Caleidoscopio

di Luschek
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Aprire gli Occhi e Desiderare Richiuderli ***
Capitolo 2: *** Vedere, Toccare, Gustare il Fallimento ***
Capitolo 3: *** Affrontare il Dolore ***
Capitolo 4: *** Confrontarsi ***



Capitolo 1
*** Aprire gli Occhi e Desiderare Richiuderli ***


Capitolo 1 

 

Aprire gli Occhi e Desiderare Richiuderli 

 

 

 “Tu non sai quello che vivo, no tu non sei come me  

È per questo che ora rido se ti sembro instabile  

Tu non sai nulla dei giorni che ho passato a rifuggire  

Da pensieri troppo amari per conviverci e impazzire  

Tu non sai cosa ho pensato quando il vuoto era vicino  

E il futuro è un'illusione quando non ti senti vivo  

Ora non mi importa niente se mi tocca respirare  

Piano perché in questa vita ci si deve anche fermare.” 

 

Sindrome del Dolore – Il Nulla 

 

 

 

Le orecchie di Reiner ronzano, come se all’interno uno sciame di api vi avesse creato un nido. Non ricorda cosa sia successo o dove fosse prima di riprendere conoscenza. Persino adesso è ignaro di dove sia, ma ogni fibra del suo corpo è intorpidita e percepisce sotto la schiena il torpore tipico delle lenzuola. Per accertarsene, le sue dita stritolano la stoffa su cui è steso, e poco dopo le labbra contrite in una smorfia infastidita si rilassano.  

Sia sulle spalle che sulle guance vi è un calore costante e ciò lo convince che, se sollevasse le palpebre, si ritroverebbe accanto ad una finestra chiusa, dato che il calore dei raggi solari lo accarezza, ma non vi è nessun filo di vento a rizzargli i peli.  

Dalle informazioni acquisite, intuisce di trovarsi al chiuso. È sempre stato all’interno di una stanza? 

La sua risposta è negativa, quando il suo cranio viene spaccato in due da una fitta lancinante. Qualche ricordo riaffiora grazie al suo dolore. La sua mente ripete al pari di un registratore le ultime discussioni che ha avuto, nonostante non le sappia collocare in un arco temporale preciso.  

Gli sorge anche un dubbio lecito: che giorno è oggi? Per quanto tempo ha perso i sensi? 

Nelle conversazioni che gli ha riportato a galla la memoria prevale la voce di Hanji Zoe. Lui stesso parlava al caposquadra di una lettera, ma a chi apparteneva? Non lo ricorda più. 

Si mordicchia il labbro inferiore, mentre si spreme le meningi per rievocare altri dettagli. Passano minuti, oppure ore – Reiner senza osservare un orologio, oppure il percorso del sole nella volta celeste non sa dirlo – finché il timbro nasale di un ragazzo grida un nome, che è, in realtà, la risposta tanto agognata:  

 

«Ymir 


Gli è sufficiente udire la voce intrisa di disperazione di Bertolt per rimembrare tutto. Entrambi erano a Shingashina, stavano lottando contro il Corpo di Ricerca. Il Corazzato era stato abbattuto ed egli estratto dal corpo inerme del proprio Titano, affettato come una qualsiasi bestia e bendato, cosicché la privazione della vista lo rendesse più vulnerabile di quanto già non fosse.  

Dopo questo, l’unico particolare che riesce ad afferrare col pensiero è la viscida sensazione di umido che gli ricopre l’intero corpo e, infine, qualcosa che lo trascina dalla cintola.  

Tenta di focalizzarsi sul più insignificante dei dettagli, come l’assenza di contatti, oppure la sensazione di essere sollevato di peso da qualcosa di ben più enorme di lui. Giunge alla conclusione che un Gigante lo abbia preso e portato altrove, ma chi?  

Una frase risuona nel suo timpano: «Sei molto fortunato, Reiner 

Era stato Zeke Jaeger a pronunciarla, ne è certo, però non comprende la motivazione. È come se all’interno di quel quadro mancasse un elemento parecchio importante, ma che gli sguscia continuamente via dalle dita. Quando alle narici gli giunge il tanfo di una sigaretta e lo associa a quello acre del legno bruciato – lo stesso che producevano le case calpestato dal Colossale –, Reiner spalanca gli occhi con uno scatto fulmineo.  

«Bertolt!» pronunciano le sue labbra screpolate e gli fa male a masticare ogni lettera di quel nome.  

Dov’è Bertolt? Perché non ha più ascoltato la sua voce, da quando ha percepito le sue mani sul proprio corpo martoriato? Per quale motivo adesso non è al suo capezzale a piangere?  

Ingoia tutte queste domande come se fossero un boccone amaro. Sfarfalla le ciglia bionde un paio di volte, prima di socchiudere le palpebre e ripararle dalla luce solare. Sebbene essa sia fioca, è stato tanto al buio da essere disabituato a stare con gli occhi spalancati. Ruota il capo verso la sua sinistra, alla ricerca della sagoma longilinea del compagno, che spera di ritrovare in uno degli angoli della stanza, ma tutto ciò che vede sono Zeke e Pieck.  

Il primo fuma una sigaretta, sebbene non dovrebbe, e lo osserva dall’alto come un avvoltoio che scruta la propria preda. Non batte ciglio quando gli occhi di Reiner si specchiano nei suoi, infatti continua ad aspirare, lento, boccate dalla cicca.  

La seconda, invece, si protende verso il letto, così da accertarsi che davvero si sia svegliato, e produce un sospiro profondo, come se fosse sollevata di vederlo vigile. Nessuno dice nulla, finché l’uomo non spegne la sigaretta dentro un posacenere, posto sul davanzale della finestra. A giudicare dalla montagnola di cicche e cenere all’interno del contenitore, Zeke lo ha visitato spesso negli ultimi tempi.  

«Sei vivo» sebbene la sua espressione sia neutra, il tono sembra sorpreso.  

Reiner non ricordava che la voce dell’uomo fosse tanto rauca. Ha una miriade di quesiti in testa, tuttavia si sente così debole, che solo spalancare le labbra gli sottrae troppe energie. Tenta di borbottare qualcosa, ma dalla sua bocca provengono monosillabi sconnessi, che nessuno degli altri due sa decifrare.  

La mano di Pieck gli regala una carezza fugace sull’avambraccio, per invitarlo a rilassarsi. Non gli sortisce l’effetto sperato da lei, però, almeno, gli dà la calma necessaria per proseguire senza interruzioni.  

«Dove… sono?»  

Zeke risponde dopo che si accende un’altra sigaretta. Pieck storce gli angoli della bocca per biasimare quel gesto inopportuno, ma l’uomo finge di non vederla.  

«Sei a Marley. In ospedale.» 

Un velo di lacrime gli ricopre le iridi. È a casa, pensa. È riuscito a ritornare. Ha mantenuto la promessa fatta a Bertolt e ciò lo fa fremere dalla felicità. Adesso non dovranno preoccuparsi più di sopravvivere, di mentire, di agire di nascosto come traditori. Possono spogliarsi delle loro maschere, riabbracciare i famigliari – persino amarsi, se anche l’altro lo desidera.  

Se Zeke e Pieck non fossero in quella stanza, probabilmente piangerebbe fino ad annegare nelle sue stesse lacrime.  

«Sono a casa» ripete.  

«Sì, sei a casa» gli fa eco la ragazza, che gli prende la mano tra le sue. Sembrano la mano di un padre racchiuse in quelle di una figlia, tanto sono piccole quelle di lei.  

Le sue labbra si contraggono in un sorriso piccolo, eppure così radioso che, pure se il sole tramontasse, quello basterebbe a illuminare l’intera Marley. 

C’è, però, un dettaglio che non gli fa godere a pieno la gioia di essere tornato. Non sa spiegarsi perché i volti degli altri due siano ricoperti da un alone funereo. Accantona questo presentimento – è di sicuro la sua mente che, incredula, vuole tirargli un brutto scherzo – e pone la domanda che gli preme sulla punta della lingua da quando si è risvegliato.  

«Dov’è Bertolt?» 

Nessuno risponde. Pieck aumenta l'intensità della presa e volge l’attenzione su Zeke, che butta la cicca per fumare una terza sigaretta. I due si guardano tra loro, però non si azzardano a sostenere lo sguardo di Reiner. Non ha bisogno che l’uomo pronunci le fatidiche parole, affinché capisca.  

Quel silenzio tagliente gli fa sembrare tutto così chiaro, è come il tassello mancante del puzzle che fino a poco prima era incompleto: Bertolt non è al suo fianco perché è morto.  

Qualcosa dentro di Reiner si spezza, oltre al suo sorriso, che muta in un urlo soffocato. È in quell’esatto frangente che viene seminato nel suo petto il peggiore di tutti i mali. Gli pare che il suo corpo venga dilaniato da una vampa, però quel calore atroce non lo deturpa come farebbe una brace infernale.  

Del suo male, però, se ne accorge nessuno, poiché sono troppo impegnati a studiare la sacralità con cui il ragazzo piange. Nemmeno un singhiozzo riecheggia tra le mura della camera.  

«Mi dispiace,» sussurra Pieck e nelle sue parole lui vi scorge il senso di colpa, «erano in troppi, io… non avrei potuto farcela. Sia tu che Zeke eravate…»  

«Basta, Pieck.» 

Zeke non ha intenzione di rimproverarla. È semplicemente consapevole che, qualsiasi cosa ella direbbe, sarebbe inutile.  

Senza volerlo, Reiner le afferra le dita e stringe, stringe, stringe – finché il proprio polso non viene stritolato da una presa severa e altrettanto intensa.  

«Lasciala. Le stai facendo male.» 

Neanche ha notato che la ragazza ha ridotto gli occhi a due fessure e si è morsa le labbra, pur di trattenere a sua volta i gemiti di dolore. La colpa non è sua, né di Zeke e nemmeno degli stessi diavoli che ora danzano vittoriosi sul cadavere di Bertolt – no, la colpa è di quel mondo crudele in cui sono nati e in cui non vale la pena spendere un giorno in più.  

Si maledice per non essere al posto dell’amato – di non essere lui quello con cui i vermi banchettano sotto strati di terra e letame.  

Il ragazzo spalanca la mano e permette che quelle di Pieck fuggano dalla sua morsa ferrea, poi, con angustia, sibila: 

«Andatevene. Vi prego» li supplica. 

Adesso la vista è offuscata, ma lo strascicare della sedia e l’eco dei passi lo sente bene, quindi intuisce che, almeno, questo suo desiderio verrà esaudito.  

Quando la porta schiocca contro l’infisso e gli suggerisce di essere rimasto da solo, un grido viscerale risale dalla sua gola ed esplode nella stanza, improvviso e lacerante come una bomba. Aveva promesso a Bertolt che sarebbero tornati a casa – ha perso il conto di quante volte gliel’abbia sussurrato all’orecchio, nel cuore della notte, quando nessuno dei due respirava serenamente, a causa delle aspettative tragiche che serbava loro il futuro. Invece ha fallito di nuovo e gloria, amicizia e amore sono un ricordo vago, lontano e inafferrabile.  

Respirare da ora in poi gli corrode la carotide, come se inalasse il più efficace degli acidi.  

«Non ce la faccio più! Tra poco mi sanguineranno i piedi» aveva esclamato Connie, dopo che si era gettato sull’erba.  

Sasha lo aveva seguito a ruota, stendendoglisi accanto, mentre Jean e Christa si erano seduti su una roccia vicino agli altri due. Ymir tentava di mostrarsi resistente agli occhi della ragazza bionda, quindi si era appoggiata al tronco di un albero e simulava un’energia che, in realtà, aveva esaurito. Reiner lo intuiva dal modo in cui le spalle di lei venivano scosse dagli ansiti, oppure da come strizzava in continuazione le palpebre, per focalizzarsi meglio sulla figura di Christa. 

L’allenamento quel giorno era stato particolarmente estenuante, tanto che persino lui e Bertolt, nonostante fossero abituati alle esercitazioni militari di Marley  ben più rigide delle torture a cui Shadis li sottoponeva di solito  avevano cercato riparo all’ombra di una vecchia quercia. Poco dopo li avevano raggiunti anche Eren, madido di sudore, Armin, che aveva il respiro stroncato dal fiatone, e Mikasa, la quale, invece, non batteva ciglia. Qualche volta si domandava se quella ragazza fosse umana, data la resistenza inesauribile che dimostrava.  

«Sapete cosa ci vorrebbe?»  

Tutti si voltarono verso Sasha, sfoggiando uno sguardo impigrito dalla fatica. Nessuno disse nulla e la osservarono sfilarsi gli stivali con lentezza, prima che rispondesse lei stessa alla domanda che aveva posto. 

«Un bagno» asserì, poi si lasciò andare con braccia e gambe spalancate sulla distesa erbosa 

La proposta avanzata dalla ragazza lo allettò molto. Si girò verso Bertolt e sfoggiò un sorrisetto, per domandargli in silenzio: “Che ne pensi?” 

L’altro ragazzo annuì tramite il capo e sorrise a sua volta, sebbene le sue labbra fossero appena sollevate all’insù. Quel timido gesto fu capace di aumentare i battiti del suo cuore e, deglutendo. Reiner si chiese da quando l’altro avesse tanto ascendente su di lui, se ogni sua azione - anche la più piccola – era capace di stravolgergli immediatamente il suo umore. 

«E dove la troviamo dell’acqua, ragazza-patata?» gracchiò Ymir. 

«Fate silenzio!» tuonò Sasha. 

Poi la ragazza stessa scattò in piedi, si portò una mano a coppa all’orecchio e si inclinò in avanti. Abbassò pure le palpebre, come se quello la aiutasse a concentrarsi e, dopo che tutti si furono ammutoliti per ammirare quello strambo comportamento, lei cominciò a saltellare e a battere le mani tra loro. 

«In quella direzione, oltre i cespugli! Sento il rumore di un ruscello!» gridò e, prima che potessero davvero accertarsene, corse nella direzione che aveva indicato col dito. 

«Be’, tentar non nuoce, no?» mormorò Connie e Marco concordò con lui. 

Nonostante qualcuno – Eren e Jean – sollevò qualche protesta, alla fine l’intero gruppetto si trascinò fuori dai propri giacigli per seguire Sasha. Dopo che, attraversato un breve tratto di boscaglia, la trovarono immersa nell’acqua fino ai polpacci, furono tutti lieti di averle dato retta. Il suo fiuto in fatto di cibo non sbagliava mai, ma neanche il suo senso di orientamento all’interno delle foreste scherzava.  

Mentre tutti facevano volare i propri calzari in aria e si gettavano in acqua, Mikasa, Bertolt e Ymir si accomodarono in tre punti diversi delle rive del fiume.  

Reiner era stato uno di quelli che si era gettato nel ruscello senza pensarci due volte. Grazie al gelo dell’acqua, sembrava che la calura e la stanchezza si fossero dissipate all’improvviso. La sua gola vibrava grazie alle risate che le battute di Connie o i litigi di Eren e Jean gli strappavano, mentre le sue pupille tentavano di immortalare nella propria memoria i volti contenti dei propri compagni.  

Se c’era qualcosa che era sempre capace di tirarlo su di morale, quella era ammirare la felicità delle persone. Sebbene la sua vita fosse difficile  perché la riteneva tale? , vedere gli altri sorridere cancellava tutti i pensieri soffocanti che gli balenavano in testa – un momento, quali erano questi pensieri che lo insidiavano? 

Lo scroscio del ruscello lo rilassava, ma contemporaneamente gli arrecava confusione. Ad un tratto gli sembrò di trovarsi all’interno di una bolla di sapone, dove il suono giungeva ovattato e le immagini fuori da essa apparivano distorte. La situazione peggiorò quando gli altri cominciarono a schizzarsi l’acqua addosso, e qualcosa dentro di sé si mosse, dopo che Eren gliene spruzzò addosso un po’.  

Le sue labbra agirono prima di collegarsi con la sua mente: 

«Basta così, Porco!»  

Chi era Porco? Perché lo aveva richiamato? 

Nella foga del momento, né Eren né gli altri avevano fatto caso al nome da lui pronunciato. Uno degli spettatori sulla riva del fiume, tuttavia, aveva sgranato gli occhi quando aveva sentito Reiner.  

Lo sguardo che gli rivolse Bertolt non era di rimprovero, bensì di preoccupazione e questo gli fece comprendere che qualcosa non andava. Percepiva un formicolio diffuso su tutto il cranio e, sovrapposte alle figure dei suoi compagni, vedeva quelle di quattro bambini che si schizzavano l’acqua all’interno di una fontana in pietra. Era un luogo che gli era familiare, ma, allo stesso tempo, di cui non aveva memoria. 

I nomi di Porco e Marcel gli martellavano contro i timpani, tuttavia Reiner non aveva la più pallida idea di chi fossero queste persone. O di chi fossero i ricordi che stava vivendo. Forse erano di un suo predecessore – ma predecessore di cosa?  

Avrebbe voluto urlare, non tanto per il dolore, quanto per l’incredulità di ciò che stava vivendo. Chi era il bambino dai capelli castani che implorava il suo perdono? Chi era l’uomo nell’officina che gli urlava di andarsene? E la donna che lo invitava a realizzare il loro sogno? L’unica persona familiare all’interno di quelle immagini era Bertolt – lo stesso che in quel momento lo aveva raggiunto e lo conduceva altrove, lontano da occhi indiscreti e dove avrebbe potuto frantumarsi senza vergognarsene.  

Non vedeva più nulla, come se qualcuno avesse deciso di spegnere il sole all’improvviso. Dal nero che gli offuscava la vista, ogni tanto emergeva un viso che pretendeva di conoscerlo, ma di cui egli non ne conosceva l’esistenza.  

Ciò che gli confermava di essere vivo – e da qualche parte ancora all’interno del bosco – era l’erba che gli solleticava le piante dei piedi e le dita di Bertolt avvinghiate al polso.  

«Reiner?» sentire l’altro lo confortò, però non abbastanza. Si sentiva come un naufrago in mezzo ad un oceano di pensieri che non erano i suoi e in cui, se avesse fatto un movimento brusco, sarebbe potuto affogare. Non era mai stato un bravo nuotatore, d’altronde. 

«Mi senti, Reiner?»  

Percepiva con chiarezza sia le mani che l’altro gli aveva poggiato sulle spalle, sia la voce che gli ricordava in quale luogo e con chi fosse. Ciò che gli era impossibile, tuttavia, era carpire le forme o i colori che lo circondavano. Non appena sollevava le palpebre, il paesaggio gli vorticava dinanzi e si amalgamava nell’unica sfumatura che più temeva: la pece.  

«Sì, ti sento» mormorò, «ma non ti vedo» aggiunse. 

«Capisco...»  

Dall’affermazione di Bertolt trapelava sconcerto, eppure il ragazzo sembrava agire con metodicità  come se non fosse la prima volta che affrontava una crisi del genere.  

Che fosse successo altre volte, ma non se ne ricordasse? Era probabile, dato che dal suo subconscio emergevano scene che pretendevano di essere state vissute da lui, ma di cui non rimembrava nulla prima di quel momento. 

Si morse il labbro inferiore e quel gesto non sfuggì all’altro, che prese le redini della situazione. Gli strinse le mani tra le sue, poi con garbo gli ordinò: 

«Reiner, fa’ dei respiri profondi.» 

Non sapeva quanto fosse utile farlo, ma eseguì comunque le istruzioni che gli vennero date. Gli sembrava impossibile rilassarsi, soprattutto in quelle circostanze, mentre voci mai sentite ripetevano il suo nome come una litania.  

«Bertolt, non sta funzionando. Loro non smettono di chiamarmi» sbottò dopo un po’ e strizzò le palpebre, tentando di scorgere almeno il baluginio del sole. Scorse a malapena i contorni del volto di Bertolt. 

«Loro chi?» gli chiese questo. Che fosse una stramba novità per lui? 

«Non so chi siano. Non li conosco, anche se...» 

«... loro sembrano conoscerti?» completò l’altro. 

Reiner sbatté un paio di volte le palpebre, sconvolto da quella rapida intuizione. Piegò le labbra in una smorfia addolorata e non seppe se fosse causa di Bertolt, che sembrava consapevole di cosa gli stesse accadendo, oppure della sofferenza che gli arrecavano quei ricordi.  

Sembrava tutto così instabile, che si chiese se sarebbe mai riuscito a ritrovare la pace dentro di sé, finché l’altro ragazzo non lo aiutò, ponendogli una semplice e schietta domanda: 

«Chi sei in questo momento, Reiner? Un soldato o un guerriero?» 

Qualcosa scattò dentro di sé. All’improvviso sentì l’aria mancare e si ritrovò in apnea, mentre percepiva la testa talmente leggera, che, per un momento, temette che essa sarebbe volata via.  

I visi anonimi che invocavano il suo nome assunsero delle identità: la donna che gli rimboccava le coperte tornò ad essere sua madre, l’uomo che condannava la sua esistenza ridiventò suo padre e, infine, il ragazzino che gli chiedeva scusa in lacrime tornò a chiamarsi Marcel.  

L’ansia lo abbandonò, sebbene lasciò in lui dei residui di cui difficilmente si sarebbe liberato. Tutto gli sembrò assumere un senso, ma, nonostante ciò, non seppe dare una risposta concreta all’altro. Gli rivolse solo uno sguardo vacuo e Bertolt replicò a ciò con una carezza sull’avambraccio. 

«Va bene se non vuoi dirmelo» sussurrò l’altro, ma Reiner negò col capo. 

«Io vorrei, ma la realtà è che... nemmeno io so cosa sono in questo momento.» 

Ci fu una lunga pausa tra i due, durante la quale tutto ciò che percepiva era il respiro tiepido di Bertolt solleticargli la faccia.  

«Ti prego, Bertl. Dimmi tu cosa dovrei essere» lo implorò all’improvviso e l’altro ragazzo sobbalzò. 

Il silenzio fu più lungo di prima, ma stavolta sentì le dita affusolate dell’altro percorrergli le spalle e poi incastrarsi dietro la sua schiena, per cingerlo in un abbraccio morbido. Reiner restò con le braccia a penzoloni e si permise solo di premere la fronte contro il petto di Bertolt. Fu un gesto semplice quello dell’altro, ma fu sufficiente per rassicurarlo. Non sapeva darsi una spiegazione, ma lo fece sentire al sicuro. 

«Io non posso dirti chi essere, Reiner. Posso... solo dirti chi vedo adesso. E io, ora, vedo solo Reiner Braun...» 

Chiuse gli occhi e, anche se per lui non faceva differenza tenerli aperti o meno, dato che ancora non aveva riacquistato la vista. Quelle parole lo resero febbricitante, come se l’altro lo avesse appena gettato in un calderone d’acqua bollente, quando, in realtà, tutto ciò che aveva fatto era stata pronunciare la più semplice delle verità.  

Bertolt non gli affibbiava mai alcuna etichetta, né gli imponeva di rispettare quelle che gli erano state appiccicate addosso. Lo lasciava essere sé stesso e gli voleva bene, malgrado fosse stato proprio lui a condannarlo a quella vita infausta. 

Nelle sue pseudo memorie Bertolt era sempre lì e non aveva cambiato atteggiamento nei suoi confronti – era, in pratica, l’unico suo punto fisso in quell’oceano di variabili.  

Quando sollevò le palpebre, finalmente vide. L’altro lo scrutava e, sebbene non gli avesse rivelato nulla, quello sorrise appena, come se avesse compreso subito che stava meglio. Reiner agiva spesso d’impulso, ma quella volta non se ne pentì affatto e anche l’altro sembrò apprezzare il suo spirito d’iniziativa, quando i loro denti e le loro labbra cozzarono in un bacio impacciato.  

Aveva le mani sudate e appiccicose, a causa sia della crisi vissuta che dell’ansia procuratagli dal bacio, ma Bertolt non ne fu infastidito, quando gli incorniciò il volto con esse. 

«Grazie» sussurrò Reiner, una volta che si furono staccati «e scusa» biascicò. 

Bertolt negò tramite il capo e gli lasciò un bacio sulla fronte. Una parte di sé tremò dal terrore, quando comprese che neanche quei gesti fossero nuovi ad entrambi. Quanti frammenti di ricordi aveva perso, tra una crisi e l’altra? Sarebbe stato capace di recuperarli, prima o poi? 

«Non devi ringraziarmi, Reiner. Io lo faccio perché...»  

La frase rimase sospesa nell’aria, ma a lui non servì che l’altro la completasse per capirne il senso. 

Un mese dopo. Quartier generale di Marley. 

Porco tiene fisso lo sguardo sulla figura curva di Reiner, la quale vacilla e minaccia di sgretolarsi ad ogni parola severa che il comandante Theo Magath pronuncia. Nei ricordi della ragazza che ha divorato – Ymir era il suo nome? Come quello della dea? – Reiner aveva sempre la schiena dritta, la testa alta, il petto gonfio di orgoglio in fuori e i denti smaglianti ben in vista, per accecare tutti con la sua falsa bontà. Se comparati, sembrano due persone diverse. 

Quello che adesso ha seduto di fronte, che china mogio il capo e che disconosce i sorrisi, pare solo l’ombra del Reiner che sia Ymir che Porco ricordano. Cos’è accaduto?  

Il collega – perché Reiner non è nulla più di questo – è stato dimesso da una sola settimana, eppure Magath non ha perso tempo li ha riuniti per discutere del fallimento della missione su Paradise.  Sta facendo il punto della situazione, il loro mentore: hanno perso il Gigante Femmina e il Colossale, non hanno portato a casa né il Gigante che Avanza né la Coordinata, perciò i piani alti sono molto delusi, tanto che bramano la testa di Reiner. Non li biasima affatto: anche lui desidera che giustizia venga fatta e gongola dentro di sé, quando il loro superiore pronuncia le parole: 

«Vogliono farti mangiare da Colt Grice, Reiner.» 

Intravede un baluginio compiaciuto nelle iridi ambra dell’altro ragazzo. Sarebbe davvero disposto a morire, per espiare i propri peccati? Vorrebbe dirgli che non troverà la redenzione nella morte, ma tace. Reiner gli ha sottratto tutto e non lo beneficerà di un consiglio tanto prezioso. Si merita di soffrire – no, deve soffrire, come ha sofferto lui quando Zeke, quattro mesi addietro, è tornato per comunicargli la notizia più disastrosa della sua vita.  

Anche lui ha perso un fratello, tuttavia sparire da quel mondo non gli è mai sembrata una soluzione adeguata. Anche se il collega sembra grande e grosso, questa è tutta apparenza. Una statua di vetro, anche se alta quindici metri, si frantuma comunque se la spingi giù da un dirupo.  

A Reiner è accaduta la stessa cosa: è stato buttato in un baratro tanto oscuro e, dall’altezza a cui si trova Porco, non si vede se l’altro abbia già toccato il fondo, oppure se cadrà ancora più in basso.  

Non c’era quando si è risvegliato – né ha mai avuto intenzione di esserci –, ma Pieck gli ha raccontato che è stato apprendere della morte di Bertolt – a cui lui non crede – ad averlo ridotto in quello stato.  

A Porco monta dentro una rabbia esplosiva, quando ripensa a questo particolare. Non è stato né sapere del fallimento della missione, né il rimorso di tutti i morti che si è lasciato alle spalle a distruggere Reiner: è stata la semplice perdita di un amico.  

Nella sua testa si susseguono una sequela di insulti, che deve ingoiare uno ad uno come bocconi amari, poiché sa che finirebbe nel torto se li pronunciasse. La ferita di Marcel per lui è una ferita aperta, su cui è stata cosparso del sale che ne impedisce la guarigione, dato che ha vissuto nell’illusione per anni. Mentre quello stolto di Reiner aveva il privilegio di smaltire un lutto prematuro, Porco ogni mattino si svegliava con la speranza che il fratello tornasse glorioso, rivendicasse il torto che lo sprovveduto gli aveva arrecato e, invece, ha ricevuto l’ennesima delusione – provocata dalla stessa persona, per giunta. 

È a causa di ciò, che Porco non concepisce il dolore immenso che prova Reiner nei confronti di Bertolt. Il dolore provocato dalla perdita di un famigliare – di un fratello – è peggiore della perdita di un amico, per quanto Reiner e Bertolt possano essere stati uniti da piccoli e, dopo, su Paraside. È convinto che non reagirebbe così, se succedesse qualcosa a Pieck. Spalanca gli occhi impercettibilmente, quando riflette su questo dettaglio, che fa inceppare il flusso dei suoi pensieri.  

“Reagirei anche peggio” realizza il ragazzo tra sé e sé, sorpreso.  

Possibile che Reiner provasse nei confronti di Bertolt, ciò che lui prova nei confronti di Pieck? Se così fosse... 

«La riunione è sciolta. Ci rivediamo domani.» 

La voce di Theo, che è divenuta un brusio in sottofondo, adesso lo riporta alla realtà. Sembra che abbiano atteso tutti quanti quel momento con trepidazione: Pieck inforca le stampelle sotto le spalle e Reiner fissa un punto indefinito della stanza. Zeke si gratta una delle basette e si alza, mentre il generale abbandona la stanza senza salutarli.  

«Che cosa fate adesso, ragazzi?» domanda la ragazza, che zampetta verso la porta di uscita.  

«Io ho un impegno,» risponde Zeke «voi?»  

«Io nulla,» dice Porco e si sgranchisce le gambe, «tu hai qualcosa in mente, Pieck?»  

«Volevo fare un giro. Magari mangiare un boccone, vi va?» suggerisce lei.  

Quando gli occhi ebano di lei scivolano su Reiner, che ancora non si muove dal proprio posto, comprende dove lei voglia arrivare con quella domanda. Quel gesto non lo sorprende affatto: da quando Reiner è tornato a Marley, la ragazza tenta di coinvolgerlo durante le loro attività. 

«Reiner? Vuoi venire anche tu?»  

Il ragazzo citato sbatte un paio di volte le ciglia, come se Pieck gli avesse appena posto un quesito complicatissimo, di cui non sa la risposta. Porco si infila le mani in tasca, mentre scruta le labbra tremanti dell’altro, da cui trabocca uno strascicato:  

«No, grazie.» 

«Sicuro?» insiste Pieck, corrugando le sopracciglia.  

«Sì, ho anch’io un impegno.» 

«Che impegno?» continua lei e Porco comprende che l’amica vuole fare breccia nella corazza di Reiner.  

A lui interessa poco se l’altro voglia seguirli o meno. Anzi, preferirebbe che non li seguisse affatto, ma sa che Pieck non demorderebbe mai, soprattutto dopo che si è convinta di essere in debito con Reiner. L’altro pare preso alla sprovvista da quella domanda, difatti inarca le sopracciglia e apre e chiude la bocca, come un pesce lesso.  

«Devo... andare al cimitero» risponde esitante. 

Anche Zeke si volta verso Reiner, dopo che quell’ammissione viene pronunciata ad alta voce. Dopo essersi inoltrati nel corridoio, tutti e tre hanno arrestato il loro cammino per voltarsi verso il ragazzo, che rivolge loro un’occhiata intonsa di preoccupazione.  

«Vuoi essere accompagnato?» propone la ragazza.  

Quello pare rifletterci su qualche secondo, prima che neghi col capo.  

«No. Ho bisogno di stare da solo, ma… grazie.» 

«D’accordo, allora facciamo la strada insieme fino al negozio di fiori. Credo ce ne sia uno lungo la strada principale.» 

Pieck regala un sorriso a Reiner, il quale le rivolge uno sguardo dapprima stupito. Porco non comprende cosa abbia fatto scaturire quella reazione, ma ancora di meno comprende quale significato celino le parole che pronuncia questo poco dopo: 

«Non devo andare al negozio di fiori. Io... non ho bisogno di comprare fiori per le tombe.» 

Se la memoria non lo inganna, quelle poche volte che passa dinanzi la lapide di Bertolt, la vede sempre cosparsa di petali colorati. Ora che vi riflette, trova strano che non vi siano anche vasi ricolmi di fiori, data la quantità che si accumula sulla tomba, ma è un dettaglio che ha sempre trascurato. Forse è solo suggestionato dal tono evasivo di Reiner e quello è un insignificante indizio.   

Scrolla le spalle e mastica un improperio sottovoce. Dovrebbe smetterla di scervellarsi su certe situazioni che riguardano l’altro, perché non ne giova la sua salute mentale. 

«Va bene, Reiner... Ci vediamo più tardi» lo congeda Pieck, mentre lo osserva precederli. 

L’altro ragazzo li saluta con un cenno del capo, prima di svanire in fretta dietro uno degli angoli del corridoio.  

«Non vi sembra strano?» 

Il quesito posto dalla ragazza fa girare sia lui che Zeke nella direzione di lei. A quanto pare hanno notato tutti e tre l’atteggiamento sospetto. 

«Sta processando un’esperienza molto traumatica» spiega l’uomo, come se questo non fosse già ovvio per lui e l’amica. 

«Ti ricordi da quale situazione lo abbiamo tirato fuori, no?» 

«Situazione traumatica o meno,» incomincia Porco, che solleva un sopracciglio perplesso, «secondo me sta nascondendo qualcosa.» 

«Concordo» dice Pieck, riprendendo ad avanzare, «non è l’atteggiamento estraniato. È il resto» aggiunge. 

«Credo che abbiate solo molta fantasia, voi due» Zeke liquida così la discussione, «ci vediamo dopo. Si è fatto tardi.» 

L’uomo svolta l’angolo opposto a quello in cui Reiner è svanito e ora rimangono solo loro due, che si osservano a lungo in silenzio. Nella mente di Porco aleggia un dubbio a cui dà voce la ragazza. 

«Pensi che stia coprendo Reiner?» 

Pondera seriamente riguardo la risposta da dare. Sin da quando l’ha conosciuto, ritiene che Zeke, per quanto simpatico sia, a volte appaia ambiguo. Non l’ha mai visto dare molta confidenza a Reiner, né prima, quando erano semplici cadetti, né dal momento in cui sono tornati. Persino con lui e con Pieck, nonostante abbiano combattuto fianco a fianco per parecchio tempo, mantiene un rigoroso distacco, che annulla di rado.  

«No. Penso che non sia coinvolto. Magari è come dice lui e ti stai preoccupando troppo.» 

«Soltanto io mi sto preoccupando?» lo riprende giocosamente lei. 

«Reiner è un collega. Se mi preoccupo, come dici tu, è solo nell’interesse del collettivo.» 

La ragazza annuisce e poi accenna ad un sorriso rattristito. 

«Ce l’hai ancora con lui per quanto riguarda la storia del Titano?» 

Il cuore di Porco perde un battito e sbarra gli occhi quando quella vecchia ferita viene riesumata. Se ripensa al giorno in cui furono selezionati i nuovi eredi dei Giganti, il sangue gli affluisce in quantità così massicce al cervello che potrebbe causargli un’emorragia cerebrale.  

Il suo silenzio è una risposta palese per Pieck, la quale scuote il capo sconsolata. 

«Non è stata colpa sua. Non ha scelto lui chi avrebbe dovuto ereditare i Titani. Se avesse saputo come sarebbe finita, probabilmente non sarebbe divenuto nemmeno un cadetto.»  

Sa benissimo che non può contraddirla. A dispetto del suo nome, Paradise è stata un vero inferno per Reiner. Se potesse, dimenticherebbe volentieri i resoconti dettagliati sulle sorti di Bertolt ed Annie, che il collega ha redatto – in particolare, vorrebbe ignorare le parti in cui sottolineava quanto avrebbe voluto essere lui quello sottoterra. Invece quei particolari sono vividi nella sua testa e, dunque, non può fare finta che non esistano. 

Le dita sottili di Pieck sfiorano le sue e lo riscuotono dai pensieri. La ragazza ha un tocco leggero, eppure è abbastanza da farlo sobbalzare appena. 

«Amore e Odio sono due facce diverse della stessa medaglia. Entrambi rischiano di consumarti pian piano. Agiscono come farebbe il fuoco con un pezzo di legno e, di conseguenza, di te non resterebbe nient’altro che cenere.» 

Apre la bocca per interromperla, ma lei è più lesta nel rifilargli la stoccata finale. 

«Non lasciarti consumare dal fuoco, Porco.» 

«Non lo farò. Te lo prometto» afferma deciso e il sorriso di lei sembra illuminarsi un po’ di più. 

«Grazie mille, Porco.» 

Senza dirsi altro, proseguono il loro cammino verso una buona caffetteria in cui riempirsi la pancia. Lungo il tragitto, tuttavia, Pieck pone un’altra domanda che lo fa riflettere a lungo: 

 

«Perché Reiner non compra i fiori per le tombe?» 

 

Petali aranciati piovono sulla lapide di Bertolt. Scivolano sul marmo liscio come farebbero su una superficie d’acqua, aggiungendo un tocco di colore a quella candida pietra. Ad ogni colpo di tosse, la gola pizzica a causa dei pistilli e delle antere. È da sette dannati giorni che visita quella tomba, cinque da quando la sua bocca rigurgita fiori.  

Sebbene non possano essere davvero definiti fiori, dato che ancora non ne ha sputato uno fuori che avesse la corolla intatta. 

Nel frangente che separa uno sciame di petali dall’altro, aspira quanto più ossigeno può e, debole com’è, non oppone resistenza all’ennesimo spasmo che lo fa piegare in due dal dolore.  

Rivoli di saliva grondano dalle sue labbra e, tanto si sforza, che il viso assume la stessa tonalità rossa dei petali di rosa – come quelli che ha vomitato la prima volta in cui quella maledizione l’ha colpito. 

Reiner si chiede se sia mai stato più patetico di quell’istante.  

Ha subito parecchie umiliazioni, ma essere colpito da quell’assurda malattia è la peggiore di tutte. Oppure dovrebbe esserne rallegrato, poiché ciò indica che il sentimento nutrito nei confronti di Bertolt era - è - talmente intenso e puro da renderlo schiavo di esso.  

Morire è stata la prima cosa che ha desiderato, dopo che ha saputo quell’orribile notizia, e forse questa è la manna dal cielo che aspettava.  

Improvvisa com’è arrivata, la tempesta di petali smette scuotergli il petto e si ritrova ad annaspare come se avesse corso una lunghissima maratona. 

Nemmeno si cura di alzarsi, anzi, affonda il viso in quella distesa arancione che puntina il marmo. In bocca ha il sapore dolciastro del nettare e, se prima lo nauseava quel retrogusto, adesso vi si è abituato.  

È fortunato che Porco e Pieck non abbiano insistito per accompagnarlo. Se lo vedessero in questa condizione, probabilmente il primo si prenderebbe gioco di lui, mentre la seconda lo presserebbe affinché cerchi una cura per quello strano male, che gli sottrae sempre più energie man mano che trascorrono i giorni.  

Sempre ammesso che esista un rimedio per il mal d’amore.  

A lui sta bene, però, andarsene via in punta di piedi, consumato dall’unico sentimento che lo abbia mai fatto sentire vivo. La verità taciuta di Reiner è che a Paradise andava avanti solo grazie a Bertolt – era lui l’unica luce nell’oscurità, quando le menzogne gli offuscavano la mente.  

Se fosse dipeso da sé stesso, si sarebbe avvolto un cappio al collo come aveva fatto l’uomo nel villaggio – o lo aveva costretto lui a farlo? Oppure avrebbe mentito così bene a sé stesso, che avrebbe dimenticato chi fosse, da dove venisse e quale temibile segreto si portava dentro. 

Quando il proprio essere si divideva in quel binomio antitetico che erano il Soldato e il Guerriero, l’unico capace di fonderli in una stessa identità era Bertolt – e a questo proposito la sua mente rievoca una delle sue scissioni più tremende, a cui soltanto il defunto aveva saputo porre rimedio. 

Ricorda un ti amo che non ha mai ricevuto risposta, poiché Reiner ha sempre temuto di proferire delle parole tanto forti.  

«Anch’io ti amo.» 

Nessuno replica, neanche il vento che fino a qualche minuto prima ha fischiato imbizzarrito. La fotografia in bianco e nero di Bertolt lo osserva impassibile, senza tendere le labbra nel sorriso timido che amava baciare.  

Ormai è tardi per certe confessioni, è tardi per rimuginare sui suoi sentimenti, è tardi persino per vivere, dato che l’amore gli sta sottraendo la linfa vitale.  

È troppo tardi, pensa, mentre spazzola via i petali dalla tomba dell’amato.  

Quando ha nascosto tutte – o quasi – le prove del suo misfatto, Reiner preme le labbra contro la pietra gelida – come lo sarebbe il cadavere di Bertolt, se avesse avuto occasione di stringerlo tra le braccia.  

Con un passo lesto si allontana, barcollando un po’, perché un nuovo colpo di tosse gli conquassa la gabbia toracica. 

 

Trascorsa una manciata di minuti, qualcuno sospira pesantemente. Poco dietro la tomba di Bertolt, dove si trova il monumento dedicati ai Guerrieri caduti, da dietro il marmo fanno capolino una zazzera bionda e un paio di occhi vispi, a cui non è sfuggito un singolo dettaglio della scena cui ha assistito.  

Falco sgambetta verso la lapide, si affanna a spostare i cespugli che la decorano e pensa che, se il signor Braun li ha scostati con tanta facilità, quest’ultimo dev’essere proprio forte! Infine, dopo che si è procurato qualche graffio e si è sporcato fino ai polpacci di terriccio, trova l’oggetto della sua ricerca: un pugno di petali arancioni, gli stessi che Reiner si è preoccupato di nascondere. 

Non è sicuro che al signor Braun piacerà ciò che sta facendo, eppure ha il presentimento che quella sia la cosa giusta da fare.  

Muto come un pesce, anche Falco si defila dal posto incriminato. 

 

 

Note dell’autrice: 

  1. Supporto la teoria secondo cui siano stati Reiner ed Annie ad uccidere l’uomo nel villaggio, perché la seconda si è fatta scoprire dal contadino in circostanze che, prima o poi, mi divertirò ad approfondire! Secondo la teoria, appunto, i due biondi lo hanno ucciso e hanno nascosto la verità a Bertolt, per tale motivo quest’ultimo trova strano che l’uomo si sia impiccato dopo aver raccontato loro quella storia. Sempre seguendo la logica di ciò, è questo che spinge Annie a seguire gli ordini di Reiner e ad uccidere Marco senza ribellarsi, perché ha un debito da saldare con Reiner. Un giorno spero di scrivervi qualcosa a proposito, quindi stay tuned! 

  1. I fiori presenti in questo capitolo sono calendule, che nel linguaggio dei fiori significano “Pena d’Amore” o “Dispiacere” e, dato che io l’angst lo mangio a colazione, ho pensato che calzassero bene in apertura di questa storia. 

  1. Qua vi lascio la canzone da cui ho tratto la strofa che apre la storia:  Il Nulla.

Allora! Premesso ciò, vi starete chiedendo: cos’è questo? Be’, dato che le mie Long sono lontane dalla conclusione, ho pensato di scrivere questa Mini-Long per esercitarmi con una gestione della trama suddivisa in capitoli! Inoltre, ho un debole per le Hanahaki!AU e penso che i ReiBert siano una coppia che renda tantissimo in questo contesto! Fatemi sapere se vi piace, cosa non vi piace e, ovviamente, consigli e critiche costruttive sono sempre ben accetti! Ringrazio chiunque spenderà un po’ del proprio tempo per leggere questa storiella, lettori silenziosi e non! 

Vi lascio un Colossale abbraccio, 

Luschek 

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Capitolo 2
*** Vedere, Toccare, Gustare il Fallimento ***


Capitolo 2 

 

Vedere, Toccare, Gustare il Fallimento 

 


Colt osserva di stucco la pioggia di petali che gli si para dinanzi. Falco agita le manine paffute, mimando la scena vista durante il pomeriggio, e ogni dettaglio aggiunto dal fratello non fa altro che ingarbugliare la matassa dei suoi pensieri.  

Cosa significa che il signor Braun ha sputato una manciata di petali – la stessa che adesso è stata cosparsa sulle sue scarpe? 

Quando è tornato alla stele dei caduti – su cui sono incisi tutti i nomi di chi è morto per la gloria di Marley –, la prima cosa che ha notato, da bravo fratello maggiore qual è, sono stati i pugni serrati del più piccolo. Non si sarebbe mai aspettato, tuttavia, che essi contenessero brandelli di calendule. Peggio ancora: si rifiutava di credere dove se le fosse procurate l’altro. 

«Falco» lo richiama e per l’ennesima volta quell’assurdo racconto, «smettila di dire bugie.» 

Il bimbo s’imbroncia e incrocia le braccia al petto, dopo che viene rimproverato. 

«Ti giuro che è la verità, Colt! Reiner ha vomitato questi fiori!» grida Falco e Colt si pente della propria incredulità.  

È la prima volta che lo vede ribattere con così tanto furore. Di solito, anche se è dalla parte della ragione ma viene contrariato, Falco si ammutolisce e lascia perdere la discussione. Oggi, però, è diverso. Insiste sulla veridicità delle proprie parole e Colt, forse, comprende che molto in fondo sa benissimo che il fratellino stia affermando la verità, ma è troppo spaventato per metabolizzare l’irrazionalità di quella storia. 

«Innanzitutto...» balbetta, «stai parlando di un valoroso Guerriero di Marley, quindi non rivolgerti a lui in questi termini. Devi mostrargli rispetto, quindi chiamalo signor Braun. Intesi» 

Rimproverarlo sembra la via migliore per impedirsi di vacillare.  

«In secondo luogo, anche se fosse come dici tu, che senso avrebbe... mangiare dei fiori? E sputarli? Non pensi che sia una sciocchezza, Falco? E poi... non mi sembra affatto il posto per fare discussioni così insensate.» 

Colt lancia una lunga occhiata alle lapidi da cui sono circondati, cosicché Falco intuisca a cosa si riferisca. Il piccolo non pare curarsene, infatti ritorna ad agitare il pugnetto chiuso e i petali rimasti vengono trasportati via dal vento.  

«Perché non mi credi? Ti ho mai detto bugie prima di adesso?» sbotta il bambino e Colt non sa più come reagire, oltre a percepire una fitta al cuore, quando all’altro trema il labbro dal nervosismo.  

Falco ha ragione, non gli ha mai mentito, eppure la sua mente razionale si rifiuta di metabolizzare un’informazione del genere. Si pinza la narice del naso con indice e pollice, sconsolato.  

«Io vorrei crederti, Falco, ma…»  

«Oh, guarda chi c’è.» 

La frase viene pronunciata da una voce femminile, che sopraggiunge inaspettata alle sue spalle e lo fa sobbalzare. Gli è ignoto a chi appartenga, finché ad essa non si aggiunge una voce maschile. 

«Oggi c’è una riunione al cimitero? È davvero inquietante, ragazzi.» 

Trasalisce quando si rende conto che siano Porco e Pieck. Si volta piano, per accertarsi che siano davvero loro, e lancia un’occhiata intimidatoria a Falco, per intimarlo di tacere. Quest’ultimo coglie l’ammonimento, tuttavia nel suo sguardo c’è un luccichio che a Colt non piace affatto. Deve impedirgli di dire qualcosa, oppure potrebbero finire in grossissimi guai. Colt non può permettersi che ciò accada, poiché  

«Che cosa fate qui, voi due? Siete senza i vostri genitori?»  

Porco si avvicina al bambino per scompigliargli i capelli, ma in cambio riceve un pigolio di protesta. Il ragazzo ridacchia, divertito da quel versetto, e continua imperterrito, finché l'acconciatura di Falco non assume la forma di un nido di gabbiani.  

«Sì. Siamo qui da soli» risponde Colt e, nel proprio intimo, prega che la conversazione finisca lì.  

La ragazza annuisce piano, poi con nonchalance domanda ai due: 

«Capisco… non vi tratterremo a lungo. Volevo solo chiedervi un’informazione, per caso… Avete visto Reiner in giro?»  

Quella domanda è la scintilla che accende la miccia. Colt sbarra gli occhi e sente un tremito scuotergli le spalle, conscio di cosa provocherà quella domanda, ma è troppo lento e, prima che possa fare qualcosa, il danno è già fatto. 

«Sì!» esclama il bambino, che punta l’indice verso il tappeto aranciato che tutti quanti hanno calpestato.  

«L’ho visto! L’ho visto io! Era sulla tomba del signor Hoover e sputava questi fiori!» 

Vorrebbe fuggire via a causa dell’imbarazzo, ma non può, perché gli occhi di Porco e Pieck lo inchiodano sul posto. Il primo ha un sopracciglio sollevato, mentre la seconda inclina il capo di lato, come se volesse scrutare quella situazione da un’altra prospettiva. È lo stigma della famiglia Grice: ritrovarsi coinvolti nel pericolo più di quanto si pensi.  

Nelle orecchie di Colt si diffonde una litania che conosce a memoria: è il timbro basso e roco di suo padre, che gli racconta di come lui e il fratello, a causa dello zio scapestrato, siano costretti a diventare carne da macello per il bene della famiglia.  

Adesso percepisce le ginocchia deboli e il cuore in gola, tuttavia si impone di rispondere. Del resto, i due superiori lo stanno ancora fissando in attesa di una risposta. 

«Scusatelo, io non so perché si sia convinto di ciò… è da un quarto d’ora che lo ripete, ma, voglio dire… voi riuscireste a crederci?» farfuglia e ogni parola esce a fatica dalla sua bocca, 

Porco rimane quieto e rivolge solo uno sguardo confuso a Pieck, la quale, cedute le stampelle all’amico, si china all'altezza di Falco. L’espressione di lei è attraversata da un lampo di dolore così palese, che Colt si sporge in avanti per aiutarla. Porco, tuttavia, gli sbarra la strada mettendo un braccio tra lui e la ragazza.  

«Non preoccuparti. Sono solo le ginocchia, ogni tanto mi cigolano» scherza la ragazza, la quale, dopo, si rivolge al bambino.  

«Puoi dirmi cos’hai visto, Falco? Non tralasciare alcun dettaglio, potrebbe essere molto importante.» 

 

Si morde l’intero della guancia, mentre assiste al racconto scrupoloso che Falco fornisce a Pieck. Viene investito anche dal senso di colpa, perché, invece di ascoltarlo con pazienza, come sta facendo la sua superiore, ha subito contraddetto il bambino, senza dargli il beneficio del dubbio. La paura l’ha sopraffatto e lui, come un qualsiasi idiota, ha ceduto senza riflettere. È forse un cattivo fratello maggiore, per questo motivo? 

Pieck ascolta parola dopo parola la narrazione, la quale occupa solo una manciata di minuti. La ragazza non ha battuto ciglio, né ha posto domande che potessero far vacillare la tesi avanzata dal piccolo, come se prendesse per oro colato tutto ciò che le sue orecchie hanno appena registrato. Quando Falco conclude la storia con un sospiro pesante, riceve una carezza da lei come ricompensa.  

«Grazie mille. Adesso ci occuperemo di questa situazione io e Porco. Tu, però, devi farmi una promessa, d’accordo?» 

Il piccolo annuisce convinto e porge il mignolo alla ragazza, che arcua il proprio a mo’ di uncino, per stringere tramite esso quello del bimbo. 

«Giurami che non dirai niente a nessuno di ciò che hai visto. Va bene?» 

«Sì. Te lo giuro, Pie…» Falco si blocca, lancia un’occhiata preoccupata a Colt, come se si fosse ricordato qualcosa e prosegue con: «Signorina Finger.» 

«D’accordo, marmocchi, adesso ci pensiamo noi» annuncia Porco, mentre restituisce le stampelle a Pieck una volta alzatasi. 

Colt riceve una pacca sulla spalla da parte dell’altro ragazzo e, sebbene sia un gesto insignificante, esso è capace di rilassarlo. Nessuno dei due superiori sembra arrabbiato, anzi, gli sembrano comprensivi, eppure non se la sente di tirare un sospiro di sollievo. E se li denunciassero comunque, perché lui e Falco sanno qualcosa di cui non dovrebbero essere a conoscenza? 

«Nel frattempo che siamo qui, avete idea di dove possa essere andato Reiner?» 

Sia Colt che il piccolo negano mediante un cenno del capo. Il ragazzo non l’ha neanche visto il signor Braun, tanto è stato veloce ad entrare ed uscire dal cimitero. 

«Allora, avete bisogno di altro? Volete essere accompagnati a casa?» propone Porco, che si gratta la nuca rasata. Il tono è un po’ aggressivo e le labbra sono piegate verso il basso. Ciò che ha sentito l’ha sicuramente turbato, azzarda Colt. 

«No, signor Galliard, vi abbiamo già disturbato fin troppo. Vi ringrazio molto della cortesia, però.» 

Porco solleva – di nuovo – un sopracciglio, che rivolge a Pieck, la quale, a sua volta, gli lancia uno sguardo misto tra il divertito e il confuso. 

«Colt, Falco, potete rivolgervi a noi con il “tu”.» 

Falco e Colt si scrutano interdetti per qualche secondo, poi, entrambi esclamano un deciso: 

«Non possiamo!» 

Pieck ride dinanzi quell’ostinazione e aggiunge: 

«Fa nulla, continuate così. Ci farete sentire dei veri adulti, in questo modo.»  

Porco e lei si congedano con un cenno della mano, poi si avviano verso l’uscita – la stessa strada che avrebbero dovuto imboccare i due fratelli, prima che quello strambo evento si verificasse. Quando gli altri due si sono allontanati, Falco si mette le mani sui fianchi e osserva Colt con uno sguardo di rimprovero. Sa bene cosa significhi, perciò, prendendo spunto da ciò che ha visto fare a Pieck, si accovaccia all’altezza del fratellino.  

«Scusa per non averti creduto» mormora, «D’ora in poi ti crederò sempre, qualsiasi cosa succederà.» 

Gli scompiglia la zazzera bionda, su cui dopo dà un bacio.  

«Ti voglio tanto bene. Lo sai, vero?»  

Il bambino annuisce ancora e, infine, allarga le braccia per stringerlo e lui ricambia il gesto. È un semplice abbraccio quello che si scambiano, ma basta questo per scaldare il cuore di Colt. Il bene che prova nei confronti del fratello è indescrivibile a parole, tuttavia, spesso e volentieri, tradurlo in pratica è difficilissimo – anche più dell’addestramento a cui è sottoposto, da quando è diventato un cadetto.  

«Ti voglio tanto bene anch’io, Colt» pigola Falco, che struscia la guancia sul petto del fratello maggiore.  

Dopotutto, Colt si convince di non essere un fratello maggiore così pessimo, se è amato a sua volta dall’altro.  

 

«Pensi che sia impazzito?»  

I pozzi neri di Pieck di allargano così tanto, che Porco teme di precipitarvi dentro. Non hanno avuto occasione di discutere riguardo la missione di recupero, però, da quando la ragazza è stata a Paradise, nota che qualcosa è cambiato in lei. Sa pochissimo su cosa sia successo in quei giorni: gli unici dettagli di cui è a conoscenza sono la morte di Bertolt e la sorte toccata ad Annie.  

Odia ancor di più i demoni dell’isola, dopo che acquisisce quella consapevolezza. Se Pieck pare tesa come una corda di violino e se Reiner, invece, sembra evasivo e assente è tutta colpa degli eldiani di Paradise. Ora che vi riflette, anche Zeke è diventato più distante, da quando ha soggiornato sull’isola. Quanto possono essere diabolici, quegli esseri, se lasciano un’impronta tanto profonda sulle persone? 

«Non dirlo neanche per scherzo» replica la ragazza, velocizzando il passo zoppo per superarlo.  

«Allora cosa pensi che abbia? Sempre che tu creda alla storiella del bambino.» 

È poco convinto della veridicità del racconto, anzi: secondo lui buona parte di esso è intrisa di fantasia. Non ha biasimato affatto Colt, quando ha ammesso di non credere al fratello. Chiunque faticherebbe a farlo, difatti è sorpreso che l’amica abbia dato una chance a Falco. Si domanda cosa le passi per la testa, però aspetta che sia lei stessa a rivelargli i suoi pensieri. 

«Non so… Non ho mai visto nulla del genere. Se avesse dato segni evidenti di instabilità mentale, lo avremmo notato, non credi? Tuttavia…»  

«Tuttavia?» la incalza Porco.  

Pieck sembra rimuginarci sopra, come se fosse indecisa se rivelargli o meno i suoi dubbi. In parte si sente offeso dal tentennamento di lei, però decide di non insistere e lasciare che ella segua il proprio istinto.  

«Ricordi la riunione a cui abbiamo presieduto, poco dopo che Reiner è stato dimesso dall’ospedale?»  

Il ragazzo si gratta la basetta sinistra, confuso da quella domanda tanto improvvisa, e tenta di riportare alla mente il momento citato. Ha solo un ricordo vago di quella riunione, ma nessun dettaglio gli fa comprendere che connessione ci sia tra essa e la storia di Falco.  

«Circa. Perché?» le domanda e non può celare una nota di curiosità.  

Pieck svolta l’angolo della strada prima di rispondere, poi si arresta bruscamente quando dinanzi le si para un bivio. Sembra sovrappensiero – più del solito – e ciò lo fa preoccupare. Perché quella storia la tormenta così tanto?  

«Andiamo a casa tua, oppure a casa mia?» chiede la ragazza.  

«A casa mia. È più vicina e tu devi riposare» risponde Porco, dopodiché rimarca in fretta «quindi?»  

Gli viene rivolto un mezzo sorriso dalla ragazza, capace di fargli tremare le gambe, ed è lieto che l’altra sia troppo impegnata a fargli strada da non accorgersene.  

«Dunque… Non so se sia una coincidenza, oppure se i due eventi siano collegati. Quando la riunione è finita, io sono andata in bagno. Quello riservato ai soli eldiani, perché era più vicino rispetto a quello personale dei Guerrieri, e mi facevano male le gambe, ma conosci già questo discorso. Dunque, ho sentito entrare qualcun altro, che ha tossito moltissimo. Sembrava che stesse per rimettere l’anima, poi ha tirato lo sciacquone ed è uscito in fretta e furia, infatti quando sono uscita dal cubicolo ero da sola all’interno del bagno. Tuttavia, ho notato una cosa strana… sul pavimento c’erano dei petali. Lì per lì mi era sembrato strano, però… non mi era passata per la testa un’ipotesi del genere.» 

Quando il racconto finisce, Porco già scorge la porta della propria abitazione e persino sua madre, che sventola la tovaglia da tavola fuori dalla finestra. Non sa come reagire, dopo che Pieck gli fornisce quelle informazioni. Da qualsiasi punto di vista si voglia osservare la situazione, Reiner non stia affatto bene. Non che sia mai stato normale, quell’idiota. Un dubbio, però, emerge dalla mente annebbiata del ragazzo: 

«Ti ricordi se i petali fossero come quelli che Falco ci ha mostrato?»  

La ragazza batte un paio di volte le ciglia, le labbra dischiuse a causa dello stupore, come se quel dettaglio fosse la chiave per risolvere il mistero.  

«No, erano parecchio diversi… Erano petali tozzi e con sfumature violacee. L’esatto opposto di quelli che abbiamo visto stamattina.» 

È l’eco dei passi a riempire il silenzio che cala tra loro. Mentre riflettono, con le sopracciglia corrugate e la bocca serrata, raggiungono casa sua, dove vi è sua madre pronta ad accoglierli sul porticato. La donna rivolge un sorriso enorme ad entrambi e, come fa sempre quando vede il ragazzo in compagnia di altre persone, pronuncia il fatidico invito: 

«Ti andrebbe di entrare, cara?»  

Non sarebbe nemmeno necessario formulare tale invito, perché, dopo tanti anni trascorsi insieme sul fronte, Porco e Pieck condividono persino il piatto in cui mangiano, a momenti. Nonostante ciò, la ragazza – come fa ogni volta che la donna la invita ad entrare – socchiude le palpebre e annuisce.  

«Se non le arreco disturbo, volentieri.» 

«Sai che non disturbi mai» replica la signora e porge il braccio a Pieck, così da sostenerla mentre sale i gradini che conducono alla porta d’ingresso.  

Rimane in silenzio, nel frattempo che osserva le due donne fianco a fianco, e una parte di sé desidera poter vedere quella scena con più frequenza. Non sa dare una spiegazione logica a questa speranza, ma è conscio che, qualsiasi cosa significhi, è sia positivo che negativo.  

«Pokko, tu non entri?» domanda la madre.  

Le guance gli si imporporano il fastidio gli pizzica il petto, quando la madre lo chiama con quel nomignolo. Ormai ha perso il conto delle volte in cui l’ha rimproverata per questo motivo, perciò si trattiene dal farle notare il misfatto. È una causa persa in partenza.  

«Arrivo, ma’» borbotta e segue entrambe le due.  

 

A primo impatto, casa sua sembra un negozio di antiquariato. Su ogni mobile, scaffale o mensola, vi sono piazzati piccoli oggetti in ceramica – sciccherie di cui ama prendersi cura sua madre, oppure che ella perde tempo a spolverare, anche se su di essi non vi è nemmeno un acaro di polvere. Porco spera che Liberio non venga mai scossa da un terremoto, altrimenti quelle statuine si tramuterebbero in un tappeto di cocci. Né lui né suo padre sono stati particolarmente contenti del nuovo arredamento, ma la donna ha insistito – “Mi tiene la mente impegnata” ha ripetuto ad entrambi fino allo sfinimento – e persino nelle camere da letto è riuscita a piazzare qualche ninnolo.   

Nessuno dei due uomini ha osato opporsi, poiché sanno che quella mania è scaturita da un preciso evento, che Porco ricorda ogni sacro giorno, quando entra in soggiorno: del resto il quadretto in cui Marcel sorride è piazzato proprio sulla parete di fronte la porta, quindi è impossibile ignorarlo. L’angoscia gli strizza il cuore ad ogni occhiata che gli dà, ma di rimuoverlo non se ne parla: non ha né la forza di farlo, né la pazienza di discutere con sua madre per averne il permesso.  

Appesa la giacca all’appendiabiti, percorre tutto il corridoio, sale la prima rampa di scale e svolta a destra. Quando si affaccia alla soglia del terrazzo, trova Pieck e sua madre sedute attorno un tavolino tondo. Su di esso, Porco intravede un grosso tomo con la costina usurata.  

«Cos’è questo?» chiede, mentre si accomoda accanto alle due donne.  

«Un erbario!» esclama la madre e la ragazza si permette di sfogliarne le pagine ingiallite. Anche se ha il viso lontano dall’oggetto, Porco può odorarne comunque l’olezzo di muffa. 

«Stavo pensando di dedicarmi al giardinaggio. I balconi sono così spogli… e vorrei aggiungere qualcosa per decorarli!»  

«Mi sembra un’ottima idea, mamma.» 

È lieto di vedere un sorriso sul volto della madre, e lo è ancora di più nel sentirla speculare sulle piante e i fiori che vorrebbe curare in futuro. Il monologo della donna procede ininterrotto per alcuni minuti, finché Pieck non volta il libro verso di loro, affinché possano leggerlo: 

«Scusi, signora Galliard…» la anticipa la ragazza, prima di aggiungere: «Erano i petali di questo fiore.» 

Madre e figlio strizzano gli occhi per decifrare i minuscoli caratteri delle pagine. Addirittura, la prima deve inforcare gli occhiali per focalizzare meglio le parole.  

«Anemone. Appartenente alla famiglia delle Ranunculaceae. La sua principale caratteristica sono i petali frastagliati e gli sgargianti colori delle sue molteplici varietà» legge la signora Galliard.  

«A cosa vi serve un fiore del genere?»  

Pieck e Porco si scrutano, incapaci di formulare una scusa lesta. Passano una manciata di secondi, che a lui paiono un’eternità, ma alla fine è la ragazza che si prende la responsabilità di portare avanti la discussione. 

«Volevamo decidere quali fiori portare alla tomba di Bertolt Hoover, signora Galliard.» 

Sua madre si porta una mano sul petto e annuisce, come se comprendesse il finto cruccio che li scuote. Le ciglia le si riempiono di piccole lacrime, tanto che Porco teme di assistere ad un imminente pianto. Gli si forma un nodo alla gola, quando la vede infragilirsi all’improvviso: è un acquazzone che non è pronto a sopportare. 

«Gli volevate bene, vero? Era un ragazzo d’oro. Ricordo quando veniva a giocare qui a casa, con Reiner, Porco e...» 

Il silenzio inghiotte il nome di Marcel, come se quest’ultimo non fosse mai esistito. Porco non vuole essere rigido, soprattutto nei confronti di sua madre, dato che il loro lutto si può definire fresco, ma s’impone di esortarla con un: 

«E...?» 

Le palpebre di lei sfarfallano frenetiche sulle iridi umide, ma, a denti stretti, dice quella parola che, anni addietro, amava pronunciare alla follia. 

«... e Marcel. Scusate un momento» mormora lei, pinzandosi la radice del naso tra indice e pollice. 

È una donna molto buona, sua madre, e Porco sa che se scoppiasse a piangere, lo farebbe non solo per il figlio insepolto, ma anche per gli altri bambini – così ha definito Bertolt ed Annie, le rare volte in cui ne hanno parlato – che non possono più gioire della luce del sole.  

Non ama esprimere affetto, ma in quelle circostanze abbracciare la mamma gli viene naturale come respirare. Le accarezza i capelli, sotto lo sguardo pentito di Pieck, che cerca di liquidare con un diniego del capo.  

«Scusa, mamma. Vuoi che parliamo d’altro?» propone Porco, quando nota che le lacrime sul volto di della donna si sono arrestate.  

«No, no. Non preoccuparti, piccolo mio. Sto bene.» 

La signora Galliard si asciuga le lacrime con un fazzoletto portole da Pieck, poi sfoggia un sorriso tirato, a cui, tuttavia, i due ragazzi fingono di credere. Non crede sia il momento giusto di insinuarlo, ma Porco è convinto che sua madre simuli una tale risolutezza perché prova vergogna nei confronti della ragazza.  

«Allora… volevate portare un mazzo di anemoni a Bertolt? È un fiore dal significato molto particolare, non so se sia adatto a…»  

«Aspetti…» la interrompe Pieck «cosa intende, quando si riferisce ad un significato particolare?»  

L’interlocutrice sembra rimuginarci su, mentre le pupille lucide scrutano la dettagliata incisione del fiore. 

«L’anemone simboleggia l’abbandono e la malattia. In base al colore, può anche rappresentare l’attesa o la speranza. È un fiore dal significato molto contorto, per questo mi sembra… una scelta azzardata.» 

Dalle sopracciglia corrugate della madre e dal broncio che le storce le labbra, sospetta che ella voglia aggiungere altro. Restano tutti in silenzio, come se quello possa sollecitarla a sputare il rospo, che effettivamente accade dopo qualche minuto di esitazione: 

«Questo mi porta alla mente un aneddoto alquanto… macabro, che ho letto riguardo gli anemoni. Si dice che chiunque sia affetto da Hanahaki, prima o poi, vomiti questi fiori.» 

I suoi neuroni vanno in tilt quando la madre pronuncia quella frase. Ricollega immediatamente il dettaglio della malattia allo strano comportamento di cui Reiner è stato accusato, dopodiché strabuzza gli occhi e si volta verso l’amica, scioccata tanto quanto lui. Possibile che si tratti di Hanahaki, ammesso che esista un male così strambo?  

«Cos’è l’Hanahaki, signora Galliard? Potrebbe parlarcene, per favore?» mormora Pieck.  

«Be’,» comincia la donna, «non so se esista davvero, ma si dice che sia una malattia che colpisce gli innamorati. O meglio, colpisce coloro il cui amore non è ricambiato, oppure le coppie che sono state divise dalla morte.» 

La signora Galliard si arresta un momento, si prende il mento tra indice e pollice e dopo aggiunge: 

«L’Hanahaki comporta una morte lenta e dolorosa. Si dice che all’interno dei polmoni crescano i semi dei fiori, finché le radici non… li perforano. Provoca problemi all’apparato respiratorio e, quando la malattia peggiora, nausea frequente. Sull’erbario è stata utilizzata un’espressione parecchio calzante, esso diceva che fosse come se… ti crescesse un giardino dentro il petto.» 

La schiena di Porco trema a causa dei brividi. Non è tanto il racconto a procurarglieli, perché sua madre ha risparmiato loro i dettagli più macabri, piuttosto è la consapevolezza di quanto stia succedendo a lasciarlo basito. Reiner sta morendo d’amore.  

Quanto gli suona strano tale pensiero?  

«È terribile» sentenzia Pieck, con gli occhioni pece spalancati e il volto più pallido del solito. 

«Lo so, cara… Non augurerei nemmeno al mio peggior nemico una morte del genere…» 

E lui la augurerebbe una morte del genere, Reiner? Percepisce i palmi delle mani sudati e un nodo all’altezza dello stomaco, ma non comprende perché sia agitato a tal punto. Forse teme che questo Hanahaki sia contagioso e che possa colpirlo?  

Le iridi nocciola si voltano automaticamente verso la ragazza. Ecco cosa teme: di ammalarsi come Reiner, a causa di un amore che non può essere corrisposto.  

«Vado in cucina» annuncia, prima di dileguarsi oltre le tende di cotone.  

Senza voltarsi, percepisce il clangore delle stampelle di Pieck e ciò lo solleva, poiché significa che lo sta seguendo. Nonostante ciò, si dirige imperterrito verso la cucina dove, una volta giunto, si fionda sulla bottiglia d'acqua posta sul tavolo. Il paradosso è che, più ingolla quel liquido fresco, più sente la gola inaridirsi.  

Pieck non fa troppe cerimonie e si siede sulla prima sedia disponibile con un tonfo secco. Le ginocchia di lei hanno piccoli spasmi, segno che non riuscirà a camminare e dovrà accompagnarla a casa.  

«Cosa ti è successo?» ansima, «Tua madre si è preoccupata.» 

«Nulla,» mente Porco «sono solo… perplesso.» 

L’altra lo fissa a lungo, come se avesse scovato la sua bugia, ma poco dopo mormora: 

«Anch’io lo sono. Se questo fosse vero, significa che Reiner… sta morendo. E prima del previsto, perché...»  

La vede mordersi il labbro inferiore, impensierita. C’è qualcosa di anomalo nelle sue parole, una sfumatura di dolore che non sa come catalogare. Porco posa la bottiglia vuota nel lavandino, poi le si avvicina e le lascia una carezza tra i capelli.  

«Cosa stai insinuando?»  

«Presumibilmente, se ciò che ha raccontato Falco fosse vero e se questa malattia esistesse davvero, allora lui sta così, perché Bertolt…»  

«Non ti azzardare!» sbotta, interrompendola, «Non azzardarti a dire che sia colpa tua. Anche se tutta questa assurda situazione fosse vera, tu cosa avresti potuto fare quella volta? Tentare di salvare Bertolt da quei demoni? Se ci avessi provato, sai cosa avresti ottenuto? Solo altri morti.» 

Pieck lo osserva esterrefatta, come se l’avesse appena insultata. Gli dispiace di averla ferita, perché conosce bene i discorsi che pullulano riguardo il Gigante Cargo – Porco ha perso il conto di quante volte abbiano detto alla ragazza di aver ereditato il Titano più inutile –, però non può fare a meno di guardare in faccia la realtà: neanche se lei avesse posseduto il Gigante Martello, avrebbe potuto fare la differenza.  

«Se davvero Reiner ha contratto questa… cosa, perché amava Bertolt, o qualsiasi cosa ci fosse tra loro, tu non devi sentirti responsabile. Non ce l’hanno fatta Zeke, Reiner, Annie e Bertolt, pur possedendo i Giganti più for... più versatili. Questo significa che qualsiasi cosa ci sia aldilà del mare, è più temibile di quanto si possa immaginare. E tu dovresti saperlo meglio di me, dato che li hai incontrati faccia a faccia, quei mostri.» 

L’amica non sembra ancora convinta di ciò che Porco dice, ma annuisce. Pare affranta, con le ciocche scure e arruffate che le ricoprono il volto, e lo sguardo di lei è vuoto – perché, senza che glielo dica, sa che è ritornata con la mente a quella dannata battaglia. È mosso da puro istinto, dunque, quando la avvolge in un abbraccio, all’interno del quale Pieck sparisce.  

Qualsiasi cosa accadrà, lui sarà sempre al fianco di lei per proteggerla. Non la lascerà sola, né passerà giorno in cui si preoccuperà o prenderà cura di lei, se lo promette. Glielo promette. Spera che a causa dell’abbraccio stretto, l’altra non percepisca i battiti celeri del suo cuore, eppure non riesce a sciogliere l’abbraccio per riguardarsi – ed evitare, così, che il suo segreto trapeli. 

«Pokko,» lo chiama con voce salda, «grazie.» 

 

«Reiner! Reiner! Facciamo una passeggiata? Ti prego! Ti prego!»  

Vederla saltellare in cerchio e sentirla gridare gli procura una fastidiosa emicrania, però non può fare a meno di essere contento di avere Gabi intorno. Quell’allegria genuina allontana via i suoi cattivi pensieri, oltre che la perenne sensazione di nausea, quindi è grato che quello scricciolo sia tanto rumoroso.  

Reiner si accovaccia all’altezza di lei e sorride, evento più unico che raro dacché è ritornato.  

«Solo se prometti di non fare i capricci quando dobbiamo tornare.» 

Colpita e affondata: le iridi nocciola di Gabi sembrano enormi come due meteore, quando questa sbarra gli occhi.  

«Io non faccio mai capricci! Sono una brava bambina!» esclama piccata e i pugnetti chiusi vengono agitati in aria per farsi valere. Quanto fervore può contenere quel corpicino? 

L'espressione imbronciata di lei gli strappa una lieve risata – appena percettibile, ma pur sempre una risata – e sul volto della bimba si apre un sorriso radioso come il sole.  

«Hai riso» afferma lei, poi allunga le braccia verso il cugino.  

«Ho riso? Davvero?»  

Si finge incredulo, però neanche a lui è sfuggito quel particolare. Gli è ignaro di come Gabi riesca ad influenzare il suo umore. Ogni gesto di lei può rendere la sua stupenda o terribile. Forse questo accade perché non è avvezzo ai bambini – lei e Falco sono i primi con cui è mai entrato in contatto, se ricorda bene – e non sa quanto potere questi possano esercitare sugli adulti – sia in negativo che in positivo.  

La prende in braccio, come richiesto dalle manine che fameliche fendono l’aria, e le schiocca un bacio rumoroso sulla guancia, che strappa una risata alla bambina.  

«Mi fai il solletico, Rei!»  

«Soffri il solletico? Interessante.» 

Una pioggia di baci investe le guance di Gabi e lei ride, ride tantissimo, fino a diventare rossa come un peperone, e scalcia come una matta, per tentare di liberarsi. Le sue grida felici attirano addirittura la madre, che, appena li sente, appare sulla soglia della cucina.  

«Vi state divertendo?» domanda la donna, mentre ondeggia davanti ai due il cappottino verde di Gabi, «ho sentito che volete uscire fuori.» 

«Sì! Molto!» urla Gabi e porge un braccio alla madre, cosicché la aiuti ad indossare il soprabito.  

«Sì, Gabi voleva fare una passeggiata. Possiamo, zia?»  

«Certo,» mormora la donna, mentre infila l’indumento alla bambina, «basta che torniate prima del tramonto.» 

«D'accordo.» 

Gabi trilla allegra un verso di vittoria, poi circonda il collo di Reiner con un braccio e sventola la manina verso la madre, la quale ricambia con il medesimo gesto.  

«Andiamo, Rei! Ciao mamma! Ciao!» 

Sta per oltrepassare l’uscio, quando la madre di Gabi esclama: 

«Aspetta, Gabi!»  

Reiner la vede avvicinarsi al cassetto di un mobile e rovistarvi dentro con frenesia. Dopo che ne ha estratto una fascia gialla, si avvicina loro. 

«Hai dimenticato questa» borbotta alla piccola, nel frattempo che la costringe ad indossare la benda gialla che riporta la stella degli Eldiani.  

Prova una mistura di rabbia e tristezza, quando assiste a quella scena: la piccola non può essere libera da quella stigma neanche durante una semplice passeggiata. Ci sono tanti dettagli che accrescono il suo risentimento, come gli occhi colmi di paura della zia, quando è accorsa da loro con la fascia in mano, o l’attenzione con cui si è assicurata che l’indumento fosse ben ancorato al braccio di Gabi.  

Risalutano di nuovo la donna e questa volta il ragazzo si affretta a scendere le scale per lasciarsi alle spalle altri intoppi. Inoltre, dato che la cugina non accenna a scendere, Reiner sospetta che la sua sarà una lunga e pesante camminata, tuttavia non si sente infastidito da quel vizio. Ho passato di peggio, pensa mentre esce di casa.  

A Liberio il silenzio regna sovrano, ma quello che oggi si propaga tra le strade, gli ricorda il familiare mutismo che affligge il cimitero. Sebbene il sole risplenda e che, dopo appena cinque minuti di passeggiata, le guance della piccola si tingono di rosso, non vi è nessuno lungo le vie del ghetto.  

È un evento così raro, quanto ambiguo, che Reiner percepisce il cuore sospeso – come quando, dopo una battaglia, si voltava indietro e scrutava la scia di distruzione che si era lasciato alle spalle, ma non sapeva se provare soddisfazione o meno.  

«Reiner.» 

«Sì, Gabi?»  

La bimba si accoccola al suo petto e preme parte del viso contro di esso.  

«Perché sei sempre triste?»  

Si arresta di colpo, come se la domanda fosse stata una freccia e l’avesse inchiodato sulle basole della strada. Scosta appena Gabi e inclina il collo di lato, affinché possa vederla meglio.  

«Io non sono sempre triste» ribatte, anche se è una menzogna palese.  

«Bugiardo» lo riprende la piccola, indispettita, «anche quando ridi, hai gli occhi tristi.» 

È colpito da quest’affermazione, nonostante sia la pura verità. Credeva di essere parecchio bravo a fingere – addirittura da ingannare sé stesso, ma forse in quello era abile un altro lui. Se persino Gabi si è accorta del suo malessere, Reiner non osa immaginare cosa pensino gli adulti, in particolar modo sua madre. Deglutisce al solo pensiero di confrontarsi con lei su determinati argomenti. 

«È per colpa dei demoni dell’isola... Se sei così? Zia Karina e mamma pensano di sì. Ti hanno fatto tanto male?» 

Reiner riprende a camminare con meno lena, mentre sospira. Parlare di Eren, Connie, Jean, Sasha, Mikasa, Armin e Christa in quei termini lo tormenta. Non li ha mai considerati demoni, nonostante abbia sempre saputo la verità, a differenza loro – anzi li ha persino definiti e creduti dei cari compagni, al pari di Bertolt ed Annie. Strizza le palpebre, mentre ripensa agli ultimi due: un velo di lacrime gli pizzica gli occhi, tuttavia non una di esse sfugge al suo controllo. È un Guerriero, quindi è obbligato a trattenersi.  

Dato che non riceve risposta, Gabi sembra recepire il messaggio taciuto e cambia discussione: 

«Dove stiamo andando, Rei?» 

«In un posto speciale.» 

In realtà il ragazzo non sa dove stia andando: sono i suoi piedi a condurlo, mentre ripercorrono passi che ha già compiuto anni addietro. Per raggiungere il suo posto speciale, Reiner si inoltra tra le viuzze strette e articolate che si diramano in tutto il distretto. La memoria di tanto in tanto lo inganna, poiché è la prima volta che, dopo parecchio tempo, prova a visitare il luogo che ha in mente e, senza volerlo, ripercorre più volte le stesse strade – o, addirittura, sbucano all’interno di vicoli ciechi. Gabi durante tutto il tragitto non fiata, anzi, ad un certo punto drizza la schiena e scruta con gli occhi vispi ogni mattonella, gatto randagio o insegna in cui incappano, affascinata dal paesaggio circostante.  

«Quanto ci vuole, Rei? Mi sto annoiando.» 

«Non molto.» 

«Ma tu dici sempre così, anche quando non è vero!» esclama lei.  

«Mi stai dando del bugiardo? È la verità… questa volta.» 

A causa di questa risposta, si becca un pugnetto sulla spalla, che percepisce a malapena: Reiner ricambia, però, con un lieve pizzico su una guancia paffuta di lei. Allora la bambina le gonfia entrambe e riduce gli occhi a due fessure, poi, pensando di fargli dispetto, inarca così tanto la schiena, che ora vede a testa in giù la strada che stanno percorrendo. Ridacchia, divertita da quel nuovo punto di vista, e lascia che la testa ciondoli.  

«Ti andrà tutto il sangue al cervello» ironizza Reiner e Gabi fa una pernacchia, dinanzi la scarsa serietà del rimprovero.  

Continuano in questa stramba posizione, con Gabi ancorata al collo e ai fianchi di lui come una scimmietta, e Reiner che la regge dai fianchi, per evitare che cada.  

Quando finalmente raggiungono il luogo, una manciata di minuti dopo, fa scendere la bimba dalle sue braccia e le stringe la mano. Ci sono alcuni particolari della stradina che stanno imboccando, di cui non aveva alcun ricordo: le ampie ragnatele di edera, che si estendono su ambo i muri della viuzza, e cespugli di rose incolte che rendono tortuoso il percorso.  

«Vuoi salire sulle mie spalle, Gabi?» le propone. 

«No!»  

Reiner resta immobile, mentre la osserva sollevare quanto più possibile le gambe per superare i grovigli delle radici. Con quel cappotto imbottito e rattoppato, la scena è ancora più ilare di quanto non sia già, quindi gli è inevitabile lasciarsi sfuggire una risata.  

«Vedi che ti sento!» sbraita Gabi, mentre continua imperterrita.  

Il ragazzo scuote il capo, divertito, dopodiché la raggiunge e la solleva da sotto le ascelle, come se fosse leggera quanto una bambola: è così che si addentrano nel fitto della boscaglia.  

È davanti ad un monumento, il cui marmo bianco ormai è distrutto e opaco a causa dell’usura del tempo, che si arresta. È in quel punto che piazza Gabi, adesso libera di camminare sulle proprie gambe. Quest’ultima allunga le braccia verso il cielo e produce un sonoro “AH!”, quando ha di nuovo il terreno sotto le scarpe.  

«Cos’è questo, Reiner?» domanda Gabi, mentre indica l’enorme vasca davanti cui si trovano.  

Quello non risponde immediatamente. Si prende un paio di minuti per rimuginare da quanto tempo quel piccolo quadrato di terra – l’unico presente in tutto il ghetto – sia rimasto incolto. Le mura che circondano il giardino gli paiono più alte di quanto ricordasse, ma questo non impedisce né alla luce né alla pioggia di penetrare all’interno di quel pezzo di verde – la vegetazione che sembra voler fuggire via da essa e invadere l’intera Liberio, ne è una conferma.  

«È una fontana. Una volta c’era l’acqua» sussurra, sovrappensiero «venivo qui a giocare con i miei amici, quando ero più piccolo.» 

«Ohh. Capisco. Anche se c’era tutta quest'erbaccia?» chiede Gabi, poi zampetta verso il bordo della fontana per sedervisi.  

«Era più curato, prima. C’erano anche due panchine, ma credo se le siano portate via» spiega Reiner, che indica tramite un cenno del capo due zone chiare, dove il cemento si può ancora intravedere. Non è stato recente il furto, pensa.  

La cugina annuisce, poi si osserva intorno e fa dondolare i piedi, che non toccano terra.  

«Perché mi hai portato qui?»  

Prima di rispondere, Reiner le si siede accanto. È una bella domanda, quella che Gabi gli ha posto. Perché l’ha condotta proprio lì?  

Potrebbe dirle che lo ha fatto per mostrarle un luogo nuovo, oppure per renderla partecipe di una parte della sua infanzia. Il reale motivo, però, che l’ha spinto a compiere tale scelta è ben più egoistico: è perché in quel luogo ha un’infinità di ricordi che ritraggono lui e Bertolt.  

Ovunque si volti, la sagoma longilinea dell’amato si trova lì: mentre lo aiuta a rialzarsi, mentre calciano un pallone di stoffa logoro, mentre lo difende da Porco, o, ancora, mentre fa squadra con Marcel per tirarlo su di morale.  

Persino la fragranza dolciastra emanata dalle rose, gli ricorda il profumo del compagno: se chiude gli occhi, Reiner può percepirne persino il calore sulla pelle, ma sa che è solo un’illusione creata dal suo cervello. Infatti, quando risolleva le palpebre, la realtà lo nausea al punto tale da percepire un conato di vomito premergli sul fondo della gola – forse, se si distrae e non rimugina su chi ha perso, il fastidioso retrogusto amaro se ne andrà via.  

«Reiner, tutto bene? Hai di nuovo quell’espressione sulla faccia...» 

Il gelo gli penetra nelle ossa e inarca le sopracciglia, sorpreso. Si era distratto talmente tanto da essersi dimenticato di Gabi al proprio fianco. Quanto spesso gli capita di estraniarsi a tal punto dalla realtà? Deglutisce e si morde l’interno della guancia, nervoso. Non vuole davvero sapere la risposta. 

«Sto bene, non preoccuparti» mente ancora, ancora e ancora

«Comunque sia, ti ho portato qui perché volevo vedere quanto fosse cambiato questo posto. È completamente diverso, ora.» 

«Oh. Ti mancava venirci, Rei?» 

«In un certo senso... sì. Mi ricorda una persona.» 

Gabi corruga le sopracciglia e stringe i pugnetti. Si fa pensierosa in volto, sul quale nasce un piccolo broncio, poi si volta verso Reiner e lo fissa dritto nelle pupille. 

«Chi ti ricorda? Per caso... quel tuo amico? Quello che nomini sempre quando dormi?» 

A Reiner non piace quell’insinuazione così precisa. Ha il timore di chiedere spiegazioni e, dall’espressione impaurita che assume Gabi, sospetta che si sia impresso l’espressione di chi è stato colto in flagrante. 

«Scusa, Rei... Zia Karina dice che nomini sempre un tuo amico. Ha un nome complicato e non lo ricordo.» 

«Bertolt» biascica Reiner, nel frattempo che percepisce la nausea crescere, «si chiamava Bertolt.» 

Spera di non aver detto nient’altro, durante il sonno, se sua madre ha ascoltato con minuzia i suoi deliri notturni. Quanto deve aver parlato ad alta voce, poi, se ha richiamato l’attenzione di lei? In parte, si sente violato, come se gli fosse stato negato persino il diritto di parlare a vanvera mentre è preda dei suoi incubi. Teme che il suo segreto adesso sia troppo esposto e per questo si ripromette che, da quel giorno in poi, chiuderà sempre a chiave la porta della propria stanza. Inspessirà lo scudo che lo separa dal resto del mondo. 

«Sì, proprio lui» Gabi fa una piccola pausa, per poi aggiungere: «Mi dispiace che i demoni lo abbiano ucciso.» 

Non sa come replicare a quelle parole. In quale modo potrebbe spiegare a Gabi, che se Bertolt è morto, non è colpa dei demoni – loro cercavano solo di difendersi da un mostro che ha calpestato le loro speranze e i loro cari – ma del maledetto sistema in cui sono nati? Reiner è tentato di abbattere quelle sue false credenze una volta per tutte, tanto che apre bocca e prende fiato, ma le sue convinzioni si sgretolano quando la piccola annuncia: 

«Voglio essere io a mangiarti, Reiner.» 

Il mondo comincia a vorticare – o è solo il suo malessere che aumenta, rendendo indistinguibili le forme e i colori? – e la nausea peggiora, tanto che si ritrova ad inghiottire per mandar via il conato che vuole risalire la faringe.  

«Voglio diventare una cadetta, l’ho già detto a mamma e papà. Così… così potrò ereditare il Corazzato e rendervi tutti felici. Mamma, papà, la zia e soprattutto te! Così quando torneremo a Paradise potrò vendicare te… e il tuo amico. E anche il fratello del signor Galliard o l’altra Guerriera che possedeva il Gigante Femmina!»  

Gabi sorride contenta, entusiasta di quella prospettiva futura. Reiner vorrebbe solo strangolarsi con le proprie mani, piuttosto che ribattere. Ciò che ha detto la bambina, la rende il più grande trionfo di Marley e il suo più grande fallimento. Avrebbe dovuto completare la – maledetta, maledetta, maledetta – missione proprio per evitare ripercussioni del genere. Per impedire che altre persone divenissero parte integrante di quel folle circolo – come Gabi, che crede ciecamente di star compiendo una giusta scelta – e che altre persone muoiano a causa di esso – come Bertolt. 

Percepisce le budella contorcersi, la gola pizzicare, poi Reiner apre la bocca e, invece di un ammonimento, da essa esce fuori una manciata di petali piccoli come coriandoli e rossi come il sangue. Si alza con uno scatto e, nel tentativo di allontanarsi da Gabi, inciampa nei nodi creati dall’edera e stramazza sulle ginocchia. Si ritrova così, piegato in due dalla tosse – per l’ennesima volta – e a sputare quantità incalcolabili di fiori distrutti. Percepisce i polmoni bruciare, così come le ginocchia, mentre il respiro è un lusso che quei maledetti boccioli gli impediscono di avere – Reiner cerca di prendere boccate d’aria, invece si ritrova in apnea più a lungo del previsto e teme che questa volta nemmeno il suo Gigante sarà in grado di salvarlo. Tanto è lo sforzo, che minuscole lacrime premono agli angoli degli occhi. Dura un paio minuti quella sua tortura, finché il volto non si tinge di sfumature violacee e il terreno non si ricopre di una pioggia cremisi. In sottofondo vi è il singhiozzare sostenuto di una bambina. 

Quando lo schifo che aveva dentro è uscito fuori, ansima, tentando di immagazzinare quanta più aria possibile – come se ciò bastasse a non farlo morire, la prossima volta.  

Tutto all’improvviso tace, o quasi: vi è solo un rumore di passi a fendere l’aria. Dopo che Reiner si lascia cadere di schiena sul suolo, la vede. Gabi è accanto a lui, con le labbra serrate e due scie umide che si congiungono sul mento.  

Entrambi hanno le spalle scosse da tremiti, perché nessuno dei due aveva mai visto piovere così tanti petali.  

 

 

 

 

Note dell’Autrice 

Eccoci qui con il secondo capitolo di questa Mini-Long! Non sono pienamente soddisfatta di ciò che ho scritto, ma meglio di niente, spero di fare meglio con il prossimo! Qui ho dato uno sguardo ad un bel po’ di rapporti: quello tra fratelli, tra amici, tra madre e figlio e tra cugini (che un po’ si comportano come fratelli)! Volevo fare un’hanahaki!AU un po’ diversa, che si concentrasse non solo sulla questione clinica, ma anche sui rapporti che circondano il “malato”. Per quanto riguarda Bertolino, sì, la sua assenza/menzione qui è voluta: io voglio raccontarvelo attraverso il POV di Reiner in questa storia, quindi se non ci saranno flashback su di lui è per questo motivo (oltre al fatto che la storia è stata pensata per essere corta, perché tra questi due avrei potuto scrivere da ora fino all’infinito)! In ogni caso, fatemi sapere cosa ne pensate, recensioni e critiche costruttive sono sempre accette! Come al solito, ringrazio chi ha letto fin qui, compresi i lettori silenziosi!  

Qui di seguito vi lascio il significato dei fiori che appaiono nel capitolo, anche se di uno è già stato rivelato.  

Anemone: Abbandono.  

Amaranto Caudato: Disperazione.  

Un caloroso abbraccio, 

Luschek 

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Capitolo 3
*** Affrontare il Dolore ***


Capitolo 3 


Affrontare il Dolore 

 

 

Reiner non batte ciglio. Ha il petto in fuori, il mento alto e perfino gli occhi lucidi, mentre ascolta l'inno Marleyano. Col fisico statuario e quell'atteggiamento fiero, ricorda a Porco la caricatura del perfetto Guerriero, che viene mostrata spesso durante l'addestramento dei cadetti. Lo trova patetico, ma tace. Oggi l'astio che nutre nei suoi confronti non può avere la precedenza.  

Insieme a Pieck, si è imposto l'obiettivo di far luce su quella faccenda misteriosa. Infatti, non è casuale che sia il ragazzo che la ragazza si siano piazzati ai lati del collega, nel frattempo che il coro celebra la solennità del governo Marleyano. Questo è solo il primo passo del loro piano e nulla lo farà desistere dal portarlo al termine.  

Tanto è rimasto alzato, che gli pulsano le piante dei piedi e gli formicolano i polpacci, eppure si impone di non sfigurare accanto a Reiner, il quale, invece, sembra non sia affatto toccato da quella fatica. Non ha neanche una goccia di sudore che gli scorre sulle tempie, lo stupido.  

Porco lo scruta con gli occhi ridotti a due fessure, torvo in volto, e sembra un falco intento a studiare la preda. In parte lo è, dato che attende trepidante di cogliere un guizzo di debolezza nell’atteggiamento altrui. Anche se si ostina a dimostrarsi impassibile, si è reso conto che Reiner è più fiacco da un certo periodo fino ad oggi – azzarderebbe parecchio, se dicesse che questa coincidenza si sia manifestata dopo l’assurda scoperta che ha fatto insieme a Pieck qualche settimana prima.  

L’altro ragazzo ha degli aloni scuri che gli contornano gli le palpebre, dettaglio che, né la vista aguzza dell’amica, né la propria, si sono lasciati sfuggire. Di solito, in circostanze in cui il sonno viene a mancare vi è il Titano che rinstaura le energie – ma sembra che, nel caso di Reiner, il Corazzato non assolva a tale compito. Dev’essere successo qualcosa, hanno pensato entrambi, quando si sono accorti di quel particolare – e l’enigma si è infittito maggiormente, quando hanno ottenuto quell’indizio.  

«C’è qualcosa che non va?»  

Il sussurro di Reiner è flebile, ma sussulta comunque quando gli giunge alle orecchie. Si fissano con la coda dell’occhio a lungo e in silenzio, finché Porco nega tramite un lieve cenno del capo.  

«D’accordo. Perché mi osservi, allora?»  

Dalla sua bocca non proviene alcuna risposta, men che meno dallo sguardo, che distoglie, per concentrarsi sull’uomo in divisa che, al termine dell’inno, si posiziona dinanzi un leggio e prende parola. La faccia dell’individuo è conosciuta, ma non sa associarla a nessun nome. Probabilmente è uno dei tanti ufficiali che, durante le battaglie, restano nelle retrovie a sollazzarsi, per poi prendersi tutto il merito quando ritornano a Marley. 

«Compagni Marleyani! Quale onore, quale gioia è avervi qui, oggi! Amati Guerrieri, fiore all’occhiello del nostro Impero! Che privilegio! Vi ringrazio tutti per essere presenti!»  

Il resto del discorso sfuma in un brusio, come una fastidiosa interferenza che gli rende più arduo focalizzarsi sui propri pensieri. Spera che termini presto quella tortura: considera tale rimanere impalato al centro di una piazzaforte, mentre ascolta il burattinaio del governo stillare bile dalla bocca, ad ogni parola che pronuncia. A Porco non importa molto, se quell’uomo tessa le lodi dei Guerrieri perché nutre un profondo e sincero rispetto nei loro confronti. Fino a quando non mancherà nulla ai suoi genitori, a lui andrà bene tollerare l’ipocrisia, nonostante gli provochi una fastidiosissima orticaria. 

A riportarlo alla realtà è un colpo di tosse. Non un anonimo lamento che si leva dalle truppe, dalle tribune, o dalla prima fila di seggi su cui oziano i comandanti. Il colpo di tosse proviene dal ragazzo accanto a sé. Senza dire nulla, lo scruta tramite la coda dell’occhio, in attesa di qualsiasi indizio che possa confermare i suoi dubbi. Reiner tossisce solo un’altra volta, piano, cosicché l’auditorio non venga disturbato.  

«Tutto bene? Hai una brutta tosse… sembra che fumi» lo stuzzica Pieck.  

«Sì. Solo un po’ di mal di gola» replica quello, facendo rizzare le antenne ad entrambi.  

“Come può avere mal di gola?” si chiede Porco.  

Basterebbe concentrarsi, affinché il Titano lo curi. Perché tenerselo?  

La ragazza ha avuto il medesimo pensiero, poiché reclina il capo all’indietro e gli lancia un’occhiata circospetta. Il ragazzo annuisce, per confermare che ha notato anche lui quel dettaglio incoerente.  

«… infine, mi auguro che vi troviate nella nostra modesta cittadina. Come stabilito dal decreto cinquecento nove, articolo dodici e comma sette, tutti gli eldiani dovranno circolare sia all’interno delle aree a loro riservate, sia che in quelle esterne, indossando rigorosamente la fascia identificativa. Non ci saranno eccezioni di alcun tipo. E con questo, non credo vi siano ulteriori notizie da comunicare. Vi auguro una splendida permanenza!»  

Porco tira un sospiro di sollievo quando la solfa finisce. Percepisce le gambe indolenzite ed è impaziente di sgranchirsele, ma attende che sia Zeke il primo a rompere la fila. Quando ciò succede, Reiner lo segue a ruota, poi prosegue lui e a chiudere la colonna vi è Pieck. Adesso che non indossa più le stampelle, la ragazza può restare al loro passo – in ogni caso non sarebbe stato un problema, poiché vi sarebbe egli a sostenerla. Come sempre.  

«Il generale è stato parecchio ridondante, oggi» commenta Zeke e tutti mugugnano per dargli ragione.  

«Penso che mi ritirerò nella stanza. Sono esausto. Voi andate in perlustrazione, piccoletti?»  

Sia lui che Reiner storcono le labbra in una smorfia di disgusto, quando sentono quel nomignolo. Solo Pieck appare impassibile, dinanzi quell'appellativo pronunciato con un tono languido.  

«Non lo so... Pokko, Reiner, voi che volete fare?»  

«Mi sembra un’ottima idea. Così vediamo com’è fatta questa colonia. Dicono che la specialità del luogo sia il cibo piccante, qui» suggerisce lui. 

«Non so, ragazzi… anch’io sono parecchio stanco.» 

La voce di Reiner è incerta, ma nessuno dei due accetterà un rifiuto. Infatti, Porco sa che Pieck si avvolge al braccio del collega per tale motivo. Zeke osserva incuriosito quel gesto. Probabilmente ha notato quanto sia straniante quel modo di fare della ragazza. 

«Dai, Reiner. Ti farà bene prendere un po’ d’aria fresca. Vuoi restare a dormire tutto il giorno, come un vecchietto?» lo canzona lei. 

«Ehi. Stai cercando di insinuare qualcosa, dolce Pieck?» la rimbecca Zeke e quella gli risponde con un sorriso sornione.  

Gli ribolle il sangue nelle vene, mentre guarda Zeke avvicinarsi alla ragazza e scostarle una ciocca di capelli dal volto. Non sa neanche lui perché provi un’emozione simile alla rabbia, soprattutto nei confronti dell’uomo, che ormai considera come il fratello maggiore di cui non ha potuto godere.  

Strizza gli occhi e li sbarra un poco quando realizza cos’è quel sentimento a lui familiare: è geloso. È geloso di Zeke. Distoglie l’attenzione dall’uomo, per concentrarsi su Pieck: sembra stare al gioco dell’uomo, ma mantiene il suo solito atteggiamento pacato e pronuncia le sue solite sentenze pungenti. Nonostante ciò, ogni sorriso o parola che lei rivolge all’altro gli corrodono lo stomaco.  

«Allora,» prorompe Porco, rivolgendosi a Reiner, il quale ha tentato, fino adesso, di divincolarsi dalla presa della ragazza, «andiamo? Non abbiamo tutto il giorno.» 

L’interpellato lo fissa con uno sguardo crucciato, poi sospira e scuote il capo, sconsolato.  

«Va bene. Devo andare in bagno, però. Quindi, Pieck… potresti lasciarmi, per favore?»  

La ragazza esegue quanto chiesto, non prima, però, di avergli dato una pacca di conforto sulla schiena.  

«Dovrei andarci anch’io» commenta Zeke.  

Senza essere vista dagli altri due, Pieck indica col capo Reiner. Seguilo. Il pensiero di seguire Reiner e Zeke in bagno non gli piace. Anzi, lo disgusta persino. Perché si è fatto coinvolgere in quella situazione?  

Nell’istante in cui i suoi occhi incontrano le iridi pece di Pieck, ricorda: perché prova più amore verso di lei, di quanto provi orgoglio.  

«Che coincidenza. Devo andarci anch’io» annuncia Porco, mentre le orecchie gli si tingono di rosso, a causa dell’imbarazzo. 

I tre uomini si osservano reciprocamente e, se da una parte Zeke fa spallucce e s’incammina, Reiner lo osserva con un sopracciglio sollevato. Ha notato anche lui il suo atteggiamento strano, ne è certo. 

«Che c’è, Braun? Mi scappa» lo anticipa.  

«Nulla. È solo una coincidenza, no, Galliard?»  

Porco annuisce e lo oltrepassa. Adesso Reiner non gli sembra più fiacco come prima, anzi, ha intravisto nella sua voce il bambino spocchioso che detestava da piccolo. Forse è solo una loro impressione e, dopotutto, non hanno motivo di credere che stia male. 

«Non metteteci troppo!» fa eco Pieck alle loro spalle.  

«Ci metteremo il tempo necessario!» le grida Porco di rimando, ormai rosso come un peperone.  

Prima di svoltare l’angolo, l’unico suono che ode è la risata di lei.  

 

Ha notato che qualcosa non va. Da un po’ di tempo ad oggi, Porco e Pieck gli stanno attaccati più del solito – l’atteggiamento recente di entrambi, inoltre, gli ha confermato questo sospetto. Vorrebbe capire cosa vogliano da lui, perché lo inquieta incontrare, ogniqualvolta che si volta, due paia d’occhi che lo spolpano vivo. È palese che cerchino di scovare qualcosa in lui: ma cosa?  

Reiner tenta ad aggrapparsi ai frammenti di memoria sparsi, che fluttuano nella mente come nuvole nel cielo. Quello che ne cava, però, non è nulla di concreto. Nutre un lieve sospetto, tuttavia non lo prende in considerazione: è stato attentissimo nel celare il proprio segreto. È impossibile che Porco o Pieck sospettino qualcosa. A meno che…  

«Dio mio, perché…» sibila Porco e i pensieri di Reiner si diradano.  

Allunga il collo oltre la spalla del collega, per capire cos’è che lo turbi, e ottiene la risposta alla sua domanda quando scruta Zeke servirsi dell’orinatoio. Non si scompone, sebbene un brivido di ribrezzo gli attraversi la schiena, e, a differenza dell’altro, affianca il superiore. Quello non batte ciglio, disinteressato da ciò che lo circonda, e Reiner si rilassa – o almeno, ci prova, dato che Porco non smette di far scorrere le pupille da lui a Zeke e viceversa, quando tutti e tre hanno i pantaloni slacciati. Non si scompone, a differenza dell’altro, e tende l’orecchio curioso, quando l’uomo lo richiama. 

«Porco.» 

La voce dell’uomo è calma e perentoria. Entrambi i ragazzi si voltano e lo fissano, in particolare Porco, che si mostra crucciato. 

«Se non la smetti di fissarmi, penserò che sei invidioso.» 

L’altro diventa rosso come la fascia che porta al braccio, sfoggia un lieve ringhio e a denti stretti sibila: 

«Non è vero! È solo che...» poi si blocca, inghiotte ciò che stava per dire, e sbuffa «lascia stare.» 

Mentre Zeke solleva la zip della cerniera, gli lancia un’occhiata eloquente e comprende il motivo di tale imbarazzo. Reiner arriccia le labbra in un sorriso lieve e l’altro sogghigna sotto la barba, nel frattempo che Porco impreca e si allaccia la cintura, che cigola sotto al suo tocco rude.  

Non lo dice, però gli è mancato ridere con qualcuno – gli riporta alla mente ricordi felici che non sono suoi, ma che custodisce gelosamente.  

 

La notte era il suo momento preferito, lì a Paradise. Durante il giorno Reiner era costretto ad indossare le vesti del Soldato – o forse non era più una maschera, quella? –, mentre di sera, dopo che avevano cenato e si erano infilati sotto le lenzuola, poteva essere sé stesso e bearsi del calore di Bertolt.  

Lo stava facendo anche quella volta: aveva appoggiato la guancia sul petto dell’altro e, senza protesta alcuna, si lasciava cullare dal battito del suo cuore. Probabilmente si sarebbe addormentato da lì a poco. 

«Dai, fallo se ne hai il coraggio!» sbraitò Eren e Jean ribatté qualcosa che non capì. 

Quando si sollevò una caciara, a cui si aggiunsero le voci di Connie e Marco, Reiner scostò piano il braccio con cui Bertolt lo stringeva, affinché non si svegliasse, e gattonò fino al bordo del materasso, da cui poteva scorgere cinque figure battibeccare tra loro – anzi, due litigavano furiosi, gli altri tre tentavano di separarli invano.  

«Jean! Eren! Basta! Che è successo?» 

Quello di Reiner avrebbe dovuto essere un urlo, ma parve più un sussurro, poiché non voleva disturbare il ragazzo che gli dormiva vicino. Nessuno dei due contendenti lo degnò di attenzione. Gridarono ancora, stavolta con maggior enfasi, e fu in quel frangente che decise di scendere dal letto, preoccupato per ciò che sarebbe potuto succedere. Prima che potesse raggiungere la scaletta a pioli, tuttavia, percepì qualcosa volargli accanto e, dopo, vide due cuscini schiantarsi sulle teste di Eren e Jean.  

«Cazzo, ha fatto male! Chi è stato?» sibilò il secondo. 

Si voltarono tutti in direzione di Reiner, accanto cui fece capolino Bertolt. Aveva i capelli arruffati, le palpebre mezze chiuse e un rivolo di saliva che gli scendeva dall’angolo della bocca. Sembrava ancora in trance ed egli si chiese come fosse riuscito a centrare i due bersagli. 

«Grazie, amico!» esclamò Connie, «E scusa per il disturbo!» aggiunse. Bertolt sollevò un pollice verso l’alto in risposta, poi crollò con la faccia sulle coperte. 

«Perché stanno litigando?» domandò Reiner agli altri tre, quando Jean ed Eren ripresero a gesticolare.  

Il primo mimava una lunghezza coi palmi delle mani, mentre l’altro negava tramite il capo. Che razza di discussione stavano intrattenendo? Nel frattempo che attendeva una risposta, allungò una mano verso Bertolt e gli accarezzò la testa. Quello non si mosse di un millimetro e lui sperò che fosse riuscito ad addormentarsi. 

«Ah, lascia stare Reiner... è una sciocchezza.» 

Un rossore tenue si propagò sulle guance di Marco, ma Reiner continuò a non comprendere. In suo soccorso giunse Connie, che gli rivelò senza alcuno scrupolo: 

«Stanno litigando su chi ha il cazzo più grosso!» 

Dall’altra parte della baracca qualcuno ululò un insulto, qualcun altro gridò “Io! Adesso tornate a dormire!” e qualcun altro – a giudicare dalla voce roca, fu Franz – rise a crepapelle. 

Armin e Marco si coprirono il volto con una mano, imbarazzati: Connie fece spallucce, noncurante di quanto aveva appena urlato. 

«Mi sembra un ottimo motivo per discutere nel bel mezzo della notte» scherzò, «aspettate, adesso scendo e risolviamo la faccenda.» 

Scosse appena Bertolt, per avvertirlo del suo allontanamento, però, a parte un respiro più profondo e rumoroso degli altri, non ottenne risposta. Gli scoccò un bacio leggero sulla nuca, poi, attento a non far traballare il letto a castello, scese. 

Quando raggiunse Jean ed Eren, questi erano sul punto di esplodere di nuovo – lo dedusse dalle orecchie bordeaux di Eren e dal ghigno strafottente di Jean –, ma fu più lesto di entrambi e tappò le loro bocche con le mani. 

«Smettetela di gridare, mi avete distrutto i timpani!» borbottò, «Se volete risolvere questo enorme dilemma, c’è solo una soluzione e voi due sapete bene qual è.» 

I due ragazzi tacquero e si scrutarono di sottecchi. Erano davvero così determinati da fare quanto aveva suggerito Reiner? 

La risposta provenne da Jean, che si divincolò dalla presa del ragazzo più alto, per poi indicare Eren. 

«Io e te. Fuori. Ora» dopo questo, puntò il dito anche contro Reiner «dato che ti sei intromesso, parteciperai anche tu. Vediamoci nelle stalle.» 

Eren e Reiner sollevarono un sopracciglio, perplessi, e osservarono la schiena di Jean mentre veniva inghiottita dalle ombre del corridoio. Connie, Marco ed Armin avevano affiancato i due rimasti. 

«Vuole farlo davvero?» domandò il primo, incredulo. 

«A quanto pare...» mormorò il secondo. 

«Be’, se è una gara del cazzo che vuole» ironizzò Reiner, «allora gliela daremo. Giusto, Eren 

Conclusa la frase, diede una vigorosa pacca tra le scapole di Eren, che barcollò in avanti. Questo aveva arricciato le labbra in un broncio disgustato – e qualcosa gli suggeriva che ciò era dovuto all’idea di calarsi i pantaloni dinanzi Jean. Non lo biasimava affatto: da qualsiasi lato si volesse guardare quella situazione, non era una prospettiva allettante 

«Puoi sempre ritirarti» suggerì Armin e Reiner sperò che l’altro accogliesse il consiglio dell’amico. 

«Neanche per sogno! Così gliela sarei vinta!» ululò Eren 

Un altro insulto, da parte di chi cercava di dormire, si librò nell’aria. Avrebbero dovuto svignarsela alla svelta, altrimenti si sarebbe scatenata una rissa all’interno dei dormitori.  

«D’accordo, d’accordo, basta urlare, però!»  

Dopo questo monito, il quintetto decise di defilarsi dalla camerata in punta di piedi. Quando il gruppo si fu allontanato, qualcuno proferì: 

«Grazie al cielo.» 

In molti concordarono con l’anonima voce. 

Arrivati alle stalle, trovarono Jean come aveva annunciato loro poco prima. La spavalderia sembrava che lo avesse abbandonato, sostituita da un broncio a cui Reiner non sapeva fornire spiegazioni. Forse ci aveva ripensato? Pregò che fosse così, tuttavia, anche se la situazione lo metteva a disagio, Jean non si tirò indietro.  

Nonostante la riluttanza iniziale, Eren gli si piazzò davanti, con lo sguardo severo di chi era pronto alla battaglia. Si mise accanto ai due e così formarono un triangolo.  

«Ricordatemi perché li stiamo assecondando.» 

Il volto di Marco era diventato paonazzo e, grazie al rossore, le sue lentiggini spiccavano moltissimo. Mentre osservava i ragazzi pronti a sfidarsi, Connie si prese il mento tra le dita, pensoso. 

«Io sono qui per scoprire se l’ego di Jean è grosso come il suo...» rivelò questo. 

«Allora! Che fate, vi vergognate? Avete paura di sfigurare?» gridò Jean, interrompendolo, e alcuni cavalli nitrirono e scalciarono, spaventati. 

«E chi dice che saremo noi a sfigurare, faccia da cavallo?» lo incalzò Eren, mentre si afferrò i lembi dei calzoni. 

«Ben detto, Eren!» Reiner rise, dopodiché chiese: «al mio tre sveliamo le carte?» 

Gli altri due annuirono e allora cominciò a contare. Giunto al tre, i duellanti abbassarono i loro pantaloni. Ci fu una lunga pausa, durante la quale Jean, Eren e Reiner si studiarono reciprocamente, ma nessuno di loro emise un verdetto. Infatti, fu Connie a rompere il silenzio creatosi: 

«Be’, ragazzi, siete proprio deludenti! Mi aspettavo di meglio da voi.» 

A Marco sfuggì una risatina, mentre Eren e Jean sollevarono le loro proteste contro Connie. Armin si mise in mezzo ai tre, con le braccia tese per tenerli lontani l’uno dall’altro, e Reiner tentò di risollevarsi i calzoni, così da aiutarlo, ma una voce proveniente dietro le figure di Marco e Connie lo fece trasalire. 

«Che state facendo?» 

Dopo che si avvicinò, Bertolt sgranò gli occhi e li fissò come se fossero stati dei folli – e forse lo erano davvero, dato che stavano infrangendo il coprifuoco imposto da Shadis per un motivo tanto futile. In particolar modo, lo sguardo di lui si soffermò su Reiner, che percepì le guance bruciare a causa dell’imbarazzo. Eppure, Bertolt non lo stava giudicando: pareva solo sorpreso di vederlo coinvolto in quelle circostanze. 

«Si stavano sfidando a chi ha il cazzo più grosso, ma non ha vinto nessuno» spiegò Connie, con un tono di voce delusissimo. Poco dopo, tuttavia, s’illuminò lo sguardo, e domandò: «Facci vedere il tuo, Bertolt!»  

Jean ed Eren tacquero, mentre Marco ed Armin si voltarono verso il nuovo arrivato. Reiner scosse il capo, perché sapeva che l’avrebbero messo soltanto a disagio con quei discorsi.  

«Connie! Lascialo stare, lui parte svantaggiato! Non conosci la regola della L?» 

Il commento di Jean zittì tutti. Bertolt non ribatté, ma abbassò lo sguardo e le guance assunsero una tonalità bordeaux. 

«Ne sei sicuro, Jean? O dici così perché hai paura che ti faccia rimangiare le parole e, magari, anche qualcos’altro?» lo rimbeccò Reiner, infastidito dalla saccenteria dell’altro.  

L’amico era troppo buono per rispondere, di conseguenza si sentiva in dovere di prendere le sue difese. Finché ci sarebbe stato, avrebbe difeso Bertolt a spada tratta: anche se si trattava di questione becere come quella su cui stavano battibeccando. 

«Be’, se mi sbaglio può sempre dimostrarmi il contrario. No?» rispose Jean piccato e si mise le mani sui fianchi. 

Tutti si voltarono verso il ragazzo più alto, in attesa di una sua replica. Si stava stringendo un polso con la mano, gesto che faceva spesso quando era in una situazione stressante.  

«Bertolt, non sei costretto a farlo» mormorò Reinercon le sopracciglia corrugate e la voglia di dare una bella lezione a Jean.  

«Già, lascia stare» disse Marco, «non devi dimostrare niente.» 

Bertolt fece un sospiro profondo, poi scosse il capo. Aveva una luce strana nello sguardo, che Reiner non seppe riconoscere. Cosa gli stava passando per la testa? 

«Va bene… Dopo possiamo tornare a dormire, però?» 

Nessuno ebbe il tempo di registrare ciò che stava succedendo, fino a quando non lo videro abbassarsi i calzoni. Soltanto Connie ebbe il coraggio di commentare con un “Wow, amico!”, mentre tutti gli altri si acquietarono e sbarrarono gli occhi, tranne Reiner, che si lasciò sfuggire una grassa risata quando guardò l’espressione sbalordita di Jean. 

«La regola della L, eh, Jean?» lo canzonò Connie. 

Bertolt si rivestì in fretta e così fecero gli altri, ma nessuno commentò ulteriormente. Jean si allontanò mogio, come se avesse la testa altrove, e non salutò, mentre Marco, frettoloso di raggiungerlo, si congedò con un cenno della mano. 

«Ben gli sta. Ottimo lavoro, Bertolt» commentò Eren, che si avviò verso l’uscita insieme ad Armin e Connie. 

Il “grazie” che mormorò Bertolt fu pronunciato troppo piano per essere sentito. 

«Voi due… venite con noi?» chiese il secondo. 

«No, grazie ragazzi. Rimaniamo qui per un po'» rispose Reiner e insieme all’altro li salutarono con un gesto della mano. 

 

Dopo che rimasero soli, Reiner si stampò in faccia un sorrisetto e si inoltrò nelle stalle. Si recò nell’angolo dove veniva ammucchiata la paglia  l’unico, inoltre, che era illuminato dai raggi lunari  e vi si sdraiò sopra. Bertolt lo raggiunse e, dapprima esitante, gli si coricò accanto.  

«Sul serio?» gli chiese, riferendosi alla sua lontananza, e allora l’altro gli si accoccolò al petto.  

Rimasero in un religioso silenzio, che venne spezzato solo quando Reiner scoccò a Bertolt un paio di baci fra i ciuffi corvini.  

«Gliel’hai fatta vedere a Jean, prima, eh? In tutti i sensi» ridacchiò e l’amato sollevò il capo per scoccargli un’occhiataccia  che non durò molto, perché Reiner fece cozzare immediatamente le loro bocche. Il bacio dapprima vorace, divenne poi lento e umido ma non gli dispiacque, anzi. 

«Be’… Qualcuno doveva pur vendicarti, no?» mormorò Bertolt col fiato corto, quando si staccarono. 

«Ehi! Stai insinuando qualcosa?» 

Si fissarono a lungo negli occhi, poi scoppiarono a ridere e i cavalli nitrirono di nuovo, spaventati dal rumore, e ciò intensificò le loro risa  quella di Reiner in particolare, perché Bertolt si conteneva anche nelle risate , finché non scemarono piano. L’unico suono percepibile divenne il loro respiro  e il brucare vorace di qualche animale poco propenso al sonno.   

«Reiner 

«Mh 

«Ti sta scoppiando il cuore…» gli fece notare Bertolt, che gli strusciò la guancia contro i pettorali. 

Reiner non replicò, perché l’altro aveva ragione: il suo battito era così veloce, che il cuore sembrava volesse scappargli dalla gabbia toracica. Non poteva farci nulla, però: l’altro gli provocava tale reazione ogni volta che lo aveva accanto. Gli era impossibile pensare ad altro che non fosse lui, oppure che non lo riguardasse. Si sentiva come incantato  a tal proposito, gli sovvenne la voce profonda di una donna che paragonava l’amore alla magia. Ignorava l’identità di quella signora che gli parlava con dolcezza e non volle interrogarsi troppo su di lei: in quel momento l’unica persona che contava nella sua vita la stringeva tra le braccia. 

«Be’, questa è colpa tua» scherzò, «sei tu che mi fai questo.» 

Non gli fu risposto nulla. Bertolt si limitò a guardarlo, dopodiché gli portò una mano sul viso e col polpastrello tracciò linee immaginare, percorrendo gli zigomi alti, la mandibola squadrata, la cunetta sul naso, e, infine, si soffermò sulle sue labbra screpolate. Sentì il corpo percorso da scariche elettriche piacevoli, quando Bertolt compì quel gesto. Senza esitazioni, allora, Reiner dischiuse le labbra attorno al dito. L’altro deglutì, ma sembrò apprezzare la sensazione, quindi lui continuò e si permise di succhiarlo, ricevendo un mugolio di assenso. 

«Adesso sei tu che mi farai scoppiare il cuore» affermò Bertolt, con la voce arrochita. 

«Penso che non sarà l’unica cosa ad esplodere» sussurrò malizioso Reiner e strappò un’altra risata al ragazzo. 

«Sei proprio pessimo, Reiner 

 

  

«Sei proprio pessimo, Reiner.» 

Sbatte le ciglia, confuso, e si volta verso il ragazzo che ha pronunciato quella frase. Porco pare deluso e comprende il motivo, solo quando questo ammicca alla porzione di polpo alla gallega che tiene in mano. Ne ha assaggiato solo un boccone e già percepisce lo stomaco in subbuglio  non sa, però, se sia colpa del peperoncino o di altro. È da troppo tempo che gira a zonzo in compagnia di Pieck e Porco – quasi due ore, ormai, da quando hanno lasciato l’edificio del quartier generale. Dovrebbe tornare al più presto nelle sue stanze, altrimenti rischia che si verifichino incidenti indesiderati.  

Deve trovare un modo efficace per scollarseli – o perlomeno trovare un luogo appartato dove vomitare, nel caso in cui si sentisse male. 

«Non ho molta fame» spiega spiccio, «penso che lo butterò…»  

L’altro ragazzo lo fulmina con lo sguardo, come se avesse appena insultato sua madre, dunque Reiner gli propone: 

«Oppure lo vuoi tu?»  

Allungatogli lo snack, Porco lo osserva con circospezione, soppesando la possibilità di accettare quel dono, poi glielo prende dalle mani e se ne porta un pezzo alla bocca, senza ringraziare – ma da lui non si sarebbe aspettato nulla di diverso. 

«Allora, Reiner… cosa vuoi fare adesso?» 

L’eccessiva premura che Pieck dimostra nei suoi confronti lo mette a disagio, così come la temporanea tregua che Porco gli ha dato. Sono troppo gentili, troppo cauti, troppo falsi.  

«Voglio solo andare a casa, adesso» ammette esasperato, «oppure volete tenermi in ostaggio un altro po’?» tenta di sorridere, ma la piega che prendono le sue labbra è quella di una smorfia. 

«In ostaggio? Addirittura?» 

È palese, dal tono della voce di lei, che Pieck cerchi di allentare la tensione. Reiner non vuole renderle la vita difficile, ma non vuole neanche sorbirsi la farsa che i due portano avanti da un paio di giorni – e che oggi tocca picchi altissimi di assurdità. Il nodo nello stomaco si attorciglia di più e la nausea cresce. Deve allontanarsi il più presto possibile. 

«Sì. Prima avete insistito affinché io stessi con voi» Reiner lascia che le pupille scorrano da Pieck a Porco, dopodiché continua, «non sono un idiota, me ne sono accorto.» 

Nessuno dei due replica, tuttavia si osservano reciprocamente, come se fossero stati colti con le mani nel sacco. A lui è sufficiente quella reazione per continuare il suo discorso – così potrà allontanarsi subito, dato che percepisce già le budella attorcigliarsi. 

«Io… non so cosa sia preso a tutti e due. Vi ringrazio per la compagnia, ma guardiamo in faccia la realtà: noi non siamo mai stati amici, neanche quando eravamo bambini, quindi… non capisco da dove derivi il vostro attaccamento nei miei confronti, adesso. Soprattutto da parte di Porco, che mi ha sempre odiato.» 

Gli occhi di Pieck si spalancano, mentre Porco butta a terra il contenitore, ormai vuoto, del polpo alla gallega. Reiner percepisce qualcosa premere sul fondo della gola, ma deglutisce per trattenerla lì. Non può permettersi passi falsi.  

«Siamo solo preoccupati per te, Reiner. La tua esperienza su…» 

«No, non tirare in ballo Paradise,» la interrompe lui, scuotendo il capo, «se fosse stati preoccupati per me sin dall’inizio, mi sareste stati accanto subito, invece vi siete incollati solo da un paio di settimane. Non posso più andare in bagno da solo. Letteralmente.» 

Pieck apre bocca, ma inaspettatamente Porco si frappone tra lei e lui e, inoltre, gli rivolge un’occhiata torva. 

«Innanzitutto, abbassa i toni. Poi, ingrato che non sei…» gli occhi del ragazzo vengono attraversati da un guizzo di timore, mentre si arresta, «... Che cazzo hai, Reiner? Sei bianco come un morto. Stai per sboccare?» 

L’altro non ha affatto torto: quando ha percepito un bolo di nettare e petali risalirgli l’esofago, ha percepito un gelo innaturale attraversargli le ossa – non può permettersi, però, che loro scoprano il suo segreto, quindi dà le spalle ad entrambi e comincia a correre, incurante delle grida di Pieck che lo prega di aspettarli. Spera che le sue gambe non cedano stavolta. 

 

Il bucaneve nel vaso è morto. Tralasciando la sfumatura giallastra che hanno assunto i petali, lo si deduce da come il gambo si sia rannicchiato su sé stesso, oppure dalla foglia che si è staccata non appena lei ha sfiorato la pianta. Karina sospira, mentre rimira l’ennesimo tentativo – fallito – di decorare casa. È incapace di curarsi delle cose – e delle persone –, eppure non smette mai di provare. Prima o poi, pensa tra sé e sé, riuscirà a combinarne una giusta.  

Senza troppe cerimonie, prende il vaso contenente la piantina e la butta nella pattumiera. Non batte ciglio quando il contenitore si sfracella, ma, a differenza sua, Gabi sobbalza ed emette un grido di stupore. La bambina è tanto sorpresa che brandisce il pastello rosso come un pugnale. Karina si pente di essere stata poco delicata, ma contemporaneamente si domanda perché la piccola abbia avuto una reazione così esagerata. 

«Tutto bene, tesoro?» 

La bambina sbatte le palpebre un paio di volte, dopodiché annuisce e ritorna a colorare il proprio disegno. Quell’atteggiamento così mansueto la incuriosisce. Le ultime volte che si è presa cura di Gabi, questa faticava a rimanere seduta per oltre cinque minuti. Adesso, invece, è irrequieta, si osserva spesso intorno con gli occhi spalancati, come se si aspettasse che qualcosa di temibile succeda da un momento all’altro.  

Si chiede perché sua cognata non l’abbia avvertita di tale novità. Che non se ne sia accorta? Rimprovererà quella donna per bene, non appena la vedrà. Al suo Reiner non è mai accaduto qualcosa del genere.  

Al momento, però, ci penserà lei ad aiutare Gabi: del resto ha cresciuto un vero Guerriero – l’unico, inoltre, che è tornato vivo dalla terra dei demoni! Chi, se non lei, può scoprire cosa si cela nell’animo inquieto della bambina? 

È per questo motivo che lascia da parte le faccende domestiche e prende posto accanto alla bambina, la quale non la degna nemmeno di uno sguardo. Prima di porle una qualsiasi domanda, Karina allunga il collo per osservare l’opera d’arte che quella sta ritraendo. Sul foglio immacolato vi è un omino stilizzato, con un ciuffo biondo in testa e dalla cui bocca nascono una serie di spirali rosse, che si riversano su una linea verde.  

Quello scarabocchio la mette addosso un’inquietudine che prima non provava. Le dà le stesse sensazioni negative di quando passa sotto una scala, oppure di un gatto nero che le attraversa la strada. C’è un significato particolare dietro ciò che ha visto, ne è certa. Non le importa nulla dei parenti – del suo stesso figlio, addirittura – che le ripetono di essere troppo superstiziosa. Qualcosa non va in quello che percepisce e se ne convince nel momento in cui, dopo una manciata di minuti, suonano al campanello con insistenza, quasi fino a stordirle le orecchie. 

Esclude le possibilità che sia Reiner, dato che quest’ultimo è in missione in medio-oriente, o sua cognata, poiché il suo turno di lavoro dovrebbe essere appena cominciato.  

«Zia… non apri?» domanda Gabi, senza staccare gli occhi dal foglio. 

Con il petto pesante come un macigno, Karina trova la forza di alzarsi e raggiungere la porta d’ingresso. Non ha uno spioncino, perché la casa è molto antica – deve ringraziare, anzi, che abbia un asse di legno per impedire agli estranei di intrufolarsi –, quindi socchiude la porta quanto basta per intravedere chi sia.  

«Karina Braun?» 

La testa le vortica e sente che il cuore non le reggerà a lungo, a causa della paura che s’impossessa di lei centimetro dopo centimetro. È un’accozzaglia di brividi e sudore freddo – e non osa immaginare come si ridurrà quando il soldato Marleyano aprirà di nuovo bocca. 

«Deve seguirci. Ora.»  

Dagli occhi ghiaccio dell’uomo non traspare nessuna emozione. È come guardare in faccia le bambole di porcellana di Gabi.  

«Si tratta di Reiner Braun.» 

 Non può percorrere molta strada, men che meno nascondersi dai due, dato che gli sono alle calcagna – a suggerirglielo sono gli stivali di Porco, che impattano sull’asfalto del marciapiede poco dietro di lui – però tenta di non farsi vedere dai passanti. È per tale motivo che imbocca il primo vicolo che gli si para lungo la strada, si appoggia al muro lurido – sordo alle proteste dei gatti randagi che gli soffiano contro, poiché sono stati spaventati da quell’improvvisa invasione – e tossisce fuori il suo amore maledetto.  

«Cazzo, Pieck! Corri!»  

La risposta della ragazza si perde tra i vari colpi di tosse e lo scalpitio delle scarpe. È costretto persino a serrare le palpebre, a causa dello sforzo, e ciò che percepisce, quando comincia ad accasciarsi sul terreno, sono due mani grandi che lo tengono sollevato, per quanto possibile, e due morbide che gli sorreggono la fronte. 

Alterna momenti di apnea, durante i quali sente i polmoni in fiamme, a momenti in cui ricerca l’ossigeno con frenesia – la stessa che impiegava per cercare la bocca di Bertolt. Poiché non è da solo, strizza gli occhi per trattenere le lacrime, sebbene qualcuna gli sfugga comunque – ma adesso vi è Pieck ad asciugargliele, impedendo che esse gli si cristallizzino sulle guance, come è solito fare. Nonostante la vista appannata, scorge petali piccoli e bianchi, contornati da una sfumatura cremisi che non sa ricondurre ad alcun tipo di fiore.  

«Pieck, c’è… C’è del sangue» balbetta Porco e, sentendolo, Reiner si concentra su quello che, realizza, è un liquido rosso. Forse sta raggiungendo Bertolt, finalmente? 

Se così fosse, non sarebbe affatto male: andarsene via, lontano da sguardi indiscreti, e senza destare troppo scalpore – gli dispiace solo aver coinvolto i due che ora lo stanno soccorrendo. Avrebbe dovuto rifiutare prima e, ne è consapevole, ancora una volta è stata la volontà di apparire a sabotarlo. Ha sempre sbagliato tutto, ne è cosciente: ha cominciato da quando è diventato un cadetto, affinché suo padre lo vedesse, e non ha smesso più. Quanto può essere stupido? 

«Ho visto, Pock! Se non si ferma, però, non posso fare nulla!» 

Il tocco della ragazza rimane gentile, sebbene lei sia alterata, ma non la biasima: la morte è già ingestibile quando prevista, figurarsi quando è improvvisa. I crisantemi smettono di sbocciare dopo un paio di lunghi e intensi minuti, lasciandogli in gola qualche fogliolina e un bruciore che non se ne andrà subito. Appena Porco nota che il suo corpo non è più scosso da singulti, lo accompagna piano verso il terreno e lo aiuta a sedersi, poi lui e l’altra gli si accasciano accanto.  

Hanno tutti e tre il fiato corto  in particolare Reiner, che pare abbia l’asma, dato il suo respiro irregolare e affannato  e fissano il cielo, come se attendessero un’imminente pioggia. Il tempo sembra essersi congelato nel frangente in cui sollevano gli occhi, perché rimangono immobili, incuranti dei vestiti insozzati di saliva e sangue e ricoperti di petali candidi come la neve. Di tanto in tanto un passante getta uno sguardo nel vicolo, spalanca gli occhi e affretta il passo. Reiner è certo che qualcuno avviserà le sentinelle sparse in città e sarà solo questione di minuti, prima che il generale Magath e Zeke li raggiungano.  

Nonostante sia conscio di questo dettaglio, non si sposta di un centimetro. Vuole godersi la quiete, le mani di Pieck, che gli tamponano il viso con un fazzoletto di tessuto, per ripurilo dai grumi di nettare e sangue.  

«Allora è vero» sentenzia Porco ad un tratto, «stai morendo. E vomiti fiori.» 

Socchiude le palpebre, spossato, e non replica. C’è una punta di incertezza nella voce del ragazzo. Adesso comprende il motivo che spingeva i due a stargli accanto. Sapevano qualcosa. 

«Perché?!»  

Il grugno irato dell’altro lo fa sorridere, anche se non è una situazione consona per farlo. Trova ilare che quella domanda gliela ponga lui, che, forse, l’ha desiderato morto molte volte  o forse è solo la malinconia ad averlo convinto di ciò.  

«Da cosa lo sospettavate?» soffia, in parte davvero curioso di sapere dove abbia sbagliato. 

«Ti ha visto Falco. Al cimitero» ammette la ragazza e Reiner sente il senso di colpa attanagliargli il petto. 

Falco lo ha visto. Oltre ad avere Gabi sulla coscienza, ha anche Falco. Ha traumatizzato due bambini, a causa della sua incoscienza. E con Falco non ha avuto nemmeno occasione di scusarsi, anche se le scuse in tali circostanze servono a ben poco. 

Quanto è stato stupido a sottovalutare qualsiasi cosa abbia contratto? Porco l’ha definita una malattia. Reiner neanche si è informato, troppo preso dall’eccitazione e dalla speranza che, qualsiasi cosa gli si sia insediato tra le viscere, lo stronchi il prima possibile, così da potersi ricongiungere con… 

«È per Bertolt? È così?!» 

Si dice che la pazzia sia un filo di capello e la verità di Porco è la forbice che lo recide. A Reiner dapprima scappa una risata bassa e roca, dinanzi la quale gli altri due lo osservano interdetti, poi si scioglie in una valanga di singhiozzi che vengono soffocati contro il palmo della propria mano. Dapprima nega e poi annuisce col capo, perché intende entrambe le risposte: in parte la sua folle scelta è dovuta a Bertolt, in parte a tutto ciò che si è lasciato alle spalle su Paradise.  

«Porco… basta.» 

Non sa se Pieck l’abbia detto genuinamente, oppure perché commossa dalle lacrime che ora gli scendono lungo le guance. Se fosse possibile sparire, lo farebbe volentieri, perché si sta odiando con la stessa intensità con cui ha amato e ama chi non c’è più. Eppure, sebbene sia ignara di questo suo desiderio, la ragazza lo realizza in parte, dato che si issa sulle ginocchia per stringerlo al petto.  

«Perdonami per ciò che ho detto prima» sussurra lui e l’altra gli regala una carezza tra i capelli. 

«No... Scusami tu» mormora lei di rimando e gli accarezza la zazzera bionda. 

Nessuno dei due aggiunge altro: neanche, quando, Porco si alza e li abbandona, lasciandoli crogiolare da soli nella loro sofferenza.  

Nemmeno, quando, odono l’eco delle grida di Magath, seguito dal marciare dei soldati, propagarsi tra le stradine.  

 
 

Note dell’Autrice 

Eccoci qui, al penultimo capitolo di questo breve viaggio! Reiner è stato colto in flagrante e non è riuscito a nascondersi. Gabi sembra traumatizzatissima ancora turbata da ciò che le è successo nello scorso capitolo, mentre Porco, be’... Non ha preso molto bene il fatto che Reiner volesse lasciarsi morire. In tutto ciò mi dispiaccio un sacco per Pieck, sono stata proprio cattiva con lei in questa fanfiction, ma vi prometto che nella prossima la tratterò meglio! Che cosa succederà nel prossimo? Io lo so e già sento la folla inferocita che si avvicina, armata di forconi e torce! Come sempre, ringrazio chiunque abbia speso un po’ del proprio tempo per lasciare una recensione, o anche solo per leggere la storia! Dato che questo capitolo è particolarmente corto, oltre i significati dei fiori ho deciso di lasciarvi alcune precisazioni! 

La fanfiction è ambientata qualche mese dopo il ritorno di Reiner (contate un mese di convalescenza in ospedale + quello in cui si svolgono gli eventi) e, per essere più precisi, sei/sette mesi dopo che Ymir è stata mangiata da Porco, quindi che quest’ultimo ha appreso della morte di Marcel). Di conseguenza, se Reiner vi sembra troppo emotivamente instabile, se Porco vi sembra troppo arrabbiato col mondo e Pieck troppo sensibile, è perché ancora qui i ragazzetti hanno un’età che oscilla tra i diciassette e diciotto anni. Di conseguenza, Gabi e Falco ne hanno solo otto e sono prossimi all’arruolamento, mentre Colt ne ha quattordici circa e già è stato arruolato! 

 Inoltre, vi avviso che il prossimo capitolo non verrà pubblicato regolarmente, perché è ancora in fase di stesura, quindi impiegherò sicuramente il doppio del tempo... Mi scuso in anticipo per l'inconveniente!

E ora vi lascio il significato dei fiori: 

Bucaneve: speranza. 

Crisantemo bianco: dolore. 

 

Se siete arrivati alla fine di queste note, non mi resta che regalarvi un caloroso abbraccio per la pazienza! 
 
Luschek 

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Capitolo 4
*** Confrontarsi ***


Capitolo 4 


Confrontarsi 

You do not die 

from love. 

You only wish 

you did.” 

Ordinary Miracles, “There is Only One Story” di Erica Jong 

 

 

 

«Mi ami davvero così... tanto 

A causa dell’oscurità di quel luogo, Reiner non vede granché, ma è sicuro che Bertolt neanche lo guarda in faccia, mentre gli pone quella domanda. Si domanda perché l’amato sia l’unico circondato da un’aura luminosa, lì dentro. Il ragazzo è raggomitolato su sé stesso, con le gambe strette al petto e le braccia che le cingono, e ha nascosto il viso contro le ginocchia. Quando è frustrato, si chiude sempre a riccio: Reiner lo sa, poiché glielo ha visto fare parecchie volte. 

Nel vederlo in tale stato, percepisce il labbro inferiore tremare. Gli ha messo angoscia e timore quella punta di incertezza, perché Bertolt è spesso preda dei dubbi, ma mai lo è stato riguardo i sentimenti che provano l’uno verso l’altro. 

Perché adesso teme che non lo ami abbastanza? È perché lo ha lasciato morire? 

Gli occhi pizzicano, ma tira su col naso e prende una grande boccata d’aria, per impedirsi di piangere. Non vuole mostrarsi debole, né vuole fare preoccupare l’altro. Sta bene e, tra qualche giorno o settimana, quando potrà rivedere Bertolt, starà meglio. 

«Reiner… Io non voglio rivederti così presto» gli rivela l’altro. È questa la ragione della sua insicurezza? 

In un battito di ciglia, Bertolt si è messo in piedi e lo osserva dall’alto, con le sopracciglia corrucciate e una lacrima che gli solca la guancia. Il verde delle sue iridi non è mai stato così opaco – questa visione gli provoca una fitta di dolore acuta all’altezza del petto. 

Reiner sente il cuore pompare più sangue del dovuto, apre la bocca per gridare, ma da essa non esce alcun suono. Allora, tenta di allungare una mano verso l’altro, ma non vi riesce: un manto pesante e compatto gli intrappola gli arti e si espande verso il torace e la testa, gli impedisce qualsiasi movimento e lo schiaccia come se fosse un masso. Pare che il terreno lo risucchi, ammesso che esistano un sopra e un sotto dentro quello strambo incubo.  

L’unica azione che gli viene concessa è di muovere gli occhi, difatti essi si soffermano sull’altro ragazzo, il quale torreggia su di lui – ora comprende cos’abbiano provato le loro vittime, quando, quel giorno, il Colossale si affacciò al di sopra del Wall Maria. Ci si sente insetti insignificanti e inermi, capaci solo di attendere un destino inevitabile: quello di morire. 

“Aiutami” mimano le labbra di Reiner, però Bertolt non alza un dito. Addirittura questo indietreggia, senza volgergli le spalle, finché piccoli tentacoli di oscurità non avvolgono e inghiottono la sua sagoma. 

«Devi lasciarmi andare, Reiner. Ti prego... ti prego...» è la frase che riecheggia nel buio. 

 

«Ti prego, Reiner... Non lasciarmi...» 

Percepisce un peso gravargli sul grembo, uno sulla spalla e delle dita ruvide intrecciate a quelle della sua mano destra. A causa dei tubi infilati nelle narici e appuntati alle braccia, si sente persino soffocare e gli ci vuole un po’, prima che si abitui. Quando il respiro torna regolare e il fastidio dei tubicini nel naso passa, Reiner tenta di muoversi, finché non comprende che gli è impossibile voltare il capo, oppure e controllare chi abbia addosso. Così comincia ad osservare il soffitto grigio, mentre rimugina su alcuni sprazzi di memorie che l’incubo gli ha riportato alla mente. 

Ricorda i rimproveri di Magath, gridati così forte da perforargli i timpani, seguiti dal marciare dei soldati. Delle mani brusche che lo sollevano di peso e lo trascinano. Ricorda il nero pece, il rombo di un motore e dei sussurri a malapena percettibili. Infine, l’odore del disinfettante e i “bip” acuti dei macchinari. 

Sono stati dei giorni caotici – non sa nemmeno per quanto tempo abbia perso conoscenza –, perciò non si meraviglia che abbia dormito durante la maggior parte del tempo. Se non è un inganno organizzato dalla propria mente, rammenta che uno dei tanti medici ha dichiarato che la sua malattia manifesterà ulteriori sintomi, più questa crescerà. Uno di essi è l’eccessiva sonnolenza, attraverso cui il corpo assimila le energie che gli vengono sottratte dal cattivo sonno, causato a sua volta dai frequenti attacchi di nausea. Va di bene in meglio. 

«Cazzo…» borbotta, quando percepisce le budella aggrovigliarsi e un bolo di acido percorrergli a ritroso l’esofago.  

Preme il palmo della mano libera contro la bocca e, mentre esegue questo gesto avventato, sente che qualsiasi cosa abbia sulla spalla si sposta. L’intreccio di dita si scioglie, sebbene quelle corrano ai suoi capelli, li afferrino e poi li strattonino verso il bordo destro del letto, dove Reiner scorge l’orlo di un secchio. Non esita un istante a liberarsi lì dentro.  

«Che schifo, Reiner! Potevi colpirmi, ew!» lo rimprovera Gabi, che salta fuori dal letto. 

Ora che non ha più le gambe bloccate, affonda il volto nel contenitore azzurro, mentre la mano amichevole di prima disegna ampi cerchi sulla sua schiena. È sua madre. 

È un’azione che compiva sempre quand’era piccolo e rimetteva anche l’anima. La donna affermava che servisse a rilassare la tensione della schiena, sebbene Reiner abbia sempre nutrito grossi dubbi riguardo la scientificità di tale metodo. Nonostante ciò, è lieto che in quel momento lei sia presente. Forse è per questo motivo che gli sfugge una lacrima, oppure è colpa dello sforzo a cui è sottoposto, o entrambi le motivazioni, ma poco gli importa: ciò che conta è averla al suo fianco.  

Quando riemerge la testa dal recipiente, Karina gli porge un fazzoletto di stoffa e lui si protende per afferrarlo, ma la donna è più lesta, quindi è lei a ripulirlo dai residui di petali e bile che ha intorno la bocca. Reiner prova un po’ di imbarazzo, dato che non è abituato a quella premura materna, e un po’ è intimorito da ciò che si cela dietro lo sguardo pensoso di lei. L'hanno informata? È a conoscenza dei dettagli di ciò che è accaduto?  

Gli si stringe il cuore, se immagina quanto l’abbia fatta preoccupare – e soffrire. Quanto l’abbia delusa, se è conosce i particolari riguardanti la malattia e Bertolt. Anche se sa, la donna non ha mutato atteggiamento nei suoi confronti, poiché asciuga immediatamente la lacrima che gli percorre la guancia, quando lei la individua.  

Gli occhi nocciola della donna, identici ai propri, si rivestono di un velo umido e Reiner teme che ella possa scoppiare a piangere, tuttavia non accade nulla di ciò – ne è grato, perché non si tratterrebbe, visto il suo precario stato emotivo. Tutto tace, persino Gabi, che nel frattempo ha arraffato una sedia dal corridoio e l’ha trascinata fino al letto, facendola stridere lungo tutto il tragitto. Con la coda dell’occhio, può osservarla mentre si arrampica su di essa e, infine, si accomoda sul materasso.  

«Gabi, non lo disturbare» la ammonisce Karina, ma Reiner scuote il capo e lascia che la bambina gli si accoccoli sul fianco.  

«Scusami, Reiner. I tuoi zii lavorano sempre la mattina e non sapevano a chi...» 

«Non preoccuparti, mamma. Non mi porta fastidio, anzi... mi fa piacere che siate qua, nonostante tutto» mormora, poi accarezza il cespuglio di capelli che la piccola si ostina a non pettinare. 

«Piccolo mio, ovvio che siamo qua», Karina gli prende una mano tra le proprie, «ti visitiamo ogni giorno, da quando mi hanno comunicato le tue condizioni...» 

Le tremano le labbra e alla fine le scappa un singhiozzo, prima di aggiungere: 

«Temevo che non ti saresti più svegliato.» 

Anche Gabi produce un piccolo rantolo, sottolineando l’angoscia che ha afflitto i loro animi in quei giorni. Quella visione accresce il senso di colpa che si annida nel cuore di Reiner: crede di avvertire davvero le radici del suo male insidiarsi nella carne e intrecciarsi a quelle delle sue emozioni negative. È stato nient’altro che uno sprovveduto e un egoista, poiché ha messo il proprio malessere dinanzi tutto, perdendo di vista ciò che di prezioso gli è rimasto accanto: la sua famiglia.  

Eppure, si chiede: basterà il loro affetto per superare il dolore che lo consuma? 

La risposta che si dà è negativa. Non sarà sufficiente nemmeno l’amore immenso di sua madre per superare questo ostacolo. A tal proposito, gli ritornano alla mente le parole che, mesi addietro, poco dopo il suo ritorno, pronunciò Porco nei suoi confronti: sei un’insaziabile voragine che inghiotte tutto ciò che la circonda. Alla luce di quanto ha appreso, non può dargli torto. È vero, a lui non è mai bastato nulla, soltanto... Il volto di Bertolt gli riaffiora in mente, pallido come uno spettro, in risposta alla sua domanda retorica.  

Si sente vile quando inizia a piangere, spinto al limite da quella rivelazione. 

«Mi dispiace, mamma. Scusa...» 

Reiner diventa tutto tremori e singhiozzi, ma, senza porre domande su quell’affermazione alienante, la madre si unisce a lui. Poco dopo, percepisce la propria vestaglia inumidirsi, lì dove Gabi ha premuto con veemenza il viso, e intuisce che anche lei partecipi al pianto comune. Nemmeno protesta, tanto è spossata, quando Reiner allunga un braccio per attirarla a sé e stringerla. Chissà quanto ha sofferto la piccola, per mantenere quel segreto enorme. In parte è felice che sia stato smascherato, così quelle spalle piccole non devono sostenere un fardello tanto pesante. 

Sua madre accoglie entrambi nelle proprie braccia, dove s’incastrano come meglio possono, nonostante l’intoppo dei tubicini.  

«Reiner, non devi sentirti assolutamente in colpa... Sarebbe potuto capitare a chiunque, hai solo seguito i tuoi istinti...» 

Il pianto di Reiner si attenua, perché la sua mente analizza l’affermazione inconsueta che ha proferito Karina. Si riferisce, forse, al fatto che ha ceduto all’amore? Oppure cela un altro significato che non riesce a comprendere? 

Qualsiasi cosa intenda, non le chiede delucidazioni. Vuole solo bearsi del calore materno, senza che il senso di colpa gli tintinni sinistro nel timpano. Il tempo si cristallizza in quell’istante, in cui non è solo dolore ciò che prova. Prova anche amore, ma non abbastanza da colmare il buco che gli hanno scavato nel petto.  

Potrebbe rimanere avvinghiato alla madre, come farebbe un cucciolo ancora incapace di destreggiarsi nel mondo. E forse è vero: nonostante tutto ciò che ha vissuto, Reiner non ha capito come funziona la vita. 

La sorte non pare essere dalla sua parte, perché una voce femminile spezza la quiete che è calata nella stanza. 

«Signor Braun? Ha un visitatore» annuncia l’infermiera. mentre li squadra con un’occhiata colma di pena.  

«Chi è? Non può aspettare?» domanda lui, dopo che ha sollevato il collo. La donna li squadra con un’occhiata colma di pena. 

Sua madre si asciuga le lacrime col dorso della mano, mentre accarezza i capelli di Gabi affinché la osservi in viso. La piccola tira su col naso, poi allunga le braccia verso la zia e l’abbraccio viene sciolto, lasciando Reiner improvvisamente al gelo. Eppure col sole che batte al di fuori della finestra, dovrebbe sentire caldo.  

«Dice che non ha molto tempo… e ha insistito molto per vederti» gli rivela l’infermiera, «da soli» specifica.  

«Io e Gabi possiamo aspettare fuori, Rei» propone Karina, mentre gli accarezza il volto. Reiner è rapido nel prenderle la mano e bloccarla sulla propria guancia.  

Cerca di imprimersi la sensazione di conforto che emana il calore del palmo sul proprio viso, il senso di sicurezza che solo lei può donargli e lo sguardo che, nonostante tutto quello che è successo, continua a vederlo come se fosse la cosa più preziosa che abbia. Effettivamente, Reiner è la persona più preziosa che Karina abbia e ha sempre ignorato che, morto lui, la vita della madre perderebbe il proprio fulcro. 

«Va bene…» accetta, dopo qualche attimo di esitazione. 

Le dita della madre gli affondano di nuovo nei capelli, prima che gli abbandonino il viso. Arrampicatasi sulla donna, mentre questa si allontana, Gabi si sporge oltre la spalla di lei e lo saluta con la manina paffuta.  

Quando la madre e la cugina spariscono oltre la soglia della porta, Reiner si copre fino all’addome col lenzuolo, come se quel lembo di stoffa fosse capace di proteggerlo da chiunque abbia insistito per incontrarlo.  

Teme di scoprire chi possa apparire in quella stanza e scandaglia le varie ipotesi: Magath, per annunciargli la decisione presa dai piani alti? Pieck, per stargli accanto? Suo... che sciocchezza. Che compaia quell’uomo è tanto improbabile, quanto il fatto che da quella porta faccia capolino Bertolt in carne ed ossa.  

«È permesso...?» 

Reiner quasi si azzanna la lingua, nell’istante in cui le sue iridi si immergono in quelle giada del nuovo arrivato. Annaspa e più tenta di inspirare a pieni polmoni, più sente l’ossigeno mancare. Getta persino un’occhiata alla finestra, soppesando l’idea di buttarsi al di fuori da essa.  

L’uomo apparso sulla soglia allenta il colletto della camicia con un dito, mentre attende una risposta, che Reiner non sa se fornirgli o meno. È come se fosse stato privato della capacità di parlare. O forse è diventato incapace di farlo, dato che gli sembra di avere davanti un fantasma.  

Se non fosse stato per i capelli cenere, le rughe intorno alla bocca e gli occhiali sul naso, il signor Hoover sarebbe stata la copia sputata del figlio. Gli è inevitabile contrarre le labbra in una smorfia dispiaciuta, mentre tamburella la mano sulla sedia che, poco prima, Gabi ha sistemato accanto al suo letto.  

Il suo ospite si accomoda con un sommesso oplà e tutto di lui gli ricorda Bertolt: a partire dal passo molleggiante, dalle gocce di sudore sulla fronte, fino al rossore tenue che si propaga sulle sue guance, quando si accorge di essere scrutato. 

«Allora, Reiner... è da molto tempo che non ci vediamo.» 

Persino il timbro della sua voce è identico a quella dell’amato. 

Porco non visiterà Reiner in ospedale. Ha deciso che accompagnerà Pieck fino alla stanza, ma non gli concederà un ultimo saluto, nel caso in cui dovesse andarsene all’altro mondo. È arrabbiato – anzi, adirato – con il collega, perché sta sprecando la seconda possibilità che gli è stata concessa. Ce l’avesse avuta Marcel, a quest’ora sarebbero stati tutti soddisfatti: Reiner nell’aldilà con Bertolt e lui vivo con il fratello.  

Un moto di rabbia lo fa scattare in piedi e calciare la sedia della sala d’attesa, che si riversa sul pavimento con un tonfo sordo. È fortunato che non abbia Reiner davanti perché, malato o meno, l’avrebbe appeso al muro, tanto è il rancore che nutre nei suoi confronti. Reiner dovrebbe essere grato della vita che gli è stata concessa, invece la vuole gettare alle ortiche, come se già la maledizione di Ymir non accorciasse di troppo la loro esistenza su quella terra. Solo uno stupido sprecherebbe un’opportunità preziosa come quella, a causa di una cotta – eppure, perché mentre biasima i sentimenti di Reiner, il volto di Pieck gli appare davanti agli occhi? 

Ha paura di scoprire cosa si celi dietro quella reazione involontaria della propria immaginazione. Vorrebbe distrarsi, andarsene da quel dannato ospedale e non passarvi più davanti, nemmeno per errore, invece è costretto ad attendere l’amica. Ora che vi riflette, nel frattempo che rimette a posto la sedia caduta, trova strano che la ragazza non sia ancora arrivata. L’orologio appeso alla parete candida del corridoio segna le dodici in punto, mentre loro si erano dati appuntamento alle undici e quarantacinque.  

Sbuffa infastidito, poi si infila le mani nelle tasche del giubbino e percorre il corridoio a grandi falcate. Prima si svuoterà la vescica e dopo la cercherà: se le fosse successo qualcosa di grave, il boato della trasformazione avrebbe echeggiato in tutta Liberio, quindi esclude questa ipotesi. È più probabile che si sia addormentata, piuttosto che sia stata aggredita o che le sia successo qualcosa di simile.  

Quando raggiunge la sua meta, si accorge che qualcosa non va. Prima che oltrepassi la porta del bagno, le sue orecchie carpiscono dei versi gutturali familiari, eppure difficili da ricollegare ad un evento ben preciso. Decide di girare con quanta più delicatezza possibile la maniglia, cosicché non venga percepito, e cammina in punta di piedi affinché i suoi passi non riecheggino sulle piastrelle del pavimento.  

All’ennesimo bleargh, Porco comprende cosa stia succedendo. C’è qualcuno all’interno dei cubicoli che vomita, ma ciò che lo allarma maggiormente di questa situazione, è la fragranza dolciastra che gli pizzica le narici. È la stessa che emanavano i fiori sputati da Reiner. Percepisce il petto appesantirsi nel realizzare tale ipotesi. All’improvviso associa il ritardo di Pieck a quello strambo evento e la paura lo fa tremare come una foglia: se ci fosse lei, all’interno del cubicolo? 

Vuole davvero scoprirlo? In ogni caso, non è nella sua etica abbandonare le persone, sconosciuti compresi, se queste soffrono. Ha aiutato persino Reiner nel momento del bisogno.  

Senza ulteriori indugi, Porco si muove verso il cubicolo all’estrema sinistra, poiché è da esso che provengono i rumori, e prende fiato, prima di girare la maniglia della porta. Prova a spingerla piano, tuttavia l’asse di legno non si sposta di un centimetro. È chiusa a chiave. 

Il pensiero di desistere viene sopraffatto dalla preoccupazione, nel momento in cui sente i colpi di tossi aumentare. Forse quella persona sta soffocando e lui è lì, imbambolato come un pesce lesso a rimuginare su cosa fare. In un battito di ciglia, allora, Porco fa un passo indietro e tira un calcio ben assestato alla porta, che si spalanca e rimbalza sulla parete del cubicolo.  

Nel riconoscere la figura che adesso è chinata a carponi, scossa da tremiti e coi pugni pieni di petali viola, gli occhi di Porco pizzicano terribilmente. 

 Reiner ha perso il coraggio di osservare il signor Hoover dritto nelle pupille, infatti ha voltato il capo dall’altra parte e lasciato che lo sguardo scivolasse all’interno del secchio. Sul fondo del recipiente giacciono una miriade di petali color pesca e qualche bocciolo. Vorrebbe interrogarsi sulla tipologia di quel fiore, magari scoprirne il nome, così da sapere che sfumature abbia il giardino nel proprio petto. 

Tuttavia, la realtà è che i suoi pensieri sono fissi sulla figura che gli siede accanto. Senza che lo studi di sottecchi, sa benissimo che l’uomo lo studia, in attesa che dica qualcosa – qualsiasi cosa

«Mi dispiace di essere venuto solo adesso» mormora il signor Hoover e Reiner inghiotte a vuoto. 

Non dovrebbe essere l’uomo a scusarsi, dovrebbe essere lui a farlo perché non l’ha mai cercato. Perché non si è potuto presentare, quando hanno officiato i funerali di Bertolt e Marcel.  

È solo un codardo. Persino dopo la morte di Marcel, quel giorno, l’unica azione che ha compiuto è stata scappare. Anche oggi, come allora, Reiner continua a fuggire. Per questo motivo non si considera degno di tanta gentilezza, soprattutto da parte di un estraneo, soprattutto dal signor Hoover. 

«Non dovrebbe dispiacersi per me…» sussurra di rimando, mentre gira il capo a fatica, come se fosse pesante una tonnellata e spostarlo richiedesse un enorme sforzo. 

L’uomo aggrotta le sopracciglia, evidenziando le rughe che gli solcano la fronte, e intreccia le dita al di sopra del grembo. 

«Come, ragazzo mio?» 

Dovrebbe chiamare così Bertolt, non lui, dannazione! 

«Esattamente ciò che ho detto... Non dovrebbe preoccuparsi per uno come me.» 

Ingoia la parola che gli pizzica la punta della lingua. Un fallimento. Reiner non sa con quale altro termine etichettarsi, poiché crede che quello gli calzi a pennello. Il labbro inferiore è attraversato da uno spasmo, mentre sostiene lo sguardo dell’uomo. Quello lo osserva imbronciato, come se sia dispiaciuto di udire quell’affermazione.  

«Perché pensi questo?» 

È una domanda semplice, ma a Reiner pare un invito lecito per togliersi qualche sassolino – macigno – dalle scarpe.  

«Perché è colpa mia se Bertolt è morto! È colpa della mia debolezza, perché se fossi stato più forte, lui ora sarebbe qui!» 

Senza rendersene conto, Reiner ha alzato la voce e ha artigliato il lenzuolo che lo ricopre.  

«Per questo motivo non dovrebbe preoccuparsi per un fallito come me!» 

Si rende conto di tremare solo nel momento in cui tace. Si è appena sfogato con il padre di Bertolt, quanto può essere patetico? 

È certo che l'altro perderà la poca stima rimasta nei suoi confronti, dopo che ha fatto quella sceneggiata, invece vede il signor Hoover annuire, come se abbia preso atto delle sue emozioni, ma non replica nulla. Reiner non sa se questo gli faccia piacere o lo tormenti.  

«Capisco...» sussurra l'uomo, che lascia vagare lo sguardo nella stanza, fino alla finestra – ed è in un punto indefinito del vetro, che le pupille di lui si inchiodano.  

ùMagari la sua mente ha preso il volo con l'immaginazione? Attende che l'altro dica qualcosa, ma il silenzio che cala tra loro due pare una coltre così soffocante, che ad un tratto trova difficoltà nel respirare – anche se non vi sono fiori ad ostruirgli le cavità orali.  

«È per questo tuo senso di colpa, che ti sei tenuto a distanza da me?»  

Reiner non sa dire se il tono del signor Hoover sia afflitto, oppure curioso. Forse è entrambe le cose, oppure nessuna di esse.  

«Sì» soffia e, per la prima volta dopo tantissimo tempo, è lieto di dire la verità. Non ricorda di aver mai sentito il cuore così leggero, da quando è tornato da Paradise.  

L'uomo rimane zitto, però allunga una mano verso il suo viso e, convinto che sia uno schiaffo, Reiner serra le palpebre. Percepisce uno spostamento d'aria al livello del capo, dopodiché delle dita callose si avvolgono alla mano con cui – ancora – stritola il lenzuolo e la strattonano appena, per scostargliela. Quando riapre le palpebre, nota che il signor Hoover ora sta lo scrutando e ciò lo imbarazza, perché non comprende cosa significhino quei gesti.  

«Mio figlio Bertolt sapeva bene a cosa andava incontro, quando si è arruolato» afferma l'altro con convinzione.  

«Non hai motivo di sentirti in colpa. Quando vi hanno spedito su quell'isola, voi...» la lingua di lui incespica e, se la vista di Reiner non lo inganna, è un barlume di lacrime quello che intravede negli occhi dell'uomo, «voi eravate solo dei bambini.»  

«Quelli che dovrebbero essere arrabbiati con noi stessi, dovremmo essere noi genitori. Io, tua madre, i signori Galliard, che...» il signor Hoover si interrompe, poi aggiunge:  

«Siamo noi che vi abbiamo spinto ad arruolarvi. Per cosa, poi? Gloria? Denaro? Sono tutte sciocchezze. Ai tempi, io e mia moglie eravamo troppo giovani per capirlo. Io l'ho compreso soltanto ora, dopo aver perso lei e mio figlio, che non vale la pena sprecare la propria vita per queste cose.»  

Reiner lo ha ascoltato senza ribattere, tuttavia non accetta che il signor Hoover lo giustifichi così facilmente. È stato lui a convincere Annie e Bertolt a continuare la missione. Dovrebbe essere lui quello che dovrebbe biasimare. 

«No, non è vero, non è così...» farfuglia, «se quel giorno io non li avessi convinti a proseguire con la missione, lui sarebbe ancora qui... e anche Annie.»  

L'uomo lo osserva di sbieco e scuote il capo per contraddirlo, ma stavolta non lo riprende.  

«Se Bertolt avesse voluto tornare indietro, l'avrebbe fatto senza problemi e lo sai anche tu, Reiner... Non so cosa sia successo di preciso quel giorno... ma se ha deciso di seguirti, significa che la riteneva anche lui la scelta migliore.»  

Sgrana gli occhi quando il signor Hoover gli fa notare quel particolare e, sebbene non dovrebbe, si sente uno stupido a non essersene accorto prima. Ha ragione: se Bertolt avesse voluto abbandonarlo, gli sarebbe bastato attendere la notte e scappare insieme ad Annie. Quei due insieme ce l'avrebbero fatta, eppure nessuno dei due ci aveva provato. Non sa dove l'uomo trovi la forza di sorridere, nonostante stiano discutendo sul suo defunto figlio, tuttavia quel gesto è abbastanza per infondere di nuovo fiducia in Reiner.  

«Gli volevi molto bene, vero?» 
 
Volergli bene è un eufemismo. Reiner amava Bertolt. 

«Sì, molto. È stato la mia ancora di salvezza in quell'inferno.» 

«Mi fa piacere sentirlo... Ricordo quando aveva dieci anni e spiccicava a malapena parola con gli altri bambini. Preferiva sempre comunicare tramite i gesti, sai. Anche sua madre era così...»  

«Sì, ho ben presente...» mormora, mentre la mente ritorna ai giorni passati a Marley, prima di partire, «non era cambiato affatto da questo punto di vista.»  

Il signor Hoover gli sorride di nuovo e annuisce, dopodiché azzarda una proposta che Reiner non si sarebbe mai aspettato di ascoltare – e men che meno di soddisfare, data la sofferenza che prova:  

«Ti dispiacerebbe... Parlarmi di lui? Per favore? Se non ti va, non fa nulla, non devi sentirti...»  

«No, affatto» risponde, anche se non sa dove troverà la forza per parlargli di Bertolt, «è il minimo che posso fare per lei.» 

 Zeke è appoggiato alla parete del cubicolo, la barba bionda sporca di polline e della sfumatura violacea dei petali che, fino a poco prima, piovevano dalle sue labbra. Dopo che li ha trovati dietro al gabinetto, Porco gli ha fermato gli occhiali sul colletto della camicia. È la prima volta che lo vede senza di quelli sul naso – pare addirittura un’altra persona. 

Da quando l’ha trovato inginocchiato, non ha aperto bocca – neanche per inveire. Lo ha solo aiutato a sedersi, dopo che il suo corpo ha smesso di essere scosso da colpi di tosse, poi ha raccolto il velo di petali che ricopriva il pavimento – ha ispezionato centimetro per centimetro quel dannato bagno, affinché non rimanesse una singola traccia di ciò che è accaduto –, li ha gettati nel water e poi ha tirato lo sciacquone.  

«Hai bloccato la porta?» è l’uomo a spezzare il silenzio, mentre si nasconde gli occhi con la mano.  

Ha ancora la fronte imperlata di sudore, tanto è stato lo sforzo a cui lo ha sottoposto la malattia. Quella è anche la prima volta in cui lo vede tanto trasandato, senza cappotto e la camicia bianca spiegazzata.  

«Sì.» 

Perché Zeke vomita fiori? Chi è la causa del suo male? Da quanto tempo?  

Le infinite domande che affollano la mente di Porco gli provocano un’emicrania e, infastidito dal dolore soffuso, il ragazzo arriccia le labbra in una smorfia. Gli si siede di fronte, con le ginocchia raccolte al petto e il mento posato su di esse. Ora che è calato il silenzio, si accorge dei tonfi accelerati che produce il proprio cuore. Il suo corpo ha prodotto tanta adrenalina in quei pochi minuti di panico, che lo farà sentire euforico fino alla fine della giornata.  

«Vuoi lasciarti morire anche tu?» gli chiede con stizza. 

Zeke si scioglie in una fragorosa risata, che a Porco ricorda quella disperata di Reiner. Perché provoca quella reazione in tutti? Quando le pupille di Porco cadono di nuovo sulla barba lurida dell’altro, decide di strappare un paio di quadrati di carta igienica e offrirglieli.  

«Non sono così disperato» gli rivela l’uomo, il tono pacato, mentre accetta i fazzoletti improvvisati e si pulisce con essi. 

«È la prima volta che mi succede. Quando mi riprenderò, lo riferirò ai medici» continua Zeke, che poi estrae un pacchetto di sigarette dalla tasca dei pantaloni.  

Ne prende una tra le labbra, sebbene la sigaretta sia un po’ piegata all’altezza del filtro, dopodiché rivolge il pacchetto verso Porco. 

«Non dovremmo fumare in ospedale» gli fa notare, ma quello scrolla le spalle, per intendere che non è grave. 

Ne estrae una e se la porta in fretta alle labbra, come se temesse che qualcuno gliela rubi, e sporge il l volto verso l’altro, affinché gliela accenda. Invece che rilassarlo, la nicotina lo agita di più, perciò comincia a tamburellare le dita sulle mattonelle del bagno. È poco igienico, tuttavia ha bisogno di farlo per sfogare la tensione. 

«Che c’è, Pock? Vorresti chiedermi qualcosa?» 

Porco è infastidito dal nomignolo affibbiatogli – l'uomo non rientra tra le persone che hanno diritto di chiamarlo in quel modo –, ma anche sorpreso dal tacito permesso che Zeke gli dà. Non comprende il motivo che si cela dietro quell’azione, però coglie la palla al balzo e pone la domanda che gli preme sulla punta della lingua: 

«Di chi è la colpa?»  

«Colpa?» le labbra dell’uomo si piegano in un sorriso beffardo, quando ripete quella parola sporcandola di ironia. 

«Sì, colpa. Se stai vomitando fiori è perché sei innamorato, no? Quindi qualcuno ti ha rifiutato, oppure... qualcuno che ami è morto. In un certo senso, è colpa di quella persona se stai così.» 

Zeke pare divertito da quell’affermazione, eppure non risponde alla domanda che gli ha fatto. Si limita ad aspirare con pigrizia delle lunghe boccate di fumo dalla sigaretta, di cui poi getta la cenere nel gabinetto. Niente dell’atteggiamento dell’altro tradisce timore, oppure altre emozioni. Pare quasi che sia annoiato o infastidito da quella situazione, come se fosse stato inconsapevole, fino a quel momento, del pericolo che corre. 

«Perché non provi ad indovinare?» gli suggerisce quello, quando tra le dita non regge altro che il filtro.  

Porco solleva un sopracciglio, incuriosito da quella proposta. Non comprende perché l’altro tiri così tanto la corda. Lo ritiene un comportamento parecchio meschino, persino per gli standard di Zeke.  

Perché non dirglielo e basta? Perché trattenerlo lì e stuzzicarlo su quel quesito? 

Abbassa le palpebre e si concentra, cosicché possa trovare quanto più rapidamente possibile la risposta, poi la sua mente viene attraversata da una serie di ricordi che lo travolgono.  

Le dita di Zeke che tirano i capelli di Pieck. La mano di lui sulla schiena di lei. Le numerose sigarette offertele e prontamente rifiutate. I complimenti intrisi di sarcasmo. Il ritardo di Pieck quella mattina, poi Zeke che vomita fiori nel bagno.  

Mentre spalanca gli occhi e lancia la propria cicca nella tazza di ceramica, Porco sibila con irruenza un unico nome: 

«Pieck.» 

 Da quando parla con il signor Hoover, non prova più il senso di nausea che lo ha assalito al risveglio. Di solito parlare di Bertolt aumenta la probabilità che i fiori sboccino, eppure oggi non è così. Si chiede quali strambi meccanismi si celino dietro quella malattia, perciò si segna in mente quali quesiti porre al medico quando lo visiterà.  

«Dunque,» mormora l’uomo, il timbro macchiato di trepidazione «era diventato davvero così alto? Il mio piccolo Bertl?» 

«Sì, sfiorava quasi i due metri» gli rivela Reiner, le cui labbra si arricciano all’insù.  

La bocca dell’altro mima un silenzioso wow, poi si asciuga qualche lacrima col dorso della mano. Reiner rizza la schiena e si sporge verso lui, preoccupato da quell’improvvisa commozione, ma il signor Hoover solleva il palmo dell’altra mano per bloccarlo. 

«Sto bene,» lo anticipa, «non preoccuparti.» 

È una bugia palese quella che gli rifila l’uomo, tuttavia non ha voglia di contraddirlo. Non può neanche immaginare quanto sia profonda la sofferenza di un genitore che perde il proprio – e unico – figlio. Il viso di sua madre si sovrappone a quello del signor Hoover per una frazione di secondo. È stato un imbecille nel pensare che l’unico a soffrire per quella disgrazia fosse lui. 

«Mi scusi» dice d’impulso. 

L’uomo sfarfalla le ciglia umide un paio di volte, dopodiché tira su col naso e rivolge il capo verso di lui: 

«Come, Reiner?» 

«Mi scusi se non le sono stato vicino quando avrei dovuto» specifica e reprime un singhiozzo. Basta piangere s’impone, mentre stringe un lembo di stoffa tra le mani. 

«Oh.» 

Il signor Hoover scrolla le spalle e si pinza la radice del naso tra indice e pollice. Adesso i capelli chiari gli ricadono sulla fronte e non emette alcun suono, quindi Reiner non sa se l’altro sia piangendo o meno.  

«Non preoccuparti, Reiner. Sono un uomo adulto, io» mormora, poi solleva il capo e punta i grandi occhi verdi verso di lui. 

«Comprendo benissimo le tue motivazioni. Non è facile assimilare questi lutti, soprattutto... Quando si è giovani come te. Quanti anni hai, ora, Reiner? Diciotto?» 

Annuisce tramite il capo, dopodiché si morde il labbro inferiore. Ha festeggiato il compleanno mentre era a Paradise, quando campeggiavano sul Wall Maria. Prima che la situazione degenerasse e che loro rivelassero le proprie identità, Reiner aveva preso l’abitudine di festeggiarlo da solo insieme a Bertolt – poche volte Annie era stata presente, poiché non scorreva buon sangue tra loro. A ripensarci, forse la ragazza manteneva così tanta distanza da lui e Bertolt per evitare di affezionarsi – più del necessario, dato che si era creato comunque un legame tra loro, a causa al loro destino comune. 

«Vedi? Sei ancora un ragazzo» il signor Hoover si distrae un attimo e gli arruffa i capelli con una carezza grezza, «il mio Bertolt ne avrebbe compiuti diciassette questo dicembre» aggiunge sovrappensiero. 

Reiner inghiotte bile, quando l’altro pronuncia quella frase. Quante volte aveva promesso a Bertolt che lo avrebbe riportato a casa prima del suo compleanno? 

«Sì, lo ricordo bene. Spesso cadeva la neve il giorno del suo compleanno, perciò facevamo interi eserciti di omini di neve. No, aspetti... pupazzi. Li chiamavano pupazzi, su Paradise.» 

È pietà quella che contorce le labbra del signor Hoover. Reiner è incredulo, quando scorge quell’emozione nel volto dell’altro: quant’è patetico, mentre rievoca quelle memorie trafugate? 

Se avesse uno specchio, probabilmente lo polverizzerebbe, pur di non vedere il proprio riflesso su di esso.  

«Io... Io devo confessarle una cosa, signore» balbetta e l’uomo sfarfalla di nuovo le ciglia, sorpreso da quella sua strana uscita. 

«Bertolt per me non era solo un amico. Per me lui era tutto. È stato grazie a lui se non ho dimenticato chi fossi, a Paradise. È stato la mia ancora, la spalla su cui piangere, quando pensavo di non potercela fare. Quello che voglio dire è che... Io lo amavo. E lui amava me.» 

«Ti sei dichiarato e lei ti ha rifiutato?» 

La risata che rimbomba nel bagno è roca e profonda, quasi agghiacciante. A Porco sarebbe bastato una semplice negazione: quella reazione è eccessiva, soprattutto per Zeke, perciò la interpreta come un modo per smorzare la tensione. Almeno crede, perché l’uomo è impossibile da interpretare. 

«Sarebbe bastato rispondere di no» lo riprende e percepisce le guance bruciare.  

Zeke scuote il capo, le labbra arricciate in un sorriso sornione, sebbene sia poco evidente a causa della barba folta. Estrae di nuovo una sigaretta dal pacchetto ma, quando gliene porge una, rifiuta. Non lo guarda, ma ascolta i numerosi click provenienti dall'accendino dell'uomo, prima che esso produca una fiammella. Osserva Zeke immergere la punta della sigaretta nel fuoco e arriccia il naso, quando il tanfo del fumo gli pizzica le narici. Sebbene gli dia fastidio non protesta, perché sarebbe incoerente farlo, da parte sua.  

«È capitato per errore» spiega l'altro, anche se Porco non comprende come possa verificarsi per errore un evento del genere.  

«Che intendi?» Zeke prende un lungo tiro dalla cicca, poi gli soffia di proposito il fumo sul volto, ma lo fa lentamente, cosicché la piccola nube grigia lo intossichi il più a lungo possibile.  

«Stavamo parlando tranquillamente, quando mi ha rivelato che a lei interessa qualcuno.» Porco stritola la stoffa dei pantaloni, quando sente quella frase. A Pieck interessa qualcuno. Qualcuno che non è Zeke, però, e non sa se esserne lieto o preoccupato. Potrebbe essere qualcuno della squadra panzer, oppure... che sia Reiner? La rabbia gli monta dentro al solo pensiero. Sarebbe il colmo, se fosse davvero così: sarebbe l'ennesimo affronto che l'altro muove nei suoi confronti.  

«Capisco» sussurra con stizza e il sorriso dell'uomo, se possibile, si amplia.  

«Non sei curioso di sapere chi sia il fortunato?» lo stuzzica l'altro, ma Porco scrolla le spalle e il capo.  

«No. Me lo dirà lei, quando si sentirà pronta.»  

Non gli sfugge il luccichio malizioso nelle iridi cristalline di Zeke, ma evita di indagare. È troppo scosso da tutto ciò che ha appena saputo. 

«Come vuoi tu. A giudicare la tua reazione, deve piacerti parecchio, Pock.»  

Porco punta le pupille contro quelle di Zeke, sorpreso da quell’ammissione. L'altro lo ha letto con così tanta facilità, che si domanda se sia lui quello troppo prevedibile, oppure se sono gli occhi dell'altro quelli capaci di penetrare nel suo animo. Quanto mancherà prima che si ammali anche lui? O forse ha già contratto la malattia ed è questione di minuti, prima che i fiori sboccino nel proprio petto?  

«Non è vero. Pieck è solo un'amica» mente.  

«Se è solo un'amica, perché le tue orecchie sono rosse?» ribatte l’altro.  

Quando gli viene fatto notare questo particolare, Porco si copre immediatamente le orecchie con le mani. Solo ora che le tocca, nota quanto siano calde e lancia un'occhiataccia all'altro, mentre incurva le labbra in un ringhio. Zeke ride di nuovo, ma non in modo genuino e contagioso. È come se si sforzasse: che lo faccia per non tormentarsi su ciò che gli è successo?  

«Smettila di prendermi in giro!» esclama, poi, avvilito, gli domanda: «come riesci a scherzare, nonostante tu sappia che stai morendo? E dopo che Pieck ti ha rifiutato, inoltre.»  

L'uomo si quieta, mentre le labbra svaniscono sotto i peli della barba, quando le serra. Lo sguardo dell'altro lo sonda, come se volesse trovare la risposta nella propria figura, e Porco si sente in soggezione, poiché non ha mai avuto un momento così intimo con nessuno, oltre Pieck. Men che meno con un altro ragazzo: forse solo con Marcel, ma erano troppo piccoli per scambiarsi opinioni su argomenti di tale portata. Nonostante tutto, ammette di apprezzare questi istanti.  

«Ho molte cose importanti da portare al termine. Se mi lascio sopraffare da queste piccolezze, non riuscirò a concludere il mio compito.»  

Il tono di Zeke è serio e, a tratti, gelido. Ha persino smesso di guardarlo, mentre pronunciava quella frase, quindi ipotizza che la sua mente fosse dedita all'obiettivo di cui parla. Se si riferisca alla conquista di Paradise o ad altro, Porco non lo sa, ma sospetta che non sia affatto la prima opzione. Vi è un breve momento di pausa, durante il quale la sua attenzione scivola sul pavimento e i pensieri smettono di fare rumore. Gli fa strano pensare al niente, dopo che ha riflettuto troppo nell'ultimo periodo.  

«Mi dispiace» sussurra dopo un po', «avrei preferito che questo capitasse a me, piuttosto che a te. Anche se si tratta di Pieck» rivela.  

Non sta mentendo: anche se è stato geloso dell’uomo, avrebbe davvero preferito che qualcosa del genere fosse capitato a lui. L’ultima cosa che desidera è assistere alla morte di un’altra persona a lui cara. Gli occhi dell'uomo si spalancano appena, prima di chiudersi completamente.  

«Sei un bravo ragazzo» commenta Zeke, il quale, poi, si solleva di scatto. 

«Ti senti meglio?» chiede, preoccupato di un movimento così repentino, e per tutta risposta l'altro indossa il cappotto beige - diventato a chiazze nere in alcuni punti - su cui è stato seduto fino adesso.  

«Sì, sì. Vieni con me» gli propone quello, dopo che esce dal cubicolo. Porco si affretta a seguirlo, sebbene nutra dei seri dubbi riguardo quelle parole. 

«Dove vuoi andare? Non dovresti vedere un medico o parlare con il comandante Magath?»  

Zeke gli sventola la mano destra sotto al naso e s'infila la sinistra in tasca.  

«Più tardi. Ora voglio fare qualche tiro.»  

Si arresta, stupito da quell'affermazione. Questo gli riporta la mente quand'era uno scricciolo in cerca di attenzione e, in assenza di Marcel, implorava spesso Zeke di giocare con lui. Ha sempre ricevuto rifiuti, però, e nel corso degli anni Porco ha smesso di assillarlo sulla questione, abituandosi alla solitudine. Sentirselo proporre, così, all'improvviso, è come assistere alla realizzazione di uno dei suoi desideri infantili. Se ne vergogna un po’, dato che a sedici anni, di cui la metà passata sul campo di battaglia, ancora trae piacere da un gioco così banale – oppure è giocare con Zeke a procurargli piacere? 

«Ti sei incantato, Pock?» lo incalza l’uomo. 

«Ehi, smettila di chiamarmi così!» protesta e, con grandi falcate, annulla la distanza tra loro.  

«Dovrei cercare Pieck, prima di venire con te. Mi aspettava» lo avvisa. Dopo tutto quello che è successo, stava quasi per dimenticarsene. 

«Oh, lascia perdere. Mentre entravamo in ospedale, abbiamo incontrato Magath e l'ha presa con sé. Credo che voglia sfruttarla per convincere Reiner ad operarsi, o qualcosa del genere.»  

Le labbra di Porco si contorcono in una smorfia: ora comprende perché Pieck era in ritardo. Da una parte è sollevato di sapere che stesse bene – o che non si fosse dimenticata di lui. Tuttavia, le parole di Zeke gli mettono un tarlo fastidioso nell’orecchio. 

«Se vuole convincerlo ad operarsi, significa che c’è rimedio per questa cosa?»  

In realtà Porco non comprende perché sia necessaria un’operazione, dato che gli Shifters hanno la capacità di guarirsi da soli. Quando rivedrà Pieck glielo domanderà, poiché è l’unico pezzo mancante di quell'enigma.  

«Sì, tuttavia implica una serie di effetti collaterali, che, data l’emotività di Reiner, è certo che rifiuterà di operarsi. Scommetto che, piuttosto, preferirà farsi divorare da Colt. Peccato.»  

La freddezza che trasuda da quelle parole gli fa venire i brividi. Neanche lui, per quanto odi Reiner, potrebbe prendere così alla leggera una sua dipartita. Perché sotto sotto lo capisce, oppure perché è troppo buono? 

«Perché dovrebbe fare qualcosa del genere?» Porco riflette sulle parole pronunciate da Zeke, poi aggiunge: «Quali sono questi effetti collaterali?»  

Quando una folata di vento lo investe e lo fa rabbrividire, si rende conto che sono giunti nel cortile dell’ospedale. Il cappotto lungo di Zeke ondeggia e i capelli biondi vengono arruffati di più, a causa dell’impeto della brezza. I raggi solari colpiscono in pieno la figura dell’uomo, che ora è davanti a sé, quindi Porco è costretto a ripararsi il volto col palmo della mano per metterlo a fuoco. 

«È semplice, Pock. Se vieni operato, dimentichi chi hai amato e tutto ciò che lo riguarda. Inoltre, perderai la facoltà di amare.» 

Una vita senza amore realizza Porco, mentre gli occhi nocciola diventano enormi quando li spalanca a causa dello stupore. Ora comprende in parte le motivazioni di Reiner, sebbene non le condivida. 

Una vita senza amore vale la pena di essere vissuta? si domanda, mentre si accorge che una pallina da baseball vola nella propria direzione. 

 Il signor Hoover tace, eppure sembra soltanto sorpreso – non disgustato. Dato che l’uomo non commenta, Reiner si premura di specificare un dettaglio che ritiene di vitale importanza. 

«Se io sto così male, se... se sto morendo prima del previsto, è per questo motivo. Non ho capito i dettagli della malattia, ma, a quanto pare, i fiori che mi crescono dentro sono alimentati dall’amore che provo per Bertolt.» 

Cosa spera di ottenere rivelando questo al signor Hoover? Una parola di conforto? Un invito a lasciarsi stringere dalle braccia della Morte? Non lo sa, ma sta meglio dopo che gli ha confessato questo segreto.  

L’uomo si prende il mento tra le dita, pensoso, mentre fissa un punto indefinito del lenzuolo che ricopre Reiner. Anche se adesso dovrebbe, non prova alcun imbarazzo – quasi avessero raggiunto davvero l’intimità tra padre e figlio. 

«Ci hanno mentito» sussurra, poi lo ripete più forte: «Il governo ha mentito sulla tua malattia. Adesso... Adesso ne comprendo il motivo...» 

Solleva un sopracciglio confuso e stritola la stoffa che lo ricopre, mentre ricollega quella rivelazione alla frase stramba che ha pronunciato sua madre prima. Hai solo seguito i tuoi istinti, gli aveva detto. 

«Cosa intende, signore?» azzarda a chiedere. 

Quello infila l’indice nel colletto per allargarlo, come se d’improvviso gli stesse troppo stretto e gli rendesse difficile respirare. 

«Hanno diffuso la notizia che hai contratto questa malattia per via... sessuale. Ciò ha creato un po’ di scompiglio in questi giorni, perché è stato implicato che tu, insomma... Hai toccato un’eldiana, ecco. Ma ora capisco il motivo per cui hanno mentito. Se l’opinione pubblica sapesse di te e Bertolt... Ti farebbero divorare dal prossimo candidato immediatamente, senza nemmeno tentare di tenerti in vita» aspetta qualche secondo, prima di proseguire flebilmente, «potrei rimetterci io stesso... Non che me ne importi, arrivati a questo punto.» 

Reiner si copre il volto con le mani, mortificato fino alla punta dei capelli, quando ascolta quelle parole. Conficca le unghie nella fronte, ma non emette alcun lamento: trema e basta, mentre la rabbia gli ribolle dentro lo stomaco come lava in un vulcano. Non solo deve subirsi il danno, ma anche la beffa. È diventato lo zimbello di tutta Marley: dove diamine lo troverà il coraggio di uscire alla luce del sole, adesso che tutti sono consapevoli del suo fallimento e, inoltre, sospettano che si sia unito ai demoni dell’isola – soprattutto, quando la verità è ben altra? 

Vorrebbe esprimere il suo desiderio – troppo intenso – di morire, ma si morde la punta della lingua pur di trattenersi. Non può fare una cosa del genere, non davanti a quell’uomo che ha perso tutto e che, nonostante l’età, vivrà comunque più a lungo di lui. Inghiotte il boccone amaro e cerca di lasciarsi scivolare via quella verità, come se fosse acqua su un impermeabile.  

I suoi pensieri si amalgamano e perdono il filo logico, quando percepisce due braccia cingerlo. Il signor Hoover è delicato – tale padre, tale figlio – ma deciso, infatti, dopo il primo tentativo di divincolarsi dalla presa, quello aumenta la stretta – non abbastanza da fargli male, però.  

«Mi dispiace. Adesso capisco.»  

Sono quattro parole semplicissime, tuttavia hanno la forza di farlo crollare, neanche fosse un castello di carte. Forse è perché gli ricorda Bertolt, oppure perché ha solo bisogno di tutto il supporto che le persone possano offrirgli in questo momento, tuttavia ricambia l’abbraccio con veemenza e affonda il volto nella spalla dell’uomo. Non singhiozza, ma le lacrime scorrono senza sosta ed è inevitabile che gli inzuppi la maglia. 

«Reiner, ragazzo mio… lascia che ti dica una cosa. I morti non ritorneranno indietro. Non strisceranno fuori dalle loro tombe per sedersi a tavola con noi. Non potremo più sentirne il calore e nemmeno sorridere loro. Tutto ciò che possiamo fare è accettare che si trovino altrove, adesso. Dobbiamo lasciarli andare, oppure ci trascineranno nel baratro con loro.» 

Sa benissimo che dovrebbe prendere quelle parole per oro colato, eppure non vi riesce. Ha tentato – e tentato, tentato, tentato – di lasciarsi alle spalle Bertolt e il suo ricordo, ma non fa altro che ritornarvi. 

«Come faccio?» sussurra, la voce tremula a causa dell’emozione. 

«È semplice quanto doloroso... Devi cominciare a vivere per te stesso e per chi ti è accanto.» 

È facile a dirsi. Ma come mettere in pratica un consiglio del genere, quando... No, deve smetterla. È questo il tipo di atteggiamento che l’ha condotto fino a quella branda d’ospedale. Bertolt sarebbe così deluso se lo vedesse in questo momento.  

«Ho capito» sibila e ha bisogno di tutte le sue forze per pronunciare quelle due parole. 

Come premio riceve una carezza sulla nuca. Nessuno dei due accenna a sciogliere l’abbraccio, e Reiner è grato di questo al signor Hoover: lo sta trattando proprio come un figlio. 

«Signor Braun...?» 

Solleva gli occhi per scrutare il viso – ormai familiare – dell’infermiera, dopo che questa lo richiama. La donna sembra dispiaciuta di aver interrotto il momento, però non la biasima, dato che svolge solo il suo lavoro. 

«Il generale Magath ha chie... ha ordinato di vederla» la donna stringe le dita sulla superficie di legno e contrae le labbra in un broncio, mentre lo dice, «ha espressamente richiesto che foste da solo.» 

Deglutisce, poiché preoccupato da quel dettaglio che è sicuramente sinonimo di deve parlargli di affari importanti. L’infermiera sparisce dietro la porta, quando lui annuisce per darle il via libera. 

«Sembra proprio che ce l’abbia con me» gli ridacchia l’uomo all’orecchio. 

Reiner scioglie malvolentieri l’abbraccio – vorrebbe che il signor Hoover rimanesse lì, che gli chiedesse ancora Bertolt, affinché possa soddisfare tutta la sua curiosità, ma si convince che in futuro vi saranno altre occasioni per farlo.  

Prima di allontanarsi dal letto, l’uomo gli regala un ultimo, timido sorriso. 

«Riprenditi, Reiner. Non farmi stare in pensiero» gli intima. 

«Lo farò» risponde flebile e ondeggia la mano per salutarlo.  

Non ha nemmeno il tempo di ricomporre i pensieri, che il passo pesante di Magath riecheggia al di fuori della stanza. Quando la porta viene spalancata, scorge altre due figure, oltre quella del generale: sono Pieck e un uomo in camice bianco poco più alto di lei.  

«Finalmente sei sveglio, Braun» constata, ma non c’è traccia di sollievo nei suoi occhi. 

Pieck lo saluta con un cenno del capo, ma non proferisce parola. È più pallida del solito ed evita il contatto visivo. Che le è successo? 

Il medico si allontana subito dal fianco di Magath, chiude la porta e con nonchalance si accomoda sulla sedia accanto al letto. Non ha nessuna cartellina tra le mani, né uno stetoscopio: che tipo di dottore è uno che si comporta così? Per quanto gli sia possibile, Reiner si allontana e si fa più in là nel letto, poi corruga le sopracciglia. Quando l’uomo si accorge di quel gesto, gli sorride mellifluo. Quel tizio non gli piace per niente.  

«Questo è il dottor Florian Lehner» annuncia Theo, il cui timbro è così alto, che sia lui, che Pieck, che il medico strizzano le palpebre dal fastidio. 

«Che bisogno ha di urlare, generale? Il ragazzo non è mica diventato sordo, è solo innamorato» lo canzona il dottor Lehner, che pronuncia la parola innamorato con tono irriverente. Adesso è infastidito. 

«Metta da parte il sarcasmo e parli» borbotta il generale Magath, scandendo ogni parola. 

«D’accordo, chiedo umilmente perdono, comandante.» 

«Generale» lo correggono contemporaneamente lui e Pieck. Theo rimane impassibile, ma l’espressione distesa fa sospettare a Reiner che sia soddisfatto da quel gesto. Tutti sanno bene quanto ci tenga al suo grado militare. 

«Allora, veniamo a noi, Reiner...» mormora l’uomo, che mette una gamba a cavallo dell’altra, «hai fatto penare me e il medico inviatoci dagli Azumabito per un paio di giorni, dovresti vantartene.» 

Non sa cosa dire, sebbene sia sorpreso nello scoprire che siano stati contattati persino gli Azumabito, affinché si trovasse un antidoto per la sua malattia. È certo che sia stata opera di Magath, poiché il governo Marleyano avrebbe fatto in fretta a rimpiazzarlo con un candidato. Attende che il dottor Lehner continui – in parte in soggezione adesso, dato che le iridi chiare del medico lo scrutano con attenzione. 

«Forse sospetti perché, oppure no, ma cercherò di spiegarti qual è stato l’intoppo senza che tu ti sprema troppo le meningi» sorride sornione quello, come se avesse appena fatto la battuta del secolo. Si renderà conto che nessuno ride? 

«Dunque, dunque... Io e il dottor Yamashita ci chiedevamo: perché il Titano non guarisce il proprio ospite, se quest’ultimo è in pericolo? Voglio dire, sei arrivato persino a vomitare sangue, secondo il rapporto della signorina Finger» si arresta un attimo, per scoccare un’occhiata languida a quest’ultima, «e del signor Galliard. In quel momento, il Gigante avrebbe dovuto curarti, no? Invece il nulla. Zero totale. Titano non raggiungibile.» 

Reiner segue il filo logico del discorso, ma non comprende dove voglia andare a parare. Rimane zitto, mentre osserva l’uomo che gesticola e ghigna, presissimo dall’esposizione che sta eseguendo. 

«Dopo trentasei caffè e cascate di tè e aver confrontato tutte le cartelle mediche degli ultimi casi di hanahaki, siamo giunti, o per meglio dire, il dottor Yamashita è giunto a due brillanti conclusioni!» 

Solleva le braccia al cielo e pianta le scarpe sul pavimento, quando grida quell’ultima frase. Dopo quella reazione, osserva i volti del generale e di Pieck, che sostano in piedi dietro al medico: anche loro sembrano turbati dai modi dello strambo individuo. Da dove lo hanno tirato fuori, quello? 

«Che sarebbero?» azzarda e il dottor Lehner scatta, si alza e comincia a camminare su e giù lungo la stanza. 

«Prima conclusione: che questa malattia colpisce solo i discendenti della stirpe di Ymir! Ovvero solo gli eldiani. La seconda, è che questa malattia non è portata da un fattore esterno. Insomma, non è causato da virus, microbi o altro: è tutto nella tua testa!» 

Cosa significa che la malattia è nella sua testa? Sta diventando pazzo, forse? 

La sua espressione ha assunto sicuramente una sfumatura di sorpresa, perché Pieck rivolge uno sguardo preoccupato al generale Magath, che, ricevuto il messaggio, allunga una mano per afferrare la spalla dell’uomo e vi conficca le unghie. 

«Arrivi al dunque» sibila l’uomo all’orecchio di quello. 

Il dottor Lehner sembra divertito, perché non mostra cenni di timore, anzi, si gratta la barba brizzolata e sghignazza. 

«Mi scusi, mi scusi, non c’è bisogno di arruffarsi così tanto. Comunque sia, in sostanza, abbiamo capito, grazie alla nostra ricerca, che vi è una correlazione tra la tua psiche, il Titano e la malattia, per cui ti impedisce di rigenerarti da solo, oppure, ammesso che tu ci abbia provato, se tenti di farlo cominci a perdere qualche ricordo.» 

Reiner non ha mai tentato di guarirsi, tanto è stato preso dal suo obiettivo, e non comprende neanche cosa intenda l’uomo con l’espressione “perdere qualche ricordo”. 

«Quindi... avete trovato un modo per guarirmi?» sintetizza, sebbene nutra seri dubbi al riguardo. 

«Sì, ovvio. È per questo motivo che sono qui! Dunque, affinché tu guarisca da questa malattia, è necessario rimuovere le radici e i semi che abbiamo rinvenuto all’interno dei tuoi polmoni, che, come dicevo, sono collegati alla tua psiche. Il dottor Yamashita ha già effettuato operazioni di questo genere, perciò sei in ottime mani. C’è un però» il dottore si rivolge verso il generale e quest’ultimo acconsente mediante un cenno del capo. 

A giudicare dall’espressione di Pieck, dal silenzio di Magath e dalla presenza del dottore, Reiner già sospetta che quel “però” non gli piacerà affatto. 

«La rimozione del giardino» il dottor Lehner ridacchia tra sé e sé, quando pronuncia quella parola, «comporta la perdita delle memorie riguardanti la persona amata e tutto ciò che è relativo ad essa. Senza contare...» il seguito della frase Reiner non la sente, perché l’uomo la mormora a voce troppo bassa. 

Il generale gli tira una gomitata nel costato, affinché quello continui. A Reiner però non importa di ciò che il dottore ha da aggiungere: la sua mentre sta sventrando il concetto di perdita di memoria che l’uomo ha appena menzionato. 

«Un altro effetto collaterale provocato dall’operazione, è che potresti perdere la facoltà di nutrire, emh... un amore così profondo nei confronti di un’altra persona. Non sto qui a spiegarti quali processi chimici entrano in gioco, ma...» 

«Basta» ordina, preda della rabbia, «se è tutto questo quello che avevate da dirmi, potete andarvene.» 

Non poter più provare amore! Nessuno dei tre si rende conto che gli stanno chiedendo di privarsi della sua umanità? 

«No, non c’è solo questo» incalza il generale Magath, che muove un passo verso il letto, «il Consiglio di Guerra ha decretato che, se non prenderai una decisione entro cinque giorni a partire da oggi, o se ti rifiuterai, verrai dato in pasto ad uno dei cadetti.» 

«Il Consiglio non vede l’ora di liberarsi di me, a quanto pare...» dopo che pronuncia quelle parole, si copre gli occhi col palmo della mano. 

«Se posso permettermi di sottolinearlo» li interrompe il dottor Lehner, che si aggiusta gli occhiali sul naso all’insù, «in ogni caso non ti resterebbe molto da vivere, poiché la malattia procede ad un ritmo parecchio veloce, persino per i normali standard. Tra due mesi o tre il tuo corpo potrebbe abbandonarti completamente.» 

Quindi non avrà molto da vivere in ambo i casi, se non rinuncia alla sua facoltà di amare.  

«Ho capito» taglia corto, «voglio... voglio rimanere da solo per adesso. Ho bisogno di tempo per pensare.» 

Vi è un lungo silenzio, poi è la voce bassa di Theo a riprendere il discorso. 

«D’accordo, Braun. Tra cinque giorni verrò personalmente a registrare la tua risposta» risponde il generale Magath, dopodiché nella stanza riecheggia una caciara di passi, che cessa solo quando viene sbattuta la porta.  

Sospira, ma nulla di più. Le energie per piangere o disperarsi le ha esaurite – oppure non ne ha semplicemente voglia, dato che ha già versato troppe lacrime quest’oggi. L’unica sensazione che prova – se così può definirla – è quella del nulla.  

«Reiner?» 

Nemmeno si premura di togliersi la mano dal volto, quando riconosce la voce di Pieck. È stanco, troppo stanco, pensa tra sé e sé. 

«Dimmi» borbotta, quasi esasperato.  

Percepisce la ragazza sospirare, poi ascolta il ticchettio dei passi di lei sul pavimento e, infine, il materasso appesantirsi vicino ai piedi.  

«Puoi avvicinarti» le propone e soltanto adesso abbassa la mano dal proprio viso.  

«Magath vorrebbe che ti operassi» esordisce Pieck e nota che lei si ostina ad evitare il suo sguardo, «per questo sono qui.» 

«Per convincermi?» sbuffa divertito e scuote il capo. Ormai lo trattano tutti come se fosse un vaso di ceramica in procinto di sgretolarsi. 

«Sì, tuttavia... Non ho intenzione di convincerti. È una scelta... importante e deve solo essere tua.»  

Adesso comprende perché la ragazza non lo osserva. Non ha il coraggio di farlo. Reiner apprezza la scelta di Pieck, per questo motivo allunga una mano per prendere quella di lei. La stringe, cosicché entrambi possano trarne sostegno, e grazie a quel gesto lei volta il capo verso di lui. Ha gli occhi lucidi – ed è convinto di averli anche lui, quindi sono pari. 

«Grazie» dice e quella ricambia con un sorriso a labbra strette. 

«È il minimo che posso fare, dopo ciò che è successo sull’isola.» 

«Che intendi?» le chiede, poiché non comprende il significato di quelle parole. 

La ragazza sembra diventare di pietra, dato che non muove un singolo muscolo del proprio corpo. Non sbatte nemmeno le ciglia, quando lui pone quella domanda. 

«...che non ho potuto fare nulla» è il pezzo di frase che riesce a cogliere.  

Impiega una manciata di minuti, prima di collegare gli indizi: il giorno del suo risveglio, il fatto che lei e Porco lo pedinassero, il sostegno offertogli durante la sua crisi. Pieck si sente in colpa per ciò che gli sta accadendo.  

«Ma, Pieck...» 

«No, non dirlo. Avrei potuto fare qualcosa, se ci avessi riflettuto attentamente. Il nemico era esausto, ma il panico ha preso il sopravvento su di me, visto come avevano ridotto te e Zeke, e sono fuggita il più lontano possibile.» 

L’ammissione di Pieck trabocca di rancore, ma non verso i demoni, bensì verso sé stessa. Vorrebbe dire qualcosa, tuttavia è consapevole che, quando si nutrono certe emozioni nei propri confronti, nessuna parola è in grado di consolare. Riflettendovi, quell’ira potrebbe averla alimentata lui stesso, dato che aveva preso la decisione di lasciarsi andare. Come rimediare a tutti i problemi che ha procurato? La risposta gli balza subito in mente: tra cinque giorni.  

«Ad ogni modo, adesso ti lascio stare. Vorrai riposa...» 

«Aspetta» la interrompe, strizzandole un attimo la mano, «devo dirti due cose. La prima è che no: non è stata colpa tua» insiste e osserva il viso pallido di Pieck colorarsi di rabbia. 

L’amica apre la bocca per ribattere, ma Reiner nega col capo, affinché lei desista. 

«La seconda è che, se vuoi rimediare, allora ti prego di fare una cosa» la ragazza annuisce e lo osserva incuriosita, «se dovessi dimenticarmi anche del signor Hoover, fai in modo che io mi ricordi di lui. Non voglio abbandonarlo. Non anche lui» la supplica. 

Pieck rimane interdetta, finché non decodifica il messaggio celato tra le parole e spalanca gli occhi, facendo sembrare enormi le sue iridi ebano. È grato che lei abbia compreso, ma è ancora più contento che lei non aggiunga altro e si limiti a circondargli il collo con le braccia.  

«Promesso» gli sussurra lei all’orecchio e Reiner affonda il viso nel collo di lei.  

È certo che diverrà meno umano dopo l’operazione, però, dopo tutto il male che ha compiuto – non solo a Paradise, ma anche a Marley –, Reiner è convinto di non meritare una via di scampo – una via tramite cui ottenere la felicità. Continuerà ad essere un mero strumento nelle mani del governo, ma stavolta sarà in grado di fare qualcosa di buono. 

 

Il vento che soffia sul Wall Maria lo costringe ad avvolgersi nella coperta di cotone. Date le dimensioni ridotte della stoffa, non può coprirsi completamente, ma è abbastanza per impedire al gelo di fargli rizzare i peli sul corpo. Per quanto strizzi le palpebre, non scorge alcuna figura nemica provenire dalla parte opposta: né sulle mura né all’interno del distretto di Shiganshina vi sono esseri viventi.  

Vi è solo una distesa di case diroccate – quelle che distrussero lui ed Annie quel giorno. Trova che sia strano aver provocato tutti quei danni, dato che né il Corazzato né la Femmina hanno delle grandi dimensioni, ma ricorda che, in seguito alla distruzione del muro, si riversarono all’interno del distretto uno sciame di Giganti puri. Si convince che siano stati loro a provocare tutti quei danni ingenti.  

«Eccoti qui, Reiner. Ti ho cercato dappertutto.» 

Reiner volta appena il capo e scruta la figura longilinea che lo sovrasta. Si sofferma sulle iridi verdi e la pelle olivastra del ragazzo che lo ha affiancato, tuttavia non sa associare un’identità a quel volto. Lo dovrebbe conoscere? Perché si rivolge a lui per nome? E, soprattutto, perché si trova lì sulle mura? Addosso ha il dispositivo di manovra tridimensionale, tuttavia non indossa l’uniforme del Corpo di Ricerca. È un alleato, forse? 

«Chi sei? Ti ha mandato Zeke?»  

Il ragazzo spalanca gli occhi e si morde il labbro inferiore. Sembra dispiaciuto dalla sua domanda.  

«Non sai chi sono?» gli chiede quello e Reiner scuote la testa in dissenso. Non ha la benché minima idea di chi sia quella persona – eppure, perché sente un magone in gola, dopo che il volto del ragazzo si è contorto in quell’espressione? 

«Dovrei saperlo?»  

Lo sconosciuto impiega una manciata di secondi, prima di rispondere: 

«No, no... Anzi, credo sia meglio che tu non lo sappia» asserisce.  

Reiner solleva il capo per guardarlo meglio, cercando di captare le vere emozioni che si celano dietro quella frase. Proprio mentre lo guarda, nota che i contorni dell’altro sfumano in minuscoli coriandoli bianchi. Dapprima pensa che siano fiocchi di neve, ma, dopo che ha aguzzato la vista, Reiner capisce che essi sono petali e scatta subito in piedi.  

«Che sta succedendo?!» esclama preoccupato, poi allunga le mani verso il ragazzo che, però, indietreggia con un balzo per non farsi catturare. 

«Resta lì. Sta’ tranquillo... Non sento dolore.» 

«Come faccio a restare tranquillo, mentre tu ti decomponi davanti a me?!» 

Il ragazzo solleva una mano – o meglio, quello che ne resta – per constare lo stato in cui è, dopodiché accenna ad un sorriso. Dai buchi che si creano sul corpo dell’altro, non esce sangue, però: sbocciano altri fiori che un po’ vengono sparsi sul cemento e un po’ dispersi nell’aria. 

«Scusa... Hai ragione, ho detto una cosa stupida...»  

Quell’individuo lo lascia basito. Sta per svanire e tutto ciò che fa è scusarsi per una frase fuori luogo 

«Non c’è molto tempo, Reiner... ma voglio che tu tenga ben a mente queste parole. Spero che te ne ricorderai, quando ti sveglierai: Bertolt ti ama. E non smetterà mai di farlo.» 

Mentre quello pronuncia quelle parole, a Reiner pare di intravedere il luccichio di una lacrima tra le ciglia dell’altro. È tutto così privo di senso logico, ma non fa altro che accettare ciò che succede e, anche se ciò è inutile, stringe nei palmi delle mani i petali. Prova un desiderio profondo di piangere, ma si trattiene, perché lui è un guerriero valido e fiero. 

Tutto ciò che pensa, nel frattempo che l’ultimo brandello di quel corpo si tramuta in fiori è:  

Chi è Bertolt? 

 

 

 

 

 

Note dell’Autrice 

Eccoci arrivati alla fine. Se attendevate il finale, mi scuso per il ritardo, ma ho avuto dei contrattempi alias lacrime infinite durante la stesura che mi impedivano di continuare, a cui poi si è aggiunta una mancata ispirazione cronica, però in qualche modo ce l’ho fatta! Come per ogni cosa che faccio, dico sempre che sarà breve e invece mi ci dilungo troppo, tuttavia credo che ne sia valsa la pena in questo caso (il mio motto del resto è: bene o niente), anche se la storia in sé non è un granché (del resto in questa sezione ci sono solo storie banali e poco interessanti, cit-)! Comunque sia, ci tengo a ringraziare chi ha inserito la storia tra le preferite, le ricordate, le seguite, chi si è premurato di lasciare un commento o anche chi ha soltanto dedicato un po’ del proprio tempo per leggerla! Vi ringrazio di cuore per avermi affiancato in questo breve (ma intenso) viaggio!

Precisazione di vitale importanza: come avrete intuito, Florian Lehner è un personaggio di mia invenzione (insomma, è un mio OC), di conseguenza NON potete usarlo a vostro piacimento (so che apparirà in altre mie storie in futuro, quindi voglio essere cristallina fin da subito). 

 
SPOILER SE NON SIETE IN PARI COL MANGA, SMETTETE DI LEGGERE: 

Non voglio pronunciarmi troppo sul finale della fanfiction, ma ci tengo a dire che, a mio parere, fosse quello migliore per mantenere i personaggi IC (e spiegare nella mia testa perché Reiner non menziona degnamente Bertolt fino alla fine del manga – tranne che, per miracolo della dea YmirIsayama nel 139 non stravolge tutto)! E sì, ho lasciato parecchie cose in sospeso, ma ho voluto fare così perché potrei scrivere un seguito, delle missing moments ambientate in questo what if, oppure altro – ma in ogni caso spero che questa mia scelta non pregiudichi il vostro parere sulla fanfiction! 

 

Qui in seguito vi lascio il significato dei fiori presenti all’interno del capitolo: 

Achillea (i fiori in cui sfuma Bertolt): indifferenza. 
Aquilegia (i fiori vomitati da Zeke): stravaganza, amore nascosto. 
Dalia (i fiori vomitati da Reiner): gratitudine. 

Arrivati a questo punto, non posso che mandarvi un Colossale abbraccio! 

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