Down to the abyss

di Mockingjay_chan
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I ***
Capitolo 2: *** Capitolo II ***



Capitolo 1
*** Capitolo I ***


Due pesche, una banana, e un paio di libri; nient’altro.

Pessimo, per oggi dovrò accontentarmi”. Chiuse lo zaino e se lo mise in spalla, pronta per allontanarsi da centro del paese. Riprese a camminare a passo svelto lungo la strada lastricata, guardandosi in giro di tanto in tanto per assicurarsi che nessuno la stesse seguendo. Erano quasi undici anni che viveva così: arrivava su un’isola, rubava quanto le serviva per sopravvivere, ogni tanto qualche vestito e quando il fato era particolarmente benevolo agguantava qualche libro che avrebbe restituito al legittimo proprietario una volta finito, prima di imbarcarsi di soppiatto su qualche nave e scroccare un passaggio fino alla prossima isola. Il tutto rigorosamente da sola.

Non che fosse proprio la vita che sognava, ma per uno strano scherzo del destino si era trovata a condurre un’esistenza da ladra, clandestina, mendicante e tal volta da fuggitiva. Spesso le era capitato di sfruttare il suo aspetto per rimediare un pasto o una stanza in qualche bettola piena di pirati, non che fosse bellissima, era una ragazza nella media. Non era troppo alta, coi capelli neri che le arrivavano poco sopra le spalle e una frangetta spettinata che le copriva gli occhi, neri anche quelli, gli unici segni che la distinguevano erano la sacca rossa che portava in spalla dove infilava refurtiva e diari pieni di appunti e una katana dalla lama bianca, anch’essa tenuta dietro la schiena.

La città di Alsafara era piccola ed essendo l’unica dell’isola su cui si trovava portava il suo stesso nome. Le case erano tutte ammassate alla rinfusa ai bordi della strada principale, larga qualche metro e lastricata di marmo bianco. Lo stile architettonico della zona combaciava con le possibilità economiche degli abitanti della città, le mura degli edifici erano in arenaria, intervallati di tanto in tanto da qualche buco che doveva fungere da finestra e quasi tutti erano composti da almeno tre piani, ognuno occupato da un piccolo appartamento mal arredato. Ogni mattina in occasione del mercato, tutti i cittadini si riversavano nella strada principale e nella piccola piazza al centro della città, chi per vendere e chi per fare provviste. Alla giovane erano bastati pochi giorni per capire l’andazzo generale di quel nuovo posto.

Era quasi mezzogiorno e la via principale stava iniziando a svuotarsi. La ragazza camminava piano in mezzo alla folla per non farsi notare, anche se era difficile non notare il suo pallore in mezzo a quel mare di pelli ambrate.

«Ehi tu! Fermati!» si voltò di scatto verso la direzione da cui proveniva quel grido. Un uomo tozzo e dall’aria minacciosa la stava indicando a qualche metro di distanza, la fronte imperlata di sudore per lo sforzo dell’inseguimento.

Merda!” era il proprietario della bancarella da cui aveva trafugato la frutta, probabilmente l’aveva vista sgattaiolare tra la gente ed era riuscito a seguirla fin lì.

Iniziò a correre lungo la strada imprecando mentalmente, con l’uomo che la inseguiva come se raggiungerla fosse una questione di vita o di morte. Percorse un centinaio di metri in linea retta, correndo sul marmo bianco e rischiando di scivolare ad ogni passo prima di riuscire a trovare un vicolo abbastanza largo in cui infilarsi. Muoversi nel dedalo di vicoli di quella città era un’impresa quasi impossibile.

Corse nel vicolo con la testa rivolta all’indietro per assicurarsi che l’uomo non l’avesse seguita ma andò a sbattere contro qualcosa e si ritrovò seduta a terra, con una fitta alla testa che presto sarebbe diventata un bernoccolo.

Si massaggiò la fronte per qualche secondo, stordita dall’impatto, prima riaprire gli occhi e mettere a fuoco quello che stava di fronte a lei. Due uomini, uno seduto a terra nelle sue stesse condizioni e uno in piedi che cercava di tirare il braccio del compagno per farlo rialzare. Entrambi vestiti con una stupida tutona bianca nonostante il caldo e dei cappelli che ne coprivano in parte il volto.

«Ma che diavolo...» una fitta alla gamba la riportò al mondo reale, si portò una mano alla caviglia fasciata con un pezzo di stoffa di recupero; il taglio che si era procurata qualche giorno prima stava iniziando a darle noia per lo sforzo della corsa, pulsava fastidiosamente e un dolore sordo iniziava ad irradiarsi verso il ginocchio. Non si scompose, stava scappando e probabilmente vista la violenza dell’impatto anche i due tizi erano di fretta.

«Ehi voi! Lo sappiamo che siete qui!» la voce proveniva da un’altra stradina, alle spalle dei due tizi. Non ci pensò due volte, si mise in piedi e afferrò l’altro braccio del tizio steso a terra, aiutando il suo amico a rimetterlo in piedi e correndo li trascinò entrambi in un altro vicolo poco distante. Sulla faccia dei due era dipinta la stessa faccia confusa della ragazza, ma scappare aveva la priorità, alle domande ci avrebbero pensato dopo.

Corsero tutti e tre per una decina di minuti imboccando vicoli e saltando muretti. Ogni passo era una fitta e se non fosse stato per l’adrenalina non si sarebbe retta in piedi. Salirono le scalette esterne di un edificio fino a raggiungere il tetto piatto, se gli inseguitori non li avevano visti salire non li avrebbero mai cercati lì sopra. O almeno così speravano.

Si accovacciarono appoggiati al parapetto, convinti che dal basso li avrebbe nascosti a dovere. Rimasero zitti per qualche minuto, ognuno intento a riprendere fiato. Il tizio che poco prima l’aveva buttata a terra si era sdraiato mentre l’altro si era accovacciato con la testa tra le ginocchia. La giovane decise di approfittare di quel momento di distrazione per controllarsi la ferita.

Tolse piano la benda ormai sporca di sangue, il taglio era all’esterno della caviglia destra, poco più corto di una spanna e non troppo profondo. Niente di troppo grave, si sarebbe detta, se non fosse stato per l’aspetto. La pelle intorno alla ferita era rossa e gonfia, la sentiva calda anche senza il bisogno di toccarla. Nonostante fosse passato qualche giorno non accennava a rimarginarsi e anzi, l’interno si stava colorando di nero, salvo per quei punti da cui il sangue usciva mischiato ad un poco invitante liquido purulento giallastro e maleodorante. Distolse lo sguardo per paura di vomitare, lo stomaco debole era sempre stato un suo difetto. Si rimise la fascia senza guardare ma ogni movimento le costò uno sforzo non indifferente per sopportare il dolore. Tornò ad appoggiarsi al parapetto con gli occhi chiusi cercando di non pensare a quello che aveva appena visto.

I due uomini scoppiarono a ridere quasi contemporaneamente riportandola alla realtà. «Beh? Che c’è di tanto divertente?» nonostante l’aria stizzita faticava a nascondere una punta di divertimento nella voce.

«No niente» rispose il tizio seduto «solo che è stato davvero forte.. e poi non capita tutti i giorni di essere salvati da una bella ragazza» disse rivolgendole un sorriso sornione, imitato dal compagno.

Questa volta fu lei a scoppiare a ridere. Ok, quei due erano strani. Adesso ne era davvero sicura. Ma non le dispiacevano così tanto, li avrebbe quasi definiti simpatici se non fosse stato per la situazione assurda.

«Comunque piacere, io sono Shachi» il tipo seduto le fece un cenno con la mano.

«E io sono Penguin» il tipo sdraiato si mise a sedere. Entrambi continuavano a sorriderle con fare gentile. Per quanto fosse diffidente quei due le ispirarono fiducia.

«Morgan, piacere mio» aprì lo zaino e ne tirò fuori le due pesche, anche se si erano un po’ ammaccate durante la corsa le lanciò ai due, che la ringraziarono con un gesto del capo. Lei si mise a mangiare la banana.

«Da chi stavate scappando?» glielo chiese con la bocca piena, nonostante fosse una bella ragazza le buone maniere non erano proprio cosa per lei.

«Niente di che, un gruppo di Marines» le disse Penguin con fare distratto.

Un pezzo di banana le andò per traverso.

«Come Marines?!» disse portandosi una mano alla bocca cercando di non tossire troppo. Shachi la guardò come se fosse impazzita «Beh sì… siamo pirati, anzi, Pirati Heart» disse battendosi una mano sul petto, sopra lo stemma della loro ciurma, annuendo con aria fiera.

Non che non le piacessero i pirati, anzi, più volte aveva scroccato pasti e passaggi, ma aveva sempre preferito mantenere una certa distanza. Aveva già abbastanza casini per conto suo, senza bisogno che gliene procurassero altri.

Pirati Heart. Quel nome non le piaceva per niente. Negli anni era diventata una buona ascoltatrice, aveva imparato a captare informazioni importanti anche da conversazioni che ai più apparivano come semplici chiacchiere da taverna. Le venne in mente un nome.

Trafalgar Law”, o come lo chiamavano tutti “Il chirurgo della morte”. Non proprio la persona più simpatica con cui avere a che fare o peggio, con cui avere grane. Una delle Undici Supernove, un uomo spietato che non esitava a ridurre a brandelli chiunque gli si parasse davanti. Su di lui si diceva di tutto, alcuni dicevano che avesse raso al suolo un’intera isola solo per divertimento, altri ancora dicevano che nella sua imbarcazione tenesse i cadaveri di tutti i pirati che aveva ucciso, si diceva addirittura che fosse l’incarnazione stessa del Diavolo.

Beh, certo, probabilmente erano solo voci e questo la giovane lo sapeva bene, ma se di lui dicevano queste cose un fondo di verità doveva pur esserci, no? Il presunto figlio del Diavolo non doveva certo essere un gran simpaticone.

Guardò Shachi e Penguin, loro però sembravano gentili e non avevano ancora tentato di ucciderla o derubarla, ma pur sempre pirati erano.

«Beh, è stato un piacere conoscervi» disse la ragazza alzandosi «ma credo di dover andare» si lanciò zaino e spada sulle spalle. Non le piaceva trattare così le persone, o giudicarle senza motivo, ma davvero non aveva voglia di altri guai. E se quei due stavano scappando dai Marines i guai l’avrebbero presto raggiunta. Si avvicinò zoppicando al parapetto cercando di nascondere la smorfia di dolore e guardando bene che i loro inseguitori se ne fossero andati si preparò mentalmente al salto di tre piani che la attendeva.

«Aspetta!» Shachi si era alzato in piedi e la stava guardando con aria severa. Morgan si irrigidì, ora che sapeva chi erano non poté fare a meno di provare paura. «Con quella gamba non andrai lontano»

«Ma come…» la ragazza lo guardò stupita, quando si era tolta la benda non la stava guardando, ne era sicura.

«E’ infetta, setticemia, ne sono quasi sicuro. A vederla così non ti rimane molto, tra un paio di giorni non potrai più camminare e poi… beh, lo sai» un brivido freddo le percorse la schiena. Lui che ne poteva sapere? Non l’aveva vista davvero.

«Ci hai salvato la vita portandoci qui» Penguin le si avvicinò sorridendo «permettici di ricambiare il favore, il nostro capitano è un medico e saprà aiutarti»

«So benissimo chi è il vostro capitano» lo disse in tono serio, guardando negli occhi prima l’uno e poi l’altro «Non fraintendetemi, voi mi sembrate a posto, ma sto benissimo così. Posso cavarmela»

«A maggior ragione che sai chi è dovresti seguirci. Pensaci, tra poco inizierà a salirti la febbre e allora non potrai più fare niente, sarai troppo debole anche per mangiare.» l’argomentazione reggeva, Shachi si fece ancora più serio «E poi siamo pirati e i pirati ripagano sempre un debito. Soprattutto se è un debito di vita»

«E per cosa? Per essere gettata in mare e morire affogata subito dopo? No grazie» aveva visto e sentito troppe cose per fidarsi di un gruppo di pirati, insistere non sarebbe servito.

«Fai come vuoi» Penguin si abbassò il cappello sul viso e si voltò nella direzione opposta a Morgan, Shachi con lui «E’ un peccato, ci sarebbe piaciuta un po’ di compagnia femminile a bordo»

Di tutto il discorso che, avrebbe voluto ricordargli, verteva sulla sua morte, quella era la cosa che pareva rammaricarli di più.

«In ogni caso, se dovessi cambiare idea ci trovi al porto» Shachi guardò in direzione del sole, ormai alto all’orizzonte «Tra mezz’ora salpiamo».

«Grazie ancora» la guardarono e portandosi una mano alla fronte quei due si congedarono definitivamente.

Li guardò saltare giù dal tetto, seguendoli con lo sguardo mentre si infilavano in un vicolo per poi sparire tra gli edifici. Si accasciò di nuovo contro quel maledetto parapetto. In quel momento si pentì di averli salvati.

Migliaia di pensieri le affollarono la testa. Non era stupida, sapeva benissimo che la ferita era molto più grave di quanto non volesse ammettere. Di medicina ne capiva ben poco, ma di sicuro non voleva mettersi nelle mani di uno che si faceva chiamare “Il chirurgo della morte”. E poi chi poteva assicurarle che l’avrebbe aiutata? Aveva salvato i suoi uomini, non lui, il debito lo avevano loro, non il capitano.

Eppure qualcosa dentro di lei le diceva che sarebbe stata una stupida a non accettare quella proposta. La gamba le faceva un male cane e avrebbe potuto scroccare un passaggio fino alla prossima isola, magari qualche pasto caldo e magari, perché no, un po’ di compagnia maschile. Oppure l’avrebbero gettata in mare, o fatta a fette, o una qualsiasi altra cosa poco divertente a cui sicuramente non voleva pensare.

«Oh ma dai!» sbuffò passandosi le mani tra i capelli. Il suo campo di studio era la mente umana, pur essendo un lupo solitario aveva passato quasi tutta la vita a studiarla nelle sue più sottili sfaccettature, cercando un modo per aiutare sé stessa e gli altri. Eppure ora che doveva scegliere cosa fare non riusciva ad essere razionale, il flusso di pensieri che le attraversava la mente sembrava un fiume in piena.

Quante volte le era capitato prima? Sicuramente una, forse altre due volte. In ogni caso erano passati anni. Ma di decisioni nel frattempo ne aveva prese e non era certo stato così difficile. Era semplice, testa o croce, si limitava a scegliere senza pensare troppo alle conseguenze in base a quello che le faceva comodo al momento. Per quanto si ritenesse una persona razionale l’istinto l’aveva sempre guidata, magari non nel posto giusto, ma da qualche parte l’aveva portata. Eppure ora che c’era di mezzo la sua vita stava cadendo nel panico.

Alzò la testa chiudendo gli occhi, sapeva riconoscere i segnali di un attacco di panico. Respiri lenti e profondi, erano la soluzione migliore. Cercò di pensarci razionalmente, prima non si era accorta dell’uomo che la stava seguendo dei due che le correvano in contro e non si era accorta nemmeno che Shachi le aveva visto la ferita. Stava iniziando a perdere colpi, questo dovette ammetterlo e forse starsene in giro così non era una grande idea, se non l’avesse uccisa l’infezione sarebbe morta per qualche distrazione.

Per come la vedeva, qualsiasi cosa avesse scelto avrebbe potuta ucciderla. La ferita ci avrebbe messo più tempo e probabilmente sarebbe stata una morte lenta e penosa. Infilarsi nella bocca di uno squalo sarebbe stato sicuramente doloroso, ma magari ci avrebbe impiegato meno tempo.

Non era sicura di voler morire su quell’isola, non era sicura di niente.

Razionalmente avrebbe potuto cercare un medico sull’isola e magari cavarsela ancora per un po’. L’ istinto le diceva di seguire quei due soggetti assurdi e rischiare, non che credesse nel destino, ma si erano trovati nel posto giusto al momento giusto, quante probabilità potevano esserci che le capitasse una cosa del genere? Una su un milione forse? No, probabilmente erano molte meno.

Sentì il cuore accelerare i battiti, una strana sensazione le invase la bocca dello stomaco. Aveva voglia di correre.

Sai che vuoi farlo...” scosse la testa. Stava impazzendo di sicuro.

Da quando ti tiri indietro?” non si stava tirando indietro. Era solo buonsenso.

Sono pirati, avranno sicuramente dell’alcool a bordo” stava cercando di comprarsi da sola. Che cosa stupida.

Codarda!” quello no. Il suo orgoglio non glielo avrebbe permesso. Nessuno poteva darle della codarda, meno che meno poteva dirselo da sola. E in un momento di debolezza per di più!

Si alzò di scatto, una fitta le invase la gamba. Non era sicura di quello che stava facendo e razionalmente sapeva che non aveva senso ma continuare a rimuginarci ne avrebbe avuto ancora meno. Mezz’ora, poi sarebbero salpati senza di lei e sapeva già che avrebbe rimpianto a vita quella decisione. Sarebbe morta? Sarebbe successo in ogni caso.

Cercò di ignorare il dolore e raccolse lo zaino da terra per l’ennesima volta.

Scese in fretta dal tetto, passando dalla stessa scala che aveva usato per salire. Guardando il sole ad occhio e croce doveva avere ancora una decina di minuti, il porto non era vicino, ma se avesse corso forse ce l’avrebbe fatta.

Strinse i denti e corse in mezzo ai vicoli, la strada più veloce per raggiungere il porto era la strada principale. Corse sul marmo bianco più veloce di quanto non avesse mai fatto, i muscoli le bruciavano per lo sforzo e il dolore alla gamba stava diventando insopportabile. Non doveva arrendersi, ormai era una questione personale. Pirati o no. Il peso che portava sulla schiena la sbilanciava pericolosamente ad ogni passo, come se essere zoppa non fosse già un problema, ma non avrebbe mai rinunciato a zaino e spada.

Tagliò la strada ad una vecchietta che la riempì di insulti, ma il cuore le batteva nelle orecchie talmente forte che non se ne accorse.

Le edifici le sfrecciavano accanto come un’unica macchia gialla. In lontananza si vedeva la spiaggia, bianca come poche altre. Faceva caldo, il sudore le appiccicava la frangia alla fronte coprendole gli occhi.

Si morse un labbro per non pensare al dolore. La pressione iniziava a scenderle, la vista iniziava ad offuscarsi.

Inciampò più volte e dovette metterci tutto il suo impegno per non cadere. Faticava a respirare, gola e polmoni le bruciavano. Ormai ne era sicura, se non ci avessero pensato i pirati o la ferita, l’avrebbe uccisa un infarto.

Correva a testa basta, con gli occhi chiusi per conservare un minimo le energie e si accorse di essere sulla spiaggia solo quando sentì la sabbia sotto i piedi. Le mancava poco, un ultimo sforzo.

Il molo era a pochi metri, ma della barca neanche l’ombra. Una strana sensazione le attraversò lo stomaco. Smise di correre. Le bastarono pochi passi per raggiungere la passerella di legno. Davanti a lei c’era solo l’orizzonte, vuoto e piatto come sempre.

Si accasciò sulle ginocchia, ogni respiro le costò uno sforzo immane. Era arrivata tardi, nonostante la corsa e tutto il resto non ce l’aveva fatta, aveva fallito di nuovo.

Sentì le lacrime pungerle gli occhi ma non fecero in tempo a rigarle le guance. Sentì le energie che abbandonavano il suo inutile corpo, l’ultimo pensiero che le attraversò la mente fu che con tutti le ipotesi che aveva fatto, quello era decisamente il modo peggiore per morire. E poi fu tutto buio.








Ciao a tutti, questa è la prima ff a tema One Piece che scrivo, spero vi piaccia :3 so che come primo capitolo racconta poco niente ma nei prossimi se tutto va bene vedremo qualcosa in più XD fatemi sapere cosa ne pensate! <3 P.S: vorrei ringraziare la mia amica S. che mi ha fatto da beta e che sopporta i miei tfasi notturni. Ti voglio bene <3 P.P.S: trovate la stessa storia su Wattpad, con lo stesso titolo. Sono sempre io ma la coerenza non ci piace e ho un altro nome xD

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Capitolo 2
*** Capitolo II ***


Di nuovo in mezzo alla neve, in piedi, su quell’unica lastra nera larga poco meno di un metro per lato. Intorno a lei la bufera le copre la vista, tutto è bianco e appannato, nessun rumore e nessuna presenza, solo il freddo le fa compagnia. Si guarda le mani e le dita le fanno male, il freddo le ha raggiunto anche le ossa.


Bianco, tutto quello che riusciva a vedere era il bianco. Di nuovo, come in tutti i suoi sogni da qualche mese a questa parte. Era sdraiata, di questo era sicura, ma adesso poteva muoversi.

In meno di un secondo provò a fare mente locale. Si ricordava dei pirati, della corsa e della spiaggia, ma poi cos’era successo? L’ultima cosa che riusciva a ricordare erano il dolore alla gamba e poi il buio più totale e ora davanti a sé aveva una luce bianca accecante. Seguendo la logica la soluzione possibile era una sola.

Si stropicciò gli occhi confusa. Riuscì a mettere a fuoco alcuni dettagli della stanza: le pareti grigie, le lampade al neon e alcuni lettini disposti ordinatamente lungo le pareti. L’aldilà se l’era immaginato decisamente diverso.

«Buongiorno Morgan!» si voltò di scatto verso quella voce e la testa le vorticò pesantemente, facendole venire la nausea. Due figure stavano sedute a poca distanza da lei, in penombra. Non riuscì a metterle a fuco, ma la voce le suonò familiare.

Aveva la bocca impastata e la gola le faceva male, probabilmente per lo sforzo della corsa. «Sono morta?» si stupì, la voce le uscì molto più flebile di quanto aveva immaginato.

«Beh… se non fosse stato per noi lo saresti sicuramente» le due figure le si avvicinarono sogghignando. Adesso che si stavano avvicinando poteva metterli a fuoco decentemente. Le due tutone stupide, quei due tizi strani… Shachi e Penguin! Ci mise un attimo a riconoscerli, ma era certa fossero loro.

Ma se non era morta ed era insieme a quei due pirati, allora forse la risposta alla sua domanda era ben peggiore di quanto avesse immaginato. Ma non aveva senso! Quando aveva raggiunto la spiaggia non c’era nessuna nave all’orizzonte e sicuramente non erano tornati indietro apposta per cercare lei. Si mise a sedere a fatica, ad ogni movimento la nausea aumentava ma almeno i suoi occhi si erano abituati alla luce artificiale della stanza e adesso poteva scrutarne ogni particolare. «Se non sono morta… cos’è successo?» si guardò in torno, sia per curiosità che per cercare un’eventuale via di fuga. «Niente di che, ti abbiamo vista arrivare sulla spiaggia e cadere a terra, pensavamo fossi morta in realtà, ma ti abbiamo raccolta e il nostro capitano ti ha rimesso a posto!» Shachi le parlava sorridendo, come se quella fosse la cosa più normale del mondo «Ti abbiamo detto che eravamo in debito, tu hai salvato noi e noi abbiamo salvato te. Un pirata mantiene sempre le promesse» Penguin sembrò anche più allegro di Shachi.

I lettini erano separati da tendine bianche, ma non percepì nessuno nella stanza oltre ai due pirati e ne dedusse che fosse l’unica ospite. Sentì l’odore di disinfettante invaderle le narici e riuscì a stento a ricacciare indietro un conato di vomito. Si trovava sicuramente in un’infermeria, ma c’era comunque qualcosa di strano in quella stanza. Ci mise poco a capire cosa fosse, nonostante sopra ogni letto vi fosse un piccolo oblò circolare, non filtrava alcuna luce dall’esterno. Anzi, se non fosse stato per quelle fredde luci al neon la stanza sarebbe sprofondata nell’oscurità più totale. Sentì un nodo allo stomaco, non le erano mai piaciuti gli spazi chiusi.

Si voltò di scatto verso i due pirati «Dove siamo?» l’agitazione nella sua voce lasciava ben poco all’immaginazione. L’espressione divertita che si dipinse sul volto dei due la preoccupò, se possibile, ancora di più. «Sul Polar Tang ovviamente!» quel nome le diceva ben poco e i due se ne accorsero subito «Il sottomarino dei Pirati Heart!»

Sul… cosa? Ricadde con la schiena sul lettino, il nodo allo stomaco era diventato una vera e propria fitta. Non solo quella era una delle ciurme più temute del Nuovo Mondo, ma si trovava pure su un maledetto sottomarino! Le sue speranze di fuga erano totalmente andate in fumo. Se si fosse trovata su una nave normale avrebbe almeno potuto tentare di scappare, magari rubando una scialuppa, ma su un sottomarino era praticamente in trappola.

Sentì lo stomaco stringersi in una morsa. Si sporse dal lettino, dalla parte opposta dei due pirati e afferrò un secchio che qualcuno aveva saggiamente lasciato lì. Vomitò fino a svuotarsi completamente lo stomaco, a giudicare dal contenuto del secchio erano almeno i pasti degli ultimi due o tre giorni. Lo stomaco continuava a contrarsi e le lacrime ormai le solcavano il viso, sia per lo sforzo che per l’imbarazzo della situazione e il suo corpo aveva iniziato a tremare.

Sentì una mano toccarle piano la schiena ma non ebbe il coraggio di voltarsi. «Non preoccuparti, vuol dire che l’operazione è andata bene» ma quei due avevano sempre quel tono allegro? «Prendi questo» Penguin le allungò un fazzoletto da sopra la spalla. Morgan glielo strappò letteralmente dalle mani, odiava l’idea che qualcuno potesse vederla in quelle condizioni. Si pulì la faccia alla bene e meglio, sollevandosi su un gomito per riprendere un po’ di fiato e gettò anche il fazzoletto nel secchio. In effetti si sentiva molto meglio, o perlomeno la testa aveva smesso di girare.

Si girò nuovamente, appoggiando la testa sul cuscino «Grazie… e scusate per il casino» disse con gli occhi chiusi, indicando in direzione del secchio. «Oh, non preoccuparti per quello, è normale.» Penguin aveva assunto un tono gentile «Se vuoi darti una sistemata c’è un bagno, puoi farti una doccia e infilarti dei vestiti puliti» disse indicando una porta in metallo, in fondo alla stanza.

Ci pensò un attimo, una doccia forse non era una cattiva idea. Si accorse di essere coperta di sudore e iniziava a sentire freddo, i capelli le si erano appiccicati alla fronte e vista da fuori in quelle condizioni non doveva certo essere un bel vedere, in più con la vita che faceva non è che i bagni caldi fossero proprio all’ordine del giorno. Fece per scostare il lenzuolo che la copriva e per alzarsi dal letto, ma notò un’altra cosa decisamente fuori posto. Non indossava i suoi vestiti. Al loro posto aveva un camice azzurro, decisamente leggero e decisamente troppo corto, che le copriva a malapena le cosce.

Quindi, facendo il punto della situazione, si trovava chissà dove, chiusa in un sottomarino, in mezzo ad una ciurma di pirati che quasi sicuramente l’aveva vista nuda. Peggio di così non poteva andare, no? Era già tutto fin troppo assurdo.

Si voltò verso i due pirati, lanciandogli uno dei suoi sguardi più minacciosi. I due si spaventarono, poteva sentirlo bene. «Uscite immediatamente da questa stanza.» il suo tono era grave non ammetteva repliche. Gentili o no importava poco, in quel momento li avrebbe maledetti entrambi nel peggiore dei modi, erano loro i fautori di quella pessima situazione.

«Ma non vuoi una mano a fare la doc… » Penguin non fece in tempo a finire la frase che un pugno lo colpì dritto sulla testa. «Ho detto di uscire!» I due si alzarono e passo svelto uscirono dalla stanza, Shachi scusandosi continuamente e Penguin reggendosi la testa nel punto in cui, presto, sarebbe spuntato un secondo bernoccolo.

Morgan rimase per un po’ seduta sul bordo del letto, aveva esagerato a tirargli un pugno? Concluse di no, d’altra parte mica glielo aveva tirato forte, non così tanto almeno.

Si alzò dal letto, ora che era da sola la tensione stava lasciando il passo alla curiosità. Si mise a girare per la stanza prima di infilarsi nella doccia. Passò in rassegna i letti, una quindicina in totale, disposti con una precisione maniacale lungo tre delle pareti della stanza e separati da tendina bianca immacolata. La parete restante era occupata al centro dalla porta che i due pirati avevano usato per uscire, anch’essa in metallo grigio mentre il resto era tappezzata da armadietti, alcuni pieni di strumenti di cui non avrebbe neanche saputo pronunciare il nome, altri occupati da barattoli e provette pieni di liquidi non meglio identificati. Provò ad aprire un armadietto, attirata da tutti quegli strumenti, ma si rese conto che era chiuso a chiave, probabilmente sia per tenere lontano i curiosi che per evitare che alla prima corrente tutto il contenuto si rovesciasse malamente a terra.

Tutta la stanza aveva un’aria inquietante, era fredda e odorava di disinfettante, l’atmosfera era asettica e claustrofobica. Un brivido freddo le percorse la schiena, non le piaceva affatto.

Decise di entrare in bagno, una doccia calda le avrebbe sicuramente lavato via la tensione di dosso. Aprì la porta e la vista la stupì. Il bagno non aveva niente a che fare col resto della stanza. Non era grande, ma era arredato in maniera accogliente, con una vasca da bagno con tanto di doccino su un lato e sull’altro una coppia di lavandini, sormontati da uno specchio enorme.

Si guardò allo specchio, dire che faceva schifo sarebbe stato un eufemismo. I capelli le ricadevano disordinati sul viso, era pallide e aveva le occhiaie di una persona che non dormiva da giorni. Si sfilò il camice e aprì l’acqua della vasca, avrebbe potuto farsi una doccia, certo, ma perché non approfittarne?

Un brivido la scosse quando l’acqua bollente le toccò la pelle fredda. Si sdraiò e chiuse gli occhi. Non è che non le piacessero i pirati, non erano certo la cosa peggiore in quella situazione. La cosa che la turbava di più era il fatto di essere rinchiusa, con altre persone per di più! Ecco, quello poteva rappresentare un problema. In effetti nel corso della sua vita in un modo o nell’altro era sempre riuscita a tenersi lontana dalla gente. I suoi contatti con le persone si limitavano solo a situazioni di estrema necessità e si assicurava bene che fossero il più breve possibile. Ma adesso come avrebbe fatto? Non poteva fisicamente allontanarsi e nemmeno rifugiarsi in qualche angolo sperduto. Oltretutto non aveva la minima idea di quanto sarebbe durata quella situazione. Sicuramente fino alla prossima isola, ma quanto ci sarebbe voluto? Una settimana, un mese forse. E poi, chi poteva assicurarle che una volta raggiunta la terraferma l’avrebbero lasciata andare? Sempre se non l’avessero uccisa prima ancora di vederla la terraferma, ovviamente.

Però Shachi e Penguin erano stati gentili con lei e non le avevano fatto niente di male, a parte spogliarla probabilmente. Forse avrebbe potuto farseli amici dopotutto, almeno fino alla fine del viaggio.

Ma il pensiero che più di tutti la tormentava era lui, “Il Chirurgo della Morte”, Trafalgar Law. Ignorava il suo aspetto, tutto quello che sapeva su di lui erano le storie che i marinai ubriachi si raccontavano nelle bettole. Ma se bastavano delle storie per spaventare uomini che avevano passato la loro vita in mare, di cos’era realmente capace quell’uomo? E soprattutto, una persona del genere avrebbe mai potuto risparmiarla?

Sbuffò mettendosi a sere, avrebbe voluto rimanere in quella vasca per il resto dei suoi giorni. Allungò la mano per prendere una spugna e del sapone e notò che il vapore aveva invaso la stanza. Si passò la spugna su tutto il corpo, se la passò delicatamente sul collo, sulle braccia e sul seno, ma quando giunse alle gambe si rese conto di una cosa. La ferita era sparita. Non guarita, era letteralmente sparita senza lasciare traccia! Nessuna cicatrice, nessuna sutura, nessun segno che fino a poche ore prima la setticemia la stesse per uccidere. Quella non era certo l’opera di un medico normale. Si passò la mano più volte sulla caviglia, non le faceva neanche male. Assolutamente niente, come se non ci fosse mai stata. Questo era ancora più assurdo di tutto il resto.

Aprì lo scarico della vasca di fretta, non ce la faceva più a restare lì, non ne poteva già più di quella situazione. Prese un accappatoio e uscì dalla vasca sgocciolando a terra, si guardò in torno, in cerca dei fantomatici “vestiti puliti” di cui le avevano accennato. Fortunatamente li trovò su una sedia appoggiata accanto ai lavandini.

Una tutona, come quella indossata da Shachi e Penguin, ma nera. Quindi non doveva trattarsi di una pessima scelta stilistica, ma di un marchio distintivo della ciurma. Poco male, sempre meglio che girare per i corridori con un camice inguinale. Si infilò quello strano indumento e si guardò allo specchio, le andava grande ma tutto sommato non era così male, almeno era comoda. Notò il petto marchiato con il Jolly Roger della ciurma, vederlo su di sé la fece sentire strana, era la prima volta che portava un segno distintivo addosso. Se l’avesse vista un Marine l’avrebbe scambiata senza dubbio per una dei Pirati Hearts.

Le uniche cose che mancavano all’appello erano il suo zaino scarlatto e la spada, a pensarci bene non gli aveva visti neanche nella stanza. Si appuntò mentalmente di chiedere ai due pirati notizie a riguardo… o eventualmente di lanciarsi alla loro ricerca appena avesse recuperato un minimo le energie.

Si asciugò alla buona i capelli e tornò nella stanza coi letti. Avvicinandosi al suo si accorse subito che il secchio era sparito, mentre era in bagno qualcuno doveva essere passato per pulire. La cosa la inquietò, in uno spazio chiuso la privacy sarebbe sicuramente stata un optional.

Il bagno caldo aveva eliminato ogni traccia di stanchezza dal suo corpo, ma lo stomaco iniziò a brontolarle rumorosamente. Non sapeva per quanto tempo era rimasta incosciente, ma tra la fuga e la giornata intensa la fame iniziava a farsi sentire. Si guardò intorno in cerca di un orologio, voleva andare a cercare una cucina ma non sapeva neanche se forse giorno o notte. “Strano...” come si fa a vivere in un sottomarino immerso nel buio degli abissi senza avere nemmeno un’indicazione dell’orario? “Una persona normale impazzirebbe in una situazione del genere” conosceva abbastanza bene la mente umana per sapere che una condizione del genere avrebbe potuto far impazzire anche la persona più stabile del mondo.

Lo stomaco continuava a brontolarle incessantemente e la fame ebbe il sopravvento sulla paura di svegliare qualche pirata. Uscì dalla stanza in punta di piedi, le avevano dato delle scarpe ma aveva preferito non indossarle per ridurre al minimo i rumori. Fuori dalla stanza trovò un corridoio semplice, anch’esso con le pareti grigie in metallo intervallate da porte dotate di oblò. Fortunatamente per i suoi piedi nudi il pavimento era in legno e come la stanza anche il corridoio era illuminato solo da luci al neon, ma queste davano l’impressione di essere leggermente più calde. Non sapeva da che parte andare, l’atmosfera era fredda e tetra, ma non abbastanza da frenare la sua ricerca di cibo. Da entrambe le parti non riusciva a scorgere la fine del cunicolo quindi puntò tutto sulla fortuna e si incamminò nella via alla sua destra.

Procedeva a passo lento, il più silenziosamente possibile. Si sentiva una ladra ad agire in quel modo, ma per quanto scarso il suo istinto di autoconservazione funzionava ancora abbastanza bene. Man mano che procedeva si rese conto che ogni porta era dotata di un piccolo oblò, alcuni coperti da una tendina bianca e altri scoperti, ma pur sempre bui. Ogni volta che passava di fianco ad una porta cercava di percepire se al suo interno ci fosse qualcuno, ma l’intero sottomarino sembrava deserto. L’ unica cosa che sentiva distintamente era il cigolio delle parti metalliche dell’imbarcazione spinte contro le correnti sottomarine e il ronzio delle lampade al neon. E la cosa non la tranquillizzava affatto.

Camminò per circa dieci minuti stando all’erta, quando in intravide la fine del corridoio. Una porta come le altre, l’unica differenza era che l’oblò era illuminato e proiettava un cono di luce nella sua direzione. Si fermò ad ascoltare. Dall’interno provenivano una serie di voci, attutite dalle pareti stagne, che si accavallavano l’una sull’altra impedendole di distinguere chiaramente cosa si stessero dicendo. Si avvicinò alla porta fermandosi a poco più di un metro di distanza, concentrandosi sulle presenze all’interno della stanza. A prima impressione dovevano essere circa cinque o sei persone; eccitazione e gioia erano le uniche emozioni che riuscì a percepire.

Decise di entrare, a prima impressione non le sembrò una situazione così preoccupante. Se fosse entrata con la dovuta cautela probabilmente avrebbe portato a casa la pelle e magari anche qualcosa da mettere sotto i denti.

Portò la mano sulla maniglia cercando di scacciare dalla testa le ultime remore. Sentì il metallo freddo sul palmo e si stupì di come tutto, in quel sotto marino fosse così freddo e atono. “Ecco perché si chiama POLAR Tang” pensò, sorridendo alla sua stessa, pessima, battuta. Quello di fare della pessima ironia per sdrammatizzare nei momenti di tensione era sempre stato un suo vizio.

Aprì la pesante porta facendola cigolare e la situazione che si trovò davanti le fece gelare il sangue.

Tutti i commensali la guardarono confusi. Cinque pirati vestiti di bianco e… era un orso quello? Li guardò, più confusa di loro. Perché mai un orso stava seduto ad un tavolo con dei pirati? E per di più facendo baldoria, a giudicare dalla pinta di rum che reggeva nella zampa.

«MorgMorg? Penguin si alzò facendo cadere lo sgabello per correrle incontro barcollando. «Pensavamo non ci avresti mai raggiunti!» aveva gli occhi lucidi e un sorriso sornione stampato in volto, come se la persona che stava di fronte a lui non fosse la stessa che gli aveva procurato un paio di bernoccoli. L’alcool alle volte può fare miracoli.

Penguin la prese per la manica della tuta e la trascinò verso il tavolo. Non sapeva cosa fare, i pirati ricominciarono a far festa alzando i boccali e gridando frasi semi incomprensibili. Se quella non era una ciurma di pazzi sicuramente era una delle cose più rumorose che avesse mai incontrato. Penguin la fece sedere a capotavola, allungandole un boccale pieno di rum. «Stasera sei l’ospite d’onore!» tutti brindarono ridendo e gridando. Guardò il liquido nel bicchiere, se avesse bevuto adesso sarebbe sicuramente finita ubriaca e svenuta da qualche pare. Lo stomaco le brontolò di nuovo.

«Ecco in realtà… io avrei una certa fame» disse con un filo di voce, quasi vergognandosi. «Nessun problema!» Shachi tirò un pugno sulla spalla dell’uomo seduto accanto a lui «Jean-Bart, prepara qualcosa per la signora» l’uomo, o meglio l’armadio, lo guardò di sottecchi grugnendo prima di alzarsi di malavoglia. Passò dietro a Shachi e afferrò una gamba del suo sgabello, in meno di un secondo il pirata si ritrovò sdraiato sul pavimento, non troppo sicuro di quello che fosse appena successo. «Va bene, ma non darmi ordini» Jean-Bart scoppiò a ridere seguito da tutta la ciurma.

Scoppiò a ridere, trasportata dalle risate di quei bizzarri personaggi. L’ unico che seppur a fatica si stava trattenendo era l’enorme orso bianco vestito di arancione.

Poco dopo si trovò seduta davanti ad un piatto di carne cucinata di tutto punto. Ci si tuffò sopra con avidità, come se non vedesse cibo da giorni. Gli altri la guardarono come se fosse un animale selvatico. Ma quel cibo era maledettamente buono, non poteva certo rischiare che andasse sprecato.

Quando finì di ripulire il piatto si appoggiò sgraziatamente coi gomiti sul tavolo. A pancia piena era decisamente più tranquilla e poi quei tizi non sembravano affatto minacciosi, anzi, sembravano anche simpatici. Sicuramente era gente che aveva voglia di fare festa.

Prese coraggio, probabilmente il rum che aveva trangugiato durante il pasto iniziava a farsi sentire. «Comunque piacere, Morgan» alzò la mano in un gesto di saluto. Shachi le presentò l’equipaggio uno per uno elencando nomi e ruoli sulla nave. Apprese ben presto che l’unico membro della ciurma ad avere un ruolo stabile era proprio il taciturno orso bianco Bepo, o meglio, il vicecapitano Bepo.

«Ma… se siete tutti qui dov’è il vostro capitano?» la domanda le sorse spontanea, da quello che aveva visto fino ad allora difficilmente un capitano lasciava i suoi sottoposti a far festa senza di lui. «Beh ecco...» Shachi si voltò verso Bepo, impassibile, in cerca di approvazione «diciamo che non è proprio un tipo socievole». In effetti poteva immaginarselo, non aveva neanche percepito la sua presenza. Ma forse era meglio così, se lui non era un tipo troppo socievole magari avrebbe potuto evitare di incontrarlo almeno fino a… esatto! Fino a quando? «Beh ragazzi, non voglio sembrarvi scortese, ma quando raggiungeremo la prossima isola? Nel senso… non ho motivo di rimanere con voi per troppo tempo» aveva parlato senza pesare le parole, ma infondo era vero no? I pirati avevano saldato il loro debito, in teoria non erano più legati in alcun modo.

Penguin fece un sorriso fin troppo allegro «Dovremmo raggiungere la prossima isola tra due o tre settimane, se tutto va bene»

Morgan si alzò in piedi battendo le mani sul tavolo «Come se tutto va bene?!» due settimane erano già troppo per i suoi gusti. «Sì sai, siamo pur sempre dei pirati, potrebbe davvero succedere di tutto mentre stiamo in mare aperto… anche se siamo un sottomarino non è impossibile trovarci» la tranquillità nel tono in cui lo disse era disarmante. Almeno due settimane di prigionia in una gabbia di ferro sul fondo dell’oceano. Non era per niente una buona idea.

Si lasciò cadere sullo sgabello, appoggiando la testa sul tavolo. Sentì qualcuno appoggiarle una mano sulla spalla e il calore le invase la schiena, era calda e soffice. Bebo stette in silenzio per un po’, in piedi alle sue spalle. Non era la prima volta che vedeva una scena del genere, lui stesso spesso soffriva dell’atmosfera claustrofobica del sottomarino e vi era a bordo da anni. Non gli risultò difficile immaginare il motivo dello sconforto della giovane. «B-Beh… visto che sei a bordo, tanto vale dirci che sai fare, no?» la sua voce entrò nella testa di Morgan come se fosse la cosa più soffice che avesse mai sentito. Non seppe spiegare quella sensazione ma l’orso le apparve improvvisamente come la cosa più confortante al mondo.

Esitò per qualche istante, non sapeva se dire o meno alla ciurma quali fossero le sue reali capacità ma se l’avessero gettata in mare per un qualsiasi motivo se ne sarebbero resi comunque conto. Tanto valeva vuotare il sacco, se avessero voluto farla sparire almeno lo avrebbero fatto subito. L’alcool, la stanchezza e l’aura morbida di Bepo le impedivano di pensare a mente totalmente lucida

Alzò la testa e guardò gli altri con la zampa di Bepo ancora appoggiata sulla sua spalla. «Io ho...» non era del tutto sicura di quello che stava per dire, ma prese coraggio «mangiato un Frutto del Diavolo.» Gli altri non si scomposero e anzi, con suo grande stupore sembravano totalmente indifferenti alla cosa. Non le era mai capitato di incontrare qualcuno di simile. Sulle isole che aveva visitato e soprattutto nella sua isola natale era sempre stata considerata come un mostro da temere e da eliminare.

Shachi la guardò interessato prima di chiederle quale frutto fosse e cosa fosse in grado di fare esattamente. «Ho mangiato il frutto mind-mind. Mi permette di entrare in contatto con la mente delle persone o meglio, posso leggerne i pensieri e le emozioni, se mi impegno riesco anche a modificarle ma richiede parecchio sforzo. In ogni caso sono cose che non faccio quasi mai, sono abilità utili quando fuggi e quando vuoi essere sicuro che non ci siano pericoli nei paraggi, ma in combattimento non… » la frase le morì in gola.

Avvertì qualcosa nel corridoio e sentì freddo, tanto freddo. Per una frazione di secondo provò la stessa sensazione che ogni notte provava nel suo sogno, non riusciva a muoversi. Un misto di rabbia e dolore le attraversò la schiena.

La porta di metallo si aprì alle sue spalle e i festeggiamenti della ciurma cessarono immediatamente. Bepo si staccò da lei immediatamente «C-capitano!» si mise in posizione eretta portandosi una mano alla fronte in un gesto di saluto quasi reverenziale, mentre gli altri rimasero composti ai loro posti.

Morgan avvertì chiaramente la presenza alle sue spalle. Era lui, Trafalgar Law. Si voltò con cautela e le sembrò che la temperatura della stanza fosse scesa di parecchi gradi.

L’uomo stava sulla soglia della porta appoggiato allo stipite con aria non curante. Era alto e il suo fisico asciutto era messo in risalto da un paio di pantaloni aderenti e da una maglia gialla e nera. Poteva distinguere il colore ambrato della sua pelle ma il volto era in parte coperto dal cappello, lasciando intravedere solo un pizzetto nero e la bocca serrata in una linea inespressiva. Se avesse immaginato il diavolo, ora ne era sicura, lo avrebbe immaginato così. Non era tanto l’aspetto in sé, se l’avesse incontrato in un’altra circostanza avrebbe potuto perfino definirlo un bell’uomo, ma l’aura che emanava avrebbe fatto fuggire anche il più temerario dei marinai.

Rimasero tutti in silenzio per un tempo che le parve infinito. Law si scostò leggermente il cappello dal viso e fece un passo verso di lei. Gli occhi di ghiaccio del capitano trafissero i suoi con una forza inaudita. Ora ne era certa, le storie che si raccontavano nelle bettole non potevano essere false. Si irrigidì sotto il peso dello sguardo del moro mentre un sorriso ferino anche se appena accennato gli incurvava le labbra.

«Quindi tu sei la nostra ospite?» la sua voce era calda e profonda, ma strafottente «da domani lavorerai con noi. Cerca di non darmi un buon motivo per ucciderti»

«Aspetta! Cosa?!» le parole le uscirono di bocca senza che potesse fermarle. Se ne pentì immediatamente. Law fece un altro passo verso di lei, il ghigno aveva lasciato il posto ad un’espressione indecifrabile. Morgan sentì la rabbia dell’uomo ma anche la preoccupazione di Bepo che fece un passo di lato. Il moro le portò una mano sotto il mento alzandoglielo per poterla guardare dritta negli occhi. Era chino su di lei con il viso a pochi centimetri dal suo e lo sguardo ghiacciato piantato nel suo. Il cuore le martellava nel petto. Da quella distanza poteva sentirne l’odore, disinfettante. Il panico le attraversò lo stomaco ma non era quello il problema principale. Non riusciva a pensare lucidamente.

«Hai salvato i miei uomini e loro ti hanno portata da me, saldando il debito. Io ti ho salvato la vita, ora sei in debito con me.» per un istante le si annebbiò la vista.

Law spostò la mano e si voltò di nuovo verso l’ingresso «E voi andate a dormire, domani abbiamo del lavoro da fare.»

Quel giorno Morgan aveva rischiato la vita due volte. Si toccò la gamba “Dannati pirati, avrei preferito la setticemia”

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