Ci saranno altri giorni

di _Lightning_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Fili d'oro e stralci di rosso ***
Capitolo 2: *** Già la pioggia è con noi ***



Capitolo 1
*** Fili d'oro e stralci di rosso ***


Ci saranno altri giorni
©Art: februeruri
©Graphic: _Lightning_



PARTE PRIMA


Fili d'oro e stralci di rosso



 
“Ci impegniamo:
per trovare un senso alla vita,
a questa vita
una ragione
che non sia una delle tante ragioni
che bene conosciamo
e che non ci prendono il cuore.
Ci impegniamo non per riordinare il mondo,
non per rifarlo, ma per amarlo.”

[Bertolt Brecht – Amare il mondo]

 


 
 
Non hanno senso. Quei dettagli non hanno senso.

In quella viuzza riparata c’è ancora una cordicella tesa tra due finestre, da cui oscilla il bucato ormai liso e stinto dalle intemperie. Un vestito a quadretti rossi. Un paio di calzoni da lavoro. Per terra, vicino al canaletto di scolo, con la molletta di legno rotta accanto, un calzino blu. Piccolo, spaiato.

Reiner si impiglia su quel dettaglio come una nube sul picco di una montagna, e rimane fermo all’imbocco della via stritolata tra due case. La striscia di cielo nel mezzo è invasa da nubi incendiate dal sole calante, in un concerto di oro e rosso e stracci plumbei.

Fissa quei pochi vestiti che dondolano al vento serale come fantasmi fluttuanti a mezz’aria. Fissa il calzino solitario, inzaccherato da fango e acqua piovana, ormai ingrigito.

Quei dettagli non hanno senso. Biancheggiano come ossa al sole.

Li ha già visti, prima? Con... quali occhi?

Batte le palpebre. Una via di Liberio, una corda tesa tra due palazzine, panni bianchi e divise e fascette gialle stellate contro l’azzurro.

Perché sono sempre i dettagli, a turbarlo, a confondergli la vista e i...

«Rein?»

Crack.

Come un piede che calpesta una pozzanghera ghiacciata. La patina tra i pensieri suoi e non suoi si sbriciola.

Reiner batte di nuovo le palpebre e vede un vicolo.

Un semplice vicolo: case di due piani dai tetti spioventi segnati da slavine di tegole smosse; abbaini e lucernai dai vetri sporchi che occhieggiano riflettendo il sole calante; facciate pastello con travetti di legno incrociati in geometrie aguzze e semi-divelte. I panni stesi sono inanimati, pezzi di tessuto al vento.

Bertholdt si avvicina coi suoi passi lunghi, che riecheggiano sulla strada costellata da pozze di pioggia recente, specchi di cielo gettati in mezzo al grigio dell’acciottolato.

«Siamo già stati qui?» si sente chiedere, roco.

I passi di Bertholdt si fermano alle sue spalle. Vede l’ombra allungata del Colossale stagliarsi accanto alla sua, immobile.

«Non lo so. Non ricordo molto, di quel giorno,» lo liquida Bertholdt, schivo.

Forse sta mentendo, forse no. Reiner percepisce l’impazienza che vibra nelle sue parole, poggiata sul sottotono gentile che usa quando lui si allontana. Quando i dettagli che vede non si incasellano nella trama di ciò che ricorda.

Dovrebbero essere unicamente ricordi del Guerriero, quelli; era un Guerriero quando ha distrutto le mura col Corazzato.

Allora perché li sta guardando con gli occhi del Soldato? Erano gli stessi occhi anche allora...?

«Andiamo, prima che faccia buio.»

La voce calma di Bertholdt eradica di nuovo quei pensieri. Reiner si trova a voltare le spalle a quel vicolo, prima che dalle sue ombre ne emergano altre, più vivide, prima che tra le sue pareti riecheggino i suoni di quel giorno – vissuto da chi, non sa dirlo. Forse ci riuscirà stanotte, tra sogni e incubi che ora gli appartengono, ora no.

Bertholdt si staglia alto contro le nubi pastose che ingombrano il cielo, lasciando al sole appena lo spazio per morire tra le mura diritte di granito e quelle frastagliate dei cumulonembi, irrorando il cielo di raggi solidi. Illuminano rovine, scheletri e piume di corvi dagli occhi opalescenti, chiazze di nero in quell’oceano di toni caldi e sanguigni bordati d’oro.

«Andiamo,» concorda infine Reiner, la parola che gratta contro le corde vocali.

Si incamminano di nuovo attraverso le vie di Shiganshina, rincorsi dalla luce del sole sempre più fievole e dalle nubi rigonfie d’acqua.

Reiner punta di nuovo gli occhi sul loro obbiettivo attuale, semplice e pratico: trovare cibo nell’attesa che Pieck e Zeke tornino con le provviste.

Avrebbero potuto resistere alla fame; Reiner avrebbe potuto sfruttare il Corazzato per cacciare nei dintorni, ma non possono sapere quali e quanti occhi siano puntati laggiù; né possono sfinirsi, con la minaccia di un attacco tra capo e collo. Zeke si è voluto affrettare, caracollando col Bestia in direzione della costa e del porto. Ma, anche così, lui e il Carro non li raggiungeranno prima di qualche giorno.

Reiner è lieto di non averlo attorno per un po’ – non dopo che il più anziano l’ha sottomesso nella polvere negando loro la speranza di salvare Annie. Quei lividi guariti da tempo dolgono ancora, a ricordargli che lui, adesso, è nel posto sbagliato, nei panni falsi di qualcuno che, forse, Annie sarebbe riuscito a salvarla sin dal principio.

Ma ormai è qui, nel corpo e nella testa sbagliati, e la missione si approssima all’orizzonte. Deve proseguire, un passo dopo l’altro, fuori e dentro di sé.

È accanto a Bertholdt, almeno. Si convince che averlo lì renda tutto più sopportabile. Forse, dopo il loro fallimento, è il contrario. Non sa dirlo.

Di nuovo, si sta allontanando di nuovo.

Punta gli occhi a terra, sui passi che lo portano verso il cuore ormai fermo di Shiganshina. Non può allontanarsi. Dopotutto, è stato lui a suggerire quella linea d’azione: perlustrare la città fantasma in cerca di vettovaglie utili.

Sciacalli, verrebbero chiamati a Marley, se solo quelle non fossero case di demoni Eldiani. Razziatori sarebbe un termine più veritiero: hanno sventrato loro quella cittadina e stanno ora dando inizio a un sacco tardivo dei vinti.

Lo sbattere cigolante di imposte scrostate accompagna la loro avanzata muta. Continuano a non entrare nelle case diroccate che li circondano, come se potessero inghiottirli nelle loro viscere esposte e in penombra, nonostante le porte scardinate e le finestre in frantumi sembrino quasi invitarli.

Attraversano i quartieri sconquassati dai passi dei giganti, come dopo una pioggia di mortai in trincea. Non c’è una terra di nessuno, qui, nessuna zona franca. I corpi e le ossa biancheggiano ovunque nella polvere, tra le chiazze di sangue e i vestiti laceri.

Reiner si chiede, con un ronzio metallico nel cervelletto, quanti siano opera sua. È quasi sollevato nel notare arti mancanti e ossa sbriciolate, in quei miseri resti, a segnalare che sono state le mandibole di un gigante a strappare a morsi la vita da quel corpo. Non dovrebbe sentirsi sollevato. Sono opera del Guerriero, e lui, adesso, è il Guerriero. Stringe i pugni, assieme alla presa su quell’identità così spigolosa, sulla quale però non trova mai nessun appiglio.

D’un tratto, Bertholdt si ferma, tendendo le orecchie. Reiner lo imita, già in allarme; una mano sul manico del coltello, pronto a incidersi il palmo. Ma quando il compagno si volta, c’è una curva a inclinargli le labbra verso l’alto.

I sorrisi di Bertholdt danzano sul suo volto per un istante, come un brilluccichio di sole su un ruscello agitato. Li coglie solo chi rimane a contemplare i flutti seduto sulla sponda – e Reiner scorge questo in controluce, prima che si affievolisca e rimanga a brillare solo nel bosco dei suoi occhi.

«Lo senti?» gli chiede, alzando l’indice in aria.

Reiner allenta la presa sul coltello e segue la direzione del suo dito affusolato con lo sguardo, prima di tendere anche le orecchie oppresse dal silenzio.

Un gorgoglio, flebile, confuso con le folate del vento. Acqua, da qualche parte nelle vicinanze. Non è il canale navigabile, ormai in secca e invaso dalle macerie dei ponti e dalle carcasse spiaggiate delle barche. È una cadenza più vivace, più frizzante, in qualche modo familiare.

«Sì,» conferma incuriosito, avviandosi già in direzione del suono.

Bertholdt lo segue a ruota. Avanzano in fila indiana, come i bambini stregati dal pifferaio nella fiaba tetra che avevano ascoltato mille volte prima di dormire.

Svoltano l’angolo di una casa maciullata dai detriti, passano sotto un archetto di pietra invaso dal glicine in fiore e scendono dei gradoni dissestati, ricoperti di muschio viscido, con un pergolato naturale di rami a schermarli dal sole. Arrivati in fondo a quel passaggio arboreo si fermano di nuovo, bruscamente, sulla soglia tra luce e ombra.

Di fronte a loro emerge un angolo intatto di mondo. Una piccola piazza inondata dal tramonto, circondata da case ancora in piedi. Le macerie sono una mera cornice che ne scalfisce i confini, lasciando intonsa la tela di quello che sembra un acquarello lasciato ad asciugare al sole.

Il mattonato rossiccio è intonso e tra gli interstizi sbucano margherite e fili d’erba tenaci. Il negozio di un calzolaio si affaccia sul marciapiede con le sue vetrine rotte dall’esplosione, ma la merce esposta è ancora lì, corrosa dal tempo, gli attrezzi del mestiere arrugginiti e appesi al muro. Un carro poggia le sue stanghe su un muretto, abbandonato sotto l’ombra di una bouganville rigogliosa che vi riversa fruscianti petali violetti a ogni soffio di vento. Un uccellino di un giallo acceso gorgheggia da un suo ramo, modulando un canto pieno, armonioso ma malinconico, intrecciato a quello liquido e incessante che riempie la piazza.

Un ampio fontanile rettangolare ne occupa il centro. L’acqua scroscia delicata, sgorga dalle cannelle di peltro riversandosi in una cascatella dalla vasca più elevata a quella più bassa. Straborda da un lato, generando torrentelli che inondano il mattonato e vanno a sfociare in un delta nei canaletti di scolo. Lungo il perimetro sono abbandonate un paio di assi per il bucato e un bacile di rame che rifulge al sole.

C’è quiete, in quell’angolo di mondo, che sembra essere rimasto sotto una cupola di vetro, protetto dal loro attacco. Sembra che qualcuno abbia voluto conservarlo così com’era ritagliandolo via da un foglio destinato ad essere bruciato, in previsione del loro arrivo futuro.

Reiner batte le palpebre. Shiganshina sbiadisce dinanzi a lui. Il verde e l’ocra lasciano posto al bianco e al grigio.

Torna ai pomeriggi afosi a Liberio, quando il sole infuocava le strade e la brezza marina del porto era solo un’illusione preclusa dalle mura. Allora – prima di diventare Candidati, prima delle guerre – tutti i bambini del quartiere si rifugiavano ai lavatoi, godendosi la frescura, facendo galleggiare barchette, schizzando acqua e correndo a piedi scalzi lungo il bordo dei vasconi e sul pavé rovente, suscitando i rimproveri delle lavandaie.

Lui e Bertholdt non facevano eccezione. Non ricordava nemmeno quante volte si fossero spinti a vicenda nelle vasche, per poi asciugarsi rapidi al sole e al vento caldo.

Sente un sorriso premergli all’angolo delle labbra, ma lo trattiene. Non può liberarlo. Non qui, non in questa città. Sarebbe come sorridere a un funerale. Solo, con la consapevolezza di essere il motivo per cui c’è un funerale. Di aver messo il corpo in una bara con le sue stesse mani – anche se è il corpo di un nemico.

Quindi, non sorride. Tira le labbra, ingabbia il sorriso dietro ai denti e volge gli occhi al sole infiammato che gli scioglie le iridi. Lo riporta poi su Bertholdt, con le impronte azzurrine della luce impresse sulle retine, e anche lui sta guardando la fontana. Quasi gli vede riflesse negli occhi le stesse immagini che hanno appena animato i suoi.

Quel sorriso fa di nuovo capolino, preme contro le suture invisibili che gli sigillano le labbra. Incita Bertholdt con un colpetto sul gomito. Lui sobbalza, mentre Reiner già si avvia verso il fontanile, scalzando via le scarpe strada facendo.

«Rein?»

L’interrogativo di Bertholdt racchiude la vibrazione di una risatina sorpresa, che gli preme contro l’ugola. È meno restio di lui a liberarla, anche se emerge a metà, un semplice accenno che però gli schiude le labbra.

Reiner nemmeno si volta, facendogli ancora cenno di seguirlo. Senza un solo istante d’esitazione scavalca il bordo del fontanile e atterra coi piedi nell’acqua fino al polpaccio, sollevando piccoli spruzzi attorno a sé. Il fondale è viscido di alghe e l’acqua ha una tinta smeraldina, ma in realtà è limpida, gelida.

Bertholdt si avvicina a passi cauti, la figura dinoccolata che ondeggia come un giunco al vento dell’indecisione. Le ombre nei suoi occhi si addensano, rendendoli opachi, ma si issa anche lui sul bordo. Si siede con lentezza e si toglie le scarpe, immergendo le caviglie nell’acqua corrente e muovendo appena i piedi sotto la superficie.

L’uccello smette di cantare, privandoli di un sottofondo che si rivela evidente nella sua assenza.

Reiner fa un passo, attento a non scivolare, i pantaloni incollati alla pelle. Gli si stanno ghiacciando i piedi e improvvisamente quell’iniziativa gli sembra molto stupida, almeno finché non sente la voce sottile di Bertholdt:

«È quasi come stare a casa, qui.»

Sembra accorgersi di aver parlato ad alta voce, perché solleva lo sguardo prima fisso sui flutti, gettando occhiate spaurite intorno e rendendosi conto di ciò che ha appena detto.

«Se chiudi gli occhi,» completa Reiner, in un mormorio appena udibile.

Uno scintillio illumina le iridi di Bertholdt, un attimo prima che abbassi le ciglia di pece a schermarli.

Reiner lo imita, sprofondando in una penombra tinta di un tenue rosso. Sente solo lo scorrere dell’acqua, lo stormire del vento. Il rombo lontano di un dirigibile. Il profumo di glicine, mischiato al sentore di carbone bruciato e benzina. Il tocco caldo del sole sulla pelle. Aggrotta per un istante le sopracciglia, cercando di scollarsi da quell’illusione.

E poi ci si immerge, con la mente e col corpo. Si abbassa a sedere nella fontana, si infradicia i vestiti, si piazza sotto una cannella da cui sgorga una cascata gentile che gli inzuppa i capelli e scorre sul volto. Raccoglie le ginocchia al petto e si lascia levigare come un ciottolo, smussando ricordi aguzzi e ossa stanche nella corrente.

Subito, sente uno sciacquio vicino e piccole onde che si abbattono sulle sue caviglie, poi il profilo di un fianco longilineo premuto contro il suo. Bertholdt si rannicchia sotto l’altra cascatella, accanto a lui. Sa che ha gli occhi chiusi, anche senza vederlo.

L’acqua scroscia, incessante, lava via i pensieri incagliati nel cranio e li fa galleggiare di nuovo, spingendoli verso la foce. Se li sente scivolare via dagli occhi, quietamente, affluenti che si riversano nel fiume e corrono rapidi a valle.

Si svuota una goccia alla volta, mentre dita affusolate s’insinuano tra le sue, sott’acqua, e stringono nocche e falangi fino a sbiancarle, un’ancora piantata sul fondale.

Reiner schiude gli occhi. Vede il profilo di Bertholdt inondato di torrentelli, le ciocche sottili e grondanti che disegnano linee tremule sulla pelle olivastra, le labbra schiuse accarezzate dall’acqua. Rinsalda la presa sotto la superficie, incastonando nelle pupille quel singolo frammento di vita che sembra sempre aver senso e non lo fa sentire lontano da nulla – semplicemente al proprio posto e nella propria pelle.

Sono i dettagli, a tradirlo sempre. Quei dettagli che invece non hanno senso, che si impigliano nelle ciglia e gli entrano negli occhi come pagliuzze di polvere.

La vetrina rotta – tintinnii spettrali di cristalli infranti. Gli oggetti abbandonati – grida, pianti, rombo di piedi pestati per terra nella fuga. Il deserto sospeso di quella bolla idilliaca sul punto di scoppiare – la risata di un corvo riecheggia, seghettata. La realtà si sdoppia e sfarfalla battendo le ali in fuga, come ormai fa spesso.

Shiganshina li guarda severa, con occhi morti colmi di biasimo.

Reiner la ignora e serra le palpebre.

La risata che gli sboccia dal petto è cristallina e incolpevole, anche se rimane a tintinnare muta tra le costole. Non è quella del Guerriero, né del Soldato. È più vecchia, più lontana. È un altro Reiner ancora, a ridere, un Reiner più leggero e senza corazze.

Non sono a Shiganshina. Non oggi.

Sono a Liberio, mezza vita fa – sono a Liberio ed è estate, coi dirigibili che solcano il cielo e i tramonti infiniti che abbracciano il mondo. I fucili sparano pallini di gommapiuma e le spade sono di legno vecchio. Si vola solo con lo sguardo e si atterra senza un graffio.

Ci saranno altri giorni, per tornare se stesso. Ma oggi non esiste il Guerriero, né il Soldato, né Reiner.

Esiste il mondo che lo raccoglie, colma gli spazi tra le sue dita e lo riporta a casa per mano; esiste una risata rinchiusa nel petto che risuona per entrambi nel gorgogliare allegro dell’acqua, infiammata da fili d’oro e stralci di rosso.



 



 


Note dell'autrice:

Salve, prodi Lettori!
Se siete arrivati fin qui, avete dimostrato una notevole dose di resistenza per i mammozzoni introspettivo-descrittivi ♥ È la mia prima ReiBert nel senso proprio del termine, quindi siate clemen-- no, non è vero, siate severissimi e non abbiate remore nel farmi notare stonature!

La storia si articola in due one-shot consequenziali e collegate: questo era il PoV Reiner, il prossimo capitolo sarà invece un PoV Bertholdt. I due pezzi hanno molti parallelismi e punti di contatto, a partire dai titoli e dalle citazioni d'apertura.
Ovvero, ho notato che, coincidenzialmente, Rein e Bert condividono i nomi con Bertolt Brecht e Rainer Maria Rilke, due dei più grandi poeti in lingua tedesca... e non potevo non sfruttare questo fatto a mio vantaggio. Quindi, il PoV Reiner è introdotto da Brecht e il PoV Bertholdt sarà introdotto da Rilke.
È un vezzo mio, ma ci tenevo a metterlo in luce ♥

E adesso, giuro che ho finito di blaterare. Spero che la lettura sia stata gradita, e se vorrete lasciarmi un vostro pensiero ne sarò felice e grata c:
Al prossimo capitolo (già in dirittura d'arrivo),

-Light-

 

 

 
Disclaimer:
Non concedo, in nessuna circostanza, né l'autorizzazione a ripubblicare le mie storie altrove, anche se creditate e anche con link all'originale su EFP, né quella a rielaborarne passaggi, concetti o trarne ispirazione in qualsivoglia modo senza mio consenso esplicito.
Questa storia è scritta senza scopo di lucro.


©_Lightning_

©Hajime Isayama







 

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Capitolo 2
*** Già la pioggia è con noi ***


Ci saranno altri giorni
©Art: februeruri
©Graphic: _Lightning_



PARTE SECONDA


Già la pioggia è con noi



 
“La notte prende in segreto dai tuoi capelli
dimenticati riflessi tra le pieghe della tenda.
Guarda, desideravo soltanto le tue mani tra le mie

e quiete e silenzio e profonda pace.”

[Rainer Maria Rilke – La notte prende in segreto]

 

 

Tap tap tap.


La pioggia picchietta senza sosta sul soffitto della tenda. È un ritmo lieve, che Bertholdt vorrebbe saper seguire col cuore. Intravede per qualche secondo i rigagnoli che scivolano in controluce sul tessuto cerato, in contrasto col tenue chiarore esterno. Dev’essersi aperto un varco tra le nubi fitte, dal quale fa capolino una luna che, ormai, è quasi piena.

Lo sa, ne ha contato ogni singolo spicchio. Eppure, i giorni hanno smesso di scorrere.

Un brontolio riverbera nell’aria e attraverso le mura sulle quali sono accampati. La vibrazione attraversa i giganti colossali, suoi compagni, che dormono sogni neri là sotto di loro, e gli arriva fino alla spina dorsale. Bertholdt li invidia.

Invidia anche Reiner, che russa profondamente a un braccio da lui. La luce appena percettibile delinea la sua sagoma massiccia, distesa su un fianco. Ciuffi di capelli biondi emergono dal groviglio di coperte che fa loro anche da materasso contro il duro suolo di cemento.

Il suo respiro sembra andare a tempo con gli scrosci di pioggia sottile, ancora non abbastanza violenta da far imbarcare o ondeggiare la tenda. Forse anche il suo cuore è altrettanto tranquillo, ma Bertholdt ha paura ad affinare l’udito e scoprire che è agitato quanto il suo.

Dopo il pomeriggio passato nelle viscere devastate di Shiganshina, non si sorprenderebbe se Reiner avesse dietro le palpebre degli incubi ormai ricorrenti. Di sognare una pioggia diversa, fatta di macerie e corpi scaraventati in aria; di urla che trafiggono un mattino qualunque per i "demoni di Paradise".

Bertholdt ricorda ancora il calore del sole sulla pelle, un attimo prima che si trasformasse nell’abbraccio rovente del Colossale. Il resto sa ricordarlo solo in sogno: le immagini gli sfuggono nella veglia – sa solo che avrebbe dovuto fare di più, molto di più, sia quel giorno che tutti quelli a seguire.

Reiner freme leggermente e si tira la coperta quasi fin sopra la testa. Bertholdt ha l’impulso di accostarsi a lui e lo asseconda, quando cento altre volte l’ha soppresso nelle camerate del Corpo di Ricerca.

Forse perché qui, sulle spalle di mille giganti dormienti, il domani è ancor più incerto di allora. Forse perché i loro occhi freddi non possono davvero vederli, sepolti da tonnellate di calcestruzzo, mattoni e cemento.

Entra nell’orma di calore di Reiner e vi aggiunge il proprio. Percepisce, adesso, i suoi battiti lenti, in contrasto coi propri che galoppano contro il costato. Forse sta sognando davvero Shiganshina o, forse, cammina di nuovo nelle strade di Liberio, a casa.

Di certo, dietro alle sue palpebre non ondeggia il macabro pendolo di un corpo impiccato.


Tap tap tap tap.


La pioggia tamburella fitta, a tempo con quell’oscillazione funerea. È l’unica immagine che lo perseguita in ogni istante, giorno e notte. Non sa nemmeno lui perché – sa solo che ha passato troppe notti a cercare di recidere il cappio stretto attorno al collo di quell’uomo.

Ogni volta ha fallito. Ogni volta gli è sembrato di scorgere il suo viso. Ogni volta ha visto qualcuno di diverso che non vuole ricordare. Ogni volta ha temuto di vedere se stesso.


Tap tap tap tap tap.


«Dovresti dormire.»

La voce di Reiner, impastata di sonno, risuona nello spazio ristretto della tenda. Bertholdt si rende conto solo adesso che il suo respiro si è fatto rapido, rumoroso. Forse l’ha svegliato. Deglutisce a secco.

«C’è troppo rumore.»

Reiner emette un grugnito, ma non si gira verso di lui. Non si scosta, né si avvicina.

«Stronzate. Dormi pure a testa in giù, Bertl: non è un po’ di pioggia a tenerti sveglio.»

Bertholdt non risponde. Si limita a crogiolarsi nel lieve tepore che si è creato attorno a loro. Sa che Reiner non insisterà. Non lo spinge mai a parlare di ciò che gli passa snella testa. Una volta, forse scherzando, gli ha detto che riesce comunque a leggerglielo negli occhi.

Non l’uomo impiccato, però. Quello, Reiner non potrebbe mai riuscire a vederlo. L’uomo impiccato penzola solo nel nero delle sue pupille, invisibile a tutti gli altri.

Un tuono lontano formicola nell’aria, seguito da uno scossone di vento. Così forte che la corda potrebbe spezzarsi e il nodo scorsoio sciogliersi. Bertholdt sente sciogliersi anche la lingua, che articola le parole prima che possa frenarle:

«Rein... ci pensi mai all’uomo impiccato?»


Tap tap tap tap.


Il silenzio viene riempito così a lungo dalle goccioline di pioggia, che Bertholdt pensa quasi che Reiner si sia riaddormentato senza udire quella domanda.

«Da quando ce l’hai ricordato tu quella volta, sì» risponde invece, con la voce che gratta contro la gola. «Penso a perché continui a pensarci.»

L’ultima affermazione è un’accusa che gli si pianta nello sterno. O forse è preoccupazione – perché dovrebbe pensare a lui, altrimenti? Bertholdt riassesta il capo sulla mano che gli fa da cuscino. Osserva la schiena solida di Reiner, il modo in cui continua ad alzarsi ed abbassarsi senza un fremito.

«Cerco ancora di trovare una risposta.»

Dovrebbe tacere, ma gli sembra che ad ascoltarlo, oltre a Reiner, ci siano solo il buio e la pioggia, per quella notte.

«Perché ci ha raccontato quella storia e poi si è impiccato?» chiede alla schiena del compagno.

«Non lo so, come non lo sapevo prima» bofonchia lui, in modo evasivo. «Cercava un perdono che nessun uomo poteva dargli» aggiunge poi, in modo meccanico, come se fosse un discorso mandato a memoria.

«Forse» dice dubbioso Bertholdt.

È quello che in fondo pensa anche lui, ma c’è qualcosa di stonato, in quella spiegazione. Qualcosa di troppo personale su cui non vuole riflettere.

«Annie diceva che voleva... darsi un giudizio e ricevere quello della gente» continua poi, a voler fingere che anche lei sia qui, in questa tenda, a condividere vita e missione con loro.

Reiner tace a lungo, sempre col capo rivolto verso la parete della tenda. Non sa se è turbato per la menzione di Annie o se stia davvero pensando a una risposta da dargli.

«Io... penso che non fosse né per il perdono, né per un giudizio» mormora infine, con voce più fragile del normale, poco più di un respiro.

«E per cosa, allora?»

Bertholdt pronuncia quelle parole quasi in apnea. Non sa con chi stia parlando – gli sembra di non sapere più niente, ormai, nemmeno se la fiducia di Reiner in lui esiste ancora.

La fiducia di quale Reiner?

Scaccia il pensiero così come è apparso, con un battito rabbioso di ciglia umide. Si pente di aver parlato, di aver aperto a Reiner una porta affacciata sul buio proprio adesso che lui è in bilico.

Ha bisogno che accanto a lui, su quelle mura, ci sia il Guerriero che ha ucciso il Soldato. Il vero Reiner potrà tornare dopo, a Liberio. Vuole che torni, vuole stringerlo con la stessa foga che sta reprimendo adesso. Allo stesso tempo, vuole sapere cosa ha portato rinchiuso nel petto fino a quel momento. Così rimane in attesa, con le dita strette sulla stoffa fredda. Il silenzio è colmo di pioggia battente.


Tap tap tap.


«Espiazione» soffia via infine Reiner. «Cercava un’espiazione.»

Bertholdt tace. Riflette su quella parola, così diversa da giudizio e perdono, eppure così vicina, come se fosse quel qualcosa di mai illuminato bloccato tra le due facce della stessa medaglia. Quel qualcosa che non ha mai visto o voluto vedere.

Il tassello che ha cercato così a lungo si incastra finalmente al posto giusto: certi peccati si possono espiare solo con la morte e non portano alcun perdono, né chiedono un giudizio. Vanno affrontati da soli, senza aiuto, né pubblico.

Non chiede come faccia Reiner a saperlo con così tanta certezza, o come sia arrivato a quella conclusione. Non è sicuro che sia una domanda a cui vuole risposta – ma il nome di Marcel aleggia su di loro come un fantasma lunare. Illumina quell’espiazione che nessuno dei due ha ancora compiuto.

Tace, timoroso che il minimo sussurro possa portare il compagno oltre il baratro che ha dentro di sé.

«Non pensi di volerla anche tu, a volte?» continua Reiner, con un tono così calmo da gelargli il sangue.

Perdono. Lui vorrebbe un perdono, ma blocca quella parola dietro le labbra. Non merita perdono, e comunque non può assecondare Reiner. Ha bisogno del Guerriero.

«Noi stiamo solo facendo il nostro dovere. Quello che nessun altro vorrebbe fare.»

Chi è che vorrebbe uccidere delle persone?

«Anche loro.»

«Sono demoni, Rein, ricordatelo» decreta infine, con la bocca così secca da inaridire quelle parole. «Sono loro che devono espiare un peccato, non noi.»

«Lo pensi davvero?»

Bertholdt strizza gli occhi. In quel momento, per quanto si sforzi, sta parlando con Reiner, non col Guerriero né col Soldato, ma non può permettergli di cedere adesso, quando finalmente qualcuno li ha trovati. La mandibola gli fa male, quando parla:

«Sì.»

«E per chi?» sbotta Reiner, ancora sottovoce. «Noi per chi facciamo il nostro dovere?»

Bertholdt sente una linea umida lungo gli occhi. Stringe i pugni fino a non sentirli più.

«Per Marley. Per...»

«Per chi, Bertl. Per chi stai combattendo tu?»

Bertholdt si morde le labbra. Non riesce a scacciare via Reiner, a riprendersi il Guerriero che gli serve adesso. Forse non vuole, non questa volta.

La pioggia parla per lui ancora una volta, finché non decide di sovrastarla:

«Per Marcel» sussurra sfinito, pronunciando quel nome come se fosse affilato. «Per Annie. Per Pieck. Per Porco. Per Zeke. Per Magath e mio padre e la gente di Liberio. Per... noi.»

Anche per te.

Non lo dice. Neanche Reiner lo direbbe, ne è certo.

«Non ti sembrano motivi validi, per combattere?» gli chiede, fissando la sua schiena immobile.

Reiner sobbalza fino a sfiorarlo, scosso da una risata secca e priva d’allegria.

«Adesso sì. Ma forse un giorno non basteranno più. Un giorno...» s’interrompe, come se qualcuno gli avesse tagliato il respiro.

Bertholdt non ha il coraggio di chiedere altro, né il tempo. Reiner si volta finalmente verso di lui e lo intrappola in uno sguardo nocciola liquido di sofferenza. Anche Bertholdt trema, avvinto nella consapevolezza di cosa stia dicendo Reiner. Di quello che nessuno dei due ha il coraggio di dire a voce alta.

Un giorno, potrebbe non esserci più nessuno per cui combattere.

Un giorno, uno di loro potrebbe svegliarsi da solo su quelle mura, lontano da casa e dall’unica persona che gli ha sempre ricordato dove fosse.

E dopo?

Al dopo Bertholdt non vuole pensare. Smette di farlo quando smette anche di cercare il Guerriero negli occhi in cui sta sprofondando: avvolge Reiner a sé, più vicino di quanto non sia mai stato. Anche Reiner lo stringe, dopo un istante d’incertezza, e mette a tacere ogni altro pensiero con le sue labbra.

Bertholdt lo accoglie. Dimentica i giganti dormienti là sotto e, in punta di piedi, sfugge ai loro occhi freddi per gettarsi in un calore respinto troppo a lungo.

Ha bisogno del Guerriero, ma adesso ha bisogno anche di Reiner e dell’anelito di vita che gli infonde. Ha bisogno di sentire la pioggia battere in fuori sincrono come i loro respiri affannati e ha bisogno di dimenticare nodi scorsoi e sangue e lacrime, di sentire pelle e carne viva sotto le dita.

Reiner è un brandello di casa capitato tra le sue braccia – nella sua bocca, tra i suoi capelli, sui suoi fianchi – e Bertholdt, per la prima volta, sente di potersi perdere senza la paura di non essere ritrovato.

Perché casa è sempre stata nascosta tra le sue dita forti e tozze, che riempie con le proprie, più esili. La trova e la stringe, la stritola, quasi, fino a perdere il sangue e l’aria. Si lascia portare via, lontano, per quel solo istante.

Ci saranno altri giorni, per tornare davvero.

Per stanotte rimane incastrato lì nei suoi palmi, in una corolla tiepida di tenebre e pioggia.


 

 

F I N E



 


Note dell’Autrice:
Cari Lettori (se ancora ci siete, nascosti da qualche parte)!
No, il secondo capitolo di questa storia non era esattamente dietro l’angolo... diciamo che mi sono allontanata dal fandom di AoT e quindi ho perso un po’ la connessione coi personaggi e di conseguenza la voglia di scriverne.
Non è uscita fuori esattamente come volevo, ma volevo dare un finale a questa minilong e spero possiate comunque apprezzare ♥
Grazie a tutti coloro che hanno letto, commentato e votato la storia, in particolare a Ciuscream che, con la sua recensione, mi ha fatto tornare la voglia di scriverla <3

Alla prossima (forse, riprenderò anche la raccolta Piume sparse :D)

-Light-

 

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