Argonauta

di MisSilvieLemon
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Gabinetti, eroi e l'ispirazione ritrovata ***
Capitolo 2: *** I ***
Capitolo 3: *** Quella donna è zucchero ***
Capitolo 4: *** Ain't me, babe ***
Capitolo 5: *** Birra, rum e colpi di testa ***



Capitolo 1
*** Gabinetti, eroi e l'ispirazione ritrovata ***


 



Harry aveva costretto se stesso alla noia e alla monotonia per tutto il tempo che gli era sembrato necessario da essere così al sicuro da quello che chiamava "delirio post-risveglio".  Quegli anni di tournée, dischi, notti insonni, cibo esotico, feste e solitudine infinita lo avevano fatto girare su una giostra veloce, luccicante, della quale non poteva nemmeno vedere se poggiasse o meno al terreno, immersa nel buio com'era la immaginava altissima.
Beh, qualcuno a quanto pare aveva deciso di accendere la luce e lui si era reso conto di essere solo a pochi metri terra, tutti quei giramenti di testa per cosa? Perché si, aveva toccato il cielo con un dito e, come diceva lui, "più in alto di così non si può" ma aveva anche scoperto, suo malgrado, che questo cielo non era così alto come desiderava.
Aveva deciso quindi di tornarci, in terra, fino a non sopportarla, annoiandosi forzatamente, per poi scoprire che non la voleva più, una giostra. Che gli andava bene guardare il cielo da terra, e, al massimo, costruirsi una bella casa sulla montagna più alta che poteva immaginarsi. Immaginazione che, nei suoi solitari pomeriggi, sul divano della casa dove era cresciuto, viaggiava a mille. E si vedeva, conquistador della sua vita, con le scarpe adeguate, picchetti e tutto, certo, mentre piantava bandiera su quella vetta.  E poteva dirsi, finalmente, "più in alto di qui non posso andare, ma nessuno può spegnere una montagna come si può fare con una giostra" e la visuale, inoltre, era decisamente più nitida del buio cosmico che percepiva prima.

Poi era successo che la voglia di scrivere gli era nata, più che tornata, gli era proprio nata un pomeriggio piovoso, orrido e puzzolente quando quella che quel giorno si meritò il titolo di "ragazza più bella del pianeta" passò davanti a lui con un profumo decisamente scadente e due occhi abbastanza ordinari. Ma si disse "Che ci vuoi fare, un paio di mesi nella campagna inglese e anche i miei standard si abbassano".
Ma non voleva più scrivere di ragazze, voleva scrivere di eroi, di coraggio, di storie assurde che gli venivano in mente mentre era al gabinetto o di sogni irrealizzabili. In ogni caso quello era stato un'inizio.

 

Passeggiava per Holmes Chapel, nevicava piano, e sua sorella non parlava mai della "prossima mossa da fare", questo lo faceva riposare.
Le passò un braccio sulle spalle per stringerla un po' a se  e riscaldarsi.
- L'hai più sentito "odio le boyband tranne quella di tuo fratello perché voglio entrare nel tuo letto"?- rise sguaiato come al solito, guadagnandosi una gomitata sulle costole da Gemma che si liberò dalla sua stretta.
-Si, gli ho promesso il tuo primo album da solista come regalo di Natale- sorrise piccata, lasciando Harry spettatore di un sorriso tanto simile al suo da conoscerne ogni anfratto.
-Spero tu non abbia specificato il Natale di quale, anno- le labbra curvate lievemente, forse un po' amareggiate - e poi chi ti ha detto che scriverò un album? o che io lo sappia effettivamente fare…- aggiunse poi, la voce più bassa, dicendo per la prima volta ad voce alta un qualcosa che assomigliava alla verità.
-Guarda che le conosco tutte le storie che inventi, che mi racconti spacciandole per vere, o quelle canzoni che ti inventi in bagno….- con la voce che voleva sembrare come di rimprovero risultando solo ancor più dolce alle orecchie del fratello.
-Vorrà dire che farò lo scrittore o il cabarettista!- rise piano, scuotendo la testa e spostando lo sguardo dal viso di sua sorella alla strada, lontano, un po' per nasconderle di aver provato paura per le sue stesse parole.
Gemma poteva poteva dire di conoscere ogni sfumatura della voce di suo fratello, e ringraziando la chiarezza e la semplicità che li contraddistingueva entrambi gli disse, rallentando un po' il passo: -Harry, davvero, qualunque cosa tu deciderai di fare andrà bene…fosse anche diventare un centometrista…ma ti conosco, avrai voglia di raccontare qualcosa e ora hai davvero tutto il tempo del mondo- e detto questo lo superò di corsa perché, faceva decisamente freddo, la neve si stava infittendo e ,come un miraggio, era apparsa la loro casa, in fondo al vialetto. 

Harry senti qualcosa di caldo offuscargli la vista ma non ebbe il tempo di far cadere nemmeno una lacrima perché senti la sorella aggiungere a voce alta, quasi urlando -…e poi, quante volte caghi al giorno? Sai quante canzoni che puoi scrivere!- la sua frase finì inghiottita da uno strillo divertito quando suo fratello spicco una corsa per raggiungerla e agguantarla.

 

Nel suo letto, il suo piccolo letto di quando aveva sedici anni, quello che lo aveva visto diventare uomo e che aveva ostinatamente deciso di non cambiare per nulla al mondo, ripensò alle parole di sua sorella.
"Tutto il tempo del mondo" si gustava ogni parola di quella frase, per istante si sorprese addirittura a ripeterla sotto voce, realizzando finalmente che nessuno si aspettava nulla da lui, nessuna fantomatica "prossima mossa" eppure fu in quella notte che Harry presa una decisione. Tornò ad immaginarsi conquistador e si disse "forse non mi serve più tutto il tempo del mondo, mi serve un'adesso" si addormentò pensando che forse era giunta l'ora di partire.

 


-Honey, smettila di ingozzarti, stai sputacchiando- il rimprovero di sua madre gli arrivò dolce come dolci erano stati tutti i rimproveri che lui non sentiva da anni, anche se in quei cinque mesi stavano tornando stupendamente fastidiosi e degni di sbuffi. Ingoiò l'ennesimo cucchiaio stracolmo di latte e cereali, sollevando gli occhi al cielo, scocciato.
-Vado in Giamaica- disse che, se non fosse stato appena sveglio, sarebbe suonato come la battuta di punta del suo one-man show. 


A  7.418 chilometri in linea d'aria Anna, dietro al suo bancone, che era un po' il suo palco, si inventava una delle sue storie mirabolanti per allontanare l'ennesimo uomo venuto a conquistarla.


 


argonauta

ar·go·nàu·ta/
sostantivo maschile

      1. 
Navigatore ardito, avventuroso (dalla denominazione degli eroi mitici che, al seguito di Giasone, parteciparono al viaggio dalla Grecia alla Colchide per la conquista del vello d'oro).

 

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Capitolo 2
*** I ***


I


 

Sua madre si aspettava che, prima o poi, sarebbe arrivato il momento di risalutare Harry e buttarlo di nuovo nelle braccia del mondo, non accoglienti come le sue, forse, ma abbastanza spaziose per tutti i desideri che Harry ci nascondeva. Los Angeles, se la sarebbe aspettata, forse l'Australia, ma proprio la Giamaica no. Si diede della sciocca quando, pur di giustificare la scelta, pensò che l'idea doveva essergli venuta quella sera in cui sul divano di casa, loro tre, guardavano un documentario su National Geographic Channel riguardante una specie endemica della Giamaica in via d'estinzione.
No, si disse, suo figlio doveva avere una motivazione sicuramente più poetica.

 

-Gemma ti ricordi l'hutia giamaicano?- disse Harry, sdraiato a pancia in su sul tappeto nella camera di sua sorella, con gli occhi persi nel soffitto bianco.
-Non ci credo…- sospirò esausta, coprendosi teatralmente il volto con le mani.
-Ti immagini, se effettivamente ne vedessi uno?- continuo imperterrito per poi ridere, con le fossette a premergli le guance lisce, appena rasate.
Era l'ultima sera che passava a casa, ripensava ai mesi passati, agli anni passati, tutto era così assurdo, a tratti al limite del ridicolo, ma comunque una meraviglia che si palesava ai suoi occhi, ogni qualvolta ci pensava.
Era grato, si rendeva conto di quanto fosse banale un pensiero simile, ma era grato alla vita che gli scorreva nelle vene, che gli si presentava sotto forma di ricordi lampeggianti e gli chiedeva solo "stupisciti".
-Sei pronto a partire?- gli chiese Gemma, sapendo che questa volta era diversa da tutte le altre. Aveva il sapore, infatti, di una prima volta. Gli One Direction non si erano ufficialmente sciolti, no, certo, ma tutti, tutti coloro che avevano vissuto quegli anni di fuoco, di miraggi e meraviglie, sapevano che qualcosa era finito. Qualcosa era cambiato. I ragazzi erano diversi, le scelte non più incoscienti, gli sbagli, ora, avevano conseguenze eterne, nessuno che poteva mitigarli. Louis era padre, ed Harry non lo sentiva da mesi.
-Si può essere pronti?- ribatté mentre sentiva l'urgenza della vita che chiedeva di essere vissuta.
-Forse no…- rispose Gemma, nella cui testa si affollavano svariati pensieri, mentre realizzava che, nessuno sapeva cosa potesse uscirne da questo viaggio.
-Spero mi verrai a trovare, non so quando tornerò, ma forse avrai un regalo per il tuo ragazzo- rise lui, allungando un braccio verso il letto di lei per toccarle il braccio.
-Non è il mio ragazzo- sbottò lei, dandogli un colpetto sulla mano prima di stringerla nella sua  per un'istante, mentre tornavano ragazzini.


Quella sera Harry si prese tempo per gustarsi la sua famiglia, gli occhi di sua madre colmi di sorrisi, anche se lui continuava a scorgere il dolore costante per la morte di Robin, che ormai aleggiava su di lei come un velo. Tempo per perdersi nelle sciocchezze che accompagnavano quelle sue giornate monotone, e che pure ora riviveva una per una assaporando sulla lingua la sensazione di avere un posto dove tornare, immutato in qualche modo, semplicemente casa. Si era beato di una cena a base di tutti i suoi piatti preferiti, e di quella leggera tristezza che lo faceva sentire amato.
Era uscito al pub del paese, poi, con i suoi amici, per dirgli solo alla fine, in mezzo ai saluti, che sarebbe andato via. Con i suoi occhi grandi e chiari, corse subito a cercare lo sguardo di Felicity per trovarlo rivolto a terra, sulla punta delle sue vecchie Adidas. Aveva protratto quel momento fino all'ultimo ma sapeva che era arrivato il momento di parlare con lei, probabilmente tutti se n'erano accorti di ciò che passava negli occhi limpidi di Felicity negli ultimi mesi.
Pure, lei, doveva sapere, tanto che appena Harry le si avvicinò, disse, piano: -Quindi è arrivato il momento- con un sorriso fragilissimo a muoverle le labbra.
Harry davanti a lei come a proteggerla dagli occhi degli altri, la copriva con la propria stazza, il cuore che gli si stringeva per ciò che stava per accadere. Si sentiva un po' accaldato con il il sangue che gli arrossava la pelle chiara.
-Mi…dispiace, mi dispiace davvero- sussurrò, delicato "mi dispiace che non posso essere quello che desideri", continuò nei propri pensieri. I loro corpi erano illuminati dalle luci al neon, colorate, che provenivano dalle vetrate del pub nel quale erano stati, la musica, dal suo interno, si poteva ancora percepire, mentre sbatteva soffice sui vetri, suonava una canzone vecchia, della quale ad Harry sfuggiva il nome.
L'aveva visto, lo sguardo di lei, cambiare in quei mesi. L'aveva visto addolcirsi, intenerirsi, accendersi di desiderio per lui. C'erano giorni in cui era quasi insostenibile vedere quanto bene ci mettesse lei anche solo per salutarlo, per offrirgli una birra per ridere di ogni parola che usciva dalle sue labbra.
-Era così evidente, non è vero?- rise, grata che con Harry potesse essere semplicemente se stessa, anche ora, che il cuore le si stava spezzando, non aveva nemmeno dovuto chiedergli "Di cosa ti dispiace?".
-Ti conosco- rispose lui, semplicemente. Era pur sempre il suo primo bacio quella che ora era una donna, ancora così minuta, ai suoi occhi.
-Salutiamoci da amici e dimenticherò tutto- sorrise ancora, anche se le sue labbra stavano per tremare, pronte a cedere ad un pianto silenzioso. Harry senti lo stomaco stretto, eccome se la conosceva, per questo l'attirò a se per stringerla fra le sue braccia, sperando di non spezzarla.
-Ti voglio davvero bene- e non mentiva, mai.
Felicity sentiva quella voce muovere l'aria fra i suoi capelli, e pensò che più vicino di così, forse, non l'avrebbe mai più sentito.
-Mi hai fatta innamorare due volte in una decina d'anni, che disastro- rise, bagnando il maglione di Harry di lacrime calde.
-Beh, la prima volta mi hai piantato tu- disse cercando di farla ridere, anche se non smetteva di carezzarle la schiena, dolcissimo.
-Che stupida- scosse appena la testa, sfregando il viso sul petto di lui, petto di cui aveva conosciuto gli angoli nascosti quando ancora era un'informe adolescente, ma che lei aveva amato, in modo acerbo, certo, ma l'aveva amato. Harry la strinse un'ultima volta prima di lasciarla andare.

Poco dopo, era stretto e baciato dagli altri, un miscuglio di pacche, braccia che lo circondavano, raccomandazioni e infine quei "Ricordati di…" che vengono sempre e puntualmente dimenticati. L'ultimo ricordo impresso negli occhi degli amici fu la sua figura, in mezzo alla pioggia sottile che aveva ripreso a cadere, mentre si allontanava. E quante altre volte l'avevano visto così, di spalle, andare via.


Ripensò a Felicity, più tardi, quella notte. Erano anni che nessuna ragazza riusciva davvero a smuoverlo, a muoverlo, anzi. A farlo desiderare, inventare, scrivere e conquistare. Nessuna che fosse riuscita ad insinuarsi, a fermarsi con lui mentre attraversava la vita, di corsa cercando di sfinire ogni giorno, forse l'aveva incrociata ma era andato via, sempre troppo presto, sempre troppo poco tempo. La partenza si faceva chiara ora, effettiva, vicina.
Le sagome scure dei bagagli nella sua camera, bagagli che prospettavano un viaggio più lungo del previsto, Harry immobile ne seguì i contorni nel buio prima di cadere in un sonno profondo.


 

Anna, nella sua piccola stanza, dall'altra parte del mondo, si rigirava nel letto, e pensava "Senza prospettive, ecco cosa sono". Al solito la frustrazione si impadronì di lei, facendola quasi rivoltare, prima che il peso effettivo della sua vita le si rovesciasse addosso, al solito, e la facesse sentire semplicemente ingrata. Non riusciva a stare con se stessa, desiderava uscire, e con grande tristezza ogni volta si rendeva conto che era impossibile. La chiamata di quella mattina, in realtà, le aveva affibbiato una prospettiva, per i mesi a seguire, ma non era quella che lei chiamava "la svolta", quella che sognava di nascosto la notte, che l'avrebbe tratta in salvo, quella alla quale rivolgeva preghiere e attese, quella che le avrebbe cambiato la vita.
Si addormentò, maledicendo i suoi interminabili sogni e i suoi speranzosi e bellissimi desideri.

 

-


Appena atterrati il caldo asfissiante gli aveva sfiorato la pelle chiarissima e aveva iniziato a cancellare gli abbracci di sua madre e Gemma che ancora sentiva addosso, a riscaldare un po' la paura che lo stava attanagliando, a riempirgli il petto che non aveva una ragazza da far appoggiare.  Erano atterrati a Montego Bay, il villaggio in cui si dirigevano era il posto più agli antipodi del mondo che a Harry fosse venuto in mente. 
In macchina i finestrini completamente abbassati trascinavano dentro l'aria bollente, che sapeva di foresta, di scarico di automobili. Il mar delle Antille come linea costante li accompagnò sino a destinazione. Gli occhi di Harry erano abituati pressoché a tutto il mondo, oramai, ma quanto gli piaceva l'ignoto, fosse anche un nuovo colore, un nuovo profumo, una nuova risata. Mentre la macchina si infilava nei vari villaggi, dalle strade disastrate, lungo la via, Harry potè notare chiaramente la vita che si svolgeva con lentezza, con povertà, con risate con magnifica ordinarietà. 
Quando si fecero vicini, almeno secondo il loro autista, si infilarono in quello che era il paese ai piedi della collinetta, nascosta fra l'alta vegetazione, dove si trovata la Villa che avrebbe ospitato lui, la sua band e Jeff, il suo produttore.
La strada si faceva più pulita, più curata, la foresta addomesticata, mentre superavano il cancello automatico moderno, fuori luogo.

 

Anna uscì di fretta dalla porta scorrevole bianca, che dava sul retro del giardino dove suo padre annaffiava sotto il sole ancora tiepido. Aveva appena lasciato un biglietto, che sua madre forse non avrebbe approvato, sul tavolo della sala pranzo, in mezzo alle prime vivande, all'acqua, al latte fresco e alla frutta di stagione colta li vicino.
Corse a schioccare un bacio sulla guancia di suo padre, il vestito corto che le solleticava le gambe, il umore di una macchina nel viale di ghiaia le fece aumentare ancora più il passo mentre spariva dietro un portoncino.

 

Harry lesse a voce alta "Scrivete qui cosa desiderate e sarete esauditi", rise piano, guardando quella grafia frettolosa.

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Capitolo 3
*** Quella donna è zucchero ***


 

II

 

Harry si svegliò presto la mattina seguente, nonostante avessero festeggiato il loro arrivo tirando fino a tardi con le chitarre e consumando un'innumerevole quantità di birra, persi in quel giardino umido ed invaso dalle zanzare. Rimase qualche istante a bearsi delle lenzuola bianche avvolte intorno al corpo, il viso a sfregare sul cuscino, la testa completamente sgombra.
Per un istante, uno solo, credette di essere ancora in Inghilterra, finché i rumori provenienti dalla grande vetrata non gli diedero il loro buongiorno, si voltò su un fianco, piantando gli occhi appannati sulla vegetazione, verdissima, ancora scura e profonda nelle prime ore del mattino.
Si alzò indossando solo un paio di pantaloncini, mentre i suoi piedi nudi strisciavano sul parquet trascinandolo sino alla cucina. Sedette al tavolo della sala pranzo al cui centro era stato posto un vaso di fiori freschi, si chiese a che ora fosse accaduto, essendo per lui così presto. Accanto ad essi il solito foglio in cui scrivere la lista di ciò che gli occorreva, stavolta però recava la scritta "Solo tre desideri", sorrise piano.
Poco dopo ingoiò l'ennesimo cucchiaio colmo di cereali per poi gettare un'occhiata al suo telefono, gli occhi si spostarono fuori dalla finestra mentre pian piano riprendevano la loro limpidezza seguendo la vita che si svegliava e si srotolava piano.
Poi un lampo, un lampo e gli sembrò di scorgere una figura nel giardino tra la luce celeste dell'alba e l'aria fresca, che passava come un soffio vicino al giardiniere, avvolta in una giacca. Vide solo dei capelli scuri e delle gambe lunghe attraversare con sicurezza il prato, e questo gli bastò per ritrovarsi lontano mille miglia da lì. In un'altra vita, in un'altra parte del mondo. Gli occhi non lasciavano il perimetro tracciato dagli infissi in legno bianco  ma ora, al loro interno, Harry non vedeva più il giardino.
Non seppe cosa fece scattare in lui quel tumulto di ricordi che gli invasero la mente. Era da tanto che non pensava a lei.
Rimase lì, seduto, per una buona decina di minuti, con il cuore a battere più forte mentre ripensava a un giorno, a una sera particolare, quando con l'amaro che gli riempiva la bocca aveva accolto l'ennesima sconfitta.  L'ennesima corsa contro il tempo, contro la sua stessa vita, per una ragazza che, forse, per una volta, poteva davvero amare.
Quanti tavoli di ristorante, quanti alberghi, quante lenzuola fresche di lavanderia, quanti vestiti disseminati per il mondo e quante chiamate perse gli stavano passando davanti agli occhi. Ormai non si sentivano da più di un'anno e mezzo. Le parole cominciarono a uscire, incespicando, fra i suoi capelli aggrovigliati e i pensieri assonnati. Butto giù un'altro  cucchiaio di cereali, gli occhi più scattanti alla ricerca di una penna e di un pezzo di carta nel quale cominciò a scrivere, febbricitante, con il cuore veloce nel petto. Gli veniva quasi da ridere per l'entusiasmo.

 

Quando Jeff e Mitch si svegliarono fu solo per il suono degli accordi che Harry premeva sulla sua acustica dal legno lucido, macchiato di impronte, poggiato sul suo petto nudo. Petto che ogni tanto si tendeva oltre di essa per correggere un verso, una parola, sul foglio posto di fronte a lui.
Cantava piano, sottovoce, ignaro che a pochi metri Anna, mentre tornava sui suoi passi, lo osservava resa spettatrice di un film muto.

 

-

 

-Cazzo, è fantastica, Harry, fantastica- la voce di Jeff, il suo produttore, arrivò dagli altoparlanti mentre Harry si sfilava le cuffie, sorridendo. Al di là del vetro vide i ragazzi fargli cenni d'approvazione mentre discutevano se fosse meglio spostare l'entrata del basso nella canzone o rallentare alcune battute sulla seconda strofa.
Un'intera settimana, o poco più, era passata e tre demo per l'album erano state già incise. Aveva scritto pensando a lei, solo a lei, anzi più precisamente pensando a quella sensazione che lo aveva invaso, che gli faceva avere nostalgia del cuore a mille, eccitato. Aveva scritto il verso "tryin' to remember how it feels to have a heartbeat", e non era sicuro che lei provasse lo stesso, ma le aveva voluto ficcare a forza le parole in bocca, nella speranza di dividere il fardello.
Aveva scritto a Gemma che, forse, un album poteva venire fuori, ma poi era sparito per giorni, così preso dalla musica e dalle parole che gli vorticavano in testa, suonava, suonava, sino a tarda sera, in quel giardino di cui ormai iniziava a riconoscere le forme, la pompa lasciata ordinatamente a terra, la bicicletta nascosta fra i cespugli e i fruscii degli animali fra la vegetazione.

-

 

-Io non ce la faccio più- disse come l'ultimo, disperato, grido d'aiuto mentre covava la speranza che ci fosse qualcuno, almeno questa volta, ad ascoltarla. Immaginava che qualcuno la vedesse, che si accorgesse di lei, piccola come si era fatta per nascondersi, desiderava potersi alzare in piedi, sbracciarsi e chiedere aiuto perché era naufraga e voleva lasciare quel posto, voleva gettarsi su prore e su ali e non voltarsi più indietro. Libera, per una volta veramente libera.
La "svolta", l'eroe coraggioso, il fatto miracoloso, ciò in cui credeva Anna, in quei primi pomeriggi afosi carichi di rancore e frustrazione, diventava qualcosa da guardare con una tenerezza quasi penosa, con imbarazzo perché anche solo si è pensato di sognare così in là.

-Sono io a non farcela più, Anna la devi smettere di vivere nei tuoi sogni, la devi smettere, mi hai capita? È questa qui la tua vita- ogni parola di sua madre andò a segno, la rabbia le faceva tremare le mani e il petto si caricava, pronto ad accogliere l'aria per urlare. Ma un solo accenno di sua madre al corridoio la fecero desistere quasi all'istante, lasciandole il corpo indolenzito.
-Devi fare la spesa per la villa- concluse, come svuotata, quella donna così pallida che le stava davanti. Per un'istante, come risvegliandosi da un ricordo, si rese conto che sua madre era invecchiata. Si concesse pochi attimi per contemplare la pelle più spessa del suo viso, gli occhi stanchi, i capelli più opachi di come ricordava. Si fermo ad osservare quelle mani che compivano gesti sapienti ma ormai meccanici nel preparare il pranzo e fu trafitta dall'affetto, dal senso di colpa, e le mancò l'aria, perché per quanto la volesse, una via d'uscita non c'era.
E l'unica vita che l'aspettava, che le toccava di vivere era proprio quella lì che le si presentava ogni mattina e scorreva, incurante di lei.

Non indugiò oltre, era ancora tremante e voleva provare solo rabbia, così uscì sbattendo la porta d'ingresso, le dita strette intorno a quel foglietto scritto con una grafia infantile e tonda, con la quale aveva ormai familiarità circa di tre settimane. Sentiva le lacrime che spingevano per uscire, prepotenti, ma ancor più forte era il desiderio di prendere a pugni la staccionata bianca, non sentì nemmeno il dolore alle nocche quando, per davvero, sferrò il pugno.
Ormai svuotata saltò sulla sua bicicletta, desiderando di pedalare sino all'estremo della terra, o almeno dell'isola, ma, come più comunemente accadeva, finì semplicemente davanti al market. Prese un respiro profondo appena fu dentro e diede un'occhiata a quella maledetta lista, notando poi, solo in quell'istante che sul retro del foglio strappato si trovava un'appunto in corsivo: "From the dining table". Si chiese cosa significassero quelle parole e per un'istante ebbe il ricordo quel ragazzo, mentre faceva colazione, sempre la chitarra sotto braccio, ogni mattina. L'aveva perfino sentito, una notte in cui era tornata da casa di Ernie, non l'aveva visto ma l'aveva sentito suonare perso chissà dove in mezzo al giardino, sicura di non essere vista, lei aveva nascosto la sua bici, come ogni volta.
Il pensiero di Ernie la face illuminare, improvvisamente la voracità che le abitava il petto cominciò a scalpitare, le era venuta un'idea per soffocare la frustrazione. In pochi istanti decise cosa fare, sarebbe andata da l'unica persona che poteva aiutarla, e prestarle una chitarra, sopratutto.
Quando uscì, sistemò le buste nel cesto e fece in tempo a ridere, addirittura, per una conversazione che stava avvenendo in mezzo ai banchi di frutta all'esterno tra un palesemente confuso e balbettante ragazzo inglese e Frank, il proprietario, che parlava la lingua patois dell'isola.


-Ti sta chiedendo dove hai comprato gli occhiali da sole- sentì dire Harry da una voce alle proprie spalle. 

Ringraziò il cielo perché negli ultimi cinque minuti, incredibili e stupefacenti cinque minuti di conversazione, poteva dire di non aver capito niente. Sentiva già la risata sfuggire dalle sue labbra. Harry si voltò verso la ragazza che aveva parlato, la quale ora rideva leggera, si alzò gli occhiali sulla testa tirandosi indietro i capelli, in un gesto abituale, gesto che però interruppe sfilandoseli e rigirandoseli fra le dita. Con gli occhi fissi sui propri Rayban non notò lo sguardò sbalordito della ragazza davanti a lui. Ma Anna aveva capito, sapeva di star ammirando Harry Styles in tutta la sua bellezza, in quel primo pomeriggio soffocante che aveva appena preso una piega decisamente inaspettata.
-Questi? Chiedeva di questi?- rise di gusto, con le guance piene e arrossate dal sole di quella mattina. -Pazzesco, come li ha chiamati?-
-Darkers, si dice così sull'isola…ma Frank sa benissimo come si dice in inglese! Ti prendeva in giro, o mi sbaglio?-
Harry si voltò con gli occhi colmi di sorpresa e sbottò senza poter trattenersi dal sorridere, ancora, -Andiamo! Frank! Mi prendeva in giro?-
L'uomo rispose in maniera incomprensibile ma, Harry capì, che, con molta probabilità, lo stava ancora prendendo in giro. Ripeteva "bawn back a cow, but bonafide" scuotendo la testa, sorrideva e tratteneva un sigaro ormai consumato fra le labbra. Harry notò che a quel sorriso mancava qualche dente.
-Faccio così ridere?- scosse la testa Harry, incapace di trattenere ulteriori sorrisi a vedere come quella ragazza si stava divertendo.
Era particolarmente bella, forse complice il muro di un azzurro vivace dal quale spiccava, forse la voce di Sam Cooke che risuonava all'esterno del market, forse il sole che gli aveva picchiato in testa per tutta la mattina sulla spiaggia o forse, semplicemente, il vestito più corto mai visto.
Anna si chiese quanto fossero lontane quelle urla che poco prima erano pronte a deformarle le labbra, mentre Harry, camicia a fiori e giorni pesanti addosso, si stava chiedendo se ci fosse qualcosa nell'intero mondo che sembrasse più morbido di quelle labbra.
-Non immagini nemmeno, dice che sei uno stupido ma di buon cuore- rispose, facendo un cenno alle sue spalle, mostrando ancora quei denti bianchissimi sulla pelle color caffellatte.
-Una magra consolazione- rispose parlando lentamente, gli occhi che passavano piano a studiare quel nuovo volto.
-Sei qui in vacanza da solo? Neanche una guida?- continuò lei, poggiando entrambi i piedi a terra, tenendo le mani ancora strette al manubrio e uno sguardo indecifrabile a muovergli quegli occhi scuri.
Harry notò le nocche graffiate e rosse ma lei non le ritrasse, gli sembrò solo vederle stringersi di più.
-Sì, io sono qui…sono da solo, neanche una guida- mentì spudoratamente e gli occhi di lei si fecero scintillanti, i capelli smossi dal vento e un twist alla radio. Non sapeva, esattamente, perché avesse mentito, ma ripensando ai giorni passati aveva un'incredibile voglia di giocare.
E aggiunse con quella sua faccia un po' da schiaffi -Ti ho dato l'impressione di averne bisogno?- 

Anna quasi non riuscì a trattenere lo sgomento davanti a una bugia così sciocca, pensò, che forse, voleva solo mantenere la sua privacy. Ma no, ma no, qualcosa le diceva che si sarebbe spinto persino oltre se lei avesse continuato a porgli delle domande.
-Dove alloggi?— insistette, aggiungendo poi - E si, ne hai decisamente bisogno-
-Sto in una piccola pensione vicino…vicino alla spiaggia-
-Ah, si…una piccola pensione, perfetto allora!-
-Perfetto?-
-Senti, hai qualcosa da fare stanotte?- lo prese alla sprovvista lei, mentre stava già pensando a qualche storia credibile e fantastica da raccontarle se avesse fatto altre domande sul suo conto. Harry non le aveva lasciato gli occhi un solo istante e sentì l'ennesima risata spontanea e leggera premere sulle sue guance per uscire, ma si trattenne con un'espressione che lei doveva ritenere particolarmente comica.
-Come scusa?- si fece scappare, gli occhi grandi e increduli dentro quelli di lei, scuri e brillanti -no, non devo fare niente- si affrettò ad aggiungere, convinto forse dai suoi zigomi alti e dalla promessa che si era fatto proprio quella mattina, quando era quasi scappato da casa.
-Allora stasera, verso le dieci, vieni sulla piazza vicino alla spiaggia…immagino tu sappia di cosa parlo, no?- 
-Si…io…certo, certo, vicino- farfugliò Harry, estasiato dalle lentiggini che aveva appena scoperto sul naso di lei - ma almeno, posso sapere come ti chiami?- con la voglia di dare un nome a quello che sarebbe stato il suo pensiero lungo tutto quel lungo e caldo pomeriggio che lo attendeva.
-Anna, mi chiamo Anna-
E aveva già canzoni da dedicarle, ma soprattutto, pensò, esisteva davvero una pensione vicino alla spiaggia?
 

-Aah, i-dren! dat ooman is sugga- disse la voce impastata alle sue spalle, ed Harry afferrò in pieno il concetto, almeno 'sta volta.

 
 

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Capitolo 4
*** Ain't me, babe ***


III

Ernie viveva poco distante dal market, la sua porta era sempre aperta, la veranda sempre a pezzi ma mai, mai, Anna l'aveva visto senza un sorriso, senza qualcosa sul fuoco e senza una canna.
Dall'interno della casa proveniva il solito cd usato e strausato dei Paragons (On the beach suonava piano), tanto che qualcuno poteva aspettarsi che fossero risuscitati con l'unico proposito di cantare nel salotto malandato di Ernie. Anna accaldata e arrossata saltò giù dalla bici, aveva pedalato in fretta perché fremeva per la nuova piega che aveva preso quella lunga e bollente giornata.
Poggiò la bici contro il parapetto di legno della veranda e inscenò una piccola danza mentre si avvicinava ad Ernie che sorrideva e "Piccola mia, non dovresti essere a lavoro?".Anna rise scuotendo la testa mentre si avvicinava, un passo avanti, uno indietro, mentre muoveva i fianchi a tempo con quella musica che era impressa nella sua pelle da che aveva memoria. Ernie rise con lei e si alzò andandole incontro per un ballo improvvisato, la su quella veranda scricchiolante che tanti altri ne aveva visti.
-Stai bene?- le disse mentre le faceva fare una giravolta, le mani a scorrere su quel tessuto leggero che gli scivolava via dalle dita, fresco.
-Sono stufa Ernie- sospirò con la testa sulla sua spalla, i spread che le pungevano la pelle delle guance la fecero sorridere per la familiarità del corpo del suo amico. Il peso dell'ennesima lite era tornato inesorabile.
-Lo so, lo so- sospirò lui, avrebbe desiderato vederla libera, davvero libera, c'erano volte in cui sperava di non rivederla più sull'uscio di casa sua, e se la immaginava altrove, più felice.

Poco dopo erano seduti sorridenti sugli scalini del portico, spalla contro spalla, Ernie con una canna a pendergli dalle labbra e Anna con una bottiglietta ghiacciata di ting* tra le mani.
-Cazzo, Annie, oggi è una giornata meravigliosa, benedetta da Jah, credimi- rise Ernie con gli occhi lontani da lì, attirandola a se con un braccio e facendola ridere di gusto.
-Sai cosa? Hai proprio ragione, ho davvero visto un angelo poco fa- sorrise ironica, una mano su quella di lui che penzolava dalla sua spalla,
-È questo il motivo per cui non sei a lavoro?- disse mentre il fumo sfuggiva dalle sue labbra appena piegate in un sorriso.
-Diciamo che è questo...quindi, mi presteresti la chitarra?- rispose Anna, i progetti per quel venerdì che si delineavano risoluti nella sua mente. Il venerdì sera, solitamente, coincideva sia con uno dei suoi turni al bar e sia con il palco aperto a chiunque volesse cantare qualcosa, e lei non perdeva mai l'occasione per stare lontana da casa sua.

Il suo desiderio di fuggire si concretizzava solo in queste piccole e rare occasioni in cui poteva giocare ad essere chi voleva, senza il pensiero a spaccarle la testa di quello che aveva lasciato dietro la porta di casa, senza il pensiero per una notte di dover tornare nel suo letto, senza il pensiero di dover essere se stessa con tutto quello che si portava dietro questa espressione.
Voleva essere una sconosciuta e vivere nella pelle di qualcuno senza necessariamente un passato o un futuro da raccontare o da cui provenire. E le riusciva maledettamente bene questo gioco.
-Qualcosa mi dice che stasera sarà il tuo angelo ad avere un'apparizione- scosse la testa Ernie, da tempo sapeva quanto dolore avrebbe portato tutto questo alla sua amica, la quale però, non aveva il coraggio di fermare. C'erano dei venerdì sera, infatti, nei quali Ernie assisteva ai tentativi di scappare da se stessa di Anna, i più disperati tentativi di far credere a qualcuno di essere al centro del mondo, delle sue attenzioni, i disperati tentativi di rendere tutto più interessante solo per una notte. Quelle volte la guardava negli occhi e ci cascava, ci cascava anche lui e si convinceva di vederla felice, di vedere del sollievo in quegli occhi perennemente addolorati. E allora non faceva niente, non diceva nulla. Raccoglieva i pezzi quando poteva forse non era abbastanza ma una soluzione per lei, ancora, lui non ce l'aveva.
-Non mi chiedi nemmeno chi è?- fece pochi istanti dopo con gli occhi scintillanti, la chitarra sulle spalle mentre inforcava la sua bicicletta rossa.
-Sentiamo, brownie*...- scosse la testa contrariato, ma incapace di trattenere un sorriso, si era appena posta un obbiettivo e niente l'avrebbe distolta da quello che aveva in mente.
-Harry, quello che sta alla villa, al quale son destinate queste banane per altro- disse lei mentre le sollevava dal cesto, controllando il loro stato dopo tutto quel tempo al caldo.
-Tu sei matta, completamente- sgranò gli occhi Ernie che riuscì a prendersi un bacio volante da Anna che già si stava allontanando.
-A stasera Ernie...e grazie!- si voltò per l'ultima volta, il braccio alzato per salutarlo.

Anna sulla strada di casa non sapeva bene come le fosse venuto in mente di invitarlo quella sera, sapeva solo che finché lui non aveva mentito non era diventato così interessante. Pensò anche a come le era sembrato impacciato mentre le mentiva e la cosa più bella è che sembrava portare con fierezza anche il suo impaccio, senza nasconderlo, per quello, si disse, rideva così tanto, rideva anche di se stesso. 

 

Harry aveva fatto ritorno a casa, o quella che era la sua casa da un po', aveva allungato il cammino, tirato la strada più del dovuto, il naso all'insù e dei passi lenti e piccoli che non rendevano giustizia alle sue gambe lunghe. Si riempiva i polmoni di aria, concentrato a metterci il più possibile a tornare, aveva bisogno di schiarirsi le idee, uscire gli aveva fatto bene, parlare con quella ragazza gli aveva dato una nuova prospettiva per la giornata, decisamente più allettante che tornare a discutere sull'album, ormai quasi giunto alla fine, e che sembrava un'intero fallimento a tutti in quegli ultimi giorni.
Non aveva forma, non aveva niente che gli piacesse e se n'era accorto quando quella lista di poco meno di venti canzoni non aveva per nulla l'aspetto del suo primo album da solista. Aveva deciso quindi di uscire quella mattina, in realtà praticamente scappato, dallo studio e dai ragazzi, per prendersi del tempo con l'unica voglia di non essere lui, per un po'.
Si era detto che avrebbe colto ogni occasione che quella giornata gli metteva sotto gli occhi, limpidi per accogliere tutto ma decisamente stanchi. Aveva deciso di esplorare, parlare e conoscere, di spingere negli angoli più lontani di se ciò che richiedeva la sua attenzione, fare spazio così da far entrare tutto il resto.
Quindi, Anna, come poteva non essere un messaggio dal cielo?

Cenò in veranda, impaziente, gli occhi persi come al solito nella fitta vegetazione, e ripercorreva forme scure che ormai conosceva a mena dito, la pompa, la bicicletta nascosta tra le piante, gli piaceva quel posto. Gli piaceva quel portico, quelle folate d'aria fresca che gli facevano chiudere gli occhi di tanto in tanto, non si sentiva solo e non si sarebbe mai mosso da lì.
Il peso del lavoro di quelle settimane ritornò però a spingere tra i suoi pensieri e farsi spazio, occupando tutto il posto che gli spettava. Aveva di nuovo paura, paura come quella che aveva lasciato in Inghilterra. Certo erano belle canzoni, ma il mondo è pieno di belle canzoni, e se lui non ce l'avesse fatta?
"Lo scrittore o il cabarettista", pensò con il cuore pesante.
Ma erano le dieci e un quarto e c'era l'altissima probabilità che quella ragazza lo stesse aspettando da qualche parte e lui non sarebbe mancato. Si incamminò verso la spiaggia, conscio che non sapeva esattamente dove andare se non fosse che era tutto troppo piccolo per essere perso in quel villaggio.
Quindi trovò una piazza, trovo un bar e trovò anche la ragazza che cercava.

La piazza era piccola, immersa nel rumore del mare, e l'unica cosa luminosa era qualcosa che somigliava ad un grande locale all'aperto, di legno con un piccolo palco arrangiato. Lì i suoi occhi corsero subito e vi si fermarono sorpresi di trovarla lì, in mezzo a signori troppo grandi e tante sedie di plastica.
-Adesso l'ultima, giuro- rise lei, togliendosi il plettro dalle labbra e scatenando dei "no" tra l'esiguo pubblico che le sedeva davanti.
Harry rimase impalato per qualche istante, prima di cercare una sedia libera abbastanza vicino al palco.
-L'ultima perché un ragazzo si è fatto attendere troppo- aggiunse al microfono davanti a lei, pessima acustica, fantastica freccia scoccata a Harry che finendo con gli occhi nei suoi non potè fare altro che ridere, incredulo. Alzò le mani in segno di scusa. Ma lei lo guardò solo con due occhi forti e un lato delle labbra appena alzato prima di iniziare a cantare.

"Go 'way from my window"

Gli sembrava di diventare matto, con quegli occhi puntati nei propri, gli sembrava di star essendo mangiato vivo.

"Leave at your own chosen speed"

Muoveva il corpo con forza, ma era leggera, leggera, lo stavo catturando, divorando anzi. Gli veniva quasi da ridere, e rideva, scuoteva la testa e si copriva il volto. Mentre quella ragazza non aveva occhi che per lui, non lo lasciava scappare, vagare con lo sguardo. Il braccio che si muoveva costante, a ritmo su quella chitarra scordata e le dita veloci che premevano gli accordi.
Muoveva i fianchi e continuava a cantare, guardandolo negli occhi:

"But it ain't me, babe

No, no, no, it ain't me, babe. 

It ain't me you're lookin' for, babe". 

La vedeva sorridere, e gli sembrava di sognare, la sedia di plastica che quasi gli pungeva, Harry si smosse e si spostò in avanti le mani a coprirgli la bocca e i gomiti poggiati sulle ginocchia.
C'erano solo loro due.

Appena si mosse la camicia larga che portava si abbassò facendogli sentire un peso all'altezza del cuore, ricordandogli pieno di stupore che nella taschina portava un'armonica a bocca. Non esitò a tirarla fuori, rigirarsela tra le dita prima di sventolarla, scintillante sotto le luci davanti a quella ragazza.
La vide annuire nella sua direzione, mentre continuava a cantare ma ora con il sorriso sulle labbra.
Splendida, mentre con la testa gli faceva cenno di andare lì.

"...I'm not the one you want, babe

I will only let you down

You say you're lookin' for someone

Who will promise never to part..."

Harry si alzò, la testa completamente vuota, l'armonica già sulla bocca mentre si sedeva sul bordo del palchetto, ai piedi di lei che non aveva smesso di guardarlo un solo istante. Iniziò a suonare e accompagnare quella chitarra così scoordinata ma assurdamente celestiale alle sue orecchie.
Senza rendersene conto, iniziò anche lui a cantare con lei, si dimenticò di tutto quello che gli pesava e cantò e suonò come se non ci fosse altro da fare al mondo. Altro da fare per risolvere il suo problema, e forse era davvero questo, l'unico modo.
Insieme, si chiese, se sembrassero terribili agli occhi degli altri, ma lui, in ogni caso, non voleva stare negli occhi di nessuno se non nei propri, spettatori di una scena riservata solo a lui.
Guardava le sue gambe scure e lucide da quell'aria umida e appiccicosa che non lasciava respirare nessuno in pace, un vestitino diverso da quella mattina ma delle stesse dimensioni striminzite.
Saranno state le birre bevute prima di arrivare, ma poteva dirsi innamorato per quella sera. Anche se, no, non era proprio lei che stava cercando.

"...io ti deluderò soltanto" cantava. 

Johnny Cash sulla sua bocca era qualcosa di troppo per l'impreparato cuore di Harry.

 

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-ting: tipica bevanda giamaicana, soda al gusto di pompelmo

-brownie: vezzeggiativo dal termine "browinin'" che nella lingua creola giamaicana significa "mulatto"

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Capitolo 5
*** Birra, rum e colpi di testa ***


-Sei venuto!- esclamò Anna sedendosi al suo fianco, la chitarra sottobraccio e una mano a toglierle i capelli dal viso, incurante degli applausi e dei fischi di apprezzamento delle persone davanti a loro che chiedevano un bis.
Ma Anna non glielo avrebbe concesso.
-Decisamente in ritardo- sorrise sghembo, cantare con lei in maniera così spontanea gli aveva fatto bene, si sentiva leggero nel petto.
-Puoi recuperare, ti va una birra?- gli chiese quindi avvicinandosi al suo viso, un po' di fiatone, la pelle coperta da un leggero strato di sudore, sorrideva e Harry poteva vederla da vicino, molto più vicino rispetto a quel pomeriggio.
La prima impressione che ebbe fu "Questa qui è inarrestabile"
-Beh, offro io!- disse facendola ridere.
-Ehi! Ehi! Williams!- Anna cercava di attirare l'attenzione di un ragazzo in bermuda coperti da un grembiule bianco intento a ritirare delle bottiglie da un tavolino poco distante.
Quando questi si voltò alzò gli occhi al cielo -Brownie, cosa c'è?-
-Ci porteresti due birre, per favore, Brownie?- rispose, sottolineando un po' stizzita l'ultima parola ma mantenendo il sorriso negli occhi.
-Se tu le prendessi da te potresti addirittura far finta di star lavorando, lo sai?- questo disse ma si allontanò verso il bancone, dandogliela vinta.
-Che fretta c'è?- gli sorrise ancora scatenando un'occhiata divertita di Williams, che chissà quante volte si era sentito dire quella frase.
Il modo in cui lo disse fece sorprendente bene, ancora, anche ad Harry.
-Lavori qui, quindi?- le chiese non appena l'attenzione di Anna fu di nuovo su di lui.
-Sì, ogni tanto al bar…il venerdì però c'è il palco aperto, può esibirsi chiunque- spiegò.
Nel mentre Ernie si avvicinò al palco, i dreads legati in una grande cipolla sulla testa, la pelle scurissima sui denti bianchi aperti in un sorriso molle.
-È fantastico, veramente fantastico- rispose entusiasta, rivolgendo i suoi occhi a Ernie, dietro il microfono che iniziava con una sua personalissima rivisitazione di una canzone dei The Paragons.
Anna si chiese cosa ci fosse di così fantastico, poiché assurdamente non erano parole di circostanza o accondiscendenti quelle del ragazzo di fronte a lei. Sembrava davvero entusiasta.
Sentì una punta di fastidio.
Mentre lo guardava, di tre quarti, dovette ammettere che era bello. Aveva il viso arrossato, probabilmente per i giorni passati sulla spiaggia, gli occhi lucidi di chi era stato tanto sotto al sole e con quelle luci erano di un verde davvero chiaro, liquidi, si ritrovò a pensare Anna.
Ne aveva comunque visti di migliori, pensò.
-Non è niente di che…-
-Scherzi? Questa è libertà pura-
-Vuoi suonare?- gli chiese senza quasi pensarci, e dimenticandosi persino, per un secondo di chi fosse.
-Magari più tardi, non sono poi così bravo-, lo scintillio negli occhi di chi mente e si diverte un mondo, dilettante.
-Prima te la sei cavata alla grande però, per aver improvvisato…- disse studiando il suo volto.
-Avevo una degna compagna-
-Bugiardo-
Harry rise, come colto in flagrante ma recuperò subito -Hai uno stuolo di fan, però-
-Se mi mettessi al microfono in silenzio per un'ora penso che applaudirebbero comunque, sai?- rise piano Anna, donando a Harry uno sguardo indecifrabile. Come se ci fosse molto altro dietro quell'affermazione.

-Io ti ho ascoltata- e forse gli aveva anche guardato le gambe, o qualcosa in più, ma l'aveva ascoltata.
-Sviolinatore- sorrise abbassando per un solo istante lo sguardo, fingendo un po' di essersi sentita lusingata, era parte della sua tattica. Tattica ormai consolidata da tempo e davanti alla quale anche questo ragazzo sarebbe caduto.
Certo, rispetto agli altri, in mezzo alla sua menzogna bambina questo Harry sembrava fin troppo sincero e la cosa la incuriosiva ed innervosiva allo stesso tempo.
-Tieni Brownie, te le metto sul conto- Williams fece la sua comparsa servendo le due bottiglie di birra ghiacciate ad entrambi.
-Finiscila di chiamarmi così- sbuffò Anna mentre lasciava da parte la chitarra, la sua protesta cadde nel vuoto mentre l'altro svaniva in mezzo alla piccola folla che si stava creando davanti al palco mentre Ernie aveva dato il via alle danze con il suo accompagnamento.
-Che significa Brownie?- chiese prontamente Harry, con gli occhi grandi per contenere la sua perenne curiosità. Anna non si fece scappare questo dettaglio, le piacque, forse vi si riconobbe per un istante.
Anche questo la innervosì, ma non sapeva spiegarsi il motivo.

-È perché sono mulatta, i miei sono inglesi, ma sono una coppia mista, sai…son cresciuti un po' qua e un po' la- spiegò, quasi senza accorgersi di star dicendo troppo per i suoi gusti.
-Siamo per metà conterranei allora!--Il tuo accento è chiarissimo, non c'è dubbio- sorrise, prima di prendere un lungo sorso di birra che Williams, quel bastardo, aveva sicuramente corretto con qualcosa.
Anche Harry doveva essersene accorto, data l'espressione sorpresa.
Finirono quella birra, e poi un'altra finché Anna non gli disse "Vieni con me, devo far finta di lavorare almeno mezzora" con quella voce soffice che per quella notte avrebbe convinto Harry a fare di tutto.

 -Io…io sono uno zoologo, sono qui…per studiare, si. Un dottorato su una specie endemica dell'isola, rarissima…assolutamente rarissima-
Era la prima volta che qualcuno mentiva ad Anna in un modo così bambino. Si trattenne dal scoppiare a ridere.
-Sembra impegnativo, di che animale si tratta?-
-É un roditore di grandi dimensioni, non particolarmente carino…ecco vedi dovrei documentare un po', fotografare…cose simili- era decisamente pessimo ed anche alla terza birra con rum.
-Capisco, senti un po', ma in quale università stai facendo il dottorato?- gli sorrise sorniona sporgendosi un po' sul bancone. Forse, forse, gli occhi di Harry si persero nei suoi o nella curva del collo.
-Cambridge- rispose sfacciato.

-Marie! Marie! Eccomi-
Un uomo particolarmente trafelato si arrestò al fianco di Harry seduto al bancone, il quale percepí con distinta chiarezza un braccio sudato sfiorare il proprio. Non capì a chi si rivolgeva, il bancone non era così affollato e al di là di esso solo Anna.
Harry le rivolse uno sguardo un po’ dubbioso e divertito.
-Marie son tornato! Sei felice?-
Un sospiro uscì dalle labbra di Anna.
-Williams, Williams vieni!- disse a gran voce mentre ad Harry sembrò che i suoi occhi si inumidissero.
-Marie ma cosa succede non mi riconosci- e ora Harry fu certo che delle lacrime uscissero dagli occhi di lei.
Williams fu in un batter d’occhio al fianco di Anna e tutto fu rapido, Harry si sentiva a teatro. Lei piangeva ormai a dirotto stretta al ragazzo -È successo di nuovo...senti scusala, vi siete conosciuti l’anno scorso vero?-
L’uomo a fianco ad Harry era bianco come un cencio.
-Noi...si, io...son tornato per lei! Marie ma che succede?-
-Scusala davvero, An- - Harry vide distintamente che tra le lacrime lei gli assestava una gomitata allo sterno.
-Dio!- proruppe Williams prima di riprendere il discorso -dicevo...Dio, é capitata una tragedia... mentre stufava, settembre scorso, Marie ha avuto un incidente ed ha battuto la testa sulle rocce giù a Jesi Beach....-
-Io...io...- Anna piangeva ancora sommessamente e chiedeva scusa.
-Vedi ha perso la memoria, si ricordava giusto sino...-
-Un anno! Un anno prima- specifico lei, improvvisamente meno sconvolta. Certo questo non si poteva dire dell'uomo che boccheggiava con gli occhi lucidi e una mano a reggersi la fronte mentre continuava a dirsi "È terribile…terribile"
Williams fulmineo gli offrì due dita di rum prima ancora che l’uomo alzasse lo sguardo.
Anna tirò su con il naso lisciandosi il grembiulino sulle gambe.
-Mi perdoni, è già…la terza volta che qualcuno si presenta e io…io…proprio non ricordo, capisce?- continuò lei, mentre ancora gli riempiva il bicchiere. Liscio senza ghiaccio.
-Scusami Marie, io…potremmo parlarne domani? Rivederci? Sono Santos comunque- si presentò goffamente e visibilmente scosso.

Harry si perse il resto della conversazione, pensava a una sola cosa: Anna o Marie

Quando Anna lo trascinò a ballare, ed entrambi avevano abbastanza alcool in corpo, lei gli sussurrò esageratamente erotica  -Non so nemmeno surfare-

E la notte era più buia che mai.

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