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Lista capitoli: Capitolo 1: *** Prologo *** Capitolo 2: *** Sulla giusta direzione *** Capitolo 3: *** Quidditch, chi l'avrebbe detto *** Capitolo 4: *** Non mi hai dato fastidio *** Capitolo 5: *** Senza volerlo sapere *** Capitolo 6: *** Tripudio di coraggio, fegato e idiozia *** Capitolo 7: *** Tutti nascondiamo qualcosa *** Capitolo 8: *** La faccia tosta che ti ritrovi *** Capitolo 9: *** Abbandonati *** Capitolo 10: *** Solo una pedina *** Capitolo 11: *** Detta così *** Capitolo 12: *** Sulla difensiva *** Capitolo 13: *** Una chiacchierata futile e qualche sorriso immotivato *** Capitolo 14: *** Qualche sano abbraccio non aveva mai ucciso nessuno *** Capitolo 15: *** Non era niente di razionale *** Capitolo 16: *** Questione di logica ***
Agli sgoccioli dell’anno, il gelo di un
dicembre inclemente penetrava mantelli, sciarpe, guanti e cappelli come fossero
carta velina, fino a sfiorare le ossa. Nulla di anomalo, nessun Dissennatore che gelasse l’acqua nelle pozzanghere e il
sangue nelle vene, semplicemente un rigido inverno londinese.
Anche il vento non mancava, ma non il soffio
carico di speranza del vento del cambiamento, bensì la sferzata penetrante che
preannuncia la neve. Per fortuita coincidenza, la domenica aveva accolto quel
rigore, dando pace ai frenetici abitanti della capitale: perfino i più devoti
alla messa domenicale erano ancora barricati in casa, stretti tra qualche
coperta e una tazza di tè bollente.
Dalle vetrate scintillanti della City fino
all’ultima propaggine di quartiere residenziale, la quiete rendeva surreali le
strade, quasi desolate, mentre un brivido di freddo correva tra i rami spogli.
Era in un angolo non troppo malandato
dell’East End, in uno di quei sobborghi dal silenzio particolarmente profondo,
che una ragazza stava uscendo di casa. Un lungo mantello blu notte era
allacciato sotto il collo sottile, per poi scendere fino a sfiorare dei robusti
stivali di cuoio. Dall’ampio cappuccio sfuggiva una cortina di capelli rosso
scuro, onde disordinate che le scivolavano davanti agli occhi mentre armeggiava
rumorosamente il portone. Troppo rumorosamente,
stando ai colpi secchi che la vicina diede alla finestra sopra di lei.
La giovane sobbalzò con un’imprecazione,
mentre le chiavi sfuggivano dalle dita livide di freddo. I suoi occhi ambrati
scattarono verso l’alto, e rivolse un sorriso poco convincente alla donna,
senza distogliere lo sguardo mentre si abbassava per recuperare le chiavi.
Proprio mentre l’altera signora stava per
ritirarsi, però, un acuto trillo perforò l’aria. Sul volto pallido si dipinse
un’aria sconfitta, mentre estraeva rapidamente il cellulare dalla tasca.
«Pronto? Sì, giusto un- aspetta un momento,
credo che la vecchia arpia stia per lanciarmi un’altra secchiata d’acqua»
bisbigliò scocciata, reggendosi al corrimano gelato per scendere i gradini
davanti all’uscio.
«Seriamente, finirò per ammazzarla! Sarò l’Auror che ammazza
vecchie Babbane» saltò sana e salva sul marciapiede, accompagnata
dall’incombente e arcigno sguardo della vedova Doyle. Sforzandosi di non
lanciarle un’occhiataccia – o una fattura – si avviò lungo la strada coperta di
ghiaccio. «Potrei anche soffiare la prima pagina al “serial killer dei
criminali” per un paio di giorni, prima che Robards mi uccida e prenda il mio
posto... Eh? Harry è già uscito? Merlino,
sono solo le sei!... No, vengo diretta dal turno di Azkaban, ma credo che
Robards sia tornato in anticipo da tutta la faccenda dell’Interpol… capirai,
cancellare qualche memoria qua e là mentre io mi trascino in quello schifo… non
saprei, si potrebbe risolvere abbastanza in fretta, ora che lui si è unito alle indagini» la ragazza
affrettò il passo, giunta in prossimità di un vicolo particolarmente angusto.
«D’accordo Ginny, glielo dico, ora ti lascio… devo farmi collegare il camino
alla Metropolvere, seriamente... sì, anche far
sistemare il portone… Ok, un abbraccione, ciao».
Uno sbuffo contrariato lasciò le labbra della ragazza,
mentre si faceva spazio tra un muro fatiscente e un cassonetto che sembrava non
essere mai stato svuotato. Si sforzò di evitare pozzanghere poco invitanti, le
gambe fasciate da jeans costellati da strappi che poco c’entravano con lo stile
e molto con la minaccia di disfarsi da un momento all’altro.
A un primo sguardo, quella ragazza stonava enormemente in
un vicolo sudicio. Non che fosse difficile, stonare in un vicolo sudicio, ma
lei ci riusciva particolarmente bene.
Probabilmente era stato il cappuccio che, scivolandole
sulla schiena, aveva scoperto chiaramente il volto fresco e spruzzato di
lentiggini, dal naso leggermente a patata, alle guance piene a quasi anche la
bocca corrucciata; probabilmente erano i capelli, lunghi e lasciati correre
distrattamente per i fatti loro oltre le spalle esili; probabilmente era anche
qualcosa negli occhi ambrati, concentrati su qualche pensiero distante anni
luce da quel vicolo.
Probabilmente era tutto, a urlare che quella fosse una
ragazza appena ventenne.
Un’universitaria qualunque, l’avrebbero definita i suoi
vicini, non particolarmente degna di nota, che divideva un minuscolo
appartamento con un gufo. Certo, il gufo faceva ancora sollevare parecchie
sopracciglia nel suo disastroso palazzo, ma ci si abituava.
Del resto, i membri della Comunità Magica erano molto bravi
a far abituare i Babbani alle loro piccole anomalie, tanto più gli Auror. E lei
sì, era una ventenne che condivideva un minuscolo appartamento con un
gufo, ma era anche una delle cacciatrici di maghi oscuri di spicco del
Ministero della Magia.
Lo era da ormai cinque anni, e amava la sua routine.
Amava il suo lavoro, e il fatto che i suoi colleghi fossero i suoi amici e la
sua famiglia. Amava destreggiarsi freneticamente e in continuazione tra
commissioni, qualche allenamento di quidditch e i
lunghi orari del Ministero; le dava la sensazione di fare qualcosa di utile
della sua vita, il che era più di quanto una volta si sarebbe aspettata. Si
trovava persino ad apprezzare il suo modesto monolocale, perché poteva
sgusciare sul tetto del palazzo a leggere, ogni tanto… e, prima o poi, la
vedova Doyle si sarebbe decisa a tirare le cuoia: la sua sì che era una metratura come si deve.
In fondo, non aveva nulla di cui lamentarsi.
Ecco perché si sentiva in colpa. Perché né la
convocazione imprevista al Ministero, né la recente permanenza su uno sperone
roccioso sperduto nel Mare del Nord, erano il motivo per cui la sua fronte
fosse così corrucciata, i suoi sospiri così profondi, il suo sguardo così infastidito.
Il vero problema era come tutto, da mesi, sembrasse pesarle troppo: era
quell’inspiegabile insoddisfazione, quello sbuffo immotivato ogni tanto, quel
sentirsi chiusa in una vita già finita.
A ventidue anni e con una guerra alle spalle, però, la
stabilità non avrebbe dovuto starle così stretta.
I suoi occhi, quasi gialli nella penombra del vicolo,
scrutarono pensosi il cielo percorso da immense nuvole grigie, cercando per la
millesima volta di scacciare quel profondo senso di… noia.
“La
mia vita non può essere solo questo… no?” pensò,
prima di voltare su sé stessa e sparire con uno schiocco.
Dall’altra parte del mondo, nella suite
attico di un lussuosissimo hotel, regnava il buio totale.
Le vetrate ampie e la splendida vista erano
state coperte da pesanti tendaggi di velluto, le costose lampade dai paralumi
elaborati spente, i telefoni sparsi nei vari ambienti staccati.
Solo un piccolo rettangolo luminoso brillava
nel buio, spandendo un alone di luce azzurrina nel raggio di un metro scarso,
illuminando il moderno parallelepipedo di un computer, una webcam spenta ed un
microfono, tutti collegati ad una serpentina di cavi che strisciavano sul
pregiato parquet fino a perdersi nel buio.
In quel nulla assoluto, seduto di fronte al
monitor, c’era un uomo. La penombra rendeva difficile stabilirne l’età ed il
corpo asciutto era infagottato in una larga maglietta bianca e in un paio di
jeans.
A un tratto, l’uomo si sporse in avanti,
verso il microfono. Tolse una mano bianca e magra dal ginocchio e pigiò un
tasto dell’apparecchio, su cui brillò una spia rossa; la luce azzurrina ora
sfiorava parte del suo volto, rendendone la pelle ancora più cerea e spettrale,
in netto contrasto con qualche folta ciocca di capelli neri.
«Watari» la voce era roca dopo ore trascorse
nel silenzio.
Sullo schermo bianco campeggiò
improvvisamente una “W” nera, e a rispondere fu una voce totalmente distorta: «Ci
sono»
«Sì, ho già comunicato le nostre richieste,
partiranno nell’arco dei prossimi quattro giorni».
«… Allora chiama il Ministero. Lei deve
arrivare al più presto».
«Me ne occupo subito» metallica o meno,
quella voce non portava il minimo segno di titubanza. Nessuna indecisione,
mentre si apprestava placidamente a occuparsi
dei due Governi magici più importanti e potenti al mondo. Del resto, non
era affare inusuale affacciarsi sullo scenario internazionale e ottenere
immediatamente la più completa e rispettosa attenzione, non per Watari. Non per
l’intermediario del detective numero uno al mondo… magico, e non.
La connessione si chiuse, lasciando l’uomo a
specchiarsi nello schermo nero. Si passò un pollice sulle labbra sottili,
pensoso.
Non si aspettava che accadesse tanto presto,
ma non si poteva lamentare.
La tediosa indifferenza che sembrava farsi
sempre più intensa, di anno in anno, che sembrava divorarlo dall’interno e
affogarlo come una marea, ora sembrava già un ricordo lontano. La sua mente
macinava frenetica e assetata le prossime mosse, i pezzi di una partita a
scacchi preparata e agognata da tantissimo tempo. Una partita che avrebbe
vinto, esattamente come tutte le altre.
La noia era stata spazzata via, come per
magia.
LUMOS
Per chi è qui per la prima volta, in bocca al
lupo.
Per chi c’è già passato, abbiate pazienza che
prima o poi la finirò anche ‘sta fanfiction, ma dopo mesi (poi diventati anni)
di meditazione, nonché mesi (poi diventati anni) di blocco totale, non ho potuto
non farlo: non ho potuto non riscrivere da capo a piedi questa storia. Per
alcuni versi cambia poco, per altri non so ancora quanto cambierà. Per questo
ho dovuto eliminare la vecchia FF e partire da un nuovo file: scusatemi se una
o più recensioni saranno andate perse, ma vi assicuro che le tengo salvate in
un angolino del computer :3
Per tutti, grazie se sarete disposti ad
accompagnarmi in questo secondo tentativo, spero di poter ricambiare con una
storia che vi dia qualcosa, che vi faccia sentire (che cosa, questo non
lo so, penso che già il sentire sia un’ottima cosa).
I capitoli saranno pubblicati una volta ogni
due settimane (forse ridotte più avanti), e la prossima decina di capitoli è
già pronta perciò… si va in scena.
NOX
[i] Magical Congress of the United States of America
Certo,
la giornata non si era preannunciata delle migliori: giunti al Ministero con la
domenica mattina a pesare sugli occhi e il passo strascicato di chi avanza
verso l’inevitabile, erano tutti alquanto convinti di aver dimenticato una
riunione con l’ufficio legale. Era risaputo quanto fossero inutili le
riunioni con l’ufficio legale.
Dieci
minuti dopo, dieci minuti in cui erano volati caffè e imprecazioni come
se piovesse, erano letteralmente volati via in divisa da assalto.
Però, era
andata bene.
«Potter
io TI AMMAZZO!»
«Auguri»
«Sono
sopravvissuto a ben altro che la tua STUPIDA FACCIA DA FURETTO!»
«Avete
ventitré anni…»
La
chiave di volta del caso erano i due informatori che avevano tirato dalla loro
parte, garantendosi preziose indicazioni su dove si nascondesse il loro
obbiettivo: il Corvo non aveva scampo. Nossignore, ancora pochi giorni, e lo
avrebbero finalmente catturato.
Perché,
quello era fondamentale, il Corvo non si sarebbe mosso per altre due settimane.
Questo
dicevano gli informatori.
…
Chiaramente, doveva esserci stato un fraintendimento, dato che il Corvo aveva
provato a prendere un aereo da Heathrow.
«Fatti
da parte Sophie, vado a gonfiare la faccia a quel presuntuoso!»
«No
Ron, per favore, non-»
«Expelliarmus!»
Però
questo non li aveva fermati, ed erano stati onestamente magistrali:le
squadre di supporto erano esplose in applausi quando avevano
immobilizzato l’obbiettivo, ben nascosti a occhi Babbani in un hangar
abbandonato. Persino la Squadra di Cancellazione della Magia Accidentale aveva
fatto loro i complimenti, e non era qualcosa che accadesse spesso.
«Confrigo!»
«Incendio!»
«Impedimenta!»
Era
andata bene, così bene che avevano offerto un giro di birra a tutti. Poi
un secondo, e un terzo, e per il quarto c’era mezzo Dipartimento premuto tra i
tavolini del loro pub preferito.
Dopotutto,
quella mattina era stata il culmine di quasi due mesi di indagini, e un vero e
proprio capolavoro di investigazione.
«Levicorpus!»
«Petrificus
Totalus!»
«Protego!»
I suoi
compagni erano effettivamente dei bravissimi investigatori, degli Auror di
prima classe, persone a cui affidava la sua vita ogni giorno, e con orgoglio.
Era fiera di poterlo fare, fiera delle loro capacità, della loro arguzia, del
loro coraggio e… della loro professionalità.
«Idiota»
«Coglione»
«Vaffanculo!»
Certo,
non in quel momento specifico.
Mentre
il Quartier Generale degli Auror veniva fatto a pezzi per la terza volta in
cinque anni, Sophie Winchester se ne stava appoggiata a una parete con le
braccia conserte, osservando la scena con espressione annoiata.
Non
c’era nulla di nuovo, del resto, nel modo in cui stavano sistematicamente
disintegrando la sua scrivania. Persino il giro di scommesse tra i
colleghi del Dipartimento, intenti a scambiarsi manciate di moneta magica, era
ormai un ben collaudato sistema di vincitori e perdenti.
E poi,
era troppo stanca per arrabbiarsi.
«Te lo
STACCO quel dito!»
«Staccati
questa dalla FACCIA!»
Fu
quando dovette schivare la sua tazza preferita, lanciata a tutta velocità verso
morte certa, che decise di intervenire. Gli occhi assottigliati sulla ceramica
polverizzata, estrasse la bacchetta in un movimento fulmineo, puntandola in
direzione dei suoi compagni di squadra.
«IMMOBILUS!»
tuonò perentoria e, per un lungo, incredibile minuto,
calò una quiete innaturale tra i cubicoli distrutti: in una nube di schegge di
legno, cartongesso sbriciolato, memorandum volanti in collisione e moquette
bruciacchiata, i suoi colleghi erano praticamente ridotti a statue di cera.
«Io non
dico che non dobbiate litigare, ok?» esordì a quel punto la ragazza,
destreggiandosi tra i detriti degli uffici Auror. «Lo so che è un miracolo che
questa squadra stia in piedi, visti i precedenti, davvero, ma potreste
evitare?! Poi io ora dove vi porto? Hermione vi ammazza, Kingsley vi
ammazza, il Capo vi ammazza, persino Silente sarebbe tentato dall'idea di
uccidere i suoi cari piccoli ex-studenti, fidatevi! Wingardium Leviosa!» Tre
corpi immobilizzati si sollevarono dalle scrivanie rovesciate dietro cui si
stavano riparando, «... come dei bambini che giocano a palle di neve! Ah
ma se non vi ammazzano gli altri lo faccio io, potrebbe valermi una
promozione!» Gli sguardi fulminanti dei ragazzi, che riuscivano appena a
muoversi, non la sfiorarono minimamente.
Li
avrebbe portati in un posticino tranquillo, tipo il bagno intasato del quarto
livello, e lungo il tragitto si sarebbe curata di farli andare a sbattere
contro ogni porta, angolo e mobile disponibile. Poi sarebbe tornata a
sistemare.
Grazie
a Godric, il Capo era l’unico a possedere un ufficio vero e proprio, con tanto
di porta, muri e insonorizzazione:magari, dopotutto, non se ne
sarebbe accorto.
«No,
non di nuovo!»
… Magari.
«Potter,
Weasley, Malfoy e, sì, anche tu, Winchester, in
ufficio!Subito.»
L’unica
porta del Quartier Generale si richiuse con un tonfo secco, mentre la rossa
faceva cadere i tre Auror a terra, nuovamente liberi.
«E
tutto per colpa tua, Potter! Solo perché non sai ammettere che la mia
strategia ha effettivamente avuto più successo di quanto ne avrebbe
avuto la tua… beh, anche se ci è voluto poco» ghignò sarcastico Draco Malfoy,
alzando gli occhi grigi al cielo con aria di superiorità.
«Fottiti
Malfoy» replicò con finezza leggendaria Ron Weasley, accompagnandovi un medio
come ciliegina.
«Se
Sophie non ci avesse fermato ti avremmo fatto a pezzi, quindi taci Malfuretto»
sibilò irritato quell’Harry Potter, intento a riparare un paio di
malandati occhiali rotondi.
«Oh ma
fatemi il favore! Non…»
«Ricominciate!»
sbottò Sophie, lamentosa. «Passerò la domenica a incollare pezzi di
scrivania, grazie a voi»
«Tecnicamente
è colpa di-»
«Hermione
ti ammazzerà» realizzò a quel punto la rossa, guardando Draco con aria
vendicativa.
Lui
fece ostinatamente finta di non sentirla, ma si passò due dita nel colletto
della giacca. «Se dobbiamo essere precisi, è colpa di Robards»
«Ah,
vuoi duellare anche con lui?»
«Malfoy
non ha tutti i torti» brontolò Ron, togliendosi delle schegge di legno dalla
divisa. «Dovremmo essere a festeggiare o, che ne so, in ferie, a
quest’ora»
«Oh,
una cosa intelligente Weasley, complimenti»
«Ora
siete d’accordo…»
«Ragazzi,
ormai non abbiamo molta scelta» sospirò Harry, alzandosi in piedi e ignorando
le proteste di Draco, a cui stava calpestando il mantello.
La
squadra fissò, sconsolata, la porta il cui spesso vetro ambrato recava la
semplice scritta: “Capo – Auror Gawain Robards”.
«A-ancora?»
I quattro si voltarono verso un collega, intento a guardare con aria afflitta
delle piccole piantine in vaso che giacevano, malandate ma vive, fra i resti di
una scrivania.
Sophie,
invece, sorrise amabilmente. «Già, scusali, e sgancia.»
Neville
si limitò a scrollare le spalle e lasciar cadere un paio di Falci nel palmo
della strega, fissando anch’egli la fatidica porta. «Lo sapete che aspettare
qui fuori è come lasciare sul tavolo una Strillettera, vero?»
«Paciock,
tu lo sai quanto me ne f-»
«Hai
ragione» disse Harry, amareggiato ma lapidario, mentre Sophie zittiva il
biondo con una gomitata. «Beh, coraggio, no?»
«Per i
tanga di Merlino, manco a Hogwarts siamo finiti in Presidenza così tante volte»
commentò Ron, passandosi una mano fra i capelli rossi.
Ed era
davvero tutto dire.
«Riuscite
a stare un minuto, ma che dico, un secondo, senza demolire il
Ministero?! È forse chiedere troppo? Basta dirlo, vi spedisco all'Accademia
Auror e chi s'è visto s'è visto!»
«Oh,
andiamo, io le avevo detto fin da subito che non volevo stare in squadra con
loro, che non era una buona idea, ma lei no, si è fissato!»
«Taci
Malfoy» sussurrò fra i denti Harry, vedendo la vena sull’alta fronte del Capo
pulsare in modo pericolosamente familiare. Di solito, a quel punto, suo zio
Vernon gli metteva le sbarre alla finestra.
Gawain
Robards, però, era una persona paziente, un Auror veterano che aveva visto la
storia del Dipartimento: era un novellino durante i primi attacchi Mangiamorte,
era cresciuto sotto la guida di Rufus Scringemour, l’aveva succeduto quand’egli
era diventato Ministro, e aveva resistito sotto la tirannia di Voldemort. Dopo
la Battaglia di Hogwarts e l’elezione del Ministro Kingsley Shacklebolt, aveva
proposto a tutti gli studenti sopravvissuti un posto al Quartier Generale,
mentre gran parte della vecchia guardia finiva sotto processo.
L’Accademia
Auror, infine, era rientrata in funzione, selezionando e addestrando con
perizia la nuova élite di Cacciatori di Maghi Oscuri. Il sistema era stato
rinnovato e scosso fino alla fondamenta.
Ora a
Robards non restava che andare in pensione, lasciando le redini al più giovane
e promettente Auror che si fosse mai visto: Harry James Potter.
Il
Salvatore del Mondo Magico.
Colui
che aveva sconfitto Voldemort.
Il
ventitreenne che lanciava fatture ai colleghi da dietro una scrivania.
«Statemi
a sentire, banda di ragazzini, se non l'avete capito ci sono affari più
importanti da sbrigare che non risolvere i vostri litigi da quindicenni, ne ho
fin sopra i capelli! Se non la finite oggi stesso, potete consegnare la
spilla!» I tre impallidirono, abbandonando all’istante qualsiasi battuta di
spirito sui capelli brizzolati del capo, in cui si faceva largo una sempre più
incipiente stempiatura.
Sophie
Winchester, invece, non poté evitare di notare che l’uomo sembrasse essere
parecchio nervoso… cioè, più dell’ultima volta in cui il suo Quartier
Generale era stato ridotto in rottami fumanti.
Si
schiarì la voce, titubante.
«Ehm,
Signore, non vorrei deviare il discorso ma… perché siamo stati chiamati qui? Il
gufo diceva che si tratta di una questione urgente, ed eravamo al pub… non che
sia un problema, è chiaro!».
Robards
la guardò, e sulla sua fronte si disegnò una profonda ruga, scavata tra le
sopracciglia cespugliose. Gli occhi azzurro chiaro erano inquadrati da una
sottile montatura metallica, che si muoveva ogni volta che l’Auror si
accigliava, ovvero molto spesso. La ragazza lo osservò sfilare gli
occhiali e iniziare a pulirli nella giacca, lo sguardo abbassato.
«Ragazzi,
sistemate di là e aspettate, devo parlare prima con Winchester. E che non
capiti più, ve lo chiedo per favore e per l’ultima volta» sancì. I tre
se ne andarono malvolentieri, scoccando occhiate inquisitorie alla ragazza, che
alzò le spalle.
«Capo,
se è per il turno ad Azkaban ci sono appena stata e, detto francamente, quel
posto sembra ancora infestato dai Dissennatori» chiarì subito Sophie, storcendo
il naso.
«No,
non è quello… anzi, ora come ora toccherebbe a Malfoy» bofonchiò in risposta
Robards, assottigliando pericolosamente gli occhi rugosi. «Comunque, saprai
bene in che situazione versa il nostro Dipartimento e, beh, tutto il mondo
della criminalità».
Sophie
annuì, il volto acceso per l’interesse. «Certo, Capo, so tutto sul Caso Kira… o
almeno, tutto quello che è stato divulgato.»
«Molto
bene, e sarai consapevole del fatto che, con le risorse di cui disponiamo,
siamo già allo stremo tra i casi di routine e questo disastro» disse con
una smorfia il mago, non sapendo come altro definire quel fenomeno inspiegabile
per cui, improvvisamente, sia per strada che dietro le sbarre, avevano iniziato
a morire centinaia, migliaia di criminali. Così, semplicemente, come per
mano di un Avada Kedavra, e in tutto il mondo.
Le
vittime erano equamente magiche e Babbane, e ciò aveva portato la
Confederazione Internazionale dei Maghi a farsi carico della caccia
all’assassino, certamente mago. Con tutta la buona volontà, non avevano però
fatto altro che manipolare Babbani per non essere intralciati mentre
brancolavano nel buio.
Questo,
ovviamente, fino a qualche settimana prima, quando la Confederazione aveva
accettato di consegnare il caso nelle mani di L.
L era
un nome e niente più, senza volto e senza identità, non si sapeva neppure se
fosse mago o Babbano, una persona o un’organizzazione. Ciò che si sapeva, era
che nessuno, nessuno al mondo poteva eguagliare le sue doti
investigative: non importava quale caso gli fosse affidato, da quanto tempo e
con quanta disperazione vi avessero già lavorato, che fosse di natura magica o
babbana, d’importanza internazionale o interesse di un’anziana nobildonna di
campagna, L lo avrebbe risolto.
Era una
leggenda, quasi un’entità sussurrata, un dubbio e una favoletta per detective
in erba.
Ed era
assolutamente, immancabilmente l’ultima spiaggia.
Sì,
perché L non rispondeva a nessuno, se non al caso. Non v’era Governo che avesse
mai ottenuto la sua comparizione o un briciolo d’informazione in più su di lui
e, se qualcuno vi fosse mai riuscito, probabilmente non lo avrebbe raccontato.
Così come chiunque avesse mai provato a farsi passare per L, ora trascorresse
il resto della propria esistenza in giornate anonime e vagamente terrorizzate
nelle più sperdute province della terra.
L era
una certezza ma anche un enorme compromesso, che in pochi casi si era disposti
a raggiungere.
Il caso
Kira, però, era decisamenteuno di quelli.
Da
quando L aveva preso in carico l’investigazione, le indagini erano state
rapidamente focalizzate in Giappone e, tramite qualche scaltro stratagemma, il
cerchio era già stato ristretto al Kanto. Ora che il Quartier Generale delle
indagini su Kira era stato stabilito a Tokyo, però, ben poche informazioni
filtravano nel resto del mondo: se c’era una cosa facilmente deducibile, almeno
per Sophie, era che di tutte le vittime fosse sempre stato riportato nome e
fotografia su qualche giornale o media babbano, mentre criminali di alto
calibro la cui l’identità era del tutto o parzialmente sconosciuta erano salvi
dal serial killer.
«Ora,
Sophie, saprai che nel nostro Stato e in quello americano si sono registrati i
più alti tassi di vittime, magiche e non» spiegò Robards, attendendo che la
strega annuisse brevemente. «Bene, a causa di questo triste primato, L ha
chiesto rinforzi al Congresso Magico degli USA, e gli Yankees hanno già
arruolato una dozzina di Auror esperti da spedire sul campo».
Il mago
si fermò per prendere una pipa dalla tasca, accendendola con un po’ di
scintille della bacchetta. Poi si mise a frugare fra le pile di pergamene che
affollavano la scrivania di mogano. Sophie, rimasta in silenzio per tutto il
tempo, non osava sperare che il Capo le stesse chiedendo…
Si
sforzò di frenare l’entusiasmo, mentre Robards prendeva cinque fascicoli e li
disponeva sul resto del marasma. Non parlò subito, però: sembrava riluttante,
mentre tamburellava le dita sulla scrivania e tirava nervosamente dalla pipa.
«Capo?»
lo incalzò Sophie, il cuore che le tamburellava nel petto.
«… Ho
ricevuto un gufo da Tokyo, questa mattina. L chiede esperti in Occultamento e
Travestimento, così come in Segretezza ed Inseguimento, ovviamente da una delle
squadre di punta» Robards si schiarì la voce seccamente, poi indicò i fascicoli
con la pipa. «Cinque agenti, gli unici cinque che posso permettermi di
dislocare senza troppo chiasso. Mentre tu e i ragazzi eravate sul campo, oggi,
ho raccolto quattro rifiuti. Resti tu».
Sophie
era scioccata. Aveva capito bene, stava succedendo, Gawain le stava
proponendo di lavorare con L. Si sentì intorpidita, mentre fissava i
fascicoli con la bocca schiusa.
«Senti,
Winchester, non hai alcun obb-»
«Accetto»
la replica fu fulminea, gli occhi gialli di Sophie ben piantati in quelli del
superiore.
Il Capo
tacque, e a lungo. Una pausa che sembrò non finire mai, come l’attesa del lampo
dopo il rombo di un tuono.
«Molto
bene, hai una Passaporta per il Giappone alle sette».
***
Quando
aveva accettato, le era sembrato di tornare a respirare. Le era sembrato di
tornare a essere viva tutto d’un colpo, mentre prendeva a scorrerle nelle vene
l’eccitazione per quella che, più di una svolta, era una vera e propria
avventura.
Non era
sicura di essere del tutto lucida, ma si sentiva più padrona delle proprie
azioni di quanto non lo fosse ogni giorno degli ultimi anni. Era in una bolla
di frenesia, mentre correva via dal Ministero, liquidando Harry, Ron e Draco;
lo era ancora mentre sbatteva la porta di casa, senza udire i colpi di scopa
che la vedova Doyle aveva assestato dal piano di sotto; lo era tanto da non
sapere che ore fossero quando, dopo aver svuotato ogni cassetto, antina e
ripostiglio della casa, aveva fatto rapida incetta di cosa le sarebbe servito
per-
Per
quanto? Quanto sarebbe stata via? Quanto si sarebbero
protratte le indagini in Giappone? Dopo quanto l’avrebbero congedata? Chissà
quante cose non avrebbe potuto procurarsi lì, chissà quanto era complicato
spedire gufi fino lì, chissà…
Fu nel
bel mezzo di quelle decisioni, che il campanello di casa suonò. La ragazza si
riscosse, trovandosi inginocchiata sul pavimento di fronte a una pila di libri
e quaderni di pelle. Il gorgoglìo doloroso dello stomaco vuoto la raggiunse
subito dopo la fitta alle ginocchia, mentre si alzava in piedi per aprire la
porta.
«Non
penso che lo vendano in Giappone… meglio non correre il rischio.» Ferma sul suo
pianerottolo, Ginny Weasley le stava porgendo un’enorme confezione di caffè
macinato, imbacuccata in un set di berretto, sciarpa e guanti lavorati a
maglia. Sophie batté le palpebre, poi abbracciò di slancio l’amica.
D’un
tratto, parve rendersi conto davvero di cosa stesse succedendo: stava per
partire per Tokyo e unirsi a una delle più pericolose investigazioni degli
ultimi anni, forse la più pericolosa impresa dai tempi della Battaglia di
Hogwarts. Nessuno sapeva come uccidesse questo serial killer, nessuno capiva
cosa facesse cadere a terra, morti, migliaia di maghi e Babbani in tutto il
mondo, come burattini cui fossero stati tagliati i fili. Nessuno sapeva come
fermarlo.
Se
fosse morta durante quell’operazione, in prima linea, non ci sarebbe stato
troppo da sorprendersi. Strinse più forte l’amica, che tossicchiò una risata.
«Ok, ok, però lasciami entrare e preparami un tè».
«Però
mi devi aiutare con le valige, dopo» patteggiò Sophie, lasciando entrare in
casa l’amica. «Gli altri come l’hanno presa?»
«Non
sono proprio folli di gioia, visto anche che li hai lasciati al Ministero senza
spiegazioni, e ovviamente sono preoccupati ma… capiscono. O capiranno,
perlomeno» replicò Ginny, stringendosi nelle spalle mentre sfilava il piumino e
lo lasciava sullo schienale di una sedia.
«Hermione?
È arrabbiata, non è vero?»
«Forse
un pochino, ma in buona sostanza si è fiondata a Diagon Alley per andarti a
comprare Merlino solo sa cosa, e trascinandosi dietro Malfoy… ecco, Malfoy, lui
è arrabbiato, imbronciato peggio di un bambino».
Sophie
liquidò la cosa con un sorriso e un gesto della mano: Draco e il suo broncio
erano la più prevedibile delle reazioni, ma sapeva che quell’atteggiamento
nascondeva sincera preoccupazione. Per quanto a volte risultasse una persona
difficile, era suo migliore amico non per niente.
«… E
tu?» chiese infine, con voce titubante. In verità, anni di amicizia con la
rossa le avevano insegnato che lei l’avrebbe sempre, sinceramente sostenuta,
non importava davvero se e quanto fosse d’accordo con le sue scelte. Per questo
aveva bisogno di una conferma, ora più che mai.
Ginny,
per non smentirsi, le scoccò un’occhiataccia, quello sguardo di rimprovero che
la faceva sembrare tutta sua madre. «Winchester, prepara quel tè, va’!» le
intimò, mettendosi a piegare dei vestiti accatastati sull’unico tavolo della
casa.
Una
volta rassicuratasi che gli amici non stessero pianificando di Pietrificarla e
nasconderla nell’armadio, la strega si sentì più leggera, armeggiando con la
piccola cucina adiacente al salotto mentre Ginny iniziava a raccontarle degli
ultimi allenamenti con le Holyhead Harpies.
I suoi
amici, loro erano tutto ciò di cui le importava, loro erano tutto quello che
avrebbe lasciato a casa.
Non
aveva una famiglia, una vera, da quando aveva quindici anni, e non tornava
nella casa in cui era cresciuta da allora.
Ma
aveva Ginny, la sua migliore amica, una compagna di stanza prima e una sorella
dopo. Aveva Draco, aveva Harry, Ron, Hermione, i Weasley, il dipartimento…
aveva una famiglia e sarebbe tornata da loro, sì, ma solo dopo aver risolto il
caso Kira. Lo doveva al suo stesso lavoro, al Capo che aveva riposto fiducia in
lei, e a sé stessa, a quella nuova vitalità che le fremeva lungo la
schiena, a quella sensazione di essere sulla giusta direzione.
Non
parlarono del caso per almeno due ore, mentre sorseggiavano una tazza di tè
dietro l’altra e infilavano in un minuscolo zaino gli averi di Sophie, in una
quantità che ne tradiva drasticamente le proprietà magiche. Però, mano a mano
che l’appartamento si svuotava, il voluminoso fascicolo che sostava sul tavolo
parve diventare sempre più ingombrante.
Quando
Sophie incrociò per l’ennesima volta lo sguardo dell’amica, posato fino a un
attimo prima sul pacchetto, le chiacchiere parvero esaurirsi. Infilò il
fascicolo nello zaino, e i caratteri scarlatti impressi nella copertina parvero
brillare di luce propria: “KIRA”.
L’Auror
prese un respiro profondo, ravviando all’indietro i capelli color mogano.
«D’accordo,
è ora».
Le due
diedero un’ultima occhiata all’appartamento, assicurandosi che non stessero
dimenticando niente, poi uscirono.
Sophie,
lo zaino in spalla e il cappuccio blu notte nuovamente calcato sulla fronte
lentigginosa, non diede neppure un ultimo sguardo al posto dove aveva vissuto
per sette anni, prima di serrarne la porta.
Naturalmente,
giunta al Ministero non aveva trovato solo Robards e un’arrugginita bussola
rotta ad attenderla.
Harry e
Ron si erano raccomandati: doveva tornare per il torneo di Quidditch del
Ministero e doveva assolutamentericordarsi di comprare le
magliette dei Toyohashi Tengu. Hermione le aveva strappato lo zaino di mano
senza una parola, iniziando a riempirlo di libri, pozioni e maglioni, salvo poi
scoppiare in lacrime: i maglioni erano tutti bitorzoluti e non sapeva proprio
come scusarsi, e Sophie si affrettò ad abbracciarla e rassicurarla. Anche
Ginny, stranamente, si era commossa, malgrado l’amica fosse sicura di averla
vista piangere forse una manciata di volte in dodici anni. Draco… beh, Draco
era rimasto rigido, corrucciato e a braccia conserte mentre lo abbracciava, ma
non le sfuggì quando il mago tirò su col naso un paio di volte.
A pochi
minuti dall’ora X, Sophie si era voltata verso la bussola, ora illuminata da una
luce azzurrina. Mentre tendeva le dita verso la Passaporta, aveva gettato un
ultimo sguardo ai suoi amici, alla sua vita.
Robards
la guardava in modo strano, in modo… colpevole. Sophie avrebbe voluto
tranquillizzarlo, dirgli che era pienamente consapevole di quello a cui andava
in contro, e che non si sarebbe fatta togliere di mezzo dal primo Mago Oscuro
che passava per strada, ma ormai mancavano pochi secondi. Sperò che il Capo lo
capisse dal sorriso che fece, un attimo prima che il familiare strappo
all’ombelico la sollevasse da dov’era.
Mentre
Sophie spariva in un vortice stroboscopico, avrebbe giurato che Robards le
avesse sussurrato qualcosa.
***
15
dicembre 2003
La
Passaporta l’aveva portata in una viuzza appartata e buia dove la città,
immersa nella notte com’era, non l’avrebbe certo notata.
Prese
un respiro profondo, appoggiandosi al muro di cemento mentre si riprendeva dal
brusco viaggio, dal cambio di luce, dal diverso odore che aveva l’aria di
Tokyo. I sensi all’erta, scrutò il vicolo cieco: sfiorò il legno nella manica
sinistra, per effettuare un Homenum Revelio.
Aggrottò
la fronte e, senza perdere tempo, sfoderò la bacchetta e la alzò.
«L sarà
contento, ha dei tempi eccellenti» si complimentò una voce dal marcato e
raffinato accento inglese. Un Incantesimo di Disillusione si dissolse,
rivelando un alto uomo celato da un impermeabile scuro, un paio di occhiali da
sole, un cappello e dei guanti.
Sophie
inarcò un sopracciglio, trattenendo una risata a quella tenuta eccentrica.
«I
Montrose Magpies stanno facendo faville, credo proprio vinceranno il
Campionato, stavolta» buttò lì la strega, senza rinfoderare la bacchetta.
«Personalmente,
credo che questo sia l’anno dei Caerphilly Catapults. Ora, se vuole seguirmi ci
recheremo subito al Quartier Generale».
Sophie
sorrise nervosamente, avvicinandosi all’uomo che le stava offrendo un braccio.
Pochi
istanti dopo, i due si materializzarono in quello che sembrava il corridoio di
un albergo di lusso, con moquette avorio che sapeva di pulito e ricercata carta
da parati a foderare l’ambiente, illuminato a intervalli regolari da delicate
lampade di cristallo. Sophie, vagamente nauseata dopo la Smaterializzazione,
ammirò la scelta del Quartier Generale: un albergo non solo garantiva
discrezione e anonimato, ma poteva essere sgomberato molto rapidamente, non
richiedeva la collaborazione ministeriale… e poi, chi non amava il servizio in
camera?
La
giovane si schiarì la voce. «Non vorrei sembrare impertinente, ma... era solo
una parola d’ordine scelta a caso, vero?»
Il suo
accompagnatore ridacchiò, mentre le faceva segno di precederlo oltre le doppie
porte di una suite. «In realtà, sono davvero un affezionato tifoso dei
Caerphilly Catapults.»
Sophie
entrò in un’anticamera spazioso e moderno, da togliere il fiato. Ciononostante,
si sfilò il mantello con una smorfia poco convinta. «Lo sa che hanno vinto il
campionato anche meno volte dei Cannoni di Chudley, sì?» chiese, voltandosi:
accanto all’entrata, la attendeva un anziano uomo di circa settant'anni vestito
con un completo elegante, il viso rugoso ornato da baffi curati e piccoli occhi
chiari, sormontati da occhiali rettangolari.
«Temo
di essere un terribile nostalgico, signorina. Mi permetta di presentarmi, io
sono Watari».
Sorpresa,
Sophie sorrise e gli strinse la mano. «È un piacere conoscerla, signore. Però,
non sono del tutto sicura di quale nome io debba usare».
Watari
sorrise. «Non si preoccupi, L le dirà tutto. La aspetta oltre quella porta,
dove c’è il salotto. Di là trova anche la sala da pranzo, mentre da quella
parte la aspettano la sua camera da letto e il bagno personale. Se avrà bisogno
di me, invece…»
Aspetta
aspetta aspetta, L mi aspetta NEL SALOTTO?, pensò
Sophie, tramortita, mentre seguiva il mago… Il mago che le stava dando
direzioni per la sua camera. Sua. Di Sophie. Come se dovesse dormire lì.
Ridicolo.
«Un
momento, Watari, lei… lei ha detto L. Io… pensavo avrei lavorato per
conto mio, che tutt’al più avrei collaborato con i miei colleghi, non
direttamente con lui! E poi, non capisco, non credevo di risiedere direttamente
nel Quartier Generale» farfugliò, agitata, quasi strozzandosi nel tentativo
di sfilarsi la sciarpa.
«Oh,
no, non nel suo caso. Le spiegherà tutto L» ripeté l’uomo, aprendole nuovamente
la porta prima che avesse il tempo di aggiungere altro.
Non che
la ragazza sapesse cosa dire. Era totalmente spiazzata, col cuore in gola e lo
stomaco totalmente in subbuglio, tra viaggi magici e quella tensione
insopportabile.
Ok,
è uno scherzo. Chiaramente. Dietro quella porta c’è Robards con tutti gli altri
pronti a ridermi dietro.
Al di
là della soglia, però, non la aspettava nessuno che conoscesse. Il salotto era
enorme, con una parete interamente occupata da ampie vetrate e lunghe tende di
velluto scuro, ma dai riflessi dorati; un cerchio di divani e tavolini era
posizionato su uno spesso tappeto color champagne, e un’elegante accozzaglia di
vasi di fiori, lampadari, scrittoi e soprammobili dall’aria costosa copriva
ogni superficie disponibile.
Neanche
il tempo di mettere piede nella stanza, e Watari si era già dileguato,
lasciandola sola e vagamente spaesata.
Maledizione,
Watari.
«Venga
pure avanti».
La voce
proveniva dall’alto schienale di una poltrona rivolta verso le finestre. Una
voce profonda, un po’ roca, che le fece venire un leggero brivido lungo la
schiena.
Sophie
compose l’espressione più imperturbabile possibile, poi avanzò e girò attorno
alla poltrona, da cui si stava alzando quello che doveva essere...
LUMOS
Ed eccoci qua, miei prodi! Tutto un capitolo su Sophie, vita di
Sophie, ambiente di Sophie, comfort-zone di Sophie: i desperately need
feedback.
Ancora di più, però, ho bisogno di un feedback sui dettagli: si è
capito tutto? Troppa confusione le numerose reference potteriane al Ministero?
Troppo macchinoso il riassunto del caso Kira? Voglio davvero cercare di rendere
comprensibili entrambe le parti del crossover, quindi se ci sono passaggi poco
chiari non vi fate problemi a dirlo :3
Ringrazio TANTISSIMO le meravigliose persone che hanno recensito,
seguito, ricordato, preferito: spero davvero di non deludervi.
Doveva
essere alto almeno una dozzina di centimetri più di Sophie, forse un
metro e settantacinque, ma teneva una postura ingobbita, con le mani affondate
nelle tasche di un paio di jeans cadenti e le spalle curve sotto una grande
maglietta bianca spiegazzata. Fu il suo viso, però, a colpire Sophie: la sua
pelle era impossibilmente diafana, come se quei tratti spigolosi, incorniciati
da folti e scomposti capelli corvini, non avessero mai visto la luce del sole.
I grandi occhi scuri spiccavano in un contrasto esagerato, lividi e cerchiati
di nero.
Il suo
sguardo era uno di quelli che non si incrociavano spesso, quelli persi nei
propri pensieri e poco interessati a quelli altrui, distanti. Allo stesso
tempo, sembrava assorbire ogni singolo dettaglio di ciò che vedeva.
In un
attimo, Sophie fu fin troppo cosciente dei suoi jeans lisi, rammendati più e
più volte durante la sua carriera da Auror, dell’ampio maglione beige a greche
rosse che le aveva cucito mamma Weasley, nonché dei capelli disordinati che le
scendevano fino alla vita. Non era nemmeno del tutto certa di non essersi
versata del tè sul maglione, prima di uscire.
È
giovane, Godric, avrà al massimo qualche anno più di me pensò, sconvolta e affranta. Avrà qualche anno più di me ed è il
detective più famoso del globo. E io ho il maglione sbrodolato di tè.
«Per
precauzione, d’ora in poi mi chiami Ryuzaki» la voce bassa del ragazzo la
distrasse dal suo delirio interiore, riportandola alla realtà.
Si
schiarì la gola, non sapendo assolutamente che cosa dire: presentarsi
col proprio nome sarebbe stato un sintomo d’incompetenza? Non aveva senso-
Improvvisamente,
la ragazza si irrigidì, il volto una maschera di pietra mentre si rendeva conto
di star ricevendo un attacco mentale: col fiato mozzo, evocò immediatamente una
barriera, con tale celerità da lasciare scoperto appena un brandello di
pensieri.
L,
però, sembrò totalmente incurante dell’ondata di irritazione che doveva averlo
investito, mentre la guardava col capo leggermente inclinato e si grattava la
nuca. Era un oltraggio, provare a leggere la mente di qualcuno, né più né meno
che Schiantare un passante in mezzo alla strada; con la sola differenza
che i maghi capaci di padroneggiare la Legilimanzia fossero rarissimi.
«Ottima
Occulmanzia[1]. Watari le fornirà nuovi documenti più tardi, signorina Winchester».
Sophie,
ancora piantata a metà fra l’ingresso e il salotto e in assoluto silenzio da
cinque minuti, iniziò a sentirsi un po’ stupida. D'altronde, non aveva la più
pallida idea di come comportarsi.
Di
certo, non poteva iniziare a piantar grane perché il detective aveva avuto la prudenza
di testare le sue barriere mentali… non che un po’ di tatto le avrebbe
fatto schifo. Alla fine si decise a parlare, sforzandosi di nascondere ogni
traccia di confusione. «In tal caso, può chiamarmi Sophie».
Il
ragazzo la ignorò e tornò a sedersi sulla poltrona. Si mise in una strana
posizione accovacciata, seduto sui talloni dei piedi nudi e con le ginocchia al
petto, e Sophie si astenne dal chiedersi perché diavolo si appollaiasse in quel
modo.
«Si
sieda, ma prima spenga il cellulare, se ne ha uno. Detesto dovermi
interrompere».
Lei
inarcò un sopracciglio, ma si trattenne dal servirgli una delle sue rispostine
sarcastiche: non sapeva se avrebbe retto un secondo viaggio in Passaporta. Optò
piuttosto per sedersi sul divano, di fronte al detective.
In quel
momento, Watari entrò nella stanza con un carrello portavivande: con il massimo
della naturalezza, il famoso e unico contatto mondiale di L si mise a servire
la colazione.
«Tè o
caffè?» le chiese con un sorriso gentile.
«Ehm,
caffè, grazie» rispose attonita. Intanto, di fronte a lei, L stava lasciando
cadere nel suo tè, una per una, circa una dozzina di zollette di zucchero.
Trattenendo
un sorriso, la rossa iniziò a sorbire il suo espresso nero, senza smettere di
studiare i movimenti di quello strano e leggendario individuo. Nel frattempo,
Watari si era nuovamente dileguato.
«Vorrei
partire dagli ultimi sviluppi» iniziò il ragazzo, «ha letto il file che le ho
inviato?»
«Certamente»
«Perfetto»
sentenziò L, servendosi una fetta di torta, «allora saprà della strana
coincidenza in cui mi sono imbattuto pochi giorni fa: in base alla disposizione
oraria degli omicidi, ipotizzo che Kira sia uno studente e, proprio dopo aver
condiviso tale informazione con l'Ordine di Polizia Giapponese, lo schema
cambia.
«Kira
ha ucciso per due giorni a un’ora di distanza, per un ammontare di 48 vittime.
Cosa ne pensa?»
Sophie
si concesse un momento per prepararsi una tazza di caffè abbondantemente allungata
con del latte freddo, prima di pronunciarsi. Stava parlando con L, dopotutto,
colui che con una semplice diretta TV aveva messo alle corde Kira e aveva
promesso di sbatterlo in galera.
Di
sicuro, aveva già tratto le sue conclusioni.
E
questo è un test.
«Beh,
innanzitutto è ovvio che Kira abbia accesso alle informazioni dell’Ordine,
perciò immagino che io e i miei colleghi americani siamo qui per indagare su di
esso…» tentennò, non sapendo se continuare o meno.
L la
continuò a guardare, senza dare segno di volerla interrompere. «In secondo
luogo, credo che questo episodio la dica lunga sull'assassino: questa non è una
semplice imprudenza, è una palese sfida diretta a lei, una sfida infantile,
lanciata in diretta tv e raccolta in obitorio»
«Da
quello che dice, anche il mio modo di agire sembrerebbe indice di
infantilità» le fece notare il detective, in tono casuale.
Sophie
arrossì appena. «Non l’ho detto, però»
«E
nemmeno lo nega»
«E
nemmeno lo nego» concordò la rossa, iniziando a essere vagamente divertita da
quella situazione. Forse avrebbe finito per farsi rispedire a Londra con una
nota di demerito, ma se proprio L voleva stare a sottolineare l’ovvio per
metterla alla prova, non si sarebbe tirata indietro.
Lui,
però, curvò un angolo della bocca verso l’alto… per ora, non sembrava
intenzionato ad affatturarla.
«Perciò,
dicevo, Kira odia perdere, tanto da aver scoperto alcune delle sue carte pur di
dimostrarle cosa sa fare. È una mossa sconsiderata, ma non abbiamo a che fare
con un individuo stupido… seguendo questo ragionamento, mi sembra probabile che
abbia un secondo fine» proseguì Sophie, la fronte aggrottata e lo sguardo perso
nel caffè.
«L’Ordine»
disse dopo un po’, «la conseguenza più evidente e rilevante di questo gioco di
potere è il fatto che i miei colleghi ed io siamo qui per indagare sull’Ordine
di Sicurezza. Se si venisse a sapere, non credo che i Giapponesi
apprezzerebbero il trattamento» alzò gli occhi su L, scoprendosi improvvisamente
tranquilla, se non entusiasta.
Certo,
quella situazione rimaneva ai limiti dell’assurdo, ma in fondo quello era ilsuolavoro: formulare ipotesi, comprovarle o smontarle, seguire
anche le piste più assurde per avviare delle indagini, era tutto parte di
quella sfida che amava.
L
annuì, nuovamente indecifrabile, il manico della forchetta che sbucava dalla
bocca.
«Analisi
perfetta» disse solamente, per poi prendere l'ultima forchettata di dolce.
«Ovviamente, sa che esiste un altro modo per Kira per garantirsi che il Governo
abbandoni le indagini…»
Sophie
lo guardò di sottecchi. «Beh… se io e i miei colleghi morissimo, le conseguenze
sarebbero ben più di qualche agente ferito nell’orgoglio» ammise la strega.
Quelle parole le suonarono strane, mentre le pronunciava: malgrado la morte
fosse un rischio di cui aveva accettato di farsi carico, si trattava sempre di
un’ipotesi remota, un’eventualità a cui non dava davvero peso.
«Qualunque
sia il modo, Kira tenterà di ridurre al minimo le nostre forze investigative.
Qualora ciò accadesse, bisogna mettere in conto una diversa gestione delle
indagini.» L prese un’altra fetta di torta, sotto lo sguardo perplesso della
strega.
«Sì, ha
senso, ma… Ryuzaki, non capisco perché tu mi stia dicendo tutto questo»
«Così
che tu possa chiedermelo»
«Chiedere
che cos-ah.» Sophie tacque, continuando a fissarlo mentre rifletteva.
Se
l’Ordine di Polizia si fosse tirato indietro, se fossero rimasti solo pochi
Auror disposti a collaborare, la soluzione più logica sarebbe stata che L
ritirasse totalmente le indagini dal Ministero giapponese: il detective non si
sarebbe mai esposto a un vasto numero di impiegati governativi, ma un piccolo
pool investigativo… Dopotutto, Watari stesso si era riferito a quella stanza
d’albergo come al “Quartier Generale”, malgrado al momento le operazioni
fossero collocate al Ministero.
«…
Sarebbe questo il motivo per cui mi trovo qui?» chiese la rossa, dubbiosa.
«Lei è
l’unica agente inglese, non vedevo gravi problemi nel presentarmi direttamente
a lei, mentre la squadra americana sarebbe più impegnativa» spiegò il
detective, in tono distaccato. «Mettiamo che le cose vadano nel peggiore dei
modi: Kira non solo si accorge di essere pedinato, ma trova il modo di uccidere
uno o più dei suoi pedinatori. A quel punto, l’Ordine di Sicurezza continua ad
avere una talpa, non si fida più di L e fronteggia per la prima volta la
consapevolezza che Kira ucciderebbe un Auror, se messo alle strette.
«L’unica
scelta sarebbe proseguire con un team che interagisca direttamente con me, e a
distanza ravvicinata: io garantirei la loro incolumità, per quanto mi sia
possibile, e loro la mia, in egual misura. Solo allora rivelerei loro la mia
identità.»
«Se
degli agenti americani morissero dopo averti conosciuto, i rimanenti potrebbero
rappresentare un problema, qualora si ritirassero e non entrassero nella task
force, mentre io… beh, se morissi, il problema morirebbe con me» ricapitolò
placida Sophie. Scosse appena il capo, decidendo che fosse il momento di
servirsi con qualche biscotto al burro. «E seguendo questa ipotesi, se io
sopravvivessi? Se decidessi di tornarmene a casa e fare come se nulla fosse?»
obiettò.
L la
guardò di traverso. «Lo farebbe?»
Sophie
si strinse nelle spalle. Non sarebbe stato da lei, e dopotutto aveva affrontato
una guerra, ma… non poteva essere sicura di come avrebbe reagito se la morte
l’avesse nuovamente sfiorata così da vicino.
«Onestamente,
le cancellerei la memoria.» La strega si ritrovo a tossire mentre le andava di
traverso un biscotto, ma L parve non curarsene. «Dopotutto, è il suo Ministero
a essere particolarmente… pressante sull’argomento sicurezza, e averla
qui è il massimo che posso fare per garantire la sua incolumità».
In
effetti, non era un mistero che gli Auror di Londra fossero un po’ tirchi con
le collaborazioni estere. Ricordava ancora la volta del Burkina Faso: McLuhan
si era ritrovato a dover fare rapporto cinque volte al giorno al
Ministro Shacklebolt in persona, nella completa paranoia di vederselo
scomparire da sotto il naso nel caso di rapimenti che interessava la zona.
Con
tutto che le loro risorse fossero ancora esigue, a distanza di anni dalla
guerra, le erano parse comunque misure un tantino esagerate. Che poi McLuhan
fosse stato effettivamente rapito e ritrovato cinque giorni dopo, intento a
brucare erba assieme a delle antilopi, erano dettagli irrilevanti: il San Mungo
era stato efficientissimo, e l’Auror era tornato come nuovo in un paio di
settimane. Certo, ogni tanto si metteva ancora a rosicchiare qualche
block-notes, ma per il resto era sano come un pesce.
Sophie
fece un sorrisetto e si rilassò appena. Non era del tutto convinta dalle
motivazioni di L, ma non trovò nulla da obiettare; forse era solo troppo
guardinga… dopotutto, il detective non aveva motivo di mentirle.
«Come
riconoscerebbe Kira?»
La
ragazza, intenta a proseguire la sua personale crociata contro una caffettiera
che continuava a riempirsi, lo guardò con un sopracciglio inarcato. «In che
senso?»
«Riformulo-
come farebbe a stabilire se la persona con cui sta parlando è Kira?»
«Vediamo…
direi che il primo passo sarebbe parlare di cose che solo Kira può sapere, e
che mi sono premurata di tenere nascosta ad altri»
«Perché
non usare il Veritaserum[2] o la Maledizione Imperio? Sarebbe molto più semplice» chiosò allora L,
con il tono pratico di chi suggerisce di prendere l’ombrello prima di uscire.
«Prima
di tutto perché l’Imperio è una Maledizione Senza Perdono[3]!» replicò Sophie, incredula.
«Non
qui»
«Per me
lo sono d’ovunque.» La strega non era un’attivista in campo di legislazione
magica, non ne aveva né la conoscenza né, francamente, l’interesse: quello che
i Governi esteri decidevano non era affar suo, e i suoi stessi amici si erano
ritrovati a dover utilizzare delle Imperio durante la guerra. Questo, però, non
voleva dire che non avesse un’opinione, e anche piuttosto ferma: erano Anatemi
Senza Perdono, la Magia Oscura più pura, erano mezzi inaccettabili.
Da
qualche parte nel retro della sua mente, però, una risata sarcastica le dava
dell’ipocrita. Si riscosse da quel ricordo, rifiutandosi di farsi ghermire da
qualcosa che aveva ormai lasciato alle spalle. «E comunque sia, il Veritaserum
e gli altri metodi di estorsione non sono sempre attendibili, e mai quanto la
logica. Una giusta logica è incontrastabile».
Sostenne
lo sguardo penetrante di L, chiedendosi vagamente dove stesse trovando la
faccia tosta di discutere con un’autorità del genere. Poi, il ragazzo tirò un
angolo della bocca.
«È una
moralista» affermò quindi, facendo rimanere a bocca spalancata la ragazza.
«Ho solo una mia etica!»
«La
logica non ha un’etica»
«Un
Auror senza etica non merita il suo distintivo!» Sophie iniziava ad alterarsi,
sentendosi toccata nel vivo. «E non parlo solo del rispetto della legge, parlo
di un codice morale, parlo del fatto che siamo innanzitutto esseri umani che
cercano di migliorare il mondo»
«Le
posso garantire che il mondo non è in bianco e nero come lo vede lei. Le zone
grigie non sono inevitabili, è vero, ma ciò non significa che non siano
necessarie. È familiare con Machiavelli?»
«E lei
è familiare col concetto di coscienza? Se non ci poniamo dei limiti noi per
primi, in che cosa saremmo migliori dei maghi a cui diamo la caccia?!»
L parve
incuriosito dal suo fervore ma per nulla scalfito. «Non me ne importa nulla»
disse con placida e spietata indifferenza, «non mi importa della mia coscienza
o di essere migliore. Mi importa di risolvere il caso».
Non
appena il ragazzo ebbe pronunciato quelle parole, Sophie seppe che quello
davanti a lei era un impenitente bugiardo. Se L fosse stato pienamente convinto
di ciò che aveva detto, allora non avrebbe perseguito Kira, qualcuno che uccideva
criminali.
Quale
migliore esempio di fine che giustifica i mezzi?
Forse
voleva solo farla arrabbiare, anzi, certamente quello era prima di tutto
un test, ben lontano da una vera conversazione. Proprio per questo, Sophie
desistette dal ribattere ancora, limitandosi a finire il suo caffè prima di
posarlo sul tavolino.
«Mi
permette di avere l’ultima parola.» La strega sobbalzò, trovandosi il detective
inaspettatamente vicino mentre anche lui si chinava in avanti, il piattino
della torta ancora tra le mani. Sophie scrollò le spalle ma non si spostò, gli
occhi fissi in quelli di L: se prima le erano sembrati neri, ora poteva
constatare che fossero grigi. Di un grigio scuro, di quelli che tingono le
profondità dei cumulonembi prima che scoppi il temporale.
«Non mi
sembra molto utile portare avanti una conversazione insincera che ha il solo
scopo di provocarmi» rispose, sorprendendo sé stessa.
«Mi
aspettavo che fosse più orgogliosa, una Grifondoro fino al midollo» replicò
allora L, senza nascondere un leggero sorrisetto divertito.
Avevo
ragione.
«Una
Grifondoro fino al midollo deve imparare a convivere col proprio orgoglio».
«…
Capisco» disse infine L, tornando a poggiare la schiena alla poltrona con
espressione piatta.
Sophie
si accorse di aver tenuto il fiato sospeso.
Quella
situazione era strana. Quell’uomo era decisamente strano. E lei si stava
ritrovando perfettamente a proprio agio nel discutere con quella che, fino a
poche ore prima, per lei era solo una leggenda.
Per
Godric, quando aveva iniziato a lavorare al Ministero riusciva a malapena a
spiccicare parola. Quando, a settembre, aveva incontrato il bassista delle
Sorelle Stravagarie stava per svenire, e ora? Ora si metteva a discutere
con niente meno che L?
«Comunque
i Caerphilly Catapults sono davvero senza speranze.»
La
ragazza fissò il detective come se gli fosse cresciuta una seconda testa,
mentre lui la guardava con la massima tranquillità. Si sfiorò un orecchio con
due dita pallide. «Ho un ottimo udito».
Sophie,
sbalordita, scoppiò in una breve risata. «Oh, wow, quindi super udito e…
una latente passione per il Quidditch?» chiese, non riuscendo a trattenere la
curiosità per quell’inaspettato risvolto della conversazione.
«Abbastanza
da sapere che i Cannoni hanno più speranze dei Catapults… e che nel suo zaino
ha una vecchia Nimbus Duemila».
La
strega smise di sorridere e strinse gli occhi; non in un’espressione
circospetta, piuttosto… di sfida. Con le braccia incrociate e il mento alzato,
aspettò che si spiegasse.
«Dopo
che Harry James Potter ha lasciato Hogwarts per diventare Auror, Ginevra Molly
Weasley è stata nominata Capitano della squadra dei Gryffindor, nel ruolo di
Cacciatrice. La sua vice era la Cercatrice Sophia Kate Winchester, entrambe
scoperte negli ultimi anni».
Sophie
sorrise, incredula. Il detective invece si strinse nelle spalle, passandosi un
pollice sulle labbra. «Non sono totalmente isolato dal mondo, sto solo
nell’ombra. Le so anch’io queste cose».
Stronzate.
«Chi ha
vinto i Mondiali del ’94?»
«Irlanda,
Krum prende il boccino»
«’66»
«Australia,
quattro giorni di partita»
«Ultimo
vinto dall’Inghilterra?»
«’54,
tre membri della squadra erano Vespe di Wimbourne, i due battitori erano dei
Tornados e-»
«Portiere
del Puddlemore, Cercatrice dei-»
«Montrose
Magpies. Eccellenti giocatori»
«Superbi!»
«Ottime
statistiche»
«Non
vinciamo da sei anni…»
«Quest’anno
la probabilità che vincano sono buone»
«Non è
vero»
«No, ma
mi piace pensarlo».
Il
sorriso di Sophie andava praticamente da orecchio a orecchio mentre, deliziata,
diceva: «Questo non è semplice osservareil mondo dall’ombra,
riconosco un appassionato di Quidditch quando ne vedo uno!»
«Ho una
memoria particolarmente solida…» replicò L, vago e incolore.
La
ragazza inarcò le sopracciglia, scettica, ma annuì.
Un
attimo più tardi, lottò inutilmente per trattenere uno sbadiglio. «Ryuzaki, è
tutto?» chiese, ricordandosi improvvisamente chi fosse, con chi e
perché.
«Sì»
rispose lui, adagiando piattino e forchetta sul tavolino per posare le mani
sulle ginocchia. «In camera sua troverà la documentazione relativa ai
sospettati che le sono stati affidati. Lei e gli altri agenti avete carta
bianca, in sostanza, quindi si muova come meglio crede e mi faccia rapporto
almeno due volte a settimana- naturalmente, confido in un lavoro preciso e
meticoloso. Inizierà domani, per adattarsi al fuso orario e non rischiare
sviste»
«D’accordo».
La strega si alzò in piedi, sentendosi congedata, e prese lo zaino che aveva
lasciato ai piedi del divano.
«Bene,
Watari le mostrerà la sua stanza». Il mago in questione era effettivamente
riapparso nel salotto, facendo sparire le vivande con un gesto della bacchetta,
tenuta come fosse un direttore d’orchestra.
«Prego
signorina, di qua» Sophie diede un ultimo sguardo a L, prima di voltarsi.
«Sophie?»
«Sì?»
La rossa lo fissò, in attesa.
«Volevo
congratularmi per la cattura di ieri… un ottimo lavoro con il Corvo».
Lei
rimase interdetta per qualche istante. Poi sorrise. «Grazie, Ryuzaki. Ho una
squadra davvero in gamba».
L
annuì, per poi tornare a darle le spalle.
Rimasta
sola nella sua stanza, Sophie lasciò cadere lo zaino a terra, dando appena uno
sguardo all’ambiente lussuoso: tutta la sua attenzione era per l’enorme letto
bianco che troneggiava al centro di un soffice tappeto chiaro. Diede uno
sguardo al suo orologio da polso, che segnava ancora l’orario di casa: non era
affatto tardi, ma quella giornata l’aveva sfiancata.
Sbadigliò,
mentre sfilava il maglione e lo lasciava cadere a terra. Iniziò a lavorare
sulle fibbie che tenevano chiuso il corpetto nero che utilizzava nelle
operazioni più pericolose, realizzato intessendo magie difensive e rinforzanti.
La protezione seguì presto il maglione, così come un paio di bracciali di
cuoio, un coltello da lancio e i jeans.
La
rossa si buttò di peso al centro del letto, tirando un lungo sospiro. Con la
coda dell’occhio, vide che Watari aveva già riposto il suo mantello
nell’armadio aperto. Dall’indomani avrebbe indossato il lungo cappotto dal
bavero alto, quello che le avevano regalato i Weasley quando era diventata
Auror: si mimetizzava meglio tra i Babbani, e l’infinità di tasche nascoste le
permetteva di portare con sé tutto ciò che le occorreva.
Tentò
inutilmente di concentrarsi sui preparativi per l’inizio dei pedinamenti, la
mente che vagava verso la conversazione avuta con L.
Quidditch, chi l’avrebbe detto. Di sicuro, quel mago non era una persona facile da
inquadrare, né era facile capire fin dove arrivasse la realtà e quale invece
fosse pura finzione. Ma, ancora una volta, mentre le palpebre le cadevano per
un paio di volte sugli occhi ambrati, e poi calavano definitivamente, Sophie si
chiese che motivo avrebbe avuto L per mentirle.
[1]Legilimanzia: pratica magica simile alla lettura della
mente, Occulmanzia: l’arte di schermarsi dai Legilimens
[3] Avada Kedavra (morte),
Cruciatos (tortura) e Imperius (controllo totale) sono punibili con “un
biglietto di sola andata per Azkaban”, la prigione magica inglese. Ciò
significa che anche le forze dell’ordine non se ne possono servire, ma suppongo
vari da nazione a nazione, come nel caso della pena di morte.
Chieko
Clarke passeggiava di fronte a un negozio di fiori, spiando tra le delicate
decorazioni natalizie che incorniciavano la vetrina. Sorrise da dietro il
bavero del cappotto, alzato contro l’aria gelida.
Il
lungo soprabito color cannella cadeva fino alle caviglie, su un paio di
stivaletti dall’aria comoda; si riavviò un ciuffo di capelli neri dietro un
orecchio, sistemando appena il berretto calcato sulla fronte. Sembrava un
peccato che un negozietto tanto grazioso si trovasse in una zona così
periferica... giusto qualche numero civico più in là, un grande magazzino
abbandonato sorvegliava un cortile di cemento vuoto e coperto di erbacce.
Chieko
sembrò irrigidirsi d’improvviso, gli occhi fissi sulla vetrina; un attimo dopo,
però, entrò nel negozio: salutò a mezza voce l’anziana commessa che le
sorrideva da dietro il bancone, perdendosi tra le meravigliose composizioni che
affollavano l’ambiente, e scambiò qualche parola con lei.
Poi,
con la coda dell’occhio, colse del movimento fuori dalla vetrina: si voltò a guardare
le combriccole di adolescenti che sfilavano in strada, la fronte aggrottata
sotto il berretto.
«Guarda
te, tutti quei ragazzi in giro a bighellonare… e pensare che è periodo di
esami!» disse meravigliata.
«Beh… è
anche periodo di festa, avranno bisogno di qualche distrazione» le rispose
benevola la negoziante; il sorriso raggrinzito, però, sembrava di qualcuno che
ridesse di una battuta tutta sua.
La
ragazza si congedò poco più tardi, allontanandosi dal quartiere a passo svelto,
mentre calava la sera. Passava spesso da quel tratto, essendo la strada più
breve per rientrare a casa ma… non poteva fare a meno di sentirsi osservata.
Fu
allora che sentì dei passi alle sue spalle, nel silenzio assoluto di quella
via, lontana dal traffico di automobili e pendolari di ritorno da qualche
stazione.
Innervosita,
sembrò cambiare espressione mentre svoltava in una stradina laterale, la
mascella serrata e gli occhi stretti in due fessure. Quando sentì nuovamente
qualcuno alle sue spalle, guardò gli appartamenti attorno a sé, sparuti ma
illuminati da chi stava sicuramente preparando la cena. Fece l’unica cosa che
poteva fare, e iniziò a correre.
Accelerò
quando la figura dietro di lei la imitò, e si addentrò nel dedalo di intricate
stradine di quel quartiere residenziale: prese a svoltare ogni due o tre
incroci, imboccando vie totalmente a caso e cercando di non inciampare nelle
sue stesse scarpe.
Nel
farlo, però, si stava allontanando dalla zona abitata.
Fu
allora che una voce maschile, in inglese, urlò: «Ehi, fermati!»
Come
no.
La
ragazza imboccò repentinamente un vicolo, ma la sua fortuna terminò: un palazzo
le sbarrava la strada, e non v’era via di fuga. Scrutò la penombra, cercando un
nascondiglio, poi decise di aderire al muro, appena dopo l’angolo.
Quando
l’uomo la seguì, fece appena in tempo a scorgere due occhi gialli, prima di
essere preso per il bavero del cappotto e sbattuto contro il muro.
«È
meglio se ti identifichi, questa corsetta non mi ha divertita neanche un
po’» sibilò la ragazza in inglese, la voce limpida condita da un evidente
accento britannico.
Ora che
l’effetto della Pozione Polisucco era terminato, dal berretto della giovane
sbucavano ciuffi di capelli rossi, e il viso pallido era spruzzato di
lentiggini. Mentre teneva la punta della bacchetta premuta al collo dello
sconosciuto, Sophie aveva perso la sua solita espressione amichevole, in favore
di un’ombra minacciosa.
«Ehi,
ehi! Senti, sono sicuro che siamo dalla stessa parte, te lo posso dimostrare!»
le disse l’uomo, prendendo qualcosa dalla tasca. La strega rafforzò la presa
sulla bacchetta, uno Schiantesimo già sulla punta della lingua, ma un attimo
dopo le mise sotto il naso un distintivo.
«Sono
un Auror del Magico Congresso degli Stati Uniti d’America. Tu sei quella
inglese, no?» disse con una leggera nota di pomposità, malgrado il fiato mozzo.
Sophie
fece una smorfia e mollò il collega, riponendo la bacchetta nella manica
sinistra. «Metti via quella cosa, non dovresti mostrare in giro il tuo nome con
tanta leggerezza» lo rimbottò, aprendo il cappotto per estrarne la spilla del
Ministero: mentre una facciata mostrava lo stemma del Quartier Generale e il
suo numero di matricola, il suo nome era inciso sull’altra, al sicuro da
sguardi indiscreti.
L’Auror
sembrò ignorare il suo tono irritato. «Però, Pozione Polisucco, eh? E che
riflessi! Avevi paura che fossi un malintenzionato?» rise, sistemandosi il
colletto e il bavero.
Sophie
digrignò i denti.
Ma
fa sul serio?
«No,
l’ho vista sorvegliare la stessa scuola frequentata dai miei sospettati. Mi
chiedevo solo perché avesse iniziato a seguire una collega» Con la
discrezione di un elefante, aggiunse la strega fra sé e sé.
Nei
giorni precedenti, non aveva potuto fare a meno di notare la figura che si
aggirava attorno alla scuola di preparazione magica: proprio come in
Inghilterra, non era raro che gli edifici magici fossero nascosti da fabbricati
dall’aria macilenta, e questo rendeva ancora più sospetto chiunque si aggirasse
in quelle zone.
Perciò,
mentre Sophie si curava di utilizzare diversi aspetti e identità a seconda del
caso, creando un’alternanza di persone plausibile e poco sospetta, le era saltato
immediatamente all’occhio l’uomo dai tratti visibilmente occidentali e il lungo
soprabito marrone. Non era particolarmente prudente, né utilizzava
camuffamenti, e si era chiesta se stesse sottovalutando la situazione o se
fosse proprio un inetto.
Si era
decisa a ignorarlo, infine: dopotutto, lei e gli altri Auror erano lì per
condurre indagini separate, non era affar suo come si comportava il collega.
Ciononostante,
quando poco prima lo aveva studiato nel riflesso della vetrina, e lui aveva
colto il suo sguardo, accigliandosi, aveva sibilato tra i denti. Quando poi l’aveva
seguita aveva deciso, irritata, di attirarlo lontano dalla zona residenziale,
onde evitare di incappare in qualche Babbano mentre sguainava la bacchetta.
«Beh,
io invece non ne ero pienamente sicuro, però sapevo che qualcun altro doveva
star sorvegliando la stessa scuola… comunque, puoi chiamarmi Penber» tentò
l’Americano, sorridendo.
«Buona
a sapersi».
Sophie
sentì l’acidità nella sua stessa voce, e sbuffò: dopotutto, forse stava
esagerando, forse l’uomo aveva un buon motivo per quella sceneggiata, no?
No?
«E poi,
oltre ad accertarmi che non fossi nessuno di sospetto, volevo offrirti il mio
aiuto! Sai, con tutto il rispetto, ma sei molto giovane…»
Chiaramente,
no.
«Scusa?»
sputò la ragazza, inviperita, e Penber alzò le mani, quel sorriso un po’ ebete
ancora stampato in faccia.
«Senti,
non la prendere sul personale, dico solo che hai poca esperienza e vorrei farti
un favore e-»
«No,
ok?!» sbottò Sophie, ormai vicina all’aggredire quel presupponente di americano
che si trovava di fronte. Con che faccia tosta le si rivolgeva così?! Le
pareva assurdo ritrovarsi in una situazione del genere, e ad appena due giorni
dalle indagini! Come se non fosse già abbastanza impegnativo pedinare,
intercettare e mappare minuziosamente le azioni di otto persone, ora doveva
anche tenere a bada colleghi incompetenti?
«Torni
a fare il suo lavoro e mi lasci fare altrettanto, senza ulteriori interazioni
inutili che, tra parentesi, potrebbero attirare l’attenzione dei sospettati!»
lo rimbeccò, petulante, sfoggiando un tono di cui Hermione sarebbe stata a dir
poco fiera.
«Oh,
suvvia, non credo proprio che Kira… insomma, capisco i sospetti di L, ma quei
ragazzini…»
«Ah,
se lo dice Mr. Seguo-Una-Sconosciuta-In-Vicoli-Bui»
Sophie
fece per andarsene, impedendogli di replicare, ma dopo un paio di secondi tornò
sui suoi passi. «Ah, e se le interessa tanto ho solo ventidue anni, e
non ho nemmeno frequentato l’Accademia!».
Ciò
detto, la strega si Smaterializzò, lasciando l’americano a guardare costernato
il punto in cui era sparita.
Nei
giorni seguenti, Sophie vide altre volte il collega, occupato a pedinare quello
che doveva essere il figlio maggiore di un sovrintendente. L’Auror si rifiutava
di incrociare il suo sguardo, se non per qualche sdegnata e indispettita
occhiataccia quando capiva che, sotto l’ennesimo camuffamento, si nascondeva
ancora lei.
Le era
capitato davvero molto raramente che qualcuno le stesse così antipatico
a pelle, e lei era quella che aveva stretto amicizia con un Draco Malfoy
diciassettenne! Harry e Ron sostenevano che sarebbe stata capace di farsi amica
persino Piton, se solo si fosse impegnata.
Quell’uomo
però aveva toccato il suo lavoro, mettendola in dubbio e rischiando la
copertura di entrambi, e il suo lavoro non glielo si doveva proprio toccare.
Perciò la strega si riteneva pienamente soddisfatta del risentimento
dell’americano: la sua priorità erano le indagini e, da quanto era successo,
più quello spocchioso le stava lontano, meglio era.
***
22dicembre 2003
Sophie
dovette guardarsi attorno per qualche secondo prima di trovare L, sepolto
com’era tra pericolanti pile di pergamene, faldoni, computer aperti e tazze
vuote. Il detective sedeva sul divano, accanto all’unico posto a sedere
rimasto.
«Posso?»
la voce titubante di Sophie lo riscosse, interrompendolo a metà della terza
fetta di torta in mezz’ora. Non che la stupisse, data la sua sconvolgente
dieta: un mix di dolci, tè, caffè e tonnellate di zucchero e glucosio che
sarebbe stato letale a qualsiasi normale essere umano.
Certo,
non era del tutto da abbandonare l’ipotesi che L non fosse un normale
essere umano. Sophie trattenne una risatina, mentre osservava quel mago dal
volto esangue leggere tre metri di pergamena in circa venti secondi.
Il
rotolo di carta giallastra si muoveva di vita propria, contorcendosi come un
bizzarro serpente man mano che veniva letto, un’altra prova dell’abnorme uso
che L facesse della magia. La signora Weasley lo avrebbe rimproverato alacremente.
Inoltre, chiaramente avverso a toccare qualunque cosa non fosse a base di
zucchero e farina, il ragazzo non sembrava disposto nemmeno a usare la
bacchetta, adoperando Incantesimi Non Verbali [1]come se fosse la cosa più naturale del mondo.
La
strega si sedette accanto a lui, versandosi all’istante una tazza di caffè ed
accompagnandola con i deliziosi biscotti al burro di cui era ghiotta.
Mangiò con avidità, gioendo del sentirsi scendere il caffè caldo fino allo
stomaco dopo ore e ore di lavoro: durante quei pedinamenti, la strega si
Disilludeva talmente tante volte da sentirsi scomparire. Un’eventualità,
peraltro, nemmeno troppo inverosimile… Per buona misura, prese un altro
biscotto, come a scongiurare che la sua pelle iniziasse a diventare
trasparente.
Dopo
essersi spolverata le dita dalle briciole, la rossa iniziò a fare rapporto a L,
consapevole che l’avrebbe seguita perfettamente malgrado la sua attenzione
fosse sulla pergamena.
I due
avevano instaurato una piccola routine, quasi bizzarra in una situazione del
genere. Una routine fatta di estenuanti ore di lavoro, scarpe sfilate con un
grugnito, lunghe docce calde, e... chiacchierate: non importava a che ora
tornasse, quando decidesse di farsi viva per mangiare qualcosa, o quanto fosse
assonnata, ogni volta L era invariabilmente in salotto, sveglio e vigile. A volte
lo trovava a esaminare dati nella poltrona che prediligeva, altre seduto a
terra a mangiare la sua strada verso il diabete, altre ancora lo trovava
intento a fissare il vuoto dalle alte finestre di vetro. Ogni volta, dopo
avergli presentato un breve rapporto, in qualche modo scivolavano in
conversazioni inaspettate, che spazzavano via ogni traccia di stanchezza dal
volto della strega.
Sophie
aveva ammesso a sé stessa che, malgrado l’innegabile intelligenza e fama del
detective, era ben lontana dal provare per lui una qualsiasi forma di timore
reverenziale; al contrario, la familiarità e la spontaneità con cui avevano
dialogato al suo arrivo non avevano fatto che consolidarsi, mentre gli
raccontava per filo e per segno le vicende del caso Corvo, o chiedeva al mago
di qualche sua vecchia indagine.
Ancora
più sorprendente, infatti, era il comportamento di L: malgrado la superficiale
indifferenza e freddezza che sembravano permeare ogni suo gesto, la ragazza
trovava impossibile non notare la soddisfazione con cui il detective descriveva
con perizia anche i fatti più remoti, la sottile nota di superbia che condiva
lo svelare qualche deduzione fondamentale, la leggera curva all’angolo della
bocca quando raccontava gli atti finali di un’indagine.
Tra un
racconto e l’altro, la pallida maschera di gesso del suo volto pareva
incrinarsi.
La vita
che raccontava, non era la vita di un apatico e annoiato borghese, ovvero tutto
quello di cui parlava il suo rifinito accento inglese.
La vita
che le raccontava era avventurosa, era ammirevole, era esattamente tutto quello
che avrebbe voluto fare lei. Soprattutto, Sophie non doveva nascondere
il folle amore per il suo lavoro, e anzi trovava nel detective la sua stessa,
assoluta dedizione... Una dedizione che i suoi amici condividevano solo fino a
un certo punto.
Forse avevano
ragione, quando dicevano che lavorava troppo, che doveva dormire di più, che
non poteva sempre andarsene via a metà dell’ennesimo appuntamento al buio, che
esisteva qualcos’altro oltre alle infinite ore passate col distintivo in tasca.
Probabilmente era vero, probabilmente portava avanti una vita instabile e
tremendamente selettiva, ma mentre parlava con L non le sembrava affatto così.
Certo,
qualcuno avrebbe avuto da obiettare al prendere il giovane, eccentrico
detective come esempio… ciononostante, le conversazioni con lui le facevano
dimenticare in fretta ogni riserva, affascinandola, e… facendole perdere le
staffe.
Più di
una volta, in effetti, qualche sferzante commento del detective aveva avviato
battibecchi infiniti, in cui le guance lentigginose della ragazza si
accendevano per l’indignazione. Ogni tanto, le era sembrato che L la sbirciasse
con un sorrisetto divertito, il che non faceva che infiammarle ulteriormente il
volto e l’umore. Anche lei, alla fine, si trovava a mal trattenere un sorriso.
Era
Watari, quasi sempre, che compariva per liberare il tavolino da tazze vuote e
piatti sporchi, in un muto suggerimento. Sophie, ridendo, guardava l’ora e si
arrendeva al sonno, congedandosi da L con atteggiamento improvvisamente
impacciato, come a ricordarsi che il ragazzo non fosse suo amico, un normale
collega con cui condividere una birra a fine giornata. Era L, era il
capo delle indagini, il suo capo.
Eppure,
un piccolo, minuscolo, strano presentimento sembrava covarle dentro, nonostante
tutto. Era come se la sua mente faticasse ancora a capire il perché stesse
lavorando a diretto contatto con L, come se rifiutasse in tronco le spiegazioni
(abbastanza circostanziali), che le erano state fornite al riguardo.
Qualcuno
lo avrebbe chiamato istinto.
Lei lo
chiamava Temo che me la stiano mettendo nel-.
Scacciò
per l’ennesima volta quel tarlo dai suoi pensieri, terminando il rapporto.
L portò
un pollice alla bocca e iniziò a mordicchiare l’unghia nel solito tic nervoso
«Eppure non mi sembri convinta, Sophie» disse lentamente, la sua voce bassa che
pareva avvolgersi sul suo nome.
Lei
alzò lo sguardo, fissando il volto esangue del ragazzo.
Si
strinse nelle spalle «No, sono solo… un po’ annoiata immagino, tutto qui.»
Il
detective la osservò senza dire nulla, attendendo che proseguisse.
«D’accordo,
insomma… il punto è che Kira sa di essere pedinato, no? O comunque, sa
che sono in atto dei controlli su di lui… ciò che significa che accadrà
qualcosa, in questi giorni, dovrà esporsi per forza» spiegò pensierosa,
osservando la superficie della sua tazza di caffè. «Non lo so, immagino di
dover solo portare pazienza»
Il mago
non rispose, indicando invece la fetta di torta di Sophie, ancora intatta.
«Quella
la mangi?»
Lei
scosse il capo, sgranocchiando un altro biscotto mentre lo fissava di
sottecchi.
«Non
lavori mai sul campo, o sbaglio? Insomma, io penso impazzirei se dovessi solo
dirigere le indagini da lontano… Immagino di essere un po’ irrequieta» ridacchiò
la rossa, non del tutto certa di cosa diavolo stesse dicendo.
«Perciò
non miri a scalare i ranghi del Ministero?»
Sophie
ci pensò, spingendo meglio la schiena nella seduta del divano mentre poggiava i
piedi sul bordo del tavolino, senza troppi problemi. Leialmeno
li metteva, i calzini.
«Veramente…
no, non mi attira molto il lavoro d’ufficio. Voglio dire, ovviamente è
importante pianificare e studiare il caso… però non credo che ambirò mai a
organizzare le squadre, litigare con il dipartimento legale e tutte le altre
noie che deve affrontare Robards» rifletté, lo sguardo perso nel soffitto. Poi,
con un sogghigno, aggiunse: «No signore, quelle se le beccherà Harry».
«Non ho
mai lavorato sul campo» ammise L, e lei voltò il capo senza staccarsi dal
divano.
«Mai?!»
«Quasi
mai. Ma niente esposizione, non l’ho mai ritenuta necessaria... o
allettante»
«Ma
come!» esclamò Sophie, sporgendosi verso di lui e gesticolando animatamente.
«Niente inseguimenti? Niente duelli? Nessuna indagine sotto copertura o
pedinamento in cui, per un solo, minuscolo attimo non ti hanno beccato?
Niente “Ha il diritto di rimanere in silenzio” mentre finalmente metti
le manette a qualcuno?»
«Gli
Auror non usano le manette»
«Ryuzakiii!»
sbottò esasperata la ragazza.
«Uhm…
no, neanche uno». Lei lo guardò a bocca spalancata, il suo volto il ritratto di
un cane bastonato, come se le avesse fatto un torto personale. L sembrò
trattenere un sorriso, rapidamente dismesso in una tazza di caffè.
«Ok,
ok, ma allora… qual è la parte migliore delle indagini? Voglio dire, quel
momento di assoluta, infantile, spontanea soddisfazione? Perché lo devi avere,
se ami così tanto questo lavoro» sancì Sophie, irremovibile. «Il mio sono le
operazioni finali. Intendo, i pochi momenti prima della resa dei conti, quando
corri, e hai l’adrenalina nel sangue, e devi concentrarti al massimo per
prendere bene la mira o scattare nel momento giusto».
Il
giovane la guardò aspettare la sua risposta e inarcare le sopracciglia, in un
modo che sapeva più di pretesa che di speranza.
«… Lo
scacco matto. Quando le prove sono incontrovertibili e ogni bugia, ogni
finzione e nascondiglio si polverizzano di fronte alla verità»
«E il
bastardo messo all’angolo perde ogni possibile aplomb e capisce di non avere
più speranze, giusto?» L non rispose, ma stavolta il leggero sorrisetto
disegnato sulle labbra sottili non lo stava immaginando.
«Sei un
sadico» ridacchiò la giovane, dandogli una spintarella giocosa prima ancora di
rendersene conto.
Entrambi
si bloccarono a quel gesto, ogni traccia di ilarità rapidamente cancellata dai
loro volti mentre si ritrovarono a fissarsi.
La
strega, impallidita, aprì e chiuse la bocca un paio di volte, prima di
farfugliare delle scuse confuse. Diamine, ma che le saltava in mente? L
non era, Non. Era. Suo amico! E chiaramente odiava il contatto fisico,
lo dava ampiamente a vedere! Ora che avrebbe fatto? Si sarebbe arrabbiato? O
sarebbe scoppiato a piangere?
Dio,
se ho traumatizzato il detective più importante del pianeta Robards mi ammazza.
Prima
ancora che il ragazzo potesse avere la minima reazione, oltre a fissarla con
vaga sorpresa, Watari entrò nella stanza. «Signorina Sophie, una lettera per
lei»
«Grazie!»
sbottò la rossa, scattando in piedi e allontanandosi a grandi passi dal divano.
Prese la lettera che le porgeva Watari, ringraziandolo e guardando l’indirizzo:
aveva il sigillo del ministero, ma il mittente era Harry.
«La
civetta che l’ha consegnata è in camera sua a riposare, mentre Siler è ancora a
caccia» la informò il maggiordomo. Sophie avrebbe riso per l’entusiasmo con cui
Watari aveva accolto il suo gufo, ma in quel momento voleva solo sprofondare.
«Grazie…»
disse con voce flebile e il mago, accennando un inchino, si congedò.
Lasciandola
nuovamente da sola.
Con L.
Che non
stava piangendo, ma che non aveva nemmeno spiccicato parola.
La
strega vagliò le sue scarne opzioni e, in modo molto poco Gryffindor, optò per
la ritirata.
«Beh,
Ryuzaki, io allora… ehm…» farfugliò, sventolando la lettera a mo’ di
spiegazione.
Lui
annuì, concentrato su una nuova tazza di tè.
«B-bene,
‘notte».
Appena
Sophie si fu chiusa la porta alle spalle, vi si accasciò contro, ignorando la
civetta di Harry. Insomma, L non era traumatizzato. Che poi, perché avrebbe
dovuto? D’accordo, forse non era abituato a essere toccato, non si erano
nemmeno stretti la mano quando si erano conosciuti, però non aveva fatto
niente di che, no? Forse Sophie avrebbe dovuto scusarsi. E smettere di essere
così amichevole. Sì, decisamente, era tutto lì il problema: per un attimo si
era dimenticata di non essere a casa, a lavorare con i suoi colleghi, con i
suoi amici. Perché L non era suo amico, né lo sarebbe mai stato, era un
suo superiore.
A quel
pensiero, si ritrovò a corrucciare la fronte.
Sbatté
la nuca contro il legno, chiedendosi cosa diavolo le prendesse.
***
23
dicembre 2003
«Le
scuole sono chiuse».
Sophie
sussultò, la mano ancora allungata vero la porta d’ingresso.
Beh,
quello era imbarazzante.
Non
solo era appena letteralmente sgattaiolata via dalla sua camera alle
cinque del mattino, ma ovviamente L l’aveva anche colta sul fatto.
Maledicendosi,
lo guardò da sopra una spalla. La suite era immersa nella tenue luce dell’alba,
una penombra in bianco e nero in cui la figura di L pareva quasi spettrale. Era
a pochi passi da lei, sulla soglia della cucina, le mani affondate nelle tasche
dei jeans e gli occhi sempre più cerchiati di nero. In quel modo, con il volto
inclinato da un lato e i capelli arruffati, le ricordò un gufo.
La
ragazza provò a parlare, la voce irrimediabilmente roca dopo essersi alzata non
più di mezz’ora prima. Non che avesse dormito, ovviamente. «C-come?»
«Le
scuole sono chiuse, perciò nessuno dei tuoi sospettati si alzerà così presto»
le spiegò con tono annoiato il detective, raddrizzando la testa per fissarla
dritto negli occhi, in una muta domanda.
Sophie
sospirò, voltandosi verso di lui e passandosi una mano fra i capelli
scompigliati.
«Voglio
fare un paio di sopralluoghi, alcuni dei ragazzi stanno organizzando delle
uscite e voglio sapermi muovere con tranquillità» si inventò in fretta. Si
congratulò con sé stessa per quella che, dopotutto, non era poi una brutta
idea: se proprio doveva trascinarsi in giro per Tokyo in preda all’insonnia, tanto
valeva sfruttare i suoi vagabondaggi.
L
rimase in silenzio a fissarla per un tempo che parve non finire mai, quello
sguardo freddo che le entrava sotto la pelle e la certezza che avrebbe chiamato
il suo bluff a imporporarle le guance. Poi, contro ogni aspettativa, lui annuì,
senza smuovere quella sua espressione indecifrabile.
Sophie
capì che era decisamente il momento di andarsene, prima di fare altre
figuracce.
… Però.
«M-mi
dispiace. Per ieri sera. S-se ti ho dato fastidio» farfugliò in fretta la
strega, aggiungendo ogni pezzetto di frase di senso compiuto che il suo
cervello riuscisse a formulare, e pregando perché il detective le facesse la
gentilezza di riempire da sé i punti mancanti.
Lui
aggrottò la fronte, iniziando a sfregare tra loro i piedi nudi, un tic nervoso
che la strega aveva notato più volte, di solito quando lui se ne stava in
silenzio a riflettere su qualche nuovo dato. Quando rifletteva a voce alta,
invece, o spiegava qualcosa col suo accento perfettamente standard e
ciononostante perfettamente prestigioso (dove lei non riusciva a nascondere la
tendenza Cockney), tendeva a passarsi un pollice sulla bocca sottile. Un
gesto che attirava sempre il suo sguardo, senza il minimo motivo.
Sophie
si trattenne dal tirarsi i capelli da sola, riscuotendosi da quella spirale di
pensieri decisamente molto vicini alla linea dell’inappropriato. In
alternativa, si decise a dare le spalle al detective e a spalancare la porta
d’ingresso, accogliendo con gratitudine l’aria fresca del corridoio.
«Non mi
hai dato fastidio» il basso mormorio di L la bloccò sul posto, con un piede
fuori dall’uscio. Rimase immobile per qualche secondo, poi fece di sì col capo,
senza voltarsi, e si richiuse la porta alle spalle.
Suo
malgrado, e soprattutto malgrado l’orario indecente, l’aria gelida delle vie di
Tokyo e la pallida luce di un’alba nuvolosa, Sophie non riusciva più a smettere
di sorridere.
LUMOS
Chiedo venia per il ritardo indecente, è stato un inizio anno
alquanto… turbolento, let’s say, e ho iniziato la sessione l’altro ieri perciò
mi sto già esaurendo, MA COMUNQUE.
Ho corretto moooolto alla svelta, spero di non aver lasciato
troppi errori.
Buon anno in ritardo, un abbraccione mega galattico :3
Ah, e grazie mille, davvero.
NOX
[1]Incantesimi effettuati senza pronunciare la formula a voce alta, cosa
generalmente più complessa. La magia senza bacchetta non è particolarmente
trattata in HP, quindi mi faccio un po’ i miei viaggi 😉
Per il
giorno successivo, la strega si era ripromessa di essere migliore, di frenare ogni
ansia e pensiero di troppo, di diventare la professionalità fatta persona:
niente battute, niente chiacchierate, niente spintarelle scherzose. L le aveva
detto di non essere rimasto infastidito ma, percorrendo le vie ancora
addormentate di Tokyo, Sophie si era resa conto di quanto la reazione del
detective fosse l’ultimo dei suoi problemi.
Il vero
problema, piuttosto, era il sorrisone che si era portata in giro tutta mattina
come una babbea, o la notte insonne che aveva trascorso a rimuginare su ogni passo
suo o del detective. Tutta quella faccenda la faceva sentire confusa, agitata e
a disagio, tre cose che non c’entravano proprio niente con il motivo per
cui si trovava in Giappone. Era lì per lavorare, e quell’atteggiamento da
adolescente doveva sparire, evaporare, adìos!
Signor
sì, avrebbe mantenuto le distanze.
… Anche
se lei faceva abbastanza schifo, a mantenere le distanze.
Il
mattino della Vigilia di Natale, Sophie scrisse un paio di lettere per Harry e
gli altri, trovandosi a compiere uno stretto slalom tra tutti gli argomenti
tabù: aggiornamenti sul caso, aggiornamenti sulle sue giornate, informazioni su
quali parti della città avesse visto o su cosa stesse facendo, o su cosa loro
stessero facendo. Verso la fine, si ritrovò a contemplare la scarna
missiva; in quel momento, un tarlo ridondante tornò a farsi sentire.
Non
aveva dimenticato lo strano atteggiamento di Robards, quella preoccupazione che
aveva prepotentemente riempito il suo sguardo mentre la guardava partire per il
Giappone. Il Capo non era mai stato uno da smancerie o esitazioni, era un uomo
burbero e determinato che mai mostrava il minimo segno di timore ai suoi
Auror, sempre sbrigativo e, in un certo senso, rassicurante.
Certo,
quelle erano circostanze particolari, non v’era alcun dubbio, però…
Sophie
aggiunse un paio di righe in cui si raccomandava di rassicurare Robards e
tenerlo d’occhio, poi sigillò la busta e si diresse in salotto con la civetta
di Harry, in cerca di Siler: preferiva che il barbagianni la accompagnasse per
parte della strada, come garanzia contro le intercettazioni.
Esitò
per un attimo nell’aprire la porta che dava sulla zona comune della suite.
Professionalità,
sii professionale si ripeté.
Pochi
minuti dopo, però, si trovava curva sopra lo schienale di una poltrona, intenta
a sbirciare la pergamena che levitava a pochi centimetri dal naso di L.
«Gli
omicidi si stanno concentrando sempre di più nella zona del Kanto?» chiese, già
dimentica del suo mantra.
Anzi,
trattenne una risata al lievissimo sobbalzo di L, segretamente soddisfatta di
riuscire a sfuggire al fine udito del detective: evidentemente, anni di
allenamento non erano andati buttati.
La sua
attenzione fu però nuovamente catturata dai rapporti, e dall’ennesima
dichiarazione di guerra che celavano. Era passata qualche settimana da quando
L, con lo stratagemma della diretta tv “nazionale” aveva scoperto dove si
trovasse Kira, portandolo a uccidere proprio mentre la trasmissione veniva
mandata in onda solo nel Kanto. Ebbene, il messaggio non poteva essere più
evidente: se tutti sapevano che Kira si trovava nel Kanto, allora avrebbe
ucciso ancora di più entro i suoi confini.
«Ti
sfida usando le proprie vittime, di nuovo, da come le manipola a dove le
fa morire… bastardo infantile» mormorò, guardando finalmente il detective.
Troppo
vicino.
Arrossì
un po'.
Beh, si
era comunque ripromessa un lavoro graduale.
«Ehm,
non dovevo leggere?»
«No»
rispose lui, mordicchiandosi un pollice. «Ma hai perfettamente ragione. Kira
usa le sue vittime per punzecchiarmi»
«Disgustoso»
commentò Sophie, aggrottando la fronte. Poi estrasse la lettera dalla tasca dei
jeans, mostrandola al mago.
«Ok,
qua dentro non ci sono informazioni inerenti a caso, solo auguri di Natale e
lamentele per la totale assenza di Burrobirra in Giappone… devo
aggiungere qualcosa? Per Robards?»
«Non è
necessario»
«Perfetto»
disse la ragazza, sorridendo. Accostò due dita alla bocca per emettere un
fischio sottile; Siler comparve dal buio del soffitto, dove si era appisolato
su un lampadario spento, e si posò sulla sua spalla.
«Tyto
tenebricosa». L stava studiando Siler, incuriosito, attirando di rimando
l’attenzione del rapace, e la ragazza passò un rapido sguardo tra i due.
Professionale!
«Sì,
esattamente, tenebricosa. Sì.»
Magari
senza farfugliare?
«Una
scelta insolita.» Siler lanciò uno stridio indignato e il mago specificò: «Non
cattiva, insolita… lo trovo un animale molto interessante, a dire la
verità. Posso?»
Sophie
non fece nulla per nascondere la sorpresa, né l’esitazione: Siler non era uno
degli animali più fiduciosi del mondo, e L… beh, non aveva ancora dimenticato
il terrore di averlo rotto.
Il
detective si avvicinò e si sporse appena in avanti, studiando il gufo che non
si era mosso dalla sua spalla.
Distante!
Si
disse Sophie, rimanendo immobile e con lo sguardo ostinatamente rivolto su
Siler. In effetti, quel manto screziato di grigi, neri e marroni, era uno
spettacolo, piume dall’aspetto vellutato che sfumavano fino al capo candido, a
forma di cuore, dove spiccavano due grandi, liquidi occhi neri.
Sì, un
meraviglioso barbagianni.
Era
comprensibile che L fosse curioso.
E che
fosse a mezzo metro da lei.
Quindi
Sophie non aveva nessuna ragione per essere improvvisamente arrossita, o
per non essere del tutto sicura di come respirasse normalmente.
La
strega ringraziò silenziosamente la civetta di Harry, che d’improvviso si alzò
in volo nella cornice della finestra aperta, sferzandole il volto con ventagli
di aria fredda.
«Nidifica
in Indonesia e Australia»
«… Eh?»
«Il
barbagianni tenebricosa» chiarì L, indicando Siler in una domanda
sottintesa.
«Oh,
sì, è una storia lunga…»
Gli
occhi ambrati della strega cercarono quelli del detective, dubbiosi, ma lui
stava chiaramente aspettando che continuasse.
«Ehmm
beh… è stato lui a portarmi la lettera per Hogwarts…» la sua voce si fece più
dolce, un sorriso disegnato sulle labbra, «era un cosino tutto spaventato, mi
ha praticamente lanciato addosso la busta nel bel mezzo della notte ed è fuggito
via... Ehi, è vero!» ridacchiò, mentre il gufo apriva le ali indignato e volava
sulla cornice della finestra. Sophie rimpianse il peso familiare del rapace
sulla sua spalla, improvvisamente conscia di non avere più uno scudo tra lei e
L. Si schiarì rumorosamente la voce.
«Quando
lo trovai nella Gufiera di Hogwarts, scoprii che quella della mia lettera era
stata la sua prima e ultima consegna… almeno fino a quel momento» spiegò
soddisfatta, un largo sogghigno sulle labbra, «so essere particolarmente testarda».
Siler
rispose con un lamento cupo.
«Come è
finito a Hogwarts? Hagrid?»
«Beh,
sì, ma…» la strega si bloccò di colpo, elaborando ciò che L aveva appena detto.
Hagrid?
Conosce Hagrid? Perché se conosce Hagrid[1]…
Sophie guardò
la faccia da poker del detective, e ritenne più saggio conservare
quell’informazione per un’altra volta. «Ehm, Hagrid l’aveva trovato in un
negoziaccio di Nocturn Alley, di quelli che commerciano varia merce di
contrabbando» proseguì tranquilla, dissimulando la sorpresa, «… fu Silente a
dirmi di tenerlo, dato che sembravo essere l’unica a piacere all’indomabile
bestiolina, ma in realtà bastavano un po’ di fiducia e pazienza… e biscotti
secchi, un sacco di biscotti secchi».
Rimase
in silenzio, guardando il detective per capire se avrebbe chiamato il suo
bluff: conoscendolo, non aveva tirato in ballo quel dettaglio per nulla, sapeva
che Sophie avrebbe capito. Lei, ormai, trovava una certa familiarità in
quei piccoli test.
«Siler,
dal latino “silere”» commentò infine il ragazzo, e lei annuì.
«Anche
per un barbagianni, è estremamentesilenzioso… come vedi, se l’è già
filata da un pezzo» disse fiera Sophie, chiudendo la finestra da cui il rapace
era scivolato via senza che se ne accorgessero.
Appoggiò
la schiena alla vetrata fredda, trovando L ancora troppo vicino. Incrociò le
braccia, a disagio sotto quello sguardo penetrante.
Professionalità,
distanza… sì quella roba lì pensò, sforzandosi inutilmente
di distogliere lo sguardo da quello del detective.
«Ti
piacciono le sfide» sentenziò lui, dopo un po’.
«O i
casi persi» scherzò, iniziando a battere in ritirata verso la porta d’ingresso.
«Beh, io devo andare o farò tardi… a dopo!».
L
rimase solo davanti alla finestra, perso nei suoi pensieri.
Dopo
qualche minuto, chiamò Watari.
«Intercetta
la lettera che Winchester ha appena spedito… e procurami della Burrobirra».
***
Sophie non
l’aveva presa bene.
All’inizio
si era quasi spaventata, credendo che qualcuno avesse scoperto il nascondiglio
di L, poi aveva storto il naso: se fossero stati compromessi, Watari l’avrebbe
subito contattata e portata in una nuova base, per ristabilire le misure di
sicurezza. Anche il più sciatto dei Quartier Generali avrebbe fatto
così, figurarsi uno coordinato da quei due.
Inoltre,
a metà mattina, Sophie aveva avvistato Siler. Era seminascosto tra le fronde di
un albero per non attirare l’attenzione dei Babbani, ed era la conferma che qualcosa
era andato storto… però il gufo sembrava essere sereno.
A quel
punto, aveva tratto l’ovvia conclusione, e non l’aveva presa bene.
La cosa
peggiore, era stata dover aspettare tutto il giorno, continuando a tallonare i
suoi sospettati per ore interminabili. Quando era finalmente calata la notte e
tutti erano rientrati alle proprie case, la rabbia di Sophie non era sbollita nemmeno
un po’.
No,
perché quel pomeriggio dei sospettati avevano fatto un’uscita di gruppo, e
Sophie si era ritrovata a incrociare nuovamente la strada di
quell’insopportabile di Penber. Penber che, a metà pomeriggio, aveva perso una
fotografia lungo la strada.
Fottuto
Pollicino.
Esasperata,
Sophie si era automaticamente chinata a recuperare la foto, studiandone il
contenuto prima di infilarla in una tasca interna del cappotto: a ricambiare il
suo sguardo eranoil collega e una ragazza giovane, dai lunghi capelli
neri. I due erano abbracciati, entrambi in costume da bagno e con un sorriso
contagioso ed amorevole sul volto.
Più
tardi, aveva teso un agguato al collega, gustandosi lo spavento che si prese.
«Non
perdere effetti personali in giro» aveva praticamente abbaiato la ragazza,
tendendogli la foto.
«Grazie!»
sbottò entusiasta, già dimentico del tono abrasivo della strega. «È la mia
fidanzata».
«Non
te l’ho chiesto» aveva ribattuto stancamente Sophie. In realtà, era
meravigliata che un idiota del genere fosse fidanzato. Prima di potersi
trattenere, gli aveva chiesto: «Quando vi sposate?»
Il
sorrisone di Penber era quasi tenero. «L’estate prossima, tra qualche giorno mi
porterà anche a conoscere i suoi» aveva spiegato, l’emozione che trapelava
dalla voce.
La
strega, suo malgrado, aveva pensato che quel tizio non fosse poi così malaccio.
«Sai,
lei era una Auror, e molto in gamba! Figurati, ora vorrebbe sapere tutto sul
caso, ma io le ho vietato di indagare, le ho detto di ricordarsi della
promessa: non immischiarsi più con gli affari da Auror, dopo le dimissioni.
Sai, è successo un bel casino, un po’ di tempo prima che si ritirasse» aveva
aggiunto inarcando le sopracciglia con aria buffa e facendo sorridere appena la
collega. «Le ho detto che d’ora in poi a lei spettano i figli, la famiglia, la
casa: quello è il suo compito, non certo quello di giocare a rincorrere
criminali» aveva concluso, incrociando le braccia con aria boriosa.
Il
viso di Sophie si era contratto all’istante, la fronte aggrottata e i denti
stretti da cui era uscito un ringhio davvero poco consono ai suoi tratti
delicati.
«Sei
proprio un emerito deficiente, e con questo non ho altro da dirti, razza di
misogino!»
No,
dopo quella giornataccia, Sophie non era per niente calma.
Non era
più titubante, non si sentiva più in colpa o in dovere di cambiare il suo
atteggiamento, e non si fece problemi a entrare nella suite a passo di marcia,
un’espressione minacciosa sul volto acceso dal freddo.
Soprattutto,
sapere di avere ragione eliminava ogni traccia di disagio dal suo portamento, e
Sophie non aveva alcun dubbio: Siler era perfettamente in ordine, non una piuma
torta o un segno di colluttazione, perciò era chiaramente stato intercettato da
qualcuno di cui si fidava. Questo restringeva drasticamente il cerchio a…
«L!»
ringhiò la strega, fissandolo con uno sguardo omicida. «Si può sapere che
bisogno c’era, vuoi spiegarmelo?! Ti avevo già detto che non avevo scritto
niente sul caso o su di te! E poi che diavolo di motivo avrei
avuto per farlo? Sapevo che potevi intercettare la mia posta e-»
«Se
l’avevi previsto, Sophie, non vedo il problema» la interruppe lui,
imperturbabile, senza alzare gli occhi dal suo computer. Era seduto sul tappeto
in una posizione stranamente normale: la schiena contro il divano, le lunghe
gambe piegata l’una sotto l’altra, un pollice premuto sulle labbra e un gomito
mollemente poggiato sul ginocchio.
La
strega decise di ignorare la novità, troppo concentrata sull’impellente e
nefasto bisogno di strangolare il Cacciatore di Maghi Oscuri più brillante di
sempre.
«Questo
è, è… del tutto irrilevante! Non ti dà il diritto di farlo»
«Al
contrario, ho il pieno diritto di controllare che non trapeli alcuna
informazione da qui, per la tua sicurezza, oltre che la mia, quella di Watari e
di tutta l’operazione».
Sophie
boccheggiò per l’indignazione. «Oh, sì, effettivamente ora mi sento molto
più sicura!»
«Perfetto
allora»
«Sai
quello che ho appena detto? Ecco, si chiama sarcasmo»
«Ad
ogni modo, non preoccuparti, non ho letto la tua lettera»
«… Ah»
«L’ha
letta Watari».
Sophie
prese un respiro profondo, trattenendo un ringhio esasperato e molto poco
professionale. Tanto non avrebbe concluso niente, litigare col capo delle
indagini non risolveva niente. Certo, era anche abbastanza sicura che
rovesciargli in testa una caraffa di tè bollente avrebbe perlomeno migliorato
la situazione.
«Ryuzaki»
«Che?»
sbottò la strega, alterata.
«Ryuzaki,
è così che mi deve chiamare».
Lei annuì,
ancora più rigida, prima di scattare verso camera sua.
Slacciò
il mantello e lo gettò a terra assieme alla sciarpa, per poi iniziare a
marciare avanti e indietro. L’abitudine l’aveva presa da Harry che, fin dai
tempi di Hogwarts, quando aveva bisogno di riflettere prendeva a camminare
avanti e indietro: al Quartier Generale spesso faceva inciampare i colleghi
senza neanche rendersene conto.
In
verità, Sophie aveva un altro metodo per concentrarsi, ma quella dannata sera non
pioveva.
Sbuffò,
continuando a camminare sugli stessi metri di moquette fino a lasciarvi un
solco. La strega non sopportavasituazioni come quelle: quello di L era
stato un gesto legittimo, tecnicamente, ma che la metteva in discussione come
Auror, come persona di fiducia.
E
quindi?
La
strega si fermò, mordendosi un labbro fin quasi a tagliarlo. In fondo, era poi
così strano che un tipo diffidente come lui, Merlino, che L mettesse le
mani avanti? Con lei, poi, una collaboratrice estera con cui non aveva mai
lavorato e che conosceva da una settimana, cosasi aspettava?
Sophie
strinse le braccia consorte sotto il seno, le spalle talmente rigide da farle
quasi incassare la testa. Una parte della sua rabbia sfumò rapidamente,
un’altra le ricordò che L avrebbe potuto semplicemente chiederglielo.
Si
passò le dita affusolate fra i capelli, strattonando scocciata quando una
ciocca s’impigliò in uno dei suoi anelli.
«Ahi!» sibilò, massaggiandosi la cute dolorante mentre andava alla scrivania
per recuperare una matita. Fu allora che li vide, sul ripiano di noce: una
lucida bottiglia di vetro, assieme ad un calice. Riconobbe subito l’etichetta
viola.
Lì
accanto, scritto con una grafia stretta e frettolosa, la aspettava un
cartoncino dai bordi dorati.
“Buon
Natale”
Improvvisamente,
alla strega sembrò di avere il volto in fiamme. Rimase immobile, fissando la
bottiglia e mordendosi nervosamente un’unghia.
Merlino,
come non ti capisco.
Alla
fine sbuffò, estraendo la bacchetta e puntandola contro il calice: «Gemino».
Come in una bizzarra scissione cellulare, quello si divise in due, e la
strega svuotò la Burrobirra in entrambi. Stando attenta a non rovesciare
niente, tornò in soggiorno.
«Buon
Natale anche a te» mormorò, posando uno dei calici sul tavolino e trattenendo
una risata al leggero sussulto del detective.
L la
studiò con aria circospetta, mentre si accomodava sulla poltrona solitamente
occupata da lui. Si sistemò con la schiena contro un bracciolo e le
gambe a penzoloni sull’altro, un libro di Trasfigurazione Molto Avanzata in
grembo e la Burrobirra stretta al petto.
Dopo
pochi secondi, sospirò. «Non l’ho avvelenata, sai? Per stavolta.»
Lui
inarcò un sopracciglio. «Per stavolta?»
«Sì»
confermò la rossa, serissima. Poi, con tono più morbido, aggiunse: «Senti,
chiedimelo la prossima volta, ok? Non ho problemi con le misure di sicurezza,
ma non attuarle alle mie spalle.»
Una
vocina paranoica le diceva che stava esagerando, che non solo aveva
mandato completamente al diavolo il suo piano di smettere di fare l’amicona con
L, ma ora gli dava pure ordini? La vocina fu presto affogata in un altro
sorso di Burrobirra.
La
Burrobirra che lui le aveva fatto procurare non sapeva bene dove e non sapeva
come. Con un biglietto di buon Natale.
Lo spiò
con la coda dell’occhio e, divertita, vide che ancora non accennava a bere la
sua parte. «Seriamente, non te ne ho ceduta metà solo per fartela fissare».
Lui la
guardò ancora per un momento, poi entrambi bevvero, in silenzio.
La
mente stanca di Sophie si perse in ricordi lontani, mentre lasciava che quel
dolce nauseabondo le inondasse i sensi.
Baffi
dorati e bianchi di schiuma sul volto di suo padre, sua madre che lo metteva in
guardia su tutta la Burrobirra che beveva.
Non le
piaceva nemmeno così tanto, la Burrobirra. Certo, da bambina era stata la sua
delizia, quella che era sempre presente a ogni tavolata o che beveva di
nascosto con suo nonno, prima che nonna li sgridasse perché l’avevano già
bevuta a pranzo. Crescendo, era il sapore familiare dell’infanzia, un piccolo
rimando a casa sua quando la ordinava ai Tre Manici di Scopa di Hogsmade[2], dimenticando per un momento lo stress di qualche esame incombente o
di una punizione di Piton. Poi…
Baffi
dorati e bianchi di schiuma sul volto di suo padre, sua madre che lo metteva in
guardia su tutta la Burrobirra che beveva.
Un
fascicolo scarno, una foto stropicciata, due corpi freddi e deturpati in un
soggiorno devastato.
Poi
aveva iniziato a darle la nausea.
«Te ne può
procurare dell’altra».
Sophie
si riscosse dai suoi pensieri, guardando confusamente il detective.
Ancora
una volta, L non si era minimamente accorto dell’arrivo della ragazza, e la
cosa iniziava a dargli sui nervi. Era una sensazione curiosa, però, perché
raramente qualcosa lo toccava tanto da infastidirlo, e il fatto che i
passi felpati dell’Auror riuscissero sempre a sfuggire al suo finissimo udito
lo infastidiva molto.
Così
come l’apparente indifferenza che la strega aveva mostrato nel sedersi nella
poltrona, quella che utilizzava sempre lui e dunque aveva eletto a sua.
Un vezzo derivante del suo lato più infantile e possessivo, ne era pienamente
consapevole e altrettanto noncurante.
Poi lei
aveva roteato gli occhi con aria esasperata, un modo di fare che cozzava con i
tentativi molto flebili di compostezza che l’aveva vista attuare negli ultimi
giorni, e gli aveva sorriso.
Sorrideva
spesso, Sophie. Sorrideva sempre.
Anche
mentre lo minacciava velatamente e senza alcuna esitazione, le labbra della ragazza
erano rimaste piegate in un sorriso sincero, quasi trattenuto. Quel nuovo modo
di fare, improvvisamente schietto e sincero, lo intrigava: sembrava che la
temporanea rabbia di poc’anzi avesse finalmente rimosso quei filtri traballanti
con cui, palesemente, la strega cercava di tamponare il suo carattere
esuberante.
L aveva
finto di non notare nulla, nei giorni passati, studiando il conflitto interiore
della giovane. Fino ad ora.
Ora
Sophie pareva aver raccolto abbastanza determinazione da fissarlo con aria di
sfida, gli occhi ambrati, quasi dorati nella luce della stanza, stretti fra le
ciglia scure in due fessure affilate.
Sì, intrigante,
pensò bevendo rapidamente la sua Burrobirra. Gli occhi grigi scivolarono sul
libro che la strega teneva in grembo, poi nuovamente al suo volto: lo sguardo
di Sophie si era fatto lontano, vuoto, e la sua bocca si era adagiata in una
linea inespressiva.
Il
detective curvò il capo, incuriosito. Lì c’era qualcosa. Qualcosa che
gli poteva servire.
Ricordi?
Tracce di quel passato frammentario che né lui, né i numerosi contatti di
Watari erano riusciti a completare? Indizi che avrebbero finalmente iniziato a
condurlo verso la soluzione?
Attese
in silenzio, finché non gli parve che il respiro della giovane si fosse fatto
stressato.
La
verità era lì, ne era sicuro, era a un passo, forse a un piccolo gioco di
prepotenza, una piccola spinta di Legilimanzia di cui non si sarebbe nemmeno
accorta…
L
aggrottò la fronte, la mascella improvvisamente rigida.
«Te ne
può procurare dell’altra».
Sophie
si voltò di scatto, e il tempo sembrò rallentare mentre L studiava quegli occhi
improvvisamente stanchi, che lo fissavano dal volto che tanto spesso
vedeva arrossire, ma che ora pareva pallido dietro tutte le lentiggini.
L alzò
il calice vuoto. «Di Burrobirra, Watari te ne può procurare dell’altra. O
qualsiasi altra cosa tu non riesca a trovare, devi solo chiedere».
La rossa
si affrettò a ricomporre un sorriso fiacco, ringraziandolo e raccomandandosi di
ringraziare anche Watari per lei. Il mago era infatti sparito dopo
l’intercettazione, impegnato coi suoi affari in Inghilterra, ma lei sembrò non
volerne indagare l’assenza, altro dettaglio inconsueto per la curiosa Auror.
Un
silenzio tranquillo calò nella stanza, mentre Sophie si faceva assorbire nei
meandri sicuri dello studio, ben incastrata contro lo schienale della poltrona
e la fronte corrucciata nei passaggi più complessi. Anche quello, pensò
L, doveva essere approfondito.
Quello,
ma prima ancora il suo passato frammentario: L doveva riunire i pezzi,
doveva capire se ci fosse qualcosa di rilievo, qualcosa che avrebbe
potuto connetterla definitivamente a quell’indagine.
Il
detective si ritrovò più volte a scrutare il profilo delicato della strega,
quella notte. Il suo profilo, o le lentiggini dorate sparse sul suo volto, o il
modo in cui teneva le maniche attorcigliate attorno ai polsi sottili e sotto le
dita affusolate, o i riflessi ramati dei suoi capelli, legati disordinatamente
con la bacchetta. Si ritrovò a voler restare lì a guardarla, guardarla finché
non lo avesse beccato e fissato di rimando con un sopracciglio inarcato. Si
ritrovò a guardarla senza sapere il perché, e senza volerlo sapere.
***
25 dicembre 2003
Per
Natale, Sophie aveva ricevuto ben tre gufi, coordinati per trasportare un cesto
dalle dimensioni imbarazzanti. La strega sperò vivamente che fosse
passato inosservato agli ospiti dell’albergo, ai passanti e, soprattutto, a L.
Nonostante
la ragazza potesse con tranquillità sdraiarsi nel cesto di paglia, senza
nemmeno piegare troppo le ginocchia, Hermione doveva aver nuovamente utilizzato
un Incantesimo di Estensione Irriconoscibile. Divenne evidente quando, tra
sbuffi e imprecazioni, Sophie cercò richiudere l’armadio in cui aveva stipato
tutti i regali ricevuti: dalla signora Weasley, una serie di libri di ricette
accompagnò il suo maglione d’ordinanza; Sophie sospettò che, se avesse potuto,
Molly le avrebbe mandato direttamente il suo pasticcio di carne e calderoni
di minestra, ma grazie a Merlino esistevano le leggi doganali. Dai Tiri Vispi
Weasley, George le mandò una collezione nuova fiammante di Gadget Magici,
accuratamente impacchettata in un cofanetto natalizio. Da Hermione, un nuovo
set di carta da lettere che la fece squittire di gioia, e un paio di libri
appena pubblicati. Da Ginny, la nuova maglietta delle Holyhead Harpies e dei
Montrose Magpies, in qualche modo già firmateda tutti i giocatori
nonostante la stagione del Campionato dovesse ancora iniziare. Da tutto il
Quartier Generale, un set di Detector Oscuri nuovo di zecca che le fece
lanciare un gridolino, dato che solitamente usava i pidocchiosi, semi-distrutti
detector del Ministero.
Quando
uscì dalla stanza, un enorme sorriso a illuminarle il volto, vide disordinati
ciuffi di capelli neri sbucare dalla poltrona che le dava le spalle. Si
avvicinò di soppiatto, colta dall'irrefrenabile, infantile voglia di coglierlo
di sorpresa.
Nell’attimo
di scattare davanti al detective numero uno al mondo, però, uno squillante “Buongiorno!”
le morì in gola. Strinse le labbra tra i denti, gli angoli della bocca che
tradivano un piccolo sorriso.
Così, a
quanto pare, anche L dormiva.
Era
rannicchiato nella sua solita posizione fetale, ma il capo gli ricadeva contro
i lati dello schienale, schiacciando i capelli corvini. Il volto pallido del
detective era rilassato, gli occhi perennemente sottolineati da occhiaie
pesanti erano finalmente chiusi in un meritato riposo. La bocca sottile, per
una volta, non era vittima di qualche tic nervoso, o aperta per fare qualche
osservazione tagliente, ma socchiusa. Un respiro leggero e stabile gli muoveva
appena il petto, coperto solo dalla solita, sottile maglietta bianca.
Sembrava
così… solo, costretto in quella posa difensiva anche mentre dormiva, caduto
certamente addormentato mentre stava ancora lavorando, dato che una pergamena
giaceva srotolata ai piedi della poltrona.
Sophie
si morse un labbro, abbassandosi per arrotolare con cura il documento e riporlo
sul mobile più vicino.
Alzò il
capo sul detective e, scrutandolo in un momento tanto vulnerabile, fu
come se lo vedesse per la prima volta.
Per la prima
volta, non vide il capo delle indagini, l’indiscutibile autorità del mondo
della giustizia, l’interessante collega con cui discutere fino a notte fonda
divorando biscotti.
Per la
prima volta, Sophie vide una semplice persona, un semplice ragazzo. Non
era niente più che un ragazzo, quello che si batteva quotidianamente per la
giustizia e per la salvezza di tutto il mondo, quello con gli occhi
perennemente segnati dal sonno e la pelle esangue di chi non vedeva mai la luce
del sole.
Per la prima
volta, provò una sottile vena di preoccupazione: oltre a Watari, c’era qualcuno
che si preoccupasse per lui? Non per L, no, per quel ragazzo. Qualcuno
che lo strigliasse quando non mangiava come si deve, come la signora Weasley;
qualcuno che lo trascinasse via dal lavoro per bersi una birra, come Harry e
Ron; qualcuno che ogni tanto si presentasse alla sua porta con una pizza per
spezzare la solitudine, come Ginny; qualcuno che ribattesse ogni sua parola e
si lamentasse se si vestiva troppo leggero, ma che poi portasse sempre il suo
tè preferito, come Draco.
La
strega non si poteva arrogare il diritto di sapere davvero qualcosa sulla vita
del detective, né poteva immaginare chi o cosa lo aspettasse a casa… però aveva
l’impressione di sapere la risposta.
Aggrottò
la fronte, estraendo la bacchetta per trasfigurare una pergamena vuota in una
coperta. La drappeggiò sul corpo rannicchiato di L, imponendosi di mettersi al
lavoro e di smettere di fissarlo come una maniaca.
Quando
uscì dalla suite, non si accorse che Watari aveva assistito a tutta la scena,
un sorriso sotto i baffi candidi.
***
27
dicembre 2003
Quella
sera, c’era qualcosa che non andava.
Ancora
una volta, un gruppo di studio della scuola di preparazione si era ritrovato
per un ripasso generale. Ancora una volta, sia sospettati di Sophie che
sospettati di Penber, e probabilmente anche di qualche altro Auror, si
trovavano negli stessi dintorni.
Solo
che di Penber non c’era traccia.
E di
Penber c’era sempre traccia.
Se è
per quello, la strega non aveva notato nessun altro individuo che potesse
identificare come Auror, ma magari i colleghi di Penber erano semplicemente più
bravi nel loro lavoro. La rossa, per quanto formidabile nel notare quel genere
di cose, non era infallibile.
Ciononostante,
e venendo meno al suo dovere, non seguì i suoi sospettati a casa.
Seguì
quelli di Penber. Prima la figlia maggiore del Capitano Kitamura, poi quello
del Sovrintendente Yagami.
Non
incrociò nemmeno un’anima sulla loro scia.
Ferma
vicino a casa Yagami, appostata invisibile dietro un lampione, spiò dalle
finestre accese dell’abitazione; dopo aver contato i presenti, si bloccò,
congelata dallo sgomento.
Pensava,
infatti, che il ritardo del collega fosse dovuto a un’eventuale complicazione
con gli indiziati, ma sia i membri della famiglia Kitamura che di quella Yagami
erano al loro posto. E dell’Americano ancora nessuna traccia.
Forse
sta solo seguendo un’altra pista.
Non ci
sarebbe stato nulla di strano.
Però L
non gli aveva accennato a nessun cambio di programma.
Sophie
strinse le mani a pugno e respirò profondamente, tentando di non perdere la
calma. Doveva decidere cosa fare, e molto in fretta: seguire l’istinto
era sempre considerato il cliché di ogni buon poliziesco, ma da Auror sapeva perfettamente
quanto certe cose non andassero realmente ignorate. E quella non era una
coincidenza.
Non
perse tempo e, risoluta, cercò un vicolo deserto per Smaterializzarsi, seguendo
la voce che la spronava a correre da L.
«Ryuzaki!» ansimò poco più
tardi, spalancando la porta della suite dopo aver fatto le scale dell’hotel due
a due. «Ryuzaki, c'è qualcosa che non va, l’Americano...»
«Sei viva» la voce
bassissima ed esterrefatta del detective colse la strega impreparata.
«Cosa- come?»
«Raye Penber è morto» la
informò L, che con gli occhi spalancati sembrava scandagliarla come ad
assicurarsi che non fosse un fantasma. «… E così tutti gli altri, Kira li ha
uccisi».
Sophie
aprì e chiuse un paio di volte la bocca, interdetta.
«Che... Che vuoi dire?»
«Tu sei l’unica
sopravvissuta».
LUMOS
Beh,
visto che ho tardato un sacco con lo scorso capitolo, anticipo un po’ questo ;3
…
E
mi sono anche un po’ rotta di ripassare per la sessione, ma dettagli.
Comunque,
spero che sia
tutto abbastanza scorrevole (piccolo uragano, santa patrona dei dialoghi,
proteggimi tu).
Un
abbraccione, e grazie mille a tutti quelli che
recensiscono/seguono/ricordano/preferiscono, vi si ama assai.
NOX
[1] Custode delle Chiavi e dei Luoghi a Hogwarts,
grande amante delle creature magiche, soprattutto se illegali o in qualche modo
nocive.
[2]Villaggio magico accanto a Hogwarts,
dove gli studenti possono recarsi dal terzo anno.
Un
brivido freddo le scese dalle spalle lungo la schiena, come acqua ghiacciata. Spaesata,
fissò L senza vederlo davvero.
Tu
sei l’unica sopravvissuta.
Il nodo
che le premeva prepotente sullo stomaco le fece venire voglia di vomitare sul
tappeto persiano ai suoi piedi, una reazione a malapena trattenuta a quelle
parole troppo familiari. Era la terza volta che le sentiva, e ogni volta
era stata di troppo.
Tu
sei l’unica sopravvissuta.
Sophie
cercò di concentrarsi su ciò che aveva davanti agli occhi, ignorando per quanto
possibile i bisbigli del passato.
«Com’è
possibile? Mi stai dicendo che dodici agenti sono morti nelle ultime
ventiquattr’ore?!»
«No,
sono morti nelle ultime due ore» la corresse il detective, la voce
appena più spenta del solito.
La
strega sbarrò gli occhi, allucinata da quell’affermazione. Come era
stato possibile, chi diavolo…
Oh.
«L’ha
fatto davvero, il bastardo…» disse a fil di voce, cercando la risposta negli
occhi d’ossidiana del detective. Lui annuì impercettibilmente.
«Gli
Auror del Macusa sembrerebbero essere morti tutti in un lampo di luce verde,
senza variazioni»
«Kira vuole
che si sappia che è stato lui» commentò assente Sophie, non riuscendo a
credere a quello che sentiva.
«Dovresti
sederti, sei sotto shock…»
«Non
sono sotto shock!» replicò alterata la giovane, «Voglio solo capire come cazzo
ha fatto Kira a uccidere dodici Auror professionisti in meno di due ore!»
Non
riusciva a concepirlo, si rese conto.
L
l’aveva preparata all’eventualità e, dopo aver studiato ogni rapporto fino a
imprimerselo nella testa, sapeva perfettamente di cosa fosse stato
capace Kira fino a quel punto. Capire quanto da vicino la morte l’avesse
sfiorata, però, con quanta ferocia e facilità Kira avesse sottratto le
vite di quei professionisti come se nulla fosse…
«Sophie.
Siediti, per favore.»
La
ragazza eseguì, deglutendo il nodo alla gola e stringendo i pugni fino a
sentire le unghie scavare nei palmi delle mani. Non poteva perdere la testa
adesso, non poteva e non doveva: era proprio ora che doveva dimostrare
di avere sangue freddo, altrimenti di che utilità poteva essere a quelle indagini?
Tuttavia…
Dodici
agenti, dodici vite sottratte senza il minimo sforzo, senza spiegazioni,
senza duelli, senza possibilità di reagire o difendersi. Niente eroismo o
ultime possibilità, niente di quello a cui si era abituata, per cui si era
addestrata. Era atroce, e sarebbe dovuto accadere anche a lei.
«Come
ha fatto?» ripeté allora, la mascella contratta e uno sguardo duro in volto.
L si
sporse verso la montagnola di Cioccorane che occupava il tavolino, prima di
rispondere. Con tutta calma, ne scartò una e la divorò intera.
«Purtroppo,
stiamo avendo un brusco calo di personale. Dopo aver saputo delle morti degli
Auror, e quindi delle loro… delle vostre indagini, quasi tutti i
collaboratori giapponesi si stanno ritirando. Così anche l'intera sezione di Auror
del Magico Congresso statunitense» spiegò L, attaccando subito un altro dolce.
«Prima, però, il Macusa ci ha informato che diversi agenti, apparentemente in
momenti non collegati ai decessi, avevano richiesto la lista completa dei
colleghi operativi in Giappone, per questo caso ovviamente»
«Una
lista con le loro identità?»
«Il
loro capo ha pensato che fosse stata una decisione collettiva, quella di avere i
nominativi a portata di mano… e ha mandato quattro gufi, con l’istruzione di
diffondere le informazioni ai dodici Auror»
«Non
capisco, Penber sapeva della mia presenza qui, perciò anche il resto
dell’organizzazione ne era a conoscenza… il mio nome doveva essere su
quella lista, io dovrei…» la strega si ritrovò a prendere fiato, solo
per un attimo, la voce strozzata come se si fosse dimenticata di respirare. Strinse
le labbra, sforzandosi di non abbassare lo sguardo. «Dovrei essere morta»
L
inclinò lievemente il capo, poi le indicò le Cioccorane.
«Mangiane
una, ti farà sentire meglio»
Sophie
si massaggiò la radice del naso, gli occhi socchiusi e un sospiro sulle labbra.
«Ryuzaki, non credo che…» prima che potesse finire la frase, una macchia
colorata attraversò i margini del suo campo visivo, e la mano destra della
strega scattò istintivamente nell’aria.
Fissò
la Cioccorana con la fronte corrucciata, poi il detective che gliel’aveva
lanciata.
«Cercatrice[1], no?» le disse,
inarcando appena le sopracciglia.
Sophie
assottigliò lo sguardo: si stava forse prendendo gioco di lei?L
e gioco nella stessa frase? Senza smettere di fissarlo, iniziò a
mangiucchiare la sua rana di cioccolato, temporaneamente dimentica della
nausea.
A quel
punto, L parve abbastanza soddisfatto da continuare.
«Watari
si sta procurando una copia di quel file, ma posso presupporre che riportasse
informazioni errate, almeno su di te»
«Loro
non le avrebbero nemmeno dovute avere, quelle informazioni!» puntualizzò
la strega.
«Collaborerò
con Robards per sapere se e quali aiuti abbia avuto il MACUSA dal Ministero…».
Sophie
strabuzzò gli occhi, ricordandosi improvvisamente di chi la aspettava
dall’altra parte del mondo. «R-Ryuzaki, Harry e gli altri- Non penseranno che
io sia morta?!»
«Watari
ha informato Robards via Metropolvere non appena sei entrata nella stanza» la
interruppe L, leccandosi con attenzione il cioccolato dalle dita. «Preferisco
non condividere però ulteriori informazioni via camino, è troppo facile da
intercettare».
La
rossa annuì, lasciandosi andare in un lungo sospiro di sollievo. Poi, dopo un
attimo di incertezza, prese un’altra Cioccorana: ora che era riuscita a mandare
giù qualcosa, si era resa conto di avere una fame tremenda.
Dopo
aver staccato la testa della rana con un morso deciso, aggrottò la fronte.
«Ryuzaki, perché diavolo gli agenti americani hanno richiesto quel
documento? Dovevano sapere a che pericolo andassero in contro, non posso
credere che-» la strega si bloccò a metà della frase, prima di sfregarsi forte
una mano sul volto. «Certo, ok, Kira controlla le azioni prima della
morte. Questa è assolutamente la prova inconfutabile… avrà sfruttato un agente
di cui sapeva già l’identità per avere accesso alle azioni degli altri… il
messaggio, ti ha scritto qualcos’altro?».
«… Sai
del messaggio?» le chiese L, apparentemente preso in contropiede.
Sophie
deglutì, sentendosi stranamente a disagio nel vedere lo stupore sul
volto del detective. «Sì, insomma, li ho letti anche io i rapporti» spiegò,
passandosi una mano tra i capelli, «non ci voleva un genio dell’enigmistica per
vedere che, in ogni messaggio lasciato dai criminali morti negli ultimi giorni,
i caratteri all’inizio delle frasi formavano un messaggio».
Il
detective rimase in silenzio per qualche lungo secondo, in cui Sophie si
concentrò sulla sua Cioccorana per ignorare il suo sguardo penetrante.
«Si è
preso gioco di me» ammise infine il ragazzo, la voce condita da una lieve
acredine, mentre faceva volare un brandello di pergamena verso la giovane.
Riportato
prima in giapponese, poi in inglese, vi campeggiava il seguente messaggio: “L,
lo sai/ che gli shinigami/ mangiano solo mele?”. Il messaggio prese fuoco tra
le mani di Sophie, mentre lo accartocciava.
«Scusa»
sibilò, per nulla dispiaciuta.
Lui
fece spallucce.
«Quindi…
Oh, Watari!»
Il
maggiordomo entrò nella stanza con un bicchiere di succo di zucca, sorridendole
amabilmente prima di porgerglielo. «Signorina Sophie, sono sinceramente
sollevato nel sapere che stia bene».
«Io…»
Sophie strinse le dita attorno al bicchiere ghiacciato (proprio come piaceva a
lei), provando un’improvvisa ondata di affetto. Malgrado lo conoscesse da così
poco, il mago le ricordava Silente, con quello sguardo sempre gentile e l’aura
di mistero che si portava appresso.
«Grazie,
Watari, grazie davvero» gli disse, trovandosi quasi a trattenere le lacrime
mentre, per la prima volta, avvertiva tutta la nostalgia e lo stress accumulati
in quelle settimane.
«Si
figuri, signorina» Watari ebbe la delicatezza di rivolgersi a L, dandole il
tempo di ricomporsi mentre trangugiava il succo di zucca. «Il signor Robards
aspetta una comunicazione non oltre domani pomeriggio».
L
annuì, e il maggiordomo si ritirò in un angolo della stanza, iniziando a
muoversi rapidamente tra un computer e un buon metro di rotolo di pergamena.
«Stavi
dicendo?» chiese poi il detective a Sophie.
«Oh,
ehm… a-adesso?»
«Adesso…
sei libera di tornare a Londra.»
La
strega emise un verso strozzato, iniziando a sputacchiare succo e tossire
furiosamente.
«C-co-me
sare-» farfugliò tra un colpo di tosse e l’altro, battendosi un pugno
sul petto. L inclinò il capo di lato, sospirando leggermente.
«Anapneo»
pronunciò con chiarezza, facendo subito riprendere fiato alla ragazza.
Lei,
con voce gracchiante, ripeté: «Come sarebbe tornare a Londra?!»
«Sei libera
di tornare a Londra. Nessuno ti impedisce di restare, ma tantomeno di
andartene, dopo aver rischiato la vita appena qualche ora fa» spiegò
pacatamente il detective, gli occhi che non incrociavano quelli della strega.
«Dopotutto, sarebbe più che ragionevole».
Sophie
si ritrovò ad aprire e chiudere la bocca un paio di volte, senza sapere cosa
dire.
Beh, sarebbe
stato ragionevole, non aveva torto: era chiaro che anni di esperienza, un
potente Ministero alle spalle e lo stesso L non fossero bastati come protezione
per quegli Auror, no? Se lei era ancora viva era solo per puro miracolo… e
quella non era nemmeno una fase decisiva delle indagini, anzi. Senza
contare che, in quel preciso momento, probabilmente tutti i suoi amici stavano
pregando perché tornasse.
Tutto
considerato, quindi, perchéle sembrava una totale assurdità abbandonare
il caso?
D’accordo,
qualcosa era andato storto, molto storto, e quindi? Si aspettavano che
fuggisse a gambe levate, proprio ora che la situazione si faceva seria? Forse
era solo un’irresponsabile, o era troppo superficiale, o era totalmente matta
ma… ma non se ne sarebbe mai andata. Aveva preso un impegno, e ora lo
avrebbe portato a termine, a qualsiasi costo.
Quando
tornò a sollevare lo sguardo, Sophie si sentì momentaneamente leggera di
qualsiasi dubbio. Lo sguardo altero e la voce priva di tremori parlarono
chiaro: «Ryuzaki, dovrai costringermi fisicamente a tornare a Londra, se
è questo che vuoi. E anche se ci riuscissi, non ti sarai comunque liberato di
me».
Lo
disse con fierezza, lo disse da vera, spudorata Grifondoro.
L
rimase a fissarla per qualche minuto, in assoluto silenzio, mentre il
volto della strega diventava pian piano scarlatto. Di sfuggita, le parve anche
che il rumore di tasti e penne scricchiolanti fosse cessato, dalla direzione di
Watari.
Pochi
secondi dopo, il mago consegnò una serie di fogli all’immobile detective.
«Ryuzaki? Il file del Macusa»
L batté
le palpebre, distogliendo lo sguardo dalla strega e afferrando senza esitazione
i documenti. Sophie, nonostante fremesse per leggere in prima persona quel file, si sforzò di attendere. Almeno per qualche secondo.
«Ehm…
Ryuzaki?» chiese impaziente.
Lui la
guardò di sottecchi, prima di porgerle i fogli.
La
strega scorse febbrilmente la lista di Auror, deglutendo il senso di nausea che
le provocò pensare che ciascuno di loro ora fosse morto, cercando di non
pensare a quanto quella lista fosse ormai un necrologio. Quando trovò la
sua foto, quella ufficiale, scattata per i documenti ministeriali, lesse con
attenzione le informazioni riportate: ogni dettaglio anagrafico combaciava
perfettamente, tranne nome e cognome.
Un nome
sbagliato. Uno stupido nome sbagliato. Questo era tutto quello che l’aveva
schermata dalla furia omicida di Kira… no, non furia omicida. Quegli
omicidi erano logici, pianificati, chirurgici, ben lontani dallo sfogo di un
folle.
L si
schiarì la voce, richiamando l’attenzione della giovane. «Ora inizia la fase di
cui ti ho parlato quando sei arrivata».
La
rossa corrugò la fronte. «Quindi… una diversa gestione delle indagini?» tentò
di ricordare, appoggiandosi stancamente allo schienale del divano. I fogli, per
qualche motivo, li teneva ancora stretti tra le dita.
«Ho
dato un ultimatum al Quartier generale giapponese… la scelta è la stessa che ho
posto a te: restare e rischiare la vita in prima linea, o tornare a casa
propria»
«E poi?»
lo incalzò Sophie, col vago sospetto che il detective si stesse godendo tutta
la suspence.
«Poi,
chi alla mezzanotte del trentuno dicembre avrà accettato di rimanere a lavorare
con me, verrà guidato qui» le disse infine L, guardandola dritto negli occhi,
«il nuovo Quartier generale delle indagini su Kira».
Melodrammatico.
Sophie
trattenne un sorrisetto, mentre rimuginava sulle parole del detective: malgrado
quella fosse tutt’altro che una decisione presa sul momento, e anzi si
trattasse di una mossa accuratamente premeditata, la strega era ancora
incredula al pensare che L si volesse mostrare ad altre persone. Che L fosse
finalmente disposto a lavorare a viso scoperto con un’intera squadra investigativa
poteva significare solo che ora, ora faceva veramente sul serio.
In
barba a tutta la preoccupazione e contro assolutamente ogni logica, si
sentì pervasa dall’eccitazione, come una bolla alla base della gola.
I due trascorsero
ancora mezz’ora a definire i passi direttamente successivi: le nuove
precauzioni da adottare, quali dati avevano a disposizione e quali si stavano
già procurando, mentre Watari continuava a
scrivere quella che pareva essere una fitta serie di lettere e comunicazioni
top-secret.
Per
quando Sophie iniziò a sbadigliare, lei e il detective erano pian piano rimasti
in silenzio, a riordinare e controllare un’ultima volta la documentazione.
«Sophie?»
la voce roca di L ridestò l’attenzione della strega, intenta a sfregarsi un
occhio.
«Sì?»
Non la stava guardando direttamente, no, la scrutava di sottecchi, dietro le
ciocche di sottili capelli corvini.
«Ti
credevo realmente morta» quel tono, serio e bassissimo, le provocò uno strano
brivido… o forse erano solo le parole che aveva pronunciato.
La
giovane si riavviò nervosamente i capelli dietro un orecchio, cercando di
capire cosa volesse dirle il detective. Era… preoccupato? Preoccupato per
lei?
Arrossì
impercettibilmente, trattenendosi dallo scuotere fisicamente via quell’idea con
il capo: era ovvio che si preoccupasse, era una risorsa all’interno di
una squadra già apparentemente scarsa, non c’era niente di più naturale.
Si
stampò un sorriso gentile il volto. «Beh, sono qui, no? Come ti ho detto, ci
vuole ben altro per mettermi i bastoni fra le ruote!»
«… In
ogni caso, presta attenzione durante il proseguimento delle indagini. Dobbiamo
agire presumendo che Kira conosca i volti delle sue vittime. Niente imprudenze».
La
rossa annuì, non sapendo cosa aggiungere. Normalmente, avrebbe ribattuto con
qualche battuta, cercando di sminuire o sdrammatizzare tanta serietà, però…
però era bizzarro che L dicesse cose del genere, lui che di solito
diceva e faceva solo lo stretto necessario.
Beh,
non sempre.
In
fondo, fino a qualche giorno prima il problema era proprio che le loro
conversazioni non concernessero solo lo stretto necessario. Si era
rimproverata per aver assunto un atteggiamento troppo amichevole con il suo
superiore. D’altro canto, indagando con i pochi numeri che prevedevano, non
sarebbe poi stato così strano se si fosse creato un clima piuttosto amicale, di
colleghi alla pari nel relazionarsi l’uno con l’altro, nel suggerire e
discutere idee e ipotesi, e… e nel preoccuparsi. Erano colleghi, erano Auror.
Era tutto nella norma.
Anche
quella scintilla d’inquietudine negli occhi solitamente impassibili di L.
Un
riflesso, è un dannato riflesso.
Sophie
si strofinò nuovamente gli occhi, incolpando la stanchezza per il modo in cui i
suoi pensieri sembrassero vagare senza alcun controllo.
«Forse
dovresti andare a dormire»
«S-sì,
sono di ben poca utilità ora come ora» ridacchiò Sophie, stiracchiandosi mentre
si alzava.
«Puoi
prenderle, le figurine.»
Sophie
si guardò attorno, spaesata, poi vide le due carte che aveva lasciato sul
divano. «Oh! Sicuro? Voglio dire, in fondo erano le tue Cioccorane» nel momento
in cui lo disse, la ragazza si chiese perché a L dovesse fregare di quelle
carte. Cosa si aspettava, che il detective numero uno al mondo ne facesse la
collezione?
Qualcosa,
però, le dava come l’impressione che il mago tenesse a quella piccola
sciocchezza.
«Sono
tue» replicò fermamente L.
«Ok,
ehm, grazie. B-buonanotte allora!» alzò appena la voce, per salutare anche
Watari, e si rifugiò in camera sua.
«Come
sapevi che ti avrebbe detto di sì?»
«L’hai
detto tu, è una Grifondoro fino al midollo»
«Uhm, e
cosa farebbe una Grifondoro fino al midollo, se scoprisse che hai un fascicolo
su di lei da quattro anni?»
L aggrottò
la fronte, infastidito dal mago che lo aveva cresciuto, ma che ancora pensava
fosse utile stuzzicarlo. «Watari…» disse in tono impaziente, aspettando una
spiegazione.
Il
maggiordomo lo fece attendere: raccolse le Cioccorane rimaste sul tavolino, e
le spedì in cucina con un guizzo della bacchetta.
Poi,
dopo essersi seduto di fronte al suo pupillo con tutta calma, parlò: «Non ti
avevo mai visto condividere i tuoi dolci con qualcuno»
«Mangia
con me tutti i giorni»
«Mh mh…»
fece Watari, con fare pensieroso. «Una volta, incantasti una piccola quercia
della villa affinché rincorresse Z per tutto il giardino, costringendolo a
correre per un’ora filata prima che riuscissero a fermarla» raccontò il mago,
mentre lucidava le lenti degli occhiali con un fazzoletto candido. «Ti aveva
rubato delle Cioccorane».
Il
giovane non rispose, guardandolo impassibile. L’occhio allenato di Watari,
d’altronde, vide invece una chiara occhiata torva.
«… Devo
intercettare la lettera che scriverà ai suoi amici?» aggiunse il maggiordomo,
il tono vagamente provocatorio e divertito di chi conosce benissimo i
propri polli. Anche quelli con un QI superiore a duecento, anzi, specialmente
quelli.
«Taci
Watari... comunica che i piani sono andati esattamente come previsto e che mi
occuperò personalmente di rinforzare gli Incantesimi di Difesa. Non voglio che lui
crei pressioni inutili».
Watari
stava chiaramente trattenendo un sorriso quando gli rispose: «Certo, Ryuzaki».
***
29 dicembre 2003
Inizialmente, Draco non si era
risparmiato dal dare a tutti dei paranoici. Non che ci volesse molto ad
arrivare a tale conclusione: se non fosse bastata la moltitudine di teorie del
complotto che Potter e Weasley avevano prodotto a Hogwarts (e che Hermione, non
senza una certa dose di imbarazzo, gli aveva raccontato), gli anni di lavoro
gomito a gomito con gli ex-Grifondoro bastavano e avanzavano come prova.
Mentre si sarebbe rasato a zero prima
di ammettere ad alta voce che i colleghi non fossero male nel lavoro su campo,
nella pianificazione e nel coordinamento squadre, non aveva assolutamente
nessunissimo problema a dire quanto potessero essere patetici
nell’individuare i colpevoli. Non che mancassero totalmente delle capacità
logiche e deduttive di base (altra cosa che avrebbe negato sotto tortura), ma
Draco ricordava con sonoro divertimento le cantonate che si erano presi Potter
e Weasley negli anni e, anzi, si curava con dedizione che tutti
potessero ricordare.
Hermione aveva ammesso che i suoi
amici peccassero di impulsività di giudizio.
Draco aveva ammesso che i suoi amici
peccassero di un sacco di cose, tra cui l’incapacità di mettere un filtro tra
la bocca e le loro bacate menti.
L’unica concessione che il biondo si sentiva
di fare in quel tripudio di coraggio, fegato e idiozia[2], era Sophie: della
squadra, era quella che assieme a lui riusciva ad analizzare le situazioni con
maggiore ordine e logica. Il fatto che non fosse particolarmente deditaa correre in contro a conclusioni affrettate, però, non significava che
fosse estranea a colpi di testa e gesti impulsivi.
Eccoperché, quando la strega
aveva mandato quella lettera in cui chiedeva di “tenere d’occhio” Robards e tutti
si erano concitatamente agitati attorno a quella strana richiesta, lui si era
sentito nella posizione di poterli ignorare bellamente.
Ignorarli mentre si consultavano, si
fissavano preoccupati, e iniziavano a sbirciare Robards in modo dolorosamente
ovvio. Lui si limitava ad osservarli con aria vagamente esasperata, mentre si
agitavano tanto per quella che alla meglio era una frase di circostanza, e alla
peggio un timore infondato: se proprio dovevano essere onesti, era
perfettamente plausibile che il Capo fosse diverso dal solito, in mezzo a
quella baraonda causata da Kira.
Nossignore, non avrebbe sprecato
tempo su quella gara di sguardi, non quando era già sufficientemente impegnato
con il suo lavoro di routine e il carico extra dato dal caso Kira. Lo aveva
chiarito perfettamente a tutta la famigliola felice, quando avevano ricevuto la
lettera.
Per questo, quando annunciò che
Robards stava “Decisamente nascondendo qualcosa”, a un tavolo del loro
pub preferito, Harry e Ron lo guardarono come se gli fosse sbucata una seconda
testa.
«Cosa?» chiese, inarcando un
sopracciglio con fare altezzoso.
«Cosa? Cosa credi che stiamo
pensando?» replicò Ron, grattandosi un sopracciglio.
Draco si strinse nelle spalle.
«Diciamo che non si può mai conoscere del tutto una persona» si giustificò
cripticamente, prima di bere un sorso di vino con la massima nonchalance.
«E tanti saluti a quello che ci dava
dei paranoici» sbuffò il rosso, tirando una gomitata d’intesa a Harry. Il moro,
però, sembrava star cercando di dissezionare Draco con lo sguardo.
«Non parlare come se volessi
ritrattare, voi siete dei paranoici» precisò sprezzante il biondo. Alzò
una mano per attirare l’attenzione della cameriera, facendole segno di portare
un altro giro. Nel mentre, Potter non aveva smesso di fissarlo.
«Cosa c’è?» sbottò Draco,
esasperato.
«Perché hai cambiato idea?»
«Lo stai davvero chiedendo
all’ex-Mangiamorte che è finito a lavorare con le persone che gli stavano più
antipatiche in una scuola di trecento studenti?»
«Smettila di evitare la domanda».
Draco si accigliò alla voce ferma del
collega, capendo che non era dell’umore per farsi manipolare come suo solito.
Sospirò, puntando un dito sui colleghi. «Io ve lo dico, ma non iniziate a
fare i complottisti o giuro che vi Oblivio».
Harry e Ron si scambiarono
un’occhiata, poi annuirono.
«Ok, allora… l’altro giorno potrei
aver sentito Robards parlare alla Metropolvere…»
«Hai origliato» commentò Ron,
aggrottando la fronte.
«Sì, Weasley, come ti pare» lo
liquidò rapidamente con uno sventolio di mano, prima di continuare, «comunque,
stava parlando con Watari».
Draco si godette il cambio repentino
nell’atteggiamento dei Grifondioti, che spalancarono gli occhi e si sporsero in
avanti. «Cosa hai sentito?»
LUMOS
Miei prodi, ho finito la sessione. Sono libera. Sono vagamente distrutta. Sono pronta a tentare di essere più puntuale con gli aggiornamenti. Amatemi.
Ringrazio come
sempre coloro che seguono/preferiscono/ricordano, e
le meravigliose persone che recensiscono, siete davvero dei tesori :’3
AH, e ringrazio piccolo_uragano_, perché vedere come impreca leggendo i capitoli nuovi da
sempre una certa voglia di scrivere.
Love u all :3
NOX
[1] I Cercatori, nel Quidditch, hanno il compito di
afferrare una pallina volante piccola, velocissima e sfuggente, il Boccino
d’Oro. Ergo, Sophie ha dei riflessi ben sviluppati.
[2] “Coraggio, fegato e cavalleria/Fan
di quel luogo uno splendore”, frase utilizzata dal Cappello Parlante per
descrivere la Casata Grifondoro in una sua composizione.
La neve
era arrivata silenziosamente, nel cuore della notte, in un contrasto spietato con
gli alti palazzi punteggiati di luce di Tokyo. Era arrivata sotto lo sguardo
vigile di Sophie che, una guancia premuta contro il vetro della sua finestra,
attendeva invano che il sonno arrivasse; se ne stava seduta così da un’ora, una
tazza semivuota e tiepida fra le mani e un ampio cardigan beige avvolto attorno
al corpo. La seconda notte di fila senza dormire iniziava a lasciarle segni
sotto gli occhi, persi sul panorama della città ma senza vederla davvero.
Vedeva
la neve che ogni anno copriva il Castello di Hogwarts, che si accumulava sui
prati distesi tra la Foresta Proibita, il campo da Quidditch e il Lago Nero.
Vedeva tempi diversi, non più semplici, né più sicuri.
Quei
giorni, anzi, erano segnati da un senso d’incertezza che la ragazza non aveva più
provato, non da quando la guerra era finita e si era costruita un presente
relativamente sicuro, placido, prevedibile. Noioso si ricordò anche,
storcendo il naso.
Del
resto, non avrebbe dovuto lamentarsi di una vita tranquilla, non dopo quello
che aveva passato, che tutti loro avevano passato.
Abbassò
gli occhi ambrati sulla manica di lana che si stava attorcigliando nel palmo
della mano, seguendo lo schema ripetitivo del lavoro a maglia nel tentativo di
scacciare lo sgradevole pensiero che, di lì a qualche settimana, le ferite del
passato sarebbero tornare a bruciare come prima.
Era
ridicolo, se ne rendeva conto, ma ogni anno gli incubi non erano tardati ad
arrivare. Mai.
Si
staccò dalla finestra, poggiando i piedi sul pavimento freddo e rabbrividendo, nonostante
gli spessi calzini che le risalivano i polpacci.
Portò
la tazza con sé, decidendo che le cinque del mattino fossero un buon momento
come un altro per iniziare ad assumere caffeina. Entrò nel salotto in punta di
piedi ma, stranamente, nella stanza pareva esserci solo lei, e lo stesso valeva
per la piccola cucina.
Non
c’era una sola caffettiera in quell’albergo, ma Sophie trovava sempre
una boccia di caffè bollente sul bancone, quale che fosse l’ora. Malgrado non
lo avesse mai colto sul fatto, la ragazza sospettava di dover ringraziare
Watari per questo.
Sorseggiando
la tazza nuovamente ricolma, si appoggiò alla piccola penisola di marmo scuro,
di fronte alla finestra. Rimuginò, inquieta, iniziando a sentirsi in trappola
dietro a quei vetri immensi: da quando la sua piccola routine era stata
brutalmente interrotta, da quando gli Auror americani erano morti ed L l’aveva
pressoché reclusa in albergo, si sentiva sprofondare in sé stessa, priva di
scappatoie e distrazioni.
Ora più
che mai, avrebbe pagato galeoni per uscire a prendere una boccata d’aria dalla
preoccupazione sua, dei suoi amici… e di L.
Che era
appena sguisciato nella cucina, riflettendosi nel vetro della finestra.
«Spero
sia buono…»
Sophie
inarcò le sopracciglia, voltandosi a guardarlo. «Lo hai fatto tu?» chiese,
alzando la tazza.
Il
detective incrociò brevemente il suo sguardo, prima di guardare fuori dalla
finestra. E verso la caraffa. E sulle decorazioni floreali del muro.
«Ah…
pensavo lo facesse Watari» ridacchiò la strega, «e comunque, è buono! Non
quanto il mio, ma…»
«Uhmmm…
vedremo.»
Sophie
sorrise, cogliendo il sentore di sfida nelle parole del ragazzo. «Grazie,
comunque, mi stai salvando da numerose crisi d’astinenza»
«Ne
bevo anche io in quantità, ho immaginato che potesse tornare utile farne in
più» si schernì L, con una scrollata di spalle.
Calò il
silenzio, mentre lui si avvicinava di qualche passo e lo sguardo di Sophie
tornava fisso nel vuoto, con un sospiro involontario.
«Non
dovresti essere preoccupata. Kira pensa tu sia morta».
Sophie
tirò un angolo della bocca «Per questo non posso uscire?»
«Kira
conosce la tua faccia»
«Lo so,
lo so…» liquidò il tono contrariato del mago – o meglio, la leggera flessione
che assumeva quando doveva esporre qualcosa di talmente palese da infastidirlo.
Certo che Sophie sapeva quale fosse il problema, sapeva quanto fosse
delicata la sua situazione.
Per
questo non era riuscita a impedirsi di avere un po’ di timore, in quei giorni.
Non era riuscita a non pensare che sarebbe potuta cadere a terra, morta, in
qualsiasi momento; non era riuscita a non pensare che, se anche si fosse
addormentata, forse non ci sarebbe stato alcun risveglio.
Era improbabile,
sì, ma non si riscuoteva quella sensazione d’incertezza di dosso.
«Watari
ti ha consegnato la lettera del signor Potter?» chiese L, appoggiandosi
anch’egli alla penisola.
«Oh, non
lo chiamare signor Potter»
«Si
chiama così»
«Ok, signor
Ryuzaki» sbuffò la strega, e forse la bocca di L ebbe un leggero fremito.
«Comunque l’ho letta, la lettera… diciamo che dodici pagine sulla
ristrutturazione della Tana non sono servite a nascondere il panico»
ridacchiò, pensando alla pergamena bianca che la aspettava sulla scrivania:
cosa avrebbe dovuto rispondere? Come poteva tranquillizzare i suoi amici,
quando lei stessa era un fascio di nervi?
E si
sentiva una stupida, diamine, detestava quei momenti di paura immotivata
che la coglievano. Nei suoi anni da Auror, aveva forse dimostrato fin troppo
spesso uno sprezzo patologico del pericolo, ma ora niente la distraeva da
quelle lunghissime ore passate come in attesa che Kira finisse il suo lavoro.
D’un
tratto, un tocco gelido sulla spalla la strappò dai suoi cupi pensieri.
Sophie
alzò lo sguardo, stupita, osservando le affusolate dita di L sulla sua pelle.
Le dita di L. Le dita della mano di L. L il super detective con una
considerevole repulsione per il contatto umano. L che, per quel che ne sapeva,
viveva in qualche eremo desolato in cima a una montagna con la sola compagnia
del suo maggiordomo slash qualsiasi-cosa-fosse-Watari. L, con cui stava camminando
sulle uova principalmente da quando lo aveva inavvertitamente toccato. E quella
era solo una spintarella amichevole, un buffetto sulla spalla, perso nelle
pieghe di una delle sue magliette troppo larghe. Quello invece era un
contatto prolungato, un tocco che sapeva di… conforto, e vicinanza, ed empatia.
La
strega era cosciente di starsi comportando in maniera leggermente psicotica ma…
le sembrava di non essere mai stata così consapevole di quei pochi centimetri
di pelle.
«Non ti
succederà niente».
A quel
punto, incrociò finalmente lo sguardo del ragazzo, privo di quella durezza,
quella spigolosa impassibilità di sempre. Il cuore di Sophie accelerò e
inciampò su sé stesso, mentre decifrava quelle parole rassicuranti: stava
cercando di dirle che non avrebbe dovuto preoccuparsi di Kira? Lui, il re
dell’oggettività?
La
giovane batté le palpebre.
Parlare
in quel modo, come se potesse avere un qualche reale tipo di controllo su
quella situazione, come se ne avesse avuto sulla vita di quegli agenti, era
assurdo. Nessuno più di lui se ne sarebbe dovuto rendere conto. Nessuno più di lei.
Ma
Sophie, in qualche modo, ci credeva. Gli credeva.
Come
credeva di doversi distrarre al più presto dall’impulso di avvicinarsi a quei
morbidi occhi grigi e a quelle dita gelide.
«Dovresti
vestirti più pesante. Davvero.»
Qualche
ora più tardi Watari, rientrato da alcune commissioni, aveva attraversato il
salotto a passo spedito. Dopo qualche secondo, era tornato però sui suoi passi.
Aveva
battuto le palpebre un paio di volte, sinceramente sbigottito. «Ryuzaki… è un
maglione della signorina Sophie, quello?»
L non
si era smosso di un millimetro ma, se anche si fosse irrigidito, lo spesso
indumento di lana rossa avrebbe mascherato ogni movimento. «Sto cercando di
guadagnare la sua fiducia, Watari»
Al
maggiordomo si sollevò involontariamente un angolo della bocca.
«Certamente,
Ryuzaki, certamente».
***
31 dicembre 2003
La
mattina dell’ultimo giorno non andò meglio delle precedenti, e Sophie dormì una
manciata scarsa di ore. Rassegnata, alle prime luci dell’alba era già china sul
suo fedele libro di trasfigurazione, sospirando pesantemente.
Oggettivamente,
diventare Animagus[1] non
era facile, né bello.
No, non
le era piaciuto tenere in bocca per un mese una stramaledetta foglia di
Mandragola, per di più sforzandosi di non venire scoperta dai suoi amici
ficcanaso, e anche reperire gli altri ingredienti per la pozione era stato un
calvario: tra sfibranti e spesso inconcludenti ricerche nei bassifondi della
comunità magica e infinite ore di ricerche su tomi quasi illeggibili, la strega
aveva messo a durissima prova la sua pazienza. E le sue diottrie.
Più di
una volta si era chiesta se il gioco valesse la candela, e più di una volta
aveva desiderato di poter chiedere aiuto all’unica Animaga che potesse reputare
sua amica, la professoressa McGranitt. Purtroppo, non v’era nessuno di meno
indicato per essere coinvolto nei suoi piani, calcolando che la rossa non aveva
alcuna intenzione di registrarsi presso il Ministero della Magia.
Se
Hermione lo avesse saputo, l’avrebbe affatturata. Se la McGranitt l’avesse
saputo, l’avrebbe uccisa. Con lo sguardo.
Vero è
che, a un certo qual punto del processo, era alquanto sicura di doversi servire
di una tempesta di fulmini, per cui non è che il rischio di morire fosse tanto
più basso.
Stava
appunto gemendo lamentosamente sopra l’ennesimo paragrafo inutile e
indecifrabile, quando un leggero scricchiolio attirò la sua attenzione. L stava
aprendo la porta della sua stanza, preceduto da una tazza fumante che galleggiò
allegramente verso di lei.
La
prese fra le mani, sorpresa, prima di venire investita dalle note familiari e
intense del caffè preparato dal detective. «Ryuzaki, grazie! Come-»
«Filtra
luce da sotto la tua porta da almeno mezz’ora, e negli ultimi quindici minuti
continuavi a sbuffare e sbadigliare» spiegò con la massima naturalezza il
ragazzo, appoggiandosi allo stipite di mogano con una spalla. «Ho pensato ti
servisse del caffè».
La
rossa sorrise, girandosi appena per coprire il libro che stava studiando
poc’anzi.
Ciononostante,
lo sguardo penetrante di lui parve concentrarsi proprio su quel punto alle sue
spalle.
Il
sorriso della strega sfumò appena, mentre si affrettava a bere un sorso di
caffè. L’ha capito pensò, atterrita. L aveva capito che cosa volesse
fare, ergo il primo detective al mondo l’avrebbe spedita personalmente in
carcere. E lei probabilmente lo avrebbe pure ringraziato, da brava sotton-
«Quelli
li mangi?» Sophie batté un paio di volte le palpebre, confusa, poi vide che il
detective accennava al pacchetto di biscotti poggiato vicino a lei, sul
copriletto damascato. Scosse la testa, rimanendo a osservare L
mentre Appellava il sacchetto, senza muoversi dalla soglia della stanza.
Soglia che, tra parentesi, occupava quasi interamente in altezza, pur senza
raddrizzarsi.
Non che
fosse rilevante.
Perché
non lo era.
Affatto.
Non sapeva
neanche perché avesse notato un dettaglio tanto futile.
Aveva
sempre avuto le spalle così larghe o quello specifico magliettone bianco era
più ampio degli altri?
«Credo
che Siler stia cercando di entrare».
Sophie
si affrettò a scendere dal letto, ingarbugliandosi in una vestaglia, poi nel
filo di un paio di auricolari abbandonati, inciampando in una scarpa e
atterrando infine a un centimetro dal vetro. Paonazza, rimase immobile per
qualche secondo, maledicendosi silenziosamente. Poi aprì la finestra al
barbagianni, che si fiondò dentro con uno stridio scocciato.
«Lo so,
lo so…»
Si
passò una mano sul volto, tornando a guardare il detective. Anzi, malgrado
l’imbarazzo, lo guardò alzando leggermente il mento, in segno di sfida.
L colse
la palla al balzo.
«Potrei
chiederti cosa stessi studiando.»
«Potrei
farti notare che le attività del Quartier Generale sono momentaneamente
sospese, il che mi libera dall’obbligo di risponderti»
«Significherebbe
che tu stia nascondendo qualcosa»
«Tutti
nascondiamo qualcosa, Ryuzaki» sottolineò la strega, inarcando le
sopracciglia e tirando la bocca in un mezzo sorriso.
Lui
imitò il suo sorrisetto. «Per esempio, Sophie?»
Lei
parve pensarci, pensarci davvero, con la fronte corrucciata e lo sguardo fisso.
«Vuoi mostrarti
ad altri detective…» iniziò la ragazza, tentennando mentre lo studiava da sotto
le lunghe ciglia, ciocche di capelli rossi a pioverle negli occhi. Il detective
avvertì il netto bisogno di spostarle i capelli dal volto, ma si limitò a farle
cenno di continuare con una mano affusolata.
«Lo
trovo quantomeno sconsiderato da parte tua, Ryuzaki» ammise allora lei,
incrociando le braccia.
L
inarcò le sopracciglia. «Non ti fidi dei tuoi colleghi giapponesi?»
Lei
roteò gli occhi. «Hai detto tu che questo, tutto questo, è parte dei
piani di Kira, perciò perché mostrarti proprio ora? Non è forse il momento
migliore per sferrare un attacco diretto?»
«Il
fatto che sia perfettamente prevedibile lo rende un piano molto poco
realisticamente attuabile agli occhi di Kira».
A quel
punto, Sophie sembrò davvero alterarsi… anzi, no, imbronciarsi, si
corresse L: la fronte aggrottata, il capo inclinato in avanti per guardarlo di
traverso, persino un lieve sbuffo che le aveva gonfiato le guance in modo
comico.
«Ryuzaki,
quando hai finito di trattarmi come una stupida per testare la mia risoluzione
e capacità di contraddirti, vorrei parlare con il detective di fama mondiale
per cui ho mollato baracca e burattini e ho traslocato in Giappone.»
L si
passò il pollice sulle labbra con aria pensosa. «Sei venuta in Giappone solo
per me... dovrei essere lusingato?»
La
ragazza arrossì, riuscendo appena a mantenere il cipiglio di poco prima. «Hai capito
cosa intendo»
«Sarei
più sicuro se ti spiegassi meglio» la stuzzicò ulteriormente lui,
un’impalpabile traccia di divertimento in volto. Sophie però parve aver
raggiunto il limite, perché gli si parò di fronte in qualche lungo passo: L,
suo malgrado, dovette trattenersi dall’arretrare. O dall’avvicinarsi, non ne
era sicuro.
«E va
bene, te lo spiego io allora» sbottò la rossa, iniziando a elencare sulla punta
delle dita, «tutti gli Auror chiamati a collaborare risiedono in case sicure
sparse per la città, tranne me. Nessuno di loro conosce la tua effettiva
collocazione o identità, tranne me. Nessuno di loro entra nemmeno in contatto
diretto con te, tranne me». Sophie calcò sulle ultime due parole,
lasciando cadere le braccia e lo sguardo verso il basso. Il detective la
osservò torcersi le dita inanellate all’altezza dei fianchi, movimenti nervosi
con cui si pressava le unghie nella pelle. Quando tornò a incrociare il suo
sguardo, un brivido caldo-freddo gli sfiorò la schiena, come un velo d’acqua.
Il
volto di Sophie era un libro aperto, in quel momento, che portava scritto in
ogni muscolo contratto il senso di colpa. Era desolata, confusa. L avrebbe
voluto che non lo fosse.
«Tutti
sono morti, tranne me».
Entrambi
lasciarono che quella semplice, ma pesante constatazione calasse tra loro.
Poi la
ragazza prese un respiro profondo, gli occhi nuovamente scevri di ogni
esitazione, l’espressione nuovamente quella tagliente di una detective.
«Ryuzaki, o tu sospetti di me fin dall’inizio, oppure sai qualcosa che io non
so».
Quella
non era una domanda, né un’accusa. Era un’affermazione nuda di ogni sottotono,
di ogni vena di risentimento, o di uno di quei significati tra le righe che L
era tanto bravo a scovare.
Quella
frase era quasi gentile, nel suo intento, una quieta affermazione che attendeva
la sua reazione; una voce bassa e occhi un po’ stanchi, erano quelli di Sophie,
tanto che L non si sarebbe sorpreso se la rossa avesse coperto lo spazio che li
separava con una mano poggiata sul suo braccio, come a voler confortare lui,
rassicurarlo che non si sarebbe arresa, con o senza spiegazioni.
Sophie
però non si mosse.
L
sapeva che quella ragazza avrebbe voluto solo una cosa: sincerità. La sua bocca
sottile si piegò verso il basso, per una frazione infinitesimale di secondo.
«O forse,
ho già chiarito i miei sospetti»
«Come?»
la compostezza della strega si turbò come la superficie di uno specchio
d’acqua, increspandosi di confusione.
«Quando
sei stata reclutata, come potrai immaginare, è stato svolto un rapido ma
approfondito controllo su di te. Mi è giunta voce di un… incidente,
avvenuto durante la cattura di un Mangiamorte». La rossa sbiancò
improvvisamente.
«Ora,
vedi, è naturale che la tua immediata risposta alla richiesta di rinforzi sia
stata, sebbene ammirevole, anche insolita. Sospetta, una volta uniti i
pezzi.» L lasciò che le sue parole sortissero l’effetto desiderato.
Era
questo che faceva, muoveva le informazioni come pezzi di una scacchiera,
lasciando che chi aveva di fronte finisse esattamente dove lo voleva:
era un’arte sottile, che non mancava di lasciargli una certa soddisfazione.
Eppure,
per un brevissimo attimo, il volto pallido di Sophie e l’immobilità dei suoi
occhi gli diedero l’amaro in bocca, gli fecero desiderare di rimangiarsi la
mossa fatta. Per un brevissimo attimo, si sentì inesorabilmente crudele, cosa
che sapeva di essere, ma che mai lo disturbava.
Fu solo
un attimo, poi la strega alzò nuovamente il mento.
«Quindi?
Come avresti fugato i tuoi sospetti?» chiese, con tangibile scetticismo a
condirle la voce.
«Dimmelo
tu. Come posso stabilire se una persona sia Kira o meno?»
Sophie
lo squadrò, ma lui sembrava improvvisamente occupato a salutare Siler, posatosi
sul trespolo accanto alla porta. La lasciò riflettere, in silenzio, e non ci
vollero più di una manciata di secondi.
«… Mi
hai fatto questa stessa domanda quando ci siamo incontrati»
L la
guardò di sottecchi.
«E…»
«Ti ho risposto
che avrei parlato di cose che solo Kira può sapere?» cercò di ricordare la
rossa. «Ed è questo che ti ha convinto?»
Il
detective continuò tranquillamente ad accarezzare il soffice piumaggio del
barbagianni. «No, questo ha aumentato i miei sospetti»
La
strega lo fulminò con un’occhiataccia, intimandogli silenziosamente di
spiegarsi.
«Quella
parte della conversazione mi ha solo dimostrato che potresti avere le
capacità di ragionamento necessarie per essere o collaborare con Kira…»
«… Ma
la parte in cui ti sei messo a darmi della moralista ti ha convinto?» tentò
nuovamente la rossa, la fronte corrucciata sopra lo sguardo stanco.
L,
però, si strinse nelle spalle. «Potevi star recitando… ma le numerose
conversazioni avute assieme hanno ridotto drasticamente la probabilità che
fosse così».
Con la
coda dell’occhio, vide la strega irrigidirsi. «… Certamente».
Dopo
qualche secondo, la strega aggiunse: «Ero così minacciosa, Ryuzaki?» le sue
labbra si piegarono in un sorrisetto che non aveva niente di allegro, «Un caso
così urgente da confrontare un possibile sostenitore di Kira senza nemmeno
conoscere la reale portata dei suoi poteri? Pensavo non ti piacesse l’azione
diretta sul campo».
Ora la
strega lo fissava dritto negli occhi, e L non aveva bisogno di chissà quali
capacità deduttive per sapere di non aver messo a tacere i dubbi della strega…
ma che sarebbe rimasta comunque.
«Forse
ti sottovaluti, Sophie»
«… Già,
forse».
Lui l’aveva sottovalutata, questo era palese. L aveva pensato che
l’emotività della ragazza avesse ancora la meglio sulle sue capacità logiche e
razionali, ma quella conversazione e i piccoli test con cui la punzecchiava da
settimane rendevano evidente quanto potesse essere tagliente l’acume di Sophie.
Mentre
tornava nel salotto principale, il detective si ritrovò a piegare le labbra in
un sorrisetto soddisfatto: l’irritazione per essere stato abilmente inquisito
dalla strega era pari solo all’intrigante sensazione che l’Auror stesse
gradualmente mostrando i suoi veri colori. In particolare, Sophie stava
dimostrando di sapergli tenere testa, e questo era davvero qualcosa di
inaspettato.
Da un
lato, L traeva un sottile piacere nell’incontrare variabili che sfuggissero
alla sua inesorabile capacità di analisi e previsione del mondo che lo circondava.
Dall’altro, quello non era un momento in cui poteva permettersi di perdere il
controllo della situazione, né poteva lasciare che la strega cogliesse troppi
segnali d’allarme e lo tagliasse fuori.
Il
detective non aveva mentito, non del tutto, e se la ragazza non poteva essere
Kira per ovvie ragioni, le conversazioni con lei avevano realmente confermato
che non potesse essere nemmeno una sua alleata. Allo stesso tempo, Sophie
avrebbe probabilmente smesso di parlargli, se si fosse sentita usata in un qualche
modo.
Questo,
L non poteva permetterlo.
Per il
caso.
E
perché, molto marginalmente, forse gli sarebbe anche dispiaciuto.
LUMOS
Quindi.
La partita di scacchi continua.
Il disagio regna indisturbato.
I capitoli sono pesudo-pronti fino al
quattordici/quindici e NON VEDO L’ORA che li leggiate😊
Plus, sono un po’ nervosa per questo capitolo
perché è particolarmente fermo, I hope u like it ;3
Grazie mille ancora per le recensioni, vi abbraccio
virtualmente TuT
NOX
[1] Gli Animaghi sono esseri umani che scelgono di
diventare animali: è un processo complesso, molto raro e pericoloso
(motivo per cui è obbligatorio per legge registrarsi al Ministero della Magia).
Fanfact: alla scuola di magia Uagadou è invece una materia di studio molto
comune.
Il saluto parve cadere nel vuoto, mentre
l’uomo scandagliava la stanza con la fronte aggrottata.
«Solo
cinque, eh? No, anzi…» fece una pausa, alzando il
mento con fare determinato. «Significa che ci sono ben cinque uomini
disposti a rischiare la vita per combattere il crimine.
«Ma,
a parte ciò, non so proprio come faremo visto che, me compreso, non siamo che
in sei» aggiunse il Sovrintendente, andando a sedere
alla sua scrivania.
«Non
dica così» intervenne un agente dall’aria giovane,
sorridendo. «Contando L siamo in sette. E con Watari fa otto, no?»
«… Se
il vostro senso della giustizia è tale, non posso che avere fiducia in voi.»
«U-un
momento… L avrà anche fiducia in noi, ma siamo noi che non ci fidiamo di lui!» sbottò
un agente dai folti capelli ricci, voltandosi verso la videocamera del
computer. Dopo qualche secondo di silenzio, si spiegò in tono più pacato, quasi
a disagio: «L, noi abbiamo deciso di catturare Kira a tutti i costi e
dovresti sapere che rischio comporta, eppure non fai che darci ordini, senza
mai mostrarti in volto»
«Noi
vogliamo dare la caccia a Kira, ma come possiamo fare squadra con te?» intervenne un collega dal volto spigoloso e corti capelli lisci. «E
non siamo certo gli unici a nutrire dei dubbi sul tuo conto! Anche l’opinione
pubblica inizia a voltarti le spalle!»
«Sfido
io! Per colpa sua sono morti dodici Auror! Per non parlare di quella scomparsa,
di cui ci ha ordinato di annunciare la morte anche se non ne abbiamo mai
trovato il cadavere! Cosa vuoi che pensi la gente?!»
Sophie,
rannicchiata sulla poltrona di L con un libro in grembo, si sentì chiamata in
causa. Corrucciò la fronte e fece per parlare, ma il detective alzò una mano
pallida, senza voltarsi a guardarla.
Lei si trattenne,
continuando ad ascoltare il Sovrintendente confermare i dubbi dei suoi
sottoposti con tutto il garbo e il rispetto possibili, per poi cercare di
tornare alla sua lettura, imbronciata. Una manciata di secondi dopo, però, non
riuscì a non guardare L con gli occhi strabuzzati dopo che gli agenti
giapponesi insinuarono che lui e Kira fossero la stessa persona.
Il
ragazzo le dava le spalle, seduto davanti al pc adagiato sul tappeto, ma lo
vide irrigidirsi appena sotto la maglietta bianca.
«Ascolta,
L» la voce dosata del Sovrintendente Soichiro Yagami si levò nuovamente, «se
intendi catturare Kira insieme a noi, perché non vieni qui al Quartier
Generale?»
«Giusto!
Se ci mostrassi chi sei e lavorassi al nostro fianco, allora anche noi potremmo
fidarci di te e collaborare!»
Sophie
fissò L, in attesa che si muovesse: cosa aspettava a dire che il suo piano era
di farli venire a lavorare con loro fin dall’inizio? Perché aveva omesso quell’importantissimo
dettaglio, anche ora che gli agenti erano rimasti così pochi? Era un altro
test?
«Come
ho detto poco fa, io ho fiducia in voi» affermò il detective, «Watari, procedi»
«Subito».
L prese
a digitare sulla tastiera, ma da quell’angolazione Sophie non riusciva a vedere
lo schermo. Si sporse in avanti, provò a raddrizzarsi, ma leggeva solo
brandelli di messaggio. Guardando il detective con aria circospetta, iniziò a
scivolare dalla poltrona al pavimento, per avvicinarsi a lui.
Inutilmente.
Stava
praticamente per ansimare sul collo di L, quando lui smise di digitare e ruotò
millimetricamente il capo all’indietro. «Ho dato loro un’ultima chance per
farsi indietro prima di incontrarmi».
Sophie
arretrò di botto finché non fu schiena contro la poltrona, mentre il detective
si voltava a guardarla con un sopracciglio alzato. Lei tossicchiò, guardando
altrove. «Sì, ehm, incontrarci, semmai»
L
replicò con un cenno di assenso, ma era evidente che fosse divertito
dall’averla colta per una volta con le mani nel sacco. «A questo
proposito, comunque, gradirei se lasciassi che sia io a spiegare agli agenti la
tua situazione, non voglio che sappiano più del dovuto». Sophie incrociò le
braccia, contrariata.
«So
parlare, eh»
«Questo
lo so» replicò L, prima di alzarsi e porgerle la mano. Lei, senza pensarci,
la prese e si fece aiutare.
«E cosa
staresti insinuando con questo, Ryuzaki?» ribatté, in un misto di sorpresa e
finta indignazione. Lo guardò con quella che avrebbe dovuto essere
un’espressione minacciosa, se fosse riuscita a trattenere il sorrisetto
all’angolo della bocca.
«Non
sto insinuandoniente, Sophie… sto candidamente affermando» le
rispose il detective, con quella che lei non avrebbe saputo definire altro che
una faccia da schiaffi.
«La
faccia tosta che ti ritrovi» sibilò, scuotendo il capo e sorridendo
apertamente.
«Mh
mh…»
Mentre
L la guardava negli occhi con un sorrisetto, Sophie realizzò improvvisamente di
essere in piedi di fronte a lui. Realizzò anche come fosse finita in
piedi di fronte a lui. Realizzò anche di avere la mano ancora in quella del
detective, un calore strano in quel contatto freddo e il cervello completamente
in tilt.
«B-beh,
sarà meglio che vada a preparare un po’ di caffè, ci aspetta una notte lunga»
si affrettò a dire la strega, sfilando la mano dalla presa del detective e
dandogli le spalle.
Si
fermò un momento a chiudere il libro abbandonato sulla poltrona. Poltrona che,
per inciso, aveva preso l’abitudine di occupare ogni volta che ne aveva
l’occasione… o, meglio ancora, quando voleva una piccola rivincita su L.
E dopo
la conversazione di quella mattina, Sophie aveva parecchio bisogno di
una rivincita.
Certo,
forse il ragazzo le aveva concesso una momentanea vittoria in quella partita a
scacchi di cose non dette, quando l’aveva lasciata ai suoi studi con un
sorrisetto sulle labbra. Lei, tuttavia, non era riuscita più a fare nulla per
il resto della giornata, tormentata da come fosse venuto a sapere di…
“Mi
è giunta voce di un… incidente, avvenuto durante la cattura di un Mangiamorte.”
Solo i
suoi amici lo sapevano, ed era certa che non avrebbero mai detto niente.
Inoltre, non era possibile che fossero entrati in contatto, anche indiretto,
con L…
D’un
tratto, le si accese una lampadina.
«Ryuzaki?»
«Sì?»
fece il detective, nuovamente impegnato a digitare sulla tastiera.
«… È
stato Robards? A dirtelo, intendo». Il ticchettare dei tasti si fermò per un
attimo, prima di riprendere indisturbato per una manciata di secondi. Dopodiché
il ragazzo chiuse il pc, voltandosi verso di lei.
«Pensi
che ti darò una conferma?» le chiese, atono.
Sophie
sbuffò. «No, in effetti può essere stato solo lui»
«Ne sei
sicura?» La domanda di L l’aveva presa in contropiede. La guardava con il capo
lievemente piegato di lato, i capelli che gli cadevano obliquamente sul volto e
sui grandi occhi spalancati. La sua espressione e la sua voce sembravano
denotare del sincero interesse, come se fosse confuso dalla sua affermazione.
Sophie
aggrottò la fronte e aprì la bocca per ribattere che sì, ne era sicura,
perché era assolutamente ovvio, era assolutamente scontato che-
Si
bloccò un attimo prima di prendere parola, richiudendo lentamente la bocca e
assottigliando lo sguardo.
Mi
sta fregando!
Se la
guerra fosse stata più clemente con Malocchio Moody, e se il guardingo, diciamo
pure paranoico Auror le avesse fatto da mentore, l’avrebbe sicuramente
strigliata un giorno sì e uno pure. Questo perché Sophie, della figura criptica
e di poche parole tipica degli Auror, aveva ben poco: tendeva, piuttosto, a
essere un libro aperto e di una sincerità disarmante… tranne su alcune cose.
L’incidente
di alcuni anni prima, il tremendo errore che aveva fatto e sepolto in un
passato non troppo lontano, era decisamente tra quelle cose.
«Ryuzaki,
se sapessi, non avresti bisogno di chiedere» disse infine, inarcando un sopracciglio.
Se il mago avesse conosciuto i dettagli, avrebbe saputo benissimo che gli unici
coinvolti erano i membri della sua squadra, i suoi amici più stretti, e
che quindi solo Robards avrebbe potuto sia saperne qualcosa sia averne
parlato con lui.
«E poi,
seriamente, la faccia da pesce lesso non attacca» aggiunse la strega, tentata
di tirare un cuscino in faccia al detective. Ogni traccia di innocente interesse
scivolò dal suo volto, sostituita da un leggero sorrisetto.
«No?»
«No,
l’hai bruciata quando ci siamo conosciuti» Sophie lo vide alzare le
sopracciglia in una muta domanda, e sbuffò. «Ok, senti, ti sei comportato come
un perfetto e freddissimo stronzo! Tutta la recita da
grandi-e-innocenti-occhi-scuri era da considerarsi scartata dopo i primi dieci
secondi di conversazione.»
L la
fissò per un momento.
Poi ridacchiò.
Era un
suono caldo, profondo, un po’ roco.
Sophie
voleva scomparire nel nulla e anche rimanere ad ascoltarlo per sempre.
«Ok,
cercherò di impegnarmi di più» decretò il giovane, un genuino sorriso ancora ad
aleggiare sulle labbra sottili.
Lei
deglutì, annuendo un paio di volte.
Poi scappò
in cucina, con tutta la dignità che potesse chiamare a sé.
Gli
agenti rimasti a indagare ora erano cinque in totale, e si erano cambiati le
divise tradizionali con dei comunissimi e impeccabili completi babbani,
accortezza suggerita da L ma in realtà molto comune nella Comunità Magica
giapponese.
Mentre
li attendeva in salotto, Sophie li udì presentarsi -Matsuda, Aizawa, Ukita,
Mogi, e ovviamente il Sovrintendente Yagami, e iniziare quasi subito a
perdersi in una serie di domande, obiezioni e mormorii concitati. La strega,
ormai abile nel navigare la piattezza della voce di L, riconobbe subito il tono
tediato delle sue risposte.
Tedio
che non migliorò quando Matsuda, il giovane ed esuberante agente che
aveva sentito incoraggiare i colleghi qualche ora prima, la vide comodamente
seduta in salotto.
«LEI
DOVREBBE ESSERE MORTA!» sbottò, indicandola con gli occhi strabuzzati.
Sophie
sbuffò nel tentativo di trattenere una risata, nascondendo il volto in una
mano.
Mooolto,
molto meno divertito pareva essere L, che aveva serrato le labbra in una
linea pericolosamentesottile. Onde evitare ulteriori incidenti
diplomatici, Sophie decise di contravvenire ai suoi ordini, affrettandosi a
spiegare le circostanze della sua morte sfiorata.
«No,
non sono morta, piacere» ridacchiò, vagamente a disagio sotto gli
sguardi sbigottiti degli agenti. «Ehm, Kira ha ucciso grazie a un documento
fornito dal Ministero americano, documento che riportava anche la mia
identità…»
«Sì,
ma-»
«Ma,
non era corretto. Semplicemente, Kira aveva il mio volto ma non il mio
nome… o meglio, pensiamo conosca il mio volto, per questo ho mantenuto
un profilo ancora più basso in questi giorni… non ho bisogno che Kira arrivi a
finire ciò che ha iniziato» spiegò la strega, stringendosi nelle spalle.
I colleghi
iniziarono ad annuire, scambiandosi qualche sguardo pensoso.
«Perciò
il nome sul fascicolo era errato…»
«Ed L
ci ha chiesto di comunicare la sua morte per poterla proteggere da Kira»
«Esattamente»
confermò Sophie, sorridente. L’entusiasmo dei colleghi, però, non pareva pronto
a scemare tanto in fretta.
«Che
sia stata una coincidenza? O che ci sia qualcosa sotto?» rifletté Aizawa.
«In
effetti, potrebbe essere che qualcuno abbia volutamente trasmesso le
informazioni sbagliate…» convenne Matsuda.
«Forse
dovremmo investigare…» la proposta di Ukita fu tranciata di netto dalla
profonda e gelida voce di L.
«Quanto
accaduto a Sophie è una questione già risolta. Le indagini di dovere sono state
già eseguite, perciò vi inviterei a concentrarvi sul caso. E chiamatemi
Ryuzaki, d’ora in avanti».
Nella
stanza calò un silenzio carico di disagio; Sophie stessa spiò il ragazzo con la
coda dell’occhio, confusa da quello scatto. Probabilmente, si disse, stava già
accusando il colpo di interagire con tante persone alla volta.
Del
resto anche Sophie era ormai disabituata ad altri che non fossero Watari o L stesso,
ma per lui doveva essere anche peggio: non solo il mostrarsi ad altri agenti
era, in fondo, una sconfitta, ma se cinque persone erano una miseria di fronte
a un’emergenza internazionale del calibro di Kira, per gli standard di L
dovevano essere una folla.
Folla
che, certamente non si aspettava ciò che aveva trovato in quella stanza
d’albergo: nello specifico, un ventenne con gravi problemi d’insonnia, una
capigliatura fuori controllo e una mano alzata a mo’ di pistola.
“Se
io fossi Kira, voi sareste già morti” aveva spiegato L, dopo che ogni
agente aveva mostrato la propria foto e fornito nome e cognome.
In
effetti, almeno il “BANG” iniziale avrebbe potuto risparmiarselo.
La
strega però l’aveva trovato estremamente divertente. E poi, forse era
meglio che L esasperasse i nuovi arrivati in piena libertà, di modo che si
abituassero in fretta al loro eccentrico superiore.
«Ehm, ok» fu Matsuda a spezzare il
silenzio, evidentemente incapace di stare zitto per più di cinque secondi.
«Scusa Ryuzaki, stavo pensando… se sappiamo che Kira ha bisogno dei volti e dei
nomi, non possiamo chiedere ai media di non pubblicare più tali informazioni
sui criminali? Questo ridurrebbe il numero delle vittime, no?».
L rivolse lo sguardo a metà verso di
lui. «Se lo facessimo, a rimetterci sarebbe la gente comune»
«La gente comune?»
«E perché?»
Sophie combatté l’istinto di portarsi
una mano agli occhi.
«Perché Kira è infantile, e non sopporta
di perdere» disse L. «A dire il vero anch’io sono infantile e detesto perdere.
Per questo lo so… anche Sophie ha avuto l’accortezza di farmelo notare».
La strega arrossì, mentre cinque paia
di occhi si posavano su di lei. «Tecnicamente, non l’ho negato»
bofonchiò, facendo ammorbidire appena il cipiglio del detective.
«Bene, posso dire la mia su questo
caso?» riprese parola lui. Tenendo il pollice premuto contro le labbra sottili,
come di consueto, iniziò a esporre la sua teoria riguardo agli sviluppi delle
indagini. «Kira agisce da solo e ha sottratto informazioni al precedente
Quartier Generale»
«Co… come fai a capire che agisce da
solo?».
«Aspetta, Aizawa. Prima seguiamo
tutto il suo ragionamento. Dopodiché, se ci saranno domande, rivedremo i
singoli passaggi» disse il sovrintendente Yagami, bloccando ulteriori
interventi. Sophie fissò l’uomo per qualche secondo, sentendo improvvisamente
la mancanza di Harry: nonostante la sua celeberrima impulsività, spesso era lui
a frenare l’irruenza della sua squadra, in momenti come quelli. La ragazza
scacciò quel pensiero, cercando di concentrarsi sulle parole di L.
«Per uccidere, ha bisogno di un volto
e di un nome. Entro certi limiti, può manipolare il tempo della morte, e anche
gli avvenimenti che immediatamente la precedono.
«Tenete a mente ciò che vi ho detto e
ascoltate attentamente quanto sto per dirvi» fra le sue dita apparve un
pennarello indelebile, con cui iniziò a scrivere sul tavolino da caffè. Sophie
sperò vivamente che il mobile non fosse costoso quanto sembrava. «Tra il 14 e
il 15 dicembre arrivano in Giappone tredici Auror. Il 19, Kira svolge dei test
su alcuni carcerati, allo scopo di provare a manipolare gli eventi precedenti
alla morte. Ciò significa che, nell’arco di quei cinque giorni, Kira si è
accorto della presenza degli agenti. Sentendosi minacciato, ha ritenuto
necessario fare dei test sui criminali, per provare fino a dove poteva
spingersi nel manipolare le azioni precedenti la morte. Questi esperimenti gli
serviranno a uccidere gli Auror, dei quali non conosce né il numero, né i
volti, né i nomi.
«Il 27 dicembre, infatti, si serve
dei risultati di tali test per ottenere il documento contenente i volti e i
nomi dei tredici Auror, riuscendo così a ucciderli.» Udendo quello scarno e
lineare resoconto, indice dell’agghiacciante semplicità con cui Kira aveva
fatto fuori i suoi colleghi, Sophie sentì un brivido lungo la schiena. A
disagio, si alzò per andare ad appoggiarsi alla finestra più vicina.
«Questa è la prova che aveva bisogno
di impedirci di comprendere chi fosse l’agente a cui apparteneva il file. Ma
ciò implica anche che era entrato in contatto con uno di loro.
«Tutti i cadaveri dei dodici agenti
sono stati rinvenuti nell’area di Tokyo. Per quanto ne sappiamo al momento, tra
il 19 e il 27 dicembre in tale area sono morte di arresto cardiaco ventitré
persone, tra ricercati e pregiudicati. L’obbiettivo di Kira è chiaramente
differente da prima.
«In parole povere, per uccidere gli
agenti, ha avuto bisogno di manipolare qualche criminale da poco conto. E ne ha
usati così tanti per non farci capire quali gli siano serviti veramente. In
realtà dubito che siano stati molti. Allo stesso modo, gli otto giorni
trascorsi dai test all’attuazione del piano gli sono serviti a nascondersi,
facendo sì che gli Auror indagassero anche su altra gente. Tuttavia possiamo
affermare senza ombra di dubbio che Kira era tra le persone sulle quali
indagavano.
«E così, Kira è costretto a fare i
salti mortali per scoprire il volto e i nomi di tutti i membri del gruppo
spedito qui; ma, per far sì che tutti posseggano quella pergamena, prima deve
farla avere a qualcuno. Grazie all’aiuto del Magico Congresso degli USA,
sappiamo anche l’ordine in cui gli agenti sono entrati in possesso del file.
Non mi è concesso mostrarli ad altri, ma stando al loro contenuto…» L fu interrotto
nuovamente.
«Fantastico! Con queste informazioni,
possiamo farcela pure da soli!»
«Per prima cosa, dobbiamo trovare i
punti in comune tra i ventitré morti per arresto cardiaco e gli Auror del
MACUSA, no?»
«Dividiamoci in due gruppi, e vediamo
se hanno lasciato qualche indizio».
“Beh, almeno non mancano
d’entusiasmo” pensò Sophie, osservando divertita L
che, con una nota assassina nello sguardo, si stava preparando l’ennesima tazza
di tè.
«Beh? Domande?»
«Io avrei una domanda, Ryuzaki»
intervenne il Sovrintendente. «Prima hai detto che detesti perdere… ma il fatto
di esserti mostrato a noi in volto non costituisce già una vittoria per Kira?»
«Esatto» rispose secco il detective,
impassibile. «Il fatto che abbia dovuto mostrare il mio volto, così come la morte
dei dodici Auror… rappresentano una sconfitta per me.
«Tuttavia…» riprese, grattandosi le
ginocchia, sotto gli occhi attenti di tutti i presenti, «… alla fine sarò io a
vincere… Anch’io sto rischiando la vita per la prima volta» Sophie lo fissò con
sguardo sospettoso, mentre vedeva la sua bocca incurvarsi in un sorriso
sottile. «Tutti noi che siamo radunati qui mettendo in gioco le nostre vite
dimostreremo che la giustizia trionfa sempre.»
Gli agenti dell’Ordine esplosero in
una sfilza di esclamazioni euforiche, mentre lei incrociava lo sguardo di L.
“Sul serio?” articolò silenziosamente, le sopracciglia inarcate verso l’alto e un
sorriso divertito sulle labbra.
Lui mantenne la faccia da pesce lesso
ma, in un attimo quasi impercettibile, la strega avrebbe giurato che le avesse
fatto l’occhiolino.
Sbuffò, incredula, tornando a
guardare fuori dalla finestra: in lontananza, dietro la neve sottile che
punteggiava la notte, i lampi colorati dei fuochi d’artificio illuminavano la
città. La strega sfiorò il vetro gelido, poggiandovi quasi la fronte… era il
primo Capodanno che passava da sola.
Poteva ricordarne parecchie di notti
passate a sparare fuochi d’artificio nel cortile della Tana, facendo strillare
un’apprensiva mamma Weasley. Oppure a Hogwarts, a ubriacarsi in Sala Comune e a
fare baccano finché la McGranitt non abbaiava di fare silenzio, perché non era
intenzionata a fare l’alba con loro. E poi… le notti trascorse giocando a
Monopoli e Spara Schiocco con la sua famiglia, con i suoi genitori…
Sophie trasalì al tocco gelido che le
sfiorò un polso.
«Scusa, non volevo spaventarti.
Sembravi molto… assorta».
Sophie batté le palpebre un paio di
volte, lieta di non sentire gli occhi umidi mentre L la fissava con sguardo
indagatore. «S-sì, sono solo un po’ stanca» disse in fretta, rimanendo
immobile, la mano di lui ancora a un soffio dalla sua. Prima, quando l’aveva aiutata
ad alzarsi, aveva notato quanto quelle mani affusolate fossero grandi rispetto
alle sue, le dita lunghe, nocche e tendini pronunciati, la stretta
insospettabilmente forte.
Non sapeva perché si fosse fissata su quel dettaglio.
Non era proprio un dettaglio
che dovesse interessarle, come fossero le mani di L.
Però, ecco, non aveva mai notato-“Ok, è ufficialmente una spirale.”
Sophie si trattenne fisicamente dallo schiaffarsi una mano in fronte.
«Mh, mh…» fece il detective, lasciando
cadere la questione.
Sophie si sentì vagamente
dispiaciuta, ma soppresse quel pensiero mentre, a braccia conserte, lo ascoltava
spiegarle che avrebbe parlato singolarmente con ogni membro del gruppo. Questo,
comprese subito la strega, per assicurarsi che nessuno di loro fosse Kira.
«Come vedi, non sono poi così sconsiderato
come direbbe qualcuno» aggiunse infine L, una sfumatura canzonatoria nel modo
in cui aveva sollevato le sopracciglia in un cenno.
Sophie, sorpresa, ridacchiò. «E va
bene, va bene, vai ora» gli diede una spintarella.
Stavolta, nessun dramma: lei non
perse il sorrisetto di scherno che le colorava le labbra, e lui sembrava
rilassato, divertito quasi.
Il detective fece per andarsene, ma
si fermò dopo qualche passo, gettandole uno sguardo da sopra una spalla. «Sai,
dovresti coprirti, fa freddo»
«Beh, qualcuno non mi ha ancora
restituito il mio maglione preferito…» sospirò la rossa, incrociando le braccia,
coperte dalle maniche ampie di una blusa sottile. «Non ne sai nulla?»
«Mh… no, ma conosco un ottimo
detective che potrebbe aiutarti».
Lei rise, scuotendo il capo. Si
ritrovò a fissarlo per un momento di troppo, mordendosi un labbro. «Buon anno
nuovo, Ryuzaki» lo disse a voce bassa, quasi un mormorio nel trafficare del
salotto.
La voce di L fu egualmente pacata
quando le rispose, e i suoi occhi grigi parevano aver perso ogni traccia di freddezza.
«Anche a te, Sophie».
Forse non era poi così sola, quel
Capodanno.
***
Al Ministero della Magia britannico, i
festeggiamenti erano ben lungi dall’iniziare.
Certo, gran parte degli uffici e
degli atrii erano adornati da un misto di agrifoglio, sfere natalizie e
scintillanti decorazioni dorate. L’ottavo livello, ovviamente, era il posto
dove più erano stati concentrati gli sforzi per dare un’aria festosa all’ambiente:
l’immenso Atrium, le sue pareti di legno scuro, la sua celeberrima fontana, i
camini della Metropolvere, l’ingresso visitatori e i cancelli dorati da cui si
accedeva agli uffici, tutto era stato tirato a lucido e agghindato di
tutto punto. Vi era addirittura un enorme “2003” di un viola intenso che
fluttuava nell’alto soffitto, pronto a diventare un “2004” allo scoccare
della mezzanotte, in un tripudio di miniaturizzati fuochi d’artificio.
Inoltre, sebbene gran parte del
personale sarebbe stato esentato dai turni di notte, ogni mago o strega sfoggiava
le vesti più sfarzose e i cappelli più splendidamente squisiti che potessero
essere indossati sul posto di lavoro. Persino il responsabile della sicurezza dell’Atriumindossava una veste da mago in velluto color smeraldo con ricami dorati, la
spilla d’argento del Ministero ben lucidata e un piccolo cappello a punta in pendant
con la veste sul capo.
Lui poi, come i pochi altri colleghi
poco fortunati che avrebbero dovuto passare il Capodanno nei confini stregati
del Ministero, si consolava tenendo in fresco una bottiglia di bollicine,
magicamente raffreddata nel cassetto della sua scrivania. Stava appunto controllando
che l’incantesimo reggesse con fare alquanto compiaciuto, quando un mago si
avvicinò discretamente alla sua scrivania.
Riemerse dal cassetto con aria diffidente,
dato che praticamente nessuno andava a far registrare la propria
bacchetta per entrare al Ministero l’ultimo dell’anno, ma il broncio
sparì rapidamente. «Paciock! Anche tu il turno di notte?» chiese speranzoso, ben
sapendo che un invito al piano degli Auror gli avrebbe garantito dei
festeggiamenti degni di essere definiti tali: non era un segreto che fossero
assolutamente il Dipartimento più impudente del Ministero, anche quando
non si trattava di duelli tra colleghi suscettibili.
Neville si portò una mano alla nuca ed
esibì un sorriso di scuse. «No Tod, mi dispiace, stavo giusto andando a casa»
«Oh» esalò la guardia, senza
nascondere la delusione.
«P-però so che Colin e Proudfoot restano!
E Robards piuttosto che uscire a festeggiare si farebbe evanescere le
braccia, quindi potresti fare un salto…»
«Oh!» esclamò Tod, raddrizzandosi
nuovamente nella sedia. «Ti posso aiutare?» aggiunse poi, colto dalla
spassionata urgenza di ricambiare il favore all’Auror.
«Effettivamente, volevo chiederti se…
sai, normalmente non dovrei coinvolgere qualcuno al di fuori del Quartier
Generale…» spiegò, tentennante, catturando l’immediato interesse di Tod, che si
sporse in avanti con fare cospiratorio.
«Puoi dirmi tutto Paciock, questa
bocca? Una tomba!» gli disse, picchiettandosi la faccia con la
bacchetta. Neville fece per fargli notare di essersi appena colorato i sottili
baffetti biondi di verde acido, ma preferì tacere.
«Ecco, le cose giù sono un disastro,
con tutta la faccenda di Kira…»
Il volto del mago s’incupì all’istante.
«Quel gran bastardo, non ho mai sentito qualcosa di così schifoso da
quando qui giravano i Mangiamorte!» sbottò adirato, e Neville sembrò studiarlo
per qualche secondo, prima di guardarsi in giro.
«Eh-ehm… già…» mormorò, pensoso.
Tod sembrò aggrottare ancor più la
fronte, i baffetti verdi esageratamente arricciati sotto al lungo naso. «Paciock,
mica… mica sarai uno di quelli lì, eh?» disse, grattandosi nervosamente
il capo sotto al cappello a punta.
Neville si schiarì la voce. «Quelli…
quelli lì?» ripeté, portandosi una mano allo stomaco con un’espressione di
leggero dolore.
«Massì, Paciock, quelli lì che…»
stavolta anche il controlla bacchette si fece guardingo, mentre un gruppetto di
maghi superava i cancelli dorati accanto alla sua scrivania per dirigersi verso
la Metropolvere, un allegro augurio di buon anno sulle labbra. «Uhm, quelli che
lo sostengono» mormorò poi, sicuro che nessuno fosse a portata d’orecchi
nella sempre agitata sala d'ingresso.
Neville prese un sospiro. «Tod, senti,
la cosa che ti dovevo chiedere… ho bisogno di sapere se sei disposto a darmi
una mano. Sei sempre in uno dei punti più affollati del Ministero, e
sicuramente sentirai un sacco di… discorsi…» L’Auror contraccambiò
distrattamente gli auguri di qualche collega del Terzo Livello, subito imitato
dalla guardia.
«Ci puoi scommettere, anche se non
quanto Eric, sai com’è Eric…» commentò Tod, roteando gli occhi al
pensiero del suo superiore. Quel vecchio bacucco con la barba sempre sfatta non
faceva che dormicchiare tutto il giorno, svegliandosi solo per lamentarsi di
lui e, soprattutto, spettegolare. Eric stava alla Sorveglianza da prima
che Tod nascesse, sospettava, e conosceva assolutamente ogni singolo
dipendente del Ministero: Tod aveva dovuto imparare a caro prezzo a non
raccontare gli affaracci suoi al vecchio mago.
Certo, il vantaggio era che quella
bocca larga funzionasse a doppio senso.
«Beh, appunto…» commentò allora l’Auror,
con l’accenno di un sorriso malgrado si tenesse ancora lo stomaco con una mano.
«Ohhh» fece allora la guardia,
premendosi il cappello sulla fronte mentre si curvava ancora più in avanti.
«Tod, ho bisogno che tu mi prometta
di non farne parola con nessuno…»
«Sulla tomba di mia zia!» sbottò la
guardia, attirando lo sguardo divertito di un paio di maghi del quinto livello.
«… Dovresti tendere l’orecchio… ecco,
per quelli lì.»
Tod sbarrò gli occhi. «Paciock… non
che non voglia farlo ma… è roba seria, lo sai? Perché lo chiedi a me?» chiese
il mago con voce incerta, non facendosi troppe illusioni su quanto in basso
fosse nella catena alimentare del Ministero.
L’Auror però non si perse in ulteriori
spiegazioni. «È un sì?»
La guardia tentennò per qualche
istante, poi annuì vigorosamente. «Grazie Tod, sono in debito… mi fido di te»
«Non ti deluderò Paciock… ohi, lo
vuoi un sorso di champagne?»
Quando Neville si infilò finalmente nella
Metropolvere, guardò il suo orologio da polso con un sospiro pesante: non
vedeva l’ora di farsi una doccia e cambiarsi per passare a prendere Hannah.
Iniziare a uscire con lei era la cosa
migliore che gli fosse successa quell’anno, forse da sempre, anzi
e, nonostante fosse un mago piuttosto ansioso per natura, sapeva che niente
sarebbe potuto andare storto quella sera. La semplice presenza della bionda
strega dalle guance sempre rosse avrebbe potuto spazzare via ogni cupo pensiero
dalla sua testa.
Tranne…
Si strofinò nervosamente all'altezza della bocca dello stomaco, al
pensiero di ciò che stava facendo: non era abituato a tenere segreti, non con i
suoi amici, nemmeno con i suoi colleghi, e sicuramente non con Hannah. Robards,
però, era stato perentorio.
Quando, una manciata di giorni prima,
lo aveva chiamato nel suo ufficio, aveva onestamente pensato di aver combinato
qualcosa. D’altronde, in quei giorni il Capo sembrava essere ancora più irascibile
del solito.
Sicuramente, non si aspettava di
vedersi affidata una delicata operazione di… spionaggio? Lo avrebbe potuto
definire così? Robards avrebbe sicuramente storto il naso, se avesse usato una
parola del genere a voce alta.
Così come aveva storto il naso alle
sue obiezioni.
«Tutto chiaro, Paciock?» gli aveva
chiesto, senza nemmeno guardarlo in faccia»
«Beh, sì Capo ma… posso chiederle
perché me?»
«Uhm?» aveva grugnito il mago,
alzando gli occhi piccoli e freddi su di lui.
«Perché sta assegnando questo compito
a me? Non sono esattamente uno dei più, err, qualificati, qui dentro?»
Robards aveva sfilato gli occhiali,
il che non era mai un buon segno, e aveva storto sì il naso, anche tanto.
«Paciock, ti stai lamentando perché ti sto dando un lavoro? Cosa vuoi che ti
assegni? La pulizia dei bagni?!»
«N-no Capo, ehm… Non intendevo…»
la voce di Neville si era spenta in un mormorio poco convinto.
Robards aveva assottigliato
ulteriormente lo sguardo. «Ascolta Paciock, usa la testa, questo è un lavoro di
discrezione ma non di infiltrazione, e mi caschi quel che rimane dei miei
capelli se c’è uno solo dei tuoi colleghi che possa fare un’indagine del genere
dentro a questo maledetto posto senza attirare attenzioni inutili! L’unica a
cui affiderei una cosa del genere-» Robards si era interrotto di botto, e il
suo cipiglio si era fatto ancora più cupo.
Neville non aveva bisogno di
essere un Legilimens per capire che stesse pensando a Sophie. Allora aveva
annuito. «D’accordo, Capo, se crede che sia la scelta migliore… farò del mio
meglio».
L’uomo lo aveva fissato ancora per
qualche secondo, poi lo aveva liquidato con un grugnito.
A Neville non restava che credere
nella scelta di Robards, e ed essere il più cauto possibile.
Il suo stomaco brontolò nervosamente,
sicuramente contrariato dal bicchiere di champagne.
Antiacido, avrebbe dovuto anche
iniziare a procurarsi una pozione antiacido.
LUMOS
Helooooo,
capitolo molto più lungo del previsto perché ho aggiunto un pezzo e mi sono
presa bene. LOL perché sono così autodistruttiva? Vabbè, riuscirò a tirare
tutte le fila, lo prometto.
Plus,
scusate la lentezza ma sto prendendo delle decisioni riguardanti la trama e non
voglio creare incongruenze o buchi (neri) di trama, quindi sopportatemi, in
cambio il prossimo capitolo lo pubblico in anticipo perché ve lo meritate,
ahahah
Plus,
oggi sono affettuosa e volevo dirvi che vi adoro immensamente per starmi
seguendo in questa avventura, quindi ecco, grazie a tutti :3
Un
abbraccione virtuale <3
P.S./disclaimer:
una parte dei dialoghi è ovviamente presa direttamente dal manga, tutto merito
del buon Ohba. O della buona Ohba. Avete capito.
Poco importava se i suoi genitori
non sarebbero dovuti essere a casa, poco importava che non la aspettassero, e
che sarebbe dovuta essere alla Tana coi Weasley.
In quella momentanea e ovattata
irrazionalità, corse lungo i viali innevati del suo quartiere, superando
rapidamente le case che una volta conosceva a memoria.
Le sembrò di scivolare, non in
modo maldestro e violento, ma dolcemente, finché non ebbe imboccato il
vialetto, salito le scale del portico, valicato la porta di casa.
… La porta di casa era aperta, no,
spalancata, appesa precariamente a uno solo dei cardini, semidistrutta
dall’interno. Il legno era sporco di sangue. Non uno schizzo, no, piuttosto di
macchie minuscole, che sembravano aprirsi in ampi ventagli sotto i suoi occhi.
Con il cuore che le martellava in
petto, Sophie entrò nella casa dov’era cresciuta, una fioca luce che la seguiva
malgrado non le servisse. Sapeva cosa avrebbe trovato, sapeva cosa la
aspettava, di quella consapevolezza distorta dei sogni che non riconosceva ma
che le faceva tremare le gambe mentre superava l’arcata del salotto.
«Finalmente sei tornata!» il
saluto di sua madre echeggiò come se arrivasse da lontano, prendendola quasi in
contropiede: i lunghi capelli biondo scuro, il volto bellissimo, dagli zigomi
pronunciati e gli eterei occhi grigi, tutto come ricordava. L’espressione di
rimprovero, quegli occhi assottigliati sotto le sopracciglia inarcate, era
mitigata da un sorrisetto nascente sulle labbra gentili.
Sophie si fece avanti timidamente,
di nuovo bambina nel suo corpo di donna, incassando la testa fra le spalle e
guardandola con un sorriso colpevole. «Ho fatto tardi?»
«Non dico che hai fatto tardi,
girino, ma ancora un po’ e finivo il nuovo libro» ridacchiò suo padre,
comparendole alle spalle e scompigliandole i capelli, rossi e indisciplinati
quanto i suoi.
«Papà!» Scacciò la mano del padre
e lui le fece l’occhiolino da dietro gli spessi occhiali squadrati, mentre si
avvicinava alla poltrona in cui era seduta la moglie. Poltrona che, notò ora
Sophie, era macchiata e squarciata, così come il resto della mobilia: tutto era
posizionato esattamente dove avrebbe dovuto ma… ogni superficie o imbottitura
era semidistrutta e macchiata da una sostanza ormai secca, marrone scuro.
«Dai, Sophie, è ora» la richiamò
Anne, improvvisamente seria.
«Di cosa, mamma?» le chiese la
figlia, confusa.
Guardò la madre esitare,
aggrottare le sopracciglia sottili. Qualcosa si spense, nel suo sguardo. «Ma
certo, mi sono sbagliata» ammise, il sorriso piegato da un fremito.
«Cosa… mamma, non capisco…»
mormorò Sophie, guardando suo padre.
Philip posò un bacio sul capo
della moglie, cercando di confortarla. Poi si voltò. «Vedi, la mamma si è
confusa, Sophie… tu non c’eri» spiegò con semplicità, ma il suo sorriso si era
fatto gelido e distante.
Il cuore di Sophie pareva battere
due volte più veloce del normale.
«Non… che cosa-» il fiato le si
mozzò in gola, mentre macchie di sangue iniziavano a fiorire sui vestiti dei
due, impregnandoli fino a scorrere sul pavimento di legno, macchiando le loro
pelli assieme a lividi e lacerazioni, sporcando le loro cornee.
Suo padre allungò un braccio per
accarezzarle il volto, ma l’arto era scomposto in un angolo disumano e lei si
fece indietro, sprofondando nel panico nel rendersi conto che c’era qualcuno dietro
di lei. Braccia ammantate di nero la bloccavano.
«No, è tutto sbagliato» farneticò
Sophie, divincolandosi, incapace di urlare mentre una mano guantata le copriva
la bocca, mentre chi la teneva iniziava a trascinarla via da quella stanza, via
da loro, dai suoi genitori trasfigurati da una violenza impietosa.
«Certo che è sbagliato, tesoro»
disse dolcemente Anne, sempre più lontana, sempre più sfigurata. «Tu non c’eri…
CI HAI ABBANDONATI»
2 gennaio 2004
Sophie si tirò a sedere di scatto,
annaspando in cerca d’aria.
Si mosse verso il comodino, buttando
a terra tutto ciò che vi era appoggiato alla ricerca della lampada. Appena
riuscì ad accendere la luce rimase immobile, abbagliata, ma non chiuse gli
occhi.
Rimase lì, a stringere il comodino
fra le dita, il respiro affannato e il cuore che le batteva violentemente in
petto. Quando sentì un rumore alle sue spalle si voltò di scatto, terrorizzata,
ma trovò solo Siler.
Con dita tremanti, la strega si passò
una mano fra i capelli umidi di sudore, prima di carezzare il muso
dell’animale. Continuò per qualche minuto mentre si calmava, riadattandosi alla
realtà, e ogni respiro completo rendeva il suo sguardo più vacuo, i suoi
movimenti più meccanici.
Un plic attutito le fece
abbassare lo sguardo sul copriletto, dove un cerchietto scuro si era appena
disegnato. E poi un altro, e poi un altro. Sophie registrò lentamente le
lacrime che scorrevano silenziosamente sul suo volto, fino a cadere dalla
mascella tremante.
Apatica, si pulì il volto e cercò con
lo sguardo il calendario dell’albergo, posizionato sul comodino opposto al suo.
Sorrise appena, un sorrisetto quasi folle nella sua amara sconsolatezza: come
ogni anno, gli incubi erano stati puntuali.
***
5 gennaio 2004
Ginny Weasley era certamente
l’amicizia più radicata e profonda di Sophie Winchester.
Draco Malfoy era sicuramente
l’amicizia più salda e incontrovertibile di Sophie Winchester.
Ginny Weasley e Draco Malfoy
non erano grandi amici. Checché Sophie continuasse a blaterare riguardo le loro
“palesi somiglianze”.
Ginny squadrò il biondo con aria
critica. Tzé, palesi. Il giorno in cui avesse mostrato palesi
somiglianze con quello snob platinato, avrebbe trovato il modo di portarlo
nella tomba con lei, perché sicuramente sarebbe stato coinvolto nella
trama malefica.
«Weasley.»
Certo, con gli anni aveva imparato ad
avere a che fare con l’ex-Serpeverde, e a rivalutare tutti i pregiudizi e le
stigma che vecchie ferite avevano lasciato. A ventidue anni compiuti, era
consapevole che Draco non fosse suo padre, che non lo potesse incolpare per
l’Horcrux che Lucius Malfoy le aveva rifilato quando aveva undici anni, e che
gli errori fatti in gioventù erano stati in parte forzati, e interamente pagati
a caro prezzo.
«… Weasley?»
Doveva anche ammettere che per
arrivare a quel punto ci erano voluti innanzitutto anni, perché guerra o
non guerra l’adolescenza era un pessimo momento per perdonare ex-bulli,
ex-puristi ed ex-Mangiamorte che ti avevano tormentato l’infanzia. In secondo
piano, Ginny era stata alquanto motivata dal fatto che Draco fosse
diventato, nell’ordine, amico di una delle sue migliori amiche, fidanzato
dell’altra, e collega del suo fidanzato e di suo fratello.
Sulle ultime, anzi, si era persino
trovata partecipe degli eventi.
«Weasley!»
Ciononostante, tenendo pur conto di
tutto quanto fosse successo, mutato, perdonato e superato, certe cose non
potevano cambiare.
La boria, ad esempio, con cui Draco
era capace di portare avanti anche il più piccolo, insignificante dei gesti,
era ancora lì, in bella vista. Così com’era ancora lì il repertorio di insulti
e nomignoli offensivi, scremato solo della componente più razzista. La totale,
assoluta incapacità di tenere per sé i suoi problemi e di non farne una scena
madre ogni volta, poi, era forse solo cresciuta negli anni.
«WEASLEY!»
La rossa inarcò un sopracciglio.
«Cosa, Malfoy?»
«Mi fissi da mezz’ora come se fossi
cosparso di pus di Bubotubero! Se proprio non sai scendere a patti col fatto di
non avere buon gusto, apriti una qualsiasi idiota rivista per streghe e
fissa PotterSfiga, sarà stampato da qualche parte!»
Ginny si dondolò sulla sedia. «Quindi
ti brucia ancora che nell’inserto del Settimanale delle Streghe non abbiano
messo anche le tue foto?»
«Non ha alcun senso! Di meno
fotogenico del tuo stupido fidanzato c’è solo Kreacher[1]!»
«Eppure anche lui stava benissimo in
quel piccolo pezzo del Cavillo».
Draco lanciò le mani in aria con fare
esasperato e fece per uscire dal suo stesso cubicolo che, per decisioni
totalmente indipendenti da lui, fronteggiava quello di Harry. Ergo, se Ginny
doveva aspettare il fidanzato per pranzare assieme, la colluttazione verbale
con il biondo era inevitabile: Ginny stava collezionando tempi sempre migliori
sul farlo uscire dai gangheri.
«Aspetta!» sbottò però quel giorno,
in barba al suo nuovo record.
Draco la squadrò con sospetto, ancora
a un passo dall’uscire dal cubicolo. Lei sospirò.
«Stavo pensando a Sophie»
«… Ed è un mio problema perché?»
«Perché Hermione mi ha detto che sei
“insofferente come un Ippogrifo” e Harry che continua a trovarti a fissare la
scrivania di Sophie».
Se dal volto dell’Auror scemò ogni
traccia di diffidenza, con altrettanta rapidità un colorito roseo gli salì agli
zigomi affilati, e il suo sguardo si fece omicida. «Weasley, giuro su Salazar
che-»
«Sono preoccupata anche io» lo
interruppe noncurante la strega, passandosi assente una mano sullo stomaco. «So
che in questo periodo… beh, non deve essere facile essere là da sola».
Draco non rispose ma riprese posto
alla sua scrivania, ignorandola per qualche minuto. Alla fine, si strinse nelle
spalle. «No che non sarà facile. Ma quella cocciuta…»
La ragazza guardò il giovane Malfoy
fissare il muro di cartongesso come se volesse perforarlo con lo sguardo, ma
sapeva che stava solo fissando la fotografia del suo primo giorno nella
squadra: Sophie con un braccio stretto in una morsa letale attorno al collo del
biondo, il volto sorridente mente lui, rigido e a braccia conserte, alzava gli
occhi al cielo.
Ginny conosceva benissimo quella
foto, perché era la stessa che Sophie teneva nel suo piccolo e straripante
album fotografico: sempre gli stessi volti, negli anni, da Hogwarts all’ultimo
compleanno festeggiato assieme.
Ginny, Draco, Harry, Ron, Hermione. Pochi
i nomi di coloro che davvero avevano la fiducia di Sophie. Pochi i nomi di
coloro che ne conoscevano ogni sfaccettatura, ogni segreto accuratamente
custodito, ogni sfumatura che si nascondeva dietro al volto perennemente
sorridente della ragazza.
Pochi, pochissimi, coloro che
ricordavano ogni anno di abbracciarla una volta in più, perdonarle una svista
in più, lasciarle del tempo in più per fissare il vuoto, persa nei suoi
pensieri. Ogni anno, quel giorno, da quando i genitori di Sophie le erano stati
strappati via.
Ogni anno.
… Non quell’anno.
«A Sophie non sono mai piaciute le
cose facili» sancì infine Draco, interrompendo i cupi pensieri della strega.
«L’ha deciso lei di essere lì, e non ho la minima intenzione di compatirla…»
«Che vuol dire?! Ha fatto una scelta
coraggiosa e assolutamente grandiosa per il suo futuro, non si merita-»
«Non ho detto questo» il biondo interruppe
a denti stretti la feroce difesa di Ginny. mormorando poi qualcosa di simile a “Stramaledetti
Weasley”. «Quello che intendo, è che sta facendo qualcosa che la rende
orgogliosa di sé stessa, qualcosa che ha scelto consapevolmente… non è una totale
sconsiderata, sa affrontare un po’ di difficoltà… non le sono mai piaciute
le cose facili» ripeté infine, con aria decisa.
La rossa, ora più calma, fissava
l’Auror con un accenno di stupore in volto: per quanto fosse protettiva nei
confronti della sua amica, e per quanto i motivi per cui essere preoccupata non
facessero che moltiplicarsi, non poteva che avere fiducia in lei. Draco aveva
ragione, insomma… ma il suo ego non aveva assolutamente bisogno di sentirselo
dire.
«La piantate di fissarmi tu e
il tuo fidanzato?!» sbottò di colpo il biondo, ormai al limite della
sopportazione.
«È che a volte fatico a credere a
quanta lacca tu possa mettere sui capelli, Malfuretto- ciao amore» si annunciò
Harry, arrivando con il cappotto cosparso di neve piegato su un braccio.
Si chinò a posare un bacio sulle
ridenti labbra della fidanzata.
«Spine nel fianco» sibilò
Draco, appoggiandosi alla scrivania coi gomiti e prendendo a massaggiarsi le
tempie.
Harry e Ginny si scambiarono dei
sorrisi complici, mentre si avviavano verso la mensa. Un attimo prima di
andarsene, la rossa si riservò il diritto di dare dei colpetti di
incoraggiamento a una spalla del biondo.
Lui guardò i due di traverso, ma li
salutò con un cenno del capo.
Quando le loro voci si persero
definitivamente nel rumore di sottofondo del Dipartimento, Draco tornò a
guardare la foto in cui Sophie lo aveva costretto, tutti quegli anni prima.
E ripensò alla conversazione che
aveva origlia-casualmente udito una decina di giorni prima.
27 dicembre 2003
A sua difesa,
Draco si stava solo annoiando, mentre attendeva che le analisi sulla
bacchetta di un sospettato arrivassero. Si stava stiracchiando le gambe,
passeggiava avanti e indietro, riattivava la circolazione: non era certo
colpa sua se la pidocchiosa scrivania che gli avevano assegnato anni prima – e
che lui aveva poi sostituito con un pregiato pezzo di antiquariato - dava
praticamente le spalle all’ufficio di Robards.
Quindi
sì, forse aveva superato la linea che separava l’innocente e casuale prossimità
dal sospettoso appostarsi, ma gli era parso di sentire un rumore di
sottofondo provenire da quell’ufficio. Ufficio la cui porta, di norma, era perennemente Imperturbabile:
nessun rumore in entrata, nessun rumore in uscita.
Così,
il biondo aveva inarcato un sopracciglio e, badando che non vi fosse nessuno in
vista, si era avvicinato al vecchio uscio di legno.
Nessun
altro suono, però, stava giungendo al suo orecchio: né un respiro, né il
tramestio di un cassetto smosso, né un qualsiasi altro tipico movimento da
ufficio.
Draco
stava quindi per riprendere la sua noiosa attesa per i corridoi del Quartier
Generale, una smorfia di disappunto già pronta sulle labbra, quando udì un
crepitare improvviso, e il rumore di una punta metallica su una superficie di
pietra.
Il
biondo corrugò la fronte.
… Il
camino?
«Inizio
a detestare queste nostre conversazioni, Watari».
Le
sopracciglia del biondo scattarono verso l’alto, gli occhi grigi frugarono
un’ulteriore volta il corridoio. Dall’altra parte della porta, un silenzio
prolungato venne spezzato dal sospirare di Robards. «Che cosa vuole L, ora?»
«…
Posso ricordarle che è lei ad averci contattati? Ad aver dato inizio a questa
faccenda? Non starebbe parlando con me, altrimenti». La replica venne da una
voce distorta, quasi incomprensibile nel crepitare delle fiamme di, sì,
un camino acceso: Metropolvere, senza ombra di dubbio.
«Ironico, dato il perché vi ho
contattati» replicò seccamente la voce del Capo.
Draco era pressocché schiacciato
sullo stipite della porta, appena scostato perché la sua sagoma non fosse
visibile tramite lo spesso vetro giallastro della finestrella, e i suoi
pensieri correvano rapidamente: la versione ufficiale, era che Watari stesso
avesse preso i contatti con il Wizengamot, e tramite di esso col Ministero
britannico e americano.
Quindi, come poteva averlo contattato
per primo Robards? Si riferivano forse a qualcos’altro? A qualcosa che non
c’entrava con la richiesta di rinforzi di L?
Per altro, quello stesso giorno
avevano ricevuto notizia della morte degli Auror americani che erano arrivati
in Giappone: Robards li aveva convocati in ufficio non più di una manciata di
ore prima, sforzandosi di rassicurarli sull’incolumità di Sophie e finendo per
cacciarli a “fare il loro lavoro finché ne avevano uno!”. Quindi ora
cosa ci faceva a parlare di nuovo con Watari? Era ancora inerente a quel
disastro sfiorato?
«Che cosa succede?» chiese Robards,
prendendo nuovamente parola per primo. E di nuovo, Draco riconobbe una nota di
resa che raramente aveva sentito nella voce di quell’orgogliosissimo
Auror.
Prima che potesse udire la risposta,
Proudfoot e McLuhan si affacciarono alla fine del piccolo corridoio che
separava l’ufficio dal resto dei cubicoli, cianciando ad alta voce dell’ultima
partita del Puddlemore United.
Draco, stringendo i denti, si
appoggiò con indolenza al muro, ritraendosi dalla porta quel tanto che bastava
a non rendere sospetta la sua posizione.
«Oh, Malfoy! Hai mica visto Weasley?
Mi deve dieci falci!» sbottò allegramente Proudfoot, prendendo atto della sua
presenza con un’entusiasta alzata delle bianche sopracciglia.
Sempre entusiasta, questo stramaledetto pezzo da museo.
«No» rispose il biondo tra i denti.
«Oh, non lavora oggi?»
«Non lo so»
«Ma è nella tua squadra, non sai se-»
«Ho forse una stupida cicatrice in
fronte e degli stupidi capelli spettinati? No, perché non sono Potter, chiedete
a lui» lo interruppe Draco con un’occhiataccia, trattenendosi dall’alzare la
voce perché non filtrasse dalla porta del Capo. Porta che, più che chiaramente,
quel giorno non era Imperturbabile.
«Oh, lo sai com’è fatto… e poi è
fuori dall’ufficio di Robards, sarà in qualche guaio e starà aspettando una
strigliata» commentò McLuhan, sparendo col collega dentro al labirinto di
cubicoli.
«Fottuto mangiacarta» sibilò Draco,
controllando i dintorni prima di avvicinare nuovamente l’orecchio alla porta.
«… e va bene, va bene! Fate
come diavolo ritenete opportuno!» stava abbaiando Robards.
«Perfetto. Ci tengo a ricordarle che
L desidera sapere di ogni ulteriore sviluppo, e che Sophie non deve-»
«Avere nessun sospetto-non sono
stupido, Watari.»
Dopo qualche secondo, in cui la
tensione ebbe tutto il tempo di filtrare attraverso la porta e irrigidire la
schiena di Draco, Watari concluse: «Ci faremo risentire presto.»
Il rumore di fiamme si smorzò di
colpo.
«… Fortunato me» brontolò cupamente
Robards, prima che un acuto scricchiolare annunciasse che avesse preso posto
alla sua scrivania.
«Malfoy! Ho i risultati!»
Draco si voltò lentamente verso Ron e
la pergamena che stringeva in mano, il volto indecifrabile e la testa completamente
altrove. Per quel che rimaneva del turno, non prestò al collega la benché
minima attenzione.
Tornando al 5 gennaio 2004
«Qualcosa che non va, Malfoy?»
Draco alzò lentamente gli occhi su
Robards, senza dargli nemmeno per sbaglio la soddisfazione di vederlo
sobbalzare. «No, Capo» replicò atono, le sopracciglia bionde inarcate e il
volto teso nella migliore delle sue espressioni da Aristocratico decaduto, come
le definiva Hermione. Quando Hermione era gentile.
“Stramaledetto pezzo di snob” era la versione più irritata.
Sophie e Weasley piccola concordavano
entrambe su un più colorito “Firebolt su per il c-”
«Allora lavora, il Ministero
non ti paga per fissare il vuoto» lo rimbottò Robards, prima di proseguire
verso il suo ufficio in un basso borbottio ininterrotto.
Quando la vecchia porta
scricchiolante si fu richiusa alle sue spalle, il biondo smise di nascondere la
smorfia di disprezzo che gli premeva sulle labbra sottili.
Non gli era sfuggita la nota di
sospetto negli occhi di Robards, né il modo in cui si era accigliato. Quasi con
preoccupazione.
Cosa sta combinando?
D’altronde, la più brava a leggere il
volubile umore del Capo era sempre stata Sophie, l’unica idiota che
potesse seriamente prendere quell’insopportabile criticone scorbutico di
Robards come modello di riferimento.
La cosa più ridicola, però, non era
nemmeno che Robards avesse effettivamente preso sotto la sua ala quello sgorbio
di diciassettenne che aveva deciso di diventare Auror dopo il diploma.
No, l’ironia era che, da come stavano
convergendo i fatti, sembrasse essere proprio Robards quello che tramava alle
loro spalle, alle spalle di Sophie.
Draco schioccò la lingua e ruotò
sulla sedia, tornando a fronteggiare la parete di cartongesso che chiudeva la
sua scrivania. Davanti a lui, la solita foto.
Sospirò.
«Dannato sgorbio».
***
«Hai visto anche tu? Il plico…»
L stava per aprire bocca, quando
Sophie glielo chiese.
La guardò con la coda dell’occhio,
vagamente stranito che la ragazza avesse pressoché sussurrato, invece di
lanciarsi in esclamazioni rumorose. L’ennesimo comportamento bizzarro della
strega che, in quei giorni, era stata più silenziosa, discreta e cauta di
quanto lo fosse stata da quando l’aveva conosciuta.
Accantonò quel pensiero
momentaneamente, prima di scuotere il capo.
«Quale plico?»
«Quello che aveva prima di salire»
«Che cosa c’è?» chiese Matsuda,
spostando lo sguardo dal detective al televisore: nelle immagini in bianco e
nero di una videocamera di sicurezza, Raye Penber giaceva privo di vita sulla
banchina di un treno.
L rimase in silenzio un attimo più
del consueto, aspettandosi istintivamente che fosse Sophie a rispondere al suo
posto. Dopo averla vista abbassare lo sguardo, persa in un tè che stava
sorseggiando con scarso entusiasmo, capì però che sarebbe rimasta in silenzio.
Anche stavolta.
Non che fosse rilevante, non in quel
momento: la squadra si era procurata tutti i filmati di sicurezza che avessero
immortalato la morte degli Auror e, malgrado fossero relativi a sole tre
vittime, ora avevano decine di nastri da visionare. L era certo che, tra quelle
dodici morti, una lo avrebbe condotto da Kira, una sola.
E infatti.
Dopo aver gettato un’occhiata di
sbieco alla rossa, L chiese di riavvolgere la registrazione, spiegando quanto
avesse catturato la sua attenzione: Raye Penber era entrato nella stazione di
Shinjuko Ovest alle 15:11, alle 15:13 era salito sulla linea Yamanote, e alle
15:21 aveva ricevuto il file contenente le schede degli Auror presenti in
Giappone. Solo un’ora e mezza più tardi era sceso sulla banchina su cui, pochi
attimi dopo, sarebbe morto.
Giunti alla fine delle riprese, L
capì cosa intendesse Sophie. «Sia nell’immagine dei cancelli, che in quella in
cui sale a bordo, aveva con sé una specie di busta».
«Tra gli oggetti che aveva con sé non
è stato registrato niente che possa somigliare a una busta… c’era solo un pc
babbano, col file del MACUSA» confermò il Sovrintendente, dando una rapida
occhiata al rapporto della morte di Penber.
«Significa che l’ha lasciata sul
treno» commentò L.
«Significa che la busta serviva a
Kira» aggiunse Sophie, ancora una volta sottovoce.
Il detective incrociò il suo sguardo,
ragionando: il file richiesto da Penber e gli altri, era stato spedito via gufo
a solo quattro degli agenti, che lo avevano poi passato tramite il bizzarro
mezzo elettronico. L’utilizzo di un file digitale, babbano, il fatto che lo
stesso Penber e altri Auror si trovassero nel pieno di zone babbane, non faceva
che rendere difficoltosa quell’indagine. Normalmente, un mago avrebbe
utilizzato un gufo e avrebbe viaggiato smaterializzandosi, o via Metropolvere.
Chiaramente, Kira si era garantito
che le sue vittime fossero ritrovate, e doveva aver manipolato anche il modo in
cui si erano svolte le comunicazioni: non solo gli Auror erano morti in tempi
diversi, ma l’ordine con cui il file aveva raggiunto gli agenti non combaciava
con l’ordine delle morti.
Ma è qui l’errore.
A Kira servivano nomi e volti per
uccidere, perciò doveva aver per forza avvicinato un unico agente, per poi
confondere le acque manipolandone le azioni e, per esteso, quelle dei suoi
colleghi. Perciò, quell’agente doveva essere tra i primi ad aver ricevuto il
file, e Raye Penber era il secondo della lista.
Ciò significava che Penber doveva aver
incontrato Kira prima di entrare nella stazione… e, forse, anche dopo.
L riportò gli occhi sulle immagini,
studiando come il corpo di Raye fosse collassato verso l’entrata del treno:
l’uomo era uscito, poi si era voltato nell’attimo in cui era crollato a terra,
avvolto da un lampo di luce verde. Si era accorto di aver scordato la busta?
Il detective aggrottò lievemente le
sopracciglia.
No, era molto più probabile che… Kira
lo avesse chiamato.
… Infantile.
«Passatemi al setaccio tutti i video
di ogni stazione della linea Yamanote relativi al 27».
Dubitava che Kira si fosse fatto
cogliere in fallo dalle videocamere, era abbastanza intelligente da saperne
sfruttare gli angoli ciechi alla perfezione, ma se aveva commesso un passo
falso… avrebbero trovato il loro sospettato principale.
Poi, dieci minuti più tardi, arrivò
la lettera.
[1]
Per chi non lo conosca, cercate su google perché un’immagine vale più di mille
parole ;)
Sophie osservò L incupirsi mentre
leggeva la lettera che Ukita, dal Ministero, aveva inviato loro: secondo
l’agente, erano finalmente arrivate informazioni importanti.
«Watari, “Naomi Misora”» scandì il
detective, e l’uomo si connetté rapidamente a un database che, la strega ne era
sicura, doveva essere più consistente di quello dell’intera Confederazione
Internazionale dei Maghi.
Gli occhi neri di L si spalancarono
leggermente mentre scorreva con lo sguardo le informazioni trovate, e la rossa
prese un altro sorso di tè.
In cuor suo, Sophie si rendeva conto
di star osservando troppo e parlando troppo poco per essere sé stessa, ma il
leggero disagio nei confronti dei nuovi agenti e l’arrivo di quegli incubi
l’avevano scossa abbastanza da ignorare la cosa. Per un giorno, per
quell’anniversario, si disse, poteva concedersi un po’ di silenzio.
Peccato che L non sembrasse dello
stesso parere.
«Quando Raye Penber si è recato in
Giappone, la sua fidanzata era con lui. Stavano nello stesso hotel» iniziò a
spiegare, mentre la lettera nelle sue mani si consumava in un fuoco purpureo,
«dal giorno successivo alla morte di Penber, se ne è persa ogni traccia».
In quel momento, Sophie si ricordò
della foto che aveva raccolto da terra, in un pomeriggio di dicembre: la foto
di Raye Penber e di una bellissima ragazza dai lunghi capelli neri, entrambi in
costume, entrambi sorridenti e visibilmente felici mentre si stringevano
davanti all’obbiettivo.
La rossa storse la bocca e prese un
altro sorso di tè.
«Chiunque cadrebbe in disperazione
per la morte del proprio fidanzato… non si sarà mica…»
«Suicidata?!» terminò Aizawa per Matsuda,
lo sbigottimento scritto in volto, ma L respinse subito l’ipotesi, dando a
intendere di aver già lavorato con lei.
Nel frattempo, Sophie rifletteva col
naso affondato nella tazza di ceramica, fissando le foglie di tè sparse sul
fondo: sapeva che L in rari, rarissimi casi, si avvaleva della collaborazione
di maghi e streghe al servizio governativo- chi più di lei poteva
saperlo? No, non era quello a farla meditare. Piuttosto, lo era il fatto che il
ragazzo conoscesse abbastanza Naomi Misora da poter essere così certo circa la
sua analisi caratteriale… e rimanere comunque impassibile davanti alla sua
morte.
La strega si chiese distrattamente se
sarebbe successo così anche a lei, se un giorno L avrebbe liquidato la notizia
della sua dipartita con una serie di elucubrazioni su ciò che la sua morte avrebbe
implicato nel caso di turno.
Si ritrovò a studiare il profilo del
detective, ancora intento a parlare.
Quanto ci metterei a dimenticarti
di me?
Affondandosi le unghie nei palmi
delle mani, Sophie riportò testardamente l’attenzione alla sua tazza di tè.
«Ascoltatemi» concluse L, «indagheremo
soltanto su coloro che sono stati pedinati da Raye Penber prima del 19
dicembre, il giorno in cui Kira ha iniziato i test sui carcerati… è un numero
molto ristretto di persone.
«Tuttavia, se tra loro si nasconde
Kira, non possiamo permetterci di effettuare normali interrogatori, sarebbe
troppo pericoloso…»
Sophie lo ascoltò, quasi certa di
dove volesse andare a parare: raccogliere prove, senza spaventare o aizzare
Kira, utilizzare un approccio indiretto che li facesse arrivare con maggiore
certezza al risultato.
Ergo, qualcosa di spiacevole, che
agli agenti non sarebbe piaciuto per niente.
Soprattutto perché Sophie ricordava benissimo
su chi stesse indagando il collega.
«Chi sono le due persone sulle quali
indagava Penber?» chiese il Sovrintendente, teso, mentre Matsuda si affrettava
a recuperare delle pergamene da un mobile vicino all’ingresso.
Le parole di L, pesanti come una
sentenza, lo batterono sul tempo: «Il Direttore Generale Kitamura e il
Sovrintendente Yagami, più i loro familiari... Vi chiedo di lasciarmi
installare telecamere e microfoni nelle vostre case».
A quel punto protestarono, certo che
protestarono, tutti insieme e vivamente, mentre Sophie si massaggiava con
discrezione le tempie pulsanti. Devo tirarmi insieme, si disse
stancamente, mentre ascoltava solo a metà una discussione inutile: L non
avrebbe mai ammesso seriamente i suoi sospetti, e tantomeno avrebbe fatto
marcia indietro su quel piano.
«E sia! Ti lascerò piazzare quelle
microspie» sentenziò il Sovrintendente. Il suo volto era terreo, e gli occhi
spalancati e ricolmi di preoccupazione, ma l’uomo parlò con la massima dignità.
«Però… devi promettermi che non ometterai alcun punto, nemmeno il bagno!»
Sophie inarcò le sopracciglia, mentre
il resto degli agenti scatenava un putiferio ancora più acceso, che fece alzare
la voce persino al loro superiore. L, totalmente incapace di calmare la
situazione con il suo fare apatico, si limitò a ringraziare l’uomo, aggiungendo:
«Come misura di riguardo, saremo soltanto Yagami e io a occuparci dei suoi
familiari…»
«O magari» intervenne Sophie, attirando
lo sguardo sorpreso degli agenti, «i bagni li controllerò io.» Malgrado fosse
evidente la vena di stanchezza con cui aveva parlato la strega, il suo tono
sapeva poco di suggerimento e molto di affermazione.
Lo sguardo affilato di L su di lei era
perfettamente percepibile, anche senza voltarsi a guardarlo. «Non credo che
questa soluzione garantisca lo stesso livello di-»
«Credo» lo interruppe fermamente
l’Auror, «dall’alto della mia esperienza, di saper dire se succede
qualcosa di losco in bagno, Ryuzaki». Matsuda ridacchiò, beccandosi
un’occhiataccia da Aizawa. Anche Sophie, però, aveva un sorrisetto di sfida
disegnato sulle labbra.
«… Sì, immagino che tu ne sia in
grado» capitolò il detective, e Sophie si dovette trattenere dal ringraziarlo
con un’abbondante dose di sarcasmo. Non ne aveva le energie. Piuttosto, sorrise
in direzione del Sovrintendente.
«Bene. Dopotutto mi sembra il minimo,
data la sua disponibilità». Soichiro la guardò con occhi pieni di gratitudine e
la rossa, per la prima volta da qualche giorno, si sentì un po’ meno un
burattino senza vita.
Guardò quell’uomo,
immobile in un angolo della stanza, i pugni serrati e il volto abbassato.
Guardò i colleghi, che avevano ripreso a lavorare e parlare, ma sottovoce e
scambiandosi sguardi carichi di tensione. Guardò L, in piedi davanti alla
finestra, le mani affondate nelle tasche e lo sguardo lontano.
Guardò
e guardò, ma non vide nessuna squadra.
Si morse un labbro, stringendosi
nella coperta avvolta attorno alle spalle, poi si alzò.
Avrebbe solo voluto andare a dormire,
avrebbe solo voluto essere sicura di poter chiudere gli occhi e fare un sonno
senza sogni, da giorni questo era tutto quello che desiderava.
Però, in quel momento, si rese conto
che c’era qualcosa di più in
quella stanza oltre a una manciata di investigatori, diffidenti per natura e
per lo più estranei. C’era più di una branca di disperati che stavano
scommettendo il tutto per tutto. Poteva, perlomeno, esserci di più, per ognuno di loro, e anche per lei. Anche
se non era a Londra.
«Signore,
vorrei dirle che lei è un Auror di tutto rispetto, e che sono fiera di lavorare
con lei» disse Sophie con sincerità, i capelli rossi che le piovevano in volto
mentre si chinava davanti al Sovrintendente, in quella che sperò essere una
buona imitazione dei saluti che aveva visto fare ai colleghi.
L’uomo,
sorpreso, agitò le mani. «Oh, non è necessario ma... il sentimento è reciproco,
signorina Clarke, e la ringrazio per quanto si è offerta di fare» le disse
compito, piegando a sua volta il capo.
«Lei
non mi deve assolutamente ringraziare, come ho detto, è il minimo, inoltre…» la
ragazza tentennò. Con la coda dell’occhio, vide Aizawa spiarli in perfetto
silenzio, mentre Matsuda parlava a macchinetta nelle orecchie di uno stoico
Mogi.
Sospirò,
abbassando per un attimo lo sguardo con aria colpevole. «Senta, già che ci
siamo… le volevo parlare, riguardo tutta la faccenda dei pedinamenti, io… io mi
rendo conto che non abbiate motivi per avere chissà quale fiducia in me, ma
spero vivamente che possiate… che possiamo collaborare al meglio.»
Soichiro
Yagami, nonostante la tensione, parve sciogliersi abbastanza da esibire un
leggero sorriso. «Sophie, non posso negare di essere rimasto spiazzato dalla
notizia, ma comprendo le scelte di Ryuzaki… soprattutto, lei stava solo
facendo il suo lavoro.»
Sophie
batté le palpebre un paio di volte. «Quindi anche gli altri…?» chiese, indicando
gli altri agenti con un vago cenno del capo.
Il
sorriso sul volto dell’uomo si accentuò. «Sono ragazzi molto appassionati,
Sophie, e forse non sono abituati a lavorare con lei, ma non possono- non possiamo che nutrire stima per lei, è rimasta nonostante
ciò che accaduto agli altri Auror, così lontano da casa per giunta…» L’uomo la
guardò negli occhi, e Sophie vi lesse un sincero dispiacere… e una sincera gentilezza.
«Nessun risentimento, ora siamo una squadra».
Squadra.
Quella
parola le gonfiò il petto.
Dopotutto,
lei aveva sempre lavorato in squadra, sapeva quanto fosse fondamentale e non per dividersi il lavoro, o scambiarsi
sorrisi di circostanza sopra il tè. Merlino, se si fosse ridotto a quello,
allora qualsiasi investigatore avrebbe lavorato in solitaria come L.
No, la
squadra era molto più che ottimizzare i tempi: era discutere, ipotizzare,
consigliarsi, anche arrabbiarsi, e persino distruggere uffici, talvolta.
Soprattutto, era sostenersi, esserci gli uni per gli altri, gli uni dove non arrivavano gli altri.
E in
quel caso, quello stramaledetto caso… stavano mettendo in gioco le loro vite
ma, vedendo lo stato in cui era ridotto il Sovrintendente, non ci voleva molto
a intuire che quell’investigazione avrebbe potuto chiedere loro molto più della
vita.
Tutti
loro avrebbero avuto un immenso bisogno di essere una
squadra.
Un flebile
sorriso fiorì sulle labbra della strega. «Allora mi chiami Sophie,
Sovrintendente».
Lui,
sebbene con leggera sorpresa, annuì.
La
ragazza sorrise in modo più convinto, poi guardò il resto dei colleghi con aria
pensosa: Aizawa aveva smesso di fissarla, ma poteva ancora vedere quanto fosse
accigliato mentre impilava faldoni; la tensione era ancora palpabile nell’aria,
e gli agenti sarebbero sicuramente rimasti qualche ora per ricontrollare anche
l’ultima serie di nastri.
Sophie
curvò appena il capo di lato, e si sarebbe presa a calci se si fosse resa conto
di quanto quel movimento fosse lo stesso che L faceva tanto spesso. Il sogghigno
che le si disegnò in volto, però, era inequivocabilmente targato Sophie
Winchester.
«… Ragazzi,
vi ho mai raccontato di come ho fatto quasi divorare Draco Malfoy a una piovra
gigante?» esclamò, avvicinandosi ai colleghi. Gli Auror si scambiarono sguardi
straniti, e tutto nella stanza tacque per qualche secondo.
«… L’ex-Mangiamorte?!»
chiese infine Matsuda, gli occhi accesi di una curiosità nemmeno troppo velata.
«Matsuda!»
«Ahem,
i-il-l’Auror?» si corresse freneticamente l’agente, sotto lo sguardo di
disapprovazione di Aizawa.
«Quello,
in tutto il suo biondo e laccato splendore» confermò annuendo la rossa, mentre
aiutava a riordinare le pile di documentazioni e nastri con pochi gesti della
bacchetta.
«Ehm,
no, direi di no…»
Il
sogghigno di Sophie si allargò. «Bene.»
Dieci
minuti più tardi, Watari stava servendo coppette di gelato mentre un attonito
Sovrintendente guardava la sua squadra ridere di gusto: i tre agenti si erano
raccolti attorno al tavolino per compilare richieste da spedire alla compagnia
ferroviaria che gestiva la linea Yamanote. La loro attenzione, però, era
rivolta all’allegra parlantina di Sophie.
Il
clima della stanza si era fatto improvvisamente più leggero, la cupa tensione di
prima quasi svanita. Il Sovrintendente alzò lo sguardo sul limitare della
stanza, da dove L fissava la scena col capo inclinato di lato: sebbene avesse
dimostrato più volte una mal sopportazione delle chiacchiere inutili, il
detective non sembrava minimamente intenzionato a intervenire.
In tal
caso, decise Soichiro, non sarebbe stato lui a farlo.
«Sovrintendente,
questa la deve sentire!»
A
Londra, seduto alla sua scrivania, Draco Malfoy imprecò per l’ennesimo starnuto.
***
8
gennaio 2004
L uscì
dalla suite di Watari quando era ormai notte inoltrata.
Assieme
al mago, aveva trascorso ore a incantare le videocamere e i microfoni da
installare l’indomani: Watari amava gingillarsi con la tecnologia
babbana, ed era stato lui stesso l’ideatore di una delicata magia in grado di interagirvi.
L considerò distrattamente che i suoi collaboratori non sarebbero mai più stati
zitti se si fossero resi conto di chi fosse davvero Watari.
In ogni
caso, i dispositivi avrebbero trasmesso loro ogni dettaglio di casa Yagami e
casa Kitamura, ben protetti dalla magia comune: ciò significava niente
cortocircuiti, una difesa contro incantesimi rilevatori, e un paio di settimane
di copertura.
Soddisfatto
del lavoro svolto, camminò nella penombra del soggiorno con le mani in tasca,
sentendosi ben più a suo agio nel buio silenzio di una stanza vuota che
nell’ambiente concitato di quei giorni… un ambiente a cui, ne era
fastidiosamente consapevole, si sarebbe dovuto abituare in fretta.
Del
resto, non era stato poi così difficile abituarsi a Sophie.
Un
fruscio improvviso raggiunse il fine orecchio del mago, che si voltò di scatto
verso il divano. Inarcò un sopracciglio, gettando un’occhiata al costoso
orologio appeso a una parete. Era tardi, davvero tardi, o almeno questo
gli insegnavano i rapporti prolungati con esseri umani dotati di un ritmo
sonno-veglia standard.
Si
avvicinò sapendo esattamente chi avrebbe trovato: Sophie era seduta in
mezzo a delle pergamene illeggibili, la schiena contro i piedi del divano. La
strega, però, aveva il capo abbandonato sulle ginocchia, e una penna le era
rotolata via dalle dita, sul tappeto cosparso di candele spente.
La
fissò per qualche secondo, prima di schiarirsi la voce. «Sophie?»
«…Eh?»
fu la risposta scocciata, brontolata nel dormiveglia. L, divertito, la chiamò
nuovamente.
«Sophie?»
«S-sono
sveglia!» farfugliò la giovane, svegliandosi in un sobbalzo. Si sfregò il volto
con entrambe le mani, mentre le candele si riaccendevano con un guizzo. Gli
occhi di Sophie sembrarono stranamente sbarrati, nervosi, ma solo per la durata
di un secondo.
L guardò
le pergamene che la attorniavano. «Non dovresti prendere appunti»
«Lo so,
lo so, li faccio sparire…»
«Sophie,
sono giorni che ti dico di bruciarli, non di farli sparire»
«Non
brucerò i miei appunti! E anche se lo facessi, domani li riscriverei da capo…
Senti, mi aiutano a concentrarmi meglio, te l’ho detto»
«Aiuterebbero
anche Kira, se li trovasse. Per questo ho vietato alla squadra di
prendere annotazioni cartacee»
«Per
questo ho aspettato che andassero via, anche stanotte»
«Sophie…»
«Dai,
decifrali, mi hai detto che li posso tenere se sono indecifrabili» gli disse la
strega, porgendogli le pergamene. L si dovette trattenere dall’alzare gli occhi
al cielo, perché quell’ostinazione era snervante solo quanto il fatto
che gli avesse strappato quella sciocca scommessa. Lei sogghignò. «Scommetto
che stavolta non ce la fai.»
Lui
fece correre lo sguardo sulle scritte cifrate… che, effettivamente, non erano
di lettura così immediata quanto le sere precedenti. Le scoccò un’occhiata di
traverso e, se mai vi era stata, ogni traccia di leggerezza sparì dal suo
volto.
Non
sapeva perché ci avesse messo tanto a notarlo ma, nella povera luce delle
candele, era impossibile non vedere quanto fossero profonde le occhiaie
dell’Auror.
«Non
stai dormendo» mormorò. Sophie fu presa in contropiede, sia da quelle parole,
sia dal tono basso, privo della nota di disappunto, di sfida, di spiacevolezza
che solitamente condiva i suoi commenti. Lo guardò con occhi rotondi,
spalancati dalla sorpresa per un breve attimo, prima di ridere di un’allegria
incerta.
«Beh,
so che odi essere contraddetto, ma era esattamente quello che stavo
facendo… Tra l’altro, scusami, giuro che ero sveglia fino a massimo venti
minuti fa…» disse, chiudendo gli occhi mentre si stiracchiava.
L la
guardò in silenzio, leggendo il mal di schiena dietro al movimento della
strega, studiandone il pallore sotto le lentiggini, calcolando molto velocemente
quanto potesse aver dormito in quegli ultimi giorni.
Giorni
in cui l’aveva puntualmente trovata in cucina a guardare l’alba, e a lavorare
febbrilmente fino a tarda notte.
Dedizione,
aveva constatato, come del resto nelle prime settimane di indagini.
Eccitazione, aveva considerato all’arrivo degli agenti. Ma quel… nervosismo, di
poco prima?
L piegò
un angolo della bocca verso il basso.
«Perché
non vuoi dormire?»
Sophie
portò gli occhi di scatto sui suoi. Stavolta però non si fece cogliere in
fallo, limitandosi a inarcare un sopracciglio, l’ombra di un sorriso ancora
presente sulle labbra secche.
«Pensavo
fossi tu l’esperto di insonnia, Ryuzaki»
«La mia
è una scelta organizzativa»
«Anche
la mia»
«Allora
ti stai organizzando male.»
Fu
quella risposta secca a farle scivolare via ogni traccia di divertimento dal
volto.
«Sei
scontento del mio lavoro, Ryuzaki?» sbottò, alzandosi di botto. L la vide
stringere i pugni e vacillare impercettibilmente.
«No»
replicò con pacatezza, per nulla impressionato da quello scatto.
«Ti dà
fastidio avere attorno gente anche di notte?»
Come?
«… No»
«Sei
sicuro, L? Perché sappiamo fin dall’inizio che questa è una sistemazione strana
e che non peserebbe a nessuno se dormissi- se alloggiassi in un’altra
suite»
«Non ho
alcun problema con la tua presenza qui»
«E
allora cosa, L?! Non vedo proprio perché ti debba interessare-»
«Ryuzaki» la interruppe fermamente L, zittendola. «Ryuzaki».
Sophie
lo guardò con la fronte corrucciata, il labbro inferiore stretto fra i denti e
il petto che fremeva agitato sotto il maglione. Aprì bocca un paio di volte, e
la richiuse altrettante.
«Bene.
Giusto.» La rossa fece per girargli attorno e andarsene.
«Soph-»
«No,
una cosa» aggiunse la strega, troncando sul nascere il suo flebile tentativo di
fermarla e alzando il mento mentre gli parlava. «Non ti devo risposte su come e
quanto decido di dormire, fintantoché non infici le mie capacità. Non mi devi
risposte sul perché continui a far finta di non sapere che non siano affari
tuoi. Ma una cosa me la puoi dire».
Sophie
sembrò prendere fiato, sembrò cercare di calmarsi, mentre L faceva di tutto per
sopprimere la bolla di frustrazione che gli stava crescendo nel petto: non
importava come rigirasse le cose, la ragazza sembrava decisa a non finire sotto
scacco, e lui non poteva quasi crederci che fosse lei a redarguire lui.
«Se
avessi rifiutato…» la voce della ragazza era bassa, quasi timida, come se
avesse esaurito tutta l’ostilità, «se avessi deciso di tornare a Londra, mi
avresti davvero cancellato la memoria?»
Sophie,
per quanto mostrasse chiari segnali di disagio in sua prossimità, e fosse tutto
sommato una persona alquanto trasparente, aveva i nervi saldi. Non una sola
volta dall’inizio delle indagini gli aveva dato modo di pensare che fosse
immatura o impreparata ad affrontare un caso con una posta in gioco così alta,
né gli aveva fatto rimpiangere di averla coinvolta in prima persona.
Al
contrario, ogni volta che si aspettava di aver raggiunto il punto di rottura
della ragazza, lei si limitava a sorridere e nascondere quali che fossero le
sue vere emozioni, esercitando un controllo su sé stessa che non si aspettava
da parte di una Auror ventenne di casata Grifondoro, cresciuta
professionalmente alle calcagna di personaggi impulsivi ed eccentrici come
Harry Potter, Ronald Weasley e Draco Malfoy. L’unica volta in cui gli era
sembrato fosse prossima a perdere il controllo, era stato in occasione
dell’intercettazione: di per sé, era rimasto piacevolmente sorpreso dal fatto
che la strega non solo se ne fosse accorta, ma che avesse terminato
diligentemente di lavorare, prima di fronteggiarlo. Anche allora, però, la sua
ira sembrava essersi placata molto in fretta.
Un
altro discorso era stato comunicarle dell’attacco che Kira aveva rivolto a lei
e ai suoi colleghi: destabilizzato lui stesso da quanto successo, dalle vite
perse sotto il suo comando, aveva momentaneamente faticato a rispondere alle
esigenze emotive di Sophie. L’aveva spinta a mangiare qualcosa, l’aveva
coinvolta nella pianificazione del caso sforzandosi di non lasciarla troppo
all’oscuro, e aveva finto di non vedere come il piccolo gesto di Watari le
avesse inumidito gli occhi.
Nonostante
tutto, anche allora la strega si era ripresa rapidamente, e aveva mostrato
tutta la professionalità e la praticità che L pretendeva dai suoi
collaboratori, spesso invano peraltro.
In quel
momento, però, Sophie gli si stava mostrando in un momento di… vulnerabilità.
Non avrebbe saputo individuare il motivo, ma sotto l’ira della ragazza c’era
qualcos’altro, c’era un dubbio; la vulnerabilità dai bordi affilati che vedeva
non era quella delle false speranze, bensì quella di voler sapere, dell’essere
pronta a sapere le sue reali intenzioni. Che lui fosse sincero o meno
nella risposta.
Il
giovane, infatti, ebbe l’impressione che Sophie avrebbe avuto una risposta vera,
qualsiasi cosa lui le avesse detto.
Rifletté
per qualche minuto, distogliendo lo sguardo dal suo.
Lo
distolse perché guardarla negli occhi lo metteva in difficoltà… no, diminuiva
le sue capacità di concentrazione. E perché forse aveva capito da quel
comportamento più di quanto avrebbe voluto.
Lui non
era una persona che preferiva non sapere, mai, ma aveva l’impressione
che qualcosa sarebbe cambiato, in base alla sua risposta. Qualcosa che
aveva a che fare con la linea su cui entrambi stavano tentennando dall’inizio
delle indagini, una linea che avrebbe dovuto separare un rapporto puramente
lavorativo da… da tutto il resto.
Da
tutto quello che non dicevano.
Da
tutto quello che entrambi volevano sapere, e quello che assolutamente
preferivano ignorare.
«… No,
non ti avrei cancellato la memoria.»
Sophie annuì
lentamente, ma non lo pressò con ulteriori domande. Lo superò in pochi passi
svelti, mentre le pergamene sfuggivano dalle mani del detective e la seguivano
ubbidienti.
L non
avrebbe saputo dire se le avesse mentito o meno.
«Ryuzaki?»
Il
ragazzo si voltò verso Watari, fermo sulla soglia della sua stanza in un rispettabilissimo
pigiama a righe celesti. «Vi ho sentiti alzare la voce…».
L gli
diede le spalle, andandosi a sedere nella sua poltrona. «Puoi tornare a
dormire, non è successo niente». Sentì lo sguardo scettico dell’uomo, che andò
a sedersi sul divano di fronte a lui, le gambe accavallate con tutta la classe
che un pigiama a righe celesti potesse permettere. Anzi, forse anche un tantino
di più.
Il
detective fece del suo meglio per ignorarlo. Per ben dieci minuti. Durante i
quali l’uomo appellò in tutta tranquillità un carrello portavivande,
iniziando a servire due tazze di tè.
«Hai
qualcosa da dirmi, Watari?» si arrese infine il detective.
Il mago
accennò una piccola risata sotto i baffi candidi. «Ryuzaki, non ho potuto fare
a meno di sentire…»
«Di origliare»
bofonchiò l’altro.
Watari
rimase in silenzio per qualche secondo, dosando con attenzione il latte nella
sua tazza. «Fin dall’inizio dell’operazione, mi sono premurato di affittare
l’intero piano, oltre alle suite designate come Quartier Generale»
«E io
ho già detto che non ho intenzione di farla dormire in un’altra suite» replicò
L piccato, alzando gli occhi sul suo mentore. «La corrente sistemazione mi
consente di controllare meglio i suoi movimenti»
«E di
interessarti di quante ore dorma, a quanto pare» commentò serafico Watari,
squadrandolo da sopra le lenti rettangolari.
«Un
Auror che non dorme-»
«Non è
mai stato di tuo interesse».
L
rispose, ma in un mormorio, guardando corrucciato un altro punto della stanza.
«Sembra che non voglia dormire. Devo scoprire il perché».
Watari
ponderò con cura le sue parole, prendendo un sorso di tè. «Certo… per il caso»
«Sì,
sempre per il caso» rimarcò allora il ragazzo con un’occhiata gelida.
Il mago
di fronte a lui sorseggiò serenamente l’infuso bollente, studiando L con uno
sguardo poco impressionato. «Devo essere schietto, Ryuzaki… non posso fare a
meno di notare la straordinaria affinità tra te e Sophie. Se non ti conoscessi
bene, mi verrebbe da pensare che tu stia usando una volta di troppo la scusante
del caso»
«Watari,
penso che tu abbia già protratto a sufficienza queste chiacchiere inutili»
«E io
penso che sia la sola persona a tenerti impegnato in una conversazione e a
tenerti testa almeno quanto me»
«Sono obbligato
a collaborare con lei, lo sai bene» replicò seccamente il detective, stringendo
appena la presa sui braccioli della poltrona. «Così come ora sono obbligato a
collaborare con il Sovrintendente Yagami e i suoi agenti. Inizierai a fare
suggerimenti strampalati anche su di loro?»
Watari
non si lasciò provocare, limitandosi a inarcare un sopracciglio. «Eppure, non
credo che la presenza di Sophie ti sia mai pesata quanto vorresti. Mi sbaglio?»
L
stavolta non replicò, e il maggiordomo lo incalzò senza esitare: «In effetti,
tu parli di un’occasione per sapere di più, ma ne hai già avute parecchie di occasioni.
Avresti potuto utilizzare metodi più invadenti con lei e invece non mi sembra
tu sia giunto a niente»
«Se lo
facessi, rischierei di farla fuggire da qui o di spingerla a provarci. Per
quanto sia importante scoprire di più, ha la priorità il fatto che lei
partecipi a queste indagini, quali che ne siano gli esiti»
«Quindi
le avresti cancellato la memoria, se non fosse voluta rimanere? Lei pensa si
tratti semplicemente di una precauzione contro le fughe di notizie, ma io e te
sappiamo che l’alternativa non sarebbe stata lasciarla andare a casa.»
L non
rispose subito, la bocca lievemente piegata verso il basso e lo sguardo fisso e
altero.
«Perché
tanta esitazione, Ryuzaki?» chiese allora il maggiordomo, cogliendo
sapientemente ogni silenzio ed espressione del ragazzo che aveva cresciuto.
«Che tu sia effettivamente dibattuto su di lei?»
«Lei
è solo una pedina!».
Watari
non rispose. Rimase a fissare il suo ragazzo attraverso le strette lenti degli
occhiali, le sopracciglia bianche inarcate. Lasciò che le parole appena dette
da L si espandessero nella stanza, che il suo tono di voce secco e stranamente
alto penetrasse nelle sue stesse orecchie.
«Certamente.
Solo, non farti cogliere a dire cose del genere dalla signorina Sophie… credo
che i risultati sarebbero spiacevoli»
«Ritengo
che Sophie sarà in grado di-»
«Mi
riferivo a te, Ryuzaki» lo informò con un sorrisetto ironico l’uomo, prima di alzarsi
e rispedire il servizio di porcellana in cucina con un guizzo della bacchetta.
La
tazza di L giaceva ancora sul tavolino, intatta.
Sophie
si svegliò di scatto, terrorizzata dall’essersi nuovamente appisolata per
qualche momento. Si premette i palmi delle mani sugli occhi, cercando di
scacciare via il bruciore.
Doveva
dormire, sapeva di dover
dormire, e che prima o poi la stanchezza accumulata avrebbe davvero intralciato
il suo lavoro. La paura però non glielo consentiva: sebbene fosse ormai usa a
quegli incubi, mai erano stati tanto vividi, violenti, e aveva l’impressione
che peggiorassero ogni notte. L’ansia che diventassero davvero
ingestibili non faceva che alimentarli.
Era
evidente che negli anni precedenti avesse sottovalutato quello strazio, dando
per scontato che sarebbero andati a sparire da soli, col tempo. Non aveva previsto,
invece, che il suo quieto vivere, l’assenza di situazioni così tese e delicate
come lo era il caso Kira, la distrazione e il conforto fornitole dai suoi
amici, fossero in realtà stati per anni la sua salvezza. Improvvisamente, si
ritrovò a rimpiangere le nottate passate alla Tana, o nella stanza degli ospiti
del Malfoy Manor, o parlando e bevendo fino a tarda notte in qualche pub
londinese.
Si
ritrovò a rimpiangere persino di non aver mai ascoltato i saltuari inviti di
Ginny ed Hermione a parlare con un Guaritore, così come non aveva mai veramente
considerato di chiedere consiglio a Madama Chips per un qualche sonnifero
magico. A malapena, durante un anno particolarmente stressante, si era
azzardata ad andare in una Farmacia a chiedere qualche erba per un sonno
profondo, timorosa di diventarne dipendente.
Ora,
distante da tutto ciò che conosceva e le era familiare, non aveva niente a cui
appigliarsi. Non aveva nemmeno pensato a prevenire quel problema, anzi non lo aveva riconosciuto come tale,
perché non aveva mai capito quanto i suoi amici la proteggessero dal
fronteggiare da sola quei mostri del passato.
Strinse
la coperta al petto, desiderando scomparire, desiderando di poter parlare con
qualcuno, lei che detestava parlare
dei suoi problemi anche con i suoi amici più cari.
Quale
lusso aveva avuto, e quale lusso ora le mancava totalmente.
La
fiducia.
“… No,
non ti avrei cancellato la memoria”.
Tirò su
col naso, poi si costrinse a poggiare nuovamente la testa sul cuscino.
Non le
rimaneva altro che affrontare i suoi incubi.
LUMOS
Ciao bella gentaglia, scusate
il ritardo e il capitolo un po’ pesantino, fatemi sapere che ne pensate ✨
Grazie mille come sempre per
essere qui, per recensire, seguire, ricordare e preferire, davvero grazie
mille :3
Sophie
si disse che quella di L era chiaramente una vendetta.
Indiretta,
ovviamente, il che avrebbe trasformato ogni sua accusa in un’insinuazione, ma nondimeno
una vendetta.
La
sottile abilità del detective stava nel darle esattamente quello che voleva, anzi,
di più: oltre a permetterle di garantire la privacy di signora e
signorina Yagami (le riprese del bagno sarebbero state trasmesse su uno schermo
che solo lei poteva vedere), L l’aveva invitata a visionare tutte le
riprese di casa Yagami. Tutte. In diretta. Ventiquattr’ore su
ventiquattro. Per una settimana. Non qualcosa che Sophie potesse nettamente
segnalare come scorretto ma, alle sei del mattino, con le occhiaie che ormai
toccavano terra e gli occhi arrossati, era una dichiarazione di guerra.
Tanto
più perché, era certa che L lo sapesse, si sarebbemangiata le mani
piuttosto che fare un passo indietro.
Quella
mattina, quindi, la rossa si rassegnò a sequestrare l’intera boccia di caffè
dalla cucina, prima di raggiungere il salotto della nuova suite. Si bloccò
sulla soglia della stanza, i piedi nudi affondati nella moquette chiara: ad
attenderla davanti a una pericolante parete di schermi, casse e vari aggeggi
babbani, la aspettavano L, il Sovrintendente, e una terza poltroncina rivestita
di raso verde, esattamente in mezzo ai due.
Sospirò
pesantemente, prima di scivolare nel suo posto.
«Buongiorno,
Sophie»
«Sovrintendente»
replicò con un pallido sorriso. Un sorriso rapidamente cancellato dalla tazza e
piattino che le levitarono sotto il naso: con uno sguardo fulminante, spinse il
set di porcellana bianca verso L e strinse gelosamente la brocca di caffè al
petto.
Per un
brevissimo attimo parve quasi che il ragazzo fosse sorpreso, poi la
tazza levitò a terra e gli schermi di fronte ai tre presero vita.
Sophie,
con un misto senso di vittoria e disagio, iniziò a dar fondo alla sua personale
scorta di caffè, sforzandosi ardentemente di non sbirciare il detective.
Presumibilmente
per la stanchezza, non le sovvenne che quel caffè lo avesse con tutta
probabilità preparato L stesso.
Alle
dieci, vigeva calma piatta: entrambi i figli del Sovrintendente erano a scuola,
mentre la moglie aveva uno stretto programma di commissioni da sbrigare. Ergo,
Sophie lottava per non appisolarsi.
Non
tanto per professionalità, ammise tra sé e sé, ma per non darla vinta al
detective di cui sentiva il penetrante sguardo sulla pelle. Si era quindi rassegnata
a ingollare tutto il caffè possibile.
L e la
sua tazza vuota, ovviamente, non avevano tardato a notarlo.
«Ingerire
grandi quantità di caffè a stomaco vuoto incide negativamente sull’idratazione»
commentò placidamente, fissando gli schermi come se non si stesse rivolgendo a
lei.
La
rossa batté le palpebre, immobile.
Non
ho sentito bene, si disse, cercando lo sguardo del
Sovrintendente che, però, si strinse nelle spalle. Sbirciò allora in direzione
del detective, che non sembrava intenzionato a voltarsi.
Forse
se l’era immaginato.
«Inoltre,
può rendere maggiormente soggetti a lesioni allo stomaco». La strega strinse le
labbra, innervosita. Si ricordò istintivamente della bacchetta che le teneva
annodati i capelli in testa.
«E va
bene! Vado a farmi un panino!» sbottò Sophie, uscendo infuriata dalla
stanza.
A
mezzogiorno e un quarto, non era ancora successo nulla. Sophie stava attentamente
passando in rassegna tutti i modi in cui avrebbe potuto somministrare del pus
di Bubotubero ad L senza che se ne accorgesse. Lo faceva più per passare il
tempo che perché la vedesse come azione realizzabile: se proprio avesse deciso
di finire in prigione, c’erano metodi meno tortuosi.
Tipo lo
strangolamento.
Poi,
finalmente, Light Yagami arrivò a casa: il primogenito del Sovrintendente era
un ragazzo alto, dal volto carismatico e capelli castani ben pettinati, con
qualche sottile ciocca che gli ricadeva verso gli occhi affilati.
Tutto
sommato, un ragazzo che a Hogwarts avrebbe certamente fatto la sua incetta di
conquiste.
Così su
due piedi, non per forza la faccia di un serial killer.
L’uomo
che aveva piazzato le telecamere aveva fatto rapporto riguardo a un piccolo
incantesimo di controllo sulla porta. Sophie però, dall’alto dei suoi anni a
Hogwarts, non era molto impressionata: in una scuola dove si potevano imparare
incantesimi per aprire le serrature già a undici anni, fatture e maledizioni
erano il minimo sindacale che si potesse trovare a guardia degli effetti
personali degli studenti. Per esempio, era quasi certa che una Corvonero del
suo anno avesse addestrato il proprio rospo ad aggredire chi si
avvicinasse al suo baule.
«In
effetti mi chiedo se non nasconda qualcosa, per arrivare a tanto» considerò
teso il signor Yagami, scrutando gli schermi con la fronte aggrottata.
Sophie
stava per aprire bocca, ma L la precedette: «È un ragazzo di diciassette anni…
non c’è niente di cui stupirsi. Anch’io lo facevo, senza un motivo preciso».
La
strega non poté trattenere uno sbuffo incredulo.
Questa
è bella.
Si
ritrovò a voltarsi verso il detective, un’espressione scettica e divertita in
volto, salvo poi trovarlo già a fissarla di rimando con un sopracciglio
inarcato.
Sophie si
bloccò per un istante, poi gli scoccò un’occhiataccia e tornò a guardare gli
schermi.
Alle tre
e mezza, il pulito e composto Light Yagami stava sfogliando una rivista porno.
Sophie
storse il naso.
Non tanto per la rivista in sé: disteso
placidamente a pancia in giù sul letto, il mento puntellato elegantemente su
una mano e la flemma di chi stia sfogliando un noioso manuale su una delle
tante Guerre dei Goblin, Light Yagami non rientrava esattamente nello
schema dell’adolescente in preda agli ormoni.
E lei lo era stata fino a poco tempo prima,
un’adolescente in preda agli ormoni.
Ora scricchiolo come un albero se sto seduta per
troppo tempo nello stesso modo,
pensò imbronciata, tendendo una mano dietro la schiena per massaggiare un punto
dolorante.
«Un ragazzo così diligente che compra quel genere di
riviste… Sophie, io mi scuso profondamente per il comportamento di mio figlio…»
disse desolato e spiazzato il Sovrintendente. La giovane batté le palpebre un
paio di volte, risvegliata dal suo torpore.
«Che- no, Sovrintendente si figuri! Non sono
minimamente offesa, non si preoccupi» lo tranquillizzò freneticamente,
raddrizzandosi nella poltroncina con un sorriso rassicurante. «Suo figlio sarà
anche uno studente modello, ma è pur sempre un diciassettenne… quello non è
strano» aggiunse, mordendosi la lingua un attimo più tardi.
«… Quello?» chiese confuso l’uomo.
Godric, Sophie, chiudila ogni tanto la boccaccia.
«Ehm…» Suo malgrado, la strega si ritrovò a cercare lo
sguardo di L con la coda dell’occhio, incerta sul da farsi. Il detective dal
presunto super udito, però, pareva totalmente ignaro della situazione.
Infame.
Sophie sospirò e, tornando a guardare il preoccupato
volto del Sovrintendente, decise di essere il più sincera possibile… senza
procurargli un ulteriore carico di stress, magari. Per quello bastava L.
«Vede, Sovrintendente, è… il tempismo, capisce? La
velocità con cui la piccola anomalia della porta controllata è stata
giustificata– anomalia che, ci tengo a ribadire anch’io, è totalmente
legittima» la strega si passò una mano fra i capelli, frustrata dal bisogno di
non scaricare un peso troppo gravoso sull’uomo seduto accanto a lei.
«Che cosa intendete? Che Light si è accorto delle
videocamere?»
«No, non esattamente…» rispose incerta la strega.
A quel punto, L si schiarì la voce con impazienza.
Sophie si voltò repentinamente per guardarlo con
ostilità ma lui, totalmente indifferente, si limitò a incarcare le
sopracciglia. La ragazza alzò gli occhi al cielo.
«E va bene… il fatto che Light sia consapevole
di essere controllato non è dovuto, anche se potrebbe esserci sfuggito qualche
incantesimo di sorveglianza» spiegò lentamente, riaccomodandosi nella poltrona
per guardare in faccia il Sovrintendente. «Il punto è che questo è lo
scenario perfetto per occhi indiscreti e, per esperienza, le dico che pedinando
la gente capitano di rado situazioni così… trasparenti»
«Non sospetterà davvero di mio figlio, Sophie?»
Lei scosse il capo con decisione, e una leggera
risata. «Signore, io valuto solo ciò che vedo, è oggettivamente presto per
farsi un’idea chiara… d’altra parte, tappezzarle la casa di microspie non è un
passatempo per noi più di quanto lo sia per lei».
Soichiro rifletté per qualche secondo, e lei si morse
un labbro. «Se sono stata troppo schietta…»
«Tutt’altro, grazie per essere sincera con me, Sophie…
la sua analisi è… del tutto condivisibile» le disse l’uomo, sebbene con un
sorriso un po’ forzato.
Almeno uno
di noi è collaborativo, si disse la rossa, sistemandosi più comodamente
nella seduta per alleviare i dolori alla schiena. O, almeno, cambiarne la
posizione.
Alle sette e venti, la famiglia Yagami stava cenando.
Il Sovrintendente e Sophie stavano fissando la scena
in silenzio, entrambi troppo nervosi e cupi per mangiare. L stava rapidamente
decimando una piccola torta panna e fragole.
La rossa, affondata a braccia conserte nella poltroncina
che ormai detestava, si trovò a rimuginare su quanto accogliente fosse
la scena davanti ai suoi occhi: Sachiko Yagami stava chiedendo ai figli dei
rispettivi impegni scolastici, servendo loro la cena preparata con cura.
Entrambi avevano rapidamente liquidato la questione, anche se evidentemente per
motivi diversi, dati i rapporti che la Mahōtokoro aveva mandato loro. Di
sottofondo, la radio trasmetteva la hit di un giovane cantante giapponese,
provocando un battibecco tra i due fratelli che fece sorridere la strega.
Con la coda dell’occhio, Sophie colse l’espressione
colma d’affetto del Sovrintendente, e si sentì in pena per lui: avrebbe solo
voluto vederlo seduto a quella tavola, a godersi il calore e la vivacità della
sua famiglia, invece che a trascorrere quelle sfibranti ore in attesa del
peggio.
«Aizawa, a casa Kitamura la radio è accesa?» Sophie si
accorse in quel momento che L, recatosi a un’altra estremità del salotto, aveva
acceso il camino e gettato della Polvere Volante nelle fiamme, divenute
smeraldine.
La voce dell’agente replicò affermativamente, e il
detective spense immediatamente il fuoco per ordinare a Watari di procedere.
Pochi secondi più tardi, la voce di Hideki Ryuga s’interruppe,
per la disperazione di Sayu Yagami. «Interrompiamo le trasmissioni per un
comunicato speciale: per contrastare Kira, il Wizengamot ha deliberato l’arrivo
in Giappone di oltre quattrocento Cacciatori di Maghi Oscuri».
Sophie sbuffò, insofferente a quella trovata
totalmente esagerata. Era praticamente impossibile che non mangiassero
la foglia… certo, L era sempre pronto a osservare i risultati dei suoi piccoli
test, però…
«Che stupido il Wizengamot». La strega batté le palpebre, rivolgendo la sua
attenzione a Light Yagami. «Che senso ha fare un annuncio del genere? Se li
inviano dovrebbero farlo in incognito, in modo che possano indagare in tutta
tranquillità, no?»
Sophie rivolse lo sguardo a L: rimasto accovacciato
per buona parte della giornata con la testa incassata tra le spalle e il mento
posato sulle braccia conserte, ora il detective aveva un sorrisetto a tirargli
le labbra, mentre si mordeva pensosamente la punta di un pollice.
«È sveglio suo figlio» commentò infine, una scintilla di
divertimento negli occhi grigi.
«Eh?» fece il Sovrintendente, passando lo sguardo dal
ragazzo a Sophie. «Beh, direi di sì…»
La rossa cercò di non tradire nessuna emozione sul
volto già imbronciato, limitandosi ad accavallare le gambe mentre rifletteva.
Quando L aveva annunciato di voler installare videocamere e microfoni, aveva
addotto solo un misero cinque percento di
possibilità che uno dei Yagami o uno dei Kitamura fosse Kira.
Sophie aveva
alzato gli occhi al cielo. In ogni caso, non aveva senso far notare al resto
della squadra che L stesse probabilmente mentendo.
Allo
stesso modo, non aveva il cuore di far capire a Soichiro che, se Light avesse
attirato positivamente l’attenzione di L, non avrebbe fatto che aumentare i
sospetti che potevano gravare sulla sua testa.
Alle
undici, Sophie era praticamente rannicchiata su un fianco, il capo posato su un
bracciolo e le gambe piegate sulla seduta della poltrona. Per una volta, non
sarebbe morto nessuno se fosse stata lei quella seduta peggio della stanza.
I suoi
occhi ambrati erano fissi su Light Yagami, impegnato a studiare da più di tre
ore con una costanza che avrebbe fatto applaudire Hermione. Mentre ricordava le
lunghe serate passate a studiare con lei in biblioteca, le palpebre di Sophie
calarono per un brevissimo attimo.
«Ryuzaki…»
La
strega spalancò gli occhi di botto, senza avere il coraggio di guardare in
direzione di L. Caffè, ho bisogno di così tanto caffè.
«Che
c’è, Watari?»
Mentre
Sophie si alzava per stiracchiarsi e procurarsi del caffè, Watari portò notizie di nuovi decessi a opera di Kira:
l’identità dei criminali era stata diffusa su “Owl’s Times”, un
quotidiano serale giapponese che era stato letto dalla moglie e dalla figlia
del direttore Kitamura. La famiglia Yagami sembrava invece essere nuovamente
fuori da ogni accusa, poiché l’unica copia ricevuta giaceva, ancora
impacchettata, sul davanzale della finestra.
Ahia, si
disse la rossa, avvicinandosi al tavolo su cui Watari aveva lasciato delle
caraffe bollenti.
«Allora la mia famiglia è innocente!» esclamò Soichiro
Yagami, sollevato.
Il detective in cui riponeva le sue speranze esitò un
momento, prima di rispondere.
«Vediamo… oggi Kira ha ucciso due persone che avevano
commesso crimini molto lievi, nell’arco di un’ora dopo la pubblicazione del
Times… e anche se oggi è solo il primo giorno che abbiamo piazzato le
telecamere, in casa Yagami c’era un’atmosfera tanto innocente da passare
difficilmente inosservata… Sophie?»
La strega, intenta a correggersi una generosa dose di
caffè con del latte freddo, sussultò con una smorfia. Naturalmente doveva
coinvolgerla.
Si voltò lentamente, la caraffa di latte e il caffè
ancora in mano: il Sovrintendente la guardava con aria speranzosa, e lei si affrettò
a posare il latte per stringere la tazza fra le dita fredde. «Beh, a costo di
essere ripetitiva, è solo il primo giorno…» disse esitante, cercando le parole
giuste per non sbilanciarsi troppo. «È tutto molto… tranquillo».
Troppo.
Sophie decise di ignorare stoicamente lo sguardo
annoiato del detective su di lei.
Yagami invece pareva ancora più incredulo e frustrato,
troppo a modo per protestare ulteriormente, ma troppo di parte per riuscire ad
accettare fino in fondo quel discorso. Sophie, seppure dispiaciuta per lui,
continuava però a pensare che troppi particolari non quadrassero.
Se Light fosse davvero Kira, lo staremmo concretamente
mettendo alle strette. Basta solo vedere se e come reagirà.
***
10
gennaio 2004
Nei
giorni successivi, Sophie non ebbe alcuno scontro col detective. Beh, non aveva
nemmeno avuto conversazioni vere e proprie, ma del resto fissare degli schermi
in ogni momento di veglia non è che incoraggiasse le chiacchiere. Tra mal di schiena,
occhi brucianti e un odio cocente per le poltroncine di raso verde, Sophie non
aveva voglia nemmeno di parlare al suo gufo.
Inoltre,
lo riteneva un merito: se fino a un paio di settimane prima aveva creduto di
essere pessima nell’arte del mettere le giuste distanze, ora poteva dirsi
pienamente soddisfatta di quella ritrovata capacità.
Ginny,
se ne rendeva conto, le avrebbe detto che l’unica arte di cui era capace era
quella di ignorare ciò che stava davanti al suo naso, ma
Ginny non era lì per rovinarle la giornata con le sue
prediche.
Che
poi, se il vero intento della strega fosse stato di ignorare o fuggire L, di sicuro
non si sarebbe ritrovata di fronte a lui, a proporgli quello che gli stava
proponendo.
Anzi,
Sophie riteneva di starsela cavando alla grande, date le circostanze.
Draco
le avrebbe detto di non travisare la sua stessa faccia da schiaffi per
“starsela cavando alla grande”, ma neanche Draco era lì per ridimensionare la sua visione delle cose.
Buon
per lei, si disse, mentre aspettava in silenzio che L si degnasse di guardarla, se non proprio di darle una
risposta. Lui, però, continuava a studiare una Gelatina Tuttigusti+1 color
salvia come se vi fosse inscritto il destino dell’umanità. In Azteko.
Lei aspettò, in piedi, come una cretina, sapendo che richiamare la sua
attenzione sarebbe voluto dire dargliela vinta.
Sophie non era dell’umore per dargliela vinta.
Così
attese che quell’insopportabile… che L scartasse con tutta calma la gelatina,
aggiungendola a un piccolo gruppo di sue sfortunate compagne, per poi prenderne
una chiaramente all’arancia e mangiarla senza troppe esitazioni. Sapere che il
detective si dilettasse nel selezionare Gelatine
Tuttigusti non la sorprendeva neanche troppo, ma
avrebbe preferito in cuor suo che si beccasse una gelatina al cerume, o al
vomito, o allo sterco di drago.
Invece
no, L capiva i gusti delle gelatine.
Salazar
maledetto.
«Quindi…»
disse infine il ragazzo, facendo sparire il cipiglio minaccioso dal volto della
strega un attimo prima che alzasse effettivamente gli occhi su di lei. «Tu vorresti che i Salvatori del Mondo Magico e l’ex-Mangiamorte più
famoso d’Inghilterra, appena dopo Severus Piton, si uniscano alle indagini su
un serial killer di criminali che agisce conoscendo il nome e il volto delle
vittime. Questo mi stai dicendo.»
Sophie
non poté trattenersi dal piegare un angolo della bocca verso il basso,
leggermente in imbarazzo: certo che, detta così, senza tutte le molte
premesse che aveva fatto da mezz’ora a quella parte…
ok, sì, sembrava un’idiozia bella e buona.
Tutt’altro
che disposta a retrocedere, però, l’Auror si limitò a sollevare il mento con
aria di sfida. «Esattamente. Trovo ridicolo privarci di risorse preziose dopo
essere rimasti in neanche una decina di persone a lavorare su un’indagine di
tale portata»
«Non
hai preso in considerazione il fatto che nasconda altre squadre di
investigatori?» Il tono di L era pacato, sì, ma la rossa non poté non leggervi
una certa nota di alterigia che le faceva ribollire il sangue nelle vene.
«Hai
altre squadre?» chiese seccamente, senza nemmeno nascondere il profondo respiro
che aveva preso per non urlare. Lo fissò dritto negli occhi, sfidando il
detective a proseguire con quelle idiozie confezionate con l'esclusivo scopo di farla esitare.
Lui non
rispose, né variò l’espressione annoiata e vagamente scettica che ormai le
riservava dalla loro discussione.
Soddisfatta
del suo silenzio, la strega riprese a parlare: «Come ti ho già detto, se anche Kira venisse a sapere
della loro collaborazione non si azzarderebbe mai a mettersi contro i Salvatori del Mondo Magico, non quando la sua
posizione è ancora così debole» si sfregò gli occhi doloranti per un breve
secondo, fregandosene di cosa potesse pensarne L. «Non sto parlando di un paio
di dilettanti con cui tamponare il centralino telefonico, ma di Auror
perfettamente formati e capaci di muoversi senza destare sospetti.
«Inoltre,
la loro presenza a Londra in questo momento potrebbe solo suscitare problemi…
la loro assenza, d’altra
parte, potrebbe significare tutto o niente, lasciare ampio spazio
d’interpretazione sia per i sostenitori di Kira che per i suoi oppositori.»
Sophie
riaprì gli occhi su di L e per un attimo colse nuovamente l’espressione con cui
l’aveva guardata quella sera, quella perplessità, quella… preoccupazione.
“Non
dormi.”
Sospirò.
«Senti,
pensaci, ok? Sei il capo delle indagini, l’ultima chiamata è la tua… vorrei
solo che tenessi in considerazione questa possibilità».
L era
tornato al suo tavolino di dolciumi per dissotterrare teiera e tazza, e la
rossa fu grata di non avere più quegli occhi penetranti addosso.
Prendendolo
come un congedo, fece un cenno col capo e girò sui tacchi.
«… La
terrò in considerazione».
Sophie
esitò solo per un attimo, poi tornò nella sua stanza.
Per le
poche ore che dormì quella notte, prima che l’arrivo del Sovrintendente e un
leggero bussare alla porta annunciassero l’inizio di una nuova giornata, i suoi
incubi furono più nebulosi, imprecisi… distratti.
***
12
gennaio 2004
Quel
giorno, L aveva dichiarato sospeso il controllo sulle famiglie Yagami e
Kitamura, ribadendo quel ridicolo cinque percento di possibilità che fossero
colpevoli. Mentre il resto della squadra iniziava ad arrabattarsi per capire
come procedere, discutendo la plausibilità di ogni opzione con le barbe sfatte
e i capelli spettinati, Sophie aveva tenuto gli occhi fissi sul detective,
chiaramente perso in qualche angolo della sua mente.
Era
ovvio che qualsiasi approccio diretto con Kira sarebbe stato superfluo e
rischioso, che dovessero avere qualcosa di davvero concreto per arrivare
a un interrogatorio. Per questo, dubitava che le loro indagini si fermassero
così, nel nulla, che L non avesse davvero altre idee: lui era sempre dieci
passi avanti agli eventi correnti.
Sempre
a giocare a scacchi.
Perciò,
l’unica cosa che le restava da fare era riflettere, capire, percorrere quei
passi. Non ci mise poi troppo, perché non era una delle Auror migliori del
Ministero britannico per niente.
Quando
i giapponesi si furono congedati, i volti stanchi coperti di barba non fatta e
i vestiti impossibilmente sgualciti, lei non scappò in camera come era solita
fare in quei giorni, ma andò dritta da L.
«Ryuzaki?»
lo chiamò, dopo essersi assicurata che fossero soli nel salotto poco
illuminato.
«Mh?»
fece lui, senza nemmeno alzare gli occhi sulla strega. Non aveva in grembo
pergamene o computer, ma nonostante ciò sembrava essere ancora assorto nei suoi
pensieri.
«Fai
avvicinare me a Light Yagami»
Improvvisamente,
Sophie aveva tutta la sua attenzione.
LUMOS
Stavo quasi per non pubblicare ma mi sono resa conto che c'è UN SACCO di roba che non vedo l'ora che leggiate e commentiate e che spero vi prenda bene quanto ha preso bene me scrivendola, QUINDI devo darmi una mossa. E cercare di non morire mentre preparo tipo boh una decina di esami ✨
Spero possiate perdonarmi l’assenza, e
di trovarvi pronti per il capitolo di settimana prossima ;3 (giuro è già pronto
non odiatemi)
Riassunto delle puntate precedenti: L e
Sophie discutono perché L è un invadente e preoccupato maniaco del controllo, e
perché Sophie piuttosto che chiedere una mano si taglierebbe entrambe le sue.
La videosorveglianza di casa Yagami è lenta come un turno in un cinema vuoto
(trust me on this), così L “scagiona” le famiglie Yagami e Kitamura. Infine, a
Londra Neville è impegnato (e stressato) in una missione top-secret, Draco
origlia anche l’impossibile, Robards non la racconta giusta.
Neville
Paciock non era un fan della birra, non lo era mai stato.
Non a
sedici anni, quando a Natale suo zio lo aveva costretto a un lungo
interrogatorio sulla sua (inesistente) ragazza e l’unica via di fuga era il
boccale di birra che continuava a riempirsi. Quando aveva visto Neville correre
in bagno con una mano sulla bocca e il viso pallido, sua nonna Augusta aveva
iniziato a strillare come un’aquila e a rifilare scappellotti al figlio.
Non lo
era nemmeno a diciannove anni, quando assieme a un gruppo scelto di ex-compagni
di classe aveva festeggiato il fidanzamento di Luna Lovegood e Rolf Scamander.
Luna aveva offerto a tutti quello che assicurava essere un rarissimo filtro di
antica fattura norrena, trovato in un mercatino norvegese. Neville non sapeva nulla
di filtri magici norreni, ma sapeva che quella roba sembrava proprio birra: si
era svegliato con le tempie pulsanti e un saporaccio in bocca che era sicuro lo
avrebbe fatto vomitare. Di nuovo.
Non lo
era decisamente quando, a ventun anni, si era lasciato trascinare
dall’entusiasmo di Sophie e Ron per aver risolto il suo primo caso: il pub che
avevano scoperto giusto a un paio di isolati dal Ministero era ghermito di
colleghi festosi, e Sophie aveva strillato a tutti di allinearsi al bancone per
una gara a chi beveva più in fretta. Neville non aveva vomitato, però Harry
aveva dovuto svegliarlo dopo che si era addormentato su un tavolino, per
suggerirgli di tornare a casa. Possibilmente a piedi, aveva aggiunto. Il
mago aveva annuito, e sarebbe andato tutto bene se non avesse incrociato Hannah
Abbott sulla via del ritorno. Ecco, allora aveva vomitato.
Da
quella volta, Neville si era ripromesso di mantenere le debita distanza da
quella stramaledetta bevanda.
Per
questo quando le chiese una bionda media, Hannah sbarrò gli occhi e lasciò
perdere il drink che stava preparando. Le bottiglie colorate rimasero sospese a
mezz’aria, ancora intente a preparare un cocktail dai toni violetti mentre una
nube di zucchero filato si sfilava da una scatola di plastica e correva a
ornare l’orlo del bicchiere da Martini.
In
fondo al bancone del Tre Manici di Scopa, Neville era seduto al solito
sgabello dove aspettava che Hannah finisse il turno, e lei si sporse per prendere
le mani del ragazzo tra le sue. «Neville, stai… va tutto bene?».
Il mago
le offrì un sorriso tirato, scorrendo i pollici sul dorso delle mani fredde e
paffute in modo rassicurante. «Non ti preoccupare, sono solo un po’ stanco»
Lei
aggrottò le sopracciglia bionde. «Beh, ma… birra?»
Neville
replicò con una risata spenta, sfilando una mano dalle sue per sfregarsi la
nuca. «Beccato… sono, ecco, un po’ stressato per il lavoro».
Hannah,
pensierosa, si scostò lentamente dal bancone per spillare la birra che le aveva
chiesto l’Auror: avrebbe potuto insistere, probabilmente anche a rischio di
gettare Neville in una crisi ancora più nera, ma non lo ritenne necessario. Se
c’era una cosa che aveva imparato lavorando lì, pensò mentre lasciava la birra
al ragazzo, era che i clienti al bancone parlavano sempre con i baristi.
Specialmente
dopo il primo giro.
Fu infatti
una decina di minuti più tardi, mentre strofinava con decisione uno straccio sul
legno graffiato del bancone, che Hannah sentì Neville chiamarla con voce
tentennante. La bionda accennò un sorrisetto vittorioso.
«Sì,
Nev?» gli chiese dolcemente, guardandolo da sopra una spalla.
Lui la
fissò per qualche secondo, arrossendo appena, poi iniziò a farfugliare furiosamente:
«Ecco, vedi, ehm… so che… sono un po’… è strano ultimamente, vedi, il-
cioè, non potrei… però, insomma, voglio essere sincero con te e… ecco, io, io
vorrei…»
Il
volto del giovane divenne rapidamente paonazzo mentre affogava nelle sue stesse
parole, e Hannah, intenerita, decise di andargli in contro prima che finisse in
apnea. «Neville?» lo interruppe, un largo sorriso in volto e una mano sul
fianco. «Lo so che non puoi parlarmi del lavoro»
«Lo
sai?!» sbottò il mago, sobbalzando sul posto e facendo traboccare la sua ancora
intatta seconda birra. «Oh, acc-»
«Tergeo»
lo anticipò la ragazza, con un allegro colpo di bacchetta.
Neville
alzò gli occhi su di lei, mentre strizzava nervosamente la cravatta zuppa di
birra.
«Insomma,
non… non sei arrabbiata?»
«Perché
dovrei? Stai lavorando sodo, e qualsiasi cosa sia deve essere importante… sono
tanto fiera di te» replicò la strega, non senza che le si imporporassero le
guance.
In quel
momento, qualcuno si schiarì seccamente la voce dall’altro capo del bancone.
Due paia di occhi si spalancarono di botto. «Scusi, il mio collega ha ordinato
un… ah, Paciock! Abbott! Che piacere trovarvi qui» li salutò una strega
dall’aria autorevole, vestita di smeraldo dalle vesti lunghe e austere alla
punta del cappello, la cui larga tesa cadeva quasi fino all’alto colletto
abbottonato.
«P-Professoressa
McGranitt!»
«Preside!»
La
donna sorrise, ma non si perse in chiacchiere di circostanza: Minerva McGranitt
non era proprio una donna da chiacchiere di circostanza. «Sono venuta a
prendere l’ordinazione del professor Vitius, una qualche sciocchezza con dello
zucchero filato…» spiegò con tono di riprovazione, accennando al piccolo mago
che li salutava da un tavolo in fondo al locale.
«Oh,
certo!» si ricordò Hannah di botto, scattando come una molla per recuperare il
drink che aveva abbandonato prima. «Scusi l’attesa, mi è completamente passato
di mente!»
La
McGranitt liquidò le scuse con un cenno della mano, poi gli occhi felini si
posarono pensierosamente su Neville, ancora fermo a guardarla con la cravatta
che gli penzolava da una mano. «Sai, Paciock, è una fortuna averti incontrato
proprio qui. Mi risparmi un po’ di pergamena».
L’Auror
la guardò con la stessa confusione con cui, anni prima, cercava di seguire le
lezioni di Trasfigurazione della strega. Lei parve rendersene conto, perché
scosse impercettibilmente il capo. «Con permesso, signorina Abbott, le rubo il
signor Paciock per qualche minuto»
«Oh,
certo» replicò la ragazza, scrollando le spalle.
Ridacchiò
all’espressione tradita di Neville, mentre la Preside della Scuola di Magia e
Stregoneria di Hogwarts lo trascinava al tavolino in fondo al locale. Alle loro
spalle, un bicchiere orlato di zucchero filato volteggiava allegramente tra i
cappelli a punta degli avventori.
«Quindi,
Paciock, sento che te la cavi bene al Ministero»
«Uh,
ehm, s-sì, credo» farfugliò nervosamente Neville, mentre il suo ex-Professore
di Incantesimi gli faceva spazio sulla panca di legno ad angolo.
«Coraggio,
coraggio, Paciock! Tua nonna non fa che decantare le tue lodi!» trillò allegramente
il Professor Vitius, prendendo il suo coloratissimo drink dalle mani della
McGranitt.
«P-parla
con mia nonna?!» sputacchiò l’Auror, atterrito.
Vitius
sventolò una mano. «L’ho incrociata un paio di volte a Diagon Alley»
«Oh…
non era da Fortebraccio, vero?» chiese sospettoso il ragazzo, sfregandosi la
nuca.
«Oh sì,
c’era metà prezzo!»
«Nonna non
dovrebbe mangiare gelato…»
Prima
che il vecchio professore potesse replicare, annuendo comprensivo nel suo
bicchiere, la McGranitt sospirò seccamente. «Filius, se non ti dispiace vorrei
discutere con Paciock della cattedra»
«Cattedra?»
«Oh, la
cattedra!» confermò allegramente Vitius, dandogli qualche colpetto sul gomito
con fare incoraggiante. Francamente, Neville non aveva mai visto il minuto e
raggrinzito professore così pimpante, ma i drink di Hannah facevano
quell’effetto.
La
Preside, da contro, sembrava avere il contegno autorevole e composto di sempre:
gli occhi attenti e il leggero sorrisetto di chi ne sapeva più di chiunque
altro nella stanza, Minerva McGranitt era ancora in grado di far sudare per l’ansia
il suo ex-studente.
Tuttavia,
la parola cattedra spiazzò Neville abbastanza da smettere di farlo
sentire sotto esame.
«Andrò
dritta al sodo, Paciock: vorrei che venissi a insegnare Erbologia a Hogwarts.»
A
Neville schizzarono gli occhi dalle orbite. «C-cos- Erbologia?! Io non-
la Professoressa Sprite insegna Erbologia!»
«Sì,
Paciock, questo lo so» fu la replica della McGranitt.
«La
Professoressa Sprite va in pensione!» spiegò invece Vitius, offrendo alla
collega un brandello di zucchero filato.
«No,
Vitius, grazie.»
«In pensione?!»
A quel
punto, Neville era convinto di non aver fatto altro che farfugliare e ripetere
ciò che gli veniva detto per tutta la sera, e il crescente pulsare alle tempie
regalatogli dalla birra non aiutava. Tuttavia, l’Auror era troppo
inquieto per curarsene, al prospetto che la Professoressa Sprite, l’insegnante
che più di tutti l’aveva sostenuto e che insegnava quella che era stata la sua
materia preferita, stesse per abbandonare Hogwarts.
La
McGranitt annuì in modo sbrigativo. «Esatto, e ti pregherei di non farne parola
con nessuno: la Professoressa preferisce portare a termine l’anno scolastico
senza troppi drammi»
«Capisco
ma… va-insomma, sta bene?» chiese, apprensivo.
«Oh,
sì! Pomona vuole realizzare il suo sogno e andare a studiare le piante magiche
in Amazzonia» lo informò divertito Vitius, allungandogli dello zucchero filato.
Neville
accettò con un sorriso. Dopo aver deglutito la nuvoletta violacea, si sentì
vagamente rilassato per la prima volta in quella serata sull’orlo della crisi
di nervi. «Amazzonia, eh? Sembra davvero interessante!»
«Pomona
non sta più nella pelle, a quanto pare progetta questa ricerca da decenni»
«Sa,
ora che mi ci fa pensare, ricordo che la Professoressa ci avesse parlato di
alcune specie di felci che si dica crescano solo-»
«Signori»
sbottò nuovamente la McGranitt, che li osservava a braccia conserte, «per
quanto sia… deliziata di poter chiacchierare amabilmente, potremmo finire il discorso?»
Entrambi
i maghi ammutolirono, annuendo precipitosamente. La Preside scoccò loro
un’ultima occhiata di avvertimento, prima di proseguire. «Bene… Paciock, sono più
che conscia della tua posizione al Ministero e non voglio farti alcuna
pressione, ma vorrei comunque che pensassi alla mia proposta».
La
brevemente ritrovata serenità di Neville sparì in un lampo, quando il mago capì
finalmente che non si trattava di uno scherzo. Non che si aspettasse scherzi
da parte della McGranitt, però... «Insomma, s-sono onorato, non mi
fraintenda ma… io?» chiese incerto.
«Certo
che sì, Paciock: hai sempre amato la materia, hai accumulato un’esperienza
lavorativa non indifferente negli ultimi anni, e Pomona sarebbe semplicemente
entusiasta se tu accettassi» replicò convinta la strega.
«Io non
so… non so assolutamente cosa dire» disse Neville con voce mesta, ed era vero:
non si sarebbe mai aspettato di ricevere un’offerta del genere, non aveva mai
nemmeno preso in considerazione l’idea di poter insegnare Erbologia a
Hogwarts! Anche solo pensare di prendere un incarico del genere era… era
quasi folle, specialmente quando…
Neville
deglutì, sentendosi improvvisamente in colpa.
Kira
stava mietendo vittime come se nulla fosse, alcuni tra i suoi migliori amici
erano impegnati in quell’indagine, e Robards gli aveva affibbiato una missione
di vitale importanza: non poteva seriamente pensare di… di andarsene.
«Paciock?»
Il ragazzo levò gli occhi sulla McGranitt, che gli sorrideva dolcemente. «Non
voglio una risposta ora, desidero solo che tu abbia tempo in abbondanza per
prendere in esame quest’ipotesi. Se poi ne vorrai parlare più
approfonditamente, le porte di Hogwarts sono sempre aperte».
Il
ragazzo sorrise leggermente a quelle parole, rilasciando un sospiro profondo.
«Io… grazie, Professoressa.»
La
strega, come da copione, si schernì prontamente. «Sciocchezze, Paciock».
***
Se durante i primi dell’anno Sophie
si era comportata in modo strano, schivo, totalmente atipico per la sua
esuberante persona, sembrava che il problema fosse sparito dopo la
chiacchierata con il Sovrintendente Yagami: quel chiarimento pareva aver
spazzato via ogni problema, e la dinamica della squadra si era rapidamente fatta
più sincera e affiatata.
Il Sovrintendente aveva assistito ai
rapidi progressi con un sorriso.
L aveva
preso atto del cambiamento senza fiatare, senza farsi cogliere a fissare la
strega, senza dare adito alle insinuazioni di Watari o ai suoi stessi, ricorrenti,
inutili pensieri.
Perché
ci pensava.
Pensava
al loro diverbio, a cosa tenesse sveglia la ragazza, al modo in cui lo evitava
con fare risentito. Pensava a tutti quei piccoli dettagli che nessun altro
notava, al modo in cui il suo volto si fosse fatto impercettibilmente più
smunto, al suo piluccare inutilmente pranzi e cene quando l’aveva vista
attaccare ogni piatto con appetito fin dal suo arrivo.
Il
detective si diceva nervosamente di concentrarsi solo su Kira, sugli sviluppi
che erano la priorità assoluta, su quanto e come si potesse avvicinare al
sospettato che più aveva catturato la sua attenzione.
Se lo
diceva e poi a notte fonda, quando era solo e poteva fingere con sé stesso di
non star perdendo tempo, tirava fuori il fascicolo su Sophie. Ripercorreva la
sua vita, ciò che sapeva già: le scarne informazioni su dove abitasse, chi
frequentasse, le deviazioni dal suo lavoro o dalle case dei suoi amici, il
curriculum considerevole, la carriera scolastica buona, sì, ma dopotutto poco
interessante per ciò che voleva sapere.
E ce lo
perdeva, quel tempo, si inerpicava tra un dettaglio e l’altro, cercando le
connessioni che quel fascicolo non offriva, ipotizzando le risposte che l’Auror
non gli voleva dare, continuando a dirsi che quella era parte integrante
dell’indagine sul caso Kira.
Lavoro,
puro e semplice.
Coerenza,
perché lui non era certo uno che potesse dirsi scostante,
né nelle abitudini, né nelle intenzioni.
La sua
abitudine, era indagare.
La sua
intenzione, era sapere.
Puro
e semplice.
In ogni
caso, quale che fosse la scusa, non aveva perso di vista la ragazza.
Perciò,
con la coda dell’occhio, aveva visto Sophie storcere la bocca, mentre il resto
della squadra discuteva inutilmente su nuove piste.
L’aveva
vista tenere lo sguardo fisso su di lui, anche mentre la ignorava per
riflettere accuratamente sul da farsi, isolandosi nella sua stessa testa. La
ignorava perché non aveva bisogno di guardarla per capire che non aveva preso
sul serio quell’interruzione della sorveglianza di casa Yagami, né tantomeno le
sue parole. Per questo non si stupì granché quando, dopo che gli agenti
giapponesi si furono congedati, lei non diede segno di volersi barricare in
camera.
«Ryuzaki?»
Lui
rispose con un mugugno poco coinvolto, senza alzare gli occhi su di lei mentre
proseguiva con il suo filo di pensieri.
La
sentì sospirare, un leggero sibilo di irritazione per la sua mancanza di
attenzione. «Fai avvicinare me a Light Yagami».
Gli
occhi di L saettarono su di lei, repentini, e nel modo in cui Sophie inarcò appena
le sopracciglia vide un guizzo di vittoria. Oh, sei brava, non è vero?
La
studiò accuratamente, bevendo ogni dettaglio: la fronte aggrottata, gli occhi
aperti e decisi, privi della solita allegria che le colorava le guance o le
curvava la bocca verso l’alto; la bocca insolitamente pallida, premuta fra i
denti in un vezzo di nervosismo che aveva notato più volte.
Le
spalle rigide e le maniche attorcigliate attorno alle dita, Sophie aveva forse
preso un atteggiamento più spontaneo con gli altri agenti, ma per contrappeso
era diventata fredda con lui, e visibilmente arrabbiata.
No,
non arrabbiata, si corresse mentalmente il ragazzo,
mentre posava una tazza di tè piena sul tavolino. Sulla difensiva.
Glissò
su quella… inquietudine, su quel senso di dispiacere. Contrarietà,
preferiva definirla.
Si
sfregò un piede sull’altro, concentrandosi su quanto gli avesse appena detto la
rossa.
«Perché
dovrei farti avvicinare a Light Yagami?»
Lei
nascose malamente la stizza che le contrasse il volto, ma perlomeno non alzò
gli occhi al cielo.
«Perché
quella del cinque percento è una balla» sancì seccamente.
«Lo è?»
chiese con voce interessata il detective, il pollice premuto a un angolo della
bocca.
Quello
era ormai un gioco che avevano fatto più volte, e la conferma fu il tono aspro
con cui la strega sbottò: «Già, lo è».
Voleva
tagliare corto, voleva evitare quel loro piccolo botta e risposta, quello che
solitamente le faceva sfuggire un sorriso.
Sulla
difensiva.
Sophie
si lasciò cadere sul divano, avvicinando una tazza vuota e riempendola di acqua
bollente con la bacchetta. «Puoi anche far credere loro che hai mollato l’osso
su Light, ma sappiamo benissimo che non è così».
Appellò
un filtro dalla cucina, lasciandolo cadere nella
tazza.
L
sapeva che quello era un vano tentativo di deflettere il suo sguardo, di
evitare di guardarlo con aria di sfida, un modo per tenere occupate quelle mani
nervose, mentre gli esponeva una teoria su cui non aveva alcuna base solida.
A parte
il fatto, beh, di avere ragione.
Sì,
sei decisamente brava, pensò. Fino a qualche tempo
prima, il detective provava una sorta di vago sospetto, un lampo di irritazione
nel constatare quanto Sophie fosse percettiva e abile nel vedere oltre le sue
recite. D’altronde la colpa era sua, che ancora la sottovalutava.
Quel
nervosismo, però, era mutato in un misto di ammirazione ed eccitazione per
quella ragazza dall’acume fuori dall’ordinario. Era raro che incontrasse
qualcuno che stesse al suo passo, che capisse le sue strategie, seguisse i suoi
ragionamenti spontaneamente: era raro qualcuno che giocasse al suo stello
livello.
Su
quello, e solo su quello, poteva dare ragione a Watari.
«… So
che vuoi avvicinarlo, e che per buona misura farai lo stesso con la figlia più
grande di Kitamura, perché non puoi permetterti di essere parziale o di non
verificare ogni possibilità… ma è Light quello su cui non sei convinto.» Sophie
parlò fissando l’acqua, e anche il detective si ritrovò a osservare come si
colorasse in ampie spirali, correnti rossastre nello sfondo bianco della
porcellana.
«L’unico
modo per provarlo, tolto il confronto diretto – che persino Matsuda ha capito
essere controproducente – è indurlo a scoprirsi… scoprendoci a nostra volta, è
l’unico modo» concluse la strega, rimuovendo il filtro, aggiungendo del latte
freddo e accomodandosi contro lo schienale del divano.
Normalmente
l’avrebbe vista rannicchiarsi sulla seduta come se fosse nel salotto di casa
sua, e non nella suite cinque stelle di una città straniera, immersa fino al
collo nel più grave caso investigativo del mondo.
In quel
momento, però, Sophie stava composta, perché stava prendendo quel tè solo per
tenere le mani occupate, per sembrare distaccata, per tagliare corto.
«Allora?»
L era
vagamente compiaciuto di averla costretta ad alzare lo sguardo su di lui, anche
se non vi trovò la familiare scintilla di intesa a cui si era abituato. Quel
particolare gli fece scattare qualcosa, spinse la sua rapida mente a
riconsiderare la tattica elusiva adottata fin dall’inizio con la ragazza, senza
risposte dirette e senza troppe verità.
Prese
una decisione in un battito di ciglia.
«Ho
intenzione di sfruttare il test di ammissione».
L’affermazione
prese Sophie in contropiede, ma la vide ricomporre in fretta un’espressione
corrucciata. «Quello dell’Accademia di Tokyo?»
«Quello
dell’Accademia di Tokyo… ovviamente, è solo un modo per accedere alla cerimonia
di apertura».
«Ma… la
cerimonia di apertura… qui le scuole non iniziano ad aprile?!» sbottò la
strega, sinceramente confusa.
«Esattamente»
«È-è tantissimo
tempo!»
«Due
mesi e ventiquattro-»
«Ryuzaki!»
L
trattenne un sorrisetto, notando come l’espressione greve della rossa fosse
scivolata in qualcosa di molto simile al suo solito broncio. «Il primo test,
quello scritto, si terrà il diciassette» le illustrò, riprendendo la tazza
abbandonata di poco prima. «Ce ne saranno altri due pratici, duello e pozioni».
«Quindi?
Lascerai che sia io ad avvicinarmi?» chiese ostinatamente la ragazza.
Stavolta
fu lui a guardare altrove, mentre rifletteva. «Qualche settimana fa, avevo
detto che avremmo dovuto osservare una certa… prudenza»
«Sì,
beh, niente che un pizzico di Polisucco o una buona trasfigurazione non possa
risolvere» chiosò Sophie, e lui sapeva che quel broncio poteva solo che
essersi accentuato.
«In
ogni caso…»
«Chi
allora? Aizawa? Mogi? Ti prego, non dirmi Matsuda» lo interruppe ancora
l’Auror, impaziente, non riuscendo a trattenere un’ombra di ironia.
Il
silenzio si dilatò lentamente nella stanza, fino ad assumere i connotati di una
risposta. L fu lento ad alzare lo sguardo su di lei, perché si
rendeva conto che non avrebbe reagito bene.
Infatti,
Sophie socchiuse le palpebre e, gradualmente, si sporse dalla poltrona.
Quando
parlò, la sua voce era ridotta a un sibilo minaccioso.
«No, aspetta, fammi capire. Tu
hai passato gli ultimi vent’anni a fingere di non esistere, c’è gente seriamente
convinta che tu sia un vampiro, e ho visto Robards sull'orlo delle
lacrime perché ti sei rifiutato di apparire davanti al Wizengamot per quattordici
volte. Ora lanci minacce in diretta televisiva, prendi il tè delle cinque
con sei Auror e vuoi presentarti al primo sospettato?! Il prossimo passo
qual è? Invitare Kira a prendere parte alle indagini e diventare amici del
cuore?!»
La tirata, di volume sempre più alto,
lasciò la rossa praticamente a un passo dall’alzarsi, probabilmente non con
buone intenzioni. Il detective, ovviamente, lo considerò un ulteriore motivo
per stuzzicarla: «Beh, all’incirca… sì, quello sarebbe il piano a lungo
termine. Acuta come sempre».
Sophie
era allibita, e un lampo omicida le attraversò gli occhi, ma non colse la sua
provocazione.
«…
Ryuzaki, non puoi in alcun modo affermare che sia più pericoloso esporre
me rispetto a te, nemmeno tu mentiresti in maniera tanto spudorata»
disse in tono misurato, anche se era evidente che stesse facendo di tutto per
mantenere la calma, dando fondo a ogni grammo della serietà e della pazienza
che possedeva… entrambe in scarsa quantità, purtroppo.
«Quindi,
fai andare me» concluse infatti in un qualcosa di molto simile a un ringhio.
Sophie lo guardava a braccia incrociate, il mento alzato e le spalle
dritte, il ritratto della decisione.
L capì
che era inutile proseguire coi suoi tentativi di farla cedere alle emozioni, e
tornò a sorbire il tè ormai freddo.
Fece
una smorfia, scocciato.
Dannazione.
Un
dettaglio, però, lo incuriosiva.
«Perché
credi che sia fermo su Light Yagami?»
Il
cipiglio minaccioso di Sophie parve ammorbidirsi, mentre si stringeva nelle
spalle. «Beh… perché anch’io ho una brutta sensazione su di lui»
«Io non
ho sensazioni su Light Yagami» contestò immediatamente L.
«Hai
capito cosa intendo!» lo rimbeccò lei, «coincidenze, istinto, esperienza, super-deduzioni-perché-io-sono-Ryuzaki-il-più-grande-detective-della-Terra,
chiamalo come diamine ti pare, ma anche io credo ci sia qualcosa che non
va».
«… Il
più grande detective della Terra?» ripeté lentamente il mago, un sorrisetto
provocatorio sulle labbra.
Lei lo
fulminò con un’occhiataccia e scattò in piedi, lisciando le pieghe della lunga
gonna che portava quel giorno sotto al maglione d’ordinanza. Una parte della
mente del detective registrò che quella era la prima volta che le vedeva
indossare una gonna. Un’altra parte registrò il fatto di star registrando una
cosa del genere.
«Bene,
fammi sapere cosa ne pensi, ma non ho intenzione di aspettare oltre domani»
sentenziò la strega, dandogli le spalle prima che potesse risponderle.
La
guardò finché non scomparve dietro la porta della sua stanza, la gonna scura
che le roteava attorno ad accentuare la stizza di ogni suo passo.
L,
forse per la prima volta nella sua vita, si passò una mano sul volto con aria
frustrata.
***
13 gennaio 2004
Il
giorno successivo, Neville si svegliò con un leggero malessere, totalmente
imputabile alla birra, e la testa beatamente fra le nuvole, totalmente
imputabile alla McGranitt.
Con
occhi fissi e un’espressione stranita, seguì distrattamente la sua routine
mattutina, sebbene con risultati meno che ottimali: masticò meccanicamente
toast bruciati, si lavò i denti senza dentifricio, abbottonò una veste da mago
tutta storta, e avrebbe lasciato la bacchetta a casa se non avesse avuto un
cartello appeso sul caminetto, che gli ricordava quotidianamente (e a gran
voce):“Prendi la bacchetta, scimunito di un nipote! Sei un mago, o ti sei
scordato anche questo?!”.
Sua
nonna faceva sempre i regali più dolci.
In ogni
caso, ci mise ben tre tentativi per arrivare al Ministero in
Metropolvere, troppo sovrappensiero per azzeccare il nome della sua destinazione. Quando,
al terzo tentativo, finì in un emporio chiamato Erbologia di Prima Classe, il
ragazzo si sforzò di uscire dal mulinello di pensieri che era diventato la sua
testa.
Peccato
che si scoprì totalmente incapace di farlo: aveva trascorso la sera precedente
a discutere di quella proposta con Hannah, cercando disperatamente consiglio in
quella situazione assurda.
La
proposta della McGranitt era stata totalmente inaspettata e, francamente, fin
troppo ben coordinata con un momento della sua carriera che lo stava quasi
facendo dubitare che quel mestiere facesse per lui. Si sentiva in imbarazzo
solo a pensarlo, ma il caso Kira e la missione affidatagli da Robards si
stavano dimostrando sempre più stressanti e Neville, francamente, si stava
trovando troppo spesso a desiderare che tutta quella faccenda non fosse affar
suo.
Non era
Harry, che viveva di quel continuo cercare e frugare il mondo in cerca di
risposte e verità; non era Ron, che affrontava con spavalderia ogni situazione
che capitava loro; non era Draco, che si crogiolava nella sfida di superare
ogni criminale che cercasse di sfuggirgli; sicuramente, non era Sophie, che
faceva letteralmente del suo lavoro la sua vita.
Tutte
quelle considerazioni lo lasciavano interdetto e, tra l’altro, con una grande
acidità di stomaco.
Si
sfregò la zona incriminata pensando che, dopotutto, forse in quel caso non
valeva dire che pensarci non gli costasse niente…
«Paciock!
Merlino, mi stai ascoltando, amico?!»
Neville
sobbalzò, rendendosi conto in quel momento di aver già raggiunto i cancelli dell’Atrium
e che Tod, probabilmente, stava cercando di attirare la sua attenzione da
un bel pezzo. Il ragazzo si scusò e cercò di concentrarsi sulla Guardia, che
aveva il volto arrossato per l’agitazione; inoltre, i piccoli occhi chiari
saettavano attorno a loro in modo frenetico, come per assicurarsi che nessuno
li sentisse.
«Er-
scusa Tod, stavo… che cosa mi stavi dicendo?» farfugliò stancamente l’Auror,
passandosi una mano sul volto. Si dovette bloccare a metà del gesto, però,
quando Tod si ripeté, sussurrando a fil di voce e sporgendosi in avanti oltre
il vecchio ripiano di legno.
Piccola nota: pesante presenza di
incantesimi. Sebbene non funzionali alla trama e comunque spiegati nel testo,
vi annetto una breve descrizione per ciascuno, anche quelli già utilizzati in
precedenti capitoli <3 (ovviamente è tutta farina del sacco della Rowling). (E
grazie infinite per i commenti, u precious <3)
Stupeficium (Schiantesimo)
– incantesimo offensivo che mira a far perdere i sensi all’avversario
Protego (Sortilegio
Scudo) – crea una barriera difensiva
Defodio (Incantesimo
di Scavo) – scava buchi nel terreno
Expelliarmus (Incantesimo
di Disarmo) – disarma
Impedimenta (Incantesimo
di Inciampo) – fa inciampare l’avversario
Ascendo – fa compiere
un balzo a chi lo usa/all’oggetto a cui è diretto
Deprimo – crea una
pressione capace di far esplodere un oggetto
Expulso – incantesimo
non verbale che schianta l’avversario/fa esplodere il bersaglio
Bombarda (Incantesimo
Esplodente) – crea esplosioni di piccole dimensioni
Aguamenti -
crea un getto d’acqua
Incantesimo Freddafiamma – da prendere alla
lettera
Reparo – ripara
Evanesco (Incantesimo
di Sparizione) – fa scomparire oggetti
Finite Incantatem – annulla gli effetti di un incantesimo
Capitolo 12
Una
chiacchierata futile e qualche sorriso immotivato
13
gennaio 2004
L
sapeva di doverle dire di sì, era questo a turbarlo.
Il
fatto di essere turbato nell’avere una certezza era altrettanto problematico.
Essereturbato era problematico.
Non
esistevano mezze misure in quell’indagine e, se qualcuno doveva esporsi, aveva
perfettamente senso che a farlo fosse Sophie: non solo in qualità di Auror
perfettamente capace, ma soprattutto perché L doveva sapere. Doveva
ancora chiarire quel mistero che la avvolgeva, quella fastidiosa e fumosa trama
di domande senza risposta e vaghe supposizioni che si tesseva sempre più
fittamente attorno a lei.
Quale
modo migliore, dunque, di metterla faccia a faccia con Light Yagami?
Una
buona parte degli indizi suggeriva che il giovane fosse innocente, e in caso
contrario Sophie aveva i mezzi per gestire la situazione… e forse anche per
cambiare le carte in tavola.
«È
necessario che entri finalmente nel quadro» disse L ad alta voce, a sé stesso,
a un silenzioso Watari che non aveva fatto alcuna domanda.
Il
vecchio mago inarcò un sopracciglio, ma era consapevole che il suo pupillo
fosse totalmente perso nei suoi pensieri.
Glielo
avrei chiesto io stesso, altrimenti, considerò ancora
il detective, stavolta senza rendere ulteriormente noto il suo filo logico a
Watari. Non aveva certo bisogno di una conferma.
Ciononostante,
L si sentiva… combattuto. Lui, che non aveva mai faticato a dare la giusta
priorità alle cose, a capire cosa andasse fatto nonostante tutto, d’improvviso
si trovava vittima di futili, sconclusionate remore.
Remore
nel mettere Sophie alle calcagna di colui che poteva aver cercato di ucciderla
meno di un mese prima: niente di assurdo per la logica comune, ma lo era per la
sua. Quella reticenza, che lo strattonava prepotentemente via da ciò che andava
fatto, viveva della stessa sensazione che gli faceva serrare la mascella ogni
volta che lei gli negava uno sguardo, ogni volta che scappava via dalla stanza
per non restare sola con lui. Una sensazione che gli si gonfiava nel petto fin
quasi a spingerlo a parlare, a dirle della-
L
strinse le dita sui braccioli della poltrona, irritato da sé stesso.
A cosa
gli serviva quel senso di colpa? Si era lasciato avvicinare a tal punto da
lei? Come poteva anche solo pensare di indugiare in un caso di
importanza globale?
Per
cosa? Per una chiacchierata futile e qualche sorriso immotivato?
Il mago
scosse appena il capo, serrando ulteriormente le labbra, e il suo sguardo
s’indurì.
No, nulla avrebbe intralciato i suoi piani.
Kira
doveva essere sconfitto.
***
«Ryuzaki,
esattamente a che punto mi dirai dove stiamo andando? Quando sarò già fatta a
pezzi e infilata in un cassonetto?»
«Sarei
molto deluso se ti facessi ridurre a pezzi e infilare in un cassonetto»
«Oh,
sì, anch’io sarei delusa, delusissima» sbuffò sarcastica Sophie,
passandosi una mano fra i capelli, «tanto più che non mi hai neanche lasciato
finire il pranzo»
«Non
stai pranzando…»
«Prego?!»
L alzò
lo sguardo sul volto furibondo della strega. «Non stai pranzando, ultimamente»
«Faccio
fatica a-oh, ci risiamo?! Controlli ancora ogni mia mossa Ryuzaki? Pensavo ci
fossimo fermati alla tabella del sonno, invece ora anche la dieta?»
Il tono
velenoso della ragazza gli fece contrarre le dita sul sedile color crema, ma
decise di lasciar cadere l’argomento. Preferì evitare di controllare se Watari
lo stesse spiando dallo specchietto.
«Hai detto
che vuoi avvicinare Light Yagami» sospirò infine, tornando a guardare le strade
di Tokyo con scarso interesse.
«No, ho
detto che tu vuoi avvicinare Light Yagami, ma abbiamo appurato
che ha più senso che lo faccia io» lo rimbeccò prontamente Sophie, e la vide
incrociare le braccia nel riflesso del vetro. «Che c’entra?»
«Devo
sapere un paio di cose, prima di farti avvicinare Light»
«…
Quindi lo lascerai fare a me» osservò guardinga la rossa.
«Lo
vedremo tra poco».
Sophie
fece per parlare, ma sembrò ripensarci.
Non più
di cinque minuti più tardi, Watari parcheggiò la macchina all’interno di un
cantiere, e L fece segno a Sophie di attendere: alla vista dell’auto, tutti gli
operai avevano rapidamente lasciato a metà ciò che stavano facendo, dirigendosi
ordinatamente verso l’uscita come se nulla fosse.
L’Auror
inarcò le sopracciglia, ma attese che il detective annuisse.
Watari
rimase nella macchina, mentre si avvicinavano al centro dello spiazzo di terra,
dove si ergeva un’imponente costruzione coperta da impalcature e teli bianchi.
Curiosamente, i contorni sembravano sbiadire e farsi indistinti a ogni secondo
passato a fissare quell’immensa sagoma, e L si concesse un breve sorrisetto di
approvazione.
Chiaramente,
gli incantesimi di difesa e mimetizzazione commissionati funzionavano già a
dovere.
Ed è
solo l’inizio.
Una
volta ultimato il progetto, aveva intenzione di imporre tutta un’altra serie di
potenti magie su quell’area… ma non era niente che lo dovesse preoccupare in
quel momento. Piuttosto, sperava che a Sophie piacesse il seminterrato.
… Non
che le dovesse piacere per forza.
La
sbirciò con la coda dell’occhio, e vide finalmente uno sprazzo di curiosità colorarle
il volto, mentre sollevava il naso per seguire l’indistinto profilo
dell’edificio.
Sarebbe
stato produttivo, decise L, se le fosse piaciuto.
L l’aveva
guidata verso un piano interrato, presumibilmente il futuro parcheggio, e sotto
la fredda luce di regolari file di neon avevano raggiunto un ascensore.
Nascondendo
a fatica la sorpresa, Sophie aveva guardato il ragazzo estrarre una sottile
bacchetta di legno scuro e sfiorare con essa le porte metalliche. L’aveva
seguito senza dire nulla, ed erano scesiulteriormente nel terreno.
Davanti
a loro si aprì poco dopo un lungo corridoio, che sfumava nell’oscurità; nella porzione
illuminata, invece, Sophie vide una pesante porta di metallo bianco: da lì entrarono
in un ambiente vasto, dai soffitti bassi e illuminati con luci non dissimili
dalle precedenti, riquadri al neon alternati all’uniforme superficie
grigiastra.
L’Auror
ispezionò il seminterrato vuoto con la fronte corrucciata, poi sbuffò.
«Ok,
che cosa mi devi chiedere, per pietà di Godric, e perché siamo venuti
fino a qui? Seriamente, Ryuzaki, capisco che ultimamente non siamo in buona, ma
gradirei che non mi ucc-» la strega si interruppe bruscamente, sfoderando la
bacchetta ed evocando un Sortilegio Scudo: il guizzo scarlatto di uno
Schiantesimo Non-Verbale si frantumò in una cascata di scintille azzurrine,
facendola indietreggiare di un passo.
«Ottimi
riflessi» commentò L, prima di spedirle un Impedimenta con un altro
scatto, che lei schivò rispondendo con un Incantesimo di Disarmo; lo Scudo del
ragazzo venne tanto spontaneamente da sembrare agire per conto suo, quasi nello
stesso momento in cui la incalzò con altri due Schiantesimi, abilmente parati
dalla ragazza.
Lei, a
quel punto, portava un largo sogghigno in volto.
«Oh,
dovrai fare di meglio di un paio di Schiantesimi» lo sbeffeggiò, cercando di
sciogliere i muscoli della schiena e muovendosi in passi più attenti e circospetti.
D’accordo, non si aspettava che L la portasse in quel seminterrato asettico nel
bel mezzo di un cantiere stregato, né tantomeno che la attaccasse improvvisamente
alle spalle. Però, rispondere a un attacco a sorpresa era, dal suo punto
di vista, largamente preferibile allo stallo di reticenza e sospetto che si era
instaurato tra loro due.
Quello
era probabilmente un test, eppure il fatto non riusciva a toccarla: in quel
momento, sarebbe stata ben felice di incrociare le bacchette con il detective
anche senza il benché minimo motivo.
«Allora
farò di meglio» promise L imperturbabile, spedendo nuovamente un incantesimo
offensivo contro la strega che, impegnata in un Sortilegio Scudo, si rese conto
appena in tempo del Defodio gettato sul pavimento ai suoi piedi.
«Ascendo!»
esclamò, alzandosi in un balzo che le permise di evitare l’esplosione. Mantenne
a fatica l’equilibrio e cercò di spedire uno Schiantesimo verso L, prima di
trovarsi costretta a una capriola a mezz’aria per atterrare in piedi.
Approfittò della polvere sollevata dall’Incantesimo di Scavo di L, muovendosi
esternamente alla traiettoria che avevano ingaggiato lei e il detective.
Dopo un
paio di passi, però, si vide arrivare addosso una delle macerie che fendevano
l’aria, a una velocità che aveva davvero ben poco di naturale.
«Deprimo!»
Il blocco di cemento si compresse fino a polverizzarsi.
Ruotò
su piede mentre alzava il braccio destro ad altezza del suo occhio, e torse
leggermente il polso mentre pensava “Expulso”.
Un
lampo blu fendette l’aria, spostando al suo passaggio ogni traccia di polvere e
disegnando un corridoio fino al petto di L: il Protego evocato dal
ragazzo era ampio e luminoso, ma dovette assorbire l’impatto piuttosto che
deviarlo, e Sophie vide l’avversario indietreggiare di qualche passo.
Stringendo
i denti.
L aveva
stretto i denti a un suo attacco.
Se non
fosse stata completamente assorbita dal duello… no, gongolò lo stesso.
Solo
per un attimo, però, perché il getto di fiamme che le diresse L era violento e
imponente. La sua fortuna fu quanto ristretto fosse il tiro, permettendole di
circoscriverlo con un Incantesimo Freddafiamma: quell’inferno rovente si
trasformò in una carezza di frizzante aria fresca, che le solleticò la pelle.
Svelta,
per non esaurire troppe energie, si sbrigò a lanciare un Aguamenti che soffocò
il fiotto di fuoco, arrivando quasi a infradiciare il detective, che balzò via
dalla vista della strega.
Si
mosse rapidamente, molto più rapidamente di quanto Sophie si aspettasse
dal ragazzo esageratamente sedentario che conosceva, e riuscì a incalzarla
lateralmente con una fitta sfilza di Schiantesimi, Explliarmus, Bombarda
ed altri incantesimi offensivi.
Senza
scomporsi, la strega scattò per parare e rendere con altrettanta facilità, le
braccia sottili ma allenate che compivano gesti precisi e fulminei nell’aria.
Allora
L cambiò strategia.
Con eleganti
svolazzi di bacchetta, Trasfigurò le macerie in rapaci dai becchi affilati e
altre bestie che sputavano fuoco e veleno, mordevano e artigliavano: arrivavano
da ogni direzione, ed erano abbastanza forti da resistere agli scudi.
Dopo
aver avuto Rubeus Hagrid [1]e la sua passione per le creature
pericolose come insegnanti, però, Sophie non si faceva certo scoraggiare dalla
prospettiva di qualche graffio.
Li
respinse rapidamente, talvolta ritorcendoli contro L, tanto per tenerlo
impegnato mentre lei si dava da fare.
Un paio
di strappi sui jeans più tardi, la strega sbuffò un ciuffo di capelli rossi
dagli occhi,
«Basta
giocare, Ryuzaki» sbottò infine in un lampo di irritazione, mentre faceva Evanescere
l’ennesimo mostriciattolo demoniaco: sapeva benissimo che il mago la stava solo
mettendo alla prova, ma questo non lo giustificava a essere così banale.
In quel
momento, una raffica di lampi dorati distrusse le plafoniere incassate nel
soffitto, facendo piombare la stanza sotterranea nel buio totale.
La
ragazza batté rapidamente gli occhi per scacciare le ombre colorate che le
danzavano davanti agli occhi, poi si sbrigò a spostarsi dall’ultimo punto in
cui l’aveva vista L. Dando fondo a tutta la sua furtività, indietreggiò per
raggiungere la parete, sforzandosi di cogliere il minimo rumore.
Poco
prima di toccare la parete, però, udì due rapidi schiocchi squarciare l’aria, uno
alcuni metri davanti a lei e poi uno alle sue spalle: la Smaterializzazione di
L non aveva niente da nascondere.
Sentì
un respiro sul collo: «Oh, ma io non sto giocando.» Per un singolo, lunghissimo
istante, la ragazza si sentì come ipnotizzata dalla vicinanza della voce del
detective, un brivido traditore lungo la schiena.
Un
attimo, poi Sophie si Smaterializzò dall’altra parte della stanza, evitando per
un pelo uno Schiantesimo. Era una mossa rischiosa, considerando che
quella maledetta stanza era tutta uguale e aveva avuto pochissimo tempo
per memorizzarne l’aspetto, ma riuscì a non Spaccarsi[2]:
le era successo solo una volta, in passato, e riunire il mignolo sinistro al
resto della mano non era stato carino.
Doveva
agire rapidamente, perché il rumore della Smaterializzazione era utile tanto
per lei quanto per il detective.
Per
prima cosa, le luci.
Sophie
corse dritto davanti a sé, perché le plafoniere erano disposte a scacchiera,
perciò doveva solo aspettare di…
Crack!
Sorrise
al rumore e, sollevando lo stivale dal vetro che aveva calpestato, puntò la
bacchetta verso l’alto: «Reparo!».
La
luce, seppur debole e solitaria nel vasto soffitto del seminterrato, riprese
vita sopra di lei, e dovette strizzare gli occhi già doloranti per la mancanza
di sonno. Un fruscio, e la rossa fece appena in tempo a roteare sul posto: una
luce bluastra cozzò contro il suo Scudo, e lei ridacchiò.
I due
ripresero a scambiarsi una rapida serie di attacchi, sollevando ogni volta
ventagli di scintille, polvere e macerie. Nel vivo dello scambio, la rossa si
prendeva anche il tempo di riparare alcune luci, di tanto in tanto, come a prendersi
gioco di lui.
L,
però, non sembrava prendersela. A dire il vero, Sophie pensava di non aver mai
visto un sorriso disegnarsi in modo così definito sul suo volto pallido: il
ragazzo perennemente illeggibile, quello sempre curvo e ritorto come un ramo,
sempre attento a pianificare ogni parola detta con astuzia e implacabile
freddezza… era anche quello. Era movimenti agili, una postura elegante e
aperta, decisioni istantanee, un sorriso morbido e rilassato sulle
labbra.
Sophie
si ritrovò a rispecchiare quel sorriso, timidamente, come se quello fosse un
segreto che conosceva solo lei.
Si
ritrovò anche a stringere la presa sulla bacchetta, però, quasi sfuggitale
dalle mani mentre un Incantesimo di Disarmo la sfiorava: non l’aveva visto
arrivare, non- l’aveva visto, ma non aveva…
L
inarcò un sopracciglio, sardonico, e lei aggrottò la fronte mentre calava
nuovamente un attacco su di lui… che non si spostò. Non si spostava, non stava-
lo Schiantesimo lo avrebbe-
CRACK!
«Scacco
matto.»
Sentì
la punta di una bacchetta premerle sotto il contorno della mascella
nell’istante in cui il muro di fronte a lei esplodeva. Il respiro pesante e il
corpo assolutamente immobile, la ragazza si rese conto non solo della Smaterializzazione
perfettamente calcolata del detective, ma anche del fatto che avesse cambiato
mano: ora la sinistra reggeva la bacchetta, lasciando la destra libera di
chiudersi attorno alla mano dominante della strega.
Fissò
quella mano pallida e fredda che la tratteneva con delicatezza, un contatto
lieve ma fermo attorno al suo polso, che le avrebbe impedito di muovere a
dovere la bacchetta. Si sforzò di respirare, avvertendo il corpo di L alle sue
spalle, a un soffio dal suo.
Qualche
secondo.
Forse
qualche ora.
Le
sembrò che il battito del suo cuore fosse tanto rumoroso da rimbombarle fuori
dal petto, fino in fondo a quella stanza infinita.
Poi
Sophie lasciò cadere a terra la bacchetta, dichiarando la resa. Un attimo più
tardi, L si era chinato a raccoglierla e gliela stava porgendo, nuovamente di
fronte a lei.
Entrambi
accennarono un inchino di rito.
La
strega rilasciò un respiro irregolare. «G-grazie».
Mentre
lei rinfoderava la bacchetta, L alzò la sua verso il soffitto, mormorando: «Finite
Incantatem».
La
stanza sembrò tremare sul posto: dal pavimento in cemento, pieno di buche, alle
pareti di intonaco scrostato, il sotterraneo si deformò, ergendosi in alti muri
uniformi, diventando ancor più pulito e moderno del precedente. Tutto era
rivestito da grandi pannelli opalescenti, che sembravano emanare una soffusa
luce bianca.
Nel
rumore di quella trasfigurazione, Sophie si sforzò di recuperare il fiato e ignorare
la folle rincorsa in cui si era lanciato il suo cuore.
Prima
di rinfoderare la bacchetta, L Evocò due poltrone basse e accoglienti
nell’ambiente spoglio. Sophie inarcò le sopracciglia, studiando i piedi di
legno scolpiti a forma di zampa di rapace e le sedute foderate di velluto blu
damascato, ma non disse nulla. Quando si sedette, avvertì chiaramente la
stanchezza crollarle addosso, e scalciò gli stivali per accomodarsi al meglio.
Appellò il thermos di caffè che aveva portato dall’hotel assieme a due tazze
di plastica e ne porse una al detective, dedicandogli solo un’occhiata furtiva.
In quel
momento, guardando il suo profilo affilato e le guance lievemente arrossate
dal duello, fu particolarmente consapevole di come lei stessa dovesse essere
messa molto peggio. Si tolse nervosamente dei capelli umidi di sudore
dalla fronte, una smorfia sulla bocca.
«Che
posto è questo?» chiese di getto, cercando disperatamente di concentrarsi su
qualcos’altro.
«Un
progetto a cui sto lavorando» fu la vaga risposta di L, a cui lei alzò gli
occhi al cielo.
«E come
funziona? È un incantesimo a sé stante o una caratteristica fisica di questo
posto? Il Finite è per gli incantesimi che agiscono direttamente sulle
persone, no?»
«Difatti,
si tratta di entrambe le cose: un incantesimo che s’incanala attraverso il materiale
utilizzato per costruire la stanza, generando così un completo controllo su
ogni aspetto dell’ambiente… ovviamente entro determinati limiti».
La
strega annuì, ammirata. «Come… il soffitto di Hogwarts?» insinuò dopo un po’,
con un sorrisetto saccente.
Lui si
limitò ad affondare il naso nella propria tazza.
«Va
bene, va bene…» si arrese la strega, divertita dalla reticenza del mago. «Ho
passato il test, quindi?»
«Hai
riflessi molto al di sopra della media ed una conoscenza variegata, versatile…
tutto sommato, sebbene tu tenda a trovare soluzioni un po’ grossolane...» Ma
senti questo! «… sono comunque efficaci... Duelli molto bene… un giorno
potrei anche pensare di sfidarti seriamente».
Sophie,
dopo un attimo di breve esitazione, decise di ignorare quell’ultimo commento.
Decise anche di non ammettere a sé stessa di starsi crogiolando nel complimento
del detective.
Un
complimento di L, dopotutto, non era cosa da poco.
Non
che m’importi.
Sophie
sospirò, guardando l’ombra del suo riflesso sulla superficie del caffè.
Una
cosa poteva ammetterla: era piacevole parlare con lui. Parlare davvero,
come avevano smesso di fare dopo quella notte, dopo quella discussione. Era una
sciocchezza, era esattamente quello che si era detta di dover evitare per tutto
dicembre, quello che aveva giudicato inammissibile e sconsiderato e fuori
luogo.
Eppure
si sentiva finalmente calma, per la prima volta in una settimana: non aveva lo
stomaco chiuso per l’ansia, non sentiva il bisogno di irrigidire le spalle ed
evitare ossessivamente il suo sguardo penetrante.
Sono
una stramaledetta idiota.
«Ora mi
dici se farai andare me al tuo posto o meno?» domandò stancamente la strega,
cercando di riscuotersi dai suoi pensieri mentre guardava L di sottecchi.
Lui
scosse impercettibilmente il capo, sorbendo il suo caffè. «Fraintendi la
situazione, Sophie: io parteciperò comunque all’operazione».
La ragazza
batté le palpebre, incredula.
Perché
diavolo allora…
Vagamente
consapevole di stare per acquisire un tic all’occhio, Sophie si massaggiò gli
occhi brucianti.
«Ryuzaki,
ti prego, arriva al punto» implorò, riaprendo gli occhi: scoprì che il
mago aveva fatto sparire la tazza di plastica, e ora tra le dita reggeva una
boccetta di vetro, che le porse lentamente.
«Che
cos’è?» inquisì curiosamente lei, soppesandola e rigirandola fra le mani, i
polpastrelli che scorrevano piacevolmente sulla superficie smussata.
«Una
pozione che ho richiesto a Watari… niente di particolarmente potente, ma volevo
evitare che ti potesse procurare dipendenza» espose sibillino il detective, una
nota di titubanza nella voce.
La
strega inarcò un sopracciglio. «Dipendenza?» Titubanza?
«Sì, è
un rimedio alquanto blando per… conciliare il sonno».
Quella spiegazione sapeva di ammissione,
e Sophie strinse pericolosamente gli occhi. Balzò in piedi, sventolando la piccola
fiala come se si trattenesse dallo scagliargliela in testa.
«Ryuzaki, se pensi che ti dirò il
perché io non- se pensi di ricattarmi con il rimedio, o con la mia
partecipazione alla missione, o- giuro che ti-»
«Sei fuori strada» la interruppe L, senza
guardarla in volto mentre si alzava e faceva scomparire le poltrone. «Non…
pretendo che tu dica nulla, ma pretendo che tu ricominci a dormire in
maniera adeguata, prima di partecipare alla missione».
L’ira di Sophie si estinse tanto
rapidamente quant’era divampata, e la strega rimase a fissarlo, spiazzata.
L… senza guardarla in faccia, senza
sfidarla con lo sguardo, senza incombere su di lei, dandole le spalle, la
schiena curva e il capo voltato… le stava offrendo una soluzione. Le stava
offrendo un aiuto, senza volere niente in cambio.
Non voleva avere la risposta, non
voleva sapere cosa la tenesse sveglia, cosa tormentasse le sue notti e la
facesse vacillare sotto il peso della sua stessa stanchezza.
Non le stava negando davvero
l’accesso al campo o alle indagini, capì in quel momento, né la stava
ricattando.
Sophie aveva anzi l’impressione che il
caso, per una volta, non c’entrasse proprio nulla.
Ha appena… fatto un passo
indietro?
Il ragazzo si voltò finalmente verso
di lei, schiarendosi la voce. «Va tutto bene?»
Lei si riscosse e annuì
freneticamente, guardando la boccetta che stringeva fra le dita. «Grazie...
Davvero».
L rispose con un cenno del capo, il
volto privo di espressione ma le spalle leggermente tese.
Sophie tentennò, irrequieta; lo fissò,
mordendosi un labbro. Poi scattò in avanti.
Avrebbe voluto dire di non sapere
cosa stesse facendo, ma lo sapeva.
***
«Neville è strano».
Due sedie girevoli scricchiolarono
dietro le rispettive scrivanie.
«In che senso?»
«Non mi sembra meno miserevole del
solito»
«Malfoy!» sbuffò Harry, aggrottando
la fronte.
«Malfoooy, gne gne» gli fece
il verso il biondo, alzando gli occhi al cielo.
«No, davvero, è strano» ripeté
imperterrito Ron, passandosi una mano tra i capelli rossi.
Harry lo guardò con aria perplessa,
seguendo il suo sguardo fino al loro collega che, sebbene sembrasse un po’
smunto, stava chiacchierando animatamente con Dennis Canon. Stando
all’entusiasmo con cui indicava le succulente allineate sulla sua scrivania, si
doveva essere lanciato in una delle sue tirate di Erbologia e giardinaggio
babbano.
«Boh, a me sembra normale» commentò
Harry, stringendosi nelle spalle.
«Oh certo, è risaputo quanto
tu sia bravo a valutare le persone, Potter»
«Stai dando ragione a me?» chiese Ron,
con aria allarmata.
«Non ho detto questo» sibilò
Draco, incrociando le braccia davanti al petto.
I tre si scambiarono delle
occhiatacce, prima di tornare a fissare Neville che, del tutto ignaro, era
passato alla pianta in vaso dalle foglie cangianti che riposava in un angolo
della sua postazione.
«Ok, so che sembrerò pazzo, ma in
questi giorni si comporta in modo proprio… cioè… strano» ribadì Ron.
«Ora sì che è tutto chiaro».
Harry guardò Draco con aria esasperata, ma si rivolse al migliore amico con
espressione di scuse. «Ron, sinceramente non sei mai stato un mito nel-ehm,
cogliere l’umore degli altri. Quindi… cos’hai visto?».
Il rosso aprì e chiuse la bocca un
paio di volte, poi si sporse verso i colleghi, nonostante non vi fosse poi
tutto questo spazio per sporgersi. «L’ho visto uscire dall’ufficio di Robards, stamattina
presto, prima degli orari d’ufficio, e sembrava… non lo so, arrabbiato»
«Neville?»
«Paciock?!»
«Appunto!»
Le sedie di Harry e Draco
scricchiolarono di nuovo ruotavano verso Neville.
«…Oh, andiamo, persino a
Paciock salterà qualche rotella ogni tanto, e Robards è un maestro nel
far marcire il fegato alle persone»
«Sì, vero… però…»
Gli Auror si scambiarono uno sguardo
incerto: non era molto per cui scomporsi, in effetti, ma tutti e tre sapevano che
si trattava dell’ennesima stranezza che accadeva attorno a Robards.
«Beh, una chiacchierata non fa male a
nessuno» decise Draco con fare noncurante, prima di tornare a sorvegliare
l’attento lavoro della sua piuma color smeraldo, intenta a compilare rapporti
per lui in bella grafia.
«Malfoy, che vuoi fare?» chiese
sospettoso Ron, il mento che già sporgeva minacciosamente.
«Quello che voi due non sapreste
fare»
«Ma che stai dicendo?»
«Oh, per favore, siete amichetti da
quando avete undici anni, volete dirmi che sapreste imporvi un minimo su
Paciock? Io, d’altronde, ho alle spalle un certo… allenamento».
Sui volti dei due ex-Grifondoro si
dipinsero espressioni apprensive, ma nessuno dei due trovò nulla da ribattere.
Harry si strofinò gli occhi sotto le
lenti rotonde degli occhiali. «Va bene, ma ti prego non fare casini.»
«E quando mai.»
[1] Custode delle
Chiavi e dei Luoghi a Hogwarts, nonché professore di Cura delle Creature Magiche
e grande appassionato di creature magiche pericolose (spesso illegali lol
amiamolo)
[2] Per Smaterializzarsi,
occorre concentrarsi molto bene sul luogo in cui ci si vuole Materializzare: il
rischio è compiere l’operazione solo in parte, lasciandosi alle spalle parti
del corpo. Per intenderci, ciò che accade a Ron ne “I Doni della Morte”.
Qualche sano abbraccio
non aveva mai ucciso nessuno
13
gennaio 2004
«Grazie».
L rimase immobile, perché stava
guardando altrove, perché per l’ennesima volta stava evitando il suo sguardo
quando lei si mosse. Poi rimase immobile perché non se l’aspettava.
Non si aspettava di dover
riguadagnare l’equilibrio per l’improvviso slancio della strega, lo scontrarsi
di un calore estraneo contro il suo corpo, le braccia serrate rapidamente
dietro la sua schiena. Non si aspettava il profumo di fiori che lo investì, il
respiro irregolare che gli solleticò una spalla, la voce gentile che gli sfiorò
l’orecchio come una carezza.
Gli sembrò di trattenere il respiro
per un lasso di tempo impossibile, pietrificato da una sensazione che non
sapeva riconoscere. Era come se avesse solo conosciuto brusio di sottofondo,
per tutta la vita, un agitarsi impalpabile di pensieri e di percezioni che
invadeva freneticamente la sua mente e che non aveva mai davvero notato finché,
d’improvviso, cessò.
Si mosse, infine, senza pensare:
cinse il corpo minuto in un abbraccio leggero e curvò leggermente il capo su di
lei, respirando nei capelli rossi che gli solleticavano il volto. Si mosse con
cautela, come se ogni logica gli dicesse che si sarebbe incrinata, rotta, dissolta
non appena l’avesse sfiorata. Eppure era ancora lì, pochi istanti più
tardi, quando contrasse leggermente le dita sulla sua schiena. Un respiro
lentissimo, e il detective eternamente insonne chiuse gli occhi.
… Avrebbe continuato a dire a Watari
che non sapeva di cosa stesse parlando, a dire che tutto il suo interesse era
per il caso, che le concessioni che le faceva erano per il caso, che la
posizione in cui si continuava a mettere fosse per il caso, che il loro
continuo giocare al gatto e al topo fosse per il caso. Avrebbe continuato a
ignorare le ovvie conclusioni con cui si era, in realtà, già scontrato. Avrebbe
continuato a dare la priorità al caso.
Perché era un bugiardo.
Si sarebbe preso, però, quei pochi
centimetri di pace, di calore, di quello che non aveva mai conosciuto e di cui
non gli era mai importato.
Perché era un egoista.
***
17 gennaio 2004
I corridoi dell’Accademia Auror di
Tokyo sapevano essere imponenti, soprattutto per coloro che, ogni febbraio,
colmavano l’aula magna per tentare la sorte all’esame di ammissione. Spesso
invano, peraltro, perché la sorte aveva ben poco a che vedere con quei
severissimi test scritti.
La struttura slanciata e solida
dell’Accademia ricordava la tradizionale maestosità della Mahōtokoro[1],
un’immensa pagoda dai tetti arcuati, grondaie a forma di dragoni e mura
intarsiate di storie raccontate a colori brillanti, indifferenti allo scorrere
del tempo. L’atmosfera era però ben diversa dall’aria sognante del Palazzo di
Giada: i muri di carta di riso non avevano nulla di fragile nel modo in cui si
stagliavano alti sugli studenti, contorcendosi in infiniti labirinti volti a
far sentire piccoli e confusi estranei e novizi.
L’anzianità dei cadetti era infatti
chiaramente intuibile dal modo sicuro e sbrigativo con cui solcavano quel
dedalo di legno e carta di riso, dedicando ai nuovi applicanti solo qualche
occhiata inquisitoria.
Era in uno di quei corridoi che, un
guanto stretto in mano e una cartella penzolante dalla spalla, una ragazza
stava ferma a frugare il flusso di persone con lo sguardo.
«Ehi, hai perso…» la sua
timida voce, quello sfarfallio di parole giapponesi, si spensero nel nulla,
mentre perdeva di vista lo studente a cui era caduto il guanto.
D’altronde, era facile sparire in
mezzo a quella folla, che sballottolava involontariamente la sua esile figura.
Corrugò le sopracciglia bionde, studiando titubante l’indumento di lana nera.
Poi, facendosi coraggio, sistemò lo spallaccio dello zaino su una spalla e si
affrettò lungo il corridoio ghermito di persone.
Se, come tutti gli altri, si era
recata all’Accademia per sostenere il test di ammissione, la giovane doveva
avere almeno diciassette anni. I grandi occhi blu e il caschetto di sottili
capelli biondi, che le solleticava appena la mascella, sembravano però quelli
di una bambina.
Assottigliò gli occhi a mandorla,
sforzandosi di scrutare per bene gli studenti, poi lo vide: fortunatamente il
mago, vestito di una giacca bianca, saltava subito all’occhio tra coloro che
sciamavano dalla scalinata dell’edificio.
Una scelta bizzarra, quel bianco:
nella scuola magica giapponese, una divisa che si fosse improvvisamente tinta
di bianco sarebbe stata segno di illegalità, disonore, un preludio
all’espulsione[2]. Certo, non era quello il caso.
Si affrettò a corrergli dietro. «S-scusa!
Scusami- scusate, scusatemi tanto, permesso- ehi-Scusa!» sbottò infine,
arrivata a pochi metri da lui.
Finalmente, il ragazzo si voltò,
un’espressione perplessa in volto mentre soppesava rapidamente la sua figura.
La bionda arrossì violentemente, gli occhi che fuggivano verso il terreno
mentre gli porgeva il guanto.
«P-perdonami ma io-ti è c-caduto,
prima» farfugliò, mordendosi un labbro. Probabilmente, si stava maledicendo
per il suo stesso nervosismo, dato che la portava a balbettare a quel modo. Del
resto, non sembrava conoscere molto bene la lingua.
Sul volto fresco e affascinante del
giovane si dipinse un sorriso gentile. «Che sbadato, grazie mille, non lo
avrei mai trovato altrimenti» le disse, prendendo il guanto e sfiorandole
inavvertitamente la mano. Gli occhi blu di lei saettarono verso l’alto per un
istante, prima che ritraesse di scatto il braccio.
«F-figurati».
Lui intascò l’indumento, poi la
guardò per qualche istante. «Io sono Light Yagami, molto piacere».
Chiaramente, la ragazza non si
aspettava che le rivolgesse la parola, visto come inarcò le sopracciglia in
un’espressione di sorpresa tanto aperta che fece sorridere Light.
«Hikari L-Lewis»
«Inglese?»
«S-sì» ammise lei,
visibilmente imbarazzata, «i-immagino che il mio Giapponese non sia molto
b-buono»
«Uhm… forse hai bisogno solo
di un po’ di esercizio. Hai studiato in Inghilterra?»
Hikari batté le palpebre un paio di
volte: si era appena messo a parlare in inglese? Per lei?
Con un sorriso timido, annuì. «Sì io…
ho frequentato Hogwarts, mi sono trasferita l’estate scorsa…»
«Oh, quindi sei più grande di me»ridacchiò
Light.
«Immagino di sì… c-come è andato
l’esame?»chiese titubante. Non poté non notare il sorrisetto del
ragazzo a quella domanda. Come se fosse un quesito un po’ ridicolo da porgli.
«Credo bene, il tuo?»
Lei si strinse nelle spalle. «Sono
più agitata per quello di Duello, a dire il vero»spiegò, corrugando
nuovamente la fronte.
«Non per Pozioni? Solitamente, è l’esame
più temuto»
«No»replicò subito la bionda,
per la prima volta senza tentennamenti nella voce,«Pozioni è la mia
materia preferita… sono piuttosto brava» aggiunse infine, con una sincera nota
di orgoglio.
Light inarcò un sopracciglio. «Ah sì?
Beh, allora non vedo l’ora di vederti all’opera…»le disse, con un
giocoso accenno di sfida nella voce melodiosa.
Lei non rispose, limitandosi ad
annuire, ma i suoi occhi brillavano.
I due rimasero a fissarsi per qualche
momento, poi gli occhi nocciola del ragazzo scivolarono sull’orologio che
portava al polso. «Oh, è tardi, io… ora devo andare, ma… ci vediamo a febbraio,
no?»
Hikari, a questo punto, sorrideva
apertamente, quasi trasognante. «Sì! E, ehm, s-spero di parlare un
Giapponese migliore- la prossima volta»
«Scommetto che sarà così» le rispose il ragazzo, facendole l’occhiolino, prima di voltarsi per
andare a casa.
***
20 gennaio 2004
Una
settimana dopo il duello, Sophie aveva ripreso a dormire.
Non era
esattamente uno di quei sonni profondi e ristoratori, né gli incubi erano
totalmente scomparsi, ma qualche notte di sonno consecutiva l’aveva rinvigorita
enormemente.
Inoltre,
al secondo duello, aveva dato maggiore filo da torcere a L.
L.
Tra
loro era tornata la… normalità.
Sì, la
normalità, con le chiacchierate, le discussioni, i colleghi giapponesi che li
guardavano straniti perché lei rideva anche davanti all’espressione più arcigna
che lui potesse assumere, e Watari che sembrava gongolare costantemente per qualcosa.
Perché,
sì, l’aveva notato. Solo che, inizialmente, pensava di starselo immaginando.
Poi però la routine si era consolidata: Watari entrava per proporre tè, o scones,
o pasticcio di carne; L guardava Sophie ridere, o imbronciarsi, o scegliere il
pranzo; Watari guardava L, L guardava Watari, Matsuda chiedeva gli scones;
Watari sorrideva sotto i baffi mentre usciva. Matsuda rimaneva senza scones.
Ora,
sorvolando sulla lenta trasformazione di Watari nella signora Weasley, Sophie
era particolarmente intrigata dalla parte in cui L fulminava con lo sguardo il
suo braccio destro: non era del tutto sicura del perché il maggiordomo
fosse tanto allegro, ma aveva abbastanza teorie da non voler particolarmente
approfondire la questione.
Le
teorie erano tutte frutto della, ehm, riappacificazione.
Così
aveva catalogato quello strano momento con il detective. Non che avesse nulla
di strano, lo aveva semplicemente abbracciato. Lei abbracciava sempre
i suoi amici.
Quindi,
ok, non erano semplici colleghi, erano amici. Non c’era niente di male
nell’essere sua amica. Sicuramente non era né la prima né l’ultima a
farsi amica il detective.
La
strega, intenta a sedersi in una confortevole poltrona parecchio più alta di
lei, si bloccò prima di toccare la seduta.
L ha amici, vero?
Batté
le palpebre, guardando il detective con occhi sbarrati.
Lui era
perfettamente concentrato su una torre di zollette di zucchero, indicatore
lampante di quanto fossero in stallo le indagini. L’operazione non
sembrava però coinvolgere abbastanza le sue capacità cerebrali da renderlo
disattento.
Inarcò
un sopracciglio, prima di portare gli occhi cerchiati di nero sulla strega.
«Sì?»
Lei si
lasciò cadere nella poltrona, le gambe incrociate e un braccio abbandonato sul
bracciolo. Alzò un indice, come per parlare, ma annaspò per cercare un
argomento che non la portasse a chiedergli quali cerchie della società magica
frequentasse.
«Light
Yagami!» sbottò, vittoriosa. «Sappi che ce l’ho ancora con te per Light Yagami,
mi devi un favore».
Soddisfatta
della scusa, Appellò un libro, senza aspettare risposta.
Il
detective, però, abbassò la zolletta che stava per posizionare sul suo progetto
ingegneristico. «Stavi lavorando, perché ti dovrei un favore?» La strega lo
conosceva abbastanza da cogliere la nota di sincera confusione nella sua voce.
«Perché
ho sottoscritto per una delicata indagine di alto profilo su un serial killer,
non per farmi fare gli occhi dolci da un diciassettenne. Mi devi un favore.»
replicò fermamente Sophie, mentre proseguiva a leggere come se nulla fosse.
Lui
rimase un attimo in silenzio, come se stesse riflettendo sulla sua risposta. «Stavi
lavorando» insistette poi, e Sophie sapeva che doveva aver
leggermente aggrottato la fronte, sotto tutti quei capelli neri.
«Mi
sono fatta bionda e ho finto di lasciarmi abbindolare da un
diciassettenne. Mi devi un favore.»
Sophie
sapeva anche che L la stava scrutando di sottecchi, e non si curò di trattenere
un sorrisetto divertito.
«…
Allora sarai felice di sapere che ho accolto la tua proposta»
«Quella
di dare la Polisucco a Matsuda, la prossima volta?»
«No,
quella di far venire qui la tua squadra».
Le mani
di Sophie scattarono goffamente a recuperare il libro di Incantesimi prima che
le cadesse a terra. «S-stai scherzando?»
Non che
il volto impassibile del detective recasse traccia di un qualche tentativo di
ironia, anzi: la scrutava con aria particolarmente concentrata, il capo
leggermente inclinato e i capelli scuri a piovergli in faccia. Si premette un
pollice contro le labbra sottili, mentre scuoteva il capo.
Il volto
di Sophie si aprì lentamente in un sorriso. Uno di quelli graduali, che
accompagnano la realizzazione e illuminano gli occhi a non finire, di quelli
che ti fanno alzare da dove sei seduto e lanciare gridolini poco seri e
saltellare sul posto.
«Oh Merlino!
Quando? Quando l’hai deciso? Quando arrivano? Non mi stai prendendo in giro,
vero?»
«No,
non ti sto prendendo in giro, arriveranno il primo febbraio… l’ho deciso
qualche tempo fa»
«E cosa
aspettavi a dirmelo?!» La strega sottolineò la domanda con un altro saltello.
«Beh,
suppongo di aver pensato di non dirtelo».
Ah.
Lei lo
scrutò con sospetto, un angolo della bocca sollevato nell’inizio di un sorriso.
«Ryuzaki… pensavi forse di farmi una sorpresa?».
Si
sentì ridicola nel dirlo. Però quale altro motivo poteva avere una
persona schietta e dalla memoria ferrea come lui? Non si sarebbe stupita se
avesse trattenuto informazioni segrete o che preferiva rimanessero tali, ma la
ragazza difficilmente avrebbe mancato di notare l’arrivo di Harry, Ron e
Draco.
Perciò…
«Ho
pensato che ti avrebbe fatto piacere» replicò piattamente il detective,
stringendosi nelle spalle, «il sessantasei percento delle persone reagisce
positivamente all’arrivo inaspettato di persone attese a lungo, e ho pensato
che tu rientrassi-»
«Ryuzaki?»
lo interruppe Sophie, passandosi una mano sul volto sorridente mentre lui
taceva di botto, «Grazie, ha-hai pensato giusto, io… grazie» farfugliò,
senza smettere di sorridere.
Decisamente,
le cose tra loro avevano preso una piega ben diversa da quando si erano
chiariti, ma non si sarebbe certo aspettata nulla del genere: se voleva
sorprenderla, beh diamine ci stava riuscendo.
Forse
doveva pensare a qualcosa per sdebitarsi, come una confezione regalo di
dolciumi, o-
«Ora mi
abbraccerai?» La domanda a bruciapelo le fece quasi cascare la mascella, e la
strega avvertì il calore cocente che le affluì alle guance.
Batté
le palpebre con quella che sapeva essere un’aria abbastanza stupida, e si
riavviò nervosamente i capelli dietro le orecchie. Per un attimo si chiese se
fosse una burla o una domanda sincera, ma non scorse traccia di sfida negli
occhi del detective.
Sophie
stava giungendo alla rapida conclusione che, no, il detective non aveva amici.
In ogni caso, preferì non soffermarsi su quanto poco dovesse essere abituato al
contatto umano, non era davvero affar suo quanto e quale affetto ricevesse
nella sua vita privata. Se ne aveva una.
In ogni
caso, nulla le vietava di curarsi del loro, di rapporto, di quella
strana complicità. Era il capo delle indagini, ok, ma a quanto pare aveva
accettato di essere anche suo amico, nell’attimo stesso in cui le aveva offerto
aiuto senza volere nulla in cambio. Per cui… perché no? Qualche sano abbraccio
non aveva mai ucciso nessuno.
Alla
fine, Sophie si costrinse a balbettare una risposta per sbloccare quella strana
situazione. «B-beh, se non ti dà… fastidio, insomma… sì, hai fatto una cosa
gentile, s-sì».
Rimasero
a fissarsi per qualche secondo. Poi la strega fece un passo avanti, uno strano
e adrenalinico nervosismo sotto pelle.
«Ryuzaki,
un gufo dal Ministro» Sophie quasi saltò nella sua poltrona, e lo scatto non
sfuggì a Watari.
L si
alzò, aggrottando lievemente le sopracciglia mentre Watari guardava Sophie con
la coda dell’occhio. «Leggerò nell’altra stanza» sentenziò, infilando le mani
in tasca.
«Certo»
replicò il mago, riportando gli occhi su di lui. I candidi baffi dell’uomo
fremettero leggermente.
Sophie,
in un angolo della sua mente, recitò: L guarda Watari, Watari guarda L,
Watari sorride, Watari esce.
Sulla
pergamena color crema, in un triste inchiostro grigiastro che L sapeva essere
la preferenza del suo contatto, vi era scritta un’unica parola.
Talpa.
***
22 gennaio 2004
Ginny non era pienamente entusiasta
della partenza di Harry, ma non poteva dire di essere sorpresa: di solito, se
non erano i guai a trovare Harry, era Harry a trovare loro. Era semplicemente
così, da ben prima che lo conoscesse.
Aveva
imparato ad avere fiducia in lui, fiducia nel fatto che sarebbe tornato a casa,
anche a costo di morire. Certo, non esattamente la definizione di
rassicurante, ma comunque abbastanza perché potesse vivere serenamente la sua
vita mentre il fidanzato era coinvolto nell’ennesimo, prevedibile caso di vita
o di morte.
Una
parte di lei ringraziava profondamente Godric, Merlino e ogni grande
stregone della storia per non aver ereditato il tratto spiccatamente ansioso di
sua madre: se fosse stata un briciolo più simile a Molly Weasley,
probabilmente Harry avrebbe finito per non vedere mai più la luce del sole.
Ironicamente
parlando.
Ginny
storse il naso al suo riflesso.
…
Credo.
Il suo
riflesso, però, sembrava ormai stufo di vederla cincischiare. La fulminò con lo
sguardo dalla superficie dello specchio ovale posto in un angolo della stanza,
apostrofandola: «Tesoro, hai finito di deviare la conversazione?! Credo
che il tuo bello sia in partenza!».
La
Ginny Weasley nello specchio teneva le mani sui fianchi in una perfetta imitazione
di sua madre, ma scuoteva il capo con una riprovazione che era tutta sua.
La
Ginny Weasley fuori dallo specchio incrociò le braccia e si squadrò con
aria altera. «Non sto deviando la conversazione, non c’è niente da
deviare» replicò seccamente.
«Oh,
no, infatti» replicò sarcastico il suo riflesso, «quindi credi davvero
che nessuno noterà questo, giusto?!» Riflesso si voltò di lato e, senza
troppe cerimonie, alzò l’ampio maglione giallo senape per scoprire la pancia della
ragazza.
Anzi,
per la precisione della atleta professionista che giocava da anni in una
delle prime squadre del Campionato di Quidditch: di sicuro Ginny non era una
maniaca della forma fisica, ma ciò non le aveva mai impedito di esibire un
fisico abbastanza irrobustito dai muscoli e una discreta schiera di addominali.
Hermione
le diceva sempre di non capire come uno sport praticato da seduti
potesse far venire gli addominali.
«Prova tu
a volare per ore stringendoti a un ramo» bofonchiò con disapprovazione la
rossa.
«AHEM?!»
sbottò impaziente il suo riflesso, indicando con esagerati
sventolii della mano l’addome della ragazza che formava una… Una lieve,
dolcissima curva spolverata di leggere lentiggini.
L’espressione
solitamente stoica e risoluta della ragazza sembrò sciogliersi in uno sguardo inquieto,
mentre tentava inutilmente di deglutire con la gola secca.
«Ti ci
vorrà ben più di un maglione sformato, tra qualche settimana» sbuffò
saccente il suo riflesso, guardandola con riprovazione dalla sua cornice di
legno bianco.
In un
lampo, il volto di Ginny si fece paonazzo per l’irritazione, e forse anche
un po’ per l’imbarazzo. «Non vedo come questo sia un tuo problema!»
«Lo è
se continui a vestirti in modo atroce solo perché non ti decidi a dirlo ai
tuoi amichetti!»
Ginny
pestò un piede in maniera davvero esasperata e davvero poco matura. «I
miei amichetti sono impegnati in un’indagine mortale!»
«E
non è una ragione in più per dirglielo?!»
«GRRRRR!»
La strega soffocò malamente un urlo fra le mani, sfregandosi il volto con stizza
mentre borbottava ingiurie: sapeva che accettare da sua cognata Fleur quel
delicato specchio, tutto piedistalli arricciati e cornici intarsiate, le si
sarebbe ritorto contro. Ovviamente il complemento di arredo doveva
essere dotato di una personalità spocchiosa e indelicata esattamente come
la spocchiosa e indelicata francesina che glielo aveva regalato.
«Tesoro,
con chi stai litigando?» Ginny sobbalzò, voltandosi di scatto a guardare Harry
che, affacciatosi sulla soglia della loro camera da letto, alternava già lo
sguardo tra lei e lo specchio con aria divertita.
«Harry,
ti giuro che se ridi sei fuori da questa casa».
Il mago
inarcò un sopracciglio, un sorrisetto ironico sul volto come a ricordarle di essere
in partenza per ilGiappone.
«Permanentemente»
precisò allora la rossa, incrociando le braccia con uno sbuffo.
«Va
bene, va bene» ridacchiò il ragazzo, alzando le mani in segno di resa.
Ginny lo guardò avvicinarsi e, mentre faceva scivolare le braccia attorno alla
sua vita, il suo minaccioso cipiglio mutò rapidamente in un morbido sorriso.
«Comunque
sai che ti coprirei con Bill e Fleur, se decidessi di sbarazzartene»
«EHI!»
sbottò lo specchio.
«Ce l’hanno
regalato a Natale, dobbiamo almeno fingere di averci provato».
Harry fece
spallucce. «Magari in mia assenza hai deciso di approfittarne per ridecorare e
ti è caduto»
«Siete
dei bruti!»
«Esiste
una cosa chiamata Incantesimo di Riparo»
«Caduto
molto bene»
«Selvaggi.»
I due
ridacchiarono sommessamente della sdegnata reazione dello specchio, rimanendo
in silenzio finché le lamentele non si furono spente.
«Tra
quanto partite?» La voce di Ginny arrivò attutita da dove si era sepolta nel
petto del ragazzo, che adagiò il mento sul capo rosso fuoco.
«Tra
una settimana, il tempo di predisporre gli ultimi dettagli e andarcene senza
destare sospetti»
«Sophie
lo sa?»
«Non
saprei, non è che ci abbiano permesso di scriverle alcunché». Harry non fece
nulla per celare il disappunto che condiva la sua voce, e Ginny sorrise alla
sua onnipresente necessità di sapere tutto.
«Lo sai
che una volta lì dovrai seguire ordini di qualcun altro, vero?» gli chiese
ironica, sollevando il capo quel tanto che bastava per guardarlo con un
sopracciglio inarcato.
«Beh?
Io seguo ordini anche qui» si difese il ragazzo, scostandosi a sua volta con la
fronte aggrottata.
«Sì, ma
lo sappiamo tutti e due che Robards ti tratta più come un pupillo che come un
sottoposto… ti sta preparando per ereditare la baracca».
Harry distolse
lo sguardo dal suo, seppellendosi nell’incavo del suo collo tra borbottii
scontenti.
«Harry-
lo sai che ti toccherà, prima o poi» lo rimbeccò Ginny, punzecchiandogli un fianco
con un dito.
«Non mi
ci far pensare, Robards è già abbastanza insopportabile quando sostiene di
volermi rispedire in Accademia, non voglio immaginare cosa succederebbe
se iniziasse davvero a parlarmi di una promozione»
Ginny
scrollò le spalle sotto il peso del ragazzo. «Probabilmente ti manderà lettere
minatorie e minacce di morte».
Fu il
turno di Harry di soffocare un lamento.
La
rossa sogghignò, dandogli qualche colpetto alle spalle prima di abbracciarlo
sul serio: respirò lentamente in quel senso di familiarità, di casa, e improvvisamente
la colpì la consapevolezza che, in quell’abbraccio, vi fosse anche qualcun
altro.
Quando Ginny
fu scossa da un singulto, Harry aprì gli occhi di scatto, confuso: la prese per
le spalle e la frugò con lo sguardo, impiegandoci ben più del necessario
per capire cosa stesse succedendo.
Ginny
non poteva biasimarlo perché, ne era sicura, non solo poteva dire di aver
pianto una manciata di volte da quando era un’adolescente, ma Harry non aveva
visto che un paio di quelle. Dalla sua, però, la rossa era abbastanza convinta
che scoprire di essere incinta alla vigilia della partenza del proprio compagno
per una missione mortale dall’altro capo del mondo in qualche modo valesse
come giustificazione. Almeno quella volta. Almeno per gli ormoni.
«G-Ginny,
amore, che cosa- cosa succede, stai male?!» si affannò Harry,
visibilmente in tilt mentre gli occhiali gli scivolavano sulla punta del naso e
le prendeva il volto fra le mani con aria assurdamente preoccupata. Ginny quasi
rise nel vedere il modo frenetico con cui gli occhi verde chiaro cercavano
inutilmente una qualche ferita, e riuscì a calmarsi quel tanto che bastava per
sorridergli, il volto congestionato e le mani su quelle del ragazzo.
Prese
un paio di respiri tremanti, guardandolo dritto negli occhi per attirare la sua
attenzione.
«Ginny…»la chiamò flebilmente il mago, con un tono che era un misto di desolazione
e supplica.
«Shhh,
va tutto bene… ora ti devo dire una cosa, ok Harry?»
Helo meraviglie: not gonna lie, non ho
riletto, ma è uno dei capitoli più lunghi e spero vi piaccia. Missed u all :3
NOX
Capitolo 14
Non era niente di razionale
1
febbraio 2004
Matsuda
si sistemò in un angolo del divano, ancora intorpidito dal freddo e dal sonno.
Il gufo mandato da L aveva beccato sulla sua finestra alle cinque e,
quando Touta aveva attraversato la città in tutta fretta, il sole era ancora
ben lontano dall’uscire a mitigare l’aria gelida di Tokyo.
La
convocazione a sorpresa lo incuriosiva, sì, ma non abbastanza da impedirgli di
affondare sempre più nella seduta confortevole. Dopotutto, L era abbastanza
strano da chiamarli a raccolta a un orario del genere.
Sophie,
lei si comportava in maniera bizzarra: inquieta, perfettamente sveglia
e… entusiasta?
In
quell’ultimo mese, la ragazza aveva solo e unicamente manifestato un solido e
risentito malumore nelle prime ore del giorno, la fronte aggrottata e le dita
costantemente serrate su una tazza di caffè caldo.
Invece
eccola lì, ad accoglierli trillando “Buongiorno!” alle sei del mattino:
Matsuda aveva cercato lo sguardo di Aizawa, allarmato dall’energia con cui
Sophie si era messa a distribuire tè e caffè alla stregua di Watari.
Che
poi, dove diamine era Watari?
«Bene,
ora che siete qui, non ci resta che aspettare» proferì L quando si furono
accomodati, apparentemente assorto nell’impilare zollette di zucchero con delle
piccole pinze che ricordavano le zampe di un rapace.
Il
Sovrintendente si schiarì la voce. «Scusa, Ryuzaki, ma aspettare cosa?»
Ci
fu un attimo di silenzio, in cui tutti gli occhi della squadra si posarono su
L.
Poi
ogni traccia di allegria sparì dal volto di Sophie. «Non glielo hai ancora detto?!»
Matsuda
si risvegliò definitivamente dal suo stato letargico. «Ehm, detto che cosa?»
Lo
sguardo incredulo e irritato della rossa saettò su di lui, e l’agente dovette
trattenersi dal sussultare. «Non ve l’ha detto!» ribadì esasperata,
passandosi una mano sulla faccia. «Avevi detto che glielo avresti detto»
sibilò accusatoria ad L.
«Mi
sarà passato di mente»
«No
che non ti è passato di mente, tu non sai farti passare le cose di
mente!»
Se
gli occhi di Matsuda non fossero stati impastati dal sonno, avrebbe quasi pensato
che L avesse sospirato mentre gettava via con poco riguardo le pinze
d’argento. «Ho preferito mantenere la totale segretezza il più a lungo
possibile…»
«Non
lo dire»
«…
per motivi di sicurezza».
Matsuda
capì di essersi perso qualcosa quando Aizawa, accanto a lui, si fece rigido
come un pezzo di legno. Anche lo sguardo preoccupato di Mogi, seduto sul divano
di fronte, non prometteva niente di buono.
Il
Sovrintendente prese un respiro. «Ryuzaki, devo dedurre che tu ci stai
nuovamente nascondendo informazioni?»
Oh,
pensò Matsuda, ora capisco.
«Non
ho mai garantito la piena divulgazione di ogni mio piano, Sovrintendente
Yagami» replicò pigramente L, prima di farsi versare del tè da una caraffa
volante.
«Ryuzaki…»
lo chiamò in tono d’avvertimento Sophie, e in effetti Matsuda poteva vedere la
fronte di Aizawa aggrottarsi sempre di più.
«Arrivo
al punto» annunciò L con tono annoiato. Uno sguardo, e le pinze scartate poco
prima si trasformarono in un cucchiaino tra le sue dita. «Stasera si uniranno a
noi dei collaboratori dal Ministero della Magia Inglese».
L’intera
squadra drizzò le orecchie, la sorpresa evidente. Matsuda sorrise.
«Qualcuno
ha deciso di unirsi all’indagine?!» chiese eccitato.
«Non
pensavo che la Confederazione avesse approvato altre cooperazioni
internazionali» obiettò il Sovrintendente.
«Infatti
la Confederazione non lo sa» replicò il detective, inarcando un sopracciglio
mentre si cimentava nell’impresa di sciogliere tutto quello zucchero in così
poco tè. «Su questa nota, vorrei sottolineare la vitalità del mantenere
totalmente segreta l’identità di chi arriverà oggi…»
«Ryuzaki,
ancora metti in dubbio la nostra lealtà?!» sbottò Aizawa, sporgendosi dal
divano.
«No,
ragazzi, qui la fiducia non è esattamente il punto…»
«Beh,
sì, in un certo senso.»
Sophie
ed L parlarono nello stesso momento, guardandosi poi per qualche secondo: il
detective era semplicemente scettico, ma la strega sembrava pronta a
strangolarlo.
Poi
i due si lanciarono in un lungo, fitto, impenetrabile battibecco.
Ukita,
seduto tra i due, sembrava non riuscire a muovere gli occhi abbastanza in
fretta per tenere il passo col dibattito.
Matsuda
sentì Aizawa prendere fiato un paio di volte per intervenire, prima di desistere
e ricadere contro lo schienale, le braccia conserte e un’espressione
corrucciata in volto. Touta gli diede un paio di pacche sulla spalla,
simpatetico.
Una
volta che partivano, i due erano praticamente impossibili da fermare. Inoltre,
Matsuda non lo avrebbe ammesso per non rischiare una fattura dai colleghi, ma
li trovava troppocarini per pensare di intromettersi.
Guardando
la spontaneità con cui i due si rimbeccavano, Matsuda pensò che dovessero
conoscersi davvero da tanto tempo, sicuramente da prima del caso Kira. Non solo
era evidente dal modo in cui si scambiavano opinioni senza assolutamente nessun
pelo sulla lingua, ma anche dal modo in cui Sophie pareva sapere sempre cosa
passasse per la testa di L, o da come il detective riuscisse a farla indignare
con tanta facilità.
Inoltre,
L era chiaramente bendisposto nei confronti della strega, il che era più di
quanto non si potesse dire di chiunque altro: ascoltava la sua opinione con
attenzione e, in un certo senso, si assicurava che tutta la squadra facesse lo
stesso.
Personalmente,
l’agente non si sarebbe permesso di parlarle sopra a priori, perché l’Auror gli
incuteva comunque un po’ di timore nonostante il fare amichevole. Giusto
la settimana prima, però, Ukita gli aveva allungato il menù di un take-out,
chiedendogli sottovoce che cosa potessero ordinare di nuovo mentre Sophie stava
discutendo del caso Misora: il volantino aveva preso fuoco tra le loro
mani, sotto lo sguardo piatto di L.
Beh,
non propriamente piatto.
Metteva
i brividi, pensò Touta.
Sophie
si era schiarita la voce rumorosamente prima di riprendere a parlare, il volto
stranamente arrossato. Il Sovrintendente Yagami, invece, si era curato di dare
loro una bella lavata di capo sul rispetto dei colleghi più anziani e sulla
concentrazione durante le riunioni.
Matsuda
era comunque dell’idea che lo sguardo di L sarebbe stato sufficiente.
Quindi
sì, ecco, il detective non gradiva che la ragazza fosse interrotta più di
quanto gradisse essere interrotto lui stesso.
«-
se fosse stato per me, avrei imposto loro il Voto Infrangibile due settimane
fa, ma i tuoi colleghi si sono detti contrari». Ecco, a proposito di
terrificante.
«Oh,
certo, scusa se a Londra non amiamo l’idea di vincolare qualcuno a una
promessa, pena la morte!» sbuffò Sophie, alzando gli occhi al cielo.
«Colleghi?»
chiese titubante Matsuda, non sapendo bene se guardare il proprio capo, Sophie
o L. «Sono tuoi colleghi quelli in arrivo da Londra, Sophie? Chi?».
A
voler essere precisi, sia L che Sophie aprirono bocca per rispondere, ed erano
tutti talmente concentrati su di loro da non accorgersi che la serratura della
porta d’ingresso si era appena aperta.
Molto
silenziosamente.
«…
strapieno di maledetti Babbani!»
«Malfoy,
giuro che lo dico a Hermione»
«E
va bene ma… oh, eccola qua! Ti avviso Sophie, se vedo un altro Babbano
di qui a dieci minuti lo Schianto».
La
rossa sospirò mentre la task force, congelata dallo stupore, fissava i nuovi
arrivati come fossero allucinazioni. Tranne L, ovviamente: L stava scegliendo
una fetta di torta.
«Malfoy,
ti sembra il momento di lamentarti dei Babbani?» chiese Sophie
esasperata, non riuscendo però a nascondere un largo sorriso mentre abbracciava
il suo migliore amico.
«Èsempre un buon momento per lamentarmi dei Babbani» replicò lui,
sdegnoso, poggiando a terra una ventiquattr’ore in pelle di drago grigia.
Antracite,
l’aveva corretta più e più e più volte Draco.
Lei
lo squadrò con sospetto. «Hai portato solo quella?»
«Di
sotto ci sono altre sette valigie» sbuffò Ron, spostando il biondo con
una spallata per abbracciare la strega.
«Io
non sono un pezzente,Weasley!»
«No,
Malfoy, tu sei una principessa» replicò amabilmente Harry, chiudendosi
la porta della suite alle spalle. Sorrise all’amica, che lo abbracciò di
slancio. «Ci sei mancata, Soph»
«Anche
voi». Sophie non riusciva a smettere di sorridere, mentre si voltava e
finalmente tornava a rivolgersi al resto della squadra. Arrossendo appena, si
accorse che L la stava fissando di sottecchi, ma si affrettò a distogliere lo
sguardo.
«Bene,
ragazzi, questa è la Task Force per la cattura di Ki-»
«Harry
Potter!» sbottò Matsuda, spezzando il silenzio allibito della squadra e
guadagnandosi una gomitata da Aizawa.
«Matsuda!»
L’agente si coprì la bocca con una mano, rosso d’imbarazzo.
Sophie
trattenne malamente una risata mentre si rivolgeva agli amici, indicando
l’agente con un pollice. «Lui è Matsuda, e poi ci sono Mogi, Ukita, Aizawa, e
il Sovrintendente Yagami».
Questi
fece un passo avanti, inchinandosi con rispetto.
«Penso
che sia corretto che anche loro sappiano i nostri veri nomi. Io sono Soichiro
Yagami, è un onore conoscervi» dichiarò solennemente, e gli altri sembrarono
riscuotersi di dosso lo stupore, imitando il sovrintendente e ripetendo i loro
veri nomi.
Sophie
non aveva bisogno di guardare nella direzione di L per sapere che disapprovasse
profondamente l’idea.
«Ron
Weasley, il piacere è nostro» replicò Ron, compito.
«Harry
Potter» sospirò il suo migliore amico, in quel misto di disagio e circostanza
che caratterizzava le sue presentazioni.
«Malfoy,
Draco Malfoy.» Il biondo dalla voce strascicata scandagliò la stanza con
occhi gelidi, soffermandosi solo per un breve momento (e con un certo dissenso)
su di L: in quel momento, il ragazzo dai capelli corvini sembrava particolarmente
fuori posto mentre si servivala colazione con il capo basso e le
ginocchia portate al petto. Sophie poté udire il lamento interiore di
Draco quando scorse le dita dei piedi nudi che sbucavano dai jeans troppo
lunghi. «Credevo che L sarebbe stato presente».
Sophie
passò lo sguardo tra i due, pregando che l’amico non causasse già un
incidente diplomatico.
«Io
sono L» intervenne a quel punto il detective, le parole scandite con freddezza
e lo sguardo ostinatamente concentrato sulla sua tazza di tè. «D’ora in avanti,
vi prego di chiamarmi Ryuzaki, e di spegnere eventuali apparecchi elettronici».
Lo
stupore di Draco e Ron era palpabile e, quando inarcarono le sopracciglia in
direzione di Sophie, lei rifilò loro uno sguardo supplicante, accennando al
divano libero.
«Ok
allora, Ryuzaki» intervenne Harry con tono conciliante, sedendosi assieme agli
altri amici. La rossa gli sorrise, incoraggiante e grata. Sebbene Harry
non fosse sempre il più diplomatico ed entusiasta delle situazioni delicate, la
ragazza sapeva di potersi fidare di lui più della bocca senza filtri di
Ron e molto più di quella snob e arrogante di Draco.
Soprattutto,
il famoso Prescelto non avrebbe mai giudicato L da un paio di
occhiaie pesanti o un comportamento un po’ eccentrico: forse erano stati gli
anni coi Dursley, forse era stato lo scoprire che la magia esistesse a undici
anni compiuti, forse era stato scoprire che Piton-il-traditore fosse un
eroe di guerra, fatto stava che Harry sembrava ormai incapace di giudicare un
libro dalla copertina.
Per
esempio, se trovava una Caccabomba nel cassetto della scrivania e correva
dritto ad affatturare Draco, non si trattava di pregiudizio, ma semplice buonsenso.
«Questo
strambo sareb-» le stava sussurrando Ron, prima che la rossa gli
sferrasse una gomitata nello stomaco. Draco, per fortuna, si limitò a squadrare
L come faceva all’incirca con tutti: Sophie lo fissò truce finché lui,
cogliendo la minaccia silenziosa, smise di guardare il detective come se fosse
un insetto particolarmente bizzarro posato sul suo porta-sigari
preferito.
Harry
si schiarì la gola. «Allora, qual è l’organizzazione?» chiese, indicando con un
gesto vago e abitudinario se stesso, i ragazzi e Sophie.
Chiunque
avrebbe detto che l’espressione di L fosse diventata ancora più indecifrabile e
neutra, ma Sophie avrebbe giurato di averlo visto affilare impercettibilmente
lo sguardo. «Lei, il signor Weasley e il signor Malfoy vivrete nella stanza
attigua alla nostra: come gli altri, considerate quest’ultima il Quartier
Generale. A questo proposito vi comunico che-»
«Un
momento» lo interruppe Draco, una nota polemica che richiamava apertamente
l’attenzione dei presenti. «Ha detto “nostra”, Sophie dorme-»
«La
signorina Clarke risiede stabilmente nel Quartier Generale, signor Malfoy.
Sempre che non voglia condividere la suite con voi, è indifferente.»
A
quel punto la rossa distolse di scatto l’attenzione dai suoi amici, fissando il
detective con espressione sbigottita.
Signorina
Clarke?
Indifferente?
«Come
stavo dicendo, cambieremo albergo ogni due o tre giorni al massimo, per quanto
riguarda le operazioni…»
Sophie
non si aspettava quel tono stizzito, e non poteva ignorare l’accurata scelta di
parole, perché L non era uno che diceva una cosa piuttosto che un’altra per
pura casualità: non sapeva nemmeno cosa fosse, una casualità.
No,
le sembrava piuttosto di essere finito in mezzo a un piccolo match di tiro alla
fune, e non le piaceva essere usata come corda.
«…
perciò uscirete solo se strettamente necessario e dopo essere stati
Trasfigurati e forniti di nuovi distintivi…»
La
rossa intercettò lo sguardo di Draco, rendendosi conto che la stava scrutando
con un sopracciglio inarcato. Lei aggrottò la fronte e scosse
impercettibilmente il capo.
«…
ovviamente, vi ricordo che ogni decisione in merito spetta a me e, come vi
dovrebbe aver già comunicato la signorina Clarke-»
«Sophie,
per Godric» interruppe bruscamente a quel punto, alzando gli occhi al
cielo. Si pentì un attimo dopo di quell’uscita, abbassando di scatto gli occhi
sulle candide sneakers di stoffa che indossava.
«…
Come Sophie vi dovrebbe aver già comunicato, non ho intenzione di
transigere su quest’aspetto» terminò L, impassibile, prima di finire in un
sorso il suo tè.
La
strega fece una lieve smorfia d’insofferenza a quel tono: se già normalmente la
sua voce baritonale era condita da una spolverata di supponenza, ora sembrava
che il mago avesse rincarato la dose di boria che trasudava dalle sue parole.
Nient’altro che un invito a nozze per gli orgogliosi Auror britannici.
Harry
aveva la fronte aggrottata.
Ron
guardava Harry e Draco, seduto sul margine della poltrona come pronto a
scattare.
Draco
aveva aperto la bocca polemica per quella che prometteva essere uno dei suoi
classici: magari non Mio padre lo verrà a sapere, ma era plausibile un La
Magiavvocatessa Granger lo verrà a sapere!
O
un Il Ministro Shacklebolt lo verrà a sapere!
E
Il Mondo Magico lo verrà a sapere!
L’universo
lo verrà a sapere e vi spiaccicherà con una meteora!
Si
diede della stupida per aver scordato che, in quella stanza, i suoi amici non
erano certo gli unici propensi a causare discussioni.
Con
uno sbuffo che era a metà tra una risata isterica e un gemito, Sophie scattò in
piedi.
«Vi
mostro la suite! Draco, Ron, su, gambe in spalla!» proruppe, tirandoli
in piedi e trattenendosi dal tirarli via per le orecchie.
«Ma-»
«Sette
valigie, giusto? Merlino solo sa quali robe oscure avrà portato Draco, meglio
non lasciarle in mezzo ai Babbani, giusto?!»
Il
biondo la guardò malissimo, mentre si raddrizzava la giacca stropicciata.
«Harry,
aggiorna Ryuzaki sulla situazione a Londra, eh? Ci penso io alla tua roba!»
aggiunse la ragazza, passando davanti ad L senza un secondo sguardo: sentiva
già alla perfezione il modo in cui i suoi occhi grigi le stavano
perforando la nuca.
«Potete
non cedere alle provocazioni? Per favore, non voglio che vi
rimandino a Londra oggi stesso» si lamentò la rossa, aprendo la porta di una
stanza con una spallata e gettandovi un paio di borsoni alla cieca.
«Cedere
alle provocazioni? Ma l’hai sentito quello come parla?!» sibilò
velenoso il biondo, le braccia incrociate e gli occhi lampeggianti mentre
aspettava che le sue valigie si sistemassero da sole. Letteralmente.
«Mi
dispiace dirlo, ma devo dare ragione a Malfoy, quello è un- ARGH!» Ron schivò
per un pelo un pesante baule in pelle di drago, che stava per fluttuare dalla
porta d’ingresso a quella della stanza di Draco attraverso il suo
stomaco. Il rosso cadde nelle borse che stava portando con un’imprecazione.
«Aspetta,
ti do una mano… Draco?!» chiamò la strega, fulminando il biondo che, indolente,
se ne stava appoggiato a un muro senza alzare un dito.
«Io le
mie valigie le ho già sistemate» replicò, scrollando le spalle.
Sophie
rispose con un grugnito poco delicato, mentre lei e Ron spingevano gli ultimi
bagagli oltre una porta. «D’accordo, sentite» sbuffò, levandosi i capelli dalla
faccia, «lo so che non è una delle persone più facili con cui avere a
che fare…»
Entrambi
i maghi sbuffarono con fare sarcastico.
«…
però, innanzitutto tu Draco dovresti solo stare zitto, sai essere un
insofferente pezzo di snob quando vuoi!»
«Ha
ragione» appuntò immediatamente Ron, sorridendo amabilmente all’occhiataccia
che gli rivolse il collega.
«Poi,
ne stiamo parlando come se Robards non ci trattasse come pezze tre volte su
quattro»
«Sì,
Sophie, però Robards ha l’età di mio papà e fa un po’ paura, non sembra
uscito dal backstage delle Sorelle Stravagarie!» le fece notare Ron,
corrucciando la fronte lentigginosa.
«Ron!»
lo riprese la rossa, spostando poi lo sguardo indignato su Draco.
«Ah,
non guardare me, io avrei detto molto di peggio».
La
strega si appoggiò allo schienale di un divano, passandosi una mano sul volto.
«Sentite, lo so che è… particolare, e giovane, e ha dei modi che ti fanno
venire voglia di prenderlo a Schiantesimi, ma è lui a dirigere le
indagini, ed è-è pazzesco, davvero, dovete solo dargli un attimo di tempo, è
assolutamente geniale e quando vi sarete abituati ai suoi modi vedrete che
detective è…»
«È
davvero L?» la interruppe Draco, la voce strascicata e gli occhi ridotti a
fessure.
Sophie
ammutolì, spiazzata.
Se è
davvero L?
«Il
vero L non si è mai mostrato a nessuno» sottolineò il biondo, senza
staccare gli occhi dalla strega.
«In
effetti… non è lo stratagemma che ha usato in tv? Con Kira? Ha usato quel tipo,
quel…»
«Lind
L. Taylor» fornì Sophie con tono assente.
«Ecco!»
esclamò vittorioso Ron, inarcando le sopracciglia. «Quello! Potrebbe usare lo
stesso trucco anche adesso!»
I tre
rimasero in silenzio e Sophie, vagamene frastornata, non ci credette. Non ci
credette di non aver neanche considerato quella possibilità: insomma,
nessuno si spacciava per L se non voleva finire male, questo era vero, ma se
fosse stato architettato tutto da lui in primis…
No,
Ryuzaki è L si ritrovò a pensare spontaneamente.
Se non
lo aveva mai messo in discussione, se non le era mai passato per la testa, c’era
un motivo. No, non era niente di razionale, non erano prove certe e
incontrovertibili, di quelle che avrebbe portato alla scrivania di Robards.
Si
trattava di qualcos’altro, come il modo in cui vedeva le piste per il caso
formarsi nei ragionamenti del detective, o la placida consapevolezza con cui un
mago anziano e indiscutibilmente abile come Watari si rimetteva al servizio di
un ventenne, o quell’aura di autorità che aveva sempre percepito in lui,
istintivamente e quasi senza rendersene conto.
Quello
era L, non aveva dubbi a riguardo. Ma non sapeva come spiegarlo.
«Sentite,
non posso fare altro che dirvi di fidarmi di me, su questa» sospirò
infine la strega, guardando i suoi amici.
«E tu?
Tu ti fidi di lui?» chiese Ron, ma non con tono scettico. Era incerto, questo
sì, ma Sophie sapeva che le avrebbe dato retta, che si fidava della sua
compagna di squadra.
«Sì,
sì io mi fido di lui» la replica le sfuggì dalla bocca senza che ci dovesse
riflettere nemmeno un istante. Quasi si sorprese da sola per quelle parole, per
la certezza con cui parlò.
Merlino,
erano innumerevoli i motivi e gli episodi che logicamente le avrebbero dovuto far
dubitare di quel ragazzo: era un bugiardo patologico, ometteva e dissimulava
con la stessa frequenza con cui respirava, testava e provocava a non finire i
limiti delle persone, ed era disposto a fare pressoché qualsiasi cosa per
raggiungere i propri risultati.
Eppure,
Sophie si fidava di lui, si fidava di L.
Ron
cercò lo sguardo di Draco, ma lui non aveva smesso di fissare la strega. Con
una smorfia, si limitò a scrollare le spalle larghe. «Beh, d’accordo allora.
Torniamo da Ryu-coso»
Sophie
ridacchiò, tirandogli un buffetto sulle spalle mentre infilavano la porta.
«Ryuzaki, Ron, Ryuzaki»
«Sì,
sì, quello»
«Winchester»
sibilò il biondo alle sue spalle, improvvisamente, senza farsi sentire da Ron.
«Dobbiamo parlare».
***
«In
pratica non abbiamo piste» osservò Ron, scoraggiato.
Avevano
passato le precedenti due ore a rivedere, passo per passo, ogni avvenimento e
ogni indizio raccolto durante le indagini, per definire le loro mosse future.
«Al
momento stiamo continuando a raccogliere informazioni e indagare sulle morti
degli Auror, casomai ne saltasse fuori qualcosa di nuovo» disse Aizawa, che si
sforzava di comportarsi normalmente con quelle sorte di leggende viventi.
“Del
resto dopo un po’ hanno smesso anche con L”
osservò Sophie distrattamente, mentre scrutava di sottecchi il detective in
questione, non capendo se avesse intenzione o meno di riferire i suoi piani
riguardo ai figli maggiori di Kitamura e di Yagami.
L
alzò lo sguardo dal budino che stava divorando, cogliendo l’occhiata
interrogativa della ragazza. Si lecco le dita sporche di cioccolato con il capo
inclinato di lato, intento a riflettere.
Fu
allora che s’intromise nel discorso come se niente fosse, senza dare il minimo
peso alle voci che si sovrapponevano attorno a lui.
«In
realtà ho trovato il modo di continuare a indagare sulle famiglie del direttore
e del sovrintendente» disse tranquillo, iniziando a impilare una sull’altra le
scatolette vuote.
«Non
ne erano usciti tutti puliti dalla videosorveglianza?» chiese Draco, accigliato.
«Ho
detto che non abbiamo trovato prove che indichino Kira come uno di loro, ma non
che siano necessariamente innocenti. In particolare, ho deciso di seguire con
attenzione le mosse della figlia maggiore di Kitamura, Ayame, e suo figlio,
signor Yagami» tutti gli agenti dell’OSG evitarono di guardare in direzione
dell’uomo, a disagio. Soichiro, però, non parve troppo sorpreso.
«Cos’hai
in mente?» chiese Harry, seduto sul bordo del divano.
Sophie
lo trovava più nervoso del solito: dopo la dozzina di volte che si era
raddrizzato gli occhiali rotondi, si aspettava solo che saltasse in piedi e
cominciasse a marciare avanti e indietro nel salotto, come aveva fatto migliaia
di volte nella Sala Comune dei Grifondoro.
«Avvicineremo
Light Yagami all’università tramite gli esami di ammissione, mentre per Ayame
Kitamura attenderemo aprile per avvicinarci, quando inizierà l’anno scolastico.
In quel momento sveleremo ad entrambi i ragazzi di essere L… ovviamente, dato
che della famiglia Kitamura se ne è occupato il gruppo composto da Mogi,
Aizawa, Ukita e Matsuda, sarà uno di loro a impersonarmi»
«Scusami,
Ryuzaki» intervenne Soichiro, perplesso, «ma il primo turno degli esami di
ammissione si è già svolto»
«Difatti
io e Sophie vi abbiamo preso parte, utilizzando false identità».
La
strega, sentendo gli sguardi dell’intera squadra su di sé, sorrise
nervosamente.
«Non
è pericoloso?» chiese Matsuda, titubante.
«Non
finché Kira non sarà in grado di scoprire il nome di una persona solo dal suo
volto» disse L, completando la torre di plastica che aveva innalzato sul
tavolino.
«D’accordo»
disse Harry. «Ma cosa faremo da qui a… ad aprile? Anche a inventarsele non ci
saranno ancora molte scartoffie sulle morti dei dodici agenti, né possiamo
indagare solo sui rapporti delle autopsie. Si sono rivelate dei vicoli ciechi
fino ad ora, dubito che la cosa cambierà»
«Concordo.
Per questo ho deciso, innanzitutto, che una parte di noi si dedicherà alle
ricerche di Naomi Misora: esiste ancora la possibilità che sia viva e la sua
testimonianza potrebbe essere cruciale per una svolta in questo caso. Inoltre
continueremo a monitorare la rete internet babbana, in cui sono specializzati
Aizawa, Mogi e Ukita, nonché Watari, e i giornali magici clandestini dedicati a
Kira. Non smetteremo di analizzare i decessi causati da Kira per cercare di
capire come esattamente sia provocato l’Avada Kedavra. Per tutto questo
avrò bisogno della vostra piena collaborazione, non disdegnerei di riuscire a
concludere questa faccenda prima di aprile».
Annuirono
tutti, pronti ad affrontare Kira a suon di scartoffie e ore interminabili al
computer.
Uno
spasso.
***
2
febbraio 2004
«Seriamente,
Sophie?»
«Cosa?!»
chiese esasperata la strega, incredula che Draco avesse già trovato qualcosa di
cui lamentarsi in così poco tempo.
«Come
cosa?! Lo spettro? Il mezzo Infero? Il Re di Tutti i Panda?!»
domandò sarcasticamente il biondo, non curandosi particolarmente di tenere un
tono di voce moderato.
«Draco,
per favore»
«Ma
l’hai visto?»
«Draco,
ne abbiamo parlato ore fa! Seriamente, una
persona tanto geniale potrebbe anche avere le sembianze di un procione e
non avrei nulla da ridire»
«Ma
non quello, che me ne frega!»
«E
io che ne so?!»
«Potreste
abbassare la voce?!» ululò Harry dalla sua stanza, seguito dal grugnito di
assenso di Ron.
La
rossa sbuffò, premendosi le dita nell’angolo interno degli occhi. Se L li
avesse cacciati tutti in blocco, non si sarebbe nemmeno stupita. L’amico, nel
mentre, si era drammaticamente stravaccato in una poltrona, con la solita,
arrogante, onnipresente energia da padrone dell’universo.
«Senti,
Sophie, so che dimostro uno scarsissimo interesse per la tua vita sentimentale
ma, seriamente, l’ultimo almeno non sembrava appena uscito da una bara!»
La
rossa a quel punto non stava ascoltando, perché un sorso di tè le era andato di
traverso attorno a “sentimentale” e stava tossendo anche l’anima, sbrodolandosi
nel processo.
«Sei
davvero melodrammatica» borbottò Draco, incrociando le braccia.
Lei
lo fulminò con lo sguardo, operazione difficoltosa dato che la tosse le aveva
fatto venire le lacrime agli occhi. «Si può sapere che cosa stai
dicendo?» sibilò sottovoce, quando finalmente tornò padrona delle proprie corde
vocali.
«Ecco,
ecco perché odio impicciarmi nella tua vita sentimentale…»
«Allora
non farlo?»
«…
perché sei così testardamente cieca, e ingenua, senza speranze oserei dire…»
«Sto
mandando segnali contraddittori? Perché non te l’ho chiesto!»
«…
rifiuti fino allo stremo, quando è così palese ed evidente che…»
«Merlino,
sei insopportabile!»
«…
te la fai con L!»
I
due rimasero a fissarsi a occhi spalancati per quasi un minuto, immobili e
oltraggiati.
Il
primo a riprendere parola, ovviamente, fu Draco. «Ah io sarei
insopportabile?!»
«Mi
hai appena accusato di farmela con Ryuzaki!» sputò Sophie, il volto
tinto di un intenso scarlatto che faceva a pugni coi suoi capelli.
Draco
alzò gli occhi al cielo, liquidandola con un gesto altezzoso della mano.
«No,
ehi- Draco! Questa è una cosa seria, non puoi andartene in giro a
sparare certe-»
«Vuoi
forse dirmi che non è vero?»
«No
che non è vero!» sbottò Sophie con voce acuta.
In
quel momento, dei passi strascicati e inquietanti interruppero i due amici,
facendoli voltare verso il corridoio: Harry, i capelli schiacciati in direzioni
impossibili e il volto congestionato dal sonno, li stava fissando con uno
sguardo allarmante.
«Se
non la smettete di fare casino, vi rimando IO a Londra!» minacciò con
voce raschiata dal sonno, più serio che mai.
«Scusa
Harry…» mormorò Sophie, mordendosi un labbro. Draco invece lo ignorava
bellamente, ma il moro sembrò considerarla una cosa positiva: li fissò ancora
per qualche momento, annuendo soddisfatto, e poi tornò in camera curandosi di
sbattere la porta.
«Sei
tu che lo difendi a spada tratta e lo fissi in continuazione, non io» proseguì
allora il biondo, totalmente indisturbato dall’interruzione.
Sophie
gemette, esasperata, mentre cercava di pulire una macchia di tè dalla sua felpa
extra-large a colpi di bacchetta. «Draco, perché a ventitré anni hai ancora la
vena pettegola di un quindicenne?!»
«Perché
purtroppo ti conosco, ed è mia personale missione farti notare tutte le
balle che ti racconti» replicò amabilmente lui, mentre controllava l’etichetta
della latta di tè posata sul tavolino, un’ombra di insoddisfazione già stampata
in faccia.
«Vai
al diavolo! E poi, mannaggia a te, lo sai che non so fare questi stupidi incantesimi
di pulizia…»
«So
che non sei abituata alla civiltà, ma esiste la lavanderia, negli
alberghi»
«Cambiamo
albergo ogni giorno, imbecille. Che faccio, glielo lascio per data da
destinarsi?!»
«Non
è che ci perderesti poi molto…»
«Neanche
Hermione ci perderebbe poi molto se ti uccidessi. Dici che posso
procedere?!» sbottò Sophie, agitando la bacchetta con furia: un cuscino
esageratamente imbottito si alzò dal divano e si lanciò verso Draco.
«Credo
potrebbe essere uno spiacevole inconveniente, circondata costantemente da forze
dell’ordine come sei» commentò una voce pensosa, dalla porta d’ingresso.
Mentre
Sophie si voltava di scatto, un tonfo e un’imprecazione la avvertirono che il
cuscino aveva raggiunto il bersaglio. L era fermo sulla soglia della porta, le
mani in tasca e le sopracciglia leggermente inarcate; la ragazza si stampò un
sorriso innocente in volto e intascò rapidamente la bacchetta.
«Sono
venuto ad avvisarvi che la squadra arriverà domattina alle otto. E a
ringraziarvi per la vostra collaborazione»
«Potter
e Weasley stanno dormendo» replicò freddamente Draco, massaggiandosi la guancia
(su cui si era impressa una graziosa fantasia damascata).
Il
detective annuì distrattamente e si voltò di lato, come per andarsene. Chiaramente,
però, non era venuto solo per i convenevoli, dato che si fermò e alzò il capo,
fissando un punto imprecisato del soffitto.
«Hermione
Granger ha un caso che la potrebbe portare al Wizengamot? Ero quasi convinto
che si sarebbe unita alle indagini» chiese d’un tratto, sempre rivolto
all’affresco stile Rinascimento sopra di lui.
Sophie
osservò Draco con la coda dell’occhio: se l’amico, all’arrivo di L, aveva
ricomposto la gelida maschera di sottile disprezzo che utilizzava con tutti,
ora sembrava che le sue spalle fossero scolpite nella pietra, tanto erano
rigide.
«Hermione
Granger non lavora nell’Ufficio Auror» replicò con tono di sufficienza, e la
rossa riportò subito lo sguardo su L.
«Oh,
mi deve perdonare, Malfoy, pensavo foste meno rigidi sulle collaborazioni
intra-ufficio… a Londra» il detective parlò con tono moderato, quasi
sinceramente dispiaciuto, mentre i suoi occhi scendevano lentamente dal
soffitto per posarsi dritto in quelli di Draco.
I
tre rimasero immobili, per qualche secondo.
Poi
Sophie scattò in piedi, anticipando di pochi attimi l’amico grazie ad anni e
anni di allenamento nel prevenire le sfuriate tra lui, Harry e Ron. Non sempre
coi risultati sperati, ovviamente. «Credo che Draco debba andare a dormire,
altrimenti domani sarà un’inutile palla al piede» ridacchiò la ragazza,
battendo appena troppo pesantemente una mano sulla sua spalla per
nascondere il fatto che lo stesse praticamente schiacciando nella poltrona.
«Io
sarei la palla la piede?» sputò lui, arcigno, mentre scacciava la sua mano
con uno schiaffetto.
«Buonanotte!»
sorrise amabilmente la strega, sospingendo il detective fuori dalla porta per
chiudersela alle spalle: Draco stava scuotendo il capo con espressione
tempestosa, e lei gli fece l’occhiolino.
«Allora,
svolto abbastanza test per una giornata?» chiese Sophie, voltandosi per
scoccare a L uno sguardo divertito. «Sai, nominare Hermione è il modo più
facile per farti schiantare il primo giorno».
«I
tuoi amici sono così indisciplinati?» replicò il detective, inarcando un
sopracciglio.
Lei
sbuffò, puntellando la schiena alla porta. «Non fingere di non sapere in cosa
ti sei cacciato. E non torturare i miei amici, dai».
Sophie
sperò che le chiacchiere leggere camuffassero l’agitazione che le era montata
dentro quando L era comparso nella stanza, ma lo sguardo penetrante del
detective le lasciava sempre poche speranze.
Avrà
sentito?
Il
ragazzo aprì bocca.
Ecco,
ha sentito, ha-
«Non
sono tuo amico anch’io?»
Sophie
rimase immobile per qualche secondo, gli occhi leggermente troppo grandi e il
sorriso come congelato sulle labbra. «I-io, tu, certo che…» farfugliò, prima di
cogliere il leggero sorrisetto che gli curvava un angolo della bocca. «Ryuzaki!
Ho detto basta test, è tardi» lo riprese incredula, raddrizzandosi.
L
però non arretrò, preferendo continuare a fissarla da sopra il proprio naso.
Sicuramente, era solo un altro modo per metterla a disagio, e sì, forse ci
stava riuscendo, ma non gli voleva certo rendere la vita facile.
Così
attese che il detective distogliesse lo sguardo dal suo, quando ormai
aveva le guance scarlatte e il suo sorriso era puro nervosismo. Poi lo seguì
nella suite adiacente, accogliendo grata quel muto forfait.
«E
comunque, la lavanderia è estremamente efficiente.»
La
mattina seguente, Harry accettò con riconoscenza il caffè che gli aveva portato
Sophie.
«Il
jet lag è tosto, eh?» ridacchiò la strega, adocchiando le occhiaie che facevano
capolino dagli occhiali rotondi.
«Beh,
almeno a me non ha preso lo stomaco» bofonchiò lui dall’orlo della tazza.
La
ragazza rimestò il suo tè.
«…
Ron?»
«Ron»
«Mi
sembrava strano che saltasse la colazione…» fu il commento di Sophie, mentre frugava
la stanza con lo sguardo: gli agenti giapponesi erano già arrivati, impegnati a
smistare documenti e scrivere lettere. Draco, invece, si era rifugiato a fumare
su un balcone.
«Chi
cerchi?»
Harry,
malgrado la stanchezza, la fissava di sottecchi con aria chiaramente divertita.
La rossa si accigliò.
«Non
lo so, chi dovrei cercare?»
«Beh,
ho sentito buona parte della conversazione tra te e Malfoy…»
«Non
stavi dormendo?»
«Non
stavate urlando?»
Sophie
sventolò una mano, come a liquidare la questione, e tornò a sorseggiare il suo
tè a braccia conserte.
«…
Quindi? C’è qualcosa che vuoi dirmi?»
«Harry»
intimò la strega, «non ti ci mettere anche tu, per pietà»
«Ehi,
sono tuo amico e tuo capo squadra, non posso essere curioso?» ridacchiò lui,
dandole una spintarella amichevole col gomito.
«No,
non sulle idiozie di Malfoy»
«Siamo
tornati al cognome? Mi ferisci, sgorbio» si annunciò Draco, sfilandosi la
giacca e abbandonandola su una poltrona.
«Oh,
sia mai…»
«E
poi, io non dico mai idiozie»
«La
conversazione di ieri dice il contrario»
«La
conversazione di ieri dice che stai sotto a un treno»
«Malfoy!»
«Cosa
mi sono perso?» chiese Ron, entrato nella stanza con una mano sulla pancia e
un’espressione sofferente.
«Niente»
«Draco
fa il ficcanaso e Sophie fa la finta tonta».
La
strega spalancò la bocca, scoccando ad Harry uno sguardo truce. «Mi sento
tradita, sappilo».
Lui
scoppiò a ridere, scuotendo il capo prima di posarle un bacio sulla fronte.
«Mi
rifarò» promise, lasciando la tazza ormai vuota su un tavolino. «Ron? Andiamo?»
«Solo
se lungo la strada mi dici su cosa fa la finta tonta» sorrise il rosso,
intercettando il cuscino che gli aveva scagliato contro l’amica.
«Harry!
Mi avevi promesso che ci saremmo allenati!»
«Dobbiamo
fare qualche giro per il caso Misora, Soph… allenati con Draco»
«Non
ho voglia» replicò istantaneamente il biondo. «Per di più, voglio familiarizzare
con le scartoffie»
«Siete
i peggiori» sbuffò Sophie, guardandoli a braccia conserte mentre, uno dopo
l’altro, uscivano dalla suite. Malgrado l’irritazione e il suo normale malumore
mattutino, Sophie si crogiolò in quel confortante senso di familiarità, portandosi
alla bocca la tazza di tè bollente.
«Puoi
allenarti con me».
La
strega trasalì, voltandosi tanto bruscamente da far traboccare il tè.
«Dannazione,
Ryuzaki!» sbottò, guardando la macchia che si allargava sul suo maglione.
«…
Scusa?» fece il detective, poco convincente col minuscolo sorrisetto che aveva
in volto.
Lei sbuffò,
non riuscendo però a impedirsi di sorridere a sua volta.
«Con
questo, ho ufficialmente finito i maglioni» dichiarò, posando la tazza
su un tavolino.
«Quindi?
Vuoi allenarti?» ribadì L, evidentemente non molto affranto per il suo
guardaroba.
Sophie
sollevò le sopracciglia. «Davvero?»
«Perché
no?» replicò il mago, scrollando le spalle.
La
rossa rimase immobile, il davanti del maglione ancora teso fra le mani e un
labbro tra i denti. Già, perché no?
Non
avevano motivo per non duellare. Era stato divertente, le ultime volte. Non era
niente di strano, si allenava sempre con Harry, Ron e Draco.
Con L
non era niente di diverso, no?
No?
Sophie
si passò una mano fra i capelli, sospirando. «O-ok, mi cambio e arrivo…»
Gli
occhi del detective scivolarono sul suo maglione, e la sua bocca sottile si
tese leggermente. Si grattò il capo, inclinato in quel modo che lo faceva
sembrare un gufo. Rimase immobile, lo sguardo fisso e le labbra appena mosse in
qualche parola muta, e la strega sospettò che tutto lo zucchero fosse riuscito
infine a otturargli un’arteria.
Invece,
un breve bagliore dorato più tardi il suo maglione era nuovamente pulito. Anzi,
forse anche più morbido? E profumato?
Sophie
fece un largo sorriso. «Grazie, Ryuza- ehi, aspettami!»
Si
affrettò a seguire il mago, che stava imboccando l’ingresso con passo
stranamente leggero.
Avevano
iniziato con qualche botta e risposta pacato, una sfilza di incantesimi non
troppo incalzanti e movimenti abbastanza rilassati. Per tutto il tempo, Sophie
aveva mantenuto un sorriso lieve, sereno, e gli occhi brillanti anche nella
luce austera della sala sotterranea.
Era…
Quando
aveva duellato con lei la prima volta, aveva potuto cogliere lo sprazzo di una
sicurezza micidiale, un abbandono quasi folle alla spontaneità con cui incantesimi
e decisioni fulminee la guidavano. Duellava d’istinto, duellava di conoscenze
talmente ben ingranate da venirle in aiuto come gli occhi attenti con cui
sondava le sue mosse o i passi sicuri e leggeri con cui danzava sul campo da
duello.
È il
suo palco.
Un’ombra
di divertimento dipingeva ogni suo gesto, ogni sua espressione. Anche nei
momenti più tesi e difficili dei duelli, la ragazza sembrava lasciarsi andare.
Sì,
perché padrona di sé, della situazione, quello lo era sempre. Era una forma di
controllo sottile, impalpabile nei modi di fare un po’ sbadati, ma il detective
poteva leggere benissimo oltre i suoi atteggiamenti rilassati: lo scrutare i
presenti quando nessuno la guardava, la leggera tensione nelle sue spalle quando
era stanca e qualcuno entrava nella stanza, i profondi sospiri di quando
rimaneva sola.
Solo
in alcuni casi la vedeva abbassare la guardia: mentre leggeva un libro nella sua
poltrona, quando aveva attorno i suoi amici, e quando duellava.
In
quei momenti, Sophie lasciava la presa sugli eventi perché era pronta a tutto:
era sicura di poter ricevere qualsiasi cosa fosse arrivata, sicura delle
proprie capacità, dei propri riflessi, abbastanza da trascurare persino la
strategia.
Abbastanza
da muoversi come se giocasse, i capelli ondulati che seguivano i suoi movimenti
come fiamme scure, la bacchetta tenuta come una matita mentre disegnava l’aria di
colpi sferzanti e furbi, il volto illuminato dai blu, viola e scarlatti degli
incantesimi e da un sorriso ferino.
Nella
sua vita, il concetto di bellezza non lo aveva mai sfiorato, se non come
costrutto sociale, come canoni estetici che potessero essere sfruttati –
neanche troppo sottilmente – in svariati casi passati dalle sue mani. Sapeva
riconoscere, o almeno credeva, ciò che le persone potevano trovare attraente
o affascinante.
Nemmeno
i più abili e accattivanti truffatori della sua agenda avevano però nulla a che
vedere con quello: non uno di loro poteva in qualche modo eguagliare la
luce che Sophie sembrava emanare, polarizzare la sua attenzione con quella
esasperante facilità, far sembrare anche il più minuto dei vezzi
un’informazione da memorizzare.
Se era
questo che le persone chiamavano bellezza, allora…allora era bella, era
davvero bella.
«D’accordo,
basta così» decretò L, infrangendo l’ultima delle offensive in una cascata di
scintille viola.
La
strega non aveva nemmeno un accenno di fiatone. «Hai qualcosa in mente?»
Lui
annuì, ma non si spiegò subito. Rifletté attentamente per qualche secondo,
sotto lo sguardo incuriosito e impaziente di Sophie.
Le
iridi ambrate erano racchiuse da un deciso cerchio castano scuro, aveva notato,
e questo sembrava rendere il suo sguardo ancora più intenso, il giallo-dorato
ancora più brillante. Le ciglia scure non facevano che accentuare il contrasto
sull’incarnato pallido.
L represse
il bisogno di scuotere via dalla testa quei pensieri.
«Facciamo
una prova» disse infine. «Non rispondere agli attacchi»
«Non…
rispondere agli attacchi?» ripeté la strega, visibilmente perplessa. «Nel
senso?»
«Non
devi parare, non devi schivare, non devi contrattaccare». A quel punto, Sophie
lo guardava come se gli fosse spuntata un’altra testa. Il mago sospirò.
«Non
ho intenzione di colpirti, ma tu devi cercare di non difenderti.»
L’avversione
della strega si manifestò nel migliore dei suoi bronci. «Ma non ha senso»
protestò, senza fare nulla per nascondere il tono lamentoso.
Il
detective la fissò, vagamente innervosito: non amava particolarmente spiegare
per filo e per segno i propri piani, ma si arrese a illustrare il suo piccolo
test. «Se al secondo turno degli esami d’ammissione dovessi incrociare la
bacchetta con Light, non possiamo rischiare che si renda conto delle tue reali
capacità, dato che il duello dovrebbe essere un tuo punto debole».
La
rossa, seppur riluttante, annuì. «Beh, in effetti, se mi deve credere
inoffensiva…»
Non
serviva avere chissà quali capacità d’osservazione per capire che il solo
pensiero le si incastrasse in gola. «Va bene, facciamolo» sentenziò
ciononostante, il familiare cipiglio di sfida in volto.
L le
fece un cenno d’intesa, poi un incantesimo dorato saettò dalla sua bacchetta. Inutilmente,
perché uno scudo blu si erse quasi all’istante di fronte a Sophie, deviandone
la traiettoria; entrambi seguirono la scia con lo sguardo, immobili, prima che
lei gli rivolgesse un imbarazzato sorriso di scuse.
Imperturbabile,
il detective ci riprovò. Del resto, non si aspettava certo che la Auror
gettasse istantaneamente i suoi riflessi e il suo istinto ben addestrato al
vento.
Lanciò
un altro paio di incantesimi, e la strega evocò un altro paio di scudi. Poi,
accigliata, strinse la presa sulla bacchetta: all’attacco successivo, non si
difese. Però schivò, schiaffandosi subito una mano in fronte.
«Scusa,
cazzo, scusa, scusa».
«È un
lavoro graduale, ma provaci» commentò mite L, studiando i suoi movimenti.
Ogni
traccia di serenità stava rapidamente scivolando via dai suoi lineamenti, e
vide come la ragazza tendeva rigidamente il braccio dominante: non per essere
più pronta nella risposta, al contrario, per cercare di ostacolarsi. Eppure, a
ogni attacco ricevuto, Sophie finiva inevitabilmente per parare, rispondere,
deviare in poche frazioni di secondo.
Dopo
dieci minuti, L la bloccò con un sospiro.
«Sophie»
«Lo
so, lo so, ci sto provando!» sbottò la ragazza, il volto paonazzo e le mani
strette a pugno. Non lo stava guardando in faccia, il naso arricciato e
l’espressione contrariata che solitamente gli facevano venire una gran voglia
di sorridere erano rivolti al pavimento.
L si
ritrovò a cercare le parole giuste e un tono pacato, cose a cui raramente
prestava la minima attenzione. «Sophie, hai capito che questo incantesimo non è
destinato ad arrecarti danno, no?»
Lei
gli rivolse un’occhiata di fuoco. «Certo che ho capito, non sono
stupida, Ryuzaki… con Light, però…»
«Non
pensare all’attacco, al duello, pensa solo al fatto che questo incantesimo non
possa farti del male»
«Ok,
ma Light-»
«Fidati
di me.»
Avrebbe
voluto rimangiarsi quelle parole un attimo dopo averle dette.
Prima
di tutto non sapeva perché lo avesse detto, non aveva alcun senso.
Quella
era una questione di pura logica, di consapevolezza e controllo di sé, non una
questione di fiducia. E poi il solo pensiero che qualcuno si fidasse di lui era
assurdo: le persone non si rivolgevano a lui perché ispirasse fiducia, ma
perché era il migliore.
Logica,
le avrei dovuto dire di essere logica, si
corresse mentalmente. Sophie però, alla fine, annuì.
L
strinse leggermente la presa sulla bacchetta.
Poi la
alzò, di nuovo: mentre formulava mentalmente l’incantesimo, gli occhi della
strega non lasciarono i suoi nemmeno per un istante. Solo quando la scintilla
dorata saettò a pochi metri da lei, la vide chiudere gli occhi, istintivamente.
La
scintilla, però, la attraversò senza lasciare alcuna traccia.
Fu
quasi comico vederla sbirciare cautamente da un occhio aperto, e tastarsi la
pancia con aria perplessa. Gettò le braccia in aria con aria vittoriosa. «Ce
l’ho fatta!»
«Dopo
diciassette tentativi» le ricordò il detective.
Lei,
imbronciata, chiese di fare un altro tentativo.
«No»
sospirò il detective, rintascando la bacchetta, «semplicemente, eviteremo che
Light finisca assegnato a te durante l’esame».
Le
spalle della strega cascarono visibilmente a quelle parole.
Del
resto, non potevano rischiare che Light si insospettisse: se davvero era Kira,
era già sufficientemente all’erta. Non sarebbe stato un bene se Sophie fosse nel
suo mirino, sotto mentite spoglie o meno.
«Ryuzaki,
mi spiace…»
La
voce sommessa della strega attirò nuovamente l’attenzione di L, facendogli
aggrottare appena la fronte. «Non devi dispiacerti per essere un’ottima
duellante. Io stesso non riuscirei a compiere questo esercizio facilmente»
«Sì,
però…»
Il
detective la osservò guardare nervosamente a terra, un gesto totalmente
inusuale per lei. Per l’ennesima volta, quel giorno, L sospirò.
Sospirò
non tanto perché la strega fosse esasperante, quanto perché lui stesso era
esasperante, nel darle corda a quel modo. Sprecare tempo, a quel modo.
«D’accordo, alleniamoci ancora… ma resta il fatto che duellare con Light dovrà
essere l’ultima spiaggia, intesi?»
Il
volto di Sophie si rianimò istantaneamente, mentre balzava in posizione
d’attacco. «Intesi!»
Il
sorriso che gli rivolse, sincero e determinato, zittì ogni remora sullo star
perdendo tempo.
***
5
febbraio 2004
«E-Expelliarmus!»
L’esaminatore
guardò la ragazzina dai corti capelli biondi riuscire effettivamente a
disarmare il suo avversario. Lo sconfitto doveva essere sorpreso quanto lui,
data la confusione che aveva dipinta in volto mentre la strega gli restituiva
la bacchetta con un inchino profondo.
Un
peccato.
Il mago
schioccò la lingua sul palato, per nulla impressionato dalla performance nonostante
la vittoria, e cercò su un registro il nome di Hikari Lewis: non stava andando esageratamente
male, a dirla tutta, ma i suoi duelli mancavano d’inventiva, la sua
bacchetta tremava costantemente ed era decisamente troppo tesa.
Al
corso Auror se la sarebbero mangiata a colazione.
Scosse
la testa, dando un rapido sguardo agli altri studenti per decidere con chi
accoppiarla per il prossimo scontro, tutt’ora fortemente incerto sul punteggio
da assegnarle. Il grande cortile circolare in cui si trovavano era il cuore
pulsante dell’Accademia, e come ogni anno era pieno di giovani aspiranti
matricole, distribuite lungo le marcature incise nella pietra per indicare i
campi da duello.
Controllò
rapidamente che tutte le barriere magiche che li circondavano reggessero,
assicurando che i duellanti non si interrompessero gli uni con gli altri e che
lui e i suoi colleghi potessero comunque intervenire dall’esterno. Proprio in
quel momento, un ragazzo dall’aria trasandata e le occhiaie pesanti mandò
l’opponente a schiantarsi contro la parete della loro cupola.
Di
nuovo.
Lo
trovò subito nell’elenco: Hideki Ryūga, come il cantante che
adoravano le sue figlie. Storse il naso, pensando che probabilmente era qualche
riccone che non voleva usare il suo vero nome. In ogni caso, Ryūga
sembrava immensamente tediato, ed effettivamente non aveva fatto altro che
falciare avversari da quanto era iniziato l’esame, con una facilità estrema.
Beh,
benvenuto nel club, avrebbe voluto dirgli. Che i test
d’ingresso fossero una noia mortale non era una novità, e l’esaminatore si
maledisse per aver perso una scommessa e aver dovuto prendere il secondo turno.
Durante gli scritti, perlomeno, avrebbe potuto leggersi un libro senza che
qualche studente rimanesse sfregiato o venisse mandato in coma.
«Signore,
c-con chi dovrei duellare ora?»
Ah,
già.
Era
ancora la strega minuta con la voce sottile, che ora si stava torcendo le mani
come se fargli quella domanda le fosse costato tutte le sue energie. L’uomo
cercò rapidamente un esaminando libero, e stava per chiamare il ragazzo dalle
occhiaie nere e l’umore cupo quasi quanto il suo, quando un lampo smeraldino
attirò il suo sguardo.
Ah,
Yagami, quello sì che sembrava un ragazzo promettente: voti
eccellenti e raccomandazioni stellari dalla Mahōtokoro, un test d’ingresso
ineccepibile, e non sembrava affetto da qualche grave dipendenza. Proprio come
Ryūga, stava terminando in modo pulito e ineccepibile di annientare il
suo ennesimo sfidante.
«Il
tuo prossimo sfidante è il numero 125» decretò infine l’esaminatore, e una
piccola rana di carta saltellò via dal tavolino a cui era seduto per andare a
informare anche l’altro ragazzo.
L’esaminatore
sospirò e puntellò il mento su una mano, seguendo distrattamente il duello di
due streghe esageratamente appassionate di Fatture Orcovolanti: mentre cercava
di capire qualcosa di quel nugolo di piccoli orchi alati, iniziò a meditare su
cosa avrebbe potuto mangiare per cena.
«Ehi,
Hikari, come sta andando?»
«O-oh,
Light! Ehm, non… non molto bene, temo».
L’esaminatore
sbirciò annoiato Lewis, che era stata raggiunta da Yagami e ora sembrava sul
punto di prendere fuoco. Ah, gli adolescenti.
Magari
posso farmi una zuppa di miso?
«Preferisci
parlare in inglese? Sai che non è un problema»
«No,
figurati! Devo migliorare dopotutto, no?»
«Hai
ragione»
Ce
l’ho del miso a casa, sono abbastanza sicuro.
«C-comunque,
tu stai andando benissimo!» L’esaminatore si trattenne dal ridacchiare.
«Io sono una frana, ti invidio…»
Beh,
in effetti…
«Sono
sicuro che stia andando meglio di come dici, non ti preoccupare… e poi c’è
sempre Pozioni, non è così?» replicò con un occhiolino il ragazzo, facendo
praticamente sprofondare la Lewis.
Molto
affascinante ragazzo, complimenti.
«B-beh,
sì… se solo avessi un’idea di come sia andato il test scritto…»
«Uhm…
non ti posso promettere di ricordare tutto, ma se ti va dopo l’esame potremmo
provare a ripercorrere le rispose assieme, che ne dici?»
L’esaminatore
tolse gli occhi dal duello e li posò sui due adolescenti.
Yagami
sorrideva con aria sicura di sé, rilassata, mentre Lewis si stava riavviando
compulsivamente i capelli biondi dietro le orecchie.
«E-ecco,
sei gentilissimo, ma devo proprio tornare a casa da mia nonna… ecco, ceniamo
sempre assieme, ci tiene molto».
Oh,
peccato, pensò l’esaminatore, quasi scuotendo il capo per il dispiacere.
«Non
ti devi scusare… abiti con tua nonna, quindi?»
Lei
assunse un’espressione strana, le labbra piegate in un sorriso di circostanza.
«Ehm, sì… s-siamo solo noi due, ecco, perciò mi dispiace lasciarla da sola».
L’esaminatore
aggrottò la fronte, e Light parve pensare per qualche momento. «Capisco, beh è
bello che passiate un po’ di tempo assieme ogni giorno… in questo periodo mio
padre lavora tanto che mi sembra quasi si non abitare nella stessa casa, mi
manca cenare con lui».
Certo
che trovare dei ragazzi così colmi di pietà filiale, al giorno d’oggi…
L’esaminatore,
corrucciato, cercò di ricordare quando fosse andato a trovare i suoi genitori
l’ultima volta.
Hikari
Lewis, nel mentre, sembrava starsi mordendo la lingua per non dire qualcosa,
chiudendo seccamente la bocca con aria imbarazzata un attimo prima di parlare.
Yagami sembrava divertito.
«Cosa?»
«N-no,
nulla, io… è solo che ci pensavo anche l’altra volta e…» L’esaminatore si
sporse appena verso i ragazzi, dato il baccano che stavano facendo le duellanti
di fronte. «Tuo padre è per caso… il Sovrintendente Yagami? Il capo
delle indagini su Kira?»
Ah,
ecco dove l’avevo già sentito.
«Caspita,
sei informata!»
«M-mi
dispiace!»
«Figurati,
dopotutto ho un cognome abbastanza particolare, me lo sarei chiesto anche io… e
poi, è bello sapere che non sono il solo a tenersi informato sul caso Kira»
«Certo
che sì! Voglio diventare una Auror, dopotutto!» esclamò con fervore la giovane,
facendo quasi ridacchiare l’esaminatore. Light Yagami, invece, la guardava
colpito, un misto di curiosità e interesse nello sguardo.
Proprio
due piccioncini, annuì l’esaminatore, chiedendosi che tipo
di appuntamenti avrebbero fatto i due: cena e fascicoli sui crimini più recenti
a lume di candela?
A
proposito di cena, che diavolo si sarebbe mangiato quella sera? Perché il miso
era finito, ora che ci pensava, ed era un bel problema.
«Hikari,
posso chiederti una cosa?»
Magari
poteva fare un salto al discount a qualche isolato di lì, non era molto
distante.
«E-ehm,
ok?»
Però
sarebbe stata una noia tornare fino a casa da lì.
«Perché
vuoi fare l’Auror?»
Che?!
L’attenzione
dell’esaminatore tornò immediatamente alla conversazione tra i due.
«Non
vorrei offenderti, ma… onestamente non sembri il tipo di persona che si
presterebbe a un lavoro tanto pericoloso, specialmente ora che Kira è in
circolazione»
L’esaminatore
sbarrò gli occhi: Light Yagami aveva appena sganciato la bomba, e ora c’era da
vedere come l’avrebbe presa la strega. Lui non avrebbe mai fatto una
domanda del genere a una ragazza che gli interessava.
La
bionda sembrò ponderare la domanda con attenzione, le sottili sopracciglia
aggrottate. «So di non essere…» iniziò, ma la sua voce si spense subito.
L’esaminatore tese maggiormente l’orecchio, ormai seduto sul bordo del suo
sgabello. «F-forse non sono la persona più adatta per questo mestiere, e-e so
di avere ancora tanto lavoro da fare ma… i-i miei genitori-» la strega serrò le
labbra, interrompendosi improvvisamente. I suoi occhi erano fissi a terra, e
l’esaminatore era abbastanza sicuro che sarebbe scoppiata a piangere se li
avesse alzati. «Ho deciso di diventare Auror per loro, per quello che non ho
potuto fare… per vend-» Hikari ammutolì di botto, il volto pallido e un sorriso
tremulo in volto.
Vendicarli?
Stava dicendo vendicarli?
L’esaminatore
era atterrito, incredulo a quella storia: quella minuta strega dall’aria
innocente stava intraprendendo una carriera del genere per vendetta? Forse
l’aveva sottovalutata.
Anche
Yagami pareva essere scosso dalla rivelazione, giudicando da come la stava
fissando in silenzio. Lo vide chinarsi leggermente sulla ragazza, sorridendole
comprensivo mentre posava una mano sulla sua spalla. Lei sussultò.
«Mi
dispiace…» sentì mormorare il ragazzo.
L’esaminatore
volse rapidamente lo sguardo altrove, imbarazzato di assistere a una scena così
delicata. Quasi saltò sulla sedia quando, dall’altra parte del cortile, trovò
Ryūga intento a fissarlo trucemente: con un attimo di ritardo, si rese
conto che il mago stesse fissando Hikari e Light, non lui.
Sospirò
di sollievo.
Nel
mentre, Light stava suggerendo a Hikari di procedere con il loro esame.
«Oh, s-sì,
direi che hai ragione» concordò, la strega. «Però il numero 125 non si è ancora
presentato…» spiegò, una nota di panico nella voce.
L’esaminatore
storse il naso.
Ma se
state parlando da dieci minuti abbondanti?
Light rise,
e con la coda dell’occhio lo vide sollevare il suo piccolo origami a forma di
rana. «Scusa, te lo dovevo dire prima! Sono io il numero 125».
In quel momento,
le due streghe delle Fatture Orcovolanti passarono alle mani, e l’esaminatore
saltò dalla sedia per andare a dividerle.
Che
giornata.
Sophie si
bloccò, presa in contropiede.
Pensava
che stesse andando tutto alla perfezione: far interessare Light alla sua
storia, guidarlo lentamente alla consapevolezza che la piccola Hikari potesse
essere mossa da motivazioni non troppo distanti da quelle di Kira, e
poi…
Cazzo.
Duellare
con lui era esattamente quello che Sophie e L volevano evitare fin dall’inizio,
e invece eccoli qui.
Però…
Però, dopo
ore di duelli talmente noiosi da far fremere la sua bacchetta d’impazienza, la
prospettiva di mettere alla prova l’esercizio di concentrazione e controllo
fatto con L la incuriosiva più del dovuto. E poi, non poteva certo rifiutare un
duello di punto in bianco, no?
Nel
peggiore dei casi, L aveva detto che avrebbe interrotto il duello a qualche
modo, onde evitare che la strega rimanesse fulminata da qualche incantesimo a
cui Hikari Lewis non avrebbe dovuto saper sfuggire.
“Fidati di
me”.
Un sorriso
sovraeccitato dipinse le labbra piene della ragazza. «Oh, che bellezza!»
Light la
guardò per qualche secondo, poi rise: la sua risata, come ogni suo gesto, era
attraente, elegante, spontanea. «Pensavo non ti piacesse duellare». Le sue
parole, quelle invece dissimulavano commenti sottili, dai margini affilati,
intrisi di furbizia.
Non gli
sfuggiva alcun dettaglio.
«Beh, non
è la mia specialità… e-e mi dispiace se sarò un po’ noiosa ma… ecco, penso sarà
interessante duellare con te» spiegò la strega, di gran lunga più a suo agio
nel guardarlo negli occhi rispetto a qualche minuto prima.
Lui
sorrise con quel sorriso brillante che sembrava sfoderare con tanta facilità.
«Cercherò di andarci leggero»
Sophie
esibì un broncio perfetto sul volto a forma di cuore di Hikari. «N-non troppo,
però, ok?»
La leggera
risata di Light si levò nuovamente nell’aria, mentre si disponevano ai capi
opposti delle linee che demarcavano la zona di duello più vicina. «D’accordo,
Hikari, d’accordo».
Sophie
prese posizione in modo un po’ goffo, rigido, atto a perdere il baricentro e,
mentre guardava il volto divertito, quasi intenerito di Light, pensò che
quella sfida non sarebbe stata poi così difficile. Tenere la guardia abbassata
con lui sarebbe stato sicuramente più semplice che farlo con un
detective di fama mondiale e il suo sguardo penetrante.
Light,
dopotutto, era solo uno studente, per quanto eccezionale: uno studente reso
malleabile da una ragazza un po’ ingenua e, probabilmente, infatuata.
Se anche
non fosse stato così, si ripeté Sophie, L era presente proprio per
quello: non distolse lo sguardo da Light, ma era abbastanza sicura che il
detective li stesse già osservando.
“Fidati di
me”.
L’esaminatore,
quello che aveva origliato lei e Light con la discrezione di un ippogrifo
imbizzarrito, innalzò la cupola attorno a loro.
«D’accordo…»
disse Light, dopo l’elegante inchino di rito. «Tre, due, uno… Expelliarmus!»
il suo primo attacco fu rapido, sì, ma leggero proprio come si aspettava. Non
mancava di grazia e perfetta esecuzione, ma era palese che fosse stato
addolcito, privato della lapidaria efficienza di un vero duellante.
Sophie
evocò uno scudo piuttosto pigro, che non riuscì ad assorbire a pieno l’impatto
dell’incantesimo e la costrinse a stringere la presa sulla bacchetta. Si curò
anche di scivolare indietro di qualche centimetro, prima di strillare: «Stupeficium!»
Light parò
l’incantesimo con una nonchalance che dava maggiore idea di quali fossero le
sue reali capacità, così come lo fu l’arabesco disegnato magistralmente a
mezz’aria per farle tremare la terra sotto i piedi. La strega riconobbe un
incantesimo complesso e applicabile in un’interessante varietà di scenari, ma
facilmente schivabile in circostanze normali.
In quel
momento, invece, Light doveva vedere Hikari inciampare nel terreno dissestato.
«De-defodio!»
balbettò poi la giovane, scavando una breccia nel cemento spezzato che ora
copriva parzialmente la visuale dell’avversario, già pronto con uno
Schiantesimo sulla punta della lingua.
Non si
gioca con il cibo, Yagami.
Light si
stava comportando come promesso, andandoci più che leggero, garantendole
molto più tempo di quanto sarebbe stato lecito in un regolare duello,
concedendole spazi e azioni che avrebbe potuto vanificare in pochi secondi.
Però…
Però,
avrebbe potuto semplicemente disarmarla.
Forse non
vuole ferire il mio orgoglio, si disse paziente, lanciando qualche altra
debole fattura e riparandosi con un urletto dietro un albero. Sbirciò il volto
di Light, apparentemente concentrato e vagamente divertito.
Forse.
In quel momento,
la strega non poté farne a meno, non poté proprio trattenersi dal fare
un piccolo test.
Così,
ignorando la vocina che la metteva in guardia dal prendere le manie di L, si
Disilluse.
Osservò
l’espressione di Light incrinarsi per un istante, gli occhi assottigliarsi
appena quando la vide scomparire nel nulla. Poi esibì un’espressione nuovamente
gioviale, un sorriso piacevolmente sorpreso. «Perciò… hai da migliorare gli
incantesimi offensivi e difensivi… ma sai disilluderti! Forse ti ho
sottovalutata, Hikari.»
Non sembra
mentire, sembra quasi imbarazzato di non averlo previsto… rifletté
Sophie, studiando le reazioni del ragazzo mentre si spostava lentamente lungo
l’area di combattimento, ben attenta a non far cadere detriti che la
tradissero.
Light, gli
occhi castani che studiavano con attenzione la scena, mormorò qualcosa
sottovoce: un piccolo pezzo di cemento si polverizzò a mezz’aria, sollevando
una nuvola che investì in pieno Sophie.
Nel
momento in cui la polvere ricalcò i contorni invisibili del suo corpo, la
ragazza rotolò goffamente a terra per evitare un fascio di luce blu. Tossì la
povere che le era entrata nel naso, concedendosi un breve sogghigno: non le era
sfuggito il lieve, quasi impercettibile accelerare del ritmo con cui stava
duellando il suo sfidante… Light si stava scaldando.
«La
Disillusione richiede una concentrazione non indifferente» le fece notare il
mago, e lei lasciò che l’incantesimo le scivolasse di dosso mentre si rialzava
frettolosamente e provava un attacco inutile.
«Aguamenti!»
Uno scudo
azzurrino si evocò senza che Light muovesse le labbra. «Experlliarmus»
scandì invece, e stavolta Sophie si lasciò sfuggire quasi del tutto la
bacchetta.
Ancora una
piccola spinta.
«Bombarda!»
lo strillo fu più scenico che altro, dato che la strega aveva lanciato
l’incantesimo non-verbalmente con qualche istante di anticipo… centrando però
un punto abbastanza distante da Light.
Abbastanza
distante da
essere sintomo di una pessima mira.
Abbastanza
vicino, e
rapido, da provocarlo, da irritare qualcuno che stava concedendo tempo a un
duello che avrebbe potuto vincere in pochi secondi.
Se Sophie
aveva indovinato il tipo di persona che era Light, quell’inaspettata, piccola
minaccia avrebbe incrinato il suo sorriso di porcellana. Nel migliore dei casi,
gli avrebbe fatto salire il sangue alla testa.
Mal
trattenendo un sorriso divertito, aguzzò la vista per spiare il volto di Light.
E il
sorriso le morì sulle labbra. Una sensazione di gelo la investì come una doccia
fredda, e improvvisamente quello non era più un gioco, un test: per un
terribile, terribile attimo, vide delle crepe nella porcellana.
Forse…
forse era solo un riflesso, un gioco di luce, o un frammento della sua
immaginazione, che a posteriori si sarebbe quasi convinta di non aver visto.
Eppure.
Eppure
vide il modo in cui Light cercò il suo sguardo con risentimento, la bocca
piegata in una smorfia rigida che non aveva nulla di attraente.
“Punizione,
Winchester!”
Vide i suoi
occhi, in mezzo alla nube sollevata dall’esplosione, in mezzo a una coltre di
polvere e terra che avrebbe dovuto ostruirle la vista. Vide uno sguardo
minaccioso, assassino, un’ombra che fece tremare una parte di lei
sepolta a fondo. Perché lei sapeva, lei aveva visto e vissuto di prima
mano cosa potesse seguire a uno sguardo del genere.
“Come
stanno i tuoi genitori, Winchester? Oh, ma certo… non possono più insozzare il
nome di maghi, non è vero?”
L aveva
ragione quando diceva che era una strega che duellava d’istinto, perché la
guerra e tutti gli ossessivi allenamenti che ne erano seguiti le avevano
ingranato certe reazioni nel cervello, le avevano lasciato sottopelle dei
movimenti automatici, instillato una percettività con cui non sempre la sua logica
poteva tenere il passo.
L aveva
ragione a preoccuparsi, dopotutto, perché Sophie non si accorse nemmeno di aver
alzato la bacchetta, in un movimento che avrebbe dovuto essere troppo rapido
per Hikari Lewis. Non si accorse del detective, che aveva seguito quello
scontro con la fronte sempre più aggrottata, la mano stretta sempre più forte
sulla bacchetta, la mascella sempre più rigida. Non si accorse nemmeno di avere
un incantesimo pronto sulla punta della lingua, uno di quelli che solo l’Auror
Sophie Winchester avrebbe saputo utilizzare.
“Inutile,
inutile, inutile INUTILE FECCIA!”
Vide uno
spettro dipinto sulla figura di Light, lo spettro di un passato che le fece
venire la pelle d’oca e rivoltare lo stomaco.
Non di
nuovo.
Vide Light
alzare la bacchetta su di lei…
“CRUCIO!”
… Ma non
fu né la sua voce, né quella di Light, a tuonare: «Reducto!»
La strega
sobbalzò, inciampando nei suoi stessi piedi e cadendo all’indietro mentre una
scia bluastra saettava davanti al suo naso.
Per un
attimo, tutto fu silenzio, Sophie improvvisamente cosciente del suo respiro
ansimante, della pavimentazione incrinata che le aveva bruciato i palmi delle
mani, della voce indignata dell’esaminatore che stava riprendendo L.
«Numero
22! Si duella all’interno delle aree delimitate!»
«Oh, mi
perdoni, devo aver frainteso le marcature…»
«Le
toglierò due punti per questo!».
Sophie,
vide L annuire con un cenno dondolante. Il suo sguardo penetrante, però, era
fisso su di lei.
La strega
sbirciò Light, ora perfettamente visibile grazie all’adagiarsi dei detriti: era
ancora in piedi, bloccato nella posa in cui l’incantesimo di L l’aveva
interrotto, prima che potesse terminare l’arco discendente della propria
bacchetta. Niente di intimidatorio nella sua figura, nessuna traccia dell’ombra
sinistra che Sophie aveva intravisto.
Ignorando
il tumulto interiore che le stava facendo esplodere il cuore in petto, Sophie
si affrettò a far rotolare la bacchetta fuori dall’area consentita,
approfittando del fatto che Light stesse studiando L con aria perplessa.
«Oh…»
sospirò drammaticamente.
«Hikari,
tutto ok?» le chiese Light, avvicinandosi in fretta per aiutarla ad alzarsi.
«S-sì, ma
mi è sfuggita la bacchetta, ho perso…» spiegò sconfortata, indicandola mentre
si spolverava i vestiti. «N-non che mi aspettassi niente di diverso, eh!
S-solo…»
«Ehi, dai,
non stavi andando così male!» la rincuorò il mago, raccogliendo la sua
bacchetta con un movimento fluido e posandogliela fra le mani sporche di terra.
«Anzi, mi hai proprio sorpreso con l’Incantesimo di Disillusione, e il
Bombarda, poi!»
«Oooh, mi
dispiace moltissimo, Light, ho decisamente esagerato con quello! È che sono
andata nel panico e non sapevo più che cosa usare…»
«Figurati,
anche se per un attimo ho davvero pensato che mi avresti preso!»
Sophie
mise il pilota automatico, lasciando che quel Light, col sorriso gentile e i
modi affascinanti, chiacchierasse animatamente del loro duello e di tutto
quello che avrebbero potuto migliorare. Continuò a rispondergli con risatine e
sguardi accesi d’interesse, lasciando che la tensione che le irrigidiva le
spalle passasse per timidezza, incapace di capire che cosa avesse visto
pochi minuti prima.
La strega
non riusciva però a impedirsi di cercare la figura di L con la coda
dell’occhio.
“Fidati di
me.”
Mi dispiace.
LUMOS
Helo
again!
Capitolo
un po’ lunghetto un’altra volta ma va bene così, perché ho riscritto la parte
centrale venti volte visto che mi annoiava.
Poi ho pensato a un esaminatore annoiato dalla vita e
che dovrebbe andare a trovare la mamma e ha iniziato ad annoiarmi di meno LOL
So che
il finale è un po’ confuso, but stay tuned ;3
Non ho
riscritto di nuovo il significato dei vari incantesimi, ma per chiarificazioni sono
sempre qui \(°^°)/