, anche perché, causa sovraffollamento, i miei genitori sono anche costretti a comprare un letto a castello che io e Marika ci litighiamo praticamente tutte le sere.
Ma sto benissimo.
Il fratellino di elezione Armandino è appena nato, la mia amichetta è in vacanza con me, finalmente posso dormire su un letto a castello come ho sempre sognato di fare… Mi sembra che niente possa turbare quelle giornate fatte di mare e risate, partite ai videogiochi al bar dello stabilimento, gelati, grigliate in giardino, zeppole calde e prese in giro della povera Marika che inciampava dappertutto e aveva tutte le ginocchia sbucciate. Ma noi siamo insieme, alla “piscina”, come lei ha soprannominato la nostra casa quando, mezza addormentata, è scesa dalla macchina e si è trovata per la prima volta davanti alla porta di ingresso, credendo di trovarsi di fronte ad una palestra e non ad una abitazione.
Sono così felice che non mi rendo conto nemmeno di quello che sta accadendo intorno a me: i miei genitori stanno vendendo la casa. 

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Capitolo 8 ***


OGGI
La porta della “piscina” non esiste più, al suo posto c’è una finestra, anche se al suo fianco compare ancora l’11, il numero civico che contraddistingueva l’ingresso alla nostra casa, la casa dove mio padre è cresciuto e dove noi abbiamo vissuto tanti momenti spensierati.
Una delle poche caratteristiche che ha mantenuto è il doppio ingresso: uno pedonale, da quello che per noi era un ingresso secondario sempre chiuso, e uno carrabile, dal lato del giardino che si affaccia all’interno del grande parcheggio, dove è stato aperto un cancello per le automobili che non esisteva. Mi affaccio da quel cancello ed osservo un luogo che non riconosco. Un tempo, quel giardino era composto da un piccolo appezzamento di terra, un grande albero di limoni, un pollaio crollato e qualche mattone piantato in mezzo a tutto, a ricordare un’opera di ampliamento mai completata da mio nonno, venuto a mancare improvvisamente un’estate di un’infinità di anni fa.
Oggi è semplicemente un posto auto accanto ad una porta di ingresso.
Incontro per caso i nuovi proprietari della casa, che, ironia della vita, si chiamano come i miei genitori, che mi invitano ad entrare e mi fanno visitare l’appartamento così come l’hanno ristrutturato. Molto bello, non c’è che dire. Ma faccio fatica a riconoscere qualsiasi riferimento: l’ingresso è diventato la cucina, la cucina ora è il tinello, al primo piano c’è un bel salone, un bagno e due camere da letto e poi… una scala che sale. A stento ricordavo che c’era una soffitta, raggiungibile da una porta esterna; ora, invece, quel sottotetto abbandonato è diventato un altro mini appartamento dove i nuovi proprietari hanno sistemato i figli grandi.
La casa è bella, rifinita con gusto – mi colpisce molto la pietra lavica che lastrica le scale – ma, ahimè, sento che non è più la mia casa, quella che risuonava delle risate della mia famiglia, quella che ha visto crescere tante generazioni, quella che so aver accolto l’intero vicinato durante il terremoto dell’Irpinia, anche quella che, sì, mi spaventava a causa della sua enorme crepa nell’intonaco che, da piccola, mi sembrava una minaccia alla sua stabilità, per poi scoprire che, invece, era sempre lì. Lei. Noi no…
Lascio la macchina parcheggiata nell’ampio spazio di fronte la casa e mi avvio verso il corso principale: è ancora un’isola pedonale, come tanto tempo fa, ma, a differenza di allora, mi infastidisce la presenza della gente che si accalca tra le vetrine dei negozi o passeggia svogliatamente per la strada, senza sapere bene dove andare. Un tempo, almeno, io, uno scopo, ce l’avevo: correre. Correre con la bici, sfrecciando tra i passanti e sentendo solo il vento che scorreva tra i miei capelli lunghi e attraversava le braccia scoperte. No, adesso non mi interesserebbe più neanche quello.
Arrivo rigorosamente alla piazza sita alla metà del corso, giro di boa di tutte le nostre passeggiate, do uno sguardo sfuggente all’orologio sul campanile della chiesa, che per più di trent’anni ha segnato le h. 19.34 (ora del terremoto che ha colpito l’Irpinia il 23 novembre 1980 e che ha segnato duramente anche queste zone) e torno indietro verso la mia macchina.
Anche qui non sento quello che volevo sentire. Le emozioni di quella bambina accaldata, con le canzoni dei cartoni animati che le risuonano nelle orecchie e la maglietta sporca di gelato, che durante quelle lunghe estati aveva solo il problema di come riuscire a convincere i genitori a restare a giocare sempre un po’ di più o di andare a comprare un’altra zeppola, ma “solo lì, perché solo quella è buona”, sono troppo lontane per poter essere vissute nuovamente.
Ecco, una zeppola dallo zeppolaro. Quello vero, però…
Un tempo ce n’era uno solo, a Molina. La sera, quando apriva il piccolo locale sulla statale, si creavano gli ingorghi perché non c’era neanche spazio per parcheggiare in maniera corretta. Ricordo che ogni volta che scendevamo dalla macchina rischiavamo di essere investiti, eppure era tappa quasi quotidiana.
In seguito, diversi anni dopo, quel locale si è spostato; sempre sulla statale, ma un po’ più verso l’entroterra, in un punto dove era più facile fermarsi. Ci siamo andati, ma, non so se a causa mia o a causa del cambio di gestione, qualcosa non mi era piaciuto. Era come se fosse cambiato qualcosa anche nel dolce. Ci ho messo anni a tornarci. Eppure la zeppola, quella zeppola, è qualcosa che adoro.
Ecco, ho voglia di una zeppola. Quella zeppola.
Il locale continua a non piacermi, ma la zeppola sì, ormai l’ho ritrovata da qualche anno. Nonostante abbiano introdotto delle varianti, alcune anche piuttosto piacevoli, la mia preferita resta sempre la classica. Me ne mangio due e al diavolo la linea! Anche oggi, dimagriamo domani…
Mentre tengo in mano quella calda ciambella fritta ricoperta di zucchero, chiudo gli occhi per un attimo e sorrido.

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Capitolo 9 ***


1991
Abbiamo invaso il locale dello zeppolaro. Siamo partiti da casa con due macchine per ordinare un quantitativo innumerevole di dolci, la metà dei quali, probabilmente, non raggiungerà la destinazione (chi resiste al profumo delle zeppole calde sul sedile?).
Papà ha parcheggiato sul ciglio della strada, di fronte al negozio; mia sorella dall’altra parte della carreggiata. Vedo Marika scendere sorridente dalla sua macchina insieme alla mamma per raggiungermi ed inciampare per l’ennesima volta dall’inizio della vacanza. Ormai non ha più una sbucciatura sullo stinco della gamba, ma qualcosa che somiglia più a un vero e proprio buco. Per quanto è abituata, non piange neanche più e, mentre mio padre la prende in giro, il sangue cola sulla sua gamba. Ma non importa. C’è allegria ovunque, il suono delle risate invade il locale.
Ce ne andiamo una decina di minuti dopo con due vassoi pieni di ciambelle fumanti, il cui profumo invade l’automobile e mi fa venire una gran voglia di aprire la confezione e di cominciare a mangiarle subito, prima di raggiungere casa.
Per fortuna il tragitto è breve e non facciamo in tempo a parcheggiare che tutti assalgono i dolci appena acquistati come fossero un bottino di guerra da conquistare trionfanti. Tutti. Dai più piccoli ai più grandi. Eccetto il mio fratellino di elezione, che all’epoca aveva poco più di un mese, altrimenti avrebbe partecipato anche lui. E poco importa se la casa era arrangiata, se i letti erano sparsi ovunque, se la mobilia era di decenni prima, se incombeva una ristrutturazione su tutti i locali. C’era la gioia. Quella vera. C’era la gioia di stare tutti insieme.
E ancora non sapevo che quella era l’ultima volta che sarebbe stato così.

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** Capitolo 10 ***


OGGI
Mi vengono in mente le parole di un bellissimo film di Tornatore: “Fino a quando ci sei, ti senti al centro del mondo, ti sembra che non cambia mai niente. Poi parti. Un anno, due… E quando torni è cambiato tutto: si rompe il filo. Non trovi chi volevi trovare. Le tue cose non ci sono più. Bisogna andare via per molto tempo, per moltissimi anni, per trovare, al ritorno, la tua gente, la terra unni si nato. Ma ora no, non è possibile”.
Che sia ancora troppo presto?
Mi guardo intorno e il mio paese, quello dove sono nata, quello che amavo definire mio, nonostante ci tornassi solo in vacanza, non lo riconosco più. Come per il quartiere dove sono cresciuta, a stento riconosco qualche punto di riferimento, ma in verità mi sento un’estranea in mezzo ad una cittadina che non mi appartiene.
Proseguo fino a Vietri e mi affaccio dalla piazza del paese per osservare il mio mare, quello che amavo perché aveva subito una buona profondità che mi permetteva di nuotare davvero, al contrario di quello di Roma, che non sopportavo perché ero costretta a camminare per metri e metri lontano dalla riva, toccando sempre sul fondo.
La piazza, però, è una tappa che non mi è mai piaciuta, forse perché mi faceva perdere tempo in attesa del tanto sognato bagno. Per fortuna, non era una sosta fatta spesso; di solito, andavamo direttamente a Marina, dove mi dirigo direttamente anche io ora.
So già che le cose sono cambiate rispetto a quando ci andavamo un tempo, che le grandi quantità di stabilimenti balneari hanno lasciato il posto a immense cooperative dalla gestione unica, ma non mi aspettavo di non riconoscere nulla nemmeno qui.
È tutto così anonimo e sconosciuto che rinuncio persino ad accostare la macchina. Arrivo solo fino alla fine della strada, dove c’è ancora l’unico stabilimento sopravvissuto, quello dove andavamo quando ero piccola, il California. Era uno stabilimento particolare, in parte scavato nella roccia e l’unico con una piccola piscina. Ma ai miei non piaceva perché, trovandosi proprio sotto la montagna, nel primo pomeriggio la spiaggia era già in ombra. Per questo lo cambiammo presto con un altro dalle colorazioni bianche e rosse che mi pare si chiamasse “Vittoria” e che si trovava esattamente dal lato opposto, ma che oggi non c’è più, inglobato dal progresso. Passando lì davanti, ricordo con affetto il baffuto e simpatico gestore. Chissà dove sarà oggi, anche lui…
Mi fermo solo davanti l’Hotel La Lucertola e mi ritorna in mente la prima estate diversa.

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** Capitolo 11 ***


1992
Quest’anno comincia in maniera insolita: non c’è più la mia casa che mi aspetta e solo ora mi rendo conto di aver perso qualcosa. L’anno prima, quando i miei genitori misero l’annuncio per vendere la casa, quella che era un po’ la casa di tutti (in tutti i sensi, perché, essendo un’eredità, aveva mille proprietari), non avevo compreso che quelle mura che tanto amavo e che ci avevano sempre accolto tutti, stavano per essermi strappate via. Sì, avevo capito che si parlava di una vendita, tanto che mi ero anche preoccupata di precisare che il nuovo e tanto ambito letto a castello, comprato quell’anno per sopperire alla mancanza di posti, non era incluso nel pacchetto, ma non pensavo che sarei rimasta senza il mio guscio protettivo, senza il mio punto di riferimento, senza il mio posto magico. L’ho capito l’anno dopo, all’arrivo delle vacanze.
Sono nella macchina che hanno comprato a mio fratello e, per la prima volta, ci dirigiamo allo stesso mare, ma stiamo andando in albergo. Solo noi quattro: io, mio fratello, mamma e papà. Non c’è neanche mia sorella. Non ci sono gli amici. Va bene, staremo sicuramente bene. Ma vuoi mettere l’allegria di un posto tutto nostro alla compostezza di un ristorante di albergo?
Il posto è bello, il nome è originale, nella suite non manca niente, compresa una meravigliosa vista sul mare che, con il suono delle sue onde e il fresco della sua brezza, promette di farci dormire stupendamente. Ma a me manca un po’ il suono delle risate di tutta la famiglia riunita, che siamo costretti a vedere fuori, in giro. E comunque non siamo mai tutti insieme, non siamo mai in un posto tutto nostro. Il posto tutto nostro non c’è più.
Per sopperire all’assenza di quel divertimento, faccio amicizia con una bambina presente in hotel. È una bambina simpatica, ma, finita la vacanza, finisce anche la nostra amicizia.
L’albergo, inoltre, ha una spiaggia privata molto carina, ma per raggiungerla bisogna scendere oltre 160 scalini. Va bene scenderli, ma risalirli dopo essere stati al sole e aver nuotato è veramente un problema. Per la prima volta in vita mia comincio a non voler andare più al mare. Ci vado solo la mattina e il pomeriggio gironzolo per la struttura, trastullandomi un po’ nella nostra suite, davanti ai cartoni animati, per poi finire a giocare con il pianoforte posizionato nella hall, intonando a stento le note di Fra’ Martino Campanaro.
Non so se sono solo le scale che mi impediscono di andare di più al mare. Forse c’è qualcos’altro dentro di me. Qualcosa che sta cambiando.

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** Capitolo 12 ***


OGGI
Ricordo che quell’estate fu ancora divertente, ma fu la prima meno divertente delle altre. Sì, quell’anno si è rotto qualcosa dentro di me, qualcosa che non ho ancora identificato.
Lancio un’ultima occhiata all’Hotel La Lucertola, oggi completamente ristrutturato e totalmente diverso da come l’ho vissuto io, e torno verso il mio paese natale.
Ciao mare!” lo saluto dall’ultimo curvone, come facevo tutte le sere, quando ero piccola e rientravamo a casa dopo aver trascorso la giornata in spiaggia.
Percorro la Nazionale, poi il sottopassaggio che evita di passare davanti all’ospedale – ottima scelta logistica di cui non conoscevo nemmeno le intenzioni, tanto era il tempo che mancavo da questi posti – e mi ritrovo di nuovo vicino il vecchio parcheggio, dove fermo la macchina, continuando a fissare il castello che domina la montagna sovrastante.

Ritorna all'indice


Capitolo 13
*** Capitolo 13 ***


1997
Pizza a metro! Sì, è sempre esistita da queste parti, ma da un po’ di tempo, sembriamo averla scoperta anche noi e continuiamo a prenderla in un’ottima pizzeria sulla Nazionale, per poi finire a mangiarla in tutte le piazzette delle frazioni di Cava.
Oggi, però, siamo fuori dal castello. Vista eccezionale e venticello fresco. I bimbi giocano sereni. Sì, forse dovrei mettermici ancora anche io tra i bambini, in fondo non sono ancora così grande, eppure ho perso tutta la mia innocenza.
Guardo Armando, Rita, Annachiara e Leonardo che giocano, urlano e litigano, come tutti i bambini. Io faccio per lo più da arbitro e sono perennemente arrabbiata con tutti, soprattutto con gli adulti.
Quella bella atmosfera di un tempo non c’è più, anche se siamo sempre noi, anche se siamo sempre qui.
Non tutti, però. O meglio, non gli stessi.
Ora le liti regnano sovrane. I miei cugini non si parlano più e i grandi fanno a gara a chi ha più recriminazioni di un altro. Sinceramente non capisco da dove è nato tutto questo rancore e la cosa bella è che non lo capiscono neanche loro.
Io sono sempre più confusa. Adoro mia cugina e adoro di più suo marito, ma tutti sembrano avercela più con loro che con mio cugino, come se fossero stati loro a far scattare quel qualcosa che nessuno capisce cosa sia. Quindi penso che qualcosa mi sfugga, qualcosa di cui nessuno mi parla, perché con me lei è sempre gentile. Inutile dire che non capisco cosa mi sta succedendo intorno, né immagino cosa sarebbe diventato nel tempo. Quello che vedo è che ci frequentiamo a turni, cosa che sinceramente non sopporto. E insieme a noi ci sono sempre più spesso persone che non mi stanno particolarmente simpatiche o che, comunque, non ho mai amato particolarmente. E invece ne mancano tante altre, non soltanto mia cugina con il marito. Enzo, per esempio. Da quando si è separato e risposato con un’amica di mia sorella, non lo vediamo praticamente più. Perché? Ma dove sono finite quelle belle serate a giocare, rincorrerci e mangiare zeppole? Tutti insieme e tutti sorridenti…
Oggi mi guardo intorno e vedo, da una parte, i piccoli sormontati da una quantità innumerevole di giocattoli che giocano e litigano come solo i bambini sanno fare e, dall’altra, i grandi che non sembrano saper più ridere e passano il loro tempo mangiando e giocando a carte. Anche prima giocavano a carte, ma era tutto più coinvolgente. Adesso sembra che lo facciano per far scorrere il tempo e a me la cosa comincia a non piacere più.
Io sono in mezzo.
Sono in mezzo come età, sono in mezzo fisicamente, sono in mezzo con tutto.
Non sono così piccola da giocare con i bambini, ma non mi sento più neanche ascoltata dai più grandi che ormai hanno pensieri tutti loro e non riescono più neanche a comprarmi il pezzo di pizza che mi piace e che, puntualmente, mi devo sbrigare a rubare dal vassoio prima che lo afferri qualcun altro, cercando di mantenere tutto in equilibrio (bicchiere di coca cola, trancio di pizza, me stessa a bordo strada, vassoio sul cofano della macchina), mentre tutti parlano a voce così alta che mi sembra quasi di non essere insieme a loro.
Non mi sento più a mio agio, questi posti cominciano ad essere sempre meno miei. Neanche il mio mare, che so essere presente nell’oscurità dietro gli alberi, mi è di consolazione. Anzi, comincia a non piacermi più. Ma non il mare in sé. Comincia a non piacermi più quello che rappresenta andare al mare: dover alzarsi presto, dover seguire i ritmi degli altri che però non si curano dei miei, dover far qualcosa perché tutti fanno così.
Più mi guardo intorno e più mi sento fuori luogo. In ogni momento.
Le mie gioie più grandi sono solo Armando, il mio fratellino di elezione, e Leonardo, mio nipote, il mio pseudo figlioletto. Anche se io ho solo 15 anni e loro ne hanno rispettivamente 6 e 1, per me sono ciò che più conta nella vita.

Ritorna all'indice


Capitolo 14
*** Capitolo 14 ***


OGGI
Certo che felice come lo sono stata in questa casa non lo sono stata mai più”, penso riabbassando lo sguardo sulla vecchia casa di mio padre oggi tutta rimodernata. “In questi pochi metri quadri, c’è veramente tutta la parte più contenta di me”, continuo a ragionare sognante, fissando senza vedere il parcheggio pieno di auto e immaginandomelo adibito a luna park, una volta l’anno, per la festa cittadina.
Quanto mi consideravo fortunata ad avere praticamente le giostre in casa!
È talmente tanto tempo che non sento più parlare di quella festa che ormai credo se la siano dimenticata anche i cittadini del posto.
Noi, invece, avevamo luci, suoni e colori direttamente nel giardino: la casa degli orrori, le macchine a scontro, il tagatà!
Sono un’assidua frequentatrice dei parchi meccanici, che vado cercando città per città, nazione per nazione (e chissà che la passione non nasca anche da questa fortuna), ma i giochi di questi luna park, nella loro semplicità, avevano qualcosa di magico, oggi quasi del tutto scomparso e molto raro da trovare ancora.
E infatti lo spiazzo è grigio e intasato di autovetture parcheggiate. Credo che sarebbe anche difficile trovare una nuova ubicazione, anche solo temporanea, a tutte queste vetture.
Un altro pezzo di storia che se ne è andato, come tutto il resto…
E non è la sola cosa a non esserci più.
Chi conosce l’urbex? No, sono fifona, non lo pratico, ma gli edifici abbandonati mi hanno sempre affascinato e credo che il motivo sia da ricercare nell’abbandono di due edifici in particolare: il collegio dove ha studiato mia madre da bambina e che non ho mai visto funzionante, ma che ho sempre ammirato chiuso e pericolante da fuori, e l’Hotel Due Torri, l’altro pezzo di storia al quale mi riferivo.

Ritorna all'indice


Capitolo 15
*** Capitolo 15 ***


1990
Marika doveva venire in vacanza con me ed io ero strafelice! Ma – maledetta pertosse – lei e la mamma decidono di venire lo stesso in zona, ma di fermarsi in un rinomato hotel del luogo.
Mi dispiace di non poter stare con la mia amica e, in più, sono quasi invidiosa. Quell’hotel è fantastico in ogni senso. Da sempre, chiedo saltuariamente a mio padre di portarmi di sera in cima alla collina e mi fermo nel parcheggio solo per ammirare la piscina illuminata. Sapere che lei può passare qualche giorno di vacanza tra le mura di quella struttura mi fa venire una gran voglia di mettermi a fare i capricci, insistendo perché facciano restare anche me. Ma non si può, lo so.
La vedo solo una volta e solo a distanza a causa della malattia e, nel frattempo, non posso fare a meno di continuare a rimirare la bellezza che mi circonda.
Sento che questo posto mi trasmette qualcosa di magico e non perché.

Ritorna all'indice


Capitolo 16
*** Capitolo 16 ***


OGGI
Con la chiusura di quella stagione estiva, quell’hotel ha chiuso per sempre anche le sue porte.
Veramente buffo il destino. Quella struttura così piena di vita è finita per essere divorata da stupide liti familiari, rimanendo per tre decenni abbandonata a se stessa, preda di vandali e saccheggiatori.
Ho continuato per anni a farmi accompagnare lassù, ogni tanto, ad osservare il lento declino dello sfarzo di quella piscina che tanto amavo, svuotata della sua acqua limpida e riempita di quella torbida piovuta dal cielo, dalla quale emergevano i resti di persiane divelte da devastatori senza rispetto che lentamente hanno depredato sia il corpo principale della struttura che gli spogliatoi sottostanti.
Non ho mai capito cosa mi spingesse a farmi portare fin lassù, ma mi sono sempre sentita legata a quel posto, anche se provavo una grande tristezza a vederlo cadere a pezzi ogni giorno di più.
Oggi non ne resta proprio più niente, se non qualche immagine su internet. L’intera struttura è stata totalmente abbattuta per fare spazio ad un centro di riabilitazione per disabili.
È il futuro che va avanti ed è giusto così. Ma è un altro pezzo di storia che se ne è andato.
E anche qui non c’è più posto per me, così prendo la macchina e mi dirigo all’ennesima frazione: Sant’Arcangelo.

Ritorna all'indice


Capitolo 17
*** Capitolo 17 ***


2003
Non eravamo soliti venire quassù, seppure la mia famiglia possedeva un piccolo appartamento anche qui, lesionato dal terremoto del 1980.
È un appartamento veramente piccolo e vecchio, addirittura senza bagno, all’interno di una proprietà arrivata in eredità a mio nonno dalla sua famiglia adottiva. E infatti gli altri appartamenti appartengono ai suoi pseudo cugini, cioè a quelli che lui ha sempre considerato tali, anche se la famiglia di origine, che l’ha cresciuto, non l’ha mai realmente adottato. Ma evidentemente nel 1903 era possibile prendere in affidamento un bambino senza che risultasse da nessuna parte… Mio nonno, comunque, è sempre stato molto legato alla sua famiglia adottiva, discretamente benestante tra l’altro, e, a seguito di lasciti testamentari, è venuto in possesso di molti dei suoi beni, poi venduti da mia nonna per necessità subito dopo la sua morte.
Uno di questi beni è questo piccolo appartamento, affittato per diversi anni e ora finalmente pronto per essere ristrutturato, insieme a tutta la palazzina di proprietà dei cugini di mio nonno, a seguito degli aiuti statali erogati, seppur con immenso ritardo, al fine di salvare tutte quelle costruzioni che dovevano essere messe in sicurezza dopo il sisma.
E finalmente, quest’anno, abbiamo di nuovo un angolo tutto per noi. D’accordo, non è grande come la vecchia casa, ma è un posto nostro. Anzi, un posto mio. Perché ora ho la patente e la macchina e posso venire qui ogni volta che voglio, senza dipendere più da nessuno. Non è che una cucina, una camera da letto e un bagnetto di un metro quadro ricavato dalla ristrutturazione, ma a me non manca niente. E mi sento di nuovo a casa.
A primavera, per la prima volta, sono riuscita a convincere anche Alessandro e Stefano a trascorrere qualche giorno qui, a far vedere loro il posto dove sono nata e quello dove sono cresciuta. Ci siamo fatti tante di quelle risate da essere difficile anche descriverle… Non mi sentivo così bene da tanto tempo.
A settembre ho vissuto qui il grande blackout italiano. È stata un’esperienza surreale, ma che mi ha permesso anche di riflettere molto su quanto è importante per noi, oggi, l’elettricità.
Adesso è quasi Natale e, per la prima volta da tanto tempo, mi è venuta voglia di giocare con la mia famiglia. Sono partita da Roma con la macchina stracarica di pacchi – alcuni pieni, altri no – tanto che, pur viaggiando da sola, ho dovuto addirittura abbassare i sedili posteriori per sfruttare tutto lo spazio disponibile in auto.
Guardo fuori dalla finestra: nevica. È strano veder nevicare da queste parti e, di certo, questi fiocchi fievoli fievoli non attaccheranno per terra, ma il solo vederli scendere lentamente dal cielo mi trasmette un senso di gioia immenso.
Continuo a dividere i pacchi che ho portato da casa: ce ne sono di piccoli e di grandi, destinati a un nipote, destinati al cugino, vuoti, pieni. Ma soprattutto compilo bigliettini per una caccia al tesoro. Sì, perché ho deciso di coinvolgere mio nipote e mio cugino in una caccia al tesoro in giro per la casa di mia zia, che ci ospiterà tutti per Natale.
L’atmosfera è magica e le luci della piazza, che brillano nell’umidità di questi fiocchi delicati e quasi impalpabili, mi scaldano il cuore.
Impiego un pomeriggio sano per organizzare il tutto, ma mi sento pienamente soddisfatta. So perfettamente che i regali destinati a mio nipote e a mio cugino sono quelli che loro desiderano di più, ma so anche che loro non si aspettano minimamente di riceverli. E sono sicura che riuscirò ad imbrogliarli ben bene.
Divido il regalo di mio nipote – un pc – in tante scatole: una con i cd contenenti i driver, una con le casse, una con il mouse e la tastiera, una con il case e una con il monitor.
Non contenta, preparo un finto regalo per mio cugino – un profumo preso addirittura dal bagno di casa sua – e nascondo quello vero – un cellulare nuovo – all’interno del pacco di mio nipote.
Due cacce al tesoro, due percorsi diversi destinati inevitabilmente ad incontrarsi; nel mezzo, tanti bigliettini nascosti in giro per casa e anche qualche pacco vuoto. Così, tanto per non farsi mancare niente.
Sistemo tutto a casa di mia zia e finalmente arriva il momento di iniziare i giochi. Inizio da mio cugino: biglietto, indovinello, corri a destra, corri a sinistra. Piano piano, risolve tutto, fino a trovare il pacchetto finale, il profumo che ho preso a casa sua. È deluso, si vede chiaramente, tanto che esclama “questo ce l’ho già!”. Già, broccolo – vorrei esclamare – viene dal tuo bagno! Ma se voglio che la sorpresa riesca, devo contenermi. E ci riesco, ci riesco bene, anche se mio cognato brontola che la mia calligrafia non è buona e una parola che si scrive attaccata sembra che io l’abbia scritta staccata… Ecco, guastafeste! Ma non importa, non mi farò rovinare questo momento.
Continuo la caccia al tesoro con mio nipote, che, nonostante sia abituato ad armeggiare con il mio computer e nonostante non stia trovando solo bigliettini, ma scatole contenenti i singoli pezzi, proprio non riesce a comprendere quale sia il regalo finale. Fino all’ultimo scatolone contenente il monitor, che corre ad aprire spalancando gli occhi tutto contento. Ma a quel punto la sorpresa è doppia, perché in quella scatola c’è nascosto un altro pacchetto con il nome di mio cugino sopra. Lui ha capito. Si vede lontano un miglio che ha capito. Emotivo com’è, ha l’aria di uno che sta per svenire. Ormai aveva perso le speranze e, invece, il regalo che tanto aveva sognato è finalmente nelle sue mani. Gli zii non l’hanno deluso. E io mi sono divertita un mondo a organizzare questo circo che per un po’ ha tenuto tutti lontano dalle carte da gioco che non sopporto più da anni. Un tempo sì, un tempo mi piacevano, ma poi qualcosa si è rotto anche lì e quei giochi intorno a un tavolo hanno iniziato a farmi sentire più sola di quello che sono.

Ritorna all'indice


Capitolo 18
*** Capitolo 18 ***


1991
La battuta è “Ti sei fatta togliere il culo ma il culo ce l’hai ancora tutto”. Sì, decisamente infelice, ma anche molto incisiva.
Sono giorni che mia sorella sta semi distesa su una sdraio a causa dei fastidi dovuti ad una liposuzione, ma non rinuncia a partecipare alle sessioni di partite a carte che, a casa nostra, in alcuni casi, sono riuscite a durare anche più di ventiquattro ore di fila. E, pur non stando correttamente seduta al tavolo, pur dovendosi far passare continuamente le carte dagli altri partecipanti, pur dolorante… vince. Cavoli se vince! Ecco l’origine della battuta che passerà alla storia.
Ma mia sorella non è la sola a vincere: con un po’ di alti e bassi, siamo un po’ tutti fortunati. Mia madre più aiutata dalla dea bendata, mio padre più per deduzione scientifica, io per la fortuna dei principianti… in ogni caso, ce la caviamo tutti.
A casa mia, le carte sono un rito.
Il sabato e la domenica, quando non si sta fuori, si sta al tavolo verde, neanche abitassimo in una bisca. Sono più i pranzi e le cene che Elsa, la nostra nonna putativa, e la sua vicina di casa Adele, presenti tutti i weekend, offrono perché hanno perso la partita a briscola e scopone che quelli che riescono a consumare. Poi subentra la stoppa, che si può fare anche in cinque. O i solitari, per non perdere la mano. Nel periodo di Natale, poi, non ne parliamo: Sette e Mezzo, Ventuno, Cucù, la mitica Grande Cavalcata… Non ce ne manca uno. E non ne manca uno. Le nostre tavolate sono infinite. A volte dobbiamo perfino unire più mazzi di carte, tanti sono i partecipanti alle partite; amici, parenti, non manca mai nessuno.
Quest’anno ci sono persone nuove portate da mia sorella: Luigi e Mauro. Io e la mia amica Marika li abbiamo soprannominati zio Luigi, il divertente dei due, e nonno Mauro, quello che aveva l’aria da rompiscatole, un vecchio già da giovane, insomma… Chi l’avrebbe detto che due anni dopo mia sorella e Mauro si sarebbero sposati!
E ovviamente si gioca, come tutti gli anni. “E dicasi… picche!” scherziamo, tentando di indovinare il seme della carta che sarà estratta, mentre giochiamo a La Grande Cavalcata.
Sono piccola in mezzo a questo gruppo di adulti, eppure non mi sono mai sentita esclusa. Gioco e mi diverto. Vinco e perdo. A volte imbroglio un po’, nel senso che abbandono il tavolo quando sono in vincita, ma sono bambina e mi si perdona questa lieve scorrettezza. Rido. Rido tanto mentre gioco con quelle persone che non sono mie coetanee, non fanno parte del mio gruppo di bambina, ma sono quelle stesse persone che, con pochissime eccezioni - Alessandro, Marika e la mia compagnia di classe Ester - mi fanno sentire a mio agio. Quelle stesse persone che, pur essendo rimaste per buona parte vicino a me, ho, in qualche modo, perduto.

Ritorna all'indice


Capitolo 19
*** Capitolo 19 ***


OGGI
Non ricordo quando è successo esattamente, ma c’è stato un Natale in cui ho smesso di giocare a carte.
Fu un Natale iniziato come un altro: una cena a casa di mia zia, gli spaghetti alle vongole, il panettone, il pandoro, il tavolo verde, il piattino di plastica con dentro gli spiccioli e poi…
All’improvviso hanno deciso di cambiare le regole. Ricordo solo questo. Dovevamo giocare ad uno dei soliti giochi e gli altri hanno deciso di cambiare le regole.
Da quell’anno ho smesso di giocare del tutto. Da quell’anno ho cominciato ad utilizzare le carte solo per partecipare ai tornei di tressette e traversone organizzati durante il triennio delle superiori, nelle ore di matematica. Ma lì si trattava di un malriuscito tentativo di farsi accettare dal gruppo.
Di riflesso a quel cambiamento, che non ho sopportato, non sono riuscita più a prendere le carte in mano e divertirmi con quel gioco di gruppo, in nessuna occasione.
Casa mia non è più la bisca di un tempo, ma, soprattutto a Natale, capita ancora che qualche partita venga giocata, soprattutto quando si sta tutti insieme. Io no. Io non ci riesco. È più forte di me. È come se quel gruppo di un tempo non esistesse più, se si fosse spezzato il giorno che hanno deciso di cambiare quelle regole che io ho deciso di non rispettare. Forse sono io che sono poco incline al cambiamento. Forse non era il momento giusto e gli altri non mi hanno capito. Non lo so. So solo che oggi è tutto diverso ed è diversamente che cerco di ritrovare quell’atmosfera di gioia che sento mancare intorno a me, soprattutto in quelle occasioni di festa.
* * *
Sono seduta sulla panchina della piazza di Sant’Arcangelo già da un po’; si è fatto tardi e capisco che forse è il caso di trovare un posto dove passare la notte. Cellulare alla mano, apro Booking.com e… offerta last minute, solo da mobile… ma sì, per una volta voglio fare la turista nella mia terra e prenoto una notte in un cinque stelle che ho sempre visto solo dal basso, senza avvicinarmi mai. Ma oggi voglio cambiare, oggi voglio fare una cosa che ho imparato a fare da un po’ di tempo a questa parte, in giro per la nostra penisola: provo a scorgere qualche altro piccolo angolo che è stato set di qualche fiction. Lo faccio da quando ho conosciuto Lilly, da quando ho smesso di avere paura di godere dei miei hobby.
Quindi, prossima destinazione: Raito, hotel di lusso, vista mozzafiato e set di una divertentissima fiction.
E al diavolo tutti quelli che mi criticano! Fintanto che i miei hobby e la mia libertà non intaccano la libertà degli altri, questi altri non si devono permettere di proferir parola.
Lilly è stato un bell’incontro per me. Tanti la considerano un po’ strana e magari lo sarà pure. Ma, in fondo, non sono sempre stata strana anche io? Per me, invece, è importante. E non solo perché, grazie a lei, ho avuto modo di vedere da vicino molti attori, ma anche perché, vicino a lei, sono riuscita a sentirmi libera di esprimere quello che sentivo.
Scatto una fotografia all’ingresso dell’hotel e la invio via internet alla mia amica, insieme ad un fotogramma del telefilm. “Guarda Lilly, il fiction tour non si ferma mai!”, commento scherzando e, per la prima volta dopo tanto tempo, mi sento di nuovo leggera.

Ritorna all'indice


Capitolo 20
*** Capitolo 20 ***


2015
Tutti continuano a chiedermi quale fosse la mia destinazione. In effetti, è difficile spiegare lo scopo di quel raduno che assomiglia più ad un assembramento di folli che ad una riunione di fan. Ma ci voglio andare. L’anno scorso non ho trovato posto, quest’anno ho scritto a questa ragazza che mi hanno nominato tramite Facebook quando ancora doveva iniziare a pensare al raduno nuovo, quindi il posto deve trovarmelo.
Siamo tantissimi. Dalla piantina capisco che il mio posto è in fondo al teatro, ma alla fine è meglio così. Non conosco nessuno, mi nasconderò meglio. Voglio partecipare, ma ho paura e mi vergogno. Non sono abituata a vedermi circondata da tutta questa gente.
Decido di farmi forza e accetto anche l’invito a partecipare alla cena della sera precedente il raduno. Ci sono millemila persone che non conosco e finisco con il mangiare accanto ad una giovane coppia con due figli dell’età dei miei nipoti: la più grande è una fan del nuovo protagonista ragazzino di Un Medico in Famiglia ed ha convinto i genitori ad accompagnarla a Roma addirittura dalla Sicilia. Sono simpatici e finiamo con lo scambiarci i numeri di telefono.
La cosa sembra funzionare, anche se sono ancora a disagio. Mi ci vuole tempo per superare le mie paure.
Ovviamente conosco Lilly, l’organizzatrice di tutto, e sento di ammirare quel suo coraggio nel buttarsi a capofitto in quello in cui crede, mentre io mi relego da sola in un angolo e non sono capace neanche di presentarmi decentemente davanti a qualche persona. Però è socievole e almeno lei sembra voler essere cordiale con tutti.
Il giorno dopo sono emozionata. Ho voglia di lanciarmi in questa avventura, di fare fotografie, di provare a smuovermi di più, anche se so che sarà durissima. Scappo dal lavoro e arrivo fuori dal teatro con largo anticipo, anche se ho il posto prenotato e non devo fare una corsa alla poltrona.
Mi accomodo, scambio qualche parola con una ragazza che avevo conosciuto online, aspetto l’arrivo degli attori. Passo un buon pomeriggio ascoltando gli attori raccontarsi sul palcoscenico, come fossero seduti sul divano di casa. Sembrano a loro agio. Loro, io no. Neanche laggiù dove sono seduta. Però scatto tante foto, quelle sì. Aspetto con ansia l’arrivo di un attore in particolare che invece non si presenta e ci rimango un po’ male, ma cerco di godermi la presenza di quelli che, invece, ci sono, che sono tanti.
Quando arriva il momento delle foto con i fan, vedo tutte le persone presenti accalcarsi intorno a loro. Mi metto letteralmente paura. Vorrei avvicinarmi anch’io. So che quegli attori, che in quel momento non sono pagati ma hanno semplicemente accettato un invito di una ragazza qualunque che, seppure in pompa magna, ha organizzato un pomeriggio in compagnia, sono lì per noi, ma vedere tutta quella folla che li accerchia, mi fa mancare il respiro per loro. E non riesco ad avvicinarmi. A malapena racimolo un paio di autografi, nessuna fotografia di me insieme a loro. Ho avuto così tanta paura che quando tutta la folla se ne è andata e siamo rimasti solo io, Lilly, un’altra ragazza e un’attrice che aspettava il fidanzato fuori dal teatro, tutti chiacchieravano amabilmente, mentre io continuavo a fissare le punte delle mie scarpe.
Occasione persa, peccato. Anche se quella giornata me la porterò per sempre nel cuore.
Le foto che ho scattato, però, sono venute bene. Sono andate a ruba anche su Facebook, tanto che le ho trovate su molti altri profili, senza che ne venisse indicata la provenienza, cosa che, da un lato, mi ha fatto piacere, ma dall’altro no. Sinceramente, non pensavo di essere già al punto di dover firmare le mie immagini per non farmele rubare… L’importante, comunque, è che se ne sia accorta Lilly, che continua a scrivermi e che mi sta facendo sentire sempre più a mio agio. Forse, piano piano, riuscirò a sciogliermi…
Intanto, sono stata promossa fotografa amatoriale ufficiale - mi si perdoni l’ossimoro - del prossimo raduno. Al prossimo evento, postazione ufficiale!
Obiettivo personale: meno disagio. Ce la farò!

Ritorna all'indice


Capitolo 21
*** Capitolo 21 ***


OGGI
Fermi tutti! Fate la foto alla fotografa!” Chi l’avrebbe detto che solo un paio dopo avrei bloccato cinquanta persone per fare un selfie con un’attrice che mi piaceva e che stava scappando via nel bel mezzo del raduno perché aveva un impegno.
La paura? Stranamente svanita. E in questo Lilly mi aveva aiutato.
È a questo che penso mentre vedo che la gente intorno a me mi sta guardando strano. Ma a me non importa. Continuo a divertirmi a scattare alcune fotografie all’esterno del lussuoso hotel, riconoscendo alcune delle location della fiction che avevo in mente nel momento in cui ho prenotato.
Subito dopo entro, faccio il check in e salgo in camera a riposarmi un po’, rimirando il panorama dall’alto. Il mio mare visto da quassù è bellissimo, così ne approfitto per rubare anche qualche scatto paesaggistico che non guasta mai.
Foto e video sono un’altra mia passione. Ricordo il primo tentativo di video editing insieme a Stefano. Quanto ci siamo divertiti! E che risultato!

Ritorna all'indice


Capitolo 22
*** Capitolo 22 ***


2003
All’alba dei 25 anni di fidanzamento, i miei genitori sono riusciti a sposarsi. Ci hanno messo un po’, ma alla fine è arrivata anche questa cerimonia. La chiesa sconsacrata dove il Comune celebra i matrimoni civili è piccola ma molto graziosa. Io e mia sorella, testimoni di nozze, siamo in prima fila, mio fratello accompagna mia madre all’altare, mia nipote Francesca porta le fedi. Bella atmosfera, se non ci fosse mia cugina venuta a guastare l’atmosfera. Personalmente, ho praticamente interrotto i miei rapporti con lei e con il marito da quasi due anni. Con grande dolore. E ritrovare qui lei e tutta la famigliola al seguito non mi fa per niente piacere, ma ha raccolto un invito inviato per senso del dovere e nessuno mi toglie dalla testa che lo abbia fatto per provocare fastidio. Motivo per il quale mi impongo di ignorarli, sperando soltanto che decidano di non fermarsi a casa mia per la notte, dal momento che il mio progetto è di passare la serata con Stefano e partire il giorno dopo insieme a lui per andare da Alessandro.
Ormai con Stefano mi vedo sempre più spesso. Abbiamo iniziato con degli incontri saltuari, poi con delle cene settimanali e ora cominciamo a vederci anche molti pomeriggi. Oggi è qua in veste ufficiale di cameraman e di mio supporto morale. Supporto morale perché non sopporto le cerimonie, neanche se a sposarsi sono mamma e papà. Vedere tutta quella gente intorno, perdere tanto tempo in un ristorante senza fare praticamente nulla, non sapere bene con chi parlare e di cosa… Se volete farmi un regalo, non mi invitate a matrimoni.
Scherzi a parte, l’unico modo che ho imparato per trascorrere il tempo durante le cerimonie è giocare con la videocamera, che a casa mia è sempre stata presente, sin da quando si chiamava cinepresa e registrava su pellicole di cellulosa, ma tenendo praticamente tutto per me, perché il fotografo ufficiale delle nostre cerimonie è sempre stato mio cognato.
Al matrimonio di mamma e papà non si sfugge, tanto più che sono una dei testimoni. Per questo chiedo a Stefano di accompagnarmi: per stare in compagnia. Dal momento che durante il rito civile sarei stata impegnata, gli affido anche la mia videocamera. E Stefano si mette a riprendere tutto. E con tutto, intendo proprio tutto. A fine giornata non ci basta, come al solito, una cassetta sola di girato, ce ne vogliono due. Ma ci divertiamo insieme e, quando torniamo a casa, presi dalla curiosità e dalla voglia di testare il nuovo computer che mi sono comprata, iniziamo un piccolo montaggio livello base con il programma preinstallato sul pc.
Lavoriamo fino alle cinque del mattino. Siamo stanchi, stravolti, ma infinitamente soddisfatti. Stefano ha le idee molto chiare soprattutto sulla musica, che sceglie con molta cura. Implementiamo tutto con scritte, titoli di testa e di coda, transizioni e fotografie integrate nel filmato. La sequenza che ne esce è molto interessante. Non avevo mai provato un montaggio di quel genere. Non sarà professionale, ma è molto più avanzato rispetto al semplice filmato proiettato così come è stato registrato.
Nei giorni successivi, quel video viene visto e rivisto da tutti. Tutti mi chiedono di mostrarlo ed io ne vado fiera. Noto anche che, quando mio cognato dice di voler far vedere il suo, tutti rispondono di no, facendolo rimanere male. Quel video ha segnato l’inizio del mio percorso verso il video editing. Casalingo, d’accordo. Ma da qualche parte si deve pur iniziare.

Ritorna all'indice


Capitolo 23
*** Capitolo 23 ***


OGGI
Il photo video editing è diventato uno dei miei hobby preferiti. Ho seguito corsi su corsi, in presenza e online. E non sarò diventata un’ottima videomaker, ma l’argomento mi interessa. E molto. Non soltanto perché così posso passare il tempo quando mi trovo in situazioni in cui mi sento a disagio o nelle quali mi annoio, non soltanto perché, telecamera e fotocamera alla mano, ho modo di continuare a nascondermi per bene, sottraendomi alla vista dei presenti, occultando il mio stesso viso dietro quegli apparecchi e giustificando la mia assenza da tutte le riprese, dove non voglio comparire, perché sono io quella intenta a farle, ma anche perché, in alcune occasioni, invece, proprio quelle riprese, adeguatamente montate e accompagnate dalla giusta musica, possono diventare un perfetto mezzo di comunicazione. Ma solo per chi sa o riesce ad ascoltare davvero. Un grido silenzioso, insomma.
* * *
Nessuno mi ascoltava se parlavo / quindi ho iniziato a stare zitto / quello che pensavo lo mettevo scritto / ho ancora pieni i diari / di risentimenti e sentimenti vari”. Solo il mio “empty book” sa veramente quello che mi è passato per la testa perché, a un certo punto, ho perso la voce. Anche se, inconsciamente, cercavo di attirare l’attenzione con tutta me stessa. Semplicemente scomparendo. Con Alessandro l’ho fatto centinaia di volte apertamente. Dopo il suo trasloco, uscivo con lui e con i suoi amici, restavo con loro qualche decina di minuti e poi iniziavo a camminare, fermandomi a leggere in alcuni angoli del paese che mi erano particolarmente congeniali e aspettando che lui mi venisse a cercare. Cosa che, secondo me, faceva sempre troppo tardi. Ma ormai non ha più senso rivangare.
* * *
Brutta era e brutta è rimasta. Nocera non è migliorata di una virgola. Grigia, sovrappopolata, dall’architettura popolare e che non lascia spazio all’immaginazione.
Ho lasciato l’hotel e per qualche strana ragione mi sono ritrovata seduta su una panchina fuori dalla chiesa che si trova vicino alla casa di mia zia. Come è successo allora, nascondo la faccia dentro le pagine di un libro e ripenso a quella giornata di tanti anni fa.

Ritorna all'indice


Capitolo 24
*** Capitolo 24 ***


2001
Ho litigato con Alessandro. Forse l’ho fatto nel modo sbagliato, ma la mia rabbia è esplosa come quando eravamo bambini e mi sentivo forte. Solo che oggi non mi sento forte per niente. Ma non importa. Quando ho capito che, nonostante tutte le mie buone intenzioni, l’unica cosa che interessava ad Alessandro era che io e Stefano finanziassimo la festa di Halloween che avevamo deciso di organizzare, ho deciso di punirlo negandogli il mio supporto economico e mandando tutto a monte. E togliendogli la parola. Non prima di avergli scritto una lunga lettera, però. Quando ho letto la sua risposta mi sono sentita più incompresa che mai; Alessandro mi aveva sempre capita, ma adesso sembrava essere un’altra persona. O forse volevo solo fare come quando eravamo piccoli: togliergli la parola per obbligarlo a tornare da me, solo e sconsolato. Ma lui non era più né solo né sconsolato. Quella che si sentiva colpita da una pugnalata ero io. Così parto per cercare conforto trascorrendo un paio di giorni con mia cugina Angeletta e con suo marito Franco, che io adoro. Ma succede qualcosa: quando arrivo a casa loro, non vengo messa alla porta, ma vengo trattata con una gelida cortesia mai avvertita prima, come se il fatto di farmi accomodare sul divano e offrirmi un bicchiere di aranciata fosse un obbligo dal quale non si potevano sottrarre, ma che avrebbero di gran lunga voluto evitare. Invece di risollevarmi il morale, torno a casa mia più triste di prima. Chiedo spiegazioni a casa, chiedo se fosse successo qualcos’altro di cui non ero a conoscenza, ma no. Allora do la colpa a me stessa, a quello che è successo con Alessandro e al fatto che mi sto preparando a perdere Elsa, la nostra nonna putativa, per un male incurabile che se la sta portando via. Ma tutto si ripete la volta successiva. E allora no, qualcosa è successo, qualcosa deve essere successo. Chiedo spiegazioni ai diretti interessati ed ottengo il nulla come risposta. Al diavolo! Una delle poche volte che affronto le mie paure e parlo apertamente, pronta anche a chiedere scusa se dovessi aver sbagliato io qualche cosa – perché, soprattutto considerato il periodo, so di poter aver sbagliato io qualcosa nel mio comportamento – e niente, non ottengo risposte. Sono amareggiata ed entro a far parte di quella parte della famiglia che tende ad isolare mia cugina e suo marito, ma il fatto di non aver capito quale molla sia scattata all’improvviso, quel triste pomeriggio autunnale, mi lascia una sensazione di vuoto.

Ritorna all'indice


Capitolo 25
*** Capitolo 25 ***


2008
Non mi do pace. Sono passati anni, eppure non mi do pace. Ancora non capisco cosa diavolo sia successo per far cambiare così l’atteggiamento di Franco e Angeletta. Almeno con me. Non che gli altri familiari abbiano realmente capito cosa sia successo con loro, ma io non avevo discusso né con mia cugina né con il marito, non credo di avergli fatto nulla e proprio non concepisco il voltafaccia che hanno avuto con me.
È febbraio, fa freddo e sono sempre più scontenta della mia vita che va avanti per inerzia.
Pochi giorni fa abbiamo seppellito Mario, il papà di Alessandro. Per una pura casualità, l’ho visto tre giorni prima che morisse: mi ha colpito il modo in cui, pur senza forze, ha tentato di sollevarsi dal letto quando sono entrata in camera sua. “Oh!” ha esclamato, come a dire che, nonostante tutto, nonostante i miei alti e bassi con Alessandro, che sono andati avanti nel tempo, e nonostante la mia lontananza da quella casa ormai da un periodo immemore, persino io ero andata a trovarlo. A differenza anche di qualche figlio. Ma, in fondo, credo di essere sempre stata un po’ figlia anche io. O almeno così mi hanno sempre fatto sentire. Il giorno del funerale prendo un permesso sul lavoro e torno al paese perché voglio esserci. Ma non vado a casa, no. Non saprei neanche cosa dire al mio buon vecchio ex migliore amico. Stiamo vivendo un periodo di “basso”, non ci vediamo e non ci parliamo da mesi, cosa gli vado a dire? E così sono in chiesa, nascosta nel mio angolino, appena dietro l’ingresso. Lo sento arrivare, parla di me, forse mi ha visto prima, quando ero in macchina. Però dice una frase che non mi piace. Ma ormai il nostro rapporto va avanti così, a frecciatine. Lo ignoro, ascolto la funzione e decido che non ritornerò più in quel paese che mi ha reso tanto felice e tanto triste allo stesso tempo.
La morte di Mario mi fa riflettere. Ho voglia di mettere ordine nella mia vita e decido di cominciare da una situazione che mi fa sentire costantemente inquieta: voglio chiarirmi o litigare definitivamente con Angela e Franco, ma non intendo più restare in questo limbo.
Parto decisa ad affrontare la battaglia, prima di tutto con me stessa e con la paura di affrontare il mondo, poi anche con loro.
La mattina di sabato salgo a casa di mia cugina, che non c’è. Vengo accolta amichevolmente da una sorella di Franco, suo marito. Come se fosse normale che la cugina con cui non ti parli da anni all’improvviso si presenta a casa. La cognata le telefona sul cellulare, ma lei non risponde; allora, decido di aspettarla davanti casa, seduta al sole di una bella giornata invernale, libro alla mano. Aspetto per ore, ma lei non torna. Non so se, alla fine, abbia richiamato la cognata e, per questo, abbia ritardato il suo rientro. Quello di cui sono certa è che la cognata le abbia detto che io l’avevo cercata. Aspetto una sua chiamata per due giorni, fino al momento di tornare a Roma, ma nemmeno la curiosità di sapere cosa mi abbia spinto a ricomparire davanti a lei dopo anni di assenza la spinge a cercarmi. Capisco che anche quello è un ponte ormai rotto, un ponte che non vale la pena di tentare di riparare.

Ritorna all'indice


Capitolo 26
*** Capitolo 26 ***


OGGI
Quante ore ho passato su quella panchina quel giorno! La stessa panchina dove sono seduta ora. Però, quella giornata di mancate parole mi è servita lo stesso per capire che forse aveva ragione chi considerava lei e il marito due mezzi matti, anche perché mi sembra che i problemi che avevano con noi, con tutti noi, fossero solo loro… A ripensarci, con il senno di poi, quel folle di Franco sembra ridicolo mentre si faceva bello davanti ai miei occhi di adolescente che lo idolatrava, dicendo apertamente di essere migliore degli altri, perché lasciava i nipoti fuori dalle liti, quando poi è stato il primo a mettere in mezzo me e poi i suoi stessi nipoti, che diceva di voler proteggere. Ma va bene, evidentemente era un ramo secco che andava tagliato per continuare ad andare avanti.
Raccolgo tutte le mie cose e torno da dove sono partita.
Cara Maria, guarda che treno che hai messo in moto richiamandomi qui! Un treno fatto di ricordi, di domande e anche di qualche di rimpianto. Il più grande di tutti, forse, è quello di non essermi mai saputa godere il tempo al momento giusto. Parola d’ordine, per quello che mi riguardava, era responsabilità.
La mia famiglia soleva ripetermi “non ti chiediamo niente, ma…”. Che è risaputo che dopo un “ma” c’è sempre la fregatura. La mia era che non dovevo dare fastidio. Non dovevo creare problemi. Praticamente, non dovevo esistere. E, in un certo senso, questa è la fine che ho fatto… Io, a cinque anni, venivo già lasciata in casa da sola; a sei andavo e tornavo da scuola oppure a nuoto; arrivata ai quattordici anni, venivo considerata così matura persino a scuola, che mi prendevo le pagelle da sola. E poi accudivo mio nipote appena nato. Questo non lo rimpiango, mi ha permesso di crescere insieme a lui e di creare un legame molto forte, come non esiste con nessun altro. Ma, a quattordici anni, un adolescente medio pensa a divertirsi, io pensavo a cambiare pannolini. E questo mi ha portato inevitabilmente a scontrarmi con Alessandro e con i miei compagni di scuola.
Per me, esistevano le responsabilità: innanzi tutto, quelle della scuola, poi quelle economiche, con il peso delle scelte dei miei genitori che loro non mi spiegavano ma che davano per scontato che io comprendessi, e, non ultimo, quelle di quel fagottino che mi ha riempito talmente tanto l’esistenza da essere arrivata a considerarlo un po’ anche figlio mio.
Fintanto che restavo in questi canoni, andava tutto bene, non appena ne uscivo era problemi infiniti. “E tu non vuoi crearci problemi…” mi dicevano per instillare in me quel senso di colpa capace di bloccare ogni mio volere. Il paragone era spesso fatto con mio fratello, uno scapestrato senza cervello che ne combinava di tutti i colori. Senza voler paragonarmi a lui, io ero meglio semplicemente perché non avevo personalità e, comunque, non avevo nessuna intenzione di mostrarla perché, in ogni caso, non venivo ascoltata. Per mio padre e mia madre, ad esempio, la casa era loro, non era mai nostra. Che valore poteva mai avere la mia opinione?
Camminando per la strada dove ho risieduto per anni, alzo lo sguardo verso i due palazzi che ospitano i due appartamenti dove ho vissuto per tanto tempo. Sorrido; ripensando al passato c’è sempre quel pizzico di nostalgia. L’appartamento con il terrazzo, soprattutto, attira la mia attenzione con maggiore prepotenza. Durante quelli che i miei definirebbero “tempi d’oro”, lì sono stati organizzate decine e decine di feste, complice la gioventù di mia sorella e la voglia di stare in mezzo alla gente di mio padre. Io li ho vissute da piccina, da non partecipante ai giochi, ma ricordo comunque l’atmosfera gioiosa che si creava in casa. A parte una, una maledetta estate, quando, proprio il giorno del mio compleanno (e del compleanno di mio padre), mi sono ritrovata segregata in una stanza con il corpo coperto di bolle a causa della varicella e tutti gli invitati fuori, sul terrazzo, a divertirsi insieme. Erano i miei cinque anni… Ma, a parte la casualità dell’evento in sé, di feste ce ne furono tante altre, fino a quando occupammo la casa.
Ma lì, per me, ci furono anche momenti di paura. Era un caldo pomeriggio di inizio estate ed io, che non avevo ancora compiuto quattordici anni, stavo facendo addormentare mio nipote Leonardo cantandogli una canzone mentre eravamo sdraiati sul lettone dei miei genitori. Ad un certo punto squilla il telefono e Maria, con voce spaventata, mi dice di non aprire assolutamente a mio fratello Massimo che, lasciato il negozio di mia madre, dall’altra parte della strada, stava venendo a casa. Non capisco cosa sta succedendo, ma capisco che qualcosa non torna. Ho paura per me e per il bambino che non ha neanche un mese. Massimo arriva alla porta di casa, suona, ma io, come mi avevano detto, non gli apro. Allora, inizia a dargli calci e pugni e ad urlare nel portone per un paio di minuti. Io prendo in braccio Leonardo e tremo come una foglia. Le urla di mio fratello si interrompono all’improvviso, ma la pace dura poco perché, nel giro di cinque minuti, sento una persiana sollevarsi dall’esterno. Era lui che era entrato dal balcone. Nel frattempo, rientra mia madre e riprende la lite che avevano iniziato poco prima nel negozio. Avevano sempre discusso, ma così animatamente mai. Io sono sempre chiusa in camera da letto, da sola con il neonato, che percepisce la mia paura ed è spaventato a sua volta. Vorrei essere consolata ma mi trovo nella condizione di dover consolare. E sinceramente non so che pensare. Ricordo solo la sensazione di terrore. Da quel giorno, con mio fratello, si alterneranno periodi di pace a periodi di lite, che, quando capitano, compromettono anche il rapporto tra mia madre e mio padre e, per finire, con me, almeno fino a quando non sono cresciuta e non ho deciso che, per quello che mi riguardava, non ne potevo più. Basta. Ognuno per la sua strada. Non gli auguro il male, ma non lo voglio nella mia vita.
Abbasso lo sguardo e decido di farmi un altro giro per il quartiere. Arrivo di fronte il mio vecchio liceo, che oggi è diventato un tutt’uno con l’istituto tecnico dirimpettaio (anzi, a dirla tutta, l’istituto tecnico ha inglobato il liceo) e penso che, forse, la comodità di avere questa scuola vicino casa mi abbia indirizzato verso una scelta sbagliata; non sulla tipologia, che mi era congeniale, ma sulla qualità dell’insegnamento purtroppo sì.
Continuo a passeggiare fino alla stazione, fermata di quartiere del trenino metropolitano, e ripenso a quando, da piccoli, venivamo qua, molte volte, la sera, ad aspettare il papà di Alessandro che tornava dal lavoro. All’epoca, la stazione vera e propria non esisteva e io ed Alessandro, in attesa del treno, giocavamo sui binari incustoditi, raccogliendo quei sassi marroni sfidandoci a chi li lanciava più lontano. Oggi sarebbe impensabile.
Comincio a tornare indietro e mi soffermo davanti a quella scuola che incontravamo quando andavamo a prendere Mario, la scuola dei grandi, la scuola media che abbiamo frequentato tutti. Lì ho conosciuto Marco.

Ritorna all'indice


Capitolo 27
*** Capitolo 27 ***


1992
Iniziare in una scuola nuova mi spaventa un po’, ma, della vecchia classe, siamo in cinque, così ho deciso di mettermi in banco con una compagna che già conoscevo.
Mi costruisco subito una maschera da dura e forte, una di quelle che non ti disturba, ma che non vuole essere disturbata, altrimenti sono botte. Botte, sì. E non importa se sono femmina o se sono un anno più piccola degli altri. Le do di santa ragione. Infatti, c’è chi mi ha soprannominato Rambo.
E non ho problemi neanche a finire in banco con il ripetente Simone, diviso dal suo compagno Marco perché chiacchieravano. Simone deve capire subito chi è che comanda. Essendo ripetente, ha ben due anni più di me, ma gliele faccio passare di tutti i colori. Anzi, è proprio lui quello che mi affibbia il soprannome che, a dirla tutta, mi piace anche.
Simone mi rispetta e io credo che lo faccia perché mi ritenga una tipa tosta. La mia amica, invece, con Marco, ha seri problemi. Nonostante provi una discreta simpatia per Simone, che sinceramente va oltre quella sensazione di forza che mi sembra di sentire, le dico di non preoccuparsi e che, se vuole, possiamo scambiarci di banco: lei può andare con Simone e io posso andare con Marco.
Era appena nato un grande sodalizio.
Con me, Marco si mostra subito molto più cauto e rispettoso. In più, capiamo di essere complementari sotto molti punti di vista e troviamo il modo di rendere le nostre diversità un punto di forza per entrambi. Marco è bravo nelle materie umanistiche e si occupa di svolgere i compiti di italiano e di epica per entrambi; io sono migliore nelle materie scientifiche e mi occupo della matematica e delle scienze. Iniziamo a studiare insieme molti pomeriggi a settimana e, piano piano, a condividere il tempo anche al di fuori degli obblighi scolastici.
Anche se non me ne sono resa conto, ho trovato un nuovo amico.

Ritorna all'indice


Capitolo 28
*** Capitolo 28 ***


1995-1998
Con l’inizio delle superiori, io e Marco scegliamo la stessa scuola, io perché era la tipologia che volevo frequentare ed era vicino a casa e lui perché era vicino a casa e voleva stare con me.
Ovviamente finiamo in due sezioni diverse. Classico.
Non ci sto e chiedo un cambio di sezione. Me lo concedono due giorni dopo l’inizio della scuola. Pericolo scampato. Il sodalizio continua, più forte di prima.
Alla fine del primo anno nasce mio nipote Leonardo ed è un cambiamento per tutti. Io frequento indistintamente Marco e Alessandro, che generalmente si alternano nel farmi compagnia, anche se capita che si incontrano a casa. L’arrivo di Leonardo cambia gli orari di tutti perché i compiti devono essere finiti prima dell’uscita del bambino dall’asilo; quindi, Marco ha tempo fino alle cinque del pomeriggio e Alessandro, di solito, arriva subito dopo. Questa era l’organizzazione standard. Ma ce la caviamo bene. Per tutto il secondo anno di liceo siamo fortissimi. La nostra “organizzazione a delinquere” (così la chiamavo) a suon di due commenti al brano di epica fatti Marco e due esercizi di matematica fatti da me funziona che è una meraviglia. I voti sono perfetti. E il bambino sempre preso puntuale dall’asilo, di solito in compagnia di zio Sanno, Alessandro, amato da Leonardo e dall’intera scuola per la sua simpatia. Resta anche il tempo per vedersi questa o quella puntata di un telefilm.
Alla fine del terzo anno Alessandro trasloca in un’altra città. La mia compagnia, insieme al nipotino che cresceva, resta solo Marco, che, giorno dopo giorno, silenziosamente, si fa sempre più importante.
Marco mi ha insegnato a leggere. Non letteralmente, ovvio. Mi ha insegnato a leggere perché è stato colui che mi ha fatto scoprire il lato divertente della lettura. E poi della scrittura. Cosa che io odiavo. Non l’ha fatto consapevolmente, ma l’ha fatto. Io dicevo sempre, come Pieraccioni nel suo film: x sta a y come io sto a me. La matematica è bella perché è certa. Con la matematica non corro il rischio di sbagliare e di venire giudicata male perché la risposta è quella e solo quella. Scrivere è mettersi in gioco e mettersi in gioco è rischioso. Ma, dopo aver conosciuto Marco, ho conosciuto questo nuovo modo di comunicare. Non sono ancora pronta a condividerlo, ma intanto cerco di imparare ad usarlo. E non è poco.
Marco è diventato, piano piano, una spalla certa su cui appoggiarsi. Siamo ragazzini e litighiamo di continuo, ci insultiamo, mi nego al telefono, arrivo addirittura a staccare la cornetta del telefono di casa pur di non parlargli, ma so che lui c’è. E lui sa che, in fondo, anch’io ci sono.
Marco è una di quelle persone con cui mi vedrei ancora un domani.

Ritorna all'indice


Capitolo 29
*** Capitolo 29 ***


OGGI
Quasi trent’anni anni dopo siamo ancora in contatto stretto, nonostante il lavoro occupi la maggior parte del nostro tempo.
Litighiamo ancora come quando eravamo bambini e forse questo aiuta a mantenere vivo il nostro rapporto.
Ma soprattutto ci vogliamo bene.
Lo reputo un buon amico, anche se ci ho messo tanto tempo per definirlo tale. Per anni, nonostante il nostro rapporto si fosse intensificato, l’ho definito semplicemente come il mio compagno di scuola, anche quando la scuola l’avevamo finita.
So che nelle situazioni importanti c’è, c’è sempre.
Però mi rendo conto che in lui manca qualcosa. Con lui, non riesco a condividere quella parte di me che sono le mie passioni: le fiction, i video, le fotografie… Marco ha sempre una parola di derisione e la cosa mi infastidisce da morire. Perché i miei hobby mi caratterizzano ed è come se Marco negasse una parte di me, l’unica parte di me che, invece, a me, ha sempre fatto sentire bene. Perché sono tante le persone che mi hanno etichettato come strana e sono poche, pochissime, quelle che sono riuscite ad andare oltre la superficie.
* * *
Torno a casa di Maria per finire di recuperare gli oggetti che mi interessa tenere quando, in un cassetto pieno di vecchie vhs, una attrae la mia attenzione. La calligrafia infantile di una vecchia me stessa ha scritto che su quella vhs c’è registrato uno dei film di Nino D’Angelo. E, per me, è subito estate anni ’90. Ricordo che, in quel periodo, Raidue replicava quei film tutti i sabato sera e, non so perché, mi ero fissata. Mi ero fissata così tanto da aver consumato nastri di vhs e anche di musicassette, dove registravo le canzoni direttamente dalla tv, maledicendo chiunque passasse in quel preciso istante accelerando un po’ più del dovuto, soprattutto i motorini. Ancora oggi, per me, estate vuol dire riesumare Nino D’Angelo, nonostante non apprezzi più così tanto né le sue canzoni né i suoi film. Però mi piace tornare indietro nel tempo, a quando scherzavo con Marika, con la quale ho sempre avuto gusti diversi, ma con la quale ho sempre condiviso tutto. Compreso Alessandro. Ma, se con Alessandro c’era simbiosi, con Marika c’era equilibrio. Così, quando i nostri giochi di bambine hanno lasciato il posto ad un graduale allontanamento, il sottile legame che ci ha sempre unito non si è mai spezzato. Anche se non ci sentiamo per lunghi periodi, ogni volta che abbiamo modo di stare insieme è come se ci fossimo lasciate il giorno prima. Ed è bello, bellissimo rivedersi in quelle occasioni, che non generano mai rimpianti, ma solo tanta gioia e tanta allegria.
Finalmente ti trovo! Sapevo che saresti tornata ma non ero riuscita a trovarti”.
Una voce alle mie spalle mi fa sobbalzare, mentre sto caricando in macchina delle buste colme degli oggetti più disparati. In quel preciso istante, l’occhio della mia interlocutrice cade sulla vhs decorata dal nome del cantante napoletano.
Ah… Nino D’Angelo! “Pronto songh'io t'arricuorde o no? / Nun riattaccà, famme almeno parlà /So chille 'e ll'ata sera, ce incutraime a Capodichino /E insieme tutt'e due ce mangiaime nu panino…”
Canticchia prendendomi in giro, anche lei. Ma non c’è malizia nelle sue parole. Questa canzone è ormai entrata a far parte della colonna sonora della nostra vita e cantarla vuol dire solo rievocare un bel ricordo, il ricordo di due bambine che si godevano la spensieratezza di una vacanza estiva, e della stessa infanzia, semplicemente stando insieme, senza pretendere niente.
Marika!”
L’abbraccio felice. Non ho bisogno di altre parole. Per la prima volta da quando sono tornata, mi sento a casa. Ecco, questa era la sensazione che cercavo.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3944572