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di Shadow writer
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Intro ***
Capitolo 2: *** Aspettavo te ***
Capitolo 3: *** Confusione e pessime scelte ***
Capitolo 4: *** Devil Wheels ***
Capitolo 5: *** Ross & Alison ***
Capitolo 6: *** La corsa ***
Capitolo 7: *** Sabato (parte 1) ***
Capitolo 8: *** Sabato (parte 2) ***
Capitolo 9: *** Brutti presagi ***
Capitolo 10: *** La terza corsa ***
Capitolo 11: *** L'avvocato ***
Capitolo 12: *** Lei ***
Capitolo 13: *** Mila ***
Capitolo 14: *** Il professor Thomson ***
Capitolo 15: *** Scegliere ***
Capitolo 16: *** La cena ***
Capitolo 17: *** Il primo bacio ***
Capitolo 18: *** Perché io? ***
Capitolo 19: *** Rimediare agli errori ***
Capitolo 20: *** I finalisti ***
Capitolo 21: *** Tradimento ***
Capitolo 22: *** Pericolo ***
Capitolo 23: *** L'ultimo traguardo ***
Capitolo 24: *** La convivenza ***
Capitolo 25: *** Ultimo saluto ***
Capitolo 26: *** Epilogo ***
Capitolo 27: *** Capitolo extra 1 ***



Capitolo 1
*** Intro ***








Intro

 


L'auto rombava sotto il suo sedile. 

La cintura era quasi un nastro decorativo e tutti gli scossoni lo sbattevano all'interno dell'abitacolo, mentre sotto i suoi piedi ballavano un tango rapido con i pedali.

Le mani correvano rapide ma forti sul volante, mentre superava le altre auto e manteneva la posizione in testa.

Conosceva il percorso, lo aveva studiato prima della gara e le sue braccia conoscevamo ogni curva prima che i suoi occhi la vedessero.

Una salita lo costrinse a premere l'acceleratore a tavoletta e la discesa successiva lo slanciò avanti con tale velocità che, una volta superato il traguardo, dovette ruotare velocemente il volante per non schiantarsi contro il muro di fronte.

Non fece neanche in tempo a tirare il freno a mano, che qualcuno aprì le portiere dall'esterno e venne trascinato fuori a forza per poi essere issato sopra alla folla, che, esultante, gridava il suo nome.

L'adrenalina per la gara correva ancora nelle sue vene mentre il mare di gente lo faceva saltare e lo riprendeva al volo. Gettò il capo indietro e rise, guardando le stelle.

Quando l'estasi della folla si placò, venne depositato accanto ad un omone dal cranio rasato su cui luccicava l'inchiostro dei tatuaggi.

L'uomo gli diede una vigorosa pacca sulla schiena e gli passò una mazzetta di soldi in modo discreto.

«Dovresti farlo più spesso, ragazzo» commentò con la sua voce tonante, «non sei per niente male.»

Lui sogghignò e si passò una mano tra i capelli: «Te l'ho detto, Richie, solo una volta. Ti dovevo un favore.»

Quello scrollò le spalle e grugnì, in disinteressato dissenso.

Come alla fine di ogni gara, il vincitore fu circondato dal gruppo schiamazzante delle ragazze che speravano di ottenere la sua attenzione, o anche solo un bacio.

Nate dedicò ad ognuna lo stesso sorriso sornione, si lasciò accarezzare e godette di ogni loro premura.

Quando il traguardo cominciò a svuotarsi, sotto le luci sparate dei lampioni improvvisati, decise di togliere il disturbo. Nel caos generale, gli bastò uscire dai fasci di luce per potersi allontanare indisturbato e tornare verso la città.

Lontano dalla gara, le strade erano vuote e la popolazione dormiva all'interno degli appartamenti silenziosi.

La periferia era scarsamente illuminata e si potevano scorgere solo poche sagome ferme sui bordi dei marciapiedi.

Nate camminava con le mani affondate nelle tasche della felpa, stringendo la mazzetta di soldi che Richie gli aveva passato. Sorrise, al pensiero di quanti avessero guadagnato dalla sua vittoria quella sera. Gli era giunta la voce di parecchie scommesse e di puntate alte. Sorrise anche al pensiero di quanti, a cui stava antipatico, avessero perso qualcosa quella notte. Quando pensò al signor Garlock, un gioielliere ebreo che una volta aveva rifiutato il suo oro, gli venne quasi da ridere: Richie gli aveva detto che aveva scommesso cento dollari per la sua sconfitta.

Quando raggiunse il suo condominio, gli bastò tirare una spallata alla porta per poter entrare. Era difettosa da mesi, ma nessuno si era preoccupato di sistemarla.

Salì le scale e raggiunse il suo appartamento all'ultimo piano.

Rispetto alla sua precedente dimora, questa era più grande, più moderna e aveva l'aria condizionata, ma non era riuscito a liberarsi dell'odore di birra e sigarette che aleggiava per le stanze. A questo contribuivano in massima parte i suoi coinquilini, Mike e Jay,.

Quando entrò nell'appartamento, Nate notò la coda di cavallo bionda di Mike che sbucava tra i cuscini del divano, mentre un soffuso ronfare risuonare nel salotto.

Il ragazzo prese un cuscino e lo schiacciò sul volto dell'amico, che si svegliò di soprassalto e cominciò a gridare.

«Che cazzo pensavi di fare?» gli sbraitò contro Mike paonazzo.

«Ti ho detto di non addormentarti sul divano. Sbavi mentre dormi» ribatté Nate lanciandogli il cuscino con cui lo aveva svegliato.

Mike lo prese al volo e si alzò in piedi.

«Sembri di buon umore» commentò. «Hai vinto?»

Nate estrasse il denaro dalla felpa e lo fece frusciare.

«Tu che dici?» ammiccò.

«Figlio di puttana» Mike proruppe in una risata e circondò il collo di Nate con un braccio per stringerlo a sé.

«Avrei voluto esserci. Dai racconta.»

Nate si sedette sul divano: «Solo se ti asciughi la bava.»

Mike afferrò un cuscino e si lanciò su di lui per restituirgli il favore.

 

 

 

L'unico momento in cui Nate sentiva di fare qualcosa di produttivo quando era al lavoro, era durante la pausa pranzo.

La mensa era una sala enorme, attraversata dai lunghi tavoli di assi unte affiancati da una coppia di panche traballanti. Il cibo, poco appetitoso e poco saporito, veniva servito, o meglio lanciato, su un nudo bancone d'acciaio dalle braccia massicce della cuoca. La sala era sempre affollata e chi arrivava tardi doveva girovagare sprecando parte della propria pausa alla ricerca di un posto dove sedersi.

In una di quelle ricognizioni, Nate era capitato nell'angolo più remoto della mensa, dove di solito non arrivava quasi nessuno, dato c'è gli amici gli riservavano un posto più vicino.

Ad un tavolo più isolato, ma meno unto, degli altri, sedeva un gruppo di uomini che spiccavano per le loro camice stirate e i pantaloni aderenti, ben diversi dalle tute sporche degli altri lavoratori.

Nate aveva preso l'abitudine di sedersi a quel tavolo, un poco discostato dagli uomini, ma abbastanza vicino per riuscire ad origliare la loro conversazione. Loro erano quelli che avevano studiato, che potevano vantare una laurea e qualche zero in più in banca.

Quando Nate aveva ricevuto la proposta di lavoro per il suo progetto, si era aspettato di lavorare con uomini come quelli, indossando le loro stesse camice inamidate e certamente non sporcandosi le mani con l'olio delle macchine come faceva da una vita.

Aveva ragione sua mamma, quando diceva che tutto cambia per rimanere sempre lo stesso. Aveva abbandonato la sua città e la sua vita per trovarsi allo stesso punto di partenza: un operaio malamente considerato senza alcuna possibilità di crescita.

Per quanto Nate detestasse ammetterlo, quegli uomini se ne intendevano del loro lavoro. Quello era il principale argomento di conversazione durante il pranzo e il ragazzo ascoltava e memorizzava ogni parola come se fosse un insegnamento prezioso.

Quasi un anno dopo essersi trasferito, aveva capito che non sarebbe arrivato da nessuna parte senza un pezzo di carta e si era iscritto ad un corso serale.

Quel giorno gli ingegneri stavano parlando dei nuovi provvedimenti del sindaco e Nate si estraniò dalla loro conversazione, disinteressato.

Controllò i messaggi.

Mike gli aveva mandato un video e Jay gli ricordava che toccava a lui fare la spesa.

 

 

Quando uscì dal lavoro, salì in sella alla sua moto e pensò che non aveva voglia né di fare la spesa, né di sentire la ramanzina di Jay.

Guidò fino al Venus e parcheggiò sotto all'insegna al neon che troneggiava sull'ingresso.

All'interno le luci erano soffuse, i profumi intensi e le sagome di ragazze seminude proiettavano ombre oblunghe sul parquet scuro.

I clienti si nascondevano dietro ai pilastri quadrati tra le pieghe dei divanetti, o dietro ad un bicchiere colorato.

Nate si avvicinò al bancone e si lasciò cadere su uno degli sgabelli sgualciti.

L'uomo piccolo e smilzo al di là del bancone gli rivolse un cenno di saluto, poi aggiunse: «Richie è nel suo ufficio, vuoi che te lo chiami?»

Nate scosse il capo: «No, sono solo venuto per mangiare.»

L'uomo prese il suo ordine e sparì al di là di una porticina di legno.

A servirlo fu una ragazza, Alison. Nate l'aveva già incontrata altre volte ed era certo che lei avesse un debole per lui. Non era difficile neanche avere un debole per lei, constatò il ragazzo guardando le sue lunghe gambe, nude e toniche, mentre era voltata per prendergli un bicchiere.

«Si dice che tu ti stia facendo un nome in città» commentò Alison, appoggiandosi al bancone di fronte a lui.

Il ragazzo alzò gli occhi dalla bistecca e incrociò quelli civettuoli di lei.

«È stata la mia prima e ultima gara» ribadì lui, «l'ho già detto a Richie.»

Lei fece schioccare la lingua contro il palato in segno di disappunto.

«Mi hanno riferito che ci sai fare con le auto.»

Nate rise e si sporse verso la ragazza.

«Me la cavo bene con molte cose, Alison» quando pronunciò il suo nome, le appoggiò le dita sotto il mento, costringendola a guardarlo negli occhi, «ma queste non significa che io sia interessato a tutte queste.»

La ragazza si ritirò in fretta, delusa e dispiaciuta dalla piega che la conversazione stava prendendo.

«Sei tu che ci perdi, Nate» commentò, prima di avvicinarsi ad un altro cliente.

Lui si dedicò per qualche istante alla sua bistecca, fino a che la ragazza tornò libera.

«E cos'altro dicono tutte queste persone che parlano di me?» le domandò.

Lei non rispose subito, ma lo fissò con uno sguardo penetrante mentre asciugava un bicchiere. Riempì questo di birra e glielo pose davanti.

«Dicono che se fossi sia il meccanico che il pilota di Richie, dovrebbero andare in un altro Stato per trovare un degno avversario.»

«Immagino lo sguardo incazzato di Skull» rise Nate.

Alison si unì a lui: «Quello è un pilota da quattro soldi a cui piace farsi fare la corte.»

Continuarono a chiacchierare per tutta la cena di Nate, fino a che un messaggio minaccioso di Jay lo informò che se non fosse tornato immediatamente con la cena avrebbe mangiato la sua gatta.

Pagò velocemente e tornò verso casa.

 

 

«Non osare mai più dire cose del genere» sbottò Nate quando entrò in casa, puntando l'indice contro Jay.

L'altro, pur essendo la metà di lui, non si fece intimorire. Si sistemò gli occhiali sul naso, con aria risoluta.

«Non fare queste sceneggiate, Nate. Sei capace solo a fare il cazzo che ti pare e pretendi che ti perdonino quando fai il carino. O quando ti fingi offeso.»

«Non hai offeso me, coglione, ma la mia gatta. Giuro che se le togli anche solo un baffo, te la farò pagare» replicò Nate e sbatté sul tavolo le borse con la spesa.

Raggiunse velocemente la sua camera e quando spalancò la porta, la prima cosa che vide furono gli occhioni della gatta acciambellata sul letto.

«Ciao piccola» la salutò sedendosi al suo fianco. La gatta si alzò, sbadigliando e stiracchiandosi, e si strofinò contro la mano tesa di Nate.

Il ragazzo l'aveva trovata un anno e mezzo prima, piccola ed infreddolita, nascosta nel vano delle scale. Da quando l'aveva presa con sé, era diventata una grossa gatta dal lungo pelo castano-rossiccio. 

«Nate!» lo salutò Mike affacciandosi sulla porta della camera, senza bussare. «Mi era sembrato di sentire i tuoi toni soavi.»

«Ti ha mandato Jay?»

Mike sorrise senza imbarazzo, assentendo involontariamente. Nate sapeva che Jay era un tipo puntiglioso, ma prima di tutto era un amico leale e non sarebbe mai andato a dormire senza aver fatto la pace con tutti.

Chiacchierò un poco con Mike, che gli ricordò il compleanno di Jay il sabato, poi raggiunse la cucina e aiutò l’altro coinquilino a riordinare la spesa. 

«Com'è andata la corsa ieri sera?» gli domandò ad un tratto.

Nate sistemò le uova nel frigo e si voltò lentamente verso l'amico.

«Be', sono ancora vivo, no?» gli disse.

L'altro gli lanciò uno sguardo truce: «Coglione. Mike mi ha detto che hai vinto.»

Nate scrollò le spalle: «Cosa ci vuoi fare? Sono bravo.»

Jay scosse il capo, bofonchiando un altro insulto.

«Vai a letto, finisco io qua» gli disse Nate, aprendo il frigo.

L'amico gli lanciò uno sguardo scettico.

«Eh dai, amico, quando ti capita ancora?»

Jay alzò gli occhi al cielo, ma decise di dargli retta.

Quando se ne fu andato, Nate chiuse il frigo e sospirò.









 



 


ANGOLO AUTRICE

 

Ciao a tutti!

Pubblico questa storia dopo anni di distanza dalla prima stesura. La storia era nata come il seguito di una one shot che avevo scritto in precedenza (una song-fic su Do I wanna know degli Arctic Mokeys, come si intuisce anche dal titolo di questa) e, a mano a mano che scrivevo, mi sono accorta che aveva le possibilità di diventare qualcosa di più complesso. 

Dopo averla sviluppata per i primi capitoli, l’ho abbandonata per qualche anno e solo recentemente mi sono sentita abbastanza ispirata per proseguire.

Proprio per la grande distanza che la separa dalle altre mie storie, risulta forse un po’ diversa e prevedo che sarà più consistente a livello di capitoli rispetto alle ultime long.

Questa pubblicazione è più che altro un esperimento. Mi dispiaceva lasciare la storia a marcire sul PC, quindi ho pensato fosse meglio esporla a pareri e critiche esterne che magari avrebbero potuto migliorarla. Sono molto insicura riguardo al risultato finale, quindi qualsiasi commento/correzione sarà ben accetto! 

 

Grazie a tutti coloro che sono arrivati fino a qui!

A presto,

M.

 

P.S.: sul mio profilo potete trovare le mie long concluse 

- “No Promises”: di genere drammatico/introspettivo.

- “La duchessa” (con la seconda parte in fase di conclusione):
a differenza di quello che il nome potrebbe far pensare, non è un’originale storica.

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 2
*** Aspettavo te ***






Aspettavo te
 

 

Chiunque avesse progettato la struttura della fabbrica, non era di certo un ingegnere competente. Le pareti erano così sottili che dal controllo qualità si riusciva a sentire il rumore assordante delle presse che lavoravano nella sala principale. 

Nate sentiva il tavolo vibrare sotto di lui e spesso gli era capito di controllare i prodotti più volte perché non riusciva mai ad essere preciso. 

Anche se non avrebbe scambiato la sua mansione con uno degli operai alle presse, odiava lavorare al controllo qualità, dove l'unica soddisfazione era trovare qualcosa di sbagliato.

«Tutto bene?»

Nate alzò gli occhi dalla lente e incontrò lo sguardo appannato dagli occhiali di Rugero.

Il collega lo stava scrutando dall'altra parte del tavolo.

«Sì» rispose, «perché?»

«Hai scartato due pezzi buoni» gli disse, posando i due pezzi sul tavolo.

Nate scrollò le spalle: «Mi sono sbagliato.»

Rugero sollevò le sopracciglia e gli puntò il dito contro: «Tu non sbagli mai.»

Il ragazzo sospirò e si accasciò sulla sedia alle sue spalle.

«Probabilmente ho solo bisogno di un caffè. Non ho chiuso occhio ieri notte.»

«Perché?»

Rugero era stato uno dei primi ad accogliere Nate all'interno della fabbrica. Aveva trattato il ragazzo con affabilità fin dall'inizio, soprattutto quando si era accorto che Nate era rimasto incastrato in un incarico ben al di sotto delle sue abilità.

Il ragazzo scrollò le spalle e appoggiò le mani sul tavolo davanti a lui.

«Le solite cose» rispose, guardando il collega. «I soldi sono pochi, il lavoro è uno schifo – senza offesa.»

Rugero fece un gesto per indicare che non se l’era presa e Nate continuò: «E la cosa mi andrebbe bene, se riguardasse solo me. Ma i miei amici si sono trasferiti con me e sono stato io a dar loro la speranza di una vita migliore qui.»

«Non essere così duro con te stesso» replicò l’altro, «alla fine volevi solo il loro bene.»

Nate fece un vago cenno di assenso e tornò al lavoro.

 

 

Finito il suo turno, Nate si diresse verso gli spogliatoi, ma fu bloccato dal responsabile della produzione, un uomo alto e ben impiantato, con i capelli a spazzola e un pizzetto grigio.

«Winchester» lo apostrofò, «ti vogliono sabato mattina come aiuto magazziniere.»

Nate si grattò la testa: «Questo sabato non posso, io…»

«Mi sembrava avessi chiesto di fare gli straordinari settimana scorsa» lo interruppe bruscamente l’uomo.

«Sì, ma sabato ho un impegno» si impuntò Nate. Mike aveva organizzato un weekend fuori città per il compleanno di Jay. Doveva essere una sorpresa, ma il festeggiato aveva scoperto tutto con una settimana d'anticipo e, anche se insisteva che non avrebbero dovuto, Nate sapeva quanto ci tenesse.

Gil, del reparto saldatura, gli aveva detto che i responsabili avevano cominciato a distribuire straordinari a chi ne aveva bisogno, ma che non sarebbero stati pagati il dovuto. Anche se erano solo chiacchiere, Nate aveva lavorato in quel luogo abbastanza a lungo per sapere che la diceria aveva un fondamento. 

«Non avrai un’altra possibilità, Winchester.»

L’uomo gli rivolse uno sguardo pietrificante.

Nate strinse i denti: «Sono disponibile in qualsiasi altro momento, solo non questo sabato.»

Il responsabile lo superò senza troppe cerimonie: «Troppo tardi.»

Il ragazzo serrò la mascella e si trascinò fino agli spogliatoi, dove poté liberarsi della sua divisa sudicia.

Avrebbe solo voluto scomparire.

Prima di entrare in doccia, controllò il cellulare e trovò sette chiamate perse tra Jay e Mike. 

Richiamò il primo.

«Sarò a casa tra mezz’ora, qualsiasi cosa sia, sono certo che può aspettare» esordì non appena l’altro rispose.

A rispondergli fu Mike, tutto d’un fiato: «Cihannoderubati.»

 

 

 

«Figli di puttana» ringhiò Nate quando vide le condizioni dell'appartamento. Il divano sottosopra, la televisione scomparsa, i cassetti della cucina aperti, le sedie ribaltate. Ogni oggetto portava il segno delle mani che lo avevano scosso e frugato, alla ricerca della sua parte più preziosa.

Nate si sarebbe definito una persona generalmente calma, che preferiva trovare soluzioni attraverso la sua mente pratica piuttosto che lasciarsi travolgere dalle emozioni. In quel momento, la sua mente nulla poteva contro la vertigine che l'aveva colta. Un improvviso senso di nausea gli attanagliò lo stomaco.

«E Mila?» domandò, percorrendo le stanze con lo sguardo.

Jay sbuffò: «La tua gatta sta bene, si era nascosta sotto al divano.»

Nate tirò un mentale sospiro di sollievo, poi si diresse verso camera sua. Il materasso era stato spostato dal telaio e abbandonato sul pavimento, l'armadio era spalancato e il suo contenuto si trovava sparso per la stanza.

Cominciò ad imprecare ad alta voce quando vide il cassetto della scrivania in cui teneva i suoi risparmi ribaltato a terra. Aveva sempre saputo che non si trattava di un nascondiglio intelligente, ma credeva che la serratura che lo chiudeva avrebbe scoraggiato chiunque a provare ad aprirlo.

«Cazzo» imprecò, facendosi spazio tra il caos in cui era ridotta la sua stanza. 

«Ti avevo detto di depositarli in banca» gli disse Jay, comparendo insieme a Mike sulla soglia.

«Vaffanculo Jay, okay?» lo fulminò. La situazione era già una merda, senza che lo facessero sentire un idiota. «Lo sai che non mi fido delle banche.»

Jay alzò gli occhi al cielo, ma ritenne più saggio tenere la bocca chiusa.

Mike fece un passo avanti, con lo sguardo basso sulle mani che torturavano l'orlo della sua maglia.

«Hanno preso la mia erba» confidò, come se la cosa potesse essere di una qualche consolazione.

Nate gli scoccò uno sguardo seccato: «Be', mi dispiace davvero per la tua erba» non tentò neanche di velare il suo sarcasmo, «ma quella puoi sempre ricomprarla. Fammi sapere quando potrai ricomprare tremilacinquecento dollari.»

«Ci tenevi tutti quei soldi?» si lasciò sfuggire Jay, con gli occhi sgranati.

Nate lo incenerì con lo sguardo e l'altro si sistemò gli occhiali sul naso e tossicchiò.

«Hanno preso anche il mio computer, la tv e la PlayStation. Per fortuna abbiamo delle posate così scadenti che ce le hanno lasciate» tentò di sdrammatizzare.

Nate lanciò uno sguardo intorno a sé, nel disordine della stanza, poi si accovacciò a terra, vicino al materasso.

«Perché cazzo uno dovrebbe fare una cosa del genere?» mormorò tra sé e sé.

Mike si accovacciò al suo fianco, solidale, ma non disse nulla.

Colpi secchi sulla porta d'ingresso.

«Avranno dimenticato qualcosa?» domandò Nate ironico, raddrizzandosi.

Mentre gli altri due decidevano se era troppo presto per ridere della battuta, il ragazzo si diresse verso il salotto, per infamare chiunque volesse dargli altre grane in quella giornata di merda.

Fece scattare la serratura e tirò bruscamente la porta verso di sé.

Davanti a lui stavano due poliziotti.

 

 

«Che cazzo, Jay.»

Bisbigliavano nel salotto, mentre i due poliziotti girovagavano per il resto della casa e facevano i loro controlli. 

Jay si sistemò nervosamente gli occhiali.

«Sì, li ho chiamati io. Perché era la cosa giusta da fare. Perché io non ho paura della polizia» ribadì, lanciando sguardo di rimprovero ad entrambi i coinquilini.

«Non farmi la ramanzina» replicò Nate, «io ho un lavoro onesto. E anche Mike.»

«Oh, Mike, quello che aveva abbastanza erba nella sua stanza per provvedere a tutto il condominio» ribatté l'altro come se Nate non avesse fatto altro che provare il suo punto.

«Questo non significa che non sia una brava persona. Tutti lo siamo. Paghiamo le tasse e facciamo la raccolta differenziata.»

«Allora non capisco perché dovreste aver paura della polizia.»

«Io sto con Nate» si inserì Mike. Era rimasto per tutto il tempo in disparte, con la testa a ciondoloni come un cagnolino abbandonato.

«Cazzo, è ovvio che tu stia con lui» lo aggredì Jay, «tutti amano Nathaniel Winchester. Lui è il più figo perché sa sempre cosa dire e cosa fare. Poco importa se alla fine mette nei casini tutti» esclamò Jay, a voce così alta che uno dei due poliziotti si girò verso di loro, interrompendo la sua ricerca.

Nate s'irrigidì e l'amico si rese immediatamente conto di ciò che aveva provocato, perché sul suo volto si dipinse un'espressione dispiaciuta.

«Scusa, io non volevo...»

«Va bene, va bene» Nate prese un respiro profondo. «Sai che ti dico? Vaffanculo Jay. Tu hai chiamato i poliziotti, tu li gestisci. Ci vediamo quando è finito tutto.»

Senza ascoltare le scuse con cui Jay cercava di frenarlo, Nate si lanciò fuori dall'appartamento e poi giù dalle scale.

Il furto aveva scosso tutti. Sapeva che Jay non intendeva davvero quelle parole e che alla fine voleva solo il meglio per tutti. Era questo il problema. Nate aveva creduto di poterli aiutare, tutti loro. Aveva pensato che sarebbe stato diverso, che loro sarebbero stati diversi. 

Quando scese in strada, si rese conto di quanto tardi effettivamente fosse solo per il buio e il silenzio. Le strade deserte facevano pensare a notte inoltrata, anche se mancava ancora più di un'ora a mezzanotte.

Il ragazzo ficcò le mani nelle tasche della felpa. Soltanto la sera prima, quelle tasche avevano contenuto un bel gruzzolo di soldi, la vincita della gara. Jay era stato contrario fin da quando gliene aveva parlato.

«È pericoloso e illegale» aveva detto.

«A te non va giù che sia illegale» era stata la replica di Nate, e aveva ottenuto un'occhiataccia dall'amico. 

Senza rendersene conto, aveva già percorso quasi un miglio dall'appartamento. L'aria della notte gli rinfrescava la mente e ossigenava il suo corpo.

Notò dall'altro lato della strada un distributore di sigarette e immediatamente provò una forte attrazione. La luce al neon appesa sopra lo chiamava come una calamita.

Attraversò la strada, inserì le banconote — le poche che aveva nel portafoglio — e digitò il numero.

La macchinetta vibrò e lasciò cadere il suo pacchetto. Nate si piegò per raccoglierlo e aveva già estratto la prima sigaretta prima di realizzare di non avere un accendino con sé. Era stata una delle tattiche per smettere e, insieme a tutte le altre, aveva funzionato. Ma in quel momento, mandò a ‘fanculo tutta la buona volontà che lo aveva sostenuto in quei mesi e desiderò solo di avere con sé un accendino.

Lanciò uno sguardo lungo la strada e ricordò che a poca distanza da lì si trovava un ventiquattr'ore.

Con il pacchetto di sigarette nella tasca posteriore dei jeans, si incamminò.

Dato che il negozio si trovava a qualche minuto di distanza, ne approfittò per fare una chiamata.

«Pronto?» rispose la voce ringhiosa del responsabile della produzione.

«'sera, sono Winchester» si presentò. «Ci sarò, sabato mattina, per gli straordinari intendo.»

L'altro non rispose subito, come se stesse metabolizzando le informazioni più lentamente a quell'ora della notte.

«Te l'ho già detto, Winchester, troppo tardi. Ho già trovato qualcun altro per sabato. E per tutti gli altri straordinari.»

Gli mise giù senza salutare.

Nate imprecò a denti stretti e accelerò il passo verso il negozio. Il suo umore si stava scurendo come il cielo quella sera. Nessuna stella brillava sopra di lui.

Il ventiquattr'ore era un piccolo negozio illuminato da una luce azzurrina. Conteneva due scaffali disposti parallelamente rispetto alla cassa, ricolmi di ogni genere di prodotto.

Nate si avvicinò alla cassa e prese un accendino.

L'uomo indiano al di là alzò lo sguardo dal giornale che stava leggendo.

«Altro?» domandò.

Il ragazzo ci pensò un istante. «Una bottiglia di vodka.»

«La vendita degli alcolici chiude alle undici.»

Nate controllò l'ora sul cellulare.

«Ma sono le undici e un quarto!»

L'uomo indiano lo guardò con i suoi occhi piccoli e scuri.

«La vendita degli alcolici chiude alle undici» ripeté, come per spiegarsi più chiaramente.

«Per favore, ne ho bisogno.»

Il cassiere allungò la mano, in attesa dei contanti, con un volto impassibile. Grugnendo, Nate glieli porse e uscì dal negozio.

Mentre camminava, prese una sigaretta dal pacchetto e se la infilò in bocca. Il peso familiare tra le labbra lo fece subito sentire meglio. Non appena l’ebbe accesa, tirò una lunga boccata e percepì la sua gola scaldarsi.

Tutto ciò che mancava era un po’ di alcol, ma non c’era nessun locale nelle vicinanze e di sicuro non aveva denaro a sufficienza per un taxi.

Passeggiò un poco per il quartiere, fumando una sigaretta dopo l’altra. Quando si stufò di girovagare, si sedette sul bordo di un marciapiede, con le gambe allungate sulla strada deserta.

Guardava il palazzo di fronte a sé, un orribile condominio cubico con delle piccole finestrelle quadrate. Chissà chi viveva là dentro. Famiglie stipate in piccole stanze, uomini divorziati, vecchie coppie. 

Si perse così tanto nel fantasticare che non si accorse dell’automobile che aveva imboccato la strada fino a che quella di fermò davanti a lui.

Sbatté le palpebre, mettendo a fuoco il nuovo soggetto che gli impediva la visuale.

La portiera dal lato dell’autista si aprì, rivelando un paio di tacchi neri, delle gambe affusolate che salivano fino ad uno stomaco sottile e un petto prosperoso cosparso di capelli biondi. Solo quando arrivò agli occhi, Nate realizzò che si trattava di Alison. 

«Aspetti qualcuno?»

«Dove vai?» le chiese raddrizzandosi.

«Al lavoro.»

Il ragazzo spense la sigaretta sul marciapiede e la lanciò poco lontano, poi tornò a guardare Alison e le sorrise: «Aspettavo te.»

 








 








 

ANGOLO AUTRICE


Ciao!
Come forse vi siete accorti all'inizio di questo capitolo non ho inserito la cover che c'era nel primo. La mia intenzione è di inserire immagini di neon (che mi aiutano molto ad evocare il mood di questa storia) per ogni capitolo come ho fatto qui. Non sono però convinta del risultato, quindi ho bisogno di un parere: preferireste vedere sempre la cover che c'era nel capitolo precedente? Oppure vi piacciono anche queste immagini dei neon?
Grazie a chiunque sia arrivato fino a qui. Alla prossima!

M.

 

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Capitolo 3
*** Confusione e pessime scelte ***



 


Confusione e pessime scelte


 

Alison andava al lavoro per il turno notturno. Nell’auto, un vecchio catorcio senza aria condizionata, si respirava un forte aroma di caffè. La giovane aveva lo sguardo sveglio fisso sulla strada e teneva il volante con entrambe le mani.

«Cosa facevi in giro da solo?» gli domandò, lanciandogli uno sguardo impercettibile.

«Passeggiavo.»

La risposta laconica di Nate pose fine alla conversazione.

Guidarono in silenzio fino a che tra le tenebre comparve l’insegna a neon del Venus. Alison parcheggiò sul retro e aspettò che Nate scendesse dall’auto, poi si incamminò verso l’edificio.

«Perché non fai sistemare i freni?» le domandò avvicinandosi. Nonostante i tacchi alti, il passo della ragazza era deciso e rapido.

«Perché costa.»

«Anche un funerale è costoso» replicò lui e Alison si voltò a guardarlo. Nate notò che portava dell’ombretto dorato sopra le palpebre.

«È lì che finirai se non li fai sistemare.»

Lei roteò gli occhi e riprese a camminare.

Si infilarono attraverso una porta sul retro e sbucarono in un corridoio bianco sporco. Alcune delle porte che si affacciavano su di esso lasciavano intravedere armadi chiusi e scaffali pieni di cibo, ma per il resto era ordinato e spoglio.

«Dove stanno le ragazze?» domandò Nate, allungandosi al di là di una porta.

Alison lo afferrò per un braccio e lo trascinò avanti.

«Richie ci tiene alla loro privacy.»

Raggiunsero la sala principale, dove le casse vibravano per la musica e le luci soffuse rendevano difficile muoversi senza scontrarsi.

Alison tirò dritto fino al bancone, senza difficoltà, e salutò la donna che stava al di là. Quella sbadigliò, fece un cenno di saluto e rapidamente se ne andò.

Non appena Nate si fu seduto sullo sgabello, Alison gli allungò un bicchiere pieno di un liquido ambrato. Lui le rivolse uno sguardo interrogativo.

«Hai la faccia di uno che ne ha bisogno.»

Nate le sorrise: «Sei più sveglia di quanto pensassi», e vuotò il bicchiere in un sorso.

 

Un drink dopo l’altro, la serata si fece vertiginosa. I colori si fusero, gli odori si fecero indistinti, le risate argentine delle spogliarelliste, le loro mani che accarezzavano le sue spalle, l’alcol che correva lungo la sua gola. 

Gli avvenimenti delle ultime ore si persero in quel paradiso artificiale e tutto si fece nebuloso.

Vide Richie, rise con lui, parlarono di auto e di corse e di quanto fosse bella e spaventosa la velocità. Le parole si fecero confuse, la mente annebbiata dai drink che trangugiava per cancellare ogni briciolo di lucidità rimanente.

Scoprì che Alison profumava di vaniglia e che la sua pelle era liscia come la seta. I suoi capelli erano morbidi, quando cadevano sul petto nudo del ragazzo, ma le sue unghie erano affilate come artigli mentre scorrevano sulla sua schiena.

Il suo corpo era caldo e, pelle contro pelle, si sentiva rilassato come non mai. 

 

Emerse dal quel sogno colorato di soprassalto, con lo sguardo fisso su un soffitto giallino.

Non era camera sua, Mike lo aveva convinto che il verde lo avrebbe fatto sentire più a suo agio, così l’aveva dipinta più di un anno prima.

Cercò di mettersi seduto, ma un conato di vomito lo costrinse a piegarsi di lato. Riuscì a non vomitare, ma sentiva che tutto intorno a lui stava ruotando, e questo non aiutava certo alla situazione.

Si guardò attorno.

Nel letto, al suo fianco, dormiva una donna nuda, con la testa affondata nel cuscino e i capelli biondi sparpagliati tutt’intorno.

Dato che la sua schiena si muoveva impercettibilmente, dedusse che probabilmente ci aveva fatto sesso, ma non l’aveva uccisa. O non era morta di un altro tipo di morte.

I pensieri gli si presentavano ingarbugliati nella mente, andando ad aumentare quel terribile mal di testa.

Si alzò, realizzando di essere nudo a sua volta, e cercò i propri vestiti nel caos di coperte distribuito per la stanza. 

Dall’unica finestra della camera entrava la luce dorata della mattina, tagliata dalla veneziana contro il vetro.

Nel piegarsi a raccogliere la maglietta, Nate fu colto da un altro conato.

Corse fuori dalla stanza, aprì la prima porta davanti a lui che, fortunatamente, si rivelò essere il bagno.

Quando si fu ripreso, si sciacquò il volto con dell’acqua, e tornò nella stanza in cui si era svegliato per recuperare cellulare e portafoglio.

La camera di Alison era piccola, a malapena conteneva il grande letto matrimoniale, e arredata in modo minimo: un armadio e un comodino con sopra una sveglia. Lo sguardo di Nate cadde sui numeri verdi di questa.

Imprecò in mezzo ai denti e si lanciò fuori dall’abitazione.

Emerse in una via che non conosceva e si guardò attorno alla disperata ricerca di una pensilina. Inutilmente.

«Merda.»

Il suo cellulare era morto e non avrebbe potuto chiamare un taxi neanche se avesse avuto abbastanza soldi per pagarlo. Si guardò attorno e notò la vecchia auto di Alison parcheggiata poco lontano.

Rientrò nella casa e si mise a frugare in cucina. Trovò le chiavi in uno strano piattino di rame al centro del tavolo.

Senza troppi rimpianti, le afferrò e uscì dalla casa.

 

 

Arrivò al lavoro trafelato, dopo mezz’ora di imprecazioni da parte di tutti gli automobilisti che aveva superato durante il viaggio.

Sapeva che, se era fortunato, nessuno lo aveva cercato al controllo qualità e poteva fingere di aver sbagliato a timbrare.

Parcheggiò e scese dall’auto al volo, poi corse negli spogliatoi. Si era appena tolto i pantaloni, sentì dei passi avvicinarsi. Non ebbe neanche il tempo di nascondersi prima di veder comparire il familiare pizzetto del responsabile di produzione.

«Winchester» ringhiò non appena lo vide e con due falcate arrivò ad alitargli sul viso. «È tutta la mattina che ti cerco.»

Nate fece un passo indietro e sentì il freddo metallo della panca contro le ginocchia nude.

«Mi dispiace, la sveglia...»

«Risparmia fiato e sparisci dalla mia vista. Non credere che non riporterò questa cosa.»

Il ragazzo fece un cenno d’assenso e si infilò rapidamente la tuta. Mentre stava per uscire dagli spogliatoi, l’uomo si voltò nuovamente verso di lui.

«Non sapevo che le sveglie avessero gli artigli.»

Nate evitò di fare domande e si diresse alla sua postazione.

Quando lo sentì entrare, Rugero alzò lo sguardo dal pezzo che stava controllando, ma non fece commenti. Gli lanciò un’occhiata e tornò a lavorare.

 

 

Nate passò la pausa pranzo piegato davanti ad un wc. Aveva sperato di riuscire a recuperare le due ore perse rinunciando a mangiare, ma l’insistente mal di testa che lo aveva accompagnato per tutta la mattina si era rapidamente tramutato in nausea e poi in conati di vomito.

«Credevo fossi uno che regge l’alcol» commentò Rugero fuori dalla porta. «Con quell’aria da chi ha provato tutto della vita.»

«Lo ero» rispose Nate raddrizzandosi, «prima di smettere di berlo.»

Uscì dal bagno e si diresse verso i lavandini.

«Perché hai smesso?» 

Il ragazzo si sciacquò il volto e si ritrovò a fissare il proprio riflesso di fronte a sé.

«Non mi faceva bene» replicò e nello specchio vide Rugero corrugare la fronte.

Dato l’ultima cosa di cui aveva bisogno era rispondere alle domande di qualcuno, decise che era il momento di tornare al lavoro.

Controllò un’ultima volta il cellulare – che aveva messo in carica mentre lavorava – ma non trovò nulla di più interessante delle minacce di Alison se non gli avesse riportato l’auto.

«Nate» lo richiamò il collega. «Forse dovresti andare a casa.»

Il ragazzo lo squadrò, poi scosse il capo e uscì dai bagni.

 

 

 

***

 

 

 

Sabato arrivò in fretta.

Mike aveva insistito per portare Jay in un parco avventura. Nate non era stato entusiasta all’idea, ma sapeva che quello era il tipo di adrenalina controllata che Jay avrebbe apprezzato. E sapeva che Mike era più bravo di lui a scegliere i regali.

Il furto aveva scosso tutti, ma dato che avevano già versato la caparra avevano deciso di andare lo stesso.

Jay li svegliò alle otto e li costrinse a salire in auto senza fare colazione.

«Mangeremo sulla strada, ho già preparato dei toast» li zittì mettendosi dietro al volante, mentre gli altri due si trascinavano giù dalle scale.

Mike bofonchiò qualcosa dal sedile posteriore, spostandosi i lunghi capelli biondi dagli occhi.

«Dovrei essere io quello che si lamenta, dato che devo guidare il giorno del mio compleanno» disse immettendosi in strada.

«Se vuoi posso guidare io» si propose Nate.

«Scordatelo, non tocchi la mia auto.»

L’alto scrollò le spalle: «Visto? È una tua scelta.» 

«L’ultima volta che Mike ha guidato gli hanno ritirato la patente, e tu…» Jay fece una pausa e sospirò.

«Sapete che c’è?» riprese, lanciando un’occhiata nello specchietto retrovisore, «è il mio compleanno, oggi penso solo a divertirmi.»

«Amen, fratello» esclamò Mike e si allungò tra i sedili posteriori per alzare il volume al massimo.

Nate vide Jay stringere il volante e serrare la mascella, poi improvvisamente rilassarsi e concedersi un piccolo sorriso.

La loro auto sfrecciò tra le corsie affollate di quelli che non vedevano l’ora di lasciare la città per il weekend. Minivan stipati di famiglie numerose, sportive di ricchi single, sfrecciavano le une accanto alle altre, tutte dirette nella stessa direzione.

A metà viaggio, si fermarono al lato della strada per mangiare il pane che Jay avevano tostato e imburrato mentre gli altri due si buttavano giù dal letto.

Erano ormai usciti dal centro urbano e gli edifici si erano fatti più rari, concentrati solo nei piccoli centri abitati. In quel momento erano circondati dal verde dei boschi tra cui serpeggiava un’unica strada a due corsie.

Jay parcheggiò l’auto in uno spiazzo sterrato e costrinse gli altri a scendere per non sbriciolare all’interno.

Mike si sedette sul cofano e incrociò le braccia al petto.

«In città non faceva così freddo» commentò prendendo il panino che Jay gli tendeva. Quest’ultimo alzò gli occhi al cielo.

«Che c’è?» 

Nate rise.

«Ha attaccato un post-it al frigo per ricordarci di prendere un maglione caldo» gli disse, indicando Jay, poi estrasse dalla tasca un pacchetto di sigarette e se ne infilò una in bocca.

Jay gli rivolse uno sguardo interrogativo, ma fu Mike a parlare: «Credevo avessi smesso.»

Nate scrollò le spalle e prese un lungo tiro.

«Ho cambiato idea.»

La lontananza dalla città cominciò a farsi sentire nei loro toni più spensierati e allegri.

Ripresero il viaggio e in meno di due ore raggiunsero il parco avventura. Si trattava di una porzione di bosco in cui erano stati installati percorsi tra gli alberi, mentre una zona adiacente era stata riservata al campeggio.

Lasciarono l’auto nel parcheggio polveroso mezzo pieno e si avviarono a piedi verso l’ingresso.

Un piccolo capanno in legno accanto al cartello di benvenuto fungeva da biglietteria. Li accolse un uomo massiccio, con una barba folta e una camicia a quadri troppo stretta sul ventre.

Dopo averli registrati, consegnò loro una mappa e le attrezzature: «Buon divertimento.»

Nate le prese borbottando e uscì dal capanno.

Nel parco c’erano altri clienti e, in alto, tra gli alberi si notavano i loro abiti colorati.

Il ragazzo li scrutò, strizzando gli occhi a causa del cielo luminoso. Era una giornata soleggiata e solo poche nuvole coloravano di bianco il turchino del cielo.

«Ancora terrorizzato dalle altezze?» 

Nate si voltò e vide Jay avvicinarsi.

«Tu… te lo ricordavi?» gli domandò.

L’altro sorrise: «Non dimenticherò mai il tuo sguardo di terrore.»

Nate visualizzò vividamente nella propria testa l’immagine e rabbrividì.

«E mi hai comunque portato qui? Stronzo.»

 

Jay volle provare tutti i percorsi adrenalinici -ad eccezione di quelli in cui si erano verificati incidenti, poco importava se fosse trattato di cadute o infarti. 

Mike lo accontentò di buon grado, divertendosi come un bambino al luna park.

A metà giornata Nate si assentò con la scusa che qualcuno doveva montare la tenda e li lasciò provare i brividi a quote più alte.

Quando la sera gli altri due lo raggiunsero, aveva già costruito un piccolo falò e li stava aspettando accanto al fuoco.

Con il calare del sole la temperatura era scesa parecchio e tutto si era fatto freddo e scuro.

«Non sai cosa ti sei perso, amico» lo salutò Mike sedendosi di fronte a lui.

«Vedere Jay spettinato è già un’emozione abbastanza grande.»

«Coglione» borbottò il diretto interessato.

«Lo sai che ti vogliamo bene.»

Nonostante il falò facesse molta scena, con la sua luce rossastra e le fiamme che ondeggiavano sospinte dal vento, non fu necessario per preparare la cena. Avevano portato da casa abbastanza cibo confezionato per mangiare tutta notte.

Mentre cenavano, nel cerchio di luce che il fuoco ritagliava dall’oscurità della notte, fu come se per un istante, non esistesse nient’altro al di fuori di quel cerchio. Tutto ciò che era avvolto dalle tenebre, era occultato anche nei loro pensieri e, per quella sera, non li avrebbe assillati. Ogni preoccupazione evaporò nella notte, e rimase solo il presente.

Quando le loro pance furono piene e il tepore li ebbe resi sonnolenti, stesero una coperta fuori dalla tenda e vi si sdraiarono uno accanto all’altro.

«Come quando eravamo bambini» commentò Mike sorridendo.

Il cielo era limpido e sul nero pece si scorgevano le stelle, più luminose di quelle della città.

«Jay, non volevi fare l’astronomo da piccolo?» domandò Nate.

«Quando avevo dieci anni, ormai non ricordo neanche più i nomi delle costellazioni.»

Trovarono nuove forme e inventarono nuove costellazioni, indicando le stelle con gli indici e ribaltando il capo indietro.

«Buon compleanno a Jay» disse ad un tratto Mike, «un amico leale, sincero, rompicoglioni, ma che cercherà sempre il meglio per te.»

Jay rise.

Mike tirò a Nate una gomitata nelle costole.

«Ahi, che c’è?» 

«Tocca a te.»

Nate sospirò: «Jay sa che gli voglio bene.»

«È vero, lo so.»

Nate si voltò verso Mike come per dimostrare un punto.

«Tra pochi giorni sono due anni da quando siamo partiti» disse Jay, cambiando argomento.

«Tieni il conto?» domandò Mike ridacchiando.

«Sì, e anche Nate.»

Rimasero a guardare le stelle in silenzio e fino a che Mike cominciò a raccontare le storie del loro passato.

Risero dei loro errori e si commossero per i bei momenti andati. Ricordarono la scuola, le feste, i tornei di videogiochi e quelli di basket, le risse, i litigi e le riappacificazioni.

Nate sentì che Jay si era voltato verso di lui

«Ti manca, non è vero?» gli chiese.

Lui si mise seduto, ma non rispose.

Gli altri due, alle sue spalle, si scambiarono uno sguardo d’intesa.

«È per questo che conti i giorni?» domandò Mike.

Nate prese un respiro profondo, poi estrasse dalla tasca una sigaretta e se la infilò in bocca.

«È vietato fumare qui.»

«Fanculo Jay» gli rispose alzandosi in piedi.

Si allontanò di qualche passo e accese la sigaretta.

Si mise a passeggiare sul confine della zona destinata al campeggio, prendendo lungo boccate ed espirando nuovamente. Ogni volta che buttava fuori il fumo dalle labbra si dava del cretino, ma ogni volta che aspirava dalla sigaretta riprendeva a sentirsi vivo.

Credeva che due anni fossero abbastanza per dimenticare, che una vita nuova avrebbe cancellato tutti i problemi di quella vecchia. Eppure, si ritrovava nel cuore della notte in un bosco buio e vedeva, più chiaramente che alla luce del sole, come tutti i suoi propositi fossero caduti e distrutti. 

Con un movimento impulsivo prese il cellulare. Lo schermo proiettò una luce azzurrognola sul suo viso mentre si accendeva. 

Aprì la rubrica, la fece scorrere nome per nome. Esitò un istante su uno dei contatti e fu sul punto di comporre il messaggio. Poi, velocemente come lo aveva preso, rimise il cellulare al suo posto e si maledisse mentalmente.

 

 

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Capitolo 4
*** Devil Wheels ***







Devil Wheels



 

Quattro anni prima

 

Nate attraversò il giardino buio barcollando e raggiunse il grosso albero nodoso che si stendeva verso il cielo stellato. Cominciò ad arrampicarsi e la memoria non lo tradì perché riuscì a trovare al primo colpo tutti gli appigli, nonostante il buio e la sbronza terribile.

Raggiunse in modo sgraziato il balcone su cui si allungava un ramo particolarmente robusto, poi incespicò verso la porta-finestra. L’anta era spalancato, lasciando intravedere la tenda sottile che nascondeva la camera.

Si mise a picchiettare con insistenza sul vetro, lasciando l’impronta del palmo mentre cercava di non crollare a terra. Forse doveva cominciare a darsi una regolata alle feste, pensò.

Dato che non ottenne alcuna risposta, riprese a bussare con insistenza, fino a che la tenda non venne tirata bruscamente e il suo volto comparve al di là del vetro.

Nonostante l’aria stanca, appariva furiosa.

«Nate?» dissero le sue labbra, in modo più seccato che sorpreso.

Lui continuò a picchiettare sul vetro, così la ragazza capì di doverlo aprire. Lo fece con un gesto secco e Nate le sarebbe crollato addosso, se non si fosse spostata rapidamente a lato.

Lui inciampò nelle tende, lisce come abiti di seta troppo costosi e per miracolo riuscì a non stramazzare sul parquet chiaro.

«Dio, quanto puzzi di alcol» si lamentò lei, con un’espressione di disgusto dipinta sul volto.

«Anche tu non sei una gran bellezza a quest’ora» replicò lui con la voce impastata. Non lo pensava davvero, ma voleva solo rinfacciarle la sua maleducazione.

«Vaffanculo» sbottò sottovoce la ragazza, poi la sua espressione si fece incerta. Guardò alle spalle di Nate, come spaventata.

«Senti, te ne devi andare» sussurrò, cercando di farlo arretrare.

«Aspetta, aspetta. Mi dispiace, lo sai che quando bevo mi comporto come un coglione».

«No» rispose lei secca, «sei un coglione comunque».

Nate sbuffò. «Va bene. Hai ragione. Ma per favore, ho bisogno di un bicchiere d’acqua. Giuro che poi tolgo il disturbo e ti lascio dormire in pace».

Lei fece saltare lo sguardo indeciso tra il ragazzo e il balcone.

«Per favore…» insistette lui con voce supplichevole. Sapeva che, nonostante la sua espressione perennemente incazzata, lei non sapeva resistere a certe cose.

Infatti sospirò. «Va bene, ma ti prendo l’acqua del lavandino».

«È perfetto» replicò lui, sapendo che l’acqua del suo lavandino era ambrosia rispetto a quella del posto da cui veniva.

«Aspetta qui» gli disse prendendolo per le spalle e costringendolo a sedersi sulla poltrona accanto alla scrivania.

«Non fiatare, intesi?» Disse con voce leggermente tesa.

«Sissignora» replicò lui con uno sguardo sornione che la fece arrossire.

Non riuscì a seguirla con lo sguardo mentre usciva dalla stanza, perché gli girava dannatamente la testa e represse a fatica un conato di vomito, che gli avrebbe causato l’espulsione dalla stanza e definitivamente dalla casa.

Lei tornò dopo quello che poteva essere un arco di pochi secondi o qualche ora, ma tutto ciò che Nate riuscì a metabolizzare fu il bicchiere d’acqua tra le sue mani.

Lo mandò giù come uno shot di vodka, ma l’effetto fu decisamente il contrario. Si sentì dissetato e rinfrescato.

«Ora devi andartene» ribadì lei, fissandolo con le braccia incrociate al petto. Il ragazzo notò in quel momento che il pigiama chiaro che indossava la faceva sembrare una ragazzina.

«Sei così impaziente di avermi fuori dai piedi?» Commentò con un sorrisetto deformato in smorfia.

«Irrompi nella mia camera nel cuore della notte, puzzi di alcol e fumo come un vecchio barbone perennemente ubriaco e strafatto» replicò lei senza troppo giri di parole. «Dove diavolo sei stato?»

«Non è mai troppo tardi per essere una spara-sentenze, vero?» Replicò lui tagliente, ignorando la sua domanda.

Le parole la fece arrossire, sia perché punta sul vivo, sia perché ora era davvero incazzata.

Nate decise che era il momento di togliere il disturbo, così le rimise maldestramente il bicchiere tra le mani.

«Grazie» le disse. «E divertiti domani nella tua scuola per bambini ricchi»·

«È un’università, coglione» replicò lei sottovoce e lo costrinse ad uscire sulla terrazza senza troppa gentilezza.

«Grazie per la visita» aggiunse poi, glaciale

«Sempre un piacere incontrarti, tesoro, anche se di solito di notte sei più… calorosa».

Lei gli sbatté la porta in faccia con un’espressione marmorea.

Nate la vide tirare la tenda liscia e scorse la sua sagoma tornare verso il letto. Non lo avrebbe mai ammesso e sicuramente non direttamente a lei, ma non riusciva a capacitarsi di come potesse essere così attraente anche nel cuore della notte. 

 

 

 

 

 

Nate sbadigliò e riprese a dedicarsi allo scarabocchio che aveva iniziato sul foglio dall’inizio della lezione.

L’unica cosa che aveva scritto era la data.

Davanti a lui, il professore stava svolgendo calcoli sulla lavagna che spiegava con una voce monotono soporifera. 

L’unica cosa che spingeva Nate a continuare a pagare e presentarsi a quei corsi serali era la speranza di poter finalmente fare quello che voleva nella vita. Sognava il momento in cui la gente avrebbe smesso di guardarlo dall’alto al basso e avrebbe cominciato ad ascoltarlo quando parlava. Era stufo marcio di essere trattato come spazzatura, come se fosse troppo stupido per avere il diritto di parola.

Dopo le scuole superiori non aveva avuto altra scelta se non lavorare per un vecchio amico di suo padre che possedeva un’officina, ma i veri guadagni gli venivano dai clienti più benestanti, che gli chiedevano di sistemare auto d’epoca o pezzi rari. Così aveva potuto permettersi un appartamento per sé, smettendo di gravare sulle spalle già affaticate di sua madre. 

Si stiracchiò e il suono della campanella annunciò che per quella sera aveva finito. Raccolse le sue cose e lasciò rapidamente l’aula.

Fuori era già buio e le strade erano quasi deserte. Notò una figura familiare sul marciapiede di fronte all’ingresso della scuola. Gli stava facendo “ciao” con la mano. Nate capì che si trattava di Mike e lo raggiunse.

«Ehi» lo salutò, «cosa ci fai qui?»

Mike portava su una spalla lo zainetto che usava per andare al lavoro.

«Sono entrato in casa e Jay ha cominciato a lamentarsi. Era il mio turno di fare la spesa, ma mi sono dimenticato, okay?» Mike gesticolava, mentre camminavano insieme verso la pensilina poco distante. «È che sono stato preso. Insomma, il furto e poi il lavoro e adesso non ho neanche la patente e tutto è così complicato.»

Nate fece un cenno di assenso, mentre pescava le sigarette dai jeans. Ne tese una a Mike, che la accettò, si accese la sua e passò l’accendino all’amico.

«Sai che facciamo domani?» gli disse, dopo aver preso un lungo tiro. «Andiamo da Jay e diciamo che d’ora in poi lui è il capo della spesa. Se ne occuperà sempre lui, così non potrà lamentarsi se ci dimentichiamo la candeggina o il suo shampoo o le noccioline che mangia lui. Noi gli daremo i soldi e un extra per lo sforzo.»

Mike gli rivolse uno sguardo a metà tra l’ammirato e l’incerto.

«Dici che accetterà?»

Nate annuì, con la sigaretta tra le labbra.

«Certo. Lo convincerò. E a Jay piace avere tutto sotto controllo. Praticamente lo pagheremo per fare quello che gli piace.»

Erano arrivati alla pensilina. Il bus notturno passava ogni ora, così l’attesa sarebbe stata lunga.

Mike gli chiese che ore fossero. Il prossimo non sarebbe arrivato prima di quaranta minuti.

«Perché non andiamo al locale di quel tuo amico?» gli propose saputa l’ora. «Non è qui vicino?»

Nate fece un cenno di assenso.

Aveva conosciuto Richie una sera quando, dopo una lezione particolarmente stressante, aveva deciso di fare due passi prima di tornare a casa. Lui stava cercando di far partire la sua auto sul bordo della strada.

«Ehi, amico» gli aveva detto, «serve una mano?»

Dopo averlo aiutato a farla ripartire, Richie si era rivelato il proprietario del locale dall’altro lato della strada e gli aveva offerto una cena come ricompensa.

Nate non era il tipo da strip club, ma non avrebbe rifiutato una cena gratuita. Non ci aveva impiegato molto a capire che gli affari in cui era invischiato Richie erano molti e non tutti legali.

Aveva sentito parlare delle corse clandestine che si facevano in periferia, a volte le aveva addirittura viste sfrecciare dalla finestra del suo appartamento, ma non era qualcosa in cui voleva farsi coinvolgere.

Però Richie aveva bisogno di un meccanico e pagava bene, decisamente bene. 

Quando entrarono nel club, la musica era alta e l’aria era pervasa dagli aromi più disparati.

Si diressero nell’angolo più riparato, dove si trovava il bancone. Lì la musica arrivava più attenuata ed era possibile chiacchierare senza che le ragazze si affollassero intorno a loro.

Nate ordinò due drink e il barista glieli preparò immediatamente.

Mentre li sorseggiavano, Mike allungò il collo, lanciando un’occhiata alla sala dove le ragazze ballavano e, quando si accorse dello sguardo che Nate gli rivolgeva, scrollò le spalle: «Oh, insomma, non siamo nati tutti bellocci come te.»

Nate alzò gli occhi al cielo. «Parla quello che ha sempre avuto lo sciame intorno. Devi alzare la tua considerazione di te stesso.»

Mike si voltò verso di lui e ammiccò. «Allora? Finalmente sei ritornato in pista?»

L’altro sbuffò. «Parlare per enigmi non è mai stato il tuo forte. Che cosa vuoi dire?»

Il ragazzo scostò i capelli biondi dagli occhi con un movimento del capo e gli rivolse uno sguardo che voleva essere malizioso, mentre succhiava il drink dalla cannuccia colorata. «L’altra sera non sei tornato a casa.»

Nate si trattenne dall’alzare ancora gli occhi al cielo. A volte gli sembrava di vivere con due vecchie pettegole. I suoi amici sarebbero morti se non avessero saputo ogni singolo dettaglio della sua vita.

«Sì Mike, a volte i ragazzi grandi e vaccinati lo fanno.»

Mike assunse un’espressione perplessa, quasi incerta, ma decise di prendere un altro sorso dal suo drink e tacere, tornando a guardare ciò che riusciva dalle spogliarelliste.

«Cristo Santo, dì quello che devi dire» sbuffò Nate.

L’altro gli lanciò uno sguardo obliquo.

«Significa che l’hai dimenticata?»

Nate dovette veramente combattere contro se stesso per non roteare gli occhi.

«Ti ho già detto di non parlare per allusioni. E in ogni caso, chiedere se ho dimenticato qualcuno, non mi aiuta di certo a dimenticarlo.»

«Cosa state dimenticando stasera, ragazzi?»

Una voce femminile si intromise nella conversazione, facendo voltare i due verso il balcone. Il barista che li aveva serviti era scomparso, lasciando spazio alla bionda Alison. 

«Forse la tua coerenza, Nate?» continuò lei, con uno sguardo di ghiaccio.

«Senti, se è ancora per la tua macchina, mi dispiace» lui le mostrò le mani, in segno di resa, ma Alison fece schioccare la lingua, contrariata.

«No, parlo della tua improvvisa decisione di partecipare al Devil Wheels» replicò la ragazza, fulminandolo con gli occhi.

Nate la fissò un istante, incerto se lo stesse prendendo in giro o no. 

«Come, scusa?» 

Alison non stava scherzando e la sua replica la colse di sorpresa.

«Richie mi ha detto che parteciperai.»

«Come, scusa?» Nate si rendeva conto di suonare come un disco rotto, ma non riusciva a capire cosa diavolo stesse succedendo.

Devil Wheels era la gara di auto più importante della città, estremamente pericolosa ed estremamente illegale. Richie gli aveva chiesto un milione di volte di correre per lui, ma Nate era stato irremovibile. Bastava essere beccato in una sola delle gare per farsi dieci anni di carcere, soprattutto ora che il sindaco aveva inasprito le pene contro le corse clandestine.

Nate adorava le auto e adorava i soldi, ma la sua libertà prima di tutto. Non era un folle.

«Non ti dona questa aria da finto ebete» Alison si piegò in avanti e appoggiò i gomiti sul bancone, consapevole dello sguardo di Mike dentro alla sua scollatura. Gli occhi della ragazza, invece, erano fissi in quelli di Nate.

Lui stava cercando di capire cosa diavolo fosse successo.

«Quando te lo ha detto?»

Lei scrollò le spalle.

«Richie è qui?» continuò Nate.

Alison annuì e la sua espressione vacillò. «Nel suo ufficio.»

Il ragazzo si alzò in piedi e si diresse verso le scale che portavano al piano superiore. Incontrò uno dei gorilla che stavano di guardia, ma lo lasciò passare senza problemi.

«Nathaniel!» lo salutò Richie in modo caloroso, alzandosi in piedi e allargando le braccia come per accoglierlo nel suo studio. Gli fece cenno di accomodarsi, ma Nate scosse il capo. Voleva risolvere la questione in fretta e andarsene.

«Perché hai detto ad Alison che parteciperò al Devil Wheels?»

Richie aggrottò le sopracciglia cespugliose in un’espressione perplessa. «Era una sorpresa?»

Il ragazzo sgranò gli occhi. «Cazzo, no, Richie! Non è una sorpresa perché non succederà.»

Lo sguardo dell’altro passò dal perplesso al sospettoso. «Cosa ti ha fatto cambiare idea? L’altra sera eri entusiasta di partecipare.»

Nate gli rivolse un’occhiata scandalizzata. «L’altra sera?» ripeté, poi si passò una mano sul volto, improvvisamente assalito dai ricordi. «Cristo santo, Rick, l’altra sera ero ubriaco marcio. Mi avevano appena svaligiato l’appartamento e di certo non stavo ragionando».

L’uomo incrociò le braccia al petto e, se possibile, apparve ancora più troneggiante e minaccioso. 

«Ormai ho inviato la tua iscrizione» disse con un tono che non ammetteva repliche.

Nate non si lasciò spaventare. Tra rischiare di essere ucciso da Richie o morire durante una corsa clandestina, preferiva ancora la prima opzione.

Si strinse nelle spalle. «Be’, ritirala. Non ho intenzione di partecipare».

La conversazione era per lui conclusa, così si diresse verso la porta, ma le parole dell’altro lo colpirono alle spalle come uno schiaffo sulla nuca.

«È un po’ tardi per rinunciare».

Nate si voltò lentamente, con gli occhi che mandavano lampi. Non parlò, aspettò che fosse Richie a spiegarsi.

«L’iscrizione costa ottomila dollari, che ho già versato, quindi, a meno che tu non ti procuri quella cifra, temo dovrai partecipare».

Nate lo fissò con uno sguardo vitreo per qualche istante.

«Perché cazzo una gara automobilistica deve costare così tanto?» sbottò poi stringendo i pugni. 

Richie fece spallucce. «Perché chi vince si prende centocinquantamila dollari, ecco perché. Ed ecco perché ti ho proposto di partecipare, l’altra sera. Mi hai detto della rapina e ti ho parlato della vincita. Tu hai risposto – e cito testualmente – “Potrei vincere quella gara ad occhi chiusi. Cazzo, li straccerei tutti”».

Nate decise che era arrivato il momento di accettare l’offerta di Richie di accomodarsi e si lasciò cadere su una delle due poltroncine poste di fronte alla scrivania. Anche l’uomo si accomodò sulla sua.

Il ragazzo prese a massaggiarsi le tempie nel tentativo di rallentare il mal di testa che aveva cominciato a minacciare la sua lucidità.

Ottomila dollari. Non li aveva tutti quei soldi. E nemmeno i suoi amici. 

«Senti, avevi ragione l’altra sera. Sei forte e io posso procurarti una buona macchina e un buon maestro. Con un po’ di allenamento, puoi davvero farcela».

«Non mi aiuta molto questo» mugugnò il ragazzo. Poi un sospettò lo colpì. Rivolse all’altro uno sguardo obliquo. «Che cosa ci guadagni tu da tutto questo?»

Richie rise. «Be’, metà della vincita. Non crederai che ti lasci tutti i centocinquantamila dollari, vero?»

Nate sospirò, roteando gli occhi. Prevedibile. L’uomo non era diventato ricco facendo il mecenate. 

«Con quei soldi puoi smettere di lavorare in quel posto di merda e dedicarti solo a studiare. Sei un bravo ragazzo, Nate, e anche intelligente. Te la meriti questa possibilità».

Nate fece cenno di no con la testa, ma sapeva di non aver possibilità di scegliere. Si maledisse mentalmente per aver ceduto all’alcol in un momento di debolezza. Credeva di aver superato quella fase della sua vita.

«Lo faccio solo per i soldi» gli disse. «E prega che io non finisca ammazzato o in carcere».

Richie sbuffò, ma gli disse qualche parola di rassicurazione prima che si congedasse.

Nate uscì dall’ufficio e scese rapidamente al piano inferiore. Trovò Mike dove lo aveva lasciato, ma due delle ragazze in intimo gli stavano attorno, accarezzandolo e piegandosi verso di lui per sussurrare nelle sue orecchie.

«Andiamo» gli disse Nate battendogli una mano sulla gamba. Le ragazze parvero infastidite per l’interruzione e Mike lo sarebbe stato ancora di più, se l’alcol non avesse già fatto effetto sulla sua razionalità.

«Dove?» biascicò confuso.

Nate si morse la lingua, prima di parlare. «A fare la spesa. Ci servirà quando dovrò dire la novità a Jay».

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 5
*** Ross & Alison ***





Ross & Alison

Dato che il tempo stringeva e Nate era ancora un principiante nel campo delle gare clandestine, Richie insistette per iniziare la preparazione il prima possibile. Nate lo aveva sempre visto in veste di amico a cui dare una mano, ma per la prima volta si trovava di fronte l’uomo d’affari preciso e preoccupato a mantenere i propri interessi. Lo aveva chiamato a casa e gli aveva dato appuntamento al Venus per quel sabato pomeriggio.

Jay era nel salotto a guardare la TV e Nate era uscito con la stessa furtività di un marito che sta andando a tradire la moglie in uno squallido motel. 

La reazione di Jay alla notizia della sua partecipazione al Devil Wheels era stata più mite del previsto. Troppo mite. Jay aveva sospirato con aria rassegnata, scuotendo il capo, come se ormai il suo parere non contasse più nulla e quindi si fosse deciso a non pronunciarlo neanche. Che il suo parere non contasse nulla, tecnicamente era vero, come neanche contava quello di Nate. Ed entrambi ne erano consapevoli.

Dato che era una giornata serena, decise di raggiungere il Venus in moto. Sfrecciare sulle strade con l’aria che rombava tutt’intorno gli dava un senso di libertà e gioia. Cercò di godersi quelle sensazioni per il poco tempo che gli era concesso.

Richie lo aspettava nel suo studio, insieme ad un uomo che Nate non aveva mai visto. Era di media altezza, dalle spalle strette e un fisico gracile. Nonostante non avesse ancora raggiunto la quarantina, i suoi capelli erano radi e due profonde occhiaie gli circondavano gli occhi facendolo apparire più vecchio di quanto dovesse essere in realtà. Quando si mosse in avanti per stringere la mano a Nate, il ragazzo si accorse che aveva una gamba finta e questo spiegò la presenza di una stampella appoggiata alla scrivania.

«Nate, ti presento Ross Howard, il più esperto ex pilota che potrai trovare in circolazione».

“Tra quelli rimasti vivi e liberi” pensò il ragazzo, ma si limitò a stringere la mano di Ross senza fare commenti.

Presero posto intorno alla scrivania e Nate notò che sul legno era stese diverse cartine stradali.

«Richie mi ha detto che sei nuovo del campo, quindi cercherò di non dare nulla per scontato. Fermami se hai qualche domanda» cominciò Ross. «Il Devil Wheels è una gara particolare, nonché la più importante dell’anno. I soldi che girano tra scommesse e mazzette alla polizia sono esorbitanti, per questo non devi mai pensare che si tratti di un gioco. È una cosa seria, con delle regole e consuetudini precise».

Nate fece un cenno di assenso con espressione grave. Perfino Richie aveva perso la sua solita aria bonaria e ascoltava con le braccia incrociate al petto e gli occhi fissi sul suo ospite.

«Una delle regole principali è che il percorso di ogni sfida viene rivelato solo due giorni prima. Si tratta in totale di sei sfide, ma il numero può variare in base alle risposte da parte delle autorità. Se sono particolarmente agguerrite, il numero cala. Nel momento in cui il percorso viene rivelato, gli organizzatori fanno il possibile perché i concorrenti non lo provino prima della sfida, quindi la preparazione sarà solo teorica. Nelle quarantott’ore precedenti alla corsa, ogni tuo pensiero, ogni tuo sforzo, tutta la tua concentrazione dovranno essere dedicate ad imparare il percorso».

Ross parlava in modo pacato, ma il modo in cui i suoi occhi brillavano, come se avesse un fuoco all’interno delle iridi, provocò a Nate una leggera tachicardia. 

«Richie mi ha detto che lavori durante il giorno e studi la sera».

Il ragazzo annuì.

«Be’, dovrai dimenticare entrambe le cose prima di una sfida. Non puoi pensare di vincere se non riesci a fare il percorso anche ad occhi chiusi. Durante la corsa dovrai stare attento ai tuoi avversari e non avrai tempo di preoccuparti di guardare se la curva è a destra o a sinistra. Devi saperlo ancora prima di vederla, devi saperlo anche se c’è una nebbia del cazzo che ti impedisce di vedere fuori dal finestrino. Devi imparare i percorsi come il fottuto ABC, intesi?»

Nate avrebbe voluto diventare tutt’uno con la propria poltrona e non essere costretto ad annuire sotto lo sguardo infuocato di Ross. La situazione non gli piaceva per niente.

«Parlargli della strategia» intervenne Richie e l’altro uomo fece un cenno di assenso.

«Come ti ho detto, il Devil Wheels è una cosa maledettamente seria, ok? Nessuno degli altri concorrenti ci penserà due volte prima di sbatterti fuori strada per superarti, questo mettitelo bene in testa. In una corsa clandestina, nessuno gioca pulito».

Nate cercò di deglutire, ma gli si era fermato un nodo in gola. Si chiese che senso avesse avuto smettere di bere e fumare negli ultimi anni se comunque sarebbe morto in una gara clandestina del cazzo.

«La prima corsa sarà decisiva. Qualcuno dice che i risultati di questa saranno i risultati dell’intera sfida» Ross lo guardava dritto negli occhi, come per assicurarsi che non perdesse una parola.

«Questo è il motivo per cui tu dovrai perdere la prima corsa».

Nate sollevò le sopracciglia, perplesso. L’uomo si affrettò a spiegare. «Dovrai piazzarti a metà, tra coloro che non sono perdenti, ma neanche vincenti, nella massa degli anonimi. Alla fine di alcuni percorsi, l’ultimo arrivato viene eliminato, perdendo la possibilità di competere nel resto delle gare. Dovrai quindi evitare di essere eliminato, ma allo stesso tempo non puoi permetterti di attirare l’attenzione».

Il ragazzo si raddrizzò sulla poltrona, improvvisamente attento e interessato a quelle parole. Credeva che Richie gli avrebbe offerto una strategia basata su un’auto potente e nulla di più, ma Ross gli stava proponendo qualcosa che non tutti gli altri piloti sapevano mettere in atto: un piano intelligente.

L’uomo si inclinò verso di lui, calamitando la sua attenzione. «Se vedono che te la cavi, alla seconda corsa faranno di tutto per buttarti fuori, anche a rischio ammazzarti. Per questo devi tenere un profilo basso. Al Devil Wheels non vince chi colleziona più primi posti, ma chi ottiene una media di tempi migliori».

«Quindi tecnicamente potrei non arrivare mai primo e comunque vincere la gara?» 

«Esatto!» gli occhi di Ross si accesero ancora di più e le sue labbra sottili si tesero in un sorrisetto di soddisfazione.

«Però ho vinto una corsa poco tempo fa. Sanno che me la cavo» commentò Nate.

«Molti di loro sono montati che non concepiscono l’idea che qualcuno possa essere migliore. Crederanno che si sia trattato della fortuna del principiante e noi glielo lasceremo credere».

Nate annuì e, mentre il piano andava a sedimentarsi nella sua testa, cominciò a pensare che poteva davvero funzionare.

Rimasero ancora un po’ a discutere di questioni tecniche e si accordarono per quando andare a provare l’auto che Richie aveva procurato. Nate sapeva che avrebbe dovuto metterci le mani in prima persona, ma i soldi dell’uomo garantivano che avrebbe avuto un buon punto di partenza su cui lavorare.

Quando ebbero finito, il sole era ormai calato e, fuori dalla piccola finestra dello studio, il cielo era scuro. Ross si congedò e zoppicò fuori dalla stanza sorreggendosi con la sua stampella. Quando si fu allontanato, Nate si rivolse a Richie. 

«Come ha perso la gamba?» gli chiese.

Richie fece un sorrisetto. «Quello è un veterano, ragazzo». I suoi occhi caddero all’esterno e vide che era già buio, così gli propose: «Fermati pure a mangiare se ti va, sai che offro sempre io».

Nate lo ringraziò con un cenno, poi lo salutò e scese al piano di sotto. Al bancone, notò subito Alison, con i suoi capelli lunghi e lisci e il suo corpo che non passava inosservato. Indossava un top bianco e una gonna color pesca che la fasciava senza lasciare troppo all’immaginazione. Proprio in quel momento stava rispondendo con uno sguardo glaciale alle avance di un cliente decisamente ubriaco.

«Ehi». Nate si avvicinò al bancone e le diede un motivo per allontanarsi dall’uomo.

Alison colse al volo l’occasione e si mise a preparargli qualcosa da bere.

«Dio, fortuna che stacco tra poco» commentò mentre versava il contenuto di diverse bottiglie in un bicchiere, che poi passò a Nate sul bancone.

«Puoi sempre chiedere ai gorilla di accompagnarlo fuori» commentò lui prendendo un sorso dal drink che gli aveva servito.

Alison rivolse un’aria scocciata all’uomo, ma non disse nulla. Ormai lui sembrava più interessato alle ragazze che ballavano mezze nude poco distanti.

«Com’è andata con Ross?» chiese, riportando lo sguardo su Nate e trovandolo un poco spiazzato.

«Tu lo conosci?» 

Lei rise a quella domanda. «Ovvio. È mio cugino ed è stato lui a procurarmi questo fantastico lavoro».

Il suo sarcasmo fu accompagnato da un’espressione tagliente. 

«Be’, almeno tu hai ancora addosso tutti i vestiti» commentò Nate e la fece sorridere. Le disse che era andato tutto bene, poi decise di liberarsi da un dubbio che Richie non era riuscito a togliergli.

«Come ha perso la gamba?»

Alison sollevò un sopracciglio. «Non lo sai? È stato in una corsa d’auto. Si è schiantato ed è stata una fortuna che ci abbia rimesso solo la gamba».

Nate abbassò gli occhi sul proprio drink e decise di prenderne un sorso più abbondante. In effetti, Richie non gli aveva detto di che tipo di veterano si trattasse.

«Ehi», Alison attirò nuovamente la sua attenzione. «Hai impegni stasera?»

Lui scosse il capo e la ragazza si piegò in avanti, fino ad arrivare vicina al suo orecchio. Nate sentì il suo profumo di vaniglia invadergli le narici.

«Come ho detto» sussurrò. «Stacco tra poco».

Nate sorrise e le prese il mento tra le dita. La guardò per un istante negli occhi, poi, appoggiandosi contro al bancone, la baciò.

 

 

Alison si era raggomitolata sotto alla coperta e i capelli biondi le coprivano parte del volto.

«Ti dispiace se fumo?» domandò Nate mettendosi seduto. Dato che non si era ancora rivestito, cercò di tenere il lenzuolo fino alla vita. Non che la propria nudità lo scandalizzasse.

«Fai pure, ma apri la finestra» mormorò lei in tono stanco.

La stanza era così piccola che gli bastò allungare un braccio per raggiungere la finestra, poi raccolse i propri pantaloni da terra per estrarne il pacchetto di sigarette. Ne accese una, accostandosi al vetro nonostante l’aria fresca che gli solleticava il petto nudo.

«Non credevo fumassi».

Alison si era sollevata, sostenendo la testa con una mano e ora i capelli le cadevano davanti al petto.

Nate la fissò per un istante mentre espirava il fumo all’esterno.

«Ho ricominciato da poco» rispose laconico.

Gli occhi della ragazza, benché un poco assonnati, lo sondarono in modo attento.

«Cosa ti aveva spinto a smettere?» 

Nate prese un tiro, poi un altro, prima di rispondere. «Volevo darmi una ripulita. Essere una persona migliore».

«Per qualcuno?»

Lui spense la sigaretta sulla soglia esterna e poi lanciò il mozzicone in strada come aveva fatto con tutti i suoi buoni propositi.

Quando si voltò verso Alison, lei stava ancora attendendo una risposta, che non arrivò.

«Ho fame. Ti va di mangiare qualcosa?» le propose.

Sospirando, lei si raddrizzò. «Va bene, dovrei avere qualcosa in frigo». 

C’era un appendiabiti dall’altro lato del letto, così Alison afferrò una sorta di vestaglia con i bordi di pizzo e se la infilò, poi mise i piedi scalzi in un paio di pantofole e uscì dalla stanza.

Nate armeggiò per qualche istante con la finestra, poi si vestì a sua volta e la raggiunse.

Alison se ne stava davanti al frigorifero, illuminata dalla lucina flebile che proveniva dall’interno. La sua figura sinuosa pareva quasi in posa, perfetta perfino in quella vestaglia striminzita.

Gli disse cosa aveva nella dispensa e decisero di cucinarsi degli hamburger con delle patate surgelate da scaldare in forno. 

Mentre aspettavano che il cibo fosse pronto, Nate la aiutò ad apparecchiare il piccolo tavolo rotondo al centro della cucina e poi vi si sedettero, guardando il forno sbuffare e vibrare.

«Pensi che diventerà una cosa fissa?» domandò Alison, senza spostare gli occhi dalle patate che si scaldavano.

Nate la guardò, ma non riuscì a leggere nulla sul suo volto se non una concentrazione sproporzionata rispetto alla sua reale capacità di far scaldare le patate più in fretta con lo sguardo.

«Che cosa?»

Alison si morse un labbro, poi spostò gli occhi su di lui.

«Questo» gli disse e per lo sguardo che gli rivolse, Nate intuì che c’era un “noi” implicito.

Si strinse nelle spalle. «Tu vuoi che lo diventi?»

Alison si mordicchiò ancora il labbro. «Forse».

«Allora non vedo perché non possa accadere».

Le sue parole parvero rilassarla, perché sul suo volto si distese un sorriso.

 

 

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Capitolo 6
*** La corsa ***






La corsa

 

Tre anni prima

La spiaggia era buia e l’unica fonte d’illuminazione era luce argentata della luna e quella rossastra del grande falò. In lontananza si scorgevano le mille lampadine del Dolphin, il locale per ricchi che si ergevano sopraelevato poco distante. Era da decenni una regola non scritta quella per cui chi arrivava in auto costose e ben vestito poteva trascorrere una serata all’interno del locale elegante e rinomato, mentre tutti gli altri dovevano accontentarsi dell’alcol scadente e delle feste improvvisate che si tenevano sulla spiaggia.

Nate se ne stava sulla battigia, con l’acqua nera dell’oceano che gli lambiva i piedi nudi e un bicchiere mezzo vuoto in mano, quando la vide. Sarebbe stato difficile non notarla, con quel suo abitino svolazzante, coperto solo da una giacca di jeans. Si aggirava per la spiaggia a disagio, guardandosi attorno nervosamente. Era palese che fosse scappata dal Dolphin, a giudicare dai suoi vestiti, e che fosse alla ricerca di qualcuno.

Nate vide che veniva avvicinata con aria minacciosa da una ragazza piena di piercing, ma lei si sottrasse e capitò per caso di fronte a Mike. I due si salutarono, poi lei chiese qualcosa e Mike si voltò ad indicare Nate.

Gli occhi della ragazza furono su di lui e in un attimo lo raggiunse.

«Non ce la fai proprio a starmi lontana» commentò lui quando se la ritrovò a pochi passi di distanza. Lei teneva ancora le braccia incrociate al petto, difficile dire se per il freddo o per il disagio.
Nate le si avvicinò e l’attirò a sé prendendola per un fianco.

«Mi annoiavo» rispose lei alzando gli occhi verso quelli di lui. «Credevo che qui i ragazzi sapessero come divertirsi».

Nate sorrise e lanciò un’occhiata verso il Dolphin. «Tutti sanno divertirsi più di quei coglioni impagliati dei tuoi amici».

«Non sono i miei amici» replicò lei con un sorriso, poi gli mise le braccia intorno al collo, affondando le mani nei capelli soffici e si alzò in punta di piedi per baciarlo. Lui le circondò i fianchi con le braccia, stringendola ancora di più a sé.

 

Qualche ora più tardi erano stesi nel letto in camera di Nate. 

Lei si muoveva leggermente, come se respirasse appena, ma lo spazio era così piccolo che ogni movimento si percepiva perfettamente.

«Ehi» la chiamò Nate.

«Mm?» Domandò lei con la voce impastata dal sonno.

«Per quanto mi lusinghi pensare che sei venuta da me per il mio fascino incredibile...» Era ancora abbastanza sveglia per rifilargli una gomitata. Lui ridacchiò e proseguì: «Perché lo hai fatto? Sembravi… triste»

«Non è niente di importante» rispose, con aria rassegnata.

Nate sapeva che lei non lasciava mai perdere. Quando doveva rompere le palle, le rompeva fino in fondo, quindi quel tono non era da lei.

«Non me lo vuoi dire?» Chiese, con cautela.

«È che...» Fece una pausa leggera, e lui vide le sue ciglia tremolare. «Te l'ho detto, non è così importante» conclude.

Le accarezzò con disinvoltura i capelli, che scendevano soffici sul suo petto.

«La notte serve a questo. A dire le cose che vogliamo tenere nascoste alla luce del sole.»

Lei sospirò, sollevandosi e lo guardò negli occhi con le sue iridi blu.

«È una cosa piuttosto stupida» cominciò, ma dal suo tono Nate capì che stava già mentendo: «Non so se ricordi quel concorso che ho vinto...»

Annuì. Lei non se lo aspettava, ma lui l'ascoltava sempre.

«Ho scritto un articolo sulla diversità».

«Sì, mi era piaciuto»

Lei si interruppe e lo fissò, con le labbra dischiuse e gli occhi spalancati.

«Ti era… piaciuto?» ripeté perplessa. «Ma se non l'hai mai letto!»

Improvvisamente Nate realizzò le circostanze in cui lo aveva fatto. 

Sfoderò un sorriso smagliante. «Quella volta in cui i tuoi erano fuori casa, qualche mese fa. Ero passato e mi avevi segregato in camera tua "nel caso entri qualcuno". Mentre non c'eri ho visto dei fogli che mi incuriosivano e li ho letti»

Le guance di lei si scurirono velocemente, pronta ad inveire, così Nate si affrettò ad aggiungere: «Di solito, con un tema del genere, la gente scivola in un nauseante moralismo. Invece tu ne hai parlato in modo realistico, senza giri di parole. Mi è piaciuto un sacco»

I complimenti parvero calmarla, così lei decise tornare al proprio racconto.

«Comunque ti dicevo che mi hanno invitata ad una sorta di conferenza venerdì sera proprio perché ho vinto. Probabilmente mi faranno qualche domanda e ci saranno delle discussioni. L'ho detto ai miei genitori» si rabbuiò all'improvviso «Mio padre dice che sarà a New York per lavoro e mia madre ha una cena importante».

Nate non l’aveva mai sentita dire "mamma" o "papà". Li chiamava "madre" e "padre", come due figure lontane, con cui aveva qualche legame non ben definito.

«Ecco te l'avevo detto» sussurrò interrompendo il silenzio «È una cosa stupida»

Ritornò ad appoggiare il capo sul suo petto.

«No» sussurrò Nate accarezzandola «Non lo è per niente»

 

 

 

 

 

Il giorno della prima corsa arrivò in fretta. Troppo in fretta.

Le giornate trascorsero rapide tra il lavoro in fabbrica e le lezioni la sera e la preparazione per il Devil Wheels nel fine settimana. Si trattava soprattutto di giri in auto con Ross, per prendere confidenza con il mezzo che avrebbe usato durante le corse. Il veicolo era veloce, ma pesante. Questo gli impediva di essere il più scattante nella competizione, ma anche di avere una certa aderenza in strada, il che avrebbe potuto impedire a Nate di perdere il controllo e schiantarsi. 

Quando fu annunciato il primo percorso, Ross mantenne la promessa e si assicurò che il ragazzo imparasse ogni punto di quella strada a memoria. La sfida iniziale si sarebbe svolta in una strada a tornanti su un rilievo poco lontano dalla città. Si trattava di una zona poco frequentata, se non dagli appassionati di trekking che vi si recavano nei weekend estivi. Il rischio di trovare qualcuno era pari a zero dato che la gara si sarebbe svolta in una notte di fine autunno. 

Nate rinunciò alle lezioni e anche al lavoro passò la pausa pranzo e tutti i momenti che gli erano concessi a ripassare il percorso. Rugero gli rivolgeva sguardi preoccupati e apprensivi, ma non si sbilanciò mai a dire nulla. Se Nate sbagliava nella sua mansione, glielo faceva notare o si occupava lui di rimediare all’errore. C’era un che di paterno nel suo modo di fare.

Sebbene Alison non fosse apparsa granché entusiasta della sua partecipazione al Devil Wheels, insistette per accompagnarlo. La cosa faceva comodo a Nate, dato che lei aveva un’auto e lui no. 

Anche Mike si unì a loro e il modo in cui si torturava le mani e la giacca fece intuire a Nate che aveva deciso di seguirlo per assicurarsi che sopravvivesse alla prima corsa. Rimanere in casa ad attendere notizie lo avrebbe reso ancora più ansioso. Per Jay invece funzionava al contrario. Si era rifiutato di accompagnarlo perché sapeva che sarebbe stato agitato per tutto il tempo, mentre stando nell’appartamento avrebbe potuto ignorare il fatto che il suo coinquilino rischiava di spezzarsi il collo in una curva mortale proprio nello stesso momento in cui lui buttava la pasta.

Quando arrivarono alla partenza, c’era già parecchia gente. Dei fari erano stati montati per rischiarare l’ambiente altrimenti immerso nella più profonda oscurità. Alcuni veicoli erano già sistemati ai posti di partenza, mentre Richie attendeva accanto all’auto che avrebbe usato nella corsa. Il proprietario si era occupato personalmente di farla arrivare al luogo della gara.

C’era anche Ross, che salutò Alison con un abbraccio e uno sguardo che richiedeva spiegazioni. Non ebbe tempo di ottenerle, perché dovette dedicare gli ultimi minuti che avevano a disposizione per ripetere con Nate il percorso.

«Durante il pomeriggio ha piovuto, quindi il terreno è un poco scivoloso» lo aggiornò e intanto puntava il dito sulla mappa che aveva disposto su un tavolino improvvisato. «Qui devi rallentare prima, se non vuoi sgommare durante la curva, e qui devi accelerare perché questa parte è coperta dagli alberi, quindi sarà asciutta. Capito?»

Nate annuì, inespressivo.

«Sei pallido» gli mormorò Alison avvicinandosi. Il suo braccio passò sulla schiena di Nate e lui sentì le sue curve aderire al proprio corpo.

«Sto bene» le sussurrò e le lasciò un bacio leggero sulle labbra, scivolando via dalla sua stretta. Mike lo raggiunse a sua volta e gli diede una pacca sulle spalle. «Crediamo tutti in te, amico».

Si strinsero la mano, poi Nate si fece silenzioso e si affrettò a raggiungere Richie che aveva fatto sistemare l’auto al posto di partenza. Ogni veicolo era stato dotato di un GPS dagli organizzatori, così che i tempi di tutti fossero registrati e salvati.

Mentre si avvicinava all’auto, si trovò presto circondato dal clamore e dalle urla della folla. La gente si era disposta tutt’intorno il punto di partenza e, facendo luce con torce e cellulari, gridava e batteva le mani per caricare i concorrenti. Pareva funzionare perché il ragazzo sentì il nodo che aveva in gola sciogliersi a poco a poco e presto si trovò emozionato, impaziente di cominciare la gara. Dopotutto l’ultima volta non era stato così male.

Raggiunse la propria auto, dalla carrozzeria rossa fiammante – decisione di Richie – e vi si appoggiò, attendendo gli altri piloti.

«Nate!» sentì chiamare e vide Alison, sistemata insieme a Mike su una pendenza poco lontano in modo da avere una vista migliore. Il ragazzo ricambiò il suo cenno di saluto e le sorrise.

«Ehi ragazzino» lo apostrofò qualcuno alle spalle e quando si voltò alla ricerca di chi aveva parlato, Nate trovò un giovane uomo dai capelli corti e scuri e alcuni tatuaggi che gli contornavano il volto affilato. Lo riconobbe come Skull, uno dei concorrenti più agguerriti.

«Hai fegato a presentarti alle gare per grandi» gli disse con un ghigno che pareva puntare ad infastidirlo. 

Nate non abboccò e gli sorrise. «Se sei bravo come dicono, non hai nulla di cui temere». Gli mandò un bacio, poi ci ripensò e gli mostrò il medio.

Skull non ebbe tempo di replicare, perché un fischio informò tutti che era ora di mettersi in posizione. Come un’unica persona, tutti i piloti salirono nelle auto e si sistemarono dietro al volante.

Un uomo illuminato da un occhio di bue era salito su una sorta di torretta improvvisata con una scala. Teneva in mano una luce rossa e un megafono.

Si mise a gridare a tutti di stare pronti e quando la luce che teneva in mano divenne verde, le auto partirono all’unisono con un rombo di motori. 

Nate pigiò l’acceleratore e cercò di infilarsi il più in fretta possibile nella strada stretta che saliva verso la cima della collina. La sua auto gli avrebbe garantito un buon controllo durante i tornanti, ma prima dell’arrivo ci sarebbe stato un rettilineo in cui altri avrebbero potuto facilmente superarlo, così doveva guadagnare in partenza posizione.

Un paio di vetture gli tagliarono la strada prima che lui riuscisse ad infilarsi. 

Fuori dal vetro era buio e l’umidità portata dalla pioggia aveva fatto alzare una leggera nebbiolina che contribuiva a dare un’aria lugubre e oscura all’ambiente circostante. Nate roteò il volante e pensò che Ross aveva ragione. Non avrebbe mai visto quella curva, ma sapeva che c’era. Nonostante avesse studiato bene il percorso, curvò in anticipo e sentì il terreno sconnesso sotto di lui far tremare tutta l’auto.

Un altro concorrente riuscì a superarlo prima che Nate riprendesse pianamente il controllo. Cercò di concentrarsi e azzeccò i tornanti successivi. Qualcuno si scontrò con lui, facendolo finire fuori dalla strada battuta, ma non riuscì a superarlo, perché il ragazzo strinse saldamente il volante e ricambiò la spinta. Sentì uno stridore di carrozzerie che cozzavano, ma schiacciò l’acceleratore e superò l’automobile.

Come previsto, riuscì a rimanere nel gruppo di punta durante la salita e guadagnò perfino una posizione nella fase di discesa, ma quando arrivarono al rettilineo finale, gli altri piloti cominciarono a superarlo.

Fece un rapido calcolo di quante auto aveva alle spalle e il suo battito, se possibile, accelerò ancora di più. Non poteva permettere a nessun altro di sorpassarlo o avrebbe rischiato di trovarsi tra gli eliminati.

Schiacciò l’acceleratore fino in fondo e si piegò sul volante per non perdere il controllo. Quasi senza rendersene conto, tagliò il traguardo e dovette spostare rapidamente il piede sul freno per non rischiare di allontanarsi troppo dalla folla che stava festeggiando il vincitore.

Quando l’auto si fermò, rimase per qualche secondo immobile nell’abitacolo, ascoltando il suono del proprio respiro affannato.

Ce l’aveva fatta. Era sopravvissuto alla prima corsa.

 

 

Non appena ebbe raggiunto Richie e gli altri, venne travolto dalla loro euforia in sordina. Si era piazzato esattamente dove avevano calcolato, ma non potevano dimostrarsi felici per un misero quinto posto. Richie gli diede una pacca vigorosa sulle spalle, Ross si complimentò con un sorriso soddisfatto, mentre Mike si lanciò in un abbraccio appassionato mentre si lamentava dell’ansia che aveva provato per tutta la corsa.

Alison gli si avvicinò per ultima, gli gettò le braccia intorno al collo e lo guardò negli occhi con le labbra rosa tese un sorrisetto malizioso. Lo strinse a sé, sussurrandogli nell’orecchio: «Che ne dici di festeggiare in privato?»

Se fosse stata un’altra circostanza, Nate ci avrebbe pensato un attimo prima di accettare. Le sue paranoie avrebbero preso il sopravvento e lo avrebbero fatto vacillare prima di rispondere. Ma l’adrenalina ancora gli correva nelle vene e gli aveva dato una botta di euforia che avrebbe impiegato del tempo a scemare.

Così le diede assenso premendo le proprie labbra contro le sue e attirandola a sé.

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Capitolo 7
*** Sabato (parte 1) ***










Sabato
(parte 1)

 

L’entusiasmo per la prima corsa scemò molto rapidamente. Se era vero che era sopravvissuto alla sfida iniziale, Nate non dimenticava che ne aveva ancora cinque da affrontare 

Ormai al lavoro si trascinava in giro e svolgeva le proprie mansioni con fare meccanico, mentre ai corsi serali ascoltava o registrava le lezioni, ma non aveva mai tempo di studiare alcunché.

Aspettò con trepidazione il sabato sera, l’unico momento che Ross gli aveva lasciato libero tra una corsa e l’altra. Si era era accordato con Alison per andare da lei a cena. 

Jay aveva cercato di pressarlo per ricavare qualche informazione sul suo rapporto con la ragazza, ma Nate aveva liquidato il tutto scuotendo il capo. Non voleva parlarne.

Tra i turni massacranti e mille pensieri che gli affollavano la testa, sabato arrivò. Avrebbero annunciato il percorso della sfida successiva solo l’indomani, così Nate dedicò le poche ore libere per recuperare tutto quello che aveva trascurato nei giorni precedenti. Dato che gli avanzava del tempo prima dell’appuntamento, decise di uscire di casa per prendere un po’ d’aria.

Si era da poco incamminato, quando sentì il proprio cellulare squillare. Si trattava di Alison, che gli rispose con voce agitata. 

«Hanno trovato una fuga di gas nel mio palazzo e hanno evacuato tutti i residenti. Probabilmente sarà risolto entro domani, ma l’appartamento è inagibile. Posso venire da te?»

Nate esitò quanto bastava perché lei si affrettasse ad aggiungere: «Te lo chiedo perché dovevamo vederci. Se è un problema vado da Ross, oppure chiedo a qualche amica».

«No, va bene, ti aspetto».

Ritornò verso il suo condominio e si mise ad aspettarla accanto al portoncino d’ingresso, con le spalle appoggiate al muro scolorito e una sigaretta tra le dita.

Riconobbe il rumore dell’auto di lei dal fondo della via e la vide parcheggiare poco più avanti. Quando scese dal veicolo, la sua figura di splendida amazzone risultò in contrasto con il mucchio di ferraglia con cui era arrivata. Alison indossava un abitino rosa acceso a canottiera, che si intravedeva dalla felpa aperta che portava sulle spalle. Nonostante il freddo, le sue gambe erano nude e ai piedi aveva degli stivaletti neri e rosa. In una mano stringeva le chiavi dell’auto, nell’altro una grande borsa di tela scura.

Nate aveva cominciato a notare che aveva un modo eccentrico e colorato di vestire e la cosa non gli dispiaceva. La ragazza era indubbiamente attraente e il suo stile non faceva altro che esaltare la sua figura.

Gettò la sigaretta a terra e quando lei gli si avvicinò fu colpito dalla nuvola di profumo che la circondava. Alison si sporse in avanti e gli lasciò un bacio sulla guancia, ma lui l’attirò ancora verso di sé cercando le sue labbra. La sentì sorridere e ridacchiare, mentre gli dava quello che voleva e si lasciava accarezzare dalle mani del ragazzo.

«Entriamo» la invitò poi lui, aprendo con un colpo il portone e prendendo la borsa di tela dalle mani della ragazza.

«Sì, mi sto gelando» commentò lei.

Nate le rivolse un sorrisetto. «Sei tu che hai scelto di uscire con le gambe nude in inverno, signorina».

Alison ammiccò. «Era per essere sicura che mi avresti ospitata. Non avrei voluto fare tutta questa strada e poi scoprire che avevi cambiato idea».

Lui rise e la condusse su per le scale fino al suo piano. Non erano soliti avere ospiti ed improvvisamente fu assalito da cosa Alison avrebbe potuto pensare dell’appartamento. Non che la casa di lei fosse una reggia, ma era piccola quanto ben tenuta. Nate cercò di scacciare quei pensieri ragionando sul fatto che almeno loro non avevano una fuga di gas.

Come prevedibile, Jay li aspettava in cucina, ansioso di vedere “la bionda” di cui Mike aveva parlato nei giorni scorsi e su cui Nate aveva applicato un ostinato mutismo. Cercò di contenere l’entusiasmo mentre le stringeva la mano, ma Nate vide i suoi occhi brillare dietro alle lenti degli occhiali. Infatti, non appena Alison guardò altrove, Jay rivolse all’amico uno sguardo di vittoria. Nulla gli poteva rimanere nascosto.

«Che ne dici di concedermi una decina di minuti per ripulire camera mia e me stesso?» chiese Nate alla ragazza, una volta che furono rimasti soli nel salotto.

Lei sollevò le sopracciglia e lui si giustificò: «Non pensavo che avrei avuto ospiti e avevo previsto di fare una doccia prima di venire da te».

Alison si sporse in avanti per chiedere un altro bacio, poi lo lasciò andare.

«C’è Jay in cucina, se vuoi compagnia» le disse lui, scivolando via dalle sue braccia.

Una volta rimasta sola, la ragazza si guardò attorno. Il salotto in cui si trovava era piccolo, ma conteneva tutto il necessario per viverci. Lo trovò anche fin troppo pulito, considerando che ci vivevano tre ragazzi. 

Studiò per qualche minuto la stanza, cercando di immaginare gli inquilini all’interno. Jay che lavorava alla scrivania incastrata contro il muro, Mike che sonnecchiava sul divano e Nate che guardava un’immaginaria TV, dato che quella rubata non era ancora stata rimpiazzata.

Si lasciò travolgere da quelle fantasticherie e, quando si stufò, decise di cercare compagnia in cucina.

Jay era seduto al tavolo e stava guardando lo schermo di un piccolo computer portatile. Nel vederla entrare, le fece cenno di accomodarsi ad una delle sedie. Alison accettò con un sorriso.

«Nate mi ha detto che lavori al Venus» cominciò lui e la ragazza poté avvertire nel suo tono un certo nervosismo. Stava cercando di fare conversazione per eliminare il silenzio imbarazzante che si sarebbe creato.

Lei annuì. «Sì, non è il mio lavoro dei sogni, ma almeno arrivo a fine mese. Tu?»

Jay si sistemò gli occhiali sul naso. «Lavoro in un piccolo negozio di elettronica».

«Oh» fece Alison, poi spostò gli occhi sul laptop di lui e sorrise, come a dire che ci sarebbe potuta arrivare. Jay sorrise di riflesso.

In lontananza, sentirono il rumore della doccia che si apriva con uno scrosciare d’acqua.

Fu il turno della ragazza di intentare una conversazione.

«So che siete amici da parecchio tempo» disse, alludendo agli altri inquilini assenti.

Lui fece un cenno di assenso. «Siamo praticamente cresciuti insieme. Se mai vorrai ascoltare aneddoti imbarazzanti, Mike e io ne abbiamo a bizzeffe».

Alison sorrise e piegò il capo, incuriosita. «È bello che siate rimasti amici».

Jay si strinse nelle spalle. «Siamo quasi una famiglia. Anche se siamo cambiati rispetto ai ragazzini che eravamo, non significa che ci vogliamo meno bene.»

Lei fece un commento di apprezzamento, poi domandò: «E che tipo era Nate?»

«Il solito paranoico rompicazzo che è ora» fu la risposta, accompagnata da una vistosa rotazione delle pupille.

Alison rise. «Vuoi dire che non c’è mai stato un tempo in cui sapesse sorridere davvero?»

«Be’, ci sono stati periodi più o meno spensierati. Nate ha sempre avuto mille cose per la testa e se non era la vita a creargli problemi se li cercava da solo»

«E come se la cavava con le ragazze?»

Jay fece un sorriso furbo. Alison era brava a tastare il terreno.

«Quella sua aria scazzata e annoiata faceva strage di cuori. Più teneva il broncio e più gli correvano dietro.»

Lei rise ancora e si lanciò i capelli dietro alle spalle. Poi, con ancora il sorriso sulle labbra piene di gloss, lasciò vagare il suo sguardo come cercando di immaginare la scena.

«Quindi era un play boy?» domandò ancora.

«Credo che all’inizio gli sia piaciuto divertirsi un po’… ma sai com’è Nate, gli piace complicarsi la vita.»

Alison sollevò le sopracciglia e spostò gli occhi su Jay. «Cosa vuoi dire?»

Il ragazzo lanciò un’occhiata verso il bagno, ma si sentiva ancora il rumore della doccia, segno che poteva parlare indisturbato.

«Tra tutte le ragazze che poteva avere, ha scelto l’unica che non sarebbe mai stata sua».

Alison si raddrizzò e il suo sguardo si fece rapace, come se avesse avvistato una preda che non voleva farsi sfuggire. Jay parve accorgersene perché scosse il capo. «Non dirò altro. Se vuoi sapere di più, devi fartelo raccontare da Nate.»

Si accorsero che l’acqua aveva smesso di scorrere, così riportarono la conversazione su argomenti più leggeri. Nate fece capolino poco dopo, con i capelli ancora umidi e degli abiti freschi di bucato.

«Che ne dici di uscire a cena?» domandò ad Alison.

Lei sollevò le sopracciglia, sorpresa dalla proposta.

«Non perdere l’opportunità, non è così generoso di solito» commentò Jay mentre chiudeva il computer e si alzava in piedi, per dirigersi verso la propria camera.

Alison guardò Nate, che aveva quel sorriso appena accennato e lo sguardo di chi non smette di pensare neanche per un secondo. Riusciva a sentire il profumo del suo bagnoschiuma anche se lui se ne stava sulla porta e lei non si era ancora alzata in pedi.

«Certo» gli sorrise.

 

 

Nate la condusse in un piccolo ristorante a pochi isolati di distanza. Si trattava di un locale senza grandi aspirazioni, gestito da una vecchia coppia che cucinava gli stessi piatti da decenni. C’era stato in passato con Mike e Jay quando dovevano festeggiare qualcosa.

Parcheggiò l’auto – che Alison gli aveva graziosamente concesso di guidare – davanti all’insegna luminosa che recitava “Berto’s”. Berto era l’uomo mingherlino e canuto che serviva ai tavoli con grande vivacità, più brioso e rapido dei dipendenti più giovani. Sua moglie Nancy se ne stava di solito dietro alla cassa, talmente piccola che quasi veniva nascosta dal bancone e si intravedeva solo un ciuffo di capelli bianchi.

La saletta era arredata in modo semplice, con vecchi tavoli in legno rivestiti da tovaglie a quadri e con una bottiglia di vetro riempita di fiori come centrotavola.

Li condussero ad un tavolo appartato, accanto alle grandi finestre che si affacciavano sul buio della notte.

«Chi l’avrebbe detto che Nate Winchester mi avrebbe portato ad una cena romantica» commentò scherzando Alison quando si furono seduti.

A “cena romantica”, il ragazzo sentì il suo cuore mancare un colpo, ma mascherò tutto con un sorrisetto. 

«Questo è un trattamento speciale, che riservo a poche persone».

Si allungò per versarsi dell’acqua dalla brocca che un cameriere aveva appoggiato sul tavolo e accostò il bicchiere alle labbra.

«Prima Jay mi ha raccontato dei tuoi trascorsi amorosi» commentò con nonchalance lei. Il ragazzo non riuscì a mantenere lo stesso atteggiamento disinvolto e per poco non si strozzò con l’acqua.

Tossicchiò per qualche secondo e, quando ebbe ripreso fiato, cercò di minimizzare con dell’ironia. «Spero non ti abbia spaventato scoprire che non ho mai avuto una ragazza».

Alison si finse scioccata, portandosi una mano sul cuore. «Vuoi dire che sono stata la prima?»

Nate alzò gli occhi al cielo. «Sai cosa intendo».

Lei tornò seria. «In realtà mi ha parlato più del tuo charme, non delle tue relazioni».

L’arrivo di un cameriere interruppe la loro conversazione. Lasciò i menù e immediatamente Nate ne afferrò uno per usarlo da schermo contro qualsiasi conversazione la ragazza stesse cercando di imbastire.

Notò che lei sbirciava di tanto in tanto nella sua direzione, da sopra le pagine plastificate, ma lasciò cadere il discorso. 

Dopo che ebbero ordinato – una bistecca per lui e degli spaghetti per lei - Nate si sforzò di fare domande ad Alison nella speranza di dimenticare l’inizio della serata.

«Sono venuta in città alla ricerca di opportunità e intanto, per mantenermi, ho cominciato a lavorare per Venus. Peccato che ora sia diventata la mia vita».

«A cosa aspiravi?»

E labbra rosa di lei si tesero in un sorriso malcelato. «Promettimi di non ridere».

Nate fece una croce sul cuore.

Alison si torturò nervosamente una ciocca di capelli, poi confessò: «Fin da quando ero piccola, ho sempre adorato disegnare e realizzare vestiti. Speravo di poter diventare una stilista».

«Perché avrei dovuto ridere? È una cosa bellissima» commentò lui. «Cosa ti ha frenata?»

La ragazza sospirò. «Tutto quello che so fare l’ho imparato da sola, quindi non ho la preparazione giusta che le aziende richiedono».

Nate le rivolse un’espressione solidare. «Benvenuta nel club».

Alison gli rivolse un sorriso grato.

I piatti arrivarono e, tra una chiacchiera e l’altra, arrivarono a fine serata. Il vino rosso che avevano ordinato li aveva resi allegri e accaldati. Parlavano a voce alta, gesticolando, e quando arrivò il dolce si trattennero in un’allegra conversazione con Berto che li aveva serviti.

Nate insistette per pagare il conto e, forse per effetto del vino, decise di lasciare una lauta mancia. Al di là della cassa, Nancy lo ringraziò con un’espressione timida e affettuosa.

Nel tornare a casa, Nate guidò a piano, attento a qualsiasi segnale potesse indicare la presenza di poliziotti. L’ultima cosa che voleva era essere beccato al volante dopo aver bevuto del vino.

Non appena ebbero varcato il portone d’ingresso che conduceva alle scale, si avvinghiarono in un caldo bacio. Nate sentì le gambe nude di Alison che lo bruciavano anche attraverso i jeans.

«Ehi» rise contro alla bocca di lei, «cerchiamo di arrivare in camera prima».

Alison si staccò e lo guardò per un secondo negli occhi, poi lo afferrò per un braccio e lo trascinò su per le scale con sé.


 

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Capitolo 8
*** Sabato (parte 2) ***









Sabato
 

(Parte 2)

 

Il grande portone di legno bianco si aprì lentamente davanti a lui e parve inverosimile che a tirarlo fosse la figurina al di là della soglia.

Lei indossa dei pantaloncini di tela e una maglietta troppo larga. Aveva i capelli scompigliati, come se fosse sconvolta, e l'immancabile espressione seccata.

«Che cosa vuoi?» domandò sulla difensiva, una volta che l’ebbe messo a fuoco, pronta a chiudergli la porta in faccia.

Nate le rivolse un sorrisetto sghembo: «Ho per caso disturbato il tuo studio, angioletto?»

«Mi stai sfottendo?» replicò lei «Un normale studente come me passa i pomeriggi a studiare e non va ad importunare gli altri»

«Mmhh» commentò Nate «Così ora io ti starei importunando?»

Lei lo fulminò con lo sguardo, poi aggiunse: «Che cosa vuoi? Ti servono dei soldi?»

La sua insinuazione lo trafisse come una lama.

Nate strinse i denti e le rispose, glaciale: «Non voglio i tuoi soldi. Devo finire il lavoro per tuo padre, se hai intenzione di farmi entrare. Altrimenti digli di cercarsi un altro meccanico»

Il suo tono duro la colpì. Sbatté un paio di volte le palpebre, come una gattina pigra, prima di scostarsi dall'ingresso e fargli cenno di entrare. 

Dopo aver chiuso la porta mormorò: «Ti accompagno»

«Conosco la strada» replicò Nate trafiggendola con lo sguardo. 

Lei abbassò il capo, consapevole di averlo ferito con le proprie parole. Gli lanciò poi un'occhiata veloce e decise di fargli strada strada fino al garage. Dall’ingresso della casa accedettero direttamente al grande giardino su cui si affacciavano le vetrate della casa. Più lontano, si distingueva il profilo della piscina in uno spazio appartato. Attraversarono il giardino raggiungendo il garage. Una volta aperta la saracinesca, la ragazza indugiò per qualche istante, pensierosa, poi si fece da parte lasciandolo passare.

«Gentilissima» commentò lui a denti stretti e si guadagnò un'occhiata fulminante.

«Buon lavoro» fu la replica, poi girò i tacchi e sparì.

Nate scosse il capo. Impossibile pensare che quattro giorni prima si era addormentato stringendola dolcemente tra le braccia.

 

 

Quando finì il lavoro, rimise a posto la moto, si pulì alla bell'e meglio le mani su un fazzoletto e uscì dal garage.

Aveva intenzione di lasciare direttamente la casa, quando intercettò la ragazza al di là delle vetrate che si affacciavano sul giardino. Lei gli fece un cenno indistinto che poteva significare "Vaffanculo" tanto quanto "Aspetta", così Nate decise di aspettare. Se aveva capito male poteva sempre mandarla ‘affanculo a sua volta.

Qualche secondo più tardi, lo raggiunse correndo attraverso il giardino. Era scalza e così vestita sembrava una bambina. Si fermò poco distante da lui, con le guance arrossate.

Gli tese una busta. «Mio padre mi ha detto di darti questi».

«Mi ha già pagato la scorsa volta» replicò lui rigido.

Lei pareva faticare a sostenere il suo sguardo, però insistette: «Lo so, dice che quello di oggi era un lavoro extra ed è giusto pagarti».

«Non voglio l’elemosina».

«E allora vai a farti fottere, Nate. Non tutti hanno come scopo della vita quello di offenderti» ribatté, con le guance in fiamme e la mano ancora tesa verso di lui.

Fu combattuto tra l'istinto di fare un'epica uscita di scena con una replica da stronzo e la necessità di prendere quei soldi. Esitò.

«Senti prendili» disse lei fiaccandogli la busta in mano «Così mio padre è contento perché pensa che li abbia tu. Puoi restituirmeli pagandomi da bere, se proprio ci tieni».

Lo guardò ancora per un istante con i suoi occhioni blu, poi fece per andarsene.

«Grazie» le disse e lei rallentò leggermente, si voltò e gli sorrise. Poi tornò verso casa.

L’aveva ringraziata, perché lei sapeva che non avrebbe rivisto quei soldi, almeno non per i seguenti dieci anni, ma non gliene importava.

 

 ***

 

 

Era nervosa, agitata e tesa come non mai. Si era asciugata i palmi sudati sui pantaloni eleganti neri così tante volte che temeva che presto sarebbe comparso un alone. La luce dei riflettori la stava cuocendo e le dolevano i muscoli del volto a forza di sorridere. 

Il presentatore le aveva rivolto qualche domanda e l’aveva fatta parlare del suo elaborato, complimentandosi poi per aver vinto. Per tutto il tempo lei non aveva fatto altro che desiderare di scomparire. Doveva essere una premiazione in suo onore e invece la stava credendo come una tortura.

Quando si era convinta che la fine fosse ormai giunta, sentì il presentatore aprire lo spazio per le domande a lei rivolte. Avrebbe voluto vomitare.

Qualcuno nel pubblico chiese la parola, ma era troppo accecata dai riflettori per poter vedere alcunché.

«Vorrei chiedere alla signorina Barnes» cominciò questo «come può essere contemporaneamente intelligente e così attraente. Qual è il suo segreto?»

Si sentì avvampare, sia per le parole, sia perché avrebbe riconosciuto quella voce fra mille.

Anche se si trovava dall'altra parte della sala, sentiva lo sguardo di Nate fisso su di lei. 

La platea rise di gusto.

«Posso rispondere che non so di cosa stia parlando?» replicò con ironia. 

«Sarebbe una bugiarda, signorina Barnes» ribatté Nate, divertito dalle sue stesse parole.

Il presentatore s'intromise: «Questa conversazione sta prendendo una piega piuttosto interessante»

Dalla platea si alzarono altre risatine, che la fecero arrossire.

«Credo che il suo segreto» continuò Nate, riconquistandosi l'attenzione del pubblico «sia di esserne completamente inconsapevole».

Lei si schiarì la voce: «Mi dispiace essere completamente impreparata in questo campo. Se l'avessi saputo, mi sarei preparata i bigliettini».

Il presentatore fece ancora qualche battuta, poi riportò la conversazione sui toni sobri della serata e alla fine la congedò.

Dopo che l'uomo ebbe salutato il pubblico, si trovò circondata da persone che non aveva mai visto, che si complimentavano con lei. Alcuni si presentarono come conoscenti dei suoi genitori oppure di quello e quell'altro parente. Li liquidò gentilmente ma velocemente, e si fece strada verso il fondo della sala. Quando raggiunse gli ultimi sedili, però Nate non c’era più.

Cercando di scacciare la delusione, spinse la porta a vetri che conduceva all'esterno e si infilò nell'aria fresca della notte.

Campanelli di persone chiacchieravano fra loro sotto la luce dei lampioni. 

«Niente male, signorina Barnes»

Si voltò, e appoggiato alla parete alle sue spalle, vide Nate, con il suo tipico sogghigno stampato sulle labbra.

«Ehi tu» lo salutò avvicinandosi. 

Lui si staccò dalla parete. «Non stavo scherzando, mi sei piaciuta».

«Grazie» mormorò arrossendo. Lui sollevò le sopracciglia e lei aggiunse: «Per i complimenti, ma soprattutto per essere venuto».

Il ragazzo ridacchiò: «Diciamo che non avevo niente di meglio da fare stasera che ascoltare una noiosa conferenza sui problemi società».

Incrociò le braccia al petto: «Perché sei venuto se la ritieni noiosa?»

Lui ammiccò: «Mi hanno detto che ci sarebbe stato l'intervento di una secchiona niente male»

«"Niente male"?» ripeté fingendosi offesa.

Lui rise ancora, poi cambiò argomento. «Voglio cominciare a ridarti i soldi di tuo padre. Stasera. Ti offro qualcosa»

«Oh» è tutto quello che riuscì a dire, poi si schiarì la voce e aggiunse: «Va bene. Però ho voglia di gelato e il nostro patto valeva solo per i drink. Stasera pago io»

Senza aspettare una sua replica si voltò incamminandosi  verso il parcheggio.

Sapeva per certo che l’avrebbe seguita.

 

 

 

Jay si svegliò nel cuore della notte. Aveva sentito dei rumori e, pur cercando di ignorarli, non era riuscito a prendere sonno. Dato che la sua camera confinava con quella di Nate, pensò che magari lui ed Alison ancora non stavano dormendo – nonostante la sua sveglia segnasse che la mezzanotte era passata da qualche ora.

Dopo essersi rotolato per un po’ tra le coperte, si decise ad andare in cucina. Mike aveva delle tisane rilassanti che facevano miracoli, ipotizzò che forse lo avrebbero aiutato.

Afferrò gli occhiali sul comodino e si infilò le pantofole. Quando uscì dalla stanza, intontito dal sonno, si accorse che nessun rumore proveniva dalle altre due camere da letto. C’era però un suono che pareva avere origine in cucina. Era soffocato, basso e incostante.

Si diresse verso quella direzione con cautela.

Notò che la luce della stanza era accesa, quindi escluse l’ipotesi che si trattasse nuovamente di ladri. Quando si trovò davanti alla porta socchiusa, la spinse lentamente e quella si aprì in silenzio.

C’era qualcuno seduto al tavolo della cucina con la schiena curva e il capo nascosto tra le braccia. Teneva la fronte rivolta verso il basso e Jay riusciva a vedere solo i capelli scuri, ma furono sufficienti a fargli capire di chi si trattasse. Lo fissò per qualche istante e notò che le sue spalle venivano scosse, di tanto in tanto, come se singhiozzasse.

«Nate» lo chiamò sottovoce.

Nel silenzio della notte, l’amico lo udì subito e sollevò il capo. Il suo volto era rigato di lacrime e gli occhi erano rossi e gonfi. A Jay quasi prese un colpo.

«Cosa succede?» gli domandò avvicinandosi rapidamente per andare a sedersi di fronte a lui. Nate prese un lungo respiro spezzato.

«È successo qualcosa? Stai bene?» insistette ancora. «Alison sta bene?»

A quella domanda, il volto di Nate si fece contrito. 

«Parlami» Jay non si diede per vinto.

Nate respirò ancora, profondamente.

«Alison sta bene» rispose con voce roca. «Io sto bene… sono solo…»

Le sue parole si persero in un sospiro confuso, mentre le sue labbra tremarono e i suoi occhi sfuggirono dallo sguardo dell’amico, per vagare nella stanza, inquieti.

«Nate?»

«Sono un idiota».

Jay corrugò la fronte. «Non credo tu ti sia svegliato nel cuore della notte per dire qualcosa che già sapevamo».

Il suo commento rasserenò per un momento lo sguardo dell’altro, ma che subito tornò sofferente.

«Vuoi dirmi cosa ti ha portato a questa rivelazione metafisica?»

Nate si sfregò le guance, come un bambino stizzito.

«Il fatto è che… io…» sembrava annaspare alla ricerca di parole. «Mi sono svegliato nel cuore della notte, abbracciato a lei…»

«Alison?» chiese Jay.

Nate annuì. «Già. Era lei. Ma la mia testa non lo sapeva».

«Che diavolo vuoi dire?»

L’altro parve scaldarsi, perché il suo volto avvampò e, quando rispose, la sua voce si fece più veemente. «Voglio dire che mi sono svegliato pensato che ci fosse lei tra le mia braccia, e ho pensato di stare bene, di essere felice». Incontrollabili, le lacrime ripresero a scendere dai suoi occhi, nonostante l’espressione arrabbiata di lui cercasse di frenarle. «Cazzo, per un istante ho pensato di essere felice!»

Aprì la bocca, senza emettere suono. Pareva provasse dolore. «Quando mi sono accorto che non era lei… Dio, Jay, sono così patetico».

Guardò l’amico, implorante. Pareva che gli chiedesse il colpo di grazia, come se volesse essere finito così da smettere di provare tutto quel dolore che lo stava lacerando da dentro.

«Nate» lo chiamò e lo vide agitarsi inquieto.

«Nate» ripeté e si assicurò di avere la sua attenzione prima di continuare. «Hai passato una bella serata con Alison?» 

L’altro lo fissò per qualche istante, poi annuì.

«Vi siete divertiti?»

Un altro cenno di assenso. 

Jay sospirò.

«Nate, hai ventiquattro anni, sei troppo giovane per piangerti addosso per tutta la vita. Lei non tornerà. Ha fatto la sua scelta e tu ora devi guardare avanti.»

«Non è così semplice» mormorò lui.

«Lo capisco, ma non puoi buttare via la tua vita macerandoti nella sofferenza. Hai già passato un inferno negli ultimi due anni a causa sua. È il momento di finirla. È il momento di lasciarla andare».

Il volto di Nate si piegò, si accartocciò su se stesso in una smorfia di dolore. Jay si alzò in piedi e si spostò vicino a lui, poi allargò le braccia per offrire il proprio conforto.

«Se vuoi posso svegliare Mike, lui è più bravo in queste cose».

Nate lo abbracciò e fece cenno di no con il capo.

«Va bene così» gli disse, con la voce soffocata sulla sua spalla. 

Rimasero abbracciati senza parlare, nel silenzio della notte, mentre le lacrime si seccavano.

 

 

 

 

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Capitolo 9
*** Brutti presagi ***






Brutti presagi


 

Mike stava sistemando un gruppo di vecchi vinili in ordine alfabetico, quando sentì la campanella appesa sopra alla porta del negozio tintinnare. Si voltò per accogliere il nuovo potenziale cliente e vide che si trattava di due ragazzi. Li salutò allegramente, poi ritornò a concentrarsi sul proprio compito. Di tanto in tanto, lanciava qualche occhiata fugace alla ragazza che stava consultando la libreria di fronte a lui.

Indossava degli shorts di jeans strappati, con delle calzamaglia nere che lasciavano intravedere le gambe tatuate. Degli anfibi e una giacca di pelle completavano lo stile da rocker e Mike pensò che quella ragazza era proprio il suo genere. Spostò leggermente lo sguardo su un’altra giovane che stava gironzolando per il negozio. Questa portava i lunghi capelli biondi sciolti sulle spalle, con una corona di fiori che le cingeva la fronte, mentre il suo corpo era fasciato da un abito con una stampa floreale. Mike fece saltare lo sguardo tra la rocker e madre natura e giunse alla conclusione che forse ogni ragazza era il suo genere.

Tornò a concentrarsi sui vinili e quando sentì nuovamente la campanella era talmente concentrato a cercare di ricordare se venisse prima la W o la Y che non alzò neanche gli occhi. 

Sentì dei passi avvicinarsi e cercò di indovinare se si trattasse della rocker o di madre natura. Quale delle due avrebbe preferito? Non riusciva a decidersi, così stabilì che gli piacevano entrambe e si limitò a sollevare il capo per scoprire di quale si trattasse.

«Oh, ciao Jay» disse con disappunto quando riconobbe l’amico.

«Sembri dispiaciuto» constatò Jay squadrandolo.

Mike scosse il capo. «No, sono sorpreso. Cosa ci fai qui? Anzi, dimmi cosa viene prima: la W o la Y?»

«W».

Finalmente finì di sistemare i vinili e dedicò la piena attenzione all’amico.

«Quindi? Cosa ci fai qui?»

«Ho finito prima e ho pensato di passare a prenderti».

Mike lo guardò di sottecchi, ma dovette spostarsi verso la cassa perché due clienti dovevano pagare.

«Non ti credo, amico» commentò mentre frugava sotto il bancone alla ricerca di una borsa di carta. Vi infilò l’acquisto dei due ragazzi e lo tese a loro ritirando i soldi. Quando ebbe finito tutto, tornò a guardare Jay che se ne stava tra gli scaffali con aria imbarazzata. 

«Okay, hai ragione, devo parlarti di una cosa».

Mike sfoderò un sorrisetto di trionfo. Raramente aveva ragione e gli piaceva godersi le poche volte in cui capitava.

«Si tratta di Nate» disse Jay con un sospiro. «Sta di nuovo attraversando un brutto periodo».

Mike si sentì sbiancare. «Quanto brutto?»

L’altro scosse il capo. «Credo che possiamo fermarlo prima che sia troppo tardi. Le cose stanno andando bene tra lui e Alison, dobbiamo solo incoraggiarlo e assicurarci che stia bene».

Mike fece un cenno di assenso, ma dovette tornare verso la cassa perché la rocker aveva trovato il libro che voleva comprare.

Jay rimase lì a chiacchierare con lui fino a che anche gli ultimi clienti non se ne andarono. Parlarono del lavoro e della vita come spesso non riuscivano a fare a casa, perché tra i vari impegni personali, non sempre avevano tempo per fermarsi e chiedere all’altro com’era andata la sua giornata.

Ripensarono un po’ anche ai tempi andati, alla città che avevano lasciato e alle loro famiglie che là erano rimaste. 

Una volta chiuso il negozio, poterono finalmente tornare verso l’auto e mettersi sulla via di casa.

Seduto al posto del passeggiare e con il capo inclinato verso il finestrino, Mike lanciò un’occhiata verso Jay, che guidava con due mani sul volante e lo sguardo saldo sulla strada. Pensò che anche se aveva lasciato la sua famiglia alle spalle, se ne era portata una con sé. C’era un che di materno nella premura che Jay usava nei confronti suoi e di Nate. I post-it che lasciava attaccati al frigorifero, il modo in cui stendeva i loro vestiti quando si dimenticavano di toglierli dalla lavatrice, l’attenzione a tutti i loro problemi.

Mike ricordò quando circa un anno prima era stato costretto a letto con la febbre. Durante la pausa pranzo Jay era tornato a casa per assicurarsi che stesse bene e gli aveva anche comprato una zuppa alla gastronomia all’angolo. Forse perché era cresciuto in una famiglia numerosa, forse perché era così di natura, ma per quanto seccante o pignolo fosse, Jay si sarebbe preso cura dei suoi amici con uno zelo esemplare.

«Perché mi guardi così?» borbottò l’autista notando l’espressione dell’amico.

«Perché ti voglio bene» replicò Mike con un sorriso.

«Ok, ma sei inquietante. Smettila».

Mike rise e lo accontentò.

 

 

***

 

 

Nate era nervoso. E il suo non era il solito nervosismo che provava in ogni secondo della sua vita. Era più che altro una morsa che lo stringeva da dentro, un senso di ansia che si faceva spazio tra le sue interiore come una lametta affilata.

Durante le prove di quella settimana, l’auto di Richie aveva smesso di rispondere ai suoi comandi e aveva dovuto accostare. Lui e Ross ci avevano lavorato per una notte intera per assicurarsi che tutto fosse a posto e pareva che il guasto fosse ormai risolto, ma Nate non era riuscito a scrollarsi di dosso la sensazione che qualcosa sarebbe andato storto durante la seconda corsa. Continuava a pensarci anche mentre guardava gli altri concorrenti presentarsi nel luogo della sfida. Si trattava di un percorso circolare costruito intorno ad un gruppo di capannoni abbandonati in una zona poco frequentata.

La gara consisteva nel percorrere per sette volte il circuito che era stato disposto dagli organizzatori cercando di ottenere il miglior tempo. La raccomandazione di Ross era stata ancora di non vincere, di cercare di non farsi notare, ma di piazzarsi nei primi posti. 

Gli ultimi concorrenti stavano facendo il loro ingresso in quel momento nell’area. Nate si guardò attorno e notò Alison accanto a Ross e Richie. Le fece un cenno di saluto e la ragazza ricambiò mandandogli un bacio. Lui sorrise. La mattina dopo il loro appuntamento, si era svegliato con un animo rinnovato. Le lacrime si erano ormai asciugate sul suo volto e la conversazione che aveva avuto con Jay non era altro che un ricordo confuso facilmente relegabile nella dimensione onirica. Quando si era svegliato con Alison che ancora dormiva al suo fianco, illuminata dalla luce del sole, si era dato dello stupido per quel momento di debolezza che aveva avuto nel cuore della notte. In ogni caso, la ragazza non si era accorta di nulla e tutto era andato liscio.

Un vociferare confuso lo avvisò che doveva spostarsi verso il punto di partenza e così fece, guidando con cautela fino alla posizione che gli era stata assegnata.

Fissò gli occhi sul semaforo rosso, impaziente che cambiasse colore. Voleva iniziare il prima possibile in modo da potersi togliere di dosso quella maledetta sensazione negativa.

Sfiorò l’acceleratore, facendo rombare il motore. Il semaforo divenne improvvisamente verde e Nate schiacciò il pedale fino in fondo. Riuscì ad infilarsi tra due auto e mantenne quella posizione per qualche metro prima di riuscire a superare. Una curva stretta la costrinse a rallentare, ma riuscì a riprendere velocità e sorpassò un’altra vettura. Ora ne vedeva solo due davanti a sé. Si concentrò sulla strada e presto raggiunse nuovamente il punto di partenza. Il primo giro era andato senza intoppi e aveva guadagnato il terzo posto.

I problemi cominciarono a metà del secondo giro. Avvertì immediatamente di non avere più il controllo come durante il primo giro perché il mezzo non rispondeva ai suoi comandi. Imprecò a denti stretti. Era lo stesso che era successo durante le prove con Ross. La sensazione di ansia cominciò a farsi pungente dentro di lui. 

Valutò rapidamente le sue opzioni. Poteva proseguire la gara con l’alto rischio di schiantarsi prima di arrivare alla fine, oppure poteva accostare e rinunciare. Aveva guadagnato un buon punteggio nella sfida precedente e sapeva che un guasto tecnico non lo avrebbe portato all’eliminazione, almeno non per quella sfida. 

«Cazzo, cazzo, cazzo» sbottò mentre il retro dell’auto scivolava fuori da una curva. Venne superato da altri due concorrenti, ma riuscì a rimanere in pista. Cominciò a sentire il respiro farsi affannoso e l’ansia stringergli il petto. La testa gli stava per scoppiare.

«I tempi!» esclamò ad un certo punto, come se qualcuno potesse sentirlo. Aveva ormai raggiunto la fine del secondo giro e stava per cominciare il terzo. L’auto si muoveva ormai senza controllo e presto avrebbe cominciato ad urtare gli altri concorrenti senza volerlo.

Guidò fino a che riuscì, poi si fermò a bordo pista, ma ruotò il veicolo con il muso rivolto verso le auto in arrivo. E accese gli abbaglianti.

Ross glielo aveva detto. Al Devil Wheels non importava chi arrivasse primo, ma chi faceva il miglior tempo. Se Nate non avrebbe potuto farlo, la soluzione era rovinare quelli degli altri. Vide che la sua idea funzionava quando le prime auto, accecate dagli abbaglianti, cominciavano a rallentare e a sbandare. 

Il ragazzo si liberò dalla cintura, passò sul sedile del passeggero e scese dalla vettura. Venne accolto dall’aria fredda della notte e il suo respiro si condensò in una nuvola di fumo. Rimase a pochi passi dall’auto, saltellando leggermente per scaldarsi, e si mise a contare quanti giri mancassero alla fine.

Quella corsa non era andata come previsto, ma almeno era ancora vivo.

 

 

 

***

 

«Che cazzo è successo?»

«Che cazzo è successo?» ripeté Nate fulminando Richie al di là della sua scrivania. «È successo che la tua cazzo di auto non funzionava e per poco non finivo ammazzato!»

Erano tornati al Venus per una riunione di emergenza dopo la corsa. Richie incrociò le braccia al petto e squadrò il ragazzo, poi spostò gli occhi su Ross. «È vero?» gli chiese.

Ross annuì. «Ha avuto dei problemi qualche giorno fa. Pensavamo di averli risolti».

Richie guardò in cagnesco entrambi per qualche secondo, poi si lasciò cadere sulla sua poltrona. «E va bene, vi procurerò un’altra auto, ma sappiate che io ci sto rimettendo».

«Ci rimetti di più se mi schianto, Rick» commentò Nate e l’altro gli puntò l’indice contro. «Lo sai che sei un cazzo di paranoico? Nessuno muore nel Devil Wheels da anni!»

«Contestabile» mormorò Ross sottovoce, ma lo sguardo fulminante dell’altro uomo lo fece ammutolire.

«E ora? I tuoi tempi sono una merda, c’è ancora qualche possibilità di vittoria?»

Ross si appoggiò alla scrivania, piegandosi verso Richie e gli tese il foglietto su cui aveva scribacchiato i suoi calcoli.

«Nate deve vincere tutte le prossime sfide, possibilmente con uno stacco significativo rispetto agli altri. Non abbiamo ancora perso».

Richie fece saltare lo sguardo tra i due. La piega delle sue sopracciglia manifestava una certa contraddittorietà, ma, dato che non poteva pronunciarsi su fatti di motori, si limitò ad un cenno di assenso. Dopodiché, li congedò entrambi. 

Era ormai notte fonda.

Nate aprì la porta per Ross, poi lo seguì verso le scale. Quell’uomo si rifiutava di prendere l’ascensore che Richie gli aveva mostrato.

Mentre scendevano, uno accanto all’altro, Ross gli disse. «Ho notato che tu e mia cugina Alison siete diventati molto… intimi».

Nate per poco non inciampò. L’ultima cosa che voleva, dopo una corsa disastrosa e a quell’ora tarda della notte, era discutere con Ross del suo rapporto con Alison.

«L’unica cosa che devi sapere, Nathaniel» alzò gli occhi verso di lui quando pronunciò il suo nome, «è che se la farai mai soffrire ti spaccherò ogni singolo osso del corpo, intesi?»

Nate deglutì, appiattendosi contro la parete. «Intesi».

 

 

 

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Capitolo 10
*** La terza corsa ***




La terza corsa
 

Anche se non aveva molto tempo libero, Nate aveva cominciato a passare quello che gli era concesso in compagnia di Alison. Per quanto nervoso e preoccupato fosse, c’era un che di calmante nel sentire il calore della ragazza al suo fianco, nel modo in cui il profumo di lei gli inondava le narici, nella delicatezza con cui lei accarezzava il suo petto nudo quando erano stesi nel letto.

Alison era di una bellezza splendente, che irradiava luce e calore intorno a sé. Nate stava bene vicino a lei, benché sentisse che c’era qualche angolo buio di sé che nemmeno la luce di lei avrebbe potuto illuminare.

Tra lavoro, preparazione con Ross e serate con Alison, Nate non era quasi mai a casa e Jay non aveva mancato di farlo notare con qualche frecciatina a mezza voce. 

Così, quando Mike aveva proposto di invitare Alison a cena da loro un sabato sera, Nate si era trovato costretto ad accettare per riuscire a rendere tutti contenti.

La ragazza era più che felice di passare del tempo con i suoi coinquilini e si era offerta di cucinare qualcosa per l’occasione. 

Così lei e Nate si erano sistemati in cucina qualche ora prima di cena per preparare le lasagne per tutti. Mentre aspettavano che si cuocessero, si sedettero nel salotto a chiacchierare, in attesa che Mike e Jay rientrassero dai rispettivi luoghi di lavoro.

Quando i due ragazzi rimisero piede in casa, Jay aveva uno sguardo marmoreo e teneva un Mike dall’aria colpevole per un braccio.

«L’ho trovato che spacciava in strada» annunciò Jay entrando nel salotto e attirando l’attenzione di Nate e Alison.

Mike, in tono di protesta, ribatté: «Non stavo spacciando, stavo offrendo erba su ricompensa».

L’altro emise un verso di frustrazione. «Il che è esattamente la definizione di “spacciare”. Nate, diglielo anche tu».

«No, lo spaccio è qualcosa di sistematico» insistette Mike. «E io quello non lo faccio più. Hai detto che non volevi che lo facessi, e ho smesso. Ti ho ascoltato, Jay, anche se mi piaceva avere soldi extra. Ma se un amico mi chiede se posso offrirgli dell’erba, che figura ci faccio a dire di no?»

Jay si mise le mani, tra i capelli, strappando una risatina ad Alison.

«Ci fai la figura della persona rispettosa della legge!»

Di scatto si rivolsero entrambi verso Nate, ognuno in attesa che parteggiasse per lui.

Il ragazzo sollevò le mani, come se volesse tirarsene fuori, ma gli sguardi degli altri lo costrinsero a schierarsi.

«Va bene, va bene. Mike, devi stare attento. Chiunque poteva vederti in strada e un poliziotto ti avrebbe arrestato. È l’ultima cosa di cui hai bisogno, intesi?»
Jay si stava già voltando verso l’amico per rimarcare le sue parole, quando Nate riprese, questa volta rivolgendosi a lui: «E tu, Jay, lascialo respirare un po’! Mike voleva solo essere gentile, non serve accusarlo di spacciare».

L’altro sbuffò, scuotendo il capo. 

 

 

***


 

Nonostante avesse già affrontato due sfide – in modo più o meno soddisfacente – una certa tensione stava tormentando Nate da quando aveva piazzato l’auto nel punto di partenza. La corsa si sarebbe svolta non più in una zona disabitata, ma in un quartiere pieno di palazzi. Non si trattava certo del centro città, ma la possibilità di incontrare altre automobili c’era. 

Questa volta nessuno li avrebbe attesi al traguardo, ma l’ordine per tutti era di dileguarsi non appena raggiunto il punto di arrivo.

Nate puntò gli occhi sulla luce rossa del semaforo, in attesa. Sapeva che Richie, Ross e Alison non avrebbero potuto seguire la gara, ma era d’accordo di trovarsi poco lontano dal Venus se non ci fossero stati inconvenienti. Queste precauzioni erano ciò che agitava il ragazzo.

Quando il semaforo divenne verde, Nate scattò in avanti, infilandosi nella strada buia. Dopo qualche centinaio di metri dovette svoltare bruscamente e si trovò su una via principale circondata da lampioni. Se avesse avuto tempo di fermarsi a guardarla, avrebbe notato quanto simile fosse ad una normale strada residenziale. Ma non aveva tempo per pensare. L’auto stava prendendo rapidamente velocità, così si spostò nella corsia di sinistra e superò due concorrenti. 

Ad un incrocio svoltò a sinistra e si trovò davanti un furgone che non aveva nulla a che fare con la gara. Si spostò leggermente a sinistra e vide che nell’altra corsia stava arrivando un camion. Non ebbe tempo di fare calcoli, così decise di stringere i denti e schiacciare l’acceleratore mentre si lanciava nella corsia opposta. Sentì il camion suonare e frenare bruscamente, ma Nate riuscì a tornare nella propria corsia appena in tempo. Si staccò dal furgone di qualche centinaio di metri, poi controllò nello specchietto retrovisore. Altre due auto lo stavano raggiungendo, ma aveva ancora un buono stacco.

Il percorso tagliava attraverso un parco buio. Nate sapeva che alla fine del parco avrebbe avuto ancora poche di svolte prima dell’arrivo.

Pigiò l’acceleratore a tavoletta nel rettilineo, circondato da alberi scuri e scheletrici che pendevano su di lui. Vide in lontananza le luci della strada e fissò lì gli occhi pregando che non vi fosse nessuno.

Rallentò leggermente, per evitare di travolgere eventuali automobilisti, ma quando vide che la strada era libera accelerò di nuovo.

Era talmente esaltato dal fatto di essere il primo tra i concorrenti, che per un attimo non si accorse delle sirene. Vide i lampeggianti solo qualche minuto dopo che già lo stavano seguendo. Lanciò un’occhiata nello specchietto e per un istante rimase imbambolato, come incredulo.

La polizia gli stava alle calcagna.

Una serie di imprecazioni gli attraversò la mente, ma non ebbe tempo di pronunciarle, come non ebbe il tempo di pensare a come seminarli. Il suo corpo agì per lui e lo condusse attraverso il percorso della sfida.

Guardò ancora nello specchietto. Si trattava di due volanti, che avevano una velocità massima decisamente inferiore rispetto alla sua auto. Poteva cercare di seminarle, oppure puntare prima alla vittoria, e poi pensare a cosa fare.

Decise che se ormai era in ballo, tanto valeva ballare. Lasciò che i suoi muscoli si muovessero in automatico secondo il percorso che aveva memorizzato insieme a Ross. 

Come aveva previsto, riuscì a tenere le auto a una buona distanza, e in pochi minuti tagliò il traguardo, indicato da nient’altro che una bandierina appesa a bordo strada e un’auto scura parcheggiata a lato.

Nate lo superò, ma non fece in tempo a godersi la vittoria perché il minaccioso lampeggiare blu e rosso alle sue spalle indicava che aveva un problema più grande.

Non conosceva quella zona della città, così dovette muoversi a caso, cercando di infilarsi all’ultimo in vie strette in cui la polizia avrebbe faticato a seguirlo. Così fece e si ritrovò in una strada a senso unico con una sola delle volanti che lo seguiva alle spalle. Premette l’acceleratore, quasi pronto ad assaporare la vittoria della fuga, quando un paio di fari si piantarono davanti a lui. Un’altra auto della polizia si era piazzata alla fine della via, chiudendogli la strada.

Nate spostò rapidamente il piede sul freno e inchiodò in uno stridore raggelante. Quando l’auto si bloccò, rimase fermo sul suo sedile, con gli occhi fissi sulle due sagome che erano scese dall’auto alla fine della strada.

Sentì delle voci provenire dall’esterno, ma il rumore del suo cuore che batteva nelle orecchie lo stava assordando. Anche senza sentirli, immaginò bene quello che stavano dicendo, così si slacciò la cintura e aprì la portiera. Il martellare del suo cuore, come un esercito di tamburi, era l’unica cosa che riusciva a percepire.

Mentre metteva i piedi tremanti a terra per scendere dall’auto, la sua mente corse a Jay e Mike. Li immaginò nell’atto di ricevere la notizia del suo arresto e il suo battito cardiaco accelerò. Alzò le mani in aria e i pensieri passarono dagli amici a sua madre. La immaginava stesa nel letto, con quel pallore malaticcio che il suo volto aveva ormai assunto da anni.

All’interno via, nella luce incrociata delle due auto della polizia, Nate si alzò in piedi, con le mani sopra alla testa. Si guardò attorno e pensò: “Cazzo, è finita”.

 

***

 

Nate sentiva la voce di Richie come se provenisse da un altro universo. Vedeva la sua bocca aprire e chiudersi, le sue mani muoversi in modo nervoso, ma nessuna parola di senso compiuto raggiungeva le sue orecchie. Percepiva solo vaghi suoni che si propagavano nell’aria dello studio dove erano rinchiusi e cadevano inerti senza che la sua mente avesse la forza di trasformarli in una comunicazione logica.

«Mi stai ascoltando?» 

Il modo in cui Richie batté i pugni sul tavolo lo riportò nella realtà.

«No, ero distratto» confessò Nate passandosi una mano sul viso per svegliarsi.

«Sto per caso annoiando il principino?» ribatté l’uomo in tono pesantemente sarcastico. «Mi dispiace disturbarlo mentre tento di risolvere i suoi problemi».

Nate gli rivolse uno sguardo scocciato. «Ho passato la notte in una cella sporca e sovraffollata, mi scuserai se non sono sprizzante di gioia ed entusiasmo».

Richie roteò vistosamente gli occhi ed incrociò le braccia al petto come faceva quando stava per utilizzare un tono paternalistico. 

«Sto cercando di aiutarti. E mi dispiace per la tua notte in cella, ma i soldi che ti hanno tirato fuori sono i miei, come mia è l’auto che ti hanno sequestrato. Qui ci rimettiamo entrambi».

Il ragazzo prese un respiro profondo e si raddrizzò per poi appoggiarsi comodamente allo schienale della poltroncina.

«Rick, tu ci perdi i soldi, io ci perdo la mia vita. Hai sentito cosa si dice in giro? L’amministrazione non tollera più le corse automobilistiche, cercheranno di darmi il massimo della pena».

Richie non rispose subito, ma si guardò attorno con un’espressione corrucciata. Sembrava un grosso e barbuto bambinone pensieroso.

«Non c’era nessuna prova che tu stessi partecipando al Devil Wheels, eri troppo lontano dagli altri perché sembrasse una gara, possiamo puntare su questo».

Nate gli rivolse uno sguardo poco convinto. Il cellulare dell’uomo vibrò sul legno della scrivania e Richie si chinò in avanti per leggere il messaggio.

Vedendolo corrugare la fronte, il ragazzo chiese di chi si trattasse.

«Ross» fu la risposta. «Ti fa i complimenti».

«Per l’arresto?» ribatté Nate. «Strano senso dell’umorismo».

«No, per il primo posto. Hai rimontato alla grande».

L’informazione non aiutò molto il ragazzo a sentirsi meglio. «Forse ti conviene cercare un altro pilota allora. Per non far andare sprecata la posizione».

L’altro replicò in tono burbero. «Non dire cazzate. Ross ha convinto gli organizzatori a rimandare la prossima corsa. Abbiamo tempo di trovarci un avvocato».

Nate sospirò, rassegnato. 

 

 

Richie lo spedì a casa e, mentre se ne stava sul taxi pagato dall’uomo, Nate decise di chiamare Jay. Era sicuro che la notizia del suo arresto gli fosse arrivata in qualche modo, ma non era ancora riuscito a parlargli direttamente.

«Come stai?» gli chiese subito l’amico e Nate si stupì della totale mancanza di “te l’avevo detto” nel suo tono. «È passata Alison ad avvisarci di quello che è successo».

Gli spiegò brevemente come erano andate le cose e sentì Jay sospirare. «Speriamo vada tutto bene».

«Già».

Dato che non avevano molto altro da dirsi, lo lasciò tornare al lavoro e chiamò Mike per informare anche lui. La conversazione si svolse più o meno nello stesso modo.

Non appena arrivò a casa, Nate si lanciò sul letto, accolse tra le braccia Mila, che subito lo aveva raggiunto, e si addormentò cullato dalle fusa della gatta.


 

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Capitolo 11
*** L'avvocato ***







L’avvocato

 

A svegliarlo qualche ora più tardi fu la suoneria del cellulare. Si trattava di Richie.

«Ho parlato con un avvocato, che ha accettato di incontrarci. Per ora è fuori città, ma ci ha detto di passare dal suo studio e lasciare tutte le informazioni. Vestiti bene».

Quando l’uomo riattaccò, Nate era ancora steso sul letto con Mila che gli dormiva accoccolata al fianco.

Si alzò stiracchiandosi e si diresse verso la doccia.

«“Vestiti bene”» ripeté tra sé mentre apriva l’armadio e scrutava la pila di T-shirt e felpe. Gli venne in mente che da qualche parte aveva una camicia che gli avevano dato quando aveva lavorato nel catering per qualche weekend. Riuscì a trovarla nascosta nell’angolo più buio del mobile e decise di indossarla insieme ai jeans meno logori che aveva. Quando si guardò allo specchio pensò che almeno avrebbe avuto tempo di comprare un completo decente per il processo.

Scese in strada e dopo poco venne raggiunto dalla grossa auto scura di Richie. Si infilò al posto del passeggero e commentò ironicamente: «Sicuro che non vuoi che guidi io?»

L’uomo sbuffò una risata trattenuta. Nate notò che anche l’altro si era messo in tiro, con quella camicia nera, coperta da una giacca elegante dello stesso colore e abbinata ai pantaloni. Indossava persino un cappello per coprire il suo cranio tatuato.

«Come hai trovato l’avvocato?» gli chiese, per cercare di fare conversazione e stemperare il nervosismo che lo stava pungolando.

«È un tizio giovane, nuovo in città, quindi non conosce il mio nome abbastanza bene da sapere di cosa mi occupo». I suoi occhi ebbero uno scintillio malizioso. «E l’ho convinto dicendo che sei un povero ragazzo vittima di una società ingiusta».

Nate alzò gli occhi al cielo, scuotendo il capo, e Richie rise. «Che c’è? Mi hanno detto che è uno sensibile alle ingiustizie».

Lo studio si trovava in un edificio alto ed imponente del centro città. Lasciarono l’auto nel parcheggio sotterraneo e salirono fino al quinto piano. Quando le porte dell’ascensore si aprirono, si trovarono in un ambiente luminoso, dominato da colori chiari e tenui. Abbondante luce naturale si riversava dalla vetrata che occupava una parete intera.

Si avvicinarono al banco della segretaria, che subito li condusse in un ufficio poco distante.

«L’avvocato Carter si scusa ancora di non poter essere con voi oggi, ma è sicuro di avervi lasciato nelle capaci mani della sua assistente» disse loro e si congedò con un sorriso gentile.

L’assistente si trovava già nella stanza e pareva non averli sentiti entrare, perché dava loro la schiena ed era piegata in avanti per frugare tra alcuni faldoni.

Dall’ingresso della stanza, i due uomini riuscivano a vederne i capelli corti e scuri, che scivolando in avanti lasciavano scoperto il collo sottile.

Nate si avvicinò alla finestra e lanciò un’occhiata alla strada sottostante. Avrebbe preferito essere quell’uomo vestito da hot dog sul ciglio del marciapiede piuttosto che trovarsi lì in quel momento.

«Questa ce l’ha l’età per lavorare?» domandò Richie e rise della sua stessa battuta.

L’assistente era piccola e sottile e nonostante la giacca e i pantaloni eleganti, sembrava poco più che un’adolescente.

Sentendo la sua voce, la ragazza si raddrizzò di scatto e, da dietro le lenti degli occhiali, lanciò un’occhiata a Richie, fissandolo intensamente.

«Lei deve essere il signor Bryant» disse stringendo le labbra.

Nate distolse gli occhi dalla strada e si voltò verso gli altri due.

Quando i suoi occhi ebbero messo a fuoco la ragazza, si sentì mozzare il fiato. Fu come se improvvisamente qualcuno avesse risucchiato l’aria della stanza, come se qualcuno gli avesse tirato un pugno nello stomaco, come se due mani premessero intorno al suo collo.

Boccheggiò, paralizzato, e si appoggiò alla soglia della finestra per non finire a terra. Si sentiva infuocato e allo stesso tempo gelido come marmo.

Anche il volto della ragazza era improvvisamente impallidito e la sua espressione si era fatta turbata.

«Allora, cominciamo o no? Non ho tutto il giorno» protestò Richie e l’assistente fu costretta a distogliere lo sguardo da Nate.

Si spinse gli occhiali sul naso e sistemò una ciocca di capelli dietro alle orecchie, poi si schiarì la voce: «Sì, certo, avete portato tutti i documenti necessari?»

Sbuffando, Richie le tese la cartella che aveva portato sottobraccio fino a quel momento.

La ragazza estrasse i fogli dalla cartella e li guardò a uno a uno. 

Nate la fissava come in trance, fino a che lei li restituì a Richie. 

«Manca l’assicurazione dell’auto» comunicò tossicchiando e sistemò nuovamente gli occhiali.

«Non credevo fosse necessaria.»

«Lei sapeva che era necessaria» lo corresse l’assistente, «Sono certa che il mio collega l’avesse avvertita.»

In quel momento squillò il telefono sulla scrivania.

«Scusatemi» disse e sollevò la cornetta. Dopo aver ascoltato, la ripose e ripeté: «Scusatemi» per poi uscire dalla stanza.

Richie sbuffò rumorosamente. «Chi diavolo si crede di essere? Scommetti che è la figlia del grande capo?»

Nate prese un lungo respiro e si staccò dal davanzale. Si guardò attorno, con il fiato corto.

Sentiva il cuore martellargli nel petto e le tempie pulsare. Vedeva Richie muovere la bocca, ma tutti ciò che sentiva era il sangue che rombava nelle vene.

L’assistente rientrò, comunicò gli ultimi dati a Richie e fissò loro un appuntamento con il suo superiore. 

Prima che uscissero dalla porta, la ragazza bloccò Nate.

«Possiamo parlare?»

Lui si bloccò sulla porta. Fece cenno a Richie di uscire e si voltò verso di lei.

«Come stai?» gli domandò avvicinandosi.

Da quella distanza si vedevano le sue iridi blu scuro dietro alle lenti degli occhiali.

«Bene» rispose lui deglutendo. 

La ragazza aggrottò la fronte, ma non ebbe tempo di aggiungere altro, perché lui si lanciò nel corridoio a passo rapido.

Quasi corse sul marmo liscio, fino a che raggiunse la porta del bagno.

Si aggrappò al lavandino e fissò il proprio riflesso nello specchio. Vedeva le proprie pupille ballare e si sentiva come se sarebbe potuto svenire da un momento all’altro.

Si sciacquò il volto e rimase a fissarsi ancora per un istante. Poi si accostò alla porta e controllò che il corridoio fosse libero.

Prese un respiro profondo e lasciò gli uffici.

 

 

Quando rincasò, Jay stava cucinando e Mike dormiva sul divano.

Nate sbatté la porta e si chiuse in camera sua.

Non era vero. Era stato un sogno. La sua mente cercava di trovare spiegazioni verosimili per quello che era avvenuto, spiegazioni che non implicassero lei

Era stata un’allucinazione. No, c’era Richie con lui.

Era solo una persona molto simile a lei. No, che diamine, non avrebbe mai confuso i suoi occhi blu.

Gli aveva chiesto come stava, gli aveva parlato. Era lei. Era davvero lei e Nate l’aveva avuta davanti, non nei suoi sogni, non nelle sue allucinazioni, ma nella realtà.

Sentì qualcosa di morbido toccargli il braccio e si accorse che si trattava di Mila che chiedeva le coccole. Guardò la gatta con un’espressione allucinata, mentre lei socchiudeva gli occhi sornioni.

Le fece qualche carezza e le lasciò un bacio sulla testa, poi uscì dalla stanza ed entrò nella camera di Mike. Sapeva dove teneva la sua erba, perché l’amico non ne aveva mai fatto un mistero, così aprì il cassetto e lo ringraziò mentalmente quando trovò uno spinello già rollato.  

Si rintanò in camera sua, aprì la finestra, e fece uscire Mila dalla porta. Poi tornò alla finestra e si accese lo spinello.

 

Jay lo trovò così, seduto sul davanzale con una gamba a penzoloni e l’altra piegata sulla soglia, lo sguardo assente e un vago sorriso dipinto sulle labbra.

«Cristo Santo» fu la prima cosa che Jay esclamò aprendo la porta. «La tua camera puzza più di Mike di ritorno da un rave».

«Ehi, mi sei mancato» ridacchiò Nate in risposta.

L’altro alzò gli occhi al cielo e gli si avvicinò, aiutandolo in modo non troppo gentile a scendere dalla finestra.

«Forza, andiamo a mangiare».

Nate si lasciò trascinare, come divertito dal fatto che l’amico, più piccolo e sottile di lui, pensasse di poterlo reggere fino alla cucina.

In qualche modo ci riuscì, perché Nate si ritrovò al tavolo con davanti un piatto caldo. Jay insistette perché si mettesse a mangiare.

«Mi piace quando sei così premuroso» gli disse e gli accarezzò la guancia con una mano. Jay la scacciò schifato e si diresse verso il salotto per svegliare Mike.

Nate li sentì confabulare in lontananza, ma non se ne curò e si mise a mangiare il piatto che aveva davanti.

 

Più tardi, quando l’effetto della marijuana stava cominciando a sparire, Jay lo convinse a mettersi a letto e così Nate si ritrovò a farsi rimboccare le coperte dall’amico con Mike che li osservava appoggiato all’armadio, un poco a disagio. 

«Ehi» fece Jay, «sai che se c’è qualche problema con noi puoi parlare».

Nate gli sorrise. «Problema? Perché pensi che ci sia un problema?»

L’altro alzò gli occhi al cielo. «Perché sei fatto, Nate, ecco perché. E stai attraversando un periodo di merda».

«Sto benissimo, ragazzi. Sto benissimo» rispose con un sorriso stampato sul volto.

Jay e Mike si scambiarono uno sguardo d’intesa, ma non fecero commenti. Gli diedero la buona notte e lo lasciarono addormentarsi abbracciato alla sua gatta.

 

 

 

 

Quando Nate si svegliò il mattino successivo, fu assalito da un senso di nausea e vertigine. Si alzò per andare in bagno e si sciacquò il volto con dell’acqua fresca. 

Si guardò nello specchio sopra al lavandino e vide che stava uno schifo. I capelli spettinati, le occhiaie, il volto pallido e gli occhi gonfi.

Si lanciò altra acqua sul volto e decise che non poteva ridursi in quelle condizioni. Tornò in camera e spalancò la finestra, poi tolse le coperte dal letto e ne mise altre pulite. Era da tempo che voleva farlo, ma continuava a rimandare.

Quando Jay lo vide entrare in cucina alla ricerca del disinfettante, gli rivolse uno sguardo più che perplesso.

«Tutto bene?» gli chiese.

«Sì, Jay, non eccitarti troppo se mi pulisco la camera da solo» replicò e tornò da dove era venuto.

Nel primo pomeriggio aveva lucidato ogni angolo della sua camera ed era passato al salotto, quando sentì il campanello suonare. Mike lavorava quel giorno, mentre Jay era uscito da poco a fare la spesa. Nate immaginò che si fosse dimenticato qualcosa e andò ad aprirgli svogliatamente. Quando vide di chi si trattava per poco non gli cadde la mascella.

Lei se ne stava sulla soglia con aria imbarazzata, una borsa scura stretta al petto, come per proteggersi.

 

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Capitolo 12
*** Lei ***


 



Lei

 

Nate rimase a fissarla in silenzio. Poi realizzò che si era messo in testa una fascia di spugna per tenere indietro i capelli e doveva avere un’aria piuttosto stupida.

«Ti disturbo?» chiese lei, occhieggiando l’interno della casa.

Nate immaginò che la tuta sformata che indossava fosse abbastanza eloquente riguardo i suoi impegni giornalieri, ma scosse ugualmente il capo.

«No, figurati» rispose e rimase per un istante a guardarla, poi si accorse che forse non era carino tenerla sulla soglia.

«Oh, scusami, entra pure».

Lei fece un sorriso di ringraziamento e gli sfilò accanto, infilandosi nell’appartamento.

Quando gli passò vicino, Nate inspirò il suo profumo e si accorse, dolorosamente, che era cambiato. Non era più quello che usava una volta.

La condusse in cucina e la fece sedere a tavola. Notò che la ragazza indossava un dolcevita nero sotto al cappotto che ora si era tolta per appoggiarlo alla sedia.

«Posso offrirti qualcosa?» domandò aprendo il frigorifero, ma vi trovò solo birre, così lo richiuse d’impulso. Troppo tardi. Lei doveva aver visto l’interno perché quando si voltò a guardarla scoprì che sulle sue labbra era spuntato un piccolo sorriso.

«Almeno certe cose non cambiano mai».

Anche Nate sorrise, a disagio, e si ricordò improvvisamente che Mike teneva delle bustine di tisane da qualche parte.

«Ti preparo del tè» le disse, senza darle tempo di replicare, e mise a scaldare l’acqua mentre cercava le bustine.

Aspettò che tutto fosse pronto e solo quando si sedette a tavola con due tazze fumanti si costrinse a guardarla negli occhi. Questa volta non portava gli occhiali e nessuno schermo lo proteggeva dalla vista di quelle iridi blu.

Lei si sistemò nervosamente i capelli dietro alle orecchie e gli sorrise. 

«Sei cambiato».

«Anche tu» replicò Nate, anche se non era vero. Sospettò che anche lei lo avesse detto tanto per dire e che in realtà le sembrasse che tutti quegli anni non fossero passati.

Tra loro calò un silenzio imbarazzante.

«Allora, sei venuta qui per dirmi qualcosa?» chiese il ragazzo cercando di porre fine al senso di disagio che li avvolgeva.

Lei sgranò gli occhi e la sua bocca fece una O perfetta. «Oh, sì, be’, io… l’altro giorno non abbiamo fatto in tempo a parlare. Volevo assicurarmi che stessi bene».

«Sto bene» si affrettò a dire lui, forse più bruscamente di quanto avrebbe voluto.

«Correre con le auto… è una cosa ricorrente?»

Nate strinse gli occhi e la scrutò, cercando di capire dove finisse l’interesse professionale in quella domanda e dove cominciasse quello personale. Cercò di scacciarsi quell’idea della testa. 

«Sì» replicò.

«Oh». Forse la ragazza si aspettava una risposta diversa.

In quel momento sentirono la porta dell’ingresso che si apriva ed entrambi si voltarono in quella direzione, anche se non riuscivano a vederla dalla cucina. Li raggiunse la voce di Jay.

«Nate, credo sia il caso che tu cominci ad educare Mila. Mi ha guardato con un’aria di sfida e sembrava sul punto di mordermi».

Mentre Jay faceva il suo ingresso in cucina, Nate si sentì sbiancare e vide la ragazza ridacchiare.

«E io che pensavo di essere una persona gentile» la sentì commentare. «Scusa Jay, non ti avevo proprio visto».

Il nuovo venuto, non appena ebbe messo a fuoco l’ospite, ammutolì e il suo volto si fece inespressivo. Fece saltare lo sguardo da lei a Nate e viceversa, in cerca di una spiegazione.

«Be’, ecco lui parlava…» farfugliò Nate chiaramente impacciato.

«Parlavo di un’altra Mila» si affrettò a specificare Jay e il sorriso della ragazza si allargò ancora di più. «È curioso che tu conosca un’altra ragazza con il mio nome».

Nate fece spallucce, fingendo una disinvoltura che in quel momento non sentiva propria. Lo sguardo allucinato dell’amico lo aveva fatto precipitosamente consapevole della situazione assurda in cui si trovava. Lei era seduta in casa sua. Lui l’aveva fatta entrare.

Jay lasciò a terra le borse della spesa e, borbottando qualche scusa, si affrettò a defilarsi.

«Non è cambiato» commentò Mila sorridendo e anche Nate si concesse un sorriso. «Jay rimarrà sempre uguale a se stesso».

Quel momento di complici sorrisi tra di loro aveva disteso gli animi e, forse reso euforico dal fatto che non si fosse accorto che aveva chiamato la sua gatta come lei, Nate assunse un atteggiamento più rilassato.

«L’altro giorno sono stato scortese» le disse, «e non ti ho chiesto della tua vita. Come stai?»

Mila parve riconoscente per quelle attenzioni e gli rivolse uno sguardo sereno.

«Sto bene, grazie».

«Hai finito l’università?» le chiese ancora, sollevando poi la tazza per prendere un sorso.

Gli parve di notare il sorriso di lei vacillare un poco, ma quando scosse il capo il suo volto non tradì alcuna emozione.

Nate sgranò gli occhi, stupito da quella rivelazione.

«Non l’hai finita? E i tuoi che hanno fatto? Ti hanno tolto un milione dall’eredità come punizione?»

Mila alzò gli occhi al cielo, senza neanche sforzarsi di nascondere quanto quel commento l’avesse irritata.

Nate corse subito ai ripari. «Scusami, era solo una brutta battuta. Solo che ricordo quanto ci tenessero a vederti laureata. E ti piaceva studiare Legge, se non sbaglio».

La ragazza aveva smesso di sorridere e lo sguardo che gli rivolse pareva così carico di significato che lui non riuscì a decifrarlo.

«Per un po’ ho continuato, studiando in modo febbrile. Stavo per finire con un anno di anticipo, poi ho mollato tutto».

La schiettezza con cui fece questa confessione dovette colpire anche lei, perché abbassò subito gli occhi e li fissò sulle mani che tormentavano l’orlo del dolcevita.

«Be’, benvenuta nel club dei non laureati. Non ci giudichiamo gli uni gli altri» le disse ironico, strappandole un piccolo sorriso.

«Però tu avevi vinto con quel progetto!» esclamò lei illuminandosi all’improvviso. «Ti hanno aiutato a realizzarlo?»

Nate fece una smorfia amara. «Credi che correrei con le auto se potessi guadagnarmi da vivere in altro modo?»

L’espressione di Mila si spense e si fece corrucciata, poi, in tono ironico, ribatté: «Non mi stupirebbe. Hai sempre avuto una passione per fare ogni volta le cose più stupide.»

Lui replicò senza pensarci, senza realizzare il potere distruttivo che le sue parole avrebbero avuto:«Come innamorarmi di te».

Mila sgranò gli occhi, colta alla sprovvista. Si ritrasse improvvisamente, appiattendosi contro allo schienale della sedia. Solo in quel momento Nate realizzò il passo falso che aveva fatto e cercò di rimediare.

«Quale errore più grande avrei potuto fare se non avere una relazione con una persona totalmente incompatibile? Per fortuna me ne sono andato prima che le cose si facessero troppo serie. È stato meglio chiudere tutto subito.»

Vide Mila deglutire a fatica e poi commentare, con voce strozzata: «Già».

Per continuare la recita del disinvolto padrone di casa, Nate domandò: «A proposito, come va la tua vita sentimentale? Ti vedi con qualcuno?»

Mila lo fissò per qualche istante in silenzio, come incerta, poi annuì. «Sì, convivo da qualche mese con… lo conosci, James Carter».

Il ragazzo dovette ingoiare il dolore che quella scoperta gli provocò per cercare di capire come potesse conoscere quell’uomo, che già odiava. Un’illuminazione lo colpì. «Aspetta, intendi l’avvocato Carter?»

Mila fece un cenno di assenso, a disagio, e lui rise. «Non ti facevo una che va a letto con il superiore per fare carriera».

Lei avvampò. «Vaffanculo, Nate».

Fece per alzarsi in piedi, ma lui la trattenne precipitosamente. «Ehi, scusami, hai ragione. Forse hai sbagliato all’inizio quando hai detto che sono cambiato. Forse sono rimasto lo stesso idiota che ti faceva arrabbiare ogni due minuti».

Mila gli rivolse uno sguardo circospetto, ma decise di rimanere seduta, quanto meno per giustificarsi. «Non che mi importi di chiarire la cosa con te» disse, «ma ho iniziato la mia relazione con James una volta concluso il tirocinio. Quando ha scoperto che avevo mollato l’università mi ha assunta come assistente perché avevo lavorato bene in precedenza».

Nate le sorrise. «So che non c’è nessuna come te».

Lei sgranò gli occhi e il ragazzo imprecò mentalmente per l’ennesima volta contro la sua lingua. «Intendo dire, so che ti assunta per le tue capacità e non per altro. Sei sempre stata la più brava».

Lei arrossì di nuovo, questa volta di un rossore tenue per l’imbarazzo suscitato dal complimento.

Lo sguardo le cadde sul sottile orologio d’argento che portava al polso. «Quanto si è fatto tardi!» esclamò, sorpresa più con se stessa che con Nate. «Forse è meglio che vada».

Il ragazzo lanciò un’occhiata fuori dalla finestra e notò che si era fatto scuro. «Posso accompagnarti, se vuoi. Non è un quartiere molto sicuro».

Mila seguì la direzione del suo sguardo e notò l’oscurità al di fuori dell’appartamento. Si voltò verso Nate. «In che modo? Ti hanno ritirato la patente».

Lui roteò gli occhi. «Non lo so, potrei venire in taxi con te per assicurarmi che non ti succeda nulla».

Lei scosse il capo. «No, chiamo James. È in giro e non impiegherà molto ad arrivare, così posso togliere il disturbo».

«Nessun disturbo» ribatté lui in tono forse troppo intenso, perché Mila distolse lo sguardo, a disagio.

Si alzò in piedi e si allontanò di qualche passo mentre componeva il numero sul cellulare. Per lasciarle privacy, Nate si spostò per un istante nel corridoio che conduceva alle camere. Come lo sentì avvicinarsi, Jay fece capolino dalla sua stanza.

«Spero di aver avuto un’allucinazione» commentò e Nate gli fece cenno di abbassare la voce. «Spero che Mila Barnes non sia veramente nella cucina di casa mia».

L’altro sbuffò.

«Che cazzo ci fa qui?» continuò l’amico.

«Jay, hai un serio problema di confini. Quella è la mia ex, dovrei essere io quello seccato».

«Infatti, perché non lo sei?» replicò l’altro rivolgendogli uno sguardo torvo. «Questa è la volta buona che cominci a drogarti sul serio, Nate, me lo sento.»

«Vaffanculo».

La voce di Mila dalla cucina interruppe il battibecco.

«Non una parola» intimò Nate mentre tornava dalla ragazza.

Lei lo aspettava in piedi accanto al tavolo, con le braccia strette al petto, come in imbarazzo. Nate sentì che ora che avevano finito di parlare, la situazione si era fatta nuovamente tesa tra loro due.

«Sta arrivando» disse la ragazza e lui annuì. Per interrompere il lungo silenzio che si stava creando, le chiese: «Seriamente, assistente avvocato Barnes, quanto sono nella merda con il mio arresto?»

Lei ci pensò su un attimo, poi rispose: «Abbastanza».

Forse ritenne di essere stata troppo dura, perché gli rivolse un piccolo sorriso e cercò di stemperare il tutto aggiungendo: «Ma faremo del nostro meglio».

«Anche se sai che sono colpevole al cento per cento?»

Mila si strinse nelle spalle. «A volte la vita è ingiusta. Bisogna prendersi delle rivincite».

Decisero di scendere al piano terra dato che James era quasi arrivato. Rimasero ad aspettare all’interno, guardando la strada attraverso i vetri del portoncino d’ingresso.

Nate se ne stava con le mani cacciate nelle tasche della tuta, strascicando le pantofole con fare nervoso.

«Grazie per essere passata» le disse e lei sorrise.

In quel momento una scintillante auto sportiva si fermò davanti al palazzo e non ci furono dubbi che si trattasse dell’avvocato. Vetture del genere non si vedevano spesso nel quartiere.

«Ci vediamo presto» disse Mila e si allungò verso Nate. Lui rimase immobile, come paralizzato da quella vicinanza, mentre lei gli lasciava un bacio delicato sulla guancia. Quando si ritrasse, lui notò che aveva le guance arrossate.

Mila evitò il suo sguardo e, senza aggiungere altro, uscì dal palazzo e corse verso l’auto.

Nate rimase a fissare la strada fino a che il rombo del motore non si spense in lontananza.

 


 

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Capitolo 13
*** Mila ***





Mila

 

Mila si accorse che James era seccato dal modo in cui stringeva il volante e dal guizzo sulla sua mascella ben rasata. Non aveva ancora parlato da quando lei era entrata nell’auto e ogni secondo il silenzio si faceva più pensante.

«Forza, dì quello che vuoi dire» lo incoraggiò, stufa di aspettare la sua sfuriata.

James respirò rumorosamente e lei lo vide stringere ancora di più i denti.

«Sai che ti sei messa in una situazione pericolosa. Pensavo lo capissi» replicò piano.

«Sono arrivata nel quartiere con la luce e avevo dello spray al peperoncino in borsa».

Lui alzò gli occhi al cielo. «Sarebbe potuta finire male. Perché diavolo sei andata in un quartiere del genere da sola?»

«Te l’ho detto, volevo parlare con il nostro nuovo cliente. Quando è passato in ufficio ho a malapena fatto in tempo a scambiare due parole».

«Già» constatò James poco convinto. «A proposito, ho fatto qualche ricerca su quel Richard Bryant. Non è certo un campione di legalità».

«Lo so, Nate ha anche ammesso di essere colpevole, ma non è questo il punto. Ricordi quando mi hai detto di voler fare di più per il sociale?»

L’uomo annuì, così lei continuò: «Questa è la tua occasione. Si tratta di un ragazzo senza opportunità che è stato costretto a fare un lavoro illegale per vivere. Quello non è certo un criminale, James».

Lui era ancora contrariato per essersi dovuto recare in quel quartiere a recuperarla, lo si intuiva dalla rigidezza della sua posa, ma pareva in qualche modo convinto dalle parole della ragazza.

«Presumo che la vostra chiacchierata sia andata bene» commentò.

Mila assentì, poi si mordicchiò nervosamente le unghie, prima di decidersi a parlare.

«Sì, a dir la verità, conosco Nate dai tempi del liceo».

Un’occhiata veloce al guidatore le permise di notare che le sopracciglia di lui erano levitate in un’espressione perplessa.

«Sapevo che si era trasferito, ma non mi aspettavo di trovarlo come nostro cliente» proseguì in tono calmo.

«Non credevo fosse il tuo tipo di persona».

Mila avvampò. «Cosa intendi?»

James non si scompose, ma accennò un lieve sorriso. «Non mi sembra il tipo di compagnia che i tuoi genitori approverebbero».

Lei sorrise a sua volta, ma tornò a mordicchiarsi le unghie. «È vero, ma non lo conoscevano. Ci siamo anche frequentati per un po’».

La rivelazione strappò all’uomo una risata. Quando si accorse che lei non stava scherzando le rivolse uno sguardo interrogativo.

«Non era niente di serio e comunque non lo vedevo da anni».

«Ci credo. Guarda dove è finito. Mi stupisce che tu abbia retto anche solo qualche giorno vicino ad uno che conduce una vita del genere».

La ragazza si sentì scaldare, ma si morse la lingua. Aveva già parlato troppo.

«Per fortuna non hai più avuto a che fare con gente come lui. Sei sempre stata una figlia e studentessa modello, è comprensibile che tu abbia cercato la tua ribellione in qualche modo».

«Già» commentò lei laconica.

James, per quanto sorpreso da quelle informazioni, pareva più che altro divertito dall’idea di una Mila che cercava di infrangere qualche regola. Come se si fosse trattato tutto di un gioco, di un divertimento momentaneo. Come se lei non avesse mai amato Nate Winchester.

 

 

***

 

I giorni passarono tra processi, lavoro in ufficio e ricerche. Mila sapeva che Nate e Richie avevano parlato con James una volta in settimana, ma era stata fuori tutta la mattina e non era riuscita ad incrociarli.

Presto arrivò il venerdì sera e con esso tutta la stanchezza accumulata nei giorni precedenti. Non vedeva l’ora di poter staccare dal lavoro e rilassarsi. 

Era seduta sul divano con il laptop sulle gambe incrociate, quando sentì la porta del bagno aprirsi e dopo poco ne vide emergere James, che indossava un paio di pantaloni morbidi e una maglia fresca di bucato, con i suoi capelli chiari ancora umidi dalla doccia. Mila socchiuse il computer e si voltò verso l’uomo che, dopo aver attraversato l’ampio open space della zona giorno, la raggiunse sul divano.

«Sei sicura di non voler stare a casa?» le chiese sedendosi al suo fianco.

«Sai che lo preferirei» replicò la ragazza. Si tolse il pc dalle gambe e si voltò verso di lui per guardarlo negli occhi. Anche James pareva provato da quella settimana intensa, le palpebre gli cadevano pesanti sugli occhi e la sua espressione era un poco spenta, ma Mila sapeva che era abituato al lavoro impegnativo. Gli sarebbe bastato un weekend di relax per riprendersi.

«Clelia è la mia migliore amica e non so quanto rimarrà in città. Devo passare del tempo con lei finché ne ho la possibilità» si giustificò lei. «Per quanto non mi piaccia essere trascinata a feste di sconosciuti».

James sorrise e l’attirò a sé, facendola accoccolare sul suo petto caldo. 

«Non ho mai visto migliori amiche tanto diverse» commentò e Mila sentì la sua voce attraverso lo sterno su cui era appoggiata. «Lei la regina di ogni festa e tu che vorresti stare sempre a casa in pigiama».

La ragazza rise. «Hai ragione, ma a volte c’è bisogno di fare dei compromessi».

Si raddrizzò e, dopo aver lasciato un bacio sulle labbra dell’uomo, annunciò che sarebbe andata a prepararsi.

Mezz’ora più tardi, avvolta nel suo tubino nero, salutò James – che stava leggendo un libro sul divano – e scese in strada, dove Clelia la stava già aspettando in un taxi. 

Ostile ad ogni tipo di sobrietà, la sua amica indossava un abito di paiettes colorate senza calze e, per ripararsi dal freddo invernale, portava una pelliccia voluminosa e appariscente.

«Mi sei mancata, tesoro» la salutò, stringendola a sé e baciandole le guance con un’energia che era solo sua.

«Anche tu, Clel, è bello rivederti».

L’altra ammiccò, come se quelle smancerie fossero per lei naturali. Si lanciò i capelli biondi dietro alle spalle e guardò l’amica con aria divertita. «Mi hai colta alla sprovvista quando mi hai proposto di andare ad una festa. Mila Barnes che non mi offre una serata in tisaneria? Credevo di aver capito male».

Rise, scuotendo i boccoli chiari.

Mila fece un sorriso nervoso. «Ho ventidue anni, Clelia, ho pensato che forse dovrei recuperare tutto il divertimento che ho schivato in passato».

«Tesoro, ora sì che si ragiona!» esclamò l’altra. Saltellò sul suo sedile, come impaziente.

«Questa notte è nostra, signorina Barnes».

Mila si mordicchiò le unghie e piantò gli occhi fuori dal finestrino. 

“Puoi dirlo forte”, pensò.

 

 

 

 

***

 

 

 

Il buio della notte scorreva al di fuori del finestrino del bus. Nate fissava quell’oscurità uniforme con sguardo vacuo. 

Richie aveva interrotto il suo inoperoso mercoledì sera chiedendogli di recarsi al Venus senza ammettere repliche. Ovviamente Nate non aveva nulla da fare dato che era stato sospeso dal lavoro – il che significava che non sarebbe stato assolto in breve tempo la sospensione sarebbe diventata un licenziamento – e non poteva allenarsi insieme a Ross.

L’unico problema era che sia lui che Mike erano senza patente e l’unico con una condotta irreprensibile si era rifiutato di accompagnarlo.

«Abbiamo degli ottimi mezzi pubblici» era stato il commento di Jay e Nate lo aveva salutato con il dito medio alzato. 

L’autobus si fermò poco distante dal Venus, di cui si vedevano da lontano le insegne. Il ragazzo scese dal mezzo e si diresse con passo svogliato verso l’edificio. Il parcheggio quasi pieno gli fece intuire che i clienti erano numerosi quella serata e, non appena entrò nel locale, constatò che le sale erano piuttosto affollate.

Si sentì tirare per la felpa e si trovò contro le labbra di Alison. La ragazza gli infilò una mano tra i capelli e lo baciò ancora, poi tornò dietro al bancone dove stava lavorando.

«Richie ti aspetta nel suo ufficio» gli disse ammiccando.

«Perché non lo facciamo aspettare ancora?» replicò sornione. L’altra scosse il capo, ridendo.

Deluso, si diresse verso il piano superiore e, quando raggiunse la porta dell’ufficio di Richie, bussò due volte. La voce tonante dell’uomo gli disse di entrare.

Quando Nate obbedì, notò che il padrone del locale lo stava guardando con un sorriso stampato sul volto. C’era un’altra persona in piedi davanti alla scrivania, ma il ragazzo si concentrò su quell’espressione trionfante che Richie gli stava rivolgendo.

«Nate, sei un fortunato figlio di puttana» esclamò a gran voce quello.

«Grazie?» replicò incerto il ragazzo facendosi avanti.

L’altra persona presente si voltò a guardarlo e, non appena la riconobbe, Nate si paralizzò dov’era. Davanti a lui, totalmente fuori luogo con quel dolcevita nero e i pantaloni eleganti, c’era Mila

 

 

Nate e Mila si fissarono in silenzio per qualche secondo, entrambi con gli occhi sgranati e senza parole.

«Cosa ci fai qui?»

Fu lui ad interrompere il silenzio, in tono neutro. Non riusciva ad immaginarla mentre si infilava in quel locale squallido e passava tra le ragazze nude e gli uomini sbavanti per raggiungere lo studio di Richie. Fu proprio quest’ultimo a rispondere a Nate.

«La signorina…»

«Barnes» disse lei arrossendo.

«La signorina Barnes ha risolto tutto amico mio, sei un uomo libero!»

Lo sguardo di Nate balzò dall’uno all’altra confuso. Richie assicurò che gli avrebbe spiegato subito e congedò Mila ringraziandola ancora. Lei raccolse il proprio cappotto dallo schienale della sedia e si diresse verso la porta. Nate la fermò afferrandola per un braccio. «Ehi, aspettami. Ti porto a casa io».

Lei lo fissò con i suoi occhi blu, mordicchiandosi le labbra, poi annuì lievemente e scivolò via.

Non appena la porta si fu richiusa alle sue spalle, il ragazzo si voltò verso Richie in attesa delle dovute spiegazioni.

«Cosa intendi precisamente per “uomo libero”?»

L’uomo rise fragorosamente, facendo vibrare il suo corpo possente, poi si lasciò cadere sulla sua poltrona e fece cenno anche all’altro di accomodarsi.

«Amico, quella bambolina è un genio del male. Mi ritiro tutto quello che avevo detto».

Nate cominciò a scaldarsi. «Che cos’ha fatto?» chiese nervosamente.

Richie non notò, o forse ignorò, la sua apprensione.

«Mi ha fornito un’informazione fondamentale che mi ha permesso di contattare direttamente i piani alti e ottenere qualche favore. Questo è tutto ciò che devi sapere, meno conosci e più sei al sicuro».

Nate sbuffò, ma sapeva che l’uomo era irremovibile. «E le mie accuse?»

«Oh, amico, il massimo che ti daranno è eccesso di velocità, non preoccuparti. Perché non vai a festeggiare? Scendi al bar e dì che offro io».

Richie batté un pugno sul tavolo in modo che voleva essere incoraggiante e per evitare di provare ciò che aveva provato quel pezzo di legno, Nate decise di togliere il disturbo. Avrebbe potuto cercare di estrapolare maggiori informazioni da Mila e, prima la raggiungeva, meno tempo la ragazza avrebbe dovuto trascorrere nel Venus.

Salutò Richie e ritornò al bancone all’ingresso. Alcuni uomini stavano bevendo e un paio di loro ci stavano spudoratamente provando con Alison, che li rimise rapidamente al loro posto con un’espressione di ghiaccio.

Nate si guardò attorno, alla ricerca della figura sottile di Mila, ma non la vide da nessuna parte. Lanciò un’occhiata nella sala più grande, ai divanetti, nel corridoio che conduceva ai privé, ma la ragazza sembrava essersi volatilizzata. 

Sospirò profondamente e si diede dello stupido. Davvero pensava che sarebbe tornata a casa con lui? Sapevano entrambi che non poteva guidare e che lei si sarebbe potuta tranquillamente permettere un taxi. Oppure avrebbe potuto chiamare di nuovo il suo fidanzato. Tutto sembrava meglio, piuttosto che farsi accompagnare da lui.

Con fare sconsolato, si diresse verso il bancone e si lasciò cadere su uno sgabello sgualcito. Forse bere non sarebbe stato così male.

Alison si piazzò davanti a lui. Indossava un top attillato di un verde acceso e una gonna di vernice rosa shocking che lasciava in bella vista le sue gambe. «Posso prendermi cinque minuti di pausa, ti va?»

«Solo se prima mi dai uno shot della cosa più forte che hai».

Lei rise e afferrò un bicchiere da sotto il bancone, poi lo riempì di un liquido denso e scuro e glielo passò

«Vado a prendere la giacca» disse e si allontanò lasciando una scia di profumo nell’aria. Nate scolò lo shot in un solo colpo, poi si diresse verso l’ingresso dove lo aspettava Alison, con addosso una pelliccia zebrata. Lei lo prese sottobraccio e lo condusse all’esterno. Vennero accolti dall’aria fredda e scura della notte. L’unico suono che si udiva era la musica ovattata che proveniva dall’interno.

Nate estrasse il pacchetto di sigarette dalla tasca dei jeans e se ne portò una alla bocca.

«Posso?» gli chiese lei, sporgendo il labbro inferiore in fuori, come per convincerlo. 

Nate prese un’altra sigaretta e la strinse tra le labbra, poi le accese entrambe e ne tese una alla ragazza. Sotto al suo sguardo interrogativo, la ragazza si sentì in dovere di giustificarsi: «Stasera sono felice».

«Per cosa?»

Lei inspirò una boccata di fumo, poi la rilasciò lentamente e le sue labbra si tirarono in un sorriso. «Ho portato alcuni campioni in una boutique e mi hanno richiamata. Ho un colloquio settimana prossima».

Il ragazzo sgranò gli occhi e sorrise con entusiasmo. «Ma è grandioso!»

L’abbracciò e le lasciò un bacio sulla guancia. Alison pareva raggiante. Il ragazzo sentì le mani di lei che risalivano sulla sua schiena, come se volesse attirarlo a sé e non lasciarlo andare.

«Nate?»

Lui si voltò di scatto verso la voce che lo aveva chiamato, alle sue spalle. Mila era appena uscita dal Venus con un’aria spaventata. 

Con un braccio ancora intorno alla vita di Alison, il ragazzo commentò: «Credevo te ne fossi andata».

Il volto di Mila si corrucciò. «Hai detto di aspettarti. Ero solo andata in bagno».

«Hai ragione».

Tra loro calò un silenzio stemperato dal suono soffocato della musica. Mila pareva trattenere il fiato, in attesa. Dei piccoli spasmi sul suo volto ne manifestavano il nervosismo. 

Nate realizzò in quel momento che teneva ancora un braccio intorno alla bionda al suo fianco. Come se tornasse nuovamente consapevole della presenza di Alison, si rivolse a lei: «Mi presti la tua auto?»

Lei gli mostrò il medio. «Fottiti».

«Non puoi guidare» si intromise Mila, beccandosi un’occhiata penetrante da Alison che non sfuggì a Nate.

«So che strade fare per evitare la polizia di notte» si giustificò lui.

«Allora perché non l’hai evitata quando sei stato arrestato?» replicò Alison gelida e lui roteò gli occhi. «Non conoscevo quella parte di città e sai che non è così semplice. Poi te la riporto, giuro».

La bionda lo guardò attraverso con un’espressione tagliente. «Se succede qualcosa ti faccio cercare dagli amici di Ross e mi assicurerò che non siano delicati».

Nate le mostrò un sorriso smagliante e scivolò via. 

«Le chiavi sono nel mio armadietto» aggiunse lei. «E vaffanculo, Nate Winchester».

 

 

 

Qualche minuto più tardi, il ragazzo era dietro al volante della vecchia auto e il sedile del passeggero era occupato da una sempre più a disagio Mila.

Come promesso, Nate aveva preso una strada in cui la polizia non sarebbe mai passata, quindi si trovarono circondati dall’oscurità più profonda. I fari illuminavano l’asfalto di una luce flebile e traballante.

«Non preoccuparti» Nate cercò di confortare la ragazza. Sentì che lei lo stava fulminando con lo sguardo. «Una cosa che non mi mancava di te: non sapere chi sarebbe arrivato vivo a fine serata».

Lui fece un sorrisetto. «Questo presuppone che qualcosa ti sia mancato di me».

La sentì sbuffare e con la coda dell’occhio notò che stava scuotendo il capo. «Ho notato che anche la tua straordinaria capacità di far incazzare la gente è rimasta invariata».

Nate intuì che stava parlando di Alison, ma stroncò la conversazione introducendo l’argomento che lo stava tormentando da quando erano partiti: «Vuoi spiegarmi come hai fatto a far cadere le mie accuse?»

«Richard non ti ha spiegato?»

Sentiva lo sguardo di Mila pesare di sé.

«No, è stato piuttosto vago. Ti dispiacerebbe rimediare?»

Lei sospirò e si mosse sul sedile, fino a sistemarsi con il capo inclinato e lo sguardo fisso fuori dal finestrino.

«Sono stata ad una festa insieme a Clelia…»

«Sei sicura che la tua storia cominci così?»

«Giuro che se non stai zitto scendo dall’auto e torno a piedi» sbottò lei scaldandosi rapidamente.

Nate ammutolì e lei riprese: «Sapevo che ci sarebbe stata tutta l’alta società della città, tra cui la figlia di un giudice molto in vista nell’ambiente giudiziario. Mi sono avvicinata alla ragazza – e non è stato difficile dato che già sapeva chi fossimo io e Clelia – e sono stata con lei tutta la serata. Avevo fatto delle ricerche prima e sapevo che la ragazza ha tendenza a perdere il controllo durante queste feste, così l’ho riempita di domande».

Mila prese una pausa e fissò gli occhi sull’auto che comparve alle loro spalle. Si trattava solo di una normale station wagon che svoltò al primo incrocio, lasciandoli nuovamente soli sulla strada buia.

«Tra le tante cose che mi ha detto, ha raccontato come sia riuscita ad entrare nel prestigioso college che frequenta. A quanto pare sua madre, ovvero il giudice Waller, ha pagato un’ingente somma aggiuntiva rispetto alle regolari donazioni perché i risultati dei suoi test fossero truccati. È un reato che può portare ad una reclusione di sei mesi e distruggere la carriera di una persona così in vista».

«Quindi Richie ha minacciato il giudice con quest’informazione?» chiese Nate lanciando uno sguardo nervoso alla ragazza. Sapeva che il proprietario del Venus non era nuovo agli affari illeciti, ma che Mila ne fosse coinvolta gli metteva addosso una certa ansia.

Lei annuì. «Durante la festa avevo un registratore sempre attivo, quindi ho una prova concreta che potrebbe far aprire un’indagine. E prima che tu faccia quella faccia, la ragazza non si ricorda nulla della serata, quindi non riuscirà mai a capire che ci sono io dietro questo. Sempre che sua madre decida di raccontarle della telefonata di Richard».

Avevano ormai raggiunto il centro della città e la strada su cui stavano viaggiando pareva illuminata a giorno dalla sfilza di lampioni che la costeggiavano. Nessuno parlò per qualche minuto, ad eccezione delle indicazioni che Mila diede al pilota per raggiungere il suo appartamento.

«Promettimi che non farai mai più nulla di così stupido per me» disse poi Nate. «Per favore»

«Ci proverò» ribatté lei poco convinta, ma era chiaro che non avesse voglia di litigare e che preferiva lasciar perdere la conversazione.

Non impiegarono molto a raggiungere il palazzo in cui abitava Mila. Si trattava di un edificio alto e slanciato, elegante e moderno.

L’auto si fermò di fronte all’ampio ingresso. Nell’atrio illuminato dall’interno, si scorgeva il portiere accanto alla porta a vetri.

«Grazie per avermi accompagnata» disse Mila raccogliendo le proprie cose e voltandosi a guardarlo.

«Era il minimo» replicò lui. «Sono ancora in debito con te per quello che hai fatto».

La ragazza sorrise. «Diciamo che mi devi un favore. Buona notte».

Questa volta non si sporse per lasciargli un bacio, ma si limitò a salutarlo prima di scendere dalla macchina.

Nate la guardò entrare e salutare il portiere. Li vide scambiarsi qualche parola, poi Mila si diresse verso l’ascensore e sparì al di là delle porte metalliche.

 

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Capitolo 14
*** Il professor Thomson ***


 

 


Il professor Thomson

 

Nate lanciò un’occhiata al cellulare, abbandonato sul divano al suo fianco, e vide che aveva circa un miliardo di chiamate perse da Alison. Fissò per un istante lo schermo, poi sospirò e tornò a guardare il documentario sui lemuri che stavano trasmettendo in TV. Anche se il loro precedente televisore era stato portato via con la rapina, Jay era riuscito a procurarne uno nuovo dal negozio in cui lavorava. Nate lo ringraziò mentalmente, perché altrimenti non avrebbe saputo cosa fare quel sabato pomeriggio.

Dopo la multa che gli era arrivata a casa – e che Richie aveva pagato per lui – tutte le accuse erano cadute e sarebbe potuto tornare tranquillamente alla sua vita. Purtroppo, l’azienda per cui lavorava aveva deciso di non aver più bisogno del suo aiuto e lo aveva licenziato. 

Nate aveva preso la notizia straordinariamente bene. La sua vita non era stata in discesa in quel periodo, ma un precipitare rapido in un baratro senza fine, quindi il licenziamento non era poi così tanto sconvolgente. 

Neanche il Devil Wheels avrebbe potuto tenerlo impegnato, dal momento che gli organizzatori avevano pensato di metterlo in pausa fino a che la polizia avrebbe dimenticato dell’arresto di Nate.

Quella mattina aveva chiamato sua madre. Le aveva chiesto come stava e come se la stesse passando.

«Oh, bene» gli aveva risposto la donna con voce confortante. «La signora Jenkins si è trasferita, quindi ora mi occupo io dei bambini che teneva. Ma perché mi hai chiamato? C’è qualche problema?»

Nate aveva esitato. Sarebbe stato inutile cercare di nasconderle il proprio stato d’animo, così aveva deciso di minimizzare.

«Solo qualche problema al lavoro. Risolverò tutto presto» le aveva detto. «Ti… Ti servono dei soldi?»

Lei aveva riso. «Smettila di preoccuparti per me. Lo sai che io me la caverò».

Mentre il narratore raccontava della vita amorosa dei lemuri, il ragazzo vide con la coda dell’occhio che una nuova chiamata aveva illuminato lo schermo del suo cellulare. Gli rivolse uno sguardo stanco e quasi saltò sul divano quando si accorse che si trattava di Mila.

Lo afferrò e rispose di getto.

«Pronto?»

«Sono Mila. Ho bisogno di riscuotere il mio favore. Questa sera. Vestiti elegante».

La ragazza non gli diede tempo di replicare e chiuse la chiamata. Nate rimase di sasso, seduto sul divano con il cellulare in mano e gli occhi vitrei sui lemuri in TV.

 

Qualche ora più tardi, il ragazzo scoccava occhiate scettiche alla propria immagine riflessa. Aveva sistemato i suoi capelli perennemente spettinati con del gel che aveva rubato a Jay e aveva indossato la sua unica camicia elegante. 

Il suono del campanello lo distolse dalla contemplazione, così corse ad aprire. Mila entrò nell’appartamento senza aspettare di essere invitata e gli si piazzò davanti. Indossava un lungo cappotto nero che arrivava alle caviglie e lasciava vedere solo le decolleté nere lucide che portava ai piedi. Dell’ombretto scuro metteva in risalto i suoi già grandi occhi blu e il rossetto rosso che le tingeva le labbra le conferiva un’aria matura. In mano teneva un copriabiti che subito tese a Nate. 

«Provalo» gli disse in tono deciso. 

Lui non poté replicare a quel modo così autoritario, perché sapeva di essere ancora in debito con la ragazza.

Prese il copriabiti che gli porgeva e, quando ebbe abbassato la zip, si accorse che conteneva un completo elegante da uomo. Non riuscì a nascondere il proprio fastidio e commentò: «Ti fidavi così poco di me da procurarmi tu stessa i vestiti?»

Lei alzò gli occhi al cielo. «Mentre venivo qui ho notato un negozio che affitta abiti eleganti e ho pensato di fermarmi. Almeno stai attento a non macchiarlo».

Poco convinto, Nate si diresse verso la propria stanza e si cambiò. Quando tornò a guardarsi allo specchio, non riuscì a trattenere un moto di sorpresa. Il completo che Mila gli aveva portato era semplice ma di qualità, lo si vedeva dal modo in cui la giacca gli fasciava le spalle o da come lo vestivano i pantaloni.

Avrebbe voluto che i suoi amici fossero a casa per poter mostrare loro che poteva anche sembrare una persona seria.

Tornò da Mila e la vide sgranare gli occhi. Si sentì a disagio. «Cosa c’è? Sembro ridicolo?»

La ragazza gli rivolse un piccolo sorriso. «No, stai molto bene».

Nate distolse lo sguardo.

Si affrettarono verso l’auto che li attendeva in strada e sedettero per qualche minuto in silenzio. 

La berlina nera scorreva veloce tra i quartieri puntando verso un’area della città che Nate non conosceva.

«Hai intenzione di dirmi di che si tratta?» fu lui a parlare per primo, guardando la ragazza di sbieco. 

Mila teneva le mani in grembo e le torturava nervosamente, anche se il suo volto si sforzava di mantenere un’espressione pacifica. 

Si voltò leggermente verso di lui. «Lo scoprirai presto, no?»

Il ragazzo sbuffò, ma decise di desistere. Come Mila aveva previsto, presto l’auto si infilò in quello che sembrava un campus universitario e li lasciò davanti ad una grande villa in mattoni rossicci.

Una volta che l’auto fu ripartita, il ragazzo si guardò attorno. La villa era illuminata da alcuni faretti e un vociare allegro proveniva dall’interno. Dopo una piccola rampa di scale, il portone aperto sembra invitare ad entrare. Tutt’intorno, il resto del campus era avvolto dal silenzio e dall’oscurità. Solo alcune, rare figure passeggiavano tra gli alberi alti, ma rapidamente scomparivano all’interno degli altri edifici sparsi nel parco.

«Nate?»

La voce di Mila riprese la sua attenzione e notò che lei aveva già salito i gradini e lo attendeva accanto al portone d’ingresso. La ragazza controllò l’orologio al polso, poi la sua fronte si corrugò. «Saremo gli ultimi se non ci sbrighiamo.»

«Arrivo, arrivo». Con pochi rapidi passi, fu al fianco di lei e insieme entrarono nella villa.

Si ritrovarono in un ampio salotto, arredato con mobili d’epoca in legno scuro, intonati al parquet che rivestiva il pavimento. Le pareti erano rivestite di scaffali e librerie colme di volumi massicci e dall’aspetto antiquato.

Alcuni quadri, contenenti vecchi planisferi, decoravano gli spazi vuoti sui muri.

La stanza era affollata da uomini e donne ben vestiti, che si atteggiavano in modo formale ed elegante.

Una donna si avvicinò a loro, chiedendo se potesse prendere le giacche. Nate imitò la ragazza, la quale si sfilò con disinvoltura il cappotto e lo porse alla donna. 

Mentre faceva lo stesso, ebbe modo di osservare come era vestita Mila. Il suo corpo esile era fasciato da un abito nero che ne accentuava le curve — sebbene fosse di corporatura esile — mentre degli intarsi dorati le conferivano un’aria sofisticata.

«Che c’è?» domandò lei intercettando il suo sguardo.

«Sei cambiata» commentò lui.

La ragazza si sistemò nervosamente i capelli dietro alle orecchie. «In senso positivo o negativo?»

Nate le rivolse un sorriso triste. «Non sei più la Mila Barnes che si infilava le mie vecchie magliette».

Lei lo fissò per qualche secondo, con gli occhi blu sgranati, come per capire cosa volesse dire, così Nate puntualizzò: «In senso positivo, credo».

Ottenne di farla arrossire e distogliere lo sguardo, mentre avanzavano per lasciare posto a nuovi venuti che necessitavano del guardaroba.

Mila lo condusse in una sala adiacente, altrettanto affollata, ma che aveva un aspetto più istituzionale della prima. In un angolo era stato sistemato un piccolo palco, rivestito da un tappeto di velluto scarlatto e su di esso si trovava un espositore con un manifesto. 

Nate strinse gli occhi e riuscì a leggere “Premio di Studio Thomson per giovani di talento e bisognosi”.

All’improvviso, si sentì come se tutta la gente intorno a lui sparisse. Ciò che riusciva a percepire erano il fischio che gli percorreva le tempie e un improvviso calore che lo infiammava da dentro.

Si voltò verso Mila, mandando saette dagli occhi, e la ragazza parve cogliere immediatamente il suo stato d’animo perché cominciò a sparare parole che avevano lo scopo di calmarlo.

Nate la ignorò e puntò dritto verso la vetrata che si affacciava sulla parte posteriore della villa. Scansò rapidamente la gente che affollava la stanza e si trovò in un piccolo giardino circondato da un’alta e fitta siepe.

L’aria della notte lo rinvigorì e smorzò un poco la vampata che lo aveva colto. A riaccenderla, fu Mila, che ricomparve subito al suo fianco.

«Nate» sibilò sottovoce, afferrandolo per un braccio perché non le sfuggisse. «Siamo in pubblico, quindi niente sceneggiate, per favore. Lasciami spiegare».

Lui si guardò attorno. Il giardino era deserto, solo una coppia di persone fumava in un angolo, troppo lontani per sentirli e anche per distinguerli chiaramente, visto il buio che vi regnava.

«Non c’è nulla da spiegare qui, tesoro» replicò lui pungente, senza sforzarsi di nascondere l’irritazione nella propria voce. «Ancora pensi che io sia un povero che necessita il tuo aiuto, o sbaglio? Mi ha portato qui perché pensi che l’aggettivo “bisognoso” mi descriva perfettamente, o sbaglio?»

Il suo tono si alzò più del previsto e vide Mila guardarsi alle spalle. I due fumatori erano rientrati ed erano rimasti da soli nel giardino. 

«Nate, credo sia il caso di crescere» ribatté lei a tono. «Ti ho portato qui perché il Professor Thomson cerca giovani talenti e io credo che tu rientri nella categoria. Per fortuna non c’è nessuna eccezione per le teste di cazzo, altrimenti ne saresti escluso. Idiota».

I due si fissarono per qualche secondo senza parlare. Nate non riusciva a togliersi l’espressione incazzata dalla faccia e notò che lo sguardo di Mila non era da meno.

«L’altro requisito per la borsa di studio è non essere ricchi sfondati, non mi sembra ci sia nulla di offensivo in questo» proseguì la ragazza, raddrizzando la schiena per assumere una posa più contenuta, ma senza perdere lo sguardo tagliente.

«Non voglio l’elemosina» mormorò Nate.

«E non l’avrai, coglione. Non significa che solo perché sei qui otterrai la borsa di studio. Questa sera bisogna presentare le domande, poi i candidati verranno valutati e solo i migliori verranno presi. Capito?»

Se gli occhi di Mila avessero avuto il potere di incenerirlo, Nate si sarebbe tramutato in un cumulo fumante in quell’istante.

Sospirò e la ragazza subito chiese: «Che c’è?»

Sostenne lo sguardo di lei, poi accennò un sorriso. «Una volta non dicevi le parolacce».

Mila alzò gli occhi al cielo e, sbuffando, si voltò. 

«Ti aspetto dentro quando avrai finito di essere offeso» gli disse, tornando verso le sale illuminate della villa.

Nate prese un respiro profondo, mentre la guardava muoversi con imprevista disinvoltura su quei tacchi alti. Risalì con lo sguardo la linea delle sue gambe, ombreggiate dalle calze scure, per poi raggiungere l’orlo dorato nel vestito. Prima che la sua mente cominciasse a produrre immagini non adatte alla situazione — e al fatto che avesse una ragazza — scosse il capo e decise di seguirla. 

La sala lo accolse con un tepore piacevole dopo la ventata d’aria fresca del giardino e, quando raggiunse Mila, si accorse che non era sola. Con lei stava un uomo alto ed elegante, che riconobbe come l’avvocato Carter.

Non appena lo vide, James gli tese la mano. «Nathaniel, che piacere rivederti!»

Nate gli strinse la mano tesa senza riuscire ad evitare un’espressione dubbiosa nei suoi confronti. L’altro dovette accorgersene, perché assunse un tono comprensivo e calmo, quando riprese a parlare: «Mila mi ha tenuto aggiornato sui dettagli di questa serata e sono contento di vedere che sei riuscito a partecipare. Mi rallegra sempre riuscire ad aiutare chi ne ha bisogno e ne è meritevole».

Non c’era nessun intento offensivo nelle sue parole e Nate ne ebbe la conferma spostando gli occhi su Mila, che era tornata a rivolgergli uno sguardo tagliante. La sua espressione lo stava ammonendo a comportarsi bene.

Decise di rivolgere all’avvocato un sorriso accompagnato da qualche parola di ringraziamento.

In quel momento, una voce maschile richiese l’attenzione dei presenti e due uomini salirono sul palchetto allestito nella stanza.

Il primo si occupò di dare il benvenuto ai presenti e di presentare il vecchio canuto che stava al suo fianco come il Professor Thomson. Il filantropo era un benamato docente ormai in pensione che non riusciva ad abbandonare l’ambiente accademico. Quanto ottenne il microfono, l’uomo parlò in modo conciso, ma appassionato e, nonostante l’età, dimostrò una grande vivacità.

Il signor Thomson fu congedato con un applauso e l’altro riprese la parola. Mentre illustrava i requisiti per il premio di studio, Nate spostò gli occhi e cercò Mila. La ragazza se ne stava al fianco di James, con un braccio di lui che le cingeva il fianco e la teneva vicino a sé. Come se avesse percepito di essere osservata, si voltò e incrociò lo sguardo di Nate. 

Si fissarono in silenzio, immobili e muti. 

 

 

La mezzanotte era ormai prossima quando la villa del Professor Thomson cominciò a svuotarsi. Il padrone di casa era scomparso da tempo, ma gli ospiti si erano trattenuti a chiacchierare nelle sale del piano terra.

Nate aveva passato la maggior parte della serata tentando di mimetizzarsi con le librerie contro le pareti, ma non era riuscito a sottrarsi completamente dalla conversazione. Mila e James lo avevano presentato a conoscenti, amici, e perfino ai suoi competitori per la borsa di studio. Si erano dimostrati tutti molto gentili nei suoi confronti. Troppo gentili per i gusti di Nate.

«Toglitelo dalla testa» gli disse Mila ad un certo punto. James era andato a recuperare i cappotti e si trovarono soli in una delle sale. 

Lui le rivolse uno sguardo interrogativo e lei sbuffò. «A volte le persone sono gentili con gli altri senza un secondo fine. Non fare il solito paranoico».

Nate alzò gli occhi al cielo, un poco scocciato di essere sempre ripreso, ma alla fine si ritrovò a sorridere.

«Grazie» le disse e Mila ne parve felice, perché le sue guance si tinsero di un lieve rossore.

«E mi dispiace per prima, mi sono arrabbiato troppo in fretta».

La ragazza le rivolse uno sguardo strano, che faticò ad interpretare. Era forse… dolcezza?

Spostò nervosamente il peso da una gamba all’altra e si passò una mano tra i capelli ancora ingellati.

«Credo che forse… non ho mai veramente accettato il fatto che tu non sia voluta partire con me»

Cercò gli occhi di Mila e notò che stava trattenendo il fiato, in attesa. Si maledisse mentalmente per la sua straordinaria capacità di parlare della cosa sbagliata nel momento peggiore, ma sapeva che ormai il danno era fatto. Tanto valeva proseguire.

«Per tutto questo tempo l’ho considerato peggio di un tradimento, ma credo sia arrivato il momento di lasciar andare il rancore…» si interruppe quando scorse James comparire alle spalle della ragazza. 

Mila seguì la direzione del suo sguardo e si voltò in tempo per vedere l’uomo che li raggiungeva con le giacche in mano.

«Nathaniel, la tua macchina ti sta aspettando fuori» gli disse.

Nate prese il cappotto gli tendeva e spostò gli occhi su Mila, che era tornata a guardarlo, senza parlare.

«Grazie per la serata» disse ad entrambi e, con un cenno di saluto, si congedò.

Quando uscì all’esterno, gli parve di respirare per la prima volta dopo molto tempo. Come aveva detto James, un’auto lo stava aspettando. Si infilò all’interno e chiese all’autista di partire, pregando che si allontanasse di lì il prima possibile.

 

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Capitolo 15
*** Scegliere ***




Scegliere 

 

Durante il giorno, il Venus aveva un aspetto ancora più squallido che di notte, se possibile. Con il buio si illuminava la grande insegna neon sopra all’ingresso, che gli conferiva un’aria quasi retro. Alla luce del sole, invece, si rivelava un edificio cubico privo di ogni grazia.

Nate prese un respiro profondo e lo studiò ancora per qualche istante dall’esterno, prima di decidersi ad entrare.

Tirò dritto verso le scale che salivano allo studio di Richie, ma tutto ciò che voleva evitare avvenne: Alison chiamò a sua voce il suo nome e, prima che lui potesse dileguarsi, la ragazza si slanciò fuori dal bancone e gli si parò davanti.

«Nate» gli disse, con uno sguardo che non prometteva niente di buono.

«Ciao tesoro, oggi sei ancora più radiosa del solito» replicò lui con un sorriso bonario e fece per metterle le mani sui fianchi, ma Alison lo respinse con uno schiaffo sui palmi.

«Ahi» si lamentò lui con una smorfia e ficcando le mani in tasca.

«Non pensi di dovermi delle spiegazioni?» gli domandò squadrandolo con gli occhi ridotti a due fessure.

Nate sospirò. «Mi dispiace, Alison, mi dispiace davvero, ma questo è un periodo…»

La ragazza gli portò l’indice sulle labbra, per zittirlo. «Non voglio sentire qualsiasi cazzata la tua mente ingegnosa abbia formulato. Voglio sapere la verità. Ti ho chiamato e mandato messaggi e l’unica cosa che sei stato in grado di scrivermi in una settimana è “Sono impegnato, ci sentiamo presto”?»

Nate prese un respiro profondo e capì che l’espressione di Alison era troppo seria per cercare di svignarsela con qualche scusa.

Lei non gli diede tempo di parlare. «La ragazza che c’era qui settimana scorsa» gli disse, «eri con lei?»

Lui esitò e Alison si affrettò ad aggiungere: «Non voglio fare scenate di gelosia. Voglio solo che tu sia sincero con me.»

Nate le mise le mani sulle braccia e la guardò negli occhi. «Ero in contatto con lei, ma non per i motivi che pensi. Mi ha presentato un’opportunità più unica che rara».

Alison sollevò le sopracciglia sottili con aria perplessa, in attesa che lui proseguisse.

«C’è questa borsa di studio e, se la vincessi, potrei frequentare un college a costo zero. E non un college serale, ma uno di quelli veri, uno di quelli che fanno la differenza».

Lei rimase a fissarlo qualche istante, poi sollevò una mano e gli accarezzò la guancia. La sua espressione si ammorbidì. «Sono felice per te, ma ricordatelo: non sarò questo a definire il tuo valore».

Un po’ spinto da quello sguardo dolce, un po’ dall’impazienza per l’incontro con Richie, Nate si allungò e le lasciò un bacio a stampo sulle labbra.

«Non mi sono dimenticato del tuo colloquio alla boutique» aggiunse, mentre sgusciava via e tornava a dirigersi verso le scale. «Quando finisco mi racconti tutto».

La salutò con la mano e si affrettò verso il piano superiore. 

Richie lo attendeva nel suo studio insieme a Ross. Non fece commenti sul suo ritardo, ma iniziarono subito a parlare di cose serie. Ross lo informò che il Devil Wheels sarebbe ripreso al più tardi due settimane più tardi e che doveva tenersi pronto a riprendere gli allenamenti in ogni momento.

«Ormai mi hanno licenziato» gli disse il ragazzo. «Ho tutto il tempo del mondo».

Ross parve soddisfatto della risposta, perché lo salutò con una pacca sulla spalla e si congedò da Richie.

Il padrone del Venus trattenne Nate ancora una decina di minuti. Gli chiese di aggiornarlo sulle ultime novità e lui lo fece, accennando solo ad un’opportunità che gli si era presentata ma senza specificare altro. Quando Richie fu soddisfatto, lo congedò invitandolo come al solito di fermarsi a bere di sotto.

Nate lo salutò e tornò da Alison, che stava guardando il proprio cellulare con aria annoiata. 

«Raccontami tutto» le disse prendendo posto davanti a lei.

Lo sguardo della ragazza si illuminò. Che creare vestiti fosse la sua passione si capiva dall’energia che traspariva dalle sue parole. Nate l’aveva sempre vista al Venus, un lavoro che non le piaceva spesso circondata da gente che detestava. 

Gli raccontò della donna che le aveva fatto il colloquio, di come avesse avviato la boutique da sola decenni prima e di come riuscisse a tenersi aggiornata con i tempi senza perdere il suo stile classico. «Ha detto che le piacevano i miei lavori e sono promettenti, ma devo ancora imparare molto. Per ora mi ha assunta come stagista».

«Lo hai già detto a Richie?»

Lei sbuffò. «Sì, gli ho chiesto di poter ridurre le ore e, anche se ha brontolato un po’, alla fine me l’ha concesso».

Il ragazzo sorrise. «Sono contento per te».

 

 

Quando Nate rientrò a casa, un’odore forte lo colpì facendogli storcere il naso. Ne individuò subito la fonte e si diresse verso la camera di Mike. Infatti, trovò l’amico che fumava uno spinello seduto vicino alla finestra aperta.

«Ehi» lo salutò.

«Ehi» rispose l’altro sorridendo. «Ne vuoi un po’?»

Nate soppesò le alternative che aveva, ma decise che il sorriso dell’amico era abbastanza convincente.

Lo raggiunse e per qualche istante nessuno dei due parlò. La finestra si affacciava sul cortile sul retro della palazzina, dove una donna era intenta a spostare i bidoni della spazzatura. 

«È da un po’ che non parliamo» esordì poi Nate, dopo aver preso un tiro e tendendolo all’amico.

«Vero, ma è stato un periodo strano» acconsentì Mike.

L’altro gli chiese di raccontare cosa fosse successo negli ultimi tempi.

«Settimana scorsa sono stato con una ragazza fantastica, ti piacerebbe» gli disse Mike. «Si chiama Sloan e cucina benissimo».

Nate sorrise alla vista dell’amico con gli occhi così luminosi. «Sembra carina. Jay mi ha detto che eri con una ragazza lunedì. Ti sei perso un documentario sull’obesità che ci ha tenuti svegli fino all’una».

Mike rise e scosse il capo. «No, lunedì ero con Abby, un’altra ragazza».

Gli rivolse un’espressione colpita. «E questa dove l’hai trovata?»

«Al negozio dove lavoro. È una miniera d’oro, Nate, dovresti farci un salto».

L’altro scosse il capo. «No, sono a posto così, grazie».

Lo spinello che si stavano scambiando finì troppo in fretta, così Mike frugò nel cassetto della scrivania e ne estrasse un altro. Lo accese e lo tese all’amico, che però scosse il capo e riprese la conversazione: «E Sloan e Abby sanno l’una dell’altra?»
Mike si strinse nelle spalle. «Sanno di non essere l’unica, ma non chiedono nomi. Come io non chiedo nomi degli altri ragazzi che vedono. E so di non essere l’unico. Né voglio esserlo».

Nate si fece pensieroso e aspettò che l’altro facesse qualche tiro.

«Posso farti una domanda?» gli chiese poi.

Mike gli rivolse un’espressione divertita. «Solo se non è difficile».

«Questo lo puoi decidere tu. Se avessi la possibilità di passare la serata con una delle due, sapresti scegliere? Così, su due piedi».

Mike ridacchiò a quella richiesta, poi si mise a riflettere. «Come ho detto Sloan cucina da Dio, quindi ci sarebbe quel vantaggio, ma Abby ha un culo… dovresti vederlo, da paura».

Nate sbuffò, con un sorriso. «Sto bene così, grazie».

L’altro fece per riprendere la sua difficile scelta, quando i suoi occhi furono attraversati dalla luce del dubbio. «Perché me lo stai chiedendo?»

Nate si strinse nelle spalle.

«Questa cosa riguarda Alison e Mila?»

Nate imprecò mentalmente. Da quando Mike era diventato così sveglio?

«Alison è uno schianto, seriamente» commentò l’amico. «Mila ti ha spezzato il cuore. E non frequenta quell’avvocato biondo?»

Lui annuì.

«Allora hai già la tua risposta. Alison è pazza di te, mentre l’altra è già occupata. Scegli le cose facili nella vita, amico».

Nate non replicò, ma rivolse lo sguardo fuori dalla finestra, pensieroso.

 

 

Qualche ora più tardi, si era spostato in cucina e stava aiutando Jay a preparare la cena. Dato che ormai era un disoccupato, aveva pensato che poteva cominciare ad occuparsi della casa un po’ di più di quanto facesse prima.

Mentre stava impanando la carne, che l’amico friggeva poco distante, sentì il suo cellulare squillare.

Lanciò uno sguardo a Jay, che gli rivolse un cenno d’assenso. «Rispondi, mi arrangio io qui».

Nate si sciacquò le mani e le asciugò rapidamente sullo strofinaccio, poi prese il cellulare e rispose al volo. Lo schermo segnava un numero sconosciuto.

«Nathaniel, sono James, ti disturbo?»

La voce dell’avvocato risuonò nel suo orecchio più fastidiosa di quanto si aspettasse.

«No, figurati».

Mentre l’altro riprendeva a parlare, lui si spostò nel salotto, lontano dal rumore di carne che friggeva della cucina.

«Ti chiamo per la borsa di studio di Thomson. Mila ti ha parlato della questione del garante?»

Il ragazzo corrugò la fronte, sorpreso. «No, non ne so nulla».
«Immaginavo. Per ogni candidato al premio è necessario un garante che manifesti l’effettiva buona volontà del suo protetto. Mila pensava di poterlo fare lei o al massimo chiedere a me, ma sembra che ci sia un requisito minimo di età».

Nate si lasciò cadere sul divano, emettendo un sospiro. Si diede dello stupido per essersi lasciato prendere dall’entusiasmo. Avrebbe dovuto immaginare che lo cose non vanno mai così bene. Non a lui.

«Non preoccuparti» lo rassicurò James. «Mila ha trovato una soluzione. I suoi genitori si tratterranno in città per qualche settimana e lei crede di riuscire a convincerli a farlo».

Nate imprecò sottovoce. L’ultima volta che aveva visto il signor Barnes era stato quando si era illecitamente introdotto in camera di sua figlia, ubriaco marcio, e aveva ricevuti due ceffoni in pieno viso dal padrone di casa.

«Non credo sia una buona idea» mormorò.

«Non dire stupidaggini!» lo rimproverò in tono bonario James. «Ti aspettano per una cena sabato sera. Ci saremo anche io, Mila e altri ospiti. Forse, per sentirti più a tuo agio, potresti portare qualcuno te. Ai signori Barnes farebbe piacere».

Nate si passò una mano sul volto. Quella conversazione stava risvegliando troppi brutti ricordi. Prese un respiro profondo e replicò: «Va bene».

James parve sollevato. «Avverto subito Mila, buona serata Nathaniel».

Chiuse la chiamata e il ragazzo si ritrovò paralizzato sul divano a chiedersi in che diavolo di situazione si fosse cacciato.

 

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Capitolo 16
*** La cena ***




La cena

 

Le cene eleganti erano terribilmente noiose. Mila credeva che con l’età sarebbe riuscita a trovarle più piacevoli, ma più cresceva e più abbandonava quella convinzione. Erano una noia mortale, indipendentemente dall’età, soprattutto quelle ospitate nel giardino di casa sua. Un grande padiglione veniva allestito nel parco sul retro della casa e l’interno veniva illuminato a giorno da centinaia di lampadine. 

Trattenne a stento l’impulso di sbadigliare davanti a tutti, mentre i membri del catering si affaccendavano intorno a loro, silenziosi ed efficienti. Dopo aver mangiato la portata principale e conversato con persone di cui non ricordava né il volto né il nome, decise che aveva bisogno di una pausa. Si assicurò che nessuno la stesse guardando e si diresse verso la casa, vuota e silenziosa al contrario del giardino.  

Salì le scale ascoltando l'unico rumore delle sue scarpe contro i gradini e si diresse verso la sua camera. Aveva lasciato sul comodino quel romanzo che aveva comprato due giorni prima e non vedeva l’ora di poter tornare a leggerlo.

La casa era avvolta dalla penombra, quadrati di luce erano disegnati sulle pareti scure attraverso le finestre. Spinse la porta della camera e solo quando l’ebbe richiusa alle sue spalle, notò una figura davanti alla porta finestra.

Sentì il suo urlo risuonare per le stanze deserte ancora prima di realizzare di aver aperto bocca.. 

Schiacciò violentemente l'interruttore e, davanti a lei, la lampadina illuminò Nate. Il ragazzo indietreggiò, cercando di ripararsi dal chiarore improvviso. Emanava un pungente odore di alcol, ma la cosa non la sorprese. Si sentì avvampare in volto, pronta a gridare contro di lui, dato che, oltre ad essersi ancora intrufolato in camera sua, le aveva fatto prendere un infarto.

«Mila, tutto bene?»

Non era stato Nate a parlare. Era stato suo padre, alle sue spalle. Era entrato dalla porta e in quel momento stava spostando lo sguardo da lei verso l'intruso.

«Cosa sta succedendo?» domandò, con un'inflessione severa e preoccupata nella voce.

Nessuno parlò, Nate barcollò indietro, instabile.

«Chi è questa persona che si è introdotta in camera tua?» suo padre gridò come Mila lo aveva visto fare con i suoi dipendenti o con il cuoco quando dimenticava di togliere il prezzemolo. 

«I-Io non lo so» farfugliò Mila, frastornata dalla sua voce troppo alta.

Vide un guizzo sul volto di Nate. Era diventato di ghiaccio.

«Chi cazzo sei?» sbottò suo padre, livido in volto.

«Pensavo che a sua figlia avrebbe fatto piacere vedermi» rispose Nate con decisione, pur biascicando leggermente le parole.

L'uomo lo puntò con l’indice. «Tu mia figlia non la tocchi neanche con un dito!»

Il volto dell'altro si aprì in un ghigno e Mila sentì che le sue parole avrebbero solo portato guai. «Sua figlia si è fatta toccare con più che un dito da me»

Suo padre si lanciò in avanti e schiaffeggiò Nate con una tale forza che Mila sentì il dolore come se avesse colpito lei.

Il ragazzo non reagì. Spostò il capo e lo guardò fisso negli occhi.

«Lei, sua moglie, la vostra vita, mi fanno schifo» gli disse, ogni parola intrisa di veleno «E avete reso vostra figlia un prodotto del vostro piccolo mondo marcio»

Mila sentì il secondo schiaffo ancora prima che arrivasse. Nate ridacchiò, forse troppo ubriaco per provare dolore. Le gambe paralizzate della ragazza ripresero vita e la lanciarono tra Nate e suo padre, facendola spingere il primo fuori dalla porta finestra.

«Non dirmi che non mi vuoi più vedere» sibilò lui, con l'alito che sapeva di alcol, «perché mi ruberesti le parole di bocca».

Scavalcò il davanzale e si calò dall'albero prima che lei potesse fermarlo, così non le rimase altro  da fare se non guardarlo andare via con gli occhi pieni di lacrime.

«Dobbiamo parlare signorina». 

Suo padre l’attendeva nella camera, con le braccia incrociate al petto e un'espressione inflessibile.

«Io… te l'ho detto» mormorò lei. «Non l'ho mai visto prima»

Lui corrugò la fronte, ma l'idea che la sua preziosa, perfetta figlia potesse conoscere un individuo come Nate gli apparve così ripugnante da accettare la sua pessima bugia.

«Stai bene?» domandò, più gentilmente.

Lei, ricacciando indietro le lacrime. Si diede della stupida.

«Torniamo alla cena, ti va?»

La ragazza annuì ancora e si lasciò scortare da lui verso il giardino.

 

 

 

L’appartamento che i signori Barnes avevano affittato si trovava nell’attico di un vecchio palazzo del centro che era stato rimodernato di recente. La sala da pranzo godeva di un’ampia vetrata che si affacciava su una terrazza vasta e da qui si scorgeva l’intera città. Dal momento che la cena non era ancora iniziata, alcuni se ne stavano all’aperto a fumare, oppure chiacchieravano all’interno con un bicchiere di vino bianco tra le mani e assaggiando le tartine che un paio di camerieri distribuivano al loro passaggio. I padroni di casa erano circondati da un cospicuo gruppetto che continuamente si disperdeva e infoltiva senza mai scomparire del tutto. 

Amelia Barnes era una donna alta, con i capelli acconciati in onde scure che le cadevano sulle spalle. L’abito aderente che indossava lasciava intuire la sua smagliante forma fisica nonostante avesse superato la cinquantina. Anche suo marito, Philip, non era privo di fascino e coinvolgeva il campanello di persone intorno a lui con la sua abilità oratoria.

Nate se ne stava in un angolo in disparte, passandosi il bicchiere di analcolico da una mano all’altra.

Al suo fianco, Alison, resa elegante dall’abito color pesca che si era cucita, pareva ancora più a disagio di lui.

Quando James gli aveva detto di non presentarsi da solo, Nate aveva pensato fosse da pazzi portare la ragazza con cui usciva dai genitori della sua ex. Poi aveva ripensato alle parole di Mike: Mila era andata avanti con la sua vita e così doveva fare anche lui. E Alison era quella che poteva aiutarlo.

Si voltò verso la ragazza e le rivolse uno sguardo riconoscente. «Se tu non fossi qui con me, me ne sarei già andato».

La ragazza sorrise e scosse il capo, facendo ondeggiare la coda di capelli biondi. «Non dire sciocchezze. Pensa al tuo futuro».

In quel momento, Mila e James entrarono nella sala da una stanza adiacente. Lei e Nate si scambiarono un’occhiata, prima che la ragazza si voltasse a salutare qualche ospite. Si erano salutati appena arrivati e poi si erano ignorati. Come per un tacito patto avevano capito che fingersi estranei avrebbe agevolato la serata a entrambi.

La signora Barnes presa la parola picchiettando con l’anello sul suo calice e invitò tutti a sedersi a tavola. I posti erano già stabiliti e Nate si trovò accanto a Mila, mentre Alison di fronte a lui era affiancata da James. Al capotavola tra Mila e James stava il padrone di casa.

Le prime portate vennero servite e ogni discorso riguardante lavoro o affari fu bandito da tavola.

«Il sabato sera non è stato creato per questo» commentò la signora Barnes, suscitando un mormorio  compiaciuto tra suoi ospiti.

Nate mangiava quasi trattenendo il fiato. Mila era così vicina a lui che gli risultava impossibile non sfiorarla di tanto in tanto. Concentrò lo sguardo su Alison, di fronte a lui. Con i capelli raccolti e quel trucco delicato sul volto, non pareva neanche la ragazza che lavorava dietro al balcone del Venus, ma si mimetizzava perfettamente nell’ambiente.

Philip Barnes si mise a raccontare di una qualche avventura negli Emirati Arabi e la sua retorica esuberante attirò la situazione dei convitati. 

Nate si estraniò dalla conversazione, perdendosi dei suoi pensieri. La prima volta che aveva visto Philip Barnes era stato per sistemare una delle sue moto. Conosceva Mila già da tempo, ma aveva dovuto fingere il contrario quando l’aveva incontrata in casa sua. I loro incontri notturni e clandestini non erano del tipo che suo padre avrebbe approvato.

«Che cazzo di situazione» mormorò a bassa voce, quando non riuscì più a trattenersi.

«Ringrazia che non ti abbia riconosciuto» sussurrò Mila, fingendosi intenta a tagliare la bistecca. 

«Ti immagini?» continuò lui. «Philip Barnes che perde le staffe durante una cena tra amici e mi riempie di botte».

«Non è divertente»

«Un po’ lo è».

Mila si voltò impercettibilmente verso di lui e non riuscì a trattenere un sorriso, che presto si trasformò in una risata soffocata. Anche Nate ridacchiò, poi alzò gli occhi per assicurarsi che tutti stessero ancora seguendo il discorso magniloquente del padrone di casa. Incrociò lo sguardo indagatore di Alison, che rimase fisso di lui quanto bastava perché il sorriso si spegnesse sul volto del ragazzo.

«Nathaniel» Philip aveva rivolto la sua attenzione verso l’ospite sconosciuto e improvvisamente gli occhi di tutti furono su di lui.

«Mila ha detto che ti conosceva al liceo, ma non ha raccontato nient’altro. Ti dispiacerebbe colmare il vuoto?» il tono dell’uomo era pacato e amichevole, ma i suoi occhi avevano un che di inquisitorio.

«No, signore, ma l’avverto che non c’è molto da sapere» rispose lui.

«Puoi cominciare dal dirmi chi sono i tuoi genitori» lo esortò l’uomo.

Nate deglutì e fece un cenno di assenso. «Certo. Mio padre… era un poliziotto. È stato ucciso durante il servizio». Fece una piccola pausa, temendo di aver parlato troppo. 

Philip Barnes, invece, lo stava guardando con interesse. «La criminalità in questo paese sta raggiungendo livelli preoccupanti.»

«No, signore. A dire la verità, furono dei colleghi corrotti che aveva minacciato di denunciare».

Nate strinse i pugni sotto al tavolo per frenare l’improvviso tremore. Non parlava di suo padre da tanto, tanto tempo. E ogni volta che lo faceva, gli ritornavano alla memoria i brutti ricordi di quel periodo. Il dolore, la rabbia, il senso di smarrimento e di ingiustizia.

Prese un respiro profondo e sentì qualcosa sfiorargli una mano. Quasi sobbalzò, prima di rendersi conto che si trattava di Mila. La ragazza guardava davanti a sé, ignorandolo, ma la sua mano costrinse il pugno a sciogliersi e intrecciò le dita alle sue. Nate rispose stringendola a sua volta e riprese a parlare. Nessuno sembrava essersi accorto di nulla.

«Mia madre lavorava come segretaria in una scuola pubblica. Quando le hanno diagnosticato il cancro ha continuato a lavorare, ma presto gli effetti della chemio sono diventati troppo pesanti ed è rimasta a casa. Non ha più trovato un altro lavoro fisso da allora».

I convitati si scambiarono uno sguardo misto di compassione e pietà che fece ribollire il sangue a Nate. Odiava essere compatito, odiava essere considerato una vittima e odiava il fatto che quello fosse lo scopo della cena. Generare abbastanza pietà da spingere i signori Barnes ad appoggiare la sua causa.

«Scusatemi» disse alzandosi in piedi e muovendosi in direzione del bagno.

Quando lo ebbe raggiunto, si chiuse la porta scorrevole alle spalle e si guardò allo specchio, cercando di riacquistare l’autocontrollo perduto. 

Le guance erano chiazzate di rosso e gli occhi erano velati da una rabbia pericolosa. Sciacquò il viso con dell’acqua e poi lo tamponò con una salvietta soffice. Quando tornò a guardare il suo riflesso, pareva più rilassato. Prese un respiro profondo e si decise a tornare a tavola.

 

Il resto della cena proseguì tranquillo. Nate rispose educatamente a tutte le domande che gli vennero poste e lo stesso fece Alison, con grazia e disinvoltura. Quando venne l’ora di andarsene, salutarono tutti e decisero di scendere ad aspettare il taxi in strada. James si offrì di accompagnarli.

«Credo che la cena sia andata bene» gli disse l’uomo mentre attraversavano l’atrio del palazzo. Raggiunsero il marciapiede ben illuminato

«Ti terrò aggiornato non appena i signori Barnes mi faranno sapere qualcosa».

Nate lo ringraziò e, con l’arrivo del taxi, lo dovette salutare. Aprì la portiera per Alison e diede all’autista il proprio indirizzo di casa. Mentre il palazzo dove alloggiavano i Barnes si allontanava fuori dal finestrino, Nate si voltò a guardare la ragazza al suo fianco. Alison teneva le mani abbandonate in grembo e il capo appoggiato al poggiatesta.

«Ti è piaciuta la cena?» le domandò.

La ragazza si voltò verso di lui. Alcune ciocche sottili erano sfuggite dalla sua acconciatura e le circondavano il viso chiaro. 

«Non ricordo l’ultima volta che ho mangiato così bene» gli rispose.

Nate sorrise. Fece per tornare a guardare la strada fuori dal taxi, ma Alison continuò: «Quando ho conosciuto Jay, mi ha detto che sei esperto a complicarti la vita da solo».

Lui ridacchiò. «Ah sì?»

Lei annuì. «E che ti sei innamorato di una ragazza che non avresti mai potuto avere».

Il sorriso si spense sul volto di Nate. Gli occhi scuri di Alison lo stavano scandagliando come se potessero guardarlo dentro.

Attese che la ragazza proseguisse la conservazione con il fiato sospeso.

«Era lei?» 

La domanda di Alison rimase sospesa qualche secondo nel silenzio dell’abitacolo, prima che lei aggiungesse: «Era Mila?»

Nate sospirò e si passò una mano tra i capelli. «Cosa te lo fa pensare?»

Alison roteò gli occhi, sbuffando. «Il fatto che hai chiamato la tua gatta come lei?»

Lui si maledì mentalmente. «Touché»

«Sei ancora innamorato di lei?»

«È una domanda difficile».

Alison lo fulminò con gli occhi. «No, Nate, non lo è. È sufficiente rispondere “sì” o “no”».

Lui si appoggiò sul sedile, improvvisamente privo di forze. La cena era stata abbastanza pesante, senza quella conversazione riguardo i suoi sentimenti in auto. Immaginò che comunque lo dovesse ad Alison, che era stata al suo fianco per tutto quel tempo.

«Mila e io… ci siamo separati in cattivi termini» rispose. «Credo che tutto questo forse ci aiuterà a chiudere le cose una volta per tutte. Nel modo giusto».

Si voltò a guardarla. Alison lo stava ancora fissando, ma i tratti del suo viso si erano addolciti.

La ragazza alzò una mano e gli accarezzò la guancia. Nate socchiuse gli occhi e la lasciò fare.

«Grazie» le sussurrò.

 

 

 

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Capitolo 17
*** Il primo bacio ***





Il primo bacio


 

Mila pigiò il pulsante del campanello e attese in silenzio, fissando l'elenco dei nomi dei condomini.

«Chi è?» le rispose una voce assonnata. Erano le due di pomeriggio di domenica, ma la cosa non la stupì.

«Devo parlare con Nate»

Silenzio.

«Sei Mila?» domandò la voce e lei riconobbe Jay. Imprecò mentalmente. Jay era diffidente e sospettoso. Aveva sperato che a rispondere sarebbe stato il caloroso e mite Mike.

«Sì, sono io. C'è Nate?» rispose frettolosa.

«Io...non so se...»

«Per favore» lo interruppe, «è una cosa importante».

«Io credo che lui sia incazzato. È da un po' che si comporta in modo strano».

«Posso parlargli? Magari riesco a risolvere qualcosa».

Jay esitò. Si poteva sentire il suo respiro leggero attraverso l'altoparlante.

«Va bene» acconsentì alla fine «Ma prometti che sa dà in escandescenza te ne vai senza insistere?»

«Promesso».

La porta del condominio si aprì con un click. Mila si lanciò all'interno e salì i gradini a due a due fino al terzo piano. La porta dell'appartamento era già socchiusa e gli occhi di Jay la scrutavano dall'interno.

«Hai promesso» le sussurrò.

«Lo so. Stai tranquillo» rispose e lui aprì la porta quanto bastava per farla passare.

La casa di Nate era come la ricordava: disordinata, priva di un ordine logico, spoglia e con una perenne aroma di birra e sigarette.

«È in camera sua» disse Jay socchiudendo la porta alle sue spalle, come se fosse pronto ad aprirla nuovamente in tutta fretta, «ma ti consiglio di non entrare a meno che non ti inviti esplicitamente».

Annuì. «Grazie».

Attraversò la piccola sala-cucina si immerse nell'atrio che conduceva nelle camere. Quella di Nate era la penultima a destra; si fermò davanti alla porta e bussò.

«Che c'è?» replicò la voce irritata del ragazzo. Mila sentì un tuffo nel cuore. «Sono impegnato»

Temeva che nel sentire la sua voce l’avrebbe cacciata immediatamente senza neanche guardarla in faccia, così bussò ancora.

«Che palle, Jay, non hai niente di meglio da fare?»

Lei picchiò le nocche sul legno, ancora, e porta si aprì di scatto.

Nate non era arrabbiato. Era la rabbia stessa. Occhi fulminanti, espressione di ghiaccio, muscoli tesi. Il cuore di Mila accelerò improvvisamente, ma la sua lingua sembrava essersi fatta di piombo.

«Midispiace» disse, tutto d'un fiato.

Nate strinse le labbra fino a farle impallidire, così lei ne approfittò per aggiungere: «Hai dalla tua ogni ragione per essere arrabbiato con me e capisco che nessuna giustificazione può rimediare a come mi sono comportata. Quindi volevo solo dirti che mi dispiace, nulla di più»

Lui socchiuse gli occhi e la scrutò in silenzio.

«Che hai fatto alla fronte?» domandò poi.

Mila aprì la bocca, perplessa, poi realizzò che si riferiva al livido provocato dall’incidente. Si era trattato di una faccenda stupida. Clelia aveva perso il controllo dell’auto e si erano ritrovate in un fosso. Alla fine se l’erano cavata solo con qualche botta, ma in quel momento di pura adrenalina Mila aveva avuto una sola cosa in testa: “Se muoio ora, lascerò Nate per sempre arrabbiato con me”. Quell’idea l’aveva terrorizzata molto più del fatto di essere bloccata in un fosso e, una volta tratta in salvo, aveva deciso che era arrivato il momento di ingoiare tutto ciò che rimaneva del proprio orgoglio per presentarsi dal ragazzo e chiedergli scusa. 

«Oh nulla di che» rispose minimizzando.

«Ti hanno picchiata?»

«Cosa?» replicò «No! Ho solo avuto un incidente, nulla di grave»

Lui prese un respiro profondo e Mila fu certa che stesse per sbottarle contro.

«Ti devo chiedere scusa anche io»

La sua replica la lasciò spiazzata. 

«Cosa?»

«Mi sono comportato da testa di cazzo. Non avevo alcun diritto di introdurmi in casa tua e ho detto delle cose orribili su di te. Mi dispiace».

Lei annuì, ricordando come le sue parole l’avessero trafitta.

«Non avrei dovuto dire che non volevo più vederti» mormorò poi lui, abbassando lo sguardo.

Mila avrebbe voluto accarezzare la sua guancia, poi i suoi capelli, ma temette che toccandolo si potesse arrabbiare, come un animale imprevedibile.

«Grazie per avermi ascoltata» disse poi e si guardò attorno con aria imbarazzata: «Io...è meglio che vada...»

Nate risollevò le sguardo e Mila si accorse che stava sorridendo. 

«Ti va di farmi compagnai?»

 

 

Mila aprì la porta del locale e venne accolta dall’aria calda all’interno.

Si trattava di uno di quei café alla moda costruiti con pezzi di recupero che andavano particolarmente in quel momento. Un grande tavolo di legno lucido alla sua destra ospitava diverse postazioni di lavoro, mentre nella parte opposta una serie di tavolini circondati da poltrone confortevoli offrivano postazioni più intime per chi voleva chiacchierare. I colori neutri abbinati al legno scuro facevano apparire il locale confortevole come un salotto di casa.

Clelia l’attendeva ad uno dei tavolini e sventolò una mano in aria non appena la vide entrare.

Mila si affrettò a raggiungere l’amica. Lasciò il cappotto sull’appendiabiti affisso al muro accanto a loro e si sedette sulla poltrona grigia.

Clelia stava già sorseggiando una tazza di tè, accompagnandola con un’alta fetta di torta glassata.

«Ti assicuro che vale tutte le ore in palestra per smaltirla» commentò.

Mila scosse il capo, divertita.  La sua migliore amica era sempre stata il tipo di ragazza che riesce a catturare gli sguardi di tutti. Indossava abiti che non coprivano le sue forme morbide, a volte anche di qualche taglia di meno per mettere in evidenza il suo fisico. Mila non si era stupita quando terminati gli studi in economia, Clelia era stata immediatamente assunta da un’importante azienda. La ragazza era carismatica, sensuale e persuasiva. Tutto l’opposto di lei, insomma, che odiava essere al centro dell’attenzione e spesso avrebbe solo voluto scomparire. Clelia non era mai a disagio, sapeva sempre cosa dire e cosa fare. Veniva da una buona famiglia, ma a differenza di Mila, non le bastava sventolare il suo cognome per trovare una schiera di persone pronte a servirla e riverirla. Fatta furba dall’esperienza, aveva imparato come legare a sé le persone tra moine e sguardi languidi. 

«Tesoro, dimmi tutto» la incoraggiò l’amica.

Aveva chiamato una cameriera per farsi portare un’altra tazza e versò del tè anche a Mila. Lei prese la tazza calda tra le mani e fissò il contenuto come se riuscisse a trovarci le parole per cominciare a parlare.

«Io… ho incontrato un ragazzo».

Alzò lo sguardo in tempo per vedere le sopracciglia di Clelia levitare sproporzionatamente nella fronte. «Se hai dei problemi con James, potrei essere sconvolta» commentò. «Voi due siete fatti l’uno per l’altra».

Mila scosse il capo. «No, è un ragazzo che conosco da tempo. L’ho rivisto dopo anni».

«Un ragazzo speciale?»

«Io e lui… ecco, abbiamo avuto una relazione».

La confessione la spinse a nascondersi dietro alla tazza prendendo un sorso e, quando tornò a guardare l’amica, notò che quella aveva un’aria ancora più incuriosita e sorpresa.

«Mila Barnes» iniziò infatti. «Sono stata al tuo fianco da quando avevamo quattro anni e tu osi avere segreti con me?».

Clelia aveva usato un tono ironico, ma c’era un’inflessione preoccupata nella sua voce. Non c’erano mai stati segreti tra loro, in effetti.

«Lui veniva da Stanwood Junction» riprese Mila e, dalla reazione sul volto dell’amica, capì che non aveva bisogno di aggiungere altro: il quartiere era risaputamente uno dei luoghi più pericolosi e degradati della città.

«Ha frequentato il nostro liceo?» le chiese Clelia e lei annuì. Per dimostrare senso di comunità e di beneficenza, la loro scuola superiore accoglieva ogni anno decine di studenti provenienti da Stanwood Juction, tentando di integrarli con i ragazzi più privilegiati. Alcuni ci riuscivano e abbandonavano il quartiere di provenienza, ma la maggior parte terminava il liceo con lo stesso senso di distacco e diffidenza verso un mondo a cui sentiva di non appartenere.

«L’ho conosciuto quando lui aveva già finito» continuò Mila. «Lo abbiamo incontrato insieme fuori da scuola. Forse ti ricordi».

Frugò nella borsa ed estrasse il cellulare, poi aprì la galleria alla ricerca di una fotografia di Nate. Quando l’ebbe trovata, tese il dispositivo a Clelia per farle vedere.

«Non male, Barnes. Mi ricordo di lui» commentò l’amica. «Aveva fatto il galletto con i tuoi compiti, giusto?»

Mila annuì e le immagini di quel giorno le tornarono alla mente come un lampo. Mentre si lamentava dell’impossibilità dei problemi che erano stati assegnati di compito, il foglio le era sfuggito dalle mani, strappato dal vento, finendo ai piedi di Nathaniel Winchester. Appoggiato alla sua moto, con la giacca di pelle e i jeans sbiaditi, il ragazzo aveva l’aria poco raccomandabile di uno che non sapeva cosa fossero le regole. Lui aveva raccolto il foglio, le aveva chiesto una matita e aveva risolto i problemi scritti su di esso. E aveva aggiunto il suo numero di telefono alla fine.

«Ti pregai per mesi di darmi quel numero!» esclamò Clelia riportandola al presente. «E tu dissi che lo avevi perso o forse buttato via».

Mila arrossì al ricordo. Quella era stata una delle sue prime bugie. Al liceo era abituata a vedere la sua migliore amica conquistare tutti i ragazzi più popolari, così, per ripicca o semplice curiosità, aveva deciso di tenere il numero di Nate per sé. In quel periodo, Clelia aveva una passione per i bad boys, e Mila era convinta che se le avesse dato il numero del ragazzo, lei non lo avrebbe mai più rivisto.

«Non tenermi sulle spine!» 

La protesta dell’amica la fece sorridere nervosamente. Decise di proseguire. «Per una settimana mi rigirai il numero tra le mani, poi decisi di chiamarlo».

Clelia rise, affondando la forchetta in quello che rimaneva nella sua torta ipercalorica. «Gli ormoni cominciavano a farsi sentire».

Mila fece una smorfia. «Più che altro il brutto voto in fisica».

L’altra strabuzzò gli occhi con la forchetta di torta ancora in bocca. «Dimmi che stai scherzando».

«Lo sai anche tu com’ero. I miei genitori mi stavano con il fiato sul collo per ogni voto non eccellente, così decisi di fare un tentativo e chiamarlo».

Clelia batté le mani, eccitata dalla piega che la storia aveva preso. «Oddio, non me lo dire. Questa è un classico: la relazione tra alunna e tutor!»

Mila sbuffò, alzando gli occhi al cielo. «La prima volta non successe nulla. Lo invitai in casa mia quando i miei non c’erano, per evitare domande, e lo feci stare nel salotto».

«Quanto sei noiosa» protestò l’amica e lei si strinse nelle spalle. «Nate fu impeccabile. Mi aiutò con i compiti e mi disse di chiamarlo quando volevo».

Tacque un istante e si sentì arrossire ripensando a quei momenti. Lei era una studentessa timida e impacciata, abituata a dimostrare il proprio valore con ciò che sapeva, anche a costo di sembrare una saputella. L’importanza del suo cognome l’aveva sempre protetta da qualsiasi attacco, così che nessuno l’aveva mai presa di mira, ma nessuno pareva particolarmente interessato a lei.

Nate Winchester si era presentato alla porta con un sorriso sfacciato e per tutto il pomeriggio l’aveva canzonata come nessuno aveva osato, ma senza essere fastidioso o pungente. Con lui aveva riso come non le era mai successo e, quando Nate aveva detto di doversene andare, Mila aveva sentito il cuore come pesante all’idea di doversi separare da lui così presto.

Non era il suo essere attraente che l’aveva affascinata, ma il modo in cui i suoi occhi brillavano maliziosamente quando la prendeva in giro, o la piega ironica delle sue labbra ogni volta che aspettava una replica da parte sua.

«E poi?»

Ancora una volta, la voce di Clelia la riportò dolorosamente al presente. Un presente in cui Mila non era più una studentessa ciecamente innamorata di lui e Nate non l’avrebbe guardata con quel suo sorriso malizioso. Non più.

La ragazza prese un respiro profondo. «Continuammo a vederci per i due anni successivi, senza mai chiarire il nostro rapporto. Era chiaro che tenevamo l’uno all’altra, ma conducevamo vite troppo diverse per conciliarle».

Una cameriera la interruppe, chiedendo se volessero qualcos’altro. Clelia ordinò altro tè per entrambe e aggiunse una fetta di torta.

«Quante ore in palestra hai intenzione di fare?» le domandò Mila.

L’amica le sorrise. «Tesoro, questa è per te. Sento che ne avrai bisogno».

La cameriera ritornò con le loro ordinazioni, così lei poté proseguire la storia.

«Due anni fa, Nate mi chiese di partire con lui. Aveva vinto un concorso e si sarebbe trasferito qui. Rifiutai, perché dovevo finire l’università e prima di poche settimane fa non ci siamo più rivisti».

Clelia tacque in silenzio. Poi si mise a fare un rapido calcolo sottovoce e quando ottenne il risultato, piantò i suoi occhi chiari in quelli di Mila. «È lui il motivo per cui hai avuto la tua piccola “crisi”?»

La ragazza strinse le labbra e fece un lieve cenno di assenso.

“Crisi” era il termine che i suoi genitori avevano coniato per il periodo che aveva preceduto la decisione di abbandonare gli studi. Subito dopo la partenza di Nate, aveva cercato di soffocare il dolore e il rimpianto tenendosi occupata ventiquattr’ore al giorno, tutti i giorni. Studiava, lavorava, esaminava casi, scriveva articoli… Era arrivata a passare le notti insonni pur di non dover stare da sola con i propri pensieri.

I signori Barnes non erano mai stati particolarmente attenti nei suo confronti, ma sarebbe stato difficile non notare il suo improvviso dimagrimento e l’aria perennemente stanca. Più tardi, aveva anche cominciato a lavorare insieme a James, che per primo si era accorto che qualcosa non andava. L’aveva convinta a prendere le cose con calma, a dedicare più tempo a se stessa e, rimasta sola con i propri pensieri, Mila era implosa. Dopo poche settimane aveva annunciato di voler abbandonare l’università e a nulla erano valsi i tentativi dei genitori per farla desistere. La sua relazione con James e l’assunzione come sua assistente avevano placato la loro avversione alla decisione di lasciare l’università e presto un nuovo equilibrio si era ristabilito.

«Perché non l’hai cercato? Perché non hai abbandonato prima la tua vita?» le chiese Clelia scrutandola.

Mila deglutì e si sfregò gli occhi. «Credevo davvero di aver fatto la scelta giusta. Partire con Nate era come giocare d’azzardo e non potevo permettermelo».

«La signorina Barnes ha sempre un piano» commentò l’amica e lei annuì: «L’idea di partire verso una vita sconosciuta mi terrorizzava tanto quanto l’idea di separarmi da lui. E mi illudevo dicendomi che sarebbe tornato».

Clelia rigirò il cucchiaino nella tazza, facendolo tintinnare quando il metallo si scontrava con la ceramica.  Tacquero entrambe e il chiacchiericcio intorno a loro assorbì il silenzio pesante che si era creato. Mila decise che la nuova fetta di torta era davvero invitante e la tirò verso di sé per affondarci la forchetta e prenderne un boccone. Quando rialzò lo sguardo su Clelia, l’amica la stava guardando con un’espressione intensa.

«Rimane solo una cosa da chiederti. Cosa provi per lui ora?»

Mila si sentì tremare a quella domanda, ma sapeva che non erano tanto le parole dell’amica a spaventarla, quanto la risposta che avrebbe dato.

Clelia le sorrise in modo stranamente dolce, quasi fosse intenerita da quello che vedeva.

«Non c’è bisogno di rispondere» le disse. «La tua espressione è abbastanza chiara».

 

 

Mentre il taxi la riportava a casa, la mente di Mila volò un’altra volta a quattro anni prima, facendo riemergere ricordi che credeva di aver sotterrato per sempre.

La seconda volta che Nate era stato a casa sua, avevano studiato nella camera di lei. La ragazza non lo aveva programmato, ma suo padre aveva dato ordine di riverniciare il salotto proprio quella mattina, quindi non aveva avuto scelta.

Ricordava l’imbarazzo che aveva provato mentre gli occhi scuri di Nate avevano sondato la sua stanza. Si era torturata l’orlo della maglia mentre rifletteva su quanto lui dovesse trovare infantile il rosa pallido delle pareti o i suoi vecchi libri da ragazzina nella libreria.

Nate non aveva fatto commenti e si era seduto al suo fianco alla scrivania. La vicinanza aveva fatto provare a Mila l’impulso di uscire dalla stanza, per allontanarsi da quel ragazzo che la faceva bruciare dentro e fuori. Lui non aveva detto nulla e per una buona mezz’ora si erano concentrati sullo studio. Ad un certo punto, l’aveva guardata negli occhi senza distogliere lo sguardo. Le sue labbra non avevano perso quella piega maliziosa quando le aveva detto: «Signorina Barnes. Non posso concentrarmi se continui a guardarmi in quel modo».

Mila si era sentita andare a fuoco e aveva perso ogni facoltà mentale. Aveva farfugliato una qualche scusa — probabilmente incomprensibile. 

Nate aveva sorriso, in modo premuroso questa volta, e aveva allungato una mano per accarezzarle la guancia. Lei, convinta di aver ormai raggiunto la temperatura di fusione, aveva tremato, nel timore di scottare il ragazzo con quel contatto.

Eppure, lui era rimasto con il palmo sul suo volto mentre le aveva chiesto in un sussurro: «Posso baciarti?»

Nel taxi, la ragazza socchiuse gli occhi, cercando di trattenere quel ricordo e di non dimenticare mai la morbidezza delle labbra di lui sulle proprie.

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Capitolo 18
*** Perché io? ***




Perché io?
 

Alison giocherellava nervosamente con gli anelli che portava, mentre i suoi occhi sondavano l’area della partenza. La nuova auto di Nate era di un blu sobrio, quindi sarebbe stato difficile distinguerla dalle altre da quella distanza se non ci fosse stato il ragazzo appoggiato contro, in attesa del segnale di inizio. Se ne stava con la schiena contro la sua portiera e le braccia conserte al petto.

«Ti sembra preoccupato?» domandò Alison a Mike, che guardava la corsa insieme a lei, Richie e Ross. Teneva in una mano una birra e nell’altra una sigaretta e alternava le due con fare meticoloso.

Strizzò gli occhi nella direzione che lei gli aveva indicato e scosse il capo. 

«Nah, lo vedo pacifico».

La corsa si svolgeva ancora una volta in un’area isolata, questa volta a più di un’ora di distanza dalla città. Gli organizzatori avevano deciso di andare sul sicuro allontanandosi dal rischio di una nuova intercettazione. La partenza si svolgeva in un’ampia pianura chiusa sui due lati da un’area boschiva. Il pubblico si trovava in uno spazio leggermente sopraelevato rispetto ai corridori — disposti su una larga strada sterrata — e avevano una buona visuale di quello che era il punto di partenza e di arrivo della gara.

Un fischio attirò l’attenzione dei presenti e, come un sol uomo, i piloti presero posto all’interno delle loro vetture. Questa volta il semaforo era stato sistemato sulla cima di un albero alto e massiccio, così che tutti potessero vederlo.

Non appena la luce verde sostituì quella rossastra, le auto partirono rombando.

Alison si mise a camminare avanti e indietro, poi si aprì la giacca, improvvisamente accaldata. Tornò a giocherellare con gli anelli, mentre tendeva il collo per vedere meglio.

Le auto erano scomparse nell’oscurità della notte e solo di tanto in tanto si vedeva il brillio di qualche fanale tra gli alberi.

La ragazza raggiunse Ross, che stava scrutando l’area della gara attraverso un piccolo binocolo e riferiva quanto vedeva a Richie. L’omone era strizzato in una sedia da campeggio troppo piccola per la sua stazza.

«C’è un testa a testa, Nate è dietro all’auto di Wells» stava dicendo Ross. «La strada è troppo stretta per superare… li ho persi».

L’altro uomo imprecò a gran voce, cercando inutilmente di scorgerli a occhio nudo.

«Alison, passami una birra, che la tensione mi sta asciugando la bocca» chiese poi indicando la borsa frigo posizionata poco lontano.

Controvoglia, la ragazza si allontanò da loro per eseguire e quando ritornò sentì Ross esclamare con tono esaltato: «Nate è primo! Ora deve mantenere la posizione fino alla fine».

L’uomo scrutava il bosco nero attraverso il binocolo.

«Ora un’altra auto minaccia la sua posizione. Se lo supera nella curva ad est, Nate non potrà più recuperare».

«Quanto manca alla curva?» chiese Richie appallottolando nel pugno la lattina di birra che aveva trangugiato.

«Cinquecento metri» fu la risposta, seguita da un attimo di silenzio. Poi Ross emise un verso incomprensibile e Richie balzò in piedi — almeno tentò di farlo, dato che rimase incastrato nella sedia e decise di ritornare nella posizione iniziale, mentre esclamava: «Allora? Cosa significa?»

Ross si voltò a guardare lui e Alison, e sorrise. «Ha vinto».

 

 

 

Non appena entrarono in casa, le labbra di Nate cercarono le sue e la ragazza si ritrovò schiacciata contro la porta appena chiusa. Sentì le dita fredde di lui che le accarezzavano la pancia nuda dove la maglia si era sollevata e poi si spostavano sulla schiena per stringerla ancora di più a sé.

Le sfilò la maglietta e la lanciò sul tavolo, mentre si spostavano verso la camera da letto. Alison gli slacciò i pantaloni e li fece scendere fino a terra. Nate se li tolse, aiutandosi con i piedi, poi l’afferrò per una mano e si lanciò sul letto, tirandola con sé. Si stese sul materasso e la ragazza si mise a cavalcioni su di lui.

«Sei contento per la corsa?» gli chiese, piegandosi in avanti per baciarlo vicino all’orecchio.

Lo sentì ridacchiare. Prima di tornare a casa si era scolato qualche birra. «Sono più contento di essere qui con te ora».

«Non dire cazzate, Nate»

«Sono sincero» le rispose e con un colpo di reni invertì le posizioni, facendo precipitare la ragazza sul materasso e mettendosi sopra di lei. «Sono davvero contento di essere qui con te».

Si chinò per baciarla e Alison si lasciò avvolgere da quella sensazione.

 

Quando la ragazza si alzò per lavarsi, gli chiese se volesse fumare. Erano stati accoccolati nel letto negli ultimi venti minuti e si sarebbero addormentati di sicuro se non fosse stato per i residui di adrenalina dalla gara.

Nate si mise seduto sul letto, a torso nudo. «No, non voglio fumare. Ti va di mangiare qualcosa? Posso cucinare io intanto che ti prepari».

Alison fu colta alla sprovvista da quella gentilezza improvvisa. Scrutò il ragazzo e lo trovò diverso. Il suo volto era disteso, il suo sguardo presente. Per la prima volta le sembrava di avere di fronte una persona che aveva fatto pace con i propri demoni e che non sarebbe scomparsa all’improvviso.

«Certo, dovresti trovare qualcosa nel frigo» gli rispose. «E avrei voglia di guardare un film dopo, magari una commedia. Cosa ne dici?»

Nate si alzò in piedi e si infilò la propria felpa, poi si voltò verso di lei e le sorrise. «Tutto quello che vuoi».

Le lasciò un bacio delicato sulle labbra e sparì in cucina per preparare da mangiare.  


 

***


 

Mila sapeva che Nate non sarebbe mai riuscito ad arrivare da solo allo studio del professor Thomson, così gli diede appuntamento di fronte all’edificio in cui si trovava lo studio.

La seconda fase della competizione per la borsa di studio consisteva in un colloquio con il benefattore in persona. Si trattava di un uomo benevolo e gentile, che aveva trascorso la vita tra gli studenti e quindi sapeva capirli con uno sguardo. A preoccupare Mila era soprattutto la straordinaria capacità di Nate di mandare tutto a puttane.

La ragazza arrivò in anticipo, così si sistemò su una panchina libera e prese dalla borsa alcuni documenti che doveva finire di leggere per il lavoro. Pensò che Clelia aveva ragione, in quello era proprio uguale a James: due maniaci del lavoro perfezionisti.

Il sole del mattino filtrava tra le foglie dell’albero al suo fianco, scaldandola tiepidamente. Tutt’intorno il campus era animato dall’andirivieni degli studenti. Le ritornò alla mente la sua esperienza accademica, ma si sentì stranamente tranquilla. Inspirò ancora l’aria fresca e frizzante, tornando a concentrarsi sulle sue carte. Fu talmente assorbita dalla lettura, che sobbalzò quando si sentì chiamare: «Signorina Barnes?»

Raddrizzò la schiena e abbassò i fogli di scatto. Nate se ne stava di fronte a lei, con le mani affondate nelle tasche dei jeans e un sorriso sfrontato stampato sul volto. Sotto ad una giacca di pelle portava un semplice maglione, che gli dava un’aria ordinata senza farlo apparire troppo formale.

«Potrei cominciare ad abituarmi a questa vista» commentò lei mentre riponeva i fogli nella borsa e si alzava in piedi.

«Quale?»

«Tu vestito in modo decoroso» rispose lei facendolo ridere. Si guardarono negli occhi, lei con le guance arrossate, lui con la sua espressione sardonica. Mila distolse lo sguardo, sistemandosi nervosamente i capelli dietro alle orecchie.

«Vieni» disse, «ti accompagno allo studio».

Lo guidò all’interno dell’edificio e poi su fino al secondo piano attraverso un’elegante e ampia scalinata di marmo. I corridoi erano affollato da studenti e professori, la maggior parte dei quali parevano troppo di fretta per rimanere fermi a lungo. Lo studio del professor Thomson si trovava al di là di una porta di legno scuro in un corridoio poco trafficato. Una donna sedeva dietro ad una scrivania poco distante e avvertì che il professore li avrebbe ricevuti a breve. I due presero posto l’uno accanto all’altra sulle sedie sistemate lungo il corridoio. Erano così vicini che Mila riusciva a sentire il leggero odore di fumo sulla giacca di lui — che ormai andava scomparendo — e anche il profumo con cui aveva cercato di nasconderlo. Notò che il ragazzo si stava asciugando i palmi sudati sui jeans, dondolando lievemente avanti e indietro con la schiena.

Lui si accorse che lo stava guardando e le sorrise nervosamente.

«Qualche consiglio?» domandò.

Mila pensò che avrebbe potuto allungare la mano e accarezzargli la guancia. Era quasi tentata di farlo, per tranquillizzarlo. Riusciva ad immaginare la sensazione pelle appena ruvida sotto ai suoi polpastrelli e il calore che il suo corpo emanava. Da lì avrebbe potuto scorrere verso i suoi capelli, così scuri e soffici, e far scivolare le dita tra quelle onde scompigliate.

«È una situazione così disperata?» rise Nate di fronte al suo silenzio, riscuotendola.

Lei deglutì e scosse il capo, poi si stampò sul volto un sorriso. «No, sii te stesso» gli rispose. «Basterà per conquistarlo».

Il ragazzo non parve convinto da quelle parole, ma non disse nulla. 

Il telefono della segretaria suonò, così la donna rispose e, mentre riabbassava la cornetta, disse a Nate che poteva andare. D’impulso, Mila lo prese per un braccio, trattenendolo. Lui si voltò a guardarla, un poco sorpreso. Dove lo aveva toccato, lei sentiva le dita incandescenti.

«Buona fortuna» gli disse soltanto, lasciandolo andare.

Nate le rivolse un sorrisetto storto e si diresse all’interno. Rimasta sola, la ragazza espirò lentamente. Avrebbe potuto riprendere la lettura dei documenti per ingannare l’attesa, ma improvvisamente si sentì troppo tesa e preoccupata per concentrarsi. Scrutò la massiccia porta lignea come se potesse assistere a ciò che avveniva all’interno.

 

 

Mezz’ora più tardi erano già seduti al tavolo di un café poco distante dal campus. Nate stava mangiando una grossa ciambella ricoperta di cioccolato e pareva di così buon umore da far supporre che il colloquio fosse andato bene.

Non appena uscito dallo studio, ogni traccia di nervosismo era scomparsa. Aveva sorriso a Mila e, prendendola a braccetto, le aveva chiesto: «Ti va di andare a bere qualcosa?»

«Hai intenzione di parlarmi del colloquio?» gli chiese la ragazza, distogliendolo dalla contemplazione della sua ciambella.

Nate si strinse nelle spalle. «È un tipo simpatico, il professor Thomson. Abbiamo chiacchierato un po’ di tante cose. Lo sapevi che ha una Cadillac Deville del ‘70?»

Mila scosse il capo.

«Certo, non è poi di così grande interesse per l’ambiente accademico» acconsentì lui.

«Ti avevo detto che lo avresti conquistato» ribatté la ragazza, ma lui parve poco convinto. Tornò alla sua ciambella, ma questa volta con aria corrucciata. Sembrava pensieroso. «Parliamo d’altro».

«Va bene» acconsentì lei e per qualche secondo nessuno parlò. Fu Mila a riprendere. «Posso chiederti una cosa?»

«Una risposta negativa ti ha mai fermata?» 

Lei si sentì arrossire e cercò di celarlo parlando in fretta. «Perché me?»

Nate la guardò con le sopracciglia corrugate, interrogativo.

Si affrettò ad articolare meglio la domanda: «Quando ci siamo conosciuti, avresti potuto avere qualsiasi ragazza. Perché hai scelto me?»

Lui sorrise, scuotendo il capo. «Non potevi farmi una domanda più semplice?»
«Non sei obbligato a rispondere».

Si fissarono per qualche istante, in silenzio. Mila si sentiva sciogliere sotto gli occhi scuri di lui.

Una cameriera si intromise tra i loro sguardi, raccogliendo i piatti vuoti e chiedendo se desiderassero altro. I due declinarono e quella si allontanò con il vassoio tra le mani.

Mila sentì il suo cellulare vibrare nella borsa e lo estrasse per controllare. 

«Brutte notizie?» le chiese Nate e la ragazza si accorse di aver assunto un’espressione accigliata.

Scosse il capo e fece scivolare il cellulare nuovamente nella borsa. «No, è James. Mi chiede di tornare al lavoro, hanno bisogno di me».

«Non ti tratterò, anzi, l’ho già fatto abbastanza» replicò il ragazzo alzandosi in piedi. Lasciò una banconota sul tavolo - anticipandola - e uscirono dal locale.

Camminarono verso la strada principale e Nate si offrì di fermare un taxi per lei.

«E tu?» chiese la ragazza.

«Prenderò l’autobus, non preoccuparti».

Un’auto si fermò davanti a loro e Mila si avvicinò per aprire la portiera, ma, prima che potesse entrare nel taxi, si sentì afferrare per il braccio.

Si voltò, trovando Nate a un passo da lei. Un formicolio si propagò sulla sua pelle dove le dita del ragazzo erano chiuse intorno al suo braccio. 

«Mi piaceva la persona che potevo essere insieme a te» le disse. «Come entrambi potessimo essere persone migliori insieme».

Lei lo fissò in silenzio, sospesa tra il taxi e lui, che ancora la stava trattenendo. Il ragazzo aveva un’espressione seria, tremendamente seria, e la guardava senza aspettarsi risposta, ma come se fosse finalmente riuscito a togliersi un peso dal petto.

«Grazie» gli sussurrò.

Lui la lasciò andare e arretrò. Mila si infilò nel taxi, ma non fece in tempo a voltarsi per salutarlo perché l’auto partì di scatto.





 



Angolo autrice

Ciao!
Finalmente dopo tanto tempo posso tornare ad aggiornare! Lo scorso anno è stato molto impegnativo e mi dispiace aver trascurato la scrittura così come la pubblicazione.
Se c'è ancora qualcuno dei "vecchi" lettori, vi ringrazio per essere arrivati fin qui e mi scuso per il ritardo <3
Spero di poter riprendere ad aggiornare più regolarmente in modo da concludere questa storia nei prossimi mesi.
Ringrazio chiunque sia arrivato fin qui a leggere! :)
Alla prossima,
M.


 

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Capitolo 19
*** Rimediare agli errori ***


Rimediare agli errori


 

«Ehi, Mila!»

La voce di Nate la chiamò dal falò. Cercò il suo volto tra quelli degli altri ragazzi sulla spiaggia e lo trovò seduto su un tronco ribaltato.

«Ciao» lo salutò avvicinandosi. Le fece cenno di prendere posto al suo fianco, così si sedette e le loro gambe si sfregarono. Notò che Nate profumava solo di menta. Niente alcol, niente sigarette.

«È da un po' che non ci vediamo» commentò lui.

«Due settimane mi sembra».

Subito dopo la gioia per essersi riappacificata con Nate era piombata nella spirale dello studio. Gli ultimi esami dell'anno erano alle porte e non potevo permettersi distrazioni.

«Ora sei una donna libera?» domandò Nate con un sorrisetto sulle labbra e negli occhi.

Rise. «Solo fino a che ricominciano le lezioni».

Lui alzò lo sguardo verso l'oceano scuro, poi ritornò a guardarla. «Ti va di fare due passi?»

Gli rivolse un'espressione stupita. «Non sei ubriaco ad una festa e mi stai chiedendo di fare due passi da soli. Cosa ti è successo?»

Lui rise e scosse il capo. «Voglio solo passare del tempo con te» le sussurrò nell’orecchio.

Rabbrividì e gli rivolse un cenno di assenso. Lui la prese per mano e la condusse verso la riva. Mila si tolse le scarpe in modo da poter sentire l’acqua fresca e la sabbia soffice. Nate camminava al suo fianco e di tanto in tanto la ragazza lo sfiorava con la sua spalla. Non parlarono fino a che furono abbastanza lontani dal falò da sentire solo voci indistinte.

«Ho ricevuto una proposta» disse Nate all'improvviso.

Mila si voltò a guardarlo. Lui fissava davanti a sé, con la fronte corrugata, poi spostò gli occhi verso quelli di lei. «Ricordi quel progetto che ti ho mostrato?»

La ragazza annuì. Nate era un genio, ma non era né famoso né ricco quindi molti avevano rifiutato il suo progetto nonostante fosse un gioiello della meccanica. Non che lei se ne intendesse molto comunque, ma il ragazzo aveva il potere di spiegare anche le cose più complesse come se le stesse raccontando a un bambino. 

«Be', a qualcuno è piaciuto e mi vogliono assumere».

Sgranò gli occhi, sorpresa quanto entusiasta. «È una bellissima notizia»

«Già» commentò lui «Ma è dall’altra parte del paese»

Mila sentì le sue gambe farsi di marmo e piantarsi nella sabbia. Siamo nel ventunesimo secolo, si disse, partono aerei ogni giorno.

«Mi chiedevo» riprese Nate «Se ti andrebbe di venire con me»

«Oh» fu tutto quello che lei riuscì a dire.

Lo guardò negli occhi, abbassò lo sguardo sui suoi piedi affondati nella sabbia, poi ritornò a guardarlo. 

«Io…non so…». Quella notizia l’aveva colta totalmente alla sprovvista e non riusciva a formulare un pensiero di senso compiuto.

«Aspetta, pensaci su, okay? È una decisione importante, no?»

Mila annuì in silenzio e lui le rivolse un piccolo sorriso. Poi l’afferrò per le spalle e la strinse a sé in un abbraccio. Lei affondò il volto contro la maglietta di Nate e strinse gli occhi per impedire che le lacrime la bagnassero. 

 

 

 

«Mila?»

La ragazza sbatté le palpebre e mise a fuoco il volto della sua interlocutrice davanti a sé. La donna le stava sorridendo, un poco imbarazzata.

Mila si raddrizzò, sentendosi avvampare. Farfugliò qualche scusa e chiese di ripetere la domanda.

Era a cena in un ristorante insieme a James e alcuni amici e colleghi di lui. Fin dall’inizio della serata aveva cercato di concentrarsi sulle conversazioni, ma continuava inevitabilmente a distrarsi. Gli argomenti a tavola non erano in effetti dei più interessanti — Lucy, di fronte a lei, aveva appena finito di parlare dei tipi di marmo che aveva scelto per il suo nuovo appartamento — ma Mila avrebbe anche potuto seguirli, se non avesse avuto tutti quei pensieri per la testa a distrarla. Un pensiero in particolare, a dir la verità.

Fece un cenno di assenso a Lucy per farle capire che aveva ascoltato ciò che la donna le aveva ripetuto, poi decise di scusarsi e alzarsi dal tavolo.

«Credo di non sentirmi bene. Vado a prendere un po’ d’aria» disse infilandosi il cappotto.

Nessuno dei presenti fece opposizione, così si allontanò verso l’uscita del locale. Fuori dalla porta c’era un piccolo angolo fumatori — in quel momento deserto — riparato da alcune piante e illuminato da una piccola lampadina. Mila prese un respiro profondo, assorbendo l’aria fresca della notte. 

Sentiva la testa pesante, come se fosse sul punto di scoppiare e sapeva che non era per il mezzo bicchiere di vino che aveva bevuto dall’inizio della cena. La sua testa continuava a tornare a qualche giorno prima. Riusciva ancora a sentire il calore della mano di Nate intorno al suo braccio, mentre la guardava negli occhi e le diceva che gli piaceva la persona che poteva essere insieme a lei. Aveva continuato a ripetere quelle parole dentro di sé, poi aveva cercato di cancellare quei pensieri dalla sua testa. Sono solo dannosi, si era detta, non porteranno a nulla. Eppure, di notte, insonne nel suo letto, non riusciva a smettere di pensare a lui. Alla prima volta che si erano incontrati. Al loro primo bacio. Alle serate in spiaggia. A come aveva pianto contro la sua maglietta quando le aveva detto che sarebbe partito. Ripensava a quando aveva letto il suo nome sul fascicolo che la segretaria le aveva lasciato. A come il suo cuore avesse mancato un battito e di come non fosse riuscita a chiudere occhio la notte prima dell’incontro. E quando lo aveva visto entrare nell’ufficio, con quell’aria persa e la sensazione di essere fuori posto, avrebbe solo voluto correre da lui, stringerlo tra le braccia e sussurrargli che andava tutto bene. Che erano di nuovo insieme e le cose si sarebbero sistemate.

«Ehi» 

Una voce maschile la colse di sorpresa, facendola sobbalzare. Vicino alla porta, impeccabile nel suo cappotto grigio, c’era James.

La raggiunse con pochi passi e le rivolse uno sguardo preoccupato. «Come stai? Hai a malapena toccato il cibo».

Mila abbassò lo sguardo, cercando le parole. Come poteva dargli una risposta quando neanche lei sapeva bene come si sentiva?

Sospirò e quando rialzò gli occhi, James la anticipò, parlando per primo. «Si tratta di Nathaniel, vero?»

La ragazza sgranò gli occhi e si sentì come una bambina colta mentre fa qualcosa di vietato.

«È da quando lo abbiamo incontrato che ti vedo distratta. All’inizio pensavo che stessi avendo un’altra… “crisi” e ti ho tenuta sotto controllo».

«E cosa hai visto?» chiese lei, come se fosse la prima ad avere bisogno di quelle risposte.

James scosse il capo. «Insomma, andare in quel quartiere pericoloso solo per parlare con un cliente? Non mi sembrava da te. E l’impegno che hai messo per la borsa di studio? Diciamo che ho fatto due più due».

Mila si strinse le braccia al petto, a disagio. «Mi dispiace, James».

Lui fece una risata imbarazzata. «E di cosa?»

La ragazza si sistemò nervosamente i capelli dietro alle orecchie e lo guardò, mentre sentiva una morsa artigliarle il petto.

«Tu sei stato fantastico con me. Non so dove sarei ora se non mi avessi aiutata a risollevarmi».

James allungò una mano — non senza una leggera esitazione — e le sfiorò il volto con dolcezza. «Non ho fatto nulla di speciale, Mila. Ho visto la luce dentro di te e ti ho aiutata a farla risplendere».

Lei socchiuse gli occhi, cullandosi nella piacevole sensazione del palmo caldo a contatto con il suo volto.

«Non si può comandare al cuore» aggiunse l’uomo.

«Credevo di esserne capace» mormorò lei. «Credevo di poter accendere e spegnere i miei sentimenti a piacimento».

James le sorrise e ritrasse la mano. «Noi siamo la coppia perfetta, Mila, ma la vita non è fatta di perfezione».

«Di cosa è fatta allora?» gli chiese in tono supplicante. L’uomo aveva quell’aria rassicurante di una persona in pace con la propria coscienza. Questo suo animo pacifico era ciò che aveva attratto Mila all’inizio, perché James aveva sempre avuto quell’equilibrio che mancava a lei.

«Di ciò che ti fa battere il cuore» le rispose con un sorriso. «Ti voglio bene, Mila, ma credo sia ormai chiaro che vogliamo due cose diverse nella vita».

Lei annuì. James aveva alcuni anni più di lei ed entrambi sapevano di trovarsi in fasi diverse della propria esistenza. Lui era maturo, solido, pronto ad iniziare una famiglia, mentre la ragazza era ancora fragile e alla ricerca di se stessa. L’unico modo in cui avrebbero potuto funzionare era lasciare uno dei due incompleto, a metà.

«Non piangere».

Le parole di James le fecero notare le lacrime che stavano scendendo dai suoi occhi. Le sfregò velocemente.

«Va’ da lui».

Mila lo fissò con gli occhi sgranati e l’uomo le sorrise ancora. «Va’. Inventerò una scusa per gli altri».

La ragazza esitò un istante, poi si gettò in avanti e lo abbracciò. Lo ringraziò con un sussurrò, inspirando il suo profumo per quella che poteva essere l’ultima volta. Gli lasciò un ultimo bacio sulla guancia e scivolò via.

 

 

Mentre era in taxi, si ripeté mentalmente il discorso, finendo solo per confondersi e agitarsi, senza riuscire a schiarire la mente. Per la prima volta da tanto tempo, aveva qualcosa da perdere e questo la faceva sentire terrorizzata e allo stesso tempo viva, libera.

Improvvisamente si rese conto di quanto fosse stata grigia la sua vita fino a quel momento, di quanto desiderasse stravolgere tutto, riprendere il controllo della propria esistenza e riempirla di colore. Si era trascinata per anni nell’inerzia, comportandosi bene, facendo la brava come le veniva ripetuto fin da quando bambina, ma non era mai stata felice come quando aveva rotto le regole. Come quando Nate era stato suo e lei era non era appartenuta a nessun altro. E non vedeva l’ora di sentirsi ancora in quel modo. Nate aveva sconvolto il suo mondo e, quando si erano separati, lei aveva creduto di poter tornare ad una vita stabile. Nulla di più sbagliato. La vita instabile era quella che viveva da quando era nata, tra i suoi genitori distanti e un ambiente in cui non si era mai sentita veramente a suo agio. Nate le aveva aperto gli occhi, rendendo impossibile tornare indietro.

Quando l’auto si fermò davanti al condominio, Mila allungò una banconota all’autista e scese senza aspettare il resto. Trovò il portone d’ingresso aperto e volò su per le scale, fino alla porta giusta, a cui bussò ripetutamente. Il cuore le batteva forte nel petto, quasi volesse uscirne. Lo sentiva rimbombare in ogni angolo del corpo e si sentiva sul punto di scoppiare.

Quando la porta si aprì, prese un respiro profondo, imponendosi di stare calma. Sulla soglia comparve Mike, con i capelli biondi raccolti in una coda disordinata e lo sguardo assonnato. Non appena l’ebbe messa a fuoco, i suoi occhi si sgranarono, poi un sorriso gli si dipinse sul viso.

«Mila, quanto tempo!» la salutò.

Lei ricambiò il saluto sorridendo, senza riuscire a nascondere un certo nervosismo. 

«C’è Nate?» chiese poi.

Lui annuì e fece un cenno con il capo. «Sì, dev’essere in camera sua…»

Mila non lo lasciò finire, ma scivolò all’interno. «Devo parlargli» si giustificò.

«È la prima porta sulla sinistra…»

La ragazza smise di ascoltarlo. Spalancò la porta che conduceva alle camere, poi se la richiuse alle spalle, lasciando Mike nel salotto. Bussò sulla porta che le era stata indicata e sentì qualcuno muoversi all’interno, ma nessuno venne ad aprire. L’acqua della doccia stava scorrendo e Mila immaginò si trattasse di Jay. Almeno non avrebbe sentito la sua conversazione confusa e delirante.

Batté nuovamente il pugno sulla porta, senza ottenere alcun risultato.

«Nate, sono io» disse infine. «Sono Mila».

Si morse le labbra, in attesa, nervosa. 

«Se non mi vuoi parlare, io lo capisco. Insomma, sono piombata in casa tua in un sabato sera a quest’ora e so di non essere la persona più gradita qui».

Si interruppe, fece un passo verso la porta, poi arretrò di nuovo, spaventata. L’acqua continuava a scorrere nel bagno poco distante. Dalla stanza di Nate sentì un rumore di passi che si avvicinavano alla porta e che si fermarono prima di aprirla.

«Voglio solo che tu sappia che, due anni fa, ti ho lasciato partire da solo perché sono una codarda, non perché non ti amassi». Si interruppe prendendo alcuni respiri rapidi. Si sentiva senza fiato. «Il mio cuore scoppiava di amore per te, Nate, ma ho avuto così tanta paura da credere di non meritare una vita al tuo fianco. Pensavo che ti avrei dimenticato, che fuggire con te fosse un sogno così ridicolo, da coltivare solo nella mia fantasia e non immaginare nella realtà».

Prese un respiro profondo, deglutendo il nodo che dolorosamente le attanagliava la gola.

«Non posso cancellare quello che ho fatto e non ho idea di come tu ti senta riguardo a me ora. Sappi che nessuno mi ha mai fatto battere il cuore come sai fare tu e non credo ci sia in me la capacità di dimenticarti. Sei impresso in ogni parte della mia anima e del mio corpo. Non riesco — e non voglio — lasciarti andare. Se senti ancora un briciolo di quello che provavi per me, voglio che tu sappia che io sono qui per chiederti una seconda possibilità. Voglio provarci di nuovo e voglio farlo sul serio».

Un moto di coraggio le attraversò il petto, animandola all’improvviso. Fece un passo avanti e poggiò la mano sulla maniglia. Non voleva aprire la porta, ma la maniglia doveva essere difettosa perché scattò non appena la ebbe sfiorata.

La porta le si aprì davanti, rivelandole una scena che non si sarebbe aspettata. Di fonte a lei, a malapena coperta da una T-shirt e con le lunghe gambe nude, stava Alison.

Mila arretrò mortificata, con gli occhi fissi su quelli sorpresi dell’altra, e si rese conto in quel momento che l’acqua della doccia si era fermata. Infatti la porta del bagno si aprì subito dopo e ne emerse Nate, con solo un asciugamano legato in vita e i capelli umidi che gli cadevano sulla fronte. Fece saltare lo sguardo tra le due ragazze, poi sorrise sornione. «Ehi Mila, sei venuta per unirti a noi?»

Lei trattenne il respiro. Dalla voce biascicata capì che era completamente sbronzo. I suoi occhi erano traballanti, il volto arrossato. 

Nate le passò un braccio sulle spalle e le fece l’occhiolino. «Ti devo che la nostra è una relazione chiusa, posso offrirti il divano se vuoi».

La ragazza se lo scrollò di dosso, lanciò un ultimo sguardo terrorizzato ad Alison, poi scappò via.

 

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Capitolo 20
*** I finalisti ***



I finalisti
 

Sbuffando, Jay fece correre lo sguardo per il negozio, tra le videocamere e gli smartphone, fino a fermarlo sul grande orologio che occupava un’intera parete.

Erano le undici di mattina, nessun cliente in vista e l’unico impegno della giornata sarebbe stata una consegna nel pomeriggio.

Aprì la casella delle mail, ma per la sua abitudine a evitare ogni genere di procrastinazione, aveva già risposto a tutte ed eliminato la spam.

Si lasciò cadere sullo scomodo sgabello posizionato dietro alla cassa, ponderando le sue opzioni. Poteva spolverare? Abbassò il capo fino al livello del bancone e vide che solo pochi granelli di polvere lo inquinavano. No, si era già occupato anche di quello. 

Lanciò un’occhiata al suo cellulare, che aveva lasciato a fianco della cassa e pensò che fosse arrivato il momento di fare ciò che stava rimandando da quella mattina.

Lo prese, cercò il contatto di Mike e avviò la chiamata. L’amico gli rispose in tono amichevole e gli chiese come stava. Jay era uscito presto per andare al lavoro e non avevano avuto modo di incrociarsi.

«Bene, sai perché ti chiamo?»

Mike esitò. «Non lo so, Jay, è un indovinello?»

«No, era un tentativo di considerarti dotato di più intelletto rispetto alla realtà. Riguarda sabato sera. Sai cos’è successo».

Dall’altro capo gli rispose silenzio, così Jay proseguì. «Quando Mila si è messa a dichiarare il suo amore per Nate ero in camera mia e ho sentito tutto. Se ti conosco abbastanza — ed è così — immagino che tu abbia origliato tutto, vero?»

Mike gli rispose con un mugugno imbarazzato, che confermò le sue parole.

«Voglio solo assicurarmi che siamo entrambi sulla stessa lunghezza d’onda» riprese Jay. «Ovvero, Nate non deve sapere nulla di quello che è successo».

«Perché?» chiese l’altro timidamente.

Jay strabuzzò gli occhi, anche se non poteva essere visto. «Perché?» ripeté calcando bene la lettere. «Non dovrei neanche spiegartelo. Ti ricordi in che condizioni è stato fino a poco tempo fa?»

«Certo» bofonchiò l’altro, «ma non credi sia giusto dirgli la verità?»

«No» replicò categorico. «Le parole di Mila possono significare una promessa come anche un sentimento passeggero. Magari il suo rapporto è in crisi e crede che tornare con Nate sia la soluzione, magari era ubriaca, magari… che ne so, Mike, quello che so è che non possiamo affidare il benessere del nostro migliore amico ad una persona che potrebbe distruggerlo definitivamente».

Jay prese un respiro profondo. Non ce l’aveva con Mila, almeno non per la sua confessione di sabato sera. Ma aveva trascorso gli ultimi due anni della sua vita tenendo d’occhio Nate per evitargli di cadere in un baratro troppo profondo da cui sarebbe stato impossibile farlo uscire. All’inizio erano state le sbronze ogni sera che avevano tenuto compagnia a tutti loro per il primo periodo del trasferimento. Ben presto, però, Nate aveva avuto l’illuminazione: Mila non lo aveva voluto perché era troppo instabile per la sua vita perfetta, quindi anche lui doveva diventare una persona migliore. Niente alcol, niente sigarette, niente ragazze, niente feste, niente che potesse anche solo sembrare illegale. 

Aveva cominciato a lavorare otto, dieci, dodici ore al giorno, si era iscritto al college serale e passava i fine settimana chiuso in camera sua a studiare. Jay e Mike stentavano a riconoscere in lui il loro vecchio amico. La sua salute mentale aveva cominciato ad accusare i colpi dopo qualche mese, quando un ragazzo del suo corso gli aveva fatto provare alcune pillole medicinali miracolose. Con quella botta extra di energia Nate aveva continuato indisturbato la propria vita, fino a che Jay e Mike lo aveva convinto a vedere qualcuno e a smettere prima di sviluppare una dipendenza ben più grave. Nate era andato dallo psicologo per un paio di mesi, ma alla fine aveva abbandonato anche quello. Senza le pillole, senza una grande motivazione interiore, era tornato alla propria vita con un senso di tristezza sempre addosso.

E, nonostante il Devil Wheels e il licenziamento, Jay era convinto che insieme ad Alison il ragazzo avrebbe ricominciato a vivere la vita come una persona normale, felice e sana. Forse non avrebbe provato quell’amore bruciante che aveva vissuto in passato, ma così si sarebbe anche risparmiato le brutte scottature che ancora si portava dentro.

Eppure, Mila, in modo improvviso come la prima volta, era ripiombata nelle loro vite. Jay le aveva sempre riservato uno sguardo bieco perché non aveva mai capito quale fosse la vera priorità della ragazza: se stessa o Nate? Era convinto che i due si fossero incontrati per uno strano scherzo del caso, perché il destino non avrebbe potuto giocare loro un tiro così crudele. Il loro era stato un incontro fortuito e sarebbe dovuto rimanere solo un contatto di superficie, per il bene di entrambi. Ma Nate non era fatto così, nulla lo appassionava come le cose difficili. E così quel contatto di superficie era diventato un rapporto. Troppo fragile per poter sopravvivere. Troppo desiderato per avere fine. E, più si approfondiva con il tempo, più piantava le sue radici avvelenate nel cuore di entrambi.

Dall’altro capo della cornetta, Mike riprese a parlare. «E se Nate ha sentito qualcosa?»

«Ho parlato con lui ieri mattina. Mi ha detto di aver fatto un sogno strano, che Mila si fosse presentata a casa. Poi si è messo a ridere. Hai capito Mike? Ormai riesce a nominarla senza scoppiare in lacrime o cadere in uno stato depressivo».

L’altro non rispose subito. Ci fu un istante di silenzio, poi Jay udì un respiro. «Hai ragione» disse Mike, «come al solito, hai sempre ragione».

 

***

 

Non appena mise piede nel campus buio, Mila fu assalita dal desiderio di girare i tacchi e andarsene. Indugiò, sul limitare della strada che conduceva all’edificio principale dell’università. Lì si teneva l’evento quella sera e la ragazza riusciva a scorgerne la sagoma massiccia al di là degli alberi che decoravano il parco.

Erano passati alcuni giorni da quando si era precipitata davanti alla porta di Nate per supplicarlo di avere un’altra possibilità, ma tante cose erano cambiate. Il suo rapporto con James, prima di tutto. L’uomo le aveva detto che poteva rimanere nell’appartamento che condividevano — ma che di fatto lui pagava. Mila sapeva che la situazione si sarebbe fatta imbarazzante, così aveva preferito ringraziarlo e trovarsi un’altra sistemazione. Da qualche notte dormiva in un piccolo albergo che aveva trovato dopo una lunga e faticosa ricerca su internet. Non voleva usare il conto cointestato dei  suoi genitori, dato che non era pronta ad affrontare la loro reazione alla rottura con James, quindi si era dovuta accontentare di ciò che poteva permettersi con il suo stipendio: una stanza malamente arredata a quaranta minuti dall’ufficio. Quando era entrata per la prima volta e aveva posato lo sguardo sulla carta da parati a fiori non più di moda da parecchi decenni, si era sentita bene. Libera, finalmente.

«Posso aiutarla, signorina?» 

Un uomo, elegantemente vestito, era comparso al suo fianco e la scrutava con aria perplessa. Mila realizzò che era rimasta impalata sulla strada per più tempo del dovuto, così lo ringraziò, ma riprese a camminare per conto proprio.

Raggiunse l’edificio principale, le cui ampie finestre erano illuminate dalle dalla luce giallastra dell’interno. La ragazza alzò lo sguardo, fino a vedere dove le tegole della costruzione lasciavano spazio al nero del cielo. Prese un respiro profondo e si incamminò all’interno.

Il professor Thomson aveva chiamato i suoi genitori due giorni prima per invitarli a quella serata in cui avrebbero annunciato i dieci ragazzi che sarebbero passati alla fase finale per l’assegnazione della borsa di studio. 

Mila sapeva che i suoi sarebbero arrivati in anticipo. Non si sarebbero mai sottratti da uno sfoggio gratuito della loro attitudine ai gesti caritatevoli. Solo a pensare ai loro volti tronfi, mentre si fingevano modesti e declinavano ogni complimento, alla ragazza veniva la nausea. Capì come si sentiva Nate quando veniva guardato con pietà. 

Soprappensiero, si immerse nel corridoio che conduceva alla sala dell’evento. Lo attraversò rapidamente, con i tacchi che affondavano nel tappeto scarlatto. Non era una tipa da tacchi, ma qualcosa l’aveva spinta ad indossarli prima di uscire dall’albergo. Si era guardata allo specchio e, con quei centimetri aggiuntivi e la figura più slanciata, le era parso di essere più grande, più matura, più donna.

Forse, però, se non avesse indossato i tacchi sarebbe riuscita a muoversi con più agilità quando qualcuno si mosse all’improvviso staccandosi dal bordo del corridoio per portarsi al centro. Mila si scontrò con la sua schiena, ma quello fu rapido nel voltarsi e afferrarla al volo per le spalle per non farla cadere.

«Oh, gr…» le parole le morirono in gola quando riconobbe il volto di Nate. Il ragazzo indossava un elegante dolcevita nero e dei pantaloni grigio scuro.

Le labbra di lui si aprirono in un ampio sorriso. «Ehi Mila» la salutò allegro, «scommetto che non mi avevi riconosciuto». I suoi occhi si abbassarono per farle notare il proprio abbigliamento.

Lei si sistemò nervosamente i capelli dietro alle orecchie. «Stai bene, sei elegante».

Nate tornò a guardarla, senza smettere di sorridere. «Grazie, li hai scelti Alison».

Solo in quel momento, Mila notò la figura bionda che se ne stava alle spalle del ragazzo. Gli occhi dell’altra la stavano trafiggendo, glaciali.

«Devo…» si ritrovò improvvisamente senza parole. Nate pareva tranquillo, spensierato. Mila esitò. Veramente non aveva sentito nulla sabato sera? Deglutì e sparò la prima scusa che le venne in testa per sottrarsi a quelle due paia di occhi: «Devo trovare i miei genitori».

Scivolò via, sul tappeto, questa volta cercando di fare attenzione a non scontrarsi con nessuno.

Entrò nella sala dell’evento, uno spazio ampio, occupato da una platea di poltroncine scarlatte che si rivolgevano ad un palcoscenico rialzato. La sala era piuttosto affollata, ma poche persone se ne stavano sedute, mentre la maggior parte chiacchierava nei corridoi o davanti al palco.

Come aveva previsto, i suoi genitori se ne stavano al centro della sala circondati da una comitiva di persone semisconosciute. Suo padre stava raccontando qualcosa di particolarmente appassionante, a giudicare dagli sguardi di chi ascoltava, e poco distante sua madre stava facendo ridere un campanello di persone. 

Mila si spostò in un angolo particolarmente affollato e prese posto su una delle poltroncine, cercando di scomparire. Come se qualcuno stesse agendo contro di lei, la folla si diradò in fretta, rendendola un bersaglio troppo facile per gli occhi rapaci di Philip Barnes. Suo padre la intercettò e la ragazza non poté fare altro che assumere un’espressione sorpresa, come se non lo avesse ancora notato.

«Dov’è James?» le chiese l’uomo dopo averla salutata.

La ragazza deglutì. «È impegnato… per il lavoro. Mi ha detto di salutarvi».

«Oh, peccato» commentò l’uomo. Scambiò due parole con lei, ma presto la sua piccola folla sentiva la mancanza dell’oratore e il signor Barnes si allontanò di nuovo, lasciandola sola.

Qualche minuto dopo, una voce femminile annunciò che l’evento stava per iniziare e chiedeva ai presenti di prendere posto. Mila vide Nate e Alison entrare dalla porta sul retro della sala, stringendosi la mano, e raggiungere le prime file, dove c’erano le poltrone riservate ai candidati.

La serata fu noiosa e istituzionale. Intervennero i precedenti vincitori della borsa Thomson, altri professori dell’università e, finalmente, quando gli occhi di quasi tutta la platea si stavano chiudendo, la presentatrice disse che avrebbe chiamato sul palco i cinque finalisti per la borsa di studio.

Per primo chiamò un nome dal sentore slavo, e una ragazza bionda e pallida si alzò dalla prima fila per raggiungere il professor Thomson che sedeva sul palcoscenico. Dopo di lei venne chiamato un ragazzo alto e sottile come uno stecco e poi un altro ragazzo dai tratti latini. Mila sporse in avanti, in tensione. Erano rimasti solo due posti disponibili e sette candidati.

La presentatrice fece scorrere gli occhi sul foglio che teneva in mano, poi li rialzò sulla platea e con un sorriso chiamò: «Nathaniel Winchester».

Mila si mise ad applaudire con forza insieme al resto del pubblico e vide i suoi genitori alzarsi in piedi per stringere la mano a Nate. Il ragazzo ricambiò la stretta, pronunciando qualche parola che lei non riuscì a cogliere da quella distanza. Con il cuore pieno di gioia, lo guardò salire sul palco, imbarazzato ma allo stesso tempo incapace di togliersi quel sorriso sfacciato dalla faccia.

Strinse la mano al professor Thomson e lo ringraziò, prima che la presentatrice passasse ad annunciare l’ultimo finalista.

Dopo aver chiamato i cinque nomi, le luci della sala si riaccesero e la gente cominciò ad alzarsi in piedi e a spostarsi all’esterno.

Anche Mila si alzò, per andare da Nate e congratularsi. Cercò con lo sguardo il ragazzo e lo vide scendere dal palco e raggiungere Alison. Lei lo attendeva con le braccia aperta e, quando l’ebbe raggiunta, lo attirò a sé stampandogli un bacio sulle labbra.

Mila sentì una morsa chiuderle lo stomaco e un improvviso senso di nausea l’assalì. Si impose di rimanere impassibile. Aspettò che Alison si allontanasse — forse per andare in bagno — prima di avvicinarsi a sua volta a Nate. Anche se si trovavano in una sala piena di persone, lo sguardo che la bionda le aveva rivolto prima pareva una promessa di omicidio, e lei voleva evitare di incrociarlo ancora. 

Quando lo raggiunse, Nate stava stringendo le mani ad alcune persone del pubblico che si erano avvicinate per congratularsi con lui. A chi non lo conoscesse, poteva apparire disinvolto mentre ringraziava e salutava la gente, ma Mila colse un un senso di disagio che traspariva dalla rigidità dei suoi movimenti o dal suo sorriso statico.

Finalmente riuscì ad avvicinarsi a lui e, non appena la vide, il volto di Nate di animò. La prese per un braccio, avvicinandola a sé, e mormorò: «Ti prego, portami via da qui».

Mila sorrise. «Ho visto un’uscita secondaria appena fuori dalla sala».

«Andiamo. Scrivo ad Alison che l’aspetterò fuori».

Scivolarono tra le persone e, non appena usciti dalla sala, raggiunsero in una scalinata scura che scendeva verso l’atrio. Le luci erano spente e Mila usò la torcia del cellulare per non inciampare.

«Non ti piace essere al centro della folla?» domandò al ragazzo, che camminava accanto a lei con lo sguardo rivolto verso il basso per non mancare i gradini.

«Non questa folla» replicò lui. «Mi sentivo come se potessero smascherarmi da un momento all’altro».

Mila si bloccò e gli puntò la torcia contro. Lui imprecò, socchiudendo gli occhi e cercando di schermarsi con le mani.

«Smascherarti in che senso?» gli chiese. «Come la persona brillante che sei? Perché è questo il motivo che ti ha fatto arrivare tra i finalisti per la borsa di studio».

Nate non rispose e, per evitare che il silenzio si fece imbarazzante, Mila riprese a camminare.

Raggiunsero l’atrio dell’edificio e poi si infilarono all’esterno, nell’aria fredda e scura della notte.

Altre persone uscivano come loro dal grande portone e si disperdevano per i viali del campus. 

Mila e Nate si fermarono in un angolo flebilmente illuminato dalle luci dei lampioni. La ragazza pensò che se voleva sfuggire allo sguardo assassino di Alison, forse rimanere da sola con il suo ragazzo non era stata la scelta migliore. 

“Ma ormai è troppo tardi” pensò, guardando Nate che respirava profondamente al suo fianco. La tensione che aveva manifestato nella sala pareva averlo abbandonato, lasciando il posto ad un’aria rilassata, tranquilla. Quella sera le pareva così bello da farle male. I capelli scuri erano ben pettinati, lasciando intatti i morbidi ricci naturali che gli contornavano il volto sereno.

All’improvviso si voltò verso di lei e la fissò negli occhi. «Stai bene?»

Lei si sentì avvampare, sotto quello sguardo così rapidamente posato su di lei. «Certo, perché?»

Il ragazzo si strinse nelle spalle. «Mi sembravi strana prima». Si guardò attorno, controllò il cellulare, poi tornò con gli occhi su di lei. «James non c’è?»

La scusa che aveva rifilato ai suoi genitori era sulla punta della sua lingua, ma qualcosa la trattenne. Non era forse il caso di dire la verità a Nate? E se questo avesse risvegliato i ricordi di sabato sera? 

Esitò, sotto lo sguardo interrogativo di lui, ma prima che potesse decidersi sentì una voce chiamarla. Si voltò e vide sua madre che le andava incontro. 

«Che ne dici di tornare a casa con noi?» le chiese la donna.

Mila scosse il capo, ma con la coda dell’occhio notò Alison che usciva dal portone dell’edificio. 

«Vi accompagno, ma chiamo un altro taxi, così siamo più comodi» si affrettò ad aggiungere.

Si girò per salutare Nate. Lui la stava guardando con un’espressione indecifrabile. Mila lo salutò con la mano e lui ricambiò, prima che Alison si intromettesse nel loro campo visivo.

Mila si affrettò a raggiungere i genitori per allontanarsi con loro.

 


Ciao!
Mi dispiace aggiornare questa storia così sporadicamente, ma purtroppo il tempo per la scrittura non è mai abbastanza e ultimamente anche l'ispirazione sembra più scarsa del solito. Non so se ci sia ancora qualcuno a seguire questa storia, ma se sei arrivat* fin qui, grazie per essere passat*! Se hai voglia, fammi sapere cosa ne pensi :)
Alla prossima,
M. 

 

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Capitolo 21
*** Tradimento ***



Tradimento
 


Il rumore meccanico della macchina da cucire riempiva la piccola stanza. Dalla finestrella nella parte alta della parete si vedeva un cielo sempre più scuro, ma all’interno le luci erano talmente luminose da far perdere la concezione del tempo.

Alison si accorse che si era fatto tardi quando il suo capo, una donna alta e sottile, con una crocchia di capelli grigi sulla testa, fece capolino nella stanza per dirle che poteva andare a casa.

La ragazza ringraziò e finì di cucire la stoffa che aveva tra le mani. Poi controllò che andasse bene e la ripose nel baule accanto alla sua postazione di lavoro. Non era l’unica stagista in quel momento, ma era l’unica che si tratteneva oltre l’orario prestabilito, la maggior parte delle volte perché si immergeva a tal punto nel lavoro da dimenticarsi di controllare l’ora.

Lanciò un’occhiata al cellulare e pensò che, se non si fosse affrettata, Richie l’avrebbe ammazzata. Non mancava molto all’inizio del suo turno al Venus

Riordinò la propria postazione, salutò la proprietaria della boutique e corse verso la propria auto.

Il sole era tramontato alle sue spalle, ma dei rimasugli di colore vivacizzavano l’ovest, mentre dalla parte opposta si stava alzando il velo blu della notte.

Mentre guidava, provò a chiamare Nate. Non lo sentiva dalla sera al campus universitario perché erano stati entrambi impegnati. Il cellulare squillò a vuoto, ma nessuno rispose. Riprovò un altro paio di volte, prima di arrendersi. Nelle ultime settimane era cambiato, si era fatto più affettuoso e presente, ma ogni tanto gli capitava ancora di sparire per qualche ora perché si addormentava o perché si distraeva insieme a Jay o Mike. Almeno era sicura che non fosse con quella ragazzina mora. Sapeva che Nate non aveva sentito nulla di quella confessione d’amore strappalacrime e alla serata al campus, quando aveva incrociato lo sguardo della ragazzina, l’aveva vista spaventata e consapevole della propria sconfitta. Eppure ancora ronzava intorno al suo ragazzo. 

Alison cercò di scacciare il fastidio che quella le provocava. Nel frattempo aveva raggiunto la sua destinazione, così lasciò l’auto nel parcheggio sul retro, quello per i dipendenti. Non appena fu scesa, notò due strane figure sotto ad uno dei lampioni del parcheggio. Strizzò gli occhi e riconobbe il volto tatuato di Skull, uno dei corridori del Devil’s Wheels, insieme a un suo collaboratore.

«Questo parcheggio è riservato ai dipendenti» gridò, dirigendosi verso l’ingresso.

«Lo sappiamo, dolcezza» ribatté Skull, «è per questo che siamo qui».

Alison si fermò e gli scoccò un’occhiata inquisitoria. Sapeva che non le avrebbero fatto nulla — sarebbe stato un affronto troppo diretto a Richie, dato che si trovavano dietro al suo locale — ma non riusciva a capire cosa ci facessero lì.

«Cosa volete?» chiese, mentre i due si avvicinavano lentamente.

«Sei la ragazza di Winchester?» le chiese quello che non conosceva, più basso e tozzo rispetto all’altro.

«Se anche lo fossi, non sarebbero affari vostri. E non avete risposto alla mia domanda».

«La nostra risposta dipende dalla tua risposta, dolcezza» ribatté Skull in tono melenso.

Alison lo fissò nei suoi occhi contornati dall’inchiostro. «Cosa intendi dire?»

Le labbra di lui si piegarono in una smorfia che voleva essere un sorriso. «Winchester è il nostro avversario nella corsa, immagino che la sua ragazza non voglia dare via informazioni che potrebbero danneggiarlo».

Non rispose, ma lo fissò in silenzio. 

«Vedi, se hai qualcosa che potrebbe esserci utile, siamo pronti a ricompensarti. Altrimenti, sarà come se non ci avessi mai visti».

Alison sbuffò e, scuotendo il capo, si diresse verso l’ingresso del locale. Aveva già perso abbastanza tempo. Stava per raggiungere la porta, quando un pensiero la colpì, rapido e pungente. Si bloccò. Non si voltò subito, ma contemplò l’idea nella propria mente per qualche secondo. Poteva davvero farlo? Il tempo scorreva e presto sarebbe stato troppo tardi.

«Aspettate!» gridò, voltandosi verso i due uomini. «Forse posso aiutarvi».

 

 

 

 

Il momento dell’ultima gara era arrivato. Richie e Ross, nello studio del primo, avevano un’espressione tesa mentre se ne stavano ricurvi sulla cartina stradale aperta sulla scrivania.

Al contrario, Nate li seguiva con un’espressione tranquilla e rilassata. Era ormai sopravvissuto alle corse precedenti e si sentiva positivo riguardo all’ultima. Era una sensazione così nuova per lui, da esserne quasi spaventato. 

Sapeva che gli altri due avevano dei buoni motivi per il loro nervosismo — il punteggio era ancora basso a causa del guasto che gli aveva fatto perdere una corsa — ma grazie alla rimonta delle due sfide successive poteva puntare al primo posto, se tutto fosse andato per il verso giusto.

Finirono di commentare gli ultimi dettagli tecnici, poi si spostarono tutti insieme — Richie al volante, Ross al suo fianco, Nate e Alison dietro — verso il luogo della gara, un ampio spazio in mezzo al nulla. 

La macchina di Nate era già lì quando arrivarono, sistemata su una collinetta sopraelevata rispetto alla punto della partenza.

Erano rimasti in pochi ormai a gareggiare, ma la folla di spettatori non era diminuita. Sparsi qua e là tra gli alberi e la strada rovinata, un centinaio di persone attendevano la partenza.

Richie aprì il baule della propria auto e pescò da un minifrigo una birra per Nate – «Per allentare la tensione» –, ma Ross fu più rapido di lui ad afferrarla – «Devi rimanere lucido».

Di fronte alla sua espressione delusa, Nate vide Alison ridacchiare, ma non ebbe tempo di ribattere, perché sentì il suo cellulare vibrare nella tasca dei jeans.

«Quello dovrebbe essere spento» brontolò Ross, ma, dato che mancava ancora qualche minuto alla gara, Nate decise di rispondere.

«Scusa se ti disturbo» gli rispose una voce maschile. «Sono James, Mila è con te?»

Nate corrugò la fronte. «No, dovrebbe?»

Mila lo aveva usato come scusa per vedere qualcun altro? Avrebbe dovuto coprirla? Ponderò le opzioni, ma le scartò entrambe. Non era così stupida, se gli fosse servita una copertura glielo avrebbe detto. O forse non si aspettava che James lo avrebbe chiamato.

«Ieri non è rientrata al lavoro dopo pranzo e ho pensato che potesse essere con te».

Nate si allarmò. Non capiva perché avrebbe dovuto presupporlo.

«Magari è con un’amica» ipotizzò. Si accorse che gli altri intorno a lui si erano zittiti e stavano seguendo con interesse la conversazione. Richie pareva incuriosito dalla vicenda, Ross avrebbe voluto strappargli il telefono di mano e Alison lo scrutava con le sopracciglia sollevate in due archi perfetti.

«Me lo avrebbe detto. E non è da lei sparire dal lavoro senza avvisare».

«Hai ragione».

Il tono preoccupato di James cominciò ad avere effetto su di lui. Mila era la persona più responsabile che conoscesse. Non sarebbe mai scomparsa senza informare qualcuno. 

«Chi è stato l’ultimo a vederla?» chiese e cominciò a passeggiare avanti e indietro nel piccolo cerchio formato dagli altri tre.

«Il portinaio l’ha vista dirigersi verso il ristorante dove pranza spesso. Ma non è più tornata».

Nate strinse il pugno libero, poi lo rilassò e si guardò attorno, cercando di placare la sensazione di panico che si stava diffondendo dentro di lui. Ogni ipotesi che si presentava nella sua testa lo spaventava. Un moto di rabbia verso James lo afferrò prima che riuscisse a controllarlo. Perché non era riuscito a proteggerla? Perché era stato così sprovveduto?

«Non ti sei preoccupato quando non è tornata a casa ieri sera?»

Spostò lo sguardo su Alison e, con sua sorpresa, notò che la ragazza stava piangendo. Colpita dal suo sguardo, lei prese a tremare e le sue labbra farfugliarono parole di scuse.

«Aspetta» disse a James e scoccò un’occhiata confusa alla ragazza. Coprì il microfono del cellulare con una mano e lo allontanò

«Cosa significa?» chiese alla ragazza.

Lei cominciò a respirare a fatica, quasi singhiozzando. «Credevo che l’avrebbero solo spaventata… io non pensavo… non pensavo…».

Nate sentì che il suo autocontrollo stava per raggiungere il limite. Una vena prese a pulsagli sulla tempia.

«Che significa?» ringhiò. Ross si mise tra lui e la ragazza, bloccandolo con una mano sulla spalla. 

«Alison, che cosa hai fatto?» le chiese ancora. 

Lei tremava come una foglia e neanche la presenza di Ross parve rassicurarla. Si asciugò le lacrime con le dita.

«L’altro giorno Skull mi ha chiesto un modo per distrarti… gli ho detto che Mila era la tua ragazza, credevo che l’avrebbe spaventata…»

Ross si voltò a guardare la cugina. «Avresti compromesso la gara per questo?»

Lei scosse il capo e i capelli ondeggiarono davanti al suo volto come fronde di un salice piangente. Fissò gli occhi acquosi su Nate. «Non pensavo lo avresti saputo, credevo si sarebbe risolto in fretta e che lei non si sarebbe più fatta viva».

Il ragazzo era ormai assordato dal rombo del suo cuore nelle orecchie. «Però ti andava bene mettere in pericolo una ragazza innocente?»

Si sporse verso di lei, ma Richie lo afferrò per le spalle e lo costrinse a guardarlo negli occhi. «Conosco la zona di Skull, possiede un paio di appartamenti a nord-est. Adesso mando qualcuno a controllare, okay?»

Le sopracciglia cespugliose dell’uomo erano aggrottate mentre scrutava il suo volto, in attesa che si calmasse.

«Col cazzo» sbottò Nate. «Dammi l’indirizzo, ci vado subito».

Richie sbuffò e Ross emise un verso di frustrazione. «Pensa alla gara. Nessuno può correre al tuo posto».

«Ed è pericoloso. Lascia che mandi qualcuno dei miei» rincarò la dose l’omone barbuto, battendogli la mano sulla schiena con fare paterno. 

Nate se lo scrollò di dosso e fece un passo indietro. «Non mi importa un cazzo della gara, finché non so che Mila sta bene». Guardò Alison con il volto contorto in una smorfia. «Come hai potuto…»

Non riuscì a finire, perché Ross si mise davanti alla ragazza e Richie lo spinse senza troppa gentilezza per allontanarlo da lì.

«Seriamente, tu non sei un criminale» gli disse, premendo una mano tra le sue scapole. «I miei possono andare a dare un’occhiata».

Nate stava puntando verso la sua auto parcheggiata poco distante. Alzò gli occhi verso l’uomo. «Rick, io devo andare».

L’altro sospirò e alzò gli occhi al cielo. Spostò le sue braccia grassocce dietro la schiena e pescò una pistola dal retro dei pantaloni. Gliela mise in mano. «Sai usarla?»

Nate annuì, anche se non era sicuro che tirare alle lattine in un bosco contasse.

Richie gli spiegò come arrivare agli appartamenti di Skull e gli chiese ancora un paio di volte se fosse sicuro. Il ragazzo lo ascoltava annuendo, ma la sua mente era lontana. 

Si sentiva tradito da Alison, aveva abbassato la guardia e l’aveva accolta nella sua vita come non aveva fatto con nessuno da anni. Se lei lo avesse pugnalato, il suo cuore gli avrebbe fatto meno male, perché quella notte aveva dormito abbracciato a lei, senza sapere ciò che aveva fatto. 

Pensò a Mila. Mila che si nascondeva dietro la tenda dei suoi capelli scuri e la montatura ingombrante dei suoi occhiali, che arrossiva per ogni commento. Mila che, quando l’aveva accolto in casa sua, aveva tenuto per tutto il tempo lo sguardo basso, mordicchiandosi le labbra e che, quando l’aveva baciata per la prima volta, aveva rabbrividito, come se nessuno l’avesse mai vista fino a quel momento.

«Cerco di ritardarli» concluse Richie. Nate si stava già infilando nella sua auto, lanciò la pistola sul sedile del passeggero e partì accompagnato dal rombo del motore.

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Capitolo 22
*** Pericolo ***


 

Pericolo


Il muso dell’auto inghiottiva la strada scura e il paesaggio, fuori dai finestrini, era una macchia confusa. Nate guidava con il piede schiacciato sull’acceleratore e lo sguardo fisso davanti a sé.

La pistola, al suo fianco, emetteva un calore pulsante, come un essere vivo. Guidò in trance, pensando solo ad una cosa: salvare Mila.

Richie gli aveva parlato di due appartamenti che si trovavano in edifici diversi, uno di fronte all’altro. Skull e la sua banda li usavano principalmente per lo spaccio così che da uno si poteva sempre vedere l’altro per poterlo controllare, ma lui confidava nel buio della notte.

Raggiunse il quartiere e lasciò l’auto dietro a due bidoni della spazzatura. La strada era poco ampia e l’unico lampione che avrebbe potuto illuminarla era spento, circondato dai suoi vetri rotti.

I due palazzi, due parallelepipedi grigiastri, si fronteggiavano come due giganti di cemento.

Nate si avvicinò al primo dei due e, come immaginava, riuscì ad aprire la porta con una spallata ben assestata. Richie gli aveva spiegato che l’appartamento si trovava al terzo piano, così si mise a salire le scale. Teneva la mano destra nella tasca della felpa, stringendo il freddo metallo della pistola. Gli girava la testa e allo stesso tempo si sentiva lucido come non mai. I suoi sensi erano tesi, pronti a cogliere anche il più impercettibile sibilo.

Raggiunse l’appartamento, con il respiro pesante per la salita e si fermò di fronte alla porta giallo acido. Accostò l’orecchio. Sentiva delle voci provenire dall’interno, impossibile distinguere le parole. Sollevò la mano sinistra, chiusa in un pugno tremante, e bussò. D’istinto fece un passo indietro.

La porta si aprì, rivelando il volto di un uomo abbronzato, con i capelli rasati e le sopracciglia contornate di tatuaggi.

«Che vuoi?» gli domandò brusco.

Nate lo fissò, senza parlare. La figura dell’uomo occupava interamente lo spiraglio della porta aperta, rendendo impossibile vedere alcunché all’interno.

L’altro gli rivolse uno sguardo spazientito. «Ti serve qualcosa o no?»

Nate strinse la mano intorno alla pistola e deglutì. «Voglio comprare». Sentì la sua voce più flebile di quanto si aspettasse. «Mi hanno detto di venire qui».

L’uomo sbuffò. «Non potevi dirlo subito?». Lanciò un’occhiata al corridoio intorno a loro, poi aprì la porta quanto bastava per farlo passare.

Nate si infilò all’interno e si ritrovò in uno stanza avvolta dalla penombra e cosparsa da un velo di fumo. Da un lato, alcune figure parevano intente a lavorare intorno ad un tavolo, mentre di fronte a loro, sopra un divano, un paio di uomini fumavano stravaccati tra i cuscini. Mentre il ragazzo entrava, un’altra figura uscì da quello che doveva essere il bagno e andò a unirsi con gli strafatti sul divano. «Ehi» il tatuato che gli aveva aperto la porta riattirò la sua attenzione. «Quanta ne vuoi?»

Nate tolse la mano dalla felpa ed estrasse dai pantaloni il portafoglio. «Ho solo cinquanta dollari» disse, tendendo la banconota all’uomo.

Quello gli rivolse uno sguardo bieco sotto le sopracciglia scure. Prese la banconota e gli intimò di rimanere fermo dov’era. Si avvicinò agli uomini al tavolo e parlò per qualche istante con uno di loro. Poi prese un sacchetto e tornò da Nate.

«Eccoti» gli disse, ficcandoglielo in mano. «Ora sparisci».

Il ragazzo non se lo fece ripetere due volte e uscì dall’appartamento. Nessuna traccia di Mila. Raggiunse le scale camminando normalmente, poi si lanciò di sotto saltando i gradini a due a due. Attraversò di corsa l’ingresso e ritornò all’esterno.

Al posto di attraversare direttamente la strada per raggiungere il palazzo di fronte, decise di allontanarsi lungo il marciapiede – nel caso qualcuno si fosse preso la briga di controllarlo dalle finestre del quarto piano – e quando fu sicuro di essere fuori dalla loro portata, attraversò la strada e raggiunse l’altro palazzo.

Questa volta doveva salire fino al sesto piano. Aveva appena imboccato le scale, quando una vibrazione sulla sua gamba lo fece sussultare. Richie lo stava chiamando.

«Che c’è?» bisbigliò al cellulare, continuando a salire il più silenziosamente possibile.

«L’hai trovata?»

«Sono stato nel primo appartamento, nessuna traccia. Provo nel secondo».

Sentì l’omone grugnire. «Ho fatto circolare la voce di una soffiata alla polizia. Gli organizzatori hanno disperso i concorrenti per qualche decina di minuti, ma presto si accorgeranno che non ci sei».

«Lo so».

«Stai attento. Non sei costretto a fare l’eroe».

Nate chiuse la chiamata e rimise il cellulare nei jeans. In quel momento, il Devil Wheels era l’ultimo dei suoi problemi.

Nonostante assomigliasse al suo gemello all’esterno, i corridoi del palazzo in cui si trovava avevano un’aria più curata. Fuori dalle porte c’erano piante curate, tappetini puliti e portaombrelli. 

Il sesto piano appariva più trasandato rispetto ai precedenti. Nulla decorava le porte in legno scuro, né i campanelli erano sormontati da targhette con i nomi dei padroni di casa. Nate raggiunse l’appartamento che Richie gli aveva indicato, ma questa volta non udì nessuna voce provenire dall’interno.

Bussò alla porta e si spostò, per sottrarsi all’occhio indagatore del foro di vetro.

Udì un rumore di passi, poi alcune serrature che scattavano. Strinse la mano intorno alla pistola. Sulla soglia comparve un ometto basso e corpulento, con gli occhi cerchiati di occhiaie scure e l’aria di chi non chiude occhio da troppo tempo.

Li lanciò un’occhiata stanca. «Che c’è?»

Nate esitò. Non sentiva odori strani provenire dall’interno, né altri rumori. Spostò il dito sul grilletto e disse: «Mi manda Skull».

L’uomo lo scrutò, poi i suoi occhi si alzarono al cielo. «Finalmente quel cretino ha deciso di mandare qualcuno. Forza entra».

In modo più amichevole rispetto al suo collega del palazzo di fronte, l’uomo lo fece entrare. L’appartamento non era molto diverso dal precedente, ma ricordava un monolocale senza pretese. Sulla destra c’era tavolino rotondo, circondato da quattro sedie, mentre contro la parete era sistemato uno scaffale ricolmo di scatole. Nate fece un passo avanti, mentre sentiva la porta chiudersi alle sue spalle. Spostò lo sguardo sul lato sinistro della stanza e si sentì paralizzare.

Un altro uomo stava stravaccato su un divano e poco distante, seduta a terra con un polso ammanettato al termosifone, c’era Mila. La ragazza sedeva con un braccio sollevato, teneva il capo appoggiato alla parete e le gambe strette al petto. Indossava una camicetta bianca e dei pantaloni eleganti che portava al lavoro. Non appena lo riconobbe, i suoi occhi si sgranarono, ma Nate l’ammonì con uno sguardo a tacere.

«Guarda cosa ci hanno mandato» disse l’ometto avvicinandosi al suo compagno che sonnecchiava sul divano. Quello si raddrizzò, scoccando uno sguardo indagatore a Nate. Il ragazzo cercò di apparire disinvolto. Durante le corse non si era trattenuto a parlare con nessuno, difficilmente avrebbero potuto riconoscerlo. O almeno così cercò di convincersene.

«Solo uno?» brontolò quello sul divano. «E anche troppo magro per stare di guardia da solo».

«Ce la posso fare» disse Nate.

«Sì, sì» ridacchiò quello che gli aveva aperto. «Se poi scappa lo senti tu il capo».

Lui lanciò uno sguardo a Mila. «Come potrebbe scappare? Sono più grosso di lei ed è ammanettata».

«Non si sa mai cosa potrebbe inventarsi quella» commentò l’uomo sul divano.

«Magari ti sbatte le ciglia e non ci capisci più niente» rise l’altro.

Nate simulò una risata spontanea.

«Va be, io vado a farmi una dormita» commentò quello sul divano alzandosi in piedi. «Mi raccomando» aggiunse guardando Nate e il compare, poi si diresse verso la porta e uscì dall’appartamento.

L’ometto che era rimasto si lasciò cadere sul divano, dove i cuscini era ancora spiegazzati dal precedente occupante ed emise un sospiro stanco. I suoi occhi inquisitori si spostarono su Nate. «Cosa fai lì impalato? Mettiti comodo, tanto qui ci dovremo stare ore. Skull non ti ha avvisato?».

Il ragazzo fece un cenno di assenso con il capo e prese posto su una delle sedie intorno al tavolo rotondo. Mila stava tra di lui e l’altro uomo, sul divano. Alzò leggermente gli occhi verso Nate e lui si sentì spezzare il cuore. La ragazza era lì da più di ventiquattr’ore in quelle condizioni. Sentì la rabbia montargli dentro. Avrebbe solo voluto alzarsi e sparare quell’ometto tarchiato e ripugnante. Era abbastanza vicino da non sbagliare la mira e colpirlo direttamente in mezzo alla fronte.

Strinse la mano sulla pistola, ma prima che potesse fare altro, Mila parlò.

«Devo andare in bagno» disse, rivolta verso l’uomo sul divano. 

Quello alzò gli occhi al cielo e imprecò. «Quante cazzo di volte devono pisciare le donne in un giorno? Sei fortunata che sono un gentiluomo, se no ti avrei detto di fartela addosso già alla seconda volta».

Si alzò in piedi e frugò nelle sue tasche, poi ne estrasse una chiave con cui liberò il polso della ragazza dalle manette.

Nate si alzò dalla sedia e si avvicinò all’uomo, che non si scompose, come se fosse quello che si aspettava per tenerla maggiormente controllata mentre era libera.

«Non facciamo cazzate ora» proseguì l’uomo e, chiudendo la propria mano intorno al braccio di Mila, la trascinò verso il bagno. Nel farlo, dovette dare le spalle a Nate, che decise di non sprecare l’occasione: estrasse la pistola e con il calcio dell’arma colpì l’uomo alla nuca in modo deciso. Nel caso quel colpo non fosse stato sufficiente, Mila si voltò nello stesso istante e gli assestò sul volto un pugno ben piazzato. L’uomo crollò a terra privo di sensi.

«Dobbiamo andarcene» disse Nate. «Ce la fai? Da quanto non mangi? Vuoi che ti porti io?»

Lei scosse il capo. «Ce la faccio. Voglio solo uscire di qui».

Uscirono dall’appartamento, tenendo i sensi all’erta. Con una mano Nate stringeva quella della ragazza e con l’altra teneva la pistola lungo la gamba, pronto a nasconderla o a sollevarla in base a chi si sarebbe trovato di fronte.

Raggiunsero l’ingresso del palazzo, che pareva deserto, così si affrettarono ad abbandonarlo. Nate la guidò a ritroso attraverso il percorso più ombreggiato e tornarono all’auto. Si assicurò che Mila fosse all’interno prima di precipitarsi dall’altro lato e sedersi dietro al volante. Aveva appena messo in moto, quando il suo cellulare squillò. 

Era di nuovo Richie. «Sei ancora vivo?»

Nate mise in vivavoce e appoggiò il cellulare davanti al cambio. «Sì, Rick grazie per la fiducia».

Al suo fianco, Mila si appiattì contro il sedile e prese un respiro profondo. Avrebbe voluto chiederle come stava, se voleva parlargli, ma la voce agitata dell’omone si intromise: «Allora dove diavolo sei? Hanno capito che non c’è nessuna soffiata e la gara comincia tra dieci minuti. Sono già tutti in posizione».

«Sono troppo lontano» sospirò. «E devo portare Mila in un luogo sicuro».

«Nate, ragiona» Richie era teso, nervoso. I soldi che avrebbe perso erano parecchi. «Non puoi buttare via tutte le tue vittorie. Premi quel cazzo di acceleratore e vieni qui. Provo a trattenerli ancora, anche a costo di far stendere qualcuno davanti alle auto in partenza!»

Lui strinse i denti e lanciò uno sguardo fugace a Mila. Incrociò gli occhi cerchiati della ragazza. Lei gli mise una mano sul braccio. «Vai» gli sussurrò.

«Cosa vuoi dire?»
«Fai come ti ha detto. Andiamo alla gara. Mi riporterai a casa dopo, non voglio che tu sprechi quest’opportunità per me».

«Cazzo, no!» sbottò lui. «Non me ne frega di quella gara, Mila, voglio solo che tu stia bene».

Lei sorrise debolmente. «Ora sto bene, grazie a te. Andiamo a quella gara».

Il ragazzo strinse il volante al punto che le nocche gli divennero bianche. Puntò gli occhi sulla strada come se avesse potuto incenerirla. Si diede dello stupido, dell’idiota. Anche quando avrebbe voluto proteggerla, non aveva fatto altro che metterla in pericolo. Si trovò assalito dalle stesse sensazioni che aveva provato anni prima quando Mila lo cercava tra i suoi amici. Come un pesce fuor d’acqua, la ricordava camminare sulla spiaggia di notte, spaventata ma non per questo meno risoluta nella sua ricerca. Ogni volta che la vedeva vagare, il suo cuore si stringeva e un senso di tenerezza e protezione lo spingeva ad avvicinarsi a lei, prenderla sotto un braccio e giurare a se stesso che non avrebbe permesso a nessuno di farle del male. Ci aveva impiegato un po’ a capire che Mila era in grado di proteggersi da sé e ciò che la metteva più in pericolo era proprio lui. Per questo aveva sperato di poter ricominciare daccapo, insieme a lei, in una nuova città. E ora se la ritrovava terrorizzata nella sua auto. Non solo le cose non erano cambiate, erano anche precipitate.

Schiacciò l’acceleratore e l’auto fu slanciata in avanti sull’asfalto liscio

Richie lo chiamò ancora.

«Dove cazzo sei, Nate? Stanno per partire» tuonò la voce nell’altoparlante.

Il ragazzo strinse i denti. «Sto arrivando, mi mancano cinque minuti».

«Premi quel fottuto acceleratore, perché la gara sta iniziando. ORA»

Mila intervenne nella conversazione, sporgendosi verso il telefono. «Andremo direttamente alla posizione di partenza. È consentito gareggiare in due?»

Richie parve colto alla sprovvista da quella voce ed esitò, poi ripeté la domanda a qualcuno, forse Ross. 

«Sì, è consentito» riferì al telefono. «Quindi muovete il culo, tutti e due».

«Sei sicura?» chiese Nate.

Lei gli poggiò una mano sul braccio. «Mi fido di te».

L’auto rombò e improvvisamente, davanti a loro, comparvero i primi segnali della gara: gruppi di persone appostate sul bordo della strada, uomini che si portavano walkie-talkie alla bocca con aria guardinga, torce che tagliavano l’oscurità della notte come lame di luce.

Arrivarono alla partenza e si misero in coda, dietro alla fila di macchine già pronte a partire. Nate vide qualcuno protestare per il suo arrivo tardivo, ma uno degli organizzatori trattenne l’intruso e il rombo dei motori intorno a lui lo avvisò che era ora di partire.

Con la coda dell’occhio vide Mila aggrapparsi alla portiera, appena in tempo perché lui schiacciò l’acceleratore e si lanciò nella mischia delle auto in gara.

Il suo cuore tornò a battere all’impazzata, mentre cercava di farsi strada tra le auto intorno a loro. Per il bene di entrambi, cercò di dimenticarsi della presenza della ragazza al suo fianco e si sforzò di concentrarsi sulla gara. Una curva a gomito li sballottolò nell’abitacolo e per un pelo schivò un’auto che rischiava di colpirli. La preparazione della gara gli tornò alla memoria e si lasciò guidare dall’istinto. Accelerazione, freno, accelerazione, curva, accelerazione.

I suoi occhi erano inchiodati alla strada scura, i suoi sensi all’erta. 

Accelerazione, curva, accelerazione. Con una manovra brusca evitò un altro concorrente e lo superò, ma fu costretto a rallentare di nuovo per un’altra curva. Improvvisamente, davanti a loro, comparve il traguardo. Nate trattenne il fiato e schiacciò l’acceleratore a tavoletta.

 

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Capitolo 23
*** L'ultimo traguardo ***



L’ultimo traguardo 
 

Sulla scrivania di Richie c’era uno strato di polvere sottile ma abbastanza visibile perché si notasse anche quando fuori era buio e le luci della stanza erano accese. Quel pulviscolo impalpabile era tutto ciò su cui Nate riusciva a concentrare i suoi occhi e la sua mente.

Una volta tagliato il traguardo, aveva raggiunto Richie, che lo aveva convinto ad andare al Venus, quanto meno per assicurarsi che Mila non avesse bisogno di cure. Appena arrivati, infatti, l’avevano affidata a Britney, una delle ragazze che, prima di abbandonare l’università, aveva studiato per fare l’infermeria e le avevano lasciate in una stanzetta confortevole del piano terra, mentre Nate era stato trascinato all’ufficio al primo piano. 

Era crollato sulla poltrona di fronte alla scrivania esausto, senza forze. Si ricordò di avere la pistola nella felpa solo quando Richie gli chiese di restituirla. L’appoggiò sul legno polveroso e tornò con lo sguardo perso nel vuoto. Questo, fino a che Alison fece ingresso nel suo campo visivo, sedendosi sulla poltrona uguale alla sua poco distante, con Ross che si guardava attorno, assicurandosi che nessuno la toccasse. Nate si animò all’improvviso, sentendo di nuovo un dolore acuto che lo divorava dall’interno. Alzò gli occhi incandescenti verso Richie, in attesa di spiegazione.

L’omone, di fronte a lui, si strinse nelle spalle e si grattò la barba. «Be, complimenti» borbottò, come indeciso su cosa dire.

«Cosa stai dicendo?» sibilò Nate, stringendo i pugni.

«Parla della gara» si inserì Ross. «Miracolosamente, sei arrivato secondo».

Il ragazzo fece saltare lo sguardo tra i due, fulminandoli. Il podio non gli era di alcuna consolazione in quel momento.

«Immagino tu voglia parlare di… dell’altra questione, insomma» continuò Richie. «Ovviamente, mi occuperò personalmente di Skull e metterò le cose in chiaro. Li taglierò fuori da ogni affare e chiederò ai miei soci di fare altrettanto, si sono comportati in modo rivoltante, assalendo una ragazza innocente».

«Non me ne frega un cazzo di Skull» sputò Nate. «È un criminale e rimarrà un criminale». Guardò alla sua destra, dove Alison aveva preso a singhiozzare e il suo volto era imbrattato di lacrime. La ragazza gli stava rivolgendo uno sguardo supplicante, ma non proferì parola.

«Sto parlando di lei» concluse il ragazzo.

Ross si sbilanciò in avanti con la gamba buona e lo guardò dritto negli occhi. «Forse sarebbe più utile chiarire la questione, al posto di puntare il dito contro gli altri».

«Mi stai prendendo per il culo? Quale questione c’è da chiarire? Mila non le andava a genio e ha pensato di usare quei criminali da strapazzo per sbarazzarsene» sbottò.

Nella stanza, la tensione era così forte che nessuno si muoveva, se non i loro occhi che passavano sguardi dall’uno all’altro.

A fatica, tra i singhiozzi, Alison cercò di parlare. «Non credevo le avrebbero fatto del male».

«Che cazzata» la zittì Nate, ma lei insistette. «Mi dispiace, davvero, non ci sono scuse per quello che ho fatto, lo capisco solo ora. Ma… proprio quando tutto stava andando bene tra noi, l’ho  sentita dire tutte quelle cose fuori da camera tua e non sapevo cosa fare».

Lui tacque, colto alla sprovvista. «Quali cose?»

Alison strinse le labbra per frenare il tremore che le faceva vibrare come le corde di una chitarra.

«La gelosia non è mai mal riposta» intervenne Ross, scoccando uno sguardo di rimprovero al ragazzo.

Nate scattò in piedi. «State dicendo che è colpa mia?»

«Alison avrà sbagliato, ma qualcuno le ha dato motivo di dubitare del tuo sentimento verso di lei» replicò l’uomo.

«Vaffanculo Ross». Nate lo superava di una buona spanna e poteva guardarlo dall’alto in basso. Ogni forma di timore che aveva provato per l’uomo era improvvisamente sparita rimpiazzata da rabbia pura e cieca. «La mia relazione con Alison stava andando fottutamente bene, e lei lo sa. Eravamo felici. Ha solo voluto divertirsi».

Lanciò un’occhiata alla ragazza e sentì di nuovo quel dolore al cuore che aveva provato prima di raggiungere Mila. La sensazione di essere stato tradito in modo così vile lo attraversava come una lama. Ogni volta che guardava Alison vedeva la ragazza che era stata al suo fianco negli ultimi mesi, che lo aveva sostenuto e sopportato, la ragazza che poco alla volta si era fatta spazio nella sua vita e che lui aveva imparato ad apprezzare. E poi si ricordava di quello che aveva fatto, di come aveva cercato di ferire Mila e di come aveva ferito lui.

Sollevò le mani e guardò Richie. «Sapete una cosa? Fate quello che volete, io me ne tiro fuori. Fammi avere la mia parte della vincita e siamo a posto così. Non ho più debiti qui».

Senza aspettare alcuna risposta, uscì dalla stanza e poi scese rapidamente le scale che conducevano al piano inferiore. Cercò la stanza in cui Britney aveva medicato Mila e trovò due ragazze sedute su un vecchio divano che stavano chiacchierando. 

Si affacciò e notò che Mila parve rilassarsi nel riconoscere il suo volto. Gli occhi di lei gli rivolsero un ringraziamento muto. 

«Ehi» le disse. «Sei pronta ad andare?».

La ragazza non se lo fece ripetere due volte, ringraziò l’altra e lo seguì all’esterno del locale. Nate decise che per quella sera avrebbe usato l’auto della gara, che aveva lasciato nel parcheggio sul retro non appena erano arrivati.

Si mise in strada e per alcuni minuti guidò con l’abitacolo avvolto da un silenzio pesante.

«Mi dispiace» fu lui a interromperlo.

«Per cosa?»

«Per averti messo in questa situazione, non mi perdonerò mai per quello che hai passato. Loro… ti hanno fatto del male?»

Mila prese un respiro profondo. «Non mi hanno fatto nulla di male. La cosa più fastidiosa è stato dover ascoltare discorsi misogini».

Nate si accorse che lei stava cercando di fare una battuta e tirò le labbra in un sorriso forzato.

Sospirando, la ragazza riprese. «Mi hanno ammanettata, ma per il resto non mi hanno mai maltrattata. Dicevano che mi avrebbero liberata alla fine della gara».

«Ora sei al sicuro. Dove vuoi che ti porti?»

Lei non gli rispose.

«Vuoi andare da James?» le chiese ancora, lanciandole un’occhiata. La ragazza teneva gli occhi fissi sulla strada, inespressivi.

«Io e James ci siamo lasciati» gli rispose infine. «Negli ultimi giorni stavo in un albergo».

Nate strinse il volante e capì perché l’avvocato non l’avesse vista tornare a casa.

«Perché James ha chiamato me?»

La voce di Mila suonò sorpresa. «Ti ha chiamato?»

«Sì, è stato lui ad avvisarmi che non ti aveva vista tornare al lavoro e si era preoccupato. Non capisco perché abbia chiesto a me».

«Merda».

Lui sollevò le sopracciglia, mentre le scoccava uno sguardo interrogativo. «Signorina Barnes, moderiamo i toni».

Lei prese un respiro profondo. «Ho raccontato a James del nostro… passato. Sa che ci conosciamo bene, ecco perché ti ha chiamato».

Nate accettò quella risposta. Era troppo tardi per indagare ed erano entrambi troppo stanchi.

«Ti porto da me, va bene? Immagino sia meglio non lasciarti in albergo da sola».

La sentì rilasciare un sospiro di sollievo. «Va bene, grazie».

Raggiunsero l’appartamento di Nate e, quando entrarono, furono accolti da una pioggia di coriandoli accompagnata dalle grida entusiaste di Jay e Mike. Le loro voci si spensero quando si accorsero della presenza di Mila.

Mike assunse un’aria perplessa, mentre Jay fu più diretto: «Cosa ci fa lei qui?»

«È una lunga storia» replicò Nate. «Chi vi ha avvisati della vittoria? Alison?»

I due amici annuirono e lui fece una smorfia. «Be’, potrebbe aver omesso qualche dettaglio. Vi aggiornerò, per stasera Mila si ferma a dormire qui e Alison non è più persona gradita in questa casa».

Mike e Jay si scambiarono un’occhiata d’intesa e capirono che non era il caso di fare domande. Nate appoggiò una mano sul braccio di Mila. «Pulisco la mia camera così puoi dormire lì, ok?»

Lei sbatté le palpebre. «E tu dove stai?»

«Sul divano».

«Non ha senso, sto io sul divano, sono più bassa di te e almeno non devi spostare le tue cose».

Il ragazzo provò a ribattere, ma lei lo zittì in fretta. «Hai già fatto abbastanza per me».

 

Mila si era accoccolata sul divano da una mezz’oretta, quando aveva sentito delle voci provenire dalla cucina. La stanza era adiacente al salotto e, nel silenzio della notte, anche se bisbigliavano, riusciva a distinguere le voci dei tre ragazzi.

«Che cazzo?» sbottò quello che riconobbe chiaramente come Jay.

«Alison l’ha fatta rapire dai miei rivali che volevano distrarmi dalla gara» disse Nate tutto d’un fiato.

Mila si trattenne dal balzare in piedi, sconvolta da quella rivelazione. Sapeva che quello che le era successo partiva da un tentativo di colpire Nate, ma non credeva ci fosse Alison dietro a tutto. Ripensò agli sguardi gelidi che la bionda le aveva dedicato alla serata dei finalisti. Un brivido le percorse la schiena. Aveva fatto tutto per gelosia? Doveva essere davvero innamorata, o forse ossessionata da lui.

«Wow, che colpo di scena!» esclamò Mike e subito gli altri due gli imposero di abbassare la voce.

«Perché stai sorridendo come un idiota?» gli chiese Jay.

«Se una ragazza ne facesse rapire un’altra per me, mi sentirei come minimo lusingato».

«Spero di non aver sentito bene» ribatté Nate con un certo nervosismo. «Ti rendi conto che le cose potevano degenerare? Mila poteva essere ferita o peggio, e lo stesso poteva accadere a me, quando sono andato a recuperarla».

«Ma non è successo» ribatté placido Mike. «Ora hai una ragazza che letteralmente commetterebbe un crimine per te».

«Jay, ora comincio a capire perché sei sempre così acido» sbottò l’altro. «Questa conversazione è difficile da sostenere».

Nessuno parlò per qualche secondo. Mila sospettò che si fossero spostati nelle camere, poi Jay parlò ancora, rivolta verso l’amico che lo aveva appena interpellato. «Una cosa è certa. Ora sappiamo anche per chi tu saresti disposto a commettere un crimine. Ti ha già fatto impazzire una volta, Nate, e per poco non ti rovinavi la vita del tutto: ora pensa a te stesso, per favore».

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Capitolo 24
*** La convivenza ***


La convivenza 



Mila impiegò mezza giornata per capire che Jay aveva delle serie manie ossessive nei confronti della casa. Era rimasta nell’appartamento da sola – Nate era stato chiamato da Richie per i soldi della vittoria, mentre gli altri due erano al lavoro – così si era decisa a ricambiare l’ospitalità sistemando e pulendo le stanze. Aveva trovato tutti gli strumenti e i detergenti nella cucina, riordinati per superficie e per colore, in confezioni della stessa forma e con etichette scritte a mano che semplificavano la comprensione di cosa servisse per dove. Sapeva che sicuramente non era stata opera di Mike e neanche di Nate, ma che quella era un’idea esclusiva del terzo inquilino. L’unico che, lo sapeva, non gradiva la sua presenza in quell’appartamento. Se non poteva fargli cambiare idea, almeno gli avrebbe reso più piacevole accettarla. Così si era messa pulire gli spazi comuni della casa, per non invadere la privacy delle camere private.

Appena sveglia aveva dovuto chiamare James, per dirgli che stava bene, che era stata trattenuta perché scambiata per un’altra persona e che, no, era sicura, non voleva sporgere denuncia. Lui le era sembrato parecchio preoccupato e aveva insistito perché denunciasse l’avvenuto. Aveva impiegato parecchio tempo per convincerlo che non si era trattato di nulla di grave e che non voleva fare nulla. Gli aveva detto che sarebbe stata a casa di Nate e lui era parso sollevato all’idea che non fosse da sola. Si era anche offerto di ospitarla, nel caso non avesse avuto altro posto in cui andare. Le aveva lasciato la giornata libera, mentre dal giorno successivo avrebbe dovuto riprendere le sue mansioni, anche lavorando a distanza. 

Durante il suo secondo giorno di permanenza nell’appartamento, Nate l’accompagnò all’albergo a recuperare le sue cose. 

Quando vide il posto in cui aveva alloggiato, il ragazzo si mise a ridere. «Mila Barnes che alloggia in uno hotel da due soldi? Sei davvero cambiata». 

Lei si sentì arrossire e lo nascose fingendosi impegnata a sistemare le cose nella valigia. «Non ero pronta a dire ai miei genitori della rottura con James».

«Il loro cuoricino si spezzerà» commentò Nate e lei sorrise. Sapeva che stava cercando di distrarla dai cattivi pensieri e gliene era grata.

Trascorsero tre giorni senza eventi di grande rilevanza. Si svegliava la mattina, prima che Jay e Mike uscissero di casa, sistemava il suo giaciglio, preparava la colazione per tutti, poi puliva la casa mentre tutti erano fuori e lavorava dal suo pc. A volte la grossa gatta di casa le faceva compagnia e lei lasciava riposare sulle sue gambe. Mike le aveva detto che l’avevano trovata una sera e avevano deciso di tenerla, ma nessuno si era preso la briga di darle un nome.

Nate era spesso a casa e l’aiutava a pulire oppure usciva per delle commissioni. C’era tra loro un atteggiamento di amichevole imbarazzo. Si parlavano come amici, senza mai interrogarsi con domande troppo profonde o personali. Mila sapeva che il ragazzo non era stupido e probabilmente c’erano cose che voleva chiederle o questioni da chiarire, ma intuì che le stava lasciando il proprio spazio e quella delicatezza le faceva piacere.

Passarono alcuni giorni, prima che Nate le chiedesse se voleva accompagnarlo a fare la spesa. Andarono con la moto del ragazzo, perché Jay era andato al lavoro con la sua auto e nessuno dei due voleva camminare con le borse della spesa. Quando parcheggiarono nel supermercato, Nate si fermò un istante a guardare il mezzo che li aveva condotti fino a lì.

«Forse dovrei venderla» disse, quasi tra sé e sé e Mila esitò prima di parlare.

«Perché?» gli chiese poi.

Nate si strinse nelle spalle. «La fase spericolata della mia vita è finita, potrei comprare un’auto con i soldi che mi ha dato Richie e poi trovarmi un lavoro».

Prima che lei potesse replicare, si diressero all’interno del supermercato e il ragazzo prese la lista che Jay aveva attaccato al frigorifero qualche giorno prima. 

«La vincita non dovrebbe aiutarti per un po’?» chiese Mila, riprendendo il discorso.

«Sono arrivato secondo e in più Richie ha voluto parte dei soldi. Ha fatto la scenetta del magnanimo quando mi ha lasciato il sessanta percento della quota al posto di prendersi la metà esatta» sbuffò lui. «Sono tanti soldi, ma non dureranno per sempre».

Mila lo osservò mentre strizzava gli occhi per leggere la scrittura sul post-it. Un ciuffo di capelli scuri, fuggito dalla chioma spettinata, gli ricadeva sulla fronte. Aveva delle borse scure sotto gli occhi che mostravano quanto le preoccupazioni lo attanagliassero davvero, al punto da tenerlo sveglio la notte. Indossava una felpa e dei vecchi jeans, esattamente come si sarebbe aspettata da lui: quello era il ragazzo di cui si era innamorata. O forse la versione più adulta e stressata di quel ragazzo, ma comunque lo riconosceva ancora. Lo ritrovava nel modo in cui sorrideva quando incrociava il suo sguardo, nel modo in cui la cercava quando si allontanava nelle corsie del supermercato, nelle linee che si creavano sulla sua fronte quando era sul punto di farle una domanda.

«Tra poco avrai risposta dal professor Thomson» cercò di rassicurarlo, mentre si spostavano alle casse.

Le labbra di Nate assunsero una piega amara. «Oh, questo mi consola proprio».

Lei alzò gli occhi al cielo. «Sei arrivato tra i finalisti e hai delle buone probabilità, non disperare proprio ora».

Pagarono la spesa, poi tornarono alla moto e si diressero verso casa. La trovarono deserta, come quando erano partiti e si misero a sistemare la spesa nella cucina. In quello spazio ristretto, in cui continuavano involontariamente a sfiorarsi, Mila cominciò a pensare che non poteva trattenersi ancora a lungo. Aveva bisogno di parlargli, di chiarire quello che era successo una volta per tutte.

«C’è un motivo se io e James ci siamo lasciati» esordì, bloccandosi al centro della stanza. 

Nate, che stava riempiendo il frigorifero, chiuse lo sportello e si voltò a guardarla con un’espressione indecifrabile.

«Lo so» le disse.

Mila sgranò gli occhi. «Lo sai?»

Lui scrollò le spalle. «Ho fatto due più due. Credevo di averti sognata qui nell’appartamento e Jay mi è sembrato strano da quel giorno, ogni volta che ti nominavo. Poi ho sentito Alison parlare di qualcosa che hai detto fuori da camera mia, quindi ho intuito».

Lei si sentì sbiancare. Non era così che aveva previsto la conversazione. «Hai intuito cosa?» domandò con il cuore che le pulsava nel petto.

Nate le rivolse un sorrisetto provocatorio. «Che sei ancora innamorata di me, come una ragazzina dagli ormoni impazziti».

Mila si sentì avvampare e reagì scagliandogli addosso il cuscino della sedia davanti a lei. «Oh, sta’ zitto» sbottò con le guance che andavano a fuoco. 

«Ho ragione o no, signorina Barnes?» la canzonò.

Lei sospirò. «Sì, hai ragione. Idiota».

Si lasciò cadere sulla sedia senza cuscino e appoggiò i gomiti sul tavolo, improvvisamente esausta. Nate si fece serio e prese posto di fronte a lei. «Stavo solo cercando di sdrammatizzare, Mila. Lo so che è una faccenda importante».

La ragazza strinse le labbra. Avrebbe voluto piangere per la disperazione in cui i suoi sentimenti l’avevano precipitata, ma anche scoppiare ridere per il senso di liberazione che provava. 

«A cosa stai pensando?» gli chiese.

«L’amore che provavo per te mi ha perseguitato per anni» rispose lui. «Per tanto tempo non sono più riuscito a sentirmi felice, nonostante Mike e Jay, nonostante… Alison, perché tutto ciò che volevo eri tu».

Mila sentì un nodo formarsi nella sua gola, rendendole difficile deglutire. Lo sapeva come si era sentito Nate, perché quel dolore lo aveva vissuto anche lei, sommato al senso di colpa per averlo lasciato andare. 

«Negli ultimi mesi, da quando ti ho ritrovata, ho cominciato a riprendermi» proseguì lui. «Ho capito che avrei per sempre rimpianto i nostri momenti felici, ma che avrei potuto costruirne altri, per conto mio, e avrei potuto riprendere a vivere veramente senza lasciarmi distruggere dal passato. Ti amo con tutto il mio cuore, Mila Barnes».

Nel sentire quelle parole, le lacrime cominciarono a rigarle le guance. 

«Ma ho davvero paura che se questa volta fallirà non avremo una seconda possibilità e non posso vivere sapendo di poterti perdere per sempre. Entrambi dobbiamo sistemare la nostra vita. Tu hai appena chiuso una relazione importante, lavori ancora con James e dipendi dai tuoi genitori. Io non ho un lavoro e gli unici soldi che possiedo provengono da atti criminali, non i migliori presupposti per ricominciare, vero?»

Mila si costrinse ad annuire, con la vista appannata dalle lacrime. Il nodo che le bloccava la gola ora si esteso fino al suo stomaco e le contorceva le viscere. Nate aveva ragione, lo sapeva. Era quello il motivo per cui aveva esitato tanto prima di confrontarlo. Perché quello non era il momento giusto, perché avevano lasciato troppo in disordine le proprie vite per poter pensare di mettersi insieme come in un patchwork mal fatto. 

«Amici?»

Alzò gli occhi. Nate le stava tendendo la mano. Prese un respiro profondo e gliela strinse, soffocando le lacrime. «Amici».

 

 

Nate convinse tutti ad uscire quella sera. Jay non aveva fatto in tempo a mettere un piede nell’appartamento e il ragazzo lo aveva assalito dicendogli di prepararsi, perché non aveva intenzione di passare un’altra serata a deprimersi in casa. Si era perfino offerto di guidare – con la promessa di non bere neanche una birra – ma Jay si era opposto e così si erano stipati tutti e quattro nella sua auto ed erano andati ad un pub poco lontano dall’appartamento.

Nate mantenne la sua promessa e ordinò una Coca Cola, anche se non era costretto a farlo. Jay lo studiò con discrezione per tutta la sera, lasciando che Mike portasse avanti tutte le conversazioni. Era dalla sera dell’ultima gara che non parlava con l’amico. Quando si era presentato insieme a Mila, gli aveva fatto presenti le sue preoccupazioni, ma questa volta aveva lasciato che gestisse la situazione da solo. Sapeva di averci messo il becco in troppe occasioni, così aveva deciso di tirarsi indietro, anche perché, sorprendentemente, tra licenziamenti e corse clandestine, Nate gli sembrava maturato. 

Il gestore del pub annunciò che avrebbero aperto lo spazio karaoke e Mike afferrò per un braccio Mila costringendola ad andare a cantare insieme a lui. La ragazza avvampò, ma non le fu possibile sottrarsi e si ritrovò con un microfono in mano davanti al piccolo schermo su cui scorrevano le scritte.

«Che stupidi» commentò Nate e Jay lo osservò, cercando di decifrarlo. Li guardava sorridendo, con serenità.

Li guardarono cantare per qualche minuto, poi decisero di uscire a prendere un po’ d’aria, lasciando che si divertissero da soli.

Fuori dal pub la strada era deserta e scura e li accolse solo l’aria fresca della notte. Un lampione illuminava lo spazio fuori dal locale, come un ombrello di luce sopra di loro.

«Stai facendo una dieta detox?» domandò Jay guardando l’amico.

Nate gli rivolse un’espressione perplessa.

«La Coca Cola, niente sigarette. Sembra di essere tornati indietro del tempo, prima delle gare, prima di Alison».

L’altro non gli rispose, ma fissò gli occhi davanti a sé, persi nel vuoto. «Sto cercando di recuperare lo stile di vita che ho trascurato negli ultimi mesi».

Jay si rese conto che l’amico aveva gli occhi lucidi e si allarmò. «Che succede? Tutto bene?»

Gli occhi dell’altro si riempirono di lacrime. Quando parlò, le sue labbra tremavano e la sua voce suonò rotta. «Questa volta sono stato io a lasciarla andare».

«Che significa?»

«Mila… l’ho lasciata andare» spiegò, senza fiato. «Abbiamo parlato, per chiarire la nostra situazione». Boccheggiò. «Avrei solo voluto stringerla tra le braccia, dirle che sarebbe andato tutto bene e che avrei fatto qualsiasi cosa per lei». Si passò una mano sul volto, come stremato. «E in effetti ho fatto il sacrificio più grande che potessi fare: le ho detto che questo non era il momento giusto per noi. L’ho lasciata andare».

Tornò a fissare lo sguardo in un qualche punto imprecisato dell’asfalto davanti ai suoi piedi e pianse in silenzio, senza singhiozzi, solo con le lacrime che gli rigavano il volto.

Jay gli appoggiò un braccio sulle spalle e lo strinse a sé. «Sono orgoglioso di te, amico. Vedrai che tutti si sistemerà».

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Capitolo 25
*** Ultimo saluto ***



Ultimo saluto
 

Mila inviò le ultime email e si stiracchiò, grata di poterlo fare nella solitudine dell’appartamento da cui stava lavorando. In ufficio sarebbe dovuta rimanere composta, mantenendo un atteggiamento professionale, ma con il lavoro da casa poteva fare quello che voleva. Sapeva che James non glielo avrebbe concesso ancora a lungo, così doveva godersi gli ultimi momenti di libertà.

Si alzò in piedi, accarezzò la gatta che riposava sul divano e si spostò in cucina per prepararsi il caffè. Come tutte le mattine, Mike e Jay erano al lavoro, mentre Nate era uscito per comprare da mangiare alla gatta e per cercare annunci di lavoro. Aveva deciso di portarsi avanti, nel caso la domanda di borsa di studio non fosse andata a buon fine e quella mattina era uscito di buon’ora per fare le sue ricerche. Faceva quasi tenerezza il modo agitato con cui aveva raccolto tutte le sue carte e si era vestito meno casual del solito, con il disagio di chi indossa vestiti non suoi.

Lo aveva salutato sulla porta con un sorriso di incoraggiamento e lo aveva guardato uscire di casa senza troppa convinzione.

Quando suonarono al campanello, Mila pensò che si trattasse di un corriere o del postino. Tutti ormai sapevano che il portone d’ingresso era guasto, così a volte salivano fino agli appartamenti del primo piano.

Lasciò il caffè appena preparato sul tavolo della cucina e si diresse ad aprire la porta, ma, quando vide chi stava sul pianerottolo di fronte a lei, si sentì paralizzare. Il suo primo impulso fu quello di sbattere la porta, chiuderla a chiave e correre a chiamare Nate. Ma cacciò la paura e cercò di fronteggiare la persona che le stava davanti. 

Alison non aveva un’aria particolarmente minacciosa, aveva anzi un aspetto stanco, teneva le spalle basse e le braccia strette al petto, come se volesse nascondersi in se stessa e sparire.

«Aspetta» mormorò, vendendo l’indecisione di Mila. «Sono solo venuta per scusarmi, non voglio farti del male».

Mila rimase guardinga, con il corpo mezzo nascosto dalla porta e pronta a chiuderla in caso di necessità.

«Ti ascolto» le disse.

Alison prese un respiro profondo e ondeggiò, spostando il peso da una gamba all’altra come per recuperare fermezza. «Sono profondamente dispiaciuta per quello che ho fatto. So che è stato imperdonabile, voglio solo che tu sappia quanto sono pentita per le mie azioni».

Mila la fissò, senza sapere cosa rispondere. Quello che aveva vissuto ancora le provocava una leggera adrenalina ogni volta che pensava di uscire da sola dall’appartamento e sapeva che aveva davanti a sé la causa di quelle brutte sensazioni. Ma vedeva anche quanto sincero fosse il rammarico dell’altra ragazza.

«Va bene» le disse.

Alison sgranò gli occhi e si sistemò nervosamente i lunghi capelli chiari dietro alle orecchie. «C’è Nate? Io… speravo di poter chiarire con lui, in realtà. Non sapevo ci saresti stata anche tu».

Mila scosse il capo. «No, non so quando tornerà».

La bionda non si sforzò di nascondere la delusione che le attraversò il volto. «Immagino non voglia neanche vedermi. Tu… potresti dirgli che sono passata?»

«Certo, nessun problema».

Alison parve sul punto di andare, ma poi cambiò idea e tornò con gli occhi sulla ragazza. «Voi due state insieme ora?»

Mila fu colta alla sprovvista da quella domanda e si sentì avvampare. «Cosa?»

«Lui è sempre stato innamorato di te e ora ti ritrovo qui, insomma… state insieme?»

L’altra ricacciò l’ormai familiare nodo alla gola che le si stava formando e si sforzò di rispondere. «No, sono qui solo provvisoriamente. Ma non stiamo insieme».

«Oh». Chiaramente, Alison si era ritrovata senza nulla da dire. Rimasero in silenzio per qualche secondo, in imbarazzo.

«Lui mi piaceva davvero, sai» riprese la bionda, rivolgendole uno sguardo velato di tristezza. «Le altre ragazze che lavoravano con me mi dicevano che era strano, io invece ho sempre pensato che fosse diverso. Speciale. Credevo che con lui sarei stata davvero felice, nonostante tutti i problemi».

Mila deglutì, senza parlare. Per lei era stato tutto il contrario. Quando trascorrevano tempo insieme, anni prima, tutto intorno spariva e rimanevano solo loro due. Ma, al contrario di Alison, nel momento in cui si separavano Mila aveva sempre temuto che le cose non sarebbero durate e che non sarebbero mai potuti essere felici insieme. Due anni più tardi, aveva capito che neanche senza di lui aveva trovato la felicità e che gli unici momenti in cui si era sentita veramente viva erano quelli trascorsi insieme a lui.

Qualcosa di soffice le sfiorò le caviglie, facendola sobbalzare. Abbassò gli occhi e vide che si trattava della gatta. La afferrò prima che potesse uscire dall’appartamento e se la strinse al petto, poi tornò a guardare Alison.

«Vedo che hai conosciuto Mila» commentò l’altra, con un tono amaro nella voce.

«Sì, la sua presenza mi ha stupita» ammise, mentre con la mano libera accarezzava la micia, docile e abbandonata nella sua stretta. «Una gatta in una casa con tre ragazzi».

«E il suo nome non ti ha sorpresa?»

Sollevò le sopracciglia, con aria interrogativa. «Credevo non ne avesse uno».

«Si chiama Mila» Alison scosse il capo, sbuffando. «Avrei dovuto cogliere il campanello d’allarme, non credi?»

L’altra si sentì paralizzare dietro alla porta, ma la gatta si divincolò tra le sue braccia, così dovette lasciarla scendere. Quella corse via e sparì nel salotto.

«Credo sia il momento di togliere il disturbo» Alison riattirò la sua attenzione. Le fece un rapido gesto di saluto con la mano, poi scese rapidamente le scale.

Mila chiuse la porta, ma rimase immobile accanto ad essa, ancora sconvolta da quanto avvenuto. L’improvvisa ricomparsa di Alison, la gatta che aveva il suo nome… Prese un respiro profondo. Ancora una volta, l’ennesima, si chiese cosa sarebbe successo se due anni prima avesse ignorato tutte le sue ansie e avesse deciso di partire insieme a Nate. Quante cose sarebbero state diverse? Quante sarebbero state migliori? Scosse la testa, cercando di scacciare quei pensieri. Recuperò il caffè che aveva lasciato in cucina – ormai freddo – e tornò al suo computer. James le aveva mandato nuovi documenti da leggere, così si rimise al lavoro.

 

Arrivò l’ora di pranzo senza che se ne rendesse conto. A risvegliarla dallo stato di profonda concentrazione fu il rumore della porta d’ingresso che si apriva e di qualcuno che entrava nell’appartamento. 

«Ehilà» salutò la voce di Mike mentre si avvicinava alla sua postazione. «Non lavorare troppo, se no diventi stanca e poco attraente».

Lei rise e si alzò in piedi. «Essere bella non è esattamente la priorità ora».

«Dovrebbe sempre esserlo» ribatté il ragazzo, poi le mostrò la borsa di carta che teneva in una mano. «Ho comprato dei tranci di pizza per pranzo. Nate è già tornato?».

«No, è ancora fuori. Possiamo scaldarla intanto».

Si spostarono in cucina e accesero il forno per scaldare la pizza, poi rimasero entrambi nella stanza, in attesa.

Mike sciolse i capelli chiari dal codino e cercò di ricomporlo in modo più ordinato. «Mattinata emozionante?» le domandò.

«È passata Alison».

Il ragazzo si bloccò e i capelli gli ricaddero scompigliati sulle spalle. «Non ho visto segni di lotta nel salotto».

Mila rise ancora. «Abbiamo avuto una conversazione pacifica».

«Buon per voi».

Il ragazzo concluse il codino e si abbassò per controllare le pizze. Nel farlo, una busta gli scivolò fuori dalla tasca posteriore dei jeans e cadde a terra. Quando la vide, il volto di lui si animò come se si fosse improvvisamente ricordato di qualcosa. «Oh, ho trovato questa nella posta. È indirizzata a Nate».

La raccolse e la porse alla ragazza, che si era avvicinata per esaminarla. Mila la prese tra le proprie mani e il suo cuore accelerò improvvisamente quando riconobbe il nome dell’università.

«È per la borsa di studio» disse emozionata. «È la risposta definitiva».

Mike sgranò gli occhi. «Cazzo, apriamola».

«Nate si arrabbierà».

Il ragazzo gliela strappò di mano. «Me ne sbatto. Almeno sappiamo a cosa prepararci».

Fece per aprirla brutalmente, ma Mila gli porse un coltello e gli indicò come tagliare al busta per  non distruggerla del tutto. Mike eseguì con precisione chirurgica, poi estrasse il foglio e con un salto si allontanò dalla ragazza per poter leggere per primo.

«Eh dai!» protestò lei. «Cosa dice?»

Gli occhi del ragazzo percorsero il foglio avanti e indietro per qualche secondo, come se stesse cercando di interpretare le parole.

«Fammi leggere» si lamentò lei, cercando di avvicinarsi mentre lui la respingeva con un braccio.

Mila si arrese e rimase ferma a guardarlo a pochi passi di distanza.

«Non ci credo» fu il commento di lui, prima di passarle la lettera.

Lei gliela strappò dalle mani e si mise a leggerla con avidità. Mentre le parole cominciavano a prendere un senso nella sua testa, sentì i suoi occhi appannarsi e riempirsi di lacrime.

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Capitolo 26
*** Epilogo ***


Epilogo 
 

La valigia, che Mila trascinava rumorosamente per i corridoi del dormitorio, pesava almeno trenta chili e le stava provocando un fastidioso crampo al braccio. Si sistemò il borsone sull’altra spalla e continuò ad arrancare tenendo gli occhi fissi sui numeri delle porte che andavano diminuendo.

Un ragazzo che stava attraversando il corridoio in direzione opposta rispetto alla sua le rivolse uno sguardo malizioso e domandò: «Ti serve aiuto, cara?»

«No, grazie» ribatté lei a denti stretti. «Ce la faccio da sola».

“Ce la faccio da sola” era stato il suo mantra nelle ultime settimane, da quando, sotto lo sguardo severo dei suoi genitori, aveva accettato che la sua vita nel lusso era finita. Li aveva incontrati per informarli che la sua relazione con James non esisteva più e che aveva deciso di riprendere gli studi, ma non più in Legge. Non avrebbe saputo dire quale delle due novità avesse generato maggiore disgusto sui loro volti. Le erano apparsi egualmente delusi e scontenti da quello che la loro unica figlia aveva appena detto.

«E cosa vuoi studiare se non Legge?» aveva chiesto suo padre.

«Giornalismo» era stata la sua risposta. Avrebbe potuto aggiungere che se avessero fatto più caso a lei, se ne sarebbero accorti da soli che quella era una scelta naturale. Aveva scelto Legge perché era sensibile alle disuguaglianze, ma il suo ruolo non era dietro ad una scrivania a raccogliere scartoffie e compilare documenti. Il suo posto era per strada, a parlare con le persone, ad ascoltare le loro storie e a raccontarle agli altri. Che i suoi genitori non la capissero, ormai non la stupiva più. La stupì, invece, la loro decisione di tagliarle tutti i fondi, se non quelli strettamente necessari alla sua sopravvivenza, che consisteva in una camera condivisa in dormitorio e nei pasti alla mensa del campus. Mila aveva accettato dignitosamente quell’offerta infame e li aveva salutati con la speranza di non rivederli per un po’ di tempo.

Quando finalmente si trovò davanti il numero della sua camera, aprì a fatica la porta con la chiave che le avevano dato e si ritrovò in una piccola cucina in cui persisteva l’odore di cipolle di chiunque avesse pranzato lì alcune ore prima. La stanza era spoglia e piuttosto malridotta, a giudicare dalla vernice scrostata in più punti e da alcune ante mancanti nei mobili. Sulla cucina si affacciavano due porte, che sapeva avrebbero condotto ad altrettante camere doppie. Aprì la sua, quella di sinistra, rivelando una stretta camera da letto arredata con due letti a castello, ciascuno con un materasso nella parte alta e una scrivania al di sotto. Un lato era già occupato, come poteva vedere dai vestiti ammucchiati e i libri aperti abbandonati sulla scrivania, mentre l’altro stava aspettando lei.

Avrebbe voluto piangere, e non di gioia. Quella camera era microscopica e a malapena ci stava da sola con la sua valigia da trenta chili, figurarsi in due ragazze.

Sentì un rumore di passi provenire dalle sue spalle e si concentrò per ricacciare indietro le lacrime e dipingersi un sorriso sulla faccia. Magari le sue compagne di stanza avrebbero reso la permanenza più piacevole e non voleva farsi riconoscere come la patetica ragazzina viziata che piangeva per un po’ di polvere e disordine.

«Wow, dopo quell’hotel è stato tutto un precipizio per te, in fatto di alloggi».

Un’inaspettata voce maschile la fece sobbalzare e si voltò di scatto, per vedere la figura di un ragazzo fermo in mezzo alla cucina. Portava dei pantaloni eleganti e una camicia chiara a maniche corte che lo facevano apparire signorile, ma i capelli scuri spettinati ne rivelavano la vera essenza.

Mila incrociò le braccia al petto. «Sembra che i ruoli si siano invertiti. Come si sta nell’ala dei ragazzi ricchi?»

«La mia stanza singola è così grande che a volte mi sento solo» replicò lui facendosi avanti, con un sorrisetto sulle labbra. Si fermò sulla soglia della camera e si appoggiò al muro. «Vedo che tu non avrai lo stesso problema».

Lei sbuffò. «Pare di no, dovrò mischiarmi con la massa». Si portò la mano al petto e sospirò profondamente. «Mi saluterai ancora, quando ci incontreremo per il campus? Insomma, non vorrei metterti in imbarazzo di fronte ai tuoi nuovi amici».

Il sorriso dell’altro assunse una piega canzonatoria, mentre si inclinava verso di lei e la guardava con aria divertita. «Non potrei mai provare imbarazzo per te, signorina Barnes. Dopotutto l’edificio in cui alloggio ha il nome di tuo nonno».

«Ironico, no?»

«Potremmo fingere di non conoscerci, per divertimento» continuò lui.

Lei scosse il capo e si fece seria. «Non riuscirei ad ignorarti, Nate».

Il ragazzo rise. «Lo so, neanche io ce la farei».

La prese per un braccio e l’attirò a sé, poi la strinse in un abbraccio. «Sono così contento che ci sia anche tu qui».

Mila inspirò profondamente il suo profumo e si lasciò cullare da quella sensazione piacevole che le era mancata più di ogni altra cosa. Chiuse gli occhi, avvolta dalle sue braccia.

«Sembra che saremo compagni di studi, signorina Barnes».

 

 

 

 

 

***

Angolo autrice

Ciao!

Prima di tutto vorrei ringraziare chiunque sia arrivat* fino a qui, sia silenziosamente, sia lasciando recensioni nei vari capitoli. Sinceramente, non mi aspettavo che sarei arrivata alla fine di questa storia, iniziata così tanti anni fa e ripresa quasi per caso. Per questo sono particolarmente grata a chiunque mi abbia seguita fino a questo punto <3

So che la storia ha cambiato direzione in diversi momenti, qualcuno è stato piacevolmente sorpreso e qualcuno (spero una minoranza) magari è rimasto deluso. Sono curiosa di sentire qualsiasi parere, anche di chi si aspettava una fine diversa ;)

 

Non ho indicato la storia come “conclusa” perché ho intenzione di pubblicare alcuni capitoli extra nelle prossime settimane (magari per raccontare qualcosa di più di quello che è successo prima dell’epilogo).

 

Questo epilogo chiude e allo stesso tempo apre a nuove possibilità. Un seguito al momento non c’è, ma esiste solo una bozza vaga. Non so quando la scriverò né tanto meno quando la pubblicherò.

Vi lascio intanto alle mie altre storie concluse: La duchessa (con anche l’atto II) e No promises

Ho anche pubblicato un libro! Lo potete trovare qui, si chiama Blink of an Eye e potete leggere gratuitamente i primi capitoli qui

 

Grazie di cuore a chi è ancora qui. Spero di potervi risentire presto!

Alla prossima,

M. 

 

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Capitolo 27
*** Capitolo extra 1 ***


Extra 1

Non appena la porta della camera si aprì davanti a loro, Mike lanciò una sonora imprecazione che attirò non poche occhiatacce dalla gente che passava nel corridoio in quel momento. Jay lo afferrò per un braccio e lo trascinò all’interno della stanza, mentre Nate chiudeva la porta e si lamentava: «Eh dai, non farmi fare figure già il primo giorno».

Non riuscì a nascondere un certo divertimento nella sua voce, perché Mike aveva solo esternato quella che era stata anche la sua reazione. Controllò sul documento che quella fosse la stanza giusta e si accorse che non aveva sbagliato: in quanto fruitore della borsa di studio Thomson, aveva diritto a un’ampia e luminosa camera singola, con grandi finestre che si affacciavano su un tranquillo cortile interno.

Portarono all’interno i pacchi che contenevano le sue cose e Mike lasciò cadere rumorosamente sulla scrivania in legno quello che reggeva. 

«Cazzo, se era pesante» commentò, poi controllò la scritta sul lato del pacco. «Come è possibile che i maglioni pesino così tanto?»

Jay sbuffò. «Nonostante io mi sia impegnato a preparare tutte le scatole con etichette diverse, Nate ha deciso di buttare le cose alla rinfusa».

Il diretto interessato alzò gli occhi al cielo. «Eh dai, ero agitato per il trasloco. Probabilmente ci sono dei libri lì, ecco perché pesa così tanto».

Per qualche istante ignorò gli amici, mentre studiava ammirato la stanza. Al centro c’era un grande letto a una piazza e mezza, con a fianco un comodino e un armadio a tre ante. Dall’altro lato della stanza c’era una scrivania e infine una porta conduceva al piccolo bagno privato.

Mike si lanciò sul letto e molleggiò per testare il materasso. «Questo è perfetto per le signorine» commentò ammiccando. 

«Guarda che è qui per studiare, cretino» replicò Jay, sistemandosi gli occhiali sul naso. «E per non perdere la borsa di studio».

Nate convinse a fatica gli altri due a scendere per aspettarlo in qualche bar del campus. «Devo fare una chiamata» disse, ma Mike si era steso scompostamente sul letto e aveva allargato gambe e braccia per testarne la comodità.

«Possiamo ascoltare anche noi, non ci sono segreti tra fratelli»·

Nate alzò gli occhi al cielo. «Eh dai, quando ti capita ancora di beccare così tante collegiali tutte insieme?»

Il biondo non se lo fece ripetere due volte. Balzò in piedi, afferrò Jay per un braccio e lo trascinò fuori dalla stanza.

Nate rise, scuotendo il capo, poi prese il cellulare e rivide le chiamate perse sullo schermo. Mila gli rispose al secondo squillo.

«Ehi» le disse. «Scusami, ero impegnato prima. Tutto bene?»

«Più o meno» rispose lei. Aveva una voce affannata, come se avesse corso.

«Che succede?»

«Ho parlato con i miei».

Nate capì che l’affanno era dato dall’agitazione. «Com’è andata?». Sentì un lungo sospiro dall’altro capo e cercò di rimanere calmo. Non sapeva cosa cosa aspettarsi dai Barnes.

«Mi hanno tagliato i fondi» rispose Mila, talmente velocemente che all’inizio gli sembrò di aver capito male.

«In che senso?»

Con più calma, lei gli spiegò che non avrebbero più pagato nulla che non fosse la retta universitaria o beni di primissima necessità.

«Stai scherzando?» sbottò lui sentendosi ribollire il sangue. «E come pensano che ti manterrai?»

«Mi hanno detto di cercarmi un lavoro in campus. Ovviamente il mio vecchio lavoro sarebbe troppo impegnativo da mantenere con l’università».

Ci fu qualche secondo di silenzio, poi lui riprese la parola. «Mila, se ti servono dei soldi…»

«Non voglio i tuoi soldi, Nate».

«È per come li ho vinti?»

La sentì ridere dall’altro capo e quel suono gli alleggerì il petto. «Ti sei guadagnato tutto quello che hai, è giusto che anche io cominci a fare lo stesso».

«Intendi… lavorare?»

«Pensavo più che altro a giocare in borsa?»

«Sei seria?»

Mila sbuffò sonoramente nel microfono. «Certo che no, stupido. Ovvio che intendevo lavorare!»


 



Ciao! 
So che questo capitolo extra arriva con tremendo ritardo e mi scuso con coloro che lo aspettavano. La mia ispirazione è stata un po' altalenante e negli ultimi mesi mi sono dedicata alla stesura di un'altra storia 
(la potete trovare qui: Per sempre così), di genere un po' diverso rispetto a Crawling back to you. È stata un'ispirazione fulminea  e sentivo che dovevo finirla rapidamente, così ho trascurato altri lavori ancora in corso, ma non mi sono dimenticata di loro! Avevo già scritto parte di questo capitolo, così nel frattempo ho deciso di pubblicarlo e spero di poter proseguire presto questa storia che mi ha accompagnata a lungo e a cui mi dispiacerebbe non dare un seguito.
Ringrazio chiunque eventualmente sia arrivato fino a qui!
A presto,
M. 

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