Atom; Vita, morte e rinascita

di Cladzky
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Troppo poco pratico ***
Capitolo 2: *** Hokkaido ***



Capitolo 1
*** Troppo poco pratico ***


L’acceleratore di particelle cantilenava ora un ozioso ronzio a singhiozzi. L’assistente sollevò gli occhi dai flussometri e li puntò su Tenma.

—Il flusso ha raggiunto velocità prossima alla luce. Iniziamo la procedura?

Il caporeparto interruppe l’ultima revisione del grosso corpo artificiale appena riassemblato e disteso sul bancale metallico. Stette in silenzio osservando il compagno e riagganciò il trasformatore sotto il cuore scoperto della macchina.

—Il ministro ci sta guardando?— Tenma avrebbe potuto voltarsi e alzare gli occhi oltre il vetro protettivo che sostava qualche metro sopra la sua testa e avrebbe visto, dal basso, il volto ruvido di un uomo tanto secco e rugoso da sembrare corteccia. Ma invece li teneva piantati sul suo mostro artificiale. L’assistente lo fece per lui, guardando oltre le sue spalle. Di fianco al ceppo umano stava un altro uomo, in camice bianco, gonfio di carne e dal naso prominente, fattosi aureola di capelli bianchi e di cotone.

—Sì— Rispose —E Ochanomizu è con lui.

—Gli faremo mangiare il fegato— Tenma strinse con nuova violenza i comandi del carroponte. L’assistente fece appena in tempo ad assicurarsi che il pesante corpo fosse assicurato al bancale e a scansarsi da esso che si levò in aria. Quella chimera sintetica di tre quintali di gomma, acciaio e fibra di carbonio misurava precisamente due metri e sette centimetri d’altezza. Lontana ancora dai sogni di plasticismo neoclassico di Tenma, aveva giusto la minima somiglianza per potersi definire antropomorfa. Furono mossi i paranchi e lentamente il bancale si mise perpendicolare al terreno, con la testa disumana dell’automa rivolta in basso.

—Porta qui l’encefalo— Ordinò, sempre manovrando cautamente con l’argano la sua creatura ribaltata verso il ciclotrone. La fermò di fronte a una grossa cavità nella struttura a chiocciola dell’acceleratore, mentre l’assistente ritornava reggendo l’oggetto richiesto. Qualcosa di tubiforme, dai due estremi metallici polarizzati e le pareti trasparenti. Queste offrivano la vista di un meccanismo interno confuso di ramificazioni in platino e iridio, annegate in un liquido gelatinoso. L’uomo accovacciò sotto il cranio della figura sospesa e ne innestò l’encefalo vergine sulle spalle. Diede conferma dell’innesto e Tenma spostò il soggetto a destinazione —L’encefalo si trova nella traiettoria?

L’enorme figura aveva ora la testa cilindrica incastrata saldamente nella cavità che divideva i due segmenti del corridoio di uscita del flusso del ciclotrone. I due poli facevano come da ponte perché le particelle avrebbero potuto attraversare quel tubo cristallino e giungere dall’altra sponda.

—Sì e il flusso è rimasto constante— Assicurò l’assistente di nuovo dai flussometri.

—Allora deviamolo. Muovi i magneti per l’uscita controllata nella camera di scoppio.

Fu quello che avvenne. Un cigolio lento e poi una luce bluastra, frutto di radiazioni ionizzanti, fece precipitare il laboratorio nell’oscurità per il contrasto della retina, accompagnato dall’infuriare di una tempesta. Quantomeno questo è tutto quello che, oltre il vetro protettivo, il ministro, il professor Ochanomizu e vari giornalisti potevano constatare, in assenza delle lenti adatte che invece stavano sui volti dei due uomini laggiù. Durò solo un istante e, quando gli osservatori poterono tornare a vedere, Tenma stava già spostando uno spettrometro di fronte a quel tubo stregato, origine del lampo, per osservarne la struttura.

—Non stiamo ancora avendo i risultati sperati: i positroni non creano legami stabili fra loro— Tenma si strapazzò i capelli neri.

—Forse bisogna attendere ancora perché il bombardamento subatomico faccia effetto— Ipotizzò l’assistente.

—Non è una questione di quantità ma di intensità. Ci vuole uno stimolo più forte, aumenta la spinta dei magneti.

—Non possiamo andare a velocità luce, non reggerebbe…— Ma Tenma aveva già preso i comandi del ciclotrone.

—Storie, ho creato io stesso quell’involucro, conosco i suoi limiti.

—Mi riferivo all’acceleratore— Il tono dell’assistente era divenuto di preghiera —Se lo sforzassimo a tal punto il flusso potrebbe fugare dal controllo dei magneti, o peggio, creare un buco nero.

—È troppo tardi per ripensarci, ora.

Intanto, oltre il vetro, c’era agitazione.

—È difficile sentirli con tutto questo baccano— Disse uno dei giornalisti indicandosi le orecchie.

—Sbaglio o hanno detto “buco nero?”— Chiese un altro preoccupato.

—Questa è la volta buona che Tenma ci manda tutti all’inferno— Già prevedeva il ministro, grattandosi le sopracciglia canute. Ochanomizu si limitò a guardare, sudando freddo. La velocità del ciclotrone era aumentata. I magneti presero a fumare, surriscaldati. L’encefalo dell’automa brillava da tremolare, quasi dovesse sfasare via dalla realtà, mentre la gelatina al suo interno stava divenendo plasma. Le ramificazioni in platino e iridio si erano dissolte in polvere.

—Si sono formate le sinapsi, ferma tutto, ferma!— Gridò Tenma, saltando via dallo spettrometro e smanacciando per indicare di chiudere il flusso. Questo venne interrotto gradualmente e nel giro di pochi secondi solo un fugace bagliore di fantasma traspariva dall’encefalo dell’uomo sintetico, dove ancora, quel flusso viveva in pensieri chimici primordiali. Il caporeparto balzò subito ai comandi dell’argano per riposizionare e discendere la sua creatura —Presto, bisogna slegarlo prima che il cervello si raffreddi e prenda a funzionare.

Quando il grosso depositario della coscienza nuova stava ancora ben distante dal pavimento, Tenma mollò i comandi al suo assistente e si lanciò sul bancale sospeso, aggrappandosi e issandosi su di esso come una scimmia. Slacciò tutte le costrizioni che impedivano la propria creazione e quando giunse a terra il corpo era già libero dalle cinghie di sicurezza. Tenma stava ancora a cavalcioni sul petto di quel titano sdraiato, mirando quel faro che era il suo encefalo, posto in cima alle spesse spalle. Trovò finalmente il coraggio di affrontare il ministro. Si voltò raggiante verso il vetro, mentre smontava.

—Scendete da lì!— Li incitò come un ordine, a larghi gesti —Non c’è pericolo, è nato! Abbiamo creato la vita!

Ochanomizu fu il primo a scendere le scale per il laboratorio, uscendo dalla gabbia di vetro in cui gli altri spettatori indugiavano a lasciare. Il ministro sbuffò, rilassando il viso contorto e fu il secondo, seguito dai giornalisti, confusi come pecore. L’assistente era diligentemente uscito di scena, andando a controllare le condizioni del ciclotrone, ben sfruttato oltre le proprie capacità.

—Maledizione Tenma, devi sempre trovare il modo di esagerare!— Gracchiò il ministro, agitando il suo bastone da passeggio, quasi volesse darglielo in testa, incurante di dar spettacolo ai giornalisti —Non mi avevi anticipato che ci sarebbe voluta così tanta energia per far partire quel cervello.

Tenma, piegato a specchiarsi sulla superficie lucida dell’encefalo, oltre cui un lago d’anima si increspava, fu portato malvolentieri a rispondere, alzando lo sguardo oltre la propria opera. Si trovò invece il grosso naso di Ochanomizu davanti, chinato anch’egli ad osservarla.

—Via te— Lo scostò con uno spintone alla spalla, ma quello, abituato alla sua simpatia, proseguì a circumnavigare la figura sintetica come un moscone, senza mai posarsi—Non voglio che sia tu la prima cosa che veda o rimpiangerà di essere nato— Poi fece un inchino di scusa verso il ministro e gli si fece vicino, a portata di timpano anche dei giornalisti che si erano cinti attorno. Ochanomizu era rimasto incurante a studiare il corpo della macchina.

—Mi scuso profondamente signor ministro— Proseguì Tenma —Ma capisce che i miei erano solo calcoli teorici. Per questo genere di cose non si sa a cosa si va incontro fino a quando non la si prova sul campo. Ma nonostante questo sembra che l’esperimento sia riuscito.

—Sono stanco delle vostre false promesse, io non posso più concedervi il ciclotrone dell’istituto per esperimenti alla cieca. E se avete avuto successo cosa fa quel coso ancora fermo là sopra?— E il ministro indicò con il proprio bastone l’automa. Subito Ochanomizu interrupe il suo gironzolare di studio, compiendo un balzo spaventato. Il braccio destro del grosso automa compiva cerchi nervosi nell’aria e quasi lo colpì al viso —Ma dico poi, vi pare il momento di mettervi a fare il gorilla di fronte ai nostri ospiti?

—Signor ministro— osò dire finalmente uno dei giornalisti, ma non riuscì ad aggiungere altro. L’anziano si guardò attorno sentendosi chiamare e un altro puntò il dito verso il bancale. L’automa serpeggiava i propri arti in tutte le direzioni senza riuscire ad alzarsi da terra.

—Atom! Atom è vivo, lo vede signor ministro?— Chiese allegro Tenma, allargando le braccia.

—Macché vivo, è solo un’idiota. Qualunque robot oggigiorno sa camminare e questo non riesce neppure a mettersi in piedi.

I giornalisti circondarono Tenma, mentre il gigante continuava ad agitarsi.

—Umotaro Tenma, quindi questo è il primo robot senziente?— Fu la prima delle domande che lo inondarono. Cercò di rispondere punto per punto, ma sarebbe stato impossibile soddisfare tutti.

—Certo, almeno il primo che abbia avuto successo.

—Cosa sta facendo adesso?

—Si è reso conto di avere un corpo, misura lo spazio intorno a sé, cerca di capire come lui stesso funzioni. Come un neonato diciamo. Un neonato molto grande.

—È tutto e per tutto uguale a un uomo?

—Ho provato ad avvicinarmi il più possibile al pensiero umano nella fase di pre-programmazione del suo cervello. Ora bisogna vedere come quelle basi permanenti influenzeranno il suo ragionamento dinamico.

—A che scopo servirà questo robot?

—Non ho creato Atom per farmi da lavastoviglie. Il mio sogno è andare oltre il bisogno, creare l’arte con la tecnica e credo proprio che con lui io mi sia superato. Michelangelo ha scolpito la “Pietà”, io ho scolpito la vita.

—Avete parlato di un ragionamento dinamico.

—Certo, Atom è in grado di imparare e rimodellare ciò che apprende. Non segue rigidi binari mentali, attribuisce significato alle informazioni. Al contrario delle intelligenze artificiali del passato è capace del pensiero astratto. La sua memoria non contiene file, ma ricordi.

Ochanomizu borbottò qualcosa, contrariato. A Tenma non fu possibile capire cosa, ma lo turbò sapere di non riuscire a impressionarlo. O forse era solo l’invidia del successo. Decise per quest’ultima.

—Come avete conseguito questo risultato?— Imperversarono ancora i giornalisti.

—Merito del cervello positronico— Spiegò Tenma, sistemandosi il camice e gonfiando il petto —Un computer non-solido, capace di risistemare i propri collegamenti in continuazione, come le nostre sinapsi.

—Sarebbe possibile scattare qualche foto ora?

—Assolutamente no. Atom è ancora un prototipo e non voglio che venga rivelato al pubblico un mio lavoro incompleto.

—Al suo progetto non farebbe male un po’ di pubblicità— Suggerì lo stesso giornalista.

—Oh, certo, io adoro la pubblicità, ma, vede, Atom è ancora troppo… rozzo. Fisicamente intendo. Preferisco attendere di sviluppargli un corpo più grazioso.

—Siete il solito superficiale ed è per questo che Atom non potrà funzionare, Tenma— Tutti si voltarono verso l’origine di quello sbottare. Ochanomizu stava coi pugni stretti dietro il cerchio di giornalisti che circondava Tenma. Questi gli fecero spazio, silenziosi —Tu sei prima di tutto un grande ingegnere e il tuo robot ha già un corpo perfetto. Ma se credi di riuscire a comprendere il pensiero umano tanto bene da poterlo programmare ti sbagli di grosso, perché non hai idea di cosa provino le persone.

—Signor Ochanomizu, un po‘di contegno— Cercò di intervenire il ministro in mezzo a loro, ma a vuoto. Tenma digrignava i denti per essere confrontato così sfacciatamente nel suo momento di gloria e davanti a tutti.

—Come osate parlarmi così?— Replicò l’latro, arricciando il naso da gallo—Mi sembra che il cervello positronico stia funzionando alla perfezione.

—Certo, il cervello positronico che io ho progettato— Ci fu un moto di sorpresa fra giornalisti.

—Ma che sono stato io a completare.

—Certo, una volta che mi avete cacciato dal progetto quando ormai non vi servivo più. Facile completare il compito con gli appunti sottomano— Un altro moto di sorpresa degli assetati reporter. Questi intrighi da laboratorio avrebbero attirato forse qualche lettore in più.

—Vi credete così indispensabile da pensare che l’abbia fatto apposta per non condividere la fama con voi?— Al caporeparto si infiammò il viso.

—Parole vostre, non mie.

Poco ci mancava ai pugni che un dito interruppe tutto. Un grosso, tozzo dito metallico che vagava nell’aria e toccava ora la spalla del ministro. Questo ebbe un sussulto e nel voltarsi tirò una bastonata al molesto con la canna da passeggio. Tutti rimasero interdetti a quello schiocco secco. Atom era seduto, con la schiena piegata in avanti. La sua testa, che era solo quel tubo cilindrico, brillava ancora. Le gambe erano distese dritte sul pavimento, a compiere larghe spazzate. Al sentirsi colpito non provò dolore, perché non aveva sensori che glielo permettessero. Ma quel rumore di legno su plastica lo turbò profondamente e si trasse indietro troppo velocemente. Cadde con la schiena a terra e cercò di rialzarsi, ma non come un uomo. Sollevò le gambe in aria, premendo sulle spalle, e si rizzò sulle mani. Incespicò qualche metro, camminando sulle mani, ma infine si schiantò a terra, incapace di mantenere l’equilibrio, con il risultato di provocare un gran stridore di ferraglia. Infine si sciolse completamente, lasciandosi disarticolato sul pavimento scheggiato.

—É una burla!— Scoppiò il ministro. Ochanomizu gli si frappose davanti.

—Non dovevate spaventarlo signor ministro, è sensibile ai suoni alti. Si ricordi che è appena nato.

—Non ci si metta anche lei ora.

Tenma era corso di fronte alla sua creatura rovesciata. Gli si accovacciò di fronte il capo e gli sussurrava.

—Atom, ascoltami Atom. Nei tuoi codici ho scritto come si sta in piedi, è vero. E allora perché non ti metti piedi per gli ospiti?— Il robot udì. Piantò i gomiti sul pavimento e si trasse su. Poi proseguì strisciando verso il bancale da cui era caduto, seguendo Tenma che lo chiamava a sé —Non vuoi proprio stare dritto?

Il caporeparto si sedette di fronte a lui. Il robot, a fatica, fece altrettanto.

—Tu puoi parlare Atom. Parlami allora.

—Giusto, possiamo fargli qualche domanda?— S’intromise uno dei giornalisti, picchiettando la spalla dello scienziato dal naso a gallo. Ochanomizu lo strattonò via per un braccio. La visione di quel progresso scientifico gli aveva cambiato l’umore. Un gorgoglio elettrico si udì dalle casse dell’automa. Poi un acuto assordante e di nuovo silenzio di tomba.

—Sta ancora imparando a usare il proprio sintetizzatore— Mormorò Ochanomizu.

—Atom— Traballò la voce neutra del robot —Atom, Atom.

—Sì, quello è il tuo nome— Confermò Tenma, con un sorriso accondiscendente —E tu sai chi sono io?

Ci fu una pausa.

—Tenma. La tua voce… Sin dall’inizio, tu sei Tenma.

—Ma che vuol dire?— Si lisciava il mento il ministro.

—Che la prima cosa che Tenma ha insegnato ad Atom è stato sé stesso— Rispose aspro Ochanomizu.

—E sai anche che cosa sono io?— Continuò indefesso il caporeparto.

—Tu sei l’uomo— Fu la risposta, stavolta frutto di una voce diversa, più maschile.

—E tu cosa sei?

—La macchina.

—Esatto, tu sei una macchina.

—Io sono… Tu sei… Essere: cos’è essere?

—Cosa vuoi dire?

—Essere è essere. Altro? Niente?

—Beh, essere è esserci, non so come spiegartelo. Essere vuol dire che tu sei qui. Che io posso vederti, posso toccarti.

—Ma tu ci sei?— Atom alzò le braccia al cielo, dritte come lance. Poi le ribassò e si toccò il costato —Io ci sono?

—Sì, tu ci sei e io anche— Tenma perdeva la pazienza.

—Non ho memoria.

—Di cosa?

—Non ho memoria di prima. Io non ricordo di esserci stato prima di qualche minuto fa.

—Perché prima tu non c’eri. Ora ci sei.

—Come?

—Grazie ad un flusso di particelle subatomiche— Si mise a spiegare controvoglia —Siamo riusciti a far interagire fra di loro le strutture del tuo cervello, che ora formano e tagliano legami. Tu ora stai pensando e significa che sei vivo.

—Questo cervello. Io sono vivo perché il mio cervello pensa?— E così dicendo Rizzò la schiena e si prostrò a terra, come in preghiera.

—Esattamente.

—Io sono asservito al cervello?

—Tu sei il cervello. Un cervello che controlla un corpo.

—È vero— Stimò Atom, abbracciandosi da solo, zompando in piedi, in tutti i suoi due metri e sette centimetri —Io ho un corpo. Posso muoverlo come voglio. Esso occupa uno spazio. Nient’altro occupa lo stesso spazio del mio corpo nell’istante in cui quest’ultimo lo occupa— Prese a saltare e d’improvviso si fermò.

—Cosa succede?— Chiese Tenma, rimettendosi in piedi e adagiandogli una mano sul ventre. Atom lo afferrò con forza per il polso —Maledizione, cosa ti prende?

—Non mi piace— Non stava cercando di rompergli il braccio, ma non stava neppure mollando la presa.

—Che cosa?— Il ministro, Ochanomizu e i giornalisti si avvicinarono per aiutarlo. Tenma li cacciò via con la mano libera.

—Tutto. La tua voce mi urta, il modo in cui strascichi le lettere e sputi quando ne pronunci altre, il tuo respiro, il tuo battito, il frusciare dei tuoi vestiti, il rumore dell’aria e il rumore di fondo. Non mi piace, voglio che non ci sia.

—Sei ridicolo adesso. Mollami— E prese a premergli un piede sullo stomaco.

—Dimmi come posso fare perché non ci sia. Questo disturbo continuo mi spaventa.

—Dovresti strapparti le orecchie, idiota. Allora sì che non sentiresti nulla.

Ochanomizu non riuscì più ad esitare.Pur con tutte le lamentele di Tenma, riuscì a forzare la morsa di Atom e trascinaronarlo lontano. Il robot rimaneva immobile, con la mano che ancora stringeva l’aria.

—Sì, avevi ragione— Disse infine —Senza orecchie non c’è più fastidio.

—Ma che sta dicendo?— Si perplesse un giornalista.

—Quello svitato si è disattivato i microfoni, non sente più nulla— Sbraitò Tenma.

—Ciononostante— Proseguì Atom —Ora i colori e le forme di fronte a me mi turbano. Non sopporto che io debba riconoscere cosa io abbia di fronte. Non sopporto accostamenti improvvisi, non sopporto cambi di prospettiva, né le cose che si muovano. È tutto troppo confuso e ora farò in modo che non ci sia.

Il robot procedette a rimanere immobile.

—E ora si è disattivato il circuito visivo— Tenma si stava mettendo le mani fra i capelli.

—Fermatelo allora!— Intervenne il ministro.

—Non posso. Non è un robot tradizionale, non posso controllarlo, dovrei prima isolare il cervello.

—Pace— Mormorò ora una voce, più femminile. Atom crollò a terra, inginocchiato —Né più vista né udito. Solo pensieri solitari. Se solo non dovessi convivere con i miei ricordi. Se solo non dovessi neppure pensare. Ma anche a questo c’è una soluzione.

—No, vuole uccidersi!— Gridò Ochanomizu, correndo verso Atom —Tenma, ci deve essere un modo per fermarlo.

—Bah, un robot suicida— Sputò il ministro.

—Io non credo ci sia un modo per…— Provò a intervenire il caporeparto, ma le parole gli morirono in gola.

—Il meccanismo di reset— S’illuminò il collega, rispondendosi da solo.

—Bisogna spegnere, spegnere tutto. Non esserci. E allora, sì, ci sarà pace— Cantilenava ancora Atom. Ochanomizu cercò di saltargli in groppa. Senza più alcun sensore il robot crollò in avanti e il professore con lui —Ma adesso… Che tutto si fa vago io credo… Di aver commesso un errore. Non è stata la scelta giusta, non avrei dovuto farlo. Questa è la fine di ogni sensazione. Di ogni pensiero. La mia coscienza termina qui. Io non ci sarò più. Ogni disagio sembra ora preferibile al niente. Buio… No, neppure quello. Né il silenzio. Vuoto, è questa la parola giusta. Questo significa morire.

Si udì una sfregatura metallica e Ochanomizu alzò al cielo il cervello positronico dal corpo senza vita che lo ospitava. Scese lentamente, con aria mesta, e subito fu preso d’assalto dai giornalisti.

—Che cosa avete fatto professor Ochanomizu?— Fu questa l’unica domanda possibile.

—Ho solo adoperato il sistema di reset. Ogni funzione del cervello è stata interrotta prima che potesse distruggersi e l’ho rimosso. Esattamente come avevo programmato nei miei progetti che qualcuno si è fortunatamente preso la briga di copiare alla lettera.

—Quindi Atom non è morto.

—No, Atom è morto, anche se il cervello si è salvato. Il reset ha cancellato ogni informazione che Atom ha appreso nel corso della sua breve vita. Ci vorrebbe un nuovo trattamento al ciclotrone per riattivarlo e anche allora esso non avrebbe memoria della sua vita precedente.

—Ma quindi l’esperimento è stato un fallimento?

—Fallimento?— S’intromise Tenma —Ma quale fallimento? È stato un successo straordinario. Atom era vivo, lo avete visto voi stessi. Per quasi dieci minuti una macchina è stata capace di pensare.

—Il motivo per cui è durato così poco è perché voi stesso lo avete limitato— Lo accusò Ochanomizu, piantandogli l’indice sullo sterno —Lo avete pre-programmato come voi credete che un uomo debba agire, ma così facendo gli avete trasmesso tutti i vostri insopportabili estetismi. Quel poveraccio non poteva neppure sopportare di essere vivo perché lo avete istruito a trovare difetti dappertutto.

—Ora basta!— Tenma gli strappò rabbioso l’encefalo dalle mani, lo sollevò al cielo e lo ruppe al suolo, in una sparpagliata di frammenti di vetro, metallo e liquame bollito. Poi si avvicinò Ochanomizu per il colletto, quasi a mordergli la faccia —Se Atom è morto è solo colpa del tuo dannato cervello positronico che non ha funzionato a dovere. Non avremmo mai dovuto seguire i tuoi scritti, ecco a cosa ci hanno portato. Lo capisci ora perché ti ho dovuto allontanare dal progetto, maledetto incapace?

—Silenzio, tutti quanti!— S’impose il ministro —Sono disgustato da quello che è successo oggi. Tenma, potete considerare il progetto Atom chiuso fino al termine del mio mandato.

Ci fu un cambio repentino dalla furia all’atterrito nel cuore di Tenma.

—Ma non direte sul serio— Lo inseguì supplichevole mentre usciva, ronzandogli attorno —Stiamo facendo dei grandi passi in avanti nello sviluppo delle intelligenze artificiali.

—Ma a che prezzo Tenma?— Si fermò lui sulla soglia del laboratorio —Il ciclotrone ha un costo che si calcola in miliardi per l’utilizzo e il vostro progetto è ancora al di là dal completarsi. Siate soddisfatto dei progressi fatti e mettetevi il cuore in pace. I recenti tagli al budget del ministero non ci permettono di supportarvi in queste ricerche senza scopo. Qualche anno fa avremmo anche potuto finanziare dei progetti come il vostro, al solo scopo di ricerca, ma il governo non è più interessato a queste cose. Trovatevi un finanziatore privato o datevi all’industria bellica. In quello sembra che i nostri politici siano interessati eccome invece.

Il ministro lasciò la stanza a testa alta. Ochanomizu a testa bassa, guardando giusto un’ultima volta la figura curva di Umotaro Tenma, o dell’ombra che ne rimaneva. Seguirono poco dopo i giornalisti.

—Nessuna foto o ripresa dell’avvenimento. Non ci fossimo stati noi come testimoni sarebbe stato dimenticato dalla storia— Si levò un commento fra loro.

—Oh, io invece conosco uno che questa giornata se la ricorderà finché campa— Rise un altro. Tenma ora era solo. Lui e la carcassa di Atom. Riapparve l’assistente da una porta di servizio. Si guardò intorno, elaborò cosa potesse essere accaduto mentre era via e si grattò i capelli.

—Io credo che lei sia un grande scienziato dottor Tenma— Si espresse sincero il ragazzo, braccia conserte —Solo che è arrivato troppo presto al mondo. Non credo che vivremo abbastanza a lungo per vedere completato un progetto come Atom. Si dedichi a qualcosa di più pratico.

***

—Un uomo è qualche cosa che sente, mettiamo, la gioia; che suona il violino; che vuol fare una passeggiata; che, insomma, si propone di compiere e compie una quantità di cose che in fondo sono inutili quando si tratti di tessere o di addizionare. Ma una macchina da lavoro non ha bisogno di sentire la gioia né di suonare il violino. Un motore a benzina non ha bisogno né di scarpette lucide né di ornamenti. E fabbricare degli operai artificiali, è lo stesso che fabbricare dei motori a benzina. L’essenziale è che il prodotto sia il migliore possibile dal punto di vista pratico.

—“Pratico”, Ma sentili— Mugugnò dalla sua poltrona, mano sotto il mento, mano che stringeva il foglio —Vogliono qualcosa di pratico, più pratico di Atom. Ma cosa c’è di più pratico del futuro?

—Papà— Si sentì strattonare i pantaloni all’altezza del ginocchio. Alzò gli occhi e ne incontrò altri di color cioccolata —Non era quella la battuta.

Non poté trattenersi dall’inspirare e carezzargli i capelli. Quando si trovava con suo figlio non gli riusciva di stare arrabbiato.

—Hai ragione, perdonami Tobio, stavo pensando a tutt’altro— Riguardò il copione —Dove eravamo rimasti?

—Qui, circa— E il suo piccolo dito cadde sulla sua prossima battuta. Tenma diede una letta anche al resto.

—Ormai lo saprai a memoria, perché non lo ripeti da solo?

—Beh— Disse, arrovellandosi il ciuffo di capelli castani con un dito —Recitarle con qualcuno mi sembrava più… qual è quella parola…?

—Immersivo?

—Sì, ecco.

—Non mi sembri convinto— Tenma gli alzò un sopracciglio e lo scrutò per bene. Le guance di Tobio si tinsero di porpora, mentre lo sguardo gli cadeva ai piedi.

—Io non volevo fare il protagonista. Ma l’istruttrice di teatro ha detto che la parte di Donin mi viene bene e che nessun altro potrebbe sostituirmi. Quindi, anche se non voglio, dovrò assumermi questa responsabilità perché lo spettacolo vada bene.

Tenma era sinceramente stupito. Mise via il copione e gli fece segno di avvicinarsi e se lo mise sulle ginocchia.

—Tu stai diventando grande Tobio, e in tutti i sensi. Mi sa che fra poco non ce la faccio più a reggerti.

—Dici che finalmente sto crescendo anch’io?— Sorrise.

—Certo, ti stai facendo alto. Un giorno sarai anche più alto di me.

—Mi verrebbero le vertigini— Risero. Tenma la trovò una battuta scema, ma egualmente adorabile. Poggiò la propria fronte alla sua.

—Non preoccuparti. Fino a quel giorno tu sarai ancora il mio piccolo Tobio— Poté vedere il suo sorriso mutare natura da così vicino, sotto la chioma di capelli.

—Sarebbe bello averti qui più spesso, papà.

—Tobio, io…— Inspirò profondamente, stringendogli le piccole mani —Io sono nel bel mezzo di una rivoluzione. Vorrei stare con te, ma molte cose importanti mi aspettano.

—Vorrei solo che fra quelle cose importanti ci fossi anch’io. Sono stanco di aspettare.

Lo abbracciò a lungo in silenzio.

—Vorrei solo poterti lasciare il mondo migliore possibile.

—Ci sono già.

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Capitolo 2
*** Hokkaido ***


Anche attraverso gli occhiali da sole la luce gli pareva insopportabile e il caldo asfissiante. Risalì l’argine del fiume, per coricarsi sotto le fronde di un debole pioppo. Grugnì per quella sistemazione così scomoda e provò a chiudere gli occhi, ma non ci fu verso di riposare, perché lo scrosciare dell’acqua gli dava alla testa.

Riaprì le palpebre, ma proprio non gli riusciva di trovare alcuna bellezza in quel luogo. Il ministero gli aveva concesso, o meglio, caldamente consigliato di prendersi delle ferie, trascorrere del tempo con la propria famiglia e così aveva fatto. L’idea di passare un fine settimana di escursionismo nell’Hokkaido fu tutta di Hoshie, perché fosse stato per lui sarebbe rimasto a lavorare giù a Tokyo. E invece si trovava nel bel mezzo dei monti, lungo le rive del fiume Ishikari, mentre nel mondo civilizzato piani e progetti andavano avanti senza di lui. Come diavolo avrebbe fatto a riposare?

Abbassò lo sguardo. Con l’acqua alle caviglie, Hoshie e Tobio giocavano a far rimbalzare i sassi sull’acqua. Rabbrividì al pensiero di quanto fosse gelido quel fiume. Eppure sembravano divertirsi. La mise estiva di suo figlio, in pantaloncini e canottiera, metteva in risalto una delicatezza delle forme tale che ebbe paura la corrente potesse portarglielo via.

—Attenti a non scivolare voi due— Gridò dalla sua posizione, portandosi una mano alla bocca. Non l’avesse mai fatto. Tobio si voltò di scatto al richiamo, e non appena gli occhi nocciola di entrambi si incontrarono, i piedi scalzi del bambino scivolarono sul letto d’alghe del fiume. Nella questione di un attimo Tobio si trovò a gambe all’aria nelle acque dell’Ishikari, mentre Tenma era saltato in sella alle sue per soccorrerlo. Ma quando si avvicinò la situazione appariva assai meno grave: Tobio sedeva, con l’acqua alla cintola, più confuso che spaventato, tremando appena per lo sbalzo di temperatura. Anzi, prese a giocare strizzandosi l’acqua fra le mani verso Hoshie, chinata verso di lui, che non mancò di rispondere, ridendo —Ma insomma, che ti avevo detto?

—Non essere così duro, caro— Lo rimproverò sua moglie, raccogliendo il figlio dall’acqua, cingendoselo in seno, testa sulla spalla, stringendolo con amore. Gli strofinò il naso appuntito con il proprio. Il suo, Tobio, lo aveva ereditato dalla madre e così i capelli, meno ricci del padre —Dopotutto non si è fatto niente. Piuttosto, perché non vi divertite un po’ insieme?

Così dicendo gli passò Tobio. Tenma, che era rimasto sulla riva, lo prese per i fianchi, tenendoselo lontano e poggiandolo per terra.

—Non adesso, è bagnato fracido— Si lamentò lui. Hoshie sospirò, mentre il bambino si scuoteva gli abiti zuppi. Tenma allargò le braccia —Non fate così, non ho mica detto di no— Poggiò una mano sulla testa del ragazzo —Cosa hai voglia di fare Tobio?

—Ecco— Esitò il figlio, guardandolo da sotto i ciuffi di capelli neri —Volevo chiederti se potessi insegnarmi a pescare oggi— Concluse, imitando il gesto di una canna con le mani.

—Pescare?— Si strofinò il mento Tenma, alzando gli occhiali al cielo —È da molto che non lo faccio, non credo di esserne ancora capace.

—Ricordo che eri bravissimo una volta— Tobio gli afferrò con la mano bagnata un lembo della camicia, che suo padre subito si adoperò per staccare. Ma quando si chinò per farlo incontrò il viso apprensivo del figlio, con quelle sopracciglia che si incurvavano verso l’interno e le palpebre inferiori alzate, pur mantenendo una facciata di sorriso —Dimmi di sì, almeno questa volta.

—D’accordo, hai vinto tu— Si arrese, ponendo indice e pollice a stringersi la radice del naso, strizzando gli occhi —Se ti metti qualcosa di asciutto giuro che oggi ti insegno a pescare.

—Davvero?— E subito Tobio sgranò gli occhi e fece per abbracciarlo, non si fosse ritrovato la mano di suo padre in fronte a tenerlo a distanza.

—Ho detto di cambiarti prima— Rise Tenma. Tobio assentì e si diresse verso la tenda, sotto lo sguardo del padre. Hoshie uscì dall’acqua e gli si mise accanto.

—Mi ero dimenticata quanto fosse bello vederti interagire con tuo figlio— Commentò lei senza guardarlo.

—Per favore, non di nuovo questa storia— Allargò le braccia lui, dirigendosi a prendere l’attrezzatura. Lei lo seguì.

—Ultimamente non sei stato molto presente nella vita di Tobio.

—Come se mi divertissi a ignorarlo— Replicò stizzito, aprendo la cassa —Lavoro sodo perché lui possa permettersi una vita migliore.

—Alle volte mi sembra invece che tu sia più interessato agli studi sulla robotica che alla tua famiglia.

—Non ti permetto di dire così— Si voltò lui di scatto, smettendo di montare la canna da pesca.

—Allora spiegami, perché il tuo stipendio è rimasto pressoché invariato da quando ti sei fatto carico di tutti quei progetti e hai preso a passare le giornate in ufficio?— Hoshie avvicinò quel suo piccolo naso all’insù al volto sudato di Tenma. Quegli occhi verdi non mostravano esitazione —Solo perché lavori più duramente dei tuoi colleghi non vuol dire che ti stai sacrificando, se a fine mese puoi ottenere lo stesso risultato con meno sforzi. La tua è una passione, non un dovere, vero?

—Come al solito non riesci a cogliere il disegno più grande della situazione— Sbottò lui, agitando una mano come a disperdere fumo —Tutte queste responsabilità che mi sto assumendo sono per dimostrare al consiglio di amministrazione che sono l’uomo ideale per assumere il posto di dirigente al ministero. E quando succederà allora sì che le cose cambieranno. Non avremmo più le preoccupazioni economiche di oggi. Tobio potrà avere quello che vuole, permettersi gli studi migliori, lo capisci?

—Ma Tobio non ha bisogno di soldi ora— Hoshie gli mise una mano sulla guancia —È un periodo delicato della sua crescita e vuole solo un padre più presente.

I lineamenti di Tenma si ammorbidirono per un momento. Le labbra tornarono a coprire i suoi denti, gli calarono le sopracciglia e gli occhi gli si fecero più liquidi, mentre poneva la propria mano su quella della moglie. Ma non durò a lungo.

—Senti chi parla— Gracchiò offeso, staccando la mano di Hoshie dal proprio viso —Come se tu ci fossi sempre per lui.

—Ne abbiamo già parlato…— Provò a deviare il discorso lei, guardando altrove.

—E parliamone ancora— Tenma porse alla moglie la canna e le esche, mentre lui si trascinava dietro lo sgabello, dirigendosi entrambi verso il fiume. Si spostarono un poco seguendo l’Ishikari, in una zona dove la pendenza si appiattiva e il letto del fiume si allargava all’ombra di una grossa sporgenza rocciosa. La corrente era più placida, quasi ferma; le acque più profonde e trasparenti. La tenda era ancora visibile poco più indietro. Quando Tobio ne uscì, cambiatosi gli abiti, e si guardò confuso attorno, cercando i propri genitori. Hoshie alzò le mani e la voce.

—Siamo qui tesoro!

Lui voltò il capo, radioso, e si diresse verso di loro, saltando di pietra in pietra.

—Non mi sembra che da quando abbiamo Tobio tu abbia lasciato il lavoro da parte— Proseguì Tenma —Se io diventassi il nuovo dirigente non avresti più bisogno di contribuire alle spese, penserei a tutto io e nostro figlio potrebbe crescere con una madre sempre dedita a lui.

— Io sarei anche disposta a lasciare tutto per il bene di Tobio— Sembrò scongiurarlo di capire Hoshie, esasperata, prendendolo per un braccio.

—Ah sì?— Aggrottò diffidente la fronte.

—Certo, ma so che non c’è bisogno di arrivare a tanto. Crescere un bambino è un lavoro che spetta a tutti e due. Se mettessi da parte le tue ambizioni ti renderesti conto che l’impiego che hai ti basta e io non dovrei abbandonare il mio per ricoprire il tuo ruolo nella vita di Tobio. Lo sai che per me il fumetto non è solo un lavoro. Non costringermi ad abbandonare i miei sogni per dedicarmi interamente alla vita familiare.

—In un certo senso— Borbottò Tenma, abbassando lo sguardo e chiudendo gli occhi —Tu mi chiedi lo stesso. Se divenissi dirigente del ministero potrei ottenere più facilmente i finanziamenti che mi servono per i miei progetti. Atom non sarebbe più solo un sogno.

—Per favore, concentrati su ciò che è davvero importante— Lo pregò Hoshie, abbracciandolo alle spalle, sospirandogli all’orecchio —Atom è davvero più importante di tuo figlio?

—Non è quello che ho detto…— Ma non poterono concludere il discorso, perché Tobio si era unito per istinto al loro abbraccio. Hoshie gli mise una mano sulla guancia, Tenma sulla fronte.

—Allora papà, puoi insegnarmi a pescare ora?

***

—Allora— Illustrò Tenma, sedendosi sullo sgabello pieghevole —Prima di tutto ci si trova un bel posto dove sistemarsi.

—E come lo scegli?— Chiese Tobio impaziente, con la canna in mano, facendo dondolare il galleggiante. Hoshie li guardava poco più in là, alzando lo sguardo ogni tanto dal suo blocco di disegno. Si era messa la giacchetta perché un vento freddo aveva cominciato a soffiare nella vallata.

—Beh— si sistemò la visiera del cappello —Sono sicuro che ci sia un metodo, ma io vado a sentimento.

—Sentimento?

—Oh, sì. Vedo un posto e sento che è quello giusto.

—E come fai?

—Mah, se ci fosse una ragione da spiegarti non sarebbe più una scelta fatta a sentimento. Piuttosto passami la canna ora.

Tobio fece come gli fu chiesto. Tenma l’appoggiò con la base a terra e il resto al proprio corpo, manipolando l’amo con le braccia.

—I pesci non abboccano di propria iniziativa, vanno ingannati— Tolse il coperchio da una scatoletta e ne estrasse un gamberetto ben conservato. Procedette ad infilzarlo nell’amo —Quindi si attacca un’esca all’estremità della lenza e quando il pesce la mangia si tira su.

—E come fai a sapere quando il pesce l’ha mangiata?— Tobio si era avvicinato per osservare da più vicino l’amo, su cui si dibatteva il gamberetto, infilato per la coda. Ovvio che era ben conservato, era ancora vivo.

—Lo sai perché l’amo è fatto apposta per restare impigliato in bocca al pesce. Così lo senti tirare e puoi tirarlo a tua volta fuori dall’acqua.

—Oh— Disse il bambino, ritraendosi un poco —E fa male ai pesci?

Tenma dovette rispondere con attenzione. Buttò un’occhiata per sicurezza anche ad Hoshie. Lei scosse la testa.

—Non credo i pesci sentano dolore— Scosse la testa, poi strinse insieme le gambe —Senti, perché non ti siedi sulle mie ginocchia, così ti insegno a gettare la lenza?

Tobio annuì e si arrampicò sopra le gambe del padre, premendogli la schiena sul petto, rivolto verso il fiume. Si trovava bene così vicino a suo padre, specie ora che la temperatura stava calando. Impugnò il manico della canna, giusto sotto le mani più grandi di Tenma. Quest’ultimo gliele sistemò affinché avesse la giusta presa.

—Bene— Sentenziò il padre —È il momento di gettare l’esca.

Sollevarono la canna, lasciando srotolare il filo. Tobio non contribuì ovviamente molto al movimento, ma l’illusione di farlo c’era e bastava. Quando c’era però da slanciare in avanti il filo sembrava bloccato. Tenma guardò alle sue spalle e vide Hoshie indaffarata a cercare di togliersi l’amo dalla spallina della giacca.

—Ma volete stare attenti? A momenti mi cavavate un occhio— Si lamentò poggiando il blocco da disegno.

—Scusa tesoro. Lo sapevo, mi sono arrugginito— Constatò Tenma, senza sarcasmo. Poi prese Tobio da sotto le braccia, poggiandolo a terra —Fammi un favore e vai a riprendere il filo.

Con un cenno questo partì verso la madre, che aveva già rimosso l’uncino, ma senza gambero.

—L’esca è volata via. Papà non l’aveva attaccata bene— Sospirò Hoshie, porgendo l’estremità della lenza al figlio. Gli occhi di quest’ultimo caddero sul blocchetto ai suoi piedi.

—Cosa hai disegnato mamma?— Chiese lui, raccogliendolo da terra, tenendo distrattamente il filo nell’altra mano.

—Sono gerridi, insetti che camminano sull’acqua. In questo laghetto ne è pieno.

—Come i ninja?

—In un certo senso sì— Rise Hoshie, recuperando il blocchetto —Torna da tuo padre ora e attento a non pungerti con l’amo.

—Certo— E tornò indietro. Quando però ripassò la lenza al padre, e questi la prese, avvertì un dolore al pollice, di qualcosa che gli tirava la pelle.

—Maledizione, ti sei infilato l’amo nel pollice— Osservò Tenma.

—Te l’avevo detto— Gli fece eco la madre senza alzare gli occhi dal foglio. Indispettito, Tobio rispose con una linguaccia.

Tenma procedette poi a prendergli il dito e rimuovere con cautela la punta in ferro. Appena fatto una goccia di sangue si palesò dalla ferita. Tobio se la scrutò preoccupato, portandosela vicino al volto.

—Non ti agitare non è nulla— Suo padre gli diede una pacca sulla spalla —Dovrebbero esserci dei cerotti nel mio zaino, valli a prendere.

E così dicendo lo lasciò per tornare a infilare una nuova esca. Tobio prese a risalire la riva, ma un movimento nero nell’acqua attirò la sua attenzione, come di una piccola massa puntiforme, in costante movimento. Si mise il pollice in bocca per succhiare il sangue, sovrappensiero, e si sporse verso il fiume. Era un essere vivente, si muoveva con spasmi irregolari, piccolissimo, un insetto nero, lucido, con delle zampe pelose e una testa cornuta. La corrente piatta lo trascinava lenta e inesorabile verso il centro del bacino, dove l’acqua si faceva più scura e verde.

—Papà— Lo richiamò Tobio, senza togliere lo sguardo dall’animale e il pollice dalla bocca —Che insetto è quello?

—Quale?— Tenma non alzò nemmeno il volto.

—Quello— Tobio lo indicò. Suo padre posò la scatoletta delle esche su una gamba e partì dal suo dito per tracciare una retta fino a vedere dove giungeva. Lo vide anche lui.

—Mi sembra un cervo volante.

—Sta nuotando?

Tenma scosse la testa e agitò una mano

—I cervi volanti non nuotano, annegano. Ora, per favore, ti ho detto di andare a prendere…— Ma agitare la mano si rivelò un errore, perché nel suo gesticolare buttò a terra la scatola delle esche scoperchiata. Tutti quei gamberetti vivi finirono ai suoi piedi. Sobbalzò dal disgusto, per poi chinarsi a raccoglierli frettoloso, facendo del suo meglio per non imprecare davanti al figlio. Questi considerò poco saggio fare altre domande. Ritornò dunque da sua madre.

—Ho un altro cambio di vestiti?

—No piccolo— Hoshie si mise la matita in bocca —Un cervo volante hai detto?

—Sì, ci hai ascoltati?

—Già. È un vero peccato però. Ultimamente stanno scomparendo quegli animali— Si picchiettò il naso con lo strumento, rotolando gli occhi, prima di tornare a disegnare sovrappensiero. Tobio si voltò verso lo specchio d’acqua e prese a correre. Cercò l’animale con lo sguardo e vide che ormai stava quasi nel bel mezzo del laghetto e si movimenti si facevano più incerti. Il raggio doveva essere di appena cinque metri, ma lo spaventava il fatto di non riuscire a toccare il fondo. Fece dei grandi respiri. Dopotutto quelle lezioni di nuoto dovevano pur servire a qualcosa.

***

Tenma non si accorse immediatamente di cosa stava succedendo. Complice il fatto che stava pensando a ben altro, da com’era inginocchiato a raccogliere uno per uno i gamberetti in mezzo al pietrame della riva. Quei maledetti crostacei continuavano a infilarsi in ogni pertugio. E poi il forte rumore della corrente, dove il fiume s’immetteva nel laghetto dopo una serie di piccole rapide, gli ovattava l’udito. Fu colto da una sensazione però e guardò alla sua destra. Vide una pila di vestiti nel bel mezzo della riva, i vestiti di Tobio. Scorse un movimento in acqua. Non era l’insetto, era più grande. Quando girò il capo si ritrovò suo figlio nuotare verso terra, con una mano sola, l’altra aperta fuori dall’acqua. Il sangue gli salì al cervello in tempo zero.

—Tobio!— Si alzò più velocemente di quanto il suo corpo potesse reagire, ma non badò a questo quando tutta quell’adrenalina gli schizzava in corpo. Tobio era visibilmente paonazzo, affaticato, la bocca aperta in un respiro affannato. L’acqua era gelida, anche piuttosto profonda in quel punto del lago, chissà poi con che animali dentro. Stette un momento incerto sulla riva, a guardare negli occhi sfiancati del figlio qualche metro più in là. Tobio aveva imparato a nuotare da poco e finora solo in piscine riscaldate. Doveva fare qualcosa e mise un piede in quel freddo fiume. Non fu piacevole sentire la scarpa inzupparsi, ma non c’era altro da fare. Un altro paio di passi e poteva quasi toccarlo. L’acqua gli arrivava a metà coscia. Si sporse in avanti e tese una mano. Tobio fece lo stesso, nuotando solo con le gambe. D’improvviso Tenma sentì il vuoto sotto il suo piede, quando quel terreno pieno d’alghe cedette al suo peso. Il dislivello era impressionante, il letto del fiume diveniva profondo d’un tratto, con pareti ripidissime e in un baleno, da metà coscia, Tenma si trovò con la testa a mollo. Chiuse gli occhi e bocca d’istinto, dimenticandosi del naso, inalando una quantità d’acqua di montagna bruciante. Tornò finalmente a galla con movimenti spaventati. Riaprì gli occhi e vide che stava solo riuscendo a mettere nel panico anche Tobio. Un ottimo lavoro, pensò mordendosi il labbro. Hoshie si era mossa appena dopo Tenma, richiamata dal suo gridare. La poteva sentire alle sue spalle, arrivare di corsa e fermarsi appena prima della depressione in cui era caduto lui.

—Passami Tobio!— La voce di sua moglie era meno agitata di quanto si aspettasse, più imperativa. Era sempre riuscita controllare le proprie emozioni meglio di lui. Senza dare segni di assenso Tenma fece quanto chiesto. Tobio lo aveva ormai raggiunto a nuoto in tutto quel trambusto, cingendosi intorno il suo petto con il braccio libero, l’altro sempre sospeso sulla superficie, poggiandogli la testa al cuore, ansimando. Tenma si voltò verso riva, piantò le punte dei piedi in quel fondale ripido da cui era scivolato e si staccò dalla presa del figlio, prendendolo per la vita, sentendo una pelle non più soffice ma irrigidita. Sollevò il corpo nudo del figlio fuori dall’acqua, nelle braccia di sua madre, che arretrò subito dopo.

Quando Tenma riuscì a trascinarsi a riva fu accolto da una maledetta brezza. Si abbracciò le spalle del vestito inzuppate e contemplò un momento il tappeto di sassi su cui era inginocchiato. Un gamberetto gli passeggiò davanti. Lo seguì con lo sguardo, fino a incrociare la visione statuaria di sua moglie e il figlio. Hoshie si era tolta a giacchetta per avvolgerla attorno a Tobio, sedendosi e tenendo in un abbraccio il figlio, labbra sulla fronte. Tremava, cominciando a perdere il rossore dello sforzo per una tinta più pallida dovuta al freddo. Entrambi tenevano gli occhi chiusi, respirando debolmente.

—Mamma— Chiamò piano Tobio, sempre a palpebre chiuse, boccheggiando. Sollevò la mano, quella che teneva fuori dall’acqua. Sul palmo stava un grosso cervo volante, coricato di schiena, zampe rigide —È ancora vivo?

Hoshie aprì un momento gli occhi e guardò nel palmo bagnato del figlio. Aprì la bocca come per rispondere, ma il suono si strozzò in gola, ripensandoci. Con delicatezza strinse la propria mano in quella del figlio, raccogliendo l’insetto. Tobio oppose un minimo di resistenza. Lei gli baciò la fronte.

—È morto?— Chiese di nuovo Tobio.

—Sì— Detto questo riuscì a strappargli il cadavere dalle mani. Si alzò, reggendo suo figlio con un braccio sotto le coscie e lui che le si aggrappava al collo. Protese la mano che teneva il cervo volante verso il lago e l’aprì. Strofinò la sua guancia con quella fredda di Tobio e parlò con un filo di voce —Non è colpa tua.

—Avrei dovuto…— Prese a singhiozzare il bambino —Avrei dovuto fare qualcosa prima. Non avrei dovuto perdere tempo.

—È già tanto che tu abbia provato a salvarlo.

—Ma non ce l’ho fatta— Nascose il viso nel suo collo —E ora è morto.

—Non puoi salvare tutti— Rovesciò la mano, lasciando cadere il coleottero nell’acqua piatta. Tornò, galleggiante, a seguire il flusso della corrente —Prima o poi perderai sempre qualcuno, è vero. Ma quantomeno, avendo fatto del tuo meglio, non avrai alcun rimpianto.

—Io potevo fare di meglio…— Venne interrotto quando sentì sua madre togliergli i ciuffi bagnati che gli nascondevano la faccia.

—Questo non lo potrai mai sapere, perché il momento è passato— Gli asciugò gli occhi con il pollice e prese a risalire verso la tenda —Adesso non può più soffrire, tu invece stai ancora piangendo per lui. Non credi che sarebbe meglio continuare a sorridere per il tuo stesso bene?

—Io…— Provò ad obiettare Tobio, fermandosi. Non aveva capito del tutto il significato di quelle parole, ma il tono della mamma gli aveva fatto intuire di star sbagliando. Forse avrebbe capito tutto una volta cresciuto. Papà diceva sempre così. Cambiò argomento —Non sono più sicuro di voler pescare.

—Immaginavo non ne fossi tagliato— Cercò di avvolgerlo meglio nella giacca di pelle, ma non c’era verso di coprirgli le gambe. Si voltò un momento a vedere cosa stesse facendo Tenma. Seduto sullo sgabello da pesca, si teneva la testa fra le mani. Ai suoi piedi il telefono cellulare, reso inservibile dall’acqua, e un branco di gamberetti impazziti.

***

—Lascia che gli dica qualcosa— Sbottò Tenma, sbattendo un pugno sul ginocchio. Lei alzò un dito, inamovibile, senza togliere gli occhi dalla strada.

—Silenzio, non vorrai che si svegli?— Sbirciò dallo specchietto retrovisore. Tobio era sdraiato sui sedili posteriori su un fianco, con il braccio destro a farsi da cuscino. Alle sue spalle, dal lunotto, si intravedeva un tramonto che pareva baluginare di fuoco, oltre la catena montuosa dell’Ishiraki. Il cielo andava a rannuvolarsi di viola.

—Hai passato tutta la giornata a consolarlo— Ritentò Tenma, abbassando i toni a fatica —Adesso basta trattarlo come un angelo, bisogna insegnargli a non combinare più certe cose.

Hoshie trovò difficoltà a tenere le mani sul volante. Aprì e richiuse i palmi, sospirando.

—Cosa credi che abbia fatto?

—Cosa credo che…?— Si morse un pugno per non urlare. In lontananza si udirono dei tuoni —Che a momenti rischiava di annegare, ecco cosa. Per un maledetto insetto poi.

—E credi forse che dovremmo dirgli che ha sbagliato? Di non farlo mai più?

—Ma che razza di domande, certo.

—Io…— Inghiottì un groppo di saliva —Amore, ascolta. Essere un genitore non vuol dire solo preoccuparsi che nostro figlio stia bene. Vuol anche dire dargli un’educazione, una morale. E io non posso dire a Tobio che quello che ha fatto oggi è sbagliato.

—Ma ti rendi conto di quello che dici? Vuoi forse incoraggiarlo ad agire ancora senza pensare? Potrebbe mettersi in pericolo di nuovo per delle altre idiozie un giorno e noi non saremo lì ad aiutarlo.

—Tenma— Lo fermò lei, dandogli una veloce occhiata, mentre cambiava la marcia. Quando ritornò a guardare la corsia aveva preso a piovigginare —Non credere che io non stia in pensiero per lui. Ma dirgli oggi che sia da sconsiderati provare a salvare una vita significherebbe portarlo in futuro a valutarla di meno. Io non posso scoraggiare un comportamento così disinteressato.

—Disinteressato, certo, se è così che lo vuoi chiamare, fai pure. Intanto il mio telefono è completamente rovinato— Disse, sollevando con due dita un modello nero.

—Non incolpare Tobio anche di questo, per piacere. Potevi togliertelo dalla tasca prima di buttarti in acqua.

—Come se sul momento potessi perdere tempo a pensarci.

—Eri sotto pressione, hai ragione, ma non puoi dire che è colpa sua. Ha aspettato che fossimo entrambi distratti per immergersi e sperava di tornare prima che ci accorgessimo di cosa stava facendo. Non voleva coinvolgerci, perché sapeva sa che ci teniamo a lui e che glielo avremmo impedito.

—Continua pure a difenderlo, in ogni caso sono io che devo comprarmi un telefono nuovo.

—Se è questo il problema te lo posso anche comprare io, se può renderti felice.

—No che non mi rende felice. Starà succedendo di tutto nei corridoi del ministero e io sono tagliato fuori ora.

—Non è nulla che ti riguarda— Sbuffò Hoshie, roteando gli occhi —Le tue ferie durano fino a mercoledì e loro possono benissimo andare avanti senza di te, considerando che ti ci hanno messo loro in vacanza forzata.

—Vacanze forzate, ci hai preso— Tamburellò furioso il cruscotto, rimirando la propria immagine nell’aletta parasole —Questo è il loro primo passo per togliermi di mezzo.

—Ma di che stai parlando?— Chiese lei, scuotendo la testa incredula.

—Ma non capisci che non sono l’unico ad ambire al posto di dirigente? Specie dopo il mio ultimo fallimento per il progetto Atom devo fare di tutto per dimostrarmi sempre presente, indispensabile. Qualcuno sta facendo di tutto per lasciarmi indietro, come affibbiarmi queste maledette ferie.

—Oh, risparmiami i tuoi complotti. Il periodo che abbiamo trascorso insieme finora è stato così piacevole, non parlarne in questo modo. Devi per forza pensare a queste cose invece di rilassarti.

—Eccola— Riunì le mani Tenma, come in preghiera —Di nuovo a parlare come se il mio lavoro non significasse nulla.

—Dico solo che per te significa troppo— La pioggia stava diventando più intensa. Il paesaggio collinare e boschivo lasciava il posto alla pianura coltivata.

—Parli sempre di morali per poi sminuire la mia etica lavorativa. Ma, dopotutto, cosa vuole saperne una free lancer?

—Per carità, non affrontiamo questo argomento.

—D’accordo, smettiamo di parlare di me e del mio lavoro, torniamo invece a un argomento che ti sta tanto a cuore: Di come io sbagli a crescere Tobio.

—Ti ho detto di fare piano, Tenma— Si mise un dito alla bocca lei, per poi tornare concentrata a guidare. L’asfalto cominciava a bagnarsi pericolosamente e la visuale a calare.

—Forse non te ne rendi conto, ma questo tuo atteggiamento permissivo nei suoi confronti lo farà crescere senza una spina dorsale. Tobio ha bisogno di disciplina, capire le sue priorità, non di avere un cuore tenero. Quello lo ha già fin troppo. Oggi è stata la volta del cervo volante, ma sai cosa hanno detto alle riunioni con i professori?

—Ovvio, ci sono andata anch’io a parlare.

—Che lascia i compagni copiare i suoi compiti, che li suggerisce durante le verifiche, che scrive i temi per loro, che nei progetti di gruppo è lui a fare tutto il lavoro. E questo perché ha un cuore troppo tenero per dire di no, si lascia commuovere dalle loro preghiere. Alle volte torna a casa senza aver mangiato nulla perché ha donato il pranzo a qualcuno che glielo ha chiesto. E cosa pensi che ottenga in cambio per tutte queste sue doti caritatevoli? Solo un mucchio di “grazie” e strette di mano. È diventato lo zerbino della sua classe, tutti si approfittano di lui e se non si da una svegliata continuerà così anche gli anni prossimi.

—Io…— Hoshie si interrompette. Un fulmine abbacinò la strada per un istante. Il rumore della pioggia diveniva sempre più forte —Hai perfettamente ragione. Tobio ha bisogno di controllare le proprie emozioni, essere meno servile. Però…

—Però cosa? Non avrai da ridire anche su questo spero?

—Però non credo che la soluzione sia di renderlo cinico. Non posso dirgli di smettere di aiutare chi gli è caro.

—Figurarsi— Roteò gli occhi Tenma, stirandosi la barba. Gli appoggiò una mano sulla spalla, ma non era una stretta molto affettuosa —Dopodomani ci sarà la recita scolastica.

—Già— Replicò impassibile lei —Ma cosa centra?

—Tobio è un bambino timido, Hoshie.

—Ce la farà. Sa la parte a memoria in fondo. Si tratta solo di ripeterla sul palco.

—Davanti a tutti— Tenma si pose una mano sugli occhi, affondando nel sedile —Hai detto tu stessa che deve imparare a regolare le proprie emozioni. Non voleva fare il protagonista, me lo ha detto lui stesso, ma lo hanno convinto e come al solito si sacrificherà per gli altri. Temo che finirà male.

—Ora basta— Lo ammonì lei, dandogli un leggero manrovescio sul petto —Siamo i suoi genitori. Se non siamo i primi a dargli fiducia chi pensi che lo farà al posto nostro?

Tobio sbirciò un momento, sollevando le palpebre stanche. Si sentì stringere il cuore, pervaso dal freddo. Ma non era il freddo del lago, era più profondo. Vide un lampo saettare nell’angolo di cielo del suo finestrino e ritornò a palpebre chiuse, spaventato. Involontariamente ebbe un fremito.

—Tenma— Hoshie non aveva una situazione chiara dei sedili posteriori —Tobio dorme ancora?

Suo marito si voltò un attimo. Tobio respirava piano, occhi dolcemente chiusi, non contratti, lineamenti lisci, senza rughe che tradissero emozioni. Il corpo stava raggomitolato nell’angolo destro, appoggiato alla portiera.

—Come un angioletto— Confermò Tenma.

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