Gli ermi oceani

di Fran Truth
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo Uno - Scontrosa grazia ***
Capitolo 2: *** Capitolo Due - Notte a Londra ***
Capitolo 3: *** Capitolo Tre - Nelle braccia del Tamigi ***
Capitolo 4: *** Capitolo Quattro - Febbraio ***
Capitolo 5: *** Capitolo Cinque - Speranza di carta ***
Capitolo 6: *** Capitolo Sei - Luce ***
Capitolo 7: *** Capitolo Sette - Incontri ***
Capitolo 8: *** Capitolo Otto - Nel bosco ***
Capitolo 9: *** Capitolo Nove - Fuori dal guscio ***
Capitolo 10: *** Capitolo Dieci - Famiglia ***
Capitolo 11: *** Capitolo Undici - Spezzati ***
Capitolo 12: *** Capitolo Dodici - Unione ***
Capitolo 13: *** Capitolo Tredici - Calore e Gelo ***
Capitolo 14: *** Capitolo Quattordici - Vino e poesia ***
Capitolo 15: *** Capitolo Quindici - Domani ***
Capitolo 16: *** Capitolo Sedici (parte uno) - Let's hope it's a good one ***
Capitolo 17: *** Capitolo Sedici (parte due) - Let's hope it's a good one ***



Capitolo 1
*** Capitolo Uno - Scontrosa grazia ***


Il tiepido calore del tramonto prese ad avvolgere i bianchi marmi del Castello di Miramare, mentre le acque triestine si tingevano di rosso. Candidi ciuffi d'onde carezzati dal vento s'infrangevano sugli scogli del molo, quasi toccando la sfinge di pietra che, vigile e consunta, osservava l'orizzonte. Un massiccio brusio di sottofondo accompagnava la musica del gorgoglio e dei versi dei gabbiani.

Isotta sedeva a lato della statua, con le gambe a penzoloni e lo sguardo puntato verso la città. Sotto al suo naso, i lunghi capelli corvini di Ilenia emanavano un odore di pulito misto a sudore, appena scomposti dalla leggera brezza marina. Da quella posizione poteva vedere il suo naso lungo e affilato, il mento schiacciato, la piccola voglia rossastra sotto l'occhio, il seno prominente e le gambe nude, i cui peli da poco ricresciuti pungevano la pelle delle cosce di Isotta, incrociate con gli arti dell'altra. Ilenia prese la mano di Isotta e la strinse con vigore, formando minuscoli cerchi con il pollice sul dorso bollente.

Quella giornata, la sua ultima da cittadina di Trieste, era stata programmata nei minimi dettagli, un itinerario che sfiorava i limiti del maniacale. Innanzitutto, sveglia presto per vedere l'alba, ma soprattutto per abbandonare il sonno con il torpore, la confusione nel buio, i suoni impastati delle loro voci e le membra bagnate dal caldo intorno ai loro corpi. Aveva deciso di dormire da Ilenia, la sua ultima notte: il suo letto le donava, ogni tanto, piccoli incubi o riposi rotti che aveva voluto evitare.

Fecero colazione in Piazza Unità d'Italia, non appena i primi tavolini toccarono le mattonelle colpite dalle nuove luci. In seguito si lanciarono in un giro completo per il centro, scrutando ogni dettaglio già visto e assaporato migliaia di volte. Visitarono il museo del mare, per l'ennesima volta, sempre rispettando i tempi decisi con rigore. Pranzarono presto in un bar, per poi scattare verso la Risiera di San Sabba. Tornate in centro, anticiparono quel momento che, ogni anno, segnava la fine dell'estate: la foto insieme su molo Audace, dove il Castello già si scontrava contro il cielo azzurro.

Fu proprio il Castello la loro meta finale, quel nido che, dopo anni di visite e di studi intorno alla sua storia, pareva più loro che dei defunti arciduchi d'Austria.

Isotta, con lentezza, prese un pacchetto di cioccolatini semisciolti dallo zainetto. Mangiarono con calma, alternando ogni tanto rapidi sorsi d'acqua. Fu Ilenia la prima a rompere il silenzio.

«Quindi parti». Un sussurro nel vento.

«Devo» rispose Isotta. «Mio zio non può lasciare tutto e rimanere qui».

«Ma tu potresti restare.»

«Sono ancora minorenne. E anche se restassi non saprei cosa fare, te l'ho detto.»

Ilenia annuì. «Ti ricordi quando abbiamo aiutato lo staff a scattare le foto alle murature per i restauri?» disse, cambiando argomento.

«Certo, le ho ancora. Poi ci hanno regalato dei poster con tutte le loro firme».

Risero. Gli occhi presero a inumidirsi.

«Quelli della reception mi hanno fatto l'applauso la prima volta che ho dovuto pagare, da maggiorenne».

«Beh, con tutte le visite che abbiamo fatto, se avessimo pagato avrebbero potuto costruire un altro castello uguale».

«Il regolamento mica l'abbiamo scritto noi» borbottò Ilenia. «Da minorenni si entra gratis in un tale paradiso? Lo sfrutto, scusami! Almeno ho pagato i souvenir.»

«Quella sera poi ci siamo ubriacate per la prima volta» continuò Isotta.

«Sì, a casa mia». Ilenia sollevò la testa, i suoi occhi sottili e chiari incrociarono quelli marrone e verde del volto davanti al suo. «Ti ho indotta in tentazione». Sorrise, un velo di malizia in volto.

Rintocchi di campane lontane riecheggiarono nell'aria.

«È tardi...»

«Dai, resta con me. Un minuto non farà la differenza». Ilenia lo disse mentre apriva una lattina di birra. Bevve un sorso, poi la passò a Isotta, che accettò con indifferenza. «Quel tuo zio non sembra molto simpatico, comunque.»

«Crowley, dici? Non è così male, sai? Sì, se non lo conosci bene può apparire strambo, però... è una brava persona».

«Bah, sarà».

«Non giudicarlo».

«Però ha dei capelli fighissimi, cazzo. Li voglio pure io mossi e rossi».

«Te ne pentiresti e verresti a piangere da me». Affondò il naso nella sua chioma lunga e liscia e mosse la testa a destra e a sinistra. Ridacchiarono.

Si incamminarono verso il cancello dei giardini. I turisti presero a scemare quasi del tutto e le loro voci vennero accompagnate soltanto dal rumore del mare. Un macigno si formò nel petto di Isotta: manca poco, davvero poco.

«Ma quindi...» Ilenia si avvicinò a lei, le prese la mano e incrociò le dita con le sue. Le accarezzò il braccio. «Con gli studi? Che fai? Qualcosa in Inghilterra? O torni qui?».

«Non ne ho idea» rispose ricambiando la stretta. «Zero assoluto».

«Se vuoi insegnare italiano non sarebbe meglio restare qui? Che se ne fanno gli inglesi, dell'italiano».

«Alcuni lo studiano» puntualizzò Isotta. «Ho già visto i corsi di lettere di Trieste, Udine e Venezia».

«Io vorrei andare a Venezia, all'Accademia» fece Ilenia, «ma i miei sono dubbiosi».

«Solita storia: "con l'arte finisci sotto i ponti?"»

«Più o meno. Che palle, però». Infastidita, colpì un sassolino con il piede. «Dicono che, se proprio voglio fare l'Accademia, a Udine ci sono dei corsi di design. Interni, o grafica, quelle robe là».

«Se vuoi design c'è anche a Venezia, lo IUAV. Ha una buona reputazione».

«Sì, ma io mica voglio fare design». Sbuffò. «Per carità, di certo non mi obbligano. Però, insomma, voglio dire... un po' li capisco. Che siano preoccupati, dico. Anche tuo padre lo era, quando gli hai detto di voler fare lettere, no?»

«Non so. Non gliene fregava più nulla, ormai». La sua voce funerea era dura come uno scoglio. Ilenia le pizzicò la guancia.

«Ascolta» disse, abbassando la voce. Le sfiorò una guancia. «Tuo padre era un gran pezzo di merda, su questo non c'è dubbio». Le labbra di Isotta si incurvarono appena. «So che sembro capricciosa quando ti imploro di rimanere-»

«Ti manca soltanto abbracciarmi le ginocchia».

«Dai, fammi finire, scema!» Le diede con piccolo pugno sul bicipite robusto. «Dici che questo tuo zio che urla contro le piante è una brava persona e voglio crederti». Si fermarono davanti all'Immaginario Scientifico, il museo delle scienze, e si sedettero sul marciapiede. «Quindi cerca almeno di goderti quel bell'ambiente. Non piangere troppo sul mare, sul Castello che non c'è più o sulla mia incredibile persona che vedrai solo su Skype. Perché so che lo farai».

Scoppiarono a ridere entrambe e Isotta appoggiò la sua testa sulle cosce dell'altra, che prese a massaggiarle il caschetto mosso e scuro. «Va bene, capo».

«Guarda che sono seria».

«Ma se stai ridendo pure tu!»

Sforzandosi di sopprimere le risate, Ilenia la fissò pungente.

«Dai, scherzi a parte, ho capito» disse Isotta. «Pensavo di trovarmi un lavoretto, comunque. Qualcosa di semplice, giusto per mettere da parte due spiccioli e ambientarmi un po'».

«Non è una cattiva idea, ma non ti vedo molto come cameriera. Ne hai già parlato con tuo zio?»

«Non ancora, ma vorrei».

In quel momento, una piccola automobile nera frenò di colpo sull'asfalto davanti a loro. Isotta sentì le budella contorcersi. «Parli del diavolo...»

Le due si alzarono. Dal posto del guidatore uscì una figura alta ed esile, vestita completamente di nero, con un paio di grossi occhiali da sole. Si portò un ciuffo di capelli rossi dietro la testa e guardò le due ragazze raggiante.

«Hey!» le salutò alzando la mano e attaccò in inglese. «Scusate il ritardo, ma la guida a destra per me è un casino». Il suo sorriso sparì non appena vide il volto cupo di Isotta. Crowley si guardò un po' attorno, grattandosi la nuca. Indicò Ilenia e formò un arco con il braccio. «Salta su anche tu, ti porto a casa. Così fate il giro insieme».

Ilenia borbottò un incerto "thanks" e si accomodò, insieme a Isotta, sui sedili posteriori. Crowley gettò verso di loro un'occhiata attraverso lo specchietto retrovisore, fece manovra imprecando e maledicendo Satana e finalmente riuscì a imboccare la strada del ritorno.

Si accucciarono l'una accanto all'altra, con le mani attorcigliate e i respiri che si confondevano nel calore dell'auto. Ilenia, ogni tanto, guardava perplessa Crowley, ma a un certo punto mugugnò un deciso "mh" e appoggiò la sua testa sul petto di Isotta. Dal canto suo, lei non sapeva che dire. Abbracciava Ilenia e scolpiva nella sua mente il paesaggio oltre il finestrino. Non sarebbe tornata prima dell'estate successiva, ed era solo il 30 di giugno. Davanti a sé si proiettava un anno incerto e insipido e avrebbe goduto appena dell'affetto che solo Ilenia poteva darle. Le strinse la mano con forza: lei ricambiò e le loro dita divennero bianche, il suo cuore accelerò un poco.

"Ciò che provo per te non lo provo per nessun altro" pensò Isotta. Non lo disse, le parole non le uscirono dalla gola, erano superflue.

Quei pochi minuti furono interminabili. Ilenia uscì, ringraziando due volte in un inglese maccheronico in cui scivolava libero l'accento. Trascinò Isotta fuori e, davanti al tramonto, l'abbracciò, nascondendo il volto umido dietro la lunga chioma. Isotta le accarezzò la schiena e le baciò la fronte. «Dai, non vado in guerra» tentò di sdrammatizzare, ma Ilenia non rise. Vederla in quello stato le fece male, le asciugò le lacrime e strofinò il naso contro il suo. Sorrisero, le loro labbra si toccarono. Infine, le loro pelli si divisero.

Crowley dava loro le spalle e Isotta apprezzò quel gesto. Rientrò in macchina senza dire una sola parola, con "Somebody to love" a palla all'interno.

Nessuno dei due disse nulla per una mezz'ora buona, ma Isotta notava perfettamente lo sguardo di suo zio che ogni tanto si tuffava verso di lei, la bocca in procinto di parlare che non esalava altro che respiri nella calura della sera.

Giunsero davanti a un semaforo rosso. Picchiettando le dita sul volante, Crowley decise di rompere quel muro. «Da quanto vi conoscete?»

Isotta sussultò, non se lo aspettava. «Undici anni».

«Tanto» osservò lui. Per un po' non disse altro e Isotta studiò la sua testa muoversi a scatti in tutte le direzioni, il suo volto fare smorfie insicure. «Ho notato che andate spesso a quel castello».

«Sì, Miramare è un bellissimo posto» rispose asciutta. «Lo staff ci conosce».

Suo zio sghignazzò. «Meglio delle principesse». Ritornò serio. «Comunque, volevo solo dirti che... sì, insomma, a Londra non ti mancherà niente». Parlava un po' al rallentatore, facendo delle pause e balbettando di tanto in tanto. «A casa abbiamo una connessione ottima, potrai sentirti con Ilenia tutte le volte che vorrai. E poi ci sono tanti musei, teatri. Anche cinema, dato che ti piacciono i film» Isotta pensò alle decine di DVD stipati nel bagagliaio. «Londra non sarà Trieste, non avrai il bel mare con il porto e il tuo castello da favola, però ti piacerà, ne sono sicuro. Dovrai abituarti, è molto più caotica, ma se sai prenderla ci vivi bene».

Sua nipote si limitò ad annuire. Guardava fuori dal finestrino con le braccia incrociate sul petto e non lo degnava di uno sguardo.

«So che è tutto un po' problematico» continuò Crowley con una nota di imbarazzo nella voce. «Tuo padre, la casa-famiglia, il trasferimento, lo stress degli esami. Non devi pensare subito a cosa fare. Prenditi il tuo tempo, rilassati, possiamo visitare qualche posto nuovo». Le diede una pacca sulla spalla. «C'è tempo per ripartire. Potrai rimanere con me, se vorrai». La guardo dietro le lenti scure. «Ma intanto pensiamo a sistemare le cose, che dici? Non c'è fretta».

Di nuovo, Isotta non disse nulla, ma dopo qualche minuto sentì quantomeno il dovere di ringraziarlo. Quando lo fece, Crowley suonò il clacson contro un motociclista che gli aveva appena tagliato la strada.

Giunsero in aeroporto con il buio. Fecero caricare il poco che rimaneva da portare a Londra e qualche ora dopo si sollevarono dal terreno. Assopendosi, Isotta vide lo stivale d'Italia scomparire oltre il continente.

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Capitolo 2
*** Capitolo Due - Notte a Londra ***


Fin dall'istante in cui Isotta aprì gli occhi, con la mano di suo zio tra i capelli, l'aria intorno a sé le parve diversa. Straniera. L'aeroporto divenne una Babele priva di italiano dominante, disseminato di cartelli in mille lingue. La testa si fece pesante, una sensazione che riconobbe come completo smarrimento, come se recitasse la parte dell'italiano stereotipato in un mediocre cinepanettone. Seguì suo zio a testa bassa, evitò con quanta più cura possibile gli sguardi della gente, si muoveva come un automa e mormorò qualche parola sconnessa solo quando interpellata direttamente. Era un paradosso come, per anni - attorniata dai complimenti e dalle storie dei suoi professori di inglese, dalle foto ricordo di quella madre scozzese che mai aveva visto, - avesse desiderato poggiare i piedi su quella terra lontana e adesso, appena scesa dall'aereo, ci entrava come un cerbiatto impaurito. Nulla rispecchiava i programmi immaginati le sere prima di dormire: nessuna stanza d'hotel ad attenderla, nessuna guida turistica in mano, niente abiti estivi liberi nel vento o quel sapore malinconico che le città meravigliose sanno darti quando sai che dovrai lasciarle. E niente Ilenia.

A braccia incrociate, con le dita che tiravano a sé la maglietta, uscì dall'aeroporto. La macchina di suo zio, una Bentley d'epoca, iniziò a sfrecciare sotto la pioggia come un fulmine e Isotta dovette reprimere un conato di vomito, con gli organi che facevano su e giù. Dopo pochi minuti, implorò Crowley di andare più piano, ma lo fece in italiano senza pensarci e a voce così bassa che, con i Queen in sottofondo sparati al massimo che cantavano Don't Stop Me Now, lui nemmeno la udì. Lo pregò di nuovo e infine, strillando, scoppiò a piangere e si rannicchiò sul sedile, soffocando il viso tra le ginocchia.

Crowley accostò, ma Isotta tremava e, chiusa a riccio, non voleva guardarlo. Non voleva vedere nessuno, desiderava soltanto Ilenia, il suo calore, il loro mare, il meraviglioso periodo dei suoi dodici anni dove tutto era perfetto e immacolato, quando suo padre aveva ancora la testa sulle spalle e una compagna che tentava di fare la madre. Lo urlò, lo sputò fuori dalla gola, ma Crowley non capì una parola. Sorpreso, borbottò qualche parola lasciata a metà, le sfiorò la schiena e le porse dell'acqua, ma lei rifiutò tutto. Si accoccolò su sé stessa e gli diede le spalle. Sperò che la ignorasse, che guidasse e non le rivolgesse una sola parola, che si comportasse come se non esistesse, esattamente come aveva fatto per più di quindici anni. Agognava la solitudine della sua camera, un letto soffice su cui piangere senza limiti e un sonno pesante come il peggiore dei lutti.

Giunsero a Camden Town, dove la notte ancora non dominava gli animi degli studenti nei bar. Isotta e Crowley non si parlarono, salirono in silenzio le scale fino al loro appartamento e si coricarono. La sua prima notte, a Londra, fu irregolare e senza sogni.

*

Si svegliò avvolta nel torpore, con le coperte appiccicate alle gambe sudate. Rotolò pigramente verso l'altro lato del letto e, a occhi semichiusi, guardò i muri vuoti della sua stanza, la scrivania ancora abbandonata nell'angolo e gli scatoloni sigillati.

Lasciò che un braccio penzolasse dal letto, sfiorando il pavimento. Rimase in quella posizione per qualche minuto, mentre una foschia di pensieri sconnessi volteggiava per la sua mente: la pioggia, il viaggio, Londra. Si decise ad alzarsi solamente quando, dalla porta spalancata della sua stanza, si fece strada un vago odore di latte.

Entrò in cucina strisciando i piedi e gettò un'occhiata al suo riflesso sul frigorifero: i capelli mossi, lunghi fino al mento, parevano esser stati attaccati a ciocche con la colla. La maglia del pigiama, troppo lunga, le copriva solamente una spalla, mentre l'altra era rimasta del tutto nuda a causa della manica scivolata verso il braccio. Teneva la schiena curva.

«Buongiorno, principessa!» esclamò suo zio. Isotta si voltò: seduto con le gambe accavallate, leggeva un manuale di astrofisica sorseggiando vodka. Dietro di lui si ergeva un muro di piante lussureggianti. «Dicono così in quel film che ti piace tanto, no?»

Isotta trovò la forza di annuire, strofinandosi gli occhi. Il sorriso di suo zio si spense e assunse un'espressione seria.

«Ti ho fatto il latte» disse. Diede due colpetti alla sedia accanto a lui. «Su, vieni qui».

Obbedendo, Isotta gettò un po' di zucchero nella tazza e bevve con lentezza, sbocconcellando un biscotto. Avrebbe voluto chiedere a suo zio del caffè, ma rimase zitta. Si sentiva meno di un ospite, in quella casa.

«Qual è il problema?»

«Cosa?» fu così diretto che rispose in italiano. «No, volevo dire... cosa?»

«Come "cosa"? Ti sei vista?». Crowley tenne la mano aperta e la mosse su e giù per tutta l'altezza di sua nipote. «Sembri un condannato che va a farsi impiccare».

Di fronte al mutismo di Isotta, che era tornata a braccia incrociate, Crowley tentò un approccio diverso. «Ok, ascolta. Di certo non mi aspetto tu faccia fin da subito i salti di gioia, ma almeno ti va di dirmi cosa ti preoccupa più di tutto?». Appoggiò il libro sul tavolo. «Sei scoppiata a piangere in macchina. È ovvio che tu non stia bene».

No che non stava bene, ma, in quell'istante, Crowley non era la persona che avrebbe scelto per confidarsi. In realtà, nessuno lo era. Nemmeno Ilenia.

Cercò di sviare la conversazione. «Ho solo avuto un momento un po'... così. Fine, davvero», poi aggiunse «E l'aereo, non l'avevo mai preso. Avevo paura».

«Fai schifo a mentire, sai?»

Lei non disse nulla.

Crowley sospirò. «Senti, Isotta» picchiettò le unghie dipinte di nero sul tavolo. «Nessuno che ha un "momento così" si mette a strillare, a piangere e a rannicchiarsi in quel modo. Sull'aereo hai dormito come un angioletto. E poi mi hai detto di essere stata in Irlanda, non credo tu ci sia andata a nuoto».

Attese qualche secondo. Non ricevendo alcuna risposta, annuì e riprese il libro.

«Non mi va di parlarne» sussurrò Isotta infine. «Tutto qui».

Suo zio la guardò perplesso. Provò a incontrare gli occhi di Isotta, ma sua nipote aveva lo sguardo puntato al pavimento. «Va bene» disse. «Va bene. Ma ti prego, non raccontarmi balle».

Passarono il resto della mattina a sistemare ciò che ancora si trovava negli scatoloni. Innanzitutto misero in ordine decine di libri, organizzando gli scaffali in due sezione principali: una di romanzi moderni e l'altra di tomi ricolmi di sottolineature, note e post-it. Crowley conosceva pochi di quei nomi, ma riconobbe le cantiche della Divina Commedia suddivise in tre libri mastodontici dalla copertina rigida e accuratamente illustrata con l'acquerello.

Mentre Isotta era intenta a smistare alcuni abiti, lui soppesò un grosso manuale e lo sfogliò velocemente: le pagine, sottili e fragili, scritte in maniera fitta e microscopica, erano segnate da numerosi parole a matita che non fu in grado di leggere, con punti esclamativi o di domanda, cerchi e, talvolta, piccole caricature. Ogni tanto, spuntava un'immagine in bianco e nero.

«Cos'è questo?» le chiese. Trovava quella quiete insopportabile, un muro da abbattere.

Sua nipote si voltò. «Ah, il "Decameron"».

«Deca-che?»

«"Decameron"» ripeté più lentamente. «È una raccolta di novelle del quattordicesimo secolo».

«Odiavo il quattordicesimo secolo» borbottò tra sé e sé. «E di che parlano?»

«Tante cose» appese una maglietta e dedicò a Crowley tutta la sua attenzione. «Amori felici o infelici, morte, politica, religione, commercio, fortuna, beffe, ingegno...»

«Tutto qui dentro?»

«Sì, sono cento».

«E le hai lette tutte?»

«In quella versione ancora no».

«In che senso "questa versione"?»

Isotta si chinò e afferrò un altro libro enorme dalla mensola più bassa. Glielo passò. «Qui le ho lette tutte. Sono riscritte in italiano moderno. Settecento anni fa la prosa era molto diversa: più complessa, con termini ora desueti, le frasi erano più lunghe e spesso venivano usate strutture tipiche del latino. Il verbo alla fine, per esempio». Tacque di colpo. Abbassò il volto e tornò ai suoi vestiti, ma Crowley non aveva intenzione di lasciarla andare così: aveva trovato una crepa a l'avrebbe rotta, anche a testate.

«Raccontamene una» sparò. Notando lo sguardo sconcertato di Isotta, ripeté: «Raccontamene una. Mica so leggere l'italiano, io. Avanti, una a caso». Non che gli interessasse sul serio. Non insistette troppo per non far cadere quella farsa, ma, in quel momento, gli parve l'unico modo per guadagnare un briciolo di fiducia, o almeno un barlume di felicità. Se parlare di quelle cose la faceva stare bene, che ne discutesse per ore.

«U-una qualsiasi?». Rimuginò un secondo, poi prese a parlare come una macchinetta. «Beh, c'è quella di Tancredi e Ghismunda. Lui è il principe di Salerno, ed è ossessionato da sua figlia. Quando rimane vedova non la vuole più maritare e la tiene rinchiusa nel palazzo. Ghismunda però è giovane e si stanca presto: decide quindi di trovarsi un amante e sceglie Guiscardo, un valletto di corte, e lo invita in una grotta poco distante».

Crowley, al contrario di quanto aveva creduto, si ritrovò immerso nella vicenda. Isotta non tartagliava più, anzi, parlava fluentemente e sembrava più rilassata. Non incrociò le braccia, stava retta in piedi e mise le mani in tasca. Quando finì, suo zio rimase un po' deluso.

«E muoiono? Così?»

«Te l'ho detto che parlavano anche di amori infelici».

Qualcuno bussò all'ingresso, due colpi delicati. «Crowley!»

Era una voce femminile. Isotta si agitò. «Chi è?»

«Oh, è Anathema. La nostra vicina. Vieni, così la conosci». Senza aspettare una risposta, le prese la mano e la trascinò fino alla porta. Quando aprì, vide Anathema con un sacchetto in mano che emanava un profumo dolce e invitante. Al suo fianco, Newt salutò con fare impacciato. «C-ciao, Crowley».

«Salve ragazzi». Diede un colpetto alla schiena di Isotta. «Lei è mia nipote».

«Buongiorno» fece lei, piano.

«Mi chiamo Anathema, insegno storia nella stessa scuola di tuo zio». Indicò Newt, che accennò un saluto con la mano. «Lui è il mio ragazzo».

Crowley li invitò a entrare e Isotta lo aiutò a preparare tè e caffè. Anathema aveva portato dei biscotti alla vaniglia appena sfornati, che porse alla ragazza con un gran sorriso stampato in volto.

«Com'è andata in Italia?» chiese Newt sorseggiando del tè.

«Molto bene» disse Crowley. «Ma tante scartoffie. Davvero, una montagna».

«Immagino» fece Anathema. «Dovremmo andare anche noi in Italia, è un posto meraviglioso». Si rivolse a Crowley. «Ai ragazzi manchi, comunque».

«Dubito che il professore di fisica possa "mancare"».

«Avanti, a loro piaci».

«Se lo dici tu».

Loro due continuarono a discutere. Newt spostò la sua sedia e si sporse verso Isotta. «Allora...», lei alzò la testa. «Che impressione ti dà Londra?» Lo disse in modo quasi imbarazzato, senza guardare la ragazza in viso.

Lei boccheggiò prima di rispondere. «È... caotica. E grande, molto grande». Rimase su un piano il più generale possibile. «E piove» aggiunse in fretta scorgendo numerose gocce sul vetro della finestra dietro Newt. «A Trieste di solito fa molto caldo in questo periodo».

«Oh, capisco» si grattò la nuca, cercò di attirare con gli occhi l'attenzione di Anathema, ma forse non voleva interrompere la sua discussione con Crowley. «Hai già qualcosa in programma?»

Isotta pregò ogni dio perché quella conversazione blanda terminasse. «Non so, farò un giro per i quartieri più famosi. Magari visiterò qualche museo».

«Mh» mormorò lui. «Sono belli i musei».

«Già».

Newt si appoggiò allo schienale e non disse altro. In seguito, la salutò insieme ad Anathema e aggiunsero: «Se serve qualcosa, siamo qui di fianco».

«È brava gente» disse Crowley quando si congedarono. «Di loro ti puoi fidare».

Annuendo, Isotta prese a sparecchiare e a sciacquare le tazzine. Suo zio la raggiunse e le diede una pacca sul braccio. «Lascia, faccio io. Potresti mettere i dolci di Anathema nella scatola blu vicino al frigo?»

Obbedì. L'odore di vaniglia, invece di farle venire l'acquolina, la nauseò. Aveva l'appetito sotto zero, sebbene avesse bevuto un misero bicchiere di latte zuccherato e ingurgitato un biscotto. Già prediceva la preoccupazione di Crowley a pranzo.

«Comunque» disse suo zio. «Hai sentito che Anathema insegna storia. Anche tu vuoi insegnare, no?»

«Sì, letteratura. Per ora l'idea è quella».

«Ogni tanto facci una chiacchierata. Ti saprà consigliare sicuramente meglio di me».

Borbottando un "mh-mh", Isotta tornò nella sua stanza. Crowley, nel frattempo, rifletteva su cosa avrebbe potuto fare per toglierle quell'espressione da funerale che aveva in volto. Anche lui avrebbe dovuto parlare con Anathema, magari sull'argomento "come alzare a lungo termine l'umore alle persone senza sembrare un completo idiota o perdere la testa".

Sfogliò qualche pagina del saggio che aveva lasciato sul tavolo, ma concentrarsi era impossibile. Udì il rumore di oggetti spostati che proveniva dalla camera di Isotta, come sempre lasciata aperta. Attese qualche minuto, poi sbirciò dentro.

Negli scatoloni c'era ancora qualcosa, ma ormai buona parte della stanza era occupata da libri, DVD e gingilli vari: pupazzetti, calamite, souvenir, fotografie. Due cose lo catturarono in particolare: un grande disegno fatto a mano raffigurante una caricatura di Dante Alighieri, con una citazione che non fu in grado di leggere, e un poster di Amy Winehouse. Fu in quell'istante che una lampadina gli si accese nella mente.

«Hai finito?» le chiese in fretta. Si maledisse subito, probabilmente era apparso seccato.

«Uh, beh, sì».

«Prendi giacca e ombrello, ti porto in un posto che ti piacerà».

«Ma fuori piove».

«Meglio, ti adatti subito al clima».

Camminarono in fretta lungo la strada affollata. Isotta gli stava attaccata: forse, pensò Crowley, non era abituata a passeggiare in mezzo a un tale grumo di gente e temeva di perdersi.

Grondanti di pioggia, raggiunsero la statua in bronzo di Amy Winehouse, miracolosamente scevra di turisti. Quando Isotta sollevò il cappuccio, Crowley vide i suoi occhi spalancarsi. Sorrise, oh Signore come sorrideva. Rimase immobilizzata per qualche secondo, poi iniziò a saltellare davanti a suo zio. «Oddio, oddio, mi fai una foto? Ti prego, una sola!»

A Crowley ci volle un attimo per realizzare che lo scricciolo bagnato davanti a sé era sua nipote e non un sosia alieno. «Certo, certo. Veloce però, ché tra poco mi sa che diluvia».

Sorridendo insieme a lei, pensò Dio, Satana, chiunque, datemi la forza.

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Capitolo 3
*** Capitolo Tre - Nelle braccia del Tamigi ***


Non aveva mai trascorso l'estate così lontana da casa, senza suo padre, senza Ilenia, senza il mare. La stagione calda a Londra, questo se lo aspettava, era molto diversa da quella italiana: pioggia più frequente, meno temporali, temperature che di rado toccavano i venticinque gradi e meno ore di sole; fu costretta a rinunciare a costumi da bagno e pantaloncini, alle gite in barca e alla Slovenia, ma, come in Italia, era sola a casa per buona parte della giornata, essendo Crowley impegnato con la scuola. I primi giorni non osò mettere il piede fuori dal palazzo, intimorita dalla grandezza e dalla caoticità di quella città che aveva visto solo nei film, così diversa dalla sua placida Trieste, ma, spinta da un'indicibile curiosità, a luglio si tuffò tra la folla londinese armata di cartina. Passeggiò lungo il suo isolato e presto imparò a orientarsi, ma non aveva fatto ancora i conti con il resto di Londra. Tentata, si avventurò più volte oltre i confini di Camden e la sua poca praticità nelle uscite solitarie in luoghi così nuovi si fece vedere ben presto: scordava i punti di riferimento, imboccava tre volte la stessa strada senza accorgersene e non riusciva a capire l'immensa e colorata mappa della metropolitana o dove fermassero gli autobus.

Una volta, di ritorno da Piccadilly Circus, l'autobus su cui sedeva stava percorrendo una tratta del tutto opposta a quella che avrebbe dovuto seguire secondo i calcoli di Isotta. Seduta accanto al finestrino, osservava le strade sconosciute mentre il cuore accelerava e la bocca dello stomaco si sigillava e, colpita da un lampo di adrenalina, agguantò la borsa accanto a sé e scese alla prima fermata disponibile.

Si guardò attorno: non aveva mai visto quell'insegna, quel bar era nuovo, i palazzi troppo colorati, il Big Ben in una posizione anomala. Maneggiò la cartina balbettando sottovoce imprecazioni in italiano, con il volto privo di colore e il respiro sempre più irregolare. No, via la cartina, prima doveva calmarsi, prendere due grandi boccate d'aria, chiamare suo zio- no, doveva uscire da sola da quella situazione e Crowley era a scuola, a lavorare. Non poteva disturbarlo. Eppure, il solo fatto di guardare la cartina la faceva scoppiare in lacrime. Suo padre l'avrebbe additata come una bambina, avrebbe anche avuto ragione, forse, e non l'avrebbe più lasciata uscire da Trieste per due settimane, nemmeno con Ilenia.

Un piccolo tocco sulla spalla la fece saltare. «Ehi!». Voce estranea, di donna, giovane, un soffio di vento portò davanti ai suoi occhi delle ciocche rosso fuoco. Isotta si scusò in fretta, fin troppo, dato che rispose prima in italiano e poi in inglese.

«Stai bene?» chiese la sconosciuta. Alta, snella, con un giubbotto di pelle addosso, labbra scarlatte e due occhi azzurri che la fissavano preoccupata ma, Isotta ne fu certa, anche divertita.

Si diede uno schiaffetto sulla guancia. L'avrebbe presa per matta, ma ne aveva bisogno. «Sì, benissimo».

La ragazza ridacchiò. «Sicura, piccola?»

«Ho quasi diciotto anni» e non sono la tua sorellina.

Inclinò la testa di lato, senza smettere di sorridere. «Su, scherzavo. Sei straniera, vero? Ti serve una mano?».

«No» rispose secca. «No, ok, sì, non so che fare».

«Oh, è normale, piccola» finiscila. «Avanti, dove devi andare?»

La portò alla fermata per Camden e la salutò con un cenno della mano. Non le disse il suo nome. Tornata a casa, Isotta si bagnò il viso con l'acqua gelata, spargendola per tutto il pavimento.

La seconda volta che si perse non fu così fortunata. Sbagliò la fermata della metropolitana e imboccò l'uscita errata. Girovagò un po', nella speranza di capire dove fosse e in quell'istante, frugando nello zaino, una scarica di terrore si impossessò di lei: aveva dimenticato la cartina sul sedile della metro.

Quel pomeriggio tentò di calmarsi entrando in qualche negozio, ma ben presto si arrese. Chiamò suo zio con le mani che tremavano mentre cercava il suo numero nella rubrica. Si precipitò da lei prima della fine delle lezioni.

«Perché non mi hai chiamato subito?» le chiese quando furono in macchina. «Sarei venuto all'istante!»

«Eri a scuola, non volevo disturbarti».

«Ma chissenefrega - perché questo qui va così lento, dannazione - se ti perdi in mezzo a Londra di certo non ti mollo così».

«Il pedone!»

«Eh?»

«C'è una persona sulla strada!»

La schivò di striscio. «Se cammina in quel modo sa cosa rischia».

Isotta non si sarebbe mai abituata alla guida spericolata di Crowley nemmeno provandoci. Durante i due mesi passati insieme a lui, aveva arricchito il suo - magro - vocabolario italiano con parole come "frena", "piano", "attento", ma anche "porca puttana".

«A casa ti spiego come funzionano i mezzi» le disse.

Isotta fu punta nell'orgoglio. «So come funziona un autobus».

«Forse a Trieste, di sicuro non qui».

«Devo solo ambientarmi un po', in Italia uscivo poco da sola, papà non mi lasciava».

«Appunto». Poi si voltò verso di lei. «Aspetta, cosa? Ma hai quasi diciotto anni!»

«Lui non voleva, a meno che non ci fosse Ilenia. A malapena mi lasciava uscire dalla città».

Crowley mormorò scocciato un "cretino" mentre svoltava a sinistra. Dopo quell'evento, Isotta trascorse quasi ogni giorno in casa.

Suo zio la lasciò libera di fare ciò che più preferiva, ma lei si stancò presto di riguardare i suoi film. Non aveva voglia di leggere, né di studiare, sebbene avesse l'impressione che i libri abbandonati sulla scrivania la guardassero con rimprovero: non aggiungeva un segno a matita all'"Orlando Furioso", lasciato a metà, da almeno tre mesi, mentre le pagine di "Una voce dal lago", uno degli ultimi libri che Ilenia le aveva regalato, non vedeva la luce dalla fine degli esami.

L'unica lettura che si concesse in quel periodo fu quella dei quotidiani che suo zio portava a casa la domenica mattina. Fu in una ventosa giornata di fine luglio che, annoiata, sfogliando le pagine del "Financial Times", trovò un piccolo articolo incentrato su un giro di affari sporchi intorno ad alcune opere d'arte su cui si indagava nel triestino. Ritagliò il quadratino di carta e lo infilò tra le pagine del "Canzoniere" di Petrarca.

Per un po' si lasciò alla più completa pigrizia, ma solo quando Crowley non era in casa. Si sentiva vuota, come se il filo dell'apatia le avesse legato la mente e le mani. Guardava il mondo come un malato a letto guarda la pioggia battere sul vetro, come qualcosa che sì, esiste, ma in quel momento non è un problema suo. L'unica sua luce, in quel periodo in cui sembrava essere sempre notte, erano le videochiamate con Ilenia, quando si rilassava nella sua stanza con il PC sulle ginocchia, stesa a letto, con la voce di lei. Dietro lo schermo le appariva vicinissima, credeva di poter toccare la sua pelle solo alzando il dito. A volte ci provava, incontrando il calore del monitor. Insieme facevano qualche gioco infantile, anche online, oppure parlavano per ore e ore. Quando tutto finiva, Isotta chiudeva gli occhi e sognava il loro Castello, loro due sul molo, nei giardini. Le mancava il suo odore, quel profumo che non sapeva descrivere, la fragranza che diceva "è lei", che la inebriava insieme alla salsedine.

L'ozio, però, diventò presto stretto e velenoso e alimentò dentro di lei fitti sensi di colpa: aveva bisogno di fare qualcosa, qualunque cosa per non sentirsi un peso in quella casa così estranea, ma altrettanto velocemente elaborò un modo per fuggire dalle coperte del letto. Osservando il frigorifero e la dispensa trovò solo cibi surgelati, già pronti, oppure alimenti molto semplici e facili da cucinare. Decise così di tornare operativa: Crowley pranzava a scuola, ma la sera lo accoglieva con una buona cenetta in cui di solito dominavano i sapori del Mediterraneo. Era quasi un dovere, per lei, fare qualcosa per lui. Sebbene non fosse un gran mangiatore, apprezzava sempre e il cuore di Isotta si riempiva di gioia ogniqualvolta entrava sorridente in casa e posava gli occhi sulle padelle o sul forno acceso. Inoltre, lei ritrovò il piacere tra i fornelli.

Recuperò anche i suoi quaderni di pasticceria che non toccava da mesi e sfornò torte e biscotti in quantità industriale. Conobbe i proprietari romani di un piccolo negozio di alimentari italiano poco distante da casa sua, che divenne il suo posto preferito per la spesa. Crowley dovette implorarla di moderarsi per evitare che i costi delle bollette toccassero le stelle, ma lei lo beccava spesso a rubare qualche delizia dalle scatole.

Impararono anche a convivere con le reciproche abitudini: Isotta teneva la porta di camera sua aperta e Crowley la sera abbassava al minimo indispensabile il volume della televisione, o apriva l'uscio d'ingresso il più piano possibile quando tornava tardi da una serata al bar. Sopportò le macchie di farina o di crema che ogni tanto Isotta lasciava e non fece più caso ai profumi intensi della cucina italiana. Lei, dal canto suo, si allacciava per bene la cintura in macchina, dove gli aveva strappato il permesso di mettere i CD della Winehouse, e iniziò a ignorarlo ogniqualvolta sbraitasse contro le sue piante, nonostante a volte avesse qualcosa da ridire.

«Perché hai buttato la piantina nuova? È sanissima!»

«Aveva una macchia sulla foglia» rispose lui senza guardarla. «Avrebbe dovuto crescere meglio! Servirà da lezione alle altre».

«Ah, se lo dici tu».

Di nascosto, recuperò quell'esserino e lo mise sul davanzale della sua finestra. Morì dopo tre settimane.

«Visto?» l'aveva punzecchiata Crowley. «Sei stata troppo buona».

Scuola permettendo, suo zio si procurò dei momenti per loro due. Quando il sabato non usciva per bere un drink con i suoi colleghi la portava fuori a cena nei pub e al cinema, visitarono insieme il British Museum, Buckingham Palace e salirono sul London Eye con Anathema e Newton («Il panorama puoi guardarlo anche senza attaccare il naso al vetro, sai?» l'aveva punzecchiata).

Compì diciotto anni il 29 di agosto. Quella mattina la destarono le dita affusolate di suo zio immerse nei capelli. «Auguri, principessa».

Si liberò dal bozzolo di lenzuola intorno al suo corpo e seguì suo zio in cucina, dove un cestone da picnic si ergeva, ancora aperto, sul tavolo da pranzo.

«Ti sei dato da fare». Fece per sbirciare, ma Crowley le chiuse il coperchio in faccia. «Dopo. Preparati, ché dobbiamo partire».

Non se lo fece ripetere: buttò giù il suo solito bicchiere di latte e, con ancora mezzo biscotto in bocca, si precipitò in camera per cambiarsi.

Pranzarono nella radura di un boschetto immerso nella campagna inglese, su una vecchia tovaglia a quadri che odorava ancora di ammorbidente.

Isotta, impaziente, aprì il cesto e lo trovò stracolmo. «Deve arrivare un esercito o aspetti un attacco di fame?».

«Non ridere, mi sono impegnato!».

«Non lo metto in dubbio. Con cosa sono i panini?».

«Un po' di tutto. A destra ci sono quelli che ti piacciono tanto, con formaggio e marmellata. Ho preso anche un salame dal negozio italiano, il tizio mi ha detto che ti sarebbe piaciuto, lo ha fatto arrivare da un paesino della tua regione».

«Mi fido della parola di Roberto» scavò a fondo nel cesto ed estrasse un sottile salame con un'etichetta attaccata. «Bassa friulana. Sono buoni questi».

Suo zio fece spallucce. Appoggiò lo zainetto sul terreno e tirò fuori una bottiglia piena di liquido ambrato. «Bicchierino?».

Isotta, con la bocca già piena di pane e formaggio, inclinò la testa. «Rum?».

«Non fare la santa, so che hai bevuto in vita tua».

Mandò giù il boccone e incrociò i piedi. «Sì, qualche goccio di birra, vino, quelle cose leggere...».

«Forse se lo dici guardando me e non l'erba sei più credibile».

«Va bene, dài! Una volta sola».

Suo zio aveva già riempito il fondo di due piccoli bicchieri di plastica. «Avanti, è il tuo compleanno».

Accettò il bicchiere e l'odore pungente le trafisse il naso. Lo ricordava più dolce nei babà che preparava con Ilenia. Senza respirare, lo scolò tutto d'un colpo e tossì mentre un intenso bruciore si fece strada in gola. «Cristo-»

Crowley le diede due pacche sulla schiena. «Non serviva buttarlo giù così. Dovrei insegnarti un po' di cose».

Isotta respirò dandosi dei colpetti sullo sterno. «Gli assistenti sociali non avevano detto che avresti dovuto darmi il buon esempio?».

Suo zio scoppiò a ridere e, invece del rum, si versò dell'acqua. «Infatti guarda tuo zio che, sapendo di dover guidare, non esagera. È un esempio abbastanza buono?».

«Sì, può andare».

Quando finirono di mangiare le crostatine preparate da suo zio (di forma irregolare e con il bordo bruciacchiato) lui le passò un pacchetto incartato con cura, verde e un poco flessibile. Sciolse il nastro smeraldo e rivelò due libri sottili, entrambi in inglese: un saggio sul cinema britannico contemporaneo e "Otello" di Shakespeare.

«Non sapevo bene che farti» disse. «Anathema mi ha aiutato un po'. Ho visto tutti i tuoi film e ho notato che avevi un po' di libri di Shakespeare, quindi ho pensato che...» si passò una mano tra i capelli. «Voglio dire, probabilmente ti aspettavi un diciottesimo diverso, io ho fatto del mio meglio e spero che ti sia piaciuto. Ho anche prenotato i biglietti per il museo del cinema, oggi è chiuso ma domani possiamo andarci, comunque...».

Isotta si coprì la bocca con la mano per nascondere la sua risatina. Suo zio in quel momento aveva un che di bambinesco, con le gambe incrociate e lo sguardo puntato verso il basso che tentava di giustificarsi. Posò i libri sulla tovaglia, gli si avvicinò e lo avvolse in un abbraccio leggero, senza stringere. Sollevò la testa e gli scoccò un rapido bacio sulla guancia scarna. «Va benissimo così» mormorò.

Lui non si era mosso di un millimetro né aveva cambiato espressione, ma il suo volto era diventato rosso come i suoi capelli. Si voltò verso di lei e, con le dita che tremavano, le fece un buffetto.

Camminarono per i boschi fino a sera, quando il cielo fu abbastanza scuro per ammirare le stelle.

*

Gli parlò della sua idea di cercare lavoro una settimana dopo il suo diciottesimo, durante una serata temporalesca che aveva annullato i piani di bevuta di Crowley. Sedevano insieme sul divano e guardavano "La morte a Venezia", uno dei tanti film che Isotta aveva portato dall'Italia. Proferì quelle parole mentre Tadzio lanciava uno sguardo languido, complice ad Aschenbach. Suo zio premette il tasto pausa.

«Un lavoro?»

«Sì» rispose Isotta. «Qualcosa di semplice, ovvio».

Crowley sospirò e si strinse il ponte del naso tra le dita. «Ascolta, se pensi che ci sia un problema di soldi sappi che ho tutto sotto controllo. Non devi preoccuparti di nulla».

«No, no, hai frainteso».

«Spiegati, allora».

Portò le gambe sul divano e prese a massaggiarsi il ginocchio con le dita «Non so ancora cosa fare... della mia vita, in generale. Se stare qui o andare in Italia a studiare. Ma non voglio passare un anno a non fare assolutamente niente e ormai è tardi per iscrivermi all'università. Inoltre in questo modo potrei anche mettere qualcosa da parte».

Crowley parve riflettere per un attimo. «Ok» le disse. «Effettivamente non so quanto sia intrigante l'idea di startene chiusa in casa per un anno».

«C'è qualche annuncio su Internet, magari posso farteli vedere».

«Se ti può aiutare, va bene, ma sei sicura di voler proprio lavorare? Non vuoi fare, che so, un corso di perfezionamento di inglese? O di qualche altra materia che ti piace?»

«Ho il C1 di inglese» ribatté. «La lingua per me non è un problema e al momento non sono del tutto sicura di voler continuare con letteratura. Voglio pensarci su, ma voglio anche ripartire in qualche modo».

«Capisco» disse Crowley. Si girò verso di lei. «E cosa ti piacerebbe studiare, oltre a letteratura?»

La mano si Isotta sul ginocchio si rilassò. «Non lo so, sinceramente. Non c'è nulla che mi appassioni tanto quanto quella, ma al tempo stesso non sono convinta».

«Ma perché? Insomma, guarda quanti mattoni hai. Arriveresti più preparata della metà degli studenti».

«Papà...» si interruppe un attimo, Crowley fece una smorfia di disappunto. «Diceva che coi libri non avrei concluso nulla. Credeva che la letteratura fosse un hobby per finti colti e professoroni. In Italia la vita è un po' dura per chi si laurea in materie umanistiche».

«Be', tuo padre non c'è più» sbottò. «Nessuno può dirti cosa fare, nessuna materia è per "finti colti" e se sei brava a fare qualcosa fidati che la gente ti vuole. Anche il padre di Anathema le disse una cosa del genere, quando andò all'università: ripetere a pappagallo quello che ha fatto gente morta e sepolta secoli fa è una perdita di tempo».

«E l'ha lasciata studiare comunque?»

Crowley ridacchiò. «Diciamo che... Anathema sa il fatto suo. Se vuole una roba se la prende. Adesso insegna con me ed è amatissima dai ragazzi».

Isotta sorrise. «Dice che lo sei anche tu».

In risposta, scosse la testa serrando le labbra. «Gn. Sarà». Ritornò serio. «Comunque hai molto tempo per pensarci. Riguardo a tutto, dico... l'università, il lavoro, se stare qui o andare in Italia». Il film ripartì. «Se ti serve qualcosa... comunque... beh, io sono qui. Lo sai».

Lo disse quasi sforzandosi, come se faticasse a formulare le parole, ma Isotta ne fu contenta in ogni caso. In fondo non aveva nessun altro se non lui.

La sera successiva Isotta rimase alzata fino a tardi per guardare "Schindler's List". Poco prima della fine del film, Crowley entrò raggiante e anche un po' ubriaco. Ciondolava contro le pareti, ma riuscì a raggiungere il tavolo della cucina.

«Principessa, ho trovato qualcosa che ti piacerà» biascicò. Le mostrò una foto scattata con il cellulare. Era un po' scura, ma Isotta fu in grado di leggere tutte le parole scritte a mano su un foglio di carta. La grafia era sottile, dritta e delicata: la libreria "A. Z. Fell & Co" cercava una persona che potesse aiutare il proprietario nella vendita e nella schedatura dei libri. Non vi erano particolari requisiti, se non la maggiore età.

Isotta sentì il suo cuore fare un balzo. «Dove hai trovato questo posto?» chiese con un filo di voce.

Crowley inclinò la testa e si mise a guardare il soffitto. «Mh, aspetta, era... Soho. Sì, Soho. Non è lontano».

«Soho?» ridacchiò. «Sei andato in uno strip club?»

«Io?! Ma ti pare» affondò sulla sedia. «Ci sono cose molto più belle».

«Beh, in vino veritas» mormorò Isotta. «Vieni, ti porto a letto».

In un attimo, fu davanti al suo portatile. Digitò il nome della libreria, ma non comparve alcun sito o notizia rilevante. Scoprì però che si trattava di un negozio che vendeva anche prodotti antiquari e vi era una foto che illustrava uno scorcio dell'interno: scaffali ricolmi di coste marroni e rosse si ergevano contro i muri ricoperti da carta da parati nera. Intravedeva anche un soppalco retto da quattro colonne ocra in cui si apriva un foro rotondo con una ringhiera a fare da circonferenza. Vide due poltrone gialle, alcuni tavolini e tappeti persiani. Aveva un'atmosfera anticheggiante, un posto che aveva spesso visto nei film e che aveva sognato per anni.

Frenò presto la sua gioia: un luogo simile necessitava di cure precise. Forse quella libreria aveva più bisogno di una persona qualificata rispetto a una ragazzina appena maggiorenne, ma al tempo stesso pensò che provare non costasse nulla. Dentro di sé, però, sperava di aver trovato la sua occasione. Aveva passato due mesi nel vuoto più totale: doveva rinascere e quella libreria pareva il grembo perfetto per farlo. Per la prima volta, dopo settimane, dormì con la gioia nel petto.

Quando si sentì abbastanza sicura, andò a visitare Soho nel tardo pomeriggio. Non era molto lontano da Camden, quindi era certa che, se avesse di nuovo avuto problemi con i mezzi, avrebbe potuto ripercorrere la strada a piedi.

Non aveva intenzioni particolari: entrare, dare un'occhiata, conoscere il proprietario, magari comprare qualcosa, massimo un quarto d'ora di tempo. Aveva la possibilità di visitare quello che sarebbe potuto essere il suo luogo di lavoro e non farlo le sembrava un vero spreco. Inoltre, non varcava la soglia di una libreria da mesi.

Si godette la tiepida calura della sera, mentre osservava i locali prepararsi per la nottata. Un quartiere a luci rosse era qualcosa di completamente nuovo per lei, ma tentò di non distrarsi. Armata di una nuova cartina, aveva programmato il tragitto per intero. Per evitare di perdersi, chiese qualche indicazione e infine arrivò davanti alla porta della libreria. Il nome, scritto in giallo su fondo cremisi, stonava insieme all'abbondanza di titoli accattivanti, irriverenti e talvolta a sfondo sessuale che dominavano Soho.

Entrò con cautela, udì il suono di una campanella, mormorò un incerto "buongiorno". Un uomo, all'incirca della stessa età di suo zio, sedeva alla cassa con un libro in mano e una tazza di ceramica con due ali d'angelo accanto. Aveva i capelli corti, ricci e talmente biondi da risultare quasi bianchi ed era giusto un po' paffuto, ma la cosa che colpì di più Isotta furono i suoi abiti: indossava un lungo cappotto beige e un gilet marrone su cui spiccava un papillon di tartan. Un orologio da taschino baluginò nella debole luce della sera.

Quando si accorse di Isotta, alzò il volto e ricambiò il saluto. Le sorrise: aveva un'aria benevola e dolce.

Iniziò a girovagare per gli scaffali e il profumo della carta e dell'inchiostro le avvolse la mente come una droga. Stava bene, lì. L'aria era fresca e accogliente, il silenzio appena rotto dal rumore delle pagine un suono migliore di un'orchestra.

Diede una rapida occhiata ai manuali più antichi, ma una sensazione di disagio la prese d'assalto. Di sbieco, cercò di capire se l'uomo la stesse controllando e non aveva tutti i torti: non si era alzato, ma spostato quanto bastava per tenerla d'occhio senza farsi notare troppo. Non appena si allontanò dalla sezione dei libri pregiati, però, riprese a leggere per conto suo.

Sfogliò alcuni libri di narrativa britannica e, mano a mano che pescava e riponeva i titoli, avanzò verso la letteratura classica. Vide un libro non molto corposo posto sugli scaffali più alti, con la costa viola e il titolo in bianco, "The professor, by C. Brontë". Sollevandosi sulle punte dei piedi, lo afferrò con i polpastrelli e quasi le cadde.

«Cara-»

«Ah!»

Si girò di centottanta gradi. L'uomo vestito all'antica le stava sorridendo, ma non appena udì il suo urlo di spavento si fece minuscolo.

«Scusami! Non volevo farti paura...». Indietreggiò di un passo.

Isotta, ripresa, gesticolò freneticamente con le mani. «No, no, ero solo... No, volevo dire, non fa niente, sul serio».

Lui sembrò rasserenarsi. «Volevo solo dirti che chiudo fra pochi minuti».

«Uh, sì, ho finito».

L'accompagnò alla cassa. Isotta gli allungò una banconota da dieci sterline e lui infilò il libro in un sacchetto. «Sei in vacanza?» le chiese.

Lo guardò stranita. «No, perché?»

«Non sei di qui, giusto?»

«Mh, no, sono italiana», prese il sacchetto. «Vivo qui».

Annuì. «Capisco». Chiuse la cassa. «Scusa ancora per prima».

«Non c'è problema, davvero».

Si salutarono e Isotta lasciò il negozio. A parte lo spavento, le aveva fatto una buona impressione. Il foglio che Crowley le aveva mostrato era ancora appeso alla porta a vetri.

Appena rincasò iniziò a scrivere la bozza del curriculum da inviare.

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Capitolo 4
*** Capitolo Quattro - Febbraio ***


Il rumore della penna rossa sulla carta risuonò tra le pareti della camera di Crowley. "Merda, merda, merda, merda..." ripeteva a denti stretti, sfogliando un'ultima volta l'unico compito rimastogli da correggere.

«Oh, Satana» esalò gettando la testa all'indietro. «Dai a me la forza e una sufficienza a questa creatura». Strinse le dita sui bordi della carta, in procinto di strapparla, ma si fermò.

Riordinò i fogli e li pose all'interno di una cartellina nera con l'immagine di un serpente, forse non la cosa più consona e professionale per un insegnante, ma la sola volta in cui glielo avevano fatto notare Crowley era tornato il giorno dopo con un tatuaggio vicino all'orecchio. Attraversò il breve corridoio e mantenne la sua andatura ondulata fino alla cucina, dove Isotta, mentre stendeva la pasta per la pizza fatta in casa, ascoltava la lettura della sentenza di "Nuremberg". Gettò uno sguardo alla tv: l'audio era in inglese, così come i sottotitoli che ogni tanto Isotta sbirciava. Era strano non udire i toni caldi del doppiaggio italiano o della voce di Marcello Mastroianni, per una volta.

La domenica avevano preso l'abitudine di mangiare la pizza. O meglio, Crowley l'aveva fatto, perché Isotta manteneva quella tradizione da tutta la vita, ma la pizza che preparava lei avrebbe tentato persino il diavolo, per cui a Crowley non dispiaceva. E infatti divorava sempre il doppio di quanto lei riuscisse ad accaparrarsi. Non che fosse mai stato un grande amante del cibo: il suo pasto più corposo, un tempo, era la cena, che spesso non andava oltre una bistecchina riscaldata e condita alla bell'e meglio e una magra insalata, molte ore dopo un pranzo composto, la metà delle volte, da un tramezzino con dentro ciò che trovava nel frigo, qualunque cosa fosse. L'arrivo di Isotta aveva scombussolato del tutto le sue scatolette del pranzo dove ormai trovava pastasciutte, polpette al sugo, verdure cotte, fette d'arrosto. Era ingrassato di quasi due chili, ma quando lo aveva scoperto se n'era fregato.

«Con cosa oggi, principessa?» le chiese appoggiando il gomito sulla sua spalla.

«Sfilacci di cavallo e rucola». Indicò il braccio di Crowley. «Non riesco a stendere per bene la pasta, se lo tieni lì».

Lui sbuffò e iniziò a preparare la tavola. «Ho finito di correggere gli ultimi test».

«E?»

«Gn. Un po' di schifezze».

«Dato che ho sentito i poveri fogli venire martoriati in camera tua, me lo immaginavo».

«C'è quel ragazzo, Warlock, non ne fa una giusta. Non dico due, una! Mi fa impazzire».

«A sua discolpa posso dire che la tua materia non è facile».

«In compenso sono un pessimo letterato». Aprì una bottiglia di vino e si stravaccò sulla sedia. Si scolò due bicchieri, studiando Isotta mentre cucinava. Quando lo faceva iniziava raramente una conversazione, ma parlando non tartagliava, non si bloccava, le parole uscivano fluide. Muoveva avanti e indietro le braccia pallide e robuste e le manine stringevano un piccolo mattarello di plastica. Ogni tanto, spargeva della farina.

«Non mi hai mai detto come andavi in fisica, a proposito».

Isotta si voltò verso di lui, la sua immagine gli apparve oltre il fondo del bicchiere quasi vuoto. «Benino, diciamo». Ghignò, un velo di malizia. «Anche se non era tutto merito mio».

«Oh? La studentessa modello Fonda che imbroglia?». Rispose imitando la sua espressione di scherno.

«Dai, lo abbiamo fatto tutti». Iniziò a spargere la passata di pomodoro. «In classe c'era questa ragazza, Elisa, che andava male in tedesco ma eccelleva nelle materie scientifiche. Così abbiamo stretto una sorta di... tacito patto»

«Ossia?» Crowley si sporse verso di lei.

«Io le avrei dato ripetizioni di tedesco, lei di fisica e avremmo cercato di passarci qualcosa durante le verifiche. Sì, non c'è molto di cui vantarsi, però un pochino mi eccitava. Barare, dico».

«Eh, il gusto del proibito». Ci fu una pausa, Isotta infornò le pizze e si sedette di fronte a Crowley. Teneva i gomiti sul tavolo, senza stringersi la maglietta addosso, e lo guardava dritto negli occhi. Le sue gambe presero a dondolare sotto al tavolo. Fu contento di quella disinvoltura e accennò un sorriso.

«E questa tipa... era tua amica?»

Sua nipote fece spallucce. «Parlavamo, ci scrivevamo, ogni tanto uscivamo insieme. Ma non avevamo molto in comune e solitamente discutevamo di scuola e basta. Quando ha scoperto ciò che è successo a mio padre ha preso le distanze e lì ho capito che nessuna di noi due era veramente affezionata all'altra».

«Alla fine è in quelle situazioni in cui capisci chi ti è amico».

«Comunque... non ero proprio una "studentessa modello"». Picchiettò tra di loro i polpastrelli. «Avevo voti alti nelle lingue e in italiano, il resto andava come andava».

«Ognuno di noi ha una certa propensione per qualcosa» le rispose. Si alzò e afferrò la copia del curriculum che qualche giorno prima avevano inviato alla libreria di Soho che aveva adocchiato mezzo ubriaco. Sul momento non ci aveva badato molto, soprattutto a causa dell'alcol in corpo. Vista la zona, avrebbe potuto essere un negozio di libri pornografici e lui l'aveva proposto a sua nipote, ma si era tranquillizzato quando l'aveva vista tornare con un libro di Charlotte Brontë.

«Sai sei lingue» le disse rigirandosi il foglio tra le mani.

«Più o meno, in sloveno fatico ancora e non ripasso russo da un po'».

«Ma hai un C1 in inglese e francese e un B2 in tedesco. Nessuno studente inglese ha un curriculum del genere alla tua età. Soho attira i turisti, questa roba ti tornerà utile».

«Però ormai tutti sanno l'inglese».

«Oh, no, fidati. E poi mica devi usare le lingue solo per parlare, potresti aiutare il tizio della libreria con la letteratura straniera. Inoltre non hai altro a parte un semplice diploma, quindi devi giocarti bene tutte le tue carte». Prese in mano la fotocopia che giaceva insieme al curriculum. «Quanto hai detto che era?». Indicò la parola in italiano in basso a sinistra.

«Novantadue» disse in maniera sommessa.

Crowley sollevò un sopracciglio. «Non mi sembri molto contenta. Perfezionista?»

«No, è solo che...» Crowley si sedette accanto a lei, appoggiando il mento e le braccia sullo schienale della sedia.

«Mh?»

«È stato papà a mandarmi lì. In quella scuola, dico».

Sei rimasto bastardo. «Non ti piacciono le lingue?»

Isotta inclinò la testa a sinistra, gli occhi puntati in basso. «Beh, sì, più o meno. Sono brava».

«No, non ti ho chiesto se sei brava, quello l'ho già visto. Ti ho chiesto se ti piacciono».

«Mi piacciono l'inglese e il francese».

«E ti ha mandata lì per quello?»

Isotta non lo guardò. Incrociò le braccia, poi le gambe. Crowley fece per alzarsi, ma poi si inchiodò di nuovo alla sedia. No, non l'avrebbe mollata in quel modo. Doveva solo capire come far parlare sua nipote senza che si chiudesse a riccio. Facile a dirsi.

«Tu cosa avresti voluto fare?»

Non rispose subito, ma sciolse le gambe. «C'è una scuola in Italia che si chiama liceo classico. Si studiano il greco e il latino ed è più incentrata sulle materie umanistiche. Ma come ti ho detto per lui era inutile».

«È l'unico motivo?»

Altra pausa. Forse avrebbe dovuto lasciarla in pace, pensò. Magari si trattava soltanto di un piccolo dettaglio poco rilevante di cui però si vergognava, ma al tempo stesso avrebbe potuto esserci qualcosa di più. Da uno come Giovanni, quel tizio ossessionato dall'arte che sua sorella aveva sposato, si sarebbe aspettato di tutto, dopo che, senza dire una parola ai suoceri, aveva portato via sua figlia dal Regno Unito come un fuggiasco.

Dato che il silenzio di Isotta non dava segno di rompersi, le mise una mano sulla spalla. Quel gesto la fece scattare: «Era per la sua fidanzata».

Crowley fece una smorfia perplessa. «Eh?»

«La sua quarta fidanzata». Quarta? Si è dato da fare, il bellimbusto. «Ti ricordi la mia scuola, quella privata e quadriennale? Era un esperimento e la sua ragazza lavorava da un po' a questo progetto e il loro rapporto stava andando a rotoli perché lui faceva lo stronzo. Ha cercato di salvarsi in corner mandandomi là». Crowley incontrò i suoi occhi grandi, di colori diversi, lucidi. Le guance le erano diventate rossastre. «Mi ha usata per riparare al disastro che aveva combinato. E non è servito a un cazzo, perché lei se n'è andata».

Suonò il timer. Senza degnarlo di uno sguardo, Isotta andò a controllare il forno. Crowley la seguì e posò le mani sulle sue, tremanti. «Lascia, principessa, faccio io».

Tagliò la pizza e Isotta si sedette, passandosi la mano davanti agli occhi a una velocità disarmante. Mangiarono senza parlare e Crowley, tra un boccone e l'altro, si malediceva. Isotta buttava giù i pezzettini intrisi di pomodoro con lunghe pause e giocherellava con gli sfilacci. Non riuscì a incontrare il suo sguardo.

Era stato troppo avventato. Dopo settimane, mesi di convivenza era riuscito a creare un ponte tra loro due, sottile, invalicabile se non si prestava attenzione. Di colpo lo aveva oltrepassato e distrutto e non capiva se fosse un bene o un male. Isotta non si era mai aperta in questo modo con lui e forse, pensò Crowley, farlo in quel modo l'aveva scossa.

Quella ragazza era ancora un enigma: a Trieste avevano parlato poco e non aveva osato rivelargli un solo dettaglio riguardo alla sua vita prima delle sue settimane in casa-famiglia; a Londra le piaceva discutere dei suoi libri, di Boccaccio e Dante e Pirandello (aveva passato dieci minuti buoni e spiegargli cosa fosse il metateatro), dei musei, della città, degli studenti di Crowley, ma non una sola parola su di sé.

Isotta finì la pizza, incrociò le braccia e i piedi, portava lo sguardo a destra, poi a sinistra, in alto, muoveva la testa qui e là. Crowley studiò quell'immagine e una sensazione di déjà-vu lo avvolse. La cucina e il corridoio sparirono e divennero mura bianche e crema, un giovane soldato in TV tacque e la sua voce venne sostituita da una stridula di donna, frasi in inglese appena toccate da un delicato accento italiano.

«Signor Crowley?». Reggeva una cartellina e una penna in metallo spuntava dal taschino della giacca nera. Una coda di cavallo scura dondolava da un lato all'altro della testa e ciuffi corvini le incorniciavano il volto olivastro. «Ci siamo già sentiti per telefono. Sono Marta Grieco».

«Mh, sì». Certo, sicuramente l'aveva sentita. Aveva parlato con quattro donne prima di arrivare in Italia e non ricordava nessuna Marta Grieco. Bell'inizio.

Lo fissò, la bocca serrata in una linea retta. «La psicologa di sua nipote».

L'aveva già irritata. Gli mancavano i suoi manuali di astrofisica e non aveva nemmeno conosciuto la ragazzina. «Certo, la psicologa».

La dottoressa Grieco sospirò, ma non si scompose. Gli chiese di attendere qualche minuto e lo lasciò solo nella piccola sala d'attesa. Si appoggiò contro il muro, ascoltando distrattamente sottili voci che blateravano al piano di sopra in quella lingua distante, mediterranea, con quella "r" dura e le vocali quasi sempre alla fine delle parole. Quando Helen si era fidanzata aveva cercato di impararla, con risultati discreti: viaggiava da un Paese all'altro senza problemi ed era in grado di intrattenere semplici conversazioni. Lui, invece, a malapena sapeva leggere la carta del bar, ma quantomeno aveva imparato a chiedere dove fosse il bagno e come si dicesse papera, ma giusto perché un ragazzino in fila con lui all'aeroporto ne aveva comprata una di peluche prima di partire. A cosa gli servisse una paperella di peluche era ancora un mistero.

La psicologa non tornava e, anche se non voleva ammetterlo, quell'attesa lo stava uccidendo. Le mani grondavano di sudore dentro le tasche dei pantaloni e portava il peso del corpo da un piede all'altro. Ogni tanto sibilava innervosito.

Per distrarsi, frugò nella giacca e recuperò le lettere che Isotta gli aveva spedito. Poco dopo la notizia, gli assistenti sociali in Inghilterra gli avevano detto che, in accordo con la dottoressa di sua nipote, uno scambio epistolare sarebbe stato un buon modo per iniziare a costruire un rapporto. Facile dirlo, quando non sei tu a scrivere a una ragazzina di diciassette anni che hai visto quando ancora aveva il pannolone e vomitava a ogni pasto e una sola altra volta, per puro caso, anni prima, un incontro che ancora rammentava come il più imbarazzante di tutta la sua vita.

La grafia di Isotta era un insieme di ghirigori, cerchi e forme tonde e grosse, che procedeva dritto e compatto su un foglio piccolo e bianco.

Buongiorno zio.
la dottoressa mi ha informato riguardo alle lettere. Ho ricevuto la tua meno di mezz'ora fa. Sto scrivendo di getto, ma non so davvero cosa dirti.
Sto bene, più o meno. Qui tutti sono gentili, non è male. Continuo ad andare a scuola, ho anche gli esami quest'anno.
Mi hai detto di avermi vista quando ero molto piccola. Mi dispiace non ricordare nulla.
Non sono mai venuta in Inghilterra. Solo in Irlanda. È bella, l'Irlanda. Sono simili? Si potrà raggiungere il mare? Mi piacerebbe vederlo, ogni tanto. Sai, mi mancherà vivere al mare.
La dottoressa dice che sarebbe carino lasciarti qualche foto. Le trovi nell'altra busta. Alcune sono di Trieste. La ragazza coi capelli neri è Ilenia. Le voglio molto bene. L'ultima foto è stata scattata in Slovenia. Se hai un po' di tempo libero dovresti andarci, è molto bella.

Attendo la tua prossima lettera e il tuo arrivo.
Isotta Fonda

Quando l'aveva letta per la prima volta aveva pensato fosse una sorta di scherzo. Assomigliava vagamente alle mail che gli mandavano i suoi studenti, con quel "buongiorno" e la firma con nome e cognome. Aveva guardato anche le fotografie, ogni sera, prima di dormire. Una in particolare gli era rimasta impressa: Isotta e la ragazza di nome Ilenia in motonave, in balia del vento, sorridenti e baciate dal cocente sole estivo.

Ilenia aveva gli occhi puntati su sua nipote. Conosceva quello sguardo. Non fece però tante supposizioni.

Aveva anche altre lettere, tutte brevi e concise e con qualche foto allegata, poche frasi in cui parlava unicamente della sua vita nella casa-famiglia e della scuola: i pasti accettabili, gli operatori dolci e disponibili, la professoressa di inglese che le regalava un libro, la verifica di italiano che era andata molto bene, la bora che la costringeva dentro casa. Suo padre non compariva mai, tantomeno dettagli sulla sua vita prima che accadesse tutto, né altri nomi al di fuori di Ilenia e del suo nuovo compagno di stanza, Edoardo. Gli aveva detto di aver cambiato camera: il compagno con cui dividevo la stanza prima aveva qualche problema. Hanno preferito mettermi con Edoardo. È molto caro (tutte quelle frasi corte lo irritavano non poco).

Le lettere di Crowley erano, di solito, più lunghe, ma forse si trattava solamente della sua grafia larga e bassa. Le parlò di Londra, le chiese come stesse, le fece domande via via più personali (cosa le piacesse studiare, come passasse il tempo, dove preferiva andare in vacanza). Non vi rispose mai.

Passi regolari di tacchi si fecero mano a mano più forti. La maniglia della porta si abbassò e Crowley fece appena in tempo a ricacciare le lettere nella tasca. La signora Grieco lo chiamò e gli fece cenno di seguirlo.

Camminava a tre passi di distanza, soffocato dall'odore del suo profumo alla lavanda, finché non giunsero in una stanza piccola, illuminata dalle luci a led. Fuori dalla finestra il sole di febbraio li aveva già abbandonati.

Crowley si sedette davanti a un tavolino posto in fondo. Davanti a sé, una seggiola vuota. Il cuore iniziò a battergli con foga, ma mantenne un'espressione fredda, sebbene una goccia di sudore sulla tempia lo stesse infastidendo. Muoviamoci.

«Aspetti un secondo» disse la psicologa. Si avvicinò a una porta dall'altro lato della stanza, la aprì e borbottò qualcosa in italiano.

Dita piccole e sottili spuntarono e si appoggiarono allo stipite. Crowey si sporse. Una ciocca di capelli mossi, castani, un occhio verde, un faccino bianco, un occhio nocciola. Nulla di diverso rispetto alle foto che gli aveva mandato. Avrebbe voluto studiarla ancora, ma Isotta non si mosse.

La signora Grieco, con occhi dolci e un piccolo sorriso in volto, le sfiorò la schiena. Crowley non capì cosa disse, ma lo intese come "vai".

Isotta si portò la mano destra alle costole di sinistra e viceversa e prese posto davanti a suo zio. Sotto il tavolo, incrociò i piedi. Muoveva freneticamente una gamba.

«Mh, ciao». La sua mente non era mai stata così vuota. «Sono tuo zio Anthony, ma preferirei mi chiamassi Crowley».

Lei annuì. «Buongiorno». Lo disse a voce bassa, guardando il pavimento.

«N-non c'è bisogno di essere formali», poi si ricordò che, in tutta la sua vita, lo aveva incontrato solamente una volta, a otto anni. O meglio, la sola volta di cui poteva rammentare qualcosa. «Sono pur sempre tuo zio» come se importasse qualcosa.

Non si scompose. «Ok».

Crowley inizialmente si chiese cosa potesse esserci di tanto interessante per terra da non degnarlo di una minima occhiata, poi volle soltanto andarsene via. La tentazione fu possente, alzarsi, dire no grazie, tornare dai suoi studenti e dai suoi libri, lasciare quel porto e lo sgradevole odore della salsedine, bruciare le lettere. Badare a una ragazzina traumatizzata non era roba per lui e quella che aveva davanti non solo era schiacciata da un peso che avrebbe lo soffocato insieme a lei, ma era chiusa dentro una bolla di vetro. Ogni suo movimento, agli occhi di Crowley, diceva "lasciami in pace, non voglio parlare". Faticava ad ammetterlo, ma gli faceva un po' pena. Ciò che le leggeva in viso non era apatia, o disinteresse, ma pura malinconia. Non aveva nulla di sua madre, né i folti capelli rossi o le lentiggini, né la spavalderia e la parlantina o una minuscola traccia di accento scozzese. Erano estranei in tutto e per tutto, quello che diceva la carta era una bugia. Ma, più per compassione che per dovere, rimase.

Cercò di allacciarsi, le sorrise, le domandò cosa le piacesse, che tipo di posti avesse visitato, come andava la scuola, cosa avrebbe voluto fare in futuro. Riceveva risposte brevissime: leggere e il cinema, città d'arte, bene, l'insegnante. Mandare avanti una conversazione che si potesse definire tale era impossibile. Lui chiedeva, lei rispondeva immediatamente, senza pensarci, come un docile gattino. L'aria era pesante, irrespirabile e lo sguardo di pietra della dottoressa Grieco rendeva quel luogo ancora più teso di quanto già non fosse. Avrebbe dovuto dirle qualcosa su Helen? O forse accennare ancora a Londra. Nessuna scelta lo convinceva davvero, come se fosse sempre sbagliata, inopportuna. Isotta continuava a non guardarlo.

Lo salvò lo squillo del cellulare della signora Grieco. Parlò in italiano fitto, con un accento molto diverso rispetto a quello a cui era abituato, e Isotta si voltò verso di lei. «Per oggi va bene così» gli disse la psicologa dopo aver chiuso la chiamata.

Isotta se ne andò a piccoli passi, di nuovo ignorandolo. E così fece di nuovo, quando il suo cellulare risuonò nella cucina. Si alzò di scatto e, non appena girò il telefono, spalancò gli occhi. Crowley poté giurare di aver visto le sue labbra incurvarsi verso l'alto.

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Capitolo 5
*** Capitolo Cinque - Speranza di carta ***


Sotto il plumbeo cielo di un tranquillo sabato pomeriggio, un fiume di gente attraversava le strade di Soho fuori dalla libreria di Aziraphale. Seduto sulla poltrona nel retrobottega, sorseggiava un buon vino con una mano e girava le pagine ingiallite di un libro con l'altra. Faticava ad ammetterlo, ma era agitato. Giusto un poco. Il cuore gli martellava incessante nel petto e muoveva in cerchio il piede destro.

Aveva sempre lavorato da solo, nella sua libreria perlomeno. Non aveva mai sentito il bisogno di assumere qualcun altro, magari un commessuccio maldestro e con le dita sempre impasticciate di chissà quale sostanza che avrebbe potuto rovinare i suoi preziosi libri, gli stessi che ormai considerava dei compagni fidati. Solo lui, le pagine che profumavano di antico, di passato, e il dolce silenzio interrotto appena da qualche flebile borbottio dei clienti educati. Si trattava di una pace rara che lo avvolgeva come il mantello di Maria. Il paradiso, in poche parole. Una beatitudine duratura, perfetta, ineffabile.

Eppure negli ultimi mesi aveva sentito quell'amabile calore venir meno. La solitudine iniziava a stargli stretta, a premere contro il cuore e a mordicchiarlo. Bruciava appena, un fastidio lieve, di quelli che si sopportano dopo poche ore di abitudine, ma non gli piaceva. Lo distraeva troppo, gli annebbiava la mente in un torpore insolito. Talvolta le lacrime gli pizzicavano gli occhi.

In preda a un folle stato di trance, aveva attaccato il foglio alla vetrina. Il giorno dopo, quando lo aveva guardato, si era sentito strano. Non era da lui prendere delle decisioni così avventate, specialmente se riguardavano la sua libreria. Tentato, aveva allungato la mano verso i pezzetti di nastro adesivo, ma qualcosa lo aveva fermato: quell'orrido solletico al petto, che ancora lo tormentava, seppur con leggerezza disarmante. Facendo spallucce, aveva ripreso a lavorare come se nulla fosse, ma dandosi un ultimatum di due settimane. Dopo quindici giorni, se nessuno avesse bussato alla sua porta, avrebbe strappato quel pezzo di carta e tutto sarebbe tornato normale: lui, la sua libreria e i suoi tomi. Punto. Non c'era bisogno di nessun altro, si sarebbe abituato a quel senso di fastidio che la tranquillità monotona della sua vita gli causava e ci sarebbe passato sopra. Nulla di più, nulla di meno, un piano perfetto.

Nel profondo, però, covava una speranza che voleva ignorare, quella che qualcuno effettivamente si presentasse. Non lo avrebbe mai ammesso, ma accendere il computer (una scatola vecchia che funzionava per miracolo) e notare che la notifica della casella di posta elettronica non era l'ennesima pubblicità della sua profumeria preferita, ma un curriculum, gli aveva acceso una gioia rassicurante. Sorridendo, aveva stampato il PDF e, con una cioccolata calda in mano, aveva letto in tutta calma. Riconobbe all'istante la ragazza italiana che aveva visto circa una settimana prima.

Non si aspettava un tipo di persona particolare, ma Isotta lo lasciò perplesso: non era raro che ragazzi europei appena diplomati rinviassero l'inizio dell'università per lavorare in Inghilterra, magari come camerieri o pizzaioli in modo da migliorare il loro inglese, ma quello di Isotta era un caso diverso. Doppia cittadinanza, nata a Leeds, residente a Camden ma diplomata in Italia e un mucchio di certificazioni linguistiche, un numero eccezionale contando che aveva compiuto diciotto anni da meno di un mese.

Non era convinto al cento per cento: era giovanissima, non sapeva da quanto vivesse a Londra, ma al tempo stesso i quindici giorni di attesa che si era prefissato stavano per scadere. Ne aspettò solamente un altro, poi la chiamò e fissò un incontro. Non era un vero e proprio colloquio, sapeva già che gli sarebbe bastata una buona impressione per assumerla, ma aveva tanta voglia di staccare. Sedersi, bere un tè, parlare con qualcuno di nuovo, estraneo in tutto e per tutto.

Lo destò un picchiettio. Qualcosa colpì tre volte il vetro della porta principale, poi altre due. Aziraphale si diresse verso l'ingresso e una manica corta e bianca puntò oltre il cartello degli orari. Aprì l'uscio e un volto non più nuovo gli sorrise e lo salutò. Ricambiando, la invitò a entrare.

Isotta era piccolina, sebbene cercasse di lanciarsi verso l'alto grazie a un paio di scarpe col rialzo, ma non raggiungeva il metro e sessanta. Dalle maniche corte della blusa candida uscivano due braccia bianche, corte e tutt'altro che esili: doveva essere una persona attiva, sportiva, visti i fasci di muscoli abbastanza delineati che le percorrevano gli arti, con le cosce grosse e i polpacci robusti sotto i pantaloni attillati. Gli occhi, appena truccati con una patina di ombretto chiaro e mascara, enormi, a palla, saettavano da un dettaglio all'altro del negozio, dal soffitto agli scaffali ai divani fino ai tavolini. Aziraphale la guardava, sperando di incontrare il suo sguardo, ma non ci riuscì. Si sedettero su due divanetti, uno di fronte all'altra, con un tavolino basso a dividerli, ricoperto di scartoffie.

Rigida come una statua di marmo, Isotta si mise composta e, schiena ritta, si portò una mano in grembo e l'altra sul ginocchio destro. Aziraphale la studiò mentre si tormentava la rotula con le dita. Non credette di aver mai visto una persona più tesa, come se da un momento all'altro avesse dovuto attaccarla una belva. Decise di parlare prima che il silenzio si facesse insopportabile. Afferrò le carte sparse sul tavolo e recuperò quella con la fotocopia del documento di identità.

«Quindi, Isotta Fonda, giusto?». Le sorrise di nuovo, lei non fece altrettanto. Annuì, poi aggiunse "sì".

«Da che parte dell'Italia vieni?». In realtà lo sapeva già, ma pensò fosse un modo discreto per continuare. Aveva avuto a che fare con molti stranieri e, solitamente, erano sempre contenti di parlare del proprio paese.

Le braccia di Isotta, da dritte e immobili, si ammorbidirono. «Trieste» rispose. «Nord Est».

«È dove soffia la bora, giusto?»

«Sì».

«E da quanto vivi qui?». Poi si rese conto che, forse, stava sforando i limiti del personale e aggiunse in fretta: «Se non è un problema...»

Lei si strinse nelle spalle. «Tre mesi, circa».

Aziraphale annuì e prese un'altra manciata di fogli. «Una cosa in particolare vorrei chiederti». Sfogliò le certificazioni linguistiche di inglese, francese e tedesco. «Queste vengono tutte dalla tua scuola?».

«Sì. Le ho studiate lì».

«Anche russo?». Le mostrò un altro foglio. Sopra vi era un B1 in grassetto.

«Oh, più o meno. Ho seguito per due anni un corso serale organizzato dal liceo e infine ho fatto gli esami».

Per la prima volta rispose adeguatamente, senza fermarsi dopo poche parole. Aziraphale si compiacque della sua scioltezza e della pronuncia corretta, ma l'accento si faceva sentire comunque. «Quindi studiavi quattro lingue a scuola e sei riuscita a raggiungere questi livelli?».

Isotta lo guardò e si grattò il braccio. «Beh, sì».

«E sloveno?». Isotta non aveva certificazioni di sloveno, ma sul curriculum aveva segnato un A2 che aveva confuso Aziraphale. Non era di certo una delle lingue straniere che di solito comparivano quando, nei giorni in cui lavorava a tempo pieno nell'azienda di famiglia, ogni tanto si occupava degli aspiranti lavoratori.

Isotta fece un sorriso minuscolo. «Mia nonna era slovena e mi ha insegnato un po' della sua lingua. Poi facendo avanti e indietro per il confine ed esercitandomi con qualche libro ho iniziato a masticarla meglio». Poi aggiunse: «Non sono un asso, ma me la cavo. L'A2 è indicativo».

«Abbastanza da aiutare un cliente?». Aziraphale era uno studioso prettamente umanistico (spaziava dalla letteratura inglese alla storia, dalla musica all'antropologia e provava anche un discreto interesse per la teologia), ma le lingue straniere non erano mai state il suo forte. Ricordava ancora la sua prima, umiliante interrogazione di francese, dove la lingua che parlò fu un bizzarro misto di inglese, gallese e francese. Quelle volte in cui un cliente tentava di comunicargli a gesti ciò che desiderava erano imbarazzanti e parevano durare secoli. Spesso si concludeva con l'acquirente che, esasperato più di lui, gli mostrava una foto dal cellulare. Non sempre però li soddisfaceva, dato che il reparto di letteratura straniera era abbastanza esiguo, in special modo durante la bassa stagione, quando i turisti non erano di un numero tale da spronarlo ad acquistare altri libri in lingua originale.

«Direi di sì».

«E di tutte queste lingue hai studiato anche la letteratura?».

Isotta, che stava tenendo la testa lievemente abbassata, la sollevò di scatto. «Di inglese, francese e tedesco sì, ma al corso di russo insegnavano soltanto la lingua, quindi l'ho studiata un po' da sola. Di letteratura slovena non so quasi niente, però...». Si grattò la nuca, poi abbassò il braccio di colpo e il tonfo della pelle sui pantaloni smosse il divano. «So molto di letteratura italiana».

Il modo in cui lo disse - deciso, ma leggermente tremante, uno squittio forte e rapido - fece credere ad Aziraphale che fosse una sorta di asso nella manica giocato in maniera molto incerta, una carta che ti rigiri tra le dita pensando "la mostro o non la mostro, la mostro o non la mostro". Non capiva bene cosa intendesse dire Isotta (conosceva molti titoli o avrebbe potuto spiegargli ogni singolo verso di Boiardo?), per cui tacque per qualche minuto, mentre lei, con la mano di nuovo sul ginocchio, studiava l'ambiente circostante. La bilancia nella sua testa non cedeva né da una parte né dall'altra: davanti a sé vedeva una ragazzina curata ma dall'atteggiamento imbranato e chiuso (già se la immaginava balbettare con i clienti e lasciar cadere pile di libri), ma al tempo stesso una voce in fondo alla sua testa gli ordinava di provarci e l'immagine che si ritrovava davanti non era abbastanza forte da fargli concludere l'incontro.

Il suo flusso di pensieri venne interrotto da un forte bussare. Insistente, irregolare, volgare.

«Siamo chiusi, mi dispiace» disse Aziraphale voltandosi verso la porta.

«Ragazzotto, sono io!»

Riconobbe quella voce roca e sapeva anche cosa gli avrebbe chiesto. Fece un cenno con la mano a Isotta. «Scusa, solo un secondo».

Celando la sua irritazione, raggiunse la porta e la aprì. Un tanfo di tabacco ed erbe sconosciute lo investì e fu costretto a soffocare un colpo di tosse. «Ah, sergente Shadwell».

Il cacciatore di streghe - quel titolo faceva spesso ridere Aziraphale, ma stava sempre al suo gioco onde evitare disguidi - diede un ultimo tiro alla sigaretta, la gettò a terra e la spense con lo stivalone sporco di terra. Aziraphale gli scoccò un'occhiataccia, ma non disse niente.

«So che hai chiuso, non sarei venuto se Gezabele fosse stata a casa, ma sarà questione di un attimo».

Aziraphale lo avrebbe volentieri cacciato sbattendogli la porta in faccia - in mente aveva ancora lo sguardo perso di Isotta - ma si trattenne e si sforzò di sorridergli. «Entri pure, cosa le serve?».

«Ah, dieci, quindici sterline per il treno» gracchiò. «Vado da mio fratello, quel poveraccio si è ammalato di brutto».

Aziraphale cercò il suo portafoglio nei cassetti sotto la cassa. «Oh, mi dispiace».

«Ma è forte come un leone, confido che...». Si zittì di colpo e Aziraphale riemerse dal mobiletto. Il sergente aveva gli occhi puntati su Isotta, che si era alzata e sporta per vedere cosa stesse succedendo.

«Ehi, ma tu sei la straniera che va da Gezabele la domenica».

Isotta corrugò la fronte non appena udì "straniera", ma si limitò ad annuire. Aziraphale si affrettò ad allungare le banconote al sergente.

«Ecco a lei».

Shadwell se le intascò e corrugò la fronte. «Che ci fai con una donzella in libreria, eh?»

Aziraphale stava per controbattere, guardando prima il sergente e poi Isotta preoccupato, ma quello cambiò subito espressione, rise e gli diede una pacca sulla spalla. «Avanti, scherzo. Te li ridò, eh! Grazie, amico. Ehi, Ee-sho-tah!». Iniziò a gridare e ignorò le richieste di Aziraphale di abbassare la voce. «Salutami tuo zio, eh!». E se ne andò, accendendosi un'altra sigaretta.

Imbarazzato, Aziraphale tornò a sedersi, studiando il più velocemente possibile una spiegazione per Isotta, ma fu lei a parlare per prima. «Sa che non glieli ridarà mai, vero?».

Sorpreso dal suo tono fermo, Aziraphale ci mise un secondo in più a rispondere. «Sì, sì. Mi deve sessantacinque sterline, con quelle di oggi». Alzò le spalle. «Non mi pesa troppo, mi dispiace più che altro per la sua vicina».

«Madame Tracy?». Isotta si sciolse di nuovo e si portò una mano sotto il mento.

«La conosci?»

«Vive nel palazzo vicino al mio. Ogni tanto le do una mano con la spesa».

Aziraphale si limitò ad annuire. Recuperò i fogli, ma ormai aveva perso il filo del discorso e si chiese se avesse davvero senso continuare. Non in quel modo, di sicuro.

«Basta così, direi» mormorò.

Isotta, con uno scatto fulmineo, si voltò a bocca aperta. «Che intende?»

«Ti va una tazza di tè?»

Pensò che sorridesse e si rilassasse, invece lo guardò come se avesse detto qualcosa di astruso. «Prego?»

«O di cioccolata, se preferisci» continuò caloroso. Posò per caso lo sguardo sulle sue braccia che, mani sulle ginocchia, formavano un angolo retto con i fianchi, e si accorse della pelle d'oca, oltre che di una lunga cicatrice bianca sull'avambraccio. «Sei certa di non avere freddo?».

Boccheggiò un istante. «No, no, sto bene. E... e preferirei la cioccolata, grazie».

«Non fa molto caldo qui dentro» disse lui. «È per i libri antichi, sai, meglio non andare oltre i ventuno, ventidue gradi». La camicetta che indossava Isotta, in quel momento, gli parve fin troppo leggera. «Forse è meglio andare di sopra».

Isotta spalancò gli occhi. Le sue mani presero a tremare, un movimento quasi impercettibile che però non sfuggì ad Aziraphale e il suo cuore fece un balzo d'orrore. Cosa aveva detto di tanto sbagliato da agitarla in quel modo? «Isotta?»

«P-preferirei rimanere qui» balbettò. «Se non le dispiace» aggiunse frettolosa.

Confuso, Aziraphale non insistette. Andò nella cucinetta del retrobottega, prese due tazze dalla credenza e preparò le cioccolate. In attesa che fosse pronte, lasciò il pentolino e si appoggiò allo stipite della porta. Giocherellando con gli occhiali, guardava la mano di Isotta (che spuntava oltre uno scaffale) disegnare forme irregolari sulla superficie del divano, bagnato dalle deboli chiazze del sole appena giunto. Era tanto irrequieta, quella ragazza, ma desiderava metterla a suo agio, perché vederla in quello stato lo rattristava. Gli ricordava sé stesso, in un certo senso. Si chiese se anche lei si sentisse sola.

Portò la cioccolata e alcuni biscotti danesi. Isotta prese la tazza con entrambe le mani e, soffiandoci sopra, lanciava piccoli sguardi ai biscotti, ma non osò allungare il braccio.

«Allora» riprese Aziraphale. «Ti piace Londra?»

Isotta mandò giù un sorso. «Oh sì. È molto diversa dalle città italiane. Nessuna è così grande e popolosa».

«Non eri mai venuta, prima?»

«No, no. O meglio, avrei dovuto fare uno scambio culturale», Aziraphale prese un biscotto e lei lo imitò, «ma alla fine la scuola ha optato per Dublino».

«Ho dato un'occhiata al sito del tuo liceo» le disse. Dal momento che l'istituto accoglieva anche studenti stranieri, la pagina web era stata tradotta in tre lingue. «Organizzano molte attività con altre scuole europee».

Isotta annuì. «Sì. La mia scuola faceva parte di una sorta di esperimento».

«Esperimento?»

«Uh, da dove inizio...» si grattò la nuca. «La scuola superiore in Italia di solito dura cinque anni, ma alcuni istituti propongono percorsi quadriennali, di solito con il patrocinio del Ministero dell'Istruzione. Molti sono privati, dunque hanno una maggiore libertà sull'uso dei fondi e la mia scuola puntava tanto sulla collaborazione con gli studenti stranieri». Bevve un altro po' di cioccolata. «Certo, lo fanno tutti gli istituti, bene o male, ma da noi era proprio una parte integrante del percorso. In tutte le classi c'era una manciata di studenti stranieri ogni anno e solo la metà degli insegnanti era italiana».

«Quindi hai anche viaggiato molto?»

«Abbastanza. Con la scuola siamo andati soprattutto in Austria». Fece dondolare leggermente la tazza e si pulì in fretta una piccola macchia marrone vicino al labbro. «È utile. Soprattutto per la conversazione».

«Si nota che sei allenata. Il tuo inglese è ottimo».

Incrociò i piedi e abbassò la testa. «Grazie».

Per qualche minuto nessuno parlò. Fuori i fiacchi raggi del sole erano scomparsi e le nuvole si erano tinte di nero sopra un prato di tetti grigi e insegne folli. Aziraphale, spinto da un'estranea curiosità (raramente si curava di ciò che facevano i giovani, per il solo motivo che poche volte aveva contatti con loro) si chiese cosa avrebbe fatto Isotta quel sabato sera. Sarebbe uscita con i suoi amici al bar, a scatenarsi in una discoteca del centro? Ci pensò su e anche se non credeva fosse il tipo non escluse del tutto l'idea. O avrebbe fatto come lui, cioè si sarebbe chiusa in casa con un libro? Oppure avrebbe studiato. No, era improbabile, visto che aveva richiesto un lavoratore a tempo pieno e uno studente universitario difficilmente avrebbe potuto organizzare al meglio le due cose. Che volesse guadagnare qualcosa per l'anno successivo? Non pensava sarebbe tornata presto in Italia, visto che aveva la residenza a Londra. Fu tentato di chiederle, senza giri di parole, perché fosse lì, a diciotto anni appena compiuti e in città da meno di una stagione, a cercare lavoro, ma si fermò. Erano fatti che non lo riguardavano e l'avrebbe messa in soggezione, di nuovo. Forse gliene avrebbe parlato, un giorno.

Posò la tazza. «Che ne dice di tre mesi?»

Isotta sollevò lo sguardo e sbatté le palpebre più volte. «Scusi?»

«Tre mesi» ripeté lui. «Per il momento. Ci saranno un po' di documenti da mettere a posto, ma non dovrebbe essere troppo- cara, stai bene?».

Era rossa in viso e, ne era certo, aveva anche gli occhi lucidi. Si destò come da un sogno. «Ah, sì, scusi, quindi lei mi sta... »

«Ti sto prendendo, sì». Le sorrise, lei ricambiò e nel petto gli si accese una scintilla di felicità. Per la prima volta dopo mesi, si sentiva bene, il cuore libero.

Si diedero appuntamento per la settimana successiva. Isotta non smise di sorridere e persino il cielo scuro che prima incombeva minaccioso ad Aziraphale parve più sereno. Le porse la mano e lei accettò la stretta senza tentennare. Era bollente.

Isotta uscì e sventolò la mano in aria per salutarlo. Oltre il cartellino girevole appoggiato sul vetro, Aziraphale rise nel vederla fare una piroetta, quasi colpendo un gatto che sfrecciava sul marciapiede.

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Capitolo 6
*** Capitolo Sei - Luce ***


Saltellò e canticchiò come una bambina fino alla porta di casa, dove Crowley l'accolse con una bottiglia di vino.

«È andata bene, vedo» le disse contento.

Isotta annuì. «Settimana prossima sistemiamo un po' di cose, ma è ufficiale». Afferrò la bottiglia e lesse l'etichetta. «Oh, Prosecco da Valdobbiadene».

«Non sono esperto di vini italiani» fece Crowley prendendo due bicchieri. «Me lo ha consigliato il sommelier veneziano della cantina. Brindisi e ordiniamo cinese?».

Isotta alzò il pollice e corse a cambiarsi d'abito.

La telefonata del signor Fell non tardò ad arrivare e ben presto dovette rinunciare - sebbene non troppo a malincuore - alle mattine passate a poltrire sul letto. Faceva colazione insieme a Crowley, che il primo giorno si offrì di accompagnarla, ma lei rifiutò. Gli disse che voleva imparare la strada, ma in realtà la sola idea la imbarazzava un po'. L'immagine del suo primo giorno di liceo, quando suo padre decise - si impose - di accompagnarla fino al cancello, davanti a tutti i suoi nuovi compagni, soli e armati di motorino o bicicletta, accendeva ancora un moto caldo nella sua testa da cui fuggiva scuotendola.

La libreria apriva, teoricamente, alle otto e mezza, ma il signor Fell spesso tardava a causa della sua lunga colazione, o dei tre quarti d'ora passati a prepararsi. Nel frattempo, Isotta girovagava per gli scaffali canticchiando le canzoni della Winehouse e dei Queen. Sistemava in ordine alfabetico i nuovi arrivi, controllava i titoli più venduti e, durante la pausa pranzo, spolverava le lunghe file. Ci aveva passato poco tempo ma amava quel posto, come se fosse una bolla di vetro separata dal fracasso londinese, il giardino segreto di un palazzo fatiscente dove i fiori erano libri e i tomi più pregiati le spine delle rose che non andavano toccate. Nonostante la bonarietà del signor Fell - la accoglieva con un gran sorriso, le chiedeva sovente se le servisse una mano, le aveva offerto un'ottima paga e le lasciava sfogliare i libri - una cosa si era subito premurato di metterla in chiaro: non le era permesso toccare i manuali antichi.

Erano ben separati dal resto della libreria, in una sorta di grande abside dove capeggiavano cartelli dorati con su scritto "solo consultazione", "richiesto uso dei guanti protettivi", "richiesta supervisione del proprietario". Non erano però tutti esposti: alcuni (Isotta credeva si trattassero di quelli dal valore più che inestimabile, come alcune prime edizioni a stampa o codici illustrati con maestria) erano conservati in un piccolo magazzino del retrobottega e non erano presenti nei cataloghi. Una piccola collezione privata che veniva conservata con una gelosia che mai aveva visto, dato che il signor Fell eludeva sempre le sue domande a riguardo e li teneva in un baule chiuso col lucchetto. Isotta però divorava con gli occhi la costa di una traduzione della "Divina Commedia" vecchia di duecento anni e fu più volte tentata di sfilarla di nascosto dallo scaffale durante una delle solite mattine ritardatarie del signor Fell, ma la ragione prevalse, soprattutto quando, nella tarda mattina di una giornata ventosa, un uomo sulla sessantina fece trillare la campanella della porta e trascorse molto tempo nella sezione dei libri antichi. Troppo tempo, per i gusti del signor Fell, che fissava con aria indagatoria chiunque osasse posare lo sguardo sui suoi "tesori". Anche Isotta, che comprendeva quella sua abitudine ma al contempo la trovava irritante, imparò presto a evitare gli scaffali dei tomi pregiati. Il cliente a quanto pare non aveva notato - o faceva finta - come il signor Fell fosse divenuto la sua seconda ombra.

Soppesò un sottile manuale a stampa. Isotta li teneva d'occhio dal retrobottega, dove stava consultando il catalogo. Le mani del signor Fell ebbero un tremito non appena l'uomo aprì bocca. «Quanto vuole per questo?»

«Non è in vendita, mi dispiace» sbottò. Isotta lasciò il catalogo e si avvicinò alla porta semiaperta: non aveva mai sentito il signor Fell usare quel tono sbrigativo.

«Quanto vale? Posso offrirle il doppio» sfogliò qualche pagina.

«Ascolti» il signor Fell gli si avvicinò con passo pesante. «Se desidera consultarlo, è liberissimo di farlo, ma non può acquistarlo».

«Duemila sterline, che dice?»

«Signore» ringhiò. Isotta iniziava a temere che lo avrebbe preso a botte. «Se insiste sarò costretto a chiederle di uscire».

«Quattromila?»

Il volto del signor Fell divenne rosso. «Fuori dal mio negozio! Ora! Immediatamente!»

Come un fulmine, Isotta tornò a sedersi al tavolo e agguantò il catalogo. La campanella trillò e la porta principale sbatté con foga. Fece per alzarsi, ma il signor Fell irruppe nel retrobottega con i pugni serrati. Isotta finse di concentrarsi sul catalogo, mentre lui prendeva due grossi respiri appoggiato alla cucinetta. Aprì la credenza e prese il pentolino. «Tè? Cioccolata?»

Isotta avrebbe rifiutato (era reduce da una colazione al bar con suo zio) ma optò per la cioccolata. Pensò fosse meglio assecondarlo, almeno per un quarto d'ora.

*

Dato che la pausa pranzo durava due ore e mezza, dopo aver spolverato gli scaffali Isotta soleva tornare a casa a piedi, dove consumava un rapido piatto di pastasciutta o una fettina di pesce o carne accompagnata dalla voce monotona del telegiornale o dai concitati messaggi vocali di Ilenia, che ormai aveva ripreso la scuola e temeva la maturità. Il signor Fell le aveva chiesto più di una volta di rimanere e di pranzare con lui nel suo appartamento, ma lei se ne andava sempre, spinta da un timore radicato che non si sentiva di ignorare, come se la voce di suo padre la tormentasse anche ora che era ridotto in cenere in un loculo a Trieste: "non accettare mai gli inviti di un uomo sconosciuto a casa sua", le avevo detto quella volta che, dopo aver aiutato un vecchietto a portare le borse della spesa nel suo appartamento al quarto piano, era rimasta a bere un caffè. "Cosa credi che vogliano da una bambina?".

Una volta, però, circa tre settimane dopo l'inizio del contratto, le cose andarono diversamente. Si scordò di collegare il cellulare alla presa di corrente e durante la notte la batteria si esaurì del tutto. Suo zio se ne andò molto prima del solito per alcune osservazioni astronomiche e quella mattina nessuna sveglia squillò nell'appartamento. Senza badare alla sensazione di vuoto nello stomaco corse a perdifiato fino a Soho, con il cappuccio della felpa che sbatacchiava in tutte le direzioni e la tracolla che le picchiava il fianco. Raggiunse la libreria con la faccia rossa e madida di sudore.

«Cara» il signor Fell, ormai, era solito chiamarla così. «Cosa è successo? Sei sempre puntuale. Santo Cielo, vuoi dell'acqua?»

Isotta annuì. «Ho perso...» il fiatone le mangiava le parole. «... il bus...» mentì.

«Avanti, siediti» le prese la tracolla e la appese nel retrobottega. Tornò con un bicchiere d'acqua e lei lo scolò in pochi secondi. «Va meglio?»

Isotta ansimò. «Ah, sì».

«Hai fatto colazione? Non sembri molto in forma». Si sedette di fronte a lei sistemandosi il panciotto.

«No, ho... » il battito incessante del suo cuore le rimbombava in testa. «Ho fatto tutto in fretta».

Il signor Fell batté i polpastrelli dei pollici tra di loro. «Vuoi mangiare qualcosa? Stai diventando pallida, ti gira la testa?».

Se Isotta avesse avuto un briciolo di forze in più avrebbe rifiutato il suo aiuto, continuando stoicamente come se nulla fosse successo, ma, come se le parole del signor Fell avessero avuto proprietà profetiche, minuscole macchie nere presero a formarsi alle estremità del suo campo visivo.

«... un po'». Si portò le dita alle tempie e abbassò lo sguardo. Pregò che la terra la inghiottisse.

Ci fu una piccola pausa e il signor Fell si alzò in piedi. «Vieni di sopra con me, ho un po' di dolci in frigo. Sei tutta sudata, non puoi stare qui al freddo».

Isotta, che ancora respirava profondamente, tacque per qualche istante. «Ma apriamo fra meno di dieci minuti».

«Chi frequenta la libreria sa che gli orari della mattina sono molto... flessibili». Si avvicinò a lei e le offrì il braccio. «Insisto».

Un senso di torpore in testa la spinse a scacciare la roca voce di suo padre. Si sollevò a fatica e fece appena in tempo ad afferrare il braccio del signor Fell quando barcollò. «Piano, cara, non muoverti troppo».

L'appartamento si trovava al primo piano dell'edificio, un trilocale arredato con mobili di legno scuro e oggetti d'antiquariato. Un grammofono illuminato dalla fievole luce mattutina beava l'ambiente con note di musica classica e alcuni vani della parete attrezzata del salotto erano occupati da fotografie di famiglia. Quando ci passò davanti, Isotta vi scoccò una rapida occhiata: in una, il signor Fell era al lago con due uomini, forse amici o i suoi fratelli, in un'altra vi era anche una donna dai corti capelli mossi e castani.

Isotta si sedette al tavolo della cucina. «Vive da solo?»

Il signor Fell prese due tazze dalla credenza. «Sì, ma non da molto. Tè o caffè?»

«Caffè, grazie».

«Con latte?»

«Sì, grazie signor Fell».

Le preparò un macchiato coi fiocchi e le porse dei piccoli biscotti decorati con creme alla frutta che trovò familiari.

«Li prendo da una pasticceria vicino a Piccadilly Circus» le disse sorseggiando il suo tè. «Fanno delle prelibatezze eccezionali».

«Quella con l'insegna rosa e bianca, dice?»

«Sì, quella. La conosci?»

«Ci vado per comprare gli ingredienti per le creme, ogni tanto».

Il signor Fell mandò giù quello che Isotta constatò essere il decimo biscotto. «Oh, fai dolci?»

«Qualche volta», finì il caffè. «Ora meno, però».

L'espressione sul volto del signor Fell si rattristò. «Come mai?»

«Diciamo che mio zio è quasi svenuto dopo aver visto la bolletta di agosto» ridacchiò e il signor Fell la seguì a ruota. «Uso tanto il forno. Fin troppo».

«Cucini soprattutto italiano? Oh, vuoi dell'altro caffè?»

«No, grazie signor Fell. Cucino soprattutto italiano, ma faccio un po' di tutto, anche pasticceria francese e tedesca, per esempio». Si rigirò la tazzina tra le mani, ammirando il disegno di tre piume al vento vicino al manico. «A scuola studiavamo anche la cultura straniera, quindi, sì... ci ho preso la mano». Il signor Fell sorrideva benevolo e lei smise di parlare. Un tiepido calore le invase le guance e si portò le nocche davanti alla bocca.

«Ti piaceva andare a scuola?». Il signor Fell si versò dell'altro tè e vi immerse l'ennesimo biscotto.

Ma quanto mangia? «Abbastanza» rispose guardando un punto vuoto sul tavolo.

«Continuerai a studiare qui?». Nella voce una nota di educata curiosità.

Isotta portò la testa verso destra, poi a sinistra. «Non lo so. Forse mi converrebbe di più, ma non sono sicura. Potrei fare uno di quei corsi a doppio titolo, metà qui e metà in Italia. Devo pensarci».

«Studiando lingue ti tornerebbe utile un'esperienza all'estero» osservò lui.

«Non voglio studiare lingue» rispose lei in tono forse troppo duro, dato che sul volto paffuto del signor Fell apparve un velo interrogativo. «Credo. Non so. Sono indecisa» tagliò corto.

Il signor Fell annuì comprensivo. «Hai tempo per pensarci». Afferrò l'orologio da taschino e lo richiuse subito dopo. «Forse è meglio aprire. Ti va?»

«Sì, va molto meglio, grazie signor Fell». Aveva bisogno di occupare la mente con qualcos'altro.

«Allora andiamo. Dimmi pure se vuoi fare una pausa».

Accettò anche il suo invito a pranzo, quel giorno. Mangiarono tacchino e insalata, finirono i dolci avanzati della mattina (o meglio, il signor Fell lo fece, perché Isotta a causa della colazione tarda non aveva più molto spazio nello stomaco) e bevvero anche un goccio di vino leggero. Il tacchino era cucinato e speziato alla perfezione e il signor Fell ne mangiò ben due fette, ma ciò che più sorprese Isotta fu il suo umore: di solito flemmatico con lei, prese a parlare come una macchinetta. Dei libri, di quanto antichi fosse certi manuali, di quell'uomo che glieli aveva affidati in fin di vita e aneddoti di clienti oltremodo fastidiosi. Uno di questi, due anni prima, un ragazzino sui quindici anni, si divertì a macchiare di nascosto le pagine di un volume tedesco a stampa del 1520 e il signor Fell fu costretto a rivolgersi a un centro di restauro bibliografico. Successivamente, Isotta gli chiese che musica fosse quella che proveniva dal grammofono ("Mahler, sinfonia numero due, magnifica vero?") e da lì il signor Fell parlò dei suoi gusti musicali, di come amasse Bartok e Schubert e Bach e il "Fidelio" di Beethoven e di come i suoi fratelli (ne aveva due, le disse, entrambi più grandi, ma non rivelò altri dettagli) ogni anno lo trascinassero a guardare "Tutti Insieme Appassionatamente" a teatro.

Isotta, sopraffatta da quella scarica improvvisa, da una parte faticò a seguire appieno il discorso, dall'altra pose tutte le sue energie per interessarsene perché, ne fu certa, raramente aveva visto una persona più gioiosa del signor Fell in quel momento, con la sua voce buffa e soffice che sparava parole come una mitragliatrice. Quando tornarono al lavoro, rammentò di quella volta, mesi prima, quando suo zio le chiese di raccontargli una novella del Boccaccio. Rimase stranita, perché suo zio non le era parso il tipo a cui piacesse la letteratura trecentesca, ma anche felice, perché era sola in quei giorni, una sensazione di vuoto che soltanto la pelle di Ilenia sopra la sua era riuscita a scacciare. E lui aveva voluto ascoltarla, per cinque minuti. Si chiese se anche il signor Fell si sentisse solo, ma non fece molte supposizioni.

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Capitolo 7
*** Capitolo Sette - Incontri ***


«Ho beccato Warlock a copiare, oggi» disse suo zio affondando con stizza la forchetta nella bistecca. «Credo abbia pagato il suo compagno di banco per passargli i fogli. E mica si scambiavano bigliettini, i geniacci, no, fogli interi. Ma cosa credono, che sono cretino?».

«Copiare è un'arte per pochi».

«Li avrei presi a sberle con la cartellina».

Cenavano con roast beef e patate e la voce del conduttore di un quiz show in sottofondo. Crowley era tornato a casa sbattendo la porta e buttando in malo modo sul divano il suo materiale astronomico. «Era partita benissimo la giornata!» sbraitò. «Una meraviglia. Le piante sono perfette e intimorite, stamattina sono riuscito a scattare delle foto magnifiche e poi arriva quell'idiota che pensa di fregarmi».

«Su, non prendertela» Isotta gli passò una piccola bottiglia di rum. «Pensa alla soddisfazione che proverai quando gli darai l'insufficienza» gli sorrise malevola.

Crowley si buttò sulla sedia con il bicchierino pieno di liquore. «A volte sei una bestiolina, lo sai?». In risposta, lei alzò le spalle.

«Ah, comunque» si rimise composto sulla sedia. «Anathema mi ha detto che sei uscita fuori come un missile, stamattina. È successo qualcosa?»

Isotta maledisse Anathema. Non aveva detto nulla a Crowley di ciò che era accaduto in libreria perché non aveva idea di come avrebbe reagito, se avesse fatto spallucce o l'avesse rimproverata, per il ritardo o il fatto di aver accettato le proposte del signor Fell. «Non è suonata la sveglia e ho dovuto correre fino in libreria».

«Tutto qui? Sei arrivata in tempo, alla fine?»

«Sì, sì».

«Ma in che stato sei arrivata? Cerca di non farti sbattere fuori subito».

«Era tutto a posto. E poi ti ho detto com'è il signor Fell, ci mette un anno a prepararsi. Mi ha dato dell'acqua e abbiamo aperto».

«Be', è stato gentile». Si alzò e aprì il frigo. Fece per afferrare un pezzo di formaggio, ma si bloccò con il braccio a mezz'aria. «Oh, hai mangiato fuori oggi? L'insalata di riso è ancora qui».

Isotta bloccò il coltello affondato nella carne. Per un secondo rifletté se fosse il caso di dirgli la verità o mentire. «Mh, sì, per una volta».

Crowley si sedette con il formaggio in mano. «Fuori o in libreria?»

«Ehm...» le tremavano le mani e fu costretta a nasconderle sotto il tavolo. L'avrebbe insospettito: sapeva che era una pessima bugiarda. «In libreria. Con il signor Fell».

«Oh, sembra un brav'uomo. Formaggio?».

Ci mise un secondo in più a rispondere, gli occhi vacui ancora puntati sul suo viso. «Ah, sì, un pezzetto».

Suo zio armeggiò con il coltello e sorseggiò del liquore. «Sai, Isotta... c'è una cosa che vorrei dirti. O proporti, insomma, hai capito».

«Mh-mh?»

«Che ne dici di andare ai campi da tennis questo weekend?»

Isotta fermò la forchetta a mezz'aria. «Ai campi da tennis?»

«Sì, non giocavi a tennis, tu?»

«Ma non tocco la racchetta da due anni, ormai. Perché dovrei andarci?»

«Per conoscere le persone, farti qualche amico. Socializzare, Isotta. Se non fosse per il lavoro saresti una misantropa».

«Non sono brava a farmi amici».

«Ma almeno provaci, non puoi passare tutte le sere a parlare a distanza con la tua fidanzata».

Isotta per poco non si strozzò con l'acqua. Tossì dandosi dei colpi sul petto e guardò suo zio a occhi spalancati, ma non riuscì a parlare.

«Cosa credi, che non me ne sia accorto?» la canzonò sornione. «Si vedeva lontano un miglio, avevi sempre le sue mani addosso. E anche...» si sporse verso di lei e le picchiettò il collo con l'indice.

«Non è vero!». Isotta si alzò e la sedia finì a terra, il volto in fiamme.

«Dovresti imparare ad usare meglio il fondotinta, principessa».

«Senti chi parla!» ribatté lei. «Almeno due sabati al mese torni a casa che sembra ti abbia morso un vampiro!».

«Ehi, mi do da fare. Anzi, dovrei parlarti del mio ex Lucifer, era una bomba a letto». Si versò dell'altro rum e Isotta mise a posto la sedia. «Ma dicevo: tennis. Un tentativo, che ne dici? Se non ti piace ce ne andiamo».

Isotta incrociò le braccia e fece dondolare la testa. «Non so. Te l'ho detto, sono un'incapace e nemmeno molto interessante».

Suo zio buttò la testa all'indietro. «No, l'autocommiserazione no, ti prego».

«È la verità».

«Ngk, Isotta, andiamo, abbi un po' di autostima».

Già si immaginava la scena: seduta sugli spalti a guardare le partite, sola, per poi girovagare con le cuffiette nelle orecchie. Cosa avrebbe potuto fare? Avvicinarsi a un gruppetto, dire "ciao"? L'avrebbero guardata malissimo e sarebbe stato imbarazzante, non avrebbe mai trovato il coraggio di fare una mossa del genere, piuttosto si sarebbe ritirata sulle montagne scozzesi. In parte, però - e ciò le dava una punta di fastidio - suo zio non aveva tutti i torti: non era uscita una sola sera da quando era a Londra e, anche se ammetterlo era faticoso, provava una leggere ma pungente invidia nel vedere gruppi di giovani attraversare le strade di Camden il sabato sera. Era nella capitale del divertimento notturno, della baldoria e non era in grado di godersela. Inoltre, sebbene fosse dubbiosa, al tempo stesso dire "no" l'avrebbe fatta sentire in colpa: suo zio aveva provato di tutto per farla stare bene, era stato lui a portarla al museo del cinema e a trovarle la libreria.

Sospirò. «Va bene, ci provo».

«Andiamo questa domenica, allora. Ehi, ti va di vedere gli scatti che ho fatto stamattina? Sono una meraviglia, te lo giuro».

*

L'uomo algerino che aveva appena aiutato sollevò il cappello in segno di saluto, stringendo al petto incravattato il suo acquisto. «Bonne journée, mademoiselle».

«Au revoir, monsieur».

A mezzogiorno e mezzo i bar e i ristoranti di Soho vennero presi d'assalto dai clienti, mentre l'ormai raro sole di fine ottobre donava un po' di luce alle strade. Isotta girò il cartellino da "aperto" a "chiuso" e lasciò scendere le tendine.

«Andiamo, cara?» il signor Fell afferrò l'ombrello e il cappotto.

«Un secondo, prendo la sciarpa».

Non avevano saltato un pranzo assieme dall'incidente del telefono morto durante la notte (o dell'autobus mancato, secondo la versione "ufficiosa") e quel giorno il signor Fell le aveva proposto di mangiare assieme in un ristorantino vicino a St James's Park. Era un locale piccolo e appartato, con tavolini rotondi coperti da sottili tovaglie bianche e ricamate stirate alla perfezione, dipinti di vita mondana appesi alle mura immacolate e una gioiosa melodia di sottofondo. «Oh, Mozart, sinfonia quaranta» fece il signor Fell non appena entrarono. La musica viaggiava libera in quel luogo: nonostante i non pochi clienti, tutti parlavano con voce sommessa, come se si trovassero in una chiesa.

«Quell'uomo ti ha tenuta impegnata» disse il signor Fell non appena il cameriere si allontanò con gli ordini.

«Non finiva più» rispose Isotta. «Potrei scrivere un libro sulla sua vita».

«Che ti ha detto?»

Isotta iniziò a contare sulle dita delle mani. «Si chiama Kaddour, viene da Orano ma vive a Lione, insegna lingue e letterature del Nordafrica ed è qui perché suo cugino si sposa. Mi ha detto anche i nomi dei suoi figli, ma li ho dimenticati tutti, il più grande studia chimica. Ha comprato una raccolta di poesie di Baudelaire, mi ha chiesto se le avessi lette ed è andata avanti così per venti minuti».

«Sembrava molto disorientato, quel poveretto» mormorò il signor Fell. «Parlava pochissimo inglese».

«Sì, mi ha detto di averlo studiato poco. Non trovava nessuno a cui chiedere indicazioni». Aveva dovuto fare da interprete tra lui e il signor Fell per spiegargli come arrivare a Mayfair e alla fine della conversazione la sua testa stava scoppiando.

Finito di mangiare si diressero a St James's Park. L'aria si era fatta umida e il cielo minacciava pioggia.

«Questo è il mio preferito tra tutti i parchi di Londra» disse il signor Fell. «È il più antico dei parchi reali, è stato costruito nel 1603 e la fauna è molto variegata. In primavera, poi, è spettacolare. Peccato che il sole sia andato via: qui si sta una meraviglia di pomeriggio».

Camminarono vicino al lago artificiale, dove uno stormo di anatre faceva a gara per inghiottire i pezzi di pane lanciati dai passanti, emanando un confuso starnazzo. «Sono tantissime!»

«È una vera e propria riserva, ci sono anche i cigni».

«Ma quelli» Isotta indicò un gruppetto di uccelli grandi, bianchi e dal becco gonfio. «sono pellicani?».

«Esatto, cara. Sono molto comuni. Ogni tanto camminano vicino ai prati» fece un cenno con la testa verso un sentiero poco lontano «Come quello».

Isotta distolse lo sguardo dal lago e lo rivolse al pellicano fuori dall'acqua. Gracchiando, camminava goffamente lungo il percorso, aprendo e chiudendo le ali candide. Incapace di trattenersi, a Isotta sfuggì una leggera risatina. Poi, il pellicano si librò in volo e afferrò un piccione che, ancora vivo, iniziò a dimenarsi nel sacco del suo becco e il sorrisino di Isotta si spense all'istante.

«Ehm, non è un bello spettacolo, quello» il signor Fell le mise una mano in mezzo alle scapole. «Andiamo, cara».

Si sedettero su una panchina vicino al lago e due scoiattoli grigi si avvicinarono zampettando. Il signor Fell estrasse dalla tasca un sacchettino pieno di piccole ghiande e legumi. Se ne versò un po' nella mano e lo passò a Isotta. «Ci sono parchi simili anche in Italia, presumo». Si chinò per dar da mangiare agli scoiattoli e Isotta lo imitò.

«Non mi vengono in mente parchi così grandi» ammise Isotta, che stava scavando nella sua mente per trovare un posto simile. «A Trieste però ci sono i giardini di Miramare».

Il signor Fell la guardò perplesso. «Mi suona familiare, ma non rammento nulla».

«Sono appena fuori da Trieste, fanno parte di un complesso in cui c'è anche un castello bianco a picco sul mare. Era la dimora degli arciduchi d'Asburgo nell'Ottocento, ci andavo spesso con la mia fi- migliore amica. È una delle attrazioni principali della città».

«Riceve molti turisti?»

«Abbastanza. Certo, Trieste non spicca in Italia, ma fa la sua figura, con i musei, l'architettura asburgica e la piazza principale. La sua importanza è data al porto, più che altro: è uno dei maggiori del Paese e la parte vecchia è interessante da vedere».

Il signor Fell si pulì le briciole dalla mano con un fazzoletto. «Di Trieste so solo che ci visse Joyce, ma ho visto alcune foto quando i miei fratelli ci sono andati. Mezza giornata, niente di che. Sembra un posto tranquillo, poco affollato...»

«Sì, si vive bene. Tranne quando c'è la bora, ma ci si abitua pure a quella».

«Arriva spesso?»

«Una, due volte all'anno. A volte basta prendere le solite precauzioni, ma quando è forte è meglio starsene in casa» gli sorrise. «Diciamo che mi ha salvata da molte verifiche».

Ma il signor Fell aveva smesso di ascoltarla. Sedeva fisso e composto con lo sguardo puntato davanti a sé, dove una donna alta, vestita di bianco e dai corti capelli scuri si stava avvicinando. Nel vederla, Isotta perse un battito: portava al guinzaglio un grosso pastore tedesco.

Accanto a lei, il signor Fell scattò in piedi. «M-Michael, ciao».

La donna si avvicinò e allungò il suo braccio verso il signor Fell. «Ciao, Aziraphale» il suo tono era impassibile, apatico. Isotta rimase bloccata sulla panchina, fissando ogni singolo movimento del cane e non le passò minimamente per il cervello il fatto che avrebbe dovuto alzarsi e salutare quella persona, chiunque fosse. Prese a martoriarsi il ginocchio con le dita, finché il signor Fell non le pose una mano sulla spalla. «Cara?».

Isotta imprecò in silenzio: il signor Fell la guardava preoccupato, ma anche con un granello di disappunto. Tremando, Isotta si sforzò di ignorare la bestia che nel frattempo si era seduta.

«Lei è mia cognata, Michael. Michael, Isotta. Lavora in libreria».

Le strinse la mano con gesti meccanici. Solo in quel momento si rese conto della somiglianza tra il suo volto e quello della donna nella foto dell'appartamento sopra la libreria. Avevano lo stesso sguardo gelido. «Non ti morde» disse. «È buona».

La cagna si leccò una zampa. Isotta si allargò con un dito la sciarpa annodata intorno al collo: aveva caldo, soffocava quasi. Due punti precisi, sulla caviglia, pulsarono.

«Quindi, Michael...» il signor Fell si grattò una guancia. «Sei in pausa, deduco».

«Esattamente come te. Voi» con la coda dell'occhio, Isotta la vide voltarsi verso di lei, ma la ignorò. La cagna si era mossa e le guardava le gambe. «A differenza tua, però, ho poco tempo, quindi vado al punto. Anche perché la tua ragazza qui sta morendo in piedi».

La testa di Isotta, in quel momento, aveva poco tempo per la rabbia, o anche solo per badare al commento. La cagna annusò l'aria, si guardò intorno con il naso puntato al cielo. Si sollevò su due zampe, appoggiò quelle anteriori all'addome di Isotta e qualcosa dentro di lei scattò. Le mancò l'aria per gridare, con la mano mancò la cagna di una spanna, balzò all'indietro e colpì il terreno con il fondoschiena.

L'animale abbaiò, Michael la trattenne con uno strattone. «Lunedì, alle dieci. Gabriel e Sandalphon vengono da te. Ci vediamo» e se ne andò.
Lo sguardo del signor Fell saettava da sua cognata a Isotta, le mani strette al petto. Salutò Michael in fretta e balbettando, si chinò accanto a Isotta e boccheggiò per qualche secondo. «Va... va tutto bene?».

«Sì!» esclamò lei. Non avrebbe dovuto usare quel tono con lui, ma non fu in grado di trattenersi. Saltò in piedi, si pulì i pantaloni ed evitò di guardarlo in faccia, nascose quanto più possibile il volto dietro la sciarpa e si ficcò le mani in tasca. L'umiliazione le bruciava nel petto, poteva sentirne il calore fastidioso a ogni passo e respiro. Con il piede grattò il terreno fino a formare una piccola fossa e si bloccò soltanto quando il signor Fell le sfiorò il braccio. «Vuoi tornare in libreria?».

Annuì e non dissero altro per il resto del tragitto.

*

Gli scatoloni contenenti i libri nuovi erano arrivati da poco. Isotta ne sollevò uno senza problemi e lo portò nel retrobottega, sotto lo sguardo ormai non più sconcertato del signor Fell: la prima volta che l'aveva vista trasportare i libri era rimasto a bocca aperta per un minuto buono, sotto il sorrisino affabile di Isotta. Con le forbici tagliò lo scotch da pacchi e tirò fuori tutte le copie dei saggi di T. S. Eliot, lasciando da parte le scatole più piccole contenenti i libri antichi che, come al solito, non aveva il permesso di toccare.

Non spicciò parola fino all'apertura del pomeriggio, quando un cliente tedesco le chiese aiuto. Sebbene la paura fosse sparita, Isotta conviveva ancora con un velo di frustrazione e dovette sforzarsi per essere gentile con quel ragazzo che, invece di prestare attenzione a lei, giocava con il cellulare. Le chiese una raccolta di poesie di un autore medievale "vissuto poco prima del Mille", senza dirle un nome o altre indicazioni. Esasperata, dopo cinque minuti avrebbe voluto cacciarlo fuori come il signor Fell aveva fatto con il tizio delle quattromila sterline, o quantomeno tirargli un pugno. Invece il ragazzo, dopo aver capito che non avrebbe cavato un ragno dal buco, se ne andò non appena finì la partita.

Il sole calò e mancavano venti minuti prima della chiusura. Isotta, che aveva passato tutto il pomeriggio in piedi a lavorare pur di non parlare con il signor Fell, si gettò su una delle sedie nel retrobottega. Prese la borsa e sbirciò un secondo il cellulare: tre messaggi da Ilenia di alcune ore prima.

"Iso, mi devi aiutare con letteratura. Non capisco un cazzo del Paradiso e ho appena preso quattro con la Ferluga!"

"Io piango alla prima prova, porca troia"

"Ho controllato i giornali come mi avevi chiesto, a proposito"

Isotta controllò che il signor Fell fosse lontano e le rispose.

"Ti do una mano io. Appena arrivo a casa mi dici tutto, sono ancora a lavorare"

Ilenia rispose subito.

"Ti amo un sacco" e le mandò una fila di cuori. A Isotta scappò una risatina nasale.

«È il tuo ragazzo?»

Il cellulare finì con lo schermo verso il tavolo con un tonfo secco. «No!» il viso gentile del signor Fell spuntò oltre la sua spalla. «Non ho un ragazzo».

Lui ridacchiò. «Su, scherzavo. Vuoi qualcosa?» indicò la cucina. «Però la cioccolata è finita. A te non piace il tè, giusto?»

Isotta pose un braccio sullo schienale e strinse le palpebre. «Come fa a saperlo?».

«Scegli sempre altro, sono andato a logica. Ho del succo di frutta, ti vai?».

Il suo corpo un giorno sarebbe collassato per i troppi zuccheri che assumeva con il signor Fell, ma quel momento non era ancora arrivato e lei non aveva voglia di pensarci. «Sì, grazie signor Fell».

Svitò il tappo di una bottiglietta arancione, versò il contenuto in un bicchiere e prese del whisky. «Puoi chiamarmi Aziraphale, se vuoi».

«È sicuro?»

«Sì, "signor Fell" è troppo... formale».

«Beh, lei è il mio capo».

Le passò il bicchiere e si sedette. «Non sono il tipo di persona che può considerarsi un capo».

Isotta bevve il succo con lentezza. Albicocca, fin troppo dolce, ma non se la sentì di lasciare il bicchiere mezzo vuoto. «Riguardo sua cognata...»

«Michael?»

«Sì, ecco, mi dispiace». No, non le dispiaceva, lei non si era nemmeno scusata, ma lasciar cadere l'argomento in quel modo non sarebbe stato appropriato, non dopo la sua reazione. «Il fatto è che... i cani. Sì, i cani, io non...»

«Ti fanno paura, non è così?»

Isotta alzò lo sguardo. Non stava ridendo. Era già qualcosa.

«Sì. Tanta. Troppa».

«L'avevo notato» si appoggiò allo schienale tenendo il bicchiere con entrambe le mani. «Penso che anche lei se ne fosse accorta. Sembravi un fantasma».

«Immagino».

«Non preoccuparti per Michael. Non si preoccupa mai di queste cose, tra un giorno se lo sarà dimenticato. È fatta così». Finì il whisky. «So che te l'avranno chiesto in molti, ma perché ti fanno tanta paura?»

Isotta fece ondeggiare il poco liquido rimasto. A lui poteva raccontarlo, non l'avrebbe presa in giro. «Storia semplice. A sei anni mio padre mi portò a casa di alcuni amici di famiglia. Avevano un labrador, grandissimo, bianco. Nessuno badava a me e decisi di seguirlo in una stanza dove c'era la sua cuccia. Non ricordo molto, penso volessi giocare lui e gli tirai la coda. Si agitò e mi morse la caviglia, ho ancora i segni. Alla fine aveva pure ragione».

«Non hai mai provato a superarla?»

Spostò la testa a destra, a sinistra, una mano sulla giugulare. «No, non... non ci ho mai provato. Insomma, ha visto come reagisco».

Lui annuì. Schiuse le labbra, ma si bloccò prima di dire qualcosa e parlò soltanto dopo qualche secondo. «In ogni caso, non pensare a Michael. Al massimo le parlerò io, se capita».

«Sì, grazie». Lasciò il bicchiere, ormai vuoto e sporco sul lato da cui aveva bevuto. «Con quale dei suoi fratelli è sposata?» chiese tanto per fare conversazione.

«Gabriel» rispose. «Anche se sembrano più colleghi di lavoro che marito e moglie. Di fronte agli altri, almeno».

La campanella trillò. Isotta si sporse, ma non riuscì a vedere la porta di ingresso. Chi poteva essere, a quell'ora? Controllò l'orologio del telefono: mancavano sette minuti alla chiusura.

Aziraphale buttò fuori un piccolo sbuffo, ma si mise in piedi e si sistemò la giacca. «Stiamo per chiudere» esclamò.

«Ngk, sì, faccio veloce, giuro».

Ogni pelo sulla pelle di Isotta si rizzò. Scattò in piedi e si affacciò verso l'uscio: suo zio era lì, ancora con i vestiti con cui era uscito la mattina, gli occhiali da sole (di sera?) e i capelli tutti buttati all'indietro. Si guardava intorno, la bocca serrata che non lasciava trapelare nessun sensazione.

«Buonasera» disse il signor Fell, che la superò. Il tono gentile mascherava una punta di fastidio che Isotta aveva imparato a conoscere. «Posso aiutarla?».

Suo zio camminò fino alla cassa con la sua solita andatura ciondolante. «Uh, sì, grazie mille. Vorrei sapere se ha questo libro». Infilò una mano nella tasca e porse qualcosa ad Aziraphale, forse un biglietto.

Isotta non si mosse dal retrobottega. Avrebbe dovuto andare lì a salutarlo o aspettare che la chiamasse lui? Il signor Fell si allontanò, diretto verso il reparto - assai magro - dei saggi scientifici e lei ne approfittò per avvicinarsi.

Suo zio le sorrise. «Ciao, principessa».

Lei s'irrigidì. «Non qui, zio».

Crowley sbuffò. «Lavoro, capisco. Carino questo posto, ti ci vedo bene».

«Sì, è molto bello, hai scelto bene».

Appoggiò un braccio vicino alla cassa. «Ovvio, io scelgo sempre bene da ubriaco».

«Non so quanto questa frase abbia senso» ridacchiò. «Ti serve un libro per la scuola?»

Scosse la testa. «Un collega mi ha suggerito un piccolo saggio sulla polvere interstellare. Mi sembrava figo, quindi ho pensato "passo da Isotta, andiamo a casa, mangiamo qualcosa e guardiamo quel documentario con il vecchietto che mi piace tanto"».

«Si chiama Piero Angela, zio».

«Vi conoscete?».

Solo in quel momento Isotta si ricordò della presenza del signor Fell, che sostava vicino alle scale con un libriccino azzurro tra le mani e la bocca semiaperta, i piedi su gradini diversi. Guardava Crowley, poi Isotta e, rigido come un blocco di ghiaccio, non accennava a muoversi.

«È mio zio» si sbrigò a dire Isotta e subito lui rilassò le spalle. Odiava fare le presentazioni, per fortuna il signor Fell mosse qualche passo verso la cassa e porse la mano a suo zio con un sorriso cordiale in volto.

«Aziraphale Fell, piacere signor... Fonda?»

«Crowley» lo corresse e ricambiò la stretta. «Parte materna» e accennò a Isotta.

«Ah, capisco». Isotta si spostò e lo lasciò aprire la cassa, mentre suo zio estraeva il portafoglio dalla tasca posteriore dei pantaloni e porgeva due banconote al signor Fell, che teneva la testa bassa. Si rivolse a Isotta: «Puoi staccare anche ora, se vuoi. Non penso arriverà nessun altro». Lei controllò l'orologio appeso alla parete: mancavano meno di cinque minuti alla chiusura. Annuì, fece cenno a suo zio di aspettare, superò tutti i gradini con un balzo e si diresse nel retrobottega per prendere tracolla e giacca.

«È una brava ragazza» disse suo zio. Rumore dei cassetti, suono della carta. «Niente sacchetto, grazie».

«Mi aiuta tanto» rispose il signor Fell. Isotta, già pronta, fece per uscire dal retrobottega, ma si fermò quando il suo capo parlò di nuovo: «Lei è un astronomo?».

«Teoricamente sì, ma di fatto sono solo un appassionato. Insegno fisica».

Isotta tese le orecchie, ma le sirene di un'ambulanza che passò in quel momento non le permisero di udire ciò che disse io signor Fell, a parte la parola "Device".

«Sì, proprio lì» disse suo zio. «Conosco Anathema, è anche la nostra vicina di casa».

«Nostra?».

«Sì, mia e di mia nipote». Come colpita da una scossa elettrica, Isotta sgusciò fuori dal suo nascondiglio. Non voleva che sapesse. «Viviamo assieme».

«Ci sono» disse lei subito, ma si maledisse per il tono troppo acuto che aveva usato. Suo zio la guardò perplesso, ma fece spallucce. Salutarono il signor Fell e s'infilarono in macchina, inghiottiti dalle vivaci luci di Soho che brillavano nel buio della morente giornata.

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Capitolo 8
*** Capitolo Otto - Nel bosco ***


La Bentley sfrecciava libera sulla strada deserta, senza automobilisti o pedoni a cui dover badare, alla massima velocità possibile sul ritmo dei Velvet Underground. Crowley lo avrebbe considerato un momento perfetto, con la sola compagnia dei prati verdi e di un cielo terso privo di sole, se non fosse stato che il silenzio di Isotta era più assordante del motore che ruggiva al vento. Seduta sul sedile accanto a lui, abbracciava la sacca da tennis con la testa appoggiata al finestrino e uno sguardo spento che spiccava sul volto assonnato. Era sicuro che il suo umore rasoterra non riguardasse il tennis.

Dalla metà di settembre, quando in Italia erano ripartite le scuole, le chiamate con Ilenia si erano fatte più sporadiche: aveva gli esami e, a detta di sua nipote, studiava e lavorava ai suoi disegni come una forsennata. Se durante l'estate si era abituato a udire esclamazioni e intere conversazioni in italiano dalla stanza di Isotta, ora quei suoni avevano perso familiarità, ma almeno una o due volte a settimana si sentivano ancora. La sera prima Isotta si era ritirata nella sua camera e, con tono serio e sommesso, aveva attaccato in italiano e passando davanti alla sua stanza Crowley l'aveva vista con uno spesso libro in mano: il libro di testo della "Divina Commedia", quello pieno di note e analisi e segni e sottolineature che usava per studiare (non avrebbe mai sfiorato con la matita i manuali illustrati che teneva in libreria, gli aveva detto). Rimase seduta alla scrivania per quasi tre ore e uscì con un'espressione pensierosa in viso. Non gli disse una parola per tutta la sera, ma non declinò la proposta dei campi da tennis.

Sebbene non ci avesse badato molto all'inizio, la personalità chiusa di Isotta lo stava preoccupando: era una persona riservata, forse anche un po' timida, ma non era una misantropa e il fatto che non stesse facendo alcuno sforzo per inserirsi nella vita londinese gli faceva intendere che avesse bisogno di qualche pacca sulla schiena. Oppure che avesse deciso, per qualche motivo, che sarebbe tornata in Italia il prima possibile e che dunque rifarsi una vita sarebbe stato inutile. Crowley non si aspettava che, in tal caso, Isotta glielo dicesse, non subito almeno, eppure il pensiero che lo lasciasse solo in qualche modo lo pungeva. Era una sensazione strana, difficile da spiegare e ci rimuginava poco, perché, di questo ne era certo, l'immagine di Isotta che si imbarcava in un aereo per l'Italia suscitava in lui emozioni pesanti e senza nome che preferiva scacciare.

Approfittando della strada vuota, guardò sua nipote per qualche secondo: tutta inclinata a sinistra, aveva tirato su le gambe e le scarpe avevano già lasciato dei polverosi segni bianchi sul sedile.

«Giù le gambe» disse duro. Obbedì senza replicare. «Quanti anni hai giocato a tennis?»

Mosse la testa verso di lui come se si fosse appena svegliata. «Sette anni. Ho iniziato a nove e ho smesso due anni fa».

«Troppo impegnativo?»

Annuì. «Partecipavo anche ai tornei e non riuscivo a gestire anche lo studio e i corsi a scuola. Però mi piaceva».

«Seguivi il Wimbledon?».

«Ogni tanto».

Ancora silenzio. «Ieri stavi spiegando qualcosa a Ilenia? Ti ho vista con il libro in mano».

Si sedette composta. «Sì, il "Paradiso". Ma non so quanto sia stato utile. Non le interessa granché e si distrae molto».

«La tua professoressa mi aveva detto che eri brava ad aiutare agli altri con letteratura. Sono certo che abbia capito- Sant'Iddio!». Frenò per evitare di investire un volpe comparsa da alcuni cespugli e Isotta soffocò un respiro a causa della cintura di sicurezza. «Devi proprio andare così veloce?!»

«Tanto non c'è nessuno» ribatté. «Era simpatica quella donna. Aveva dei modi così teatrali, quando parlava sembrava stesse recitando un monologo tragico».

«Sì, la Trevisan è un personaggio. Una volta ha fatto cadere dal primo piano un dizionario che usavamo per tenere aperta la finestra. Ha cacciato un urlo talmente forte che la bidella è arrivata con il kit di primo soccorso perché credeva che qualcuno si fosse fatto male».

Ridacchiarono mentre la Bentley s'insinuava in una strada alberata. «Sempre pronti a ridere di noi. Il nostro è un lavoro stressante».

«Non dirmi che a te non è mai successa una cosa del genere. Per come sei fatto, poi...»

Crowley, sorridendo, allungò la mano verso lo stomaco di Isotta e lo solleticò. «Stai insinuando qualcosa?».

Isotta fece cadere la sacca ai suoi piedi mentre si agitava sul sedile tra le risa. «Dai, smettila!».

Riportò le mani sul volante. «In realtà ci sarebbe una cosetta che potrei raccontarti...»

«Ossia?» si tolse una lacrima dall'occhio con il polpastrello.

«Beh, è stata una cosa stupida. Alcuni anni fa avevo due ragazzini in classe, due scemi che a malapena sapevano scrivere il loro nome. Giocavano per tutta la lezione a un giochino sul cellulare, una di quelle robe online, e credevano che non li vedessi. Quindi un giorno staccai la connessione a internet della scuola».

Sua nipote spalancò gli occhi. «Tu sei pazzo. Metà delle cose che si fanno a scuola è online!».

Fece qualche versetto strozzato alzando compulsivamente le spalle. «Sì, quel giorno l'ho notato».

«Ti hanno scoperto?»

«Avanti, non sono così scemo, principessa. Altrimenti non credo insegnerei ancora lì».

Isotta alzò le mani e fece una risatina nasale.

Attraversarono un altro tratto di strada circondato da terreni erbosi. Infine, Crowley parcheggiò all'entrata del campo sportivo, dove si udivano i rapidi rintocchi delle palline e un leggero brusio di voci. Guardò sua nipote, che stava recuperando la sacca sportiva: si era incupita. Possibile che la sola idea di vedere delle persone la mettesse così tanto in agitazione? Per quanto potesse, studiò il suo volto: puntava gli occhi al terreno, con le palpebre un poco abbassate, le labbra appena schiuse dove ogni tanto infilava l'unghia del pollice.

Aprì la bocca per parlare, quando un dettaglio orrido lo distrasse: uno dei fanali posteriori della macchina si era sganciato e penzolava contro il paraurti. «Satana in terra!». Si accucciò per controllare: alcuni fili erano interi, altri spezzati.

Isotta inclinò la testa. «Sicuro che prima non fosse così?»

«Penso che sarebbe volato». Sollevò il portellone e, soffiando, agguantò la borsa degli attrezzi. «Tu vai. Non so quanto ci vorrà per sistemare tutto». Bestemmiò tra i denti.

Isotta guardò un'ultima volta il fanale. «Va bene, poi ti chiamo». Crowley fece il segno dell'ok in risposta e lei si allontanò.

Sistemare il fanale si rivelò più complesso del previsto: Crowley era in grado di aggiustare piccole parti del motore, di certo non i cavi elettrici. Soprattutto non con la chiave inglese che continuava a rigirarsi fra le mani in attesa che quell'affare si mettesse a posto da solo. Lo incastrò alla bell'e meglio nel foro, ma un'ammaccatura sul bordo non gli permetteva di inserirlo del tutto e tornò a penzolare.

«Al diavolo».

Scavò nella borsa degli attrezzi e pescò un paio di pinze arrugginite. Sarebbe bastato correre come matti per evitare la polizia stradale e impedire che Isotta se ne accorgesse. Se la fortuna avesse deciso di voltargli le spalle avrebbe sganciato qualche sterlina allo Stato, poco male.

Avvicinò le pinze ai cavi, ma si bloccò al trillo del suo cellulare rimasto sul cruscotto. Che fosse Isotta, di già? Buttò a terra le pinze ed entrò in macchina, ma il nome che lampeggiava sul cellulare era quello di sua sorella. Stava iniziando a pentirsi di aver proposto quell'uscita.

«Che c'è, Beelz?».

«Ho sentito che sei tornato, Anthony». Fredda, apatica la sua voce androgina.

«Ben svegliata, sono qui da giugno».

«Non mi hai telefonato» sentenziò. Rumore di fogli.

«Perché avrei dovuto? Me la sbrigo da solo con mia nipote».

«Non lo metto in dubbio» un sospiro. «Tornando al motivo per cui ti ho chiamato, ho trovato una cosa davvero interessante. Ne ha parlato solo il "Financial Times": un giro losco a Trietsee».

«Trieste» la corresse, ma un brivido gli percorse la schiena. Bastarda fino al midollo. «E comunque non mi interessano le tue seghe mentali da criminologa improvvisata, te l'ho già detto».

«Mh, peccato».

«Altro? Sono impegnato». Bloccò il cellulare tra la spalla e la guancia maneggiando le pinze e i cavi con le mani senza risultati.

«Passa a trovarmi, una volta. Porta anche la bambina, già che ci sei».

Clic metallico, il fanale cadde a terra. «Da quando ti importa qualcosa?».

Sbuffò. «Da mai, Anthony. Sono solo curiosa, tutto qui. La prendo a sberle se mi chiama zia».

«Affettuosa come sempre» borbottò sarcastico. «Va bene, un giorno veniamo».

In risposta, Beelzebub mormorò un saluto distratto e chiuse la chiamata senza che Crowley potesse dire qualcosa. La insultò a bassa voce e recuperò il fanale. Beelzebub era sua sorella minore e tra di loro vi erano solamente due anni, ma a Crowley erano sempre parsi un secolo. Da bambini si parlavano poco e da adolescenti si ignoravano, lui preso dalle sue osservazioni astronomiche e lei da macabre storie di cronaca nera mondiale. Crowley ricordava soltanto una tregua, nel loro rapporto gelido come le acque del nord: il matrimonio di Helen, quando entrambi cercarono di sorridere e organizzare tutto l'occorrente per la festa, ma lei non si presentò né alla nascita di Isotta né al suo battesimo. Di fatto, constatò Crowley mentre raccoglieva gli attrezzi, non si erano mai viste e ora Beelz voleva vederla perché "era curiosa", come se Isotta fosse stata un cucciolo di cane di razza nuova. Ciò che però lo tormentava di più era l'articolo che gli aveva nominato, quello che poche settimane prima era sparito dalla sua copia del "Financial". Perse un battito, ma subito si calmò: non era un problema, era un articolo minuscolo, un'inezia, cinque centimetri di giornale in cui non vi era nemmeno un nome e anche se qualcosa fosse venuto fuori non avrebbe varcato le Alpi. Beelz era in grado di scovare gli aghi nei pagliai, ma aveva ben poco potere contro le barriere linguistiche. Specialmente perché odiava l'italiano («Ma senti quel cretino come parla?» gli aveva detto quando avevano visto il padre di Isotta per la prima volta).

Scosse la testa. Non voleva pensarci, non quel giorno. Afferrò la bottiglietta d'acqua, bevve un sorso e uscì dalla macchina, ammirando i tendoni versi che si ergevano di fronte a lui, voci sommesse di urla che si alternavano ai colpi di racchetta. Sperò, invano, di udire la vocetta di Isotta, ma i toni che lo raggiungevano erano tutti duri, maschili, britannici. Non si sarebbe infilata là dentro, ne era sicuro.

Sospirò, frugò nel cassetto, estrasse il piccolo saggio sulla polvere interstellare, uscì e chiuse la macchina. Oltre i campi da cricket poco distanti vi era un boschetto rigoglioso e tranquillo: perfetto per rilassarsi con le sue stelle. Si avviò facendo ruotare il libriccino tra le dita mentre fischiettava un ritmo dei Beatles. Passò accanto ai campi da cricket, dove due squadre giocavano una partita che, a giudicare dai punteggi sui tabelloni, era quasi giunta al termine. Sulle panchine, a pochi metri da Crowley, un uomo dai corti capelli scuri e la barba ben curata si asciugava il sudore sul volto. Per un solo attimo fu in grado di vedere i suoi occhi violacei.

Il bosco era umido e l'odore di pioggia ancora forte tra le foglie, ma i suoni delle palline e dei tifi erano lontani e un placido silenzio albergava in mezzo agli alberi. Dopo un sabato sera trascorso in quattro locali diversi, a bere quattro diverse combinazioni degli stessi quattro cocktail, un po' di sana quiete era quello che serviva, bastava trovare una roccia, un tronco, un fazzoletto d'erba abbastanza asciutto e godersi la sua polvere. Scostò gli arbusti per farsi strada, camminando verso una piccola radura che aveva adocchiato circa cento metri prima. Sollevò un ultimo ramo e fece un passo avanti, ma si bloccò: un uomo biondo, paffuto, vestito con una tuta sportiva firmata, seduto su un asciugamano di tartan e appoggiato a un grosso albero con un libro in mano e uno zainetto vicino al fianco. Crowley schiacciò un grumo di foglie secche e i loro sguardi si incontrarono.

«Oh, lei. 'giorno».

Il signor Fell distolse lo sguardo dal libro. Sbatté le palpebre, boccheggiò e infine gli rivolse un sorriso incerto. «Buon... buongiorno. Lei è il... padre di Isotta?»

Crowley sollevò un sopracciglio. «Zio».

«Sì, zio, scusi». Si alzò in piedi, voltandosi da una parte e dall'altra come un cervo intimorito. Che aveva, credeva lo avrebbe mangiato? «Isotta non c'è?»

«L'ho portata ai campi da tennis» indicò con il libro la direzione dei tendoni verdi inghiottiti dagli alberi.

Il signor Fell infilò un segnalibro tra le pagine, un cartoncino con una piuma bianca disegnata sul fondo ocra, e si passò il libro da una mano all'altra. «Non sapevo giocasse».

«Lo ha fatto per molti anni. È Pirandello, quello?» indicò il libretto marrone che il signor Fell continuava a tormentare: "Questa sera si recita a soggetto".

Spostò lo sguardo dal terreno a Crowley. «Lo conosce?»

«Mia nipote me ne ha parlato».

«L'ho vista leggere una sua commedia durante la pausa pranzo» inclinò la testa. «Anche lei qui per leggere?»

Solo in quel momento Crowley si ricordò del saggio che gli pendeva dai polpastrelli. «Cercavo un posticino. Vicino ai tendoni c'è un chiasso». Si immaginò Isotta, la sua piccolina quieta e composta in mezzo alla masnada, schiacciata contro gli spalti con le braccia che stringevano a sé la sacca. Con uno scatto scosse la testa: era grande, sapeva badare a sé stessa, non doveva preoccuparsi.

«Va tutto bene?». Il signor Fell, con l'asciugamano in mano, si avvicinò a lui.

«Perfettamente». Silenzio, cinguettio degli uccelli. «Lei è qui a giocare?»

«Sì, cricket con i miei fratelli e qualche amico, ogni tanto organizzano qualche partita» rispose. «Ma non sono un grande amante dello sport. Sono sgusciato fuori mezz'ora fa».

L'uomo con gli occhi viola, la tuta della stessa marca e della stessa tonalità di grigio, che si toglieva il sudore dalla fronte seduto sotto il tettuccio delle panchine. Nessuno aveva notato che mancava un giocatore? Nessuno lo aveva cercato? «In effetti ho visto un gruppo di uomini al campetto».

«Probabilmente erano loro».

Recuperò lo zainetto senza metterselo in spalla. Mosse un passo verso il sentiero e lo indicò a Crowley con un timido cenno, guardandolo a malapena. Crowley lo fissò oltre gli occhiali da sole e alzò le spalle. Si avviarono insieme in una direzione ignota.

«Quindi» esordì il signor Fell, che ancora si rigirava il libro tra le mani. «A Isotta piace fare sport». Le sue guance si imporporarono.

«Sì, per questo l'ho portata» rispose Crowley. «Spero possa farsi qualche amico. Non ha conosciuto nessuno in quasi quattro mesi».

«Ho notato che è molto chiusa».

«È la sua natura. Anche in Italia non aveva molti amici, a parte una ragazza con cui usciva tutti i giorni». Spostarono un ramo per passare. «La sera si parlano via internet».

«Non deve essere facile mantenere i rapporti con così tanta distanza».

«Se la cavano. Non che abbiano molta scelta».

«Tornerete mai in Italia?»

«Sicuramente in futuro» rispose Crowley, sebbene l'idea gli percorresse la spina dorsale come un filo gelido. «Pensavo dopo Capodanno, ma al momento è soltanto un'ipotesi. Lei ci è mai stato?»

«Qualche anno fa sono andato a Milano per lavoro» rispose. «Lavoravo ancora nell'azienda della mia famiglia e dovevamo prepararci per la settimana della moda».

«Moda?» Crowley si fermò. Qualcosa nel suo cervello lottava per uscire. «Un momento... la Fell Creations?».

Il signor Fell si bloccò e spalancò gli occhi. «Ehm, scusi?»

«La Fell Creations» ripeté Crowley. «Moda da uomo. È roba sua, o è soltanto un omonimo?».

«No, no, è...» si grattò il collo. «È l'azienda della mia famiglia. Non propriamente "roba mia". Ne sono uscito circa due anni fa».

Crowley lo guardò perplesso. «E come mai, se posso chiederle? Voglio dire, avrà avuto un gran bell'incarico» e remunerativo.

Il signor Fell diminuì la velocità dei suoi passi, come se avesse dovuto risparmiare le energie per una risposta che tardava a giungere. «Disegnavo, gestivo i conti, non facevo granché. Erano i miei fratelli ad avere le redini e i vertici di un'azienda non sono ciò che si può definire un paradiso». Si strinse il libro al petto. «Fare il librario è molto più tranquillo. Meno stress, meno grafici, meno eventi. E almeno Isotta mi tiene un po' di compagnia».

Crowley ripensò alle sue giornate prima di quella funerea telefonata di metà gennaio, quando una piatta voce femminile gli annunciò che sua nipote minorenne era rimasta sola al mondo: monotone, grigie, un fuori e dentro dalla scuola privo di qualunque stimolo che non fosse il cielo notturno. E ripercorse i suoi giorni nuovi, quelli in cui tornato a casa trovava la cenetta mediterranea, le voci italiane in televisione, i libri sparsi e un sottile odore di shampoo al cocco. «Ne sono contento».

«Ci sa fare con i clienti, sa? Soprattutto quelli stranieri. Non me l'aspettavo, visto il suo carattere».

«Forse perché lei stessa non è britannica» osservò Crowley. Ricevette un'occhiata confusa dal signor Fell.

«Ma lei ha la cittadinanza britannica, è nata a Leeds. Lei è un suo parente di sangue, o sbaglio?».

Crowley si portò una mano tra i capelli. Non glielo aveva detto? «È una storia un po' lunga. Mia sorella maggiore si sposò a Leeds con il padre di Isotta, che era italiano, e lei nacque qui. Per questo ha la cittadinanza» abbassò lo sguardo. «Due anni dopo mia sorella morì in un incidente nel laboratorio di analisi tossicologica dove lavorava».

Il signor Fell trasalì. «Non lo sapevo, mi dispiace, davvero».

«Ehi, niente di che, è stato un sacco di tempo fa» lo tranquillizzò in fretta. «Dopo il funerale mio cognato prese la bambina e se la portò via. Improvvisamente, senza dire nulla a nessuna, capisce?».

«Intende dire che non vi aveva avvisato?».

«Zero assoluto. Me lo disse solo dopo qualche mese» quando si fidanzò, per dirmi che Isotta una mamma l'aveva di nuovo, e che non voleva più avere nulla a che fare con i suoi parenti britannici, ma questo non lo disse.

«Dunque vi siete ritrovati solo di recente?».

«Sì» rispose Crowley. «A febbraio. Abbiamo dovuto: non aveva nessun altro». Stava pensando a sua sorella, quella che non era stata chiamata a causa di una fedina sporca - non che il suo sguardo truce non sarebbe bastato a far tentennare qualunque assistente sociale - quando il signor Fell si bloccò vicino a un arbusto, con il piede immerso in una piccola pozza di fango, un velo di sorpresa a coprirgli il viso. «Che intende?»

«Beh, suo padre non c'è più. Gli assistenti non avevano molta... ». Quegli occhi azzurri aperti in una morsa di stupore gli impedirono di andare avanti. Si guardarono, il tempo scandito dalle zampette di uno scoiattolo sule foglie. «Non sapeva?»

Il signor Fell tremò, come se una scossa elettrica gli avesse ridato vita. «No, affatto».

Crowley si maledisse, si sarebbe preso a schiaffi cento volte urlando "cazzo cazzo cazzo" e sbattendo le mani sul volante, se solo fosse stato in macchina e senza il capo di sua nipote a prenderlo per pazzo. «Sì, insomma, la capisco. Non è granché da raccontare» certo che non voleva dirlo, idiota.

«Mi... mi dispiace» riprese a camminare stringendo ancor di più il libro all'ampio petto.

Crowley schiuse le labbra, ma si limitò ad alzare le spalle.

«Quando è successo?»

«Gennaio» disse piatto. «Incidente d'auto. Schiacciato contro una parete di roccia a pochi chilometri da Trieste».

Il signor Fell tremò. «Quindi ora Isotta... starà con lei?».

Vorrei poterlo dire. «Dipende da lei. Per ora sì. Se vorrà tornare indietro... io non posso fermarla».

«Pensa che lo farà?».

«Non ne ho idea» tagliò corto. Sollevò lo sguardo verso il cielo, trovandolo minaccioso e grigio. Un tocco freddo gli sfiorò il naso. «Credo stia per piovere». Altre carezze dure e bagnate tra i capelli, l'odore familiare e pungente della pioggia gli trafisse le narici e un'ombra azzurrina gli avvolse gli occhiali da sole. La seguì fino alla mano grassottella che stringeva il manico dell'ombrello di tartan.

«Chiamavano variabile» gli disse il signor Fell, un piccolo sorriso in volto. «Per questo avrei voluto restare a casa, ma i miei fratelli hanno insistito».

L'immagine del piccolo ombrello con il serpente rosso appoggiato al comodino gli balzò in mente. «Non pensavo, stanotte il cielo era limpido».

Ripresero a camminare e imboccarono un sentiero di ghiaia, coperto almeno in parte dai rami e dove la pioggia era più rada. «Fa osservazioni astronomiche?».

«Spesso» rispose. «Soprattutto d'estate. Con la scuola e Isotta fatico a stare alzato fino a tardi».

«Posso chiederle perché insegna, invece di fare l'astronomo?».

«Ho lavorato come astronomo, in realtà» disse con una smorfia. «Ma lo odiavo. Solo conti, analisi chimiche, discussioni. Io volevo le mie stelle, i miei pianeti e basta. Ho ripiegato sull'insegnamento perché non c'era molto altro che potessi fare». Isotta gli spuntò nella mente, lei e la sua "Divina Commedia" aperta davanti al PC, il suo tono straniero, fluido e severo. «E perché amo stare con i ragazzi». Il signor Fell gli stava sorridendo fin troppo teneramente, per cui aggiunse «Mi fanno sentire giovane».

Il signor Fell ridacchiò. «Concordo, sa? Da quando c'è Isotta mi sento molto più attivo in libreria. Il solo fatto che sia lì mi aiuta a lavorare».

«Vorrei poter dire lo stesso, ma da quando ce l'ho in casa non faccio altro che digerire piatti di pasta e lasagne seduto sul divano».

Risero sotto la pioggia, un suono che si perse fra le foglie e il debole cinguettare degli uccelli. Che situazione: in mezzo al bosco sotto l'ombrello di uno sconosciuto. Uno sconosciuto che era il paffuto libraio capo di sua nipote, e non un gigolò pescato fra i locali di Soho, o un ubriaco del bar il sabato sera, uno sconosciuto con cui conversava del più e del meno come non faceva da tempo: in modo limpido, disinteressato, per fresca compagnia. Isotta lo avrebbe definito un momento da film, come aveva fatto quando le aveva raccontato il suo secondo incontro - primo da sobrio - con Lucifer, in un negozio di lampadari vicino a Oxford: "una commedia di serie Z degli anni Ottanta".

Si scambiarono poche altre parole prima di raggiungere il limite del bosco. Avevano girato in tondo ed erano ritornati ai campi di cricket, dove lo stesso gruppetto di prima era ora accalcato sotto una tettoia con alcuni tavolini, intento a consumare il pranzo.

«Deve tornare?» chiese Crowley.

«Non vorrei, in realtà».

«Facciamo il giro largo, allora». Sorrise, ma tornò impassibile all'istante.

La pioggia s'infittì e i loro passi accelerarono sul terreno fradicio e poltiglioso. Se prima gli alberi e l'ombrello li avevano riparati del tutto, ora Crowley sentiva le punte dei capelli bagnarli la nuca e i pantaloni appiccicarsi alla pelle umida dei polpacci. Si rifugiarono sotto una grossa quercia.

«Deve tornare alla macchina?» domandò al signor Fell.

«Guida mio fratello» rispose lui. «Ma posso tornare anche ora, ho i soldi per un biglietto dell'autobus».

Seduto su una grossa radice bagnata, Crowley si guardò intorno: i tendoni del tennis erano lontani, Isotta non gli aveva telefonato né scritto e sperò volesse dire che andava tutto bene. Pensò alla sua auto, al vetro cosparso di pioggia e al suo libro che aveva infilato sotto la giacca per timore che si bagnasse. Sarebbe tornato lì, in attesa che Isotta ricomparisse, ma poi adocchiò un piccolo edificio bianco a meno di centro metri dal campetto, la cui insegna a forma di tazzina brillava oltre i rami.

«Posso offrirle qualcosa da bere?».

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Capitolo 9
*** Capitolo Nove - Fuori dal guscio ***


Il ragazzo diafano con le lentiggini sparava proiettili con la racchetta, ma il suo amico piccoletto e magro collezionò in poco tempo la sua terza vittoria. Isotta sedeva accucciata vicino agli spalti, abbracciando la sacca e maledicendosi per non essersi portata neppure un libretto da leggere e sia le urla che i volti dei passanti sfioravano appena i suoi sensi come un vago odore trasportato dal vento. La voce di Ilenia l'aveva tormentata tutta la notte.

Si erano incontrate su Skype prima di andare a letto e Isotta era stremata dopo un'ora e mezza di spiegazioni sul "Paradiso", tanto che aveva deciso di stendersi sul letto con il laptop sulla pancia. Era la loro prima videochiamata dopo due settimane in cui si erano scambiate solamente dei messaggi.

«Non capisco perché di punto in bianco tu sia così presa da 'sto esame» le aveva detto Isotta. «Manca un sacco. Non è la fine del mondo, fidati».

«Voglio dare il massimo» aveva risposto lei cancellando con furia un segno di matita. Anche in chiamata si dedicava ai suoi disegni: Isotta non apprezzava quel comportamento, specialmente perché ormai si vedevano così poco che avrebbe desiderato più attenzioni da parte sua, ma non aveva il coraggio di dirglielo visto il vigore che metteva sulla carta. «La Sofia si è laureata con lode e per tutta l'estate non hanno fatto altro che dirmi "guarda tua sorella che brava, che diventerà ingegnere", e mi fissano mortificati come per dire "tu finirai a fare lavoretti armata di diploma in arte"». Accartocciò il foglio e Isotta sobbalzò sul letto. «A volte vorrei proprio mandarli tutti a fanculo, dal primo all'ultimo».

«Non fare così» Isotta si sporse verso il PC. «Tuo padre di sicuro non la pensa in questo modo».

«Forse è più morbido di mia madre, ma dovresti vedere come si accoda ogni volta che elogiano la Sofia». Scaricò la grafite su un foglio nuovo. «Sembra che siano sempre lì lì per dire "lei è un genio, tu fai schifo e perdi tempo con i tuoi disegnini"».

«Smettila» Isotta corrugò la fronte, un moto formicolante le invase il petto. «Lo sai che non è vero».

Ilenia la guardò negli occhi. «Non puoi dire che siano contenti».

«Di certo preferirebbero tu scegliessi una carriera più sicura» ammise Isotta. «Ma non ti ripudieranno se sceglierai di fare questo o quell'altro. Tuo padre era felicissimo quando hai vinto il concorso di fumetto l'anno scorso e anche tua sorella».

Ilenia posò la matita. «Forse sono solo nervosa. Continuo a vedere cose brutte dove non ci sono» sollevò il foglio. «Come questo braccio. Secondo te è proporzionato?»

Glielo mostrò. Era poco più di un bozzetto, ma Isotta lo trovò meraviglioso. Per lei ogni schizzo o dipinto o grafica di Ilenia lo era. Una ballerina volteggiava in una grande sala con le compagne appena nate da deboli strisce grigiastre. «Secondo me sì. È ispirato a Degas?»

Ilenia sorrise. «Ho educato bene il mio tesorino».

«Io no, dato che non ti ricordi una sola allegoria o similitudine». In risposta ricevette uno sbuffo. «Quando ti interroga la Ferluga?»

«Giovedì prossimo. Spero sia magnanima».

«Più che altro dovresti sperare nel tuo cervello».

«In questi giorni mi impegno, te lo giuro. Lo sviscero, 'sto Dante». Si accasciò sulla scrivania e i capelli neri invasero il piano pieno di colori e matite. «Dannazione, Iso, se ti avessi qui ti strapperei i vestiti di dosso».

«Anche io ti amo molto» rispose Isotta sarcastica, un ghigno sul volto, ma lo spense quando lo sguardo sconsolato di Ilenia emerse dalle braccia sporche di tempera. «Vorrei averti qui e riempirti di baci, Ile».

Ilenia uggiolò come un cucciolo. «Torni, vero?».

«Torno».

«Quando?»

Il cuore di Isotta gelò. «Non lo so, ma torno, te lo giuro».

«Non sono più andata al Castello» si risollevò. «Ora sembra una schifezza».

«Non devi bloccarti. Io ci sono comunque».

«Con degli egocentrici bevitori di tè a mille chilometri da qui». Risero, una gioia malinconica. Isotta accarezzò con la guancia il cuscino appena lavato. Se solo avesse potuto appoggiarsi sul suo seno caldo invece che sulla federa nuova! Se solo avesse potuto inspirare il suo odore di tempera invece della lavanda! Ilenia si sollevò e i capelli lunghi, lucidi, liscissimi volarono all'indietro. Averli tra le mani, acconciarli, baciarli, assaporare con la pelle la loro consistenza di seta. E sfiorarle la nuca con le labbra, strofinare il naso contro il suo, affondare il viso nel suo collo. Un continente le separava e dietro lo schermo sembrava vicinissima. Tuffarsi dentro, fuoriuscire in Italia, sul loro mare.

«Patata, mi ascolti o no?»

Isotta si destò, l'immaginario profumo di Ilenia si dissolve e ritornò l'aroma di lavanda, il suo fantasma svanì davanti ai suoi occhi come se fino a un attimo prima ci fosse effettivamente stato. Che stava dicendo?

«Marx» disse Ilenia. «Te lo ricordi?»

Marx, che c'entrava Marx? «Qualcosa».

«Lo iniziamo domani e ha detto che interrogherà» cercò qualcosa nel suo astuccio. «Ultimamente non capisco nulla di filosofia».

«Non ti trovi col prof nuovo?»

«Non molto per ora. Mi mancano la Valerioti e la sua ossessione per Manuel Neuer. Questo qua ha la voglia di vivere di un pesce lesso».

«E come va con il ragazzo che ti fa ripetizioni?».

«Benino, ma tra poco ha gli esami e non so quanto riuscirà a starmi dietro» alzò il foglio e mosse la lampada. «Avrò bisogno di te».

«Son dieci sterline all'ora, signorina» disse affabile.

«Tranquilla, ti ho già spedito il "pagamento". Poi capirai». Cancellò una linea. «Ma dimmi di te. Come va in libreria? Pranzi ancora con il proprietario?».

Isotta annuì. «Sono ingrassata, non credo che bere una cioccolata al giorno mi faccia bene. Ho iniziato ad andare a lavoro a piedi».

«Perché non rifiuti?».

«Non riesco, è così buono!».

«Sai già se ti rinnoverà il contratto?».

«Non ancora, ma spero mi tenga almeno qualche altro mese».

«Sennò che fai?»

«Cercherò altro, credo. Sono a Londra: qualcosa troverò».

«E poi?» smise di tracciare e la guardò con i suoi occhioni azzurri, limpidi come il mare che aveva lasciato.

«E poi... poi vedrò».

Le spalle di Ilenia caddero verso il basso e il suo sguardo tornò a concentrarsi sul foglio. Un peso formicolante si formò nel petto di Isotta e non disse altro. Tacquero entrambe, Ilenia assorbita dai suoi schizzi e Isotta con la testa buttata all'indietro che osservava le foglie stilizzate dipinte sul soffitto.

«Volevo dirti una cosa sui giornali».

Isotta si mise composta all'istante, come se qualcuno le avesse dato una botta sulla schiena. «Che hai trovato? Dove?»

«Ho dovuto scavare nel bidone della carta» fece una smorfia di disgusto. «Ho guardato nella "Repubblica", nel "Corriere" e in altri giornali locali».

«E?»

«Quasi nulla».

«Come, nulla? Ne ha parlato il "Financial"!»

«E non ha detto molto di più. Giro losco a Trieste, qualche pezzo d'antiquariato di medio valore, un po' di mazzette a quanto pare. Nient'altro».

«E tuo padre?»

«Non se ne occupa e anche lo facesse non potrebbe dirmi nulla» posò la matita. «Secondo me tu hai guardato troppi film».

Isotta distolse lo sguardo. «Hai portato i fiori a mio padre?»

«Sì, rossi come li volevi tu» si gettò sullo schienale a gambe incrociate. «Anche se non se li merita».

«Non dire così».

«Che cazzo dovrei dire, Iso? Sei dall'altra parte d'Europa con uno sconosciuto perché lui ha fatto il coglione alla guida!».

«Mio zio non è uno sconosciuto».

«Non vedevi come se ne fotteva di te, ormai? Lo hai detto anche tu!»

Isotta strinse i pugni. Lanciare il computer contro il muro, vedere sparire la faccia che prima voleva baciare... «Ha- ha solo avuto un periodo stressante».

«E quando ti ha mandata dai damerini alla privata quando tu non volevi? Era sempre un "periodo stressante"? O semplicemente non sapeva tenersi una donna che fosse una perché era un cretino?»

Strinse i denti per non urlare. «Sì, è vero, l'ho odiato in quel momento, ma nemmeno tu vuoi sempre bene a tuo padre» ringhiò.

«Mio padre non mi usa in questo modo» ribatté. Isotta aprì la bocca, ma sapeva che stavolta non si sarebbe trattenuta. Agitò la mano, stizzita, e non disse nulla.

«Vado» borbottò Ilenia. «Devo finire inglese» e chiuse la videochiamata senza salutare.

Un moto bruciante le percorse il corpo insieme al sangue. Allargò le braccia di scatto per liberarsi di quella fiamma e sbatté una mano contro il muro. Sotto al mignolo la pelle era ancora violacea, se la tastò e qualcosa di duro e tondo le sfiorò il piede: una pallina verdognola e logora.

«Ehi, tu!» il ragazzo con le lentiggini la chiamò. «Puoi passarci la pallina?»

Con gesti meccanici la afferrò e gliela lanciò, rispondendo con un gesto della mano al suo "grazie". Avrebbe potuto avvicinarsi, presentarsi, chiedere di potersi unire. Ma non lo fece: girò i tacchi e si allontanò dai campi, verso qualche posto ignoto ma più tranquillo. Avrebbe dovuto raccontare qualche balla a Crowley, anche se non ci avrebbe creduto.

Raggiunse la zona ristoro, dove un piccolo bar accoglieva un'esigua clientela e due ragazze erano in fila alle macchinette delle bevande. Isotta cercò nella tasca una moneta e si accodò.

«Quello stronzetto di prima!» sbraitò una delle due, la più alta, con lunghi capelli rossi e una tuta da ginnastica nera. «Mi viene addosso, fa tutto il carino e mi fotte il portafoglio!»

La ragazza vicino a lei, dalla pelle ambrata e capelli così chiari da apparire bianchi, la colpì col gomito. «Non urlare, ci guardano tutti». Si abbassò per prendere la lattina di Coca Cola.

«Avevo quaranta sterline dentro» prese una moneta dalla mano dell'altra e la infilò nella fessura. «Pure se lo ritrovassi quel bastardo se le sarà già intascate».

«L'importante è che ci siano i documenti» rispose l'altra. Si allontanarono.

Isotta fece spola con gli occhi sulle bibite, buttò dentro la moneta e selezionò il numero dell'acqua minerale. Agguantò in fretta la bottiglia e fece per andarsene, quando un lieve tocco sulla schiena la fermò. Un ragazzino di undici o dodici anni, rosso in viso, la guardava dal basso. «Il resto» e le porse due monete.

«Ah, grazie» allungò la mano, ma la ritrasse. «Tienile pure».

Svitò la bottiglia e bevve un sorso. Girovagò per i campetti, studiando i piccoli gruppi che osservavano i match seduti sugli spalti. A pochi metri da lei un trio di ragazze, poco più piccole di lei, si stringeva in un abbraccio spacca-costole. Mossa da un acido interiore che ormai conosceva, distolse lo sguardo e riprese a camminare. Avesse avuto anche solo un briciolo di coraggio per avvicinarsi a qualcuno e sperare di coccolarsi come loro, un giorno. Ma non ce la faceva, aveva sempre le gambe bloccate, come se al suo cervello mancassero le informazioni più basilari sull'approccio. In fondo era stata Ilenia a venire da lei, anni prima, perché trovava curiosi i suoi occhi. Era stata Elisa ad attaccare bottone, quando in prima le chiese la soluzione dell'esercizio di tedesco, era stato suo zio a proporle una passeggiata sulla spiaggia prima della bora di marzo, era stato il signor Fell a offrirle caffè e cioccolata. Calciò un sasso, lo vide ruotare fin sull'erba e cadere in una buca.

Bevve nervosa fino a riempirsi lo stomaco. Appiattì la bottiglietta e la gettò in cestino lì accanto, ma si bloccò quando il tappo colpì del tessuto vermiglio in mezzo alle cartacce delle merendine. Si curò che nessuno la stesse guardando, allungò il braccio e fece sbucare un portafoglio economico, sottile, pieno di tessere ma senza alcun soldo all'interno. Si sedette su una panchina e controllò le tessere una a una: biblioteca, un negozio di trucchi, uno di abbigliamento, club di scherma. E una carta d'identità: Freda War, diciannove anni, studentessa. In foto, una ragazza fulva, bianchissima, con due pungenti occhi blu. Era senza dubbio la ragazza che si lamentava alle macchinette, ma ora che la guardava in faccia le dava una sensazione diversa, familiare. Scavò nella sua memoria, ma fu un giro a vuoto. Si alzò e si mise alla ricerca di un ufficio, un dipendente del parchetto, qualcuno a cui consegnare il portafoglio.

Per evitare di perdersi fece il giro largo lungo il perimetro e passò accanto a un campo da tennis vuoto. Un'intermittente serie di colpi s'interruppe quando un urlo di vittoria squarciò l'aria e Isotta si bloccò: la ragazza di prima, ne era certa. Con cautela si acquattò dietro a un albero e sporse la testa quel tanto che bastava per vedere la ragazza di prima alzare le braccia al cielo e fare il dito medio alla sua amica.

Aveva il portafoglio, aveva la proprietaria, aveva buone probabilità di credere che non l'avrebbe presa a sberle perché sapeva chi era il colpevole. Era un'equazione semplice, così basica e naturale che chiunque, forse, si sarebbe mosso senza problemi, ma Isotta rimase vicino all'albero. E se l'avesse infastidita? Era andata ai campi per giocare con la sua amica, ovvio che volesse restare con lei. O magari l'avrebbero guardata male, per aver ascoltato la loro conversazione, per essersi presentata da loro così, improvvisamente, con il suo portafoglio. Forse avrebbe dovuto portarlo alla direzione e basta, ma qualcosa la tratteneva: quel senso di déjà vu di prima, quando aveva visto la sua fotografia e la voglia di avere qualcuno con cui parlare, dimostrare a sé stessa e agli altri che non era sola, non era la ragazzina straniera che viveva tra la sua casa e la libreria in cui lavorava senza varcare di un centimetro le soglie della sua zona comfort fatta di libri, film e dolci sfornati, ma una persona che voleva ricostruire ciò che si era lasciata alle spalle, anche solo un poco.

Si diede uno schiaffetto sulla guancia: tante storie per un portafoglio. Non era difficile: alzati, cammina, saluta, spiega, dai. E così fece: scattò in piedi, certa che se avesse atteso ancora qualche altro secondo avrebbe perso quelle poche briciole di coraggio che era riuscita a racimolare. Camminando a passo spedito, si fermò a una manciata di metri da loro. «S-scusate!». Il cuore le bruciò e iniziò a martellare.

La ragazza con i capelli rossi - Freda - si voltò prima di battere il servizio. «Ciao. Qualche problema?»

Isotta inspirò profondamente. «I-io ho ascoltato la vostra conversazione alle macchinette... per caso! Ero lì e, beh, ho sentito per caso, del portafoglio, insomma». La stava guardando stranita. Finisci, finisci subito e poi vai via, stai facendo una cazzata. «Prima ho buttato la bottiglietta d'acqua e in cima ai rifiuti c'era questo qua e dato che vi avevo sentite ho pensato di...» si rese conto di non sta respirando. «Di portarlo in qualche ufficio, ma vi ho trovate qua, e beh, ecco» glielo porse. «Tieni».

Freda lo prese. Lo aprì, controllò le tessere e poi la tasca delle monete. Sorrise. «Mi hai forse rubato qualcosa, bambolina?»

Cosa? «No! Era già così, lo giuro!»

In risposta Freda rise. «Sto scherzando, cuccioletta. Non mi aspettavo certo di trovarlo gonfio. Ti ringrazio: se non lo avessi ritrovato avrei dovuto rifare le tessere dell'università». Le porse la mano e Isotta la strinse senza pensarci. Era gelida e ruvida.

«D-di nulla» si voltò dall'altra parte. «Io... io vado». Mosse un piede verso l'uscita del campetto, ma Freda la bloccò con una mano sulla spalla.

«Ho capito chi sei!» esclamò. «Sei la ragazza dell'autobus! Vivi a Camden, vero?»

Ora Isotta ricordava: i vestiti neri, il tono sornione, i nomignoli. «S-sì, sono io» si allontanò dal suo tocco. «Ti prego, dimentica tutto, ero appena arrivata in città e...»

L'altra ragazza si avvicinò. Aveva freddi occhi a mandorla e il naso schiacciato. «La conosci?»

«Ci siamo viste in centro qualche mese fa» poi si rivolse a Isotta. «Sono Freda, comunque. Lei è Katherine» e mise un braccio sulle spalle dell'amica, che la guardò storto dal basso.

«Kat va bene».

Le porse la mano. «Isotta».

Kat la strinse e studiò il suo volto con tanta insistenza che Isotta abbassò lo sguardo.

«Sei qui per giocare a tennis?» chiese Freda.

Isotta boccheggiò. «No, o meglio, sì, girovagavo...»

Freda si mise le mani sui fianchi. «Ti va di bere qualcosa al bar? Offro io come ringraziamento» e le fece l'occhiolino.

«Freda, ti hanno appena rubato i soldi».

Freda rivolse a Kat uno sguardo languido, battendo le lunghe ciglia truccate col mascara. «Ti ridò i soldi, tesoro, te lo prometto». Kat sbuffò, ma annuì. «Che dici, piccolina? Anche perché qui sta per piovere» e indicò il cielo grigio.

Isotta balbettò qualche sillaba sconnessa. S'immaginò Ilenia dietro di lei, a colpirle la schiena sussurrando stizzita "di' di sì, scema!". «Va... va bene».

Durante il tragitto la pioggia arrivò e tutte e tre si fiondarono dentro al bar vicino alle macchinette di prima. «Mi ero appena fatta la piega!» sbottò Freda.

«Prima di andare a tennis? Tu sei fuori» commentò Kat.

Si sedettero a un tavolo vicino a una stampa raffigurante Rafael Nadal. «Ho voglia di un Sex on the beach. Voi che prendete?»

«Io devo guidare, prendo il succo all'ananas».

Isotta ci pensò su: avrebbe dovuto prendere un alcolico? Forse avrebbe fatto bella figura, ma non aveva buoni precedenti con l'alcol, a meno che non fosse vino o nei dolci. E se avesse retto poco? Ma non conosceva bevande poco alcoliche e non voleva chiedere. Preferì andare sul sicuro. «Un espresso» poi aggiunse «Deca». Non aveva bisogno di altra adrenalina.

Si aspettava che sghignazzassero, invece Freda sorrise e Kat non batté ciglio. Ordinarono e Freda accavallò le gambe e incrociò le braccia. «Che fai nella vita, Isotta?»

Ha realizzato che ho un nome, a quanto pare. «Per ora lavoro in una libreria, ma il prossimo anno inizierò l'università».

Freda assunse un'espressione confusa. «Non dovresti star ancora studiando?»

Isotta tacque. Probabilmente si riferiva a un sistema scolastico di cui lei sapeva ben poco. «Mi sono diplomata l'anno scorso in Italia» disse. «Vengo da lì, ma ora vivo qua. Ho preso un anno sabbatico».

«Dove pensi di studiare?» domandò Kat.

«Ancora non lo so. Vorrei fare letteratura, dovrei informarmi sulle università più buone».

«Londra è piena di università» disse Freda. «A parte l'Imperial College - è prettamente scientifico - hai ampia scelta».

«Voi che fate?»

Arrivarono gli ordini e Freda iniziò a bere dalla cannuccia. «Io studio giornalismo. Vorrei diventare inviata di guerra».

Isotta fermò la tazzina a mezz'aria. «Di guerra? È pericoloso».

«Qualcuno deve pur farlo» leccò una goccia sulla cannuccia. «Ed è sicuramente più interessante che seguire gli amanti degli attori o il giro di mazzette dei politici».

«Io studio scienze ambientali» s'inserì Kat, che aveva scolato il succo in un battibaleno. «Vorrei specializzarmi in salvaguardia dell'ambiente, ma per ora è solo un'idea».

«Inquinamento, cambiamenti climatici, quel genere di cose?»

Kat annuì. «Sono fenomeni tristi, ma molto interessanti se studiati con occhio scientifico».

«E tu?» chiese Freda facendole l'occhiolino. «Vedremo il tuo nome sugli scaffali delle librerie o tra i professori di Oxford?»

Isotta ridacchiò. «No, probabilmente insegnerò alle superiori, ma non mi dispiacerebbe lavorare nel campo dell'editoria» finì il caffè. «Però anche qualche lavoro come madrelingua italiana non sarebbe male. Un tempo avrei voluto fare l'interprete, ma ho accantonato l'idea».

«E perché?» Kat accavallò le gambe e incrociò le braccia come Freda. «Mio fratello è interprete. Viaggia un sacco e lo pagano molto».

«Non credo sia il mio lavoro. Preferisco studiare. E dopo quattro anni trovo un po' pesante dedicarmi nuovamente alle lingue».

«Hai studiato lingue in Italia? Quali?»

Isotta annuì e sorrise. «So il francese, il tedesco, un po' di russo e qualcosa di sloveno».

Sia Freda che Kat la guardarono a occhi sbarrati. Isotta si rese conto di come quella fosse la prima vera espressione che solcava il viso di Kat. Freda appoggiò le braccia sul tavolo e si avvicinò a Isotta. «Caspita, io a malapena so l'inglese!»

Kat schioccò la lingua. «Siamo messi bene. Ricorda che diventerai giornalista».

«Sì, sì» Freda liquidò l'amica con un gesto della mano. «E perché non lavori nel turismo? Avresti potuto trovare qualcosa di buono».

Isotta si strinse nelle spalle. «La libreria è più tranquilla. Il proprietario mi paga bene ed è molto buono».

«Dove lavori?»

«A Soho» le due si scambiarono uno sguardo complice. «Dài, non è come sembra, lo giuro! Vende testi antichi!»

Freda ridacchiò e le batté il pugno sulla spalla. «Su, stiamo scherzando, ma sono certa che ci sia qualche libro di Anaïs Nin in mezzo ai codici dei frati».

Isotta avvampò: c'erano sul serio alcune raccolte della Nin e lei le aveva addirittura lette - ben nascosta e con molte interruzioni - ma chiunque avrebbe potuto trovarle nelle altre centinaia librerie di Londra.

Kat tirò un calcio alla gamba di Freda, che gemette appena. «Non serve vivere a Soho per avere tutta la raccolta della Nin proprio in cima alla libreria, o sbaglio Fre?».

Freda sorrise con malizia massaggiandosi lo stinco. «Se li vuoi in prestito basta chiedere, Katty». Volse lo sguardo alla finestra e si alzò in piedi. «Vado a pagare. Tu» indicò Isotta e lei schiuse appena le labbra. «Una partita? Hai la racchetta, no?».

Isotta non disse nulla, poi annuì con decisione. Fuori la pioggia si era estinta.

*

Aveva smesso di frequentare gli allenamenti due anni prima e non toccava del tutto la racchetta da gennaio. Mentre si riscaldava, Isotta ripassò nella sua mente tutte le regole, tutte le tecniche, anche quelle più banali. E se avesse fatto brutta figura? Che avrebbero pensato di lei? Calmò il suo cuore pensando alle risate di Freda. Un po' di ilarità, nient'altro, ma aveva intenzione di fare colpo. Si tolse la felpa e la appoggiò sulla sacca.

«Ti lascio il servizio, piccolina» disse Freda ammiccando.

Palleggiò la pallina con la racchetta sul pavimento un poco umido. Inspirò profondamente e pregò perché il servizio andasse a buon fine. Lanciò la pallina, sollevò la racchetta e un puntino verde oltrepassò la rete. Freda la colpì poco prima che toccasse il terreno per la seconda volta. Isotta parò il colpo, ma non quello che le mandò dopo, che sfiorò appena la linea del campo.

Merda.

«Tua, piccolina»

Il sorrisetto beffardo di Freda accese una scintilla dentro Isotta. Fece volare due volte la pallina e la terza volta la colpì con un vigore tale da spegnere ogni gioia sul viso di Freda, che si precipitò invano dall'altra parte del campo.

«Quindici a quindici» disse Kat. Con la coda dell'occhio Isotta vide che stava ridacchiando nella sua direzione e sollevò il pollice verso di lei, curandosi che Freda non la stesse guardando.

Pareggiarono di nuovo e Isotta si portò in vantaggio con un lob che lasciò Freda a bocca aperta. «Che c'è, Fre?» la schernì Kat. «Mai visto un pallonetto?»

Sparò altri colpi ben assestati e uno quasi prese Isotta in pieno volto. D'istinto scartò a lato e attaccò in malo modo la palla, che rimbalzò sulla rete concedendo a Freda una risposta facile, ma nel colpire si sbilanciò. Isotta scattò in avanti e fece schizzare la pallina alle spalle di Freda, ma nel farlo cadde colpendo il terreno con il polso. Freda riuscì a colpirla col bordo della racchetta, ma non fu sufficiente: la pallina cambiò direzione, ma cadde nel suo campo.

Isotta, distrutta e col fiatone, si avvicinò alla rete ciondolante e strinse la mano a Freda. «Bel colpo, Isotta. Ehi, sei tutta rossa!»

Annuì sorridendo, biascicando poche parole tra un respiro e l'altro. «Sono un po'... arrugginita...»

Kat si avvicinò. «Il tuo lob è stato perfetto» disse. «Hai una buona tecnica».

«Grazie» fu tutto quello che Isotta riuscì a dire.

Recuperò la felpa le accompagnò al parcheggio, dove la Bentley era ancora al suo posto, ma senza il fanale. Si immaginò la disperazione di suo zio nel vedere il suo gioiello rovinato in questo modo.

«Bella quella macchina» disse Freda. «Penso sia degli anni Trenta. Chissà quanto è costata».

Kat raggiunse una piccola macchina bianca ed estrasse le chiavi dalla tasca. Freda infilò una mano in tasca e indicò l'automobile all'amica. «Hai una penna?». Kat parve perplessa, ma non disse nulla. Le porse una matita e Freda iniziò a scribacchiare su un biglietto rosa che allungò a Isotta. «Ci vediamo, piccolina».

Sventolò la mano e saltò in macchina. Isotta esclamò un "ciao" confuso e poi guardò il biglietto: era il promemoria di un appuntamento dal parrucchiere con un numero a matita scritto sopra e una F accanto. Il suo numero, Freda le aveva appena dato il suo numero. Voleva vederla di nuovo, voleva passare del tempo con lei, le era piaciuto stare con lei e giocare con lei. Con un sorrisino sul volto, s'incamminò verso i campi. Dietro a un albero fece una piroetta e alzò i pugni al cielo. Doveva dirlo a Ilenia, doveva dirle che era riuscita a costruire qualcosa, ma poi si ricordò della brutta chiusura della sera prima. Prima avrebbero dovuto aggiustare le cose, ma glielo avrebbe detto, voleva che lo sapesse. E voleva dirlo anche a suo zio.

Cercò il telefono nella sacca, salvò il numero di Freda e si accorse di un messaggio da suo zio risalente a pochi minuti prima. "Sono al bar vicino ai campi da cricket". Impaziente, Isotta si avviò.

Il cielo si era schiarito e un dolce sole brillava tra gli sprazzi bianchi delle nuvole. Sul terreno ancora fangoso, un gruppo di ragazzi sui vent'anni giocava a cricket e oltre il campo fece capolino l'insegna del bar. Isotta stava ricapitolando nella sua testa i punti salienti di ciò che era successo quella mattina quando, oltre il vetro di una finestra semiaperta, intravide un ciuffo di capelli biondi ormai familiari che facevano su e giù, come se stessero annuendo. Si accostò all'angolo del piccolo edificio in modo da non essere vista e udì la voce di suo zio.

«... il mondo accademico in sé non è male, dipende un po' dalla gente che trovi. Io ho lavorato con un gruppetto di giovani incavolati col mondo, sempre con le pa- ehm, le scatole girate. Finito l'anno ho rifiutato il rinnovo».

«È un peccato, però. La ricerca offre tante possibilità, in un ambito come il suo soprattutto».

Isotta si portò le mani davanti alla bocca. Era la voce del signor Fell, morbida e calda, che parlava con suo zio nello squallido bar di un campo di cricket. Si allontanò di qualche passo fino a un sasso bianco grosso quanto un pugno, premurandosi che non si accorgessero di lei. E adesso? Entrare e interromperli o aspettarli fuori? Magari fingere di essere appena arrivata? Ma chissà quanto sarebbero andati avanti. Inoltre, ignorare in quel modo il signor Fell, dopo tutto quello che faceva per lei, le avrebbe sporcato la coscienza. Aspettò comunque, ma dopo un quarto d'ora buono nessuno dei due diede segni di voler interrompere la conversazione. Isotta fece avanti e indietro dall'angolo al sasso, raccogliendo pezzi di storielle sulla ricerca e su un'azienda di moda che non capiva che tipo di ruolo avesse in quel momento. Infine, stanca di attendere, si fece coraggio, proprio come aveva fatto con Freda e Kat, e aprì tremante la porta del bar. Si voltò e incontrò gli occhi ambrati di suo zio.

«Alla fine non l'hanno pubblicato- ciao, principessa!»

Isotta corrugò la fronte, ma si rilassò quando il signor Fell si girò. Si pulì le scarpe sullo zerbino e li salutò entrambi muovendo le dita e curvò le labbra diretta al signor Fell. Lui rispose a sua volta, ma c'era qualcosa nel suo sguardo, nel suo sorriso incero che appariva fuori posto. Non c'era solo la sua cortesia, insieme - forse - a una pallida patina di tenerezza nei suoi confronti. Non seppe dire cosa fosse, ma non la fece sentire bene.

Crowley la invitò a sedersi alla terza sedia in mezzo a loro. Prese posto senza staccare gli occhi dal pavimento e accettò l'offerta di un succo. «Satana, che ti è successo al polso?»

Il signor Fell sbarrò per un attimo gli occhi nell'udire quell'intercalare. Isotta abbassò la manica della felpa: un ematoma si stava formando sul polso con cui aveva colpito il terreno ed era anche un po' rosso. Si maledì per aver saltato gli esercizi post partita. «Sono caduta sul campo. Niente di che, ne ho avuti a centinaia». Ringraziò il cameriere quando posò il bicchiere colmo. Crowley annuì, ma avvicinò la testa e la spalla destra e borbottò qualche sillaba sconnessa.

Mentre Isotta beveva, Crowley e il signor Fell ripresero a chiacchierare. Suo zio gli parlò brevemente dei suoi studi di astrofisica a Glasgow. «Non me ne sono pentito, ma al tempo avrei anche voluto provare a iscrivermi ad arte. Diciamo che non ho avuto la benedizione di mia madre».

«Spero non l'abbiano costretta».

«Che? No, affatto. È volato qualche litigio, ma è morta là. Lei ha studiato qui a Londra?».

«Sì, a Westminster. Avrei voluto studiare lettere, ma gli affari di famiglia mi hanno portato al corso di economia. Poi mi sono specializzato nel mercato della moda».

Isotta smise di bere. Il signor Fell studente di economia? Com'era finito a gestire una libreria? Specializzata in testi antichi, peraltro. Faticava a immaginarlo in un ufficio dalle pareti bianche, con una pianta di plastica accanto alla finestra e le dita grassottelle a battere sulla tastiera, infagottato in un completo gessato con una cravatta nera al posto di un papillon di tartan. O meglio, le veniva difficile immaginarlo in qualunque posto non fosse una libreria o una biblioteca illuminata da fioche luci giallastre.

Continuarono a discutere di università e corsi finché un campanile vicino non annunciò le dodici. Crowley si diresse verso la cassa per pagare e Isotta uscì con il signor Fell.

«Ehi» esordì lui. Puntò gli occhi all'erba. «Quante partite?»

Isotta strinse la fascia della sacca sul petto. «Una sola».

«Com'è andata?»

«Vinta» mormorò. «Non di tanto». Guardarono entrambi in direzioni opposte.

Crowley ritornò. «Deve andare alla fermata?»

Il signor Fell si strinse nelle spalle. «Sì, farò il biglietto su»

La fermata era un centinaio di metri oltre al parcheggio e percorsero il pezzo di strada in comune. Isotta mantenne il passo dietro di loro, ascoltandoli come attraverso un vetro. Erano una coppia bizzarra: suo zio camminava tutto dinoccolato, le mani infilate nelle strette tasche dei pantaloni e muoveva la testa da una spalla all'altra; il signor Fell camminava ritto, con le dita incrociate dietro la schiena e parlava con tono sommesso, come un sacerdote che passeggia intorno alla chiesa prima di una funzione. Isotta soffocò un risolino.

Si salutarono al parcheggio. Il signor Fell e Crowley si strinsero la mano. «È stato un piacere» disse suo zio. Sollevò un angolo della bocca. In risposta, il signor Fell annuì. «Ci vediamo in libreria» disse a lei e si scambiarono un sorriso.

Saliti in macchina, Isotta fece partire "Love Is a Losing Game". «Credo tu abbia molte cose interessanti da raccontarmi, zio».

Lui ghignò. «Certo, principessa, certo, magari davanti a un piatto di spaghetti».

«A casa ci sono le vongole, ti va?»

«Ci sto» rispose. «E tu? Hai qualcosa da dirmi?»

Isotta sfiorò il biglietto nascosto nella tasca. «Sì, qualcosa».

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Capitolo 10
*** Capitolo Dieci - Famiglia ***


Il suono del fuoco sotto la pentola si confondeva con le note di una melodia per violoncello di Elgar. Il Big Ben chiamò l'ora di pranzo con dodici rintocchi e Aziraphale chiuse le finestre per attenuare il fragore delle campane e del fitto vociare in strada.

«Sei sicura di voler cucinare tu, cara? Guarda che per me non è un disturbo».

«Davvero, signor Fell» rispose. Sebbene le avesse detto che poteva chiamarlo per nome, Isotta non lo faceva mai. Un po' gli dispiaceva, ma non insisté.

«Esco per comprare il pane, allora» indossò il cappotto appeso all'attaccapanni e infilò in tasca il portafoglio. «Torno fra dieci minuti. Ah, domani non serve che tu venga: devo andare da un cliente a Cambridge».

Tirava un'aria gelida, figlia della pioggia appena estinta, e Aziraphale si strinse la sciarpa di cashmere intorno al collo. Imboccò una strada secondaria per evitare la masnada di persone dirette ai ristoranti del quartiere, entrò nel solito negozio di alimentari e ne uscì con un sacco pieno. Stava per percorrere a ritroso il percorso di prima, ma una mano inguantata sulla spalla lo fermò. «Ehi, Aziraphale, quanto corri».

Si voltò. Gabriel, infagottato in uno dei cappotti più costosi della loro azienda, allargò le braccia e sorrise. «Ieri sei sgattaiolato via come un topo».

Aziraphale strinse il sacchetto al petto e abbassò lo sguardo. «Sì, sono... sono andato a passeggiare nei boschi».

Gabriel lasciò cadere le braccia lungo i fianchi. «Fai sempre così. Ti cerchiamo e tu te ne vai. Non hai nemmeno il coraggio di guardarmi in faccia».

«Lo sai che non sono molto portato per lo sport».

«Ma chi ti giudica, quando siamo in famiglia?». Aziraphale ripercorse tutti i colpetti sulla pancia ricevuti, ma tacque. «Vogliamo averti con noi, Azi. Non fare il misantropo».

«Non sono un misantropo».

«Eppure te ne stai sempre chiuso nella tua libreria, a studiare manoscritti. Non ci chiami mai, non vuoi nemmeno pranzare insieme la domenica e quando ci troviamo per una partita a cricket fuggi via. Non capisco quale sia il tuo problema».

Aziraphale si guardò intorno, boccheggiò, ma non rispose.

Gabriel sospirò con un velo di irritazione. «Michael mi ha detto che hai assunto una ragazzina. Straniera».

«Sì».

«E che la porti a passeggiare al parco».

Una baguette nel sacchetto si crepò da quanta forza Aziraphale stava mettendo nelle braccia. «Ogni tanto».

«Capisco» si sistemò il cappello. «Comunque la sorella di Uriel si è laureata».

Aziraphale si sforzò di sorridere. «Oh, bene, in... storia, vero? ».

«Sì, o roba simile, qualcosa che ti apre le porte del centro per l'impiego, insomma». Il cuore di Aziraphale sprofondò nella vergogna. «Stasera dà un aperitivo per la famiglia, hanno invitato anche noi, si terrà a Camden Town» gli allungò un biglietto con un indirizzo scritto sopra. «Ti aspettiamo. E non scappare, stavolta c'è anche la famiglia di Michael. Ci vediamo» si voltò e sventolò la mano prima che Aziraphale potesse esprimersi.

Buttò il biglietto nel sacchetto del pane e riprese a camminare a passo rapido. Un aperitivo con tre famiglie diverse per la laurea di una ragazza che conosceva appena era l'ultima cosa di cui aveva bisogno, ma in un certo senso si sentiva costretto. In fondo Gabriel non aveva tutti i torti: non era educato abbandonare il proprio gruppo in quel modo, sgusciando dal campo come un prigioniero che non deve farsi scoprire, infilandosi in un bar con uno sconosciuto. Uno sconosciuto che era lo strambo zio della giovane che lavorava per lui.

Non aveva toccato l'argomento con Isotta, quella mattina. Se n'era stata piuttosto in disparte, a mettere a posti i libri e alla cassa, mentre lui discuteva con uno dei suoi soliti acquirenti, e dopo l'orario di chiusura si era subito offerta per preparare il pranzo. Ogni tanto, dietro agli scaffali, l'aveva sentita ridacchiare.

Aprì la porta dell'appartamento gioendo dentro di sé per il dolce calore. Oltre il tavolo di legno lucido, Isotta stava con una gamba piegata sul marmo della cucina e l'altra completamente tesa, tentando di afferrare un barattolo di spezie in cima al mobiletto. Quando Aziraphale chiuse la porta, Isotta si voltò di scatto e portò giù la gamba con un gemito. Aziraphale soffocò una risatina. «Quale ti serve?»

Isotta indicò un contenitore con l'etichetta rossa, massaggiandosi la coscia.

«Ti sei fatta male?»

«Niente di che» e buttò i fusilli.

Vicino al pacco di pasta aperto vi era un libro con la costa gialla e un titolo in rosso, italiano, spiccava sulla copertina bianca su una moltitudine di spine di grano nere.

«Cos'è?» se lo rigirò tra le mani, incontrando sulla quarta parole sconosciute.

Isotta prese posto di fronte a lui. «Si chiama "Io non ho paura". È ambientato nel Sud Italia degli anni Ottanta e parla del rapimento di un bambino benestante del Nord tenuto nascosto fra i campi di grano. Un ragazzino del luogo lo trova e cerca di capire perché sia lì. È ispirato a veri fatti di cronaca nera. Di solito lo fanno leggere nelle scuole perché è considerato un piccolo classico della narrativa di formazione. Credo sia stato anche tradotto, sa? È molto bello».

«Credo di aver già letto qualcosa di questo autore. Un romanzo che raccontava di due storie d'amore parallele, ma mi sfugge il titolo».

«Forse intende "Ti prendo e ti porto via", è stato il secondo libro che ho letto di Ammaniti. Anche "Io e te" è molto bello, purtroppo non ho ancora letto il romanzo con cui ha vinto il Premio Strega. Le è piaciuto?».

«Ha uno stile un po' inusuale, ma forse sono semplicemente poco abituato alla letteratura italiana. È molto spoglio e diretto».

«Vero, si legge in un attimo. Mi piace anche che talvolta faccia uso di termini dialettali o regionalismi, però credo che quasi tutti vadano persi nella traduzione. Oh, la pasta». Scattò in piedi e spende il fuoco.

Aziraphale finì di apparecchiare e Isotta divise equamente le porzioni di pasta al sugo. «Voi avete molti dialetti, non è così?».

Isotta annuì pulendosi la mano da una macchietta di sugo. «Sì, un sacco. Variano molto anche nelle stesse regioni. Però non tutti sono dialetti: nella mia regione, per esempio, molti sanno parlare il friulano, che è una lingua vera e propria».

«La parli?»

«No, a Trieste è quasi assente. Abbiamo il dialetto triestino, che deriva dal dialetto veneziano. Tutt'altra cosa. Ma non lo parlo granché, non l'ho mai imparato».

«Ve lo insegnano?»

«No, no, lo si impara ascoltando, diciamo. Molti lo imparano con i nonni, ma i miei erano un caso un po' particolare. Mio nonno era di Trieste, ma ha vissuto quasi tutta la sua giovinezza in montagna e sapeva poco dialetto. In compenso mia nonna mi ha insegnato lo sloveno».

«Mi hai detto di essere andata molte volte in Slovenia».

«Se si vive a Trieste non ci vuole nulla. Bastano tre quarti d'ora d'auto, o un viaggio in barca». Posò la forchetta, spezzò un tozzo di pane e iniziò a raccogliere il sugo. «Con la amica andavo spesso a Pirano. È una cittadina portuale bellissima, la chiamano la "Venezia slovena". Ha un museo del mare meraviglioso ed è molto pittoresca».

Inghiottì l'ultimo pezzo di pane e si appoggiò allo schienale guardando verso il basso. Aziraphale la guardò portare la testa da una spalla all'altra: anche suo zio lo faceva, eppure quel medesimo gesto era così diverso fra loro che faticava a credere fosse lo stesso. Isotta puntava lo sguardo ora verso l'alto, ora a destra, ora in basso e non lo guardava più come aveva fatto fino a un minuto prima. «Ti manca mai il tuo Paese?»

Isotta annuì con lentezza. «A volte tanto, altre volte non ci penso troppo. Non che abbia lasciato molto: non avevo parenti né chissà quanti amici. Più che altro mi manca Ilenia».

Aziraphale si alzò per prendere della frutta. «Chi?».

«Ilenia» ripeté Isotta. «La mia... migliore amica». Infilò la mano in tasca, smanettò col cellulare e lo mostrò ad Aziraphale. Una foto raffigurava Isotta, in abiti estivi e con un cappellino bianco da sole, accanto a una ragazza appena più alta di lei, con lunghi e lisci capelli corvini, una forte abbronzatura in pieno contrasto con la pelle diafana di Isotta e un paio di occhiali da sole su cui erano riflessi il braccio e lo schermo del cellulare. Dietro di loro si espandeva un dolce mare carezzato dal sole dorato - Ormai, giorno per giorno, il dio dalle guance di fuoco guidava nudo negli spazi celesti la rutilante quadriga...*, pensò AziraphaleUn'alba estiva italiana, al mare, con due ragazze sorridenti in primo piano, eppure qualcosa stonava. Aziraphale guardò Isotta davanti a sé, poi la sua figura nella foto e comprese: quella in carne e ossa non aveva profondi cerchi di kajal intorno agli occhi, né spessi strati di ombretto scuro. Solo le solite, leggere linee di matita che le allungavano lo sguardo e le ciglia accentuate dal mascara. Il sorriso che sfoggiava in foto, seppur sincero, appariva provato. Era disturbante.

«È il mio ultimo giorno in Italia» disse Isotta. «Quello è molo Audace, davanti alla piazza principale. Vede quel castello bianco in fondo? È Miramare».

«Sembra un bellissimo posto» disse Aziraphale sedendosi. «Molto caldo».

Isotta mise via il cellulare. «C'erano trenta gradi quel giorno. Ecco, se mi chiede cosa mi manca dell'Italia, io le rispondo i trenta gradi e i miei pantaloncini».

Risero entrambi. «Andiamo, d'estate non si sta così male».

«Onestamente pensavo peggio».

«Siete andati al mare, tu e tuo zio? A Brighton, per esempio».

Isotta scosse la testa. «Era un'idea, ma alla fine siamo rimasti nei dintorni. Magari durante le vacanze di Natale progettiamo qualcosa» si alzò per sparecchiare. «Mi piacerebbe vedere com'è il mare qui».

«Ami molto il mare, non è così?»

Isotta si fermò un attimo con il piatto a mezz'aria. «Sa, darei oro per poter rivedere il mare dalla finestra della mia stanza e non la strada trafficata di Camden Town. A casa potevo guardare le navi arrivare. Venivano da tutto il Mediterraneo».

La pausa pranzo finì. Per tutto il resto della giornata lavorativa Aziraphale non poté fare a meno di chiedersi cosa avrebbe pensato lui se al posto del vivace viale di Soho che, da due anni a quella parte, lo accoglieva tutte le mattine, avesse avuto una strada sconosciuta, con colori nuovi e sgradevoli. Conosceva alla perfezione i dettagli visibili dalla finestra accanto alla sezione pregiata, ci passava davanti da più di sette anni e l'aveva sempre preferita alla vista della sua stessa camera, nella casa di famiglia, che dava su una porzione del Tamigi vicino a Chelsea Bridge. Forse perché aveva sempre amato di più la libreria rispetto al grosso appartamento che condivideva con la sua famiglia, ma il suo era stato un cambiamento graduale: prima qualche giorno alla settimana, poi tutti, fino al suo trasferimento definitivo. Aziraphale apprezzava la tranquillità della monotonia (o almeno, lo aveva fatto interamente prima di far entrare Isotta nel suo piccolo mondo) e non sopportava gli scombussolamenti: aveva odiato i picchi e i cali improvvisi quando lavorava in azienda, detestava quando Gabriel lo infilava a forza nelle riunioni e nelle cene con un giorno di anticipo. Non riusciva a immaginare come Isotta avesse potuto reggere la catena di eventi che l'aveva condotta a Londra, una scia che lo avrebbe portato a una crisi di nervi: dal padre a uno zio sconosciuto, da una placida cittadina di mare a una delle metropoli più mastodontiche d'Europa. Probabilmente aveva dei progetti, dei sogni, tutti - almeno momentaneamente - mandati a monte.

Rinsavì con un lieve tocco alla spalla. Una vocetta, prima del tutto indistinta, si fece di colpo nitida. Isotta lo stava chiamando. «Signor Fell, c'è la signora Sands. Ha detto di avere un appuntamento per parlare di un certo manoscritto sull'amor cortese».

Da quanti minuti era seduto alla finestra? Fuori era già scuro. «Ah, sì, sì». Si sistemò il papillon. «Potresti preparare il bollitore, cara? E il tè alle prugne, per favore, quello che piace a lei».

*

Seduto sul divanetto del soppalco, Aziraphale faticava a concentrarsi sul suo libro. Aveva recuperato "Ti prendo e ti porto via" dal fondo della sua libreria, ma la scrittura cruda di Ammaniti non lo convinceva, nonostante Isotta lo avesse lodato proprio per quello. Inoltre, il pensiero del festino di laurea gli opprimeva il petto. Abbandonò il romanzo sul tavolino e scese per radersi e pettinarsi, ma il tempo era come bloccato. Cos'avevano quelle otto e mezza che non arrivavano mai? Di giungere in anticipo non se ne parlava. Meno tempo passava in mezzo ai party, meglio era. Per calmarsi accese il bollitore nel retrobottega e preparò una bustina di camomilla, ma quando portò la tazza sul tavolino si bloccò. Un libro bianco dalla costa senape era stato lasciato sulla sedia più vicina alla porta, quella che usava sempre Isotta. Zuccherò la camomilla, prese il libro e riconobbe il campo di grano nero che aveva visto quella mattina.

Sorseggiando dalla tazza sfogliò per sfizio le pagine. I caratteri erano enormi rispetto a quelli a cui era abituato e componevano una serie di vocaboli sconosciuti e affascinanti. Ah, l'italiano pensò. Beata Isotta che poteva leggere senza problemi tutta quella meravigliosa poesia medievale. Gli vennero in mente tutti i suoi fallimentari tentativi di imparare una qualunque lingua che non fosse il gallese che gli aveva insegnato sua madre.

Fece scorrere in fretta le pagine e alcuni pezzi di carta finirono a terra. Si chinò per raccoglierli: un segnalibro con un acchiappasogni disegnato a mano, un foglietto con il nome di un farmaco da banco e una lista della spesa piena di ingredienti mediterranei.

Ripose tutto nella pagina da cui erano caduti, ma tenne in mano il segnalibro. Il cartoncino presentava a lato una linguetta. Tirandola, il rettangolo di cartoncino si aprì a libro, rivelando un disegno a matita: un ritratto curato e realistico di Isotta e un'altra ragazza, distese su un capo d'erba, che si guardavano incrociando l'una le dita dell'altra, legate dal gambo nudo di una rosa. L'unico dettaglio colorato erano gli occhi diversi di Isotta.

Accanto vi era una poesia di Emily Dickinson in elegante corsivo:

Garland for Queens, may be-
Laurels-for rare degree
Of soul or sword.
Ah-but remembering me-
Ah-but remembering thee-
Nature in chivalry-
Nature in charity-
Nature in equity-
This Rose ordained!

Studiò il disegno, ma più metteva a fuoco i dettagli, più si sentiva sporco: c'era qualcosa di intimo in quell'intreccio di mani, qualcosa di intenso nei sorrisini grigi di matita e negli sguardi: stava invadendo uno spazio che non aveva il diritto di toccare, chiuse il segnalibro e lo rimise fra le pagine. Prima di uscire scrisse l'indirizzo di Isotta su un biglietto e mise il libro nella tasca interna del cappotto. Giacché andava a Camden Town tanto valeva riportaglielo, dato che il giorno dopo non sarebbe venuta. Era certo che la sua permanenza alla festa non sarebbe durata granché.

Raggiunse un grande bar al centro del quartiere. Ancora prima di entrare la musica del locale gli rimbombò nel petto e rimpianse i suoi vinili di Stravinskij che avrebbe voluto ascoltare quella sera.

«Aziraphale!» Gabriel, seduto a un tavolo con Michael e Uriel, agitò il braccio invitandolo a unirsi. Tentennante, prese posto accanto al fratello.

«Sciogliti» sussurrò Gabriel. «Sembra che tu stia andando al patibolo».

Aziraphale fece per ribattere, ma una mano sulla spalla lo fermò. Era Daniel «Ciao, Aziraphale». Lo affiancò sulla panca. «Come va? Sei ancora in libreria?».

«Sì, gli affari vanno bene. Mi tengono impegnato» rispose ringraziando col pensiero quell'angelo dal paradiso. Daniel aveva lavorato per molto tempo con lui alla Fell Creations come stilista ed era l'unica persona con cui era mai andato veramente d'accordo. «Ho sentito che sei stato promosso».

Daniel annuì. «Ora viaggio molto. Due mesi fa siamo andati negli Stati Uniti. Avresti dovuto esserci, ci sono dei musei meravigliosi».

Michael, davanti a loro, schioccò la lingua. «Eri a lavorare, Daniel, non in vacanza. Se vuoi vedere i musei, aereo e hotel te li paghi da solo».

Daniel arrossì con violenza e abbassò lo sguardo. Aziraphale gli pose una mano sulla spalla, ma si guardò bene dal consolarlo sotto l'espressione truce della cognata.

«Su, su, Michael» Gabriel ammiccò a sua moglie. «Siamo a una festa, devi rallegrarti. Oh, Sandalphon è tornato con la roba da bere. Spero ti vada bene il Merlot, Aziraphale».

No che non gli andava bene, Gabriel - come tutti - sapeva quanto Aziraphale non amasse il vino rosso, ma accettò il bicchiere senza fare storie e trangugiò a fatica qualche sorso.

Sandalphon gli diede una pacca sul braccio. «Allora, Azi» sentire di continuo il suo nome lo stava mettendo incredibilmente a disagio, come un imputato in tribunale. «Parlaci un po' delle novità in libreria. Abbiamo sentito che hai lasciato entrare qualcuno nel tuo piccolo rifugio».

«Davvero?» disse Daniel.

«Dicevi sempre di amare il lavoro in solitaria» disse Uriel. «Che è successo?»

«Niente di che». Era schiacciato da dieci occhi indagatori, così pungenti da sembrare molti di più, come se l'intero viale si fosse fermato a fissarlo in silenzio. «I libri stavano diventando troppi e avevo bisogno di una mano».

Gabriel arricciò le labbra. «Proprio tu, che non chiedi aiuto a nessuno. Avresti potuto moderare gli acquisti».

«Ricevo molte richieste» ribatté Aziraphale. Con la coda dell'occhio vide Uriel trattenere a stento una risatina. Anche Sandalphon strinse le labbra, distogliendo lo sguardo dal fratello.

«Immaginiamo, immaginiamo» disse Gabriel. «Ma dove hai pescato quella ragazzina? Michael ha detto che non avrà più di quindici anni, non è nemmeno legale, Azi».

Le fiamme gli avvolsero il volto. Lo guardavano tutti, chi divertito, chi perplesso. Perché Gabriel avrebbe dovuto insinuare una cosa del genere davanti alla sua famiglia al completo? «Isotta ha diciotto anni» rispose. Non riuscì ad alzare la voce da quanto gli tremava. «Semplicemente è bassina e sembra più giovane».

Gabriel ridacchiò e scosse la testa. Daniel sviò l'argomento ponendo alcune domande a Sandalphon sull'ultima linea di cravatte e Aziraphale gli fu grato. Prestò poco ascolto al loro scambio di battute e dieci minuti dopo si alzò. «Vado un attimo in bagno».

I servizi del bar erano minuscoli, ma quantomeno puliti. Si appoggiò al muro e assaporò finalmente il silenzio. Pensò alla sua libreria, alla poltrona accanto al camino acceso e alle nuove infusioni di cioccolata che aveva comprato a Westminster e che avrebbe voluto provare ascoltando la "Sagra della primavera". Lontano dal chiasso e dal rock sparato dagli stereo dentro il locale si sentiva come un prigioniero appena liberato dalle corde intorno ai polsi. Toccò il libro dentro la tasca interna del giubbotto e sfilò quanto bastava per intravedere il titolo quando Daniel entrò. «Aziraphale». Ricacciò il libro nella tasca. «Stai bene? Sei qua da un po'».

«Ho mal di testa» borbottò Aziraphale fingendo un tono sfiancato. «Tutta quella musica... non sono abituato».

Daniel gli sorrise. «Ho un analgesico, se vuoi, ma è un po' forte».

Aziraphale gli fece cenno di no con la mano. «Non preoccuparti». Lo superò. «Torno a casa. Se vedi gli altri, per favore, avvisali».

Agguantò la maniglia, ma un tocco tiepido sulla spalla lo fermò. «Mi dispiace che te ne sia andato» disse Daniel. «Gabriel aveva torto. Eri un buon elemento».

«Gabriel non c'entra» Daniel corrugò la fronte, ma non rispose. «Me ne sarei andato comunque. Non è quello il mio ambiente».

Uscirono insieme e si strinsero la mano. «Chiamami pure se hai bisogno di qualcosa».

«Grazie Daniel. La tua amicizia mi è molto cara».

«Ti va di vederci al Ritz, settimana prossima? I tuoi fratelli mi daranno un po' di respiro».

Gli sorrise. «Volentieri, caro».

Si diresse a passo rapido fuori dal locale e si fermò accanto a una pianta del viale per controllare l'indirizzo di Isotta. Raggiunse le strisce pedonali, ma si bloccò quando il suo nome riecheggiò nella strada illuminata. Gabriel stava correndo verso di lui, con la lunga sciarpa che gli svolazzava sulla schiena. Per un attimo, Aziraphale fu tentato di attraversare di corsa la strada: già si immaginava la predica. Ma restò fermo: Gabriel non era contento, ma non sembrava nemmeno infastidito. Giunse davanti a lui con il fiato che si condensava nella gelida aria serale. «Devo dirti una cosa. Daniel ci ha detto che non stai bene, ma è importante».

Aziraphale fu sorpreso nel vedere che Gabriel si preoccupava per lui. «Che succede?»

«Ci sono dei... problemi. Alla Fell».

«Problemi?»

«Le ultime linee non hanno venduto bene» disse. «Molti disegnatori se ne sono andati, dopo la sfilata in America. Hanno ricevuto proposte da una multinazionale che ha sedi anche qui in Inghilterra».

La notizia non giunse inaspettata ad Aziraphale. Non dopo che i suoi fratelli avevano dato strette agli stipendi, ai materiali e alle promozioni. «Non ne avete assunti altri?».

Gabriel scosse la testa . «Sono pochi, non hanno esperienza».

«Se non lavorano non l'avranno mai...» si interruppe quando Gabriel lo fulminò con lo sguardo.

«Non possiamo permetterci di assumere dei novellini. Non ne abbiamo le possibilità» gli mise una mano sulla spalla. «Quindi devo chiederti un favore».

«Dimmi». Nel linguaggio di Gabriel non esistevano favori. Esistevano ordini.

«Devi mandarci dei disegni. Lascia stare quelli che facevi in azienda, sbizzarrisciti».

Aziraphale lo guardò dubbioso. «Tu... hai sempre detto che i miei progetti non erano granché. A che ti servirebbero?».

Gabriel strinse le labbra, poi annuì. «Diciamo che, forse, i freni non ti facevano bene». Gli prese la mano tra le sue e gli rivolse un sorriso caloroso. «Puoi aiutarci? Per la famiglia».

«V- va bene, va bene» rispose Aziraphale sfilando la mano da quelle del fratello. Gabriel allargò le braccia, tronfio.

«Ottimo! Entro sabato prossimo. Riprenditi!». Girò i tacchi e se ne andò fischiettando.

Aziraphale rimase bloccato sul posto un minuto buono. Fino a un'ora prima Daniel gli stava parlando della sfilata negli Stati Uniti e ora Gabriel gli riferiva dei "problemi". Non che la Fell fosse stata sempre rose e fiori, soprattutto dopo che Gabriel e Sandalphon, insieme a Michael, avevano preso le redini tre anni prima. Al tempo gli affari avevano subito un lieve calo e loro avevano cercato di sopperirvi, a volte licenziando dipendenti in malattia da tempo o richiamando le nuove madri con largo anticipo. Se loro padre avesse potuto vedere tutto ciò si sarebbe messo le mani nei capelli. Ma quando Aziraphale aveva levato le tende per dedicarsi interamente alla libreria le cose andavo per il verso giusto: partecipavano a un numero discreto di eventi, i prodotti vendevano e i conti tornavano. In due anni non aveva mai avuto alcuna notizia negativa e ora Gabriel, che non lo aveva mai considerato un elemento molto valido (a malapena aveva badato ai suoi bozzetti in quasi cinque anni di collaborazione) gli chiedeva aiuto. Dirgli di no ormai era inutile: la sera dopo, invece di dedicarsi al manoscritto che stava studiando - l'idea già lo rattristava, pensando a quelle stupende miniature - si sarebbe piazzato al tavolo armato di matita.

Sovrappensiero, raggiunse il viale di Camden Town che aveva scritto nel foglietto. Nel frattempo aveva iniziato a piovere e Aziraphale si coprì con l'ombrello raggiungendo i citofoni del palazzo dove viveva Isotta. Schiacciò il tasto affiancato dalla scritta "Anthony Crowley" stampata a computer, con "Isotta Fonda" aggiunto a penna. «Buonasera» disse la voce metallica di Isotta dopo due squilli. «Chi è?».

«Isotta, sono il signor Fell» rispose. «Ti ho riportato il libro che hai lasciato in libreria».

Per un attimo non disse nulla. Aziraphale se la immaginò con gli occhi sgranati. «Davvero, signor Fell? Grazie!». Seguì un borbottio che Aziraphale non comprese. «Signor Fell, mio zio le chiede se vuole salire, dato che piove».

L'immagine dei suoi libri e del calore della libreria quasi lo indusse a rifiutare, ma un forte tuono seguito da un lampo non prometteva bene. Inoltre, la sua camicia era nuova e rovinarla sarebbe stato un peccato. «Non vorrei disturbare».

«Non si preoccupi, siamo solo noi due e domani mio zio ha la giornata libera. Le apro subito. Secondo piano, porta a destra». La serratura scattò.

Si pulì i piedi sullo zerbino posto all'ingresso e lasciò l'ombrello gocciolante accanto alla porta. Una luce al neon si accese automaticamente, illuminando un piccolo atrio d'ingresso pulito e vuoto, con una bacheca stracolma appesa al muro. Diede un'occhiata al libro di Isotta, ancora nella tasca interna del cappotto: non si era bagnato, per fortuna. I libri bagnati mantengono sempre le pagine tutte secche e ondulate, Isotta lo avrebbe odiato, ne era certo.

Salì i gradini lasciando umide chiazze sul pavimento grigiastro e raggiunse il secondo piano, dove due porte gli si pararono di fronte. Bussò alla destra, da cui provenivano un lieve brusio metallico e il clangore di oggetti sbattuti. Poi un rumore di passi, leggeri e rapidi e la chiave che girava nella toppa.

Il visino di Isotta spuntò a metà sull'uscio insieme all'occhio verde, con il labbro un poco incurvato verso l'alto e le dita della mano destra che sgusciavano a malapena fuori dalla manica della felpona rosa acceso che indossava e che la rendeva larga il doppio. In quel momento Aziraphale si rese conto di non averla mai vista senza trucco: gli occhi erano ancora più grandi e luminosi e le guance, senza il blush, parevano di porcellana.

«Buonasera». Spalancò la porta e lo invitò ad appendere il cappotto all'attaccapanni vicino all'ingresso. Non appena mise piede nell'appartamento, un odore dolce e gradevole lo fece sorridere, ricordandogli che non mangiava dall'ora di pranzo. «Stavate cucinando?»

Isotta lo superò, le mani dentro la tascona centrale. «Stavo facendo lo zabaione».

Superarono il piccolo corridoio fino ad arrivare alla cucina-salotto. Aziraphale si aspettava di trovare il signor Crowley seduto al tavolo o sul divano, ma a parte il rumore delle voci italiane in sottofondo, che discutevano in un'aula di tribunale, e la ventola del forno, la stanza era deserta.

«Tuo zio...?»

«È di là in camera. Finisce di stirare due cose e arriva. Ah, si sieda pure».

Aziraphale prese posto al tavolo celeste della cucina, da cui poteva ammirare un muro lussureggiante di piante di varia grandezza poste davanti alla finestra imperlata di pioggia. «Sono ben tenute, queste piante».

«Se ne occupa mio zio» Isotta afferrò una sac a pochè piena di impasto e formò una ventina di biscotti sottili sulla carta forno. «È bravo, anche se ha metodi... particolari».

Un ciabattare improvviso fece sobbalzare Aziraphale. Si voltò e a pochi metri da sé vi era il signor Crowley, ancora vestito di nero dalla testa ai piedi, ma senza gli occhiali da sole e con i capelli disordinati. «I miei metodi non sono particolari, sono i più efficaci che esistano. 'sera, signor Fell». Spostò con un soffio una ciocca di capelli davanti al naso e prese posto di fronte a lui. Sorrise cordiale e portò una mano sotto al mento. «Possiamo offrirle qualcosa?».

Aziraphale scosse la testa insieme alle mani. «Niente, la ringrazio davvero, ma niente, ho già bevuto».

«I biscotti sono pronti fra meno di dieci minuti» disse Isotta infornando la teglia. «Lo zabaione è a posto, ormai». Si sollevò sulle punte per prendere due coppette dalla credenza. Sfiorò la terza, guardò Aziraphale e a quel punto lui annuì.

«È stato gentile da parte sue venire qui» disse Crowley.

«Beh, sì, ero nelle vicinanze e... un secondo, ho lasciato tutto nel cappotto». Si alzò e corse verso l'attaccapanni vicino all'ingresso. Estrasse dalla tasca il libro, studiò un'ultima volta il campo di grano e lo porse a Isotta. «Tutto asciutto».

«Grazie mille, signor Fell». Tornò davanti al forno, ma sollevò la testa verso il corridoio quando una canzone soul risuonò fra le stanze. «È il mio telefono, torno subito». Zampettò fino alla sua camera, dove oltre la porta vi era lo scorcio di un copriletto verde. Iniziò a parlare in italiano a mezza voce.

«Mi sa che le conviene restare finché non si calma» disse il signor Crowley. Tuonò ben due volte e fuori dalla finestra un acquazzone improvviso scrosciava sulle strade. Fortunatamente Aziraphale aveva accettato l'invito a salire: rientrare in libreria fradicio bagnando tutto il pavimento era l'ultima cosa che avrebbe voluto fare.

I biscotti doravano e il tono straniero di Isotta, più basso di prima, non accennava a fermarsi, insieme al suono di pagine che giravano con forza. Il signor Crowley guardava la televisione: sottotitoli bianchi in inglese recitavano nomi italiani, seguiti dalla parola "ergastolo". Nome, "ergastolo", nome, "ergastolo".

«È un poliziesco?».

Il signor Crowley bofonchiò, poi si sporse verso un piccolo mobile accanto alla televisione e afferrò il cofanetto di un DVD. Se lo rigirò tra le mani. «Non proprio. Cioè, sì, ma è roba reale. Maxiprocesso di Palermo. Mafia, insomma».

«È di Isotta?»

Alzò le spalle. «Le interessano queste cose. E comunque tutti i DVD di questa casa sono di Isotta». Indicò col pollice un mucchietto di cofanetti accanto alla televisione: "La dolce vita", "Suspiria", uno con Marilyn Monroe in copertina, "Il grande Gatsby" e un altro dal titolo piuttosto lungo, in italiano, di cui riconobbe le parole "classe" e "paradiso".

«La prima volta che li ho visti sono rimasto spiazzato» fece il signor Crowley. «Saranno almeno duecento, con quelli che ha in camera e negli scatoloni».

«Pensavo che con l'avvento di siti come Neflit, Nextil...»

«Netflix».

«Sì, grazie, non sono molto pratico. Pensavo che i giovani usassero quelle cose».

«No, suo padre non gliel'ha mai lasciato» grugnì e si passò una mano tra i capelli rossi. «Isotta mi ha detto che le dava un po' di soldi ogni mese e lei li usava per comprare i DVD. Non voleva che si rin... citrullisse stando tutto il tempo davanti al computer. E così mi ha invaso casa». Indicò col pollice un mobile in soggiorno: due ripiani erano sovraccarichi di libri e DVD, stretti fra loro come sardine, tanto che alcuni libri pendevano di qualche centimetro, infilati a forza. In cima troneggiava una piccola fila di monumenti in miniatura: il Big Ben, il campanile di San Marco e la Torre di Pisa al centro. Più a lato c'era uno strano cappello verde con una piuma nera. «Quello era mezzo vuoto prima dell'estate. E anche il frigo».

Aziraphale per un attimo credé si riferisse ai diversi stili alimentari, ma in realtà parlava del mosaico di magneti che tempestava la superficie della porta. Erano souvenir da varie città europee e per ognuna ve n'erano almeno due o tre: sul lato destro Isotta aveva posizionato le città italiane, il resto a sinistra. Verona, Venezia, Milano, Roma, Firenze, Lubiana, Tolosa, Monaco, Londra, Limerick, San Marino. In alto, Isotta aveva appeso una cartolina di Trieste, accanto a una foto in cui, bambina, stava in braccio a una coppia di anziani. «Sono davvero moltissimi».

«Ha insistito per comprare pure di quelli di Londra. Le ho detto "a che ti servono, se ci vivi", ma le è entrato da un orecchio e uscito dall'altro».

«È un po' come mia madre» disse Aziraphale. «In ogni luogo che visitava comprava due tazze e un quadretto ad acquerelli. Non ha mai cambiato schema».

«Io e la mia famiglia non abbiamo mai viaggiato molto, ma ricordo che scattavamo sempre una foto tutti e cinque assieme. Forse ne ho ancora qualcuna». Si alzò per togliere il DVD dal registratore.

«Quelli sono i nonni di sua nipote?» chiese Aziraphale indicando la fotografia sul frigorifero.

Crowley annuì. «Mi ha detto che erano a Capodistria. Penso che Isotta avesse nove o dieci anni».

«E anche loro...»

«Morti». Aziraphale trasalì. Era così diretto. «Altrimenti non credo sarebbe qua. Comunque, mi dica» si sedette di nuovo di fronte a lui «Dove andava tutto ben vestito? Con questo tempo, per di più».

«Ehm, io...» si tormentò l'anello al mignolo. Non si aspettava un cambiamento così repentino. «A una festa. Nulla di che, la sorella di una mia ex collega si è laureata e hanno invitato anche la mia famiglia».

Crowley lo guardò sottecchi. «Ed è fuggito via di nuovo?»

Aziraphale sgranò gli occhi, ma non capì se stesse insinuando qualcosa. Stava sbagliando a raccontargli cose del genere, non poteva sapere se quell'uomo fosse della stessa pasta dei suoi fratelli.

Agitando le mani, Crowley guardò dall'altra parte. «Mi scusi, sono stato inopportuno».

«No, non importa» Aziraphale sospirò. «Ha ragione, comunque» si limitò a dire. In fondo lo aveva visto solo una volta. E lo ritrovava ancora dopo essere scappato dalla sua famiglia.

Crowley tornò a guardarlo. «Non si trova bene?»

«Diciamo che potrebbe andare meglio. Lei ha famiglia? A parte Isotta, dico».

«Una sorella» si alzò e prese una bottiglia di liquore dalla dispensa. «Ma non ci parliamo praticamente mai. Sicuro di non volere nemmeno un po' di rum?».

Aziraphale scosse la testa. Il signor Crowley si riempì il bicchierino e bevve sporgendosi verso il forno. «Spero torni prima che si brucino».

«Cucina spesso?»

«Le dico solo che ho messo su quattro chili da luglio. Non sono mai stato un gran mangiatore, ma Isotta cucina così bene». Tacque per un attimo e una nota più acuta della voce di Isotta ruppe il silenzio. «Credo stia spiegando qualcosa di filosofia».

Aziraphale sgranò gli occhi. «Lei sa l'italiano?».

Il signor Crowley mosse su e giù le spalle. «Non proprio, ma ovviamente dovendo passare qualche mese in Italia ho dovuto imparare qualcosa. È stata Isotta a insegnarmelo e si meriterebbe un plauso per la pazienza che ha avuto. All'inizio non me ne importava granché, ma comunicare non era semplice, dato che non tutti sanno l'inglese. Almeno poi ho imparato a ordinare il caffè da solo». Ridacchiarono. «Era divertente, in fondo. E la psicologa diceva che le faceva bene».

«La psicologa?».

«Lunga storia».

Aziraphale aprì la bocca non sapendo bene che dire, ma lo salvò il trillo di un timer a forma di limone vicino alla cappa da cucina. Il signor Crowley si girò e guardò il forno. «Isotta!»

«Arrivo!» e borbottò altre poche parole in italiano.

Una saetta rosa shocking si catapultò in cucina, abbassandosi davanti al forno. La tasca della felpa era illuminata dalla luce del cellulare ancora acceso. Isotta si infilò i guanti, aprì la porticina e una ventata di calore fuoriuscì insieme al delicato profumo dei biscotti sulla carta forno.

«Che mi hai fatto oggi, principessa?»

Isotta si irrigidì a quel soprannome e Aziraphale non capì perché: lo trovava adorabile. «Lingue di gatto con lo zabaione».

Riempì le coppe con un po' di zabaione, ci affondò cinque biscotti l'una e le distribuì sul tavolo con le lingue rimanenti poste in un cestino al centro.

Il signor Crowley annusò la crema. «Alcolico?»

«Un po'» rispose Isotta. Assaggiò la punta di un biscotto. «No, forse ho messo troppo marsala».

Finirò ubriaco pensò Aziraphale. Ma appena assaggiò la crema dorata e lucente dovette trattenersi dal non leccare la coppa. Quando finì i biscotti ne prese altri due dal cestino e Isotta sorrise discreta con il labbro macchiato di crema.

«Hai ancora zabaione?» chiese il signor Crowley.

«Zio, è tanto calorico questo» ma gli passò lo stesso la ciotola.

«Si vive una volta sola. Signor Fell?» gli porse la ciotola e Aziraphale accettò senza remore.

«È delle tue parti?» le chiese.

«No, è piemontese. Nord Ovest».

«Ora dovrai iniziare ad armarti per i pudding» disse il signor Crowley bevendo del rum.

«Sì, zio, ti faccio anche la putizza».

Aziraphale la guardò stranito. «Poo-tee...?»

«Putizza» ripeté. «A Trieste si fa a Natale e Pasqua, è un dolce arrotolato con la frutta secca».

Aziraphale annuì pensieroso: era già dicembre. «Tornerete in Italia a Natale?»

Isotta abbassò lo sguardo. Il signor Crowley alzò le spalle. «Probabilmente no. I nostri vicini ci hanno chiesto di passare il Natale assieme. Anathema, sa, e il suo ragazzo. Lei non riesce a tornare in America e lui ha la famiglia lontana».

Lo ascoltava a metà, preso da Isotta: con gli occhi puntati in giù si tormentava le mani. Gli aveva detto di non avere parenti, ma chissà quanto desiderava rivedere la sua amica dai capelli neri. Non era però del tutto sicuro fosse solo un'"amica".

«Lei va dai suoi fratelli?»

Aziraphale sospirò. «Di solito facciamo insieme alle loro famiglie e a un po' di colleghi. Non proprio il classico Natale intimo, diciamo». Nonostante Isotta non sembrasse gradire il loro Natale a quattro Aziraphale avrebbe volentieri preso il suo posto. Lo aspettava un 25 dicembre uguale a quello dell'anno prima, e dell'anno prima ancora: tavolata al Ritz, fiumi di vino, una baraonda di chiacchiere che copriva le note delle melodie natalizie. L'anno prima aveva almeno potuto godere della compagnia di Daniel, invitato per la prima volta, ma gli era stato strappato presto da Gabriel per presentarlo a un amico. Dopo tanti anni, tutti identici, trovava ancora incredibile come una persona potesse sentirsi sola anche in mezzo a tanta gente.

Lui e il signor Crowley parlarono del più e del meno per qualche minuto, con Isotta che s'infilava di tanto in tanto tra le battute, ma solo se interpellata. Sotto al tavolo giochicchiava con un elastico per capelli e muoveva su e giù la gamba sinistra con rapidità. Aziraphale non capiva se la sua visita le avesse fatto piacere o meno: gli aveva sorriso tanto, ma adesso si nascondeva dietro a un muro di silenzio. Il fatto che si rivedesse molto in quell'altalena di veli scostati e richiusi non lo faceva stare bene per lei.

Quando la pioggia scemò e il Big Ben batté le undici si decise a partire. Il signor Crowley lo accompagnò all'ingresso. «Va a piedi?»

«Chiamerò un taxi». Guardò Isotta, seminascosta dietro a suo zio. «Ci vediamo dopodomani».

Lei annuì. «Grazie ancora per il libro».

Il signor Crowley lo salutò con un mezzo sorriso e Isotta agitò entrambe le mani. Uscito dal palazzo il freddo lo attanagliò.



 

* "Morte a Venezia" di Thomas Mann, traduzione di Bruno Maffi, edizione Club Italiano dei Lettori S.p.A., Milano 1978

 

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Capitolo 11
*** Capitolo Undici - Spezzati ***


La pausa pranzo durò meno del solito. Leslie era arrivato con un carico mastodontico di ordini a causa del ritardo accumulato nei giorni precedenti e una montagna di scatoloni disseminava il retrobottega. Mentre Aziraphale armeggiava con le forbici, avendo cura di non graffiare i libri, Isotta faceva avanti e indietro portando due pacchi per volta.

«Sei sicura di farcela, cara?». Di solito lasciava si organizzasse come più preferiva, ma le guance porpora e le braccia tremanti sotto il peso dell'ennesimo giro tradirono i suoi sì accennati con la testa. «Quanti ne mancano?»

«Pochi» rispose appoggiando un pacco sul tavolo. «Ce la faccio».

Aziraphale avrebbe voluto dirle che non c'era alcun bisogno di fare l'eroina, ma Isotta sparì di nuovo nel retro. Sospirando, scartò la scatola che gli aveva appena portato, decorata con un ghirigoro nero che non lasciava spazio a dubbi: i suoi acquisti personali di novembre, in ritardo di due settimane. Si infilò i guanti e le alette di cartone rivelarono quattro volumi a stampa dall'austera copertina marrone. Sollevandola, la laguna di Venezia si erse dall'inchiostro del frontespizio, con il campanile di San Marco che troneggiava dietro alla Marciana. Era ironico come avesse visto più immagini di quel tipo su Venezia che cartoline.

Isotta tornò con altro cumulo di scatole. «Finito» esalò lasciandosi andare sulla sedia. «Sono arrivate le nuove edizioni dei classici americani, lì ci sono i saggi di Eva Cantarella e Leslie ha detto che i manoscritti da Manchester non sono ancora partiti».

Aziraphale lasciò il manuale. «Riposati un attimo». Le versò un po' d'acqua. «Non serve mettere tutto a posto subito, prendi un respiro».

«È tutto in ritardo».

«Non certo per colpa nostra. Tranquilla e bevi».

Il campanello suonò di nuovo e oltre il vetro Leslie agitò il braccio.

«Ancora?» Isotta si alzò, ma Aziraphale la fermò con un cenno. «Vado io».

Aprì la porta e Leslie quasi gli schiacciò il pacco contro il petto. «Scusi, era rimasto in fondo. Buona giornata!» e saltò sul furgone.

Aziraphale controllò l'etichetta: romanzi freschi di pubblicazione che ordinava solo per guadagnare qualche extra, nulla di interessante. Lasciò la scatola accanto alla cassa, tornò nel retrobottega e trovò Isotta con il visino immerso nel pacco con i manuali. Il cuore gli si fermò un attimo, ma si calmò quando vide le mani bianche e secche dietro la schiena e non a sporcare le pagine di sudore.

«Isotta».

Lei si girò di scatto e imprecò in italiano. «Non volevo fare niente!»

«Lo so, lo so». Chiuse il pacco e se lo caricò fra le braccia. Guardò Isotta grattarsi il collo con lo sguardo piantato in basso. Una bambina scoperta con le mani nella marmellata. «Se sei curiosa basta chiedere, Isotta».

Inarcò un sopracciglio. «Me li lascerebbe vedere?»

«Mh» strinse il pacco con gelosia. «Non da sola. Non tutti». Isotta sorrise come una ragazzina davanti ai regali di Natale e Aziraphale capì che la sua coscienza non gli avrebbe mai permesso di ritirare la promessa, a quel punto. «Su torniamo a lavoro».

Gli scaffali mezzi vuoti recuperarono colore in meno di un'ora, con largo anticipo rispetto all'ora di apertura. In attesa del rintocco delle tre si sedettero entrambi su divani al centro, ognuno col proprio libro. Aziraphale sbirciò oltre il suo "Paradiso Perduto" per guardare il titolo del romanzo di Isotta: "Far From The Madding Crowd" capeggiava sulla copertina dell'ultima edizione che lui stesso aveva acquistato per la libreria. Non l'aveva mai vista leggere romanzi che non fossero in italiano.

«Thomas Hardy?» domandò.

Isotta girò la pagina senza sollevare lo sguardo. «Era da un po' che volevo provarlo. Ho visto il film».

«Quindi sai già come finisce».

«Ma leggerlo è diverso». Dopo qualche minuto gli chiese: «Signor Fell, può spiegarmi una frase? Penso ci sia un modo di dire ma non lo conosco».

«Certo, vieni cara».

Saltò giù dal divano con uno slancio e prese posto accanto a lui, investendolo col fievole profumo di cocco che l'accompagnava ogniqualvolta si facesse la piega. I capelli le erano cresciuti fino a sfiorarle il collo all'altezza della tiroide.

«Dove?» le chiese. Gli indicò l'ultimo paragrafo della pagina, ma prima che potesse leggere la campanella trillò. Aziraphale alzò gli occhi al cielo. «Siamo chiusi!».

«Siamo noi, Aziraphale!».

Raggelò. La voce morbida di Gabriel era accompagnata da un doppio rumore di passi sui tappeti. Isotta gli rivolse un'occhiata confusa. «Chi sono?»

«I miei fratelli» mormorò. Le restituì il libro. «Resta qui un attimo».

Scese le scale del pianerottolo rialzato sistemandosi il papillon. Oltre una serie di scaffali Gabriel stava soppesando un grosso manuale dalla copertina cremisi e ridacchiava con Sandalphon.

«Ciao... » si limitò a dire.

Gabriel alzò la testa. «Ancora in pausa, Azi? Non conosco un negozio in tutta l'Inghilterra che stacchi per quasi tre ore».

Aziraphale rispose con un sorriso imbarazzato. «Avete bisogno di qualcosa?»

«Volevamo parlarti dei disegni».

«Daniel ve li ha portati?».

«Sì» il sorriso rigido di Sandalphon si spense. «Ma averli in un file e non solo su carta non avrebbe fatto per niente male, sai».

Aziraphale si tormentò le mani dietro la schiena. «Ma ho sempre disegnato su carta...»

«In azienda le cose sono un po' cambiate. In generale tutto il mondo è andato avanti, Azi, l'epoca della carta» Gabriel si guardò intorno ghignando, «sta volgendo al termine».

Aziraphale si limitò ad annuire trattenendo il suo disgusto. «Volete dirmi qualcosa sui disegni, allora?».

Gabriel allargò le braccia. «Sì e no, ma non c'è fretta, andiamo. Piuttosto, perché non ci presenti la tua piccola amica?».

Uno schiaffo nella voce. Aziraphale impiegò un secondo in più per rispondere. «Scusa?»

«Solo curiosità, Aziraphale» disse Sandalphon. «Poi possiamo parlare di affari. Vogliamo vedere chi ha fatto breccia nel tuo mondo».

Quei continui attacchi indiretti alla sua solitudine – o misantropia, così loro la definivano – erano l'arma che portavano sempre con sé, un continuo sparo al cuore del suo vivere. Non volevano vedere Isotta, Aziraphale era certo che volessero soltanto un altro punto in cui colpirlo, ora che non potevano più definirlo un puro eremita. «Credo sia meglio di no».

«Oh avanti, non c'è Angélique, nessuno la morde» Sandalphon rise e Gabriel lo seguì. «Non è educato escludere le persone. Mica hai qualcosa da nascondere, no?».

Aziraphale si morse il labbro dall'interno. Sorridevano con lo stesso sorriso finto e cortese, come marionette mosse dal medesimo burattinaio. Cosa avrebbero detto di lui tornati a casa, se non avessero visto Isotta? Cosa avrebbe pensato Isotta di loro, di quel gruppo che per grazia del Signore non aveva mai varcato le soglie della libreria dall'inizio del suo contratto?

«Aziraphale, cosa diamine hai da essere così titubante? Non siamo bestie. È questo che pensi di noi? Davvero?» Gabriel mosse un passo verso di lui e gli diede qualche pacca sulla spalla. Aziraphale si scostò dal suo tocco e annuì.

Raggiunse il piccolo atrio al centro. Isotta si era infilata tra le pile di libre sopra i tavoli e piccola com'era non avrebbero mai potuto vederla dalla cassa. Aziraphale le toccò la spalla, coperta dal maglioncino verde, e lei lo guardò con i suoi occhi da bambina che parevano dire "non mi faccia uscire, non voglio vederli". Non disse nulla, ma il suo silenziò gli provocò un senso di nausea verso se stesso. «Solo un attimo».

Lo seguì a testa bassa. Gabriel allargò le braccia e con entrambe la mani fece loro segno di avvicinarsi. «Oh, ecco la graziosa fanciulla straniera».

Isotta si bloccò all'istante e fece un flebile versetto indignato. Riprese a camminare solo quando Aziraphale le poggiò la mano sulla nuca: era colorita e bollente. Non vedeva il suo volto a causa delle ciocche brune che aveva portato davanti mentre scendeva le scale, ma se lo immaginò rosso vivo.

Rimase un passo indietro rispetto a lui, ma sollevò la testa e si portò la mano alla giugulare. «Buon... giorno».

«I miei fratelli» disse Aziraphale. «Gabriel e Sandalphon. Ragazzi, Isotta». Il cuore gli batteva come se avesse corso per miglia.

Gabriel si avvicinò e, con un sorriso smagliante stampato in volto, allungò la mano verso Isotta. Lei lo imitò, ma invece di ricambiare l'offerta di una stretta Gabriel le prese una guancia tra le dita.

«Ma che fa?!»

«Gabriel!» Come mosso da una mano invisibile, Aziraphale agguantò Isotta per le spalle e la tirò a sé, staccandola dal tocco di Gabriel.

Lui ridacchiò. «Addirittura, Azi? Volevo solo essere amichevole!» si abbassò per guardare Isotta in faccia e Aziraphale la lasciò. Si stava massaggiando la guancia e Gabriel indietreggiò di un passo quando sollevò la testa, ma ritrovò presto la sua compostezza. «Da dove vieni, tesoro?».

«Italia» rispose atona.

«Il bel paese!» s'inserì Sandalphon. «Ora sono curioso. Firenze? Roma? Venezia?»

«Trieste».

Entrambi storsero il naso. Aziraphale si maledì mille volte per averla trascinata davanti a loro.

«E sei qui per...?»

Isotta esitò. «Imparo l'inglese» mormorò incerta. Gabriel e Sandalphon si guardarono perplessi, ma Aziraphale prese la parola prima che potessero commentare.

«Volevate parlarmi?».

Gabriel tornò a sorridere. «Certo, dei nostri affari importanti». Indicò Isotta con lo sguardo e con la mano fece segno ad Aziraphale di mandarla via. Pregò che non volessero rivederla.

«Andate pure nel retrobottega» disse loro. Sfiorò la schiena di Isotta. «Vi raggiungo subito».

Fecero come indicato. Aziraphale trascinò Isotta accanto alle scale e cercò invano il suo sguardo. Si toccava ancora la guancia, la bocca contratta in una smorfia di disgusto. «Mi dispiace Isotta, non pensavo che... Sono molto invadenti, lo so... » si fermò quando lei scosse la testa.

«Non fa niente» disse. «Devo andare via?».

«Vai pure di sopra» le porse le chiavi dell'appartamento. «Prendi quello che preferisci in cucina. Leggi i libri che vuoi, ma non toccare quelli sulla scrivania. Spero mi lascino libero per l'apertura».

«Mh, ok. Riprendo il libro». Saltellò fino ai divani, recuperò la sua copia di "Via dalla pazza folla" e salì i gradini due a due senza guardarlo.

Aziraphale prese due grandi respiri prima di andare nel retrobottega. Non si aspettava che i suoi fratelli sarebbero venuti a trovarlo così presto, o che, semplicemente, sarebbero venuti. La notte stessa in cui Gabriel gli aveva chiesto dei progetti si era messo subito di buona lena, lasciando da parte il manoscritto del "Beowulf" su cui stava lavorando. Aveva recuperato e rivisto vecchi disegni che non aveva mai mostrato a loro e aveva seguito il consiglio di Gabriel: "sbizzarrisciti". Non che potesse lavorare molto di fantasia su giacche, pantaloni e cravatte da uomo, non erano mai state il suo forte. Dopo due notti poté considerare concluso il suo lavoro. Gabriel non gli aveva detto di preciso quanti disegni volesse, per cui Aziraphale ne aveva preparati una ventina. Era un po' fuori esercizio e la stanchezza non era d'aiuto, ma se Gabriel avesse avuto bisogno di una revisione non aveva poche persone a cui richiederla. Evitando di farsi troppe domande, li aveva consegnati a Daniel il giorno del loro pranzo al Ritz e da allora non gli avevano nemmeno più sfiorato la mente. In fondo, sebbene nessuna dei suoi fratelli avesse mai apprezzato la sua decisione di mettersi in proprio, lui era fuori dalla Fell.

Trovò Gabriel e Sandalphon seduti al tavolo del retrobottega. «Volete del tè?» domandò. Sperava di addolcirli un po', dopo la scena di prima.

«Oh, sì» rispose Gabriel. «Hai ancora quelle infusioni da Birmingham?».

«Qualcuna».

Preparò l'acqua e tre classici. Appoggiò tre tazze sul ripiano e sciacquò in fretta le due rimaste dalla fine della pausa pranzo, la sua che ancora odorava di tè e quella che ormai era diventata "quella di Isotta", con le foglie verdi, sporca di caffè, e le infilò in lavastoviglie.

«È una ragazzina un po' strana» commentò Gabriel.

Aziraphale cercò di non guardarlo. «Strana?»

«Non guarda nessuno in faccia» disse. «E sei sicuro non abbia qualche problema agli occhi?».

Aziraphale impiegò un attimo a realizzare cosa intendesse: ormai non badava più al colore diverso delle iridi di Isotta. «Sono sicuro sia nata così. Non credo sia un problemaPuò succedere».

Gabriel schioccò la lingua. «Fosse mia figlia la farei sistemare. Almeno con le lenti a contatto, santo Dio».

Spero tu non abbia mai dei figli, allora pensò Aziraphale.

«Ha un accento un po' strano» aggiunse Sandalphon. «È diverso da quello del ragazzo che abbiamo avuto qualche anno fa, quello che portava sempre i dolci della Sicilia».

«Ovvio, viene dal confine con la ex Jugoslavia. Probabilmente sono tutti mezzi slavi, laggiù dove viveva lei».

Aziraphale portò le tazze sul tavolo reprimendo una rabbia che gli era salita in gola come fosse bile: Isotta era in parte slava ed era certo non fosse un caso isolato, ma il commento di Gabriel non era certo di lode.

«Sei sicuro sia qui per imparare l'inglese?» domandò Gabriel zuccherando il tè con due cucchiai pieni. «Non mi sembrava molto convinta. Non che possa dire granché, dato che parlava al pavimento».

«Anche a me ha detto così» mentì. Gabriel era veramente l'ultima persona a cui avrebbe raccontato cosa era successo a Isotta. «Non è raro».

«E dove vive? Avrà affittato un appartamento in periferia, presumo».

«A Camden Town».

Mossa sbagliata. Gabriel ghignò. «Ah, capisco dove sei andato a curare il tuo "mal di testa"».

Aziraphale era ormai certo che quel giorno sarebbe morto di infarto, se Gabriel non se ne fosse andato. «Non capisco cosa intendi».

«Michael ti ha visto uscire da un taxi a Soho, alle undici di sera» sbatté in malo modo la tazza sul tavolo, sporcandolo con qualche goccia di tè. «Un po' tardi, visto che te ne sei andato prima delle nove e mezza».

«Un cliente mi aveva chiamato» buttò lì Aziraphale, cercando di fermare il tremolio alle mani. Ringraziò Dio che non l'avessero visto a Camden a quell'ora, o mentre usciva dal palazzo di Isotta e del Signor Crowley. Conoscendo Michael, avrebbe riferito a Gabriel nomi e cognomi di tutti i condomini e non ci avrebbero messo molto a fare due più due. «Un tipo strano, il signor Ward. Chiama quando gli pare e insiste come se dovesse morire il giorno dopo. Prima ho fatto un salto in farmacia per compare un analgesico».

I suoi fratelli si guardarono con il dubbio in volto, ma non parevano avere nulla contro cui ribattere. Gabriel sospirò rumorosamente e, dalla ventriquattrore che si portava sempre appresso estrasse una serie di fogli ricolmi di segni rossi, come un professore che consegna le verifiche corrette. Una serie di verifiche andate assai male.

«Torniamo a noi. Abbiamo guardato i tuoi disegni, sono ok, ma... ».

Non un solo disegno era sopravvissuto al tratto color sangue. Gli dissero fosse opera di Daniel e Aziraphale preferì non esprimere la sua forte perplessità. Daniel amava i suoi lavori, lo aveva sempre fatto e amava soprattutto gli schizzi di abiti da donna che faceva quando, in ufficio, si annoiava e non poteva leggere.

Ascoltò a metà quello che gli dicevano sui disegni, non che fosse qualcosa di nuovo: troppo fantasioso, troppo informale, il tartan è passato da anni. Un disco registrato. Sperò che il cellulare squillasse, che Michael o Uriel lo chiamassero per un affare urgente, così che lui potesse tornare al suo John Milton e a spiegare a Isotta il passaggio che non aveva capito. Le sue preghiere rimasero inascoltate.

«Aziraphale».

La voce gelida di Gabriel lo destò. Suo fratello piantò gli occhi nei suoi, colmi di irritazione. Appoggiò il gomito sul tavolo e strinse fra le dita il ponte del naso. «Perché sei sempre da un'altra parte... ».

Sandalphon scosse la testa e si alzò in piedi. «Ti dispiace se uso il bagno?».

Si incamminò verso le scale ancora prima che Aziraphale gli dicesse «Vai».

«Lasciamo stare 'sta roba» Gabriel infilò in malo modo i disegni nella cartella. «Andiamo al punto. Ti ho già detto che alla Fell ci sono... dei problemi, no?»

«Sì».

«Ho parlato un po' con Michael e Uriel e anche con la mamma» si appoggiò allo schienale e sospirò. «Hanno visto anche loro i disegni. Siamo disposti a farti tornare al tuo posto».

Aziraphale per poco non sputò il tè. Lasciò la tazza sul tavolo e si alzò in piedi. «Gabriel, ma che stai dicendo?»

«Che puoi tornare ad aiutarci».

«Non ve l'ho mai chiesto».

«Cosa?»

«Di tornare».

«Non importa, le porte sono aperte».

Aziraphale lo ascoltava come stessero parlando due lingue diverse. «Non m'interessa. Questo è il mio lavoro, adesso». Gli tremò la voce. Aveva l'impressione che Gabriel potesse appiccare un fuoco da un momento all'altro.

Si alzò in piedi anche lui. Erano alti uguali e con soli tre anni a separarli, ma Aziraphale si sentì infimo. Vulnerabile, di fronte a quell'espressione di velenosa affabilità. «Questo? Vendere romanzetti?».

Una fiamma gli bruciò il petto. «Non vendo romanzetti».

«No, scusa, tu vendi cultura. Così diceva lo zio, no? Migliaia e migliaia di sterline in carta ingiallita!».

«Non... non cambia i fatti. Ve l'ho detto, io resto qui» fece per uscire dal retrobottega. Aveva caldo, sentiva il sangue fluire alla testa. «Chiama Sandalphon e andate, se era questo che volevate dirmi. Devo aprire».

Gabriel gli afferrò il braccio e lo costrinse a rientrare. «Giusto, perché adesso il tuo lavoro è anche coccolare una ragazzetta straniera? La nostra presenza interrompe il vostro salottino letterario?».

«Lascia stare Isotta» deglutì scrollandosi di dosso la mano di Gabriel. «Non c'entra niente».

«Eppure preferisci la sua compagnia alla nostra» ghignò. «Dillo che sei andato da lei, quando sei scappato a Camden».

«Ti ho detto di no». Dovette fare appello a tutte le sue forze per stare calmo. Sbraitare lo avrebbe solo messo in una posizione di svantaggio.

«Allora sono curioso: di cosa voleva parlare questo "signor Ward"? Poemi cavallereschi?».

«Testi germanici della prima metà del dodicesimo secolo sull'uso delle erbe mediche in Baviera» esalò tutto d'un fiato dopo aver adocchiato un testo tedesco di medicina appartenuto a un monaco.

Gabriel assunse un'espressione contrita. «Che razza di roba vendi?».

Aziraphale si limitò a fare spallucce. «Tornando a noi, la mia risposta non cambia».

«Ma ci serve il tuo aiuto! Altrimenti va tutto in malora!».

Aziraphale sbuffò. Gabriel doveva essere impazzito: per anni lo aveva deriso e ora lo trattava come il salvatore del patrimonio di famiglia e lui non ne capiva il motivo. Era tutto così vago, il telegramma confuso di un disastro lontano. «Gli affari vanno e vengono, Gabriel. Sono sicuro che riuscirete a tirarvi su». Rumori di passi, Sandalphon rientrò nel retrobottega a Gabriel lo guardò in tralice. «Se avete bisogno di qualcuno che faccia il mio mestiere, il mondo ne è pieno».

«Non abbiamo tempo da perdere».

«Non ci vorrò molto e io di certo non sarei il benvenuto».

«Nessuno tirerà fuori la storia di Oscar, nessuno ti darà fastidio».

«Non importa. Io resto fuori» indicò loro la porta. «Questo è tutto quello che ho da dirvi».

Lo schiaffò arrivò come un tuono nel buio della notte, uno schiocco assordante nel silenzio. Aziraphale si massaggiò la guancia e guardò Gabriel sconcertato. Lui e Sandalphon gli camminarono oltre con passi di ferro.

«Stronzo, finocchio pigliainculo!».

Il vetro della porta vibrò con la campanella. Aziraphale si voltò e incontrò il viso scioccato di Isotta sulle scale.

 

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Capitolo 12
*** Capitolo Dodici - Unione ***


«E quello stronzo mi ha preso la guancia! Ma chi cazzo sono, sua figlia? Grazie a Dio sono fuori dalle palle».

Isotta inviò il lungo vocale da cinquanta secondi a Ilenia e buttò il cellulare sul tavolo. La guancia le faceva ancora male e poteva sentire il tocco viscido di Gabriel sulla pelle. Se quella era la sua famiglia, il signor Fell faceva bene a starsene da solo.

Aprì il frigo e si servì un bicchiere di succo. Bevve leggiucchiando qualche paragrafo di "Via dalla pazza folla", ma il suo interesse ormai era calato. Dal piano di sotto proveniva un lieve e incomprensibile borbottio, in cui la voce di Gabriel dominava la discussione, ma Isotta non carpiva nemmeno una parola. Sciacquò in fretta il bicchiere, lo infilò nella lavastoviglie e si diresse nella libreria.

Si trattava di una stanzettina in cui entrava di rado, dove di solito trovava il signor Fell la mattina prima dell'apertura. Non era davvero piccola, ci sarebbe stato spazio sufficiente per quanto serviva a una camera da letto minimale, ma le due grosse libreria ai lati, la scrivania in fondo e una poltroncina accanto alla porta lasciavano libera soltanto una sottile fetta di pavimento. Con due falcate, Isotta raggiunse la scrivania, sulla quale era posto un manoscritto aperto scritto in quella che le parve una forma arcaica di inglese accanto a una penna stilografica. Fitte colonne di versi erano affiancate da miniature un poco sbiadite raffiguranti cavalieri e lande smeraldine. Fu tentata di girare la pagina, ma non osò sfiorarlo.

Sul davanzale della finestra chiusa trovò un grosso manuale, molto più moderno di quello sulla scrivania. Incuriosita lo prese in mano, si sedette e se lo pose sulle ginocchia: "Storia della moda europea: il XVII secolo" capeggiava in oro su una copertina marrone e sobria. All'interno erano raffigurati tessuti, abiti, accessori e macchinari d'epoca, con alcuni appunti a lato. Suo zio le aveva accennato la questione dell'azienda di famiglia del signor Fell, dopo la domenica ai campi, ma Isotta non aveva indagato. Non riusciva a immaginarsi il signor Fell tra tessuti e bozzetti, anche se, probabilmente, era proprio di quello che stava discutendo con i suoi fratelli.

Isotta ebbe un colpo al cuore: che stesse pensando di chiudere la libreria? No, il signor Fell era troppo affezionato, troppo innamorato di quel posto e del suo lavoro per lasciarlo, ne era certa, ma un piccolo timore si fece strada dentro di lei. Chiuse il libro, lo rimise al suo posto e cercò tra gli scaffali un romanzo più leggero (anche se il concetto di leggero, in qualunque senso, non esisteva a casa del signor Fell), ma si bloccò quando la porta d'ingresso cigolò. Una scia di passi si diresse verso il bagno, seguita dal suono dello scorrere dell'acqua. Isotta sbirciò oltre lo stipite e intravide poi l'orlo di un cappotto. Dal piano inferiore provenivano ancora lievi suoni.

Riprese il suo libro e uscì comunque dalla libreria. «Signor Fell?».

In cucina trovò l'uomo pelato dal nome assurdo. Sgranò gli occhi e fece per scattare verso la libreria, ma Sandalphon si voltò e sorrise scoprendo un dente mezzo marcio a lato. «Sì, cara?».

Il signor Fell la chiamava spesso così, un appellativo tiepido e semplice che le aveva sempre fatto piacere, ma detto da quell'uomo le provocò solo disagio. «Scusi, pensavo fosse suo fratello».

Sandalphon fece due passi verso di lei e Isotta indietreggiò fino a toccare l'angolo dello stipite con la schiena. «Desidera qualcosa?».

«Ti dispiacciono due chiacchiere?».

«Credevo aveste cose urgenti di cui parlare».

Sandalphon fece spallucce. «A Gabriel piace insistere sulle cause perse». Si appoggiò al muro e infilò le mani in tasca. Isotta strinse il libro al petto. «Dimmi, da quanto lavori per mio fratello?».

Isotta lo guardò sottecchi. Al posto di assistere i suoi fratelli nei loro "affari importanti" le faceva l'interrogatorio. Dopo averla snobbata, per di più. «Da inizio ottobre».

«È un bravo capo?».

«Sì».

«Ti paga bene?»

«Sì».

«È gentile con te?».

«Molto».

«Ti chiede mai di stare del tempo in più?»

«Abbiamo sempre finito in orario».

L'uomo schioccò la lingua. «Così impari l'inglese» disse con tono sornione.

«Sì» anche se non ci credeva, Isotta non sapeva che altro inventarsi, a quel punto.

«Sei di poche parole» disse. «Come mio fratello. Ti porta spesso fuori?».

Isotta fu percorsa da un brivido. C'era un che di sbagliato, di malizioso, nel suo tono. «Che intende?»

«A pranzo, a passeggiare».

«Molto di rado».

«Mia cognata vi ha visti a St. James' Park. Quella col cane, sai» ridacchiò.

«Una volta».

«Solo?»

«Sì».

«Hai mai visto i suoi "clienti abituali"?»

«Solo quelli che vengono qui».

«Non tutti lo fanno?».

«Molti sono anziani» rispose. «Preferiscono muoversi poco. Va lui da loro».

«Ti ha mai portata?»

«No».

Sandalphon si staccò dal muro. La guardò un'ultima volta e si diresse verso la porta senza dire un'altra parola.

«Ma ci serve il tuo aiuto! Altrimenti va tutto in malora!».

Isotta sobbalzò a quel grido improvviso. Il signor Fell parlò a voce più bassa e lei non afferrò. Sandalphon, quando si accorse che stava ascoltando, si avvicinò all'uscio e le sorrise con acidità. «Discorsi da grandi» disse chiudendo la porta.

«Va' al diavolo» sussurrò Isotta stizzita. Si sedette sul divano giochicchiando con la copertina del libro, ma il tono delle voci si rialzò. Era come essere in un altro posto: l'aura di dolce tranquillità della libreria si era spezzata, come un rivolo di petrolio in un fiume limpido. All'ennesimo rimbombo della voce di Gabriel nel suo petto, Isotta si alzò per vedere cosa stesse accadendo.

Spostò piano la porta perché non cigolasse. Con cautela scese qualche gradino, ma il suono secco di uno schiaffo la paralizzò e un insulto disgustoso le gelò il sangue.

Gabriel e Sandalphon lasciarono la libreria a pugni serrati. Il vetro della porta si crepò. Isotta guardò verso la porta del retrobottega e incontrò lo sguardo mortificato del signor Fell. Aveva il volto arrossato e si tastava la guancia. Rimasero immobili per un attimo. Poi, il signor Fell sparì oltre la porta.

In quel momento Isotta si sbloccò. Scattò sui pochi gradini rimasti e corse verso il retrobottega. Rimase ferma all'ingresso, osservando il signor Fell seduto al tavolo che si reggeva la testa con una mano e non la degnava di un'occhiata. Isotta si ritrovò a respirare come se avesse corso una maratona. «Signor Fell?».

Per la prima volta i loro sguardi si incontrarono. Il signor Fell aveva gli occhi lucidi e resse solo per un istante, ma Isotta poté leggere lo sconforto che portava anche sulle spalle ricurve, sulla mano che passava dal viso ai capelli, sulla bocca che si apriva e chiudeva esalando solo fiato. Ripeté il suo nome, mosse un passo e il signor Fell si appoggiò allo schienale con un profondo sospiro. «Ti avevo detto di restare di sopra».

Isotta tentennò un attimo prima di rispondere. Non era l'inizio che si aspettava. «Ho sentito urlare».

«Vai a casa».

«Come?»

«Vai. Non serve che resti».

Isotta cercò in tutti i modi di trovare le parole per dirgli che stava fraintendendo tutto, che aveva sentito e non le importava, ma fu solo in grado di borbottare un insicuro "non capisco".

Il signor Fell sbatté la mano sul tavolo. Isotta trasalì e si coprì la bocca con le mani. «Vai, ho detto!».

Isotta fece qualche passo indietro con lo sguardo piantato verso il basso e allungò la mano verso il trench appeso, ma il signor Fell si lasciò di nuovo sulla sedia. «Perdonami» disse a mezza voce. «Perdonami. Non... non meriti di essere trattata così».

Le dita strinsero con vigore il tessuto cammello. Isotta scavò nella sua mente per trovare il modo di esprimere quella connessione che sentiva con lui, quel timore comune, ma in quel momento pareva che la sua mente si fosse fermata.

«Per favore, vai».

Isotta si limitò ad annuire. Si infilò il trench, prese la borsa e uscì mormorando un lieve arrivederci.

Fuori un sottile strato di nebbia abbracciava gelido la città, ma Isotta sentiva un caldo quasi estivo sotto i vestiti e uno strato di fastidioso sudore le appiccicava il tessuto alla pelle. Camminò a perdifiato facendo slalom tra la gente con lo sguardo assente piantato in avanti e non si riposò nemmeno quando, a metà strada, i polpacci iniziarono a implorare pietà per la marcia assidua. In fondo, era poco rispetto al bruciore che aveva nel petto.

Aveva fatto male sentirlo. Poteva percepire il dolore dello schiaffo sul volto. In quel momento, la voce di Gabriel le era parsa uguale a quella di suo padre quando nei programmi del pomeriggio comparivano i più noti volti LGBT della televisione, coperti da una cascata di "frocio" sputata sullo schermo, con Marica, la sua ultima ragazza, che annuiva divertita. Non lo faceva mai fuori dalle mura di casa: non era elegante, solo gli incivili insultavano per strada, la faccia va salvata, soprattutto quando indossi la cravatta tutto il giorno, questo diceva.

A lei non avrebbe sbraitato frocio, ne era certa. Avrebbe borbottato "puttanella invertita" tra i denti, solo perché era sua figlia, ma non aveva mai avuto l'occasione di farlo. Marica però non era sua madre: lei glielo aveva detto. Lo aveva detto anche di Ilenia.

«Fottuta stronza».

Quando finalmente raggiunse l'appartamento chiuse la porta con due giri, buttò trench e borsa sul divano, si cambiò i vestiti sudati e si gettò sul letto. Nonostante il silenzio Gabriel continuava a gridare nella sua testa come un disco rotto, lui e le sue luride mani che le aveva toccato il viso. Si avvolse nel copriletto verde e chiuse gli occhi ascoltando il rumore della pioggia appena giunta, in attesa che le immagini della libreria si dissolvessero e il cuore, ancora in tumulto, si quietasse.

Il cellulare vibrò sul comodino. Isotta sgusciò fuori dalle coperte e il nome di Ilenia illuminò lo schermo. Vibrò altre quattro volte e Isotta allungò il braccio, ma ritornò sotto le coperte. Dirlo a lei, togliersi quel peso con lei sembrava la soluzione più naturale. Chi altri aveva, sennò? Eppure non voleva farlo. Cosa le avrebbe detto, a parte le solite frasi di circostanza che usava sempre: "fregatene, tu sei a posto". Loro erano a posto, ma Isotta non capiva come fosse possibile "fregarsi" del fatto che non tutti lo pensavano. Era tanto facile dirlo, per lei, che sera in cui l'aveva annunciata come la sua ragazza aveva ricevuto teneri baci e pacche sulle spalle! Lei che non doveva nascondere certi libri e sperare, tornata a casa, che nessuno dei suoi genitori li avesse trovati mentre spolveravano la sua camera!

Isotta soppresse il calore rabbioso che le aveva di nuovo invaso il viso. Non era giusto. Non poteva fare del bene di Ilenia una colpa, anche se quella stessa fortuna aveva costruito barriere, come quelle contro tutti i suoi baci evitati in piazza. Quella che le impediva di liberarsi adesso.

Un forte bussare la destò dal dormiveglia. Scattò a sedere. «Eh, chi è?»

«Isotta!» Anathema bussò ancora. «Ci sei?»

Isotta saltò giù dal letto, si infilò la prima felpa buona che trovò e aprì la porta dopo essersi sistemata in fretta i capelli. «Ciao» si sforzò di sorridere. «Hai bisogno di qualcosa?».

«No, tranquilla, volevo solo chiederti una cosa» si sistemò gli occhiali sul naso. «Madame Tracy sta preparando il tè e ti abbiamo vista entrare, vuoi unirti?».

Isotta fu tentata di rifiutare subito e tornare fra le coperte calde, ma esitò. Avrebbe significato tornare dai suoi pensieri, da Ilenia. Li voleva fuori dalla sua testa, tutti e due. «Volentieri. Aspetta solo che mi metta almeno un maglioncino».

«Oh, vieni così, siamo solo noi tre. E poi, insomma, hai visto 'sti capelli?» indicò il suo chignon mal fatto. Isotta le sorrise e la seguì fuori dopo aver preso un bel respiro.

Madame Tracy viveva nel palazzo accanto a loro e Isotta aveva già potuto vedere il suo appartamento, quando, nei mesi precedenti, l'aveva aiutata con la spesa prima che aprissero un nuovo negozio proprio davanti a loro. Assomigliava alla casa di una nonna, piena di merletti, centrini, foto d'epoca e chincaglierie, immersa nel lieve odore di un dolce deodorante per ambienti. Non appena entrarono, il bollitore in cucina fischiò.

«Arrivo subito, ragazze!» squittì Madame Tracy dall'altra parte.

Isotta e Anathema si sedettero al tavolo già apparecchiato con un barattolo di biscotti e tre piattini decorati con un vivace tema floreale. Madame Tracy entrò con vassoio su cui erano poggiate le tazze, facendo tintinnare i lunghi fasci di bracciali che portava.

«Isotta, tesoro, ti ho fatto la cioccolata buona. Vuoi anche la panna?».

«No, va bene così, grazie».

Porse il tè ad Anathema e si sedette. «Ogni tanto un pomeriggio fra donne mi fa bene. Meno male che ci siete voi, care. Shadwell ultimamente è più scontroso del solito».

«La vedo dura» disse Anathema. «Che è successo? Ha perso un altro dei suoi seguaci, il sergente Scatoletta di Tonno?».

«No, no. Ha trovato lavoro in un'officina – sapete, non si guadagna granché facendo il... cacciatore di streghe – ma credo che i suoi superiori non siano contenti del fatto che chieda a un cliente su due quanti capezzoli abbia» guardò Isotta. «Spero a te non l'abbia mai domandato, tesoro».

Isotta ridacchiò. «In realtà sì, mi ha chiesto prima quello e poi il mio nome». Lo aveva incontrato la prima volta che aveva aiutato Madame Tracy e ancora non ricordava una domanda più stramba. «Credo sia rimasto deluso».

«Insomma, sai com'è» disse Anathema. «Gli prepari ancora la cena, Tracy?»

«Ogni tanto».

«Sinceramente non capisco perché lo fai. Non è nemmeno gentile».

«Sono certa sia molto buono, invece. Qualche volta» aggiunse ridendo. «Credo si senta solo, nient'altro. Suo fratello non si è ancora ripreso».

Isotta smise di bere la cioccolata. «Ma non si era ammalato a settembre? Sta ancora male?».

Madame Tracy annuì a occhi bassi. «Sembra molto cagionevole. Ma sta migliorando, tesoro, non ti preoccupare. Volete altri biscotti? Ho anche quelli alle mandorle, so che ti piacciono un sacco, Anathema».

Prima che entrambe potessero rispondere, saltò su dalla sedie e si diresse verso la credenza. Anathema e Isotta si guardarono ed entrambe sorrisero scuotendo la testa.

«Come va in libreria?» chiese lei.

Il sorriso di Isotta sparì. Per pochi minuti, tutto quello che era successo era scomparso dalla sua mente. Se Anathema glielo aveva chiesto per metterla a suo agio, aveva fallito. «Bene, bene, tutto benissimo».

«Dovrei farci un salto, Crowley mi ha detto che il proprietario si ricorda di me e di mia nonna».

«Parlate del signor Fell?» Madame Tracy tornò con un piatto pieno di biscotti. «Non è per caso quello che presta sempre i soldi a Shadwell?».

«"Prestare" è una parola grossa» disse Isotta, lottando apparire serena. Anathema la stava guardando come se fosse stata uno dei pentagrammi dei suoi libri sull'occulto. «Ma al signor Fell non interessa. Lo fa volentieri».

«È un uomo così caro, sono contenta che ti tenga».

Isotta si nascose dietro la tazza e nelle orecchie risuonò il grido con cui l'aveva cacciata. «Sì, mi trovo bene».

«E a scuola come va, Anathema?». Isotta la ringraziò col pensiero per aver cambiato argomento.

Anathema poggiò la tazza vuota. «Così così. Quest'anno ho una classe dove la metà dei ragazzi non so dove abbia lasciato il cervello. Uno nel compito mi ha scritto che Cromwell finanziò la compagnia di Shakespeare. Posso solo immaginare che abbia dato una pensione d'oro ai cadaveri dopo la chiusura dei teatri. E un altro non scrive un collegamento che sia uno! Di colpo mi dice che Carlo I sciolse il parlamento, senza un motivo. Cosa significa, che si è svegliato di cattivo umore?».

Entrambe risero e Isotta smise di muovere la gamba che non si era accorta di star facendo tremare sotto al tavolo. Anathema raccontò di uno studente "che usa il lessico di un topo" mentre divorava i biscotti alle mandorle. Isotta beveva la cioccolata con lentezza, cercando di concentrarsi sul discorso. Madame Tracy insisté per offrirle anche delle pastine alla crema e cedette alla tentazione.

«Tesoro, tuo zio mi ha detto che anche tu vuoi insegnare».

Anathema la guardò sorpresa. «Davvero?».

Crowley le aveva consigliato, mesi prima, di confrontarsi con lei se avesse avuto bisogno di qualche dritta, ma non lo aveva mai fatto. Semplicemente, in realtà, aveva abbandonato qualunque pensiero riguardante il suo futuro. Quell'idea, il vecchio sogno di una cattedra e dei pomeriggi che avrebbe potuto sfruttare per stare sui libri, negli ultimi tempi era diventata una sorta di risposta standard da mettersi in bocca tanto per non cadere nel mutismo, la carta matta del mazzo. «Sì, è un'ipotesi».

«E cosa insegneresti?».

«Italiano, credo».

«Quindi torneresti in Italia?».

Isotta puntò il suo sguardo su Anathema. «No, no, aspetta... perché?».

«Niente, niente» si affrettò. «Mi sembrava solo molto naturale, come opzione».

«No, be', insomma, sono certa che qualcuno studi italiano pure qui» si grattò il collo. «Non molti, certo, ma, voglio dire, qualcuno».

«Sì, in alcune scuole lo insegnano come lingua opzionale» disse Anathema. «Non è popolare quanto altre lingue, ma qualcosa puoi trovare». Sorrise, ma il suo tono non era affatto convinto.

«Ehi!».

Tutte e tre sussultarono, Madame Tracy fece cadere qualche goccia di tè sulla tovaglia candida. La porta d'ingresso tremò a causa dei forti colpi provenienti dall'altra parte. «Gezabele!».

«Apri, Shadwell, smettila di sbattere in quel modo». Posò la tazza e andò ad accoglierlo.

Il signor Shadwell entrò inondando il pavimento di acqua e fango con i soliti stivaloni, ma Madame Tracy non ci badò. «Immagino tu voglia il solito tè».

«Mh».

«Su, unisciti a noi».

Il signor Shadwell grugnì, ma si avvicinò lo stesso al tavolo e Anathema si avvicinò a Isotta per fargli posto. «Come va con il nuovo lavoro?».

Lui si guardò le mani annerite, incrociò le braccia e borbottò un sottile "strega". Anathema alzò le spalle e si versò dell'altro tè.

Madame Tracy tornò con una tazza piena e alcuni biscotti. Il signor Shadwell annuì, poi aggiunse un piccolo grazie e presto si trovarono immersi in una conversazione su dove fosse meglio andare in vacanza in bungalow. Isotta, rigirandosi tra le dita un pezzetto di mandorla, guardava Anathema con la coda dell'occhio. Contò fino a tre, poi le chiese: «Prima dicevi sul serio o era solo per essere cortese?».

Anathema si voltò e sollevò un sopracciglio. «Di che parli?».

«Dell'italiano. È stupido pensare di insegnare qui?».

«Non è stupido, Isotta. Se cerchi troverai sicuramente qualche posto libero. Più che altro non so se possa essere un lavoro adatto a te».

Isotta sgranò gli occhi. «Un attimo, che intendi?».

«Sarò sincera con te, non ti vedo molto bene dietro a una cattedra. Sei molto silenziosa e chiusa».

«Devo spiegare, non fare una performance».

«Insegnare non è solo ripetere quello che dice il libro» si tolse gli occhiali e la guardò, ma Isotta distolse lo sguardo. «Interagire con una classe di venti, venticinque persone è molto diverso rispetto a spiegare a una tua amica».

«Mi conosci a malapena» sussurrò stizzita Isotta. «Non puoi dire se sono capace o no».

«Hai mai provato, almeno? O ti limiti a fare la maestrina dietro allo schermo?».

«Io non faccio la maestrina».

«Isotta» si strinse il ponte del naso fra le dita. «Non sto dicendo che non dovresti farlo, ma ti consiglio di pensarci bene».

«Voglio studiare letteratura e continuare a dedicarmi ai libri. Insegnare me lo permetterebbe».

Anathema si lasciò sullo schienale e incrociò le braccia. «Se questa è la tua motivazione, dovresti prenderla come un campanello d'allarme».

Isotta inclinò la testa. «Scusa?».

«Tu non vuoi insegnare perché vuoi essere una professoressa. Vuoi farlo perché è la strada più semplice per tenerti attaccati i tuoi libri».

«Non ho detto questo» strinse i pugni sotto al tavolo, ma le sue stesse parole le lasciavano il sapore della menzogna sulla lingua. Messa così le dava fastidio, ma suonava così schifosamente vera come affermazione.

«Oh, a me sembra proprio di sì e non sei contenta che qualcuno te lo dica. Pare quasi che tu abbia scelto l'occupazione più conveniente da una lista, abbia alzato le spalle e pensato "mal che vada mi tengo lo scontrino"».

Isotta schiuse le labbra, ma si girò dall'altra parte senza dire niente. Quella piccola idea sul suo futuro era da sempre l'unico ramo dell'albero a cui poteva aggrapparsi per non cedere, ma ora vedeva una crepa sull'attaccatura del tronco. Il fatto che non sapesse cosa ribattere dava peso alle parole di Anathema. Le avevano sempre detto che con una laurea in lettere avrebbe potuto solo finire dietro a una cattedra e lei aveva accettato quel destino, ma solo ora si rendeva conto che, forse, lo aveva fatto troppo passivamente.

Oggi non è un buon giorno, pensò. Anathema avvicinò la mano alla sua spalla, ma Isotta si alzò prima che potesse sfiorarla e decise di andarsene con la scusa di dover preparare la cena. Anathema non lo aveva fatto con cattiveria e in fondo prendersela sarebbe stato inutile, ma quello, oltre a ciò che era successo in libreria, l'aveva sfiancata come una frustata. Il silenzio non le avrebbe fatto bene, lo aveva lasciato proprio perché lo sapeva, ma era meglio andarsene prima che anche gli altri si accorgessero del suo stato.

Ringraziò Madame Tracy e accettò le ultime pastine rimaste per offrirle anche a suo zio. Salutò in fretta e si diresse verso l'uscita dell'appartamento.

«Ehi, lassie!» il signor Shadwell scattò in piedi e con il dito le fece cenno di avvicinarsi. Isotta rimase un attimo ferma sullo stipite, poi obbedì.

Il signor Shadwell estrasse dalla tasca un portafoglio logoro che emanava un forte odore di tabacco e tirò fuori due banconote sbiadite e piene di pieghe. Settanta sterline in tutto. «Lavori ancora in libreria, no?».

Isotta annuì piano.

«Questi sono tutti i soldi che devo al damerino. Con qualche interesse». Senza aspettare una risposta, glieli infilò nella tasca della felpa. «Glieli porteresti... per favore?».

Allora ha qualche scrupolo. «Nessun problema, signor Shadwell».

Lui borbottò qualcosa che assomigliava a un grazie. Isotta salutò di nuovo, uscì e in giardino lasciò libera la tosse dovuta al tanfo che proveniva dalle tasche.

*

«Principessa?» Crowley le accarezzò i capelli e si sedette sullo spazietto che Isotta, distesa in posizione fetale, aveva lasciato libero. «C'è qualcosa che non va?».

Isotta mugugnò e affondò il viso nel cuscino. Oltre al braccio di suo zio, in tv, Nausicaä cavalcava il suo aliante sopra il magnifico scenario di una foresta disegnata a mano. «No, niente, sono solo stanca».

La giornata non era migliorata, dopo il tè da Madame Tracy. Isotta si era accorta di aver lasciato – di nuovo – il suo libro nell'appartamento del signor Fell e non aveva di certo il coraggio di telefonargli o di andarlo a prendere. Aveva risposto a Ilenia, sbollendo i suoi messaggi pieni di veleno contro Gabriel, ma non le aveva parlato degli avvenimenti della libreria. Spossata, aveva preparato un veloce petto di pollo che aveva spento lo sguardo illuminato di suo zio e non aveva mangiato oltre.

«Sembri un'anima in pena».

«Te l'ho detto, sono stanca. Tra poco vado a dormire».

Lui continuò a formare piccoli cerchi tra le sue ciocche. «Anathema mi ha detto che sei tornata presto, oggi».

«Sì, abbiamo passato il pomeriggio da Madame Tracy. C'era anche il signor Shadwell».

«Qui qualcuno ha fatto festa, insomma».

«Non proprio, ma è stata una bella chiacchierata».

Suo zio tacque. Tolse la mano dai suoi capelli, gliela appoggiò sulla spalla e si abbassò verso di lei. «È successo qualcosa in libreria?».

Isotta si rannicchiò ancora di più. «Mh, no, perché?».

«Sei tornata molto prima del solito e Anathema dice che eri pallida come un cadavere».

«La paghi per spiarmi, per caso?».

«Sono solo preoccupato, Isotta! Cosa è accaduto? Hai litigato con il signor Fell? Qualcuno ti ha dato fastidio per strada? Sei stata zitta per tutta la sera e non hai mangiato quasi niente».

«Madame Tracy mi ha riempita».

«Se è l'unica cosa che mi dici significa che allora è successo qualcosa».

«Niente di importante, te l'ho detto, in libreria è andato tutto bene e nessuno mi ha tormentata in strada».

Crowley strinse le dita intorno alla spalla di Isotta e lei, in risposta, se lo scrollò di dosso e si alzò. «Vado in bagno e poi a letto» finse uno sbadiglio.

Suo zio allargò le braccia con una smorfia, poi si ricompose. «Va bene» se ne andò verso la sua stanza. «Va bene» ripeté. «Sono in camera anche io, se hai bisogno».

Addormentarsi si rivelò impossibile. Isotta si rigirava tra le lenzuola in cerca della posizione migliore, aggiunse una coperta per combattere il freddo, provò calmarsi con gli esercizi di respirazione che le aveva insegnato la psicologa durante il suo periodo nella casa-famiglia, ma il sonno non arrivava. La voce di Gabriel non c'era più, ma un'eco era come incastonata dietro la sua mente. Solo in quel momento realizzò che non molte ore dopo avrebbe dovuto ritornare in libreria. Il signor Fell l'avrebbe accolta ancora? Certo che sì, si disse, perché no. Eppure quel giorno non l'aveva voluta. Cosa si sarebbero detti? Isotta scalciò le coperte e si prese la testa fra le mani.

«Dormi, cazzo, dormi».

Riafferrò le lenzuola e formò un bozzolo tutto intorno al suo corpo. Oltre al muro udiva la melodia dei Velvet Underground nella camera di suo zio.

Lui voleva solo aiutarla. Da mesi continuava a costruire ponti verso di lei, e in risposta rifiutava. All'ennesimo cambio di posizione scattò in piedi, spalancò la porta e bussò con foga a quella di suo zio prima che quelle scintille di coraggio si spegnessero. In un attimo, suo zio fu davanti a lei.

«Ehi-»

«Posso parlarti?».

Crowley sbatté le palpebre. «Eh?»

«Posso parlarti? Adesso?».

Suo zio aprì e chiuse la bocca senza dire nulla. Mosse la testa fra lei e la stanza e riuscì a borbottare: «Uh, sì, sì, certo, vieni... ».

La camera di suo zio era una stanza spoglia dalle mura scure. Da un armadio aperto spuntavano gli orli di una fila di abiti neri e la lampada sul comodino, accanto al giradischi in funzione, illuminava soffusamente l'ambiente. Sotto di essa suo zio aveva ammucchiato, senza ordine, la sua raccolta di saggi scientifici.

Crowley si distese sul letto matrimoniale sfatto e la invitò accanto a lui con un cenno. Isotta lo seguì e, senza pensarci, si rannicchiò accanto a lui appoggiando la testa sulla sua spalla. Solo dopo si accorse dello sguardo confuso di suo zio.

«Scusa» disse allontanandosi.

«No, no, resta pure. Se ti va».

Le picchiettò la spalla opposta e lei adagiò di nuovo il capo su di lui. Sotto i vestiti, la clavicola sporgente di suo zio le premeva sulla tempia e il suo collo emanava l'odore del suo deodorante da uomo. Crowley fece passare il braccio dietro alla sua schiena e avvolse Isotta in un leggero abbraccio, accarezzandole la pelle vicino all'orecchio con il pollice. L'ultima volta che erano stati così vicini era stato ad agosto, il giorno del suo compleanno. Si beò di quel calore che era divenuto ormai estraneo, ascoltando la voce di Lou Reed sulle note di un allegro rock'n roll.

Suo zio leggeva un libriccino dalla carta lucida, dove l'inchiostro si illuminava alla luce della lampada. Foto di stelle che occupavano più di metà pagina accompagnavano didascalie disseminate di parole sconosciute.

«Cos'è?» gli chiese.

«Alpha Centauri» rispose. «È un sistema triplo della costellazione del centauro. Uno dei più luminosi che possiamo vedere a occhio nudo».

«Possiamo andare a vederlo?»

Lui rise. «No, non da qui, principessa. Si trova nell'emisfero australe». Girò la pagina. «Quando facevo ricerca sono andato in Nuova Zelanda. Da lì il cielo è tutt'altra roba». Chiuse il libretto e torse il corpo verso di lei, passandosi la mano sul collo. «Quindi... cosa vuoi dirmi?».

Isotta gli sorrise appena. «Mi dicevi sempre "parlami", ma non te l'aspettavi sul serio, vero?».

«Più o meno».

Si accoccolò ancora di più accanto a lui. «In libreria è successa una cosa».

Gli raccontò tutto, dall'arrivo dei fratelli del signor Fell fino alla sua uscita, riportando ogni dialogo nella maniera più fedele. A ogni parola che lasciava andare, un peso dentro di sé si dissolveva. Le tremò al voce, all'inizio, ma pian piano il suo tono si fece più calmo, privo di balbettii. Quando finì, suo zio strinse il braccio che ancora le avvolgeva le spalle. Non aveva detto nulla fino a quando non concluse il discorso.

«È tutto?» le domandò poi. La mano libera scivolò in quella di Isotta.

«Per quello che è successo, sì».

«E c'è altro? Avanti, ti ascolto».

Isotta quasi stritolò la mano di suo zio. Aveva le dita affusolate e la pelle resa ruvida dal gelo. «È solo che... voglio dire, non so come spiegartelo».

«Almeno prova».

Isotta si chiuse ancora di più a riccio. «La questione è che... vedere una persona trattata così mi ha fatto davvero male. I-io non so nemmeno come farti capire quanto disprezzo suo fratello ha provato per lui in quel momento, penso che per questo fatto sia successo qualcosa di grave tra di loro, ma, ma lui è così gentile. Io non capisco perché abbiano dovuto trattarlo così, non ha mai nemmeno alzato la voce! E poi... » la sua voce si bloccò il gola, ma recuperò quando suo zio le chiuse la mano nella sua. «È tutto il giorno che continuo a pensare che una cosa del genere avrebbe potuto succedere anche a me. Sai, papà non era molto... aperto. Non ha mai saputo cosa ci fosse davvero tra me e Ilenia e a lei questa cosa dava molto fastidio, io ho cercato di dirglielo perché nemmeno a me piaceva l'idea di una relazione quasi clandestina, ma... beh, insomma, sai come è finita».

Nascose il viso contro la spalla di suo zio. In silenzio, Crowley le accarezzò la schiena e aprì più volte la bocca, senza però dire niente. Isotta lo lasciò fare e, adagiata sul materasso, chiuse gli occhi. L'amaro di quelle urla non era svanito, ma si era fatto più sopportabile.

Crowley schioccò la lingua. «Mi dispiace, Isotta. Per tutto quello che è successo. Per Ilenia».

«Tu non lo facevi?» gli chiese. «Nascondere i tuoi ragazzi, dico».

«Ho avuto poche relazioni che si possono definire tali. Sono abbastanza sicuro che mia madre sospettasse qualcosa, ma non mi ha mai detto nulla. Poi mi sono trasferito e mi sono dato alla pazza gioia».

Isotta rise. «Questo Lucifer sembra uno bravo».

«Sì, non era male, ma sotto sotto era un po' stronzo. Alla fine non mi è dispiaciuto troppo che sia finita». Le sfiorò il viso con le nocche. «Qui sei al sicuro, va bene? Nessuno ti dirà nulla, puoi portare tutte le belle ragazze che vuoi senza nasconderti in una macchina nei bassifondi e non dovrai sprecare chili di fondotinta che nemmeno si abbina al tuo sottotono».

«Basta con questa storia, dài». Il suo sorriso si spense. Lasciò la sua posizione stretta e si posizionò semidistesa sulle lenzuola stropicciate. «Che dovrei fare, domani? Andare?»

«Perché no?».

«Oggi mi ha cacciata».

«Penso volesse soltanto stare da solo, Isotta. Da quel che ho capito, tra lui e i suoi fratelli non scorre buon sangue. E poi è pur sempre il tuo lavoro, non puoi saltarlo come se fosse la scuola».

«E se non mi volesse più?».

«Perché non dovrebbe volerti? Lui mi ha detto che è contento di averti».

«Lo avrà fatto per cortesia. Ha sicuramente compagnia migliore di una ragazzina».

«Isotta» suo zio alzò gli occhi al cielo.

«Sì, sì, domani vado» disse lei. Poi aggiunse: «Mi dispiace per lui. È un uomo buono».

Crowley sospirò. «Purtroppo non basta essere gentili perché la gente ti rispetti». Affondò le dita tra i capelli bruni di Isotta. «Meglio, ora?».

Lei annuì e sorrise mentre assaporava le coccole tra le ciocche.

«Una volta non volevi nemmeno che ti sfiorassi e ora fai le fusa» disse Crowley, ghignando.

Isotta abbassò lo sguardo, rossa di vergogna. «Scusami. Sono stata una bestia con te».

«Tuo padre era appena morto e ti sei vista arrivare uno sconosciuto in casa. Potevo capire il tuo fastidio».

«Non avevo comunque il diritto di risponderti male o di lanciarti qualunque cosa mi capitasse in mano».

Crowley rise. «È passato, principessa». Riprese il libro e lo aprì dove aveva lasciato il segno. «Guarda, è Proxima Centauri, la stella più vicina a noi. Dopo il sole, s'intende».

Per qualche minuto, osservò le immagini insieme a lui, ascoltando vagamente i suoi discorsi. Prima di lasciarsi al sonno, mani affusolate le avvolsero la pesante coperta intorno al corpo.

 

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Capitolo 13
*** Capitolo Tredici - Calore e Gelo ***


La scatola di amaretti emanava un lieve profumo di mandorle. Isotta la infilò nello zainetto, controllò che ci fossero i soldi del signor Shadwell e si legò la cintura del trench. «Vado, zio!»

Crowley, mezzo addormentato sul divano, rispose con un suono gutturale impastato dal sonno. Con lo zaino in spalla, Isotta scese fra le strade innevate.

Aveva nevicato tutta la notte e Londra aveva assunto una connotazione da locandina natalizia: i negozianti avevano decorato porte e vetrine con festoni, palline luccicanti, luminarie e vischi e gli scaffali delle pasticcerie pullulavano di pudding e casette di marzapane; da ogni porta uscivano le note di una carola o della voce di Michael Bublè o Mariah Carey. A causa della nevicata improvvisa, non tutte le strade erano pulite, a quell'ora. Isotta aveva deciso di non prendere l'autobus – con cui aveva imparato a destreggiarsi – per assaporare la dolce atmosfera festiva sotto la neve, dopo anni in cui l'unico freddo benvenuto era stato quello della bora.

La magia durò ben poco. Il trench non era abbastanza pesante e la neve britannica non era certo delicata come quella sporadica di Trieste. L'aria le pungeva la pelle del viso, le ciocche si inumidirono e porzioni semisciolte di neve entrarono negli anfibi, bagnandole i calzini. Affondò le mani inguantate nelle tasche e fece un altro giro alla sciarpa, ma accelerò il passo quando i denti iniziarono a tremare.

Raggiunse la libreria con il solo desiderio di un po' di calore. Abbassò la maniglia, ma la porta a vetri, ancora crepata, non si aprì.

«Ma che?».

Il cartellino diceva "chiuso", ma non c'erano altre indicazioni. Isotta studiò gli orari, ma non trovò alcuna variazione. Avrebbero dovuto aprire entro una ventina di minuti, ma il signor Fell le lasciava sempre la porta aperta.

Isotta si avviò verso il retro, controllando il cellulare per assicurarsi di non aver perso chiamate o messaggi dal signor Fell, ma non c'era nulla. Superò un piccolo bar a tema anni Sessanta, salì la scaletta e bussò alla porta. Gemette a causa delle nocche indolenzite dal freddo.

«Signor Fell?» batté un altro colpetto. Dalla bocca uscì una nube grigiastra. «Sono Isotta!»

Passi pesanti si avvicinarono e Isotta sospirò sollevata. La chiave girò tre volte e il volto mesto del signor Fell sbucò oltre l'uscio.

«Cara, perdonami, avrei dovuto chiamarti ma mi sono... » s'interruppe quando posò lo sguardo su Isotta. Lei inclinò la testa, interrogativa, e il signor Fell le mise una mano sulla spalla, trascinandola nel retrobottega.

«Vieni dentro, per l'amor di Dio. Stai congelando.»

Non se lo fece ripetere. Si pulì in fretta gli anfibi sullo zerbino e il signor Fell la fece sedere davanti alla stufa. Isotta non l'aveva mai vista accesa, il signor Fell diceva che avrebbe potuto alterare la temperatura e rovinare i libri e infatti le porte erano chiuse. Si tolse i guanti, avvicinò le mani a coppa sul viso e vi alitò sopra, poi le strofinò davanti al fuoco. Sul tavolo c'era la sua copia di "Via dalla pazza folla", con l'angolo piegato.

«Sei venuta a piedi?» le chiese mentre armeggiava con il bollitore.

«Sì» rispose. «Volevo vedere la neve. Non è stata una buona idea».

«No» disse perentorio. «Per niente. Hai la faccia tutta rossa. Ti preparo qualcosa di caldo.»

«Ma non serve, signor Fell. Sono solo un po' infreddolita, non sto morendo assiderata. E poi apriamo tra poco.»

Lui prese comunque una bustina di camomilla dalla credenza. «Non credo aprirò, oggi. Scusami, avrei dovuto telefonarti, ma mi è passato di mente.»

«Deve vedere un cliente?» chiese Isotta. «È meglio che tra un po' vada, allora.»

«No» rispose. «Non... non devo vedere nessuno. Resta pure, almeno finché non smette di nevicare.»

Preparò due tazze e afferrò il trench che Isotta aveva appoggiato sullo schienale della sedia per appenderlo all'attaccapanni. Prese posto accanto a lei, stringendosi nelle spalle. A differenza degli altri giorni non indossava il cappotto, né il farfallino di tartan, e il gilet era abbottonato solo a metà. Al fuoco baluginarono i primi segni della barba bionda che Isotta non gli aveva mai visto sul volto.

«Hai i vestiti bagnati?» le domandò, senza guardarla. «Se hai bisogno, dovrei avere qualcosa di mia cugina, ma ti starà un po' grande.»

«La ringrazio, signor Fell, ma non è necessario. Sono a posto.»

«E i calzini? Hai le scarpe tutte bagnate.»

Isotta inclinò il piede e lo trovò intorpidito a causa della neve sciolta negli anfibi. «Credo sia entrata della neve, ma non è nulla di che.»

Il signor Fell sospirò alzandosi. «Avanti, lascia che ti aiuti. Metti tutto accanto alla stufa.»

Prima che Isotta potesse ribattere, lui sparì verso le scale. Si slacciò gli anfibi, versò l'acqua rimasta nel lavandino e mise i calzini fradici accanto alla stufa. Si massaggiò i piedi trovandoli gelati e passò un dito sulla lunga cicatrice rosa sul piede sinistro.

Il signor Fell tornò con un piccolo asciugamano e un paio di calzini puliti da ragazza, comunque un po' grandi per lei. Ringraziò a testa bassa nascondendo i piedi sotto la sedia e se li asciugò guardando dall'altra parte.

«Ti sei tagliata?»

Isotta non smise di strofinare con l'asciugamano. «Questa? No, è vecchiotta. Mi sono tagliata con un vetro in spiaggia, due anni fa.» Si infilò i calzini asciutti.

Il bollitore fischiò e il signor Fell iniziò a preparare le tazze. «Un vetro?»

«Un pezzo di bottiglia rotta. Non ho avuto grandi problemi, mi ero vaccinata contro il tetano e tutto il resto. Ma a questo punto non credo andrà via.»

Il signor Fell si sedette accanto a lei con due tazze. «Su, bevi.»

«Grazie mille, signor Fell.»

«Ho visto che ne hai anche una sul braccio.»

«Questa, dice?» srotolò la manica destra. «Ah, questa sì che mi ha dato problemi. Mi sono rotta il braccio a tennis e mi hanno dovuta operare perché era scomposta. Un disastro con frammenti ovunque.»

Il signor Fell fece una smorfia. «Immagino sia stato doloroso.»

«Sono svenuta per il dolore» disse atona e lui sgranò gli occhi un istante. «Non ricordo granché, però. Ah! Una cosa.»

Si chinò e frugò nello zainetto vicino alla stufa. Sorrise raggiante mostrando la scatola degli amaretti al signor Fell. «Ho i biscotti!»

Il signor Fell la osservò con la tazza inclinata verso il labbro. Sbatté le palpebre più volte prima di parlare. «Li hai fatti tu?»

Isotta annuì. «In realtà era la prima volta che facevo gli amaretti. A mio zio sono piaciuti.»

Sorridendo, il signor Fell scosse la testa. «Cara, non c'era bisogno, sul serio.»

«Ne ho fatti anche troppi, qualcuno dovrà pur mangiarli.»

Non dovette insistere a lungo. Il signor Fell guardava la scatola con avidità, oltre la colonna di fumo emanata dal tè. Annusò in fretta il primo biscotto che prese. «Mandorle?»

«Mh-mh.» Isotta mandò giù due biscotti insieme. «Me le ha date la moglie del proprietario dell'alimentari italiano vicino a casa mia.»

«Sono ottimi» disse. «Sei davvero brava. Da quanto cucini?»

«Da tanti anni, in realtà. È stata mia nonna a insegnarmi.»

Mangiarono in silenzio accanto al confortevole calore della stufa. Il signor Fell metteva in bocca un amaretto dopo l'altro e chiacchierò del più e del meno di un cliente di avrebbe dovuto vedere qualche giorno dopo, uno studioso dal Galles che allevava barbagianni nel tempo libero. Fuori la neve scemò, ma non le chiese di andarsene. Quando finì il suo tè smise di parlare per un istante, poi riprese incrociando le braccia.

«Ti ho turbata, ieri?»

Isotta ritrasse la mano dalla scatola. In un certo senso, aveva sperato che il tema degli avvenimenti del giorno prima non venisse a galla e che potesse tornare a lavorare come se niente fosse successo, con il solo tempo a rattoppare ciò che era accaduto. Al tempo stesso, però, sapeva che sarebbe stato inevitabile. Il signor Fell probabilmente voleva chiarire, soprattutto dopo averla cacciata, pensò Isotta. Si limitò ad abbassare lo sguardo.

«Mi dispiace» continuò. «Era quello il motivo per cui ti ho chiesto di restare di sopra.»

Isotta si strinse le braccia. «Quindi non è la prima volta?»

«No.»

«Ma non era quello di cui stavate parlando, no?»

Il signor Fell scosse la testa. «La situazione è un po' complicata. Il fatto che io sia... omosessuale» il modo in cui disse quella parola, sussurrato con vergogna, fu come un pugno nel petto. «C'entra in parte con tutti i nostri contrasti.»

«Non credo di capire.»

Il signor Fell giocherellò con un biscotto. Si passò una mano sul collo e guardò dalla parte della stufa, si alzò e inserì un ciocco di legno per ravvivare il fuoco. Tamburellò le dita sulla superficie di marmo del piano cucina e si girò di sbieco.

Isotta fece qualche passo verso di lui. «Signor Fell?»

«Ti andrebbe un bicchiere di vino?»

Isotta inarcò un sopracciglio, ma fece spallucce. «Giusto un goccio. Il più leggero che ha, per favore.»

«Dovrei poterti accontentare» si diresse verso la piccola dispensa e Isotta lo seguì. Frugò in una credenza ricolma di bottiglie facendo tintinnare il vetro. «Hai preferenze?»

«Lascio a lei, non so niente di vini.»

Ripresero posto al tavolo, uno di fronte all'altra. Isotta lo fermò quando il suo bicchiere si riempì di un terzo. Fece ondeggiare il vino osservando le bollicine che salivano verso l'alto e aspettò che il signor Fell riprese la parola.

«Ne ho parlato un po' con tuo zio e forse sei a conoscenza del fatto che la mia famiglia possiede un'azienda.»

«Sì, moda da uomo. Me lo ha accennato.»

«A differenza dei miei fratelli, da giovane ho sempre mantenuto le distanze. Sai, quello della moda è un mondo molto meno idilliaco di quanto si possa pensare, come buona parte dei settori, del resto. Non è tutto seta e bei disegni e sfilate ai convegni newyorkesi. Iniziai a studiare letteratura e restauro, ma i miei genitori e mio zio mi costrinsero a mollare e finii a Westminster a studiare business.»

«In che senso la costrinsero?»

«Probabilmente sai quanto costa l'università qui. Lavoricchiavo, avevo dei risparmi, ma non mi avrebbero mai permesso di raggiungere la laurea senza aiuti.»

Il vino quasi le andò di traverso. «Ma è orribile, l'hanno praticamente ricattata!». Pensò al Natale della terza media, anni prima, quando suo padre le disse senza giri di parole che il liceo classico, nello stesso istituto dove Ilenia ancora studiava, non l'avrebbe visto nemmeno da lontano.

Il signor Fell alzò le spalle. «Non è stato così male. Avevo buoni voti, un interesse limitato e comunque un po' di tempo per studiare per conto mio. Avrai notato come io conduca una vita piuttosto solitaria.»

«Quindi non ha sempre lavorato in libreria?»

«No, a parte qualche impiego sporadico per avere dei soldi da parte.»

«Ma perché non ha chiesto un prestito? Mi pare che molti studenti lo facciano e che possano restituirlo anche dopo un po' di tempo.»

«L'idea di indebitarmi e di restare solo mi intimidiva, ma ci sarei uscito senza troppi problemi. Non era soltanto una questione di soldi, ovviamente. » Fece una pausa e sorseggiò del vino. «Durante i miei primi studi la mia famiglia aveva iniziato a prendere le distanze. Mi parlavano poco, erano molto freddi e solo mio padre e mio zio continuavano ad avere un minimo di riguardo, ma a un certo punto la situazione era diventata insopportabile.»

«Ma perché? Aveva solo interessi diversi, perché volevano trascinarla a forza con loro?»

«Perché le cose erano sempre andate così. Anche la famiglia di mia madre è composta da imprenditori, tutti che trasmettono il mestiere ai figli. Sarei stata una pecora nera, Isotta, e purtroppo non avevo il coraggio di ribellarmi.» Si lasciò andare sulla sedia. «Sono sempre stato il bambino "strano" della famiglia. Ero riservato, poco incline al gioco, molto silenzioso. Non sapevo cosa sarei stato in grado di combinare da solo.»

«E quando ha iniziato a lavorare le cose sono migliorate?»

Il signor Fell schioccò la lingua. «Sì e no. Oltre a gestire l'azienda ci occupavamo anche dei prodotti in maniera diretta, mio zio in primis, che gestisce un'altra azienda tessile. Nostro padre ci aveva insegnato a disegnare. Non mi dispiaceva, in realtà, mi divertivo ed ero abbastanza bravo, anche se non come i miei fratelli. In generale ero un lavoratore discreto, senza particolari doti e perfettamente sostituibile. I miei fratelli non apprezzavano mai i miei bozzetti, mio padre li guardava e annuiva, mio zio ne andava matto, ma non aveva mai l'ultima parola.»

«E non è mai riuscito a farli passare?»

«Solo qualcuno e mai senza modifiche. C'è da dire che non era il mio campo. Nel tempo libero disegnavo abiti da donna, eleganti, da sera, per svagarmi ogni tanto lo faccio ancora. Quelli sì che piacevano a mio padre, ma l'azienda non aveva mai prodotto moda femminile. Mio padre era un uomo prudente e preferiva non giocare mai troppo sulle incertezze. Ai miei fratelli non li ho mai mostrati.»

«E per quanto ha lavorato con loro?»

«Nove anni, più o meno.» Si versò dell'altro vino. Le mani gli tremavano appena. «Fu negli ultimi mesi che iniziarono i problemi. Era da poco arrivato un ragazzo appena laureato, un tipetto aitante e talentuoso. Si chiamava Oscar.»

Isotta mandò giù le ultime gocce di vino. Aveva iniziato a respirare più pesantemente.

«Aveva qualche anno in meno di me e amava la letteratura. Facemmo amicizia, conobbi qualche suo amico e un giorno, per caso, lo vidi uscire da un noto locale gay» s'interruppe, abbassò lo sguardo e si passò le dita della mano libera sulle guance rosse. «Scusa, è un po' imbarazzante da raccontare.»

Isotta appoggiò il mento sulla mano. «Non ci vedo nulla di imbarazzante.»

«Ero un uomo di più di trent'anni che si era rimbambito per un ragazzo più giovane. E lui lo aveva capito: quando eravamo soli si divertiva a stuzzicarmi, ad abbracciarmi, a darmi colpetti e carezze. Io ero certo lo facesse per gioco, ma quando c'era lui in mezzo io perdevo la testa.» Il rossore sul suo viso si fece più intenso e allungò la mano verso la bottiglia, ma Isotta la allontanò.

«Credo stia bevendo troppo, signor Fell» incrociò le braccia davanti al petto. «Vada avanti, io non la giudico.»

Non avrebbe nemmeno potuto. Si vedeva in quella storia, anche se solo in parte, vedeva tutte le sere in cui la mano di Ilenia sulle sue spalle, mentre la coccolava, le aveva procurato un piacere straniero, tutte le volte in cui aveva distolto lo sguardo dai suoi top colorati e tutti i modi con cui aveva cercato di nascondersi per una paura più profonda di quella per un semplice rifiuto. Forse, dirglielo lo avrebbe fatto sentire meglio, ma prima voleva che finisse. Se non l'aveva mai raccontata a nessuno, forse farlo lo stava liberando da un peso, come quello che lei, la sera prima, aveva dissolto nella discussione con suo zio e come tutti quelli che aveva racontanto alla dottoressa Grieco. Doveva lasciargli il suo spazio nel discorso.

Il signor Fell boccheggiò con gli occhi ancora puntati sulla bottiglia. «Ah, sì, scusa.» Si schiarì la gola. «Non so bene perché, ma una sera, mentre discutevamo di una poesia di John Donne a casa sua, mi disse che mi amava. Io ero – io ero scioccato. Non so come dirtelo, ma per qualche istante non ci credei nemmeno, pensai fosse brillo a causa dei drink, e invece era serio. Ero felice, ma al tempo stesso avevo una paura immane che la mia famiglia lo scoprisse, quindi misi subito le cose in chiaro con lui.»

«E a lui non stava bene» disse Isotta, sicura.

Il signor Fell scosse la testa. «No, ma inizialmente accettò la situazione. Sembravamo dei clandestini, ma tutto filava liscio.»

«Da come lo racconta, non credo durò molto.»

«Poco più di sei mesi. Avevamo già avuto alcuni contrasti, ma, in poche parole, la cosa che più gli dava fastidio era il fatto che fossimo degli amanti segreti. Tenerlo a bada era diventato sempre più difficile, ma, in generale, non eravamo adatti. Lui era uno che preferiva andare veloce, vedeva la nostra relazione come qualcosa di già consolidato, mentre io avevo bisogno di tempo.» Giunse la mani davanti alla bocca e chiuse gli occhi. «Probabilmente non avremmo nemmeno dovuto cominciare, ma ero troppo contento per rendermi conto degli errori che commettevo.»

Sospirò e appoggiò il bicchiere sul tavolo. Mano a mano che parlava il suo sguardo era passato da Isotta al muro. «Una sera, durante una cena di lavoro, mi baciò davanti a tutti, senza preavviso.» Si girò dall'altra parte e si tamponò gli occhi con la manica della camicia. Isotta sentì gli occhi pizzicare, ma resistette con dei respiri profondi. «C'era tutta la mia famiglia, oh Cristo, non ricordo un momento più umiliante in tutta la mia vita. Gabriel fu il primo a parlare –a sbraitare. Io scappai fuori, mi sentivo come se qualcuno mi stesse soffocando. Oscar mi seguì e la prima cosa che feci fu tirargli un pugno. Da lì potevo sentire tutto quello che dicevano... » si allargò il colletto con due dita, mentre il pomo d'Adamo faceva su e giù con velocità.

Isotta si alzò e lo affiancò, si tormentò le dita e trattenne i piccoli singhiozzi che lottavano per salirle in gola. «Signor Fell, mi dispiace, mi dispiace moltissimo.» Non sapeva che altro dire, non osò allungare la mano per sfiorargli la spalla.

Il signor Fell si asciugò il viso con un fazzoletto di stoffa ricamato che teneva nella tasca dei pantaloni. Si sedette composto sulla sedia, si abbottonò il gilet, sistemò il colletto della camicia e il ciuffo biondo sopra la fronte. «È tutto a posto, cara, ormai sono passati due anni.» Giunse la mani in grembo e parlò all'aria. «Inutile dire che lo lasciai. Non l'ho più sentito da quel giorno. Mi licenziai senza presentarmi in azienda. E adesso sono qui» tagliò corto. «Non ho mai cercato di ammorbidire i rapporti, volevo staccare del tutto, avevo abbastanza soldi e competenze per vivere senza il loro appoggio. Ci scambiavamo giusto una telefonata ogni tanto. Un po' di tempo fa, però, hanno cercato di riallacciare con più solidità e si sono fatti stranamente gentili. E ieri ho capito perché.»

«Vogliono che lei torni da loro?»

«Sì, ma non ho chiesto loro il motivo. Sembrano disperati, ma non vogliono spiegarsi chiaramente.»

«Non chiuderà la libreria, vero?»

Il signor Fell la guardò a occhi sbarrati. «Signore Iddio, no! Non la venderei nemmeno al rettore di Oxford!»

Isotta ridacchiò compiaciuta. Quella bolla che odorava di tè era salva. Finché c'era, i fratelli del signor Fell avrebbero potuto fare ben poco. Lei avrebbe continuato a lavorare.

Il signor Fell sorrise e prese la minuscola mano di Isotta fra le sue. Lei trasalì sorpresa, ma non la ritrasse. Le mani del signor Fell, in confronto alle sue, erano enormi, lisce e bollenti. «Grazie per avermi ascoltato» disse. «Non sapevo di averne bisogno.»

Isotta strinse con dolcezza la mano sotto alla sua. «Sono contenta le sia stato d'aiuto.»

«Mi lasci bere un goccio, ora, "principessa"?»

Isotta gettò la testa all'indietro. «No, la prego, anche lei no!»

Risero e il signor Fell si riempì di nuovo il bicchiere. «Trovo sia davvero carino. Come mai tuo zio ti chiama così?»

«Viene da un film che mi piace, si chiama "La vita è bella", il protagonista chiama sua moglie principessa. Poi con tutte le gite che io e Ilenia facevamo al castello gli è venuta questa cosa di chiamarmi in quel modo.»

«A proposito di Ilenia» sorseggiò del vino. «Sai che non c'è più bisogno che ti nasconda vero?»

Isotta s'irrigidì sulla sedia, un forte calore le pervase le guance. «Scusi?»

«Forse ho frainteso, ma non credere mi sia sfuggito il modo con cui ti sei corretta, a St James's Park.»

Sorrise con dolcezza. Isotta si coprì bocca e gote con la mano, guardando verso il basso. Il suo amore per Ilenia era un fatto così segreto, così privato, che farsi smascherare la faceva sentire mezza nuda.

«È interessante il pavimento?» scherzò il signor Fell.

«Mh-mh» Isotta tolse la mano dal viso, cercò di parlare, ma uscì soltanto una risata strozzata. «Oh, andiamo, ma- è davvero così evidente?»

«Sommando tutti i fattori, diciamo che la probabilità era buona.»

«Ha visto il segnalibro, vero?»

Annuì. «Scusami, non avrei dovuto. L'ho fatto senza pensarci.»

«No, no, non importa.»

Il signor Fell si alzò per prendere dell'acqua. Nonostante il gelo di prima, Isotta si sentiva in fiamme e scolò in fretta il bicchiere, ancora con un appena percettibile retrogusto di vino. Il signor Fell la guardava divertito.

«Non rida.»

«Tranquilla, cara, non ti prendo in giro» si posizionò più comodo sulla sedia. «Avanti, raccontami qualcosa. Adesso sono curioso.»

«Su che cosa?»

«Sulla tua ragazza» sentirlo dire da un'altra bocca aveva un effetto così liberatorio. «Qualcosa di bello.»

Isotta boccheggiò e scacciò la repentina immagine di Ilenia in bikini, sulla spiaggia, con la pelle abbronzata in pieno contrasto col tessuto bianco, i lunghi capelli neri appiccicati alla schiena. Era lì che aveva capito, quel due giugno dell'anno prima, che la amava di quell'amore incerto e timido tipico dei ragazzi.

«Non le ho mentito quando le ho detto che è la mia migliore amica. Lo era prima di essere la mia ragazza.»

«Sei andata sul sicuro, insomma.»

«Non proprio, in realtà. Può capire perché.»

«Da quanto dura?»

«Poco più di un anno.»

«E come ve la cavate?»

Isotta fece spallucce. Non avevano più fatto videochiamate dalla sera prima del tennis. In realtà, non le aveva nemmeno detto che non sarebbe tornata a Natale. «Così così, ma in un modo o nell'altro ci sentiamo tutti i giorni. Ogni tanto le spiego qualche argomento che non capisce, di letteratura o filosofia.»

«Lei studia ancora?»

«Sì, il suo è un percorso normale. Studia arte. È lei che ha fatto il segnalibro. Me lo ha dato il giorno in cui mi ha detto... che le piacevo.»

Il signor Fell sorrise con un sottile velo di malizia che non pensava gli avrebbe mai visto in volto. «Quindi è lei che ha fatto il primo passo.»

«Ovvio! Se avesse dovuto aspettare me avrebbe fatto prima a trovarsene un'altra» bevve ancora dell'acqua per calmare il suo tono agitato. «Io la guardavo e basta, non pensavo sarebbe mai uscito qualcosa, lei era addirittura stata con un ragazzo. Invece mi ha anche portato una rosa.»

«Le buone, vecchie rose vanno sempre.»

Isotta annuì, ma perse il suo entusiasmo quando pensò a tutti i mazzetti di fiori che era stata costretta a nascondere, o direttamente gettare, per non far insospettire suo padre. «Poi però abbiamo continuato con le conchiglie» disse. «D'inverno, quando c'è meno gente, ce ne sono di meravigliose.»

Il signor Fell sorrideva placido, come faceva quando ascoltava le sinfonie di Elgar, ma c'era un che di malinconico nel suo volto, Isotta lo leggeva nelle palpebre appena abbassate. Si chiese se, in fondo, non gli mancasse un compagno, nonostante la sua vita riservata.

«Forse non è il miglior momento per chiedertelo» drizzò la schiena. «Tuo padre lo sapeva?»

Isotta stava per scuotere la testa, ma spalancò gli occhi quando realizzò. «Lei sa?»

Il signor Fell annuì piano. «Non nel dettaglio, ma tuo zio è... un gran chiacchierone, diciamo.»

Isotta schioccò la lingua. «Sì, sì, lo so.» Non provava un vero e proprio fastidio. Certo, avrebbe preferito che suo zio fosse stato zitto, ma, in un certo senso, il signor Fell sapeva abbastanza della sua situazione per avere dei sospetti. Non gli aveva mai detto un motivo, neppure falso, per la sua presenza lì.

«Mi dispiace per ciò che ti è successo» le disse, sporgendosi verso di lei.

«Ormai è passato quasi un anno» rispose Isotta. «L'ho superato, più o meno. La casa-famiglia mi ha dato l'aiuto di cui avevo bisogno, almeno all'inizio.»

«Avevi anche tuo zio.»

«No, all'inizio è stato un disastro fra di noi.» Giocherellò con il bicchiere, in cui erano rimaste solo poche gocce trasparenti. «Lui non ha mai saputo, comunque. Onestamente non so come avrebbe reagito, ma ho sempre preferito tenergli nascosto il fatto di Ilenia. Alla fine non l'ha mai saputo.»

«E tuo zio? Lo sa?»

«Diciamo che lo ha scoperto da solo. Ilenia era molto» gesticolò con le mani. «Espansiva. E poi a lui piacciono gli uomini, quindi va tutto liscio.»

Il signor Fell sbatté le palpebre, un po' sorpreso, poi sorrise con dolcezza. «Lui ti ama molto.»

Isotta guardò il tavolo, massaggiandosi la tempia con un dito. «Sì. Non è sempre andata bene, ma piano piano ci siamo trovati. Può apparire un po' strambo, di primo acchito, ma in realtà è molto buono, anche se non ama glielo si dica.»

Il signor Fell aggrottò la fronte. «Non credo tuo zio sia "strambo", Isotta.»

Lei fece una risatina nasale. «Perché non ha vissuto un giorno insieme a lui. Ha presente i suoi "metodi particolari ed efficaci" per la cura delle piante? Consistono nell'urlare loro contro.»

Lui strinse gli occhi. «Come?»

«La prima volta che lo ha fatto a Trieste ho dovuto implorare i vicini perché non chiamassero nessuno. Lui dice che funziona e in realtà non posso dirgli niente, perché sono sane e rigogliose. Probabilmente anche spaventate.»

Risero e Isotta accettò un altro piccolo sorso di vino, finché l'orologio al muro non segnò le undici e mezza. Fuori la neve copriva ancora strade e marciapiedi, ma un debole sole aveva fatto capolino nel cielo biancastro.

«È quasi ora di pranzo» disse il signor Fell. Si alzò dalla sedia e chiuse la bottiglia di vino. «Ti va di aprire, dopo mangiato?»

Isotta annuì in fretta e saltò giù dalla sedia. Nel farlo, sfiorò lo zainetto. «Ah, una cosa!».

Si chinò e aprì la tasca sul retro, estraendo le settanta sterline ancora un po' maleodoranti, nonostante ci avesse spruzzato sopra un goccio di aroma. Le porse al signor Fell. «Sono da parte del signor Shadwell.»

Il signor Fell la guardò stranito. «Dal signor Shadwell?»

«Mh-mh. Me le ha date ieri.»

Il signor Fell accettò i soldi e se li rigirò tra le mani. «Gli ho sempre detto che non c'era bisogno di ridarmeli. Non che mi aspettassi altro, sinceramente.»

Isotta fece spallucce. «Più che altro, come mai li chiede a lei?»

«È una questione abbastanza recente» rispose. «Un po' di mesi fa andai a casa di Madame Tracy per venderle un piccolo libro di divinazione. Mi offrì del tè, rimanemmo un po' a chiacchierare e a un certo punto lui iniziò a battere come un matto alla porta.» Mise le banconote nel portafoglio. «Da quel che ho capito, Madame Tracy è solita preparargli la cena. Lo invitò a sedere, ci lasciò soli un attimo per preparargli il tè e lui mi pose qualche domanda strane su alcune mie... caratteristiche corporee.» Isotta soffocò a stento un risolino. «In breve, capì presto che avevo un portafoglio discreto. Da lì è partito tutto.»

Isotta uscì con lui dal retrobottega. «Mi sembrava strano che frequentasse la libreria, per l'appunto.»

Il signor Fell le sfiorò la spalla. «Penso che entrerebbe qui solo scambiandolo per il negozio nel retro.»

Aprirono le serrande delle finestre e Isotta spolverò con rapidità gli scaffali, mentre il signor Fell sistemava gli ultimi arrivi.

«È arrivato tutto?» gli chiese.

«Quasi» rispose lui. «Non ho ancora visto i manoscritti. Spero solo non siano andati perduti nel tragitto, a questo punto.» Si passò la mano sulle guance. «Salgo un attimo a radermi, cara. Che ne dici del sushi, per pranzo? Conosco un fantastico ristorante giapponese che consegna a domicilio.»

Isotta alzò entrambi i pollici e il signor Fell salì di sopra. Quando finì di spolverare i ripiani, riprese il romanzo di Thomas Hardy si sdraiò sul divanetto davanti al tavolino, dove ancora si trovava la preziosa copia del "Paradiso Perduto" che il signor Fell stava leggendo, la prima edizione stampata con le illustrazioni di Gustave Doré. Isotta recuperò il punto che aveva lasciato in sospeso, trovando, in mezzo alla pagina, un fogliettino giallo con una freccetta che indicava la penultima riga della pagina, con una piccola spiegazione nella delicata grafia del signor Fell.

 

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Capitolo 14
*** Capitolo Quattordici - Vino e poesia ***


Il commesso non aveva smesso di sorridergli come uno scemo per un secondo, mentre annotava il suo ordine. «Non avevo mai letto questa poesia» disse a Crowley. «Byron?»

«Keats.»

Nonostante il suo tono secco, il ragazzo non abbandonò la sua espressione ebete. «Ah, romanticismo! Che bel periodo.»

«Meraviglioso.»

Il ragazzo lo accompagnò alla cassa e gli allungò un foglio. «Sono venticinque sterline. Torni fra tre giorni e avrà il regalo per sua figlia.»

«Nipote.»

Armeggiò con le dita nel portafoglio e gettò sul bancone tre banconote. Il commesso premette un tasto sulla cassa, ma lo sportello non si aprì. Borbottò delle rapide scuse a Crowley e corse a cercare un collega.

«Oh, Satana» esalò Crowley.

La signora dietro di lui sussultò e Crowley ghignò, ma il suo sorrisetto scomparve non appena un bambino a pochi metri da lui scoppiò in un pianto disperato.

Crowley viveva a Londra da qualche anno, ormai, e si era abituato alla vita frenetica che la metropoli imponeva ai suoi nove milioni di abitanti, alle sue code ordinate e interminabili e al fracasso a ogni ora del giorno. Ma alla Londra sotto Natale no, a quella non si sarebbe mai abituato. Poteva sopportare le strade stracolme e illuminate e farsi quasi piacere i grandi alberi che trasudavano brillanti colori, ma non i negozi presi d'assalto dalla gente pronta a comprare dieci regali al colpo, sempre sul punto di invadere il suo spazio vitale e capace sopprimere, col suo brusio, le note di "All I Want For Christmas Is You".

Non che avesse mai avuto un gran bisogno di comprare regali, per sua fortuna. Newton e Anathema erano le uniche persone decenti per cui valesse la pena spendere anche una sola sterlina, prima dell'arrivo di Isotta. E come al solito, lei aveva turbato le sue buone abitudini, costringendolo a scervellarsi per non regalarle un altro banale pacco di libri. Ne sarebbe stata contenta, certo, ma forse, a quel punto, un Kindle sarebbe stato più utile per impedire all'appartamento di collassare. Quantomeno, con i DVD l'aveva risolta comprandole l'abbonamento a Netflix.

Il ragazzo tornò con una collega. Insieme, studiarono il marchingegno della cassa e la ragazza batté qualche tasto fino a far comparire la fattura. Sotto la cascata di capelli biondi, guardò il collega in tralice, per poi sorridere a Crowley con finta cortesia.

«A lei, signore» disse il ragazzo. «Ricordi di portare il foglio che le ho dato, quando verrà a ritirare lo stencil con la poesia. Non perda le istruzioni per attaccarlo al muro, mi raccomando.»

«Sì, sì, 'rivederci.»

Uscito dal negozio accaldato, assaporò l'aria fresca della città, ancora sotto qualche residuo di neve. Le vacanze natalizie non erano ancora iniziate, ma le strade erano già gremite alle cinque del pomeriggio. La tentazione di tornare a Cadmen fu forte, ma Crowley era deciso a concludere il suo magro shopping natalizio il prima possibile. Saltò in macchina e imboccò la strada per Westminster, trovando per miracolo un parcheggio. Quando scese, si concesse un rapido caffè da asporto e il suo cellulare vibrò nella tasca dei pantaloni. Isotta.

«Tutto bene, principessa? Hai trovato l'ambasciata?»

«Sì, zio» in sottofondo, il lieve chiacchiericcio di un gruppetto. «Volevo solo dirti che probabilmente ci metterò più del previsto. Qua c'è una fila... »

«Non preoccuparti, vedi solo di risolvere le cose per bene.»

«Tranquillo, sistemo tutto.»

«Sei sicura di voler tornare da sola? Per me non è un problema venire a Mayfair.»

«Faccio da sola, zio, non sono troppo distante da casa» il suo tono era leggermente infastidito.

«Va bene, va bene» Crowley sorseggiò dell'altro caffè. «Hai fatto quello che ti ho detto ieri sera, a proposito?»

«Cosa?»

Crowley sospirò. «Le due ragazze che hai visto ai campi. Le hai richiamate?»

Dall'altra parte un silenzio colpevole.

«Non ti sono state simpatiche?»

«Sì, zio! È solo che, non so, magari non gradiscono.»

«Ti ha dato il suo numero, Isotta, è ovvio che si aspetta che la richiami. Ormai è passata quasi una settimana.»

«Mh, stasera lo faccio... »

«Non andrai avanti stando nascosta così, lo sai?»

«Devo andare, ciao» e riattaccò.

Crowley si prese il ponte del naso fra le dita e inspirò col naso. Sei mesi in Inghilterra e Isotta non faceva altro che leggere, vedere i suoi film e bere il tè con il proprietario di una libreria antiquaria e lui continuava a non capire se la situazione le andasse bene o meno. Era stata davvero contenta di mostrargli il numero di telefono che Frieda le aveva dato, eppure si ostinava a non chiamarla.

Gettò il bicchiere vuoto del caffè nei rifiuti, tornando a concentrarsi sull'ultimo regalo rimasto. Con Newton aveva risolto in fretta la questione qualche giorno prima, comprandogli un videogioco scontato per PC, uno di quei mystery vecchio stile per cui andava matto, ma mancava ancora Anathema. Ultimamente, durante i pasti a scuola, aveva preso a parlargli a raffica di magia celtica e Crowley aveva trovato su internet un meraviglioso manuale degli anni Cinquanta che le avrebbe fatto fare i salti di gioia, ma non era disponibile in nessuno shop online. In un'ora, girò quattro librerie che vendevano libri usati, ma nemmeno una ne era fornita.

«È un libro ottimo, signore, conosco questa casa editrice» disse il quarto libraio. «Purtroppo non lo stampano da anni. Ha già provato la libreria vicino al pub irlandese?»

Crowley annuì e riprese il biglietto con il titolo, dove sul retro c'era il testo integrale della poesie di Keats. «A questo punto, credo che sceglierò altro. Qualche mattone fantasy, Tolkien o Lewis.»

«Se vuole accettare un consiglio, conosco un posto che potrebbe – e sottolineo potrebbe – avere quello che cerca.»

Crolwey si tolse gli occhiali da sole. «Dica pure.»

«Si trova a Soho. C'è una libreria antiquaria con una vasta collezione di vecchi libri sulla stregoneria, magia, cultura celtica e quant'altro, piace molto al proprietario. Se possiede più di una copia di questo – è molto geloso, capisce – penso lo troverà a un prezzo ragionevole.»

«Soho, ha detto?»

Il libraio annuì. «È una libreria con l'insegna cremisi, la "A. Z. Fell&Co". Il proprietario è un signore di buona famiglia che l'ha ereditata. Un tipo simpatico, se preso con i modi giusti. La prego, non insista se non vuole venderglielo.» Prese un pezzo di carta e vi scrisse l'indirizzo del negozio. Crowley lo accettò senza guardarlo. «Se non lo trova nemmeno qui, le consiglio di cambiare regalo per la sua amica.»

«Grazie, signore» si rimise gli occhiali. «Mi è stato molto d'aiuto.»

Salì di nuovo in macchina, si allacciò la cintura con foga e si insultò. Certo che avrebbe dovuto passare per Soho, Isotta gli ripeteva sempre quando pieno fosse quel posto e a lui non era neanche passato per l'anticamera della mente.

Ricordandosi della stizza del signor Fell quando era entrato verso l'orario di chiusura, violò più volte i limiti di velocità. Se Isotta fosse stata lì, lo avrebbe coperto di ingiurie in italiano e in dialetto, paralizzandosi sul sedile, ma, in fondo, era per una buona causa.

Giunto a Soho senza multe, imboccò la strada per la libreria. Oltre la porta a vetri crepata proveniva una calda luce giallognola che rompeva il buio precoce della sera. Impaziente, Crowley varcò la soglia facendo tintinnare la campanella.

Il posto non era cambiato di una virgola, da quando lo aveva visto per la prima volta. Tappeti persiani, piccole fette di pavimento ligneo che cigolavano, cumuli di libri ovunque ci fosse spazio. Come l'altra volta, non c'erano clienti, quasi il signor Fell avesse qualche potere che impedisse alla gente di entrare dopo le cinque e mezza. Magari avercelo.

Crowley non fece nemmeno in tempo a raggiungere i gradini che un ciuffo biondo si mosse oltre una pila poco distante. «Stiamo per chiudere, come posso aiutarla?» Dal suo tono traspariva una leggera irritazione.

«Cerco un libro» rispose Crowley. «Non le ruberò molto tempo, signor Fell.»

Il volto del signor Fell sbucò oltre la pila con uno scatto. Crowley lo fissò per un attimo nei suoi piccoli occhi blu, poi ricambiò il sorriso che il signor Fell gli rivolse mentre emergeva dai tomi.

«Mi spiace, signor Crowley, non ho riconosciuto la sua voce.»

Crowley alzò le spalle. «Spero di non averla disturbata.»

«Non si preoccupi, stavo solo sistemando alcune cose» si avvicinò sistemandosi il papillon di tartan. «Le serve una mano?»

Il suo fastidio era scomparso, lasciando spazio a una soffice affabilità. Crowley si tolse gli occhiali da sole. «Sì, cerco questo libro» gli porse il foglietto con il titolo. «Ho girato un po' di librerie in centro e l'ultimo tizio mi ha detto che lei potrebbe averlo.»

Il signor Fell cercò gli occhiali nella tasca del cappotto. «Ha incontrato Arthur Moss?»

«Sul cartello c'era scritto Moss, quindi immagino fosse lui.»

«Sì, è un collega di vecchia data» si prese qualche secondo per studiare il titolo. «E aveva ragione, ho tre copie di questo. Mi dia solo un secondo.»

Quando il signor Fell girò i tacchi, Crowley lasciò un sospiro sollevato. La spesa era finita e avrebbe potuto ringraziare Anathema a dovere, dopo che aveva passato un anno ad ascoltare i suoi lamenti. Quell'uomo era un angelo venuto dal cielo.

Il signor Fell ritornò con un grosso libro in mano e i dettagli dorati della copertina scura baluginarono alla luce dei lampadari. «Ecco qui. Vuole darci un'occhiata o compra subito?»

«Compro subito, grazie.»

Crowley estrasse tre banconote dal portafoglio e il signor Fell batté alla cassa. «È uno dei libri migliori che ho su questo tema. Non pensavo le interessasse la cultura celtica.»

Crowley gesticolò con la mano. «No, non è per me, è un regalo per un'amica. Anathema, sa, la nipote di Agnes Nutter.»

«Sì, me la ricordo, anche se sono passati... sette anni, credo, dall'unica volta in cui l'ho vista. Ha preso da sua nonna, a quanto pare. Ha bisogno di altro?»

«Grazie, sono a posto così.»

Il signor Fell gli porse un sacchetto con il libro e il biglietto con il titolo. «Le piace Keats?»

Crowley lo guardò stranito, poi comprese. «Come? Ah, la poesia, intende.»

Il signor Fell annuì. «Non è una delle mie preferite, ma è molto bella.»

«È stato uno dei pochi poeti che sono riuscito a farmi piacere al liceo» disse Crowley. «Questa non è tra le più interessanti, a parer mio, ma è perfetta per Isotta. Mi serviva per il suo regalo.»

Il signor Fell sorrise. «Ora capisco: "Un sogno, dopo aver letto in Dante l'episodio di Paolo e Francesca".»

Crowley si appoggiò al bancone. «Ultimamente la signorina ha lasciato da parte i suoi lirici italiani. Si è ossessionata a Keats e Byron e ieri recitava l'Ode a Psiche mentre impastava.»

«Ho notato che in questi tempi legge più romanzi in inglese che in italiano, infatti» si sistemò il ciuffo biondo. Aveva i capelli lindi e curati e sembravano davvero soffici. «Per curiosità, cosa c'entra il suo regalo con Keats?»

«Ho ordinato uno stencil da muro» rispose Crowley. «Ha liberato un pezzo di parete dopo aver tolto alcuni poster sul tennis. È bello ampio e bianco, dovrei poterci lavorare bene.»

Il signor Fell giunse le mani al petto. «Trovo sia un'idea meravigliosa. Ha fantasia, signor Crowley.»

«Quella almeno non è tra i miei difetti.»

Il Big Ben suonò le sei in punto. Il suono delle campagne riecheggiò in strada e il signor Fell controllò l'orologio al muro. «Finito anche oggi... » mormorò tra sé e sé. Guardò Crowley e sorrise. «Ha fretta? Le va un bicchiere di vino?»

Crowley ritrasse il capo. Sebbene lui stesso lo avesse invitato due volte a bere, non si aspettava avrebbe ricambiato le sue richieste di compagnia, timido com'era. Sperò soltanto che non si sentisse in debito, ma ciò che era certo era che Crowley non avrebbe mai rifiutato un po' di buon vino. «Volentieri, ma poco e leggero, per favore, devo guidare.»

Il signor Fell annuì compiaciuto, chiuse in fretta il negozio e condusse Crowley nel retrobottega. Isotta gli raccontava spesso come usassero prendere lì delle piccole pause e infatti una tazza con le foglie verdi, sporca di caffè, ne affiancava due che emanavano ancora un lieve aroma di tè nero.

Il signor Fell preparò un bianco francese degli anni Ottanta e servì a Crowley mezzo bicchiere.

«È appassionato di vini?»

«Giusto un po'» rispose il signor Fell riempiendo il suo bicchiere. «Mio zio faceva il sommelier per hobby e mi ha trasmesso questa passione. Lei?»

«Io bevo e basta.» Al signor Fell sfuggì un sorrisino. «L'Italia è stata un paradiso. I vini del Carso sono magnifici.»

«La diversità dei vini italiani è molto affascinante. Credo di aver bevuto più varietà a Milano che in tutta la mia vita.»

Bevvero in silenzio e il signor Fell riprese la parola. «Isotta mi ha detto di dover andare in ambasciata, oggi.»

Crowley annuì. «Sì, per questo è uscita prima. Ora è ancora a Mayfair.»

«Non è nulla di grave, spero. Non mi ha detto il motivo per cui l'hanno convocata.»

«Nah, solo qualche casino burocratico coi documenti in Italia. Scartoffie, in poche parole. Avrebbe dovuto essere una roba da una manciata di minuti, ma stanno procedendo a rilento.»

Il signor Fell fece ondeggiare il bicchiere. «Avete deciso se tornare in Italia dopo Capodanno?»

Crowley scosse la testa. «Isotta ha preferito rinunciare.»

Lo sguardo confuso del signor Fell ricordò a Crowley quello dei suoi studenti peggiori davanti a un problema di media difficoltà. «In che senso?»

«In realtà sono rimasto stupefatto anche io, inizialmente, ma poi mi ha spiegato che Ilenia sarà in montagna da Capodanno fino all'Epifania. Sa, non abbiamo parenti e i nostri amici non possono raggiungerci in Italia, quindi a questo punto tornare non avrebbe molto senso.» Scolò il vino. «Ho pensato di andare in montagna con la famiglia di Ilenia senza passare per Trieste, ma il posto è piuttosto costoso e affollato e non sono riuscito a trovare una doppia abbastanza economica.»

«Mi dispiace molto» disse il signor Fell abbassando lo sguardo. «So che Isotta ci teneva.»

«Non era felice, infatti, ma penso che la sua sia stata una scelta ponderata. Almeno qui ci sono i nostri amici.»

«Resterete a Londra?»

Crowley alzò le spalle. «Sì, no, non abbiamo ancora deciso. A Natale di sicuro. Lei?»

La mano del signor Fell tremò per un istante e Crowley si maledisse. Solo in quel momento si ricordò ciò che era successo soltanto qualche giorno prima.

Il signor Fell si allargò il colletto della camicia con l'indice. «Credo che quest'anno lascerò da parte la cena con la mia famiglia. Di solito andiamo al Ritz.» Crowley spalancò gli occhi per un attimo. «Forse questa volta cambieranno ristorante per... questioni varie. Io credo mi godrò un buon libro davanti al fuoco e a un piatto di pudding.»

La sua voce era ferma e calma, ma la vaga tristezza che aleggiava sul suo viso tradiva la sua tranquillità. Crowley poteva contare sulle dita di una mano i Natali che non aveva passato in solitudine, dopo il suo trasferimento in Inghilterra. Guardare il signor Fell era come osservare il suo riflesso da giovane.

«Non ha altri parenti?»

Il signor Fell scosse la testa e si versò dell'altro vino. «Non degni di nota. Una vecchia amica mi ha chiesto di passare il Natale con lei, ma ho declinato l'invito. Una festa grande, sa, e io conosco soltanto lei e suo marito a malapena.» Sorrise con una punta di amarezza. «In fondo, stare da soli qui non è male.»

«È un posto molto bello» disse Crowley, preferendo cambiare argomento. «Da quanto lavora qui?»

Il signor Fell lasciò da parte il bicchiere e le sue spalle si rilassarono. «È una storia un po' lunga. Questo posto – la libreria e l'appartamento – è mio, non sono in affitto, l'ho ereditato poco più di due anni fa da un mio zio. Ha lavorato qui per molto tempo e in realtà ho frequentato il negozio per cinque anni prima che lui morisse.» Sorrise sereno e fece un piccolo segno della croce. «Ogni tanto svolgevo qualche piccola mansione e buona parte di ciò che conosco sul restauro l'ho imparato da lui. Non era sposato e non aveva figli: mi ha lasciato il massimo che poteva, secondo la legge.»

«Pensavo che la sua famiglia fosse tutta impegnata in azienda.»

«Da parte di mio padre, sì. Mio zio era il fratello di mia madre, venivano dal Galles. Lei si è unita e lavora ancora alla Fell, lui si era messo in proprio. Ha sempre avuto un certo talento per gli affari: seguiva il suo istinto, faceva pochi conti e puntualmente beccava il centro. Un genio simile non è passato inosservato a mio padre, ovviamente.»

«Hanno tentato di trascinarlo dentro?»

«Sì, ma non hanno proseguito a lungo coi tentativi» ridacchiò. «Era un uomo un po' scorbutico e molto schietto. Ha messo subito in chiaro come non volesse avere nulla a che fare con loro. In generale, aveva rapporti solo con me.»

I suoi occhi parevano brillare, mentre parlava, e sedeva appoggiato allo schienale, più rilassato di quanto Crowley lo avesse mai visto. Assomigliava a un facoltoso borghese vittoriano in un rispettabile pub del centro dopo una giornata di lavoro. Lo avrebbe visto bene con una tuba bianca in testa.

«Non ho mai cambiato molto della libreria, da quando è morto» riprese. «Avevamo gusti abbastanza simili, quindi non ce n'è mai stato bisogno. Il soppalco lo ha aggiunto lui perché detestava le libreria troppo alte. Lo trovavo sempre lì a guardarmi, quando entravo. Era lì che accoglieva gli acquirenti di testi pregiati, ma io onestamente l'ho sempre trovato un po' scomodo. Molti frequentano ancora il posto, sa? Mio zio mi ha persino lasciato una lista con i tè preferiti di ognuno di loro.» Il suo sorriso, all'improvviso, si spense. «Scusi, credo di aver parlato troppo.»

Crowley lo stava ascoltando, rapito dalla passione con cui discuteva della sua libreria, e quell'interruzione fu come la rottura di una bella illusione. «Si figuri, è interessante.»

Il signor Fell si passò la mano sulle guance, ora tinte di una leggera sfumatura di rosa. «Non credo che il mio sia un lavoro molto interessante.»

«Lei è troppo modesto. Isotta dice che vende manoscritti anche anteriori al Mille.»

Il colorito sul suo viso si fece più intenso. «Qualcuno...» Si schiarì la gola e versò altro vino sia a lui che a Crowley. «E lei, con la scuola? Tra poco mi pare inizino le vacanze.»

«Già iniziate, per fortuna. Ero sfinito.»

«E i suoi studenti? Come sono?»

Crowley gesticolò un po' con la mano. «Normali. Adolescenti. La mia materia di certo non genera molta simpatia, ma la maggior parte se la cava, anche se alcuni a momenti dormirebbero sul banco. Qualcuno eccelle, ma non sono molti. Come in tutti i campi, dopotutto, ma ho le mie soddisfazioni, ogni tanto.»

«Quindi tutto sommato non si è pentito di aver lasciato l'università.»

Crowley grugnì. «La considero ancora una delle scelte migliori che io abbia mai preso. Non che ci voglia tanto, a dire il vero.»

Il signor Fell lo guardò incuriosito. «Lei è uno spericolato, signor Crowley?»

«No, non più, soprattutto da quando c'è Isotta. Più che spericolato ero un po' sciocco, in realtà. Non ho avuto le migliori compagnie, da giovane.» Allontanò il bicchiere. Stava bevendo troppo e Isotta lo aspettava tutto intero. «Comunque, Crowley e basta va bene. Il mio nome è Anthony, ma preferisco Crowley.»

Il signor Fell inclinò la testa, poi sorrise gioviale. «Allora anche lei mi chiami Aziraphale.»

Crowley aggrottò la fronte. «A-see-rah... »

«Aziraphale» scandì lui, volgendo gli occhi al pavimento. «Lo so, è un po' strano.»

«È biblico?»

«Sì, è un angelo poco noto. Anche i miei fratelli hanno nomi simili. Scelta di mio padre.»

«Un uomo religioso, suppongo?»

«Abbastanza» rispose. «Ma non più praticante del credente medio, a dire il vero. Era più che altro interessato alla teologia come campo di studio, ma non è mai stato più di un hobby. Per lui lo studio – specialmente se umanistico – non poteva andare oltre alla pura teoresi.»

Crowley annuì, come se sapesse davvero cosa fosse la teoresi. «Quindi immagino non fosse molto d'accordo quando hai iniziato ad allontanarti.»

«No, ma oltre ad essere pratico era anche un tipo molto ragionevole. Non odiavo il mio lavoro in azienda, ma lo tolleravo a malapena perché mi concedeva un guadagno sicuro e discreto, e lui lo aveva capito, anche se molto tardi. Non me lo disse mai, ma credo che fosse quasi contento che avessi preso la decisione di cambiare strada.» Si fermò e il suo viso si imporporì ancora. «Scusa, ho parlato troppo di nuovo... »

Crowley fece un gesto rapido con la mano, sorridendo. «Nessun problema, davvero.»

Aziraphale bevve con mano tremante il vino rimasto e sollevò il bicchiere il più possibile per nascondere le guance. A Crowley venne quasi da ridere nel vedere quella scena. Si appoggiò allo schienale della sedia, rilassato come non era stato da giorni. C'era qualcosa di particolare in quell'uomo capace di dissolvere tutte le sue preoccupazioni, anche solo per una mezz'ora. Non capiva se fossero i suoi modi calmi e galanti, il suo tono placido, il bagliore nei suoi occhi quando parlava del suo angolo di pace, e dopotutto, non era importante, non finché poteva godere di quella piccola serenità.

«E... » balbettò un attimo. «I suoi studenti bravi come sono?»

«Alcuni sono semplicemente alunni capaci, veloci a capire e a ragionare, ma nulla più. Ho pochi studenti davvero appassionati. C'è una ragazzina del secondo anno, Lucy, che è la migliore del suo corso. A momenti, potrebbe tenere lei le lezioni.»

«Immagino sia gratificante vedere uno studente tanto appassionato.»

Crowley sorrise. «Molto, a dire il vero. vuole studiare ingegneria meccanica. È dura, però la ragazza ha grinta: sono certo non avrà problemi. Invece ho un altro studente, Luke, anche lui molto bravo, ma durante le lezioni se ne sta molto in disparte e ha sempre paura di rispondere.»

«Forse è solo molto timido?»

«Non è solo timido, è letteralmente terrorizzato dall'idea di sbagliare, ma è uno dei migliori che abbia mai avuto. Spero solo che il suo atteggiamento non lo blocchi troppo.»

Aziraphale si passò una mano sulla nuca e smise di guardarlo. «Bassa autostima, suppongo. Non è rara fra i ragazzi della sua età.»

«Sì, temo che anche la sua famiglia non giochi un bel ruolo. Li ho incontrati una sola volta, ma sembrano così pretenziosi che quasi mi viene la nausea. Non ho idea di che testa devi avere per pressare così un ragazzino di quattordici anni. È bravo anche nelle altre materie, ma ha il costante timore di non aver fatto abbastanza.»

«Ma non ci sono servizi di supporto? Psicologi scolastici, qualcuno che possa aiutarlo.»

«Servirebbe un consultorio a tutta la famiglia, altroché.» Sul punto di ricoprire d'ingiurie il padre di Luke, un tizio cinico e perfezionista che girava con più orrido gel in testa che capelli, il cellulare squillò sopprimendo la tranquillità con una scoccante melodia dei Sex Pistols. Aziraphale rimase un attimo inebetito con la bottiglia mezza piegata.

«Solo un attimo» disse Crowley. Ancora Isotta. «Ciao. Hai finito? Sei a Mayfair? Vengo a prenderti?»

«Zio, sono a casa da più di un'ora.»

Crowley si bloccò. In che senso, un'ora? Controllò l'orologio al polso e gli venne un colpo: le otto e mezza passate.

Isotta sbuffò. «Dimmi quando arrivi, ché intanto preparo la cena. Ti va bene il tacchino? Roberto mi ha passato una ricetta nuova con le erbe.»

«Sì, va... va benissimo. A dopo» chiuse la chiamata, ancora frastornato. Non ricordava l'ultima volta in cui aveva del tutto perduto il senso del tempo, non con la compagnia chiunque al di là del cielo stellato.

«Devi andare?» chiese Aziraphale. Le palpebre calarono appena in un'espressione di malcelata amarezza.

«Isotta è già a casa. Freme per spadellare» si alzò e Aziraphale lo accompagnò verso l'atrio. «Grazie per il vino.»

«Grazie a te per avermi tenuto compagnia» sorrise con dolcezza, le mani giunte sopra la pancia sporgente.

Scese i gradini e si diresse verso l'uscita, ma il guizzo di un'idea lo fece desistere. Guardò Aziraphale, poi il caminetto spento mezzo nascosto dietro a un caotico angolo colmo di scatoloni. L'immagine della torre di bicchieri di plastica puzzolenti di vodka accatastati sul suo tavolo gli rubò un respiro. Provare, dopotutto, era gratis.

«Perché non vieni da noi, a Natale?»

Aziraphale sbatté le palpebre come se lo avesse colpito un fascio di luce intermittente. Boccheggiò e infine gli chiese di ripetere.

«Natale. Con noi» indicò se stesso. «Una cosa piccolina, molto semplice e con tanto cibo.»

Per un attimo, fu in grado di scorgere l'ombra della gioia sul volto di Aziraphale, ma non durò a lungo. «Io vi ringrazio molto, davvero, ma... »

«Ma?»

«Io non vorrei... mi creda, sarei un elemento troppo fuori luogo.»

«Siamo un astronomo mancato, una storica che pratica l'occultismo, un tecnico informatico che non sa accendere i computer e una principessa del mare che ha fatto fin troppa spesa. Credo saresti quello più a posto.»

Aziraphale continuò ad aprire e chiudere la bocca senza dare risposta, tormentandosi le mani. Crowley attese, ma pensò fosse meglio ammorbidire la situazione.

«Non devi rispondere subito» disse. «Puoi dirlo anche a Isotta.»

Aziraphale annuì e sciolse le mani. «Grazie» rispose. «Ci penserò su.»

Crowley gli sorrise, sventolò la mano e uscì nel gelo serale che ormai aveva dimenticato. Guidò fino a casa senza accelerare. Da una parte, temeva di aver incusso un eccessivo timore ad Aziraphale, con quella richiesta improvvisa. Dall'altra, sperava con tutto il cuore che accettasse. Anche se non ne capiva il perché.

L'appartamento odorava di erbe, spezie e carne, con il rumore della cappa che copriva la voce calda di un giovane cantante in tv.

Isotta si voltò quando la porta si chiuse e sventolò la paletta. «Alleluia!»

«Scusa, principessa.» Aprì la credenza e raccolse due piatti e due bicchieri. «Finito tutto in ambasciata?»

«Tutto a posto.»

«Com'era? Dentro, dico.»

«Solenne, sfarzosa. Molto bella, a dire il vero.» Spense il fuoco e fece cenno a Crowley di passarle i piatti. «Tu, piuttosto. Sei andato a comprare ad Anathema degli amuleti direttamente da un tempio abbandonato?»

«No, in realtà ho avuto una bella conversazione con il tuo capo.»

Isotta lasciò cadere in malo modo la fetta di tacchino e aprì le mani verso l'alto. «Eh?»

«In libreria. Occhio, ti sporchi col sugo.» Le prese la paletta e l'appoggiò sul piano cucina.

«Sei rimasto lì fino ad adesso?»

«Sì, abbiamo bevuto un po'.» Si versò altre patate nel piatto. «Gli ho chiesto se volesse venire qui a Natale.»

«Cosa?!»

«Ha detto che probabilmente sarà da solo. Ho pensato perché no, è un tipo simpatico.»

Isotta batté le dita sul bordo del piatto. «Be', ok allora. Ti ha detto di sì?»

«Ha detto che ci deve pensare. Lo immaginavo, di certo non se lo aspettava.»

Lo guardò di sbieco un'ultima volta, poi sorrise e prese posto con il suo piatto. «Non pensavo avreste potuto diventare amici.»

«Perché no?»

«Oh, insomma, guardati. Il burbero rockettaro dal cuore d'oro e il colto libraio all'angolo.» Rise con il labbro sporco di sugo. Crowley la fece tacere passandole la salvietta sulla bocca.

«Ho il caro pregio di piacere a tutti.»

«Sì, bevi che rinsavisci.»

Gli passò il vino, ma Crowley si versò un goccio minuscolo e molto annacquato.

«Ho chiamato Frieda, comunque.»

«E ti ha mangiata?»

Isotta infilzò in malo modo il tacchino. «Smettila.»

«Dai, principessa, che ti ha detto?»

«Che era felice di risentirmi». Crowley trattenne un "te l'avevo detto". «Mi ha invitata a vedere un film al cinema con Kat.»

«Hai trovato delle cinefile come te, allora.»

«Non proprio. Frieda guarda solo film di guerra e mi porta in un posto dove proiettano film d'epoca. Ha detto che vengono a prendermi in moto direttamente in libreria e ceniamo in un bar vicino alla cineteca.» Si alzò per riempire la brocca dell'acqua. «Non sono mai stata in moto.»

«Be', dovrai pur avere la tua prima volta.»

Finito di cenare, Isotta lo costrinse a guardare un melenso film comico di Natale («Lo so, è mediocre, ma lo adoro») con le luci dell'albero che illuminavano in allegria il piccolo soggiorno. Crowley avvolse entrambi in una pesante coperta e accolse Isotta sulla sua spalla, acquisendo il monopolio della ciotola dei popcorn. Rispose alle risatine di Isotta, ma seguì poco o niente dell'esagerata vicenda familiare multiculturale, vuoi per il troppo vino, vuoi per una paffuta testa bionda che galleggiava nella sua mente.

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Capitolo 15
*** Capitolo Quindici - Domani ***


«In che senso, non torni?!»
La voce di Ilenia le spaccò le orecchie chiuse nelle cuffie. Un fischio accompagnò gli ansimi nervosi della sua ragazza e Isotta premette con forza il tasto per abbassare il volume.
Mancavano solo sette giorni a Natale, uno dei quali stava per essere cancellato del tutto dalla notte, e la fine dell’anno si avvicinava inesorabile. Nonostante ciò, Isotta aveva trovato solo in quel momento il coraggio di dire a Ilenia che no, non sarebbe tornata in Italia a Capodanno. Sapeva già di Natale, glielo aveva scritto in un rapido messaggio a cui Ilenia aveva risposto con un asciutto “va bene”.
Quando Ilenia smise finalmente di sbraitare, Isotta le disse con tono calmo: «Ci ho pensato su, Ile. Anathema e Newton non possono venire con noi perché devono risparmiare per andare in America e sai benissimo che a Trieste non ho nessuno.»
«Ma perché non venite con noi in montagna? Cazzo, Isotta, mica andiamo in capo al mondo.»
Dovette prendere un grande respiro, prima di rispondere. «Ovvio che ci ho pensato, ma gli alberghi sono pieni anche nei dintorni. Quello che è rimasto costa troppo.»
«Lavorate in due!» Ilenia la indicò con la mano aperta. «In due, Cristo! E mi sembra che il libraio ti paghi bene.»
«Viviamo a Londra, Ile, anche se lavoriamo in due dove credi che vada la metà di quei soldi?»
«Avreste potuto almeno stare a Trieste. Hai detto che tuo zio inizia dopo il 6, no? Almeno ci saremmo viste due giorni.»
«E secondo te io e mio zio dovremmo andare a Trieste, da soli, per aspettare che torniate dalla vostra bella vacanza?»
«Fatevi un giro, andate a Muggia e a Duino.»
«Le ha già viste e comunque ti ho già detto che Anathema e Newton non possono venire. Mio zio ci tiene a loro, non possiamo lasciarli qui da soli.»
«Siete tutti soli e senza amici, lì?»
Una scarica elettrica le attraversò il corpo. Sbatté la mano sul tavolo desiderando fosse la faccia di Ilenia. «Senti, forse non ti è chiaro: non tutti hanno una grande famiglia amorevole come la tua. Sono tre anni che non passo delle cazzo di feste decenti e per una fottuta volta che posso farlo vorrei poter festeggiare senza dovermi sentire in colpa!»
Ilenia tacque. Abbassò lo sguardo verso le sue matite colorate ammassate a lato e si portò una lunga ciocca nera davanti al viso. «Avreste potuto venire a Natale. Le mie zie vi avrebbero aiutato» disse piano.
«Le tue zie che mi guardano dal’alto in basso perché pensano verrò su come una drogata da quando è morto mio padre?»
«Isotta, cazzo, io non… » si portò l’immensa chioma corvina dietro alle spalle. Guardò Isotta dritta negli occhi, oltre allo schermo. «Va bene, scusa, sono stata egoista.»
Lo disse con il tono di un bambino costretto dalla maestra a chiedere scusa al compagno antipatico, accompagnato da due sonore pacche sulla schiena, ma Isotta accettò comunque.
«Ma cosa facciamo, a questo punto?»
Isotta inclinò la testa. «Che intendi?»
«Tu, io» indicò sé stessa e Isotta più volte. «Vogliamo continuare a dirci ti amo attraverso uno schermo o cerchiamo di far funzionare questa cosa? Perché io ti voglio bene, ma non so quanto questa relazione a distanza possa proseguire.»
Il petto le sprofondò in una rapida fitta di dolore. Premette le unghie nel palmo dell’altra mano e rimase bloccata davanti allo schermo. Ilenia voleva rompere? No, non era possibile, non dopo un anno passato a… a fare cosa? A nascondersi da tutto e tutti per un bacio, a ignorarla davanti a suo padre, a farsi consolare per sei mesi filati, a guardarsi e basta dietro a un computer.
«Perché non dici niente?»
«Ascolta, ascoltami» si posizionò dritta sulla sedia. «Certo che possiamo continuare, posso tornare in Italia a Pasqua, o venire tu, o anche questa estate. Potremmo ospitarti qui per un mese dopo la maturità.»
«No, no, aspetta. In che senso, questa estate?»
Isotta boccheggiò confusa. «A giugno, o luglio, quando finirai gli esami.»
«Cioè fra altri sei mesi? Dici che possiamo continuare e non ci vedremo fino all’estate?» alzò il tono della voce e le mani presero a gesticolare in tutte le direzioni. Aveva gli occhi spalancati, furiosi. «E poi che significa tutto questo? Che rimarrai in Inghilterra anche questa estate? Fai il cervello in fuga?»
Isotta non seppe riordinare la pioggia di domande. Muoveva le mani in una difensiva imitazione di Ilenia. «Non so ancora cosa farò, Ile, te l’ho detto.»
Ilenia sbatté le mani sulla scrivania. Un foglio scivolò, il temperino cadde, un leggero miagolio precedette le sue urla. «Sono sei mesi che stai lì e ancora non sai cosa fare?! Stai scherzando?»
«Non è facile, Ilenia, cazzo!»
«Certo, per te non è mai facile, non prendi mai una decisione che sia una, mai una volta nella tua vita, sempre “non lo so”, porca troia.»
Isotta si prese i capelli fra le mani e gettò la testa all’indietro. Il pizzicore negli occhi si fece più intenso. Ritornò sulla scrivania con una mano sulla fronte. «Non sono in una situazione normale, capiscilo, santo Dio.»
«Non sei mai normale, tu.»
Quello. Quello fece male, un dolore nel cuore e nella testa che riaprì altre ferite, sempre più vecchie. Isotta si guardò le nocche bianche, le mezzelune rosse nei palmi e poi guardò Ilenia. Non poteva vedere il suo stesso sguardo, ma sentì due lacrime scendere, una per guancia, e il fastidio dei muscoli intorno agli occhi. Ilenia rabbrividì.
«Oddio Iso, scusa, ascolta, non volevo dire-»
«Ci sentiamo.»
L’ultima cosa che vide fu la mano ambrata di Ilenia sporgersi verso lo schermo, coperta poi dalla scheda bianca di Skype. Chiuse il laptop con uno scatto senza curarsi di spegnerlo e si gettò sul letto con un tonfo. La odiava, odiava Ilenia in quel momento e odiava se stessa perché detestare lei significava buttare all’aria dodici anni di tutto, perché lei aveva Ilenia e nessun altro e le aveva dato tutto quello che era in suo potere dare. Inspirò a fondo per un minuto, poi si abbandonò al pianto.
 
*
Il ventun dicembre le strade erano gremite di persone e acqua. Un diluvio universale si abbatté su Londra e il Tamigi si ingrossò in tempesta. Isotta riuscì ad arrivare in libreria prima che la pioggia  raggiungesse il suo picco e trovò il signor Fell intento a correre da una parte all’altra per chiudere le serrande, prima che i vetri appena lavati si rovinassero a causa dell’acqua piena di smog. Piazzarono due grossi zerbini all’ingresso, ma ben pochi clienti vi badarono, viste le decine di impronte umide che Isotta si occupò di pulire approfittando di fette di tempo senza clienti.
La due mattine precedenti, il suo cellulare era stato bombardato da una valanga di messaggi da parte di Ilenia, ma lei non li aveva visualizzati. Il pensiero delle sue parole non l’aveva fatta dormire bene la notte e aveva cercato di rattoppare con grossi caffè senza latte né zucchero, anche se un letto sarebbe stato più che gradito. Sebbene il cuore le rodesse ancora, un altro argomento aveva assunto il compito di stirarle i nervi. Il suo contratto scadeva quello stesso giorno e il signor Fell non le aveva detto nulla a riguardo. Non che avessero parlato molto: Isotta lo aveva evitato, come aveva evitato suo zio, Anathema e Newton, chiudendosi nella sua stanza a leggere l’anteprima dei messaggi di Ilenia e a consumare il pranzo freddo. Il signor Fell aveva mal nascosto la sua delusione quando, negli ultimi due giorni, Isotta aveva deciso di mangiare a casa, ma parlare era diventato un consumatore di energia così pesante che il suo sguardo rattristato non l’aveva spinta a rimanere.
Mentre era intenta a spazzare, la campanella trillò lasciando entrare il brusio della folla e una figura snella avvolta in un ampio cappotto color cachi. Isotta si fermò con la coda dell’occhio vide una folta chioma bionda.
«Zira!» esclamò strizzando le punte bagnate. «Sei libero?»
Isotta strinse il manico del moccio quando grosse gocce d’acqua caddero a terra, accanto agli stivaletti firmati della signora Sands. Prese un bel respiro e ricominciò a pulire. «Buongiorno, signora Sands.»
«Isotta cara, ciao.» Le sorrise e si avvicinò. «Aziraphale è qui?»
Isotta indicò il retrobottega con il pollice e subito il signor Fell spuntò. Aveva la faccia rossa, il respiro corto e con le mani armeggiava sul farfallino. «Dio, Camilla. Ho dimenticati di segnare il tuo appuntamento?»
«No, no, tranquillo, ti rubo solo cinque minuti.»
Si ritirarono nel retrobottega e Isotta pulì le macchie lasciate dalla signora Sands, prendendosela comoda. Camilla Sands non era una “cliente abituale”, bensì un’”acquirente”, come il signor Fell definiva non chi comprava cinque romanzi freschi d’uscita al mese, ma gli studiosi, gli appassionati, i collezionisti, tutti coloro che comprendevano il suo piacere nel discutere di studi letterari alti e nello sborsare centinaia (se non migliaia) di sterline in un raro tomo intatto. Spesso si intratteneva con loro bevendo il tè e mangiando dolci per anche un’ora intera. Camilla era una semplice appassionata (era impegnata anche lei nel campo della moda, le disse il signor Fell quando la vide per la prima volta) ma anche quella che rubava più tempo in assoluto al signor Fell.
«Sei sicuro di non voler venire a Natale?» disse la signora Sands. «David sarebbe contento. Per te, un posto a tavola lo aggiungiamo più che volentieri.»
«No, Camilla, ti ringrazio ma ti ripeto di no.»
«Avanti, non riesco a sopportare l’idea di vederti rannicchiato su una poltrona, solo, il giorno di Natale.»
«Camilla… » La richiamò con un velo di stizza e ripresero a discutere in gallese. Lo facevano sempre, probabilmente per parlare di affari privati che non volevano giungessero alle orecchie di Isotta, ma lei amava la melodia di quella lingua tanto diversa e musicale che li ascoltava comunque, pur non capendo una parola.
Solo in quel momento ricordò la proposta di suo zio. Al pensiero, alzò le spalle. Se il signor Fell rifiutava l’invito di Camilla Sands, non avrebbe mai accettato il loro. Crowley, a volte, sembrava un perenne ubriaco che metteva in atto idee assurde che spuntavano come funghi.
I cinque minuti promessi divennero venti, finché le sedie non cigolarono sul pavimento e Isotta smise di spolverare. Era il momento giusto.
Il signor Fell e la signora Sands uscirono insieme dal retrobottega. Lei gli stampò un grosso bacio sulla guancia, tenendolo per le spalle. «Buon natale, allora. Chiama se hai bisogno, va bene?»
Isotta si voltò per nascondere la sua risatina. Il signor Fell, rosso fino alla punta delle orecchie, ricambiò accarezzandole i capelli. «Grazie, Camilla. Buon Natale.»
La signora Sands gli sorrise, augurò buon Natale a Isotta con uno squittio e uscì nella tempesta. Isotta appoggiò il moccio e, con il cuore in tumulto, mosse un passo verso il signor Fell, che si stava pulendo la guancia da un pallido residuo di rossetto, ma lui si diresse verso la sezione di narrativa a passo svelto.
Isotta si fermò dietro a uno scaffale. Non riusciva a capire perché fosse così difficile. Dopotutto, il signor Fell non aveva mai dato segno di non volerla più, no? Ma, in fondo, lui era buono e gentile con tutti – tutti coloro che si tenevano a debita distanza dai suoi libri, s’intende – e dunque come avrebbe potuto capirlo? rifiutarle il rinnovo avrebbe significato cercare un altro posto, magari un’altra libreria, ma dove avrebbe trovato quello stesso calore era una domanda che le faceva paura. Si era creata la sua bella bolla ritta e stabile e sentiva un ago avvicinarsi.
Trasalì quando i pesanti passi del signor Fell si fecero più pesanti. «Isotta.»
Pronunciò il suo nome con una lieve rigidezza. Isotta sbucò dallo scaffale e lo trovò ad esaminare due romanzi nuovi di pacca. «Sì?»
«Che ci fanno qui i romanzi di Steinback?»
Isotta guardò i tre libri dalla copertina rigida che teneva in mano e poi l’etichetta sullo scaffale: “Romanzi rosa A-L”.
«Scusi!» esclamò. «Ero distratta, metto tutto a posto subito.» Cazzo, non ora, non doveva succedere quel giorno.
«L’intera sezione è un disastro… » disse il signor Fell sollevando lo sguardo. «Sistema tutto prima che entri qualcuno. Anzi, lascia fare a me» le pose una mano sulla schiena. «Vai a bere qualcosa. Non hai una bella cera.»
Isotta si diresse nel retrobottega senza fiatare. Bevve un po’ di succo, poi sciacquò il bicchiere e lo riempì d’acqua. Tra il pensiero del contratto e quello di Ilenia, si sentiva come se stesse camminando su un ponte sottile e qualcuno fosse pronto a buttarla giù da un momento all’altro.
Quando uscì dalla cucina, il signor Fell aveva già finito di mettere a posto. «A pranzo ti devo parlare» le disse. «Penso io a cucinare.»
Isotta rimase ferma sul posto per una manciata di secondi che le parvero eterni. Perché doveva aspettare l’ora di pranzo, non poteva dirglielo subito?
«Cara, non è nulla di grave!» esclamò il signor Fell. Isotta si risvegliò dai suoi sonni a occhi aperti e boccheggiò senza dire niente.
«Ascolta» le disse. «Siediti cinque minuti e prendi un bel respiro. Non so cosa tu abbia, ma non mi piace.» la prese per le spalle e Isotta si lasciò trascinare nel retrobottega. «Preferisci venire domani?»
«No» rispose subito. «No, va bene oggi.» Non avrebbe sopportato un altro giorno. «Ho solo… un po’ di pressione bassa» sparò. Il signor Fell la guardò accigliato, poi si diresse verso il magazzino.
Isotta si sedette, bevve dell’altra acqua e fece tre respiri profondi. Era ridicolo. Ilenia forse aveva ragione: lei non era normale.
Tornò a lavorare con il cuore che faticava a calmarsi. Prima della chiusura impiegò quanto più tempo possibile a pulire i pavimenti. Quando anche l'ultimo angolo fu libero dall'umido piovano, però, fu costretta a seguire il signor Fell sul soppalco, dove aveva apparecchiato il pranzo.
Nonostante fossero passati tre mesi, Isotta non aveva mai visitato quella zona del negozio, semplicemente perché non ce n’era mai stato il bisogno. Si trattava di un cerchio incompleto che abbracciava la circonferenza della libreria, sorretto da quattro colonne ocra e delimitato da una ringhiera in acciaio dipinto di bianco avorio. Una piccola finestra, ora chiusa, illuminava di solito l’ambiente dall’alto. Il perimetro era disseminato di basse librerie ricolme di manuali dalle coste scure che emanavano odore di carta vecchia. Il legno del pavimento, libero dai tappeti, era tirato a lucido e molto più nuovo di quello di sotto: non emetteva nemmeno l’ombra di un cigolio ed era liscio e privo di schegge o graffi.
Il signor Fell, seduto al centro sotto la finestrella chiusa, la invitò ad avvicinarsi. Accanto a lui erano accatastati alcuni materiali da lavoro: pennelli, carte piene di schizzi a matita, vecchie copertine e penne sottili. In mezzo ai due posti a sedere il signor Fell aveva preparato due piatti di pollo e patate, con due fumanti tazze di tè e del vino bianco. Nonostante la premura, il quadretto assomigliava vagamente a sua nonna quando, anni prima, le preparava la merenda con i muffin e il succo alla pera, prima di darle due disgustose pastiglie di antibiotico per la gola.
Consumarono il pranzo in tranquillità. Fu soprattutto il signor Fell a parlare e discusse di come odiasse l’abitudine inglese di mangiare un magro tramezzino a pranzo e di come avesse cambiato le sue abitudini dopo essere stato in Francia a vent’anni. Isotta annuiva tra un boccone e l’altro e commentò di rado, lasciando che dominasse la conversazione e illustrandogli, brevemente e sotto richiesta, alcune tipiche abitudini alimentari in Italia.
Finito il pasto, il signor Fell portò miele e latte.
«So che non bevi il tè» le disse quando si sedette. «Ma ho preso un nuovo tè in foglie in centro. Sai, è molto diverso da quelle imbevibili bustine del supermercato e decisamente più buono. Te l’ho fatto alla vaniglia. Miele o latte, cara? Qui di solito lo prendiamo con il latte, io l’ho già messo ma non sapevo se ti piacesse. O forse preferisci lo zucchero?»
«No, va bene il miele, grazie.»
Si versò mezzo cucchiaio di miele millefiori nella tazza e l’avvicinò al volto. L’odore era dolce ma non pungente e il colore di un gradevole giallo scuro. Isotta non beveva mai tè, aveva sempre trovato insipide e inappetenti le infusioni al limone che suo padre comprava in negozio e suo zio era, come lei, un tipo da caffè.
«Non berlo se non ti piace, cara» disse il signor Fell dopo aver preso un piccolo sorso. «Costringerti è l’ultima cosa che voglio fare.»
«No, no, è… » Isotta bevve un piccolo sorso, poi uno più grande. «È buono, non pensavo, ma è buono.»
Il signor Fell sorrise come se avesse appena vinto una pregiata prima edizione. «Sapevo che eri solo abituata male. Ma un giorno dovresti provarlo con il latte.»
Isotta bevve in silenzio, cullata dal rumore della pioggia che si era fatta meno tempestosa, ma rimaneva comunque fitta. Sperò che Frieda e Kat non annullassero il loro appuntamento, soprattutto perché entrambe sarebbero presto tornate dalle loro famiglie.
Presto il sonno mancato si fece sentire, soprattutto con la pancia piena e il calore del tè. Isotta appoggiò la schiena sulla poltroncina e prese a bere meccanicamente, sforzandosi di tenere le palpebre bene aperte. Chissà com’era dormire lassù, in una notte di tempesta.
«Credo che qualcuno abbia fatto le ore piccole.»
Isotta si rimise composta all’istante, ma un mezzo sbadiglio soppresso la tradì. Il signor Fell ridacchiò.
«Hai dormito poco?»
«Male, più che altro.»
«Puoi dormire un po’ prima dell’apertura, se vuoi.»
Isotta fece cenno di no con la testa. Non avrebbe dormito sul posto di lavoro, non con il contratto in bilico.
Il signor Fell si versò dell’altro tè. Domandò a Isotta se ne volesse ancora e, al suo assenso, il suo volto s’illuminò. Quando gioiva le ricordava i bambini che, i primi giorni di bora, giocavano controvento con le raffiche. Isotta bevve ancora e si liberò un po’ il collo dalla morsa di calore del cotone che indossava.
«Quel completino è davvero grazioso, cara» disse il signor Fell. «Camilla non faceva che commentare quanto fosse bello.»
Isotta strinse il bordo del tessuto sulla spalla. Indossava un pesante completo bianco, composto da una semplice canotta a costine e un cardigan legato sul petto con un laccetto che le cadeva con morbidezza sui fianchi.«Grazie. Me lo ha fatto mia nonna anni fa.»
«A mano? È un prodotto ottimo.»
Isotta annuì. «Da giovane lavorava come sarta a Lubiana. Aveva fatto un po' di strada e prendeva bene, ma se ne andò a Trieste quando due dei suoi fratelli morirono in guerra.»
«Quindi hai altri parenti.»
Isotta alzò le spalle. «Sì. Dopo il suo matrimonio l'ultimo fratello che aveva si trasferì. In Belgio, o nei Paesi Bassi, non ricordo. Si è sposato ma è morto giovane. Non so se abbia avuto figli.» Bevve altro tè. Dio, se era buono.
«Cuciva spesso per te?»
«Non molto, un po' perché con l'età aveva le mani sempre più deboli, un po' perché si guardava bene dal viziarmi come faceva mio nonno. Il maglioncino verde lo ha fatto lei, e anche la sciarpa bordeaux che ho di là. Non lo faceva mai se qualcuno glielo chiedeva: una mattina si alzava, aveva voglia di cucire e cuciva quel che più le andava.» Si accoccolò sulla sedia, immaginando un gustoso caffellatte al posto del tè, l’odore dei gelsomini al posto di quello della carta, il suono delle onde e delle barche invece della pioggia.
Il signor Fell sorrise. Finì il suo tè, appoggiò la tazza sul tavolino e si sporse battendo le dita fra loro. «Ti ho vista un po’ ansiosa, oggi. Anche ieri, in realtà.»
Isotta annuì e basta. Si chinò verso la tazza per non guardare il signor Fell.
«C’è qualcosa che ti preoccupa?»
Una serie di domande girò nella testa di Isotta come il nastro di una bobina cinematografica, immagini nitide e repentine che soppresse sedendosi ritta. «Nulla di importante.»
Il signor Fell intrecciò le dita e sospirò. «Sicura?»
Isotta tacque. Strinse la tazza finché le dita non divennero bianche e la sua gamba prese a fare su e giù sul posto.
«Isotta» il signor Fell riappoggiò la schiena sulla sedia. «So che non sono nessuno per farti la predica, non sono né tuo padre, né tuo zio, ma sono sinceramente preoccupato per te. Sono due giorni che ti comporti in modo strano.»
«Sono soltanto dei giorni un po’ no» rispose Isotta.
Il signor Fell appoggiò allo schienale, si passò i polpastrelli sulle palpebre e prese poi il ponte del naso fra le dita. Era una versione maschile e più giovane della dottoressa Grieco, durante le ultime settimane di gennaio. Era passato quasi un anno, Dio.
Una volta, in una giornata nevosa colma di un gelo pungente, le aveva detto «Questo è il tuo percorso: hai il diritto di non dirmi tutto, o di non parlare affatto, e di andare al passo che preferisci.» Aveva infilato la penna d’acciaio lucente nella taschina della giacca di velluto e si era tolta gli spessi occhiali a goccia. «Ricorda però che più collaboreremo, più riuscirai a risolvere questo problema. Voglio solo che tu sappia questo.»
Il signor Fell, però, non era la dottoressa, ma nemmeno suo zio lo era. Ripensandoci, però, era più neutrale di Crowley, più compassato e razionale. Forse, solo un pochino, l’avrebbe aiutata, avrebbe saputo che dirle.
«Ho litigato… » si fermò e un intenso calore al viso la spinse ad abbandonare la tazza di tè. No, non poteva dirglielo, come poteva parlare a un uomo di trenta e passa anni di come aveva litigato con la fidanzatina.
Lui si era sporto di nuovo verso di lei come spinto da una molla. «Con tuo zio?»
«No.» Piantò lo sguardo in basso, sulla punta degli anfibi. «Con la mia ragazza.»
Si aspettò una risatina, anche molto leggera, o uno sbuffo infastidito. Invece, quando trovò le forze per sollevare lo sguardo, lo scoprì serio e tranquillo come un professore che si riposa in cattedra.
«Cosa è successo?»
Isotta prese un bel respiro, prima di parlare. «Non tornerò in Italia a Natale, e nemmeno a Capodanno. Ho aspettato a dirlo a Ilenia, perché sapevo che ci sarebbe rimasta malissimo, ma alla fine, ovviamente, ho dovuto farlo.» Appoggiò la tazza sul tavolino. Stava sudando. «Si è infuriata perché le avevo promesso che sarei tornata presto e invece non credo riusciremo a metter piede a Trieste fino a Pasqua, come minimo.» Singhiozzò sulla sedia e iniziò a parlare più in fretta, dopo un grosso respiro. «Si è arrabbiata perché non sappiamo come mandare avanti questa cosa e… io non so cosa dirle, perché dipende praticamente tutto da me e- e ancora non so cosa farò questa estate.»
Due fiumi di lacrime le rigarono le guance. Seguì un altro singhiozzo che soffocò stringendo i denti. Si asciugò il viso con la manica con lo sguardo piantato sul tavolino, sui libri, ovunque che sul volto del signor Fell. «Io non so cosa fare, non so come andare avanti l’anno prossimo, non so nemmeno in quale cazzo di Paese vivere, non so niente! E ogni volta che ci penso non riesco a decidere, non riesco a trovare una soluzione, non c’è nulla che mi spinga da una parte o dall’altra e allora rimando e fingo che il problema non esista finché non arriva qualcuno a ricordarmelo! Ogni cosa che faccio è solo un modo per evitare questa decisione perché non sono in grado di farlo, io non so decidere per me! Non so cosa fare!»
Le maniche bianche erano ormai pregne d’acqua e sentiva le guance irritate dal continuo contatto col tessuto. Il pavimento si muoveva sotto il suo sguardo annebbiato dalle lacrime e un intenso calore le avvolse il volto. Non c’era traccia del gradevole senso di leggerezza che si prova quando ci libera da un peso: c’era il signor Fell davanti a lei. Si era appena sfogata in quel modo con il suo capo, con un contratto che non sapeva se sarebbe mai arrivato. Non osò alzare lo sguardo, non voleva vedere come la stava guardando, voleva solo scappare, stare da sola, voleva tornare a casa e buttarsi le coperte addosso.
Sempre fissando il pavimento, si sollevò con lentezza dalla sedia. «Scusi» disse piano. «Devo andare… » Dove? In bagno? Tanto avrebbe dovuto tornare. Che poteva fare, scappare fuori? Si avviò comunque verso le scale, ma il signor Fell le afferrò con delicatezza il braccio. «Cara, aspetta.»
«No» mormorò. «Mi molli.» Strattonò, ma il signor Fell non lasciò la presa.
«Siediti» le disse con voce morbida, come se stesse parlando con un animale impaurito. «Voglio solo aiutarti.»
 «No» ripeté Isotta, ma si lasciò trascinare verso la sedia. Riprese il suo posto, evitando il volto del signor Fell come la peste e concentrandosi sul bracciolo di legno.
Del soffice e fresco tessuto le sfiorò la guancia, donandole sollievo dal bruciore. Il signor Fell le asciugò con dolcezza lo zigomo umido. «Su, pulisciti il viso. Ti porto dell’acqua.»
Le portò la mano abbandonata sul fazzoletto e si diresse verso le scale. Con gesti meccanici, Isotta si terse il viso assaporando la freschezza del tessuto. Quando finì di tamponarsi gli occhi, osservò i graziosi ricami bianchi geometrici del bordo e le sinuose “A” e “F” cucite in blu vicino all’angolo destro.
Il signor Fell tornò con un bicchiere d’acqua, che Isotta accettò con un piccolo “grazie”. Bevve piano mentre il signor Fell riprese il suo posto.
«Meglio?» le chiese. Isotta si limitò ad annuire.
«Ascoltami» riprese. «Capisco che la tua situazione sia complessa e comprendo che reggere sia difficile. Non posso dirti cosa fare, né quale soluzione sia la migliore per te, perché non so abbastanza e non è quello di cui hai bisogno, ma credo di poterti aiutare a uscire da questo problema.» Isotta sollevò un poco lo sguardo e il signor Fell si sporse verso di lei con le dita intrecciate. «Vuoi parlare?»
Il cuore le batteva a mille e il viso scottava ancora, ma una presenza nella sua testa le diceva che annuire sarebbe stata la mossa giusta. Lo fece e iniziò a massaggiarsi il ginocchio.
«Sono abituato a guardare le persone quando parlo, Isotta» disse perentorio. «Non hai nulla di cui vergognarti. Io non ti giudico.»
Isotta alzò appena la testa, poi la riportò giù, ma infine incontrò il sorriso del signor Fell e i suoi placidi occhi azzurri. Abbandonò la sua posizione semiaccucciata e si sedette composta. Poteva quasi sentire il profumo alla vaniglia della dottoressa Grieco.
«Partiamo dal principio» disse lui. «Ilenia.»
Isotta scosse la testa. «Il problema non è propriamente Ilenia. Voglio dire, in parte capisco il suo fastidio.»
«Ossia?»
Isotta si liberò il collo dalla stretta della canotta. Poteva immaginare il suo volto rosso vivo. «Io continuo a dirle che questa cosa può funzionare, ma non penso che lei ci creda. Non ci credo più nemmeno io, a momenti.» Appoggiò la testa sul braccio puntellato sul bracciolo. «Il fatto è che… io le dico che ci vedremo, che un giorno torno a Trieste, ma ogni volta che ne abbiamo la possibilità non succede e lei si infuria. Non rende le cose facili, ma capisco la sua frustrazione. Credo si senta appesa a un filo e io non so mai darle le risposte che vuole.»
«Cioè?»
«Tornare in Italia. Restare qui.» Tolse la testa dalla mano e sospriò. «E io non so cosa fare» tagliò corto.
Il signor Fell si portò i polpastrelli davanti alle labbra. «Fammi capire una cosa: tu vivi con tuo zio, no? Hai la residenza qui.»
«Sì.»
«Ma in principio non era una soluzione permanente?»
Isotta scosse la testa. «In realtà non era né permanente né temporanea.» Il signor Fell inarcò un sopracciglio e Isotta si sporse in avanti. «In breve, quando tra me e mio zio sono migliorati i rapporti, lui mi disse che non sarebbe potuto rimanere a Trieste a lungo. Aveva già fatto molti sacrifici per me e io non potevo costringerlo a restare ulteriormente. Mi propose quindi di seguirlo in Inghilterra, almeno per un po’.» Ascoltò la pioggia battere fuori. «Per staccare. Da Trieste, da tutto. E io gli ho detto di sì.»
«E perché lo hai fatto?»
«Stabilità» rispose subito. «Volevo staccare, ma volevo anche stabilità. I mesi in seguito all’incidente sono stati… turbolenti. Almeno con mio zio avevo una routine normale, vivevo nella mio appartamento e non nella casa famiglia, avevo ripreso ad andare a scuola normalmente e ho anche preso il diploma. Anche se avevo paura di andare a vivere in un paese straniero che non avevo mai visto, sentivo che rimanendo a Trieste ci avrei solo rimesso.»
«Ma ora la situazione è cambiata e non sai cosa scegliere.»
«Esatto.» Isotta giocherellò con il laccetto del cardigan.
«Cerchiamo di ragionare in questo modo, intanto.» Il signor aprì le mani davanti a sé. «Immagina: hai una bilancia, da una parte mettiamo Trieste, dall’altra Londra. Devi aggiungere le variabili che condizionano la tua scelta e quella che pesa di più, naturalmente, “vince”. Devi averci pensato su almeno un po’: cosa mettiamo nei piatti?»
Isotta giocherellò con il laccetto del cardigan. Raffigurò nella sua mente una bilancia lucente come quella retta dalle statue della Giustizia e da una parte comparve il mare azzurro di Trieste, Miramare in fondo, il gelo della bora che correva su Molo Audace e che accarezzava la chioma setosa di Ilenia. Sul molo, però, non c’era nessun altro. «Ilenia.»
Il signor Fell sorrise bonario. «Ragioniamoci ancora. Perché mettiamo Ilenia?»
«Perché è la mia ragazza.» Non avrebbe detto altro, non a lui, ma la scelta di Ilenia era così banale che faticava a descriverla. «Perché è la mia migliore amica. Se non tornassi, non so cosa ne sarà di noi. Lei sarebbe furiosa.»
Il signor Fell fece una smorfia stranita, ma si ricompose immediatamente. «Altro? Qualcun altro?»
Isotta schiuse le labbra, ma non disse nulla. Nessun volto comparve nella sua mente, non Elisa, di cui non aveva notizie dalla maturità, non i suoi ex amichetti del tennis con cui aveva solo bevuto qualche Coca al bar, non le compagne di classe con cui aveva condiviso le serate in hotel all’estero. «Nessuno.»
Il signor Fell rimase impassibile. «Nessuno?»
Isotta scosse la testa. «Più che altro, c’è un posto che conosco, di cui so la lingua e la cultura.» Si slacciò il laccetto e lo riannodò. «Io amo Trieste. Amo il suo mare e vedere il Carso ogni mattina.»
«Più di Londra?»
«Non lo so. Questo davvero non lo so. Però mi piace anche Londra. C’è così tanto da vedere e da fare. Com’era quel detto dell’uomo stanco di Londra?»
«”Chi è stanco di Londra, è stanco della vita, perché a Londra si trova tutto ciò che la vita può offrire”.» recitò il signor Fell. «Samule Johnson, critico letterario del diciottesimo secolo e uno dei più illustri della nostra letteratura. Onestamente, concordo. Non lascerei Londra per tutti i libri del mondo, per quanti difetti possa avere.»
«Lei ha sempre vissuto qui, giusto?»
Annuì. «Tutta la vita. Ho anche viaggiato, in Europa e negli Stati Uniti, ma niente mi dà quello che dà Londra.» Si schiarì la gola. «Tornando al nostro discorso, pensiamo appunto a Londra. Cos’hai qui?»
«Mio zio» disse Isotta. «È la mia famiglia. È l’unico ad essere rimasto quando volevo allontanare tutti.»
Il signor Fell giunse la mani in grembo. «È molto affezionato. Sei davvero la sua principessa.»
Isotta strinse le mani che teneva intrecciate. «Sì. So che vuole solo il mio bene.» Incurvò un poco le labbra. «Io sto davvero bene con lui. Certo, è un po’ strano, il sabato sera torna sempre un po’ brillo e mi tocca metterlo a letto di peso» il signor Fell ridacchiò. «Però ha fatto tanti sforzi per me, a Trieste soprattutto. Se me en andassi… mi sembrerebbe come se gli stessi mancassi di rispetto. Come se tutto quello che abbiamo costruito non fosse servito a niente.»
Il signor Fell annuì. «C’è qualcun altro? Sono sicuro che  ti sei fatta qualche amico.»
Isotta si tormentò la manica del cardigan. «In realtà sì, più o meno.» Guardò verso l’ingresso. «Stasera mi vengono a prendere in moto due ragazze che ho conosciuto ai campi da tennis. Andiamo al cinema.»
Il signor Fell sorrise. «Tuo zio era un po’ preoccupato, sai? Non capiva se stessi effettivamente cercando di ambientarti.»
«All’inizio non mi sono minimamente sforzata, questo è vero» ammise. «Sto cercando di recuperare.»
«E alla luce di tutto questo» riportò le mani aperte, come se reggesse due piatti. «Cos’è che ti impedisce di scegliere?»
Isotta guardò la sua mano destra, poi quella sinistra. Da una parte un castello bianco, Ilenia che l’aspettava, dall’altra il Big Ben e suo zio che la chiamava. «So che qualunque cosa io scelga qualcuno rimarrà deluso» rispose. «Qualcuno sarà arrabbiato con me perché non ho soddisfatto le sue aspettative. E io non voglio farlo.»
Il sorriso del signor Fell scomparve. Si risedette composto e la guardò serio, come un insegnante severo con un alunno incapace. «Isotta» disse. «C’è un problema nella tua risposta.»
Lei inclinò la testa. «Cioè?»
«Il fatto che tu stia pensando solo ed unicamente agli altri e non a te stessa.»
Isotta lo guardò a bocca aperta. Borbottò qualche parola confusa, ma non ribatté. Non aveva nulla da replicare. Come aveva potuto non accorgersene mai?
«Non voglio dire che tu stia del tutto sbagliando» puntualizzò. «È naturale scegliere in base ai nostri affetti, ai nostri cari. Ma qui tu stai soltanto pensando a come reagirebbero gli altri in base a cosa sceglierai e poni su questo il tuo ragionamento.»
«N-non credo sia un aspetto di poco conto, sinceramente» si difese Isotta.
«Non sto dicendo questo» rispose. «Ma è ben diverso da quello su cui dovresti basarti.»
«E su cosa cazzo mi dovrei basare, allora?!»
«Isotta!»
Lei trasalì, il signor Fell incrociò le braccia. «Sono disposto ad aiutarti» disse, calmo. «E capisco che per te sia difficile parlarne, ma cerca di aggiustare il tono. Sono pur sempre il tuo capo.»
Il petto le bruciò e si morse il labbro. «S-sì. Scusi.»
Lui annuì. «Dicevo, tu mi hai parlato soltanto di altre persone, di come temi reagirebbero. Non mi hai detto niente di quello che vorresti fare, di dove sarebbe più probabile realizzare i tuoi sogni, dove preferiresti studiare e intraprendere una carriera. Io non so niente di tutto questo. Tu lo sai?»
Isotta restò di sasso. Ripensò alla discussione con Anathema, al suo piccolo sogno di una cattedra che ormai aveva, come in automatico, accantonato. Pensando al suo futuro, vedeva solo uno schermo nero. «No» mormorò. «Non lo so.»
«Non vorrai mica mettere a posto libri tutta la vita?»
Isotta accennò a una risatina. «Non sarebbe così male, in realtà.»
Lui sorrise malinconico. «No, Isotta. Tu hai capacità che vanno ben oltre a un semplice scaffale. Tra un anno ti sarai stancata di doverle buttare tutte per un pacco di libri da catalogare. Io non posso farti fare molto di più.»
Isotta non rispose. Forse, il signor Fell non aveva tutti i torti. Come poteva sapere se quel posto, nel giro di un anno, le sarebbe diventato stretto? Tutti che andavano avanti, e lei che rimaneva nella sua bolla.
«Lascia che ti racconti una cosa» riprese il signor Fell. «Forse ti aiuterà a schiarire le idee. Ti ricordi quando ti ho detto che dopo il fatto di Oscar» la voce gli tremò impercettibilmente. «Ho dato le dimissioni dalla Fell?»
«Sì.»
«In realtà, le cose andarono in maniera più complessa. Ai miei fratelli e a mia madre – mio padre era già spirato – non andava l’idea di licenziarmi. Ero pur sempre parte della loro famiglia, anche se ero quello meno capace, quello più particolare, quello che spiccava meno. Mi dissero che avrei potuto rimanere, ma non senza far finta di nulla. Ovviamente, avrei dovuto rompere con Oscar – che avevano cambiato di ufficio - , loro avrebbero, in qualche modo, risolto la cosa spargendo una voce falsa. Uno scherzo dovuto al troppo vino, qualcosa del genere, qualunque cosa per proteggere l’immagine della famiglia, magari trovandomi una ragazza.» Si fermò un attimo. «Ero a un bivio: avrei dovuto praticamente scegliere tra la mia famiglia e me stesso. Se avessi accettato il loro compromesso, la nostra vita sarebbe continuata come prima, ma già all’inizio sentivo che le cose non andavano. Non ero più il benvenuto, non ero invitato alle cene, a lavoro avevo ruoli sempre più marginali e ovviamente non avevo il diritto di lamentarmi. Così un giorno sono tornato qui.» Allargò le braccia, indicando la libreria nel suo insieme.
«E lei ha deciso di lasciare» concluse Isotta.
Il signor Fell annuì. «Non è stata una decisione a cuor leggero, naturalmente. Ogni sera mi attanagliava il pensiero che il giorno dopo avrei dovuto passare altre dieci ore in un ufficio sterile e anonimo, con altre cinque persone che mi guardavano come se fossi un alieno, quello storto, e naturalmente nessuno mi parlava, ricevevo a malapena dei buongiorno, nessuno si avvicinava alla macchinetta delle bevande quando c’ero anche io.»
La luce del lampadario si rifletté sui suoi occhi colmi d’acqua. Sbatté più volte le palpebre, respirò a fondo e si aggiustò il papillon. «Mi sentivo come un elemento passivo e invisibile, come se qualcuno dubitasse della mia stessa esistenza. Io non esistevo, esisteva solo il mio lavoro mediocre e quel poco di buono che se ne poteva ricavare. Ero… ero un paria.»
«Ma non c’era davvero nessuno che… potesse capire la sua situazione? Possibile che a nessuno importasse?»
Il signor Fell sorrise amaro. «Certo. C’era un giovane, Daniel, che era stato da poco promosso e non conosceva la situazione. All’inizio lo evitai, perché volevo tagliare qualunque rapporto con la Fell, ma lui stesso veniva da me a chiedermi di bere un caffè, o di pranzare insieme. Lo avevano avvisato, ma a lui non importava cosa fosse successo. Sapeva che c’era del marcio, ma la Fell era la sua unica possibilità di fare carriera. Tuttora è uno dei miei più cari amici. Per il resto… gli uffici in cui lavoravo – quelli più “alti” – non erano il massimo della meritocrazia. E la mela non cade mai troppo lontana dall’albero.»
Tacque, si rilassò sulla sedia e si versò altro tè. Ne offrì dell’altro a Isotta e lei accettò. «Sopportai tutto questo per alcuni mesi, ma una mattina, non ricordo bene come successe, ma la mai mente esplose, non mi sentivo più padrone di me stesso. Invece di andare alla Fell, venni qui. Sbattei sulla porta come un matto e mio zio venne ad aprirmi con tutta la calma e la compostezza di cui fosse capace, e senza dire nulla mi fece sedere, mi offrì il tè e accolse il mio pianto sulla sua spalla.»
Una lacrima solitaria gli solcò il volto. La lasciò scorrere fluida per la sua strada e con le dita sfiorò l’orologio da taschino che teneva nel cappotto. «Sai, era un uomo di poche parole, un po’ scorbutico e misantropo come Scrooge, ma era l’unica persona a cui potevo confidare tutto quello che volevo e non mi sarei mai sentito giudicato o abbandonato, e in sua compagnia non sarei mai stato trattato come un fantasma. Naturalmente sapeva tutto, aveva tolto le parole di bocca a mia madre, ma non mi disse nulla a riguardo. Quando mi calmai, mi propose di lasciare la Fell e di lavorare qui, con lui, a tempo pieno. Tentennai, ovviamente. Si parlava pur sempre della mia famiglia. Ma alla fine accettai. Perché quella volta – e non ne ricordo molte altre, prima – decisi di scegliere solo per me stesso, decisi di intraprendere una strada che mi avrebbe fatto sentire meglio senza dover rendere conto a nessuno. Perché nessuno aveva il diritto di rendere la mia vita un inferno, nessuno, la mia famiglia in primis. Il giorno dopo diedi le dimissioni, lavorai quel poco che dovevo e nonostante fossero tutti in disaccordo due settimane dopo me ne andai. Non credo di essermi mai sentito così bene come quel giorno: avevo la mia vita in mano, avevo abbastanza risorse per vivere bene senza dover dipendere da nessuno. Sinceramente, ti auguro un giorno di provare quello che ho provato io quella volta.»
Appoggiò la sua tazza di tè e si passò una mano fra i capelli. «Avevo detto che non ti avrei fatto la predica, ma alla fine ti avrò annoiata.»
Isotta spalancò gli occhi. «No! È stato… utile, in realtà.» Volse lo sguardo al centro, dove poteva ammirare la quasi totalità della libreria. Quello era il suo paradiso, dunque. «Mi dispiace. Per quello che le è successo.»
Il signor Fell fece un cenno con la mano. «Torniamo a te, piuttosto» disse. «Hai capito ciò che ho cercato di dirti?»
Isotta fece dondolare le gambe. «Sì.»
«Dunque?»
Isotta ridacchiò. «Mi sta interrogando?»
«Non dirmi che ti ho praticamente raccontato la mia biografia per niente.»
Isotta scosse la testa. «Devo decidere prima di tutto per me stessa. È questo quello che voleva dirmi?»
«Esatto.»
Isotta si massaggiò il ginocchio. Il Big Ben suonò l’ora e accolse il suo dolce rintocco come una ninna nanna. Il cuore le tremò.
«Alla luce di tutto questo, hai le idee più chiare?»
«Forse sì» si limitò a rispondere.
«Non mi sembra che ti faccia molto piacere, però.»
«Non c’è un modo per sceglierle tutte e due?» chiese Isotta. «Non c’è un equilibrio?»
Il signor Fell la guardò con fare paterno. «Se c’è un modo, riuscirai a trovarlo.»
«E se non ci fosse?»
Il signor Fell sospirò, paziente. «A volte, alcune scelte portano a delle rinunce, Isotta. Questa è una verità innegabile. Chiediti solo questo: cos’è che desideri di più, ora come ora?»
Isotta guardò un punto fisso in basso e si accoccolò sulla poltrona. «Voglio solo tornare a casa la sera a sapere che c’è qualcuno che mi aspetta.»
Il signor Fell inclinò la testa, sorpreso. Si alzò, si avvicinò a lei e le diede un buffetto sul braccio. «Allora credo tu sappia già la tua risposta.» Le fece cenno di seguirlo e Isotta obbedì. Lui le appoggiò una mano sulla spalla. «Ora basta angustiarti. Sistemiamo le ultime cose, prepariamo il tuo contratto e poi puoi andare a divertirti con le tue amiche.» Le accarezzò la nuca mentre scendevano le scale. «Rilassati un po’.»
Non c’era molto da fare, quel pomeriggio, a parte battere sulla cassa gli acquisti di Natale all’ultimo momento e incartare romanzi pigliatutto con fiocchetti colorati. Isotta continuò a parlare poco, ma il signor Fell le rivolgeva sovente piccoli sorrisi o dolci occhiate senza proferire parola.
Ciò che le aveva raccontato era, forse, il tipo di storia che si sarebbe aspettata da una persona come lui, con un rapporto freddo con la sua famiglia e una vita che già sapeva essere stata ribaltata, ma le sue parole avevano avuto l’effetto di uno scalpello sulla pietra.
Ecco chi è, allora.
Pensò a lungo a cosa altro avrebbe potuto dirgli, a parte un altro banale “mi dispiace”, ma, alla fine, non aggiunse altro. Non era compassione ciò che lui aveva cercato, bensì un modo per aiutarla. Aveva ripescato quelle memorie dure solo per lei, ma Isotta ancora non voleva che il suo dubbio giungesse a una fine. Doveva scegliere per se stessa, certo. A parole sembrava così facile. Eppure, lui lo aveva fatto, dopo una vita passata per altri e mesi di soprusi psicologici. Forse era per quello che usciva così poco dalla libreria: quella era stata la sua salvezza, il suo angolo di pace. Gli scaffali, i muri e i libri proibiti in fondo assunsero all’improvviso un’altra aura, come se da oggetti inanimati avessero ricevuto il dono dell’anima.
Durante un minuto di pausa, diede una rapida sbirciata al cellulare. Ilenia non le aveva più scritto, ma le vecchie anteprime comparvero di nuovo. Quella sera le avrebbe risposto, ma non le avrebbe detto cosa aveva deciso. Si promise di farlo presto, quanto prima possibile. Lo doveva anche a suo zio, e al signor Fell, ma non voleva ancora timbrare il biglietto con la sua destinazione definitiva. Almeno un Natale, uno solo, lo avrebbe passato in pace, senza deludere nessuno.
 
*
Fuori la pioggia scemò del tutto, lasciando un’aria gelida e umida immersa nel buio. L’ultima giornata prevista dal suo contratto si era conclusa.
Girato il cartello, il signor Fell la chiamò nel retrobottega, parlandole per la prima volta dopo il pranzo.
«Parliamo di affari, che dici?» disse inforcando gli occhiali.
«Immagino sia giunto il momento.»
«Stavo pensando» incominciò mentre tirava fuori le carte. «Vorrai iniziare l’università, giusto?»
«Sì.»
«Per cui avrai bisogno di tempo per prepararti. Volevo proporti due opzioni» la guardò oltre le piccole lenti tonde. «Sei mesi, fino a giugno, o altri tre mesi, fino a marzo. Cambia solo la durata.»
Isotta picchiettò le unghie sul tavolo. Sei mesi erano troppi, ma tre soli sarebbero stati ancora l’ennesima soluzione temporanea.
«Preferisci una via di mezzo?» chiese il signor Fell.
«Se è possibile, magari sì.»
«Metà aprile?»
«Andata.»
Aggiustarono le ultime questioni burocratiche e infine il signor Fell le passò la penna per firmare.
«Non ho mai visto un dipendente che preferisce i contratti brevi.»
«Sì, mi hanno sempre detto di essere particolare».
«Mi saprai dire cosa hai deciso, entro Pasqua?»
«Sì, glielo prometto. Forse».
Il signor Fell le diede un leggero scappellotto sulla nuca, ma poi le fece un buffetto sulla guancia. Isotta rispose sorridendogli.
Frieda le scrisse dicendole che sarebbero passate in pochi minuti. Isotta si infilò sciarpa e cappotto e raggiunse la cassa. «Signor Fell, non mi ha ancora detto se c’è a Natale».
Il signor Fell, che stava pareggiando sul ripiano alcuni documenti, abbassò lo sguardo. «Isotta, tu e tuo zio siete molto cari, però ci sono i miei fratelli che… » lasciò la frase in sospeso. «Stasera ti manderò un messaggio e ti darò la risposta definitiva.»
Non se lo aspettava, ma la sua risposta le lasciò l’amaro in bocca. Isotta annuì e tornò nel retrobottega per scaldarsi vicino alla stufa, ma il signor Fell la chiamò di nuovo.
Zampettò fino alla cassa. Quando il signor Fell la vide arrivare sfilò dalla tasca posteriori dei pantaloni il portafoglio, estrasse due banconote e gliele porse. «Consideralo un bonus natalizio».
Isotta tentennò. Schiuse la bocca, ma il signor Fell le afferrò con dolcezza la mano e le chiuse le dita intorno ai due pezzi da cinquanta sterline. «Niente storie, ti serviranno, fidati. Che tu scelga di restare qui o tornare in Italia».
«No, ma, signor Fell» fece per ridargliele, ma lui la respinse. «Lei mi paga già bene, tutto questo non serve». Non era solo una questione di soldi: lui l’aveva accolta nel piccolo mondo che ormai sentiva anche suo, le aveva preparato il pranzo per settimane, l’aveva aiutata a uscire un poco dalla gabbia che per mesi l’aveva tenuta lontana da Ilenia. Le aveva dato troppo.
«Se non li prendi ora te li ritroverai nella busta paga di gennaio. Non hai scampo» le colpì la manina chiusa con le nocche. «Te l’ho detto, prendilo come un bonus. O la mancetta del nonno.»
Isotta aprì la bocca per ribattere, ma il signor Fell le prese le banconote e gliele infilò in tasca. Ridacchiò e strinse la cintura del cappotto. «Grazie, signor Fell.»
Lui le sorrise e chiuse la cassa. «Devi andare?»
Isotta annuì. «Mi aspettano nella strada qua vicino.»
«Allora buon Natale, cara» si alzò e si strinsero la mano. «Com’è che fate in Italia?»
Isotta sgranò gli occhi, ma rise. «Se si abbassa glielo faccio vedere».
Si sporse verso di lei, inondandola con un delicato aroma di colonia. Isotta si avvicinò alla sua guancia destra, sfiorandogli appena la pelle sbarbata con la sua e schioccando le labbra, poi ripeté a sinistra. «Buon Natale.»
Lo salutò per un’ultima volta, sventolando la mano mentre si dirigeva verso l’uscita. Fuori, Isotta volse lo sguardo al titolo cremisi illuminato dalla tenue luce di un lampione. Non era finita, per fortuna. Sarebbe tornata.
Trovò Frieda e Kat nella strada accanto. «Ehi, cucciolina!» esclamò Frieda. «Tieni qua.»
Le passò un casco rosso con le fiamme dipinte sopra. Isotta se lo infilò arrancando, facendosi aiutare da Kat.
«Sei mai stata in moto?»
«No, in realtà.»
«Allora vieni con me» disse Kat. «Altrimenti muori di infarto.»
Frieda sbuffò, ma le diede un colpetto sulla schiena e accese il motore.
Arrivate alla cineteca, comprarono tre pacchi di popcorn e presero i posti in fondo. Il cellulare vibrò un secondo appena si sedette e Isotta lo sfilò dalla borsa per togliere la suoneria. Un solo, breve messaggio comparve sulla schermata Home. Era il signor Fell.
“A Natale ci sarò”.

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Capitolo 16
*** Capitolo Sedici (parte uno) - Let's hope it's a good one ***


Il fischio del bollitore riecheggiò in tutto l'appartamento e la vaga melodia di una carola si mescolava nella magra folla sotto le finestre. Aziraphale, con già indosso la camicia buona, rispondeva in fretta alla manciata di messaggi di auguri che facevano vibrare il suo vecchio cellulare. Si fecero sentire alcuni colleghi, tra cui Daniel, che gli promise di passare il ventisette, e i suoi clienti più longevi. Passò una buona mezz'ora a chiacchierare con Camilla, intenta a preparare la tavola con lo schiamazzo del suo bambino in sottofondo. Fece i salti di gioia quando scoprì che Aziraphale non avrebbe trascorso il Natale in solitudine. A momenti, parve più contenta lei che Aziraphale stesso.

Concluso il giro di telefonate, si aggiustò – per quella che credeva essere la decima volta – il papillon di tartan e indossò la giacca beige delle feste. Rientrò in cucina e si passò una mano su tutto il viso per assicurarsi di aver passato il rasoio a dovere, si sistemò il gilet mentre preparava il tè e bevve a piccoli sorsi cercando il paio di scarpe adatto. Mancava meno di un'ora, ma i minuti avevano come deciso di rallentare.

Indossò il miglior paio di scarpe che aveva e, sempre con la tazza in mano, si diresse nella dispensa del retrobottega, verso la credenza dei vini. Tirò fuori i bianchi di migliore qualità e li osservò finché la tazza non fu vuota. Optò per uno Chardonnay e infilò la sottile bottiglia dentro al cappotto. Aspettò un altro quarto d'ora, in attesa di un'eventuale chiamata dai suoi fratelli che però non giunse. Si vestì, avvolse la sciarpa intorno al collo e uscì.

Londra era in festa e le strade più vuote del solito. Da ogni finestra uscivano grida, canzoni e auguri e il fumo degli arrosti inondava il plumbeo cielo inglese. Le lucine rosse e gialle brillavano sulle porte e sui balconi e le corone di agrifoglio decoravano le serrande chiuse dei negozi. Per la prima volta, il suo cuore era insolitamente calmo nel giorno di Natale.

Raggiunse Camden Town all'ora prefissata. Suonò al citofono e due squilli dopo gli rispose una voce femminile dall'accento americano. «Buongiorno?»

«Buongiorno» rispose. «Sono il signor Fell. Isotta...»

«Ah, lei! Arrivo subito ad aprirle, il tasto non funziona più. Aspetti un secondo.» Seguì un bip sommesso.

Una serie di passi veloci si bloccò davanti alla porta e la serratura scattò. Gli aprì una donna giovane che non doveva avere più di ventisette o ventotto anni, con la pelle ambrata, lunghi capelli scuri e due occhi neri incorniciati da un paio di occhiali tondi tartarugati.

Aziraphale allungò la mano. «Anathema?»

Rispose alla stretta e sorrise. «Si ricorda! Buon Natale, signor Fell.»

«Certo! Aziraphale va bene, per favore.»

Anathema annuì e gli fece cenno di seguirla.

I corridoi del condominio erano gelidi e assaporare il calore dell'appartamento di Isotta fu come bere ambrosia. Un fitto vociare si confondeva con un rumore assiduo di pentolame, mestoli, coltelli che battevano sul legno e una playlist di canzoni natalizie. Aziraphale si asciugò i piedi sullo zerbino, appese il cappotto e Anathema lo annunciò a gran voce.

Crowley era vicino al tavolo, impegnato ad apparecchiare le posate, e smise subito di parlare con un ragazzo più giovane accanto a lui. Entrambi appoggiarono piatti e forchette e si avvicinarono.

«Buon Natale» disse Crowley. Gli strinse la mano e Aziraphale rispose sorridendogli.

«Grazie per l'invito.»

«Figurati.»

Ripeté gli auguri con il ragazzo accanto a Crowley. «Newton, piacere» disse a mezza voce, arrossendo.

«Aziraphale.»

«Su, vieni» Crowley gli indicò il tavolo. «Mettiti comodo.»

Aziraphale lo seguì e appoggiò il bianco sul tavolo. «Ho portato del vino... Spero vi piaccia il Chardonnay.»

«A noi piace tutto, Aziraphale» disse Crowley. «Grazie mille, non serviva.»

«Solo un piccolo pensiero.»

Crolwey lo guardò sorridente, poi recuperò le posate.

Aziraphale si avvicinò a Isotta. Lei controllò il forno, appoggiò il coperchio sulla pentola e si sedette davanti a lui. «Spero abbia fame.»

«Di sicuro mi mancano molte cose, ma la fame no» rispose. Allungò una mano e le sfiorò i soffici boccoli castani. Emanavano un dolce profumo di argan. «Hai dei capelli meravigliosi, oggi.»

Isotta sorrise e scosse con leggerezza la testa. «Grazie. È stata Anathema a consigliarmi l'argan.» Si avvicinò a lui e la sua espressione si fece cupa. Aprì la bocca per parlare, ma tacque guardando altrove.

«C'è qualche problema, cara?» le sfiorò il braccio.

Isotta scoccò un'occhiata agli altri, intenti a chiacchierare vicino al divano. «Ho cercato di chiarire le cose con Ilenia» mormorò. «Si è un po' calmata e abbiamo risolto un po' tutto, ma mi ignora da tre giorni. Non ha risposto agli auguri.» Appoggiò la guancia sulla mano. «Ho paura di aver fatto una cavolata. A rimanere qui, dico.»

«Tesoro» Aziraphale le portò un minuscolo boccolo ribelle dietro all'orecchio. «È troppo presto per dirlo, non hai ancora deciso niente. Inoltre, hai tutto il diritto di passare le feste con i tuoi cari.» Le diede un buffetto sulla spalla. «Avanti, è Natale. Avrete molto tempo per chiarire, ora divertiti. E fai attenzione all'arrosto, il sugo si sta consumando.»

Isotta rise e si alzò. «Spero proprio di no. È la cosa che mi viene meglio.»

Il piano cucina era disseminato di pentolame, piatti e utensili. Una grossa ciotola di patate al rosmarino giaceva fumante accanto a un piatto colmo di antipasti e affettati. In forno cuocevano una teglia di lasagne e l'arrosto dorato. «Hai fatto tutto tu?»

Isotta indossò i guanti per controllare il forno. «Quasi. Mio zio mi ha aiutato con le lasagne.»

Mentre infilava uno stuzzicadenti dentro la teglia, Anathema si avvicinò al piano cucina. Felpata come una gatta, allungò una mano verso la ciotola di patate e ne rubò due, facendo l'occhiolino ad Aziraphale con l'indice sulle labbra e fuggendo silenziosa com'era venuta.

«Ti ho vista, eh» disse Isotta. Aziraphale ridacchiò e Anathema fece spallucce gustando le patate.

Un tocco improvviso sulla spalla lo irrigidì. Crowley era dietro di lui con un affabile sorriso sul volto. «Niente Ritz, quest'anno?»

«Niente Ritz» rispose Aziraphale. Isotta si allontanò. «Per nessuno, credo.»

«La nostra ragazza è mille volte meglio, credimi.»

«Non ne dubito.» Lanciò un'occhiata alle portate pronte. «Sei riuscito ad applicare lo stencil, alla fine? Quello di Keats.»

Crowley mugugnò gettando la testa all'indietro. «Sì, un maledetto parto, sembrava non aderire mai. Ma almeno Isotta è stata contenta come una Pasqua. Non era di buon umore, questi giorni.»

«Sì... ho notato.»

«Almeno si sta facendo qualche amico. Vino?»

Lo guardò con una bottiglia mezza piena di vino rosso. Aziraphale tentennò, poi agitò le mani aperte davanti a sé. «No no, grazie, n-non sono un grande amante del rosso.»

Crowley alzò le spalle. «Tranquillo, tranquillo.» lo guardò di sbieco con il bicchiere in mano. «Va tutto bene?»

Aziraphale si sistemò il farfallino. «Sì! In formissima.»

Se fosse stato con i suoi fratelli, avrebbe detto di sì seduta stante piuttosto che sorbirsi i loro discorsi sulla sua mancanza di gusto o scortesia, buttando giù quell'intruglio che mal sopportava. Crowley, invece, gli servì della birra e sedettero uno di fronte all'altro.

«È un po' strano per me, sai» disse Crowley. «Non festeggiavo un Natale con qualcuno da due anni. Fa effetto avere così tanta gente in casa.»

Aziraphale fermò il bicchiere a pochi millimetri dalle labbra. «Mi... mi dispiace sentirlo.»

«Nah, alla fine è solo un giorno. Passa come tutti.»

«La tua famiglia? Non vi sentite?»

«I miei genitori non ci sono più. Sì, non siamo granché fortunati, in famiglia. Mia sorella è meglio che se ne stia dov'è.» Bevve un lungo sorso. «Capisci cosa intendo, no?»

Aziraphale si lasciò a un sorriso liberatorio. «Sì, perfettamente.»

«Ti hanno detto qualcosa? Sul fatto che non sei andato da loro, dico.»

Aziraphale fece ondeggiare il bicchiere. «Nulla, a dire il vero, non li ho nemmeno sentiti. Ho avvisato mia cognata, che è molto distaccata, e ha semplicemente detto che avrebbe riferito. Forse farò loro uno squillo questa sera, oppure domani.»

Crowley trangugiò il poco vino rimasto nel bicchiere. «Come fai?»

«Cosa?»

«A tenere così tanti contatti con qualcuno che non sopporti.»

«Non è che non li sopporto» disse Aziraphale, guardando il pavimento. «Non scorre molto buon sangue, ma è pur sempre la mia famiglia.»

Crowley si limitò ad annuire e fare spallucce. Aziraphale si chiese come potesse sapere dei rapporti tanto freddi con i suoi fratelli, visto che non gli aveva detto più del necessario, poi posò lo sguardo su Isotta che parlava con Anathema e Newton accanto al piccolo albero di Natale ed ebbe il sospetto che, forse, avesse detto a suo zio dell'episodio in libreria. Spaventata com'era, probabilmente si era lasciata andare. Se era vero, Crowley sapeva più di quel Aziraphale volesse lasciar trapelare. Dopotutto, però, era una sorta di emarginato anche lui. Non avrebbe causato danni.

Il campanello fece voltare tutti verso la porta. Isotta si precipitò al citofono. «Sì?» disse, poi sorrise, parlò in italiano e aprì la porta.

Crowley si voltò verso di lei. «Chi è?»

«Roberto e la sua famiglia» rispose. «Passano per un saluto.»

Anathema e Newton si avvicinarono incuriositi all'entrata. Crowley posò il bicchiere e Aziraphale, a distanza di sicurezza, lo seguì.

Isotta aprì a un uomo sulla cinquantina, seguito da una donna ben vestita della stessa età. Dietro di loro spuntò un ragazzo di circa vent'anni, con gli stesso capelli neri e ricci del padre. Si alzò una serie di "ciao" e auguri in italiano e Isotta salutò tutti e tre con due baci sulle guance. L'uomo – Roberto – la strinse in un rapido abbraccio.

«Buon Natale!» Roberto e sua moglie si lanciarono in una rapida serie di strette di mano. Lui si presentò a tutti con un gran sorriso, sua moglie si limitò a un delicato cenno del capo.

Aziraphale rispose agli auguri e ricambiò il sorriso. Si sorprese nel trovare la sua stretta leggera, in confronto ai grossi muscoli sotto la camicia. «Non ci conosciamo, suppongo?»

«Aziraphale. Sono un amico di famiglia.»

La piccola folla si era dileguata. Isotta parlava con Anathema e il giovane, mentre la signora – di cui colse il nome, Annamaria – porgeva una scatola conica di color blu brillante a Crowley.

«Voi conoscete Isotta, immagino.»

«Certo» rispose Roberto. «Viene a fare la spesa da noi, qualche volta. Gestiamo l'alimentari in fondo alla strada.»

«Siete qui da molto? Se posso chiedere.»

«Ventidue anni» rispose. «Veniamo da Roma, ma mia suocera veniva da un piccolo paese in Cornovaglia.»

Isotta e Crowley versarono alcuni calici di vino e li offrirono agli ospiti. Roberto diede una lieve pacca sulla testa a Isotta quando le passò accanto.

«Quando avete il volo?» chiese lei.

«Il ventisette» rispose Roberto.

«E siete rimasti qui per le feste?» domandò Anathema.

«In realtà avevamo prenotato per il ventiquattro» continuò Annamaria. Aziraphale colse un sottile rimasuglio dell'accento della Cornovaglia. «Ma è stato annullato per problemi atmosferici. Staremo con la famiglia della ragazza di Alessio» e indicò suo figlio con la testa, che arrossì sotto i riccioli neri.

«E tu? Niente mare quest'anno?» chiese Roberto.

Isotta si incupì un istante, ma recuperò il sorriso. «Meglio andarci d'estate, ché 'sto anno la bora è più forte del solito.»

Non si scambiarono molte altre parole: Annamaria indicò picchiettò il dito sul polso e Roberto posò il bicchiere.

«Purtroppo dobbiamo andare, si è fatto tardi.» Ripeterono gli auguri e Roberto accarezzò con foga i capelli a Isotta. Lei rise sistemandosi i boccoli.

«Buon Natale ancora» gli disse.

Scambiati di nuovo gli auguri, la famigliola lasciò l'appartamento. Isotta, Newton e Anathema iniziarono a preparare gli antipasti ai gamberi e Aziraphale chiese a Crowley dove fossero i servizi.

Gli indicò il piccolo corridoio. «Seconda a sinistra.»

Aziraphale si diresse verso il bagno e chiuse la porta dietro di sé, sopprimendo qualunque rumore provenisse dall'esterno. Il bagno era piuttosto piccolo, tipico degli appartamenti della zona, e in fondo era incastrata con fortuna una lavatrice.

Ai lati dello specchio, due scaffali aperti non lasciavano spazio a dubbi su quante persone vivessero nella casa. Se da una parte erano sparpagliati trucchi (Aziraphale contò sei tipologie diverse di mascara, ma non c'era molto altro), spray rigeneranti per capelli secchi e spazzole, dall'altra una schiera di dopobarba, lacche e deodoranti da uomo formavano mucchietti di metallo che baluginavano alla luce del lampadario scolorato a forma di delfino. Sarebbe anche stato carino, con una pitturata.

Uscito dal bagno, udì un borbottio leggero, femminile. Si sporse una delle porte che prima era chiusa e ora era del tutto aperta. Isotta guardava il cellulare, ma il suo viso era coperto dai boccoli. Quando si voltò, spalancò gli occhi nell'incontrare lo sguardo di Aziraphale.

«Scusa, cara» le disse e una vampata di calore gli salì al viso. «Non volevo disturbarti.»

«No, non c'è problema.»

Aziraphale si appoggiò allo stipite con le mani in tasca. «Ancora Ilenia?»

Isotta abbassò lo sguardo. «Volevo vedere se aveva risposto.»

«Vuoi un consiglio?»

Isotta annuì.

«Spegni quella diavoleria e vieni di là. Almeno per oggi, non preoccupartene.»

Isotta inclinò la testa e ridacchiò. «Sì, credo che lo seguirò.»

Aziraphale le sorrise. «Posso vedere lo stencil di tuo zio?»

«Lei lo sapeva? Certo, venga, venga.»

Aziraphale entrò piano nella camera da letto di Isotta, come un uomo che, entrato in chiesa, cerca di non far rumore. A primo impatto assomigliava a un giardinetto nascosto. Sul soffitto erano dipinte una miriade di foglie verdi che lasciavano soltanto un foro circolare in centro, come il principale angolo di sole di una radura. Altre foglie sparse cadevano lungo le mura senza criterio e alcune erano semicoperte dalla bacheca ricolma di foto in fondo a destra, o dalla scrivania in disordine – un vero disordine, non immaginava che Isotta potesse curare così poco la sua scrivania – accanto alla porta.

«Prima che mio zio venisse qui, ci vivevano due studenti di botanica» spiegò Isotta. «Però è davvero carino.»

«Infonde una bella atmosfera» disse Aziraphale. Posò poi lo sguardo sulla porzione di muro accanto alla fitta libreria, dove un dolce corsivo formava i raffinati versi di Keats.

«È davvero ben fatto» disse Isotta accarezzando una parola. «Quando me lo ha fatto vedere credevo lo avesse dipinto.»

«Pare davvero pittura» rispose Aziraphale. «Tuo zio ha belle idee.»

«Su quello non posso dire niente. A volte ha questi colpi di genio. Gli avevo detto che non volevo nulla per Natale e invece si è improvvisato imbianchino.»

Aziraphale rilesse in fretta la poesia. Non era tra le più conosciute di Keats e, in generale, non sapeva granché di quel particolare scritto, ma a pelle gli donava una sensazione di giusto, qualcosa che s'intonava alla perfezione con la cameretta e la sua proprietaria. Sì, Crowley aveva avuto un vero colpo di genio.

Si guardò intorno, posando lo sguardo sul letto - dalla biancheria verde, naturalmente – e sulla libreria di medie dimensioni che affiancava lo stencil. I volumi erano radunati con cura in cinque file, suddivisi per lingua. Quattro volumetti presentavano caratteri cirillici.

«Hai libri in russo?» le chiese.

Isotta gli sorrise e si piazzò davanti alla libreria, estraendo due libriccini. «Solo alcuni. Ho una raccolta di fiabe russe e qualche classico molto ridotto. Non sarei in grado di leggere Bulgakov o Tolstoj in originale integrale.»

«Tolstoj è abbastanza tosto anche per me – in inglese, s'intende. Ma Bulgakov, nonostante la mole, scorre come acqua. Hai letto "Il Maestro e Margherita"?»

Isotta estrasse un volume corposo dalla seconda fila, in italiano. «È qua da un po', ancora intonso. Ma ho letto "Cuore di cane", anche se l'ho lasciato in Italia. In generale ho letto solo romanzi brevi.»

«Non dovresti evitare i mattoni, cara. Perderesti la maggior parte dell'essenza della letteratura russa.»

«Lo so, lo so. Ultimamente però sto leggendo qualche romanzo contemporaneo.»

Aziraphale storse il naso e le diede una pacca leggera sulla testa.

«Avanti, signor Fell, bisogna comprendere anche l'essenza della letteratura moderna» disse scimmiottando un forte accento londinese.

«Certo, tesoro, certo.»

«Non mi sembra molto convinto. Perché non riprova Ammaniti?»

«Ho tentato, a dire il vero, ma non mi convince per nulla. Troppo crudo, troppo asciutto.»

«Vorrà dire che pescherò qualcosa dal cappello.»

«Accetterò la sfida, ma sappi che perderai.»

«Intanto spero di vincere quella del suo stomaco» si avviò verso la porta. «Andiamo, le lasagne credo siano pronte, ormai.»

Aziraphale la seguì con il sorriso sul volto. Aiutò gli altri a preparare gli antipasti e Isotta tirò fuori la teglia fumante dal forno, lasciandolo acceso per l'arrosto e aggiungendo un po' d'acqua al sugo.

«Su, siediti» disse Crowley, dandogli un colpetto sulla scapola. «Fai come se fossi a casa tua.»

Prese posto al tavolo circolare, tra Crowley e Newton, che gli sorrise con l'innocenza di un bambino. Al capo opposto, Isotta aveva iniziato a servire le lasagne. Solo a sentirne l'odore, Aziraphale cancellò dalla sua testa l'incontro con la bilancia.

Prima di mangiare, brindarono col il vino che aveva portato. Isotta tossicchiò dopo il primo sorso e Anathema la prese in giro colpendola sulla schiena. Ridacchiarono mentre Isotta scolò un intero bicchiere d'acqua cercando di trattenere le risate.

Aziraphale si godette un altro sorso e lasciò andare le tensione del corpo sulla sedia. "Va tutto bene", si disse. E per la prima volta, non sentì la mancanza della sua libreria.

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Capitolo 17
*** Capitolo Sedici (parte due) - Let's hope it's a good one ***


Tutti erano contenti di come avesse cucinato. Il regalo più grande fu passare ad Anathema il terzo piatto di patate nel giro di quindici minuti.
«Se avessi saputo che le avresti spazzolate tutte, avrei fatto due teglie.»
«Basta ingozzarti, passane anche a me» disse Newt.
Anche Isotta si lasciò andare all’abbuffata. Si riempì il piatto delle verdure grigliate che aveva cucinato Newton e si concesse il bis di lasagne, che anche il signor Fell le chiese guardandola come un bambino che ha appena ricevuto il giocattolo che tanto desiderava.
«Se ti pago mi fai il pranzo tutti i giorni?» le chiese Anathema.
«Dipende da quanto mi paghi» Isotta ghignò e strofinò l’indice e il medio contro il pollice.
«Non te la consiglio» disse Crowley. «Le bollette sono alte.»
«Non più così tanto, dai.»
In risposta, suo zio le arruffò i capelli. Tutta la fatica impiegata sui boccoli era bella che andata.
Ogni tanto, Isotta lanciava piccole occhiate al signor Fell. Non parlava molto, ma sorrideva e appariva rilassato, passando le portate agli altri e versando il vino. Iniziò a parlare con suo zio di macchine e anche Anathema e Newton si inserirono.
«Ho visto che hai un’auto d’epoca» disse a Crowley e lui annuì fiero.
«Bentley del 1926. Era di mio nonno.»
«Incredibile che resista ancora dopo le tue guide» disse Anathema.
«Io guido benissimo» disse Crowley e Isotta rise sarcastica. «Voi, piuttosto, non so come facciate ancora ad avere una macchina, dopo tutti i colpi che ha preso.»
«Dick Turpin funziona alla grande» disse Newton. «È solo un po’ malandata.»
«E tu, Isotta, ‘sta patente?» le chiese Anathema.
«La prenderà quando inizierà ad entrare dal lato giusto» disse Crowley e tutti risero.
«Dai, non sbaglio più il lato!»
«Se ti può consolare» disse Newton «Anathema era uguale a te.»
«Solo perché volevo guidare, avanti!»
«Certo!»
Crowley si versò altro vino. «Ah, e quando imparerà a dire miglia e non chilometri.»
«Quello è già più duro» rispose Isotta rubando l’ultima patata ad Anathema.
«Sì, come quando hai scoperto che novanta non erano i chilometri ma le miglia orarie.»
«Di certo non immagino che qualcuno possa andare a centoquaranta nel centro di Londra!»
Il signor Fell strabuzzò gli occhi e appoggiò il bicchiere di vino che stava per portare alle labbra. Crowley lo notò e borbottò qualcosa come “Non è vero che vado così forte, su.”
Spazzolarono la restante parte di arrosto e, dopo una breve insalata, Anathema e Newton portarono il pudding che avevano cucinato. Prima che Isotta potesse addentare la sua fetta, però, il telefono di Crowley squillò.
«Ma chi è, adesso… » si alzò con un balzo facendo strisciare la sedia. Tutti abbassarono la voce, ma Crowley tornò e porse il cellulare a Isotta. «Per te, penso.»
Isotta lo guardò stranita, ma perse un battito quando lesse “Dr. Grieco” sullo schermo. Crowley le prese la mano e le diede il cellulare. Isotta si scusò, camminò in fretta in camera sua e chiuse la porta. «Pronto?»
«Sei Isotta?» Voce di velluto, un lieve accento meridionale. L’avrebbe riconosciuta in mezzo a mille altre.
D’istinto, un grande sorriso si formò sul suo volto. «Sì, dottoressa. Buon Natale.»
«Buon Natale anche a te, Isotta. ho provato a chiamarti, ma il telefono non squillava.»
«Sì, l’ho spento, c’era molto da fare e non volevo distrazioni.»
La dottoressa rise con leggerezza. «Se hai da fare, immagino ci sia gente in casa.»
«Un po’ di persone, il forno ha lavorato.»
«Sono felice di sentirlo. Stai passando un buon Natale, quindi?»
«Finalmente sì.»
La dottoressa sospirò. «Sai, non te l’ho mai detto, ma a volte potevo capirti più di quanto immaginassi. Ho odiato questo tipo di feste per anni, prima di incontrare mio marito e la sua famiglia. Vedere tutti felici e realizzare quanto sei solo… » Tacque un istante, poi si schiarì la gola. «Ho voluto chiamarti per sapere come andavano le cose, comunque. Tutto bene, a Londra?»
«Sì, le cose stanno andando abbastanza bene» rispose Isotta e dentro di sé gioì nel sapere che non era una bugia. «Sto bene con mio zio, mi sto facendo qualche amica e per ora lavoro.»
«Lavori?»
«Sì, in una libreria antiquaria. Non mi sentivo pronta per l’università. Ho preferito cercare di adattarmi al posto, innanzitutto.»
«Hai fatto benissimo, Isotta. Come ti ho detto tante volte, bisogna cercare di ascoltare i propri passi senza accelerare. Pondera bene le tue scelte e giudica sempre cos’è meglio per te.»
«Lo so, dottoressa, lo so.»
«E con Ilenia? Come va?»
Colpita. Isotta si lasciò andare sulla sedia. «Diciamo che potrebbe andare meglio. Il fatto che io sia a Londra, beh, non giova molto.»
«Mh» rispose. «Le relazioni a distanza possono essere difficili da gestire, specialmente se siete così giovani e raggiungervi è complicato e dispendioso. Vi consiglio di comunicare – comunicare molto, Isotta, anche se so che per te è dura.»
«Sto migliorando, dottoressa, ma con Ilenia… non so, non ho idea di come andrà avanti.»
«Intanto goditi questo Natale, Isotta. Volevo dirti anche che se mai avessi bisogno di riprendere le sedute, ora offro anche servizi online. Forse sarà un po’ complesso incastrarsi col fuso orario, ma sappi che se avessi necessità di farlo io ci sono.»
Isotta sentì un dolce calore invaderle il petto. «Grazie dottoressa. Lo apprezzo molto.»
«Ricordati che non c’è nulla di cui devi vergognarti. Chiedere aiuto è sano per sé stessi.»
«Sì, dottoressa.»
«Ora devo lasciarti, prima che i suoceri vengano a riprendermi.»
Isotta ridacchiò. «Va bene. Buon Natale ancora, dottoressa.»
«Auguri anche a te, Isotta. Ti auguro tante buone cose.»
Chiusa la chiamata, Isotta appoggiò il telefono sulla scrivania e osservò il verde brillante del soffitto. Era contenta che la dottoressa la avesse chiamata, ma era quasi disgustata da sé stessa per non averle nemmeno mandato un messaggio in sei mesi. Sapeva che teneva a lei, con le dovute barriere professionali, ma non le era mai venuto in mente di contattarla di nuovo. Ma almeno ora sapeva che stava bene, che le cose andavano molto meglio rispetto a un anno prima. Isotta guardò il nuovo calendario con i gatti sulla scrivania. Il tre gennaio si avvicinava sempre di più. E la questione della terapia online, poi. Pareva una chiamata verso il passato.
Di scatto, si alzò in piedi. Era Natale, era Natale, si ripeteva. Aveva tempo per pensare al resto.
Tornò in cucina e suo zio si girò verso di lei. «Anathema sta guardando il tuo pudding come un avvoltoio.»
«Non osare!»
Riprese il suo posto e gustò il pudding, mentre Newton portava altro vino al tavolo. Ciondolò prima di sedersi e aveva le palpebre calate appena. Isotta sperò di non rimanere l’unica sobria, in quella stanza.
Finito il dolce, Anathema propose una partita a carte, ma prima decisero di sparecchiare. Anche il signor Fell, nonostante le proteste di Crowley, si offrì per sparecchiare. Quando la lavastoviglie fu piena, Anathema corse in fretta verso il suo appartamento per prendere la carte. Tornando, guardò il frigorifero e la serie di magneti che Isotta aveva insistito per portare dall’Italia. Quando si sedette e distribuì le carte, le chiese: «Quando sei andata in Francia, Isotta?»
«L’estate prima del liceo. Sono andata due settimane in vacanza studio a Tolosa.»
«Sei stata con una famiglia?» chiese Newton scartando un asso, che il signor Fell raccolse per aprire.
«Sì, stavo con una coppia di architetti. Mi hanno detto che, dal momento che non potevano avere figli, accoglievano tutte le estati alcuni studenti stranieri.»
«Quindi non eri da sola?» chiese Anathema.
«C’ero solo io, perché si occupavano di uno studente per volta, avevano solo una camera in più. Vivevano in centro a Tolosa e la mattina frequentavo una scuola che organizzava attività per studenti stranieri.»
«Dio, avrei dato oro per poter fare una cosa simile» disse Anathema. «Vedere gente dal tutto il mondo.»
«Sì, è stata una bella esperienza. C’erano a che ragazzi cinesi e sudamericani.»
«E parlavate francese?» domandò il signor Fell, a cui restavano solo tre carte in mano.
«A volte sì, a volte no. In realtà parlavamo un miscuglio di parole e gesti vari perché nessuno conosceva bene né il francese né la lingua dell’altro. Io ero l’unica italiana e solo qualche studente sapeva bene l’inglese.»
Il signor Fell chiuse la partita e Newton fece le carte.
«Hai potuto scegliere tu le lingue da studiare?» le domandò Anathema.
Isotta rimase perplessa di fronte a quella serie di domande. Nonostante non fosse raro che trascorresse qualche pomeriggio o sera con Anathema, né lei né Newton si erano mai interessati granché a quello che faceva in Italia. Tutti, però, la stavano ascoltando, il signor Fell in primis. Pescò una carta e riprese.
«Inglese è obbligatorio e dovevamo scegliere altre due lingue tra francese, tedesco e spagnolo. Io ho voluto continuare francese e ho iniziato tedesco.»
«No, perché niente spagnolo?» Anathema finse un tono triste e tutti risero.
«In realtà avrei voluto prendere spagnolo» disse Isotta. «Ma mio nonno mi convinse a scegliere tedesco. Era un amante dell’opera lirica. Alla fine non me ne sono pentita: è molto difficile, ma è una lingua meravigliosa.»
«Pensavo russo fosse più difficile» s’inserì Crowley.
«Russo in realtà l’ho trovato molto più semplice. Può spaventare l’alfabeto, ma ha solo tre tempi verbali, non esistono gli articoli e la struttura delle frasi è molto meno rigida di lingue come il tedesco. Basta un po’ di pratica.»
Dopo sei partite (di cui quattro vinte dal signor Fell) tutti iniziarono a dare i primi segni di stanchezza. Anathema e Newton andarono a rilassarsi sul divano e Crowley fece un salto in bagno. Isotta rimase al tavolo con il signor Fell, che guardava i magneti sul frigo.
«Hai visto un bel po’ di posti» osservò. «Sempre con la scuola?»
«Non tutti. Venezia e Verona le ho viste con Ilenia e la sua famiglia, San Marino con mio padre e Lubiana coi miei nonni.»
«Quando sei andata in Irlanda?»
«In terza superiore, durante uno scambio culturale. Ognuno di noi ha ospitato uno studente e noi abbiamo vissuto con le loro famiglie il mese dopo.»
«Ricordo che anche una mia cugina fece un’esperienza simile, in Spagna» disse il signor Fell. «Diceva sempre come l’aveva arricchita.»
«Certo è molto diverso rispetto a passare qualche giorno in Hotel, come abbiamo fatto in Germania. Sicuramente si impara meglio la lingua, ma è anche necessario adattarsi agli stili di vita di chi ti ospita.»
«Non ti sei trovata bene?»
«Io sì, assolutamente, soprattutto in Francia.» Preferì omettere come il primo giorno, quando era scoppiata a piangere come una bambina, Félix, il suo genitore ospitante, l’avesse cullata come suo padre non aveva mai fatto e le avesse cucinato i pancake. «Altri miei compagni non sono stati così fortunati, ma in fondo passavamo buona parte del tempo a svolgere le attività, quindi-»
Un boato violento, metallico, proruppe dall’esterno e le mozzò la voce. Scattò un allarme squillante e tutti e cinque si affacciarono alla finestra. A un centinaio di metri, due auto sfasciate giacevano sull’asfalto e due coppie correvano verso il marciapiede.
«Cristo, che è successo?» Anathema scostò ancora di più le tende.
«Un incidente» disse Crowley. «Ma credo siano usciti tutti dalle macchine.»
«Non so… sta arrivando un’ambulanza.»
La strada fu presto abbagliata da una serie di luci blu lampeggianti. Isotta si allontanò presto dal gruppo e si accucciò sul divano. Il cibo nello stomaco stava iniziando a dare brutti segni.
«Isotta?»
Suo zio si sedette accanto a lei e le posò una mano sulla spalla. «Tutto bene?»
«Ho un po’ di nausea.»
Crowley guardò il gruppetto, che stava discutendo senza badare a loro, e le prese il braccio. «Vieni a bere un po’ d’acqua.»
La portò al tavolo. Con la coda dell’occhio, Isotta vide il signor Fell e Newton avvicinarsi, ma Anathema li fermò entrambi con le braccia.
Isotta bevve piano mentre suo zio le accarezzava piano la mano libera. «Meglio?»
«Un po’.»
Crowley si passò una mano tra i capelli. «Stanno tutti bene, ok? Sembra… sembra che nessuno si sia fatto male.»
C’era dell’insicurezza nel suo tono, ma Isotta rispose con un flebile “ok”, senza aggiungere altro.
 
*
La strada rimase bloccata per un po’. Per alleggerire l’atmosfera, Anathema andò a prendere nel suo appartamento un vinile di Michael Bublé e portò anche del sorbetto al limone.
«Non si conserva, quindi bere tutto!»
Si sedettero di nuovo al tavolo e Isotta preparò degli snack leggeri come cena. Il signor Fell le si affiancò per aiutarla e coprì il pane tostato di formaggio spalmabile.
«Cos’è questo?» Prese in mano una vaschetta e la annusò. «Pesce?»
«È baccalà mantecato» rispose Isotta. «È tipico della cucina veneziana. Si fa con lo stoccafisso. Lo provi, è buonissimo.»
Isotta andò al frigorifero per prendere il salmone affumicato. Da quando aveva scoperto che costava molto meno che in Italia, ne aveva sempre una confezione in casa. Tornò al piano cucina e trovò il signor Fell intento a studiare i grossi coltelli vicino al lavandino. «Sono nuovi?»
«Regalo di Anathema e Newton.»
«In realtà era un po’ ironico come regalo» disse Anathema. «Ma ha apprezzato più quelli che l’edizione illustrata di “Harry Potter”.»
«C’è sempre bisogno di buoni coltelli, in cucina.» Isotta le sorrise sfoderando la lama più grossa.
«Mettilo giù, sei inquietante.»
Isotta e il signor Fell portarono gli stuzzichini al tavolo. Finirono il vino e Crowley portò le fiches per giocare a poker.
«Niente soldi, siamo educativi» disse.
Mentre giocavano, Anathema tirò fuori l’argomento di Capodanno.
«Fanno dei begli spettacoli sul ghiaccio in centro» disse. «Magari ci sono dei biglietti per i ritardatari.»
«Altrimenti non so quanti hotel liberi ci siano in giro, a questo punto» Crowley portò accanto a sé tre piccole pile di fiches.
«Hai qualcosa da confessarci? Prima di sporcarti di gesso lavoravi nei casinò?» gli chiese Anathema ridendo.
«No, ma questa testa sa fare i conti, streghetta.»
Fu il turno di Isotta di distribuire le carte. Quando passo il mazzetto al signor Fell, pareva pensieroso.
ÈDurante la partita aprì più volte la bocca, ma non parlò. Infine, quando passò le carte, prese un piccolo respiro.
«Se volete» iniziò, gli occhi incollati alle carte che aveva mescolato più del dovuto. Tutto lo stavano guardando. «Io ho… un cottage. Vicino a Brighton, nelle South Downs, davanti al mare. Nessuno della mia famiglia ci va più tranne me, quindi è sicuramente libero. Forse non è il massimo per dicembre ma, voglio dire, se vi va… »
Anathema, Crowley e Newton si guardarono. Isotta fissò suo zio, sì, digli di sì, pensava. Avrebbe potuto rivedere il mare dopo sei mesi, assaporare di nuovo la brezza gelata e il profumo del sale.
«Non sarebbe una cattiva idea» disse infine Anathema. «Ma sei davvero sicuro? Non vorremmo disturbare.»
«Non disturbate affatto» rispose. «Ormai lo uso solo io. Posso passare qualche giorno prima per pulire e riscaldare.» Poi aggiunse, in fretta. «Non dovete rispondere ora, ovviamente, ma… fatemi sapere.»
Lo ringraziarono e ripresero a giocare. Di sottecchi, Anathema la guardò e le fece l’occhiolino.
 

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