Replacements

di Blablia87
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** 1. (ovvero di come tutto si mise in moto in una notte come tante) ***
Capitolo 3: *** 2. (ovvero di come un androide disubbidì alle Regole per amore) ***
Capitolo 4: *** 3. (ovvero del R’ent che divenne un paziente vero) ***
Capitolo 5: *** 4. (ovvero di come John Watson salvò Sherlock Holmes la prima volta) ***
Capitolo 6: *** 5. (ovvero di come Sherlock Holmes si ridestò nel buio) ***
Capitolo 7: *** 6. (ovvero di libri e diffidenti confidenze) ***
Capitolo 8: *** 7. (ovvero di come Sherlock Holmes mostrò a John Watson la sua vera natura) ***
Capitolo 9: *** 8. (ovvero di John Watson scoprì il fascino di un trucco svelato) ***
Capitolo 10: *** 9. (ovvero del passato, del presente e del futuro) ***
Capitolo 11: *** 10. (ovvero di un primo viaggio in taxi da sconosciuti) ***
Capitolo 12: *** 11. (ovvero di Bot e visite notturne) ***
Capitolo 13: *** 12. (ovvero di cosa accadde alla signora Forrest) ***
Capitolo 14: *** 13. (ovvero di cosa trovarono Tom e Samuel alla fine della loro corsa) ***
Capitolo 15: *** 14. (ovvero di polvere e sparizioni) ***
Capitolo 16: *** 15. (ovvero del Gioco e delle sue regole) ***
Capitolo 17: *** 16. (ovvero di chip scomparsi e localizzazioni concesse) ***
Capitolo 18: *** 17. (ovvero di visite inattese, errori, e circuiti stampati) ***
Capitolo 19: *** 18. (ovvero di assenze e ritorni) ***
Capitolo 20: *** 19. (ovvero delle sorti di due informatori) ***
Capitolo 21: *** 20. (ovvero di Conigli Bianchi e Cappelli Neri) ***
Capitolo 22: *** 21. (ovvero di abissi e stabulari) ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


 

 

 




“Siamo tutti nati nel fango, ma alcuni di noi guardano alle stelle.”
(Oscar Wilde)


 
A chi, anche quando ero a terra, ha continuato a indicarmi il cielo.
Grazie.
 
 



 

Prologo 
 
 

Siamo tutti nati nel fango, ma alcuni di noi guardano alle stelle.”
 
Non avrebbe saputo dire con esattezza dove, o quando, quelle parole si fossero impresse per la prima volta nel suo circuito mnemonico. Forse, analizzando la propria BDM1), sarebbe potuto risalire alla precisa collocazione spaziale, all’esatto circuito stampato che aveva accolto quei vocaboli prendendo per sempre la loro forma. Ma questo non avrebbe dato comunque risposta alla domanda iniziale, la più importante eppure – in quegli attimi finali – anche la più irrilevante: negli occhi e nelle orecchie di chi, e in quali luoghi, quella frase era entrata a far parte della sua esistenza?
Si lasciò cadere a terra con un tonfo sordo, il cappotto scuro ad attutire il brusco contatto con l’asfalto umido sotto di lui.
Prese un respiro profondo - inutile, vuoto – e socchiuse gli occhi per qualche secondo, il tempo di risalire i rami verdi e rigogliosi della propria coscienza asettica.
Il suo Fingunt era in pace, ora. Poteva avvertirlo distintamente, una scarica di calore fluido all’altezza del collo.
Inspirò ancora una volta l’aria fredda della notte che muoveva ad ondate attorno a lui, raffiche di vento come onde contro il suo viso pallido. Trattenne il respiro in gola, fino a quando non sentì l’ossigeno premere contro il rivestimento della gola. Calme, lente, le particelle di gassose si fecero largo attraverso la fitta maglia di policarbonato e silicone, liberandosi poco dopo.
 
“Quando non sarai più parte di me, ritaglierò dal tuo ricordo tante piccole stelle, allora il cielo sarà così bello che tutto il mondo si innamorerà della notte.”
 
Un'altra reminiscenza - rapida come il battito di ciglia che ne aveva seguito l’affaccio alla coscienza - gli riempì gli occhi mentre, dolcemente, si lasciava andare a terra.
Sdraiato supino sul cemento gelido si spinse con il corpo verso sinistra, aiutandosi con i palmi delle mani e le suole lisce delle scarpe. Si fermò solo quando sentì i capelli sbattere contro il muro morbido della testa dell’uomo steso a pochi passi da lui. Pur non riuscendo a vederlo, immaginò che i ciuffi chiari e lisci dell’altro si stessero mescolando ai suoi, scuri e agitati come il mare in tempesta.
«Non è bellissimo?», gli domandò, alzando lo sguardo verso il cielo cosparso di stelle sopra di loro. «Lo so cosa stai pensando. Ma, anche se non mi sono mai interessate, non significa che non possa apprezzarle», aggiunse, con voce roca.
Uno dei piccoli riflessi bianchi nei suoi occhi si allungò, precipitando poco lontano prima di sparire, inghiottito dalla notte.
«Credo di essere innamorato della notte», sussurrò infine a fior di labbra, il filo iniziale, primigenio, della propria vita stretto saldamente nella mente.
Pochi attimi, e le sue pupille si allargarono sino ad inglobare le iridi chiare.
Le dita della mano sinistra a sfiorare il cotone dei pantaloni della figura al suo fianco, emise un ultimo, lento sospiro. Il petto si abbassò un’ultima volta, rimanendo immobile.
 
Nello specchio di due occhi spalancati un’altra stella si mise in viaggio, attraversandoli in un arco perfetto, argentato e lucido.
 
A terra rimasero due involucri vuoti, fatui, coperti in parte dal sottile strato di fango umido che rivestiva la strada sulla quale erano coricati.
 
Ancorati al suolo, ma con gli occhi fissi al cielo.
 
 



Note:
 
1) B.D.M., acronimo di “Banca Dati Mobile”.

Nella mia idea, i R’ent (i Replacements del titolo, ovvero i “Sostituti”) possiedono, oltre ai ricordi trasmessi dal proprio Fingunt (una parola latina che indica lo “Stampo”, l’uomo o la donna che li governa e dei quali ricalcano le forme) una piccola banca dati interna, dove incamerare informazioni secondarie, potenzialmente utili o momentanee.
 

 
Angolo dell’autrice:
 
Dal mio rientro in Italia sono cambiate tantissime cose, nella mia vita.
Ho iniziato un nuovo lavoro, sistemato casa (cosa non facile, dopo averla abbandonata per un anno intero al proprio destino!), ripreso delle importanti cure mediche dal punto in cui le avevo interrotte. E poi c’è stato - e c’è - Brainteaser, chiaramente. Che mi trascina ogni giorno in un’avventura nuova: presentazioni, concorsi, collaborazioni, recensioni…
In questo turbinio di emozioni riuscire a scrivere è diventato difficile, quasi impossibile. Mi sono seduta per giorni davanti al computer senza terminare una sola frase.
Alla fine, ho pensato che l’unico modo per potermi “rimettere in moto” fosse quello di seguire il cuore, senza sensi di colpa per cosa non stavo riuscendo a terminare.
 
L’idea per questa storia è nata tanto tempo fa. La stesura del primo capitolo è persino precedente al soggiorno a Marsiglia.
Mi sono messa di fronte al portatile e ho ripreso da dove l’avevo lasciata. In tre giorni ho scritto otto capitoli e trenta pagine, ricordandomi di quella sensazione di calore che guidava le mani quando – all’inizio della mia avventura su EFP – scrivevo qualcosa sapendo che sarebbe stata letta da persone che condividevano il mio stesso amore per qualcosa.
 
Tutta questa premessa per dirvi che sono davvero felice di pubblicare questo primo capitolo. Per me equivale a riprendere in mano le redini di tante cose.
 
Come sempre, ringrazio chiunque abbia letto fin qui.
 
A presto,
B.

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Capitolo 2
*** 1. (ovvero di come tutto si mise in moto in una notte come tante) ***



Spesso s’incontra il proprio destino nella via che s’era presa per evitarlo.
(Jean de La Fontaine)
 

 
 
 
1.
(ovvero di come tutto si mise in moto in una notte come tante) 
  

Una folata di vento si sollevò dal suolo, violenta, imprigionando foglie secche e pioggia. Le trascinò con sé per qualche metro in una danza caotica e confusa. Poi si dissolse, lasciandole cadere nuovamente a terra.
Una piuma grigiastra, spinta anch’essa dalla raffica d’aria, si adagiò oscillando sulla superficie scura di una pozzanghera, spezzando in piccoli cerchi concentrici il riflesso dell’enorme struttura che si ergeva silenziosa poco distante.
La facciata liquida si frammentò, fuggendo verso i bordi della pozza.
Anche la scritta “Emergenze” – che, illuminata da neon di un verde acceso, abbagliante, occupava gran parte del muro di fianco alla porta di ingresso – si scompose, mischiandosi al cupo riverbero del cielo londinese ingombro di nuvole incostanti. 
La piuma galleggiò per qualche secondo, muovendosi pigra da un lato all’altro. Alla fine scomparve, avviluppata dall’acqua torbida.
Pochi attimi dopo, la suola gommata di un paio di scarpe da ginnastica coprì del tutto la frattura nel terreno, affondando leggermente con la parte centrale. I bordi frastagliati della buca si attaccarono ai lati della calzatura e la trattennero per qualche secondo, rallentando l’andatura spedita dell’uomo che la stava indossando.
Lui - sorpreso dal brusco e improvviso cambio di passo - si fermò poco dopo, girandosi istintivamente all’indietro con espressione accigliata.
Non riuscendo a distinguere altro - nella penombra del piazzale - che una distesa lucida e bagnata di pietre scure, si voltò di nuovo in direzione del palazzo alle proprie spalle passandosi con un gesto automatico una mano tra i capelli umidi.
Coprì la distanza rimasta tra sé e l’imponente ingresso - campeggiato da una grossa porta a vetri scorrevole - con falcate rapide ma incostanti, trascinando leggermente la gamba sinistra.
Una volta all’interno della hall si lasciò andare ad un respiro profondo, godendo per qualche secondo del tepore che sentiva irradiarsi sul viso. Chiuse gli occhi e reclinò la testa, affondando le mani nelle tasche della giacca a vento chiusa sin quasi al mento.
«Dimenticato l’ombrello anche oggi, Dottor Watson?» gli domandò una voce femminile, con tono allegro. «Se continua a scordarlo a casa, una di queste sere sarà lei a dover richiedere l’intervento di un medico!» aggiunse, le ultime parole macchiate da un fremito leggero.
«Ad essere sinceri ne avevo uno, quando sono uscito di casa…» rispose lui, gentile, socchiudendo le palpebre e osservando di traverso l’esile figura in piedi alla propria destra, nascosta per metà da un voluminoso bancone in legno chiaro. «Ma adesso, con molta probabilità, starà facendo da nido a qualche uccello a Hyde Park: ho avuto la peggio contro una violenta quanto inopportuna raffica di vento» aggiunse con un sorriso.
«Sono sicura che sia stato uno scontro avvincente…!» lo canzonò bonariamente lei, eclissando dietro un’espressione divertita il rossore improvviso delle guance.
«Avresti dovuto vedermi, Sarah.» L’uomo scosse la testa, trattenendo una risata. «Davvero. È stato un momento meravigliosamente imbarazzante.» Estrasse le mani dalle tasche e se le portò davanti al viso, sfregando i palmi tra loro in cerca di calore.
«Allora, cosa abbiamo?» domandò poi, portandosi i polpastrelli alle labbra e soffiandoci sopra.
«Nella quattro e nella sette due ricoveri preventivi per l’allerta meteo, entrambi senzatetto della zona est» iniziò ad elencare la ragazza, aiutandosi a tenere il conto con le dita. «Nella tre un R’ent che sta smaltendo una bella ubriacatura…»
«Come, scusa?» la fermò lui, sorpreso, sollevando un sopracciglio.
«Non me lo chieda. Quelli del turno pomeridiano hanno impiegato quasi due ore per drenare i liquidi dai circuiti.»
«Perché non è stato mandato al Punto di Ripristino?» chiese l’uomo, portandosi il pollice destro sulla fronte e iniziando a sfregarsi distrattamente una tempia.
«Non sarebbe stato in grado di trovarlo. Era completamente fuori di sé. Sono riusciti a spegnerlo solo una volta immobilizzato sulla barella. La sala uno è ancora inutilizzabile, è riuscito persino a sradicare uno degli schedari dal muro!» rispose lei, chiudendosi nelle spalle. «Mai vista una cosa simile, davvero!»
«Mi domando che senso abbia mandare il proprio R’ent a bere» commentò il medico, scuotendo la testa. «Possibile che ci sia ancora gente che non ha capito il meccanismo di Collegamento?» sospirò, chiudendo gli occhi per qualche secondo. «Va bene, d’accordo. Due rifugi protetti e un… R’ent in fase di ripresa dopo una sbronza. Qualche vero paziente?»
«Nella due c’è un bambino di otto anni con febbre e raffreddore.»
«Quanto, di febbre?» si informò il medico, iniziando con difficoltà ad aprire la zip della giacca.
«37.8» sussurrò la segretaria, spalancando gli occhi in un’ironica imitazione di terrore.
«Madre apprensiva, eh?» rise lui, facendosi scivolare il soprabito lungo le braccia ed afferrandolo prima che cadesse.
«In realtà è il modello Nn2003, ad esserlo.»
«Mhm. Strano. Evidentemente i genitori l’hanno programmata in questo modo…»
«Non mi piacciono, quei cosi» rabbrividì la ragazza, iniziando a cercare nella pila di cartelle accatastate ad un lato del desk quella relativa al caso.
«Piuttosto strano detto da un R’ent, non credi?» rispose dolcemente l’uomo, avvicinandosi al bancone per ricevere il file.
«Noi non siamo ammassi di circuiti senz’anima né coscienza. Siamo proiezioni della persona che ci controlla» si schermì lei, la punta delle orecchie colorita per l’agitazione.
«Hai ragione. Scusami. Sono stato indelicato.» Il medico sorrise, afferrando la cartella che gli veniva offerta ed iniziando a controllare i dati. «A proposito: come va il ginocchio?»
«Fa ancora male, ma la fisioterapia aiuta» si calmò lei, rilassando le spalle. «Spero di tornare a lavoro presto. Anche se, lo ammetto… la pioggia ed il freddo non mi mancano affatto.»
«Lo immagino» rispose lui sfiorandole velocemente un polso, comprensivo. «Ok. Il tempo di indossare il camice e incominciamo.»
Con passo leggermente rigido aggirò il bancone, diretto all’ascensore posto in fondo alla hall.
«Sa, dovrebbe procurarsi anche lei un R’ent… Per non affaticare la gamba» gli sussurrò la donna, seguendolo con lo sguardo.
Lui si fermò, voltandosi verso di lei con espressione distesa.
«Perché mai? Credo che il mondo vada percepito direttamente, dolori compresi» rispose semplicemente, con voce gentile.
Poi, senza aggiungere altro, raggiunse l’ascensore.
Premette il tasto di chiamata e rimase a fissare le porte di metallo spostando il peso del corpo da una gamba all’altra, alzando ogni tanto gli occhi verso il contatore dei piani posto sopra la sua testa.
Alle sue spalle la segretaria continuò ad osservarlo con aria assorta, immobile.
Ad un paio di isolati dall’ospedale, la donna che la governava si lasciò andare - dopo essersi accertata di aver scostato dalle labbra i sensori di movimento – ad un sospiro profondo, la mano destra a massaggiare il ginocchio stretto in un’ingombrante fasciatura.
«Che ne direbbe di bere qualcosa, al termine del suo turno, Dottor Watson?» sussurrò. Le parole, pronunciate con voce flebile, si spensero pochi attimi dopo contro le pareti della sua camera da letto.
Scosse la testa, riappoggiando i circuiti alle labbra.
Dietro il desk dell’ingresso la donna sbatté un paio di volte le palpebre, tornando in sé.
 
Con un sorriso perfetto si voltò in direzione della porta, in attesa di nuovi pazienti.





Angolo dell'autrice: 

ho deciso, per questa long, di procedere in modo diverso rispetto alle precedenti pubblicazioni.
Soprattutto nelle ultime i capitoli erano molto lunghi e, nel caso di storie già scritte per intero prima di iniziare il loro caricamento sul sito, rilasciati con cadenza precisa (solitamente settimanale).
Vorrei invece, per questa storia, provare a far trascorrere meno tempo tra un capitolo e l'altro ma, soprattutto, scriverne di brevi. Brevissimi.
Potreste avere la sensazione di aver letto qualcosa di superfluo, o inconcludente (soprattutto in considerazione che il progetto è nella mia idea molto ampio e che, per questo, necessariamente saranno presenti anche situazioni "collaterali"). In caso, mi scuso molto. Mi dispiace. Ma, al momento, questa è la "forma" che sento giusta per me e per quello che vorrei, pian piano, narrarvi. 

Grazie, come sempre e di cuore, a chiunque abbia letto fin qui, inserito la storia in qualche categoria e/o scelto di dedicarle una recensione. ^_^

A presto,
B.

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Capitolo 3
*** 2. (ovvero di come un androide disubbidì alle Regole per amore) ***


"Ogni volta che impariamo qualcosa di nuovo, noi stessi diventiamo qualcosa di nuovo."
(Leo Buscaglia)
 



2. 
(ovvero di come un androide disubbidì alle Regole per amore)
 
 
 
Il medico bussò delicatamente alla porta della sala visite, battendo le nocche contro l’enorme numero “due” dipinto in vernice nera sul legno chiaro.
Senza attendere risposta socchiuse l’uscio e si affacciò all’interno della stanza con un sorriso.
Seduto sul lettino al centro dello studio – il viso arrossato e gli occhi lucidi – un bambino esile alzò lo sguardo su di lui, tirando su col naso. Immobile al suo fianco, con espressione impassibile, una donna dai tratti grezzi inclinò la testa da un lato in un movimento meccanico.
«Lei dev’essere il nostro medico» esordì, sollevando appena i lati delle labbra.
«Dottor John Watson» annuì lui, entrando nella stanza e richiudendosi la porta alle spalle. «E tu chi sei?» domandò poi, rivolto al ragazzo.
«Il suo nome è Timothy Brittney. Ha otto anni compiuti da cinque settimane. La sua temperatura non è mai scesa sotto i 37.5 dalla prima misurazione di questa mattina, effettuata alle 7:30 in punto, come sempre» si intromise la donna, riportando il collo in posizione eretta.
John socchiuse gli occhi, osservandola in silenzio per qualche secondo. Era inusuale che un modello Nn2003, nato principalmente con finalità accudenti ed educative, si intromettesse per rispondere a domande non poste direttamente a lui. Lei si limitò a ricambiare lo sguardo, un’espressione indecifrabile sul volto abbozzato. «Ok… va bene, grazie» le concesse il medico alla fine, appoggiandosi con le mani sulle ginocchia e chinandosi fino a portarsi all’altezza del viso del piccolo. «Hai qualche altro sintomo, oltre alla febbre? Ti fa male la pancia? O la testa?»
«Non lamenta altri disturbi» rispose lei, prima che il ragazzo potesse aprire bocca.
«Ok di nuovo.» John si lasciò andare ad un sospiro, girandosi verso la donna. «C’è un motivo particolare per il quale i genitori di Timothy le hanno chiesto di misurare la temperatura ogni mattina?»
«Non me lo hanno chiesto.» Con un lieve ronzio, il viso di lei assunse un’espressione sorpresa. «Ha avuto la polmonite, due mesi fa. Da allora ho deciso di monitorare la situazione per evitare che possa avere delle… ricadute?» terminò, incerta sul significato astratto dell’ultimo vocabolo.
John socchiuse le labbra, sorpreso.
«Ha deciso di farlo?»
«Ha avuto la polmonite, due mesi fa. Da allora ho deciso di monitorare la situazione per evitare che possa avere delle ricadute» ripeté lei, meccanica.
«Ho capito» annuì John, la voce leggermente incerta.
«Forse è perché sono caduto, ieri…» Timothy guardò con timore verso la donna, ora voltata nella sua direzione.
«Sei caduto?» chiese lei, atona, aggrottando la fronte in modo innaturale.
«Sì, a scuola…» confessò il bambino, arrotolando la gamba sinistra dei pantaloni fino a mostrare una ferita fresca ed infiammata.
«Ecco qui svelato il mistero.» John sorrise, posando una mano sulla testa del ragazzo e scompigliandogli i capelli con un gesto dolce. «L’alterazione della temperatura è dovuta a questa piccola infiammazione. Basterà un po’ di disinfettante ed una garza.»
«Perché non me lo hai detto?» domandò la donna, mentre John si spostava verso il mobiletto dei medicinali.
«Non volevo farti preoccupare» rispose Timothy, con voce bassa.
«Il mio compito è preoccuparmi per te» ribatté lei con quello che, al medico, sembrò un chiaro tono di affetto.
Sorpreso si voltò in direzione dei due, trovando l’androide intento a fissare negli occhi il suo piccolo protetto. Rimase a guardarli per qualche secondo, in cerca di qualche irregolarità nella postura o nell’espressione del robot. Poi, scuotendo la testa, riprese a cercare nel mobile alle proprie spalle.
«Devi dire le cose alla tua Nanny, Tim» disse con dolcezza, afferrando velocemente l’occorrente per la medicazione e tornando indietro. «È importante che sappia sempre come stai e se hai bisogno di aiuto. È stata creata per questo» terminò, iniziando a versare del disinfettante su un piccolo quadrato di cotone.
«Nana non è stata creata.» Il bambino si morse le labbra mentre un leggero bruciore si spandeva dalla ferita, dove John aveva appoggiato la garza imbevuta, al resto della gamba. «Nana è la mia babysitter.»
«Hai ragione» rispose il medico, alzando gli occhi sulla donna e sorridendo con aria complice. «Nana è, tra l’altro, una bravissima babysitter» le concesse, rendendosi conto con stupore ed incredulità di aver atteso – per qualche secondo – una reazione umana da parte dell’androide.
«Lei gioca sempre con me. Le ho insegnato nascondino!» si inorgoglì Timothy, lo sguardo attento sulle mani di John che applicavano un grosso cerotto sopra la lesione.
«Davvero?» Le sopracciglia aggrottate, l’uomo si voltò nuovamente verso di lei.
«Sì. L’ho imparato quindici settimane e tre giorni fa» confermò la donna.
«Non credevo foste in grado di… beh…» iniziò lui, cercando di trovare le parole adatte ad esprimere il concetto che aveva in mente senza sconvolgere il bambino.
«Non è previsto dal nostro Protocollo, è corretto» gli venne incontro l’androide. «È semplicemente… avvenuto» formulò zoppicando sull’ultima parola, nuovamente incerta.
«Capisco» sussurrò John, con vago turbamento. «Ad ogni modo, ecco qua Tim. Cambiate la fasciatura ogni quattro ore circa e, fra massimo due giorni, sarai come nuovo.»  Gli posò una mano su una spalla, dandogli una stretta veloce.
«Grazie!» rispose il bambino, allegro, scendendo con un piccolo tonfo dal lettino.
«Sì, grazie dottor John Watson» gli fece eco la donna, aiutandolo poi – una manica alla volta - ad infilare il cappotto.
«Di nulla. Dovere.»
Il medico li seguì con gli occhi, le mani affondate nelle ampie tasche del camice, fin quando furono quasi alla porta.
Poi - in un impulso che non riuscì a controllare - li raggiunse, richiamando l’attenzione dell’androide con una leggera pressione sul braccio destro.
«Nana, scusi se glielo chiedo, ma…» tossì, in imbarazzo per il disagio che stava provando. «Ha imparato altre cose…?»
«O no, solo nascondino» rispose lei, spingendo la maniglia e sollecitando Timothy ad uscire dalla stanza.
«Non so neanche per quale motivo l’abbia domandato.» John scosse la testa, prendendo nota mentalmente di non lasciarsi suggestionare mai più con tanta facilità.
Ormai quasi a metà corridoio la donna si fermò, voltandosi rapida in direzione del medico.
«In verità ci sarebbe un’altra cosa che ho imparato, dottor John Watson.»
«Quale?» Chiese lui, facendo l’occhiolino con aria complice al bambino in modo da non farlo preoccupare.
«A distinguere le brave persone da quelle cattive» replicò lei, mentre sul viso prendeva forma un sorriso vago. Poi, con lentezza, chiuse l’occhio sinistro, in una rigida riproduzione dell’ammicco fatto da John poco prima.  
«Nana, andiamo? Ho fame!» si lamentò Timothy, afferrando un polso della donna e facendolo ondeggiare.
«Certo. Ti andrebbe un gelato?» chiese lei, dando nuovamente le spalle a John e tornando a muoversi verso l’uscita.
 
Il medico rimase immobile per qualche attimo sulla soglia della sala visite, la bocca socchiusa ed un’improvvisa sensazione di freddo a risalire le vene.





Angolo dell'autrice: 

Eccoci qui con il secondo capitolo! :D
Oggi, purtroppo, la vita "di fuori" sta chiamando con ancor maggior insistenza e forza rispetto al solito, costringendomi ad essere veramente stringata in questo spazio.

Mi limiterò quindi a ringraziarvi - ancora una volta e di cuore - per tutti i riscontri (inaspettati e meravigliosi) che mi state dando, e a rassicurarvi sull'entrata il scena di Sherlock: avverrà presto.
Anzi, prestissimo. ^_^

See u soon,
B.

:*




Bonus Track:

sono incappata in questo video su Youtube e ho lasciato lì parte del mio cuore. Se volete farvi del male (ma del male dolce, come sempre quando si tratta di questi due) fateci un salto. È forse la canzone più azzeccata che abbia mai sentito associare a John e Sherlock. 

https://www.youtube.com/watch?v=RxBgr3ZsKL8

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Capitolo 4
*** 3. (ovvero del R’ent che divenne un paziente vero) ***


Ci sono pochi luoghi in una vita, forse persino uno solo, in cui succede qualcosa; dopodiché ci sono tutti gli altri luoghi.
(Alice Munro)
 


3. 
(ovvero del R’ent che divenne un paziente vero)
 
 
 
Sentì la lama penetrare attraverso la lana spessa del cappotto e, istintivamente, portò le mani su quelle della figura di fronte a sé, strette intorno al manico del pugnale.
Intrecciò le dita con forza, tentando di far indietreggiare l’aggressore e - allo stesso tempo - di estrarre il coltello quel tanto da potersi spostare di lato e guadagnare qualche secondo per rianalizzare i dati in suo possesso.
L’altro, però, si sbilanciò con ancor più forza in sua direzione, facendo entrare il filo sino all’attaccatura in legno dell’ansa.
Un fiotto di liquido caldo si riversò dai lembi lesionati, impregnando camicia e giacca.
Percepì il calore allargarsi attorno al coltello, mentre il campo visivo iniziava a restringersi in un’ondata continua di lampi rossi.
La parola “pericolo” esplose di fronte alle sue pupille dilatate, facendogli socchiudere le labbra per la sorpresa.
«Devi… dirmi… per chi… lavori…» ansò, lasciando la presa sulle mani della figura che – complice la semioscurità del vicolo dove si trovavano – sembrava aver assunto sembianze distorte, deformi.
Riportò le braccia lungo il busto, gli abiti ormai impregnati al punto da essere divenuti pesanti. Con un ringhio basso affossò la testa nelle spalle, lasciandosi cadere in avanti con tutto il peso. L’altro allargò le dita, sorpreso, liberando il manico e tentando di sottrarsi, inutilmente, alla rovinosa caduta in avanti dell’uomo davanti a lui.
Qualche secondo dopo crollarono entrambi a terra, sollevando piccole gocce d’acqua dal cemento umido attorno a loro.
«Devi dirmi… chi ti ha istruito…» ripeté la figura sdraiata sopra, il petto separato da quello dell’altro dalla sola impugnatura del coltello.
Attese per qualche secondo una risposta. Poi, non percependo movimento sotto di sé, puntò le mani al suolo e si sollevò leggermente, i capelli scuri e ricci attaccati alla fronte per il sudore e la pioggia che aveva ripreso a cadere.
«Ho già perso fluidi, a causa tua. Non farmi sprecare anche tempo…» ringhiò, sentendo le braccia fremere sotto il proprio peso. «Ehi, mi hai sentito?!»
Con le ultime forze rimaste si diede una spinta di lato, riuscendo a rotolare di fianco all’altro.
Rimase sdraiato a terra per qualche attimo, la bocca socchiusa e gli occhi ciechi ai bordi, inondati da un liquido rossastro e denso che, lento, stava scivolando verso il centro del bulbo oculare appannando la pupilla.
Alla fine si girò verso la figura immobile accanto a sé, incontrando il suo sguardo fisso e vacuo.
«Andiamo… sul serio?!» protestò, allungando a fatica una mano tremante in direzione del viso pallido dell’altro, bloccato in un’espressione di attonita sorpresa.
Con la punta dell’indice gli sfiorò l’occhio sinistro, esattamente al centro. Una piccola scintilla illuminò il fondo dell’iride, estinguendosi subito dopo.
«Maledizione…» imprecò, tornando a guardare di fronte a sé il cielo londinese carico di nubi. Con un sospiro si portò le mani al ventre, estraendo velocemente il coltello. Lo gettò poco distante, sentendo la lama di metallo stridere a contatto con il pavimento di cemento ruvido.
Con fatica si portò in posizione seduta, mentre un nuovo fiotto oleoso usciva dalla ferita sporcandogli i palmi.
Si sbilanciò da un lato, aiutandosi con mani e ginocchia a tornare in piedi. Quando fu di nuovo in posizione del tutto eretta si passò le dita tra i capelli bagnati con frustrazione, roteando su se stesso in cerca di un luogo adatto per raggiungere velocemente il suo nuovo scopo.
Dall’altra parte dell’enorme strada a scorrimento veloce che si apriva oltre i limiti del vicolo dove si trovava, l’insegna luminosa di un Internet Point attirò la sua attenzione. Stirò le labbra in un sorriso teso e si strinse con forza nel cappotto, in modo da coprire il più possibile gli abiti intrisi e lacerati.
Diede un’ultima occhiata dietro di sé, al corpo esanime sdraiato sul selciato, senza riuscire a nascondere un certo fastidio.
«Non credere che sia finita così» sillabò, lento, in direzione della telecamera di sorveglianza puntata – come in ogni zona della città – all’imbocco del vicolo. «È solo l’inizio.»
Poi, con passo veloce, si avviò verso la strada principale, le braccia incrociate davanti al petto.
 
Qualche minuto dopo la videocamera a circuito chiuso ruotò sulla propria base metallica con un freddo ronzio, allungando la lente dell’obbiettivo fino a mettere a fuoco la figura rimasta a terra.
Su un monitor in bianco e nero attraversato da continue fasce orizzontali comparve il volto statico di una donna anziana, gli occhi e la bocca socchiusi per lo stupore ed il collo flesso in modo innaturale verso l’alto.
Lo zoom della videosorveglianza si riavvolse, tornando al proprio posto. Lenta, la telecamera si spostò verso sinistra, facendo sparire il corpo dall’inquadratura.
Sono allora - coperte dal buio e dalla pioggia - due figure incappucciate si avvicinarono al corpo, trascinandolo via per le gambe.
 
 
***
 
 
«Devo prendermi una pausa…»
John si passò stancamente le mani sul viso, strofinando più volte gli occhi con movimenti circolari dei polpastrelli.
Alle sue spalle, raffiche di vento si infrangevano con violenza contro il logoro telaio della una grande finestra che, dal suo studio, affacciava sul cortile interno.
Sospirò, alzando nuovamente lo sguardo sullo schermo del computer e maledicendosi per aver atteso fino all’ultimo momento per compilare le cartelle telematiche dei pazienti seguiti a distanza.
Era seduto di fronte al terminale da più di quattro ore e – per un breve attimo - le righe del modulo al quale stava lavorando erano sembrate fondersi tra loro, tremanti e fluide sotto il peso della stanchezza.
Socchiuse le palpebre e strascinò la sedia più vicino alla scrivania, posizionando diversamente sul bordo le braccia un paio di volte, in cerca della posizione più comoda.
Continuò a lavorare per una decina di minuti, curvandosi via via sempre più sullo schermo, in una spontanea – quanto vana - compensazione della stanchezza con la prossimità.
«Ok, devo fare una pausa» si impose quando il bruciore che sentiva premere attorno agli occhi rendendo difficoltosa la lettura dei campi da compilare gli impedì di mettere correttamente a fuoco anche la tastiera.
Con uno sbuffo sordo si alzò, le gambe indebolite dalla prolungata immobilità e la vista appannata.
Aggirò la scrivania con andatura incerta, diretto alla macchinetta del caffè elettrica che campeggiava silente vicino ad una pila di faldoni abbandonati sul piccolo tavolino di fianco alla porta d’ingresso.
L’accese e aspettò che il ronzio di avviamento si interrompesse. Poi, con una certa fatica, si chinò per aprire uno dei cassetti del mobiletto in cerca di una capsula.
«Le ho già detto e ripetuto che quanto chiede è, semplicemente, impossibile.» La voce della segretaria, ovattata dalla distanza e dalla porta chiusa, giunse alle orecchie del medico quasi subito. «Deve tornare al suo Punto di Ripristino.»
«Ed io le ho già risposto altrettante volte che è impossibile che possa tornare al mio Punto di Ripristino in queste condizioni» ribatté immediatamente un uomo, il tono alterato e la voce profonda. «Non ho sufficiente autonomia.»
«Siamo un ospedale» riiniziò lei, pacata. «Non un’officina.»
«Piuttosto sgarbato, detto da un mio simile» le fece presente la voce maschile, tagliente.
«Io non sono…» riprese la segretaria, spazientita, interrompendosi non appena sentì la porta della stanza di John aprirsi e lo vide comparire sulla soglia.
«Sarah, va tutto bene?» le domandò lui, facendo correre gli occhi dalla donna alla figura immobile al di là del desk.
«Stavo cercando di far capire al signore ch—» cercò di iniziare lei, ma venne interrotta dall’uomo che - con passi veloci - si incamminò in direzione di John, una mano premuta con forza contro la lana scura del pesante cappotto che aveva addosso.
«Ho bisogno di un medico. Sono stato ferito» spiegò, fermandosi a pochi metri dall’altro e scostando un lato del soprabito quel tanto da mostrare in modo chiaro quanto si trovasse al di sotto.
John socchiuse le labbra e alzò le sopracciglia in un’espressione di stupore, posando gli occhi sull’enorme macchia gialla che si stava allargando sulla camicia bianca dell’uomo.
«Lei è… un R’ent» appurò, indicando la ferita.
«Accidenti, una diagnosi davvero stupefacente» ribatté l’altro, alzando gli occhi al cielo. «E lei è un ex medico militare ridotto a lavorare in una clinica privata della quale odia regole e personale a seguito del congedo forzato avvenuto per un ferimento in missione. Quindi?» sputò fuori velocemente, con voce dura.
«Come…» John spostò gli occhi sulla donna con fare accusatorio. Lei – sorpresa - alzò le spalle e scosse la testa, sillabando a mezza voce “io non ho detto niente”.
«Bene» tossì il medico, sforzandosi di ignorare le parole dell’uomo di fronte a sé e concentrandosi sul suo viso. «Chiunque io sia, non è affar suo. Ma una cosa è sicura: gli ospedali non curano i R’ent. Deve tornare al suo Punto di Ripristino.»
«Ho già perso più di due quinti del mio fluido vitale. Se non arresto l’emorragia, i miei circuiti si bloccheranno in meno di cinque ore. Come ho già cercato di spiegare – inutilmente – alla donna alle mie spalle, non posso tornare al punto di ripristino: è troppo lontano» sbottò l’altro, tornando a premere con forza contro lo squarcio che gli apriva lo sterno.
«Non ho bisogno di flebo, cibo o garze. Ho bisogno di qualcuno che sappia ricucire un tubo di silicone come farebbe con un’arteria e di un po’ di nastro adesivo. Al resto penserò io, come sempre» sussurrò, l’azzurro chiaro delle iridi ancorato al blu scuro di quelle di John.
«Dove… Dove si trova il suo Punto di Ripristino?» chiese lui, la voce volutamente impostata.
«Nel Sussex» sbuffò l’uomo, scortandosi con la mano libera un ciuffo di capelli ricci e scuri che gli era ricaduto sulla fronte.
«Nel Sussex?!» ripeté John, sorpreso. «Non credevo che le comunicazioni Utente-R’ent coprissero distanze simili!»
«Diciamo che ho avuto modo di accedere ad un modello più “avanzato”. Adesso, se possibile, possiamo tornare ad occuparci del mio problema?»
«Va bene, ok…» Il medico lanciò un’occhiata veloce alla segretaria, sorridendole con fare rassicurante. «Ci vorranno cinque minuti» sospirò, facendo cenno all’uomo di entrare nel suo studio. «Sarah, potresti evitare di passarmi telefonate, fino al termine de… della visita?» domandò, gentile.
«Certo» rispose lei, gli occhi ancora puntati sullo sconosciuto. «Ma faccia attenzione…»
«Assolutamente» la tranquillizzò John, prima di voltarsi e richiudere la porta dietro di sé.
 
 



Angolo dell’autrice:
 
ed eccolo qui, il nostro “high-functioning sociopath” preferito.
Ci sono voluti una prefazione e due capitoli per farlo entrare in scena ma, da adesso in poi, non la abbandonerà più. ^_^
 
Grazie di cuore per la pazienza (ce n’è voluta davvero un bel po’!) e per tutti i messaggi, le recensioni e le attenzioni che state dedicando a questa storia.
Non mi aspettavo che così in tanti avreste nuovamente scelto di condividere un viaggio con me, ed è meraviglioso.
 
A presto,
B.

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Capitolo 5
*** 4. (ovvero di come John Watson salvò Sherlock Holmes la prima volta) ***


Alla fine le anime gemelle si incontrano poiché hanno lo stesso nascondiglio.
(Robert Brault)
 


4. 
(ovvero di come John Watson salvò Sherlock Holmes la prima volta)
 
 
 
«Come lo ha capito?» chiese John qualche secondo dopo, indicando con un gesto della mano all’uomo il lettino coperto di carta bianca appoggiato ad una delle pareti.
«Capito cosa?» ribatté lui, sfilandosi il cappotto con un gesto fluido e lasciandolo cadere sulla spalliera di una delle sedie poste di fronte alla scrivania.
«Lo sa perfettamente, cosa.» Il medico recuperò lo stetoscopio dalla tasca del camice con un gesto automatico. Poi, scuotendo la testa, lo appoggiò di fianco alla macchinetta del caffè.
«Non è difficile. Basta osservare.» Il R’ent si lasciò andare con un tonfo sul lettino, gli occhi fissi al soffitto e le labbra serrate.
«Osservare» ripeté John, avvicinandosi e iniziando a scostare con attenzione i lembi della camicia per poter esaminare la lacerazione.
«Accidenti. Come diavolo si è procurato una ferita simile?» domandò, posando una mano su quella dell’altro per scostarla del tutto dalla zona interessata.
«Se fossi fatto di carne, cosa penserebbe l’abbia provocata?» L’uomo allontanò gli occhi dal soffitto, portandoli sul viso dell’altro.
«Se fosse “di carne”, direi che è stato accoltellato» ribatté lui, ricambiando velocemente lo sguardo.
«Eccellente, dottor Watson» si rallegrò l’uomo. Poi, rapido, liberò la mano dalla stretta dell’altro e indicò il cartellino appuntato alla tasca in alto a destra del camice di John. «Prima che si domandi come abbia potuto capire anche questo» sorrise, ironico.
«Divertente» rispose lui, allontanandosi per recuperare ago e filo di sutura dal mobiletto di metallo affisso di fianco alla porta, appena sopra il tavolino dove il suo caffè stava aspettando, fumante, di essere bevuto. «Non le dispiacerà se non provo nemmeno ad indovinare perché un R’ent sia stato accoltellato e mi limito a domandarlo, vero, signor…?»
«Holmes. Sherlock Holmes.» L’uomo scostò gli occhi dal medico e li alzò sul soffittò sopra di sé. Sbatté un paio di volte le palpebre, un vago ronzio ad accompagnare i movimenti regolari del petto.
«È stato un incidente» rispose, con voce bassa.
«Un incidente… certo» ripeté John, scettico, ancora voltato verso il mobiletto delle medicazioni.
Per un attimo nella stanza ci fu un silenzio totale, pieno, interrotto solo dal brusio meccanico del Meccanismo Centrale di Autonomia del R’ent che – a intervalli regolari – spingeva il Fluido di Alimentazione nei tubi di silicone che nutrivano i vari componenti che lo costituivano.
«Sa, quando si è un medico militare se ne vedono molte, di ferite» riprese John qualche secondo più tardi, voltandosi e tornando verso il lettino. «Lacerazioni, colpi d’arma da fuoco, contusioni… e parecchie lesioni da arma bianca.»
Appoggiò con cura ago e filo sulla scrivania, estraendo un paio di guanti dalla tasca destra del camice. Il R’ent osservò con attenzione ogni movimento, le pupille dilatate e le iridi cangianti.
«Se avessi visto un commilitone entrare nella mia tenda con una ferita come questa – continuò John, facendo passare uno spesso filo scuro all’interno della cruna dell’ago scelto per la sutura – gli avrei chiesto dove fosse il corpo del suo assalitore.».
Lanciò un rapido sguardo all’uomo sdraiato sotto di lui. Sherlock si limitò a ricambiare l’occhiata, il volto impassibile.
«Perché, per posizione e profondità - John allargò i contorni della ferita con la mano destra, iniziando a ricucire i bordi della grossa cannula che scorreva al centro del petto del R’ent, scossa da piccoli fremiti ad ogni passaggio del liquido al proprio interno – questa è una classica ferita fatta nel tentativo di uccidere. E se si esce vivi da uno scontro simile, è solo perché è stato l’altro a capitolare per primo.».
Sherlock socchiuse le labbra, sorpreso. Rimase immobile, gli occhi fissi sul profilo del medico intento a chiudere le estremità del tubo con movimenti decisi e attenti, chino su di lui.
«Ma, non essendo i R’ent progettati per la sostituzione degli esseri umani in attività di tipo offensivo o difensivo, e davvero particolare vedere lacerazioni simili su uno di voi» aggiunse John, compiendo un breve volteggio con l’ago in modo che la sutura si stringesse in un nodo aderente.
Accompagnato dal suono regolare del battito di Sherlock appoggiò quanto rimaneva del filo sulla scrivania, recuperando un pezzo di garza adesiva.
«Non è come il silicone liquido, ma dovrebbe andar bene» sorrise, senza distogliere lo sguardo dalla ferita. Scollò aiutandosi con i denti il primo pezzo di tessuto cerato, e lo fece aderire alla zona coperta dai punti.
Sherlock trattenne il respiro, distogliendo lo sguardo. Chiuse gli occhi per qualche secondo, ruotando le testa da un lato.
«Sono stato aggredito» sussurrò qualche secondo dopo, di getto, continuando a tenere le palpebre abbassate.
«Da un appartenente ai Puri?» si informò John, continuando a stringere il nastro attorno al tubo.
«Da un R’ent.»
Il medico si bloccò, aggrottando le sopracciglia.
«I R’ent non possono compiere azioni violente, c’è una limitazione nei circuiti» replicò, con vaga irrequietezza.
«Le Banche Dati Mobili dei R’ent sono rimaneggiamenti di software militari, dovrebbe saperlo» ribatté l’altro, riaprendo gli occhi e spostandoli sul viso serio del medico.
«I primi, forse. Ora le BDM vengono prodotte ex novo.»
«Per quanto ne sappiamo» esternò Sherlock, prima di abbassare lo sguardo verso il proprio petto. «Bene, vedo che ha finito. Perfetto, al resto penserò io» disse, portandosi a sedere con un movimento rigido.
John, le mani ancora attorno al cannello, allontanò le dita dalla ferita e arretrò istintivamente di un passo.
«Dovremmo ricucire anche la parte esterna del rivestimento, o disperderà troppo calore» iniziò, indicando con un dito il grosso squarcio visibile al centro del petto dell’altro.
«Non importa, basterà un po’ di nastro adesivo.» Il R’ent scese dal lettino con un piccolo saltello, recuperando il proprio cappotto dalla spalliera della sedia. «È qualcosa che posso fare da solo» assicurò, infilando il soprabito e aiutandosi a calzarlo bene con piccoli movimenti delle spalle. «Non è la prima volta ch-» rantolò, biascicando le parole. Sgranò gli occhi, confuso. «Non è la prima volta ch-» tentò di nuovo, i meccanismi del viso intorpiditi e rallentati.
John lo vide indietreggiare, lo sguardo vacuo e le gambe rigide.
«Non è…» gemette ancora Sherlock, prima di sentire le ginocchia cedere.
«Ha perso troppo calore e troppi fluidi, se vuole continuare ad usare il R’ent deve ricaricarlo» si intromise John, sfilandosi in fretta i guanti e raggiungendo velocemente l’altro, chinandosi con uno sbuffo davanti a lui. «Mi ha capito?»
«Punto di Ripristino non trovato» rispose Sherlock, con occhi fissi e voce metallica. «Errore: Punto di Ripristino non trovato» ripeté, le labbra socchiuse, immobili, e le iridi completamente inghiottite dal nero della pupilla. «Errore: Punto di Ripristino non trovato» ribadì un’ultima volta, le parole poco più di uno squittio confuso. Poi - come fosse divenuto improvvisamente di cera molle - cadde all’indietro, sbattendo con forza la testa contro il pavimento in marmo dello studio, negli occhi fissi e vuoti il riflesso confuso di John, chino sopra di lui.

 



Angolo dell’autrice:
 
Un’incursione breve, brevissima, solo per ribadire il mio grazie a tutt* voi.
 
Le anime gemelle finiscono con l’incontrarsi perché scelgono lo stesso nascondiglio, dice la frase con la quale ho deciso di introdurre il capitolo.
Io ho scelto questo, come rifugio dal mondo esterno. Ed è sempre un’emozione scoprire di non essere da sola.
 
A presto,
B.

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Capitolo 6
*** 5. (ovvero di come Sherlock Holmes si ridestò nel buio) ***


L’oscurità è il regno dell’errore.
(Luc de Clapiers de Vauvenargues)
 


5. 
(ovvero di come Sherlock Holmes si ridestò nel buio)
 
 
 
Una luce fioca – di un bianco sporco, opaco – si accese, illuminando per qualche secondo un piccolo spicchio di pavimento, in cotto rossastro.
Con un sibilo si smorzò, facendo ripiombare l’ambiente nella semioscurità prima di azionarsi nuovamente.
Lampeggiò, lenta, per qualche minuto, allargando via via il proprio raggio d’azione e la propria intensità.
Alla fine, ronzando in modo quasi impercettibile, si assestò, divenendo di un color giallo carico che si sparse per la stanza, rischiarandola.
Sotto il suo flebile risplendere comparvero le gambe massicce di un tavolo, leggermente rosicchiate in prossimità delle mattonelle. Due scarpe scamosciate, seminascoste dal gioco di ombre che si era creato sotto il tavolino, affiorarono dal buio assieme alla stoffa scura e pesante di un paio di pantaloni. Le punte delle calzature erano annerite e rigide, come se non avessero ricevuto alcuna cura dopo essere state colpite da un violento acquazzone.
La luce, di un tono paglierino sempre più energico, continuò ad aumentare di intensità fino a risultare accecante. Solo allora, per pochi attimi, la figura seduta con postura rigida al tavolo sistemato al centro della stanza fu del tutto visibile, le mani appoggiate i palmi in giù sul ripiano di legno grezzo e lo sguardo perso, fisso di fronte a sé.
Ci fu uno schiocco potente, che saturò l’aria. Poi, la camera piombò nuovamente in un silenzio opaco, caliginoso.
Sherlock – le palpebre serrate – si scosse appena e lasciò cadere pesantemente la testa da un lato, fermandosi solo quando sentì i fili che attraversavano il collo e ne permettevano il movimento tesi al massimo. L’orecchio destro innaturalmente vicino alla spalla socchiuse gli occhi, riuscendo a vedere solo un ammasso caotico di ombre. Sbatté le palpebre un paio di volte, cercando di far riprendere alle pupille il giusto assetto. Con una certa fatica riuscì a sollevare la mano sinistra dalla sua posizione, scoprendo di avere entrambe le braccia stese di fianco al busto, i dorsi rivolti in basso, sul pavimento.
«Mhm…» mugugnò, stordito. Si portò la mano al volto, lentamente, e poi lasciò che scivolasse fino alla parte posteriore del collo. «Oh» esalò sorpreso, quando si rese conto di star sfiorando con i polpastrelli un cavo di alimentazione.
Ne perlustrò l’attacco con la punta delle dita, sino a trovare il bottone di innesco.
Lo premette con attenzione, stando attento a non muovere la testa. Con un click metallico i denti freddi del filo si sganciarono dalle rientranze scavate nella sua pelle, lasciandolo libero. Si piegò in avanti sospirando, la mano a massaggiare la zona. Cercò ancora una volta, con il capo basso, di guardarsi attorno, riuscendo a distinguere solo una piccola feritoia chiara in lontananza, evidentemente in prossimità di una porta chiusa.
Ispirò profondamente, riempiendosi bocca e gola di più aria possibile. I sensori posti in fondo alla lingua iniziarono ad analizzare gli input olfattivi incamerati mentre lui, con un movimento fluido, si portava in piedi.
«Mela e cannella» registrò, muovendo il primo passo nel buio. «E tè alla vaniglia.»
Compì due passi e si arrestò di colpo, nelle narici il vago sentore di un profumo conosciuto ma, allo stesso tempo, discorde da quello registrato da qualche parte nella sua banca dati.
Impiegò un paio di C.A.V.1) prima di comprendere che la parte estranea della fragranza era da addebitarsi ad una vaga nota acidula di umidità stantia - muffa, con molta probabilità - non riuscendo tuttavia a risalire con certezza alla fonte primaria del ricordo.
Allargò il più possibile le pupille, portando le mani di fronte a sé. Riprese a camminare, il corpo e le braccia rigide. Solo pochi attimi, ed i sensori della pelle artificiale posti negli incavi dei palmi riportarono la presenza di un materiale filiforme, di morbidezza difforme a seconda del punto toccato. Bastò un solo giro di verifica off line per comprendere in cosa stesse affondando le falangi. Capelli.
Ritrasse rapidamente le mani, senza compiere movimenti violenti. Per qualche secondo rimase immobile, indeciso sul da farsi.
Ancora fermo, le dita a pochi passi dalla massa di capelli, registrò che nessun rumore stava provenendo dal corpo che doveva trovarsi al di sotto della capigliatura.
Un sorriso gli increspò le labbra, bloccandosi non appena il C.A.R.2) fece emergere alla sua attenzione il risultato della ricerca compiuta sull’odore che, tenue, aleggiava nella stanza e attorno a lui.
«Maledizione…» sibilò, scattando di lato. «Maledizione!» ripeté, a voce più alta, calcolando velocemente quale traiettoria fosse la più rapida e sicura per raggiungere la porta che, a giudicare dalla dimensione del rettangolo di luce che si spargeva sotto di lei, non doveva distare più di una decina di metri. Pensò che difficilmente, per il calcolo delle probabilità, sulla linea immaginaria dove era stato collocato il corpo (ora alla sua sinistra) poteva trovarsi un altro ostacolo altrettanto ingombrante o un pericolo imminente. Era assai probabile, anzi, che di minacce immediate non ve ne fossero affatto, dato il tempo trascorso in piedi nell’oscurità senza alcuna difesa in caso di conflitto. Era improbabile che qualcuno intenzionato a colpirlo, trovandosi inoltre più a suo agio con l’ambiente, non lo avesse già fatto.
«Va bene.» Fletté le ginocchia e si diede una spinta in avanti, coprendo la distanza che lo separava dall’ingresso con rapide ed ampie falcate. Si appoggiò alla porta con tutto il peso, convinto di trovarla sbarrata. L’uscio cedette invece docilmente, aprendosi verso un corridoio fiocamente illuminato e facendolo sbilanciare. Sorpreso compì un veloce movimento compensatorio, portando di scatto la gamba destra di fronte a sé e allargando le braccia sino a ripristinare l’equilibrio. Poi si voltò, rigido, sentendo l’anta in legno della porta tornare indietro e fermarsi con un piccolo tonfo sul suo braccio.
Adesso invaso da un chiarore diffuso, l’ambiente dal quale era appena uscito apparve ai suoi occhi in ogni suo aspetto, scoprendo mobili rivestiti di marmo chiaro e pensili laccati di bianco: una cucina, dai tratti moderni.
Al centro della stanza un grosso tavolo di mogano spiccava prepotentemente, in netta contrapposizione con le linee pulite e nette che regnavano tutt’attorno.
Sherlock alzò il mento, bloccando per qualche secondo l’attività del suo apparato vitale, che si spense con un leggero ronzio.
Immobile su una sedia di plastica trasparente, le spalle rigide e gli occhi spalancati, un uomo stava seduto senza dare segni di vita.
Il R’ent impiegò meno di un secondo a realizzare che il C.A.R. gli aveva fornito, qualche minuto prima, la risposta corretta sulla fonte del profumo che permeava la stanza nella quale si era svegliato.
Era un odore incamerato da poco, pochissimo tempo. Talmente recente da non essere ancora stato immagazzinato adeguatamente nella sua memoria locale.
Un aroma di pino silvestre che gli aveva riempito la gola mentre si trovava sdraiato sul lettino di una sala visite.
 
L’essenza dell’acqua di colonia di John Watson.
 
 



Note:
 
1) Cicli di analisi veloce.

È, nella mia idea, una forma di memoria a rapido accesso inserita all’interno di ogni R’ent per permettere principalmente ai modelli di compiere “piccoli gesti in autonomia” senza che i Fingunt debbano intervenire direttamente. Utile soprattutto in caso di imprevisti che richiedano una reazione immediata (un po’ come se fosse un “istinto”) può essere utilizzato in casi particolari dal R’ent come memoria personale a “rapido accesso”, per analizzare velocemente informazioni che non richiederanno una registrazione permanente.

2) Ciclo di analisi remoto.

È, nella mia idea, una forma memoria ibrida, composta da ricordi incamerati dal R’ent ed altri appartenenti al suo Fingunt. Il Sostituto ha sempre la possibilità di accedere alle informazioni custodite all’interno della memoria remota ma – non avvenendo questo “scambio” di nozioni all’interno dell’androide stesso – i riscontri sono più lenti e, spesso, non accuratissimi.
 

 
Angolo dell’autrice:
 
Sono giornate convulse, queste, per me.
Cariche di impegni, alcuni più faticosi e dolorosi di altri.
Mi sono però imposta di ritagliare un breve attimo per la pubblicazione, per non allungare troppo i tempi tra un capitolo e l'altro e tener fede a quanto detto all'inizio di questa avventura, e sono felice di esserci riuscita. 
 
Come sempre e di cuore, ringrazio chiunque abbia letto fin qui. ^_^
 
A presto,
B.

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Capitolo 7
*** 6. (ovvero di libri e diffidenti confidenze) ***


Ti sto mentendo se dico a te la stessa bugia che dico a me stesso?
(Robert Brault)


6.
(ovvero di libri e diffidenti confidenze)



Si irrigidì, contraendo le fasce muscolari sintetiche che avvolgevano la sua ossatura metallica. Quelle vicino alla ferita si tirarono con più fatica, riuscendoci solo in parte. Il nastro adesivo stretto intorno al tubo alimentazione principale, parzialmente sciolto per il calore generato nel ripetersi costante del ciclo vitale che lo sosteneva, si era fuso ai tessuti.
«Pensa, pensa, pensa!» si impose, continuando a mantenere lo sguardo sull’uomo seduto a pochi metri da lui.
Da quella distanza non sembrava mostrare ferite evidenti, ma la scarsa illuminazione poteva nascondere quelle più piccole. Punture, ad esempio, o lacerazioni dell’epidermide in prossimità di capelli e vestiti.
Allontanò con fatica lo sguardo dal profilo immobile del medico, compiendo una rapida analisi della stanza. Con un battito di ciglia allargò il campo visivo, dividendolo in griglie per aiutarsi ad analizzare ogni singola zona senza tralasciare nulla. I quadrati si spensero uno ad uno, scurendo le varie zone.
Quando ogni quadro dello schema si smorzò, Sherlock rilasciò i liquidi nel proprio sistema linfatico, permettendo al corpo di rilassarsi.
«Bene» sussurrò, iniziando a muoversi in direzione del tavolo.
Qualcosa, nella parte più lontana della sua BDM - quella legata indissolubilmente al Fingunt – registrò un leggero disagio, che tentò di ignorare.
Non era la prima volta che si trovava alla presenza di un cadavere, anzi, aveva scelto coscientemente anni prima – quando ancora non gli era stato assegnato un R’ent e la loro realizzazione era poco più che un progetto di spionaggio militare avanzato – di fare delle indagini per omicidio e, quindi, dei corpi che ne costituivano il fulcro iniziale, la propria vita.
Qualcosa però, nelle spoglie indurite di quel medico conosciuto appena, rendeva la sua matrice venata da un sentimento che non riusciva ad analizzare. Lo poteva sentire premere all’altezza del collo, trasformato dai circuiti superficiali in un lieve sollevamento della peluria sulla nuca.
Sbatté nuovamente gli occhi, azionando il rilevamento di calore. Alla sua sinistra la presa dalla quale si era liberato pochi minuti prima si accese di un rosso intenso, annegato in un mare di grigio striato di azzurro.
Nessun segno di energia, anche residua, provenne dal corpo del medico. Il R’ent aggrottò le sopracciglia, confuso. Non era certo di quanto tempo fosse trascorso dalla perdita di coscienza sino al risveglio, ma un simile livello di raffreddamento avrebbe dovuto coincidere con le prime fasi della decomposizione e, anche se in modo lieve, i suoi sensori avrebbero dovuto percepirla nell’aria. Invece, oltre al leggero profumo di pino silvestre e di cibo che gli solleticavano la gola, nessun altro odore lo aveva raggiunto.
Spense il misuratore e compì un altro passo in avanti, concentrandosi sulla porzione di volto del medico che riusciva a sfuggire all’ombra del suo stesso corpo proiettata su di lui.
L’occhio destro era spalancato, le ciglia lunghe e bionde che andavano sfumando nella semioscurità circostante. La bocca, di uno strano rosa carico, quasi rossastro, era leggermente socchiusa, così poco da non mostrare i denti sottostanti.
Sherlock assottigliò le palpebre, concentrandosi sulla pelle. Tesa, rosata e compatta, decisamente diversa da quella del medico che lo aveva soccorso. Riavvolse la memoria a breve termine e visionò l’ultimo file disponibile. Davanti ai suoi occhi opachi apparve l’immagine di John Watson, chino su di lui. Attorno alle labbra e sulla fronte si rincorrevano piccole rughe di espressione. Non erano marcate ma, quando l’uomo aveva sorriso, si erano raggruppate in un piccolo insieme armonico, ben lontano dalla cute che vedeva ora ricoprire gli zigomi della figura seduta di fronte a sé.
Con un ronzio violentò spalancò gli occhi, improvvisamente padrone dell’unica spiegazione plausibile alla luce degli elementi riscontrati.
Allungò una mano e l’appoggiò sulla testa del medico, dandole una leggera spinta in avanti. Lui si piegò verso il tavolo, raccogliendosi su se stesso fino a fermarsi con la fronte contro il ripiano di legno.
Il R’ent si curvò su di lui, sollevando con le dita il ciuffo di capelli chiari che ricadevano sulla collottola. Un piccolo sportellino di plastica rigida comparve tra le ciocche sparute, semiaperto e coperto da un leggero strato di polvere.
Sherlock guardò l’alloggiamento del cavo di ricarica e poi quest’ultimo, ancora inserito nell’apposita presa a muro.
Istintivamente, ripetendo una gestualità compiuta a chilometri di distanza, alzò l’angolo della bocca in un sorriso compiaciuto, rilassandosi.
«È sveglio, vedo.» Una voce maschile, proveniente dal corridoio, lo fece voltare di scatto. Tornò velocemente in posizione eretta, sollevando il mento con fare distaccato.
«Lei ha un R’ent» si limitò a rispondere in direzione del medico, comparso nello specchio della porta con tra le mani una tazza fumante di tè.
«Osservazione banale, per una persona in grado di farne di ben più strabilianti» rise lui, inclinando il capo da un lato. «Ad ogni modo, sì. Mi dichiaro colpevole.»
Sherlock aggrottò la fronte, imitando con la testa la postura dell’altro. «Non mi capita spesso di dirlo, ma… non credo di riuscire a capire» esternò, sollevando un sopracciglio. «È un ottimo modello, curato in ogni particolare. Ma l’alloggiamento per la ricarica e polverosa, ed i vestiti iniziano ad essere attaccati dalla muffa.»
«Uso raramente la cucina.» John alzò le spalle, con fare noncurante. «E ancor meno uso il mio R’ent.»
«Posso chiederne il motivo?» Sherlock si portò le braccia dietro la schiena, avvicinandosi all’altro. «Credo che il suo sia un caso raro.»
«Forse non amo che qualcuno faccia scelte al posto mio» commentò il medico, portandosi la tazza alle labbra.
«I R’ent non svolgono scelte autonome» ribatté Sherlock.
«Non stavo parlando di lui, infatti» sorrise John, facendo cenno all’altro di seguirlo fuori dalla stanza.
«Quando mi hanno congedato, e ho visto il livello del R’ent che mi era stato attribuito per la fase di riabilitazione, ho capito che avevano già deciso che non sarei più uscito di casa.» Aspettò che Sherlock lo affiancasse. Poi, con passo lento, iniziò a dirigersi verso la camera in fondo al corridoio. «Un modello all’avanguardia, praticamente perfetto. Il sogno di ogni londinese della middle class.» Rise e, per un attimo, Sherlock rimase affascinato dalla comparsa delle rughe attorno agli occhi del medico. Era raro incontrare per strada qualcuno, al di sopra dei trentacinque anni, sprovvisto di un Sostituto. «Io non riuscivo a vedere nessuna delle meraviglie che andavano decantandomi. Mi sembrava solo che portasse stretto al collo un enorme cartello con su scritto “Ritirato”.»
«Solo una piccola percentuale di Fingunt decide di compiere Il Ritiro» contestò Sherlock, con voce atona. «Altamente improbabile, quindi.»
«E quanti, di quella percentuale, sono ex militari?» gli domandò John, attendendo pazientemente che l’altro compisse una ricerca on line sull’informazione richiesta.
«Oh» esalò il R’ent, quando i dati comparvero davanti alla sua retina sintetica.
«Già» annuì John, svoltando a sinistra ed entrando con il surrogato in un ampio salotto dai colori chiari. «Amputati, claudicanti, infermi… Chi baratterebbe la propria realtà con la possibilità di correre ancora una volta libero?»
«Lei lo ha fatto» disse Sherlock, allontanando lo sguardo dall’altro per farlo correre lungo la parete alla propria destra, occupata per intero da un’imponente libreria ingombra di volumi.
«Vero» confermò John, lasciandosi cadere sulla poltrona in tessuto bianco posta di fronte alla biblioteca. «Ma la mia zoppia, in parte psicosomatica, è una condizione meno grave di tante altre. È stata una scelta facile.»
«Non riesco comunque a capire» ammise nuovamente il R’ent.
«Da quanto tempo non esce con il suo corpo? Che non sente davvero un odore, o un dolore?» domandò John con voce morbida, terminando di bere il tè e appoggiando la tazza sull’ampio bracciolo della seduta.
Sherlock si bloccò, compiendo una veloce analisi.
«Tre anni, sette mesi e venti giorni» rispose dopo qualche secondo, avvicinandosi alla libreria.
John socchiuse le labbra, sorpreso.
«Dopo il secondo anno…» iniziò, venendo interrotto da un gesto della mano dell’altro.
«Dopo il ventiquattresimo mese si viene registrati come Ritirati. Lo so. Ad ogni modo, nel mio caso, allontanarmi dall’insulsa massa caotica che abita questa città non è stato un gran sacrificio, mi creda.»
«Potrei chiedere cosa l’ha spinta ad una decisione simile?» domandò John, osservando le dita dell’altro muoversi veloci lungo gli scaffali.
«Ed io posso chiederle cosa l’ha spinta ad ospitare un perfetto estraneo in casa sua?» ribatté Sherlock.
«Per prima cosa ho ospitato il R’ent di un estraneo in casa. Quindi un soggetto programmato per non nuocermi in nessun modo.»
«Alla luce di quanto ho visto ultimamente, questa affermazione risulta altamente opinabile, mi creda» ribatté l’altro, a fior di labbra.
«Secondo poi – continuò John, non dando segno di averlo sentito – sono un medico, ed ho il dovere di soccorrere i miei pazienti. La clinica non è attrezzata per accogliere i R’ent, ed anche quelli che ci lavorano devono compiere il proprio ciclo di ricarica presso il loro Punto di Ripristino, quindi… Il mio turno era quasi terminato, ed ho pensato che al mio Sostituto non sarebbe dispiaciuto che qualcuno utilizzasse il suo cavo di alimentazione per un paio d’ore.»
Sherlock rimase in silenzio per qualche secondo, continuando a dare le spalle all’altro.
«D’accordo» gli accordò poco dopo, impettendosi e socchiudendo gli occhi. «La risposta alla sua domanda è semplice e, forse, deludente: noia» esternò, i polpastrelli a danzare da una costola all’altra dei volumi esposti. «Mi ha spinto la noia. E una piccola fetta di necessità.»
«Necessità?» ripeté il medico, con tono interessato.
«Certo, necessità» ribadì il R’ent, voltandosi verso l’altro con un sorriso enigmatico. «Ai fini di catturare il numero maggiore di malviventi possibile è più vantaggioso - a livello di dispendio di energie e, chiaramente, di incolumità personale – utilizzare un R’ent.»
«Catturare i malviventi?» John sgranò gli occhi, sollevando le sopracciglia. «Cos’è, un poliziotto in pensione?»
«Affatto. Sono quanto di più lontano dall’incompetenza della polizia possa esistere» affermò Sherlock, con voce decisa.
«Ovvero…?» lo incalzò l’altro.
 
«Ovvero un consulente investigativo. L’unico al mondo, per essere precisi. Ho inventato io il lavoro» spiegò lui, ammiccando con un movimento lento accompagnato da un leggero fruscio metallico.





Angolo dell’autrice:

Ancora una volta dovrò essere rapidissima in questo spazio, vi chiedo scusa.
Sono reduce da due giorni estenuanti e, all’orizzonte, se ne prospettano altrettanti.

Con il rischio concreto di non riuscire ad entrare sul sito per tutto il week end, ho intimato a me stessa di aggiornare questa sera.
Sono contenta di esserci riuscita. ^_^

Come sempre e di cuore, ringrazio chiunque abbia letto fin qui. 

A presto,
B.

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Capitolo 8
*** 7. (ovvero di come Sherlock Holmes mostrò a John Watson la sua vera natura) ***


L'incontro di due personalità è come il contatto tra due sostanze chimiche: se vi è una qualsiasi reazione, entrambi ne vengono trasformati. 
(Carl Gustav Jung)
 


7. 
(ovvero di come Sherlock Holmes mostrò a John Watson la sua vera natura)
 
 
 
John alzò un sopracciglio, allargando le braccia per appoggiarle ai braccioli della poltrona. Il movimento lo irrigidì, mettendo in mostra il petto.
«Lei non mi crede» commentò il R’ent, rimanendo impassibile. «Non mi sorprende.»
«In realtà non sapendo cosa sia, un “consulente investigativo”, fatico a farmi qualsiasi opinione in merito» ribatté il medico, sollevando le spalle con un sorriso divertito.
Quella destra si alzò con più fatica, rimanendo bloccata a metà del movimento.
«Lei è un empirista» riprese Sherlock dopo qualche secondo, tornando a rivolgersi alla libreria. «Nel senso più puro del termine, se pensiamo allo stato nel quale si ritrova il suo Sostituto. L’empirismo è un’ottima scelta di vita, purché non diventi così stretto da imprigionare la ragione.» Appoggiò un dito su un volume, spingendolo verso di sé. «È un medico attento… Ma anche un uomo d’azione» continuò, mostrando all’altro il volume appena estratto dallo scaffale. «"Sūnzǐ Bīngfǎ”1). Davvero raro incontrare una persona così tanto dissimile da se stessa.»
John accennò un sorriso, abbassando per un attimo lo sguardo.
«La guerra cambia gli uomini» rispose, con voce bassa e tono amaro.
«Gli uomini cambiano gli uomini» replicò Sherlock, sistemando nuovamente il volume al suo posto. «E sempre in una versione più veritiera di sé.»
Il medico, gli occhi ancora fissi verso il basso, aggrottò la fronte. «Se fosse vero, il soldato sarebbe stato solo una copertura per il tranquillo medico ospedaliero che sono diventato» sussurrò, riflettendo sul concetto mentre lo esponeva.
«Oh, no» lo interruppe l’altro. «Non è mai diventato tranquillo. Altrimenti non avrebbe portato un R’ent con un’evidente ferita d’arma da taglio in casa sua e, se questo non fosse sufficiente, a dimostrare chiaramente la sua natura ci pensa il corpo che tanto ama utilizzare.»
Sherlock tornò con gli occhi su John, trovandolo intento a fissarlo con un’ombra cangiante e sfuggente nello sguardo.
«Non credo di riuscire a seguirla» ammise il medico poco dopo, la voce arrochita dalla leggera stretta che sentiva iniziare a premere attorno al collo.
«Muove male la spalla destra. Immagino per via del tessuto cicatriziale che si è formato attorno al foro d’ingresso di un proiettile» riprese il R’ent, concentrato sul mutare dell’espressione sul volto dell’altro. «L’hanno ferita ad una spalla, ma non è della limitata mobilità alla scapola che si lamenta. Anzi, la ignora. Manifesta però una – persino a suo dire, immagino sulla scia di una diagnosi ricevuta da un collega – zoppia psicosomatica. Perché trascurare una cosa e generare l’altra? Forse per creare una “trasposizione” fisica all’imposizione che sente di aver subito ingiustamente? È stato congedato dall’esercito e le sembra che l’abbiano deliberatamente privata di un arto. Che sia stato menomato. E adesso se ne va in giro con un cartello appeso al collo con su scritto “sono un uomo d’azione ma sono costretto da fattori che non dipendono dalla mia volontà ad assumere una forma mite e remissiva”.»
«Cos…» John socchiuse le labbra, sollevando di scatto la testa.
«Quindi eccola qui, la versione più autentica del Dottor Watson: un uomo che ha rischiato di morire in missione e che, per qualche assurda ragione, si è convinto che desiderare altra adrenalina invece di ringraziare ogni giorno per aver ricevuto un miracolo sia sbagliato» terminò il R’ent, appoggiandosi con le spalle alla libreria.
«È sbagliato» sibilò l’altro, portandosi le labbra tra i denti. «È sbagliato per ogni commilitone che non ha avuto il privilegio di poter tornare a casa.»
«Tornare a casa privati della propria natura sarebbe un privilegio?» chiese Sherlock, sorpreso.
«Sì, se significa essere vivi» soffiò John, il viso arrossato dalla rabbia.
«No, se significa essere in manette» ribatté l’altro.
Per qualche secondo nella stanza ci fu un silenzio denso, carico. Sherlock attese con espressione del viso neutra che l’ira che animava invece quello del medico lasciasse spazio alla comprensione nella sua forma più vera, profonda.
Quando vide il profilo della mascella dell’altro ammorbidirsi, si staccò con un leggero colpo di reni dalla struttura in legno alle proprie spalle, e fece un passo verso di lui.
«Sto indagando su una serie di strani comportamenti messi in opera da cyborg e R’ent negli ultimi mesi» iniziò, stirando le labbra in un sorriso teso. John rimase immobile, attento, in ascolto. «E, come evidenziato dalle condizioni del mio stomaco, sto riscontrando qualche difficoltà nel valutare correttamente i rischi in virtù dei possibili benefici.» Si interruppe, distogliendo lo sguardo. Si morse velocemente le labbra, in una chiara imitazione di quanto – da qualche parte – stava facendo il Fingunt che lo governava.
«Non chiedo una disponibilità costante, è chiaro. Ma mi domandavo se le andasse di testare se la sua resistenza all’adrenalina è ancora quella di un tempo» terminò, sollevando un lato della bocca con fare incerto.
«Mi sta chiedendo di unirmi a lei?» chiese John, preoccupato di aver frainteso.
«Le sto dicendo che un sostegno medico alla mia indagine mi sarebbe utile. In cambio, posso offrirle una scappatoia dalla routine che la sta azzoppando. Letteralmente.»
«Mi conosce appena» ribatté il medico, lasciandosi andare con le spalle contro la poltrona.
«Conosco quanto serve. La sorprenderebbe scoprire cosa si può imparare di un uomo dai suoi abiti, i suoi capelli ed i suoi libri» replicò Sherlock, atono.
«Ed io non conosco lei. Non so neanche se quella che vedo sia la sua vera forma» continuò John.
«Mi sta domandando se somigli al mio R’ent?» chiese l’altro, aggrottando le sopracciglia. «Non vedo come la cosa possa aiutarla a valutare con più cognizione la mia offerta… Ad ogni modo, se può servire: sì, la fisionomia del mio Sostituto è stata creata su una mappatura molto accurata dei miei lineamenti.» Sherlock sorrise in modo marcato, sforzando al massimo i muscoli sintetici sotto la cute, tornando serio subito dopo. «Nelle espressioni particolarmente articolate come questa si nota qualche differenza, chiaramente. Ma, nel complesso, il mio Sostituto somiglia alla mia versione dei tempi del college.»
«Sui vent’anni, quindi» rifletté John. «E adesso quanti ne ha?»
«Trentacinque. Compiuti da poco. Meno elastina sottocutanea, maggior numero di capelli bianchi. Comunque pochi, se le interessa saperlo.»
Il medico arricciò il naso, cercando di trattenere la risata che sentiva premere ai bordi delle labbra.
«Suono il violino, mi diletto con esperimenti di chimica e può accadere che non parli per giorni» terminò Sherlock. «Credo che sia tutto.»
«Bene.» John si schiarì la gola, ondeggiando la testa con fare assorto. «Supponiamo che, dopo averla “conosciuta meglio”, io sia interessato alla sua offerta. Da dove cominciamo?»
 
«Direi che potremmo iniziare dal fare una visita all’anziana donna inferma che mi ha aggredito in un vicolo.»

 
 



Note:
 
1) L'arte della guerra” (孫子兵法).
È un trattato di strategia militare attribuito al generale Sunzi, vissuto fra il VI e il V secolo a.C.
Si tratta del più antico testo di arte militare esistente, ed ebbe una grande influenza anche nella strategia militare europea. È un compendio i cui consigli si possono applicare a molti aspetti della vita, oltre che alla strategia militare.
 


"Quando ti muovi sii rapido come il vento, maestoso come la foresta, avido come il fuoco, incrollabile come la montagna"

"In ogni conflitto le manovre regolari portano allo scontro, e quelle imprevedibili alla vittoria"

"Combatti con metodi ortodossi, vinci con metodi straordinari"

 
 

 
Angolo dell’autrice:
 
Il capitolo di oggi è forse il più breve in assoluto pubblicato finora. Ma è qui, in queste poche righe, che avviene il cambiamento maggiore.
È da qui che tutto parte, realmente.

Perché si può incappare casualmente in qualcuno, lungo la via. Ma si deve compiere una scelta, consapevole e ponderata, per continuare poi a camminare insieme. 
 
Grazie, come sempre e di cuore, a chiunque abbia letto fin qui. ^_^
 
A presto,
B.

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Capitolo 9
*** 8. (ovvero di John Watson scoprì il fascino di un trucco svelato) ***


Scegli una persona che ti guardi come se fosse una magia.
(Frida Kahlo)
 
 


8. 
(ovvero di John Watson scoprì il fascino di un trucco svelato)
 
 
 
Timothy Brittney chiuse gli occhi con forza, fin quando non vide comparire piccole scintille rosse nel proprio campo visivo. Si morse violentemente un labbro, stringendo i pugni attorno al piccolo lenzuolo che ricopriva il suo letto.
«Fa male, lo so. Mi dispiace.» Nana premette con ancora più energia sulla ferita. Un po’ di acqua ossigenata uscì dai lati della garza, iniziando a colare lungo la gamba del bambino.
«Passerà presto» lo rincuorò, sbattendo un paio di volte le palpebre.
Il piccolo annuì, continuando a tenere gli occhi chiusi. Dopo qualche secondo il bruciore diminuì, e si convinse a socchiudere il destro per vedere a che punto fosse la sua babysitter con il cambio della medicazione.
La trovò immobile, le ginocchia a terra e il viso fisso sulla sua gamba.
«Nana?» la chiamò, ottenendo in risposta un altro rapido battito di ciglia. «Nana, va tutto bene?» provò di nuovo, la voce acuta per la preoccupazione.
La donna inclinò la testa da un lato, assumendo un’espressione pensierosa.
«Sai, Tim - incominciò di colpo, sollevandosi con un movimento fluido – credo che dovremmo studiare un po’ di autodifesa.».
«Perché sono caduto?» domandò lui, le gote arrossate e l’aria colpevole.
«Oh, no, piccolo mio» rispose lei, rassicurante. «Perché potrei cadere io.»

 
***
 
 
«Non credo di aver mai messo in funzione questo coso, prima» ammise John, tentando di sciogliere un grosso nodo al centro del cavo metallico che stringeva tra le mani.
«Piuttosto inutile, come ritrovato, se si mantiene il proprio R’ent di fianco a tè e biscotti» commentò Sherlock, seduto a terra al centro del salotto. Si portò le dita dietro la nuca, iniziando a compiere i movimenti necessari a far scattare lo sportellino dell’alloggiamento posto sotto i capelli.
«Secondo me sarebbe più facile, se si togliesse sciarpa e cappotto» suggerì il medico, continuando a lavorare sulla corda.
«Sarebbe più facile, o l’aiuterebbe ad avere l’impressione di star interagendo con un essere in carne ed ossa?» ribatté l’altro, spostando ancora una volta la stoffa azzurra che continuava ad intralciarlo nell’operazione di apertura.
«Diciamo che vederla senza soprabito, e magari con una camicia integra e non ricoperta di liquido oleoso, aiuterebbe a non considerare la ricerca di un’ottuagenaria con istinti omicidi una completa follia» borbottò il medico, riuscendo a liberare un lembo.
«Era il suo Sostituto, ad averne. Non lei» sospirò Sherlock, spazientito.
«I R’ent eseguono ordini» gli ricordò John, chinandosi per collegare il cavo ad una delle prese dietro al grosso televisore dall’ampia cornice che occupava un’intera scaffalatura della libreria.
«Al diavolo!» sbuffò l’altro, spazientito, scrollandosi di dosso il cappotto con bruschi movimenti delle spalle. «Va bene, d’accordo!» si lamentò di nuovo, allargando rabbiosamente il nodo che stringeva al suo collo la spessa sciarpa di lana azzurra. Se la sfilò con un solo gesto, abbandonandola sul soprabito. Sollevò i capelli che gli ricoprivano la nuca con la mano sinistra, usando la destra per terminare di liberare gli ingranaggi di chiusura.
«Non ho mai capito perché l’alloggiamento per l’alimentazione e l’uso del R.ews1) non corrispondano» commentò il medico, allungando il cavo tra le dita fino ad inserire l’altro capo nel foro circolare contenuto nella piccola custodia sottocutanea.
«Perché, negli esseri umani, l’apparato digerente e quello mnemonico non coincidono» spiegò sbrigativo Sherlock, attendendo con la testa chinata di sentire il suono metallico che annunciava la corretta adesione tra i due lembi del circuito.
John alzò le sopracciglia, colpito. «Non avevo mai analizzato la questione da questo punto di vista, in effetti» borbottò, rianalizzando velocemente il pensiero appena espresso dall’altro.
«Non mi sorprende. Sembra quasi che le persone si divertano, a non pensare» sibilò Sherlock, girandosi con un movimento strascicato verso il televisore.
«È sempre così gentile, o sono i circuiti della BDM ad avere una pessima influenza sul suo carattere?» commentò John, con tono ironico.
«La memoria locale non ha alcun potere sul mio pensiero emotivo» sussurrò l’altro, bloccandosi e chiudendo gli occhi.
«Lo immaginavo» sospirò il medico, tornando verso la poltrona e lasciandosi cadere con un tonfo sordo sulla sua seduta.
«Allora, dunque…» Sherlock inclinò la testa da un lato, lentamente. Senza cappotto e sciarpa, John riuscì a vedere i meccanismi metallici all’interno del lungo collo dell’altro affiorare nella parte esterna della pelle, dov’era tesa al massimo. Rotelle e cavi, piccole increspature appuntite al di sotto di una perfetta e bianchissima cute sintetica.
Il cavo che collegava il R’ent al televisore fuoriusciva dalla massa caotica di capelli neri che ne ricopriva la testa con ricci scomposti e disfatti, e sembrava quasi esserne una naturale appendice. Raramente – si ritrovò a pensare John - aveva visto un simile grado di accuratezza per i particolari. Quasi tutti i prototipi maschili venivano realizzati con una capigliatura liscia e molto corta, in modo da abbattere i costi di produzione e le cure per la manutenzione. Per le donne, invece, erano disponibili molte varianti. Ma, anche in quel caso, era raro veder un R’ent fuoriuscire dalla fabbrica con i capelli mossi. Le signore che desideravano un cambio di look potevano affidare i propri Sostituti alle cure di un parrucchiere, esattamente come avrebbero fatto in prima persona. Solo a personaggi particolarmente eccentrici e danarosi era concesso di richiedere delle modifiche sul modello di fabbrica. Sherlock - a giudicare dalla piccola quantità di nei che gli coprivano la nuca e la breve porzione di spalle che era dato al medico di vedere – doveva appartenere di diritto ad una delle due categorie, se non ad entrambe.
Un piccolo lampo sullo schermo della tv richiamò John dai suoi pensieri.
Ci fu un’interferenza, che durò solo qualche secondo. Poi, all’improvviso, sull’apparecchio comparve l’immagine di un vicolo. La parte destra dell’immagine risultava leggermente fuori fuoco, ed il medico dovette socchiudere le palpebre per compensare.
«Ha un malfunzionamento alla Camera Oculare di destra» comunicò a Sherlock, che lo zittì con un sibilo basso.
«Lo so. Non è importante» rispose poi, sbrigativo.
«È difficile che quel tipo di componente si guasti…» continuò John, abbassando la voce.
«No, se si viene colpito da un bicchiere esattamente in quel punto» soffiò l’altro, continuando a tenere il capo reclinato.
«Le hanno tirato un bicchiere?» si sorprese il medico, una risata stretta in gola.
«Tecnicamente sono stato io a farlo. O meglio, lo ha fatto il mio Fingunt. E ora silenzio! Sta arrivando.»
John sollevò il mento, il viso improvvisamente serio. Si sedette meglio sulla poltrona, portandosi in avanti per vedere meglio le immagini scure sullo schermo.
Un’anziana, curva e dall’andatura traballante, comparve alla sinistra del televisore.
L’immagine si inclinò, seguendo quello che doveva essere stato il movimento compiuto dalla testa del R’ent.
«Giovanotto, potrebbe aiutarmi?» domandò con voce debole la signora, sollevando appena gli occhi verso di lui.
«Non adesso, sto seguendo una pista.» La voce di Sherlock, filtrata dalle sue orecchie e dall’audio del televisore, apparve ancora più bassa di quanto non fosse nella realtà.
John, dietro di lui, scosse la testa sconsolato.
«Dovrebbe solo leggermi un indirizzo, nulla di più» insistette la donna, muovendo qualche passo confuso verso il R’ent.
«E va bene, va bene! Purché poi mi lasci in pace, d’accordo?» si arrese Sherlock, raggiungendola velocemente. «Anzi, a ben pensarci dovrebbe proprio allontanarsi da questa zona, è pericol-» iniziò, chinandosi sull’anziana che – di scatto – sollevò del tutto testa, collo e busto.
L’immagine si bloccò, arrestandosi sullo sguardo attento e concentrato della donna, improvvisamente vigile. Il viso si era indurito, aumentando il numero di pieghe intorno ad occhi e bocca.
«Che succede?» domandò il medico, perplesso.
«Nulla, abbiamo semplicemente quello che ci serviva: un’immagine nitida della mia assalitrice. Le dispiacerebbe farle una foto?» rispose Sherlock, ancora immobile, il collo teso in modo innaturale da un lato.
«Non continuiamo a vederlo?» ribatté John, recuperando comunque il proprio cellulare dal tavolino di fianco alla poltrona.
«E perché mai. So cosa succede dopo. Rissa, coltello, rottura del Nodo Portante del R’ent… noioso.»
«Noioso… Un R’ent che, venendo meno alla sua stessa natura, attacca un altro Sostituto sarebbe noioso» ripeté l’altro, scattando un paio di foto allo schermo.
«Decisamente. Ora…» Sherlock sollevò la testa, sfilandosi velocemente il cavo dalla nuca. «Non resta che inoltrare la foto a chi potrà dirci chi sia la signora ed in quale ospizio alloggi» terminò, mentre il meccanismo automatico dell’alloggiamento lo faceva richiudere.
«Se non sa chi sia, come fa a dire che si trovi in un ricovero?»
«Per l’amor del cielo, l’ha vista?» rispose il R’ent, spazientito. Si alzò da terra con un mezzo giro su se stesso, e puntò gli occhi sull’altro.
«Visto cosa? Dato che è una donna anziana deve necessariamente essere ricoverata in una struttura?» cercò di capire il medico, il cellulare ancora tra le dita.
«Mi domando perché vi piaccia così tanto non terminare mai un pensiero logico. Eppure è naturale, riflettere!» Sherlock allargò le braccia, con fare sconsolato.
John gli lanciò un’espressione torva, stirando le labbra.
«Cosa mi ha aggredito?» sospirò il detective, allungando una mano per farsi consegnare il telefono.
«Il R’ent di un’anziana donna?» provò John, lasciandogli cadere l’apparecchio tra le dita, con fare leggermente restio.
«Il R’ent anziano di una donna, presumibilmente anziana anch’essa. Perché, diciamocelo, quale donna si farebbe assegnare un Sostituto esteticamente più vecchio di lei?»
John rimase in silenzio, provando a seguire il pensiero espresso dall’altro.
«E in quali luoghi vengono consegnati R’ent anziani a forma e somiglianza dei loro Fingunt…?» lo spronò Sherlock, iniziando a digitare velocemente sul display del telefono.
«Negli ospizi» sospirò John. «Per aiutare gli ospiti. Accidenti, una volta spiegato tutto il procedimento non sembrano più affermazioni tanto assurde…!»
Sherlock abbozzò un sorriso. «Certo che no. Perché non è una magia, o un trucco. È semplice e banale logica. Chiaramente, una volta svelata, perde gran parte del suo fascino, ma…»
«Io continuo a trovarlo affascinante anche dopo la spiegazione, in realtà» ammise John, scuotendo la testa. «Straordinario, davvero.»
«Dice?» si sorprese l’altro, sollevando rapidamente gli occhi dallo schermo per osservare il volto del medico.
«Assolutamente!» confermò lui, annuendo con convinzione.
«Meglio così.» Sherlock passò nuovamente il telefono all’altro. «Sarà più facile collaborare, se si fiderà completamente di quanto le dico senza farmi perdere tempo in inutili spiegazioni.»
John fece per ribattere, ma decise di lasciar perdere. Con un sorriso rassegnato appoggiò il telefono al bracciolo della poltrona e si lasciò andare all’indietro, incrociando le braccia al petto.
«Quale sarebbe la prossima mossa, quindi?» si informò.
 
«Aspettare» rispose l’altro, tornando a sedersi sul pavimento con un movimento fluido.

 
 



Note:
 
1) Review”: nella mia idea, ogni R’ent immagazzina e conserva una registrazione delle ultime 24 ore vissute. La registrazione avviene attraverso delle telecamere oculari, le stesse che permettono in tempo reale al Fingunt di vedere cosa il proprio Sostituto stia, a sua volta, vedendo.
I video – per necessità di spazio - vengono costantemente sovrascritti, in un percorso circolare di impressione e cancellazione.

 
 

 
Angolo dell’autrice:  

Dovrò essere, in questo angolo, ancor più breve del solito, oggi.
 
Ancora una volta, grazie a tutt* per la splendida compagnia che mi state facendo – commentando, inserendo la storia in una delle categorie, o anche solo leggendo - durante questo viaggio.
 
È un grande regalo, per me, e non posso che esservene grata. ^_^
 
A presto,
B.

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Capitolo 10
*** 9. (ovvero del passato, del presente e del futuro) ***


Il passato è l’elemento più fragile: sbiadisce sempre. E il più stabile: non cambia mai.
(Alessandra Paganardi)
 
Il Passato giace sul Presente come il corpo morto di un gigante.
(Nathaniel Hawthorne)


9.
(ovvero del passato, del presente e del futuro)

La punta del cucchiaino affondò lentamente nel liquido scuro e fumante sotto di sé, appannandosi appena prima di scomparire inghiottito da un fiotto di tè.
Il manico, ben stretto tra le dita di una mano curata, roteò un paio di volte. Poi venne sollevato con attenzione, facendo riemergere l’estremità umida, e appoggiato al bordo del piattino con un gesto fluido.
La mano si chiuse attorno all’impugnatura della tazza, alzandola sino ad un paio di labbra chiare e tirate. Oltre la barriera di ceramica e del fumo che si alzava dal suo interno, un uomo dagli occhi chiari, attenti, lanciò uno sguardo al grosso orologio da parete affisso sopra l’ingresso della stanza al centro della quale – dietro ad una pesante scrivania in legno lavorato – stava seduto in abito elegante.
Lo schermo del suo telefono - abbandonato poco lontano dal piattino - si illuminò, seguito qualche istante dopo dall’enorme monitor alle sue spalle.
L’immagine di una donna anziana occupò l’intero display, accompagnata da uno scarno messaggio:
 
Rintraccia il suo Fingunt. SH
 
Con calma l’uomo si allontanò la tazza dalle labbra, appoggiandola nuovamente sul tavolo.
Poi, senza scomporsi, allungò un dito verso l’interfono alla propria sinistra.
L’ologramma di una donna minuta, capelli castani stretti in una coda e corpo fasciato in un tailleur grigio di foggia sartoriale, comparve subito dopo da una delle fessure dell’apparecchio.
«Ho bisogno delle coordinate esatte di un Fingunt, Anthea» spiegò l’uomo, con voce bassa. «Quando le hai, inviale pure a mio fratello al numero 555120387.»
«Non sarebbe meglio trasmettere un file al suo R’ent?» domandò lei, impassibile.
«Come sai, detesta intromissioni esterne alla BDM. Invia tutto quello che trovi al numero dal quale mi ha contattato. Andrà bene.» L’uomo interruppe la comunicazione. La stanza divenne, di colpo, un po’ più scura.
«Accesso ai comandi vocali» scandì, con tono sostenuto. L’immagine sul display alle sue spalle scomparve, sostituita da una grossa palla rossastra, fluttuante al centro dello schermo.
«Comandi vocali abilitati» comunicò la sfera, vibrando.
«Rintraccia soggetto titolare del numero 555120387» ordinò lui, facendo girare la sedia in modo da vedere i risultati della ricerca.
«Numero 555120387 appartenente al soggetto John Hamish Watson, Capitano in congedo permanente del Quinto Fucilieri Northumberland. R’ent assegnato: modello MLT15, data ultimo collegamento ignota.»
L’uomo sollevò un sopracciglio, colpito.
«Un militare» rifletté, mentre sullo schermo comparivano varie immagini di John.
«Posso fornire età, peso, altezza, luogo di nascita e odierna residenza, se desidera» ricordò la voce metallica, riempiendo la stanza.
«Inviami il suo fascicolo completo, e accendi la telecamera di sorveglianza pubblica più vicina alla sua abitazione» dispose l’uomo.
Lo schermo si spense con un ronzio, riaccendendosi poco dopo. L’immagine di una piccola palazzina di due piani, di un innaturale blu elettrico, prese il posto delle foto del medico.
«Il R’ent SGGB02 è all’interno?»
«Sì, il R’ent SGGB02 si trova all’interno, assieme al modello MLT15 e ad un essere umano, presumibilmente John Watson» confermò il programma.
«Grazie. Disattiva comandi vocali.» L’uomo si lasciò andare all’indietro verso lo schienale e chiuse gli occhi, incrociando le dita delle mani e portandosele sotto al mento.
Erano anni che non vedeva il fratello interagire con un altro essere per una quantità di tempo superiore a quella strettamente necessaria alla risoluzione di un caso. Non era mai accaduto, poi, che – per mettersi in contatto con lui – avesse chiesto l’aiuto di qualcuno, coinvolgendo il soggetto in modo diretto in una delle sue investigazioni. Il fatto che si trovasse a casa di uno sconosciuto nel cuore della notte era una situazione nuova e, come tale, dagli sviluppi incerti e difficilmente ipotizzabili senza dati ulteriori. Provò a sondarne qualcuno, scoprendo che vertevano principalmente in due direzioni opposte e contrarie. Poteva essere la svolta che attendeva da tempo, l’ancora di salvezza per quel fratello isolato dal mondo da oltre tre anni. Ma, allo stesso modo, avrebbe potuto anche essere la sua completa rovina, la prova finale che al mondo non fosse rimasto nulla in grado di suscitare davvero il suo interesse.
Uno scampanellio acuto annunciò che tutti i dati riguardando John Watson erano stati scaricati sul pc. L’uomo tornò a girarsi verso la scrivania, passando una mano sul sensore di accensione schermo del portatile.
La scritta “Nome utente e password” si accese al centro del display, in un azzurro chiaro.
Con lentezza l’uomo iniziò a scrivere, nel primo campo, “Mycroft Holmes”.
 
 
***
 
Lo squillo del telefono - un trillo acuto, stridulo - rimbombò lungo le pareti vuote dell’ampio ingresso, andando a morire tra le cornici antiche e pesanti dei quadri che le occupavano per buona parte.
Rimase vibrante nell’aria, abbassandosi ed alzandosi al ritmo del suono sordo dall’altro capo della cornetta. Dal fondo del lungo corridoio che dalla hall conduceva alle stanze del primo piano, il rumore ovattato di gomma trascinata divenne sempre più forte, rallentando ogni volta un tappeto si sostituiva alle lucide assi di legno del pavimento.
Quando lo squillo dell’apparecchio telefonico e quello della gomma furono praticamente indistinguibili, cessarono entrambi di botto.
Si udì un colpo di tosse, poi lo schiarirsi di una gola intorpidita.
«Hai trovato quanto ti ho chiesto?» Una voce bassa, afona, sillabò le parole una ad una, con fatica.
«Anthea ci sta lavorando proprio in questo momento» rispose l’uomo dall’altro capo del telefono, senza scomporsi.
«Allora a cosa devo questa chiamata?» domandò la voce, rauca. «Oh, capisco» si illuminò qualche secondo dopo, rianimandosi appena. «Sto bene, fratello caro. Gentile quanto superfluo, da parte tua, preoccuparti.»
Ci fu un attimo di silenzio, interrotto solo dal respirare pesante dell’uomo nell’ingresso e da quello lungo e profondo dell’altro.
«Riceverai informazioni a breve» riprese questi dopo qualche secondo.
«Ottimo. Adesso perdonami, ma temo che il mio ospite si stia chiedendo perché mi sia bloccato con gli occhi spalancati nel suo salotto» commentò sbrigativamente la voce flebile, prima di riportare la cornetta del telefono al proprio posto. Rimase immobile per una decina di secondi, fissando con interesse l’apparecchio. Non si soffermava spesso a riflettere su quell’aspetto, ma dovevano essere rimasti gli ultimi in tutta l’Inghilterra a comunicare attraverso una linea telefonica via cavo.
Il numero zero era del tutto cancellato, così come il tre. Per anni erano stati usati per comunicare con lo studio del padre attraverso l’interfono, lo stesso che adesso era occupato dai suoi oggetti personali.
Socchiuse gli occhi e allontanò lo sguardo dalla scatola di plastica chiara. Con lentezza tornò indietro lungo il corridoio, gomma contro legno. Ricordi contro amnesie.
 
 
***
 
 
«Ha mai avuto un telefono con tastiera?» Sherlock sbatté un paio di volte le palpebre, mettendo lentamente a fuoco la figura di John intento a guardarlo con aria confusa dalla poltrona.
«Problemi con la Connessione…?» gli domandò il medico di rimando, ignorando la frase appena pronunciata dall’altro. «Per qualche minuto è stato… assente.»
«Questioni di famiglia» rispose sbrigativamente il R’ent, inclinando la testa da un lato. «Ha mai avuto un telefono con la tastiera?» chiese di nuovo, atono.
«Beh, sì… credo di sì. Immagino fossero piuttosto comuni durante l’infanzia di quelli della mia generazione. Anche della sua, direi…»
«E adesso ne possiede uno?» continuò Sherlock, incrociando le gambe a terra.
«Adesso? La rete telefonica non si appoggia più al sistema via cavo da almeno quindici anni! Sarebbe sostanzialmente inutile, a meno di non avere un filo diretto con qualcun altro. Perché me lo chiede?»
«Cerco di creare degli argini che la delimitino» spiegò il R’ent, portandosi l’interno del labbro inferiore tra i denti. «Dobbiamo rimanere immobili ad aspettare informazioni. Tanto vale conoscersi meglio, almeno per quel poco che possa risultare utile per interazioni future. Quindi… non ama la tecnologia, ma non la detesta al punto di rifiutarla in toto» si appuntò mentalmente.
«Un telefono satellitare non ha la pretesa di incamerare l’odore di un campo d’erba appena tagliato al posto tuo» ribatté il medico, con un sorriso morbido. «Ma so che, probabilmente, per lei questa è un’assurdità da vecchio sentimentale.»
«Fa supposizioni per cercare di costruire a sua volta recinti per definirmi?» domandò Sherlock, sorpreso.
«Forse in modo troppo evidente e goffo, per uno come lei» confermò John, scuotendo la testa. Attorno alle labbra piccole rughe d’espressione si ammassarono, sottolineando in modo silenzioso che la cosa lo stesse divertendo.
Sherlock sollevò le sopracciglia, colpito da quei piccoli segnali del corpo tanto rivelatori quanto difficili da riscontrare nelle persone che abitualmente incontrava per strada.
«Che c’è?» chiese il medico, perplesso, sentendosi fissare.
«Nulla. È solo che è assai raro imbattersi in una mimica facciale non alterata dall’utilizzo dei Sostituti» spiegò Sherlock, veloce, distogliendo lo sguardo.
«Non incontra mai nessuno di persona? Non ha una moglie, dei figli…»
«Non ho figli. E le donne, come amavo ripetere a mio fratello negli anni dell’adolescenza, non sono esattamente la mia area.»
«Oh.» John socchiuse le labbra e raddrizzò la schiena, sorpreso. «Ha un ragazzo, allora?» riprese poco dopo, incespicando sulle parole.
«No. E no, non vedo spesso persone in carne ed ossa. Si potrebbe dire che non ne incontri affatto, tranne i rari coraggiosi che scelgono – come lei – di muoversi per le strade con il proprio corpo.»
«Quando qualcuno la viene a trovare su Sussex lo fa con il proprio R’ent?» domandò John, scettico.
«No» rispose l’altro, sollevandosi da terra con un movimento fluido. Si passò le mani sui pantaloni, stendendo la stoffa con un movimento vigoroso. «Nessuno viene a trovarmi nel Sussex. È il motivo per il quale ho scelto di tornare lì» concluse, gli occhi ad accompagnare i palmi nel loro lavoro.
«Tornare? Dov-» cominciò il medico, venendo interrotto da due squilli prolungati del proprio telefono, notifiche di altrettanti messaggi arrivati.
«Eccellente, ci siamo!» si entusiasmò Sherlock, sollevando di scatto la testa e correndo a recuperare il cellulare dell’altro dal bracciolo sul quale era stato appoggiato.
Mosse gli occhi sullo schermo dell’apparecchio, sul viso un’espressione sempre più elettrizzata.
John socchiuse gli occhi, osservando i lineamenti del R’ent trasformarsi sotto la spinta di quella scarica di entusiasmo. Visto così, il volto illuminato dalla luce tenue del display, sembrava poco più di un ragazzo dalle fattezze delicate e la pelle chiara come la neve. Senza quella massa di capelli scuri a fare da contorno ad occhi e labbra, sarebbe sembrato sul punto di sparire, leggero come l’aria stessa che si muoveva attorno al suo sorriso.
«Ok, abbiamo un indirizzo» lo informò Sherlock dopo qualche istante, spostando lo sguardo su di lui. Trovò il medico ancora intendo a guardarlo e, istintivamente, corrugò la fronte con un lieve ronzio.
«Va tutto bene?» domandò, incerto.
«S-sì. Mi perdoni, mi ero perso nei pensieri.» John scosse la testa, aiutandosi con i braccioli della poltrona a mettersi in piedi.
«Che genere di pensieri?» si informò l’altro, lasciandosi cadere il telefono della tasca dei pantaloni.
«Nessuno. Stavo solo considerando che forse sarebbe il caso che le prestassi dei vestiti nuovi. Almeno una camicia, in modo da coprire quello squarcio» rispose il medico, indicando frettolosamente la chiazza appiccicosa al centro del petto del R’ent.
Sherlock inclinò la testa da un lato, soppesando l’idea. Poi annuì.
«Sì, forse è il caso che non dia troppo negli occhi. Anche se non credo che lei possegga degli abiti della mia misura.»
«Forse le staranno corti di maniche, ma dovrebbero entrarle, visto quanto è magro» rise John, iniziando a muoversi verso la porta. «Mi segua» lo invitò, incamminandosi lungo il corridoio.
Sherlock lo osservò zoppicare oltre la porta di ingresso, sparendo poco dopo. Lanciò un ultimo sguardo alla stanza, in modo da poterne memorizzare una copia nella propria BDM, e seguì l’altro fuori dal salotto. 




 
Angolo dell’autrice:

Sono davvero felice di riuscire a pubblicare questo capitolo oggi, senza ulteriori attese.
Queste poche parole racchiudono un avvenimento importantissimo, per me: il primo, vero, concreto “affaccio” sulla vita di Sherlock Holmes.
Quello in carne ed ossa, reale, che possiede un passato e si accinge - nel presente - a compiere un passo fondamentale nel futuro, accompagnato dal Dottor Watson.
 
Grazie, come sempre e di cuore, a chiunque abbia letto fin qui. ^_^
 
A presto,
B.
 
P.S.: non ho ancora avuto modo di rispondere alle recensioni lasciate allo scorso capitolo, vi chiedo scusa. Prometto di rimediare quanto prima. 
 

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Capitolo 11
*** 10. (ovvero di un primo viaggio in taxi da sconosciuti) ***


Il destino del mondo è sempre nelle mani di un passante sconosciuto.
(Nicolás Gómez Dávila)


10.
(ovvero di un primo viaggio in taxi da sconosciuti)
 
«Stavo pensando che potrebbe essere utile fare una copia di backup della sua BDM, prima che le immagini dell’aggressione vengano sovrascritte.» John allontanò lo sguardo dal finestrino oscurato del taxi sul quale stavano viaggiando. La pioggia incessante si era tramutata in grandine e, per qualche secondo, il medico ebbe la sensazione che il suo battere costante e violento sulla carrozzeria gli soffocasse i pensieri.
«Perché mai?» domandò Sherlock, schiena al guidatore, arcuando un sopracciglio.
«Perché potemmo aver bisogno di mostrarla a qualcuno. Che so, alla polizia» rispose l’altro, sollevando le spalle per aiutarsi a sottolineare quanto quell’eventualità non fosse poi così remota, o irragionevole.
«Non mostro i ricordi incamerati nella mia BDM a nessuno, men che meno ho intenzione di farne una copia da consegnare alla polizia.» Il detective socchiuse gli occhi, il volto impassibile.
«A me li ha mostrati…» provò di nuovo John, conscio che sarebbe stato, con molta probabilità, un tentativo sterile. Conosceva Sherlock da poco più di quattro ore e, ciononostante, gli era già divenuto chiaro che non ci fosse una sola affermazione fatta da quell’uomo – o, per meglio dire, dal suo Sostituto - che non celasse un articolato e razionale pensiero alla base.
«A lei ho mostrato un preciso momento, cosa non fattibile in caso di backup. Come sa, durante operazioni simili viene trascritta l’intera porzione di disco disponibile, e questo vorrebbe dire copiare le ultime ventiquattro ore della mia vita, cosa che non ho alcuna intenzione di fare» tagliò corto il R’ent, voltandosi verso il finestrino.
Un chicco di grandine sbatté con violenza contro il vetro, un tonfo sordo che fece sobbalzare il medico. Sherlock rimase immobile, sbattendo ogni ciclo vitale di venti secondi le palpebre.
«Sembra più… umano, rispetto ai Sostituti che ho avuto modo di incontrare» azzardò John dopo qualche secondo, affascinato da come il liquido che fluiva attraverso i dotti della gola dell’altro creasse un battito simile a quello di un’arteria ricca di sangue ossigenato.
«Come ho già avuto modo di dirle, mi è stato fornito un modello avanzato.» Sherlock diede un rapido sguardo con la coda dell’occhio al medico, tornando poi a fissare l’esterno.
«La sua famiglia è nell’industria del settore?» insistette l’altro, con malcelato interesse.
«No. Possiamo dire che quel che resta della mia famiglia svolga incarichi di tipo statale.»
«Capisco…» borbottò John, annuendo con poca convinzione.
«Ne dubito» sorrise il R’ent, stirando le labbra. «Ma è meglio così, mi creda.»
Rimasero in silenzio per qualche minuto, immobili, uno a osservare la città accendersi sotto le prime luci del giorno e l’altro con gli occhi sulle proprie mani strette in grembo.
Fu Sherlock, dopo aver inclinato la testa con lentezza ed aver simulato un respiro profondo, a rompere la bolla di quiete assordante che li aveva avvolti.
«Se ha qualche curiosità sulle funzioni di questo particolare modello…» iniziò, venendo interrotto subito da una forte scossa di capo dell’altro.
«Va bene così, davvero. Non deve dirmi nulla» lo rassicurò John.
«Lo so» rispose lui, sollevando un sopracciglio. «Ma vorrei
«Ah. Beh… in questo caso, la ascolto» farfugliò il medico, sorpreso.
«È un ottimo modo per evitare che si preoccupi inutilmente, dovesse presentarsene l’occasione» spiegò Sherlock, annuendo. «Per prima cosa, il Collegamento tra me ed il mio Fingunt avviene via satellite. Ovunque ci sia una copertura, possiamo comunicare.»
John socchiuse le labbra, colpito.
«Niente Wi-Fi, o Bluetooth. Comprende da solo le implicazioni.»
«Certo» confermò l’altro, la voce bassa. «Potrebbe governare il suo Sostituto persino dall’altra parte del mondo.»
«Esattamente. A questo punto, però, diviene chiaramente complicata l’istituzione di un Punto di Ripristino adeguato.» Sherlock mosse il collo da una parte e dall’altra, con un movimento fluido. «Per questo, nella sede che viene occupata normalmente dalla ghiandola pineale, è stato inserito un rotore simile a quello che alimenta gli orologi a carica automatica.»
John sollevò il mento, incamerando l’informazione con aria attenta.
«Mi stai dicendo che non ha necessità di ricaricarsi?»
«Se la perdita di liquidi non avesse momentaneamente manomesso il mio sistema di alimentazione rendendo necessario un collegamento fisico, avrei potuto continuare a muovermi in autonomia per altre 26278 ore circa.»
«26278?» ripeté John, allargando le mani e aggrottando le sopracciglia. «Ma sono circa…»
«Tre anni» lo aiutò l’altro. «O meglio: due anni, 364 giorni e 22 ore.»
«È… incredibile!» Lo stupore sul volto del medico divenne palese, distendendogli i tratti.
«Credo che anche l’esercito lo pensi» rispose Sherlock, cercando di distogliere lo sguardo da quella versione improvvisamente ringiovanita, sotto la spinta dello sbalordimento, dell’altro.
«È un prototipo militare?» John si bloccò, rabbuiandosi. «Certo, avrebbe senso. Guerre con soldati comandati dall’altra parte del globo.»
«Non avrebbe preferito che ci fosse un Sostituto sul campo, il giorno in cui è stato ferito?» chiese Sherlock, interessato dalla reazione dell’altro.
«Avrei preferito non ci fosse stato un conflitto» rispose lui, con voce bassa e rauca. «Ma una corsa a chi manda in missione la tecnologia più avanzata non mi sembra un passo verso la distensione tra gli Stati.»
Il R’ent socchiuse gli occhi, con fare pensieroso.
«No» disse infine, serio. «Immagino di no.»
Il taxi svoltò a destra, rallentando. Oltre i vetri scuri della vettura un alto cancello in ferro battuto brunito risplendé sotto le prime timidi luci del mattino, velate dal muoversi costante delle nubi.
«Siamo arrivati?» domandò John, sporgendosi verso lo sportello.
Sherlock non rispose. Attese che la macchina si arrestasse del tutto e spalancò la portiera, scendendo con un movimento fulmineo.
«Il codice per il pagamento è #12061803!» urlò al tassista, il cappotto sollevato sopra la testa per proteggerla dalla grandine.
John, un po’ a fatica, uscì a sua volta. Lanciò uno sguardo di scuse all’uomo al volante, trovandolo chino sulla tastiera del POS elettronico intento ad inserire la sequenza ricevuta.
«Cosa veniva dopo l’8?» domandò l’autista, preoccupato.
«Allora, vogliamo andare o no?» urlò spazientito Sherlock, immobile vicino all’inferiata.
«03.» John lanciò al R’ent uno sguardo di rimprovero, aspettando che il tassista gli facesse cenno che il pagamento era andato a buon fine.

Poi, rapidamente, alzò il cappuccio del parka e raggiunse con passo leggermente rigido l’altro.
 
 




 
Angolo dell’autrice:

Anche questa volta dovrò essere, in questo angolo, particolarmente stringata.
Mi rendo conto che il testo sia molto corto e che, in buona sostanza, non accada praticamente nulla. Ma siamo ancora nelle primissime fasi della conoscenza tra John e Sherlock e – a partire dal prossimo capitolo – gli eventi prenderanno una piega inaspettata ed una china sempre più ripida.
 
Domani dovrò affrontare un piccolo intervento, nulla di preoccupante. Si tratta comunque (per fortuna!) della prima anestesia totale della mia vita, e la stanchezza degli ultimi giorni di preparazione si è fatta particolarmente sentire, oggi.
Mi dispiace non lasciarvi un aggiornamento più sostanzioso, ma avrei dovuto pubblicarlo senza correggere il testo, e non mi sembrava giusto.
 
Prometto di recuperare con il prossimo. ^_^
 
Grazie, come sempre e di cuore, a chiunque abbia letto fin qui.
E, se vi va, domani mattina tenete le dita incrociate per me. Sarebbe un grande regalo essere "accompagnata" da voi in questo piccolo grande viaggio.
 
A presto,
B.
 
 
 

 

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Capitolo 12
*** 11. (ovvero di Bot e visite notturne) ***


Non dar retta ai tuoi occhi e non credere a ciò che vedi: gli occhi vedono soltanto ciò che è limitato.
(Richard Bach)


11.
(ovvero di Bot e visite notturne)
 
«Forse dovremmo aspettare l’orario di visita» sussurrò John, le mani affondate nelle tasche del cappotto e la testa incassata nelle spalle, affiancandosi a Sherlock con espressione dubbiosa.
Lui, senza dar segno di averlo sentito, citofonò con forza, premendo fino in fondo il pulsante rosso posto accanto alla porticina ritagliata nel cancello.
«Dubito che ci sia qualcuno alla reception, alle sei e mezza del matt-» provò di nuovo il medico, venendo interrotto da una voce metallica.
«Residenza Rose, come posso esservi utile?»
Il R’ent si girò parzialmente verso di lui, lanciandogli uno sguardo trionfante.
«Mi chiamo Sherlock Holmes, sto collaborando con la polizia londinese alla risoluzione di un caso che potrebbe coinvolgere uno dei vostri assistiti» rispose poi, con voce chiara e scandendo le parole. «Il Dottor Watson, che mi accompagna, ed io avremmo bisogno di incontrare Alvina Forrest.»
«Un attimo solo» replicò la voce, prima di staccare la comunicazione.
John sollevò le sopracciglia, portandosi ancora più vicino all’altro.
«Non è un reato spacciarsi per consulenti delle forze dell’ordine?» sibilò, preoccupato.
Sherlock mimò un respiro profondo, socchiudendo gli occhi. «Cosa le avevo detto, a casa? Si deve fidare di me» ribatté rapido.
«Io posso anche fidarmi di lei, ma questo non significa che sia disposto a finire in carcere con lei» contestò John, con tono spazientito.
«Non finiremo da nessuna parte se non nella stanza della signora Forrest.»
«Se continua a millantare collaborazioni fantasios-» riprese il medico, con ancora maggior enfasi.
«Mi stia a sentire.» Sherlock si chinò in avanti, portandosi con il viso a pochi centimetri da quello dell’altro. John, specchiandosi nelle iridi del R’ent, fece istintivamente un passo indietro. «Io non millanto collaborazioni. Sono un Cooperante Esterno della Sezione Crimini Violenti del Quarto Distretto, sotto la guida dell’Ispettore Lestrade. Se proprio le piace l’idea di perdere tempo può contattare la centrale e chiederlo a lui direttamente. Credo si chiami Graham, o Gavin… un nome simile, comunque» sussurrò con irritazione, il volto serio e impassibile. «Adesso, se non le spiace…»
Il suono freddo del cancello che veniva aperto sorprese entrambi, facendoli voltare verso sinistra.
«Ha visto? Semplicissimo» esultò il detective, avviandosi in direzione del portone con passi lunghi e sicuri.
John rimase per qualche secondo immobile con la bocca socchiusa, mentre piccoli chicchi di grandine si incastravano nella pelliccia attorno al cappuccio, appesantendolo.
Sherlock - arrivato vicino alla porta a vetri scorrevole che dava sull’interno della struttura - si voltò verso di lui, facendogli cenno in modo impaziente di avvicinarsi.
Il medico alzò gli occhi al cielo, domandandosi in che razza di guaio si fosse cacciato. Poi, con un sospiro rassegnato, coprì velocemente la distanza tre sé e l’altro.
 
 
***
 
 
Le pareti della hall della casa di riposo erano dipinte di un azzurro tenue, reso ancor più morbido dalle luci soffuse. Un paio di poltrone rivestite di stoffa floreale - anch’essa sui toni del blu - troneggiavano ai due lati della porta d’ingresso, le sedute seminascoste da ampi cuscini ricamati.
John si voltò a guardarle, attratto da quel punto di colore così acceso. Sherlock, invece, attraversò l’ingresso con ampie falcate, avvicinandosi al desk riservato all’accoglienza.
«Come posso aiutarvi?» domandò una donna di mezza età, dal volto gentile.
«Siamo qui per controllare lo stato di salute di Alvina Forrest» le rispose il R’ent, sistemandosi nuovamente il cappotto sulle spalle.
«È un orario inconsueto, per una visita» ribatté lei, inclinando la testa da un lato senza smettere di sorridere.
«Lo dicevo, io…» commentò John, alle spalle di Sherlock.
Lui si girò per un secondo a guardarlo, impassibile.
«Ci ha chiesto lei di farle visita a quest’ora. Soffre di insonnia» scandì poi, tornando a rivolgersi alla segretaria.
Lei sbatté le palpebre un paio di volte, come se stesse cercando di incamerare l’informazione o di confutarla in base ai dati in suo possesso.
Il medico si portò al fianco del detective, osservandola accigliata compiere dei rapidi movimenti oculari.
«Molto bene» sentenziò la donna alla fine, annuendo con convinzione. «Appartamento 3/B, terzo piano.» Indicò con una mano una lunga scala alla propria destra. «Se volete, in fondo al corridoio abbiamo un ascensore.»
«Le scale andranno benissimo» ringraziò Sherlock, tamburellando velocemente sul legno del bancone prima di staccarsene del tutto. «Non è vero, Dottor Watson?»
«Certo… benissimo» confermò lui, confuso, un’espressione incerta ancora dipinta sul volto.
«Buona permanenza, allora» rispose la donna, aprendosi in un sorriso ancora più grande di quello che aveva accompagnato ogni sua parola fino a quel momento.
Sherlock fece cenno a John di seguirlo. Poi, veloce, si mosse in direzione della scalinata.
Quando raggiunsero la fine della prima rampa, approdando su un pianerottolo deserto e scarsamente illuminato, il medico fermò l’altro con una mano, costringendolo a voltarsi.
«Si può sapere cosa sta succedendo?» sussurrò, abbassando istintivamente la testa assieme alla voce.
«Non la seguo» ribatté il R’ent, mantenendo la postura rigida ed il tono di voce inalterato.
«Com’è possibile che ci venga accordato il permesso di far visita a qualcuno a quest’ora?» continuò John, sollevando le mani. «Non dovrebbero esserci controlli, in posti come questo?»
Sherlock alzò un sopracciglio. Poi socchiuse gli occhi, nell’imitazione perfetta di un’espressione di bonaria accondiscendenza.
«Quante volte è stato, esattamente, in un posto come questo?» domandò, stirando le labbra in un sorriso obliquo.
«Neanche una, per fortuna» rispose l’altro, incrociando le braccia al petto.
«Almeno si è accorto che la donna all’ingresso è un Bot?» continuò il detective, trattenendo a stento una risata.
«Cos…» John socchiuse le labbra, sconvolto. «Ma non che non era… cioè…» balbettò un paio di volte, prima di tornare velocemente sui propri passi, fermandosi a metà della rampa. Da quella posizione, la parte laterale del bancone era perfettamente visibile. La segretaria, immobile, ne occupava lo spazio dal lato interno fino alla vita. Subito sotto a dove terminava la sua camicetta bianca, un groviglio di cavi e strutture metalliche le permettevano di rimanere sollevata, ancorandola al pavimento.
«Che mi venga un colpo» mormorò John, scuotendo la testa.
«Visto? Alla fine perché dotare di apparati per la locomozione qualcuno che deve starsene immobile dietro ad un desk» commentò Sherlock, apparendo alla sue spalle.
«E i pazienti…?» chiese il medico, continuando a fissare la parte inferiore del robot.
«Pazienti? Non ci sono pazienti, qui, ma ospiti. È una struttura per la lungo degenza, non un ospedale per malati terminali. Certo, si potrebbe obiettare che la vecchiaia, come la vita stessa, sia di per sé un processo di lento decadimento verso l’entropia e la morte, ma-»
«Mi sta dicendo che nessuno si occupa delle persone che abitano in questo posto?»
«Sto dicendo» riprese Sherlock, pazientemente, facendo cenno all’altro di riprendere a salire. «Che qui vengono aiutate, ma non accudite. Lo pensi come un piccolo condominio, dove due volte al giorno qualcuno viene a consegnare i pasti e a ritirare la biancheria sporca. Un albergo, più che una struttura medica.»
«Quindi ognuna di queste porte dà su un piccolo appartamento?» domandò John, lanciando un’occhiata alla fila di usci bianchi che si snodava davanti a loro.
«Precisamente. Appartamenti di lusso, per di più. Comprensivi di ogni comodità, R’ent…» annuì Sherlock.
«R’ent inclusi» terminò per lui il medico, colpito. «Non oso immaginare i costi.»
«Non lo faccia. Con la sua pensione da sanitario non potrebbe comunque permetterselo» commentò Sherlock, svoltando a sinistra sul pianerottolo e riprendendo a salire.
«Molto gentile» borbottò John alle sue spalle, lanciandogli uno sguardo truce.
 
 
«Eccoci qui.» Sherlock posò i piedi sul pianerottolo del terzo piano e si fermò.
John, con un leggero principio di fiatone, lo raggiunse pochi secondi dopo. «3/B, giusto…?» chiese, le parole appesantite da un lieve ansimare.
«Esattamente» confermò il R’ent, spostando gli occhi velocemente da una porta all’altra. Dopo qualche secondo si voltò a sinistra, iniziando a percorrere il corridoio che si apriva su quel lato.
A terra, una soffice moquette colore panna rendeva a John difficoltoso camminare in modo spedito, rendendo necessario che piegasse il ginocchio della gamba destra più di quanto era abituato a fare.
«Non un grande aiuto, per la sua zoppia psicosomatica» notò Sherlock, senza girarsi.
«No. Non molto. E comunque è solo parzialmente psicosomatica» ribatté il medico, continuando ad avanzare con passo pesante.
«Se le piace pensarla così…» commentò l’altro, bloccandosi di colpo di fronte ad una delle porte. Un enorme targhetta metallica – con incisa al centro la scritta “B – Sig.ra A. Forres” – campeggiava al centro del legno pitturato di bianco.
«Molto bene.» John si affiancò all’altro, deglutendo per riprendere fiato. «Che facciamo, bussiamo?» domandò.
«Non credo che ce ne sarà bisogno» commentò l’altro, indicando il pomello della porta in risposta allo sguardo confuso dell’altro.
Al centro della maniglia cromata, una piccola macchia scura e irregolare si stava scurendo a partire dai bordi frastagliati.
«Ma quello è…» iniziò John, sentendo le parole morire al centro del petto, insieme al suo respiro.
 
«Eccellente, Dottor Watson. Sangue.»  
 




 
Angolo dell’autrice:

È passata più di una settimana dall’ultimo aggiornamento e devo chiedervi scusa per il ritardo.
Tornare “alla normalità” è stato un po’ complicato (comunque meno del previsto, fortunatamente!), e ho preferito riposare il più possibile.
Mi aspettano altre tre settimane difficoltose, ma sono abbastanza sicura di riuscire a pubblicare con costanza durante questo periodo.
Quanto meno, posso assicurarvi che farò del mio meglio. ^_^
 
Grazie di cuore a tutti quelli che si sono preoccupati per me, facendomi sentire la loro vicinanza in ogni modo possibile. Siete stati un grosso sostegno, davvero.
 
A presto,
B.
 
 
 

 

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Capitolo 13
*** 12. (ovvero di cosa accadde alla signora Forrest) ***


L’amore consiste in questo, che due solitudini si proteggono a vicenda, si toccano, si salutano.
(Rainer Maria Rilke)


12.
(ovvero di cosa accadde alla signora Forrest)



«Dobbiamo chiamare la polizia.» John arretrò di un passo, guardandosi attorno. «Avvertire qualcuno» continuò, estraendo velocemente il cellulare dalla tasca del cappotto.
«E dar loro la possibilità di inquinare la scena di un potenziale crimine violento prima di poter dare un’occhiata?!» replicò Sherlock, con tono oltraggiato. «Non se ne parla.» Strappò dalle mani dell’altro il cellulare, lasciandolo con le dita sospese nel vuoto, nel punto esatto dove stava componendo il numero delle emergenze sulla tastiera virtuale.
Il medico sollevò la testa di scatto, senza riuscire a capire. «È forse impazzito?! C’è del sangue su quella maniglia.»
«Era un’eventualità che avevo già valutato» rispose l’altro, semplicemente, alzando le spalle. «Quando il R’ent di un’anziana sconosciuta ti attacca, la possibilità che a governarlo non ci sia la legittima proprietaria è piuttosto ragionevole. E l’unico modo possibile per cui questo possa avvenire…»
«È che la legittima proprietaria sia morta» terminò per lui il medico, scuotendo la testa. «È una follia. Per quanto ne sappiamo, potrebbe ancora esserci qualcuno nella stanza.»
Sherlock annuì, impassibile. «E questo è l’esatto motivo per il quale adesso lei deve tirarla fuori» sussurrò, con tono persuasivo.
«Tirare fuori cosa, precisamente?» rispose John, serrando la mascella.
«Per l’amor del cielo, lo sa cosa!» esplose l’altro, i fluidi ad ingrossargli i piccoli tubi che scorrevano sotto la pelle. «La pistola.»
John spalancò occhi e bocca, raddrizzando la schiena. «Come accidenti…»
«Lei è un medico, ma è anche un militare. Quale soldato seguirebbe uno sconosciuto in un’avventura come questa senza la protezione di un’arma?»
John prese un respiro profondo, lasciando cadere le braccia lungo il busto. «Sono davvero così prevedibile?»
«Sì» confermò l’altro con un sorriso beffardo. «E comunque si vede il rigonfiamento della fondina sul lato destro del cappotto» terminò, negli occhi un luccichio vivace, vivo.
Il medico ebbe l’istinto di sorridere in risposta, sentendosi stupido e fuori luogo pochi attimo dopo. Sbatté le palpebre un paio di volte, per aiutarsi a ritrovare la concentrazione. Poi, con un movimento rapido, infilò la mano sotto il soprabito e liberò l’arma dalla custodia.
«E va bene» sospirò. «Ma adesso lei si mette dietro di me e non fa un solo movimento prima che io abbia controllato il perimetro per intero, chiaro?» disse, spostando con una mano l’altro e posizionandosi tra lui e la porta.
«Sono fatto di metallo, se lo ricorda?» ribatté Sherlock, lasciando comunque docilmente che John lo spostasse.
«È di metallo, ma resta un civile. Piuttosto avventato, tra le altre cose» si limitò a rispondere il medico, impugnando la pistola con la mano sinistra e posando la destra sulla maniglia, stando attento a non toccare la macchia di sangue.
«Al mio tre.» John appoggiò spalla e orecchio destri sulla porta, tentando di percepire ogni possibile rumore proveniente dall’interno. «Uno… due… e tre» contò poi, quando non ne sentì nessuno.
Girò il pomello e spinse. Il pannello di legno roteò senza fare nessuna resistenza, cigolando appena sui cardini.
John lo accompagnò quel tanto da riuscire a creare un passaggio agevole per sé e per Sherlock. Poi, in punta di piedi e con la pistola spianata, mosse un paio di passi dentro la stanza.
Le luci erano accese, e mostravano un ambiente pulito e accogliente, sui toni del rosa pastello. Ogni cosa – divano, tavolo da pranzo, gli utensili sul ripiano della piccola zona cucina - sembrava essere al proprio posto, in un ordine quasi ossessivo. I piccoli fiori lilla che ricoprivano le tende animavano anche le stoffe dei cuscini ai lati del divano, vicino ai braccioli.
«Perché alle persone anziane piace tanto il rosa?» commentò Sherlock alle sue spalle. «È forse un incontrollabile istinto a ricercare tratti della gioventù persa? Una malinconica rivisitazione del corredino?»
John si voltò a guardarlo con espressione torva.
«Che c’è?» domandò il R’ent, aggrottando le sopracciglia.
«Contesto» sibilò l’altro, scuotendo la testa.
Sherlock assunse l’aria di una persona alla quale stava sfuggendo in modo assoluto il senso di quello che aveva appena ascoltato. «Non cap-»
«Shhhh!» lo zittì il medico, portandosi l’indice destro davanti alle labbra. «Resti qui. E non si muova, sono stato chiaro?» soffiò, irritato.
Il detective fece cenno di sì con il capo, incrociando le braccia al petto con aria offesa.
Sulla sinistra del salottino due porte chiuse – anch’esse di un pallido rosa – erano gli unici accessi visibili ad altri ambienti dell’abitazione. John si avvicinò alla prima, aprendola con cautela. Apparve, illuminata dalla luce proveniente dal vano principale, un piccolo bagno, deserto. Non c’era traccia di colluttazione, tanto che la collezione di saponette sistemata di fianco al lavandino era ancora perfettamente allineata.
John lanciò un’occhiata veloce a Sherlock, spostandosi poi verso il secondo uscio.
Lo socchiuse con attenzione, le scarpe affondate della moquette panna. La porta si aprì senza fare resistenza, rimanendo però – data la posizione defilata rispetto alle luci del salotto - in penombra. Con la mano destra, trattenendo il respiro e acuendo al massimo udito e vista, cercò sulla parete di fianco alla porta un interruttore, trovandolo dopo un paio di tentativi.
Con un leggero ronzio la luce si accese, più forte di quella che dominava il salotto. Sherlock, ancora vicino all’ingresso, vide il viso di John rischiararsi, colpito dal chiarore. Poi vide i tratti mutare, passando dall’attenzione allo sbigottimento. Li vide deformarsi, così come la sua postura.
Il medico rinfilò velocemente l’arma nella fondina, entrando di corsa all’interno della stanza.
Il detective lo seguì istintivamente, ancor prima di aver compreso di aver lanciato il segnale  di movimento. Si ritrovò sulla soglia solo qualche secondo dopo, appoggiandosi allo stipite per aiutarsi a compiere il movimento di rotazione durante la corsa, che si bloccò pochi attimi dopo.
Appoggiato alla parete opposta a quella d’ingresso, il letto con la testiera animata da volute bianche della signora Forrest mostrava i segni inequivocabili di uno scontro violento, mortale.
Piccoli schizzi di sangue e materia celebrale avevano macchiato i fiori in ottone laccato, scurendoli.
Al centro del materasso, intriso di un rosso accesso, l’esile figura di una donna giaceva supina in una posa scomposta.
«Credo di aver sbagliato valutazione» sussurrò Sherlock, spostando gli occhi dal corpo esanime e martoriato della signora a John, chino su quanto rimaneva di lei con una mano ancora stretta attorno al suo polso in cerca di un battito che – era evidente – si era spento qualche ora prima.
Il medico deglutì. Allargò le dita e la liberò dolcemente dalla sua presa, prendendo un respiro profondo e chiudendo gli occhi per un attimo.
«Avevamo previsto che fosse… morta» disse a mezza voce qualche secondo dopo, girandosi verso Sherlock.
«Sì, ma non era previsto il… modo» commentò lui, avvicinandosi a piccoli passi. «E, soprattutto, avevamo immaginato che qualcun altro avesse preso il controllo del suo R’ent.»
«E non è così?» domandò stancamente il medico, tornando a guardare il capo frantumato della donna. Qualcosa, all’interno del sangue rappreso, attirò la sua attenzione. Aggrottò la fronte, chinandosi per poter vedere meglio. Sherlock, immobile a pochi passi da lui, osservò con curiosità il viso dell’altro, vedendo la consapevolezza distendergli i tratti poco a poco.
«Dio…» John si girò verso il R’ent, con gli occhi spalancati.
«Incredibile, non è vero?» gli domandò lui.
«I Circuiti di Comando sono ancora qui…!» continuò il medico, alzando la voce.
«Già» confermò Sherlock, annuendo.
«Ma non è possibile! Senza quelli non si può comandare un Sostituto!»
«Una volta liberato il campo dall'impossibile, quello che rimane - per quanto improbabile - deve essere la verità» commentò l’altro, voltandosi in cerca del cavo del Punto di Ripristino.
Trovò il cavo di alimentazione di fianco alla porta, abbandonato su una vecchia sedia di vimini.
Sorrise soddisfatto, portandosi con passi veloci nel salotto.
«Andiamo Dottor Watson, abbiamo del lavoro da fare!» disse, prima di sparire oltre lo specchio della porta.
«Sì, chiamare la polizia» ribatté lui, seguendolo con passo pesante.
«Ho appena mandato un messaggio a Lestrade dal suo cellulare per informarlo. Almeno che non ritenga di avere competenze mediche così ampie da poter ancora fare qualcosa di utile per la signora Forrest, meglio impiegare il suo ed il mio tempo in modi più costruttivi.»
Sherlock si sollevò il bavero del cappotto, affondando le mani nelle tasche.
«Sarebbe a dire?» domandò l’altro, irritato, uscendo di malavoglia dall’appartamento. Prima di chiudersi la porta alle spalle diede un’ultima occhiata all’interno, scuotendo la testa.
 
«Ad esempio, potremmo cercare di stabilire chi – tra i nove milioni di abitanti di Londra - sarebbe in grado di programmare un R’ent per la distruzione del proprio Fingunt… e far loro una visita.»





Angolo dell’autrice:

Sono nuovamente in ritardo, lo so.
Vi chiedo scusa.
Ultimamente sto avendo vari problemi in altrettanti campi della mia vita "fuori". 
Salute, lavoro, casa, famiglia... tutto sembra rallentato e, allo stesso tempo, terribilmente veloce, fuori controllo.

Mi sono imposta, all'inizio di questa avventura, di aggiornare solo al completamento di un nuovo capitolo nel "manoscritto", mantenendo un certo numero di distanza tra sito e "carta" per maggior sicurezza. Questa mattina sono finalmente riuscita a completare il capitolo sul quale stavo lavorando da qualche giorno e, quindi... eccomi qui. ^_^

Grazie, come sempre e di cuore, a chiunque abbia letto fin qui.

A presto,
B.

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Capitolo 14
*** 13. (ovvero di cosa trovarono Tom e Samuel alla fine della loro corsa) ***



Il caso è l’incontro non preordinato, cioè fortuito, di più linee casuali indipendenti.
(Aristotele)



 
13.
(ovvero di cosa trovarono Tom e Samuel alla fine della loro corsa)


«Non mi ha ancora spiegato come.» John fece roteare un paio di volte il cucchiaino all’interno della tazza fumante poggiata di fronte a lui, senza alzare gli occhi.
«Hai» rispose distrattamente Sherlock, il volto nascosto per metà dallo schermo del computer sul quale stava lavorando alacremente da più di venti minuti.
Il medico aggrottò le sopracciglia, continuando ostinatamente a mantenere lo sguardo sulle piccole increspature rotonde prodotte dai movimenti circolari del cucchiaino all’interno del tè caldo.
Si concentrò sul basso brusio che li avvolgeva, proveniente dal chiacchiericcio incessante degli altri avventori della piccola caffetteria dove avevano trovato riparo.
Sherlock – una volta usciti dalla casa di riposo - vi si era diretto con passo spedito, senza rallentare neanche per assicurarsi che l’altro stesse mantenendo il passo.
Quando John era finalmente riuscito a raggiungerlo all’interno del locale, lo aveva trovato già seduto di fronte ad uno dei computer messi a disposizione dei clienti, lo sguardo incredulo della cassiera all’ingresso fisso su di lui.
«Ecco… un tè, per favore» aveva ordinato il medico con un sospiro rassegnato, prima che uno dei camerieri in sala potesse far presente al detective che sedere senza consumare era strettamente vietato, come indicato da più di un cartello affisso in giro per l’ampia sala.
La gamba più indolenzita del solito si era trascinato sino al tavolo, lasciandosi cadere con un sbuffo sulla sedia di fronte a quella occupata dall’altro.
Lui non si era mosso, né aveva sollevato lo sguardo. Per più di venti minuti erano rimasti pressoché immobili, John intento a girare il tè con movimenti lenti e Sherlock chino sulla tastiera del pc, sulla quale non aveva smesso neanche un secondo di digitare.
«Dovrebbe berlo, quel tè. Siamo venuti qui per questo» commentò il R’ent, dopo un paio di minuti di ulteriore silenzio.
«Ah, davvero?» ribatté John, sollevando un sopracciglio. «Pensavo fossimo qui perché aveva avuto l’improvvisa urgenza di mettere per iscritto chissà quale enorme opera di letteratura inglese» aggiunse, lasciando di colpo la presa sul manico del cucchiaio, che andò a sbattere contro il bordo di ceramica della tazza con un trillo acuto.
«Avevi» rispose l’altro, lanciando un’occhiata veloce al di sopra dello schermo al viso tirato del medico. «“Avevi avuto l’improvvisa urgenza”» continuò, quando si rese conto che l’irritazione dell’altro era sul punto di trasformarsi da un’espressione tesa del volto in un’esplosione verbale violenta. «Abbiamo appena trovato il cadavere di una donna brutalmente uccisa dal proprio R’ent-»
«Questo non è ancora certo» soffiò John, lasciandosi andare con le spalle contro la spalliera della sedia ed incrociando le braccia al petto.
«Abbiamo appena trovato il cadavere di una donna brutalmente uccisa dal proprio R’ent» ripeté Sherlock, calcando le parole con maggior forza. «Credo che sia ora di darmi del tu.»
John socchiuse la bocca, sorpreso.
«Lei non mi sta dando del tu» fece notare, inclinando la testa da un lato.
«Perché lei non sta bevendo il tè» rispose atono il R’ent, continuando a lavorare al computer.
«Io…» John sciolse le braccia, muovendole davanti a sé. «Io non capisco. E inizio ad essere stanco di non capire» sussurrò, con irritazione. «Che diavolo significa?»
Sherlock si bloccò. Socchiuse gli occhi con un sospiro, sollevandosi quel tanto da poter guardare quelli dell’altro oltre la barriera del monitor.
«Il suo corpo è governato dalla biologia. Ha bisogno di respirare, dormire, nutrirsi, e di farlo in modo regolare.»
«Anche lei ha bisogno di farlo, nel Sussex» obiettò John, stirando la mascella ma rilassando un po’ le spalle.
«Io ho bisogno di risposte. Ho pensato che il modo migliore per poter ottemperare ad entrambe le nostre necessità – e poter proseguire con le nostre indagini - fosse rintracciare un internet caffè, motivo per il quale siamo qui. Ma lei non sta bevendo - Sherlock ancorò gli occhi a quelli dell’altro - cosa che mi fa ritenere che non intenda continuare la nostra frequentazione e che, di conseguenza, voglia che tra noi resti una certa distanza.» Il R’ent si fermò un attimo, mordendosi le labbra velocemente. «Io, invece, vorrei che continuasse. Dunque, le propongo di darmi del tu.»
Rimasero per qualche secondo immobili, lo sguardo fisso l’uno sul viso dell’altro.
Alla fine John arricciò le labbra, annuendo impercettibilmente. Con un sorriso in bilico al bordo della bocca chiuse le mani attorno al manico della tazza, sollevandola.
La mantenne sospesa, uno sguardo di sfida a ballare tra le iridi blu.
«Non mi ha ancora detto come» disse, sentendo il respiro farsi più pesante e difficoltoso di fronte al sorriso soddisfatto che stava comparendo sul volto di Sherlock. 
«“Come” cosa?» domandò lui.
«Come intende rintracciare chi sarebbe in grado di programmare un R’ent per la distruzione del proprio Fingunt. Sempre che sia possibile» spiegò John, la tazza ancora sollevata tra loro.
«Oh, è molto semplice» rispose Sherlock, indicando velocemente lo schermo del pc.
«Davvero?» commentò il medico, facendo stridere le gambe della sedia nell’allontanarla per alzarsi. «Mostramelo» terminò, dando una sorsata al proprio tè.
 
 
***
 
 
La palla rotolò per qualche metro, prendendo velocità.
Si sollevò leggermente dal terreno, spinta da una piccola increspatura del manto erboso che ricopriva la collinetta, rimbalzando nell’ultimo tratto di discesa. Sgonfia, compì un altro paio di saltelli mozzati prima di sbattere contro la rete di recinzione che separava il parchetto dal Tamigi gonfio di pioggia pigramente in movimento sotto di lei.
Due ragazzi, gli abiti scuriti e appesantiti dalla pioggia, raggiunsero la palla correndo a perdifiato lungo il dorso della montagnola, spingendosi con forza ad ogni passo.
Il fiato troncato dalla corsa e dalle risa, arrivarono al recinto senza rallentare. Il più grande dei due, capelli biondi attaccati alla fronte e giacca a vento troppo piccola per lui, si fermò aggrappando le mani alla balaustra di metallo e spingendosi in avanti, il petto calcato contro la rete ed i piedi sollevati da terra.
«Guarda Tom, so volare!» gridò, piegandosi in modo da rimanere in bilico sul corrimano.
Sotto di lui, il fiume rimandava l’immagine cangiante del cielo plumbeo che li sovrastava. Sembrava quasi, visto da quella distanza e con la vista appannata dalla fatica, che le nuvole si fossero adagiate a terra, striscianti.
«Anche io!» urlò l’altro, provando a issarsi a sua volta. «Samuel, aiutami!» chiese con tono supplichevole quando fallì anche il secondo tentativo di spinta, troppo piccolo per alzarsi solo con le braccia e con le suole delle scarpe troppo ricoperte di fango scivoloso per poterle usare da appiglio contro la rete.
«Sei una mammoletta!» lo prese in giro lui continuando a dondolare, gli addominali tesi per poter rimanere sollevato con la parte alta del busto.
«AIUTAMI HO DETTO!» protestò il più piccolo, prendendo l’altro per un piede e tirandolo indietro.
Samuel, colto alla sprovvista, sentì il fiato spengersi nel petto. Istintivamente rilassò lo sterno, finendo col piegarsi in avanti fin quasi a toccare col viso la recinzione.
«Ehi!» urlò, provando a risollevarsi. «Sei impazzito?!» Si dimenò, tentando di far leva con le braccia. Scalciò un paio di volte, inutilmente. Alla fine alzò la testa quel tanto da capire quanta distanza lo separasse dal piccolo lembo di terra seminascosta dalla vegetazione che scorreva di fianco al fiume.
«Se sarò costretto a farmi cadere in avanti ti conviene correre più in fretta di quanto possa farlo io, fratellino…» ringhiò, con il respiro rotto dal premere del parapetto. «Perché giuro che-» La voce si spense all’improvviso. Il ragazzo smise anche di muovere le gambe, abbandonandole di colpo contro la recinzione.
«Sam?» lo chiamò l’altro. «SAM?» provò di nuovo, prendendolo per l’orlo dei pantaloni e iniziando a tirare.
«Aiutami a scendere» sussurrò il maggiore, con voce flebile. «Aiutami ORA!» urlò, riprendendo a muoversi.
Tom chiuse le braccia attorno ai polpacci del fratello, iniziando a tirare.
«TOM AIUTAMI!» sbraitò lui, aggrappandosi disperatamente con le dita alla rete.
Il bambino strinse con ancora più forza, lasciandosi cadere con tutto il peso all’indietro.
Il corpo del fratello lo seguì nel movimento, sbilanciandosi. Un lembo della giacca a vento rimase impigliato nel tramaglio, strappandosi mentre il ragazzo scivolava a terra, di fianco all’altro.
«Si… può… sapere…» ansò Tom, gli occhi chiari spalancati dalla paura e il viso sporco d’acqua e terra.
«Andiamo» si limitò a gemere Samuel, rotolando sulla sinistra per aiutarsi a tornare in posizione eretta. «Andiamo, ho detto!» ripeté, afferrando il fratello per le spalle e sollevandolo di peso.
«Ma… ma…» protestò lui, il polso destro stretto tra le dita dell’altro che, con forza, lo stava trascinando lontano dalla recinzione. «Il pallone, Sam!»
«Lascia perdere il pallone!» Il ragazzo iniziò a risalire la collinetta, incurante delle rimostranze del piccolo.
«Ma…»
«Ho detto lascia stare il pallone!» gridò, strattonando il fratello con ancor maggior forza. «Dobbiamo trovare un poliziotto. Subito
«Poliziotto…?»
«Sì» rispose secco Samuel, continuando a camminare.
Tom smise di lamentarsi. Due grosse lacrime a solcargli il viso, si affiancò al fratello con lo sguardo basso.
«Hai visto una cosa brutta…?» sussurrò, la voce flebile e spezzata.
L’altro non rispose, ma chiuse gli occhi per un secondo.
«Hai visto una cosa brutta, Sam…?» provò ancora il minore, alzando uno sguardo terrorizzato su di lui.
«No» rispose alla fine Samuel, sul viso un terrore profondo. «Non una… tante. E adesso cammina.»
Continuarono a risalire il poggio in silenzio, con testa e occhi bassi, sparendo poco dopo inghiottiti dalla coltre di pioggia fine che continuava a cadere da ore.
 
Dietro di loro, protetti dall’altra vegetazione che cresceva rigogliosa ai lati del Tamigi, occhi e bocche spalancate fissavano il cielo, avvolti da una quiete irreale.
Mani, braccia e gambe abbandonate si sfioravano, leggere, ricoperte dal verde soffice dei licheni.
Una donna, in particolare, sembrava guardare con un sorriso vago ed immobile in direzione della rete metallica. E proprio lì, seminascosto dal fogliame, il suo sguardo assente, mancante, aveva incontrato quello pieno di vita di un bambino, svelando la loro sepoltura.




Angolo dell'autrice:

Oggi il tempo a mia disposizione è, se possibile, ancor più tiranno del solito.
Posso trattenermi perciò in questo spazio solo per scrivere i consueti, dovuti e sentiti ringraziamenti e per formulare la promessa di rispondere alle recensioni non appena possibile.

Grazie quindi, come sempre e di cuore, a chiunque abbia letto fin qui, inserito la storia in qualche categoria e/o scelto di dedicarle una recensione. ^_^

È meraviglioso continuare questo viaggio con voi.

A presto,
B.

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Capitolo 15
*** 14. (ovvero di polvere e sparizioni) ***


Gran parte del carattere di ogni uomo può essere letto nella sua casa.
(John Ruskin)


14.
(ovvero di polvere e sparizioni)



«Eccoci qui» esordì Sherlock, muovendo un passo nella stanza immersa nella penombra. Un sottile strato di polvere - impalpabile e biancastra - si sollevò dalla fitta trama del tappeto orientale sul quale si era fermato, depositandosi sulle scarpe di pelle nera come neve sporca.
John, dietro di lui, fu investito dall’odore pungente di umidità ancora prima di sentire il pulviscolo che permeava l’ambiente entrare nelle narici e scendere fino alla gola. Tossì un paio di volte, coprendosi il viso con il braccio sinistro e socchiudendo gli occhi.
«Che diamine sarebbe, questo posto?» domandò, la voce ovattata dal cappotto che premeva con forza sulle labbra.
«Benvenuto al 221b di Baker Street» rispose il R’ent, nella voce una punta di entusiasmo che il medico non riuscì a comprendere. «Uno dei miei rifugi preferiti, a Londra» continuò Sherlock, avvicinandosi con ampie falcate alle pesanti tende rosso scuro dall’altro lato della stanza. Con un gesto deciso le aprì di colpo, scoprendo due finestre dai vetri appannati. La polvere liberata dal tessuto ballò per qualche secondo nella fioca luce mattutina, posandosi poi dolcemente su mobili e arredi.
John, ancora immobile sotto la porta d’ingresso, seguì con gli occhi l’aggirarsi smanioso dell’altro attraverso la stanza. Lo vide sfiorare con un dito la spalliera di una vecchia poltrona scura, finendo col toccare un teschio coperto di ragnatele appoggiato alla mensola del camino.
«È un teschio umano, quello?» chiese il medico, abbassando il braccio.
«È un amico» ribatté il R’ent, voltandosi con un sorriso sardonico verso l’altro. «E quando dico amico…»
John aggrottò la fronte, scuotendo la testa. Fece un paio di passi all’interno della stanza, guardandosi attorno. L’ambiente era saturo di oggetti. Libri, fogli e giornali giacevano disseminati ovunque, coperti di polvere e ragnatele.
«Da quanto tempo non è abitato?» Il medico passò velocemente una mano sul piccolo tavolo da caffè posto di fronte ad un ampio divano in pelle verde.
«Tre anni, sei mesi e quindici giorni» rispose Sherlock, prendendo posto sulla poltrona che dava le spalle alla finestra. Un po’ di polvere si adagiò su di lui, schiarendo i riccioli neri.
John spostò gli occhi verso destra, tentando di portare in superficie il pensiero che aveva istintivamente acceso una parte del suo cervello.
Il R’ent lo osservò con interesse aggrottare la fronte, in cerca del particolare che – era evidente dalla piega che avevano assunto le labbra – gli sfuggiva.
«Ho vissuto qui fino a due mesi prima del mio Ritiro» lo aiutò, vedendolo immediatamente rilassarsi, il bandolo della matassa ora ben stretto stretto tra le dita.
«Era il tuo appartamento?» John si avvicinò alla seconda poltrona, rivestita di stoffa floreale. Con un movimento lento si sedette sul bracciolo, stando attento a sollevare meno polvere possibile.
«Tecnicamente, è ancora il mio appartamento» rispose Sherlock, congiungendo le dita sotto il mento ed assumendo una posa meditativa.
«Perché non è qui il Punto di Ripristino?» si lasciò scappare il medico, pentendosene subito dopo.
Sotto il sottile strato di pelle sintetica che rivestiva il volto del detective, un tubo di alimentazione si contrasse, facendogli assumere per un attimo un’espressione tesa, amareggiata.
«Perché non è qui che vivo» rispose l’altro, atono, chiudendo gli occhi. «Se vuoi chiedere il perché di questa scelta sentiti libero di farlo» aggiunse, con un sussurro. «Ma sappi che non ho alcuna intenzione di rispondere.»
«Ok. Bene» tossicchiò John, a disagio. Lasciò vagare lo sguardo per la stanza, soffermandosi sui numerosi volumi sistemati con cura sugli scaffali delle due librerie ai lati del caminetto. «Potresti dirmi almeno perché siamo qui?» provò, senza staccare gli occhi dai libri.
«Come ti ho già detto, quello che dobbiamo fare adesso è semplicemente aspettare» rispose l’altro, con voce pacata.
«In realtà mi hai mostrato una serie di punti luminosi su una mappa di Londra dicendo che le risposte erano tutte lì» gli ricordò John, incrociando le braccia al petto e riportando l’attenzione su di lui.
«Il che, di per sé, implica un’attesa» ribatté l’altro. «Se sai che le risposte ci sono, ma con tutta evidenza non sono in tuo possesso, è manifesto che qualcuno dovrà portarle da te. E la consegna di qualcosa determina sempre una sospensione.»
John rifletté per qualche secondo sulle parole dell’altro, mordendosi il labbro superiore.
«Cos’erano, esattamente, quei puntini luminosi?» chiese poi, a mezza bocca.
 
«Messaggeri» si limitò a sussurrare l’altro, incrociando le gambe sulla seduta della poltrona con un movimento rapido.
 
 
***
 
 
«È ridicolo. Semplicemente ridicolo
Philip Anderson - membro della squadra forense di stanza al Quarto Distretto - si aprì con irritazione la zip della tuta anticontaminazione che lo copriva per intero, dalle scarpe sino ai capelli. Pochi passi davanti a lui, un uomo brizzolato con indosso un impermeabile beige si lasciò andare ad un respiro profondo, portandosi le dita della mano destra all’attaccatura del naso.
«Per quanto ancora intende farsi portare in giro da quel rottame?» continuò Anderson, liberando i capelli dal cappuccio di plastica con un gesto violento. «Il suo Fingunt è uno psicopatico, capo. Non dovrebbe lavorare per noi. Anzi, dovrebbero privarlo del Sostituto e lasciarlo dov’è.»
L’uomo scosse la testa, lanciando ancora una volta uno sguardo alla camera da letto di Alvina Forrest.
«Questa volta ha davvero superato i limiti» commentò una voce femminile alle loro spalle. Il Sergente Sally Donovan si affacciò nella stanza, le braccia incrociate al petto e il viso tirato in un’espressione di palese fastidio. «Ci sono tre volanti qui sotto, Greg. Tre
«Però la domanda resta» provò a ribattere l’uomo, girandosi verso di lei. «Dov’è finita la Signora Forrest?»
La donna sospirò, alzando gli occhi al cielo. «A questa domanda deve rispondere la sezione Persone Scomparse, non la nostra divisione. E lo sai.»
Lui annuì, chiudendo gli occhi per qualche secondo.
«Io mi chiederei, più che altro: “dov’è finito il sangue”?» commentò causticamente Anderson. «Voglio dire: prendiamo per vera anche solo per un secondo la segnalazione della scatoletta di latta. Qualcuno ha fatto sparire un cadavere con la testa fracassata senza lasciare dietro di sé nemmeno una microscopica goccia di sangue? Un… segno? Oh, avanti. È ridicolo
«Va bene» si arrese l’Ispettore, facendo cenno ai due di precederlo fuori dall’appartamento. «Tranquillizzate i residenti e tornate in centrale. Io vi raggiungo lì, devo prima parlare con il Direttore.»
I due si scambiarono uno sguardo eloquente, stirando entrambi le labbra in un’espressione irritata.
«E poi contatterò Sherlock, sì» li rassicurò l’uomo, rassegnato. «Adesso andate, per favore» soffiò, gesticolando in direzione della porta.
Anderson lo superò in silenzio, voltandosi un’ultima volta verso il centro della stanza prima di allontanarsi.
«Ma se mancano anche i vestiti dall’armadio…» lo sentì ringhiare a mezza voce rivolto al Sergente mentre, affiancati, uscivano dall'alloggio. «Quello è matto. Quando non riceve la sua dose mensile impazzisce. Prima o poi sarà lui a far fuori qualcuno, vedrai» terminò, le parole accompagnate dall’annuire convinto della donna.
L’Ispettore aspettò di vederli sparire oltre la soglia. Poi, con un sospiro infastidito, estrasse il cellullare dalla tasca destra del soprabito e cominciò a comporre nervosamente un messaggio.





Angolo dell’autrice:

Ed ecco che - con ben 14 capitoli di “ritardo” - Baker Street entra a far parte di questa storia. Non avrei mai potuto, in nessun modo, tralasciare un particolare tanto importante! Certo è una Baker Street un po’ “inusuale”, disabitata da tempo. In parte, forse, potrebbe richiamare quella che si intravede all’inizio della terza stagione, quando anche John ha abbandonato l’appartamento in cerca di un nuovo inizio.
 
Ieri ho subito un altro piccolissimo intervento (davvero una sciocchezza, dieci minuti senza anestesia: più una manovra, che una vera e propria operazione). Oggi sono comunque rimasta a casa, ed ho quindi potuto ultimare il capitolo in stesura nel manoscritto e pensare alla pubblicazione di questo.
 
Ancora una volta, non ho risposto alle recensioni.
Spero davvero di riuscire a farlo il prima possibile.
 
Per adesso sono felice di non dover allungare ancora lo iato tra un aggiornamento e l’altro. ^_^
 
Grazie, come sempre e di cuore, a chiunque abbia letto fin qui.
 
A presto,
B.
 

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Capitolo 16
*** 15. (ovvero del Gioco e delle sue regole) ***


Una cosa con un nome è una cosa addomesticata.
(Joanne Harris)


15.
(ovvero del Gioco e delle sue regole)



Le spalle appoggiate allo schienale e le braccia ancora incrociate sul petto, John scivolò lentamente dal bracciolo della poltrona verso la seduta. Mugugnò qualcosa schiudendo le labbra, senza aprire gli occhi.
Sherlock, lo sguardo fisso su di lui, seguì la sua discesa senza muoversi, valutando che – data la posizione assunta dal medico e l’attrito tra i suoi vestiti e la stoffa della poltrona – sarebbe finito semplicemente al centro del cuscino, lievemente sbilanciato verso sinistra con il busto.
Erano rimasti in silenzio per quasi un’ora e John - stremato dalla notte insonne e dalle emozioni della mattina - si era assopito senza rendersene conto. Il R’ent lo aveva visto prima rilassare la muscolatura delle spalle. Poi, poco a poco, arretrare sino ad appoggiarsi alla spalliera. Infine aveva chiuso gli occhi, riaprendoli un paio di volte prima di arrendersi del tutto alla stanchezza.
Lui si era limitato ad osservarlo, seguendo il filo dei propri pensieri.
Erano anni che non vedeva qualcuno dormire. Anni che il respiro regolare di una persona profondamente addormentata non riempiva le sue orecchie.
Nel Sussex, il detective si tolse visiera e circuiti dalle labbra per qualche secondo, passandosi una mano sul viso per aiutarsi a pensare. Compiere un’analisi coerente e distaccata sui concetti e le sensazioni che sentiva agitarsi all’interno di petto e mente non era mai apparso tanto complesso. Più risaliva un pensiero nel tentativo di trovare una spiegazione logica all’insistenza con la quale quest’ultimo si affacciava alla sua coscienza, più lo sentiva sfilacciarsi tra le dita, vacuo come fumo.
Il trillo prolungato di un telefono esplose nelle sue orecchie attraverso gli auricolari, cogliendolo di sorpresa e facendolo trasalire. Rapidamente riappoggiò i circuiti alle labbra e riabbassò la mascherina, sbattendo un paio di volte gli occhi per riuscire a mettere a fuoco lo schermo con chiarezza.
A Baker Street, il R’ent ebbe un piccolo sussulto. John si svegliò di colpo, sbilanciandosi verso sinistra. Con un tonfo sordo cadde al centro della poltrona, circondato da una nuvola di polvere.
«Che… diavolo…» tossì, guardandosi attorno.
«Credo sia il tuo telefono» rispose Sherlock, atono, indicandogli la tasca esterna del cappotto.
Il medico aggrottò la fronte, confuso. Un secondo squillo si liberò nell’aria, amplificandosi nel silenzio della stanza. Questa volta la vibrazione del cellulare fu chiara. Il medico la percepì distintamente farsi largo tra i vestiti, all’altezza del fianco sinistro.
«Uh» bofonchiò, allungandosi sulla poltrona in modo da riuscire ad estrarre il telefono senza troppe difficoltà.
Si portò l’apparecchio davanti al viso, gli occhi ancora appannati.
Un numero sconosciuto aveva inviato due messaggi.
Con un gesto impacciato fece scorrere la home verso destra, aprendoli.
«Allora? Novità da parte di Lestrade?» domandò Sherlock, sollevando un sopracciglio, impaziente.
«Come sai…» iniziò John, scuotendo la testa subito dopo. «Non dirmelo. Non importa.»
Lesse lentamente il testo dei due messaggi, mentre un’espressione di attonito sbigottimento prendeva forma sul suo viso.
«Ok. Qual è il problema? Anderson e la sua squadra hanno rovesciato qualche prodotto corrosivo sul corpo?» ironizzò il R’ent, cercando di interpretare la fonte dello sgomento che vedeva chiaramente sul volto del medico.
Lui si limitò, in silenzio, ad allungarsi in avanti, porgendo il telefono all’altro.
Sherlock si protese a sua volta, senza muovere la parte inferiore del corpo. Il palmo della mano destra rivolto verso l’altro, aspettò che il medico facesse scivolare il cellulare tra le sue dita prima di ritrarla facendo girare l’apparecchio in modo da poterlo visionare.
Lesse con attenzione il testo dei messaggi, gli occhi chiari illuminati dalla luce del display ed un sorriso vago sempre più largo sul viso.
«Meraviglioso!» esplose quando ebbe terminato di rileggere per la seconda volta la comunicazione.
«Cosa?» domandò John, confuso.
«Il cadavere della Signora Forrest è sparito, assieme ai suoi vestiti. Lestrade è furioso» espose l’altro in modo concitato, con un sorriso raggiante.
«Cosa ci sarebbe di meraviglioso?» Il medico si puntellò con le mani sul cuscino della poltrona, in modo da mettersi seduto in modo corretto.
«Non lo capisci?» Sherlock liberò le gambe con un movimento fluido, alzandosi in piedi. «Adesso è certo: il Gioco c’è. Ed è appena iniziato!»
«Q-quale gioco?»  chiese il medico, allargando le mani in gesto di resa. «Non capisco.»
«Neanche io, per il momento. Ed è questo il bello!» Il R’ent iniziò a camminare nervosamente avanti e indietro tra le poltrone ed il divano. «Dobbiamo assolutamente avere dei nomi. Ci serve una base di partenza» sussurrò, più rivolto a se stesso che al medico.
«Quello che ci serve è che tu faccia una copia del tuo BDM da inviare all’Ispettore, in modo da fargli vedere quello che abbiamo visto» ribatté John, seguendolo con lo sguardo.
«Assolutamente no.» Sherlock si bloccò di colpo, voltandosi verso l’altro.
«Come sarebbe a dire “no”?!» John scosse la testa, incredulo. «Pensano che tu ti sia inventato tutto!» cercò di farlo ragionare.
«Bene. Che lo pensino, se è così che dev’essere.» Il R’ent riprese a muoversi, con passi sempre più veloci.
«Maledizione, hai nella testa le PROVE! Perché diamine…»
«Adesso ascolta.» Sherlock tornò indietro, posizionandosi davanti al medico. Con un leggero ronzio si piegò sulle gambe, accovacciandosi di fronte alla poltrona dove l’altro era seduto. Lui, istintivamente, si irrigidì, sentendo il respiro bloccarsi in gola.
«Ti ho già detto una volta che non mostro i ricordi incamerati nella mia BDM a nessuno, men che meno alla polizia» iniziò il R’ent, gli occhi fissi in quelli del medico.
«Questo caso…» iniziò John, interrompendosi di fronte all’espressione seria dell’altro.
«Questo caso non fa eccezione. Inoltre, ci hanno fornito le regole del gioco. E noi dobbiamo seguirle.»
«Ma di quale gioco stai parlando!» esplose il medico, allargando le braccia. «È morta una donna. Tu sei quasi stato Disattivato permanentemente. Non è un gioco!»
«Sì. Lo è. Non so ancora quale sia il premio in palio, o chi lo abbia iniziato… ma una regola è chiara: nessuna traccia, nessuna intromissione esterna.» Sherlock socchiuse gli occhi, osservando lo sguardo dell’altro divenire più attento, concentrato. «Siamo ai bordi di una scacchiera, Dottor Watson, e dobbiamo valutare molto bene le nostre mosse» terminò, alzandosi per tornare a sedere sulla propria poltrona.
«John» commentò il medico dopo qualche secondo, scuotendo la testa incredulo per quanto stava per dire. «Chiamami John. “Dottor Watson” mi fa pensare che tu intenda mantenere una certa distanza tra noi» gli fece il verso. «Io, invece, se devo considerarmi su un campo di battaglia con te, vorrei che non ce ne fosse. Dunque, chiamami John.»
Sherlock sollevò un sopracciglio, sorpreso.
«Va bene… John» rispose pochi attimi dopo.
«Allora, Sherlock: per quanto tempo ancora dovremo restare qui?» chiese il medico, accomodandosi meglio sulla poltrona e accavallando le gambe.
 
«Fino a quando i pedoni non ci daranno qualche informazione sugli alfieri» rispose lui, con un sorriso enigmatico. 





Angolo dell’autrice:

Ancora una volta, purtroppo, devo chiedervi scusa per non aver risposto ai vostri commenti. :(

Sto dedicando ogni attimo libero alla scrittura, cercando di concludere la prima parte di questa storia il più velocemente possibile.
Con mia enorme sorpresa (ma, devo ammettere, anche profonda gratitudine – scrivere mi sta infatti “salvando” da molte ansie e paure, in questo periodo) lo sviluppo della trama è andato ben oltre le mie aspettative, tanto che – mentre inizio a scorgere la luce in fondo al tunnel di questa porzione di racconto – il numero di pagine che compongono adesso il manoscritto è almeno quattro volte quello che avevo preventivato.
Questo significa (purtroppo per voi! XD) che “Replacements” vi terrà compagnia moooolto, ma davvero molto a lungo.
Spero solo che la noia non abbia la meglio! ^_^’’
 
Grazie, come sempre e di cuore, a chiunque abbia letto fin qui.
 
A presto,
B.

 

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Capitolo 17
*** 16. (ovvero di chip scomparsi e localizzazioni concesse) ***


Non è tanto dell'aiuto degli amici che noi abbiamo bisogno, quanto della fiducia che essi ci aiuterebbero nel caso ne avessimo bisogno.
(Epicuro)


16.
(ovvero di chip scomparsi e localizzazioni concesse)



«Dio. È un fottuto cimitero» esalò Leonard Gregson, percorrendo faticosamente gli ultimi metri che lo separavano dal piccolo accampamento di fortuna costruito dalla Scientifica a lato del fiume.
«Sì, capo» confermò uno degli agenti di guardia, alzando il nastro che delimitava la zona per permettere all’ispettore di accedere all’area del ritrovamento. «Ross, il responsabile della squadra forense, parla di venti, forse trenta corpi.»
«Trenta…» ripeté Gregson, scivolando con la suola liscia delle scarpe sul terreno fangoso. Un uomo, completamente coperto da una tuta protettiva, lo aiutò a rimanere in piedi allungando un braccio verso di lui.
«Questa maledetta pioggia non ci da tregua» grugnì l’ispettore, a denti stretti. «Quanto ci vorrà per concludere le analisi preliminari?» domandò poi, voltandosi in direzione del tecnico che – con risolutezza e passo spedito – lo stava guidando verso il gazebo in plastica bianca innalzato a protezione dei reperti.
«Con questo tempo?» rispose lui, alzando uno sguardo verso il cielo scuro sopra di loro. «Ore
«Ore…» ripeté Gregson, fermandosi pochi passi prima della tenda attorno alla quale una decina di uomini stavano lavorando alacremente.
Un paio - i più vicini ai corpi, riversi a terra accatastati li uni sugli altri - erano intenti a fotografare ogni più piccolo particolare, spostandosi di pochi centimetri alla volta.
Una goccia, sospesa sulla punta di una delle foglie che nascondevano il sentiero dal parco sovrastante, si staccò dopo un breve ondeggiare, cadendo sulla falda del copricapo dell’ispettore. La stoffa si piegò in avanti, schiacciata del peso dell’acqua.
L’uomo imprecò a mezza bocca, le scarpe affondate nel fango fin quasi ai lacci.
«Idee?» domandò a voce alta, rivolto principalmente ai due tecnici chini, macchine fotografiche alla mano, vicino ai corpi. «Qualche teoria su come così tanti androidi siano finiti quaggiù?» provò di nuovo, guardandosi attorno.
«Sono R’ent, Ispettore. Non ‘Bot» rispose una voce alle sue spalle. Un uomo, coperto fino alla testa da una tuta protettiva in PVC bianco, si avvicinò a lui. Quando furono affiancati, gli lanciò un’occhiata eloquente. «Tutti Sostituti.»
«Non è possibile. I loro Fingunt ne avrebbero denunciato la scomparsa» obbiettò Gregson, tornando a concentrarsi sulla catasta di teste, mani e gambe che riluceva sotto la luce fioca dei faretti posizionati dalla scientifica. «Di chi diamine sono? Voglio i loro C.I.1) sulla mia scrivania il prima possibile.»
«Mhm» mugugnò l’altro, facendo cenno di no con il capo.
«Qualche problema?» gli domandò l’Ispettore, spazientito.
«Più di uno, a dire il vero» rispose l’uomo, grattandosi il mento attraverso l’involucro di plastica che lo avvolgeva. «I primi due corpi che abbiamo sommariamente esaminato ne sono… privi» spiegò, il corpo percorso da piccole gocce di pioggia.
«Privi» ripeté Gregson, con tono sempre più irritato.
«Privi. Un’asportazione violenta, da quanto ho visto» confermò l’altro. Arricciò le labbra in un’espressione pensierosa, annuendo.
«Questa cosa non ha senso, se ne rende conto?!» sibilò l’ispettore, guardandosi attorno con fare nervoso.
«Assolutamente. Ma ciò non cambia quello che è sotto i nostri occhi.»
L’uomo sbatté un paio di volte i talloni a terra, cercando di togliere quanto più fango possibile dalle suole. Poi, le mani affondate nelle tasche della tuta, mosse qualche passo in direzione del gazebo.
«Se vuole il mio parere, siamo in un fottuto casino» aggiunse, voltandosi in direzione di Gregson. «E potrà solo peggiorare» terminò, facendo cenno a due degli uomini che stavano compattando il terreno ai lati della tenda di cominciare a portare le barelle per poter traslare i primi corpi nei furgoni, posteggiati alla fine della ripida salita verso il poggio.
 
«Maledizione!» ringhiò l’ispettore, calcandosi con forza il cappello sulla testa e allontanandosi della struttura con passi pesanti, resi difficoltosi dalla pioggia e dalla melma che lo tratteneva al suolo ad ogni passo. Estrasse dalla tasca dell’impermeabile un cellulare, sboccandolo con gesti nervosi e rigidi. Si avvicinò lo schermo al viso, per riuscire a vedere qualcosa oltre la barriera di acqua che continuava a scendere dal cielo, incessante. Poi, guardandosi attorno con aria furtiva, si portò l’apparecchio all’orecchio destro.
Sbatté ancora, per un paio di volte, i piedi a terra, inquieto. Poi, quando sentì la comunicazione attivarsi, si portò la mano sinistra a protezione delle labbra, sussurrando con tono teso: «Mister H., Gregson. C’è qualcosa che dovrebbe vedere.»
 
 
***
 
 
«Vai pure.» La voce di Sherlock, perentoria, riempì il salotto sovrastando l’allegro crepitio del fuoco che – da circa un’ora – ardeva nel camino di Baker Street.
 
Lo avevano acceso con scampoli di giornali e vecchie riviste quando il R’ent, alzando lo sguardo sul medico, si era reso conto che l’altro non aveva ancora tolto il cappotto.
«Potevi dirmi che avevi freddo» aveva esordito Sherlock, alzandosi dalla propria poltrona ed iniziando a radunare e gettare alla rinfusa oggetti nel vano del caminetto.
«Puoi dedurre cosa ho mangiato una settimana fa da una macchia sul colletto della camicia, e non che in un appartamento abbandonato da anni faccia freddo…?» aveva risposto il medico, canzonandolo con un sorriso bonario.
«Io…» aveva iniziato l’altro, irrigidendosi appena. «Ho perso allenamento riguardo a questi aspetti, negli anni» aveva terminato velocemente, estraendo dal cassetto del tavolo del salotto una scatola di fiammiferi. Ne aveva quindi acceso uno, gettandolo al centro del piccolo cumulo di carta polverosa accatastata nel braciere di mattoni.
«Al percepire il caldo e il freddo?» John aveva aggrottato le sopracciglia, non riuscendo a comprendere del tutto come qualcuno potesse distaccarsi da una cosa simile.
«Anche» si era limitato a rispondere l’altro, prendendo nuovamente posto sulla poltrona.
 
«Non c’è bisogno che rimaniamo entrambi ad aspettare. Vai» ribadì il R’ent, indicando con un movimento rapido della testa la porta alle spalle del medico. Lui assunse un’aria interdetta, voltandosi in direzione dell’uscio.
«Nelle ultime due ore hai guardato l’orologio ad intervalli regolari, che si sono fatti sempre più ravvicinati nell’ultima mezzora. È chiaro che tu stia cercando di non far tardi ad un appuntamento ed è altrettanto chiaro – dato che sei ancora seduto qui con me, invece che sulla strada per il suddetto – che non sia un appuntamento piacevole. Ieri hai fatto il turno di notte in clinica, cosa che presuppone un giorno di riposo o una rotazione pomeridiana. E, a giudicare dallo sguardo irritato con il quale hai controllato l’ora le ultime due volte, direi che siamo molto vicini allo scattare del tuo turno. Posso azzardare che tu debba essere in clinica alle… - allungò le mani verso l’altro, facendo cenno di volere il cellulare. John glielo passò con un gesto meccanico - sedici?» concluse il R’ent, riconsegnando l’apparecchio tra le dita del suo proprietario.
«Dio» sussurrò il medico, scuotendo la testa. «Non mi abituerò mai, a questa cosa» rise, infilandosi il telefonino nella tasca del soprabito.
«Ci si abitua a tutto, credimi» rispose Sherlock, sovrappensiero. «Davvero a tutto. Ad ogni modo: vai pure» ripeté, ancorando gli occhi a quelli del medico.
«Sei sicuro…?» rispose lui, incerto. «Posso telefonare, e avvert-»
«È inutile rimanere entrambi seduti in qui ancora per chissà quanto tempo. Quando il mio contatto mi avrà fornito le informazioni che mi servono, farò in modo di fartelo sapere» lo rassicurò Sherlock, annuendo con convinzione.
John sembrò riflettere sulla proposta per qualche secondo. Poi, lentamente, si portò in piedi.
«Bene. Sì, bene» disse, a fatica. Mosse qualche passo rigido verso la porta, bloccandosi a metà della distanza. «E se ci fosse un’emergenza? Hai un cellulare con te?» domandò, voltandosi.
«No» rispose l’altro, tranquillo. «Non porto mai con me oggetti così facilmente localizzabili» spiegò poi, di fronte allo sguardo sbigottito del medico.
«Stai manovrando un R’ent» gli ricordò lui, basito. «Praticamente un’antenna mobile a grandezza d’uomo!»
«Non il mio.» Sherlock sollevò le spalle, con aria noncurante. «Avrai mie notizie. Te lo garantisco» riprese, tornando ad indicare la porta a John.
«E se avessi bisogno io di mettermi in contatto con te?» ribatté lui, di getto.
Il R’ent aggrottò le sopracciglia. «Perché dovrest-» cominciò, venendo subito interrotto dall’altro.
«Come posso rintracciarti, se ci fosse un'emergenza?» ripeté John, testardo. «Se qualcuno viene a cercarmi, o se dovessero provare a farti sparire per quello che abbiamo visto?»
«Ti stai preoccupando per me?» domandò il detective, socchiudendo le labbra, sorpreso.
«Sto… pianificando» si affrettò a chiarire il medico, arrossendo appena. «È quello che fanno i militari.»
«Soldati?»
«Soldati» confermò John.
Sherlock imitò un respiro profondo, il Fluido a pompare rapido nei canali posti nel petto.
«Ho un GPS sottocutaneo non collegato al mio Apparato Centrale» sussurrò, con scarsa convinzione. «Si può accedere alla mia posizione con un nome utente ed una password, se collegati ad un preciso host.»
«E…?» lo incalzò John.
Sherlock lo guardò malvolentieri, spostando lo sguardo subito dopo.
«E va bene, maledizione. Ma solo perché è la cosa più logica» soffiò, alzandosi ed avvicinandosi a passo svelto al medico. Gli occhi fissi su di lui, gli affondò la mano destra nella tasca sinistra del soprabito, i loro visi talmente vicini da riuscire a specchiarsi l’uno nelle iridi dell’altro.
«Ecco… qui» borbottò, estraendo il cellulare di John e trascrivendo velocemente le informazioni necessarie al proprio ritrovamento come messaggio di testo. «Nessuna domanda. Va bene?»
John lesse un paio di volte indirizzo URL e dati di accesso, socchiudendo le labbra.
«Nessuna. Domanda» ribadì l’altro, tornando a rivolgersi verso la poltrona. «E adesso vai.»
Il medico fu sul punto di aggiungere qualcosa ma, dopo qualche attimo di esitazione, decise di lasciar perdere. Bloccò il telefono e lo rinfilò in tasca, dirigendosi alla porta.
«Non ci sarà bisogno di usarli. Mi farò vivo io» riaffermò un’ultima volta il R’ent, mentre John usciva dall’appartamento.
Lui annuì, in silenzio, sparendo poco dopo.
 
Sherlock, rimasto solo, si voltò verso il caminetto, le labbra strette tra i denti ed il riflesso allegro delle fiamme impresso negli occhi carichi di ombre. 





Note:
 
1) C.I.”: Chip Identificativo.

Ogni R’ent possiede un microcircuito - contenuto in un piccolo alloggiamento sulla nuca - con registrati all’interno tutti i dati che lo riguardano, comprese caratteristiche fisiche particolari, attributi software ed informazioni relative al Fingunt che lo ha acquistato.




 
Angolo dell’autrice:

Sto attraversando un periodo particolarmente complesso, sia a livello emotivo che fisico. Spesso fatico a fare le cose più semplici, e finisco col dimenticare anche ciò che dovrebbe far parte della "routine". 
I miei interventi in questo spazio sono sempre più brevi e "vuoti", me ne rendo conto, ma purtroppo - proprio per quanto detto poc'anzi - devo tentare di concentrare tutte cose da fare - compreso il pubblicare - nel poco tempo realmente produttivo del quale riesco a disporre.

Spero mi perdonerete, anche e soprettutto per il ritardo sempre maggiore nel rispondere alle vostre recensioni. 

Rimedierò, promesso.

Grazie, come sempre e di cuore, a chiunque abbia letto fin qui. ^_^

A presto,
B.

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Capitolo 18
*** 17. (ovvero di visite inattese, errori, e circuiti stampati) ***


L’errore è quando sbagli una volta.
Due volte, è stupidità.
Oppure, amore.


17.
(ovvero di visite inattese, errori, e circuiti stampati)



Pensavo ne avessimo già parlato.» Sherlock, gli occhi fissi sulle fiamme del camino alla propria destra, inclinò la testa da un lato. «Nessun contatto diretto» ricordò all’uomo che, in silenzio, attendeva immobile davanti alla porta d’ingresso spalancata un invito ad entrare.
«Lo so» ribatté lui, facendo girare lentamente tra le dita l’impugnatura dell’ombrello scuro che teneva davanti a sé.
«Allora perché sei qui?» continuò il R’ent, voltandosi con fare insofferente in direzione del visitatore. «Anzi, perdonami. Perché hai mandato il tuo stupido Sostituto fin qui?»
L’altro prese un respiro profondo, sollevando il mento. Poi mosse qualche passo verso l’interno della stanza, arrestandosi solo quando la luce fioca del caminetto - al quale lanciò un’occhiata divertita – arrivò a lambirgli il viso pallido.
«Hai freddo?» domandò, ironico, sollevando un sopracciglio. «Ah, no. Doveva averne il medico umano che hai scelto – in modo del tutto sconsiderato - di coinvolgere in questa faccenda» concluse, prima che Sherlock potesse ribattere.
Lui socchiuse gli occhi per qualche secondo, sul volto un’espressione di fastidio mal celato.
«Cosa vuoi, Mycroft?» soffiò, le labbra tirare.
«Parlare.» L’uomo si avvicinò alle poltrone, prendendo posto su quella lasciata libera da John. «La situazione è più grave di quanto immaginassimo» sussurrò, appoggiando con cura l’ombrello alla propria sinistra, il manico appoggiato al bracciolo.
«Come ti ho già detto, ne verrò a capo» ribatté Sherlock, con tono seccato.
«La cosa sta assumendo contorni più ampi di quelli che avevamo pensato all’inizio. E toni più cupi.» Mycroft sollevò le sopracciglia, lanciando uno sguardo eloquente in direzione dell’altro. «Non è un’indagine nella quale coinvolgere esterni. Soprattutto, non è il momento di prendere a cuor-»
«Non sto prendendo a cuore nulla, Mycroft. Né coinvolgendo qualcuno. Quando le circostanze diverranno troppo pericolose, se mai accadrà, John verrà estromesso.»
L’uomo trattenne a stento una risata sarcastica.
«John» ripeté, tagliente. «Vi conoscete da meno di ventiquattr’ore, e già vi chiamate con i nomi di battesimo. Devo attendere la lieta notizia per la fine della settimana?»
Sherlock si voltò di colpo verso di lui, il viso contratto da un’ira fulminea, totale.
«Se solo osi…» iniziò, le parole incastrate in gola, taglienti come pezzi di vetro.
«Affezionarsi non è un vantaggio, fratello caro» lo interruppe Mycroft, con aria impassibile. «Tu, più di chiunque altro, dovresti saperlo.»
«LO SO» ringhiò il detective. Sotto la pelle sintetica del volto, piccoli canali carichi di liquido bollente affiorarono come vene. «Se pensi davvero che permetterò che accada una seconda volta…»
«Se poni la faccenda sullo stesso piano, Sherlock, lo hai già permesso.» Mycroft si portò una mano sotto il cappotto di lana pesante, estraendo un piccolo plico di plastica bianca, legato con un cordoncino scuro.
«Ecco qui» disse poi, alzandosi e appoggiando il fascicolo sulla seduta della poltrona. «Valuta tu stesso se si tratta di qualcosa nella quale trascineresti qualcuno. Soprattutto un uomo che si ostina ad andare in giro senza il R’ent che gli è stato assegnato.»
«Non avevi alcun diritto di controllarmi, o di fare ricerche su di lui» rispose Sherlock, lanciando un’occhiata veloce alla busta prima di riportare lo sguardo verso il camino.
«Devo proteggerti, visto quanto tu sia poco incline a farlo spontaneamente» rispose l’altro, semplicemente. Poi, con cura, recuperò l’ombrello e si mosse con passi lenti e misurati in direzione della porta.
«So badare a me stesso» sussurrò Sherlock, senza girarsi.
Le spalle al fratello minore, Mycroft assunse per un attimo – il tempo del battito di ciglia programmato dal proprio Sistema Centrale di Controllo - un’espressione di vago rammarico.
 
«Vorrei tanto che fosse vero, fratello caro» bisbigliò una volta fuori dalla stanza, iniziando a scendere i gradini che, dal primo piano, conducevano all’ingresso. «Lo vorrei davvero.»
 
 
***
 
 
John si sfilò il cappuccio con un gesto veloce, passandosi una mano tra i capelli per liberarli dall’acqua filtrata attraverso il tessuto nel percorso tra la metro e la clinica.
Sarah, immobile oltre il bancone dell'accettazione, lo accolse con un sorriso radioso.
«Dottor Watson! Che bello vederla!» esclamò sollevata.
Lui sorrise a sua volta, iniziando ad aprire il soprabito.
«Ero un po’ in pensiero per lei» ammise la donna, abbassando la voce. «Sa, dopo averla vista andare via con quel R’ent…» aggiunse, con tono vago.
John annuì, facendo scivolare le maniche del parka giù dalle braccia, aiutandosi con un paio di movimenti bruschi. «Sono io a doverti chiedere scusa per essere andato via così, questa notte. Ma se fosse rimasto per troppo tempo senza l’adeguata carica il suo Sistema Centrale si sarebbe danneggiato, e…» John si interruppe, cercando di trovare le parole adatte per spiegare cosa lo avesse portato ad agire con così tanta convinzione, qualche ora prima. Con sorpresa, si rese conto di non riuscire a trovare alcun motivo logicamente valido per un’azione simile, se non quello di un gesto istintivo, un impulso spontaneo, quasi una necessità naturale. «…E sarebbe stato un vero peccato che un modello simile divenisse inutilizzabile» terminò, con scarsa convinzione, cercando di nascondere quanto poco convincenti suonassero quelle parole persino alle sue orecchie. «Cosa abbiamo oggi?» chiese poi di getto, tentando di allontanare la conversazione della notte precedente e dai suoi sviluppi inaspettati.
«La tre è ancora occupata dal R’ent di ieri sera, non sono riusciti a riattivarlo. A quanto ho capito contatteranno una ditta di recupero, se non si riuscirà a risalire al suo Fingunt entro domani mattina. Che cosa assurda.»
«Cosa, esattamente? Che esista una ditta specializzata in recuperi di Sostituti senza identità, che un Fingunt mandi a bere il proprio R’ent fino a fonderlo, o che non sia venuto a riscattarlo dopo quasi ventiquatt…» John si interruppe di colpo, sollevando la schiena. Un pensiero, rapido, gli aveva attraversato la mente, forte come una premonizione.
«Ok, ci sono urgenze?» domandò in fretta, iniziando a muoversi verso l’ascensore.
«No…» rispose la donna, accigliandosi.
«Bene, ottimo.» John la salutò con un cenno della mano, camminando in modo sempre più rapido verso il fondo della hall.
Lei rimase a guardarlo con aria meravigliata, gli occhi fissi sugli arti inferiori del medico e le labbra socchiuse. Per tutto il tragitto verso l’ascensore, l’uomo non aveva mai trascinato la gamba sinistra, completamente coordinata con l’altra.
«Dammi venti minuti. Se non mi vedi tornare entro questo arco di tempo manda qualcuno nella sala visite, per favore» le disse John, voltandosi per qualche attimo verso di lei. «La sicurezza, se possibile.»
«Non vuole essere accompagnato…?» chiese Sarah ad alta voce, sporgendosi dal bancone.
 
Ma lui era già sparito, inghiottito dalle porte metalliche dell’ascensore.
 
 
***
 
 
Una piccola incrinatura – fine, superficiale – attraversava il quadrato di vetro opaco sul quale era attaccato l’adesivo indicante il numero della sala visite, come una ferita.
John rimase a guardarla per qualche secondo, assorto, la mano sinistra sospesa a pochi centimetri dall’imponente tre in plastica liscia.
Poi, con risolutezza, bussò velocemente alla porta prima di socchiuderla e affacciarsi all’interno.
Nella stanza - illuminata solo dalla poca luce che riusciva a filtrare attraverso le tende chiare che coprivano le due finestre affacciate sull’esterno della struttura – i segni di una colluttazione violenta erano evidenti. Uno degli schedari da parete era stato divelto dai propri ganci, finendo a terra dall’altra parte della camera circondato da cartelle e fogli sparsi. Il carrello delle emergenze si era reclinato da un lato, bloccandosi tra la scrivania in legno in fondo allo studio e la sedia in pelle dietro di lei. Fialette, siringhe e garze – solitamente sistemati con cura all’interno degli armadietti – erano sparse sul pavimento. Pezzi di vetro occupavano il ripiano dello scrittoio e parte del lettino dove, sdraiato supino, un R’ent dai capelli scuri giaceva immobile con occhi e bocca spalancati.
Aveva le braccia stese di fianco al corpo, e la maglia sollevata.
Anche dalla distanza che lo separava da John, il foro praticato dai medici per poter drenare il liquido ingerito era facilmente individuabile.
A giudicare dallo stato della sala visite, l’alcol doveva aver intaccato in modo grave i sensori del Sistema Centrale, mandando in cortocircuito la BDM.
Solitamente, in casi di avaria, un R’ent veniva ricondotto da un organo di controllo autonomo e secondario - sistemato in un alloggiamento a parte all’interno della zona lombare - allo stato di quiete, permettendo al proprio Fingunt di poter provvedere al recupero.
Non era mai accaduto, per quanto riuscisse a ricordare, che si rendesse necessario un intervento coatto dall’esterno.
Invece, era evidente che si era reso necessario un enorme sforzo da parte degli operatori della clinica per riuscire ad immobilizzare il Sostituto. Braccia e gambe bloccate al lettino attraverso i nastri di contenimento per i pazienti violenti verso se stessi e gli altri, il R’ent era ricoperto da piccole lacerazioni. Sul braccio sinistro, visibile attraverso la manica sollevata, piccole tracce di sangue sembravano indicare che avesse colpito uno dei medici sino a farlo sanguinare.
«Accidenti…» sussurrò John, avvicinandosi cautamente all’uomo. Gli passò una mano sugli occhi, in cerca di reazioni. Le pupille, enormi e scure, rimasero immobili.
«Hai fatto davvero un bel casino, eh?» gli mormorò il medico, chinandosi su di lui per esaminare il foro dal quale erano stati drenati i liquidi.
La pelle sintetica era lacerata ai bordi, segno che l’apertura non era stata preventivamente preparata, ma realizzata direttamente con il premere violento della cannula per l’aspirazione contro il tessuto.
John tornò in posizione eretta, muovendosi verso la testa del R’ent. Con attenzione e delicatezza iniziò a tastare la nuca, in cerca dell’alloggiamento del R.ews. La testa dell’uomo di sollevò leggermente, spinta dalle dita del medico.
«Che diavolo…» Una sporgenza appuntita, aguzza, lo aveva colto di sorpresa, entrando all’interno del polpastrello. Ritrasse la mano, portandosi il dito davanti agli occhi. Una piccola goccia di sangue, lucida, si sparse attraverso le creste fino ad allargarsi all’intera punta dell’indice. John aggrottò la fronte, tornando con le mani sul collo dell’uomo. Con una certa fatica gli sollevò del tutto la testa, spostandola di lato.
Non riuscendo a vedere sufficientemente bene, spostò il lettino con un movimento rapido in direzione della finestra, continuando a tenere saldamente il capo del R’ent alzato.
«Ma cosa…» esalò quando, dopo un paio di tentativi, riuscì a mettere a fuoco correttamente cosa sporgesse per oltre la metà della propria grandezza dalla nuca del Sostituto.
Il suo C.I., estratto quasi del tutto. Una piccola goccia del sangue di John rimase in bilico per qualche secondo sulla punta del circuito stampato, prima di staccarsi e cadere sul lettino, macchiandolo.
Il medico spostò di peso l’uomo da un lato, spingendo fino a dove i lacci di contenimento consentivano la rotazione. Poi, bloccando le spalle del R’ent con il braccio destro, tentò di afferrare la scheda con la mano sinistra.
«Andiamo…» si incoraggiò mentre le dita scivolavano via dal meccanismo una prima volta, complice il sangue che rendeva scivolosa la sua superficie. «Andiamo…» provò di nuovo, chiudendo con più forza i polpastrelli.
La voce metallica della filodiffusione esplose di colpo nel corridoio, cogliendolo di sorpresa.
Il Dottor Watson è atteso in Accettazione” gracchiò, rimbalzando contro le pareti spoglie. “Il Dottor Watson in Accettazione” ripeté ancora, dopo qualche secondo, con tono ancora più alto. John si liberò dal peso del R’ent con un sospiro irritato, facendolo ricadere sul lettino con un tonfo sordo.
Rimase a guardarlo per qualche attimo, indeciso sul da farsi.
Il Dottor Watson si rechi urgentemente in Accettazione” ribadì la voce, proveniente dagli altoparlanti sistemati ai lati dell’ascensore.
«E va bene, ho capito!» soffiò lui, scuotendo la testa ed uscendo dalla stanza con passo rapido. Prima di richiudere la porta lanciò un’ultima occhiata al corpo, appuntandosi mentalmente di tornare a recuperare il chip non appena possibile. Poi, con andatura militare, iniziò a muoversi lungo il corridoio. 





Angolo dell’autrice:

Ieri mi sono sottoposta, dopo il fallimento del primo intervento, ad una seconda piccola operazione. Questa volta i giorni da passare a casa, ferma il più possibile, sono due.
Ho pensato che, se da sdraiata scrivere è praticamente impossibile, correggere e pubblicare poteva essere una buona idea. Ed eccoci qui.
Domenica scorsa ho terminato la stesura della prima parte della storia (che, come avevo accennato, sarà divisa in due pezzi). In tutto sono arrivata a 485.000 battute, che è più della lunghezza standard di un romanzo medio. Insomma, quando dicevo che la pubblicazione vi avrebbe tenuto compagnia a lungo non scherzavo affatto! XD
 
Ancora una volta, grazie a tutt* per la splendida compagnia che mi state facendo – commentando, inserendo la storia in una delle categorie, o anche solo leggendo - durante questo viaggio
 
È enorme regalo, per me.
 
A presto.
B.
 

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Capitolo 19
*** 18. (ovvero di assenze e ritorni) ***


Non si ricordano i giorni, si ricordano gli attimi.
(Cesare Pavese)
 
 


18. 
(ovvero di di assenze e ritorni)
 
 
 
«Allora? Che succede?» chiese John, con una leggera apprensione, non appena svoltato l’angolo che dal corridoio affacciava sulla hall d’ingresso.
Sarah si voltò verso di lui, scuotendo le spalle ed indicandogli uno dei telefoni posizionati dietro il bancone, la cornetta sollevata e poggiata di fianco al corpo principale.
«È una donna… Non ha voluto dirmi il suo nome, ha semplicemente ripetuto più volte che doveva urgentemente parlare con lei…» cercò di giustificarsi, arrossendo davanti allo sguardo di disappunto del medico. «Le ho detto di aspettare, ma non ha voluto sentire ragioni…!»
John rallentò l’andatura, riprendendo a gravare con il peso sulla gamba sinistra. Con camminata pesante e discontinua si avvicinò al bancone, le labbra tirate.
Sollevò la cornetta e se la portò all’orecchio sinistro, incrociando lo sguardo irrequieto di Sarah.
«Pronto? Qui John Watson, chi parla?» domandò, accennando un sorriso rincuorante alla segretaria che, di colpo, rilassò i lineamenti e le spalle.
«Pronto?» provò ancora il medico, non riuscendo a sentire altro dall’altro capo del telefono se non un respirare lento e profondo.
«Sto per riagganciare» disse quindi, aggrottando le sopracciglia. «Le do cinque secondi e p-» Si interruppe, sorpreso dal cadere improvviso della linea. Abbassò la cornetta e rimase a guardarla per qualche secondo, stupito.
«Ha riattaccato» spiegò a Sarah, ripassandole il telefono. «Non riesco a capire. Non ha accennato a cosa volesse?»
Lei scosse la testa, in silenzio. «Mi dispiace Dottor Watson» sussurrò, mordendosi il labbro inferiore. «Spero di non averla disturbata in un momento delicato…»
«Ma no, non ti preoccupare. Stavo solo…» iniziò lui, dandole una veloce stretta rassicurante al polso destro. Un pensiero, rapido e dai contorni sfaccettati, gli attraversò la mente, bloccandogli le parole in gola. «Oh» sussurrò, a mezza voce, dando due colpetti al bancone con le mani per darsi la spinta e ripartire nuovamente in direzione dell’ascensore.
«Che succede?» chiese Sarah, seguendolo con gli occhi. «Dottor Watson?» riprovò, allontanandosi di qualche passo dal desk.
«Devo controllare una cosa, scusami!» le rispose lui sbrigativamente, la voce ovattata dalla distanza.
Premette più volte il pulsante di chiamata, alzando lo sguardo sul contatore per capire a quale piano si trovasse l’ascensore. Quando realizzò che si stava mettendo in moto dall’attico, si lasciò andare ad un respiro esasperato. Si girò verso destra, lanciando un’occhiata alle scale che si aprivano oltre una piccola porta di metallo.
Tornò con gli occhi sul contatore, adesso fermo al quarto piano.
«E va bene…» soffiò, lanciandosi verso le scale.
 
 
Le labbra socchiuse e il fiato corto, sbatté un paio di volte le palpebre. Non riusciva a comprendere se lo sconvolgesse di più aver avuto un’intuizione che poi – seppur il suo realizzarsi fosse del tutto improbabile - si era rivelata sorprendentemente corretta, o lo scenario che si presentava davanti ai suoi occhi increduli.
Mosse qualche passo all’interno della sala visite, quasi si aspettasse che con il mutare della propria posizione – e con essa del modo nel quale la luce colpiva i suoi occhi - potesse cambiare la realtà alla quale si trovava al cospetto: il corpo del R’ent era scomparso.
Sul lettino, adesso completamente vuoto, era rimasta solo una piccola goccia di sangue all’altezza del poggia testa. Il medico ci passò un polpastrello sopra, guardandola stendersi in una striscia allungata.
Rimase ad osservare la punta del dito per qualche secondo, un unico pensiero a ripetersi ininterrottamente nella testa: “non è possibile. Cinque minuti. Non mi sono allontanato per più di cinque minuti.”
Fece una rapida giravolta, osservando la stanza. Non sembrava essere stato toccato nulla, ed ogni cosa appariva dove ricordava che fosse. Solo lo schedario, ancora riverso a terra, era ruotato in parte in senso orario. Probabilmente, si trovò a pensare, chi aveva afferrato il corpo lo aveva trascinato fino alla porta, colpendolo.
«La porta…!» esplose, correndo verso il corridoio. Chiunque avesse prelevato il corpo del Sostituto non poteva aver coperto una distanza eccessiva, considerato il tempo trascorso ed il peso di un R’ent disattivato. Lui stesso aveva impiegato quasi dieci minuti a trascinare il corpo di Sherlock sino al taxi che li aveva portati a casa sua la sera prima.
Si appoggiò agli stipiti della porta con entrambe le mani, sporgendosi nella corsia. Davanti a sé l’ascensore che aveva usato per tornare al piano terra. Impossibile che qualcuno lo avesse adoperato per portare fuori dalla struttura l’uomo.
Si voltò a sinistra, scrutando con attenzione le quattro porte chiuse che si affacciavano sul corridoio. Fece saettare lo sguardo da una all’altra, irrigidendo la mandibola.
«E va bene…» sussurrò, tornando ad osservare l’interno della stanza in cerca di qualcosa che potesse, in caso di necessità, fungere da arma. Alla fine afferrò velocemente il bastone per le flebo finito a terra sotto il lettino. Lo fece girare su se stesso fin quando l’asta non si staccò dalla base. Poi l’imbracciò con la mano sinistra, uscendo.
Si mosse con passo lento verso la prima porta, il respiro rapido e superficiale. Rimase in ascolto per qualche secondo, non riuscendo a percepire altro se non il suono del proprio cuore che batteva veloce nelle orecchie. Con attenzione appoggiò la mano al pomello, facendolo roteare verso destra con un leggero cigolio. Poi spalancò speditamente la porta, portandosi il bastone a protezione del viso. Lo studio, vuoto, lo accolse nella penombra. John si lasciò andare ad un sospiro di sollievo, accorgendosi solo in quel momento con quanta forza stesse tirando i muscoli di schiena e petto. Scrollò le spalle, in modo da rilassarle il più possibile.  
Poi uscì dalla stanza, diretto a quella di fronte. Compì gli stessi gesti per tutte e quattro le sale visita che occupavano il piano, trovandole sempre avvolte da semioscurità e silenzio, deserte.
Quando, con un sospiro rassegnato, si chiuse alle spalle anche l’ultima porta, lasciò cadere a terra il bastone, sentendosi terribilmente sciocco.
C’era sicuramente una spiegazione plausibile per quanto successo. L’accesso al piano terra non era l’unico modo per condurre fuori dall’edificio qualcosa, o qualcuno.
Gli inservienti potevano aver spostato momentaneamente il corpo in uno dei ripostigli al piano superiore per poter provvedere alla ripulitura della stanza. Oppure, nello scendere nella hall, poteva aver evitato per pochissimi minuti la ditta di recupero alla quale aveva accennato Sarah che - con molta probabilità - avrebbe portato il Sostituto al piano interrato, per poterlo caricare con calma su un furgone apposito. 
Scuotendo la testa si avviò nuovamente verso le scale, mentre l’adrenalina cominciava a defluire lentamente da muscoli e nervi, lasciando dietro di sé solo un tiepido torpore.
Una volta di fronte all’ascensore, si voltò in direzione delle scale. Attese qualche secondo, muovendo il peso da una gamba all’altra. Poi, con un sorriso appena accennato sulle labbra, iniziò a scendere i gradini con passo veloce, le mani affondate nelle tasche e la sensazione di essere – per la prima volta dopo molto, moltissimo tempo – di nuovo in sé.
 
Vivo
 
 


 
Angolo dell’autrice:  

Sto passando uno dei periodi più complicati della mia vita.
Si pensa di conoscere il valore delle cose ma - come spesso si dice “per saggezza popolare” - giunge sempre il momento in cui qualcosa arriva a mescolare le tue priorità, mostrandoti il loro vero ordine.
La mia rivelazione mi ha raggiunta il venti febbraio, rinnovandosi via via tutti i giorni che, a partire da quella data, ho sentito di stare per perdere tutto.
Ad oggi non so ancora come andrà, come sarà la mia vita fra un mese, o alla fine di questo anno.
Ma so che, se aggiungessi la perdita della scrittura a tutto quello che – al momento – mi è precluso, farei un torto a me e all’epifania stessa che mi avvolge.
 
Niente di grave, ad ogni modo. E lo sottolineo perché ho la fortuna di sapere di avere, anche tra queste “mura”, persone che si preoccupano per me.
 
Se però, come in passato mi è già capitato di chiedervi, voleste dedicarmi ogni tanto un pensiero positivo, sarebbe per me meraviglioso. ^_^
 
Scusate per la lunga attesa. Non escludo che ne seguiranno altre. Spero solo, al più presto, di potervi dire come e perché, e ridere con voi anche di questo.
 
Grazie, come sempre e di cuore, a chiunque abbia letto fin qui.
 
A presto,
B.

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Capitolo 20
*** 19. (ovvero delle sorti di due informatori) ***


Il passato è solo il presente diventato invisibile e muto […].
(Mary Webb)


19.
(ovvero delle sorti di due informatori)


 
«Ci hai messo molto.» Sherlock sciolse le gambe con un movimento fluido, alzandosi dalla poltrona. «Devo dedurne che l’informazione richiesta fosse particolarmente difficile da reperire?» chiese, con tono distaccato, dirigendosi verso la cucina.
«Praticamente impossibile, Shezza» rispose la giovane ragazza con i capelli corti e rossi che – avvolta da un vecchio cappotto troppo grande per lei – aveva appena varcato la soglia di Baker Street. «Ho dovuto chiedere aiuto a mio fratello, alla fine.»
«Oh.» Il R’ent si arrestò, la mano sospesa a pochi centimetri dal pomello di uno dei pensili fissati sopra i fornelli. «Immagino che questo voglia dire un aumento della parcella.» Aprì lo sportello, estraendo un piccolo barattolo in di tè. «Mi sembra corretto.»
«In realtà… - ribatté lei, seguendo l’altro in cucina – pensavo di saldare la differenza con l’ospitalità per un paio notti. Sai, questi giorni si gela, in strada…»
Sherlock scoperchiò il contenitore di latta, estraendone un mazzetto di banconote arrotolate con cura. Senza aprirlo lo allungò verso la ragazza, che lo prese con entrambe le mani, aprendolo. Le unghie, corte e sbeccate, erano circondate da un leggero alone di sporcizia.
«Shezza, sono decisamente troppi!» esclamò, quando ebbe contato l’ultima banconota. «Preferirei restituirtene una parte e restare…»
«Tienili.» Sherlock richiuse il barattolo e lo rimise nella credenza. «Nella mia camera dovrebbe ancora esserci il materasso e qualche coperta» aggiunse poi, superandola per tornare nel salotto. «Adesso, però, siediti e racconta.»
Lei rimase immobile qualche secondo, spostando più volte gli occhi dai soldi al R’ent, le labbra socchiuse per la sorpresa.
«Grazie» sussurrò infine, scuotendosi.
«Non ringraziarmi. Sdebitati» si limitò a risponderle lui, facendole cenno di prendere posto sulla poltrona di fronte alla sua, prima di sedersi nuovamente.
 
 
***
 
 
Mosse la testa verso sinistra, lentamente. Poi, piano, la portò a destra, aspettando di sentire i muscoli del collo tendersi e dolere. Solo allora, sempre con estrema calma, sollevò di nuovo il capo in posizione eretta.
Appoggiò i gomiti alla scrivania in legno dietro la quale era seduto e intrecciò le dita delle mani davanti al mento, posandolo sopra di loro con un sospiro.
Un bussare concitato alla porta alle sue spalle lo fece voltare di scatto, allontanando i suoi occhi - per la prima volta dopo quasi un’ora - dai piccoli schermi che ricoprivano quasi del tutto la parete di fronte a lui.
Assottigliò le palpebre, attendendo di scoprire se quanto erano venuti a riferire fosse davvero tanto urgente da obbligare uno dei suoi uomini a correre il rischio di bussare ancora una volta.
Passò qualche secondo. Poi, di nuovo, si sentì battere con forza alla porta.
Stirò le labbra in un sorriso divertito. Quindi fece roteare la sedia sulla quale era seduto in modo da avere una visuale completa dell’ingresso. Alle sue spalle, la luce azzurra dei monitor creava un velo scuro attorno alla sua figura, trasformandolo in un’ombra dal profilo abbozzato, confusa con tutte le altre che si agitavano attraverso la stanza.
«Avanti» trillò, allegro.
La porta si socchiuse, restando accostata per qualche secondo. Poi - cigolando leggermente sui cardini - si aprì del tutto, mostrando la silhouette asciutta di un uomo alto e magro. Questi mosse un paio di passi nella stanza, rigido e impacciato.
«Alex!» lo salutò l’uomo, aprendosi in un sorriso enorme. «C’è qualcosa che devi dirmi?»
«Sì, Capo» rispose l’altro, la voce fredda e rallentata.
«Avanti, allora. Dimmi.»
Lui si bloccò, muovendo appena la testa da un lato. Poi, con un piccolo scatto, la riportò in posizione eretta.
«Sì» ripeté. «C’è un problema, Capo.»
«Ti ascolto» rispose l’uomo pazientemente, incrociando le dita e appoggiando le mani sulle gambe.
«La Tana è stata scoperta, Capo.» La figura in piedi attese qualche secondo, in completo silenzio. «La polizia è appena stata lì» terminò quindi, con cautela, quando realizzò che l’altro non era intenzionato a rispondere a quanto appena sentito.
«Tutto qui, quello che dovevi dirmi?» L’uomo annuì, alzandosi dalla sedia. «Sei venuto fino a qui per questo?»
«Sì, Capo» replicò la figura, oscillando la testa.
L’altro gli si avvicinò con passo lento, un sorriso obliquo a tirare le labbra. Quando si trovò con la fronte a pochi centimetri dalla sua gli poggiò entrambe le mani su volto, all’altezza delle orecchie.
Chiuse gli occhi, lento, senza smettere di sorridere. Poi, con un colpo secco, girò di colpo la testa del visitatore verso sinistra, sentendola disarticolarsi dal collo.
La figura spalancò gli occhi, sorpresa, sentendo le gambe cedere e le spalle cadere inermi verso il basso.
L’uomo lasciò andare la presa, osservando divertito il corpo accasciarsi a terra con un tonfo.
Una piccola scintilla rossa gli illuminò fugacemente lo sguardo, spengendosi pochi istanti dopo, inghiottita dal nero delle pupille spalancate.
«Dovresti saperlo, Alex» sussurrò l’uomo, sbattendo tra loro i palmi, come a liberarsi da un po’ di polvere. «Non si bussa al mio studio se non per un buon motivo.»
Tornò verso la sedia, prendendo posto nuovamente dietro la scrivania, gli occhi ai monitor.
Si voltò verso uno di quelli più in basso, sulla sinistra, che mostrava in bianco e nero il muoversi laborioso di tante piccole figure umane. Alcune trasportavano barelle. Altre, radunate al margine del display, erano intente ad alzare e spostare di lato pesanti sacchi neri, delle dimensioni di un uomo.
 
Alle loro spalle, sullo sfondo, lo scorrere lento di un fiume.
 
 
***
 
 
John lanciò un’occhiata veloce al proprio cellulare, appoggiato schermo in giù di fianco alla tastiera del computer sul quale stava lavorando.
Sovrappensiero, chiuse il labbro inferiore tra i denti, mordendolo appena.
Alzò lo sguardo sull’orologio affisso sopra la porta del suo studio. Erano le otto di sera passate, e Sherlock non aveva ancora dato notizie.
Accedere al suo localizzatore, cosa che stava meditando di fare, era qualcosa da prendere in considerazione come ultima opzione, un’extrema ratio alla quale – in caso di uso improprio – avrebbe dovuto trovare una valida spiegazione, ne era conscio.
Eppure, nonostante conoscesse quel R’ent da meno di ventiquattro ore, qualcosa nel prolungarsi del suo silenzio lo stava facendo innervosire. Non era un fastidio vero e proprio, più un vago senso di irrequietezza che risaliva ad ondate attraverso il petto.
«Andiamo, è ridicolo…» cercò di convincersi, scuotendo la testa e tornando a concentrarsi sulle cartelle dei pazienti.
Pochi minuti dopo, senza essersene reso conto, si trovò nuovamente immobile, le dita sospese sulla tastiera e gli occhi al rivolti al telefonino.
«Va bene, ho capito…» sbuffò alla fine, arrendendosi. Allungò una mano verso l’apparecchio, girandolo tra le dita un paio di volte prima di sbloccarlo. Le luci al neon della stanza proiettarono un’ombra densa sotto il suo pugno, scurendo parte della scrivania.
Il medico ripassò un paio di vote la nota, distogliendo lo sguardo ad ogni lettura.
C’era qualcosa, nella password, che richiamava prepotentemente l’attenzione, destando la sua curiosità. Il perché era abbastanza chiaro: era composta dal nome del R’ent unito a quello di un’altra persona ed una data, cosa che suggeriva in modo abbastanza chiaro la grande importanza di entrambe nella vita di Sherlock. Quello che non riusciva a comprendere del tutto era il motivo per il quale la sola idea di digitarle su un motore di ricerca gli mozzasse il respiro al centro del petto. Aveva l’opportunità di poter sapere qualcosa in più sulla persona che aveva scelto di accompagnare in un viaggio folle e pericoloso e – allo stesso tempo – quello che riusciva a scorgere tra quelle lettere scure era qualcosa che non era certo di voler affrontare.
«Non sono… affari… tuoi» borbottò, riappoggiando il cellulare sulla scrivania, rivolto verso il basso.
Inserì un altro paio di cartelle, battendo lettere e informazioni con estrema lentezza.
Iniziò ad inserirne una terza, tornando inconsciamente ad intervalli regolari con lo sguardo al telefono. Se ne rese conto solo quando, provando a salvare i dati inseriti, il programma aprì una grossa finestra di errore al centro del monitor per segnalare l’errata collocazione di alcune informazioni.
«Maledizione!» scattò, chiudendo con un gesto stizzito il file.
Scuotendo la testa afferrò il telefono, rileggendo la nota un’ultima volta prima di digitare le informazioni contenute nella password sulla barra della ricerca on line.
 
“Sherlcok ("Holmes", aggiunse lui),Victor, 2071”
 
Il cursore scomparve per qualche secondo, sostituito da una piccola rotella di caricamento. Alla fine, con un leggero ronzio da parte del corpo centrale del computer, i risultati della indagine comparvero in un elenco cadenzato. Sorprendentemente, nessuno conteneva i dati per intero. Il nome di Sherlock appariva poche volte, e mai in associazione a quello dell’altro. “Victor” e la data 2071, invece, generavano riscontri eterogenei e senza un’apparente coerenza.
Notizie di sport, scoperte scientifiche, compleanni e avvenimenti vari accaduti nel 2071 ad opera di persone con lo stesso nome di battesimo si accavallavano tra loro, mescolandosi davanti ai suoi occhi. John scorse la pagina fino alla fine, consapevole che – senza la presenza del nome di Sherlock, così tanto particolare, a “indirizzarlo” verso la corretta risposta – non avrebbe ricavato alcun tipo di informazione utile.
Rifletté per qualche secondo, socchiudendo le palpebre per aiutarsi ad indirizzare i pensieri. Poi, rapido, cancellò l’intera barra di ricerca e la riempì con il solo nome del R’ent.
Di nuovo, il puntatore divenne un cerchio in movimento, restituendo in pochi attimi i risultati.
Il medico arcuò un sopracciglio, sorpreso. Istintivamente si piegò in avanti, come se avvicinarsi con il viso allo schermo potesse cambiare quanto stava vedendo. Alla fine si convinse che sì, quella schermata era realmente, sorprendentemente ed inspiegabilmente vuota.
Non gli era mai capitato di cercare un qualcosa che restituisse come risultato il nulla più assoluto, e ne rimase turbato. In una società dove ogni persona era costantemente connessa ad una rete, che la rete stessa non trovasse traccia di qualcuno era così insolito da risultare allarmante.
Una parola, incamerata chissà quando durante i suoi studi superiori, gli affiorò alla mente: damnatio memoriae.
John si domandò se l’avesse scelta Sherlock, o gli fosse stata imposta. In entrambi i casi, i motivi dovevano essere seri. Così tanto da poter essere persino pericolosi.
Razionalmente si rendeva conto che questo avrebbe dovuto azionare i suoi meccanismi di difesa, convincendolo a desistere dalla follia di seguire ancora una volta il R’ent da qualche parte. Era cosciente però, allo stesso modo, che la sua mente non era tanto sollecitata e attiva da tempo. Anni. E non era certo di essere pronto a lasciar andare quanto Sherlock aveva trascinato nella sua vita, per tornare ad una routine innocua quanto desolante.
Alzò nuovamente gli occhi verso l’orologio. La lancetta delle ore era ora molto più prossima al nove che all’otto. Quasi cinque ore senza avere notizie.
Di getto scrisse l’indirizzo indicato da Sherlock sulla barra URL, ed inserì user e password. Non era riuscito a comprendere chi fosse Victor, o cosa lo avesse legato al detective nel 2071, quasi dieci anni prima, ma poteva scoprire dove quest’ultimo si trovasse al momento. Si sorprese a sperare di vedere il localizzatore ancora immobile al numero 221 di Baker Street. Non tanto e non solo perché avrebbe significato sapere l’altro in un luogo sicuro, ma anche perché gli avrebbe dato conferma di non essere stato lasciato indietro.
Lo schermo divenne buio, attraversato da una ragnatela intricata di strade bianche che si intersecavano tra loro. Un cerchio azzurro, opaco, comparve sulla via della clinica, ad indicare la posizione del computer che stava svolgendo la ricerca.
John mosse gli occhi sulla mappa, in cerca di un segnale. Attese qualche secondo, senza che succedesse nulla.
“Mi ha fregato… come ho fatto a cascarci?” si rimproverò, scuotendo la testa.
«Se il localizzatore e il punto di ricerca coincidono, non vedrai mai la mia posizione» esordì una voce bassa dalla porta.
Il medico sollevò la testa di colpo, comparendo al di là dello schermo con un’espressione sorpresa che lo fece apparire, per un attimo, molto più giovane della sua età.
«Sherlock» sussurrò, alzandosi. «Che… come?» balbettò poi, chiudendo in fretta la finestra del computer.
«Credi davvero che io non venga avvertito, quando qualcuno accede al chip?» domandò il R’ent, appoggiato allo stipite. «Sarebbe davvero una leggerezza imperdonabile.»
Il medico alzò le spalle, arrendendosi. «Sono davvero prevedibile, eh?» chiese, con un sorriso tenue.
«In verità no. Molto meno degli altri, comunque» rispose Sherlock, dandosi una spinta per tornare in posizione eretta. «Allora: sei molto impegnato, o potresti sgattaiolare via prima della fine del turno?»
John si guardò attorno, controllando quante cartelle fossero rimaste da inserire e quanto lavoro avrebbe di conseguenza lasciato a chi sarebbe arrivato a dargli il cambio dopo poco più di un’ora.
«Devo rimanere reperibile. Se succede qualcosa…» iniziò, aggirando la scrivania.
«Prometto che se dovessero arrivare delle urgenze sarò io stesso a caricarti sul primo taxi» lo anticipò Sherlock.
Il medico sembrò riflettere un attimo sulla proposta. Poi, rapido, si diresse verso il corridoio superando l’altro.
«Avviso Sarah di anticipare l’arrivo del collega» spiegò velocemente, incamminandosi in direzione della hall.
«Fai pure» rispose il R’ent, recuperando il soprabito dell’altro dall’attaccapanni di fianco alla porta ed avviandosi a sua volta.
 
«Tanto gli ho già inviato un messaggio a tuo nome per avvertirlo che saresti andato via prima» sussurrò soddisfatto, lasciandosi andare ad un sorriso divertito.
 



 
Angolo dell’autrice:

Sembra passato un secolo, dall’ultimo aggiornamento.
Era il 6 marzo, e tante cose erano già successe. Tante altre, invece, dovevano ancora accadere.
Avevo ancora trent’anni, per cominciare (ne ho compiuti trentuno esattamente una settimana dopo), e passavo molto tempo ferma a letto, tutte le mie speranze legate a date sul calendario che mi sembravano lontanissime e che non vedevo l’ora di raggiungere.
 
Piano piano ogni tappa è stata toccata e, con un po’ di fatica, superata.
Fino ad arrivare ad oggi, con il cuore e la testa finalmente più leggeri.

Spero di essere molto più costante, adesso che posso stare seduta (anche se non per ore intere come ero abituata).
 
La prima parte della storia, comunque, è già conclusa. Al momento sto scrivendo la seconda. ^_^
Piano piano ce la faremo!
 
Grazie, come sempre e di cuore, a chiunque abbia letto fin qui.
 
A presto,
B.

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Capitolo 21
*** 20. (ovvero di Conigli Bianchi e Cappelli Neri) ***


Solo nell’avventura alcuni arrivano a conoscersi.
(André Gide)


20.
(ovvero di Conigli Bianchi e Cappelli Neri)


 
«Allora…» John si chiuse nel parka con un brivido, lanciando un’occhiata rapida all’altro che, impettito, procedeva con il cappotto aperto e le mani affondate nelle tasche. «Il tuo uomo ti ha fatto qualche nome?»
Il R’ent ricambiò lo sguardo, tornando poi a fissare il marciapiede davanti a loro.
«Donna» specificò, atono. «La mia fonte è una donna. Una ragazza, per essere precisi.»
«Scusami. Donna» lo accontentò il medico. «Che notizie ti ha portato?»
Sherlock svoltò a sinistra, in un vicolo stretto e lungo. «Un nome.»
L’altro lo seguì, con passo veloce. «Hai intenzione di dirmi qualcosa, o dovrò estorcerti ogni singola informazione a fatica?» si lamentò, aumentando ancora l’andatura per non perdere la figura del detective nella penombra della stradina. «Ehi!» lo chiamò, raggiungendolo e prendendolo per una spalla, obbligandolo a voltarsi.
«Adesso ascoltami: se vuoi che venga con te, devi dirmi gli estremi della missione» sussurrò irritato, fissando gli occhi il quelli dell’altro. «Se vuoi tenere informazioni per te, fai pure. In quel caso, però, dovrai anche continuare ad indagare da solo.»
Sherlock fissò il volto del medico con intensità. Rabbia. Fastidio. Irritazione. I sentimenti visibili in modo chiaro tra i suoi lineamenti tirati.
«White Rabbit» rispose dopo qualche secondo, distogliendo lo sguardo. «Il Bianconiglio.»
«Dovrebbe dirmi qualcosa?» domandò John, lasciando la presa.
«Forse.» Il Sostituto riprese a camminare, con meno fretta. «Ma solo se sei un hacker dal Cappello Nero.»
«Scusa?» Il medico tornò a muoversi, rilassando le spalle. Piccole gocce di pioggia iniziarono a scurire il terreno, trasportate da raffiche di vento.
«Immagino che tu appartenga a quella larga fetta di persone convinta che il termine “hacker” abbia un’accezione negativa… - sbuffò Sherlock – Beh, è quanto di più sbagliato di possa affermare. A ben guardare nemmeno il termine “cracker” è del tutto corretto, anche se già più adeguato a descrivere la tipologia di persone sulle quali stiamo indagando…»
John rimase in silenzio, aspettando che l’altro continuasse.
«Un cracker è chi spezza le protezioni invece di aggirarle, mentre “black hat hacker” indica in modo più esatto un hacker con intenti criminali. Certo, molti cracker rientrano anche in questa categoria. Ma non tutti.»
Proseguirono in silenzio per più di un minuto preceduti dalle loro ombre che, pallide, si allungavano sull’asfalto ad ogni passaggio sotto ad uno dei rari lampioni a muro affacciati sul vicolo.
Arrivato in fondo Sherlock girò a destra e poi, dopo poco, nuovamente a sinistra. John lo tallonò con attenzione, senza mai distogliere lo sguardo dalla sua schiena. Dopo un’ultima curva, si ritrovarono in un piccolo spiazzo circondato da case. Il medico si guardò attorno, stupito. Tranne una piccola porta in legno scuro, le pareti attorno a loro erano un continuo circolare di mattoni rossicci, senza alcuna interruzione.
«Dove siamo?» sussurrò, affiancandosi al R’ent.
«Il mio contatto era riuscita a risalire solo ad un nome. A noi, ora, il compito di scoprire quale tipo di attività svolga nello specifico» gli rispose l’altro, attraversando la piazzetta diretto alla soglia in penombra.
«Ti ha dato solo un nome, e tu ne hai ricavato un indirizzo?» riprese il medico, scettico.
«Oh, no. Mi ha dato un nome, ed io ho dichiarato aperta la caccia ai conigli» ribatté il Sostituto, con un sorriso enigmatico.
Prima che il medico potesse affermare di non riuscire a seguirlo nel ragionamento alzò un dito verso la porta, indicando un piccolo segno in vernice bianca. John socchiuse gli occhi e si avvicinò, cercando di mettere a fuoco il soggetto ritratto sul mattone.
«È… è un coniglio, quello?» si stupì quando, dopo un paio di tentativi, riuscì a riconoscere due lunghe orecchie sollevate ed una coda rotonda.
«Ogni gruppo ha un simbolo per potersi identificare. È bastata una rapida ricerca visiva sulle riprese delle telecamere a circuito chiuso che affollano ogni angolo della città per individuare ogni coniglio dipinto, inciso o scritto. Poi, ho scartato tutti i luoghi troppo accessibili, grandi o in vista. Alla fine sono rimasti pochi luoghi adatti a ricevere una nostra visita.»
«Tu hai accesso alle riprese delle telecamere di tutta la città?!» quasi urlò John.
Sherlock gli intimò il silenzio portandosi un dito all’altezza della bocca, soffiando però l’aria tra le labbra con troppa forza rispetto a quanto avrebbe fatto un essere umano. «Credi che il Bianconiglio sia l’unico gruppo di black hat a Londra?» domandò poi, con un sibilo.
«No, certo che no, ma…» John aggrottò la fronte. «Perdonami, ma se hai un gruppo di hacker che lavora per te…»
«Black hat» lo interruppe Sherlock.
«Ok, va bene, va bene! Black hat. Se hai un gruppo di Black Hat che lavora per te, perché semplicemente non gli chiedi di rintracciare le persone che stiamo cercando?» domandò, con il tono di chi sta esternando un’ovvietà.
«Per prima cosa, anche tra hacker esiste un galateo, e sono molto rigidi nel seguirlo. Non si da in pasto a qualcuno l’identità di un altro hacker. E poi… le informazioni che mi forniscono non sono mai… a buon mercato. Quindi cerco di dar loro solo l’enunciato basilare, per poter ricevere i dati strettamente necessari ed arrivare alla soluzione del problema da solo.»
John si portò accanto all’altro, scuotendo la testa rassegnato. «D’accordo» si arrese, con un sospiro. «Quindi, esattamente… Chi dovrebbe venire ad aprirci?» chiese poi, allargando istintivamente le gambe in previsione di un ipotetico attacco.
«Non ne ho idea» ammise Sherlock.
 
«Ma immagino che lo scopriremo tra poco» aggiunse con un sorriso, lanciando un’occhiata veloce al medico prima voltarsi nuovamente verso la porta, pronto a bussare.
 



 
Angolo dell’autrice:

Sono sparita a lungo. Lo so. Vi chiedo scusa.
Ricompaio oggi, con un capitolo davvero molto corto, ma sentivo la necessità di lavorare su qualcosa questa mattina, per riuscire a distogliere la mente da una visita davvero molto importante fissata per le 14 di oggi.
 
Mi sento comunque di rassicurarvi: ho continuato a scrivere, in questo periodo, e sono ormai a più di un terzo della seconda (e ultima) parte della storia.
 
Spero davvero, dopo oggi, di poter tirare un enorme sospiro di sollievo, e poter tornare alla scrittura con i tempi e la tranquillità che una volta erano miei fedeli compagni.
 
Ancora una volta vi chiedo, nel caso vi andasse, di rivolgermi un pensiero positivo.
Siete sempre stati un grande ristoro, per me.
 
Come sempre, grazie a chiunque abbia letto fin qui. E uno ancora maggiore a chi – nonostante venga meno ai miei obblighi di risposta ormai da davvero tanto, troppo tempo – continua a recensire, riempiendomi di parole meravigliose. <3
 
A presto,
B.
 

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Capitolo 22
*** 21. (ovvero di abissi e stabulari) ***


21.
(ovvero di abissi e stabulari)

 

 

 

Il silenzio irreale che si era venuto a creare attorno a loro si infranse di colpo, rotto dalle note acute di una suoneria. John trasalì, sentendo il proprio cellulare vibrare con forza attraverso la stoffa della giacca. Sherlock, il pugno sospeso in aria a pochi centimetri dalla porta, si voltò verso il medico con aria interrogativa. Lui scosse le spalle, iniziando a cercare l’apparecchio in modo frenetico. Riuscì ad afferrarlo dopo un paio di tentativi, convinto di vedere sul display il numero della clinica. Invece, in un bianco acceso su sfondo scuro, comparve la scritta “numero non disponibile”. John la osservò per qualche secondo, confuso.

«Da’, è per me» intervenne il R’ent, allungando la mano verso l’altro. Il medico lasciò cadere il telefono sul suo palmo aperto, mentre la suoneria riprendeva a suonare dal principio.

«Spero ne valga la pena. Lo sai che odio essere controllato» rispose Sherlock, allontanandosi di qualche passo dalla porta con il cellulare all’orecchio.

John si voltò, guardandolo muoversi sicuro attraverso la piccola piazza.

«Oh» lo sentì poi dire, riuscendo a cogliere una vena di sorpresa nel tono basso del R’ent. «A chi è affidato il caso?»

Il medico inclinò la testa da un lato, indeciso sul da farsi. Lanciò un’occhiata alla porta alle sue spalle, poi al detective. Alla fine, dopo un’ultima sbirciata al portone, si allontanò a sua volta.

«Metti Lestrade a capo delle indagini. Saremo lì fra poco» terminò Sherlock, chiudendo poi la telefonata con un gesto rapido. Mosse gli occhi avanti e dietro per qualche secondo, seguendo il filo dei propri pensieri. Alla fine, un sorriso leggero gli increspò le labbra.

«Andiamo» si scosse, lanciando il cellulare a John, che lo afferrò con un movimento lievemente impacciato.

«Dove? E che ne facciamo degli hacker dai cappelli neri?»

«Non si va a tentoni in cerca dei componenti di un’equazione, quando si ha l’opportunità di dare un’occhiata da vicino al risultato» rispose il R’ent, sibillino.

«Chi diavolo era, al telefono? E perché aveva il mio numero?» riprese John, con ancor maggior enfasi.

«Tutto a suo tempo, Dottor Watson, tutto a suo tempo» si limitò a sussurrare l’altro, avviandosi verso in vicolo.

«Che poi sarebbe il tuo tempo, dico bene?» lo apostrofò lui, respirando nervosamente prima di mettersi anche lui in marcia.

«Il tempo non è di nessuno» rispose con noncuranza Sherlock, accertandosi che il medico lo stesse seguendo. «Il tempo è relativo. Il suo unico valore è dato da ciò che noi facciamo mentre sta passando.»

«E cosa stiamo facendo, esattamente, in questo istante?»

 

«Ci prepariamo a dare uno sguardo nell’abisso.»

 

 

***

 

 

John si appoggiò la punta del pollice sinistro alla fronte ed iniziò a muoverlo distrattamente avanti e indietro, quasi quel movimento oscillatorio potesse aiutarlo a diradare la foschia densa che sentiva avvolgere i pensieri.

L’Ispettore Gregory Lestrade – capelli brizzolati e viso abbronzato – lo affiancò con un sospiro, inclinando la testa da un lato. Portò gli occhi scuri sul medico, cercando di capire se quanto avevano di fronte lo stesse turbando più del dovuto. Sherlock, che con passo frenetico aveva immediatamente iniziato a muoversi nel grande capannone nel quale si trovavano, aveva garantito per lui, ma questo non voleva necessariamente dire che lo avesse fatto con sufficiente cognizione di causa.

Lestrade aveva imparato, con gli anni, che il detective tendeva a sottovalutare la componente umana nelle persone quando si trovava particolarmente in sintonia con loro. Era come se, per lui, il mondo si dividesse in due enormi categorie, ben distinte e opposte: chi giudicava indegno della propria attenzione e chi, stimolandola, veniva tollerato. Gli appartenenti al secondo gruppo, però, raramente venivano trattati come esseri dotati di una sensibilità propria: per Sherlock le emozioni erano – per sua stessa ammissione – quanto di più insensato, tossico e distruttivo si potesse scegliere di seguire. Per cui, per quanto gli era stato dato di capire e vedere nel corso della loro collaborazione lavorativa, chiunque godesse in un qualche modo della sua stima veniva trattato come se non ne avesse affatto.

«Va tutto bene?» domandò dopo qualche secondo, cercando di decifrare quali riflessioni e scenari si stessero snodando di fronte allo sguardo attento e fisso dell’altro. «Non è obbligato a restare, se vuole» tentò, mentre Sherlock iniziava ad analizzare un’altra corsia, le mani dietro la schiena e gli occhi veloci su ogni viso, lembo di stoffa, espressione.

«Sono tutti R’ent?» chiese John, girandosi verso l’ispettore ed ignorando la sua domanda.

«Quasi tutti, sì» confermò lui. «Quelli alla base della pila, sistemati laggiù – puntò un dito verso il fondo del capanno industriale, dove una decina di corpi giacevano a terra supini, sporchi e con i volti ricoperti di muffa verdastra – erano dei cyborg. Ma sono la minoranza.»

John annuì distrattamente, portando l’attenzione sul detective.

«Se vuole, può aspettare fuori…» provò Lestrade, con tono accondiscendente.

John ebbe un fremito, tanto che l’ispettore penso che stesse per voltarsi ed andarsene. Invece, si rese conto con sorpresa, quel piccolo sobbalzo era servito solo a sottolineare il sorriso stanco che gli era apparso sul viso.

«Sono un Capitano dell’esercito in congedo. Ho visto cataste di corpi più grandi di questa» commentò il medico, lanciando un’occhiata veloce all’uomo accanto a sé. «E nessuno di loro era fatto di metallo e silicone» aggiunse lentamente, come se trovare le parole fosse divenuto improvvisamente difficile, pesante.

«Capisco» annuì Lestrade, prendendo un respiro profondo. «Mi dispiace.»

John si morse il labbro superiore, socchiudendo gli occhi. L’eco di un’esplosione lontana nel tempo e nello spazio gli esplose nella mente, azzerando per qualche attimo ogni pensiero. Una fitta di dolore bollente gli attraversò la gamba sinistra, costringendolo a piegare il ginocchio.

«Non dev–» iniziò, venendo interrotto dalla voce emozionata di Sherlock. Nonostante la conformazione del sintetizzatore vocale dei Sostituti non fosse pensata per riprodurre l’intera gamma di intonazioni umane, l'eccitazione nel tono usato dal detective apparve evidente.

«Ma certo…! Si è evoluto!» gridò, allargando le braccia.

Lestrade aggrottò la fronte, muovendo un passo verso di lui. «Cosa intendi esattamente?» domandò, liberando le mani dalle tasche.

«Vieni a vedere!» continuò il R’ent, ignorandolo.

L’Ispettore fece per avvicinarsi, venendo immediatamente bloccato da un rapido gesto della mano di Sherlock.

«Non tu. John» gli spiegò velocemente, senza nemmeno guardarlo negli occhi. «Vieni a vedere!» ripeté, facendo cenno al medico di raggiungerlo.

Lui sollevò le sopracciglia, sorpreso, aspettando che il poliziotto gli indicasse cosa fare.

Lestrade chiuse gli occhi per qualche istante e ispirò lentamente, cercando di calmarsi. Poi, senza nascondere il proprio disappunto, annuì. «Vada. Basta che Sherlock ci dia una pista valida, alla fine dello show» sospirò.

Il detective rimase impassibile, immobile al centro di due file di corpi sistemati l’uno di fianco all’altro, supini.

John lanciò un ultimo sguardo all’ispettore passandogli accanto, come a chiedere un’ulteriore conferma a poter procedere. Lui si limitò a ricambiare lo sguardo, affondando nuovamente i palmi nelle tasche del cappotto.

«Non mi sembra il momento di perdersi in enigmi, mezze frasi e affermazioni criptiche» sussurrò il medico a Sherlock non appena furono sufficientemente vicini, muovendo la testa verso Lestrade, alle sue spalle. «Gli stiamo facendo perdere tempo.»

«Lui vuole una pista. Meglio ancora, un movente ed un sospettato. Tutte cose che richiedono tempo e pazienza» rispose il Sostituto, riprendendo a muoversi in direzione del fondo del magazzino.

«E conti di trovare tutti e tre qui?» domandò John, scettico, affiancandolo.

«Per la verità, no» ammise l’altro. «Ma ho già trovato qualcosa di interessante» gli confidò, abbassando capo e voce.

«Davvero? E cosa?» ribatté il medico, serio, assumendo lo sguardo attento di chi è pronto ad un ascolto scevro da pregiudizi.

 

«Un percorso di crescita» rispose Sherlock, con un sorriso. «Questo non è un cimitero, John. È lo stabulario di un laboratorio.»



Angolo dell'autrice:

l'ultima volta che ho pubblicato un capitolo di questa storia era il 19/06/2018 ed io... ero al quinto mese di gravidanza.
La mia vita, potete ben immaginarlo, da allora è profondamente cambiata.

Pochissimi giorni fa, senza un vero perché, mi sono ritrovata nuovamente tra le storie di questo sito. Di questa sezione.

Ho trovato tante, tantissime recensioni che negli anni non avevo visto. Messaggi. Richieste, alcune anche piuttosto accorate. 

Mi sono sentita profondamente in colpa, per aver lasciato alcune storie così. Sospese, incomplete, senza una fine. Questa, che è stata una di quelle che più ho amato, mi ha richiamata a gran voce. E mi sono ricordata che, nello scorrere dei mesi poi divenuti anni, ero arrivata quasi alla sua conclusione (sul manoscritto). Più di 465 cartelle world piene di parole e vita, piene di una storia ben chiara nella mia mente e nel mio cuore. 
E, quindi... ho scelto di darle una seconda possibilità.
Di darmi, una seconda possibilità.

Dei nomi di autori e recensori che ero solita conoscere, ho visto, ben poco è rimasto. 

Il fandom, e questa sezione - com'è giusto e naturale che sia - è andato avanti. 

Ma io - che al caso non credo mai ma vi affido sovente la mia vita - sento che dev'esserci un perché, se sono tornata a scorrere queste pagine.

Quindi, per chiunque si ricordi chi io sia: ben ritrovati! Sì, sono proprio Blablia87.
Per chi non sapesse chi io sia, ben trovati. Questo luogo, anni e anni orsono, è stato a lungo la mia "casa". Ed è con un po' di emozione che, ancora una volta, poggio sul suo pavimento caldo le mie valigie.

A tutti, come sempre e di cuore, grazie per aver letto fino a qui.

A presto,
B.

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