Karakara Town - L'Universo dei Doni

di SkyDream
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prima parte ***
Capitolo 2: *** Seconda Parte ***



Capitolo 1
*** Prima parte ***


Note iniziali: Salve a tutti, gente! Benvenuti su questa Fantasy!AU. Prima di cominciare, vorrei annunciarvi che questa storia doveva essere di sei capitoli, che sono stati accorpati per poterla pubblicare in sole due parti. Pertanto, essendo abbastanza lunga, ho messo delle linee di separazione tra i vari capitoli in modo da potervi orientare nel caso in cui vi venga meglio leggerla in momenti differenti (come fossero segnalibri).
Buona lettura!


≈ Karakara Town ≈
~ L'Universo dei Doni ~ 
[Fantasy!Au][Parte 1/2]


Era un mattino ancora acerbo, i raggi del sole erano appena sbucati dal mare e ne tingevano le acque di un tenue bianco e blu. Il cielo si era schiarito, così come le foglie dei cedri avevano cominciato a far gocciolare la rugiada che il sereno aveva lasciato loro.
Karakara-town era una cittadina lontana, situata nei pressi della Gran Montagna, costellata di piccoli laghi e circondata da folti boschi colmi di frutta.
Il popolo che lo abitava – composto da contadini ed erboristi perlopiù - non aveva mai desiderato lasciare quel luogo. A Karakara vi era cosa mangiare e l’acqua non scarseggiava, gli inverni non erano mai rigidi né le estati portavano siccità, non avevano mai sperimentato la carestia né erano mai stati attaccati da altri popoli.
Karakara viveva nella sua campana di vetro, la vita trascorreva serena e – a detta di qualcuno – fin troppo monotona.
 
«Sei la disgrazia di questa famiglia! Esci di qui, pericolo ambulante!».
Casa Hinata era tra le più chiassose del quartiere, le pareti di legno erano spesso scosse dalle voci della Grande Madre e non di rado il giardino prendeva fuoco a causa dei pianti della figlioletta Natsu.
Fonte di ogni problema, però, era sempre il figlio maggiore – Shoyo – che a causa della sua goffaggine e della sua testardaggine (soprattutto quando si trattava di contraddire la sorella) finiva sempre per combinare danni.
Come in quell’esatto momento dove, per l’ennesima volta, aveva finito per far saltare in aria parte della cucina.
«E dire che ti ho cresciuto con così tanto amore e dedizione, Santi Numi della Montagna!».
Shoyo uscì di casa, o meglio, scappò dalla finestra prima che le lunghe fiamme di sua madre potessero raggiungerlo. Le conosceva bene, soprattutto le sue chiappe le conoscevano bene, e non aveva alcun bisogno di rinfrescarsi la memoria.
O ustionarsi la memoria, in ogni caso.
Veloce come il vento – una delle poche qualità che nessuno poteva negargli – superò il primo lago e si rifugiò tra i tronchi della Foresta.
Si arrampicò su uno di questi fino ad incastrarsi sulla fronda, grazie alla sua vista – altra qualità che nessuno poteva obiettare – avrebbe potuto vedere quanto tempo ci avrebbe messo casa sua a prendere fuoco.
Ovviamente sarebbe poi toccato a lui riparare tutti i danni, come sempre.
Un piccolo scoppio lo fece sussultare, ed eccolo lì il muro della cucina che andava a farsi benedire.
«E poi sono io quello che non riesce a controllarsi!» sbuffò aggrottando le sopracciglia.
Essere un membro degli Hinata – lunga stirpe quella degli Hinata – non era senz’altro vantaggioso quando si era diversi.
Per secoli, da quando il mondo ne avesse memoria, tutti i membri della sua famiglia e tutti i suoi avi, nessuno escluso, avevano ricevuto il dono della Grande Fiamma.
Sia le donne che gli uomini lo trasmettevano ai propri figli, era uno dei Poteri Maggiori e surclassava tutti quelli minori dando perfino la precedenza al cognome.
Motivo per cui Hinata si ritrovava il cognome della madre, nonostante fosse l’unica pecora nera della sua famiglia.
Tutti avrebbero pensato che fosse stato adottato se la madre non avesse partorito di fronte buona parte delle donne del paese. Durante i primi anni della sua vita era stato cresciuto davvero con riguardo, accompagnato tra i campi di grano mano nella mano dalla madre.
Era stato nutrito con i frutti migliori e mai gli era mancata la carne sulla tavola.
L’unico sacerdote presente, Padre Takeda, si era preso cura della sua istruzione e di quella degli altri bambini che, piano piano, imparavano a dominare i poteri con cui erano nati.
Lui no, lui aveva mille qualità straordinarie che però risultavano alquanto inutili visto che non vi era mai stata un’emergenza bellica.
Shoyo era in grado di correre veloce come le saette nel cielo, saltava talmente in alto da imitare i corvi che spiccano il volo, aveva la vista di un falco e una voce bellissima.
Se n’erano accorti tutti molti anni prima quando, durante la Festa dei Calici che si teneva ogni anno al solstizio di primavera, una donna aveva cominciato a suonare il violino e Shoyo aveva cantato senza pensarci su.
Era una melodia che sentiva scorrere sotto la pelle, entrargli nelle vene e fuoriuscire dalla gola in un sussurro che si trasformava in armonia.
E tutto il paese si era ammutolito davanti quella capacità innata. Tutti, a partire da quella sera, giurarono che quello fosse il vero Dono di Shoyo.
Eppure, era proprio lui a non esserne affatto convinto.
Shoyo si era quindi messo a disposizione come mera forza lavoro, spostava il fieno, preparava i cavalli e raccoglieva la frutta.
Giorno dopo giorno collaborava al sostentamento del villaggio, provava ad aiutare sua madre – erborista rinomata nonché focolare del paese (letteralmente) – e aiutava sua sorella Natsu con i compiti che Padre Takeda le assegnava per il pomeriggio.
Aveva solo un piccolo problema quando si offriva di cucinare, e se n’era accorto spesso il falegname di fiducia che aveva più volte dovuto costruire la cucina.
Sua madre, molti anni prima, non avrebbe mai perso così la pazienza con lui. Era buona, lo era sempre stata.
Per quanto tempo gli aveva concesso di giocare con i suoi capelli di fuoco, lunghe fiamme morbide che si divertiva ad intrecciare!
Rossi e fulgidi proprio come i suoi, ricchi di striature di stelle che mai gli avevano causato un graffio mentre li pettinava.
Quando si arrabbiava, ecco, lì la situazione degenerava leggermente e le fulgide fiamme si trasformavano in serpenti infuocati che graffiavano, ustionavano e corrodevano – come dicevamo prima – in particolar modo proprio le sue natiche.
Shoyo al calar del sole se ne stava ancora tra gli alberi della Foresta, sfiorava i tronchi con le dita affusolate e incallite, ammirava le Fate che svolazzavano di fiore in fiore.
Avevano ali colorate e colme di luce, e Padre Takeda – la prima volta che aveva portato la sua classe ad ammirarle – si era raccomandato dal catturarle mai con le mani.
Le Fate pativano tanto la mancata libertà ed erano creature fragili, da preservare.
Shoyo però non era riuscito a fare a meno di sfiorarne qualcuna con un dito, ogni volta che le vedeva passare sopra i suoi capelli notava come rilasciassero piccole scie e polveri magiche.
Sperava che quella polvere potesse alimentare le sue fiamme, dar vita ai suoi capelli rossi che però non bruciavano.
In quel momento, seppur fosse ormai adulto, fu tentato di sfiorarne qualcuna. Di tingersi le mani con quella polvere stellata e profumata.
Continuò però per la sua strada, l’Anima della Foresta lo conosceva bene ormai, l’aveva visto crescere. Aveva l’impressione che, se solo si fosse rivolta a lei, gli avrebbe perfino risposto.
Forse quella Foresta conosceva segreti che erano oscuri perfino a lui, perfino alla Grande Madre.
Shoyo continuò a vagare fino alla notte, doveva fare attenzione a quell’orario, quando i Fuochi Fatui si sarebbero risvegliati cominciando la loro danza dell’oscurità e inghiottendolo, tentando di farlo divenire l’ennesima Anima Pia.
Le Anime Pie erano le anime salvate dalla Foresta stessa, anime di bambini abbandonati, che non erano state amate, che non erano state accettate. Anime pure mai sfiorate dal desiderio, dalla lussuria, così come dall’amore e dal peccato.
E Shoyo sapeva bene che la sua anima, seppur non fosse più quella di un bambino, era ancora intatta e poteva essere un ottimo invito per quei Fuochi.
Shoyo, però, non rimase a vagare, bensì si ritrovò a seguire un suono a lui sconosciuto.
Si avvicinò sempre di più alla fonte, era un suono metallico e gracchiante, proveniva da una scatoletta poggiata a terra di fronte quella che sembrava una tenda.
Shoyo non aveva mai visto dei soldati, ma Padre Takeda li aveva disegnati spesso per metterli in guardia. Lui aveva viaggiato, aveva visto cosa vi fosse oltre KaraKara-Town e diceva sempre loro che le guerre erano una cosa inventata dal demonio.
Soprattutto le guerre magiche, perché si utilizzavano i Doni per combattere, e i Doni erano stati affidati loro solo per potersi proteggere gli uni dagli altri, non per uccidersi.
Padre Takeda raccontava delle sofferenze di chi veniva costretto a combattere, delle famiglie. Non nascondeva loro nulla, era cosciente che una persona – per crescere e maturare – necessita prima di ogni cosa della conoscenza.
Allora Shoyo aveva imparato come si vestissero i soldati, cosa portassero con loro.
E, a giudicare dalle armi, dalla scatolina rumorosa e dal vestiario, quei due lo erano decisamente.
Si avvicinò ancora, finendo per calpestare dei rami secchi e creando un fruscio di foglie a causa dello squilibrio. Uno dei due si voltò nella sua direzione, aveva gli occhi rossi come magma e le zanne di un lupo che sbucavano dalle labbra rigonfie.
Shoyo portò le mani alla bocca cercando di trattenere un urlo.
Fu tentato di scappare da lì, avvertire il villaggio, ma così non fu.
Due mani forti e decise lo tirarono via da lì facendolo atterrare sotto un cespuglio.
Shoyo tentò nuovamente di urlare ma qualcosa gli tappò la bocca con irruenza, un peso gli si poggiò sopra e si ritrovò – letteralmente – schiacciato da un’altra persona.
«Shh, taci se non vuoi essere sbranato!» sussurrò quasi aggressivo lo sconosciuto. Nella mano che non gli tappava la bocca teneva un sasso bianco, lucente, al cui interno vi era una Fata dormiente raggomitolata su se stessa.
Shoyo la vedeva bene da quell’angolazione, aveva le ali luminose che permettevano alla pietra di essere luminosa come la luna.
Non ebbe il tempo di ammirarla, doveva capire cosa stesse succedendo e quando spostò lo sguardo sulla persona che lo schiacciava, ecco che lo vide: era un ragazzo della sua stessa età, dai capelli scuri come la notte che scivolavano lungo il viso pallido e gli occhi blu, profondi come il mare in cui adorava nuotare circondati da un alone scuro di stanchezza.
Le labbra rosee erano schiuse per permettere di espirare profondamente.
Shoyo provò a chiedergli qualcosa, senza urlare, ma lo sconosciuto per tutta risposta gli rifilò un’occhiata che poteva essere definita micidiale.
«Fe nn m sbrnno mriro cmnq asfsst.» gli fece notare ignorando lo sguardo minaccioso.
«Morirai per mano mia se ci farai scoprire, quindi fossi in te preferirei rimanere senza fiato.» tagliò corto l’altro.
E senza fiato, Shoyo, ci era rimasto comunque e non solo per colpa della mano.
A Karakara erano sempre stati tutti felici e soddisfatti della loro vita, la tristezza incombeva solo quando qualcuno lasciava questo mondo per raggiungerne un altro, ma non era mai eccessiva perché loro guardavano tutto con ottimismo.
Una volta sola sua madre gli aveva detto che la tristezza esiste quando si viene abbandonati, e Shoyo aveva pensato al padre che non aveva mai conosciuto e a tutte le anime che si erano trasformate nella Foresta.
Erano tristi come gli occhi di quello sconosciuto?
«Possiamo andare.» Il ragazzo gli lasciò andare la bocca, si sollevò lentamente e fece luce con la pietra magica illuminando tutto attorno a loro.
«Se ne sono andati?» chiese Shoyo guardandosi intorno con timore. Non aveva di certo dimenticato quelle zanne bavose, anzi, probabilmente le avrebbe presto riviste nei suoi incubi.
«No, ma sono tornati dentro la tenda. Vieni qui.» Il ragazzo si alzò in piedi, un po’ sbilenco, e trascinò Shoyo per la manica della giacca fino ad appostarsi sul retro dell’albero che confinava con il rifugio dei due soldati.
«Avete trovato il Mago Maledetto? Sono già tre giorni che siete fuori!».
«Grande Sovrano, purtroppo non lo abb-».
«Mi avevate giurato di averlo già visto! Vi è sfuggito per caso?».
«Assolutamente no, non ci saremmo di cert-».
«Se entro due giorni non sarete di ritorno, sarete pasto per le altre belve!».
La voce del Sovrano era così aspra e adirata che entrambi i ragazzi sentirono un lungo brivido lungo la schiena, come se anche loro potessero essere cibo per animali.
«Il Mago Maledetto sarà ucciso e il suo sangue vi sarà portato per poter ultimare i vostri poteri, Grande Sovrano, lo abbiamo giurato!» la voce del soldato era titubante nonostante il tono fosse deciso e perentorio.
Si sentì una risata.
«Non mi serve lui per torcervi il collo, ricordatevelo».
Dopo quella frase, il ragazzo sconosciuto tirò ancora per la manica Shoyo invitandolo a seguirlo tra i sentieri della Foresta.
«Dobbiamo cercare un rifugio, uno qualunque e alla svelta, non ci rimane molto tempo!».
«Posso almeno sapere come ti chiami prima?» Shoyo cercò di stare dietro lo sconosciuto che continuava a correre alla rinfusa, senza sapere realmente dove andare.
«Tobio, mi chiamo Tobio Kageyama. Ma ora dobbiamo trovare un posto, devi aiutarmi a fare una cosa!».
Shoyo con la mano libera gli afferrò il polso a sua volta, Tobio si fermò e lo guardò con gli occhi tristi e colmi di affanno.
«Seguimi».
Shoyo conosceva quella Foresta come le sue tasche, sapeva che da lì a poco avrebbero trovato una grotta coperta da foglie dove, in inverno, erano soliti raccogliere il ghiaccio che spesso rimaneva intatto anche fino all’estate.[1]
Vi era una lunga scivola per entrare, che permetteva loro di poter accedere e coprire immediatamente l’uscio per non essere visti.
Tobio, a metà della grotta, cominciò a respirare un po’ più profondamente portando una mano in direzione del torace.
«Stai bene?» Shoyo lo accompagnò fino al muro più vicino e lo aiutò a sedersi. Grazie alla luce della pietra notò come del sudore gli imperlasse la fronte.
«Devi, aiutarmi. Sono stato ferito, ho portato con me… ho provato a medicarmi ma da solo-» Tobio chiuse gli occhi e respirò ancora a fatica. Shoyo lo prese per le spalle e lo trascinò fino ad uno dei grandi fori che permettevano alla grotta di far entrare la luce della luna.
Con una visione decisamente migliore, si accorse di come la maglia di tela dell’altro fosse impregnata di sangue. La sfilò via e notò che aveva cercato di tamponare la ferita con della semplice stoffa.
«Come pensavi di poter risolvere così?» chiese Shoyo frugando nella borsa a tracolla di Tobio, ne uscì una borraccia di pelle, forse di pecora, e delle lunghe lenzuola strappate alla rinfusa.
«Non sopporto la vista del sangue, mi dà il voltastomaco.» ammise l’altro con una punta di fastidio. Mutò espressione quando le mani di Shoyo gli sfiorarono il torace per togliere la goffa benda che aveva provato a mettere.
«Serve dell’alcool.» annunciò non appena scoprì la ferita da taglio che si era procurato.
«Non ne ho, puoi usare l’acqua non sentirò dolore comunque».
Tobio schiuse gli occhi e si accorse che, di fronte a lui, non vi era nessuno. Sospirò e portò la testa contro il muro, era rimasto solo di nuovo.
Shoyo doveva aver approfittato della sua debolezza per scappare, ne era sicuro.
Tobio aveva deciso di riposare un po’ prima di trovare un modo per tamponare la ferita, quando proprio su di essa sentì qualcosa di freddo scivolare.
«Stai fermo.» la voce di Shoyo gli riempì le orecchie e lo riportò alla realtà, dimostrandogli come stesse per scivolare nel sonno con estrema facilità.
Non dormiva da- quanti giorni? Settimane? Mesi?
Più che dormire, si sforzava di far riposare il suo corpo e mai la sua mente. Quella non poteva permettersi di riposare.
Quando sentì la ferita bruciare in modo viscerale, come se gli stessero lacerando la carne, intuì che Shoyo – da qualche parte in quella stramba grotta – doveva aver recuperato dell’alcool.
«Che diamine?!» si lasciò sfuggire mentre tentava di trattenersi dal conficcare le unghie a livello del torace.
«Oltre al ghiaccio, depositiamo anche l’alcool per farlo invecchiare. Le alte temperature lo rovinano.» spiegò l’altro continuando a fasciarlo con gli strappi delle lenzuola.
«Invecchia bene, Santi Numi della Montagna!».
A quell’esclamazione, Shoyo si irrigidì e diede un’occhiata torva a Tobio, rallentando la medicazione.
«Da dove vieni?» chiese allora.
«So che non mi crederai, ma sono un vagabondo da così tanto tempo da non ricordami più da dove provengo. Da che ne ho memoria, ho sempre vissuto sotto il cielo».
«Perchè sei andato via?» Shoyo annodò la benda di lenzuola e alzò gli occhi nella sua direzione.
«Sto cercando il Mago Maledetto».

 

«Una locanda?».
«Una locanda».
Shoyo guardò Tobio come se fosse pazzo, non era di certo il posto migliore per nascondersi da qualcuno, ma non avevano molta scelta.
Entrambi morivano di fame e necessitavano di un po’ di riposo in un luogo che non li facesse finire ad un passo dall’ipotermia.
Il locale era in legno d’acero, robusto e lucente, così come lucenti erano i tavoli intagliati e levigati con estrema cura. Raffiguravano foglie arricciate, fiori sbocciati o ricreavano le linee dei tronchi.
Un uomo dai capelli chiari, lunghi fin sopra gli occhi, se ne stava in un angolo con una spiga in bocca e un coltellino in mano a limare una statuetta di legno.
«Buongiorno, forestieri!» la voce proveniva da un ragazzo alto e slanciato dalla capigliatura scura e gli occhi di un verde magnetico.
Indossava una camicia dello stesso colore con su un gilet nero che gli fasciava il petto ben delineato.
Oltre allo sguardo ammaliante, però, aveva un sorriso che sbucava da due labbra rosse come le fragole leggermente piegate all’insù.
«Buongiorno, oste! Vorremmo chiederle il piatto del giorno e del vino buono.» Tobio si avvicinò portando un sacchetto fin sul bancone, il rumore di monete tintinnanti fece sollevare le sopracciglia dell’altro ragazzo.
«Oltre a dei vestiti puliti e delle informazioni?» aggiunse dando le spalle ai nuovi arrivati e cominciando a cercare una bottiglia adatta.
Shoyo sgranò gli occhi e cominciò ad incrociare le braccia davanti al petto come per simulare una croce e invitare Tobio alla fuga, si stavano esponendo troppo!
Tobio gli lanciò un’occhiataccia, che sembrava vagamente un insulto, e tornò ad interessarsi all’oste, stavolta portando il gomito proprio al centro del bancone.
«Per caso non siamo i primi a fare una richiesta simile?» sussurrò senza scollare lo sguardo dalla schiena longilinea dell’oste.
«Ho perso il conto di quanti son venuti qui prima di te, Tobio Kageyama».
Il ragazzo si voltò e incrociò lo sguardo dell’altro come se facessero a gara a chi sbatteva le palpebre per primo.
Shoyo trovò quasi inquietante il fatto che avessero sorriso in sincronia.
«Vado a prendervi ciò che vi serve, aspettatemi qui».
«Aaakaa-shi! Ti sei esposto di nuovo!» un ragazzo dai capelli bianchi come la luna e al contempo scuri come la notte uscì da una porta che sembrava quella della cucina.
Effettivamente indossava un grembiule chiaro con su stampato un bel numero quattro.
Shoyo non riuscì più a capire cosa lo inquietasse di più lì dentro. Per un momento pensò di aggiungersi allo sconosciuto che intagliava legna e mettersi a fare statuine anche lui.
«Bokuto, ti preoccupi troppo! Sia Tobio Kageyama che Shoyo Hinata sono due brave persone!».
Shoyo a quel punto si strozzò con la sua stessa saliva e quasi gli occhi gli uscirono dalle orbite.
«Ma io e te non ci siamo mai visti prima!» esclamò indicando l’oste che, intanto, stava spolverando una vecchia bottiglia di vino.
«Se è per questo nemmeno io e lui ci siamo mai visti prima.» aggiunse Tobio serenamente mentre notava che il diretto interessato annuiva come per confermare i fatti.
«Ma allora come fa a conoscere i nostri nomi?» chiese stupito più per la tranquillità generale che non per quella faccenda assurda.
«Si vede un sacco che non sei mai uscito da Karakara Town, Shoyo. Te lo hanno mai detto?» Tobio si accomodò su uno sgabello e ringraziò il cuoco Bokuto quando gli posizionò davanti la sua creazione migliore senza precedenti ed inimitabile!
Che, per molti (tutti), poteva essere assimilabile ad una normalissima zuppa di ceci.
Shoyo, intanto, che aveva rivolto una smorfia risentita contro il suo compagno di viaggio, sentì ridere dietro di sé.
L’oste aveva portato anche delle lunghe mantelle di juta oltre a dei vestiti puliti e a qualche benda di ricambio perché, a detta sua, ce ne sarebbe stato bisogno.
Bokuto rimase a guardare, un po’ preoccupato, l’altro ragazzo mentre si dedicava al suo lavoro.
«Di questo passo, un giorno, il Grande Sovrano tornerà a prenderti, Akaashi. Devi stare più attento!» Bokuto portò le braccia sui fianchi e mise su un cipiglio scuro.
L’altro ragazzo si avvicinò e gli poggiò una mano sulla guancia, gli occhi magnetici dentro i suoi e un sorriso capace di illuminare l’intero locale in piena notte.
«Non andrò da nessuna parte, e poi ci saresti tu a proteggermi, no?».
«Magari loro due sono brave persone, ma se dovessi sbagliarti e rivelare il tuo segreto a qualcuno che lavora per lui?».
«Con te non mi sono sbagliato, Bokuto. E poi Shoyo necessitava di essere rassicurato».
(Anche se era più perplesso che rassicurato, visto che ancora non aveva intuito).
Bokuto non lasciò il mestolo che aveva in mano e lo puntò verso l’oste che, intanto, si era rimesso a lucidare i boccali.
«Un giorno quel maledetto potrebbe scoprire che sei ancora in grado di leggere nel cuore delle persone, Akaashi! E se cercasse di toglierti anche questo Dono?».
A quelle parole, finalmente, Shoyo parve illuminarsi come se le nuvole davanti i suoi occhi si fossero diradate immediatamente.
Subito però si voltò verso lo straniero che intagliava, che avesse sentito anche lui?
«Konoha è un nostro amico, non preoccupatevi. Anzi, rifocillatevi per bene che la strada è ancora lunga! Dove siete diretti?».
Tobio aveva appena finito la zuppa, si era complimentato con il cuoco, e si stava dedicando ad un buon bicchiere di vino.
«Speravamo che potessi indicarci tu: stiamo cercando il Mago Maledetto.» Tobio sollevò gli occhi su quelli di Akaashi, per la seconda volta, e Shoyo ebbe l’impressione che quei due riuscissero a comunicare più in quel modo che parlando.
Si rincuorò quando notò che anche Bokuto aveva la sua stessa espressione.
«Non l’ho mai incontrato, ma so che i soldati del Sovrano sono alla sua ricerca per questioni di potere».
Bokuto, al suo fianco, schioccò la lingua richiamando la loro attenzione.
«Con quello in mezzo ai piedi ci sono sempre questioni di potere! Per questo dovete stare molto attenti, potreste incappare in seri pericoli. Vi è, più avanti verso Nord, un’erborista che si dica riesca a leggere gli infusi delle piante. Forse lei potrebbe aiutarvi a trovarlo!».
Shoyo annuì con vigore come se stesse prendendo degli appunti mentali, il suo compagno abbassò lo sguardo come se stesse riflettendo sul da farsi.
«E poi sarei io quello che si espone? Tu dovresti stare attento quando parli in quel modo di lui, o finirai per ritrovarti tra le sbarre della cella senza cena!» nella voce di Akaashi non c’era rabbia, ma solo preoccupazione e tanto, tantissimo affiatamento.
Bokuto e Akaashi si supportavano con uno sguardo o una carezza nascosta, nascostissima, sotto il bancone.
Shoyo si intenerì a quella visione e non potè che invidiarli un po’. Quanto doveva essere bello sentirsi amati.
«Vi ringraziamo per l’ospitalità e vi chiediamo scusa per il disturbo! Grazie ancora».
Tobio aveva un modo strano di ringraziare la gente, si piegava come in un inchino con le mani giunte al petto.
Akaashi rispose nello stesso modo beccandosi un’occhiata curiosa e confusa da parte del cuoco.
«Shoyo?».
«Sì?».
Akaashi lo guardò con una tenerezza infinita e con un sorriso appena accennato.
«Non tornerai presto a Karakara Town, non è vero?».
Shoyo per tutta risposta scosse la testa in senso di diniego. Gli dispiaceva non poter tornare a casa, era curioso di sapere se sua madre e sua sorella fossero preoccupati, se i bambini avevano cominciato a raccontare storie sulla sua scomparsa o se Padre Takeda avesse cominciato a illustrar loro i pericoli che vi erano fuori.
Però, doveva ammetterlo, essere oltre la Foresta, oltre i suoi limiti, lo eccitava come mai nessuna cosa aveva fatto in vita sua.
Tobio lo afferrò per un polso e lo trascinò dietro di sé.
«Potresti essere meno brusco se proprio non vuoi lasciarmi indietro!» si lamentò Shoyo cominciando a seguirlo.
L’altro non lo degnò di uno sguardo.
«Non sono certo qui per farti da balia, ti ho solo proposto di accompagnarmi visto che non puoi tornare nel tuo villaggio né passare tutta la vita dentro una grotta con ghiaccio e alcool invecchiato!».
«Esistono comunque modi più delicati per dirmi che, tornando a casa, avrei aperto la porta ai nemici in un tacito invito a sbranarsi l’intera cittadina!».
«E’ quello che succederebbe visto che hanno memorizzato il tuo odore e sanno che li hai visti!» sbottò Tobio sollevando gli occhi al cielo e nascondendosi dietro un albero.
«E’ un’immagine tremenda!» rispose sconvolto Shoyo stringendosi le spalle e cadendo vittima dei suoi stessi pensieri.
«Per questo ora sei qui. Spogliati su!».
Shoyo si risvegliò solamente in quel momento dal breve stato di assenza in cui era caduto e notò che Tobio aveva tolto la camicia insanguinata per poterne indossare una pulita e mettere su una giacca più pesante.
Sembrava essersi ripreso dalla ferita al torace, per quanto ancora lo vedesse toccarsi la fasciatura quando doveva piegarsi.
«Non mi hai ancora detto come mai cerchi il Mago Maledetto.» fece notare Shoyo mentre si cambiava e indossava i suoi nuovi abiti per poi infilare la mantella di juta per coprire i capelli color carota.
«Non vedo perché dovrebbe interessarti.» Tobio si sedette tra l’erba per sistemare le calzature ormai usurate e riordinare le cose all’interno della propria borsa.
«Perché stiamo viaggiando insieme, mi sembra ovvio!» esclamò allora l’altro senza sapere cosa fare con i vestiti.
«Ti basta sapere che prima lo troveremo e prima potrai tornare a casa. Il Mago Maledetto forse è in grado di bloccare il potere del Grande Sovrano, se così fosse potresti tornare al villaggio senza aprire la porta ai nemici».
«E perché si chiama proprio Mago Maledetto? Ha fatto qualcosa?».
Tobio si sollevò nuovamente in piedi e prese tra le braccia i vestiti sgualciti e macchiati, li riempì di sassi e li gettò dentro al fiume che scorreva lì vicino.
«Si dice che abbia commesso un grande peccato e che per questo sia stato punito con una maledizione, purtroppo non so altro e non mi interessa. Se può aiutarci, stai certo che lo farà.» Il tono vagamente minaccioso con cui aveva proferito l’ultima frase riuscì a convincere Shoyo sulla conclusione di quella conversazione.
Senza dire altro si rimisero in cammino.
 
 
Erano passati i giorni e Shoyo spesso si perdeva nei suoi pensieri mentre camminava al fianco di Tobio, era una figura abbastanza rassicurante nonostante, solo qualche sera prima, lo avesse letteralmente gettato a terra e costretto alla fuga.
Non sembrava cattivo, ma Shoyo non aveva mai realmente avuto a che fare con i cattivi e pensò che dovesse essere molto utile il Dono di Akaashi.
Non come il suo, che neanche si era sviluppato nel modo corretto, che nessuno aveva mai visto. Saper correre e saltare, a cosa poteva mai portare un Dono simile?
«A cosa stai pensando?» Tobio glielo chiese all’improvviso mentre attraversavano un sentiero tra i campi di grano. Il sole illuminava i loro volti e gli occhi splendenti di Shoyo che rilucevano sotto il cappuccio marrone.
«Che non mi dispiacerebbe passare un po’ di tempo lontano da Karakara Town. Non ho mai avuto nessuno che mi aiutasse a scoprire il mondo fuori dalla Foresta e anche se i campi di grano sono gli stessi, sembrano avere un colore diverso qui!».
Tobio sussultò. Era la cosa più simile ad un ringraziamento che qualcuno gli avesse mai detto, si perse ad osservare il sorriso lucente dell’altro ragazzo e le piccole lentiggini che si riflettevano sotto il sole sul naso e sugli zigomi.
Pensò che fosse la cosa più viva che avesse mai visto prima.
Tobio vagava per le terre confinanti ormai da anni, no, forse da quasi un decennio. Aveva visto la sua famiglia spaccarsi, la sua città andare in fiamme, le ombre avvolgere tutto ciò che aveva e poi la fuga.
Tobio era fuggito senza stringere la mano di nessuno, tra le Foreste in cui i Fuochi Fatui avevano più volte reclamato la sua anima senza mai riuscirci.
Era stato amato profondamente in passato, e quell’amore era riuscito per sempre a proteggerlo dai Fuochi e dal diventare un’Anima Pia.
Allora Tobio aveva più volte provato a fidarsi di qualche adulto nella speranza di poter trovare una mano a cui aggrapparsi, senza mai riuscirci.
Finchè non aveva sentito dire che il Mago Maledetto avrebbe potuto fermare il Grande Sovrano, e lì il suo scopo si era palesato limpido e chiaro davanti gli occhi.
Tobio viveva tutti i giorni nell’ombra, cosciente del fatto che il Grande Sovrano avrebbe potuto trovarlo e fargli rivedere la sua famiglia e i suoi amici prima del tempo.
E ci aveva pensato, ci aveva pensato tantissime volte a farla finita perché non aveva alcuno scopo continuare a camminare da soli. Però la meta c’era, e non era solo la vendetta.
Tobio non avrebbe mai voluto che altre persone perdessero tutto com’era successo a lui, non lo avrebbe permesso.
E ora si ritrovava quel nano dai capelli (non) di fuoco che gli sorrideva e lo ringraziava per averlo salvato e per avergli fatto scoprire dei semplicissimi campi di grano.
Non aveva idea di come reagire.
Shoyo però corrugò la fronte e sbattè le ciglia un paio di volte per mettere meglio a fuoco qualcosa in lontananza, facendolo così riemergere dai suoi pensieri.
«Che succede?» chiese rivolgendo uno sguardo all’orizzonte.
«C’è un tipo con una pianta in testa che sta lanciando dei barattoli ad un tipo a torso nudo».
Tobio strabuzzò gli occhi, lui non vedeva assolutamente nulla se non due ombre a malapena distinte. La vista di Shoyo era formidabile.
Si avvicinarono a quella che sembrava una semplice casetta – letteralmente in mezzo al nulla – dove un ragazzo della loro età (quello a torso nudo) se ne stava seduto su una sedia di vimini con dei calzoni consumati dalla terra e dai colori che colavano da alcuni pennelli che stava utilizzando per dipingere una tela.
Molti barattoli si erano aperti sull’erba – tingendola di arcobaleni variopinti – e altri erano andati in frantumi.
Un altro ragazzo, vestito come un boscaiolo, tentava di strapparsi una pianta di fragole che era sorta dal nulla proprio al centro della testa.
«Che i Numi della Montagna ti maledicano, Tooru Oikawa e che tutti i fulmini si riversino sulla zucca vuota che ti ritrovi al posto della testa!» urlò mentre apriva i palmi e li indirizzava verso i barattoli facendoli ondeggiare e cercando di scaraventarli contro la tela.
«Orsù, IwaIwa, dovresti stare più calmo mentre dipingo, non credi? Vuoi della camomilla? Un po’ di biancospino?» Andò avanti ad elencare piante e fiori per un bel po’ di minuti, e ad ogni parola la pianta nominata cresceva sulla testa del povero malcapitato, costretto a terra e a trasformarsi in un cespuglio multicolore.
«Sei proprio un’anima maledetta, Tooru, devi assolutamente ammetterlo!».
La voce proveniva da un gatto appollaiato sulla finestra – che né Tobio né Shoyo avevano notato prima – e che, d’un tratto, scese a terra zampettando allegramente fino ad arrivare dietro le spalle di Tooru.
Il gatto, in un fascio di luce di un solo secondo, prese le sembianze di un bellissimo ragazzo dalla chioma scura e dai canini sporgenti.
«Ha ragione Iwaizumi a lamentarsi di questi pettorali scoperti! Dovresti coprirti, non sia mai che qualche fattucchiera errante tenti di portarti con sé!».
«Questa è proprio una buona idea, gattaccio della malora! E’ chiaro che si è spogliato apposta!» esclamò Iwaizumi ancora costretto con la faccia in mezzo all’erba.
«Smettetela di disturbarmi mentre dipingo e tornatevene alle vostre faccende! Non è colpa mia se rimanete abbagliati davanti cotanta bellezza e non riuscite a concentrarvi!».
Kuroo, a quelle parole, fece scivolare una mano sull’incavo del collo di Tooru, provocandogli un brivido lungo la schiena. Avvicinò un canino scoperto alla pelle soffice sotto la mandibola e la baciò lievemente senza distogliere gli occhi da Iwaizumi.
«Non è così che attirerai le fattucchiere!» urlò quello sollevando il capo a fatica e cominciando a spostare le mani per far muovere barattoli, pennelli e perfino gli altri due ragazzi a mezz’aria.
«Iwaizumi, rimettici giù o ti farò crescere un pruno intero sulla testa!».
«Sempre meglio della tua testa di rapa e di quella di Kuroo!».
Tobio e Shoyo – coordinati come non mai e a dir poco sconvolti – cercarono una via di scampo per evitare di passare davanti la casa di quei tre scapestrati, senza riuscirci.
Inoltre, a causa della telecinesi che lo aveva trasportato più in alto, il ragazzo-gatto sembrava essersi accorto di loro.
Si trasformò di nuovo e saltò – o meglio, nuotò nell’aria – fino a raggiungerli e a depositarsi ai loro piedi con le orecchie a punta ben in alto e i lunghi baffi che vibravano come se ridesse.
«Siete per caso venuti a rapire un pittore egocentrico e dispotico?».
Shoyo e Tobio, ancora confusi, scossero la testa in senso di diniego.
 
La casa dei tre ragazzi era colma di colori liquidi sparsi per il pavimento e piante rigogliose lungo le pareti, piene di piccoli fiori scintillanti, larghe foglie arricciate ed erbe dal buon profumo.
Iwaizumi – la cui testa era stata liberata grazie ad una semplice risata di Tooru – si era proposto di preparare una tisana mentre i loro ospiti chiedevano loro delle indicazioni.
Shoyo e Tobio avevano provato a sgattaiolare via per evitare di essere trasformati in simpatici alberelli o di essere gettati contro il nulla cosmico.
Ma non c’era stato verso e il belloccio mezzo nudo si era affrettato a rivestirsi e a spingerli fin dentro la cucina.
Shoyo si sedette sopra uno sgabello formato da un tronco di legno e si poggiò contro un tavolo che non era altro che un’enorme foglia d’acero irrobustita.
Lì dentro sembrava una casa da folletto, tutto in legno e con foglie che rivestivano gli angoli più disparati, le finestre lucide di rugiada come se avesse piovuto e i pavimenti colorati dalle tinte che dovevano essere cadute durante la stesura dei dipinti.
Vi erano zampe di gatto gialle e blu lungo le scale e qualche traccia di matita sullo stipite della porta, come se avessero segnato negli anni l’aumento della loro altezza.
Iwaizumi portò a tavola anche dei cesti in vimini con dei biscotti caldi e delle tazze di vetro con arabeschi sul fondo dentro cui ribollivano ancora piccoli fiori di malva.
«State quindi cercando l’erborista Shimizu Kiyoko?» chiese Kuroo, l’uomo-gatto, che era entrato con sembianze umane dentro la cucina e si era appollaiato su uno sgabello.
Tobio si irrigidì appena quando vide che la lunga coda nera aveva dimenticato di ritrasformarsi.
«Sì, per caso la conosci? Sai dove potremmo trovarla?».
Iwaizumi abbassò lo sguardo come se ci stesse pensando, poi qualcosa rotolò dalle scale e finì sotto il tavolo fin tra i piedi di Shoyo.
Era un gattino biondo dalle orecchie nere e gli occhi dorati. Lo fissava con intensità mentre faceva vibrare i baffi e digrignava i denti.
«Ciao, micetto!» Shoyo abbassò una mano e gli accarezzò la testa con tenerezza. Il micio sembrò calmarsi e diede una buona dose di leccate al palmo della mano del suo nuovo amico lasciando che la coda si spostasse a destra e sinistra.
«Sembri piacergli!» constatò con gran stupore Kuroo. Nella cucina si aggiunse anche Oikawa che era stato attratto da quella scena inusuale.
Il micio salì addosso a Shoyo e si acciambellò sopra le sue gambe facendo le fusa.
«Sei proprio un bel micetto, non è vero?» Shoyo gli sorrise e continuò a carezzargli il pelo biondo tra le orecchie mentre quello sfregava la testa contro il suo palmo.
Tobio gli rifilò una gomitata tra le coste.
«Ptrbb essr un prsn.» sussurrò a denti stretti portando lo sguardo dal micio a Kuroo.
Shoyo parve rifletterci un paio di secondi, poi capì e arrossì fino alla punta delle orecchie.
«Scusatemi per l’eccessiva confidenza…» cominciò senza sapere cosa fare. Non aveva mai visto tanti gatti in vita sua e quello lì biondo sembrava così carino che proprio non era riuscito a fermarsi!
Tooru rise di gusto e sfornò il migliore dei suoi sorrisi che aveva anche qualcosa di inquietante.
«Tranquillo, Hinata Shoyo, e benvenuto tra i membri della tua nuova famiglia!».
 
Nella stanza calò il silenzio.
 

«Che cosa state dicendo?!» Shoyo impallidì mentre la sua mantella di juta veniva malamente stropicciata dalle unghie affilate del gatto su di sé, continuava a miagolare contento e a fare le fusa come se non volesse lasciarlo mai più.
«Piaci a Kenma, non capita spesso! Per cui saresti proprio il benvenuto in famiglia!» spiegò Kuroo con ancora il sorrisino leggermente infastidito.
Il micio solitamente non si acciambellava mai in quel modo su di lui! Si scoprì tremendamente geloso.
«Non se ne parla, Shoyo l’ho trovato prima io!» Tobio arrossì lievemente sulle guance mentre teneva i pugni stretti e abbassava lo sguardo verso il gatto che - a quanto pare - si chiamava Kenma.
«Non parlare di me come se fossi un randagio!» sbottò Shoyo risentito e, al tempo stesso, sentendo del calore salirgli alle guance.
Kuroo si avvicinò tra loro e allungò le braccia per prendere il suo amico, se lo portò al petto e gli regalò un paio di grattini tra le orecchie.
Kenma si stiracchiò sulla sua maglia affondando gli artigli e tirando leggermente.
«Certo è che lasciarvi andare potrebbe essere conveniente per noi.» affermò poi d’un tratto Oikawa, allungando una mano verso la teiera e versandosi una modesta quantità d’acqua in una tazza di vetro dai ghirigori dorati.
«Tooru, non pensi di star correndo un po’ troppo?» Iwaizumi si scurì in volto e portò le braccia al petto mentre gli occhi continuavano a seguire la linea flessuosa della schiena dell’altro.
«Correndo? Kenma fa parte della nostra famiglia, e io non ricordo più nemmeno il suo volto. Questi ragazzi hanno chiaramente a che fare con il Grande Sovrano e non possiamo sprecare l’occasione».
Iwaizumi sapeva che Oikawa fosse realmente preoccupato per la condizione del loro gattino. Kenma e Kuroo erano entrati a far parte della loro vita ormai da tempo immemore e ricordavano con dolore il giorno in cui il Grande Sovrano aveva scombussolato le loro vite.
Era piombato lì in piena notte, svegliando tutti e quattro e prendendo Oikawa per i capelli e facendolo inginocchiare a terra.
Iwaizumi si era fiondato, senza pensarci due volte, aveva tentato di staccarli ma era finito per terra dopo essere ruzzolato giù dalle scale.
Oikawa ne aveva approfittato e gli aveva legato i polsi a terra facendo crescere un rampicante da sotto le assi di legno in modo da non farlo muovere. Non poteva rischiare che qualcuno lo ferisse, non se lo sarebbe mai perdonato.
«Sta un po’ fermo e ascolta quello che ho da dirti.» Il Grande Sovrano aveva una voce profonda e - pensò - un alito pestilenziale, caratteristica che per poco non lo fece scoppiare a ridere nonostante la posizione di evidente sottomissione.
«Entri in casa mia senza bussare, attacchi il mio ragazzo e ti permetti di dirmi di starti ad ascoltare?» Oikawa aveva riso davvero, mossa che gli era costata una profonda ferita alla spalla, inferta con una lastra di ghiaccio sbucata dal nulla.
«Ora spero di sentire solo gemiti di dolore dalla tua bocca e di vedere germogliare dalle tue mani una pianta di Stramonio. Intesi?».
Tooru cercò comunque di divincolarsi, il sangue che usciva dalla ferita aveva finito per rendere scivoloso il pavimento.
«Lo Stramonio è una pianta proibita, se la conosci dovresti saperlo».
«Anche contraddirmi per ben due volte è proibito, ma a quanto pare la lezione non l’hai ancora imparata».
Era stato in quel momento che Tooru aveva sentito la presa sui capelli scemare, si era ritrovato riverso sul suo stesso sangue e sui suoi stessi gemiti di dolore. Aveva poi visto la figura alta e imponente del Sovrano tentare di scollarsi un gatto biondo e uno moro dal petto, ma se uno finì contro il muro, l’altro era rimasto impigliato tra le sue mani callose e maledette.
Kenma era stato percorso da una profonda scarica che ricordava i fulmini che si scagliavano per terra durante le tempeste. Kuroo, dopo essere tornato umano, aveva lanciato un urlo che, invece, di umano aveva ben poco.
Aveva stretto al petto il suo amico, ancora in vesti di tenero micio addormentato e, per la prima volta da quando ne avesse memoria, aveva pianto.
Tooru aveva i ricordi affievoliti, ricordava a malapena di aver visto il Sovrano andare via giurando di tornare presto. Poi era scomparso.
Da allora non l’avevano più rivisto, né avevano trovato un modo per far tornare Kenma un essere umano.
Si erano anche rivolti a Kiyoko, l’erborista capace di leggere gli infusi delle piante ma anche di creare pozioni e intrugli magici grazie al suo Dono, ma lei non aveva trovato alcun modo.
Aveva promesso loro che non si sarebbe arresa, che avrebbe tentato di aiutarli e da allora non l’avevano più sentita.
Erano passati anni da quel momento, Kenma si era isolato sempre di più finendo per farsi coccolare solo da Kuroo. Avevano tutti l’impressione che più passasse il tempo, più perdesse la sua anima da essere umano, ma nessuno aveva il cuore per dirlo.
Pertanto - avevano pensato tutti e tre conoscendo quello strambo duo travestiti da sacchi di juta - lasciare andare Shoyo insieme a Tobio avrebbe significato un aumento delle probabilità che entrambi riuscissero a sconfiggere il Grande Sovrano.
Questo avrebbe potuto - forse - far tornare Kenma come prima e, comunque, non avevano più alcun tentativo di riserva.
 
Shoyo e Tobio rimasero ad ascoltare la loro storia per intere ore prima di abbandonare quella casa così calda e accogliente, si concessero di lasciare qualche coccola in più al gattino promettendogli di fare il possibile per farlo tornare umano.
Shoyo non avrebbe mai dimenticato lo sguardo di Kuroo in quel momento, colmo di dolore quanto di fiducia.
Si erano così rimessi in cammino nella speranza di poter arrivare in fretta all’erboristeria di Kiyoko.
Tobio si era fatto stranamente silenzioso - più del solito - e aveva stretto con forza la tracolla della sua borsa.
«C’è qualcosa che ti preoccupa?» Shoyo aveva rivolto gli occhi verso il suo volto, a molte spanne dal proprio, e aveva cercato una risposta tra le ombre del tramonto che calava attorno a loro.
«Dovremmo trovare un posto in cui riposare, conviene proseguire domani all’alba.» affermò evitando con maestria la domanda dell’altro.
Shoyo abbassò lo sguardo lievemente risentito e poi indicò un fienile affiancato ad una casa da cui proveniva un dolce profumo.
«Credi che dovremmo entrare?» chiese speranzoso mentre sentiva lo stomaco chiedere pietà. Avrebbe dovuto mangiare più biscotti quando ne aveva avuto l’occasione.
«E’ meglio di no, ci siamo già fatti conoscere da troppe persone. Con questo buio è improbabile che qualcuno apra il fienile e comunque domani andremo via prima che sorga del tutto il sole».
Tobio aprì la porta e afferrò la pietra fatata per fare un po’ di luce, scavalcò dei pagliai e si arrampicò fino al solaio dove del morbido fieno avrebbe potuto nasconderli e proteggerli dal freddo. Shoyo lo raggiunse semplicemente con un salto, senza scomodarsi ad utilizzare le scale e beccandosi un’occhiata sorpresa da parte dell’altro ragazzo.
Tobio aprì la borsa per cercare qualche tozzo di pane rimasto dalla cena precedente e scoprì di avere un sacchetto colmo di bacche e frutta di ogni tipo.
«Per tutti i Numi della Montagna!» esclamarono entrambi con gli occhi lucidi di gioia mentre si tuffavano per poter colmare la fame che, ormai da ore, li aveva resi apatici e fiacchi. Ringraziarono Oikawa congiungendo le mani e recitando una piccola preghiera di gratitudine, doveva sicuramente essere opera sua.
Shoyo rise di gusto quando Tobio si sporcò tutto il viso con i mirtilli, l’altro dal canto suo lo assalì per tentare di disegnargli dei meravigliosi baffi con le dita ancora sporche di blu.
Shoyo però aveva mangiato un sacco di ciliegie per cui potè controbattere tingendogli di rosso le guance.
«I tuoi occhi sembrano due mirtilli maturi!» Aveva detto poi afferrando i frutti e mettendoli a confronto con le iridi dell’altro ragazzo che, per nascondere l’imbarazzo, tentò di rubarli dalle sue mani.
Risero e si rotolarono tra il fieno come due bambini, dimenticando per un momento le persone lontane, le anime ormai perdute e il potere malefico che sembrava circondare tutte le vite lungo il loro cammino.
Rimasero solo loro due stesi vicini e la frutta fresca che li aveva rianimati, un cielo colmo di stelle che si vedeva appena da una fessura del soffitto.
Anche se in silenzio, entrambi avevano l’impressione di star dicendo molto. Shoyo non aveva affatto dimenticato come Tobio lo avesse difeso a spada tratta nel momento in cui Kuroo aveva lievemente minacciato di sequestrarlo in casa loro.
Tobio, invece, aveva ancora in mente l’immagine di Shoyo che sorrideva sotto il sole, con le lunghe spighe di grano alle loro spalle mentre lo ringraziava con quella voce squillante e carica di energia.
E mentre rievocava quel ricordo che - ne era certo - sarebbe rimasto impresso per sempre nella sua memoria, ecco che sentì una mano sfiorare la sua.
Shoyo aveva le dita fredde, ed era una peculiarità che non avrebbe di certo mai associato a lui. Non avrebbe dovuto stringerle, forse, ma quando se ne rese conto era ormai troppo tardi.
Shoyo non aveva mutato espressione e continuava ancora a guardare le stelle oltre la fessura con gli occhi schiusi a stento.
«Perché lo stai cercando?» la voce di Shoyo era ormai quasi un sussurro e Tobio si voltò appena per perdersi in quelle ciglia sottili che creavano ombre sulle sue guance.
«Voglio scoprire se può fermare il Sovrano, non voglio che qualcuno passi quello che ho passato io.» la risposta fu flebile e quasi scemò tra la paglia che li teneva al caldo.
«Non succederà, lo troveremo e gli chiederemo di sconfiggerlo e renderemo tutti felici».
Shoyo sorrise appena, in un’espressione tenerissima che fece nuovamente arrossire l’altro.
«Tu sei ancora certo di voler venire con me?» chiese allora, con voce un po’ smorzata.
Shoyo annuì con la testa, gli occhi ormai definitivamente chiusi.
«Non chiedermelo più, tanto la risposta non cambia».
Tobio sospirò internamente, felice di non ritrovarsi nuovamente solo in quel viaggio troppo lungo.
«Shoyo?» stavolta la voce tremava tanto, inspirò a fondo.
«Mh?».
«Perché non mi hai mai chiesto quale sia il mio Dono?» gli frullava in testa da un po’ quella domanda, ormai erano passati giorni dal loro incontro.
«Perché non credo sia importante... saperlo».
Shoyo espirò profondamente e poi cominciò a respirare in modo regolare con le labbra appena schiuse, la coscienza ormai addormentata e la mano ancora stretta a quella dell’altro ragazzo.
Tobio sollevò la mantella di juta e lo coprì fino alle spalle assicurandosi che non prendesse freddo, sperò che andasse bene e si accucciò al suo fianco addormentandosi a sua volta mentre constatava come le loro mani si scaldassero bene a vicenda.
 
Tobio pensò che Iwaizumi avesse un potere fantastico e che poter volare e far volare persone e oggetti dovesse essere molto comodo quando si viaggiava.
Infatti, l’unico modo per definire “Non troppo lontana” l’erboristeria di Shimizu era raggiungerla volando alla velocità della luce.
Lui e Shoyo camminavano ormai da una settimana, mangiando ciò che trovavano lungo i sentieri e dormendo in luoghi di fortuna più o meno sicuri.
Avevano avuto modo di parlare - tantissimo - soprattutto di quanto piacesse ad entrambi giocare a pallone da bambini, avevano poi raccontato aneddoti più o meno divertenti, come quella volta che Tobio era sfuggito ad un cinghiale o quella volta che un tacchino aveva rubato il pranzo di Shoyo e poi aveva pure cominciato a rincorrerlo.
Ad onor del vero, a causa di alcuni diverbi su dove fermarsi o che strada prendere, avevano anche tentato più volte di affogarsi a vicenda quando si fermavano vicino un lago per potersi lavare.
Avevano però una piccola certezza, di cui non avevano minimamente parlato.
La sera, quando si sdraiavano l’uno al fianco dell’altro per tentare di non dissipare il calore, le loro mani erano sempre vicine.
Quelle di Tobio calde, caldissime, stringevano quelle gelate dell’altro che - spesso - per dispetto, finiva per solleticargliele e per beccarsi un pizzicotto.
Poi una mattina, mentre camminavano ancora con gli occhi socchiusi a causa di una notte turbolenta - tuoni e fulmini non li avevano risparmiati -, Shoyo si era fermato improvvisamente facendo sorgere un meraviglioso sorriso e un’espressione sollevata sul suo viso.
«Che hai visto?!» Tobio non sapeva se allarmarsi o piangere dalla gioia, quell’espressione poteva significare solo una cosa.
«Forse siamo arrivati!» Shoyo fece uno scatto e cominciò a correre, Tobio potè vedere solo della terra alzarsi dietro i suoi piedi. Cercò di raggiungerlo ma sapeva che fosse una guerra persa in partenza.
Shoyo arrivò davanti l’erboristeria parecchi minuti prima dell’altro - che quasi tentò di strozzarlo per non averlo aspettato - e cominciò a dondolare prima su un piede e poi sull’altro, senza riuscire a trattenere l’emozione.
Tobio si fece avanti e aprì la porta del negozio, un campanello tintinnò sopra la sua testa e gli diede il benvenuto.
Era un luogo meraviglioso, se sulla destra vi erano infiniti scaffali colme di piante lucenti, sulla sinistra si alternavano scaffali di libri e ampie finestre con vista sul lago.
Shoyo apprezzò molto il profumo di terra umida, di margherite e rose, calendule e violette.
Il profumo di menta lo pizzicava, quello di timo lo stuzzicava, il prezzemolo gli ricordava gli arrosti che preparava sua madre e poi il basilico, l’origano e il rosmarino, la salvia che, come un’onda, copriva tutto.
Shoyo chiuse gli occhi e gli parve di essere tornato a casa.
Casa dove sua madre coltivava le erbe medicinali per gli infusi e le pomate che vendeva al villaggio. Da bambino capitava spesso che la mattina dovesse svegliarsi presto e scendere nell’orto ad innaffiare o concimare le piante.
A volte sua madre lo lasciava in cucina a rimestare gli infusi, ma alla terza esplosione aveva rinunciato e gli aveva chiesto di andare a lavorare nei campi per poter racimolare qualcosa anziché distruggergli la casa.
«Posso esservi utile?» una donna dai capelli scuri raccolti in una treccia sbucò da una porta sul retro della bottega. Aveva un vestito bianco scampanato e un grembiule color panna colorato da macchie di decotti profumati.
Indossava anche delle lunghe calze nere che fasciavano delle gambe sinuose ed eleganti, tutto nel suo aspetto richiamava sensazioni positive e rilassanti.
«B-buongiorno!» Tobio parve ricordarsi solo in quel momento del cappuccio e della mantella che ancora indossavano, fece segno a Shoyo di scoprirsi il capo per evitare di sembrare scortesi.
La donna rispose con un sorriso e si portò una ciocca scura dietro l’orecchio.
«Cercavamo-» Shoyo fu interrotto da qualcuno che aprì minacciosamente la porta dietro di loro.
Il campanello tintinnò in modo decisamente più forte.
«Rogne? Cerchi rogne per caso?!» Un ragazzo della loro età con i capelli cortissimi e il viso contratto in una smorfia entrò nel negozio e si avvicinò a loro chiudendo bene i pugni.
Shoyo avrebbe voluto proteggere Tobio, ma sarebbe stato molto difficile farlo mentre era intento a nascondersi dietro la sua schiena.
«Tanaka! Puoi smetterla di spaventare i clienti?» un ragazzo dalla chioma bianca entrò nel negozio portando tra le braccia una cassetta colma di altri fiori.
«E’ bene che sappiano subito dove non mettere le mani, Suga!» sottolineò l’altro senza smettere di contrarre il viso.
«Su, va tutto bene, stai calmo.» Suga si avvicinò alla sua spalla e ci poggiò una mano creando una piccola nuvoletta di fumo che finì per rintontire Tanaka il quale, sbadigliando, decise di accoccolarsi su uno dei divanetti posti sul retro dei banconi.
«E’ successo di nuovo?!» un altro ragazzo dai bicipiti spropositati entrò nella bottega, portava con sé almeno una decina di cassette con erbe e con la schiena trainava un carretto di carbone.
«Daichi, sai che Tanaka è molto protettivo nei suoi confronti dopo quello che le è successo, non possiamo biasimarlo, non credi?».
L’altro scosse la testa come a dargli ragione, poi si rivolse nuovamente a Shoyo.
«Chi cercavate?» chiese con gentilezza mentre poggiava a terra delle piante.
«N-noi cercavamo Shimizu Kiyoko!». 
 
[1] La grotta della neve esiste davvero! Si trova sull'Etna -> Grotta dei Ladroni
Note dell'autrice: Ringrazio tutti coloro che sono arrivati fin qui, questa storia mi ha tenuta impegnata per un bel po' di giorni e mi sono divertita un sacco a scriverla, nonostante io non ami particolarmente le AU.
Il prossimo aggiornamento arriverà venerdì e sarà la seconda e ultima parte.
Mi dispiace un sacco non aver inserito tutti i personaggi che adoro del mondo di Haikyu, ma la storia - di per sè già un delirio - sarebbe diventata ulteriormente caotica senza alcuna ragione.
Ciò non toglie che potrei tornare a scrivere su questo universo alternativo!

Vi mando un bacio e vi auguro una buona Pasquetta, ricca di cioccolata!
-SkyDream

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Capitolo 2
*** Seconda Parte ***


≈ Karakara Town ≈
~ L'Universo dei Doni ~ 
[Fantasy!Au][Parte 2/2]


Shimizu poggiò dei tomi sugli scaffali, erano tutti riguardanti la magia della trasmutazione e - notò Shoyo con una piccola fitta al cuore - di gatti.
Sfiorò una delle copertine in pelle e le rilegature in oro, pensò che Shimizu fosse una bellissima persona a concedere il suo tempo a delle cause simili. Si chiese, inoltre, se il Mago Maledetto lo fosse altrettanto.
Non sapevano nulla di lui, poteva trattarsi anche di un pazzo o di un cattivo, magari anche più del Sovrano. D’altronde doveva esserci un motivo se lo cercavano, se volevano il suo sangue e Shoyo ebbe l’impressione che non si trattasse solo di un problema riguardante i poteri che il Sovrano voleva ottenere.
«Leggervi il fondo degli infusi? Dei decotti? Quanto ne siete sicuri?».
Shimizu spolverò il bancone con cura e sistemò le piante in modo ordinato su delle casse ribaltate a formare piccoli scalini.
«Abbiamo davvero bisogno di questo favore, signorina, e vorrei chiederle di non dire nulla-» Tobio fu interrotto da un sorriso gentile da parte di Shimizu che li invitò sul retro della bottega. Li fece accomodare ad un tavolo dove vi erano alambicchi in vetro, barattoli e bottiglie dai colori altalenanti e fumanti.
«Non vi dirò alcunché sugli altri clienti, né loro verranno mai a sapere di voi. Ma sappiate che se siete qui per conto del Grande Sovrano, io non dirò una parola di più.» Shimizu osservò le loro reazioni e aspettò cauta le risposte, che comunque non tardarono ad arrivare.
«Cosa? No! No!» Shoyo cominciò a scuotere le braccia e il capo in senso di diniego.
«Siamo qui per lui ma non per conto suo!» Si affrettò ad aggiungere Tobio portando i palmi in avanti e con il terrore di essere stato frainteso.
Shimizu sorrise ancora, come se i suoi sospetti avessero trovato conferma.
«Come pensavo, allora non c’è alcun problema e possiamo pure andare avanti. Cosa cercavate nello specifico?».
Shoyo si voltò in direzione dell’altro ragazzo e lo guardò con gli occhi colmi d’apprensione, entrambi fremevano e cercavano delle risposte subito, risposte che potessero mettere a tacere i loro incubi.
«Vorremmo sapere se il Mago Maledetto riuscirà a fermare il Grande Sovrano.» la voce di Tobio fremeva d’ansia, i respiri erano rapidi e appena smorzati dalla tensione. Stringeva le mani, sudate, e continuava a sfregarle sulle ginocchia.
Shoyo si perse ad osservarlo, con quel ciuffo scuro che spesso finiva per solleticargli la radice del naso e pizzicargli gli occhi.
«Non posso prevedere il futuro, ma posso leggervi il presente. Dovete sapere che un tempo avevo molti più poteri e anche una bottega più luminosa».
Entrambi i ragazzi non ebbero bisogno di ulteriori spiegazioni per capire che, dietro quel sorriso colmo di tristezza, si nascondeva l’ennesima vita segnata dal Sovrano stesso e dalla sua egemonia.
Shimizu prese una teiera ancora calda e versò dell’acqua fumante in una ciotola di cristallo che si appannò e si lasciò colorare dai fiori infusi che erano posti sul fondo.
Aspettarono che i piccoli petali salissero e che il fumo si diradasse, Shimizu prese poi una manciata di sale e cominciò a spargerlo al suo interno recitando formule senza emettere suono.
Alla quinta invocazione la ciotola cambiò colore, passando da un tenero lilla ad un blu scuro. Gli occhi di Shimizu, neri fino a quel momento, si tinsero di un bianco lucente come la luna e la sua bocca emise un lungo sospiro prima di parlare.
«Il Mago Maledetto ha coscienza delle sue possibilità e sa a cosa andrà in contro se accetterà il suo compito, sarà il suo Dono a porre fine alla sofferenza. Ciononostante, il suo animo teme il prezzo maledetto del suo Dono. Nella sua mente è sempre mattino, ma il suo cuore è pura tenebra che solo una luce può rischiarare, ma quando ciò accadrà rimarranno solo tre lune prima che la sua mente torni notte».
Tobio trasalì sulla sedia e trattenne il respiro fino alla fine della profezia, quando Shimizu sospirò di nuovo, l’acqua nella ciotola evaporò lasciando solo piccoli petali bruciati al suo interno.
«Cosa è?!» Shoyo si voltò verso l’altro scoprendolo pallido e angosciato, teneva lo sguardo fisso sul pavimento e sentiva le gambe e le mani tremare.
«Quella profezia, quella profezia è vera? Ne è sicura?» Tobio deglutì e dovette respirare con la bocca per riprendersi, sembrava dovesse perdere i sensi da un momento all’altro.
«Non avere paura, ha detto che il Mago è consapevole delle sue possibilità, è una cosa buona, no?» Shoyo si voltò verso Shimizu che, ancora un po’ confusa dall’utilizzo del suo Dono, si limitò ad annuire per poi alzarsi e congedarsi per prendere un po’ d’acqua.
Tobio afferrò un polso dell’altro ragazzo, distogliendo lo sguardo dall’erborista.
«Non capisci? Se una luce schiarirà il cuore del Mago, gli rimarranno solo tre giorni! Chi dice che i tre giorni non finiscano stanotte? E’ troppo vago, dobbiamo sbrigarci a trovarlo!» Tobio tremava e Shoyo conosceva solo un modo per far smettere le persone di avere paura.
Si alzò in piedi e lo abbracciò, lo strinse contro di sé e per un momento pensò di chiedere a Shimizu se anche lui potesse rendersi utile alla causa. Gli faceva male al petto vedere Tobio in quelle condizioni, così angosciato per la sorte di tutti i paesi dominati da quel pazzo assetato di potere.
«Lo troveremo in tempo, te lo prometto!».
E quella semplice frase bastò per farlo calmare. Tobio portò una mano dietro la schiena di Shoyo e si strinse un po’ di più a quella mantella di juta che profumava di bacche selvatiche, quelle che Shoyo raccoglieva sempre lungo i sentieri dei boschi.
«So che cosa cerchi, Tobio Kageyama, e lo troverai a Nord, oltre l’ultimo confine della Foresta. Non so cosa vi sia dopo, non mi sono mai addentrata, ma voi avete uno spirito dirompente e questo tanto basta.» li rassicurò Shimizu mentre rientrava nella stanza, intenerita da quella scena d’affetto.
Shoyo sorrise come se gli avessero appena dato la notizia più bella del mondo, abbassò lo sguardo ma notò che il volto di Tobio non aveva ancora smesso di contrarsi in un’espressione carica di paura e inquietudine.
 
Shimizu aveva insistito perché accettassero di farsi un bagno (uno vero, non uno di quelli dentro i laghi) e consumassero almeno un pasto decente. Non se lo fecero ripetere due volte.
L’erborista si era anche premurata di dar loro un unguento per quella brutta cicatrice che era rimasta sul petto di Tobio, nonostante fosse ormai totalmente risanata.
Si rimisero in viaggio nel primo pomeriggio, quando il sole era nascosto dalle nuvole cariche di pioggia e umidità. Shoyo sentiva le mani sempre più fredde, tanto da desiderare ardentemente di andare a dormire per potersi stringere contro Tobio e rubare un po’ del suo calore.
A proposito di Tobio, non si era più ripreso dalla notizia riguardante il Mago Maledetto, per cui aveva passato tutta la giornata in un silenzio meditabondo, carico di ansia.
Shoyo aveva provato a farlo ridere raccontando di quella volta in cui, riparando una tegola in una giornata tempestosa, un fulmine per poco non lo aveva arrostito.
Gli aveva anche imitato le urla dei compaesani e i capelli bruciacchiati sulla testa, ma proprio non riusciva a smuoverlo, non aveva fatto altro che sorridere a malapena. Le labbra si erano accartocciate in una smorfia che sembrava più simile ad un inizio di attacco epilettico.
«Comunque non dovresti preoccuparti così tanto, so che non è facile essere ottimisti però…» Shoyo aveva portato la testa di lato e si era fermato per cercare gli occhi dell’altro. Tobio evitava il suo sguardo.
«Però?».
«A volte le cose belle succedono, sai? E poi nei libri che leggevo da bambino i buoni vincevano sempre, per cui abbiamo buone probabilità di farcela».
Stavolta Tobio rise, ma una risata amara, ancora più acida della smorfia di poco prima.
«I buoni non vincono sempre, Shoyo, o non saremmo qui a parlarne».
«Però se-» Shoyo si bloccò, non poteva dirlo davvero.
Se non fosse stato per il Sovrano, non ti avrei mai incontrato.
Che non era altro che la verità, verità che sottostava ad un’altra affermazione.
Se il Sovrano non avesse ucciso la tua famiglia e il tuo popolo, non ti avrei mai incontrato.
Perdere tutto a che pro, quindi? Solo per incontrare lui? Un ragazzino dai capelli (non) di fuoco che aveva un Dono perfettamente inutile?
Tobio non parlò, si limitò a camminare ancora sperando che la notte arrivasse il più tardi possibile.
Quando il cielo si tinse di scuro e cominciò a tuonare, entrambi sollevarono gli occhi verso l’alto.
La luna era totalmente coperta, per cui l’unica fonte di luce non poteva che essere la pietra fatata che tenevano sempre in mano.
Alcuni lampi squarciarono l’orizzonte e il vento cominciò a scuotere le lunghe mantelle di juta e le fronde degli alberi in un fruscio accartocciato.
«Dobbiamo trovare un riparo prima che cominci a piovere più forte!» esordì Tobio cominciando a guardarsi attorno.
Shoyo non conosceva quella parte della Foresta, con gli occhi tentò di individuare qualche fata, solitamente loro detestavano i tuoni e avrebbero sicuramente cercato riparo dentro qualche caverna o rientranza.
D’un tratto sentì il vento cambiare direzione e spingerlo prima verso avanti e poi verso destra come se lo stesse guidando.
Tobio sussultò quando vide l’altro ragazzo camminare come se fosse posseduto da qualche demone.
«Giuro che non sto facendo nulla!» urlò Shoyo sovrastando il rumore della tempesta che si avvicinava, Tobio lo inseguì finché non lo vide rotolare davanti un tronco d’albero.
Sollevò la pietra fatata e notò che si trattava di una quercia secolare, enorme, la più grande che avesse mai visto.
Era cava e a giudicare dall’aspetto sarebbe stato un ottimo riparo.
Tobio infilò un piede e poi l’altro, stava per chiamare Shoyo quando sentì il terreno cedere sotto i piedi e il suo corpo essere ingoiato dalle viscere della terra.
Urlò così forte da richiamare l’attenzione dell’altro che, senza pensarci due volte, si fiondò all’interno chiamando il suo nome.
Shoyo rotolò per parecchi metri prima di atterrare su qualcosa di morbido, instabile e lamentoso.
Tobio, sotto di lui, era spiaccicato a terra e stava cercando di liberarsi.
«Spostati! Non ho la più pallida idea di dove siamo!» specificò cercando di farlo scivolare al suo fianco, sempre dietro la sua schiena come a volerlo proteggere.
Tobio portò la pietra fatata sopra la testa e si guardò intorno mentre tentava di mettersi seduto: il tronco dell’albero era collegato ad una caverna molto profonda che – stranamente – non era abitata da nessun animale e solo in lontananza potevano udirsi il rumore della pioggia e i sibili del vento.
Dall’altro lato vi era un muro di terra e fango per cui sarebbe stato improbabile ricevere visite durante la loro permanenza.
«Non è il luogo migliore dove attendere che finisca una tempesta, ma poteva decisamente andare peggio.» commentò Shoyo cominciando a spettinarsi i capelli nel tentativo di asciugarli.
Era totalmente zuppo e i brividi di freddo non tardarono a farsi sentire, si strinse come poté alla sua mantella di juta e si detestò – per l’ennesima volta – per non aver ottenuto il Dono di sua madre al posto di quello inutile che si ritrovava.
Tobio gli lanciò un’occhiata torva e poi cominciò a cercare qualcosa dentro la sua borsa, ne uscì delle pietre e un fiasco di alcool che non ricordava di avere.
«Me l’hai messo in borsa quando mi hai medicato la prima volta?» chiese Tobio, senza voltarsi, mentre stava cominciando ad armeggiare con dei ramoscelli trovati a terra.
Ci impiegò solo qualche minuto ad accendere il fuoco, i ramoscelli non erano umidi per cui – ipotizzò – sarebbero bastati almeno per qualche ora.
Shoyo si avvicinò entusiasta, il sorriso che rivolse alle lunghe fiamme rosse bastò a rincuorare Tobio che finalmente, da quando aveva ricevuto la notizia, si sciolse in un sorriso di riflesso.
«Grazie!» esclamò Shoyo accucciandosi proprio sotto le fiamme calde dopo essersi tolto la mantella per farla asciugare, rimanendo così con la camicia umida che gli aderiva al petto infreddolito.
Tobio seguì il suo esempio e si spogliò a sua volta per poi poggiare la schiena al muro e rilassarsi davanti quel tepore, non potè fare a meno – però – di rivolgere lo sguardo su Shoyo e sul suo corpo definito che risaltava con il rosso delle fiamme che si riflettevano sulla camicia bianca e sul suo viso colmo di lentiggini che cominciava a tingersi di un rosso scuro.
«Puoi poggiarti qui se vuoi.» Tobio battè una mano sulla propria spalla e il suo invito non tardò ad essere accettato.
Scivolarono nel sonno con estrema rapidità, concedendosi il lusso di godere del fuoco e di quella vicinanza mentre fuori imperversava una tempesta che non sembrava aver intenzione di smettere.
Tobio aveva sempre avuto il sonno leggero – complice la vita difficile a cui era abituato ormai da anni – e non gli ci volle molto ad aprire gli occhi e accorgersi che il fuoco era ormai mutato in una sottile fiammella.
Udì qualcosa che, inizialmente, sembrava indistinto, come un miscuglio di note confuse, altalenanti. Poi capì – non era la prima volta che sentiva le Fate suonare – e come un fulmine si voltò verso l’apertura della grotta.
Shoyo era in piedi con gli occhi sbarrati.
Minuscole Fate bazzicavano attorno alla sua figura, gli tingevano di luce i capelli, il volto e gli abiti come piccoli lampi. Alcune di loro suonavano strumenti fatati – flauti e campanelli d’argento, cetre e arpe splendenti - altre cantavano per governare i venti e spingere Shoyo sempre più verso la Foresta. Lo accompagnavano in un vortice scintillante e altisonante.
Tobio si sollevò da terra e cominciò a correre, non gli ci volle molto a capire perché fossero così interessati all’altro ragazzo e non avessero nemmeno tentato di svegliare anche lui.
Tra l’erba era possibile vedere i Fuochi Fatui danzare in brillanti mulinelli, tutti gli alberi sembravano aver preso vita e offrire i loro rami per accogliere Shoyo e ben presto cominciarono ad abbracciarlo e stringerlo tra stringhe di legno.
Proprio lui, in quel momento, come se si fosse appena tolto un peso cantò.    
E la Foresta si immobilizzò, i venti smisero di soffiare, le Fate arrestarono quel movimento turbolento attorno a lui per poi riprendere a suonare i flauti e cantare con ancora più vigore e tutto divenne quasi insopportabile per delle orecchie umane.
Era una voce celestiale, pensò Tobio, capace di scuotere anche le terre più ferme, capace di far sciogliere le stelle in cielo. Era una voce che sconquassava ogni animo umano e sovraumano.
Il primo timido raggio di sole – quasi fosse stato evocato da quel suono - fece capolino oltre la montagna, si aprì contro il tronco di un albero e inondò il prato, i fiori si sollevarono e gli uccelli scivolarono dai loro nidi per cinguettare.
I venti ripresero a muoversi morbidi attorno a lui, scuotendo i capelli rossi sulla fronte come le fronde degli alberi sfioravano il cielo, e le braccia rivestite dalla camicia vibrarono scosse da tremiti profondi.
Shoyo non smise un solo momento di cantare e le Fate e i Fuochi lo accompagnarono con voce e musica fin nelle profondità della Foresta, lì dove ormai la sua anima era stata separata dal corpo.
Tobio lo seguì, nonostante i venti soffiassero contro di lui.
Chiamò Shoyo, urlò il suo nome nel tentativo di farlo svegliare ma le Fate cominciarono a suonare sempre più forte, e ai flauti e ai campanelli argentati si aggiunsero i violini e il fruscio di foglie. Sembravano dirgli fai silenzio, taci. Taci.
Tobio si aggrappò ai tronchi degli alberi per rimettersi in piedi, non smise di invocarlo e di pregare i Numi della Montagna affinché lo risparmiassero.
Shoyo era un’anima pura, nonostante non fosse più un bambino, era un’anima che non aveva commesso peccato, non era stato mai mosso dalla lussuria e soprattutto non era mai stato amato.
La Foresta si nutriva delle anime come le sue e non aveva fatto altro che aspettare il momento propizio per tramutarla in un’Anima Pia.
C’era una cosa di cui però non aveva tenuto conto ed era la stessa che ora si stava lasciando ferire il viso dal gelido vento che aveva preso a sferzare contro di lui nell’ultimo vano tentativo di fermarlo.
«Hinata Shoyo è la luce che ha rischiarato le tenebre del mio cuore!»
Shoyo smise di cantare, aprì gli occhi e le iridi ambrate furono illuminate dalla luce del giorno che tinse il suo viso d’oro mentre lo rivolgeva verso l’altro ragazzo.
I violini si arrestarono, i flauti e i campanelli si sciolsero nell’aria così come le Fate presero a vorticare come impazzite mentre i Fuochi Fatui si dileguavano tra l’erba e gli alberi riprendevano il proprio posto lasciando le braccia e le gambe del ragazzo a cui si erano ancorate.
Shoyo rimase con le labbra schiuse finché Tobio non lo raggiunse e crollò ai suoi piedi aggrappandosi ad un suo polpaccio e sentendo il petto scuotersi sotto il peso dei singhiozzi.
«Hanno lasciato stare la mia anima.» sussurrò lievemente Shoyo mentre portava una mano tra i capelli scompigliati dell’altro ragazzo che non accennava a voler sollevare il viso per guardarlo negli occhi.
«Certo che l’hanno lasciata stare, non potranno mai prenderla se…» Tobio non riuscì a finire, quella consapevolezza lo aveva devastato su più fronti e non era il solo.
Pronunciando quella frase a voce alta aveva dato alito ai suoi sentimenti, aveva protetto Shoyo per sempre e si era condannato.
La presa sui suoi capelli si fece più decisa e sentì che Shoyo lo stava tirando verso di sé, ma poi finì lui stesso per cadere in ginocchio sul prato.
Stava piangendo, aveva le iridi lucide e i denti digrignati, stretti e circondati da labbra dall’aspetto così soffice.
«Tre lune? Tobio tu, tu sei-».
«Tu sei entrato come un raggio di luce e hai stravolto tutti i miei piani».
 
Shoyo afferrò il suo viso con esigenza prima di fiondare la sua bocca su quella dell’altro.
Shoyo aveva labbra morbidissime e scivolose, le guance calde per l’emozione e i capelli scombinati dal vento. Passarci le dita in mezzo, per Tobio, fu quasi idilliaco.
Le sue mani e il suo corpo si concessero di prendere tempo, di prendere fiato per poter godere di quell’attimo.
La sua condanna era già stata scritta, ne era cosciente, ma sapere di avere a disposizione gli ultimi due giorni era stato comunque massacrante.
Tobio non si era chiesto cosa ne sarebbe stato di lui dopo la morte, ma il suo pensiero era rimasto ancorato a Shoyo e al suo futuro.
Forse si sarebbe innamorato, forse avrebbe avuto dei figli. Qualcuno gli avrebbe fatto capire che avere un Dono speciale non è la cosa più importante e si sarebbe incantato ad ascoltarlo cantare, si sarebbe fatto cullare dalla sua voce.
Ma in quel momento, in quell’esatto momento e per i due giorni a venire, non ci sarebbe stato nessun altro oltre loro due.
Allora Tobio gli dispensò tanti baci da bastargli per la vita intera, dalla bocca passò alla guancia umida ancora di lacrime e colma di lentiggini, salì sulle palpebre chiudendo quelle iridi che ogni volta lo spiazzavano, sfiorò le tempie calde e affondò il viso tra i capelli morbidi e profumati di erbe e fiori.
Shoyo non aveva smesso di tenerlo stretto, sentiva le loro camicie ormai asciutte aderire tra loro, il petto dell’altro sollevarsi in respiri sempre più profondi e rochi, si lasciò sfiorare da quelle labbra morse, torturate, a tratti screpolate. E le amò.
Shoyo lo amò con tutto sé stesso in quegli istanti, lo amò mentre ad ogni bacio Tobio gli svelava un pezzo di verità.
Sono io il Mago Maledetto.
Sono io che tra due lune morirò.
Sono io che potrei salvarti.
Sono io che ti amo, da morire – davvero – e da impazzire – vero anche questo -.
Shoyo lo strinse, voleva sentirlo tra le braccia, sul suo cuore, sulla sua schiena, sul suo volto. Lo desiderava come se non poterlo avere lo avrebbe condotto alla follia.
Allora si ancorò al colletto della camicia e lo allentò, passò alle asole e scoprì il petto tonico dell’altro, con la punta delle dita sfiorò la cicatrice sul torace, quella che gli aveva curato dentro una grotta innevata.
Si sentì sopraffatto e finì a terra, contro l’erba umida di rugiada e con l’ombra di Tobio sul viso. Non vi fu bisogno di parlare, ma scappò ancora un bacio.
E un altro.
Un altro.
Un altro ancora.
E Shoyo si ritrovò a sua volta spogliato, sfiorato e amato. Pensare che quel sentimento avesse preservato la sua anima gli mise i brividi.
Tobio pensò erroneamente che avesse freddo – lui che scaldava sempre le proprie mani tra le sue – e si affrettò a coprirlo con il suo stesso corpo. Passarono parecchi minuti ad accarezzarsi ancora, a cercare ognuno il respiro nella bocca dell’altro, finché entrambi non fecero scivolare le mani sull’orlo dei pantaloni dell’altro e scacciarono via gli stivali sgualciti, non lasciarono più nulla sui loro corpi e Tobio poté farlo suo lì, in mezzo alla Foresta che aveva tentato di separarli.
Tobio si sentì forse un po’ arrogante nel voler mostrare all’Anima della Foresta, ai Numi della Montagna, alle Fate, ai Fuochi che Shoyo non poteva più essere loro.
Che il suo corpo gli sarebbe appartenuto per sempre, anche nell’aldilà, mentre loro non avrebbero mai più potuto sfiorarlo.
Perché la sua anima era ormai macchiata di cose bellissime, d’amore e di passione e la sua gola aveva ormai emesso gemiti di piacere mentre le mani rimanevano aggrappate ai fianchi dell’altro.
Shoyo aveva sospirato il nome di Tobio contro il cielo, si era beato del suo calore e del suo profumo, del suo fiato sulla pelle – dei suoi morsi -.
Rimasero entrambi lì, stesi sul prato l’uno sull’altro, in un vago ricordo di quella notte passata al fienile a contare le stelle e mangiare mirtilli.
«Qualunque cosa succeda, io non me ne vado».
Tobio lo aveva sussurrato sull’incavo del collo di Shoyo che stava disegnando piccoli cerchi sulla sua schiena.
«Voglio venire con te».
Tobio corrugò la fronte a quella risposta e sollevò il capo, vide che Shoyo fissava il cielo terso e le nuvole che si inseguivano.
«Che significa che vuoi venire con me?».
«Che non ti lascio andare da solo, qualunque cosa ti succeda, succederà anche a me».
Shoyo aveva sorriso davanti quella consapevolezza e aveva sospirato felice, come se avesse ricevuto una buona notizia.
Tobio non fu dello stesso parere.
«Sei forse matto? Hai una vita davanti, Shoyo, non esista che tu mi segua!».
«Che vita posso sperare di vivere senza questo?» Shoyo sfiorò il viso di Tobio con le dita. «Senza questo.» Passò una mano sull’erba attorno a loro.
Tobio strinse le labbra e fece per replicare.
«Mi hai salvato la vita per ben due volte, mi hai trascinato fuori dai miei limiti, mi hai fatto vedere volti che non avevo mai visto e ho respirato aria che non avevo mai respirato. Ho corso in campi di grano dorato e mangiato frutta in mezzo alla paglia, sono quasi stato rapito da un gatto e da un gruppo di Fate musiciste».
Shoyo si sollevò e lasciò che Tobio poggiasse la testa sulle sue cosce senza smettere un attimo di guardarlo.
«Se tu andrai via, io tornerò nei miei panni e stavolta mi staranno stretti. Mi hai dato tutto, l’amore, la protezione e le risate, come posso pensare di vivere?».
Tobio sentì il petto esplodere e si chiese se, con un tale fuoco a scoppiettargli dentro, il suo tempo non si fosse esaurito in quel momento, prima delle due lune.
Si sollevò a sua volta e gli regalò un altro bacio lungo, casto, carico di significato.
Poi si ricordò che la sua missione non era ancora finita, il Grande Sovrano non era ancora stato spodestato e la sua testa non era stata staccata dalla colonna.
Non poteva assolutamente permettersi di lasciarsi un mondo così alle spalle.              
Si sollevò in piedi e prese a rivestirsi prima di tornare verso la caverna per poter prendere borsa e mantelle.
«Ci riusciremo insieme, te lo prometto».
La voce di Shoyo lo colpì nuovamente, facendolo rabbrividire.
Si fissarono l’ultimo intenso momento prima di riprendere la loro via.
Quella notte la passarono a fare l’amore.
 
«Shimizu lo sapeva che non stavo cercando il Mago ma il Sovrano, così come anche Akaashi deve averlo capito. Hanno poteri immensi e ci hanno guidato nella parte giusta.» Tobio indicò un accesso sul retro di una cascata, portava all’interno di una montagna enorme e Shoyo si chiese perché mai un Sovrano dovesse regnare da un luogo così austero.
Tobio sembrò leggergli nel pensiero e si voltò verso di lui.
«Il Sovrano sa che lo sto cercando, così come io so che mi cerca. Per questo ha scelto un luogo così internato fino alla mia cattura».
Shoyo annuì. Ci erano voluti due interi giorni per raggiungere il punto più a Nord. La resa dei conti era ormai vicina, per quanto la consapevolezza gli bruciasse lo stomaco.
 
Shoyo fece per arrampicarsi in modo da poter raggiungere il retro della cascata, aveva appena afferrato una parte della parete quando si sentì tirare.
Tobio gli aveva afferrato il polso, scuro in viso come non mai.
«Sei sicuro di voler venire con me? Dovresti aspettarmi qui fuori!».
«Non se ne parla nemmeno! Ti avevo detto di non chiedermelo più».
«Qualunque cosa tu senta lì dentro, sappi che io non ho mai finto con te. Chiaro?».
Shoyo annuì, confuso, mentre constatava come la mano calda di Tobio avesse afferrato il suo polso con una delicatezza disarmante.
Entrarono all’interno della cavità e Tobio dovette utilizzare la pietra fatata per facilitare loro il cammino. Lungo le pareti vi erano tracce di spade e lance, segno che i soldati dovessero per forza essere lì dentro.
Shoyo deglutì vistosamente, non tanto per la paura quanto per il rammarico di essere totalmente inutile con il suo Dono. Si chiese se quello di Tobio fosse abbastanza forte da poter sconfiggere chiunque, si chiese anche perché non lo avesse mai utilizzato.
Tobio gli poggiò una mano sul petto e lo spinse dietro di se come a volerlo proteggere, si affacciò oltre una parete di pietra e scoprì una delle grandi stanze del Sovrano. Sembrò elaborare qualcosa.
«Stai in silenzio, va bene? Fai finta che io ti abbia cucito la bocca.» Prese il cappuccio della mantella di Shoyo e glielo infilò sui capelli ramati, così a sua volta si nascose il volto ed entrò facendo finta di tossire e richiamando l’attenzione della guardia.
«E’ qui che mi hanno indirizzato per incontrare il Grande Sovrano, ho urgenza di parlargli!»
Shoyo inarcò un sopracciglio e si sforzò di non ridere nel sentir parlare Tobio con quella voce artefatta e falsissima.
La guardia sembrò cascarci bellamente.
«Chi siete voi?» chiese allora, Tobio afferrò il polso di Shoyo e lo scosse come se avessero qualcosa che li legasse.
«Del mio nome, non importa. Il ragazzo che ho qui è quello che voi chiamate Mago Maledetto, vedete le catene che ci tengono insieme? Mi è stato detto di portarlo qui e così ho fatto, Fatemi passare e liberatemi da tale ingombro!».
Shoyo si chiese come l’altro facesse a vedere le catene, ma non proferì parola e proseguì a camminare in silenzio.
Dovettero passare almeno davanti altre sei guardie prima di poter entrare dentro l’immensa sala del Sovrano.
Shoyo non resistette all’impulso e sollevò gli occhi per guardarlo, vide un uomo di mezza età dalle spalle imponenti e i lunghi capelli raccolti dietro la schiena, aveva anche una barba annodata e due profondi occhi –
Occhi –
 
«I tuoi occhi sembrano due mirtilli maturi, Tobio!»
 
Shoyo sentì il respiro spezzarsi e qualcosa, al centro del petto, andare in frantumi.
La presa sul suo polso si fece un po’ tremolante e lì non vi fu più alcun dubbio.
«Tobio, figlio mio, ce ne hai messo di tempo prima di farti trovare».
Tobio lasciò scivolare giù il cappuccio e portò lo sguardo contro quello dell’uomo.
«Siete voi quello che vivete nell’ombra, padre, io ho sempre camminato sotto il sole».
Una radice sbucò fuori dal terreno e si ancorò alle caviglie dei due ragazzi, costringendoli a rimanere sul posto. Shoyo saettò con lo sguardo a destra e a sinistra nel tentativo di trovare qualcosa che potesse essergli d’aiuto.
Tobio, invece, rimase stoico e immobile con lo sguardo alto.
«Non sono venuto a lasciarmi sopraffare dai vostri desideri di potere, mi sembra evidente.» precisò mentre sfiorava una parte del torace, quella corrispondente alla cicatrice.
«Sei venuto a mostrarmi la tua ultima conquista? Hai ripulito per bene la testa di questo ragazzo?» la risata che ne seguì fu capace di far tremare l’aria, Shoyo ebbe l’impressione che dei lunghi brividi si stessero facendo strada dentro la sua schiena.
«Quello che faccio del mio Dono non è affar vostro, sono qui per un altro motivo».
«Quindi immagino non lo sappia di come ti sei guadagnato la tua maledizione.»
Il Sovrano scomparì dalla loro vista e ricomparì ad un palmo dai loro volti, Shoyo sussultò e il cappuccio gli scivolò dalla testa scoprendo i riccioli rossi che gli incorniciavano il viso.
Tobio digrignò i denti e incrociò lo sguardo del Sovrano che portò una mano sulla guancia del figlio carezzandola lentamente.
«Dimmi, il tuo amico sa che puoi modellare la mente delle persone a tuo piacimento? Che hai plasmato le menti del tuo popolo costringendoli tutti al suicidio?».
Tobio gli schiaffeggiò la mano, aveva gli occhi carichi di odio e sembrava voler stringere le dita attorno al collo di suo padre, vederlo morire lentamente una volta per tutte.
«Siete stato voi a costringermi a farlo, ero solo un bambino e ho passato la vita nel peccato per colpa vostra!».
«Le anime di quella gente vengono a turbarti il sonno per caso?».
Il Sovrano schioccò le dita e fece in modo che il turbine di piante si sollevasse e stringesse anche i loro polsi.
«Dovrebbero turbare anche il vostro. Non vi capita mai di sentire la voce di mia madre?».
Tobio lo ricordava bene, era stata una notte carica di pioggia quella in cui suo padre gli aveva detto che convincere la mamma a togliersi la vita sarebbe stata la scelta più saggia. Stava male da tempo ed era inutile farla soffrire ancora, sarebbe stato meglio per tutti.
E Tobio, troppo piccolo per comprendere l’immensità di quel gesto, acconsentì e sfiorò la guancia morbida della madre, sentì le sue labbra curvarsi in un piccolo sorriso e chiamarlo per nome prima che gli occhi si sgranassero per la sorpresa.
Tobio era entrato nella sua mente, era calda e dolce, gli bastò sussurrargli cosa fare.
E’ per il tuo bene, me lo ha detto papà.
Allora sua madre aveva evitato di piangere, aveva allungato una mano e gli aveva fatto promettere di andare via, di scappare.
«Il tuo Dono è fatto per salvare delle vite, Tobio, non per spezzarle».
Tobio non aveva capito all’inizio, poi piano piano si ritrovò a dover chiedere la stessa cosa ad ogni cittadino del suo paese, a tutta la gente che lo aveva cresciuto, ai suoi amici con cui adorava giocare a pallone.
E tutti, prima di correre via e perdere la vita in un lago di sangue, lo guardavano con lo sguardo carico di dolore e terrore. E Tobio smise di respirare.
Smise di dormire.
Una notte tentò di fuggire e suo padre, in preda all’ira, gli scagliò contro una maledizione nel tentativo di fermarlo.
 
Che nella tua mente sia sempre mattino, ma che il tuo cuore sia pura tenebra che solo una luce potrà rischiarare, e quando ciò accadrà rimarranno solo tre lune prima che la tua mente torni notte e la tua anima si distacchi.
 
Poi corse via e si nascose nell’ombra, diventò parte di essa e si mescolò alla notte tra le foreste, le Fate e i Fuochi Fatui lo evitavano e illuminavano il percorso di fronte a lui senza mai sfiorarlo davvero.
La sua anima doveva avere un fetore pestilenziale, ne era certo. Suo padre avrebbe potuto rimuovere la maledizione, ma non sarebbe mai e poi mai tornato indietro.
Più camminava, più capiva quanto la sete di suo padre non si fosse arrestata: vagava per tutti i popoli e i paesi rubando tracce di Doni, accaparrandosi quello che poteva e bramando un modo per scovarlo e costringerlo di nuovo a modellare le menti secondo il suo volere.
Tobio iniziò quindi a cercare un modo per fermarlo, aveva letto parecchi libri di magia sui Doni e aveva anche pensato di parlare con chi aveva i Poteri Maggiori, ma si era arreso subito.
Convogliare i Poteri Maggiori senza farsi scoprire sarebbe stata pura follia, avrebbe dovuto cavarsela da solo.
Poi, una notte, una delle guardie lo aveva colpito al torace con una lancia e lui aveva cercato un modo per curarsi e fasciarsi prima di dissanguare.
Era stato lì che una melodia lo aveva chiamato: Shoyo camminava nella Foresta seguito da una nuvoletta di Fate dalle ali colorate e i Fuochi Fatui danzavano ai suoi piedi, la Foresta sembrava aprirgli ogni sentiero.
Un’anima pura, che non aveva mai ferito nessuno né amato.
Tobio avrebbe voluto avvicinarsi ma, poi, si era ritrovato a doversi buttare su di lui per evitare che lo ferissero e lì, per la prima volta in vita sua, si era ritrovato a ripensare alla frase di sua madre.
Per salvare le vite, Tobio.
Aveva quindi ricominciato a respirare e a dormire, tutti i suoi viaggi a vuoto avevano trovato un senso quando ne parlava e gli occhi di Shoyo si accendevano di curiosità, la sua mente si scoprì in grado di formulare pensieri bellissimi e ricordi meravigliosi.
Scoprì di poter ridere, di poterlo fare accanto a qualcuno.
Di poter amare e di poter fare l’amore.
Quella consapevolezza avrebbe potuto farlo morire.
Ora che si trovava di fronte suo padre, colui che lo aveva condannato con la sua maledizione, non poteva che fermarlo una volta per tutte.
Gli entrò dentro la mente e sentì una resistenza dura come l’acciaio, i suoi pensieri erano così bui e maledetti da togliergli il fiato.
Tobio si sentì sopraffatto, non entrava nella mente di qualcuno in modo così violento ormai da anni. Sentì le forze venirgli meno e le ginocchia cedere sul terreno.
No, non doveva andare così, ma non vi era altro modo.
Anche Shimizu aveva detto che sarebbe stato il suo Dono a fermarlo, come poteva non funzionare?
Aprì gli occhi e vide che anche suo padre era in estrema difficoltà, aveva portato le mani alle tempie nel tentativo di scacciare quell’intrusione e quella perdita di concentrazione aveva permesso a Shoyo di liberarsi.
Tobio lo guardò e trovò l’energia e il coraggio per impegnarsi ancora di più.
Inspirò e si concentrò sull’aria che entrava nei suoi polmoni e riossigenava la sua mente contaminata, sentiva ancora i pensieri malevoli di suo padre infiltrarsi nei suoi pensieri ma li ignorò.
Poni fine alla sofferenza.
Poni fine alla sofferenza!
 
Era un ordine semplice da riferire, ma la mente di suo padre era ormai inacidita, slavata dalle maledizioni inferte.
Tobio si accorse però che la mente era ancora resistente, così strinse gli occhi e chiuse i pugni concentrandosi quel tanto che bastava per poterlo fermare.
Qualcosa poi lo travolse.
Sollevò le palpebre per lo spavento e si ritrovò Shoyo ancorato al petto, aveva il torace e parte della spalla sinistra totalmente ustionate, dall’angolo della mandibola colava un liquido viola che gli stava corrodendo la pelle. Gli occhi strabuzzati, lacrimanti che lo supplicavano.
«Fermalo.» la sua voce gli arrivò come un sussurro alle orecchie, implorante.
Shoyo non voleva che qualcuno soffrisse come Tobio, come Kenma, come Shimizu e tutti gli altri. Come altre centinaia di persone innocenti.
E se il Sovrano si fosse interessato al Potere Maggiore di Natsu? Doveva proteggere anche lei e non poteva farlo col suo Dono.
Aveva bisogno di Tobio.
Il Sovrano si riprese da quell’intrusione mentale e si accorse di aver sbagliato soggetto. Era convinto di aver colpito Tobio con quell’estratto di Stramonio creato grazie ai rudimentali poteri che era riuscito a sottrarre a Shimizu e Tooru, ma inutilmente.
Shoyo si era messo in mezzo, correndo veloce come la luce e aveva rovinato il suo piano.
Il Sovrano non poteva lanciare su Tobio altre maledizioni, poteva solo far uso di quegli stralci di poteri che aveva rubato alla gente che aveva tormentato.
Provò quindi ad invocare lunghe lingue di fuoco, ma ecco che Shoyo si era rimesso in piedi per fare da scudo all’altro ragazzo.
 
Fermalo, ti prego. Basta.
 
Incrociò lo sguardo con quello del Sovrano sfidandolo a colpirlo con quelle lingue di fuoco, d’altronde aveva già provato sulla sua pelle quelle di sua madre.
Era cresciuto temprato dalle fiamme di un Potere Maggiore, di certo non lo avrebbero ferito quelle lì.
Il torace si stava lentamente consumando sotto l’acido, la pelle ustionata non gli faceva più nemmeno male. Poteva lottare ancora, poteva proteggere Tobio fino all’ultimo e mettere la parola fine a quella scellerata sete di potere.
Tobio avrebbe voluto controbattere, ordinare a Shoyo di farsi da parte e cercare di riposare, ma si impose di non entrare nella sua mente.
Non lo aveva mai fatto e non lo avrebbe fatto neanche in quel momento.
Anche se non voleva, non accettava di vederlo corrodersi in quel modo, soffrire come un dannato per lui.
Acconsentì - a malincuore e stringendo denti e cuore – e si inginocchiò per terra chiudendo gli occhi e concentrandosi sulla mente di suo padre, ancora turbato da quegli avvenimenti e preso dal tentare ora un approccio corpo a corpo con il suo nemico, che non aveva perso la velocità che lo caratterizzava.
Shoyo scivolò sotto le gambe del Sovrano e ricomparì alle sue spalle curvando la testa di lato con aria di sfida, la pelle del mento sfilacciata gli dava un’aria tetra e angusta, il Sovrano fece per scagliargli contro qualcosa ma finì a terra.
Sentì una lama gelida entrargli nella mente e contorcerla, costringerlo a rimanere lì immobile.
Tobio, parecchio dietro, aveva stretto i pugni contro il pavimento e continuava a mordersi il labbro inferiore fino a sanguinare.
All’improvviso urlò, fu un urlo tetro che riuscì a scuotere perfino le profondità della terra. Le Fate e i fuochi all’esterno risposero a quel richiamo e tutto intorno si riempì di magia che alimentò ancora il Dono maledetto di Tobio.
Il Sovrano riuscì a rimettersi in ginocchio, spostò lo sguardo su quello che era suo figlio.
Uno sguardo carico di odio, lontano da quello che gli aveva riservato sua madre prima di lasciarlo andare.
Le labbra formularono una maledizione e la mano che si era riempita di luce si posizionò sul suo stesso petto, infliggendosi il colpo di grazia e scomparendo per sempre.
Tobio rimase immobile a fissarlo, non seppe mai se in quella maledizione fu scritto il suo nome, ma si disse che ormai era troppo tardi per scoprirlo.
Aveva letto su un vecchio libro che, al momento della morte di un mago, tutte le sue maledizioni e le benedizioni vengono meno e ciò che è stato preso torna indietro, ciò che è stato dato viene tolto.
Era l’unico modo per mantenere l’equilibrio in quel mondo che di equilibrato non aveva nulla.
«Sei stato incredibile!» Shoyo era seduto a terra con un palmo sul petto per cercare di respirare, sentiva i polmoni cominciare a bruciare davvero.
Tobio si sollevò in piedi, perdendo l’equilibrio un paio di volte a causa dello sforzo e avvicinandosi all’altro ragazzo per controllarne le condizioni.
«Sai, Tobio, per un attimo ho temuto che ti saresti trasformato in un mostro. Hai completamente cambiato faccia, mi hai proprio spaventato!» Shoyo sorrise in mezzo a quell’aria tetra e pesante.
Tobio non sapeva come portarlo fuori da lì, non poteva caricarlo sulla schiena né afferrarlo per una spalla a causa delle ferite.
«Fidati di me, va bene?» Tobio gli scostò il ciuffo rosso dal viso e lo vide annuire prima di perdere i sensi.
Lo prese in braccio facendo attenzione a non toccare la pelle ustionata e diede un ultimo sguardo a quella caverna.
Girò le spalle e camminò verso fuori.
 
Primo passo:
Akaashi aprì gli occhi e notò che qualcosa sotto la pelle era tornato al suo posto. Bokuto, sdraiato a torso nudo sotto di lui, passò una mano sulla sua schiena scoperta e lo chiamò per nome.
Akaashi rispose con un sorriso e gli prese il viso con le mani a coppa prima di baciarlo e sfiorargli la carotide, scendere ancora un po’.
«Abbiamo un altro motivo per fare l’amore stasera».
«Abbiamo sempre un motivo».
Le lucciole sul prato danzarono attorno ai loro corpi e la luna sul lago allungò la sua ombra chiara fino ad illuminare i loro volti colmi di gioia.
 
«Shoyo, siamo quasi arrivati, va bene?»
 
Secondo passo:
Kenma se ne stava con la coda a penzoloni sul tetto a guardare la luna, portò una zampa sul musetto e sui baffi quando si rese conto di aver sfiorato qualcosa di strano.
Guardò il suo corpo scoprendolo di carne, ossa e pelle. Come quello di Kuroo, di Tooru o di Iwaizumi.
Cercò di miagolare ma ne uscì solo un suono indistinto.
La luna nel cielo, prima nitida, divenne sempre più sfocata mentre le lacrime gli rigavano il volto.
Sentì un calore sulle spalle nude ed ebbe il tempo di voltarsi per vedere come Kuroo si fosse fiondato su di lui stringendolo al petto e riempiendolo di baci sui capelli ormai troppo lunghi.
Kenma avrebbe per sempre ricordato i grattini sulla testa che gli regalava quando era solo un micetto, ma non li avrebbe mai preferiti alle carezze sulla pelle.
 
«Svegliati, Shoyo. Ti sto aspettando».
 
Terzo passo:
Shimizu sentì un brivido lungo la schiena e credette fosse dovuto alle temperature ostili di quella notte. Chiuse il libro sulla metamorfosi dei gatti e si alzò in piedi per cercare una coperta.
La sensazione che qualcosa le fosse tornato dentro il corpo non accennava ad andarsene, si avvicinò alla finestra per controllare le nuvole e diede un’occhiata al vasto campo incolto che versava al di sotto della bottega, giù per una collina.
Sorrise immaginandolo ricolmo di tulipani bianchi e orchidee e si voltò per afferrare la coperta stesa sul divanetto.
Il brivido sottopelle aumentò spingendola a guardare nuovamente e a scoprire il campo trasformato in una distesa di fiori bianchi che rilucevano sotto la luna.
Indietreggiò e finì per urtare contro il tavolo facendo cadere alcuni tomi a terra.
Le mani non smettevano di tremare. Le guardò e notò come la luce del suo Dono fosse tornata.
Sugawara entrò in stanza scoprendole il volto rigato dalle lacrime, si avvicinò preoccupato ma si ritrovò solo un mazzo di rose bianche tra le mani.
Non ebbe il tempo di sussultare, ecco che Shimizu gli si era fiondata tra le braccia e aveva ripreso a piangere sulla sua spalla stringendolo come non aveva mai fatto.
 
«Tobio, non andartene».
 
Quarto passo.
Il mondo riprende a respirare.
 
Tobio ebbe l’impressione che una parte dell’equilibrio fosse appena stato ripristinato.
La notte stava ormai per giungere al termine, uscì da lì e vide la luna alta in cielo che illuminava la cascata che nascondeva l’ingresso per quel covo maledetto.
Avvicinò Shoyo all’acqua corrente e tamponò l’ustione come poteva nel tentativo di rinfrescarlo, il ragazzo aprì appena gli occhi e li incastonò nei suoi.
Il rame fuso delle sue iridi si confuse con il color mirtillo.
Tobio lo prese nuovamente in braccio senza risparmiare qualche battutina e causandogli delle lievi risate che trasformarono il viso in un pallido ricordo dei suoi eccessi di risa quando si pizzicavano.
«Ci fermiamo qui a dormire?» Shoyo guardò un melo poco distante e lo indicò con un cenno del viso. Tobio annuì e lo poggiò a terra facendo attenzione a togliere la camicia bagnata e in parte ormai bruciata da quel composto maledetto che non aveva smesso di corroderlo.
Shoyo si guardò la pelle del torace e del braccio, si sfiorò appena il mento e desiderò ardentemente di passare quelle ultime ore occhi negli occhi con l’altro ragazzo.
Tobio sembrò leggergli nel pensiero – chissà, magari lo aveva letto davvero – e si sdraiò sotto l’albero a torso nudo prima di accoglierlo tra le braccia.
«Così non sentirai freddo.» spiegò prima di portare una mano tra i suoi capelli e scostarglieli dalla fronte.
«Guardami solo in viso, va bene?» lo pregò l’altro con gli occhi socchiusi.
«Va bene».
Tobio gli sorrise e decise che piangere sarebbe stato inutile, salvare Shoyo era impensabile e lui sembrava quasi felice della piega che aveva preso quella lotta.
Era un chiaro segno del destino, ne erano entrambi certi.
«Cosa ti piacerebbe fare domani?» chiese Shoyo con lo sguardo sul viso pallido di luna dell’altro.
«Non gioco a pallone da molto.» Tobio continuò a rigirare i ricci tra le dita mentre sentiva il tempo scorrere sui loro corpi e staccarli sempre di più da quella terra.
Shoyo si accoccolò meglio contro l’incavo del collo dell’altro, respirò contro la sua pelle e scoprì che il suo fiato era ormai freddo.
«Tobio?».
«Mh?».
«Non sei un mago maledetto. La tua anima non è macchiata come credi».
La voce di Shoyo gli entrò sottopelle e fece vibrare il suo cuore e i suoi occhi ormai colmi di lacrime.
«Ti sembra il momento?» chiese retorico sorridendo appena.
«Hai un’anima bellissima, l’ho capito quando hai cominciato a parlarmi dei tuoi viaggi e poi quando mi hai scaldato le mani quando dormivamo».
«Shoyo, io-».
«Preferisco morire insieme a te piuttosto che diventare un’Anima Pia e guardarti andare via da solo. Davvero».
Tobio non riuscì più a mantenere il suo tono composto e poggiò il viso contro i capelli rossicci dell’altro, stringendolo appena per non fargli male.
«Shoyo, io-» riuscì a sussurrare senza riuscire a dire altro, ormai spezzato dalla consapevolezza.
«Ti amo anche io, Tobio. Avrei voluto fare l’amore con te un’ultima volta, sai?».
«Zucca vuota, avremo tutto il tempo del mondo per fare l’amore! Potremo farlo per-».
«Per tutta la vita?».
Tobio singhiozzò e sentì le lacrime di Shoyo contro la sua gola. Sentì perfino un bacino e non resistette all’impulso di scendere un po’ di più e ricongiungere le loro labbra già fredde e aride.
«Qualunque cosa succeda, tu non lasciarmi andare.» sussurrò Shoyo chiudendo gli occhi e tornando nel suo posto preferito, lì sull’incavo del collo.
«Ti terrò stretto tutto il tempo.» Tobio sentì le forze venirgli meno e poggiò nuovamente il volto sui capelli dell’altro lasciando un lungo bacio sulla sua fronte.
Vi fu una folata di vento più fredda delle altre, e fu quella che annunciò l’arrivo del mattino e la fine della luna.
Il primo raggio di sole colpì l’erba facendo riluccicare la rugiada sulle foglie e sulle ali delle piccole coccinelle che sapevano di primavera.
I due ragazzi rimasero immortalati in quell’istante, congelati in una dimensione che non apparteneva loro né gli esseri umani. Sarebbero passati gli anni e poi i secoli, ma nessuno sarebbe mai riuscito a toccarli o a scoprire come riuscissero a resistere alle intemperie del tempo. Le Fate e i Fuochi Fatui, ancora oggi, ammirano quell’abbraccio che racchiude i peccati di un’anima umana: dolore, lussuria e amore.
 
Addormentati, l’uno stretto all’altro, avrebbero passato pelle a pelle l’intera eternità.
 
- Fine.


Note dell'autrice: Ho pianto e sofferto. Inutile nasconderlo, scrivere l'ultima parte con Never Enought di sottofondo è stata una mazzata allo stomaco e spero, in tutta sincerità, che l'impatto si sia sentito anche durante la lettura.
Ho amato questo mondo, ho amato Shoyo e Tobio che mi hanno accompagnata riga dopo riga. Ho amato tantissimo le vostre recensioni e i feedback <3
Siete splendidi, davvero e grazie tantissimo a voi che non solo mi sostenete, ma mi fate sognare con le vostre fanfiction!

A presto!

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