Nome in codice: Hati di Old Fashioned (/viewuser.php?uid=934147)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 - Prima parte ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4 - Seconda parte ***
Capitolo 6: *** Capitolo 5 - Prima parte ***
Capitolo 7: *** Capitolo 5 - Seconda parte ***
Capitolo 8: *** Capitolo 6 - Prima parte ***
Capitolo 9: *** Capitolo 6 - Seconda parte ***
Capitolo 10: *** Capitolo 7 - Prima parte ***
Capitolo 11: *** Capitolo 7 - Seconda parte ***
Capitolo 12: *** Capitolo 8 - Prima parte ***
Capitolo 13: *** Capitolo 8 - Seconda parte ***
Capitolo 14: *** Capitolo 9 - Prima parte ***
Capitolo 15: *** Capitolo 9 - Seconda parte ***
Capitolo 16: *** Capitolo 10 - Prima parte ***
Capitolo 17: *** Capitolo 10 - Seconda parte ***
Capitolo 18: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 19: *** Capitolo 12 - Prima parte ***
Capitolo 20: *** Capitolo 12 - Seconda parte ***
Capitolo 21: *** Capitolo 13 ***
Capitolo 22: *** Capitolo 14 ***
Capitolo 1 *** Capitolo 1 ***
NOME
IN CODICE: HATI
Capitolo 1
La mattina era
serena e senza
vento, l'ideale per volare. L’aria conservava il freddo della
notte, ma portava già con sé un lieve profumo di fieno tagliato e
fiori selvatici. Ancora basso sull’orizzonte, il sole disegnava
ombre lunghe sui campi.
C’era un gran
silenzio, rotto
solo da un cinguettare lontano di uccelli e da un tuonare cupo, vago,
che rimbombava all’orizzonte come una minaccia di temporale. In
quella direzione una caligine sinistra sporcava il cielo terso.
Passò lento uno
stormo di oche
grigie, disposte a punta di freccia.
Il tenente von
Knobelsdorff
strinse appena gli occhi nella luce intensa dei primi raggi, si
chiuse intorno al collo il pesante cappotto di pelliccia, poi si girò
verso gli aerei della Jasta[1], otto Albatros D-III già allineati e
pronti per la prima missione della giornata. Tutt'intorno ai
velivoli, i meccanici erano impegnati negli ultimi controlli.
Spostò lo
sguardo verso la
foschia che appesantiva l’orizzonte e un lieve sorriso gli stirò
le labbra.
Una voce alle
sue spalle lo
distrasse: “Che ne dici, Max?”
Egli si girò:
stava
sopraggiungendo un suo parigrado della fanteria, a sua volta vestito
di un pesante pastrano. “Oggi si farà buona caccia,” si limitò
a rispondergli. Tornò a fissare l’orizzonte.
L’altro gli si
affiancò, emise
un sospiro e disse: “Ci dev’essere un attacco in corso.”
“Già.”
“Pensa, essere
in trincea
adesso...”
Von
Knobelsdorff rivolse al
collega uno sguardo critico. Dopo un po’ disse: “A meno di non
fare gli scritturali in qualche caserma delle retrovie, cosa che
francamente troverei piuttosto umiliante, in guerra non ci sono posti
sicuri.”
“Parli
così perché non hai mai preso parte a un assalto alla baionetta.”
L’altro alzò le
spalle. “Gli
ulani non se la passano poi tanto meglio dei fanti: durante una
carica sei esposto al piombo nemico e se cadi finisci dilaniato dagli
zoccoli dei cavalli. Nemmeno come aviatori siamo al sicuro: quando
siamo colpiti, bruciamo vivi o ci schiantiamo al suolo.” Fece una
pausa, poi in tono pacato soggiunse: “Un soldato non deve
preoccuparsi della morte, perché essa lo accompagna costantemente.
L’unica cosa cui deve pensare è servire la Patria.”
A quel punto li
raggiunsero altri
ufficiali, di armi e gradi diversi, tutti accomunati
dall'abbigliamento pesante. Uno di essi, imbacuccato in un'enorme
pelliccia fulva, indossava già la cuffia da pilota, con gli
occhialoni rialzati sulla fronte.
“Sarà pieno di
inglesi,”
considerò il nuovo arrivato, scrutando pensoso il cielo.
“Faremo buona
caccia,” ripeté
von Knobelsdorff. Detto questo raggiunse la linea degli aerei. Si
fermò accanto a un velivolo la cui fiancata era ornata dall'immagine
di un'aquila che calava sulla preda con gli artigli protesi.
Fissò
l'Albatros quasi con
affetto, quindi si guardò intorno scrutando le varie figure in
grigioverde che vi si affaccendavano intorno. A un certo punto
chiamò: “Kramer!”
Un
sottufficiale si mise
sull'attenti. “Signore?”
“Kramer, ha
niente da dirmi?”
“Nossignore, i
ragazzi hanno
revisionato il motore stanotte, le armi le ho pulite io
personalmente.”
Von
Knobelsdorff annuì. “Molto
bene. Lo sa che mi fido solo di lei.”
“Grazie,
signore.”
“Si prepari per
la messa in
moto.”
“Sissignore.”
Il tenente salì
sulla semiala
inferiore e da lì scivolò nel cockpit. Pose i piedi sulla
pedaliera, impugnò la cloche e azionò i contatti elettrici, quindi
si sporse da una parte e gridò: “Contatto!”
Il
sottufficiale, che si era
portato davanti al muso del velivolo, diede un colpo all'elica e si
fece indietro. Il motore tossì due o tre volte, quindi prese a
girare regolarmente, mentre il suo rumore si faceva man mano più
pieno e corposo.
Von
Knobelsdorff eseguì i
controlli dei comandi, quindi alzò il pollice per segnalare ai
meccanici di togliere i tacchi alle ruote. Con un sussulto lieve,
l'aereo cominciò a rullare sull'erba, prendendo man mano velocità.
Il tenente
scambiò un cenno del
capo con gli altri piloti, quindi si portò verso la pista e si fermò
in posizione di decollo. Aumentò i giri del motore, fece gli ultimi
controlli. La barra vibrava fra le sue dita, segno che l’involucro
di legno e tela in cui sedeva stava per trasformarsi in una
meravigliosa macchina volante.
Diede tutto
motore, l’aereo si
lanciò in avanti. Le lancette degli strumenti presero vita, la
cloche cominciò a opporre resistenza alla mano. L’Albatros
sobbalzò su una cunetta, rullò ancora per qualche metro, poi
s’involò. Di colpo ogni vibrazione venne meno, mentre la terra si
allontanava sempre più velocemente.
Von
Knobelsdorff emise un sospiro
di puro piacere. Piegò appena la testa all’indietro, lasciò che
il vento lo investisse in pieno, infuriandogli sul volto, minacciando
di strappargli dal collo la sciarpa di seta.
Ridusse i giri,
livellò la
quota. Si guardò intorno e localizzò immediatamente gli Albatros
della Jasta. Sorrise fra sé e sé al pensiero di quanto all'inizio
gli riuscisse difficile individuare altri aerei in volo. La prima
volta aveva dovuto scandagliare il cielo per lunghi minuti e alla
fine, con fatica, aveva scorto una specie di puntino nero che
appariva e scompariva su uno sfondo di foresta.
Sapeva di
colleghi piloti che non
avevano imparato con altrettanta prontezza a riconoscere gli aerei in
volo e non avevano fatto ritorno dalla loro prima missione di
combattimento.
Si ripromise di
mantenere sempre
desta l'attenzione: erano necessari otto abbattimenti confermati per
ottenere il Pour le Mérite[2] e non aveva nessuna intenzione di
farsi ammazzare prima.
Man mano che la
linea del fronte
si avvicinava, la quiete del mattino primaverile lasciava il posto a
un'atmosfera cupa, sinistra, greve di un'oscura minaccia. Quella che
da lungi sembrava solo una vaga caligine prendeva la forma di lente
colonne di fumo, che si levavano da profondi crateri. I campi e le
macchie di alberi lasciarono il posto a distese brulle, cosparse di
tronchi divelti.
Rami
scheletriti si tendevano
verso il cielo come artigli. Correvano sul terreno, seguendone le
ondulazioni, lunghi sbarramenti di filo spinato, anneriti da fuoco e
intemperie.
Von
Knobelsdorff inclinò appena
il velivolo, insinuando lo sguardo nel percorso di una trincea. Delle
formiche in grigioverde si agitarono al suo passaggio, qualcuno lo
salutò con ampi gesti delle braccia. Comparve addirittura una
bandiera.
Egli fece
oscillare le ali in
risposta, e quasi gli parve che dal basso provenisse una veemente
acclamazione.
Sorrise fra sé
e sé, poi fece
girare lo sguardo su tutta la volta celeste. I fanti delle trincee
sapevano sempre esattamente dove si trovava il nemico, ma un aviatore
poteva vederselo piombare addosso da ogni lato: da sopra, da sotto,
dai fianchi, da dietro...
Salì appena di
quota e si voltò
verso il sole, sollevando una mano per schermarsi gli occhi dai
raggi.
Colse
immediatamente un movimento
nel cielo terso.
D'istinto fece
segno ai suoi,
quindi cabrò e diede motore. Tolse la sicura alle mitragliatrici.
All'orizzonte,
quelli che
sembravano puntini scuri si animarono a loro volta e si dispersero in
una formazione allargata. Anch'essi salirono di quota.
“Inglesi,”
disse von
Knobelsdorff fra sé e sé.
Gli aerei si
avvicinarono,
rivelandosi due Sopwith Pup e un Triplano. Il tedesco salì ancora di
quota, subito imitato da uno dei due Pup. Virò per mantenere il
contatto visivo, l'altro virò a sua volta. Von Knobelsdorff strinse
ancora la virata, costringendo l'Albatros a mettersi quasi a
coltello, poi si raddrizzò e guizzò via con un mezzo looping. Nella
parabola discendente della figura fece partire la prima raffica, che
strappò pezzi di tela dalla semiala dell'inglese.
Questi scartò
bruscamente da una
parte, poi cabrò per tentare di sottrarsi ai proiettili, ma ormai
von Knobelsdorff gli era stabilmente in coda. Sparò altre due brevi
raffiche e l'inglese cominciò a lasciarsi dietro una scia di fumo
nero, ma in quel momento qualcosa gli colpì una semiala, creando uno
strappo nella tela che la ricopriva.
D'istinto il
tedesco derapò e
poi virò, solo per rendersi conto che aveva in coda il Sopwith
Triplano. Ringhiò un'imprecazione mentre una nuova raffica gli
faceva saltare un tirante. Si girò, aveva l'inglese ancora in coda,
capì che stava per sparare di nuovo.
Tirò la barra
tutta indietro,
l'Albatros cabrò bruscamente, andò in stallo e prese a precipitare
come un sasso, cosa che gli permise di sottrarsi alla raffica letale.
A quel punto,
von Knobelsdorff
spinse la barra tutta in avanti, lavorando con la pedaliera per
evitare che l'aereo entrasse in vite rovescia. Nonostante il ruggito
del motore, sentiva le strutture dell'Albatros vibrare e
scricchiolare. Il tirante reciso sbatacchiava qua e là come un
serpente decapitato.
In alto, sempre
più lontano,
l'inglese stava probabilmente cercando di capire se stesse
precipitando oppure se la sua fosse solo una manovra evasiva.
Il tedesco
rinsaldò la presa sui
comandi, arrestò la caduta, di nuovo diede motore e guizzò verso
l'alto, sparando dal basso contro l'avversario.
Questi incassò
la prima raffica,
sottrasse bersaglio, picchiò per prendere velocità, ma a quel punto
von Knobelsdorff riuscì a fare un mezzo looping, poi si raddrizzò
con un mezzo tonneau e si trovò esattamente di fronte all'aereo
nemico. Sul muso del Sopwith scintillavano i lampi arancioni degli
spari.
Il tedesco
strinse i denti e si
mantenne caparbiamente sulla traiettoria. Azionò a sua volta le
mitragliatrici e vide brandelli di rivestimento saltare dalle ali
dell'avversario.
Poi il Sopwith
si inclinò da una
parte, scivolò d'ala e semplicemente puntò verso il basso. Von
Knobelsdorff, che rimase a seguirlo con lo sguardo fino a che non lo
vide schiantarsi al suolo, e a quel punto poté fare solo
supposizioni: forse aveva colpito il pilota, forse aveva danneggiato
qualche comando e l'aereo non rispondeva più. Come diceva un certo
von Richthofen, un altro che come lui aveva abbandonato il cavallo
per l'aeroplano, compiere voli di guerra non era esattamente
un'assicurazione sulla vita.
Distolse lo
sguardo dalla
carcassa distrutta, virò e raggiunse i suoi.
Notò subito che
mancavano due
Albatros all'appello, quello del collega di fanteria con cui aveva
parlato prima del decollo, di un verde quasi nero con due fasce
bianche sulla fusoliera, e quello del capitano von Wassenberg,
l'unico della Jasta senza alcuna personalizzazione. Valutò fra sé e
sé che anche quella era una personalizzazione, in fin dei conti.
Gli dispiacque
per i camerati. In
particolare per il secondo, al quale mancava un solo aereo per
diventare Asso e ricevere il Pour le Mérite.
Fece ad ogni
buon conto un largo
giro scrutando il terreno, qualche volta capitava che un pilota
riuscisse a compiere un atterraggio di fortuna e ad abbandonare il
velivolo distrutto, ma scorse solo colonne di fumo. Uno spezzone
d'ala con quel che rimaneva di una croce nera parve salutarlo
mestamente.
Gli rivolse in
risposta un saluto
militare, quindi virò e si unì agli altri.
Raggiunsero
nuovamente le trincee
tedesche. Come poco prima, i soldati rivolsero loro un veemente
saluto, agitando braccia e bandiere.
Von
Knobelsdorff fece oscillare
le ali in risposta, ma a quel punto percepì nei comandi una
vibrazione, come quella che una porta sbattuta con violenza comunica
al pavimento.
Fece girare lo
sguardo
tutt'intorno alla ricerca della causa e quando vide di cosa si
trattava sentì un brivido percorrergli la schiena: dalla parte del
tirante reciso, uno dei montanti era fessurato per tutta la sua
lunghezza. Sarebbe bastata una manovra un po' più brusca del normale
e avrebbe ceduto completamente.
L'ufficiale si
chiese cosa
sarebbe successo. Niente di buono, probabilmente. Sarebbero saltati
altri tiranti, la semiala inferiore e quella superiore avrebbero
cominciato a separarsi e tutto si sarebbe concluso con un ignominioso
atterraggio fuori campo. Sempre che fosse riuscito ad atterrare
indenne, ovviamente.
Si guardò
intorno, calcolò
quanto mancava al campo. Provò ad accennare una lieve virata e nella
fessura del montante comparvero schegge di luce. Riportò l'Albatros
in assetto.
Diede motore,
ma l'aereo cominciò
a vibrare in un modo che lo convinse senz'altro a spostare nuovamente
indietro la manetta del gas.
A quel punto,
von Knobelsdorff si
chiese cosa sarebbe stato meglio fare. Posto che in aria non è mai
rimasto nessuno, ragionò fra sé e sé, la cosa più importante era
ritornare a terra in un modo che possibilmente non fosse troppo
traumatico, né per lui, né per il suo Albatros D-III.
“Ce la faremo,”
assicurò
all'aereo.
Si sporse dalla
carlinga, cercò
di indovinare se si fosse alzato il vento, e nel caso in che
direzione spirasse.
Successivamente
scrutò i
dintorni, calcolando che doveva essere a circa un chilometro dalla
pista di atterraggio.
Portò il motore
al minimo e,
mantenendo l'aereo in assetto, prese a scendere dolcemente di quota.
Ogni tanto correggeva appena la direzione con la pedaliera, ma per il
resto lasciava essenzialmente che l'Albatros facesse come voleva,
secondo l'adagio per cui un aereo volerebbe benissimo da solo, se non
ci fosse il pilota a disturbarlo continuamente.
Una seconda
vibrazione lo mise in
allerta. Si girò verso il montante: sembrava che qualcuno l'avesse
strizzato torcendolo come uno strofinaccio. La fessura si era
allargata e aveva un andamento spiraleggiante lungo il legno. Vide
qualche scheggia volare via.
Merda, pensò.
Un altro
tirante saltò come la
corda di un violino.
Il campo era
ormai a meno di
settecento metri. Vedeva già il casale che si trovava a lato della
pista, il familiare filare di alberi che delimitava un recinto per il
bestiame, il brillio dello stagno dove si andava a pescare o a
nuotare dopo l'ultima missione della giornata.
Tolse tutto il
motore, si
arrischiò a dare una tacca di flap. In un silenzio surreale, rotto
solo dal sibilo del vento, l'aereo parve per un attimo galleggiare a
mezz'aria come se fosse senza peso, poi ricominciò a scendere
lentamente. Von Knobelsdorff si sporse di lato per individuare il
segnale che indicava la testata pista. Si augurò di non aver
sbagliato i propri calcoli, perché non ci sarebbe stato un secondo
tentativo.
Ormai mancavano
trecento metri,
era così basso che quasi distingueva le foglie sulla cima degli
alberi. Il suo strano avvicinamento aveva ovviamente destato la
preoccupazione del personale di terra, e il campo era animato da un
insolito fermento.
Vide passare,
trainata da un paio
di cavalli, la cisterna d'acqua dell'antincendio.
“Alla faccia
della fiducia,”
ringhiò tra i denti.
A quel punto,
la struttura
dell'ala si aprì come una scarpa vecchia. Il montante danneggiato
cedette definitivamente, i tiranti saltarono l'uno dopo l'altro e la
semiala inferiore si torse come se una mano enorme la stesse tirando
verso il basso. Non più coperto dal motore, lo schianto del legno
che si spaccava risuonò sinistro.
L'aereo si
inclinò bruscamente,
perse ancora quota, tanto che von Knobelsdorff riuscì a distinguere
chiaramente i fiori sullo scialle di una contadina che al suo
passaggio corse al riparo.
L'ufficiale
afferrò i comandi,
tentò di riportare l'Albatros in assetto, ma già la pista si
avvicinava con vertiginosa velocità.
Vide una torma
di meccanici e
soldati correre nella sua direzione. Trainata al galoppo, la cisterna
arrancava beccheggiando.
Toccò terra una
prima volta,
capitombolò lasciandosi dietro pezzi di centine e brandelli di
rivestimento alare, rimbalzò e ricadde, poi procedette strisciando
su quel che restava della semiala danneggiata e su una ruota del
carrello.
Esaurì la sua
inerzia alcune
decine di metri dopo. Ci fu un secondo di immobilità sospesa, poi il
tenente si riscosse e subito andò alla ricerca del coltello che
teneva infilato nello stivale. Armeggiò con quello sulle cinture di
sicurezza, mentre la benzina sgocciolava sul motore rovente liberando
vapori sempre più intensi.
Raddoppiò gli
sforzi. Portava
con sé un pugnale proprio perché se l'aereo avesse preso fuoco si
sarebbe buttato per non bruciare vivo e non aveva la minima
intenzione di morire in quel modo a terra, sulla pista della sua
base.
Le cinture
cedettero, sul motore
cominciarono a danzare le prime lingue di fuoco, visibili solo come
un lieve tremolio dell'aria.
Von
Knobelsdorff si arrampicò
fuori dal cockpit, vide delle uniformi avvicinarsi, si sentì
afferrare per le braccia.
Le fiamme
divennero più vivide,
presero colore. Si udirono il crepitio del legno secco che cominciava
ad ardere e lo sfrigolio della vernice.
“Sto bene,”
mormorò
frastornato il tenente, faticando per alzarsi in piedi. “Sto bene.”
Qualcuno lo trascinava.
Accorse Kramer,
che si fece
passare il suo braccio intorno alle spalle e lo sollevò quasi di
peso. “Sto bene,” gli ripeté l'ufficiale.
“Sissignore,”
si limitò a
rispondere il meccanico. “Ora però ce ne andiamo di qui, signore.”
Il tenente
cercò di voltarsi
indietro. “L'aereo...”
“Venga,
signore.”
Von
Knobelsdorff si lasciò
condurre via.
Si ritrovò
seduto al tavolo
della mensa, qualcuno gli mise un bicchiere in mano. Da fuori
giungeva il rombo degli altri aerei della Jasta che atterravano uno
dopo l'altro.
Egli si sfilò
la cuffia e la
posò da una parte, poi portò meccanicamente il bicchiere alle
labbra, bevve un sorso e tossì. “Che cos'è?” chiese.
Entrò nel suo
campo visivo il
capitano medico. “Strana domanda da parte sua, tenente. Non
riconosce lo Schnaps?”
“Pensavo fosse
una medicina.”
“Infatti. Non
esiste medicina
migliore dello Schnaps, in certi casi,” replicò il dottore, quindi
si chinò su di lui e soggiunse: “Mi faccia dare un'occhiata a quel
taglio.”
“Eh? Che
taglio?”
Von
Knobelsdorff sollevò una
mano, poi si rese conto che indossava ancora il guanto da volo. Se lo
sfilò tenendolo fermo tra le ginocchia, poi si passò cauto le dita
sul volto. Le ritrasse sporche di sangue.
Alzò lo sguardo
sull'ufficiale
medico, che per tutta risposta ripeté: “Diamo un'occhiata,
d'accordo?”
“Va bene,”
assentì il
tenente.
In quel momento
arrivarono a
precipizio due colleghi piloti. “Dov'è von Knobelsdorff?” chiese
uno di essi concitato.
Il giovane alzò
una mano. “Qui.”
Behringer e
Hoffmeyer si
spostarono di fronte a lui. “Stai bene?” gli chiese il primo,
fissandolo come se stesse vedendo un fantasma.
Von Kobelsdorff
alzò le spalle.
“Benissimo.”
“Ma stai
sanguinando.”
“Un taglietto.
Posso volare.”
A quel punto
intervenne
Hoffmeyer: “E con cosa vuoi volare? Il tuo aereo ormai è cenere.”
Von
Knobelsdorff fece una breve
risata e rispose: “Allora vorrà dire che prenderò il tuo,
Herbert, così almeno quelle mitragliatrici abbatteranno finalmente
qualcosa.”
L'altro si
finse offeso. “Ma
senti questo,” protestò mettendosi i pugni sui fianchi, “non è
nemmeno capace di portare a terra come si deve il suo aereo e vuole
quello degli altri.” Scosse la testa. “Non se ne parla, Max. Poi
me lo rovini.”
“Almeno
proverebbe l'ebbrezza
del combattimento.”
A quel punto
intervenne il
capitano medico, che per tutta la conversazione aveva continuato a
esaminare il volto del giovane ufficiale. “Venga in infermeria,”
gli disse, “sarà necessario applicare qualche punto di sutura. Se
la sente di camminare da solo?”
“Anche sulle
mani, se vuole.”
“Mi basta che
riesca a stare
sulle sue gambe senza svenire. Non sarebbe il primo che fa lo
spavaldo finché ha il deretano su una sedia e poi crolla come un
abete tagliato appena si alza in piedi.”
“Suvvia, signor
capitano
medico, non è che un piccolo taglio.” Von Knobelsdorff si guardò
intorno alla ricerca del collega che proveniva dalla fanteria,
ricordandosi solo all'ultimo momento che l'aveva visto cadere poco
prima. Di nuovo alzò le spalle e soggiunse: “Se il povero Scheidel
fosse ancora fra noi, le potrebbe confermare che si tratta di ben
poca cosa, rispetto a quello che potrebbe accadere in trincea.”
Fece una breve pausa, quindi rivolto ai colleghi chiese: “Vogliamo
ricordare lui e von Wassenberg come si conviene, questa sera? Ho
ancora qualche bottiglia di vino del Reno.”
Gli altri
assentirono.
Una volta che
il tenente si fu
allontanato in compagnia del capitano medico, Hoffmeyer disse: “Da
non crederci.”
L'altro scosse
la testa.
“Atterrato mentre l'aereo gli si stava sfasciando sotto.”
“Per me non si
è neanche reso
conto del rischio che ha corso.”
Behringer si
voltò nella
direzione in cui il giovane collega era scomparso e disse: “Io
invece credo che l'abbia capito benissimo. Hai visto come faceva il
galletto?”
“Fa sempre
così.”
L'altro scosse
la testa. “Sai
quanto sono euforici gli uomini, in trincea, quando finisce l'assalto
e realizzano di essere ancora vivi? Tra un po' gli passa e si sentirà
più esausto che se avesse fatto dieci giorni consecutivi di
esercitazioni sul campo.”
“No, scommetto
che appena il
medico lo molla andrà a rompere le scatole al Vecchio per farsi
assegnare un altro aereo.”
Così parlando,
i due si
spostarono all'esterno. Le fiamme ormai erano state estinte e dalla
carcassa annerita dell'Albatros si levava solo uno stentato filo di
fumo. Essi fissarono pensosi il relitto. “Oggi qua, domani
chissà...” recitò Behringer.
“Parli
dell'aereo?”
“Parlo di noi.
Von Wassenberg
stava per diventare un Asso, e guarda che fine ha fatto.”
“È brutto
quando ti capita a
sette abbattimenti. Quando ne hai uno o due magari te ne fai anche
una ragione, ma così, a sette? Scommetto che se lo sentiva già al
collo, il Pour le Mérite.”
“Non si può mai
essere sicuri
di niente.”
“Stasera
berremo alla salute
sua e di Scheidel, che possano trovare la via del Walhalla e da lassù
assistere alle nostre vittorie.”
L’altro stava
per rispondere
quando individuò alcune persone che passeggiavano lente ai margini
del campo, accompagnate dal comandante della base in persona. “Che
ci fa il Vecchio con dei civili?” chiese.
Hoffmeyer
osservò a sua volta il
gruppetto, quindi ipotizzò: “Saranno i soliti mangiarane frignoni
che vengono a protestare perché il rumore degli aerei spaventa il
bestiame.” Fece una pausa, quindi soggiunse: “Dovrebbero sentire
un po’ di cannoni sparare, vedrai come comincerebbero ad apprezzare
un innocente Mercedes D IIIa.”
Behringer
aggrottò le
sopracciglia, quindi rispose: “Per me non sono francesi, e non sono
nemmeno contadini o fattori.”
I nuovi
arrivati, fra cui c’era
anche una donna all’apparenza giovane, vestivano dignitosi abiti da
città di colore scuro, decisamente inusuali in quella zona di
campagna.
Uno di essi
stava parlando con il
maggiore von Stade. L’ufficiale, le mani allacciate dietro la
schiena, annuiva di tanto in tanto sobriamente.
A un certo
punto volse lo sguardo
verso il campo e parve alla ricerca di qualcosa. Subito dopo tornò a
dedicare la sua attenzione all’uomo in stiffelius che gli camminava
accanto. Annuì altre due o tre volte, cosa che suscitò nell’altro
un analogo movimento, poi tutto il gruppo scomparve dietro la baracca
delle segnalazioni.
I due piloti si
scambiarono uno
sguardo, poi Behringer chiese: “Come ti è sembrata la ragazza?”
“Ragazza?”
chiese Hoffmeyer.
“Quella con la
sottana lunga
era una ragazza,” rispose ironico il collega. “Sei stato così
tanto lontano dai civili che non riconosci più le ragazze?”
L’altro rimase
in silenzio per
un po’, mentre il suo sguardo correva alla baracca dietro cui il
gruppetto era scomparso. “Sai che non ci ho fatto caso?” ammise
alla fine. “Se dovessi descriverla, o se dovessi descrivere uno
qualsiasi di quei tizi, non ne sarei in grado.”
Behringer
guardò a sua volta in
quella direzione, poi concluse: “Nemmeno io.” Infine, dopo una
pausa: “È strano, di solito sono molto fisionomista.”
§
Seduto alla
scrivania della
stanza che gli fungeva da ufficio, il maggiore von Stade scorse per
l'ennesima volta il foglio che il misterioso gruppetto gli aveva
lasciato. Si trattava di una carta sottilissima, quasi impalpabile,
coperta di una grafia così minuta che per leggerla ci voleva la
lente di ingrandimento.
Aggrottò le
sopracciglia
cercando nonostante tutto di distinguere qualche parola, quindi si
voltò verso il camino. Era lì dentro che il foglio sarebbe dovuto
andare a finire, una volta letto e imparato a memoria. I signori
erano stati molto chiari in proposito.
Di nuovo guardò
il leggerissimo
messaggio. Era più lieve di un velo, eppure robusto. Uno di quegli
uomini lo aveva estratto arrotolato da un cilindro di metallo che non
era più grande di un ditale, e poi l'aveva dispiegato sul sottomano
della scrivania, coprendolo quasi completamente.
Vi erano
rappresentati una mappa
muta, dati e disposizioni.
Sovrapposta a
una normale mappa
militare, la misteriosa cartina si era rivelata quella di una zona
parecchi chilometri dietro le linee francesi. Con un tenue tratto
rosso vi era segnata quella che avrebbe potuto fungere da pista
d'atterraggio per un aereo, su un pascolo ai margini di una foresta.
Era stata la
giovane donna,
secondo quanto gli avevano riferito, a identificare quel posto. Si
era travestita da infermiera francese, aveva trovato un impiego
presso un ospedale da campo e vi era rimasta per settimane,
raccogliendo ogni genere di informazioni sulla zona.
Con un sospiro,
von Stade rivolse
lo sguardo alla finestra. Sullo spiazzo davanti agli hangar i
meccanici si stavano occupando degli aerei. Ne vide uno – dalla
testa color stoppa doveva trattarsi di Piefke – arrampicato su
un'ala, che rammendava con impegno. Altri stavano estraendo un
motore, forse per revisionarlo. Ne individuò anche un paio si erano
rintanati in un angolino nascosto a fumare.
E poi vide von
Knobelsdorff –
inconfondibile anche lui – che parlava con un sottufficiale. Poteva
scommettere che il giovanotto stesse chiedendo al capo-meccanico di
trovargli un nuovo aereo. L'uomo scuoteva la testa e allargava le
braccia in un gesto di sconsolato diniego.
Il maggiore
sorrise fra sé e sé.
Tipico di von Knobelsdorff andare dritto all'obiettivo ignorando
qualsiasi altra cosa: voleva un nuovo aereo e dove andava a cercarlo?
Nell’hangar. Fogli d’ordini, disposizioni e catena degli
approvvigionamenti non erano questioni che suscitassero il suo
interesse: lui voleva volare, possibilmente abbattendo nemici, e
basta.
Scosse la testa
con una sorta di
paterna indulgenza. Poteva giurare che il capitano medico gli avesse
ordinato di stare tranquillo almeno fino al giorno successivo, ma
riuscire a tenere tranquillo l’ardimentoso giovanotto era
un’impresa a dir poco impossibile.
Abbassò lo
sguardo
sull’impalpabile documento che gli era stato consegnato, quindi lo
volse nuovamente verso la finestra. Infine chiamò: “Baumann!”
Si aprì la
porta e la testa di
uno scritturale fece capolino. “Signor maggiore?”
“Baumann, mi
mandi a chiamare
il tenente von Knobelsdorff.”
“Sissignore.”
Il giovanotto
comparve poco dopo.
Si mise sull’attenti e salutò battendo i tacchi, poi rimase a
fissarlo con aspettativa.
“Come sta,
tenente?” gli
chiese il maggiore, occhieggiando il bendaggio che gli copriva la
fronte.
“Benissimo,
signore.”
“Non sente
dolore?” s’informò
von Stade dubbioso.
“Per nulla,
signore. Sarei
pronto a decollare anche adesso, se solo ci fosse un aereo a
disposizione.”
Il maggiore
annuì, quindi gli
disse: “Decollerà quanto prima, tenente, ma non per combattere
contro i nemici della Germania.” Fece una pausa, quindi chiarì:
“Non direttamente, almeno.”
Von
Knobelsdorff aggrottò le
sopracciglia. “Che significa?” non poté fare a meno di chiedere.
“Vuole mettermi a fare i voli di collegamento? O magari a buttare
le bombe sulle trincee?”
“Tenente…”
tentò di
interloquire von Stade, ma subito l’altro riprese: “È per
l’aereo che ho distrutto? Ma non si poteva salvare, sono già stato
fortunato a portarlo a terra in quel modo.”
“Tenente…”
“Non è per
stare dietro una
scrivania che ho fatto richiesta di passare agli aeroplani. Siamo in
guerra, quindi voglio combattere.”
Il maggiore si
ripromise di
mettersi in contatto con il precedente comandante di von
Knobelsdorff, giusto per chiedergli se ci fosse qualche segreto per
tenere a bada il focoso ufficiale. In tono severo disse: “Per prima
cosa, tenente, stia zitto. Non mi pare di averle dato il permesso di
parlare.”
Il giovanotto
gli rivolse uno
sguardo torvo. “Mi scusi, signore,” brontolò.
“La seconda
cosa che le voglio
ricordare è il suo principale dovere di soldato, cioè eseguire gli
ordini, a prescindere dal fatto che i suddetti le risultino graditi.”
Ci fu qualche
secondo di
risentito silenzio, infine von Knobelsdorff rispose: “Sissignore.”
Il maggiore
annuì, quindi
proseguì: “Ora che ci siamo capiti, tenente, si avvicini e mi dica
cosa pensa di questa mappa.” Gli mostrò il foglio che i misteriosi
visitatori gli avevano lasciato.
Il giovanotto
osservò attento,
quindi sollevò su di lui uno sguardo brillante di aspettativa e gli
chiese: “Spionaggio, signore?”
Von Stade
annuì. “Precisamente.”
Von
Knobelsdorff aggrottò appena
le sopracciglia, quindi domandò: “Perché lo fa vedere a me,
signore?” L’espressione era quella del cane che aspetta l’ordine
di lanciarsi dietro la selvaggina.
“Penso che in
realtà l’abbia
già capito,” rispose il maggiore. “Mi è stato richiesto un
pilota abile e coraggioso, per compiere una missione dietro le linee.
Ho pensato a lei.”
“Grazie,
signore!”
“Sarà una
missione molto
pericolosa, tenente.”
Per tutta
risposta, il tenente
chiese: “Quando potrò partire, signore?”
[1] Sta per
Jagdstaffel. Era il
nome delle prime unità di velivoli da caccia tedesche.
[2] Anche detto
“Blauer Max”.
Si tratta di una decorazione creata da Federico il Grande. Fino alla
fine della prima guerra mondiale è stata la massima onorificenza al
valore.
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Capitolo 2 *** Capitolo 2 ***
Bella
gente,
mi
fa un gran piacere che qualcuno sia passato da queste parti a dare
un’occhiatina^^
Ringrazio
moltissimo tutti quelli che mi hanno messo in qualche lista, e
ovviamente ringrazio ancor di più chi è stato così gentile da
lasciarmi un commento.
Capitolo
2
Il
tenente von Knobelsdorff passò in rassegna per l’ennesima volta
l’arredamento della stanza in cui si trovava: una scrivania, un
orologio a pendolo, un quadro, uno schedario, un paio di sedie.
Sul
piano della scrivania c’erano dei fogli dattiloscritti, un
portapenne, una scatola di legno e un posacenere.
Sollevò
lo sguardo sull’orologio, constatando che era già passato un
quarto d’ora da quando lo avevano fatto accomodare in quello strano
ufficio. Tese l’orecchio: l’unico suono che si sentiva era il
lieve ticchettare della pendola e forse una vaga eco di voci lontane.
Si
girò verso la porta da cui era entrato, quasi aspettandosi di vedere
finalmente la maniglia abbassarsi, ma essa rimase immobile.
Emise
uno sbuffo infastidito. Non che avesse mai avuto modo di farsi
un’idea precisa sullo spionaggio, ma di sicuro non se l’era
immaginato così. Quello che vedeva gli ricordava piuttosto un
lavoro da contabile, o qualcosa del genere. Uffici, carte. Niente
che avesse a che fare con l’azione o il rischio. Per quale motivo
si erano accertati che sapesse pilotare perfettamente un aeroplano,
allora?
Aggrottò
le sopracciglia, sollevò una mano a sfiorare la medicazione che
ancora gli attraversava la fronte, poi si guardò intorno di nuovo.
Tutto era così immobile da far pensare a un edificio abbandonato. Si
chiese dove fosse la gente di cui gli pareva di sentire la voce ed
ebbe la tentazione di far sentire la propria, di voce, ben alta, in
modo da convincere chi di dovere a mostrarsi.
Passò
altro tempo.
Von
Knobelsdorff ripercorse la stanza con lo sguardo, schedario,
orologio, quadro, scrivania. Orologio, scrivania, quadro, schedario.
La porta era sempre chiusa, il silenzio sempre perfetto, a parte la
misteriosa impressione di un brusio lontano.
Si
sporse verso la scrivania, cercò di leggere i fogli che si trovavano
sul sottomano. Gli parve di distinguere il suo nome.
Di
nuovo aggrottò le sopracciglia. Allungò una mano per prenderli, ma
all’ultimo interruppe il gesto. Si alzò, aggirò la scrivania e si
piegò sul dattiloscritto: si parlava effettivamente di lui, si
prendeva in considerazione la possibilità di sacrificarlo assieme
all’aereo, se fosse stato necessario per la riuscita della
missione.
A
quel punto afferrò le carte, le scorse febbrilmente, poi di nuovo si
guardò intorno.
Una
giovane donna seduta a un tavolo ingombro di documenti chiese: “Cosa
sta facendo?”
Un
uomo alto e smilzo, dai radi capelli biondicci, vestito di scuro,
raggiunse la parete, si sollevò sulle punte dei piedi per guardare
attraverso uno spioncino e disse: “Si è alzato.”
“Alla
buon’ora. Sta toccando qualcosa?”
“Per
ora solo le carte.”
“Uhm.
È difficile rilevare le impronte digitali dalle carte. Le foto
gliele hai fatte?”
L’uomo
annuì. “Certo, come al solito. Di fronte e profilo.”
La
giovane donna si alzò e lo raggiunse. “Fammi vedere,” gli disse.
L’altro le cedette il posto e spinse verso di lei un basso
sgabello. Ella vi salì sopra con agilità, quindi scrutò a lungo
attraverso lo spioncino. Infine abbandonò l’osservazione, tornò
al tavolo e nella congerie di fogli che lo ricopriva individuò un
fascicolo. Lo estrasse e cominciò a sfogliarlo. “Sta ancora
leggendo?” chiese poi, senza sollevare gli occhi dalle carte.
L’uomo
tornò allo spioncino, scrutò e rispose: “Sta girando su e giù
come una specie di leone in gabbia. Che cosa gli hai scritto su quei
fogli?”
“Il
solito.”
“Per
me se ne va.”
“In
base a quello che c’è nel suo dossier, direi proprio che non lo
farà. Ci sfiderà, piuttosto, vorrà dimostrarci che se la missione
riuscirà, sarà solo grazie a lui.” La donna fece una pausa, poi
soggiunse: “Di sicuro prenderà a male parole la prima persona che
entrerà nella stanza.”
“Vado
io?” propose allora l’uomo. “Oppure posso mandare Andreas, se
vuoi.”
L'altra
fece una risatina e rispose: “Dimentichi che ho affrontato uomini
decisi a uccidermi, armi alla mano.”
“Vero
anche questo,” considerò l'altro.
“Cosa
vuoi che mi faccia quel bel galletto?” Senza alzarsi dal tavolo, la
donna volse lo sguardo in direzione dello spioncino e disse: “Bello
è bello, in effetti. Quasi troppo.”
“Si
fa notare,” ammise l'uomo.
“Appunto,
e nella nostra professione non farsi notare è fondamentale.”
“Però
anche il Werwolf è così.”
La
donna annuì, poi disse: “Ma il Werwolf è uno vecchio del
mestiere. Sa come scomparire in mezzo a una folla, sa come rendersi
perfettamente anonimo, anche se...” Si interruppe e alzò gli occhi
al cielo con un sospiro.
A
quel punto, nonostante l'insonorizzazione, al di là della parete
esplosero dei clamori. “C'è nessuno?” stava dicendo iroso il
giovanotto, “Si può avere udienza, in questa specie di ospedale
abbandonato, o mi sono sorbito il viaggio dalla Piccardia fino a
Berna solo per fare anticamera come un valletto?”
I
due si scambiarono un'occhiata.
“Io
sono un pilota!” si fece udire nuovamente la voce di von
Knobelsdorff, “Devo combattere contro gli aviatori nemici. Ma come
posso farlo, se mi tenete lontano dal fronte ad aspettare chissà che
cosa?”
Si
sentì il rumore della porta che si apriva.
“Quello
se ne va,” constatò l'uomo preoccupato. Gettò uno sguardo alla
donna, che invece appariva tranquillissima e anche vagamente
divertita dallo sfogo del giovanotto.
Ella
scosse la testa e rispose: “È solo offeso perché nessuno gli dà
udienza.”
L'altro
alzò le spalle. “Per me non è adatto.”
“Al
contrario,” spiegò la donna, “ha il carattere perfetto per
questa missione: uno troppo remissivo si farebbe ammazzare o prendere
prigioniero.”
“Sicura?”
“Vado
da lui. Vedrai come si ammansisce subito, quando gli racconto quello
che dovrà fare.”
Affacciato
sul corridoio, von Knobelsdorff si guardava intorno come un torello
alla ricerca di qualcosa da incornare.
Mezz'ora
ad aspettare, e quando finalmente si era deciso a dare un'occhiata
alle carte sulla scrivania aveva scoperto cosa c'era in serbo per
lui: lo consideravano una pedina sacrificabile, un marmittone di
nessuna importanza, buono solo a pilotare un velivolo che avrebbe
attirato il fuoco nemico mentre la vera operazione di spionaggio si
svolgeva altrove. Uno zimbello, in pratica.
Non
sarebbe diventato un Asso né avrebbe ricevuto il Pour le Mérite,
perché per certe cose non c'erano né gloria né riconoscimenti.
Udì
dei passi.
Si
volse in quella direzione e vide che una giovane donna gli si stava
avvicinando. Rimase perplesso: era certo che fino a un istante prima
il lungo corridoio fosse completamente deserto.
“I
miei rispetti, signorina,” la salutò comunque formale.
La
donna lo raggiunse e a quel punto von Knobelsdorff si rese conto che
era la stessa che aveva visto al campo di Douai. “Ci siamo già
incontrati,” le disse.
“Ha
buona memoria,” apprezzò lei.
Il
giovanotto mantenne il silenzio.
Ella
lo oltrepassò, raggiunse la porta dell'ufficio e propose: “Vogliamo
entrare?”
“Per
fare che cosa, signorina?” la rimbeccò lui senza muoversi, “Per
farmi spiegare l'importantissima
missione a cui dovrò prendere parte? Ho già visto di che si tratta,
grazie.”
La
donna sbatté gli occhi perplessa. “Lei non è un soldato?”
s'informò.
“Certo
che lo sono.”
“E
dunque, non è suo dovere eseguire gli ordini?”
Von
Knobelsdorff si irrigidì. In tono asciutto rispose: “Quelli dei
miei superiori, certo. A lei, signorina, obbedisco solo in qualità
di gentiluomo.”
“E
allora, come gentiluomo, mi segua, prego.”
Andò
alla scrivania, l'aggirò e vi si sedette. Prese i fogli che erano
rimasti sparsi in giro, li riordinò con calma, quindi chiese: “Che
gliene pare, tenente?”
Il
giovane ufficiale rimase in silenzio. Osservava la donna: minuta,
graziosa, di età indefinita ma giovane, forse addirittura molto
giovane. Modi autorevoli, dietro l'apparenza fragile, gesti sicuri,
nessuna esitazione nel parlare. “Qual è il suo nome?” le chiese.
Per
tutta risposta, lei gli indicò la sedia che si trovava di fronte
alla scrivania e disse: “Si accomodi, tenente.”
Il
giovane aggrottò le sopracciglia. “Non mi accomodo proprio da
nessuna parte, se non so con chi sto parlando.”
La
donna annuì grave, quindi gli rispose: “Se non le dico nulla,
tenente, è per la sicurezza della Patria che entrambi abbiamo
giurato di servire. Qualora cadesse in mani nemiche, meno
informazioni avrà e meno ne potrà rivelare.”
“Io
non rivelerei mai nulla.”
“Ne
è così sicuro?”
Di
nuovo calò un silenzio greve, rotto solo dal ticchettare della
pendola. Si udì un lieve fruscio quando la donna raccolse le carte
che erano rimaste sul sottomano e le fece scivolare in un cassetto.
Infine,
von Knobelsdorff chiese: “E lei è così sicura che io le obbedirò
come una specie di scimmia ammaestrata, se non mi dà motivi per
fidarmi di lei? Potrebbe essere chiunque, per quello che ne so, anche
una spia nemica che mi sta ingannando per convincermi a lavorare per
la sua nazione.”
“Si
deve fidare,” fu la risposta.
Senza
lasciarsi impressionare, l'ufficiale replicò: “Signorina, se il
meccanico mi dice che ha riempito serbatoio del mio aereo, io vado
comunque a controllare di persona, perché dalla presenza o meno
della benzina dipende la mia vita. È chiaro il concetto?”
Ignorò
il gesto della sua interlocutrice, che ancora una volta lo invitava a
sedersi, arretrando addirittura di un passo.
“Tenente...”
Von
Knobelsdorff scosse la testa. “È inutile, signorina. Per restare
nella metafora di prima, o mi permette di controllare personalmente
che il serbatoio sia pieno, o non decollo neppure.”
“Lei
sta creando problemi.”
“Io
faccio solo quello che ogni ufficiale che abbia un minimo di senso di
responsabilità farebbe: chi è lei? Cosa vuole da me? A che titolo?
Chi sono i suoi superiori? Che garanzie ho che lei stia servendo la
stessa Patria che servo io?”
A
quel punto, si aprì la porta alle spalle dell'ufficiale. Egli si
girò di scatto e si trovò di fronte un uomo che poteva avere fra i
trenta e i quaranta anni, anche se portati decisamente male. Era
smilzo, non tanto alto, con le spalle curve e una giacca nera un po'
lucida sui gomiti. Lo sguardo chiaro, apparentemente slavato e
scialbo, lasciava trasparire a una seconda occhiata una durezza
metallica.
“Che
succede?” chiese in tono sommesso il nuovo arrivato, e von
Knobelsdorff ebbe l'impulso di giustificarsi come avrebbe fatto con
un istruttore dell'Accademia. Rimase in silenzio, arretrando come un
cavallo riottoso. Lo fissò con diffidenza.
“Qualcosa
non va?” volle sapere l'uomo. Lo sguardo assunse una nota di
sollecitudine premurosa, a von Knobelsdorff ricordò un albergatore
alle prese con un cliente insoddisfatto della stanza.
Fu
la donna a rispondere. “Il tenente non si fida di noi, Matthesius.”
L'uomo
annuì grave. “Già, certo,” disse poi, massaggiandosi il mento
con una mano dalle dita lunghe e nervose, “l'avevo previsto.”
Sollevò lo sguardo sul tenente, quindi soggiunse: “Per lei
potremmo essere chiunque, non è vero? Anche agenti di potenze
nemiche, magari.”
“È
così,” rispose senza scomporsi il giovane ufficiale.
“L'avevo
previsto,” ripeté Matthesius, come tra sé e sé. Poi, rivolto
all'ufficiale: “Vuole seguirmi, tenente?”
Von
Knobelsdorff arretrò di un altro passo, arrivando quasi con la
schiena contro la parete. Sotto le sopracciglia aggrottate, i suoi
occhi verdi assunsero una fosforescenza felina. “Per andare dove?”
ringhiò.
L'altro
si limitò a una risatina. “Venga, Maximilian,” lo invitò poi,
“non avrà paura di un omino come me, spero.”
Il
giovanotto avrebbe voluto rispondere che con una pistola in mano
anche l'omino più insignificante del mondo avrebbe potuto diventare
mortalmente pericoloso, ma sotto lo sguardo pacato e vagamente
divertito del signor Matthesius, di colpo tutte quelle recriminazioni
gli parvero fuori luogo come le bizze di un bambino. Si limitò ad
abbandonare la parete in silenzio.
Uscirono
in fila indiana. Per primo Matthesius, rapido e agile come un
folletto, poi von Knobelsdorff. Da ultima veniva la giovane donna,
con un passo così leggero che quasi non produceva alcun rumore
sull'impiantito di assi di legno.
Il
tenente si sorprese ad ascoltare il suono dei propri passi, marziale,
appesantito dagli stivali, e a valutarlo di colpo come qualcosa di
inopportuno, fuori luogo esattamente come poco prima lo erano state
le sue proteste.
Giunsero
a una stanza in cui si trovavano diversi apparecchi telefonici e un
paio di telegrafi. Uomini in borghese, dall'aria di impiegati, erano
affaccendati intorno agli strumenti. Von Knobelsdorff udì uno di
essi condurre una conversazione telefonica in francese, annotando di
tanto in tanto appunti su un foglio. Un altro parlava con
disinvoltura in una lingua scandinava, compilando nel corso della
conversazione una scheda.
Il
ticchettio delle macchine da scrivere sembrava grandine contro i
vetri.
La
voce di Matthesius lo richiamò bruscamente alla realtà: “Venga
avanti, prego.”
I
tre entrarono nella stanza, un uomo si fece loro incontro. La giovane
donna disse: “È per quella chiamata, Franz.”
“Certo,”
rispose l'altro, quindi fece cenno di seguirlo.
Il
frastornato ufficiale fu condotto attraverso un labirinto di
scrivanie ingombre di carte e uomini che parlavano al telefono nelle
più diverse lingue. Telegrafi e macchine da scrivere funzionavano a
pieno ritmo, apparecchi squillavano un po' ovunque.
Alla
fine il gruppetto raggiunse un angolo appartato, nel quale la
confusione della stanza giungeva vagamente ovattata. Il signor
Matthesius a quel punto indicò un apparecchio telefonico posto al
centro di una scrivania. Come in risposta a quel gesto, esso cominciò
a squillare. L'uomo si voltò verso von Knobelsdorff e gli disse:
“Risponda, su.”
“Io?”
chiese il giovane perplesso.
“È
per lei.”
Il
tenente sollevò la cornetta, se la portò all'orecchio. Si piegò
verso il ricevitore e in tono esitante disse: “Pronto?”
Rispose
la voce di von Stade: “Immaginavo che mi avrebbe chiamato.”
“Cosa?”
“Sì,
mi permetta di dire che conosco i miei polli. I miei aquilotti, in
questo caso. Immaginavo sarebbe stato diffidente di fronte alle
proposte della signorina.”
Von
Knobelsdorff fece guizzare lo sguardo dalla giovane donna all'uomo di
nome Matthesius, e poi di nuovo verso la donna. “Signore, chi sono
queste persone?” chiese.
Giunse
lapidaria la risposta: “Meno cose sa, meno rischierà di
rivelarne.”
Il
giovane aggrottò le sopracciglia. “Io non rivelerei mai nulla.
Morirei, piuttosto.”
“Noto
che non è cambiato, tenente. Questo va molto bene, perché i signori
hanno cercato in tutte le Jasta, compresa la 11[1], per trovare un
carattere come il suo.”
Piccato,
von Knobelsdorff chiese: “Perché, come sarebbe il mio carattere,
signore?”
Il
maggiore fece una breve risata, quindi rispose: “Faccia quello che
le dicono i signori, tenente, sono persone della massima fiducia e
hanno bisogno di un pilota abile e coraggioso per una missione
importante.”
“Ma
signore...”
“A
presto, tenente.”
La
comunicazione si interruppe.
Von
Knobelsdorff abbassò adagio la cornetta, quindi fissò Matthesius e
la donna come se li vedesse per la prima volta.
“È
convinto adesso?” gli chiese la giovane signora.
L'ufficiale
rimase in silenzio.
§
Il
tenente von Knobelsdorff scostò appena una tendina e guardò fuori.
La campagna francese si estendeva leggermente ondulata a perdita
d'occhio. Qua e là, macchie di alberi spezzavano la monotonia del
paesaggio.
La
giovane donna, irriconoscibile in abiti da contadina, con i capelli
di un colore diverso e le guance pitturate in modo da sembrare
rubizze, seduta al tavolo della cucina stava decodificando un
messaggio. Aveva accanto a sé una casseruola, in cui avrebbe
infilato rapidamente ogni cosa se qualcuno fosse entrato
all'improvviso.
“Una
volta non riuscii a distruggere subito le mie note e fu un vero
problema,” disse, senza alzare gli occhi dal lavoro. “Dovetti
scappare a nuoto in un fiume, venni ripescata da una chiatta.”
Il
tenente, che a sua volta vestiva modesti abiti borghesi, senza
distogliere gli occhi disse: “Davvero?”
“Ero
in macchina con un ufficiale belga quando d'un tratto mi sfuggì un
foglio di appunti. Feci fermare la macchina, cercai di recuperarlo,
ma lui fu più svelto di me. Fece finta di nulla, disse che il foglio
gli era sfuggito, ma io capii che ne aveva visto il contenuto. Al
primo villaggio fermò la vettura vicino a un gruppo di gendarmi, per
consegnarmi a loro. Io approfittai del fatto che era sceso per
parlare con il comandante della pattuglia, saltai al posto di guida e
diedi gas. Purtroppo all'epoca non sapevo ancora condurre la
macchina, per cui dopo poco mi schiantai contro un albero. Saltai
giù, scappai in un bosco, raggiunsi un fiume. Mi tolsi i vestiti e
me li legai sulla schiena, quindi mi buttai in acqua e cominciai a
nuotare. Per fortuna venni ripescata da una chiatta olandese, che mi
portò in salvo.”[2]
Von
Knobelsdorff si voltò verso di lei. Non stentava a credere che il
fatto fosse accaduto realmente. Erano bastati pochi giorni a contatto
con lo spionaggio per cambiare completamente ogni sua idea in
proposito. In primo luogo, aveva scoperto che le spie erano ovunque,
chiunque poteva esserlo: un commerciante, un operaio, un sacerdote,
donne, uomini, ragazzi. Aveva sentito dire che i russi adoperavano
persino i cani, anche se non riusciva a figurarsi in che modo.
Secondariamente,
aveva notato che erano proprio le persone più insignificanti quelle
che spesso si rivelavano più pericolose. La giovane donna, che nelle
sue vesti di contadina francese si faceva chiamare Marie, sembrava
poco più di una ragazzina, eppure aveva affrontato in svariate
occasioni i soldati nemici, uscendo sempre vincitrice dagli scontri.
Si
chiese quante volte aveva avuto a che fare con spie, tedesche o
straniere, senza saperlo. Chissà, forse anche l'ostessa del bistrot
dove andavano ogni tanto alla fine della giornata di volo era una
spia. Magari fingeva di non sapere il tedesco e poi invece ascoltava
minuziosamente le conversazioni degli ufficiali e le riferiva ai suoi
superiori.
Tornò
a guardare fuori. La casa in cui l'avevano portato, ufficialmente
dimora di una famiglia di contadini, era in realtà gestita dallo
spionaggio tedesco. Tutti i suoi abitanti erano spie e si occupavano
di raccogliere e smistare la maggior parte delle informazioni che
venivano raccolte in Francia.
Il
fienile non ospitava bestie, ma apparecchi di ogni genere. Più
lontano era stato allestito quello che da fuori appariva come un
capanno per accogliere la fienagione, mentre in realtà era un hangar
nel quale si trovava l’aereo che avrebbe dovuto usare. Due uomini
stavano allestendo la pista da cui sarebbe decollato.
“Quando
partirò?” chiese, senza distogliere gli occhi dall'aia.
Alle
sue spalle, la donna rispose: “Stiamo aspettando un comunicato.”
“Da
chi?”
“Da
lui.”
Von
Knobelsodrff alzò gli occhi al cielo. “Quello che dovrò andare a
recuperare?”
“Precisamente.”
Si
girò a fissare la sua interlocutrice. “Ma lui me lo dirà, come si
chiama?”
Lei
alzò le spalle. “Ne dubito, è un agente troppo esperto.” Fece
una breve pausa, che utilizzò per piegare accuratamente il foglio
che aveva appena finito di compilare, quindi proseguì: “Del resto,
vi vedrete al massimo per un'ora, poi lei tornerà alla sua unità e
si comporterà come se tutto questo non fosse mai accaduto.”
Il
tenente stava per replicare quando entrò nella cucina un uomo che
trasportava due secchi pieni d'acqua.
Il
nuovo arrivato posò i due recipienti da una parte, poi si voltò
verso di lui e con la massima naturalezza disse: “È opportuno
salvare le apparenze, non le pare?”
“Nel
senso che dovete fingere di essere una famiglia di contadini
francesi?”
“Precisamente.
Se qualcuno stesse tenendo d'occhio questo posto, cosa vedrebbe?
Monsieur Escargot che porta in casa l'acqua per cucinare la
bouillabaisse.” Fece una risatina. “Venga,” disse poi, “andiamo
a dare un’occhiata.”
“Dove?”
“Ma
che domande: le presento il suo Bucefalo.”
Raggiunsero
quello che a prima vista sembrava un capanno di assi. Nella
costruzione, che in realtà era un allestimento provvisorio
realizzato in stoffa dipinta, si trovava un aeroplano coperto da un
telo.
Subito
interessato, il tenente si avvicinò al velivolo. “Cos'è?”
chiese.
Alle
sue spalle, l'altro rispose: “Albatros C.III.”
Von
Knobelsdorff lo percorse dapprima con lo sguardo, quindi chiese: “Si
può togliere questo lenzuolo?” Senza attendere risposta ne afferrò
un lembo e lo fece scivolare a terra. Comparve un biposto da
osservazione di un uniforme color grigio chiaro, senza marche,
emblemi o segni distintivi di alcun genere. Il tenente prese a
girargli lentamente intorno. “Velocità massima?” chiese.
“140
chilometri orari.”
“Autonomia?”
“550
chilometri.”
“Che
motore ha?”
“Mercedes-III,
raffreddato a liquido.”
Il
tenente continuava a girare intorno all'aereo. Toccò la fusoliera,
vi fece scorrere sopra la mano come avrebbe fatto con la groppa di un
cavallo. “Suppongo che un volo di prova sia fuori discussione?”
s’informò poi.
“Impossibile,
già è stato difficile farlo arrivare qui senza che nessuno se ne
accorgesse.”
“Lo
immaginavo,” replicò l'ufficiale con un’alzata di spalle, quindi
montò sull'ala e si sporse all'interno della carlinga per vedere il
quadro comandi. Si protese ad afferrare la barra e la spostò da una
parte e dall'altra, poi gettò un'occhiata alla Spandau MG08 montata
nell'abitacolo dell'osservatore e disse: “Le armi saranno cariche,
spero.”
“Ovvio.”
“La
persona che dovrò trasportare sa maneggiarle?”
Con
una risatina, l’uomo rispose: “Meglio di quanto lei sappia
maneggiare quella che le ha fornito madre natura, tenente.”
Una
volta completata l’ispezione del velivolo, l’ufficiale tornò in
casa e salì al piano superiore. Andò nella camera che gli era stata
assegnata, dispiegò sul letto una carta della zona e vi sovrappose
la sottilissima mappa che a suo tempo i signori dello spionaggio
avevano consegnato al maggiore von Stade.
La
studiò in silenzio per un po', quindi recuperò bussola, compasso e
regolo e cominciò a tracciare la rotta per la navigazione.
A
livello tecnico era tutto così semplice che persino un pilota con
venti ore di volo avrebbe potuto portare a termine la missione con
facilità.
Riguardò
la mappa. Forse non proprio venti, dal momento che avrebbe dovuto
atterrare su un campo sconosciuto e non preparato. Niente di
preoccupante, comunque, se paragonato alla più innocua delle
missioni di guerra.
Lavorò
un po’ sulla navigazione – decisamente semplice, praticamente una
linea retta – poi abbandonò sul letto gli strumenti e si alzò in
piedi. Fece qualche passo nella stanza.
Nonostante
tutto, c’era qualcosa che non gli quadrava. Erano proprio le cose
più semplici, del resto, quelle che nascondevano i rischi maggiori.
Il
primo elemento che lo lasciava perplesso, ad esempio, era proprio
l'uso dell'aereo. La donna era stata più volte dietro le linee
nemiche, eppure non aveva mai fatto ritorno a bordo di un
apparecchio.
Addentrarsi
per chilometri nella zona controllata dai francesi era ovviamente un
rischio, così come lo era attraversare la linea del fronte. C'erano
zone tranquille, chiaramente, anche zone così tranquille che quasi
non sembrava esserci nemmeno la guerra, ma la guerra comunque c'era,
e di certo era molto più difficile nascondere un aeroplano in volo
che una persona a piedi. Di nuovo ripensò a quello che la giovane
donna gli aveva raccontato: era fuggita in mille modi dal territorio
nemico, una volta addirittura in treno come una viaggiatrice
qualsiasi, e non era mai stata scoperta.
Perché
quindi organizzare un volo? La risposta più logica era una: avevano
bisogno di fare più in fretta possibile, e niente era veloce come un
aeroplano.
Guardò
verso la porta, e attraverso essa fissò le scale che conducevano al
piano inferiore. Di certo non avrebbe avuto alcun senso scendere di
nuovo in cucina e chiedere spiegazioni alla donna. Come a ogni sua
domanda, la risposta sarebbe stata che meno sapeva, meno avrebbe
eventualmente rivelato al nemico.
Ma
se potevano evitare di dargli informazioni, di certo non gli potevano
togliere la facoltà di ragionare. Perché era necessario fare in
fretta? Perché sicuramente quel tizio aveva con sé qualcosa di
molto importante, qualcosa che era opportuno far arrivare al quartier
generale dello spionaggio tedesco il prima possibile, al fine di
evitare che i nemici tentassero di riprenderselo indietro.
Come
la Germania aveva agenti segreti, del resto, poteva immaginare che li
avessero anche le altre nazioni, e se quell'individuo era giunto in
possesso di qualcosa che aveva tutta quella rilevanza ai fini della
condotta bellica, di certo spie abili quanto o forse più di lui
erano sulle sue tracce.
Con
uno sbuffo di impazienza abbandonò la navigazione e volse lo sguardo
fuori dalla finestra. Il cielo era terso, le fronde immobili facevano
capire che non c'era un filo di vento. Ripensò agli altri piloti
della sua Jasta, si chiese cosa stessero facendo. Volavano,
probabilmente, e ottenevano vittorie. Di certo anche Hoffmeyer ormai
doveva aver acquisito i fatidici otto abbattimenti.
Volse
nuovamente lo sguardo al cielo: una volta tornato alla sua unità,
sarebbe stato l'unico senza alcuna decorazione al valore, se non
quelle che si era guadagnato come ufficiale degli ulani. Si chiese se
il servizio che stava per svolgere sarebbe stato premiato con qualche
riconoscimento, ma era quasi certo che l'oscuro compito sarebbe stato
premiato unicamente con l'oblio.
In
ogni caso, concluse, non valeva la pena di stare a ragionarci troppo
sopra. Le decorazioni se le sarebbe guadagnate una volta rimesse le
mani sui comandi di un Albatros D-III, e i problemi della missione
dietro le linee li avrebbe affrontati – e di certo risolti –
qualora si fossero presentati. In fin dei conti si trattava solo di
pilotare un aereo, atterrare, recuperare una persona e tornare
indietro: l'aveva fatto decine di volte, l'avrebbe saputo fare
praticamente a occhi chiusi.
E
la gentile donzella dabbasso, che faceva tanto la misteriosa con le
sue missioni dietro le linee, avrebbe presto imparato chi era
Maximilian von Knobelsdorff.
§
La
volta celeste era di un azzurro cupo, ancora punteggiato qua e là
delle ultime stelle. Sulla linea dell'orizzonte, a est, il sorgere
del sole si annunciava con un baluginare dorato.
Il
tenente von Knobelsdorff si chiuse intorno al collo il pesante
pastrano di pelliccia. Sotto l'ampio indumento non gli avevano
permesso di indossare l'uniforme, ed egli, che da tempo non portava
altri abiti che la sua divisa, si era risolto a mettere un completo
come quelli che aveva nelle battute di caccia al cervo, di loden
verde scuro con i bottoni di corno. Sorrise fra sé e sé: se
qualcuno l'avesse abbattuto, cos'avrebbe potuto pensare? Che era così
eccentrico da andare a caccia con l'aeroplano?
Si
girò verso Levante e strinse appena gli occhi: il disco solare stava
comparendo, le ombre lunghe dell'alba si disegnavano sui campi. Anche
l'aereo, investito da quei primi raggi, da grigio che era diventava
d'oro e ambra.
Con
un gesto quasi automatico, il tenente gli fece scorrere una mano
sulla fusoliera, quindi batté due colpetti affettuosi.
“Non
è un cavallo,” si fece udire la voce della donna.
Il
tenente alzò le spalle. “Abitudine.”
“È
preoccupato?”
A
quel punto, von Knobelsdorff si voltò a fissarla: la cosiddetta
Marie portava uno scialle stretto fin sotto il mento. Era così
minuta che gli arrivava a malapena alla spalla e le si sarebbero dati
a esagerare vent'anni, forse anche meno. Come avrebbe potuto
rispondere che era preoccupato, quando quella ragazza, così piccola
e fragile, aveva compiuto innumerevoli missioni dietro le linee?
“Per
nulla,” rispose disinvolto.
“Il
segno di riconoscimento le è chiaro?”
“Tutto
chiaro.”
“Ha
con sé documenti o oggetti che possano identificarla come ufficiale
tedesco?”
“No.”
“Ha
controllato bene? A volte anche solo un biglietto del teatro o una
fotografia sono sufficienti.”
Von
Knobelsdorff emise un sospiro infastidito, quindi in tono tagliente
replicò: “Signora, non sarò una spia, ma non sono nemmeno una
testa di legno. Se lei mi dà istruzioni, io mi attengo a esse.”
La
donna non disse nulla. Era evidente dal suo sguardo che avrebbe
preferito controllare di persona ogni suo indumento, e non certo per
motivi di interesse personale, tuttavia si limitò a uno scarno:
“Spero per lei che sia vero.”
Gli
girò le spalle e rientrò in casa.
Il
tenente la seguì per un istante con lo sguardo, poi tornò a
dedicare le sue attenzioni all'aereo: era una bella macchina, con
l'aria di essere appena uscita dalla fabbrica. La vernice era ancora
lucida in alcuni punti, la tela tesa alla perfezione. Con il muso
proteso verso l'alto, sembrava letteralmente invocare aria e cielo.
“Ci divertiremo,” gli assicurò il tenente. Spostò poi lo
sguardo sugli uomini che se ne stavano occupando: gente che
chiaramente sapeva dove mettere le mani. Si chiese se avessero
prelevato anche loro da qualche Jasta o se si trattasse di gente che
si occupava di aeroplani già prima della guerra.
Incrociò
lo sguardo di uno di essi. “Un bell'apparecchio, non è vero?”
gli disse, battendo di nuovo la mano sulla fusoliera dell'Albatros
C-III.
L'uomo
annuì. “Sissignore.”
Sotto
lo sguardo attento del meccanico, il tenente salì sulla semiala, di
nuovo si sporse sulla carlinga, poi scese e andò a controllare che
il serbatoio fosse pieno di benzina. Infine disse: “Beh, penso che
sia ora di partire. Stia pronto a dare il giro all'elica.”
“Sissignore.”
Von
Knobelsdorff si calò nello stretto abitacolo, si sistemò la carta
sulla coscia, fissandola in modo che il vento non la portasse via,
quindi cominciò i controlli pre-volo.
Completata
la procedura, diede il contatto e urlò: “Contatto!”
Il
motore partì e andò a regime con un rombo cupo, che gli faceva
vibrare la gabbia toracica. Alzò la mano e fece segno di togliere i
tacchi da sotto le ruote. L'aereo cominciò a rullare lentamente.
Von
Knobelsdorff socchiuse gli occhi e cercò di cogliere l'essenza della
nuova macchina attraverso le vibrazioni che il movimento gli
trasmetteva, esattamente come avrebbe fatto con un cavallo mai
montato prima.
Diede
un po' di motore. L'aereo aumentò la velocità di rullaggio, le
vibrazioni si fecero più intense. Portò la manetta tutta in avanti,
l'aereo cominciò a divorare il prato nella corsa di decollo, il
tenente incollò gli occhi agli strumenti, che stavano prendendo vita
insieme all'aereo. Alla velocità giusta tirò indietro la barra ed
esso si staccò dolcemente da terra.
Il
tenente gli lasciò prendere quota, intervenendo al minimo sui
comandi. L'Albatros C-III saliva docile, senza scossoni, senza
tentativi di ribellione. Pensò che se si fosse trattato di un
cavallo sarebbe stato un bel castrone robusto, di quelli in sella ai
quali si può affrontare un'intera giornata di caccia, forse lenti,
ma più comodi di una poltrona.
Abbozzò
una virata e l'aereo reagì come previsto, con un movimento calmo,
sicuro, senza scosse.
A
quel punto, von Knobelsdorff abbassò lo sguardo sulla cartina, poi
inclinò l'aereo e si sporse di lato alla ricerca del primo dei punti
di riferimento con cui aveva contrassegnato la navigazione.
A
terra, la donna si pose la mano di taglio sulla fronte per schermare
gli occhi dalla luce nitida dell'alba. Fissò l'aereo, che ormai era
un puntino all'orizzonte, poi emise un sospiro e disse: “Speriamo.”
Al
suo fianco, l'uomo che le faceva da aiutante chiese: “Non ti fidi?”
“È
una testa calda, vorrà fare a modo suo.”
L'altro
alzò le spalle. “Non credo che con il Werwolf potrà permettersi
tante alzate di testa.”
“Sai
com'è fatto il Werwolf,” fu la replica.
“Non
penso che si lascerà distrarre,” disse l'uomo, rivolgendo uno
sguardo distratto alla gente che si dava da fare per cancellare ogni
segno del decollo, “anche per lui la missione viene prima di
tutto.”
[1]
La Jasta 11 era quella di von Richthofen
[2]
Questa vicenda di Annemarie Lesser (celeberrima spia tedesca, nota
come “Mademoiselle Docteur”) è storicamente documentata.
|
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Capitolo 3 *** Capitolo 3 ***
Gente mia, ecco l’aggiornamento
della vicenda. Come sempre grazie a tutti coloro che sono passati da
queste parti. Un ringraziamento particolare va ovviamente a chi mi ha
anche lasciato il suo parere.
Capitolo
3
La
linea del fronte si annunciò in lontananza come un ribollire di fumi
scuri, punteggiato qua e là dai bagliori gialli delle esplosioni.
Von
Knobelsdorff vi si avvicinò cauto, scrutando il cielo alla ricerca
di aerei nemici, ma nessuno arrivò a sfidarlo. Guardò in basso e
vide un frenetico formicolare di uomini fra le trincee.
Aggrottò
perplesso le sopracciglia, chiedendosi se il potere del signor
Matthesius arrivasse anche a ordinare un assalto di fanteria per
distogliere l’attenzione del nemico dal suo aereo.
Come
sempre, rinunciò ad addentrarsi in quei ragionamenti. Più aveva a
che fare con lo spionaggio, del resto, più si rendeva conto che esso
era come un’idra dalle innumerevoli teste, delle quali però la
maggior parte erano perfettamente invisibili, oppure apparivano come
tutt’altro.
Salì
appena di quota, non rinunciando comunque a sondare i dintorni. Se le
misteriose vie dello spionaggio gli erano perlopiù ignote, conosceva
invece molto bene quelle dei piloti e sapeva che nessun aviatore
degno di questo nome si sarebbe lasciato sfuggire la possibilità di
una facile vittoria.
Perché
in effetti il suo placido castrone sarebbe stato tutt’altro che un
avversario impegnativo, ma avrebbe comunque rappresentato un
abbattimento, e dopo un certo numero di abbattimenti si diventava
Assi.
Aerei
però non ce n’erano da nessuna parte, e di certo a terra avevano
ben altre preoccupazioni che seguire il suo tranquillo volo.
Quando
si lasciò alle spalle le trincee, lo invase una strana sensazione
d’irrealtà. Era in territorio nemico, il quale non differiva in
nulla rispetto a quello che aveva appena lasciato, se non per un
piccolissimo particolare: se fosse atterrato lì e l’avessero
scoperto, sarebbe stato preso prigioniero, processato come spia,
forse addirittura ucciso.
Alzò
le spalle con noncuranza, con ragionamenti del genere non sarebbe
andato da nessuna parte. Aveva una missione da compiere, e se
l’avesse svolta nel modo migliore – cosa che di certo non si
presentava difficile – entro pochi giorni sarebbe tornato alla
Jasta, a litigare con Behringer e Hoffmeyer su chi avesse più
abbattimenti.
Pensò
ai suoi camerati e una sferzata di nostalgia lo invase. Si chiese se
fossero ancora vivi. Non era così scontato esserlo, in effetti, per
dei piloti da caccia.
Meccanicamente
fece scorrere lo sguardo sugli strumenti, regolò qualche parametro.
Osservò la mappa, quindi si sporse appena per controllare che la
navigazione stesse procedendo in modo corretto.
Vide
solo campi, una lunga strada bianca, rare macchie d’alberi. Di
quando in quando coglieva i tetti, rossi o color paglia, di qualche
masseria. Si chiese se in giro ci fosse qualcuno in grado di
accorgersi del suo aereo.
Virò
appena seguendo le indicazioni della bussola, poi di nuovo guardò
fuori. Individuò all’orizzonte, nitide contro il cielo chiaro del
primo mattino, le sagome di tre mulini a vento dalle pale immobili.
Abbassò
lo sguardo sulla cartina: teoricamente la sua navigazione avrebbe
dovuto terminare davanti alle imponenti strutture. C'era un grande
prato, in effetti, forse un pascolo, che sembrava creato apposta per
far atterrare gli aeroplani.
Fece
un giro tutt'intorno. Al suo passaggio, un paio di bovini si
allontanarono indolenti, uno stormo di uccelli si alzò in volo. Un
lontano luccichio d'acqua baluginò per un attimo tra le fronde.
Nessun
segno di riconoscimento.
Il
tenente fece un secondo giro, rievocò le istruzioni che la donna gli
aveva fatto imparare a memoria: un fumogeno bianco alle sette
precise.
Le
sette erano passate e di fumogeni non v'era l'ombra.
Anche
in quel caso, le istruzioni erano precise: la missione era da
considerarsi come fallita. Avrebbe dovuto invertire la rotta e
rientrare, senza la preziosa spia e senza le ben più preziose
informazioni di cui essa era in possesso.
Sarebbe
rimasto noto come colui che aveva fallito la missione. Un giovane
pilota ardimentoso, pieno d'amore di Patria, ma fondamentalmente
incapace.
Strinse
le labbra e virò per compiere un terzo giro. Le mucche ormai
dovevano essersi abituate al ronzio del suo apparecchio, perché
nessuna di esse si spostò. Scese addirittura di quota, scrutando
ansiosamente i dintorni alla ricerca di qualsiasi cosa si discostasse
dall'ordinario.
Possibile
che una spia così efficiente, un individuo che persino la donna
qualificava come abilissimo e scaltro, mancasse l'appuntamento con
quella che letteralmente rappresentava la salvezza sua e della
Germania?
Poi
colse ai margini di una macchia d'alberi un esile filo di fumo e il
cuore gli balzò nel petto. Invertì la rotta, scese ancora di quota.
Non era certo un fumogeno, più che altro sembrava un focherello di
sterpi, ma qualcosa gli diceva che non sarebbe stato opportuno
ignorarlo.
“Alla
peggio decollerò di nuovo,” disse a mezza voce, quindi ridusse
motore e diede la prima tacca di flap.
L'aereo
prese ad abbassarsi dolcemente. Von Knobelsdorff intanto si guardava
intorno, alla ricerca di buche o altri ostacoli che potessero
danneggiargli il carrello, ma il prato pareva un'unica, uniforme
distesa di erba vellutata.
Diede
un'altra tacca di flap, tolse ancora motore, portando i giri al
minimo. Per qualche istante l'aereo parve letteralmente galleggiare a
mezz'aria, poi un sobbalzo morbido fece capire all'ufficiale che
aveva toccato terra. Frenò dolcemente fino ad arrestarsi, poi subito
fece girare il velivolo su se stesso, per essere pronto a decollare
in qualsiasi momento.
A
quel punto si guardò intorno, ma anche il fumo che aveva visto
dall'alto sembrava scomparso. Si slacciò le cinture di sicurezza, si
sollevò a metà dal seggiolino, ma il nuovo punto d'osservazione non
gli diede ulteriori elementi d'interesse.
Strinse
le labbra contrariato. Che fare?
Poi
una vibrazione improvvisa lo fece letteralmente sobbalzare. Si girò
per scoprirne la provenienza e vide un uomo – un contadino, a
giudicare dall’aspetto – che si stava infilando nell'abitacolo
posteriore.
“Chi
è lei?” sbottò, alzando la voce per coprire il rumore del motore.
“Andiamo,”
disse l'altro per tutta risposta.
Von
Knobelsdorff non si mosse. “Chi è lei?” ripeté perentorio,
“Cosa fa sul mio
aereo?”
Lo
sconosciuto, che si stava già allacciando le cinture di sicurezza,
abbandonò le cinghie con un sospiro e disse: “Si muova.”
“Neanche
per sogno, se non so chi è lei.”
Il
nuovo arrivato alzò gli occhi al cielo. “Si muova, per favore.”
Von
Knobelsdorff aggrottò le sopracciglia e ringhiò: “Si qualifichi,
prima. Lei potrebbe essere chiunque, per quanto mi riguarda.”
A
quelle parole, l'uomo estrasse una pistola e gliela puntò contro.
“Potrei ucciderla, se volessi,” disse lentamente, fissandolo con
occhi che ardevano di un bagliore gelido da belva.
Von
Knobelsdorff rimase immobile, rivolgendogli a sua volta uno sguardo
feroce. “E poi chi lo fa volare, questo?” lo sfidò.
Lo
sconosciuto si limitò ad alzare gli occhi al cielo. “Spionaggio,
Matthesius. Le dicono qualcosa queste parole, o no?” Poi, senza
attendere risposta, concluse: “E ora si sbrighi, mi stanno alle
costole.”
“Di
chi sta parlando?”
“Degli
inglesi, ovviamente, stupido ragazzetto fastidioso.”
Von
Knobelsdorff aprì la bocca per dire al misterioso individuo quel che
pensava di lui, ma in quel momento apparvero nel cielo terso due
sagome fin troppo familiari. Senza più prestare attenzione all’uomo,
si sedette e si strinse al massimo le cinghie di sicurezza, poi diede
tutto motore e l’Albatros cominciò la corsa di decollo.
Le
sagome andavano ingrandendosi, e man mano le loro forme indistinte
mutavano in quelle minacciose di un biplano e un triplano.
Merda,
pensò von Knobelsdorff, calcolandone mentalmente la distanza.
L’Albatros frattanto saliva, lento e regolare. Il suo movimento era
vigoroso ma senza scatti, tranquillo. Ricordava la forza pacifica di
un cavallo da tiro.
Il
suo unico vantaggio era che aveva due mitragliatrici, una in caccia e
una posteriore. Posto che il tizio sapesse usare quella posteriore,
ovviamente.
Si
girò rapido e lo vide pronto, già imbragato e con l’arma
imbracciata. Lo sguardo acuto con cui scrutava il cielo era quello di
un rapace in cerca di preda.
Non
ebbe tempo di ragionare oltre sulla faccenda: già il biplano, un
Sopwith Pup, si stava avvicinando per prenderlo di coda.
Von
Knobelsdorff virò per mantenere il contatto visivo e intanto si
chiese cosa fare: due contro uno, praticamente in decollo, ai comandi
di un aereo che conosceva solo da un’ora scarsa. Fece partire la
prima raffica, che costrinse il Pup a scartare bruscamente. Tolse i
flap, poi cercò di guadagnare quota, ma subito il triplano si mosse
per intercettarlo. Sentì l’Albatros vibrare, vide l’avversario
schizzare via.
I
due, però, erano tutt'altro che disposti a lasciarli andare.
Avrebbe
voluto girarsi verso il suo misterioso passeggero, ma farlo avrebbe
significato perdere il contatto visivo con gli avversari, e di
conseguenza avrebbe significato permettere loro di metterglisi in
coda.
Da
come tenevano in mano i comandi non erano certo due sprovveduti, e il
fatto che fossero comparsi letteralmente dal nulla per attaccare un
aereo senza marche e senza distintivi faceva intuire che sapessero
anche perfettamente chi c'era a bordo.
Cercò
di salire ancora di quota. Il motore ormai fuori giri ululava, le pur
robuste strutture portanti vibravano. Il Pup salì invece con la
disinvoltura di un rondone, quindi con un mezzo tonneau si preparò a
piombargli addosso dall'alto. Von Knobelsdorff picchiò prima che
l'altro potesse mettere in atto la manovra, puntò in direzione del
triplano, sparò un paio di raffiche. Di nuovo sentì la vibrazione
della mitragliatrice posteriore, colse con la coda dell'occhio il
biplano che si allontanava.
Il
Pup guizzò subito dopo nell'aria, si preparò a un nuovo attacco. Il
triplano azionò le mitragliatrici. Il tenente tentò una manovra
evasiva, ma il placido ricognitore non era nemmeno lontanamente agile
come il suo caccia. Strinse i denti, virò per fronteggiare il
biplano, ma pur concentrato su di esso, vedeva il Sopwith Triplane
avvicinarsi inesorabile. Sul muso del velivolo brillavano ritmici i
lampi arancioni degli spari. Saltò un tirante di una semiala, pezzi
del rivestimento volarono via come petali da un fiore ormai sfatto.
Il
tenente diede di nuovo tutto motore, si tirò la barra alla pancia
per far cabrare l'Albatros, impostò una virata e si trovò col
fianco del triplano nel mirino. Piantò la mano sul comando della
mitragliatrice, un'ala del Sopwith saltò, la fusoliera parve
letteralmente disintegrarsi sotto la gragnuola di colpi. L'aereo
puntò il muso verso il basso.
Von
Knobelsdorff virò alla ricerca del biplano, ma in quel momento
qualcosa colpì l'Alabatros come un colpo di maglio. L'elica si
inchiodò, dal motore prese a uscire un fumo denso e nero.
Il
tenente cercò di mantenere il velivolo in assetto. Al rombo del
motore si era sostituita una cacofonia di fischi, sibili e
scricchiolii, punteggiata di tanto in tanto dallo schiocco di
strutture che saltavano, incapaci di tollerare lo sforzo della
caduta.
“Stiamo
precipitando!” udì alle sue spalle.
Non
rispose nemmeno. Il Pup stava seguendo la loro traiettoria, di tanto
in tanto tra le folate scure lo vedeva guizzare.
Si
guardò intorno alla ricerca di uno spazio che permettesse
l'atterraggio, ma il fumo che ormai lo avvolgeva gli rendeva
difficile analizzare il terreno.
Chiuse
il serbatoio della benzina, agì sui flap per cercare di recuperare
un assetto che permettesse di toccare terra in relativa sicurezza. Il
suolo si avvicinava con spaventosa rapidità, si sentiva il Sopwith
Pup ronzare intorno come una specie di insetto molesto.
Poi
un ramo si agganciò al carrello, l'Albatros capitombolò in avanti,
rimbalzò in un'esplosione di frasche, si avvitò su se stesso e con
schianti e gemiti di legno spaccato piombò nella macchia.
La
caduta fu parzialmente attutita dalla vegetazione, ma l'atterraggio
fu comunque duro. Von Knobelsdorff sentì le cinghie di sicurezza
mordergli le spalle. Batté la testa da qualche parte, curiosamente
senza sentire alcun dolore. Dopo i frenetici cambi di prospettiva
della caduta, trovare finalmente un orizzonte fermo gli diede
qualcosa che somigliava a una vaga sensazione di sicurezza. “Bene,”
mormorò.
Una
mano sulla spalla lo fece sussultare. “È ferito?” chiese una
voce.
Il
tenente scrollò la testa, poi rispose: “Non lo so.”
“Riesce
a stare in piedi?” La voce aveva un tono di urgenza autoritaria che
gli fece storcere il naso. “Non lo so,” ripeté.
Nel
suo campo visivo comparve lo sconosciuto. “Beh, se ne accerti,”
disse questi ruvido, “dobbiamo scappare.”
Come
a sottolineare l'impellenza di quell'affermazione, si udì il rombo
di un aereo a bassa quota. Una mitragliatrice crepitò e dall'alto
piovvero fogliame e rami spezzati.
Von
Knobelsdorff si sentì afferrare per una spalla e trascinare in
avanti. Scese malamente dal relitto, incespicando sulle strutture
semidistrutte dell'aereo. L'uomo lo sospinse di nuovo, con urgenza.
“Si muova,” gli disse poi, “sta per fare un altro passaggio.”
Il
tenente cominciò a correre. Il bosco era un susseguirsi di tronchi
dritti e scuri, avvolti da quello che rimaneva di una lieve nebbia.
Per terra vi erano felci e arbusti, qualche rovo che si avvinghiava
ai vestiti. Pietre coperte di muschio gli rendevano i passi malfermi.
Corsero
per un tempo che al tenente parve infinito. Il rombo dell'aereo era
sparito, gli unici rumori che si udivano erano ormai il frusciare
della vegetazione e il tonfare ritmico dei passi.
I
pesanti indumenti di volo ancora addosso, il giovane ufficiale
sentiva i rivoli di sudore scorrergli lungo la schiena.
“Dove
stiamo andando?” ansò.
“Ho
un nascondiglio.”
Von
Knobelsdorff rinunciò a rispondere. Non era improbabile in effetti
che li stessero cercando, o meglio che volessero recuperare a tutti i
costi gli importanti segreti militari che la famigerata spia tedesca
aveva trafugato. Se avevano scomodato addirittura due aerei per
intercettarli, poteva immaginare che un tratto di bosco non avrebbe
rappresentato una barriera in grado di tenerli lontani a lungo.
Chiunque essi fossero, naturalmente.
Raggiunsero
delle rovine, ormai così coperte d’edera e vitalba da risultare
quasi invisibili. L’uomo rallentò, prese a girare intorno al
rudere come alla ricerca di qualcosa. Infine disse: “Qui.” Scostò
una tenda di rampicanti, rivelando quello che rimaneva di una porta.
Fece
cenno al tenente di seguirlo, e quando furono entrambi all’interno,
fece ricadere con attenzione l’edera che aveva smosso, riportandola
alla posizione originaria.
Si
incamminò poi attraverso un androne la cui volta era crollata. Qua e
là spuntavano dal pavimento giovani tronchi, i rampicanti
serpeggiavano ovunque. A ben guardare, nelle zone più nascoste si
notava ancora qualche porzione ormai sbiadita di antiche pitture.
“Che
posto è questo?” chiese von Knobelsdorff, abbassando
istintivamente la voce di fronte alla solennità misteriosa del
luogo.
“Ci
fermeremo il minimo indispensabile,” disse l’altro per tutta
risposta, dirigendosi con sicurezza a una scala che portava verso il
basso, “dobbiamo riprendere fiato e fare il punto della
situazione.”
Il
tenente si irrigidì appena mentre l’antica diffidenza tornava a
farsi sentire.
L’uomo
sembrò accorgersene e in tono tagliente gli disse: “Siamo dietro
le linee nemiche, ci stanno braccando, sono ragionevolmente certo che
senza di lei mi muoverei con molta più disinvoltura. Se avessi
voluto abbandonarla al suo destino l’avrei già fatto, non le
pare?”
L’ufficiale
emise un sospiro. “Immagino di sì.”
“Ora
sarebbe prigioniero,” rincarò l’altro. “La starebbero già
interrogando, probabilmente.”
Von
Knobelsdorff non replicò. Si sentiva gli abiti fradici e la gola
secca, era certo di avere il viso in fiamme. Si limitò a indicare la
scala e a chiedere: “Là sotto?”
“C'è
dell'acqua.”
Il
tenente si girò a fissare lo sconosciuto negli occhi. “Lo sa
cos'ho notato?” gli disse, “Che lei non risponde mai alle mie
domande.”
“Sono
inutili,” fu l'asciutta replica.
L'altro
assottigliò lo sguardo e ringhiò: “Cos'avrei chiesto di tanto
inutile, si può sapere?”
“Un
po' tutto, finora. Mi sembra che lei non abbia ancora capito la
gravità della nostra situazione.”
“Cosa
le fa credere che non l'abbia capita?”
L'uomo
cominciò a scendere le scale. “Dovremo trovare un mezzo di
trasporto,” disse, “raggiungere il paese, prendere il treno.”
L'ufficiale
corrugò indispettito la fronte, poi disse: “L'ha fatto di nuovo.”
“Cosa?”
“Non
ha risposto alla mia domanda.”
“Perché
sarebbe controproducente farlo, risponderle sarebbe solo un'inutile
perdita di tempo. Inoltre, vale sempre la buona vecchia regola: meno
cose sa e meglio è.”
A
quel punto, con un paio di balzi agili il tenente sopravanzò il
misterioso interlocutore, quindi si pose a barriera sui gradini. In
tono tagliente disse: “Ma non sono nemmeno un cavallo, che lei può
condurre dove vuole con redini e speroni. Sono un ufficiale tedesco,
sono quello che ha rischiato la pelle combattendo contro due aerei
inglesi per proteggerla...”
“Non
sarebbe successo, se lei non avesse cominciato con le sue stupide
domande,” lo interruppe l'uomo.
Come
se non aspettasse altro, rapido von Knobelsdorff replicò: “Non
avrei dovuto chiederle nulla? E se lei fosse stato un agente nemico
che si era sostituito all'agente tedesco? Io l'avrei portata
tranquillamente oltre le linee senza nemmeno sapere cosa stavo
facendo.”
Si
fissarono per qualche secondo in silenzio. Sul gradino più basso,
leggermente ansante per la rabbia, von Knobelsdorff doveva tenere la
testa piegata all'indietro per mantenere il contatto visivo con
l'altro, ma non distoglieva lo sguardo.
Il
Werwolf fissò serio l'ardimentoso giovanotto: occhi fiammeggianti,
capelli un po' scompigliati dalla corsa che gli ricadevano sulla
fronte pallida, un rivolo di sangue ormai secco che gli scendeva
lungo la guancia. Un'espressione dura, irosa, come di chi ha ricevuto
un torto immeritato e ne chiede conto.
Normalmente
i suoi collaboratori li voleva più docili. Li voleva efficienti,
disciplinati e silenziosi come i camerieri dei ristoranti di lusso.
Non
gli piacevano le teste calde che volevano mettere becco in ogni cosa.
A
onor del vero, quello in effetti non se l'era scelto. Di sicuro
l'avevano reclutato Matthesius e la Lesser. Serviva un pilota di
aeroplani e i due, con lo spirito pratico che li accomunava, avevano
probabilmente scelto il migliore che avevano trovato.
Peccato
che attaccare a un calesse un giovane purosangue domato a metà
garantisse tutt'altro che una serena passeggiata.
Lo
oltrepassò con andatura misurata, finì di scendere le scale, poi di
nuovo si girò a guardarlo. “Venga giù,” gli suggerì in tono
più conciliante, “venga a bere un po' d'acqua.”
Ci
fu qualche altro secondo di immobilità carica di tensione, poi il
giovanotto emise un sospiro e rilassò la postura rigida delle
spalle. Scese a sua volta gli ultimi gradini.
Il
Werwolf gli tese una borraccia.
Egli
la prese, la stappò e sollevò lo sguardo a fissarlo.
“Non
è avvelenata,” gli disse l'agente segreto. “Vuole che beva prima
io, per dimostrarglielo?”
“Non
importa, tanto se fosse avvelenata avrebbe qualche antidoto in
bocca.”
Il
Werwolf sogghignò. “Molto acuto.”
Rimase
a fissarlo mentre si dissetava. Fece scorrere lo sguardo sulla sua
gola, che nella penombra del sotterraneo appariva bianca e liscia, e
poi sul suo profilo regolare. “Si tolga quella roba,” gli disse.
Il
giovanotto abbassò all'istante la borraccia. “Cosa?”
“Quel
soprabito pesante. Di questa stagione dà troppo nell'occhio.”
“Mi
serve per volare.”
“Temo
che non ce ne andremo volando,” gli rispose l'agente segreto.
Guardò in alto, verso la scala che avevano appena percorso, e
aggrottò le sopracciglia in ascolto. I suoni erano quelli neutri
della natura, il cinguettare degli uccelli, lo stormire delle fronde.
Forse il battere ritmico di un picchio in lontananza.
Si
fece consegnare la borraccia, bevve a sua volta. Il fatto che non si
sentissero rumori sospetti non era ovviamente una garanzia di non
avere nessuno alle costole. Anzi, paradossalmente sarebbe stato
meglio udire qualche maldestro tramestio, o magari un latrare di
segugi. Nessun rumore invece significava una cosa sola: che chi lo
stava inseguendo era così abile da non produrne.
Si
voltò verso il giovanotto, che si stava facendo scivolare giù dalle
spalle un cappotto foderato di pelliccia, e gli disse: “Togliamo
quel sangue, così dà troppo nell'occhio.”
L'altro
gli rivolse uno sguardo torvo. “Quale sangue?”
Il
Werwolf trasse di tasca un fazzoletto bianco, vi fece cadere un po'
d'acqua e si protese per ripulirlo, ma il giovanotto si fece
indietro. “Faccio da solo,” ringhiò.
“E
come, se non riesce nemmeno a vedersi?” Senza dargli il tempo di
replicare, l'agente segreto gli si avvicinò ulteriormente e gli
passò la pezzuola umida sulla guancia. L'ufficiale fremette, ma
rinunciò a indietreggiare.
“Così,
bravo,” apprezzò il Werwolf, continuando a ripulirlo. “Ha un
piccolo taglio,” disse poi, a voce più bassa. “Le fa male?”
“No.”
Il giovane aggrottò le sopracciglia. “Ora basta, però.” Voltò
la testa, allontanando il viso dal tocco umido del fazzoletto.
“Non
ho finito.”
“Finisco
io.”
“Perché?”
“Ora
sono io che non rispondo alla sua domanda, va bene?”
Il
Werwolf si limitò a porgergli il fazzoletto. “Si sbrighi,” gli
disse soltanto, “qui siamo in pericolo.”
Von
Knobelsdorff prese riluttante il piccolo pezzo di tessuto e se lo
passò sul volto. Si era già trovato molte volte in pericolo, ma si
era sempre trattato di minacce chiaramente identificabili, ben
definite. Visibili,
in una parola. Pallottole, aerei nemici, il rischio di finire
disarcionato durante un assalto.
Tutte
cose conosciute, che sapeva come gestire.
Gettò
uno sguardo sul suo interlocutore: età indefinita ma giovane, una
camicia sdrucita, con le maniche arrotolate fin sopra i gomiti, un
fazzoletto al collo, le scarpe sporche di fango. Un cappello
sformato, sotto il quale si intravedeva una corta capigliatura
bionda. Incrociandolo per la strada, nessuno gli avrebbe rivolto una
seconda occhiata.
A
ben guardare, però, c'era qualcosa che strideva rispetto
all'apparenza di semplice contadino.
Gli
occhi chiari erano vividi, imperiosi. Inducevano l'eventuale
interlocutore ad abbassare i propri. Si muoveva sicuro, con la grazia
letale di un predatore, e di certo le sue mani erano abituate a
stringere armi, più che attrezzi agricoli.
“Chi
è lei?” gli chiese d'impulso, poi alzò le spalle e soggiunse:
“Tanto non me lo dirà, vero?”
“Meno
cose sa...” cominciò l'uomo. L'ufficiale lo interruppe: “Certo,
certo. Meno cose so e meglio è, non è così?”
“Io
lo dico per il suo bene.”
“E
anche perché questo povero idiota non sarebbe mai in grado di
custodire le informazioni nel modo corretto, vero?”
L'uomo
scosse la testa innervosito, poi rispose: “Io non conosco la sua
resistenza a metodi di persuasione energici,
giovanotto. Non so se di fronte a ferri roventi, scosse elettriche o
frustate con il filo spinato sarebbe in grado di raggiungere l'estasi
del martirio o spiattellerebbe tutto frignando come un infante, per
cui preferisco non rischiare.”
Von
Knobelsdorff strinse i denti. “E lei sarebbe in grado di
resistere?” lo provocò.
“Io
sì,” fu la secca risposta.
“Perché,
ha provato?”
L'uomo
lo trafisse con uno sguardo gelido, poi tagliente replicò: “Proprio
non ce la fa a non fare domande, vero?”
Von
Knobelsdorff stava per ribattere quando l'altro lo fermò con un
gesto e perentorio sibilò: “Andiamo.”
Convinto
che sarebbero tornati da dove erano venuti, il giovane ufficiale si
mosse verso le scale, ma l'altro si addentrò rapido nei meandri
diroccati del sotterraneo, aggirando cumuli di pietre e detriti. Alla
scarsa luce che penetrava dalle fenditure della volta, il tenente
faceva del suo meglio per non farsi distanziare troppo. Si chiese se
quel tizio sarebbe stato capace di lasciarlo indietro, magari per
poter fuggire più in fretta.
Probabilmente
sì, concluse. E forse, nemmeno lui al posto suo avrebbe rischiato di
non consegnare in tempo importantissimi segreti militari per salvare
la vita di un anonimo tenentino degli ulani.
Non
poté indugiare oltre in quei ragionamenti, perché d'un tratto
l'uomo lo spinse contro la parete e gli fece cenno di tacere. Indicò
poi verso l'alto.
Von
Knobelsdorff sollevò lo sguardo e si accorse che da una crepa del
soffitto stava scendendo un'impalpabile pioggia di polvere
d'intonaco.
Istintivamente
si appiattì contro il muro. Aveva cacciato tante volte prima della
guerra, aveva abbattuto cervi e caprioli nelle tenute della sua
famiglia, per cui non faceva fatica a immedesimarsi in colui o coloro
che stavano girando intorno alle rovine. Poteva quasi percepire
l'attenzione spasmodica, l'ebbrezza. Quell'istinto sicuro che anche
in assenza di ogni altro elemento coglieva la presenza della preda.
Si
voltò verso l'uomo, che di nuovo gli fece cenno di tacere.
Dall'alto
cadde altra polvere, a von Knobelsdorff parve addirittura di cogliere
il movimento di un'ombra.
Percepì
una pressione sul braccio. Si girò di scatto e l'uomo gli indicò
l'imboccatura di un basso cunicolo.
Si
infilarono nel condotto. La già scarsa luce venne meno dopo pochi
metri, precipitando il percorso in un buio piceo. Von Knobelsdorff
aveva l'impressione che la galleria piegasse lentamente verso il
basso. Dapprima asciutto e polveroso, il fondo andava man mano
facendosi più umido, tanto che a un certo punto il tenente ebbe la
chiara percezione di affondare in una fanghiglia densa.
Allungò
una mano a toccare la parete e la trovò umida e muscosa. L'aria
fredda sapeva di limo.
Cercò
di allungare il passo, per non farsi distanziare eccessivamente
dall'uomo, ma incespicò e quasi cadde.
“Stia
attento,” sibilò l'altro, senza diminuire l'andatura.
Il
tenente rinunciò a replicare.
Continuarono
ad avanzare. Ormai per terra c'era l'acqua, se la sentiva penetrare
nelle scarpe a ogni passo, ma allo stesso tempo sembrava che un vago
chiarore si stesse sostituendo al buio assoluto della galleria.
“Stia
attento,” gli ripeté l'uomo a bassa voce, “potrebbe essere là
fuori che ci aspetta.”
“Di
chi sta parlando?” gli chiese von Knobelsdorff, ma prevedibilmente
non ricevette alcuna risposta.
Il
chiarore nel frattempo stava aumentando, ormai si distinguevano
vagamente le asperità delle pareti di pietre grezze. L'aria si era
fatta meno umida, l'odore di limo era arricchito dai profumi resinosi
di un bosco.
Il
giovane tese l'orecchio e gli parve di cogliere un lieve scorrere
d'acqua.
Con
l'acqua ormai alle ginocchia, raggiunsero la fine della galleria.
Dapprima l'uomo si immobilizzò e rimase per lunghi minuti in
ascolto, poi, quando si persuase che a parte loro non c'era nessuno,
riprese ad avanzare cauto. Si fecero strada piegati fra erbe palustri
e rami di salice. Von Knobelsdorff si accorse che si trovavano
nell'ansa di un fiume, apparentemente lontano da ogni centro abitato.
Tutto
conferiva una sensazione di calma idillica, tanto che l'ufficiale
stentava più che mai a convincersi che la loro situazione fosse
pericolosa.
Fu
l'uomo che a un certo punto ruvidamente disse: “Muoviamoci, the
Bishop non ci metterà molto a capire da che parte siamo usciti.”
Il
tenente si voltò a fissarlo. “Chi?”
“Andiamo.”
L'altro
alzò gli occhi al cielo esasperato. Avrebbe avuto mille domande da
porre al misterioso agente, come conosceva quel tunnel, ad esempio,
chi o cosa era the Bishop, perché lo riteneva così pericoloso, ma
era certo che non avrebbe ricevuto risposta a nessuna di esse. Si
rassegnò a seguirlo mentre attraversava la golena e poi si
inerpicava sull'argine.
Arrivarono
alla sommità della barriera. Appoggiato al tronco di un albero,
l'uomo fece scorrere lo sguardo sulla pianura costellata di covoni.
Era
ormai tarda mattinata e i contadini si preparavano a consumare il
pasto. Attaccati a carri carichi di fieno, placidi cavalli da tiro
tenevano la testa nascosta nel sacco della biada, agitando talvolta
la coda per scacciare le mosche.
L'uomo
si voltò verso l'ansa da cui erano arrivati, aggrottò le
sopracciglia e disse: “Muoviamoci.”
Fece
per incamminarsi, ma subito si arrestò. Fissandolo critico, disse a
von Knobelsdorff: “Naturalmente non dobbiamo dare nell'occhio. Le è
chiaro questo, no?”
“Certo,”
ringhiò l'ufficiale.
“Pensa
di esserne in grado?”
“Se
le dico di no cosa fa, mi lascia qui?”
“Mi
sembra ovvio.”
|
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Capitolo 4 *** Capitolo 4 - Prima parte ***
Gente mia,
poiché
ci sono alcuni capitoli di questa vicenda che sono lunghi come l’anno
della fame, ve li mando in onda metà per volta, per non sfrangiarvi
troppo le gonadi.
Come
sempre un grande ringraziamento a chiunque passi da queste parti, dia
un’occhiata o mi metta in qualche lista.
Baci
e abbracci a chi mi ha anche lasciato un commento.^^
Capitolo
4 – Prima parte
Rannicchiato
nell'erba alta accanto all'agente segreto, von Knobelsdorff lasciava
vagare lo sguardo sulla campagna. Il sole era alto, il cielo era una
tavola turchese. Ovunque regnava il silenzio estatico del
mezzogiorno.
I
contadini sedevano in gruppetti attorno a tovaglie stese a terra, le
donne distribuivano il pasto traendo mestoli colmi da grossi tegami
di coccio.
Una
forma di pane passava di mano in mano e tutti ne tagliavano una
fetta.
Fin
da quella distanza si coglieva ogni tanto l'eco flebile di una frase
o di una risata.
Il
tenente realizzò di essere affamato. Di solito a quell'ora i voli di
guerra erano finiti e i piloti della Jasta si fermavano per il
pranzo. Nel pomeriggio capitava a volte qualche missione, ma perlopiù
si ingannava il tempo fino a sera.
Ripensò
a quando aveva mangiato l'ultima volta e si accorse che era dal
giorno prima che non toccava cibo.
Come
se gli avesse letto nel pensiero, l'uomo gli rivolse uno sguardo
gelido e sibilò: “Stia concentrato.”
Il
tenente stava per replicare quando vide l'altro irrigidirsi in
ascolto. Tese a sua volta l'orecchio, si guardò intorno, ma nulla
sembrava turbare la quiete.
Poi
d'improvviso udì un paio di brevi sibili e a poca distanza dalla sua
testa vi fu uno scomposto frullare di foglie. Prima che potesse
rendersi conto di cosa stava succedendo, si sentì afferrare per un
braccio e trascinare via.
Si
ributtarono nella golena, entrarono in una macchia fitta, piena di
acacie e rovi. Von Knobelsdorff si trovò a correre con le mani tese
davanti a sé per proteggersi la testa dai rami spinosi, mentre
lottava per non perdere il contatto visivo con l’uomo.
Raggiunsero
la sponda. Il tenente si fermò sforzandosi di non ansimare e udì
flebile alle loro spalle un lieve tramestio come di rami smossi.
L'altro
si guardò rapidamente intorno e adocchiò un tronco caduto, coperto
di rampicanti. “Mi aiuti,” ordinò asciutto, quindi estrasse
dalla cintura un coltello e cominciò a tagliare la vegetazione che
l'avviluppava.
Von
knobelsdorff cercò di afferrare i rami che man mano che venivano
recisi, ma le spine lo costrinsero ad arretrare. “Cosa vuole fare?”
chiese.
“Mi
aiuti a buttarlo in acqua.”
“Perché?”
“Ci
farà stare a galla.”
Il
tenente fissò il fiume, all'apparenza placido, ma costellato qua e
là di sinistri mulinelli, poi rivolse uno sguardo all'uomo. Fece per
aprire bocca, ma l'altro lo fermò, si protese verso di lui e gli
sussurrò all'orecchio: “Faccia quello che le dico, se vuole
vivere.”
Il
giovane si voltò verso la macchia che avevano appena attraversato: i
rumori che gli pareva di aver percepito fino a poco prima erano
scomparsi. Si chiese se quello fosse un bene o un male: chi li
inseguiva aveva rinunciato oppure si era appostato da qualche parte
pronto a sorprenderli?
La
voce dell'uomo lo richiamò alla realtà: “Si muova.”
Spinsero
il tronco in acqua, ma quando il tenente fece per immergersi a sua
volta, l'altro lo trattenne per la collottola. Gli fece cenno di
tacere, quindi gli indicò una macchia di arbusti particolarmente
fitta.
L'ufficiale
diede un ultimo sguardo al tronco che si allontanava lentamente, così
coperto di rampicanti recisi da sembrare un viluppo di rovi alla
deriva, poi rivolse uno sguardo interrogativo all'uomo.
Questi
gli ripeté il gesto di tacere, scrutò di nuovo la boscaglia che
avevano appena attraversato, quindi si infilò nella macchia con
l'agilità di un felino e vi scomparve dentro nel giro di pochi
secondi.
A
von Knobelsdorff parve di aver capito quale fosse il piano dell’uomo:
il loro inseguitore doveva crederli nascosti sotto il tronco, mentre
loro sarebbero stati acquattati nei rovi.
Come
le lepri, pensò con
un sospiro, poi si rassegnò a strisciare sotto la massa vegetale.
Rasoterra
l'aria manteneva l'umidità. Trattenuto dal fogliame, anche il calore
ristagnava. Gli insetti zampettavano e frinivano ovunque.
L'uomo,
rannicchiato al punto da risultare praticamente invisibile, pareva
non risentire per nulla di quelle disagevoli condizioni. Il tenente
notò che si manteneva teso, come pronto a balzare via da un momento
all'altro. Gli occhi vigli guizzavano, sondando continuamente i
dintorni.
Gli
ricordò un animale selvatico. Uno di quelli pericolosi, ai quali è
meglio non avvicinarsi troppo, nemmeno quando si ha un fucile.
Un
lieve tramestio attirò la sua attenzione: qualcuno si stava
avvicinando. Tese l'orecchio, cercando di capire se fossero i passi
di una o più persone. D'istinto si voltò verso l'uomo, che si
limitò a fargli cenno di tacere.
Il
rumore frattanto si avvicinava. Era una persona sola, probabilmente
molto cauta. Von Knobelsdorff immaginò che facesse un passo per
volta, prendendosi prima del successivo tutto il tempo per sondare i
dintorni. Strinse gli occhi cercando di scrutare oltre la cortina di
rami intricati che li nascondeva, ma non riuscì a vedere nulla.
Un
altro passo. Un chiurlo mandò un richiamo, quindi prese il volo con
un frullo improvviso, facendolo sussultare.
L'istinto
del cacciatore si fece nuovamente sentire ed egli ebbe la certezza
che a pochi metri di distanza ci fosse qualcuno.
Si
girò verso l'uomo e quasi sobbalzò quando vide che era scomparso.
Si guardò spasmodicamente intorno e colse un guizzo della sua
camicia chiara apparire e scomparire tra le foglie.
Si
morse il labbro indeciso. Che fare? L'aveva lasciato solo? Se n'era
andato? E come, se non aveva sentito il minimo rumore?
Si
fece avanti cauto: se il tizio l'aveva lasciato solo, come minimo
doveva farsi un'idea precisa della situazione, prima di stabilire in
che modo procedere.
Presso
la riva c'era un uomo. Era in borghese e aveva in mano una pistola,
stava scrutando poco convinto le tracce che il tronco si era lasciato
dietro quando l'avevano buttato in acqua.
A
un tratto, con un fruscio di vegetali smossi un'ombra piombò addosso
al nuovo arrivato. Ci fu una breve colluttazione, poi si udì un
suono secco come di un ramo spezzato.
Delle
due figure avvinghiate, una si afflosciò al suolo e vi rimase
immobile.
Von
Knobelsdorff stava per arretrare verso il folto della vegetazione
quando realizzò che quello rimasto in piedi era il suo misterioso
accompagnatore.
Strisciò
fuori dal nascondiglio, lo raggiunse. “Mi aiuti a buttarlo in
acqua,” disse l'altro.
“È
morto?” chiese il tenente. Per quanto gli fosse razionalmente
chiaro che più o meno ogni volta che abbatteva un aereo uccideva
qualcuno, non era abituato alla concretezza brutale di trovarsi un
cadavere davanti agli occhi.
Mosse
esitante un altro passo, quasi aspettandosi che quel corpo contorto
potesse d'improvviso balzare su e avventarglisi contro. Gli gettò
uno sguardo e vide che era un giovane uomo, forse un militare, a
giudicare dal taglio di capelli. Aveva gli occhi spalancati e la
testa in una posizione innaturale. La morte doveva essere
sopravvenuta in un istante, perché il volto era rimasto pietrificato
in un'espressione di doloroso stupore.
“Si
muova,” lo richiamò alla realtà l'uomo, “non siamo ancora in
salvo.”
Von
Knobelsdorff aggrottò le sopracciglia. “Ma non ha appena abbattuto
quello che ci inseguiva?”
L'altro
scosse la testa come di fronte all'ennesima domanda di un bambino
poco sveglio. “The Bishop non si sarebbe fatto sorprendere così
facilmente, questo è solo uno dei suoi tirapiedi.”
“Chi
è the Bishop?”
“Andiamo.”
Uscirono
dalla golena molto dopo, arrampicandosi su un argine mezzo incolto,
coperto di arbusti.
Von
Knobelsdorff si terse il sudore dalla fronte e si slacciò qualche
bottone della giacca. Era il primo pomeriggio, il cielo aveva assunto
un colore azzurro pallido, quasi bianco. Dopo aver mangiato, i
contadini dormivano all'ombra dei covoni. Gli unici rumori che si
udivano erano il frinire di qualche insetto e il tintinnare dei
finimenti, se un cavallo alzava la testa dal sacco della biada.
L'uomo,
al suo fianco, fece scorrere lo sguardo attento sui campi, poi fece
un sorrisetto e disse: “Mietitura.”
Il
più giovane si girò a fissarlo. “Prego?”
“Mietitura,
di Bruegel il vecchio. Ce l'ha presente?”
“Che
c'entrano i quadri, adesso?”
L'uomo
alzò le spalle, quindi fece scorrere lo sguardo sulla campagna. Dopo
una lunga osservazione indicò un carro di fieno che si trovava un
po' distante dagli altri. “Quello.”
“Quello,
cosa?”
“Ci
saliamo sopra. Cerchi di muoversi senza fare rumore, se ci riesce.”
L'ufficiale
aggrottò le sopracciglia. “Certo
che ci riesco,” ringhiò.
L'altro
si limitò a un'alzata di spalle, poi coprirono rapidi la distanza
che li separava dal veicolo. A qualche metro da esso, distesi in una
macchia d'ombra, con la giacca appallottolata sotto la nuca e il
cappello sul volto, tre contadini dormivano in attesa che la calura
del primo pomeriggio si attenuasse.
Mentre
avanzava facendo del suo meglio per non far frusciare le stoppie, von
Knobelsdorff si trovò a deglutire preoccupato. Cosa sarebbe successo
se, ad esempio, uno di quei contadini si fosse svegliato? Cercò di
immaginare lo scenario: avrebbe gridato al ladro, avrebbe svegliato
anche tutti gli altri?
Una
mano sulla spalla lo fece quasi sussultare. In un sussurro, il suo
accompagnatore gli disse: “Salga su e si nasconda.”
Lanciando
di tanto in tanto sguardi preoccupati alle tre figure riverse, il
tenente raggiunse il veicolo, vi si si inerpicò e con qualche fatica
si infilò sotto il carico, buttandosi addosso manciate di fieno per
occultarsi maggiormente.
In
breve tempo, la faccenda cominciò a rivelarsi penosa: pur profumata
e dall'aspetto soffice, la massa che gli pesava addosso stava
diventando sempre più fastidiosa. Le pagliuzze si infilavano
ovunque, prudevano e pungevano. Il caldo era soffocante, respirare
era una pena.
Si
chiese quanto sarebbe riuscito a resistere, nascosto lì sotto.
Quanto sarebbe stato necessario resistere, più che altro. Minuti?
Ore?
Si
impose di vuotare la mente. Per quel che ne sapeva, uomini santi in
India erano in grado con la stessa tecnica di sdraiarsi su un letto
di chiodi senza ricavarne danni. Il fieno era certo meno pericoloso
dei chiodi, quindi forse anche un neofita come lui avrebbe potuto
padroneggiarlo.
I
fili d'erba si ostinavano a infilarglisi nei posti più impensabili,
un pizzicore che gli procedeva lungo il braccio faceva supporre che
un insetto gli si fosse infilato in una manica.
Si
agitò inquieto, cercando di trovare una posizione se non più
comoda, almeno non così scomoda.
“Stia
fermo,” sibilò l'uomo al suo fianco.
Il
tenente si voltò verso di lui: a differenza sua, l'agente segreto
sembrava del tutto a proprio agio, o perlomeno non dava alcun segno
di non esserlo. Giaceva a pancia in giù, con le braccia in avanti e
il mento appoggiato alle mani sovrapposte, ed egli fugacemente pensò
che gli ricordava certi grandi felini che aveva visto negli albi
illustrati sulle colonie africane.
Fece
del suo meglio per imitarlo, anche se sentiva il sudore ruscellargli
lungo la schiena, punture ovunque e le membra sempre più
indolenzite.
Per
distrarsi, si diede a osservare quel poco che si vedeva attraverso i
fili d’erba che lo nascondevano: vi erano un lontano scorcio
dell’argine, una piccola striscia di cielo sopra di esso, la
distesa giallastra del campo appena mietuto, un albero che per
contrasto era così scuro da sembrare quasi nero.
A
un tratto gli parve di scorgere un movimento tra gli arbusti che
coprivano l’argine. Guardò con più attenzione ed ebbe la
sensazione di scorgere per un istante una figura. Non sapendo in che
altro modo attirare l'attenzione dell'agente segreto, spinse una mano
a toccare le sue.
L’altro
si girò di scatto verso di lui, con tale repentinità che egli
istintivamente si fece indietro.
“Cosa c’è?”
sussurrò.
Von
Knobelsdorff scrutò di nuovo all'esterno, ma tutto appariva
perfettamente immobile.
Si
protese comunque verso il suo accompagnatore e gli sussurrò
all'orecchio: “Ho visto qualcuno sull'argine.”
L'altro
non parve sorpreso dalla notizia. “Stia fermo,” si limitò a
dire, “finché siamo qui non può avvicinarsi.”
“Ma...”
L'uomo
gli fece cenno di tacere.
Il
tenente rimase in silenzio. Guardò di nuovo, ma tutto era immobile.
Come un quadro, gli venne da pensare. Come il quadro dei Mietitori.
Si
voltò cauto verso l'agente segreto e vide che aveva estratto la
pistola: teneva la mano sinistra sotto il mento come prima, ma la
destra stringeva la Mauser Marine.
Rimase
stupito: non si era nemmeno accorto che si fosse mosso.
Il
Werwolf strinse gli occhi e fece scorrere lo sguardo sul poco che si
vedeva della campagna. Probabile che the Bishop fosse già sulle loro
tracce, ma anche se avesse capito dove si erano nascosti, nemmeno lui
avrebbe potuto dare l'assalto a quel carro di fieno in mezzo a dieci
contadini. Non certo perché i contadini rappresentassero per lui una
sfida, ma perché una cosa del genere avrebbe suscitato clamore, e il
clamore è nemico della segretezza.
Sorrise
fra sé e sé pensando a quante cose procedessero nella più totale
segretezza, all'insaputa di giovani ufficiali ardimentosi come quello
che si stava portando dietro.
Ragazzotti
entusiasti di quel tipo erano di solito convinti che le guerre si
decidessero sul campo, il valore degli uni contro il valore degli
altri. Già ponderare quantità e qualità degli armamenti a
disposizione delle due parti rappresentava per loro un gretto
esercizio di logica, buono solo a distogliere le menti dalla tensione
verso l'ideale.
Lo
sentì muoversi appena, come un bambino a messa, che vorrebbe tanto
andare a giocare ma sa che gli è proibito.
Si
ripeté per l'ennesima volta che non sarebbe stato possibile
lasciarlo indietro: l'avrebbero catturato e ovviamente interrogato.
Per quanto quell'ufficiale fosse senza dubbio coraggioso, fisicamente
forte e di carattere deciso, non ci avrebbero messo molto, con i
dovuti sistemi, a farlo capitolare.
Strinse
per un istante le labbra, serrò gli occhi cercando di allontanare
ricordi che nonostante tutto continuavano a fargli rizzare i capelli
sulla nuca.
Si
concentrò di nuovo sull'esterno. Il suo udito allenato riusciva a
cogliere uno scambio a bassa voce, in francese. Discorsi di pasti
serali, di animali da rigovernare. Niente che gli destasse allarme.
C'erano
anche rumori, un tramestio di passi, il tinnire metallico degli
attrezzi agricoli raccolti. Il fruscio di una falce che ricominciava
a recidere steli.
Il
Werwolf scrutò il cielo: il sole era ancora alto. I contadini
avrebbero lavorato fino al tramonto e solo allora avrebbero fatto
ritorno a casa. Il che non era un bene, naturalmente, perché nel
frattempo the Bishop non se ne sarebbe certo stato con le mani in
mano.
Ricapitolò
tutti i contatti che aveva in quella zona. Si trattava di pesci
piccoli, perlopiù, che fino a quel momento erano stati lasciati in
pace – o forse solo discretamente controllati a distanza – dai
servizi segreti nemici perché appunto troppo piccoli per
giustificare un intervento, ma era pronto a scommettere che ora,
nella necessità di recuperare lui e ciò che stava portando con sé,
li avrebbero passati al setaccio uno a uno.
Non
sarebbe stato quindi prudente approfittare della protezione che essi
avrebbero potuto offrirgli.
Non
potevano nemmeno rimanere alla macchia, barbe lunghe e abiti
stazzonati avrebbero attirato eccessivamente l’attenzione, mentre
la prima regola per portare a termine con successo le missioni era
proprio quella di passare inosservati.
Gettò
uno sguardo al giovanotto, sul cui volto lucido di sudore si era
appiccicato qualche filo di fieno.
Sentendosi
osservato, questi si girò a fissarlo e per un attimo si trovarono
occhi negli occhi. Il Werwolf considerò che quelli del giovane
ufficiale erano di un verde che ricordava il sole attraverso le
foglie. Allungò la mano per togliergli una pagliuzza dalle labbra ed
egli aggrottò la fonte, facendosi istintivamente indietro.
L'uomo
sorrise e scosse appena la testa, poi tornò ad appoggiare il mento
alla mano, disinteressandosi di lui.
§
Acquattato
in una macchia, the Bishop rifletteva.
“E
così, questo sarebbe il più abile agente dell'Impero Tedesco?”
La
frase ha un tono vagamente derisorio. L'uomo a cui fa riferimento è
un giovanotto snello, di altezza media, che siede composto su una
cassetta rovesciata in un angolo della cella, con le gambe unite e le
mani poggiate sulle cosce.
Ha
l'aria di un impiegatuccio, di quelli molto volonterosi ma non troppo
svegli.
The
Bishop si volta verso quello che ha parlato – un giovane agente che
sta addestrando, ancora privo del nome in codice – e gli fa cenno
di tacere. Scruta di nuovo il prigioniero, che però sembra non aver
nemmeno udito la frase.
Prende
il collega per la spalla, lo fa allontanare di qualche passo. Ancora
non ha capito come abbiano fatto a prendere il Werwolf, fatto sta che
ce l'hanno lì, dentro una cella, formalmente alla loro mercé.
Ma
il Werwolf non è soprannominato Lupo Mannaro per niente, e averlo
come prigioniero è forse più pericoloso che averlo come avversario.
“Non
ti avvicinare a lui,” raccomanda all'allievo.
Il
più giovane si volta scettico verso la porta sbarrata. Al di là c'è
quello che gli pare poco più di un ometto. Un contabile, un piccolo
artigiano. Un biondino dall'aria slavata, con gli occhi costantemente
rivolti verso il basso e le spalle curve di chi ha passato la vita su
registri di partita doppia.
L'Impero
Tedesco deve essere ridotto proprio male, pensa, se quella è la
punta di diamante del loro spionaggio.
Il
giovane agente è a terra morto, gli occhi sono spalancati in
un'espressione di doloroso stupore. Il Werwolf è scomparso.
The
Bishop non fa fatica a immaginare cosa sia successo.
Vede
l'agente passare davanti alla porta della cella di massima sicurezza,
fermarsi a scrutare attraverso lo spioncino. Di là è troppo buio
per distinguere qualcosa.
Sa
che stanno interrogando quella specie di contabile da giorni. Sa che
stanno usando certi sistemi, anche se non sa esattamente quali, dato
che lui non glieli ha mai voluti descrivere.
Sa
anche che nonostante tutto il contabile non parla.
Si
chiede quello che si è già chiesto tante volte, cioè se davvero
portarlo lì non sia stato solo un clamoroso errore. Magari quello è
realmente un impiegatuccio da quattro soldi, magari stanno seviziando
la persona sbagliata.
Lo
immagina guardare di nuovo dentro, cercare di distinguere qualcosa
nel buio e poi riuscire finalmente a vederlo: una sagoma bianca sul
pavimento, un corpo nudo che giace scomposto, verosimilmente nella
posizione in cui le guardie l'hanno buttato dopo averlo riportato in
cella.
Immagina
che da lì a decidere di aprire la porta, impietosito dalle
condizioni del prigioniero, il passo sia stato brevissimo.
Con
un sospiro chiude gli occhi al giovane collega.
The
Bishop fece scorrere lo sguardo sulla pianura. In altre occasioni,
con altri avversari, forse avrebbe anche sportivamente accettato la
sconfitta, ma con il Werwolf, a prescindere dalla necessità di
recuperare le informazioni in suo possesso, aveva troppi conti in
sospeso.
Il
giovane agente in addestramento, ad esempio, ma anche quello che
giaceva morto lungo la sponda del fiume. In ogni caso, l'elenco era
lungo: il Werwolf non si lasciava mai dietro persone che potessero
identificarlo.
Notte,
tempesta. La pioggia scroscia sulle lastre metalliche del tetto in un
rombo folle, che costringe a urlare per farsi capire.
Scambia
uno sguardo con i due colleghi, che annuiscono consapevoli: sanno che
lui arriverà. Un loro agente in Germania ha lavorato bene e la
notizia è sicura.
Passa
il tempo, la pioggia non accenna a diminuire, il vento ulula.
“Ci
sono i lupi,” dice uno dei colleghi. La frase quasi si perde nel
frastuono.
Lui
alza la testa: è comparso un rumore dissonante. Un raschiare lieve,
a malapena percettibile nella furia scomposta degli elementi.
Abbandona
il suo punto d'osservazione, divora i gradini che conducono al tetto,
spalanca la porta che conduce all'esterno. Il Werwolf è là,
acquattato sulla linea di colmo come uno spaventoso gargoyle. Appare
e scompare alla luce livida dei lampi.
D'un
tratto si volta verso di lui, lo fissa. Il suo sguardo pietrifica
come quello di Medusa.
Egli
tira fuori d'istinto la pistola, fa fuoco. Il lampo successivo
illumina solo il tetto vuoto. Il Werwolf è caduto? È morto?
Corre
giù, percepisce una corrente d'aria gelida. Nella stanza che fino a
poco prima occupava c'è la finestra spalancata, uno dei suoi
colleghi giace a terra esanime, l'altro sta agonizzando in un angolo
col fianco squarciato.
Si
guarda intorno, si sposta verso il centro del locale. Percepisce
un'ombra ai margini del campo visivo, d'istinto si fa indietro ed
evita di stretta misura una lama fulminea.
Si
gira e si trova faccia a faccia con lui. Il volto è una pallida
maschera impenetrabile, in cui brillano occhi color ghiaccio. La
camicia bagnata gli aderisce al corpo, mettendo in risalto una
muscolatura da predatore, guizzante e letale. Nella destra stringe un
pugnale dalla lama sporca di sangue.
È
la Morte, pensa, poi è di nuovo l'istinto a guidarlo ed egli afferra
la pistola. Spara, la detonazione echeggia trafiggendogli i timpani,
l'odore di cordite invade la stanza, ma di nuovo il Werwolf è
scomparso.
Gli
piomba addosso un istante dopo. Crollano a terra, la lama balugina,
la pistola rimbalza via. Rotolano per qualche istante avvinghiati,
poi lui riesce a spingerlo lontano da sé.
Balza
in piedi, si gira, corre, l'acciaio gli morde la carne in una ferita
leggera, che invece di rallentarlo gli conferisce l'energia
dell'animale braccato.
Scende
le scale a precipizio, chiama i colleghi superstiti, ordina di
circondare l'edificio, il luogo si anima come un formicaio
incautamente disturbato.
Nessuna
traccia del Werwolf, ovviamente. L'avevano cercato ovunque, ma
l'agente tedesco sembrava essere scomparso nel nulla.
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Capitolo 5 *** Capitolo 4 - Seconda parte ***
Incliti
lettori,
ecco un altro
pezzo
del mappazzone. Ringrazio moltissimo il manipolo di valorosi (pochi,
felici pochi, banda di fratelli) che sta seguendo la vicenda. Un
ringraziamento speciale va ovviamente a tutti coloro che mi hanno
lasciato anche un parere.
Capitolo 4 –
Seconda parte
The
Bishop si costrinse a tornare alla situazione contingente. Di nuovo
scrutò attento la campagna, quindi trasse di tasca una mappa e la
dispiegò per terra.
Per
un po' la studiò assorto, valutando la distanza dei vari centri
abitati dal punto in cui si trovava. Calcolò quanto ci avrebbe messo
il Werwolf a raggiungere ognuno di essi, tenendo conto che non
avrebbe faticato a trovare mezzi di trasporto, rubandoli o facendosi
caricare da qualcuno. Da quello che diceva il suo dossier, l'agente
tedesco parlava un francese perfetto, per gli sarebbe stato facile
confondersi con la popolazione locale.
Nonostante
questo, ragionò, il Werwolf aveva due problemi. Il primo era
l'assoluta necessità di raggiungere le linee tedesche più
rapidamente possibile. Il secondo era avere al seguito una persona
senza alcun addestramento allo spionaggio. Si chiese perché il
tedesco non avesse ancora eliminato il pilota dell'aeroplano. Lui
stesso al suo posto l'avrebbe fatto: ubi
maior, minor cessat.
Stranamente, invece, quella macchina da guerra, quell'assassino senza
scrupoli si stava trascinando dietro una specie di palla al piede,
potenzialmente in grado di far fallire la sua missione.
Ponderò
perplesso la cosa, chiedendosi se c'era qualcosa che non sapeva,
qualche elemento che stava trascurando a proposito del misterioso
pilota. Forse era a sua volta un agente? Se non lo era, per quale
motivo il Werwolf lo teneva con sé?
Stabilì
che con le ipotesi non sarebbe andato da nessuna parte: la priorità
era recuperare il materiale rubato, tutto il resto era mera
speculazione. Socchiuse gli occhi, cercando di immedesimarsi nella
mentalità dell'avversario: dove sarebbe andato, cos'avrebbe fatto,
se fosse stato lui? Sorrise fra sé e sé: ogni paesello di quella
zona era in pratica un nido di spie, dell'una o dell'altra fazione.
Sarebbe bastato attivare quelle al soldo dell'Inghilterra e in breve
avrebbe scoperto dove si nascondeva il Werwolf.
§
“Ha
ancora della paglia tra i capelli,” disse l'agente segreto.
“Mi
stupirebbe il contrario,” brontolò von Knobelsdorff. Si passò
comunque una mano fra le ciocche castane, allontanandone
effettivamente alcuni fili giallastri. Subito dopo si sbottonò la
giacca e se la sfilò con un sospiro di sollievo. “Non ne potevo
più,” sospirò.
L'altro
non rispose.
Il
tenente si guardò intorno: erano su una strada bianca che nella luce
del crepuscolo brillava come un lungo osso calcinato. Il carro da cui
si erano lasciati cadere non era ormai altro che una vaga sagoma
all'orizzonte, il suo rotolio e cigolio era un'eco lontana, a stento
distinguibile tra gli innumerevoli rumori della sera di prima estate.
Un
buffetto sulla spalla lo fece sussultare: si girò di scatto e si
trovò di fronte l'uomo, che lo fissava con un'espressione vagamente
divertita.
Aggrottò
le sopracciglia e arretrando di un passo ringhiò: “Non l’ho
sentita avvicinarsi.”
Per
tutta risposta, l’altro disse: “Aveva un po’ di paglia nel
colletto.”
“Me
la tolgo da solo.”
“E
come, se non sa di averla?”
“Le
battute sono fuori luogo.”
L’altro
scosse la testa come di fronte a un bambino molto sciocco e molto
testardo. “Non sono battute,” replicò. “Se vuole restare vivo,
non deve attirare in alcun modo l’attenzione. Un giovanotto che se
ne gira con un ridicolo costume da caccia, pieno di paglia come se
avesse passato il pomeriggio ad amoreggiare con una contadinella nel
fienile, viene notato da tutti. Cerchiamo di limitare i danni
togliendo almeno la paglia.”
Von
Knobelsdorff aggrottò le sopracciglia. “Il mio abbigliamento non è
ridicolo,” protestò.
L’altro
emise un sospiro. “Di tutto ciò che le ho detto, è questa l’unica
cosa che le è rimasta in mente?”
“La
deve smettere di trattarmi come un moccioso,” lo rimbeccò il
tenente.
L’uomo
non rispose. Trasse di tasca un fazzoletto di una stoffa leggera che
sembrava seta, lo dispiegò e lo sollevò controluce. Pur nel debole
chiarore del crepuscolo, von Knobelsdorff si accorse che sul tessuto
vi era una mappa. Si avvicinò incuriosito e riconobbe ogni paese,
ogni strada e quasi ogni casa. “È quella di von Stade,” disse.
L’altro
si girò a fissarlo. “Prego?”
“È
la stessa che mi ha mostrato il mio comandante, la riconosco. La
mappa che gli aveva lasciato la giovane donna che poi mi ha spiegato
la missione. Solo che quella era su carta, non su stoffa.”
“Come
fa a ricordarsela?”
Von
Knobelsdorff si strinse nelle spalle. “Sono un pilota, navigare fa
parte delle mie competenze.” Indicò un punto della mappa e
soggiunse: “Questo incrocio, ad esempio, con due strade, la
ferrovia e il fiume, è inconfondibile, lo riconoscerei tra mille.”
L'uomo
non rispose, ma il tenente ebbe l'impressione di averlo per la prima
volta colpito. “Ora dove si va?” chiese.
“Verso
questo paese.” Indicò un punto sulla mappa di seta. “Passeremo
attraverso i campi, non è prudente rimanere sulla strada.”
“The
Bishop, come lo chiama lei, ci sta cercando?”
“Può
scommetterci.”
“Non
lascerà perdere, vero?”
“No.”
Il
tenente rimase in silenzio per qualche secondo, si guardò intorno
come se temesse di veder spuntare l'agente avversario dal fondo della
strada, quindi chiese: “Abbiamo qualche speranza di sfuggirgli?”
“Andiamo,”
disse l'uomo per tutta risposta, quindi si incamminò risolutamente
verso la macchia.
Raggiunsero
il paese che ormai era buio. I lampioni erano spenti, il coprifuoco
faceva trapelare dalle finestre oscurate solo esili lame di luce, che
si riflettevano qua e là sul selciato. Nel silenzio denso si
coglievano l'eco di qualche conversazione portata avanti sottovoce e
un frinire lontano di insetti notturni.
Il
Werwolf strinse gli occhi. Quell'apparente pace gli suscitava
un'inquietudine che andava facendosi più intensa di momento in
momento.
La
galleria è ampia, oscura, ha un'alta volta a botte di cui si coglie
a stento il profilo. L'aria è fredda e umida. Un tanfo venefico
pervade ogni anfratto.
Tubi
di varie dimensioni scorrono lungo il soffitto, infiltrazioni d'acqua
gocciolano lungo le antiche pietre lasciandosi dietro rosse scie
ferruginose.
I
suoi passi rapidi e il suo respiro ormai ansante sono unici suoni che
turbano la quiete secolare del luogo.
Si
ferma, si costringe a calmarsi. Sta correndo troppo, fa troppo rumore
e la ferita, malamente bendata, rischia di stillare una scia di gocce
rutilanti che condurrebbero the Bishop esattamente sulle sue tracce.
Tende
l'orecchio: nel silenzio ancestrale c'è un passo, o forse solo
l'idea di esso. È lento e inesorabile, la sua cadenza è come un
rintocco.
Anche
senza l'ausilio della traccia di sangue, the Bishop sta arrivando.
Si
passa la mano sulla fronte, la ritrae coperta di sudore gelido. La
ferita pulsa, il sangue scorre caldo, quasi piacevole nel freddo
mortifero del sotterraneo, intridendo pian piano la medicazione.
Ricaccia
il desiderio di abbandonarsi, riprende la marcia. La luce minima che
si permette – l'esile fascio di una torcia schermata – si perde
nel buio infinito della galleria, trae vaghi baluginii come
d'ossidiana dal canale silenzioso che ne occupa la parte centrale.
Per
un attimo si chiede come sarebbe immergersi in quella torpida
corrente, lasciarsi trasportare da essa fin nell'oblio.
Subito
dopo si riscuote, stringe i denti. Allunga il passo per quanto la
ferita glielo consente e con la mano libera si accerta che la pistola
sia ancora al suo posto, infilata in cintura. Si volta indietro. Alle
sue spalle c'è solo buio piceo, ma ha l'impressione che a un tratto
sull'antica volta guizzi qualcosa come uno sprazzo di luce.
Torna
a guardare avanti, dove la lama di luce della sua torcia fa brillare
pietre antiche, lucide d'umidità, percorse da insetti diafani che
fuggono al suo apparire.
Conosce
la mappa di quel posto a memoria, sa che entro breve raggiungerà le
scale che portano verso l'alto. Si chiede se riuscirà a issarvisi, o
se la ferita glielo impedirà.
Un
refolo d'aria gli passa sul volto umido, dal canale altrimenti
silenzioso sale un lieve gorgoglio. Egli lo illumina con la torcia e
l'impressione è che il livello dell'acqua si sia impercettibilmente
alzato.
A
quel punto ricompare la luce dietro di lui. Non è più l'idea vaga
di un riflesso, ma un piccolo punto dorato, come una stella in un
cielo nero.
L'acqua
tracima, gli lambisce un piede. L'aria si muove con più vigore.
Fa
girare la torcia dinnanzi a sé, individua il brillio metallico della
scala a pioli poco più avanti. Allunga il passo, ma barcolla ed è
costretto a cercare appoggio con la mano contro la parete fredda.
Scrolla la testa, si sta impadronendo di lui la sensazione di
sprofondare nell'ovatta.
Si
gira e la luce alle sue spalle è un minaccioso occhio di demone, che
lo scruta malevolo.
Si
rimette in marcia, pregando che la debolezza non arrivi a sopraffarlo
proprio in quegli ultimi metri. Afferra un piolo, pronto a issarsi
verso la salvezza.
Dietro
le sue spalle, l'occhio malevolo si trasforma in un fascio di luce
che per un attimo gli fa sbattere gli occhi. La galleria gli appare
in tutta la sua cupa vastità, ricordandogli la volta immensa di una
cattedrale.
L'acqua
ormai copre tutto il corridoio e ribolle portando con sé cartacce e
rifiuti.
Echeggia
un colpo di pistola, rimbombando come un tuono. Un proiettile si
schiaccia sulla parete a un palmo dalla sua testa, facendo schizzare
via schegge di pietra.
Si
gira, spara a sua volta, la luce scompare e torna visibile subito
dopo, segno che the Bishop ha cercato copertura da qualche parte ma
poi ha ripreso ad avanzare.
Correnti
d'aria frattanto si insinuano nelle antiche strutture sempre più
rapide e violente, traendo sibili e ululati da ogni anfratto, come se
migliaia di creature si stessero mandando richiami attraverso
l'intrico di cunicoli.
Con
fatica sale un altro gradino, deve rimettere via la pistola per
muoversi più in fretta. Altri colpi fanno sibilare l'aria
tutt’intorno.
Perde
la presa, si ritrova in acqua fino alla cintura, ghermito come da
un'immensa mano decisa a trascinarlo via.
Getta
un fugace sguardo alle sue spalle, la luce è immobile. Investite da
quel fascio giallastro, le onde paiono una torma di animali che
avanza frenetica, apparendo e scomparendo nelle ombre dense.
Riguadagna
la scala, sale un alto piolo, di nuovo l’acqua lo lambisce, ma
ormai il tombino a a poca distanza dalla mano.
Si
issa con un ultimo sforzo, rovescia da una parte il disco di ghisa,
crolla ansante sul selciato umido di una via parigina.
Sotto,
tutto ribolle e ulula, come se un mostro fosse rimasto intrappolato
nella galleria e stesse mugghiando furente.
The
Bishop non c’è, ma non si fa illusioni: tornerà.
Il
passo cadenzato di una pattuglia che transitava poco lontano lo
richiamò bruscamente alla realtà.
“Dobbiamo
toglierci dalla strada,” disse a bassa voce.
L'ufficiale
non replicò. Il Werwolf si chiese se rimanesse in silenzio per uno
dei suoi puntigli da adolescente o se fosse solo stanco. Doveva
esserlo, in effetti: soldati del genere erano abituati ad azioni
esplosive, in cui si dava tutto nel giro di pochi minuti, e poi ci si
riposava, quasi dimenticandosi della guerra. Pur prontissimi a
precipitare intrappolati in un aereo in fiamme, non sapevano nulla di
saltare pasti, dormire se ve n'era la possibilità, sopportare freddo
o dolore, scappare braccati giorno e notte.
Colse
nell'oscurità la sagoma chiara di un'insegna. Dall'edificio sul
quale era affissa filtravano qua e là sprazzi di luce, alcuni di un
giallo pallido, altri rosati o addirittura rossi. Tese l'orecchio e
gli parve di cogliere l'eco di risate e conversazioni.
Si
avvicinò cauto. L'insegna recitava: Da Madame Salomé. Seguiva un
tariffario: alla buona, doppietta, mezza ora, ora intera. Riduzioni
ai militari.
“Entriamo,”
disse.
Prevedibilmente,
l''ufficiale si impuntò. “Le pare il momento di andare in certi
luoghi?” protestò indignato.
“Dobbiamo
toglierci dalla strada e questo è il posto ideale.”
“Perché
sarebbe il posto ideale?”
Il
Werwolf gli circondò le spalle con un braccio e lo spinse dentro.
Prima
di poter protestare, von Knobelsdorff si trovò in un corridoio
semibuio, con una tappezzeria scura alle pareti e poche luci fioche
sul soffitto. L'aria era piuttosto calda e sapeva di colonia da poco
prezzo, con una vaga nota di varechina e acido fenico.
In
fondo c'era una pesante tenda di velluto, oltre la quale si
coglievano barbaglii di luce e un lieve parlottio.
Fece
per sottrarsi alla presa che l'uomo gli manteneva sulla spalla, ma
questi si limitò a sussurrare: “Stia attaccato a me.” Lo
sospinse poi in avanti.
Sbucarono
in quello che al tenente parve il salotto buono di una famiglia
medio-borghese: tappezzeria alle pareti, una vetrina con dentro le
ceramiche, un'angoliera con qualche libro, un lampadario di vetro
opalino che diffondeva una luce giallo-rosata.
Lungo
i lati della stanza, divani e poltrone ospitavano giovani donne
variamente spogliate. A parte qualche uomo in borghese, i clienti
erano tutti militari britannici in libera uscita, che comunque non
dedicarono loro che qualche occhiata distratta.
A
quella vista egli non poté fare a meno di irrigidirsi, e subito
l'uomo rinsaldò la presa sulla sua spalla.
Si
costrinse alla calma. Non
hai l'uniforme, non sanno chi sei,
si ripeté un paio di volte. Non
hai nulla da temere.
Mentre
stava indugiando in quei ragionamenti, una delle donne si alzò dal
divano su cui era adagiata e li raggiunse. Pareva un po' più vecchia
rispetto alle altre, portava i capelli castano-rossicci raccolti in
uno chignon e aveva pendenti di granati alle orecchie. Indossava un
abito da sera nero, decorato da pietre di giaietto. “Buona sera,
signori,” li salutò, “sono madame Salomé. Cosa posso fare per
voi?”
L'uomo
salutò a sua volta, poi a bassa voce chiese: “È possibile avere
una stanza?”
La
tenutaria aggrottò interdetta le sopracciglia, quindi in tono
sussiegoso gli disse: “Questo non è un albergo, signore.”
L'agente
segreto annuì come chi si fosse aspettato esattamente quella
risposta. Infilò la mano libera in tasca e ne trasse una banconota
arrotolata. La porse con riservatezza alla donna, quindi chiarì:
“Una camera discreta,
per me e il mio amico.” Si piegò verso il tenente, che dovette
farsi forza per non sussultare quando si sentì baciare sulla tempia.
Un'altra banconota seguì la prima. “Una camera e poche domande,
non so se mi spiego.”
Von
Knobelsdorff cercò di mettere un po' di distanza tra sé e l'altro,
ma questi, esternamente imperturbabile, strinse la presa talmente
forte che al tenente parve di avere intorno alla spalla la morsa di
un fabbro. Rimase immobile.
Madame
Salomé srotolava intanto le banconote con fare professionale. Von
Knobelsdorff diede un'occhiata: erano molti
soldi. Probabilmente, la totalità degli avventori che si trovavano
nel salotto le avrebbe lasciato a fine serata poco più della metà
di quella cifra.
“Intesi?”
la richiamò alla realtà l'agente segreto.
“Ma
ecco... non sarebbe nello stile della casa...”
Una
terza banconota si aggiunse alle prime due. “Non potrebbe fare
un'eccezione?” le chiese l'uomo suadente. “Domani il mio amico
tornerà al fronte, volevo offrirgli un vero letto.”
Sotto
lo sguardo indagatore della donna, il tenente non riuscì a fare
altro che abbassare lo sguardo. Si sentiva le guance in fiamme, gli
pareva che tutti lo stessero fissando. Quel dannato individuo lo
stava facendo passare per un invertito! Si morse il labbro
impedendosi ogni reazione, anche quando l'uomo abbandonò la presa
sulla sua spalla e gli scompigliò affettuosamente i capelli.
“Mi
capisce, madame?” lo sentì dire. Il tono era quello di chi cerca
la comprensione di una persona più adulta e più esperta per un
problema di cui non riesce a venire a capo. “È la nostra ultima
notte insieme.”
“Ma
certo,” rispose la donna con un sospiro. Si rivolse poi al tenente:
“E tu cosa dici, mon
petit chou, sei
contento di passare la notte col tuo amico? Fatti vedere.” Cercò
senza successo di sollevargli il mento.
“È
molto timido,” intervenne l'uomo.
“Oh,
ma certo, capisco. Del resto, è così giovane, non è vero?”
“Ha
diciotto anni.”
“Diciotto
anni! E domani andrà al fronte!” Fece un nuovo, profondo sospiro.
“Povero ragazzo.”
“La
camera, signora. E anche qualcosa da mangiare, se è possibile. Vede
com'è pallido?”
§
“Io
non so come si sia permesso di fare una cosa del genere!” sibilò
l'ufficiale. “Ora penseranno che siamo degli anormali.” Stava
cercando di togliersi la camicia, ma le mani gli tremavano così
tanto che non riusciva a slacciare i bottoni.
“La
aiuto?” gli propose il Werwolf serafico.
“Stia
lontano da me,” fu la
tagliente risposta.
L'agente
non replicò. Si mise nel piatto un altro po' dello stufato che
madame Salomé gli aveva fatto generosamente recapitare, si versò un
bicchiere di vino e riprese a mangiare. “Venga anche lei,” disse
dopo un po'. “Non sappiamo quando avremo la possibilità di fare un
altro pasto.”
“Non
ho fame.”
“Non
dica idiozie, è tutto il giorno che non tocchiamo cibo.”
“Si
dà il caso che il suo lauto pasto non mi interessi.”
Il
Werwolf emise un sospiro infastidito, quindi posò la forchetta e
sollevò lo sguardo a fissarlo in viso. “Si avvicini, prego,” gli
disse.
“Sto
bene qui.”
La
voce dell'agente segreto divenne un minaccioso ringhio: “Si
avvicini, ho detto, altrimenti vengo io da lei, e le garantisco che
non le piacerà.”
L'ufficiale
tentennò qualche istante, forse chiedendosi se fosse il caso di
rispondere per le rime, ma poi fece un paio di riluttanti passi nella
sua direzione.
A
quel punto, il Werwolf proseguì: “Ora mi ascolti bene, giovanotto,
perché questa spiegazione la sentirà una volta sola. La mia
priorità è portare a termine la missione che mi è stata affidata.
Se per raggiungere l'obiettivo devo uccidere, rubare, farmi passare
per un pederasta o qualsiasi altra cosa, io lo faccio, è chiaro?
Perché la considerazione di una tenutaria francese e di quattro
marmittoni mangia-roastbeef è niente, mentre servire la Patria è
tutto.” Fece una pausa, poi in tono duro soggiunse: “Mi sono
spiegato?”
Pur
guatandolo con occhi di fuoco, il giovane ufficiale chinò il capo in
un cenno affermativo.
“Molto
bene, allora la smetta di crearmi problemi, ne ho già abbastanza da
risolvere. Venga al tavolo, si nutra adeguatamente e assuma un
aspetto presentabile, poi valuteremo il da farsi.”
Il
giovane prese posto sulla sedia come se si stesse accomodando sui
carboni ardenti. Evitando con ostinazione di guardarlo in faccia, si
servì un po' di boeuf bourguignon, poi chiese: “Come le è venuta
in mente... quella cosa?”
“Che
cosa?”
“Far
finta che noi due...” Non riuscì nemmeno a terminare la frase, le
guance gli si accesero di nuovo.
Impassibile,
il Werwolf spiegò: “Certe donne sono molto sensibili ai drammi
degli omosessuali di bell'aspetto, lo tenga a mente per il futuro.”
“Io
non sono omosessuale,” replicò rapido l'ufficiale.
L'uomo
sorrise. “Ma è senz'altro di bell'aspetto.”
Il
più giovane si tese come per balzare via dalla sedia. “Cosa?”
“È
di bell'aspetto. E la smetta di sussultare come l'eroina di un
romanzo per fanciulle appena si toccano certi argomenti.”
L'ufficiale
si limitò a fissarlo torvo, poi abbassò lo sguardo sul piatto e ve
lo mantenne ostinatamente mentre mangiava.
Il
Werwolf si alzò, si guardò intorno. La stanza, piccola,
dall'arredamento modesto, non sembrava destinata all'uso dei clienti.
Forse un tempo era servita per ospitare una cameriera, ma era
chiaramente vuota da mesi: sui mobili c'era un leggero velo di
polvere e l'aria sapeva di canfora, più che di lavanda.
In
un angolo, seminascosto da un separé di stoffa, vi era un tavolino
su cui si trovavano una bacinella e una brocca piena d'acqua. Accanto
ai due recipienti vi erano due asciugamani dal bordo di macramè.
L'agente segreto ne sollevò uno e l'osservò: tessuto fine, morbido.
Tutt'altra cosa rispetto ai ruvidi teli di canapa che venivano
forniti agli avventori del bordello per le necessarie abluzioni.
Lo
posò. Alle sue spalle vi era un silenzio glaciale, rotto appena, di
tanto in tanto, da qualche lieve acciottolio di stoviglie. “Tutto
bene?” chiese, ma non ottenne risposta.
Immaginò
che il rigido ufficialetto volesse sdegnosamente ignorarlo.
Ripensò
a quello che gli aveva appena detto: se
per raggiungere l'obiettivo devo uccidere, rubare, farmi passare per
un pederasta o qualsiasi altra cosa, io lo faccio.
Una
frase che decisamente strideva con la scelta di portarselo dietro.
Considerata
l'importanza di quello che aveva con sé, avrebbe dovuto lasciare
indietro un generale di corpo d'armata, se gli avesse impedito di
muoversi con la necessaria velocità e segretezza, figurarsi quel
tenentino, che a ogni richiesta che considerava troppo strana si
impuntava come un cavallo ombroso.
Scosse
la testa quasi con indulgenza: forse non era ancora così immune da
certi sentimenti come credeva.
Si
girò a guardare il giovanotto e vide che si era addormentato con la
testa appoggiata sul braccio. Il piatto era ancora mezzo pieno, nella
forchetta era infilzato un boccone di carne.
Sorrise
fra sé e sé, poi prese la coperta e gliela stese sulle spalle.
|
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Capitolo 6 *** Capitolo 5 - Prima parte ***
Gente mia,
ecco
un altro mezzo capitolo, col quale spero vi sollazzerete. Come sempre
ringrazio la mia “Band of Brothers”, ovvero i pochi, felici
pochi, che mi stanno seguendo.
Un
ringraziamento particolare va, come sempre, a chi mi ha anche
lasciato un parere.
Ma
bando alle ciance: buona lettura!
Capitolo
5
Il
Werwolf aprì gli occhi. Doveva essere notte fonda, il buio era
impenetrabile.
Nell'aria
c'era odore di legno vecchio, di polvere, della canfora che
sicuramente Madame Salomé faceva mettere negli armadi, del borgogna
che era rimasto nel bicchiere. C'era anche un sentore – ma più che
altro una specie di calore,
una vibrazione vitale
– che proveniva dal suo accompagnatore.
Tese
l'orecchio: il silenzio era denso, corposo. Era come se ovunque fosse
stato steso uno strato di ovatta, che soffocava ogni suono. Il
fruscio delle coperte sembrava il crepitare di legna secca, il verso
di un uccello notturno echeggiò come il grido fatale di un'erinni.
Pur
nell'oscurità picea strinse gli occhi, mentre una sorda sensazione
di minaccia lo pervadeva.
Scivolò
cauto giù dal letto, si avvicinò tentoni alla finestra e la aprì.
Al fioco chiarore di un'esile falce di luna e poche stelle, colse un
alternarsi di tetti variamente inclinati, di abbaini e grondaie.
Per
un po' lo contemplò in silenzio, calcolando la difficoltà che
avrebbe offerto a un neofita, poi si volse nuovamente verso la
stanza. Quello che percepiva non era propriamente qualcosa che
provenisse dai sensi. Era un'impressione, più che altro. Una
generica sensazione di allarme.
Il
silenzio non era quello di una tranquilla casa immersa nel sonno:
somigliava piuttosto a quello di una foresta in cui si sta aggirando
un predatore.
Possibile
che the Bishop fosse già riuscito a trovarlo? Non era impossibile,
in effetti. Non era escluso, del resto, che qualcuna delle ragazze
del bordello fosse una spia inglese. La comparsa dei due sfortunati
amanti, che aveva così intenerito la maîtresse, poteva invece aver
insospettito gente più portata al pragmatismo.
In
ogni caso, tutto, in quella calma gelida, gli urlava che era il
momento di andarsene.
Studiò
l'alternarsi di spioventi su cui la luce fioca della luna disegnava
vaghe chiazze lattee. Si vide balzare sulle tegole, raggiungere
l'altana di cui i pallidi raggi disegnavano il contorno e da quella
scendere verso un secondo tetto, più largo e basso. Da lì avrebbe
facilmente trovato una grondaia lungo la quale sarebbe sceso fino a
terra.
Se
si fosse lasciato alle spalle l'ufficiale – cosa per nulla
difficile, dal momento che stava dormendo della grossa – the Bishop
se lo sarebbe trovato davanti, servito per così dire su un piatto
d'argento. L'avrebbe ignorato o avrebbe speso qualche minuto per
capire cosa sapeva della missione?
Si
voltò verso il punto dove si trovava il giovanotto e considerò fra
sé e sé che in qualche minuto potevano succedere molte cose.
Tentennò.
Forse the Bishop era troppo furbo per cadere in una trappola così
banale.
Forse
avrebbe ignorato il giovane – o magari l'avrebbe rapidamente
abbattuto – e poi avrebbe proseguito l'inseguimento.
Raggiunse
l'ufficiale, lo scosse delicatamente.
Egli
mugolò qualcosa di indistinto e sulle prime fece per girarsi
dall'altra parte.
“Dobbiamo
andare,” gli disse sottovoce.
“Cosa?”
“Dobbiamo
andare via.”
“Ma...”
In
quel momento, un lieve scricchiolio ruppe il silenzio che gravava
ovunque.
“Si
muova,” sibilò il Werwolf. Afferrò il giovane per le spalle e lo
scosse di nuovo.
Finalmente
l'altro si alzò. Ancora intontito dalla stanchezza, barcollò e
rovesciò il bicchiere, che si ruppe toccando il tavolo.
Al
suono del cristallo infranto, l'agente segreto dovette farsi forza
per non sobbalzare. “Si muova!” ripeté con urgenza, poi lo
sospinse verso la finestra.
Scavalcò
il davanzale.
Al
suo fianco, l'ufficiale sussurrò: “Che cosa sta facendo?”
“Fuori!”
In
quel momento la porta si schiuse con violenza e nel riquadro buio
comparve una sagoma umana. Ci furono due brevi sibili in rapida
successione e per un istante brillò nell'aria lo sbuffo bianco del
cuscino che esplodeva in un nugolo di piume. L'odore della cordite
saturò l'atmosfera.
“Fuori!”
ripeté il Werwolf.
Un
terzo colpo fece schizzare schegge di legno dallo stipite della
finestra.
I
due rotolarono sullo spiovente, inseguiti da altri colpi. Una tegola
andò in frantumi poco lontano.
L'umidità
della notte aveva coperto il tetto di una patina scivolosa. Von
Knobelsdorff fece qualche passo malfermo, perse l'equilibrio e cadde
a faccia in giù. D'istinto allargò braccia e gambe per non mettersi
a rotolare, ma l'inerzia lo spingeva comunque verso il basso, in
quello che gli appariva come uno spaventoso abisso di tenebre.
Si
contorse cercando di offrire la maggior superficie possibile alle
tegole incrostate di muschio, contrasse le dita alla ricerca di un
appiglio, ma il movimento non si arrestava.
Una
mano lo afferrò per i vestiti, frenando la sua caduta. Alzò gli
occhi e intravide il volto pallido dell'uomo. Colse, o forse immaginò
e basta, un suo sguardo di riprovazione. “Grazie,” brontolò, ma
l'altro stava già correndo verso la linea di colmo con l'agilità di
un felino.
Egli
si sollevò con cautela, spasmodicamente attento a non perdere di
nuovo l'equilibrio, e si mosse per raggiungerlo. Udì un breve sibilo
alle sue spalle, quasi ebbe l'impressione di percepire lo spostamento
d'aria di una pallottola. Balzò in avanti con nuova energia,
bilanciandosi con le braccia aperte come quando da piccolo andava a
pattinare sul ghiaccio.
Scorse
dinnanzi a sé l'uomo, più che altro come una sagoma appena
delineata dalla luce lunare. “Aspetti!” boccheggiò. Di nuovo
scivolò con un piede, si riprese all'ultimo, si chinò per
appoggiare sul tetto anche le mani.
Alle
sue spalle percepiva un tramestio leggero, segno che qualcuno altro
si stava muovendo sulle tegole, però con molta più agilità di lui.
Di
nuovo si sentì afferrare e sollevare quasi di peso. Barcollò,
annaspò nel vuoto con le mani protese, chissà come riprese a
correre, un piede di qua e uno di là dalla linea di colmo, poi d'un
tratto superò una balaustra, si trovò su un pavimento, poi di nuovo
su un tetto, meno inclinato del precedente.
Udì
rumore di cristalli infranti, si accorse che l'uomo aveva rotto e
aperto la finestra di un abbaino. Fece per entrarvi, ma l'altro lo
fermò e gli indicò di proseguire in silenzio. Lo guidò verso lo
spiovente che non riceveva la luce lunare.
A
quel punto, von Knobelsdorff entrò nel buio pesto. Non vedeva la
propria mano neppure se la teneva a un palmo dalla faccia, procedeva
carponi guidato unicamente dai lievi suoni che l'uomo produceva
avanzando.
A
un tratto, quasi gli andò a sbattere contro.
L'agente
segreto era fermo. Non appena si accorse di lui, con un sussurro
appena percettibile gli disse: “Ora scendiamo.”
Il
tenente si sentì gelare. “E come?”
“Lungo
la grondaia. Non ricominci a crearmi problemi con le sue domande
inutili, o questa volta la lascio davvero al suo destino.”
Un
istante dopo, l'uomo si stava già sporgendo dal bordo del tetto,
praticamente senza fare alcun rumore.
Von
Knobelsdorff deglutì. Gli occhi gli si erano un po' abituati al buio
piceo nel quale era immerso e percepiva vagamente i contorni delle
cose. Oltre l'ultima fila di tegole c'era un abisso che a occhio e
croce – considerando le rampe di scale salite per raggiungere la
camera – non doveva essere profondo meno di otto metri.
Mancare
un appiglio significava sfracellarsi a terra, e passare nel migliore
dei casi per un anonimo suicida. Niente Pour le Mérite e niente
gloria.
Si
adagiò sul ventre, sporse cauto le gambe nel vuoto, cercò coi piedi
qualcosa che somigliasse al supporto di una grondaia.
Strisciò
sempre più giù, obbligandosi a non pensare alla possibilità di un
tubo mangiato dalla ruggine o di un intonaco mezzo marcio.
Toccò
finalmente, molto più in dentro rispetto a quanto immaginasse,
qualcosa che gli rimandò un suono cavo e metallico. Si lasciò
scivolare un altro po', finì a penzolare nel vuoto mentre annaspava
freneticamente per ritrovare il tubo che aveva colpito un attimo
prima.
Infine
raggiunse la più alta delle staffe, che data la situazione gli parve
solida come la base di un monumento. Sospirò di sollievo, poi con
circospezione tastò in giro alla ricerca di un appiglio per l'altro
piede.
A
questo punto, veniva la parte difficile, ovvero abbandonare la presa
sul bordo del tetto per agguantare il tubo e tramite quello scendere
pian piano fino a terra.
Si
chiese dove fosse l'uomo, se avesse infine deciso di lasciarlo
indietro. Tendendo l'orecchio non coglieva che pochi fruscii
provenire dal basso, il che voleva dire che l'agente segreto era già
lontanissimo.
Staccò
con circospezione una mano e afferrò il tubo della grondaia, che dal
bordo del tetto piegava verso l'interno per raggiungere il muro.
Pensò
alle scimmie in Africa, rivide l'illustrazione di una bertuccia che
penzolava da un tronco di palma obliquo e gli parve di essere
esattamente nella stessa posizione, però senza l'agilità e la forza
del primate.
Staccò
la seconda mano. Trovandosi a sostenere tutto il suo peso, il tubo
emise uno scricchiolio sinistro. Egli cercò di non pensarci. Non
aveva molte alternative, del resto, poteva solo tentare di scendere,
possibilmente senza sfracellarsi al suolo. Cominciò a procedere
adagio verso il basso.
Cercò
di fare il vuoto in mente, di concentrarsi solo sui movimenti
necessari a scendere lungo la grondaia. Provò a guardare giù, ma
gli parve che l'abisso di buio nel quale stava scendendo fosse
un'enorme bocca spalancata, pronta a inghiottirlo. Serrò gli occhi
per un istante mentre un brivido gli percorreva la spina dorsale.
Nonostante il fermo proponimento di pensare solo alla discesa, gli si
ripresentavano di continuo episodi della sua vita. Qual era il
rischio maggiore che aveva mai corso? Si era trovato su un aereo in
fiamme, oppure in sella a un cavallo imbizzarrito, fuori controllo,
che correva con la schiuma alla bocca nella terra di nessuno. Era
passato con noncuranza accanto a un obice che sporgeva da terra per
metà, salvo poi essere investito un minuto dopo dall'onda d'urto
della sua esplosione.
Scendere
lungo una grondaia umida nel buio pesto era più o meno rischioso?
Rinunciò
a darsi una risposta. Continuò a ripetere i movimenti della discesa
in modo meccanico e possibilmente sempre uguale: staccare un piede,
farlo strisciare lungo la grondaia verso li basso, allungare adagio
le braccia per far scendere anche il corpo, trovare un sostegno col
piede, staccare anche l'altro piede, portarlo all'altezza del
primo...
Qualcosa
gli si strinse intorno a una caviglia.
Egli
sussultò, perse la presa rimanendo appeso solo per le braccia, si
contorse nel vuoto alla ricerca di un nuovo appiglio mentre una
sferzata di adrenalina gli troncava il respiro.
“La
pianti di agitarsi,” lo ammonì la voce asciutta dell'uomo,
“dobbiamo trovare una chiesa.”
Ancora
sotto l'effetto della sorpresa, von Knobelsdorff non poté altro che
ansimare: “Cosa?”
“Si
muova,” fu la risposta dell'altro. “E stia zitto, possibilmente.
Ci sono pattuglie ovunque.”
Il
tenente abbandonò la presa sulla grondaia e prese contatto col
selciato. Non fece in tempo a godersi la sensazione di sicurezza
delle pietre solide sotto i piedi che già l'uomo l'aveva afferrato
per un braccio e lo stava spingendo via dalla strada.
Si
infilarono in un androne scomparendo nell'oscurità. Dal fondo della
via cominciò a farsi udire il ritmo cadenzato di un reparto in
marcia. Ci furono fugaci guizzi di luce.
I
passi si avvicinarono, poi rallentarono. Comparvero altri rumori,
come di qualcosa che battesse contro qualcos'altro traendone un suono
cavo. Uno dei soldati disse qualcosa, un altro rispose.
“Polizia
militare,” sussurrò l'uomo.
Von
Knobelsdorff si girò verso di lui, cercando di individuarlo
nell'oscurità, ma percepì unicamente il vago calore che emanava la
sua persona. Colse il sibilo lieve di una lama che veniva estratta
dal fodero.
I
colpi continuavano, era chiaro che qualcuno stava battendo col calcio
del fucile contro imposte e porte.
Di
nuovo qualcuno parlò, ma venne zittito bruscamente e l'operazione
proseguì in un silenzio attento.
L'ufficiale
si chiese cosa stesse succedendo e perché. Era chiaro che quegli
uomini erano alla ricerca di qualcosa: mancati rientri al
contrappello, violatori del coprifuoco, disertori... oppure loro due?
Possibile che l'agente inglese che stava dando loro la caccia fosse
già riuscito ad allertare una o più pattuglie di polizia militare?
Si
appiattì più che poteva contro il muro. Avrebbe voluto chiedere
all'uomo cosa fare, ma quello era chiaramente il momento di mantenere
l'assoluto silenzio. I rumori si avvicinarono, l'agente segreto al
suo fianco si tese come un felino.
La
lama catturò un barbaglio di luce e per un istante il suo filo
brillò gelido.
I
rumori all'esterno frattanto sembravano essersi fermati. C'era
scalpiccio di passi poco lontano, qualcuno tossì. Si udì l'ormai
noto battere dei calci di fucile contro il legno.
L'agente
segreto era come una freccia incoccata. Von Knobelsdorff capì che se
qualcuno si fosse affacciato nell'androne, probabilmente non ne
sarebbe uscito vivo.
E
poi cosa sarebbe successo? Quanti soldati c’erano sulla strada?
L'uomo li avrebbe abbattuti tutti? Avrebbe dovuto aiutarlo? In che
modo? Aveva ancora la sua pistola, ma capiva che sparare un colpo in
quel frangente avrebbe come minimo svegliato tutto il paese, con
ovvie conseguenze.
La
porta si schiuse. Il pennello di luce di una torcia si insinuò
all'interno, dardeggiò qua e là.
Giunse
da fuori una domanda in inglese. Chi era affacciato sull'androne
rispose con un diniego. La figura sulla soglia tentennò, fece girare
la lanterna schermata, poi fermò il debole fascio di luce contro la
parete. Sopraggiunse un'altra figura.
Nel
silenzio assoluto echeggiò un rumore decisamente corporale. Il nuovo
arrivato ridacchiò, il primo replicò qualcosa che suonava come una
protesta, ma vi si coglieva un'intonazione scherzosa.
La
porta si richiuse.
I
passi e i colpi sul legno si allontanarono.
Solo
dopo qualche minuto von Knobelsdorff sentì l'uomo rilassarsi. Lo udì
emettere il fiato come se fino a quel momento l'avesse trattenuto; la
lama scomparve con lo stesso breve sibilo di quando era stata
estratta.
Subito
dopo il tenente sentì sul braccio l'ormai ben nota presa che questi
usava per attirare la sua attenzione. Si chiese come avesse fatto a
individuare con tanta precisione la posizione dell'arto nella
completa oscurità.
Forse
vedeva al buio come i gatti.
“Andiamo,”
sussurrò l'uomo con voce appena udibile.
Il
tenente rinunciò a chiedere dove sarebbero andati. Perché tanto non
avrebbe ricevuto risposta, perché bisognava stare in silenzio, ma
anche perché cominciava a sentirsi esausto e lasciarsi condurre era
un buon modo per risparmiare energia.
Sentì
la presa sul braccio guidarlo e docilmente la seguì.
Uscirono.
La strada era deserta, alla debole luce della luna si intravedevano
appena i contorni degli edifici. Nell'aria vi era un silenzio denso,
carico di oscura minaccia.
Von
Knobelsdorff si guardò intorno, quasi aspettandosi di veder
comparire da qualche parte l'agente che li stava inseguendo, ma tutto
era immobile e gli unici suoni che si udivano erano quelli che loro
stessi producevano.
Cauti
come animali selvatici, si misero in marcia.
Il
Werwolf individuò un campanile. Per quanto scavasse nella memoria,
ripercorrendo la topografia della cittadina, non riusciva a ricordare
a quale chiesa appartenesse. Poco male, l'importante era che ci fosse
dentro quello che gli serviva.
Si
appiattì in un lembo d'ombra, l'ufficiale lo imitò in silenzio.
L'agente segreto si chiese se avesse rinunciato finalmente a
discutere con lui per ogni singola cosa o se fosse solamente esausto.
Probabilmente
si trattava della seconda opzione, ragionò, e poi distolse
l'attenzione dal suo accompagnatore per rivolgerla all'edificio
sacro.
Era
poco più di una chiesetta, la struttura di base era quella solida di
un edificio romanico, ma quel poco che si coglieva del suo aspetto
lasciava indovinare successivi rimaneggiamenti barocchi. Suppose che
di giorno sembrasse una specie di piccola bomboniera, rosa o color
crema, con volute bianche come panna montata un po' ovunque.
Nella
canonica, che emergeva dal buio come una solida sagoma nera, non si
indovinava il minimo punto di luce.
Dato
l'orario, il tranquillo parroco di provincia che la occupava doveva
essere immerso nel sonno.
Attraversò
la strada silenzioso, muovendosi di ombra in ombra. Raggiunse la
chiesa, iniziò a percorrerne le pareti alla ricerca di una porta.
Un
debole tramestio – tipico di chi sta cercando di muoversi senza
rumore ma non è addestrato a farlo – gli fece capire che
l'ufficiale l'aveva raggiunto. Si limitò ad afferrargli un braccio
nel buio e a spingerlo contro il muro, dove le ombre erano più
dense.
Ricominciò
poi il suo lavoro di ispezione.
Alla
fine trovò una porticina di legno alla base del campanile, nel punto
in cui la canonica si collegava alla navata principale. Palpò la
serratura, che gli parve una semplice piastra di ferro irruvidita
dalle intemperie. La forma della toppa suggeriva una chiave a mappa
singola, probabilmente di fattura antica.
Trasse
di tasca grimaldello e tensori.
§
The
Bishop soffocò un'imprecazione. Strinse gli occhi, cercando di
penetrare l'oscurità densa del coprifuoco. Tese l'orecchio, ma tutto
era immobile e silenzioso.
Quel
dannato tedesco era riuscito a sfuggirgli di nuovo.
Ripensò
a una massima di Epicuro che recitava: guardati dal desiderio, esso è
la fonte di ogni dolore.
Gli
parve che la frase si attagliasse particolarmente a quanto appena
accaduto.
Per
un attimo era stato a tanto così da lui. L'aveva intravisto sul
tetto, mentre correva sulle tegole con l'agilità di un felino. Per
un istante era anche riuscito a prenderlo di mira, ma l'istante dopo
il Werwolf era già scomparso.
Era
stata la brama di catturarlo che gli aveva tolto la lucidità. Quando
aveva udito il rumore del vetro infranto, e successivamente trovato
la finestra dell'abbaino rotta, aveva quasi sentito la stoffa della
sua camicia sotto le dita, il guizzare dei suoi muscoli tra le mani
serrate.
Aveva
pregustato il suo respiro ansante, il suo divincolarsi rabbioso.
Era
stato un grossolano errore, ovviamente. Il Werwolf gli aveva teso una
trappola e lui c’era caduto come l’ultimo dei novellini: nessun
agente segreto degno di questo nome avrebbe fatto tutto quel rumore
rompendo un vetro, nessuno si sarebbe lasciato dietro tracce così
evidenti.
Emise
un sospiro. Ovunque fosse il Werwolf, ormai era fuori dalla sua
portata. Era riuscito a sgusciare fra le maglie della rete che lui
aveva pur rapidamente intessuto intorno all’edificio del bordello e
ancora una volta aveva fatto perdere le proprie tracce.
Cercò
di ragionare: cos’avrebbe fatto se fosse stato al posto suo? Di
certo non si sarebbe arrischiato a trasmettere via radio i dati in
suo possesso. Sicuramente il Werwolf aveva intuito – se non sapeva
già per certo – che l’Inghilterra era in possesso dei codici
radio segreti dell’Impero Tedesco fin da prima del conflitto.
Non
li avrebbe nemmeno affidati ad altre persone: se lui era in grado di
sfuggirgli, altri non avrebbero avuto quell’abilità.
Non
li avrebbe infine nascosti per andarli a recuperare in un altro
momento: era vitale che quelle informazioni raggiungessero prima
possibile il quartier generale tedesco.
Quindi
che cosa avrebbe fatto?
Senza
dubbio avrebbe cercato di raggiungere più in fretta possibile colui
o coloro cui avrebbe dovuto comunicare quei dati.
Ricordò
i safari in Africa: per catturare un leopardo non era necessario
addentrarsi nella savana, bastava appostarsi presso una pozza
d'acqua. La bestia prima o poi sarebbe arrivata per bere, e a quel
punto sarebbe stata con relativa facilità abbattuta.
Allo
stesso modo, non aveva senso setacciare la cittadina alla ricerca del
Werwolf: la cosa più razionale da fare era presidiare la stazione
ferroviaria e le strade in uscita.
Che
stesse nascosto lì dentro, se voleva. Poteva starci anche fino alla
fine della guerra. Ma se avesse provato a uscire avrebbe trovato lui
ad attenderlo, esattamente come il cacciatore presso la pozza
d'acqua.
Raggiunse
il più vicino dei posti di guardia inglesi. Al suo apparire, il
comandante della sezione, un sergente, scattò sull'attenti e salutò,
quindi a voce alta e chiara scandì: “Ancora nulla, signor
colonnello!”
Abituato
al silenzio della segretezza, the Bishop ebbe un fugace moto di
fastidio a quella reboante ostentazione di vigore marziale, ma subito
dopo recuperò una perfetta impassibilità. “Dica agli uomini di
continuare a cercare,” ordinò conciso. Era ben consapevole che
quella volonterosa soldataglia non avrebbe trovato assolutamente
nulla, il Werwolf era troppo furbo per loro, ma era come scatenare i
battitori nella foresta: non avrebbero certo catturato il leopardo,
ma l'avrebbero comunque disturbato.
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Capitolo 7 *** Capitolo 5 - Seconda parte ***
Gente
mia,
ecco
la seconda parte del quinto capitolo, si spera per il vostro
sollazzo.
Come
sempre ringrazio molto tutti coloro che mi stanno seguendo, chi mi ha
messo in qualche lista e soprattutto chi ha avuto la gentilezza di
lasciarmi un parere sulla vicenda.
Enjoy
(si spera)!
Uscì
dal posto di guardia assorto in una sua metaforica partita a scacchi.
Si era creato un certo fermento sulla strada, c’erano soldati che
giravano su e giù e lanterne che spazzavano muri e selciato. Si
udivano un vociare sommesso e lo scalpiccio metallico di scarponi
dalle suole chiodate.
Qua
e là le finestre dei palazzi erano socchiuse, colse addirittura la
sagoma di una donna affacciata.
Fece
scorrere lo sguardo fino alla sommità degli edifici, quasi sperando
di cogliervi la presenza del suo avversario. Non lo vide, ma era
certo che non fosse lontano.
Magari
c’era proprio lui, dietro una di quelle finestre socchiuse, e lo
stava tenendo d’occhio.
Tiene
gli occhi fissi sulla stufa, che è poco più di una scatola oblunga
di metallo in cui arde un fuoco di sterco essiccato. Non c'è legna,
in alta quota, e bisogna riscaldare con quello che si trova.
La
locanda è composta da una sola stanza, col soffitto basso e le
pareti dipinte. Col passare degli anni – chissà quanti, poi – le
pitture si sono annerite e solo qua e là si distingue ancora
qualcosa: un loto dai mille petali una volta bianco e rosato, il
sorriso remoto di una Tara, la mano artigliata di un demone.
Fuori
infuria la tempesta. Il vento ulula nelle gole ghiacciate, spinge
turbini di neve in ogni recesso. Le bandiere lung-ta schioccano così
forte che si odono persino all'interno, nonostante il crepitare della
fiamma e il brusio sommesso degli avventori.
“Queste
sono molte preghiere,” dice Tenzin, il più vecchio ed esperto dei
suoi sherpa. Annuisce e sorride, i suoi occhi obliqui diventano
fessure nel volto segnato dalle intemperie. “Forse anche le tue,”
soggiunge poi. Annuisce con convinzione.
Egli
annuisce a sua volta, chiedendosi se ci sia una divinità, da quelle
parti, disposta a prendersi a cuore la sua situazione.
Lo
sherpa toglie dalla stufa un vecchio bricco di latta ammaccato, versa
una tazza di tè fumante, vi aggiunge un pezzo di burro giallo e una
presa di un sale grosso e appiccicoso che trae da una scatoletta di
corno, poi la spinge nella sua direzione. Egli l'accetta con un cenno
del capo.
Stringe
il recipiente fra le mani, lascia che per qualche secondo il vapore
bollente gli scorra sul viso. Ormai il vago odore di rancido del
burro di yak ha smesso di dargli fastidio. Ha imparato anzi ad
apprezzare la bevanda corposa che ne risulta, il suo gusto deciso. La
sua capacità di riscaldarlo dopo giornate intere trascorse nel gelo
dell'Himalaya.
Si
protende appena in avanti, cercando di scrutare attraverso una delle
piccole finestre che danno luce all'ambiente.
Tenzin
fa una risata roca. “Cerchi lui?”
Egli
annuisce. Lo cerca da giorni, in effetti. Sa che sta arrivando, o
forse è già arrivato, ma non sa quale passo sceglierà per
andarsene.
Si
fa udire la voce dello sherpa: “Oggi lui non viene qui.”
“Questa
è l'unica strada praticabile.”
L'altro
scuote la testa. Riempie una tazza anche per sé, vi aggiunge burro e
sale, l'annusa e aggiunge altro burro, poi dice: “Se cerchi yeh-teh
devi pensare come lui, altrimenti non lo trovi.”
Yeh-teh,
il mostro delle montagne. Sa che i tibetani credono ciecamente alla
sua esistenza, sa che qualcuno giura di averlo anche visto. Si
domanda se Tenzin sia uno di quelli.
“Sud'ba
è un uomo, non un mostro,” risponde, e nel pronunciare quel nome
rievoca l'immagine di un ufficiale alto, di bell'aspetto, impeccabile
nell'elegante uniforme dei cosacchi.
Lo
sherpa tira fuori dalla sua bisaccia una tavoletta di legno quadrata
su cui è tracciato un diagramma di linee che si intersecano
perpendicolari e diagonali. “Bagh-Chal,” dice. Rovescia sul
tavolo il sacchetto delle pedine, quattro tigri e venti capre. “Tu
giochi?” chiede poi.
Egli
annuisce, anche se in quel gioco apparentemente semplice non è
ancora riuscito a vincere una partita. Le sue tigri finiscono sempre
confinate in un angolo del tavoliere e le sue capre vengono
falcidiate senza pietà.
Come
se avesse espresso quel pensiero ad alta voce, Tenzin fa una risatina
e dice: “Devi capire.”
“Conosco
le regole del gioco,” risponde vagamente piccato.
Lo
sherpa scuote la testa. “No, capire questo.” Si punta un indice
sulla fronte. “Capire cosa voglio fare.”
“Non
so leggere nella mente.”
Tenzin
si stringe nelle spalle, gli occhi scompaiono di nuovo nel volto
sorridente. “E allora tu sempre perdi,” è la serafica
conclusione, dopodiché gli chiede: “Tigri o capre?”
“Tigri.”
“Tu
vai a caccia. Ma tu sai cosa farà la tua preda? Dove scapperà?”
Le
parole dello sherpa hanno il valore di una rivelazione, in effetti.
Diventano la metafora di quella spedizione, che sembra sotto ogni
aspetto destinata a fallire. “Sud’ba vuole arrivare a Lhasa,”
dice, assorto nel pensiero che da giorni gli sta martellando in
testa.
“Lui
va,” conferma l’altro, “ma non oggi.”
“Passerà
di qui, è l’unico sentiero praticabile.”
Tenzin
scuote la testa. “Le tue tigri oggi non mangiano niente,”
conclude deluso.
Egli
non risponde. Fissa assorto il tavoliere, poi getta uno sguardo alle
pedine d’ottone. Sud’ba non è certo una capra, che scappa
belando sulle balze di roccia per sfuggire alla tigre, e non è
nemmeno yeh-teh, che si nasconde sulle cime delle montagne e forse
non esiste nemmeno.
È
un aristocratico di antica famiglia, discendente da una stirpe di
cavalieri che già nel medioevo erano mercenari liberi da ogni
obbligo feudale. Un doppiogiochista scaltro, che in definitiva serve
solo se stesso.
L’Impero
Britannico lo cerca per alcuni documenti che avrebbe sottratto con
l’intento di venderli al miglior offerente.
Si
chiede se l’Impero Russo lo stia cercando per lo stesso motivo. Non
sarebbe impossibile, in effetti.
Chi
sarà il destinatario di quel materiale? Chi deve incontrate Sud’ba
a Lhasa?
Rievoca
la capitale tibetana, l’immenso Potala, il Jokhang dai tetti d’oro.
La
voce di Tenzin lo richiama alla realtà:“Muovi le tigri.”
Egli
tende meccanicamente la mano verso una delle sue pedine, mangia una
capra, pensando distrattamente che gli sembra troppo facile trovare
una capra proprio lì, come pronta per la sua tigre. Di nuovo guarda
fuori. Stringe gli occhi, cercando di capire, attraverso quello che
sembra un oblò da nave riciclato, se la tempesta stia calando di
intensità.
Lo
sherpa segue il suo sguardo, poi sorride e gli indica gli altri
avventori della locanda, ovvero una carovana di mercanti. “Se loro
stanno qui, è segno che non si può andare,” asserisce. “Loro
vogliono andare presto a Lhasa, ma oggi neanche yeh-teh esce.” Fa
una risatina, muove una capra. “Tua tigre non salta più,” dice
poi.
Egli
realizza che una delle sue quattro pedine è già bloccata e reprime
un’imprecazione.
Tenzin
ridacchia di nuovo.
Una
raffica di vento particolarmente violenta fa salire dalla vallata un
ululato lugubre, che davvero sembra il richiamo di una belva in cerca
di preda. Egli si guarda intorno: l’oste sta parlando con qualcuno,
il bricco dell’acqua sobbolle piano, facendo salire verso il
soffitto dipinto una colonna di vapore diafano. Le capre stanno
dilagando sul tavoliere del Bagh-Chal come formiche su un animale
morto.
“Devi
pensare a cosa fai,” lo ammonisce lo sherpa. Muove un’altra delle
sue pedine, poi solleva su di lui lo sguardo astuto.
“Ci
penso eccome,” è la risposta. E davvero sta pensando al suo
avversario, e a quello che potrebbe fare. Sud’ba è un cosacco, è
un uomo orgoglioso, forte e consapevole della propria forza. È
coraggioso e scaltro. Sa che chiunque altro sarà rintanato da
qualche parte ad aspettare la fine della tempesta, quindi dal suo
punto di vista non vi è momento migliore per attraversare il passo e
raggiungere la città.
“La
mia pelliccia,” ordina dopo quelle riflessioni.
Tenzin
lo fissa stupito. “Tu vuoi uscire?”
Per
tutta risposta, egli tira fuori una mappa della zona e la spiega sul
tavolo. “Andrà verso Kampa,” dice con sicurezza. Indica il
passo, che sulla cartina ingiallita dall’uso appare come una tenue
linea tratteggiata fra due aree marrone scuro.
“Kampa
impossibile,” è la categorica risposta.”Troppa neve.”
“Non
per Sud’ba. Lui è uno che ci è nato, nella neve.”
Il
vento ghiacciato morde, il furioso turbinare dei fiocchi candidi
riduce la visibilità a pochi metri. Sebbene sia pieno giorno, la
luce è quella di un crepuscolo spento.
Le
creste aguzze del Kampa sono quasi sepolte dalla coltre di neve, ma
si colgono ancora i vividi sprazzi di colore delle bandiere lung-ta
che adornano il passo.
Egli
volta la testa, per evitare che le raffiche gelide gli facciano
lacrimare gli occhi e successivamente congelare le lacrime. Si
accuccia alla base di uno sperone di roccia, si stringe nella
pelliccia d’orso e lascia che la coltre bianca si depositi anche su
di lui, nascondendolo alla vista.
Passa
un tempo imprecisato, il vento ulula, la luce lentamente illividisce.
Una
figura compare dall’avvallamento in cui si snoda il sentiero. Ha
una pelliccia completamente bianca e procede rapida, muovendosi con
agilità nonostante la neve fresca arrivi ben oltre le ginocchia. Non
ha con sé né sherpa né altri accompagnatori.
Dà
l’idea di un predatore scattante, una creatura che basta
perfettamente a se stessa.
Egli
inforca il binocolo. Per quanto infossato nell’ampio cappuccio di
pelo, la figura ha un volto. Coglie labbra serrate, che ad ogni balzo
fanno uscire un getto di vapore denso. Indovina una pelle arrossata
dal freddo ma bianca. Dietro le spesse lenti scure che il misterioso
individuo indossa, è pronto a giurarlo, ci devono essere occhi color
acquamarina, dall’espressione beffarda.
“Sud’ba,”
mormora fra sé e sé.
Come
se l’avesse sentito, il russo si ferma all’improvviso, si guarda
intorno. È nel mezzo del canalone, circondato da un’uniforme
coltre bianca, ma non accenna a volersi mettere al coperto.
Egli
apre la sacca, ne trae adagio il fucile col mirino da tiratore
scelto. È una buona arma, che l’ha servito tante volte. Non
fallirà.
Appoggia
adagio la canna su una roccia, spinge una pallottola nella camera di
scoppio. Si sfila il guanto dentro per poter appoggiare l’indice
sul grilletto.
Sud’ba
guarda verso di lui. Possibile che si sia accorto della sua presenza?
Si morde il labbro costringendosi all’immobilità, mantiene
l’occhio fisso sul mirino.
Poi
il russo riprende a camminare. In breve gli sta dando le spalle,
ancora qualche passo e oltrepasserà la cresta di Kampa.
Una
bandiera improvvisamente si stacca, strappata via dalla furia della
tempesta, un lampo rosso passa sul canalone e scompare.
Echeggia
la detonazione, secca nel lamento lugubre del vento.
Il
terribile Sud’ba, il fosco avventuriero cosacco che per anni si era
preso gioco dei servizi segreti di tutta Europa, era morto con una
fucilata nella schiena, come un cinghiale durante una battuta di
caccia.
Il
fatto non l’aveva sconvolto più di tanto, obiettivamente. La prima
cosa che aveva imparato intraprendendo l’attività di spia era che
in certi ambiti non c’è spazio per sentimentalismi e ideali. Il
fine giustifica i mezzi, tutto il resto sono solo pastoie che creano
problemi ed espongono a rischi inutili.
Diversi
colleghi erano morti per non aver imparato da subito quella
fondamentale verità.
Ripensò
fugacemente al giovanotto di cui aveva cominciato l’addestramento:
ucciso da un attimo di sentimentalismo. Aveva visto il povero
Werwolf rantolante sul pavimento – e non era escluso che
quell’esibizione di sofferenza fosse per la maggior parte una messa
in scena a beneficio dell’inesperto ufficiale – e si era fatto
prendere dalla pietà.
L’aveva
trovato con il collo rotto, probabilmente non si era nemmeno reso
conto di crepare.
Guardò
di nuovo in alto: le finestre si erano richiuse tutte. La gente aveva
già visto il poco che c’era da vedere, nella strada era nuovamente
calato il silenzio.
Tese
l’orecchio, ma non si udiva alcun rumore, neanche una lontana eco
di cadenza militare. Non c’era nemmeno quella sensazione di
presenza,
indefinibile a parole ma chiara a chiunque si fosse mai trovato in
caccia, che la preda vicina era in grado di trasmettere.
Posto
che il Werwolf fosse una preda, ovviamente.
In
ogni caso, lì non c’era più.
Si
incamminò adagio, badando a mantenersi rasente ai muri. Le tenebre
non erano più quelle fitte della notte fonda, il contorno dei
palazzi era una sagoma nera su uno sfondo appena più chiaro.
Di
nuovo pensò al Werwolf, cercò di fare proprio il suo modo di
pensare. Tornò col ricordo a certi sciamani che aveva incontrato
nelle sue peregrinazioni per l’Asia minore: aveva assistito ai
rituali di viaggio extracorporeo. Lui stesso, dopo ingestione di
opportune sostanze, gettato nella trance di possessione dal battere
ritmico dei tamburi, aveva corso brevemente nella steppa col proprio
spirito guida.
Per
un attimo si chiese se quegli sciamani avrebbero potuto aiutarlo a
entrare nella mente del suo avversario, ma subito dopo, con un’alzata
di spalle sprezzante, si disse che ragionamento e deduzione lo
avrebbero aiutato molto di più, esattamente com’era accaduto in
Tibet con Sud’ba.
Sono
un agente segreto in territorio nemico,
si disse, ho con me
informazioni di vitale importanza. Devo rientrare dietro le mie linee
più rapidamente possibile. Cosa farò?
In
breve la risposta gli balenò in mente, chiara come il sole che di lì
a poco sarebbe sorto.
§
Il
tenente si voltò verso un alto letto dalla testata in ferro dipinto.
Da esso penzolava una mano ossuta, rugosa, percorsa da vene
azzurrine. “Era proprio necessario ucciderlo?” chiese.
L’agente
segreto, impegnato a ispezionare il contenuto di un armadio, senza
voltarsi rispose: “Non se n’è nemmeno accorto.”
“Bastava
legarlo.”
L’uomo
scosse la testa. “Col rischio che si mettesse a urlare? No, meglio
essere sicuri.” Poi, dopo una pausa: “Lei è cattolico o
protestante?”
Von
Knobelsdorff lo fissò stupefatto. “Prego?”
L’altro
si voltò verso di lui e lentamente scandì: “Voglio sapere se è
cattolico o protestante.”
“Che
c’entra?”
“Sa
dire il rosario o no?”
Il
giovane ufficiale aggrottò le sopracciglia. Si sporse a guardare il
corpo abbandonato sul letto, poi replicò: “Qualche spiegazione in
più non sarebbe fuori luogo.”
L’uomo
annuì come per prendere atto della richiesta, ma non disse nulla. Si
limitò a estrarre dall’armadio una veste talare e a misurarsela
sul corpo. “Questa può andare,” concluse poi.
Von
Knobelsdorff strinse le labbra contrariato, con la sensazione che
quel modo di fare fosse una specie di prova di forza nei suoi
confronti: lui faceva le domande, il tizio non rispondeva. A questo
punto, lui aveva due scelte: seguirlo pedissequamente o impuntarsi ed
esigere una risposta a tutti i costi.
Si
chiese se sarebbe riuscito a prevalere su uno così, verbalmente o
fisicamente, e si accorse di non esserne poi tanto sicuro. Di certo
non avrebbe avuto il pelo sullo stomaco che il suo accompagnatore
aveva più volte dimostrato di possedere.
Di
nuovo fece girare lo sguardo sulla stanza, semplice al punto da
apparire spoglia. Gli sembrava di essere imprigionato in una palude,
perduto, senza la più pallida idea di dove si trovava e di come
avrebbe fatto ad andarsene. In una circostanza del genere, poteva
permettersi di dettare condizioni all’unica persona che
essenzialmente lo stava tenendo lontano dalla prigionia e forse dal
plotone d’esecuzione?
“Non
so dire il rosario,” sospirò.
“Alla
buon’ora,” rispose l’uomo, che nel frattempo aveva indossato la
talare e stava finendo di abbottonarsela. “Il latino lo sa?”
“Certo.”
“Andiamo
in sacrestia.”
“Cosa
vuole fare?” chiese d’istinto von Knobelsdorff. Poi scosse la
testa e soggiunse: “Tanto non mi risponderà, vero?”
L’altro
si limitò a lanciargli una veste talare e a dire: “Tenga sotto
pantaloni e camicia.”
“Non
ha pensato che potrei contribuire maggiormente alla riuscita della
missione, se sapessi cos’ha intenzione di fare?”
Il
Werwolf alzò gli occhi al cielo. Era come provare a ballare il
valzer con uno che non solo non aveva mai ballato in vita sua, ma non
aveva mai nemmeno sentito un brano di musica.
Peccato
che dalla riuscita di quella danza dipendesse la vita di entrambi.
Si
voltò a guardare il giovane ufficiale, che con la talare addosso
sembrava un pretino appena uscito dal seminario. “Primo, si parla
in francese,” lo ammonì, “anche fra di noi.” Aprì un alto
armadio di paramenti, ne trasse una semicotta e una stola viola,
indossò entrambe. “Sa il francese, vero?”
“Certo,”
giunse la piccata risposta.
“Lo
parla bene?”
“Da
quando avevo sei anni. Avevamo una istitutrice di Parigi.”
“Molto
bene, speriamo che non si sia limitata a dare lezioni di lingua solo
a cocchieri e valletti.” Senza dare al giovane il tempo di
elaborare un’indignata replica, il Werwolf proseguì: “Usciremo
vestiti da preti. Io sarò il parroco, lei il vicario. Come vede, ho
i paramenti dell’estrema unzione, cosa che già dovrebbe instillare
nella gente un sano rispetto, inoltre reciteremo il rosario e nessuno
oserà interromperci, nemmeno gli inglesi, anche se non capiranno
nemmeno cosa stiamo facendo.”
L’ufficiale
abbassò gli occhi sul proprio abito, poi li alzò su di lui. Aveva
l’espressione di chi si trova davanti una serie di pezzi meccanici
sconosciuti e sa che la sua vita dipende da quanto rapidamente
riuscirà ad assemblarli. “Le ho detto che non so recitare il
rosario,” gli ricordò, con l’aria di star facendo una
confessione oltremodo sconveniente.
“Dovrà
solo leggere,” rispose il Werwolf indicandogli un breviario. In un
tono che avrebbe voluto suonare rassicurante soggiunse: “Faremo
qualche prova.”
“Ma...”
L’ufficiale appariva sempre più preoccupato. “Ecco, poi dove
andremo, così combinati?”
“Alla
stazione.”
“Ma
sarà piena di soldati inglesi!”
“Le
viene in mente qualche altro modo per raggiungere le linee?”
L’altro
si strinse nelle spalle. “Non lo so, nasconderci, muoverci di
notte. Non farci vedere, insomma.”
Il
Werwolf ghignò. “Conosce il detto, non è vero? Il modo migliore
per nascondere qualcosa è lasciarlo in bella vista.”
“Penso
che sia un detto stupido,” replicò l’ufficiale incrociando le
braccia sul petto.
Di
nuovo, la spia alzò gli occhi al cielo. Gettò uno sguardo alla
finestra, dietro la quale si indovinava già il chiarore dell’alba.
Se tendeva l’orecchio, si udivano i primi suoni della giornata che
cominciava, il carretto sferragliante di un ortolano, lo sbattere di
qualche imposta che veniva aperta per dar aria alle stanze.
Sentì
anche il passo cadenzato di una pattuglia.
“Qui
non stiamo giocando,” ringhiò senza nemmeno voltarsi. “Stiamo
correndo un pericolo mortale, abbiamo alle calcagna il miglior agente
segreto britannico e siamo in pieno territorio nemico, quindi lei ha
due scelte: o fa esattamente quello che le dico, senza saltare su
ogni due minuti con una delle sue domande insulse, oppure se ne va
dove preferisce, e rientra dietro le linee tedesche con i metodi che
le paiono più opportuni.”
A
quelle parole, il giovanotto si mosse fino a trovarsi faccia a faccia
con lui, strinse i pugni e furibondo esordì: “Senta un po’,
signore...”
“No,
senta lei,” lo interruppe bruscamente il Werwolf, “la mia
pazienza finisce adesso. Le mie condizioni gliele ho dette, valuti
lei cosa preferisce fare.”
Raggiunse
la specchiera, raccolse dal piano di un mobile un collarino bianco e
cominciò a sistemarselo sotto il colletto dell’abito talare con
gesti nervosi. Non era escluso che l’indignato ufficialetto,
orgoglioso e permaloso come una signorina di buona famiglia, se ne
andasse per i fatti suoi, finendo ovviamente per farsi arrestare
appena messo piede fuori dalla canonica, ma era arrivato il momento
della verità: ormai non poteva più permettersi indugi, nemmeno per
quel bel visetto. La Patria veniva prima.
“Si
decida,” lo incalzò.
§
La
stazione era un guazzabuglio di uniformi color khaki dell’esercito
britannico, nel quale si coglieva qua e là il carta da zucchero di
qualche divisa francese. Ogni tanto passavano dei civili, uomini
perlopiù, ma anche donne, che invariabilmente, anche se attempate o
con i figli per mano, suscitavano schiamazzi e apprezzamenti tra i
soldati.
Appoggiato
a una colonna, The Bishop osservava.
C’era
un treno in partenza. Le caldaie stavano andando in pressione e da
sotto la locomotiva uscivano sibilanti getti di vapore.
I
soldati si accalcavano nelle carrozze, buttando gli zaini alla
rinfusa, urlando e spingendosi. Qualcuno da qualche parte stava
suonando un’armonica mentre un gruppetto di voci intonava ‘Pack
up your troubles in your old kit bag’.
A
un tratto udì qualcuno salmodiare: “Pater
noster qui es in caleum. Santificetur nomen tuum. Adveniat regnum
tuum. Fiat voluntas tuam, sicut in caelum et in terram.”
Una
seconda voce, più sottile, che suonava vagamente emozionata,
rispose: “Panem
nostrum cotidianum da nobis hodie, et dimitte nobis debita nostra...”
Gli
schiamazzi dei soldati calarono di tono. Qualcuno disse a qualcun
altro: “E sta un po’ zitto, no?”
Seguì
un biascicare di scuse.
“Che stanno facendo?” chiese
poi una terza voce, attutita come durante una funzione.
La
prima prese un tono di compiaciuta sicumera: “Dicono il rosario.”
“Il
che?”
“Rosario.
Sono cattolici.” Poi, dopo una pausa. “Quello è il latino.”
The
Bishop si girò nella direzione da cui proveniva il conciliabolo e
intravide due preti che si allontanavano, con le spalle un po’
curve e lo sguardo chino sul breviario.
Chi
li incontrava si faceva il segno della croce, se francese, altrimenti
si toglieva il berretto o mostrava comunque qualche segno di
deferenza.
Egli
tornò a fissare il treno che man mano andava riempiendosi di
soldati. Qualcuno era evidentemente riuscito a conquistarsi una
ragazza, durante il periodo trascorso nelle retrovie, e la stava
salutando con gran profusione di lacrime e promesse.
Un
altro sedeva su una panchina con un foglio sulle ginocchia, tentando
di scrivere un’ultima lettera a casa.
Di
nuovo echeggiarono le note dell’armonica, stravolta in un motivo
triste.
L’agente
segreto fece di nuovo girare lo sguardo tutt’intorno. Il treno
stava partendo per il fronte, quindi era su quello che il dannato
tedesco avrebbe cercato di salire. Si chiese se fosse ancora in
compagnia dell’altro o se fosse da solo. Si chiese se avesse
trovato il modo di indossare un’uniforme inglese per confondersi
nella massa di soldati.
Intravide
una pattuglia della polizia militare fermare una coppia di soldati e
per un attimo si sentì invadere dall’eccitazione, ma subito dopo i
due furono lasciati andare.
Il
treno emise un lungo fischio, dal fumaiolo uscì una densa colonna
grigiastra. Il cupo ribollire della caldaia si alzò di un’ottava.
Sulle
banchine, i sergenti spingevano a bordo gli ultimi ritardatari. Colse
con la coda dell’occhio qualcosa di nero in lontananza, si girò in
quella direzione e vide mani volenterose protendersi per aiutare i
due preti a salire in carrozza.
Le
bielle si misero in movimento, le ruote stridettero sulle rotaie
sollevando qua e là delle scintille, mentre il treno cominciava
lentamente a muoversi.
The
Bishop dardeggiò sguardi sulla folla in uniforme, senza riconoscere
alcuna fisionomia nota. Le pattuglie della polizia militare, dal lui
precedentemente allertate, continuavano a controllare i documenti dei
soldati, ma nulla di irregolare sembrava attirare la loro attenzione.
Una
cartaccia gli svolazzò tra i piedi.
A
quel punto, dall’esterno della stazione provenne il grido di una
voce femminile: “Hanno ucciso il parroco della chiesa di Saint
Giles!”
La
frase ebbe il potere di fargli accelerare i battiti. Fece qualche
passo in quella direzione, adocchiò un capannello di donne. La voce
aggiunse: “Dei ladri l’hanno strangolato nel sonno. In sacrestia
hanno rovistato ovunque.”
Si
girò verso il treno, che stava muovendosi sempre più veloce. Non
era strano che due preti salissero su una tradotta militare?
Soffocò
un’imprecazione e spiccò la corsa.
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Capitolo 8 *** Capitolo 6 - Prima parte ***
Cari lettori, care lettrici,
ecco
un altro (mezzo) capitolo tutto per voi, spero che lo troverete
interessante.
Come
sempre grazie a tutti coloro che mi stanno seguendo, che mi hanno
messo in qualche lista o che sono stati così adorabili da lasciarmi
un commento.
Spero
di poter dire: enjoy^^
Capitolo
6
Carico
di soldati all'inverosimile, il treno arrancava sbuffando come un
vecchio ronzino. Von Knobelsdorff sedeva tra un finestrino opaco e un
enorme caporale britannico che faceva del suo meglio per non pesargli
troppo addosso, e aveva l’angosciante sensazione di essere un gatto
in mezzo a una muta di cani. Per qualche motivo essi erano ignari
della sua natura di felino, ma per quanto tempo lo sarebbero rimasti?
In
realtà, era così esausto che anche la paura stava lasciando il
posto a una specie di blanda rassegnazione. Sollevò una mano per
spostarsi il rigido collarino bianco, forse la cosa peggiore di tutta
quell'assurda mascherata, e così facendo incontrò lo sguardo acuto
dell'agente segreto, che sedeva di fronte a lui con un breviario
aperto fra le mani.
“Qualcosa
non va?” domandò questi in francese.
Il
tenente scosse la testa e come da istruzioni rispose: “È tutto a
posto, padre Jacques.”
L'altro
annuì e tornò a leggere. A far
finta di leggere, per
la verità, perché quello sguardo apparentemente concentrato sulle
Scritture stava invece sondando l'ambiente con scientifica
precisione.
Il
giovane si chiese come riuscisse a non mostrare alcun segno della
stanchezza che obiettivamente doveva provare. Tentò di muovere le
spalle e gli parve di avere al posto di muscoli e ossa un polveroso
sacco di ghiaia. Aveva male alle mani, alle braccia, alla schiena,
alla testa e in generale a tutto ciò che in un corpo umano può
dolere. Si sarebbe addormentato lì dov'era, in braccio a quel
caporale che senza fatica avrebbe potuto sollevarlo come un coniglio,
ma per quanto prostrato, per quanto stremato, sapeva che non sarebbe
riuscito a chiudere occhio.
Giunse
le mani in grembo, poi di nuovo fissò l'agente segreto, incontrando
il suo sguardo tagliente. Si chiese se oltre a vedere al buio come i
gatti riuscisse anche a leggere il pensiero. Accennò a un lieve
sorriso e l'altro in francese gli suggerì: “Dorma un po', padre
François. Sarà un lungo viaggio.”
Il
tenente non replicò, chiedendosi se la sua stanchezza fosse così
evidente o se davvero quella specie di demonio fosse anche
telepatico.
Lo
fissò di nuovo, ma l'altro mantenne lo sguardo sulla pagina che
stava fingendo di leggere.
Eppure
era certo che se ne fosse accorto.
Forse
non voleva far trapelare troppa familiarità fra loro, voleva dare
l'impressione di qualcosa come colleghi di lavoro, in buoni rapporti
ma fondamentalmente estranei l'uno all'altro.
Forse
se si fosse concentrato su di lui avrebbe perso la panoramica sulla
carrozza e sui soldati che l'affollavano.
Una
bottiglia gli comparve davanti alla faccia con tale repentinità da
provocargli un sussulto. In tono di rimprovero, qualcuno che si
trovava al di fuori del suo campo visivo disse in inglese: “Ecco!
L'hai fatto spaventare.” Poi, in un francese fortemente accentato.
“Scusi, padre. Vuole?”
Il
tenente fissò la bottiglia, priva di ogni etichetta e piena di un
liquido trasparente, poi si girò verso la provenienza della voce e
chiese: “Che cos'è?”
“Roba
tedesca,” fu la risposta.
“Schnaps,”
precisò l'enorme caporale al suo fianco.
Von
Knobelsdorff si sentì attraversare da un brivido. Cosa significava
quell'offerta? Era forse una trappola, per vedere se si sarebbe
tradito? Rivolse di nuovo lo sguardo all'agente segreto, che però
appariva totalmente immerso nella lettura.
“Io...
non bevo,” balbettò, passandosi un dito nervoso sotto la fascetta.
Deglutì e ripeté: “Grazie, ma non bevo.”
La
bottiglia si allontanò riluttante, per qualche secondo gli parve che
il generale chiacchiericcio si fosse affievolito e tutti gli occhi
fossero puntati su di lui.
Infine
udì qualcuno che a bassa voce, di nuovo in inglese, diceva: “Cosa
ti viene in mente? Non si offre da bere a un prete.”
Nonostante
la reprimenda, lo Schnaps venne presentato anche all’agente
segreto, che a differenza sua prese la bottiglia e ne bevve con
disinvoltura un sorso. “Grazie,” disse poi, in un inglese al
quale era riuscito a dare un pesante accento francese.
A
quel punto uno dei soldati abbandonò lo zaino su cui stava seduto,
li raggiunse facendosi largo tra i commilitoni e chiese: “Dove
state andando, padre?”
Di
nuovo von Knobelsdorff si irrigidì. Cos’era quella curiosità,
tutt’a un tratto? Era qualcosa che aveva a che fare con l’offerta
di acquavite tedesca? Avevano capito chi erano veramente e volevano
spingerli a tradirsi in qualche modo?
Dardeggiò
un’occhiata tesa al compagno, che però sembrava perfettamente
tranquillo e a suo agio. Lo vide anzi tendere la mano verso la
bottiglia e bere un’altra generosa sorsata. “Andiamo dove c'è
molto bisogno della nostra opera,” rispose poi, assumendo
un'espressione devota.
“Sarebbe
a dire?”
L'uomo
emise un sospiro. “Al fronte, figliolo. Io e il mio vicario
porteremo il conforto della parola di Dio nelle trincee.”
“Ma
siete francesi,” fu lo sconcertato commento. Poi chi aveva parlato
protestò: “E smettila di darmi gomitate!”
Un
altro soldato, evidentemente quello che aveva colpito il primo, si
affrettò a specificare: “Non se la prenda padre. John voleva dire
che è stupito perché voi siete francesi, mentre qui noialtri siamo
tutti inglesi.”
L'agente
segreto annuì grave, quindi rispose: “Capisco, figliolo. Dio
provvederà.” Annuì di nuovo, con l'aria di chi è perfettamente
certo che le cose si sistemeranno nel migliore dei modi.
I
soldati si scambiarono sguardi perplessi, serpeggiò qualche
bisbiglio, poi l'ultimo che aveva parlato chiese: “Ecco... in che
senso, padre?”
“Dio
ci indicherà dove prestare la nostra opera. Non temiamo la
sofferenza, perché essa avvicina al Signore.”
Immobile,
i muscoli tesi come corde, von Knobelsdorff osservava l'agente
segreto addentrarsi con disinvoltura in una palude sempre più
infida. Quanto sarebbe riuscito a sostenere la parte? Quanto tempo
sarebbe passato prima che i soldati cominciassero a sospettare
qualcosa?
Non
era credibile la faccenda dei preti che andavano in prima linea,
anche un bambino se ne sarebbe accorto, ma l'uomo riusciva a spiegare
quello che avrebbero fatto con tale pacatezza, con tale affettuosa
sollecitudine che tutti, lo vedeva bene, ne erano soggiogati.
Il
caporale gli porse nuovamente la bottiglia, egli bevve e gliela
restituì con un sorriso.
Von
Knobelsdorff deglutì a fatica e si sforzò di rimanere immobile, ma
il cuore gli batteva talmente forte che sembrava volergli uscire dal
petto. Aveva rischiato la vita innumerevoli volte, aveva schivato
proiettili e sciabolate, aveva volato attraverso nubi temporalesche,
aveva domato cavalli imbizzarriti. In quei frangenti, l'azione
soppiantava il pensiero, affrancandolo da paura e preoccupazioni,
facendolo sentire addirittura vivo, libero e forte.
Quell'immobilità
invece lo stava facendo precipitare in un abisso di angoscia. Cercava
di figurarsi cosa sarebbe accaduto e si accorgeva di non esserne in
grado. Immaginava, più che altro, e ogni scenario che gli compariva
davanti agli occhi era peggiore del precedente.
Percepì
una goccia di sudore scendergli lentamente lungo la tempia, se la
terse cercando di dare al gesto una connotazione casuale.
In
tono di sollecitudine, qualcuno gli chiese: “Non sta bene, padre?”
Egli
fece guizzare lo sguardo intorno a sé. Tentò di nuovo di deglutire,
ma aveva la bocca talmente asciutta che la lingua gli si incollò al
palato.
Agire.
Doveva agire.
Si
alzò in piedi tentennando, istintivamente i soldati che affollavano
i sedili si fecero indietro per lasciargli spazio. “Devo uscire un
momento,” si limitò ad annunciare, quindi prese a farsi strada
verso il fondo della carrozza.
Si
trovò ad arrancare in un mare di uniformi khaki. Colse su di sé
sguardi stupiti, percepì qualche commento. Uno si fece il segno
della croce.
Continuò
ad avanzare, scavalcando zaini, facendo del suo meglio per muoversi
con disinvoltura nonostante la sottana lunga fino ai piedi. La porta
in fondo alla carrozza era stata aperta, forse per far entrare più
aria, c'era qualche soldato che fumava appoggiato alla balaustra
della piattaforma di salita.
Si
tenne a una cappelliera per mantenere l'equilibrio durante uno
scossone particolarmente violento, continuò caparbiamente ad
avanzare. Non aveva un'idea precisa di cosa avrebbe fatto, per la
verità. Prendere un po' d'aria, magari, farsi offrire una sigaretta,
posto che un prete con la sigaretta non risultasse troppo strano.
In
ogni caso gli era chiaro che non sarebbe riuscito a rimanere immobile
un secondo di più.
Una
mano sulla spalla lo fece sussultare, una ben nota voce gli chiese:
“Non si sente bene, padre François?”
In
quel momento, dietro di loro qualcuno gridò: “Fermateli!”
Egli
si girò di scatto e nella distesa di uniformi colse la macchia scura
di un uomo in abiti borghesi. Indovinò, piuttosto che vedere
chiaramente, una capigliatura nera e un volto pallido. Colse il gelo
di uno sguardo tagliente.
Poi
la presa sulla sua spalla si fece ferrea ed egli si sentì spingere
da parte. Udì una detonazione lontana, una cacofonia di grida e
subito dopo due detonazioni vicinissime. Il frastuono lo stordì, nel
fumo degli spari vide due corpi accasciarsi mentre l'uomo in borghese
con un guizzo saltava al coperto.
Il
nugolo di uniformi stava montando come una marea, pochi passi e
l'uscita del vagone sarebbe stata sbarrata. L'agente segreto sparò
altre due volte e altrettanti uomini crollarono.
Von
Knobelsdorff fece per estrarre la pistola a sua volta, ma la tonaca
lo impacciava troppo. Agguantò un fucile e prese a rotearlo come una
clava. Percepì contro l'arma l'impatto di qualcosa di duro, poi udì
un gemito soffocato. Non fece in tempo a vedere chi aveva colpito,
perché l'agente segreto sparò altre due volte, poi catapultò se
stesso e lui all'esterno, sulla piattaforma dove poco prima i soldati
erano appoggiati a fumare.
“Salti!”
urlò.
Il
tenente fissò sgomento il suolo, che la velocità del treno
trasformava in un magma indistinto. “Cosa?”
“Giù!”
Un
attimo dopo, una poderosa spinta lo scaraventò nel vuoto. Egli
annaspò sbracciando e atterrò malamente sui sassi aguzzi della
massicciata, rotolò per un tempo che gli parve infinito,
graffiandosi e ammaccandosi ovunque, infine si fermò nel folto di un
cespuglio. Per qualche secondo rimase immobile, cercando di capire se
era ancora tutto intero, poi si rialzò ansante su mani e ginocchia.
Sbatté gli occhi, faticando per mettere a fuoco quello che lo
circondava. Percepì un crepitio irregolare, al quale si sovrappose
un lungo stridere metallico.
L'agente
segreto comparve nel suo campo visivo come un'enorme ala di corvo.
“Si muova!” ordinò asciutto, “il treno si sta fermando, tra un
po' avremo alle calcagna mezzo battaglione.” Fece una pausa, poi
soggiunse: “Oltre a the Bishop, ovviamente.”
“Chi?”
mormorò il tenente, ancora frastornato dalla caduta.
“Quello
che ci ha sparato contro. E ora si muova, abbiamo già perso anche
troppo tempo.”
I
primi passi von Knobelsdorff li mosse come in trance, senza
praticamente vedere nulla se non macchie di colore, il verde di un
rado sottobosco, il giallo dei campi mietuti, l'azzurro pallido del
cielo ormai pomeridiano. Tutto era come ovattato. L’unica cosa che
percepiva con decisione era la presa solida dell’uomo sul suo
braccio.
Alle
loro spalle, quasi coperto dal tonfare rapido della loro corsa e dal
frusciare delle pesanti tonache, il crepitio si era fatto più rado e
si udiva qua e là l’eco fioca di ordini gridati.
Tutto
gli sembrava una girandola, un vortice, dove le sensazioni si
sovrapponevano le une alle altre. Gli pareva di essere a bordo di un
aereo che precipitava in vite e al tempo stesso di essere su una
barca preda di furenti marosi.
Si
accorse che stavano entrando nella vegetazione, più che altro dal
cambio della luce e dai rami incolti che lo sferzavano come fruste.
Scrollò
la testa, la visione divenne più nitida ed egli riuscì a
riconoscere un frutteto lasciato a se stesso e inselvatichito. Meli e
peri, non potati da anni, si ergevano altissimi. Qualche rado frutto
penzolava dai rami, masse di rampicanti davano l'assalto ai tronchi.
Malfermo com’era, correre tra le erbe che arrivavano fino alla
cintura, trattenuto a ogni passo da tenaci rovi, si rivelò ben
presto impossibile. Nonostante l’uomo lo tirasse vigorosamente per
il braccio, non riusciva a mantenere la sua andatura.
Dovettero
rassegnarsi al passo.
L'agente
segreto continuava a guardarsi alle spalle. “Stanno guadagnando
terreno,” disse dopo un po'. Si fermò ai piedi di un pero alto
quanto un giovane tiglio e prese a sbottonarsi l'abito talare. “Danno
troppo nell'occhio,” spiegò asciutto, “intralciano.”
Appese
la veste a un ramo, in modo che da lontano sembrasse uno di loro due
in piedi.
Von
Knobelsdorff tentò di imitarlo, ma si sentiva come ubriaco e i suoi
gesti erano maldestri e imprecisi. L’uomo dovette intervenire per
aiutarlo. “Si sente bene?” gli chiese, lasciando cadere la veste
sull’erba.
Il
tenente si accorse che lo stava fissando preoccupato. “Sì, bene,”
rispose incerto.
“Sicuro?”
“Sì.”
“Comunque
muoviamoci,” disse poco convinto l’agente segreto, “se
rimaniamo qui ci saranno addosso fra poco.”
Riprese
a tirarselo dietro per un braccio.
Dal
frutteto passarono a una vigna abbandonata, dove edera e vitalba
avevano coperto a tal punto le poche viti rimaste che tra i filari si
riusciva a passare solo in fila indiana.
Alle
loro spalle echeggiarono alcune detonazioni.
Il
tenente si girò di scatto, l'altro disse: “Hanno trovato le
tonache.” Poi, dopo una pausa: “Fanno sul serio, come può
notare.”
Nonostante
l’ottundimento, l'ufficiale replicò: “Non ho mai pensato che
scherzassero.”
“Si
muova.”
Proseguirono
facendosi largo fra le liane che serpeggiavano ovunque.
Sbucarono
in un'aia invasa dalle erbacce, al centro della quale sorgeva una
casa diroccata. Il tetto, forse originariamente di paglia, era ormai
scomparso e uno dei muri era crollato. Spezzoni di travi spuntavano
dal rudere.
Altri
spari echeggiarono nella vegetazione, molto più vicini. A poca
distanza da loro, un proiettile sollevò da terra una manciata di
foglie secche.
Von
Knobelsdorff si passò una mano sulla fronte, ritirandola sporca di
sangue. Forse si era ferito nel saltare giù dal treno. “Cosa
facciamo?” ansò.
La
presa sul suo braccio si fece più salda. “Intanto mettiamoci al
coperto,” disse l'uomo.
Si
spostarono all'interno della casa pericolante. Il pavimento del piano
superiore aveva qua e là ceduto, e macchie di sole screziavano quel
che rimaneva di antiche piastrelle decorate. Travi corrose e vecchie
pietre costellavano le stanze.
Al
loro ingresso, piovve dall'alto uno spolverio biancastro e i vecchi
muri tremarono lasciando cadere frammenti d'intonaco.
“Qui
crolla tutto!” esclamò preoccupato il tenente, rinculando
d'istinto verso il varco da cui erano entrati.
“Si
muova,” sibilò l'altro per tutta risposta. Lo spinse avanti,
serpeggiando con destrezza nelle aree più integre.
Von
Knobelsdorff lo vide guardare in alto come alla ricerca di qualcosa.
“Cosa vuole fare?” gli chiese, insospettito dallo strano
atteggiamento.
“Stia
zitto!”
“Io
non...” cominciò il giovane, ma altri spari all'esterno – molto
più vicini dei precedenti – lo spinsero a tacere.
L'uomo
nel frattempo aveva individuato un trave maestro caduto dal tetto,
che attraverso un largo buco del soffitto arrivava fino al pavimento.
Si fermò a osservare l’antico legno, fece qualche passo per
cercare di vedere cosa c'era nella stanza di sopra, poi abbandonò la
presa sul suo braccio e gli fece cenno di tacere.
Cominciò
ad arrampicarsi, silenzioso e rapido come un gatto.
Quando
ebbe raggiunto il piano superiore, dall'alto gli fece segno di
raggiungerlo.
Von
Knobelsdorff obbedì, ma forse la precaria struttura era già stata
sollecitata eccessivamente: una larga porzione di soffitto rovinò a
terra in una nube di polvere e il trave cadde, costringendolo a fare
un salto indietro per non rimanere schiacciato.
All'esterno
si udirono voci concitate e qualche sparo, seguiti da un frenetico
tonfare di passi. Il tenente si guardò intorno alla ricerca di una
via di fuga, ma già innumerevoli uniformi khaki stavano sciamando
all'interno del rudere.
Prima
ancora di poter pensare a come raggiungere l'agente segreto, si trovò
un fucile puntato contro il petto. Non gli rimase che alzare le mani,
mentre altri militari inglesi lo circondavano.
§
Immobile,
von Knobelsdorff faceva scorrere lo sguardo dall’uno all’altro
dei soldati che lo circondavano, cercando anche di farsi un’idea di
cosa ci fosse al di là del cerchio di uomini armati.
Si
chiese dove fosse l’agente segreto. Ovviamente sarebbe stato
impensabile che cercasse di liberarlo in qualche modo: gli inglesi
erano in troppi. E poi, realisticamente, avrebbe avuto senso farlo?
Più
volte l’uomo aveva ripetuto che i dati in suo possesso erano di
valore inestimabile ai fini della condotta bellica. La vita di un
singolo combattente era forse più importante di informazioni che
avrebbero potuto avvantaggiare l’intero fronte?
Ovviamente
non lo era.
Fissò
il soldato che si trovava proprio di fronte a lui. Un tizio di
altezza media, con la faccia larga, il naso un po’ schiacciato e
gli occhi castani. Dava l’idea di essere un buon diavolo,
dopotutto.
Il
suo Enfield era un po’ rovinato da una parte. Aveva una tasca
sbottonata, dalla quale spuntava qualcosa di chiaro, forse una
lettera frettolosamente messa via quando era arrivato l’ordine di
smontare dal treno.
Si
mosse appena e lo sguardo del soldato si fece ostile. L’Enfield fu
imbracciato più strettamente, l’indice si appoggiò sul grilletto.
Von
Knobelsdorff si immobilizzò di nuovo. Da dietro le sue spalle, una
voce disse in inglese: “Portatelo fuori di qui.”
Fu
afferrato per le braccia e, sempre sotto la minaccia delle armi, fu
spinto all’esterno.
A
quel punto, entrò nel suo campo visivo l’uomo in borghese che
aveva intravisto sul treno. Questi lo squadrò in silenzio per
qualche secondo, poi, in un tedesco perfetto, appena ammorbidito da
un vago accento inglese, gli domandò: “Dov’è il Werwolf?”
Il
tenente lo fissò, genuinamente stupefatto. “Chi?”
L’altro
aggrottò le sopracciglia e gli rivolse uno sguardo tagliente. “Il
Werwolf,” ripeté con minacciosa calma. “Mi dica dov’è
andato.”
L’ufficiale
strinse le labbra. Distolse lo sguardo, facendo ben attenzione a non
rivolgerlo verso la casa. L’agente tedesco – ora aveva scoperto
che il suo nome in codice era Lupo
Mannaro – era
riuscito a scappare, altrimenti quell’uomo non gli avrebbe chiesto
di lui. “Non lo so,” rispose asciutto.
Il
suo interlocutore sollevò un sopracciglio con aria di degnazione.
“Non lo sa?” fece eco.
“No.”
“Mi
perdona se dubito della sua affermazione, non è vero?”
Impegnato
in una rapida analisi della situazione, il tenente non rispose. La
faccenda era piuttosto chiara, per quanto certamente non semplice:
l’agente tedesco era effettivamente riuscito a far perdere le
proprie tracce. Come avesse fatto gli era del tutto ignoto, dal
momento che l’ultima volta che l’aveva visto era al piano
superiore di una casa pericolante e circondata da soldati inglesi,
fatto sta che era sparito.
Sicuramente
si stava già dirigendo verso le linee tedesche, per portare a
destinazione le preziose informazioni in suo possesso. Suo dovere, a
quel punto, era rallentare al massimo, o sviare, se possibile,
l’inseguimento che senza dubbio gli inglesi avrebbero messo in
atto.
Fissò
l’uomo con aria di sfida e replicò: “Dubito
ergo sum, diceva
Sant’Agostino.”
L’altro
non parve scomporsi troppo. Annuì un paio di volte, assumendo
l’espressione di chi sta vedendo un adolescente fare qualcosa di
molto avventato e molto stupido, quindi disse: “Ma bravo, abbiamo
qui un dottore in teologia, che bella cosa. Spero che sappia anche
pregare, giovanotto, perché ne avrà bisogno.” Poi a voce più
alta, in inglese: “Riportatelo al treno.”
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Capitolo 9 *** Capitolo 6 - Seconda parte ***
Gente
mia,
eccomi
qui con un altro po’ di mappazzone, si spera sempre per il vostro
sollazzo.
Come
ogni volta ringrazio tutti coloro che sono passati per di qui e
magari mi hanno letto o messo in qualche lista. Un ringraziamento
speciale va ovviamente a chi è stato così gentile da lasciarmi un
commento.
Ma
bando alle ciance: vi lascio in compagnia del tenente von
Knobelsdorff e dei suoi guai^^
Von
Knobelsdorff tentò per l’ennesima volta di sciogliere le mani
intorpidite, ma le corde che aveva intorno ai polsi sembravano
stringersi di più a ogni movimento.
Era
in una specie di cabina, legato a una sedia, davanti a una scrivania
vuota. L’unico finestrino era così piccolo che a stento ci avrebbe
potuto infilare la testa, ed era chiuso da due sbarre a croce.
Della
robusta porta metallica aveva sentito scattare la serratura.
Per
un po' il treno era rimasto fermo sui binari, probabilmente perché
gli inglesi stavano ancora cercando il Werwolf, poi era ripartito.
Da
un bel po' di tempo non udiva altro che il monotono sferragliare
delle ruote.
Dovevano
essere passate molte ore, perché la luce esterna ormai stava
calando. La sete e la forzata immobilità lo tormentavano già da un
po'.
Si
voltò verso la porta, oltre la quale non si percepiva alcuna
presenza, poi per l’ennesima volta esaminò il luogo in cui era
rinchiuso, traendone conclusioni sconfortanti.
Si
chiese cosa sarebbe successo. Quel tizio – forse era quello che
l’agente tedesco chiamava the Bishop? – l’avrebbe probabilmente
interrogato. Con che metodi? Dubitava che la faccenda si sarebbe
risolta con una semplice chiacchierata.
Se
il Werwolf non aveva avuto scrupoli nemmeno di fronte all’omicidio
per portare a termine la missione, dubitava che l’inglese ne
avrebbe avuti di più.
Pensò
che probabilmente sarebbe morto, poi pensò al discorso che aveva
fatto tempo addietro col suo collega, prima di decollare per un volo
di guerra: Un soldato
non deve preoccuparsi della morte, perché essa lo accompagna
continuamente. L’unica cosa a cui deve pensare è servire la
Patria.
Si
disse che le belle frasi avevano un senso solo se poi si era pronti a
fare in pratica ciò che si dichiarava a parole. Del resto, come
pilota rischiava a ogni missione di bruciare vivo o di schiantarsi al
suolo. Quanto peggio poteva essere la morte che lo attendeva?
Il
rumore della serratura che scattava lo distolse bruscamente dalle sue
angosciose meditazioni. La porta si aprì adagio e a passi misurati
entrò nella stanza l’uomo in borghese, seguito da due graduati.
Andò
alla scrivania, l’aggirò e vi si sedette, quindi posò le mani sul
piano del mobile, una sull’altra, con studiata calma.
Sollevò
a quel punto lo sguardo su di lui, osservandolo come un entomologo
che si trova davanti un coleottero dai colori particolarmente
strani.
Il
tenente aggrottò le sopracciglia e ringhiò: “Nome, grado e numero
di matricola, non le dirò altro.”
L’uomo
fece una risatina. “Il suo nome e il suo grado non mi interessano
minimamente,” rispose, “e del suo numero di matricola non saprei
davvero che farmene.” Fece una breve pausa, che utilizzò per
scuotere la testa come di fronte a un atteggiamento terribilmente
stupido e fuori luogo, poi soggiunse: “Scoprirà presto, a sue
spese temo, che io non sono la Croce Rossa.”
Il
tenente rimase a fissarlo in silenzio.
L’altro
modificò la posizione delle mani, passando sopra quella che era
sotto e stendendo le braccia come per stirarsi, poi disse: “Mi
sembra di notare che lei è come tutti i suoi connazionali: ottuso e
rigido. Onde per cui, visto che in qualche modo dovrò pur attirare
la sua attenzione quando le rivolgo le domande, penso che la chiamerò
Fritz.” Fece una pausa, forse aspettandosi una reazione che però
von Knobelsdorff si guardò bene dal mostrare, infine chiese: “Che
ne dice, Fritz, le piace l’idea?”
Il
giovane non rispose.
“Chi
tace acconsente,” concluse allora l’altro dopo un po’, “non è
vero, piccolo Fritz?”
“Mi
chiami pure come vuole,” rispose a quel punto von Knobelsdorff,
“anche Gretchen, se le fa piacere. Questo non mi convincerà certo
a collaborare con lei.”
“Accetto
il suo suggerimento, Gretchen,”
replicò ironico l’inglese, “trovo che il grazioso diminutivo le
si addica. Le garantisco comunque che non sarà con i nomignoli che
la convincerò a collaborare, per usare parole sue.”
“So
che cosa farà,” disse il tenente. Già immaginava un fosco
repertorio di sevizie, che peraltro sarebbero state perfettamente
inutili, dal momento che nemmeno le più atroci torture possono far
confessare ciò che non si sa.
L'inglese
fece una risatina e rispose: “Davvero lo sa? Ne dubito.” Si alzò
in piedi, poi gli si avvicinò e prese a girargli lentamente intorno.
Il
tenente si irrigidì. Ogni volta che l’uomo entrava nel suo campo
visivo sembrava assorto nel decidere come avrebbe cominciato a
interrogarlo, quindi ogni volta che gli passava alle spalle, egli si
aspettava una percossa che però non arrivava mai.
Alla
fine l'inglese gli si fermò dietro la schiena. “Vediamo se
indovino,” disse. “Date le mani lisce, la proprietà di
linguaggio e la conoscenza delle lingue straniere, lei è un
ufficiale e un aristocratico. Fa senz’altro parte di un’arma
nobile, quindi la cavalleria, ed è un giovanotto ardimentoso, che
vuole dar prova del suo coraggio, motivo per cui è diventato
aviatore. Sogna di guadagnarsi molte decorazioni, magari anche un bel
Pour le Mérite. Quanti abbattimenti le mancano per diventare un
Asso?”
“Non
sono affari suoi,” rispose il tenente.
L’altro
emise un sospiro. “Non mi sta rendendo le cose molto facili,
Gretchen.”
“Non
è mia intenzione farlo.”
La
voce dell’uomo prese un tono di costernato stupore: “Perché?”
“Perché
sono un ufficiale tedesco, non collaboro con le spie nemiche.”
“Oh,
già. Ma certo.” L'inglese si spostò di fronte a lui. “In
effetti, lei è uno degli ufficiali che non è sul nostro libro paga.
Ma in fondo è un pesce piccolo, a cosa potrebbe servirci?” Scosse
la testa. “Anche il suo amichetto, vede, non ha avuto esitazioni a
lasciarla indietro, appena non ha avuto più bisogno di lei.”
“Non
è il mio amichetto,” ringhiò subito von Knobelsdorff.
“Ah
no, Gretchen? Eppure nell’ambiente è ben noto: il Werwolf se li
sceglie sempre piacenti, i collaboratori.” Si strinse nelle spalle.
“Chissà poi perché.”
Il
tenente gli rivolse uno sguardo di sfida e replicò: “Lei
crederebbe a quello che le dice un agente tedesco, signore?”
“Si
aspetta che risponda di no?”
“Se
rispondesse di sì farebbe la figura dello stupido.”
L'uomo
fece una risatina. “E lei non è stupido, vero?”
“Non
più di un altro.”
“A
me pare che lo sia molto di più, invece. Si è fatto abbindolare da
quell'avventuriero da strapazzo come una specie di sciacquetta di
periferia, e perso com'è nella sua storia romantica non si è
nemmeno accorto che il Werwolf l'ha usata e gettata via.”
Il
tenente cercò di ergersi quanto più poteva per fronteggiarlo.
L'avrebbe volentieri colpito con una testata, ma l'altro si manteneva
a distanza di sicurezza. Si accontentò di dire: “Faccia pure lo
spiritoso, lei, con le sue battute a doppio senso. Mentre perde tempo
a punzecchiare me, il suo avversario sta scappando chissà dove. Chi
è allora lo stupido fra noi?”
L'uomo
fece un passo indietro e rimase a fissarlo come se lo stesse vedendo
per la prima volta. Annuì grave, poi disse: “Credevo che avremmo
potuto trovare un modo per andare d'accordo, ragazzo mio, ma lei
decisamente mi vuole vedere al mio peggio. Chissà, forse le
piacciono gli uomini forti e rudi, dico bene?”
“Se
così fosse, lei non sarebbe sicuramente di mio interesse.”
L'uomo
sospirò come il genitore che dopo aver offerto al figlio degenere
innumerevoli occasioni per emendarsi, lo vede persistere
caparbiamente nel suo errore. Si sfilò dalla cintura un oggetto che
sulle prime al tenente parve una cinghia nera, fatta di cuoio
intrecciato. Nonostante si fosse ripromesso di rimanere impassibile
di fronte a qualsiasi minaccia, non poté fare a meno di irrigidirsi.
“Paura,
Gretchen?” lo canzonò allora l'inglese.
“No.”
“Eppure
dovrebbe. Sa che cos'è questa?”
“No.”
L'uomo
gli fece penzolare l'oggetto davanti agli occhi. Von Knobelsdorff si
accorse che si trattava di una frusta flessibile, lunga quanto una
normale cintura, grossa circa un dito, a sezione cilindrica. La punta
sembrava rinforzata da qualcosa di pesante.
“È
una nagajka,” gli fece sapere l'inglese. “I cosacchi dicono che
con tre colpi ben assestati di questa si può uccidere un uomo.”
Fece una studiata pausa, quindi in tono quasi confidenziale, come a
ricercare una collaborazione che lui chissà perché si ostinava a
non voler concedere, soggiunse: “Io l'ho vista usare e le dirò:
non stento a crederci.”
Cercando
di mantenere un tono indifferente, von Knobelsdorff chiese: “Vuole
uccidermi?”
“Dopo.
Per ora mi serve vivo.”
“Non
mi sembra un grande incentivo alla collaborazione.”
L'altro
si piegò a fissarlo negli occhi. “Davvero? Si può morire molto in
fretta o molto lentamente, Gretchen. Molto, molto lentamente.”
“E
secondo lei dovrei tradire la mia Patria per evitare qualche ora di
sofferenza, sapendo che comunque morirò?”
L'inglese
annuì. “Lo troverei assennato da parte sua.”
“Beh,
sa cosa le dico? Fanculo.”
L'altro
arretrò con l'aria di aver appena ricevuto uno schiaffo. Posò lo
scudiscio sul piano della scrivania, quindi rispose: “Vedo che non
si smentisce: oltre a essere rigido e ottuso, è anche rozzo come
tutti i suoi connazionali.” Si rivolse ai due uomini che erano
entrati con lui, e che per tutto il tempo erano rimasti in piedi ai
lati della porta, e in inglese disse: “Questo individuo è una
pericolosa spia dell'Impero Tedesco. Voglio che lo leghiate per i
polsi al gancio che c'è sul soffitto, ma state molto attenti: è
pericoloso.”
Poi
uscì.
I
due si avvicinarono cauti. “Non fare scherzi,” lo ammonì uno di
essi.
Si
fermarono a qualche passo di distanza, si scambiarono un'occhiata,
poi l'altro disse: “Questo qui è quello che è salito sul treno
vestito da prete.”
“Da
prete?”
“Lo
sanno tutti. Jackson, della terza compagnia, ce l'aveva seduto
proprio di fronte.”
“E
non si è accorto di niente?”
“Ma
figurati. Questo qui è una spia,
potrebbe fregare chiunque.”
Von
Knobelsdorff, immobile, lo sguardo fisso davanti a sé, faceva del
suo meglio per mantenere l'espressione neutra, sebbene la tentazione
di cercare il famoso gancio sul soffitto fosse disperatamente forte.
Ai margini del campo visivo aveva l'inquietante frusta cosacca,
negligentemente abbandonata sul piano della scrivania.
Cercò
di immaginare che effetto avrebbe fatto ricevere un colpo con quella.
Sarebbe riuscito a resistere? Quanti ne avrebbe tollerati?
Sollevò
lo sguardo sui due soldati, che immediatamente arretrarono come di
fronte a un cobra che gonfia il collo.
“Non
fare scherzi,” ripeté uno di essi.
L'altro
soldato uscì dalla stanza e vi rientrò subito dopo con in mano un
pezzo di corda. “Fagli il cappio,” suggerì, porgendola al
commilitone, “questo è il tipo che appena lo sleghi ti salta
addosso e cerca di farti fuori.”
Di
nuovo si scambiarono uno sguardo, poi fissarono lui. Von Knobelsdorff
rimase impassibile.
Uno
dei soldati gli si avvicinò, mantenendosi comunque a distanza di
sicurezza. “Mi capisci?” chiese, scandendo adagio le parole.
Il
tenente si limitò a fissarlo in silenzio.
L'inglese
aspettò qualche secondo, poi proseguì: “Non fare il furbo. Se fai
il furbo, noi ti facciamo male.”
Si
spostò alle sue spalle, gli passò la corda intorno al collo e la
tese quel tanto da fargliela sentire.
L'altro
soldato cominciò ad armeggiare con i lacci che lo legavano alla
sedia.
Il
tenente fece un rapido ragionamento: gli inglesi erano due uomini
robusti, ma avevano chiaramente paura di lui. Avrebbe potuto in
qualche modo sorprenderli e tentare la fuga?
Rimase
immobile, facendo del suo meglio per dare l'idea di essere esausto, o
comunque non intenzionato alla ribellione.
“Ora
alzati,” disse uno dei due.
Von
Knobelsdorff si decise in un attimo: tese i muscoli del collo per
contrastare la stretta della corda, quindi cercò di scrollarsi di
dosso l'uomo che lo stava trattenendo. La mossa fu così repentina
che esso rovinò al suolo con un'imprecazione, ma istintivamente
strinse la presa sulla corda, trascinandosi dietro anche lui.
Si
trovarono avvinghiati sul pavimento. L'altro soldato si unì alla
mischia, buttandoglisi addosso con tutto il suo peso.
La
corda cominciò a tendersi.
L'ufficiale
si divincolò per quanto poteva, irrigidì al massimo i muscoli del
collo, ma presto si trovò con i polmoni in fiamme e un velo nero che
gli oscurava la vista. Ogni tanto riusciva a liberarsi appena dalla
stretta e ad inalare un'ansiosa boccata d'aria, ma subito dopo il
laccio riprendeva a soffocarlo.
Portò
d'istinto le mani al collo, ma il canapo gli aveva letteralmente
scavato un solco sulla pelle delicata della gola e nel tentativo
frenetico di afferrarlo riuscì solo a graffiarsi a sangue.
Ormai
i rumori sembravano giungergli attraverso l'acqua, le voci concitate
dei due uomini erano eco distorte e incomprensibili.
Si
divincolò ancora con la forza della disperazione, si torse, di nuovo
cercò di afferrare la corda, ma i suoi movimenti erano sempre più
convulsi e imprecisi. Annaspò in cerca di aria e quasi si stupì
quando udì il rantolo stentato che ormai gli usciva dalla gola.
Sentì
una voce irosa, comprese che qualcuno stava imprecando. Una botta
contro le costole gli fece capire che gli era arrivato un calcio,
anche se curiosamente non sentiva alcun dolore.
“Che
figlio di puttana,” disse uno dei due soldati, ansando
pesantemente. Si rialzò in piedi e diede uno sguardo sprezzante al
prigioniero, che giaceva esanime sul pavimento. “Questo stronzo
sembrava un moccioso, e invece...”
L'altro,
la corda ancora in mano, rispose: “È un agente segreto. Fa finta
di essere un moccioso, per fregarci, ma appena ti distrai salta su
come un gatto.”
“Figlio
di puttana,” ripeté l'altro. “Eravamo anche stati gentili.” La
voce aveva uno sdegnato tono di costernazione. “L'avevamo trattato
correttamente.
E lui, invece...”
“Questi
qua sono tutti bastardi, pugnalerebbero alle spalle la loro stessa
madre, se fosse utile per la missione. Aiutami a legarlo, non vorrei
che tornasse l'altro e ci trovasse ancora qui.”
“Sì,
meglio sbrigarsi.”
§
Quando
riprese i sensi, von Knobelsdorff penzolava appeso per i polsi a un
gancio del soffitto, ondeggiando appena a seconda dei movimenti del
treno.
Cercò
di guardarsi intorno, ma la testa piegata all'indietro limitava il
suo campo visivo a una porzione di soffitto e al bordo superiore del
finestrino.
Studiò
il gancio a cui era sospeso, chiedendosi se sarebbe riuscito a
sfilare da esso la corda che lo teneva sospeso.
Prima
che potesse elaborare ulteriori piani, la porta alle sue spalle si
aprì. Si fece udire la voce dell'agente inglese: “Mi dicono che
non ha avuto un comportamento molto edificante.”
Il
tenente udì i suoi passi misurati avvicinarsi. Nella posizione in
cui si trovava non riusciva a vederlo, ma indovinava comunque la sua
presenza dietro la schiena.
Non
replicò.
L'uomo
si spostò davanti a lui, raccolse la nagajka dalla scrivania e la
fece sibilare in aria, poi prese a girargli lentamente intorno.
Von
Knobesldorff poteva immaginare che lo stesse fissando, magari
indeciso su dove assestargli il primo colpo. A parte camminare, però,
l'uomo non faceva nulla.
“Io
ho avuto pazienza con lei,” disse l'inglese, sempre girandogli
lentamente intorno, “non ho reagito alle sue puerili provocazioni,
considerandole frutto dell'inesperienza e forse anche di qualità
intellettive non proprio eccellenti, per usare un eufemismo.”
Tacque, si fermò di nuovo alle sue spalle.
Von
Knobelsdorff tese i muscoli aspettandosi la prima scudisciata, ma di
nuovo non accadde nulla.
L'altro
si limitò a emettere un sospiro e a dire: “Ora lei risponderà
alle mie domande, per favore. Se lo farà spontaneamente, eviterò di
usare metodi persuasivi.”
Il
tenente cercò di voltarsi verso di lui, ma dovette rinunciare. “E
se rifiutassi di parlare?” gli chiese.
“Non
glielo consiglio. Scoprirebbe che non tutti gli inglesi sono sportivi
come si sente dire in giro.”
A
quelle parole fecero seguito lunghi secondi di silenzio, rotti solo
dal vago sferragliare delle ruote in movimento. Alla fine, il tenente
disse: “Non mi importa se lei sarà sportivo o no, signore. Sono un
ufficiale tedesco, e il mio dovere è servire la Patria. Non intendo
rispondere a nessuna delle domande che mi porrà, quindi si regoli di
conseguenza.”
Passò
altro tempo. Tutto era silenzio, l'uomo sembrava dissolto nel nulla.
Poi
arrivò il primo colpo.
Nonostante
si fosse proposto di affrontare il supplizio con spartana nobiltà,
von Knobelsdorff non riuscì a trattenere un gemito di dolore. La
nagajika gli aveva assestato una violenta frustata e al tempo stesso
una sassata, nel punto in cui la sua estremità appesantita dal
piombo gli aveva colpito le costole. La correggia di cuoio si era
lasciata dietro una striscia che sembrava percorsa da metallo
incandescente.
Il
secondo colpo fu più forte del primo, il terzo fu talmente brutale
che gli mozzò il respiro e gli fece comparire farfalle luminose
davanti agli occhi.
Mugolò
stringendo le dita sulle corde mentre lottava per trattenere le
lacrime: quel dolore lancinante travalicava ogni altro mai provato
prima. Tutto quello che aveva mai subito nello sport, durante le
esercitazioni o nei pochi casi in cui si era ferito in qualche modo,
al confronto scompariva.
L’uomo
continuò a colpirlo con la stessa violenza, ma alternando con
diabolica astuzia percosse relativamente più lievi e percosse più
forti, in maniera del tutto imprevedibile. Anche la cadenza delle
sferzate era irregolare, il che non gli permetteva di tendere i
muscoli al momento giusto per cercare di ammortizzare almeno in parte
i colpi.
Cercò
per quanto poteva di mostrarsi impassibile, ma la sofferenza era tale
che gli impediva persino di pensare lucidamente. L’unica cosa che
occupava con prepotenza la sua mente erano le atroci fitte che gli si
irradiavano in tutto il corpo ogni volta che quell’orribile
strumento lo colpiva.
Scivolò
in uno stato di semincoscienza, mentre una pesante sensazione di
torpore lo invadeva, rendendolo sempre meno in grado di percepire ciò
che stava succedendo.
Si
fece udire la voce ironica dell’uomo: “Non mi perderà mica i
sensi, vero, Gretchen?” Poi, dopo una pausa, in tono canzonatorio:
“Un ufficiale tedesco, che serve la Patria. Suvvia, si dia un
contegno.”
Il
tenente sbatté gli occhi, incapace di stabilire quanto tempo fosse
passato e cosa fosse successo. Doveva essere svenuto, comunque.
I
polsi ormai non li sentiva più. Appeso in quel modo, faceva sempre
più fatica a respirare, perché i muscoli del torace erano stirati
verso l'alto e non riuscivano a far espandere le costole. Gli tornò
in mente che alla fine, a prescindere dai chiodi che tanto gli
facevano impressione nei crocifissi, era in realtà il soffocamento
la causa di morte per chi subiva quel supplizio.
Percepiva
qualcosa scorrergli sulla schiena e si chiese se fosse sangue o
sudore. Non avrebbe saputo dirlo con precisione, perché sentiva così
tanto dolore ovunque che paradossalmente era come non sentirne
affatto.
Si
soffermò per qualche secondo a meditare su quella stranezza.
Sentì
un paio di colpetti sulla guancia.
“Gretchen?”
lo richiamò alla realtà la voce ironica dell'inglese.
“Non...
mi chiamo Gretchen,” rispose von Knobelsdorff a fatica.
“Ecco,
bravo. Cominci a dirmi come si chiama, allora, ragazzo mio.
Presentarsi è sempre il primo passo per avviare una proficua
conversazione.”
Il
tenente rimase in silenzio. Udì dopo un po' lo sfrigolare di un
fiammifero, poi l'aria viziata della cabina fu ulteriormente
appesantita dall'odore del tabacco.
L'uomo
riprese a camminare lentamente. “Il suo nome,” ripeté dopo un
po'. “Non è difficile. Scommetto che anche un mangiacrauti ottuso
come lei sa rispondere a questa domanda.”
“Fritz.”
Ci
fu un lungo silenzio, poi l'uomo disse: “Lei non vuole
collaborare.” La voce era più che delusa, suonava addirittura
costernata.
Subito
dopo, von Knobelsdorff percepì un bruciore lancinante all'addome.
Sussultò e gemette mentre il dolore dell'ustione gli si irradiava
nel corpo come un'onda tellurica.
“Mi
ha fatto sprecare il sigaro,” lo rampognò l'uomo.
Di
nuovo si udì sfrigolare un fiammifero.
Il
giovane strinse i denti obbligandosi a un'impassibilità che era
sempre più difficile da mantenere. Cos'avrebbe fatto quel tizio? Gli
avrebbe spento addosso un altro sigaro? Avrebbe recuperato quella
diabolica frusta cosacca? Avrebbe fatto di peggio?
“Il
suo nome, prego.”
“Fritz.”
“Giovanotto,
sto perdendo la pazienza.”
“Fritz!”
Qualcos'altro
lo colpì. Sembrava un oggetto duro, come un bastone. La violenza
della percossa lo fece oscillare come un pesce appeso all'amo.
“Fritz,”
ripeté con un filo di voce.
Lo
stufato ha il sapore delle buone vecchie cose di una volta. Potrebbe
dire che è come quello della nonna, se sua nonna non fosse una
rigida contessa prussiana che probabilmente non ha mai toccato una
pentola in vita sua.
Sa
di buono, comunque, è caldo e fragrante.
Anche
il vino è buono. Alla luce fioca della candela prende un colore di
rubino cupo, ha un profumo che evoca il sole e i meli in fiore.
Siede
a un tavolino un po' traballante, accanto a una piccola finestra. Se
guarda fuori, vede un susseguirsi di tetti dalle tegole rosse, sotto
un cielo in cui i colori caldi del tramonto si stanno lentamente
spegnendo.
Di
fronte a lui siede l'agente segreto. La luce morente conferisce ai
suoi occhi una profondità cupa. La vaga sfumatura azzurra che ogni
tanto vi coglie è sparita e le iridi sono di un grigio metallico.
Abbandona
il bicchiere, spinge la mano nella sua direzione, l'uomo la copre con
la propria.
Egli
avvampa, sente il cuore balzargli nel petto. In un angolo della sua
mente c'è qualcosa a proposito di imbarazzo e vergogna, ma è come
se si trattasse di vecchi oggetti polverosi, abbandonati in soffitta
perché ormai inutili.
La
realtà è che quel contatto gli piace, lo fa stare bene.
Ripensa
alla donna dabbasso, a quello che l'agente le ha detto per
convincerla a dar loro la camera, e di colpo non ricorda più perché
quelle parole l'avessero tanto offeso.
§
The
Bishop si sedette contrariato alla scrivania e rivolse uno sguardo
sprezzante al giovanotto tedesco, che giaceva immobile sul pavimento
al centro della piccola stanza.
Sulle
prime, certo, aveva fatto il gradasso. Gli aveva dato le risposte
taglienti da scolaretto impertinente, aveva stretto i denti e aveva
cercato di mostrargli con il più grande impegno di che pasta fossero
fatti gli ufficiali del Kaiser.
Bravino,
nulla da dire. Per essere un principiante inesperto si era comportato
fin troppo bene.
Poi
a un certo punto doveva aver ceduto, ma quel dannato Werwolf era
stato ancora una volta più astuto del previsto, e il giovanotto non
sapeva assolutamente nulla.
Avrebbe
potuto torturarlo per giorni, ma sapeva già che la risposta a ogni
sua domanda sarebbe stata quella che da un certo punto in poi il
tedesco gli aveva ripetuto fino allo sfinimento: non lo so.
Si
chiese perché il Werwolf avesse speso parte delle sue preziose
energie per trascinarsi dietro quell'inutile individuo.
Non
era un agente segreto, non era un personaggio importante. Non era
niente, in definitiva.
Si
sporse di nuovo a osservarlo: eppure qualcosa doveva avere. Qualcosa
che spingeva anche un diavolo come il Werwolf a rischiare la riuscita
della missione più importante della sua carriera per non
abbandonarlo.
Sorrise
fra sé e sé. Non sapeva cosa fosse, anche se forse lo intuiva, ma
di certo non avrebbe sprecato l'insperato vantaggio.
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Capitolo 10 *** Capitolo 7 - Prima parte ***
Cari lettori, care lettrici,
ecco
un altro po’ di mappazzone, sempre con la speranza che ciò vi doni
svago e sollazzo. Come sempre ringrazio la mia “Band of Brothers”
di commentatori, ma anche tutti quelli che sono passat di qui, mi
hanno letto o magari mi hanno collocato in qalche lista.
Grazie
a tutti!
Capitolo
7
La
luce che filtra fra i rami degli abeti è verde e fredda, una leggera
nebbia la rende vagamente opaca. Sembra quella che si potrebbe vedere
sul fondo di uno stagno.
Tutt’intorno
c’è un silenzio solenne.
L’aria
odora di conifere, di muschio e di limo. Oltre che di sangue,
naturalmente.
Naturalmente.
Si
sofferma a pensare all’avverbio scelto. È naturale, in effetti,
che nella foresta il sangue scorra e nutra, nel ciclo infinito della
vita.
Certo
non pensava che sarebbe toccato a lui entrare in quel ciclo. Non così
perlomeno, non in quelle circostanze.
Forse
nessuno è mai veramente pronto a certe cose.
Non
sa perché sia lì, cosa sia successo. Confusamente ricorda qualcosa
a proposito di una caccia.
Si
sente esausto, ha dolore ovunque. Prova a sollevarsi, ma le braccia
non lo reggono.
La
consapevolezza che morirà lì, che è necessario che ciò accada, si
fa strada in lui come acqua che intride un terreno.
Il
sangue dell’uno è il nutrimento dell’altro, si ripete, e così
sarà all’infinito.
D’un
tratto sente un lungo ululato lontano, dove i tronchi imponenti degli
abeti creano una navata che si perde nella nebbia.
Non
ha paura di quel suono sinistro. Sorride fra sé e sé, anzi, come se
sentisse la voce di un vecchio amico.
L’ululato
si ode di nuovo, più vicino, e quando termina sembra che il silenzio
tutt’intorno si sia fatto più teso, come carico d’aspettativa.
Con
un fruscio di felci si fa avanti un uomo.
Egli
solleva lo sguardo nella sua direzione: è l’agente segreto, che lo
raggiunge adagio e si ferma a un passo di distanza.
Sorride
di nuovo, fa per tendere una mano verso di lui, ma è troppo debole.
L’altro allora si china al suo fianco, gli porge un ramoscello di
quercia.
Si
fissano. Gli occhi dell’uomo sono chiarissimi e trasparenti, paiono
d’argento. “Aspettami,” sussurra.
Von
Knobelsdorff sbatté gli occhi. Nell’aria c’era odore di fumo
stantio, di cuoio conciato e di sangue; quello su cui posava la
guancia non era il morbido muschio di una foresta, ma un pavimento di
metallo zigrinato.
Emise
un sospiro: solo un sogno.
Cercò
senza successo di deglutire. Si mosse appena e terribili fitte di
dolore gli attraversarono il corpo come lame.
Si
risolse a spostare in giro solo lo sguardo. La stanza era quella dove
l’uomo l’aveva interrogato, pur nella penombra densa del tramonto
si distinguevano bene la scrivania, la sedia cui l’avevano legato e
il finestrino con le sbarre a croce. Poteva supporre che la porta
fosse di nuovo chiusa a chiave.
C’era
silenzio, le ruote non sferragliavano, la carrozza non vibrava. Solo
di tanto in tanto proveniva da un punto che sembrava lontanissimo
l’eco di qualche ordine gridato.
Ebbe
l’impressione di essere solo al mondo, abbandonato in un treno
fantasma, destinato a dissolversi lentamente nelle tenebre.
Mosse
appena le dita, e già il semplice atto di piegare le falangi gli
diede l’impressione che dalla mano alla spalla i suoi tendini si
stessero strappando come vecchie corde sfilacciate.
Strinse
i denti e si obbligò a perseverare.
L’uomo
– il Werwolf, come l’aveva sentito chiamare – se n’era
andato. Con giusta ragione, peraltro, dato il compito che aveva da
portare a termine.
Non
disapprovava la sua condotta, al posto suo avrebbe fatto esattamente
la stessa cosa, ma allo stesso tempo non aveva la minima intenzione
di rimanere lì ad attendere che l’inglese tornasse. Di sicuro quel
tizio l’avrebbe interrogato di nuovo. Una volta appurato per la
seconda volta che non aveva preziosi segreti da rivelare, cos’avrebbe
fatto? L’avrebbe spedito insieme ai prigionieri di guerra, o
avrebbe risolto il problema tirandogli una palla in testa e
buttandolo in una fossa comune?
La
seconda, probabilmente.
Mosse
la mano con più decisione, strinse i denti alla fitta di dolore che
gli attanagliò il braccio. Aprì di nuovo le dita, le chiuse ancora.
Si
era arruolato per combattere, per difendere la Patria, per sfidare
gli inglesi nel cielo. Doveva andarsene da lì.
Non
sapeva cosa sarebbe riuscito a ottenere, se una fuga o solo una morte
eroica, ma una cosa comunque gli era chiara: non si sarebbe lasciato
abbattere come una bestia al macello.
Le
nubi sono sontuose montagne di panna montata, così bianche che
guardarle fa quasi male agli occhi.
La
campagna francese sembra un tappeto color smeraldo costellato di
giocattoli: casette, villaggi, animali qua e là, una ferrovia con un
piccolo treno blu, così lucido che potrebbe essere appena uscito
dalla fabbrica. Anche il suo pennacchio di fumo grigio è morbido e
corposo come zucchero filato.
Avvista
all’orizzonte un nugolo di puntini che appaiono e scompaiono fra le
nubi. Si volta verso il caposquadriglia con l’intenzione di
segnalarglieli, ma il suo superiore li ha già visti e dà il segnale
di attacco.
Cabra
per guadagnare quota, i puntini assumono le fattezze spigolose di
biplani nemici. Le distanze si accorciano, cominciano a baluginare i
lampi dei primi spari. Individua un avversario e manovra per
metterglisi in coda.
Nota
con la coda dell’occhio che il suo caposquadriglia sta invece
planando verso il basso. Visto dalla sua posizione sembra irresoluto,
confuso. Dà l’idea di essere un novellino ai suoi primi voli di
guerra.
Che
si senta male?, pensa. Possibile che sia già ferito?
Un
inglese, attratto dalla ghiotta preda, gli si mette in scia. Spara un
paio di raffiche, accorcia le distanze, spara di nuovo. Il tedesco
sembra guardarsi intorno come se cercasse di individuare la
provenienza degli spari.
Egli
lo fissa perplesso, indeciso se sganciarsi dal suo combattimento per
andare a dargli una mano, quand’ecco che il caposquadriglia spiazza
l’avversario con un Immelmann, gli si mette in coda e con due
raffiche lo manda in vite.
Fine
del combattimento.
Von
Knobelsdorff stirò le labbra in una parvenza di sorriso: ci era
cascato persino lui, figurarsi un povero inglese che non aveva mai
visto né conosciuto Heinrich von Stade.
Quella
era la chiave, in effetti: occorreva spogliarsi di ogni orgoglio e
fingere di essere incompetenti, spaventati e disorientati.
L’avversario
allora abbassava la guardia, e quello era il momento giusto per
colpirlo.
Non
aveva la pretesa di colpire l’agente inglese, ovviamente, ma forse
l’avrebbe spinto a sottovalutarlo, con tutte le conseguenze del
caso.
§
Il
sole era già sparito dietro l’orizzonte. In basso vi era ancora
una striscia di azzurro cupo, venato di arancione laddove gli ultimi
raggi tingevano le nubi, ma sulla volta celeste brillavano già le
prime stelle.
Dal
basso proveniva il chiacchiericcio di due soldati che parlavano delle
rispettive fidanzate. Saliva anche un lieve odore di fumo, segno che
mentre chiacchieravano si stavano anche godendo una sigaretta.
Più
lontano si sentivano ordini gridati. Solo poco prima, approfittando
dell'ultima luce, un biplano era rientrato al campo.
Il
Werwolf si arrischiò ad alzare la testa e per prima cosa scrutò i
dintorni cercando di identificare il luogo in cui era atterrato
l'aereo.
Ci
fu uno scoppio di risa: i due soldati evidentemente erano passati
alle storielle da caserma.
Egli
si sporse cauto a osservarli, cogliendo solo due vaghe sagome nella
penombra. Sogghignò al brillio arancione delle sigarette accese.
Avrebbe
potuto ucciderli da cento metri di distanza.
Tornò
ad appiattirsi sul tetto del vagone. Non era stato difficile salirci:
una volta liberatosi della tonaca, per quei bravi marmittoni era
diventato praticamente invisibile. Gli era bastato trovare per terra
un bastone, metterselo in spalla a imitazione del manico di una vanga
e camminare come se niente fosse. Nessuno gli aveva rivolto una
seconda occhiata, nemmeno quando si era avvicinato ai binari.
Forse
avevano pensato che li volesse semplicemente attraversare, o che
fosse incuriosito dalla tradotta ferma, fatto sta che era riuscito ad
arrampicarsi sul treno senza che nessuno facesse caso a lui.
Poi
aveva proseguito il viaggio non proprio in prima classe, ma di sicuro
più comodamente dell'ufficiale.
Poteva
immaginare che the Bishop l'avesse immediatamente interrogato, alla
ricerca di informazioni sulla missione. Si chiese se fosse ancora
vivo e a quel pensiero si sentì attraversare da una fitta di
apprensione.
Subito
dopo si costrinse a fare il vuoto in mente. Se voleva portare a
termine la missione non poteva farsi prendere dai sentimenti, doveva
considerare quel giovanotto semplicemente come una delle variabili in
grado di influire sulla soluzione di un problema.
Si
voltò di nuovo nella direzione in cui aveva visto atterrare l'aereo.
Strinse gli occhi cercando di cogliere nel buio qualcosa che gli
ricordasse un campo d'aviazione. Uno spiazzo erboso, luci di qualche
genere, magari un edificio a più piani, possibilmente signorile: in
generale, i piloti tendevano a trattarsi piuttosto bene in materia di
alloggiamenti.
§
Von
Knobelsdorff sentì il cuore balzargli nel petto: dei passi si
stavano avvicinando. Rimase in ascolto con l'attenzione spasmodica
del coniglio che percepisce l'arrivo del predatore, cercando di
capire se quell'andatura misurata appartenesse effettivamente al suo
aguzzino.
Si
chiese se sarebbe riuscito a fingere in maniera credibile.
I
passi si fermarono subito al di là della porta. Ci fu un breve
scambio, del quale non riuscì ad afferrare il contenuto.
Successivamente
la chiave girò nella serratura e la porta si aprì con un cigolio.
Il
tenente percepì un refolo d'aria fresca, odore di lucido da scarpe e
olio per armi. Si impose l'immobilità.
I
passi si avvicinarono. Ci fu un istante di silenzio che al giovane
parve lunghissimo, nel corso del quale ancora una volta si chiese
spasmodicamente se quello in piedi a poca distanza, che
verosimilmente lo stava fissando, fosse l'agente segreto inglese.
Infine
la voce beffarda che ormai ben conosceva disse: “Ma guarda un po'
questo valoroso ufficiale del Kaiser. Tante chiacchiere, tanta
spavalderia e alla fine...”
Von
Knobelsdorff non si mosse. Poteva immaginare che l'uomo lo stesse
osservando attentamente, forse proprio alla ricerca di segni di
simulazione.
La
voce si fece udire di nuovo: “Mi sente, giovanotto?”
Il
tenente rimase immobile. Qualcosa di duro, forse la punta di una
scarpa, lo picchiettò sul fianco, come per saggiare la sua
reattività.
“Gretchen,
questa prostrazione non fa che confermare l'idea che mi sono fatto di
voi tedeschi: siete un popolo di fanfaroni inutili, buoni solo a
strepitare in quella vostra orrenda lingua da barbari.”
Von
Knobelsdorff tratteneva addirittura il respiro. L'uomo si era accorto
che stava fingendo e lo provocava per spingerlo a tradirsi?
La
punta della scarpa lo colpì con maggiore forza, strappandogli un
breve gemito.
“Oh,
dunque la nostra Gretchen non è morta,” apprezzò l'inglese. “Per
fortuna, stavo cominciando a preoccuparmi.” Ci fu un fruscio di
vestiti, il tenente capì che l'altro si era chinato accanto a lui.
Una luce, forse quella di una torcia, gli venne puntata in faccia.
“Siamo davvero così malmessi, piccola Gretchen?”
Il
tenente non mostrò alcuna reazione. Il cuore gli batteva talmente
forte che a un certo punto ebbe l'assurda paura che l'altro riuscisse
a sentirlo. Il tempo sembrava non passare mai, tutto si dilatava in
lunghissimi secondi di angoscia.
Oscillava
costantemente tra speranza e disperazione, dibattendosi tra il
sollievo di aver ingannato il suo aguzzino e il terrore di non
esserci riuscito. Ad ogni momento si aspettava un urlo, una botta che
però non arrivava mai.
Qualcosa
lo pungolò fra le costole ed egli dovette farsi forza per non
sussultare. “No, Gretchen, non ci siamo,” disse alla fine
l'inglese, in un teatrale tono di delusione.
Il
tenente si sentì ghiacciare, ma l'altro si rialzò in piedi e
proseguì: “Lei è solo un piccolo, miserabile straccio, inutile
sotto ogni punto di vista. Vediamo se almeno servirà come esca.”
I
passi si allontanarono, ma con orrore di von Knobelsdorff non
uscirono dalla stanza. Si diressero invece verso la scrivania e
l'aggirarono.
La
sedia scricchiolò, poi ci fu il tonfo di un oggetto pesante, forse
metallico, che veniva appoggiato sul sottomano.
Passò
il tempo. Nella stanza c'era un silenzio denso e carico di minaccia.
Dolorante, stremato, tormentato dalla sete, il tenente non osava
nemmeno socchiudere gli occhi per controllare dove fosse l'inglese.
Lo immaginava però seduto alla scrivania, con lo sguardo puntato su
di lui.
L'ansia
lo stava divorando, decine di domande gli si affastellavano in mente,
e a nessuna di esse riusciva a dare una risposta: stava facendo la
scelta giusta? Era meglio stare immobile e attendere gli eventi, o
così facendo si stava giocando le uniche possibilità di fuga? Se
fosse saltato su e avesse assalito l'uomo, posto che il suo corpo
prostrato ne fosse in grado, sarebbe riuscito a sorprenderlo e a
sopraffarlo?
Ma
l'interrogativo più angosciante, quello che gli suscitava il
maggiore tormento, riguardava l'agente tedesco. Davvero stava
tornando a prenderlo? Le parole dell'inglese facevano supporre di sì.
Se
da una parte la cosa in un certo senso lo confortava, dall'altra lo
metteva in uno stato di ancora più tormentosa irresolutezza. Si era
fatto una ragione di essere stato lasciato indietro. La cosa gli era
parsa anche giusta, in fin dei conti, e si era organizzato per
cavarsela da solo, ma se cercando di cavarsela da solo avesse perso
l'occasione di essere aiutato dall'agente segreto? Se l'agente
segreto, per aiutare lui, avesse messo a rischio la missione? Doveva
intervenire? Agire? In che modo, poi?
Scelse
di rimanere immobile. Sapeva ancora troppo poco di quello che lo
circondava per improvvisare qualcosa.
La
sedia scricchiolò appena, producendo un rumore che alle sue orecchie
sovreccitate parve forte come una raffica di mitragliatrice. Ebbe
addirittura l'impressione che quel suono gli facesse male.
Da qualche ora tutto gli faceva male, in effetti, persino il mero
atto di esistere. Non gli sarebbe parso strano se addirittura il
cuore, pulsando, gli spedisse piccole stilettate nel torace.
Si
chiese cosa sarebbe successo e per l'ennesima volta non fu in grado
di darsi una risposta. Nonostante ogni suo proposito di rimanere
vigile, scivolò senza nemmeno accorgersene in un sonno plumbeo e
privo di sogni.
§
Il
tenente spalancò gli occhi. Non sapeva quanto tempo fosse passato, o
se l'uomo fosse ancora lì con lui, ma aveva la nettissima sensazione
che stesse per succedere qualcosa.
C'era
una calma strana. L'aria era immobile, non si udiva il minimo rumore.
La stanza era pressoché buia: solo i raggi della luna, passando
attraverso il finestrino, disegnavano sul pavimento una chiazza
diafana.
Fece
girare intorno lo sguardo e si accorse che l'inglese c'era ancora.
Era una massa scura, incombente, talmente immobile che se non avesse
saputo che si trattava di un uomo in carne e ossa l'avrebbe creduto
una statua.
Anche
lui era palesemente in attesa di qualcosa. Gli parve di notare che
avesse un'arma in mano, più che altro per un barbaglio di acciaio
che per un attimo baluginò in quella sagoma altrimenti nera.
Non
ci voleva un genio per capirlo: era in agguato. Chi stesse aspettando
era altrettanto chiaro.
Il
tenente rimase immobile, ben attento a non dar segno di sé.
Passò
altro tempo, il silenzio era sempre più profondo, la sensazione che
stesse per accadere qualcosa era sempre più intensa, tanto che
l'ufficiale doveva faticare per mantenere il respiro lento e costante
di una persona addormentata.
A
un certo punto dal tetto provenne un rumore. Un tramestio a stento
percettibile, qualcosa come il muoversi cauto di un animale
selvatico.
Poi
silenzio.
Sogguardò
l'inglese, che però manteneva un'immobilità assoluta.
La
ghiaia della massicciata scricchiolò appena, un sassolino rotolò
giù facendo due o tre rimbalzi, che in quella quiete tesa parvero
altrettanti colpi di cannone.
Il
cuore gli accelerò i battiti: qualcuno si stava muovendo
all'esterno.
Di
nuovo calò il silenzio. Il tenente rimase in ascolto, ma i rumori
sembravano essere stati inghiottiti da una campana pneumatica. Ebbe
l'impressione che persino il suo corpo avesse smesso di produrne e
che il suo cuore pulsasse in un silenzio assoluto, fluttuando come
una specie di medusa.
Ci
fu un lievissimo raschiare di metallo.
Ancora
una volta egli si irrigidì e volse lo sguardo alla porta con
aspettativa, ma l'anta rimase immobile.
Passò
altro tempo: secondi lunghissimi, che sembravano non voler finire
mai. E poi un tonfo soffocato, come un pugno su un mucchio di
coperte, e l'afflosciarsi morbido di qualcosa.
Un
altro lungo silenzio, poi dalla serratura provenne uno scatto di
metallo oliato.
I
muscoli di von Knobelsdorff si tesero come corde.
L'anta
si schiuse lentamente, creando sulla parete una debole lama di luce.
Al di là vi era un uomo.
Un
altro scatto metallico, questa volta proveniente dalla figura seduta
alla scrivania, fu per il tenente come una scossa elettrica: con
quanto fiato aveva in gola gridò: “È una trappola!”
Il
silenzio teso sembrò andare in frantumi come una lastra di vetro.
Una detonazione lacerò la quiete, il lampo dello sparo illuminò a
giorno la stanza.
Pur
dolorante, provato dalla lunga immobilità, von Knobelsdorff balzò
in piedi e fece per uscire, ma una mano lo agguantò per il collo e
lo tirò brutalmente all'indietro, scaraventandolo nuovamente a
terra. L'agente inglese poi lo oltrepassò e si chiuse la porta alle
spalle.
L'ufficiale
si rialzò.
Da
fuori proveniva il rumore di una colluttazione feroce. Un altro colpo
di pistola lo fece sobbalzare, poi udì il rimbalzo metallico
dell'arma che cadeva a terra. Il tramestio riprese, ci furono colpi,
gemiti e ansiti rabbiosi.
Spalancò
la porta e pur nella scarsa luce vide che l'agente inglese era
avvinghiato con qualcuno. In un silenzio mortale, i due stavano
lottando come furie.
Schizzi
di sangue imbrattavano pareti e pavimento.
All'esterno
si sentiva gridare, segno che gli spari avevano messo in allarme le
sentinelle. Comparvero delle luci, che gettarono ombre sinistre
all'interno del vagone.
Senza
starci troppo a pensare, egli afferrò l'agente inglese per le spalle
e cercò di strapparlo via, questi si rivoltò come un felino e gli
sferrò un pugno che gli spedì un nugolo di farfalle luminose
davanti agli occhi, poi tornò alla colluttazione. I clamori
all'esterno andavano aumentando, già si sentiva gridare qualcosa a
proposito di tedeschi in arrivo.
Egli
scrollò la testa disorientato. Colse il baluginio di una lama,
seguito da un gemito soffocato, poi carne che colpiva altra carne e
lo schiocco di qualcosa di duro, forse un cranio, contro il
pavimento.
Corrugò
la fronte cercando di individuare uno spiraglio di intervento. Fuori
formicolava ormai una moltitudine. “Non c'è più tempo!” si
sorprese a dire.
Il
tramestio cessò d'improvviso, egli percepì una stretta familiare
sul braccio. “Andiamo,” disse una voce vagamente ansante ma ben
nota.
Si
sentì spingere lungo il corridoio. Andare, dove? Poteva immaginare
che il campo fosse ormai in allarme, e che i soldati fossero ovunque.
Come avrebbero fatto a sgusciare tra le maglie di una rete che pur
non consapevole di loro, si andava comunque inesorabilmente
chiudendo?
“Non
abbiamo molto tempo,” disse l'agente segreto.
Egli
non replicò. Comparve una figura in uniforme davanti a loro, l'uomo
abbandonò la presa sul suo braccio e scattò in avanti, si udì uno
scricchiolio sinistro e il soldato si accasciò.
Lo
scavalcarono, arrivarono all'esterno. Nei rari sprazzi di luce, von
Knobelsdorff si accorse che la camicia dell'uomo era per metà rossa
di sangue. Abbassò gli occhi e vide che dietro di lui c'era una scia
di gocce rutilanti. “Lei è ferito!” esclamò.
“Andiamo,”
fu la risposta.
Il
tenente aggrottò le sopracciglia e replicò: “Si sta lasciando
dietro una traccia. Pensa che il suo nemico non ne approfitterà?”
L'altro
si fermò a guardarlo e, come era successo tempo prima, l'ufficiale
ebbe l'impressione di averlo in qualche modo colpito. In tono più
conciliante, soggiunse: “Non sarebbe meglio fare una medicazione di
fortuna?”
L'agente
segreto scosse la testa. “Ci penseremo più avanti, ora dobbiamo
andarcene di qui.”
Il
giovane rinunciò a replicare.
Corsero
via dal treno, verso le zone in cui le tenebre erano più fitte. Von
Knobelsdorff individuò nel buio la sagoma di lunghi baraccamenti,
separati fra loro da vialetti coperti di ghiaia bianca.
Qua
e là vi erano finestre illuminate, dall'interno delle costruzioni
provenivano voci.
“Si
muova,” lo incitò l'uomo.
Cominciò
a farsi udire l'ululato basso di una sirena a manovella. Il suono era
come un lungo lamento che man mano aumentava di tono, facendosi nel
contempo più acuto.
A
quel richiamo tutto il campo parve animarsi, la luce si accese
ovunque, dalle baracche cominciarono a uscire di corsa soldati,
perlopiù reclute, che frettolosamente indossavano gli ultimi pezzi
dell'equipaggiamento e si guardavano intorno spaesati, cercando di
capire per quale motivo stesse suonando l'allarme generale.
Qualche
sottufficiale abbaiava ordini.
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Capitolo 11 *** Capitolo 7 - Seconda parte ***
Incliti
lettori,
un
po’ di mappazzone per non perdere l’abitudine. Come sempre
ringrazio chi mi sta seguendo, con particolare trasporto emotivo nei
confronti di chi mi lascia anche un commento.
Il
rumore della sirena ebbe il potere di riscuotere definitivamente the
Bishop dal torpore. L’uomo si sollevò sulle braccia, si guardò
intorno e per prima cosa vide i corpi dei due piantoni, entrambi con
il collo in una posizione innaturale. Ragionò fra sé e sé che se
il dannato Werwolf non fosse stato suo nemico giurato, gli avrebbe
senz’altro chiesto di insegnargli quel trucchetto.
In
ogni caso, le sentinelle erano stecchite e i due tedeschi finiti
chissà dove.
Ebbe
un moto di stizza: persino quell’inutile ragazzetto petulante al
momento giusto era riuscito a creargli un problema. Si rammaricò di
non averlo ucciso quando aveva appurato che non aveva nessuna
informazione utile da fornirgli.
“Sono
troppo buono,” sospirò a mezza voce.
Scavalcò
il corpo di uno dei piantoni, rientrò nella stanzetta e andò alla
ricerca della torcia. La accese e fece scorrere il pennello di luce
nel corridoio: una fila di piccole macchie rosse si perdeva
nell’oscurità, segno che la sua pallottola, dopotutto, qualcosa
aveva colpito.
Egli
la seguì cauto. In certi tratti le gocce erano più rade, segno che
i due si erano mossi più velocemente, in altri ce n’erano di più.
In un punto, di nuovo in corrispondenza di un corpo dal collo
spezzato, il sangue aveva formato una piccola pozza.
Non
aveva usato una pallottola d’argento, ma a quanto pareva il Lupo
Mannaro ne aveva risentito ugualmente.
Di
nuovo rivolse un pensiero infastidito all’ufficialetto: se non
fosse saltato su con quel suo stupido strillo, probabilmente il
Werwolf avrebbe smesso una volta per tutte di essere un problema per
la Corona.
Fuori
c’era parecchia agitazione, il che non era un bene, naturalmente.
Nel buio e nella confusione, sarebbe stato più facile per i due
tedeschi, anche feriti e malconci com’erano, far perdere le loro
tracce.
Riprese
a seguire la scia di goccioline rosse. Prevedibilmente, essa scorreva
lungo gli edifici, nelle zone più in ombra. In alcuni punti
diventava più consistente, in altri si assottigliava al punto che
doveva frugare tutt’intorno con la torcia per ritrovarla.
Le
gocce però erano fresche, ancora lucide come piccoli rubini, segno
che il suo avversario non doveva essere poi così lontano.
Chissà,
forse si stava indebolendo? Non riusciva più a muoversi con la
consueta velocità? Immaginò il pilota, a sua volta stremato e
dolorante, che si dava da fare per sostenerlo. Quanto sarebbero
riusciti ad andare avanti, prima di crollare esausti?
Continuò
a seguire le tracce, che piegavano dietro le baracche e si dirigevano
verso il parcheggio degli automezzi.
Involontariamente
accelerò il passo: il parcheggio degli automezzi poteva voler dire
una sola cosa.
La
traccia rossa infatti si interrompeva all’improvviso, proprio in
corrispondenza di uno spazio vuoto fra due ambulanze.
The
Bishop evitò di farsi prendere dalla rabbia. Allontanò la nebbia
rossa che gli stava offuscando la vista, respirò a fondo un paio di
volte e si obbligò a fare il vuoto in mente.
Che
cosa voleva il Werwolf? Ovviamente tornare dietro le linee tedesche.
Avrebbe
potuto farlo con un banale autocarro? No, impossibile. Sarebbe stato
fermato e controllato dopo mezzo miglio al massimo.
C’era
però un campo d’aviazione non lontano, e guarda caso il ragazzetto
petulante era proprio un pilota.
§
Il
Werwolf spense il motore e disse: “Qui può andare bene.” Si
passò la mano sulla fronte e la ritrasse umida.
Anche
se era buio percepiva su di sé lo sguardo dell'ufficiale. Si girò
nella sua direzione: “Che c'è?”
“Lei
è ferito.” La voce aveva un tono di vago rimprovero.
“Ne
sono consapevole.”
“Non
vuole fare niente per medicarsi?”
Il
Werwolf emise un sospiro. “Sì, ora sì. Dovremmo essere abbastanza
sicuri.”
Il
giovane non replicò e la spia mantenne a sua volta il silenzio. Non
c'era niente di abbastanza
sicuro, purtroppo,
quando si aveva the Bishop alle calcagna.
La
voce dell'ufficiale lo richiamò alla realtà: “Andiamo nel
cassone. Se chiudiamo tutti i teli non si vedrà la luce.”
“Che
luce?”
“Dovrò
pur vedere qualcosa per medicarla, no?”
Il
Werwolf non rispose. Si limitò ad aprire la portiera e a scendere a
terra. L'aria era fresca e aveva un lieve odore di fiori selvatici e
limo. Quel poco che ricordava del paesaggio, appena una breve
panoramica nell'esiguo fascio di luce dei fari schermati, consisteva
in una macchia di alberi, un torrente e poco altro. Perlomeno le
piante avrebbero parzialmente nascosto l'ambulanza parcheggiata.
Aggirò
il veicolo e aprì a tentoni il portello posteriore. L'ufficiale, che
nel frattempo l'aveva raggiunto, brancolò con le mani nella voragine
nera del cassone alla ricerca di una fonte di luce. “Ci sono dei
tubi verticali,” constatò a bassa voce. “Come si fa a entrarci?”
“Sono
i sostegni delle barelle,” sussurrò il Werwolf. “Non ha mai
visto l'interno di un'ambulanza?”
“E
lei ha mai visto un pilota d'aeroplano ferito?”
“Che
intende dire?”
“O
bruciamo vivi o ci schiantiamo al suolo. In ogni caso, di solito
finiamo nelle fosse comuni, non nell'ospedale militare.”
L'agente
segreto non replicò. Si trovava ormai nella fase in cui anche una
risposta tagliente richiedeva più energie di quelle che poteva
permettersi di spendere. La ferita gli pulsava spedendogli in tutto
il corpo quella che sembrava un'infinita risacca di dolore, in cui
ogni onda arrivava sulla coda della precedente e prima di esaurirsi
veniva coperta dalla successiva.
Si
inerpicò a fatica nel veicolo, individuò al tatto una barella e vi
si lasciò cadere.
L'acqua
che gorgoglia fra le pietre è rossa di sangue. Anche le sue mani
sono piene di sangue, i suoi vestiti ne sono imbevuti.
Il
suo compagno incespica per l'ennesima volta, fa per rialzarsi ma si
accascia, mentre un filo rosso gli cola da un angolo della bocca,
gocciolando denso sul muschio della sponda.
Egli
lo tira per un braccio, cerca di farselo passare intorno alle spalle.
“Alzati,” ansima, e la parola suona come una preghiera. “Alzati,
dobbiamo andarcene.”
L'altro
prova a sollevarsi, egli ha la straziante certezza che lo faccia solo
per far piacere a lui.
“Alzati,”
ripete comunque.
Non
giunge risposta.
“Alzati,
per favore!”
Il
suo compagno tossisce, poi a fatica mormora: “Lasciami qui, la
missione è più importante.” Infila una mano malferma in una tasca
cucita all'interno della camicia, ne trae un piccolo contenitore
argentato. Glielo preme sul palmo con le ultime forze. “Ora ce
l'hai tu,” esala.
“No!
Per favore, lascia che ti aiuti, possiamo ancora far perdere le
nostre tracce.”
Per
tutta risposta, l'altro si adagia nel letto del torrente, con la
schiena appoggiata a una pietra. Gli tende la mano aperta e lui, dopo
un'esitazione, vi depone la Mauser.
“Per
favore,” tenta ancora una volta, senza riuscire a muovere un solo
passo lontano da colui col quale per anni ha condiviso ben più di
ogni missione.
“Va',
corri. Restituirò a the Bishop tutto il piombo che mi ha ficcato in
corpo.”
Quando
riaprì gli occhi, una debole luce rischiarava l'interno
dell'ambulanza. L'ufficiale sedeva sulla barella di fronte alla sua,
con una cassetta bianca aperta sulle ginocchia.
“Quanto
ho dormito?” gli chiese.
Il
giovane sollevò lo sguardo a incontrare il suo. “Pochi minuti.”
Senza aggiungere altro, trasse dal contenitore un paio di forbici e
cominciò a tagliargli la camicia, lasciando man mano cadere i lembi
di stoffa inzuppati di sangue.
Il
Werwolf li fissava in silenzio e non poteva fare a meno di pensare
che alla fine Reiner non era neppure riuscito a impugnare la pistola:
aveva detto quella frase solo per spingerlo ad andarsene.
L'avevano
ritrovato in seguito, riverso nel piccolo corso d'acqua. La Mauser
era accanto a lui, nel caricatore non mancava un solo colpo.
Forse
era morto appena lui gli aveva girato le spalle.
Si
proibì di sguazzare oltre nella gora di dolore che l'episodio gli
aveva scavato dentro: c'era una missione da portare a termine, il
resto non contava.
Si
rivolse all'ufficiale: “È molto grave?”
“Beh...”
“Risponda,
per favore.”
L'altro
alzò le spalle. “Di certo non ha un bell'aspetto. La pallottola le
è entrata nel fianco e mi pare che sia ancora dentro. Non ha
rigettato e non le esce sangue dalla bocca, da quel che so è buon
segno, ma ha perso comunque molto sangue.”
“Faccia
una medicazione stretta, per il momento potrà bastare.”
L'ufficiale
non replicò. Si limitò a estrarre dalla cassetta delle compresse di
garza, vi versò sopra del disinfettante e gliele applicò sulla
ferita.
Il
Werwolf strinse i denti al contatto dalla sostanza sulla carne viva,
ma per il resto rimase immobile. “Ora fermi la medicazione con una
fasciatura e stringa bene,” gli raccomandò.
“E
se le faccio male?”
“Vorrà
dire che ha stretto a dovere.”
Rimase
a osservarlo mentre estraeva dalla cassetta dei rotoli di bende e li
allineava accanto a sé. Aveva un'espressione concentrata,
addirittura severa, che per certi aspetti contrastava con i suoi
lineamenti ancora fanciulleschi. Si tirò indietro i capelli
scoprendo la fronte pallida e liscia.
Infine
si raddrizzò e disse: “Sono pronto. Riesce a mettersi seduto?”
Il
Werwolf guadagnò a fatica la posizione richiesta, l'altro cominciò
coscienziosamente ad avvolgerlo con strisce di garza.
“Stringa
di più,” disse a un certo punto l'agente segreto.
Il
giovane alzò gli occhi su di lui. “Ancora di più?”
“Non
voglio che si riapra la ferita.”
“D’accordo.”
Il
Werwolf si trovò a emettere un gemito soffocato mentre le bende
letteralmente gli mozzavano il respiro. “Così va bene,” disse,
notando l’espressione preoccupata dell’altro. “Ora vediamo
lei.”
Il
giovanotto parve stranito. “Io?”
“Che
cosa le ha fatto the Bishop?”
L’ufficiale
si limitò a distogliere lo sguardo stringendo le labbra.
“Ha
usato la frusta cosacca, non è così?”
“Sì.”
“Mi
faccia vedere.”
Con
qualche difficoltà, l’altro si fece scivolare giù dalle spalle
quel che restava della camicia e gli girò la schiena.
Il
Werwolf sollevò le sopracciglia: la pelle era un intersecarsi di
vibici appaiati a due a due, rossi, viola o addirittura sanguinanti.
Rivoli scarlatti scomparivano oltre la cintura dei pantaloni.
“Allora?”
volle sapere l’ufficiale.
“Credo
che le rimarrà qualche cicatrice” rispose l’uomo. Gli sfiorò il
dorso con la punta delle dita ed egli non poté fare a meno di
sussultare.
“Fa
male?”
“Sì.”
“Cercherò
di medicarla. Pensa di riuscire a pilotare un aereo in queste
condizioni?”
Il
giovane si voltò con una smorfia di dolore sul viso. “Certo.”
“Allora
partiamo appena ho finito.”
Alla
frase seguì qualche secondo di silenzio, poi di nuovo il tenente si
voltò a fissarlo e disse: “Ma è notte.”
“E
quindi?”
“Non
si può volare di notte. Non con un caccia, almeno.”
Il
Werwolf annuì. “Sì, immagino che chiunque conosca questa regola,
vero?”
“Mi
sembra ovvio.”
L'agente
segreto annuì. “Perfetto, e allora la conosce anche the Bishop.”
Alla
frase fece seguito un altro lungo silenzio. Infine l'ufficiale
obiettò: “Non posso volare se non vedo gli strumenti. Come faccio
ad esempio a capire quando raggiungo la velocità di decollo?”
“Si
affidi all'istinto. Non ce l'ha l'istinto per il volo, lei?”
L'altro
cercò di incrociare le braccia sul petto, ma dovette interrompere il
gesto con un grugnito di dolore. “L'istinto per il volo ce l'hanno
gli uccelli,” replicò.
“Se
lo faccia venire anche lei, ragazzo mio, altrimenti la nostra fuga
sarà brevissima.”
§
“La
fa facile, lei,” brontolò von Knobelsdorff.
“Silenzio.”
Il
tenente non replicò. Appiattito in un fosso, fissava davanti a sé
con una strana sensazione di disagio.
Conosceva
i campi d'aviazione. Ne amava l'ampiezza, il respiro. Trovava allegra
la manica a vento bianca e rossa che sventolava in un angolo, gli
piacevano le baracche dei segnalatori, era affascinato dagli hangar
sempre pieni di meccanici indaffarati, che perlopiù imprecavano
perché le cose non andavano mai come volevano che andassero.
Ma
soprattutto amava gli aerei: quando vedeva allineati quei Pegaso
magnifici, rombanti, con il muso orgogliosamente puntato verso
l'azzurro, era preso da una tale emozione che il cuore gli balzava
nel petto.
Sorrise
fra sé e sé al pensiero del cielo infinito.
Volse
nuovamente lo sguardo in avanti e il suo sorriso svanì. Quel campo
vuoto, immenso, spettrale sotto i freddi raggi della luna, sembrava
più un cimitero che un aeroporto.
C'era
calma di vento, tutto era cristallizzato in un'immobilità irreale.
Il verso di un uccello notturno risuonò lugubre in lontananza, poi
si ristabilì il silenzio.
Si
voltò verso l'agente segreto e colse la sua sagoma immobile,
intenta. Ebbe l'impressione di un predatore in agguato.
Un
fruscio sull'erba lo indusse ad appiattirsi. C'era una figura in
lento avvicinamento. Il passo era tranquillo, non comunicava né
tensione né allarme. Strinse gli occhi e si concentrò su di essa,
riuscendo a distinguere dopo un po' la sagoma di un elmetto
britannico e un moschetto portato a spallarm.
Il
soldato si fermò. Era così vicino che se avesse allungato la mano
avrebbe potuto toccarlo. Si frugò in tasca, ne trasse una sigaretta
e se l'accese mascherando la fiammella nel cavo della mano.
Von
Knobelsdorff si voltò di nuovo verso l'agente segreto ed ebbe la
consapevolezza che la sentinella stava fumando per l'ultima volta.
Un
istante dopo lo sentì scattare. La sigaretta rotolò sull'erba, ci
fu un breve tramestio, uno scricchiolare di ossa infrante, poi il
corpo esanime del soldato rotolò nel fosso.
“Prenda
la sua divisa,” ordinò l'uomo in un sibilo.
Il
tenente allungò cauto una mano fino a che non sentì sotto le dita
il panno ruvido dell'uniforme. Sotto la stoffa c'era anche quella che
gli parve una gamba.
La
voce dell'altro lo fece quasi sussultare: “Se va in rigor,
si scorda di riuscire a levargli di dosso qualcosa.”
Von
Knobelsdorff deglutì. Un conto erano i combattimenti in cielo, un
conto era spogliare un cadavere ancora caldo e mettersi addosso i
suoi vestiti.
Si
sforzò di pensare alla Patria, al fatto che se fossero riusciti ad
andarsene, presto avrebbe potuto tornare a volare. Magari sarebbe
anche riuscito ad ottenere quell'ultima, agognata vittoria e avrebbe
ricevuto il Pour le Mérite dalle mani di Sua Maestà in persona...
“Si
muova! Ha paura che la morda?”
“A
volte il suo cinismo è sconfortante.”
L'altro
non replicò. Egli si voltò come per sollecitare una risposta e si
accorse di essere rimasto solo.
Sentì
un brivido ghiacciato percorrergli la schiena, non tanto per il
poveretto accasciato nel fosso, quanto per il fatto che l'altro se
n'era andato. Per quanto si ripetesse che l'agente segreto non
avrebbe potuto scappare da nessuna parte – perlomeno con un aereo –
senza di lui, il fatto che fosse sgusciato via nel più totale
silenzio gli evocava una sorda angoscia.
Chi
poteva dire cos'era in grado di inventarsi quel demonio,
appropriatamente soprannominato Lupo Mannaro? Per quel che ne sapeva,
poteva anche essersi messo d'accordo con il suo avversario, i
doppiogiochisti non erano poi una specie così rara fra le spie.
Oppure poteva aver deciso di proseguire da solo, lasciandolo indietro
dopo aver stabilito che era solo un'inutile zavorra.
Continuò
a spogliare il morto, ringraziando che il buio gli impedisse di
vedere la sua faccia.
Era
impegnato nel farsi passare la camicia sulle spalle doloranti quando
la vista di un'altra sagoma in avvicinamento lo pietrificò.
Elmetto
a padella, moschetto, passo tranquillo. Quello che si stagliava
contro il debole chiarore lunare era un soldato inglese.
Di
nuovo l'angoscia gli serrò il petto. Che fare? Appiattirsi nel fosso
sperando che il soldato passasse oltre? Saltare su e cercare di
abbatterlo? Fingere di essere un inglese? Con il suo accento tedesco
non avrebbe ingannato nemmeno un sordo.
Ripensò
a quello che l'aveva interrogato: se l'avessero preso, lo avrebbero
sicuramente riportato da lui. Visto che non possedeva informazioni da
dargli, cosa gli avrebbe fatto? Lo avrebbe considerato prigioniero di
guerra o lo avrebbe fatto fucilare come spia?
Pur
immerso in quelle ansiose considerazioni, notò che l'uomo era
immobile più o meno dove si era fermato l'altro, e si stava
guardando lentamente intorno. Si chiese se stesse cercando il
commilitone.
Attese.
La
camicia ancora a metà della schiena, osava a malapena respirare.
Tante volte aveva sentito raccontare che la lepre, restando immobile,
ingannava persino i segugi, che le passavano a un palmo di distanza e
non si accorgevano della sua presenza. Si augurò che la stessa cosa
fosse valida anche per gli umani.
L'uomo
fece un passo avanti.
Egli
si decise in un attimo. Saltò su ignorando il dolore e gli si lanciò
contro, solo per trovarsi una frazione di secondo dopo col dorso a
terra, una mano sulla gola e l'altra sulla bocca, a soffocare il
lamento che il duro impatto con il suolo gli aveva suscitato.
“Smetta
di fare lo stupido,” lo redarguì l'agente segreto.
“Mi
sta facendo male,” protestò von Knobelsdorff, divincolandosi per
liberarsi dalla stretta.
“C'è
chi gliene farà molto di più, se non riusciamo ad andarcene da
qui.”
Camminando
uno accanto all’altro con passo misurato, si avvicinarono
all'hangar principale.
Von
Knobelsdorff fissava di tanto in tanto di sottecchi la pista, o
perlomeno il sipario di buio dietro cui immaginava si trovasse la
pista. E se avesse sbagliato direzione? E se avesse sfasciato il
carrello in una buca? Se avesse staccato troppo tardi e fosse finito
sugli alberi?
Concluse
che era inutile pensare a tutte quelle eventualità. Del resto, anche
quando decollava per i normali voli di guerra, lo faceva con un
larghissimo margine di rischio.
Stava
forse a preoccuparsi, in quei frangenti, degli inglesi che avrebbero
potuto sparargli, dei guasti meccanici o di altre faccende del
genere?
Ovviamente
no.
Dietro
il portellone dell'hangar si indovinava una debole luce, segno che
qualche meccanico stava già lavorando sui motori.
Quella
constatazione, unita al vago odore di benzina che si cominciava a
percepire e al battere familiare di un martello su qualcosa di
metallico, ebbe il potere di dissolvere ogni sua inquietudine.
Lo
pervase una freddezza pacata, atarassica, che quasi fece scomparire
il dolore che fino a quel momento gli aveva spedito a ogni passo
brividi ghiacciati in tutte le membra.
Fecero
scorrere la porta quel tanto da infilarsi dentro.
Il
martellare si interruppe. “Chiudi!” urlò qualcuno, poi il lavoro
riprese.
Il
tenente gettò un rapido sguardo intorno: dei Sopwith Pup, dei
Bristol Scout e un ricognitore RE8. Indicò l’ultimo all’agente
segreto e annuì un paio di volte.
L’altro
annuì a sua volta, poi scivolò silenzioso verso il banco officina.
L’ufficiale
non si mosse. Sapeva cosa sarebbe successo, ma uccidere i soldati
nemici faceva parte della guerra e del resto c’era poca differenza
tra il pilota che premeva il grilletto della mitragliatrice e
l’armiere che gliela metteva in condizioni di sparare. Entrambi
combattevano contro la Germania.
Udì
un breve tramestio, un tintinnare metallico al suolo e il rumore di
qualcosa di pesante che veniva trascinato. Dopo qualche secondo
ricomparve l’agente segreto. “Fatto,” annunciò conciso.
Il
tenente annuì. Si avvicinò all’aereo, ne percorse la struttura
alla ricerca del tappo del serbatoio e quando lo ebbe trovato, lo
svitò e vi guardò dentro. “Serve benzina,” disse poi. Si guardò
intorno e individuò un barile di metallo montato su un supporto a
ruote, già munito della pompa di estrazione. “Quello.”
Travasarono
il carburante. L’agente segreto a quel punto occhieggiò le
mitragliatrici e chiese: “Sono cariche quelle?”
“No,
vengono caricate poco prima della missione, per evitare
inceppamenti.”
“Meglio
provvedere, allora.”
Il
tenente individuò le casse di munizioni. Da una parte non avevano
tempo, ma dall’altra in effetti non piaceva neanche a lui l’idea
di essere in volo senza nemmeno una fionda per difendersi.
Caricarono
tutte le armi, poi il tenente tolse i tacchi da sotto le ruote e andò
a recuperare le cuffie e gli occhiali che i meccanici usavano per i
voli di prova.
Quando
tutto fu pronto, egli disse: “Ora mi stia bene a sentire: apriamo
le porte dell’hangar senza far rumore, poi io salgo su. Quando le
dico ‘contatto’, lei deve dare un colpo all’elica.” Si
interruppe per mimare il gesto. “Ma sia svelto a tirare via le
mani, se non vuole trovarsele amputate. Poi salga dietro e lasci fare
a me.”
L’agente
segreto annuì. “Va bene.”
“Il
colpo deve essere energico. Pensa di farcela con quella ferita al
fianco?”
“Sì.”
“Sicuro?
Se il motore si ingolfa rimaniamo bloccati qui come due idioti.”
L’uomo
gli rivolse uno sguardo tagliente e gli chiese: “Vede alternative?”
“Andiamo
ad aprire l’hangar,” disse il tenente per tutta risposta.
Il
portellone spalancato era come una voragine sul nulla. Dopo la pur
debole luce dell’interno, si stentava a credere che al di là ci
fosse altro che un infinito abisso di buio.
Von
Knobelsdorff rivolse un ultimo sguardo all’agente segreto, si
accertò che si fosse collocato nella posizione corretta davanti
all’elica, quindi si arrampicò nell’abitacolo.
“Contatto!”
esclamò sporgendosi da una parte.
L’uomo
afferrò una pala e la spinse verso il basso. L’elica diede due o
tre giri, il motore tossì un paio di volte, poi si fermò.
Il
tenente si obbligò a rimanere calmo. Forse
non sa quanta forza ci vuole,
si disse, forse è
rimasto spiazzato.
“Contatto!”
ripeté.
L’elica
diede un solo giro svogliato, poi si fermò. Cominciarono a levarsi
vapori di benzina.
Merda,
pensò von Knobelsdorff, riconoscendo i sintomi di un imminente
ingolfamento. Si sporse di lato e disse: “Riproviamo, ci metta
tutta la sua forza: contatto!”
In
quel momento apparve nel vano della porta un uomo in borghese, dalla
faccia pallida, con i capelli neri. Stringeva in mano una pistola.
“Contatto!”
ripeté ansiosamente l’ufficiale.
L’altro
diede il terzo colpo all’elica. Il motore tossì un paio di volte
ed emise un pennacchio di fumo biancastro. Per un attimo sembrò
volersi fermare di nuovo, ma subito dopo cominciò a funzionare
regolarmente.
Von
Knobeldsorff aumentò i giri, si udì uno sparo e dall’aereo
accanto all’RE8 schizzarono via schegge di legno. L’agente
segreto aggirò di corsa la semiala, vi balzò sopra e si lasciò
cadere nell’abitacolo dell’osservatore.
Il
tenente diede tutta manetta, il rombo del motore si fece assordante e
l’aereo si lanciò in avanti.
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Capitolo 12 *** Capitolo 8 - Prima parte ***
Gente mia,
nonostante
la tecnologia abbia tentato a più riprese di rivoltarsi contro di
me, ecco che vi posto il solito mappazzone settimanale.
Come
sempre un immenso ringraziamento a chi mi sta seguendo.
Capitolo
8
L'inglese
era proprio di fronte a loro. Bilanciato sui due piedi, profilato,
impugnava la pistola con una mano e sembrava un duellante d'altri
tempi.
Il
tenente capì che stava sparando più che altro dai lampi gialli che
baluginavano dalla canna, perché ogni altro suono era soverchiato
dal rombo del motore a pieni giri.
Una
scintilla sprizzò dalla culatta della Vickers, segno che un
proiettile l'aveva colpita, poi l'inglese fu costretto a saltare
indietro per evitare di essere travolto.
Von
Knobelsdorff lo vide bilanciarsi nuovamente sulle gambe e mirare a
lui, per un istante si trovarono anche occhi negli occhi.
Poi
l'aereo passò oltre e il tenente si trovò a fronteggiare l'immensa
distesa buia della pista.
Fece
prendere velocità all'RE8. Chiuse gli occhi e lasciò che l'istinto
per il volo prendesse il sopravvento.
Cercò
di sentire
quell'aereo come una parte del suo stesso corpo, lo visualizzò nella
corsa di decollo, lasciando che il fremito dei comandi e l'impatto
dell'aria contro il viso gli dicessero che era arrivato il momento di
staccare.
L'aereo
correva. Da quanto tempo? Non lo sapeva.
Inspirò,
cercò di fare il vuoto in mente.
Non
adesso...
L'aria
era ormai uno schiaffo brutale, la barra nella sua mano era una cosa
viva, pulsante.
Non
adesso...
L'aereo
fece un breve sobbalzo, riprese terra, si scosse come un puledro
ansioso di galoppare.
Adesso!
Tirò
indietro la barra, ogni scossa e ogni vibrazione cessarono: l'RE8 era
passato da grave che striscia sul terreno a entità celeste senza
peso.
Sospirò
di sollievo, ma mantenne desta l'attenzione. Quanto saliva quel
velivolo? Quando avrebbero guadagnato la quota di crociera? Era il
caso di ridurre i giri o era meglio aspettare? Cercò di distinguere
qualcosa nel cruscotto, ma anche quello era un abisso di buio, nel
quale la debole luminescenza verde dei quadranti sembrava il
barbaglio di pesci in acque profonde.
Si
affidò nuovamente all'istinto. Guardò fuori, vide in lontananza dei
bagliori rossi e aranciati. “Il fronte,” disse a voce alta,
ricordandosi solo dopo che l'uomo alle sue spalle non poteva
sentirlo.
Stabilì
che la quota era sufficiente, livellò e ridusse i giri fino a che un
suo orecchio interiore non si dichiarò soddisfatto.
A
quel punto osservò di nuovo l'orizzonte. Il cielo era ancora nero,
ma gli sembrava di cogliere da una parte qualcosa come un vago
chiarore. Stabilì che quello era l'est.
In
lontananza si vedeva un ribollire rossastro da fucina, nel quale
talvolta esplodevano fontane di un bianco accecante, che lasciavano
poi ricadere ad arco vividi zampilli.
Chiuse
gli occhi e per un istante rivide quegli stessi disegni, violacei,
dietro le palpebre.
Si
guardò intorno come d'abitudine. Stava per girarsi verso l'agente
segreto quando un'angosciante sensazione di allarme lo invase: odore
di benzina.
Annusò
di nuovo, pregando di essersi sbagliato, ma allo stesso tempo
consapevole che nessun pilota avrebbe mai potuto sbagliarsi su una
faccenda del genere. Il risultato infatti fu lo stesso: benzina.
Sicuramente
uno dei proiettili dell'inglese aveva bucato un serbatoio.
Strinse
le labbra. Non c'era molto da fare, obiettivamente, a parte
continuare a volare sperando che l'aereo non prendesse fuoco e che il
carburante rimasto fosse sufficiente a farli arrivare in territorio
tedesco.
Riguardò
il susseguirsi di fiamme e deflagrazioni che segnava la linea del
fronte, diede motore e salì di quota: almeno avrebbe avuto più
margine per un'eventuale planata.
Livellò
quando i bagliori delle esplosioni erano ridotti a un vago luccichio
come di sole sull'acqua, poi si chiese quanto carburante fosse
rimasto. Gli indicatori non si vedevano e l'istinto del volo, così
utile per staccare al momento giusto o compensare il vento al
traverso, era purtroppo del tutto inutile per dirimere questioni
tecniche come la quantità di benzina presente nei serbatoi.
Guardò
di nuovo verso l'orizzonte, alla ricerca di un'agognata striscia di
luce. Decollare al buio, dopotutto, non era impossibile. Tutt'altra
cosa, ovviamente, sarebbe stata atterrare, verosimilmente su un campo
non preparato – campo che prima avrebbe anche dovuto individuare –
forse senza benzina e magari, per colmo di sfortuna, anche
bersagliato dalla fucileria tedesca, perché nelle trincee
l'avrebbero scambiato per un nemico.
L'odore
di benzina andava e veniva. A tratti era più intenso, tanto da far
temere un imminente incendio, a tratti invece quasi scompariva,
soverchiato dal vento che invadeva l'abitacolo.
Probabilmente
lo stillicidio non finiva direttamente sul motore, ma in ogni caso
persisteva, e stava vuotando pian piano il serbatoio.
Von
Knobelsdorff regolò per l'ennesima volta quel che poteva dei
parametri del volo, poi fissò di nuovo l'orizzonte, dove stava
svogliatamente accendendosi una luminescenza aranciata. Guardando con
attenzione, si cominciava già a percepire qualche corrugamento viola
o grigiastro nel nero prima uniforme del suolo.
Il
motore tossì. Un sussulto quasi impercettibile, che però a lui
parve forte come un colpo di cannone.
Si
guardò ansiosamente intorno, calcolò quale fosse più o meno la
distanza dal fronte e cominciò a impostare un’eventuale planata.
Il
motore tossì di nuovo, l’aereo ebbe un sussulto.
Von
Knobelsdorff percepì un tocco sulla spalla. Capì che l’agente
segreto stava dicendo qualcosa, ma non riuscì ad afferrare cosa.
Immaginò che stesse chiedendo se c’erano problemi.
“La
benzina!” urlò in risposta, con quanto fiato aveva in gola
“Benzina! Poca benzina!”
Poi
il motore emise un'altra serie di singhiozzi ed egli dovette
abbandonare lo scambio per dedicarsi a questioni più urgenti.
L'uomo
del resto non era l'ultimo degli stupidi, non ci avrebbe messo molto
a capire qual era il problema.
All’orizzonte
comparvero i primi raggi di luce. A terra non si vedeva ancora
praticamente nulla, ma il colore del cielo stava passando dal nero al
blu scuro. A una a una, le stelle scomparivano.
Il
ribollire igneo del fronte, che col buio gli aveva ricordato i fiumi
di lava incandescente di un vulcano, andava pian piano trasformandosi
in dense nubi di fumo, sotto le quali covava un rosseggiare come di
braci.
Le
vivide fontane bianche, di una terribile bellezza nelle tenebre,
stavano diventando sbiaditi archi giallastri.
Il
motore calò di giri, tossì, si riprese sputacchiando. Egli tentò
di inclinare l’aereo alla ricerca delle ultime gocce di benzina, ma
dopo pochi secondi l’elica si fermò.
“Merda!”
imprecò fra i denti. Nel silenzio irreale che era calato, sembrò
che lo stesse urlando. Diede un'altra occhiata alla linea del fronte,
cercando di calcolarne la distanza. Non era una riga tracciata con la
penna, ovviamente, ma un'estensione più o meno ampia di cosiddetta
terra di nessuno, delimitata dalle trincee dei due schieramenti. La
dimensione di quello spazio poteva fare la differenza.
Guardò
di nuovo, ma non si arrischiò a perdere preziosi metri di quota per
avere un punto di vista migliore. In ogni caso, ragionò, a parte
sfruttare al massimo la planata c'era ben poco da fare.
Si
concentrò sull'aereo. L'RE8 sembrava comportarsi abbastanza bene,
era stabile e scendeva molto più adagio del suo Albatros, grazie
alle ampie superfici alari. Per agire sui comandi bastava qualche
tocco su barra e pedali.
L'agente
segreto sedeva silenzioso alle sue spalle, senza disturbarlo con
domande futili.
Tutto
sembrava procedere, se non nel modo migliore, almeno in quello più
accettabile. Egli si sentì pervadere, per la prima volta da quando
era stato abbattuto con l'agente segreto a bordo due giorni prima, da
un cauto ottimismo.
Poi
la semiala destra esplose. Ci furono un lampo giallo e uno schianto,
la struttura si disintegrò in un delirio di schegge di legno,
brandelli di tela e cavi d'acciaio. L'aereo fuori controllo si
rovesciò e cominciò a precipitare.
Von
Knobelsdorff cercò per prima cosa di rimettere il velivolo in un
assetto decente, cosa che gli riuscì solo dopo un tempo che gli
parve interminabile. Quando l'RE8 interruppe la caduta, avevano perso
decine di metri di quota e, seppur più lentamente, continuavano a
perderne. Si trovavano ancora dietro le linee inglesi. Se avessero
toccato terra lì, sarebbe stata la prigionia assicurata, sempre che
non fossero stati fucilati sul posto come spie.
Un
altro colpo gli passò così vicino che l'aereo vibrò. Evidentemente
c'era un anonimo artigliere tedesco che aveva deciso di usare il
ricognitore inglese per fare il tiro al bersaglio. In altre occasioni
avrebbe sicuramente lodato la precisione e la perseveranza del
militare, ma in quel frangente maledisse tanto zelo.
Ormai
l'RE8 era così basso che sporgendosi di lato riusciva a distinguere
i reticolati. Sotto l'aereo sfilavano le postazioni inglesi; dapprima i
ridotti, i depositi, le cucine da campo e le salmerie, poi le
trincee arretrate e infine la prima linea. Al suo passaggio, i
soldati agitavano le braccia.
Notò
che quell'avvicinamento a motori spenti stava mettendo tutti in
allarme. Ovviamente gli inglesi vedevano un loro apparecchio in
difficoltà e poteva scommettere che si sarebbero attivati per salvarlo.
Probabilmente si erano fatti l'idea che lui fosse morto o
ferito, e che per tale motivo, invece di atterrare al sicuro dietro
le linee, stesse caparbiamente procedendo verso le trincee tedesche.
Rivolse
un fugace pensiero all'agente segreto alle sue spalle, ebbe quasi
l'idea di chiedergli cosa sarebbe stato meglio fare una volta a
terra, ma subito dopo dovette concentrarsi sul volo, la cui
difficoltà richiedeva tutta la sua attenzione.
Il
terreno, un brullo susseguirsi di avvallamenti e crateri, si stava
avvicinando con allarmante velocità.
Ancora
una volta il tenente si sporse di lato per controllare la posizione
del velivolo: si era lasciato alle spalle la prima linea inglese e
riusciva già a vedere, forse a duecento metri di distanza, le
trincee tedesche.
Sotto
di lui scorrevano matasse di filo spinato e detriti. Il suolo ormai
era a pochi metri, l'aereo arrancava sorto, costringendolo a continue
manovre di correzione.
Infine
toccò terra con la punta della semiala sana, rimbalzò, toccò di
nuovo e si udì lo schianto del carrello che cedeva.
L'RE8
si accasciò su un lato e per un po' continuò a strisciare
lasciandosi dietro pezzi della centinatura e del rivestimento alare.
Infine si arrestò in un silenzio irreale.
“Tutto
bene?” chiese il tenente, ma non ricevette risposta.
Fece
per girarsi verso l'agente segreto, ma una serie di clamori lo
costrinsero a dedicare immediata attenzione a ciò che stava
accadendo al di fuori.
Una
pattuglia di inglesi si stava avvicinando, con l'ovvio intento di
salvarli.
Si
sentì gelare. Diede un'occhiata tutt'intorno, ma non c'era nulla che
potesse fungere da nascondiglio. Le linee tedesche erano ancora
lontane, o perlomeno erano più lontane della squadra in
avvicinamento. “Abbiamo un problema,” disse, ma ancora una volta
non ottenne risposta.
Ansiosamente
si chiese dove fosse l'agente segreto: era morto durante
l'atterraggio? La ferita si era riaperta? Lo immaginò esanime,
fradicio del proprio sangue, penzolante dalle cinture di sicurezza.
“Signore,”
tentò, “signore, mi sente? Dobbiamo andarcene subito.” Si girò,
ma l'abitacolo era vuoto.
Pensieri
di ogni genere gli saettarono in mente. Era davvero morto? Caduto
dall'aeroplano? Era scappato lasciando indietro lui, come esca per
gli inglesi?
L'ultima
ipotesi gli parve la più probabile. Certo, non aveva più bisogno di
un pilota. Tanto valeva sacrificarlo per coprirsi la fuga.
Lo
invase qualcosa di molto simile allo sdegno, soppiantato subito dopo
dalla pressante necessità di trovare un modo per cavarsi comunque
d'impaccio.
Sentì
il tramestio dei passi in avvicinamento. In inglese qualcuno domandò:
“Ehi, amico, tutto bene?”
Qualcun
altro disse: “Per me è morto.”
La
voce di prima insisté: “Ehi? Mi sente?”
Von
Knobelsdorff non sapeva che fare. Non aveva armi, tanto per
cominciare. Era nel bel mezzo di uno spazio aperto, dove qualcuno
dotato di fucile avrebbe potuto fare su di lui un comodo tiro al
coniglio. Era stremato, ferito, faticava a reggersi in piedi.
Tuttavia
gli ripugnava l'idea di lasciarsi catturare come un animale preso al
laccio. Scrutò ansiosamente nella cabina, alla ricerca di qualcosa
che potesse fungere da arma. Osservò con nostalgia le due
mitragliatrici Vickers ormai inutilizzabili.
Poi
sentì qualcosa come un debole gemito fuori dall'aereo. “Ma che
diavolo...?” sbottò qualcuno, poi la frase si interruppe.
Ci
furono colpi soffocati, un rumore come di rami secchi che si
spezzavano.
Calò
il silenzio.
Il
tenente si issò in piedi con fatica. Strizzò gli occhi per
allontanare un capogiro e cercò di mettere a fuoco quello che lo
circondava. I soldati inglesi erano a terra. Altri soldati si stavano
avvicinando, ma erano vestiti in grigioverde.
Lungi
dal sospirare di sollievo, alzò le mani quanto più poteva ed
esclamò: “Non sparate, sono un ufficiale tedesco!”
I
nuovi arrivati si arrestarono. Senza abbassare il moschetto, il più
avanzato di essi, un caporale, chiese: “Prego?”
Immobile,
von Knobelsdorff ripeté: “Sono un ufficiale tedesco.”
“Ma
certo, e io sono il Kaiser.” Il fucile non si spostò di un
millimetro.
“Mi
chiamo Maximilian von Knobelsdorff, sono tenente del Terzo Ulani,
attualmente in forza alla Jasta 6 con mansione di pilota.”
Il
98K continuava a puntarlo. “Come mai parla così bene tedesco?”
chiese il graduato.
“Perché
sono
tedesco, maledizione!”
“Con
quell'uniforme? A bordo di un ricognitore con le torte rosse e
blu[1]?”
“Mi
faccia parlare con un ufficiale!”
“Può
giurarci che parlerà con un ufficiale,” replicò asciutto l'altro.
Poi, rivolto ai suoi uomini: “Tirate giù quella spia inglese
dall'aereo.”
Il
tenente lasciò che i soldati lo sollevassero quasi di peso. Un po'
perché non voleva innervosirli con mosse troppo brusche, ma un po'
anche perché obiettivamente faceva sempre più fatica a reggersi in
piedi.
Gli
sembrava di essere costantemente sdraiato sulla tavola di chiodi di
un fachiro, gli bastava fare un respiro un po' più profondo del
normale per avere l'impressione che qualcuno gli stesse strappando
brani di pelle dal dorso.
Un
paio di volte gemette anche, al tocco rude dei soldati. Poi qualcuno
avvisò: “Ehi, perde sangue. È ferito!”
Von
Knobelsdorff avrebbe voluto replicare, ma le cose stavano cominciando
a diventare sempre più confuse. L'ultimo pensiero coerente che
riuscì a formulare fu che forse la felicità di trovarsi finalmente
in mani tedesche lo stava inducendo all'abbandono, poi tutto si fece
nero.
§
Quando
il tenente riaprì gli occhi, la prima cosa che vide fu una parete
formata da assi di legno grezze, dietro cui si indovinava la presenza
di terra battuta. L’ambiente in cui si trovava era rischiarato da
una fioca luce giallastra, come di una candela o una lampada a olio;
nell’aria c’erano vari odori, tra cui medicinali, grasso per armi
e panno militare.
Si
accorse che si trovava su una branda, disteso su un fianco. Qualcuno
gli aveva tolto la giubba e la camicia, ma a quanto pareva non aveva
toccato le medicazioni di fortuna che gli aveva fatto l’agente
segreto.
Si
chiese dove fosse finito il suo misterioso compagno, e una strana
fitta di nostalgia lo pungolò.
Cercò
di sollevarsi su un gomito per guardarsi intorno, ma era troppo
debole e dovette rinunciare. Al suo movimento, però, una figura gli
si avvicinò. “Mi capisce?” chiese un capitano medico, entrando
nel suo campo visivo.
“Ovvio
che la capisco,” ansò il giovane con voce roca, “sono tedesco.”
L’altro
sollevò le sopracciglia. “È tedesco?” ripeté perplesso.
“Tenente
Maximilian von Knobelsdorff, Terzo Ulani, in forza alla Jasta 6 con
mansioni di pilota da caccia.”
Il
capitano lo fissò perplesso per qualche secondo, quindi chiese:
“Come posso essere certo che lei non mi stia mentendo?”
“Si
metta in contatto con il maggiore Heinrich von Stade, comandante
della Jasta 6. Gli dica di venire qui, sarà lui a confermarle la mia
identità.”
L’altro
sembrava comunque poco convinto da quelle referenze. Arretrò appena
sullo sgabello, come per avere un diverso punto di vista su di lui,
poi lo fissò pensoso, prendendosi il mento fra le dita. Infine
chiese: “Se lei, come dice, è un pilota tedesco, come mai si
trovava su un ricognitore inglese, con addosso un’uniforme
inglese?”
“Sono
informazioni che non posso darle.”
Il
capitano non replicò. Si alzò in piedi, aggirò la sua branda e
tirò giù le coperte che gli avevano steso addosso. Per un po’
rimase a osservare in silenzio, toccando con delicatezza qua e là,
poi disse: “Queste sono sevizie.” Non era una domanda, ma una
pacata constatazione. “Ho visto cose simili nel Tanganica,”
soggiunse poi.
A
quel punto tacque, quasi aspettandosi che von Knobelsdorff gli
fornisse qualche spiegazione, ma il tenente mantenne a sua volta il
silenzio.
Non
sapeva in effetti se gli fosse consentito parlare di certe cose o no,
ma vista la maniacale attenzione che tutti gli appartenenti ai
servizi segreti mettevano nel non far trapelare informazioni, ritenne
opportuno non rivelare nulla.
Percepì
che il capitano medico gli stava di nuovo toccando il dorso, una
pressione un po’ più intensa in un punto lo fece gemere di dolore.
“Le
bende sono attaccate alle ferite,” lo sentì dire. “Non ha avuto
molta cura della sua medicazione.”
Von
Knobelsdorff evitò di spiegargli come aveva trascorso le ultime
quarantotto ore.
Il
capitano si alzò in piedi. Aggirò nuovamente la branda, si affacciò
a una porta e chiamò: “Venga qui, Scharnowski.”
Si
presentò un caporale della sanità, che si mise sull’attenti e
scandì: “Agli ordini, signor capitano medico!”
“Scharnowski,
tolga questa medicazione.”
Il
graduato raggiunse il superiore, rimase in silenzio per qualche
secondo, evidentemente valutando la situazione, poi disse: “Ci
vorrà della morfina, signor capitano medico.”
“Gliela
somministri. Dieci milligrammi endovena.”
“Signorsì.”
Il
tenente seguì con lo sguardo il caporale che preparava la siringa e
la metteva in un'arcella assieme al laccio emostatico e a un
batuffolo di ovatta.
Gli
porse il braccio con sollievo, quasi felice alla prospettiva di
qualche ora di sonno senza preoccupazioni.
I
primi raggi del sole trasformano il prato in una scintillante distesa
di cristallo. Proprio davanti ai suoi occhi, scorrono sugli steli
gocce di rugiada che sembrano perle e diamanti. Egli allunga la mano,
le sfiora con le dita. Una di esse gli rotola sulla pelle lasciandosi
dietro una scia lucente.
Stringe
appena gli occhi. Oltre quel tripudio di gemme trasparenti, il cielo
è una cupola tersa. Nella calma di vento, i fumi scuri salgono lenti
e dritti, ricordandogli tante colonne.
Gli
tornano in mente i versi di una canzone: Aurora, aurora, illumina la
mia giovane morte[2].
Ricorda
un assalto. Il tuonare degli zoccoli, il vento sul viso, il tumulto
del sangue. Il sole sulla punta della lancia.
La
pianura è disseminata di crateri, poco lontano vi è l'affusto di un
cannone. Passa lento un cavallo, la testa china a brucare, i raggi
rosati che accendono d'oro e d'arancio il suo lucido manto corvino.
Rievoca
altri versi della vecchia canzone: solo ieri alto in sella, oggi
colpito al petto, domani nella fredda tomba.
Nella
fredda tomba, si ripete, e tutto gli sembra, quel margine di foresta
cosparso di gemme, tranne che un sepolcro. I germogli giovani delle
querce crescono su rami antichi, le foglie dell'anno precedente
muoiono e cadono, ma l'albero è sempre lì.
Forse
è quello il senso della battaglia, pensa, il senso del sacrificio.
Morire perché la Patria viva.
A
passi lenti, emergendo man mano dalla foschia del primo mattino, si
avvicina qualcuno. È un giovane uomo in uniforme di cui non riesce a
distinguere i lineamenti, alto e snello. Lo raggiunge e si ferma a
pochi passi di distanza.
Egli
lo fissa, ma è come se avesse il sole dritto negli occhi: la luce
intensa lo costringe a distogliere lo sguardo. “Chi è lei?”
chiede comunque.
Il
nuovo arrivato rimane a fissarlo muto per qualche secondo. “Reiner,”
risponde infine.
“Reiner,”
fa eco lui, pensoso. Il nome gli dice qualcosa. “Reiner, chi?”
L'altro
si china adagio e quando il suo volto diventa visibile, egli si
accorge che è come guardarsi in un specchio. Ha i suoi stessi
lineamenti.
Il
nuovo arrivato sorride appena al suo stupore, poi gli sussurra: “Si
muore per rinascere. Diglielo.”
Prima
che lui possa replicare, Reiner si alza e prende ad allontanarsi
lentamente. Raggiunge il morello, che ha smesso di brucare e lo sta
fissando con aspettativa, gli monta in sella e trotta via,
scomparendo nella foschia luminosa dell'alba.
[1]
La “torta” è colloquialmente il distintivo di nazionalità
rotondo (coccarda) che si trova su ali e fusoliera degli aerei di
determinate nazioni (ad esempio Inghilterra, Francia e Italia).
[2]
Reiters Morgenlied,
canzone tradizionale della cavalleria tedesca.
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Capitolo 13 *** Capitolo 8 - Seconda parte ***
Carissimi
lettori e lettrici,
ecco
qui un altro po’ di mappazzone, spero che non vi sia ancora venuto a
noia.
Come
sempre vi ringrazio per il vostro costante sostegno e vi auguro buona
lettura^^
Quando
von Knobelsdorff riaprì gli occhi, seduto sullo sgabello c'era un
ufficiale diverso dal capitano medico.
Era
un tizio che poteva avere forse trent’anni, di corporatura
poderosa, probabilmente altissimo. Rannicchiato sul piccolo sedile,
dava l'idea di riempire completamente il ridotto con le sue enormi
spalle.
“Maggiore
Klaus Wrede,” si presentò, tendendo una mano larga come una vanga
da trincea.
Il
giovane la intercettò con la propria, che vi scomparve dentro come
quella di un bambino, e sua volta si presentò: “Tenente Maximilian
von Knobelsdorff.”
“Ha
sete, tenente? Vuole bere un po’ d’acqua?”
Egli
annuì. “Sì, per favore.” Con un riflesso involontario provò a
deglutire, ma il movimento rimase a metà.
L’altro
lo prese per le spalle e lo sollevò come avrebbe fatto con un gatto,
aiutandolo a mettersi seduto. Gli porse a quel punto un bicchiere di
latta e gli chiese: “Ce la fa da solo?”
Von
Knobelsdorff, che malgrado ogni proposito di dignità e compostezza
non aveva occhi che per l’agognato liquido, lo prese con due mani e
se lo portò alle labbra.
Lo
vuotò d’un fiato.
“Ancora?”
chiese Wrede.
“Sì,
grazie.”
Mentre
si dissetava, von Knobelsdorff si accorse di avere due vistose
medicazioni ai polsi. Portò una mano a toccarsi cautamente la
schiena e percepì anche quella coperta di garza.
Il
maggiore attirò la sua attenzione: “E così, lei è un ulano.”
“Sissignore.”
“E
un pilota da caccia.”
“Sissignore.”
L’altro
si mosse sullo sgabello, che scricchiolò sotto il suo peso, poi
disse: “Cavalleria. Anche a me sarebbe piaciuto, sa? E non parliamo
degli aeroplani.”
Il
tenente non replicò: forse quel gigantesco ufficiale sarebbe potuto
entrare nella Garde du Corps, posto che avesse anche gli altri
requisiti necessari per far parte di quell'unità d'élite, ma di
certo non sarebbe mai riuscito a infilarsi in un Albatros. Non con la
pretesa di uscire vincitore da un duello aereo, almeno.
“Capisco,”
si limitò a dire.
“Altra
acqua?” propose il maggiore.
“No,
grazie, signore.”
Rimasero
a guardarsi in silenzio. Da fuori, attutito dalle spesse pareti di
terra, proveniva un tuonare sordo. A un certo punto, una detonazione
particolarmente forte fece oscillare la lampada che pendeva dal
soffitto.
Wrede
alzò appena lo sguardo e disse: “Picchiano forte, oggi.”
Il
tenente lasciò passare qualche secondo, poi chiese: “Più forte
del solito, signore?”
L’altro
gli rivolse uno sguardo vagamente interrogativo, alzò le spalle e
noncurante rispose: “No, non direi.” Poi, dopo una pausa:
“Perché?”
Von
Knobelsdorff rimase in silenzio. L’impressione naturalmente era che
gli inglesi volessero recuperare lui e l’agente segreto, ma appunto
era solo un’impressione.
Si
chiese dove fosse l’agente segreto. Ormai si era abituato a vederlo
spuntare quando meno se l’aspettava, in un certo qual modo ne
sentiva la mancanza.
O
forse qualcosa di più di una semplice mancanza.
La
voce del maggiore Wrede lo distrasse dalle sue meditazioni: “Vuole
raccontarmi cosa le è successo, tenente?”
Von
Knobelsdorff scosse la testa. “Non posso.”
Lo
sguardo dell’altro si indurì. “Temo di non capire. Lei sta
parlando con un ufficiale del suo stesso esercito, se è vero che è
tedesco.”
“Sono
più tedesco dei Sauerkraut,
ma si tratta di informazioni che non sono autorizzato a rivelare.”
Wrede
annuì lentamente, quindi replicò: “Questo atteggiamento non la
mette in una posizione facile. Lo sa, vero?”
“Ne
sono consapevole.”
Tra
i due calò il silenzio.
Infine,
il maggiore si alzò. Tenendosi un po' curvo per non toccare il
soffitto con la testa, gli disse: “Se umanamente sarei portato a
concederle fiducia, tenente, dal punto di vista militare è mio
dovere dubitare delle sue parole fino a che esse non mi verranno in
qualche modo confermate.”
Von
Knobelsdorff annuì. “Lo capisco. L'unica cosa che posso fare è
suggerirle di interpellare il mio comandante, il maggiore von Stade
della Jasta 6.”
Wrede
gli rivolse un'occhiata indecifrabile, poi replicò: “Non lo
sapeva, tenente? Il maggiore von Stade è caduto in combattimento due
giorni fa.”
§
Il
palazzo dei servizi segreti britannici a Parigi non era nulla di
pomposo. Tutto il contrario, anzi: era il retro di un negozio di
modista, in una strada della prima periferia.
Le
lettere dell’insegna erano ormai sbiadite. Nella vetrina un po'
polverosa c'era solo un tristo assortimento di cappellini e borsette
fuori moda. La commessa – in realtà una delle loro agenti – era
una megera dall’aria burbera, per evitare che a qualche ingenua
cliente venisse comunque l'idea di entrare a curiosare.
The
Bishop sostò qualche istante dall'altra parte della strada, dandosi
l'aria di non essere minimamente interessato a quella mesta
esposizione, poi attraversò con passo misurato, si guardò
fugacemente intorno e si infilò rapido nel vicolo che si apriva
accanto al negozietto.
Il
selciato era sconnesso, al centro della carreggiata correva un
rigagnolo d'acqua che scompariva in un tombino poco lontano. Dalle
finestre pendevano festoni di panni stesi.
Da
qualche parte, una voce femminile stava cantando Quand
Madelon.[1]
The
Bishop si fermò ad ascoltare assorto per qualche secondo, poi svoltò
in un vicolo ancora più angusto. Raggiunse una porta dall'aria
anonima, con la vernice un po' scrostata. Bussò un paio di volte.
Dall'altra
parte, qualcuno chiese: “Chi è?”
“Sono
qui per la caldaia,” rispose.
“Chi
l'ha chiamata?”
“La
signorina del negozio. C'è stata una perdita.”
L'udito
fine dell'agente colse il ben lubrificato scatto di vari
chiavistelli.
Entrò
in un androne in penombra, salutò chi gli aveva aperto la porta, poi
a voce più alta disse: “Salve a tutti!”
Da
alcune feritoie mascherate nel muro provennero varie risposte.
Sapeva
che quelle aperture permettevano a osservatori e fotografi, ma
soprattutto a tiratori scelti, di tenere d’occhio quello che
succedeva nella stanza. Immaginò il Werwolf in quello stesso
androne, esattamente nella posizione in cui si trovava lui in quel
momento, e un sorrisetto gli stirò le labbra. “C’è il capo?”
chiese.
“È
di là,” giunse la risposta, da una delle feritoie.
Da
un’altra provenne: “Fatto buona caccia?”
The
Bishop rispose con un'alzata di spalle, poi si diresse a un
corridoio, lo imboccò e lo percorse fino a una porta chiusa. Vi si
fermò di fronte.
Dall’altra
parte provenne: “Avanti!”
Egli
abbassò la maniglia, l’anta cedette senza rumore.
Al
di là vi era un ufficio. Lungo una delle pareti correva una mensola
su cui si trovavano apparecchi telegrafici e telefoni, su quella
opposta c’erano schedari e armadi per documenti.
Al
centro si trovava una scrivania dietro cui sedeva quello che a prima
vista si sarebbe detto l’anonimo contabile di una piccola impresa:
né magro né grasso, né vecchio né giovane, occhiali tondi
cerchiati di metallo, incipiente calvizie, abiti modesti. Nessun
segno particolare, nessuna caratteristica che attirasse una seconda
occhiata.
Eppure
the Bishop sapeva bene che quell'ometto dall'aria insignificante era
maestro di almeno quattro arti marziali, era uno schermidore
eccezionale e un tiratore altrettanto pericoloso.
“Malcolm,
ragazzo mio,” lo accolse questi. Gli indicò la sedia che si
trovava davanti alla scrivania.
“C'ero
quasi,” sospirò l'agente segreto prendendo posto. Si passò una
mano sulla fronte. Praticamente non dormiva da quando aveva
cominciato la caccia al Lupo Mannaro. Una volta arrivato a Parigi era
riuscito a malapena a farsi una doccia e a mangiare un boccone, poi
era corso a far rapporto. Poteva scommettere che il suo capo, che in
quel momento lo stava guardando come il Figliol Prodigo, non fosse
per nulla soddisfatto di come erano andate le cose. “È scappato,”
disse semplicemente, sperando che la scarna affermazione fosse
sufficiente a esaurire l'argomento. “Se n'è andato con un
aeroplano.”
L'altro
rimase impassibile. Raddrizzò un foglio che si trovava sul piano
della scrivania, allineò le penne accanto al calamaio e si assicurò
che il suddetto fosse chiuso a dovere. “Capita,” disse poi in
tono pacato.
Calò
un silenzio rotto solo da un vago ticchettare di strumenti. In
lontananza, fioco, suonava un telefono.
Alla
fine, the Bishop replicò: “Ma non doveva capitare.”
L'uomo
annuì. “Te ne do atto. Potrei risponderti che ad
impossibilia nemo tenetur,
ma sai anche tu che non funziona così.”
“Pensa
che mi trasferiranno?”
L'uomo
alzò le spalle. “Forse. C'è bisogno di bravi agenti in Africa e
in Asia.”
The
Bishop non replicò. Avrebbe potuto raccontare tutto quello che era
successo da quando gli avevano trasmesso la soffiata sulla presenza
del Werwolf dietro le loro linee, ma ai piani alti contavano i
risultati, non l'impegno.
Non
che biasimasse quell'atteggiamento, in effetti. A differenza di
quella che si svolgeva nelle trincee, che comunque qualche regola la
conservava, quella tra agenti segreti era davvero una guerra senza
quartiere e senza esclusione di colpi. Non c'era posto per
volonterosi pasticcioni.
Il
dossier scorre attraverso la scrivania fino a fermarsi davanti a lui.
Egli solleva lo sguardo verso l'uomo che gliel'ha consegnato, ma
incontra solo un volto impenetrabile. Apre il plico di documenti, la
prima fotografia che trova lo costringe ad alzare di nuovo gli occhi
sul suo interlocutore.
Questi
gli restituisce uno sguardo impassibile.
“È
sicuro?” gli chiede allora.
“L'hanno
fotografato mentre passava informazioni a un agente tedesco.”
Nel
dossier c'è anche quell'immagine.
“Come
può essere certo che gli stesse passando informazioni?”
La
voce dell'uomo ha il tono dell'ovvietà: “Perché una cosa che
sapeva solo lui, dopo poco la sapevano anche i tedeschi.”
Egli
aggrotta le sopracciglia. “Si spieghi meglio.”
Un
altro documento attraversa la scrivania per arrivare fino a lui. Egli
lo legge con crescente disagio: una trappola in piena regola, un
ghiotto boccone passato ai servizi segreti tedeschi per avere le
prove del doppio gioco portato avanti dall'agente inglese.
Quelle
prove devono essere costate almeno duecento morti, riflette fra sé e
sé. Ma d'altra parte, il mestiere che si è scelto è così: a volte
bisogna sacrificare duecento persone per farne sopravvivere
duecentomila.
Un
agente segreto che vuole definirsi veramente tale deve essere in
grado di spogliarsi dei sentimentalismi che affliggono la gente
comune.
Riguarda
il dossier: la prima fotografia che ha attirato la sua attenzione è
quella di un giovanotto dall'aria spavalda, atletico, con l'elegante
uniforme della cavalleria. Quel giovanotto si chiama Richard ed è
stato proprio lui a selezionarlo fra innumerevoli candidati.
“Perché
io?” chiede.
L'altro
solleva le sopracciglia, quasi stupito dalla domanda. “Ma perché
era sotto la sua responsabilità, mi pare ovvio.” Fa una pausa e
soggiunge: “Naturalmente le sue azioni saranno tenute sotto
controllo.”
“Naturalmente,”
fa eco lui. “Il fatto che io possa nutrire sentimenti di affezione
nei confronti del soggetto è irrilevante per voi?”
“Dovrebbe
esserlo per lei,” è la risposta, proferita in tono di inflessibile
durezza. “Perché se non lo è, colonnello Norwood, penso che lei
sia più adatto al suo reparto di provenienza, che ai servizi
segreti.”
Guarda
e riguarda la fotografia: un giovanotto di bell'aspetto, con lo
sguardo vivace e il sorriso sfrontato di un guascone.
Si
chiede chi sia stato ad avvicinarlo, su cosa abbia fatto leva per
convincerlo a tradire il suo Paese. Ripercorre la composizione della
sua famiglia, che ha minuziosamente vagliato prima di accettarlo come
allievo, la rete dei suoi affetti, amici, fidanzate... non c'è nulla
su cui sia possibile esercitare pressioni.
Lusinghe,
dunque, e non ricatti?
Che
cosa gli avrà promesso, l'agente che l'ha contattato? Soldi? Potere?
Che altro?
Decide
di seguirlo. Il ragazzo è ancora per certi aspetti inesperto, e per
quanto durante certi spostamenti si guardi alle spalle,
essenzialmente non sa su cosa sia più opportuno fissare
l'attenzione.
I
primi pedinamenti sono infruttuosi, ma finalmente un giorno lo segue
fino a un caffè elegante del centro. Si nasconde lì vicino. Il
giovanotto entra, parla con il cameriere e poi si accomoda in una
zona un po' appartata. Ordina qualcosa, e il vassoio che dopo poco
gli viene deposto sul tavolino contiene un servizio per due persone.
Aspetta.
Anche
Richard, là seduto, aspetta. Prende qualcosa da un piattino, lo
mangia. Si muove sulla sedia con l'atteggiamento di un bambino
impaziente.
Egli
considera che sembra in preda a qualcosa di molto simile a una
gioiosa aspettativa, ma al tempo stesso continua a guardarsi intorno
a disagio, come consapevole di stare facendo qualcosa di sbagliato.
Aspetta
ancora.
Infine
vede un giovane uomo avvicinarsi al locale. È di altezza media,
snello, vestito con sobria eleganza. Anche lui entra e parla con il
cameriere, che subito lo conduce al tavolo di Richard.
Quando
lo vede senza cappello, egli quasi trasale: è il Werwolf.
I
due si scambiano uno sguardo che si presta a pochi equivoci. Il modo
in cui le loro mani si sfiorano sul tavolino, poi, è ancora meno
fraintendibile.
Rimane
a guardarli: il Werwolf parla e Richard letteralmente si beve le sue
parole, fissandolo affascinato.
Si
chiede perché sia successo. Richard è omosessuale, o magari
bisessuale? Sono stati insieme nelle più svariate occasioni, in
intimità impensabili, a volte anche nudi. Perché non ha mai avuto
il sentore di certe tendenze?
Forse
il Werwolf non è un lupo mannaro, ragiona, ma un serpente, che
ipnotizza le sue vittime. Fatto sta che lui e Richard sono nudi,
distesi sul letto di una discreta pensioncina di campagna, impegnati
in attività che lui ha persino ritegno di guardare.
Soppesa
la pistola e pensa che sarà tutto molto semplice: un calcio alla
porta e due colpi in testa a quel maledetto tedesco. Più altri due,
per essere sicuro. Poi deciderà cosa fare di Richard, ma già sta
pensando a destinazioni lontane o a discreti congedi anticipati.
Non
era stato semplice per niente: al rumore della porta che si
spalancava, il Werwolf si era rigirato con un colpo di reni
scomparendo dietro il letto, e chi aveva intercettato le pallottole
letali era stato il suo allievo.
Poi
il tedesco si era dileguato e lui non aveva potuto fare altro che
tenere fra le braccia il giovane, mentre agonizzava e infine spirava
per le ferite che lui stesso gli aveva inferto.
“Due
settimane,” disse the Bishop.
L’uomo
lo fissò perplesso. “Prego?”
“Mi
servono un paio di settimane per chiudere una questione, poi vado in
Asia, in Africa o anche sulla Luna, se mi ci manda.”
L’altro
scosse la testa e rispose: “Non è possibile, Malcolm: siamo in
guerra. Le faccende personali non possono...”
“No,
niente Malcolm,” lo interruppe brusco l’agente segreto. “Io
sono the Bishop, e sono il migliore agente segreto della Corona. Se
mi lascia due settimane, le do la mia parola d’onore che tornerò
puntualmente e poi mi metterò a sua completa disposizione. Se invece
prova a fermarmi, io andrò lo stesso, ma lei dovrà trovarsi qualcun
altro da spedire nelle colonie.”
Si
fissarono in silenzio per un tempo che parve interminabile. Uno dei
telefoni che si trovavano sulla mensola si mise a squillare, ma
nessuno dei due si lasciò distrarre da quel suono improvviso.
Rimasero
immobili, occhi negli occhi.
Infine
lentamente, senza distogliere lo sguardo, l'uomo scandì: “Tu sei
un agente segreto, Malcolm. Non mi importa se sei il migliore o il
peggiore, hai comunque scelto di svolgere il tuo servizio come tale,
il che significa che hai scelto di rinunciare a personalismi e
paturnie sentimentali.” Fece una pausa, durante la quale la sua
espressione altrimenti mite si trasformò in una lama d'acciaio, poi
specificò: “Hai scelto,
bada bene, non ti ha costretto nessuno. Ora però sei qui, e devi
fare quello che ti viene ordinato. Non me ne faccio niente di
primedonne che siccome si reputano migliori di altri pensano di poter
fare ciò che vogliono. Obbedisci agli ordini o torna al tuo reparto,
è tutto.”
The
Bishop annuì secco. “Perfetto, ho capito,” rispose, e uscì
dalla stanza.
§
Il
tenente von Knobelsdorff sollevò lo sguardo verso la finestra, ampia
ma attraversata da un solido reticolo di sbarre.
Il
comportamento del maggiore Wrede era stato ineccepibile sotto ogni
aspetto. Una volta appurato che non aveva intenzione di rivelare
particolari della sua missione, l'erculeo ufficiale l'aveva fatto
trasferire nelle retrovie, ovviamente agli arresti. Non gli aveva
fatto mancare comunque cibo, acqua e scrupolose cure mediche. Anche
se non l'aveva mandato a un ospedale da campo, un dottore andava a
visitarlo ogni giorno, accompagnato da due infermieri, per
controllare la guarigione delle sue ferite e rifare le medicazioni.
Si
chiese cosa sarebbe successo. Una volta morto von Stade, nessuno
avrebbe potuto confermare che il suo ruolo in quella strana missione
era a favore della Germania.
I
due agenti segreti che l'avevano istruito, la giovane donna e l'uomo
allampanato, probabilmente non esistevano nemmeno, a livello formale.
Poteva scommettere che nessun ufficiale superiore, lungo tutta la
linea del fronte, sapesse di loro. Se anche li avesse menzionati, nel
migliore dei casi non sarebbe stato creduto, oppure sarebbe stato
considerato pazzo.
Man
mano che passava il tempo, poi, anche le sue certezze si facevano
sempre meno solide. Cos'avrebbe dovuto fare? Come sarebbe andata a
finire?
Seduto
sulla branda, puntò i gomiti sulle cosce e poggiò il viso tra le
mani. Quando si piegava in avanti, come nel movimento che aveva
appena compiuto, la schiena gli faceva male. Sentiva la pelle
stirarsi e allora di solito si raddrizzava, temendo di far riaprire
le ferite.
In
quel frangente rimase immobile. Fissò gli occhi sul pavimento,
composto da vecchie piastrelle di graniglia bigia, e rivolse il
pensiero all'agente segreto.
Si
chiese dove fosse, tanto per cominciare, se avesse portato a termine
la sua missione. Se stesse bene, soprattutto, dal momento che quando
era scomparso aveva ancora una pallottola nel fianco.
Ripensò
al nome che l'uomo aveva pronunciato quando, stremato, si era
abbandonato a pochi istanti di incoscienza: Reiner.
Si
chiese chi fosse quel Reiner e rievocò qualcosa come uno strano
dialogo, con qualcuno che aveva la sua stessa faccia. Una frase gli
risuonò in mente: si
muore per rinascere.
Un
presagio?
Il
rumore della serratura che scattava lo distolse dalle sue
meditazioni.
La
porta si aprì, due piantoni lo prelevarono e lo condussero lungo un
corridoio, fino a una stanza ampia, illuminata da larghe finestre e
quasi spoglia di mobili, a parte un tavolino e qualche sedia.
Lo
lasciarono solo.
Egli
fece qualche passo guardandosi intorno. L’avevano fatto uscire
altre volte, ma non l’avevano mai portato in quel posto. Sui muri
c'erano rari graffiti, per il resto erano immacolati, verdi fino a
circa due metri d'altezza e poi bianchi. Il pavimento era della
stessa graniglia bigia della cella. Il soffitto, altissimo, era a
volta e dava l'idea di essere piuttosto antico.
Mentre
camminava per l'enorme locale, i suoi passi echeggiavano come nella
navata di una chiesa.
Si
sedette al tavolino, appoggiò gli avambracci sul piano del mobile.
Si guardò i polsi ancora fasciati, girò le mani con i palmi verso
l'alto e strinse lentamente le dita, come per accertarsi che
funzionassero ancora.
A
quel punto, il rumore di una porta che si apriva spedì un riverbero
di echi sul soffitto. Egli si girò in quella direzione e vide che
stavano entrando due ufficiali e un uomo in borghese.
Gli
ufficiali ormai li conosceva, erano un colonnello di fanteria e un
maggiore degli ulani. Erano già venuti in precedenza a fargli
domande sulla missione.
L’uomo
in borghese invece non l’aveva mai visto.
Si
alzò e si mise sull'attenti.
“Comodo,”
gli disse il colonnello. Lo raggiunse e propose: “Vogliamo sederci
un momento?”
“Sissignore.”
Il
tenente prese posto.
Al
lato opposto del tavolo si sistemarono gli altri tre.
Von
Knobelsdorff fissò lo sguardo sul civile, che sedeva tra i due
ufficiali, quindi proprio di fronte a lui: alto, legnoso, con una
scriminatura centrale che sembrava un colpo d'accetta e la cicatrice
della Mensur[2] sulla guancia. Portava il monocolo all'occhio destro.
“Siamo qui per capire come aiutarla,” lo informò.
“Allora
mi faccia riprendere i voli di guerra, non chiedo altro.”
L'altro
rimase impassibile. Annuì secco, quindi rispose: “Tornerà in
servizio, eventualmente, quando avremo chiarito la sua posizione.”
“Ho
già detto tutto quello che so.”
A
quelle parole fece seguito un lungo silenzio.
Infine
l'uomo si tolse il monocolo, lo lucidò brevemente con un fazzoletto
candido, se lo reinserì nell'orbita e disse: “Tenente, lei è
arrivato di fronte alle nostre linee ai comandi di un aereo inglese,
con addosso un'uniforme inglese. Racconta che stava compiendo una
missione per conto dei nostri servizi segreti, ma non mi sa dire un
nome o una circostanza per provare la veridicità delle sue
affermazioni. Non mi sa spiegare di che genere di missione si
trattasse, né sa darmi lumi sull'identità della persona che a suo
dire la accompagnava. Persona di cui non è stata trovata traccia, le
faccio notare.”
Il
tenente annuì come per prendere atto di tutte quelle obiezioni, poi
rispose: “Le ripeto, signore, che ho già riferito ogni
informazione in mio possesso. Non mi è stato detto alcun nome, né
dato alcun riferimento, per evitare che in caso di cattura li
riferissi al nemico. Ho ricevuto l'ordine di atterrare dietro le
linee in un dato punto e raccogliere una persona. Non so altro.”
“E
quello che è successo dopo?”
“Qualcuno
ci ha intercettati.”
“Com'è
possibile?” Il tono dava l'idea che l'uomo considerasse l'accaduto
una sua precisa responsabilità.
Von
Knobelsdorff si irrigidì. Fissò alternativamente i due ufficiali
come aspettandosi un loro intervento, che però non giunse. Rivolse
allora nuovamente lo sguardo al civile e rispose: “Posso solo
formulare ipotesi, signore, e nella fattispecie ipotizzo che
l'informazione sia in qualche modo trapelata.”
Alla
frase fece seguito un altro lungo silenzio. L’uomo si lucidò
nuovamente il monocolo, quindi lapidario proferì: “Lei non ci sta
aiutando.”
“Vorrei
poterlo fare, signore, ma ho detto tutto quello che so.”
L’altro
strinse l’occhio libero e le labbra, che divennero un taglio
orizzontale nel viso granitico. Infine lentamente scandì: “Vorrei
che le fosse chiaro, tenente, che se lei non ci aiuta, noi non
possiamo aiutare lei. Mi spiego?”
[1]
Canzone militare francese, più nota come La
Madelon, molto
popolare durante la Grande Guerra.
[2]
Duello rituale tradizionale combattuto con sciabole affilate nelle
Università dei paesi di lingua tedesca. Le cicatrici lasciate da
questi combattimenti erano motivo d'orgoglio e al tempo stesso segno
di istruzione universitaria.
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Capitolo 14 *** Capitolo 9 - Prima parte ***
Incliti
lettori,
un
altro po’ di mappazza per non perdere l’abitudine. Come sempre
ringrazio tutti coloro che gentilmente passano da queste parti, anche
solo per dare un’occhiatina.
Ringrazio
sentitamente, anche un po’ commosso, chi addirittura mi lascia un
commento. Molte grazie e, spero, buon divertimento con le
disavventure del nostro pilota!^^
Capitolo
9
Il
camion correva sobbalzando sulla pianura.
Von
Knobelsdorff si guardò i polsi: le ferite ormai si erano
rimarginate. Al loro posto erano rimaste sottili strisce rossastre,
un po’ più lucide della cute circostante, come se il suo corpo
avesse dovuto stiracchiare la pelle rimasta per coprire le piaghe che
le corde gli avevano procurato. Il dottore aveva detto che anche
quelle col tempo sarebbero scomparse.
In
ogni caso, le mani si muovevano bene, era certo che entro breve
sarebbe anche tornato in grado di suonare il pianoforte.
Non
che gli interessasse particolarmente, suonare il pianoforte. L’aveva
studiato da piccolo, ovviamente, e ogni tanto lo strimpellava ancora,
con l’abitudine disinvolta delle cose che si sono imparate tanto
tempo prima perché è normale impararle. Lo faceva più che altro in
certe serate di baldoria con i camerati, quando a qualcuno veniva in
mente di cantare.
In
ogni caso preferiva la cloche alla tastiera, poco ma sicuro.
Si
sistemò meglio sulla cassa di munizioni che aveva scelto come
sedile. Dall’apertura posteriore del cassone rimase a guardare la
strada bianca, che scorreva come una specie di nastro attraverso un
paesaggio su cui la guerra aveva esatto un pesante tributo. Sui campi
incolti si susseguivano i crateri lasciati dai proiettili
d'artiglieria, le poche case che si vedevano erano in rovina o
disabitate. Qua e là vi erano ancora tratti di filo spinato.
Quando
era stato il momento di rientrare alla Jasta aveva trovato un
passaggio su un camion di rifornimenti. L’autiere l’aveva
invitato con deferenza a sedere in cabina, ma lui aveva rifiutato,
preferendo accomodarsi dietro, in mezzo a munizioni e pezzi di
ricambio.
Aveva
bisogno di pensare in pace.
Ancora
una volta era successo qualcosa che non riusciva a spiegarsi. Quando
già si vedeva di fronte al plotone d’esecuzione, a fumare l’ultima
sigaretta in attesa delle pallottole fatali, l’avevano liberato e
rinviato alla sua unità d’appartenenza.
Cosa
fosse accaduto, e perché, soprattutto, non gli era dato di saperlo.
Aveva sempre fornito le stesse risposte alle domande dei vari
interrogatori, anche perché obiettivamente non sarebbe stato in
grado di fornirne altre. Fino a un certo punto non erano andate bene,
poi a un tratto, non sapeva perché, la cosa era cambiata.
Niente
più domande e ovviamente niente spiegazioni. Da domani riprenderà
servizio, arrivederci e grazie.
Non
riusciva a liberarsi della sensazione di essere un bambino che ha
scoperto il trucco della lanterna magica: non c'erano figure fatate
che si inseguivano sulle pareti di una stanza buia, c'erano
semplicemente un proiettore con una lente, un fornellino a spirito
che produceva luce e una serie di immagini stampate su vetro.
O,
fuor di metafora, lo scontro uomo contro uomo – o esercito contro
esercito, o aeroplano contro aeroplano – era solo l'epifenomeno di
forze immani e perlopiù sconosciute, che muovevano i soldati come un
burattinaio avrebbe fatto con le marionette.
Von
Clausewitz, puro e semplice. E dire che l'aveva anche studiato in
accademia. Il soldato
esiste, si nutre e marcia unicamente per combattere al posto giusto
nel momento giusto. O
anche, cosa che si attagliava senza dubbio al modo di agire
dell'agente segreto: la
guerra è un atto di forza, e non c'è nessun limite all'uso di essa;
l'una parte impone la propria legge all'altra.
L'autocarro
sobbalzò, obbligandolo ad afferrare una centinatura per mantenersi
in equilibrio. Ripensò alla disordinata fuga a bordo dell'ambulanza
inglese e quasi si trovò ad attendere l'ormai familiare stretta sul
braccio che l’uomo gli elargiva nei momenti di tensione.
Emise
un sospiro.
Era
sicuro che fosse stato lui a intervenire in suo favore,
essenzialmente perché era l'unico che sapeva com'erano andate le
cose. Come avrebbero potuto, infatti, la giovane donna o l’uomo che
aveva incontrato a Berna, venire a conoscenza di quello che era
successo? Ad altri ufficiali non aveva detto nulla, quindi anche se
essi fossero stati a loro volta in contatto con i servizi segreti,
non avrebbero potuto riferire alcunché della missione.
Era
stato lui per forza.
Sulle
prime gli era parso impossibile che un uomo così prosaico e freddo
spendesse tempo ed energia per lui: lo strumento non più utile
veniva abbandonato, senza rimpianti e senza sentimentalismi, questa
era la filosofia che credeva di aver colto negli agenti segreti fino
a quel momento incontrati.
Poi
aveva capito che quell’uomo – il Werwolf
– era tutt’altro che prosaico e freddo. Gliel’aveva dimostrato
in tante occasioni, in realtà. L’aveva salvato quando avrebbe
potuto lasciarlo indietro, si era preoccupato per lui, l’aveva
difeso. Gli pareva che in alcune occasioni gli avesse addirittura
dimostrato una tenerezza ruvida, che scaldava e rinfrancava come un
sorso di vino forte.
Il
paesaggio cominciò a diventargli familiare. Riconobbe una piccola
macchia di alberi che la guerra aveva lasciato indenne e il laghetto
dove alla fine delle giornate di volo andava a pescare o a nuotare
con i camerati. Intravide in lontananza la sagoma chiara di una
dimora patrizia abbandonata, danneggiata qua e là da colpi di obice,
con gli stucchi ornamentali ormai anneriti e le finestre ridotte a
buchi informi.
Ricordò
che una volta si era addentrato in quel vecchio palazzo. Gli arredi
erano stati perlopiù asportati, dalle pareti pendevano lunghi
brandelli di tappezzeria. Nelle grandi stanze vuote i passi
risuonavano come in un mausoleo.
Al
centro di quello che doveva essere stato il salone delle feste, si
era imbattuto in un pianoforte a coda. Non era stato toccato, forse
perché tra tutti coloro che avevano depredato la villa, nessuno avrebbe
saputo cosa farsene. Fatto sta che era là, proprio sotto una
catena che una volta doveva aver sorretto un grande lampadario di
cristallo.
Un
po' di foglie secche, retaggio dell'autunno precedente, rotolavano
frusciando sugli intarsi a palladiana, spinte da refoli di vento. Una
tenda strappata ondeggiava lieve.
Affascinato
da quell'insolita scenografia, si era avvicinato allo strumento. Era
un gran coda da concerto, un Bösendorfer. Per quanto il pianoforte
avesse sempre rappresentato per lui un fastidio che lo distoglieva
dalle ben più gratificanti attività marziali, aveva provato una
sensazione quasi di imbarazzo al pensiero di un oggetto di tale
pregio lasciato ad ammuffire in quel modo.
Si
era seduto sullo sgabello e aveva sollevato il coperchio della
tastiera, mettendo a nudo il familiare alternarsi di avorio bianco e
nero.
Ispirato
dall'aura di lenta decadenza del luogo, aveva eseguito la sonata
'Quasi una fantasia'. Per la prima volta in vita sua, si era talmente
concentrato sulla musica che solo alla fine del primo movimento si
era reso conto che intorno a lui, a rispettosa distanza, si era
radunato un cerchio di camerati della Jasta, soldati di fanteria e
civili francesi che lo ascoltavano in un silenzio religioso.
Aprì
e chiuse nuovamente le mani, strinse i pugni fin quasi a far
scrocchiare le giunture. L'autocarro aveva imboccato la strada che
conduceva dritto al campo, ormai erano arrivati. Sorrise fra sé e sé
al pensiero di rivedere volti conosciuti e si guardò intorno alla
ricerca dei suoi pochi effetti personali. Si augurò che le sue cose
fossero ancora dove le aveva lasciate, nella camera al secondo piano
della villa padronale che fungeva da alloggio per i piloti.
Nel
posto dove l'avevano trattenuto – una via di mezzo tra una prigione
e un ospedale – gli avevano dato un'uniforme tedesca senza gradi o
mostrine, giusto per non lasciarlo con i panni inglesi addosso, ma
aveva nostalgia della sua Ulanka[1].
Il
camion rallentò fino a fermarsi. Da fuori provenne una voce che gli
suscitò un empito di gioia: “È l'ora di arrivare? Sono tre giorni
che aspetto i miei ricambi!”
Il
tenente saltò giù dalla sponda del veicolo ed esclamò: “Kramer!”
Il
robusto capo-meccanico strizzò gli occhi cercando di capire chi
fosse.
“Kramer,
sono io!” ripeté von Knobelsdorff. “Non si ricorda più di me?”
Il
sottufficiale si tolse il Krätzschen[2] e si grattò la testa
perplesso, poi, quando il giovane ufficiale gli si fu avvicinato,
perplesso disse: “Signor tenente?” Tacque per qualche secondo,
squadrandolo da capo a piedi, poi contrito proseguì: “Scusi i miei
occhi signore, da lontano ormai ci vedo male. Cosa ci fa vestito in
quel modo, signore?”
“È
una storia un po' lunga,” rispose von Knobelsdorff, il cui
entusiasmo cresceva di attimo in attimo. “È arrivato il nuovo
aereo per me?” Sogguardò alle spalle del meccanico, cercando di
scrutare l'interno dell'hangar.
L'altro
si grattò di nuovo la testa. “Ecco...”
Il
tenente lo fissò attento. “Sì?”
“Il
maggiore von Stade non è più con noi. Lo sa, questo, signore?”
“Me
l'hanno detto.”
Kramer
lo fissò di nuovo. Era evidente dalla sua espressione che stava
cercando di comporre i pezzi di un rompicapo piuttosto complicato.
“Ho
perso la mia uniforme,” gli venne in aiuto il tenente.
“Oh,
già. Certo,” assentì l'altro. “Comunque, l'abito non fa il
monaco. Non è così che si dice, signore?”
“Sì,
direi di sì. Ma stavamo parlando degli aerei...” Di nuovo von
Knobelsdorff allungò il collo per cogliere uno scorcio dell'hangar.
L'altro
si strinse nelle spalle e per tutta risposta chiese: “Ora dovrà
andare a parlare con il nuovo comandante, non è così?”
“Certo,
per l'assegnazione e tutto quanto.” Poi, dopo una pausa: “Perché?”
“Beh...”
Il
tenente aggrottò le sopracciglia, lo strano atteggiamento del
capo-meccanico, così diverso dalla solita cordiale pacatezza, lo
rendeva decisamente sospettoso. “Vado subito a parlare col
Vecchio,” annunciò.
Fece
per dirigersi verso l'edificio del comando, ma l'altro lo prevenne:
“Aspetti, signore.”
“Che
c'è?”
“Il
signor capitano è in volo.”
Von
Knobelsdorff lo fissò interdetto. Anche il maggiore von Stade
volava, ovviamente, ma a quell'ora di solito era nel suo ufficio a
sistemare la burocrazia.
Stava
per aprire bocca quando qualcuno da lontano esclamò: “Max? Sei
proprio tu, Max?”
Egli
si girò in quella direzione mentre un sorriso gli si allargava sul
volto: avrebbe riconosciuto quella voce fra mille. “Herbert!”
esclamò.
“Max!”
Il
tenente Hoffmeyer lo raggiunse. Aveva un braccio al collo e una
medicazione sulla fronte. “Maximilian!” ripeté. Si fermò di
fronte a lui e gli appoggiò la mano sana sulla spalla. “Dov’eri
finito?” gli chiese.
“Uhm…
niente di speciale,” rispose von Knobelsdorff. Si prese qualche
secondo per elaborare una scusa credibile, quindi proseguì: “Facevo…
ho fatto l’istruttore.”
L’altro
lo fissò perplesso. “L’istruttore?” ripeté poco convinto.
“Per
la figlia di un generale che vuole diventare aviatrice. Ma non dirlo
a nessuno, eh.”
“Oh,
ma certo.” Hoffmeyer alzò le sopracciglia con l’aria di chi ha
capito tutto. “Le hai lasciato la tua uniforme per ricordo?”
Von
Knobelsdorff avvampò. “Herbert!”
“Sì
sì, Herbert,” sghignazzò il collega. “Sai le risate che si
farebbe Behringer, se fosse ancora con noi?”
Un’ombra
passò sul viso dell’altro. “Non c’è più?”
Hoffmeyer
alzò le spalle. “Caduto poco dopo von Stade.” Sospirò, poi
soggiunse: “Un gran peccato, con le sue battute avrebbe reso più
facile sopportare il nuovo comandante.”
“Ogni
Vecchio ha le sue manie.”
“Dici
così perché non hai ancora conosciuto il capitano Walther Kunz.”
Von
Knobelsdorff non rispose. Bastava che quel Kunz lo facesse volare,
poi poteva essere anche un ottentotto con l’anello al naso e non
gliene sarebbe importato nulla. “Tu, piuttosto, che cos’hai fatto
al braccio?” chiese al collega.
Hoffmeyer
emise un teatrale sospiro. “Niente figlie di generali per me.”
“Oh,
insomma...”
“Volevo
dire: solo un colpo di striscio.”
“E
in fronte?”
“L’atterraggio.
Con il braccio fuori uso ho toccato storto, e il carrello...” Con
la mano sana fece un segno di croce a mezz'aria, come a sancire
l'ineluttabile fine dell'apparato.
I
due si incamminarono verso gli alloggi. Von Knobelsdorff si guardava
intorno: qualcosa di ineffabile gli stava comunicando una sgradevole
sensazione di estraneità. A una prima occhiata era tutto a posto,
gli hangar erano ordinati e puliti, l'erba della pista era rasata,
gli avieri se ne andavano attorno indaffarati. La manica a vento
ondeggiava lenta, di fronte alla baracca bianca e rossa i segnalatori
prendevano il sole in attesa degli aerei in rientro dalla missione.
Però
era come se ci fosse più silenzio, come se nell'aria aleggiasse una
generica idea di cautela, di serietà grave.
O
forse il cambiamento era suo. Non era obiettivamente la stessa
persona, dopo tutto quello che era successo, e quasi si rammaricò di
aver perso quella che d'acchito gli parve come una specie di
spensieratezza, come un'innocenza che forse gli nascondeva certi
aspetti delle cose, ma di sicuro gliele faceva vivere con più
leggerezza.
Fino
a poche settimane prima, volare era stato solo uno sport pericoloso
ma appassionante. C'erano il suo aereo, un bravo meccanico che glielo
sistemava e dei camerati con i quali festeggiare le vittorie, oppure
onorare i caduti. Nient'altro gli interessava.
Ora,
per quanto si sforzasse, non riusciva più a recuperare quella
serenità noncurante. Anelava sempre al volo e al combattimento, ma
la lanterna magica non era più magica, per così dire.
Mostrava
immagini affascinanti, ma sottese da precise leggi fisiche.
La
voce di Hoffmeyer lo richiamò alla realtà: “Max?”
Egli
quasi trasalì. “Che c’è?”
“Stavo
dicendo che ormai dovrebbero rientrare.”
“Chi
è rimasto dei vecchi?” chiese von Knobelsdorff, e si rese conto
che stava chiamando ‘vecchi’ gente che aveva visto per l’ultima
volta poco più di venti giorni prima.
Il
collega alzò le spalle. “Quasi tutti, in realtà. Marquardt, per
esempio. Poi ci sono anche Eschmann e Keinhofer. Lohmann è in
licenza.” Sollevò le sopracciglia con aria significativa.
Von
Knobelsdorff si fece di colpo attento. “Otto vittorie?” chiese.
“Otto
vittorie,” confermò Hoffmeyer. “Il caro Bernd è diventato un
asso.”
“Spero
che si ricorderà di portare qualcosa con cui brindare, quando si
degnerà di ridiscendere fra noi mortali.”
“Figurati
se Lohmann si dimentica di portare da bere.”
Hoffmeyer
stava per aggiungere altro quando nell'aria cominciò a farsi udire
un lieve ma ben noto ronzio.
Entrambi
si girarono verso la testata pista: all'orizzonte era comparso un
nugolo di puntini scuri.
“Stanno
rientrando,” disse von Knobelsdorff.
L'altro
scrutò per qualche secondo, poi rispose: “Già. Mi sembra che ci
siano tutti.” Tacque per qualche secondo, senza distogliere lo
sguardo dai puntini, che cominciavano a delinearsi come aeroplani. A
un certo punto, come se d'improvviso di fosse ricordato di una cosa
importantissima, disse: “E tu vatti a mettere un'uniforme decente.
Non vorrai presentarti al comandante conciato così, spero.”
§
Gli
aerei atterrarono uno dopo l'altro. Von Knobelsdorff, di nuovo con la
sua divisa da tenente degli ulani, li osservava toccare terra e
rullare sulla pista.
Riconobbe
subito quello di Marquardt e quello di Keinhofer, inconfondibili per
le vistose personalizzazioni. Gli parve di individuare anche quello
di Eschmann, che su ogni aereo che gli veniva assegnato faceva
scrivere le iniziali della fidanzata.
Poi
ne vide uno che a malapena aveva i simboli di nazionalità e una
mimetizzazione standard, ancora meno caratterizzato di quello che era
appartenuto a von Wasserberg.
Aggrottò
le sopracciglia perplesso. Dipingere scritte o immagini sugli aerei
era un'abitudine consolidata. Un apparecchio così ostentatamente
privo di personalizzazioni gli comunicava una sgradevole sensazione
di estraneità e disagio.
L'aereo
rullò fin davanti all'hangar, il motore si spense e l'elica si
fermò.
Von
Knobelsdorff mise le braccia dietro la schiena come faceva sempre
quando contemplava qualcosa che per qualche aspetto sfuggiva alla sua
comprensione.
Hoffmeyer,
comparso al suo fianco, disse: “Quello è il capitano Kunz.”
Dall'aereo
stava scendendo un uomo di altezza media. I pesanti indumenti in cui
era infagottato non consentivano di distinguere altro della sua
figura. Si tolse la cuffia da pilota rivelando una capigliatura
castana.
“Vado
a presentarmi,” annunciò von Knobelsdorff, e senza aspettare la
risposta del collega partì a grandi passi verso il nuovo arrivato.
Deciso
a fare bella impressione, scattò sull'attenti di fronte all'uomo,
eseguì un saluto da manuale e a voce alta e chiara scandì: “Tenente
Maximilian von Knobelsdorff a rapporto, signore!”
L'altro
rispose al saluto senza tradire alcuna emozione. Lo squadrò dal
basso in alto e alla fine freddamente proferì: “Ho letto le sue
note caratteristiche.”
Indeciso
su cosa replicare, il tenente rimase in silenzio.
“Mi
segua,” ordinò allora l'altro. Prese a camminare a passo veloce
verso l'edificio del comando. “So che era in missione riservata e
non mi interessano i particolari,” diceva frattanto, “mi preme
molto di più che lei recepisca il nuovo spirito di questa Jasta.”
“Sarebbe
a dire, signore?”
Senza
voltarsi, l'altro spiegò: “Non mi interessano i galletti con le
belle uniformi, non mi interessano le patacche blu da portare al
collo. Qui si combatte.”
Il
tenente abbassò gli occhi sui propri panni, stupito da quella che
gli pareva una durezza del tutto immotivata. Alla fine rialzò lo
sguardo e rispose: “Non ho mai pensato di fare voli da diporto,
signore. Abbattere il nemico è ciò che mi prefiggo ogni volta che
mi alzo da terra.”
“Oh,
li conosco, quelli come lei. Gente che a momenti fa montare un
pallottoliere sull'aereo, per controllare costantemente quanto manca
all'agognato Pour le Mérite.” Tacque per qualche secondo, poi
sprezzante soggiunse: “Non vi interessa altro.”
Perplesso,
von Knobelsdorff optò di nuovo per un cauto silenzio.
Nel
frattempo avevano raggiunto la costruzione.
“Mi
segua,” ripeté Kunz. Si diresse verso l'ufficio che era aveva
occupato anche von Stade. Il tenente notò che dalle pareti erano
spariti tutti i quadri a parte il ritratto dell'Imperatore, ed era
rimasta solo la sedia dietro la scrivania. Un eventuale interlocutore
del capitano avrebbe dovuto stare in piedi.
Il
comandante appese gli abiti di volo a un attaccapanni che si trovava
in un angolo, rivelando un'uniforme della fanteria. Aveva un
distintivo di ferita di prima classe, la croce di ferro di prima e
seconda classe e il distintivo da assaltatore.
Andò
a sedersi alla scrivania.
Von
Knobelsdorff si mise di nuovo sull'attenti, mantenendo lo sguardo
fisso verso un punto indefinito dietro le sue spalle.
Kunz
disse: “Siamo in guerra, non a un torneo sportivo. Non mi
interessano le classifiche dei cosiddetti assi, mi interessa che la
mia Jasta infligga danni al nemico.”
Von
Knobelsdorff, che superato il primo momento di stupore stava
cominciando a indispettirsi, con voce tagliente replicò: “Ritengo
che le due cose coincidano, signore: gli assi sono i piloti che hanno
abbattuto più aerei nemici.”
“Ma
certo, e siccome conta il numero e non il tipo, i furbastri si vanno
a cercare i postali, gli osservatori e tutti quelli che si possono
abbattere con poco sforzo.”
Il
tenente strinse le labbra, a quel punto assolutamente indignato.
“Questo non è vero,” replicò poi tagliente. “A nessuno
interessa una decorazione guadagnata abbattendo avversari di scarso
valore.”
Kunz
lo fissò serio, senza preoccuparsi di nascondere la sua
disapprovazione. Infine disse: “La veda come vuole, tenente, basta
che obbedisca ai miei ordini. Lei non è un cavaliere della tavola
rotonda, ma un ufficiale impegnato nello sforzo bellico. Si regoli di
conseguenza.”
“Potrebbe
essere più chiaro, signore?”
“Non
mi interessano gli abbattimenti confermati,
mi interessa che il nemico finisca a terra e non si muova più. Se
non ci sono testimoni fa lo stesso, si accontenterà dell'intima
soddisfazione di aver reso un servizio alla Patria. E ora, si ritenga
congedato.”
Von
Knobelsdorff uscì dal colloquio piuttosto perplesso. Avrebbe voluto
chiedere al Vecchio se era arrivato un nuovo aereo per lui e se
poteva riprendere i voli di guerra, ma si era trovato in corridoio
prima ancora di poter elaborare una sola delle domande che si era
preparato.
Uscì
dall'edificio del comando per dirigersi verso gli hangar. Quando fu
all'esterno, Hoffmeyer lo raggiunse e gli chiese: “Ora che non ci
sono orecchie indiscrete in giro, che ne pensi di Kunz?”
La
replica gli uscì dal cuore: “È matto?”
L'altro
alzò le spalle. “Pensa di essere l'unico che vola per abbattere
gli inglesi.”
“Perché
noi invece cosa facciamo? Raccogliamo fiori di campo?”
“Secondo
lui ci interessa solo ottenere il Pour le Mérite.”
Come
aveva già fatto notare al capitano, von Knobelsdorff disse: “Le
due cose sono correlate. Il Pour le Mérite viene conferito
all'abbattimento di otto aerei nemici.”
Hoffmeyer
scosse la testa come di fronte all'ineluttabile, quindi rispose:
“Bah, che vuoi farci. Certa gente dovrebbe restarsene in trincea.”
“Non
ha la nostra mentalità.”
“No
davvero.”
Proseguirono
fianco a fianco. Von Knobelsdorff ripensò a una frase dell'agente
segreto: La mia
priorità è portare a termine la missione che mi è stata affidata.
Se per raggiungere l'obiettivo devo uccidere, rubare, farmi passare
per un pederasta o qualsiasi altra cosa, io lo faccio, è chiaro?
Considerò
che probabilmente lui e Kunz si sarebbero trovati d'accordo su tante
cose.
Si
chiese dove fosse, e di nuovo involontariamente sogguardò i
dintorni, come aspettandosi di vederlo spuntare da qualche parte.
Rievocò
la sua stretta sul braccio, il suo modo secco, sbrigativo di
intimargli il silenzio, e si trovò con stupore a sorridere fra sé e
sé.
La
voce di Hoffmeyer lo fece quasi sussultare: “Pensi alla tua bella
aviatrice?”
“Basta
con quest'aviatrice!”
“Avevi
una faccia...”
§
Von
Knobelsdorff riaprì gli occhi. Guardò fuori dalla finestra e si
accorse che il cielo aveva già i colori del crepuscolo.
Si
mise seduto. Gli era bastato stendersi sul suo letto – mi
riposo giusto dieci minuti
– per cadere in un sonno profondo. Non era nemmeno sceso per il
pranzo e i colleghi, evidentemente, non avevano mandato l'ordinanza a
chiamarlo. Forse avevano pensato che avesse più bisogno di dormire
che di mangiare.
Si
chiese come fossero i pasti, con quella specie di Cerbero a
capotavola. Probabilmente qualcosa di simile a un refettorio di
trappisti, silenzioso e cupo.
Facce
chine sui piatti, qualche acciottolio di stoviglie. Il frusciare
furtivo di un tovagliolo.
Si
alzò, fece qualche passo nella stanza che gli era stata assegnata.
La sua roba era ancora tutta lì, nessuno aveva toccato nulla.
C'erano persino i suoi libri allineati su una piccola mensola.
Scese
nella sala comune. Marquardt stava leggendo un giornale. Vicino alla
finestra c'erano Eschmann e uno che non conosceva impegnati nella
rievocazione di un combattimento aereo. Tenendo le dita unite e le
mani estese a simulare gli aerei, il primo si sbracciava per mostrare
all'altro i momenti salienti del duello.
Altri
due stavano giocando a scacchi.
Di
nuovo lo pervase una sensazione d'incertezza. Da una parte era tutto
come prima, dall'altra non lo era più, e non capiva se la questione
fosse legata all'impronta che il nuovo comandante aveva dato alla
Jasta o a quella che l'agente segreto e la missione dietro le linee
avevano dato a lui.
Forse
le due cose, stabilì.
Andò
al biliardo, prese una stecca dalla rastrelliera e fece qualche tiro
svogliato. Per un po' seguì le biglie che rotolavano qua e là, poi
la voce di Hoffmeyer attirò la sua attenzione: “Pensi a lei?”
Von
Knobelsdorff sentì le guance andargli a fuoco. “Ti avevo chiesto
di non parlarne,” sibilò.
Il
collega alzò le spalle. “Nessuno ci sta ascoltando.”
“Comunque
evita l'argomento, per favore.”
Hoffmeyer
assunse un'espressione innocente. “Perché?”
“Non
vorrei che gli altri sentissero.”
“Perché?”
“Herbert...”
L'altro
emise un teatrale sospiro. “E va bene, quanto la fai lunga. Andiamo
fuori a fare un giretto?”
“Ma
io...”
“Dai,
usciamo. Una boccata d’aria ti farà bene.”
La
pista era sgombra, attraversata da lievi refoli di vento. Nel
silenzio della sera, si udivano da lontano il cicaleccio dei
meccanici e il battere ritmico di un martello. Echeggiò una risata,
seguita da un paio di frasi dal tono allegro.
Qualcuno
fischiettava da qualche parte, nel fondo dell’hangar.
I
due camminarono per un po’ fianco a fianco, poi d’un tratto
Hoffmeyer chiese: “Pensi a lei?”
Von
Knobelsdorff quasi sobbalzò. “No davvero,” disse in tono
tagliente.
“Non
ci sarebbe niente di male.”
“Non
sto pensando proprio a nessuno, va bene?”
L’altro
non replicò. Dopo un po’ von Knobelsdorff, anche per stornare il
discorso dalla cosiddetta ragazza, chiese: “Dici che il Vecchio
domani mi farà volare?”
“Mi
stupirebbe il contrario,” rispose Hoffmeyer, poi, imitando il tono
severo di Kunz, aggiunse: “Crede forse di essere qui per fare una
vacanza, tenente? Crede che ci siano figlie di generali a cui
insegnare i rudimenti del volo?”
“Ti
ho detto basta!” esplose von Knobelsdorff.
Il
collega si fermò, costringendolo a imitarlo. A quel punto gli
chiese: “Dì un po’, che ti prende?”
L’altro
scosse la testa. “Scusami.”
“Sei
sicuro di stare bene?”
“Sì,
perché?”
Hoffmeyer
alzò le spalle. “Non lo so, sei strano.”
“Sono
come al solito.”
Continuarono
a camminare in silenzio. Nella luce che andava scemando, la baracca
dei segnalatori era una sagoma scura, in cui si intravedevano come
aloni indistinti gli scacchi bianchi e rossi. La brezza era caduta e
la manica a vento pendeva immobile.
Da
qualche parte, un usignolo cominciò a gorgheggiare.
A
quel punto, Hoffmeyer chiese: “Lei com’è?”
Von
Knobelsdorff alzò gli occhi al cielo, maledicendo il momento in cui
si era inventato la figlia del generale che voleva diventare
aviatrice. Emise un sospiro sconsolato e disse: “Se te la descrivo,
poi tu la smetti di tirare fuori l’argomento?”
“E
va bene.”
“D'accordo,
prima iniziamo e prima finiamo. È
un po’ più alta di me.”
“Ah,
però. È una vera valchiria, ecco perché vuole imparare a volare.
Ed è formosa?”
Si
prese qualche secondo prima di rispondere. “No, non direi proprio,”
proferì alla fine.
“È
un uomo, per caso?”
Von
Knobelsdorff scattò come se l’avesse punto una vespa. “No
davvero! Come ti viene in mente una cosa del genere?”
“Mah…
è più alta di te, non è formosa...”
“È
bionda, va bene? Biondo dorato, come il grano. E gli occhi sono
grigi, ma quando ride si accendono di sfumature azzurre.”
“Oh…
si
accendono di sfumature
azzurre?”
“Certo,
che c’è di strano?”
“C’è
che sei innamorato cotto della tua bella valchiria, amico mio!”
[1]
La giubba dell'uniforme da ulano.
[2]
Colloquialmente, berretto di truppa e sottufficiali.
|
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Capitolo 15 *** Capitolo 9 - Seconda parte ***
Gente
mia,
ecco
un altro po’ di mappazza, sperando che non siate ancora stanchi
delle disavventure del nostro tenente.
Ringrazio
molto tutti coloro che mi stanno seguendo, con particolare trasporto
affettivo nei confronti di chi è così gentile da lasciarmi anche un
commento.
Enjoy
(si spera^^)
Sdraiato
nel suo letto, le braccia dietro la nuca, von Knobelsdorff rifletteva
sulle parole dell’amico. Cosa gliene importava, in fondo, se
Herbert lo credeva invaghito di una inesistente valchiria-aviatrice?
In
teoria, nulla.
Era
un’ottima scusa, anzi, in grado di far passare ogni sua reticenza
per delicatezza da gentiluomo.
Senz'altro
l'agente segreto avrebbe saputo fare buon uso di una faccenda del
genere.
Ripensò
a quando, in paramenti sacerdotali, era riuscito a convincere una
mezza compagnia di soldati inglesi che si trovava sul loro stesso
treno per portare il conforto della fede ai combattenti delle
trincee.
Oppure
a quando, con la massima disinvoltura, si era fatto passare per un
invertito che voleva trascorrere un'ultima notte con il suo amante.
A
quel ricordo sentì qualcosa di strano pungolarlo. Gli tornò in
mente il momento il cui l'uomo, per rendere la recita più credibile,
l'aveva baciato sulla tempia.
Con
suo stupore, la cosa non gli suscitò il disgusto che si sarebbe
aspettato.
In
un empito inconfessabile persino a se stesso, anzi, si trovò a
chiedersi cosa sarebbe successo se in quel frangente avesse girato il
viso, intercettando le sue labbra con le proprie.
L'enormità
di quell'idea gli fece letteralmente balzare il cuore nel petto. Si
rigirò sul materasso ed ebbe quasi la tentazione di tirarsi le
coperte sulla testa, come faceva da piccolo quando era spaventato da
qualcosa.
“Herbert,”
sussurrò.
Dal
letto accanto al suo provenne un grugnito.
“Herbert?”
“Dormi.”
Imperterrito,
von Knobelsdorff chiese: “Senti, ma è vero quello che dicevi
oggi?”
L'altro
sporse una mano dalle coperte e palpò il comodino alla ricerca della
scatola di fiammiferi. Ne prese uno e con quello accese una candela
infilata in una bottiglia vuota. Alla fine dell'operazione si voltò
verso di lui e perplesso ripeté: “Quello che dicevo oggi?”
“Che
sono strano.”
“Se
ti comporti così, indubbiamente mi aiuti a convincermene.”
Von
Knobelsdorff si limitò a emettere un sospiro.
Hoffmeyer
scosse la testa e gli disse: “Maxmilian, senti, non ha nessun senso
rimuginare su di lei nel cuore della notte. Domani dobbiamo andare in
volo e non possiamo permetterci di essere stanchi.”
Egli
non replicò. Avrebbe voluto rispondergli che non c'era nessuna
'lei', che erano altri i dubbi che lo tormentavano, ma all'ultimo
preferì tacere. Emise un sospiro e disse: “Va bene, scusa se ti ho
disturbato.”
“Vedi
di dormire, Max.”
“Va
bene.”
La
candela si spense. Hoffmeyer si raggomitolò di nuovo sotto le
coperte, avendo cura di girargli la schiena.
Von
Knobelsdorff tornò a sdraiarsi con le braccia dietro la testa, ma il
sonno non ne voleva sapere di arrivare. Al suo posto c'erano pensieri
di ogni genere che, come sempre accade di notte, si sottraevano a
ogni suo tentativo di controllo.
Riandò
con la mente agli anni dell'accademia militare.
Gli
Spartiati sono gli allievi migliori dell’accademia. I più bravi in
ogni materia, i più dotati nelle discipline sportive. C'è chi dice
che condividano con l'élite guerriera di cui hanno scelto il nome
anche una particolarità che non si può menzionare, ma sono
senz'altro malelingue, invidiose delle loro maggiori capacità.
Friedrich
von Wangenheim è il migliore degli Spartiati. Nella lotta nessuno
può tenergli testa, sa portare all'obbedienza anche il cavallo più
riottoso. Con una spada in mano, sembra l’arcangelo Michele che
combatte contro Satana.
Egli
lo guarda mentre in sella a un vigoroso baio affronta una doppia
gabbia che ha avuto ragione di ogni cavaliere prima di lui.
Von
Wangenheim porta l'animale a raccogliere l'andatura, accumulando
potenza in vista del salto. Il baio si raccoglie e vola sul primo
verticale senza nemmeno sfiorarlo. “Voglio vederlo sull'oxer,”
dice un allievo che come lui sta seguendo il percorso dello
Spartiate.
La
muscolatura del baio si tende, l'andatura si accorcia mantenendo però
il vigore. L'animale supera anche quell'ostacolo con facilità.
Egli
sposta lo sguardo dal potente animale al volto concentrato del
cavaliere. Lo vede stringere le labbra e aggrottare appena la fronte
in vista del terzo elemento della gabbia. Mani e busto cedono in
avanti dando spazio al cavallo, che di nuovo sembra volare con
facilità sull'ostacolo.
Vorrebbe
entrare anche lui in quel gruppo esclusivo.
Veramente
non sarebbe consentito ai ragazzi del suo anno, dovrebbe aspettare
come minimo il successivo. Von Wangenheim però gli ha sempre
dimostrato una considerazione particolare, che ad altri non riserva.
Duella con lui, ad esempio, gli concede incontri di lotta. Una volta
sono anche andati a nuotare insieme al fiume e poi si sono stesi nudi
sulla rena ad asciugarsi, uno accanto all'altro.
È
sicuro che accetterà di metterlo alla prova.
Glielo
chiede mentre von Wangenheim, ancora una volta trionfatore, sta
uscendo dal recinto con il cavallo alla mano.
Questi
lo fissa serio, così a lungo che a un certo punto lui si convince
che lo manderà via, ma alla fine semplicemente dice: “Domani sera,
all'ala est.” E poi prosegue verso le scuderie.
Il
cuore gli balza nel petto. “Ci sarò!” gli assicura con calore, e
a quelle parole ha come l'impressione di suscitare anche nell'altro
un calore particolare.
L'ala
est è vuota, forse in attesa di lavori di ristrutturazione. È un
susseguirsi di stanze immense, dai soffitti altissimi, nei quali si
indovina il biancheggiare di stucchi ornamentali.
Dalle
finestre entrano i raggi freddi e senza colori di un'enorme luna
piena.
Egli
scruta nel buio, oltre le chiazze di luce lattescente che si
proiettano sul pavimento. Sarà lì von Wangenheim?
Sorride
fra sé e sé. Sa che è li, sa che lo sta aspettando in qualche
punto di quel labirinto silenzioso. Quasi percepisce una strana forma
di inquietudine aleggiare nell'aria: sarà venuto? Avrà il coraggio
di portare a termine la prova?
Sorride
di nuovo, come per rassicurare un invisibile interlocutore, poi si
addentra nel luogo oscuro, traendo cupi echi dai soffitti. Man mano
che procede, sente che si sta lasciando alle spalle tanti elementi
della quotidianità – la luce, il calore, la tranquilla
consuetudine con i camerati – e sta raggiungendo una solitudine
gelida, nella quale troverà se stesso o si perderà per sempre.
Tutto
è immobile e come in attesa.
Egli
procede, raggiunge una scala d'onore i cui gradini si perdono nel
buio. Ai lati di essa, silenti guardiani, due Atlanti di marmo lo
fissano.
Va
oltre, sale, si addentra nelle tenebre e poi ne esce, giungendo a un
salone nel quale di nuovo si riversa la luce argentea della luna.
Sotto
uno strato di polvere si indovinano sul pavimento scacchi bianchi e
neri. Le pareti sono ornate da stucchi d'ispirazione militare.
Al
centro del salone vi è un tavolino. Si avvicina e vede che su di
esso è posata una sciabola sguainata.
La
lama brilla debolmente.
Si
guarda intorno. Sente che von Wangenheim è vicino, molto vicino.
Forse lo sta già tenendo d'occhio. Sta guardando cosa fa, se
raccoglie l'arma, o se scappa spaventato da quella sinistra messa in
scena.
Non
ha attraversato quel misterioso regno dei morti per girarsi e
fuggire: impugna la sciabola, procede.
Si
lascia il salone alle spalle, si addentra in un corridoio oscuro.
Sbuca
in un secondo salone, più grande del precedente. Più ampio, più
solenne. Con echi più cupi.
Von
Wangenheim è lì.
È
in piedi davanti a una finestra, sembra assorto nella contemplazione
della pianura notturna. Impugna una sciabola che tiene lungo la
gamba, con la punta rivolta verso il basso. Egli si accorge dell'arma
solo dal fremito di luce che per un istante ne percorre il filo.
“Ti
aspettavo,” dice lo Spartiate senza voltarsi.
“Sono
qui.”
A
quel punto Friedrich von Wangenheim si gira lentamente. Il viso non
tradisce alcuna emozione. Solleva la sciabola in un elegante saluto e
si mette in guardia.
Egli
capisce che quel solenne invito a battersi è un alto segno di
considerazione. Non è l'assalto scolastico portato avanti in
presenza degli istruttori, ma è un confronto onorevole, senza
esclusione di colpi. Un confronto tra guerrieri.
Solleva
a sua volta la lama nel saluto, accettando il duello con una strana
sensazione di aspettativa.
E
poi esplode la violenza dello scontro.
Il
silenzio cristallizzato – un silenzio che sembra perdurare intatto
da duecento anni – viene scacciato dal clangore delle lame e dagli
ansiti dei contendenti.
I
colpi sono portati a pieno, ogni assalto è esaltazione e bramosia.
Infine
von Wangenheim lo costringe con le spalle al muro. Tira un fendente
che sarebbe letale, ma lui riesce a pararlo bloccando la sua sciabola
con la propria.
Non
ha paura. Il sangue gli romba nelle orecchie, il petto si alza e si
abbassa in respiri che sembrano letteralmente tracannare l'aria
fredda. Si sente vivo come non mai.
Von
Wangenheim gli si fa più vicino, si fissano ansanti al di sopra
dell'incrocio micidiale delle lame. “Combatti bene,” mormora.
Illuminati in pieno dal chiarore lunare, i suoi occhi sono abissi di
fuoco gelido.
“Non
potevo offrirti di meno,” gli risponde.
Le
lame tra loro due sono sempre immobili l'una contro l'altra, senza un
fremito. Croce di acciaio disegnata dalla luce senza colore.
Continuano
a fissarsi negli occhi. Poi le lame cadono a terra con un subitaneo
clangore, rimangono immote sulle pietre nude del pavimento.
I
corpi si avvincono come quelli di due lottatori, le bocche si
uniscono bramose, avide. La vicinanza ideale, prima che fisica, li
stordisce.
Quasi
sussultò a quel ricordo. Istintivamente si fece indietro come se
anche lì, nel buio della sua camera, von Wangenheim fosse accanto a
lui, pronto a baciarlo come aveva fatto quella volta.
Il
pensiero gli spedì lungo la schiena un colpevole brivido di
eccitazione.
Emise
un sospiro sconsolato. Si era sottratto, era stato vile. Aveva
interrotto un bacio che era estasi e perdizione al tempo stesso, ed
era tornato al rassicurante calore della quotidianità, chiedendosi
se in realtà fosse quella la vera prova.
Non
l'aveva più ripetuta, comunque, perché aveva capito in quel
frangente che il passo sarebbe stato senza ritorno.
La
voce di Hoffmeyer lo richiamò bruscamente alla realtà: “La
pianti?”
“Cosa?”
“Ti
stai rivoltando come un bue sul girarrosto. Vatti a fare una
passeggiata se non hai sonno, ma lascia dormire me.”
§
Von
Knobelsdorff contò gli aerei che i meccanici stavano preparando e
dedusse con soddisfazione che ce n'era uno anche per lui.
Nonostante
tutto, l'ebbrezza della caccia nel cielo si stava impadronendo di lui
come di consueto. I muscoli erano tesi, lo sguardo inesorabilmente
calamitato dall'orizzonte, ove si addensava la caligine del fronte.
Laggiù si combatteva, laggiù c'erano aerei nemici.
Nonostante
il discorso che Kunz gli aveva rivolto, calcolò quanti abbattimenti
gli mancavano all'agognata qualifica. Da una parte sorrise fra sé e
sé all'esiguo numero, dall'altra si obbligò alla prudenza: era
proprio quando si arrivava a sei o sette vittorie che l'entusiasmo
soppiantava l’avvedutezza.
Il
tenente considerò che morire in un frangente del genere sarebbe
stato veramente triste.
Guardò
i colleghi che stavano uscendo dagli alloggi. Alcuni avevano già gli
abiti di volo addosso, altri erano inseguiti da attendenti con le
braccia cariche di cappotti e pellicce. Il capitano Kunz camminava un
po' discosto dagli altri, con addosso un pastrano che doveva essere
quello che aveva portato anche in trincea.
Quando
il comandante ebbe raggiunto il suo aereo, i piloti gli si riunirono
intorno.
Von
Knobelsdorff li imitò, prendendo posto nel semicerchio che si andava
costituendo.
Kunz
fissò ognuno di loro dritto negli occhi. Non si soffermò su nessuno
in particolare, dedicando a tutti, con severa imparzialità, lo
stesso sguardo duro e indagatore.
Infine
disse: “Lor signori conoscono gli ordini: compito delle truppe
aeree è impegnare in combattimento e neutralizzare il nemico. Non
voglio sciocche gare tra piloti, voglio efficienza.”
Si
diresse al suo aereo e prese posto nella carlinga. Un meccanico andò
all'elica per la procedura di messa in moto.
Gli
altri si diressero alla spicciolata verso i rispettivi Albatros.
Von
Knobelsdorff individuò quello che gli era stato assegnato, per forza
di cose neutro come quello del comandante, e vi montò sopra pensando
a come avrebbe potuto personalizzarlo. Gli venne in mente un lupo
ringhiante, con il pelo dritto sulla schiena.
La
voce di Kramer lo richiamò alla realtà: “È pronto, signor
tenente?”
Egli
si riscosse. Compì i controlli pre-volo con la disinvoltura
dell'abitudine, quindi azionò i circuiti elettrici ed esclamò:
“Contatto!”
Dal
basso provenne la risposta: “Contatto!” E poi la familiare
vibrazione dell'elica che veniva azionata manualmente.
Sorrise
fra sé e sé mentre il motore cominciava a girare, salutò come
vecchie amiche le lancette degli strumenti che si animavano e
raggiungevano, si sarebbe detto con trepidazione, il loro posto sui
quadranti.
I
meccanici tolsero i tacchi da sotto le ruote, l'aereo prese a rullare
dolcemente sull'erba. Egli si guardò ai lati, controllando la
posizione dei colleghi, e manovrando freni e manetta si diresse verso
la testata pista per il decollo.
Per
primo s'involò il comandante, poi Marquadrt, poi Hoffmeyer...
sorrise di nuovo: era come una magnifica battuta di caccia fra amici,
pericolosa ma esaltante. Raggiunse la posizione di decollo, fece gli
ultimi controlli e poi diede tutta manetta. L'Albatros balzò in
avanti, l'aria cominciò a frustargli il viso.
E
poi ci fu il momento magico in cui l'aereo staccò le ruote da terra.
In quell'istante, a von Knobelsdorff parve che una cappa di piombo
gli cadesse dalle spalle, rendendolo libero, leggero e colmo di
ardore.
La
Jasta volava in formazione compatta. Il fronte ribolliva in
lontananza, velando l'aria tersa di una caligine venefica.
Già
si coglievano le vampate gialle delle esplosioni e gli archi bianchi
che i proiettili incendiari si lasciavano dietro, quegli stessi archi
che di notte aveva visto come fatati zampilli di luce.
Scrutò
il cielo con aspettativa. Sapeva che gli inglesi c'erano, o se non
c'erano sarebbero arrivati a breve.
Controllò
ancora una volta gli strumenti, poi di nuovo sondò l'azzurro. In
alto, dove il ribollire delle esplosioni non giungeva a offuscare il
nitore del primo mattino.
Individuò
qualcosa: punte di spillo che apparivano e scomparivano nell'aria
tersa. Simultaneamente vide l'aero di Kunz guizzare verso l'alto alla
ricerca di quota.
Tutta
la Jasta si animò, gli Albatros schizzarono in ogni direzione. Von
Knobelsdorff diede tutta manetta, continuando a tenere lo sguardo
fisso sul nugolo di puntini, che stavano diventando rapidamente
sempre più visibili.
Salì
fino a che non cominciarono ad assumere le fattezze spigolose di
biplani, poi livellò. Il più avanzato degli inglesi stava già
sparando: vide Marquardt scivolare d'ala e buttarsi nella parabola
ascendente di un looping.
Hoffmeyer
si era già scelto un avversario e così anche Kunz. Lui si guardò
intorno e captò ai margini del campo visivo il guizzo di un Sopwith
Pup: l'inglese gli stava piombando addosso a tutta manetta, i lampi
arancioni sul muso dell'aereo indicavano che gli stava già sparando.
Egli
cabrò rapido, sottrasse bersaglio e con un mezzo looping gli si
portò alle spalle. Sparò a sua volta una raffica, strappandogli
brandelli di rivestimento alare.
L’inglese
derapò per cercare di sganciarsi, ma von Knobelsdorff ormai gli era
stabilmente in coda. Fece partire un altro paio di raffiche. Il
Sopwith Pup sembrò immobilizzarsi nell'aria, poi puntò il muso
verso il basso e cominciò a precipitare lasciandosi dietro una scia
di fumo nero.
Cadde
e rimase immobile. Tutti l’avevano visto, quindi, con buona pace di
Kunz, l’abbattimento era confermato.
“Numero
sette!” gridò. Alzò il braccio in un gesto di vittoria, ma a quel
punto una gragnola di colpi gli attraversò una semiala. Si girò di
scatto e si trovò alle spalle un Sopwith Triplane. Immediatamente si
attaccò alla cloche e fece una brusca virata. Riuscì a evitare la
seconda raffica, ma il triplano gli rimase attaccato alla coda.
Diede
manetta, salì bruscamente di quota, impostando subito dopo una
virata a coltello. Brandelli di rivestimento alare schizzarono via
lasciando in vista una centinatura.
Si
girò di nuovo e gli parve quasi di cogliere l'espressione
concentrata del pilota inglese.
Eseguì
una virata talmente stretta che sentì le strutture dell'Albatros
vibrare, salì ancora, cerò di rigirarsi per affrontare
l'avversario, ma esso non perdeva la posizione, nonostante la minore
manovrabilità del suo aereo.
Peraltro,
essendo più veloce stava anche inesorabilmente accorciando le
distanze.
Diede
manetta, tirò la barra tutta indietro in un brusco looping, poi al
culmine della parabola si rigirò con un mezzo tonneau. L'inglese
parve rimanere disorientato per qualche secondo, ma subito dopo le
sue pallottole ricominciarono a perseguitarlo.
Il
tenente era costretto a fare una manovra dopo l'altra per cercare di
sfuggire a quello che evidentemente doveva essere un asso. Ormai
aveva il rivestimento di un'ala a brandelli e poteva immaginare che i
piani di coda non fossero in condizioni migliori. Un tirante reciso
sbatacchiava a ogni manovra.
Fece
derapare bruscamente l'aereo, virò stretto, puntò il muso verso
l'alto e poi di nuovo lo buttò in basso per arrivare a fronteggiare
il triplano. Per un secondo riuscì a inquadrarlo nel collimatore e a
sparagli una raffica, ma subito dopo l'inglese guizzò via.
Von
Knobelsdorff, ormai sudato e ansante, si guardò disperatamente
intorno, scrutando il cielo alla ricerca dell'avversario. Non sapeva
da quanto stesse andando avanti il combattimento, ma ad ogni manovra
era più stanco e si sentiva sempre più frastornato. Doveva
sganciarsi in qualche modo, oppure entro breve avrebbe commesso
l'errore fatale.
Altri
proiettili gli bucarono l'ala. Si girò e il respiro gli si bloccò
nel petto: l'inglese gli stava piombando addosso dall'alto, col sole
alle spalle.
Un
pensiero gli attraversò la mente come un lampo: è la fine.
Poi
un'ombra passò rapida dietro il triplano. L'aereo inglese parve
sussultare, poi si inclinò, buttò giù il muso ed entrò in vite.
Il
tenente rimase a fissarlo attonito per qualche secondo. Si guardò
intorno per capire chi fosse intervenuto in sua difesa e vide un
aereo dalla mimetizzazione standard, con nient'altro che le coccarde
di nazionalità.
§
Sull'attenti
davanti alla scrivania di Kunz, l'espressione perfettamente neutra,
von Knobelsdorff fissava un punto all'infinito dietro le spalle del
comandante.
Questi
lo squadrò severo per lunghi secondi. Infine, con voce tagliente gli
chiese: “Dove pensava di essere, tenente, alle giostre? Magari
seduto su un cavallino di legno?”
“Nossignore.”
“E
allora come mai si sbracciava come uno stupido nel bel mezzo di un
combattimento aereo?”
Von
Knobelsdorff strinse le labbra. Lo
sa benissimo, il perché,
avrebbe voluto rispondergli, ma preferì rimanere in silenzio.
L'altro
naturalmente non si accontentò. “Allora?” lo sollecitò.
“Esultavo
per aver conseguito la settima vittoria, signor capitano.”
Kunz
sollevò le sopracciglia e si fece addirittura un po' indietro sulla
sedia, come se la notizia l'avesse lasciato sconcertato. “Lei
esultava
per la vittoria
conseguita?”
“Sissignore.”
Il
capitano annuì grave, quindi disse: “Allora lasci che le spieghi
un paio di cose, tenente: in guerra non si esulta ma si compie il
proprio dovere. Non ci sono vittorie da conseguire, dal momento che
non siamo al tiro a segno di una festa di paese, ma obiettivi da
raggiungere e nemici da neutralizzare.” Fece una pausa, poi
decretò: “Fino a nuovo ordine, lei è adibito al servizio a
terra.”
“Cosa?”
esclamò il tenente.
Senza
alzare la voce, Kunz replicò: “Non le ho dato il permesso di
parlare.”
Von
Knobelsdorff ignorò la precisazione e ripeté: “Cosa? Mi lascia a
terra?”
Impassibile,
il capitano proferì: “In volo è un pericolo per sé e per gli
altri.”
“Lei
non può lasciarmi a terra! Io sono un pilota, sono qui per volare!”
“Lei
è qui per eseguire gli ordini. Ora si calmi, altrimenti mi
obbligherà a prendere ulteriori provvedimenti disciplinari nei suoi
confronti.”
“Signore...”
“Si
ritenga congedato, tenente.”
Von
Knobelsdorff abbandonò la stanza furibondo. “Ecco cosa succede
quando si ha a che fare con i borghesi,” ringhiò, a voce
sufficientemente alta da farsi udire al di là della porta.
Era
capitato che von Stade gli avesse salvato la vita, una volta, come
del resto era capitato il contrario. Signorilmente, nessuno aveva mai
fatto pesare la cosa: il salvato aveva offerto all'altro una
bottiglia di buon vino del Reno e la questione si era chiusa con un
brindisi.
Era
partito con le migliori intenzioni, onestamente. Avrebbe voluto
ringraziare il capitano Kunz e offrire anche a lui una bottiglia, ma
evidentemente quel tanghero non aveva idea di come ci si dovesse
comportare tra ufficiali.
Si
chiese se avesse fatto l'accademia o se provenisse dai ranghi, poi
stabilì che in fondo non gli interessava.
Si
allontanò a grandi passi. Servizio a terra, ancora non riusciva a
crederci.
§
Von
Knobelsdorff calciò sconsolato un sassolino, spedendolo a rimbalzare
poco lontano. Alzò gli occhi verso il cielo, poi li abbassò sulla
pista ed emise un sospiro. Era una settimana che saliva sugli aerei
solo per spostarli da un punto all'altro del campo d'aviazione, o per
tirarli fuori dall'hangar al mattino.
Tese
l'orecchio, ma nell'aria vi erano solo qualche cinguettio d'uccelli e
il parlottare di due meccanici che stavano riparando un'ala
danneggiata. Non si udiva ancora il familiare ronzio degli aerei in
avvicinamento.
Si
chiese se il Vecchio avesse intenzione di tenerlo a terra ancora a
lungo. Rivolse uno sguardo velenoso all'edificio del comando e
masticò un'imprecazione, poi si accorse che un piantone si stava
dirigendo verso di lui.
Quando
l'ebbe raggiunto, il soldato si mise sull'attenti e scandì: “Signor
tenente, il Rittmeister[1] von Thurn und Taxis chiede di vederla!”
L'ufficiale
rimase perplesso. Conosceva i principi von Thurn und Taxis, ma solo
superficialmente, perché tra famiglie nobili più o meno ci si
conosceva tutti. Non ne aveva mai incontrato uno di persona.
“Dov'è
questo Rittmeister?” chiese.
“Nella
sala grande, signor tenente.”
Von
Knobelsdorff congedò il soldato e si diresse a grandi passi verso la
palazzina degli alloggi, formulando nel frattempo le più varie
ipotesi: chi poteva essere un capitano di cavalleria sconosciuto che
chiedeva di lui? Era qualcosa che aveva a che fare con la guerra o
con la nobiltà?
Entrò
nella sala grande. C'era in effetti un ufficiale. Era di spalle
rispetto a lui, aveva l'uniforme degli ussari. Era di altezza un po'
superiore alla media, snello, con i capelli biondo grano.
Von
Knobelsdorff si mise sull'attenti e in tono marziale si presentò.
L'altro
si girò.
“Oh!
Ma...” balbettò il tenente, e poi non riuscì a dire altro.
[1]
Capitano di cavalleria.
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Capitolo 16 *** Capitolo 10 - Prima parte ***
Mappazze aeronautiche, su
Rieducational Channel!
E
niente, vi posto il solito mezzo capitolo, sperando come sempre che
non vi abbia ancora sfrangiato le gonadi.
Grazie
a tutti quelli che mi stanno seguendo, enormi ringraziamenti a chi mi
lascia un parere!
Buon
divertimento (si spera)!
Capitolo
10
“Sorpreso
di vedermi?” chiese il Werwolf.
Von
Knobelsdorff lo contemplò in silenzio: primo reggimento ussari della
guardia, quelli che ai tempi di Blücher erano noti come gli 'Ussari
della Morte'.
“È
veramente lei?” chiese diffidente.
“Che
intende dire?”
“Se
è veramente il principe von Thurn und Taxis o se questa è una delle
sue infinite identità, come il prete diretto al fronte o il
contadino francese.”
L'uomo
sorrise lieve, come se si fosse aspettato proprio quell'obiezione.
“Karl Ludwig Amadeus von Thurn und Taxis,” si presentò poi in
tono formale, accompagnando il nome con un secco battere dei tacchi.
“Maximilian
von Knobelsdorff,” si presentò a sua volta il tenente, “ma penso
che lo sappia già, non è così?”
Il
Rittmeister annuì.
“Come
ha fatto a trovarmi?”
“È
stato facile.”
Von
Knobelsdorff fece una breve risata. “Sempre questa sua mania di non
rispondere alle domande, vero?”
“E
la sua mania di farne,” rispose l'ussaro sullo stesso tono. “Non
è cambiato per nulla.”
“Nemmeno
lei.”
Il
tenente scosse appena la testa, come di fronte a qualcosa di
scarsamente comprensibile che però non manca di verificarsi, poi
chiese: “E la sua ferita come va? Almeno questo me lo può dire?”
L'altro
si avvicinò di qualche passo, giungendo a fermarsi proprio di fronte
a lui, poi rispose: “Molto meglio, grazie.” Fece una pausa, poi
in tono più morbido precisò: “Grazie a lei.”
Von
Knobelsdorff non poté fare a meno di notare che nei suoi occhi erano
ricomparse quelle sfumature azzurre che aveva descritto con tanto
trasporto a Hoffmeyer. “Ho solo fatto quel che potevo,” rispose
distogliendo lo sguardo.
La
voce del Rittmeister lo richiamò alla realtà: “E le sue ferite
come vanno?” Prima che lui potesse replicare, gli prese una mano e
la tirò verso di sé come per far arretrare la manica. “I polsi
sono guariti, mi sembra.”
Von
Knobelsdorff si fece indietro come se fosse stato toccato da un ferro
rovente, tanto che il brusco movimento fece traballare un tavolino
che si trovava sulla sua traiettoria.
Von
Thurn und Taxis sorrise, e l'azzurro divenne più intenso. “Attento,”
gli raccomandò, protendendosi come per aiutarlo a ritrovare
l'equilibrio.
“Sto
bene,” gli disse asciutto il tenente, in tono forse più duro di
quanto si fosse riproposto. “Sto bene, è tutto in ordine.” Gli
rivolse uno sguardo torvo e arretrò di un paio di passi. “Perché
è tornato?” chiese poi.
Con
la più grande tranquillità, il Rittmeister rispose: “In fondo
sono un sentimentale: desideravo rivedere un vecchio amico.”
Il
tenente aggrottò le sopracciglia. L'inquietudine che l'aveva
assalito quando l'altro gli aveva preso il polso non voleva
abbandonarlo. Si sentiva teso, come pronto a scattare. Era certo che
i suoi battiti fossero più rapidi del normale. “Amico?” ripeté,
come se la parola gli suonasse sconosciuta.
L'altro
annuì calmo, poi gli chiese: “Lei come definirebbe un amico, ad
esempio?”
“Io...”
Von Knobelsdorff tacque spiazzato. Per quanto faticasse a dare
dell'amicizia una definizione esaustiva, gli era comunque chiaro che
si trattava di un sentimento che aveva a che fare con fiducia,
simpatia, affetto e reciproca scelta. Fissò lo sguardo
sull'enigmatico personaggio, che anche dopo essersi presentato con
nome, cognome e reparto di appartenenza manteneva un'impenetrabile
aura di mistero, e rispose: “Un amico è una persona di cui ci si
può fidare.”
“E
io non mi sono fidato di lei, quando ha pilotato l'aereo nel buio?
Lei non si è fidato di me in tante occasioni?”
“Non
avevo scelta.”
L'ussaro
scosse la testa. “Una scelta c'è sempre. Solo i deboli si
raccontano di non averla.”
Di
nuovo von Knobelsdorff aggrottò le sopracciglia. In tono duro gli
chiese: “Quindi io sarei un debole?”
“No,
è proprio per questo che la invito a non usare una scusa così
patetica.”
“Bah.”
Il tenente fece un gesto come per scacciare un insetto. “In guerra
si fanno spesso cose pericolose facendo affidamento sui commilitoni.
Questo non implica che si sia amici, comunque.”
L'altro
alzò le spalle e rispose: “D'accordo, vedo che non riesco a
convincerla. Mi fa molto piacere comunque constatare che si è
ristabilito così bene.”
“È
stato lei a intervenire?”
Von
Thurn und Taxis sollevò le sopracciglia. “Prego?”
“Stavano
per fucilarmi come traditore, e ora sono qui. È lei che devo
ringraziare, signor capitano?”
“Temo
di sì.” Il Werwolf gli rivolse quel suo sorriso freddo e vagamente
sornione, che un po' lo faceva imbestialire, ma un po' forse lo
affascinava anche, poi soggiunse: “Come intende pagare il suo
debito?”
Il
tenente aprì la bocca intenzionato a rispondere con qualche
insolenza, ma in quel momento si fece udire una lieve vibrazione dei
vetri. “Stanno tornando!” esclamò. Subito raggiunse la finestra
e prese a scrutare ansiosamente il cielo.
Von
Thurn und Taxis lo raggiunse. “I suoi colleghi?” domandò. Guardò
a sua volta il cielo.
Il
tenente annuì senza staccare gli occhi.
“Come
mai lei è a terra? Marca visita per caso?”
Già
con lo sguardo torvo, von Knobelsdorff stava per girarsi con
l'intento di rivolgergli una tagliente replica, ma in quel momento
gli aerei spuntarono da dietro una nube e si misero in fila per
cominciare le procedure di atterraggio.
Senza
aggiungere altro, abbandonò la finestra e corse fuori.
Contò
gli aerei e con soddisfazione appurò che erano tutti presenti. Gli
Albatros erano ancora sagome nere in lontananza, ma già li scrutava
con le mani dietro la schiena cercando di capire se ce ne fosse
qualcuno danneggiato.
I
meccanici uscirono dagli hangar e si fermarono a rispettosa distanza
da lui, anch'essi intenti a fissare lo stormo in avvicinamento.
“Sembrano
tutti a posto,” constatò Kramer.
Un
altro rise e ribatté: “Come fai a dirlo? A cinquanta metri non
distingui un Albatros dal camion dei rifornimenti!”
Qualcuno
ridacchiò.
Lungi
dall'offendersi, col tono di chi la sa lunga, il capo meccanico
rispose: “Non si sente nessun rumore strano.”
Si
aggiustò sulla testa il vecchio Krätzschen unto d'olio motore.
Gli
aerei frattanto stavano prendendo terra uno dopo l'altro, e già nel
rullaggio venivano seguiti da gruppetti di meccanici pronti a
rifornirli di benzina e munizioni.
Von
Knobelsdorff vide poi un Albatros avvicinarsi in modo strano.
Aggrottò le sopracciglia preoccupato, ma si accorse che
quell'anormalità era intenzionale: il pilota stava scuotendo le ali.
Il
tenente sorrise fra sé e sé: quello era un segno di trionfo.
L'aereo
si avvicinò ancora ed egli identificò i colori di Hoffmeyer. Attese
che il collega spegnesse il motore e gli corse incontro. “Allora?”
volle sapere, prima ancora di essere faccia a faccia.
Il
collega, con gli occhi accesi e l'espressione raggiante, rispose: “Un
abbattimento!”
“Ecco
perché facevi tutto quel can-can in finale!”
“Ballavo
di gioia,” ammise l'altro stringendosi nelle spalle.
“Attento,
che se ti vede il Vecchio ti spedisce a riordinare la corrispondenza
fino alla fine della guerra.”
Camminando
fianco a fianco, i due si allontanarono dall'Albatros. Hoffmeyer si
tolse la cuffia da pilota e si strofinò un fazzoletto sul volto
annerito dagli scarichi del motore, poi disse: “Lo sai che cosa si
dice del Vecchio?”
“Che
è un ottuso maniaco del regolamento?”
“No,
che con tutti gli abbattimenti che ha potrebbe ricevere tre Pour le
Mérite, ma non gliene importa nulla.”
“Impossibile,”
sentenziò von Knobelsdorff.
“Eppure
a te ha salvato la vita, no?”
L'altro
alzò le spalle. “È quello che avrebbe fatto chiunque per un
camerata in difficoltà, persino io per lui. Kunz ragionerà anche
come un burocrate, ma su certe cose è come noi.”
“Volevo
dire che è un ottimo pilota.”
“Peccato
che le sue scarse qualità umane rovinino tutto.”
I
due fecero una risata e proseguirono verso l'edificio degli alloggi.
Nell'aria aleggiava l'odore delle vivande che venivano allestite
nella mensa per 'rifornire' i piloti mentre i meccanici rifornivano
gli aerei e ricaricavano le armi.
Von
Knobelsdorff lanciò uno sguardo di nostalgia ai velivoli e disse:
“Raccontami un po' del tuo abbattimento.”
“Un
osso duro,” rispose Hoffmeyer. “Un Bristol Scout agile come un
dannato furetto, mi ha fatto sudare sangue.”
“Sono
gli avversari che preferisco.”
“Già,
non c'è gusto a fare la caccia alle anatre.”
“No
davvero.”
Mentre
procedevano, von Knobelsdorff pensava al principe von Thurn und
Taxis. Si sentiva stranamente emozionato all'idea di presentarlo al
collega. Cos'avrebbe detto? Ovviamente non poteva dire la verità, ma
poteva sempre tirare in ballo qualcosa che avesse a che fare con le
ascendenze aristocratiche che entrambi possedevano. Avrebbe potuto
raccontare a Hoffmeyer che lui e il principe avevano un parente in
comune, ad esempio.
Si
stupì della disinvoltura con cui da qualche tempo inventava balle.
Oppure, più che balle, versioni della realtà che rassicurassero
l'interlocutore e lo rendessero felice di procedere su una falsa
pista. Il suo collega, per esempio, era del tutto convinto che da
qualche parte ci fosse una bella valchiria bionda che grazie a lui
pilotava l'apparecchio.
La
storia gli era talmente piaciuta – forse perché anche lui avrebbe
desiderato vivere un'avventura del genere – che non aveva nemmeno
sospettato che non fosse la verità.
Si
chiese se classificare quella sua nuova competenza tra le abilità o
i vizi. Scassinare una serratura, ad esempio, richiedeva perizia e
precisione, ma si trattava di una cosa di cui andare fieri?
Attraverso
le ampie finestre iniziò a scrutare all'interno, ma non vide da
nessuna parte la snella figura di von Thurn und Taxis.
Il
Werwolf era scomparso.
L'unica
traccia che trovò di lui fu un portasigarette d'oro con monogramma,
appoggiato negligentemente su una consolle.
Non
pensò nemmeno per un attimo che l'avesse dimenticato. Lo intascò
discretamente, sicuro che sarebbe arrivato il momento in cui
l'elusivo agente segreto si sarebbe presentato per chiederlo
indietro.
Si
chiese se fosse una specie di messaggio che aveva voluto lasciargli.
Qualcosa come una relazione esclusiva fra loro, che tagliava fuori
chiunque altro.
La
voce di Hoffmeyer lo distrasse: “Cosa cerchi?”
Egli
sfilò rapido la mano dalla tasca. “Niente.” Lo raggiunse, con il
peso dell'oggetto che gli batteva contro la coscia a ogni passo.
“Niente, mi stavo solo annoiando. Trascorro le giornate a contare i
pezzi di ricambio come una specie di intendente, non ne posso più.”
“Eh,
ti capisco.”
“Io
penso che il Vecchio ce l'abbia con me.”
“Il
Vecchio è imparziale, tratta male tutti.”
Si
diressero alla mensa, dove ordinanze in guanti bianchi stavano
servendo ai tavoli, e presero posto.
Hoffmeyer
attese che gli venisse portato il caffè, ne sorbì un sorso e disse:
“Ormai ti ho raggiunto, eh.”
Von
Knobelsdorff annuì e rispose: “Se il Vecchio continua a tenermi a
terra, anche la famosa aviatrice metterà insieme più vittorie di
me.”
L'altro
assunse l'espressione consapevole di chi ha capito tutto e gli
chiese: “Pensi a lei?”
“Penso
di più al mio aereo,” rispose von Knobelsdorff. “Kramer mi ha
detto che le ali sono così distrutte che non vale la pena di
ripararle, devo aspettarne uno nuovo.”
Hoffmeyer
fece una risatina. “Non so se otterrai il Pour le Mérite, ma
secondo me tra un po' una decorazione te la faranno avere gli
inglesi: hai fatto fuori più aerei tedeschi della maggior parte dei
loro piloti!”
“Spiritoso.”
“Uno
l'hai sfasciato in atterraggio prima di andare dalla tua bella...”
“Non
è la mia bella,” interloquì asciutto von Knobelsdorff.
L'altro
non se ne diede per inteso. “Uno, dicevamo, prima della tua
missione galante,
chiamiamola così, e l'altro appena hai ripreso servizio. La Albatros
Flugzeugwerke lavora
solo per te, ormai.”
“Non
è la mia bella e non ho sfasciato proprio niente in atterraggio,”
puntualizzò von Knobelsdorff. “L'aereo era già così danneggiato
che sono stato fortunato a raggiungere il campo. Von Stade, che a
differenza di certe altre persone era un signore, non mi disse
niente, se ben ricordi.”
Sorbì
un sorso del caffè che nel frattempo gli era stato portato. Gli
altri si stavano già preparando a uscire di nuovo; se guardava
fuori, vedeva gli Albatros già pronti e riforniti, con i meccanici
in attesa di far partire i motori.
Si
alzò e fece girare lo sguardo tutt'intorno: piloti che parlottavano
fra loro, scambiandosi scherzi e battute, una generale aria di
entusiasmo. Apparentemente immune a quel clima, Kunz sedeva un po' in
disparte, approfittando della pausa per compilare un foglio d'ordini.
In piedi al suo fianco, il furiere attendeva deferente.
Si
ripromise di andare a parlargli alla fine della giornata di volo: per
quanto lo riguardava, la faccenda di rimanere a terra come uno
scritturale qualsiasi mentre i camerati volavano e ottenevano
vittorie era già durata anche troppo.
§
Quando
il pericolo incombe, gli uomini appartenenti alla stessa tribù o
alla stessa famiglia tengono in minimo conto la vita dei propri
simili; ma un gruppo che si è consolidato con l'amicizia radicata
nell'amore non si scioglie mai ed è invincibile, perché gli amanti,
per paura di apparire meschini agli occhi dei propri amati, e gli
amati per lo stesso motivo, affronteranno volentieri il pericolo per
soccorrersi a vicenda.
The
Bishop sollevò la tazza e sorbì un lento sorso, quindi la posò
nuovamente sul piattino, decorato con motivi floreali bianchi e blu.
Riconobbe la porcellana di Meißen, peraltro piuttosto diffusa, lì
in Germania.
Attraverso
le vetrine del caffè lasciò vagare lo sguardo sulla piazza: c'erano
dei bambini che si rincorrevano. Davano l'idea di essere due bande
rivali, che si affrontavano in una sorta di battaglia fatta di
schiamazzi e armi di legno.
A
un certo punto, un ragazzetto dai capelli color stoppa cadde a terra.
Un altro, che procedeva un po' più avanti, si fermò e lo raggiunse,
poi lo prese per un braccio e lo fece alzare.
Scambiarono
qualche breve frase come d'intesa, poi corsero via insieme, inseguiti
dagli altri.
Bevve
di nuovo, mantenendo lo sguardo sui due.
L'acqua
gorgoglia fra le pietre, di nuovo limpida, ma ovunque essa non giunge
a lambire, vi è sangue.
Il
sangue intride il muschio, la sabbia della riva e i vestiti del
morto. Immagina che una parte di esso stia inzuppando anche i panni
del Werwolf, ma purtroppo non può accertarsene.
Il
Werwolf non c'è più.
L'uomo
che sta contemplando – una spia tedesca nota come Fenrir – l'ha
evidentemente fatto scappare, consapevole di non essere in grado di
seguirlo.
Non
dev'essere stata una decisione facile. Tutto, in ciò che sta
vedendo, parla di una risoluzione atroce ma necessaria, evidentemente
da parte di entrambi.
Le
tracce di sangue sulla camicia dell'uomo fanno capire che il suo
compagno ha provato in ogni modo a farlo alzare. Sulle maniche ci
sono impronte di dita febbrili, sul petto la stoffa è sgualcita,
come se qualcuno l'avesse afferrata e tirata. Macchie rosse su una
guancia fanno pensare a un'ultima carezza.
Il
volto dell'uomo è girato nella direzione in cui verosimilmente il
Werwolf si è allontanato. La sua espressione è di dolore, forse per
le ferite, ma anche di serenità.
Probabilmente
è spirato consapevole di aver ottenuto il suo scopo, ovvero
proteggere la fuga del compagno.
Lo
perquisisce sommariamente, ma non trova altro che una tasca vuota,
cucita all'interno della camicia.
Avvicina
il proprio viso a quello del morto, cerca di puntare gli occhi nella
stessa direzione. Si sorprende a chiedersi cos'abbia provato, vedendo
l'altro allontanarsi. Sollievo? Amarezza?
E
il Werwolf, scappando tra gli arbusti della riva, consapevole di
essersi lasciato dietro il compagno morente?
Si
alza brusco. “Sto diventando sentimentale,” brontola a mezza
voce. Si guarda intorno, come per controllare che nessuno di quelli
che lo accompagnano abbia notato quell'attimo di debolezza. Fissa di
nuovo il morto, questa volta dall'alto in basso, e dice: “Non farai
più danni.”
Realizzò
che la tazza era vuota. Alzò il braccio per chiamare la cameriera e
si fece servire altro caffè.
Non
era stato di parola: le due settimane che aveva chiesto al suo
superiore erano passate, ma non aveva la minima intenzione di tornare
indietro.
Non
prima di aver neutralizzato il Werwolf, perlomeno.
Era
assorto in quei pensieri quando nel caffè entrò una coppia di
signore. Entrambe vestivano un severo abito scuro e portavano un
cappellino privo di ogni ornamento. In mano avevano opuscoli di
un'associazione religiosa.
Al
loro ingresso un cameriere si avvicinò per intercettarle, ma uno
sguardo della più alta delle due – una legnosa matrona dai capelli
precocemente ingrigiti – lo convinse ad allontanarsi.
Da
dietro la tazza, the Bishop le seguiva con lo sguardo. Ovunque esse
posassero gli occhi, le conversazioni ammutolivano e gli avventori
del caffè assumevano una generale aria di imbarazzo, come se fossero
stati sorpresi a fare qualcosa di molto sconveniente. La signora più
alta procedeva per prima, si fermava ai vari tavoli e presentava sé
e la collega come Dame della Pentecoste. Dopo un breve scambio su
questioni religiose, invariabilmente faceva cenno alla sua
accompagnatrice, che lasciava all'interlocutore uno o più opuscoli
edificanti.
Infine
giunsero anche da lui. “Signore, lei frequenta regolarmente la sua
chiesa?” lo apostrofò da lungi la legnosa dama.
The
Bishop non batté ciglio. “Ma naturalmente, signora. Non mi
sentirei a posto con me stesso, se non lo facessi.”
La
donna lo scrutò poco convinta, quindi proseguì: “E posso chiedere
perché non è al fronte, signore? Non menta, perché Dio la sta
guardando.” Alzò brevemente gli occhi, e sembrò che stesse
scambiando uno sguardo d'intesa col Padreterno.
The
Bishop emise un sospiro sconsolato e rispose: “Lo vorrei tanto,
signora, ma sono rimasto inabile in seguito alle ferite: ho una gamba
di legno.”
“Ah.”
La donna si irrigidì come di fronte a una scusa palesemente mal
congegnata. “Questo non le impedirà di servire Dio e la sua
Patria, voglio sperare. Ci sono tanti compiti che si possono svolgere
per la Germania, pur senza essere al fronte.”
L'uomo
annuì con decisione. “Parole sante, signora.”
A
quella risposta, la Dama della Pentecoste si rivolse alla collega e
ordinò: “Felicitas, il saggio sul conforto che la Fede è in grado
di offrire nella disgrazia e quello sulla parola di Dio come
medicina.”
Due
libelli rilegati in grigio topo furono posati sul marmo del tavolino.
“Li ha scritti il nostro Reverendo,” lo informò la dama.
“Grazie,
signora,” disse con fare compunto the Bishop.
“Li
legga,” fu l'asciutta replica, “soprattutto quello sulla parola
di Dio. Sono certa che lo troverà molto edificante.” Il tono
faceva temere che nei giorni successivi la donna sarebbe tornata a
interrogarlo.
L'agente
segreto le guardò andare via. Scosse la testa, finì di sorseggiare
il caffè, poi raccolse i due opuscoli e senza nemmeno aprirli se li
infilò in tasca.
I
bambini se n'erano andati, la piazza era quasi vuota. Le due Dame
della Pentecoste erano scomparse. Alcune donne in tuta da lavoro
passeggiavano parlando e ridendo, sul tram che sferragliava in
lontananza s'intravedeva la figura di una conduttrice. La bigliettaia
si sporgeva dalla porta della carrozza e stava facendo cenni a
qualcuno.
Istintivamente
the Bishop si girò alla ricerca del destinatario, o della
destinataria, di quel saluto e vide un bimbetto con un sorriso
sdentato, che si sbracciava allegro. Chissà, forse suo figlio?
Magari il padre era al fronte?
Alzò
le spalle e si infilò le mani in tasca. Ogni nazione in guerra aveva
padri al fronte e madri che in Patria mandavano avanti la baracca.
Tirò
fuori l'opuscolo sulla parola di Dio. Lo sfogliò distrattamente,
facendo scorrere lo sguardo su frasi religiose di volta in volta
ammonitrici, edificanti o semplicemente dolciastre.
Lo
avvicinò al volto come per legger meglio, in realtà lo annusò:
emanava un lieve sentore di sostanze chimiche.
Sorrise
fra sé e sé, lo rimise in tasca e si incamminò.
Raggiunse
una modesta pensione e vi entrò. L’uomo che sedeva alla reception
abbassò cerimoniosamente il giornale che stava leggendo e gli
chiese: “Ha trovato quello che cercava, signor ispettore?”
The
Bishop scosse la testa. “Saranno necessarie altre ricerche.” fece
una pausa, quindi abbassando la voce e protendendosi verso di lui
soggiunse: “Le sarei grato, inoltre, se evitasse di usare il mio
titolo professionale: sa, sono in incognito.”
L’altro
quasi sobbalzò sulla sedia. “Mi scusi, signor...” cominciò
d’istinto, poi si interruppe. “Mi scusi, signore,” si corresse.
L’inglese
annuì. “Molto bene. La mia chiave, per favore?”
“Subito!”
“Grazie.
Non voglio essere disturbato.”
“Certamente,
signor…” Di nuovo il concierge si interruppe all'ultimo.
“Certamente, signore.”
The
Bishop annuì di nuovo, rivolgendogli il sorriso di compatimento che
avrebbe riservato a un bambino ritardato. Prese la chiave e si
diresse su per le scale. Stupido imbecille leccaculo, pensava
frattanto, basta presentarsi con una carica ufficiale e voialtri
tedeschi subito scodinzolate come tanti cani.
Entrò
nella sua stanza e chiuse la porta a chiave. Per una precauzione
dettata dall'abitudine, più che altro, perché era certo che
l'idiota dabbasso, ricevuto l'ordine di non far passare nessuno, si
sarebbe posto a guardia della sua camera come Cerbero davanti alle
porte dell'inferno.
Di
nuovo sorrise fra sé e sé con sufficienza.
Dal
contenitore dei suoi oggetti da toletta trasse una boccettina di
vetro marrone scuro, poi andò allo scrittoio e vi si sedette. Prese
a quel punto l'opuscolo che la Dama della Pentecoste gli aveva
consegnato e cominciò ad annusare le pagine una per una. Si fermò a
quella che emanava con maggiore intensità l'odore di sostanze
chimiche.
Stappò
la boccetta e arricciò il naso all'intenso sentore di ammoniaca che
si sprigionò.
Espose
il libretto ai suoi vapori e pian piano, sul margine bianco della
pagina prescelta, comparve una scrittura fine, di un azzurro che
andava man mano facendosi più intenso.
Il
contenuto del rapporto gli confermò che fino a quel momento aveva
perso tempo: del Werwolf si parlava solo marginalmente, ma si sapeva
che era rientrato sano e salvo dall'ultima missione. Non si sapeva
però se gliene fosse stata già assegnata un'altra. Ciò che
appariva certo era che invece di rientrare in Germania, l'agente
segreto si stava inspiegabilmente trattenendo in una data zona del
fronte. Chi aveva raccolto le informazioni ipotizzava che in quel
settore potesse esserci qualcosa di suo interesse personale, dal
momento che nessun incarico ufficiale lo assegnava a esso.
The
Bishop posò il libro e di nuovo sorrise fra sé e sé. Era sicuro
che l'interesse personale del Werwolf fosse tutto incentrato su un
certo giovanotto dagli occhi verdi.
Gli
tornò in mente il leopardo: non aveva senso cercarlo nella
boscaglia, sarebbe stato molto più semplice far la posta alla
sorgente che la belva aveva scelto per dissetarsi.
Richiuse
la boccetta, lesse ancora una volta le frasi vergate a mano, poi
prese l'opuscolo e lo pose sugli alari del caminetto. Vi appiccò il
fuoco e stette a controllare che bruciasse completamente, quindi
raccolse con cura la cenere e andò a buttarla nella latrina.
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Capitolo 17 *** Capitolo 10 - Seconda parte ***
Sentimentalismo e romanticherie,
su Rieducational Channel!
Un
po’ di patimenti del nostro tenente, alle prese con il fosco
principe von Thurn und Taxis. Mi perdonino gli amanti dell’azione,
prometto che presto si riprenderanno i combattimenti.
Grazie
a tutti coloro che mi stanno seguendo!
Nella
solitudine del suo alloggio, Maximilian von Knobelsdorff trasse di
tasca per l'ennesima volta il portasigarette d'oro. Se lo rigirò fra
le dita: leggero, appena satinato. Sul coperchio era inciso un
monogramma in cui le lettere K, L, A e due T si intrecciavano in
eleganti volute.
Premette
un piccolo pulsante e l'oggetto si schiuse morbido.
Sorrise
fra sé e sé. Per racimolare il coraggio di far scattare per la
prima volta quel meccanismo ci aveva messo un po' di giorni.
All'inizio aveva solo conservato il portasigarette con una sorta di
reverente rispetto, celandolo allo sguardo di chiunque e quasi
aspettandosi che il principe potesse da un momento all'altro
presentarsi a controllarne l'integrità, come in certe favole, in cui
abbandonare in modo apparentemente casuale un oggetto e stare a
vedere cosa ne faceva una determinata persona era un modo per mettere
alla prova la fedeltà della suddetta.
Poi
aveva pensato che il Werwolf, più che la sua fedeltà o presunta
tale, volesse mettere alla prova il suo spirito di iniziativa.
Nemmeno
con quella consapevolezza aveva agito. Non subito, perlomeno.
Aveva
speso qualche altro giorno a chiedersi perché l'agente segreto gli
avesse lasciato quell'oggetto, cosa si proponesse di ottenere da lui.
Cos'avrebbe
trovato al suo interno? Un po' si augurava e un po' temeva istruzioni
per una successiva missione, e a volte si era anche figurato
cos'avrebbe potuto rispondere a una richiesta del genere.
Il
suo contenuto, quando finalmente si era deciso ad aprirlo, l'aveva al
tempo stesso deluso e incuriosito.
Niente
biglietti vergati in caratteri misteriosi, niente fazzoletti
impalpabili con mappe di zone nemiche. Solo due sigarette.
Non
sigarette qualunque, in ogni caso: due Sobranie,
nere con il filtro dorato. Gli zar, per quanto ne sapeva, fumavano
sigarette del genere.
Che
cosa significava? Erano due, come loro due. Erano aristocratiche,
come senza dubbio lo erano un principe e un barone. Erano nere,
mentre ogni altra sigaretta era bianca. Questo voleva dire che loro
erano diversi da tutti gli altri? Opposti, forse? A proprio agio
nell'ombra, mentre chiunque altro aveva bisogno della luce?
O
forse era semplicemente lui che faceva volare la fantasia,
impossibilitato a volare materialmente.
Con
un sospiro volse lo sguardo fuori dalla finestra: i camerati erano in
missione, il silenzio che regnava ovunque faceva supporre che
mancasse ancora parecchio al loro rientro.
Richiuse
il portasigarette, se lo fece scivolare in tasca. Inutile negarlo,
aveva anche preso in considerazione l'idea di chiedere il rinvio
all'unità di appartenenza: meglio combattere come ulano che starsene
a far nulla come aviatore.
Avrebbe
voluto raccontare a quel Kunz di come, esausto e ferito, era
decollato, nelle tenebre più complete e mentre gli sparavano contro,
a bordo di un aereo nemico, e poi di come era atterrato, praticamente
sano e salvo, pur senza motore e con un'ala quasi staccata, proprio
davanti alle trincee tedesche.
Chissà
se sarebbe stato capace di fare altrettanto, il capitano Walther
Kunz?
Rinunciò
a darsi una risposta. In fin dei conti non gli importava che il suo
comandante sapesse compiere certe prodezze, bastava che si decidesse
a farlo volare.
Abbandonò
la stanza con l'intento di raggiungere la pista e lì attendere il
ritorno dei camerati.
Quando
scese nel salone, il cuore gli balzò nel petto: c'era il Werwolf.
Era
in piedi davanti alla finestra e stava guardando fuori con aria
assorta. Sembrava che in tutti quei giorni non si fosse mai mosso di
lì.
“Rittmeister,”
fu tutto quello che riuscì a dire.
Il
principe si voltò verso di lui e accennò un lieve sorriso.
Egli
lo raggiunse, trasse di tasca il portasigarette d'oro. “È venuto
per questo?” chiese porgendoglielo.
Von
Thurn und Taxis scosse appena la testa. “Oh, no. Mi piacerebbe che
lo tenesse lei, come piccolo ricordo dei nostri trascorsi.” Fece
una pausa e soggiunse: “Non vorrei che si dimenticasse di me.”
Il
tenente alzò gli occhi fino a fissarli nei suoi. Sentiva il fiato
corto, aveva l'impressione di avere le guance in fiamme. Riunì le
mani dietro la schiena per nasconderne il tremito. “Io... non penso
che mi dimenticherò di...” Stava per dire di
lei, ma si fermò in
tempo. “Non penso che mi dimenticherò di quello che è successo,”
corresse.
Avrebbe
voluto correre da qualche parte, sciacquarsi la faccia con l'acqua
fredda, respirare. Fare qualcosa, insomma, che gli restituisse una
parvenza di compostezza.
Lo
sguardo dell'altro però sembrava inchiodarlo sul posto.
“Mi
fa piacere,” disse il Rittmeiser, senza distogliere gli occhi dai
suoi. “Se non ricordo male, in quell'astuccio devono essere rimaste
due sigarette. Vogliamo fumarle insieme?”
Passarono
forse dieci secondi, poi von Knobelsdorff sentì che il collo gli si
piegava in un cenno di assenso.
Fu
l'altro che lo condusse, con l'ormai familiare presa sul braccio,
verso due poltrone poste intorno a un tavolino.
Prima
di sedersi, il tenente non poté fare a meno di gettare uno sguardo
tutt'intorno. Non c'era nessuno, nemmeno le ordinanze che servivano
al circolo ufficiali, ma presto i camerati sarebbero stati di
ritorno, per non parlare di quello che avrebbe potuto dire il
capitano Kunz, sorprendendolo a fumare tranquillamente in compagnia
di un estraneo.
Come
se gli avesse letto nel pensiero, von Thurn und Taxis gli disse: “Il
suo comandante sa che sono qui.”
“Davvero?
E cosa gli ha detto per convincerlo a farla rimanere?”
Serafico,
il Werwolf rispose: “La verità.”
Per
qualche strana ragione, a quella parola von Knobelsdorff sentì il
cuore mancargli un battito. La verità, che normalmente veniva
definita con epiteti che attenevano a nitore e purezza, nel suo caso
andava a pescare nel torbido di sentimenti inconfessabili.
Continuavano
a tornargli in mente episodi della loro fuga dietro le linee, ma
sempre di più si mescolavano a immagini del suo duello nel buio, e
di quello che era successo dopo.
“La...
verità?” ripeté.
Il
Werwolf si limitò a rivolgergli un sorrisetto, quindi trasse di
tasca un accendino da trincea, fece scattare la fiamma e glielo
avvicinò.
Egli
recuperò con gesti incerti il portasigarette, lo aprì e prese una
delle due Sobranie,
poi porse l'altra al suo interlocutore.
Questi
se la infilò con disinvoltura fra le labbra e si protese per
accenderla sulla fiamma. Von Knobelsdorff compì simultaneamente lo
stesso movimento, così che si trovarono vicinissimi.
Il
tenente si fece indietro.
“Che
c’è,” gli chiese ironico il Rittmeister, “ha paura di
bruciarsi?”
L'altro
lo fissò torvo, poi piccato brontolò: “Che
sciocchezza, certo che no.”
“Già,
dimenticavo che lei rischia ogni giorno di precipitare in fiamme.
Questa dovrebbe essere una bazzecola in confronto, o no?”
L’accendino
era ancora immobile, così come il Werwolf. La fiamma palpitava lieve
e si rifletteva negli occhi dell’agente segreto, accendendoli di
riflessi d’acciaio e oro.
Di
nuovo von Knobelsdorff provò l’impulso di correre via. Puntò la
mano libera sul bracciolo della poltrona come per alzarsi, ma lo
sguardo dell’altro, che non voleva abbandonarlo, lo avvinceva più
di mille catene.
Egli
deglutì. “La smetta,” mormorò.
Il
Werwolf non si mosse. In tono morbido gli chiese: “La smetta, cosa?
Che cosa sto facendo di così terribile, Maximilian?”
Senza
rispondere, il tenente abbandonò la poltrona e raggiunse la
finestra. Diede qualche tiro nervoso alla sigaretta, rivolgendo
ostinatamente lo sguardo all'esterno. Alle sue spalle, il principe
von Thurn und Taxis disse: “Lasci perdere le sue osservazioni,
tanto partiremo prima che i suoi colleghi facciano ritorno.”
Von
Knobelsdorff si girò a fissarlo. “Cosa?”
Man
mano che quella strana conversazione proseguiva, aumentava nel
tenente la sensazione di addentrarsi in una palude, oppure di essere
una belva feroce circondata da reti e battitori. I battitori erano
quelle strane frasi incalzanti: nessuna di esse era singolarmente
pericolosa, ma tutte insieme gli stavano lentamente tagliando ogni
via di fuga.
Prima
di rispondere, il principe, che a differenza sua sedeva tranquillo in
poltrona, diede un lungo tiro alla sigaretta, assaporò il tabacco
pregiato socchiudendo appena gli occhi, quindi esalò lentamente il
fumo. “Io e lei torneremo per un po' alle vecchie abitudini,”
spiegò.
L'allusione
ad abitudini passate suonò come l'ennesimo campanello d'allarme. Von
Knobelsdorff lo fissò diffidente, arretrando addirittura di un
passo, poi ringhiò: “Non capisco.”
Tranquillissimo,
il Werwolf spiegò: “Lei è un ulano, io un ussaro. Questo non le
suggerisce niente?”
Il
tenente si irrigidì disorientato: cosa significavano quelle frasi?
Erano da intendersi letteralmente o si trattava di allusioni ad altre
cose? Quali cose, poi? “Mi suggerisce che entrambi proveniamo dalla
cavalleria,” rispose asciutto, “ma non vedo a che scopo lei mi
ricordi il mio corpo d'appartenenza.”
“Vedrà.”
§
“Davvero
lei ha detto al capitano Kunz che avremmo fatto questo?” chiese von
Knobelsdorff.
Erano
saliti sul sedile posteriore di una vettura guidata da un autista in
uniforme e dopo un tragitto di circa un'ora erano giunti a una
scuderia. Appoggiati a uno steccato, stavano contemplando un
galoppatoio così ampio che sembrava perdersi all'orizzonte.
“Qui
è acquartierato il mio reggimento,” disse il Werwolf.
“Come
sempre, non ha risposto alla mia domanda.”
“E
come sempre, lei ne fa troppe.”
Un
po' piccato, il tenente ribatté: “Mi sembra strano che il capitano
Kunz abbia acconsentito a... questo.”
“Perché?
Che cosa pensa che faremo?”
Von
Knobelsdorff aggrottò le sopracciglia e rispose: “Non è difficile
immaginarlo: poco fa ha parlato dei nostri corpi di appartenenza, ha
parlato di vecchie abitudini. Ora siamo qui. Ritengo che mi proporrà
una cavalcata.”
“Molto
perspicace,” apprezzò l'altro.
“E
Kunz le ha permesso di prelevarmi dal contesto operativo per una cosa
del genere?”
Il
principe alzò le spalle. “Dipende sempre da come vengono poste le
richieste.”
“Sarebbe
a dire?”
“Dica
un po', è spaventato? Ha paura che sia vero quello che dicono
tutti?”
“Perché,
che cosa direbbero tutti?”
“Che
gli ussari cavalcano molto meglio degli ulani, ovviamente.”
Von
Knobelsdorff incupì lo sguardo. “Non è vero!” sbottò, poi si
rese conto di aver risposto d'istinto alla provocazione del suo
interlocutore. “Questi confronti sono solo stupidaggini,”
corresse, “diatribe che non hanno senso.”
Von
Thurn und Taxis non rispose. Si staccò dalla staccionata e si
diresse verso la scuderia. Strada facendo si voltò verso von
Knobelsdorff, che camminava al suo fianco, e disse: “Le ho fatto
sellare uno dei miei Trakehner[1], spero che lo troverà di sua
soddisfazione.”
“Non
dubito che lo sarà,” rispose automaticamente von Knobelsdorff,
addestrato da anni di conversazioni fra aristocratici. Frattanto
continuava a chiedersi che senso avesse tutto quanto, perché il
Werwolf l'avesse accompagnato lì – con che scusa, peraltro, visto
il rigore di Kunz? – cosa si proponesse di fare. Era una nuova
missione? Era il semplice svago di qualcuno che evidentemente poteva
permetterselo?
Un
alto nitrito lacerò l'aria.
A
quel suono, il principe fece un lieve sorriso e disse: “Eccoli.”
Von
Knobelsdorff fissò incuriosito lo sguardo verso la porta della
scuderia. Da essa uscì dopo poco, trattenuto a stento da un mozzo di
stalla, un morello vigoroso, lucido come uno specchio, che sembrava
letteralmente danzare sul selciato in un trotto raccolto ma carico di
energia.
“Quello
è Erlkönig,” lo informò von Thurn und Taxis.
Il
tenente osservò il magnifico animale. “È uno stallone,”
constatò.
L'altro
assentì. “Non mi piacciono i cavalli troppo facili.”
“È
il suo cavallo?”
“Può
prenderlo lei, se vuole. Una volta messo alla mano, riserva parecchie
soddisfazioni.”
Nel
frattempo stava uscendo dalla scuderia un altro stallone. Il manto
era di un sontuoso baio ciliegia, con riflessi di bronzo e oro.
Anch'esso procedeva fiero e nevrile, scuotendo la criniera corvina e
frustando l'aria con la coda.
“Un'altra
bella bestia,” non poté fare a meno di apprezzare il tenente.
“Felix.”
“Mi
sembra più tranquillo.”
L'altro
gli rivolse un sorrisetto. “Infatti avevo pensato di darlo a lei.”
“Cosa?”
“Beh,
si sa... gli ulani...”
“La
smetta, lei è smargiasso come tutti gli ussari! Io prenderò il
morello e le farò vedere come sa stare in sella un vero ulano.”
“È
una delle cose che mi piacciono di lei, Maximilian: non lascia mai
cadere una provocazione.”
A
von Knobelsdorff bastò sentire l'odore dei cavalli, percepire lo
scricchiolio coriaceo dei finimenti, per dimenticare qualsiasi
diatriba. Fece scorrere lo sguardo sul morello, letteralmente
divorando con gli occhi la sua scultorea energia, e di colpo ogni
preoccupazione e ogni dubbio svanirono come nebbia sotto i raggi del
sole.
C'erano
solo lui, un buon cavallo e spazi immensi in cui galoppare a briglia
sciolta.
“Lo
prendo io,” ripeté, faticando a trattenere il sorriso di
beatitudine che lottava per distendergli le labbra.
Si
avvicinò risoluto, montò in sella. Lo stallone mise le orecchie
indietro e sollevò gli anteriori in una mezza impennata, cosa che
invece di impensierirlo non fece altro che instillargli un gioioso
senso di aspettativa.
Prese
le redini alla mano, si regolò le staffe con la disinvoltura fluida
dell'abitudine, quindi si girò a fissare il principe, a sua volta
già in sella, e gli chiese: “Andiamo?”
Questi
sorrise, von Knobelsdorff lesse sul suo viso la stessa aspettativa,
lo stesso anelito che anche lui stava provando. “Certo che
andiamo,” rispose, quindi allentò appena la stretta sulle redini.
Il
baio balzò in avanti, le froge dilatate, gli zoccoli che
echeggiavano sul selciato. Raggiunse il recinto, si raccolse, lo
superò d'un balzo mentre il suo cavaliere cedeva elegantemente in
avanti.
“Vada
anche lei, signore,” gli consigliò a quel punto un sottufficiale,
“altrimenti non lo riprende più.”
“È
da vedere!” esclamò von Knobelsdorff con entusiasmo. Spronò: il
morello partì come una saetta e in breve il suo galoppo divenne così
veloce da fargli lacrimare gli occhi.
Saltò
d'istinto lo steccato, lasciando che fosse l'animale a chiedergli la
ceduta, strinse le ginocchia e raddrizzò il busto nel momento in cui
esso si ricevette, poi spronò di nuovo, lo sguardo fisso sul Werwolf
che galoppava davanti a lui.
Il
principe von Thurn und Taxis si guardava bene dal trattenere il
proprio destriero, e l'animale, felice di essere a briglia sciolta,
divorava lo spazio in poderose falcate.
Il
paesaggio che gli scorreva ai lati era un'indistinta macchia verde,
in cui ogni tanto spiccava il baluginio di uno specchio d'acqua o la
nota di colore delle bandierine bianche e rosse che indicavano gli
elementi del percorso di cross country.
Mise
il cavallo in direzione di un ostacolo formato da un tronco seguito
da un fosso pieno d’acqua. Si piegò appena sul collo dell'animale,
lasciando che esso lo affrontasse come preferiva.
Superata
la barriera, si girò sulla sella: von Knobelsdorff stava accorciando
la distanza che lo separava da lui. Riusciva già a cogliere la sua
espressione concentrata, decisa. Immaginò che fosse la stessa che
aveva ai comandi del suo aereo, nel corso di un combattimento.
Strinse
le dita sulle redini, raddrizzò appena il busto portando Felix a
raccogliere il galoppo. Il tenente lo raggiunse, lo superò e
proseguì verso una siepe. L'oltrepassò d'un balzo, quindi a sua
volta si girò indietro a fissarlo.
Il
Rittmeister non fece altro che allentare di nuovo le dita e il baio
scattò in avanti, raggiungendo il morello. Von Knobelsdorff si girò
a fissarlo, aggrottò le sopracciglia e spronò ancora.
Entrarono
affiancati in un torrente sollevando spruzzi d'acqua, si inerpicarono
sulla sponda, balzarono oltre, discesero in un avvallamento coperto
d'erba alta, nel quale si inseguirono lasciandosi dietro scie
argentee di steli piegati.
Alla
fine raggiunsero il limitare di una macchia di querce e faggi.
C'erano le rovine di un mulino poco lontano e l'acqua gorgogliava
nell'antica gora.
Smontarono
da cavallo, lasciarono gli animali liberi di abbeverarsi.
Von
Thurn und Taxis si voltò verso von Knobelsdorff: il tenente aveva il
volto acceso e le guance appena arrossate per effetto della lunga
galoppata. Filtrati dalle foglie, i raggi del sole accendevano il
verde dei suoi occhi di screziature d'oro e smeraldo. Ansava
leggermente.
“Venga
con me,” gli suggerì.
L'altro
s'irrigidì per un istante. “Dove?”
Il
Rittmeister alzò gli occhi al cielo. Il tenente abbassò i propri.
Senza
aggiungere altro, von Thurn und Taxis lo precedette vero le vestigia
di una vecchia fontana. Da una canna di ferro scurita dagli anni, un
getto cristallino si riversava scrosciando in una muscosa vasca di
pietra. Come a voler dare l'esempio, l'ussaro si piegò a bere
direttamente da esso, poi si raddrizzò e chiese: “Lei non ha
sete?”
Von
Knobelsdorff si avvicinò adagio.
“L'acqua
è freschissima,” lo incoraggiò l'altro.
Il
tenente pose una mano sotto il getto, facendone scaturire una
raggiera di gocce cristalline. Raccolse un po' d'acqua nel palmo e se
la portò alla bocca.
“Come
si vede che non è un ussaro,” ghignò von Thurn und Taxis.
L'altro
aggrottò le sopracciglia. “Cosa?”
“È
un delicatino. Non ha sete? Non sta morendo dalla voglia di ficcare
sotto quell'acqua fresca anche la testa? Di farci il bagno, magari?”
Von
Knobelsdorff avvampò. “No!”
“Non
è vero. Lei non ne ha il coraggio, ecco tutto.” Alzò le spalle,
poi soggiunse: “Del resto, lei è un ulano. Cosa si può
pretendere? Siamo noi i cacciatori, quelli abituati ad agire
velocemente, magari dietro le linee nemiche. Ad approfittare di ciò
che offre il territorio.”
“Una
volta, forse,” replicò von Knobelsdorff, “ai tempi di Blücher.
Adesso siamo tutti uguali.”
“Socialismo
della cavalleria?”
Il
tenente gli rivolse uno sguardo di fuoco. “Lei si diverte a
prendermi in giro,” ringhiò torvo.
“Sto
solo scherzando,” replicò pacato il Rittmeister, “del resto non
l'avrei invitata qui e non le avrei dato uno dei miei cavalli, se il
mio intento fosse stato solo quello di prenderla in giro.” Arretrò
di qualche passo, come per lasciargli un più agevole accesso alla
fontana, poi concluse: “Ora beva quell'acqua fresca, scommetto che
sta morendo di sete. E poi ci riposeremo un po' all'ombra, se proprio
non le va di fare il bagno.”
Il
tenente si sedette su una pietra e appoggiò la schiena al tronco di
una quercia. Allungò le gambe davanti a sé e per un po' rimase in
silenzio, ascoltando il gorgogliare lieve della fontana e i vaghi
cinguettii della foresta.
Il
sottopancia allentato, i due cavalli brucavano tranquilli, agitando
di tanto in tanto la coda.
Uno
scoiattolo balzò con un fruscio da un ramo all'altro.
Si
stava avvicinando il mezzogiorno e l'aria era calda e immobile.
Von
Knobelsdorff fissò il Werwolf, che sedeva in apparenza abbandonato,
una delle sue sigarette nere tra le dita, il polso appoggiato al
ginocchio piegato. Dopo un po' gli chiese: “Qual è dunque il suo
intento?”
L'altro
si girò a guardarlo: “Prego?”
“Non
vuole prendermi in giro, ha detto.”
“Lo
confermo.”
“E
quindi? Mi preleva dalla zona d'operazioni, ancora non ho capito con
che scusa, mi porta qui a fare una passeggiata... perché?”
L'altro
alzò le spalle. “Mi mancava.”
Il
tenente si irrigidì. “Che significa?”
“Io
non le mancavo?”
“Insomma,
basta!” sbottò a quel punto il più giovane, balzando addirittura
in piedi nell'impeto della protesta. “Basta, non la sopporto più!
Può rispondere a una domanda, per una volta? Può dirmi quello che
le chiedo senza prendersi gioco di me e senza farmi sentire un
idiota?”
Tacque,
ansante, con i pugni stretti per la rabbia.
A
quella sfuriata seguì un lungo silenzio. Infine, il Werwolf gli
chiese: “Che cosa vuole sapere?” Il tono era calmo e serio.
Von
Knobelsdorff emise un lungo sospiro, come se avesse appena sostenuto
uno sforzo immane, poi tornò alla sua pietra e vi si sedette
nuovamente. Infine disse: “Glielo chiedo di nuovo: cosa ci faccio
qui?”
“Vorrei
conoscerla meglio.”
Il
tenente lo fissò stupito. “Perché?”
Prima
di rispondere, il Werwolf diede un lungo tiro alla sigaretta, rimase
per qualche secondo immobile con gli occhi socchiusi e la testa
leggermente piegata all'indietro, poi esalò adagio il fumo. Le sue
iridi presero una vaga tonalità azzurra. Infine disse: “Non lo so.
Immagino sia perché tutti hanno delle debolezze.”
“Sarebbe
a dire?”
“Lasci
perdere. Mi dia il tempo di finire la sigaretta, poi faremo ritorno
alla scuderia e la riaccompagnerò alla sua unità.”
La
fase ebbe il potere di suscitare nel tenente una strana inquietudine.
“E poi?”
“E
poi, niente.”
Von
Knobelsdorff non replicò. Dopo alcuni istanti si alzò di nuovo,
andò a bere un po' d'acqua, diede qualche pacca sul collo del baio,
che pascolando si era avvicinato alla radura. Invece di scemare,
l'inquietudine che l'aveva pervaso aumentava di attimo in attimo.
Nonostante avesse ottenuto finalmente rispose esplicite, c'era ancora
qualcosa che si ostinava a sfuggirgli, qualcosa che da una parte lo
obbligava a tenersi sulla difensiva, ma dall'altra lo faceva sentire
sul punto di perdere per sempre qualcosa di meraviglioso, che non
avrebbe ritrovato mai più. “Possiamo rimanere un altro po',”
disse infine. Sollevò la mano e staccò distrattamente un ramoscello
di quercia, che poi si fece girare assorto fra le dita.
Gli
tornò in mentre lo strano sogno di quando, stremato e sofferente
dopo l'interrogatorio dell'agente inglese, era piombato nel sonno –
se tale si poteva definire quel nefasto dormiveglia – sul pavimento
del vagone.
Aveva
sognato querce. Una foresta di abeti e querce, di cui ricordava il
silenzio solenne, carico di reverenza, come in attesa di qualcosa.
Poi
c’era stato l’ululato del lupo, ed era comparso il Werwolf.
Banale
fenomeno onirico? Premonizione? Allucinazione? Non lo sapeva.
Si
rigirò di nuovo fra le dita il rametto, che frusciò lieve.
Aveva
sognato querce anche in un’altra occasione. Querce antiche, ma con
foglie giovani. Morte e vita, l’una in funzione dell’altra, in un
ciclo infinito.
E
poi un nome.
“Ho
un’altra domanda,” disse, senza distogliere lo sguardo dalle
foglie smeraldine.
La
replica del Werwolf suonò pacata, quasi velata da una vaga nota di
delusione, come se l’uomo avesse fatto gran conto su di lui, ma si
fosse appena accorto che aveva completamente sbagliato la sua
valutazione. “Sentiamo.”
“Chi
è Reiner?”
Alla
domanda fece seguito un silenzio lapideo. Pareva che addirittura le
foglie avessero smesso di stormire e gli uccelli di cantare. Solo
l’acqua della fontana continuava a gorgogliare, ma con un suono
metallico, freddo, che ricordava lo scuotere inane di una catena.
Gli
occhi del Werwolf divennero due lame di ghiaccio. “Come sa di
Reiner?” La voce sembrava il taglio di un rasoio.
Von
Knobelsdorff deglutì. “Io… non ne so nulla, veramente. È il
nome che lei ha pronunciato nell’ambulanza inglese, quando era
incosciente.” Deglutì di nuovo sotto lo sguardo terribile del
Werwolf e per un istante temette seriamente che l’uomo gli avrebbe
fatto del male.
La
voce dell’altro, gelida, rabbiosa, ma anche venata di una strana
tristezza, lo fece quasi sussultare: “Perché vuole sapere di lui?”
“Perché...”
Sollevò lo sguardo sul suo interlocutore, lo riabbassò sulle
proprie mani, che stavano tormentando nervosamente il rametto di
quercia. “Perché io l’ho visto in sogno,” si decise a dire.
“Mi si è avvicinato mentre giacevo al limitare di un campo di
battaglia. Gli ho chiesto chi era, e lui mi ha risposto che si
chiamava Reiner, e con la certezza dei sogni io sapevo che era quel
Reiner, quello che lei aveva menzionato. Dapprima non lo vedevo in
faccia, perché aveva la luce del sole dietro le spalle, poi si è
chinato accanto a me e aveva i miei stessi lineamenti. Mi ha detto:
si muore per rinascere, diglielo. E poi se n’è andato via in sella
a un morello.”
“Si
muore per rinascere,” ripeté il Werwolf dopo un lungo silenzio,
come parlando a se stesso. Allungò la mano a raccogliere un
sassolino e lo lanciò nella vasca della fontana. Esso raggiunse
fluttuando il fondo e si posò sul limo che vi era sedimentato,
sollevandone tenui volute.
Nell’aria
perdurava un silenzio teso, carico di aspettativa.
D’impulso,
von Knobelsdorff gli si avvicinò. Per un po’ esitò imbarazzato,
incerto su cosa dire, poi chiese: “È una persona… importante per
lei?”
“Sì,
lo era.” Von Thurn und Taxis abbandonò l’improvvisato sedile su
cui era adagiato e fece un passo come per allontanarsi. I suoi occhi
erano acciaio, la sua espressione era una parete di pietra dietro cui
ribolliva il magma.
Il
tenente rimase a guardarlo immobile. “Lo... era?” chiese poi.
“Non
parliamone più, d’accordo?” ringhiò torvo il Werwolf .
“Mi
scusi.”
“Non
è colpa sua.”
“Sì,
invece. Sono stato poco sensibile nei suoi confronti.”
L’altro
scosse appena la testa. “Non si smentisce proprio mai, vero?”
“Che
intende dire?”
“Sempre
l’ultima parola, non ce la fa a stare zitto e basta, nemmeno quando
si accorge di star parlando a sproposito.”
“Mi
scusi,” ripeté von Knobelsdorff, “è che io...” Poi scosse la
testa, si pose una mano sulla bocca come in un gesto di auto-censura
e andò a sedersi su bordo della fontana, dando le spalle al
principe.
Fissò
lo sguardo su una foglia che galleggiava lungo il bordo del bacile.
Sul fondo della vasca c'era la pietra che l'altro vi aveva gettato,
immobile, destinata a coprirsi di muschio e a scomparire lentamente
nel limo.
Passò
un tempo imprecisato. L'acqua continuava a gorgogliare monotona.
Soffiò un alito di vento lieve come un sospiro, che fece stormire le
foglie e ne spedì un altro paio a galleggiare nel bacile.
Alle
spalle di von Knobelsdorff si fece udire pacata, fredda la voce del
principe: “Sa che cos'è il sodalizio virile?”
Il
più giovane si girò a fissarlo. Pur fatto oggetto di una domanda
diretta non ebbe il coraggio di aprire bocca e si limitò a scuotere
la testa.
“È
difficile spiegarlo a chi non l'ha mai vissuto,” considerò allora
l'altro.
Il
tenente si limitò ad abbassare lo sguardo. Aveva l'impressione che
l'uomo stesse cercando in lui qualcosa che con grande disappunto non
riusciva a trovare da nessuna parte. Gli si avvicinò di un passo. Il
Werwolf, che nel frattempo si era seduto, si alzò nuovamente in
piedi.
Rimasero
immobili a fissarsi per lunghi secondi. Infine, von Knobelsdorff
mormorò: “Perché... non mi parla di Reiner?”
“Per
quale motivo dovrei farlo?”
“Perché
l'ho visto in sogno, ed ero io.”
“Lasci
certe stupidaggini a quel neurologo viennese che con le sue
cosiddette interpretazioni dei sogni spilla soldi alle signore
inquiete.”
Il
tenente non si mosse e non replicò. “Nemmeno lei si smentisce
mai,” mormorò infine.
L'altro
lo fissò torvo. “Sarebbe a dire?”
“Aggredisce
senza motivo, tiene lontano le persone anche quando vorrebbero
avvicinarsi.”
L'uomo
non rispose. Dopo qualche secondo, von Knobelsdorff fece un altro
passo avanti, cauto come se stesse procedendo lungo una trave
sottile, sotto cui si spalancava un abisso.
La
distanza fra loro divenne meno di un metro.
“Che
cos'è il sodalizio virile?” sussurrò. Gli balenarono in mente
immagini della loro fuga, la presa sul braccio, ordini secchi che
mascheravano sollecitudine. Una strana, indefinibile sensazione di
calore che solo quel misterioso principe era in grado di suscitargli.
“Che cos'è? Me lo spieghi.” Si avvicinò ancora. Sollevò gli
occhi a incontrare i suoi e quasi si perse nel suo sguardo, in quel
momento profondo e trasparente come non l'aveva mai visto.
D'impulso
attraversò lo spazio che ancora li separava, gli cinse il torso con
le braccia e posò le proprie labbra sulle sue.
Da
lì in poi, le sue sensazioni divennero confuse, urgenti: il bacio si
fece più profondo, sempre più profondo e intimo, al punto che gli
parve di precipitare in quell'abisso buio che aveva così
faticosamente attraversato, e al tempo stesso si sentì trasportare
in alto, verso una luce così intensa che lo costringeva a stringere
gli occhi. Sentiva il cuore pulsargli nelle tempie, un contraccolpo
gli fece capire che l'altro l'aveva spinto con la schiena contro un
albero.
Si
fissarono per un istante e poi piombarono nuovamente l'uno addosso
all'altro, ansanti, avidi, attraversati da una passione che di attimo
in attimo pareva ruggire con più violenza.
Dietro
le palpebre serrate del tenente baluginarono immagini di un salone
buio, di due sciabole incrociate, le lame letali in bilico, pronte a
uccidere.
Al
ricordo del clangore che esse avevano prodotto cadendo a terra, non
poté impedirsi di sussultare. Pur nella vertigine del momento, ebbe
chiara l'immagine di una fiammella semi-soffocata, che
improvvisamente riceveva ossigeno e si trasformava in una vampa che
divorava ogni cosa.
Un
pensiero lo attraversò come un lampo: quella vampa avrebbe distrutto
tutto. L'avrebbe travolto, annichilito.
Si
svincolò dall'abbraccio finché si sentiva in grado di farlo.
“Mi
scusi,” balbettò. Arretrò con passi incerti. “Mi scusi, la
prego di perdonarmi, non so cosa mi sia preso.”
Il
Werwolf si limitava a fissarlo in silenzio, immobile.
Egli
si passò una mano tremante fra i capelli, poi ripeté : “Mi scusi,
sono uno stupido... sono solo uno stupido.” Raggiunse il suo
cavallo, gli sembrava di essere ubriaco, stordito. Si sentiva il
cuore in gola come prima di un assalto. “Mi scusi,” disse per
l'ennesima volta, poi montò in sella.
Sempre
in silenzio, von Thurn und Taxis montò a sua volta.
Von
Knobelsdorff evitò persino di guardarlo in faccia. Spronò e partì
al galoppo.
[1]
Razza di cavalli da guerra originaria della Prussia.
|
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Capitolo 18 *** Capitolo 11 ***
Cari lettori,
ecco
la mappazza settimanale. Visto che è un capitolo breve, ve lo mando
in onda tutto intero.
Come
sempre molti ringraziamenti a chi mi sta seguendo, con particolare
trasporto emotivo nei confronti di chi mi lascia anche dei commenti^^
Capitolo
11
La
vettura era parcheggiata ai margini dello spiazzo che si trovava
davanti alla scuderia. L’autista in uniforme, appoggiato a un
parafango, fumava una sigaretta.
Qua
e là si vedevano soldati impegnati in varie occupazioni. Seduto su
una cassetta rovesciata, un sellaio stava riparando un finimento.
Von
Knobelsdorff smontò da cavallo, subito un uomo si avvicinò e prese
in consegna l’animale. Con la coda dell’occhio, l’ufficiale si
accorse che anche von Thurn und Taxis aveva abbandonato la
cavalcatura.
Seguì
con lo sguardo i soldati che portavano via i due Trakehner:
magnifiche bestie, sicuramente di gran pregio.
A
quel punto, l’etichetta gli avrebbe imposto di lodare il cavallo
che aveva montato, di ringraziare per la gita.
“È
opportuno che io rientri alla mia unità,” disse semplicemente.
L’altro
si limitò ad annuire. Si diresse verso la macchina e subito
l’autista spense la sigaretta e corse ad aprirgli con deferenza la
portiera.
Il
capitano prese posto sul sedile posteriore, poi si girò nella sua
direzione, come invitandolo a salire a sua volta sul veicolo.
Von
Knobelsdorff tentennò. Si era immaginato un viaggio di ritorno da
solo, in una solitudine certo piena di pensieri, ma perlomeno libera
da presenze angosciose.
Strinse
le labbra, si impose l'impassibilità: aveva mantenuto la calma nel
corso di combattimenti aerei dai quali sarebbe potuto uscire
cadavere, non poteva permettersi di mostrare turbamento in un
frangente così frivolo.
Raggiunse
l'auto, l'aggirò e prese a sua volta posto sul sedile posteriore,
con la sensazione di accomodarsi accanto a un obice inesploso. Si
rivide ansante contro il tronco dell'albero, con lui contro di sé.
Rievocò il suo sguardo acceso, ceruleo, carico di un anelito che per
quei brevi istanti l'aveva reso così rovente che quasi si meravigliò
di non portarne le ustioni.
Era
stata la forza di quelle iridi adamantine a gettarlo nello
scoramento, a fargli comprendere che avrebbe dovuto fuggire subito, o
perdersi per sempre.
Ripensò
ai combattimenti aerei, ed essi gli parvero prove di ben poco conto,
rispetto a quella che gli era stata posta dinnanzi nella foresta.
Volse
lo sguardo all'esterno e lo lasciò scorrere su postazioni, depositi,
acquartieramenti e linee difensive. Tutto dava un'impressione di
ordine, di pulizia. Di cose che erano dove dovevano essere, fatte
secondo il regolamento, corrette.
Tutto
il contrario di quello che c'era nei suoi pensieri.
La
macchina sobbalzò su un'asperità del terreno e la sua spalla sfiorò
quella del capitano. “Mi scusi,” disse in un soffio, senza
guardarlo. Si spostò fino ad addossarsi alla portiera.
Il
Werwolf non rispose. Sedeva impassibile, lo sguardo fisso in avanti.
Teneva le mai posate sulle ginocchia e di tanto in tanto tamburellava
nervoso con le dita.
Il
silenzio era glaciale.
Von
Knobelsdorff accolse con sollievo il profilarsi all'orizzonte della
villa che fungeva da alloggio per i piloti.
Attese
che l'auto la raggiungesse e dovette quasi farsi violenza per stare
seduto fino a che l'autista non andò ad aprirgli la portiera.
Sgusciò fuori rapido, come per evitare che una mano gli calasse
sulla collottola e lo trascinasse indietro. Quando fu in piedi, si
volse verso il capitano, che invece non si era mosso dal sedile. Si
piegò appena, ma evitò di intercettare il suo sguardo. “Stia
bene,” gli augurò asciutto, poi gli girò le spalle e si allontanò
a passi svelti.
Scomparve
all'interno dell'edificio e quando fu nel salone, con un paio di muri
tra sé e la presenza del capitano von Thurn und Taxis, si lasciò
cadere sul divano ed emise un sospiro che aveva al tempo stesso i
toni del sollievo e del rimpianto.
“Non
c'era altro da fare,” si disse a mezza voce. Si guardò intorno ed
ebbe la sensazione di essere stato via anni, secoli, intere epoche.
Nulla gli pareva più come prima.
Valutò
se fosse il caso di andare a fare rapporto al capitano Kunz. Per
dirgli cosa, poi? Sono tornato? E quando mai aveva avvisato
che si assentava?
Non
aveva senso.
La
voce di Hoffmeyer lo fece sobbalzare: “Ah, eccoti qui! Allora, cosa
volevano da te quelli del tuo vecchio reggimento?” L'amico lo
raggiunse, entrò nel suo campo visivo e in tono diffidente gli
chiese: “Non è che siccome non vai d'accordo col Vecchio hai fatto
richiesta di tornare a fare l'ulano, vero?”
Von
Knobelsdorff scosse la testa.
“E
allora cosa volevano?” Poi, dopo una pausa: “Non c'entrerà mica
la tua bella valchiria?”
D'istinto,
ancora sotto l'effetto delle sue dolorose meditazioni, l'altro
ringhiò: “E basta con questa valchiria, mi hai stufato!”
Hoffmeyer
corrugò la fronte, colto alla sprovvista da quel cipiglio duro.
“Beh... non ci sarebbe niente di male,” disse dopo un po'.
“Senonché
non c'è nessuna valchiria, va bene? Solo... un'irregolarità nei
documenti, tutto qui.”
“Che
documenti?”
Von
Knobelsdorff lo fissò torvo. “Ti cambia la vita saperlo?”
Hoffmeyer
lo fissò come se lo vedesse per la prima volta, poi scosse la testa
e rispose: “No di certo. Fatti sentire quando ti è passata,
d'accordo?” abbandonò il salone.
L'altro
rimase seduto e per un po' si limitò a contemplare in silenzio la
porta da cui l'amico era uscito. E così, era quella la scusa che il
Werwolf aveva usato: un passaggio al suo vecchio reggimento. Per
quali motivi? Avrebbe potuto inventarsi quello che voleva, nessuno si
sarebbe preso la briga di andare a controllare.
Di
nuovo percepì la sensazione di estraneità che l'aveva pervaso al
suo rientro dopo la missione: era parte di quel mondo e allo stesso
tempo non ne era più parte.
Gli
tornò in mente il paragone della lanterna magica: non c'erano più
immagini fatate sul muro, ma lenti, vetri colorati e una fiamma
alimentata a spirito.
§
Von
Knobelsdorff stabilì che era un periodo sfortunato. Il Vecchio
l'aveva riammesso alle missioni di volo, ma sembrava che qualcuno si
mettesse in contatto con gli inglesi ogni volta che lui decollava,
avvertendoli di tenersi alla larga.
Gli
mancava un abbattimento per raggiungere la fatidica cifra che avrebbe
fatto di lui un asso, ma non riusciva più ad ingaggiare un solo
duello. Se c'erano gli inglesi, era lui che si trovava nella
necessità di rientrare alla base senza benzina o con le armi
scariche. Se invece il suo aereo era in perfetta efficienza, non
c'era un solo nemico in tutta la volta celeste.
La
voce di Kramer lo distrasse dalle sue meditazioni: “La mattina è
serena, signor tenente.”
L'ufficiale
si strinse nelle spalle. “Come nelle ultime due settimane,”
brontolò.
“Il
suo aereo è pronto, signore. L'ho revisionato io personalmente.”
Von
Knobelsdorff emise un sospiro e rispose: “Il Vecchio sarà
contento: sarà almeno un mese che lo riporto alla base senza un
graffio.”
“Come
diceva la mia povera nonna, che Dio l'abbia in gloria, le cose
ottenute con troppa facilità non hanno valore, signor tenente.”
Il
più giovane emise un sospiro e lanciò al cielo terso uno sguardo
avvilito. “Sarà anche come dice lei,” brontolò poco convinto.
“L'aereo
è pronto,” gli ricordò il graduato.
Von
Knobelsdorff salì a bordo e subito l'odore di olio motore, benzina e
vernice dell'abitacolo ebbe il potere di ripulire la sua mente da
ogni pensiero.
Rivolse
nuovamente lo sguardo al cielo, a quel punto con lo sguardo del
cacciatore che si appresta alla battuta, e con un gesto automatico
controllò che le armi fossero cariche e ben oliate.
“Contatto!”
urlò, sporgendosi di lato dall'abitacolo.
“Contatto!”
rispose il meccanico, poi diede il colpo all'elica.
Il
motore cominciò a girare, dapprima con qualche colpo di tosse, poi
con un rombare sempre più regolare e profondo.
Un
sussultò avvertì il tenente che gli avieri avevano tolto i tacchi
da sotto le ruote. L'Albatros cominciò a rullare dolcemente,
dapprima adagio poi sempre più veloce. Manovrando la pedaliera, von
Knobelsdorff lo portò in linea di decollo. Sotto i suoi occhi si
involò Kunz, ormai il suo aereo senza alcun contrassegno aveva quasi
smesso di sembrargli strano. Dietro le spalle del comandante c'era
Marquardt. Dietro di lui arrivavano gli altri, che si stavano
preparando a prendere il volo.
Tutte
le sue ruminazioni erano scomparse in favore di un'ebbrezza che
andava facendosi più intensa di attimo in attimo.
Decollò
poco dopo. Raggiunse gli aerei della Jasta già in volo e subito
cominciò a sondare il cielo alla ricerca degli inglesi.
Giunsero
in breve al terreno brullo delle linee avanzate, gli sbarramenti di
filo spinato, le linee di sacchi di sabbia. Qua e là si levavano
colonne di fumo, una caligine venefica incupiva l’aria sulla terra
di nessuno.
Von
Knobelsdorff guardò in alto, dove il cielo era limpido, schermandosi
dai raggi del sole con la mano. Vide l'aereo di Kunz animarsi, poi
scuotere le ali nel segnale di nemico in vista. Subito dopo, il
comandante della Jasta diede tutto motore per guadagnare quota.
Tutti
lo imitarono, il tenente cominciò a scrutare ansiosamente in giro
alla ricerca degli inglesi.
Infine
il suo occhio allenato li individuò, sotto forma di un nugolo di
puntini che a loro volta tentavano di prendere quota più in fretta
che potevano.
Li
adocchiò cercando di distinguerli man mano che si avvicinavano: dei
Sopwith Pup, dei Bristol F2, un Sopwith Triplane.
Qualcuno
cominciava già a sparare le prime raffiche. Von Knobelsdorff cercò
di guadagnare ancora un po’ di quota, poi si accorse che un F2 lo
stava puntando. Continuò a salire mantenendo il contatto visivo,
attento a non farsi prendere di coda, tolse appena motore, abbozzò
una virata mentre l’altro a sua volta virava nelle prime mosse del
duello aereo.
Il
tenente sparò la prima raffica, facendo saltare brani di
rivestimento dall’ala superiore dell’inglese, cercò poi di
riguadagnare quota con un mezzo looping, ma già l’altro stava già
virando per arrivargli sul fianco.
Von
Knobelsdorff si raddrizzò con un mezzo tonneau, riprese il contatto
visivo con l’altro, sparò di nuovo. Dal motore dell’inglese
cominciò a uscire fumo nero, il tedesco sorrise fra sé e sé e
prese a seguirlo nella sua lenta caduta, per avere l’abbattimento
confermato. Gli stette dietro fino a quando l’F2 fu così basso che
probabilmente dalle trincee potevano vedere in faccia il pilota. Si
aspettava da un momento all’altro che atterrasse da qualche parte,
invece d’un tratto il motore smise di emettere fumo, l’aereo si
riprese quel tanto da riguadagnare un po’ di quota e gli sgusciò
via da sotto il naso. Colto di sorpresa, von Knobelsdorff provò a
inseguirlo, ma erano già sulle trincee inglesi, a quota bassissima,
e dovette immediatamente ridare gas per evitare di essere abbattuto
da terra. Riprese quota con un’ala sbrindellata dalla fucileria e
si allontanò in tutta fretta.
Quando
atterrò al campo era furente: non solo gli era sfuggito per un
soffio l’aereo che l’avrebbe finalmente consacrato asso, ma aveva
anche danneggiato il suo Albatros e c’era da scommettere che Kunz
l’avrebbe messo a terra di nuovo, come l’istitutrice che punisce
il bambino se giocando sporca l’immacolato completino alla
marinaretta.
“Come
se fosse possibile giocare senza sporcarsi,” ringhiò, ricordando
fin troppi episodi della sua infanzia.
Hoffmeyer,
sopraggiunto al suo fianco, gli chiese: “Hai detto qualcosa?”
Von
Knobelsdorff alzò le spalle. “Per me mi sbatte a terra di nuovo.”
L’altro
si voltò verso l’Albatros del collega e non poté fare a meno di
sollevare le sopracciglia. “Ah, però,” rispose.
“Non
ti ci mettere anche tu.”
Hoffmeyer
spostò le mani dietro la schiena, poi disse: “Obiettivamente, non
è che si possano fare missioni di guerra senza rovinare gli aerei,
no?”
“È
quello che dico anch’io. Bisognerebbe spiegarlo al Vecchio, però.”
I
due fecero qualche passo fianco a fianco, poi Hoffmeyer riprese: “E
comunque, lo sai benissimo perché il Vecchio si è arrabbiato
l’altra volta: per lui la faccenda delle medaglie è come il fumo
negli occhi.”
“Non
è che i piloti con il Pour le Mérite combattano meno degli altri,”
obiettò von Knobelsdorff.
“Di
più, se mai,” rincarò l’altro.
“Bah,
vaglielo a spiegare...”
Procedettero
verso la sala mensa, si sedettero a un tavolino e subito un’ordinanza
in giubba bianca portò loro caffè e biscotti.
Von
Knobelsdorff si riempì la tazza, poi rimase per un po’ a fissare
la superficie scura e appena increspata della bevanda. L’escursione
con il principe von Thurn und Taxis risaliva a qualche settimana
prima: da allora non era più riuscito a ottenere un abbattimento. Si
chiese – come si era chiesto ossessivamente almeno altre mille
volte – se si trattasse di un mero caso, o se quello sfortunato
evento avesse avuto qualche effetto nefasto su di lui. Sulla sua
aggressività in combattimento, tanto per cominciare: davvero non
c’erano aerei nemici nella sua zona o era lui che in qualche modo
inconsapevolmente li evitava? Forse voleva evitare gli scontri?
Voleva punirsi per non essere riuscito a dominare se stesso in quella
radura che ormai considerava maledetta?
Si
voltò verso Hoffmeyer, che teneva la tazza in una mano e un biscotto
nell’altra, e intanto si protendeva verso il tavolo a fianco per
scambiare una battuta con Eschmann. Come ormai gli capitava sempre
più spesso, invidiò la noncurante allegria dell’amico, che
sembrava renderlo immune da quelle ruminazioni che a lui toglievano
sonno e appetito.
Si
chiese cos’avrebbe fatto Herbert al posto suo, nella radura.
La
risposta era semplice: niente. Si sarebbe goduto la cavalcata, magari
avrebbe fatto anche un bel sonnellino all’ombra e poi se ne sarebbe
tornato tranquillamente alla Jasta.
§
Il
pavimento del vagone, di metallo zigrinato, odora di olio come quello
di certe officine. È ruvido contro la sua pelle delicata, ma freddo
com'è riesce almeno a lenire un po' il bruciore delle ferite.
Egli
vi si abbandona esausto. Ogni fibra del corpo gli pulsa di dolore,
quando respira ha l'impressione che la pelle del dorso gli si laceri
come carta di giornale fradicia. Le corde che gli immobilizzano le
braccia sono come anelli di fuoco.
Non
sa quanto tempo sia passato, ma gli pare un'angosciosa eternità.
Una
porta si apre. Percepisce dei passi in avvicinamento e istintivamente
si irrigidisce.
Qualcuno
si china accanto a lui.
Egli
sbatte gli occhi, cerca di mettere a fuoco quello che percepisce solo
come un ovale chiaro nella penombra. Infine riconosce il volto
pallido e i capelli neri dell'agente inglese. Cerca istintivamente di
farsi indietro, ma il movimento gli strappa l'ennesimo gemito di
dolore.
Beffardo,
the Bishop gli dice: “Non ti agitare, Reiner. Non serve a nulla.”
Egli
stringe i denti. “Non... sono Reiner...” riesce a balbettare dopo
un po', con una voce roca che sembra il rantolo di un moribondo.
L'altro
fa una risatina. “Ma certo che lo sei,” replica.
“No.”
La
voce dell'agente inglese prende un tono vagamente confidenziale: “Sai
di esserlo.” The Bishop allunga una mano nella sua direzione,
provocando un nuovo scomposto tentativo di arretramento. Fa una
risatina a quella vista, poi soggiunge: “Pensa a quello che è
successo nella radura. Avresti fatto quello che hai fatto, se non
avessi saputo di esserlo?”
Egli
rimane in silenzio.
“Rispondi:
l'avresti fatto?”
Subito
dopo, con un gesto repentino the Bishop lo afferra per i capelli e
gli piega la testa all'indietro. Egli emette un nuovo gemito di
dolore, cerca di liberarsi, ma la presa dell'inglese è ferrea.
Questi
si piega su di lui fino a che i volti non sono vicinissimi, poi
lentamente dice: “Non rispondi, vero? Non rispondi perché sai che
ho ragione. I fatti parlano per te: tu sei Reiner.”
“Non
è vero.”
L'altro
fa una breve risata, poi insiste: “Dì un po', ti è piaciuto
baciarlo, vero?”
Egli
deglutisce. “No,” risponde dopo qualche secondo.
“Non
vali niente neppure come bugiardo, Reiner. Ti è piaciuto così tanto
che sei dovuto scappare, altrimenti non saresti più riuscito a
stargli lontano, non è così?”
“No.”
“Ma
davvero? E allora come mai hai tagliato la corda in quel modo, di
gran carriera, con la coda fra le gambe? Come mai non riesci a
smettere di pensare a lui? Io lo so che pensi a lui.” The Bishop
stringe la presa sui suoi capelli, si avvicina fino a sfiorargli le
labbra con le proprie, poi sussurra: “Lui sa quali sono i tuoi
sentimenti e tornerà.” Di colpo lo lascia andare, lui ricade
pesantemente, la schiena gli rimanda una bruciante fitta di dolore.
“Tornerà,”
ripete l'inglese. “Tornerà, e troverà me ad attenderlo.”
“No!”
esclamò von Knobelsdorff svegliandosi di soprassalto.
Si
guardò intorno ansante: buio, odore di legno vecchio e lavanda,
finestra parzialmente oscurata dalle tende, oltre la quale si
indovinava un fioco bagliore lunare.
Le
coperte erano ridotte a un viluppo informe.
Poco
distante, la voce di Hoffmeyer brontolò: “Se non la pianti, dico
al Vecchio di mandarmi a dormire con i meccanici, sarà sempre meglio
che avere di fianco te e i tuoi incubi.”
“Scusa,”
mormorò von Knobelsdorff, che si sentiva ancora nelle orecchie la
voce beffarda dell'inglese.
“Sognavi
di precipitare?”
“No,
io... sì. Sì, sognavo di precipitare.”
“No
o sì?”
“Non
mi ricordo.”
“Beh,
a prescindere da quello che sognavi, vedi di dormire, va bene?
Domattina dobbiamo andare in volo.”
“Scusa.”
“Non
fa niente. Ora dormi, però.”
Von
Knobelsdorff si riadagiò all'indietro con un sospiro e mise le
braccia dietro la testa. Per un po' rimase semplicemente immobile con
gli occhi aperti, sondando un buio che gli pareva popolato di ombre
inquietanti.
La
tenda semiaperta sembrava nascondere una persona, il tramestio lieve
di qualcuno che passava per il corridoio gli fece irrigidire i
muscoli come per fronteggiare un'intrusione.
Si
girò cercando di fare meno rumore possibile, poi di nuovo rimase
fermo, lo sguardo rivolto alla striscia di cielo che il tendaggio
lasciava libera.
Si
chiese se i sogni fossero banali fenomeni nervosi, scorie del
cervello che venivano eliminate durante il riposo, oppure se si
potesse riconoscere in essi qualcosa di premonitore o profetico.
Concluse
che non sapeva quale delle due cose augurarsi.
§
L'alba
sorprese von Knobelsdorff ancora con lo sguardo fisso sulla finestra.
La
Jasta si stava svegliando, da fuori proveniva il parlottare dei
meccanici che stavano portando gli aerei in linea di volo, in
corridoio c'era il tramestio di chi andava e veniva dai bagni. Colse
uno scambio di battute e una risata.
Se
tendeva l'orecchio, riusciva anche a individuare l'acciottolio di
pentole e stoviglie delle cucine.
Con
un cigolio di molle, Hoffmeyer abbandonò il letto, poi si liberò
della camicia da notte, rimanendo nudo come un verme. Rovesciò il
contenuto della brocca nel catino e cominciò a lavarsi, soffiando e
sbuffando per la temperatura dell'acqua. “Sveglia, pigrone!”
esclamò poi, strofinandosi vigorosamente con un telo. “Ci sono
degli inglesi che ci aspettano, là fuori. Non vorremo deluderli!”
“Herbert...”
protestò von Knobelsdorff, strofinandosi gli occhi. Si mise a sedere
sul letto, si passò una mano fra i capelli scompigliati dal sonno.
“Forza!”
lo incalzò l'altro. “Non c'è niente di più bello che volare
all'alba.”
Il
primo non rispose. Aveva ancora davanti agli occhi il sorriso
beffardo dell'agente inglese; le sue parole inquietanti continuavano
a tormentarlo.
Si
alzò adagio, mugolando imbronciato. “Sta un po' zitto,”
protestò.
Hoffmeyer
smise di asciugarsi. Per un po' rimase fermo a fissarlo col telo
sulla spalla tipo statua classica, poi sentenziò: “Tu hai dei
problemi. Io mi farei vedere dal capitano medico, se fossi in te.”
Von
Knobelsdorff gli rivolse uno sguardo torvo. “Perché?”
“Da
quando sei sparito per la tua famosa missione non dormi più. Passi
le notti a rotolarti come un pollo al girarrosto, e quel che è
peggio, è che non fai dormire nemmeno i camerati.”
“Ah,
sono commosso da tanta preoccupazione.”
Hoffmeyer
fece un gesto di diniego e disse: “Lo sai cosa intendo.”
“Sto
benissimo,” brontolò von Knobelsdorff.
“Davvero?
Dimmi quante ore hai dormito questa notte.”
L'altro
emise un sospiro. “Poche,” ammise.
“Non
puoi andare in volo così.”
“Sono
perfettamente in grado di pilotare.”
“E
sei in grado di difenderti dagli inglesi?”
Von
Knobelsdorff ripensò al suo sogno. “Non lo so,” mormorò.
§
Il
tenente raggiunse il suo Albatros e fece i controlli di rito. Stava
per montare a bordo quando un soldato lo raggiunse e si mise
sull’attenti. Von Knobelsdorff lo fissò perplesso. Si guardò
fugacemente intorno, ma tutto sembrava come al solito. I suoi
colleghi stavano prendendo posto sugli aerei, o effettuando gli
ultimi controlli a terra. C’era un’atmosfera di normalità,
addirittura di tranquillità, nei limiti delle fasi che precedono i
voli di guerra. “Che cosa c’è?” chiese al soldato.
Questi
irrigidì se possibile maggiormente la posizione di attenti e a voce
alta e chiara, come da regolamento, scandì: “Signor tenente, il
signor capitano Kunz ordina di raggiungerlo nel suo ufficio!”
Von
Knobelsdorff girò lo sguardo verso l’aereo del capitano e notò in
effetti che l’ufficiale non c’era.
Aggrottò
le sopracciglia: la faccenda non gli piaceva per nulla. Si chiese se
il comandante della Jasta avesse strolgato qualche nuovo motivo per
tenerlo a terra.
Si
diresse verso la palazzina degli uffici e lì incontrò Kunz, che già
in tenuta di volo stava procedendo verso l’esterno.
Si
mise sull’attenti e salutò.
“Riposo,
tenente,” disse asciutto il capitano, senza quasi fermarsi. “Mi
attenda qui. Al rientro dal volo devo parlarle.”
“Cosa?”
protestò il più giovane. “Dovrei stare qui? Ma il mio aereo è
pronto in linea di volo!”
Kunz
si fermò. Si voltò verso di lui e gli riservò uno sguardo gelido.
“Lei mi attenderà qui,” si limitò a ripetergli, “le spiegherò
tutto al mio ritorno. Se non dovessi rientrare dalla missione di
volo, sarà il furiere Schlemmer a consegnarle i documenti.”
“Cosa?
Che documenti?”
Ma
Kunz stava già procedendo lungo il corridoio e non lo sentì
neppure. O, se lo sentì, ritenne di non fermarsi a rispondergli.
Von
Knobelsdorff rimase fermo a guardarlo mentre si allontanava. Dalla
finestra vedeva gli aerei pronti per la missione, quello di Marquardt
stava già cominciando a rullare verso la testata pista. Strinse i
pugni indispettito: cosa significava quella nuova proibizione di
volare? Si chiese se il rigido ufficiale ce l’avesse con lui per
qualche motivo. Perché era un aristocratico, magari, e come tanti
Kunz era convinto che avesse ottenuto i gradi in virtù di quello e
non perché li aveva meritati sul campo.
Soffocò
un’imprecazione: l’aereo di Marquardt era già in volo, quello di
Hoffmeyer stava prendendo velocità nella corsa di decollo.
E
lui doveva starsene a guardarli dalla finestra di un ufficio.
Il
comandante rientrò circa un’ora dopo. Von Knobelsdorff, che non
appena aveva sentito il ronzio degli aerei in avvicinamento si era
incollato alla finestra, lo vide atterrare, scendere rapido dal
velivolo e dirigersi verso la fureria.
Si
preparò a replicare a qualsiasi accusa Kunz fosse in procinto di
rivolgergli.
Quando
lo raggiunse, il capitano semplicemente disse: “Venga con me.” Lo
precedette nel suo ufficio, si accomodò alla scrivania. Non
essendoci altre sedie nella stanza, von Knobelsdorff rimase di fronte
a lui sull’attenti.
“Riposo,”
disse Kunz. Tirò fuori da un cassetto una busta e la spinse verso di
lui. “I documenti sono già firmati,” spiegò asciutto. “L’ottavo
abbattimento è stato confermato, avrà la sua agognata decorazione.”
Von
Knobelsdorff aprì bocca per replicare, ma non riuscì a emettere
alcun suono. Sentì le guance andargli a fuoco e subito dopo fu certo
di essere sbiancato. “Cosa…?” mormorò.
“Il
Pour le Mérite,” specificò Kunz.
Il
tenente si obbligò alla calma. Per quanto l’idea di ricevere il
prestigioso Blauer Max lo galvanizzasse, non avrebbe sopportato il
conferimento di una decorazione che non meritava. “C’è un
errore, signor capitano,” rispose faticosamente.
“Nessun
errore,” replicò l’altro impassibile.
Von
Knobelsdorff strinse i denti e spiegò: “L’ultimo aereo che ho
colpito non è caduto, signore. Si è ripreso a pochi metri da terra
ed è volato via, non c’è stato nessun abbattimento.”
“Questo
lo so bene,” rispose Kunz, senza mutare minimamente l’espressione.
“La conferma dell’abbattimento si riferisce a un altro contesto.
È valida, quindi lei ha totalizzato otto vittorie.”
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Capitolo 19 *** Capitolo 12 - Prima parte ***
Salve carissimi,
ecco
finalmente la mappazza settimanale. Vi mando di nuovo in onda un
mezzo capitolo, perché dopo la felice parentesi del capitolo
precedente siamo tornati ai soliti standard di lunghezza (ovvero:
“messa cantata”).
Grazie
a tutti coloro che mi seguono, un enorme grazie a chi mi sta
lasciando anche qualche commento.
Capitolo
12
Diretta
in Patria, la tradotta era perlopiù occupata da militari molto
allegri. In fondo al vagone ad esempio si era raccolto un gruppetto
di soldati: uno di essi aveva tirato fuori dallo zaino una concertina
e tutti gli altri cantavano sulle note allegre dello strumento. Una
bottiglia di Schnaps passava di mano in mano.
Un
altro gruppetto, composto perlopiù di feriti in via di guarigione,
sedeva da una parte. Gli uomini si stavano mostrando a vicenda
fotografie di mogli e fidanzate. Qualcuno aveva anche immagini di
bambini, con gli abitini alla marinara e i giocattoli sottobraccio.
Sedevano
qua e là anche degli ufficiali, che nel contesto informale non
disdegnavano sorsi di Schnaps quando passava la bottiglia, né
rifiutavano di ammirare le fotografie che i soldati con fierezza
esibivano.
Un
giovane tenente aveva addirittura tirato fuori l'immagine di una
ragazza, e la mostrava ai soldati. Qualcuno provò a dire sottovoce
che il volto della fanciulla non gli era nuovo, ma fu prontamente
zittito dagli altri.
In
tutto ciò, il tenente von Knobelsdorff sedeva serio accanto a un
finestrino e lasciava vagare lo sguardo sul paesaggio che scorreva
all'esterno.
Aveva
fantasticato tante volte sul Pour le Mérite. Aveva immaginato un
viaggio di rientro trionfale, tra feste, risate, felicità e giusto
orgoglio.
Aveva
immaginato di brindare con i camerati, di accogliere i complimenti e
le congratulazioni di ogni militare in cui si sarebbe imbattuto.
Dalla
base se n'era andato più o meno come un ladro. Era montato sulla
tradotta nello sconcerto dei colleghi, che perlopiù non avevano
nemmeno capito perché partisse.
Quei
pochi a cui nella fretta era riuscito a dire la verità, ovvero che
si recava a Berlino per ricevere l'ambita decorazione dalle mani del
Kaiser in persona, non avevano nemmeno fatto in tempo a fargli le
felicitazioni, in pratica.
La
faccenda non era legata solo all'avversione del suo comandante per la
chincaglieria.
Lui stesso aveva in realtà perlopiù taciuto la faccenda, evitando
di farne menzione se non ai più intimi amici.
Non
l'aveva detto nemmeno al suo colonnello di quando era negli ulani,
che per tanti aspetti era stato per lui come un padre.
Si
chiese perché.
Forse
pensava di non meritarla.
O
forse non era più lo stesso giovane ufficiale, ardimentoso e fiero,
che era stato fino a poco tempo prima. Ardimentoso lo era ancora,
certo. Anche fiero, ovviamente, ma forse in un modo diverso. In modo
più schivo, sobrio, privo di ostentazione. Il Werwolf del resto
sembrava un giovanotto snello, dalle mani delicate, eppure l’aveva
visto con quelle stesse mani uccidere in un istante uomini ben più
grossi di lui.
Come
al solito, rievocò la sua stretta sul braccio: quel contatto rude,
asciutto, che però non mancava mai di suscitargli una struggente
sensazione di calore.
Era
stato senz’altro lui a confermare l’abbattimento.
Tra
le innumerevoli domande che aveva formulato, tutte senza risposta,
c’era anche quella: perché lo aveva fatto? Non ne avrebbe avuto
alcun motivo. Anzi, forse per avere l’abbattimento confermato aveva
anche dovuto rivelare particolari segreti della missione.
Perché,
quindi?
In
quel momento, la comparsa di una bottiglia nel suo campo visivo lo
fece quasi sussultare. “Un sorso, signor tenente?” gli chiese un
artigliere alto forse un palmo più di lui, dall’espressione
gioviale.
Mentre
meccanicamente prendeva lo Schnaps, tornò con la mente all’episodio
del treno inglese. Rivide la disinvoltura con cui il Werwolf aveva
accettato la bottiglia e aveva bevuto, senza un fremito di imbarazzo
o di timore.
Se
avessero scoperto che era tedesco, l’avrebbero fucilato sul posto
come spia.
Una
voce lo riportò alla realtà: “Non vuole bere un sorso, signor
tenente?”
“Grazie.”
Von
Knobelsdorff buttò giù qualcosa che gli parve una palla di fuoco.
Gli sfuggì un colpo di tosse. L'artigliere sorrise e disse: “Forte,
vero? Quando si è in trincea, non c'è niente di meglio per scaldare
le budella.”
A
quel punto si avvicinò un altro artigliere e disse: “Klaus, sei un
cretino: non vedi che è un aviatore?” Poi, rivolto all'ufficiale:
“Lo scusi, signore: non distinguerebbe nemmeno un marinaio da un
fante.”
“Non
fa niente,” disse von Knobelsdorff, desideroso di tornare alle sue
meditazioni. I soldati, però, continuavano ad assieparglisi intorno,
incuriositi dalla sua uniforme elegante e dal distintivo di pilota.
Si domandò se tra loro ci fossero anche quelli che ogni giorno
l'avevano salutato con ampi gesti mentre passava alto sulle trincee.
Uno
di essi gli chiese: “Ha abbattuto degli aeroplani nemici, signore?”
A
quella domanda calò il silenzio, tutti lo fissavano con aspettativa.
Gli offrirono di nuovo la bottiglia.
Egli
bevve un altro sorso, rassegnandosi alla colata incandescente che gli
fece bruciare la gola e lo stomaco, poi rispose: “Sì, qualcuno.”
“E
quanti, signore? Quanti?” chiese un fante che non poteva avere più
di diciotto anni.
“Non
fare il maleducato, Franz!” lo rimbeccò un altro, ma la curiosità
accendeva gli sguardi di tutti. Anche quelli che stavano cantando si
interruppero e si avvicinarono. Le foto di mogli e fidanzate
tornarono nelle tasche da cui erano uscite.
Von
Knobelsdorff fece scorrere lo sguardo sull'improvvisata platea e si
rese conto che rimanere concentrato nei propri pensieri sarebbe stato
un atto di egoismo indegno di un ufficiale. “Sto rientrando in
Germania per ricevere il Pour le Mérite,” disse.
§
Alla
stazione del suo paese, schierata sulla banchina, c'era addirittura
la banda musicale.
Il
tenente scese dal treno sulle note dell'inno nazionale, salutato con
ampi gesti e acclamazioni. Fu accolto dal borgomastro in persona
mentre una folla festante veniva tenuta a distanza dai gendarmi. Le
ragazze lanciavano fiori e baci, qualcuna addirittura fazzoletti con
le cifre ricamate, la gente applaudiva. Chiunque avesse un'uniforme
gli rivolgeva il saluto militare.
Von
Knobelsdorff dovette faticare per non sfiorarsi con le dita l’azzurra
decorazione, che ancora gli pendeva dal collo dandogli la sensazione
di insolito monile. Alcuni alti ufficiali dello Stato Maggiore gli
avevano assicurato che col tempo ci avrebbe fatto l’abitudine, ma
la sua sensazione era che si impigliasse ovunque, e che i suoi
spigoli lo pungessero a ogni movimento.
Peraltro,
gli sembrava anche terribilmente vistosa. Pacchiana, addirittura.
Non
si era ancora rassegnato al fatto che tutti lo guardassero, che i
padri lo indicassero ai figli come un esempio, che i militari di ogni
arma e grado lo salutassero.
Pian
piano diventerà normale,
si ripeté, ricordando le parole che un generale di corpo d’armata
gli aveva rivolto appena uscito dalla sala delle udienze di Sua
Maestà, quando spaesato si guardava intorno come un animale
selvatico portato in gabbia nel bel mezzo di una festa.
Il
borgomastro gli rivolse un discorso, il reverendo pronunciò una
benedizione, per lui e per tutti gli eroici soldati tedeschi, o forse
prima arrivò la benedizione del prete e poi il discorso del
borgomastro, la sua destra veniva costantemente ghermita e stretta,
perlopiù da sconosciuti, che accompagnavano il saluto con auguri e
alate parole di vittoria...
A
un certo punto si ritrovò di fronte Johann, lo chauffeur di
famiglia, che si mise sull'attenti e disse: “Signor barone,
bentornato.”
Alle
spalle dell'uomo c'era una lucidissima vettura nera, sul cui sedile
posteriore attendeva impettita la baronessa von Knobelsdorff.
Il
tenente rispose al saluto dell'autista, quindi raggiunse la
nobildonna e, rivolgendole un rigido inchino del busto, disse: “Buon
giorno, maman.”
Ella
fece col capo un sobrio cenno d'approvazione. Attese che Johann
aprisse la portiera per il figlio, quindi gli chiese: “Hai fatto
buon viaggio?”
“Molto
buono, grazie. Lei sta bene, maman?”
La
donna assentì e lo invitò a prendere posto al suo fianco, quindi
proseguì: “Sono molto felice di questa licenza, mio caro. Anche
tuo padre dovrebbe rientrare per qualche giorno la settimana
prossima. Sappi che è molto fiero di te.”
Il
tenente non poté fare a meno di sorridere. “Ne sono felice.”
“Gli
hanno permesso di farmi una telefonata dal fronte. Ha detto che da te
non si aspettava di meno, Maximilian.”
Il
giovane si limitò ad annuire. Suo padre, il maggiore generale Ernst
Wilhelm barone von Knobelsdorff, aveva già il Pour le Mérite,
l'Ordine di Hohenzollern, la Croce di Ferro e varie altre medaglie. I
fratelli di suo padre, lo zio Albrecht Konrad e lo zio Hans
Ferdinand, avevano a loro volta importanti decorazioni.
I
fratelli di maman
non erano ovviamente da meno.
La
donna ordinò allo chauffeur di partire, poi disse: “Ci sarà un
ricevimento.”
“Non
è il caso,” si schermì il tenente.
“Tuo
padre ci tiene molto,” fu l'asciutta replica.
Il
giovane non rispose. Dubitava che il ricevimento fosse un'esigenza
del severo genitore, ben più avvezzo al rigore della caserma che
alla mondanità dei salotti. Più probabilmente era la baronessa che
desiderava sfoggiare in una festa l’ennesima decorazione conferita
a un membro della famiglia. “Quando?” si limitò a chiedere.
“Dipende
da quando arriverà tuo padre.”
Il
tenente non aggiunse altro. Si voltò verso il finestrino e lasciò
vagare lo sguardo all’esterno. Riconobbe il campo dove andava a
giocare quando era piccolo. Al limitare della foresta c’era ancora
il vecchio tronco di quercia caduto che aveva tentato di saltare a
cavallo, finendo malamente a terra assieme al destriero.
La
pianura si perdeva in lontananza, punteggiata qua e là dai laghi
cristallini in cui andava a nuotare.
A
quei tempi, la sua più grande preoccupazione era trovare un modo di
asciugarsi i capelli in fretta, in modo che i suoi non si
accorgessero che aveva fatto il bagno con i ragazzi del villaggio.
La
vettura procedeva lungo un viale fiancheggiato da querce. Presto
avrebbe raggiunto la dimora di famiglia e si sarebbe fermata davanti
all'ingresso principale. Il tenente immaginò che ci sarebbe stata
tutta la servitù ad accogliere il signorino,
schierata in due ali lungo la gradinata che conduceva al portone.
Senza dubbio tutti si sarebbero inchinati al suo passaggio, le donne
con una riverenza, gli uomini con un più sobrio piegarsi del busto.
Teoricamente,
ormai avrebbe dovuto essere abituato a certe cose. Erano giorni che
riceveva complimenti e ascoltava discorsi in suo onore. C'era stata
persino la sua fotografia sul giornale, mentre stringeva la mano a
Sua Maestà l'Imperatore.
In
pratica, però, non era fatto per certe cose. Era pronto a
combattere, a morire per la Patria se necessario, ma il disagio di
tutte quelle attenzioni rimaneva invariato.
§
Sdraiato
sul letto della sua camera, le braccia dietro la nuca, von
Knobelsdorff fissava pensoso l’affresco del soffitto. L’aveva
osservato tante volte, nel corso della sua breve vita. Da piccolo,
non capiva nemmeno cosa significasse, guardava più che altro i
colori. Da ragazzino gli piaceva, perché vedere quello significava
essere in vacanza dall’Accademia.
Da
adulto – se poteva definirsi tale – gli evocava sentimenti
contrastanti.
Si
trattava di una scena mitologica: Fetonte che precipita dal carro del
Sole. Vi era un giovane uomo, con un semplice drappo rosso a coprire
appena le pudenda, rappresentato mentre cadeva a testa in giù. Sopra
di lui si trovava un carro tutto d’oro, intorno al quale
scalpitavano quattro cavalli imbizzarriti.
Ancora
più in alto, sullo sfondo di un cielo tormentato, si vedeva Zeus
nell’atto di scagliare una folgore. Non aveva mai capito se Fetonte
stesse cadendo perché colpito da quel fulmine oppure se Zeus
l’avesse scagliato per fermare il cocchio impazzito, una volta che
il semidio ne aveva perso il controllo.
Di
volta in volta, nel corso degli anni, aveva fissato l’attenzione
sui particolari di quell’affresco che lo attraevano maggiormente.
Da bambino si era chiesto se davvero fosse possibile solcare il cielo
a bordo di un carro dorato. Più grandicello aveva ragionato
ossessivamente sul perché i quattro cavalli del cocchio non avessero
tutti lo stesso mantello. Le pariglie di suo padre erano scelte anche
in base a quel criterio, soprattutto quelle destinate a compiti di
rappresentanza, quindi perché a una quadriga divina erano aggiogati
un sauro, due grigi di tonalità diversa e un pezzato?
Da
aviatore, aveva immaginato i nemici nei panni di Fetonte, solo che
sopra di loro non c’era una quadriga senza controllo, ma un aereo
inglese in fiamme e Zeus era un aereo tedesco che invece delle
folgori scagliava piombo.
In
quel frangente, invece, non riusciva a smettere di pensare che il
Fetonte dell’affresco era castano come lui.
Si
vergognò di quell’idea disfattista e meccanicamente portò una
mano a sfiorare l’azzurra decorazione che ormai stabilmente gli
pendeva dal collo.
Ripensò
all’episodio della cavalcata e di nuovo fissò lo sguardo sul
Fetonte che precipitava: come lui aveva osato, ed era caduto.
Era
fuggito ignominiosamente.
Si
chiese se avrebbe mai più rivisto l’agente segreto. Si augurava
che fosse scomparso per sempre dalla sua vita, esattamente come anni
prima era accaduto con Friedrich von Wangenheim: erano rimasti nella
stessa accademia, certo, ma per una sorta di tacito accordo si erano
praticamente ignorati fino a quando i rispettivi corsi di studi non
erano terminati. Non sapeva neppure a che reparto fosse stato
assegnato, o se fosse ancora vivo.
Chiuse
gli occhi. Si augurava davvero di non rivedere più il principe von
Thurn und Taxis?
Emise
un sospiro e volse lo sguardo verso l’alta finestra, lasciandolo
vagare sul cielo terso. Ai comandi di un aereo era tutto semplice. Si
trattava di volare e combattere, vincere o morire. Non c’erano
dubbi, non c’erano esitazioni. Soprattutto non c’erano pensieri
angosciosi, perché chi non teneva la mente focalizzata sull’azione
soccombeva.
Forse
era per quello che gli piaceva volare.
§
Il
Werwolf aprì una porta. Al di là vi era una stanza dalle pareti
bianche, con una sola finestra chiusa da un’inferriata e una
lampadina che pendeva dall’alto soffitto.
Al
centro del locale vi era un tavolo, al quale sedeva una donna di
mezz’età, con uno chignon venato di grigio da cui pendevano
ciocche disordinate.
L’agente
segreto avanzò con passo misurato, quindi si sedette di fronte a
lei. “Come vanno le conversioni?” le chiese. “Ha distribuito
molti opuscoli religiosi, ultimamente?”
La
donna si limitò a stringere le labbra. Si raddrizzò nella persona
come a mostrare indignazione. “Dovrebbe avere più rispetto,”
sibilò breve.
L’altro
fece un sorrisetto. “Come collega, intende?”
“Non
so di cosa stia parlando,” lo rimbeccò lei aspra, “ed esigo una
spiegazione per tutto questo!”
“Per
cosa, esattamente?”
“Per
essere stata presa come una ladra e portata… non so nemmeno dove!
Che cos’è questo posto? Io voglio rientrare a casa mia.”
“Tutto
a suo tempo,” concesse il Werwolf. “I suoi opuscoli religiosi
potranno aspettare fino a che non mi avrà fornito le informazioni
che voglio.”
La
donna si irrigidì ulteriormente. “Non ho nessuna informazione per
lei, egregio signore. Non so nemmeno di cosa stia parlando.” Cercò
di sistemarsi qualche ciocca dietro le orecchie, quindi gli rivolse
uno sguardo altero e carico di riprovazione.
Von
Thurn und Taxis la fissò impassibile per alcuni secondi. Infine, con
glaciale calma disse: “Signora, non mi piace perdermi in preamboli:
so che lei è una spia degli inglesi.”
L’altra
sobbalzò addirittura sulla sedia, e con veemenza protestò: “Cosa?
Ma come le viene in mente un’assurdità simile? Proprio io, che
distribuisco ogni giorno opuscoli patriottici!”
“Un’ottima
copertura,” concesse il Werwolf.
“Le
sue basse insinuazioni mi offendono!”
“Meglio
offesa che morta, non so se mi spiego.”
La
donna lo fissò torva, egli le rimandò uno sguardo perfettamente
neutro. Dopo alcuni secondi, in tono pacato le disse: “Abbiamo
trovato il solfato di rame fra i suoi cosmetici.”
“E
cosa sarebbe, se è lecito?”
Il
Werwolf si alzò in piedi e le sferrò un manrovescio che la
scaraventò giù dalla sedia, successivamente aggirò il tavolo,
l’afferrò per i baveri della blusa, la sollevò di peso e con voce
minacciosamente bassa ringhiò: “Inchiostro simpatico. Una
soluzione incolore, che diventa azzurra se esposta a vapori di
ammoniaca.”
“Curioso.”
“Signora,
le rammento che la mia pazienza non è infinita.”
La
donna cercò di colpirlo in mezzo alle gambe con un calcio. Il
Werwolf, che se l’aspettava, la sbilanciò all’indietro fino a
sbatterla con le spalle contro il muro, quindi disse: “Non c’è
bisogno di questi sistemi da suffragetta, mia cara. Tra spie esiste
la perfetta parità dei sessi.” La sollevò di peso, quindi
proseguì: “E ora, gentilmente...”
La
donna scalciò, cercò di graffiarlo. Impossibilitata a fare altro,
gli sputò addosso.
Il
Werwolf strinse la presa. La prigioniera, ormai scarmigliata, con gli
occhi fuori dalle orbite, gli afferrò i polsi. Di nuovo scalciò e
si contorse, cercando di liberarsi.
Von
Thurn und Taxis la buttò sul pavimento e le sferrò un paio di
robusti calci nel costato, quindi la sollevò per i capelli. La donna
tentò di nuovo di sputargli contro, poi ansimò: “Stupido bifolco,
pezzo di...” L’invettiva fu troncata da un altro manrovescio.
A
quel punto, il Werwolf chiese: “Dov’è the Bishop?”
“Non
so di cosa stia parlando.”
Volò
un’altra potente sberla, la donna cominciò a perdere sangue dal
naso. Con glaciale calma, von Thurn und Taxis ripeté la domanda.
L’altra
lo fissò di sotto in su. Rigato di sangue, il volto pallido aveva
un’espressione demoniaca. Lanciò un urlo selvaggio, poi balzò in
avanti, cercando di afferrarlo alla gola.
Il
Werwolf uscì dalla stanza sistemandosi l’impeccabile completo
scuro. Al suo apparire, due piantoni scattarono sull’attenti.
“Disponete
tutto come al solito,” ordinò l’ufficiale. “L’altra ha
parlato?” Indicò con un cenno della testa una porta di ferro
chiusa.
“Il
signor capitano è ancora dentro, signore,” rispose uno dei
soldati.
L’agente
sorrise fra sé e sé. Il signor capitano era un suo collega dal
poetico nome in codice di Morgenrot. Si avvicinò alla porta, guardò
dentro dallo spioncino: neppure lui pareva considerare le donne il
sesso debole.
Per
quanto la cosiddetta dama della Pentecoste – in realtà
un’alsaziana di nome Nathalie Meyer – avesse provato a
insultarlo, a graffiarlo e a usare mosse di ju-jitzu, alla fine gli
aveva rivelato esattamente quello che si aspettava, e cioè che the
Bishop era da qualche parte in Germania. Dove, purtroppo, non era
riuscito a saperlo, anche perché probabilmente non lo sapeva nemmeno
la dama.
Abbandonò
il sotterraneo, tornò al piano terra. Il posto aveva l’apparenza
di un magazzino di granaglie, ma in realtà nei sacchi di iuta che
entravano e uscivano c’erano dispacci, fotografie e mappe. Gli
impiegati erano tutti agenti sotto copertura, uomini e donne. Le
pareti erano munite ovunque di intercapedini in cui erano sistemate
macchine fotografiche o alcove in grado di contenere osservatori;
numerosi laboratori segreti permettevano di rilevare le impronte
digitali di eventuali visitatori e di sviluppare le fotografie che si
prendevano di ognuno di essi.
Si
diresse verso il bagno, vi entrò e, attraverso una porta nascosta
fra le piastrelle, passò in una stanza che sembrava il camerino di
un teatro, con una toeletta per il trucco, un armadio e uno scaffale
ingombro di travestimenti di scena.
Si
sedette di fronte allo specchio, indossò con gesti resi rapidi
dall’abitudine una parrucca grigia. Vi aggiunse un paio di
baffetti, sempre grigi, quindi inforcò occhiali dalle lenti tonde,
cerchiate di metallo.
Trasse
dall’armadio una palandrana scura, un po’ lisa sui gomiti, con la
quale nascose il suo completo di sartoria. Indossò un cappello
sgualcito, raccolse una cartelletta per i documenti e se la strinse
al petto, quindi fece ritorno alla stanza che fungeva da segreteria
con un’andatura ingobbita, rigida, da impiegatuccio precocemente
invecchiato, abituato a stare curvo sui registri di partita doppia.
Scambiò
qualche parola con i colleghi, poi uscì con la cartelletta lisa
sottobraccio, come se fosse stato mandato a fare una commissione.
§
Seduto
alla scrivania di una stanza d’albergo, naturalmente sotto falso
nome, il Werwolf sorrise fra sé e sé: dalla finestra dell’elegante
hotel in cui aveva preso alloggio si intravedeva uno scorcio del suo
palazzo. Era fuori questione, naturalmente, andarvi ad abitare,
almeno fino a quando non fosse riuscito a scoprire dove si nascondeva
the Bishop.
Si
appoggiò all’indietro sullo schienale, ripercorse ancora una volta
mentalmente tutte le informazioni in suo possesso: il suo avversario
era in Germania. Gli agenti normalmente trascorrevano un periodo di
riposo fra una missione e l’altra: il fatto che the Bishop fosse di
nuovo in azione dopo la faccenda della Francia faceva supporre che
non su trattasse di qualcosa che gli era stato ordinato dai suoi
capi.
Stava
lavorando per conto suo.
Sorrise
fra sé e sé, immaginando l’inglese che interrogava ogni
informatore, ogni lattaio, ogni portinaia comprata a suon di sterline
per scovarlo.
The
Bishop era furbo, naturalmente, sapeva a chi chiedere e come, ma non
aveva a che fare con uno sprovveduto: avrebbe potuto aspettare mesi
prima di scovare una traccia degna di questo nome.
Mesi
che non aveva.
E
quindi, come arrivare fino a lui?
Passò
in rassegna tutti i colleghi che avrebbero potuto – volenti o
nolenti – dire qualcosa a the Bishop. Non erano molti,
obiettivamente, e nessuno di essi sarebbe stato in grado di fornire
informazioni di una certa importanza.
Scosse
la testa: ci doveva
essere qualche elemento che non stava considerando, un agente come
the Bishop non rimaneva a pascolare da qualche parte in attesa di un
indizio, andava a colpo sicuro.
Si
alzò, scese nella Hall. “Buon giorno, signor ingegnere,” lo
salutò cerimoniosamente il portiere, accennando un inchino.
Il
Werwolf rispose con un sobrio cenno del capo, quindi si diresse a un
piccolo salotto composto da poltrone e divani disposti intorno a un
tavolino coperto di giornali. Raccolse un quotidiano straniero di
qualche giorno prima, lo sfogliò distrattamente: informazioni
sull’andamento della guerra, cartine dell’Europa con disegni
delle varie offensive portate avanti su questo o quel fronte.
Immaginò il lavoro di intelligence che stava dietro a ognuna di
esse, agenti che si erano scambiati informazioni, doppiogiochisti
comprati, spie sotto copertura, furti di informazioni, codici
decifrati.
Ogni
combattimento nascondeva mesi di lavoro sotterraneo, svolto da gente
di cui non si sarebbe mai saputo nemmeno il nome.
Adocchiò
una signora che indossava uno spolverino chiaro e un ampio cappello
trattenuto sotto la gola da una sciarpa di velo. La vide infilare un
paio di guanti di camoscio e notò che sul marciapiede, appena fuori
dalla porta, attendeva una vettura.
Si
chiese se fosse lei a guidare l'auto, oppure se fosse solo una
passeggera.
Prese
posto su uno dei divani, raccolse un quotidiano a da dietro le pagine
del giornale prese a seguire le evoluzioni della dama, chiedendosi se
potesse trattarsi di un'agente straniera.
Non
aveva l'accento di Berlino, parlava di monumenti da vistare. Era una
copertura, oppure era lui che ormai vedeva spie dappertutto?
Riportò
lo sguardo sulle pagine e a quel punto dovette faticare per non
sussultare: c'era la fotografia di un ufficiale che stringeva la mano
all'Imperatore dopo che questi l'aveva decorato con il Pour le
Mérite.
Fu
come se in un istante tutti i pezzi di un rompicapo andassero a
posto: the Bishop non aveva alcun bisogno di trovare lui, gli bastava
trovare Maximilian von Knobelsdorff.
Tutto
terribilmente logico, terribilmente semplice: l'inglese era capace di
catturare il tenente e rispedirglielo un pezzo per volta, stando
attento a non mandargli nessuna parte vitale, fino a che non lo
avesse convinto a consegnarsi.
Sarebbe
stato in grado di sopportare una cosa del genere? Gli doleva
ammetterlo, ma la risposta era no.
Si
alzò così bruscamente che la signora si girò a fissarlo stupita.
Lui distolse lo sguardo borbottando qualche scusa, quindi si diresse
nuovamente in camera, dove riempì con gesti rapidi la valigia. Se la
sua intuizione era giusta, aveva pochissimo tempo per intercettare il
tenente, perché con ogni probabilità the Bishop era già sulle sue
tracce.
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Capitolo 20 *** Capitolo 12 - Seconda parte ***
Momenti di tensione, su
Rieducational Channel! Ecco che torna fuori il nostro amico
britannico, per la gioia dei suoi fan.
Come
sempre grazie a tutti coloro che mi stanno seguendo e commentando.
Von
Knobelsdorff guardò fuori dalla finestra: stava arrivando un'altra
automobile. La vide procedere adagio sul viale ghiaiato, poi fermarsi
davanti all'ingresso. Da essa scese uno chauffeur in uniforme, che
aprì cerimoniosamente la portiera del sedile posteriore.
Ne
uscirono divise e abiti lunghi da signora, con tanto di cappello.
Sbuffò
infastidito: divise e abiti lunghi, cappelli per signora larghi come
ruote di carro, pieni di velette, fiori finti e pernici impagliate.
Non vedeva altro da giorni. Ogni tanto compariva qualche raro abito
civile da uomo, perlopiù di membri anziani della famiglia.
Aveva
sperato di trascorrere la licenza nella pace e nel riposo, ma vi era
un'ininterrotta processione di parenti che volevano vederlo e
complimentarsi con lui, amici di famiglia, funzionari e delegati di
associazioni patriottiche.
Aveva
già posato per decine di foto, aveva già sopportato gli sguardi
forzatamente innocenti di innumerevoli signorine aristocratiche in
cerca di marito, aveva signorilmente tollerato l'invadenza delle loro
madri, che invece l'innocenza non si preoccupavano nemmeno di
simularla.
Il
fastidio che da qualche giorno lo assediava ebbe un parossismo. Senza
starci troppo a pensare su, abbandonò il suo punto d'osservazione e
si diresse alle scuderie.
Respirò
sollevato quando l'edificio di mattoni rossi apparve dietro una
barriera di querce. Rallentò e socchiuse gli occhi, lasciandosi
accarezzare da refoli d'aria carichi di quello che nella sua mente
era sempre stato l'odore della libertà.
Si
appoggiò con la schiena al tronco di un albero, già pregustando la
gioia di una lunga cavalcata in sella al suo cavallo preferito.
Si
avvicinò di soppiatto, attento a non farsi vedere. Ormai era
talmente infastidito da complimenti e felicitazioni che avrebbe
rischiato di rispondere male anche agli incolpevoli garzoni di
stalla. Molto meglio non dar segno di sé, sellare il suo bravo sauro
e distendersi i nervi con una bella galoppata.
Entrò
adagio. Nell’aria c’era silenzio, a parte i tonfi di qualche
cavallo che si muoveva sulla lettiera. Dalla selleria proveniva lo
sfregare rapido di qualcuno che ungeva dei finimenti.
Nonostante
ogni suo buon proposito, sorrise fra sé e sé al pensiero di
rivedere il decano degli artieri: un uomo piccolo, rugoso,
precocemente ingobbito, che però gli aveva insegnato più cose sui
cavalli di tutti gli istruttori di dressage e ostacoli con cui aveva
mai avuto a che fare.
Con
l’intento di fargli una sorpresa, cominciò a strisciare
silenziosamente lungo la parete. Raggiunse la porta della selleria,
azzardò una cauta occhiata all’interno e d’improvviso il cuore
gli balzò nel petto.
Seduto
su una cassa, una testiera sulle ginocchia, un barattolo di grasso a
fianco, c’era un uomo dalle spalle larghe, sicuramente non vecchio,
con i capelli neri e la pelle stranamente pallida. Lavorava con
impegno sui finimenti, ma era evidente che si trattava di un’attività
cui non era abituato.
Notò
accanto a lui, sul bordo del tavolo, il levarsi di un esile filo di
fumo. Riconobbe l’odore di tabacco forte che aveva già sentito
all’interno del vagone in cui era stato rinchiuso e interrogato.
Arretrò.
Rinculò passo passo, di colpo attento a non produrre alcun rumore,
aspettandosi a ogni istante che una mano gli calasse sul collo e lo
strattonasse indietro. Raggiunse l’entrata della scuderia con i
muscoli tesi come corde, si dileguò rapido all’esterno,
addentrandosi come un animale selvatico nel folto dei boschi che
circondavano la tenuta.
Solo
quando fu ad alcune centinaia di metri dall’edificio si concesse di
fermarsi a riposare. Si lasciò cadere su una pietra, si passò una
mano fra i capelli.
The
Bishop.
Era
lui. L’aveva visto solo di spalle, ma era certo di non sbagliarsi.
Si
guardò intorno sentendosi un cervo che percepisce l’avvicinarsi
dei cacciatori, consapevole che avrebbe dovuto fare qualcosa, ma
troppo agitato per pensare lucidamente a cosa.
§
Di
nuovo al magazzino delle granaglie, in abiti da semplice impiegato,
von Thurn und Taxis entrò in uno degli uffici al piano terra e
chiuse la porta alle proprie spalle. L’uomo che sedeva alla
scrivania al suo ingresso sollevò appena lo sguardo. “Desidera?”
chiese neutro.
Il
Werwolf non si scompose. Anche se la persona che aveva di fronte era
un suo collega e amico, in quel posto la regola era di trattarsi
sempre come estranei. “Le bolle di carico per la spedizione in
partenza,” rispose.
L’altro
annuì. “Le ho già preparate.” Spinse verso di lui una
cartellina bigia.
Il
primo la raccolse, quindi senza aggiungere altro abbandonò la
stanza, si trasferì al primo piano ed entrò in un ufficio nel quale
si trovavano un tavolino, un telefono, una libreria vuota e uno
specchio. Fece un cenno di saluto verso la lastra di vetro e si
sedette al tavolino. Aprì la cartella.
All’interno
vi era una seconda cartella, più piccola, con scritto sopra
Maximilian von Knobelsdorff. Ne sfogliò il contenuto: fotografie,
corso di studi, una copia del brevetto di ufficiale, parenti
conosciuti, amici. Sollevò le sopracciglia nel leggere di un cadetto
di nome Friedrich von Wangenheim, col quale il tenente sembrava avere
avuto un’amicizia intensa che si era poi inspiegabilmente
raffreddata.
Scorse
i dati anagrafici, l’indirizzo della residenza di famiglia. Una
grafia conosciuta aveva tracciato una sequenza di cifre sul margine
di una pagina.
Tese
una mano verso l’apparecchio telefonico e compose il numero. Attese
la linea tamburellando sul piano del tavolo. Dall’altra parte,
l’apparecchio cominciò a suonare.
“Forza,”
ringhiò il Werwolf dopo un po’.
Il
palazzo era grande, magari non c’era nessuno vicino al telefono.
“Forza,”
ripeté. “Rispondi.”
Finalmente,
dall’altra parte del filo una voce maschile annunciò: “Residenza
von Knobelsdorff.”
“Devo
parlare immediatamente con Maximilian von Knobelsdorff,” disse
asciutto l’agente segreto.
Dall’altra
parte ci fu qualche secondo di silenzio. “Chi devo dire?” chiese
infine la voce.
“Principe
Karl Ludwig Amadeus von Thurn und Taxis.”
Altro
silenzio, infine l’uomo rispose: “Abbia la compiacenza di
attendere, eccellenza.”
Il
Werwolf percepì il rumore della cornetta che veniva posata su una
superficie dura e poi dei passi che si allontanavano rapidamente.
Trascorsero
lunghi secondi, l’agente segreto riprese a tamburellare sul tavolo.
“Muoviti,” disse a mezza voce. “Muoviti, maledizione. Quanto
accidenti potrà essere grande questa residenza?”
I
passi del domestico che ritornava interruppero il picchiettare delle
dita. “Il signor barone è uscito, eccellenza,” annunciò l’uomo.
Il
Werwolf sentì i muscoli irrigidirsi. “Dov’è andato?”
“Non
lo ha lasciato detto, eccellenza.”
“È
questione della massima urgenza,” specificò tagliente il principe.
“Mi
dispiace, eccellenza, il signor barone non c'è.”
Von
Thurn und Taxis chiuse pensoso la comunicazione. Maximilian era
solito andarsene senza specificare dove? Impossibile saperlo, così
come era impossibile essere certi che la sua scomparsa non avesse a
che fare con the Bishop.
L'unica
era verificarlo di persona. Si voltò verso lo specchio e disse: “Mi
serve un mezzo veloce.”
Dall'altra
parte del vetro provenne la domanda: “Per andare dove?”
“Rollwitz.”
“Quando?”
“Adesso.”
§
Von
Knobelsdorff girò lo sguardo in direzione della scuderia. Dal punto
in cui si trovava non riusciva a vedere l'edificio, ma era come se ne
percepisse l'immanenza sinistra.
The
Bishop.
Si
costrinse ad abbandonare ogni emotività, a fare il vuoto in mente.
Cercò di ragionare con la testa dell'agente inglese.
Perché
era arrivato lì a Rollwitz? Non certo per lui. Di sicuro intendeva
usare lui per arrivare al Werwolf, ma come? Pensava forse che fosse
in possesso di informazioni sull'agente tedesco? Che sapesse dove si
nascondeva?
Oppure,
più semplicemente, supponeva che il Werwolf avrebbe preso parte al
ricevimento in preparazione?
Quale
che fosse la risposta, il dato di fatto era uno solo: the Bishop era
lì.
La
cosa da una parte gli comunicava una tormentosa sensazione di
angoscia, ma dall'altra lo poneva nella necessità di agire.
Sulla
fusoliera dell'aereo inglese sono dipinte almeno otto croci nere.
Forse sono anche di più, ma in volo, con l'occhio ancora poco
allenato del novellino, lui conta solo quelle.
Deve
essere un asso, si dice, un veterano.
Sta
inseguendo il suo capopattuglia, il maggiore von Stade, e tutta la
sua attenzione sembra essere assorbita da quella caccia. Vuole
aggiungere un'altra croce nera, probabilmente, e l'aereo del
maggiore, pieno di coccarde rosse e blu, sarebbe un magnifico trofeo.
Si
chiede se sia vero quello che dicono i vecchi, ovvero che alla fine
ottenere nuove vittorie diventa una specie di ossessione, che fa
dimenticare prudenza e buon senso.
Ha
sentito di piloti che si sono fatti abbattere per quel motivo.
Guarda
di nuovo l'aereo inglese, caparbiamente incollato alla coda di von
Stade, e si rende conto che l'unico che può fare qualcosa per il
maggiore è lui, un tenentino appena arrivato dalla cavalleria, con
un Albatros talmente nuovo che l'abitacolo puzza ancora di vernice.
Senza
starci troppo a pensare dà gas: l'aereo si lancia in avanti, prende
quota. Lo SPAD inglese sta volando a zig zag dietro l'Albatros di von
Stade e non fa nemmeno caso a lui.
Due
raffiche ed è finita: il caccia nemico scivola d'ala, butta il muso
verso il basso ed entra in vite. Poco dopo si schianta sulla terra di
nessuno e prende fuoco.
Rimane
a fissarlo serio. Un po' si pente di averlo attaccato così, alle
spalle, senza dar segno di sé, ma il rimorso dura poco: ha abbattuto
un pericoloso avversario, ha salvato la vita al suo comandante. Le
acrobazie sfrenate dei colleghi gli confermano meglio di ogni altra
cosa che ha fatto quel che si doveva fare.
Un
refolo di vento fece frusciare le foglie. Egli si tese, si guardò
intorno. Doveva agire. Non avrebbe saputo come avvisare il Werwolf e
non avrebbe avuto alcun senso avvisare altri. Cosa avrebbero potuto
fare, ad esempio, i tranquilli gendarmi di Rollwitz, abituati a
gestire ubriachi e ladri di polli, contro the Bishop?
L'unico
che poteva fare qualcosa per eliminare la pericolosa spia era lui.
A
quel pensiero ebbe un attimo di sgomento: aveva ucciso molti nemici
in azioni di guerra, ma non si era mai trovato a pianificare
lucidamente un omicidio.
Che
fare?
Il
problema non era a livello morale, ovviamente: l'inglese era una spia
e il suo dovere era ucciderlo. Le sue preoccupazioni erano più che
altro di ordine pratico: sarebbe riuscito a sorprenderlo? Sarebbe
riuscito a fare ciò che si proponeva? E una volta portato a termine
l'ingrato compito, come avrebbe evitato di passare per assassino ed
essere perseguito come tale? Chi avrebbe confermato l'identità della
spia straniera, se l'unico che lo conosceva, ovvero il Werwolf, era
sparito chissà dove?
Si
impose di non indugiare oltre in quelle considerazioni: era chiamato
a rendere un servizio alla Patria, null'altro importava.
§
A
cavallo di una potente motocicletta, un paio di occhiali da pilota a
proteggergli gli occhi, di nuovo in uniforme, von Thurn und Taxis
divorava la strada che portava a Rollwitz. Il rombo del veicolo,
lanciato a tutta velocità, era talmente forte da coprire ogni altro
suono; il paesaggio si era trasformato in un indistinto susseguirsi
di macchie verdi e marroni, punteggiato qua e là del bianco d’una
masseria, o del baluginare fugace di specchi d’acqua sotto il sole.
The
Bishop era là.
Era
chiaro come il sole che sarebbe andato là.
Si
chiese come aveva potuto essere così stupido, come aveva potuto
lasciar capire a un avversario come l’inglese che sulla faccia
della terra esisteva una persona che gli interessava.
Aveva
passato anni a costruirsi un usbergo che gli consentisse di scendere
in battaglia, anni a tappare ogni falla, a togliere ogni appiglio.
Era
diventato uno scafandro impenetrabile, che opponeva all’osservatore
solo buio e silenzio.
E
dopo tutto ciò, dopo essersi reso un micidiale strumento di morte,
dopo aver rinunciato a qualsiasi altra cosa, si era lasciato prendere
da quei sentimenti che credeva di aver eliminato, e invece aveva solo
sopito.
“Non
voglio nessun altro.”
Lo
dice pacato, con il tono delle decisioni su cui non si ritorna mai
più.
Il
suo collega interrompe il lento passeggiare, costringendolo a
imitarlo. Si gira a fissarlo in viso. “Prego?” chiede infine.
“Hai
sentito.”
Morgenrot
alza le spalle. “Si farà quel che dice Matthesius.”
“Non
io. Altrimenti si trova un altro agente.”
“Tutti
noi facciamo quel che dicono lui e la Lesser. Non vedo perché tu
dovresti fare di testa tua.”
Stringe
i denti. “Lavoro meglio da solo.”
“Non
mi risulta.”
“Invece
è così. Non posso preoccuparmi di un...” esita. Stava per dire
‘compagno’, ma si corregge: “Non posso preoccuparmi di un
collega. Devo concentrarmi sulla missione, devo essere libero di
muovermi in completa autonomia.”
Morgenrot
riprende a camminare. Pone la braccia dietro la schiena, come un
tranquillo signore di mezz’età che fa la sua passeggiata
quotidiana. Egli lo segue per un po’ con lo sguardo: è tutto
finto, naturalmente. Se volesse, il suo collega potrebbe fare una
capriola da in piedi senza nemmeno darsi lo slancio. Sa che ha una
lama nascosta nella manica ed è in grado di usarla con micidiale
destrezza.
“Non
capisci, vero?” dice raggiungendolo.
“Oh,
no. Capisco benissimo, invece.”
“Lavorare
con qualcuno mi distrarrebbe,” ripete caparbio, come se volesse
convincere anche se stesso. “Mi costringerebbe a preoccuparmi di un
altro.”
“E
l’altro si preoccuperebbe di te. Quante volte è successo fra voi?”
“Preferirei
evitare l’argomento.”
Di
nuovo Morgenrot alza le spalle con fare noncurante. “Puoi farlo,
certo, ma ricordati sempre che certi argomenti non eviteranno te.”
Aveva
ogni parola di quel breve scambio scolpita in mente.
Mai
più nessuno, l’aveva giurato.
Eppure,
certe cose di Maximilian gli facevano pensare, o forse sperare, che
un giorno avrebbe potuto occupare un posto che forse era rimasto
vuoto troppo a lungo.
In
fondo, pensò con un sospiro, i lupi cacciano in branco, o a coppie.
Una
figura comparve a un tratto nel mezzo della carreggiata: forse un
animale selvatico, di cui colse soltanto una sagoma marrone e occhi
gialli spalancati.
D’istinto
sterzò bruscamente.
La
moto sbandò, s’inclinò, uscì di strada e prese a sobbalzare
sullo sterrato a folle velocità.
Il
Werwolf lottò per mantenerne il controllo, evitò di stretta misura
un albero, sbandò di nuovo e infine terminò la folle corsa a un
passo da un torrente, con una sterzata che sollevò una nube di
polvere.
Il
motore tacque e per un po’ gli unici suoni che si udirono furono il
gorgogliare dell’acqua e l’ansare concitato dell’uomo.
Infine
il Werwolf si guardò indietro, constatando che l’animale era
sparito. Gli fu grato: la sua comparsa aveva avuto il potere di
strapparlo a un rimuginare inane, che lo portava a rannicchiarsi in
se stesso invece di proiettarlo nell’azione.
Fece
ripartire la motocicletta, la riportò sulla strada. Certo, the
Bishop era là, si era preso il vantaggio di minacciare l’unica
persona che era stata in grado di evocargli Reiner, ma non aveva a
che fare con uno sprovveduto.
La
resa dei conti si avvicinava.
§
The
Bishop raccolse un secchio, lo riempì di biada e si avviò
zoppicando lungo il corridoio centrale della scuderia.
Non
era stato difficile ottenere il posto: gli era bastato sfruttare
quello che a suo tempo aveva detto alla finta dama della Pentecoste,
ovvero che a seguito di una ferita di guerra aveva una gamba di
legno. La baronessa von Knobelsdorff, donna di forti sentimenti
patriottici, non aveva esitato a dargli lavoro.
Dire
balle a certa gente era come sparare sulla croce rossa.
Tutt’altra
cosa sarebbe stata sorprendere il Werwolf. Una trappola per un
leopardo era comunque preparata per catturare una belva, non un
timido cerbiatto. Certo, la presenza del ragazzo lo rendeva meno
letale, appannava in qualche modo la sua pericolosità, ma non lo
rendeva innocuo.
Ha
dislocato in giro parecchi soldati, ha spiegato loro che una
pericolosa spia tedesca è nell’edificio. Si è premurato che tra
essi non ci fossero novellini, ha preso solo gente esperta, che non
si lascerà travolgere dall’emotività.
Nella
luce che sta calando, fissa attento il villino padronale immerso nel
verde. Sa che il Werwolf è lì dentro e sa che dovrà per forza
uscire, a un certo punto.
Passa
un tempo imprecisato, i soldati camminano su e giù in lenti giri di
ronda. Il silenzio è talmente profondo che riesce a sentire persino
il fruscio dei suoi stessi abiti quando si muove.
Poi
d’un tratto c’è odore di fumo. Al primo piano una finestra si
spalanca, tutti puntano i fucili in quella direzione, ma ne escono
solo sinistre lingue di fuoco.
Un
istante dopo, al lato opposto del villino succede la stessa cosa: una
finestra si sfonda e ne esce una fiammata che fa accartocciare le
foglie degli alberi vicini.
“Ma
che fa,” ringhia inquieto, “vuole bruciare vivo?” E mentre lo
dice sa che non è così, sa che quello è un diversivo per qualcosa,
anche se non riesce a capire cosa.
Le
fiamme frattanto ruggiscono, ormai è il calore stesso che sfonda le
finestre, colonne di fumo denso salgono verso il cielo.
Un
graduato lo raggiunge, gli chiede istruzioni. È chiaro che si
aspetta l’ordine di chiamare i pompieri.
“Mantenete
la posizione,” ordina conciso.
L’altro
lo fissa attonito, deve faticare per non rispondere qualcosa. Lo
capisce: non sa chi sia il Werwolf, pensa di avere a che fare con un
normale agente segreto.
Un
istante dopo, qualcuno urla.
Corre
in quella direzione, solo per trovare un uomo a terra, che sussulta
gorgogliando con la gola tagliata. Echeggiano a breve distanza colpi
di fucile, si ode un urlo d’agonia.
Va
a vedere: altri due soldati morti, intravede una sagoma riversa anche
al limitare della macchia.
Si
odono altri spari, quasi coperti dal rombo cupo delle fiamme. I
soldati ormai tirano a casaccio, dovunque pensino di vedere un
movimento. Tutt’intorno alla casa divorata dal fuoco crepita una
disordinata fucileria.
Il
mattino dopo, lo spettacolo è desolante: dell’edificio rimane solo
un rudere annerito, da cui si levano lente colonne di fumo. Otto
uomini sono morti.
Del
Werwolf nessuna traccia.
Qualcuno
dice che sia perito nel rogo, ma ovviamente non è così, lo
testimonia la scia di cadaveri che si è lasciato dietro fuggendo.
Eppure
aveva calcolato tutto, organizzato la cattura nei minimi particolari.
Non
aveva pensato al fuoco. Chi sarebbe così pazzo da dar fuoco a una
casa standoci dentro?
Il
dannato tedesco, evidentemente.
Proseguì
con il suo secchio, lo distribuì nelle mangiatoie secondo le
quantità che gli erano state indicate. L’ultimo cavallo cui diede
la biada era un sauro con le quattro balzane bianche, snello e
vivace, che scartò e frustò l’aria con la coda quando lo vide
arrivare.
Era
il cavallo preferito del signorino, a quanto gli avevano detto, il
che lo portava a tenerlo d’occhio con particolare attenzione.
Teneva
d’occhio tutto, comunque. Origliava i discorsi degli altri garzoni
di stalla e si intratteneva con certe servette del palazzo. Quando
era sicuro che nessuno lo vedesse, abbandonava l’andatura
claudicante e compiva giri d’esplorazione nella tenuta.
Catturare
l’amichetto del Werwolf non sarebbe stato difficile. Più complesso
sarebbe stato convincere il suo nemico a consegnarsi. Si chiese
quanti pezzi del tenente sarebbero stati necessari.
§
Chiuso
nella sua camera, Maximilian von Knobelsdorff estrasse la Mauser
d’ordinanza dalla fondina e controllò che fosse carica.
Successivamente
andò alla porta, la aprì cauto e si affacciò in corridoio:
nessuno.
Nascose
l’arma nella cintura, quindi uscì rapido, scese le scale e
attraversò il salone. Anche lì, nessuno in vista.
Sgattaiolò
fuori e s’inoltrò nel parco.
Al
riparo delle piante ripensò per l’ennesima volta a come portare a
termine il compito nel migliore dei modi. Si sentiva un cacciatore da
solo, nel folto della foresta, in attesa di un cinghiale
particolarmente grosso e feroce.
Avrebbe
avuto il sangue freddo di mirare al punto più vulnerabile e
lasciarlo avvicinare quel tanto che avrebbe reso il colpo letale?
Non
aveva senso porsi quelle domande: era un ufficiale di un esercito in
guerra, combattere con sangue freddo ed efficienza era semplicemente
il suo dovere. Si era mai chiesto cose del genere prima di decollare
per le missioni di combattimento?
Portò
una mano dietro la schiena, a palpare la sagoma familiare della
Mauser, e ne trasse una sensazione di sicurezza: the Bishop poteva
essere un impareggiabile agente segreto, ma di certo nemmeno lui era
invulnerabile.
Si
spostò adagio, sempre mantenendosi al riparo della vegetazione.
Quando raggiunse la scuderia, andò alla parte posteriore
dell'edificio, dove normalmente si concentravano le attività dei
garzoni di stalla. Si acquattò silenzioso.
Era
ormai pomeriggio inoltrato e i cavalli che avevano trascorso la
giornata nei pascoli venivano man mano riportati dentro. Entro breve
avrebbero cominciato a distribuire il fieno nelle mangiatoie.
Si
chiese se fosse il caso di aspettare il buio: l'oscurità avrebbe
forse agito in suo favore nascondendolo, ma allo stesso tempo
l'avrebbe intralciato, perché tutti gli addetti sarebbero stati
all'interno dell'edificio e quindi trovare the Bishop da solo sarebbe
stato molto più difficile.
Rimpianse
che non ci fosse il Werwolf: lui avrebbe di certo saputo cosa fare.
Avrebbe saputo quando attaccare e come, sfruttando al massimo tutti i
vantaggi che la situazione offriva.
Senza
staccare gli occhi dalla scuderia, emise un lungo sospiro. La
competenza in determinate faccende non era l'unico motivo per cui il
principe von Thurn und Taxis gli mancava. Rimpiangeva le sue frasi
taglienti, la sua decisione. La sua stretta sul braccio.
A
quel pensiero, involontariamente si toccò appena sotto la spalla,
dove solitamente si chiudeva la mano del Werwolf.
Fugacemente
si domandò dove fosse, cosa stesse facendo. Aveva già un'altra
missione? Era da qualche parte dietro le linee, magari travestito da
ufficiale inglese o francese?
Se
fosse riuscito a uccidere the Bishop, forse gli avrebbe facilitato il
lavoro. A quel pensiero sorrise fra sé e sé.
Un
istante dopo tutti i suoi sensi si focalizzarono sulla porta della
scuderia, dove era comparso l'uomo pallido dai capelli neri. Questi
scambiò qualche parola con uno dei garzoni di stalla, poi raccolse
da una staccionata una serie di coperte stese ad asciugare e si
allontanò.
Il
tenente aggrottò perplesso le sopracciglia: claudicava vistosamente,
trascinandosi dietro una gamba irrigidita.
Eppure
era lui. Anche se da lontano, ne aveva riconosciuto la forma del viso
e la struttura fisica. Inoltre, quei capelli neri, associati a quello
strano pallore, erano inconfondibili.
Lo
osservò di nuovo: zoppicava come se avesse avuto una gamba di legno.
The
Bishop era sano quando lui e il Werwolf erano decollati
dall'aeroporto inglese. Possibile che nel frattempo gli fosse
successo qualcosa alla gamba? E come avrebbe potuto continuare a
svolgere l'attività di agente segreto, con una mutilazione così
grave?
Rimase
a guardare. La luce andava calando, le ombre si allungavano sui
prati. Gli ultimi cavalli rientravano in scuderia.
Gli
parve che fosse una specie di segnale, come un invito all'azione.
Avanzò
cauto, attento a non farsi vedere. Si appiattì a ridosso del muro e
subito dopo scivolò lesto all'interno.
Non
c'era nessuno, gli unici rumori che si udivano erano quelli dei
cavalli che si muovevano sulla lettiera o masticavano la biada. Per
lunghi minuti, egli rimase immobile a guardarsi intorno, attento a
ogni suono, a ogni segno di presenza umana.
Poi
sentì avvicinarsi un passo claudicante.
Il
cuore gli accelerò i battiti. Si addossò maggiormente alla parete
per non farsi vedere.
Qualcuno
chiese: “Sei sicuro di farcela, Anton?”
Una
voce ben nota rispose: “Sì sì, ci penso io.”
“Allora
vado?”
“Tranquillo,
finisco io col fieno.”
Poi
di nuovo silenzio, rotto solo dal rumore irregolare dei passi zoppi
dell'agente inglese.
Von
Knobelsdorff arrischiò un'occhiata: l'uomo procedeva adagio lungo il
corridoio centrale. Spingeva una carriola da cui spuntava il manico
di un forcone.
Sapeva
dove stava andando: a lato della scuderia c'era il fienile. Il che
era un gran bene, perché nell'edificio si sarebbero trovati solo
loro due. Non doveva fare altro che lasciarlo entrare e poi
raggiungerlo.
Attese
col cuore in gola, il tempo sembrava non passare mai. I passi si
affievolirono sempre di più e poi cessarono del tutto.
Quando
fu certo che l'uomo fosse uscito dalla scuderia, abbandonò il suo
nascondiglio e si diresse verso il fienile.
Si
fermò a ridosso della porta: da dentro proveniva il frusciare
regolare del foraggio smosso, segno che the Bishop stava riempiendo
la carriola. Sarebbe stato di spalle rispetto a lui.
Estrasse
la Mauser ed entrò rapido nell'edificio.
Annullò
la distanza che lo separava dal deposito del fieno. D'un tratto era
come se avesse urgenza di concludere la faccenda. Di farlo subito,
prima di ripensarci.
L'uomo
era di spalle, stava lavorando tranquillo. Sollevò la pistola, ma
nel movimento urtò appena un falcetto appeso a un gancio. Lo
strumento emise un debole tintinnio.
In
un istante, the Bishop si girò, brandì il forcone e glielo scagliò
contro.
Von
Knobelsdroff venne trafitto a mezzo corpo. Arretrò con un gemito di
dolore mentre la pistola gli sfuggiva di mano. Istintivamente afferrò
il manico dell'attrezzo come per strapparselo via, ma i rebbi,
affilati come lame, gli si erano conficcati profondamente nella
carne.
L'inglese
lo raggiunse e ghignò: “Ma chi si rivede: Gretchen.” Afferrò a
sua volta il manico del forcone e spinse brutalmente in avanti,
piantandolo ancora più a fondo.
Il
tenente gemette di nuovo, sentì le ginocchia cedergli. Crollò a
terra accanto al mucchio di fieno.
“Sei
stupido e impulsivo come ricordavo,” considerò sarcastico the
Bishop.
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Capitolo 21 *** Capitolo 13 ***
Gente mia,
ecco
qui il capitoletto settimanale. Succedono un po’ di cose, quindi
spero che non vi annoierete. Grazie a tutti coloro che mi stanno
seguendo; un ringraziamento particolarmente caloroso a tutti coloro
che sono così gentili da lasciarmi un commento!
Capitolo
13
La
quiete del parco di Rollwitz fu turbata dal rombo furioso di una
motocicletta lanciata a tutta velocità.
Il
bolide sfrecciò sul viale d'ingresso della villa e si fermò di
fronte al portone facendo schizzare la ghiaia da sotto le ruote. Il
motore tacque.
Il
Werwolf balzò giù dal veicolo e mentre ancora si toglieva gli
occhialoni da pilota salì la scalinata che conduceva all'ingresso.
Venne
intercettato da un domestico, che con sussiego gli chiese: “Il
signor capitano desidera?”
Pur
vagamente ansante, l'altro recuperò la propria compostezza e
rispose: “Devo vedere con urgenza il barone Maximilian von
Knobelsdorff, è già tornato?”
Il
maggiordomo sollevò le sopracciglia nel riconoscere la sua voce,
quindi rispose: “Sono desolato, eccellenza, il signor barone non è
ancora rientrato.”
Il
Werwolf si sentì gelare. Pur avendo già ricevuto risposta al
telefono, chiese: “Ha lasciato detto dove sarebbe andato?”
“No,
eccellenza.”
“È
cosa della massima importanza,” specificò di nuovo, nell'assurda
speranza che Maximilian fosse a divertirsi con qualche servetta e
avesse dato ordine di non rivelarlo a nessuno. “Il barone è in
grave pericolo.”
Il
domestico rimase interdetto. “Il signorino è in pericolo?”
ripeté.
“Gravissimo,”
specificò il Werwolf, sperando che ciò convincesse l'uomo a
sbottonarsi maggiormente.
L'altro
però non si mosse.
“Non
le importa che il barone sia in gravissimo pericolo?” lo incalzò
lui.
“Certo
che mi importa, eccellenza,” fu la risposta, proferita in tono
vagamente piccato, “Ma deve credermi: il signorino non c'è e non
ha lasciato detto quando sarebbe tornato.”
“Sono
passate ore dalla mia telefonata. Possibile che il barone non abbia
ancora dato segno di sé? Possibile che nessuno si sia preoccupato?”
L'altro
apparve confuso. “Mi dispiace, eccellenza.”
Il
Werwolf strinse le labbra obbligandosi alla calma. “Mi
faccia parlare con la baronessa,” ordinò infine.
Il
domestico si allontanò. Egli immaginò che sarebbe tornato e
l'avrebbe scortato verso qualche salottino dell'ampia dimora, invece
fu la baronessa in persona a raggiungerlo.
Edeltraud
von Knobelsdorff era alta quanto lui, asciutta come un tronco
d'abete, regale nel portamento. Egli riconobbe nel suo volto pallido
alcuni tratti di Maximilian: il colore degli occhi, la piega delle
labbra, lo sguardo attento e indagatore. Notò che aveva alla radice
del naso la stessa ruga che compariva anche al figlio nei momenti di
più intensa attenzione e preoccupazione.
Le
si presentò secondo le regole dell'etichetta.
La
baronessa lo osservò attenta, quindi senza preamboli disse: “Anselm
mi ha riferito che a suo parere mio figlio sta correndo un grave
pericolo. Vuole essere più chiaro, per favore?”
Il
Werwolf assentì. “C'è un posto dove possiamo parlare, baronessa?”
La
donna lo condusse a un piccolo salotto dalla severa mobilia in
quercia, scura e lucida. Gli indicò una poltrona e prese posto in
quella che si trovava di fronte. “La ascolto,” gli disse poi.
Von
Thurn und Taxis le raccontò per sommi capi la missione dietro le
linee.
La
baronessa annuì grave, quindi chiese: “Per quale motivo la spia
britannica di cui lei mi parla dovrebbe interessarsi a mio figlio? A
quanto ho capito, è lei l'agente segreto. Lui ha solo pilotato
l'aereo che avrebbe dovuto ricondurla dietro le nostre linee.”
“La
spia sa che non riuscirebbe mai a catturare me. Suo figlio è
semplicemente un'esca per attirarmi in trappola.”
La
baronessa lo fissò dritto negli occhi, quindi lentamente chiese:
“Lei rischierebbe la vita per salvare Maximilian?”
Il
Werwolf annuì.
Impassibile,
la donna replicò: “Lei è un agente segreto. La vita di un anonimo
tenente viene prima della sicurezza della Nazione?”
“Agisco
in questo modo proprio per non essere costretto a scegliere,
baronessa.”
§
Von
Knobelsdorff sbatté gli occhi cercando di mettere a fuoco the
Bishop. Diede un colpo di tosse e una fitta lancinante lo costrinse a
gemere. Sentì un rivolo di sangue colargli lungo il mento.
“Non
fare la commedia, Gretchen,” lo schernì l'agente segreto, “nessuno
muore per una faccenda del genere, nemmeno uno stupido mangiacrauti
come te.”
Il
tenente non rispose. Le parole dell'inglese gli giungevano
indistinte, come attraverso l'acqua. Portò una mano al manico del
forcone, ma gli parve di toccare dell'ovatta.
Di
nuovo gli giunse la voce beffarda di the Bishop: “Hai ragione,
sarebbe piuttosto ingombrante portarsi dietro anche questo attrezzo.”
Si avvicinò.
Egli
cercò di farsi indietro, ma l'altro gli fu addosso in un attimo. Gli
puntò un piede contro l'addome, estrasse il forcone come avrebbe
sfilato una vanga piantata nel terreno, poi lo buttò con noncuranza
da una parte.
Von
Knobelsdorff non riuscì nemmeno a urlare. Anche solo respirare gli
spediva brividi di dolore in tutto il corpo, si sentiva l'uniforme
inzuppata di sangue. La debolezza si stava impadronendo di lui.
The
Bishop si chinò fino a trovarsi col viso all'altezza del suo, quindi
gli disse: “Ora ti porterò in un posticino sicuro, Gretchen. Ti
terrò lì nascosto e farò sapere al tuo amichetto che sei da
qualche parte ferito e stai soffrendo.” Tacque per qualche secondo,
quindi soggiunse: “Perché tu stai soffrendo, non è vero? Di' un
po', soffri di più per questi quattro buchetti in pancia o perché
lui non è qui con te?”
Il
tenente non rispose.
L'altro
attese per qualche secondo, poi disse: “Il tuo silenzio mi spezza
il cuore, Gretchen.” Scosse la testa ostentando delusione, si
rialzò in piedi e proseguì: “Ma ora è meglio andare, altrimenti
rovineremo la sorpresa che ho preparato.”
Von
Knobelsdorff si sentiva sprofondare in un baratro buio. Di attimo in
attimo diventava più debole. Il dolore si affievoliva, sostituito da
una sempre più intensa sensazione di gelo.
Sto
morendo, pensò.
Spostò
appena la mano destra. Avrebbe voluto sollevarla per tergersi il
sudore freddo che ormai gli imperlava il viso, ma le dita
intercettarono un oggetto metallico.
The
Bishop stava ancora parlando. Andare
via, nascondiglio, Werwolf...
Ormai non riusciva più a seguire le frasi per intero, coglieva solo
qualche parola qua e là.
La
mano strisciò adagio, palpò cieca, come una specie di animale
terricolo alla ricerca di un rifugio. Riconobbe la zigrinatura del
calcio della Mauser.
Stava
morendo, ne era certo. Ormai sedeva in una pozza di sangue, tutto si
stava facendo buio. The Bishop era una sagoma indistinta, nella quale
coglieva solo l'ovale bianco del viso. Strinse i denti raccogliendo
le ultime forze, impugnò la pistola e sparò.
Perse
la cognizione delle cose.
§
L'eco
della detonazione, sebbene appena percettibile, fece scattare in
piedi il Werwolf.
La
baronessa lo fissò tesa. “Che cosa c'è?” gli chiese. Puntò le
mani sui braccioli della poltrona, come per scattare a sua volta.
“Qualcuno
ha sparato.”
“Ne
è certo?”
“Sì.”
Indicò la provenienza del rumore. “Cosa c'è da quella parte?”
“Le
scuderie.”
“Vado
a vedere,” rispose asciutto il Rittmeister. Trasse la pistola dalla
fondina e fece per uscire. La donna lo fermò: “Vengo con lei.”
“Con
tutto il rispetto, baronessa, mi intralcerebbe e basta. Se lo sparo
significa ciò che temo, avrò bisogno della massima libertà
d'azione.”
Edeltraud
von Knobelsdorff aggrottò le sopracciglia e in tono duro replicò:
“È di mio figlio che stiamo parlando, principe.”
“Ne
sono consapevole. Se lei venisse con me, lo metterebbe maggiormente
in pericolo. Stia qui, piuttosto, convochi lo chauffer, gli dica di
tenersi pronto con l'automobile. Chiami i gendarmi. Queste sono tutte
cose che mi aiuterebbero molto.”
Senza
attendere risposta, uscì rapido dalla stanza e si portò
all'esterno. Corse nella direzione da cui era giunto lo sparo e dopo
poco vide profilarsi tra le querce un alto edificio di mattoni rossi.
Qua e là c'erano garzoni di stalla che si guardavano intorno
perplessi, evidentemente attratti dalla detonazione. “Via tutti!”
urlò senza fermarsi. “Questa è un'operazione militare!”
Sperò
che l'ingiunzione avrebbe perlomeno contenuto la curiosità della
gente, concedendogli più tempo per neutralizzare the Bishop.
Entrò
in scuderia, si guardò rapidamente intorno, ma tutto sembrava
tranquillo. I cavalli masticavano la biada, nulla faceva pensare che
da qualche parte stesse succedendo qualcosa fuori dall'ordinario.
Ispezionando
rapido l'ambiente, si accorse che la porta sul retro era aperta. Vi
si diresse, si affacciò con cautela, adocchiò nella luce violacea
del crepuscolo un fienile. Anche la porta di quell'edificio era
aperta, all'interno era accesa una lampada fioca.
L'arma
stretta in pugno, lo raggiunse adagio.
Si
fermò sulla soglia, tese immobile l'orecchio. Dapprima non sentì
nulla, poi gli parve di cogliere un lieve tramestio. Infine una voce
ben nota ringhiò: “Piccolo figlio di puttana.”
Non
giunse risposta.
Avanzò
adagio, mantenendosi al coperto dietro i cumuli di fieno. Cominciò a
percepire l'odore ferroso del sangue.
Si
impose di fare il vuoto in mente: c'era the Bishop, e c'era qualcuno
chiaramente ferito o morto. A prescindere da quanto grave potesse
essere quel connubio, non poteva permettersi di cedere all'emotività.
Doveva essere freddo, anzi. Addirittura distaccato.
Come
se avesse dovuto occuparsi di un perfetto estraneo, con tutto il
tempo del mondo per farlo.
Fece
un altro passo avanti, inspirò ed espirò silenziosamente.
Udì
un nuovo tramestio, il raschiare di qualcosa di metallico sulla
pietra. Quel suono ebbe il potere di portare al parossismo
l'inquietudine che già gli attanagliava il petto. Si fece avanti
risoluto e dovette farsi forza per non sussultare: la pistola ancora
in pugno, von Knobelsdorff giaceva immobile in un lago di sangue. Di
fronte a lui the Bishop, una spalla trapassata, fiotti vermigli che
gli inzuppavano la camicia, reggeva con il braccio sano un forcone,
pronto a conficcarlo nell'ormai inerme avversario.
Premette
il grilletto, doppiò il colpo per sicurezza, l’agente inglese
crollò a terra. Egli non se ne curò nemmeno, corse invece a
inginocchiarsi accanto al tenente.
“Maximilian,”
lo chiamò. Andò alla ricerca della pulsazione della carotide, che
colse dopo un po', debole e irregolare. Strinse le labbra.
“Maximilian,” ripeté, ma il tenente non rispose. Gli sbottonò
l'uniforme, mettendo a nudo le quattro ferite prodotte dai rebbi del
forcone.
Si
alzò rapido, trasse di tasca il coltello da cui non si separava mai,
staccò dalla camicia dell'esanime avversario lunghe strisce, con cui
improvvisò bendaggi.
Quando
premette una compressa di stoffa sulla più profonda delle ferite, il
giovane ufficiale emise un gemito.
“Maximilian!”
esclamò il Werwolf.
Il
tenente socchiuse gli occhi e li volse verso di lui. Li strinse,
evidentemente lottando per metterlo a fuoco, infine mormorò:
“...Karl...”
“Sono
qui, Maximilian, non ti preoccupare.”
“Sono...
morto?”
“No,
hai la pelle dura. Ma ora non parlare e non muoverti, stai perdendo
molto sangue.”
Continuò
a tamponare come poteva le ferite. I rivoli rossi che nonostante i
suoi sforzi continuavano a filtrargli fra le dita gli facevano capire
che era in corso un'emorragia interna.
C'era
bisogno di un dottore, di trasfusioni, probabilmente addirittura di
una sala operatoria, ma dove trovare una sala operatoria e relativa
équipe chirurgica nel bel mezzo della campagna brandeburghese? La
risposta era semplice: in una caserma.
Valutò
rapido il da farsi, quindi si chinò sul tenente e gli disse: “Ho
bisogno di cercare aiuto. Non provare nemmeno ad alzarti mentre sono
via, ti giuro che torno presto.”
Ormai
pallido come un cencio, stremato, von Knobelsdorff si limitò ad
annuire. Il Werwolf lo fissò critico, augurandosi che non tentasse
nonostante tutto uno dei suoi colpi di testa, quindi si risolse ad
alzarsi per andare in cerca di aiuto.
Subito
fuori dal fienile s'imbatté in un paio di garzoni di stalla, che
evidentemente stavano girando lì intorno incuriositi dagli spari.
“Lei!” intimò brusco al più anziano dei due. “Vada
immediatamente ad avvertire la baronessa: è necessario portare qui
l'automobile.”
“È
successo qualcosa, signor capitano?”
“Il
barone Maximilian ha urgente bisogno di cure mediche. Ora si muova!”
L'uomo
corse via.
Il
Werwolf si rivolse all'altro: “Ci sono bende, qui?”
L'uomo
esitò qualche istante, colto alla sprovvista dalla domanda
inaspettata.
“Delle
bende!” ripeté asciutto l'agente segreto.
“Sissignore.
Abbiamo quelle che usiamo per i cavalli, signore.”
“Basta
che siano pulite.”
Nonostante
la concitazione del momento, il tono della risposta suonò vagamente
piccato: “Certo che lo sono, signore.”
“Allora
vada a prenderle immediatamente, e faccia approntare una barella.”
Detto
questo, il Werwolf si disinteressò del garzone di stalla e tornò da
Maximilian. Lo fissò critico: era sempre più pallido. Da sotto i
bendaggi non usciva quasi più sangue, ma sicuramente i rebbi del
forcone avevano lesionato qualche arteria, o magari squarciato organi
come fegato o milza. Si augurò che, dato il tipo di ferite e lo
strumento che le aveva inferte, non subentrasse una sepsi del
peritoneo.
Sistemò
le improvvisate fasciature e passò una mano sulla fronte sudata del
giovane, che però rimase immobile. Andò di nuovo alla ricerca del
polso carotideo ed ebbe l'impressione che fosse già più fioco, più
debole. Girò lo sguardo verso la sagoma riversa dell'agente inglese:
the Bishop era morto. Aveva passato anni a inseguirlo o a scappare da
lui, anni a guardarsi alle spalle in ogni momento, a controllare
ossessivamente ogni sua mossa, nella speranza di riuscire finalmente
a ucciderlo. Aveva fantasticato tante volte sul momento fatidico.
Aveva immaginato frasi a effetto, perlopiù su Reiner, perché certo,
the Bishop era un agente nemico, ma la faccenda tra loro due era da
tempo scivolata sul personale.
Si
chiese se al posto suo the Bishop lo avrebbe abbattuto così, senza
nemmeno dargli il tempo di girarsi a guardarlo.
Forse
sì, non era uno cui piaceva perdersi in chiacchiere.
L'arrivo
del garzone lo distrasse da ulteriori elucubrazioni. “Ecco qui,
signore,” disse, deponendo al suo fianco un sacco pieno di rotoli
bianchi. “Serve aiuto?”
Il
Werwolf lo fissò critico, ma l'uomo specificò: “Ho combattuto
nell'Africa del Sudest.”
“In
tal caso, mi aiuti a
bendarlo meglio.”
Pochi
minuti dopo, von Thurn und Taxis era sul sedile posteriore della
vettura, lanciata a tutta velocità verso la caserma di Pasewalk,
sede di un reggimento di fanteria.
Fra
le braccia sorreggeva Maximilian.
Il
tenente aveva la pesantezza inerte di una bambola di stracci, solo la
sua testa si muoveva appena in risposta alle curve brusche della
macchina.
Il
Werwolf gli toccò per l'ennesima volta il collo e sospirò di
sollievo quando i suoi polpastrelli percepirono una fievole
pulsazione.
Rivide
acqua rossa, che gorgogliava tra pietre coperte di muschio. Rivide
una mano inerte da cui una Mauser era scivolata via.
Chiuse
gli occhi e quella mano – la mano di Reiner – si trasformò in
quella di Maximilian, che stringeva la stessa arma.
La
prima abbandonata sui ciottoli del torrente, l'altra coperta di fili
di fieno insanguinati.
Abbassò
lo sguardo sul volto pallido del tenente. Non aveva mai pregato, non
avrebbe nemmeno saputo come farlo, ma capiva perché in certe
situazioni la gente rivolgesse suppliche a una non meglio
identificata Trascendenza.
Quando
gli strumenti terreni finivano, quando non rimaneva altro che
assistere impotenti al compiersi dell'inevitabile, forse veniva
naturale invocare gli idoli.
L'acqua
ormai non è più rossa. Tutto il sangue, ovvero la vita, è fluito
via e Reiner è un involucro vuoto. La midriasi post mortem è così
imponente che l'azzurro delle sue iridi si è trasformato in sottili
anelli chiari intorno a insondabili pozzi di oscurità.
Egli
fissa quegli abissi, desideroso nonostante tutto di immergervisi, di
perdersi in essi come ha fatto tante volte, ma non riesce a
sopportarne l'immobilità terribile. Arretra angosciato, realizzando
di colpo che tra lui e Reiner c'è ormai una barriera invalicabile.
Corre
via. Per portare a termine la missione, ma anche per allontanarsi da
quell'atroce consapevolezza.
La
macchina rallentò.
Egli
sollevò lo sguardo dal viso cereo di Maximilian e lo volse
all'esterno: ormai era buio, ma nel chiarore freddo di luci a gas
vide che una cancellata si stava aprendo lentamente. Colse un vociare
confuso, ordini gridati, tramestio.
Dedusse
che erano arrivati a Pasewalk.
Immaginò
che la baronessa avesse avvertito il comandante della caserma: di
sicuro lui e il barone von Knobelsdorff si conoscevano e
probabilmente si frequentavano, inoltre Maximilian era un eroe di
guerra decorato con il Pour le Mérite.
Proseguirono
adagio, attraversando un piazzale rischiarato da lampioni posti lungo
i quattro lati, e si fermarono di fronte a un edificio severo,
ingentilito da sobri fregi neoclassici.
Sulla
porta dell’edificio comparvero due camici bianchi.
Quelle
figure alte e mute evocarono al Werwolf ‘L’isola dei morti’, di
Böcklin. Si chinò sul tenente, che giaceva immobile fra le sue
braccia, e gli sussurrò: “Siamo arrivati, Maximilian.”
Non
ci fu risposta.
“Maximilian?”
La
portiera si aprì facendolo sobbalzare. Fuori c’erano due soldati
con una barella e uno dei dottori, un capitano medico alto e magro
dagli occhiali cerchiati d’oro.
Questi
si chinò e osservò il tenente, quindi alzò gli occhi su di lui in
una muta richiesta di spiegazioni.
“Quattro
ferite penetranti
dell’addome,” rispose asciutto il Werwolf, “sospetto
un’emorragia interna.”
L’altro
annuì. Si protese a fissare con più attenzione Maximilian, gli
tastò il polso e aggrottò la fronte.
Si
raddrizzò e ordinò rapido ai due soldati di porlo sulla barella.
Von
Thurn und Taxis si ritrovò da solo sul sedile posteriore della
lussuosa vettura. Lo sportello si era richiuso, per cui aveva
l’impressione di essere dentro una specie di bolla, dalla quale
vedeva ciò che stava succedendo ma non poteva influire sugli eventi.
Fece
scattare la maniglia, scese a sua volta e mosse qualche stanco passo,
respirando adagio l’aria della sera. Si era fatto freddo, o forse
era l'uniforme fradicia di sangue che gli dava quell’impressione.
Infilò
la mano in tasca, ne trasse un portasigarette. Lo osservò per
qualche secondo e la la mente saettò a una mattina di alcune
settimane prima. A un salone deserto e a un giovane tenente che
continuava a guardare fuori per vedere se la sua Jasta stava
rientrando dalla missione di guerra.
Lo
rimise via.
Si
voltò verso la porta da cui erano passati con la barella. Si chiese
cosa stesse succedendo in infermeria. Immaginò i due medici che
scuotevano la testa e un soldato di sanità che copriva il viso di
Maximilian con il lenzuolo.
Strinse
i denti imponendosi di non cedere all’emotività. Non era con
simili fantasie che avrebbe aiutato il ragazzo.
Si
voltò di nuovo verso la porta: non poteva più aiutarlo in nessun
modo, ormai. Le cose non dipendevano più da lui.
A
un tratto, sentì una mano posarglisi sulla spalla. Distratto
bruscamente da quei pensieri angosciosi, d'istinto fece un salto
indietro e si mise in posizione di guardia.
Udì
una breve risata, poi una voce bonaria chiese: “Sono tutti così
nervosi, gli ussari?”
Il
Werwolf rilassò i muscoli, emise il fiato che aveva trattenuto. Di
fronte a lui c’era un colonnello di fanteria, verosimilmente il
comandante della caserma.
Si
mise sull’attenti e salutò.
L'altro
rispose al saluto, quindi chiese: “È lei che l'ha portato qui?”
“Sissignore.
Rittmeister Karl Ludwig Amadeus von Thurn und Taxis.”
Il
colonnello sollevò le sopracciglia. “Dei principi von Thurn und
Taxis?”
“Sissignore.”
“Conosco
Friedrich Wilhelm von Thurn und Taxis.”
“È
il fratello di mio padre, signore.”
“Ha
ancora quelle magnifiche tenute di caccia dalle parti di Blankensee?”
“Sissignore.”
“Ricordo
che vi abbattei uno splendido esemplare di cervo maschio. Colonnello
Konrad von Ziemssen, a proposito. Sono un buon amico del barone Ernst
Wilhelm von Knobelsdorff. E della baronessa, ovviamente.”
All'udire
quel cognome, il Werwolf non poté fare a meno di gettare di nuovo
uno sguardo verso la porta. L'altro notò il gesto e disse: “Il
piccolo Maximilian: sempre a cacciarsi in qualche guaio. Lo conosco
da quando era un bimbetto alto così, sa?”
Il
Rittmeister si limitò ad annuire.
“È
un suo camerata?” chiese allora von Ziemssen.
Il
Werwolf strinse gli occhi. Un ussaro e un ulano erano camerati quanto
un fante e un artigliere. Si sorprese a chiedersi se la domanda del
colonnello avesse qualche significato recondito, ma l'altro
continuava a fissarlo con l'aria più tranquilla del mondo. Concluse
che tutta la faccenda l'aveva reso troppo nervoso. “Abbiamo
combattuto insieme,” rispose laconico.
“Ah,
pilota gli apparecchi anche lei?”
“Sissignore,”
rispose il Werwolf, sperando che la curiosità salottiera
dell'ufficiale non si spingesse fino a chiedergli particolari sulle
tattiche di volo.
Von
Ziemssen però non sembrava interessato a certe diavolerie moderne.
Protese il braccio per toccargli di nuovo la spalla, ma all'ultimo,
forse memore del suo scatto precedente, si interruppe. “Venga con
me,” disse invece, “lei ha un gran bisogno di bere qualcosa di
forte. Cos'è successo, a proposito?”
§
L'ufficio
di von Ziemssen era esattamente come lui: mobili di quercia, quadri
alle pareti, trofei di caccia, una vetrina con i fucili, un
caminetto. Spento, data la stagione, ma con alari d'ottone lucidi
come oro.
I
due sedevano in una specie di salottino composto da due poltrone fra
cui si trovava un basso tavolino rotondo.
Sulla
superficie del mobile c'erano una bottiglia di Schnaps e due
bicchieri.
Il
colonnello raccolse la bottiglia e propose: “Un altro?”
Il
Werwolf annuì. “Sì, grazie.” Spinse il bicchiere nella sua
direzione.
Von
Ziemssen mescé il liquore, poi disse: “Ora, capitano, sarei
curioso di sapere cos'è successo.”
Von
Thurn und Taxis annuì e sorbì un paio di sorsi. Abbassò gli occhi
sulla propria uniforme, che il sangue ormai secco stava rendendo
rigida come cartone. Infine dichiarò: “Il barone von Knobelsdorff
ha subito un'aggressione.”
Il
colonnello aggrottò le sopracciglia. “Un'aggressione? Come sarebbe
a dire?”
Impassibile,
il Werwolf spiegò: “Uno dei garzoni di stalla ha attaccato il
tenente von Knobelsdorff con un forcone. Per fortuna io ero nelle
vicinanze e sono intervenuto.”
“L'ha
attaccato? Com'è possibile?”
“Suppongo
che fosse uno squilibrato.”
Von
Ziemssen raccolse la bottiglia e versò da bere anche per sé. Sorbì
un generoso sorso di liquore, quindi brontolò: “Questi squilibrati
sono davvero un problema. L'uomo è stato assicurato alla giustizia?”
“L'ho
ucciso.”
Il
colonnello che stava per portare di nuovo il bicchiere alle labbra,
rimase col gesto a metà. “L'ha ucciso?”
Il
Werwolf annuì secco. “Non c'era altro da fare.”
All'apodittica
affermazione seguì qualche secondo di silenzio. Infine von Ziemssen
tossicchiò e disse: “Immagino abbia ragione. Del resto, questa
tragica vicenda dimostra con chiarezza che certa gente è solo un
peso per la società e dovrebbe perlomeno stare rinchiusa.”
“Esattamente,
signor colonnello.”
In
quel momento si udì bussare alla porta.
“Avanti!”
ordinò von Ziemssen.
L'anta
si aprì e sulla soglia comparve un'ordinanza, che si mise
sull'attenti e disse: “Signor colonnello, il signor capitano medico
Bergmann chiede di poter parlare con lei.”
L'ufficiale
annuì, poi rispose: “Riferisca al capitano che andrò da lui
appena possibile.”
Il
soldato non si mosse. “Signore, il signor capitano medico ha detto
che è molto importante,” specificò.
Il
colonnello annuì di nuovo. Fissò il Werwolf, poi si alzò in piedi.
“Voglia perdonarmi, Rittmeister,” borbottò evitando il suo
sguardo.
Abbandonò
la stanza.
Von
Thurn und Taxis rimase immobile. Abbassò lo sguardo sul bicchierino
di Schnaps pieno a metà. Lo beve d'un fiato, poi prese la bottiglia,
versò altro liquore e inghiottì anche quello.
Le
sue attività di spionaggio lo obbligavano a non ignorare nessuna
eventualità, ad avere sempre un piano di riserva. Fino a quel
momento si era proibito di elaborarne uno, ma a quel punto dovette
porsi la fatidica domanda: cos'avrebbe fatto se il colonnello fosse
rientrato e gli avesse detto che Maximilian era morto?
Niente
di diverso da quello che aveva fatto fino a quel momento,
probabilmente. Avrebbe recuperato la sua motocicletta, sarebbe
tornato a Berlino e avrebbe aspettato la prossima missione.
Forse
la faccenda di the Bishop avrebbe suscitato qualche clamore, ma certo
non troppi: nei servizi segreti non si era abituati al chiasso.
Probabilmente Matthesius gli avrebbe fatto una telefonata per
complimentarsi, rigorosamente in codice, spacciandosi per suo zio, e
la faccenda sarebbe finita lì.
Tese
meccanicamente la mano verso la bottiglia, ma la ritirò prima di
toccarla: non era certo stordendosi con l’alcol che avrebbe risolto
la situazione.
Doveva
essere lucido, anzi, altrimenti avrebbe potuto fare o dire qualcosa
di troppo.
Si
alzò, andò alla finestra. Il moschetto a spallarm, una sentinella
stava attraversando lentamente il piazzale. La seguì con lo sguardo
fino a che non venne inghiottita dalla zona d’ombra fra due
lampioni, poi abbandonò il suo punto d’osservazione e fece qualche
passo nella stanza. La stoffa irrigidita dal sangue gli grattava la
pelle, avrebbe voluto togliersi quei panni dall’odore ferroso,
buttarli via. Immaginò che la stanza ormai fosse impregnata di quel
sinistro tanfo da campo di battaglia, come lo sarebbe stato lui
stesso per chissà quanto tempo.
Per
quello che gli restava da vivere, forse.
Udì
dei passi avvicinarsi rapidi, istintivamente si irrigidì come per
assorbire un colpo.
La
porta si aprì, sulla soglia c’era il colonnello von Ziemssen.
Aveva l’espressione contrariata. Il Werwolf si trovò a deglutire.
L’altro
entrò risolutamente nella stanza e brontolò: “Una dannata
complicazione.”
Von
Thurn und Taxis considerò fra sé e sé che il dignitoso ufficiale
non avrebbe mai definito la morte di Maximilian come dannata
complicazione, quindi
non era di quello che si stava parlando.
Lo fissò con
aspettativa.
Von
Ziemssen spiegò: “Serve una trasfusione, ma gli uomini sono quasi
tutti fuori per la libera uscita, inoltre il dottor Bergmann mi ha
detto che il sangue non è tutto uguale, bisogna fare delle prove per
vedere se quello del donatore e quello del ricevente si possono
mescolare. Ha parlato di… categorie?”
“Gruppi
sanguigni,” esalò il Werwolf. Maximilian non era morto, ma stava
morendo, sarebbe morto se non avesse ricevuto del sangue. “Mi
faccia parlare con il medico,” disse rapido.
“Lei?
Ritiene che il suo sangue sia compatibile con quello del tenente?”
“Non
lo so, ma so qual è il mio gruppo sanguigno. Se per caso è lo
stesso, possiamo procedere subito, senza perdere tempo in prove.”
§
La
prima cosa che il Werwolf pensò, vedendo Maximilian adagiato sul
lettino operatorio, fu che non aveva senso fare una trasfusione a un
morto. Da cereo che era, il volto del ragazzo si era fatto livido. Le
labbra erano esangui, le orbite infossate. Immaginò che se l’avesse
toccato, l’avrebbe trovato freddo come il marmo.
La
voce del medico lo distrasse dalle sue meditazioni: “Il suo gruppo
sanguigno, capitano.”
“A[1],”
rispose subito il Werwolf.
“Iddio
sia ringraziato,” fu la risposta. “Prego, si tolga la giubba e si
stenda: non c’è tempo da perdere.”
Il
sottile tubo che gli usciva dalla vena era di una gomma opaca, color
arancione spento, per cui non ne vedeva il contenuto. Esso però
sussultava come una specie di piccolo serpente ogni volta che il
medico azionava lo stantuffo dell’apparecchio per la trasfusione.
Il Werwolf pensò che dava l’impressione della vita, che da lui
passava in Maximilian.
Si
augurò solo che ci fosse ancora tempo per rianimarlo, che non fosse
già troppo tardi.
Chiuse
gli occhi. Tutto era silenzio, a parte il fruscio del camice di
Bergmann e rari tintinnii di strumenti. Da qualche punto lontano
proveniva anche un parlare fioco, di una voce che sembrava femminile.
Suppose che la baronessa fosse giunta alla caserma e stesse
domandando a von Ziemssen notizie del figlio.
Si
chiese se il colonnello l’avrebbe portata in infermeria. Immaginò
la severa dama che osservava le procedure della trasfusione più
impassibile di qualsiasi ufficiale del fronte, magari con la ruga
verticale fra le sopracciglia come unica testimonianza del tormento
interiore.
A
quel pensiero si voltò verso Maximilian, che giaceva al suo fianco.
Seguì con lo sguardo il tubicino di gomma che gli portava il sangue,
si fermò al bagliore metallico dell’ago che gli entrava nella
vena.
Non
aveva il coraggio di risalire oltre, lungo il braccio, fino al collo
e poi al viso. Si concentrò su quella cannula d’acciaio,
immaginando il rassicurante, salvifico torrente scarlatto che da esso
entrava e si spandeva nei vasi.
Il
dottor Bergmann gli si avvicinò, gli tastò il polso. Prese da
un’arcella un batuffolo di ovatta e glielo premette sul punto in
cui l’ago gli penetrava nella pelle.
“Cosa
fa?” chiese il Werwolf, squadrandolo diffidente.
Il
capitano medico rispose: “Interrompo la trasfusione.”
“Lui
è già fuori pericolo?”
“No,
ma le ho già tolto molto sangue. Se ne prelevassi di più, sarebbe
lei a rischiare.”
Il
Werwolf gli fermò la mano prima che potesse sfilare l’ago.
“Continui,” ordinò categorico.
Bergmann
entrò nel suo campo visivo. “Cosa?”
“Continui,
ho detto. Vada avanti finché è necessario.”
“Ma
capitano...”
“Vada
avanti.”
L’altro
rimase in silenzio per qualche secondo, il Werwolf immaginò che
stesse riflettendo sulla faccenda. Si avvicinò poi al lettino su cui
giaceva Maximilian, gli tastò il polso, gli misurò la pressione e
corrugò la fronte. Infine disse: “E va bene, continuiamo. Ma mi
fermerò se dovessi accorgermi che lei corre qualche pericolo.”
“Ho
corso pericoli ben peggiori, dottore.”
Bergmann,
di nuovo chino su Maximilian, non rispose.
Von
Thurn und Taxis emise un sospiro. Provò a sistemarsi meglio sul
lettino, ma si sentiva così pesante che faticava a muoversi.
Nonostante gli avessero steso addosso una coperta, cominciava anche
ad avere freddo. La cosa non lo stupì: anche lui stava perdendo
molto sangue.
Chiuse
gli occhi. Forse avrebbe potuto dormire un po’, mentre finivano con
la trasfusione.
Tutto
si fece buio.
[1]
All’epoca il fattore Rh non era ancora stato scoperto, per cui i
gruppi sanguigni conosciuti erano solo quelli principali: A, B, AB e
0.
|
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Capitolo 22 *** Capitolo 14 ***
Gente mia,
ho
finito di sfrangiarvi le gonadi con agenti segreti e aviatori. Questo
è l’ultimo capitolo della lunga vicenda.
Ringrazio
tantissimo ognuno di voi, affezionati lettori, adorati commentatori e
passanti che magari hanno dato un’occhiata. Siete voi che fate
vivere le storie, per cui grazie: senza il vostro prezioso sostegno,
questa storia sarebbe rimasta nel buio di un cassetto.
Capitolo
14
Le
querce nella nebbia sono come come fantasmi silenti. La bruma si
torce adagio nell’aria ferma, scorre sul terreno in una lenta
corrente che nasconde ogni cosa.
Ovunque
regna una quiete ovattata.
Egli
si guarda intorno. Percepisce, più che vederla, la mole immanente di
un castello. Sa che più in basso scorre il fiume. Ne coglie ogni
tanto il profilo sinuoso, quando le falde di vapore si diradano.
A
un tratto comincia a udire un rumore in avvicinamento: è uno
scalpiccio lento di zoccoli, accompagnato da un passo umano. Si
percepisce di tanto in tanto un tinnire lieve di metallo.
Si
volta in quella direzione con uno strano senso di aspettativa.
Dalla
foschia emerge un cavaliere che tiene il destriero per le redini.
Cammina
adagio verso di lui.
Quando
l'ha raggiunto, egli si accorge che è Reiner. Anche se non l'ha mai
visto, sa che è lui, in qualche modo ne è sicuro. Ha un volto
pallido, nobile, pervaso di una strana calma remota. Gli occhi sono
grigi e trasparenti. Porta una lucida cotta di maglia e ha lungo
manto candido, con una croce nera sulla spalla. Lo stesso simbolo è
anche sul petto.
Al
fianco ha una spada.
Si
ferma muto di fronte a lui. Il suo cavallo, un morello nero come il
carbone, dilata le froge per fiutarlo, poi drizza le orecchie nella
sua direzione e lo fissa con occhi di giaietto.
Egli
allunga una mano per accarezzargli il muso, ma l'animale si sottrae
al contatto.
Riporta
il braccio lungo il fianco, e per qualche motivo sa che è giusto
così. Che non è ancora giunto il momento di toccare quel cavallo.
A
quel punto, il cavaliere abbandona le redini dell'animale e sfila la
spada dal fodero. Gliela porge.
Egli
la osserva: l'elsa è una testa d'aquila le cui piume pian piano si
trasformano in foglie di quercia. La lama è lucido acciaio.
“Ora
è tua,” dice pacato il cavaliere.
“Mia?”
ripete lui stupito. Fissa la magnifica arma, poi solleva lo sguardo
sugli occhi dell'altro, limpidi e freddi come i laghi in cui andava a
bagnarsi da ragazzino.
“Spetta
a te,” è la pacata risposta. “Le foglie muoiono ogni anno, ma la
quercia è sempre viva.”
Egli
si trova a deglutire per dominare l'emozione, ma la spada è sempre
immobile di fronte a lui e lo sguardo del cavaliere – di Reiner –
non lo abbandona.
Tende
la mano, la chiude titubante su quell'elsa scura, ed è come se una
scossa di energia gli percorresse il braccio.
L'altro
arretra di un passo. “Ora è tua,” ripete. Raccoglie le redini
del cavallo, gliele passa sul collo e monta in sella. Gli rivolge
un'ultima occhiata, poi si dirige lentamente verso il bosco di
querce.
La
spada stretta in pugno, egli per un po' lo segue con lo sguardo, poi
esclama: “Aspetta!”
Il
cavaliere si ferma, egli lo raggiunge. “Aspetta,” ripete a voce
più bassa.
L'altro
scuote la testa. “No, è giunto il mio tempo. Ora porterai tu
questa spada, combatterai tu al suo fianco.”
Egli
non replica, si limita a chinare il capo in segno di assenso, pronto
a tener fede in ogni modo a quella che a tutti gli effetti è
un'investitura. “Ti rivedrò?” gli chiede.
“No.”
Il
cavallo riprende a muoversi lentamente. Le querce, nere e immobili,
velate dalla foschia, sono come una barriera invalicabile.
Il
cavaliere le raggiunge, si gira a guardarlo un'ultima volta poi vi si
addentra, confondendosi pian piano nella bruma che avvolge ogni cosa.
Il
rumore degli zoccoli sparisce.
Maximilian
von Knobelsdorff aprì gli occhi: non c’erano querce.
Vedeva
un soffitto bianco, alto, da cui pendeva un lampadario rotondo di
metallo smaltato, a sua volta bianco ma con un bordo blu scuro, che
gli fece venire in mente le bacinelle del bucato.
Strinse
gli occhi: non ricordava di aver mai visto un lampadario del genere.
Non c'era in nessuna stanza della tenuta di Rollwitz e non c'era
nemmeno nella villa che fungeva da alloggio per i piloti della Jasta.
L’aria
odorava di disinfettante. C’era silenzio, a parte un lieve
chiacchiericcio lontano che giungeva a sprazzi, come portato da onde
marine.
Cercò
di sollevare la testa, ma non appena tese i muscoli, una fitta
all'addome lo costrinse a desistere.
Ripiombò
all'indietro mentre il dolore gli si irradiava nel corpo come un
sisma, raggiungeva un parossismo e poi man mano scemava, rimanendo
sullo sfondo come una dolenzia sorda.
Per
non ripetere l'esperienza, si accontentò di far girare lo sguardo:
era in una camera dall'arredamento essenziale. Di fronte aveva un
piccolo armadio, e al centro della parete una croce e il ritratto di
Sua Maestà. Alla sua destra c'era una porta chiusa; a sinistra,
sotto una finestra dalla quale si vedeva un cielo azzurro, c'era un
mobiletto basso coperto da un telo bianco, sul quale erano allineati
bendaggi, bacinelle, boccette di vetro scuro e qualche ferro
chirurgico.
Un
ospedale?
La
cosa gli parve plausibile. Ricordava una lotta, delle ferite, degli
spari, ma era tutto confuso. I volti si confondevano, le situazioni
anche.
Aveva
in mente l'immagine di the Bishop chino su di lui, che diceva
qualcosa, ma allo stesso tempo aveva l'impressione di ricordare anche
il Werwolf, che gli parlava in un tono urgente, preoccupato, ma al
tempo stesso anche rassicurante.
Chiuse
gli occhi. Non riusciva a ricordare cosa fosse successo dopo.
“Ma
chi si rivede: Gretchen.”
I
rebbi del forcone penetrano più a fondo, gli mozzano il respiro, lo
costringono a emettere un gemito soffocato. Sente il ferro strisciare
contro le costole.
E
il dolore, il dolore è come una bestia che lo ha azzannato a mezzo
corpo e sta scrollando la testa per straziarlo maggiormente.
Era
successo prima o dopo l'arrivo del Werwolf? Non riusciva a ricordare
nemmeno questo.
Spostò
adagio la mano fino a toccarsi l'addome, coperto da una spessa
medicazione. Man mano che riprendeva i contatti con la realtà, anche
i ricordi diventavano più nitidi. Rivide the Bishop con le mani
strette sul manico del forcone, pronto a spingerlo più a fondo,
risentì la forma zigrinata del calcio della Mauser contro il palmo
della mano, la detonazione, il rinculo dell'arma.
Poi
le immagini si fecero di nuovo confuse: qualche sprazzo di dolore,
voci, la sensazione di sprofondare in un abisso buio.
Braccia
che lo sostenevano, una voce rassicurante che gli parlava.
La
porta si aprì, sulla soglia comparve un caporale della sanità
anzianotto, corpulento, con un Krätzschen bisunto in testa.
L'uomo
notò che si era svegliato. “Perbacco,” borbottò. Si tolse il
berretto, se lo rigirò un paio di volte fra le mani, quindi lo
indossò di nuovo. “'Giorno, signor tenente,” disse infine,
portandosi due dita alla fronte in un informale saluto.
Prima
che von Knobelsdorff potesse rispondere, il caporale era già uscito
e stava dicendo: “Signor capitano medico! Signor capitano medico,
faccio rispettosamente notare che il ferito della stanza sedici si è
svegliato!”
All'esterno
ci fu un rapido confabulare, poi entrò nella stanza un dottore.
Anche lui aveva l'aria anzianotta, pacifica, da buon medico condotto
di paese. Von Knobelsdorff immaginò che i medici più giovani
fossero al fronte, dove era necessaria maggiore prestanza fisica, e
quelli più vecchi si occupassero delle retrovie.
Si
girò a guardarlo.
“Il
nostro giovanotto si è ripreso, dunque?” lo apostrofò il nuovo
arrivato raggiungendo il letto. Gli prese il polso e per un po'
rimase assorto a tastarlo, controllando di tanto in tanto un orologio
che aveva estratto dalla tasca. “Molto bene,” approvò infine,
deponendoglielo sulla coperta.
Von
Knobelsdorff continuava a fissarlo in silenzio, tanto che l'altro
dopo un po' gli chiese: “Mi capisce, giovanotto? Sente quello che
dico?”
Il
tenente accennò di sì con la testa. “Sissignore,” balbettò
poi.
“Molto
bene,” ripeté il medico. “Sa, non è così raro che al risveglio
da un lungo stato di incoscienza si abbiano episodi di confusione.”
“Capisco.”
“Io
sono il capitano medico Albert Fischer, a proposito. Questo è
l’ospedale militare di Treptow.”
“Maximilian
von Knobelsdorff.”
“Ricorda
quello che è successo, giovanotto?”
Il
tenente rimase per un po' in silenzio, cercando di recuperare le
immagini sfocate di poco prima, poi rispose: “Sì e no.”
Fischer
lo fissò come se non si fosse aspettato altro. Annuì grave e infine
gli rivelò: “È stato aggredito da un pazzo, giovanotto. Uno
squilibrato, un uomo che una ferita di guerra aveva reso folle. Lei,
essendo un eroe che ha ricevuto la più alta delle decorazioni al
valore, è stato l'incolpevole catalizzatore del suo odio.”
Von
Knobelsdorff non replicò. Senza dubbio la faccenda del pazzo era la
scusa con cui il Werwolf aveva sistemato tutto quanto.
La
voce del medico attirò nuovamente la sua attenzione: “Non
ricorda?”
Il
tenente scosse la testa. “Temo di no,” rispose, anche solo per
sentirsi raccontare quello che l’agente segreto aveva inventato.
Fischer
gli tirò giù le coperte, mise a nudo la medicazione. Mentre aiutato
dal caporale svolgeva con perizia le bende, cominciò a raccontare:
“Lo squilibrato, tale Anton Pohl, era riuscito a farsi assumere
come mozzo di stalla. Pareva una persona normale, nessuno aveva mai
avuto motivo di lamentarsi di lui, eppure nel suo intimo covava un
risentimento senza pari. Odiava tutto ciò che aveva a che fare con i
militari, capisce?”
“Sissignore.”
“Molto
bene,” approvò il medico. Gli palpò delicatamente l'epigastrio.
“Fa male qui?”
Von
Knobelsdorff strinse i denti. “Un po',” rispose, irrigidendosi
suo malgrado.
La
mano si spostò verso il fegato. “E qui?”
“Sissignore.”
“Già,
già.” Il medico si sistemò gli occhiali, quindi spiegò: “È
chiaro che sente male. I medici di Pasewalk hanno dovuto operare
d'urgenza, c'era un'importante emorragia interna.” Fece cenno al
sottufficiale, che subito prese una delle boccette scure, pose un po'
del suo contenuto su un batuffolo d'ovatta e iniziò con quello a
ripulire la cicatrice operatoria.
Fischer
frattanto continuava a visitarlo. “Tutto bene,” disse poi, “tutto
nella norma. Lei è molto forte, giovanotto, si rimetterà presto.”
“Grazie,
signore,” disse von Knobelsdorff, irrigidendosi suo malgrado sotto
il batuffolo imbevuto di tintura di iodio. “Signore....?” chiese
poi esitante.
L'altro,
che si stava lavando le mani in un catino, si voltò. “Sì,
giovanotto?”
“Ecco,
signore... io credo di ricordare che ci fosse un ufficiale degli
ussari con me. Un Rittmeister che...”
L'altro
non lo lasciò nemmeno finire. “Ma certo,” rispose subito. “Un
suo buon amico, direi, o forse il suo angelo custode, dato che le ha
salvato la vita non una, ma due volte.”
Tra
le sopracciglia aggrottate di von Knobelsdorff comparve una ruga
verticale. “Che intende dire?”
“Il
Cielo ha voluto che fosse presente, quando lo squilibrato l'ha
aggredita. È stato lui a neutralizzare quell'uomo e a prestarle le
prime cure, ed è stato sempre lui a offrirsi per una trasfusione
quando lei rischiava di morire dissanguato.”
A
quella notizia il tenente sussultò e d'istinto cercò di sollevarsi
a sedere, ma subito intervenne il sottufficiale, che lo afferrò per
le spalle e gli impedì il movimento.
“Mi
lasci!” protestò von Knobelsdorff irritato. Imperturbabile,
l'altro si limitò a rivolgere un'occhiata al medico.
Questi
scosse la testa. “Non è bene che lei si alzi, giovanotto,” lo
ammonì severo.
Il
tenente rinunciò ai suoi propositi di ribellione. Si rilassò sotto
la presa erculea del caporale, emise un sospiro e ripeté: “Una
trasfusione?”
“Molto
consistente,” fu la risposta. “Quel bravo capitano le ha dato
così tanto sangue che abbiamo dovuto tenere ricoverato anche lui per
qualche giorno.”
A
quelle parole, von Knobelsdorff sentì il cuore balzargli nel petto.
“È ancora qui?” chiese. Fece saettare lo sguardo tutt'intorno,
come aspettandosi di vederlo da qualche parte.
L'altro
scosse la testa. “È rientrato in servizio: ordini superiori. Io
ero contrario, naturalmente, il paziente aveva ancora bisogno di
riposo, ma...” Si strinse nelle spalle, con l'aria di chi si piega
all'ineluttabile.
“Non
c'è più?”
Di
nuovo, Fischer scosse la testa.
Il
tenente aggrottò le sopracciglia e chiese: “E io quando posso
andarmene?” D'un tratto, gli sembrava importantissimo uscire,
rientrare in servizio. Ma soprattutto andare a cercare Karl.
Ancora
non aveva idea di come l'avrebbe trovato, ma doveva assolutamente
cercarlo.
Il
medico toccò di nuovo la ferita, facendolo irrigidire per il dolore,
quindi rispose: “Ci vorrà ancora un po', giovanotto.”
“Ma
io sto già bene!” protestò von Knobelsdorff.
L'altro
alzò teatralmente gli occhi al cielo. “Siete tutti uguali,”
proferì infine, “nessuno che abbia pazienza, nessuno che dia il
tempo alla Natura di fare il suo corso.”
“Sto
bene,” ripeté caparbio il tenente.
La
voce di Fischer si fece dura: “Lei non sta affatto bene, e se
avesse un minimo di buon senso se ne renderebbe conto da solo.
Obbedisca agli ordini di chi ne sa più di lei e attenda di
ristabilirsi come si deve.”
“Sissignore,”
sospirò von Knobelsdorff, mentre già vagliava mentalmente la lista
dei superiori che avrebbe potuto interpellare per farsi richiamare in
servizio.
§
Il
maggiordomo si avvicinò al principe von Thurn und Taxis reggendo
cerimoniosamente un vassoio su cui si trovava un telefono. Alle sue
spalle, il filo dell'apparecchio serpeggiava sul pavimento di marmo e
si perdeva nel buio di un corridoio. “Una chiamata per lei,
eccellenza,” annunciò compassato. Posò il vassoio su un tavolino.
Il
principe abbandonò il libro che stava leggendo, si alzò dalla
chaise longue e raggiunse il domestico. “Chi è?” chiese,
raccogliendo la cornetta.
“Non
l'ha detto, eccellenza. Ha detto che lei l'avrebbe riconosciuto
subito.”
Il
Werwolf annuì. “Zio Oswald?” chiese nel ricevitore.
“Volevo
congratularmi per il cinghiale che hai abbattuto, ragazzo mio,”
provenne dall'altra parte del filo.
“Non
è il caso.”
“Sciocchezze!
Era un bel po' che quella bestiaccia ci dava filo da torcere. Quando
passi da questo povero vecchio?”
“Quando
vuoi, zio.”
“Beh,
mettiti in viaggio, allora. Per dove sai tu. Quel cinghiale non era
mica l'unica bestia che ci rovinava le colture, eh.”
Il
Werwolf scosse la testa come se l'altro avesse potuto vederlo, poi
rispose: “Ho bisogno di qualche altro giorno. Giusto un paio.”
La
voce dell'interlocutore suonò costernata: “Diamine! E per fare
cosa?”
“Ecco...
c'è un giovane segugio che mi ha aiutato nella caccia, zio. È
rimasto ferito e voglio controllare che si ristabilisca nel modo
giusto, prima di venire a trovarti.”
“Lascia
queste cose a chi se ne intende, ragazzo mio. A ognuno il suo
mestiere, non è così che si dice?”
“Sì,
zio.”
“E
poi, non avevi deciso di lasciar perdere i segugi? Dopo ti affezioni
e sai come va a finire. La caccia è un'attività pericolosa.”
Il
Werwolf si limitò ad annuire.
“Ragazzo?”
chiese dopo un po' l'interlocutore.
“Sono
qui, zio.”
“Dicevo:
lo sai come va a finire.”
“Sì,
lo so.”
Chiuse
la comunicazione mentre l'altro stava ancora parlando, quindi disse:
“Non voglio essere disturbato.”
Il
maggiordomo si inchinò. “Sì, eccellenza.”
“Nemmeno
se richiamasse questa persona.”
“Certamente,
eccellenza.”
Rimasto
solo, il Werwolf gettò uno sguardo al libro abbandonato sulla chaise
longue, ma rinunciò a riprendere la lettura.
Andò
alla finestra, invece, e da lì rimase immobile a contemplare il
cielo.
Si
trovava in una situazione che non gli era capitata spesso nella vita:
non sapeva cosa fare. Forse avrebbe dovuto dar retta a Matthesius, e
dimenticare Maximilian. Seguirlo da lontano, magari, nell'ombra.
Accontentarsi di proteggerlo senza dar segno di sé.
D'altra
parte, aveva fantasticato su quel ragazzo. Lui, che da anni si
allontanava dalla realtà contingente solo per prevedere, supporre e
pianificare, si era trovato a immaginare se stesso e Maximilian,
fianco a fianco, impegnati in qualche missione.
Quelle
fantasie invariabilmente terminavano con l'immagine di Maximilian
riverso in un torrente, esattamente come anni prima era successo a
Reiner.
Per
quel motivo aveva smosso ogni suo contatto e si era fatto dimettere
il prima possibile dall'ospedale militare di Treptow, poi non ci era
più tornato. Se ogni ospedale militare inglese o francese pullulava
di spie tedesche, anche quel posto doveva essere pieno di spie
nemiche. Non era bene che i servizi segreti inglesi, inferociti per
la morte del loro migliore agente e desiderosi di fargliela pagare,
sapessero cosa lo legava a quel ragazzo.
Si
staccò dalla finestra, fece qualche passo nervoso nella stanza.
Maximilian era un cavaliere dei cieli, un asso. Era orgoglioso,
coraggioso, deciso, ma per nulla avvezzo allo spionaggio.
Certo,
avrebbe potuto addestrarlo, ma cosa avrebbe ottenuto? Forse di
snaturarlo e basta, di esporlo al rischio di una fine iniqua, senza
gloria e senza dignità, senza nemmeno l'onore di indossare
l'uniforme del Paese per cui stava dando la vita.
Tirò
il cordone del campanello, il maggiordomo si presentò sulla porta e
chiese: “Eccellenza?”
“Il
telefono,” ordinò il Werwolf.
“Quel
signore ha chiamato altre due volte, eccellenza,” lo informò il
domestico.
“Lo
immaginavo. Porti qui il telefono e poi mi lasci solo.”
“Come
vuole, eccellenza.”
L'agente
segreto aspettò che l'uomo se ne fosse andato, quindi compose un
numero e attese tamburellando col piede per terra. Quando dall'altra
parte ci fu la risposta, smise di tamburellare e disse: “Zio
Oswald? Vengo alla tenuta, dammi solo il tempo di fare una cosa
stasera.”
§
È
notte, è sdraiato nel letto. A parte il riflesso delle luci del
corridoio, che filtra dal vetro che c'è sopra la porta, la stanza è
immersa nel buio. Nel silenzio che aleggia ovunque si ode solo il
camminare lento del caporale infermiere Schulte, impegnato nel giro
di ronda.
Si
accorge che nella camera c'è una presenza. Non la vede e non la
sente, ma è come se ne percepisse l'essenza vitale. È nell'angolo
in cui l'oscurità è più densa, e lo sta guardando.
Non
ha paura, però. Lo sguardo che percepisce su di sé è attento,
indagatore, ma anche carico di una strana tenerezza, che scalda e
rinfranca come vino forte.
Si
puntella sul gomito per guardare meglio e dalle tenebre, appena
delineata dal fioco chiarore che filtra dal corridoio, emerge la
sagoma di un lupo.
“Sei
tu?” chiede sottovoce. Non sa bene a chi si stia rivolgendo, né
perché in quei termini. Sa solo che quella misteriosa presenza gli
comunica una sensazione di familiarità, di protezione.
Si
solleva maggiormente. A quella vista, il lupo avanza appena, egli
percepisce il lucore dei suoi occhi. Si ferma però prima di uscire
dal buio.
“Sei
tu?” ripete. Prova ad alzarsi per raggiungerlo, ma le gambe non lo
reggono e cade a terra.
Von
Knobelsdorff si svegliò con un sussulto. Non era sul pavimento come
aveva sognato, ma la sensazione della presenza rimaneva.
Si
girò verso l'angolo buio e la sensazione divenne più forte che mai.
“Sei tu?” sussurrò.
Non
ci fu risposta.
Puntò
il gomito sul materasso e stringendo i denti fece forza per
sollevarsi. Gli parve di vedere una sagoma alta, che lo guatava
silenziosa. “Karl,” disse, e non era una domanda.
La
figura si staccò dalla parete, si spostò verso di lui come un
misterioso lembo di oscurità. Si fermò muta a un metro dal letto.
Il
tenente non poté fare a meno di sorridere. “Karl,” ripeté.
Ricadde all'indietro spossato.
Il
Werwolf rimase immobile. Dopo qualche secondo, il tenente girò il
volto nella sua direzione e mormorò: “Karl, ti aspettavo.”
A
quel punto, l’altro si avvicinò e tese adagio una mano a
sfiorargli i capelli. “Sono venuto a salutarti,” gli disse poi.
Il
più giovane si irrigidì. “A salutarmi?” ripeté. Lo squadrò
diffidente e l’ormai famosa ruga verticale gli comparve tra le
sopracciglia.
“Devo
andare.”
Maximilian
tentò nuovamente di sollevarsi sul gomito, non vi riuscì e ricadde
all’indietro con un gemito di disappunto. “Io vengo con te,”
ansò poi.
Il
Werwolf si limitò a scuotere la testa.
“Certo
che ci vengo,” insisté il tenente. “Appena sono guarito, è
ovvio. Il che accadrà molto presto.”
L’altro
si chinò fino a che non ebbe il volto a livello del suo, poi
rispose: “Non sai quello che mi stai chiedendo.”
“Lo
so benissimo, invece. Voglio tornare in missione con te, voglio
combattere al tuo fianco.”
Di
nuovo il Werwolf gli accarezzò i capelli, poi disse: “È troppo
pericoloso.”
“Davvero?
Lo sai perché i piloti vanno in volo portandosi dietro una pistola
carica?”
“No.”
“Perché
se va a fuoco l’aereo, si sparano per non bruciare vivi.”
L’altro
rimase in silenzio. Dopo qualche secondo, il tenente insisté:
“Secondo te, fare voli di guerra è più o meno pericoloso di
quello che abbiamo fatto insieme dietro le linee?”
A
quelle parole, il Werwolf si rialzò in piedi, allontanandosi
addirittura di un passo. In tono duro, replicò: “Qui non si tratta
di giocare a chi ha l’ultima parola in una disputa verbale,
Maximilian. Seguirmi in missione significa abbandonare la tua vita
precedente, gli affetti, le amicizie, il tuo ruolo nella Jasta, il
tuo aereo. Diventeresti un anonimo impiegato senza gloria né
decorazioni, che svolge lavori spesso sporchi e pericolosi, costretto
a fare cose perlopiù contrarie all’onore di un ufficiale.”
“A
me non pare che tu sia senza onore,” lo interruppe il tenente.
“Perché
non mi conosci, oppure sei accecato da...” Non finì la frase. Gli
girò bruscamente le spalle, valutando l’eventualità di andarsene
in quel momento e far perdere per sempre le tracce di sé.
“Da
cosa?” lo incalzò Maximilian.
Senza
voltarsi, il Rittmeister rispose: “Dai sentimenti.”
“E
tu no?”
“Forse,
ma non intendo per questo metterti in pericolo o spingerti a una vita
che non ti darebbe alcuna soddisfazione e ti priverebbe di quello che
sai fare meglio.”
“Ovvero
discutere con te? Non penso proprio che me ne priverei.”
Il
Werwolf si girò con un sospiro. “Maximilian...”
“Portami
con te, Karl, oppure giuro che troverò il modo di seguirti
ugualmente.” Detto questo, il tenente con risolutezza buttò da una
parte le coperte e fece per scendere dal letto. Le gambe non lo
ressero ed egli crollò in avanti con un gemito.
D’istinto
il Rittmeister si lanciò in avanti e lo afferrò prima che toccasse
il pavimento. Lo strinse a sé, poi lo adagiò nuovamente sul
giaciglio. “Perché hai fatto una cosa del genere?” ringhiò.
“Sei stupido e impulsivo.”
Fece
per ritrarsi, ma il tenente gli circondò il collo con un braccio,
impedendogli il movimento. Rimasero immobili a fissarsi per qualche
istante, poi il più giovane rispose: “Sono le stesse cose che mi
ha detto anche the Bishop...”
“Perché
è vero.”
“...Prima
che gli sparassi.”
Il
Werwolf, che aveva passato notti insonni a struggersi sulla sorte del
giovane ufficiale, reputò quella frase una tracotante provocazione.
Aggrottò le sopracciglia e replicò: “Ma prima o dopo che ti
infilasse un forcone nella pancia?”
Maximilian
lo fissò serio. “Dopo, e questo dimostra quanto so resistere al
dolore, dominare la paura e mantenere il sangue freddo.”
L’altro
annuì. “Lo so.” Avvicinò il proprio viso al suo. Il più
giovane per tutta risposta rinsaldò la presa sul suo collo, egli
percepì contro il torace il battito accelerato del suo cuore. Lo
rivide cereo, abbandonato in un lago di sangue, e poi lo rivide
orgoglioso, fiero, che sfoggiava la decorazione appena conseguita con
l’eleganza spavalda di una giovane aquila. “Se ti impedisco di
venire con me, è perché il mio è un lavoro sporco. Non è un modo
onorevole di combattere, non riceverai mai medaglie per quello che
hai fatto, i nemici ti disprezzeranno, i tuoi colleghi ti
considereranno un pantofolaio codardo che se ne sta rintanato nelle
retrovie.”
“Non
m'importa, io voglio combattere al tuo fianco.”
“Maximilian...”
I
volti ormai si sfioravano. La presa del tenente non accennava a
sciogliersi, ma anzi di attimo in attimo sembrava farsi più ferrea,
come se il giovane avesse voluto fondere le loro due persone in
un'entità sola.
“Voglio
combattere al tuo fianco,” ripeté, quindi risolutamente incollò
le proprie labbra alle sue.
§§§
La
veranda del Raffles Hotel di Singapore aveva un pavimento di marmo
così lucido che ci si poteva specchiare. Qua e là vi erano dei
tavolini di legno esotico, intorno ai quali si trovavano poltroncine
di rattan intrecciato. Oltre gli archi candidi che delimitavano
l'area, lussureggiava una vegetazione dai mille toni di verde,
opulenta, carica di fiori dai profumi inebrianti. L'aria torrida,
madida, risuonava del canto di innumerevoli uccelli.
Le
palme ondeggiavano lente.
Sul
prato passarono due ragazze flessuose, fasciate in sarong
multicolori, ognuna con un cesto in equilibrio sulla testa. Un macaco
saltò con uno strido da un ramo all'altro, balzò a terra, raccolse
un frutto caduto e si dileguò nella vegetazione.
Maximilian
von Knobelsdorff – nome in codice Hati
– sorrise e disse: “Hai visto?”
Il
Werwolf, seduto al suo fianco, chiese: “Che cosa?”
“La
scimmia.”
“Non
le avevi mai viste prima?”
Il
più giovane scosse la testa. Si passò una mano sulla fronte,
coperta da un velo di sudore: nonostante indossasse un fresco
completo di lino chiaro, faticava ad abituarsi al caldo dei tropici.
Volse lo sguardo verso il compagno, che invece sembrava indifferente
alla temperatura: nei panni di un commerciante olandese di legname,
il Werwolf sedeva tranquillo, lasciando vagare sul parco del Raffles
lo sguardo di chi sta calcolando il costo di ogni tronco d'albero.
“Hai fatto quella cosa?” domandò l'uomo.
Maximilian
annuì. “È stato facile. Ora sulla lista dei passeggeri del
Sentosa Queen
figurano anche i fratelli van Rijthoven, uomini d'affari di
Rotterdam.”
“Ottimo
lavoro.”
“Mi
hai insegnato tu a falsificare i registri.”
Sopraggiunse
un cameriere che depose sul tavolino due bicchieri alti, colmi di una
bevanda di un sontuoso rosso aranciato, guarniti con una fetta
d'ananas e una ciliegia.
Il
Werwolf ringraziò con un cenno del capo e stese la mano verso il
suo.
Maximilian
lo fissò diffidente, poi chiese: “Che cos'è?”
“Singapore
Sling.”
“Cosa?”
“Un'invenzione
del capo barman dell'hotel. Provalo, è buono.”
“Di
cosa sa?”
Il
Werwolf alzò gli occhi al cielo. “Ti ho detto che è buono. Perché
devi sempre essere così diffidente?”
“Perché
nel nostro mestiere la diffidenza salva la vita.”
In
quel momento sopraggiunse una coppia, lui con il completo di lino
chiaro tipico degli europei ai tropici, lei con un vaporoso abito
d'organza. Sedettero a un tavolino poco distante.
In
olandese, il Werwolf disse: “Certo, evita che ti rifilino del
legname tarlato.” Poi con il labiale articolò: “Eccoli.”
Maximilian
gettò un fugace sguardo ai nuovi arrivati e colse la stessa occhiata
in tralice da parte della giovane donna. Le sorrise come un
giovanotto un po' vanesio che si scopre oggetto di attenzioni da
parte del gentil sesso, l'altra si affrettò a distogliere il viso.
Il
Werwolf sorrise a sua volta, poi sollevò il bicchiere verso di lui.
“Brindiamo?” propose.
“A
cosa vuoi brindare?”
“Ai
lupi, che cacciano di nuovo insieme.”
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