Chicchi di storie

di Persefone26998
(/viewuser.php?uid=541495)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Introduzione ***
Capitolo 2: *** Occhi ***
Capitolo 3: *** Calze ***
Capitolo 4: *** Fame ***
Capitolo 5: *** Edicola ***
Capitolo 6: *** Festa ***
Capitolo 7: *** Giradischi ***



Capitolo 1
*** Introduzione ***


Buongiorno Macarons (o buonasera o buon pomeriggio o buon qualsiasi periodo della giornata leggiate)
so che tecnicamente non si possono pubblicare introduzioni, ma qua mi serve, sorry not sorry

Cos'è questa nuova storia? Non ne ho fin troppe aperte e, R'hollor salvaci, non mi muovo a scrivere? Dovete quanto meno rapirmi e chiudermi in cantina con una connessione Wifi per terminare tutto ciò che ho aperto? Assolutamente sì, avete ragione
.
.
.
Andrò a fustigarmi con il cilicio addosso, dopo

Essenzialmente, questa è letteralmente una vigna: una raccolta di drabble, flashfic, storie brevi a caso che inserirò nei tempi morti in cui non escono i capitoli più sostanziosi

Mi rendo conto che sono lenta a scrivere e, giuro, mi dispiace perché vi faccio aspettare sempre tantissimo. Ora, i miei capitoli normalmente sono lunghi, davvero lunghi (13k parole fissi), quindi ci metto minimo dieci giorni a finirli... Contate che poi sono una pignola della peggior specie e finché una cosa non mi convince, ci sbatto la testa per giorni

Il senso di questa vigna è proprio riempire il tempo, scrivere dei momenti brevi: dei grappoli da cogliere e gustare in pochi attimi

Lo schema sarà sempre lo stesso: il tema centrale sarà una parola random e mi impegnerò seriamente a non superare le mille parole

Le parole-tema le ho fatte scegliere a voi (ad eccezione della prima, che ho estratto a sorte aprendo il dizionario) e le randomizzerò in modo da decidere quale scrivere di volta in volta... Se avete altri suggerimenti, scrivete pure qui
⊂((・▽・))⊃

Le coppie saranno ovviamente Ereri e Jeankasa, ma alcune storie saranno incentrate anche su altri personaggi; ovviamente i generi varieranno dal comico, al romantico, all'angst (suvvia, la vostra Persefone senza angst si sente male, lo sapete 😂)

Essenzialmente mi faccio ispirare dal tema

Пока

 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Occhi ***


Estratta a casissimo aprendo il dizionario (è R’hollor che mi parla), 677 parole
 
Levi ha due occhi davvero piccoli e stretti, gli ricordano le serrature argentee di uno scrigno; la pelle sottile è così pallida che le venuzze che li circondano sembrano tanti fili ricamati su una tela bianca e a Eren piacciono le occhiaie dell’altro, lo affascinano nel modo in cui rendono ancora più profonde le sue iridi. La forma incavata delle sue palpebre mostra le avvisaglie del cedimento che li attenderà nel futuro e, per quanto il moro li guardi sempre con diffidenza nonostante abbiano entrambi trent’anni, gli piace anche la dolcezza di quella pelle sottile che si stria di rughette perché può associare a ognuna di esse una storia, una ristata, una lacrima, un’ora insieme.
Gli piacciono anche le ciglia dell’altro, quelle che spesso scosta dalle guance di Levi la mattina e che gli porge sul polpastrello finché il compagno non sbuffa e l’accontenta, soffiandoci sopra per esprimere quel desiderio che Eren sa essere sempre lo stesso da quindici anni; sono nerissime le ciglia di Levi, quasi qualcuno le avesse colorate con l’inchiostro, e sono tanto dritte che sembrerebbero corte se non toccassero il vetro circolare dei suoi occhiali ad ogni movimento. Gli piacciono anche nelle loro folte radici nere che gli fanno spesso dubitare che il moro rimuova correttamente la matita nera la sera, nonostante in tutti gli anni passate assieme abbia avuto la prova di quanto Levi sia radicale con la cura della sua igiene.
Gli piacciono le sopracciglia curate di Levi, sottili e nere quasi più delle sue ciglia e dei suoi capelli, gli piacciono nel modo in cui incorniciano le sue iridi e rendono più scure le sue pupille tondissime; gli piacciono nella forma dritta che affila la sagoma dei suoi occhi a mandorla.
Eppure, paradossalmente, nella loro piccola dimensione gli occhi di Levi sono semplicemente giusti sul suo viso minuto; sia perché in fondo – ed Eren ringrazia che Levi non possa leggere nella sua mente in quel momento – suo marito è tutto formato tascabile e nessuna parte del suo corpo è sproporzionata rispetto al resto; sia perché sono talmente belli che a guardarli Eren ci vede l’intero universo racchiuso nelle screziature bluastre delle sue iridi.
Ed Eren ama gli occhi di Levi, li aveva amati la prima volta che si erano incontrati alla festa di compleanno che Mikasa aveva organizzato sulla spiaggia, nel languore lucido delle fiamme di quel falò che li divideva mentre la sua migliore amica lo incoraggiava con lo sguardo; li ama ancora di più adesso, dopo quindici anni passati l’uno accanto all’altro e sette anni di matrimonio, dopo gli alti e i bassi di una vita vissuta sempre sul filo del rasoio, dopo anni spesi a litigare per stupidaggini e a fare pace tra le lenzuola, con quegli occhi luminosi come il mare soleggiato d’agosto. Quegli occhi che riescono a fargli sentire la sua anima mentre lo guardano.
“Ti serve qualcosa?”
“Amo i tuoi occhi, sono bellissimi”
Levi aggrotta le sopracciglia, quelle sottili e dritte che incorniciano il soggetto dei suoi pensieri, le sue pupille lo guardano ed Eren è certo di non essere mai stato visibile prima di incontrarle.
“Sei ubriaco?”
“Ma papà, papy ha ragione! I tuoi occhi sono bellissimi!”
Isabel tira la manica del pigiama di Levi, stretta tra di loro su quel divano troppo piccolo che non si sono mai decisi a cambiare; le campanelle dei suoi codini tintinnano ad ogni movimento, allentati e incapaci di contenere la criniera di fuoco che Madre Natura ha concesso alla loro bambina. Sono verdi come la giada liquida gli occhi di sua figlia, sono di un verde più brillante e vivace dei suoi, sono verdi e gli piace come quel colore che condividono per un fortuito scherzo del caso sia totalmente in contrasto con gli occhi di Levi, che sembrano più grigi e più luminosi ora che le sue guance sono rosse di imbarazzo.
“Ruffiani”
E mentre li guarda, su quel divano minuscolo in cui si sono avvolti con la loro bambina e metà della loro esistenza vissuta assieme, Eren se ne innamora un po’ di più.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Calze ***


Parola suggeritami da LilithInFiore
Parole: 1682 (sono un circo ambulante)
 
Con quelle calze nessuno ti fischia per strada? Incredibile che il tuo ragazzo ti faccia uscire così!
Quella era stata la prima volta che qualcuno aveva commentato le sue calze e per Mikasa era stato strano; aveva guardato per una decina di minuti quella signora alla fermata dell’autobus, incapace di replicare per la prima volta nella sua vita.
Con il tempo si era abituata ai commenti sul suo aspetto fisico, ai suoi vestiti neri perfino d’estate, al pizzo, le catene, ai piercing e le croci che facevano un rumore assordante per una persona silenziosa come lei, ma che erano suoi come nient’altro al mondo.
C’era abituata a sentirsi strana e matta, agli sguardi stralunati e giudicanti, ma mai nessuno aveva commentato le sue calze; più che calze il termine corretto sarebbe autoreggenti, ma in quel modo la chiusura del reggicalze che fa capolino da sotto i pantaloncini avrebbe ancora meno senso di quando sua madre li ha guardati quella mattina. Mikasa ha quindici anni e lo sa che quelle calze non dovrebbe metterle, perché sono troppo appariscenti, più di tutti i vestiti che indossa; ma le piacciono le maglie strette della rete, può agganciarci tutte le catenine e i ciondoli che vuole.
Le piacciono e le stanno bene, eppure sull’autobus sta zitta mentre si guarda le gambe.
***
La seconda volta che qualcuno commenta le sue calze, sempre in un modello a rete dalla maglia stretta e le catenine che le circondano la coscia, è durante un compito di matematica mentre ha la testa china sul foglio e si ripassa le formule tra le labbra, ridacchiando tra di sé a come Jean cerchi di allungare lo sguardo sui suoi appunti; ha il braccio poggiato sul banco, il corpo metà piegato all’indietro e sporge il foglio abbastanza perché lui riesca a vedere meglio, perché lui la veda meglio e quello sguardo nocciola si accorga di quanto le faccia tremare il cuore. La voce della professoressa irrompe nei suoi pensieri come un boato e le farfalle nel suo stomaco si poggiano duramente a terra.
Non la prenderanno mai sul serio se continua a vestirsi così! E poi con quelle calze crede di essere lungo la strada a battere, signorina?
I suoi compagni di classe ridacchiano dietro le sue spalle e Mikasa ringrazia che Eren abbia la febbre quel giorno, perché un altro richiamo dal preside è l’ultima cosa che serve al suo migliore amico; guarda la donna per qualche momento in quegli occhietti azzurri resi ancora più piccoli dalle spesse lenti da vista e, di nuovo, non riesce a capire il senso di quelle frasi sulle sue calze, un elemento tanto accessorio quanto funzionale del suo abbigliamento. Ancor meno riesce a capire come possano un paio di calze a rete e due catenine renderla una puttana.
Non è colpa mia se a lei non starebbero bene, professoressa
Quando la donna la sbatte fuori dall’aula e chiama i suoi genitori, un po’ sa di essersela cercata; anche se non se ne pente minimamente.
***
La terza volta che qualcuno commenta le sue calze è la peggiore, se la sente dentro per tutta la settimana mentre si prepara per l’esame di Stato, mentre esce con i suoi amici e mentre Jean la guarda come se sentisse che ci sia una nota stonata nel mondo; se la sente dentro e se la tiene dentro per mesi prima di confessarla al suo ragazzo, perché a dirlo le sembra che diventi talmente reale da schiacciarla.
Sta facendo l’ultima guida prima della prova pratica per la patente, ha appena imboccato l’uscita dell’autostrada e sta tornando all’agenzia mentre il suo istruttore tiene gli occhi fissi sulla strada; fa caldo quel diciassette maggio e ha infilato un vestitino davvero carino, con la gonna a balze in cotone spesso e il bustino che ricorda un corsetto per come si chiude sul dietro con tutti quei lacci di raso. Ovviamente è nero, ovviamente è corto e stando seduta si accorcia ancora; e, ovviamente, ha indossato le sue calze preferite, quelle a rete nera che le si fermano a mezza coscia e sono tenute su dall’intrico di lacci di cuoio nero e borchie del reggicalze che non si copre neanche da alzata.
Le piace come si è vestita, si sente davvero bellissima quel giorno e si è anche impegnata per truccarsi in modo decente, perché con Jean hanno programmato di fare l’amore per la prima volta e Mikasa ha bisogno di sentirsi bella per non cedere alle sue insicurezze; le pesa essere l’unica inesperta della sua comitiva, la fa sentire in difetto come se nell’età sui suoi documenti ci fosse scritto quanto si sia poco amata per permettere a qualcuno di vederla nuda. Quindi vuole vedersi bella quel giorno almeno la metà di quanto si veda bella ogni volta che Jean la guarda.
Jean che ha la moto posteggiata nel parcheggio davanti alla scuola guida e le fa un cenno mentre posa la macchina nel box; è solo quando si gira per salutare che lo stomaco le sprofonda sotto i piedi e le sembra di non riuscire a muoversi, il suo istruttore che le si china un po’ più vicino e la patta stretta dei pantaloni di un uomo non le è mai sembrata così rivoltante.
Scusa, è che quelle calze ti fanno delle gambe da urlo, il mio corpo reagisce da solo
Quella sera Jean non capisce perché sia così silenziosa dopo averla vista fiondarsi fuori dall’auto della scuola, né perché gli chiede se la trovi esagerata per come si è vestita, ma Mikasa sa che lui percepisce che qualcosa non stia andando per il verso giusto, che ha guardato con sospetto il suo istruttore e che la settimana prossima chiederà una mezza giornata al ristorante di sua madre per assistere al suo esame; come sa che quando Jean la vede tremare spaventata e le si stende accanto, accarezzandole i capelli per tutta la sera, è il momento esatto in cui capisce di amarlo davvero.
Scusa
Abbiamo la vita davanti, Mika... io voglio che tu sia felice
***
Mikasa ricorda pochi e coincisi momenti in cui qualcuno ha commentato le calze che le piace indossare, che indossa abitualmente e che, nonostante tutto il disgusto gli altri le abbiano riversato addosso in quegli anni, continua a comprare e sfoggiare con ancora più arroganza; sa di dimostrarsi troppo orgogliosa in un certo senso, sa anche che è un capriccio e una rivalsa nei confronti di quel mondo fatto di spine avvelenate. Ma la cosa non la fa sentire minimente in colpa, le piace gridare più forte delle sue paure, la fa sentire viva.
“Amore hai fatto? Tuo fratello darà di matto se non siamo al comune tra mezz’ora, lo sai com’è ansioso”
“Un attimo, mi si sono sfilate le calze”
Jean la sta guardando interdetto, mentre rovista tra il comodino del suo letto in cerca di un paio di calze che sostituiscano d’urgenza quelle che ha rotto; era stato stupido da parte sua non comprare neanche un paio di calze da riserva, ma era così convinta che non le avrebbe mai più utilizzata dopo il matrimonio di Levi che le erano sembrati soldi inutili. A onor del vero, suo fratello le aveva detto di prenderne un altro paio perché sottili com’erano si sarebbero rotte in un niente, gliel’aveva ricordato perfino Eren quando l’aveva aiutato a scegliere il suo abito da sposo – e se Eren ricordava un dettaglio così insignificante, forse avrebbe dovuto pensarci veramente.
Ma lei le calze velate color carne le odia profondamente, non solo per l’estetica orrenda da nonnina la domenica a messa, ma soprattutto per la sensazione costringente che quel tipo di indumento le dava sulla carne; Mikasa odia le calze velate color carne e in questo momento sente di cuore di dover augurare le peggiori sciagure a chiunque le abbia inventate.
“Scusa, metti le tue solite, no? Con lo spacco del vestito sarai ancora più bella”
Jean si china accanto a lei, bloccandole le mani mentre tira fuori tutta la biancheria che possiede, inutilmente dato che non ha neanche un paio di calze che non siano a rete; lo scruta per qualche istante, i lunghi capelli biondi che gli scivolano davanti alle ciglia e velano le sue iridi nocciola. Approfitta di quei secondi per osservare la cura del suo pizzetto, le sue labbra carnose, lo smoking elegante sotto cui la camicia ruggine spicca come un papavero tra i campi di margherite; è bello Jean e certe volte si sente la donna più fortunata del mondo a essersi innamorata di lui.
 “Mamma mi ha chiesto di evitare almeno per il matrimonio, non sono eleganti, il mio vestito già è nero e...”
“E né Levi né Eren ti direbbero mai niente... comunque lo sappiamo entrambi che, tempo mezz’ora, e saranno troppo impegnati a cercarsi un posto dove infrattarsi per badare alle tue calze”
“A te non hanno mai dato fastidio?”
Jean aggrotta le sopracciglia confuso, eppure a Mikasa non serve guardarle per sapere quanto l’altro sia sincero, non le serve stare a pensare mentre il compagno d’una vita sceglie le sue calze preferite, quelle a rete nera sottilissima e intarsiata di decine di rose, quelle che le avvolgono la gamba e che hanno bisogno del reggicalze per tenersi su, quelle che hanno una piccola lama squadrata alla chiusura di quest’ultimo. Non le serve guardare Jean per sentirselo dentro l’anima, basta sentire la consistenza morbida di quelle calze tra le dita per innamorarsi di nuovo di lui.
Non le serve ricordarsi di quanto quella domanda sia stupida in quel momento, dove Jean la fa sedere sul letto e fa scivolare le calze lungo le sue gambe, mani calde e ruvide accarezzano la sua pelle diafana accompagnando la morbidezza della stoffa.
“Perché mai? A te piacciono e io non sono tanto piccolo da aver bisogno di schiacciarti per guardarmi allo specchio”
Mikasa ama le calze a rete sottile, le ama decorate e riempite di catenelle e di ciondoli, le ama sotto i jeans, sotto le gonne, sotto i vestiti semplici e sotto quelli eleganti; ma più di tutto, ama che sia Jean ad amarle addosso a lei.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Fame ***


Parola suggeritami da Aryes_Otaku (sappi che ne scriverò una minilong in futuro)
Parole: 1525
Attenzione: Tematiche delicate, TW!DCA
 
Il riso degli uramaki ha un sapore speziato tra le labbra, quasi copre il tonno e il cetriolo che sono stipati all’interno della sottile alga; Sasha non ha mai capito se il ristorante dove vanno abitualmente ce l’abbia come tradizione il condire così tanto il riso, o se sia un modo poco sottile per coprire la qualità non proprio eccelsa di quell’all you can eat a dodici euro. Ma se anche il ragazzo misofobo di Eren ci mangia in quel ristorante, sa che può quanto meno fidarsi del fatto che non morirà per un’intossicazione alimentare; allunga la mano sul rullo, raccogliendo quanti più nigiri di granchio e futomaki le sue mai riescano ad arraffare, la pila di piccoli piatti di plastica dura che si accumula alla sua destra e rischia continuamente di far crollare ad ogni movimento.
Ingoia un nigiri e si ripassa il sapore del granchio cotto tra le labbra, la salsa di soia le pizzica lungo la gola e forse dovrebbe metterne di meno al prossimo pezzo; ma è buona e con il pesce cotto sta bene, scivola nell’esofago come la carezza di una piuma su un incudine. È piena, lo è da tempo e lo stomaco le fa male per quanto è gonfio, ma quella fame insaziabile le annebbia la mente con le sue lusinghe dolci come il frutto zuccherino del peccato, spintona il cibo prendendosi uno spazio che non c’è a forza; ha fame Sasha, una fame che non si estingue neanche quando addenta quel temaki strabordante di riso, carote e salmone.
“Beata la tua amica! Ha mangiato il quadruplo di noi ed è magrissima”
Alza lo sguardo verso la collega di psicologia di Mikasa, i capelli biondi le scivolano su quel delicato nasino alla francese, che l’illuminante fa apparire ancora più luminoso sotto le luci del locale; non ricorda il suo nome, è sicura che sia qualcosa che inizi con la H, non ricorda cosa ci faccia l’altra con la sua comitiva a pranzo, non ricorda quando sia entrata nel ristorante, non ricorda di quanto la pila di piatti al suo fianco sia diventata talmente alta e lo stomaco talmente pesante da faticare a respirare. Non ricorda nulla che non sia il sapore del pesce carico di salsa di soia nella gola.
Ma deve sorridere perché in fondo quello è un complimento, no? Riuscire a mangiare e tenere il controllo del proprio corpo è un complimento, non sentire lo stomaco così pesante e pieno nonostante tutti i piatti accumulati alla sua destra, significa che è stata brava anche oggi?
“Sei persino più magra di Mikasa, come fa...”
“Hitch, smettila adesso!”
La mora non sembra per nulla contenta di quelle parole, il cuore di Sasha sprofonda a terra e la fame spinge sotto la pelle a guardare le sopracciglia aggrottate dell’altra; quanto deve pesarle mortalmente sentirsi paragonare a quell’ammasso di carne e nullità che le siede affianco? Quella ragazza forse non vede il grasso e lo sporco che le avvolge il corpo? Non vede lo stomaco gonfio e pesante di cibo? Non vede la pelle flaccida e il viso gonfio?
È in quel momento che capisce che le sta mentendo, sicuramente è una bugia e gli occhi argentei della mora sono arrabbiati più per questo, che perché l’ha paragonata a lei; Sasha la guarda e pensa che quella Hitch non capisca niente, che darebbe tutto il suo corpo e tutta la sua anima per essere bella almeno un quinto di quanto è bella Mikasa, che a metterle a confronto è solo un umiliazione per la sua migliore amica. E le sorride nuovamente, mentre lo stomaco brucia per la fame e la testa si riempie di urla.
“Metabolismo veloce”
Perché mangio i ricordi
Ritorna a raccogliere il cibo dal rullo, piattini su piattini che si accumulano in una nuova torretta ancora più alta e gli occhi di Mikasa che le pesano addosso, la scrutano silenziosi mentre le chiacchiere attorno al tavolo si fanno sempre più forti: Eren ha detto qualcosa che ha fatto arrabbiare Levi, lo vede da come le guance dell’altro sono rosse e dal modo in cui guarda le bacchette come se volesse infilzargliele nell’occhio, ma Sasha non sente e butta giù i ricordi; Historia non è al suo posto, forse è andata in bagno, e Ymir sta punzecchiando Jean per passare il tempo, ma Sasha non sente e butta giù i ricordi.
E Mikasa continua a guardarla, non le leva mai gli occhi di dosso finché Eren non la richiama, per convincere il cugino della mora di qualcosa, ma Sasha non sente e butta giù i ricordi.
Sua madre è malata di cancro, ha sei anni quando le sue mani smettono di stringerla.
Mangia
Suo padre perde il lavoro, lo vede traballare per la prima volta quando sono costretti ad andare a vivere a casa di sua nonna, e non può succedere davvero perché suo padre è il suo eroe e non può cadere anche lui. E sua nonna le vieta di portare i suoi amici in casa, ha sette anni e gioca da sola in salotto finché Mikasa non va a chiamarla dopo le lezioni di scherma.
Mangia
Suo padre si risposa, è felice e anche Sasha è felice, perché la sua matrigna è una donna fantastica e le vuole bene; ma sono troppo preoccupati a badare alla sua nuova sorellina per pensare a lei.
Mangia
Suo zio, lo sgabuzzino stretto in cui sua nonna tiene le conserve, il suo odore di tabacco e il loro piccolo segreto. Ma lei è stupida e lo dice a Mikasa, perché ha paura di quello spazio angusto e l’odore del tabacco non le si leva dalla testa, anche se sua nonna non le perdona di aver mandato suo figlio in galera.
Mangia
Sua nonna che la chiama puttana per la prima volta a tredici anni e ancora oggi non ha smesso, soprattutto davanti ai suoi amici; soprattutto davanti ad Eren, che oltre ad essere un maledetto finocchio, le risponde troppo a viso aperto e senza rispetto per gli anziani.
Mangia
Connie la lascia perché lei è niente ed è incapace di tenersi un uomo mentre tutti attorno a lei sono felici, anche se la verità è che forse non si sono mai accorti di quanto funzionassero più da amici che da coppia.
Mangia
Ingoi i ricordi, ingoia i pensieri, ingoia il dolore.
***
“Sasha!”
Quando rincasa Kaya l’aspetta sempre in salotto, è una loro tradizione e le stringe le braccia attorno alla vita; Sasha non ha mai cuore di dirle di fare attenzione, ché ha mangiato troppo e lo stomaco le pesa carico di sensi di colpa, che oggi i piattini che ha accumulato al ristorante le ballano davanti agli occhi, ogni pezzettino di sushi le accoltella l’anima.
Ha mangiato troppo, ha perso la ragione e si è ingozzata di cibo, ha lasciato che la fame l’avesse vinta e ha mangiato troppo e le calorie le pizzicano dietro la nuca assieme al sudore; Kaya non si accorge quanto stia tremando, o forse dà la colpa al vento gelidi di fine febbraio, corre in cucina appena sua madre la chiama per cena.
“Tesoro, non mangi?”
Suo padre è un bell’uomo e nonostante i suoi quasi cinquant’anni non ha neanche un capello bianco, i suoi occhi castani la guardano sempre come se vedesse la fame appollaiata sulle sue spalle, con gli artigli appuntiti infilati nella carne e la bocca rossastra che sorride con i suoi denti aguzzi; è un uomo che sprigiona eleganza suo padre, dal viso sottile e definito, ad ogni gesto e parola filtra quella saggezza che le accumula parole tra le labbra, parole cariche di segreti e di fame che non vogliono uscire. Tutto il contrario di lei.
“Ho fatto incetta al sushi con i ragazzi, sono piena... magari dopo mi faccio una tisana”
Non gli lascia il tempo di replicare mentre sale le scale e si rifugia in bagno; la porta di legno è fredda quando ci poggia la testa, fredda come tutta quella stanza, fredda come il suo corpo che pare privo della capacità di trattenere il calore. La doccia picchietta sinistramente quando la apre per far riscaldare l’acqua, le gocce d’acqua paiono tante grida mentre si spoglia e il suo corpo nudo si riflette sullo specchio: è enorme il suo corpo, occupa tutta la stanza, è flaccido e gonfio di ricordi; ha mangiato troppo, ha lasciato che la fame divorasse la sua mente, ha ingoiato la sua testa e adesso pesa sul petto, non riesce a respirare finché resta tutto dentro.
La doccia scorre, copre i conati mentre si ficca due dita in gola e butta fuori tutti i ricordi, lascia che fluiscano bruciandole la gola con l’acido dei succhi gastrici; l’odore le invade le narici, un puzzo che le ribolle dentro per quanto la sua anima sia marcescente. Vomita fino a che lo stomaco non si svuota e i sensi di colpa scivolano via con la saliva, vomita fuori i ricordi fino a che non resta nient’atro che silenzio nella sua mente, vomita finché la fame non allenta le unghie stette sulle sue spalle.
Si asciuga la bocca con la carta igienica; ora ha di nuovo il controllo.
Ora sta bene.

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Edicola ***


Parola suggeritami da Mxxx_7
Parole: 2765 (l’ho già detto che sono un circo ambulante? Massimo mille parole... certo)
 
Levi l’ha sempre odiata l’edicola di suo zio, o meglio ha sempre odiato l’idea di essere costretto a lavorarci una volta stretto IL maledetto pezzo di carta tra le dita; ma aveva dovuto farci presto i conti con la realtà e con il fatto che di laureati in biologia ce ne sono fin troppi al mondo.
C’aveva anche provato a farsi assumere in qualche azienda di ricerca genetica, campo in cui aveva conseguito la specializzazione con il massimo dei voti, ma si era ritrovato solo porte in faccia e una sfilza di cerchiamo qualcuno con più esperienza; secondo quale logica malata un neolaureato dovesse avere esperienza, Levi francamente non l’aveva mai capito, come non aveva mai capito da dove avrebbe mai potuto tirare fuori quella tanto decantata esperienza se nessuno sembrava propenso ad assumerlo.
I primi tempi aveva ripiegato su un dottorato di ricerca di circa due anni, aveva accumulato quella essenziale esperienza e aveva tirato su una serie di pubblicazioni e studi prestigiosi che in un mondo normale gli sarebbero valsi almeno un posto nell’ultimo sgabuzzino della Terra; peccato vivere nel mondo reale dove tutti quei successi accademici paiono contare poco meno dello zucchero durante un incendio, e dove aveva dovuto cominciare ad accontentarsi di quei seicento euro lordi che, chi più chi meno, gli aveva rifilato ad ogni finto contratto di formazione.
Alla fine di tutto è giunto alla conclusione che, se proprio deve farsi sfruttare come una bestia da soma per quei quatto denari che non lo renderebbero comunque indipendente, tanto vale lavorare nell’edicola di suo zio.
Non che ci sia davvero qualcosa di male a ripiegare su quel posto, sarebbe un po’ come sputare nel piatto che gli ha permesso di avere laurea, master, dottorato e tutte quelle belle cose che per il mondo non contano niente; semplicemente Levi non è mai stato portato per fare l’edicolante e rapportarsi con la gente. Soprattutto perché lui di pazienza non ha mai eccelso, il rischio di mandare al diavolo i clienti di suo zio è sempre dietro l’angolo e questo non fa per nulla bene agli affari; anche se in quel momento nessuno lo biasimerebbe di aver infilato la linguaccia di Floch su una picca.
“Non avete poster più grandi?”
“Mi hai preso per un’agenzia pubblicitaria? Quelli sono, accontentati e paga!”
“Non potresti chiedere a Eren di fartene avere uno a figura intera? A te l’avrà sicuramente manda...”
Il modo in cui il suo sopracciglio sta tremolando deve dirla lunga a Floch su quanto la sua pazienza vacilli, di pari passo con la posizione della testa sul suo collo. Levi lo sa che non ha mai brillato per capacità sociali né tanto meno di quella tanto decantata cortesia per il cliente che suo zio ha tentato di infilargli a forza di scoppole sulla nuca, ma francamente non ha alcuna intenzione di impegnarsi a migliorare per quella piccionaia ambulante; che sembra finalmente essersi deciso a estrarre i soldi dalle tasche dei bermuda, spulciando in quel sacchetto pieno di monetine che si accatastano davanti ai suoi occhi e gli fanno venire voglia di bestemmiare. La vecchia dirimpettaia dell’edicola sbircia pretendendo di essere diventata invisibile, allungando un po’ troppo l’occhio nel modo meno discreto possibile sull’immagine di copertina.
“Comunque, io non lascerei che il mio ragazzo si mettesse in questo modo alla mercé di tutti fossi in te”
Il viso di Eren guarda alla fotocamera con quelle due biglie verdissime in cui sembra che qualcuno abbia racchiuso un pezzo di oceano, il viso mollemente poggiato sulla mano destra e i denti che paiono bianchissimi incastonati in quella carnagione olivastra, centimetri e centimetri di pelle liscia immacolata sotto il sole di quella spiaggia marsigliese; i glutei sodi e lucidi attirano l’attenzione quasi fossero il Nord di tutti gli sguardi della Terra, due globi di carne rotonda di cui riesce a sentire la consistenza tra le mani anche solo a guardare quella foto. E lo fa sorridere pensare a quanto il suo ragazzo si fosse lamentato per la crema che avevano spalmato sulla sua pelle durante lo shooting, con tutte le microsfere di glitter che mi sono lavato tre volte e sembro ancora un cazzo di vampiro di Twilight.
Lo fa sorridere anche pensare a come abbiano fatto a convincere quel moccioso troppo cresciuto a stendersi nudo sulla sabbia; proprio lui che, per quanto amasse il mare, gli faceva sanguinare i timpani con tutte le sue lamentele su quei granelli sottili che si infilavano ovunque.
Alza lo sguardo su Floch, quel sorrisetto sfrontato di chi pensa di aver toccato un nervo scoperto, un punto capace di scatenare quei sentimenti melmosi e oscuri che porterebbero qualunque uomo insicuro e possessivo a dubitare di Eren. Peccato che per quanto Floch possa dirne, tra loro due l’unico che non ha bisogno di quella foto sta dietro la cassa a battere lo scontrino.
“Per questo io ed Eren scopiamo da dieci anni, mentre tu devi accontentarti di una rivista”
***
Una relazione che dura praticamente dal liceo, vi siete conosciuti tra i banchi di scuola?
Storce il naso a leggere la domanda che l’intervistatore porge a Eren, come accade un po’ tutte le volte che qualche giornalista comincia a indagare nella loro vita privata; è passata da poco l’ora di pranzo e di persone per l’edicola ne girano poche, tanto che gli era sembrata una buona idea prendersi quella mezz’oretta di pausa e leggere finalmente l’intervista del suo compagno. Anche se Levi riesce a sentirsi chiaramente lo sguardo di Kenny dietro la nuca, può quasi credere che suo zio stia controllando l’edicola da casa, bestemmiando fra i denti mentre si gratta sconsideratamente la gamba al di sotto del gesso; ma è fin troppo impegnato a guardare gli scatti del servizio, quelli in cui Eren gli appare come una visione, con quei suoi lunghi capelli castani che tra le dita hanno la consistenza vellutata dello zucchero filato, con quella pelle caramellata liscia e pizzicante del suo balsamo corpo alla menta sotto la lingua.
Con quegli occhi verdissimi che gli stringono il fiato quando lo guardano, anche in quel momento mentre cerca di trovare una logica dietro quella sfilza di caratteri che circondano le sue foto, sembrano richiamarlo a sé e catturargli l’anima; ci sono dei momenti, in particolare quelli in cui le risposte di Eren a quelle domande che entrambi trovano fastidiose gli fanno perdere un battito, in cui fatica a credere che un uomo così continui a sceglierlo dopo tutto quel tempo.
All’edicola della sua famiglia, entravo a comprare il giornale per papà tutti i pomeriggi e vedevo questo ragazzo bellissimo con il naso immerso nella sezione dei fumetti; sembra uno stronzetto all’inizio, ma in realtà Lee è la persona migliore di questa Terra, mi considero un uomo davvero fortunato
“Stupido moccioso impertinente”
E quasi come se l’avesse sentito, il suo telefono inizia a vibrare freneticamente sul tavolo mentre la voce di Bon Jovy riempie l’ambiente; quella suoneria l’aveva scelta Eren, o meglio l’aveva impostata per sé sul suo telefono in modo che sapesse subito chi lo stava chiamando. Una cosa talmente da Eren che non era valsa neanche la pena alzare un sopracciglio di dissenso.
“Amoreee, sono distrutto... oggi Ymir non la smetteva di urlarmi contro, come se poi fosse facile posare su quei cazzo di scogli, mi sono visto con la testa spappolata più di una volta... che vorrei capire poi perché Historia ci tiene così tanto a mettere dei dannati scogli nella sua pubblicità, insomma stai promuovendo un nuovo profumo, non hai aperto una filiera di tonno in scatola...”
La prima cosa che aveva imparato di Eren è che il suo ragazzo utilizza dieci volte più parole di qualsiasi altro essere umano, una continua macchinetta che stava zitta solo nei momenti di rabbia o di malessere; persino nel sonno Eren è un chiacchierone e Levi, in tutti quegli anni in cui erano stati assieme, può raccontare una serie infinita di dialoghi imbarazzanti che il castano aveva fatto in piena fase REM – molti dei quali, e Levi non se ne vergogna affatto, erano registrati a imperitura memoria nel suo computer.
La seconda cosa che aveva imparato di Eren è che il suo tono di voce riesce a passare dal picchiettare della pioggia sui petali dei frangipani al mattino, a momenti come quello dove il suono arrochito delle sue corde vocali gli spinge il sangue lontano dalle zone sicure, molto più di qualsiasi foto quella plafoniera di Floch utilizzi per masturbarsi.
È nei dettagli che la sensualità di Eren pare sbocciare come una rosa nel deserto, in tutte quelle cose che le persone considerano difetti e che invece a Levi fanno sentire un peso sul ventre: nella sua voce roca di stanchezza; nei suoi capelli raccolti in modo disordinato che finiscono a cascargli ovunque, a infilarsi ovunque; nel modo scomposto che il castano ha di sedersi con le gambe mezze accavallate e il corpo flessuoso teso all’indietro; nella schiettezza che contraddistingue ogni parola che scivola da quelle labbra peccaminosamente rosse e gonfie.
“Ti hanno seriamente chiesto cosa pensano i tuoi del tuo lavoro? Non te l’hanno già fatta mille volte questa domanda?”
Solo il silenzio accoglie la sua domanda, silenzio e un rimestio di lenzuola che non aiutano quel pallido tentativo di distogliere la sua mente da pensieri impuri nel bel mezzo di una stupida telefonata; gli sembra sempre di essere quell’adolescente silenzioso con il naso affondato nei manga quando si tratta di Eren.
“Sono arrivate le riviste allora... e sì, me l’ha chiesto nonostante io l’abbia detto a mezzo mondo che se mio fratello mi fa da manager, qualcosa deve pur significare... credo volesse la storia tragica della serie: mio padre voleva impedirmi di dedicarmi alla mercificazione del mio bel corpicino”
“Un gran bel corpicino”
 “Lo so... e mi hanno chiesto anche cosa ne pensi tu di quello che faccio, se non ti desse fastidio che la gente possa farsi dei pensieri su di me... come se io ti stessi mancando di rispetto perché uso il mio corpo...”
Levi vorrebbe replicare che, in realtà, sua madre non era sembrata contenta inizialmente e che, per quanto riguarda lui, ha materiale molto più esclusivo e osé di quelle foto; ma Eren in preda la nervosismo ha il brutto vizio di parlare a raffica e intromettersi nel suo discorso è come tentare di scalare l’Everest senza equipaggiamento.
“O, peggio, come se tu fossi uno di quelli convinti che a stare insieme mi hai marchiato sul culo”
“No, il tatuaggio ce l’hai sul collo”
Eren resta per un momento interdetto al tono noncurante con cui la sua voce ha pronunciato quella frase, resta a rimuginarci per qualche secondo in silenzio prima che, come Levi prevedeva, scoppi a ridere a pieni polmoni; e gli manca terribilmente in quel momento, mentre lo sente ridere in quel modo singhiozzante e acuto e il fiato gli si pianta nello stomaco per quanto vorrebbe spegnere quella risata in un bacio. Vorrebbe così tanto averlo vicino, passare ore a baciare ogni angolo del suo corpo, ascoltare la sua voce senza la distorsione del telefono e sentire il calore della sua pelle sulla propria.
Se c’è una cosa che gli pesa, che pesa a entrambi, non sono delle foto ma quei momenti in cui stanno lontani per così tanto che Levi comincia a contare i giorni che li separano ancora.
“Se tu volessi impedirmi di lavorare perché la gente potrebbe fare pensieri sconci sulle mie foto, non saresti la persona fantastica con cui sto da una vita”
E fa ancora più male in quei momenti in cui Eren è semplicemente Eren e riesce ad arrivare al suo cuore come se cogliesse un limone maturo dal suo albero.
“Quando ci siamo conosciuti avevi i vestiti addosso e posso assicurare che non sono un filtro efficace... un po’ di stoffa non basta a fermare certi pensieri”
“Oh oh, quali oscuri segreti cela il signor Ackerman?”
Qualunque cosa volesse dire, viene interrotto dallo scampanellio della porta; una parte di sé ha sempre sospettato che suo zio soffrisse di problemi all’udito e quando avevano dovuto ristrutturare l’edicola, da bravo nipote premuroso qual era, gli era parsa scontata la scelta di quel sistema l’entrata con quelle campanelle che facevano il fracasso di centinaia di torri di cristallo mandate in pezzi. Lo rifarebbe ancora, solo per vedere la faccia del vecchio quando l’avevano montata, nonostante non fosse stato per nulla divertente dover fare i turni dalle sei del mattino per due mesi e mezzo.
“Salve signor Levi, vi è arrivato il nuovo volume di Shingeki no kyojin?”
“Ciao Falco!”
L’urlo di Eren gli fa fischiare l’orecchio e gli ricorda, nel modo più doloroso possibile, quanto il suo compagno abbia la pessima abitudine di alzare il tono della sua voce al telefono; il ragazzino saluta intimidito, occhieggiando alla rivista che Levi stava leggendo. Conosce Falco fin da quando era un frugoletto di appena un anno e i suoi genitori si erano trasferiti nella palazzina di fronte l’edicola; l’aveva visto crescere, gli aveva fatto da babysitter – perché a Levi i bambini piacevano, nonostante tutti pensassero il contrario – e aveva visto in tutti quegli anni quanto Falco considerasse Eren un modello da imitare, quanto fosse in assoluto teso ad assomigliargli.
Per questo motivo, non si meraviglia dell’imbarazzo che prova ogni volta che la personalità scoppiettante di Eren investe anche lui.
“Dietro al bancone, apri il cartone e attento alle forbici”
Falco annuisce e scivola con consumata abitudine dietro il bancone, raccogliendo le forbici che tengono nel terzo cassetto e guardandolo di tanto in tanto, mentre Levi si assicura che non si faccia male aprendo le scatole.
“Mi ecciti quando dai ordini”
“Eren...”
Ringrazia che il più piccolo sia impegnato a rovistare in cerca del volumetto ad una distanza tale da non permettergli di sentire la voce seducente del castano, una colata di miele denso e zuccherino che gli incastra il respiro in gola e il sangue lontano dalla testa; la risatina roca che gli colpisce le orecchie non aiuta a tenere a freno un mese di lontananza, lo sa benissimo anche quel demone tentatore che gli sospira nelle orecchie.
Eppure quella sensazione è sempre dolceamara, quella voglia di fare l’amore con Eren è sporca della mancanza delle sue carezze e delle sue labbra impertinenti, è fatta del calore di quella pelle caramellata che sente sempre sulla sua, è fatta delle sue chiacchiere, del suo modo di sedersi scomposto e dei suoi capelli lunghi che sbucano fuori anche dai vestiti freschi di bucato.
“Wow”
Si gira verso Falco, osservando la copertina dell’edizione che l’altro tiene tra le dita come la reliquia di Gesù Cristo in persona, gli occhi gli brillano contenti mentre ne studia i dettagli lucidi del cartoncino plastificato.
“C’è l’edizione limitata! Di solito il signor Kenny le finisce subito... però, costa troppo”
Guarda per un attimo il prezzo della copertina, poi sposta gli occhi sul visto mesto di Falco mente lo poggia sul bancone e scava nella scatola, in cerca dell’edizione classica a poco meno di cinque euro; e pensa, non senza una dose di maledizioni verso se stesso e il suo poco amore per i soldi che Kenny gli farà pagare in cassa, che ad averlo sempre fregato a lui è la sua dannata empatia. Anche se gli abbracci strozzafiato di quel ragazzino biondo gli piacciono.
“Dammi il solito prezzo... tre euro non mi faranno diventare più ricco”
Solo il respiro del suo compagno lo accoglie quando anche le campanelle della porta smettono di tintinnare e gli sembra di sentir rimbombare il sorriso di Eren nell’anima; perché quando l’altro sorride, soprattutto in quel modo innamorato che gli arriccia il naso delicato e gli fa brillare le pupille, Levi non ha bisogno di vederlo.
“Eren?”
“Niente, sei speciale... e sei un ottimo edicolante”
“La brucerei volentieri questa edicola”
Che il suo compagno sappia quanto quel tentativo di scaricare l’imbarazzo dei complimenti, che sappia quanto le sue guance siano rosse e quanto stia tormentando la perla nera che gli scivola dall’orecchio, non ha importanza rispetto alla sensazione che gli prende lo stomaco mentre Eren ridacchia e vorrebbe averlo di fronte a sé solo per poter guardare i suoi occhi vivi, e non impressi sulla carta lucide delle riviste.
“Ti amo Lee... non vedo l’ora che sia sabato, ci chiudiamo in casa e...”
“Devo lavorare, zio ha ancora il gesso”
“E cosa mi impedirebbe di farti compagnia dietro al bancone?”
Nel modo in cui la voce di Eren scivola sulla parola dietro, Levi pensa che tutto sommato non sia così orribile lavorare nell’edicola di suo zio; spera solo che Kenny non guardi le telecamere del negozio tutto il giorno.
“Non male”

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Festa ***


Parola suggeritami da camysweetpain
Parole: 2768
(Scusate il ritardo, se mi vedete assente in ste settimane è perché ho un esame a breve e sto un attimino con le pezze al culo, come si dice qua)
 
Historia non era mai stata un’amante delle feste, non le piacevano i rumori troppo forti, non le piaceva l’essere costretta nella calca di persone, non le piacevano gli sguardi giudicanti sui tatuaggi che le ricoprivano il corpo, sui suoi capelli a metà rasati e sui piercing appollaiati lungo il profilo delle sue orecchie; non le piacevano i ragazzi che ci provavano insistentemente con lei, nonostante continuasse a fargli presente che a lei il pene proprio non piaceva.
Essere lesbica in un paesino di provincia era stata di per sé una sorta di condanna all’infelicità, un patto con il diavolo che tante volte da ragazzina avrebbe voluto non aver stretto.
Non era in sé lo stigma sociale che la sua omosessualità si portava dietro, quella sorta di disprezzo misto alla compassione per una così bella ragazza sprecata, a pesarle più di tutto; era quella continua gara che qualche deficiente aveva iniziato quando aveva tredici anni e che continuava tutt’ora, quel cercare di farle cambiare idea perché se non hai mai provato, non può sapere se ti piace. A tali affermazioni avrebbe voluto rispondere che, francamente, se in ventidue anni di vita la sola idea di fare sesso con un ragazzo le ha fatto venire solo la pelle d’oca, di certo non sarebbe stato l’imbecille di turno a farle rivedere le sue prospettive di vita.
Non che in realtà non ci avesse provato ai tempi del liceo, quando era finalmente riuscita a spostarsi in città almeno per la scuola e respirare una briciola di libertà al di fuori delle soffocanti mura paterne; si era veramente impegnata per trovare almeno un ragazzo e rientrare nello stereotipo preconfezionato della normalità che tanto sembrava cara a quei vecchi bigotti dei suoi genitori. Peccato che l’unico ragazzo che avesse mai avuto fosse Eren, lo stesso che al loro primo Pride sventolava una bandiera arcobaleno più grande di lui e che l’aveva coinvolta in un piano degno delle peggiori macchinazioni del Trono di Spade per convincere il suo ragazzo a dargli una possibilità; e se Historia fosse una persona un minimo più infame, rinfaccerebbe volentieri all’amico che se Levi ha accettato di uscire con lui tre anni fa, il merito è solo suo.
Glielo rinfaccerebbe soprattutto adesso, mentre Eren ha la testa poggiata sulle sue gambe e blatera in preda alla peggiore sbronza della sua vita, distraendola dalla contemplazione di quella che tormenta i suoi pensieri da quasi un anno; perché Historia odia le feste, odia i rumori troppo forti, odia l’essere costretta nella calca di persone, odia gli sguardi giudicanti sui tatuaggi che le ricoprono il corpo, sui suoi capelli a metà rasati e sui piercing appollaiati lungo il profilo delle sue orecchie, odia i ragazzi che ci provano insistentemente con lei. Ma Ymir le piace da morire e se è seduta sul divanetto della piscina di Jean, a prendersi il gelo delle undici di quel trentuno dicembre, è solo per poter studiare le sue lentiggini e i suoi occhi nerastri da una distanza minore di un’aula universitaria.
“La tattica ti guardo finché mi noti è una merda... vai di lingua”
Eren sbiascica le parole, paiono arrotolarsi tra le labbra, impastate dall’alcool e dalla canna che Reiner stava facendo girare qualche oretta fa; ma su quest’ultima Historia non è tanto sicura, più perché Eren non fumerebbe con suo fratello a pochi passi da lui che per spirito salutista. L’amico occhieggia nuovamente verso Ymir e, per un istante, si ricorda perché non ha bevuto neanche un sorso di punch quella sera, mentre la mente torna a quella Historia ubriaca che aveva costruito un monologo ai suoi amici su quanto gli occhi di Ymir fossero profondi, su quanto la sua pelle apparisse liscia, su quanto la sua voce e la sua risata sembrassero fatte di musica.
Sì, aveva decisamente esagerato con l’alcool e questo è un motivo in più per odiare le feste ed Eren che la tartassa sempre per trascinarvela, fino a farla collassare sconfitta.
“Che aspetti, su? Buttati.... avete lavorato a quella roba strana che studiate voi, vi conoscete, ti piace... scopa stasera, almeno tu che puoi...”
Schiva una manata di Eren, che si muove steso sulle sue gambe come uno scarafaggio riverso sul dorso, descrivendo le sue parole con le dita; Historia vorrebbe replicare che tutte le volte che si è buttata, ci ha ricavato una sfilza di due di picche e di occhiatacce di disgusto – senza contare i vari insulti poco LGBT friendly che aggiungevano quel tocco di pepe ai suoi fallitissimi tentativi di flirt – ma il castano è talmente perso nel suo mondo, che a mala pena sente quando lo richiama.
“Perché Levi doveva andare a Berna proprio a dicembre?”
“Perché si presuppone che un pilota di aerei guidi gli aerei anche a dicembre?”
Il castano aggrotta le sopracciglia, guardandola ad occhi socchiusi come se la luce gli desse fastidio o, molto più probabilmente, come se non trovasse un vero senso alle parole che ha appena pronunciato e la sua testa cercasse di elaborarle piano piano; la pelle di Eren è liscissima e, tante volte in quegli anni, Historia gliel’ha sempre invidiato il non dover combattere con la maledetta acne che si divertiva a impestarle il viso.
Non ha mai capito esattamente come abbiano fatto lei ed Eren a finire insieme, in un tempo in cui entrambi cercavano di essere come tutti gli altri e di nascondersi dietro quella relazione di porcellana; forse era stato un sesto senso l’essersi trovati qualcuno che ci sarebbe sempre stato una volta svelata la verità, forse era talmente evidente che avevano solo sprecato un anno a negarla a se stessi, forse si erano talmente convinti che gli servisse solo tempo da non vedere quanto le loro anime fossero diventate a brandelli, terribilmente simili. Quello che Historia sa è che aver trovato Eren è stata la più grande fortuna della sua vita, per tutto il supporto e l’amore che l’altro è stato capace di donarle, per quella prima vera amicizia, per Carla e Grisha che l’avevano accolta in casa quando era stata sbattuta fuori dopo il suo coming out.
Ha tante cose di cui essere grata al castano, tante che non si pente di essersi seduta al tavolo di Levi quell’estate e avergli detto che a lasciarsi scappare Eren stava facendo la più grande stronzata della sua vita; e la pelle dell’amico continua a essere morbida quando si china a baciargli la fronte.
“Dai... più tardi puoi chiamarlo mentre aspettiamo il nuovo anno”
“Hisy, sei un genio!”
L’altro scatta a sedere, rompendole quasi il naso e rischiando di scivolare nella piscina accanto a loro se non lo trattenesse; eppure Eren sembra non notarlo minimamente mentre ondeggia pericolosamente, il cellulare stretto tra le dita e la testa che ricade stanca sulla sua spalla. Una parte di sé sa già che l’amico si pentirà della sua abitudine di urlare al telefono domattina.
“Lee, facciamo sesso a telefono! Non sono ubriaco! No... ti dico... c’è Hisy”
Trattenersi dal ridere è difficile, soprattutto mentre sente il tono scettico di Levi attraverso il gracchiare del telefono; un gruppetto di ragazzi si è fermato a guardarli circospetti a bordo piscina, forse più per la fama che lei ed Eren si portano dietro che per la mancanza di pudore dell’altro. Quando il più altro ridacchia, mormorando qualcosa e indicando Eren, si chiede cosa ci sarebbe di male in fondo a spingerli in piscina; può sempre dare la colpa alla luna in Marte, quella funziona sempre.
“Vuole parlare con te”
Prende il cellulare, mentre l’altro sembra sempre più la personificazione di un bambino a cui è stato strappato il gioco preferito, la testa ancora appoggiata sulla sua spalla e gli occhi assottigliati dal fastidio. Non sa che ore siano a Berna, ma quando Levi risponde può dirlo dalla sua voce che si fosse appena addormentato; e che sicuramente sta maledicendo il suo sonno leggero come poche cose al mondo.
“Levi?”
“Ti prego, dimmi che c’è qualcuno di sobrio a quella festa”
“Io sono sobrio... e voglio fare sesso”
Eren borbotta quelle parole a mezza voce, la lingua incapace di far scivolare le parole senza arrotolarsi su se stessa; sente Levi trattenere il respiro per qualche secondo e, se Historia lo conosce in modo abbastanza decente, sa che vorrebbe davvero prendere a calci il castano e il suo totale non controllo in fatto di alcool. E sa anche che dopo tre settimane che non si vedono, anche il più grande deve sentire la mancanza di quel rompiscatole che ha attaccato la guancia alla sua per sentire il telefono.
“Zeke deve guidare... ma in realtà sta barcollando abbastanza anche lui”
“Chiamami quel maledetto scimpanzé”
Un’altra cosa che sa, con una certezza che rasenta la fede che Giovanna d’Arco doveva avere in Dio e nella Francia, è che non vorrebbe essere al posto di Zeke sentendo il tono dell’altro; un’altra cosa ancora è che, quando chiama Zeke agitando le braccia per indicargli il telefono, il suo cuore salta una decina di battiti prima di accelerare come un sasso che acquista velocità gettato lungo una ripida discesa.
Perché lei si sta avvicinando, aiutando Zeke a non inciampare nelle mattonelle sconnesse del bordo piscina di Jean; perché lei si sta avvicinando e sembra ancora più bella, la pelle caramellata e i lunghi capelli castani che paiono brillare d’oro sotto la luce delle fiaccole sparse per il giardino; perché lei si sta avvicinando e i suoi occhi sono talmente scuri da ricordarle la notte senza stelle. E continua a guardarla mentre aiuta Zeke a sedersi e rispondere al telefono; quasi le sembra di potersi illudere di interessarle.
“Cognatino... wow, calmati... ho capito, ma... guarda che hai un anno in più di me, non cinquanta”
Eren si appende al braccio del fratello, tirando più vicino a sé il cellulare; Historia si piega strattonata dall’altro, avvicinandosi tanto a lei che il suo profumo di menta piperita le si avvolge attorno alla gola. E tutto sembra perdere di importanza, i ragazzi che ancora li guardano e ridacchiano, l’odore di alcool che viene da Eren e Zeke, i rumori troppo forti, l’essere costretta nella calca di persone, gli sguardi giudicanti sui tatuaggi che le ricoprono il corpo, sui suoi capelli a metà rasati e sui piercing appollaiati lungo il profilo delle sue orecchie e i ragazzi che ci provano insistentemente con lei.
Niente sembra contare più dei suoi occhi talmente scuri da apparire neri, delle lentiggini che le volteggiano sulle guance o del suo profumo di menta piperita che pare sovrastare qualsiasi odore a quella festa.
“Lee, almeno mi mandi una foto del cazzo? Me la mandano tutti i vecchi pervertiti su Instagram e non tu... stiamo insieme dai...”
“Hanno dei gusti pessimi”
Per quanto Eren sgrani gli occhi sconvolto, la voce che si alza di due ottave nel pieno dell’indignazione, Historia pensa che anche così Ymir le sembra semplicemente bellissima, con quel sorrisino sghembo piantato sul viso.
“Guarda che io sono un gran figo”
“Ma non la persona più bella che io vedo”
E mentre Eren borbotta che Ymir ha la sua benedizione, lo stomaco le si contrae spezzandole il fiato per come quegli occhi la guardano; mentre Zeke trascina Eren dentro casa per fargli smaltire la sbronza e restano sole sul divanetto in giardino, Historia sente le guance in fiamme. Eppure non si è mai sentita così felice.
***
Sono sedute su quello stesso divanetto da una ventina di minuti e continua a sembrarle un sogno tutto quel tempo insieme; lei era scivolata al suo fianco in totale silenzio, si era chiusa una sigaretta e le aveva allungato il tabacco e i filtri, sorridendo con quel dente scheggiato e lo smile che baluginava sotto la luce quando aveva accettato la sua proposta silenziosa. Non aveva saputo esattamente come comportarsi per buona parte del tempo, rispondendo più che altro a monosillabi e cercando di respirare correttamente.
Come stai?
Bene, tu
Anch’io, la roba di Reiner era scarsina... tu non hai neanche bevuto?
No, devo guardare Eren
Fai le veci del suo mastino quando non c’è?
Era stato tutto un susseguirsi di quel genere di frasi e, tante volte, si era rimproverata tra sé e sé per quella codardia che aveva sempre caratterizzato le sue interazioni con le ragazze che le piacevano; non che qualcuno avrebbe potuto rimproverarla, neanche Eren stesso che l’aveva sempre spinta a buttarsi nelle sue precedenti e disastrose relazioni. È che Historia si sente fatta di tanti difetti che non crede veramente che qualcuno possa volerla per com’è realmente.
Una cosa che aveva imparato, in tutte le poche e brevi storie che aveva avuto, è che presto o tardi le ragazze con cui stava cominciavano a considerarla una bella bambolina vuota; tanto bella e gentile all’inizio, tanto disponibile e solare, tanto determinata e inflessibile su se stessa da non riuscire a dialogare spesso. Certo, il fatto che per tutte le sue ragazze il dialogo avesse sempre avuto il significato di io ordino e tu esegui sembrava non avere importanza e, alla fine di tutto, era sempre lei ad uscirne distrutta e con una pessima reputazione sulle spalle. Ci si è semplicemente abituata a quella realtà e nei fatti buttarsi con Ymir rappresenterebbe in potenza il point break della sua vita.
“Sempre avara di parole, vedo”
Maledirsi internamente per la sua codardia e la sua stupidità serve a poco, le mani che le sudano e il cuore che va tanto veloce da faticare a respirare; eppure più guarda Ymir, più pensa alle sue battute stupide, al modo in cui non si cura delle voci moleste del mondo, al modo in cui l’ha sempre fatta sentire al posto giusto, un po’ lo pensa che Eren abbia ragione e che si sta comportando come Levi. La vorrebbe un’Historia personale che le dica di essere una deficiente a farsi scappare la ragazza che la sta guardando.
“È che...”
“Preferisci guardarmi durante la lezione di Pixis dal fondo dell’aula? O placcarmi da ubriaca per dirmi quanto le mie lentiggini sembrino una costellazione? O i miei occhi ti ricordino il caffè bollente senza cui non sai carburare al mattino?”
Historia odia partecipare alle feste e odia la sua totale incapacità di reggere l’alcool, in quel momento odia Eren che la trascina a quelle feste e odia Ymir per il sorriso divertito che tiene sulle labbra, mentre fuma quella sigaretta e le appare comunque perfetta; e vorrebbe baciarla, lo vorrebbe così tanto che fanculo le conseguenze del suo gesto, dovesse perderla per sempre.
“Devo dirti di esserci rimasta male quando non ti ricordavi il giorno dopo”
“Ti diverte così tanto?”
La mora si blocca, spegnendo il mozzicone nel posacenere poggiato a terra; e Historia si sente sul punto di piangere, gli occhi le bruciano come se qualcuno le avesse ficcato due tizzoni ardenti attraverso le pupille. Si sente sul punto di piangere e si promette che non metterà mai più piede a nessuna festa, neanche se Eren ce la trascinasse di peso.
“No, è che tu sei come uno scoiattolo e non so come chiederti di uscire senza che scappi via”
Ymir le accarezza una guancia e Historia pensa che Eren non abbia affatto torto, soprattutto perché le labbra dell’altra sono ancora migliori di come le ha sempre immaginate; Historia può dire che nella sua breve vita ha baciato ben più gente di quanta ricordi, ma solo ora si rende conto che quelli non potevano per niente definirsi veri baci. Le labbra di Ymir sono sottili, leggermente screpolate, esigenti; l’altra bacia come la donna che è, con tutta la possessività e tutta il carattere che la contraddistingue. Non è né gentile né aggressiva ma infiamma ogni cellula del suo corpo, come se dovesse respirare solo e soltanto il suo ossigeno e tutto il resto dovesse perde di importanza; e alla fine, in realtà, tutto ciò che rimane nella testa di Historia sono le mani della mora tra capelli, le labbra che premono sulle sue e i denti che mordono senza delicatezza. La festa attorno a loro sparisce e resta solo il profumo di menta piperita.
“Wow... lo prendo come un domani alle quattro?”
“Stupida”
Historia non era mai stata un’amante delle feste, continua a odiare i rumori troppo forti, l’essere costretta nella calca di persone, gli sguardi giudicanti sui tatuaggi che le ricoprono il corpo, sui suoi capelli a metà rasati e sui piercing appollaiati lungo il profilo delle sue orecchie, i ragazzi che ci provavano insistentemente con lei, nonostante continuasse a fargli presente che a lei il pene proprio non piaceva. Però baciare Ymir mentre scocca la mezzanotte e il rumore attorno diventa tanto forte da farle fischiare i timpani le piace; e non serve nient’altro.
 

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Giradischi ***


Parola scelta da Sam
Parole: 2217
Note: se c’è qualcuno di fede ebraica che rileva errori nel testo (ho fatto ricerche, ma non sono un’esperta) non si ponga problemi a dirlo perché correggerò subito
 
Suo padre aveva un vecchio giradischi risalente ai tempi della seconda guerra mondiale, quel periodo buio di cui aveva conservato soltanto i ricordi di un bambino che aveva visto la sua famiglia spegnersi nei gelidi campi della Polonia, in quella croce comune che ogni ebreo della sua epoca si è ritrovato a portarsi sulle spalle; quando poi suo padre era cresciuto, con quella faccia sempre arcigna di rancore e il cuore più nero di quei numeri che portava incisi nella pelle, quel giradischi era la sola cosa capace di renderlo quasi più umano e tangibile agli occhi suoi e di sua sorella. Sua madre gli aveva sempre detto che quell’uomo portasse dentro di sé un peso senza tempo, che certe cose loro dovevano solo capirle in silenzio e rispettare tutto il dolore che l’aveva formato; ma Kenny suo padre aveva imparato a non amarlo anno dopo anno, con quel suo vecchio giradischi che era finito a diventare il simbolo di un rapporto fatto di sale e di cenere.
Levi invece amava come un folle la bellezza intrinseca di quel giradischi, amava sentirsi parte della storia della loro famiglia attraverso quel vecchio pezzo da museo, amava sedersi vicino ad ascoltarlo con quell’uomo vecchio e consumato che Kenny aveva faticato a riconoscere come suo padre nei pochi anni che gli erano rimasti su quella terra; Levi che era arrivato una fredda sera di fine dicembre, in quella festa cristiana che aveva tinto di rosso le pareti dell’ospedale e che la vita gliel’aveva fatta a pezzi, ricomponendola nella  più bella forma che avesse mai avuto.
Levi era stato come un terremoto improvviso che aveva fatto crollare tutto, in quel tempo in cui aveva ancora il cuore troppo sanguinante del dolore del suo amore perduto, in quel tempo dove la sua piccola casina nella campagna belga gli era sembrata l’unico posto in cui fuggire; Kuchel l’aveva chiamato una mattina di inizio maggio, nel giorno sbagliato perché loro si sentivano solo di sabato, i singhiozzi che le scuotevano il petto e la bocca impastata di troppe lacrime, a sussurargli che era appena entrata nel secondo mese di gravidanza e lui l’aveva sbattuta fuori di casa per la vergogna di una figlia senza marito. Tornare in quella città intrisa di cattivi ricordi e fetida dell’odore della cinghia di suo padre era stata un’azione a cui non aveva minimente pensato, era partito con nient’altro che rabbia e urla che aveva riversato addosso all’uomo ed era rimasto per quel fagottino silenzioso in cui aveva riversato tutto l’amore che, un tempo, era stato del suo Uri.
E in quel momento, mentre il giradischi li guarda tutti come una presenza silenziosa dall’altro del suo tavolino in salotto, pensa di nuovo a lui per la prima volta dopo ventidue anni, lui che era stato il suo primo e unico tutto, lui che era un dolore più grande della consapevolezza che suo padre i finocchi come lui ce li avrebbe portati di peso nei campi di concentramento; perché a tenersi i segreti stipati nei cassetti si finisce a non riconoscersi neanche nello specchio e la figura che si riflette sulla superficie al di sopra del maledetto giradischi, mentre Levi tiene la testa bassa e le dita salde tra la presa di quell’Eren che non è mai stato solo il mio migliore amico, somiglia orribilmente a suo padre e lui ne è terrorizzato.
E un po’ lo capisce perché Levi tenga la testa bassa e lo guardi di sottecchi, ignorando tutto l’amore che solo una donna meravigliosa come Kuchel potrebbe riversare sul frutto del suo ventre, ignorando il modo in cui Eren gli stia accarezzando il dorso con il pollice.
Una mano pallidissima che stringe la sua, incredibilmente piccola come incredibilmente piccola è la persona a cui appartiene, due occhi talmente azzurri da parere viola nello scuro della pupilla; il mondo sembra andare al posto giusto sotto quella pianta in cui si sono rifugiati per scappare alla pioggia, sulle labbra di Uri tutto smette di fare male, anche l’odio che Kenny prova per se stesso.
“Ti amo anch’io Kenny”
Levi guarda solo lui, Levi dà tutte le attenzioni a lui, Levi non gli stacca gli occhi di dosso perché Kenny lo sa quanto suo nipote lo ami e quanto deluderlo sarebbe la cosa peggiore che potrebbe capitargli; perché anche Kenny ama quello scricciolo scazzoso che non è mai stato capace di vedere quanto il tempo l’avesse eroso e che l’aveva chiamato papà per buona parte della sua infanzia. Perché in fondo, per quanto non riusciranno mai a capirsi del tutto, Kenny suo padre nello specchio non vuole vederlo, la sola idea di distruggere la vita del suo Levi gli torce lo stomaco dal dolore spezzandogli il fiato.
“I tuoi lo sanno?”
Kuchel da fiato a una delle tante domande che gli frullano nella testa a una velocità immaginabile, cercando un senso a quei quattro anni di silenzio e di menzogne che avevano caratterizzato la vita di suo nipote; perché è sicuro di aver sempre tentato di dargli tutto l’amore che un essere umano possedesse, di aver sempre sostenuto il suo percorso e la sua vita, di avergli insegnato ad avere la forza e l’amore per se stesso che Kenny non aveva mai avuto per oltre venticinque anni della sua vita, di avergli trasmesso come l’amore che lui e Kuchel provavano nei suoi confronti non è qualcosa che sia possibile mettere in discussione. È certo di non avergli mai fatto credere che l’avrebbe odiato per quella croce che portano assieme, eppure una parte di sé lo sa che nell’accettare di essere una nota bellissima nella sua diversità ci vogliono sangue e lacrime.
“Sì, ne sono fin troppo contenti... penso che amino Lee quasi più di me certe volte”
Uri lo guarda, i suoi occhi sono talmente lucidi di lacrime che a Kenny sembrano diventare liquidi, sono bellissimi anche in quel modo per quanto il dolore che vi legge gli brucia il viso più del ceffone che gli ha rifilato suo padre; se lo stringe contro il petto, Uri diventa ancora più minuscolo tra le sue braccia e Kenny vorrebbe solo strappargli la sofferenza dalle spalle, prenderla su di sé e non macchiare quell’anima candida con la crudeltà del mondo.
“Non l’hanno presa bene, Kenny! Se non faccio come vogliono, hanno detto che mi manderanno in uno di quei centri di cura”
“In uno di quei lager autorizzati, vorrai dire”
Eren sorride a parlare di suo nipote, gli occhi gli brillano innamorati e a sua sorella sembra sciogliersi il cuore a quella vista, lo guarda anche lei e inclina la testa in un modo così lieve verso Levi che neanche suo nipote ha notato quel movimento; Levi continua a scrutarlo in silenzio, la mano che il suo ragazzo – e quanto è difficile dire quella parola nella sua testa, quanto dolore e quanti ricordi si porta appesi al collo come una catena sinistra e cigolante – non stringe trema incontrollata.
“Perché ce lo dici solo adesso?”
Perché di tutto ciò che rimane, Kenny ha bisogno solo di sapere quando il suo viso si sia trasformato in quello di suo padre, quando Levi nei suoi occhi abbia cominciato a vederci quella figura arcigna e spezzata dal dolore e dalla rabbia, quando gli ha fatto credere di non amarlo abbastanza; Uri un tempo gli aveva detto che tutta la somiglianza fisica con suo padre non corrispondeva a un briciolo nei loro caratteri, e Kenny gli aveva creduto perché se Uri l’aveva amato allora non tutto in lui era davvero così marcio. Ma forse nel tempo è finito davvero a diventare come lui: vecchio, stanco, burbero, avvelenato dalla vita; forse nei lunghi anni che sembravano diventati infiniti da quella fredda mattina di novembre, la pioggia aveva finito a congelargli il cuore.
E Kenny la odiava in modo viscerale la pioggia, gli si contorceva lo stomaco dal disgusto ad ogni gocciolina che picchiettava il suolo, ad ogni lampo che gli folgorava gli occhi arrossati, ad ogni tuono che faceva sussultare Levi come se fosse rimasto sempre lo stesso bambino di sei anni che correva ad infilarsi nel suo letto; e l’odore della pioggia, quel misto di terriccio e dei fiori umidi di una bara, lo odia mille volte di più perché gli entrato talmente dentro che certe volte non riesce a ricordare che profumo avessero i capelli di Uri, quelli che sapevano di un’terna estate in cui la pioggia non sembrava esistere.
“Perché nella Torah c’è scritto...”
“Pensi che me ne freghi qualcosa di quello che è scritto nella Torah?”
“Kenny!”
Kuchel stringe il pendente Hamsa nelle sue mani, la Shemà che scivola veloce dalle sue labbra e pare sempre il canto di un angelo sentire sua sorella pregare, stritola quel cuore nero e privo di Dio come se potesse ancora credere che da qualche parte nell’universo esista un senso all’odore dei fiori in un cimitero; Levi recita assieme a lei, la sua voce è sempre sottile e melodiosa come quella di sua madre, perché in fondo si dice che pregare cantando è come pregare due volte, con la voce e con lo spirito, quelli che Kenny non ha mai avuto e ha ormai perso da quando la terra era diventata pesante sotto le sue dita. Eppure, un tempo anche Kenny credeva che quel Dio l’amasse, che fossero gli uomini a odiare e a porre con l’inchiostro e col sangue la condanna del diverso, che solo nella violenza e nell’odio incapace di vedere il dono dell’amore quelle persone trovassero senso di esistere.
Quel novembre fa freddo e l’acqua scivola lungo lo strappo della camicia, inondando il braccio destro come un fiume che cala lungo le rapide di una cascata; eppure Kenny è sicuro di essere più morto della salma che quella terra maledetta sta avvolgendo, è sicuro che qualcuno che si sente così vuoto non possa definirsi vivo, è scuro di essere solo un ammasso di dolore dai polmoni di piombo e l’anima sanguinante. Sta piangendo Kenny, ma nessuno può sentirlo, nessuno può vedere le sue lacrime nella pioggia che cade nel silenzio più rumoroso del mondo; sta piangendo ma l’unico che l’abbia mai sentito gli è stato strappato da un genitore incapace di accettare che suo figlio lo amasse.
Uri è bellissimo nella foto che hanno scelto, che sua madre ha scelto come a chiedere scusa a quel figlio della cui fine è stata complice: i sui capelli pallidi, tanto da parere quasi bianchi, gli incorniciano il viso come una carezza e alcuni scivolano su quegli occhi talmente azzurri da parere viola; ha la sua camicia preferita in quella foto, quella grigissima che “mi ricorda i tuoi occhi, Kenny”, con quel colletto rigido che gli pungeva il collo quando si baciavano; e sorride Uri, sorride in quel modo che se tutte le luci dell’universo si fossero spente tutte di colpo sarebbe stato capace di illuminare anche i più remoti angoli.
Kenny continua a guardarlo, continua a maledire la società in cui sono cresciuti, i suoi occhi troppo azzurri, la sua anima troppo gentile e amante della vita, maledice il tempo in cui l’amato perché lo custodirà come il suo più grande tesoro e il peggiore fardello; maledice il destino e maledice anche Dio, mentre intona il Kaddish del lutto e nessuno può sentirlo in quel silenzio pieno di rumore.
Guarda suo nipote dritto negli occhi, guarda Eren che si incanta sempre a sentirlo pregare dopo tutti quegli anni, guarda sua sorella e poi guarda se stesso allo specchio: e Kenny ci vede Uri, ci vede i suoi occhi, la sua pelle, i suoi capelli, il suo sorriso; ci vede le loro dita strette l’una nell’altra, ci vede i loro corpi fusi su un letto, ci vede le sue mani cercare di far funzionare quel vecchio giradischi che continua a guardarlo e che Kenny non ha mai odiato più di quel momento; ci vede quella vita passata l’uno accanto all’altro, ci vede i loro litigi e le loro rappacificazioni, ci vede ogni gesto gentile, ogni minuto passato a sorreggersi insieme, ci vede la strada che hanno percorso e ci vede il momento in cui hanno ballato davanti a quel vecchio crudele giradischi.
“Un cristiano e un ebreo omosessuali... è una bella barzelletta per un nazista”
“Il tuo senso dell’umorismo è pessimo, Kenny”
“Ma mi ami lo stesso e tu ami me, sono la tua pessima barzelletta in fin dei conti”
“Solo se possiamo essere una pessima barzelletta per sempre?”
Lo stomaco è stretto, gli occhi gli bruciano di lacrime che Kenny è sempre stato certo di aver finito da tempo; Levi scatta in piedi non appena si alza, la mano che Eren tiene tra la sua si tende nel seguire quel movimento. È strano come il tempo paia sospendersi e ripetersi, come Levi si trovi nel posto e nelle parole che anche lui ha rivolto a suo padre al tempo, come l’amore abbia anch’esso una forma infinita e ritorni sempre su se stesso; ma sta a lui rendere il finale diverso.
“Stammi a sentire, ragazzino: non mi serve nessun libro scritto da un circolo di vecchi bigotti di duemila anni fa per dire che mio nipote va bene così com’è!”
E nell’abbraccio in cui Levi lo stritola, la mano sempre stretta in quella di Eren e bagnandogli la camicia, il giradischi pare suonare la canzone del suo Uri.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3976710