Sangue su Chernobyl - Homecoming di FrenzIsInfected (/viewuser.php?uid=822976)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1 ***
Capitolo 2: *** 2 ***
Capitolo 3: *** 3 ***
Capitolo 4: *** 4 ***
Capitolo 5: *** 5 ***
Capitolo 1 *** 1 ***
Primo capitolo
1
Pripyat, Ucraina.
8 Novembre 2009.
Checkpoint ‘Pripyat’.
11:02.
Anatoli Zelenko, Vassili Karavaev, Serg. Olga
Petrova, Pvt. Feodor Kovalenko.
Parte del gruppo ha raggiunto Pripyat. La posizione e lo stato di Irina,
Sergei, Boris e del soldato Svatok è ignota.
«SVATOK!»
Feodor
corse fuori dall’UAZ, venendo rincorso e fermato da uno dei militari del
checkpoint.
«Lasciami,
Pyatov!» esclamò il soldato, lottando per liberarsi dalla presa del
commilitone.
«Fermati,
Feodor!» ordinò Olga.
Kovalenko
smise di agitarsi, e, accasciatosi, sbatté un pungo a terra, iniziando a
lacrimare e imprecare.
«Arrivano
le provviste, ma anche guai, a quanto pare» fece l’altro soldato al checkpoint.
Olga
si avvicinò a lui.
«Il
tuo nome?»
«Soldato
Andrei Sydorchuk, sergente.»
«Bene,
Sydorchuk. Avvisa chiunque comandi a Pripyat che le provviste sono arrivate, e
che abbiamo un commilitone con dei civili dispersi.»
«So
dove vuole arrivare, sergente, ma non credo sarà possibile» rispose Sydorchuk. «Nessuno
lascia Pripyat, che sia esso un civile, un militare o un membro della Militsiya.
Ognuno deve restare nel posto dove è stato assegnato, salvo ordine diretto del
maggiore Tsurikov.»
«È
così che trattate i vostri commilitoni e i civili, qui? Negando loro aiuto se
sono fuori dal perimetro della città? Ma che cosa avete in testa?» sbottò
Anatoli.
«Andiamo,
Sydorchuk» fece Pyatov, dopo aver aiutato Feodor a rialzarsi. «Il maggiore non
negherà un aiuto del genere. È Svatok, uno dei pochi soldati che conoscono la
Zona!»
«Il
maggiore ci ha dato degli ordini, Pyatov, e dobbiamo rispettarli. Chi entra a
Pripyat, resta a Pripyat! Chi lascia Pripyat, non può far ritorno!»
Ci
fu qualche secondo di silenzio, prima che qualcuno dei presenti tornasse a
parlare.
«Chi
comanda la Militsiya qui?» chiese Vassili.
«Nessuno.
Voi poliziotti siete subordinati a noi militari» rispose freddamente Sydorchuk.
I
tre si guardarono.
«Se
entriamo a Pripyat, non potremo più salvare Irina, Sergei, Boris e Svatok, se
sono sopravvissuti» fece Anatoli.
Olga
guardò il contadino.
«Conosci
la zona, Anatoli?» chiese.
Il
vecchio annuì.
«Da
giovane spesso passavo a prendere mia moglie a Yanov, e insieme andavamo a
spasso a Pripyat. La stazione ferroviaria è a tre chilometri da qui» disse.
«L’esplosione
proveniva da sud-ovest. Magari i soldati in cima alla fabbrica Jupiter
hanno visto qualcosa» fece Pyatov, rivolto al commilitone.
Sydorchuk
sbuffò, prendendo la sua radio.
«“Checkpoint
‘Pripyat’” a “Punto d’osservazione
‘Jupiter’”, potreste dare un’occhiata in
direzione della stazione di Yanov e riferirmi cosa vedete e
sentite?»
«Affermativo,
“Checkpoint ‘Pripyat’”. Dacci solo un secondo.»
Dopo
qualche attimo di interminabile silenzio, arrivò il responso.
«“Checkpoint
‘Pripyat’”, vediamo del fumo alzarsi a sud-ovest della nostra posizione.
Rilevamento sonoro e ulteriori riscontri visivi impossibile da attuare, la
foresta è troppo fitta e il fumo troppo lontano. Ad occhio e croce, dovrebbero
essere vicino al crocevia delle strade che conducono alla stazione di Yanov,
alla fabbrica Jupiter e alla discarica di Buriyakivka.»
Il
soldato stava per ringraziare e chiudere, quando un altro soldato parlò via
radio.
«“Checkpoint
‘Pripyat’”, parla “Posto di blocco sud-ovest”. Confermo le parole del “Punto
d’osservazione ‘Jupiter’”. Abbiamo udito un paio di spari, delle voci e dei
ruggiti, ma non sentiamo più nulla da qualche minuto.»
Vassili,
Olga e Anatoli si scambiarono uno sguardo.
«Vengo
con te, Anatoli» fece il poliziotto. «Tu, Olga, vai pure. Ce la faremo.»
La
soldatessa annuì, dando loro la sua radio.
«Portateli
qui… e non fatevi ammazzare» disse, sospirando, per poi abbracciare il
poliziotto.
«Siamo
sopravvissuti finora. Cosa può ucciderci?» sorrise Anatoli.
Partiti
i due, Olga si rivolse agli altri.
«Il
capitano Yaremchuk alla stazione radar Duga mi ha ordinato di restare a
Pripyat e unirmi alla vostra guarnigione. Dove posso essere utile?» chiese.
«Credo
che al caporale Yakovenko possano far comodo un paio di braccia in più
all’Hotel Polissya» rispose Pyatov.
«Continui
lungo la Prospettiva Lenin, fino ad arrivare nella piazza principale. Davanti a
lei vedrà il Palazzo della Cultura Energetyk. Alla sua destra, troverà
l’hotel.»
Feodor
si avvicinò. I suoi occhi erano ancora rossi dalle lacrime.
«Vuole
un passaggio, sergente?»
«No,
grazie. Non penso che capiti tutti i giorni camminare in mezzo a una città
abbandonata. Quanto a te, piuttosto, sii ottimista. Faremo il possibile per riportare
gli altri a Pripyat sani e salvi.»
«Lo
spero anch’io.»
Il
soldato si mise sull’attenti, facendo il saluto.
«È
stato un onore, sergente Petrova.»
Olga
ricambiò il saluto, accennando un sorriso. Nessuno le aveva mai espresso
gratitudine per esser stato sotto il suo comando.
I
due soldati alzarono la sbarra del checkpoint, lasciando entrare il mezzo e la
soldatessa.
Così,
questa è la città fantasma.
Olga
camminava lungo la Prospettiva Lenin come Alice una volta arrivata nel paese
delle meraviglie. Certo, l’atomo non aveva fatto meraviglie in quel luogo, ma
quel macabro fascino che permeava l’area di Pripyat rendeva impossibile a
chiunque non perdersi a guardare ciò che restava degli edifici dell’atomgrad
abbandonata.
Volgeva
lo sguardo oltre gli alberi spogli che avevano quasi ricoperto
l’asfalto della
strada, verso quegli appartamenti abbandonati che, con l’arrivo
dell’apocalisse, erano stati nuovamente occupati dai cittadini
ucraini della Zona o
giunti all’interno di essa in fuga dai non morti. Affacciato al
balcone del
proprio alloggio, qualche neo-residente osservava con aria incuriosita
la
soldatessa procedere solitaria lungo il viale.
Chissà
cosa direbbe Tetyana, se sapesse che sono qui.
Quando
iniziò ad andare alle elementari a Kiev, nell’ottobre 1986, nella sua classe
c’era anche una ragazzina del nord, Tetyana Ivanenko, figlia di una coppia
sfollata da Pripyat. Gran parte dei bambini, dopo un primo momento di
integrazione, iniziarono a rigettare la presenza di Tetyana all’interno della
classe, spinti dall’odio e dal disprezzo inculcatigli dai genitori verso chi
proveniva dall’area di Chernobyl. Solo Olga, che per natura era solidale verso
il prossimo, le stette sempre vicino, diventando la sua migliore amica. Le
raccontava spesso di quando viveva lì, di quanti fiori e bambini con cui
giocare ci fossero. Desiderava tornarci come non mai. Da quando la soldatessa
era entrata nell’esercito, però, le due si sentivano raramente. L’ultima cosa
che ricordava di Tetyana era che stava cercando disperatamente un gruppo metal
dove suonare.
E
soprattutto, chissà cosa direbbero mamma e papà.
Oleg
Petrov, nato a Kursk, nella Repubblica Socialista Sovietica
Russa,
negli anni Cinquanta, si era trasferito a Kiev per lavoro. Lì,
aveva conosciuto
e successivamente sposato Oksana Pavlyuk, una barista che lavorava in
un locale non distante dall'appartamento dove si era stabilito l'uomo.
Nel 1980, i due diedero alla luce la
loro unica figlia, Olga. Gli anni passavano, e Oleg, rimasto
disoccupato dopo
esser rimasto coinvolto in una rissa con un suo collega, vide nel
disastro di
Chernobyl un’opportunità per redimersi e render fiera sua
moglie e sua figlia. Si
unì ai liquidatori, e tra i tanti lavori disponibili, scelse
anche quello più
pericoloso. Oltre ai vari lavori di rilevazione dei valori delle
radiazioni, salì sul tetto della centrale, e per novanta secondi
fece il bio-robot,
facendo ciò che le macchine non erano riuscite a fare a causa delle troppe
radiazioni: rimuovere i detriti e i blocchi di grafite dal tetto del vicino
reattore numero 3. Per prendere più soldi ed essere riabilitato agli occhi
dell’Unione Sovietica, salì altre tre volte, spalando per un minuto e mezzo
all’ombra del camino d’aerazione dei blocchi 3 e 4.
Alla
piccola Olga, il padre raccontava di quando passeggiava per le strade buie di
Pripyat, illuminate solo dalla luna, o di quando andava a nuotare con i suoi
colleghi alla piscina Lazurny, l’unico luogo della città a restare
attivo fino al 1998.
Il
coraggio (o l’incoscienza) di Oleg fece migliorare leggermente le condizioni
economiche della famiglia, ma non la sua salute, che peggiorò con l’avvicinarsi
del nuovo millennio. Olga disse addio al padre nel 1997, vittima di un tumore
al cervello. Il suo corpo era stato minato troppo dalle radiazioni.
Oksana,
da allora, aveva fatto promettere alla figlia che non sarebbe mai andata a
Chernobyl.
Eppure,
eccola lì, in procinto di arrivare nella piazza centrale della città.
Quando
vi arrivò, Olga si sentì quasi una formica. L’immensa area antistante, un tempo
piena di vita, gioia e fermento, ora marciva in uno stato di abbandono.
L’enorme Palazzo della Cultura, l’Energetyk, si ergeva in condizioni
fatiscenti a qualche centinaio di metri da lei. Le immense vetrate che davano
sulla piazza erano state distrutte per far disperdere le radiazioni, così come
le finestre degli appartamenti di gran parte della città. Le insegne al neon
erano state divorate dalla ruggine, e ora i tubi giacevano allo scoperto. Sul
tetto, e all’interno dell’edificio, Olga riuscì ad intravedere dei soldati sorvegliare
l’area circostante.
La
ragazza, poi, volse lo sguardo a destra. L’hotel Polissya era in
condizioni simili al Palazzo della Cultura, collegato ad esso da un arco di
colonne. Anche qui, le finestre erano state distrutte, e le insegne al neon
avevano fatto la stessa fine di quelle dell’Energetyk. Un tempo
bianchissimo, ora la struttura tendeva al bianco sporco, con sfumature verdognole
causate dalla crescita di muffe o muschi. Notò con stupore delle piante
crescere sul tetto.
Dalla
terrazza, un soldato la salutò.
«Quassù,
sergente!» esclamò, facendole cenno di salire.
Olga
quasi lo maledisse per aver interrotto la quiete che aleggiava nella città,
nonostante, in lontananza, si sentisse il rumore dell’UAZ di Feodor.
Entrò
nell’edificio, restando impressionata dalla pressoché totale devastazione. Gli
stalker e i vandali avevano fatto razzia di ogni cosa possibile, non curanti di
star distruggendo un potenziale patrimonio storico. Salì le scale, dove fu
accolta dal caporale Yakovenko, un ometto barbuto che impugnava un fucile da
cecchino Dragunov.
«Benvenuta
all’hotel Polyssia, sergente. Si goda la vista.»
Olga rimase a bocca aperta.
Da lassù, riusciva a vedere tutta la città. I palazzi-dormitorio, arrugginite insegne
luminose recitanti slogan comunisti, l’infinita distesa di alberi… e, in
lontananza, come un gigantesco mostro, la centrale nucleare.
La soldatessa rivolse il suo
sguardo verso sud-ovest, dove il fumo continuava a salire. E, in silenzio,
iniziò a pregare qualunque Dio che non li avesse ancora abbandonati, di far
tornare i dispersi sani e salvi.
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Salve, gente!
Vi avevo
promesso l'arrivo del sequel di "Sangue su Chernobyl" in questo
periodo, e intendo mantenere la promessa data. A causa dei miei impegni
con la tesi, sarò però costretto ad aggiornare la storia
solo mensilmente. Il prossimo capitolo è in fase di revisione, e
il terzo deve essere ancora completato. Spero di riuscire nell'intento
di proporvi la storia come piace a me.
Alla prossima,
Frenz
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Capitolo 2 *** 2 ***
Primo capitolo
2
Zona di Esclusione di
Chernobyl, Ucraina.
8 Novembre 2009.
Poco
fuori Pripyat.
11:04.
Irina
riaprì gli occhi. L’odore acre
del fumo giunse alle sue narici.
Si girò
sul fianco, ma se ne pentì
quasi subito, dal momento che iniziò a sentire dolore.
Stringendo i denti, si
guardò intorno.
L’esplosione
aveva incendiato l’Honker.
Attorno al mezzo in fiamme, i corpi degli zombie che li stavano
inseguendo,
ormai morti. A pochi metri da lei, giaceva supino Masha, assieme alla
sua
Makarov.
La ragazza si mise
una mano nella zona
dolorante, e si guardò il resto del corpo. I pantaloni si
erano strappati nella
caduta dal mezzo. Sulle braccia c’erano ora numerose
escoriazioni.
Si rimise in piedi,
iniziando a
guardarsi intorno.
«Papà?
Boris? Svatok?»
I due mezzi
raggiunsero la stele che indicava la strada per
Pripyat. L’Honker sfrecciava lungo la strada. Davanti a loro,
l’UAZ stava per
iniziare la sua salita nel “Ponte della morte”.
«PREMI
QUELL’ACCELLERATORE E SEMINAMI!
CI VEDIAMO A PRIPYAT, FRATELLO!» urlò Svatok in
radio, mettendo nel mirino una
strada sulla sinistra.
Kovalenko
non rispose, ma lo scatto del
mezzo che lo precedeva fu una risposta abbastanza eloquente per il
commilitone.
«Tenetevi
forte, curva a sinistra!»
Irina,
che sparava dal finestrino,
rischiò di finire fuori bordo. Gli zombie, nonostante le
raffiche di Sergei,
continuavano a essere parecchi.
«Qualche
idea su come liberarci di loro?»
chiese Boris.
«A
parte cercare di seminarli? Nessuna!»
fece il padre di Irina.
Svatok
sospirò, mettendo una mano su una
tasca.
«Non
dovrei usarla, ma vista la
situazione…»
Il
soldato prese una granata, passandola
nei sedili posteriori.
«Sergei,
lanciala fuori!»
La
ragazza avanzò barcollando in direzione
dell’Honker, e quando le fu vicino
inorridì.
Svatok
era completamente carbonizzato. La portiera era chiusa; non aveva
nemmeno
provato a gettarsi dal mezzo.
Iniziò
a boccheggiare, guardandosi nervosamente attorno.
«Aiuto!
C’è qualcuno?» urlò, senza
ricevere risposta.
Guardò
indietro l’orsacchiotto e la sua
pistola.
Irina
raccolse Masha, fissando una parte leggermente bruciacchiata del
peluche.
Sergei
tolse la sicura.
«ATTENZIONE!»
Svatok
non riuscì ad evitare la carcassa
dell’alce che stava venendo divorata dai non morti in mezzo
alla strada,
facendo sobbalzare il mezzo.
La
granata cadde di mano all’uomo.
Prese
poi la Makarov, togliendo la polvere dal lato rimasto a contatto col
terreno.
Il
soldato invertì la marcia,
lanciandosi a capofitto contro gli inseguitori.
«GETTATEVI!»
Boris
aprì la portiera e si lanciò
fuori, rotolando fuori dalla strada. Sergei aprì il
portellone posteriore.
«Vai,
Irina!» urlò alla figlia.
La
ragazza si gettò fuori, cadendo
rovinosamente sull’asfalto. Sergei si apprestò a
seguirla.
Un’esplosione,
e la ragazza perse i
sensi.
«Ira…»
Alzò
lo sguardo.
«PAPÀ!»
Suo
padre giaceva bocconi in un bagno di sangue. Il corpo era stato
martoriato
dalle schegge provocate dall’esplosione del mezzo.
La
ragazza si avvicinò, mettendo Sergei in posizione supina.
L’uomo aprì gli
occhi, iniziando a lacrimare.
«Ira…p-perdonami…»
«Pà,
non puoi lasciarmi ora! Non adesso che siamo tornati a casa!»
disse isterica,
ripulendo la faccia del padre dal sangue.
«È
inutile… s-sono spacciato.»
«Zitto,
zitto! Boris, dove cazzo sei?»
«Irina!»
Boris
spuntò da un fosso poco più avanti a loro, e
corse verso di loro.
«Dobbiamo
portarlo al sicuro.» fece il ragazzo, chinandosi per tirarlo
su.
«Lasciatemi.
Vi rallenterei e basta.» disse l’uomo.
«Sparatemi in testa e andatevene. Non
voglio trasformarmi in una di quelle cose.»
«No!
Dev’esserci un altro modo... Boris?»
Il
ragazzo aveva iniziato a lacrimare. Guardò Irina, e scosse la
testa.
«Vieni
qui, ragazza mia.» sussurrò Sergei.
Sua
figlia si avvicinò.
«Ti
avevo promesso che ti avrei riportato a Pripyat, un giorno. Ed ora
eccoci qui,
a pochi chilometri dalla città che mi ha dato e tolto tutto.
Posso andarmene in
pace.»
Anche Irina
iniziò a piangere. L’uomo si voltò
verso Boris.
«Prenditi
cura di lei, ometto.»
Il
ragazzo annuì.
Sergei,
poi, si voltò verso la figlia.
«Fallo,
Irina. Fallo per tuo padre.»
La
ragazza, tra le lacrime, puntò la pistola al centro della
fronte di Sergei, che le strinse la mano.
«Ti
voglio bene.»
E
premette il grilletto.
Altro
sangue schizzò sul volto della ragazza. L’urlo che
uscì dalla bocca di Irina
ebbe del disumano. Per diversi attimi, tutto intorno a lei si fece
ovattato,
mentre la mano di suo padre mollava la presa e il corpo
sbatteva
pesantemente a terra. Nemmeno le urla di Boris, assieme ad alcuni
spari,
riuscirono a riportarla nella realtà. Alla fine, il ragazzo
fu costretto a
trascinarla via, mentre lei continuava a fissare il cadavere martoriato
del
padre, prima che svanisse dietro un muro di alberi.
Irina
cadde in ginocchio di nuovo, singhiozzando. Erano in mezzo ai
boschi
che circondavano Pripyat, in mezzo a una strada asfaltata.
«Papà…
perdonami…»
Boris
si voltò.
«Andiamo
Ira, non possiamo fermarci, siamo
ancora troppo esposti!» fece Boris, tornando indietro per
tirarla su.
«Lasciami
stare.» disse lei, allontanando la mano del ragazzo.
«Vattene. Mettiti in
salvo. Non preoccuparti per me.»
«Non
ti lascio. Tuo padre…»
«Non
nominarlo.»
«…
lui mi ha chiesto di prendermi cura di te. E intendo farlo. Voglio
arrivare a
Pripyat insieme a te sano e salvo.»
«Come,
Boris? Come? Hai a malapena imparato a sparare. Non sai nemmeno dove
siamo.
Semmai sono io a dovermi prendere cura di te.»
Boris
si passò una mano sul volto.
«Vogliamo
iniziare togliendoci dalla strada, magari?»
Irina
sospirò, e seguì il ragazzo tra gli alberi,
lasciandosi a diversi metri di
distanza la strada e curandosi di essere circondati da cespugli. Boris
tirò
fuori il dosimetro.
«0.29
microsievert… può andare. Fermiamoci
qui.» disse, continuando a guardarsi
attorno. Irina lanciò lo zaino a terra, assieme a Masha e
alla sua Makarov,
mettendosi le mani sul volto. Il ragazzo la lasciò sfogare,
tornando a parlarle
solo quando riuscì a calmarsi.
«Ora
che facciamo?» domandò Boris.
«Dovremmo
cercare di capire dove siamo.» fece Irina. «Ma non
ci riesco. Ricordo Pripyat,
ma il suo circondario no. Cazzo, avevo tre anni quando ci hanno
evacuato.»
«Grandioso.
Ecco, lo sapevo.» disse il ragazzo, scuotendo la testa.
«Fanculo le lezioni.
Dovevo giocare al nuovo S.T.A.L.K.E.R..»
«Cosa?»
«L’ultimo
gioco della serie di S.T.A.L.K.E.R.,
Call Of Pripyat, è uscito
un mese fa. Ha
tre mega zone, tra cui Yanov e Pripyat… ma sono rimasto
fermo a Yanov. Nella
missione successiva sarei dovuto arrivare alla fabbrica Jupiter con i
miei
compagni per raggiungere Pripyat…»
La
ragazza era sconcertata.
«Boris,
stai collegando il cervello prima di parlare?»
Il
ragazzo fece per ricominciare a parlare, ma si fermò.
«Perdonami.
Che cosa patetica. Cercare di capire dove siamo dalla mappa di Yanov di
un
videogioco...»
All’improvviso,
però, Irina alzò lo sguardo.
«Yanov…
ma certo! La ferrovia!»
Boris
restò basito.
«Che
ti è saltato in mente?»
«Ricordi
che Feodor e gli altri hanno proseguito dritti verso un ponte? Quello
è il
ponte della ferrovia. Se percorriamo i binari a ritroso, in direzione
della
centrale nucleare, tra circa un’ora dovremmo essere
arrivati.»
«Poco
fa li abbiamo oltrepassati. Dovremmo raggiungerli
rapidamente.»
«Inoltre,
se ci vengono a cercare, la stazione di Yanov è quasi
sicuramente il primo
posto dove si dirigeranno.»
Irina
si alzò, seguita dal ragazzo, incamminandosi verso la strada.
«Irina.»
la fermò Boris. «Forse è
un’idea stupida, ma… e se proseguissimo lungo la
strada? Più avanti ho visto un bivio, e una delle due strade
porta quasi
sicuramente a Pripyat.»
«Non
abbiamo una radio, e non la hanno nemmeno i nostri. Finiremmo per dover
tornare
fuori a cercarli.»
Il
ragazzo annuì.
«Va
bene.» sospirò la ragazza. «Torniamo a
casa.»
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Capitolo 3 *** 3 ***
Primo capitolo
3
Pripyat, Ucraina.
8 Novembre 2009.
Nelle vicinanze della stazione
di Yanov.
11:20.
Anatoli Zelenko, Vassili Karavaev.
I due sono sulle tracce di Irina, Sergei,
Boris e del soldato Svatok.
«E’
vero quello che si dice su questo ponte, Anatoli?»
Il
poliziotto e il contadino-stalker erano arrivati al Ponte della Morte.
Anni addietro, durante quella notte che avrebbe reso tristemente famoso al
mondo intero quel posto, centinaia di persone si radunarono sopra il ponte
della ferrovia che prima della catastrofe collegava Ovruch a Chernihiv. Voci
erano iniziate a circolare, secondo le quali chiunque era lì quella notte sia
morto poche settimane dopo.
«Non
lo so, Vassili.» sospirò il vecchio. «Molte voci hanno iniziato a circolare su
questo posto dopo il disastro. Ma gran parte di esse sono solo frutto di
battute di cattivo gusto.»
«Tipo
quelle sugli animali con cinque zampe, i cervi con quattro corna e uomini
ridotti il cui aspetto ricorda tutto meno quello di un umano?»
Anatoli
scosse la testa.
«Faccio
lo stalker da una decina d’anni, e tutti gli animali che ho incontrato erano
all’apparenza più che sani. In più, non sono mai stato aggredito dai cosiddetti
samosely.»
I
due gettarono lo sguardo verso la parte destra del ponte. Tra gli alberi,
seguendo il tragitto della ferrovia, si riuscivano a intravedere degli edifici.
«La
stazione di Yanov è laggiù.» indicò Anatoli, puntando poi il dito verso il
pennacchio di fumo che si alzava poco più in là. «Non è lontana dal luogo
dell’esplosione. Inizieremo le ricerche da lì.»
I
due oltrepassarono il ponte, svoltando a destra per dirigersi verso i binari
passando tra le piante.
«Meglio
non restare in strada. Gli spari e l’esplosione avranno attirato altri zombie.»
sussurrò Anatoli, cercando di far meno rumore possibile.
Vassili
tirò fuori il dosimetro, curandosi di silenziare i bip dell’oggetto. I valori
che vide andavano da un minimo di 0.66 a un massimo di 4.23 microsievert.
«È
colpa degli alberi.» fece il contadino, raggiungendo le rotaie. «La
radioattività è ancora alta nei tronchi, talvolta anche nelle foglie.»
Il
poliziotto si sbrigò ad uscire dalla boscaglia, continuando a seguire il
compagno.
«Dov’eri,
Anatoli? La notte dell’incidente, intendo.»
L’anziano
abbassò lo sguardo.
«Abbastanza
vicino alla centrale nucleare da averlo visto con i miei occhi.»
Vassili
restò a bocca aperta.
«Come
sarebbe? Dytyatky è distante almeno 40 chilometri da Pripyat.»
«Ero
assieme a un mio amico di Starolesye, Vadim. Le vendite al mercato di Chernobyl
andavano bene, ma stavo valutando assieme a mia moglie di aumentare gli
introiti vendendo non solo frutta e verdura, ma anche pesce pescato sul fiume
Pripyat. Mi aveva proposto di fare una battuta di pesca non lontano da Pripyat,
nelle vicinanze del lago di raffreddamento artificiale della centrale nucleare,
dove si diceva ci fossero molti pesci, la notte tra il 25 e il 26 aprile. Io e
Vadim ci eravamo accampati sulla sponda est del fiume, con lo sguardo rivolto
verso la centrale. Non avevamo pescato molto, e ci stavamo relativamente
annoiando. Poi, ad un tratto, si è sentito un tonfo sordo in direzione della
centrale, per poi vedere il reattore saltare in aria. Restammo impietriti a
fissare lo spettacolo, fin quando non iniziammo a sentire in lontananza le
sirene dei vigili del fuoco e decidemmo di andarcene. Il resto è storia.»
I
due continuarono per diversi minuti, fino a raggiungere la stazione. Sui
binari, fermi da decenni, stazionavano vagoni e locomotive arrugginite. L’erba
aveva iniziato a sovrastare le rotaie.
«Non
venivo qui dal1980.» disse Anatoli, osservando lo stabile della stazione. «Sposai
mia moglie in quell’anno, e si trasferì a Dytyatky da me.»
«Immagino
tu abbia un sacco di ricordi legati a questo posto.» fece il poliziotto.
«Eccome.
La gioia di vedere Anna scendere dal treno era immensa. Vedere la stazione in
questo stato mi rattrista enormemente.»
«Non
mi hai mai detto perché avete divorziato, ora che ci penso.»
Il
vecchio sospirò.
«Conobbe
un uomo a Kiev, al mercato. Più ricco, più ‘bello’, a suo dire. Iniziammo a
litigare per le più piccole cose, fin quando non chiesi il divorzio. Si è
portata via pure Yuri, mio figlio. Non mi è più venuto a trovare, e non l’ho
più visto. Non lo vedo dal 1999.»
Vassili
mise una mano sulla spalla del compagno.
«Mi
dispiace, vecchio.»
La
voce di Olga iniziò a propagarsi dalla radio.
«Squadra
di ricerca, parla il sergente Olga Petrova dell’esercito ucraino dal “Punto d’osservazione
‘Polyssia’”. Aggiornateci sulla vostra posizione e la situazione. Passo.»
«Qui
Vassili Karavaev della squadra di ricerca. Abbiamo raggiunto la stazione di
Yaniv. Non li abbiamo ancora trovati. Passo.»
«“Punto
d’osservazione ‘Polyssia’” a “Posto di blocco sud-ovest”, avete qualche
aggiornamento? Passo.»
«“Punto
d’osservazione ‘Polyssia’”, parla “Posto di blocco sud-ovest”. Nessuna attività
da segnalare. Passo.»
«“Punto
d’osservazione ‘Jupiter’” alla squadra di ricerca. Se non trovate gli
obbiettivi alla stazione, continuate verso ovest lungo i binari per due
chilometri, poi svoltate verso nord non appena trovare un’intersezione con una
strada. Vi troverete a poche centinaia di metri dal “Posto di blocco sud-ovest”.»
«Grazie
a tutti. Squadra di ricerca, passo e chiudo.»
Anatoli
alzò lo sguardo.
«Andiamo.
Troviamo i nostri e torniamo a Pripyat.»
I
due proseguirono lungo i binari fino ad arrivare davanti all’edificio
principale della piccola stazione.
Anatoli uscì dalla sua Lada bianca e
girò la chiave per chiuderla.
Controllò l’orologio. Le 15:38.
Sono
in orario.
Era un caldo pomeriggio d’agosto.
Perfetto per uscire con Anna a Pripyat.
Si sistemò la camicia e i pantaloni,
dirigendosi verso l’ingresso della stazione.
«Aspettami
qui.» fece il contadino. «Non vorrei che, qualora dovessero arrivare, non ci
vedano e proseguano oltre.»
Vassili
annuì.
Anatoli
aprì l’enorme portone d’ingresso in legno, accendendo una torcia.
A quell’ora la stazione era pressoché
vuota. L’unica tratta che passava di lì era quella che collegava Chernihiv e
Ovruch, e poca gente si fermava a Yanov. Pripyat non faceva ancora così gola
alla gente del circondario, benché iniziasse a suscitare curiosità.
La
stazione, immersa nell’oscurità, era rimasta la stessa. Riconobbe le panchine dove
si sedeva ad aspettare Anna, i muri bianchi e la piccola biglietteria, dove un
tempo il compagno Nikolai gli rivolgeva sorrisi a trentadue denti vedendolo
arrivare.
Guardò il tabellone, anche se sapeva
l’orario di arrivo del treno. Le 15:43.
«Sono sempre quelli, compagno Zelenko.»
gli disse il bigliettaio, sorridendo.
Anatoli ricambiò il sorriso.
Un
rumore lo fece voltare, ma non vide nulla.
«Boris?
Irina?»
Nessuna
risposta.
Il
contadino puntò la torcia verso il tabellone degli orari. Era rimasto lì,
seppur ingiallito e sgualcito. Col dito cercò l’orario di arrivo del treno con
il quale arrivava Anna, trovandolo poco dopo.
Un rumore sordo in lontananza lo fece
voltare.
«Sta arrivando.» fece Nikolai.
Anatoli si alzò dalla panchina, vedendo
arrivare il treno poco dopo. Cerco con lo sguardo la ragazza tra i passeggeri
scesi dalle locomotive per svariati secondi.
Poi la vide. Bella, bionda, con
un’elegante gonna bianca e una camicia dello stesso colore. Anna Chernova di
Buriyakivka.
Il ragazzo sorrise, e le andò incontro,
baciandola dolcemente.
Una
lacrima rigò la guancia di Anatoli.
Perché te ne sei andata, Anna?
Un
altro rumore, in direzione della biglietteria, lo fece voltare nuovamente. Si
diresse verso finestrella della cassa.
«Boris?»
Un
urlo lacerò il silenzio.
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Capitolo 4 *** 4 ***
Primo capitolo
4
Pripyat, Ucraina.
8 Novembre 2009.
Stazione
di Yanov.
11:47.
Anatoli Zelenko, Vassili Karavaev.
L’urlo
fece sobbalzare Vassili, che si voltò.
«ANATOLI!»
Il
vecchio, che aveva sporto la testa all’interno dell’ufficio del bigliettaio,
era stato morso alla spalla, lasciando cadere l’AK-74 per il dolore. Anatoli
fece fuoco con la Makarov, uccidendo lo zombie.
«Maledizione…»
fece il contadino, guardandosi la spalla sanguinante.
Lo
sparo fece alzare una serie di ruggiti all’interno e fuori dall’edificio. Il
poliziotto gli prese il fucile d’assalto, e lo aiutò a uscire dalla stazione.
«Forza,
andiamocene!» esclamò.
«No,
Vasya! Salva i ragazzi.» rispose il contadino, strappandogli dalle mani l’arma.
«Io rallenterò questi bastardi.»
Il
poliziotto continuò a guardare impietrito il contadino.
«Anatoli...»
«ATTENTO, ALEKSEY!»
La macchina centrò la station wagon
bianca che gli aveva tagliato la strada. Nell’impatto, l’agente Aleksey
Petrovskij perse la vita. Al suo fianco, il collega Vassili Karavaev era
riuscito a cavarsela con una ferita alla testa.
Il poliziotto uscì dall’auto quasi
totalmente imbambolato. A rallentatore, attorno a sé, vide Kiev nel caos più
completo. I non morti erano arrivati.
Lo sguardo gli cadde sull’uomo
intrappolato nella station wagon, precipitandosi come meglio poté a
soccorrerlo. Aprì la portiera, e vide un uomo sui cinquantacinque anni
sanguinare anch’egli dalla testa, cosciente.
«Signore, sta bene?»
«Un aiutino non mi farebbe male, agente.»
rispose lui.
Vassili lo aiutò, e fece per tornare in
macchina, ma non appena rivolse lo sguardo verso il mezzo, vide Aleksey
trasformato.
L’agente restò come immobile. Smise di
pensare. Tutto intorno a lui si fece ovattato. Lo sguardo fisso su chi fino a
pochi minuti prima era un suo collega, e ora rappresentava la morte in vita.
Lo scossone dell’uomo lo fece tornare in
sé.
«VAI!»
Il
poliziotto si scosse, e sparò qualche colpo verso alcuni zombie che si erano
avvicinati troppo, uccidendoli. Iniziò poi a correre via, verso ovest.
Anatoli
si voltò, guardando gli zombie. Alcuni erano turisti, altri gente del posto.
Vide perfino qualcuno dei samosely
che fino a poco tempo prima aiutava al costo di essere catturato dalla
Militsiya.
«Cosa
dev’essere il destino. Una vita ad aiutare questa gente, e ora mi vogliono
mangiare vivo.» sorrise amaramente.
Cercando
di resistere come meglio poteva al dolore, iniziò a sparare.
«Hai
sentito?»
Boris
rizzò la testa, annuendo.
Delle raffiche di colpi, assieme a dei ruggiti e delle urla, interruppero la quiete. I due, senza dirsi
niente, iniziarono a correre in direzione del rumore, fin quando, mezzo minuto
dopo, videro finalmente un volto familiare.
«Vassili!»
Il
poliziotto quasi non li riconobbe, puntando la pistola contro il ragazzo.
«Non
sparare, sono io, Boris!»
L'agente era paonazzo, ansimava e aveva gli occhi spalancati. Irina
gli abbassò il braccio armato.
«Che
sta succedendo, Vassili?» chiese la ragazza.
«Non
ora, ragazzi! Di qua!»
I
tre lasciarono i binari, procedendo a passo svelto in direzione nord ovest. Un
paio di minuti dopo, raggiunsero quella che sembrava una strada asfaltata.
Nelle vicinanze, un paio di edifici probabilmente adibiti alla riparazione di
locomotive. Rimasero in ascolto per pochi secondi, sentendo soltanto silenzio.
«Mi mancherai, vecchio...» sussurrò l'agente.
«Che
succede, Vassili? Perché sei qua fuori e non a Pripyat?» proferì il ragazzo,
preoccupato dall’espressione nel volto del poliziotto.
«Anatoli…
siamo stati mandati a cercarvi, non appena abbiamo visto alzarsi del fumo.
Eravamo arrivati alla stazione di Yanov, lui ha voluto controllare all’interno…
ma uno zombie lo ha morso. È rimasto indietro per rallentarli. Non ce l’ha
fatta. Ha atteso per anni l’arrivo del treno con cui arrivava la sua ex moglie…
ora è lui ad aver preso l’ultimo treno della vita.»
Boris
portò una mano alla bocca, lasciando cadere qualche lacrima. Da
quando avevano
lasciato Stolyanka, aveva sempre visto il contadino stalker come uno
“zio adottivo”. Era stato lui ad avergli insegnato a
sparare, assieme a Vassili e nonno Yuri, e il vecchio lo aveva sempre
trattato come un figlio. O meglio, un nipote.
«Dove
sono Sergei e Svatok?» chiese poi Vassili.
Irina
abbassò lo sguardo.
«Svatok
ha passato una granata a mio padre per lanciarla addosso agli zombie, ma non
appena ha tolto la sicura, ha impattato contro il cadavere di un alce
circondata da zombie, e la bomba è caduta nell’Honker. Boris e io ci siamo
gettati immediatamente, papà non è uscito in tempo. È morto assieme a Svatok
mentre quest’ultimo si lanciava contro gli zombie con l’Honker.»
All’improvviso,
qualcuno da Pripyat li contattò.
«Squadra
di ricerca, parla il soldato Pyatov del “Checkpoint ‘Pripyat’”. Chiediamo un
aggiornamento sul vostro status, abbiamo sentito degli spari. Passo.»
Vassili
prese la radio.
«Qui
Vassili Karavaev della squadra di ricerca. Abbiamo incontrato degli zombie alla
stazione di Yanov. Anatoli Zelenko è caduto. Ho recuperato Boris Volkov e Irina
Kabakova, il soldato Svatok e Sergei Kabakov non ce l’hanno fatta. Passo.»
«Dove
vi trovate, squadra di ricerca? Passo.»
«Sembra
una zona di riparazione per le locomotive, o qualcosa del genere. Ci sono un
paio di edifici e dei garage. Passo.»
Un
fruscio attirò la loro attenzione.
«C’è
qualcosa là dietro.» fece Boris, puntando la pistola verso un cespuglio. Un’altra
voce si propagò dalla radio di Vassili.
«Squadra
di ricerca, parla il soldato Zubkov del ‘posto di blocco sud-ovest’. Abbiamo
una buona e una cattiva notizia per voi. La buona è che siete a poco più di
cinquecento metri dalla nostra posizione. La cattiva è che nella vostra zona
girano cani randagi. Ne abbiamo anche in città, ma sono amichevoli. Quelli
della Zona sono imprevedibili. Dalle nostre informazioni i cani sono immuni al
virus ma possono trasmetterlo. A meno che non abbiate cibo da dargli, non
esitate ad aprire il fuoco non appena si avvicinano troppo. Proseguite oltre
lungo la strada, e non appena incontrate delle tubature del gas, seguitele
verso ovest. Dovreste arrivare qui in circa cinque minuti. Passo e chiudo.»
Vassili
ripose la radio.
«Avete
sentito, ci siamo quasi. Proseguiamo a passo svelto e allontania...»
Dal
cespuglio indicato da Boris uscì un cane, che, non appena li vide, iniziò a
ringhiare.
«Non
sembra molto amichevole.» fece.
«Avanziamo
lentamente. Magari si spaventa e scappa.» suggerì Irina.
I
tre iniziarono a camminare facendo attenzione a non causare rumori bruschi,
puntando le loro armi verso gli edifici, dai quali proveniva il suono di una
moltitudine di zampe in movimento.
«Non
si mette bene, Vassili.»
«Zitti.»
La
ragazza stringeva Masha con la mano sinistra, puntando la Makarov ovunque
sentisse provenire rumori. Boris faceva altrettanto, mentre Vassili non
smetteva di puntare il cane, che li studiava rabbioso in lontananza, quasi come
se fosse indeciso sul da farsi.
«Più
avanti c’è uno spiazzo. Appena lo raggiungiamo, iniziamo a correre.» sussurrò
il poliziotto.
Il
randagio continuava a seguirli con lo sguardo, mano a mano che gli estranei si
avvicinavano restando a debita distanza. I tre raggiunsero lo spiazzo.
«Ce
l’abbiamo fatta.» fece Boris.
Il
suo piede urtò una radice spuntata dal cemento, che lo fece inciampare. Il cane
non ci pensò due volte, e iniziò a correre abbaiando verso di lui, venendo però
freddato da un colpo di pistola dell’agente.
«Quando
imparerai a stare zitto, Boris?» sbottò Irina, aiutandolo a rialzarsi.
Ciò
che seguì mise le ali ai piedi dei tre. Una serie di ululati, latrati, e poi
decine di cani randagi corsero fuori dagli edifici, diretti verso di loro.
«Che
cazzo c’era là dentro? Un canile?» fece Boris, iniziando a correre.
«Taci,
idiota!» urlò nuovamente la ragazza.
I
tre proseguirono la loro corsa svoltando a sinistra non appena videro delle
vecchie tubature, percorrendole parallelamente. In lontananza videro delle
figure.
«Laggiù!»
esclamò Vassili, sparando qualche colpo verso i cani.
Irina
quasi sorrise. Non le sembrava vero. Stava per esaudire il desiderio di una
vita.
Prese
confidenza, e decise di sparare anche lei dei proiettili verso gli inseguitori.
«AH!»
Una
pallottola centrò Boris alla gamba, che cadde a terra urlando dal dolore.
«ODDIO,
BORIS!»
La
ragazza tornò indietro a soccorrere il ragazzo, continuando ad aprire il fuoco
verso i cani, che si facevano sempre più vicini. Alcuni di loro, ormai a pochi
metri dai due, si preparavano ad azzannare le loro carni.
«Non
così, non adesso…» singhiozzò Irina.
Un
cane era ormai a pochi metri da loro. I due chiusero gli occhi.
BANG!
Un
colpo, e l’animale cadde a terra. Due secondi dopo, una pioggia di proiettili,
sparati da due soldati armati di RPK e AK-74, andò ad uccidere i cani, mentre
Vassili faceva rialzare Irina e aiutava Boris a rimettersi in piedi, aiutandolo
a raggiungere il posto di blocco.
«Forza,
ci siete quasi!» li incoraggiò uno dei due soldati, mentre finiva di eliminare
la minaccia.
I
tre raggiunsero una casetta di legno, dove ad attenderli c’era un terzo
militare. Appena vide la gamba di Boris sanguinare, mise mano alla radio.
«Pripyat,
parla il soldato Zubkov del ‘posto di blocco sud-ovest’. Ci serve un mezzo di
trasporto, abbiamo un ferito da arma da fuoco.» fece un terzo soldato al posto
di blocco.
«Ricevuto,
‘posto di blocco sud-ovest’. È in arrivo un Honker dall’ospedale 126. Tempo di
arrivo: cinque minuti.»
Irina
aiutò Vassili ad appoggiare il ferito a terra, stringendolo a sé.
«Perdonami,
Boris, perdonami...»
Il
ragazzo vide l’orsacchiotto di lei.
«Portava
fortuna, eh?» fece sarcastico.
Irina
rise, abbracciandolo, per poi scoppiare in un pianto liberatorio. Poco più in là,
Vassili prese la sua radio.
«Parla
Vassili Karavaev della squadra di ricerca. Siamo al “posto di blocco sud-ovest”.
Missione compiuta.»
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Capitolo 5 *** 5 ***
Primo capitolo
5
Pripyat, Ucraina.
8 Novembre 2009.
Ospedale nr. 126.
12:31.
Irina Kabakova, Vassili
Karavaev, Boris Volkov.
Irina e Vassili hanno accompagnato Boris in ospedale per
farsi togliere il proiettile.
«Fa
tanto male?»
Irina
era accanto a Boris, allettato dopo l’operazione. I medici
dell’esercito
avevano allestito un presidio medico nell’ex ospedale
principale di Pripyat, il
numero 126. Seppur in assenza di condizioni sanitarie idonee, i dottori
erano
riusciti a rimuovere il proiettile sparato da Irina e ricucire la
ferita. Fortunatamente,
il colpo non aveva reciso arterie.
«Nulla
che non possa sopportare» fece il ragazzo. «Ho
fatto lo stupido, è giusto che
ne abbia pagato le conseguenze».
«Non
dire così, Boris.» cercò di confortarlo
Irina. «Dovevo prendere la mira, e non
sparare alla cieca.»
«Già…
ormai è andata così. Guardiamo avanti.»
I
due stettero in silenzio per qualche momento.
«Quindi
ce l’abbiamo fatta» disse lui.
La
ragazza annuì.
«Quando
uscirai, ti farò vedere il mio appartamento. E potrai
sistemarti da me,
ovviamente.» aggiunse.
«Prima
però voglio visitare la città. Voglio vedere i
posti dove ho ucciso tutti quegli
ultranazionalisti russi con il capitano MacMillan… e dove ho
combattuto i
Monolith assieme ai membri della Freedom e ai Duty.»
«Calma,
stalker. Faremo una cosa alla volta.»
I
due risero, per poi fissarsi.
«Ira... c'è
qualcosa di cui vorrei parlarti.» disse Boris. «Io...»
Un dottore entrò nella
stanza.
«Signorina,
il paziente ha bisogno di riposo. E, a quanto ho capito, ne avrebbe
bisogno
anche lei, a giudicare dal viaggio che avete fatto per arrivare fin
qui» disse.
«Va
bene, me ne vado subito.» fece, alzandosi.
Irina
volse un ultimo sguardo a Boris, che sorrise amaramente, facendole
cenno di andare.
«Starò
bene.» proferì.
«Ti
aspetto a casa.» disse lei.
E lo baciò in fronte.
Irina
si guardò intorno. Lo spettacolo che aveva davanti non
avrebbe mai immaginato
di vederlo in vita sua. La città dove era nata era stata
conquistata dalla
natura, stravolgendone tutti i ricordi che aveva. Guardò
l’enorme ospedale a
pochi metri da lei. Tra quelle mura, il 16 gennaio del 1983, aveva
visto la
luce. Ora era in condizioni fatiscenti, ma l’esercito se
n’era riappropriato,
usandolo per fare sporadici controlli medici e, come nel caso di Boris,
operazioni chirurgiche, seppur in situazioni disagianti e non adatte.
Si
voltò, guardando i palazzi a poche centinaia di metri da
lei. Posti che
ricordava essere pieni di vita. Ora, guardando attraverso le finestre
rotte, le
uniche cose che percepiva erano freddo e morte. Notare la presenza di
rifugiati
ai balconi o alle finestre dei blocchi di appartamenti le ricordava
ciò che
c’era fuori dalla città, nel resto del mondo.
Pripyat,
la città morta tornata in vita.
La città zombie.
L’arrivo
di Vassili, che la stava aspettando fuori dalla struttura, interruppe
il suo
flusso di pensieri.
«Cosa
dicono i dottori?» chiese.
«Il
tempo che i punti facciano il loro dovere e sarà libero di
scorrazzare dove
vuole all’interno della città.» rispose
Vassili. «Ad eccezione del seminterrato
dell’ospedale.»
«Perché?
Ci sono i mostri dei videogiochi ai quali ha giocato?»
«Durante
un giro di perlustrazione hanno trovato degli indumenti altamente
radioattivi.
Dicono siano le divise dei pompieri che per primi sono intervenuti per
domare
l’incendio alla centrale nucleare. Inutile che ti dica che
stare nei loro
paraggi non è esattamente una botta di salute.»
Irina
accennò un sorriso.
«Olga
è all’hotel ‘Polyssia’. Ti
ricordi la strada per arrivarci?»
La
ragazza annuì, andando verso il blocco di appartamenti
davanti a loro,
iniziando a camminare in mezzo agli alberi.
«Vivevi
qua vicino?» domandò il poliziotto.
«No.
Il mio appartamento non era distante dal posto dove siamo arrivati. Era
in una
posizione strategica. Vicino a noi c’era la fabbrica dove
lavorava papà, la
piscina, una scuola elementare, il centro della città era a
circa un
chilometro…»
Il
membro della Militsiya era a dir poco sconcertato.
«Come
fai a ricordarti tutto questo?»
Lei
abbassò lo sguardo.
«Papà
mi diceva sempre di non dimenticarmi da dove venivo. “Ci
rende unici, a modo
nostro”, diceva. Mi faceva vedere di continuo i posti che
frequentava lui, dove
mi portava, dove lavorava mia madre. Così che un giorno,
quando e se saremmo
tornati, mi sarei saputa anch’io orientare
all’interno di Pripyat.»
Irina
si fermò, osservando nuovamente l’ambiente
circostante.
«Se
solo potesse vedermi in questo momento…»
Vassili
mise una mano sulla spalla della ragazza.
«Lui…
sarebbe contento di vederti sorridere.»
I
due continuarono a camminare per qualche minuto, fin quando tornarono
su una
strada asfaltata.
«Via
Kurchatov.» annunciò la ragazza. «Quello
là è il cinema
‘Prometey’» fece,
indicando un edificio sulla destra. Si voltò poi verso
sinistra, rivolgendo lo
sguardo verso un alto edificio bianco sporco. «E quello
è il posto da dove
l’allora tenente Price e il capitano MacMillan cercarono di
uccidere Imran
Zakhaev nell’inverno del 1996.»
«Ovvero?»
«L’hotel
‘Polyssia’. Ero con Boris quando ha giocato le
missioni ambientate a Pripyat su
Call Of Duty.»
A
Vassili non sfuggì lo sguardo divertito della ragazza.
«C’è
del tenero tra voi?» chiese.
Irina
non rispose.
«Irina!»
Olga
corse ad abbracciare la ragazza.
«Mi
dispiace tanto per Sergei.» disse.
«Sto
bene, Olga. Sto bene. Vorrebbe vedermi felice in questo posto, ora che
sono
tornata a casa.»
Il
sergente sorrise.
«Come
sta Boris?» chiese a Vassili, abbracciando anche lui.
«Il proiettile non ha
danneggiato sensibilmente la gamba. Guarirà
presto.» rispose l’agente.
Il
caporale Yakovenko si sporse.
«Chi
ha detto di essere tornata a casa?»
Irina
alzò la mano, sospettosa.
«Sei
un’ex cittadina di Pripyat?» continuò il
militare. La ragazza annuì.
«Nata
all’ospedale 126 di Pripyat il 16 gennaio 1983. Io e i miei
genitori abitavamo
al sesto piano del numero 10 G, interno 14, in Via dello
Sport.»
«Ho
una bella notizia per te, figliola.» le annunciò
il soldato. «Ti spetta
quell’appartamento di diritto. E di gente in Via dello Sport
non ne abbiamo
molta, quindi è altamente improbabile che qualcuno si sia
stabilito lì. Spero
per te che non sia stato razziato troppo dai liquidatori o dagli
stalker.»
A
Irina spuntò un sorriso a trentadue denti.
«Quanto
a me, invece? Sono un membro della Militsiya» fece Vassili,
esibendo il suo
tesserino.
«Militsiya?
Dovrebbe esserci la caserma, a nord-ovest della città. Non
è distante da dove
abita la ragazza, è al numero 5 di Via Lesya Ukrainka. Da
quanto dicono è stata
abbandonata solo sette anni fa, non dovrebbe essere in cattivissime
condizioni.»
«Ti
accompagno io» si offrì Irina. Vassili
ringraziò.
«Già
che ci siete, passate al Palazzo della Cultura. Vi daranno un
po’ di cibo e la
tessera per richiederlo.» aggiunse Yakovenko, congedandoli.
I
due lasciarono l’hotel, e percorsero il colonnato che
collegava l’edificio all’Energetyk.
Al suo interno, dove una
volta sorgeva il teatro, trovarono dei militari, che consegnarono loro
le
tessere per le razioni, assieme a un fornelletto per cucinare. Per
raggiungere
le loro destinazioni, i due sopravvissuti scelsero di passare per la
“via turistica”. Uscendo dal Palazzo della Cultura,
andarono a nord, ritrovandosi
pochi minuti dopo al luna park. Furono sorpresi nel trovare una giovane
madre con un bimbo in braccio
intenta a guardare la ruota panoramica.
«È
quella a cui ti riferivi ieri sera?» domandò il
poliziotto.
«L’unica
e sola» rispose la ragazza. «È quasi
diventata l’icona della città, dopo l'abbandono.
Ancora
pochi giorni, e sarei potuta salirci a fare un giro.»
«Beh,
ora puoi. Non si muoverà, ma è meglio di
niente.»
Irina
iniziò a muoversi come se fosse ipnotizzata. Ignorando le
radiazioni, che
resero quella zona di Pripyat una delle più contaminate,
avanzò verso la ruota
divorata dalla ruggine, fino a trovarsi a pochi metri da essa.
È
come se fosse tornata bambina, pensò Vassili.
La
ragazza salì in uno dei posti a sedere, e chiuse gli occhi.
Vide la
ruota partire, iniziare il suo
giro. Dall’altro lato, papà Sergei rideva e faceva
versi buffi per farla
divertire. Piano piano, salivano sempre più su, fino ad
arrivare in cima. Vide
i blocchi di appartamenti, l’ospedale, lo stadio Avanhard, la
piscina Lazurny,
il Palazzo della Cultura, Piazza Lenin, l’hotel, il fiume
Pripyat costellato di
battelli… la centrale nucleare.
La
centrale nucleare.
La
centrale nucleare.
VNIMANIYE VINIMANIYE.
Irina
riaprì gli occhi, e sospirò.
«Tutto
bene?»
Vassili
la osservava, pochi metri più a destra.
Lei
annuì, e iniziò a camminare verso
l’uscita del luna park.
«Non
penso di aver mai visto una cosa del genere.»
I
due erano entrati nella piscina Lazurny.
Vassili osservava stupefatto l’immensa piscina olimpionica
vuota, mentre Irina
si arrampicava sui trampolini.
«Papà
adorava tuffarsi da qui.» disse, una volta arrivata e
accomodatasi. «Lo
guardavo prendere il volo e finire in acqua, facendo mille schizzi, che
facevano infuriare chi nuotava nelle vicinanze o chi era fuori dalla
vasca. Era
il suo momento di libertà.»
Il
poliziotto entrò nella vasca, e camminò in lungo
e in largo al suo interno.
«Cosa
darei pur di farmi una nuotata.» sospirò.
«Quando arriverà l’estate non
potrò
nemmeno andare a nuotare sul fiume.»
«A meno che tu non voglia
radiografie gratuite.»
I due risero, e il loro eco
riempì il locale.
«Chissà
se hanno rimesso in funzione la cisterna, in qualche modo.»
si chiese la
ragazza, iniziando a scendere. «Non sarebbe male lavarci,
dopo tutto quello che
abbiamo passato.»
I
due uscirono dalla piscina per non iniziare a fantasticare troppo.
Percorsero
qualche centinaio di metri, fin quando Irina si fermò
davanti a un blocco di
appartamenti.
«Io
sono arrivata.» annunciò. «Continua fino
alla fine della strada e poi gira a
destra. La caserma dovrebbe essere sulla destra.»
Vassili
ringraziò per l’informazione, passandole la radio.
«Serve
più a te che a me.» fece. «Bentornata a
casa.»
Il
poliziotto si congedò, continuando a percorrere la via.
Irina alzò lo sguardo,
fissando un balcone al sesto piano di uno degli edifici che aveva
davanti.
«VNIMANIYE
VNIMANIYE!»
Attraversò
il portone, e fissò il vecchio ascensore rotto.
Sergei
si alzò dalla sedia e uscì dalla
finestra. Il fumo continuava ad alzarsi dalla centrale.
«VNIMANIYE
VNIMANIYE!»
Nadiya
accorse. Era stranamente
tranquilla.
«VNIMANIYE
VNIMANIYE!»
«Che
succede, Sergei?» domandò.
«Non
ne ho idea.»
Iniziò
a salire le scale di corsa, non curandosi del fatto che doveva arrivare
in cima
all’edificio.
Anche
la piccola Irina corse fuori dal
balcone. Dall'altoparlante di un blindato dell'esercito, la voce di una
donna gracchiò un messaggio pre-registrato.
«Cari
compagni!
Il Consiglio Comunale informa che, a seguito di un incidente alla
centrale
nucleare di Chernobyl, nella città di Pripyat le condizioni
dell'atmosfera
circostante si stanno rivelando nocive e con alti livelli radioattivi.
Il
Partito Comunista, i suoi funzionari e le forze armate stanno adottando
le
dovute misure. Tuttavia, al fine di garantire la totale
incolumità delle
persone, e in primo luogo dei bambini, si rende necessario evacuare
temporaneamente i cittadini nei vicini centri abitati della regione di
Kiev. A
tale scopo, oggi 27 aprile, a partire dalle ore 14, saranno inviati
autobus
sotto la supervisione della polizia e dei funzionari della
città. Si raccomanda
di portare con sé i documenti, gli effetti personali
strettamente necessari e
prodotti alimentari di prima necessità.»
Arrivò
al sesto piano col fiatone. Percorse il corridoio, fino a vedere la
targhetta
col numero 14.
«Che
cosa ha detto, papà?» domandò
innocentemente.
«Dobbiamo
andarcene, Ira.»
«Perché?»
«Tranquilla,
cucciola. Torneremo tra
qualche giorno.»
Qualche
giorno... da allora sono passati ventitré anni.
L’appartamento
era stato quasi completamente ripulito. Il tavolo, il televisore, il
divano,
gli armadi… tutto quello che c’era al momento
dell’abbandono era scomparso.
Tutto troppo contaminato per essere lasciato dov’era. Restava
solo il materasso
dei suoi genitori, assieme a una bambola di pezza, sfuggita o lasciata
di
proposito dai liquidatori.
Lasciò
la busta con le provviste a terra assieme alla Makarov e Masha, e si
distese
sul materasso. Guardò l’orsacchiotto di peluche, e
non nascose un sorriso.
Siamo
tornati.
L’atomo
le aveva tolto la casa. Gli zombie le avevano tolto i genitori. Il suo
futuro e
quello dell’umanità erano incerti.
Ma
Irina era tornata a casa. Aveva esaudito il desiderio dei suoi genitori.
E
nient’altro sembrò più importare.
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