Miele d'arancio

di SkyDream
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prima parte ***
Capitolo 2: *** Seconda Parte ***



Capitolo 1
*** Prima parte ***


~ Miele d'arancio ~
[AtsuHina, KageHina, SakuAtsu]



Oro
Atsumu era innamorato.
Non era cotto di qualcuno, né desiderava qualcuno. Era semplicemente innamorato.
E non di qualcuno, ma del suo schiacciatore più basso.
Non che Atsumu fosse totalmente scemo – per quanto suo fratello fosse indubbiamente il più intelligente dei due -, ma di certo ci aveva messo un po’ per realizzare il pasticcio in cui si era andato a ficcare.
Il problema però, da sempre, era solo e soltanto Kageyama.
Fin dal ritiro prima dei nazionali, Atsumu e Tobio si erano dati del filo da torcere e, ad un occhio poco attento, quella intrinseca rivalità avrebbe potuto essere attribuita al fatto che, in campo, avessero lo stesso ruolo.
Eppure, ai tempi dei nazionali, Atsumu non aveva la più pallida idea di cosa si celasse dietro quel bravo bambino.
Tobio, quando voleva, sapeva essere il più malefico dei diavoli.
E lo era, ogni volta che lo vedeva giocare con Shoyo, ai tempi del liceo. Li vedeva volare insieme su quel campo, ridere dopo aver segnato un punto e vedeva – sopra ogni cosa – lo sguardo colmo di fiducia e totalmente dedito che Shoyo gli riservava.
Eh, cosa fosse la gelosia, Atsumu Miya lo aveva scoperto dopo la prima partita con la Karasuno.
Shoyo era un concentrato di vitalità, un uragano di energia capace di rianimare chiunque e con quel sorriso, lapalissiano, non poteva che farti innamorare della pallavolo anche se non avevi mai visto un pallone prima.
Era il carisma, no, erano i capelli color carota, indubbiamente! Oh, ma anche le lentiggini che risaltavano appena sotto gli occhi.
Era semplicemente Shoyo ed innamorarsi, per Atsumu, era stato inevitabile.
Aveva quasi sospirato di sollievo quando Shoyo, durante uno dei loro rari scambi di messaggi, gli aveva confessato che presto sarebbe partito per il Brasile.
Rio de Janeiro.
Figurarsi se Tobio lo avrebbe raggiunto lì dopo aver ottenuto un posto negli Adlers. Naah.
Molto meglio così, Shoyo non sarebbe stato suo, ma neanche di quel diavolo di Kageyama. Ben gli stava!
Certo, Atsumu aveva continuato a sentire una voragine nello stomaco – un mix molto articolato di sentimenti dolci bruciati e macchiati, di gelosia e invidia che divampavano – che lo faceva sentire il peggiore delle fecce umane.
Si era confidato, per metà, con suo fratello, spiegando molto a grandi linee la faccenda e senza fare nomi. Osamu aveva fatto finta di non capire, non perché non volesse mettere in imbarazzo suo fratello – quello era il suo hobby preferito – ma semplicemente perché ci teneva ad essere costantemente aggiornato su quella che sarebbe stata la telenovela di casa Miya.
Insomma, Atsumu aveva cercato di toglierselo dalla testa – con scarsissimi risultati, tra l’altro – e non si era nemmeno degnato di voltarsi dal lato opposto.
Se solo lo avesse fatto, Atsumu.
Quante pene si sarebbe risparmiato.
Ma lui no, no!, Atsumu voleva Shoyo, sognava ancora i suoi capelli color carota e sognava di avere su di sé il suo sguardo, il suo sorriso caldo, sognava di poter finalmente toccare quel viso che dà l’impressione non potrà mai essere freddo.
E poi – quale colpo al cuore era stato realizzarlo. – avrebbe voluto baciarlo.
Si era imposto di fermarsi lì. Di non andare oltre perché il suo cuore non avrebbe di certo retto e si sarebbe trovato a vagabondare sulle spiagge di Rio urlando il suo nome e parlando solo giapponese.
Le carceri in Brasile non sembravano allettanti, in fondo.
E allora Atsumu aveva semplicemente tirato avanti, consapevole che prima o poi qualcosa sarebbe successo: il ritorno di Shoyo, o magari sarebbe stato lui a partire, o forse si sarebbe innamorato di nuovo.
Di nuovo.
Ad Atsumu mancò l’aria. No! Dei e Numi del cielo, tutto ma non un nuovo amore.
Chi lo aveva il cuore per reggere un’altra storia così?
Piuttosto si augurava di ritrovarsi un asteroide in testa, almeno lo avrebbe fatto finire all’altro mondo e tanti saluti.
Di tutti i programmi che si era fatto, Atsumu non aveva di certo calcolato la situazione peggiore.
 
- Osaka. Ore 19:30 di una tarda primavera.
 
«E’ stato davvero magico, mi sembra di aver vissuto un luuuunghiiissimo sogno!» Shoyo se ne stava seduto sullo schienale della panchina, con il viso rivolto verso le montagne dietro cui stava scendendo il sole. Atsumu, seduto come qualunque essere normale, se ne stava un po’ più in basso con gli occhi ben aperti.
L’aria calda che soffiava in quel cortile, fino a poco prima pullulante di bambini intenti a giocare, non faceva altro che scompigliare ad entrambi i ciuffi sul viso.
Atsumu si era un po’ incantato a fissarlo, a guardargli quei capelli troppo lunghi che creavano morbide onde dietro la nuca e le orecchie.
Il Brasile lo aveva temprato, aveva colorato la sua pelle rendendola dorata e le lentiggini – prima appena visibili – erano emerse su quel viso sprizzante di felicità.
Perfino quella camicia bianca, di un tessuto leggerissimo e dall’aria straniera, gli conferiva un fascino particolare.
Del vecchio Shoyo – pensò – erano rimasti solo gli occhi e il sorriso.
E neanche, constatò, perché sul labbro superiore aveva una piccola cicatrice. La indicò.
«Ah, questa? Si vede tanto?».
Atsumu annuì e giurò di averlo visto arrossire.
«A Rio ho fatto il fattorino per mantenermi, solo che lì le strade sono piene di buche così qualche mese fa sono volato a terra e quindi-» Shoyo rise, più che altro perché ricordava bene come il suo primo pensiero era stato quello di camminare, saltare e controllare i polsi.
Poi del labbro spaccato e della bici distrutta se n’era occupato dopo, quando una signora aveva cominciato a strillare guardandogli la maglietta piena di sangue.
«E adesso sei tornato qui. Perché?».
Shoyo si voltò verso di lui, lo sguardo ambrato che sembrava rame fuso misto ad oro si abbinava perfettamente con la luce del tramonto. Cosa sembravano quelle lunghe ciglia che creavano ombre delicate sugli zigomi sollevati in un sorriso.
«Perché voglio giocare a pallavolo, e perché ho un conto in sospeso in Giappone».
 
A sentirgli dire quelle parole, con lo sguardo di chi bramava il cuore di qualcuno, Atsumu aveva sentito un fuoco divampargli da sotto il ventre e risaliva, lo stava inondando come avevano fatto quei sentimenti che lo avevano portato lì, a ritagliarsi un momento con Shoyo dopo troppo tempo.
E allora fece l’unica cosa che poteva fare.
Non si augurò neanche che fosse quella giusta, sperò solo di non pentirsene.
 
Se Tobio vuole essere il peggiore dei diavoli, io sarò il Re degli Inferi.
 
Atsumu si sollevò sulla panchina su cui era seduto e raggiunse il viso di Shoyo senza neanche dargli il tempo di capire.
Lo fissò negli occhi – o meglio, ci annegò per l’ennesima volta e si sentì affogare e avrebbe voluto dirgli di , sì, sì, se il suo destino era quello di morire baciandolo, avrebbe volentieri raggiunto l’altro mondo dopo essersi guadagnato la dannazione eterna.
Shoyo espirò sulle sue labbra prima di ritrovarsi la bocca di Atsumu sulla propria.
C’era urgenza in quel bacio e – inutile nasconderlo – anche la voglia di avere di più.
Atsumu, d’altronde, era così.
Era sempre di più. Avrebbe passato la vita senza mai accontentarsi di qualcosa anche se, santo cielo!, le labbra di Shoyo erano così morbide e piacevoli che gli sarebbero bastate per sempre.
Quel bacio sempre più approfondito portò Shoyo alla necessità di ancorarsi al capo chino di Atsumu, aveva un’improvvisa smania di toccarlo, di infilare le dita tra i suoi capelli.
Poi si arrestò.
Atsumu non seppe mai cosa passò nella mente dell’altro, ma era sicuramente stato un pensiero forte, abbastanza da sconnetterlo da quel bacio così passionale.
 
Ad Atsumu, però, non era mai importato.
Perché Shoyo lo aveva baciato il giorno dopo e quello dopo ancora e così per un intero mese.
Aveva passato un mese con un raggio di sole caldo e vivace dentro la sua vita.

 
Sabbia
 
Shoyo era ferito.
Non per una delle mille cadute con la bici che aveva sperimentato tra le strade di Rio, né per le pallonate in testa che gli arrivavano perché non riusciva ancora a scivolare bene sulla sabbia.
Shoyo era ferito perché, nel buio della sua cameretta, si era riscoperto solo.
Non aveva ancora imparato a comunicare in portoghese e, per quanto avesse già cominciato a giocare a beach volley, non riusciva ad attaccare bottone con nessuno.
Aveva mandato un messaggio a Tobio in quei giorni, ma non aveva mai ricevuto risposta. Nemmeno alle chiamate che gli faceva in piena notte, quando era sicuro che dall’altra parte del mondo fosse già mattino inoltrato.
Tobio non aveva risposto.
E Shoyo era seduto a terra, stringeva i bordi della maglietta e si mordeva le labbra perché quell’esperienza a Rio gli stava togliendo una delle cose belle della sua vita.
Forse la più bella.
Shoyo era ammirato da molti giocatori – ne era cosciente – e anche da qualche allenatore. Era benvoluto dai suoi amici lì in Giappone e questi non perdevano occasione per stuzzicarlo con qualche messaggino.
Ma non bastava.
Shoyo, in una delle sue lunghe meditazioni in riva al mare, si era riscoperto ad essere a corto d’amore.
Aveva cercato di tornare indietro, di sforzarsi di ricordare se avesse mai ricevuto una lettera d’amore o una dichiarazione. Non aveva neanche mai avuto un appuntamento, per non parlare del primo bacio.
Tutto – letteralmente tutto – era stato eclissato dalla pallavolo.
Certo, lui amava quel pallone e le emozioni che gli regalava ma, da quando era partito per inseguirlo quel pallone, non gli era più bastato.
Allora aveva cercato di chiamare Tobio, perché si era riscoperto a necessitare della sua voce, dei suoi sospiri quando lo stuzzicava e di quei sorrisetti sornioni quando aveva davanti un setter che voleva metterlo alla prova.
Tobio, da sempre, viveva in un mondo a sé stante eppure – per la prima volta – aveva aperto la porta di quel mondo anche a qualcun altro. E Shoyo lo sapeva. Ne era consapevole perché aveva fatto altrettanto.
Quante volte, in quella spiaggia ai primi tiepidi raggi di sole, prima che le macchine cominciassero il suo frastuono e i ragazzini si riversassero nelle strade, Shoyo si era nascosto dentro i suoi ricordi.
Dentro quegli abbracci dati dopo una vittoria, dentro quelle volte in cui Tobio gli sussurrava all’orecchio, dentro le miriadi di volte in cui Tobio gli aveva fasciato le dita e gli aveva spalmato della crema sulle mani screpolate dal freddo.
Lo richiamava sempre, dicendogli che doveva prendersi più cura di sé.
E, sopra tutto, ricordava con dolore la sua espressione dopo l’ultima partita delle nazionali al primo anno.
In quell’occasione, senza dire una singola parola, Tobio gli aveva comunicato qualcosa che lui non aveva compreso. Si era limitato, stranamente, a farsi coccolare da quelle dita lunghe e affusolate che avevano preso a tamponargli la fronte con un asciugamano bagnato.
Si era beato di quelle carezze, senza comprenderne il reale motivo.
E c’era voluto un volo di ventiquattro ore e una permanenza in un continente nuovo per capirlo.
Hinata Shoyo era innamorato.
 
Era stata durante una delle sue crisi, mentre si rannicchiava nell’angolo più buio della camera, in modo che neanche il sole potesse vederlo, che era arrivato un messaggio di Atsumu.
Gli era comparsa la notifica sullo schermo, c’era una buffa volpe che sogghignava come foto del profilo, e gli aveva chiesto “Come stai?”.
Non “Cosa fai” né “Ciao”.
Come stai?
Devastato, distrutto, a pezzi.
Mi sento come la sabbia smossa sotto il fondale marino.
 
Allora gli aveva risposto, in modo sincero, dicendogli che stava molto meglio perché gli aveva fatto piacere ricevere quel messaggio.
Atsumu, di contro, lo aveva tempestato di gif con volpi ridacchianti e perfino una foto di Ushijima con i baffi che non aveva fatto altro che farlo scoppiare in una risata incontenibile.
E Shoyo, per la prima volta dopo mesi, si era sentito bene.
 
La sua permanenza a Rio era durata esattamente due anni, né un mese di più né un mese di meno, e in quell’arco di tempo era riuscito a racimolare i soldi per tornare a casa una sola volta – per la prima partita di pallavolo di Natsu -.
Era emozionato all’idea di ritornare nel luogo che aveva sempre visto come casa, ma sapeva anche che la decisione di non prolungare il suo soggiorno in Brasile era dettata da tutt’altra cosa.
Aveva fatto i bagagli, con il minimo indispensabile, e aveva salutato per l’ultima volta quella spiaggia soleggiata. Le aveva promesso che sarebbe tornato, un giorno.
Santana e tutti i suoi amici lo avevano accompagnato all’aeroporto, affettuosi, coscienti del fatto che presto lo avrebbero rivisto sugli schermi.
Eppure – si era chiesto – chissà se qualcuno aveva letto nei suoi occhi quali fossero i desideri che teneva dentro.
Shoyo, prima di salire sull’aereo, aveva scritto un messaggio a Tobio avvertendolo del suo arrivo. Scrivendogli, in un post-scriptum, che gli avrebbe fatto piacere vederlo in aeroporto.
Non si era illuso, però, d’altronde Tobio gli aveva riservato messaggi sporadici e sterili in quei due anni. Perché avrebbe dovuto arrivare fino all’aeroporto?
 
Tobio non era lì.
Shoyo era riuscito ad arrivare a Miyagi e a lasciare le valigie sul letto prima che il telefono suonasse.
L’immagine non era quella di una volpe che sogghigna.
Sullo schermo spiccava la foto di un setter dalla maglia bianca e rossa.
“Sei tornato per restare?”.
Una domanda infantile, innocente, che Shoyo non accettò volentieri.
Per restare?
Adesso essere andato in Brasile era una colpa? Aveva ferito qualcuno? Non gli sembrava proprio.
 
Ho una faccenda in sospeso.
 
Shoyo aveva una faccenda in sospeso con se stesso, con i propri sentimenti e anche – soprattutto – con Tobio.
Tobio che non aveva voluto saperne di scollarsi dal suo cuore.
Tobio che, per l’ennesima volta, non aveva risposto al suo messaggio.
 
Entrare nei MYSB Black Jackals era stata una vera fortuna, una boccata d’aria non indifferente.
Shoyo si sentiva bene in quella palestra, soprattutto grazie alla presenza di Bokkun, che condivideva il suo entusiasmo senza farlo mai sentire inopportuno.
Era stato divertente, poi, mostrare a tutti i progressi fatti con il beach volley.
Nessuno di loro, però, aveva compreso il motivo per cui scuotesse il pallone prima di effettuare una battuta.
La faccia che più lo aveva colpito, però, era stata quella di Atsumu.
Effettivamente non lo aveva avvertito del suo ritorno, o meglio, era stato un po’ vago sui giorni e non lo aveva illuso dicendogli che forse sarebbe entrato nei Black Jackals.
Eh, Atsumu Miya lo aveva appena scoperto e la sua bocca a momenti stava toccando terra.
«Atsune!*» Shoyo gli riservò il più bello dei suoi sorrisi e lo raggiunse in un paio di salti, il pallone ben ancorato tra le braccia color ambra «Giochiamo un po’ insieme, ti va?».
 
Poi Shoyo aveva cancellato il seguito, la partita, la passeggiata, il tramonto visto dal parco.
Ricordava solo lo sguardo di Atsumu, colmo di dolcezza e di sentimenti a cui lui non aveva mai pensato.
Tobio, Tobio, Tobio.
Nella sua testa e nel suo cuore non c’era mai stato spazio per altri se non per lui. Eppure, si disse, forse qualcosa stava cambiando.
 
Shoyo quel pomeriggio assaggiò, per la prima volta, sulle sue labbra, il sapore dell’essere amati.
Si beò, per la prima volta, della tenerezza di essere stretti contro qualcuno.
Avrebbe voluto rimanere lì, Atsumu era caldo e piacevole e le sue labbra morbide tremavano per l’emozione.
Non rubare l’amore degli altri, Shoyo.
 
E così fu.
Shoyo si allontanò appena da quel bacio, anche se col fervente desiderio di ricominciare.
Non era sicuro di quello che stava facendo, Atsumu invece aveva lo sguardo di chi non aspettava altro.
Le ombre scivolarono di dosso ad entrambi, la luce dei lampioni in strada preannunciava l’arrivo della sera. Atsumu non aveva fiatato.


Shoyo quella sera si era buttato sul letto della sua nuova stanza, nella sua nuova casa, così diversa da quella di Rio, dall’odore così inusuale.
Era felice, però, di poterla condividere con Bokuto. Almeno non si sarebbe sentito solo (Ci si può sentire soli con Bokuto?) e di tanto in tanto Akaashi avrebbe avuto pietà di loro e avrebbe preparato delle cene commestibili.
Non gli era andata poi così male.
Su quel letto, dalle lenzuola già sfatte, ripensava al bacio di Atsumu.
Il suo primo bacio. Ed era stato bello, senza alcun dubbio.
Solo per quei dieci istanti, ne era valsa la pena tornare da Rio con un volo di ventiquattro ore.
Lo avrebbe fatto almeno un centinaio di volte, per avere un altro bacio.
Un altro assaggio di ciò che significa essere amati.
E poi, doveva ammetterlo, Atsumu era sempre stato parecchio carino con lui – e quei messaggi nel momento perfetto mentre era a Rio, ne erano solo un esempio – per cui cominciò a riflettere su quale fosse, realmente, il suo sentimento nei suoi confronti.
E con l’ultima ombra di quel bacio sulla bocca, Shoyo si addormentò.
 
Non sapeva ancora che, esattamente un mese dopo, durante un’amichevole, Tobio lo avrebbe salutato dagli spalti.

 
Vento


Tobio era devastato.
Shoyo era partito per il Brasile, con la promessa di migliorare notevolmente nel giro di soli due anni.
Se n’era andato, aveva trascinato quelle grandi valigie e lo aveva salutato con la mano come se si sarebbero rivisti il mattino dopo.
Ma così non era stato.
Tobio si era svegliato, ogni giorno, con la voglia di correre e raggiungere la Karasuno solo per sperare di trovarlo lì. Catapultarsi in uno squarcio spazio-temporale e tornare ai tempi del liceo dove Shoyo lo sfidava a chi arrivava prima.
Tobio si era allenato, ogni giorno, nella speranza di trovare una cicatrice a mezzaluna sul ventre di qualche suo compagno di squadra, solo per alzare gli occhi e scoprire di avere ancora Shoyo sul campo.
Tobio, ogni volta che soffiava il vento e il cielo minacciava pioggia o neve, si riscopriva a stringere il telefono come se avesse dovuto mandare un messaggio a qualcuno per dirgli di chiamarlo appena giunto a casa.
Devastato. Quella partenza aveva portato con sé solo un boato immenso.
E – cosa che trovava alquanto ironica e divertente – Shoyo continuava a cercarlo, come se nulla fosse successo. Gli inviava messaggi con il chiaro intento di chiacchierare un po’, si sforzava anche di mandarli ad orari decenti per quella parte di globo, ma Tobio non riusciva a rispondergli.
Sapeva che, se avesse anche solo provato a rispondere, sarebbe andato tutto a rotoli. Lui per primo.
Allora si sarebbe dichiarato, spiattellandogli in faccia che aveva più volte tentato di farglielo capire. Non solo!
Tobio si era sforzato di pronunciare quelle parole dopo che Shoyo era svenuto in campo, all’ultima loro partita dei nazionali del primo anno.
Cosa aveva ottenuto?
Adeus!*
 
Non poteva reggere un’altra separazione da lui, non poteva neanche illudersi di un suo ritorno.
Che speranze aveva?
Così Tobio si era imposto di dimenticarlo – come se poi fosse possibile dimenticare la prima persona che entra saltellando con un pallone in mano nella tua vita – e aveva interamente dedicato anima e corpo alla pallavolo.
E ci era riuscito, con discreti risultati, anche se aveva evitato di stringere eccessivamente con chiunque. Era il suo modo per proteggersi, forse un po’ meschino, ma d’altronde la sua reputazione non brillava certo per la bontà.
Eppure, si era ritrovato a pensare una sera, sotto la doccia, quando Shoyo era al suo fianco si calmavano anche gli attacchi di panico.
Quella partita delle medie era sfumata fino a diventare l’ennesima cicatrice del suo passato. Non soffriva più, non viveva più nel terrore di vedere il pallone sbattere a terra, lontano dai suoi compagni.
Da quando era entrato negli Adlers, però, gli sembrava di aver fatto un enorme passo indietro.
 
“Schiaccerò ogni tua alzata!”.
 
Che bugiardo – si era ritrovato a pensare –, d’altronde Shoyo è sempre stato un baro di prima categoria.
Alto un metro ed un succo di frutta, ma capace di spiccare il volo.
Tobio era convinto che sarebbe comunque riuscito a sopravvivere, probabilmente con una cicatrice in più. Ma non importava.

Questo prima che gli arrivasse un messaggio in piena notte.

 
Torno.
P.s. Vorrei vederti in aeroporto. Tokyo, 15:30.
 
Torno?
Che significava?
Tobio aveva faticato per poter ricominciare una nuova vita, e Shoyo tornava?!
No, no, doveva sicuramente essere l’ennesima presa in giro della sua vita, probabilmente farlo soffrire era l’hobby preferito del Karma o non si spiegava.
No.
Tobio non ci sarebbe andato, assolutamente!, se Shoyo fosse rimasto davvero – allora e solo allora – avrebbe potuto pensarci. Ma finchè non avesse avuto la certezza di ciò che sarebbe stato, lui non si sarebbe mosso.
La posta in gioco era troppo alta, sgretolarsi non era tra le opzioni compatibili con la sopravvivenza.
 
Era passato un mese da allora, e non si erano più scritti.
Tobio guardava sul tablet le partite dei MYSB, pregando il Karma di non farli capitare contro la sua squadra proprio in quel momento. Eppure, dopo i trenta giorni di prova, dovette accettare il fatto che l’incontro con Shoyo non era più rimandabile.
Ed era stato difficile, tremendamente, vestirsi e prendere lo Shinkansen per arrivare ad Osaka ad un orario accettabile e seguire la partita.
Era entrato nel palazzetto, aveva scelto la fila migliore – quella dove avrebbe potuto tenere d’occhio l’alzatore – e aveva aspettato il fischio d’inizio.
Shoyo era esattamente come se lo ricordava, solamente moltiplicato al quadrato.
Era sicuramente diventato più alto, i capelli un po’ più lunghi si erano schiariti sotto il sole cocente di Rio e la pelle – prima color latte – aveva raggiunto una tonalità di ambra che faceva solo risaltare di più i suoi bicipiti.
E le sue lentiggini.
Il sorriso era lo stesso, l’entusiasmo non si era placato eppure. Eppure.
Tobio si chiese se qualcuno avesse visto quella cicatrice a mezzaluna sul ventre.
Si chiese se a Rio qualcuno lo avesse baciato, avesse goduto del calore della sua pelle.
E fu durante quei pensieri, allo scoccare del time out, che Atsumu lo strinse a sé.
Tobio, durante la sua permanenza alla Karasuno, aveva stretto spesso i suoi compagni di squadra, abbastanza da riconoscere un impeto da adrenalina da un abbraccio.
Si irrigidì.
Quasi rise – isterico –.
 
Alla fine della partita, mentre i giornalisti si accalcavano per rubare qualche rapida intervista, Tobio scese fino agli spogliatoi e attese nel corridoio.
Sakusa passò per primo, rigorosamente lontano da tutti, e si fermò a fissarlo.
Più che fissarlo, Sakusa lo squadrò da capo a piedi come se la sua sola presenza potesse sconvolgere anche la sua vita.
Lo salutò con un cenno della mano e si rifugiò nelle docce.
Passarono tutti gli altri, compreso Bokuto – per fortuna troppo preso a parlare con qualcuno per accorgersi di lui – ed in fine, per ultimi, proprio Atsumu e Shoyo.
Stavano sicuramente commentando qualcosa, Shoyo gesticolava animatamente e l’altro rideva senza smettere un momento di osservargli le labbra.
Tobio sentì una scossa lungo la schiena, provò il desiderio di fuggire e di lasciarsi tutto alle spalle.
Ma non era possibile.
Non era possibile.
«Tobio?» La voce di Shoyo, lievemente più matura, giunse alle sue orecchie ridestandolo. Le sue labbra si erano lievemente piegate in un sorriso troppo spontaneo per poterlo contenere e lì, sul labbro superiore, vi era una piccola cicatrice che Tobio era sicuro non vi fosse fino a due anni prima.
«Devo parlarti.» gli sussurrò appena, avvicinandosi.
 
E fu il terremoto.
 
Si era sentito il rumore di un pugno contro il muro, proveniva dagli spogliatoi e a giudicare dalla potenza non poteva che essere stato Atsumu.
Shoyo era uscito con le mani ancorate alla tracolla del borsone – esattamente come era solito fare fino a due anni prima – aveva il volto esanime, era distrutto.
Era crollato come i pezzi del jenka.
Tobio lo aveva seguito, in silenzio.
Fuori dal palazzetto era ormai l’ora del tramonto, essendo in periferia non vi erano neanche troppe macchine in giro. Il vento tiepido si stava insinuando tra gli alberi smuovendone le foglie.
E tutto tornava a tingersi di oro e arancio, i raggi colavano sui loro visi riportandoli a tempi non esattamente recenti.
Avrebbero potuto sentire il cigolio di una bicicletta, il profumo dei panini appena sfornati al konbini vicino la scuola, l’orologio battere e l’eco risuonare sulla cima di quella collina silenziosa.
Invece no, invece era Osaka.
«Si può sapere perché non sei venuto prima?» Shoyo lo chiese avendo praticamente la certezza di avere Tobio alle sue spalle, d’altronde era così, lui lo sentiva.
Aveva sempre la percezione di dove fosse, per questo gli aveva fatto male sapere di non averlo più al suo fianco.
Era il prolungamento di se stesso, una parte del suo corpo che non poteva controllare e non voleva perdere.
Come il cuore.
«Perché non ero sicuro di volerti vedere, Shoyo.» Era stato schietto – forse troppo – e non aveva fatto altro che farlo irrigidire. Tobio sapeva benissimo che, in quell’esatto momento, le nocche della mano sinistra di Shoyo erano sbiancate mentre stringevano la tracolla all’altezza del cuore.
Come sempre, d’altronde. Non era cambiato nulla, dannazione!
«Io ho provato a cercarti, a parlarti e tu non hai mai risposto! Sono tornato dopo due anni, dopo quello che abbiamo condiviso non mi sarei di certo aspettato di dover attendere un mese per vederti!» Bene, era riuscito a dire già circa il due percento di quello che avrebbe voluto dirgli.
Tobio rise appena, si lasciò andare contro il muro del palazzetto e scivolò a terra fin sul prato verde che lo circondava.
«Dopo quello che abbiamo condiviso, non mi sarei di certo aspettato di dover attendere due anni per vederti».
 
Non sono bravo con le mezze misure.
Non lo sono mai stato.
 
Shoyo sussultò e si voltò, guardò in faccia l’altro ragazzo – ormai seduto sul prato - e per un momento gli sembrò finalmente di essere tornato a sei anni prima, quando lui in lacrime gli aveva urlato che lo avrebbe superato.
Com’erano finiti. Com’era comica la vita.
«Ho provato a chiamarti, a cercarti per tutto il tempo quando ero a Rio e tu mi hai risposto solo un paio di volte. Perché?» Aveva il tono ferito, il cuore in frantumi, in mille pezzi.
Tobio sollevò gli occhi e scoprì di non essere l’unico a soffrire. No, quella non era la reazione di chi vedeva in lui solo un amico.
Forse, forse anche lui per Shoyo…
D’altronde cosa poteva perdere? Non gli era rimasto più nulla di lui tra le dita.
Si portò le mani alla testa, tra i capelli smossi dall’aria d’autunno.
«Perché ero troppo abituato a viverti ogni giorno per poterti mandare un messaggio, Sho».
 
Sho.
Da quanto tempo.
Che dolcezza sentire quel suono sulla bocca.
 
«E sei tornato solo ora».
«Credimi, non me ne sono mai andato».
«Neanche io».
Amara verità, per quanto Tobio avesse provato a toglierselo di dosso, era sempre rimasto incollato a Shoyo in un modo o nell’altro. Aveva provato a mandare via quel sentimento che gli era rimasto incastrato nel cuore, ma niente.
E ora scopriva che per l’altro era stato lo stesso? A ventiquattro ore di aereo di distanza?
«Solo che…» Shoyo era andato un attimo in apnea, non aveva neanche ripreso un colorito normale nonostante fossero fuori da un bel po’ di minuti.
«Solo che?» Tobio lo aveva visto portare le mani ai capelli fino a stringerne le ciocche ambrate.
«Mi piace Atsumu».
 
 
Tobio si era seduto sul sedile dello shinkansen e aveva poggiato la testa al finestrino.
Il sole era ormai del tutto tramontato e non era certo sarebbe mai più risorto su di lui.
Aveva perso la sua occasione, se l’era fatta sfuggire tra le dita per colpa della paura.
 
La notte era scivolata su tutti e tre, lenta. Inevitabile.
Quasi a ricordare che la resa dei conti è sempre con sé stessi.


Note:
Atsune: Nomignolo che mette insieme il nome Atsumu e Kitsune (che significa Volpe in giapponese).
Adeus: "Addio" in portoghese.


Note dell'autore: La prima parte di questa mini-long (doveva essere una OS ma la cosa sta andando per le lunghe AHAHHA) è finalmente pronta! Spero nei prossimi giorni di poter pubblicare la seconda parte e anche le altre storie che al momento sono a prendere polvere.
Purtroppo la sessione del terzo anno si sta rivelando un po' più ardua del solito, per cui il tempo da dedicare alla scrittura è sempre troppo poco.
Spero che la storia vi stia piacendo, a presto!

Un bacio a tutti ^-^

-SkyDream
 

 

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Capitolo 2
*** Seconda Parte ***


Miele d'arancio ~
[AtsuHina, KageHina, SakuAtsu]

Oro
 
Atsumu non era ingenuo.
A volte era egocentrico, lievemente rompiscatole (tanto, a detta di Osamu) e peccava di manie di protagonismo quando era il suo turno di fare un servizio in campo.
Ma, appunto, non era ingenuo.
Per cui non si illuse nemmeno per un momento di avere Shoyo totalmente per sé, non era nemmeno certo di poter definire relazione quella cosa che al momento stavano vivendo.
Erano attratti, come calamite, ed entrambi avevano bisogno di sentire qualcuno al proprio fianco. E, per lui, chi meglio di quel raggio di sole che era Shoyo?
Atsumu però sapeva, lo aveva capito dal primo giorno, che quel “conto in sospeso” di cui l’altro parlava non era ancora stato risolto.
D’altronde anche lui aveva trovato strano come Tobio non si fosse catapultato a salutare quella che, in campo, era praticamente l’altra metà di sé stesso.
Per cui, inevitabile, vi era ancora qualcosa sotto. Qualcosa di non detto che permetteva ad Atsumu e Shoyo di baciarsi, di perdersi l’uno dentro l’altro, ma mai totalmente.
 
Il giorno della resa dei conti era giunto circa un mese dopo il loro primo bacio, Atsumu aveva notato la presenza di Tobio in lontananza ma aveva preferito rimanere in silenzio.
Aveva sperato, fino alla fine, che quel giorno dovesse ancora giungere, che Tobio e Shoyo non si sarebbero parlati.
Che Shoyo non andasse via, mai, dalle sue braccia.
Così non fu.
Quel “devo parlarti” fu un vero e proprio pugno per entrambi. Atsumu avrebbe dovuto prendere una decisione: invitare Shoyo a chiarirsi con Tobio, o chiedergli in ginocchio di non guardarlo neanche quello che – una volta – era l’altra metà di sé stesso in campo.
Atsumu era innamorato, la scelta poteva essere una sola e doveva per forza combaciare con quella migliore per l’altro ragazzo. Eppure, eppure, il dolore al petto era implacabile.
Shoyo lo aveva raggiunto nello spogliatoio, ormai vuoto, in religioso silenzio.
Avevano fatto la doccia senza dire una parola ed era stato proprio Atsumu a sentire il bisogno di rompere il silenzio.
«Ci andrai a parlare?» chiese, rimanendo inizialmente vago.
Shoyo lo aveva guardato come un cane bastonato, d’altronde aveva deciso di tornare in Giappone anche, soprattutto, per quello. Per Tobio.
«Io, io credo di sì. Abbiamo delle cose da chiarire.» Una risposta genuina – come lo era sempre stato lui – con voce quasi spaventata, intimidita.
«Ti aspetto? Torniamo a casa insieme?».
Atsumu e Shoyo non avevano ancora dormito insieme, né si erano spinti mai oltre. Per quanto, forse, un po’ ci sperassero entrambi.
Atsumu però aveva preso l’abitudine di accompagnarlo fino a casa – che condivideva con Bokuto – ogni giorno. Facevano le strade più lunghe, chiacchieravano e a volte se ne stavano al parco a guardare i bambini giocare.
Atsumu aveva promesso il massimo silenzio e aveva giurato di non dire all’allenatore che Shoyo, a volte, se ne stava a giocare a pallavolo coi bambini fino a tardo pomeriggio.
Era il loro rituale, perfino la domenica si vedevano e – l’ultimo bacio – glielo dava sempre Atsumu sul portone d’ingresso. Un po’ come nei vecchi film che nessuno dei due aveva mai amato particolarmente.
Fu proprio a causa di quei rituali che, quando Shoyo gli rispose di non aspettarlo, Atsumu perse un attimo il controllo.
Il pugno che diede al muro non era minimamente indirizzato a Shoyo – figurarsi – ma verso sé stesso. Verso quell’Atsumu Miya che, ancora una volta, si era lasciato andare a quei sentimenti che ora lo stavano facendo affogare.
«Torni a casa con lui?» chiese dopo aver trattenuto il fiato, gli occhi ben chiusi per non guardare l’espressione sconvolta e dispiaciuta di Shoyo.
«Non lo so, non credo».
«Shoyo, tu e Tobio -» La domanda rimase a metà, senza sapere come sputarla fuori, senza sapere come formularla.
 
Tu e Tobio vi amate?
Tu e Tobio vi metterete insieme?
Tu e Tobio vi prenderete gioco di me?
Avete la più pallida idea di cosa ci sia in palio?
 
«Non lo so. Atsumu io non lo so, non lo vedo da due anni, non ho la più pallida idea di chi sia.» Shoyo lo aveva detto con dolore, un dolore tale da costringerlo a piegarsi un po’ come se qualcosa gli stesse stringendo il cuore. «Mi dispiace».
Aveva poi raggiunto la porta ed era uscito, lasciandolo totalmente solo nello spogliatoio.
Atsumu scivolò per terra, il pugno destro ancora lievemente arrossato e dolorante. Cercò di concentrarsi su quello, di non pensare a cosa avesse appena perso.
E cosa ci era voluto per mandare tutto in fumo? La sola presenza di quel diavolo.
Cominciò ad imprecare sempre più forte, nel tentativo di sfogare la rabbia che gli stava montando dentro, quando qualcuno aprì la porta nuovamente.
«Non credo che sputare brutte parole ti aiuterà a mettere in sesto la mano».
Atsumu sollevò gli occhi – lucidi – verso la figura alta e possente di Kiyoomi Sakusa, il suo compagno di squadra germofobico quanto potente.
Se ne stava lì, sulla soglia della porta a fissarlo.
«Mh? Hai intenzione di rimanere a terra ancora a lungo, o ti decidi ad andare in infermeria a farti medicare? Le tue poderose alzate saranno delle vere alzate di merda se la mano dovesse rimanerti storta».
«Ehi, vacci piano tu, non me la sono mica rotta!» Atsumu aggrottò le sopracciglia in un’espressione che ricordava seriamente quella di una volpe.
«Ah, no? Beh, lo sarà presto se prenderai il vizio di prendere a pugni i muri.» Kiyoomi non riusciva proprio a trattenersi, e non era decisamente da lui, ma la verità era che provava gli stessi sentimenti di rabbia e impotenza che provava l’altro.
«Senti, si può sapere che diavolo vuoi da me?» Atsumu sbuffò e si rimise in piedi afferrando il borsone e portandoselo sulla spalla.
Che andassero tutti a farsi benedire una volta tanto!
«Ti vedo».
Atsumu si fermò in mezzo al corridoio, Kiyoomi doveva essere ancora dietro di sé e quella frase suonava come un misto tra una minaccia e una considerazione.
«Che significa? Non sono mica invisibile!» Sbuffò ancora, al limite dell’esasperazione.
Si stavano proprio impegnando tutti per farlo andare a fuoco quel giorno.
«No, infatti. Non sei mica invisibile».
 
Sabbia
 
Bokuto bussò un paio di volte alla porta, poi la aprì appena.
«Hey, hey, Akaashi ha preparato del manzo delizioso. Vieni a mangiare con noi?».
Dal letto di Shoyo arrivò un mugolio di dissenso.
Nonostante la partita, non aveva per nulla fame.
«Se ci ripensi, noi siamo di là. Te ne lascio un po’ da parte.» Bokuto richiuse la porta e si affrettò a raggiungere il suo ragazzo.
Akaashi lo vide entrare in cucina di corsa.
«Beh, come sono andato?!» chiese immediatamente, attentissimo alla risposta.
«Sei stato bravo, ed è proprio come pensavo: Shoyo-kun ha problemi di cuore».
Akaashi sospirò pesantemente e versò una porzione abbondante di patate nel piatto del suo ragazzo.
«Con chi credi che abbia problemi? Non mi sembra di averlo visto interessato a qualcuno.» Bokuto afferrò le bacchette e si innamorò di Akaashi per l’ennesima volta dopo aver assaggiato il manzo.
«In realtà ho qualche sospetto, ma è ancora troppo presto per trarre conclusioni. Comunque sia, non possiamo che stargli vicini come possiamo».
«Domani allora andrò a prendergli i nikuman*!» Bokuto portò un pugno vicino al viso, quasi a sottolineare la forza di volontà che lo aveva invaso con quel pensiero.
Akaashi sorrise, come sempre.
 
Shoyo non dormì nemmeno un minuto, il suo cervello si rifiutava categoricamente di spegnersi, o di dargli una risposta.
Sapeva soltanto che doveva prendere una decisione: rimanere con Atsumu – nonché la decisione più saggia e sicura -, oppure andare da Tobio e vuotare il sacco spiegandogli per filo e per segno cosa provasse.
D’altronde Tobio era stato schietto con lui, provava qualcosa e aveva cercato di mostrarlo in passato. E lui per tutta risposta se n’era andato dall’altra parte del mondo.
Non poteva dargli torto, non del tutto almeno.
Shoyo si sollevò sul materasso portando le mani ai capelli e decidendo, almeno, di fare due passi per cercare di tornare a respirare.
Trovò però la luce della cucina accesa, o meglio, la luce sul tavolino accanto al divano della cucina.
«Akaashi-san?» Shoyo entrò nella stanza e potè vedere come Akaashi se ne stava comodamente sdraiato a leggere un libro, gli occhiali un po’ sbilenchi a causa della posizione.
«Oh, ciao Shoyo-kun. Koutaro si è addormentato presto e non mi andava di rimanere con la luce accesa in camera sua. Tutto bene?».
Shoyo aprì il frigorifero e preparò la tavola con il minimo indispensabile per mangiare, gli sembrava doveroso visto che Akaashi preparava sempre anche per lui.
«Sto bene, sono solo un po’ confuso su alcune cose».
Shoyo si grattò la testa e Akaashi non potè fare a meno di intenerirsi. Sembrava proprio un bambino che aveva bisogno di una mano con un problema particolarmente difficile.
E lui aveva un debole per certe situazioni.
«Shoyo-kun, ti va di dirmi cosa è successo?» Akaashi si mise a sedere per guardarlo meglio in faccia mentre quello con le bacchette mangiava il manzo freddo.
L’altro lo guardò con gratitudine.
Aveva sempre apprezzato chi lo lasciava parlare liberamente, ma da quando aveva assaggiato la solitudine in Brasile non poteva che apprezzare ancora di più.
«Sto frequentando una persona, ma adesso è tornata un’altra persona che non vedevo da tempo e non sono più sicuro di nulla».
«La persona che stai frequentando lo sa che sei in un momento di confusione?».
Shoyo annuì senza portare più cibo alla bocca.
«Quindi sa che il tuo cuore è diviso in due».
A quelle parole, il più piccolo arrossì e si rese conto di come la sua situazione – vista da fuori – non fosse tanto diversa da quelle telenovele argentine che spesso mandavano in onda a Rio.
«La persona che frequento è stata così gentile ad accogliermi quando sono tornato. Non posso ferirla così.» Shoyo si rese conto delle sue parole solo dopo averle dette.
Aveva già preso la sua decisione e non se n’era nemmeno reso conto!
«Ma è anche vero che se rimanessi con questa persona non faresti altro che mentire, a tutti.» Akaashi era rimasto impassibile, non lo giudicava e – anzi! – era sollevato di non trovarsi nei suoi panni. Per lui era stato tutto molto più semplice.
Shoyo annuì e abbassò la testa verso il piatto.
«Come se sapessi mentire, poi.» Sbuffò tra sé e sé, senza rendersi conto di averlo detto a voce alta.
Akaashi rise leggermente.
«Shoyo-kun, essere sinceri non è un difetto».
 
Così Shoyo si era ritrovato, alle prime luci dell’alba, a camminare verso il monolocale di Atsumu.
La città era immersa ancora dalle ombre della notte, dietro le foglie degli alberi si intravedevano le prime luci chiare, tendenti ora all’arancio, ora al rosa.
Non vi era quasi nessuno sui marciapiedi, né vi era il solito andirivieni di macchine.
Complice, senz’altro, il fatto che fosse domenica.
Shoyo raggiunse il monolocale in non più di dieci minuti, rimase ancora qualche secondo a fissare il citofono prima di trovare il coraggio di schiacciare il pulsante.
Per chi non lo conosceva, poteva sembrare strano voler parlare con quello che poteva quasi definirsi il suo ragazzo alle … sei del mattino?!
Ma Shoyo non era bravo ad aspettare, né a trattenersi. Una volta che realizzava qualcosa nella sua mente, doveva assolutamente metterla in atto.
O non sarebbe finito in Brasile, d’altronde.
«Chi è?!» La voce di Atsumu era impastata dal sonno e dalla stanchezza.
«Sono, sono io!» Shoyo strinse i pugni, strinse la tracolla del suo borsone e si chiese, per l’ultima volta, se fosse la cosa giusta da fare.
 
Non sono bravo a mentire.
 
Atsumu non era in pigiama, era rimasto con felpa e pantaloni – che Shoyo non aveva mai visto - e aveva una mano fasciata meticolosamente. Le occhiaie profonde lasciavano intuire come, anche per lui, la notte non fosse di certo passata rapidamente.
«Non pensavo che saresti spuntato qui a quest’ora».
«Neanche io».
Si fissarono per un lungo istante, poi Atsumu provò l’intensa voglia di baciarlo, di scoprire se il suo viso fosse caldo nonostante l’aria fredda del mattino.
«Atsumu, io-» Shoyo fu zittito con un dito sulle labbra. L’altro sorrise, ma con un sorriso amaro che non fece altro che irrigidire i suoi lineamenti già tesi.
«Lo sapevo, l’ho sempre saputo. Era solo questione di tempo, sono solo stato un ripiego».
Si fissarono, intensi secondi in cui gli occhi caldi di Shoyo si mescolarono con quelli di Atsumu.
Come poteva pensare una cosa simile proprio lui che gli aveva insegnato a respirare nuovamente? Lui che lo aveva accolto tra le sue braccia dopo un ritorno a quella terra che non sentiva sua da due anni?
«Tu per me-» Shoyo si ancorò alla felpa dell’altro, la strinse dentro il suo pugno e lo attirò verso di sé, senza sapere bene cosa fare.
Poi sentì una mano sulla schiena, e il petto contro la sua guancia. Lo stava abbracciando.
«Va bene così, Shoyo. Per me non cambierà nulla».
 
Bugia.
 
«Atsumu, tu mi piaci».
«Anche tu mi piaci».
«Ma io non voglio dirti una bugia!».
«Di questo ne sono felice».
Atsumu era un po’ più alto di lui, motivo per cui riuscì a poggiare il viso su quei capelli ramati e a nascondere – ancora un po’- l’espressione di dolore che si stava formando sul suo viso.
Tobio aveva vinto di nuovo, da quel che sembrava. Si sarebbe preso nuovamente Shoyo e con lui anche tutto il sole, l’oro e il rame fuso che coloravano tutto quando sorrideva.
Eppure, Atsumu si era preso il suo primo bacio e tutti quelli che ne erano conseguiti. Aveva avuto modo di dimostrare, una volta per tutte, sia a lui che a sé stesso di cosa fosse capace il suo cuore.
«Devo andare.» Le parole di Shoyo suonarono come una sentenza, avevano il sapore della fine di qualcosa di bellissimo che – ancora non lo sapeva – avrebbe dato il via ad una storia del tutto nuova.
Ad una nuova alba.

 
Vento
 
Tobio non aveva perso l’abitudine di rimanere sul suo letto a riflettere, per la precisione con un pallone Mikasa dall’aria sgualcita che indirizzava verso il soffitto e recuperava con una precisione disarmante.
La notte era passata lenta anche per lui, aveva perfino meditato di infilarsi la tuta e mettersi a correre per il quartiere, ma l’idea di essere etichettato come un criminale in fuga l’aveva fatto desistere. Avrebbe aspettato l’alba.
Così aveva palleggiato, in religioso silenzio, finchè la palla non era accidentalmente scivolata ruzzolando per terra fino alla scrivania su cui aveva lasciato il cellulare.
Cosa aveva fatto? Davvero aveva aspettato un mese – il mese più importante, il mese del suo ritorno – solo per paura di essere ferito di nuovo?
Come se si potesse stare, a prescindere, in santa pace con il pensiero di Shoyo in testa.
Era stato matto, totalmente matto a bruciarsi un’occasione così. Non aveva neanche trovato le parole adatte per spiegargli cosa provasse.
Tobio era sempre stato più bravo con i gesti, come assicurarsi che non prendesse freddo, che le mani non si rovinassero con l’aria invernale mentre andava sulla bici, che mangiasse in modo adeguato e che – di tanto in tanto – riposasse.
Quando viaggiavano sul bus, dopo le partite, e finalmente le pile di Shoyo sembravano scaricarsi, Tobio non aveva mai – mai una volta – rifiutato di sedersi al suo fianco e di farlo dormire sulla sua spalla, con le mani tra le sue nel tentativo di scaldarle.
Tutti quei sentimenti, ben lontani dal semplice affetto, si erano accumulati come polvere fino a diventare una montagna che lo stava schiacciando.
E, da due anni, camminava ogni giorno con quel peso sul petto senza poter fare nulla per liberarsene. Era mica facile!
Tobio si sollevò dal letto, la stanza attorno a sé era un totale casino ma non aveva affatto voglia di sistemarla. Si infilò sotto la doccia – con acqua gelata - e preparò la tuta, forse mettere un po’ di musica lo avrebbe aiutato a distrarsi.
Aprì il frigo per prendere lo yogurt quando, come un fulmine a ciel sereno, il citofono suonò.
Inarcò un sopracciglio.
«Chi è?» chiese titubante mentre dava un’occhiata all’orologio.
«Sono io, Shoyo! Sei Tobio vero?».
C’era una nota quasi disperata nella voce – avrebbe osato dire tragicomica – per cui gli aprì il portone senza aggiungere altro.
Sentì dei passi svelti su per le scale, energico come sempre, e dopo una manciata di secondi si ritrovò uno Shoyo totalmente fradicio dalla testa ai piedi.
«Che diavolo hai combinato?!».
Shoyo quasi tremava, gocciolava e non gli andava proprio di entrare in casa sua in quelle condizioni, senza avviso tra l’altro. Si spostò malamente dalla fronte il ciuffo, troppo lungo, che gli copriva la visuale.
«Ho sbagliato indirizzo e mi ha risposto una signora che sosteneva di non conoscere nessun Tobio Kageyama, ma io pensavo che fosse una scusa perché non volevi vedermi e quindi ho insistito per salire. La signora si è affacciata dal balcone e mi ha tirato una secchiata d’acqua invitandomi ad andare via o avrebbe chiamato la polizia.» Shoyo, gli occhi lucidi, aveva seriamente temuto che Tobio non volesse più vederlo e, beh, sarebbe stato un bel problema.
L’altro, dal canto suo, si appoggiò allo stipite della porta e cominciò a ridere a crepapelle etichettandolo come “Razza di idiota” e “Scemo” per almeno una decina di volte. Dopo un paio di secondi anche Shoyo si accorse di quanto la situazione fosse esilarante e scoppiò a ridere a sua volta.
Ed ecco, ecco che tornavano nuovamente ad essere due liceali, due metà della stessa persona, un semplice alzatore e uno schiacciatore troppo basso con un sogno comune.
Ma quando le risate terminarono, cessarono i ricordi e tutto ripiombò – dolorosamente – nel presente.
Tobio si fece serio e lo guardò un paio di volte, mordendosi un labbro, per poi invitarlo dentro. Scomparì per qualche minuto dentro la sua camera e poi uscì con dei vestiti asciutti ed un asciugamano.
 
Shoyo ora se ne stava seduto a torturarsi le mani, lo sguardo che saettava a destra e a sinistra in quella cucina totalmente in stile Kageyama: semplice, con pochi soprammobili e colma di scatole da cibo da asporto.
«Perché sei qui a quest’ora?» La domanda di Tobio lo fece trasalire un attimo, ma non aveva perso il coraggio che tanto aveva cercato per raggiungerlo e parlargli, una volta per tutte.
«Perché sei il mio conto in sospeso».
«Cosa?».
Shoyo strinse i pugni e prese un bel respiro, aveva anche cercato di prepararsi un – inutilissimo – discorso.
«Io sono tornato dal Brasile sperando di poterti sfidare in campo, di averti nuovamente nelle mie giornate e di poterti dire una volta per tutte che -».
«Shoyo…» La voce di Tobio si era abbassata di qualche tono, sembrava una supplica.
 
Fermati. Fermati. Fermati.
Non dirlo, perché appena lo dirai
 il macigno che ho addosso investirà entrambi.
 
«Tobio io volevo averti con me a Rio, avrei voluto sentirti vicino perché mi sei mancato tantissimo e ho avuto paura, pensavo che mi detestassi, che avessi dimenticato tutto quello che abbiamo passato insieme quando io volevo solo chiederti di avere qualcosa in più. E se tu non vuoi avere nulla di diverso, a me va bene, va bene quello che avevamo prima.» Tirò un sospiro di sollievo, finalmente si sentiva più leggero. Di almeno un paio di tonnellate.
Tobio invece si era avvicinato sempre di più, aveva lo sguardo basso e il respiro pesante.
«Che io avessi dimenticato, Shoyo? Sul serio?» Tobio rise appena, le mani che si aprivano e chiudevano.
«Io non mi sono mai staccato da te.» Shoyo si sollevò in piedi, il suo viso non raggiungeva ancora quello dell’altro, ma lo sguardo sì. E lo inchiodò nuovamente, per l’ennesima volta.
C’era ancora qualcosa però che aveva bisogno di dire.
«E’ vero che mi piace Atsumu, ma è anche vero che con te è diverso. E ne ho avuto la prova quando ti ho visto».
L’aria cominciava a farsi pesante anche per lui, sentì le gambe tremare e fu così improvviso che quasi non se ne accorse.
Tobio lo aveva spinto fin contro il muro, bloccandolo con entrambi gli avambracci.
«Dillo, Shoyo.» La voce melliflua, bassa e roca come di chi si sta trattenendo.
«Non so come dirtelo, tu, – prese un respiro – io provo per te ciò che provo per la pallavolo».
 
All’ennesima potenza, però.
 
Tobio sorrise appena davanti quella confessione genuina e potè finalmente poggiare la propria guancia su quella dell’altro, sentire i suoi capelli umidi contro il viso.
«Anche tu mi piaci come la pallavolo.» sussurrò lento al suo orecchio. «Mi fai sentire vivo, pieno di energia».
«Esattamente al mio posto.» concluse Shoyo strofinando la guancia.
Tobio perse totalmente il lume della ragione e si ritrovò a scostarsi, avvicinò le labbra a quelle dell’altro ma non lo baciò.
Voleva il suo consenso, voleva l’ultima certezza. Ma Shoyo non aspettava altro e azzerò le distanze.
Le labbra di Tobio erano rigide, ma non ruvide ed erano piccole, della dimensione giusta per essere morse leggermente. E fu quel morso che li mandò totalmente fuori di giri. Tobio affondò le mani tra quei capelli rossi, ancora umidi e li districò mentre si faceva sempre più vicino, fino a sentire il petto dell’altro sul proprio.
Allora fu il turno di Shoyo di poggiare le mani sulle sue spalle alte, poi risalire sul collo e carezzargli leggermente la nuca.
«Sono due anni che lo aspetto.» sussurrò Tobio riprendendo fiato, lontanissimo dal voler lasciare ancora lontano quelle labbra.
Lungi dal volersi mai più distaccare da Shoyo.
«Ancora».
Shoyo si sentì, improvvisamente, completo. Era tornato a casa, quella vera.
Aveva finalmente ottenuto quel sentimento che tanto desiderava, perché mai si era sentito bramato come in quel momento tra le braccia di Tobio.
Mai aveva sperimentato su di sé gli effetti di un bacio simile, che attendevano entrambi da troppo tempo.
Tobio scivolò appena e gli baciò il collo sentendo, nuovamente, l’odore della sua pelle. Lo stesso che sentiva sul bus, quando lo abbracciava, quando per gioco gli tirava addosso la sua maglia.
Lo strinse ancora e lo baciò appena sulla carotide, lì dove il suo profumo era ancora più forte.
«Shoyo, devo saperlo.» Eccola ancora, una supplica con quella voce che stava facendo morire lentamente Shoyo.
«Cosa?».
«Qualcuno, o Atsumu ti ha mai toccato?» Un sussurro pieno di insicurezze, detto con le mani che ancora tremavano tra le ciocche umide dell’altro.
«No, nessuno mai».
 
Nessuno ha mai lasciato su di me la sua ombra,
se non tu stesso con i tuoi abbracci.
 
Tobio inspirò ed espirò di nuovo, forte, ma si trattenne ancora.
«Posso?» chiese un po’ più forte, ma non ricevette risposta. Non verbale almeno.
Shoyo gli poggiò nuovamente una mano sulla nuca invitandolo così a proseguire il suo cammino lungo il suo collo, risalendo piano fino alla guancia, fino alle sue labbra.
«Tobio, ancora.» E si baciarono, per un tempo che parve infinito.
«Shoyo, io non so fin dove voglio spingermi ora.» Tobio lo sussurrò non appena sentì le dita fredde dell’altro ancorarsi al bordo della sua maglietta per sfilarla.
«Neanche io, ci fermeremo insieme».
E quelle parole rassicuranti, sussurrate ad un soffio dalle sue labbra, ebbero solo l’effetto di accenderlo di più e trovare la forza di accompagnarlo fino alla camera da letto.
Lì dove fino ad un’ora prima era ruzzolato via il pallone, lì dove aveva passato la notte ad arrovellarsi il cervello, dove mai avrebbe pensato di poter portare Shoyo.
Il letto era abbastanza grande da stare comodi, lo fece sdraiare e dichiarò superflua quella maglietta che ancora lo copriva.
Tobio sentiva dentro di sé ogni cosa prendere il suo posto, ogni tassello prendere un senso.
Le sue mani potevano tracciare linee immaginarie su quel corpo nudo, caldo, a tratti tremante. Le sue labbra potevano lasciare segni, i suoi denti saggiare la consistenza di quella pelle morbida e dorata dal sole.
Shoyo, dal canto suo, mai avrebbe pensato di poter veramente sentirsi così bene tra le braccia di qualcuno. Qualcuno che lo conosceva fino in fondo, con cui aveva condiviso per tre anni tutte le intere giornate, che si era preso cura di lui in ogni momento – e non se n’era mai accorto.
Lo baciò ancora e ancora, e ad ogni bacio lo sentiva sempre più vicino e legato a sé e capì che il loro rapporto non si era lacerato, non si era logorato.
Non era mai finito davvero.
Aspettava solo che trovassero il coraggio per renderlo un po’ più forte.
 
«Rimani qui.» Le parole di Tobio si scontrarono con i capelli sudati dell’altro, steso sul suo petto ad ascoltarne il cuore.
I vestiti sparpagliati per terra insieme al cuscino, a parte delle coperte.
I corpi nudi, tremanti, intrecciati tra di loro, incastrati.
Quella mattina vi erano stati baci accennati, baci soffiati, baci rubati. Un turbinio di sentimenti e di voglia di toccarsi, conoscersi, amarsi.
Shoyo aveva passato le proprie mani sul corpo grande dell’altro, quasi ne volesse imparare ogni curva, ogni sottigliezza e ogni cicatrice.
Tobio aveva passato le sue labbra ovunque, imparando il sapore della sua pelle, il suo odore, il calore. Aveva cominciato ad amare anche la cicatrice sul labbro superiore.
Si era detto che, dopo aver toccato e amato Shoyo in quel modo, l’ombra delle sue dita e delle sue labbra lo avrebbe accompagnato e protetto per sempre.
«Non vado da nessuna parte.» rispose Shoyo, senza scollarsi dal suo sterno, senza allontanarsi dai suoi battiti.
«Promesso?».
«Promesso».
 
Vetro
 
Kiyoomi Sakusa era stremato.
Si era ritrovato tra i MYSB in un giorno di primavera, dopo il diploma, e aveva visto Atsumu schiacciare una palla ad una velocità impressionante – soprattutto per chi normalmente faceva da alzatore.
Kiyoomi ricordava bene Atsumu Miya – parte lesa dei gemelli Miya –, si erano incontrati non poche volte ai campi di allenamento.
Gli era subito saltato all’occhio, non solo per quel ciuffo orribile che gli risaltava i capelli, ma anche per il suo modo di fare e di tirare frecciatine, soprattutto a Tobio Kageyama.
Era dotato di una sottile ironia e di sarcasmo, anche se spesso le sue battute erano volutamente oscene o davvero brutte. Durante tutti i loro allenamenti da liceali era stato tra i pochissimi a non toccarlo mai, a non porgergli mai nulla, ma a coinvolgerlo sempre nelle conversazioni.
Kiyoomi si sentiva al sicuro sul campo come in pochi posti al mondo, per cui Atsumu – che non ci aveva messo poi molto a capirlo – quando lo vedeva seduto sotto la rete durante le pause, ne approfittava per raggiungerlo e scambiare quattro chiacchiere.
Si offrì perfino di firmargli la maglia, o anche due, così una avrebbe potuto venderla quando sarebbe diventato famoso.
E Kiyoomi aveva riso, sfottendolo un po’ per tutta quella sicurezza che sicuramente doveva compensare insicurezze di altro tipo. E lo aveva visto arrossire quella volta, tremendamente, accusandolo di star sminuendo la sua virilità.
La verità era che Kiyoomi non si era mai sentito bene con qualcuno come lo era con lui, tranne che con suo cugino Motoya, ovviamente.
Allora aveva lottato, tantissimo, per poter entrare nella sua stessa squadra. Per poter nuovamente sperimentare quella felicità.
E si era illuso, ovviamente.
Atsumu sembrava un rottame, un corpo la cui anima era stata prosciugata e sostituita con una di seconda classe. Si impegnava nella pallavolo, come sempre, ma sembrava che il suo obiettivo fosse lontano, lontanissimo, quasi dall’altra parte del globo.
E Kiyoomi aveva provato un sacco di volte a farlo tornare come prima, a volte gli schioccava le dita davanti chiedendosi se anche lui, come i vecchi computer, avesse bisogno di essere spento e riacceso.
Aveva meditato anche di tramortirlo per provare la sua teoria.
Atsumu però rideva, faceva battute – orribili – come sempre ma sembrava mancargli la vitalità.
Così, una sera che Kiyoomi non aveva voglia di cucinare, ne approfittò per passare da Onigiri Miya! a fare una scorta settimanale di polpette di riso.
Osamu lo aveva accolto metaforicamente a braccia aperte, complimentandosi per i risultati delle ultime partite e lucidando una parte del bancone ed una sedia per invitarlo ad accomodarsi.
Kiyoomi adorava quel posto, profumava di salmone e disinfettante e, tranne nell’ora di punta, era quasi sempre vuoto al bancone – la gente entrava solo per rapidi spuntini -. Non si meravigliava affatto di come gli affari stessero decollando.
«Osamu, certo che tuo fratello sembra stanco in questo periodo.» Aveva buttato un po’ lì sul vago, gli occhi che fissavano il piattino con un onigiri offerto dalla casa.
«Ah, lascia perdere, i suoi drammi d’amore sono equiparabili a quelli che vedi nei film di classe z».
Kiyoomi sentì la saliva andare di traverso.
«Drammi d’amore? Atsumu?» Come se potesse credere davvero che un ragazzo alto, slanciato, con quei bicipiti e un orripilante ciuffo ossigenato potesse sul serio avere drammi d’amore.
«Già, la situazione va avanti da più di quanto immagini e sta logorando anche me. E’ diventato più insopportabile del solito e non c’è stato verso di appiopparlo a nessuna delle mie inimicizie!» Osamu rise un po’ mentre si dedicava alla lucidatura di piatti e bicchieri.
«Caspita, vi volete proprio bene vedo».
«Atsumu è quel tipo di persona che augureresti solo al tuo peggior nemico, ma ha anche dei pregi che lo rendono insopportabile».
«Di che parli?».
«Quando si lega a qualcuno, è finita».
 
Kiyoomi non si era neanche chiesto chi potesse aver ridotto Atsumu in un mucchio di macerie incollate con la vinilica, ma era certo di una cosa.
Non riusciva proprio a vederlo con quella faccia!
Erano così passati i giorni e Kiyoomi, passo dopo passo, si era avvicinato – sempre metaforicamente – all’alzatore, dedicandogli piccole attenzioni. Si premurava di portare sempre dell’acqua e delle barrette in più e, non poche volte, gli aveva offerto un passaggio in auto per evitare che si bagnasse con la pioggia.
Atsumu lo aveva sempre ringraziato, mostrandosi gentile e ponderato come pochi, come nessuno. Eppure, continuava a sembrare distante.
Sembrava avere un pensiero fisso, martellante, incastonato al cuore che sembrava lasciargli pace solo quando giocavano a pallavolo.
Allora Kiyoomi si era concesso anche allenamenti extra, ore e ore di allenamenti extra anche quando era esausto. Anche quando avrebbe voluto disinfettare le panche e dormirci sopra fino all’indomani.
Perché ne valeva la pena, valeva la pena riportare in vita Atsumu, valeva la pena vederlo sorridere come prima, spontaneo.
 
Fu un anno dopo, in tarda primavera, che Atsumu tornò a sorridere.
Non grazie a lui.
Kiyoomi vide entrare Shoyo Hinata nella sua vita e in quella dei MYSB. Più che un sole che dirada le nuvole, per lui Shoyo fu un fulmine a ciel sereno.
Allora vide la nebbia sul volto di Atsumu diradarsi, fino a sparire. Ebbe l’impressione di vedere il suo volto illuminarsi.
 
Erano raggi di un tramonto
 quelli che stavano illuminando le sue guance, Omi.
 
Kiyoomi non smise un momento di ammirare quel nuovo Atsumu, colmo di energia, di un potere del tutto nuovo capace di farlo risplendere sul campo, fuori e perfino nei momenti in cui gli rivolgeva la parola, strizzando gli occhi con le guance lievemente rosse.
 
Quando, effettuando l’ultimo servizio di quella partita di un mese dopo, vide Tobio sugli spalti, ebbe l’impressione che i raggi del tramonto sul volto di Atsumu stessero per spegnersi.
No, non avrebbe lasciato che la notte si riprendesse il suo Atsumu. Aveva già sopportato il suo – poco velato – rapporto con Shoyo, vederlo tornare come prima era fuori discussione.
Kiyoomi avrebbe smesso di essere vetro trasparente, che si lascia travolgere da ogni fascio di luce. Si sarebbe rotto in mille pezzi pur di creare un ultimo raggio capace di illuminarlo.
Avrebbe venduto la sua anima, tutto, pur di non perdere quel sorriso e quella gentilezza che non aveva mai perso nei suoi confronti.
Allora Kiyoomi corse, velocissimo, prima di tutti, per assicurarsi che Tobio avesse seriamente intenzione di parlare con Shoyo.
E, cielo!, come si fermò il tempo quando vide i loro sguardi incrociarsi.
Shoyo e Tobio sembravano aver ricordato solo in quel momento come si respirasse.
E Atsumu crollava, lentamente, in piccoli pezzi. L’ombra scese sui suoi occhi, sui suoi zigomi e sulle sue labbra.
Un pugno contro il muro lo fece sussultare e, con quella botta sulle mattonelle, Kiyoomi decise che era arrivato il momento di smettere di essere vetro integro.
Shoyo scappò verso fuori, senza vederlo e lui entrò nello spogliatoio, lì dove Atsumu era crollato sul pavimento sudicio.
Sudicio!
Kiyoomi trattenne un conato e giurò su sé stesso che gli avrebbe prestato dei vestiti puliti prima di farlo entrare in casa.
Invito che, molto stranamente, Atsumu accettò dopo una discussione abbastanza accesa. Si era lasciato guidare in silenzio fino all’auto e poi fino alla casa di Kiyoomi, grande e bella come poche in quel quartiere, luminosa.
Si era anche trovato dei pantaloni e una felpa pulita, un onigiri di suo fratello come spuntino forzato mentre Kiyoomi gli fasciava la mano con una cura che nessuno aveva mai messo nel toccarlo.
Atsumu rimase incantato nel vedere la benda puzzolente di erbe che copriva lenta e precisa la sua pelle violacea. Se non avesse avuto il cuore in mille pezzi, si sarebbe addormentato sotto il tocco delle dita di Kiyoomi.
«Hai detto prima che mi vedi, cosa intendevi?» chiese invece, con la testa abbandonata contro il muro adiacente al tavolo.
Kiyoomi non aveva staccato gli occhi dalla mano, ma aveva rallentato il ritmo quasi cercasse una scusa per non interrompere quel contatto.
«A volte ho l’impressione che tu faccia tanto l’egocentrico perché hai paura che qualcuno non ti veda. Per questo ti ho detto che ti vedo, anche quando stai zitto come fino a poco fa, impegnato a dar fondo alla scatola degli onigiri!».
Atsumu si corrucciò.
«Mi hai detto tu che era il mio spuntino!».
«Pensavo ne avresti mangiato uno!».
«Li ha fatti mio fratello, te ne farò arrivare una camionata di questi onigiri!».
«E’ più probabile che tuo fratello te li tiri in testa, Atsumu».
E l’altro rise forte, affermando che sì, era assolutamente vero. Osamu glieli avrebbe tirati in testa quando lo avrebbe avvertito che la telenovela di casa Miya era ormai giunta al termine.
Atsumu smise poi di ridere e tornò serio, Kiyoomi stava annodando la benda e sembrava mettere particolare attenzione anche in un semplice nodo.
«Come lo hai capito? Del fatto dell’essere visto».
«L’ho capito e basta, non c’è stato qualcosa in particolare».
«A quanto pare non basta essere visti, sai?».
Atsumu ritirò la mano medicata e strinse le dita per controllare l’efficienza della fasciatura. Si poggiò totalmente al muro e guardò verso il soffitto.
Al contrario di casa sua, non c’era neanche il cenno di una probabile ragnatela o di un po’ di polvere.
«Non basta per cosa?» chiese Kiyoomi rimanendo sul vago mentre sistemava la borsa con i disinfettanti e gli unguenti.
«Per essere amati, Omi Omi, a quanto pare è più complesso di così».
«Per essere amati c’è bisogno di qualcosa in più, è vero, ma essere visti è un primo passo».
 
Pensa me,
 è da una vita che sono vetro trasparente per tutti.
 
Kiyoomi lo accompagnò fino alla porta e non si accorse nemmeno di avergli lasciato i suoi abiti, né di avere quelli di Atsumu nel cesto della propria biancheria sporca. Avrebbe dovuto riportarglieli di nascosto, chissà cosa avrebbero potuto pensare gli altri se avessero visto una scena simile.
Sospirò chiedendosi se non si fosse esposto un po’ troppo con quella discussione, ma era anche vero che Atsumu non era il più intelligente dei gemelli Miya per cui, si disse, non ci sarebbero stati problemi.
 
Una settimana dopo, di domenica pomeriggio, Kiyoomi fu costretto a chiudere in anticipo la videochiamata con suo cugino a causa di un fastidioso citofonare.
Si chiese chi potesse essere così negato anche nel premere un semplice pulsante.
Non avrebbe dovuto stupirsi troppo quando dall’altro lato della cornetta rispose Atsumu.
Lo vide salire le scale con tre scatole enormi, non riusciva neanche a vederlo in viso.
«Non mi sono appoggiato da nessuna parte, lo giuro, sono pulitissimo!» esclamò la scatola che si era ritrovato di fronte il portone.
«Si può sapere che cavolo stai facendo?».
«Se prendi le scatole mi cambio le scarpe e te lo spiego!».
Kiyoomi acconsentì e afferrò una scatola poggiandola sul soprammobile, poi un’altra finchè – finalmente – non vide il volto sorridente di Atsumu illuminargli l’ingresso di casa.
Le occhiaie lasciavano intuire come non si fosse ancora ripreso dalla botta emotiva di otto giorni prima, ma il fatto che non fosse sul ciglio di un ponte a dare il suo addio al mondo era già qualcosa.
«Ho portato gli onigiri di Osamu e no, non me li ha lanciati in testa prima di incartarli. Ad onor del vero, ci ha provato ma appena gli ho detto che erano per te si è subito regolato».
«Hai schivato un pericolosissimo bernoccolo da riso al salmone grazie al mio nome. Sono onorato della tua gratitudine, mangerò da solo tutti questi onigiri pensandoti. Buon ritorno a casa, Atsumu!» Kiyoomi afferrò le prime due scatole e andò verso la cucina, la tentazione di girarsi per vedere il volto di Atsumu era tantissimo. Ma doveva resistere.
«Stai scherzando, vero?! Mi sono pure fatto la doccia prima di venire!».
«Detto così sembri davvero un sudicio, Atsumu!» esclamò l’altro dalla cucina cercando di contenere le risate.
«Giuro che non doveva uscirmi così! Stavo scherzando, cioè mi sarei lavato lo stesso. Oh, Omi Omi, dai smettila di prendermi in giro!».
Kiyoomi si affacciò dal corridoio e lo guardò in faccia, Atsumu era davvero rimasto di fronte il portone senza sapere se togliere le scarpe. Fissava lo zerbino.
«Atsumu…» la voce intenerita, dolce.
«Sì?».
«Ho messo due bicchieri a tavola».
Ti vedo, Omi.
 
Perché in fondo fare i conti con i propri sentimenti non è facile, si sa.
Le cose non vanno neanche come le programmiamo.
Ma cosa importa?
Cosa importa se, alla fine, abbiamo una spalla su cui piangere
E un paio di braccia pronte a stringerci.
Un cuore pronto ad amarci, non importa se per un momento o per sempre.
D’altronde tutto l’amore che riceviamo ci rimane addosso, come una carezza malcelata.
E quello che diamo,
Quello che diamo, per qualcuno, può essere la più grande benedizione.


*Nikuman: panini con manzo.

Angolo autrice: Ed eccoci giunti alla fine di questa OS/Mini-Long che, devo dirlo, mi sono divertita una casino a scrivere! 
Certo, ho qualche dubbio sull'IC dei personaggi, li vediamo sempre così presi dalla pallavolo e dai loro sogni. Qui ho provato a fare  un'introspezione un po' più approfondita, per quanto ci sia un effetto Telenovela Argentina ben poco velato AHAHAH
Però, niente, mi sono divertita e soprattutto è stata scritta in un periodo che di certo non dimenticherò, quindi ne sono felice a maggior ragione.
Per questa settimana e per la prossima non pubblicherò nulla, ma a partire dal 22 dovrebbero cominciare le lezioni e potrò finalmente finire le SakuAtsu\KageHina in cantiere e pubblicare quelle già pronte in attesa di revisione.

Grazie a tutti coloro che mi hanno supportata!
P.s. Ho creato un profilo fake su Facebook, mi trovate come SkyDream Efp e ho la stessa foto di profilo che ho qui. Se vi va di scambiare quattro chiacchiere, siete i benvenuti!

Un bacio ^-^

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