Wizard's Note

di Always_Potter
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Sulla giusta direzione ***
Capitolo 3: *** Quidditch, chi l'avrebbe detto ***
Capitolo 4: *** Non mi hai dato fastidio ***
Capitolo 5: *** Senza volerlo sapere ***
Capitolo 6: *** Tripudio di coraggio, fegato e idiozia ***
Capitolo 7: *** Tutti nascondiamo qualcosa ***
Capitolo 8: *** La faccia tosta che ti ritrovi ***
Capitolo 9: *** Abbandonati ***
Capitolo 10: *** Solo una pedina ***
Capitolo 11: *** Detta così ***
Capitolo 12: *** Sulla difensiva ***
Capitolo 13: *** Una chiacchierata futile e qualche sorriso immotivato ***
Capitolo 14: *** Qualche sano abbraccio non aveva mai ucciso nessuno ***
Capitolo 15: *** Non era niente di razionale ***
Capitolo 16: *** Questione di logica ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Prologo

14 dicembre 2003

Agli sgoccioli dell’anno, il gelo di un dicembre inclemente penetrava mantelli, sciarpe, guanti e cappelli come fossero carta velina, fino a sfiorare le ossa. Nulla di anomalo, nessun Dissennatore che gelasse l’acqua nelle pozzanghere e il sangue nelle vene, semplicemente un rigido inverno londinese.

Anche il vento non mancava, ma non il soffio carico di speranza del vento del cambiamento, bensì la sferzata penetrante che preannuncia la neve. Per fortuita coincidenza, la domenica aveva accolto quel rigore, dando pace ai frenetici abitanti della capitale: perfino i più devoti alla messa domenicale erano ancora barricati in casa, stretti tra qualche coperta e una tazza di tè bollente.

Dalle vetrate scintillanti della City fino all’ultima propaggine di quartiere residenziale, la quiete rendeva surreali le strade, quasi desolate, mentre un brivido di freddo correva tra i rami spogli.

Era in un angolo non troppo malandato dell’East End, in uno di quei sobborghi dal silenzio particolarmente profondo, che una ragazza stava uscendo di casa. Un lungo mantello blu notte era allacciato sotto il collo sottile, per poi scendere fino a sfiorare dei robusti stivali di cuoio. Dall’ampio cappuccio sfuggiva una cortina di capelli rosso scuro, onde disordinate che le scivolavano davanti agli occhi mentre armeggiava rumorosamente il portone. Troppo rumorosamente, stando ai colpi secchi che la vicina diede alla finestra sopra di lei.

La giovane sobbalzò con un’imprecazione, mentre le chiavi sfuggivano dalle dita livide di freddo. I suoi occhi ambrati scattarono verso l’alto, e rivolse un sorriso poco convincente alla donna, senza distogliere lo sguardo mentre si abbassava per recuperare le chiavi.

Proprio mentre l’altera signora stava per ritirarsi, però, un acuto trillo perforò l’aria. Sul volto pallido si dipinse un’aria sconfitta, mentre estraeva rapidamente il cellulare dalla tasca.

«Pronto? Sì, giusto un- aspetta un momento, credo che la vecchia arpia stia per lanciarmi un’altra secchiata d’acqua» bisbigliò scocciata, reggendosi al corrimano gelato per scendere i gradini davanti all’uscio.

«Seriamente, finirò per ammazzarla! Sarò l’Auror che ammazza vecchie Babbane» saltò sana e salva sul marciapiede, accompagnata dall’incombente e arcigno sguardo della vedova Doyle. Sforzandosi di non lanciarle un’occhiataccia – o una fattura – si avviò lungo la strada coperta di ghiaccio. «Potrei anche soffiare la prima pagina al “serial killer dei criminali” per un paio di giorni, prima che Robards mi uccida e prenda il mio posto... Eh? Harry è già uscito? Merlino, sono solo le sei!... No, vengo diretta dal turno di Azkaban, ma credo che Robards sia tornato in anticipo da tutta la faccenda dell’Interpol… capirai, cancellare qualche memoria qua e là mentre io mi trascino in quello schifo… non saprei, si potrebbe risolvere abbastanza in fretta, ora che lui si è unito alle indagini» la ragazza affrettò il passo, giunta in prossimità di un vicolo particolarmente angusto. «D’accordo Ginny, glielo dico, ora ti lascio… devo farmi collegare il camino alla Metropolvere, seriamente... sì, anche far sistemare il portone… Ok, un abbraccione, ciao».

Uno sbuffo contrariato lasciò le labbra della ragazza, mentre si faceva spazio tra un muro fatiscente e un cassonetto che sembrava non essere mai stato svuotato. Si sforzò di evitare pozzanghere poco invitanti, le gambe fasciate da jeans costellati da strappi che poco c’entravano con lo stile e molto con la minaccia di disfarsi da un momento all’altro.

A un primo sguardo, quella ragazza stonava enormemente in un vicolo sudicio. Non che fosse difficile, stonare in un vicolo sudicio, ma lei ci riusciva particolarmente bene.

Probabilmente era stato il cappuccio che, scivolandole sulla schiena, aveva scoperto chiaramente il volto fresco e spruzzato di lentiggini, dal naso leggermente a patata, alle guance piene a quasi anche la bocca corrucciata; probabilmente erano i capelli, lunghi e lasciati correre distrattamente per i fatti loro oltre le spalle esili; probabilmente era anche qualcosa negli occhi ambrati, concentrati su qualche pensiero distante anni luce da quel vicolo.

Probabilmente era tutto, a urlare che quella fosse una ragazza appena ventenne.

Un’universitaria qualunque, l’avrebbero definita i suoi vicini, non particolarmente degna di nota, che divideva un minuscolo appartamento con un gufo. Certo, il gufo faceva ancora sollevare parecchie sopracciglia nel suo disastroso palazzo, ma ci si abituava.

Del resto, i membri della Comunità Magica erano molto bravi a far abituare i Babbani alle loro piccole anomalie, tanto più gli Auror. E lei , era una ventenne che condivideva un minuscolo appartamento con un gufo, ma era anche una delle cacciatrici di maghi oscuri di spicco del Ministero della Magia.

Lo era da ormai cinque anni, e amava la sua routine. Amava il suo lavoro, e il fatto che i suoi colleghi fossero i suoi amici e la sua famiglia. Amava destreggiarsi freneticamente e in continuazione tra commissioni, qualche allenamento di quidditch e i lunghi orari del Ministero; le dava la sensazione di fare qualcosa di utile della sua vita, il che era più di quanto una volta si sarebbe aspettata. Si trovava persino ad apprezzare il suo modesto monolocale, perché poteva sgusciare sul tetto del palazzo a leggere, ogni tanto… e, prima o poi, la vedova Doyle si sarebbe decisa a tirare le cuoia: la sua che era una metratura come si deve.

In fondo, non aveva nulla di cui lamentarsi.

Ecco perché si sentiva in colpa. Perché né la convocazione imprevista al Ministero, né la recente permanenza su uno sperone roccioso sperduto nel Mare del Nord, erano il motivo per cui la sua fronte fosse così corrucciata, i suoi sospiri così profondi, il suo sguardo così infastidito. Il vero problema era come tutto, da mesi, sembrasse pesarle troppo: era quell’inspiegabile insoddisfazione, quello sbuffo immotivato ogni tanto, quel sentirsi chiusa in una vita già finita.

A ventidue anni e con una guerra alle spalle, però, la stabilità non avrebbe dovuto starle così stretta.

I suoi occhi, quasi gialli nella penombra del vicolo, scrutarono pensosi il cielo percorso da immense nuvole grigie, cercando per la millesima volta di scacciare quel profondo senso di… noia.

“La mia vita non può essere solo questo… no?” pensò, prima di voltare su sé stessa e sparire con uno schiocco.

 

Dall’altra parte del mondo, nella suite attico di un lussuosissimo hotel, regnava il buio totale.

Le vetrate ampie e la splendida vista erano state coperte da pesanti tendaggi di velluto, le costose lampade dai paralumi elaborati spente, i telefoni sparsi nei vari ambienti staccati.

Solo un piccolo rettangolo luminoso brillava nel buio, spandendo un alone di luce azzurrina nel raggio di un metro scarso, illuminando il moderno parallelepipedo di un computer, una webcam spenta ed un microfono, tutti collegati ad una serpentina di cavi che strisciavano sul pregiato parquet fino a perdersi nel buio.

In quel nulla assoluto, seduto di fronte al monitor, c’era un uomo. La penombra rendeva difficile stabilirne l’età ed il corpo asciutto era infagottato in una larga maglietta bianca e in un paio di jeans.

A un tratto, l’uomo si sporse in avanti, verso il microfono. Tolse una mano bianca e magra dal ginocchio e pigiò un tasto dell’apparecchio, su cui brillò una spia rossa; la luce azzurrina ora sfiorava parte del suo volto, rendendone la pelle ancora più cerea e spettrale, in netto contrasto con qualche folta ciocca di capelli neri.

«Watari» la voce era roca dopo ore trascorse nel silenzio.

Sullo schermo bianco campeggiò improvvisamente una “W” nera, e a rispondere fu una voce totalmente distorta: «Ci sono»

«Hai provveduto al MACUSA[i]

«Sì, ho già comunicato le nostre richieste, partiranno nell’arco dei prossimi quattro giorni».

«… Allora chiama il Ministero. Lei deve arrivare al più presto».

«Me ne occupo subito» metallica o meno, quella voce non portava il minimo segno di titubanza. Nessuna indecisione, mentre si apprestava placidamente a occuparsi dei due Governi magici più importanti e potenti al mondo. Del resto, non era affare inusuale affacciarsi sullo scenario internazionale e ottenere immediatamente la più completa e rispettosa attenzione, non per Watari. Non per l’intermediario del detective numero uno al mondo… magico, e non.

La connessione si chiuse, lasciando l’uomo a specchiarsi nello schermo nero. Si passò un pollice sulle labbra sottili, pensoso.

Non si aspettava che accadesse tanto presto, ma non si poteva lamentare.

La tediosa indifferenza che sembrava farsi sempre più intensa, di anno in anno, che sembrava divorarlo dall’interno e affogarlo come una marea, ora sembrava già un ricordo lontano. La sua mente macinava frenetica e assetata le prossime mosse, i pezzi di una partita a scacchi preparata e agognata da tantissimo tempo. Una partita che avrebbe vinto, esattamente come tutte le altre.

La noia era stata spazzata via, come per magia.


 

LUMOS

Per chi è qui per la prima volta, in bocca al lupo.

Per chi c’è già passato, abbiate pazienza che prima o poi la finirò anche ‘sta fanfiction, ma dopo mesi (poi diventati anni) di meditazione, nonché mesi (poi diventati anni) di blocco totale, non ho potuto non farlo: non ho potuto non riscrivere da capo a piedi questa storia. Per alcuni versi cambia poco, per altri non so ancora quanto cambierà. Per questo ho dovuto eliminare la vecchia FF e partire da un nuovo file: scusatemi se una o più recensioni saranno andate perse, ma vi assicuro che le tengo salvate in un angolino del computer :3

Per tutti, grazie se sarete disposti ad accompagnarmi in questo secondo tentativo, spero di poter ricambiare con una storia che vi dia qualcosa, che vi faccia sentire (che cosa, questo non lo so, penso che già il sentire sia un’ottima cosa).

I capitoli saranno pubblicati una volta ogni due settimane (forse ridotte più avanti), e la prossima decina di capitoli è già pronta perciò… si va in scena.

NOX

 



[i] Magical Congress of the United States of America

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Capitolo 2
*** Sulla giusta direzione ***


Capitolo 1

Sulla giusta direzione

Ancora 14 dicembre 2003.

Ironicamente, l’operazione era andata bene.

Certo, la giornata non si era preannunciata delle migliori: giunti al Ministero con la domenica mattina a pesare sugli occhi e il passo strascicato di chi avanza verso l’inevitabile, erano tutti alquanto convinti di aver dimenticato una riunione con l’ufficio legale. Era risaputo quanto fossero inutili le riunioni con l’ufficio legale.

Dieci minuti dopo, dieci minuti in cui erano volati caffè e imprecazioni come se piovesse, erano letteralmente volati via in divisa da assalto.

Però, era andata bene.

«Potter io TI AMMAZZO

«Auguri»

«Sono sopravvissuto a ben altro che la tua STUPIDA FACCIA DA FURETTO!»

«Avete ventitré anni…»

La chiave di volta del caso erano i due informatori che avevano tirato dalla loro parte, garantendosi preziose indicazioni su dove si nascondesse il loro obbiettivo: il Corvo non aveva scampo. Nossignore, ancora pochi giorni, e lo avrebbero finalmente catturato.

Perché, quello era fondamentale, il Corvo non si sarebbe mosso per altre due settimane.

Questo dicevano gli informatori.

… Chiaramente, doveva esserci stato un fraintendimento, dato che il Corvo aveva provato a prendere un aereo da Heathrow.

«Fatti da parte Sophie, vado a gonfiare la faccia a quel presuntuoso!»

«No Ron, per favore, non-»

«Expelliarmus!»

Però questo non li aveva fermati, ed erano stati onestamente magistrali: le squadre di supporto erano esplose in applausi quando avevano immobilizzato l’obbiettivo, ben nascosti a occhi Babbani in un hangar abbandonato. Persino la Squadra di Cancellazione della Magia Accidentale aveva fatto loro i complimenti, e non era qualcosa che accadesse spesso.

«Confrigo!»

«Incendio!»

«Impedimenta!»

Era andata bene, così bene che avevano offerto un giro di birra a tutti. Poi un secondo, e un terzo, e per il quarto c’era mezzo Dipartimento premuto tra i tavolini del loro pub preferito.

Dopotutto, quella mattina era stata il culmine di quasi due mesi di indagini, e un vero e proprio capolavoro di investigazione.

«Levicorpus!»

«Petrificus Totalus!»

«Protego!»

I suoi compagni erano effettivamente dei bravissimi investigatori, degli Auror di prima classe, persone a cui affidava la sua vita ogni giorno, e con orgoglio. Era fiera di poterlo fare, fiera delle loro capacità, della loro arguzia, del loro coraggio e… della loro professionalità.

«Idiota»

«Coglione»

«Vaffanculo!»

Certo, non in quel momento specifico.

Mentre il Quartier Generale degli Auror veniva fatto a pezzi per la terza volta in cinque anni, Sophie Winchester se ne stava appoggiata a una parete con le braccia conserte, osservando la scena con espressione annoiata.

Non c’era nulla di nuovo, del resto, nel modo in cui stavano sistematicamente disintegrando la sua scrivania. Persino il giro di scommesse tra i colleghi del Dipartimento, intenti a scambiarsi manciate di moneta magica, era ormai un ben collaudato sistema di vincitori e perdenti.

E poi, era troppo stanca per arrabbiarsi.

«Te lo STACCO quel dito!»

«Staccati questa dalla FACCIA!»

Fu quando dovette schivare la sua tazza preferita, lanciata a tutta velocità verso morte certa, che decise di intervenire. Gli occhi assottigliati sulla ceramica polverizzata, estrasse la bacchetta in un movimento fulmineo, puntandola in direzione dei suoi compagni di squadra.

«IMMOBILUS!» tuonò perentoria e, per un lungo, incredibile minuto, calò una quiete innaturale tra i cubicoli distrutti: in una nube di schegge di legno, cartongesso sbriciolato, memorandum volanti in collisione e moquette bruciacchiata, i suoi colleghi erano praticamente ridotti a statue di cera.

«Io non dico che non dobbiate litigare, ok?» esordì a quel punto la ragazza, destreggiandosi tra i detriti degli uffici Auror. «Lo so che è un miracolo che questa squadra stia in piedi, visti i precedenti, davvero, ma potreste evitare?! Poi io ora dove vi porto? Hermione vi ammazza, Kingsley vi ammazza, il Capo vi ammazza, persino Silente sarebbe tentato dall'idea di uccidere i suoi cari piccoli ex-studenti, fidatevi! Wingardium Leviosa!» Tre corpi immobilizzati si sollevarono dalle scrivanie rovesciate dietro cui si stavano riparando, «... come dei bambini che giocano a palle di neve! Ah ma se non vi ammazzano gli altri lo faccio io, potrebbe valermi una promozione!» Gli sguardi fulminanti dei ragazzi, che riuscivano appena a muoversi, non la sfiorarono minimamente.

Li avrebbe portati in un posticino tranquillo, tipo il bagno intasato del quarto livello, e lungo il tragitto si sarebbe curata di farli andare a sbattere contro ogni porta, angolo e mobile disponibile. Poi sarebbe tornata a sistemare.

Grazie a Godric, il Capo era l’unico a possedere un ufficio vero e proprio, con tanto di porta, muri e insonorizzazione: magari, dopotutto, non se ne sarebbe accorto.

«No, non di nuovo

Magari.

«Potter, Weasley, Malfoy e, sì, anche tu, Winchester, in ufficio! Subito.»

L’unica porta del Quartier Generale si richiuse con un tonfo secco, mentre la rossa faceva cadere i tre Auror a terra, nuovamente liberi.

«E tutto per colpa tua, Potter! Solo perché non sai ammettere che la mia strategia ha effettivamente avuto più successo di quanto ne avrebbe avuto la tua… beh, anche se ci è voluto poco» ghignò sarcastico Draco Malfoy, alzando gli occhi grigi al cielo con aria di superiorità.

«Fottiti Malfoy» replicò con finezza leggendaria Ron Weasley, accompagnandovi un medio come ciliegina.

«Se Sophie non ci avesse fermato ti avremmo fatto a pezzi, quindi taci Malfuretto» sibilò irritato quell’Harry Potter, intento a riparare un paio di malandati occhiali rotondi.

«Oh ma fatemi il favore! Non…»

«Ricominciate!» sbottò Sophie, lamentosa. «Passerò la domenica a incollare pezzi di scrivania, grazie a voi»

«Tecnicamente è colpa di-»

«Hermione ti ammazzerà» realizzò a quel punto la rossa, guardando Draco con aria vendicativa.

Lui fece ostinatamente finta di non sentirla, ma si passò due dita nel colletto della giacca. «Se dobbiamo essere precisi, è colpa di Robards»

«Ah, vuoi duellare anche con lui?»

«Malfoy non ha tutti i torti» brontolò Ron, togliendosi delle schegge di legno dalla divisa. «Dovremmo essere a festeggiare o, che ne so, in ferie, a quest’ora»

«Oh, una cosa intelligente Weasley, complimenti»

«Ora siete d’accordo…»

«Ragazzi, ormai non abbiamo molta scelta» sospirò Harry, alzandosi in piedi e ignorando le proteste di Draco, a cui stava calpestando il mantello.

La squadra fissò, sconsolata, la porta il cui spesso vetro ambrato recava la semplice scritta: “Capo – Auror Gawain Robards”.

«A-ancora?» I quattro si voltarono verso un collega, intento a guardare con aria afflitta delle piccole piantine in vaso che giacevano, malandate ma vive, fra i resti di una scrivania.

«Ehm, sì… scusa Neville» bofonchiò Harry, imbarazzato.

Sophie, invece, sorrise amabilmente. «Già, scusali, e sgancia.»

Neville si limitò a scrollare le spalle e lasciar cadere un paio di Falci nel palmo della strega, fissando anch’egli la fatidica porta. «Lo sapete che aspettare qui fuori è come lasciare sul tavolo una Strillettera, vero?»

«Paciock, tu lo sai quanto me ne f-»

«Hai ragione» disse Harry, amareggiato ma lapidario, mentre Sophie zittiva il biondo  con una gomitata. «Beh, coraggio, no?»

«Per i tanga di Merlino, manco a Hogwarts siamo finiti in Presidenza così tante volte» commentò Ron, passandosi una mano fra i capelli rossi.

Ed era davvero tutto dire.

 

«Riuscite a stare un minuto, ma che dico, un secondo, senza demolire il Ministero?! È forse chiedere troppo? Basta dirlo, vi spedisco all'Accademia Auror e chi s'è visto s'è visto!»

«Oh, andiamo, io le avevo detto fin da subito che non volevo stare in squadra con loro, che non era una buona idea, ma lei no, si è fissato!»

«Taci Malfoy» sussurrò fra i denti Harry, vedendo la vena sull’alta fronte del Capo pulsare in modo pericolosamente familiare. Di solito, a quel punto, suo zio Vernon gli metteva le sbarre alla finestra.

Gawain Robards, però, era una persona paziente, un Auror veterano che aveva visto la storia del Dipartimento: era un novellino durante i primi attacchi Mangiamorte, era cresciuto sotto la guida di Rufus Scringemour, l’aveva succeduto quand’egli era diventato Ministro, e aveva resistito sotto la tirannia di Voldemort. Dopo la Battaglia di Hogwarts e l’elezione del Ministro Kingsley Shacklebolt, aveva proposto a tutti gli studenti sopravvissuti un posto al Quartier Generale, mentre gran parte della vecchia guardia finiva sotto processo.

L’Accademia Auror, infine, era rientrata in funzione, selezionando e addestrando con perizia la nuova élite di Cacciatori di Maghi Oscuri. Il sistema era stato rinnovato e scosso fino alla fondamenta.

Ora a Robards non restava che andare in pensione, lasciando le redini al più giovane e promettente Auror che si fosse mai visto: Harry James Potter.

Il Salvatore del Mondo Magico.

Colui che aveva sconfitto Voldemort.

Il ventitreenne che lanciava fatture ai colleghi da dietro una scrivania.

«Statemi a sentire, banda di ragazzini, se non l'avete capito ci sono affari più importanti da sbrigare che non risolvere i vostri litigi da quindicenni, ne ho fin sopra i capelli! Se non la finite oggi stesso, potete consegnare la spilla!» I tre impallidirono, abbandonando all’istante qualsiasi battuta di spirito sui capelli brizzolati del capo, in cui si faceva largo una sempre più incipiente stempiatura.

Sophie Winchester, invece, non poté evitare di notare che l’uomo sembrasse essere parecchio nervoso… cioè, più dell’ultima volta in cui il suo Quartier Generale era stato ridotto in rottami fumanti.

Si schiarì la voce, titubante.

«Ehm, Signore, non vorrei deviare il discorso ma… perché siamo stati chiamati qui? Il gufo diceva che si tratta di una questione urgente, ed eravamo al pub… non che sia un problema, è chiaro!».

Robards la guardò, e sulla sua fronte si disegnò una profonda ruga, scavata tra le sopracciglia cespugliose. Gli occhi azzurro chiaro erano inquadrati da una sottile montatura metallica, che si muoveva ogni volta che l’Auror si accigliava, ovvero molto spesso. La ragazza lo osservò sfilare gli occhiali e iniziare a pulirli nella giacca, lo sguardo abbassato.

«Ragazzi, sistemate di là e aspettate, devo parlare prima con Winchester. E che non capiti più, ve lo chiedo per favore e per l’ultima volta» sancì. I tre se ne andarono malvolentieri, scoccando occhiate inquisitorie alla ragazza, che alzò le spalle.

«Capo, se è per il turno ad Azkaban ci sono appena stata e, detto francamente, quel posto sembra ancora infestato dai Dissennatori» chiarì subito Sophie, storcendo il naso.

«No, non è quello… anzi, ora come ora toccherebbe a Malfoy» bofonchiò in risposta Robards, assottigliando pericolosamente gli occhi rugosi. «Comunque, saprai bene in che situazione versa il nostro Dipartimento e, beh, tutto il mondo della criminalità».

Sophie annuì, il volto acceso per l’interesse. «Certo, Capo, so tutto sul Caso Kira… o almeno, tutto quello che è stato divulgato.»

«Molto bene, e sarai consapevole del fatto che, con le risorse di cui disponiamo, siamo già allo stremo tra i casi di routine e questo disastro» disse con una smorfia il mago, non sapendo come altro definire quel fenomeno inspiegabile per cui, improvvisamente, sia per strada che dietro le sbarre, avevano iniziato a morire centinaia, migliaia di criminali. Così, semplicemente, come per mano di un Avada Kedavra, e in tutto il mondo.

Le vittime erano equamente magiche e Babbane, e ciò aveva portato la Confederazione Internazionale dei Maghi a farsi carico della caccia all’assassino, certamente mago. Con tutta la buona volontà, non avevano però fatto altro che manipolare Babbani per non essere intralciati mentre brancolavano nel buio.

Questo, ovviamente, fino a qualche settimana prima, quando la Confederazione aveva accettato di consegnare il caso nelle mani di L.

L era un nome e niente più, senza volto e senza identità, non si sapeva neppure se fosse mago o Babbano, una persona o un’organizzazione. Ciò che si sapeva, era che nessuno, nessuno al mondo poteva eguagliare le sue doti investigative: non importava quale caso gli fosse affidato, da quanto tempo e con quanta disperazione vi avessero già lavorato, che fosse di natura magica o babbana, d’importanza internazionale o interesse di un’anziana nobildonna di campagna, L lo avrebbe risolto.

Era una leggenda, quasi un’entità sussurrata, un dubbio e una favoletta per detective in erba.

Ed era assolutamente, immancabilmente l’ultima spiaggia.

Sì, perché L non rispondeva a nessuno, se non al caso. Non v’era Governo che avesse mai ottenuto la sua comparizione o un briciolo d’informazione in più su di lui e, se qualcuno vi fosse mai riuscito, probabilmente non lo avrebbe raccontato. Così come chiunque avesse mai provato a farsi passare per L, ora trascorresse il resto della propria esistenza in giornate anonime e vagamente terrorizzate nelle più sperdute province della terra.

L era una certezza ma anche un enorme compromesso, che in pochi casi si era disposti a raggiungere.

Il caso Kira, però, era decisamente uno di quelli.

Da quando L aveva preso in carico l’investigazione, le indagini erano state rapidamente focalizzate in Giappone e, tramite qualche scaltro stratagemma, il cerchio era già stato ristretto al Kanto. Ora che il Quartier Generale delle indagini su Kira era stato stabilito a Tokyo, però, ben poche informazioni filtravano nel resto del mondo: se c’era una cosa facilmente deducibile, almeno per Sophie, era che di tutte le vittime fosse sempre stato riportato nome e fotografia su qualche giornale o media babbano, mentre criminali di alto calibro la cui l’identità era del tutto o parzialmente sconosciuta erano salvi dal serial killer.

«Ora, Sophie, saprai che nel nostro Stato e in quello americano si sono registrati i più alti tassi di vittime, magiche e non» spiegò Robards, attendendo che la strega annuisse brevemente. «Bene, a causa di questo triste primato, L ha chiesto rinforzi al Congresso Magico degli USA, e gli Yankees hanno già arruolato una dozzina di Auror esperti da spedire sul campo».

Il mago si fermò per prendere una pipa dalla tasca, accendendola con un po’ di scintille della bacchetta. Poi si mise a frugare fra le pile di pergamene che affollavano la scrivania di mogano. Sophie, rimasta in silenzio per tutto il tempo, non osava sperare che il Capo le stesse chiedendo…

Si sforzò di frenare l’entusiasmo, mentre Robards prendeva cinque fascicoli e li disponeva sul resto del marasma. Non parlò subito, però: sembrava riluttante, mentre tamburellava le dita sulla scrivania e tirava nervosamente dalla pipa.

«Capo?» lo incalzò Sophie, il cuore che le tamburellava nel petto.

«… Ho ricevuto un gufo da Tokyo, questa mattina. L chiede esperti in Occultamento e Travestimento, così come in Segretezza ed Inseguimento, ovviamente da una delle squadre di punta» Robards si schiarì la voce seccamente, poi indicò i fascicoli con la pipa. «Cinque agenti, gli unici cinque che posso permettermi di dislocare senza troppo chiasso. Mentre tu e i ragazzi eravate sul campo, oggi, ho raccolto quattro rifiuti. Resti tu».

Sophie era scioccata. Aveva capito bene, stava succedendo, Gawain le stava proponendo di lavorare con L. Si sentì intorpidita, mentre fissava i fascicoli con la bocca schiusa.

«Senti, Winchester, non hai alcun obb-»

«Accetto» la replica fu fulminea, gli occhi gialli di Sophie ben piantati in quelli del superiore.

Il Capo tacque, e a lungo. Una pausa che sembrò non finire mai, come l’attesa del lampo dopo il rombo di un tuono.

«Molto bene, hai una Passaporta per il Giappone alle sette».

 

***

 

Quando aveva accettato, le era sembrato di tornare a respirare. Le era sembrato di tornare a essere viva tutto d’un colpo, mentre prendeva a scorrerle nelle vene l’eccitazione per quella che, più di una svolta, era una vera e propria avventura.

Non era sicura di essere del tutto lucida, ma si sentiva più padrona delle proprie azioni di quanto non lo fosse ogni giorno degli ultimi anni. Era in una bolla di frenesia, mentre correva via dal Ministero, liquidando Harry, Ron e Draco; lo era ancora mentre sbatteva la porta di casa, senza udire i colpi di scopa che la vedova Doyle aveva assestato dal piano di sotto; lo era tanto da non sapere che ore fossero quando, dopo aver svuotato ogni cassetto, antina e ripostiglio della casa, aveva fatto rapida incetta di cosa le sarebbe servito per-

Per quanto? Quanto sarebbe stata via? Quanto si sarebbero protratte le indagini in Giappone? Dopo quanto l’avrebbero congedata? Chissà quante cose non avrebbe potuto procurarsi lì, chissà quanto era complicato spedire gufi fino lì, chissà…

Fu nel bel mezzo di quelle decisioni, che il campanello di casa suonò. La ragazza si riscosse, trovandosi inginocchiata sul pavimento di fronte a una pila di libri e quaderni di pelle. Il gorgoglìo doloroso dello stomaco vuoto la raggiunse subito dopo la fitta alle ginocchia, mentre si alzava in piedi per aprire la porta.

«Non penso che lo vendano in Giappone… meglio non correre il rischio.» Ferma sul suo pianerottolo, Ginny Weasley le stava porgendo un’enorme confezione di caffè macinato, imbacuccata in un set di berretto, sciarpa e guanti lavorati a maglia. Sophie batté le palpebre, poi abbracciò di slancio l’amica.

D’un tratto, parve rendersi conto davvero di cosa stesse succedendo: stava per partire per Tokyo e unirsi a una delle più pericolose investigazioni degli ultimi anni, forse la più pericolosa impresa dai tempi della Battaglia di Hogwarts. Nessuno sapeva come uccidesse questo serial killer, nessuno capiva cosa facesse cadere a terra, morti, migliaia di maghi e Babbani in tutto il mondo, come burattini cui fossero stati tagliati i fili. Nessuno sapeva come fermarlo.

Se fosse morta durante quell’operazione, in prima linea, non ci sarebbe stato troppo da sorprendersi. Strinse più forte l’amica, che tossicchiò una risata. «Ok, ok, però lasciami entrare e preparami un tè».

«Però mi devi aiutare con le valige, dopo» patteggiò Sophie, lasciando entrare in casa l’amica. «Gli altri come l’hanno presa?»

«Non sono proprio folli di gioia, visto anche che li hai lasciati al Ministero senza spiegazioni, e ovviamente sono preoccupati ma… capiscono. O capiranno, perlomeno» replicò Ginny, stringendosi nelle spalle mentre sfilava il piumino e lo lasciava sullo schienale di una sedia.

«Hermione? È arrabbiata, non è vero?»

«Forse un pochino, ma in buona sostanza si è fiondata a Diagon Alley per andarti a comprare Merlino solo sa cosa, e trascinandosi dietro Malfoy… ecco, Malfoy, lui è arrabbiato, imbronciato peggio di un bambino».

Sophie liquidò la cosa con un sorriso e un gesto della mano: Draco e il suo broncio erano la più prevedibile delle reazioni, ma sapeva che quell’atteggiamento nascondeva sincera preoccupazione. Per quanto a volte risultasse una persona difficile, era suo migliore amico non per niente.

«… E tu?» chiese infine, con voce titubante. In verità, anni di amicizia con la rossa le avevano insegnato che lei l’avrebbe sempre, sinceramente sostenuta, non importava davvero se e quanto fosse d’accordo con le sue scelte. Per questo aveva bisogno di una conferma, ora più che mai.

Ginny, per non smentirsi, le scoccò un’occhiataccia, quello sguardo di rimprovero che la faceva sembrare tutta sua madre. «Winchester, prepara quel tè, va’!» le intimò, mettendosi a piegare dei vestiti accatastati sull’unico tavolo della casa.

Una volta rassicuratasi che gli amici non stessero pianificando di Pietrificarla e nasconderla nell’armadio, la strega si sentì più leggera, armeggiando con la piccola cucina adiacente al salotto mentre Ginny iniziava a raccontarle degli ultimi allenamenti con le Holyhead Harpies.

I suoi amici, loro erano tutto ciò di cui le importava, loro erano tutto quello che avrebbe lasciato a casa.

Non aveva una famiglia, una vera, da quando aveva quindici anni, e non tornava nella casa in cui era cresciuta da allora.

Ma aveva Ginny, la sua migliore amica, una compagna di stanza prima e una sorella dopo. Aveva Draco, aveva Harry, Ron, Hermione, i Weasley, il dipartimento… aveva una famiglia e sarebbe tornata da loro, sì, ma solo dopo aver risolto il caso Kira. Lo doveva al suo stesso lavoro, al Capo che aveva riposto fiducia in lei, e a sé stessa, a quella nuova vitalità che le fremeva lungo la schiena, a quella sensazione di essere sulla giusta direzione.

Non parlarono del caso per almeno due ore, mentre sorseggiavano una tazza di tè dietro l’altra e infilavano in un minuscolo zaino gli averi di Sophie, in una quantità che ne tradiva drasticamente le proprietà magiche. Però, mano a mano che l’appartamento si svuotava, il voluminoso fascicolo che sostava sul tavolo parve diventare sempre più ingombrante.

Quando Sophie incrociò per l’ennesima volta lo sguardo dell’amica, posato fino a un attimo prima sul pacchetto, le chiacchiere parvero esaurirsi. Infilò il fascicolo nello zaino, e i caratteri scarlatti impressi nella copertina parvero brillare di luce propria: “KIRA”.

L’Auror prese un respiro profondo, ravviando all’indietro i capelli color mogano.

«D’accordo, è ora».

Le due diedero un’ultima occhiata all’appartamento, assicurandosi che non stessero dimenticando niente, poi uscirono.

Sophie, lo zaino in spalla e il cappuccio blu notte nuovamente calcato sulla fronte lentigginosa, non diede neppure un ultimo sguardo al posto dove aveva vissuto per sette anni, prima di serrarne la porta.

Naturalmente, giunta al Ministero non aveva trovato solo Robards e un’arrugginita bussola rotta ad attenderla.

Harry e Ron si erano raccomandati: doveva tornare per il torneo di Quidditch del Ministero e doveva assolutamente ricordarsi di comprare le magliette dei Toyohashi Tengu. Hermione le aveva strappato lo zaino di mano senza una parola, iniziando a riempirlo di libri, pozioni e maglioni, salvo poi scoppiare in lacrime: i maglioni erano tutti bitorzoluti e non sapeva proprio come scusarsi, e Sophie si affrettò ad abbracciarla e rassicurarla. Anche Ginny, stranamente, si era commossa, malgrado l’amica fosse sicura di averla vista piangere forse una manciata di volte in dodici anni. Draco… beh, Draco era rimasto rigido, corrucciato e a braccia conserte mentre lo abbracciava, ma non le sfuggì quando il mago tirò su col naso un paio di volte.

A pochi minuti dall’ora X, Sophie si era voltata verso la bussola, ora illuminata da una luce azzurrina. Mentre tendeva le dita verso la Passaporta, aveva gettato un ultimo sguardo ai suoi amici, alla sua vita.

Robards la guardava in modo strano, in modo… colpevole. Sophie avrebbe voluto tranquillizzarlo, dirgli che era pienamente consapevole di quello a cui andava in contro, e che non si sarebbe fatta togliere di mezzo dal primo Mago Oscuro che passava per strada, ma ormai mancavano pochi secondi. Sperò che il Capo lo capisse dal sorriso che fece, un attimo prima che il familiare strappo all’ombelico la sollevasse da dov’era.

Mentre Sophie spariva in un vortice stroboscopico, avrebbe giurato che Robards le avesse sussurrato qualcosa.

 

***

 

15 dicembre 2003

La Passaporta l’aveva portata in una viuzza appartata e buia dove la città, immersa nella notte com’era, non l’avrebbe certo notata.

Prese un respiro profondo, appoggiandosi al muro di cemento mentre si riprendeva dal brusco viaggio, dal cambio di luce, dal diverso odore che aveva l’aria di Tokyo. I sensi all’erta, scrutò il vicolo cieco: sfiorò il legno nella manica sinistra, per effettuare un Homenum Revelio.

Aggrottò la fronte e, senza perdere tempo, sfoderò la bacchetta e la alzò.

«L sarà contento, ha dei tempi eccellenti» si complimentò una voce dal marcato e raffinato accento inglese. Un Incantesimo di Disillusione si dissolse, rivelando un alto uomo celato da un impermeabile scuro, un paio di occhiali da sole, un cappello e dei guanti.

Sophie inarcò un sopracciglio, trattenendo una risata a quella tenuta eccentrica.

«I Montrose Magpies stanno facendo faville, credo proprio vinceranno il Campionato, stavolta» buttò lì la strega, senza rinfoderare la bacchetta.

«Personalmente, credo che questo sia l’anno dei Caerphilly Catapults. Ora, se vuole seguirmi ci recheremo subito al Quartier Generale».

Sophie sorrise nervosamente, avvicinandosi all’uomo che le stava offrendo un braccio.

Pochi istanti dopo, i due si materializzarono in quello che sembrava il corridoio di un albergo di lusso, con moquette avorio che sapeva di pulito e ricercata carta da parati a foderare l’ambiente, illuminato a intervalli regolari da delicate lampade di cristallo. Sophie, vagamente nauseata dopo la Smaterializzazione, ammirò la scelta del Quartier Generale: un albergo non solo garantiva discrezione e anonimato, ma poteva essere sgomberato molto rapidamente, non richiedeva la collaborazione ministeriale… e poi, chi non amava il servizio in camera?

La giovane si schiarì la voce. «Non vorrei sembrare impertinente, ma... era solo una parola d’ordine scelta a caso, vero?»

Il suo accompagnatore ridacchiò, mentre le faceva segno di precederlo oltre le doppie porte di una suite. «In realtà, sono davvero un affezionato tifoso dei Caerphilly Catapults.»

Sophie entrò in un’anticamera spazioso e moderno, da togliere il fiato. Ciononostante, si sfilò il mantello con una smorfia poco convinta. «Lo sa che hanno vinto il campionato anche meno volte dei Cannoni di Chudley, sì?» chiese, voltandosi: accanto all’entrata, la attendeva un anziano uomo di circa settant'anni vestito con un completo elegante, il viso rugoso ornato da baffi curati e piccoli occhi chiari, sormontati da occhiali rettangolari.

 «Temo di essere un terribile nostalgico, signorina. Mi permetta di presentarmi, io sono Watari».

Sorpresa, Sophie sorrise e gli strinse la mano. «È un piacere conoscerla, signore. Però, non sono del tutto sicura di quale nome io debba usare».

Watari sorrise. «Non si preoccupi, L le dirà tutto. La aspetta oltre quella porta, dove c’è il salotto. Di là trova anche la sala da pranzo, mentre da quella parte la aspettano la sua camera da letto e il bagno personale. Se avrà bisogno di me, invece…»

Aspetta aspetta aspetta, L mi aspetta NEL SALOTTO?, pensò Sophie, tramortita, mentre seguiva il mago… Il mago che le stava dando direzioni per la sua camera. Sua. Di Sophie. Come se dovesse dormire lì.

Ridicolo.

«Un momento, Watari, lei… lei ha detto L. Io… pensavo avrei lavorato per conto mio, che tutt’al più avrei collaborato con i miei colleghi, non direttamente con lui! E poi, non capisco, non credevo di risiedere direttamente nel Quartier Generale» farfugliò, agitata, quasi strozzandosi nel tentativo di sfilarsi la sciarpa.

«Oh, no, non nel suo caso. Le spiegherà tutto L» ripeté l’uomo, aprendole nuovamente la porta prima che avesse il tempo di aggiungere altro.

Non che la ragazza sapesse cosa dire. Era totalmente spiazzata, col cuore in gola e lo stomaco totalmente in subbuglio, tra viaggi magici e quella tensione insopportabile.

Ok, è uno scherzo. Chiaramente. Dietro quella porta c’è Robards con tutti gli altri pronti a ridermi dietro.

Al di là della soglia, però, non la aspettava nessuno che conoscesse. Il salotto era enorme, con una parete interamente occupata da ampie vetrate e lunghe tende di velluto scuro, ma dai riflessi dorati; un cerchio di divani e tavolini era posizionato su uno spesso tappeto color champagne, e un’elegante accozzaglia di vasi di fiori, lampadari, scrittoi e soprammobili dall’aria costosa copriva ogni superficie disponibile.

Neanche il tempo di mettere piede nella stanza, e Watari si era già dileguato, lasciandola sola e vagamente spaesata.

Maledizione, Watari.

«Venga pure avanti».

La voce proveniva dall’alto schienale di una poltrona rivolta verso le finestre. Una voce profonda, un po’ roca, che le fece venire un leggero brivido lungo la schiena.

Sophie compose l’espressione più imperturbabile possibile, poi avanzò e girò attorno alla poltrona, da cui si stava alzando quello che doveva essere...

LUMOS

Ed eccoci qua, miei prodi! Tutto un capitolo su Sophie, vita di Sophie, ambiente di Sophie, comfort-zone di Sophie: i desperately need feedback.

Ancora di più, però, ho bisogno di un feedback sui dettagli: si è capito tutto? Troppa confusione le numerose reference potteriane al Ministero? Troppo macchinoso il riassunto del caso Kira? Voglio davvero cercare di rendere comprensibili entrambe le parti del crossover, quindi se ci sono passaggi poco chiari non vi fate problemi a dirlo :3

Ringrazio TANTISSIMO le meravigliose persone che hanno recensito, seguito, ricordato, preferito: spero davvero di non deludervi.

Siete la vita.

Un abbraccione :3

NOX

 

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Capitolo 3
*** Quidditch, chi l'avrebbe detto ***


Capitolo 2

Quidditch, chi l’avrebbe detto

15 dicembre 2003

«Io sono L».

Era un individuo... singolare.

Doveva essere alto almeno una dozzina di centimetri più di Sophie, forse un metro e settantacinque, ma teneva una postura ingobbita, con le mani affondate nelle tasche di un paio di jeans cadenti e le spalle curve sotto una grande maglietta bianca spiegazzata. Fu il suo viso, però, a colpire Sophie: la sua pelle era impossibilmente diafana, come se quei tratti spigolosi, incorniciati da folti e scomposti capelli corvini, non avessero mai visto la luce del sole. I grandi occhi scuri spiccavano in un contrasto esagerato, lividi e cerchiati di nero.

Il suo sguardo era uno di quelli che non si incrociavano spesso, quelli persi nei propri pensieri e poco interessati a quelli altrui, distanti. Allo stesso tempo, sembrava assorbire ogni singolo dettaglio di ciò che vedeva.

In un attimo, Sophie fu fin troppo cosciente dei suoi jeans lisi, rammendati più e più volte durante la sua carriera da Auror, dell’ampio maglione beige a greche rosse che le aveva cucito mamma Weasley, nonché dei capelli disordinati che le scendevano fino alla vita. Non era nemmeno del tutto certa di non essersi versata del tè sul maglione, prima di uscire.

È giovane, Godric, avrà al massimo qualche anno più di me pensò, sconvolta e affranta. Avrà qualche anno più di me ed è il detective più famoso del globo. E io ho il maglione sbrodolato di tè.

«Per precauzione, d’ora in poi mi chiami Ryuzaki» la voce bassa del ragazzo la distrasse dal suo delirio interiore, riportandola alla realtà.

Si schiarì la gola, non sapendo assolutamente che cosa dire: presentarsi col proprio nome sarebbe stato un sintomo d’incompetenza? Non aveva senso-

Improvvisamente, la ragazza si irrigidì, il volto una maschera di pietra mentre si rendeva conto di star ricevendo un attacco mentale: col fiato mozzo, evocò immediatamente una barriera, con tale celerità da lasciare scoperto appena un brandello di pensieri.

L, però, sembrò totalmente incurante dell’ondata di irritazione che doveva averlo investito, mentre la guardava col capo leggermente inclinato e si grattava la nuca. Era un oltraggio, provare a leggere la mente di qualcuno, né più né meno che Schiantare un passante in mezzo alla strada; con la sola differenza che i maghi capaci di padroneggiare la Legilimanzia fossero rarissimi.

«Ottima Occulmanzia[1]. Watari le fornirà nuovi documenti più tardi, signorina Winchester».

Sophie, ancora piantata a metà fra l’ingresso e il salotto e in assoluto silenzio da cinque minuti, iniziò a sentirsi un po’ stupida. D'altronde, non aveva la più pallida idea di come comportarsi.

Di certo, non poteva iniziare a piantar grane perché il detective aveva avuto la prudenza di testare le sue barriere mentali… non che un po’ di tatto le avrebbe fatto schifo. Alla fine si decise a parlare, sforzandosi di nascondere ogni traccia di confusione. «In tal caso, può chiamarmi Sophie».

Il ragazzo la ignorò e tornò a sedersi sulla poltrona. Si mise in una strana posizione accovacciata, seduto sui talloni dei piedi nudi e con le ginocchia al petto, e Sophie si astenne dal chiedersi perché diavolo si appollaiasse in quel modo.

«Si sieda, ma prima spenga il cellulare, se ne ha uno. Detesto dovermi interrompere».

Lei inarcò un sopracciglio, ma si trattenne dal servirgli una delle sue rispostine sarcastiche: non sapeva se avrebbe retto un secondo viaggio in Passaporta. Optò piuttosto per sedersi sul divano, di fronte al detective.

In quel momento, Watari entrò nella stanza con un carrello portavivande: con il massimo della naturalezza, il famoso e unico contatto mondiale di L si mise a servire la colazione.

«Tè o caffè?» le chiese con un sorriso gentile.

«Ehm, caffè, grazie» rispose attonita. Intanto, di fronte a lei, L stava lasciando cadere nel suo tè, una per una, circa una dozzina di zollette di zucchero.

Trattenendo un sorriso, la rossa iniziò a sorbire il suo espresso nero, senza smettere di studiare i movimenti di quello strano e leggendario individuo. Nel frattempo, Watari si era nuovamente dileguato.

«Vorrei partire dagli ultimi sviluppi» iniziò il ragazzo, «ha letto il file che le ho inviato?»

«Certamente»

«Perfetto» sentenziò L, servendosi una fetta di torta, «allora saprà della strana coincidenza in cui mi sono imbattuto pochi giorni fa: in base alla disposizione oraria degli omicidi, ipotizzo che Kira sia uno studente e, proprio dopo aver condiviso tale informazione con l'Ordine di Polizia Giapponese, lo schema cambia.

«Kira ha ucciso per due giorni a un’ora di distanza, per un ammontare di 48 vittime. Cosa ne pensa?»

Sophie si concesse un momento per prepararsi una tazza di caffè abbondantemente allungata con del latte freddo, prima di pronunciarsi. Stava parlando con L, dopotutto, colui che con una semplice diretta TV aveva messo alle corde Kira e aveva promesso di sbatterlo in galera.

Di sicuro, aveva già tratto le sue conclusioni.

E questo è un test.

«Beh, innanzitutto è ovvio che Kira abbia accesso alle informazioni dell’Ordine, perciò immagino che io e i miei colleghi americani siamo qui per indagare su di esso…» tentennò, non sapendo se continuare o meno.

L la continuò a guardare, senza dare segno di volerla interrompere. «In secondo luogo, credo che questo episodio la dica lunga sull'assassino: questa non è una semplice imprudenza, è una palese sfida diretta a lei, una sfida infantile, lanciata in diretta tv e raccolta in obitorio»

«Da quello che dice, anche il mio modo di agire sembrerebbe indice di infantilità» le fece notare il detective, in tono casuale.

Sophie arrossì appena. «Non l’ho detto, però»

«E nemmeno lo nega»

«E nemmeno lo nego» concordò la rossa, iniziando a essere vagamente divertita da quella situazione. Forse avrebbe finito per farsi rispedire a Londra con una nota di demerito, ma se proprio L voleva stare a sottolineare l’ovvio per metterla alla prova, non si sarebbe tirata indietro.

Lui, però, curvò un angolo della bocca verso l’alto… per ora, non sembrava intenzionato ad affatturarla.

«Perciò, dicevo, Kira odia perdere, tanto da aver scoperto alcune delle sue carte pur di dimostrarle cosa sa fare. È una mossa sconsiderata, ma non abbiamo a che fare con un individuo stupido… seguendo questo ragionamento, mi sembra probabile che abbia un secondo fine» proseguì Sophie, la fronte aggrottata e lo sguardo perso nel caffè.

«L’Ordine» disse dopo un po’, «la conseguenza più evidente e rilevante di questo gioco di potere è il fatto che i miei colleghi ed io siamo qui per indagare sull’Ordine di Sicurezza. Se si venisse a sapere, non credo che i Giapponesi apprezzerebbero il trattamento» alzò gli occhi su L, scoprendosi improvvisamente tranquilla, se non entusiasta.

Certo, quella situazione rimaneva ai limiti dell’assurdo, ma in fondo quello era il suo lavoro: formulare ipotesi, comprovarle o smontarle, seguire anche le piste più assurde per avviare delle indagini, era tutto parte di quella sfida che amava.  

L annuì, nuovamente indecifrabile, il manico della forchetta che sbucava dalla bocca.

«Analisi perfetta» disse solamente, per poi prendere l'ultima forchettata di dolce. «Ovviamente, sa che esiste un altro modo per Kira per garantirsi che il Governo abbandoni le indagini…»

Sophie lo guardò di sottecchi. «Beh… se io e i miei colleghi morissimo, le conseguenze sarebbero ben più di qualche agente ferito nell’orgoglio» ammise la strega. Quelle parole le suonarono strane, mentre le pronunciava: malgrado la morte fosse un rischio di cui aveva accettato di farsi carico, si trattava sempre di un’ipotesi remota, un’eventualità a cui non dava davvero peso.

«Qualunque sia il modo, Kira tenterà di ridurre al minimo le nostre forze investigative. Qualora ciò accadesse, bisogna mettere in conto una diversa gestione delle indagini.» L prese un’altra fetta di torta, sotto lo sguardo perplesso della strega.

«Sì, ha senso, ma… Ryuzaki, non capisco perché tu mi stia dicendo tutto questo»

«Così che tu possa chiedermelo»

«Chiedere che cos-ah.» Sophie tacque, continuando a fissarlo mentre rifletteva.

Se l’Ordine di Polizia si fosse tirato indietro, se fossero rimasti solo pochi Auror disposti a collaborare, la soluzione più logica sarebbe stata che L ritirasse totalmente le indagini dal Ministero giapponese: il detective non si sarebbe mai esposto a un vasto numero di impiegati governativi, ma un piccolo pool investigativo… Dopotutto, Watari stesso si era riferito a quella stanza d’albergo come al “Quartier Generale”, malgrado al momento le operazioni fossero collocate al Ministero.

«… Sarebbe questo il motivo per cui mi trovo qui?» chiese la rossa, dubbiosa.

«Lei è l’unica agente inglese, non vedevo gravi problemi nel presentarmi direttamente a lei, mentre la squadra americana sarebbe più impegnativa» spiegò il detective, in tono distaccato. «Mettiamo che le cose vadano nel peggiore dei modi: Kira non solo si accorge di essere pedinato, ma trova il modo di uccidere uno o più dei suoi pedinatori. A quel punto, l’Ordine di Sicurezza continua ad avere una talpa, non si fida più di L e fronteggia per la prima volta la consapevolezza che Kira ucciderebbe un Auror, se messo alle strette.

«L’unica scelta sarebbe proseguire con un team che interagisca direttamente con me, e a distanza ravvicinata: io garantirei la loro incolumità, per quanto mi sia possibile, e loro la mia, in egual misura. Solo allora rivelerei loro la mia identità.»

«Se degli agenti americani morissero dopo averti conosciuto, i rimanenti potrebbero rappresentare un problema, qualora si ritirassero e non entrassero nella task force, mentre io… beh, se morissi, il problema morirebbe con me» ricapitolò placida Sophie. Scosse appena il capo, decidendo che fosse il momento di servirsi con qualche biscotto al burro. «E seguendo questa ipotesi, se io sopravvivessi? Se decidessi di tornarmene a casa e fare come se nulla fosse?» obiettò.

L la guardò di traverso. «Lo farebbe?»

Sophie si strinse nelle spalle. Non sarebbe stato da lei, e dopotutto aveva affrontato una guerra, ma… non poteva essere sicura di come avrebbe reagito se la morte l’avesse nuovamente sfiorata così da vicino.

«Onestamente, le cancellerei la memoria.» La strega si ritrovo a tossire mentre le andava di traverso un biscotto, ma L parve non curarsene. «Dopotutto, è il suo Ministero a essere particolarmente… pressante sull’argomento sicurezza, e averla qui è il massimo che posso fare per garantire la sua incolumità».

In effetti, non era un mistero che gli Auror di Londra fossero un po’ tirchi con le collaborazioni estere. Ricordava ancora la volta del Burkina Faso: McLuhan si era ritrovato a dover fare rapporto cinque volte al giorno al Ministro Shacklebolt in persona, nella completa paranoia di vederselo scomparire da sotto il naso nel caso di rapimenti che interessava la zona.

Con tutto che le loro risorse fossero ancora esigue, a distanza di anni dalla guerra, le erano parse comunque misure un tantino esagerate. Che poi McLuhan fosse stato effettivamente rapito e ritrovato cinque giorni dopo, intento a brucare erba assieme a delle antilopi, erano dettagli irrilevanti: il San Mungo era stato efficientissimo, e l’Auror era tornato come nuovo in un paio di settimane. Certo, ogni tanto si metteva ancora a rosicchiare qualche block-notes, ma per il resto era sano come un pesce.

Sophie fece un sorrisetto e si rilassò appena. Non era del tutto convinta dalle motivazioni di L, ma non trovò nulla da obiettare; forse era solo troppo guardinga… dopotutto, il detective non aveva motivo di mentirle.

«Come riconoscerebbe Kira?»

La ragazza, intenta a proseguire la sua personale crociata contro una caffettiera che continuava a riempirsi, lo guardò con un sopracciglio inarcato. «In che senso?»

«Riformulo- come farebbe a stabilire se la persona con cui sta parlando è Kira?»

«Vediamo… direi che il primo passo sarebbe parlare di cose che solo Kira può sapere, e che mi sono premurata di tenere nascosta ad altri»

«Perché non usare il Veritaserum[2] o la Maledizione Imperio? Sarebbe molto più semplice» chiosò allora L, con il tono pratico di chi suggerisce di prendere l’ombrello prima di uscire.

«Prima di tutto perché l’Imperio è una Maledizione Senza Perdono[3]!» replicò Sophie, incredula.

«Non qui»

«Per me lo sono d’ovunque.» La strega non era un’attivista in campo di legislazione magica, non ne aveva né la conoscenza né, francamente, l’interesse: quello che i Governi esteri decidevano non era affar suo, e i suoi stessi amici si erano ritrovati a dover utilizzare delle Imperio durante la guerra. Questo, però, non voleva dire che non avesse un’opinione, e anche piuttosto ferma: erano Anatemi Senza Perdono, la Magia Oscura più pura, erano mezzi inaccettabili.

Da qualche parte nel retro della sua mente, però, una risata sarcastica le dava dell’ipocrita. Si riscosse da quel ricordo, rifiutandosi di farsi ghermire da qualcosa che aveva ormai lasciato alle spalle. «E comunque sia, il Veritaserum e gli altri metodi di estorsione non sono sempre attendibili, e mai quanto la logica. Una giusta logica è incontrastabile».

Sostenne lo sguardo penetrante di L, chiedendosi vagamente dove stesse trovando la faccia tosta di discutere con un’autorità del genere. Poi, il ragazzo tirò un angolo della bocca.

«È una moralista» affermò quindi, facendo rimanere a bocca spalancata la ragazza.

«Ho solo una mia etica!»

«La logica non ha un’etica»

«Un Auror senza etica non merita il suo distintivo!» Sophie iniziava ad alterarsi, sentendosi toccata nel vivo. «E non parlo solo del rispetto della legge, parlo di un codice morale, parlo del fatto che siamo innanzitutto esseri umani che cercano di migliorare il mondo»

«Le posso garantire che il mondo non è in bianco e nero come lo vede lei. Le zone grigie non sono inevitabili, è vero, ma ciò non significa che non siano necessarie. È familiare con Machiavelli?»

«E lei è familiare col concetto di coscienza? Se non ci poniamo dei limiti noi per primi, in che cosa saremmo migliori dei maghi a cui diamo la caccia?!»

L parve incuriosito dal suo fervore ma per nulla scalfito. «Non me ne importa nulla» disse con placida e spietata indifferenza, «non mi importa della mia coscienza o di essere migliore. Mi importa di risolvere il caso».

Non appena il ragazzo ebbe pronunciato quelle parole, Sophie seppe che quello davanti a lei era un impenitente bugiardo. Se L fosse stato pienamente convinto di ciò che aveva detto, allora non avrebbe perseguito Kira, qualcuno che uccideva criminali.

Quale migliore esempio di fine che giustifica i mezzi?

Forse voleva solo farla arrabbiare, anzi, certamente quello era prima di tutto un test, ben lontano da una vera conversazione. Proprio per questo, Sophie desistette dal ribattere ancora, limitandosi a finire il suo caffè prima di posarlo sul tavolino.

«Mi permette di avere l’ultima parola.» La strega sobbalzò, trovandosi il detective inaspettatamente vicino mentre anche lui si chinava in avanti, il piattino della torta ancora tra le mani. Sophie scrollò le spalle ma non si spostò, gli occhi fissi in quelli di L: se prima le erano sembrati neri, ora poteva constatare che fossero grigi. Di un grigio scuro, di quelli che tingono le profondità dei cumulonembi prima che scoppi il temporale.

«Non mi sembra molto utile portare avanti una conversazione insincera che ha il solo scopo di provocarmi» rispose, sorprendendo sé stessa.

«Mi aspettavo che fosse più orgogliosa, una Grifondoro fino al midollo» replicò allora L, senza nascondere un leggero sorrisetto divertito.

Avevo ragione.

«Una Grifondoro fino al midollo deve imparare a convivere col proprio orgoglio».

«… Capisco» disse infine L, tornando a poggiare la schiena alla poltrona con espressione piatta.

Sophie si accorse di aver tenuto il fiato sospeso.

Quella situazione era strana. Quell’uomo era decisamente strano. E lei si stava ritrovando perfettamente a proprio agio nel discutere con quella che, fino a poche ore prima, per lei era solo una leggenda.

Per Godric, quando aveva iniziato a lavorare al Ministero riusciva a malapena a spiccicare parola. Quando, a settembre, aveva incontrato il bassista delle Sorelle Stravagarie stava per svenire, e ora? Ora si metteva a discutere con niente meno che L?

«Comunque i Caerphilly Catapults sono davvero senza speranze.»

La ragazza fissò il detective come se gli fosse cresciuta una seconda testa, mentre lui la guardava con la massima tranquillità. Si sfiorò un orecchio con due dita pallide. «Ho un ottimo udito».

Sophie, sbalordita, scoppiò in una breve risata. «Oh, wow, quindi super udito e… una latente passione per il Quidditch?» chiese, non riuscendo a trattenere la curiosità per quell’inaspettato risvolto della conversazione.

«Abbastanza da sapere che i Cannoni hanno più speranze dei Catapults… e che nel suo zaino ha una vecchia Nimbus Duemila».

La strega smise di sorridere e strinse gli occhi; non in un’espressione circospetta, piuttosto… di sfida. Con le braccia incrociate e il mento alzato, aspettò che si spiegasse.

«Dopo che Harry James Potter ha lasciato Hogwarts per diventare Auror, Ginevra Molly Weasley è stata nominata Capitano della squadra dei Gryffindor, nel ruolo di Cacciatrice. La sua vice era la Cercatrice Sophia Kate Winchester, entrambe scoperte negli ultimi anni».

Sophie sorrise, incredula. Il detective invece si strinse nelle spalle, passandosi un pollice sulle labbra. «Non sono totalmente isolato dal mondo, sto solo nell’ombra. Le so anch’io queste cose».

Stronzate.

«Chi ha vinto i Mondiali del ’94?»

«Irlanda, Krum prende il boccino»

«’66»

«Australia, quattro giorni di partita»

«Ultimo vinto dall’Inghilterra?»

«’54, tre membri della squadra erano Vespe di Wimbourne, i due battitori erano dei Tornados e-»

«Portiere del Puddlemore, Cercatrice dei-»

«Montrose Magpies. Eccellenti giocatori»

«Superbi!»

«Ottime statistiche»

«Non vinciamo da sei anni…»

«Quest’anno la probabilità che vincano sono buone»

«Non è vero»

«No, ma mi piace pensarlo».

Il sorriso di Sophie andava praticamente da orecchio a orecchio mentre, deliziata, diceva: «Questo non è semplice osservare il mondo dall’ombra, riconosco un appassionato di Quidditch quando ne vedo uno!»

«Ho una memoria particolarmente solida…» replicò L, vago e incolore.

La ragazza inarcò le sopracciglia, scettica, ma annuì.

Un attimo più tardi, lottò inutilmente per trattenere uno sbadiglio. «Ryuzaki, è tutto?» chiese, ricordandosi improvvisamente chi fosse, con chi e perché.

«Sì» rispose lui, adagiando piattino e forchetta sul tavolino per posare le mani sulle ginocchia. «In camera sua troverà la documentazione relativa ai sospettati che le sono stati affidati. Lei e gli altri agenti avete carta bianca, in sostanza, quindi si muova come meglio crede e mi faccia rapporto almeno due volte a settimana- naturalmente, confido in un lavoro preciso e meticoloso. Inizierà domani, per adattarsi al fuso orario e non rischiare sviste»

«D’accordo». La strega si alzò in piedi, sentendosi congedata, e prese lo zaino che aveva lasciato ai piedi del divano.

«Bene, Watari le mostrerà la sua stanza». Il mago in questione era effettivamente riapparso nel salotto, facendo sparire le vivande con un gesto della bacchetta, tenuta come fosse un direttore d’orchestra.

«Prego signorina, di qua» Sophie diede un ultimo sguardo a L, prima di voltarsi.

«Sophie?»

«Sì?» La rossa lo fissò, in attesa.

«Volevo congratularmi per la cattura di ieri… un ottimo lavoro con il Corvo».

Lei rimase interdetta per qualche istante. Poi sorrise. «Grazie, Ryuzaki. Ho una squadra davvero in gamba».

L annuì, per poi tornare a darle le spalle.

Rimasta sola nella sua stanza, Sophie lasciò cadere lo zaino a terra, dando appena uno sguardo all’ambiente lussuoso: tutta la sua attenzione era per l’enorme letto bianco che troneggiava al centro di un soffice tappeto chiaro. Diede uno sguardo al suo orologio da polso, che segnava ancora l’orario di casa: non era affatto tardi, ma quella giornata l’aveva sfiancata.

Sbadigliò, mentre sfilava il maglione e lo lasciava cadere a terra. Iniziò a lavorare sulle fibbie che tenevano chiuso il corpetto nero che utilizzava nelle operazioni più pericolose, realizzato intessendo magie difensive e rinforzanti. La protezione seguì presto il maglione, così come un paio di bracciali di cuoio, un coltello da lancio e i jeans.

La rossa si buttò di peso al centro del letto, tirando un lungo sospiro. Con la coda dell’occhio, vide che Watari aveva già riposto il suo mantello nell’armadio aperto. Dall’indomani avrebbe indossato il lungo cappotto dal bavero alto, quello che le avevano regalato i Weasley quando era diventata Auror: si mimetizzava meglio tra i Babbani, e l’infinità di tasche nascoste le permetteva di portare con sé tutto ciò che le occorreva.

Tentò inutilmente di concentrarsi sui preparativi per l’inizio dei pedinamenti, la mente che vagava verso la conversazione avuta con L.

Quidditch, chi l’avrebbe detto. Di sicuro, quel mago non era una persona facile da inquadrare, né era facile capire fin dove arrivasse la realtà e quale invece fosse pura finzione. Ma, ancora una volta, mentre le palpebre le cadevano per un paio di volte sugli occhi ambrati, e poi calavano definitivamente, Sophie si chiese che motivo avrebbe avuto L per mentirle.

 

 



[1] Legilimanzia: pratica magica simile alla lettura della mente, Occulmanzia: l’arte di schermarsi dai Legilimens

[2] Pozione della verità

[3] Avada Kedavra (morte), Cruciatos (tortura) e Imperius (controllo totale) sono punibili con “un biglietto di sola andata per Azkaban”, la prigione magica inglese. Ciò significa che anche le forze dell’ordine non se ne possono servire, ma suppongo vari da nazione a nazione, come nel caso della pena di morte.

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Capitolo 4
*** Non mi hai dato fastidio ***


Capitolo 3

Non mi hai dato fastidio

17 dicembre 2003

Chieko Clarke passeggiava di fronte a un negozio di fiori, spiando tra le delicate decorazioni natalizie che incorniciavano la vetrina. Sorrise da dietro il bavero del cappotto, alzato contro l’aria gelida.

Il lungo soprabito color cannella cadeva fino alle caviglie, su un paio di stivaletti dall’aria comoda; si riavviò un ciuffo di capelli neri dietro un orecchio, sistemando appena il berretto calcato sulla fronte. Sembrava un peccato che un negozietto tanto grazioso si trovasse in una zona così periferica... giusto qualche numero civico più in là, un grande magazzino abbandonato sorvegliava un cortile di cemento vuoto e coperto di erbacce.

Chieko sembrò irrigidirsi d’improvviso, gli occhi fissi sulla vetrina; un attimo dopo, però,  entrò nel negozio: salutò a mezza voce l’anziana commessa che le sorrideva da dietro il bancone, perdendosi tra le meravigliose composizioni che affollavano l’ambiente, e scambiò qualche parola con lei.

Poi, con la coda dell’occhio, colse del movimento fuori dalla vetrina: si voltò a guardare le combriccole di adolescenti che sfilavano in strada, la fronte aggrottata sotto il berretto.

«Guarda te, tutti quei ragazzi in giro a bighellonare… e pensare che è periodo di esami!» disse meravigliata.

«Beh… è anche periodo di festa, avranno bisogno di qualche distrazione» le rispose benevola la negoziante; il sorriso raggrinzito, però, sembrava di qualcuno che ridesse di una battuta tutta sua.

La ragazza si congedò poco più tardi, allontanandosi dal quartiere a passo svelto, mentre calava la sera. Passava spesso da quel tratto, essendo la strada più breve per rientrare a casa ma… non poteva fare a meno di sentirsi osservata.

Fu allora che sentì dei passi alle sue spalle, nel silenzio assoluto di quella via, lontana dal traffico di automobili e pendolari di ritorno da qualche stazione.

Innervosita, sembrò cambiare espressione mentre svoltava in una stradina laterale, la mascella serrata e gli occhi stretti in due fessure. Quando sentì nuovamente qualcuno alle sue spalle, guardò gli appartamenti attorno a sé, sparuti ma illuminati da chi stava sicuramente preparando la cena. Fece l’unica cosa che poteva fare, e iniziò a correre.

Accelerò quando la figura dietro di lei la imitò, e si addentrò nel dedalo di intricate stradine di quel quartiere residenziale: prese a svoltare ogni due o tre incroci, imboccando vie totalmente a caso e cercando di non inciampare nelle sue stesse scarpe.

Nel farlo, però, si stava allontanando dalla zona abitata.

Fu allora che una voce maschile, in inglese, urlò: «Ehi, fermati!»

Come no.

La ragazza imboccò repentinamente un vicolo, ma la sua fortuna terminò: un palazzo le sbarrava la strada, e non v’era via di fuga. Scrutò la penombra, cercando un nascondiglio, poi decise di aderire al muro, appena dopo l’angolo.

Quando l’uomo la seguì, fece appena in tempo a scorgere due occhi gialli, prima di essere preso per il bavero del cappotto e sbattuto contro il muro.

«È meglio se ti identifichi, questa corsetta non mi ha divertita neanche un po’» sibilò la ragazza in inglese, la voce limpida condita da un evidente accento britannico.

Ora che l’effetto della Pozione Polisucco era terminato, dal berretto della giovane sbucavano ciuffi di capelli rossi, e il viso pallido era spruzzato di lentiggini. Mentre teneva la punta della bacchetta premuta al collo dello sconosciuto, Sophie aveva perso la sua solita espressione amichevole, in favore di un’ombra minacciosa.

 «Ehi, ehi! Senti, sono sicuro che siamo dalla stessa parte, te lo posso dimostrare!» le disse l’uomo, prendendo qualcosa dalla tasca. La strega rafforzò la presa sulla bacchetta, uno Schiantesimo già sulla punta della lingua, ma un attimo dopo le mise sotto il naso un distintivo.

«Sono un Auror del Magico Congresso degli Stati Uniti d’America. Tu sei quella inglese, no?» disse con una leggera nota di pomposità, malgrado il fiato mozzo.

Sophie fece una smorfia e mollò il collega, riponendo la bacchetta nella manica sinistra. «Metti via quella cosa, non dovresti mostrare in giro il tuo nome con tanta leggerezza» lo rimbottò, aprendo il cappotto per estrarne la spilla del Ministero: mentre una facciata mostrava lo stemma del Quartier Generale e il suo numero di matricola, il suo nome era inciso sull’altra, al sicuro da sguardi indiscreti.

L’Auror sembrò ignorare il suo tono irritato. «Però, Pozione Polisucco, eh? E che riflessi! Avevi paura che fossi un malintenzionato?» rise, sistemandosi il colletto e il bavero.

Sophie digrignò i denti.

Ma fa sul serio?

«No, l’ho vista sorvegliare la stessa scuola frequentata dai miei sospettati. Mi chiedevo solo perché avesse iniziato a seguire una collega» Con la discrezione di un elefante, aggiunse la strega fra sé e sé.

Nei giorni precedenti, non aveva potuto fare a meno di notare la figura che si aggirava attorno alla scuola di preparazione magica: proprio come in Inghilterra, non era raro che gli edifici magici fossero nascosti da fabbricati dall’aria macilenta, e questo rendeva ancora più sospetto chiunque si aggirasse in quelle zone.

Perciò, mentre Sophie si curava di utilizzare diversi aspetti e identità a seconda del caso, creando un’alternanza di persone plausibile e poco sospetta, le era saltato immediatamente all’occhio l’uomo dai tratti visibilmente occidentali e il lungo soprabito marrone. Non era particolarmente prudente, né utilizzava camuffamenti, e si era chiesta se stesse sottovalutando la situazione o se fosse proprio un inetto.

Si era decisa a ignorarlo, infine: dopotutto, lei e gli altri Auror erano lì per condurre indagini separate, non era affar suo come si comportava il collega.

Ciononostante, quando poco prima lo aveva studiato nel riflesso della vetrina, e lui aveva colto il suo sguardo, accigliandosi, aveva sibilato tra i denti. Quando poi l’aveva seguita aveva deciso, irritata, di attirarlo lontano dalla zona residenziale, onde evitare di incappare in qualche Babbano mentre sguainava la bacchetta.

«Beh, io invece non ne ero pienamente sicuro, però sapevo che qualcun altro doveva star sorvegliando la stessa scuola… comunque, puoi chiamarmi Penber» tentò l’Americano, sorridendo.

«Buona a sapersi».

Sophie sentì l’acidità nella sua stessa voce, e sbuffò: dopotutto, forse stava esagerando, forse l’uomo aveva un buon motivo per quella sceneggiata, no?

No?

«E poi, oltre ad accertarmi che non fossi nessuno di sospetto, volevo offrirti il mio aiuto! Sai, con tutto il rispetto, ma sei molto giovane…»

Chiaramente, no.

«Scusa?» sputò la ragazza, inviperita, e Penber alzò le mani, quel sorriso un po’ ebete ancora stampato in faccia.

«Senti, non la prendere sul personale, dico solo che hai poca esperienza e vorrei farti un favore e-»

«No, ok?!» sbottò Sophie, ormai vicina all’aggredire quel presupponente di americano che si trovava di fronte. Con che faccia tosta le si rivolgeva così?! Le pareva assurdo ritrovarsi in una situazione del genere, e ad appena due giorni dalle indagini! Come se non fosse già abbastanza impegnativo pedinare, intercettare e mappare minuziosamente le azioni di otto persone, ora doveva anche tenere a bada colleghi incompetenti?

«Torni a fare il suo lavoro e mi lasci fare altrettanto, senza ulteriori interazioni inutili che, tra parentesi, potrebbero attirare l’attenzione dei sospettati!» lo rimbeccò, petulante, sfoggiando un tono di cui Hermione sarebbe stata a dir poco fiera.

«Oh, suvvia, non credo proprio che Kira… insomma, capisco i sospetti di L, ma quei ragazzini…»

«Ah, se lo dice Mr. Seguo-Una-Sconosciuta-In-Vicoli-Bui»

Sophie fece per andarsene, impedendogli di replicare, ma dopo un paio di secondi tornò sui suoi passi. «Ah, e se le interessa tanto ho solo ventidue anni, e non ho nemmeno frequentato l’Accademia!».

Ciò detto, la strega si Smaterializzò, lasciando l’americano a guardare costernato il punto in cui era sparita.

 

Nei giorni seguenti, Sophie vide altre volte il collega, occupato a pedinare quello che doveva essere il figlio maggiore di un sovrintendente. L’Auror si rifiutava di incrociare il suo sguardo, se non per qualche sdegnata e indispettita occhiataccia quando capiva che, sotto l’ennesimo camuffamento, si nascondeva ancora lei.

Le era capitato davvero molto raramente che qualcuno le stesse così antipatico a pelle, e lei era quella che aveva stretto amicizia con un Draco Malfoy diciassettenne! Harry e Ron sostenevano che sarebbe stata capace di farsi amica persino Piton, se solo si fosse impegnata.

Quell’uomo però aveva toccato il suo lavoro, mettendola in dubbio e rischiando la copertura di entrambi, e il suo lavoro non glielo si doveva proprio toccare. Perciò la strega si riteneva pienamente soddisfatta del risentimento dell’americano: la sua priorità erano le indagini e, da quanto era successo, più quello spocchioso le stava lontano, meglio era.

 

***

 

22 dicembre 2003

Sophie dovette guardarsi attorno per qualche secondo prima di trovare L, sepolto com’era tra pericolanti pile di pergamene, faldoni, computer aperti e tazze vuote. Il detective sedeva sul divano, accanto all’unico posto a sedere rimasto.

«Posso?» la voce titubante di Sophie lo riscosse, interrompendolo a metà della terza fetta di torta in mezz’ora. Non che la stupisse, data la sua sconvolgente dieta: un mix di dolci, tè, caffè e tonnellate di zucchero e glucosio che sarebbe stato letale a qualsiasi normale essere umano.

Certo, non era del tutto da abbandonare l’ipotesi che L non fosse un normale essere umano. Sophie trattenne una risatina, mentre osservava quel mago dal volto esangue leggere tre metri di pergamena in circa venti secondi.

Il rotolo di carta giallastra si muoveva di vita propria, contorcendosi come un bizzarro serpente man mano che veniva letto, un’altra prova dell’abnorme uso che L facesse della magia. La signora Weasley lo avrebbe rimproverato alacremente. Inoltre, chiaramente avverso a toccare qualunque cosa non fosse a base di zucchero e farina, il ragazzo non sembrava disposto nemmeno a usare la bacchetta, adoperando Incantesimi Non Verbali [1]come se fosse la cosa più naturale del mondo.

La strega si sedette accanto a lui, versandosi all’istante una tazza di caffè ed accompagnandola con i deliziosi biscotti al burro di cui era ghiotta. Mangiò con avidità, gioendo del sentirsi scendere il caffè caldo fino allo stomaco dopo ore e ore di lavoro: durante quei pedinamenti, la strega si Disilludeva talmente tante volte da sentirsi scomparire. Un’eventualità, peraltro, nemmeno troppo inverosimile… Per buona misura, prese un altro biscotto, come a scongiurare che la sua pelle iniziasse a diventare trasparente.

Dopo essersi spolverata le dita dalle briciole, la rossa iniziò a fare rapporto a L, consapevole che l’avrebbe seguita perfettamente malgrado la sua attenzione fosse sulla pergamena.

I due avevano instaurato una piccola routine, quasi bizzarra in una situazione del genere. Una routine fatta di estenuanti ore di lavoro, scarpe sfilate con un grugnito, lunghe docce calde, e... chiacchierate: non importava a che ora tornasse, quando decidesse di farsi viva per mangiare qualcosa, o quanto fosse assonnata, ogni volta L era invariabilmente in salotto, sveglio e vigile. A volte lo trovava a esaminare dati nella poltrona che prediligeva, altre seduto a terra a mangiare la sua strada verso il diabete, altre ancora lo trovava intento a fissare il vuoto dalle alte finestre di vetro. Ogni volta, dopo avergli presentato un breve rapporto, in qualche modo scivolavano in conversazioni inaspettate, che spazzavano via ogni traccia di stanchezza dal volto della strega.

Sophie aveva ammesso a sé stessa che, malgrado l’innegabile intelligenza e fama del detective, era ben lontana dal provare per lui una qualsiasi forma di timore reverenziale; al contrario, la familiarità e la spontaneità con cui avevano dialogato al suo arrivo non avevano fatto che consolidarsi, mentre gli raccontava per filo e per segno le vicende del caso Corvo, o chiedeva al mago di qualche sua vecchia indagine.

Ancora più sorprendente, infatti, era il comportamento di L: malgrado la superficiale indifferenza e freddezza che sembravano permeare ogni suo gesto, la ragazza trovava impossibile non notare la soddisfazione con cui il detective descriveva con perizia anche i fatti più remoti, la sottile nota di superbia che condiva lo svelare qualche deduzione fondamentale, la leggera curva all’angolo della bocca quando raccontava gli atti finali di un’indagine.

Tra un racconto e l’altro, la pallida maschera di gesso del suo volto pareva incrinarsi.

La vita che raccontava, non era la vita di un apatico e annoiato borghese, ovvero tutto quello di cui parlava il suo rifinito accento inglese.

La vita che le raccontava era avventurosa, era ammirevole, era esattamente tutto quello che avrebbe voluto fare lei. Soprattutto, Sophie non doveva nascondere il folle amore per il suo lavoro, e anzi trovava nel detective la sua stessa, assoluta dedizione... Una dedizione che i suoi amici condividevano solo fino a un certo punto.

Forse avevano ragione, quando dicevano che lavorava troppo, che doveva dormire di più, che non poteva sempre andarsene via a metà dell’ennesimo appuntamento al buio, che esisteva qualcos’altro oltre alle infinite ore passate col distintivo in tasca. Probabilmente era vero, probabilmente portava avanti una vita instabile e tremendamente selettiva, ma mentre parlava con L non le sembrava affatto così.

Certo, qualcuno avrebbe avuto da obiettare al prendere il giovane, eccentrico detective come esempio… ciononostante, le conversazioni con lui le facevano dimenticare in fretta ogni riserva, affascinandola, e… facendole perdere le staffe.

Più di una volta, in effetti, qualche sferzante commento del detective aveva avviato battibecchi infiniti, in cui le guance lentigginose della ragazza si accendevano per l’indignazione. Ogni tanto, le era sembrato che L la sbirciasse con un sorrisetto divertito, il che non faceva che infiammarle ulteriormente il volto e l’umore. Anche lei, alla fine, si trovava a mal trattenere un sorriso.

Era Watari, quasi sempre, che compariva per liberare il tavolino da tazze vuote e piatti sporchi, in un muto suggerimento. Sophie, ridendo, guardava l’ora e si arrendeva al sonno, congedandosi da L con atteggiamento improvvisamente impacciato, come a ricordarsi che il ragazzo non fosse suo amico, un normale collega con cui condividere una birra a fine giornata. Era L, era il capo delle indagini, il suo capo.

Eppure, un piccolo, minuscolo, strano presentimento sembrava covarle dentro, nonostante tutto. Era come se la sua mente faticasse ancora a capire il perché stesse lavorando a diretto contatto con L, come se rifiutasse in tronco le spiegazioni (abbastanza circostanziali), che le erano state fornite al riguardo.

Qualcuno lo avrebbe chiamato istinto.

Lei lo chiamava Temo che me la stiano mettendo nel-.

Scacciò per l’ennesima volta quel tarlo dai suoi pensieri, terminando il rapporto.

L portò un pollice alla bocca e iniziò a mordicchiare l’unghia nel solito tic nervoso «Eppure non mi sembri convinta, Sophie» disse lentamente, la sua voce bassa che pareva avvolgersi sul suo nome.

Lei alzò lo sguardo, fissando il volto esangue del ragazzo.

Si strinse nelle spalle «No, sono solo… un po’ annoiata immagino, tutto qui.»

Il detective la osservò senza dire nulla, attendendo che proseguisse.

«D’accordo, insomma… il punto è che Kira sa di essere pedinato, no? O comunque, sa che sono in atto dei controlli su di lui… ciò che significa che accadrà qualcosa, in questi giorni, dovrà esporsi per forza» spiegò pensierosa, osservando la superficie della sua tazza di caffè. «Non lo so, immagino di dover solo portare pazienza»

Il mago non rispose, indicando invece la fetta di torta di Sophie, ancora intatta.

«Quella la mangi?»

Lei scosse il capo, sgranocchiando un altro biscotto mentre lo fissava di sottecchi.

«Non lavori mai sul campo, o sbaglio? Insomma, io penso impazzirei se dovessi solo dirigere le indagini da lontano… Immagino di essere un po’ irrequieta» ridacchiò la rossa, non del tutto certa di cosa diavolo stesse dicendo.

«Perciò non miri a scalare i ranghi del Ministero?»

Sophie ci pensò, spingendo meglio la schiena nella seduta del divano mentre poggiava i piedi sul bordo del tavolino, senza troppi problemi. Lei almeno li metteva, i calzini.

«Veramente… no, non mi attira molto il lavoro d’ufficio. Voglio dire, ovviamente è importante  pianificare e studiare il caso… però non credo che ambirò mai a organizzare le squadre, litigare con il dipartimento legale e tutte le altre noie che deve affrontare Robards» rifletté, lo sguardo perso nel soffitto. Poi, con un sogghigno, aggiunse: «No signore, quelle se le beccherà Harry».

«Non ho mai lavorato sul campo» ammise L, e lei voltò il capo senza staccarsi dal divano.

«Mai?!»

«Quasi mai. Ma niente esposizione, non l’ho mai ritenuta necessaria... o allettante»

«Ma come!» esclamò Sophie, sporgendosi verso di lui e gesticolando animatamente. «Niente inseguimenti? Niente duelli? Nessuna indagine sotto copertura o pedinamento in cui, per un solo, minuscolo attimo non ti hanno beccato? Niente “Ha il diritto di rimanere in silenzio” mentre finalmente metti le manette a qualcuno?»

«Gli Auror non usano le manette»

«Ryuzakiii!» sbottò esasperata la ragazza.

«Uhm… no, neanche uno». Lei lo guardò a bocca spalancata, il suo volto il ritratto di un cane bastonato, come se le avesse fatto un torto personale. L sembrò trattenere un sorriso, rapidamente dismesso in una tazza di caffè.

«Ok, ok, ma allora… qual è la parte migliore delle indagini? Voglio dire, quel momento di assoluta, infantile, spontanea soddisfazione? Perché lo devi avere, se ami così tanto questo lavoro» sancì Sophie, irremovibile. «Il mio sono le operazioni finali. Intendo, i pochi momenti prima della resa dei conti, quando corri, e hai l’adrenalina nel sangue, e devi concentrarti al massimo per prendere bene la mira o scattare nel momento giusto».

Il giovane la guardò aspettare la sua risposta e inarcare le sopracciglia, in un modo che sapeva più di pretesa che di speranza.

«… Lo scacco matto. Quando le prove sono incontrovertibili e ogni bugia, ogni finzione e nascondiglio si polverizzano di fronte alla verità»

«E il bastardo messo all’angolo perde ogni possibile aplomb e capisce di non avere più speranze, giusto?» L non rispose, ma stavolta il leggero sorrisetto disegnato sulle labbra sottili non lo stava immaginando.

«Sei un sadico» ridacchiò la giovane, dandogli una spintarella giocosa prima ancora di rendersene conto.

Entrambi si bloccarono a quel gesto, ogni traccia di ilarità rapidamente cancellata dai loro volti mentre si ritrovarono a fissarsi.

La strega, impallidita, aprì e chiuse la bocca un paio di volte, prima di farfugliare delle scuse confuse. Diamine, ma che le saltava in mente? L non era, Non. Era. Suo amico! E chiaramente odiava il contatto fisico, lo dava ampiamente a vedere! Ora che avrebbe fatto? Si sarebbe arrabbiato? O sarebbe scoppiato a piangere?

Dio, se ho traumatizzato il detective più importante del pianeta Robards mi ammazza.

Prima ancora che il ragazzo potesse avere la minima reazione, oltre a fissarla con vaga sorpresa, Watari entrò nella stanza. «Signorina Sophie, una lettera per lei»

«Grazie!» sbottò la rossa, scattando in piedi e allontanandosi a grandi passi dal divano. Prese la lettera che le porgeva Watari, ringraziandolo e guardando l’indirizzo: aveva il sigillo del ministero, ma il mittente era Harry.

«La civetta che l’ha consegnata è in camera sua a riposare, mentre Siler è ancora a caccia» la informò il maggiordomo. Sophie avrebbe riso per l’entusiasmo con cui Watari aveva accolto il suo gufo, ma in quel momento voleva solo sprofondare.

«Grazie…» disse con voce flebile e il mago, accennando un inchino, si congedò.

Lasciandola nuovamente da sola.

Con L.

Che non stava piangendo, ma che non aveva nemmeno spiccicato parola.

La strega vagliò le sue scarne opzioni e, in modo molto poco Gryffindor, optò per la ritirata.

«Beh, Ryuzaki, io allora… ehm…» farfugliò, sventolando la lettera a mo’ di spiegazione.

Lui annuì, concentrato su una nuova tazza di tè.

«B-bene, ‘notte».

Appena Sophie si fu chiusa la porta alle spalle, vi si accasciò contro, ignorando la civetta di Harry. Insomma, L non era traumatizzato. Che poi, perché avrebbe dovuto? D’accordo, forse non era abituato a essere toccato, non si erano nemmeno stretti la mano quando si erano conosciuti, però non aveva fatto niente di che, no? Forse Sophie avrebbe dovuto scusarsi. E smettere di essere così amichevole. Sì, decisamente, era tutto lì il problema: per un attimo si era dimenticata di non essere a casa, a lavorare con i suoi colleghi, con i suoi amici. Perché L non era suo amico, né lo sarebbe mai stato, era un suo superiore.

A quel pensiero, si ritrovò a corrucciare la fronte.

Sbatté la nuca contro il legno, chiedendosi cosa diavolo le prendesse.

 

***

 

23 dicembre 2003

«Le scuole sono chiuse».

Sophie sussultò, la mano ancora allungata vero la porta d’ingresso.

Beh, quello era imbarazzante.

Non solo era appena letteralmente sgattaiolata via dalla sua camera alle cinque del mattino, ma ovviamente L l’aveva anche colta sul fatto.

Maledicendosi, lo guardò da sopra una spalla. La suite era immersa nella tenue luce dell’alba, una penombra in bianco e nero in cui la figura di L pareva quasi spettrale. Era a pochi passi da lei, sulla soglia della cucina, le mani affondate nelle tasche dei jeans e gli occhi sempre più cerchiati di nero. In quel modo, con il volto inclinato da un lato e i capelli arruffati, le ricordò un gufo.

La ragazza provò a parlare, la voce irrimediabilmente roca dopo essersi alzata non più di mezz’ora prima. Non che avesse dormito, ovviamente. «C-come?»

«Le scuole sono chiuse, perciò nessuno dei tuoi sospettati si alzerà così presto» le spiegò con tono annoiato il detective, raddrizzando la testa per fissarla dritto negli occhi, in una muta domanda.

Sophie sospirò, voltandosi verso di lui e passandosi una mano fra i capelli scompigliati.

«Voglio fare un paio di sopralluoghi, alcuni dei ragazzi stanno organizzando delle uscite e voglio sapermi muovere con tranquillità» si inventò in fretta. Si congratulò con sé stessa per quella che, dopotutto, non era poi una brutta idea: se proprio doveva trascinarsi in giro per Tokyo in preda all’insonnia, tanto valeva sfruttare i suoi vagabondaggi.

L rimase in silenzio a fissarla per un tempo che parve non finire mai, quello sguardo freddo che le entrava sotto la pelle e la certezza che avrebbe chiamato il suo bluff a imporporarle le guance. Poi, contro ogni aspettativa, lui annuì, senza smuovere quella sua espressione indecifrabile.

Sophie capì che era decisamente il momento di andarsene, prima di fare altre figuracce.

… Però.

«M-mi dispiace. Per ieri sera. S-se ti ho dato fastidio» farfugliò in fretta la strega, aggiungendo ogni pezzetto di frase di senso compiuto che il suo cervello riuscisse a formulare, e pregando perché il detective le facesse la gentilezza di riempire da sé i punti mancanti.

Lui aggrottò la fronte, iniziando a sfregare tra loro i piedi nudi, un tic nervoso che la strega aveva notato più volte, di solito quando lui se ne stava in silenzio a riflettere su qualche nuovo dato. Quando rifletteva a voce alta, invece, o spiegava qualcosa col suo accento perfettamente standard e ciononostante perfettamente prestigioso (dove lei non riusciva a nascondere la tendenza Cockney), tendeva a passarsi un pollice sulla bocca sottile. Un gesto che attirava sempre il suo sguardo, senza il minimo motivo.

Sophie si trattenne dal tirarsi i capelli da sola, riscuotendosi da quella spirale di pensieri decisamente molto vicini alla linea dell’inappropriato. In alternativa, si decise a dare le spalle al detective e a spalancare la porta d’ingresso, accogliendo con gratitudine l’aria fresca del corridoio.

«Non mi hai dato fastidio» il basso mormorio di L la bloccò sul posto, con un piede fuori dall’uscio. Rimase immobile per qualche secondo, poi fece di sì col capo, senza voltarsi, e si richiuse la porta alle spalle.

Suo malgrado, e soprattutto malgrado l’orario indecente, l’aria gelida delle vie di Tokyo e la pallida luce di un’alba nuvolosa, Sophie non riusciva più a smettere di sorridere.

 

LUMOS

Chiedo venia per il ritardo indecente, è stato un inizio anno alquanto… turbolento, let’s say, e ho iniziato la sessione l’altro ieri perciò mi sto già esaurendo, MA COMUNQUE.

Ho corretto moooolto alla svelta, spero di non aver lasciato troppi errori.

Buon anno in ritardo, un abbraccione mega galattico :3

Ah, e grazie mille, davvero.

NOX



[1] Incantesimi effettuati senza pronunciare la formula a voce alta, cosa generalmente più complessa. La magia senza bacchetta non è particolarmente trattata in HP, quindi mi faccio un po’ i miei viaggi 😉

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Capitolo 5
*** Senza volerlo sapere ***


Capitolo 4

Senza volerlo sapere

24 dicembre 2003

Per il giorno successivo, la strega si era ripromessa di essere migliore, di frenare ogni ansia e pensiero di troppo, di diventare la professionalità fatta persona: niente battute, niente chiacchierate, niente spintarelle scherzose. L le aveva detto di non essere rimasto infastidito ma,  percorrendo le vie ancora addormentate di Tokyo, Sophie si era resa conto di quanto la reazione del detective fosse l’ultimo dei suoi problemi.

Il vero problema, piuttosto, era il sorrisone che si era portata in giro tutta mattina come una babbea, o la notte insonne che aveva trascorso a rimuginare su ogni passo suo o del detective. Tutta quella faccenda la faceva sentire confusa, agitata e a disagio, tre cose che non c’entravano proprio niente con il motivo per cui si trovava in Giappone. Era lì per lavorare, e quell’atteggiamento da adolescente doveva sparire, evaporare, adìos!

Signor sì, avrebbe mantenuto le distanze.

… Anche se lei faceva abbastanza schifo, a mantenere le distanze.

Il mattino della Vigilia di Natale, Sophie scrisse un paio di lettere per Harry e gli altri, trovandosi a compiere uno stretto slalom tra tutti gli argomenti tabù: aggiornamenti sul caso, aggiornamenti sulle sue giornate, informazioni su quali parti della città avesse visto o su cosa stesse facendo, o su cosa loro stessero facendo. Verso la fine, si ritrovò a contemplare la scarna missiva; in quel momento, un tarlo ridondante tornò a farsi sentire.

Non aveva dimenticato lo strano atteggiamento di Robards, quella preoccupazione che aveva prepotentemente riempito il suo sguardo mentre la guardava partire per il Giappone. Il Capo non era mai stato uno da smancerie o esitazioni, era un uomo burbero e determinato che mai mostrava il minimo segno di timore ai suoi Auror, sempre sbrigativo e, in un certo senso, rassicurante.

Certo, quelle erano circostanze particolari, non v’era alcun dubbio, però…

Sophie aggiunse un paio di righe in cui si raccomandava di rassicurare Robards e tenerlo d’occhio, poi sigillò la busta e si diresse in salotto con la civetta di Harry, in cerca di Siler: preferiva che il barbagianni la accompagnasse per parte della strada, come garanzia contro le intercettazioni.

Esitò per un attimo nell’aprire la porta che dava sulla zona comune della suite.

Professionalità, sii professionale si ripeté.

Pochi minuti dopo, però, si trovava curva sopra lo schienale di una poltrona, intenta a sbirciare la pergamena che levitava a pochi centimetri dal naso di L.

«Gli omicidi si stanno concentrando sempre di più nella zona del Kanto?» chiese, già dimentica del suo mantra.

Anzi, trattenne una risata al lievissimo sobbalzo di L, segretamente soddisfatta di riuscire a sfuggire al fine udito del detective: evidentemente, anni di allenamento non erano andati buttati.

La sua attenzione fu però nuovamente catturata dai rapporti, e dall’ennesima dichiarazione di guerra che celavano. Era passata qualche settimana da quando L, con lo stratagemma della diretta tv “nazionale” aveva scoperto dove si trovasse Kira, portandolo a uccidere proprio mentre la trasmissione veniva mandata in onda solo nel Kanto. Ebbene, il messaggio non poteva essere più evidente: se tutti sapevano che Kira si trovava nel Kanto, allora avrebbe ucciso ancora di più entro i suoi confini.

«Ti sfida usando le proprie vittime, di nuovo, da come le manipola a dove le fa morire… bastardo infantile» mormorò, guardando finalmente il detective.

Troppo vicino.

Arrossì un po'.

Beh, si era comunque ripromessa un lavoro graduale.

«Ehm, non dovevo leggere?»

«No» rispose lui, mordicchiandosi un pollice. «Ma hai perfettamente ragione. Kira usa le sue vittime per punzecchiarmi»

«Disgustoso» commentò Sophie, aggrottando la fronte. Poi estrasse la lettera dalla tasca dei jeans, mostrandola al mago.

«Ok, qua dentro non ci sono informazioni inerenti a caso, solo auguri di Natale e lamentele per la totale assenza di Burrobirra in Giappone… devo aggiungere qualcosa? Per Robards?»

«Non è necessario»

«Perfetto» disse la ragazza, sorridendo. Accostò due dita alla bocca per emettere un fischio sottile; Siler comparve dal buio del soffitto, dove si era appisolato su un lampadario spento, e si posò sulla sua spalla.

«Tyto tenebricosa». L stava studiando Siler, incuriosito, attirando di rimando l’attenzione del rapace, e la ragazza passò un rapido sguardo tra i due.

Professionale!

«Sì, esattamente, tenebricosa. Sì.»

Magari senza farfugliare?

«Una scelta insolita.» Siler lanciò uno stridio indignato e il mago specificò: «Non cattiva, insolita… lo trovo un animale molto interessante, a dire la verità. Posso?»

Sophie non fece nulla per nascondere la sorpresa, né l’esitazione: Siler non era uno degli animali più fiduciosi del mondo, e L… beh, non aveva ancora dimenticato il terrore di averlo rotto.

Il detective si avvicinò e si sporse appena in avanti, studiando il gufo che non si era mosso dalla sua spalla.

Distante!

Si disse Sophie, rimanendo immobile e con lo sguardo ostinatamente rivolto su Siler. In effetti, quel manto screziato di grigi, neri e marroni, era uno spettacolo, piume dall’aspetto vellutato che sfumavano fino al capo candido, a forma di cuore, dove spiccavano due grandi, liquidi occhi neri.

Sì, un meraviglioso barbagianni.

Era comprensibile che L fosse curioso.

E che fosse a mezzo metro da lei.

Quindi Sophie non aveva nessuna ragione per essere improvvisamente arrossita, o per non essere del tutto sicura di come respirasse normalmente.

La strega ringraziò silenziosamente la civetta di Harry, che d’improvviso si alzò in volo nella cornice della finestra aperta, sferzandole il volto con ventagli di aria fredda.

«Nidifica in Indonesia e Australia»

«… Eh?»

«Il barbagianni tenebricosa» chiarì L, indicando Siler in una domanda sottintesa.

«Oh, sì, è una storia lunga…»

Gli occhi ambrati della strega cercarono quelli del detective, dubbiosi, ma lui stava chiaramente aspettando che continuasse.

«Ehmm beh… è stato lui a portarmi la lettera per Hogwarts…» la sua voce si fece più dolce, un sorriso disegnato sulle labbra, «era un cosino tutto spaventato, mi ha praticamente lanciato addosso la busta nel bel mezzo della notte ed è fuggito via... Ehi, è vero!» ridacchiò, mentre il gufo apriva le ali indignato e volava sulla cornice della finestra. Sophie rimpianse il peso familiare del rapace sulla sua spalla, improvvisamente conscia di non avere più uno scudo tra lei e L. Si schiarì rumorosamente la voce.

«Quando lo trovai nella Gufiera di Hogwarts, scoprii che quella della mia lettera era stata la sua prima e ultima consegna… almeno fino a quel momento» spiegò soddisfatta, un largo sogghigno sulle labbra, «so essere particolarmente testarda».

Siler rispose con un lamento cupo.

«Come è finito a Hogwarts? Hagrid?»

«Beh, sì, ma…» la strega si bloccò di colpo, elaborando ciò che L aveva appena detto.

Hagrid? Conosce Hagrid? Perché se conosce Hagrid[1]

Sophie guardò la faccia da poker del detective, e ritenne più saggio conservare quell’informazione per un’altra volta. «Ehm, Hagrid l’aveva trovato in un negoziaccio di Nocturn Alley, di quelli che commerciano varia merce di contrabbando» proseguì tranquilla, dissimulando la sorpresa, «… fu Silente a dirmi di tenerlo, dato che sembravo essere l’unica a piacere all’indomabile bestiolina, ma in realtà bastavano un po’ di fiducia e pazienza… e biscotti secchi, un sacco di biscotti secchi».

Rimase in silenzio, guardando il detective per capire se avrebbe chiamato il suo bluff: conoscendolo, non aveva tirato in ballo quel dettaglio per nulla, sapeva che Sophie avrebbe capito. Lei, ormai, trovava una certa familiarità in quei piccoli test.

«Siler, dal latino “silere”» commentò infine il ragazzo, e lei annuì.

«Anche per un barbagianni, è estremamente silenzioso… come vedi, se l’è già filata da un pezzo» disse fiera Sophie, chiudendo la finestra da cui il rapace era scivolato via senza che se ne accorgessero.

Appoggiò la schiena alla vetrata fredda, trovando L ancora troppo vicino. Incrociò le braccia, a disagio sotto quello sguardo penetrante.

Professionalità, distanza… sì quella roba lì pensò, sforzandosi inutilmente di distogliere lo sguardo da quello del detective.

«Ti piacciono le sfide» sentenziò lui, dopo un po’.

«O i casi persi» scherzò, iniziando a battere in ritirata verso la porta d’ingresso. «Beh, io devo andare o farò tardi… a dopo!».

 

L rimase solo davanti alla finestra, perso nei suoi pensieri.

Dopo qualche minuto, chiamò Watari.

«Intercetta la lettera che Winchester ha appena spedito… e procurami della Burrobirra».

 

***

 

Sophie non l’aveva presa bene.

All’inizio si era quasi spaventata, credendo che qualcuno avesse scoperto il nascondiglio di L, poi aveva storto il naso: se fossero stati compromessi, Watari l’avrebbe subito contattata e portata in una nuova base, per ristabilire le misure di sicurezza. Anche il più sciatto dei Quartier Generali avrebbe fatto così, figurarsi uno coordinato da quei due.

Inoltre, a metà mattina, Sophie aveva avvistato Siler. Era seminascosto tra le fronde di un albero per non attirare l’attenzione dei Babbani, ed era la conferma che qualcosa era andato storto… però il gufo sembrava essere sereno.

A quel punto, aveva tratto l’ovvia conclusione, e non l’aveva presa bene.

La cosa peggiore, era stata dover aspettare tutto il giorno, continuando a tallonare i suoi sospettati per ore interminabili. Quando era finalmente calata la notte e tutti erano rientrati alle proprie case, la rabbia di Sophie non era sbollita nemmeno un po’.

No, perché quel pomeriggio dei sospettati avevano fatto un’uscita di gruppo, e Sophie si era ritrovata a incrociare nuovamente la strada di quell’insopportabile di Penber. Penber che, a metà pomeriggio, aveva perso una fotografia lungo la strada.

Fottuto Pollicino.

Esasperata, Sophie si era automaticamente chinata a recuperare la foto, studiandone il contenuto prima di infilarla in una tasca interna del cappotto: a ricambiare il suo sguardo erano il collega e una ragazza giovane, dai lunghi capelli neri. I due erano abbracciati, entrambi in costume da bagno e con un sorriso contagioso ed amorevole sul volto.

Più tardi, aveva teso un agguato al collega, gustandosi lo spavento che si prese.

 

«Non perdere effetti personali in giro» aveva praticamente abbaiato la ragazza, tendendogli la foto.

«Grazie!» sbottò entusiasta, già dimentico del tono abrasivo della strega. «È la mia fidanzata».

«Non te l’ho chiesto» aveva ribattuto stancamente Sophie. In realtà, era meravigliata che un idiota del genere fosse fidanzato. Prima di potersi trattenere, gli aveva chiesto: «Quando vi sposate?»

Il sorrisone di Penber era quasi tenero. «L’estate prossima, tra qualche giorno mi porterà anche a conoscere i suoi» aveva spiegato, l’emozione che trapelava dalla voce.

La strega, suo malgrado, aveva pensato che quel tizio non fosse poi così malaccio.

«Sai, lei era una Auror, e molto in gamba! Figurati, ora vorrebbe sapere tutto sul caso, ma io le ho vietato di indagare, le ho detto di ricordarsi della promessa: non immischiarsi più con gli affari da Auror, dopo le dimissioni. Sai, è successo un bel casino, un po’ di tempo prima che si ritirasse» aveva aggiunto inarcando le sopracciglia con aria buffa e facendo sorridere appena la collega. «Le ho detto che d’ora in poi a lei spettano i figli, la famiglia, la casa: quello è il suo compito, non certo quello di giocare a rincorrere criminali» aveva concluso, incrociando le braccia con aria boriosa.

Il viso di Sophie si era contratto all’istante, la fronte aggrottata e i denti stretti da cui era uscito un ringhio davvero poco consono ai suoi tratti delicati.

«Sei proprio un emerito deficiente, e con questo non ho altro da dirti, razza di misogino!»

 

No, dopo quella giornataccia, Sophie non era per niente calma.

Non era più titubante, non si sentiva più in colpa o in dovere di cambiare il suo atteggiamento, e non si fece problemi a entrare nella suite a passo di marcia, un’espressione minacciosa sul volto acceso dal freddo.

Soprattutto, sapere di avere ragione eliminava ogni traccia di disagio dal suo portamento, e Sophie non aveva alcun dubbio: Siler era perfettamente in ordine, non una piuma torta o un segno di colluttazione, perciò era chiaramente stato intercettato da qualcuno di cui si fidava. Questo restringeva drasticamente il cerchio a…

«L!» ringhiò la strega, fissandolo con uno sguardo omicida. «Si può sapere che bisogno c’era, vuoi spiegarmelo?! Ti avevo già detto che non avevo scritto niente sul caso o su di te! E poi che diavolo di motivo avrei avuto per farlo? Sapevo che potevi intercettare la mia posta e-»

«Se l’avevi previsto, Sophie, non vedo il problema» la interruppe lui, imperturbabile, senza alzare gli occhi dal suo computer. Era seduto sul tappeto in una posizione stranamente normale: la schiena contro il divano, le lunghe gambe piegata l’una sotto l’altra, un pollice premuto sulle labbra e un gomito mollemente poggiato sul ginocchio.

La strega decise di ignorare la novità, troppo concentrata sull’impellente e nefasto bisogno di strangolare il Cacciatore di Maghi Oscuri più brillante di sempre.

«Questo è, è… del tutto irrilevante! Non ti dà il diritto di farlo»

«Al contrario, ho il pieno diritto di controllare che non trapeli alcuna informazione da qui, per la tua sicurezza, oltre che la mia, quella di Watari e di tutta l’operazione».

Sophie boccheggiò per l’indignazione. «Oh, sì, effettivamente ora mi sento molto più sicura!»

«Perfetto allora»

«Sai quello che ho appena detto? Ecco, si chiama sarcasmo»

«Ad ogni modo, non preoccuparti, non ho letto la tua lettera»

«… Ah»

«L’ha letta Watari».

Sophie prese un respiro profondo, trattenendo un ringhio esasperato e molto poco professionale. Tanto non avrebbe concluso niente, litigare col capo delle indagini non risolveva niente. Certo, era anche abbastanza sicura che rovesciargli in testa una caraffa di tè bollente avrebbe perlomeno migliorato la situazione.

«Ryuzaki»

«Che?» sbottò la strega, alterata.

«Ryuzaki, è così che mi deve chiamare».

Lei annuì, ancora più rigida, prima di scattare verso camera sua.

Slacciò il mantello e lo gettò a terra assieme alla sciarpa, per poi iniziare a marciare avanti e indietro. L’abitudine l’aveva presa da Harry che, fin dai tempi di Hogwarts, quando aveva bisogno di riflettere prendeva a camminare avanti e indietro: al Quartier Generale spesso faceva inciampare i colleghi senza neanche rendersene conto.

In verità, Sophie aveva un altro metodo per concentrarsi, ma quella dannata sera non pioveva.

Sbuffò, continuando a camminare sugli stessi metri di moquette fino a lasciarvi un solco. La strega non sopportava situazioni come quelle: quello di L era stato un gesto legittimo, tecnicamente, ma che la metteva in discussione come Auror, come persona di fiducia.

E quindi?

La strega si fermò, mordendosi un labbro fin quasi a tagliarlo. In fondo, era poi così strano che un tipo diffidente come lui, Merlino, che L mettesse le mani avanti? Con lei, poi, una collaboratrice estera con cui non aveva mai lavorato e che conosceva da una settimana, cosa si aspettava?

Sophie strinse le braccia consorte sotto il seno, le spalle talmente rigide da farle quasi incassare la testa. Una parte della sua rabbia sfumò rapidamente, un’altra le ricordò che L avrebbe potuto semplicemente chiederglielo.

Si passò le dita affusolate fra i capelli, strattonando scocciata quando una ciocca s’impigliò in uno dei suoi anelli.

«Ahi!» sibilò, massaggiandosi la cute dolorante mentre andava alla scrivania per recuperare una matita. Fu allora che li vide, sul ripiano di noce: una lucida bottiglia di vetro, assieme ad un calice. Riconobbe subito l’etichetta viola.

Lì accanto, scritto con una grafia stretta e frettolosa, la aspettava un cartoncino dai bordi dorati.

Buon Natale”

Improvvisamente, alla strega sembrò di avere il volto in fiamme. Rimase immobile, fissando la bottiglia e mordendosi nervosamente un’unghia.

Merlino, come non ti capisco.

Alla fine sbuffò, estraendo la bacchetta e puntandola contro il calice: «Gemino». Come in una bizzarra scissione cellulare, quello si divise in due, e la strega svuotò la Burrobirra in entrambi. Stando attenta a non rovesciare niente, tornò in soggiorno.

«Buon Natale anche a te» mormorò, posando uno dei calici sul tavolino e trattenendo una risata al leggero sussulto del detective.

L la studiò con aria circospetta, mentre si accomodava sulla poltrona solitamente occupata da lui. Si sistemò con la schiena contro un bracciolo e le gambe a penzoloni sull’altro, un libro di Trasfigurazione Molto Avanzata in grembo e la Burrobirra stretta al petto.

Dopo pochi secondi, sospirò. «Non l’ho avvelenata, sai? Per stavolta

Lui inarcò un sopracciglio. «Per stavolta?»

«Sì» confermò la rossa, serissima. Poi, con tono più morbido, aggiunse: «Senti, chiedimelo la prossima volta, ok? Non ho problemi con le misure di sicurezza, ma non attuarle alle mie spalle.»

Una vocina paranoica le diceva che stava esagerando, che non solo aveva mandato completamente al diavolo il suo piano di smettere di fare l’amicona con L, ma ora gli dava pure ordini? La vocina fu presto affogata in un altro sorso di Burrobirra.

La Burrobirra che lui le aveva fatto procurare non sapeva bene dove e non sapeva come. Con un biglietto di buon Natale.

Lo spiò con la coda dell’occhio e, divertita, vide che ancora non accennava a bere la sua parte. «Seriamente, non te ne ho ceduta metà solo per fartela fissare».

Lui la guardò ancora per un momento, poi entrambi bevvero, in silenzio.

La mente stanca di Sophie si perse in ricordi lontani, mentre lasciava che quel dolce nauseabondo le inondasse i sensi.

Baffi dorati e bianchi di schiuma sul volto di suo padre, sua madre che lo metteva in guardia su tutta la Burrobirra che beveva.

Non le piaceva nemmeno così tanto, la Burrobirra. Certo, da bambina era stata la sua delizia, quella che era sempre presente a ogni tavolata o che beveva di nascosto con suo nonno, prima che nonna li sgridasse perché l’avevano già bevuta a pranzo. Crescendo, era il sapore familiare dell’infanzia, un piccolo rimando a casa sua quando la ordinava ai Tre Manici di Scopa di Hogsmade[2], dimenticando per un momento lo stress di qualche esame incombente o di una punizione di Piton. Poi…

Baffi dorati e bianchi di schiuma sul volto di suo padre, sua madre che lo metteva in guardia su tutta la Burrobirra che beveva.

Un fascicolo scarno, una foto stropicciata, due corpi freddi e deturpati in un soggiorno devastato.

Poi aveva iniziato a darle la nausea.

«Te ne può procurare dell’altra».

Sophie si riscosse dai suoi pensieri, guardando confusamente il detective.

 

Ancora una volta, L non si era minimamente accorto dell’arrivo della ragazza, e la cosa iniziava a dargli sui nervi. Era una sensazione curiosa, però, perché raramente qualcosa lo toccava tanto da infastidirlo, e il fatto che i passi felpati dell’Auror riuscissero sempre a sfuggire al suo finissimo udito lo infastidiva molto.

Così come l’apparente indifferenza che la strega aveva mostrato nel sedersi nella poltrona, quella che utilizzava sempre lui e dunque aveva eletto a sua. Un vezzo derivante del suo lato più infantile e possessivo, ne era pienamente consapevole e altrettanto noncurante.

Poi lei aveva roteato gli occhi con aria esasperata, un modo di fare che cozzava con i tentativi molto flebili di compostezza che l’aveva vista attuare negli ultimi giorni, e gli aveva sorriso.

Sorrideva spesso, Sophie. Sorrideva sempre.

Anche mentre lo minacciava velatamente e senza alcuna esitazione, le labbra della ragazza erano rimaste piegate in un sorriso sincero, quasi trattenuto. Quel nuovo modo di fare, improvvisamente schietto e sincero, lo intrigava: sembrava che la temporanea rabbia di poc’anzi avesse finalmente rimosso quei filtri traballanti con cui, palesemente, la strega cercava di tamponare il suo carattere esuberante.

L aveva finto di non notare nulla, nei giorni passati, studiando il conflitto interiore della giovane. Fino ad ora.

Ora Sophie pareva aver raccolto abbastanza determinazione da fissarlo con aria di sfida, gli occhi ambrati, quasi dorati nella luce della stanza, stretti fra le ciglia scure in due fessure affilate.

Sì, intrigante, pensò bevendo rapidamente la sua Burrobirra. Gli occhi grigi scivolarono sul libro che la strega teneva in grembo, poi nuovamente al suo volto: lo sguardo di Sophie si era fatto lontano, vuoto, e la sua bocca si era adagiata in una linea inespressiva.

Il detective curvò il capo, incuriosito. c’era qualcosa. Qualcosa che gli poteva servire.

Ricordi? Tracce di quel passato frammentario che né lui, né i numerosi contatti di Watari erano riusciti a completare? Indizi che avrebbero finalmente iniziato a condurlo verso la soluzione?

Attese in silenzio, finché non gli parve che il respiro della giovane si fosse fatto stressato.

La verità era lì, ne era sicuro, era a un passo, forse a un piccolo gioco di prepotenza, una piccola spinta di Legilimanzia di cui non si sarebbe nemmeno accorta…

L aggrottò la fronte, la mascella improvvisamente rigida.

«Te ne può procurare dell’altra».

Sophie si voltò di scatto, e il tempo sembrò rallentare mentre L studiava quegli occhi improvvisamente stanchi, che lo fissavano dal volto che tanto spesso vedeva arrossire, ma che ora pareva pallido dietro tutte le lentiggini.

L alzò il calice vuoto. «Di Burrobirra, Watari te ne può procurare dell’altra. O qualsiasi altra cosa tu non riesca a trovare, devi solo chiedere».

La rossa si affrettò a ricomporre un sorriso fiacco, ringraziandolo e raccomandandosi di ringraziare anche Watari per lei. Il mago era infatti sparito dopo l’intercettazione, impegnato coi suoi affari in Inghilterra, ma lei sembrò non volerne indagare l’assenza, altro dettaglio inconsueto per la curiosa Auror.

Un silenzio tranquillo calò nella stanza, mentre Sophie si faceva assorbire nei meandri sicuri dello studio, ben incastrata contro lo schienale della poltrona e la fronte corrucciata nei passaggi più complessi. Anche quello, pensò L, doveva essere approfondito.

Quello, ma prima ancora il suo passato frammentario: L doveva riunire i pezzi, doveva  capire se ci fosse qualcosa di rilievo, qualcosa che avrebbe potuto connetterla definitivamente a quell’indagine.

Il detective si ritrovò più volte a scrutare il profilo delicato della strega, quella notte. Il suo profilo, o le lentiggini dorate sparse sul suo volto, o il modo in cui teneva le maniche attorcigliate attorno ai polsi sottili e sotto le dita affusolate, o i riflessi ramati dei suoi capelli, legati disordinatamente con la bacchetta. Si ritrovò a voler restare lì a guardarla, guardarla finché non lo avesse beccato e fissato di rimando con un sopracciglio inarcato. Si ritrovò a guardarla senza sapere il perché, e senza volerlo sapere.

 

***

 

25 dicembre 2003

Per Natale, Sophie aveva ricevuto ben tre gufi, coordinati per trasportare un cesto dalle dimensioni imbarazzanti. La strega sperò vivamente che fosse passato inosservato agli ospiti dell’albergo, ai passanti e, soprattutto, a L.

Nonostante la ragazza potesse con tranquillità sdraiarsi nel cesto di paglia, senza nemmeno piegare troppo le ginocchia, Hermione doveva aver nuovamente utilizzato un Incantesimo di Estensione Irriconoscibile. Divenne evidente quando, tra sbuffi e imprecazioni, Sophie cercò richiudere l’armadio in cui aveva stipato tutti i regali ricevuti: dalla signora Weasley, una serie di libri di ricette accompagnò il suo maglione d’ordinanza; Sophie sospettò che, se avesse potuto, Molly le avrebbe mandato direttamente il suo pasticcio di carne e calderoni di minestra, ma grazie a Merlino esistevano le leggi doganali. Dai Tiri Vispi Weasley, George le mandò una collezione nuova fiammante di Gadget Magici, accuratamente impacchettata in un cofanetto natalizio. Da Hermione, un nuovo set di carta da lettere che la fece squittire di gioia, e un paio di libri appena pubblicati. Da Ginny, la nuova maglietta delle Holyhead Harpies e dei Montrose Magpies, in qualche modo già firmate da tutti i giocatori nonostante la stagione del Campionato dovesse ancora iniziare. Da tutto il Quartier Generale, un set di Detector Oscuri nuovo di zecca che le fece lanciare un gridolino, dato che solitamente usava i pidocchiosi, semi-distrutti detector del Ministero.

Quando uscì dalla stanza, un enorme sorriso a illuminarle il volto, vide disordinati ciuffi di capelli neri sbucare dalla poltrona che le dava le spalle. Si avvicinò di soppiatto, colta dall'irrefrenabile, infantile voglia di coglierlo di sorpresa.

Nell’attimo di scattare davanti al detective numero uno al mondo, però, uno squillante “Buongiorno!” le morì in gola. Strinse le labbra tra i denti, gli angoli della bocca che tradivano un piccolo sorriso.

Così, a quanto pare, anche L dormiva.

Era rannicchiato nella sua solita posizione fetale, ma il capo gli ricadeva contro i lati dello schienale, schiacciando i capelli corvini. Il volto pallido del detective era rilassato, gli occhi perennemente sottolineati da occhiaie pesanti erano finalmente chiusi in un meritato riposo. La bocca sottile, per una volta, non era vittima di qualche tic nervoso, o aperta per fare qualche osservazione tagliente, ma socchiusa. Un respiro leggero e stabile gli muoveva appena il petto, coperto solo dalla solita, sottile maglietta bianca.

Sembrava così… solo, costretto in quella posa difensiva anche mentre dormiva, caduto certamente addormentato mentre stava ancora lavorando, dato che una pergamena giaceva srotolata ai piedi della poltrona.

Sophie si morse un labbro, abbassandosi per arrotolare con cura il documento e riporlo sul mobile più vicino.

Alzò il capo  sul detective e, scrutandolo in un momento tanto vulnerabile, fu come se lo vedesse per la prima volta.

Per la prima volta, non vide il capo delle indagini, l’indiscutibile autorità del mondo della giustizia, l’interessante collega con cui discutere fino a notte fonda divorando biscotti.

Per la prima volta, Sophie vide una semplice persona, un semplice ragazzo. Non era niente più che un ragazzo, quello che si batteva quotidianamente per la giustizia e per la salvezza di tutto il mondo, quello con gli occhi perennemente segnati dal sonno e la pelle esangue di chi non vedeva mai la luce del sole.

Per la prima volta, provò una sottile vena di preoccupazione: oltre a Watari, c’era qualcuno che si preoccupasse per lui? Non per L, no, per quel ragazzo. Qualcuno che lo strigliasse quando non mangiava come si deve, come la signora Weasley; qualcuno che lo trascinasse via dal lavoro per bersi una birra, come Harry e Ron; qualcuno che ogni tanto si presentasse alla sua porta con una pizza per spezzare la solitudine, come Ginny; qualcuno che ribattesse ogni sua parola e si lamentasse se si vestiva troppo leggero, ma che poi portasse sempre il suo tè preferito, come Draco.

La strega non si poteva arrogare il diritto di sapere davvero qualcosa sulla vita del detective, né poteva immaginare chi o cosa lo aspettasse a casa… però aveva l’impressione di sapere la risposta.

Aggrottò la fronte, estraendo la bacchetta per trasfigurare una pergamena vuota in una coperta. La drappeggiò sul corpo rannicchiato di L, imponendosi di mettersi al lavoro e di smettere di fissarlo come una maniaca.

 

Quando uscì dalla suite, non si accorse che Watari aveva assistito a tutta la scena, un sorriso sotto i baffi candidi.

 

***

 

27 dicembre 2003

Quella sera, c’era qualcosa che non andava.

Ancora una volta, un gruppo di studio della scuola di preparazione si era ritrovato per un ripasso generale. Ancora una volta, sia sospettati di Sophie che sospettati di Penber, e probabilmente anche di qualche altro Auror, si trovavano negli stessi dintorni.

Solo che di Penber non c’era traccia.

E di Penber c’era sempre traccia.

Se è per quello, la strega non aveva notato nessun altro individuo che potesse identificare come Auror, ma magari i colleghi di Penber erano semplicemente più bravi nel loro lavoro. La rossa, per quanto formidabile nel notare quel genere di cose, non era infallibile.

Ciononostante, e venendo meno al suo dovere, non seguì i suoi sospettati a casa.

Seguì quelli di Penber. Prima la figlia maggiore del Capitano Kitamura, poi quello del Sovrintendente Yagami.

Non incrociò nemmeno un’anima sulla loro scia.

Ferma vicino a casa Yagami, appostata invisibile dietro un lampione, spiò dalle finestre accese dell’abitazione; dopo aver contato i presenti, si bloccò, congelata dallo sgomento.

Pensava, infatti, che il ritardo del collega fosse dovuto a un’eventuale complicazione con gli indiziati, ma sia i membri della famiglia Kitamura che di quella Yagami erano al loro posto. E dell’Americano ancora nessuna traccia.

Forse sta solo seguendo un’altra pista.

Non ci sarebbe stato nulla di strano.

Però L non gli aveva accennato a nessun cambio di programma.

Sophie strinse le mani a pugno e respirò profondamente, tentando di non perdere la calma. Doveva decidere cosa fare, e molto in fretta: seguire l’istinto era sempre considerato il cliché di ogni buon poliziesco, ma da Auror sapeva perfettamente quanto certe cose non andassero realmente ignorate. E quella non era una coincidenza.

Non perse tempo e, risoluta, cercò un vicolo deserto per Smaterializzarsi, seguendo la voce che la spronava a correre da L.

«Ryuzaki!» ansimò poco più tardi, spalancando la porta della suite dopo aver fatto le scale dell’hotel due a due. «Ryuzaki, c'è qualcosa che non va, l’Americano...»

«Sei viva» la voce bassissima ed esterrefatta del detective colse la strega impreparata.

«Cosa- come?»

«Raye Penber è morto» la informò L, che con gli occhi spalancati sembrava scandagliarla come ad assicurarsi che non fosse un fantasma. «… E così tutti gli altri, Kira li ha uccisi».

Sophie aprì e chiuse un paio di volte la bocca, interdetta.

«Che... Che vuoi dire?»

«Tu sei l’unica sopravvissuta».

 

LUMOS

Beh, visto che ho tardato un sacco con lo scorso capitolo, anticipo un po’ questo ;3

E mi sono anche un po’ rotta di ripassare per la sessione, ma dettagli.

Comunque, spero che sia tutto abbastanza scorrevole (piccolo uragano, santa patrona dei dialoghi, proteggimi tu).

Un abbraccione, e grazie mille a tutti quelli che recensiscono/seguono/ricordano/preferiscono, vi si ama assai.

NOX

 

 



[1] Custode delle Chiavi e dei Luoghi a Hogwarts, grande amante delle creature magiche, soprattutto se illegali o in qualche modo nocive.

[2] Villaggio magico accanto a Hogwarts, dove gli studenti possono recarsi dal terzo anno.

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Capitolo 6
*** Tripudio di coraggio, fegato e idiozia ***


Capitolo 5

Tripudio di coraggio, fegato e idiozia

27 dicembre 2003

Tu sei l’unica sopravvissuta.

Un brivido freddo le scese dalle spalle lungo la schiena, come acqua ghiacciata. Spaesata, fissò L senza vederlo davvero.

Tu sei l’unica sopravvissuta.

Il nodo che le premeva prepotente sullo stomaco le fece venire voglia di vomitare sul tappeto persiano ai suoi piedi, una reazione a malapena trattenuta a quelle parole troppo familiari. Era la terza volta che le sentiva, e ogni volta era stata di troppo.

Tu sei l’unica sopravvissuta.

Sophie cercò di concentrarsi su ciò che aveva davanti agli occhi, ignorando per quanto possibile i bisbigli del passato.

«Com’è possibile? Mi stai dicendo che dodici agenti sono morti nelle ultime ventiquattr’ore?!»

«No, sono morti nelle ultime due ore» la corresse il detective, la voce appena più spenta del solito.

La strega sbarrò gli occhi, allucinata da quell’affermazione. Come era stato possibile, chi diavolo…

Oh.

«L’ha fatto davvero, il bastardo…» disse a fil di voce, cercando la risposta negli occhi d’ossidiana del detective. Lui annuì impercettibilmente.

«Gli Auror del Macusa sembrerebbero essere morti tutti in un lampo di luce verde, senza variazioni»

«Kira vuole che si sappia che è stato lui» commentò assente Sophie, non riuscendo a credere a quello che sentiva.

«Dovresti sederti, sei sotto shock…»

«Non sono sotto shock!» replicò alterata la giovane, «Voglio solo capire come cazzo ha fatto Kira a uccidere dodici Auror professionisti in meno di due ore!»

Non riusciva a concepirlo, si rese conto.

L l’aveva preparata all’eventualità e, dopo aver studiato ogni rapporto fino a imprimerselo nella testa, sapeva perfettamente di cosa fosse stato capace Kira fino a quel punto. Capire quanto da vicino la morte l’avesse sfiorata, però, con quanta ferocia e facilità Kira avesse sottratto le vite di quei professionisti come se nulla fosse…

«Sophie. Siediti, per favore.»

La ragazza eseguì, deglutendo il nodo alla gola e stringendo i pugni fino a sentire le unghie scavare nei palmi delle mani. Non poteva perdere la testa adesso, non poteva e non doveva: era proprio ora che doveva dimostrare di avere sangue freddo, altrimenti di che utilità poteva essere a quelle indagini?

Tuttavia…

Dodici agenti, dodici vite sottratte senza il minimo sforzo, senza spiegazioni, senza duelli, senza possibilità di reagire o difendersi. Niente eroismo o ultime possibilità, niente di quello a cui si era abituata, per cui si era addestrata. Era atroce, e sarebbe dovuto accadere anche a lei.

«Come ha fatto?» ripeté allora, la mascella contratta e uno sguardo duro in volto.

L si sporse verso la montagnola di Cioccorane che occupava il tavolino, prima di rispondere. Con tutta calma, ne scartò una e la divorò intera.

«Purtroppo, stiamo avendo un brusco calo di personale. Dopo aver saputo delle morti degli Auror, e quindi delle loro… delle vostre indagini, quasi tutti i collaboratori giapponesi si stanno ritirando. Così anche l'intera sezione di Auror del Magico Congresso statunitense» spiegò L, attaccando subito un altro dolce. «Prima, però, il Macusa ci ha informato che diversi agenti, apparentemente in momenti non collegati ai decessi, avevano richiesto la lista completa dei colleghi operativi in Giappone, per questo caso ovviamente»

«Una lista con le loro identità

«Il loro capo ha pensato che fosse stata una decisione collettiva, quella di avere i nominativi a portata di mano… e ha mandato quattro gufi, con l’istruzione di diffondere le informazioni ai dodici Auror»

«Non capisco, Penber sapeva della mia presenza qui, perciò anche il resto dell’organizzazione ne era a conoscenza… il mio nome doveva essere su quella lista, io dovrei…» la strega si ritrovò a prendere fiato, solo per un attimo, la voce strozzata come se si fosse dimenticata di respirare. Strinse le labbra, sforzandosi di non abbassare lo sguardo. «Dovrei essere morta»

 L inclinò lievemente il capo, poi le indicò le Cioccorane.

«Mangiane una, ti farà sentire meglio»

Sophie si massaggiò la radice del naso, gli occhi socchiusi e un sospiro sulle labbra. «Ryuzaki, non credo che…» prima che potesse finire la frase, una macchia colorata attraversò i margini del suo campo visivo, e la mano destra della strega scattò istintivamente nell’aria.

Fissò la Cioccorana con la fronte corrucciata, poi il detective che gliel’aveva lanciata.

«Cercatrice[1], no?» le disse, inarcando appena le sopracciglia.

Sophie assottigliò lo sguardo: si stava forse prendendo gioco di lei? L e gioco nella stessa frase? Senza smettere di fissarlo, iniziò a mangiucchiare la sua rana di cioccolato, temporaneamente dimentica della nausea.

A quel punto, L parve abbastanza soddisfatto da continuare.

«Watari si sta procurando una copia di quel file, ma posso presupporre che riportasse informazioni errate, almeno su di te»

«Loro non le avrebbero nemmeno dovute avere, quelle informazioni!» puntualizzò la strega.

«Collaborerò con Robards per sapere se e quali aiuti abbia avuto il MACUSA dal Ministero…».

Sophie strabuzzò gli occhi, ricordandosi improvvisamente di chi la aspettava dall’altra parte del mondo. «R-Ryuzaki, Harry e gli altri- Non penseranno che io sia morta?!»

«Watari ha informato Robards via Metropolvere non appena sei entrata nella stanza» la interruppe L, leccandosi con attenzione il cioccolato dalle dita. «Preferisco non condividere però ulteriori informazioni via camino, è troppo facile da intercettare».

La rossa annuì, lasciandosi andare in un lungo sospiro di sollievo. Poi, dopo un attimo di incertezza, prese un’altra Cioccorana: ora che era riuscita a mandare giù qualcosa, si era resa conto di avere una fame tremenda.

Dopo aver staccato la testa della rana con un morso deciso, aggrottò la fronte. «Ryuzaki, perché diavolo gli agenti americani hanno richiesto quel documento? Dovevano sapere a che pericolo andassero in contro, non posso credere che-» la strega si bloccò a metà della frase, prima di sfregarsi forte una mano sul volto. «Certo, ok, Kira controlla le azioni prima della morte. Questa è assolutamente la prova inconfutabile… avrà sfruttato un agente di cui sapeva già l’identità per avere accesso alle azioni degli altri… il messaggio, ti ha scritto qualcos’altro?».

«… Sai del messaggio?» le chiese L, apparentemente preso in contropiede.

Sophie deglutì, sentendosi stranamente a disagio nel vedere lo stupore sul volto del detective. «Sì, insomma, li ho letti anche io i rapporti» spiegò, passandosi una mano tra i capelli, «non ci voleva un genio dell’enigmistica per vedere che, in ogni messaggio lasciato dai criminali morti negli ultimi giorni, i caratteri all’inizio delle frasi formavano un messaggio».

Il detective rimase in silenzio per qualche lungo secondo, in cui Sophie si concentrò sulla sua Cioccorana per ignorare il suo sguardo penetrante.

«Si è preso gioco di me» ammise infine il ragazzo, la voce condita da una lieve acredine, mentre faceva volare un brandello di pergamena verso la giovane.

Riportato prima in giapponese, poi in inglese, vi campeggiava il seguente messaggio: “L, lo sai/ che gli shinigami/ mangiano solo mele?”. Il messaggio prese fuoco tra le mani di Sophie, mentre lo accartocciava.

«Scusa» sibilò, per nulla dispiaciuta.

Lui fece spallucce.

«Quindi… Oh, Watari!»

Il maggiordomo entrò nella stanza con un bicchiere di succo di zucca, sorridendole amabilmente prima di porgerglielo. «Signorina Sophie, sono sinceramente sollevato nel sapere che stia bene».

«Io…» Sophie strinse le dita attorno al bicchiere ghiacciato (proprio come piaceva a lei), provando un’improvvisa ondata di affetto. Malgrado lo conoscesse da così poco, il mago le ricordava Silente, con quello sguardo sempre gentile e l’aura di mistero che si portava appresso.

«Grazie, Watari, grazie davvero» gli disse, trovandosi quasi a trattenere le lacrime mentre, per la prima volta, avvertiva tutta la nostalgia e lo stress accumulati in quelle settimane.

«Si figuri, signorina» Watari ebbe la delicatezza di rivolgersi a L, dandole il tempo di ricomporsi mentre trangugiava il succo di zucca. «Il signor Robards aspetta una comunicazione non oltre domani pomeriggio».

L annuì, e il maggiordomo si ritirò in un angolo della stanza, iniziando a muoversi rapidamente tra un computer e un buon metro di rotolo di pergamena.

«Stavi dicendo?» chiese poi il detective a Sophie.

«Oh, ehm… a-adesso?»

«Adesso… sei libera di tornare a Londra.»

La strega emise un verso strozzato, iniziando a sputacchiare succo e tossire furiosamente.

«C-co-me sare-» farfugliò tra un colpo di tosse e l’altro, battendosi un pugno sul petto. L inclinò il capo di lato, sospirando leggermente.

«Anapneo» pronunciò con chiarezza, facendo subito riprendere fiato alla ragazza.

Lei, con voce gracchiante, ripeté: «Come sarebbe tornare a Londra?!»

«Sei libera di tornare a Londra. Nessuno ti impedisce di restare, ma tantomeno di andartene, dopo aver rischiato la vita appena qualche ora fa» spiegò pacatamente il detective, gli occhi che non incrociavano quelli della strega. «Dopotutto, sarebbe più che ragionevole».

Sophie si ritrovò ad aprire e chiudere la bocca un paio di volte, senza sapere cosa dire.

Beh, sarebbe stato ragionevole, non aveva torto: era chiaro che anni di esperienza, un potente Ministero alle spalle e lo stesso L non fossero bastati come protezione per quegli Auror, no? Se lei era ancora viva era solo per puro miracolo… e quella non era nemmeno una fase decisiva delle indagini, anzi. Senza contare che, in quel preciso momento, probabilmente tutti i suoi amici stavano pregando perché tornasse.

Tutto considerato, quindi, perché le sembrava una totale assurdità abbandonare il caso?

D’accordo, qualcosa era andato storto, molto storto, e quindi? Si aspettavano che fuggisse a gambe levate, proprio ora che la situazione si faceva seria? Forse era solo un’irresponsabile, o era troppo superficiale, o era totalmente matta ma… ma non se ne sarebbe mai andata. Aveva preso un impegno, e ora lo avrebbe portato a termine, a qualsiasi costo.

Quando tornò a sollevare lo sguardo, Sophie si sentì momentaneamente leggera di qualsiasi dubbio. Lo sguardo altero e la voce priva di tremori parlarono chiaro: «Ryuzaki, dovrai costringermi fisicamente a tornare a Londra, se è questo che vuoi. E anche se ci riuscissi, non ti sarai comunque liberato di me».

Lo disse con fierezza, lo disse da vera, spudorata Grifondoro.

L rimase a fissarla per qualche minuto, in assoluto silenzio, mentre il volto della strega diventava pian piano scarlatto. Di sfuggita, le parve anche che il rumore di tasti e penne scricchiolanti fosse cessato, dalla direzione di Watari.

Pochi secondi dopo, il mago consegnò una serie di fogli all’immobile detective. «Ryuzaki? Il file del Macusa»

L batté le palpebre, distogliendo lo sguardo dalla strega e afferrando senza esitazione i documenti. Sophie, nonostante fremesse per leggere in prima persona quel file, si sforzò di attendere. Almeno per qualche secondo.

«Ehm… Ryuzaki?» chiese impaziente.

Lui la guardò di sottecchi, prima di porgerle i fogli.

La strega scorse febbrilmente la lista di Auror, deglutendo il senso di nausea che le provocò pensare che ciascuno di loro ora fosse morto, cercando di non pensare a quanto quella lista fosse ormai un necrologio. Quando trovò la sua foto, quella ufficiale, scattata per i documenti ministeriali, lesse con attenzione le informazioni riportate: ogni dettaglio anagrafico combaciava perfettamente, tranne nome e cognome.

Un nome sbagliato. Uno stupido nome sbagliato. Questo era tutto quello che l’aveva schermata dalla furia omicida di Kira… no, non furia omicida. Quegli omicidi erano logici, pianificati, chirurgici, ben lontani dallo sfogo di un folle.

L si schiarì la voce, richiamando l’attenzione della giovane. «Ora inizia la fase di cui ti ho parlato quando sei arrivata».

La rossa corrugò la fronte. «Quindi… una diversa gestione delle indagini?» tentò di ricordare, appoggiandosi stancamente allo schienale del divano. I fogli, per qualche motivo, li teneva ancora stretti tra le dita.

«Ho dato un ultimatum al Quartier generale giapponese… la scelta è la stessa che ho posto a te: restare e rischiare la vita in prima linea, o tornare a casa propria»

«E poi?» lo incalzò Sophie, col vago sospetto che il detective si stesse godendo tutta la suspence.

«Poi, chi alla mezzanotte del trentuno dicembre avrà accettato di rimanere a lavorare con me, verrà guidato qui» le disse infine L, guardandola dritto negli occhi, «il nuovo Quartier generale delle indagini su Kira».

Melodrammatico.

Sophie trattenne un sorrisetto, mentre rimuginava sulle parole del detective: malgrado quella fosse tutt’altro che una decisione presa sul momento, e anzi si trattasse di una mossa accuratamente premeditata, la strega era ancora incredula al pensare che L si volesse mostrare ad altre persone. Che L fosse finalmente disposto a lavorare a viso scoperto con un’intera squadra investigativa  poteva significare solo che ora, ora faceva veramente sul serio.

In barba a tutta la preoccupazione e contro assolutamente ogni logica, si sentì pervasa dall’eccitazione, come una bolla alla base della gola.

I due trascorsero ancora mezz’ora a definire i passi direttamente successivi: le nuove precauzioni da adottare, quali dati avevano a disposizione e quali si stavano già procurando, mentre Watari continuava a scrivere quella che pareva essere una fitta serie di lettere e comunicazioni top-secret.

Per quando Sophie iniziò a sbadigliare, lei e il detective erano pian piano rimasti in silenzio, a riordinare e controllare un’ultima volta la documentazione.

«Sophie?» la voce roca di L ridestò l’attenzione della strega, intenta a sfregarsi un occhio.

«Sì?» Non la stava guardando direttamente, no, la scrutava di sottecchi, dietro le ciocche di  sottili capelli corvini.

«Ti credevo realmente morta» quel tono, serio e bassissimo, le provocò uno strano brivido… o forse erano solo le parole che aveva pronunciato.

La giovane si riavviò nervosamente i capelli dietro un orecchio, cercando di capire cosa volesse dirle il detective. Era… preoccupato? Preoccupato per lei?

Arrossì impercettibilmente, trattenendosi dallo scuotere fisicamente via quell’idea con il capo: era ovvio che si preoccupasse, era una risorsa all’interno di una squadra già apparentemente scarsa, non c’era niente di più naturale.

Si stampò un sorriso gentile il volto. «Beh, sono qui, no? Come ti ho detto, ci vuole ben altro per mettermi i bastoni fra le ruote!»

«… In ogni caso, presta attenzione durante il proseguimento delle indagini. Dobbiamo agire presumendo che Kira conosca i volti delle sue vittime. Niente imprudenze».

La rossa annuì, non sapendo cosa aggiungere. Normalmente, avrebbe ribattuto con qualche battuta, cercando di sminuire o sdrammatizzare tanta serietà, però… però era bizzarro che L dicesse cose del genere, lui che di solito diceva e faceva solo lo stretto necessario.

Beh, non sempre.

In fondo, fino a qualche giorno prima il problema era proprio che le loro conversazioni non concernessero solo lo stretto necessario. Si era rimproverata per aver assunto un atteggiamento troppo amichevole con il suo superiore. D’altro canto, indagando con i pochi numeri che prevedevano, non sarebbe poi stato così strano se si fosse creato un clima piuttosto amicale, di colleghi alla pari nel relazionarsi l’uno con l’altro, nel suggerire e discutere idee e ipotesi, e… e nel preoccuparsi. Erano colleghi, erano Auror. Era tutto nella norma.

Anche quella scintilla d’inquietudine negli occhi solitamente impassibili di L.

Un riflesso, è un dannato riflesso.

Sophie si strofinò nuovamente gli occhi, incolpando la stanchezza per il modo in cui i suoi pensieri sembrassero vagare senza alcun controllo.

«Forse dovresti andare a dormire»

«S-sì, sono di ben poca utilità ora come ora» ridacchiò Sophie, stiracchiandosi mentre si alzava.

«Puoi prenderle, le figurine.»

Sophie si guardò attorno, spaesata, poi vide le due carte che aveva lasciato sul divano. «Oh! Sicuro? Voglio dire, in fondo erano le tue Cioccorane» nel momento in cui lo disse, la ragazza si chiese perché a L dovesse fregare di quelle carte. Cosa si aspettava, che il detective numero uno al mondo ne facesse la collezione?

Qualcosa, però, le dava come l’impressione che il mago tenesse a quella piccola sciocchezza.

«Sono tue» replicò fermamente L.

«Ok, ehm, grazie. B-buonanotte allora!» alzò appena la voce, per salutare anche Watari, e si rifugiò in camera sua.

 

«Come sapevi che ti avrebbe detto di sì?»

«L’hai detto tu, è una Grifondoro fino al midollo»

«Uhm, e cosa farebbe una Grifondoro fino al midollo, se scoprisse che hai un fascicolo su di lei da quattro anni?»

L aggrottò la fronte, infastidito dal mago che lo aveva cresciuto, ma che ancora pensava fosse utile stuzzicarlo. «Watari…» disse in tono impaziente, aspettando una spiegazione.

Il maggiordomo lo fece attendere: raccolse le Cioccorane rimaste sul tavolino, e le spedì in cucina con un guizzo della bacchetta.

Poi, dopo essersi seduto di fronte al suo pupillo con tutta calma, parlò: «Non ti avevo mai visto condividere i tuoi dolci con qualcuno»

«Mangia con me tutti i giorni»

«Mh mh…» fece Watari, con fare pensieroso. «Una volta, incantasti una piccola quercia della villa affinché rincorresse Z per tutto il giardino, costringendolo a correre per un’ora filata prima che riuscissero a fermarla» raccontò il mago, mentre lucidava le lenti degli occhiali con un fazzoletto candido. «Ti aveva rubato delle Cioccorane».

Il giovane non rispose, guardandolo impassibile. L’occhio allenato di Watari, d’altronde, vide invece una chiara occhiata torva.

«… Devo intercettare la lettera che scriverà ai suoi amici?» aggiunse il maggiordomo, il tono vagamente provocatorio e divertito di chi conosce benissimo i propri polli. Anche quelli con un QI superiore a duecento, anzi, specialmente quelli.

«Taci Watari... comunica che i piani sono andati esattamente come previsto e che mi occuperò personalmente di rinforzare gli Incantesimi di Difesa. Non voglio che lui crei pressioni inutili».

Watari stava chiaramente trattenendo un sorriso quando gli rispose: «Certo, Ryuzaki».

 

***

 

29 dicembre 2003

Inizialmente, Draco non si era risparmiato dal dare a tutti dei paranoici. Non che ci volesse molto ad arrivare a tale conclusione: se non fosse bastata la moltitudine di teorie del complotto che Potter e Weasley avevano prodotto a Hogwarts (e che Hermione, non senza una certa dose di imbarazzo, gli aveva raccontato), gli anni di lavoro gomito a gomito con gli ex-Grifondoro bastavano e avanzavano come prova.

Mentre si sarebbe rasato a zero prima di ammettere ad alta voce che i colleghi non fossero male nel lavoro su campo, nella pianificazione e nel coordinamento squadre, non aveva assolutamente nessunissimo problema a dire quanto potessero essere patetici nell’individuare i colpevoli. Non che mancassero totalmente delle capacità logiche e deduttive di base (altra cosa che avrebbe negato sotto tortura), ma Draco ricordava con sonoro divertimento le cantonate che si erano presi Potter e Weasley negli anni e, anzi, si curava con dedizione che tutti potessero ricordare.

Hermione aveva ammesso che i suoi amici peccassero di impulsività di giudizio.

Draco aveva ammesso che i suoi amici peccassero di un sacco di cose, tra cui l’incapacità di mettere un filtro tra la bocca e le loro bacate menti.

L’unica concessione che il biondo si sentiva di fare in quel tripudio di coraggio, fegato e idiozia[2], era Sophie: della squadra, era quella che assieme a lui riusciva ad analizzare le situazioni con maggiore ordine e logica. Il fatto che non fosse particolarmente dedita a correre in contro a conclusioni affrettate, però, non significava che fosse estranea a colpi di testa e gesti impulsivi.

Ecco perché, quando la strega aveva mandato quella lettera in cui chiedeva di “tenere d’occhio” Robards e tutti si erano concitatamente agitati attorno a quella strana richiesta, lui si era sentito nella posizione di poterli ignorare bellamente.

Ignorarli mentre si consultavano, si fissavano preoccupati, e iniziavano a sbirciare Robards in modo dolorosamente ovvio. Lui si limitava ad osservarli con aria vagamente esasperata, mentre si agitavano tanto per quella che alla meglio era una frase di circostanza, e alla peggio un timore infondato: se proprio dovevano essere onesti, era perfettamente plausibile che il Capo fosse diverso dal solito, in mezzo a quella baraonda causata da Kira.

Nossignore, non avrebbe sprecato tempo su quella gara di sguardi, non quando era già sufficientemente impegnato con il suo lavoro di routine e il carico extra dato dal caso Kira. Lo aveva chiarito perfettamente a tutta la famigliola felice, quando avevano ricevuto la lettera.

Per questo, quando annunciò che Robards stava “Decisamente nascondendo qualcosa”, a un tavolo del loro pub preferito, Harry e Ron lo guardarono come se gli fosse sbucata una seconda testa.

«Cosa?» chiese, inarcando un sopracciglio con fare altezzoso.

«Cosa? Cosa credi che stiamo pensando?» replicò Ron, grattandosi un sopracciglio.

Draco si strinse nelle spalle. «Diciamo che non si può mai conoscere del tutto una persona» si giustificò cripticamente, prima di bere un sorso di vino con la massima nonchalance.

«E tanti saluti a quello che ci dava dei paranoici» sbuffò il rosso, tirando una gomitata d’intesa a Harry. Il moro, però, sembrava star cercando di dissezionare Draco con lo sguardo.

«Non parlare come se volessi ritrattare, voi siete dei paranoici» precisò sprezzante il biondo. Alzò una mano per attirare l’attenzione della cameriera, facendole segno di portare un altro giro. Nel mentre, Potter non aveva smesso di fissarlo.

«Cosa c’è?» sbottò Draco, esasperato.

«Perché hai cambiato idea?»

«Lo stai davvero chiedendo all’ex-Mangiamorte che è finito a lavorare con le persone che gli stavano più antipatiche in una scuola di trecento studenti?»

«Smettila di evitare la domanda».

Draco si accigliò alla voce ferma del collega, capendo che non era dell’umore per farsi manipolare come suo solito. Sospirò, puntando un dito sui colleghi. «Io ve lo dico, ma non iniziate a fare i complottisti o giuro che vi Oblivio».

Harry e Ron si scambiarono un’occhiata, poi annuirono.

«Ok, allora… l’altro giorno potrei aver sentito Robards parlare alla Metropolvere…»

«Hai origliato» commentò Ron, aggrottando la fronte.

«Sì, Weasley, come ti pare» lo liquidò rapidamente con uno sventolio di mano, prima di continuare, «comunque, stava parlando con Watari».

Draco si godette il cambio repentino nell’atteggiamento dei Grifondioti, che spalancarono gli occhi e si sporsero in avanti. «Cosa hai sentito?»


LUMOS

Miei prodi, ho finito la sessione. Sono libera. Sono vagamente distrutta. Sono pronta a tentare di essere più puntuale con gli aggiornamenti. Amatemi.

Ringrazio come sempre coloro che seguono/preferiscono/ricordano, e le meravigliose persone che recensiscono, siete davvero dei tesori :’3

AH, e ringrazio piccolo_uragano_, perché vedere come impreca leggendo i capitoli nuovi da sempre una certa voglia di scrivere.

Love u all :3

NOX

 

 


[1] I Cercatori, nel Quidditch, hanno il compito di afferrare una pallina volante piccola, velocissima e sfuggente, il Boccino d’Oro. Ergo, Sophie ha dei riflessi ben sviluppati.

[2] “Coraggio, fegato e cavalleria/Fan di quel luogo uno splendore”, frase utilizzata dal Cappello Parlante per descrivere la Casata Grifondoro in una sua composizione.

 

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Capitolo 7
*** Tutti nascondiamo qualcosa ***


Capitolo 6

Tutti nascondiamo qualcosa

30 dicembre 2003

La neve era arrivata silenziosamente, nel cuore della notte, in un contrasto spietato con gli alti palazzi punteggiati di luce di Tokyo. Era arrivata sotto lo sguardo vigile di Sophie che, una guancia premuta contro il vetro della sua finestra, attendeva invano che il sonno arrivasse; se ne stava seduta così da un’ora, una tazza semivuota e tiepida fra le mani e un ampio cardigan beige avvolto attorno al corpo. La seconda notte di fila senza dormire iniziava a lasciarle segni sotto gli occhi, persi sul panorama della città ma senza vederla davvero.

Vedeva la neve che ogni anno copriva il Castello di Hogwarts, che si accumulava sui prati distesi tra la Foresta Proibita, il campo da Quidditch e il Lago Nero. Vedeva tempi diversi, non più semplici, né più sicuri.

Quei giorni, anzi, erano segnati da un senso d’incertezza che la ragazza non aveva più provato, non da quando la guerra era finita e si era costruita un presente relativamente sicuro, placido, prevedibile. Noioso si ricordò anche, storcendo il naso.

Del resto, non avrebbe dovuto lamentarsi di una vita tranquilla, non dopo quello che aveva passato, che tutti loro avevano passato.

Abbassò gli occhi ambrati sulla manica di lana che si stava attorcigliando nel palmo della mano, seguendo lo schema ripetitivo del lavoro a maglia nel tentativo di scacciare lo sgradevole pensiero che, di lì a qualche settimana, le ferite del passato sarebbero tornare a bruciare come prima.

Era ridicolo, se ne rendeva conto, ma ogni anno gli incubi non erano tardati ad arrivare. Mai.

Si staccò dalla finestra, poggiando i piedi sul pavimento freddo e rabbrividendo, nonostante gli spessi calzini che le risalivano i polpacci.

Portò la tazza con sé, decidendo che le cinque del mattino fossero un buon momento come un altro per iniziare ad assumere caffeina. Entrò nel salotto in punta di piedi ma, stranamente, nella stanza pareva esserci solo lei, e lo stesso valeva per la piccola cucina.

Non c’era una sola caffettiera in quell’albergo, ma Sophie trovava sempre una boccia di caffè bollente sul bancone, quale che fosse l’ora. Malgrado non lo avesse mai colto sul fatto, la ragazza sospettava di dover ringraziare Watari per questo.

Sorseggiando la tazza nuovamente ricolma, si appoggiò alla piccola penisola di marmo scuro, di fronte alla finestra. Rimuginò, inquieta, iniziando a sentirsi in trappola dietro a quei vetri immensi: da quando la sua piccola routine era stata brutalmente interrotta, da quando gli Auror americani erano morti ed L l’aveva pressoché reclusa in albergo, si sentiva sprofondare in sé stessa, priva di scappatoie e distrazioni.

Ora più che mai, avrebbe pagato galeoni per uscire a prendere una boccata d’aria dalla preoccupazione sua, dei suoi amici… e di L.

Che era appena sguisciato nella cucina, riflettendosi nel vetro della finestra.

«Spero sia buono…»

Sophie inarcò le sopracciglia, voltandosi a guardarlo. «Lo hai fatto tu?» chiese, alzando la tazza.

Il detective incrociò brevemente il suo sguardo, prima di guardare fuori dalla finestra. E verso la caraffa. E sulle decorazioni floreali del muro.

«Ah… pensavo lo facesse Watari» ridacchiò la strega, «e comunque, è buono! Non quanto il mio, ma…»

«Uhmmm… vedremo.»

Sophie sorrise, cogliendo il sentore di sfida nelle parole del ragazzo. «Grazie, comunque, mi stai salvando da numerose crisi d’astinenza»

«Ne bevo anche io in quantità, ho immaginato che potesse tornare utile farne in più» si schernì L, con una scrollata di spalle.

Calò il silenzio, mentre lui si avvicinava di qualche passo e lo sguardo di Sophie tornava fisso nel vuoto, con un sospiro involontario.

«Non dovresti essere preoccupata. Kira pensa tu sia morta».

Sophie tirò un angolo della bocca «Per questo non posso uscire?»

«Kira conosce la tua faccia»

«Lo so, lo so…» liquidò il tono contrariato del mago – o meglio, la leggera flessione che assumeva quando doveva esporre qualcosa di talmente palese da infastidirlo. Certo che Sophie sapeva quale fosse il problema, sapeva quanto fosse delicata la sua situazione.

Per questo non era riuscita a impedirsi di avere un po’ di timore, in quei giorni. Non era riuscita a non pensare che sarebbe potuta cadere a terra, morta, in qualsiasi momento; non era riuscita a non pensare che, se anche si fosse addormentata, forse non ci sarebbe stato alcun risveglio.

Era improbabile, sì, ma non si riscuoteva quella sensazione d’incertezza di dosso.

«Watari ti ha consegnato la lettera del signor Potter?» chiese L, appoggiandosi anch’egli alla penisola.

«Oh, non lo chiamare signor Potter»

«Si chiama così»

«Ok, signor Ryuzaki» sbuffò la strega, e forse la bocca di L ebbe un leggero fremito. «Comunque l’ho letta, la lettera… diciamo che dodici pagine sulla ristrutturazione della Tana non sono servite a nascondere il panico» ridacchiò, pensando alla pergamena bianca che la aspettava sulla scrivania: cosa avrebbe dovuto rispondere? Come poteva tranquillizzare i suoi amici, quando lei stessa era un fascio di nervi?

E si sentiva una stupida, diamine, detestava quei momenti di paura immotivata che la coglievano. Nei suoi anni da Auror, aveva forse dimostrato fin troppo spesso uno sprezzo patologico del pericolo, ma ora niente la distraeva da quelle lunghissime ore passate come in attesa che Kira finisse il suo lavoro.

D’un tratto, un tocco gelido sulla spalla la strappò dai suoi cupi pensieri.

Sophie alzò lo sguardo, stupita, osservando le affusolate dita di L sulla sua pelle. Le dita di L. Le dita della mano di L. L il super detective con una considerevole repulsione per il contatto umano. L che, per quel che ne sapeva, viveva in qualche eremo desolato in cima a una montagna con la sola compagnia del suo maggiordomo slash qualsiasi-cosa-fosse-Watari. L, con cui stava camminando sulle uova principalmente da quando lo aveva inavvertitamente toccato. E quella era solo una spintarella amichevole, un buffetto sulla spalla, perso nelle pieghe di una delle sue magliette troppo larghe. Quello invece era un contatto prolungato, un tocco che sapeva di… conforto, e vicinanza, ed empatia.

La strega era cosciente di starsi comportando in maniera leggermente psicotica ma… le sembrava di non essere mai stata così consapevole di quei pochi centimetri di pelle.

«Non ti succederà niente».

A quel punto, incrociò finalmente lo sguardo del ragazzo, privo di quella durezza, quella spigolosa impassibilità di sempre. Il cuore di Sophie accelerò e inciampò su sé stesso, mentre decifrava quelle parole rassicuranti: stava cercando di dirle che non avrebbe dovuto preoccuparsi di Kira? Lui, il re dell’oggettività?

La giovane batté le palpebre.

Parlare in quel modo, come se potesse avere un qualche reale tipo di controllo su quella situazione, come se ne avesse avuto sulla vita di quegli agenti, era assurdo. Nessuno più di lui se ne sarebbe dovuto rendere conto. Nessuno più di lei.

Ma Sophie, in qualche modo, ci credeva. Gli credeva.

Come credeva di doversi distrarre al più presto dall’impulso di avvicinarsi a quei morbidi occhi grigi e a quelle dita gelide.

«Dovresti vestirti più pesante. Davvero.»

 

Qualche ora più tardi Watari, rientrato da alcune commissioni, aveva attraversato il salotto a passo spedito. Dopo qualche secondo, era tornato però sui suoi passi.

Aveva battuto le palpebre un paio di volte, sinceramente sbigottito. «Ryuzaki… è un maglione della signorina Sophie, quello?»

L non si era smosso di un millimetro ma, se anche si fosse irrigidito, lo spesso indumento di lana rossa avrebbe mascherato ogni movimento. «Sto cercando di guadagnare la sua fiducia, Watari»

Al maggiordomo si sollevò involontariamente un angolo della bocca.

«Certamente, Ryuzaki, certamente».

 

***

 

31 dicembre 2003

La mattina dell’ultimo giorno non andò meglio delle precedenti, e Sophie dormì una manciata scarsa di ore. Rassegnata, alle prime luci dell’alba era già china sul suo fedele libro di trasfigurazione, sospirando pesantemente.

Oggettivamente, diventare Animagus[1] non era facile, bello.

No, non le era piaciuto tenere in bocca per un mese una stramaledetta foglia di Mandragola, per di più sforzandosi di non venire scoperta dai suoi amici ficcanaso, e anche reperire gli altri ingredienti per la pozione era stato un calvario: tra sfibranti e spesso inconcludenti ricerche nei bassifondi della comunità magica e infinite ore di ricerche su tomi quasi illeggibili, la strega aveva messo a durissima prova la sua pazienza. E le sue diottrie.

Più di una volta si era chiesta se il gioco valesse la candela, e più di una volta aveva desiderato di poter chiedere aiuto all’unica Animaga che potesse reputare sua amica, la professoressa McGranitt. Purtroppo, non v’era nessuno di meno indicato per essere coinvolto nei suoi piani, calcolando che la rossa non aveva alcuna intenzione di registrarsi presso il Ministero della Magia.

Se Hermione lo avesse saputo, l’avrebbe affatturata. Se la McGranitt l’avesse saputo, l’avrebbe uccisa. Con lo sguardo.

Vero è che, a un certo qual punto del processo, era alquanto sicura di doversi servire di una tempesta di fulmini, per cui non è che il rischio di morire fosse tanto più basso.

Stava appunto gemendo lamentosamente sopra l’ennesimo paragrafo inutile e indecifrabile, quando un leggero scricchiolio attirò la sua attenzione. L stava aprendo la porta della sua stanza, preceduto da una tazza fumante che galleggiò allegramente verso di lei.

La prese fra le mani, sorpresa, prima di venire investita dalle note familiari e intense del caffè preparato dal detective. «Ryuzaki, grazie! Come-»

«Filtra luce da sotto la tua porta da almeno mezz’ora, e negli ultimi quindici minuti continuavi a sbuffare e sbadigliare» spiegò con la massima naturalezza il ragazzo, appoggiandosi allo stipite di mogano con una spalla. «Ho pensato ti servisse del caffè».

La rossa sorrise, girandosi appena per coprire il libro che stava studiando poc’anzi.

Ciononostante, lo sguardo penetrante di lui parve concentrarsi proprio su quel punto alle sue spalle.

Il sorriso della strega sfumò appena, mentre si affrettava a bere un sorso di caffè. L’ha capito pensò, atterrita. L aveva capito che cosa volesse fare, ergo il primo detective al mondo l’avrebbe spedita personalmente in carcere. E lei probabilmente lo avrebbe pure ringraziato, da brava sotton-

«Quelli li mangi?» Sophie batté un paio di volte le palpebre, confusa, poi vide che il detective accennava al pacchetto di biscotti poggiato vicino a lei, sul copriletto damascato. Scosse la testa, rimanendo a osservare L mentre Appellava il sacchetto, senza muoversi dalla soglia della stanza. Soglia che, tra parentesi, occupava quasi interamente in altezza, pur senza raddrizzarsi.

Non che fosse rilevante.

Perché non lo era.

Affatto.

Non sapeva neanche perché avesse notato un dettaglio tanto futile.

Aveva sempre avuto le spalle così larghe o quello specifico magliettone bianco era più ampio degli altri?

«Credo che Siler stia cercando di entrare».

Sophie si affrettò a scendere dal letto, ingarbugliandosi in una vestaglia, poi nel filo di un paio di auricolari abbandonati, inciampando in una scarpa e atterrando infine a un centimetro dal vetro. Paonazza, rimase immobile per qualche secondo, maledicendosi silenziosamente. Poi aprì la finestra al barbagianni, che si fiondò dentro con uno stridio scocciato.

«Lo so, lo so…»

Si passò una mano sul volto, tornando a guardare il detective. Anzi, malgrado l’imbarazzo, lo guardò alzando leggermente il mento, in segno di sfida.

L colse la palla al balzo.

«Potrei chiederti cosa stessi studiando.»

«Potrei farti notare che le attività del Quartier Generale sono momentaneamente sospese, il che mi libera dall’obbligo di risponderti»

«Significherebbe che tu stia nascondendo qualcosa»

«Tutti nascondiamo qualcosa, Ryuzaki» sottolineò la strega, inarcando le sopracciglia e tirando la bocca in un mezzo sorriso.

Lui imitò il suo sorrisetto. «Per esempio, Sophie

 

Lei parve pensarci, pensarci davvero, con la fronte corrucciata e lo sguardo fisso.

«Vuoi mostrarti ad altri detective…» iniziò la ragazza, tentennando mentre lo studiava da sotto le lunghe ciglia, ciocche di capelli rossi a pioverle negli occhi. Il detective avvertì il netto bisogno di spostarle i capelli dal volto, ma si limitò a farle cenno di continuare con una mano affusolata.

«Lo trovo quantomeno sconsiderato da parte tua, Ryuzaki» ammise allora lei, incrociando le braccia.

L inarcò le sopracciglia. «Non ti fidi dei tuoi colleghi giapponesi?»

Lei roteò gli occhi. «Hai detto tu che questo, tutto questo, è parte dei piani di Kira, perciò perché mostrarti proprio ora? Non è forse il momento migliore per sferrare un attacco diretto?»

«Il fatto che sia perfettamente prevedibile lo rende un piano molto poco realisticamente attuabile agli occhi di Kira».

A quel punto, Sophie sembrò davvero alterarsi… anzi, no, imbronciarsi, si corresse L: la fronte aggrottata, il capo inclinato in avanti per guardarlo di traverso, persino un lieve sbuffo che le aveva gonfiato le guance in modo comico.

«Ryuzaki, quando hai finito di trattarmi come una stupida per testare la mia risoluzione e capacità di contraddirti, vorrei parlare con il detective di fama mondiale per cui ho mollato baracca e burattini e ho traslocato in Giappone.»

L si passò il pollice sulle labbra con aria pensosa. «Sei venuta in Giappone solo per me... dovrei essere lusingato?»

La ragazza arrossì, riuscendo appena a mantenere il cipiglio di poco prima. «Hai capito cosa intendo»

«Sarei più sicuro se ti spiegassi meglio» la stuzzicò ulteriormente lui, un’impalpabile traccia di divertimento in volto. Sophie però parve aver raggiunto il limite, perché gli si parò di fronte in qualche lungo passo: L, suo malgrado, dovette trattenersi dall’arretrare. O dall’avvicinarsi, non ne era sicuro.

«E va bene, te lo spiego io allora» sbottò la rossa, iniziando a elencare sulla punta delle dita, «tutti gli Auror chiamati a collaborare risiedono in case sicure sparse per la città, tranne me. Nessuno di loro conosce la tua effettiva collocazione o identità, tranne me. Nessuno di loro entra nemmeno in contatto diretto con te, tranne me». Sophie calcò sulle ultime due parole, lasciando cadere le braccia e lo sguardo verso il basso. Il detective la osservò torcersi le dita inanellate all’altezza dei fianchi, movimenti nervosi con cui si pressava le unghie nella pelle. Quando tornò a incrociare il suo sguardo, un brivido caldo-freddo gli sfiorò la schiena, come un velo d’acqua.

Il volto di Sophie era un libro aperto, in quel momento, che portava scritto in ogni muscolo contratto il senso di colpa. Era desolata, confusa. L avrebbe voluto che non lo fosse.

«Tutti sono morti, tranne me».

Entrambi lasciarono che quella semplice, ma pesante constatazione calasse tra loro.

Poi la ragazza prese un respiro profondo, gli occhi nuovamente scevri di ogni esitazione, l’espressione nuovamente quella tagliente di una detective. «Ryuzaki, o tu sospetti di me fin dall’inizio, oppure sai qualcosa che io non so».

Quella non era una domanda, né un’accusa. Era un’affermazione nuda di ogni sottotono, di ogni vena di risentimento, o di uno di quei significati tra le righe che L era tanto bravo a scovare.

Quella frase era quasi gentile, nel suo intento, una quieta affermazione che attendeva la sua reazione; una voce bassa e occhi un po’ stanchi, erano quelli di Sophie, tanto che L non si sarebbe sorpreso se la rossa avesse coperto lo spazio che li separava con una mano poggiata sul suo braccio, come a voler confortare lui, rassicurarlo che non si sarebbe arresa, con o senza spiegazioni.

Sophie però non si mosse.

L sapeva che quella ragazza avrebbe voluto solo una cosa: sincerità. La sua bocca sottile si piegò verso il basso, per una frazione infinitesimale di secondo.

«O forse, ho già chiarito i miei sospetti»

«Come?» la compostezza della strega si turbò come la superficie di uno specchio d’acqua, increspandosi di confusione.

«Quando sei stata reclutata, come potrai immaginare, è stato svolto un rapido ma approfondito controllo su di te. Mi è giunta voce di un… incidente, avvenuto durante la cattura di un Mangiamorte». La rossa sbiancò improvvisamente.

«Ora, vedi, è naturale che la tua immediata risposta alla richiesta di rinforzi sia stata, sebbene ammirevole, anche insolita. Sospetta, una volta uniti i pezzi.» L lasciò che le sue parole sortissero l’effetto desiderato.

Era questo che faceva, muoveva le informazioni come pezzi di una scacchiera, lasciando che chi aveva di fronte finisse esattamente dove lo voleva: era un’arte sottile, che non mancava di lasciargli una certa soddisfazione.

Eppure, per un brevissimo attimo, il volto pallido di Sophie e l’immobilità dei suoi occhi gli diedero l’amaro in bocca, gli fecero desiderare di rimangiarsi la mossa fatta. Per un brevissimo attimo, si sentì inesorabilmente crudele, cosa che sapeva di essere, ma che mai lo disturbava.

Fu solo un attimo, poi la strega alzò nuovamente il mento.

«Quindi? Come avresti fugato i tuoi sospetti?» chiese, con tangibile scetticismo a condirle la voce.

«Dimmelo tu. Come posso stabilire se una persona sia Kira o meno?»

Sophie lo squadrò, ma lui sembrava improvvisamente occupato a salutare Siler, posatosi sul trespolo accanto alla porta. La lasciò riflettere, in silenzio, e non ci vollero più di una manciata di secondi.

«… Mi hai fatto questa stessa domanda quando ci siamo incontrati»

L la guardò di sottecchi.

«E…»

«Ti ho risposto che avrei parlato di cose che solo Kira può sapere?» cercò di ricordare la rossa. «Ed è questo che ti ha convinto?»

Il detective continuò tranquillamente ad accarezzare il soffice piumaggio del barbagianni. «No, questo ha aumentato i miei sospetti»

La strega lo fulminò con un’occhiataccia, intimandogli silenziosamente di spiegarsi.

«Quella parte della conversazione mi ha solo dimostrato che potresti avere le capacità di ragionamento necessarie per essere o collaborare con Kira…»

«… Ma la parte in cui ti sei messo a darmi della moralista ti ha convinto?» tentò nuovamente la rossa, la fronte corrucciata sopra lo sguardo stanco.

L, però, si strinse nelle spalle. «Potevi star recitando… ma le numerose conversazioni avute assieme hanno ridotto drasticamente la probabilità che fosse così».

Con la coda dell’occhio, vide la strega irrigidirsi. «… Certamente».

Dopo qualche secondo, la strega aggiunse: «Ero così minacciosa, Ryuzaki?» le sue labbra si piegarono in un sorrisetto che non aveva niente di allegro, «Un caso così urgente da confrontare un possibile sostenitore di Kira senza nemmeno conoscere la reale portata dei suoi poteri? Pensavo non ti piacesse l’azione diretta sul campo».

Ora la strega lo fissava dritto negli occhi, e L non aveva bisogno di chissà quali capacità deduttive per sapere di non aver messo a tacere i dubbi della strega… ma che sarebbe rimasta comunque.

«Forse ti sottovaluti, Sophie»

«… Già, forse».

Lui l’aveva sottovalutata, questo era palese. L aveva pensato che l’emotività della ragazza avesse ancora la meglio sulle sue capacità logiche e razionali, ma quella conversazione e i piccoli test con cui la punzecchiava da settimane rendevano evidente quanto potesse essere tagliente l’acume di Sophie.

Mentre tornava nel salotto principale, il detective si ritrovò a piegare le labbra in un sorrisetto soddisfatto: l’irritazione per essere stato abilmente inquisito dalla strega era pari solo all’intrigante sensazione che l’Auror stesse gradualmente mostrando i suoi veri colori. In particolare, Sophie stava dimostrando di sapergli tenere testa, e questo era davvero qualcosa di inaspettato.

Da un lato, L traeva un sottile piacere nell’incontrare variabili che sfuggissero alla sua inesorabile capacità di analisi e previsione del mondo che lo circondava. Dall’altro, quello non era un momento in cui poteva permettersi di perdere il controllo della situazione, né poteva lasciare che la strega cogliesse troppi segnali d’allarme e lo tagliasse fuori.

Il detective non aveva mentito, non del tutto, e se la ragazza non poteva essere Kira per ovvie ragioni, le conversazioni con lei avevano realmente confermato che non potesse essere nemmeno una sua alleata. Allo stesso tempo, Sophie avrebbe probabilmente smesso di parlargli, se si fosse sentita usata in un qualche modo.

Questo, L non poteva permetterlo.

Per il caso.

E perché, molto marginalmente, forse gli sarebbe anche dispiaciuto.

 

 


LUMOS

Quindi.

La partita di scacchi continua.

Il disagio regna indisturbato.

I capitoli sono pesudo-pronti fino al quattordici/quindici e NON VEDO L’ORA che li leggiate😊

Plus, sono un po’ nervosa per questo capitolo perché è particolarmente fermo, I hope u like it ;3

Grazie mille ancora per le recensioni, vi abbraccio virtualmente TuT

NOX

 

 

 

 



[1] Gli Animaghi sono esseri umani che scelgono di diventare animali: è un processo complesso, molto raro e pericoloso (motivo per cui è obbligatorio per legge registrarsi al Ministero della Magia). Fanfact: alla scuola di magia Uagadou è invece una materia di studio molto comune.

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Capitolo 8
*** La faccia tosta che ti ritrovi ***


Capitolo 7

La faccia tosta che ti ritrovi

31 dicembre 2003

«Bentornato, Sovrintendente.»

Il saluto parve cadere nel vuoto, mentre l’uomo scandagliava la stanza con la fronte aggrottata.

«Solo cinque, eh? No, anzi…» fece una pausa, alzando il mento con fare determinato. «Significa che ci sono ben cinque uomini disposti a rischiare la vita per combattere il crimine.

«Ma, a parte ciò, non so proprio come faremo visto che, me compreso, non siamo che in sei» aggiunse il Sovrintendente, andando a sedere alla sua scrivania.

«Non dica così» intervenne un agente dall’aria giovane, sorridendo. «Contando L siamo in sette. E con Watari fa otto, no?»

«… Se il vostro senso della giustizia è tale, non posso che avere fiducia in voi.»

«U-un momento… L avrà anche fiducia in noi, ma siamo noi che non ci fidiamo di lui!» sbottò un agente dai folti capelli ricci, voltandosi verso la videocamera del computer. Dopo qualche secondo di silenzio, si spiegò in tono più pacato, quasi a disagio: «L, noi abbiamo deciso di catturare Kira a tutti i costi e dovresti sapere che rischio comporta, eppure non fai che darci ordini, senza mai mostrarti in volto»

«Noi vogliamo dare la caccia a Kira, ma come possiamo fare squadra con te?» intervenne un collega dal volto spigoloso e corti capelli lisci. «E non siamo certo gli unici a nutrire dei dubbi sul tuo conto! Anche l’opinione pubblica inizia a voltarti le spalle!»

«Sfido io! Per colpa sua sono morti dodici Auror! Per non parlare di quella scomparsa, di cui ci ha ordinato di annunciare la morte anche se non ne abbiamo mai trovato il cadavere! Cosa vuoi che pensi la gente?!»

Sophie, rannicchiata sulla poltrona di L con un libro in grembo, si sentì chiamata in causa. Corrucciò la fronte e fece per parlare, ma il detective alzò una mano pallida, senza voltarsi a guardarla.

Lei si trattenne, continuando ad ascoltare il Sovrintendente confermare i dubbi dei suoi sottoposti con tutto il garbo e il rispetto possibili, per poi cercare di tornare alla sua lettura, imbronciata. Una manciata di secondi dopo, però, non riuscì a non guardare L con gli occhi strabuzzati dopo che gli agenti giapponesi insinuarono che lui e Kira fossero la stessa persona.

Il ragazzo le dava le spalle, seduto davanti al pc adagiato sul tappeto, ma lo vide irrigidirsi appena sotto la maglietta bianca.

 «Ascolta, L» la voce dosata del Sovrintendente Soichiro Yagami si levò nuovamente, «se intendi catturare Kira insieme a noi, perché non vieni qui al Quartier Generale?»

«Giusto! Se ci mostrassi chi sei e lavorassi al nostro fianco, allora anche noi potremmo fidarci di te e collaborare!»

Sophie fissò L, in attesa che si muovesse: cosa aspettava a dire che il suo piano era di farli venire a lavorare con loro fin dall’inizio? Perché aveva omesso quell’importantissimo dettaglio, anche ora che gli agenti erano rimasti così pochi? Era un altro test?

«Come ho detto poco fa, io ho fiducia in voi» affermò il detective, «Watari, procedi»

«Subito».

L prese a digitare sulla tastiera, ma da quell’angolazione Sophie non riusciva a vedere lo schermo. Si sporse in avanti, provò a raddrizzarsi, ma leggeva solo brandelli di messaggio. Guardando il detective con aria circospetta, iniziò a scivolare dalla poltrona al pavimento, per avvicinarsi a lui.

Inutilmente.

Stava praticamente per ansimare sul collo di L, quando lui smise di digitare e ruotò millimetricamente il capo all’indietro. «Ho dato loro un’ultima chance per farsi indietro prima di incontrarmi».

Sophie arretrò di botto finché non fu schiena contro la poltrona, mentre il detective si voltava a guardarla con un sopracciglio alzato. Lei tossicchiò, guardando altrove. «Sì, ehm, incontrarci, semmai»

L replicò con un cenno di assenso, ma era evidente che fosse divertito dall’averla colta per una volta con le mani nel sacco. «A questo proposito, comunque, gradirei se lasciassi che sia io a spiegare agli agenti la tua situazione, non voglio che sappiano più del dovuto». Sophie incrociò le braccia, contrariata.

«So parlare, eh»

«Questo lo so» replicò L, prima di alzarsi e porgerle la mano. Lei, senza pensarci, la prese e si fece aiutare.

«E cosa staresti insinuando con questo, Ryuzaki?» ribatté, in un misto di sorpresa e finta indignazione. Lo guardò con quella che avrebbe dovuto essere un’espressione minacciosa, se fosse riuscita a trattenere il sorrisetto all’angolo della bocca.

«Non sto insinuando niente, Sophie… sto candidamente affermando» le rispose il detective, con quella che lei non avrebbe saputo definire altro che una faccia da schiaffi.

«La faccia tosta che ti ritrovi» sibilò, scuotendo il capo e sorridendo apertamente.

«Mh mh…»

Mentre L la guardava negli occhi con un sorrisetto, Sophie realizzò improvvisamente di essere in piedi di fronte a lui. Realizzò anche come fosse finita in piedi di fronte a lui. Realizzò anche di avere la mano ancora in quella del detective, un calore strano in quel contatto freddo e il cervello completamente in tilt.

«B-beh, sarà meglio che vada a preparare un po’ di caffè, ci aspetta una notte lunga» si affrettò a dire la strega, sfilando la mano dalla presa del detective e dandogli le spalle.

Si fermò un momento a chiudere il libro abbandonato sulla poltrona. Poltrona che, per inciso, aveva preso l’abitudine di occupare ogni volta che ne aveva l’occasione… o, meglio ancora, quando voleva una piccola rivincita su L.

E dopo la conversazione di quella mattina, Sophie aveva parecchio bisogno di una rivincita.

Certo, forse il ragazzo le aveva concesso una momentanea vittoria in quella partita a scacchi di cose non dette, quando l’aveva lasciata ai suoi studi con un sorrisetto sulle labbra. Lei, tuttavia, non era riuscita più a fare nulla per il resto della giornata, tormentata da come fosse venuto a sapere di…

“Mi è giunta voce di un… incidente, avvenuto durante la cattura di un Mangiamorte.”

Solo i suoi amici lo sapevano, ed era certa che non avrebbero mai detto niente. Inoltre, non era possibile che fossero entrati in contatto, anche indiretto, con L…

D’un tratto, le si accese una lampadina.

«Ryuzaki?»

«Sì?» fece il detective, nuovamente impegnato a digitare sulla tastiera.

«… È stato Robards? A dirtelo, intendo». Il ticchettare dei tasti si fermò per un attimo, prima di riprendere indisturbato per una manciata di secondi. Dopodiché il ragazzo chiuse il pc, voltandosi verso di lei.

«Pensi che ti darò una conferma?» le chiese, atono.

Sophie sbuffò. «No, in effetti può essere stato solo lui»

«Ne sei sicura?» La domanda di L l’aveva presa in contropiede. La guardava con il capo lievemente piegato di lato, i capelli che gli cadevano obliquamente sul volto e sui grandi occhi spalancati. La sua espressione e la sua voce sembravano denotare del sincero interesse, come se fosse confuso dalla sua affermazione.

Sophie aggrottò la fronte e aprì la bocca per ribattere che sì, ne era sicura, perché era assolutamente ovvio, era assolutamente scontato che-

Si bloccò un attimo prima di prendere parola, richiudendo lentamente la bocca e assottigliando lo sguardo.

Mi sta fregando!

Se la guerra fosse stata più clemente con Malocchio Moody, e se il guardingo, diciamo pure paranoico Auror le avesse fatto da mentore, l’avrebbe sicuramente strigliata un giorno sì e uno pure. Questo perché Sophie, della figura criptica e di poche parole tipica degli Auror, aveva ben poco: tendeva, piuttosto, a essere un libro aperto e di una sincerità disarmante… tranne su alcune cose.

L’incidente di alcuni anni prima, il tremendo errore che aveva fatto e sepolto in un passato non troppo lontano, era decisamente tra quelle cose.

«Ryuzaki, se sapessi, non avresti bisogno di chiedere» disse infine, inarcando un sopracciglio. Se il mago avesse conosciuto i dettagli, avrebbe saputo benissimo che gli unici coinvolti erano i membri della sua squadra, i suoi amici più stretti, e che quindi solo Robards avrebbe potuto sia saperne qualcosa sia averne parlato con lui.

«E poi, seriamente, la faccia da pesce lesso non attacca» aggiunse la strega, tentata di tirare un cuscino in faccia al detective. Ogni traccia di innocente interesse scivolò dal suo volto, sostituita da un leggero sorrisetto.

«No?»

«No, l’hai bruciata quando ci siamo conosciuti» Sophie lo vide alzare le sopracciglia in una muta domanda, e sbuffò. «Ok, senti, ti sei comportato come un perfetto e freddissimo stronzo! Tutta la recita da grandi-e-innocenti-occhi-scuri era da considerarsi scartata dopo i primi dieci secondi di conversazione.»

L la fissò per un momento.

Poi ridacchiò.

Era un suono caldo, profondo, un po’ roco.

Sophie voleva scomparire nel nulla e anche rimanere ad ascoltarlo per sempre.

«Ok, cercherò di impegnarmi di più» decretò il giovane, un genuino sorriso ancora ad aleggiare sulle labbra sottili.

Lei deglutì, annuendo un paio di volte.

Poi scappò in cucina, con tutta la dignità che potesse chiamare a sé.

 

Gli agenti rimasti a indagare ora erano cinque in totale, e si erano cambiati le divise tradizionali con dei comunissimi e impeccabili completi babbani, accortezza suggerita da L ma in realtà molto comune nella Comunità Magica giapponese.

Mentre li attendeva in salotto, Sophie li udì presentarsi -Matsuda, Aizawa, Ukita, Mogi, e ovviamente il Sovrintendente Yagami, e iniziare quasi subito a perdersi in una serie di domande, obiezioni e mormorii concitati. La strega, ormai abile nel navigare la piattezza della voce di L, riconobbe subito il tono tediato delle sue risposte.

Tedio che non migliorò quando Matsuda, il giovane ed esuberante agente che aveva sentito incoraggiare i colleghi qualche ora prima, la vide comodamente seduta in salotto.

«LEI DOVREBBE ESSERE MORTA!» sbottò, indicandola con gli occhi strabuzzati.

Sophie sbuffò nel tentativo di trattenere una risata, nascondendo il volto in una mano.

Mooolto, molto meno divertito pareva essere L, che aveva serrato le labbra in una linea pericolosamente sottile. Onde evitare ulteriori incidenti diplomatici, Sophie decise di contravvenire ai suoi ordini, affrettandosi a spiegare le circostanze della sua morte sfiorata.

«No, non sono morta, piacere» ridacchiò, vagamente a disagio sotto gli sguardi sbigottiti degli agenti. «Ehm, Kira ha ucciso grazie a un documento fornito dal Ministero americano, documento che riportava anche la mia identità…»

«Sì, ma-»

«Ma, non era corretto. Semplicemente, Kira aveva il mio volto ma non il mio nome… o meglio, pensiamo conosca il mio volto, per questo ho mantenuto un profilo ancora più basso in questi giorni… non ho bisogno che Kira arrivi a finire ciò che ha iniziato» spiegò la strega, stringendosi nelle spalle.

I colleghi iniziarono ad annuire, scambiandosi qualche sguardo pensoso.

«Perciò il nome sul fascicolo era errato…»

«Ed L ci ha chiesto di comunicare la sua morte per poterla proteggere da Kira»

«Esattamente» confermò Sophie, sorridente. L’entusiasmo dei colleghi, però, non pareva pronto a scemare tanto in fretta.

«Che sia stata una coincidenza? O che ci sia qualcosa sotto?» rifletté Aizawa.

«In effetti, potrebbe essere che qualcuno abbia volutamente trasmesso le informazioni sbagliate…» convenne Matsuda.

«Forse dovremmo investigare…» la proposta di Ukita fu tranciata di netto dalla profonda e gelida voce di L.

«Quanto accaduto a Sophie è una questione già risolta. Le indagini di dovere sono state già eseguite, perciò vi inviterei a concentrarvi sul caso. E chiamatemi Ryuzaki, d’ora in avanti».

Nella stanza calò un silenzio carico di disagio; Sophie stessa spiò il ragazzo con la coda dell’occhio, confusa da quello scatto. Probabilmente, si disse, stava già accusando il colpo di interagire con tante persone alla volta.

Del resto anche Sophie era ormai disabituata ad altri che non fossero Watari o L stesso, ma per lui doveva essere anche peggio: non solo il mostrarsi ad altri agenti era, in fondo, una sconfitta, ma se cinque persone erano una miseria di fronte a un’emergenza internazionale del calibro di Kira, per gli standard di L dovevano essere una folla.

Folla che, certamente non si aspettava ciò che aveva trovato in quella stanza d’albergo: nello specifico, un ventenne con gravi problemi d’insonnia, una capigliatura fuori controllo e una mano alzata a mo’ di pistola.

Se io fossi Kira, voi sareste già morti” aveva spiegato L, dopo che ogni agente aveva mostrato la propria foto e fornito nome e cognome.

In effetti, almeno il “BANG” iniziale avrebbe potuto risparmiarselo.

La strega però l’aveva trovato estremamente divertente. E poi, forse era meglio che L esasperasse i nuovi arrivati in piena libertà, di modo che si abituassero in fretta al loro eccentrico superiore.

«Ehm, ok» fu Matsuda a spezzare il silenzio, evidentemente incapace di stare zitto per più di cinque secondi. «Scusa Ryuzaki, stavo pensando… se sappiamo che Kira ha bisogno dei volti e dei nomi, non possiamo chiedere ai media di non pubblicare più tali informazioni sui criminali? Questo ridurrebbe il numero delle vittime, no?».

L rivolse lo sguardo a metà verso di lui. «Se lo facessimo, a rimetterci sarebbe la gente comune»

«La gente comune?»

«E perché?»

Sophie combatté l’istinto di portarsi una mano agli occhi.

«Perché Kira è infantile, e non sopporta di perdere» disse L. «A dire il vero anch’io sono infantile e detesto perdere. Per questo lo so… anche Sophie ha avuto l’accortezza di farmelo notare».

La strega arrossì, mentre cinque paia di occhi si posavano su di lei. «Tecnicamente, non l’ho negato» bofonchiò, facendo ammorbidire appena il cipiglio del detective.

«Bene, posso dire la mia su questo caso?» riprese parola lui. Tenendo il pollice premuto contro le labbra sottili, come di consueto, iniziò a esporre la sua teoria riguardo agli sviluppi delle indagini. «Kira agisce da solo e ha sottratto informazioni al precedente Quartier Generale»

«Co… come fai a capire che agisce da solo?».

«Aspetta, Aizawa. Prima seguiamo tutto il suo ragionamento. Dopodiché, se ci saranno domande, rivedremo i singoli passaggi» disse il sovrintendente Yagami, bloccando ulteriori interventi. Sophie fissò l’uomo per qualche secondo, sentendo improvvisamente la mancanza di Harry: nonostante la sua celeberrima impulsività, spesso era lui a frenare l’irruenza della sua squadra, in momenti come quelli. La ragazza scacciò quel pensiero, cercando di concentrarsi sulle parole di L.

«Per uccidere, ha bisogno di un volto e di un nome. Entro certi limiti, può manipolare il tempo della morte, e anche gli avvenimenti che immediatamente la precedono.

«Tenete a mente ciò che vi ho detto e ascoltate attentamente quanto sto per dirvi» fra le sue dita apparve un pennarello indelebile, con cui iniziò a scrivere sul tavolino da caffè. Sophie sperò vivamente che il mobile non fosse costoso quanto sembrava. «Tra il 14 e il 15 dicembre arrivano in Giappone tredici Auror. Il 19, Kira svolge dei test su alcuni carcerati, allo scopo di provare a manipolare gli eventi precedenti alla morte. Ciò significa che, nell’arco di quei cinque giorni, Kira si è accorto della presenza degli agenti. Sentendosi minacciato, ha ritenuto necessario fare dei test sui criminali, per provare fino a dove poteva spingersi nel manipolare le azioni precedenti la morte. Questi esperimenti gli serviranno a uccidere gli Auror, dei quali non conosce né il numero, né i volti, né i nomi.

«Il 27 dicembre, infatti, si serve dei risultati di tali test per ottenere il documento contenente i volti e i nomi dei tredici Auror, riuscendo così a ucciderli.» Udendo quello scarno e lineare resoconto, indice dell’agghiacciante semplicità con cui Kira aveva fatto fuori i suoi colleghi, Sophie sentì un brivido lungo la schiena. A disagio, si alzò per andare ad appoggiarsi alla finestra più vicina.

«Questa è la prova che aveva bisogno di impedirci di comprendere chi fosse l’agente a cui apparteneva il file. Ma ciò implica anche che era entrato in contatto con uno di loro.

«Tutti i cadaveri dei dodici agenti sono stati rinvenuti nell’area di Tokyo. Per quanto ne sappiamo al momento, tra il 19 e il 27 dicembre in tale area sono morte di arresto cardiaco ventitré persone, tra ricercati e pregiudicati. L’obbiettivo di Kira è chiaramente differente da prima.

«In parole povere, per uccidere gli agenti, ha avuto bisogno di manipolare qualche criminale da poco conto. E ne ha usati così tanti per non farci capire quali gli siano serviti veramente. In realtà dubito che siano stati molti. Allo stesso modo, gli otto giorni trascorsi dai test all’attuazione del piano gli sono serviti a nascondersi, facendo sì che gli Auror indagassero anche su altra gente. Tuttavia possiamo affermare senza ombra di dubbio che Kira era tra le persone sulle quali indagavano.

«E così, Kira è costretto a fare i salti mortali per scoprire il volto e i nomi di tutti i membri del gruppo spedito qui; ma, per far sì che tutti posseggano quella pergamena, prima deve farla avere a qualcuno. Grazie all’aiuto del Magico Congresso degli USA, sappiamo anche l’ordine in cui gli agenti sono entrati in possesso del file. Non mi è concesso mostrarli ad altri, ma stando al loro contenuto…» L fu interrotto nuovamente.

«Fantastico! Con queste informazioni, possiamo farcela pure da soli!»

«Per prima cosa, dobbiamo trovare i punti in comune tra i ventitré morti per arresto cardiaco e gli Auror del MACUSA, no?»

«Dividiamoci in due gruppi, e vediamo se hanno lasciato qualche indizio».

Beh, almeno non mancano d’entusiasmopensò Sophie, osservando divertita L che, con una nota assassina nello sguardo, si stava preparando l’ennesima tazza di tè.

«Beh? Domande?»

«Io avrei una domanda, Ryuzaki» intervenne il Sovrintendente. «Prima hai detto che detesti perdere… ma il fatto di esserti mostrato a noi in volto non costituisce già una vittoria per Kira?»

«Esatto» rispose secco il detective, impassibile. «Il fatto che abbia dovuto mostrare il mio volto, così come la morte dei dodici Auror… rappresentano una sconfitta per me.

«Tuttavia…» riprese, grattandosi le ginocchia, sotto gli occhi attenti di tutti i presenti, «… alla fine sarò io a vincere… Anch’io sto rischiando la vita per la prima volta» Sophie lo fissò con sguardo sospettoso, mentre vedeva la sua bocca incurvarsi in un sorriso sottile. «Tutti noi che siamo radunati qui mettendo in gioco le nostre vite dimostreremo che la giustizia trionfa sempre.»

Gli agenti dell’Ordine esplosero in una sfilza di esclamazioni euforiche, mentre lei incrociava lo sguardo di L.

“Sul serio?” articolò silenziosamente, le sopracciglia inarcate verso l’alto e un sorriso divertito sulle labbra.

Lui mantenne la faccia da pesce lesso ma, in un attimo quasi impercettibile, la strega avrebbe giurato che le avesse fatto l’occhiolino.

Sbuffò, incredula, tornando a guardare fuori dalla finestra: in lontananza, dietro la neve sottile che punteggiava la notte, i lampi colorati dei fuochi d’artificio illuminavano la città. La strega sfiorò il vetro gelido, poggiandovi quasi la fronte… era il primo Capodanno che passava da sola.

Poteva ricordarne parecchie di notti passate a sparare fuochi d’artificio nel cortile della Tana, facendo strillare un’apprensiva mamma Weasley. Oppure a Hogwarts, a ubriacarsi in Sala Comune e a fare baccano finché la McGranitt non abbaiava di fare silenzio, perché non era intenzionata a fare l’alba con loro. E poi… le notti trascorse giocando a Monopoli e Spara Schiocco con la sua famiglia, con i suoi genitori…

Sophie trasalì al tocco gelido che le sfiorò un polso.

«Scusa, non volevo spaventarti. Sembravi molto… assorta».

Sophie batté le palpebre un paio di volte, lieta di non sentire gli occhi umidi mentre L la fissava con sguardo indagatore. «S-sì, sono solo un po’ stanca» disse in fretta, rimanendo immobile, la mano di lui ancora a un soffio dalla sua. Prima, quando l’aveva aiutata ad alzarsi, aveva notato quanto quelle mani affusolate fossero grandi rispetto alle sue, le dita lunghe, nocche e tendini pronunciati, la stretta insospettabilmente forte.

Non sapeva perché si fosse fissata su quel dettaglio.

Non era proprio un dettaglio che dovesse interessarle, come fossero le mani di L.

Però, ecco, non aveva mai notato-“Ok, è ufficialmente una spirale.”

Sophie si trattenne fisicamente dallo schiaffarsi una mano in fronte.

«Mh, mh…» fece il detective, lasciando cadere la questione.

Sophie si sentì vagamente dispiaciuta, ma soppresse quel pensiero mentre, a braccia conserte, lo ascoltava spiegarle che avrebbe parlato singolarmente con ogni membro del gruppo. Questo, comprese subito la strega, per assicurarsi che nessuno di loro fosse Kira.

«Come vedi, non sono poi così sconsiderato come direbbe qualcuno» aggiunse infine L, una sfumatura canzonatoria nel modo in cui aveva sollevato le sopracciglia in un cenno.

Sophie, sorpresa, ridacchiò. «E va bene, va bene, vai ora» gli diede una spintarella.

Stavolta, nessun dramma: lei non perse il sorrisetto di scherno che le colorava le labbra, e lui sembrava rilassato, divertito quasi.

Il detective fece per andarsene, ma si fermò dopo qualche passo, gettandole uno sguardo da sopra una spalla. «Sai, dovresti coprirti, fa freddo»

«Beh, qualcuno non mi ha ancora restituito il mio maglione preferito…» sospirò la rossa, incrociando le braccia, coperte dalle maniche ampie di una blusa sottile. «Non ne sai nulla?»

«Mh… no, ma conosco un ottimo detective che potrebbe aiutarti».

Lei rise, scuotendo il capo. Si ritrovò a fissarlo per un momento di troppo, mordendosi un labbro. «Buon anno nuovo, Ryuzaki» lo disse a voce bassa, quasi un mormorio nel trafficare del salotto.

La voce di L fu egualmente pacata quando le rispose, e i suoi occhi grigi parevano aver perso ogni traccia di freddezza.

«Anche a te, Sophie».

Forse non era poi così sola, quel Capodanno.

 

***

 

Al Ministero della Magia britannico, i festeggiamenti erano ben lungi dall’iniziare.

Certo, gran parte degli uffici e degli atrii erano adornati da un misto di agrifoglio, sfere natalizie e scintillanti decorazioni dorate. L’ottavo livello, ovviamente, era il posto dove più erano stati concentrati gli sforzi per dare un’aria festosa all’ambiente: l’immenso Atrium, le sue pareti di legno scuro, la sua celeberrima fontana, i camini della Metropolvere, l’ingresso visitatori e i cancelli dorati da cui si accedeva agli uffici, tutto era stato tirato a lucido e agghindato di tutto punto. Vi era addirittura un enorme “2003” di un viola intenso che fluttuava nell’alto soffitto, pronto a diventare un “2004” allo scoccare della mezzanotte, in un tripudio di miniaturizzati fuochi d’artificio.

Inoltre, sebbene gran parte del personale sarebbe stato esentato dai turni di notte, ogni mago o strega sfoggiava le vesti più sfarzose e i cappelli più splendidamente squisiti che potessero essere indossati sul posto di lavoro. Persino il responsabile della sicurezza dell’Atrium indossava una veste da mago in velluto color smeraldo con ricami dorati, la spilla d’argento del Ministero ben lucidata e un piccolo cappello a punta in pendant con la veste sul capo.

Lui poi, come i pochi altri colleghi poco fortunati che avrebbero dovuto passare il Capodanno nei confini stregati del Ministero, si consolava tenendo in fresco una bottiglia di bollicine, magicamente raffreddata nel cassetto della sua scrivania. Stava appunto controllando che l’incantesimo reggesse con fare alquanto compiaciuto, quando un mago si avvicinò discretamente alla sua scrivania.

Riemerse dal cassetto con aria diffidente, dato che praticamente nessuno andava a far registrare la propria bacchetta per entrare al Ministero l’ultimo dell’anno, ma il broncio sparì rapidamente. «Paciock! Anche tu il turno di notte?» chiese speranzoso, ben sapendo che un invito al piano degli Auror gli avrebbe garantito dei festeggiamenti degni di essere definiti tali: non era un segreto che fossero assolutamente il Dipartimento più impudente del Ministero, anche quando non si trattava di duelli tra colleghi suscettibili.

Neville si portò una mano alla nuca ed esibì un sorriso di scuse. «No Tod, mi dispiace, stavo giusto andando a casa»

«Oh» esalò la guardia, senza nascondere la delusione.

«P-però so che Colin e Proudfoot restano! E Robards piuttosto che uscire a festeggiare si farebbe evanescere le braccia, quindi potresti fare un salto…»

«Oh!» esclamò Tod, raddrizzandosi nuovamente nella sedia. «Ti posso aiutare?» aggiunse poi, colto dalla spassionata urgenza di ricambiare il favore all’Auror.

«Effettivamente, volevo chiederti se… sai, normalmente non dovrei coinvolgere qualcuno al di fuori del Quartier Generale…» spiegò, tentennante, catturando l’immediato interesse di Tod, che si sporse in avanti con fare cospiratorio.

«Puoi dirmi tutto Paciock, questa bocca? Una tomba!» gli disse, picchiettandosi la faccia con la bacchetta. Neville fece per fargli notare di essersi appena colorato i sottili baffetti biondi di verde acido, ma preferì tacere.

«Ecco, le cose giù sono un disastro, con tutta la faccenda di Kira…»

Il volto del mago s’incupì all’istante. «Quel gran bastardo, non ho mai sentito qualcosa di così schifoso da quando qui giravano i Mangiamorte!» sbottò adirato, e Neville sembrò studiarlo per qualche secondo, prima di guardarsi in giro.

«Eh-ehm… già…» mormorò, pensoso.

Tod sembrò aggrottare ancor più la fronte, i baffetti verdi esageratamente arricciati sotto al lungo naso. «Paciock, mica… mica sarai uno di quelli lì, eh?» disse, grattandosi nervosamente il capo sotto al cappello a punta.

Neville si schiarì la voce. «Quelli… quelli lì?» ripeté, portandosi una mano allo stomaco con un’espressione di leggero dolore.

«Massì, Paciock, quelli lì che…» stavolta anche il controlla bacchette si fece guardingo, mentre un gruppetto di maghi superava i cancelli dorati accanto alla sua scrivania per dirigersi verso la Metropolvere, un allegro augurio di buon anno sulle labbra. «Uhm, quelli che lo sostengono» mormorò poi, sicuro che nessuno fosse a portata d’orecchi nella sempre agitata sala d'ingresso.

Neville prese un sospiro. «Tod, senti, la cosa che ti dovevo chiedere… ho bisogno di sapere se sei disposto a darmi una mano. Sei sempre in uno dei punti più affollati del Ministero, e sicuramente sentirai un sacco di… discorsi…» L’Auror contraccambiò distrattamente gli auguri di qualche collega del Terzo Livello, subito imitato dalla guardia.

«Ci puoi scommettere, anche se non quanto Eric, sai com’è Eric…» commentò Tod, roteando gli occhi al pensiero del suo superiore. Quel vecchio bacucco con la barba sempre sfatta non faceva che dormicchiare tutto il giorno, svegliandosi solo per lamentarsi di lui e, soprattutto, spettegolare. Eric stava alla Sorveglianza da prima che Tod nascesse, sospettava, e conosceva assolutamente ogni singolo dipendente del Ministero: Tod aveva dovuto imparare a caro prezzo a non raccontare gli affaracci suoi al vecchio mago.

Certo, il vantaggio era che quella bocca larga funzionasse a doppio senso.

«Beh, appunto…» commentò allora l’Auror, con l’accenno di un sorriso malgrado si tenesse ancora lo stomaco con una mano.

«Ohhh» fece allora la guardia, premendosi il cappello sulla fronte mentre si curvava ancora più in avanti.

«Tod, ho bisogno che tu mi prometta di non farne parola con nessuno…»

«Sulla tomba di mia zia!» sbottò la guardia, attirando lo sguardo divertito di un paio di maghi del quinto livello.

«… Dovresti tendere l’orecchio… ecco, per quelli lì

Tod sbarrò gli occhi. «Paciock… non che non voglia farlo ma… è roba seria, lo sai? Perché lo chiedi a me?» chiese il mago con voce incerta, non facendosi troppe illusioni su quanto in basso fosse nella catena alimentare del Ministero.

L’Auror però non si perse in ulteriori spiegazioni. «È un sì?»

La guardia tentennò per qualche istante, poi annuì vigorosamente. «Grazie Tod, sono in debito… mi fido di te»

«Non ti deluderò Paciock… ohi, lo vuoi un sorso di champagne?»

 

Quando Neville si infilò finalmente nella Metropolvere, guardò il suo orologio da polso con un sospiro pesante: non vedeva l’ora di farsi una doccia e cambiarsi per passare a prendere Hannah.

Iniziare a uscire con lei era la cosa migliore che gli fosse successa quell’anno, forse da sempre, anzi e, nonostante fosse un mago piuttosto ansioso per natura, sapeva che niente sarebbe potuto andare storto quella sera. La semplice presenza della bionda strega dalle guance sempre rosse avrebbe potuto spazzare via ogni cupo pensiero dalla sua testa.

Tranne…

Si strofinò nervosamente all'altezza della bocca dello stomaco, al pensiero di ciò che stava facendo: non era abituato a tenere segreti, non con i suoi amici, nemmeno con i suoi colleghi, e sicuramente non con Hannah. Robards, però, era stato perentorio.

Quando, una manciata di giorni prima, lo aveva chiamato nel suo ufficio, aveva onestamente pensato di aver combinato qualcosa. D’altronde, in quei giorni il Capo sembrava essere ancora più irascibile del solito.

Sicuramente, non si aspettava di vedersi affidata una delicata operazione di… spionaggio? Lo avrebbe potuto definire così? Robards avrebbe sicuramente storto il naso, se avesse usato una parola del genere a voce alta.

Così come aveva storto il naso alle sue obiezioni.

 

«Tutto chiaro, Paciock?» gli aveva chiesto, senza nemmeno guardarlo in faccia»

«Beh, sì Capo ma… posso chiederle perché me?»

«Uhm?» aveva grugnito il mago, alzando gli occhi piccoli e freddi su di lui.

«Perché sta assegnando questo compito a me? Non sono esattamente uno dei più, err, qualificati, qui dentro?»

Robards aveva sfilato gli occhiali, il che non era mai un buon segno, e aveva storto sì il naso, anche tanto. «Paciock, ti stai lamentando perché ti sto dando un lavoro? Cosa vuoi che ti assegni? La pulizia dei bagni?!»

«N-no Capo, ehm… Non intendevo…» la voce di Neville si era spenta in un mormorio poco convinto.

Robards aveva assottigliato ulteriormente lo sguardo. «Ascolta Paciock, usa la testa, questo è un lavoro di discrezione ma non di infiltrazione, e mi caschi quel che rimane dei miei capelli se c’è uno solo dei tuoi colleghi che possa fare un’indagine del genere dentro a questo maledetto posto senza attirare attenzioni inutili! L’unica a cui affiderei una cosa del genere-» Robards si era interrotto di botto, e il suo cipiglio si era fatto ancora più cupo.

Neville non aveva bisogno di essere un Legilimens per capire che stesse pensando a Sophie. Allora aveva annuito. «D’accordo, Capo, se crede che sia la scelta migliore… farò del mio meglio».

L’uomo lo aveva fissato ancora per qualche secondo, poi lo aveva liquidato con un grugnito.

 

A Neville non restava che credere nella scelta di Robards, e ed essere il più cauto possibile.

Il suo stomaco brontolò nervosamente, sicuramente contrariato dal bicchiere di champagne.

Antiacido, avrebbe dovuto anche iniziare a procurarsi una pozione antiacido.

 


LUMOS

Helooooo, capitolo molto più lungo del previsto perché ho aggiunto un pezzo e mi sono presa bene. LOL perché sono così autodistruttiva? Vabbè, riuscirò a tirare tutte le fila, lo prometto.

Plus, scusate la lentezza ma sto prendendo delle decisioni riguardanti la trama e non voglio creare incongruenze o buchi (neri) di trama, quindi sopportatemi, in cambio il prossimo capitolo lo pubblico in anticipo perché ve lo meritate, ahahah

Plus, oggi sono affettuosa e volevo dirvi che vi adoro immensamente per starmi seguendo in questa avventura, quindi ecco, grazie a tutti :3

Un abbraccione virtuale <3

P.S./disclaimer: una parte dei dialoghi è ovviamente presa direttamente dal manga, tutto merito del buon Ohba. O della buona Ohba. Avete capito.

NOX

 

 

 

 

 

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Capitolo 9
*** Abbandonati ***


Descrizione più o meno grafica di violenza(?) Dunno, nel caso balzate la parte in corsivo, non è strettamente necessaria per la trama <3

Capitolo 8

Abbandonati

Sophie avrebbe fatto tardi, lo sapeva.

Poco importava se i suoi genitori non sarebbero dovuti essere a casa, poco importava che non la aspettassero, e che sarebbe dovuta essere alla Tana coi Weasley.

In quella momentanea e ovattata irrazionalità, corse lungo i viali innevati del suo quartiere, superando rapidamente le case che una volta conosceva a memoria.

Le sembrò di scivolare, non in modo maldestro e violento, ma dolcemente, finché non ebbe imboccato il vialetto, salito le scale del portico, valicato la porta di casa.

… La porta di casa era aperta, no, spalancata, appesa precariamente a uno solo dei cardini, semidistrutta dall’interno. Il legno era sporco di sangue. Non uno schizzo, no, piuttosto di macchie minuscole, che sembravano aprirsi in ampi ventagli sotto i suoi occhi.

Con il cuore che le martellava in petto, Sophie entrò nella casa dov’era cresciuta, una fioca luce che la seguiva malgrado non le servisse. Sapeva cosa avrebbe trovato, sapeva cosa la aspettava, di quella consapevolezza distorta dei sogni che non riconosceva ma che le faceva tremare le gambe mentre superava l’arcata del salotto.

«Finalmente sei tornata!» il saluto di sua madre echeggiò come se arrivasse da lontano, prendendola quasi in contropiede: i lunghi capelli biondo scuro, il volto bellissimo, dagli zigomi pronunciati e gli eterei occhi grigi, tutto come ricordava. L’espressione di rimprovero, quegli occhi assottigliati sotto le sopracciglia inarcate, era mitigata da un sorrisetto nascente sulle labbra gentili.

Sophie si fece avanti timidamente, di nuovo bambina nel suo corpo di donna, incassando la testa fra le spalle e guardandola con un sorriso colpevole. «Ho fatto tardi?»

«Non dico che hai fatto tardi, girino, ma ancora un po’ e finivo il nuovo libro» ridacchiò suo padre, comparendole alle spalle e scompigliandole i capelli, rossi e indisciplinati quanto i suoi.

«Papà!» Scacciò la mano del padre e lui le fece l’occhiolino da dietro gli spessi occhiali squadrati, mentre si avvicinava alla poltrona in cui era seduta la moglie. Poltrona che, notò ora Sophie, era macchiata e squarciata, così come il resto della mobilia: tutto era posizionato esattamente dove avrebbe dovuto ma… ogni superficie o imbottitura era semidistrutta e macchiata da una sostanza ormai secca, marrone scuro.

«Dai, Sophie, è ora» la richiamò Anne, improvvisamente seria.

«Di cosa, mamma?» le chiese la figlia, confusa.

Guardò la madre esitare, aggrottare le sopracciglia sottili. Qualcosa si spense, nel suo sguardo. «Ma certo, mi sono sbagliata» ammise, il sorriso piegato da un fremito.

«Cosa… mamma, non capisco…» mormorò Sophie, guardando suo padre.

Philip posò un bacio sul capo della moglie, cercando di confortarla. Poi si voltò. «Vedi, la mamma si è confusa, Sophie… tu non c’eri» spiegò con semplicità, ma il suo sorriso si era fatto gelido e distante.

Il cuore di Sophie pareva battere due volte più veloce del normale.

«Non… che cosa-» il fiato le si mozzò in gola, mentre macchie di sangue iniziavano a fiorire sui vestiti dei due, impregnandoli fino a scorrere sul pavimento di legno, macchiando le loro pelli assieme a lividi e lacerazioni, sporcando le loro cornee.

Suo padre allungò un braccio per accarezzarle il volto, ma l’arto era scomposto in un angolo disumano e lei si fece indietro, sprofondando nel panico nel rendersi conto che c’era qualcuno dietro di lei. Braccia ammantate di nero la bloccavano.

«No, è tutto sbagliato» farneticò Sophie, divincolandosi, incapace di urlare mentre una mano guantata le copriva la bocca, mentre chi la teneva iniziava a trascinarla via da quella stanza, via da loro, dai suoi genitori trasfigurati da una violenza impietosa.

«Certo che è sbagliato, tesoro» disse dolcemente Anne, sempre più lontana, sempre più sfigurata. «Tu non c’eri… CI HAI ABBANDONATI»

 

2 gennaio 2004

Sophie si tirò a sedere di scatto, annaspando in cerca d’aria.

Si mosse verso il comodino, buttando a terra tutto ciò che vi era appoggiato alla ricerca della lampada. Appena riuscì ad accendere la luce rimase immobile, abbagliata, ma non chiuse gli occhi.

Rimase lì, a stringere il comodino fra le dita, il respiro affannato e il cuore che le batteva violentemente in petto. Quando sentì un rumore alle sue spalle si voltò di scatto, terrorizzata, ma trovò solo Siler.

Con dita tremanti, la strega si passò una mano fra i capelli umidi di sudore, prima di carezzare il muso dell’animale. Continuò per qualche minuto mentre si calmava, riadattandosi alla realtà, e ogni respiro completo rendeva il suo sguardo più vacuo, i suoi movimenti più meccanici.

Un plic attutito le fece abbassare lo sguardo sul copriletto, dove un cerchietto scuro si era appena disegnato. E poi un altro, e poi un altro. Sophie registrò lentamente le lacrime che scorrevano silenziosamente sul suo volto, fino a cadere dalla mascella tremante.

Apatica, si pulì il volto e cercò con lo sguardo il calendario dell’albergo, posizionato sul comodino opposto al suo. Sorrise appena, un sorrisetto quasi folle nella sua amara sconsolatezza: come ogni anno, gli incubi erano stati puntuali.

 

***

5 gennaio 2004

Ginny Weasley era certamente l’amicizia più radicata e profonda di Sophie Winchester.

Draco Malfoy era sicuramente l’amicizia più salda e incontrovertibile di Sophie Winchester.

Ginny Weasley e Draco Malfoy non erano grandi amici. Checché Sophie continuasse a blaterare riguardo le loro “palesi somiglianze”.

Ginny squadrò il biondo con aria critica. Tzé, palesi. Il giorno in cui avesse mostrato palesi somiglianze con quello snob platinato, avrebbe trovato il modo di portarlo nella tomba con lei, perché sicuramente sarebbe stato coinvolto nella trama malefica.

«Weasley.»

Certo, con gli anni aveva imparato ad avere a che fare con l’ex-Serpeverde, e a rivalutare tutti i pregiudizi e le stigma che vecchie ferite avevano lasciato. A ventidue anni compiuti, era consapevole che Draco non fosse suo padre, che non lo potesse incolpare per l’Horcrux che Lucius Malfoy le aveva rifilato quando aveva undici anni, e che gli errori fatti in gioventù erano stati in parte forzati, e interamente pagati a caro prezzo.

«… Weasley?»

Doveva anche ammettere che per arrivare a quel punto ci erano voluti innanzitutto anni, perché guerra o non guerra l’adolescenza era un pessimo momento per perdonare ex-bulli, ex-puristi ed ex-Mangiamorte che ti avevano tormentato l’infanzia. In secondo piano, Ginny era stata alquanto motivata dal fatto che Draco fosse diventato, nell’ordine, amico di una delle sue migliori amiche, fidanzato dell’altra, e collega del suo fidanzato e di suo fratello.

Sulle ultime, anzi, si era persino trovata partecipe degli eventi.

«Weasley!»

Ciononostante, tenendo pur conto di tutto quanto fosse successo, mutato, perdonato e superato, certe cose non potevano cambiare.

La boria, ad esempio, con cui Draco era capace di portare avanti anche il più piccolo, insignificante dei gesti, era ancora lì, in bella vista. Così com’era ancora lì il repertorio di insulti e nomignoli offensivi, scremato solo della componente più razzista. La totale, assoluta incapacità di tenere per sé i suoi problemi e di non farne una scena madre ogni volta, poi, era forse solo cresciuta negli anni.

«WEASLEY!»

La rossa inarcò un sopracciglio. «Cosa, Malfoy?»

«Mi fissi da mezz’ora come se fossi cosparso di pus di Bubotubero! Se proprio non sai scendere a patti col fatto di non avere buon gusto, apriti una qualsiasi idiota rivista per streghe e fissa PotterSfiga, sarà stampato da qualche parte!»

Ginny si dondolò sulla sedia. «Quindi ti brucia ancora che nell’inserto del Settimanale delle Streghe non abbiano messo anche le tue foto?»

«Non ha alcun senso! Di meno fotogenico del tuo stupido fidanzato c’è solo Kreacher[1]

«Eppure anche lui stava benissimo in quel piccolo pezzo del Cavillo».

Draco lanciò le mani in aria con fare esasperato e fece per uscire dal suo stesso cubicolo che, per decisioni totalmente indipendenti da lui, fronteggiava quello di Harry. Ergo, se Ginny doveva aspettare il fidanzato per pranzare assieme, la colluttazione verbale con il biondo era inevitabile: Ginny stava collezionando tempi sempre migliori sul farlo uscire dai gangheri.

«Aspetta!» sbottò però quel giorno, in barba al suo nuovo record.

Draco la squadrò con sospetto, ancora a un passo dall’uscire dal cubicolo. Lei sospirò.

«Stavo pensando a Sophie»

«… Ed è un mio problema perché

«Perché Hermione mi ha detto che sei “insofferente come un Ippogrifo” e Harry che continua a trovarti a fissare la scrivania di Sophie».

Se dal volto dell’Auror scemò ogni traccia di diffidenza, con altrettanta rapidità un colorito roseo gli salì agli zigomi affilati, e il suo sguardo si fece omicida. «Weasley, giuro su Salazar che-»

«Sono preoccupata anche io» lo interruppe noncurante la strega, passandosi assente una mano sullo stomaco. «So che in questo periodo… beh, non deve essere facile essere là da sola».

Draco non rispose ma riprese posto alla sua scrivania, ignorandola per qualche minuto. Alla fine, si strinse nelle spalle. «No che non sarà facile. Ma quella cocciuta…»

La ragazza guardò il giovane Malfoy fissare il muro di cartongesso come se volesse perforarlo con lo sguardo, ma sapeva che stava solo fissando la fotografia del suo primo giorno nella squadra: Sophie con un braccio stretto in una morsa letale attorno al collo del biondo, il volto sorridente mente lui, rigido e a braccia conserte, alzava gli occhi al cielo.

Ginny conosceva benissimo quella foto, perché era la stessa che Sophie teneva nel suo piccolo e straripante album fotografico: sempre gli stessi volti, negli anni, da Hogwarts all’ultimo compleanno festeggiato assieme.

Ginny, Draco, Harry, Ron, Hermione. Pochi i nomi di coloro che davvero avevano la fiducia di Sophie. Pochi i nomi di coloro che ne conoscevano ogni sfaccettatura, ogni segreto accuratamente custodito, ogni sfumatura che si nascondeva dietro al volto perennemente sorridente della ragazza.

Pochi, pochissimi, coloro che ricordavano ogni anno di abbracciarla una volta in più, perdonarle una svista in più, lasciarle del tempo in più per fissare il vuoto, persa nei suoi pensieri. Ogni anno, quel giorno, da quando i genitori di Sophie le erano stati strappati via.

Ogni anno.

… Non quell’anno.

«A Sophie non sono mai piaciute le cose facili» sancì infine Draco, interrompendo i cupi pensieri della strega. «L’ha deciso lei di essere lì, e non ho la minima intenzione di compatirla…»

«Che vuol dire?! Ha fatto una scelta coraggiosa e assolutamente grandiosa per il suo futuro, non si merita-»

«Non ho detto questo» il biondo interruppe a denti stretti la feroce difesa di Ginny. mormorando poi qualcosa di simile a “Stramaledetti Weasley”. «Quello che intendo, è che sta facendo qualcosa che la rende orgogliosa di sé stessa, qualcosa che ha scelto consapevolmente… non è una totale sconsiderata, sa affrontare un po’ di difficoltà… non le sono mai piaciute le cose facili» ripeté infine, con aria decisa.

La rossa, ora più calma, fissava l’Auror con un accenno di stupore in volto: per quanto fosse protettiva nei confronti della sua amica, e per quanto i motivi per cui essere preoccupata non facessero che moltiplicarsi, non poteva che avere fiducia in lei. Draco aveva ragione, insomma… ma il suo ego non aveva assolutamente bisogno di sentirselo dire. 

«La piantate di fissarmi tu e il tuo fidanzato?!» sbottò di colpo il biondo, ormai al limite della sopportazione.

«È che a volte fatico a credere a quanta lacca tu possa mettere sui capelli, Malfuretto- ciao amore» si annunciò Harry, arrivando con il cappotto cosparso di neve piegato su un braccio.

Si chinò a posare un bacio sulle ridenti labbra della fidanzata.

«Spine nel fianco» sibilò Draco, appoggiandosi alla scrivania coi gomiti e prendendo a massaggiarsi le tempie.

Harry e Ginny si scambiarono dei sorrisi complici, mentre si avviavano verso la mensa. Un attimo prima di andarsene, la rossa si riservò il diritto di dare dei colpetti di incoraggiamento a una spalla del biondo.

Lui guardò i due di traverso, ma li salutò con un cenno del capo.

 

Quando le loro voci si persero definitivamente nel rumore di sottofondo del Dipartimento, Draco tornò a guardare la foto in cui Sophie lo aveva costretto, tutti quegli anni prima.

E ripensò alla conversazione che aveva origlia-casualmente udito una decina di giorni prima.

 

27 dicembre 2003

A sua difesa, Draco si stava solo annoiando, mentre attendeva che le analisi sulla bacchetta di un sospettato arrivassero. Si stava stiracchiando le gambe, passeggiava avanti e indietro, riattivava la circolazione: non era certo colpa sua se la pidocchiosa scrivania che gli avevano assegnato anni prima – e che lui aveva poi sostituito con un pregiato pezzo di antiquariato - dava praticamente le spalle all’ufficio di Robards.

Quindi sì, forse aveva superato la linea che separava l’innocente e casuale prossimità dal sospettoso appostarsi, ma gli era parso di sentire un rumore di sottofondo provenire da quell’ufficio. Ufficio la cui porta, di norma, era perennemente Imperturbabile: nessun rumore in entrata, nessun rumore in uscita.

Così, il biondo aveva inarcato un sopracciglio e, badando che non vi fosse nessuno in vista, si era avvicinato al vecchio uscio di legno.

Nessun altro suono, però, stava giungendo al suo orecchio: né un respiro, né il tramestio di un cassetto smosso, né un qualsiasi altro tipico movimento da ufficio.

Draco stava quindi per riprendere la sua noiosa attesa per i corridoi del Quartier Generale, una smorfia di disappunto già pronta sulle labbra, quando udì un crepitare improvviso, e il rumore di una punta metallica su una superficie di pietra.

Il biondo corrugò la fronte.

… Il camino?

«Inizio a detestare queste nostre conversazioni, Watari».

Le sopracciglia del biondo scattarono verso l’alto, gli occhi grigi frugarono un’ulteriore volta il corridoio. Dall’altra parte della porta, un silenzio prolungato venne spezzato dal sospirare di Robards. «Che cosa vuole L, ora?»

«… Posso ricordarle che è lei ad averci contattati? Ad aver dato inizio a questa faccenda? Non starebbe parlando con me, altrimenti». La replica venne da una voce distorta, quasi incomprensibile nel crepitare delle fiamme di, , un camino acceso: Metropolvere, senza ombra di dubbio.

«Ironico, dato il perché vi ho contattati» replicò seccamente la voce del Capo.

Draco era pressocché schiacciato sullo stipite della porta, appena scostato perché la sua sagoma non fosse visibile tramite lo spesso vetro giallastro della finestrella, e i suoi pensieri correvano rapidamente: la versione ufficiale, era che Watari stesso avesse preso i contatti con il Wizengamot, e tramite di esso col Ministero britannico e americano.

Quindi, come poteva averlo contattato per primo Robards? Si riferivano forse a qualcos’altro? A qualcosa che non c’entrava con la richiesta di rinforzi di L?

Per altro, quello stesso giorno avevano ricevuto notizia della morte degli Auror americani che erano arrivati in Giappone: Robards li aveva convocati in ufficio non più di una manciata di ore prima, sforzandosi di rassicurarli sull’incolumità di Sophie e finendo per cacciarli a “fare il loro lavoro finché ne avevano uno!”. Quindi ora cosa ci faceva a parlare di nuovo con Watari? Era ancora inerente a quel disastro sfiorato?

«Che cosa succede?» chiese Robards, prendendo nuovamente parola per primo. E di nuovo, Draco riconobbe una nota di resa che raramente aveva sentito nella voce di quell’orgogliosissimo Auror.

Prima che potesse udire la risposta, Proudfoot e McLuhan si affacciarono alla fine del piccolo corridoio che separava l’ufficio dal resto dei cubicoli, cianciando ad alta voce dell’ultima partita del Puddlemore United.

Draco, stringendo i denti, si appoggiò con indolenza al muro, ritraendosi dalla porta quel tanto che bastava a non rendere sospetta la sua posizione.

«Oh, Malfoy! Hai mica visto Weasley? Mi deve dieci falci!» sbottò allegramente Proudfoot, prendendo atto della sua presenza con un’entusiasta alzata delle bianche sopracciglia.

Sempre entusiasta, questo stramaledetto pezzo da museo.

«No» rispose il biondo tra i denti.

«Oh, non lavora oggi?»

«Non lo so»

«Ma è nella tua squadra, non sai se-»

«Ho forse una stupida cicatrice in fronte e degli stupidi capelli spettinati? No, perché non sono Potter, chiedete a lui» lo interruppe Draco con un’occhiataccia, trattenendosi dall’alzare la voce perché non filtrasse dalla porta del Capo. Porta che, più che chiaramente, quel giorno non era Imperturbabile.

«D’accordo, d’accordo, scusa… che permaloso» borbottò mogiamente l’altro Auror, superando Draco.

«Oh, lo sai com’è fatto… e poi è fuori dall’ufficio di Robards, sarà in qualche guaio e starà aspettando una strigliata» commentò McLuhan, sparendo col collega dentro al labirinto di cubicoli.

«Fottuto mangiacarta» sibilò Draco, controllando i dintorni prima di avvicinare nuovamente l’orecchio alla porta.

«… e va bene, va bene! Fate come diavolo ritenete opportuno!» stava abbaiando Robards.

«Perfetto. Ci tengo a ricordarle che L desidera sapere di ogni ulteriore sviluppo, e che Sophie non deve-»

«Avere nessun sospetto-non sono stupido, Watari.»

Dopo qualche secondo, in cui la tensione ebbe tutto il tempo di filtrare attraverso la porta e irrigidire la schiena di Draco, Watari concluse: «Ci faremo risentire presto.»

Il rumore di fiamme si smorzò di colpo.

«… Fortunato me» brontolò cupamente Robards, prima che un acuto scricchiolare annunciasse che avesse preso posto alla sua scrivania.

«Malfoy! Ho i risultati!»

Draco si voltò lentamente verso Ron e la pergamena che stringeva in mano, il volto indecifrabile e la testa completamente altrove. Per quel che rimaneva del turno, non prestò al collega la benché minima attenzione.

 

Tornando al 5 gennaio 2004

«Qualcosa che non va, Malfoy?»

Draco alzò lentamente gli occhi su Robards, senza dargli nemmeno per sbaglio la soddisfazione di vederlo sobbalzare. «No, Capo» replicò atono, le sopracciglia bionde inarcate e il volto teso nella migliore delle sue espressioni da Aristocratico decaduto, come le definiva Hermione. Quando Hermione era gentile.

“Stramaledetto pezzo di snob” era la versione più irritata.

Sophie e Weasley piccola concordavano entrambe su un più colorito “Firebolt su per il c-”

«Allora lavora, il Ministero non ti paga per fissare il vuoto» lo rimbottò Robards, prima di proseguire verso il suo ufficio in un basso borbottio ininterrotto.

Quando la vecchia porta scricchiolante si fu richiusa alle sue spalle, il biondo smise di nascondere la smorfia di disprezzo che gli premeva sulle labbra sottili.

Non gli era sfuggita la nota di sospetto negli occhi di Robards, né il modo in cui si era accigliato. Quasi con preoccupazione.

Cosa sta combinando?

D’altronde, la più brava a leggere il volubile umore del Capo era sempre stata Sophie, l’unica idiota che potesse seriamente prendere quell’insopportabile criticone scorbutico di Robards come modello di riferimento.

La cosa più ridicola, però, non era nemmeno che Robards avesse effettivamente preso sotto la sua ala quello sgorbio di diciassettenne che aveva deciso di diventare Auror dopo il diploma.

No, l’ironia era che, da come stavano convergendo i fatti, sembrasse essere proprio Robards quello che tramava alle loro spalle, alle spalle di Sophie.

Draco schioccò la lingua e ruotò sulla sedia, tornando a fronteggiare la parete di cartongesso che chiudeva la sua scrivania. Davanti a lui, la solita foto.

Sospirò.

«Dannato sgorbio».

 

***

 

«Hai visto anche tu? Il plico…»

L stava per aprire bocca, quando Sophie glielo chiese.

La guardò con la coda dell’occhio, vagamente stranito che la ragazza avesse pressoché sussurrato, invece di lanciarsi in esclamazioni rumorose. L’ennesimo comportamento bizzarro della strega che, in quei giorni, era stata più silenziosa, discreta e cauta di quanto lo fosse stata da quando l’aveva conosciuta.

Accantonò quel pensiero momentaneamente, prima di scuotere il capo.

«Quale plico?»

«Quello che aveva prima di salire»

«Che cosa c’è?» chiese Matsuda, spostando lo sguardo dal detective al televisore: nelle immagini in bianco e nero di una videocamera di sicurezza, Raye Penber giaceva privo di vita sulla banchina di un treno.

L rimase in silenzio un attimo più del consueto, aspettandosi istintivamente che fosse Sophie a rispondere al suo posto. Dopo averla vista abbassare lo sguardo, persa in un tè che stava sorseggiando con scarso entusiasmo, capì però che sarebbe rimasta in silenzio. Anche stavolta.

Non che fosse rilevante, non in quel momento: la squadra si era procurata tutti i filmati di sicurezza che avessero immortalato la morte degli Auror e, malgrado fossero relativi a sole tre vittime, ora avevano decine di nastri da visionare. L era certo che, tra quelle dodici morti, una lo avrebbe condotto da Kira, una sola.

E infatti.

Dopo aver gettato un’occhiata di sbieco alla rossa, L chiese di riavvolgere la registrazione, spiegando quanto avesse catturato la sua attenzione: Raye Penber era entrato nella stazione di Shinjuko Ovest alle 15:11, alle 15:13 era salito sulla linea Yamanote, e alle 15:21 aveva ricevuto il file contenente le schede degli Auror presenti in Giappone. Solo un’ora e mezza più tardi era sceso sulla banchina su cui, pochi attimi dopo, sarebbe morto.

Giunti alla fine delle riprese, L capì cosa intendesse Sophie. «Sia nell’immagine dei cancelli, che in quella in cui sale a bordo, aveva con sé una specie di busta».

«Tra gli oggetti che aveva con sé non è stato registrato niente che possa somigliare a una busta… c’era solo un pc babbano, col file del MACUSA» confermò il Sovrintendente, dando  una rapida occhiata al rapporto della morte di Penber.

«Significa che l’ha lasciata sul treno» commentò L.

«Significa che la busta serviva a Kira» aggiunse Sophie, ancora una volta sottovoce.

Il detective incrociò il suo sguardo, ragionando: il file richiesto da Penber e gli altri, era stato spedito via gufo a solo quattro degli agenti, che lo avevano poi passato tramite il bizzarro mezzo elettronico. L’utilizzo di un file digitale, babbano, il fatto che lo stesso Penber e altri Auror si trovassero nel pieno di zone babbane, non faceva che rendere difficoltosa quell’indagine. Normalmente, un mago avrebbe utilizzato un gufo e avrebbe viaggiato smaterializzandosi, o via Metropolvere.

Chiaramente, Kira si era garantito che le sue vittime fossero ritrovate, e doveva aver manipolato anche il modo in cui si erano svolte le comunicazioni: non solo gli Auror erano morti in tempi diversi, ma l’ordine con cui il file aveva raggiunto gli agenti non combaciava con l’ordine delle morti.

Ma è qui l’errore.

A Kira servivano nomi e volti per uccidere, perciò doveva aver per forza avvicinato un unico agente, per poi confondere le acque manipolandone le azioni e, per esteso, quelle dei suoi colleghi. Perciò, quell’agente doveva essere tra i primi ad aver ricevuto il file, e Raye Penber era il secondo della lista.

Ciò significava che Penber doveva aver incontrato Kira prima di entrare nella stazione… e, forse, anche dopo.

L riportò gli occhi sulle immagini, studiando come il corpo di Raye fosse collassato verso l’entrata del treno: l’uomo era uscito, poi si era voltato nell’attimo in cui era crollato a terra, avvolto da un lampo di luce verde. Si era accorto di aver scordato la busta?

Il detective aggrottò lievemente le sopracciglia.

No, era molto più probabile che… Kira lo avesse chiamato.

… Infantile.

«Passatemi al setaccio tutti i video di ogni stazione della linea Yamanote relativi al 27».

Dubitava che Kira si fosse fatto cogliere in fallo dalle videocamere, era abbastanza intelligente da saperne sfruttare gli angoli ciechi alla perfezione, ma se aveva commesso un passo falso… avrebbero trovato il loro sospettato principale.

Poi, dieci minuti più tardi, arrivò la lettera.

 



[1] Per chi non lo conosca, cercate su google perché un’immagine vale più di mille parole ;)

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Capitolo 10
*** Solo una pedina ***


Capitolo 9

Solo una pedina

5 gennaio 2004

Sophie osservò L incupirsi mentre leggeva la lettera che Ukita, dal Ministero, aveva inviato loro: secondo l’agente, erano finalmente arrivate informazioni importanti.

«Watari, “Naomi Misora”» scandì il detective, e l’uomo si connetté rapidamente a un database che, la strega ne era sicura, doveva essere più consistente di quello dell’intera Confederazione Internazionale dei Maghi.

Gli occhi neri di L si spalancarono leggermente mentre scorreva con lo sguardo le informazioni trovate, e la rossa prese un altro sorso di tè.

In cuor suo, Sophie si rendeva conto di star osservando troppo e parlando troppo poco per essere sé stessa, ma il leggero disagio nei confronti dei nuovi agenti e l’arrivo di quegli incubi l’avevano scossa abbastanza da ignorare la cosa. Per un giorno, per quell’anniversario, si disse, poteva concedersi un po’ di silenzio.

Peccato che L non sembrasse dello stesso parere.

«Quando Raye Penber si è recato in Giappone, la sua fidanzata era con lui. Stavano nello stesso hotel» iniziò a spiegare, mentre la lettera nelle sue mani si consumava in un fuoco purpureo, «dal giorno successivo alla morte di Penber, se ne è persa ogni traccia».

In quel momento, Sophie si ricordò della foto che aveva raccolto da terra, in un pomeriggio di dicembre: la foto di Raye Penber e di una bellissima ragazza dai lunghi capelli neri, entrambi in costume, entrambi sorridenti e visibilmente felici mentre si stringevano davanti all’obbiettivo.

La rossa storse la bocca e prese un altro sorso di tè.

«Chiunque cadrebbe in disperazione per la morte del proprio fidanzato… non si sarà mica…»

«Suicidata?!» terminò Aizawa per Matsuda, lo sbigottimento scritto in volto, ma L respinse subito l’ipotesi, dando a intendere di aver già lavorato con lei.

Nel frattempo, Sophie rifletteva col naso affondato nella tazza di ceramica, fissando le foglie di tè sparse sul fondo: sapeva che L in rari, rarissimi casi, si avvaleva della collaborazione di maghi e streghe al servizio governativo- chi più di lei poteva saperlo? No, non era quello a farla meditare. Piuttosto, lo era il fatto che il ragazzo conoscesse abbastanza Naomi Misora da poter essere così certo circa la sua analisi caratteriale… e rimanere comunque impassibile davanti alla sua morte.

La strega si chiese distrattamente se sarebbe successo così anche a lei, se un giorno L avrebbe liquidato la notizia della sua dipartita con una serie di elucubrazioni su ciò che la sua morte avrebbe implicato nel caso di turno.

Si ritrovò a studiare il profilo del detective, ancora intento a parlare.

Quanto ci metterei a dimenticarti di me?

Affondandosi le unghie nei palmi delle mani, Sophie riportò testardamente l’attenzione alla sua tazza di tè.

«Ascoltatemi» concluse L, «indagheremo soltanto su coloro che sono stati pedinati da Raye Penber prima del 19 dicembre, il giorno in cui Kira ha iniziato i test sui carcerati… è un numero molto ristretto di persone.

«Tuttavia, se tra loro si nasconde Kira, non possiamo permetterci di effettuare normali interrogatori, sarebbe troppo pericoloso…»

Sophie lo ascoltò, quasi certa di dove volesse andare a parare: raccogliere prove, senza spaventare o aizzare Kira, utilizzare un approccio indiretto che li facesse arrivare con maggiore certezza al risultato.

Ergo, qualcosa di spiacevole, che agli agenti non sarebbe piaciuto per niente.

Soprattutto perché Sophie ricordava benissimo su chi stesse indagando il collega.

«Chi sono le due persone sulle quali indagava Penber?» chiese il Sovrintendente, teso, mentre Matsuda si affrettava a recuperare delle pergamene da un mobile vicino all’ingresso.

Le parole di L, pesanti come una sentenza, lo batterono sul tempo: «Il Direttore Generale Kitamura e il Sovrintendente Yagami, più i loro familiari... Vi chiedo di lasciarmi installare telecamere e microfoni nelle vostre case».

A quel punto protestarono, certo che protestarono, tutti insieme e vivamente, mentre Sophie si massaggiava con discrezione le tempie pulsanti. Devo tirarmi insieme, si disse stancamente, mentre ascoltava solo a metà una discussione inutile: L non avrebbe mai ammesso seriamente i suoi sospetti, e tantomeno avrebbe fatto marcia indietro su quel piano.

«E sia! Ti lascerò piazzare quelle microspie» sentenziò il Sovrintendente. Il suo volto era terreo, e gli occhi spalancati e ricolmi di preoccupazione, ma l’uomo parlò con la massima dignità. «Però… devi promettermi che non ometterai alcun punto, nemmeno il bagno!»

Sophie inarcò le sopracciglia, mentre il resto degli agenti scatenava un putiferio ancora più acceso, che fece alzare la voce persino al loro superiore. L, totalmente incapace di calmare la situazione con il suo fare apatico, si limitò a ringraziare l’uomo, aggiungendo: «Come misura di riguardo, saremo soltanto Yagami e io a occuparci dei suoi familiari…»

«O magari» intervenne Sophie, attirando lo sguardo sorpreso degli agenti, «i bagni li controllerò io.» Malgrado fosse evidente la vena di stanchezza con cui aveva parlato la strega, il suo tono sapeva poco di suggerimento e molto di affermazione.

Lo sguardo affilato di L su di lei era perfettamente percepibile, anche senza voltarsi a guardarlo. «Non credo che questa soluzione garantisca lo stesso livello di-»

«Credo» lo interruppe fermamente l’Auror, «dall’alto della mia esperienza, di saper dire se succede qualcosa di losco in bagno, Ryuzaki». Matsuda ridacchiò, beccandosi un’occhiataccia da Aizawa. Anche Sophie, però, aveva un sorrisetto di sfida disegnato sulle labbra.

«… Sì, immagino che tu ne sia in grado» capitolò il detective, e Sophie si dovette trattenere dal ringraziarlo con un’abbondante dose di sarcasmo. Non ne aveva le energie. Piuttosto, sorrise in direzione del Sovrintendente.

«Bene. Dopotutto mi sembra il minimo, data la sua disponibilità». Soichiro la guardò con occhi pieni di gratitudine e la rossa, per la prima volta da qualche giorno, si sentì un po’ meno un burattino senza vita.

Guardò quell’uomo, immobile in un angolo della stanza, i pugni serrati e il volto abbassato. Guardò i colleghi, che avevano ripreso a lavorare e parlare, ma sottovoce e scambiandosi sguardi carichi di tensione. Guardò L, in piedi davanti alla finestra, le mani affondate nelle tasche e lo sguardo lontano.

Guardò e guardò, ma non vide nessuna squadra.

Si morse un labbro, stringendosi nella coperta avvolta attorno alle spalle, poi si alzò.

Avrebbe solo voluto andare a dormire, avrebbe solo voluto essere sicura di poter chiudere gli occhi e fare un sonno senza sogni, da giorni questo era tutto quello che desiderava.

Però, in quel momento, si rese conto che c’era qualcosa di più in quella stanza oltre a una manciata di investigatori, diffidenti per natura e per lo più estranei. C’era più di una branca di disperati che stavano scommettendo il tutto per tutto. Poteva, perlomeno, esserci di più, per ognuno di loro, e anche per lei. Anche se non era a Londra.

«Signore, vorrei dirle che lei è un Auror di tutto rispetto, e che sono fiera di lavorare con lei» disse Sophie con sincerità, i capelli rossi che le piovevano in volto mentre si chinava davanti al Sovrintendente, in quella che sperò essere una buona imitazione dei saluti che aveva visto fare ai colleghi.

L’uomo, sorpreso, agitò le mani. «Oh, non è necessario ma... il sentimento è reciproco, signorina Clarke, e la ringrazio per quanto si è offerta di fare» le disse compito, piegando a sua volta il capo.

«Lei non mi deve assolutamente ringraziare, come ho detto, è il minimo, inoltre…» la ragazza tentennò. Con la coda dell’occhio, vide Aizawa spiarli in perfetto silenzio, mentre Matsuda parlava a macchinetta nelle orecchie di uno stoico Mogi.

Sospirò, abbassando per un attimo lo sguardo con aria colpevole. «Senta, già che ci siamo… le volevo parlare, riguardo tutta la faccenda dei pedinamenti, io… io mi rendo conto che non abbiate motivi per avere chissà quale fiducia in me, ma spero vivamente che possiate… che possiamo collaborare al meglio.»

Soichiro Yagami, nonostante la tensione, parve sciogliersi abbastanza da esibire un leggero sorriso. «Sophie, non posso negare di essere rimasto spiazzato dalla notizia, ma comprendo le scelte di Ryuzaki… soprattutto, lei stava solo facendo il suo lavoro.»

Sophie batté le palpebre un paio di volte. «Quindi anche gli altri…?» chiese, indicando gli altri agenti con un vago cenno del capo.

Il sorriso sul volto dell’uomo si accentuò. «Sono ragazzi molto appassionati, Sophie, e forse non sono abituati a lavorare con lei, ma non possono- non possiamo che nutrire stima per lei, è rimasta nonostante ciò che accaduto agli altri Auror, così lontano da casa per giunta…» L’uomo la guardò negli occhi, e Sophie vi lesse un sincero dispiacere… e una sincera gentilezza. «Nessun risentimento, ora siamo una squadra».

Squadra.

Quella parola le gonfiò il petto.

Dopotutto, lei aveva sempre lavorato in squadra, sapeva quanto fosse fondamentale e non per dividersi il lavoro, o scambiarsi sorrisi di circostanza sopra il tè. Merlino, se si fosse ridotto a quello, allora qualsiasi investigatore avrebbe lavorato in solitaria come L.

No, la squadra era molto più che ottimizzare i tempi: era discutere, ipotizzare, consigliarsi, anche arrabbiarsi, e persino distruggere uffici, talvolta. Soprattutto, era sostenersi, esserci gli uni per gli altri, gli uni dove non arrivavano gli altri.

E in quel caso, quello stramaledetto caso… stavano mettendo in gioco le loro vite ma, vedendo lo stato in cui era ridotto il Sovrintendente, non ci voleva molto a intuire che quell’investigazione avrebbe potuto chiedere loro molto più della vita.

Tutti loro avrebbero avuto un immenso bisogno di essere una squadra.

Un flebile sorriso fiorì sulle labbra della strega. «Allora mi chiami Sophie, Sovrintendente».

Lui, sebbene con leggera sorpresa, annuì.

La ragazza sorrise in modo più convinto, poi guardò il resto dei colleghi con aria pensosa:  Aizawa aveva smesso di fissarla, ma poteva ancora vedere quanto fosse accigliato mentre impilava faldoni; la tensione era ancora palpabile nell’aria, e gli agenti sarebbero sicuramente rimasti qualche ora per ricontrollare anche l’ultima serie di nastri.

Sophie curvò appena il capo di lato, e si sarebbe presa a calci se si fosse resa conto di quanto quel movimento fosse lo stesso che L faceva tanto spesso. Il sogghigno che le si disegnò in volto, però, era inequivocabilmente targato Sophie Winchester.

«… Ragazzi, vi ho mai raccontato di come ho fatto quasi divorare Draco Malfoy a una piovra gigante?» esclamò, avvicinandosi ai colleghi. Gli Auror si scambiarono sguardi straniti, e tutto nella stanza tacque per qualche secondo.

«… L’ex-Mangiamorte?!» chiese infine Matsuda, gli occhi accesi di una curiosità nemmeno troppo velata.

«Matsuda!»

«Ahem, i-il-l’Auror?» si corresse freneticamente l’agente, sotto lo sguardo di disapprovazione di Aizawa.

«Quello, in tutto il suo biondo e laccato splendore» confermò annuendo la rossa, mentre aiutava a riordinare le pile di documentazioni e nastri con pochi gesti della bacchetta.

«Ehm, no, direi di no…»

Il sogghigno di Sophie si allargò. «Bene.»

 

Dieci minuti più tardi, Watari stava servendo coppette di gelato mentre un attonito Sovrintendente guardava la sua squadra ridere di gusto: i tre agenti si erano raccolti attorno al tavolino per compilare richieste da spedire alla compagnia ferroviaria che gestiva la linea Yamanote. La loro attenzione, però, era rivolta all’allegra parlantina di Sophie.

Il clima della stanza si era fatto improvvisamente più leggero, la cupa tensione di prima quasi svanita. Il Sovrintendente alzò lo sguardo sul limitare della stanza, da dove L fissava la scena col capo inclinato di lato: sebbene avesse dimostrato più volte una mal sopportazione delle chiacchiere inutili, il detective non sembrava minimamente intenzionato a intervenire.

In tal caso, decise Soichiro, non sarebbe stato lui a farlo.

«Sovrintendente, questa la deve sentire!»

 

A Londra, seduto alla sua scrivania, Draco Malfoy imprecò per l’ennesimo starnuto.

 

***

8 gennaio 2004

L uscì dalla suite di Watari quando era ormai notte inoltrata.

Assieme al mago, aveva trascorso ore a incantare le videocamere e i microfoni da installare l’indomani: Watari amava gingillarsi con la tecnologia babbana, ed era stato lui stesso l’ideatore di una delicata magia in grado di interagirvi. L considerò distrattamente che i suoi collaboratori non sarebbero mai più stati zitti se si fossero resi conto di chi fosse davvero Watari.

In ogni caso, i dispositivi avrebbero trasmesso loro ogni dettaglio di casa Yagami e casa Kitamura, ben protetti dalla magia comune: ciò significava niente cortocircuiti, una difesa contro incantesimi rilevatori, e un paio di settimane di copertura.

Soddisfatto del lavoro svolto, camminò nella penombra del soggiorno con le mani in tasca, sentendosi ben più a suo agio nel buio silenzio di una stanza vuota che nell’ambiente concitato di quei giorni… un ambiente a cui, ne era fastidiosamente consapevole, si sarebbe dovuto abituare in fretta.

Del resto, non era stato poi così difficile abituarsi a Sophie.

Un fruscio improvviso raggiunse il fine orecchio del mago, che si voltò di scatto verso il divano. Inarcò un sopracciglio, gettando un’occhiata al costoso orologio appeso a una parete. Era tardi, davvero tardi, o almeno questo gli insegnavano i rapporti prolungati con esseri umani dotati di un ritmo sonno-veglia standard.

Si avvicinò sapendo esattamente chi avrebbe trovato: Sophie era seduta in mezzo a delle pergamene illeggibili, la schiena contro i piedi del divano. La strega, però, aveva il capo abbandonato sulle ginocchia, e una penna le era rotolata via dalle dita, sul tappeto cosparso di candele spente.

La fissò per qualche secondo, prima di schiarirsi la voce. «Sophie?»

«…Eh?» fu la risposta scocciata, brontolata nel dormiveglia. L, divertito, la chiamò nuovamente.

«Sophie?»

«S-sono sveglia!» farfugliò la giovane, svegliandosi in un sobbalzo. Si sfregò il volto con entrambe le mani, mentre le candele si riaccendevano con un guizzo. Gli occhi di Sophie sembrarono stranamente sbarrati, nervosi, ma solo per la durata di un secondo.

L guardò le pergamene che la attorniavano. «Non dovresti prendere appunti»

«Lo so, lo so, li faccio sparire…»

«Sophie, sono giorni che ti dico di bruciarli, non di farli sparire»

«Non brucerò i miei appunti! E anche se lo facessi, domani li riscriverei da capo… Senti, mi aiutano a concentrarmi meglio, te l’ho detto»

«Aiuterebbero anche Kira, se li trovasse. Per questo ho vietato alla squadra di prendere annotazioni cartacee»

«Per questo ho aspettato che andassero via, anche stanotte»

«Sophie…»

«Dai, decifrali, mi hai detto che li posso tenere se sono indecifrabili» gli disse la strega, porgendogli le pergamene. L si dovette trattenere dall’alzare gli occhi al cielo, perché quell’ostinazione era snervante solo quanto il fatto che gli avesse strappato quella sciocca scommessa. Lei sogghignò. «Scommetto che stavolta non ce la fai.»

Lui fece correre lo sguardo sulle scritte cifrate… che, effettivamente, non erano di lettura così immediata quanto le sere precedenti. Le scoccò un’occhiata di traverso e, se mai vi era stata, ogni traccia di leggerezza sparì dal suo volto.

Non sapeva perché ci avesse messo tanto a notarlo ma, nella povera luce delle candele, era impossibile non vedere quanto fossero profonde le occhiaie dell’Auror.

«Non stai dormendo» mormorò. Sophie fu presa in contropiede, sia da quelle parole, sia dal tono basso, privo della nota di disappunto, di sfida, di spiacevolezza che solitamente condiva i suoi commenti. Lo guardò con occhi rotondi, spalancati dalla sorpresa per un breve attimo, prima di ridere di un’allegria incerta.

«Beh, so che odi essere contraddetto, ma era esattamente quello che stavo facendo… Tra l’altro, scusami, giuro che ero sveglia fino a massimo venti minuti fa…» disse, chiudendo gli occhi mentre si stiracchiava.

L la guardò in silenzio, leggendo il mal di schiena dietro al movimento della strega, studiandone il pallore sotto le lentiggini, calcolando molto velocemente quanto potesse aver dormito in quegli ultimi giorni.

Giorni in cui l’aveva puntualmente trovata in cucina a guardare l’alba, e a lavorare febbrilmente fino a tarda notte.

Dedizione, aveva constatato, come del resto nelle prime settimane di indagini. Eccitazione, aveva considerato all’arrivo degli agenti. Ma quel… nervosismo, di poco prima?

L piegò un angolo della bocca verso il basso.

«Perché non vuoi dormire?»

Sophie portò gli occhi di scatto sui suoi. Stavolta però non si fece cogliere in fallo, limitandosi a inarcare un sopracciglio, l’ombra di un sorriso ancora presente sulle labbra secche.

«Pensavo fossi tu l’esperto di insonnia, Ryuzaki»

«La mia è una scelta organizzativa»

«Anche la mia»

«Allora ti stai organizzando male.»

Fu quella risposta secca a farle scivolare via ogni traccia di divertimento dal volto.

«Sei scontento del mio lavoro, Ryuzaki?» sbottò, alzandosi di botto. L la vide stringere i pugni e vacillare impercettibilmente.

«No» replicò con pacatezza, per nulla impressionato da quello scatto.

«Ti dà fastidio avere attorno gente anche di notte?»

Come?

«… No»

«Sei sicuro, L? Perché sappiamo fin dall’inizio che questa è una sistemazione strana e che non peserebbe a nessuno se dormissi- se alloggiassi in un’altra suite»

«Non ho alcun problema con la tua presenza qui»

«E allora cosa, L?! Non vedo proprio perché ti debba interessare-»

«Ryuzaki» la interruppe fermamente L, zittendola. «Ryuzaki».

Sophie lo guardò con la fronte corrucciata, il labbro inferiore stretto fra i denti e il petto che fremeva agitato sotto il maglione. Aprì bocca un paio di volte, e la richiuse altrettante.

«Bene. Giusto.» La rossa fece per girargli attorno e andarsene.

«Soph-»

«No, una cosa» aggiunse la strega, troncando sul nascere il suo flebile tentativo di fermarla e alzando il mento mentre gli parlava. «Non ti devo risposte su come e quanto decido di dormire, fintantoché non infici le mie capacità. Non mi devi risposte sul perché continui a far finta di non sapere che non siano affari tuoi. Ma una cosa me la puoi dire».

Sophie sembrò prendere fiato, sembrò cercare di calmarsi, mentre L faceva di tutto per sopprimere la bolla di frustrazione che gli stava crescendo nel petto: non importava come rigirasse le cose, la ragazza sembrava decisa a non finire sotto scacco, e lui non poteva quasi crederci che fosse lei a redarguire lui.

«Se avessi rifiutato…» la voce della ragazza era bassa, quasi timida, come se avesse esaurito tutta l’ostilità, «se avessi deciso di tornare a Londra, mi avresti davvero cancellato la memoria?»

Sophie, per quanto mostrasse chiari segnali di disagio in sua prossimità, e fosse tutto sommato una persona alquanto trasparente, aveva i nervi saldi. Non una sola volta dall’inizio delle indagini gli aveva dato modo di pensare che fosse immatura o impreparata ad affrontare un caso con una posta in gioco così alta, né gli aveva fatto rimpiangere di averla coinvolta in prima persona.

Al contrario, ogni volta che si aspettava di aver raggiunto il punto di rottura della ragazza, lei si limitava a sorridere e nascondere quali che fossero le sue vere emozioni, esercitando un controllo su sé stessa che non si aspettava da parte di una Auror ventenne di casata Grifondoro, cresciuta professionalmente alle calcagna di personaggi impulsivi ed eccentrici come Harry Potter, Ronald Weasley e Draco Malfoy. L’unica volta in cui gli era sembrato fosse prossima a perdere il controllo, era stato in occasione dell’intercettazione: di per sé, era rimasto piacevolmente sorpreso dal fatto che la strega non solo se ne fosse accorta, ma che avesse terminato diligentemente di lavorare, prima di fronteggiarlo. Anche allora, però, la sua ira sembrava essersi placata molto in fretta.

Un altro discorso era stato comunicarle dell’attacco che Kira aveva rivolto a lei e ai suoi colleghi: destabilizzato lui stesso da quanto successo, dalle vite perse sotto il suo comando, aveva momentaneamente faticato a rispondere alle esigenze emotive di Sophie. L’aveva spinta a mangiare qualcosa, l’aveva coinvolta nella pianificazione del caso sforzandosi di non lasciarla troppo all’oscuro, e aveva finto di non vedere come il piccolo gesto di Watari le avesse inumidito gli occhi.

Nonostante tutto, anche allora la strega si era ripresa rapidamente, e aveva mostrato tutta la professionalità e la praticità che L pretendeva dai suoi collaboratori, spesso invano peraltro.

In quel momento, però, Sophie gli si stava mostrando in un momento di… vulnerabilità. Non avrebbe saputo individuare il motivo, ma sotto l’ira della ragazza c’era qualcos’altro, c’era un dubbio; la vulnerabilità dai bordi affilati che vedeva non era quella delle false speranze, bensì quella di voler sapere, dell’essere pronta a sapere le sue reali intenzioni. Che lui fosse sincero o meno nella risposta.

Il giovane, infatti, ebbe l’impressione che Sophie avrebbe avuto una risposta vera, qualsiasi cosa lui le avesse detto.

Rifletté per qualche minuto, distogliendo lo sguardo dal suo.

Lo distolse perché guardarla negli occhi lo metteva in difficoltà… no, diminuiva le sue capacità di concentrazione. E perché forse aveva capito da quel comportamento più di quanto avrebbe voluto.

Lui non era una persona che preferiva non sapere, mai, ma aveva l’impressione che qualcosa sarebbe cambiato, in base alla sua risposta. Qualcosa che aveva a che fare con la linea su cui entrambi stavano tentennando dall’inizio delle indagini, una linea che avrebbe dovuto separare un rapporto puramente lavorativo da… da tutto il resto.

Da tutto quello che non dicevano.

Da tutto quello che entrambi volevano sapere, e quello che assolutamente preferivano ignorare.

«… No, non ti avrei cancellato la memoria.»

Sophie annuì lentamente, ma non lo pressò con ulteriori domande. Lo superò in pochi passi svelti, mentre le pergamene sfuggivano dalle mani del detective e la seguivano ubbidienti.

L non avrebbe saputo dire se le avesse mentito o meno.

 

«Ryuzaki?»

Il ragazzo si voltò verso Watari, fermo sulla soglia della sua stanza in un rispettabilissimo pigiama a righe celesti. «Vi ho sentiti alzare la voce…».

L gli diede le spalle, andandosi a sedere nella sua poltrona. «Puoi tornare a dormire, non è successo niente». Sentì lo sguardo scettico dell’uomo, che andò a sedersi sul divano di fronte a lui, le gambe accavallate con tutta la classe che un pigiama a righe celesti potesse permettere. Anzi, forse anche un tantino di più.

Il detective fece del suo meglio per ignorarlo. Per ben dieci minuti. Durante i quali l’uomo appellò in tutta tranquillità un carrello portavivande, iniziando a servire due tazze di tè.

«Hai qualcosa da dirmi, Watari?» si arrese infine il detective.

Il mago accennò una piccola risata sotto i baffi candidi. «Ryuzaki, non ho potuto fare a meno di sentire…»

«Di origliare» bofonchiò l’altro.

Watari rimase in silenzio per qualche secondo, dosando con attenzione il latte nella sua tazza. «Fin dall’inizio dell’operazione, mi sono premurato di affittare l’intero piano, oltre alle suite designate come Quartier Generale»

«E io ho già detto che non ho intenzione di farla dormire in un’altra suite» replicò L piccato, alzando gli occhi sul suo mentore. «La corrente sistemazione mi consente di controllare meglio i suoi movimenti»

«E di interessarti di quante ore dorma, a quanto pare» commentò serafico Watari, squadrandolo da sopra le lenti rettangolari.

«Un Auror che non dorme-»

«Non è mai stato di tuo interesse».

L rispose, ma in un mormorio, guardando corrucciato un altro punto della stanza. «Sembra che non voglia dormire. Devo scoprire il perché».

Watari ponderò con cura le sue parole, prendendo un sorso di tè. «Certo… per il caso»

«, sempre per il caso» rimarcò allora il ragazzo con un’occhiata gelida.

Il mago di fronte a lui sorseggiò serenamente l’infuso bollente, studiando L con uno sguardo poco impressionato. «Devo essere schietto, Ryuzaki… non posso fare a meno di notare la straordinaria affinità tra te e Sophie. Se non ti conoscessi bene, mi verrebbe da pensare che tu stia usando una volta di troppo la scusante del caso»

«Watari, penso che tu abbia già protratto a sufficienza queste chiacchiere inutili»

«E io penso che sia la sola persona a tenerti impegnato in una conversazione e a tenerti testa almeno quanto me»

«Sono obbligato a collaborare con lei, lo sai bene» replicò seccamente il detective, stringendo appena la presa sui braccioli della poltrona. «Così come ora sono obbligato a collaborare con il Sovrintendente Yagami e i suoi agenti. Inizierai a fare suggerimenti strampalati anche su di loro?»

Watari non si lasciò provocare, limitandosi a inarcare un sopracciglio. «Eppure, non credo che la presenza di Sophie ti sia mai pesata quanto vorresti. Mi sbaglio?»

L stavolta non replicò, e il maggiordomo lo incalzò senza esitare: «In effetti, tu parli di un’occasione per sapere di più, ma ne hai già avute parecchie di occasioni. Avresti potuto utilizzare metodi più invadenti con lei e invece non mi sembra tu sia giunto a niente»

«Se lo facessi, rischierei di farla fuggire da qui o di spingerla a provarci. Per quanto sia importante scoprire di più, ha la priorità il fatto che lei partecipi a queste indagini, quali che ne siano gli esiti»

«Quindi le avresti cancellato la memoria, se non fosse voluta rimanere? Lei pensa si tratti semplicemente di una precauzione contro le fughe di notizie, ma io e te sappiamo che l’alternativa non sarebbe stata lasciarla andare a casa.»

L non rispose subito, la bocca lievemente piegata verso il basso e lo sguardo fisso e altero.

«Perché tanta esitazione, Ryuzaki?» chiese allora il maggiordomo, cogliendo sapientemente ogni silenzio ed espressione del ragazzo che aveva cresciuto. «Che tu sia effettivamente dibattuto su di lei?»

«Lei è solo una pedina!».

Watari non rispose. Rimase a fissare il suo ragazzo attraverso le strette lenti degli occhiali, le sopracciglia bianche inarcate. Lasciò che le parole appena dette da L si espandessero nella stanza, che il suo tono di voce secco e stranamente alto penetrasse nelle sue stesse orecchie.

«Certamente. Solo, non farti cogliere a dire cose del genere dalla signorina Sophie… credo che i risultati sarebbero spiacevoli»

«Ritengo che Sophie sarà in grado di-»

«Mi riferivo a te, Ryuzaki» lo informò con un sorrisetto ironico l’uomo, prima di alzarsi e rispedire il servizio di porcellana in cucina con un guizzo della bacchetta.

La tazza di L giaceva ancora sul tavolino, intatta.

 

Sophie si svegliò di scatto, terrorizzata dall’essersi nuovamente appisolata per qualche momento. Si premette i palmi delle mani sugli occhi, cercando di scacciare via il bruciore.

Doveva dormire, sapeva di dover dormire, e che prima o poi la stanchezza accumulata avrebbe davvero intralciato il suo lavoro. La paura però non glielo consentiva: sebbene fosse ormai usa a quegli incubi, mai erano stati tanto vividi, violenti, e aveva l’impressione che peggiorassero ogni notte. L’ansia che diventassero davvero ingestibili non faceva che alimentarli.

Era evidente che negli anni precedenti avesse sottovalutato quello strazio, dando per scontato che sarebbero andati a sparire da soli, col tempo. Non aveva previsto, invece, che il suo quieto vivere, l’assenza di situazioni così tese e delicate come lo era il caso Kira, la distrazione e il conforto fornitole dai suoi amici, fossero in realtà stati per anni la sua salvezza. Improvvisamente, si ritrovò a rimpiangere le nottate passate alla Tana, o nella stanza degli ospiti del Malfoy Manor, o parlando e bevendo fino a tarda notte in qualche pub londinese.

Si ritrovò a rimpiangere persino di non aver mai ascoltato i saltuari inviti di Ginny ed Hermione a parlare con un Guaritore, così come non aveva mai veramente considerato di chiedere consiglio a Madama Chips per un qualche sonnifero magico. A malapena, durante un anno particolarmente stressante, si era azzardata ad andare in una Farmacia a chiedere qualche erba per un sonno profondo, timorosa di diventarne dipendente.

Ora, distante da tutto ciò che conosceva e le era familiare, non aveva niente a cui appigliarsi. Non aveva nemmeno pensato a prevenire quel problema, anzi non lo aveva riconosciuto come tale, perché non aveva mai capito quanto i suoi amici la proteggessero dal fronteggiare da sola quei mostri del passato.

Strinse la coperta al petto, desiderando scomparire, desiderando di poter parlare con qualcuno, lei che detestava parlare dei suoi problemi anche con i suoi amici più cari.

Quale lusso aveva avuto, e quale lusso ora le mancava totalmente.

La fiducia.

“… No, non ti avrei cancellato la memoria”.

Tirò su col naso, poi si costrinse a poggiare nuovamente la testa sul cuscino.

Non le rimaneva altro che affrontare i suoi incubi.

 


LUMOS

Ciao bella gentaglia, scusate il ritardo e il capitolo un po’ pesantino, fatemi sapere che ne pensate

Grazie mille come sempre per essere qui, per recensire, seguire, ricordare e preferire, davvero grazie mille :3

Un abbraccioneee💙

NOX

 

 

 

 

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Capitolo 11
*** Detta così ***


Capitolo 10

Detta così

8 gennaio 2004

Sophie si disse che quella di L era chiaramente una vendetta.

Indiretta, ovviamente, il che avrebbe trasformato ogni sua accusa in un’insinuazione, ma nondimeno una vendetta.

La sottile abilità del detective stava nel darle esattamente quello che voleva, anzi, di più: oltre a permetterle di garantire la privacy di signora e signorina Yagami (le riprese del bagno sarebbero state trasmesse su uno schermo che solo lei poteva vedere), L l’aveva invitata a visionare tutte le riprese di casa Yagami. Tutte. In diretta. Ventiquattr’ore su ventiquattro. Per una settimana. Non qualcosa che Sophie potesse nettamente segnalare come scorretto ma, alle sei del mattino, con le occhiaie che ormai toccavano terra e gli occhi arrossati, era una dichiarazione di guerra.

Tanto più perché, era certa che L lo sapesse, si sarebbe mangiata le mani piuttosto che fare un passo indietro.

Quella mattina, quindi, la rossa si rassegnò a sequestrare l’intera boccia di caffè dalla cucina, prima di raggiungere il salotto della nuova suite. Si bloccò sulla soglia della stanza, i piedi nudi affondati nella moquette chiara: ad attenderla davanti a una pericolante parete di schermi, casse e vari aggeggi babbani, la aspettavano L, il Sovrintendente, e una terza poltroncina rivestita di raso verde, esattamente in mezzo ai due.

Sospirò pesantemente, prima di scivolare nel suo posto.

«Buongiorno, Sophie»

«Sovrintendente» replicò con un pallido sorriso. Un sorriso rapidamente cancellato dalla tazza e piattino che le levitarono sotto il naso: con uno sguardo fulminante, spinse il set di porcellana bianca verso L e strinse gelosamente la brocca di caffè al petto.

Per un brevissimo attimo parve quasi che il ragazzo fosse sorpreso, poi la tazza levitò a terra e gli schermi di fronte ai tre presero vita.

Sophie, con un misto senso di vittoria e disagio, iniziò a dar fondo alla sua personale scorta di caffè, sforzandosi ardentemente di non sbirciare il detective.

Presumibilmente per la stanchezza, non le sovvenne che quel caffè lo avesse con tutta probabilità preparato L stesso.

 

Alle dieci, vigeva calma piatta: entrambi i figli del Sovrintendente erano a scuola, mentre la moglie aveva uno stretto programma di commissioni da sbrigare. Ergo, Sophie lottava per non  appisolarsi.

Non tanto per professionalità, ammise tra sé e sé, ma per non darla vinta al detective di cui sentiva il penetrante sguardo sulla pelle. Si era quindi rassegnata a ingollare tutto il caffè possibile.

L e la sua tazza vuota, ovviamente, non avevano tardato a notarlo.

«Ingerire grandi quantità di caffè a stomaco vuoto incide negativamente sull’idratazione» commentò placidamente, fissando gli schermi come se non si stesse rivolgendo a lei.

La rossa batté le palpebre, immobile.

Non ho sentito bene, si disse, cercando lo sguardo del Sovrintendente che, però, si strinse nelle spalle. Sbirciò allora in direzione del detective, che non sembrava intenzionato a voltarsi.

Forse se l’era immaginato.

«Inoltre, può rendere maggiormente soggetti a lesioni allo stomaco». La strega strinse le labbra, innervosita. Si ricordò istintivamente della bacchetta che le teneva annodati i capelli in testa.

Niente fatture, Sophie.

«… Bruciori di stomaco, gastrite, reflusso…»

Niente fatture, niente fatture, nientefatture nientefatture nientefatture.

«… ulcera…»

Me la fai venire te, l’ulcera.

«… questo oltre ai rischi legati-»

«E va bene! Vado a farmi un panino!» sbottò Sophie, uscendo infuriata dalla stanza.

 

A mezzogiorno e un quarto, non era ancora successo nulla. Sophie stava attentamente passando in rassegna tutti i modi in cui avrebbe potuto somministrare del pus di Bubotubero ad L senza che se ne accorgesse. Lo faceva più per passare il tempo che perché la vedesse come azione realizzabile: se proprio avesse deciso di finire in prigione, c’erano metodi meno tortuosi.

Tipo lo strangolamento.

Poi, finalmente, Light Yagami arrivò a casa: il primogenito del Sovrintendente era un ragazzo alto, dal volto carismatico e capelli castani ben pettinati, con qualche sottile ciocca che gli ricadeva verso gli occhi affilati.

Tutto sommato, un ragazzo che a Hogwarts avrebbe certamente fatto la sua incetta di conquiste.

Così su due piedi, non per forza la faccia di un serial killer.

L’uomo che aveva piazzato le telecamere aveva fatto rapporto riguardo a un piccolo incantesimo di controllo sulla porta. Sophie però, dall’alto dei suoi anni a Hogwarts, non era molto impressionata: in una scuola dove si potevano imparare incantesimi per aprire le serrature già a undici anni, fatture e maledizioni erano il minimo sindacale che si potesse trovare a guardia degli effetti personali degli studenti. Per esempio, era quasi certa che una Corvonero del suo anno avesse addestrato il proprio rospo ad aggredire chi si avvicinasse al suo baule.

«In effetti mi chiedo se non nasconda qualcosa, per arrivare a tanto» considerò teso il signor Yagami, scrutando gli schermi con la fronte aggrottata.

Sophie stava per aprire bocca, ma L la precedette: «È un ragazzo di diciassette anni… non c’è niente di cui stupirsi. Anch’io lo facevo, senza un motivo preciso».

La strega non poté trattenere uno sbuffo incredulo.

Questa è bella.

Si ritrovò a voltarsi verso il detective, un’espressione scettica e divertita in volto, salvo poi trovarlo già a fissarla di rimando con un sopracciglio inarcato.

Sophie si bloccò per un istante, poi gli scoccò un’occhiataccia e tornò a guardare gli schermi.

 

Alle tre e mezza, il pulito e composto Light Yagami stava sfogliando una rivista porno.

Sophie storse il naso.

Non tanto per la rivista in sé: disteso placidamente a pancia in giù sul letto, il mento puntellato elegantemente su una mano e la flemma di chi stia sfogliando un noioso manuale su una delle tante Guerre dei Goblin, Light Yagami non rientrava esattamente nello schema dell’adolescente in preda agli ormoni.

E lei lo era stata fino a poco tempo prima, un’adolescente in preda agli ormoni.

Ora scricchiolo come un albero se sto seduta per troppo tempo nello stesso modo, pensò imbronciata, tendendo una mano dietro la schiena per massaggiare un punto dolorante.

«Un ragazzo così diligente che compra quel genere di riviste… Sophie, io mi scuso profondamente per il comportamento di mio figlio…» disse desolato e spiazzato il Sovrintendente. La giovane batté le palpebre un paio di volte, risvegliata dal suo torpore.

«Che- no, Sovrintendente si figuri! Non sono minimamente offesa, non si preoccupi» lo tranquillizzò freneticamente, raddrizzandosi nella poltroncina con un sorriso rassicurante. «Suo figlio sarà anche uno studente modello, ma è pur sempre un diciassettenne… quello non è strano» aggiunse, mordendosi la lingua un attimo più tardi.

«… Quello?» chiese confuso l’uomo.

Godric, Sophie, chiudila ogni tanto la boccaccia.

«Ehm…» Suo malgrado, la strega si ritrovò a cercare lo sguardo di L con la coda dell’occhio, incerta sul da farsi. Il detective dal presunto super udito, però, pareva totalmente ignaro della situazione.

Infame.

Sophie sospirò e, tornando a guardare il preoccupato volto del Sovrintendente, decise di essere il più sincera possibile… senza procurargli un ulteriore carico di stress, magari. Per quello bastava L.

«Vede, Sovrintendente, è… il tempismo, capisce? La velocità con cui la piccola anomalia della porta controllata è stata giustificata– anomalia che, ci tengo a ribadire anch’io, è totalmente legittima» la strega si passò una mano fra i capelli, frustrata dal bisogno di non scaricare un peso troppo gravoso sull’uomo seduto accanto a lei.

«Che cosa intendete? Che Light si è accorto delle videocamere?»

«No, non esattamente…» rispose incerta la strega.

A quel punto, L si schiarì la voce con impazienza.

Sophie si voltò repentinamente per guardarlo con ostilità ma lui, totalmente indifferente, si limitò a incarcare le sopracciglia. La ragazza alzò gli occhi al cielo.

«E va bene… il fatto che Light sia consapevole di essere controllato non è dovuto, anche se potrebbe esserci sfuggito qualche incantesimo di sorveglianza» spiegò lentamente, riaccomodandosi nella poltrona per guardare in faccia il Sovrintendente. «Il punto è che questo è lo scenario perfetto per occhi indiscreti e, per esperienza, le dico che pedinando la gente capitano di rado situazioni così… trasparenti»

«Non sospetterà davvero di mio figlio, Sophie?»

Lei scosse il capo con decisione, e una leggera risata. «Signore, io valuto solo ciò che vedo, è oggettivamente presto per farsi un’idea chiara… d’altra parte, tappezzarle la casa di microspie non è un passatempo per noi più di quanto lo sia per lei».

Soichiro rifletté per qualche secondo, e lei si morse un labbro. «Se sono stata troppo schietta…»

«Tutt’altro, grazie per essere sincera con me, Sophie… la sua analisi è… del tutto condivisibile» le disse l’uomo, sebbene con un sorriso un po’ forzato.

Almeno uno di noi è collaborativo, si disse la rossa, sistemandosi più comodamente nella seduta per alleviare i dolori alla schiena. O, almeno, cambiarne la posizione.

 

Alle sette e venti, la famiglia Yagami stava cenando.

Il Sovrintendente e Sophie stavano fissando la scena in silenzio, entrambi troppo nervosi e cupi per mangiare. L stava rapidamente decimando una piccola torta panna e fragole.

La rossa, affondata a braccia conserte nella poltroncina che ormai detestava, si trovò a rimuginare su quanto accogliente fosse la scena davanti ai suoi occhi: Sachiko Yagami stava chiedendo ai figli dei rispettivi impegni scolastici, servendo loro la cena preparata con cura. Entrambi avevano rapidamente liquidato la questione, anche se evidentemente per motivi diversi, dati i rapporti che la Mahōtokoro aveva mandato loro. Di sottofondo, la radio trasmetteva la hit di un giovane cantante giapponese, provocando un battibecco tra i due fratelli che fece sorridere la strega.

Con la coda dell’occhio, Sophie colse l’espressione colma d’affetto del Sovrintendente, e si sentì in pena per lui: avrebbe solo voluto vederlo seduto a quella tavola, a godersi il calore e la vivacità della sua famiglia, invece che a trascorrere quelle sfibranti ore in attesa del peggio.

«Aizawa, a casa Kitamura la radio è accesa?» Sophie si accorse in quel momento che L, recatosi a un’altra estremità del salotto, aveva acceso il camino e gettato della Polvere Volante nelle fiamme, divenute smeraldine.

La voce dell’agente replicò affermativamente, e il detective spense immediatamente il fuoco per ordinare a Watari di procedere.

Pochi secondi più tardi, la voce di Hideki Ryuga s’interruppe, per la disperazione di Sayu Yagami. «Interrompiamo le trasmissioni per un comunicato speciale: per contrastare Kira, il Wizengamot ha deliberato l’arrivo in Giappone di oltre quattrocento Cacciatori di Maghi Oscuri».

Sophie sbuffò, insofferente a quella trovata totalmente esagerata. Era praticamente impossibile che non mangiassero la foglia… certo, L era sempre pronto a osservare i risultati dei suoi piccoli test, però…

«Che stupido il Wizengamot». La strega batté le palpebre, rivolgendo la sua attenzione a Light Yagami. «Che senso ha fare un annuncio del genere? Se li inviano dovrebbero farlo in incognito, in modo che possano indagare in tutta tranquillità, no?»

Sophie rivolse lo sguardo a L: rimasto accovacciato per buona parte della giornata con la testa incassata tra le spalle e il mento posato sulle braccia conserte, ora il detective aveva un sorrisetto a tirargli le labbra, mentre si mordeva pensosamente la punta di un pollice.

«È sveglio suo figlio» commentò infine, una scintilla di divertimento negli occhi grigi.

«Eh?» fece il Sovrintendente, passando lo sguardo dal ragazzo a Sophie. «Beh, direi di sì…»

La rossa cercò di non tradire nessuna emozione sul volto già imbronciato, limitandosi ad accavallare le gambe mentre rifletteva. Quando L aveva annunciato di voler installare videocamere e microfoni, aveva addotto solo un misero cinque percento di possibilità che uno dei Yagami o uno dei Kitamura fosse Kira.

Sophie aveva alzato gli occhi al cielo. In ogni caso, non aveva senso far notare al resto della squadra che L stesse probabilmente mentendo.

Allo stesso modo, non aveva il cuore di far capire a Soichiro che, se Light avesse attirato positivamente l’attenzione di L, non avrebbe fatto che aumentare i sospetti che potevano gravare sulla sua testa.

 

Alle undici, Sophie era praticamente rannicchiata su un fianco, il capo posato su un bracciolo e le gambe piegate sulla seduta della poltrona. Per una volta, non sarebbe morto nessuno se fosse stata lei quella seduta peggio della stanza.

I suoi occhi ambrati erano fissi su Light Yagami, impegnato a studiare da più di tre ore con una costanza che avrebbe fatto applaudire Hermione. Mentre ricordava le lunghe serate passate a studiare con lei in biblioteca, le palpebre di Sophie calarono per un brevissimo attimo.

«Ryuzaki…»

La strega spalancò gli occhi di botto, senza avere il coraggio di guardare in direzione di L. Caffè, ho bisogno di così tanto caffè.

«Che c’è, Watari?»

Mentre Sophie si alzava per stiracchiarsi e procurarsi del caffè, Watari portò notizie di nuovi decessi a opera di Kira: l’identità dei criminali era stata diffusa su “Owl’s Times”, un quotidiano serale giapponese che era stato letto dalla moglie e dalla figlia del direttore Kitamura. La famiglia Yagami sembrava invece essere nuovamente fuori da ogni accusa, poiché l’unica copia ricevuta giaceva, ancora impacchettata, sul davanzale della finestra.

Ahia, si disse la rossa, avvicinandosi al tavolo su cui Watari aveva lasciato delle caraffe bollenti.

«Allora la mia famiglia è innocente!» esclamò Soichiro Yagami, sollevato.

Il detective in cui riponeva le sue speranze esitò un momento, prima di rispondere.

«Vediamo… oggi Kira ha ucciso due persone che avevano commesso crimini molto lievi, nell’arco di un’ora dopo la pubblicazione del Times… e anche se oggi è solo il primo giorno che abbiamo piazzato le telecamere, in casa Yagami c’era un’atmosfera tanto innocente da passare difficilmente inosservata… Sophie?»

La strega, intenta a correggersi una generosa dose di caffè con del latte freddo, sussultò con una smorfia. Naturalmente doveva coinvolgerla.

Si voltò lentamente, la caraffa di latte e il caffè ancora in mano: il Sovrintendente la guardava con aria speranzosa, e lei si affrettò a posare il latte per stringere la tazza fra le dita fredde. «Beh, a costo di essere ripetitiva, è solo il primo giorno…» disse esitante, cercando le parole giuste per non sbilanciarsi troppo. «È tutto molto… tranquillo».

Troppo.

Sophie decise di ignorare stoicamente lo sguardo annoiato del detective su di lei.

Yagami invece pareva ancora più incredulo e frustrato, troppo a modo per protestare ulteriormente, ma troppo di parte per riuscire ad accettare fino in fondo quel discorso. Sophie, seppure dispiaciuta per lui, continuava però a pensare che troppi particolari non quadrassero.

Se Light fosse davvero Kira, lo staremmo concretamente mettendo alle strette. Basta solo vedere se e come reagirà.

 

***

 

10 gennaio 2004

Nei giorni successivi, Sophie non ebbe alcuno scontro col detective. Beh, non aveva nemmeno avuto conversazioni vere e proprie, ma del resto fissare degli schermi in ogni momento di veglia non è che incoraggiasse le chiacchiere. Tra mal di schiena, occhi brucianti e un odio cocente per le poltroncine di raso verde, Sophie non aveva voglia nemmeno di parlare al suo gufo.

Inoltre, lo riteneva un merito: se fino a un paio di settimane prima aveva creduto di essere pessima nell’arte del mettere le giuste distanze, ora poteva dirsi pienamente soddisfatta di quella ritrovata capacità.

Ginny, se ne rendeva conto, le avrebbe detto che l’unica arte di cui era capace era quella di ignorare ciò che stava davanti al suo naso, ma Ginny non era lì per rovinarle la giornata con le sue prediche.

Che poi, se il vero intento della strega fosse stato di ignorare o fuggire L, di sicuro non si sarebbe ritrovata di fronte a lui, a proporgli quello che gli stava proponendo.

Anzi, Sophie riteneva di starsela cavando alla grande, date le circostanze.

Draco le avrebbe detto di non travisare la sua stessa faccia da schiaffi per “starsela cavando alla grande”, ma neanche Draco era lì per ridimensionare la sua visione delle cose.

Buon per lei, si disse, mentre aspettava in silenzio che L si degnasse di guardarla, se non proprio di darle una risposta. Lui, però, continuava a studiare una Gelatina Tuttigusti+1 color salvia come se vi fosse inscritto il destino dell’umanità. In Azteko.

Lei aspettò, in piedi, come una cretina, sapendo che richiamare la sua attenzione sarebbe voluto dire dargliela vinta.

Sophie non era dell’umore per dargliela vinta.

Così attese che quell’insopportabile… che L scartasse con tutta calma la gelatina, aggiungendola a un piccolo gruppo di sue sfortunate compagne, per poi prenderne una chiaramente all’arancia e mangiarla senza troppe esitazioni. Sapere che il detective si dilettasse nel selezionare Gelatine Tuttigusti non la sorprendeva neanche troppo, ma avrebbe preferito in cuor suo che si beccasse una gelatina al cerume, o al vomito, o allo sterco di drago.

Invece no, L capiva i gusti delle gelatine.

Salazar maledetto.

«Quindi…» disse infine il ragazzo, facendo sparire il cipiglio minaccioso dal volto della strega un attimo prima che alzasse effettivamente gli occhi su di lei. «Tu vorresti che i Salvatori del Mondo Magico e l’ex-Mangiamorte più famoso d’Inghilterra, appena dopo Severus Piton, si uniscano alle indagini su un serial killer di criminali che agisce conoscendo il nome e il volto delle vittime. Questo mi stai dicendo.»

Sophie non poté trattenersi dal piegare un angolo della bocca verso il basso, leggermente in imbarazzo: certo che, detta così, senza tutte le molte premesse che aveva fatto da mezz’ora a quella parte… ok, sì, sembrava un’idiozia bella e buona.

Tutt’altro che disposta a retrocedere, però, l’Auror si limitò a sollevare il mento con aria di sfida. «Esattamente. Trovo ridicolo privarci di risorse preziose dopo essere rimasti in neanche una decina di persone a lavorare su un’indagine di tale portata»

«Non hai preso in considerazione il fatto che nasconda altre squadre di investigatori?» Il tono di L era pacato, sì, ma la rossa non poté non leggervi una certa nota di alterigia che le faceva ribollire il sangue nelle vene.

«Hai altre squadre?» chiese seccamente, senza nemmeno nascondere il profondo respiro che aveva preso per non urlare. Lo fissò dritto negli occhi, sfidando il detective a proseguire con quelle idiozie confezionate con l'esclusivo scopo di farla esitare.

Lui non rispose, né variò l’espressione annoiata e vagamente scettica che ormai le riservava dalla loro discussione.

Soddisfatta del suo silenzio, la strega riprese a parlare: «Come ti ho già detto, se anche Kira venisse a sapere della loro collaborazione non si azzarderebbe mai a mettersi contro i Salvatori del Mondo Magico, non quando la sua posizione è ancora così debole» si sfregò gli occhi doloranti per un breve secondo, fregandosene di cosa potesse pensarne L. «Non sto parlando di un paio di dilettanti con cui tamponare il centralino telefonico, ma di Auror perfettamente formati e capaci di muoversi senza destare sospetti.

«Inoltre, la loro presenza a Londra in questo momento potrebbe solo suscitare problemi… la loro assenza, d’altra parte, potrebbe significare tutto o niente, lasciare ampio spazio d’interpretazione sia per i sostenitori di Kira che per i suoi oppositori.»

Sophie riaprì gli occhi su di L e per un attimo colse nuovamente l’espressione con cui l’aveva guardata quella sera, quella perplessità, quella… preoccupazione.

“Non dormi.”

Sospirò.

«Senti, pensaci, ok? Sei il capo delle indagini, l’ultima chiamata è la tua… vorrei solo che tenessi in considerazione questa possibilità».

L era tornato al suo tavolino di dolciumi per dissotterrare teiera e tazza, e la rossa fu grata di non avere più quegli occhi penetranti addosso.

Prendendolo come un congedo, fece un cenno col capo e girò sui tacchi.

«… La terrò in considerazione».

Sophie esitò solo per un attimo, poi tornò nella sua stanza.

Per le poche ore che dormì quella notte, prima che l’arrivo del Sovrintendente e un leggero bussare alla porta annunciassero l’inizio di una nuova giornata, i suoi incubi furono più nebulosi, imprecisi… distratti.

 

***

 

12 gennaio 2004

Quel giorno, L aveva dichiarato sospeso il controllo sulle famiglie Yagami e Kitamura, ribadendo quel ridicolo cinque percento di possibilità che fossero colpevoli. Mentre il resto della squadra iniziava ad arrabattarsi per capire come procedere, discutendo la plausibilità di ogni opzione con le barbe sfatte e i capelli spettinati, Sophie aveva tenuto gli occhi fissi sul detective, chiaramente perso in qualche angolo della sua mente.

Era ovvio che qualsiasi approccio diretto con Kira sarebbe stato superfluo e rischioso, che dovessero avere qualcosa di davvero concreto per arrivare a un interrogatorio. Per questo, dubitava che le loro indagini si fermassero così, nel nulla, che L non avesse davvero altre idee: lui era sempre dieci passi avanti agli eventi correnti.

Sempre a giocare a scacchi.

Perciò, l’unica cosa che le restava da fare era riflettere, capire, percorrere quei passi. Non ci mise poi troppo, perché non era una delle Auror migliori del Ministero britannico per niente.

Quando i giapponesi si furono congedati, i volti stanchi coperti di barba non fatta e i vestiti impossibilmente sgualciti, lei non scappò in camera come era solita fare in quei giorni, ma andò dritta da L.

«Ryuzaki?» lo chiamò, dopo essersi assicurata che fossero soli nel salotto poco illuminato.

«Mh?» fece lui, senza nemmeno alzare gli occhi sulla strega. Non aveva in grembo pergamene o computer, ma nonostante ciò sembrava essere ancora assorto nei suoi pensieri.

«Fai avvicinare me a Light Yagami»

Improvvisamente, Sophie aveva tutta la sua attenzione.

 

 


LUMOS

Stavo quasi per non pubblicare ma mi sono resa conto che c'è UN SACCO di roba che non vedo l'ora che leggiate e commentiate e che spero vi prenda bene quanto ha preso bene me scrivendola, QUINDI devo darmi una mossa. E cercare di non morire mentre preparo tipo boh una decina di esami

Ovunque siate, un abbraccione💙

 

NOX

 

 

 

 

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Capitolo 12
*** Sulla difensiva ***


Ciao bellissim*,

Spero possiate perdonarmi l’assenza, e di trovarvi pronti per il capitolo di settimana prossima ;3 (giuro è già pronto non odiatemi)

Riassunto delle puntate precedenti: L e Sophie discutono perché L è un invadente e preoccupato maniaco del controllo, e perché Sophie piuttosto che chiedere una mano si taglierebbe entrambe le sue. La videosorveglianza di casa Yagami è lenta come un turno in un cinema vuoto (trust me on this), così L  “scagiona” le famiglie Yagami e Kitamura. Infine, a Londra Neville è impegnato (e stressato) in una missione top-secret, Draco origlia anche l’impossibile, Robards non la racconta giusta.

Buona lettura babies <3

 

Capitolo 11

Sulla difensiva

12 gennaio 2004

Neville Paciock non era un fan della birra, non lo era mai stato.

Non a sedici anni, quando a Natale suo zio lo aveva costretto a un lungo interrogatorio sulla sua (inesistente) ragazza e l’unica via di fuga era il boccale di birra che continuava a riempirsi. Quando aveva visto Neville correre in bagno con una mano sulla bocca e il viso pallido, sua nonna Augusta aveva iniziato a strillare come un’aquila e a rifilare scappellotti al figlio.

Non lo era nemmeno a diciannove anni, quando assieme a un gruppo scelto di ex-compagni di classe aveva festeggiato il fidanzamento di Luna Lovegood e Rolf Scamander. Luna aveva offerto a tutti quello che assicurava essere un rarissimo filtro di antica fattura norrena, trovato in un mercatino norvegese. Neville non sapeva nulla di filtri magici norreni, ma sapeva che quella roba sembrava proprio birra: si era svegliato con le tempie pulsanti e un saporaccio in bocca che era sicuro lo avrebbe fatto vomitare. Di nuovo.

Non lo era decisamente quando, a ventun anni, si era lasciato trascinare dall’entusiasmo di Sophie e Ron per aver risolto il suo primo caso: il pub che avevano scoperto giusto a un paio di isolati dal Ministero era ghermito di colleghi festosi, e Sophie aveva strillato a tutti di allinearsi al bancone per una gara a chi beveva più in fretta. Neville non aveva vomitato, però Harry aveva dovuto svegliarlo dopo che si era addormentato su un tavolino, per suggerirgli di tornare a casa. Possibilmente a piedi, aveva aggiunto. Il mago aveva annuito, e sarebbe andato tutto bene se non avesse incrociato Hannah Abbott sulla via del ritorno. Ecco, allora aveva vomitato.

Da quella volta, Neville si era ripromesso di mantenere le debita distanza da quella stramaledetta bevanda.

Per questo quando le chiese una bionda media, Hannah sbarrò gli occhi e lasciò perdere il drink che stava preparando. Le bottiglie colorate rimasero sospese a mezz’aria, ancora intente a preparare un cocktail dai toni violetti mentre una nube di zucchero filato si sfilava da una scatola di plastica e correva a ornare l’orlo del bicchiere da Martini.

In fondo al bancone del Tre Manici di Scopa, Neville era seduto al solito sgabello dove aspettava che Hannah finisse il turno, e lei si sporse per prendere le mani del ragazzo tra le sue. «Neville, stai… va tutto bene?».

Il mago le offrì un sorriso tirato, scorrendo i pollici sul dorso delle mani fredde e paffute in modo rassicurante. «Non ti preoccupare, sono solo un po’ stanco»

Lei aggrottò le sopracciglia bionde. «Beh, ma… birra

Neville replicò con una risata spenta, sfilando una mano dalle sue per sfregarsi la nuca. «Beccato… sono, ecco, un po’ stressato per il lavoro».

Hannah, pensierosa, si scostò lentamente dal bancone per spillare la birra che le aveva chiesto l’Auror: avrebbe potuto insistere, probabilmente anche a rischio di gettare Neville in una crisi ancora più nera, ma non lo ritenne necessario. Se c’era una cosa che aveva imparato lavorando lì, pensò mentre lasciava la birra al ragazzo, era che i clienti al bancone parlavano sempre con i baristi.

Specialmente dopo il primo giro.

Fu infatti una decina di minuti più tardi, mentre strofinava con decisione uno straccio sul legno graffiato del bancone, che Hannah sentì Neville chiamarla con voce tentennante. La bionda accennò un sorrisetto vittorioso.

«Sì, Nev?» gli chiese dolcemente, guardandolo da sopra una spalla.

Lui la fissò per qualche secondo, arrossendo appena, poi iniziò a farfugliare furiosamente: «Ecco, vedi, ehm… so che… sono un po’… è strano ultimamente, vedi, il- cioè, non potrei… però, insomma, voglio essere sincero con te e… ecco, io, io vorrei…»

Il volto del giovane divenne rapidamente paonazzo mentre affogava nelle sue stesse parole, e Hannah, intenerita, decise di andargli in contro prima che finisse in apnea. «Neville?» lo interruppe, un largo sorriso in volto e una mano sul fianco. «Lo so che non puoi parlarmi del lavoro»

«Lo sai?!» sbottò il mago, sobbalzando sul posto e facendo traboccare la sua ancora intatta seconda birra. «Oh, acc-»

«Tergeo» lo anticipò la ragazza, con un allegro colpo di bacchetta.

Neville alzò gli occhi su di lei, mentre strizzava nervosamente la cravatta zuppa di birra.

«Insomma, non… non sei arrabbiata?»

«Perché dovrei? Stai lavorando sodo, e qualsiasi cosa sia deve essere importante… sono tanto fiera di te» replicò la strega, non senza che le si imporporassero le guance.

In quel momento, qualcuno si schiarì seccamente la voce dall’altro capo del bancone. Due paia di occhi si spalancarono di botto. «Scusi, il mio collega ha ordinato un… ah, Paciock! Abbott! Che piacere trovarvi qui» li salutò una strega dall’aria autorevole, vestita di smeraldo dalle vesti lunghe e austere alla punta del cappello, la cui larga tesa cadeva quasi fino all’alto colletto abbottonato.

«P-Professoressa McGranitt!»

«Preside!»

La donna sorrise, ma non si perse in chiacchiere di circostanza: Minerva McGranitt non era proprio una donna da chiacchiere di circostanza. «Sono venuta a prendere l’ordinazione del professor Vitius, una qualche sciocchezza con dello zucchero filato…» spiegò con tono di riprovazione, accennando al piccolo mago che li salutava da un tavolo in fondo al locale.

«Oh, certo!» si ricordò Hannah di botto, scattando come una molla per recuperare il drink che aveva abbandonato prima. «Scusi l’attesa, mi è completamente passato di mente!»

La McGranitt liquidò le scuse con un cenno della mano, poi gli occhi felini si posarono pensierosamente su Neville, ancora fermo a guardarla con la cravatta che gli penzolava da una mano. «Sai, Paciock, è una fortuna averti incontrato proprio qui. Mi risparmi un po’ di pergamena».

L’Auror la guardò con la stessa confusione con cui, anni prima, cercava di seguire le lezioni di Trasfigurazione della strega. Lei parve rendersene conto, perché scosse impercettibilmente il capo. «Con permesso, signorina Abbott, le rubo il signor Paciock per qualche minuto»

«Oh, certo» replicò la ragazza, scrollando le spalle.

Ridacchiò all’espressione tradita di Neville, mentre la Preside della Scuola di Magia e Stregoneria di Hogwarts lo trascinava al tavolino in fondo al locale. Alle loro spalle, un bicchiere orlato di zucchero filato volteggiava allegramente tra i cappelli a punta degli avventori.

 

«Quindi, Paciock, sento che te la cavi bene al Ministero»

«Uh, ehm, s-sì, credo» farfugliò nervosamente Neville, mentre il suo ex-Professore di Incantesimi gli faceva spazio sulla panca di legno ad angolo.

«Coraggio, coraggio, Paciock! Tua nonna non fa che decantare le tue lodi!» trillò allegramente il Professor Vitius, prendendo il suo coloratissimo drink dalle mani della McGranitt.

«P-parla con mia nonna?!» sputacchiò l’Auror, atterrito.

Vitius sventolò una mano. «L’ho incrociata un paio di volte a Diagon Alley»

«Oh… non era da Fortebraccio, vero?» chiese sospettoso il ragazzo, sfregandosi la nuca.

«Oh sì, c’era metà prezzo!»

«Nonna non dovrebbe mangiare gelato…»

Prima che il vecchio professore potesse replicare, annuendo comprensivo nel suo bicchiere, la McGranitt sospirò seccamente. «Filius, se non ti dispiace vorrei discutere con Paciock della cattedra»

«Cattedra?»

«Oh, la cattedra!» confermò allegramente Vitius, dandogli qualche colpetto sul gomito con fare incoraggiante. Francamente, Neville non aveva mai visto il minuto e raggrinzito professore così pimpante, ma i drink di Hannah facevano quell’effetto.

La Preside, da contro, sembrava avere il contegno autorevole e composto di sempre: gli occhi attenti e il leggero sorrisetto di chi ne sapeva più di chiunque altro nella stanza, Minerva McGranitt era ancora in grado di far sudare per l’ansia il suo ex-studente.

Tuttavia, la parola cattedra spiazzò Neville abbastanza da smettere di farlo sentire sotto esame.

«Andrò dritta al sodo, Paciock: vorrei che venissi a insegnare Erbologia a Hogwarts.»

A Neville schizzarono gli occhi dalle orbite. «C-cos- Erbologia?! Io non- la Professoressa Sprite insegna Erbologia!»

«Sì, Paciock, questo lo so» fu la replica della McGranitt.

«La Professoressa Sprite va in pensione!» spiegò invece Vitius, offrendo alla collega un brandello di zucchero filato.

«No, Vitius, grazie.»

«In pensione?!»

A quel punto, Neville era convinto di non aver fatto altro che farfugliare e ripetere ciò che gli veniva detto per tutta la sera, e il crescente pulsare alle tempie regalatogli dalla birra non aiutava. Tuttavia, l’Auror era troppo inquieto per curarsene, al prospetto che la Professoressa Sprite, l’insegnante che più di tutti l’aveva sostenuto e che insegnava quella che era stata la sua materia preferita, stesse per abbandonare Hogwarts.

La McGranitt annuì in modo sbrigativo. «Esatto, e ti pregherei di non farne parola con nessuno: la Professoressa preferisce portare a termine l’anno scolastico senza troppi drammi»

«Capisco ma… va-insomma, sta bene?» chiese, apprensivo.

«Oh, sì! Pomona vuole realizzare il suo sogno e andare a studiare le piante magiche in Amazzonia» lo informò divertito Vitius, allungandogli dello zucchero filato.

Neville accettò con un sorriso. Dopo aver deglutito la nuvoletta violacea, si sentì vagamente rilassato per la prima volta in quella serata sull’orlo della crisi di nervi. «Amazzonia, eh? Sembra davvero interessante!»

«Pomona non sta più nella pelle, a quanto pare progetta questa ricerca da decenni»

«Sa, ora che mi ci fa pensare, ricordo che la Professoressa ci avesse parlato di alcune specie di felci che si dica crescano solo-»

«Signori» sbottò nuovamente la McGranitt, che li osservava a braccia conserte, «per quanto sia… deliziata di poter chiacchierare amabilmente, potremmo finire il discorso?»

Entrambi i maghi ammutolirono, annuendo precipitosamente. La Preside scoccò loro un’ultima occhiata di avvertimento, prima di proseguire. «Bene… Paciock, sono più che conscia della tua posizione al Ministero e non voglio farti alcuna pressione, ma vorrei comunque che pensassi alla mia proposta».

La brevemente ritrovata serenità di Neville sparì in un lampo, quando il mago capì finalmente che non si trattava di uno scherzo. Non che si aspettasse scherzi da parte della McGranitt, però... «Insomma, s-sono onorato, non mi fraintenda ma… io?» chiese incerto.

«Certo che sì, Paciock: hai sempre amato la materia, hai accumulato un’esperienza lavorativa non indifferente negli ultimi anni, e Pomona sarebbe semplicemente entusiasta se tu accettassi» replicò convinta la strega.

«Io non so… non so assolutamente cosa dire» disse Neville con voce mesta, ed era vero: non si sarebbe mai aspettato di ricevere un’offerta del genere, non aveva mai nemmeno preso in considerazione l’idea di poter insegnare Erbologia a Hogwarts! Anche solo pensare di prendere un incarico del genere era… era quasi folle, specialmente quando…

Neville deglutì, sentendosi improvvisamente in colpa.

Kira stava mietendo vittime come se nulla fosse, alcuni tra i suoi migliori amici erano impegnati in quell’indagine, e Robards gli aveva affibbiato una missione di vitale importanza: non poteva seriamente pensare di… di andarsene.

«Paciock?» Il ragazzo levò gli occhi sulla McGranitt, che gli sorrideva dolcemente. «Non voglio una risposta ora, desidero solo che tu abbia tempo in abbondanza per prendere in esame quest’ipotesi. Se poi ne vorrai parlare più approfonditamente, le porte di Hogwarts sono sempre aperte».

Il ragazzo sorrise leggermente a quelle parole, rilasciando un sospiro profondo. «Io… grazie, Professoressa.»

La strega, come da copione, si schernì prontamente. «Sciocchezze, Paciock».

 

***

Se durante i primi dell’anno Sophie si era comportata in modo strano, schivo, totalmente atipico per la sua esuberante persona, sembrava che il problema fosse sparito dopo la chiacchierata con il Sovrintendente Yagami: quel chiarimento pareva aver spazzato via ogni problema, e la dinamica della squadra si era rapidamente fatta più sincera e affiatata.

Il Sovrintendente aveva assistito ai rapidi progressi con un sorriso.

L aveva preso atto del cambiamento senza fiatare, senza farsi cogliere a fissare la strega, senza dare adito alle insinuazioni di Watari o ai suoi stessi, ricorrenti, inutili pensieri.

Perché ci pensava.

Pensava al loro diverbio, a cosa tenesse sveglia la ragazza, al modo in cui lo evitava con fare risentito. Pensava a tutti quei piccoli dettagli che nessun altro notava, al modo in cui il suo volto si fosse fatto impercettibilmente più smunto, al suo piluccare inutilmente pranzi e cene quando l’aveva vista attaccare ogni piatto con appetito fin dal suo arrivo.

Il detective si diceva nervosamente di concentrarsi solo su Kira, sugli sviluppi che erano la priorità assoluta, su quanto e come si potesse avvicinare al sospettato che più aveva catturato la sua attenzione.

Se lo diceva e poi a notte fonda, quando era solo e poteva fingere con sé stesso di non star perdendo tempo, tirava fuori il fascicolo su Sophie. Ripercorreva la sua vita, ciò che sapeva già: le scarne informazioni su dove abitasse, chi frequentasse, le deviazioni dal suo lavoro o dalle case dei suoi amici, il curriculum considerevole, la carriera scolastica buona, sì, ma dopotutto poco interessante per ciò che voleva sapere.

E ce lo perdeva, quel tempo, si inerpicava tra un dettaglio e l’altro, cercando le connessioni che quel fascicolo non offriva, ipotizzando le risposte che l’Auror non gli voleva dare, continuando a dirsi che quella era parte integrante dell’indagine sul caso Kira.

Lavoro, puro e semplice.

Coerenza, perché lui non era certo uno che potesse dirsi scostante, né nelle abitudini, né nelle intenzioni.

La sua abitudine, era indagare.

La sua intenzione, era sapere.

Puro e semplice.

In ogni caso, quale che fosse la scusa, non aveva perso di vista la ragazza.

Perciò, con la coda dell’occhio, aveva visto Sophie storcere la bocca, mentre il resto della squadra discuteva inutilmente su nuove piste.

L’aveva vista tenere lo sguardo fisso su di lui, anche mentre la ignorava per riflettere accuratamente sul da farsi, isolandosi nella sua stessa testa. La ignorava perché non aveva bisogno di guardarla per capire che non aveva preso sul serio quell’interruzione della sorveglianza di casa Yagami, né tantomeno le sue parole. Per questo non si stupì granché quando, dopo che gli agenti giapponesi si furono congedati, lei non diede segno di volersi barricare in camera.

«Ryuzaki?»

Lui rispose con un mugugno poco coinvolto, senza alzare gli occhi su di lei mentre proseguiva con il suo filo di pensieri.

La sentì sospirare, un leggero sibilo di irritazione per la sua mancanza di attenzione. «Fai avvicinare me a Light Yagami».

Gli occhi di L saettarono su di lei, repentini, e nel modo in cui Sophie inarcò appena le sopracciglia vide un guizzo di vittoria. Oh, sei brava, non è vero?

La studiò accuratamente, bevendo ogni dettaglio: la fronte aggrottata, gli occhi aperti e decisi, privi della solita allegria che le colorava le guance o le curvava la bocca verso l’alto; la bocca insolitamente pallida, premuta fra i denti in un vezzo di nervosismo che aveva notato più volte.

Le spalle rigide e le maniche attorcigliate attorno alle dita, Sophie aveva forse preso un atteggiamento più spontaneo con gli altri agenti, ma per contrappeso era diventata fredda con lui, e visibilmente arrabbiata.

No, non arrabbiata, si corresse mentalmente il ragazzo, mentre posava una tazza di tè piena sul tavolino. Sulla difensiva.

Glissò su quella… inquietudine, su quel senso di dispiacere. Contrarietà, preferiva definirla.

 Si sfregò un piede sull’altro, concentrandosi su quanto gli avesse appena detto la rossa.

«Perché dovrei farti avvicinare a Light Yagami?»

Lei nascose malamente la stizza che le contrasse il volto, ma perlomeno non alzò gli occhi al cielo.

«Perché quella del cinque percento è una balla» sancì seccamente.

«Lo è?» chiese con voce interessata il detective, il pollice premuto a un angolo della bocca.

Quello era ormai un gioco che avevano fatto più volte, e la conferma fu il tono aspro con cui la strega sbottò: «Già, lo è».

Voleva tagliare corto, voleva evitare quel loro piccolo botta e risposta, quello che solitamente le faceva sfuggire un sorriso.

Sulla difensiva.

Sophie si lasciò cadere sul divano, avvicinando una tazza vuota e riempendola di acqua bollente con la bacchetta. «Puoi anche far credere loro che hai mollato l’osso su Light, ma sappiamo benissimo che non è così».

Appellò un filtro dalla cucina, lasciandolo cadere nella tazza.

L sapeva che quello era un vano tentativo di deflettere il suo sguardo, di evitare di guardarlo con aria di sfida, un modo per tenere occupate quelle mani nervose, mentre gli esponeva una teoria su cui non aveva alcuna base solida.

A parte il fatto, beh, di avere ragione.

Sì, sei decisamente brava, pensò. Fino a qualche tempo prima, il detective provava una sorta di vago sospetto, un lampo di irritazione nel constatare quanto Sophie fosse percettiva e abile nel vedere oltre le sue recite. D’altronde la colpa era sua, che ancora la sottovalutava.

Quel nervosismo, però, era mutato in un misto di ammirazione ed eccitazione per quella ragazza dall’acume fuori dall’ordinario. Era raro che incontrasse qualcuno che stesse al suo passo, che capisse le sue strategie, seguisse i suoi ragionamenti spontaneamente: era raro qualcuno che giocasse al suo stello livello.

Su quello, e solo su quello, poteva dare ragione a Watari.

«… So che vuoi avvicinarlo, e che per buona misura farai lo stesso con la figlia più grande di Kitamura, perché non puoi permetterti di essere parziale o di non verificare ogni possibilità… ma è Light quello su cui non sei convinto.» Sophie parlò fissando l’acqua, e anche il detective si ritrovò a osservare come si colorasse in ampie spirali, correnti rossastre nello sfondo bianco della porcellana.

«L’unico modo per provarlo, tolto il confronto diretto – che persino Matsuda ha capito essere controproducente – è indurlo a scoprirsi… scoprendoci a nostra volta, è l’unico modo» concluse la strega, rimuovendo il filtro, aggiungendo del latte freddo e accomodandosi contro lo schienale del divano.

Normalmente l’avrebbe vista rannicchiarsi sulla seduta come se fosse nel salotto di casa sua, e non nella suite cinque stelle di una città straniera, immersa fino al collo nel più grave caso investigativo del mondo.

In quel momento, però, Sophie stava composta, perché stava prendendo quel tè solo per tenere le mani occupate, per sembrare distaccata, per tagliare corto.

«Allora?»

L era vagamente compiaciuto di averla costretta ad alzare lo sguardo su di lui, anche se non vi trovò la familiare scintilla di intesa a cui si era abituato. Quel particolare gli fece scattare qualcosa, spinse la sua rapida mente a riconsiderare la tattica elusiva adottata fin dall’inizio con la ragazza, senza risposte dirette e senza troppe verità.

Prese una decisione in un battito di ciglia.

«Ho intenzione di sfruttare il test di ammissione».

L’affermazione prese Sophie in contropiede, ma la vide ricomporre in fretta un’espressione corrucciata. «Quello dell’Accademia di Tokyo?»

«Quello dell’Accademia di Tokyo… ovviamente, è solo un modo per accedere alla cerimonia di apertura».

«Ma… la cerimonia di apertura… qui le scuole non iniziano ad aprile?!» sbottò la strega, sinceramente confusa.

«Esattamente»

«È-è tantissimo tempo!»

«Due mesi e ventiquattro-»

«Ryuzaki!»

L trattenne un sorrisetto, notando come l’espressione greve della rossa fosse scivolata in qualcosa di molto simile al suo solito broncio. «Il primo test, quello scritto, si terrà il diciassette» le illustrò, riprendendo la tazza abbandonata di poco prima. «Ce ne saranno altri due pratici, duello e pozioni».

«Quindi? Lascerai che sia io ad avvicinarmi?» chiese ostinatamente la ragazza.

Stavolta fu lui a guardare altrove, mentre rifletteva. «Qualche settimana fa, avevo detto che avremmo dovuto osservare una certa… prudenza»

«Sì, beh, niente che un pizzico di Polisucco o una buona trasfigurazione non possa risolvere» chiosò Sophie, e lui sapeva che quel broncio poteva solo che essersi accentuato.

«In ogni caso…»

«Chi allora? Aizawa? Mogi? Ti prego, non dirmi Matsuda» lo interruppe ancora l’Auror, impaziente, non riuscendo a trattenere un’ombra di ironia.

Il silenzio si dilatò lentamente nella stanza, fino ad assumere i connotati di una risposta. L fu lento ad alzare lo sguardo su di lei, perché si rendeva conto che non avrebbe reagito bene.

Infatti, Sophie socchiuse le palpebre e, gradualmente, si sporse dalla poltrona.

Quando parlò, la sua voce era ridotta a un sibilo minaccioso.

«No, aspetta, fammi capire. Tu hai passato gli ultimi vent’anni a fingere di non esistere, c’è gente seriamente convinta che tu sia un vampiro, e ho visto Robards sull'orlo delle lacrime perché ti sei rifiutato di apparire davanti al Wizengamot per quattordici volte. Ora lanci minacce in diretta televisiva, prendi il tè delle cinque con sei Auror e vuoi presentarti al primo sospettato?! Il prossimo passo qual è? Invitare Kira a prendere parte alle indagini e diventare amici del cuore?!»

La tirata, di volume sempre più alto, lasciò la rossa praticamente a un passo dall’alzarsi, probabilmente non con buone intenzioni. Il detective, ovviamente, lo considerò un ulteriore motivo per stuzzicarla: «Beh, all’incirca… sì, quello sarebbe il piano a lungo termine. Acuta come sempre».

Sophie era allibita, e un lampo omicida le attraversò gli occhi, ma non colse la sua provocazione.

«… Ryuzaki, non puoi in alcun modo affermare che sia più pericoloso esporre me rispetto a te, nemmeno tu mentiresti in maniera tanto spudorata» disse in tono misurato, anche se era evidente che stesse facendo di tutto per mantenere la calma, dando fondo a ogni grammo della serietà e della pazienza che possedeva… entrambe in scarsa quantità, purtroppo.

«Quindi, fai andare me» concluse infatti in un qualcosa di molto simile a un ringhio. Sophie lo guardava a braccia incrociate, il mento alzato e le spalle dritte, il ritratto della decisione.

L capì che era inutile proseguire coi suoi tentativi di farla cedere alle emozioni, e tornò a sorbire il tè ormai freddo.

Fece una smorfia, scocciato.

Dannazione.

Un dettaglio, però, lo incuriosiva.

«Perché credi che sia fermo su Light Yagami?»

Il cipiglio minaccioso di Sophie parve ammorbidirsi, mentre si stringeva nelle spalle. «Beh… perché anch’io ho una brutta sensazione su di lui»

«Io non ho sensazioni su Light Yagami» contestò immediatamente L.

«Hai capito cosa intendo!» lo rimbeccò lei, «coincidenze, istinto, esperienza, super-deduzioni-perché-io-sono-Ryuzaki-il-più-grande-detective-della-Terra, chiamalo come diamine ti pare, ma anche io credo ci sia qualcosa che non va».

«… Il più grande detective della Terra?» ripeté lentamente il mago, un sorrisetto provocatorio sulle labbra.

Lei lo fulminò con un’occhiataccia e scattò in piedi, lisciando le pieghe della lunga gonna che portava quel giorno sotto al maglione d’ordinanza. Una parte della mente del detective registrò che quella era la prima volta che le vedeva indossare una gonna. Un’altra parte registrò il fatto di star registrando una cosa del genere.

«Bene, fammi sapere cosa ne pensi, ma non ho intenzione di aspettare oltre domani» sentenziò la strega, dandogli le spalle prima che potesse risponderle.

La guardò finché non scomparve dietro la porta della sua stanza, la gonna scura che le roteava attorno ad accentuare la stizza di ogni suo passo.

L, forse per la prima volta nella sua vita, si passò una mano sul volto con aria frustrata.

 

***

 

13 gennaio 2004

Il giorno successivo, Neville si svegliò con un leggero malessere, totalmente imputabile alla birra, e la testa beatamente fra le nuvole, totalmente imputabile alla McGranitt.

Con occhi fissi e un’espressione stranita, seguì distrattamente la sua routine mattutina, sebbene con risultati meno che ottimali: masticò meccanicamente toast bruciati, si lavò i denti senza dentifricio, abbottonò una veste da mago tutta storta, e avrebbe lasciato la bacchetta a casa se non avesse avuto un cartello appeso sul caminetto, che gli ricordava quotidianamente (e a gran voce):“Prendi la bacchetta, scimunito di un nipote! Sei un mago, o ti sei scordato anche questo?!”.

Sua nonna faceva sempre i regali più dolci.

In ogni caso, ci mise ben tre tentativi per arrivare al Ministero in Metropolvere, troppo sovrappensiero per azzeccare il nome della sua destinazione. Quando, al terzo tentativo, finì in un emporio chiamato Erbologia di Prima Classe, il ragazzo si sforzò di uscire dal mulinello di pensieri che era diventato la sua testa.

Peccato che si scoprì totalmente incapace di farlo: aveva trascorso la sera precedente a discutere di quella proposta con Hannah, cercando disperatamente consiglio in quella situazione assurda.

La proposta della McGranitt era stata totalmente inaspettata e, francamente, fin troppo ben coordinata con un momento della sua carriera che lo stava quasi facendo dubitare che quel mestiere facesse per lui. Si sentiva in imbarazzo solo a pensarlo, ma il caso Kira e la missione affidatagli da Robards si stavano dimostrando sempre più stressanti e Neville, francamente, si stava trovando troppo spesso a desiderare che tutta quella faccenda non fosse affar suo.

Non era Harry, che viveva di quel continuo cercare e frugare il mondo in cerca di risposte e verità; non era Ron, che affrontava con spavalderia ogni situazione che capitava loro; non era Draco, che si crogiolava nella sfida di superare ogni criminale che cercasse di sfuggirgli; sicuramente, non era Sophie, che faceva letteralmente del suo lavoro la sua vita.

Tutte quelle considerazioni lo lasciavano interdetto e, tra l’altro, con una grande acidità di stomaco.

Si sfregò la zona incriminata pensando che, dopotutto, forse in quel caso non valeva dire che pensarci non gli costasse niente…

«Paciock! Merlino, mi stai ascoltando, amico?!»

Neville sobbalzò, rendendosi conto in quel momento di aver già raggiunto i cancelli dell’Atrium e che Tod, probabilmente, stava cercando di attirare la sua attenzione da un bel pezzo. Il ragazzo si scusò e cercò di concentrarsi sulla Guardia, che aveva il volto arrossato per l’agitazione; inoltre, i piccoli occhi chiari saettavano attorno a loro in modo frenetico, come per assicurarsi che nessuno li sentisse.

«Er- scusa Tod, stavo… che cosa mi stavi dicendo?» farfugliò stancamente l’Auror, passandosi una mano sul volto. Si dovette bloccare a metà del gesto, però, quando Tod si ripeté, sussurrando a fil di voce e sporgendosi in avanti oltre il vecchio ripiano di legno.

«L’ho trovata, Paciock, ho trovato la spia!»

 

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Capitolo 13
*** Una chiacchierata futile e qualche sorriso immotivato ***


Heloooo!

Piccola nota: pesante presenza di incantesimi. Sebbene non funzionali alla trama e comunque spiegati nel testo, vi annetto una breve descrizione per ciascuno, anche quelli già utilizzati in precedenti capitoli <3 (ovviamente è tutta farina del sacco della Rowling). (E grazie infinite per i commenti, u precious <3)

Stupeficium (Schiantesimo) – incantesimo offensivo che mira a far perdere i sensi all’avversario

Protego (Sortilegio Scudo) – crea una barriera difensiva

Defodio (Incantesimo di Scavo) – scava buchi nel terreno

Expelliarmus (Incantesimo di Disarmo) – disarma

Impedimenta (Incantesimo di Inciampo) – fa inciampare l’avversario

Ascendo – fa compiere un balzo a chi lo usa/all’oggetto a cui è diretto

Deprimo – crea una pressione capace di far esplodere un oggetto

Expulso – incantesimo non verbale che schianta l’avversario/fa esplodere il bersaglio

Bombarda (Incantesimo Esplodente) – crea esplosioni di piccole dimensioni

Aguamenti  - crea un getto d’acqua

Incantesimo Freddafiamma – da prendere alla lettera

Reparo – ripara

Evanesco (Incantesimo di Sparizione) – fa scomparire oggetti

Finite Incantatem – annulla gli effetti di un incantesimo

Capitolo 12

Una chiacchierata futile e qualche sorriso immotivato

13 gennaio 2004

L sapeva di doverle dire di sì, era questo a turbarlo.

Il fatto di essere turbato nell’avere una certezza era altrettanto problematico.

Essere turbato era problematico.

Non esistevano mezze misure in quell’indagine e, se qualcuno doveva esporsi, aveva perfettamente senso che a farlo fosse Sophie: non solo in qualità di Auror perfettamente capace, ma soprattutto perché L doveva sapere. Doveva ancora chiarire quel mistero che la avvolgeva, quella fastidiosa e fumosa trama di domande senza risposta e vaghe supposizioni che si tesseva sempre più fittamente attorno a lei.

Quale modo migliore, dunque, di metterla faccia a faccia con Light Yagami?

Una buona parte degli indizi suggeriva che il giovane fosse innocente, e in caso contrario Sophie aveva i mezzi per gestire la situazione… e forse anche per cambiare le carte in tavola.

«È necessario che entri finalmente nel quadro» disse L ad alta voce, a sé stesso, a un silenzioso Watari che non aveva fatto alcuna domanda.

Il vecchio mago inarcò un sopracciglio, ma era consapevole che il suo pupillo fosse totalmente perso nei suoi pensieri.

Glielo avrei chiesto io stesso, altrimenti, considerò ancora il detective, stavolta senza rendere ulteriormente noto il suo filo logico a Watari. Non aveva certo bisogno di una conferma.

Ciononostante, L si sentiva… combattuto. Lui, che non aveva mai faticato a dare la giusta priorità alle cose, a capire cosa andasse fatto nonostante tutto, d’improvviso si trovava vittima di futili, sconclusionate remore.

Remore nel mettere Sophie alle calcagna di colui che poteva aver cercato di ucciderla meno di un mese prima: niente di assurdo per la logica comune, ma lo era per la sua. Quella reticenza, che lo strattonava prepotentemente via da ciò che andava fatto, viveva della stessa sensazione che gli faceva serrare la mascella ogni volta che lei gli negava uno sguardo, ogni volta che scappava via dalla stanza per non restare sola con lui. Una sensazione che gli si gonfiava nel petto fin quasi a spingerlo a parlare, a dirle della-

L strinse le dita sui braccioli della poltrona, irritato da sé stesso.

A cosa gli serviva quel senso di colpa? Si era lasciato avvicinare a tal punto da lei? Come poteva anche solo pensare di indugiare in un caso di importanza globale?

Per cosa? Per una chiacchierata futile e qualche sorriso immotivato?

Il mago scosse appena il capo, serrando ulteriormente le labbra, e il suo sguardo s’indurì.

No, nulla avrebbe intralciato i suoi piani.

Kira doveva essere sconfitto.

 

***

 

«Ryuzaki, esattamente a che punto mi dirai dove stiamo andando? Quando sarò già fatta a pezzi e infilata in un cassonetto?»

«Sarei molto deluso se ti facessi ridurre a pezzi e infilare in un cassonetto»

«Oh, sì, anch’io sarei delusa, delusissima» sbuffò sarcastica Sophie, passandosi una mano fra i capelli, «tanto più che non mi hai neanche lasciato finire il pranzo»

«Non stai pranzando…»

«Prego?!»

L alzò lo sguardo sul volto furibondo della strega. «Non stai pranzando, ultimamente»

«Faccio fatica a-oh, ci risiamo?! Controlli ancora ogni mia mossa Ryuzaki? Pensavo ci fossimo fermati alla tabella del sonno, invece ora anche la dieta?»

Il tono velenoso della ragazza gli fece contrarre le dita sul sedile color crema, ma decise di lasciar cadere l’argomento. Preferì evitare di controllare se Watari lo stesse spiando dallo specchietto.

«Hai detto che vuoi avvicinare Light Yagami» sospirò infine, tornando a guardare le strade di Tokyo con scarso interesse.

«No, ho detto che tu vuoi avvicinare Light Yagami, ma abbiamo appurato che ha più senso che lo faccia io» lo rimbeccò prontamente Sophie, e la vide incrociare le braccia nel riflesso del vetro. «Che c’entra?»

«Devo sapere un paio di cose, prima di farti avvicinare Light»

«… Quindi lo lascerai fare a me» osservò guardinga la rossa.

«Lo vedremo tra poco».

Sophie fece per parlare, ma sembrò ripensarci.

Non più di cinque minuti più tardi, Watari parcheggiò la macchina all’interno di un cantiere, e L fece segno a Sophie di attendere: alla vista dell’auto, tutti gli operai avevano rapidamente lasciato a metà ciò che stavano facendo, dirigendosi ordinatamente verso l’uscita come se nulla fosse.

L’Auror inarcò le sopracciglia, ma attese che il detective annuisse.

Watari rimase nella macchina, mentre si avvicinavano al centro dello spiazzo di terra, dove si ergeva un’imponente costruzione coperta da impalcature e teli bianchi. Curiosamente, i contorni  sembravano sbiadire e farsi indistinti a ogni secondo passato a fissare quell’immensa sagoma, e L si concesse un breve sorrisetto di approvazione.

Chiaramente, gli incantesimi di difesa e mimetizzazione commissionati funzionavano già a dovere.

Ed è solo l’inizio.

Una volta ultimato il progetto, aveva intenzione di imporre tutta un’altra serie di potenti magie su quell’area… ma non era niente che lo dovesse preoccupare in quel momento. Piuttosto, sperava che a Sophie piacesse il seminterrato.

… Non che le dovesse piacere per forza.

La sbirciò con la coda dell’occhio, e vide finalmente uno sprazzo di curiosità colorarle il volto, mentre sollevava il naso per seguire l’indistinto profilo dell’edificio.

Sarebbe stato produttivo, decise L, se le fosse piaciuto.

 

L l’aveva guidata verso un piano interrato, presumibilmente il futuro parcheggio, e sotto la fredda luce di regolari file di neon avevano raggiunto un ascensore.

Nascondendo a fatica la sorpresa, Sophie aveva guardato il ragazzo estrarre una sottile bacchetta di legno scuro e sfiorare con essa le porte metalliche. L’aveva seguito senza dire nulla, ed erano scesi ulteriormente nel terreno.

Davanti a loro si aprì poco dopo un lungo corridoio, che sfumava nell’oscurità; nella porzione illuminata, invece, Sophie vide una pesante porta di metallo bianco: da lì entrarono in un ambiente vasto, dai soffitti bassi e illuminati con luci non dissimili dalle precedenti, riquadri al neon alternati all’uniforme superficie grigiastra.

L’Auror ispezionò il seminterrato vuoto con la fronte corrucciata, poi sbuffò.

«Ok, che cosa mi devi chiedere, per pietà di Godric, e perché siamo venuti fino a qui? Seriamente, Ryuzaki, capisco che ultimamente non siamo in buona, ma gradirei che non mi ucc-» la strega si interruppe bruscamente, sfoderando la bacchetta ed evocando un Sortilegio Scudo: il guizzo scarlatto di uno Schiantesimo Non-Verbale si frantumò in una cascata di scintille azzurrine, facendola indietreggiare di un passo.

«Ottimi riflessi» commentò L, prima di spedirle un Impedimenta con un altro scatto, che lei schivò rispondendo con un Incantesimo di Disarmo; lo Scudo del ragazzo venne tanto spontaneamente da sembrare agire per conto suo, quasi nello stesso momento in cui la incalzò con altri due Schiantesimi, abilmente parati dalla ragazza.

Lei, a quel punto, portava un largo sogghigno in volto.

«Oh, dovrai fare di meglio di un paio di Schiantesimi» lo sbeffeggiò, cercando di sciogliere i muscoli della schiena e muovendosi in passi più attenti e circospetti.

D’accordo, non si aspettava che L la portasse in quel seminterrato asettico nel bel mezzo di un cantiere stregato, né tantomeno che la attaccasse improvvisamente alle spalle. Però, rispondere a un attacco a sorpresa era, dal suo punto di vista, largamente preferibile allo stallo di reticenza e sospetto che si era instaurato tra loro due.

Quello era probabilmente un test, eppure il fatto non riusciva a toccarla: in quel momento, sarebbe stata ben felice di incrociare le bacchette con il detective anche senza il benché minimo motivo.

«Allora farò di meglio» promise L imperturbabile, spedendo nuovamente un incantesimo offensivo contro la strega che, impegnata in un Sortilegio Scudo, si rese conto appena in tempo del Defodio gettato sul pavimento ai suoi piedi.

«Ascendo!» esclamò, alzandosi in un balzo che le permise di evitare l’esplosione. Mantenne a fatica l’equilibrio e cercò di spedire uno Schiantesimo verso L, prima di trovarsi costretta a una capriola a mezz’aria per atterrare in piedi. Approfittò della polvere sollevata dall’Incantesimo di Scavo di L, muovendosi esternamente alla traiettoria che avevano ingaggiato lei e il detective.

Dopo un paio di passi, però, si vide arrivare addosso una delle macerie che fendevano l’aria, a una velocità che aveva davvero ben poco di naturale.

«Deprimo!» Il blocco di cemento si compresse fino a polverizzarsi.

Ruotò su piede mentre alzava il braccio destro ad altezza del suo occhio, e torse leggermente il polso mentre pensava “Expulso”.

Un lampo blu fendette l’aria, spostando al suo passaggio ogni traccia di polvere e disegnando un corridoio fino al petto di L: il Protego evocato dal ragazzo era ampio e luminoso, ma dovette assorbire l’impatto piuttosto che deviarlo, e Sophie vide l’avversario indietreggiare di qualche passo.

Stringendo i denti.

L aveva stretto i denti a un suo attacco.

Se non fosse stata completamente assorbita dal duello… no, gongolò lo stesso.

Solo per un attimo, però, perché il getto di fiamme che le diresse L era violento e imponente. La sua fortuna fu quanto ristretto fosse il tiro, permettendole di circoscriverlo con un Incantesimo Freddafiamma: quell’inferno rovente si trasformò in una carezza di frizzante aria  fresca, che le solleticò la pelle.

Svelta, per non esaurire troppe energie, si sbrigò a lanciare un Aguamenti che soffocò il fiotto di fuoco, arrivando quasi a infradiciare il detective, che balzò via dalla vista della strega.

Si mosse rapidamente, molto più rapidamente di quanto Sophie si aspettasse dal ragazzo esageratamente sedentario che conosceva, e riuscì a incalzarla lateralmente con una fitta sfilza di Schiantesimi, Explliarmus, Bombarda ed altri incantesimi offensivi.

Senza scomporsi, la strega scattò per parare e rendere con altrettanta facilità, le braccia sottili ma allenate che compivano gesti precisi e fulminei nell’aria.

Allora L cambiò strategia.

Con eleganti svolazzi di bacchetta, Trasfigurò le macerie in rapaci dai becchi affilati e altre bestie che sputavano fuoco e veleno, mordevano e artigliavano: arrivavano da ogni direzione, ed erano abbastanza forti da resistere agli scudi.

Dopo aver avuto Rubeus Hagrid [1]e la sua passione per le creature pericolose come insegnanti, però, Sophie non si faceva certo scoraggiare dalla prospettiva di qualche graffio.

Li respinse rapidamente, talvolta ritorcendoli contro L, tanto per tenerlo impegnato mentre lei si dava da fare.

Un paio di strappi sui jeans più tardi, la strega sbuffò un ciuffo di capelli rossi dagli occhi,

«Basta giocare, Ryuzaki» sbottò infine in un lampo di irritazione, mentre faceva Evanescere l’ennesimo mostriciattolo demoniaco: sapeva benissimo che il mago la stava solo mettendo alla prova, ma questo non lo giustificava a essere così banale.

In quel momento, una raffica di lampi dorati distrusse le plafoniere incassate nel soffitto, facendo piombare la stanza sotterranea nel buio totale.

La ragazza batté rapidamente gli occhi per scacciare le ombre colorate che le danzavano davanti agli occhi, poi si sbrigò a spostarsi dall’ultimo punto in cui l’aveva vista L. Dando fondo a tutta la sua furtività, indietreggiò per raggiungere la parete, sforzandosi di cogliere il minimo rumore.

Poco prima di toccare la parete, però, udì due rapidi schiocchi squarciare l’aria, uno alcuni metri davanti a lei e poi uno alle sue spalle: la Smaterializzazione di L non aveva niente da nascondere.

Sentì un respiro sul collo: «Oh, ma io non sto giocando.» Per un singolo, lunghissimo istante, la ragazza si sentì come ipnotizzata dalla vicinanza della voce del detective, un brivido traditore lungo la schiena.

Un attimo, poi Sophie si Smaterializzò dall’altra parte della stanza, evitando per un pelo uno Schiantesimo. Era una mossa rischiosa, considerando che quella maledetta stanza era tutta uguale e aveva avuto pochissimo tempo per memorizzarne l’aspetto, ma riuscì a non Spaccarsi[2]: le era successo solo una volta, in passato, e riunire il mignolo sinistro al resto della mano non era stato carino.

Doveva agire rapidamente, perché il rumore della Smaterializzazione era utile tanto per lei quanto per il detective.

Per prima cosa, le luci.

Sophie corse dritto davanti a sé, perché le plafoniere erano disposte a scacchiera, perciò doveva solo aspettare di…

Crack!

Sorrise al rumore e, sollevando lo stivale dal vetro che aveva calpestato, puntò la bacchetta verso l’alto: «Reparo!».

La luce, seppur debole e solitaria nel vasto soffitto del seminterrato, riprese vita sopra di lei, e dovette strizzare gli occhi già doloranti per la mancanza di sonno. Un fruscio, e la rossa fece appena in tempo a roteare sul posto: una luce bluastra cozzò contro il suo Scudo, e lei ridacchiò.

I due ripresero a scambiarsi una rapida serie di attacchi, sollevando ogni volta ventagli di scintille, polvere e macerie. Nel vivo dello scambio, la rossa si prendeva anche il tempo di riparare alcune luci, di tanto in tanto, come a prendersi gioco di lui.

L, però, non sembrava prendersela. A dire il vero, Sophie pensava di non aver mai visto un sorriso disegnarsi in modo così definito sul suo volto pallido: il ragazzo perennemente illeggibile, quello sempre curvo e ritorto come un ramo, sempre attento a pianificare ogni parola detta con astuzia e implacabile freddezza… era anche quello. Era movimenti agili, una postura elegante e aperta, decisioni istantanee, un sorriso morbido e rilassato sulle labbra.

Sophie si ritrovò a rispecchiare quel sorriso, timidamente, come se quello fosse un segreto che conosceva solo lei.

Si ritrovò anche a stringere la presa sulla bacchetta, però, quasi sfuggitale dalle mani mentre un Incantesimo di Disarmo la sfiorava: non l’aveva visto arrivare, non- l’aveva visto, ma non aveva…

L inarcò un sopracciglio, sardonico, e lei aggrottò la fronte mentre calava nuovamente un attacco su di lui… che non si spostò. Non si spostava, non stava- lo Schiantesimo lo avrebbe-

CRACK!

«Scacco matto.»

Sentì la punta di una bacchetta premerle sotto il contorno della mascella nell’istante in cui il muro di fronte a lei esplodeva. Il respiro pesante e il corpo assolutamente immobile, la ragazza si rese conto non solo della Smaterializzazione perfettamente calcolata del detective, ma anche del fatto che avesse cambiato mano: ora la sinistra reggeva la bacchetta, lasciando la destra libera di chiudersi attorno alla mano dominante della strega.

Fissò quella mano pallida e fredda che la tratteneva con delicatezza, un contatto lieve ma fermo attorno al suo polso, che le avrebbe impedito di muovere a dovere la bacchetta. Si sforzò di respirare, avvertendo il corpo di L alle sue spalle, a un soffio dal suo.

Qualche secondo.

Forse qualche ora.

Le sembrò che il battito del suo cuore fosse tanto rumoroso da rimbombarle fuori dal petto, fino in fondo a quella stanza infinita.

Poi Sophie lasciò cadere a terra la bacchetta, dichiarando la resa. Un attimo più tardi, L si era chinato a raccoglierla e gliela stava porgendo, nuovamente di fronte a lei.

Entrambi accennarono un inchino di rito.

La strega rilasciò un respiro irregolare. «G-grazie».

Mentre lei rinfoderava la bacchetta, L alzò la sua verso il soffitto, mormorando: «Finite Incantatem».

La stanza sembrò tremare sul posto: dal pavimento in cemento, pieno di buche, alle pareti di intonaco scrostato, il sotterraneo si deformò, ergendosi in alti muri uniformi, diventando ancor più pulito e moderno del precedente. Tutto era rivestito da grandi pannelli opalescenti, che sembravano emanare una soffusa luce bianca.

Nel rumore di quella trasfigurazione, Sophie si sforzò di recuperare il fiato e ignorare la folle rincorsa in cui si era lanciato il suo cuore.

Prima di rinfoderare la bacchetta, L Evocò due poltrone basse e accoglienti nell’ambiente spoglio. Sophie inarcò le sopracciglia, studiando i piedi di legno scolpiti a forma di zampa di rapace e le sedute foderate di velluto blu damascato, ma non disse nulla. Quando si sedette, avvertì chiaramente la stanchezza crollarle addosso, e scalciò gli stivali per accomodarsi al meglio.

Appellò il thermos di caffè che aveva portato dall’hotel assieme a due tazze di plastica e ne porse una al detective, dedicandogli solo un’occhiata furtiva.

In quel momento, guardando il suo profilo affilato e le guance lievemente arrossate dal duello, fu particolarmente consapevole di come lei stessa dovesse essere messa molto peggio. Si tolse nervosamente dei capelli umidi di sudore dalla fronte, una smorfia sulla bocca.

«Che posto è questo?» chiese di getto, cercando disperatamente di concentrarsi su qualcos’altro.

«Un progetto a cui sto lavorando» fu la vaga risposta di L, a cui lei alzò gli occhi al cielo.

«E come funziona? È un incantesimo a sé stante o una caratteristica fisica di questo posto? Il Finite è per gli incantesimi che agiscono direttamente sulle persone, no?»

«Difatti, si tratta di entrambe le cose: un incantesimo che s’incanala attraverso il materiale utilizzato per costruire la stanza, generando così un completo controllo su ogni aspetto dell’ambiente… ovviamente entro determinati limiti».

La strega annuì, ammirata. «Come… il soffitto di Hogwarts?» insinuò dopo un po’, con un sorrisetto saccente.

Lui si limitò ad affondare il naso nella propria tazza.

«Va bene, va bene…» si arrese la strega, divertita dalla reticenza del mago. «Ho passato il test, quindi?»

«Hai riflessi molto al di sopra della media ed una conoscenza variegata, versatile… tutto sommato, sebbene tu tenda a trovare soluzioni un po’ grossolane...» Ma senti questo! «… sono comunque efficaci... Duelli molto bene… un giorno potrei anche pensare di sfidarti seriamente».

Sophie, dopo un attimo di breve esitazione, decise di ignorare quell’ultimo commento. Decise anche di non ammettere a sé stessa di starsi crogiolando nel complimento del detective.

Un complimento di L, dopotutto, non era cosa da poco.

Non che m’importi.

Sophie sospirò, guardando l’ombra del suo riflesso sulla superficie del caffè.

Una cosa poteva ammetterla: era piacevole parlare con lui. Parlare davvero, come avevano smesso di fare dopo quella notte, dopo quella discussione. Era una sciocchezza, era esattamente quello che si era detta di dover evitare per tutto dicembre, quello che aveva giudicato inammissibile e sconsiderato e fuori luogo.

Eppure si sentiva finalmente calma, per la prima volta in una settimana: non aveva lo stomaco chiuso per l’ansia, non sentiva il bisogno di irrigidire le spalle ed evitare ossessivamente il suo sguardo penetrante.

Sono una stramaledetta idiota.

«Ora mi dici se farai andare me al tuo posto o meno?» domandò stancamente la strega, cercando di riscuotersi dai suoi pensieri mentre guardava L di sottecchi.

Lui scosse impercettibilmente il capo, sorbendo il suo caffè. «Fraintendi la situazione, Sophie: io parteciperò comunque all’operazione».

La ragazza batté le palpebre, incredula.

Perché diavolo allora…

Vagamente consapevole di stare per acquisire un tic all’occhio, Sophie si massaggiò gli occhi brucianti.

«Ryuzaki, ti prego, arriva al punto» implorò, riaprendo gli occhi: scoprì che il mago aveva fatto sparire la tazza di plastica, e ora tra le dita reggeva una boccetta di vetro, che le porse lentamente.

«Che cos’è?» inquisì curiosamente lei, soppesandola e rigirandola fra le mani, i polpastrelli che scorrevano piacevolmente sulla superficie smussata.

«Una pozione che ho richiesto a Watari… niente di particolarmente potente, ma volevo evitare che ti potesse procurare dipendenza» espose sibillino il detective, una nota di titubanza nella voce.

La strega inarcò un sopracciglio. «Dipendenza?» Titubanza?

«Sì, è un rimedio alquanto blando per… conciliare il sonno».

Quella spiegazione sapeva di ammissione, e Sophie strinse pericolosamente gli occhi. Balzò in piedi, sventolando la piccola fiala come se si trattenesse dallo scagliargliela in testa.

«Ryuzaki, se pensi che ti dirò il perché io non- se pensi di ricattarmi con il rimedio, o con la mia partecipazione alla missione, o- giuro che ti-»

«Sei fuori strada» la interruppe L, senza guardarla in volto mentre si alzava e faceva scomparire le poltrone. «Non… pretendo che tu dica nulla, ma pretendo che tu ricominci a dormire in maniera adeguata, prima di partecipare alla missione».

L’ira di Sophie si estinse tanto rapidamente quant’era divampata, e la strega rimase a fissarlo, spiazzata.

L… senza guardarla in faccia, senza sfidarla con lo sguardo, senza incombere su di lei, dandole le spalle, la schiena curva e il capo voltato… le stava offrendo una soluzione. Le stava offrendo un aiuto, senza volere niente in cambio.

Non voleva avere la risposta, non voleva sapere cosa la tenesse sveglia, cosa tormentasse le sue notti e la facesse vacillare sotto il peso della sua stessa stanchezza.

Non le stava negando davvero l’accesso al campo o alle indagini, capì in quel momento, né la stava ricattando.

Sophie aveva anzi l’impressione che il caso, per una volta, non c’entrasse proprio nulla.

Ha appena… fatto un passo indietro?

Il ragazzo si voltò finalmente verso di lei, schiarendosi la voce. «Va tutto bene?»

Lei si riscosse e annuì freneticamente, guardando la boccetta che stringeva fra le dita. «Grazie... Davvero».

L rispose con un cenno del capo, il volto privo di espressione ma le spalle leggermente tese.

Sophie tentennò, irrequieta; lo fissò, mordendosi un labbro. Poi scattò in avanti.

Avrebbe voluto dire di non sapere cosa stesse facendo, ma lo sapeva.

 

***

«Neville è strano».

Due sedie girevoli scricchiolarono dietro le rispettive scrivanie.

«In che senso?»

«Non mi sembra meno miserevole del solito»

«Malfoy!» sbuffò Harry, aggrottando la fronte.

«Malfoooy, gne gne» gli fece il verso il biondo, alzando gli occhi al cielo.

«No, davvero, è strano» ripeté imperterrito Ron, passandosi una mano tra i capelli rossi.

Harry lo guardò con aria perplessa, seguendo il suo sguardo fino al loro collega che, sebbene sembrasse un po’ smunto, stava chiacchierando animatamente con Dennis Canon. Stando all’entusiasmo con cui indicava le succulente allineate sulla sua scrivania, si doveva essere lanciato in una delle sue tirate di Erbologia e giardinaggio babbano.

«Boh, a me sembra normale» commentò Harry, stringendosi nelle spalle.

«Oh certo, è risaputo quanto tu sia bravo a valutare le persone, Potter»

«Stai dando ragione a me?» chiese Ron, con aria allarmata.

«Non ho detto questo» sibilò Draco, incrociando le braccia davanti al petto.

I tre si scambiarono delle occhiatacce, prima di tornare a fissare Neville che, del tutto ignaro, era passato alla pianta in vaso dalle foglie cangianti che riposava in un angolo della sua postazione.

«Ok, so che sembrerò pazzo, ma in questi giorni si comporta in modo proprio… cioè… strano» ribadì Ron.

«Ora che è tutto chiaro». Harry guardò Draco con aria esasperata, ma si rivolse al migliore amico con espressione di scuse. «Ron, sinceramente non sei mai stato un mito nel-ehm, cogliere l’umore degli altri. Quindi… cos’hai visto?».

Il rosso aprì e chiuse la bocca un paio di volte, poi si sporse verso i colleghi, nonostante non vi fosse poi tutto questo spazio per sporgersi. «L’ho visto uscire dall’ufficio di Robards, stamattina presto, prima degli orari d’ufficio, e sembrava… non lo so, arrabbiato»

«Neville?»

«Paciock?!»

«Appunto!»

Le sedie di Harry e Draco scricchiolarono di nuovo ruotavano verso Neville.

«…Oh, andiamo, persino a Paciock salterà qualche rotella ogni tanto, e Robards è un maestro nel far marcire il fegato alle persone»

«Sì, vero… però…»

Gli Auror si scambiarono uno sguardo incerto: non era molto per cui scomporsi, in effetti, ma tutti e tre sapevano che si trattava dell’ennesima stranezza che accadeva attorno a Robards.

«Beh, una chiacchierata non fa male a nessuno» decise Draco con fare noncurante, prima di tornare a sorvegliare l’attento lavoro della sua piuma color smeraldo, intenta a compilare rapporti per lui in bella grafia.

«Malfoy, che vuoi fare?» chiese sospettoso Ron, il mento che già sporgeva minacciosamente.

«Quello che voi due non sapreste fare»

«Ma che stai dicendo?»

«Oh, per favore, siete amichetti da quando avete undici anni, volete dirmi che sapreste imporvi un minimo su Paciock? Io, d’altronde, ho alle spalle un certo… allenamento».

Sui volti dei due ex-Grifondoro si dipinsero espressioni apprensive, ma nessuno dei due trovò nulla da ribattere.

Harry si strofinò gli occhi sotto le lenti rotonde degli occhiali. «Va bene, ma ti prego non fare casini.»

«E quando mai



[1] Custode delle Chiavi e dei Luoghi a Hogwarts, nonché professore di Cura delle Creature Magiche e grande appassionato di creature magiche pericolose (spesso illegali lol amiamolo)

[2] Per Smaterializzarsi, occorre concentrarsi molto bene sul luogo in cui ci si vuole Materializzare: il rischio è compiere l’operazione solo in parte, lasciandosi alle spalle parti del corpo. Per intenderci, ciò che accade a Ron ne “I Doni della Morte”.

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Capitolo 14
*** Qualche sano abbraccio non aveva mai ucciso nessuno ***


Capitolo 13

Qualche sano abbraccio non aveva mai ucciso nessuno

13 gennaio 2004

«Grazie».

L rimase immobile, perché stava guardando altrove, perché per l’ennesima volta stava evitando il suo sguardo quando lei si mosse. Poi rimase immobile perché non se l’aspettava.

Non si aspettava di dover riguadagnare l’equilibrio per l’improvviso slancio della strega, lo scontrarsi di un calore estraneo contro il suo corpo, le braccia serrate rapidamente dietro la sua schiena. Non si aspettava il profumo di fiori che lo investì, il respiro irregolare che gli solleticò una spalla, la voce gentile che gli sfiorò l’orecchio come una carezza.

Gli sembrò di trattenere il respiro per un lasso di tempo impossibile, pietrificato da una sensazione che non sapeva riconoscere. Era come se avesse solo conosciuto brusio di sottofondo, per tutta la vita, un agitarsi impalpabile di pensieri e di percezioni che invadeva freneticamente la sua mente e che non aveva mai davvero notato finché, d’improvviso, cessò.

Si mosse, infine, senza pensare: cinse il corpo minuto in un abbraccio leggero e curvò leggermente il capo su di lei, respirando nei capelli rossi che gli solleticavano il volto. Si mosse con cautela, come se ogni logica gli dicesse che si sarebbe incrinata, rotta, dissolta non appena l’avesse sfiorata. Eppure era ancora lì, pochi istanti più tardi, quando contrasse leggermente le dita sulla sua schiena. Un respiro lentissimo, e il detective eternamente insonne chiuse gli occhi.

… Avrebbe continuato a dire a Watari che non sapeva di cosa stesse parlando, a dire che tutto il suo interesse era per il caso, che le concessioni che le faceva erano per il caso, che la posizione in cui si continuava a mettere fosse per il caso, che il loro continuo giocare al gatto e al topo fosse per il caso. Avrebbe continuato a ignorare le ovvie conclusioni con cui si era, in realtà, già scontrato. Avrebbe continuato a dare la priorità al caso.

Perché era un bugiardo.

Si sarebbe preso, però, quei pochi centimetri di pace, di calore, di quello che non aveva mai conosciuto e di cui non gli era mai importato.

Perché era un egoista.

 

***

17 gennaio 2004

I corridoi dell’Accademia Auror di Tokyo sapevano essere imponenti, soprattutto per coloro che, ogni febbraio, colmavano l’aula magna per tentare la sorte all’esame di ammissione. Spesso invano, peraltro, perché la sorte aveva ben poco a che vedere con quei severissimi test scritti.

La struttura slanciata e solida dell’Accademia ricordava la tradizionale maestosità della Mahōtokoro[1], un’immensa pagoda dai tetti arcuati, grondaie a forma di dragoni e mura intarsiate di storie raccontate a colori brillanti, indifferenti allo scorrere del tempo. L’atmosfera era però ben diversa dall’aria sognante del Palazzo di Giada: i muri di carta di riso non avevano nulla di fragile nel modo in cui si stagliavano alti sugli studenti, contorcendosi in infiniti labirinti volti a far sentire piccoli e confusi estranei e novizi.

L’anzianità dei cadetti era infatti chiaramente intuibile dal modo sicuro e sbrigativo con cui solcavano quel dedalo di legno e carta di riso, dedicando ai nuovi applicanti solo qualche occhiata inquisitoria.

Era in uno di quei corridoi che, un guanto stretto in mano e una cartella penzolante dalla spalla, una ragazza stava ferma a frugare il flusso di persone con lo sguardo.

«Ehi, hai perso…» la sua timida voce, quello sfarfallio di parole giapponesi, si spensero nel nulla, mentre perdeva di vista lo studente a cui era caduto il guanto.

D’altronde, era facile sparire in mezzo a quella folla, che sballottolava involontariamente la sua esile figura. Corrugò le sopracciglia bionde, studiando titubante l’indumento di lana nera. Poi, facendosi coraggio, sistemò lo spallaccio dello zaino su una spalla e si affrettò lungo il corridoio ghermito di persone.

Se, come tutti gli altri, si era recata all’Accademia per sostenere il test di ammissione, la giovane doveva avere almeno diciassette anni. I grandi occhi blu e il caschetto di sottili capelli biondi, che le solleticava appena la mascella, sembravano però quelli di una bambina.

Assottigliò gli occhi a mandorla, sforzandosi di scrutare per bene gli studenti, poi lo vide: fortunatamente il mago, vestito di una giacca bianca, saltava subito all’occhio tra coloro che sciamavano dalla scalinata dell’edificio.

Una scelta bizzarra, quel bianco: nella scuola magica giapponese, una divisa che si fosse improvvisamente tinta di bianco sarebbe stata segno di illegalità, disonore, un preludio all’espulsione[2]. Certo, non era quello il caso.

Si affrettò a corrergli dietro. «S-scusa! Scusami- scusate, scusatemi tanto, permesso- ehi-Scusa!» sbottò infine, arrivata a pochi metri da lui.

Finalmente, il ragazzo si voltò, un’espressione perplessa in volto mentre soppesava rapidamente la sua figura. La bionda arrossì violentemente, gli occhi che fuggivano verso il terreno mentre gli porgeva il guanto.

«P-perdonami ma io-ti è c-caduto, prima» farfugliò, mordendosi un labbro. Probabilmente, si stava maledicendo per il suo stesso nervosismo, dato che la portava a balbettare a quel modo. Del resto, non sembrava conoscere molto bene la lingua.

Sul volto fresco e affascinante del giovane si dipinse un sorriso gentile. «Che sbadato, grazie mille, non lo avrei mai trovato altrimenti» le disse, prendendo il guanto e sfiorandole inavvertitamente la mano. Gli occhi blu di lei saettarono verso l’alto per un istante, prima che ritraesse di scatto il braccio.

«F-figurati».

Lui intascò l’indumento, poi la guardò per qualche istante. «Io sono Light Yagami, molto piacere».

Chiaramente, la ragazza non si aspettava che le rivolgesse la parola, visto come inarcò le sopracciglia in un’espressione di sorpresa tanto aperta che fece sorridere Light.

«Hikari L-Lewis»

«Inglese

«S-sì» ammise lei, visibilmente imbarazzata, «i-immagino che il mio Giapponese non sia molto b-buono»

«Uhm… forse hai bisogno solo di un po’ di esercizio. Hai studiato in Inghilterra?»

Hikari batté le palpebre un paio di volte: si era appena messo a parlare in inglese? Per lei?

Con un sorriso timido, annuì. «Sì io… ho frequentato Hogwarts, mi sono trasferita l’estate scorsa…»

«Oh, quindi sei più grande di me» ridacchiò Light.

«Immagino di sì… c-come è andato l’esame?» chiese titubante. Non poté non notare il sorrisetto del ragazzo a quella domanda. Come se fosse un quesito un po’ ridicolo da porgli.

«Credo bene, il tuo?»

Lei si strinse nelle spalle. «Sono più agitata per quello di Duello, a dire il vero» spiegò, corrugando nuovamente la fronte.

«Non per Pozioni? Solitamente, è l’esame più temuto»

«No» replicò subito la bionda, per la prima volta senza tentennamenti nella voce, «Pozioni è la mia materia preferita… sono piuttosto brava» aggiunse infine, con una sincera nota di orgoglio.

Light inarcò un sopracciglio. «Ah sì? Beh, allora non vedo l’ora di vederti all’opera…» le disse, con un giocoso accenno di sfida nella voce melodiosa.

Lei non rispose, limitandosi ad annuire, ma i suoi occhi brillavano.

I due rimasero a fissarsi per qualche momento, poi gli occhi nocciola del ragazzo scivolarono sull’orologio che portava al polso. «Oh, è tardi, io… ora devo andare, ma… ci vediamo a febbraio, no?»

Hikari, a questo punto, sorrideva apertamente, quasi trasognante. «Sì! E, ehm, s-spero di parlare un Giapponese migliore- la prossima volta»

«Scommetto che sarà così» le rispose il ragazzo, facendole l’occhiolino, prima di voltarsi per andare a casa. 


***

20 gennaio 2004

Una settimana dopo il duello, Sophie aveva ripreso a dormire.

Non era esattamente uno di quei sonni profondi e ristoratori, né gli incubi erano totalmente scomparsi, ma qualche notte di sonno consecutiva l’aveva rinvigorita enormemente.

Inoltre, al secondo duello, aveva dato maggiore filo da torcere a L.

L.

Tra loro era tornata la… normalità.

Sì, la normalità, con le chiacchierate, le discussioni, i colleghi giapponesi che li guardavano straniti perché lei rideva anche davanti all’espressione più arcigna che lui potesse assumere, e Watari che sembrava gongolare costantemente per qualcosa.

Perché, sì, l’aveva notato. Solo che, inizialmente, pensava di starselo immaginando. Poi però la routine si era consolidata: Watari entrava per proporre tè, o scones, o pasticcio di carne; L guardava Sophie ridere, o imbronciarsi, o scegliere il pranzo; Watari guardava L, L guardava Watari, Matsuda chiedeva gli scones; Watari sorrideva sotto i baffi mentre usciva. Matsuda rimaneva senza scones.

Ora, sorvolando sulla lenta trasformazione di Watari nella signora Weasley, Sophie era particolarmente intrigata dalla parte in cui L fulminava con lo sguardo il suo braccio destro: non era del tutto sicura del perché il maggiordomo fosse tanto allegro, ma aveva abbastanza teorie da non voler particolarmente approfondire la questione.

Le teorie erano tutte frutto della, ehm, riappacificazione.

Così aveva catalogato quello strano momento con il detective. Non che avesse nulla di strano, lo aveva semplicemente abbracciato. Lei abbracciava sempre i suoi amici.

Quindi, ok, non erano semplici colleghi, erano amici. Non c’era niente di male nell’essere sua amica. Sicuramente non era né la prima né l’ultima a farsi amica il detective.

La strega, intenta a sedersi in una confortevole poltrona parecchio più alta di lei, si bloccò prima di toccare la seduta.

L ha amici, vero?

Batté le palpebre, guardando il detective con occhi sbarrati.

Lui era perfettamente concentrato su una torre di zollette di zucchero, indicatore lampante di quanto fossero in stallo le indagini. L’operazione non sembrava però coinvolgere abbastanza le sue capacità cerebrali da renderlo disattento.

Inarcò un sopracciglio, prima di portare gli occhi cerchiati di nero sulla strega.

«Sì?»

Lei si lasciò cadere nella poltrona, le gambe incrociate e un braccio abbandonato sul bracciolo. Alzò un indice, come per parlare, ma annaspò per cercare un argomento che non la portasse a chiedergli quali cerchie della società magica frequentasse.

«Light Yagami!» sbottò, vittoriosa. «Sappi che ce l’ho ancora con te per Light Yagami, mi devi un favore».

Soddisfatta della scusa, Appellò un libro, senza aspettare risposta.

Il detective, però, abbassò la zolletta che stava per posizionare sul suo progetto ingegneristico. «Stavi lavorando, perché ti dovrei un favore?» La strega lo conosceva abbastanza da cogliere la nota di sincera confusione nella sua voce.

«Perché ho sottoscritto per una delicata indagine di alto profilo su un serial killer, non per farmi fare gli occhi dolci da un diciassettenne. Mi devi un favore.» replicò fermamente Sophie, mentre proseguiva a leggere come se nulla fosse.

Lui rimase un attimo in silenzio, come se stesse riflettendo sulla sua risposta. «Stavi lavorando» insistette poi, e Sophie sapeva che doveva aver leggermente aggrottato la fronte, sotto tutti quei capelli neri.

«Mi sono fatta bionda e ho finto di lasciarmi abbindolare da un diciassettenne. Mi devi un favore.»

Sophie sapeva anche che L la stava scrutando di sottecchi, e non si curò di trattenere un sorrisetto divertito.

«… Allora sarai felice di sapere che ho accolto la tua proposta»

«Quella di dare la Polisucco a Matsuda, la prossima volta?»

«No, quella di far venire qui la tua squadra».

Le mani di Sophie scattarono goffamente a recuperare il libro di Incantesimi prima che le cadesse a terra. «S-stai scherzando?»

Non che il volto impassibile del detective recasse traccia di un qualche tentativo di ironia, anzi: la scrutava con aria particolarmente concentrata, il capo leggermente inclinato e i capelli scuri a piovergli in faccia. Si premette un pollice contro le labbra sottili, mentre scuoteva il capo.

Il volto di Sophie si aprì lentamente in un sorriso. Uno di quelli graduali, che accompagnano la realizzazione e illuminano gli occhi a non finire, di quelli che ti fanno alzare da dove sei seduto e lanciare gridolini poco seri e saltellare sul posto.

«Oh Merlino! Quando? Quando l’hai deciso? Quando arrivano? Non mi stai prendendo in giro, vero?»

«No, non ti sto prendendo in giro, arriveranno il primo febbraio… l’ho deciso qualche tempo fa»

«E cosa aspettavi a dirmelo?!» La strega sottolineò la domanda con un altro saltello.

«Beh, suppongo di aver pensato di non dirtelo».

Ah.

Lei lo scrutò con sospetto, un angolo della bocca sollevato nell’inizio di un sorriso. «Ryuzaki… pensavi forse di farmi una sorpresa?».

Si sentì ridicola nel dirlo. Però quale altro motivo poteva avere una persona schietta e dalla memoria ferrea come lui? Non si sarebbe stupita se avesse trattenuto informazioni segrete o che preferiva rimanessero tali, ma la ragazza difficilmente avrebbe mancato di notare l’arrivo di Harry, Ron e Draco.

Perciò…

«Ho pensato che ti avrebbe fatto piacere» replicò piattamente il detective, stringendosi nelle spalle, «il sessantasei percento delle persone reagisce positivamente all’arrivo inaspettato di persone attese a lungo, e ho pensato che tu rientrassi-»

«Ryuzaki?» lo interruppe Sophie, passandosi una mano sul volto sorridente mentre lui taceva di botto, «Grazie, ha-hai pensato giusto, io… grazie» farfugliò, senza smettere di sorridere.

Decisamente, le cose tra loro avevano preso una piega ben diversa da quando si erano chiariti, ma non si sarebbe certo aspettata nulla del genere: se voleva sorprenderla, beh diamine ci stava riuscendo.

Forse doveva pensare a qualcosa per sdebitarsi, come una confezione regalo di dolciumi, o-

«Ora mi abbraccerai?» La domanda a bruciapelo le fece quasi cascare la mascella, e la strega avvertì il calore cocente che le affluì alle guance.

Batté le palpebre con quella che sapeva essere un’aria abbastanza stupida, e si riavviò nervosamente i capelli dietro le orecchie. Per un attimo si chiese se fosse una burla o una domanda sincera, ma non scorse traccia di sfida negli occhi del detective.

Sembrava curioso, piuttosto, forse vagamente… speranzoso?

Sophie stava giungendo alla rapida conclusione che, no, il detective non aveva amici. In ogni caso, preferì non soffermarsi su quanto poco dovesse essere abituato al contatto umano, non era davvero affar suo quanto e quale affetto ricevesse nella sua vita privata. Se ne aveva una.

In ogni caso, nulla le vietava di curarsi del loro, di rapporto, di quella strana complicità. Era il capo delle indagini, ok, ma a quanto pare aveva accettato di essere anche suo amico, nell’attimo stesso in cui le aveva offerto aiuto senza volere nulla in cambio. Per cui… perché no? Qualche sano abbraccio non aveva mai ucciso nessuno.

Alla fine, Sophie si costrinse a balbettare una risposta per sbloccare quella strana situazione. «B-beh, se non ti dà… fastidio, insomma… sì, hai fatto una cosa gentile, s-sì».

Rimasero a fissarsi per qualche secondo. Poi la strega fece un passo avanti, uno strano e adrenalinico nervosismo sotto pelle.

«Ryuzaki, un gufo dal Ministro» Sophie quasi saltò nella sua poltrona, e lo scatto non sfuggì a Watari.

L si alzò, aggrottando lievemente le sopracciglia mentre Watari guardava Sophie con la coda dell’occhio. «Leggerò nell’altra stanza» sentenziò, infilando le mani in tasca.

«Certo» replicò il mago, riportando gli occhi su di lui. I candidi baffi dell’uomo fremettero leggermente.

Sophie, in un angolo della sua mente, recitò: L guarda Watari, Watari guarda L, Watari sorride, Watari esce.

 

Sulla pergamena color crema, in un triste inchiostro grigiastro che L sapeva essere la preferenza del suo contatto, vi era scritta un’unica parola.

Talpa.

 

***

 

22 gennaio 2004

Ginny non era pienamente entusiasta della partenza di Harry, ma non poteva dire di essere sorpresa: di solito, se non erano i guai a trovare Harry, era Harry a trovare loro. Era semplicemente così, da ben prima che lo conoscesse.

Aveva imparato ad avere fiducia in lui, fiducia nel fatto che sarebbe tornato a casa, anche a costo di morire. Certo, non esattamente la definizione di rassicurante, ma comunque abbastanza perché potesse vivere serenamente la sua vita mentre il fidanzato era coinvolto nell’ennesimo, prevedibile caso di vita o di morte.

Una parte di lei ringraziava profondamente Godric, Merlino e ogni grande stregone della storia per non aver ereditato il tratto spiccatamente ansioso di sua madre: se fosse stata un briciolo più simile a Molly Weasley, probabilmente Harry avrebbe finito per non vedere mai più la luce del sole.

Ironicamente parlando.

Ginny storse il naso al suo riflesso.

… Credo.

Il suo riflesso, però, sembrava ormai stufo di vederla cincischiare. La fulminò con lo sguardo dalla superficie dello specchio ovale posto in un angolo della stanza, apostrofandola: «Tesoro, hai finito di deviare la conversazione?! Credo che il tuo bello sia in partenza!».

La Ginny Weasley nello specchio teneva le mani sui fianchi in una perfetta imitazione di sua madre, ma scuoteva il capo con una riprovazione che era tutta sua.

La Ginny Weasley fuori dallo specchio incrociò le braccia e si squadrò con aria altera. «Non sto deviando la conversazione, non c’è niente da deviare» replicò seccamente.

«Oh, no, infatti» replicò sarcastico il suo riflesso, «quindi credi davvero che nessuno noterà questo, giusto?!» Riflesso si voltò di lato e, senza troppe cerimonie, alzò l’ampio maglione giallo senape per scoprire la pancia della ragazza.

Anzi, per la precisione della atleta professionista che giocava da anni in una delle prime squadre del Campionato di Quidditch: di sicuro Ginny non era una maniaca della forma fisica, ma ciò non le aveva mai impedito di esibire un fisico abbastanza irrobustito dai muscoli e una discreta schiera di addominali.

Hermione le diceva sempre di non capire come uno sport praticato da seduti potesse far venire gli addominali.

«Prova tu a volare per ore stringendoti a un ramo» bofonchiò con disapprovazione la rossa.

«AHEM?!» sbottò impaziente il suo riflesso, indicando con esagerati sventolii della mano l’addome della ragazza che formava una… Una lieve, dolcissima curva spolverata di leggere lentiggini.

L’espressione solitamente stoica e risoluta della ragazza sembrò sciogliersi in uno sguardo inquieto, mentre tentava inutilmente di deglutire con la gola secca.

«Ti ci vorrà ben più di un maglione sformato, tra qualche settimana» sbuffò saccente il suo riflesso, guardandola con riprovazione dalla sua cornice di legno bianco.

In un lampo, il volto di Ginny si fece paonazzo per l’irritazione, e forse anche un po’ per l’imbarazzo. «Non vedo come questo sia un tuo problema!»

«Lo è se continui a vestirti in modo atroce solo perché non ti decidi a dirlo ai tuoi amichetti!»

Ginny pestò un piede in maniera davvero esasperata e davvero poco matura. «I miei amichetti sono impegnati in un’indagine mortale!»

«E non è una ragione in più per dirglielo?!»

«GRRRRR!» La strega soffocò malamente un urlo fra le mani, sfregandosi il volto con stizza mentre borbottava ingiurie: sapeva che accettare da sua cognata Fleur quel delicato specchio, tutto piedistalli arricciati e cornici intarsiate, le si sarebbe ritorto contro. Ovviamente il complemento di arredo doveva essere dotato di una personalità spocchiosa e indelicata esattamente come la spocchiosa e indelicata francesina che glielo aveva regalato.

«Tesoro, con chi stai litigando?» Ginny sobbalzò, voltandosi di scatto a guardare Harry che, affacciatosi sulla soglia della loro camera da letto, alternava già lo sguardo tra lei e lo specchio con aria divertita.

«Harry, ti giuro che se ridi sei fuori da questa casa».

Il mago inarcò un sopracciglio, un sorrisetto ironico sul volto come a ricordarle di essere in partenza per il Giappone.

«Permanentemente» precisò allora la rossa, incrociando le braccia con uno sbuffo.

«Va bene, va bene» ridacchiò il ragazzo, alzando le mani in segno di resa. Ginny lo guardò avvicinarsi e, mentre faceva scivolare le braccia attorno alla sua vita, il suo minaccioso cipiglio mutò rapidamente in un morbido sorriso.

«Comunque sai che ti coprirei con Bill e Fleur, se decidessi di sbarazzartene»

«EHI!» sbottò lo specchio.

«Ce l’hanno regalato a Natale, dobbiamo almeno fingere di averci provato».

Harry fece spallucce. «Magari in mia assenza hai deciso di approfittarne per ridecorare e ti è caduto»

«Siete dei bruti!»

«Esiste una cosa chiamata Incantesimo di Riparo»

«Caduto molto bene»

«Selvaggi.»

I due ridacchiarono sommessamente della sdegnata reazione dello specchio, rimanendo in silenzio finché le lamentele non si furono spente.

«Tra quanto partite?» La voce di Ginny arrivò attutita da dove si era sepolta nel petto del ragazzo, che adagiò il mento sul capo rosso fuoco.

«Tra una settimana, il tempo di predisporre gli ultimi dettagli e andarcene senza destare sospetti»

«Sophie lo sa?»

«Non saprei, non è che ci abbiano permesso di scriverle alcunché». Harry non fece nulla per celare il disappunto che condiva la sua voce, e Ginny sorrise alla sua onnipresente necessità di sapere tutto.

«Lo sai che una volta lì dovrai seguire ordini di qualcun altro, vero?» gli chiese ironica, sollevando il capo quel tanto che bastava per guardarlo con un sopracciglio inarcato.

«Beh? Io seguo ordini anche qui» si difese il ragazzo, scostandosi a sua volta con la fronte aggrottata.

«Sì, ma lo sappiamo tutti e due che Robards ti tratta più come un pupillo che come un sottoposto… ti sta preparando per ereditare la baracca».

Harry distolse lo sguardo dal suo, seppellendosi nell’incavo del suo collo tra borbottii scontenti.

«Harry- lo sai che ti toccherà, prima o poi» lo rimbeccò Ginny, punzecchiandogli un fianco con un dito.

«Non mi ci far pensare, Robards è già abbastanza insopportabile quando sostiene di volermi rispedire in Accademia, non voglio immaginare cosa succederebbe se iniziasse davvero a parlarmi di una promozione»

Ginny scrollò le spalle sotto il peso del ragazzo. «Probabilmente ti manderà lettere minatorie e minacce di morte».

Fu il turno di Harry di soffocare un lamento.

La rossa sogghignò, dandogli qualche colpetto alle spalle prima di abbracciarlo sul serio: respirò lentamente in quel senso di familiarità, di casa, e improvvisamente la colpì la consapevolezza che, in quell’abbraccio, vi fosse anche qualcun altro.

Quando Ginny fu scossa da un singulto, Harry aprì gli occhi di scatto, confuso: la prese per le spalle e la frugò con lo sguardo, impiegandoci ben più del necessario per capire cosa stesse succedendo.

Ginny non poteva biasimarlo perché, ne era sicura, non solo poteva dire di aver pianto una manciata di volte da quando era un’adolescente, ma Harry non aveva visto che un paio di quelle. Dalla sua, però, la rossa era abbastanza convinta che scoprire di essere incinta alla vigilia della partenza del proprio compagno per una missione mortale dall’altro capo del mondo in qualche modo valesse come giustificazione. Almeno quella volta. Almeno per gli ormoni.

«G-Ginny, amore, che cosa- cosa succede, stai male?!» si affannò Harry, visibilmente in tilt mentre gli occhiali gli scivolavano sulla punta del naso e le prendeva il volto fra le mani con aria assurdamente preoccupata. Ginny quasi rise nel vedere il modo frenetico con cui gli occhi verde chiaro cercavano inutilmente una qualche ferita, e riuscì a calmarsi quel tanto che bastava per sorridergli, il volto congestionato e le mani su quelle del ragazzo.

Prese un paio di respiri tremanti, guardandolo dritto negli occhi per attirare la sua attenzione.

«Ginny…» la chiamò flebilmente il mago, con un tono che era un misto di desolazione e supplica.

«Shhh, va tutto bene… ora ti devo dire una cosa, ok Harry?»

 



[1] Scuola magica giapponese

[2] Alla Mahoutokoro, le divise cambiano colore a seconda del rendimento dello studente, tingendosi di bianco nel caso violi la legge o simili.

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Capitolo 15
*** Non era niente di razionale ***


LUMOS

Helo meraviglie: not gonna lie, non ho riletto, ma è uno dei capitoli più lunghi e spero vi piaccia. Missed u all :3

NOX

Capitolo 14

Non era niente di razionale

1 febbraio 2004

Matsuda si sistemò in un angolo del divano, ancora intorpidito dal freddo e dal sonno. Il gufo mandato da L aveva beccato sulla sua finestra alle cinque e, quando Touta aveva attraversato la città in tutta fretta, il sole era ancora ben lontano dall’uscire a mitigare l’aria gelida di Tokyo.

La convocazione a sorpresa lo incuriosiva, sì, ma non abbastanza da impedirgli di affondare sempre più nella seduta confortevole. Dopotutto, L era abbastanza strano da chiamarli a raccolta a un orario del genere.

Sophie, lei si comportava in maniera bizzarra: inquieta, perfettamente sveglia e… entusiasta?

In quell’ultimo mese, la ragazza aveva solo e unicamente manifestato un solido e risentito malumore nelle prime ore del giorno, la fronte aggrottata e le dita costantemente serrate su una tazza di caffè caldo.

Invece eccola lì, ad accoglierli trillando “Buongiorno!” alle sei del mattino: Matsuda aveva cercato lo sguardo di Aizawa, allarmato dall’energia con cui Sophie si era messa a distribuire tè e caffè alla stregua di Watari.

Che poi, dove diamine era Watari?

«Bene, ora che siete qui, non ci resta che aspettare» proferì L quando si furono accomodati, apparentemente assorto nell’impilare zollette di zucchero con delle piccole pinze che ricordavano le zampe di un rapace.

Il Sovrintendente si schiarì la voce. «Scusa, Ryuzaki, ma aspettare cosa

Ci fu un attimo di silenzio, in cui tutti gli occhi della squadra si posarono su L.

Poi ogni traccia di allegria sparì dal volto di Sophie. «Non glielo hai ancora detto?!»

Matsuda si risvegliò definitivamente dal suo stato letargico. «Ehm, detto che cosa?»

Lo sguardo incredulo e irritato della rossa saettò su di lui, e l’agente dovette trattenersi dal sussultare. «Non ve l’ha detto!» ribadì esasperata, passandosi una mano sulla faccia. «Avevi detto che glielo avresti detto» sibilò accusatoria ad L.

«Mi sarà passato di mente»

«No che non ti è passato di mente, tu non sai farti passare le cose di mente!»

Se gli occhi di Matsuda non fossero stati impastati dal sonno, avrebbe quasi pensato che L avesse sospirato mentre gettava via con poco riguardo le pinze d’argento. «Ho preferito mantenere la totale segretezza il più a lungo possibile…»

«Non lo dire»

«… per motivi di sicurezza».

Matsuda capì di essersi perso qualcosa quando Aizawa, accanto a lui, si fece rigido come un pezzo di legno. Anche lo sguardo preoccupato di Mogi, seduto sul divano di fronte, non prometteva niente di buono.

Il Sovrintendente prese un respiro. «Ryuzaki, devo dedurre che tu ci stai nuovamente nascondendo informazioni?»

Oh, pensò Matsuda, ora capisco.

«Non ho mai garantito la piena divulgazione di ogni mio piano, Sovrintendente Yagami» replicò pigramente L, prima di farsi versare del tè da una caraffa volante.

«Ryuzaki…» lo chiamò in tono d’avvertimento Sophie, e in effetti Matsuda poteva vedere la fronte di Aizawa aggrottarsi sempre di più.

«Arrivo al punto» annunciò L con tono annoiato. Uno sguardo, e le pinze scartate poco prima si trasformarono in un cucchiaino tra le sue dita. «Stasera si uniranno a noi dei collaboratori dal Ministero della Magia Inglese».

L’intera squadra drizzò le orecchie, la sorpresa evidente. Matsuda sorrise.

«Qualcuno ha deciso di unirsi all’indagine?!» chiese eccitato.

«Non pensavo che la Confederazione avesse approvato altre cooperazioni internazionali» obiettò il Sovrintendente.

«Infatti la Confederazione non lo sa» replicò il detective, inarcando un sopracciglio mentre si cimentava nell’impresa di sciogliere tutto quello zucchero in così poco tè. «Su questa nota, vorrei sottolineare la vitalità del mantenere totalmente segreta l’identità di chi arriverà oggi…»

«Ryuzaki, ancora metti in dubbio la nostra lealtà?!» sbottò Aizawa, sporgendosi dal divano.

«No, ragazzi, qui la fiducia non è esattamente il punto…»

«Beh, sì, in un certo senso.»

Sophie ed L parlarono nello stesso momento, guardandosi poi per qualche secondo: il detective era semplicemente scettico, ma la strega sembrava pronta a strangolarlo.

Poi i due si lanciarono in un lungo, fitto, impenetrabile battibecco.

Ukita, seduto tra i due, sembrava non riuscire a muovere gli occhi abbastanza in fretta per tenere il passo col dibattito.

Matsuda sentì Aizawa prendere fiato un paio di volte per intervenire, prima di desistere e ricadere contro lo schienale, le braccia conserte e un’espressione corrucciata in volto. Touta gli diede un paio di pacche sulla spalla, simpatetico.

Una volta che partivano, i due erano praticamente impossibili da fermare. Inoltre, Matsuda non lo avrebbe ammesso per non rischiare una fattura dai colleghi, ma li trovava troppo carini per pensare di intromettersi.

Guardando la spontaneità con cui i due si rimbeccavano, Matsuda pensò che dovessero conoscersi davvero da tanto tempo, sicuramente da prima del caso Kira. Non solo era evidente dal modo in cui si scambiavano opinioni senza assolutamente nessun pelo sulla lingua, ma anche dal modo in cui Sophie pareva sapere sempre cosa passasse per la testa di L, o da come il detective riuscisse a farla indignare con tanta facilità.

Inoltre, L era chiaramente bendisposto nei confronti della strega, il che era più di quanto non si potesse dire di chiunque altro: ascoltava la sua opinione con attenzione e, in un certo senso, si assicurava che tutta la squadra facesse lo stesso.

Personalmente, l’agente non si sarebbe permesso di parlarle sopra a priori, perché l’Auror gli incuteva comunque un po’ di timore nonostante il fare amichevole. Giusto la settimana prima, però, Ukita gli aveva allungato il menù di un take-out, chiedendogli sottovoce che cosa potessero ordinare di nuovo mentre Sophie stava discutendo del caso Misora: il volantino aveva preso fuoco tra le loro mani, sotto lo sguardo piatto di L.

Beh, non propriamente piatto.

Metteva i brividi, pensò Touta.

Sophie si era schiarita la voce rumorosamente prima di riprendere a parlare, il volto stranamente arrossato. Il Sovrintendente Yagami, invece, si era curato di dare loro una bella lavata di capo sul rispetto dei colleghi più anziani e sulla concentrazione durante le riunioni.

Matsuda era comunque dell’idea che lo sguardo di L sarebbe stato sufficiente.

Quindi sì, ecco, il detective non gradiva che la ragazza fosse interrotta più di quanto gradisse essere interrotto lui stesso.

«- se fosse stato per me, avrei imposto loro il Voto Infrangibile due settimane fa, ma i tuoi colleghi si sono detti contrari». Ecco, a proposito di terrificante.

«Oh, certo, scusa se a Londra non amiamo l’idea di vincolare qualcuno a una promessa, pena la morte!» sbuffò Sophie, alzando gli occhi al cielo.

«Colleghi?» chiese titubante Matsuda, non sapendo bene se guardare il proprio capo, Sophie o L. «Sono tuoi colleghi quelli in arrivo da Londra, Sophie? Chi?».

A voler essere precisi, sia L che Sophie aprirono bocca per rispondere, ed erano tutti talmente concentrati su di loro da non accorgersi che la serratura della porta d’ingresso si era appena aperta.

Molto silenziosamente.

«… strapieno di maledetti Babbani!»

 

«Malfoy, giuro che lo dico a Hermione»

«E va bene ma… oh, eccola qua! Ti avviso Sophie, se vedo un altro Babbano di qui a dieci minuti lo Schianto».

La rossa sospirò mentre la task force, congelata dallo stupore, fissava i nuovi arrivati come fossero allucinazioni. Tranne L, ovviamente: L stava scegliendo una fetta di torta.

«Malfoy, ti sembra il momento di lamentarti dei Babbani?» chiese Sophie esasperata, non riuscendo però a nascondere un largo sorriso mentre abbracciava il suo migliore amico.

«È sempre un buon momento per lamentarmi dei Babbani» replicò lui, sdegnoso, poggiando a terra una ventiquattr’ore in pelle di drago grigia.

Antracite, l’aveva corretta più e più e più volte Draco.

Lei lo squadrò con sospetto. «Hai portato solo quella?»

«Di sotto ci sono altre sette valigie» sbuffò Ron, spostando il biondo con una spallata per abbracciare la strega.

«Io non sono un pezzente, Weasley!»

«No, Malfoy, tu sei una principessa» replicò amabilmente Harry, chiudendosi la porta della suite alle spalle. Sorrise all’amica, che lo abbracciò di slancio. «Ci sei mancata, Soph»

«Anche voi». Sophie non riusciva a smettere di sorridere, mentre si voltava e finalmente tornava a rivolgersi al resto della squadra. Arrossendo appena, si accorse che L la stava fissando di sottecchi, ma si affrettò a distogliere lo sguardo.

«Bene, ragazzi, questa è la Task Force per la cattura di Ki-»

«Harry Potter!» sbottò Matsuda, spezzando il silenzio allibito della squadra e guadagnandosi una gomitata da Aizawa.

«Matsuda!» L’agente si coprì la bocca con una mano, rosso d’imbarazzo.

Sophie trattenne malamente una risata mentre si rivolgeva agli amici, indicando l’agente con un pollice. «Lui è Matsuda, e poi ci sono Mogi, Ukita, Aizawa, e il Sovrintendente Yagami».

Questi fece un passo avanti, inchinandosi con rispetto. 

«Penso che sia corretto che anche loro sappiano i nostri veri nomi. Io sono Soichiro Yagami, è un onore conoscervi» dichiarò solennemente, e gli altri sembrarono riscuotersi di dosso lo stupore, imitando il sovrintendente e ripetendo i loro veri nomi.

Sophie non aveva bisogno di guardare nella direzione di L per sapere che disapprovasse profondamente l’idea.

«Ron Weasley, il piacere è nostro» replicò Ron, compito.

«Harry Potter» sospirò il suo migliore amico, in quel misto di disagio e circostanza che caratterizzava le sue presentazioni.

«Malfoy, Draco Malfoy.» Il biondo dalla voce strascicata scandagliò la stanza con occhi gelidi, soffermandosi solo per un breve momento (e con un certo dissenso) su di L: in quel momento, il ragazzo dai capelli corvini sembrava particolarmente fuori posto mentre si serviva la colazione con il capo basso e le ginocchia portate al petto. Sophie poté udire il lamento interiore di Draco quando scorse le dita dei piedi nudi che sbucavano dai jeans troppo lunghi. «Credevo che L sarebbe stato presente».

Sophie passò lo sguardo tra i due, pregando che l’amico non causasse già un incidente diplomatico.

«Io sono L» intervenne a quel punto il detective, le parole scandite con freddezza e lo sguardo ostinatamente concentrato sulla sua tazza di tè. «D’ora in avanti, vi prego di chiamarmi Ryuzaki, e di spegnere eventuali apparecchi elettronici».

Lo stupore di Draco e Ron era palpabile e, quando inarcarono le sopracciglia in direzione di Sophie, lei rifilò loro uno sguardo supplicante, accennando al divano libero.

«Ok allora, Ryuzaki» intervenne Harry con tono conciliante, sedendosi assieme agli altri amici. La rossa gli sorrise, incoraggiante e grata. Sebbene Harry non fosse sempre il più diplomatico ed entusiasta delle situazioni delicate, la ragazza sapeva di potersi fidare di lui più della bocca senza filtri di Ron e molto più di quella snob e arrogante di Draco.

Soprattutto, il famoso Prescelto non avrebbe mai giudicato L da un paio di occhiaie pesanti o un comportamento un po’ eccentrico: forse erano stati gli anni coi Dursley, forse era stato lo scoprire che la magia esistesse a undici anni compiuti, forse era stato scoprire che Piton-il-traditore fosse un eroe di guerra, fatto stava che Harry sembrava ormai incapace di giudicare un libro dalla copertina.

Per esempio, se trovava una Caccabomba nel cassetto della scrivania e correva dritto ad affatturare Draco, non si trattava di pregiudizio, ma semplice buonsenso.

«Questo strambo sareb-» le stava sussurrando Ron, prima che la rossa gli sferrasse una gomitata nello stomaco. Draco, per fortuna, si limitò a squadrare L come faceva all’incirca con tutti: Sophie lo fissò truce finché lui, cogliendo la minaccia silenziosa, smise di guardare il detective come se fosse un insetto particolarmente bizzarro posato sul suo porta-sigari preferito.

Harry si schiarì la gola. «Allora, qual è l’organizzazione?» chiese, indicando con un gesto vago e abitudinario se stesso, i ragazzi e Sophie.

Chiunque avrebbe detto che l’espressione di L fosse diventata ancora più indecifrabile e neutra, ma Sophie avrebbe giurato di averlo visto affilare impercettibilmente lo sguardo. «Lei, il signor Weasley e il signor Malfoy vivrete nella stanza attigua alla nostra: come gli altri, considerate quest’ultima il Quartier Generale. A questo proposito vi comunico che-»

«Un momento» lo interruppe Draco, una nota polemica che richiamava apertamente l’attenzione dei presenti. «Ha detto “nostra”, Sophie dorme-»

«La signorina Clarke risiede stabilmente nel Quartier Generale, signor Malfoy. Sempre che non voglia condividere la suite con voi, è indifferente.»

A quel punto la rossa distolse di scatto l’attenzione dai suoi amici, fissando il detective con espressione sbigottita.

Signorina Clarke?

Indifferente?

«Come stavo dicendo, cambieremo albergo ogni due o tre giorni al massimo, per quanto riguarda le operazioni…»

Sophie non si aspettava quel tono stizzito, e non poteva ignorare l’accurata scelta di parole, perché L non era uno che diceva una cosa piuttosto che un’altra per pura casualità: non sapeva nemmeno cosa fosse, una casualità.

No, le sembrava piuttosto di essere finito in mezzo a un piccolo match di tiro alla fune, e non le piaceva essere usata come corda.

«… perciò uscirete solo se strettamente necessario e dopo essere stati Trasfigurati e forniti di nuovi distintivi…»

La rossa intercettò lo sguardo di Draco, rendendosi conto che la stava scrutando con un sopracciglio inarcato. Lei aggrottò la fronte e scosse impercettibilmente il capo.

«… ovviamente, vi ricordo che ogni decisione in merito spetta a me e, come vi dovrebbe aver già comunicato la signorina Clarke-»

«Sophie, per Godric» interruppe bruscamente a quel punto, alzando gli occhi al cielo. Si pentì un attimo dopo di quell’uscita, abbassando di scatto gli occhi sulle candide sneakers di stoffa che indossava.

«… Come Sophie vi dovrebbe aver già comunicato, non ho intenzione di transigere su quest’aspetto» terminò L, impassibile, prima di finire in un sorso il suo tè.

La strega fece una lieve smorfia d’insofferenza a quel tono: se già normalmente la sua voce baritonale era condita da una spolverata di supponenza, ora sembrava che il mago avesse rincarato la dose di boria che trasudava dalle sue parole. Nient’altro che un invito a nozze per gli orgogliosi Auror britannici.

Harry aveva la fronte aggrottata.

Ron guardava Harry e Draco, seduto sul margine della poltrona come pronto a scattare.

Draco aveva aperto la bocca polemica per quella che prometteva essere uno dei suoi classici: magari non Mio padre lo verrà a sapere, ma era plausibile un La Magiavvocatessa Granger lo verrà a sapere!

O un Il Ministro Shacklebolt lo verrà a sapere!

E Il Mondo Magico lo verrà a sapere!

L’universo lo verrà a sapere e vi spiaccicherà con una meteora!

Si diede della stupida per aver scordato che, in quella stanza, i suoi amici non erano certo gli unici propensi a causare discussioni.

Con uno sbuffo che era a metà tra una risata isterica e un gemito, Sophie scattò in piedi.

«Vi mostro la suite! Draco, Ron, su, gambe in spalla!» proruppe, tirandoli in piedi e trattenendosi dal tirarli via per le orecchie.

«Ma-»

«Sette valigie, giusto? Merlino solo sa quali robe oscure avrà portato Draco, meglio non lasciarle in mezzo ai Babbani, giusto?!»

Il biondo la guardò malissimo, mentre si raddrizzava la giacca stropicciata.

«Harry, aggiorna Ryuzaki sulla situazione a Londra, eh? Ci penso io alla tua roba!» aggiunse la ragazza, passando davanti ad L senza un secondo sguardo: sentiva già alla perfezione il modo in cui i suoi occhi grigi le stavano perforando la nuca.

 

«Potete non cedere alle provocazioni? Per favore, non voglio che vi rimandino a Londra oggi stesso» si lamentò la rossa, aprendo la porta di una stanza con una spallata e gettandovi un paio di borsoni alla cieca.

«Cedere alle provocazioni? Ma l’hai sentito quello come parla?!» sibilò velenoso il biondo, le braccia incrociate e gli occhi lampeggianti mentre aspettava che le sue valigie si sistemassero da sole. Letteralmente.

«Mi dispiace dirlo, ma devo dare ragione a Malfoy, quello è un- ARGH!» Ron schivò per un pelo un pesante baule in pelle di drago, che stava per fluttuare dalla porta d’ingresso a quella della stanza di Draco attraverso il suo stomaco. Il rosso cadde nelle borse che stava portando con un’imprecazione.

«Aspetta, ti do una mano… Draco?!» chiamò la strega, fulminando il biondo che, indolente, se ne stava appoggiato a un muro senza alzare un dito.

«Io le mie valigie le ho già sistemate» replicò, scrollando le spalle.

Sophie rispose con un grugnito poco delicato, mentre lei e Ron spingevano gli ultimi bagagli oltre una porta. «D’accordo, sentite» sbuffò, levandosi i capelli dalla faccia, «lo so che non è una delle persone più facili con cui avere a che fare…»

Entrambi i maghi sbuffarono con fare sarcastico.

«… però, innanzitutto tu Draco dovresti solo stare zitto, sai essere un insofferente pezzo di snob quando vuoi!»

«Ha ragione» appuntò immediatamente Ron, sorridendo amabilmente all’occhiataccia che gli rivolse il collega.

«Poi, ne stiamo parlando come se Robards non ci trattasse come pezze tre volte su quattro»

«Sì, Sophie, però Robards ha l’età di mio papà e fa un po’ paura, non sembra uscito dal backstage delle Sorelle Stravagarie!» le fece notare Ron, corrucciando la fronte lentigginosa.

«Ron!» lo riprese la rossa, spostando poi lo sguardo indignato su Draco.

«Ah, non guardare me, io avrei detto molto di peggio».

La strega si appoggiò allo schienale di un divano, passandosi una mano sul volto. «Sentite, lo so che è… particolare, e giovane, e ha dei modi che ti fanno venire voglia di prenderlo a Schiantesimi, ma è lui a dirigere le indagini, ed è-è pazzesco, davvero, dovete solo dargli un attimo di tempo, è assolutamente geniale e quando vi sarete abituati ai suoi modi vedrete che detective è…»

«È davvero L?» la interruppe Draco, la voce strascicata e gli occhi ridotti a fessure.

Sophie ammutolì, spiazzata.

Se è davvero L?

«Il vero L non si è mai mostrato a nessuno» sottolineò il biondo, senza staccare gli occhi dalla strega.

«In effetti… non è lo stratagemma che ha usato in tv? Con Kira? Ha usato quel tipo, quel…»

«Lind L. Taylor» fornì Sophie con tono assente.

«Ecco!» esclamò vittorioso Ron, inarcando le sopracciglia. «Quello! Potrebbe usare lo stesso trucco anche adesso!»

I tre rimasero in silenzio e Sophie, vagamene frastornata, non ci credette. Non ci credette di non aver neanche considerato quella possibilità: insomma, nessuno si spacciava per L se non voleva finire male, questo era vero, ma se fosse stato architettato tutto da lui in primis…

No, Ryuzaki è L si ritrovò a pensare spontaneamente.

Se non lo aveva mai messo in discussione, se non le era mai passato per la testa, c’era un motivo. No, non era niente di razionale, non erano prove certe e incontrovertibili, di quelle che avrebbe portato alla scrivania di Robards.

Si trattava di qualcos’altro, come il modo in cui vedeva le piste per il caso formarsi nei ragionamenti del detective, o la placida consapevolezza con cui un mago anziano e indiscutibilmente abile come Watari si rimetteva al servizio di un ventenne, o quell’aura di autorità che aveva sempre percepito in lui, istintivamente e quasi senza rendersene conto.

Quello era L, non aveva dubbi a riguardo. Ma non sapeva come spiegarlo.

«Sentite, non posso fare altro che dirvi di fidarmi di me, su questa» sospirò infine la strega, guardando i suoi amici.

«E tu? Tu ti fidi di lui?» chiese Ron, ma non con tono scettico. Era incerto, questo sì, ma Sophie sapeva che le avrebbe dato retta, che si fidava della sua compagna di squadra.

«Sì, sì io mi fido di lui» la replica le sfuggì dalla bocca senza che ci dovesse riflettere nemmeno un istante. Quasi si sorprese da sola per quelle parole, per la certezza con cui parlò.

Merlino, erano innumerevoli i motivi e gli episodi che logicamente le avrebbero dovuto far dubitare di quel ragazzo: era un bugiardo patologico, ometteva e dissimulava con la stessa frequenza con cui respirava, testava e provocava a non finire i limiti delle persone, ed era disposto a fare pressoché qualsiasi cosa per raggiungere i propri risultati.

Eppure, Sophie si fidava di lui, si fidava di L.

Ron cercò lo sguardo di Draco, ma lui non aveva smesso di fissare la strega. Con una smorfia, si limitò a scrollare le spalle larghe. «Beh, d’accordo allora. Torniamo da Ryu-coso»

Sophie ridacchiò, tirandogli un buffetto sulle spalle mentre infilavano la porta. «Ryuzaki, Ron, Ryuzaki»

«Sì, sì, quello»

«Winchester» sibilò il biondo alle sue spalle, improvvisamente, senza farsi sentire da Ron. «Dobbiamo parlare».

 

***

 

«In pratica non abbiamo piste» osservò Ron, scoraggiato.

Avevano passato le precedenti due ore a rivedere, passo per passo, ogni avvenimento e ogni indizio raccolto durante le indagini, per definire le loro mosse future.

«Al momento stiamo continuando a raccogliere informazioni e indagare sulle morti degli Auror, casomai ne saltasse fuori qualcosa di nuovo» disse Aizawa, che si sforzava di comportarsi normalmente con quelle sorte di leggende viventi.

“Del resto dopo un po’ hanno smesso anche con L” osservò Sophie distrattamente, mentre scrutava di sottecchi il detective in questione, non capendo se avesse intenzione o meno di riferire i suoi piani riguardo ai figli maggiori di Kitamura e di Yagami.

L alzò lo sguardo dal budino che stava divorando, cogliendo l’occhiata interrogativa della ragazza. Si lecco le dita sporche di cioccolato con il capo inclinato di lato, intento a riflettere.

Fu allora che s’intromise nel discorso come se niente fosse, senza dare il minimo peso alle voci che si sovrapponevano attorno a lui.

«In realtà ho trovato il modo di continuare a indagare sulle famiglie del direttore e del sovrintendente» disse tranquillo, iniziando a impilare una sull’altra le scatolette vuote.

«Non ne erano usciti tutti puliti dalla videosorveglianza?» chiese Draco, accigliato.

«Ho detto che non abbiamo trovato prove che indichino Kira come uno di loro, ma non che siano necessariamente innocenti. In particolare, ho deciso di seguire con attenzione le mosse della figlia maggiore di Kitamura, Ayame, e suo figlio, signor Yagami» tutti gli agenti dell’OSG evitarono di guardare in direzione dell’uomo, a disagio. Soichiro, però, non parve troppo sorpreso.

«Cos’hai in mente?» chiese Harry, seduto sul bordo del divano.

Sophie lo trovava più nervoso del solito: dopo la dozzina di volte che si era raddrizzato gli occhiali rotondi, si aspettava solo che saltasse in piedi e cominciasse a marciare avanti e indietro nel salotto, come aveva fatto migliaia di volte nella Sala Comune dei Grifondoro.

«Avvicineremo Light Yagami all’università tramite gli esami di ammissione, mentre per Ayame Kitamura attenderemo aprile per avvicinarci, quando inizierà l’anno scolastico. In quel momento sveleremo ad entrambi i ragazzi di essere L… ovviamente, dato che della famiglia Kitamura se ne è occupato il gruppo composto da Mogi, Aizawa, Ukita e Matsuda, sarà uno di loro a impersonarmi»

«Scusami, Ryuzaki» intervenne Soichiro, perplesso, «ma il primo turno degli esami di ammissione si è già svolto»

«Difatti io e Sophie vi abbiamo preso parte, utilizzando false identità».

La strega, sentendo gli sguardi dell’intera squadra su di sé, sorrise nervosamente.

«Non è pericoloso?» chiese Matsuda, titubante.

«Non finché Kira non sarà in grado di scoprire il nome di una persona solo dal suo volto» disse L, completando la torre di plastica che aveva innalzato sul tavolino.

«D’accordo» disse Harry. «Ma cosa faremo da qui a… ad aprile? Anche a inventarsele non ci saranno ancora molte scartoffie sulle morti dei dodici agenti, né possiamo indagare solo sui rapporti delle autopsie. Si sono rivelate dei vicoli ciechi fino ad ora, dubito che la cosa cambierà»

«Concordo. Per questo ho deciso, innanzitutto, che una parte di noi si dedicherà alle ricerche di Naomi Misora: esiste ancora la possibilità che sia viva e la sua testimonianza potrebbe essere cruciale per una svolta in questo caso. Inoltre continueremo a monitorare la rete internet babbana, in cui sono specializzati Aizawa, Mogi e Ukita, nonché Watari, e i giornali magici clandestini dedicati a Kira. Non smetteremo di analizzare i decessi causati da Kira per cercare di capire come esattamente sia provocato l’Avada Kedavra. Per tutto questo avrò bisogno della vostra piena collaborazione, non disdegnerei di riuscire a concludere questa faccenda prima di aprile».

Annuirono tutti, pronti ad affrontare Kira a suon di scartoffie e ore interminabili al computer.

Uno spasso.

 

***

 

2 febbraio 2004

«Seriamente, Sophie?»

«Cosa?!» chiese esasperata la strega, incredula che Draco avesse già trovato qualcosa di cui lamentarsi in così poco tempo.

«Come cosa?! Lo spettro? Il mezzo Infero? Il Re di Tutti i Panda?!» domandò sarcasticamente il biondo, non curandosi particolarmente di tenere un tono di voce moderato.

«Draco, per favore»

«Ma l’hai visto

«Draco, ne abbiamo parlato ore fa! Seriamente, una persona tanto geniale potrebbe anche avere le sembianze di un procione e non avrei nulla da ridire»

«Ma non quello, che me ne frega!»

«E io che ne so?!»

«Potreste abbassare la voce?!» ululò Harry dalla sua stanza, seguito dal grugnito di assenso di Ron.

La rossa sbuffò, premendosi le dita nell’angolo interno degli occhi. Se L li avesse cacciati tutti in blocco, non si sarebbe nemmeno stupita. L’amico, nel mentre, si era drammaticamente stravaccato in una poltrona, con la solita, arrogante, onnipresente energia da padrone dell’universo.

«Senti, Sophie, so che dimostro uno scarsissimo interesse per la tua vita sentimentale ma, seriamente, l’ultimo almeno non sembrava appena uscito da una bara!»

La rossa a quel punto non stava ascoltando, perché un sorso di tè le era andato di traverso attorno a “sentimentale” e stava tossendo anche l’anima, sbrodolandosi nel processo.

«Sei davvero melodrammatica» borbottò Draco, incrociando le braccia.

Lei lo fulminò con lo sguardo, operazione difficoltosa dato che la tosse le aveva fatto venire le lacrime agli occhi. «Si può sapere che cosa stai dicendo?» sibilò sottovoce, quando finalmente tornò padrona delle proprie corde vocali.

«Ecco, ecco perché odio impicciarmi nella tua vita sentimentale…»

«Allora non farlo?»

«… perché sei così testardamente cieca, e ingenua, senza speranze oserei dire…»

«Sto mandando segnali contraddittori? Perché non te l’ho chiesto!»

«… rifiuti fino allo stremo, quando è così palese ed evidente che…»

«Merlino, sei insopportabile!»

«… te la fai con L!»

I due rimasero a fissarsi a occhi spalancati per quasi un minuto, immobili e oltraggiati.

Il primo a riprendere parola, ovviamente, fu Draco. «Ah io sarei insopportabile?!»

«Mi hai appena accusato di farmela con Ryuzaki!» sputò Sophie, il volto tinto di un intenso scarlatto che faceva a pugni coi suoi capelli.

Draco alzò gli occhi al cielo, liquidandola con un gesto altezzoso della mano.

«No, ehi- Draco! Questa è una cosa seria, non puoi andartene in giro a sparare certe-»

«Vuoi forse dirmi che non è vero?»

«No che non è vero!» sbottò Sophie con voce acuta.

In quel momento, dei passi strascicati e inquietanti interruppero i due amici, facendoli voltare verso il corridoio: Harry, i capelli schiacciati in direzioni impossibili e il volto congestionato dal sonno, li stava fissando con uno sguardo allarmante.

«Se non la smettete di fare casino, vi rimando IO a Londra!» minacciò con voce raschiata dal sonno, più serio che mai.

«Scusa Harry…» mormorò Sophie, mordendosi un labbro. Draco invece lo ignorava bellamente, ma il moro sembrò considerarla una cosa positiva: li fissò ancora per qualche momento, annuendo soddisfatto, e poi tornò in camera curandosi di sbattere la porta.

«Sei tu che lo difendi a spada tratta e lo fissi in continuazione, non io» proseguì allora il biondo, totalmente indisturbato dall’interruzione.

Sophie gemette, esasperata, mentre cercava di pulire una macchia di tè dalla sua felpa extra-large a colpi di bacchetta. «Draco, perché a ventitré anni hai ancora la vena pettegola di un quindicenne?!»

«Perché purtroppo ti conosco, ed è mia personale missione farti notare tutte le balle che ti racconti» replicò amabilmente lui, mentre controllava l’etichetta della latta di tè posata sul tavolino, un’ombra di insoddisfazione già stampata in faccia.

«Vai al diavolo! E poi, mannaggia a te, lo sai che non so fare questi stupidi incantesimi di pulizia…»

«So che non sei abituata alla civiltà, ma esiste la lavanderia, negli alberghi»

«Cambiamo albergo ogni giorno, imbecille. Che faccio, glielo lascio per data da destinarsi?!»

«Non è che ci perderesti poi molto…»

«Neanche Hermione ci perderebbe poi molto se ti uccidessi. Dici che posso procedere?!» sbottò Sophie, agitando la bacchetta con furia: un cuscino esageratamente imbottito si alzò dal divano e si lanciò verso Draco.

«Credo potrebbe essere uno spiacevole inconveniente, circondata costantemente da forze dell’ordine come sei» commentò una voce pensosa, dalla porta d’ingresso.

Mentre Sophie si voltava di scatto, un tonfo e un’imprecazione la avvertirono che il cuscino aveva raggiunto il bersaglio. L era fermo sulla soglia della porta, le mani in tasca e le sopracciglia leggermente inarcate; la ragazza si stampò un sorriso innocente in volto e intascò rapidamente la bacchetta.

«Sono venuto ad avvisarvi che la squadra arriverà domattina alle otto. E a ringraziarvi per la vostra collaborazione»

«Potter e Weasley stanno dormendo» replicò freddamente Draco, massaggiandosi la guancia (su cui si era impressa una graziosa fantasia damascata).

Il detective annuì distrattamente e si voltò di lato, come per andarsene. Chiaramente, però, non era venuto solo per i convenevoli, dato che si fermò e alzò il capo, fissando un punto imprecisato del soffitto.

«Hermione Granger ha un caso che la potrebbe portare al Wizengamot? Ero quasi convinto che si sarebbe unita alle indagini» chiese d’un tratto, sempre rivolto all’affresco stile Rinascimento sopra di lui.

Sophie osservò Draco con la coda dell’occhio: se l’amico, all’arrivo di L, aveva ricomposto la gelida maschera di sottile disprezzo che utilizzava con tutti, ora sembrava che le sue spalle fossero scolpite nella pietra, tanto erano rigide.

«Hermione Granger non lavora nell’Ufficio Auror» replicò con tono di sufficienza, e la rossa riportò subito lo sguardo su L.

«Oh, mi deve perdonare, Malfoy, pensavo foste meno rigidi sulle collaborazioni intra-ufficio… a Londra» il detective parlò con tono moderato, quasi sinceramente dispiaciuto, mentre i suoi occhi scendevano lentamente dal soffitto per posarsi dritto in quelli di Draco.

I tre rimasero immobili, per qualche secondo.

Poi Sophie scattò in piedi, anticipando di pochi attimi l’amico grazie ad anni e anni di allenamento nel prevenire le sfuriate tra lui, Harry e Ron. Non sempre coi risultati sperati, ovviamente. «Credo che Draco debba andare a dormire, altrimenti domani sarà un’inutile palla al piede» ridacchiò la ragazza, battendo appena troppo pesantemente una mano sulla sua spalla per nascondere il fatto che lo stesse praticamente schiacciando nella poltrona.

«Io sarei la palla la piede?» sputò lui, arcigno, mentre scacciava la sua mano con uno schiaffetto.

«Buonanotte!» sorrise amabilmente la strega, sospingendo il detective fuori dalla porta per chiudersela alle spalle: Draco stava scuotendo il capo con espressione tempestosa, e lei gli fece l’occhiolino.

«Allora, svolto abbastanza test per una giornata?» chiese Sophie, voltandosi per scoccare a L uno sguardo divertito. «Sai, nominare Hermione è il modo più facile per farti schiantare il primo giorno».

«I tuoi amici sono così indisciplinati?» replicò il detective, inarcando un sopracciglio.

Lei sbuffò, puntellando la schiena alla porta. «Non fingere di non sapere in cosa ti sei cacciato. E non torturare i miei amici, dai».

Sophie sperò che le chiacchiere leggere camuffassero l’agitazione che le era montata dentro quando L era comparso nella stanza, ma lo sguardo penetrante del detective le lasciava sempre poche speranze.

Avrà sentito?

Il ragazzo aprì bocca.

Ecco, ha sentito, ha-

«Non sono tuo amico anch’io?»

Sophie rimase immobile per qualche secondo, gli occhi leggermente troppo grandi e il sorriso come congelato sulle labbra. «I-io, tu, certo che…» farfugliò, prima di cogliere il leggero sorrisetto che gli curvava un angolo della bocca. «Ryuzaki! Ho detto basta test, è tardi» lo riprese incredula, raddrizzandosi.

L però non arretrò, preferendo continuare a fissarla da sopra il proprio naso. Sicuramente, era solo un altro modo per metterla a disagio, e sì, forse ci stava riuscendo, ma non gli voleva certo rendere la vita facile.

Così attese che il detective distogliesse lo sguardo dal suo, quando ormai aveva le guance scarlatte e il suo sorriso era puro nervosismo. Poi lo seguì nella suite adiacente, accogliendo grata quel muto forfait.

«E comunque, la lavanderia è estremamente efficiente.»

Sophie si strozzò con la sua stessa saliva.

 

 

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Capitolo 16
*** Questione di logica ***


Capitolo 15

Questione di logica

2 febbraio 2004

La mattina seguente, Harry accettò con riconoscenza il caffè che gli aveva portato Sophie.

«Il jet lag è tosto, eh?» ridacchiò la strega, adocchiando le occhiaie che facevano capolino dagli occhiali rotondi.

«Beh, almeno a me non ha preso lo stomaco» bofonchiò lui dall’orlo della tazza.

La ragazza rimestò il suo tè.

«… Ron?»

«Ron»

«Mi sembrava strano che saltasse la colazione…» fu il commento di Sophie, mentre frugava la stanza con lo sguardo: gli agenti giapponesi erano già arrivati, impegnati a smistare documenti e scrivere lettere. Draco, invece, si era rifugiato a fumare su un balcone.

«Chi cerchi?»

Harry, malgrado la stanchezza, la fissava di sottecchi con aria chiaramente divertita. La rossa si accigliò.

«Non lo so, chi dovrei cercare?»

«Beh, ho sentito buona parte della conversazione tra te e Malfoy…»

«Non stavi dormendo?»

«Non stavate urlando

Sophie sventolò una mano, come a liquidare la questione, e tornò a sorseggiare il suo tè a braccia conserte.

«… Quindi? C’è qualcosa che vuoi dirmi?»

«Harry» intimò la strega, «non ti ci mettere anche tu, per pietà»

«Ehi, sono tuo amico e tuo capo squadra, non posso essere curioso?» ridacchiò lui, dandole una spintarella amichevole col gomito.

«No, non sulle idiozie di Malfoy»

«Siamo tornati al cognome? Mi ferisci, sgorbio» si annunciò Draco, sfilandosi la giacca e abbandonandola su una poltrona.

«Oh, sia mai…»

«E poi, io non dico mai idiozie»

«La conversazione di ieri dice il contrario»

«La conversazione di ieri dice che stai sotto a un treno»

«Malfoy!»

«Cosa mi sono perso?» chiese Ron, entrato nella stanza con una mano sulla pancia e un’espressione sofferente.

«Niente»

«Draco fa il ficcanaso e Sophie fa la finta tonta».

La strega spalancò la bocca, scoccando ad Harry uno sguardo truce. «Mi sento tradita, sappilo».

Lui scoppiò a ridere, scuotendo il capo prima di posarle un bacio sulla fronte.

«Mi rifarò» promise, lasciando la tazza ormai vuota su un tavolino. «Ron? Andiamo?»

«Solo se lungo la strada mi dici su cosa fa la finta tonta» sorrise il rosso, intercettando il cuscino che gli aveva scagliato contro l’amica.

«Harry! Mi avevi promesso che ci saremmo allenati!»

«Dobbiamo fare qualche giro per il caso Misora, Soph… allenati con Draco»

«Non ho voglia» replicò istantaneamente il biondo. «Per di più, voglio familiarizzare con le scartoffie»

«Siete i peggiori» sbuffò Sophie, guardandoli a braccia conserte mentre, uno dopo l’altro, uscivano dalla suite. Malgrado l’irritazione e il suo normale malumore mattutino, Sophie si crogiolò in quel confortante senso di familiarità, portandosi alla bocca la tazza di tè bollente.

«Puoi allenarti con me».

La strega trasalì, voltandosi tanto bruscamente da far traboccare il tè.

«Dannazione, Ryuzaki!» sbottò, guardando la macchia che si allargava sul suo maglione.

«… Scusa?» fece il detective, poco convincente col minuscolo sorrisetto che aveva in volto.

Lei sbuffò, non riuscendo però a impedirsi di sorridere a sua volta.

«Con questo, ho ufficialmente finito i maglioni» dichiarò, posando la tazza su un tavolino.

«Quindi? Vuoi allenarti?» ribadì L, evidentemente non molto affranto per il suo guardaroba.

Sophie sollevò le sopracciglia. «Davvero?»

«Perché no?» replicò il mago, scrollando le spalle.

La rossa rimase immobile, il davanti del maglione ancora teso fra le mani e un labbro tra i denti. Già, perché no?

Non avevano motivo per non duellare. Era stato divertente, le ultime volte. Non era niente di strano, si allenava sempre con Harry, Ron e Draco.

Con L non era niente di diverso, no?

No?

Sophie si passò una mano fra i capelli, sospirando. «O-ok, mi cambio e arrivo…»

Gli occhi del detective scivolarono sul suo maglione, e la sua bocca sottile si tese leggermente. Si grattò il capo, inclinato in quel modo che lo faceva sembrare un gufo. Rimase immobile, lo sguardo fisso e le labbra appena mosse in qualche parola muta, e la strega sospettò che tutto lo zucchero fosse riuscito infine a otturargli un’arteria.

Invece, un breve bagliore dorato più tardi il suo maglione era nuovamente pulito. Anzi, forse anche più morbido? E profumato?

Sophie fece un largo sorriso. «Grazie, Ryuza- ehi, aspettami!»

Si affrettò a seguire il mago, che stava imboccando l’ingresso con passo stranamente leggero.

 

Avevano iniziato con qualche botta e risposta pacato, una sfilza di incantesimi non troppo incalzanti e movimenti abbastanza rilassati. Per tutto il tempo, Sophie aveva mantenuto un sorriso lieve, sereno, e gli occhi brillanti anche nella luce austera della sala sotterranea.

Era…

Quando aveva duellato con lei la prima volta, aveva potuto cogliere lo sprazzo di una sicurezza micidiale, un abbandono quasi folle alla spontaneità con cui incantesimi e decisioni fulminee la guidavano. Duellava d’istinto, duellava di conoscenze talmente ben ingranate da venirle in aiuto come gli occhi attenti con cui sondava le sue mosse o i passi sicuri e leggeri con cui danzava sul campo da duello.

È il suo palco.

Un’ombra di divertimento dipingeva ogni suo gesto, ogni sua espressione. Anche nei momenti più tesi e difficili dei duelli, la ragazza sembrava lasciarsi andare.

Sì, perché padrona di sé, della situazione, quello lo era sempre. Era una forma di controllo sottile, impalpabile nei modi di fare un po’ sbadati, ma il detective poteva leggere benissimo oltre i suoi atteggiamenti rilassati: lo scrutare i presenti quando nessuno la guardava, la leggera tensione nelle sue spalle quando era stanca e qualcuno entrava nella stanza, i profondi sospiri di  quando rimaneva sola.

Solo in alcuni casi la vedeva abbassare la guardia: mentre leggeva un libro nella sua poltrona, quando aveva attorno i suoi amici, e quando duellava.

In quei momenti, Sophie lasciava la presa sugli eventi perché era pronta a tutto: era sicura di poter ricevere qualsiasi cosa fosse arrivata, sicura delle proprie capacità, dei propri riflessi, abbastanza da trascurare persino la strategia.

Abbastanza da muoversi come se giocasse, i capelli ondulati che seguivano i suoi movimenti come fiamme scure, la bacchetta tenuta come una matita mentre disegnava l’aria di colpi sferzanti e furbi, il volto illuminato dai blu, viola e scarlatti degli incantesimi e da un sorriso ferino.

Nella sua vita, il concetto di bellezza non lo aveva mai sfiorato, se non come costrutto sociale, come canoni estetici che potessero essere sfruttati – neanche troppo sottilmente – in svariati casi passati dalle sue mani. Sapeva riconoscere, o almeno credeva, ciò che le persone potevano trovare attraente o affascinante.

Nemmeno i più abili e accattivanti truffatori della sua agenda avevano però nulla a che vedere con quello: non uno di loro poteva in qualche modo eguagliare la luce che Sophie sembrava emanare, polarizzare la sua attenzione con quella esasperante facilità, far sembrare anche il più minuto dei vezzi un’informazione da memorizzare.

Se era questo che le persone chiamavano bellezza, allora…allora era bella, era davvero bella.

«D’accordo, basta così» decretò L, infrangendo l’ultima delle offensive in una cascata di scintille viola.

La strega non aveva nemmeno un accenno di fiatone. «Hai qualcosa in mente?»

Lui annuì, ma non si spiegò subito. Rifletté attentamente per qualche secondo, sotto lo sguardo incuriosito e impaziente di Sophie.

Le iridi ambrate erano racchiuse da un deciso cerchio castano scuro, aveva notato, e questo sembrava rendere il suo sguardo ancora più intenso, il giallo-dorato ancora più brillante. Le ciglia scure non facevano che accentuare il contrasto sull’incarnato pallido.

L represse il bisogno di scuotere via dalla testa quei pensieri.

«Facciamo una prova» disse infine. «Non rispondere agli attacchi»

«Non… rispondere agli attacchi?» ripeté la strega, visibilmente perplessa. «Nel senso?»

«Non devi parare, non devi schivare, non devi contrattaccare». A quel punto, Sophie lo guardava come se gli fosse spuntata un’altra testa. Il mago sospirò.

«Non ho intenzione di colpirti, ma tu devi cercare di non difenderti.»

L’avversione della strega si manifestò nel migliore dei suoi bronci. «Ma non ha senso» protestò, senza fare nulla per nascondere il tono lamentoso.

Il detective la fissò, vagamente innervosito: non amava particolarmente spiegare per filo e per segno i propri piani, ma si arrese a illustrare il suo piccolo test. «Se al secondo turno degli esami d’ammissione dovessi incrociare la bacchetta con Light, non possiamo rischiare che si renda conto delle tue reali capacità, dato che il duello dovrebbe essere un tuo punto debole».

La rossa, seppur riluttante, annuì. «Beh, in effetti, se mi deve credere inoffensiva…»

Non serviva avere chissà quali capacità d’osservazione per capire che il solo pensiero le si incastrasse in gola. «Va bene, facciamolo» sentenziò ciononostante, il familiare cipiglio di sfida in volto.

L le fece un cenno d’intesa, poi un incantesimo dorato saettò dalla sua bacchetta. Inutilmente, perché uno scudo blu si erse quasi all’istante di fronte a Sophie, deviandone la traiettoria; entrambi seguirono la scia con lo sguardo, immobili, prima che lei gli rivolgesse un imbarazzato sorriso di scuse.

Imperturbabile, il detective ci riprovò. Del resto, non si aspettava certo che la Auror gettasse istantaneamente i suoi riflessi e il suo istinto ben addestrato al vento.

Lanciò un altro paio di incantesimi, e la strega evocò un altro paio di scudi. Poi, accigliata, strinse la presa sulla bacchetta: all’attacco successivo, non si difese. Però schivò, schiaffandosi subito una mano in fronte.

«Scusa, cazzo, scusa, scusa».

«È un lavoro graduale, ma provaci» commentò mite L, studiando i suoi movimenti.

Ogni traccia di serenità stava rapidamente scivolando via dai suoi lineamenti, e vide come la ragazza tendeva rigidamente il braccio dominante: non per essere più pronta nella risposta, al contrario, per cercare di ostacolarsi. Eppure, a ogni attacco ricevuto, Sophie finiva inevitabilmente per parare, rispondere, deviare in poche frazioni di secondo.

Dopo dieci minuti, L la bloccò con un sospiro.

«Sophie»

«Lo so, lo so, ci sto provando!» sbottò la ragazza, il volto paonazzo e le mani strette a pugno. Non lo stava guardando in faccia, il naso arricciato e l’espressione contrariata che solitamente gli facevano venire una gran voglia di sorridere erano rivolti al pavimento.

L si ritrovò a cercare le parole giuste e un tono pacato, cose a cui raramente prestava la minima attenzione. «Sophie, hai capito che questo incantesimo non è destinato ad arrecarti danno, no?»

Lei gli rivolse un’occhiata di fuoco. «Certo che ho capito, non sono stupida, Ryuzaki… con Light, però…»

«Non pensare all’attacco, al duello, pensa solo al fatto che questo incantesimo non possa farti del male»

«Ok, ma Light-»

«Fidati di me.»

Avrebbe voluto rimangiarsi quelle parole un attimo dopo averle dette.

Prima di tutto non sapeva perché lo avesse detto, non aveva alcun senso.

Quella era una questione di pura logica, di consapevolezza e controllo di sé, non una questione di fiducia. E poi il solo pensiero che qualcuno si fidasse di lui era assurdo: le persone non si rivolgevano a lui perché ispirasse fiducia, ma perché era il migliore.

Logica, le avrei dovuto dire di essere logica, si corresse mentalmente. Sophie però, alla fine, annuì.

L strinse leggermente la presa sulla bacchetta.

Poi la alzò, di nuovo: mentre formulava mentalmente l’incantesimo, gli occhi della strega non lasciarono i suoi nemmeno per un istante. Solo quando la scintilla dorata saettò a pochi metri da lei, la vide chiudere gli occhi, istintivamente.

La scintilla, però, la attraversò senza lasciare alcuna traccia.

Fu quasi comico vederla sbirciare cautamente da un occhio aperto, e tastarsi la pancia con aria perplessa. Gettò le braccia in aria con aria vittoriosa. «Ce l’ho fatta!»

«Dopo diciassette tentativi» le ricordò il detective.

Lei, imbronciata, chiese di fare un altro tentativo.

«No» sospirò il detective, rintascando la bacchetta, «semplicemente, eviteremo che Light finisca assegnato a te durante l’esame».

Le spalle della strega cascarono visibilmente a quelle parole.

Del resto, non potevano rischiare che Light si insospettisse: se davvero era Kira, era già sufficientemente all’erta. Non sarebbe stato un bene se Sophie fosse nel suo mirino, sotto mentite spoglie o meno.

«Ryuzaki, mi spiace…»

La voce sommessa della strega attirò nuovamente l’attenzione di L, facendogli aggrottare appena la fronte. «Non devi dispiacerti per essere un’ottima duellante. Io stesso non riuscirei a compiere questo esercizio facilmente»

«Sì, però…»

Il detective la osservò guardare nervosamente a terra, un gesto totalmente inusuale per lei. Per l’ennesima volta, quel giorno, L sospirò.

Sospirò non tanto perché la strega fosse esasperante, quanto perché lui stesso era esasperante, nel darle corda a quel modo. Sprecare tempo, a quel modo. «D’accordo, alleniamoci ancora… ma resta il fatto che duellare con Light dovrà essere l’ultima spiaggia, intesi?»

Il volto di Sophie si rianimò istantaneamente, mentre balzava in posizione d’attacco. «Intesi!»

Il sorriso che gli rivolse, sincero e determinato, zittì ogni remora sullo star perdendo tempo.

 

***

 

5 febbraio 2004

«E-Expelliarmus!»

L’esaminatore guardò la ragazzina dai corti capelli biondi riuscire effettivamente a disarmare il suo avversario. Lo sconfitto doveva essere sorpreso quanto lui, data la confusione che aveva dipinta in volto mentre la strega gli restituiva la bacchetta con un inchino profondo.

Un peccato.

Il mago schioccò la lingua sul palato, per nulla impressionato dalla performance nonostante la vittoria, e cercò su un registro il nome di Hikari Lewis: non stava andando esageratamente male, a dirla tutta, ma i suoi duelli mancavano d’inventiva, la sua bacchetta tremava costantemente ed era decisamente troppo tesa.

Al corso Auror se la sarebbero mangiata a colazione.

Scosse la testa, dando un rapido sguardo agli altri studenti per decidere con chi accoppiarla per il prossimo scontro, tutt’ora fortemente incerto sul punteggio da assegnarle. Il grande cortile circolare in cui si trovavano era il cuore pulsante dell’Accademia, e come ogni anno era pieno di giovani aspiranti matricole, distribuite lungo le marcature incise nella pietra per indicare i campi da duello.

Controllò rapidamente che tutte le barriere magiche che li circondavano reggessero, assicurando che i duellanti non si interrompessero gli uni con gli altri e che lui e i suoi colleghi potessero comunque intervenire dall’esterno. Proprio in quel momento, un ragazzo dall’aria trasandata e le occhiaie pesanti mandò l’opponente a schiantarsi contro la parete della loro cupola.

Di nuovo.

Lo trovò subito nell’elenco: Hideki Ryūga, come il cantante che adoravano le sue figlie. Storse il naso, pensando che probabilmente era qualche riccone che non voleva usare il suo vero nome. In ogni caso, Ryūga sembrava immensamente tediato, ed effettivamente non aveva fatto altro che falciare avversari da quanto era iniziato l’esame, con una facilità estrema.

Beh, benvenuto nel club, avrebbe voluto dirgli. Che i test d’ingresso fossero una noia mortale non era una novità, e l’esaminatore si maledisse per aver perso una scommessa e aver dovuto prendere il secondo turno. Durante gli scritti, perlomeno, avrebbe potuto leggersi un libro senza che qualche studente rimanesse sfregiato o venisse mandato in coma.

«Signore, c-con chi dovrei duellare ora?»

Ah, già.

Era ancora la strega minuta con la voce sottile, che ora si stava torcendo le mani come se fargli quella domanda le fosse costato tutte le sue energie. L’uomo cercò rapidamente un esaminando libero, e stava per chiamare il ragazzo dalle occhiaie nere e l’umore cupo quasi quanto il suo, quando un lampo smeraldino attirò il suo sguardo.

Ah, Yagami, quello che sembrava un ragazzo promettente: voti eccellenti e raccomandazioni stellari dalla Mahōtokoro, un test d’ingresso ineccepibile, e non sembrava affetto da qualche grave dipendenza. Proprio come Ryūga, stava terminando in modo pulito e ineccepibile di annientare il suo ennesimo sfidante.

«Il tuo prossimo sfidante è il numero 125» decretò infine l’esaminatore, e una piccola rana di carta saltellò via dal tavolino a cui era seduto per andare a informare anche l’altro ragazzo.

L’esaminatore sospirò e puntellò il mento su una mano, seguendo distrattamente il duello di due streghe esageratamente appassionate di Fatture Orcovolanti: mentre cercava di capire qualcosa di quel nugolo di piccoli orchi alati, iniziò a meditare su cosa avrebbe potuto mangiare per cena.

«Ehi, Hikari, come sta andando?»

«O-oh, Light! Ehm, non… non molto bene, temo».

L’esaminatore sbirciò annoiato Lewis, che era stata raggiunta da Yagami e ora sembrava sul punto di prendere fuoco. Ah, gli adolescenti.

Magari posso farmi una zuppa di miso?

«Preferisci parlare in inglese? Sai che non è un problema»

«No, figurati! Devo migliorare dopotutto, no?»

«Hai ragione»

Ce l’ho del miso a casa, sono abbastanza sicuro.

«C-comunque, tu stai andando benissimo!» L’esaminatore si trattenne dal ridacchiare. «Io sono una frana, ti invidio…»

Beh, in effetti…

«Sono sicuro che stia andando meglio di come dici, non ti preoccupare… e poi c’è sempre Pozioni, non è così?» replicò con un occhiolino il ragazzo, facendo praticamente sprofondare la Lewis.

Molto affascinante ragazzo, complimenti.

«B-beh, sì… se solo avessi un’idea di come sia andato il test scritto…»

«Uhm… non ti posso promettere di ricordare tutto, ma se ti va dopo l’esame potremmo provare a ripercorrere le rispose assieme, che ne dici?»

L’esaminatore tolse gli occhi dal duello e li posò sui due adolescenti.

Yagami sorrideva con aria sicura di sé, rilassata, mentre Lewis si stava riavviando compulsivamente i capelli biondi dietro le orecchie.

«E-ecco, sei gentilissimo, ma devo proprio tornare a casa da mia nonna… ecco, ceniamo sempre assieme, ci tiene molto».

Oh, peccato, pensò l’esaminatore, quasi scuotendo il capo per il dispiacere.

«Non ti devi scusare… abiti con tua nonna, quindi?»

Lei assunse un’espressione strana, le labbra piegate in un sorriso di circostanza. «Ehm, sì… s-siamo solo noi due, ecco, perciò mi dispiace lasciarla da sola».

L’esaminatore aggrottò la fronte, e Light parve pensare per qualche momento. «Capisco, beh è bello che passiate un po’ di tempo assieme ogni giorno… in questo periodo mio padre lavora tanto che mi sembra quasi si non abitare nella stessa casa, mi manca cenare con lui».

Certo che trovare dei ragazzi così colmi di pietà filiale, al giorno d’oggi…

L’esaminatore, corrucciato, cercò di ricordare quando fosse andato a trovare i suoi genitori l’ultima volta.

Hikari Lewis, nel mentre, sembrava starsi mordendo la lingua per non dire qualcosa, chiudendo seccamente la bocca con aria imbarazzata un attimo prima di parlare. Yagami sembrava divertito.

«Cosa?»

«N-no, nulla, io… è solo che ci pensavo anche l’altra volta e…» L’esaminatore si sporse appena verso i ragazzi, dato il baccano che stavano facendo le duellanti di fronte. «Tuo padre è per caso… il Sovrintendente Yagami? Il capo delle indagini su Kira?»

Ah, ecco dove l’avevo già sentito.

«Caspita, sei informata!»

«M-mi dispiace!»

«Figurati, dopotutto ho un cognome abbastanza particolare, me lo sarei chiesto anche io… e poi, è bello sapere che non sono il solo a tenersi informato sul caso Kira»

«Certo che sì! Voglio diventare una Auror, dopotutto!» esclamò con fervore la giovane, facendo quasi ridacchiare l’esaminatore. Light Yagami, invece, la guardava colpito, un misto di curiosità e interesse nello sguardo.

Proprio due piccioncini, annuì l’esaminatore, chiedendosi che tipo di appuntamenti avrebbero fatto i due: cena e fascicoli sui crimini più recenti a lume di candela?

A proposito di cena, che diavolo si sarebbe mangiato quella sera? Perché il miso era finito, ora che ci pensava, ed era un bel problema.

«Hikari, posso chiederti una cosa?»

Magari poteva fare un salto al discount a qualche isolato di lì, non era molto distante.

«E-ehm, ok?»

Però sarebbe stata una noia tornare fino a casa da lì.

«Perché vuoi fare l’Auror?»

Che?!

L’attenzione dell’esaminatore tornò immediatamente alla conversazione tra i due.

«Non vorrei offenderti, ma… onestamente non sembri il tipo di persona che si presterebbe a un lavoro tanto pericoloso, specialmente ora che Kira è in circolazione»

L’esaminatore sbarrò gli occhi: Light Yagami aveva appena sganciato la bomba, e ora c’era da vedere come l’avrebbe presa la strega. Lui non avrebbe mai fatto una domanda del genere a una ragazza che gli interessava.

La bionda sembrò ponderare la domanda con attenzione, le sottili sopracciglia aggrottate. «So di non essere…» iniziò, ma la sua voce si spense subito. L’esaminatore tese maggiormente l’orecchio, ormai seduto sul bordo del suo sgabello. «F-forse non sono la persona più adatta per questo mestiere, e-e so di avere ancora tanto lavoro da fare ma… i-i miei genitori-» la strega serrò le labbra, interrompendosi improvvisamente. I suoi occhi erano fissi a terra, e l’esaminatore era abbastanza sicuro che sarebbe scoppiata a piangere se li avesse alzati. «Ho deciso di diventare Auror per loro, per quello che non ho potuto fare… per vend-» Hikari ammutolì di botto, il volto pallido e un sorriso tremulo in volto.

Vendicarli? Stava dicendo vendicarli?

L’esaminatore era atterrito, incredulo a quella storia: quella minuta strega dall’aria innocente stava intraprendendo una carriera del genere per vendetta? Forse l’aveva sottovalutata.

Anche Yagami pareva essere scosso dalla rivelazione, giudicando da come la stava fissando in silenzio. Lo vide chinarsi leggermente sulla ragazza, sorridendole comprensivo mentre posava una mano sulla sua spalla. Lei sussultò.

«Mi dispiace…» sentì mormorare il ragazzo.

L’esaminatore volse rapidamente lo sguardo altrove, imbarazzato di assistere a una scena così delicata. Quasi saltò sulla sedia quando, dall’altra parte del cortile, trovò Ryūga intento a fissarlo trucemente: con un attimo di ritardo, si rese conto che il mago stesse fissando Hikari e Light, non lui.

Sospirò di sollievo.

Nel mentre, Light stava suggerendo a Hikari di procedere con il loro esame.

«Oh, s-sì, direi che hai ragione» concordò, la strega. «Però il numero 125 non si è ancora presentato…» spiegò, una nota di panico nella voce.

L’esaminatore storse il naso.

Ma se state parlando da dieci minuti abbondanti?

Light rise, e con la coda dell’occhio lo vide sollevare il suo piccolo origami a forma di rana. «Scusa, te lo dovevo dire prima! Sono io il numero 125».

In quel momento, le due streghe delle Fatture Orcovolanti passarono alle mani, e l’esaminatore saltò dalla sedia per andare a dividerle.

Che giornata.

 

Sophie si bloccò, presa in contropiede.

Pensava che stesse andando tutto alla perfezione: far interessare Light alla sua storia, guidarlo lentamente alla consapevolezza che la piccola Hikari potesse essere mossa da motivazioni non troppo distanti da quelle di Kira, e poi…

Cazzo.

Duellare con lui era esattamente quello che Sophie e L volevano evitare fin dall’inizio, e invece eccoli qui.

Però…

Però, dopo ore di duelli talmente noiosi da far fremere la sua bacchetta d’impazienza, la prospettiva di mettere alla prova l’esercizio di concentrazione e controllo fatto con L la incuriosiva più del dovuto. E poi, non poteva certo rifiutare un duello di punto in bianco, no?

Nel peggiore dei casi, L aveva detto che avrebbe interrotto il duello a qualche modo, onde evitare che la strega rimanesse fulminata da qualche incantesimo a cui Hikari Lewis non avrebbe dovuto saper sfuggire.

“Fidati di me”.

Un sorriso sovraeccitato dipinse le labbra piene della ragazza. «Oh, che bellezza!»

Light la guardò per qualche secondo, poi rise: la sua risata, come ogni suo gesto, era attraente, elegante, spontanea. «Pensavo non ti piacesse duellare». Le sue parole, quelle invece dissimulavano commenti sottili, dai margini affilati, intrisi di furbizia.

Non gli sfuggiva alcun dettaglio.

«Beh, non è la mia specialità… e-e mi dispiace se sarò un po’ noiosa ma… ecco, penso sarà interessante duellare con te» spiegò la strega, di gran lunga più a suo agio nel guardarlo negli occhi rispetto a qualche minuto prima.

Lui sorrise con quel sorriso brillante che sembrava sfoderare con tanta facilità. «Cercherò di andarci leggero»

Sophie esibì un broncio perfetto sul volto a forma di cuore di Hikari. «N-non troppo, però, ok?»

La leggera risata di Light si levò nuovamente nell’aria, mentre si disponevano ai capi opposti delle linee che demarcavano la zona di duello più vicina. «D’accordo, Hikari, d’accordo».

Sophie prese posizione in modo un po’ goffo, rigido, atto a perdere il baricentro e, mentre guardava il volto divertito, quasi intenerito di Light, pensò che quella sfida non sarebbe stata poi così difficile. Tenere la guardia abbassata con lui sarebbe stato sicuramente più semplice che farlo con un detective di fama mondiale e il suo sguardo penetrante.

Light, dopotutto, era solo uno studente, per quanto eccezionale: uno studente reso malleabile da una ragazza un po’ ingenua e, probabilmente, infatuata.

Se anche non fosse stato così, si ripeté Sophie, L era presente proprio per quello: non distolse lo sguardo da Light, ma era abbastanza sicura che il detective li stesse già osservando.

“Fidati di me”.

L’esaminatore, quello che aveva origliato lei e Light con la discrezione di un ippogrifo imbizzarrito, innalzò la cupola attorno a loro.

«D’accordo…» disse Light, dopo l’elegante inchino di rito. «Tre, due, uno… Expelliarmus!» il suo primo attacco fu rapido, sì, ma leggero proprio come si aspettava. Non mancava di grazia e perfetta esecuzione, ma era palese che fosse stato addolcito, privato della lapidaria efficienza di un vero duellante.

Sophie evocò uno scudo piuttosto pigro, che non riuscì ad assorbire a pieno l’impatto dell’incantesimo e la costrinse a stringere la presa sulla bacchetta. Si curò anche di scivolare indietro di qualche centimetro, prima di strillare: «Stupeficium!»

Light parò l’incantesimo con una nonchalance che dava maggiore idea di quali fossero le sue reali capacità, così come lo fu l’arabesco disegnato magistralmente a mezz’aria per farle tremare la terra sotto i piedi. La strega riconobbe un incantesimo complesso e applicabile in un’interessante varietà di scenari, ma facilmente schivabile in circostanze normali.

In quel momento, invece, Light doveva vedere Hikari inciampare nel terreno dissestato.

«De-defodio!» balbettò poi la giovane, scavando una breccia nel cemento spezzato che ora copriva parzialmente la visuale dell’avversario, già pronto con uno Schiantesimo sulla punta della lingua.

Non si gioca con il cibo, Yagami.

Light si stava comportando come promesso, andandoci più che leggero, garantendole molto più tempo di quanto sarebbe stato lecito in un regolare duello, concedendole spazi e azioni che avrebbe potuto vanificare in pochi secondi.

Però…

Però, avrebbe potuto semplicemente disarmarla.

Forse non vuole ferire il mio orgoglio, si disse paziente, lanciando qualche altra debole fattura e riparandosi con un urletto dietro un albero. Sbirciò il volto di Light, apparentemente concentrato e vagamente divertito.

Forse.

In quel momento, la strega non poté farne a meno, non poté proprio trattenersi dal fare un piccolo test.

Così, ignorando la vocina che la metteva in guardia dal prendere le manie di L, si Disilluse.

Osservò l’espressione di Light incrinarsi per un istante, gli occhi assottigliarsi appena quando la vide scomparire nel nulla. Poi esibì un’espressione nuovamente gioviale, un sorriso piacevolmente sorpreso. «Perciò… hai da migliorare gli incantesimi offensivi e difensivi… ma sai disilluderti! Forse ti ho sottovalutata, Hikari.»

Non sembra mentire, sembra quasi imbarazzato di non averlo previsto… rifletté Sophie, studiando le reazioni del ragazzo mentre si spostava lentamente lungo l’area di combattimento, ben attenta a non far cadere detriti che la tradissero.

Light, gli occhi castani che studiavano con attenzione la scena, mormorò qualcosa sottovoce: un piccolo pezzo di cemento si polverizzò a mezz’aria, sollevando una nuvola che investì in pieno Sophie.

Nel momento in cui la polvere ricalcò i contorni invisibili del suo corpo, la ragazza rotolò goffamente a terra per evitare un fascio di luce blu. Tossì la povere che le era entrata nel naso, concedendosi un breve sogghigno: non le era sfuggito il lieve, quasi impercettibile accelerare del ritmo con cui stava duellando il suo sfidante… Light si stava scaldando.

«La Disillusione richiede una concentrazione non indifferente» le fece notare il mago, e lei lasciò che l’incantesimo le scivolasse di dosso mentre si rialzava frettolosamente e provava un attacco inutile.

«Aguamenti!»

Uno scudo azzurrino si evocò senza che Light muovesse le labbra. «Experlliarmus» scandì invece, e stavolta Sophie si lasciò sfuggire quasi del tutto la bacchetta.

Ancora una piccola spinta.

«Bombarda!» lo strillo fu più scenico che altro, dato che la strega aveva lanciato l’incantesimo non-verbalmente con qualche istante di anticipo… centrando però un punto abbastanza distante da Light.

Abbastanza distante da essere sintomo di una pessima mira.

Abbastanza vicino, e rapido, da provocarlo, da irritare qualcuno che stava concedendo tempo a un duello che avrebbe potuto vincere in pochi secondi.

Se Sophie aveva indovinato il tipo di persona che era Light, quell’inaspettata, piccola minaccia avrebbe incrinato il suo sorriso di porcellana. Nel migliore dei casi, gli avrebbe fatto salire il sangue alla testa.

Mal trattenendo un sorriso divertito, aguzzò la vista per spiare il volto di Light.

E il sorriso le morì sulle labbra. Una sensazione di gelo la investì come una doccia fredda, e improvvisamente quello non era più un gioco, un test: per un terribile, terribile attimo, vide delle crepe nella porcellana.

Forse… forse era solo un riflesso, un gioco di luce, o un frammento della sua immaginazione, che a posteriori si sarebbe quasi convinta di non aver visto.

Eppure.

Eppure vide il modo in cui Light cercò il suo sguardo con risentimento, la bocca piegata in una smorfia rigida che non aveva nulla di attraente.

“Punizione, Winchester!”

Vide i suoi occhi, in mezzo alla nube sollevata dall’esplosione, in mezzo a una coltre di polvere e terra che avrebbe dovuto ostruirle la vista. Vide uno sguardo minaccioso, assassino, un’ombra che fece tremare una parte di lei sepolta a fondo. Perché lei sapeva, lei aveva visto e vissuto di prima mano cosa potesse seguire a uno sguardo del genere.

“Come stanno i tuoi genitori, Winchester? Oh, ma certo… non possono più insozzare il nome di maghi, non è vero?”

L aveva ragione quando diceva che era una strega che duellava d’istinto, perché la guerra e tutti gli ossessivi allenamenti che ne erano seguiti le avevano ingranato certe reazioni nel cervello, le avevano lasciato sottopelle dei movimenti automatici, instillato una percettività con cui non sempre la sua logica poteva tenere il passo.

L aveva ragione a preoccuparsi, dopotutto, perché Sophie non si accorse nemmeno di aver alzato la bacchetta, in un movimento che avrebbe dovuto essere troppo rapido per Hikari Lewis. Non si accorse del detective, che aveva seguito quello scontro con la fronte sempre più aggrottata, la mano stretta sempre più forte sulla bacchetta, la mascella sempre più rigida. Non si accorse nemmeno di avere un incantesimo pronto sulla punta della lingua, uno di quelli che solo l’Auror Sophie Winchester avrebbe saputo utilizzare.

“Inutile, inutile, inutile INUTILE FECCIA!”

Vide uno spettro dipinto sulla figura di Light, lo spettro di un passato che le fece venire la pelle d’oca e rivoltare lo stomaco.

Non di nuovo.

Vide Light alzare la bacchetta su di lei…

“CRUCIO!”

… Ma non fu né la sua voce, né quella di Light, a tuonare: «Reducto!»

La strega sobbalzò, inciampando nei suoi stessi piedi e cadendo all’indietro mentre una scia bluastra saettava davanti al suo naso.

Per un attimo, tutto fu silenzio, Sophie improvvisamente cosciente del suo respiro ansimante, della pavimentazione incrinata che le aveva bruciato i palmi delle mani, della voce indignata dell’esaminatore che stava riprendendo L.

«Numero 22! Si duella all’interno delle aree delimitate!»

«Oh, mi perdoni, devo aver frainteso le marcature…»

«Le toglierò due punti per questo!».

Sophie, vide L annuire con un cenno dondolante. Il suo sguardo penetrante, però, era fisso su di lei.

La strega sbirciò Light, ora perfettamente visibile grazie all’adagiarsi dei detriti: era ancora in piedi, bloccato nella posa in cui l’incantesimo di L l’aveva interrotto, prima che potesse terminare l’arco discendente della propria bacchetta. Niente di intimidatorio nella sua figura, nessuna traccia dell’ombra sinistra che Sophie aveva intravisto.

Ignorando il tumulto interiore che le stava facendo esplodere il cuore in petto, Sophie si affrettò a far rotolare la bacchetta fuori dall’area consentita, approfittando del fatto che Light stesse studiando L con aria perplessa.

«Oh…» sospirò drammaticamente.

«Hikari, tutto ok?» le chiese Light, avvicinandosi in fretta per aiutarla ad alzarsi.

«S-sì, ma mi è sfuggita la bacchetta, ho perso…» spiegò sconfortata, indicandola mentre si spolverava i vestiti. «N-non che mi aspettassi niente di diverso, eh! S-solo…»

«Ehi, dai, non stavi andando così male!» la rincuorò il mago, raccogliendo la sua bacchetta con un movimento fluido e posandogliela fra le mani sporche di terra. «Anzi, mi hai proprio sorpreso con l’Incantesimo di Disillusione, e il Bombarda, poi!»

«Oooh, mi dispiace moltissimo, Light, ho decisamente esagerato con quello! È che sono andata nel panico e non sapevo più che cosa usare…»

«Figurati, anche se per un attimo ho davvero pensato che mi avresti preso!»

Sophie mise il pilota automatico, lasciando che quel Light, col sorriso gentile e i modi affascinanti, chiacchierasse animatamente del loro duello e di tutto quello che avrebbero potuto migliorare. Continuò a rispondergli con risatine e sguardi accesi d’interesse, lasciando che la tensione che le irrigidiva le spalle passasse per timidezza, incapace di capire che cosa avesse visto pochi minuti prima.

La strega non riusciva però a impedirsi di cercare la figura di L con la coda dell’occhio.

“Fidati di me.”

Mi dispiace.

 


LUMOS

Helo again!

Capitolo un po’ lunghetto un’altra volta ma va bene così, perché ho riscritto la parte centrale venti volte visto che mi annoiava.

Poi ho pensato a un esaminatore annoiato dalla vita e che dovrebbe andare a trovare la mamma e ha iniziato ad annoiarmi di meno LOL

So che il finale è un po’ confuso, but stay tuned ;3

Non ho riscritto di nuovo il significato dei vari incantesimi, ma per chiarificazioni sono sempre qui \(°^°)/

Un abbraccione virtuale <3

NOX

 

 

 

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