Tante grazie per i crisantemi

di Yunomi
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** L'ammutinamento degli organi interni ***
Capitolo 2: *** Il Diavolo gioca a burraco ***
Capitolo 3: *** The heart of the mutter ***
Capitolo 4: *** Buchi neri supermassicci (but what will we do when we're sober?) ***
Capitolo 5: *** Goodbye stronzo ***
Capitolo 6: *** Una vita in coma etilico ***
Capitolo 7: *** Questi ridicoli teatrini ***
Capitolo 8: *** L'amore è come il brasato ***
Capitolo 9: *** Desperado ***
Capitolo 10: *** "Ah." ***
Capitolo 11: *** Il matrimonio del cielo e dell'inferno ***
Capitolo 12: *** Sulfur & sage ***
Capitolo 13: *** From Eden ***



Capitolo 1
*** L'ammutinamento degli organi interni ***


L’ammutinamento degli organi interni
 
 
“When you separate an entwined particle
and move both parts away from the other,
even at opposite ends of the universe,
if you alter or affect one…
the other will be identically
altered or affected.”
(Only lovers left alive, 2013)
 
 
 
Paddington.
Londra.
Due anni dopo.
 
 
“Alla fine la vostra è sempre stata una relazione à la Wuthering Heights.”
Scostai lo sguardo dalle mie dita, che reggevano mollemente una sigaretta appena cominciata, e lo rivolsi verso la figura alta e slanciata alla mia sinistra. Aveva pronunciato quelle parole interrompendo con violenza un silenzio durato parecchi minuti.
Tipico delle nostre conversazioni, quello di riprendere il filo del discorso dopo buchi di svariati minuti, a volte intere mezz’ore, che era stato lasciato cadere per convenienza o per imbarazzo, come uno spaghetto troppo cotto.
Mi strinsi nel cappotto, ripensando a quando, poche ore prima, le avevo raccontato della mia vita in America, sussurrando come bambine sopra tazze di tè bollente, per non svegliare Thomas.
“Ma ti pare adesso il momento di tirare fuori questi argomenti?”, dissi, con un tono di divertito rimprovero. “Adesso che stanno arrivando?”
La figura alta e slanciata alzò le spalle sotto lo scialle di cachemire che indossava. “E perché no?”, fece lei.
“Peraltro, se cambi così tante lingue in una sola frase ti va in cortocircuito l’area di Broca.”, continuai, ostentando una saggezza e un’erudizione sull’anatomia cerebrale che sapevo perfettamente di non possedere.
“Non cambiare discorso. E rispondi alla domanda.”, insistette la Papessa, ovvero la figura alta e slanciata, puntata come una colonna corinzia alla mia sinistra. Non si chiamava davvero Papessa, eppure inspiegabilmente, un giorno, avevamo iniziato a chiamarla così; lei, dal canto suo, non si era mai opposta.
“Non mi hai mai fatto nessuna domanda, Papessa. Proprio nessuna.”
“Era sottesa.”
“Non amo i sottintesi.”
“No, ascolta bene, ho detto sottesa. È diverso.”
“Quando mai ho stretto amicizia con una laureata in linguistica…”, sbuffai, sconsolata ma lievemente divertita.
“E’ perché sono davvero un’incredibile, ottima ascoltatrice.”
“No, non è quello.”, ribattei, prendendo una boccata meditativa dalla sigaretta.
Erano le quattro del pomeriggio, e sul binario 5 della stazione di Paddington, Londra, oltre a me e alla Papessa non c’era un’anima.
Non esattamente: una gracile vecchina con un fazzoletto legato sotto il mento e un cesto di vimini crollò a sedere su una panchina a pochi metri da noi. Quindi tre anime, due delle quali tutt’altro che inglesi, – mi stupii che la Papessa non avesse ancora rivendicato le proprie origini scozzesi come di consueto – che aspettavano un treno a una stazione inglese, con un tempo grigio indubbiamente inglese e una dose spropositata di tè inglese nello stomaco.
Pensai che avesse un ché di poetico; un patriottismo trapiantato da poco innervò il mio petto infreddolito, e mi fece spuntare un sorriso sulle labbra.
Ma durò poco.
Consultai l’orologio da polso, poi il cellulare: sembrava tutto in regola.
Una leggera sensazione di ansia iniziò a pervadermi il petto; come una goccia di latte caduta nel caffè, iniziava a cambiare colore al liquido e intorbidirlo, lentamente. Mi sentivo sospesa in una condizione di aspettativa fremente, in attesa del cucchiaino che mi mescolasse come una tromba marina e unisse le due soluzioni che erano rimaste separate, in me, per così tanto tempo.
Due anni.
Erano passati due anni.
Aspettavamo l’arrivo dell’espresso che collegava l’Heathrow Airport alla stazione di Paddington.
Gli avevo detto che lo avrei aspettato al binario, vittima perenne di quel senso di maternità nei suoi confronti che nessuna pioggia londinese avrebbe mai potuto lavare via.
Una serie di fotogrammi sconclusionati mi sfilarono davanti agli occhi come un trailer, ma erano troppo veloci perché potessi concentrarvi l’attenzione per più di qualche millisecondo.
Ottanta millisecondi…
Il mare della California, un cardigan color panna, vasche da bagno, le sue lunghe dita di pianista sulla mia pelle, nei miei capelli, chiuse intorno alla mia gola, patatine fritte, un SUV nero…
Appena due anni.
Pareva che la distanza tra il momento in cui i miei piedi avevano lasciato l’America, e quello in cui avevano toccato il suolo umido e insofferente dell’Inghilterra fosse stata riempita da una vita intera. Due anni sembravano un lasso di tempo irrisorio, rispetto a tutto quello che era successo.
Deglutii a fatica.
La Papessa mi rivolse uno sguardo saggio e consapevole che cercai di ignorare; non disse nulla, grazie al cielo.
Una voce metallica annunciò che l’Heathrow Express stava giungendo al binario 5.
Chiusi gli occhi; la mente iniziava a giocarmi tiri mancini.
Mi sferzò sul viso una ventata di aria calda, estiva e impossibile in quel luogo (eravamo pur sempre a Londra ed era novembre, per la miseria); un aroma di whiskey torbato e sigarette forti mi impregnò le narici. Un odore così familiare che dovetti fare un grosso sforzo di buonsenso per non cadere tra le braccia di quel profumo fantasma.
“Comunque, certamente lui è Heathcliff.”, disse la Papessa, dopo aver riflettuto per lunghi minuti.
Mi scossi leggermente, come se la mia mente avesse fatto un giro intorno al mondo e fosse ripiombata improvvisamente nella mia scatola cranica con un allegro oplà e una riverenza. Sapevo che dettagli di questo tipo non sfuggivano ad un occhio attento come quello della Papessa. Ma decisi che non ero pronta a ritornare sull’argomento.
Piuttosto, mi lasciai sfuggire un gemito di frustrazione. Mi morsi nervosamente l’unghia dell’indice, e tentai l’approccio sarcastico. “Ancora parli di Cime Tempestose? Dio santo.”
“Non mi interrompere. Dunque, lui è Heathcliff, tu sei quella deficiente di Catherine Earnshaw e Thomas…”
“… sono lieta di vederti manifestare tutto il tuo orgoglioso nazionalismo inglese in questo squisito compendio sulla letteratura vittoriana, davvero, ma-”
La Papessa mi puntò contro un indice come un pugnale, perentoria. “Non sono inglese. Sono scozzese.”
Ah, ecco, come da programma: la rivendicazione della madrepatria.
“Come ti pare, Papessa. Il punto è che hai rotto le palle.”, dissi poi con tenerezza, schiacciando il mozzicone sotto lo stivaletto.
La Papessa fece per controbattere, ma alzò improvvisamente lo sguardo verso una piccola folla di persone che si accingeva a scendere dal vagone. “Aspetta, credo di vederli. È quello lì, alto, con l’aria di volersi scopare qualsiasi cosa?”
“Sembrerebbe proprio lui.”, risposi, con un sospiro oberato di agitazione.
Ero certa che il mio cuore stesse cercando di risalirmi la trachea, arpionandosi alle pareti interne del mio collo come se dotato di ramponi. O artigli. In quel momento più che mai mi sembrava di star subendo un tradimento organizzato a mia insaputa; come se cuore, cervello, budella avessero ordito un sordido inganno per spodestarmi.
Una sorta di ammutinamento degli organi interni, se volete. Tu quoque, cuore, fili mii!
 Cercai di organizzare un sorriso affabile e sereno; o per lo meno tentai di non assumere un’espressione che avrebbe potuto portare chiunque a chiedersi se mi avessero ammazzato il marito in Vietnam.
Poi lo vidi.
All’improvviso.
Come se il palcoscenico fosse stato buio e vuoto fino a quel momento.
Come se un fascio di luce avesse sgomitato tra le nuvole e si fosse aperto un pertugio nel cielo di Londra per avvolgere la sua figura; un riflettore puntato sulla sua testa, come a voler dire levatevi, plebe, apritevi al suo passaggio.
Non era cambiato di una virgola.
Torreggiava sugli altri, non solo per la sua altezza, ma perché emanava un’aura magnetica che per forza di cosa attraeva lo sguardo a lui. Era impossibile distogliergli l’attenzione di dosso.
Un tremito mi scampanellò alla bocca dello stomaco come un’ammonizione.
Mi sorpresi a chiedermi se io fossi cambiata, in quei due anni; no, non è esatto. Mi chiesi se lui mi avrebbe trovato cambiata.
Sentii le guance infuocarsi e mi morsi un labbro, mentre avanzava verso di noi con Chloe al braccio.
Dio, perché non riesco a smettere di sorridere?
Mi accesi un’altra sigaretta.
 La Papessa mi lanciò uno sguardo accigliato – all’epoca non seppi dire se fossimo arrivate ad un livello di intimità tale da leggerci vicendevolmente nel pensiero: fatto sta che mi sfilò la sigaretta dalle dita. Prima che potessi protestare, la Papessa mi guardò fissa negli occhi, seria.
“Ora sei una madre.”, mi ammonì, calpestando la sigaretta.
Ricambiai lo sguardo e cercai di spingere un groppo secco giù per la gola, verso le mie fedifraghe interiora che non ne volevano sapere di smettere di agitarsi come farfalle rincoglionite.
Colpita nel segno.
“Lo so.”, replicai, cercando di nascondere un brivido che mi si era arrampicato sul collo come un ragno, percependo per la prima volta da quando la conoscevo lo scarto tra di noi. Forse non avevo ancora capito come interpretare i pensieri che fluttuavano come alghe dietro gli occhi della Papessa, ma mi fu chiaro che lei aveva decisamente un vantaggio su di me.
Scacciai ogni pensiero, di qualsiasi natura, e annuii decisa.
La ringraziai con un battito di ciglia che ero certa avrebbe colto – tenetevi strette le persone che non hanno bisogno che parliate per comprendervi.
La Papessa fece un mh convinto, come a volersi appurare che io avessi compreso, e voltò la sua regale persona verso la coppia che stava giungendo verso di noi: erano così fuori contesto, in mezzo ai pendolari inglesi.
Troppo abbronzati, troppo poco vestiti per il clima inglese di quel novembre.
Difatti, Chloe Decker si strinse nella giacchetta di panno, rimpiangendo in quel momento tutte le scelte vestiarie che l’avevano spinta a comporre il suo bagaglio. Stirò un sorriso al mio indirizzo, un sorriso in cui individuai un pizzico di imbarazzo. L’odore di guaio aleggiava intorno a loro, intorno a lui, soprattutto, come un’aura palpabile; solo ora mi rendevo conto che non era affatto una visita di piacere.
“Puzza di tragedia lontano un miglio. Non vedo l’ora.”, disse sottovoce la Papessa, dando voce ai miei pensieri con la sua linguaccia biforcuta. 
“Taci.”, risposi, rifilandole un’amichevole gomitata tra le costole.
Lanciai alla Papessa uno sguardo che solo lei conosceva, e che corrispondeva al nostro modo, unico e segretissimo, di dire: à la guerre comme à la guerre.
Un grido di battaglia, se permettete.
Quando Lucifer mi si palesò di fronte, bello e dannato come me lo ricordavo, e con un sorriso da togliere il fiato, l’unica cosa che la mia mente riuscì a produrre nell’arco di quegli ottanta secondi maledetti fu un sonoro e ridondante: vaffanculo.
A quell’altezza storica ancora non potevo sapere che l’approdo di Lucifer su suolo inglese avrebbe precipitato la mia vita in nuovo, roboante, pantagruelico casino.
Onestamente? Avrei dovuto prevederlo.
“Hey.”, dissi, improvvisamente grata per la compostezza che quel biennio in Inghilterra era riuscito a plasmare attorno al mio carattere.
Gli sorrisi.
Mi buttò le braccia al collo.
Ricambiai la stretta e fu come sprofondare in un pozzo già noto.
Avete presente Alice in Wonderland di Tim Burton? Quando lei cade la seconda volta, anni dopo, nella tana del Bianconiglio?
Ecco.
Così fu la mia caduta: nonostante fosse una traiettoria di cui è facile indovinare la direzione (inesorabilmente verso il basso), nonostante sapessi che lo schianto sarebbe stato catastrofico, e che mi avrebbe ridotta ad un grumo di gelatina da raccogliere con un cucchiaino, in fondo ero pervasa da quel senso di sicurezza che solo le cose note sanno darti.
Conoscevo fin troppo bene il buco nero che mi teneva tra le sue braccia, recuperando due anni di lontananza in mezzo secondo.
Conoscevo ciò a cui ero stata portata da quando Lucifer Morningstar era piovuto nella mia vita come una stella cadente. O come una meteora.
Mentre mi stringevo a lui, inspirandone pienamente il profumo, la mia mente mi ragguagliava pazientemente di ciò che il mio cuore, di nuovo così vicino al suo da togliermi il respiro, faceva così fatica a ricordare: i pianti, le isterie, i lanci di innocenti gerani oltre i balconcini, gli sguardi accesi dalla passione e dal fuoco che non si placava mai, né con il sesso né con le conversazioni alle tre di notte, aggrovigliati come senatori romani tra le lenzuola bianche, le sigarette, i vizi dannosi, le corse in Corvette.
L’amore.
Quell’amore deleterio, malsano, quell’amore che mi aveva consumato come un fiammifero e che mi aveva ridotta ad un pugnetto di ossa stanche, il cui unico sostentamento era costituito da niente di più che libri e sigarette.
No.
Non più, disse una voce ferma dentro di me, riportando quel subbuglio di cervella ed intestini all’ordine.
Non ora.
Feci per staccarmi da lui, da quell’incastro così ingannevole perché sembrava essere stato costruito per contenermi perfettamente; mi accorsi dopo una manciata di secondi di troppo che la Papessa aveva appoggiato una mano guantata sul mio avambraccio, e che Chloe mi stava fissando con uno sconforto negli occhi che, si vedeva, ancora non le era arrivato alla mente, dove sarebbe stato razionalmente disciolto come in un bagno di acido. Lo sapevo che i suoi dubbi su di me non si sarebbero mai sbrogliati del tutto, checché lei ne dicesse. E potevo darle torto?
Mi staccai da lui; gli diedi un pugno affettuoso sul braccio, come a voler ristabilire dei confini che tutti lì, sul binario 5, compresa la vecchina col foulard in testa, a modo proprio aveva percepito come violati.
Rilassai le spalle, mentre l’immagine di Thomas e della nostra bambina raggomitolati nel nostro appartamento a Belsize Park mi riportava lentamente alla sanità.
Sorrisi, stavolta sinceramente.
Le colazioni in tre, la pappa sparata sui mobili, il tè che sembrava auto versarsi nelle mie tazze di porcellana ad ogni ora, mentre lavoravo, l’odore accogliente di Thomas.
Ce la puoi fare, mi dissi.
Lucifer mi guardò.
“Ciao, Molly. Mi sei mancata.”
Vaffanculo.
Come non detto.
 
 
Ooh, it gets dark, it gets lonely
On the other side from you
I pine a lot, I find the lot
Falls through without you
I'm coming back love, cruel Heathcliff
My one dream, my only master.
(Kate Bush, Wuthering Heights)
 

 
ebbene sì.
dopo una breve pausa di riflessione sono tornata. 
quanto sono durata? poco più di una settimana, dite?
beh, spero che ne siate tutti contenti. io sono esaltata a dir poco. proviamoci. non so cosa verrà fuori.
non temete, se ora ancora ci sono dubbi riguardo la cagione di questa trasferta oltreoceano da parte dei nostri freschi sposi, verranno sciolti nei prossimi capitoli. non vi lascio a soffrire, parola di lupetto.
siete sempre i benvenuti a lasciare un commento o a chiedere spiegazioni! mi fa sempre un immenso piacere.
spero che questa nuova avventura su suolo inglese possa interessarvi!
inoltre, vi segnalo il profilo facebook che ho creato da poco, dove posterò vari scleri che di solito accompagnano la stesura, e dove ho intenzione di postare delle immagini del "cast" di "Big God" - e dei personaggi che "Tante grazie per i crisantemi" introdurrà - così come me li sono inventati.
non so, mi era sembrata un'idea carina, in fondo.

https://www.facebook.com/yunomi.tazzadite
venite a dire ciao; non mordo, giuro.

vostra,
Y.
 

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Capitolo 2
*** Il Diavolo gioca a burraco ***


         Il Diavolo gioca a burraco
 
 
 
When did love begin?
What human being looked at another
And saw in their face the forests and the sea?
(Jeanette Winterson, Lighthousekeeping)
 
Mesi prima
Los Angeles
 
Per ovvie ragioni, Chloe Decker aveva smesso di credere nelle relazioni.
Non era mai stata particolarmente fortunata, si diceva. Oppure, senza rischiare di scomodare la signora Provvidenza, che aveva già ampiamente contribuito a colorare le loro vite di amabili sventure, si convinceva che evidentemente era una donna che non poneva la propria vita amorosa come priorità. Ognuno, d’altronde, mette l’etichetta priorità su cose diverse, nella vita, e lei si era sempre convinta di aver appicciato tutte quelle a sua disposizione sul dossier lavoro + figlia preadolescente. E in fondo, le era sempre andato bene così.
Le cose erano cambiate nell’arco di appena un quinquennio.
Di certo, non si sarebbe mai immaginata di trovarsi a condividere le lenzuola con quel pomposo spilungone inglese che vaneggiava di essere il Diavolo, un individuo che faceva prudere le mani anche ai santi e che squadrava qualsiasi cosa con le gambe come se potesse leggere la marca di biancheria che indossava.
La vita è strana.
Sdraiata sul letto come la Josephine Bonaparte del Canova, osservava il profilo appuntito di Lucifer dormiente: la prima, netta sensazione era che avrebbe sempre dovuto muoversi con circospezione intorno a tutti quegli spigoli, per non rischiare di caderci sopra e recidersi un nervo.
Lucifer era decisamente una persona contundente. Per quanto tentasse di coprire di gommapiuma gli angoli taglienti del suo essere, non cambiava il fatto che spesso avere a che fare con lui era come afferrare un coltello dalla parte della lama.
La cosiddetta honeymoon phase tra loro due era finita ben presto, e dopo essersi più e più volte levati vicendevolmente i vestiti, attorcigliati l’uno all’altra per ore sotto lenzuola di lino, non restava da sollevare che il velo più difficile.
Quello che ti permette finalmente di vedere la vera domanda che si staglia al di là di esso, di cui fino a quel momento non hai notato altro che la sagoma, ritenendola procrastinabile: è possibile far combaciare due vite così diverse? È fattibile che due persone così perfette per stare insieme facciano così fatica a capire i relativi incastri? Si può traslare una tale storia d’amore dalla potenza alla forma?
Questa era diventata la sua vita.
Un continuo, nevrastenico andirivieni tra il loft di Lucifer e il suo appartamento, un’organizzazione di vita che francamente si stava facendo sempre più onerosa, nel tentativo di far combaciare due pezzi che a Chloe non sembravano nemmeno appartenere allo stesso puzzle.
Il mercoledì e il giovedì a casa sua con Trixie, il week-end al loft solo loro due, il lunedì a prendere Trixie a scuola, il lavoro in centrale, i compiti di matematica – non era ancora nato il luminare che avrebbe trovato il metodo universalmente condiviso per spiegare ad una ragazzina di dodici anni le divisioni a due cifre.
E poi il martedì al ristorante, il venerdì le telefonate a Linda per cercare di rimanere sana, le mail a Molly per rispondere alle poesie, gli stralci di saggi e di libri che inviava a tutti, ritenendo la più alta e nobile forma di affetto il mandare parti di letture che colpiscono particolarmente.
E tutto si ripeteva a braccio circolare, sempre uguale a sé stesso nella versione borghese e vagamente sconfortante dell’uroboro, il serpente che si mangia la coda.
Forse Chloe si aspettava che l’amore avrebbe reso tutto più facile, più gestibile; ma evidentemente aveva fatto confusione, perché certamente l’amore non è una segretaria che ti divide le bollette secondo priorità, né un assistente che archivia i verbali e fa la spesa al posto tuo.
Di sesso, comunque, ne facevano in quantità sovrumane.
 
Dopo notti intere passate a fissare con malcelato timore il viso di Lucifer, temendo che da un momento all’altro la pelle si sfaldasse rivelando la materia magmatica soggiacente, quella notte in particolare Chloe si levò dalla sua consueta posizione da imperatrice pensosa e si sedette sul materasso.
Si infilò un maglioncino sopra la sottoveste di raso e si diresse in cucina.
Lo schermo del portatile, aperto sulla sua casella di posta elettronica, lampeggiava la sua luce blu negli occhi della donna.
Appoggiò le mani sulla tastiera.
Le ritrasse, scuotendo la testa.
Si alzò per farsi una camomilla.
Mentre il bollitore carburava, digitò l’indirizzo e-mail di Molly nella casella destinatario.
Scrisse di getto una lettera che grondava timore da ogni sillaba, ogni virgola come un piccolo proiettile che incrinava quello schermo di compostezza che aveva sempre frapposto tra sé e il mondo esterno. Il timore è ben peggio della paura: è infido, e si insinua tra le crepe che si ramificano sulla superficie della certezza come se qualcosa, dall’interno, desse violentemente segno di voler uscire.
Chloe tolse le mani dai tasti come se fossero improvvisamente diventati incandescenti.
Rimase parecchi minuti a fissare quella fiumana di parole che aveva come sputato sullo schermo, e trasalì violentemente quando il bollitore fischiò.
Improvvisamente, il timore venne spodestato dalla vergogna; premette con una forza innecessaria l’indice sul tasto canc, e osservò con sollievo tutte quelle parole scomparire nel vuoto, nel nulla. Come se avesse tolto il tappo della vasca da bagno e stesse osservando l’acqua ritirarsi nello scarico.
Bevve la sua tisana – stavolta si era ricordata di aggiungere la bustina – osservando il computer, ancora acceso sulla schermata della mail, ma stavolta a debita distanza; voleva proteggersi da qualsiasi tentazione.
Ritornò in camera da letto con un senso di disorientamento che non riusciva bene a classificare: Lucifer era avvolto nelle lenzuola e dormiva supino, con una mano mollemente poggiata sul cuscino, ben oltre la sua metà di letto; Chloe sorrise, davanti a quella scena.
Hai sempre cercato dove ormai io non c’ero più, le venne da pensare, sedendosi ai piedi del letto.
Si ravviò i capelli, e un pensiero la colpì in mezzo gli occhi come una pallina: lo amava. Lo amava visceralmente, nel senso vero del termine. Per sua stessa costituzione fisiologica era portata ad amarlo, nei sensi di una necessità filosofica, cioè che non avrebbe potuto non amarlo.
Un amore tutto corporeo, letteralmente, come una reazione biochimica assolutamente ineluttabile.
Spogliandosi della camicia da notte e del contegno che si portava sempre addosso, strisciò come un venticello estivo sul letto, arrampicandosi sul corpo di Lucifer e avvinghiandovisi come un’edera.
Lui aprì gli occhi.
“Ti amo.”, disse Chloe, intrecciando le dita alle sue. L’anello di fidanzamento rigò la pelle di Lucifer mentre la donna lo toccava, gustandolo con i polpastrelli, facendo il pieno della ruvidità di quel corpo come se stesse per abbandonarlo per sempre; un sottile graffio rosso affiorò sul petto di Lucifer come un ricordo.
“Ti amo.”, rispose lui di getto, di un riflesso involontario che lo faceva agire prima ancora di pensare, riducendo lo scarto degli ottanta secondi ad un misero mezzo istante di reazione.
Certi amori sono incisi sulle superfici ruvide dei cuori prima ancora che nei viluppi dei cervelli; e così anche Lucifer era portato fisiologicamente ad amarla. Era la sua unica certezza, e non poteva evitarlo; come decidere da un giorno all’altro di smettere di produrre succhi gastrici. Non dipendeva dalla sua volontà nemmeno se si fosse sforzato.
Il profumo di vaniglia dei capelli di Chloe lo stordivano, e la consistenza della sua carne soda gli facevano perdere contatto con la realtà, spedendolo in aria come il palloncino sfuggito al pugno grasso di un bambino.
Senza che effettivamente nessuno dei due se fosse reso conto, ora lui era dentro di lei, con le mani nei suoi capelli, i gemiti di lei sulle proprie labbra, come se i loro corpi agissero indipendentemente dalle menti e sapessero perfettamente come fare per muovere i meccanismi di quell’amore che sarebbe stato così semplice, così lineare, se solo le loro menti avessero smesso di infilare metodicamente le dita negli ingranaggi.
 
La mattina dopo Chloe si svegliò con un nuovo dubbio, germogliato tra i capelli biondi: bastava davvero quello?
Era sufficiente sapere di voler stare insieme per riuscire effettivamente a stare insieme?
La mano di Lucifer era sotto il cuscino, lontana dalla sua, e si muoveva in un sonno tranquillo, perso in una dimensione che aveva la consistenza della cenere e del rimpianto; un luogo, un cimitero della sua mente a cui Chloe voleva accedere, ma che si allontanava sempre di più dalla sua portata. Bastava davvero solo l’amore, per funzionare con una persona piena di zone d’ombra come Lucifer?
Quando Lucifer aprì gli occhi scuri su di lei, e le disse buongiorno, amore con la voce roca e i capelli che sembravano un quadro di Picasso, e il sorriso sensuale e stanco degli uomini che non riposano mai, nemmeno quando dormono profondamente, Chloe capì che lui la amava dello stesso amore che le increspava il petto, con la stessa inossidabile certezza con cui ci si sveglia e si sa di avere due occhi, un naso e cinque dita per mano.
Ma al di là di quella cortina di nebbia fuligginosa che gli copriva gli occhi c’era una terra inesplorata e selvatica, che sfuggiva dalle sue dita come sabbia e che non aveva alcuna intenzione di rabbonirsi al suo tocco delicato.
Nel cuore di Lucifer regnavano spettri cinerei ed era evidente che lui non volesse che Chloe ci avesse niente a che fare. E così si allontanava, giocava a ce l’hai con l’amore della sua vita, sfuggevole come un merluzzo, pensando ingenuamente che fosse bastato mostrarle la sua faccia diabolica per farla stare accanto a sé.
Mentre beveva un caffè amaro seduta al tavolo della cucina, Chloe aprì la casella di posta elettronica.
Un cerchietto rosso accanto all’indirizzo di Molly le notificò che anche quella volta non aveva rinunciato alla sua tenere consuetudine letteraria.
Cliccò sulla mail, aprendola sullo schermo.
La tazza le scivolò dalle dita, sfracellandosi sul parquet.
Ancora una volta, alla signora Provvidenza piacque giocare con le coincidenze.
Chloe si sentì investita di brividi d’inquietudine.
A grossi caratteri corsivi, la seguente poesia:
 
Non si può amare solo con la voglia di amare.
Con il voler amare.
Con il voler restare.
Con il crederci.
Con io lo amo.
Perché poi non basta.
Non regge.
L’amore non basta per amare.
Non bastano le parole, per amare.
Neanche quelle giuste, bastano.
Neanche le parole d’amore bastano per amare.
 
 
Chloe Decker sentì qualcosa frantumarsi all’altezza della gola. Un respiro che si era fatto di vetro, forse.
Si dimenticò come si respira.
Non si premurò nemmeno di raccogliere i frammenti  della defunta tazza, né tantomeno di pulire il caffè ivi contenuto dal pavimento, nella fretta di comporre a memoria un numero di telefono.
“Molly.”
“Buon pomeriggio.”, rispose la voce della ragazza dall’altro lato.
“Sono le otto del mattino.”
“Qui le sedici. Sono alla quinta tazza di Earl Grey. Non escludo l’imminente, ineluttabile assuefazione da teina, se continuo a vivere qui.”
“Perché mi hai inviato quella cosa.”, sputò Chloe.
Sentì un lungo sospiro dall’altro capo, e poi uno schioccò che riconobbe come quello di un accendino.
“Qualcosa nell’aria mi ha causato un forte pizzicore al naso, e ho pensato che fosse puzza di guai in arrivo ovest, trasportata dal vento e dalle ali dei gabbiani.”, disse Molly, esagerando un tono da poeta ermetico. “Come va con Lucifer?”
“Non fa ridere.”, ribattè Chloe. “Molly, va bene tutto. Ma questo no.”
“Che cosa, no?”
“Instilli dubbi nella mia vita sentimentale. Sei ad un oceano di distanza e riesci comunque farmi sentire inferiore. Smettila.”, disse la donna, passandosi una mano sul viso.
“Mi dispiace che ti abbia turbato così tanto.”, rispose Molly, sentitamente dispiaciuta. “Io volevo solo condividere una poesia.”
“No, ma lo fai apposta?”
“Non t’incazzare.”
“Sì che mi incazzo. Rispondi.”
Molly sospirò di nuovo. “Aspetta, la bambina sta masticando una pagina del mio saggio su Tertulliano.”
Chloe serrò gli occhi, fremendo, colpita da una rabbia incolore come da uno schiaffo.
Intanto Lucifer era comparso in cucina, e si serviva di caffè silenziosamente. “Salutami Molly!”, sussurrò, eccitato.
Chloe si chiuse in bagno per resistere alla tentazione di sfigurarlo.
“Eccomi, scusa.”, disse Molly, poco dopo.
“Fumi davanti a tua figlia?”, chiese Chloe, con tono di rimprovero.
“No, in realtà è lei che ha iniziato, immagino per tentare di sopportare i ritmi della sua madre degenere.”
Chloe tacque per qualche istante. Scoppiò a ridere.
“Vedi, poi mi spieghi come faccio ad arrabbiarmi con te?”, disse, franando a sedere sul bordo della vasca.
Anche se non poteva vederla, seppe che Molly aveva sorriso.
“Tu sei una minaccia onnipresente per il mio benestare. Non ce la faccio, Molly. Non ce la faccio. Sei un fantasma che infesta la sua testa, e ora infesti anche la mia.”
“Complimenti per la rima baciata.”
Chloe fece ritirare la sua insensata, inutile rabbia; ormai questa ascessi di nervosismo nei confronti di una ragazzina che non vedeva da poco più di un anno iniziavano a stancarla.
“Chloe, cosa c’è che non va?”
“C’è che è tutto difficile.”
“Mh.”
“Non doveva essere facile?”
“Dipende.”
“Molly.”
“Dimmi.”
Chloe tacque, perdendo lo sguardo nelle piastrelle: lo abbassò poi sul solitario di diamanti che Lucifer le aveva infilato al dito in una sera di ottobre di molte lune prima. Sapeva che avrebbe dovuto esserci una fede d’oro, lì, e quell'assenza stava inziando a farsi ridicola. E francamente, ingiustificata. 
“Molly.”
“Sono sempre qui.”
“E’ vero che l’amore non basta?”
“Ci vuole anche buona volontà.”
“Quella c’è.”
“E allora cosa manca?”
Chloe ci pensò su.
“Manca un abito da sposa.”, rispose Molly al posto suo con dolcezza. “Cosa diamine state aspettando?”
La domanda riecheggiò nel silenzio, rimbalzando sui muri del bagno di Chloe e fermandosi come una nuvola di vapore denso sopra la sua testa bionda.
Potrà mai funzionare?
“Non voglio più essere una minaccia, Chloe. Dobbiamo sistemare questa faccenda una volta per tutte.”
Chloe assentì.  
Uno strillo colmo di disperazione e disdegno nei confronti di tutto ciò che è santo frantumò l’aria.
Chloe fece capolino dal bagno, mentre Molly esalava un preoccupato che cazzo è stato dall’altra parte dell’oceano.
“Scusa, Molly. Ti devo lasciare. Penso che Lucifer si sia aperto un piede sui cocci di una tazza che prima mi è caduta sul pavimento.”
Molly rise, e prima di riagganciare la telefonata sentì da lontano il guaito addolorato di Lucifer che cercava di articolare: “CHLOE PER IL CRISTO REDENTORE, ESCI DI CASA. SE TI AVVICINI SANGUINO ANCORA DI PIU’!”
 
 
 
 
 
Belsize Park, Londra
 
Mi tolsi il maglione e i pantaloni e mi infilai come un incubo sotto le coperte, incastrandomi perfettamente tra le braccia di Thomas.
Appoggiai il mento al suo petto; sapevo che era sveglio, quindi aspettai pazientemente che aprisse gli occhi. Ne aprì uno, solo dopo qualche minuto che gli stavo a peso morto sullo stomaco.
Allungò un braccio verso la sveglia per guardare l’ora.
“Bambina.”
“Amore.”
“Sono le due e venti.”
“Sì.”
“Che cazzo ci fai ancora sveglia.”
Nonostante il contenuto potesse risultare scorbutico e anche lievemente maleducato, pronunciò quelle parole come se avesse una zolletta di zucchero sulla lingua. Mi passò una mano sulla schiena nuda, e mi trasse più vicino a sé.
“Ero al telefono con Lucifer. Sono le sei del pomeriggio, in California.”
“E non può chiamare quando qui sono le sei del pomeriggio?”, borbottò lui, richiudendo gli occhi.
Sentivo il suo cuore attraverso il mento, e il riverbero del suo battito nel mio cervello; inspirai a fondo l’odore di palo santo del suo dopobarba, mischiato al profumo dell’ammorbidente che impregnava le nostre lenzuola. Questo, per me, sarebbe sempre stato l’odore di casa.
“Glielo dico, la prossima volta.”
“Ci sarà una prossima volta?”
“Beh. Sì.”
“Bambina.”
“Dimmi, amore mio.”
“Perché continui a misurare fino a che punto possa reggere la mia pazienza?”
“Perché mi diverte farti ingelosire per così poco.”
“Molly. Per farmi ingelosire basta meno. Basta che tu vada a comprare, che ne so, le zucchine da sola. Non ti serve intrattenere chiamate intercontinentali con quel damerino.”
“Damerino…”, ripetei, prendendolo in giro. “Chi è che nel ventunesimo secolo dice ancora damerino?
“Non sai come ti guardano gli uomini.”, ribattè Thomas, chiudendo gli occhi e appoggiando la testa sul cuscino.
“E come mi guardano?”
“Come cani randagi davanti a un controfiletto.”
“Meno male che sono una persona e non un pezzo di carne, allora.”
“Lo sai cosa intendevo.”
Lasciai andare un piccolo sbuffo divertito. “Ti facevo un po’ meno medievale, sai?”
“Quando si tratta di te arretro di qualche stadio evolutivo, bambina. Mi fai diventare un uomo di Cro-Magnon.”
Iniziai a percorrere le pieghe della sua maglietta con l’indice; mi passò una mano gentile tra i capelli, e chiusi gli occhi anche io. Per un attimo dimenticai quello che avrei dovuto dirgli.
“E che cosa voleva, Lucifer, sentiamo.”, disse Thomas, non senza esprimere tutto il suo pacato disappunto con un sospiro.
“Vuole venire qui.”
Silenzio.
“Tu mi vuoi morto anzitempo, bambina.”
“Con Chloe.”, aggiunsi, come a volerlo rassicurare. “Anzi, in realtà è stata proprio un’idea di Chloe.”
“Ah, beh. Cambia tutto, allora.”, disse lui, ironico. Si arrotolò una ciocca dei miei capelli biondi intorno al dito, e la osservò come se fosse in procinto di dirmi addio per sempre. “C’è maretta, oltreoceano?”
“Diciamo pure che si prevedono procelle a non finire. Chloe continua a rimandare il matrimonio. Lucifer dice che ha una sorta di sindrome da stress post matrimonio traumatico, ma sai quanto ama essere iperbolico.”
“Non la biasimo. Non ha accumulato le migliori esperienze, in fatto di matrimoni.”, commentò Thomas, ormai rassegnatosi a rimanere sveglio con me.
“Già.”
Tacemmo per lungo tempo, cullati dai nostri respiri che si alternavano euritmicamente, come una sinfonia composta appositamente per quelle occasioni.
Conoscevo bene il peso di quanto gli stavo chiedendo; e sapevo altrettanto bene quanto avesse bisogno di sfondare una parete con un pugno ogni volta che il nome di Lucifer o di Chloe si insinuava nelle nostre conversazioni. Era passato qualche mese dalla chiamat di Chloe, e francamente stavo iniziando anche io a stufarmi di que
Non ne parlava spesso, ma io vedevo come gli si bloccava il respiro quando salivo su un’auto. Gli cambiava colore agli occhi, quella preoccupazione: si ingrigivano per qualche istante, dandogli un aspetto così straziato e frusto da sembrare prossimo alla vedovanza.
Per i primi mesi aveva sperato che con l’Oceano Atlantico di mezzo sarebbe stato più difficile per i miei amici coinvolgermi nel loro abituale crogiolo di sventure. Ma nell’arco di un anno le mail da parte di Lucifer si erano fatte sempre più lunghe e frequenti, sempre più fitte di dubbi da sbrogliare, strappi da ricucire, lacrime da asciugare. E io avevo ricominciato a mangiare poco e a dormire ancora meno, e i pacchetti di sigarette vuote avevano ripopolato le mie borse e i ripiani delle mie librerie.
Thomas assisteva, silenzioso come Dio, dispensando tazze di tè, piatti di minestrone, maglioni puliti, baci tra i capelli. Insomma, faceva quel che poteva.
Mi ero chiesta quante altre volte sarebbe stato disposto a continuare quel ciclo stagionale e lievemente tragicomico, prima ancora di chiedermi quanto avrei retto io.
Avevo chiamato Linda per chiedere consiglio prima ancora di sottoporre la questione a Thomas. Lei aveva detto che gli avrebbe fatto bene cambiare aria per un po’; e quindi avevo acconsentito.
“Ho paura che quei due non abbiano capito come stare insieme senza l’aiuto di terzi.”, disse Thomas, dopo aver fissato le striature della luce che filtrava attraverso le tapparelle.
“Non lo capiranno mai.”
“Le piante di pomodorini."
"Eh?"
"Sono come le piante di pomodorini."
“Mi sembra un po’ presto per la demenza senile, amore.”
Thomas sbuffò, divertito. “Parlo di quelle piante deficienti con cui ti sei fissata l’estate scorsa, ti ricordi? Ti è sembrata un’ottima idea iniziare a coltivare i pomodori a Londra, e ci siamo usciti scemi a cercare il modo di farle crescere dritte. Abbiamo buttato non so quante aste del mocio per tenerli su.”
Emisi una piccola risata a sbuffo. “Però quei due o tre pomodori che abbiamo raccolto erano buoni.”
“Sei impossibile.”, rise lui, passandosi una mano sul volto, stremato dalla mia presenza ma talmente innamorato da evitare a tutti costi che me ne rendessi conto.
“Immagino dovremo tirare fuori il servizio di piatti da sei e le lenzuola buone, allora.”, disse di nuovo, rispondendo tacitamente all’altrettanto tacita richiesta che quel mio discorso aveva avanzato. Gli posai un bacio su una palpebra come a voler dire grazie, devota come la Maria Maddalena che in fondo ero.
Lui mi carezzò una guancia; mi ci strusciai contro come un gatto.
“Mi sa che è il caso che facciamo l’amore, ora.”, bisbigliai, dimenticando un altro bacio sul suo petto.
Thomas aprì entrambi gli occhi, mostrandosi improvvisamente sveglio e interessato.
“Ah sì?”
“Sì.”
“Mh. Capisco. Beh, se dici che è proprio il caso, allora…”, disse lui, baciando una mia risata sul nascere.
Scivolai sotto di lui e mi sentii improvvisamente ricomposta. Avevo la tendenza a straripare, a quell’età.
E ora Thomas mi baciava il petto, in mezzo ai seni, e la sua barba ispida mi pungeva leggermente la pelle; e con le labbra riavvolgeva con cura i lembi del mio cuore che si schiudevano come petali ogni volta che permettevo a Lucifer di avvicinarsi troppo – sì, anche con l’Oceano Atlantico di mezzo.  
Scese ancora, e ancora, e ancora, fin quando la sua testa bionda non scomparve sotto le lenzuola, e io finalmente potei scollegare il cervello da qualsiasi canale che non fosse esclusivamente concentrato su noi, sul nostro letto nella nostra camera nella nostra casa a Belsize Park, Londra.
Noi: un innocuo monosillabo che con la forza di dieci uomini mi aveva ripescata dal fondo dell’abisso. Un pronome di prima persona plurale che ormai nel mio dizionario era indicato come composto per metà del mio melanconico professore, e per l’altra metà da me, ragazzetta di ventitré anni dura di comprendonio che, ancora una volta, offriva la sua casa e il suo randagio di un cuore come bed & breakfast per il Diavolo.
 
 
                                                                                    
 
‘Cause it’s hard to dance
with a Devil on your back,
So shake him off.
(Florence Welch, Shake it out)
 
Present day
 
“Perché ti chiamano Papessa?”, chiese Lucifer, accavallando le gambe. Eravamo seduti nel mio salotto tiepido e accogliente a bere tè e ad essere in imbarazzo dalle rispettive presenze. Due anni non sono mica pochi, sapete.
La Papessa prese un sorso di tè dalla tazza per nascondere un sorriso smaliziato. Si sistemò una ciocca di capelli rossi dietro l’orecchio e sussurrò solamente: “Via, via. Ci conosciamo da meno di un’ora.”
Lucifer rimase leggermente deluso. Si sa che i serpenti sono curiosi per definizione.
“Dov’è Thomas?”, chiese Chloe avvolta in uno dei miei scialli di lana. Il tepore del tè e del caminetto che avevamo acceso le aveva restituito un po’ di colore alle guance, e la luce calda e soffusa del salotto si rifletteva nei suoi occhi chiari come in uno specchio.
“E’ in università. Viene per cena.”
“E la piccola?”, chiese ancora. Il tono che usò, tuttavia, non mi sembrò tanto diverso da quello che utilizzava durante gli interrogatori. Mi guardava con aria di sfida, come a voler dire bene, vediamo se sei così felice come dici.
“Dai genitori di Thomas.”, risposi, sorridendole. 
“Ah.”
“Molly mi diceva che siete ufficialmente fidanzati!”, disse la Papessa, cercando di cambiare discorso.
“Lo siamo da due anni.”, ribatté Lucifer, lanciando a Chloe un’occhiata fosca.
“Per favore.”, disse Chloe. “Non ricominciamo.”
“Ma dovremo pur parlarne!”
“Ora? No.”, rispose Chloe, riferendosi alla presenza della Papessa.
“Oh, ma fate pure come se non ci fossi.”
“Pensavo che avremmo almeno aspettato il dopocena per tirare fuori gli scheletri.”, feci io, incrociando le braccia come un giudice. “Ma in fondo è meglio così. Thomas dopo cena è stanco, di solito.”
“E’ che ci sono tante cose a cui pensare… tanti impegni… insomma.”
Gli occhi di Chloe saettarono verso Lucifer. Lucifer si mostrò improvvisamente interessato all’orlo della sua giacca. Io francamente ne avevo già abbastanza. “Siete venuti qui per parlare o per farvi la foto con i Beffeaters?” chiesi.
Loro tacquero, facendosi improvvisamente scrupolo di risultare inopportuni – immaginatevi la scena: il Diavolo e consorte (beh, più o meno) che si fanno un volo intercontinentale per cercare di cavarci fuori qualcosa da questioni vecchie come il mondo, per poi finire a vergognarsi e preoccuparsi di disturbare.
“Dio, che parossismo.”, dissi io, stropicciandomi gli occhi.
La Papessa si stava portando la tazza alle labbra, ma interruppe la traiettoria a metà.
Appoggiò tazza e piatto sul tavolino di cristallo del salotto e, leggiadra come una ninfa, si diresse verso l’armadietto dei liquori.
“Brava. Bravissima, Papessa. Ottima idea.”, dissi, dando voce alla gratitudine che si dipinse sulle facce stanche di Lucifer e Chloe.
“Brandy? Armagnac?”, chiese, facendo tintinnare le bottiglie tra loro.
“C’è ancora del gin?”, feci io, sempre con i polpastrelli premuti sulle palpebre.
“Ah, eccolo. Distilled for the eradication of seemingly incurable sadness.”, declamò la Papessa leggendo l’etichetta.
“Proprio ciò che fa al caso nostro.”, dissi io, infilando una sigaretta tra le labbra.
La accesi e appoggiai la testa allo schienale della poltrona su cui mi era raggomitolata. Sbuffai una nuvoletta di fumo verso l’alto; poi, con fare sconvenientemente solenne, abbassai lo sguardo su Lucifer e Chloe, i quali presero i bicchierini dal vassoio che la Papessa aveva appoggiato davanti a noi e li alzarono: ciascuno di noi brindò al proprio demone personale – e non fu un caso che sia io che Chloe ci rivolgemmo a Lucifer.
“E’ ora.”
“Sei davvero sicura, Molly?”, mi chiese la Papessa, rivolgendosi a me con fare solenne.
“Sì, Eminenza.”, risposi io. Mi versai un altro po’ di gin.
La Papessa sussurrò un molto bene che aveva un che di liturgico, e si apprestò ad accendere varie candele.
Lucifer e Chloe si scambiarono uno sguardo di pura confusione. Si rivolsero verso di noi, ormai calate nel ruolo di Santissime Sacerdotesse della Sbronza infrasettimanale, in cerca di spiegazione.
Versai ancora nei bicchieri di Lucifer e Chloe. “Prendete. E bevetene tutti.”
“Molly, sei inquietant-“, cercò di articolare Lucifer, ma gli tirai una sonora, solenne gomitata nel costato.
Il Diavolo guaì.
“Shhh. La cerimonia sta per iniziare.”
“Q-quale cerimonia?”, chiese Chloe, interdetta ed inquietata com’era giusto che fosse.
Tornai seria per un attimo. “E’ la cerimonia d’iniziazione della Sbronza: io e la Papessa mettiamo su questa messinscena sacrale e vagamente blasfema per quando vogliamo ubriacarci senza cadere in depressione.”
“Ho un’età per certe cose, sapete.”, disse la Papessa, bevendo un altro bicchiere. “Ho bisogno di confezionare scuse su misura per comportarmi ancora da ventenne.”
Io feci spallucce. “A me viene naturale.”
“Anche a me.”, disse Lucifer. Non è che avesse esattamente bisogno di scuse o incoragggiamenti per sbronzarsi.
Ripresi tutto il mio contegno da messa solenne, e bevvi di nuovo.
“Ma non potete incominciare a bere e basta?", chiese di nuovo Chloe; nonostante fosse reticente, l’idea della sbronza aveva decisamente allettato anche lei. Infatti, buttò giù alla goccia il secondo bicchierino.
“NO.”, urlammo in coro io e la Papessa.
E Lucifer. Ci voltammo verso di lui con una faccia confusa.
“Ma che ne sai tu delle Santissime Sacerdotesse della Sbronza Infrasettimanale?”, chiesi. “Ne sei venuto a conoscenza solo adesso!”
“Non dico mai di no a qualsiasi cosa che comprenda una gradazione alcolica sopra il trenta per cento.”, rispose lui, giulivo, versandosi un altro bicchierino. E un altro. E ancora un altro. “Si può avere della musica?”
La Papessa sciolse le dita che aveva incrociato sotto il mento e stampò a Lucifer un primo piano che rasentava il tentativo di bacio: Lucifer saltò indietro, inquietato.
“Mia cara nemesi celeste,”, disse la Papessa, calata nel suo ruolo papale come mai prima d’ora, “stai per prendere parte a una sbronza all’inglese: niente musica, niente puttanate; solo gin e verità. Tutta la verità. Nient’altro che la verità.”
Tutti noi deglutimmo a fatica; sincronizzati come le Rockettes, ci calammo un altro bicchiere di liquore.
 
 
 
And, ah my love,
remind me,
what was it that I did?
Did I drink too much?
Am I losing touch?
Did I build a ship to wreck?
(Florence + the Machine, Ship to wreck)
 
 
 
Cosa diavolo mi era venuto in mente di mettermi a bere con Lucifer e la Papessa?
Improvvisamente, sdraiata a quattro di spade sul tappeto del soggiorno, mi ricordai la ragione per cui avevamo drasticamente ridotto la frequenza delle sedute delle Santissime Sacerdotesse: la Papessa era scozzese, e siccome reggeva l’alcool come un maledetto bue, io rischiavo il fegato ogni volta per tenere il passo con lei.
Sospettai che la Papessa condividesse lo stesso super-metabolismo-celeste di Lucifer.
Mi tirai a sedere di scatto; aspettai che la stanza smettesse di girare, e poi evocai la mia amica: “Papessa.”
“Dimmi, tesoro.”, disse lei, sorseggiando qualcosa come il decimo shottino di gin come se si trattasse di caffelatte.
“Non ci gioco più con te alle Sacerdotesse.”, dichiarai, e mi ri-sdraiai sul tappeto.
La testa di Chloe, a pochi centimetri dalla mia, era rivolta verso il lampadario, e se ne stava fin troppo zitta da fin troppo tempo.
Allungai una mano per richiamare la sua attenzione, ma con la coordinazione rallentata dalla sbornia non feci altro che sbatacchiarle le dita sul volto, rischiando di cavarle un occhio.
“Ahia!”, disse Chloe, appunto.
“Scusa. Tu sei ubriaca?”
“Dignitosamente. Brilla!”, urlò lei, alzando i pugni verso l’alto.
“Perfetto.” Sollevai leggermente il collo per guardare Lucifer. “E tu?”
Mi guardò con compassione. “Nemmeno se svaligiassi il reparto alcolici del supermercato qui sotto.”
“Uffa. Non doveva andare così.”, piagnucolai, stropicciandomi gli occhi.
“E come doveva andare?”, chiese la Papessa, distratta e lontana.
“Non lo so. Doveva essere una cosa più dignitosa. Più…”
“Adulta.”, continuò la mia amica.
“Bambina.”, mi chiamò una voce dall’al di là.
“No, Lucifer, adulta.”, ripeté Chloe.
Mi risollevai, stavolta con lentezza per evitare di provocare un altro maremoto nella mia scatola cranica, e la visione che mi si parò di fronte rischiò di dislocarmi la mascella e, conseguentemente, farmela cadere sul pavimento: Lucifer e la Papessa stavano giocando a burraco.
Di nuovo mi stropicciai gli occhi, incredula. “Lucifer.”
“Bambina?”
Tacqui un secondo, organizzando le parole. Mi voltai verso Chloe, che era tornata a fissare il soffitto. “Chloe?”
“Olè.”
“Il tuo fidanzato sta giocando a carte con la Papessa.”
“E la cosa ti turba perché…?”
“Io pensavo che il Diavolo giocasse, chennesò, a poker. A blackjack.”
“E invece il Diavolo gioca a burraco. Ora, tacete.”, intervenne Lucifer, studiando il ventaglio di carte che gli nascondeva il naso. “Devo stracciare una certa autorità spirituale.”
“Decisamente, non era così che doveva andare.”
 
Due bottiglie di gin e qualche partita a carte più tardi, anche Lucifer si era aggiunto al club della sbronza. La Papessa, invece, era sobria come una monaca e leggeva una raccolta di poesie in celtico, fumando Lucky Strikes.
Ora eravamo tutti e tre sdraiati sul tappeto; avevamo spostato il tavolino e i divani perché le gambe di Lucifer non ci stavano, ma ora osservavamo il lampadario come se stessimo cercando di staccarlo con la forza del pensiero.
“Lucifer.”
“Dimmi, bambina.”
“Innanzitutto, la devi finire di chiamarmi bambina con quel tono da pornoattore.”
“Sottoscrivo.”, aggiunse Chloe.
Lucifer ridacchiò perché l’unica cosa che aveva capito era porno.
“In secondo luogo,”, continuai, mettendomi una sigaretta tra le labbra, “hai da accendere?”
Non rispose; si frugò nella tasca, impacciato, ed estrasse lo Zippo.
“Oh, se mi ammalo per via di tutto questo fumo passivo vi sbatto al fresco!”, si lamentò Chloe, che tuttavia non mosse un muscolo per levarsi dalla nuvola tossica che si azava dalle nostre bocche. 
“Ora, le cose importanti.”, dissi io, grattandomi un occhio con la mano che reggeva la sigaretta. Mi cadde un po’ di cenere in bocca e sputacchiai.
“Effettivamente è di grande rilevanza.”, fece Lucifer, commentando quel mio verso strozzato come se avessi fatto un commento sulla situazione socio-economica del Nagorno-Karabakh.
“Zitto. Allora. Siete fidanzati da due cazzo di anni.”
“Sì.”, risposero loro, in coro.
“Due cazzo di anni.”
“Sì.”
“Che cazzo vi aspettate?”
“Che Lucifer si dimentichi di te.”, disse Chloe, che evidentemente aveva abbandonato i freni inibitori.
“Mh.”, feci io, comprensiva.
Lucifer taceva.
“Posso?”, si intromise la Papessa, chiudendo il libro.
“Ma ci mancherebbe. Anzi, se vogliamo chiamare anche la signora dirimpetto a unirsi a questo amabile powwow, prego.”, fece Lucifer, sarcastico.
“Taci, Belzebù.”, lo rimbeccò la Papessa, incrociando gli indici davanti al suo naso, come una versione hippy dell’Esorcista. “E fatti in là.”
“Credo che la formula ufficiale fosse vade retro, Satana!”, corressi.
“Stiamo perdendo di vista il punto.”, disse Chloe. Notai, immersa in una nuvola di sigaretta, che in fondo anche da ubriaca rimaneva fedele a sé stessa. Ne sorrisi.
“E il punto è che?”
“Il punto è che io non potrò mai stare tranquilla, perché so che dentro di lui c’è una parte che appartiene solo a te, perché sei tu che l’hai sfiorato così a fondo.”
Tacemmo tutti. Chloe sbuffò, e vidi una lacrima appannarle gli occhi per una frazione di secondo.
“E poi non ho voglia di scegliere le bomboniere.”, aggiunse.
Ci guardammo per un secondo.
Scoppiammo a ridere come bambini, tutti quanti. La Papessa ci squadrò dall’alto – Lucifer non aveva accondisceso a farle posto, per mantenere aspra e accesa la rivalità biblica.
“Siete fuori di testa.”, disse solo, rubandomi la sigaretta e prendendone un tiro. “Siete la cosa più disfunzionale che io abbia mai visto. Una sorta di Cerbero delle relazioni intersoggettive.”
“Però siamo simpatici.”, dissi io, giuliva e ubriaca.
“Siete patetici.”, continuò la Papessa, appuntandosi i gomiti ai fianchi. “E io vorrei essere ubriaca.”
“Ma sei scozzese.”, disse Lucifer, con un tono da bravo scolaro che ha imparato la lezione.
“Croce e delizia.”, rispose la Papessa, accontendandosi di essere esclusa dal Club degli Stronzi Sdraiati sul Tappeto.
Mi voltai verso Chloe, offrendole uno sguardo dolce. Le presi la mano e gliela strinsi. “Io sono contenta di avervi qui e di condividere il mio tappeto ed un quasi certo coma etilico che ci porterà tutti allegramente sulla lista per un trapianto di fegato d’urgenza.”, dissi, suscitandole una piccola risata. Ne fui sollevata.
“Però voi due dovete parlare. Tipo, davvero parlare.”
Chloe sospirò. “Lo so.”
“Poi parleremo noi due. Ma se non ti fidi di lui…”
“Molly.”
“Dimmi, Chloe.”
“E se avessimo fatto tutto questo casino, questo roboante, meraviglioso scompiglio nelle nostre vite solo per distruggerlo in maniera clamorosa?”
La guardai.
“Sai che c’è? È meglio se ci mettiamo a ballare. Papessa? Metti i Bee Gees, prego.”
 
 
 
 
Here's to all that we kissed
And to all that we missed
To the biggest mistakes
That we just wouldn't trade
To us breaking up
Without us breaking down
To whatever's comin' our way

(Halestorm, Here’s to us)
 
 
 
 
 
Eccoci.
Allora.
Approdo a Belsize Park e prima serata della
reunion – seppur incompleta.
Ma non vi dico altro.
Siamo solo agli inizi.
Avevo voglia di scrivere qualcosa di un po’ meno “pesante”, dal punto di vista emotivo e psicologico: mancava un po’ di commedia, in
Big God. Mancava il Lucifer delle prime stagioni (che okay, ancora non è stato espresso al massimo delle sue potenzialità, qui, nei Crisantemi) – che comunque è quello che io preferisco.
Molly è sempre Molly.
La misteriosa identità della Papessa verrà disvelata, non preoccupatevi. Così come vi prometto che vi presenterò anche la figlia di Molly.
Giuro che rientra tutto in un grande disegno. Giuro.
Spero che questi primi capitoli vi stiano comunque piacendo, perché purtroppo sono un po’ il mio tallone d’Achille, gli incipit. Fosse per me farei incominciare tutto
in medias res senza dovere spiegazioni a nessuno; ma mi rendo conto che sia controproducente.
Verrà anche spiegato il perché di questi maledettissimi
Crisantemi. Giuro, lo giuro, vostro Onore, ha tutto un senso!
Prima che prendiate Lexotan e camicie di forza, gradirei moltissimo se mi diceste che cosa ne pensate, se mi sto muovendo in una direzione che possa interessarvi e piacervi!
Vi mando un bacio,
Y.

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Capitolo 3
*** The heart of the mutter ***


The heart of the mutter*
 
 
 
"Lloyd, son finite le energie."
"Mi sembrava di aver notato un certo esaurimento."
"Direi di attivare il generatore di buone notizie..."
"Se mi permette, sir, il generatore alza la tensione emotiva per poco tempo, sir."
"E allora, che si fa?"
"Consiglierei di rivolgersi al sole, sir."
"Con dei pannelli?"
"Con il viso, sir."
"Il caffè fallo servire in terrazza, Lloyd."
"Con estremo piacere, sir."
 
 
Ci sono leggi fisiche ben precise che regolano i delicati equilibri dell’Universo.
Per esempio, è noto ed elementare che l’energia non si può creare né distruggere, ma può essere convertita da una forma all’altra; oppure che una qualsiasi forza genera sempre un qualche tipo di movimento. Che le stelle nascono quando inizia la fusione dell’idrogeno, una volta raggiunta la temperatura di 15 milioni di K, e che quando spalmi di burro una fetta di pane, e ti scivola dalle mani, essa è logicamente destinata a cadere dal lato che hai imburrato, diretta sui pantaloni puliti che hai sapientemente deciso di indossare prima di fare colazione.
Allo stesso modo, se la sera prima decidi che una birra non potrà fare più male di quello che hanno fatto svariati chupiti di gin a stomaco vuoto, è certo con uno scarto di probabilità dello 0,00000000001% che la mattina dopo ti sveglierai con una cefalea inenarrabile, una nausea che nemmeno alle prime tre settimane di gravidanza, e una voglia di vivere così misera che Edgar Allan Poe era un allegro zuzzurellone, in confronto a te.
Nell’esatto istante in cui aprii gli occhi, quel luminoso giovedì mattina, seppi che sarebbe stata una giornata terrificante.
La luce che filtrava dalle finestre era così insopportabile che avrei voluto cavarmi gli occhi.
Mi coprii il viso con un cuscino, premendo forte.
Avevo la testa confusa come se qualcuno l’avesse disinvoltamente svitata dal mio collo e l’avesse agitata come un Martini, per poi riavvitarla al contrario.
Gin. Crisantemi gialli. Nascondino fu la catena logica che il mio cervello mi fece sfilare dietro gli occhi, spacciandoli per pensieri sensati.
La mia risposta a tutto ciò? Ma. Che diamine.
Percepii un movimento, una serie di passi frettolosi diretti verso il letto; il materasso si piegò sotto il peso di qualcuno che vi si era seduto. Una mano che conoscevo bene per il suo tocco accondiscendente si posò sul braccio. Mi arrivò alle narici un profumo di schiuma da barba e doccia appena fatta.
“Buongiorno, splendore.”, disse Thomas.
Gli grugnii. Poi tolsi il cuscino dal viso e lo fissai. “Thomas.”
“Sì?”
“Mi ami?”
“Ora come ora?”
“Ora come ora.”
“Abbastanza.”
“Okay. Prendi il coltello a sega giù in cucina.”
“Mh.”
 “E fammi il piacere di recidermi la testa una volta per tutte.”
“Ti amo perché sei una persona equilibrata e per niente drammatica.”
Sbuffai, colma di insofferenza e fastidio, e riposizionai il cuscino sulla faccia.
“Sono svegli?”, chiesi, sempre con la bocca coperta.
Thomas, che certo era in odore di santità, ma non aveva ancora sviluppato alcuna peculiare capacità di tradurre i miei mugugni in proposizioni dotate di senso, sospirò, e raccogliendo la pazienza come si raccoglie una penna caduta dalla scrivania mi chiese: “Che hai detto?”
Tolsi il cuscino dalla bocca, ma non dagli occhi. Stupida luce mattutina. Ripetei la frase senza riuscire a trattenere un tono piagnucolante.
“Non so. Non sono ancora sceso.”, disse lui.
Mi tolse con gentilezza il cuscino dagli occhi per rivolgermi uno dei suoi soliti sguardi comprensivi. Appoggiò un bacio delicato sulle mie labbra.
Bofonchiai qualcosa che voleva, in via teorica, assomigliare ad un verso di godimento, per spronarlo a ripetere il gesto.
Thomas, che ormai mi capiva meglio di quanto mi capissi io stessa, mi baciò ancora sulla bocca, sulla guancia, sul naso.
“Lo sai che abbiamo giocato a nascondino, ieri sera?”, mi disse, alternando un bacio ad una parola. In quel momento, non me ne poteva fregare di meno di quello che avessimo fatto la sera prima; infatti ignorai.
Le mie mani planarono lascivamente sulla cinta dei suoi pantaloni; iniziai ad armeggiare con la fibbia, impegnandomi ad espropriare quel mal di testa che aveva deciso di risiedere in pianta stabile dietro i miei occhi. Gli rivolsi uno sguardo dolce da cerbiatta.
“Devo andare a lezione.”, disse lui poco convinto, approfondendo il bacio. Sorrisi nel sentire che aveva scalciato le scarpe.
“Sei facilmente corruttibile.”, dissi, ribaltandolo sotto di me. Mi feci togliere la maglietta ed ammirare con una punta di golosità. Mi morsi un labbro, e il suo pollice giunse come una benedizione ad accarezzare il punto dove avevo affondando gli incisivi.
Un calore ben noto mi fiorì dietro l’ombelico, irradiandosi velocemente verso una zona pericolosa. Mi mossi su di lui.
“Mi stai offrendo delle argomentazioni su cui francamente vorrei riflettere.”, ribattè Thomas, attirandomi il viso di nuovo contro il suo.
Gli levai gli occhiali.
Una voce improvvisa tagliò il rumore dei nostri respiri come un coltello. “Bravoni.”
Colpita e affondata, crollai sul letto dalla mia torre di lussuria.
La Papessa se ne stava appoggiata allo stipite della porta con un sorriso da Stregatto ed un vassoio di pasticceria in mano.
“Ma buongiorno.”, disse, con un tono malizioso.
Mi coprii con il cuscino e feci volare una cinquantina di bestemmie in direzione della mia amica. Thomas invece non si scompose; rinfilò la camicia nei pantaloni e inforcò gli occhiali. “Sei spiacevole e inopportuna come un dito nel culo.”, le rispose, franco e sorridente.
“Ah, lei ha studiato a Cambridge, vedo.”, replicò quella. “Alzati, Molly. I tuoi ospiti sono già in piedi.”
Come da consuetudine, mugugnai.
Thomas mi baciò ancora una volta, prima di sfilare davanti alla Papessa scuotendo la testa.
“Nonostante tu abbia superato i quaranta vedo che hai ancora una libido galoppante.”, disse sorniona la mia amica, abbassando lo sguardo in maniera poco elegante sul cavallo dei pantaloni di Thomas. “Mazeltov.”
“La menopausa non rientra nelle mie preoccupazioni. Tu, piuttosto, a che punto sei?”, ribatté Thomas, scappando giù dalle scale prima che lo scapaccione che la Papessa aveva incoccato raggiungesse la sua persona.
Io intanto sorrisi, scuotendo la testa e cercando di infilarmi la maglietta nel verso giusto, pensando a quelle piccole violazioni di domicilio che ci si può permettere solo quando conosci davvero bene una persona.
La Papessa aveva trentasette anni, ed era la cognata di Thomas. Faceva la traduttrice e si dilettava di esoterismo e tarocchi marsigliesi; era una donna misteriosa ed accattivante. Era una di quelle persone che, se entrano in casa tua, cambiano l’acqua ai fiori e aprono le finestre; piccoli gesti, minuzie, davvero, che immediatamente ti fanno stare meglio. Arieggiano il cuore ancora prima delle stanze. E lei si muoveva ovunque come fosse casa sua, perché il mondo era casa sua, e le sue ampie gonne svolazzavano come tende gonfiate dal vento.
La Papessa riordinava istintivamente, e lo faceva senza che te ne accorgessi. Sia che fosse raddrizzare un soprammobile storto o piegare uno strofinaccio abbandonato sui fornelli.
Piccoli, impercettibili dettagli che tuttavia, nell’insieme, ti facevano vivere in maniera più chiara. Era il vento che soffiava nel cielo, trascinando via le nuvole e rendendolo limpido come un lago alpino.
E dopo qualche ora che se n’era andata, al suo posto trovavi sempre una raccolta di poesie irlandesi e un vago aroma di salvia e naftalene.
“Metto su il caffè.”, mi disse la Papessa, scuotendomi dai miei pensieri, solo parzialmente annebbiati. Sorrisi ed inspirai il suo odore: quella mattina aveva i capelli fulvi raccolti, e le labbra dipinte di viola scuro si aprirono in un sorriso malizioso e complice. Un sorriso da fata.
“Per questo sei mia amica.”
Dopo essermi assicurata per telefono che la bambina avesse dormito e stesse bene, aprii l’armadio in cerca di un paio di jeans comodi.
La testa continuava a girare, e mi dolevano terribilmente le tempie, ma stavo iniziando a farmene una ragione.
Mi pizzicai le guance per restituire un po’ di colore alla pelle, spalancai le finestre. L’impatto con l’aria fredda di novembre mi restituì a vita nuova.
 
Appena misi piede in cucina, capii che non ero l’unica ad aver accusato il colpo, quella mattina: non potendo trovare una compagna nella Papessa, che era fresca come una rosa appena sbocciata, franai a sedere accanto a Chloe, che fissava con sconforto una tazza di caffè fumante attraverso un paio di occhiali dalle lenti specchiate.
“Buongiorno.”, dissi, legandomi i capelli in una cipolla bionda.
“Mh.”, rispose Chloe. Alzai le sopracciglia, pensando che mi era appena stato rubato il titolo di bofonchiatrice mattutina.
Thomas si stava servendo di caffè in un angolo, stringendo una brioche tra i denti. Lo maledissi mentalmente: l’unico essere sulla faccia della Terra che riusciva a somigliare ad un modello di Burberry alle otto del mattino. Mi sorrise tronfio perché, come al solito, aveva perfettamente decrittato il mio sguardo.
Dovetti, a malincuore, rettificarmi quando Lucifer fece il suo ingresso trionfale in cucina fischiettando l’inno inglese, con nient’altro che un asciugamano bianco intorno alla vita. Forse ce n’erano due di esseri sulla faccia della terra che riuscivano a sembrare fotomodelli di prima mattina.
Chloe abbassò leggermente le lenti specchiate, e la sentii deglutire a vuoto.
“Buongiorno!”, esultò lui. Si versò un bicchiere di succo d’arancia, che corresse subito con un po’ di whiskey dalla fiaschetta – da dove l’aveva tirata fuori, la maledetta fiaschetta? Lo fissai intensamente.
“La tua imitazione del falco pellegrino sta diventato paurosamente somigliante, complimenti.”, mi schernì Thomas, notando lo sguardo corrucciato che rivolsi a Lucifer.
La Papessa gli fece l’occhiolino. “Bravo. Whiskey e vitamina C: proprio come faceva mia madre.”
Lucifer alzò il bicchiere in direzione della Papessa, felice di aver finalmente trovato qualcuno che approvasse le sue abitudini alimentari.
Chloe li zittì tutti, agitando le mani intorno al capo come un direttore d’orchestra. “Mal di testa.”
Lucifer glissò lo sguardo su di lei; poi si rivolse verso di me, e sulle mie occhiaie. Ritornò a guardare la Papessa.
“Ma… sono messe così per ieri sera?”, chiese, incredulo.
“Non parliamone.”, ribattè la Papessa, scuotendo la testa sconsolata. “E’ imbarazzante. Sono due anni che cerco di elevarla, questa qui.”
“Ti pregherei di finirla.”, disse Thomas, scrutando l’orologio. “Vorrei evitare che sua figlia perdesse la madre in seguito a una cirrosi epatica.”
“Come sei melodrammatico! Per un bicchierino di gin!”
“Quando gliel’ho chiesto ieri sera il conteggio era fermo a dodici, se non sbaglio.”
“Finitela di parlare come se non ci fossi,”, dissi io, massaggiandomi le tempie, “e ragguagliatemi. Ho un vuoto di memoria che sembra la fossa delle Marianne.”
Thomas mi baciò il capo ed indossò il cappotto. Squadrò Lucifer e il suo déshabillé con disappunto e imboccò la porta, lasciandosi dietro un a dopo generale.
La Papessa sedette al tavolo, ed estrasse un foglietto dalla tasca dei pantaloni.
“No, cioè, fammi capire.”, chiese Lucifer, che trovava tutto estremamente spassoso, quella mattina. “Hai preso appunti?”
Mi stupii che non si fosse messo a battere le mani come una scolaretta.
Sedette al tavolo di fianco a me, e il suo odore fresco di doccia mi investì le narici. Ebbi un tremito che sperai vivamente fosse passato inosservato.
La Papessa guardò Lucifer come si guardano gli stolti. “Certo. Sapevo che avreste voluto parlarne, stamane.”
“Oh, per l’amor d’Iddio.”, fece Chloe, esasperata, strappandosi gli occhiali. “Mi sembra tutto così infantile e stupido. La nostra vita sentimentale non è una lezione di sociologia da cui attingere per uno studio!”
“Se parti così alle otto del mattino non so se arrivi a sera.”, le disse la Papessa con un filo di compianto.
“Legga, sua Santità. La prego.”, rispose Lucifer, ignorando lo sguardo al fulmicotone che Chloe gli rivolse.
La Papessa inforcò un paio di occhiali anni Settanta, e si schiarì la voce. “Abbiamo giocato a burraco. Lucifer ha proposto di giocare a strip poker, e Chloe gli ha tirato una scarpa. Poi abbiamo aperto la cassa di Heineken in fondo alla dispensa, quella che abbiamo comprato per quel barbecue.”
“Quando è stato che l’abbiamo comprata?”, chiesi.
“Eri ancora incinta.”
“Ah. Senti, com’è che mi ricordo di una partita a nascondino?”
La Papessa mi fissò intensamente, e qualcosa le attraverso gli occhi: un colpo d’ala, un pensiero fugace che venne prontamente agguantato per le zampe e rimesso in gabbia. Mi voltai verso Lucifer e Chloe, ma stavano parlando tra loro.
La Papessa si schiarì la voce, e attirò la loro attenzione. Continuò a leggere.
“Poi Chloe si è messa a ballare You Should Be Dancing dei Bee Gees e ha rotto il vaso dei crisantemi gialli in salotto con una sculettata un po’ troppo sentita.”
“Oddio. Scusami.”, fece Chloe, portandosi le mani alle labbra. Le rivolsi un gesto di noncuranza con la mano; sapesse quanto me ne poteva fregare dei cazzo di crisantemi. Stavo iniziando a preoccuparmi che la solerte dattilografa altresì nota come Papessa avesse registrato qualche uscita inopportuna da parte mia. Mi guardai intorno con stizza, alla ricerca delle sigarette.
“Aspetta, credo di ricordare il rumore di qualcosa che si sfracellava a terra.”, disse Lucifer, stringendo gli occhi in due fessure per la concentrazione. Lo guardai con un sopracciglio alzato.
La Papessa si levò gli occhiali e mi guardò pensosa. “Sai cosa ho letto sui crisantemi?”
“Prima fammi fumare una sigaretta.”, la interruppi, alzandomi e brancolando in cucina.
Bestemmiai mentalmente al pensiero che Thomas potesse averle nascoste. Lucifer mi chiamò come un fischio: in altre situazioni gli avrei più o meno gentilmente indicato la via per andare a fanculo, datosi che non ero un cane. Tuttavia, una sigaretta americana se ne stava appoggiata sul suo palmo, sdraiata come una salma.
La afferrai senza scomodarmi a ringraziare; dopo il primo tiro tornai ad essere carina ed amabile.
“Cosa hai letto sui crisantemi?”, chiesi, rivolgendomi alla Papessa e tentando di ignorare il borbottio di Lucifer, che mi rimproverava come una suora per la mia maleducazione.
“Ho letto che i crisantemi gialli si portano per chiedere perdono.”
“Io sapevo che si portano ai morti.”, ribadii.
“Mi vuoi dire che se metto piede in salotto troverò un monumento ai caduti di cocci e crisantemi?”
“Beh, io non ho pulito.”, rispose la Papessa, facendo spallucce.
La guardai fissa negli occhi, incredula.
“Cioè, fammi capire: Chloe ha urtato il vaso con il sedere.”
“Sì.”
“Il vaso è caduto.”
“Esatto.”
“Si è rotto.”
“Ja.”
“E tu, che eri l’unica sana, non hai pensato di raccogliere i cocci? Sapendo che io vivo a piedi scalzi in questa casa maledetta?”
La Papessa mi fissò intensamente per qualche istante; poi, come a voler avvalorare ciò che di lì a poco avrebbe esclamato, sventolò il pezzo di carta davanti al mio naso.
“Dovevo prendere appunti.”, mi cantilenò nell’orecchio.
E certo.
 
I'm not angry anymore
Well, sometimes I am
I don't think badly of you
Well, sometimes I do

It depends on the day
The extent of all my worthless rage
I'm not angry anymore

I'm not bitter anymore
I'm syrupy sweet
I'll rot your teeth down to their core
If I'm really happy.

It depends on the day
If I wake up in a giddy haze
Well I'm not angry
I'm not totally angry
I'm not all that angry anymore.

(Paramore)
 
 
Avevamo risolto di accompagnare la Papessa in ufficio, giusto per prendere un po’ d’aria e approfittare del sole che il cielo inglese ci aveva concesso, quella mattina.
Per tutto il viaggio in taxi guardai fuori dal finestrino, un berretto calato fin sulle sopracciglia e un’espressione torva.  
Chloe aveva recuperato in parte il buonumore – sospettai grazie al trattamento che le dedicò Lucifer nel bagno degli ospiti dopo la colazione – e ora stringeva le dita intorno al ginocchio di Lucifer come a voler rimarcare insistentemente i confini di ciò che le apparteneva.
La Papessa dispensava mentine e aneddoti divertenti su ogni angolo di Londra che ci sfrecciava di fianco: mi ritrovai a scambiare con l’autista uno sguardo di mal sopportazione dell’altrui presenza.
In tutta onestà? Avevo timore a restare sola con Lucifer e Chloe; una paura tutta di pancia che non aveva assolutamente intenzione di farsi scalfire dalle numerosi ragioni che il mio cervello sciorinava per tentare di tranquillizzarmi.
Non serviva a nulla cercare di razionalizzare una situazione come quella: secondo i nostri piani, avremmo dovuto incontrarci più maturi e lucidi in grado di sostenere il peso dei ricordi e dei non detti che aveva caratterizzato la nostra vita a Los Angeles fino al giorno dell’Incidente (la Papessa pronunciava quella parola con un tono così grave che per forza l’iniziale aveva dovuto ergersi a maiuscola, nei nostri pensieri).
E invece eccoci lì, a squadrarci come adolescenti acerbi, incapaci di mettere i nostri problemi con le spalle al muro senza l’aiuto di fiumi di alcool. Come vampiri, alla luce del giorno ci ritiravamo timorosi nelle profondità più lontane di noi stessi, mettendo su le maschere di cartapesta degli amici di vecchia data pur di non manipolare troppo la mina vagante sotto i nostri piedi, di cui peraltro non riuscivamo ad ignorare il ticchettio inquietante.
Andammo a guardare le anatre ad Hyde Park.
Lucifer e Chloe parlavano di nuove carte da parati e far fare la revisione alla Corvette, ma io non riuscivo a smettere di pensare.
Mi accesi una sigaretta, un modesto tentativo di asfissiare il criceto che nel mio cervello aveva cominciato a correre sulla sua ruota.
Durante il resoconto della disastrosa serata precedente, la Papessa aveva esitato davanti ad un punto particolare del foglio.
Chloe era troppo stanca, e Lucifer troppo distratto per rendersene conto, ma io la conoscevo. Conoscevo i suoi sguardi, i suoi tentennamenti, i suoi lunghi silenzi carichi di elucubrazione.  Soprattutto, non mi poteva sfuggire la sua imbarazzante inettitudine a dissimulare: quella mattina, dopo aver concluso il lungo catalogo di acrobazie in cui Lucifer si era cimentato, si era schiarita la voce in maniera fin troppo plateale per non sottendere dell’altro; avevo notato nei suoi occhi la fioritura improvvisa di un’agitazione, qualcosa che decisamente non si confaceva al solito aplomb e al contegno che muovevano i suoi gesti. Un guizzo di preoccupazione che aveva cancellato un attimo dopo, fingendo che non fosse stato nulla.
Mi stava nascondendo qualcosa, e quel che peggio, mi nascondeva qualcosa che non avrebbe potuto vivisezionare davanti agli altri.
Guardai Lucifer e Chloe, appoggiati alla ringhiera che divideva il laghetto delle anatre dal selciato: chiacchieravano amabili, dannatamente perfetti per stare insieme, si davano di gomito, si facevano il solletico.
Come se nulla fosse.
Io invece mi sentivo avvolta da una nuvola nera gonfia di pioggia, come se stessi aspettando il momento adatto per sganciare la bomba. Ma quale bomba?
Mi ritrovai a percepire come dolorosa la mancanza del terreno sotto i piedi; mi sentivo dilatata e in procinto di staccarmi dal suolo.
Rimasi imbambolata davanti alle anatre per tutta la mattina, prigioniera di un pensiero che continuava a sfarfallare, come una luce difettosa, impedendomi di vedere chiaramente. Un pensiero che si muoveva tra due estremi opposti, due possibilità assolutamente identiche e ugualmente pericolose: a giudicare da alcuni sguardi che Chloe mi lanciò ripetutamente, aguzzi come pugnali lanciati da un circense bendato, nell’arco di tempo di quel blackout mnemonico dovevo averla fatta grossa.
 
 
 
 
 
Questo capitolo è:
1) dedicato alla cedrata Tassoni
(not sponsored), che mi ha dato quel guizzo di zuccheri necessario per portare avanti questa storia e lo studio dell’esame di estetica – che grazieadioèandatobene.
2) un po' inutile.
3) un po’ … sospeso su fili invisibili.
Non temete: i fili ci sono.

Si scoprirà presto che diavolo (haha.) hanno combinato.
Vi mando un bacio.
Y.
 

*gioco di parole tra “matter”, che completa l’espressione idiomatica “heart of the matter”, il nocciolo della questione, e “mutter”, che significa mugugno, borbottio.

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Capitolo 4
*** Buchi neri supermassicci (but what will we do when we're sober?) ***



Buchi neri supermassicci
(But what will we do when we’re sober?)
 
 
 
 
Oh, God, I'm clean out of air in my lungs
It's all gone, played it so nonchalant
It's time we danced with the truth
Move along with the truth
 

The night before
 
Lucifer faceva vorticare la giacca sopra la testa, la camicia sbottonata fino all’ombelico che lasciava intravedere uno degli enormi ciondoli col crocifisso con cui la Papessa lo aveva ufficialmente decretato re della disco. Molly e Chloe si erano stupite che il contatto con quell’oggetto non gli avesse come minimo marchiato la carne, ma evidentemente avevano ancora da imparare sulla sul modo in cui la natura di Lucifer interagiva con la loro.
Il volume dello stereo era al massimo; i Bee Gees sputati dalle casse facevano vibrare pericolosamente vasi e brutti soprammobili sulle mensole, come un micro-terremoto proveniente direttamente dagli anni Ottanta.
“E’ un peccato che le discoteche di questo secolo abbiano abbandonato certi capolavori.”, diceva lui, sudato, muovendo il bacino in una maniera che avrebbe fatto impallidire John Travolta.
La Papessa teneva il ritmo con le dita che reggevano la sigaretta, troppo composta di natura per lasciarsi andare a certi comportamenti.
“Suvvia, Eminenza, mi faccia vedere come si faceva negli anni Ottanta!”, urlò Lucifer, cercando di tirarla al centro del salotto.
La donna lo squadrò con piccato disappunto. “Scusa, quanti anni pensi che abbia?”
“Io-”
“Sei un maleducato. Chloe, il tuo futuro sposo è un maleducato.”
Ma Chloe non la stava ascoltando; si era avvicinata a Lucifer, ondeggiando goffamente e cercando di star dietro a lui, che sgambettava da una parte all’altra del soggiorno come una cavalletta impazzita.
La Papessa passò il dorso della mano sulla guancia di Molly, affettuosamente. “Come stai, tesoro?”
“Sto.”
“Sconfortante come monosillabo.”
“Ti prego di dirmelo, quando trovi un monosillabo che non lo sia.”
La Papessa ci pensò su un po’.
Lucifer faceva girare Chloe come una trottola; ridevano entrambi, barcollanti, ubriachi, ma mai stati più uniti.
“Ma la riusciranno mai a capire?”, chiese Molly, osservandoli con una crepa nel petto che aveva incominciato a dilatarsi. Due parti di sé che iniziavano a tremare come la faglia di Sant’Andrea. “La riusciranno mai a capire che hanno tutti i pezzi e il manuale di istruzioni davanti, e che non devono fare altro che mettersi seduti a capire come incastrare tutto insieme?” Sbuffò. “E invece vanno in giro a cercare di avvitare le viti con il martello.”
“Secondo me sì.”, ribatté la Papessa sorridendo. Strinse le dita di Molly tra le sue. “Certe cose alla fine, se supportate dalle giuste motivazioni, si risolvono sempre.”
“Sei troppo romantica.”, le disse Molly, distogliendo lo sguardo dalla coppia che ballava al centro del salotto, e portandolo sulle mani della Papessa.
“Tu non abbastanza. E avresti una pletora di buone ragioni per credere nel lieto fine.”
“Il lieto fine…”
“Già.”
“Con questi qui non c’è niente di lieto; e nemmeno di finito. Si andrà avanti, imperituri, con gli stessi dubbi, le stesse frustrazioni fino a quando non si tireranno le cuoia. Ne sono certa.”
“Bello, no? Almeno ti tieni occupata.”
Molly le schioccò uno sguardo fintamente innervosito: la Papessa la accarezzava con gli occhi.
Molly le era grata per non aver tirato in ballo alcuna argomentazione riguardante Thomas, o sua figlia. Soprattutto, che non la giudicasse per quel rantolo che sentiva in fondo al cuore, un parente lontano di quell’amore urlante che l’aveva quasi mandata all’altro mondo. L’ultima cosa di cui aveva bisogno, in quel momento, era di ricevere una ramanzina sulla fedeltà, sulla cosa giusta, sull’amore. La Papessa sapeva quanto le stesse costando aiutare Lucifer e Chloe a stare insieme: conosceva il dolore peculiare che trafigge il cuore quando ci si deve sforzare a sostenere lo sguardo di un uomo innamorato di un’altra. E Thomas tardava a tornare a casa.

La Papessa non ci pensava neanche per un secondo, di giudicare Molly.
“Alla fine questa sbronza all’inglese non è proprio riuscita come pensavo.”, disse, esalando un lungo sospiro, indicando Lucifer e Chloe con una sigaretta spenta.
La ragazza la ignorò.
“Tanto per cominciare, la colonna sonora non era contemplata nel programma. Come si fa a parlare con questo frastuono?”
“Non si parla. Si balla.”, le rispose Molly, senza tuttavia muoversi dal tappeto.
 
 
 
We're sleepin' through all the days
I'm actin' like I don't see
every ribbon you used to tie yourself to me


 
Molly sorrideva al lampadario, ubriaca ed esausta.
Si permise qualche secondo di verità, sentendosi ben protetta dal doppio strato di filo spinato che circondava le sue tempie, una sorta di corona di spine: le era mancato vederlo così. Le era mancato in generale, dovette ammetterlo. Almeno finché Thomas non era presente.
Lui si muoveva come se quel soggiorno – diamine, come se tutta Londra – fosse di sua proprietà: tutto il mondo si trasformava nel suo nightclub personale, quando era di buon umore. E ora Lucifer era nel centro del suo salotto, nel luogo che avrebbe dovuto essere il suo nido, il porto sicuro che avrebbe dovuto salvaguardarla da quella presenza che l’aveva corrosa e corrotta; Lucifer era lì, beveva birra scadente e le ammiccava, perso nella nebbia dolce dell’alcool e della musica, come sempre ignaro dell’impatto che il suo modo di fare aveva sugli altri. Era un modo di vivere 'a scapito': sì, esatto, senza complemento. Non lo faceva con cattiveria, perché non era un uomo cattivo. Era solo molto ignaro; e nella sua buona ignoranza rendeva il mondo la sua pista da ballo, senza nemmeno porsi il problema che potesse renderlo agli altri un campo minato.
Era bello, Lucifer.
Molly scosse lievemente la testa, come a voler dare una risposta negativa a una domanda che qualcuno nel suo cervello le aveva posto, senza neanche capire che domanda fosse. Doveva essere no, a prescindere.
Chloe prese Lucifer per il colletto della camicia e lo baciò; Molly sorrise, senza distogliere lo sguardo dalla scena, aspettandosi che lo sguardo della donna la cercasse. Cosa che, secondo le sue previsioni, avvenne. L’occhio premuroso della Papessa corse a vagliare la reazione di Molly: la ragazza le sorrise, mesta, e mosse l’indice in circolo, a voler dire dopo ne parliamo.
Alla fine della terza esibizione a ritmo di You should be dancin’, Chloe e Lucifer crollarono a sedere sul divano, esausti e madidi di sudore.
I crisantemi erano finiti a terra, urtati dalle natiche di Chloe che aveva preso un po’ troppo alla lettera  il testo della canzone; Molly tremò per il rumore improvviso, ma poi decise che la bottiglia di Heineken che le era comparsa davanti, attaccata alla mano di Lucifer, aveva più importanza.
“Che qualcuno pulisca.”, disse, vaga, portandosi la bottiglia alle labbra. Ovviamente nessuno la ascoltò. Si spanse nell’aria un odore di fiori e di acqua, un sentore di pulito che rinfrescò per qualche istante le menti di tutti. Uno spirito gentile che allentò la tensione frenetica della danza, dell’alcool, dell’elucubrazione. Il fantasma dell’amore presente che scacciava quello dell’amore passato.

Lucifer accese tre sigarette, distribuendole poi tra sé, Molly e la Papessa.
Le donne le accolsero tra le dita affusolate con un solenne amen, perché la blasfemia non aveva limiti, quella sera.
“Disco Inferno, baby.”, disse Lucifer, tamponandosi la fronte con il dorso della mano. “E credetemi, io ne so qualcosa.”
“Ah, certamente.”, esclamò la Papessa, appoggiandosi all’indietro sullo schienale della poltrona. “Perché tu sei il Diavolo. Giusto.”
“Beh, sì.”
“Mh-mh.”
“Per davvero, Papessa.”
“No, ma senza dubbio. Mi pare logico. Lineare. Cristallino.”
Lucifer la guardò con uno sguardo vuoto. La sigaretta si consumava tra le dita, momentaneamente ignorata. “Papessa.”
“Dimmi, tesoro.”
“Sono davvero il Diavolo. L’Avversario. Satana.”
“Belfagor. Mefistofele.”, continuò lei, con uno spesso strato di provocazione sui denti. “Il cattivone.”
Lucifer si rese conto che in seguito all’appellativo dolce con cui la donna l’aveva chiamato, le sue parole si erano sgonfiate non appena erano uscite dalle sue labbra: la Papessa lo guardava come se fosse un morbido coniglietto di peluche.
Lucifer sbuffò. “Non vuoi credermi?”
“No, lungi da me volerti distogliere dalla tua illusione, caro. D’altronde, chi sono io per giudicare? Mi chiamerebbero Papessa anche i miei genitori, se fossero vivi.”
Si alzò dalla poltrona e sistemò il bocciolo che pendeva a testa in giù da un mazzo di tulipani fucsia. Piegò lievemente la testa, osservandolo con occhio critico.
“Mi riesce difficile crederti, anche perché dovremmo essere nemici. E io ti trovo abbastanza gradevole. E’ una questione ontologica abbastanza spinosa.”, continuò la Papessa, come a voler reggere un gioco che sembrava prospettarsi molto divertente.
“No, Papessa, vedi… Lui è davvero il Diavolo.”, disse Chloe, improvvisamente investita nel ruolo di avvocato del, appunto, Diavolo.
La Papessa la squadrò dall’alto in basso. “Basta alcool per stasera.”
“Già che hai tirato in ballo la questione,”, disse Lucifer, cambiando discorso, “perché ti chiamano Papessa?”
“Non te lo dico solo perché non sono certa al centodieci per cento che domani non te ne ricorderai. E ho una reputazione da mantenere.”
“Si chiama Papessa come la carta dei Tarocchi.”, esclamò Molly, che fino a quel momento era stata in silenzio, con una mano immersa nei folti capelli biondi di Chloe. La donna aveva socchiuso gli occhi, abbassando di poco le difese appena quelle dita gentili avevano iniziato ad accarezzarle lo scalpo, come se volessero dipanare le preoccupazioni che vi soggiacevano. Era buffo, pensava, come una ragazza che per lei costituiva una minaccia inoppugnabile riuscisse al contempo a trasmetterle una tale tranquillità: con quel sorriso da brava bambina, i capelli che profumavano di mughetto e quegli spessi maglioni che sicuramente erano di Thomas, tutto di lei sembrava suggerire che non c’era nulla da temere.
Ma quegli occhi.
Occhi che dilaniavano la trama elegante di quel volto come un fulmine a ciel sereno: occhi fiammeggianti, inquieti e profondi come la bocca dell’Inferno. Occhi troppo simili a quelli di un certo essere che aveva particolare dimestichezza sia con le bocche che con l’Inferno. L’abisso che si specchia in sé stesso.
Lucifer emise un verso d’assenso in direzione di Molly. “E che dice, la Papessa dei Tarocchi?”
“Di base, molte stronzate.”
“Mary Magdalene.”, la redarguì la Papessa, che poche cose mal sopportava, e tra queste c’erano i turpiloqui ingiustificati.
“Eminenza?”
“Linguaggio.”
“Chiedo davvero venia.”
Chloe si riscosse all’improvviso. “Non gioco a nascondino da almeno venticinque anni. Giochiamo a nascondino?”
“A nascondino?”
“A nascondino.”
Tutti i presenti alzarono i nasi per aria, come aspettando che una ragione per non giocare a nascondino piovesse dal soffitto. Ma non si prevedeva alcuna precipitazione di giustificazioni, quella sera.
Molly scrollò le spalle. “Ma diamine. Perché no?”
“Io ho una certa età”, disse la Papessa, spegnendo una sigaretta nel posacenere. “Vi guardo.”
“Ma per favore. Che ci vuole.”, la zittì Molly, prendendola per un polso e tirandola su dalla poltrona con la forza.
La Papessa la guardò accigliata. “Finisce che mi rompo un femore.”
“Non hai mica ottantaquattro anni.”
“Spiritualmente sono centenaria.”
“Visto? Dici solo puttanate.”
“Ma cosa diavolo sta succedendo?”, chiese una voce dall’ingresso.
Molly puntò un dito su Lucifer. “Questo Diavolo.”
Lucifer puntò gli occhi al soffitto: “Questa battuta inizia a non far più ridere.”
Tutti si voltarono verso la silhouette di Thomas, comparsa come in un sogno nell’anticamera tra il salotto e l’ingresso.
Thomas lasciò cadere la valigetta a terra (forse pure un po’ di pazienza) e anche le chiavi, che si accasciarono nello svuotatasche sul mobile dell’ingresso con un tintinnio cristallino. Si passò una mano sul voltò, scostando gli occhiali e premendo un po’ troppo sugli occhi.
Americani, gli venne da pensare.
“Caro.”, cinguettò la Papessa, avanzando con riverenza verso di lui. “Hai un aspetto orribile. Ti faccio un whiskey?”
“Veramente quello della moglie premurosa dovrebbe essere il mio ruolo.”, ribatté Molly, alzando un indice nell’aria.
Thomas le si avvicinò con un sorriso stanco, e le sollevò il mento con un dito.
Un gesto così innocuo, ma gonfio di una tale carica erotica che Molly non riuscì ad esimersi dall’incatenare gli occhi scuri in quelli di lui, sorridendo lasciva. Thomas le regalò uno sguardo che a tutti non parve tanto diverso da quello che aveva di solito, ma che la ragazza lesse chiaramente come uno dei suoi ‘Ti scoperei fino a farti piangere.’ La tentazione di dare precocemente la buonanotte ai suoi ospiti si fece bruciante come una febbre. Si morse un labbro.
“Hai fretta di diventare la signora Melrose?”, le chiese Thomas, depositandole sulla bocca un bacio piccolo, casto e a labbra chiuse, così dissonante con lo sguardo incandescente che portò la pelle della ragazza a costellarsi di brividi.
“Perché, tu mi sposeresti?”, chiese Molly, sarcastica e provocatoria.
“E chi lo fa, se no?”
Molly gli scoccò uno sguardo in tralice. “Se questa è una proposta di matrimonio, io…”
Thomas la guardò, irriverente ma sempre nei limiti di un pacato garbo. Le sorrise, machiavellico.
“Questa è una proposta di nascondino.”, urlò Chloe. “Giochiamo a nascondino!”
Thomas scosse lievemente la testa; un ricciolo biondo scivolò tra gli occhi. “E giochiamo a nascondino.”
“Ti prendo una birra.”, disse la ragazza, saltellando intorno a lui come una ninfetta e facendosi seguire in cucina.
Thomas si passò una mano sulla bocca, cacciando un certo appetito nell’antro più profondo della sua mente mentre Molly si piegava a prendere una birra dal ripiano più basso del frigorifero.
“Fai due. O anche cinque.”
 
 
But my hips have missed your hips
So let's get to know the kicks
Will you sway with me?

Go astray with me?
 
 
“Non è certo stata una grande idea chiudere due individui che rasentano il metro e novanta in uno sgabuzzino per le scope.”, fece presente Lucifer, trovandosi ingobbito e vagamente molestato nell’intimo da un battitappeto appeso al muro su cui era appoggiato.
Era buio; avevano convenuto che la luce accesa avrebbe subito fatto scoprire alla Papessa il loro nascondiglio.
Thomas assentì, distratto: faceva fatica a ragionare perché aveva il naso sepolto nei capelli biondi di Molly, e il suo corpo combaciava perfettamente con il retro di quello di lei.
Si schiarì la voce. “E’ una questione di numero. Siamo in troppi, qui dentro.”
“Sei tu che ci hai seguiti.”, rispose la linguaccia biforcuta di Lucifer, che aveva trovato un nuovo modo per torturare quell’uomo che gli desse un particolare, depravato piacere.
“Perché secondo te ti avrei permesso di stare in uno sgabuzzino, al buio, con la mia ragazza ubriaca?”
“Se pensi di potermi ‘permettere’ qualsiasi cosa, hai capito mal-
“Shhhhhht!”, li zittì Molly, prima che Lucifer potesse ribattere all’insinuazione, testosteronico. “Volete perdere già al primo giro?”
Si mosse malferma sui piedi, aggrappandosi ad una mensola. Era instabile, ubriaca, e lievemente eccitata dalla mano di Thomas che sostava sul suo fianco: anche se uno spesso strato di jeans impediva il contatto diretto con la sua pelle, il solo sentirlo così addosso, così possessivo, la fece volare oltre il secondo anello di Saturno.
“Scusa.”, sussurrarono in sincrono i due uomini, cercando, per quanto possibile, di ridurre ulteriormente i contatti tra loro.
“Io ho quarantadue anni.”, sussurrò Thomas. “Ho tre lauree, due dottorati di ricerca…”
“E vantati.”, ribatté Lucifer.
“…e sono chiuso in uno sgabuzzino, il mio sgabuzzino, alle dieci e cinquantotto di un mercoledì sera, con la fidanzata ubriaca e una specie di barzelletta biblica che sta decisamente invadendo il mio spazio vitale.”
Lucifer cercò di farsi ancora più da parte contro il muro opposto, cogliendo la velata minaccia: tuttavia, non è che ci fosse uno spazio tale da permettere di tracciare confini. Si chiedeva un po’ troppo, da un umile sgabuzzino delle scope.
“E ti piace da morire.”, gli disse Molly, un po’ provocatoria, spingendo i fianchi un po’ più indietro. Thomas lasciò andare una risatina soffocata, mordendosi un labbro. Gli vennero in mente un paio di modi interessanti per vendicarsi, poi si ricordò della terza presenza nello sgabuzzino, e fu costretto ad archiviare quei programmi per un momento di maggiore intimità.
I passi di qualcuno fuori dalla porta chiusa li fecero tendere come corde di violino: riscoprirono una paura fredda, bianca, una paura di bambini che non vogliono essere scoperti; Thomas dovette tappare la bocca a Molly, la quale, infrangendo il divieto poc’anzi imposto, era stata colta da un accesso di ridarella incontrollabile.
La sensazione delle labbra della ragazza contro le proprie dita lo obbligarono a stringere forte l’altra mano intorno ad un canovaccio lì appeso.
“E’ andato bene il volo?”, chiese Thomas, più per cortesia che per vero interesse.
“Sì. E il lavoro tutto normale?”, ribattè Lucifer con lo stesso tono.
“Sì.”
“Oh mio Dio.”, fece Molly, liberandosi della mano di Thomas.
“Che c’è?”
“Siete la cosa più passivo-aggressiva che io abbia mai visto.”
I due tacquero.
“Davvero. Domani, quando sarò più lucida, ricordatemi che devo tirarvi gli orecchi. Siete incapaci di fingere di andare d’accordo. Anzi, siete incapaci, punto.”
“Bambina…”, iniziarono entrambi, quasi contemporaneamente. Si bloccarono e cercarono i relativi sguardi nel buio, come se pronunciare quel nomignolo avesse per entrambi costituito la goccia che avrebbe fatto traboccare il vaso. Il guanto della sfida era stato lanciato.
“E basta con ‘sto cazzo di bambina!”, sbottò Molly, agitando un po’ troppo le mani.
Colpì una mensola su cui era appoggiata una fila di flaconi di detergenti, facendoli piovere su di loro.
 
 
B-bodies all through my house
I know this story by heart
Jack and Jill get f*cked up

and possessive when it gets dark
 



Chloe bussò alla porta del ripostiglio.
In realtà, più che bussare ci sfracellò il pugno contro – l’alcool le aveva leggermente sballato la percezione della profondità.
Aprì la porta su uno scenario che, se fosse stata sobria, le avrebbe fatto sorgere seri dubbi: Lucifer tendeva le braccia in alto, verso una mensola pericolante, reggendo due enormi flaconi da un litro di Clorox per evitare che cadessero; il suo bacino, completamente premuto contro il fondoschiena di Thomas, che invece era piegato in avanti su Molly, la quale aveva perso completamente quel briciolo di stabilità che le rimaneva, e se ne stava ferma in una posa da Bambi sul ghiaccio, cercando di smettere di ridere.
“Ah.”, disse solamente Chloe. Ottanta millisecondi di confusione che si trasformarono in un imbarazzante mezzo minuto di silenzio.
“Non è come pensi.”, disse Molly ironica, asciugandosi una lacrima. Si mosse leggermente, ed una delle scope che stava appoggiata al muro precipitò, inesorabile come la lama di una ghigliottina, sul coppino di Lucifer.
“Ci aiuti?”, chiese Thomas, combattuto nelle sensazioni tra ciò che scaturiva dal contatto col corpo di Molly e con quello di Lucifer.
“Che devo fare?”
“Cerca di far scivolare Molly di sotto. Ecco. Sì, così-“
Dopo non poche manovre di elevato livello ingegneristico, Molly rotolò fuori dallo sgabuzzino, senza smettere un secondo di ridere.
“Ho improvvisamente cambiato idea sulle cose a tre.”, disse, scherzando solo parzialmente.
Thomas si voltò verso Lucifer; Lucifer gli dedicò un’alzata di sopracciglia che avrebbe fatto imbarazzare anche il più disinibito degli attori dell’industria porno. Thomas distolse lo sguardo.
Molly si morse un labbro, ancora inebriata dal profumo fresco di Thomas unito a quello più torbato di Lucifer: una combinazione che non avrebbe mai immaginato potesse funzionare, e che le punzecchiò un certo appetito. Thomas deglutì a secco, quando si accorse di come la fidanzata li stesse guardando.
“Ti presto il mio se mi presti il tuo.”, sghignazzò Chloe, dandole di gomito.
Molly pensò che erano davvero, davvero ubriache.
Riuscirono a liberare anche Lucifer e Thomas da quell’incastro dal sapore vagamente omoerotico, senza rischiare di benedire lo sgabuzzino delle scope con una pioggia di candeggina. Appoggiarono per terra la mensola ceduta, illudendosi che il giorno dopo l’avrebbero sistemata.
La Papessa, a cui era toccata la prima conta, planò come un corvo davanti allo sgabuzzino, i pugni chiusi sui fianchi. “Vorrei rendervi partecipi del fatto che non è così che si gioca a nascondino.”
“Ah no?”, fece Molly, smettendo per un secondo di ridere.
“Dovete sparpagliarvi in giro e stare nascosti, non incominciare riti orgiastici negli sgabuzzini.”
“La prossima volta ti chiamiamo, promesso.”, continuò Molly.
La Papessa incrociò le braccia sul petto.
La ragazza tentò di trattenere le risate. “Ammettilo. Stai morendo dalla voglia di dire ‘io con voi non ci gioco più’.”
“Non state alle regole.”
“’Fanculo le regole.”
Tutti, in particolare Lucifer, si voltarono stupiti a squadrare Chloe. “Sì. L’ho detto.”
 
 
 
Space dementia is a disease characterized
by mental instability and irrational behavior
brought on after the individual
enters outer space.
 
 
 
Pur di far tacere la Papessa e interrompere la predica che aveva intavolato riguardo la loro peculiare incompetenza e misero rispetto per le regole, decisero di dare una seconda opportunità a nascondino.
Contava di nuovo la Papessa.
Corsero tutti a nascondersi, spargendosi come un mucchio di biglie gettate sul pavimento.
Chloe si acquattò nella cabina armadio della stanza di Molly e Thomas; era immersa nel buio e nel silenzio. La colse quella paura infantile, bianca, di essere osservata da qualcosa, nell’ombra. Si strinse le ginocchia al petto, cercando di occupare meno spazio possibile.
Le girava leggermente la testa. Il sudore le si era asciugato addosso, e sentiva un grande caldo; un caldo umido, da sauna, che le impediva di respirare agevolmente.
Sentì un bisogno doloroso di essere toccata, abbracciata, qualsiasi cosa. Si sentiva una bambina in fuga dai mostri. È pericoloso giocare coi mostri…
Una serie di passi, lenti e ben distesi, le fecero irrigidire i muscoli: uno spasmo di adrenalina a cui era abituata, grazia al suo lavoro; riuscì a controllarsi nonostante l’ubriachezza, temendo che fosse la Papessa.
I passi si fermarono davanti alla porta scorrevole della cabina armadio.
Chloe si tappò la bocca, colpita da una voglia di ridere, nervosa e bambina.
“Chi c’è, lì?”, fece il proprietario di quei piedi.
Riconoscendo il tono profondo e l’accento londinese, rilassò le spalle. “Chi c’è ?”
“Thomas.”
“Entra.”
“Okay.”
Thomas aprì la porta, e piegò la sua lunga persona a sedere di fianco a Chloe.
“Ciao.”, gli fece Chloe.
“Salve.”
Tacquero, leggermente a disagio.
“Ha già trovato Lucifer, la Papessa. Stava cercando Molly in lavanderia, ma io l’ho vista sgattaiolare nella stanza della bambina.”, spiegò Thomas. Si fermò a osservare un punto della cabina armadio, come se stesse guardando quelle parole concretizzarsi, e capisse quanto poco senso avessero.
“Sono troppo vecchio.”, disse, sorridendo mesto. Thomas sorrideva sempre con tristezza.
“Anche io.”, replicò lei.
La spalla di Chloe sfiorava quella di Thomas.
Era un contatto strano. Qualcosa di sbagliato a prescindere. Eppure la presenza di lui era talmente rasserenante, e il suo odore così da bravo ragazzo, così confortante, che Chloe non riuscì a individuare la sconvenienza di quella situazione. Si fece un po’ più vicina a lui.
Si voltò per osservarlo: aveva un profilo ellenico, deciso. Un po’ tagliente, certo, ma tutto sommato i suoi erano lineamenti affabili ed eleganti.
Non troppi spigoli; la giusta quantità che indica la forza del carattere, la determinazione dello spirito.

Senza neanche permettere al cervello di censurare certe proposte, la sua mano si allungò a sfiorargli uno zigomo.
Lui sussultò al contatto.
“Scusa. Volevo vedere una cosa.”, disse Chloe, quasi sorpresa di sentire un calore umano sotto i polpastrelli.
Così diverso, pensò.
Gli occhi di Thomas si tinsero di diffidenza.
“Non scotti.”
“Sono una persona troppo fredda per rischiare di bruciare qualcuno.”, rispose lui.
La pelle di Thomas era ruvida, vissuta. I suoi occhi la guardavano con un certo distacco; erano occhi glaciali, eppure non freddi. Brillavano di una luce energica, cangiante, ma contenuta, come quella di certe stelle che da lontano sembrano masse di fuoco incandescenti e in realtà sono agglomerati di pietre assiderate.
Chloe pensò che forse c'era troppo calore nella sua vita. La California, con le sue estati torride; la canna della pistola sempre troppo bollente quando sparava il primo colpo - aveva le mani callose e piene di cicatrici.
Troppe fiamme. Troppe braci e lapilli.
Troppo fuoco; troppa paura di ustionarsi.
Forse era semplicemente troppo ubriaca.
Le venne il bisogno irremovibile di sapere se anche le labbra di Thomas fossero fredde come i suoi occhi.
Si spinse in avanti e lo baciò.
 
 
 
 
Glaciers melting in the dead of night
And the superstar sucked into the supermassive
 
Glaciers melting in the dead of night
And the superstar sucked into the supermassive
Supermassive black hole
(Muse, Supermassive black hole)
 
 
 
La Papessa aveva esultato come una valchiria quando aveva scoperto il nascondiglio di Lucifer.
Il Diavolo si era leggermente inquietato.
Poi aveva indossato la giacca ed era uscito sul retro, dove il giardino rigoglioso di piante invernali stava quieto, immerso nel silenzio, a farsi i dannati affari suoi.
Si accese una sigaretta, sbuffando fumo nella notte con un sorriso.
Una voce roca lo fece sobbalzare.
S’el fu sì bel com’elli è ora brutto, e contra ’l suo fattore alzò le ciglia, ben dee da lui procedere ogne lutto.”
“Molly. Sei un’idiota.”
“Dante non ci ha preso: Lucifero è proprio un gran figo, altroché.”, disse Molly, uscendo incespicante da un cespuglio di rosmarino.
Lucifer alzò gli occhi al cielo quando la ragazza si avvicinò a lui: si stringeva le braccia, strofinandole di tanto in tanto per tentare di scaldarsi.
“Aspetta, Oliver Twist.”, disse, levandosi la giacca e appoggiandogliela sulle spalle.
La ragazza mimò un grazie con le labbra. Gli sfilò la sigaretta dalla bocca, ne prese un grosso tiro, e la ripose al suo posto. Lucifer si chiese se fosse una provocazione.
“Bambina.”
“Sì, mio angelo?”
“Non chiamarmi così.”
“Tu non chiamarmi più bambina.”
“Sei impossibile.”
“Perché tutti gli uomini me lo dicono?”
“Perché è la verità.”
“Allora è l’unica verità che gli uomini mi abbiano mai detto.”
“Sei parecchio ubriaca, piccoletta.”
Molly alzò gli occhi al cielo, stringendosi nella giacca. C’era un profumo di fuoco e di rosmarino, nell’aria, e nessuna stella in cielo. Sembravano essere state tutte inghiottite da un buco nero supermassiccio: i buchi neri supermassicci sono i più grandi buchi neri conosciuti, e si nutrono di stelle anche della grandezza del Sole. Si dice che ogni galassia ne abbia almeno uno, e Molly, quella notte, si chiese se quello della loro non si chiamasse per caso Lucifer Morningstar. Una contraddizione ontologica persino spiritosa, se si pensa che Lucifero viene etimologicamente da lux fero, cioè portatore di luce. Molly pensò che Dio avesse un grande senso dell’umorismo.
“Lo so che non siete venuti qui perché Chloe lavora troppo e ha bisogno di una vacanza.”, incalzò la ragazza, contorcendo un rametto di rosmarino tra le dita. “A scapito della manica di idiozie che mi hai propinato come giustificazione, un po’ di tempo fa.”
“Che ne sai che non sono io che sto lavorando troppo e ho bisogno di una vacanza?”, ribatté lui, appoggiandosi con i gomiti sulla balaustra di pietra che separava la veranda dal giardino vero e proprio. Anche Molly vi si appoggiò, ma di schiena, voltando il viso verso di lui.
“Non sapevo che versare tequila negli ombelichi di ballerine coperte di glitter potesse risultare così alienante, alla lunga. Mi dispiace.”, rispose, con un tono intenzionalmente piagnucoloso. “Per non parlare del pianoforte… che tortura!”
Lucifer sorrise per un istante del suo solito sorriso; Molly sentì il cuore farle un giro di valzer nel petto.
“Sei una scema.”
“Credevo di essere Molly, fino a pochi istanti fa.”
“Sei Molly e sei scema.”
“Dai, Lucifer, non farti sempre cavare le cose fuori con la forza. Sei un bimbo grande oramai, e io non posso stare qui ancora per molto. La Papessa è un segugio. Sente l’odore della paura.”
“E da quando tu hai paura?”, ribatté lui, alzando un sopracciglio.
“Dai.”
“Che ti devo dare?”
Molly sbuffò, portando lo sguardo verso un cesto di gerbere trascurate. Le venne un’idea. “Se mi dici che cazzo avete che non va, ti dico come si chiama la Papessa.”
Lucifer drizzò le antenne, improvvisamente interessato. Poi la squadrò con sospetto. “Di solito sono io che faccio queste proposte.”
Do ut des, mio angelo.”, replicò maliziosa Molly. Lo colpì affettuosamente con un pugno.
“Chloe è gelosa di te. Lo è da sempre, credo.”
Molly assentì. “E fin qui ci sono.”
“E’ una cosa che dobbiamo discutere noi, però. Tu c’entri parzialmente.” Lucifer tacque per qualche istante. “Mi rendo conto che faccia un po’ ridere, dato che ci siamo catapultati a casa tua così. Forse voglio solo dimostrarle che tra di noi è tutto finito, e che non ha nulla di cui preoccuparsi.”
“Forse per te è finita.”, disse Molly, con un sorriso triste. “Lucifer... Ti ho pensato ogni singolo giorno da che ho lasciato Los Angeles. Ti ho pensato perfino in sala parto, mentre invocavo l’epidurale. Ti penso tutte le mattine, le sere, ogni volta che fumo... quando faccio il bagno...”

Lucifer le scoccò uno sguardo malizioso. Molly sbuffò. “Non in quel senso.”
“E anche quando tu e Thomas… Insomma…?”
“No, in quei momenti no.”
“Come no.”
Molly assaporò sulla lingua la possibilità di una provocazione. Era dolce come una zolletta di zucchero. “E’ più bravo.”
“Ma non farmi ridere.”
“E’ vero.”
Lucifer si puntò un pugno sul fianco, e a Molly venne in mente che assomigliava ad una teiera. “E in cosa è più bravo, sentiamo.”, disse lui, piccato.
Molly ci pensò su, rubandogli di nuovo la sigaretta. “E’ più egoista. Mi fa sentire sua. So che probabilmente da qualche parte ad una femminista verrà un’ischemia cerebrale, ma mi piace che mi prenda per farmi capire che sono di sua proprietà. Che è lui che mi possiede. Che mi fotte per il suo piacere.”
Lucifer si strozzò con la saliva.
Molly rise. “Tu sai fin troppo bene cosa piace alle persone, e infatti poi lo usi contro di loro. Lui invece si fa prender dalla voglia che ha di me e non guarda in faccia a nessuno. E mi dà gli orgasmi migliori che io abbia mai provato.”
“Però. Hai capito Thomas. E io che lo facevo un bravo ragazzo.”
“Oh, ma quelli sono la razza peggiore, angelo mio.”
Una nuvola passeggera scoprì uno scampolo di cielo trapunto di stelle. Molly lo indicò con la sigaretta. “Allora me le hai portate, un po’ di stelle.”
Lucifer la guardò senza capire; la ragazza valutò la possibilità di spiegargli, ma pensò che, in fondo, erano appena arrivati. Le metafore sull’astronomia e le sue teorie sull’umorismo di Dio potevano aspettare.
Si strinse un po’ contro Lucifer, posandogli un bacio sul petto. “Ti voglio davvero bene.”
“Anche io, piccola.”
“E sono certa che riuscirai a sposartela. La convinceremo.”
“Non se continuiamo a stare così attaccati.”
Si guardarono con affetto; poi tornarono a guardare il cielo, con la stessa speranza e lo stesso irrazionale, utopico ottimismo che alza gli sguardi degli uomini verso le stelle. Tutta quella speranza, quei desideri, quelle preghiere, spediti come astronauti senza una missione e lasciati a morire di follia in quel mare al contrario, abitato da sassi lattei, gassosi e soprattutto freddi.
“TANA PER MOLLY.”, urlò la Papessa, facendoli saltare come petardi a Capodanno per lo spavento. “Okay, ora vado a cercare Thomas e Chloe! Restate nei paraggi, che se finisco vi offro un bloody mary!”
 
 
 
 
 
 
 
Il punto è questo:
ho ripreso ad ascoltare i Muse. Questo si traduce in una frustrazione sessuale senza paragoni e un rinnovato interesse per l’astronomia.
Ho finito la sessione, quindi sto scrivendo a macchinetta. Pensavo di portarmi avanti e scrivere i prossimi due capitoli, ma la verità è che questo capitolo mi ha tolto tutte le energie. Me lo sognavo di notte. Mi sognavo di dover spiegare a Chloe come fare per consolidare la sua relazione con Lucifer; e sognavo anche di continuare a scrivere – non vi dico gli urli scimmici la mattina quando tutta contenta cercavo il file per rileggere, solo per scoprire che in realtà non avevo scritto nulla.
Per tutta questa serie di futili ragioni, spero vivamente che vi piaccia.
Non odiatemi troppo; ma soprattutto non odiate Chloe, né Thomas. Provateci voi ad avere a che fare con gente come Lucifer bloody Morningstar o Molly.
La gran parte delle citazioni sono state immeritatamente trafugate da Sober di Lorde, così come il sottotitolo.
Ringrazio di cuore Beeble, kirax94, Ele28081986 e Kathe93 che hanno accolto con gioia questo sequel; siete adorabili, e mi fate sempre venire voglia di scrivere.
Mando a tutti voi tanti baci stellari – sperando che non vi siano buchi neri in agguato per farci merenda.
Sempre vostra,
Yunomi.
 
 
 
 

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Capitolo 5
*** Goodbye stronzo ***


 
Goodbye stronzo
 
 
Oh, the queen of peace
Always does her best to please
Is it any use?

Somebody's gotta lose
(Florence + the Machine)
 
 
 
La Papessa nappava freneticamente una costata di agnello con un cucchiaio, coprendola e ricoprendola di burro fuso: la cucina era illuminata di una luce calda, serale, e l’aria faceva l’amore con il profumo di rosmarino e menta sprigionato dalla padella sfrigolante.
Io stavo appoggiata con il sedere al bancone attiguo ai fornelli, con una sigaretta dimenticata fra le dita: riflettevo, e i fumi che uscivano dalle mie orecchie, insieme alle esalazioni della sigaretta, creavano una densa cortina davanti agli occhi che mi impediva di vedere chiaramente.
La Papessa alzò per un attimo gli occhi dalla carne, e li spostò su di me. La sentii sospirare.
“Non avrei dovuto dirtelo.”
Mi voltai verso di lei con un movimento fluido del capo. “Certo sarei più serena se non lo sapessi.”, ribattei, sforzandomi di mostrare un sorriso che distendesse i lineamenti del suo bel viso gaelico, tirati da una preoccupazione tetra.
Non feci che incupirla ancora di più. Mi grattai il mento, pensosa. “Sei mia amica.”
“Certo.”
“E mi conosci.”
“Ho questa presunzione, sì.”
“Se me lo hai detto, vuol dire che pensavi fosse la cosa giusta da fare. E siccome anche io posso vantarmi di conoscerti un minimo, sono tranquilla nell’affermare che hai fatto bene a dirmelo. Sei leale. E sapevi che non mi avrebbe uccisa, se me l’hai detta. Che avrei trovato un modo per digerirlo.” Ancora faticavo a trovarlo, quel modo.
“Thomas comunque non ha ricambiato.”, rispose lei, pensando che questa informazione potesse in qualche modo aiutarmi ad ingoiare il boccone amaro. “Non più di tanto.”
Sorrisi. “Non ce l’ho con lui.”
“No?”, chiese lei, anche se sapevo perfettamente che la pensava come me. Era una donna troppo arguta per pensare che gli avrei fatto qualche scenata di gelosia: il mio più grande tarlo, l’empatia, si rivelava particolarmente utile in situazioni come questa: e sapevo che la Papessa si era messa nei miei panni più e più volte, analizzando la situazione con una miriade di varianti, di punti di vista, di scenari conseguenti possibili. Non avevo mai trovato qualcuno che si impegnasse così tanto nel capirmi, e sorrisi, grata, a questo pensiero.
“E’ con lei che ce l’ho. Non so se abbia voluto colpirmi dove ho il fianco scoperto, o se effettivamente in quel momento l’abbia colpita un raptus di lussuria incontrollabile.”
“Non mi stupirebbe. Il tuo fidanzato è un sogno erotico ad occhi aperti.”, scherzò lei.
Io aspirai una boccata di fumo, sorridendo leggermente. Era vero.
Il mio Thomas. Il mio bel professore malinconico e intelligente, il mio porto sicuro, il padre di mia figlia. Perché avevo la sensazione che non fosse più mio, nel ripetere questo aggettivo possessivo come una nenia imperitura?
Pensai che probabilmente Chloe aveva ottenuto quello che voleva: farmi sentire come si sentiva lei, e cioè in competizione con un’altra donna. Ma io avevo una cosa che lei non aveva, purtroppo: la completa fiducia nei confronti dell’uomo che amavo.  
E’ una questione delicata, sapete. Ci vuole coraggio ad affidare il proprio cuore a qualcun altro; ce ne vuole doppio se il tuo cuore è delicato, rattoppato alla bell’e meglio. Non so se Chloe non volesse o non potesse prendersi questo rischio. Da parte mia, ne avevo fatto la mia missione, cercare di aiutarla a capirlo; avevo sopportato le chiamate in piena notte in preda al pianto, all’angoscia, avevo sopportato gli sguardi arcigni e sospettosi di quando io e Lucifer ci avvicinavamo a parlare tra di noi, da soli.
“Io lo conosco molto bene, Thomas.”, incominciò la Papessa, portandosi il cucchiaio alle labbra. “Manca un po’ di sale.”
“Eppure a me è sempre sembrato un uomo sveglio.”, dissi, volutamente giocando sulla sovrapposizione di pensieri della mia amica.
La Papessa alzò gli occhi al cielo, sorridendo. “Thomas è una persona che, come te, ha sofferto. Sai com’è finita con…”
Alzai una mano, imponendole di non pronunciare quel nome.
“… mia sorella. Per questa ragione, sono convinta che quel bacio non significhi nulla, per lui. Forse nemmeno per Chloe significa qualcosa.”
Avevo sopportato tanto. Troppo, forse. Mi chiesi se potessi sopportare anche una cosa del genere, ma non seppi darmi una risposta.
Una sensazione poco nota di rabbia mi fiorì nel petto, e lo riempì come un’erbaccia, soffocando i germogli di pazienza che crescevano faticosamente in quel terreno duro, inospitale; non sono una santa. Posso essere passata per una donna pia in più occasioni, addirittura instillando il dubbio che potessi essere meno umana degli altri; meno corruttibile e quindi più manipolabile, come se la mia anima fosse fatta di gommapiuma.
Sentii la rabbia pungermi la pelle, da dentro: cercava di grattare con l’unghia nel punto più deperibile della mia corazza per aprirsi uno spiraglio, e riversarsi fuori come lava bollente dalle fauci dei vulcani.
La Papessa inspirò di nuovo; poi, come se all’improvviso qualcosa l’avesse privata della capacità di sostenere il mio sguardo, tornò a osservare la carne. “Ti spiace apparecchiare?”, mi chiese.
Appoggiai la sigaretta nel posacenere e mi accinsi a stendere la tovaglia sul grande tavolo di legno massiccio, posizionato al centro della cucina.
Fuori dalla finestra, il cielo venne squarciato da un fulmine, il cui riverbero elettrico  nell’aria mi fece trasalire, inquieta com’ero. Mi è sempre piaciuto credere nei segni del destino; dunque fu facile convincermi che quella fosse la volta buona per smetterla di tenermi tutto dentro.
Presi il coraggio a due mani. “Sono incazzata nera.”
La Papessa si voltò, e nel farlo le sue gonne e i suoi capelli si avvitarono intorno a lei come se dotati di vita propria.
“Sono incazzata nera perché è venuta in casa mia, e dal primo momento mi ha squadrata dall’alto in basso come se fossi una sorta di troia biblica che uggiola dietro al suo uomo per avere una carezza; roba che se potesse si farebbe scopare da lui su questo tavolo pur di rimarcare il concetto che ormai lui è suo, e che non ho alcuna speranza, lo farebbe.”, sputai, aggressiva e ferita. Mi tremava il petto; era stupito almeno quanto la mia amica da quell’accesso di ira a cui non era decisamente abituato. “Mi tratta come se ci stessi effettivamente provando con lui, cosa che non sto facendo. E cade tra le braccia di Thomas, del mio Thomas, appena ha l’occasione di starci da sola?”
La Papessa tolse la padella dal fuoco e mi prese tra le sue braccia, baciandomi i capelli come mia madre non aveva mai fatto. Tremavo, cercando di costringere le mie ossa a reggere il peso di quel torto, di quella cattiveria ingiustificata. Non riuscivo a capire più nulla, e provavo un senso di violazione probabilmente irragionevole. Come se fossero entrati i ladri in casa mentre dormivo: mi sembrava che un angolo sacro dentro di me fosse stato profanato, un luogo che avrebbe dovuto essere stato sicuro e che ora non lo era più. Mi guardai intorno, smarrita, senza riuscire più  a riconoscere quelle mura come mie.
Mi concessi di piangere due lacrime, una per occhio, che caddero sulla blusa a fiori della Papessa.
Poi mi staccai.
La mia amica mi accarezzò il volto, e io benedissi l’incredibile, inumano buonsenso che le impedì di sprecarsi in inutili frasi come hai ragione, tesoro, dovete parlarne. Non avevo bisogno di sentirmi dare ragione, avevo bisogno che non mi facesse sentire inopportuna per esprimere quelle emozioni fastidiose, scomode, appuntite come ricci di mare. Le ero grata per essermi stata così leale da avermi raccontato l’accaduto; quanto meno, di non aver fatto una scenata davanti a Chloe e Lucifer, il quale, come è ben noto, non aveva la tempra né la maturità per reagire ad una simile notizia in maniera costruttiva. Forse non l’avevo nemmeno io; ma è per questa ragione che preferivo dare di matto davanti alla Papessa, senza rischiare di passare per la ragazzina immatura che agiva in maniera puerile, incapace di reggere il confronto con la realtà.
Combattendo contro la voglia che avevo di lanciare tutti i piatti contro il muro, finii di apparecchiare il tavolo e mi ritirai nello studio.
 
 
 
But she’s a black magic woman
And she’s trying to make a devil out of me
(Fleetwood Mac)
 
 
 
“Toc toc?”
Alzai gli occhi dai fogli che avevo sparpagliati sul piano di lavoro, e li rivolsi alla figura che era comparsa sulla soglia: Lucifer aveva le guance arrossate per il freddo. Erano stati a zonzo per Londra tutto il giorno.
A vederlo, sentii la gola contorcersi come un serpente: era troppo felice, troppo sorridente. Ne dedussi che di conseguenza Chloe non gli aveva detto nulla. Caddi nel baratro della preoccupazione di farmi sfuggire qualcosa.
“Avanti.”, risposi, stornando lo sguardo sul computer; stavo revisionando il lavoro di una tesista di Thomas sull’estetica medievale. Lavoravo come sua assistente, in quel periodo, perché poteva sbrigare da casa senza rischiare di sollevare scandali in università – i pettegolezzi volano oltreoceano più veloci dei Boeing 747.
Lucifer si sedette sulla scrivania, incurante delle fotocopie e dei fogli che vennero schiacciati. “Come stai?”
“Benone.”, dissi io, sarcastica; lui tuttavia non colse.
“Che fai?”
“Lavoro.”
“Su che cosa? Vieni a farti un whiskey?”
“Per carità.”
Lucifer sbuffò, guardandosi intorno con fare annoiato. Scossi la testa, tornando a leggere sullo schermo.
“Thomas arriverà a momenti; la Papessa sta preparando.”, dissi, monocorde.
“Siamo andati sul London Eye.”, esclamò Lucifer, sistemando i polsini della camicia.
“Grande.”, risposi io. Volevo che se ne andasse; volevo che mi lasciasse sola con i miei pensieri, i miei appunti, i maledetti errori di ortografia di questa capra di ragazza che aveva scritto la tesi. La loro presenza, dico sua e di Chloe, mi risultò improvvisamente insopportabile. Erano a Londra da meno di quarantotto ore e già mi avevano dato di che pensare per sei mesi.
Gli lanciai uno sguardo eloquente – o almeno così credevo: lui imperterrito prese a raccontarmi di quanto si fossero divertiti a girovagare per Camden Town e Soho, di quanto gli piacesse Londra, di quanto Chloe avesse battuto i denti per il freddo. Quel nome mi ferì le orecchie come un rasoio, e mi morsi un labbro.
“Lucifer.”, sbottai ad un certo punto, chiudendo gli occhi.
“Sì?”
“Forse la Papessa ha bisogno di una mano con il puré.”, inventai, pur di togliermelo di mezzo.
“La sta aiutando Chloe.”
“Allora forse ha bisogno che stappi la bottiglia. Il Chianti deve respirare prima di essere bevuto.”, continuai.
Lucifer mi ignorò completamente; al contrario, pinzò uno dei fogli e lo lesse ad alta voce.
“Kao… Kalo… Kakokagathia... che vuol dire?", chiese.
Io mi massaggiai le tempie con gli indici, recuperando una pazienza che non seppi dire con esattezza da dove provenisse.
“Kalokagathia.”
“E che è?”
“Significa ‘ciò che è buono è bello, e ciò che è bello è buono’.”
Lucifer mi guardò, incitandomi a spiegare.
“E’ l’ideale di bellezza e perfezione morale. Nel medioevo solo quello che si considerava buono era bello. Non esisteva la concezione di bellezza senza il bene,  senza Dio.”, esplicai, incrociando le dita davanti al naso. Mi venne in mente che era un gesto che faceva sempre anche Thomas a lezione, e il pensiero mi acquietò l’animo per poco. Finché.
“Non sono d'accordo.”, fece Lucifer.
Alzai un sopracciglio. “Come sarebbe a dire non sono d'accordo?”, chiesi di rimando, preparandomi psicologicamente alla cazzata con cui ero certa avrebbe esordito di lì a poco.
“Non è vera, questa cosa del caipiroska.”
“Kalokagathia.”
“Fa lo stesso. Se ciò che è bello è buono e ciò che è buono è bello... perché io, che sono il male incarnato, il Caduto, l’Avversario, ciò che è corrotto, putrido e disdicevole… sono uno schianto?”
“Fuori di qui.”
 
 
 
 
 
 
There is rust in my mouth,
The stain of an old kiss

 
 
 
 
“E’ permesso?”
Senza alzare gli occhi dalla tastiera, emisi un ringhio di frustrazione che avrebbe messo in fuga un’orda di vichinghi: Thomas, tuttavia, si sistemò gli occhiali con l’indice, spingendoli in su verso la radice del naso, e mi rivolse uno sguardo inespressivo. “Sei di buonumore, vero.”
“Se le tue studentesse conoscessero le basi della morfosintassi sarei più felice.”, dissi io, con una sigaretta tra le labbra.
Thomas rise sommessamente; si avvicinò alla scrivania, mi sfilò la sigaretta e la sostituì con un bacio intenso, umido. Non potei trattenere un brivido, sentendo quelle labbra addosso. E non riuscii nemmeno a esimermi dal guardarlo con gli occhi del dolore e del tradimento.
“Mi sembri una vedova del quindici-diciotto.”
“Un po’ mi ci sento.” dissi, spostando finalmente le dita dai tasti.
Thomas mi rivolse lo sguardo: quello un po’ obliquo, un po’ liquido che mi provava ogni volta che aveva capito prima ancora che parlassi.
Si schiarì la voce; tornò sui suoi passi e chiuse la porta dello studio.
Thomas si voltò, le mani sepolte nelle tasche: c’era due, tre metri di distanza fra noi. Una voragine.
“Mi vuoi chiedere qualcosa?”, chiese, avanzando un passo.
“Se non ti conoscessi meglio, avrei quasi il dubbio che tu voglia piantarmi un coltello nel petto.”, scherzai io, più per allentare la mia tensione che la sua.
Lui sorrise e si grattò un angolo della bocca. “Scherzi, sarebbe un casino pulire tutto quanto, dopo.”
Aveva la camicia sbottonata, gli occhi stanchi, ma sosteneva il mio sguardo in un modo che mi fece quasi innervosire, date le circostanze. Lo avrei preferito un po’ più mortificato, leggermente più contrito.
“Ti ha baciato.”, dissi, incrociando le braccia sul petto.
“Non è una domanda, questa.”
“Perché gliel’hai permesso?”
“Non lo so.”
Mi lasciai sfuggire una risata leggermente offensiva.
“Mi piace vederti un po’ gelosa.”
“Thomas.”, ribattei ferma, mentre lui si avvicinava alla scrivania. Appoggiò le mani sul piano, squadrandomi.  “Li sai, i trascorsi che ci sono tra me e loro.”
“Oh, fidati. Li ricordo molto bene.”
Allungò una mano a sfiorarmi una guancia. Mi si mescolarono i pensieri nel cervello come in un frullatore, e mi fu impossibile parlare per qualche secondo. Mi ripresi. “Ecco. Allora perché non gliel’hai impedito?”
“L’ho baciata, è vero.”, continuò lui, e l’acredine di quelle parole era così dissonante con il tocco dolce delle sue dita che persi contatto con la realtà e socchiusi gli occhi. Povera Molly, pensò la voce della ragione nel mio cervello; povera bambina che ha mischiato troppe volte il dolore con il piacere, e ora non può avere l’uno senza l’altro.
Thomas circumnavigò la scrivania, inginocchiandosi davanti a me con gli avambracci appoggiati sulle mie ginocchia: lo maledissi per essere sempre così composto, così ordinato anche nel caos più totale.
“Mi dispiace che ti abbia fatto soffrire. Però spero tu ti renda conto che c’è una bella differenza tra i baci che do a te e quello lì.”
“Non è questione di baci. I baci contano fino ad un certo punto.” Sospirai. “E’ che le hai permesso di oltrepassare un limite. Un confine che non doveva nemmeno sognarsi di sfidare. Lo sa come ero ridotta. Lo sa che se non ci fossi stato tu, probabilmente non mi sarei mai ripresa. Non sarei stata in grado di rimettere insieme i pezzi senza di te, Tommy.”
“Ti sottovaluti. Vieni qui.”, mi disse, alzandosi in piedi. Mi alzai di scatto e mi incastrai tra le sue braccia così intensamente che pensai che le nostre costole si fossero intrecciate come gli anelli di una catena. Inspirai a fondo il suo odore e mi calmai quanto bastava per convincermi che sarebbe andato tutto bene.
“Ciò che provo per te, bambina,”, incominciò lui, “è qualcosa che non so nemmeno spiegare a parole.”
“Provaci.”
“E’ un bisogno del tutto egoistico e assolutamente malsano di averti addosso, costantemente; di sentirti nel mio letto, sapere che se allungo una mano incontro la tua pelle avvolta nelle lenzuola, di notte. Lo so che tu non sei una monade indivisibile che mi appartiene. Lo so che non posso averti tutta per me, e so anche che il tuo cuore è tuo, e lo puoi spezzettare e dividere con chi vuoi. Però io sono un vecchio geloso e possessivo, e mi manda in bestia l’idea che tu sia così affezionata a quel cascamorto. Rischio seriamente di prendere a testate il muro se per caso mi ricordo che ti ha messo le mani addosso.”
“E sapeva anche dove metterle.”, dissi io, ridendo contro il suo petto.
“Ti prego, Molly, è la volta buona che mi viene un infarto.”
In realtà rideva anche lui. Mi posò un bacio leggero sulla testa, poi uno sulla fronte, e infine scese sulle labbra. “Quello che voglio dire è che ho sbagliato a permettere a Chloe di baciarmi. Avrei dovuto fermarla subito.”
“Già, avresti dovuto.”
“Scusami.”
“Mh.”
Alzo gli occhi della mia anima verso di te, perché tu liberi dal laccio i miei piedi. E tu me ne liberi spesso poiché spesso si lasciano imprigionare, tu non smetti di scioglierli mentre io continuo a cadere nelle insidie sparse ovunque, perché non dormirai, tu che custodisci Israele.”
“Stai cercando di irretirmi citando Agostino d’Ippona?”, chiesi, alzando lo sguardo verso di lui.
“Forse.”
“Non sono più una studentessa da conquistare.”, risposi, e mi allungai per lasciare un bacio lungo sulla sua bocca.
“Sarai sempre la studentessa da conquistare.”, disse lui, prendendomi il viso tra le mani. Gli passai le dita sulla schiena, graffiandolo dolcemente attraverso la stoffa, colta dall’improvviso desiderio di sentirmi di nuovo sua. Giusto per ricordargli lo stato delle cose attuali.
Mi sospinse gentilmente contro il muro, mentre io facevo saltare i bottoni della sua camicia. Istantaneamente, quel gesto gli cambiò colore agli occhi; si tinsero di un grigio plumbeo, cangiante.
“Certo che se le donne le guardi così, io non posso darle torto più di tanto…”, mi lasciai sfuggire, mentre mi facevo sfilare il maglione. La sensazione della sua pelle contro la mia mi costellò la pelle di brividi; qualcosa a cui non mi sarei mai del tutto abituata, grazie al cielo.
“Ma si può che ogni volta che vi vengo a cercare state per scopare?”
Thomas appoggiò la fronte sulla mia, reprimendo una serie di improperi dietro ai denti, mentre io scoppiavo a ridere.
“Si fredda il puré.”, disse la Papessa, puntando i pugni suoi fianchi.
“Al Diavolo, il puré.”, rispose Thomas, girandosi verso di lei.
“Credo che gli piaccia, in effetti.”, feci io, continuando imperterrita ad estrarre simili battute dal mio archivio. Thomas mi guardò con un sopracciglio sollevato; io gli feci segno di riallacciarsi i pantaloni.
La Papessa non era una sprovveduta, ma certo era una donna di pudore, come voleva il soprannome, e alzò un sopracciglio alla vista del deshabillé di Thomas.
“Scostumati. Ai miei tempi si aspettava fino al matrimonio.”, continuò la Papessa, fingendo un basimento vittoriano.
“Le regole sono leggermente cambiate, rispetto al 1893.”, feci io, indossando con nonchalance il maglione.
Thomas mi accarezzò dolcemente il viso. “Magari finiamo la cena tranquillamente, andiamo in salotto a farci un brandy e ne parliamo come adulti, okay?”
Annuii, sorridendogli. Scendemmo al piano di sotto ingarbugliati in un abbraccio.
 
 
 
Goodbye stranger
it's been nice
Hope you find your

paradise
Tried to see your

point of view
Hope your dreams will

all come true
(Supertramp, Goodbye Stranger)
 
 
 
Non lo vedemmo con precisione: come una stella cadente.
Fu molto veloce.
Non facemmo in tempo a mettere piede in cucina; successe e basta.
Un brusco movimento, il rumore secco, inconfondibile, di ossa su ossa, di carne contusa. Un rumore vecchio come il mondo, e tuttavia sempre spaventoso.
La Papessa fece cadere la ciotola di puré sul pavimento.
Un attimo dopo, il naso di Thomas perdeva sangue come da un rubinetto aperto. Si tamponò col il dorso della mano; osservò la macchia rossa, rosso fragola. Era una fascio di nervi tesi per la rabbia.
Feci per trattenerlo, poggiandogli una mano sull’avambraccio: si scostò bruscamente, e io mi ritrassi come se mi avesse passato la scossa.
Calò un silenzio da obitorio che mi raggelò il sangue e riempì le nostre orecchie del rimbombo dell’aspettativa.
Con il suo solito aplomb, Thomas alzò gli occhi verso Lucifer, che scuoteva il pugno,
le nocche indolenzite.
“Che cazzo?”, chiese, secco e preciso come il taglio di un rasoio.
Chloe era diventata più bianca del muro, gli occhi spalancati e grandi come due piattini da dolce.
Io ero impietrita. Mi sentivo i piedi affondare come se il pavimento della cucina si fosse istantaneamente trasformato in cemento fresco.
“Così impari.”, fece Lucifer, agguantando un tovagliolo per pulirsi. “Stronzo.”
 
 
 
 


 
 
 
(per un effetto ancora più tragicomico, consiglio di ri-leggere il capitolo ascoltando Goodbye Stranger dei Supertramp. Spero che non ce l’abbiano con me per aver manipolato il titolo di questa canzone a mio uso e piacimento.)
Signori, la rissa è servita.
Con affetto,
Yunomi.

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Capitolo 6
*** Una vita in coma etilico ***


n.d.A.: il punto di vista oscilla ad ogni stacco tra quello di Molly e degli altri personaggi, in modo da permettere una panoramica anche su ciò che provano e pensano gli altri quando Molly non è presente.
Questo capitolo è un tantino ino ino più rosso, non tanto da dover cambiare il rating della storia, però: leggete a vostro rischio e pericolo.

 


Una vita in coma etilico 
 
 
I

Adesso basta
 
 
 
“Sai. Sono stato fin troppo paziente con te. Ti ho permesso di attraversare l’oceano per continuare a romperci le palle, nonostante ti riuscisse benissimo anche da casa tua. Ma ho detto va bene. Molly ci tiene. È importante per lei. Va bene. Di norma sono poche le ammirevoli teste di cazzo che riescono a innervosirmi a tal punto, e quelle di solito riesco a sopportarle con una certa condiscendenza. Ma stavolta… stavolta è la volta che ti strangolo.”
Thomas aveva pronunciato quelle parole con una calma inquietante.
Chloe si portò una mano alla bocca, aspettandosi il peggio.
“Qualcuno raccolga il purè.”, feci io, tentando di distrarli. Ma Lucifer e Thomas avevano gli sguardi dei pugili prima di salire sul ring; l’aria bolliva intorno a loro.
“A ‘fanculo, il purè.”, replicò Thomas. Si avventò su Lucifer, digrignando i denti; io e Chloe ci lasciammo sfuggire un urlo che aveva un che di tragicomico, a conti fatti. Un urlo che avrebbe potuto benissimo scrivere un drammaturgo russo del primo Novecento.
Urtarono il tavolo, nella foga, e un lembo della tovaglia si impigliò in quel groviglio di corpi, facendo rovinare sul pavimento tutto ciò che stava sopra il tavolo. Una sinfonia di stoviglie rotte e improperi difficilmente riconducibili ai vari mittenti.
Una scena da psicodramma, davvero; io mi lanciai verso di Thomas per liberare Lucifer dalla presa, che intanto seminava pugni nel costato di Thomas per costringerlo a mollare la presa. Temendo per la mia incolumità, Chloe mi afferrò un avambraccio e mi tirò indietro, mentre Thomas schiacciava Lucifer contro il muro con una violenza e un’aggressività che mi spaventarono. 
“BASTA.”, sibilò la Papessa, mettendosi in mezzo. Rischiò di prendersi una gomitata in piena faccia, ma appena una delle sue mani delicate si frappose tra i visi sfigurati dalla rabbia, i due si divisero come il mar Rosso davanti a Mosè. Lanciò ad entrambi uno sguardo di pura, didascalica furia.
Le lampeggiarono gli occhi chiari per qualche istante; tuttavia, parlò con un tono fermo e solenne; il tono di chi è furibondo oltre ogni limite.
“Siete due deficienti. Scemo e più scemo. Ma quanti anni avete, quindici? Siete vergognosi.”, disse, prendendoli entrambi per le braccia e scortandoli in salotto. Li mollò sul divano come se fossero due bambini in castigo. “Ora vi sedete qui e guai se fiatate.”
Lucifer aprì la bocca per protestare, ma l’indice perentorio che la Papessa gli puntò addosso lo fece desistere. Thomas fissava un punto del tappeto, mentre con la mano torturava il bracciolo del limite estremo del divano in cui era stato esiliato; la bocca, una linea retta.
Io credevo di essere in un sogno. Mi passai una mano sulla fronte, e quando la ritrassi mi resi conto di quanto avessi sudato freddo: era successo tutto nell’arco di pochi minuti, eppure mi sembrava di essere in piedi in cucina da ore intere. La Papessa comparve di nuovo in cucina, squadrandoci con più disgusto e delusione di quanta ne avesse riservata agli altri due.
“Sedute.”, ci ordinò.
Obbedimmo.
“Ora,”, disse lei, accendendosi una sigaretta, “parlate. Non me ne frega un cazzo se vi devo tenere chiuse qui fino all’alba. Adesso basta.”
Si chiuse la porta della cucina alle spalle, lasciandoci con una cena spiaccicata per terra, un tappeto di piatti infranti e un senso di sgomento che prese posto al tavolo insieme a noi.
Ci guardammo negli occhi e deglutimmo sonoramente.
“Ha detto cazzo.”, dissi io, fissando con insistenza un punto del tavolo. “La Papessa non dice mai cazzo.”
 
 


 
Now we’re in the ring, and we’re coming for blood
Lorde, Glory and Gore
 
 


 
 
II

Pas de deux
 


 
 
La Papessa entrò in salotto: l’aria era gravida dei respiri affannosi dei due uomini, e odorava di sangue. Esalò un lungo sospiro, rivolto a notificare loro che ne aveva piene le balle. E sì che la convivenza era incominciata da appena più di un giorno.
Prese la sigaretta tra le dita, osservandone la brace ardente. Poi alzò lo sguardo su Thomas, che distolse lo sguardo dallo scaffale dove teneva i suoi libri dei poeti post-elisabettiani, come se qualcosa nella sua testa si fosse connesso automaticamente ai segnali irradiati dalla presenza della Papessa.
“Tu sei un deficiente.”, disse lei, indicandolo con la sigaretta tra le dita. “Stavolta è la volta buona che ti strangolo… ma non farmi ridere.”
Lui scosse leggermente la testa, abbassando gli occhi. Lucifer venne temporaneamente estromesso dalla crepa nello spazio-tempo che era stata creata dalla Papessa nel momento in cui aveva aperto bocca.
“Ascolta-“
“Ascolta tu. Sei un deficiente.”
“E questo l’ho capito.”
“Ma come ti è venuto in mente di fare una scenata del genere? Sei retroceduto di qualche decade nella notte?”
“E’ questo qui che mi fa uscire dalle grazie.”, sputò Thomas, indicando Lucifer con un gesto sprezzante.
La Papessa arricciò le labbra. “Non sei un po’ troppo grande per incolpare gli altri a questo modo?”
Thomas si alzò di scatto; Lucifer sussultò per lo spavento. Non era abituato a vederlo muoversi così repentinamente, così violento e fuori controllo. Si massaggiò il collo, ancora leggermente contuso dalla stretta delle dita di Thomas.
“Ascoltami, Iris. Lo so che non è stato il modo ideale di affrontare la questione…”
“Il modo ideale.”, lo scimmiottò la Papessa, che in realtà si chiamava Iris Angelina Burke; lo risentì silenziosamente per aver svelato la sua vera identità così, senza nemmeno pensarci, e cercò di ignorare l’alzata di sopracciglia che Lucifer le scoccò, come a voler rimarcare che finalmente il suo segreto era uscito allo scoperto.
“Lo so, va bene? Lo so. Sono stato un bambino, sono sceso al suo livello, uno scimpanzé avrebbe avuto più autocontrollo davanti a queste provocazioni. Lo so.”
“Potevi innanzitutto evitare di baciare la mia donna.”, ribatté Lucifer, velenoso.
“Non so se il tuo angelo te lo ha detto, ma è stata lei a baciare me.”, rispose Thomas con un sorriso offensivo, poi tornò ad ignorare lui e l’espressione tetra che assunse il suo bel viso.
Si rivolse verso la Papessa, che aveva preso posto nella sua poltrona, e fumava silenziosa e imparziale come la Morte. “Tu non hai visto in che condizioni era Molly, in California. Si trascinava a lezione come un fantasma, si sedeva in mezzo ai compagni ma lo vedevi nei suoi occhi che non era lì, non davvero. Aveva questa patina grigia che le annebbiava lo sguardo: mi si è spezzato il cuore una dozzina di volte solo guardandola. E poi un giorno si è presentata nel mio ufficio, uno scricciolo di donna che annegava nei suoi vestiti, due polsi che sembravano quelli di una bambina di dieci anni. E mi parlava di Milton, mi chiedeva consigli per la bibliografia della tesi, ma lo vedevi negli occhi che aveva una parte di cervello sintonizzata su tutt’altro canale. E quando ho saputo che cosa ha fatto questo qui,”, e indicò di nuovo Lucifer, che si sentì come tagliato da una lama invisibile, “come l’ha usata, come l’ha sputata appena non ne ha più avuto bisogno… Dio. Molly ha dovuto tenermi per la giacca, perché fosse stato per me sarei andato a casa sua a deturpargli i lineamenti a mazzate.”
Thomas aveva riacquisito il suo tono fermo, e cercava con tutte le sue forze di reprimere il tremito che gli aveva rapito le mani. Si abbassò a prendere una sigaretta dal pacchetto che era stato abbandonato sul tavolino: la Papessa alzò leggermente un sopracciglio, stupita da quel gesto.
Thomas non fumava da anni. Almeno da quando aveva divorziato da sua sorella. Un periodo grigio, quello, fatto di telefonate piatte, di parole vuote e di scatoloni pieni di libri e maglioni, un andirivieni di chincaglierie e suppellettili che erano stati comprati in due, in un momento di trascurabile felicità, e che avevano subìto il processo di smistamento che segue ogni separazione.
L’uomo si levò gli occhiali, riaccomodandosi sul divano. Alla Papessa sembrò invecchiare sotto i suoi occhi. La sigaretta, spenta, tra le labbra,  pareva la concretizzazione di tutto ciò che avrebbe voluto aggiungere e che però non aveva più la forza di articolare. Stava ferma, pendula, non ancora incendiata – forse Thomas ne aveva abbastanza, dei fuochi incrociati, del fuoco, degli incendi.
Com’era logico, Chloe e Lucifer non potevano sapere quali fantasmi infestassero il passato di Thomas; riservato com’era, faticava a parlarne persino con Molly. Ma era questo il compito della Papessa: assistere equanime, arroccata nel suo castello di apparente freddezza e distacco, e indicare la strada con una mano inanellata di quarzo e ametista. Come una madre spirituale, il cui giudizio era insondabile e al contempo lampante, evidente. E come tale aveva assistito, quasi vent’anni prima – vent’anni erano passati! – allo sbocciare dell’amore tra la propria sorella maggiore e quell’uomo, allora un ragazzo magro e silenzioso appena laureato, che ancora poneva la propria fiducia negli altri e nel futuro. Lo aveva sostenuto, gli aveva cambiato le lenzuola quando, dopo il divorzio, non si alzava dal letto per giorni interi; gli aveva ordinato i libri sugli scaffali e cucinato minestre e stufati. Lo aveva spronato ad accettare quel posto di lavoro all UCLA.
Lucifer si alzò, nonostante percepisse il peso del senso di colpa gravargli sul petto: si fermò davanti a Thomas.
Thomas schiuse gli occhi su di lui.
Uno schiocco di accendino riempì il silenzio come un maremoto; la sigaretta di Thomas prese fuoco, e lui aspirò avidamente. Rivolse a Lucifer un cenno col mento – forse un grazie che il suo orgoglio gli impediva di articolare nei consueti cinque fonemi?
“Mi dispiace. Per il pugno.”, disse Lucifer, accomodandosi di nuovo all’altro lato del divano. Si accese una sigaretta. “Anche per tutto il resto, in realtà.”
La Papessa riempì due grossi bicchieri di whiskey e li lasciò sul tavolino di fronte a loro.
“Vi lascio un po’ da soli, d’accordo?”, fece, concedendo loro uno sguardo un po’ più morbido, un po’ di mamma.
“Grazie, Iris.”, disse Lucifer.
La Papessa dava ormai loro le spalle, diretta in cucina, ma si irrigidì impercettibilmente a sentire pronunciare il proprio nome. Qualcosa fece vibrare i suoi dendriti e schioccare le sinapsi, connettendola improvvisamente con quella parte di sé ultraterrena e inarrivabile, quella che la portava a parlare con le piante e leggere i fondi del caffè.
Si voltò al rallentatore.
Squadrò il volto di Lucifer.
Girò di centottanta gradi e si avviò verso la cucina.
Eppure era convinta… le era sembrato di vedere, fugace come un battito di ciglia, un rossore trascendente ardere al posto dei soliti occhi scuri…
Volle convincersi che era colpa dell’ipoglicemia; che non aveva mangiato, che aveva fumato una sigaretta troppo forte. Che stava leggendo troppi manuali esoterici, ultimamente.
Scosse la testa; lei non si faceva venire questo genere di dubbio.
Represse un brivido freddo che le era scivolato come un cubetto di ghiaccio lungo la spina dorsale.
Il Diavolo
Aprì la porta della cucina, scuotendo la testa, e si chiuse tutto alle spalle.
 
 


 
III

Folie à deux


 
 
Emil Cioran una volta disse che due nemici sono lo stesso uomo dimezzato.
Pensavo a questa frase mentre osservavo Chloe seduta all’altro capo del tavolo, anche se a dirla tutta guardavo oltre. Era questo ciò che eravamo diventate, io e Chloe? Nemiche? Ricadute nel più bieco dei cliché, quello delle donne che competono per l’attenzione di un uomo? Mi rifiutai di crederlo. Ragionai piuttosto sulla possibilità che io e Chloe fossimo molto più simili di quanto pensassimo. Ma scartai anche questa ipotesi: avevo fatto un grossolano errore di calcolo. Non era Lucifer, il buco nero della nostra galassia. Lui era la stella, il portatore di luce che bruciava chiunque gli volasse troppo vicino.
Era forse Chloe, allora, l’imbuto cosmico verso cui tutto stava andando, ineluttabilmente diretto nel gorgo oscuro che distrugge ogni stella, ogni luce? Ero forse io?
Riportai violentemente i piedi a terra, riscuotendomi dalle digressioni psicologiche che mi avevano portato a fluttuare tra supernove e buchi neri; presi un tiro dalla sigaretta e mi appoggiai contro lo schienale della sedia.
Aveva incominciato a piovere, fuori. Dalla finestra lasciata basculante si intromise un odore di foglie bagnate che mi calmò quasi istantaneamente. Pensai che avesse calmato anche Chloe, perché la vidi inspirare a pieni polmoni e socchiudere gli occhi.
Stavo aspettando che iniziasse a parlare.
Era lei a doversi chiarire con me. Io l’avevo fatto a profusione, da quando ci conoscevamo, e francamente ero stanca.
Mi tremavano ancora le mani per la scena a cui avevamo poc’anzi assistito, ma cercavo di ostentare calma –come avevo sempre fatto in vita mia, in fondo.
Chloe aveva i capelli strettamente legati in una crocchia e i lineamenti tirati dalla preoccupazione; stava impiegando ogni libbra del suo essere per evitare di guardarmi direttamente negli occhi.
Io fumavo, lentamente, senza sapere quanto questo stoicismo simulato la stesse mettendo a disagio. Okay, forse me ne rendevo perfettamente conto: mi sentivo vendicativa e per niente ispirata dalla Maria Maddalena a cui avevo rubato il nome.
“Mi dispiace, d’accordo?”, fece Chloe ad un certo punto, sgonfiandosi come un palloncino. Appoggiò le mani sul tavolo. Ancora non aveva il coraggio di guardarmi negli occhi. “Mi dispiace di aver baciato il tuo fidanzato. Non avrei dovuto.”
“E fin qui direi che stiamo a sottolineare l’ovvio.”, dissi io, piatta come il mare di primo mattino.
“Ero ubriaca.”
“Non è una giustificazione valida.”
“Ero confusa.”
“Vedi sopra.”
“Molly.”
“Che vuoi?”
“Non me la stai rendendo facile.”
Eruppi in una risata decisamente impudente. “Io sono stufa di renderti le cose facili, Chloe. Non è il mio compito. Hai baciato il mio fidanzato. Sia che fossi stata ubriaca o Santa Maria Goretti, mettiti in testa che ti stavo per saltare al collo.”
Calò di nuovo il silenzio; distolsi lo sguardo da lei con malcelata stizza.
“Se l’hai fatto per farmi del male, ci sei riuscita.”
“Non volevo farti del male. Consapevolmente.” Sospirò. “Ho solo pensato che è un uomo così diverso da Lucifer…”
“E’ il mio uomo.”, rimarcai, preda di una vergognosissima gelosia tutta femminile.
Schiacciai la sigaretta nel posacenere che avevo appoggiato sul piano del tavolo: le stoviglie erano ancora tutte a terra, quindi mi accinsi a dare una sistemata a quello sfacelo di ceramica.
“Non è ironico?”, chiesi, sventolando un frammento di piatto. “Ancora una volta ho a che fare con i cocci di Lucifer.”
“C’entra anche Thomas.”, si sentì di rimarcare lei.
“E’ la prima volta che mi obbliga a sistemare un casino che ha combinato lui.”, ribattei ferma. “Non mi ha mai messa nella condizione di doverlo aggiustare. Mi ha fatto capire che non è il mio compito. Non avrebbe mai dovuto esserlo. Ho sbagliato dal primo giorno con Lucifer.”
Sussultai violentemente quando la sentii sbattere un pugno sul tavolo. Mi voltai verso di lei con gli occhi sbarrati.
“La puoi smettere con questa farsa da Santissima Addolorata?”, mi chiese a denti stretti. “Mi ha rotto le palle. Non lo sopporto più. Puoi, per una dannatissima volta comportarti come un essere umano e… e… incazzarti? Cristo, perfino Lucifer ha agito in modo più umano, lui che non lo è neanche per scherzo! Sei sempre così… perfetta. In ogni situazione. Misurata. Io non riesco a starci dietro. Io non sono più in grado di reggere il confronto.”
“Ma quale confronto?”
“Non fare la finta tonta, Molly.”
“Non sono finta, solo tonta.”, ribattei io, incredula di ciò che stavo sentendo.
Chloe strinse i pugni, le labbra, gli occhi: per un istante temetti che volesse sferrarmi un gancio in pieno volto. Invece lasciò andare un sospiro stremato.
“Tu sei stata… perfetta con lui. Siete uguali. La stessa cosa. La stessa materia oscura e magnetica che obbliga chiunque a guardarvi. Vedervi parlare, ridere insieme è come assistere alla prova vivente che l’amore esiste.”
“Lucifer non mi ama.”, scandii io, avvicinandomi lentamente. “Non mi ha mai amata.”
Chloe sbuffò, spazientita.
“Chloe. La devi smettere di credere che io voglia rubartelo.”
“Non è forse così?”
“No, cazzo.”
“Ma tu lo ami ancora.”
Soppesai le parole con l’attenzione di un cerusico, prima di parlare. “Non penso che smettere sia un’eventualità contemplabile, per me.”
“Come diamine pensi che io possa convivere con questa cosa? Cosa pensi che debba fare per stare tranquilla?”
Alzai le sopracciglia, mentre cercavo due bicchieri per versarci da bere. “Beh. Sicuramente…  non cacciare la lingua in bocca al mio fidanzato potrebbe essere un ottimo punto di partenza.” dissi io.
I nostri sguardi si incontrarono a mezz’aria: i suoi occhi azzurri si scontrarono coi miei, oscuri e magnetici, come diceva lei, e lo scontro produsse la più impensabile delle reazioni.
Scoppiammo a ridere, ridere di pancia; di quelle risate genuine che ti obbligano a sederti, che ti contraggono dolorosamente gli addominali e fanno colare il mascara.
“Oddio.”, disse Chloe, riprendendosi prima di me. Aveva tutt’altra luce sul viso: sembrava una pesca illuminata dai raggi del primo sole dell’estate. Si sciolse i capelli, spettinandosi leggermente.
Crollai a sedere sulla sedia – stavolta di fianco a lei. Ci versai due abbondanti bicchieri di vino rosso.
“Che situazione.”
“Davvero. È imbarazzante.”
“Roba che nemmeno gli adolescenti.”
“Ma davvero.”
“Dovremmo contattare uno sceneggiatore. Sai che picchi di ascolti, se facessero una serie su di noi?”
“Oppure uno psichiatra bravo.”
“Ma che è tutto questo cicalare?”, chiese la Papessa, entrando in cucina.
Le rivolsi uno sguardo dolce e le feci cenno di sedersi con noi. Le porsi un bicchiere di vino.
“Ragguagliatemi.”, disse lei.
“Stavamo contemplando l’idea di scrivere uno sceneggiato su questo terribile triangolo amoroso.”, rispose Chloe, scoccandomi uno sguardo improvvisamente amichevole e bendisposto.
La Papessa annuì, consapevole.
“Come stanno Toro Scatenato e Rocky?”, chiesi, suscitando una nuova risata in Chloe. Iniziai a pensare che l’unica cosa che avrebbe potuto far funzionare tutto quanto era l’alcol. Una vita in coma etilico. Ci riflettei seriamente qualche secondo.
“Stanno parlando.”, ribatté la Papessa, accendendo una sigaretta. “Ora tocca a voi ricevere la strigliata, signore.”
L’aria gioviale che tanto faticosamente avevamo creato si frantumò come una lastra di ghiaccio; ci irrigidimmo come se una folata di vento invernale fosse penetrato sotto la nostra pelle.
“Tu per prima.”, iniziò la Papessa, puntando un dito contro Chloe. “Questa ingiustificatissima insicurezza ti sta divorando. Questo senso di inferiorità nei confronti di chiunque deve essere smantellato, mattone dopo mattone. Ti sfigura, Chloe. Ti obbliga a pensare come una mentecatta accecata dalla gelosia, e io so che non sei una mentecatta. Finiscila. Chiarisciti col tuo uomo, fatti mettere un maledetto anello al dito e concediti di essere felice, per una volta.”
Chloe tacque, osservando il vino nel bicchiere come se lì dentro si fossero concentrate tutte le parole che la Papessa aveva pronunciato.
“Quell’uomo di là seduto ti ama come se non sapesse fare altro nella vita.” Glielo disse guardandola direttamente negli occhi, parlando con quel tono perforante che conoscevo bene; quel tono che mi aveva tirato fuori dal baratro così tante volte, da quando la conoscevo.
Mi punse un ricordo di molte lune prima.
Una corsa sfrenata in taxi verso l’ospedale; una pancia che sembrava esplodere, un dolore lancinante e intervallato dagli sguardi preoccupati di Thomas, che mi reggeva come se fossi una porcellana delicata che aveva salvato da una rovinosa caduta. Un ospedale inglese, un ginecologo dall’atteggiamento marziale e severo, due infermiere che avevo giurato di sgozzare appena ne avessi avuta la possibilità, per come avevano guardato Thomas appena arrivati.
E poi la Papessa che irrompeva in sala parto, che si faceva in là con tenacia, incenerendo con lo sguardo il ginecologo che, povero ingenuo, aveva tentato di fermarla. Le sue mani strette intorno alle mie, i suoi occhi color dei laghi che mi trasmettevano una forza sovrumana; la sua voce che mi gridava: “Sei la persona più forte che io abbia mai avuto l’onore di conoscere.”
“Molly?”, fece la Papessa, sventolandomi una mano davanti al naso.
“Ci sono.”
Mi gettò una sacchetto di boutique sulle ginocchia; lo stesso a Chloe.
“Per te,”, disse la Papessa, indicandomi, “per farmi perdonare le innumerevoli interruzioni. Per te, Chloe… per darvi un colpetto d’incoraggiamento.”
Io e Chloe ci scambiammo uno sguardo interrogativo. La Papessa aprì le porte della cucina e scomparve per qualche istante, per poi ricomparire subito dopo indossando il cappotto, le scarpe, il cappello. Sembrava Mary Poppins.
“Ora vado, mie care. Lasciate la testa un po’ a riposo, e magari stasera usatela per qualcos’altro…”, si congedò, usando un tono malizioso e uno sguardo da sgualdrina.
 
 
 
 

You trick your lovers

That you're wicked and divine

You may be a sinner

But your innocence is mine

Please me, show me how it's done

Tease me, you are the one.

(Muse, Undisclosed desires)

 
 



 
Chloe fissava con sgomento la sua immagine nello specchio del bagno.
Decisamente l’ultima cosa che si sarebbe aspettata di ricevere da una che si faceva chiamare Papessa.
Fissava con sgomento quel babydoll di tulle nero, lungo – si fa per dire – fino a metà coscia, e le sembrava impossibile che fosse addosso ad una come lei.
Quei fiori di pizzo che le coprivano – si fa per dire – i seni avevano un che di decadente.
Lussurioso.
Il fascino macabro e malato di cui parlavano certi poeti francesi nel primo Novecento. Il richiamo irresistibile del proibito.
La Papessa aveva decisamente occhio per queste cose.
Chloe, tuttavia, si sentiva a disagio.
Non aveva più l’età per quel genere di cose.
Era un funzionario di polizia, per la miseria. Era una madre.
Oddio, Trixie…
“Ma non scherziamo.”, si disse a bassa voce, accingendosi a spogliarsi di quel babydoll indecente; quella non era lei. Non era biancheria da Chloe Decker, quella. Fece per ripiegare tutto nel sacchetto, promettendosi di sbatterlo tra le mani di quella sfacciata della Papessa, la mattina seguente.
“Chloe.”
Alzò lo sguardo di scatto: Lucifer era comparso sulla soglia; gli occhi sembravano pozze di benzina che non aspettavano altro che un fiammifero per incendiarsi.
“Adesso me lo tolgo, la Papessa mi ha fatto uno scherzo e-“
“Taci.” disse lui, senza staccarle gli occhi di dosso. Le allungò una mano: Chloe la prese con reticenza. “Vieni qui.”
Lucifer si sedette sul letto.
“Fai un giro.”, disse. Si passò una mano sul mento, squadrandola, mentre un certo appetito si faceva strada dentro di lui.
Chloe obbedì, timida: l’orlo di pizzo del babydoll le sfiorò le cosce, nella giravolta, rivelando per un unico, dolorosissimo istante un angolo di microscopico slip di pizzo nero.
Chloe si sentiva nuda, senza scampo, mentre Lucifer si riempiva gli occhi di quella pelle che conosceva così bene, e del contrasto con il tessuto voluttuoso della sottoveste. Gli occhi di Chloe rilucevano di puro desiderio, e saettavano a cercare quelli di Lucifer, rasserenandosi nel vederli piantati addosso a lei e nient’altro che a lei.
Chloe allungò una mano a torturare il gancio dell’autoreggente.
“Vieni qui. Siediti sulle mie ginocchia.”, le fece Lucifer, senza staccarle gli occhi di dosso.
Le gambe di Chloe rischiarono di improvvisamente negare il loro supporto; le si incendiarono i lombi. Si avvicinò a Lucifer per inerzia, come se fosse lo sguardo di lui a tirarla verso di sé.
 
Incredulo. Era incredulo che lei potesse raggiungere un tale livello di perfezione. Proprio nel momento in cui pensava che non avrebbe potuto essere più perfetta di così.
Il Tentatore per eccellenza che si lasciava tentare da quell’angioletto che giocava a fare il diavolo.
Non appena Chloe si sedette sulle sue gambe, Lucifer sentì di aver definitivamente perso la sanità mentale. Le passò una mano sulla coscia, e appena le sue dita sfiorarono la pelle delicata di Chloe, questa si riempì di minuscoli brividi.
Le scostò i capelli, esponendo il collo.
“Dì qualcosa, per Dio.”, fece lei, in imbarazzo.
“Qualcosa per Dio.”
Lucifer non riusciva a staccarle gli occhi di dosso. Non aveva mai pensato che potesse esistere un lato simile, in una donna come Chloe. Non fu mai così grato dell’operato di un’autorità ecclesiastica.
Chloe si sentì lievemente sollevata, e una parte di lei ricacciò l’imbarazzo in un angolino ben isolato da tutto il resto.
“Dovremmo parlare di quello che è successo con Thomas…”, disse, muovendosi leggermente su di lui. Lucifer si irrigidì, percependo qualcosa svegliarsi nei suoi pantaloni.
“Ti prego, non farmi pensare a Thomas proprio ora.”
Raccogliendo un’iniziativa nuova, ignota, e guidata da una nuova sicurezza, Chloe sospinse Lucifer sulla schiena, salendogli a cavalcioni.
Sentì il suo respiro farsi pesante mentre scendeva su di lui per baciarlo.
Lucifer dovette inventarsi un autocontrollo di cui non pensava avrebbe mai avuto bisogno; la necessità di rigirarla sotto di sé e prenderla senza pensarci due volte cozzava con violenza contro lo stupore che gli suscitava quella nuova Chloe, più sicura di sé, più disinibita. Un altro angelo che aveva smarrito la strada di casa.
Avrebbe potuto restare a guardarla per ore. Tuttavia preferì passare all’azione.
Le strinse le dita intorno alle cosce, giocherellando con il gancio dell’autoreggente nero.
“Non pensavo che lo avrei mai detto.”, fece lui, staccandosi per poco da quelle labbra incendiate dalla passione. “Ma benedetta quella santa donna della Papessa…”
 
 

 
Secrets I have held in my heart

Are harder to hide than I thought

Maybe I just wanna be yours

I wanna be yours


I wanna be yours

Wanna be yours

Wanna be yours

Wanna be yours

(Arctic Monkeys, I Wanna be Yours)
 
 
 
Ho deciso che si meritavano un po’ di tregua, questi due.
Ovviamente spero che vi sia piaciuto, e siete sempre invitati a darmi le vostre opinioni!
Vi ringrazio davvero, vi mando un grosso bacio.
Y.

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Capitolo 7
*** Questi ridicoli teatrini ***


7

Questi ridicoli teatrini
 
 
 
 
 
 
 
 
Il tavolo della colazione quella mattina è popolato per lo più di individui stanchi di tutto.
Si passano tazzine svedesi colme di caffè italiano, e i cornetti alla crema vengono distribuiti pacificamente come corpo di Cristo – amen – alla Messa, senza recriminazioni o appropriazioni indebite. In silenzio.
Il solo rumore proviene dal lieve clangore delle tazze che si appoggiano sui rispettivi piattini e da quello del burro che si spalma sul pane tostato; i commensali si guardano a malapena a vicenda.
E’ imbarazzante, pensa Molly, mentre nasconde una smorfia di disappunto dietro la propria tazza di caffè.
Lancia uno sguardo a Thomas, che è seduto a capotavola e sta impiegando ogni fibra del suo aplomb londinese per cercare di ignorare quella tensione imbarazzante, quasi tragicomica, se vogliamo dirla tutta; Thomas si umetta un indice con la lingua e volta la pagine, alla ricerca della sezione Arte e Spettacolo. C’è da dire che è l’unico che ci riesce divinamente, ma è anche vero che è dotto nella sottile arte dell’elusione.
Si schiarisce la voce; sembra essere sul punto di dire qualcosa, tanto che quattro teste si voltano al suo indirizzo, interrompendo qualsiasi azione di versamento di caffè o spalmamento di marmellata.
Thomas si sente osservato.
Alza lo sguardo dal giornale.
Le tre teste – Molly sa tenere testa al suo fidanzato – tornano a concentrarsi sulle proprie questioni mattutine. Molly intercetta il suo sguardo una frazione di secondo prima che l’uomo riporti gli occhi sul Times.
“Per quel che mi riguarda può finire anche subito, questo teatro dell’assurdo.”, esclama lei, appoggiando con veemenza la tazzina sul piattino. Il rumore è fastidioso come un urlo.
Thomas alza un sopracciglio. “Prego?”
“Sono solo le sette del mattino.”, si lamenta la Papessa, che non si sente particolarmente allodola quel giorno, e infatti sfoggia un paio di patches al cetriolo sotto gli occhi per arginare la piaga delle borse dovute alla mancanza di sonno. “Pietà.”
Chloe non osa alzare lo sguardo dal suo cornetto. E sì che si è anche svegliata di buon umore, dopo il trattamento riservatole da Lucifer la sera precedente – complice anche il buongusto della Papessa in fatto di lingerie. Si sente una bambina in ginocchio sui ceci.
Thomas sospira; appoggia il giornale, prende un sorso di tè. Alza gli occhi verso Molly. “Io adesso devo andare a lavorare. Ne parleremo con calma stasera. E una volta per tutte.”, dice, con tono severo da pater familias.
Molly annuisce e glissa lo sguardo verso Lucifer. “Hai capito, canguro dei miei stivali?”
Lucifer, dal canto suo, sorseggia caffè e risponde con una scrollata di spalle. “Ho fatto quello che avrebbe fatto lui.”
“Pensavo avessimo chiarito che siete due deficienti.”, dice la Papessa, massaggiandosi le tempie con gli indici. “E che con le botte non si risolve mai nulla. Ora, finito il ripasso delle regole di coabitazione per individui in età prescolare, vi prego: almeno fatemi finire il caffè.”
Thomas si nasconde di nuovo dietro il giornale.
Molly sbuffa.
Thomas riabbassa il giornale. “Pensavo avessimo chiuso il discorso.”
Molly alza un sopracciglio. “E io intendo riaprirlo, vossignoria. Dobbiamo per forza avvelenarci l’aria così, fino alla loro partenza?”
“Già.”, le fa eco Chloe, rinvenendo improvvisamente. “Non possiamo semplicemente metterci una pietra sopra?”
Thomas sbatte il giornale sul tavolo. I caffè tremano di paura nelle tazzine. “No, mia cara. E sai perché? Perché quello che continuiamo a nascondere sotto le pietre sta iniziando a superare la pietra in questione in termini di densità e larghezza. Non è il modo in cui sono abituato io a gestire i problemi. Speravo mi concedeste la decenza, quantomeno, di farmi incominciare la giornata senza rodimenti di fegato, ma evidentemente le buone usanze della California sono diverse da quelle a cui sono abituato io, indi per cui: Lucifer, penso abbia capito anche questa zuccheriera che non mi piaci. Non ti ho mai totalmente perdonato perché, nonostante sia laureato in Cristologia, non ci ho mai creduto granché alla puttanata del porgere l’altra guancia. Hai usato Molly come il tuo personale punch-ball emotivo, e se lei è riuscita a volerti bene nonostante tutto, io non posso dire di poter fare lo stesso. Quindi mi dispiace, ma non mi dispiace. Dal canto mio, sono disposto a cedere ad una quieta coesistenza senza vicendevolment rugarci il cazzo.”
Lucifer alza il sopracciglio infastidito. Stringe in pugni sul tavolo ma, con grande sorpresa dei presenti, incassa il colpo e tace. Il suo orgoglio non lo esime dal trarre un grosso sospiro carico di disapprovazione, tuttavia. Ma Thomas lo ignora, passando a puntare l’indice verso Chloe.
“Quanto a te.”, inizia Thomas, investendola con uno sguardo che fa quasi ghiacciare il tè nelle tazze, “Avanzi delle pretese che onestamente stanno iniziando a rompere i coglioni. Te la prendi con Molly come se tutti i problemi che hai con questo qui venissero da lei, quando sai perfettamente che il punto è la vostra totale e vergognosa mancanza di comunicazione. Mi sembrate dei liceali arrapati che vivono questa relazione come lo sfogo di una fantasia proibita, e che rifiutano di capire che una relazione non sta in piedi con due moine e una scopata così trascendentale da farti cadere in ginocchio a pregare Iddio. Ci vogliono le palle, nelle relazioni. Bisogna mettersi a discutere, strapparsi la pelle dalla faccia, mandarsi più e più volte a fare in culo e addirittura smettere di parlarsi per qualche giorno. Non si va avanti a furia di Oh, lui è così complesso, lei è così misteriosa, è una persona così criptica! Ma per l'amor del cielo, dove credete di essere, in un fotoromanzo dell'anteguerra pedissequo e vagamente retrogrado? Uscite le palle anche fuori dalla camera da letto, per Dio.”
Chloe ascolta tutto con la bocca semiaperta. Lucifer si passa la lingua sui denti, e a Molly colpisce il dubbio che il suo cervello stia macinando a vuoto nel tentativo di trovare una risposta quantomeno degna di ciò che Thomas ha appena detto loro. Dal silenzio che cala in seguito a quell’uscita, Molly si risponde che il cervello di Lucifer ha sparato a salve.
Sente una punta di orgoglio assolutamente inappropriato alla situazione fiorirle nel petto, proprio sotto lo sterno: sta con l’uomo che è riuscito ad azzittire il Diavolo. Cerca di sorridere con discrezione.
La Papessa scuote la testa, abbandonando definitivamente la prospettiva di una colazione tranquilla. Il caffè, tra le altre cose, ormai si è freddato.
Chloe si morde un labbro e abbassa lo sguardo, colpevole; Thomas spiega il giornale con un fare decisamente ottocentesco e dice soltanto: “Ora devo finire di leggere la recensione del Troilo e Cressida, se mi volete perdonare.”
Molly sorride, e si accende una sigaretta. “Buongiorno, caro. Dell’altro caffè?”, dice, ironica, stanca, eppure contenta. Assurdamente contenta.
Sono dei disadattati, tutti quanti.
Forse solo la Papessa si salva, ed è solamente perché si è ritirata da un pezzo dalla ribalta delle relazioni sentimentali. Sono stupidi, loro, gli idioti che ancora sprecano tempo ad innamorarsi: anzi, si istupidiscono come scaldabagni quando si innamorano. Non capiscono più niente, e non fanno altro che inciampare nei loro stessi piedi, rischiando di perdere quattro incisivi nello scontro con la realtà dei fatti: eppure, senza denti, sorridono ancora.
Molly lancia uno sguardo a Chloe e Lucifer, che sembrano bambini che hanno appena ricevuto una sonora strigliata. Sorride tra sé, scuotendo la testa, e annuncia la sua dipartita da quello sfacelo di colazione. Thomas le strizza un occhio da sopra il Times.
“Questi ridicoli teatrini del cazzo.”, si dice tra sé, mentre sale le scale.
E intanto sorride.
 
 
 
 
 
And I know that it's so complicated
But I'm a loser in love,
so baby raise a glass to mend
 all the broken hearts of all my wrecked-up friends.
(Lady Gaga, Speechless)
 
 
 
 
 
La mattinata scorre veloce e indolore.
La Papessa lavora da casa, e si è appropriata di un angolo del salotto; scorre plichi interi di bozze, canticchiando vecchie gighe irlandesi a mezza voce. Tiene la sigaretta in bilico sulle labbra, e aspira di tanto in tanto senza usare le dita.
Lucifer e Chloe hanno rinunciato al turismo perché piove.
Lucifer ha agguantato un libro dalla libreria comune di Molly e Thomas, e scorre tra le righe. Anche se la prospettiva è di rimanere in casa tutto il giorno, non ha rinunciato al tre pezzi; non si piegherà mai alla tuta, dice.
Chloe in compenso cerca di comunicare con Los Angeles, ma la connessione fa le bizze per via del maltempo.
Alla fine lancia il telefono sul divano. Lucifer alza gli occhi dal libro.
Chloe si prende la testa tra le mani, e crolla a sedere accanto a Lucifer.
La Papessa alza gli occhi dal foglio, ma li abbassa subito dopo. E’ avvolta in una nuvola di fumo, e sembra proprio una medium che naviga nelle spesse nebbie del tempo.
Lucifer chiude il libro e si volta verso la donna. “Avresti preferito stare con un uomo più… normale?”, le chiede, incrociando le dita intorno al ginocchio accavallato.
Chloe incrocia le braccia al petto. Gli occhi di Lucifer sono quieti, stranamente, e lui sembra davvero intenzionata a starla a sentire. Chloe non vede più la sua pelle fremere di agitazione, e lei da parte sua non sente la solita ansia che ha cercato il più possibile di nascondere da quando stanno insieme: l’ansia di vedere di nuovo la sua faccia diabolica. Forse è un bene che ci sia la Papessa lì. Non oserebbe rivelare il suo volto davanti ad un’estranea, no?
“Pensavo che sarebbe stato più facile.”, sospira lei, ed è come se all’improvviso si fosse lasciata cadere un enorme zaino dalle spalle.
Lucifer non la guarda ferito né dispiaciuto: glissa lo sguardo verso il tavolino, dove sono appoggiate le sigarette di Molly. Ne estrae una e se la accende.
“Nel senso che sono sempre stata convinta che l’amore potesse risolvere qualsiasi problema. Che bastasse avere la persona giusta al proprio fianco per affrontare qualsiasi sgambetto che la vita avrebbe teso. Non è così.”
Lucifer le prende una mano. “Non sono una persona facile.”
“No, non lo sei.”, gli risponde Chloe, teneramente. “Ti ricordo che ti ho sparato, una volta.”
Lucifer si lascia sfuggire una risata. “Ricordo bene.”
Si guardano in silenzio, e per un po’ è solo la pioggia a parlare. Batte con il suo ritmo fluviale contro le finestre, rifrangendo la luce lattea in cui è immersa quella mattina.
Chloe non può più fingere di essere una persona normale: non ha fatto altro che danni, in vita sua, cercando di contenersi entro rigidi schemi e in ruoli imposti da terzi. Si è amputata troppe volte, ed ora è una donna matura, ed è stanca di dover cucirsi addosso il costume di ciò che non è.
Lucifer non parla molto.
E’ un uomo troppo abituato al silenzio, riguardo ciò che è. In quegli anni sono state innumerevoli le volte in cui Chloe ha intravisto lo spiraglio di qualcosa che si stava finalmente aprendo, ma che lui puntualmente richiudeva a tripla mandata. Come quando tempo addietro si era azzardata a sfiorare le piaghe dove una volta spuntavano le sue ali, e lui le aveva stretto il polso in una morsa di acciaio. Gli aveva letto negli occhi un dolore così ancestrale, così profondo, che per un attimo aveva vacillato.
Un dolore così lei forse non l’avrebbe mai compreso.
Spinta da questi pensieri, gli accarezza il volto. Lui chiude gli occhi, come se il contatto con la pelle profumata della donna gli dia un fresco sollievo dalla febbre incessante che lo divora.
“E’ abbastanza, quello che ti do?”, chiede lei, avvicinandosi a lui sul divano.
Lui apre gli occhi. “E’ tutto.”
Chloe sente il bisogno impellente di prendergli il viso e baciarlo come se dovesse morirne, se non lo facesse subito. Si limita a sospirare.
“Io so che Molly è arrivata a toccare una profondità da cui tu mi stai tenendo lontana. Lo vedo per come è con te; c’è questa complicità tra voi due, qualcosa che ho paura non avremo mai. Come se a lei fossero spalancate tutte le porte che invece io non faccio che prendermi in faccia. Cos’ha lei che io non ho?”
Lucifer esita.
Chloe abbassa la mano, che cade inerme sul divano. Abbattuta.
“Non mi ha mai amato.”
Lucifer e Chloe saettano lo sguardo verso la figura che si è materializzata in salotto.
La Papessa ha distolto gli occhi dai suoi fogli da un bel po’, senza che loro se ne accorgessero; li osserva da un buona porzione di tempo, soddisfatta. Sorride fra sé, come un fantasma che si gode il suo incredibile privilegio di essere invisibile.
Molly si stringe nel cardigan e si avvicina al divano: i capelli le ondeggiano intorno, e le incorniciano uno sguardo stanco e tuttavia sereno. Lucifer pensa che non l’ha mai vista così, quando viveva in California: il sole, il vento caldo, l’aria di mare non poteva nulla contro la nebbia che si era addensata attorno al suo cuore. Gli viene in mente che gli inferni peggiori sono quelli che si formano dentro di noi, e non quelli che ci costruiscono attorno. Lui dovrebbe saperlo meglio di chiunque altro.
Molly si siede dall’altro lato del divano e si accuccia come un gatto. La Papessa le porge una sigaretta accesa, violando il divieto che lei stessa le aveva imposto da quando è diventata madre.
Chloe trema un poco vedendo la donna muoversi, come se si fosse materializzata da una dimensione altra all’improvviso. “Mi ero dimenticata che fossi qui.”, le dice, inquieta.
La Papessa le fa l’occhiolino.
“Non è questione che non ti abbia mai amata.”, esclama Lucifer, e per un attimo tutti si irrigidiscono; si percepisce una vibrazione nell’aria. Una tromba che annuncia la resa dei conti.
“Ah no?”, chiede Molly, con il suo solito modo un po’ smaliziato, un po’ provocatorio.
“No. Mi ribolliva il sangue nelle vene a vederti sempre così servizievole. Sono rimasto notti insonni a fissare il soffitto per cercare di capire il perché. Cosa ci vedevi in me? Perché pensavi che mi meritassi di essere amato così disinteressatamente? Io non l’ho mai capito, il significato di amare qualcuno senza alcun tornaconto, senza chiedere nessun favore in cambio.”
Lucifer sospira, poi spegne la sigaretta nel posacenere. Si passa le mani sui pantaloni – è forse disagio, quello che vedo?, pensano le tre donne. Chloe è assolutamente senza parole.
“La verità è che se c’è una cosa che si meritano tutti, ma proprio tutti, è quella di essere amati.”, conclude Molly, incrociando le braccia al petto. “E’ l’unica cosa di cui sono sicura.”
Si rivolge verso Chloe. “Quest’uomo è la cosa più incasinata sulla faccia della terra. È disfunzionale, depresso, autolesionista, assolutamente egoriferito, strafottente, un sadico coi fiocchi. Un narcisista da manuale, fedifrago, infantile e presuntuoso.”
“Quanti complimenti.”, dice Lucifer, alzando gli occhi al cielo.
Molly lo ignora. Fissa Chloe come una leonessa. “Ma è sincero. E ti ama, Chloe. Mettiti in testa che quest’uomo non ama nessun altro. Nemmeno se stesso. Non esiste nessuno su questo ingiusto, schifoso, nevrotico mondo che possa prendere il tuo posto, per lui.”
Chloe deglutisce a vuoto. Si volta verso Lucifer. “E’ così?”
Lucifer sembra sciogliersi all’improvviso, e le rivolge quello sguardo che le rimescola puntualmente le interiora. “Certo. Certo che è così.”
Chloe pensa che potrebbe anche calare il Padreterno con tutte le schiere angeliche, per quanto la riguarda: le sue labbra si scontrano con quelle di Lucifer, e lo stringe così forte che sente il suo cuore rimbombare nella sua cassa toracica.
Molly prende una boccata di fumo, distogliendo lo sguardo. “Ci sono voluti due anni, una psichiatra in evidente odore di santità, un fratello a cui se non è venuta un’ulcera è un miracolo, un incidente d’auto e un trasferimento oltreoceano per convincere questi due di un concetto elementare come due più due uguale quattro.”, dice, rivolta alla Papessa.
La donna la prende sottobraccio, condiscendente e paziente come una fata madrina. “Non pensare di essere messa tanto meglio.”
La ragazza le scocca un’occhiata interrogativa, mentre si chiudono la porta della cucina alle spalle.
La Papessa incrocia le braccia e la guarda con un sopracciglio alzato. “Non è un santo, il tuo Thomas.”
Molly crolla a sedere al tavolo della cucina. Scuote la testa. “Non sono mai finita in ospedale per colpa sua.”
“Per ora è lui che rischia di finirci per colpa tua. Gli hai misurato la pressione, dopo l’amabile soliloquio di stamane?”
“Papessa.”, la ammonisce la ragazza. Ecco che il treno della serenità le sfreccia un’altra volta di fronte, senza che lei possa avere la possibilità di saltarci sopra.
“Ci parlo io.”, dice la donna, mettendo il bollitore sul fornello. “Tu riposati. Hai la faccia di una che ha visto un fantasma.”
 
 
 
 
 
 
Perché tra un bacio ed il cannibalismo
In fondo la differenza non c'è
Baciami forte fino a inghiottirmi
E vivrò per sempre all'interno di te

Freddie, Pinguini tattici nucleari
 
 
 
 
 
 
“Thomas.”
“Dimmi, Iris.”
La Papessa sopprime un brivido sul nascere, ma questo riesce comunque a raggiungere le dita inanellate che reggono una sigaretta appena accesa. “Non mi chiami mai Iris.”, gli fa presente, prendendo posto sulla sedia di fronte alla scrivania dove l’uomo sta lavorando.
Thomas alza gli occhi dai fogli e le rivolge uno sguardo che sembra di sufficienza, ma che in realtà è solo il suo modo inglese di guardare le cose. La Papessa sta fissando un punto della scrivania, e lo fissa così intensamente che a Thomas sembra di sentire lo scricchiolio del legno che si ritira, si assesta per cercare di sfuggire a quello sguardo. La Papessa scenera nel posacenere di cristallo.
Ha visto tante cose in vita sua, molte delle quali non potrà dimenticarle neanche volendo. E’ una donna aperta, disposta a scostare il velo schopenhaueriano  senza paura delle cose; ha un buon rapporto con i fantasmi. Il Diavolo, tuttavia, non aveva mai messo in conto di incontrarlo.
E di certo non si sarebbe mai aspettata che di prendere il tè con lui e giocarci a carte come una vecchia coppia di amici.
Si porta la sigaretta alle labbra; Thomas la osserva, perché la conosce e sa che certe volte si chiude in una fortezza di mutismo gelido in cui è impossibile penetrare. Aspetta, paziente, che abbassi il ponte levatoio.
La donna riporta gli occhi chiari su di lui; riacquisiscono la loro vivacità innata, nonostante il tempo abbia iniziato ad incidervi intorno rughe sottili.
“Sei pensierosa.”, dice lui, e non è una domanda, non lo è mai, perché tra loro non ce n’è bisogno.
La Papessa gli sorride. “Quando mai non lo sono.”
Non lo sa, dice una voce dentro di lei. Meglio che non lo sappia mai.
“Sei diversa dal solito.”, risponde Thomas, mollando la penna e appoggiandosi allo schienale della sedia; incrocia le mani al petto e sembra trasformarsi in un vecchio druido, saggio e stanco. “Passami una sigaretta.”
La Papessa obbedisce. Thomas si allunga a prendere la sigaretta accesa.
Si passa una mano tra i capelli, si toglie gli occhiali.
“Sei un uomo stanco, Thomas.”, nota la Papessa, allungando i piedi sotto la scrivania. Si stiracchia come un gatto.
“In realtà sto dormendo, in questo periodo.”
“No, sei stanco da quando ti conosco. Credo sia una tua peculiarità ontologica, la stanchezza.”
Thomas stira un lieve sorriso, e le palpebre si fanno pesanti. Sa che non riuscirà mai a trovare un punto su cui lei non abbia ragione.
“Stai prendendo le tue medicine?”, gli chiede, affettuosa.
Thomas annuisce, vago; vuole cambiare discorso, e lo annuncia con un gesto annoiato della mano, grattandosi un occhio.
Cala di nuovo il silenzio delle conversazioni scomode; è un silenzio come un puntaspilli, solo che le punte sono tutte rivolte verso l’esterno ed è difficile muoversi: il minimo movimento rischia di ferire, ed è pericoloso perfino per due persone che si conoscono come i palmi delle rispettive mani. Girano intorno alla questione come due pescecani, e nonostante l’odore del sangue sia un tanfo insopportabile nessuno dei due vuole attaccare per primo; quindi si guardano, fumano, fanno vaghi commenti sulla pioggia e sulle ricette del dottore per gli antidepressivi.
Thomas sospira.
La Papessa pure.
Il non detto aleggia nell’aria e accelera la velocità con cui i loro cervelli pensano, che già supera di molto il limite consueto.
“Possiamo parlare del tuo commento sobrio e pacato sullo stato attuale della situazione?”, chiede la Papessa, dopo essersi schiarita la voce.
“Lo stato attuale è che non lo reggo, quello lì.”, dice Thomas, esalando una nuvola di fumo carica di rassegnazione. “Non lo reggo proprio. C’è qualcosa nella sua persona che mi urta a priori.”
“Potrei dirtene quindici di cose sulla sua persona che ti urtano.”, ribatte piccata la Papessa. “Le altre non mi ci metto neanche a contarle. E guarda caso hanno tutte a che fare con la tua adorabile ragazza.”
Thomas ruota gli occhi così forte che la Papessa teme che cadano e rotolino sul pavimento.
La Papessa sorride. “E come l’ha presa, Molly, la questione del famigerato bacio?”
Thomas alza le spalle. “Come non avrebbe mai dovuto prenderla una ragazzina di quell’età: mi ha perdonato.”
“Quella ragazza corre a perdifiato per cercare di stare al passo con la vita. Mi auguro solo che non cada di faccia.”, commenta la Papessa, con fare consapevole. Thomas guarda fuori dalla finestra. Il cielo è scuro, coperto di nuvole scure fino a scoppiare; la nebbia sta iniziando a scendere come un esercito di spiriti.
Fa freddo; Thomas non lo sente. Ci sono giorni in cui Thomas sente così tanto che preferisce spegnere tutto il resto.
“Io mi auguro che Quello non decida di allungare una gamba.”, ribatte, riportando lo sguardo sulla sua amica.
“Io credo che tu sia un po’ troppo vecchio per odiare così tanto l’ex della tua piccina.”, gli fa la Papessa, divertita.
Thomas è come colto da un improvviso accesso di orticaria, come se il solo pensiero gli ricoprisse la pelle di piaghe. Alza un palmo, intimando alla donna di tacere.
“Sono un uomo, Iris. E decisamente non uno stinco di santo.”
“Un olecrano. Sei un olecrano di uomo normale. Quello che si usa di solito per dare le gomitate.”
Thomas sorride e si porta la sigaretta alle labbra. “Lasciami almeno il piacere di provare astio.”
“Non ti fa bene, Tommy.”, dice la Papessa, spegnendo la sigaretta nel posacenere. “Te la stai vivendo esattamente come fa Chloe.”
“Cioè?”
“Cioè vivi nella paura.”
“La paura è il territorio che conosco meglio.”
“E non ti va di espatriare?”
“Iris. Ti sembro il genere di persona che ha voglia di espatriare?”
La Papessa alza le spalle.
Thomas la guarda di sbieco. “Non sono mai andato più in là di Londra, e quando è stato, è stato per lavoro.”
“Sei stato in California un anno intero.”, gli fa presente la Papessa, saggiamente. “E ti sei guadagnato una moglie e una figlia.”
“Non è mia moglie.”, precisa lui, con un tono vagamente pignolo che vale alla Papessa una plateale alzata di sopracciglia.
“E non ti pare quasi patetico che ancora non lo sia?”
Thomas alza gli occhi al cielo.
La Papessa continua. “State insieme da due anni e mezzo. Avete una figlia insieme, per la miseria.”
Tace un secondo, poi lo guarda come se volesse alzarsi ad abbracciarlo. Non si muove di un millimetro. “Non sarà come con Margaret.”
Lui la guarda, e cerca di contenere il malessere fisico che lo colpisce ogni volta che sente quel nome. Sono passati anni. Eppure.
“Lo so che non ti piace sentire quel nome, Tommy.”, dice la Papessa, leggendogli nel pensiero.
“Non è che non mi piace. E’ che preferirei non sentirlo.”
“Comunque, non lo sarà.”
Thomas si accende un’altra sigaretta, perché il vizio è facile da riprendere  quando la tua vita ti sembra un inferno, e ha come l’impressione che non riuscirà a sopravvivere ai suoi ospiti senza una dose ragguardevole di nicotina in corpo.
Sulla scrivania, tra i fogli sparsi, c’è una fotografia incorniciata: è Molly, seduta sull’altalena di un parco di Huntington Beach, un pomeriggio soleggiato in cui avevano deciso di andare a fare un giro.
Ha i capelli sciolti che le coprono parzialmente il volto e un vestito smanicato, rosso, troppo grande per lei. Le cade una spallina.
Non guarda verso l’obiettivo, Molly. Guarda un punto distante sulla sabbia come a cercare qualcosa che le è caduto per terra, anche se non sembra certa di sapere cosa sia.
Thomas ha scattato quella foto in un periodo terribile, in cui Molly non mangiava, non dormiva, non faceva altro che leggere stupidi romanzi dalle protagoniste affrante, e fumare sigarette troppo forti.
Se lo ricorda perfettamente quel periodo. Aveva paura a fare l’amore con lei perché sembrava dovesse frantumarsi come un calice di cristallo sotto il peso delle sue carezze.
Quella seduta su quell’altalena con il mare alle spalle è una ragazzina scarna e ferita, uno scheletro nell’armadio di se stessa. Un’immagine di ragazza che più osservi, più speri che da un momento all’altro sollevi il viso verso di te, e ti sorrida. E invece non solleva mai la testa, imprigionata dalla macchina fotografica in un secondo eterno; fissa il suolo come se non ci fosse nulla al mondo per cui valesse la pena alzare lo sguardo.
Svuotata. Quella Molly è una ragazza svuotata.
Thomas mostra la cornice alla Papessa.
“Guardala.”
La Papessa prende delicatamente la cornice tra le mani. Passa un indice sul viso della ragazza nella foto, come a volerle scostare i capelli dagli occhi, o quantomeno tentare di cancellarne i segni delle notti insonni. Ma la ragazzina sull’altalena continua ad avere il volto coperto e grossi solchi violacei sotto le ciglia gentili.
“L’amore non dovrebbe portare a questo.”, continua Thomas, inforcando di nuovo gli occhiali. “Quello non è amore.”
Vorrebbe dire così tante cose; le sente tutte ingombrargli i polmoni, eppure non riesce a parlare. Non fa che pensare a quel corpicino asciutto, alle mani sempre fredde attorno a tazze di infusi in cui lui versava più zucchero di quanto ne servisse per darle un minimo di sostentamento, come si fa con gli uccellini.
Guarda la foto e non fa che pensare a quelle conversazioni dette a mezza voce, alle confessioni della ragazza contro le sue scapole mentre pensava che stesse dormendo, cose che non gli avrebbe mai detto in faccia, da sveglio. Il suo sguardo perso oltre le finestre che teneva sempre aperte, come se offrisse ai fantasmi che la perseguitavano una via per andarsene – o forse per permetterne ad altri di entrare a piacimento.
Pensa a quando l’aveva trovata seduta sul piatto della doccia, mentre l’acqua le scorreva addosso, e lei fissava le piastrelle con una marea dietro gli occhi scuri, e lui le aveva detto amore, tutto bene?, e lei gli aveva rivolto lo sguardo più triste e straziante che avesse mai visto in una persona, e gli aveva detto non mi rimane più niente, ho dato tutto.
Thomas si passa una mano sulla bocca, come se sapesse che sta per esplodere. Trasalisce quando sente la Papessa parlare.
“Per lei sì. È stato amore.”
Lo sguardo che Thomas le rivolge è uno sguardo tradito. Socchiude lievemente gli occhi perché è come se quelle parole gli stessero incidendo tagli profondi sulla pelle.
La Papessa lancia un ultimo sguardo alla ragazzina pelle e ossa della foto, poi la risistema al suo posto sulla scrivania. “Lo ha amato, Thomas. E tutto l’odio che sei in grado di riversargli addosso non potrà cancellarlo.”
“Faresti prima a piantarmi quel tagliacarte nel petto.”
La Papessa sorride. “Sei sempre stato un uomo estremamente intelligente, calcolato e attento.”
Si alza, avvolgendosi un foulard bianco intorno al collo; si libera i capelli con le mani, e per un attimo questi frustano l’aria intorno alla sua testa come spiriti fulvi e gentili. Thomas la guarda, sentendo improvvisamente freddo.
“Se la tua paura è di ridurla di nuovo così, non devi preoccuparti.”, dice la Papessa, indicando la foto.
Thomas si morde un labbro. Come puoi esserne certa?, le chiede con gli occhi, perché a parole non riuscirà mai ad esprimerlo.
“Non la perderai.”, gli dice, e le sue parole assumono la corporeità solenne delle profezie. Le vede quasi uscire dalle labbra tinte di rosso della sua amica.
“L’ho quasi persa già una volta.”, si lascia sfuggire lui, e sente un nodo spinoso formarsi nel centro del petto.
La Papessa circumnaviga la scrivania e gli si avvicina per posargli un bacio sulla fronte. Non gli risponde, criptica com’è alle volte, ma gli dedica un ultimo dolce sorriso e un occhiolino complice.
Esce dallo studio, lasciando dietro di sé un pacchetto di sigarette e un profumo di fiori estivi.
Thomas abbassa lo sguardo sul tavolo: i fogli sono tutti ordinati e allineati col bordo della scrivania, le penne nel bicchiere, il posacenere allineato al telefono. Riordina. La Papessa riordina cose e persone.
 
Non sa dire quanto tempo sia rimasto a fissare la pagina del libro aperto di fronte a sé; fatto sta che quando Molly entra nello studio si scuote un pelo, e le punta gli occhi addosso come un cervo davanti ad un tir in corsa.
Molly sorride, divertita. “Che faccia.”
“Bambina. Non ti ho sentita entrare.”, dice Thomas, e si accorge di non star respirando da un po’. Si riempie i polmoni di aria mentre osserva la ragazza avvicinarglisi. Molly gli posa un bacio sulle labbra; gli si siede addosso, e il profumo dolce dei suoi capelli lo porta a chiudere gli occhi e abbandonarvisi. Pace. Finalmente un po’ di pace.
Molly gli leva gli occhiali, gli bacia le palpebre. “Amore mio.”, gli dice, con un tono di voce più dolce del miele.
Thomas preme il capo contro il petto della ragazza. “Ho paura di consumarti.”
Molly tace, gli passa le dita tra i capelli. Disegna cerchi concentrici tra i ricci biondi, e gli culla il capo, cercando di ammansire quella tempesta che infuria costantemente dietro la sua facciata calma e condiscendente.
“Scusami.”, gli dice tra i capelli, tra un bacio e l’altro. “Ti ho trascinato dentro questo casino senza pensarci, a quanto ti avrebbe fatto soffrire. Scusami.”
Thomas le prende il viso tra le mani e la bacia così intensamente che sembra volerla inghiottire.
“Non chiedermi scusa. Non ci provare nemmeno per un secondo.”
Molly appoggia la fronte su quella di lui. “Sei troppo buono. Sei l’opposto di Lucifer.”
Si lascia cullare da lui, e lui si lascia cullare da lei, e la terra sembra assecondare quel dondolio per costruire intorno a loro una culla, una bolla tiepida e mite. Vorrebbero poter rimanere così per sempre. Ma non si può-
Stanno inevitabilmente pensando all’Incidente.
A quella notte infernale.
Al suono del telefono che aveva fatto svegliare Thomas di soprassalto, nel cuore della notte. La voce di Lucifer che gli spiega quello che è successo, unita al rumore assordante della sirena dell’ambulanza, è marchiata a fuoco nella sua memoria.
“La Papessa vuole che ti sposi.”, le dice lui, prendendole il mento con le dita.
“Con chi?”, chiede lei, serafica, per cercare di cancellare quella patina malinconica dagli occhi chiari. Ci riesce solo parzialmente, e questo un pochino la conforta.
“Con me. Con chi…”, sbuffa lui, alzando gli occhi. “Tu mi sposeresti, bambina? Un vecchio scorbutico depresso lo sposeresti?”
Molly gli passa una mano tra i capelli, e piega la testa di lato; vuole farsi una fotografia mentale di quegli occhi, di quella bocca, della barba che non si fa da qualche giorno.
“Tu ti sposeresti, se fossi in me?”, gli chiede, tracciando il contorno delle sue labbra con l’indice, prima di baciarle.
Thomas si stacca dal bacio controvoglia. Ci pensa su un attimo. “No.”
“Allora sì. Sì, ti sposerei.”
 
 
 
 
 
E tu

amami come ameresti te

se fossi me

e viceversa

quindi male e senza capire niente

Lo Stato Sociale









 
 
 
 
Buonasera.
Quanto tempo.
Inizio subito con delle scuse: è stato un periodo strano.
Del tipo che mi venivano delle strane fitte allo stomaco ogni qualvolta aprivo il file di questa storia, seguite da una scarica di odio e biasimo nei confronti di qualsiasi cosa abbia mai scritto. Quindi nulla, chiudevo il computer e mi facevo un cicchetto.
Comunque.
Ho scritto poco per volta, una frasetta o due, giorno dopo giorno, e alla fine è venuto fuori questo capitolo qui.
Ammetto che ho perso un po’ il bandolo della matassa, per quando riguarda questa storia: non la sentivo più mia, non mi sembrava di dire niente che avesse senso. Ma poi mi sono resa conto che in questo preciso momento storico c’è davvero poco che ne abbia – senso, dico – e quindi ho detto non sarò io con questa storia a invertire improvvisamente l’entropia dell’universo tutto.
Aspetto un secondo, vediamo se succede qualcosa.














Nulla.
L’entropia è normale, mi dicono.
Quindi via libera.
Fatemi sapere cosa ne pensate, ora più che mai ve ne sarei grata. Ho perso la bussola per molte cose, in questo periodo; mi aiuterebbe molto ritrovare il nord almeno in questa.
Come state, care e cari? Per Giove, mi sembra sia passato un anno intero.
Vi bacio anticipatamente.



Con affetto,
Vostra Tazzaditè.
 

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Capitolo 8
*** L'amore è come il brasato ***


 
L’amore è come il brasato
 
 
 
 
 
And we'll keep ourselves in a place where it's easy to hold onto.
The last threats came and went, this is the way that wars are played.
Always heading for a front, heading for a front,
We go into the obscurity of an easy to pass on feeling that objection is so cliche.

(Cliché Guevara, Against me!)
 
 

 
 
 
C’è una pioggia strana, quel pomeriggio; del tipo che cade da un cielo che ad un primo sguardo appare completamente sgombro di nuvole, e invece è coperto da un sottile strato di ovatta. L’effetto finale è che pensi che non stia piovendo, e invece tutto magicamente si sta imperlando di goccioline profumate mentre formuli il suddetto pensiero; inoltre, la luce diventa così spessa e accecante che ti sembra di essere scivolato per errore in un bicchiere di latte.
Lucifer fuma, seduto in veranda, e medita.
Il rumore della pioggia che picchietta sulla tettoia è piacevole, ma non riesce a rilassarsi perché i suoi sensi sono feriti quasi a livello personale da quel vaso di crisantemi rossi che c’è a pochi metri dalla balaustra di pietra,  che separa la zona living dal giardino vero e proprio.
E’ una macchia infuocata e aggressiva che affonda le radici nella terra con decisione. È un fiore esuberante, il crisantemo. Sgorga come una ferita aperta quando sboccia, e rimane lì, esplosivo ed esploso, a fissarti con aria di sfida coi suoi petali cotonati. Fiorisce con l’autunno e spesso resiste perfino alle prime gelate di gennaio senza battere ciglio. Giusto per vantarsi con gli altri fiori che lui sopravvive a tutto, e a tutti. Probabilmente è fermamente convinto che sarà l’ultima creatura vivente alla fine dello scontro tra le armate celesti, il Giorno del Giudizio, e nessuno, animale o vegetale che sia, ha mai avuto abbastanza argomenti per controbattere. La brina non ci prova nemmeno a posarsi su di lui; ha troppa paura di sciogliersi, appoggiandosi a quei petali che sembrano forgiati direttamente da Efesto. Quelli rossi, in particolare sembrano bruciare da dentro del fuoco di cui è fatta l’immortalità.
Lucifer si sente personalmente offeso dalla presenza di quel fiore, che dal basso del suo vaso di pietra non sembra degnarlo nemmeno di uno sguardo. Ha come il bisogno febbrile di tiragli un calcio.
Non si muove di un millimetro.
Sta pensando, mentre le iridi prendono lentamente il colore di quel presuntuosissimo fiore invernale; e Lucifer non è un uomo abituato a pensare. Di solito lui sente e basta. Vive.
Il problema è che ciò che gli ha detto Thomas gli si è impresso addosso come una maledizione, e ora come ora se dovesse agire a sentimento probabilmente avrebbe voglia d ridurre l’uomo ad un cucchiaino di pudding inglese con gli occhiali. Quindi decide che forse è saggio imboccare la via della riflessione, prima; o quantomeno provarci.
E’ stufo, stufo marcio di essere trattato come l’antagonista della situazione; tutta colpa di Lucifer, Lucifer tira fuori il peggio della gente, Lucifer qui, Lucifer lì, su, giù.
Una volta gli piaceva essere sulla bocca di tutti; diamine, faceva di tutto purché il suo nome anticipasse la propria persona in ogni dove. Se è vero che dentro ognuno di noi ci sono due lupi, uno che si nutre di pensieri positivi e l’altro di negativi, quelli di Lucifer sono certamente affamati di fama e gloria, in qualunque forma esse arrivino. Sente di star leggermente deviando dal punto, e deve appellarsi allo sforzo mentale di chi non è abituato a riflettere per riportare il cavallo del ragionamento sulla strada battuta.
Un’illuminazione ferma per un secondo gli ingranaggi del suo cervello: che Dante ci avesse davvero preso, con tutte le sue pedisseque teorie sul contrappasso e dell’analogia?
Sta decisamente digredendo. Si massaggia gli occhi un po’ troppo forte. Succede sempre così quando ci si ferma a riflettere su sé stessi? Si appunta mentalmente di parlarne a Linda.
Dove eravamo.
Thomas.
Il santarellino.
Lucifer non si fida di quell’aria da martire. I capelli biondo-rossicci, gli occhi chiari e lo sguardo elegante e sarcastico di chi pensa di averne viste di ogni, dalla vita, e in realtà è nato in una famiglia che probabilmente passava le estati a bere tè freddo nel parco della casa del segretario privato del Duca di Edimburgo. Scuote leggermente la testa, Lucifer, e si sforza più che può di tenere gli stupidi crisantemi fuori dal proprio campo visivo. Bruciano.
Thomas è un uomo troppo calmo. È quella calma ostentata che probabilmente ha avuto anche Gandhi, o Gesù Cristo, o Bruce Banner poco prima di trasformarsi in Hulk. Non c’è da fidarsi degli uomini tranquilli. Lui lo vede nei suoi occhi chiari: c’è come un contorcersi di serpente mitologico dentro quegli occhi, dietro le lenti, antico e irrequieto, che nuota quieto ben al di sotto della superficie per sfuggire agli effetti di rifrazione della luce; si muove e si contorce, aspetta il momento giusto per attaccare. Come quella stessa mattina, del resto.
Lucifer è certo che Thomas non stesse aspettando altro – e lui ne conosce giusto due o tre di cose sui serpenti.
Prende un altro tiro di sigaretta; l’immagine di Chloe si sovrappone per un secondo ai maledetti crisantemi, ai serpenti, agli occhi calmi e pazienti di Thomas. Sente la mascella decontrarsi e si passa una mano sul volto. Forse avrebbe dovuto difenderla da quelle parole spinose, prima; il fatto è che dentro di lui c’è una parte che parzialmente vorrebbe dargli ragione, il virgulto di una maturità che finalmente è riuscito a rompere la crosta di ghiaccio della sua presunzione. Il problema è proteggerlo in modo tale che il primo freddo non lo uccida.
Un tintinnio cristallino gli notifica la materializzazione di una nuova presenza nella veranda: si volta in direzione della portafinestra che si è appena chiusa alle spalle della Papessa, la quale regge due bicchieri colmi di whiskey.
“Hey, peste.”, gli dice lei, facendogli segno con un cenno del capo di avvicinare una sdraio a quella su cui è seduto lui. Indossa un cappotto di montone e un cappello a tesa larga. Le collane di ambra che porta, muovendosi, producono un rumore di biglie che riporterebbe chiunque alle memorie dell’infanzia; Lucifer non può saperne nulla, ovviamente, eppure è pervaso dalla stessa acre tranquillità che si prova quando si pensa alla fanciullezza.
Lucifer le sorride. “Eminenza.”
La Papessa gli passa un bicchiere e si stringe nel montone. “Alla tua.”
“Alla tua.”
Scolano il whiskey alla goccia; la Papessa poi lancia il bicchiere dietro le proprie spalle. Questo, rispettoso delle leggi della fisica, si frantuma in mille pezzi, e Lucifer trasalisce. La guarda con un sopracciglio sollevato. “Era proprio necessario?”
Lei fa spallucce. “Un giorno ti racconterò di quando la mia bisnonna fu cameriera a casa di Trotskij.”
“L’ho conosciuto. Personaggio singolare.”, dice Lucifer, osservando la pioggia che cade impercettibile e indisturbata. La Papessa sorride. Si accende una sigaretta e si abbandona all’indietro, sulla sdraio, accavallando le gambe.
“Margaret e Thomas si sono sposati esattamente vent’anni fa in questo giardino.”
Lucifer le rivolge un’occhiata interrogativa.
“Margaret è mia sorella.”, chiarisce la Papessa, che sta sempre attenta a non dare mai niente per scontato. “Una donna di ghiaccio in tutti i sensi. Se io sono la Papessa, lei è l’Arcivescovo di Canterbury. Lei e Thomas si sono conosciuti in un bar dove suonavano musica dal vivo; c’ero anche io quella sera. Non ho mai visto gli occhi di un uomo illuminarsi così come quando lui si è avvicinato al nostro tavolo e ci ha offerto da bere. Si sono messi insieme poche settimane dopo, senza stare a rifletterci troppo perché mia sorella aveva bisogno di qualcuno che le facesse pensare a sé stessa il meno possibile, e Thomas era un ragazzo che aveva fame di vivere. Voleva succhiare il midollo della vita fino in fondo, come dice Thoreau, e lo faceva, in effetti: a quei tempi non dormiva perché faceva un sacco l’amore e studiava come se sapesse di non avere abbastanza tempo per leggere tutto quanto.”
La Papessa si ferma per riempire il silenzio di un sorriso nostalgico. I sorrisi hanno suoni impercettibili che riverberano nell’aria come le note di un requiem. Lucifer la guarda con quella sua espressione attenta da rapace notturno. La Papessa si alza, facendo cigolare la sdraio, e coglie uno dei crisantemi rossi nel vaso. Lo osserva, rigirandolo tra le mani come se stesse aspettando che le rivelasse segreti che solo le piante conoscono. “In Italia i crisantemi si portano ai morti, perché solitamente fioriscono proprio in questo periodo, intorno ai primi di novembre. In altri paesi, invece, quello bianco ad esempio si regala per augurare felicità; quello giallo per chiedere perdono per un amore trascurato, e quello rosso simboleggia l’amore eterno.”
Glielo sistema nel taschino della giacca e si allontana di un passo, come a volersi accertare della visione d’insieme, come una pittrice: Lucifer solleva un sopracciglio.
“Sei proprio un figo.”, conclude la Papessa.
“E che cosa è successo tra Thomas e tua sorella?”
“Quello che succede sempre quando alzi troppo la fiamma sotto la pentola dell’amore: attacca tutto sul fondo e brucia. Tu dovresti saperne qualcosa.”
“Non ho voglia di parlare di Molly.”
“Non intendo parlare di Molly.”
“Oh.”
“Peste. L’amore è come il brasato: va fatto cuocere per ore a fiamma dolce, e irrorarlo di vino in continuazione.”
Lucifer sorride. “Mi piace come spieghi le cose, Papessa.”
“Le conseguenze, comunque, si sono presentate inequivocabili e con una certa puntualità nella ventiquattrore dell’avvocato divorzista di mio padre qualche mese dopo che Thomas aveva iniziato a dormire sul divano.” La Papessa fa una pausa di riflessione che dura giusto il tempo della caduta di una goccia di pioggia. “Non che sia mai riuscito a dormire granché, in verità.”
Lucifer abbassa lo sguardo. La Papessa gli prende il mento con due dita e lo costringe a guardarla negli occhi. Ha gli occhi di una civetta, grigi e screziati di verde, e lo investe con la saggezza del trascendente, dell’eterno, dell’incenso. Gli occhi che probabilmente ha Dio. Lucifer rabbrividisce.
“Parla sempre, peste, fammi questa promessa. Il silenzio sta bene solo in bocca ai morti.”
Lucifer tace, anche se non è morto. La Papessa lo guarda come se potesse leggere il suo futuro da qui ai prossimi ventisette anni – che è un po’ il modo con cui guarda chiunque – e cioè con la compassione indulgente delle creature superiori. A Lucifer solitamente non piace che la gente provi compassione per lui, anche se il paradosso sta proprio nel fatto che è esattamente tutto ciò di cui ha bisogno. Alla fine, se uno mastica un po’ di etimologia latina e ci riflette su, compassione deriva da cum patior, che significa soffrire insieme, e in effetti Lucifer cerca solo questo. Il lettore tuttavia non deve mai cadere nell’errore di aspettarsi di sentire queste parole pronunciate dalle labbra del Diavolo; tiene troppo alla sua reputazione per ammettere una cosa simile.
“Dovrai impegnarti, lo sai? Da qui alla fine di quel lasso di tempo che vi è stato concesso in via del tutto eccezionale, tu dovrai impegnarti a ricordarle perché ha fatto bene a sceglierti.”
Lucifer assume d’un tratto uno sguardo mortificato. “Non sono nemmeno certo di saperlo io, come posso dirlo a lei.”
“E chi dovrebbe saperlo? San Pietro?”, ribatte la Papessa, caustica.
Lucifer agita le mani con stizza. “Per carità, non tiriamolo in ballo.”
La Papessa incrocia le braccia al petto e perde lo sguardo nella pioggia per quello che a Lucifer pare un anno e mezzo. “Thomas è un depresso. Molly una fuori di testa. Proprio letteralmente, nel senso che la troverai sempre in qualunque altro luogo che non sia sotto i suoi capelli. E’ nella pioggia, in una tazza di tè troppo zuccherata; in Cornovaglia. Ti assicuro che non è una ragazza facile da amare. Eppure.”
Lucifer sorride vagamente. Gli viene in mente che lui ha alzato le mani subito, non ci ha mai provato davvero, e da come lo guarda sa che anche la Papessa lo sa. Tuttavia non si sente in colpa. “Mi è bastato vedere Chloe e tutto ha preso forma nei contorni sfocati di ciò che ho sempre avuto davanti agli occhi. ”
“La vita non è un acquerello. Ha dei contorni, dei confini precisi. Devi riconoscerlo anche se non ci stai più dentro e preferisci romperli e crearne di nuovi.”
“Io l’ho fatto. Ho sempre sbroccato contro chiunque tentasse di imbrigliarmi in uno stampo predefinito. E guarda dove mi ha portato.”
La Papessa si accende un’altra sigaretta perché sa che la via è ancora lunga. Ne accende un’altra anche a Lucifer, che sbuffa in direzione dei crisantemi.
“Chloe non ti ha mai imbrigliato?”
Molly non mi ha mai imbrigliato.” Lucifer si ferma ad osservare le parole che sono scivolate fuori dalla propria bocca: levitano nell’aria e non si dissolvono, né salgono verso l’altro come palloncini. Rimangono sospese, galleggianti. Sono la lettera scarlatta che notifica tutto il mondo vegetale presente nel giardino di Belsize Park che Lucifer ha appena detto una Cosa Sensata in Cui Crede Davvero. Lucifer soffia una nuvola di fumo verso quelle parole, forse per scacciarle, ma queste non fanno un plissé.
“La bontà a volte è pericolosa. E’ il coltello che ti permette di frugare dentro te stesso.”
“Questo l’ha detta Franz Kafka.”
La Papessa gli rivolge un sorriso sorpreso. “Però.”
“Non ti stupire. Non siete gli unici a leggere libri, voialtri.”, ribatte lui, accomodandosi sulla sdraio.
“Sei sorprendente, peste.”
Lucifer non riesce a sopprimere un moto di lusinga che inizia a tirargli gli angoli della bocca.
Si osservano come il leone guarda il topo che gli ha levato la spina dalla zampa. Con amicizia.
“Un giorno ti parlerò del Diavolo dei Tarocchi Marsigliesi, peste.”, dice lei dopo attimi di silenzio rilassato. La pioggia continua a cadere, leggera; sembra essere presa anche lei da quella collisione di creature imprendibili e assurde, e ha quasi paura di disturbarle, cadendo sulle foglie delle piante e degli alberi. Ma non sui crisantemi. “Ti parlerò del Diavolo e ti spiegherò perché non ti assomiglia per niente.”
La pioggia rallenta un attimo la sua caduta per permettere a quelle parole di riverberarsi nell’aria, come il colpo di un diapason.
“E’ un bene che Chloe voglia imbrigliarti, peste. Fidati di me. Hai bisogno di essere contenuto da qualcuno, ed è meglio che sia con un abbraccio piuttosto che, non so, con una camicia di forza.”
Lucifer scoppia a ridere di gusto. “Lo terrò a mente. Grazie per il crisantemo.”, aggiunge poi. Appoggia una mano aperta sopra il taschino da cui fa capolino la testa del fiore, vicino al cuore. È proprio così. Si sente contenuto, e non sente più di doversi barcamenare per evitare che tutto strabordi fuori.
Non gli dà così fastidio, ora, la sua presenza vermiglia.
La Papessa gli strizza l’occhio; per un secondo, sembra che anche il crisantemo ricambi il gesto.
 
 
 
 
 
[…] sono spietata, esigo che svolgiate questo compito abbandonando,
per unirvi a me,
tutto quello che non è degno di essere il calice dove la divinità possa insediarsi.
Sono come quei templi in cui si praticano gli esorcismi,
dove bisogna togliersi le scarpe per entrare,
dove si purifica l’aria mediante l’incenso,
dove si lavano i credenti con l’acqua benedetta.

(Arcano II, la Papesse.
La via dei Tarocchi, Jodorowsky)
 
 
 
 
 
 
“Cosa ci fate fuori? Vi beccherete un malanno.”, dice Molly, sporgendosi di tre quarti dalla portafinestra aperta: i capelli le ricadono lunghi e mossi su una spalla, e l’aria s’impregna improvvisamente del profumo dello zucchero caramellato.
“Vieni.”, le fa la Papessa, battendo un palmo sulla sdraio di fianco a lei. Molly non se lo fa ripetere due volte. Indossa la giacca e il cappello e zompetta verso i due.
“Ciao, bambina.”
“Mio angelo.”, lo saluta la ragazza, molestando la Papessa mentre cerca le sigarette.
“Oggi mia figlia ha strappato cinque o sei pagine dal Deuteronomio dalla Bibbia del signor Melrose e se le è mangiate di gusto. Mia suocera ha inorridito.”, li informa Molly, accendendo una sigaretta. Sbuffa in faccia a Lucifer. “Dovevo immaginarlo che sarebbe diventata un’anarchica della legge di Dio.”
Lucifer sorride. “La mela non cade lontana dall’albero.” Molly gli tira un calcetto amichevole sullo stinco.
“Verissimo.”, accorda la Papessa, saggiamente. “E comunque la mamma di Thomas ha l’inorridimento facile. Non la prenderei sul personale.”
“Di cosa stavate parlando?”
“Del fatto che sei matta, che Thomas è depresso, che l’amore non deve bruciare, bensì rosolare.”, stila la Papessa, burocratica. Lucifer annuisce.
“Lucifer dice che non l’hai mai imbrigliato.”
Molly alza le spalle. “E chi ci vuole anche solo provare, a tenere questo qui? Dovrebbero chiamarlo Furia Cavallo del West.”
Che beve solo caffè.”, canticchia Thomas, comparendo anche lui avvolto in un cappotto scuro. “Fammi posto, piccina.”
Sono in quattro su due sdraio; le sdraio in questione iniziano a emettere dei vagiti pietosi sotto tutto quel peso.
“Lucifer dice sono matta.”, lo informa Molly, dopo essersi appoggiata con la schiena sul petto di Thomas. Gli passa la sigaretta.
“Lucifer ha ragione.”
Lucifer si strozza con il fumo. Si volta verso Thomas, che intanto stringe Molly contro di sé, come a volerla proteggere dai venti del nord e dai fantasmi.
“Come hai detto?”, chiede Lucifer, sbalordito.
“Ho detto che hai ragione: è matta. Matta come un cavallo.”
“Se questa cosa ha messo d’accordo Lucifer e Thomas deve essere vera per forza.”, borbotta Molly, che in realtà è pienamente consapevole di non essere del tutto registrata. Thomas le fa un buffetto sul naso.
“Dov’è Chloe?”, chiede la Papessa.
“Dorme. Sta facendo un pisolino.”
“Non ti ho mai saputa prendere.”, dice Lucifer improvvisamente.
Gli occhi di Molly e quelli di Thomas si piantano su di lui come fanali.
“Non ti ho mai capita. No, non è esatto.” Il suo sguardo ricade sui crisantemi, come se potessero suggerirgli cosa dire. Sorprendentemente, le parole vengono a galla come bolle in un calice di vino frizzante. “Non capivo perché non volessi niente in cambio. Tu mi guardavi con quegli occhi che traboccavano di devozione, e io cercavo dentro di me come un forsennato, strappandomi lembi interi di tessuti cardiaci per trovare quello scintillio che vedevo specchiarsi nei tuoi occhi. Dove lo vedevi?, mi dicevo. E soprattutto, perché io non potevo vederlo? Ad un certo punto ho anche pensato che fossi una povera pazza, o che avessi qualche tipo di disturbo allucinatorio, quantomeno. Poi ho pensato che se per te nutrirti di questa illusione era importante, chi ero io per togliertela? E quindi abbiamo continuato a vederci, a parlare di cose che sembravano non c’entrare nulla con la… situazione di Chloe, forse nemmeno con l’amore; abbiamo continuato a fare sesso-”
Qui Lucifer si deve fermare perché sente che lo sguardo di Thomas si è intensificato, e teme da un momento all’altro che potrebbe estrarre dalla giacca un’ascia bipenne. “Con rispetto parlando.”, aggiunge, come a volersi giustificare.
Molly lo guarda con il capo piegato, e senza fiatare prende una delle mani di Thomas: sta stringendo il bracciolo così forte da sbiancarsi le nocche; la prende e se la porta alle labbra, dove ci lascia un bacio delicato, appoggiandosela poi sul torace.
La Papessa fa come Dio: assiste senza intervenire.
Lucifer segue quei movimenti con lo sguardo, per poi piantare gli occhi in quelli di Thomas. Eccolo, lo ha visto chiaramente, ora: il serpente che lampeggiava negli occhi si è appena ritirato nei suoi meandri oscuri, e ora di fronte a lui c’è solo un uomo dagli occhi tristi, eppure inspiegabilmente sereni. Molly gli tiene stretta la mano nelle sue, e il respiro di Thomas torna regolare. Lucifer non può capire che certe persone riescono ad accomodarsi nella propria tristezza. Ma è un altro discorso.
“Sono consapevole che non le stesse facendo bene come diceva.”, continua poi Lucifer, recuperando fermezza nella voce. “Lo notavo. Non sono stupido. Sono solo terribilmente egoista.”
“Ne parlate come se mi stessi consumando.”, ribatte Molly, cercando di ridimensionare.
Lucifer le rivolge uno sguardo preoccupato. “Ti stavi consumando.”
Thomas preferisce non pronunciarsi. Molly storna lo sguardo. Meno male però che esiste la Papessa, che infatti è dotta nell’arte di non far cadere gli animi e le conversazioni.
“Avete presente quel punto in Wuthering Heights in cui Heathcliff e Edgar Linton si scornano, e Catherine per il dispiacere di non sapere tra quale dei due scegliere inizia ad impazzire? Smette di mangiare per attirare l’attenzione, di dormire, di parlare con chiunque.”
Tutti si voltano verso la Papessa. Lei sostiene gli sguardi come l’oratrice che è, e prende una sigaretta dal pacchetto che Lucifer le sta offrendo. La accende. “Lo fa perché a volte impazzire, annullarsi, è l’unico modo per recuperare le redini delle cose. A volte bisogna consumarsi per rendersi conto di essere ancora vivi. Non importa se quella che stai guidando sia una vettura in fiamme e diretta inevitabilmente verso un precipizio. E’ sempre meglio che scoprire di essere legato ed imbavagliato nel baule, mentre qualcun altro sta guidando.” Si volta verso Molly, che la guarda con una luce sinistra negli occhi. “Non è così, tesoro?”
Cala il silenzio della riflessione collettiva. La Papessa ha l’espressione dell’arciere che ha incoccato la giusta freccia; non basta che prendere la mira e lasciarla andare.
“Dicevo che questo teatrino tragicomico mi ricorda terribilmente quel capolavoro di letteratura che è Cime Tempestose; e se ormai è chiaro che Lucifer sia Heathcliff, il bastian contrario per eccellenza, l’orfano che si impunta a tutti i costi di diventare il cattivo che tutti vogliono che sia, devo dire che sto avendo i miei dubbi a posizionare voialtri. Sarebbe scontato dire che Molly o Chloe siano Catherine, anche se, come ho poc’anzi spiegato, gli atteggiamenti sono egualmente infantili e distruttivi. Ci penserò ancora un po’, miei cari.”
“Tienici aggiornati, te ne prego.”, risponde Molly, caustica, roteando gli occhi. Non le è mai piaciuto granché, Cime tempestose, tuttavia concorda parzialmente con la Papessa; ora come ora però è stanca, e non le va di discutere ulteriormente.
“Vado a chiamare mia madre.”, annuncia Thomas, alzandosi dalla sdraio. Tende la mano a Molly, che tuttavia la rifiuta con un sorriso. “Resto fuori ancora un po’.”
Lucifer guarda Thomas con un’intensità diversa dal solito. Gli sembra di vederlo per la prima volta. “Ti posso parlare, più tardi?”
“Certo.”
La Papessa lancia uno sguardo ai due uomini che entrano in casa, lunghi, eleganti e piegati dal peso delle conversazioni. Sorride, pensando che gli uomini non sono proprio ontologicamente programmati per sostenere certe cose. Glissa lo sguardo su Molly, che dal canto suo invece è sempre uguale al solito: i capelli morbidi e profumati sono leggermente arricciati dall’umidità della pioggia, e gli occhi scuri osservano la brace della sigaretta che le si consuma tra le dita come se volesse ravvivarne la fiamma con la forza del pensiero. Lo smalto blu applicato di fresco crea un contrasto incredibile con il pallore della sua pelle. Ogni traccia della California è sparita dal suo corpo, e il clima umido e piovoso dell’Inghilterra ha risvegliato nel suo corpo i colori tenui delle persone che non prendono abbastanza sole. Il fatto è che il cuore di Molly pulsa come una palla di fuoco, e non si è mai trovata troppo bene nei luoghi caldi; ha bisogno dell’escursione termica, per acclimatarsi.
“Non è vero che sei Catherine, tesoro.”, prorompe la donna dopo un po’.
Molly sobbalza, e si volta a guardarla.
“Se lui è Heathcliff, e accettiamo che Chloe ogni tanto sia Catherine; se Thomas è certamente quel pover’uomo di Edgar Linton, e se tutta questa situazione certamente avrebbe offerto alla signorina Brontë un ottimo spunto per un sequel…” Molly ride, scuotendo la testa. La Papessa le prende il viso con una mano inspiegabilmente calda. “… in tutto ciò, tu sei certamente la brughiera, piccola. Sei lo scenario ventoso e ululante in cui tutti questi poveri dannati vagano, e in cui tutti si perdono. Sei una forza della natura.”
“Tu invece sei una delle pecore di Thrushcross Grange che si scoccia di tutto.”, risponde Molly, sorridendo.
La Papessa volge gli occhi al cielo, scuotendo la testa.
Molly sospira. “A volte credo che avrei fatto meglio a non raccontarti nulla.”
“Mi hai raccontato molto poco, in realtà. Soprattutto, ho un grande vuoto temporale che va dal momento in cui ti hanno prelevata dalle macerie dell’auto alla dimissione dall’ospedale.”
“E’ stato un periodo strano, Papessa.”, sospira Molly, spegnendo la sigaretta nel posacenere. “E come puoi ben immaginare, per l’equilibrio psicofisico già precario di Thomas è consigliabile che non sia presente, quando te ne parlerò.”
La Papessa piega la testa di lato.
Molly sente una strana morsa attanagliarle lo stomaco. “Ha smesso di piovere. Entriamo.”
 
 
 
 
 





 
“Hai detto che io ti ho ucciso: allora perseguitami!
Le vittime perseguitano i loro assassini.
Io credo,
io so che i fantasmi vagano sulla terra.

Resta con me per sempre… prendi qualunque forma…
Fammi impazzire!”
(Wuthering Heights, XV)
 
 
 


 
 
 



 
 
 
 Dunque.
I miei ringraziamenti vanno in primissimo luogo a Chet Baker, che con la sua voce vellutata mi ha permesso di mantenere un certo livello di sanità mentale in questo periodo, e soprattutto mi ha tenuto distratta da questo pensiero fisso che ho da giorni di comprare delle sigarette molto forti.  
La seconda risma di ringraziamenti va assolutamente a quella dritta di Emily Brontë, che è riuscita a farmi piangere per un libro per la prima volta in vita mia (per il signore e tutti i santi, leggete Cime Tempestose).
Ringrazio inoltre l’amico che l’altro giorno mi ha detto ‘Mi piaci. Mi piaci perché sei pazza’ , e io onestamente non ho trovato argomenti per contraddirlo, così ho detto solo grazie e gli ho mandato qualche citazione da Lewis Carroll per iniziare a dargli un assaggio di ciò che succede nella mia testa.
Ringrazio sentitamente anche la bambina a cui faccio da babysitter che, dopo avermi guardata intensamente con lo sguardo di chi sa Tutto e non dice Niente, mi ha appiccicato un pezzo di pongo rosa sul calzino che penso rimarrà lì nei secoli dei secoli. (Amen)
Ringrazio ovviamente anche Voi per le cose bellissime che mi avete scritto, sia in recensione che in privato, perché anche quando stavo per mollare questa cosa stramba sui Crisantemi mi avete fatto capire che ne vale comunque la pena.
E quindi facciamola valere, per Diana.
Chiudo con una piccola citazione di quella vecchia volpe di Gertrude Stein, che secondo me ci calza proprio a fagiolo con questo periodo strambo:
 
The subject matter of art is life, life as it actually is; but the function of art is to make life better.
 
Vi bacio immensamente.
Sempre vostra,
Y.

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Capitolo 9
*** Desperado ***


9
Desperado
 
 
 

 
 
“Ieri il fruttivendolo mi ha regalato una cassa di carciofi.”
“Eh, e quindi?”
“Niente, ti ho pensato.”

(mia madre, al telefono)
 


 
 
 
Sono seduti sulle poltrone nello studio di Thomas da qualche minuto, ma potrebbero anche essere passati due secoli.
L’uno biondo con occhi chiari e attenti, l’altro moro e dallo sguardo scuro, opaco. Indecifrabile. Si scrutano con una freddezza che vorrebbe congelare sul nascere qualsiasi tentativo di convenevoli.
Tra loro, un buon metro e mezzo occupato da astio inossidabile e un tavolino da caffè in ciliegio.
Come a voler sventolare bandiera bianca, ad un certo punto Lucifer si allunga e lancia il pacchetto di sigarette sul tavolino in modo che l’uom di fronte a lui possa servirsene. Accompagna tutto con un veloce cenno del capo; Thomas rifiuta, alzando una mano. “Ho fumato abbastanza, in questi giorni.”
Lucifer annuisce. Si accende la sua sigaretta e sbuffa verso l’alto.
“Di cosa volevi parlarmi?”, chiede Thomas, senza preoccuparsi troppo di risultare sbrigativo. Il sole sta calando, e così la sua pazienza. Lucifer scrolla le spalle. “Di Chloe.”
“Non sono certo di essere la persona adatta.”
“Se ti ha baciato evidentemente lo sei.” Lucifer vorrebbe con tutto sé stesso poter pronunciare questa frase senza mostrarsi infastidito, ma certe cose sono sfuggevoli ad ogni briglia, e non si possono controllare. Il labbro superiore gli trema leggermente.
Thomas non può fare a meno di sorridere. “Pensavo l’avessimo chiuso, questo argomento.”
“Davvero?”, ribatte Lucifer, rivolgendogli quello sguardo obliquo ed ironico che a Thomas fa venire voglia di tirargli il primo soprammobile che gli capita tra le mani. “Lo pensi davvero?”
Thomas alza un sopracciglio. Ha abbassato gli occhi verso il piccolo elefante di giada sul tavolino. Abbastanza contundente?, si chiede. Alza gli occhi verso Lucifer.
Lucifer si sporge in avanti e stringe gli occhi in due fessure; cerca di metterlo a fuoco. “A cosa pensi, Thomas Melrose? Che cosa vuoi dalla vita?”
Thomas ride, offensivo, e distoglie lo sguardo. Un veterano nell’arte della dissimulazione. “Ora come ora quello che voglio non credo ti piacerebbe.”
Lucifer si riappoggia allo schienale, giungendo le mani sotto il mento.
“Vorrei sapere quello che piace a te. Dimmi.”, dice, con una voce di velluto.
Thomas è un uomo razionale.
E’ lucido, sempre e comunque.
Non è fisiologicamente in grado di distrarsi, ed è per questa ragione che soffre di depressione da quando ne ha memoria. Non si è mai concesso di vagare troppo con la mente, e questa reclusione coatta che si è auto-imputato non ha fatto che trascinarlo lentamente nelle sabbie mobili di uno stato depressivo costante, una sorta di coperta tiepida che gli avvolge le spalle costantemente e che non sente di avere la forza di scrollarsi di dosso.
E’ per questo che sulle prime vorrebbe ridere in faccia a Lucifer, dirgli che è un povero idiota e che queste pantomime ormai non fanno leva neanche sui bambini, e che quest’aura maliziosa e trascendente da Nuovo Samael non inganna nessuno. Vorrebbe semplicemente dirgli: non attacca.
Eppure, deve sempre esserci un ‘eppure’.
Dal momento in cui Lucifer gli ha puntato gli occhi addosso, si si è trovato catapultato in uno spazio altro, pulsante e claustrofobico come le spire di un serpente. Fa improvvisamente caldo; sente una febbre anomala, malsana fiorirgli tra le tempie, e la sua gola si prosciuga come se fosse disperso nel deserto da settimane.
Cerca di alzare una mano per scostarsi una ciocca di capelli dalla fronte ma si accorge con ascendente terrore che non riesce a controllare più nulla. È come se qualcuno non glielo permettesse. Un sudore gelido come il sussurro di un fantasma inizia ad imperlargli il retro del collo.
“Cos’è che davvero desideri?”, ripete Lucifer, le mani giunte davanti alla bocca e gli occhi lampeggianti. Una saetta rossa squarcia quell’iride nera, la apre come una ferita.
Thomas sente di sprofondare nella poltrona, sempre di più, e le estremità iniziano a formicolare. I suoi muscoli sono improvvisamente pesanti e gli pare quasi di sentire il sangue che affievolisce il suo corso nell’arteria brachiale, fino a fermarsi del tutto. Gli sembra di notare come l’atmosfera che li circonda si stia facendo sempre più buia; sono penetrati in una nube di vapore denso come il fumo di una sigaretta, solo più scuro e dieci volte più irrespirabile.
“Io…”, inizia Thomas.
Non riesce a spiegarlo, non potrebbe neanche se volesse. Non vuole parlare, cazzo, non vuole, ma è come se qualcuno avesse calato un amo nella sua gola e stesse tirando con tutte le proprie forze per derubarlo di alcune parole che si dimenano come anguille per non uscire dalla sua bocca. “I-io…”
Non serve a niente… Resistere è inutile, sembra sussurrare qualcuno vicino alla sua guancia, e la pelle si costella di brividi gelidi.
Arrenditi…
“Dimmi, Thomas... Ti sto ascoltando.”, continua Lucifer, calmo e fermo; una voce di velluto che tuttavia quando incontra l’aria sfrigola come se volesse bruciarla.
Thomas sente di star perdendo il controllo, ma non sa di cosa. Sa solo che qualsiasi cosa stia combattendo per uscire non si darà per vinta tanto facilmente.
Alla fine, è lui che non regge.
“Io voglio solo trovare un modo per smettere di odiarti.”
Deve fare appello a tutte le proprie forze per non crollare come uno straccio bagnato.
Si sente improvvisamente lasciato andare, e l’aria fresca che  riempie nuovamente i suoi polmoni bollenti lo ferisce, quasi.
Thomas fissa il vuoto da dietro gli occhiali, e boccheggia.
Gli tremano le mani.
Deglutisce a fatica.
Saetta gli occhi verso Lucifer, che fuma disinvolto con le gambe accavallate. Lo sta guardando come se potesse sentire il rimbombo del suo cuore; sorride compiaciuto.
Thomas allunga una mano per prendersi una sigaretta. Le sue dita non accennano a voler smettere di tremare mentre cerca di accenderla.
“Smettere di odiarmi, uh?”, dice Lucifer dopo un po’, osservando la brace della propria sigaretta.
A scapito della temperatura febbrile che aveva raggiunto il suo corpo pochi istanti prima, ora Thomas sente un gran freddo penetrargli direttamente nelle ossa. Si porta la sigaretta alla bocca e aspira come da una bombola di ossigeno.
Me lo sono immaginato.
E’ stata autosuggestione.
Lucifer lo osserva, e più Thomas si dimostra confuso e attonito, più l’altro sembra man mano recuperare il suo fastidiosissimo charme. Sorride lievemente. “Perché mai vorresti smettere di odiarmi?”
Thomas alza lo sguardo su di lui; un po’ di cenere si stacca dalla sigaretta e precipita sui suoi pantaloni. “Di cosa cazzo stai parlando?”, chiede, e la sua voce si spezza come un grissino.
“Beh, hai detto che vorresti smettere di odiarmi.”, ribatte Lucifer, facendo spallucce.
“Ho detto che vorrei smettere di odiarti?”
“E’ quello che hai detto.”
“Ah.”
Thomas rimane a fissare un punto oltre la testa di Lucifer, tremante e confuso. Si porta la sigaretta alle labbra.
Aspira.
Apre la bocca per dire qualcosa, ma esce solo un cirro di fumo grigiastro.
Lucifer alza un sopracciglio, incoraggiandolo a continuare.
Thomas richiude la bocca.
Deglutisce a vuoto.
“Va… Vado a farmi una tazza di tè.”, sussurra, alzandosi a fatica dalla poltrona.
Lucifer sorride.
“Earl Grey, due zollette e una goccia di latte.”, gli dice, mentre Thomas sta per imboccare la porta; Thomas si volta al rallentatore. “Molte grazie, Tommy.”
 
 
 
 
Desperado
Sitting in a old Monte Carlo
A man whose heart is hollow, uh


Take it easy
I'm not tryna go against you
Actually,

I'm going withcha.
(Desperado, Rihanna)
 
 
 
 
 
Thomas entra poco dopo con due tazze di porcellana a fiori in mano. Si siede come un automa alla poltrona; allunga una tazza a Lucifer.
“Va meglio?”, chiede Lucifer, soffiando sul tè fumante.
Thomas sospira; il liquido caldo e familiare effettivamente sta ricacciando quei brividi in qualunque bocca dell’inferno siano usciti. Chiude lievemente gli occhi. “Sì. Sì, va meglio.”
“Dunque è proprio vero, quel che si dice di voi inglesi.”
“Eh?”
“Di voi inglesi.”
“Di noi inglesi?”
“Del tè.”
“Ah. Sì. Una faccenda quasi sacra.”
“Noto.”
“Lucifer.”
“Thomas?”
“Cosa cazzo è appena successo?”
Lucifer fa spallucce. “Mi hai fatto una confidenza.”
“No.”
“Sì.”
“No. No. Io… io non volevo dirtelo.”
“Una piccola parte di te sì, evidentemente. Moriva dalla voglia di dirlo.”
“No.”
Lucifer sbuffa. “No, no, no… è solo questo che sai dire?”
Thomas apre la bocca per ribattere ma non sembra riuscire a stare al passo con la velocità con cui il suo cervello sta macinando le informazioni.
Chiude la bocca.
Prende un altro sorso di tè. “No.”
Lucifer lo guarda di sguincio.
“I-Io non… non volevo dirti un bel niente.”, balbetta Thomas. Punta gli occhi su Lucifer, che ha ancora quella faccia strafottente che lo manda puntualmente in bestia. Prende un sorso e recupera un minimo di fermezza. “Tu volevi parlare con me.”, replica, puntandogli un indice tremante.
“Di Chloe.”
“Sì. Sì, di Chloe. Beh?”
Beh cosa?”
“Non mi pare di essere prossimo al trasformarmi in un ovino ottuso.”
Lucifer sorride e vorrebbe dire questo lo dici tu, ma per amore di Molly si è promesso di fare il bravo, quindi annega la sua linguaccia in un sorso di tè.
Thomas scuote la testa e corruga la fronte. “Perché vuoi parlare di Chloe con me? Non la conosco, io.”
“Allora diciamo che voglio parlare di Chloe in sé.”
“In sé?”
“In sé.”
La Papessa, come d’abitudine, irrompe nella stanza come una folata di vento. “Qualcuno vuole del tè?”
“Già c’è.”
I tre si guardano.
Quell’esubero di parole tronche riecheggia nell’aria come una filastrocca di Lewis Carroll. La Papessa glissa lo sguardo sui due uomini, che la guardano come roditori istupiditi; capisce velocemente di essere di troppo, oppure di non averne per le palle di mediare alcun combattimento tra galli, in quel momento, e quindi esce dallo studio. Mentre si richiude la porta alle spalle sussurra un ooookkkkkkaaaaaay che riempie una vita intera.
Thomas guarda l’aria di fronte a sé come se fosse appena comparso un integrale che deve risolvere a mente.
“Facciamo che prendiamo una bottiglia di brandy?”, dice dopo un lungo silenzio. “Non penso proprio di poter reggere questa conversazione da sobrio.”
“Mio caro.”, dice Lucifer, appoggiando la tazza sul tavolino di ciliegio. “Se mai dovessi risponderti di no, ti autorizzo a rinchiudermi nel reparto di igiene mentale dell’ospedale più vicino.”
 
 
 
 
 
 
Due nemici sono lo stesso uomo dimezzato.
(E. Cioran)
 
 
 
 
 
“Chloe… Mh… Chloe è una donna instancabile ed esausta. E’ intelligente e acuta, e allo stesso tempo è insicura. E’ forte come un carro armato, e fragile come una farfalla di cristallo. E’ bellissima. E’ determinata, e tuttavia sempre pronta a dissuadersi dal perseguire quello che la farebbe stare bene. E’ la persona meno egoistica che io abbia mai visto. E’ sempre disponibile. Aperta, genuina solo con chi le vuole davvero bene, con gli altri è una porta chiusa a tripla mandata. E’ di un’onestà lacerante.”
“…e che cazzo ci fa con un uomo come te?”
Lucifer alza gli occhi al cielo; ecco, ha perso il filo del discorso.
Thomas lo osserva stravaccato sulla poltrona, il bicchiere semivuoto in equilibrio sul petto. Non si è ripreso del tutto, ma nella sua modesta esperienza sul pianeta Terra ha imparato che a volte è meglio evitare di farsi troppe domande – specie se  hai il presentimento che la risposta potrebbe non piacerti.
“Non mi aiuti, Thomas.”
“E’ questo quello che vuoi, quindi? Il mio aiuto?”
Lucifer ci pensa su. Con fatica riporta lo sguardo sull’uomo davanti a sé: allunga i piedi sul tavolino e per poco non fa cadere la seconda bottiglia di brandy che hanno aperto.
Thomas si sveglia improvvisamente; alza un indice come un cartellino di ammonizione. “Leva quei piedi dal mio tavolino.”
Lucifer per tutta risposta agita una mano come a voler scacciare un moscerino. Sospira anche lui. “Forse sì… Forse ho bisogno di aiuto. E prima che tu faccia battute che non hanno mai fatto ridere: sono già in terapia, grazie tante.”
“Anche io. Non serve a un cazzo.”, ribatte Thomas, osservando con gli occhi storti il dito di brandy nel suo bicchiere, che segue i movimenti verticali del suo petto mentre si alza e si abbassa; non ha più freddo, ora. Gli si è intiepidito il petto e alleggerita la mente, e si sentirebbe in una culla di morbido cotone se la voce di Lucifer non arrivasse a ferirgli i timpani come la lama di un rasoio. Il colore del brandy nel bicchiere gli ricorda la sfumatura di capelli di Molly quando sono andati in Liguria, l’estate precedente. Sente il profumo dei limoni e del mare, e improvvisamente sorride.
“A me serve invece, e anche molto.”, continua Lucifer, e passa l’indice sul bordo del suo bicchiere.
“Leva i piedi.”, ripete Thomas, più infastidito dal senso di agio che ha spinto Lucifer a compiere quel gesto che per vero e proprio interesse nei confronti del tavolino di ciliegio. “Non mi sembri una creatura riflessiva.”
“Rifletto, rifletto…”
“Io lo faccio troppo. Sono tipo uno specchio.” Thomas pensa un secondo. “Uno specchio rotto, forse.”
“Sette anni di guai.”, gli fa eco Lucifer, saggiamente.
“Fai pure quarantadue. Ma non è questo il punto.”
“E il punto qual è?”
I due uomini si fermano a guardarsi come se si fossero improvvisamente persi di vista nella nebbia di alcool.
Thomas alza le spalle. Lucifer pure.
“Ci verrà in mente.”
“Senz’altro.”
“Dell’altro brandy?”
“E perché no.”
Lucifer fa gli onori.
Bevono silenziosamente.
“Dicevi, Chloe.”, gli fa Thomas dopo aver bevuto.
Lucifer fa un verso d’assenso. “Chloe. Già.” Assume l’espressione di chi ha perso il segno nel libro che sta leggendo. “Chloe.”
“Che diamine ci fa Chloe con uno come te?”
Lucifer, come di consueto, la prende sul personale. “Cosa ci fa Molly con uno come te.”
Thomas ride, perché Lucifer è davvero tenero se pensa di riuscire ad insultarlo. “Oh, vecchio mio, me lo chiedo in continuazione.”
Non è la risposta che Lucifer si aspettava, e questo glielo si legge chiaramente negli occhi.
Thomas ridacchia. “Capirai che è difficile offendere gli uomini tristi.”
Lucifer riflette. Effettivamente non si può definire un uomo triste. Non la sa gestire la tristezza. Impazzisce, quando si sente triste. E si offende molto facilmente. Lucifer quindi conclude che no, non è un uomo triste. E forse questa è la differenza più evidente tra sé stesso e Thomas. Prende un sorso celebrativo di brandy. Si dice che sta proprio migliorando, con l’introspezione personale.
“Molly…”, si lascia sfuggire Thomas, anche lui perso a meditare. “Quella ragazzina… Finiremo per rovinarla, lo sai vero?”
“Non dire così. Lei sa che può contare su di te.”, ribatte Lucifer, e nel vedere lo sguardo di rammarico che gli rivolge Thomas sente una strana fitta al petto. Com’è che si chiama? Empatia? Lucifer non ne è certo; sa solo che non gli piace. Non riesce più a prenderlo in giro, con quegli occhi mesti e severi, e gli occhiali che scivolano sul naso, e quel sorriso malinconico che gli ha teso le labbra sottili.
“Sono io che non posso contare su di me.”
“Molly stravede per te.”
“Oh, ti prego. Non dirmi così, rischi di spezzarmi definitivamente il cuore.”, ribatte Thomas, nascondendo l’amarezza di quell’affermazione con una risata roca. La butta giù insieme ad un grosso sorso di brandy. Porge poi il bicchiere verso Lucifer. “Versa.”
Lucifer obbedisce.
“Noi due non ci meritiamo quelle donne.”, dice Thomas, dopo aver osservato per lunghi minuti la luce che si riflette nel liquido ambrato. Gli pare di sentire la consistenza setosa dei capelli della ragazza tra le dita. Un profumo di limoni e la dolce sensazione di labbra vellutate sul suo petto. La vorrebbe sulle sue ginocchia in quel preciso istante.
“Donne così non dovrebbero stare con uomini come noi. Così incasinati e tossici.”
“Io non sono tossico con Chloe.”, si difende Lucifer, leggermente risentito.
Ora Thomas lo guarda con tenerezza. “Felicitazioni, allora. Beato te.”, ribatte, prendendo un sorso di brandy. Si illumina improvvisamente. “Forse ho capito perché ti odio, Lucifer.”
Lucifer si siede in punta alla poltrona.
“Ti odio perché guardare te è come guardarmi allo specchio.”
Non è proprio per niente quello che Lucifer si aspettava, e forse nemmeno Thomas si sarebbe mai aspettato di pronunciare una frase del genere. Ma la vita è una barzelletta e Dio un grandissimo buontempone, e gli piace da matti giocare coi fili delle coincidenze, intrecciandoli e mischiandoli, per poi gettarli tra le mani degli uomini e sedersi divertito in punta ad una nuvola per godersi lo spettacolo di vederglieli sbrogliare.
Thomas appoggia il capo ad una mano, e socchiude gli occhi. La sua mente è un sadico proiettore, e gli propone per l’ennesima volta lo stesso filmato da due anni a questa parte.
 
 
 
C’è una sala d’attesa, e c’è Thomas con un libro in mano; non lo sta davvero leggendo, è troppo impegnato a fissare con intensità inquietante la porta dietro cui Molly sta discutendo con Lucifer e Chloe da una buona mezz’ora.
Non c’è niente che dobbiate dirmi che non possiate dire davanti a Thomas, aveva detto la ragazza; ma di fatto, dopo che i dottori si erano accertati che l’accesso di risa che le aveva preso non fosse legato all’impatto col cruscotto, lei aveva chiesto di parlare sola con Lucifer e Chloe. Thomas aveva stretto i pugni finché le nocche non erano sbiancate. Aveva semplicemente annuito, ed era uscito, chiudendosi la porta alle spalle.
Si era seduto su una sedia in polietilene di un colore discutibile, con un saggio di Georges Bataille sulle ginocchia che non aveva intenzione di leggere, e lo sguardo fuso per osmosi ai numeri appesi alla porta.
Non gli piaceva, Lucifer, quello sbruffone con quel nome d’arte biblico e vagamente pretenzioso. Non gli piaceva il marcato accento inglese con cui si rivolgeva a lui, come se volesse sfotterlo, e non gli piacevano tutte le attenzioni che dedicava a Molly, come le carezzava le guance con le dita o le sistemava i capelli dietro un orecchio.
Solo Thomas poteva sistemarle i capelli dietro un orecchio.
Thomas veniva da una formazione classica, e conosceva il mito di Persefone a memoria, come le preghiere che gli avevano insegnato in collegio; Molly gli aveva sempre ricordato la piccola dea della primavera che era stata ingannata da Ade e si era ingenuamente cibata di piccoli semi di melagrana, legandosi così per sempre alla vita tra le ombre.
Ricorda ancora con estrema chiarezza quella sera in cui Molly aveva ricevuto una chiamata da quel misterioso signor Morningstar: si era alzata dal letto, aveva indossato la sua camicia azzurra e il cardigan color panna ed era scomparsa in soggiorno; l’aveva solo sentita  girare la poltrona verso la portafinestra e iniziare a discutere sottovoce. Lui era rimasto a letto, svestito e aggrovigliato nel lenzuolo, con gli occhiali appoggiati sul petto. Avesse potuto, si sarebbe anche svitato le orecchie per evitare di carpire anche solo una piccola parte di quella conversazione.
“So che non lo stai chiedendo perché lei ti sta ascoltando. Ma sì, certo che sono ancora innamorata di te.”
Aveva chiuso gli occhi, forte, sperando che gli schizzassero fuori dalle orecchie.
Molly era poi tornata nella camera con uno sguardo completamente fuori fuoco e un sorriso tutt’altro che rassicurante sulle labbra. Si era svestita e gli si era seduta a cavalcioni: ciocche bionde color grano le incorniciavano un viso che aveva da poco ricominciato a riempirsi e a recuperare il colore di pesca che si addice alle ragazze in salute.
“Devo andare a parlare con un amico.”
Thomas aveva deciso di tentare con l’approccio umoristico. “Con coso, come si chiama… Calcifer?”
Molly si era illuminata per un attimo, aveva ridacchiato, e il cuore di Thomas aveva fatto una capriola.
“Lucifer.”, lo aveva corretto lei, dolce e timida e tutt’altro che ingenua.
“Sì, beh.”
“Viene a prendermi tra poco.”
“Okay.”
“Non ti sto chiedendo il permesso, lo sai?”
Thomas l’aveva baciata famelico, come se effettivamente volesse inghiottirla e tenerla dentro di sé, al sicuro da tutti – in particolare da quel dannato Plutone anacronistico.
L’aveva stretta forte e avevano fatto l’amore di nuovo, giusto per ricordarle che no, non doveva chiedergli il permesso di nulla, ma doveva tenere bene a mente un paio di punti riguardo la situazione corrente.
Malferma sulle gambe (a Thomas piaceva ridurla un mucchietto di gelatina quando la scopava, e a lei questo faceva letteralmente impazzire), Molly si era poi vestita e pettinata per incontrare Calcifer Morningstar.
“Sei troppo bella.”, aveva commentato Thomas, osservandola nel suo vestitino estivo a fiori, i capelli che lambivano le clavicole e una bocca rossa e turgida di baci. “Ti porteranno via da me.”
“Ci devono solo provare.”, gli aveva risposto lei, piegandosi poi sul letto per dargli un ultimo bacio, prima di scomparire come un sogno.
Pioveva.
Thomas si era affacciato al balcone con una t-shirt addosso e i capelli sconvolti. Osservava l’incontro dall’alto, Lucifer appoggiato alla Corvette e Molly che, incrociando le braccia, cercava di mostrarsi adulta e matura. Così piccola, pensava Thomas con una crepa nel cuore che, sapeva, non avrebbe fatto altro che allargarsi.
 
Thomas abbassa gli occhi sulla pagina nel momento in cui sente la maniglia girare. Lucifer e Chloe escono dalla stanza come se abbiano appena fatto il riconoscimento di una salma all’obitorio: la donna ha profondi solchi bluastri che specchiano il colore delle sue iridi, e un’espressione che non tenta nemmeno di nascondere il suo disagio nel trovarsi lì, al capezzale della ragazzina che l’aveva preceduta nel letto di Lucifer.
Thomas chiude il libro con una certa violenza e si alza, andandogli incontro.
“Ebbene?”, chiede, e a causa della stanchezza che si porta dietro da giorni non riesce a mantenere il suo solito schermo di compostezza.
“Abbiamo parlato di Pierce.”, gli risponde Lucifer, con un tono che velatamente insinua un non preoccuparti, non puoi capire.
“Chi è questo Pierce.”, chiede Thomas, secco, senza punto di domanda.
Chloe deglutisce a vuoto. “L’uomo che avrei dovuto sposare.” Esita per un istante; a Thomas pare anche troppo.
“Quella ragazza ha rischiato la vita…”, dice, e non può impedire alla propria voce di incrinarsi. “E’… E’ incinta, per Dio… e… che razza di persone siete? C-come avete potuto permettere che succedesse una cosa del genere?”
Sente un confuso ronzio nelle orecchie, e si guardò intorno per cercare di capire da dove venga; i polmoni non si dilatano come dovrebbero, e il risultato è che non riesce a prendere abbastanza aria. Non sei un po’ troppo vecchio per gli attacchi di panico?, dice una voce dentro di lui, e si costringe a calmarsi.
Lucifer tenta di posargli una mano sulla spalla, ma Thomas si ritrae, secco.
“E’ stato un incidente.”
Thomas vorrebbe dirgli solo: vaffanculo.
È colpa tua. Non solo le hai permesso di giocare col fuoco, le hai anche teso la tanica di benzina e il fiammifero.
Irresponsabili, stupidi idioti, ecco cosa siete.
Circolo di psicopatici.
Stupide teste di cazzo inette a vivere.
Non dice nulla di tutto ciò, ovviamente. Si limita a togliersi gli occhiali e passarsi una mano sul viso. “Vado a prendere un caffè.”, dice solamente, e si volta per andare al bar del Good Samaritan
“Aspetti.”
Thomas gira i tacchi di centottanta gradi verso Chloe. La donna lo guarda con una sofferenza amica negli occhi. Gli ha posato una mano delicata sull’avambraccio e lui non se n’è nemmeno accorto. Il ronzio cessa per qualche istante.
“Marcus Pierce deve aver visto una donna bionda seduta a fianco a Lucifer, e deve aver scambiato Molly per me… Non le posso nemmeno spiegare quanto mi dispiaccia per quello che è successo. E’ colpa nostra…” Guardò Lucifer, che aveva improvvisamente dimenticato come parlare. “No. Mia. E’ colpa mia… Ho… Ho agito come un’adolescente. Ho piantato il mio futuro sposo all’altare, e da quel momento non ho fatto altro che procrastinare la spiegazione che sapevo di dovergli. Mi dispiace. Mi dispiace davvero. Se solo avessi saputo…”
Thomas esala un sospiro stanco. “Col senno di poi sono piene le fosse.”, le dice, incapace di spogliarsi dal suo solito tono severo anche di fronte a quella donna sentitamente addolorata. “Bisogna solo ringraziare che non ci sia stato bisogno di scavare nessuna fossa, stavolta.”
 



 
 
Desperado,
why don't you come to your senses?
Come down from your fences, and open the gate
It may be rainin',

but there's a rainbow above you
You better let somebody love you

(Desperado, Johnny Cash)
 



 
 
“Io e te siamo molto più simili di quanto riusciremo mai ad ammettere. Io… ho fatto tante cose sbagliate… In particolare con la mia ex moglie. Le ho mentito, più e più volte, l’ho tradita, l’ho spinta a provare a fare un figlio perché pensavo che un bambino avrebbe potuto ricucire i pezzi di quella tragicommedia che mi viene da ridere a chiamare relazione… Sono un cazzo di irresponsabile. Stavo per mettere al mondo una creatura che si sarebbe portata addosso il peso dell’infelicità di due poveri idioti. Grazie a Dio Margaret non è una donna stupida e non mi ha dato corda.
E con Molly…  Dio, con Molly mi sembra di essere sdraiato su un tappeto di vetri rotti, per permetterle di camminarmi sopra senza rischiare di ferirsi. Ho un vero e proprio senso di responsabilità nei confronti di quella ragazza, come se dovessi crescerla io. E quando mi dimostra puntualmente che in realtà è perfettamente in grado di badare a sé stessa, non faccio che macerarmi nell’angoscia che non abbia bisogno di me tanto quanto io ne ho di lei.
E’ questo il nostro problema, Lucifer: ci attacchiamo troppo alle nostre donne, chiediamo loro di salvarci, di renderci uomini migliori, e quando ci accorgiamo quanto dipendiamo da loro cerchiamo con ingegno inquietante un modo per mandare tutto a puttane. Perché a volte semplicemente sembra più facile rompere tutto quanto, lanciare i vasi fuori dalle finestre e riempirsi di tagli.
Quando ci rendiamo conto che non potremo mai dare loro nemmeno un terzo di ciò che danno a noi, quando le nostre mancanze sono sottolineate tre volte in rosso da ciò che invece per loro è naturale offrire… non lo so. Non lo so.”
Lucifer tace, osservando il cilindro di cenere che si è formato all’estremità della sigaretta che Thomas ha dimenticato tra le dita. L’uomo guarda fisso uno spigolo, e nonostante tutto la sua voce fuoriesce ferma, sicura, assolutamente in contrasto con il messaggio che porta.
“Non siamo uomini cattivi.”, dice semplicemente Lucifer.
Thomas alza gli occhi su di lui.
“No.”, risponde, sorridendo. Schiaccia la sigaretta nel posacenere, butta giù l’ultimo sorso di brandy. “No, siamo peggio. Siamo uomini danneggiati. Rotti in più punti, a tanto così dallo sbriciolarci definitivamente e irreparabilmente. Siamo un pugno di schegge che per puro caso hanno forma umana. E abbiamo al nostro fianco donne che sono colate d’oro zecchino.”
Lucifer si distende in un sorriso. “Conosci la pratica del kintsugi?”
Thomas sorride. Per un attimo, un sentito attimo di vento non sente quel solito contorcersi di budella che lo prende quando vede Lucifer sorridere di quel sorriso terribilmente suo.
“Ammiro il tuo ottimismo.”, ammette Thomas con un’alzata di spalle.
Lucifer si alza dalla poltrona, si sistema la giacca e il colletto della camicia.
“Vorrei sposare Chloe. Qui. Nel vostro giardino.”
Prima che Thomas possa chiedere qualsiasi cosa, dopo essersi fatto andare una boccata di fumo di traverso, Lucifer lo zittisce: “La Papessa. La Papessa mi ha raccontato.”
Thomas scuote leggermente la testa e sbuffa. “Quella donna…”
Guarda Lucifer attraverso la patina malinconica che il brandy ha solo parzialmente reso meno pesante del solito: dall’altra parte c’è un uomo che sicuramente è molto simile a lui sotto una pletora di punti di vista; un uomo che, come lui, ha preso la vita a capocciate da quando ha aperto gli occhi sul mondo. Tuttavia presenta una sostanziale differenza, rispetto a lui: per quanto si sia scornato con la superficie fredda della realtà, e per quanto ancora avrà da rompervisi le corna, non ha alcuna intenzione di rassegnarsi. Minimamente
Thomas prende un altro sorso avido di liquore, prima che qualcosa da qualche parte nella sua mente, si senta titolata a informarlo che forse, da questo punto di vista, potrebbe addirittura imparare qualcosa da Lucifer – ma l’orgoglio, si sa, è fatto di materiale refrattario.
“Nel mio giardino?”, dice, senza riuscire a nascondere un moto di incredulità. “E’ di questo, dunque, che volevi parlarmi?”
Lucifer raccoglie l’accendino e il pacchetto di sigarette; si dà una scrollata e cerca di mantenersi in equilibrio nonostante i fiumi di brandy che scorrono nelle sue vene. “Nel tuo giardino. Sì.”
“Cos’è, una sorta di danza dell’umiliazione sulla tomba del mio fallitissimo primo matrimonio?”, chiede Thomas, ironico.
“No, mio caro.”, risponde Lucifer, avvicinandosi per dargli una sonora pacca sulla spalla. “Voglio dimostrarti quanto hai torto, per tutto il discorso di poc’anzi riguardo uomini guasti e donne auree.”
Thomas rivolge uno sguardo interrogativo alla mano che Lucifer gli ha offerto. Nei suoi occhi scuri brilla qualcosa di pericoloso: un’idea.
Thomas, tuttavia, dice fra sé oh, ma che cavolo, e agguanta la mano.
“Forza. Ho parecchie idee e poco tempo per metterle in atto; quando hai detto che torna, tua figlia?”
“Tra qualche giorno.”, risponde Thomas. Poi lo osserva, incerto. “Si chiama Eve, comunque.”
“Eve.”, ripete Lucifer, alzando un sopracciglio in un modo che ripristina istantaneamente tutta l’antipatia che Thomas ha sempre provato nei suoi confronti. “Non vedo l’ora di conoscerla.”
 
 
 
 
 
 
 
Who cares, baby,

I think I wanna marry you.
(Bruno Mars)
 
 
 




 
 
Scusate.
Avevo ancora un po’ di cenere da scrollarmi di dosso.
Ma ora ci sono.
Volevo fare una cosa particolarmente blasfema e pubblicare questo capitolo domani, accompagnandolo con un commento arguto del tipo Dio, come ha risuscitato il Signore, così risusciterà anche noi mediante la sua potenza, ma poi ho pensato che non è carino rubare la scena a Gesù proprio il giorno del suo ritorno alla ribalta.
Quindi eccoci.
Eccoli, i miei adorati broken boys.
Eccovi. (almeno spero)
Vi auguro sentitamente una felice Pasqua, ovunque voi siate, sia che mangiate agnello o colomba o panini al tonno perché non c’avete per le palle di spadellare.
C’è odore di rinascita, nell’aria, non so se anche per voi è così.
Sarà la primavera.
Sarà che l’oculista l’altro giorno mi ha riempio gli occhi di atropina e ancora non ci vedo benissimo, e quindi mi devo basare totalmente sugli altri sensi.
Sarà perché ti amo
In ogni caso, invio dei grossi baci a tutti voi. Dovrebbero arrivare in due-tre giorni lavorativi.
Yours truly,
 
Yunomi Tazzadité.
 
 

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Capitolo 10
*** "Ah." ***


10


“Ah.”
 
 


 
“Cioè… Tu mi vuoi dire… che siete andati a Londra per una visitina di piacere… e ora intendete sposarvi lì? Da soli? Senza di noi?”
Lucifer sospirò pesantemente nel telefono. Linda dall’altro capo ruggì furiosamente.
“Prima che tu possa incominciare a ricoprirmi di volgari epiclesi e puerili turpiloqui, posso dire solamente una cosa?”
Linda si trattenne un secondo. Poi acconsentì. “E dilla.”
“E’ stata una cosa dell’ultimo minuto. E’ una sorpresa. Nemmeno Chloe lo sa!”
Linda scoppiò a ridere; Lucifer si preoccupò per la stabilità mentale della donna. “Solo tu puoi pensare di catapultarti a casa della tua ex e del suo fidanzato attuale, dall'altra parte dell'oceano, dopo due anni, e pretendere anche di sposarti lì! Davanti al suo naso! Incommentabile! Sei incommentabile.”, squittì Linda.
Lucifer sentì che stappò una bottiglia di qualcosa, e ne presunse che si trattava di qualcosa ad alta gradazione alcolica. “Senza contare che me ne stai parlando come del compleanno del Principe del Galles! Così, olè, alla leggera! Dov’è Chloe?”
“In doccia, non sono cretino. Senti…”
“No, senti tu. Io inizio ad avere un’età, bello mio. E i nervi si assottigliano, a mano a mano. Ora come ora sono spessi come un capello, vedi tu.”
“Hai appena detto che sono incommentabile, eppure mi pare che tu riesca a commentarmi benissimo.”, ribatté Lucifer, piccato.
Linda prese un sorso della cosa molto forte e sospirò. “Non impari niente. E nemmeno io imparo niente, perché se così fosse me ne sarei fatta una ragione eoni fa.”
Lucifer rilassò le spalle, cogliendo l’addolcirsi di tono della sua amica. Quelle adorabili altalene sentimentali che sfioravano il tentativo di aggressione e subito dopo quello dell’abbraccio materno erano l’unico filo su cui potevano reggersi le relazioni tra gente come loro: gli esausti eppure instancabili figli bastardi di un Dio assenteista, gettati a vivere senza manuale di istruzione e senza la benché minima cognizione di causa. Le vie di mezzo, per gente come loro, erano state scartate a priori; l’equilibrio era per chi aveva paura di cadere.
Linda strinse il bicchiere al collo e non poté esimersi dall’assumere uno sguardo dolce, al pensiero di quel povero Diavolo innamorato. Certo lo avrebbe abbracciato, se non fossero stati al telefono. Gli avrebbe anche tirato uno scappellotto, ma poi lo avrebbe abbracciato ancora più forte.
“Su…”, disse lei dopo qualche secondo di silenzio affettuoso, “dimmi un po’ quanto farà freddo, lì. Vado a prenotare il volo.”
 
 
Dopo aver agganciato la chiamata con Linda, Lucifer si spogliò ed entrò nella doccia senza bussare. A Chloe per puro caso non scappò un urlo hitchcockiano.
“Ciao.”, fece Lucifer, mellifluo.
“Sei pazzo. Mi hai fatto prendere un col-“
Ovviamente, Lucifer era entrato nella doccia con l’idea di fare tutt’altro che parlare, quindi la mise a tacere con un bacio intenso. A Chloe vennero le gambe molli.
“Di cosa avete parlato con Thomas, ieri?”, chiese lei, organizzando un filo di voce.
Lucifer ruotò gli occhi e prese a baciarle il collo imperlato di goccioline di acqua. “Devo iniziare a preoccuparmi del fatto che citi quell’uomo proprio quando sto per scoparti fino allo sfinimento?”
Chloe si prese un secondo per deglutire aria secca, e balbettò qualche monosillabo senza significato mentre Lucifer le rivolgeva lo sguardo, quello che le incendiava i lombi e le faceva mancare la terra sotto i piedi.
Rinvenne un secondo prima che lui riprendesse a baciarla. “Beh… è che siete rimasti a parlare un bel po’.”
Chloe lo fissò intensamente mentre Lucifer si perdeva un secondo ad osservare una piastrella; si spegneva per qualche secondo, si ritirava dentro un angolo di sé e la estrometteva momentaneamente dalla propria vita; ma Chloe non aveva più paura.
Si alzò sulle punte dei piedi per depositargli un piccolo bacio tra il collo e la mascella. Lucifer si scosse leggermente.
L’acqua era incandescente, e densi vapori esalavano dalla loro pelle. Lucifer spostò lo sguardo su Chloe e pensò che la amava immensamente, e lo colpì la certezza – sì, esatto, certezza – che per la prima volta in vita sua stava facendo qualcosa di Giusto. Le prese il viso tra le mani e si tuffò nel mare blu pallido di quegli occhi quieti.
“Ti amo come mai ho amato chiunque altro nella mia stupida vita. E come sai, ho vissuto un bel po’.”
Chloe si buttò a baciarlo con un tale impeto che lo spinse con la schiena contro le piastrelle gelide. Questo lo fece squittire, e vanificò il tono serio e romantico con cui aveva pronunciato quelle parole. Chloe rise contro le sue labbra.
“Ora scopami.”, sussurrò sottovoce; lui già la stava sospingendo contro il muro.
“Chi ti ha insegnato a parlare così, detective…”, ribatté lui, fingendosi estremamente scandalizzato.
“Il peggiore di tutti.”
E gli gettò le braccia al collo, ridendo.
 
 
 
 


 
 
In the crooks of your body, I find my religion.
(Sappho)
 
 


 
 
 
 
“Che poi, a pensarci bene, gettare le braccia al collo è un’espressione di una cruenza rara.”
Molly e Thomas leggevano separatamente a letto, soddisfatti dalla vita per una buona volta, sazi di sesso e di baci. Molly, tuttavia, faticava a concentrarsi sulle pagine, e ne aveva fatta la sua missione impedire anche a lui di concentrarsi. Thomas alzò gli occhi dal libro, e sbatté le palpebre una volta.
“E ha anche un che di apocalittico.”, continuò lei, accomodandosi nella sua argomentazione. “Mi immagino qualcuno che si svita le braccia e le tira tipo getto del peso in faccia a qualcuno.”
Molly fissò Thomas con estrema serietà.
Thomas sbatté ancora una volta le palpebre.
“Hai presente come si posizionano i lanciatori alle Olimpiadi? Col peso attaccato all’orecchio?”
Thomas scoppiò a ridere, improvviso e inaspettato, e dovette addirittura togliersi gli occhiali. A Molly si illuminò lo sguardo.
“Piccola.”, disse, dopo che si fu ripreso.
“Sì?”
“Sei matta come un cavallo. Vieni qui.”
Molly chiuse il libro languidamente e gattonò verso Thomas, sedendoglisi a cavalcioni. Chiuse anche quello di lui e lo appoggiò sul comodino, assicurandosi di muoversi per bene sopra un punto ancora sensibile sotto le coperte. Thomas piegò la testa a osservare la tenuta della ragazza: un paio di mutandine di tulle rosa, sottili e praticamente impalpabili. Molly gli voltò il viso verso il proprio e sorrise. “Devi ringraziare il buon gusto della Papessa in fatto di lingerie.”, sussurrò prima di baciarlo intensamente. Le mani di Thomas si allungarono ad accarezzare la curva dolce ricoperta di tulle.
“Dovrei proprio alzarmi.”, disse lui, staccandosi a malincuore.
“Una parte di te l’ha già fatto.”, ribatté lei, maliziosa, e si piegò a baciargli il collo. “Mazeltov, tra l’altro.”
“Perché devi sempre mettermi nella posizione di fare l’adulto responsabile?”, sbuffò lui, gettando la testa all’indietro e mordendosi un labbro. Non accennava a levare la mano dal gluteo della ragazza, tuttavia. Molly si mosse lievemente.
“Ma tu sei l’adulto responsabile. Io sono solo una ragazzina disubbidiente e insubordinata…”
Thomas maledisse tutte le schiere angeliche ed emise un gemito di frustrazione. “Tu…”, disse solamente, vedendo che lei non smetteva di muoversi e di sbattere le ciglia come una languida cerva.
“Io…?”
“Sì…”
“Ti ascolto.”, replicò lei, abbassandosi a torturargli il petto di baci.
Thomas sbuffò; raccogliendo una forza che non pensava di possedere, le prese il viso in mano e le stampò un bacio frettoloso sulle labbra. Si alzò prima che potesse fargli cambiare idea; Molly sbuffò sonoramente.
“Abbiamo davvero tanto da fare.”, disse lui stringendo gli occhi e cercando di far affluire il sangue in qualsiasi altra periferia del suo corpo. “Lucifer ci ha dato dei compiti ben precisi.”
“Odio quando fai l’adulto responsabile.”, borbottò lei, mettendo il broncio.
“Okay, hai ragione. Ora vai a metterti, non lo so, un sacco di iuta, e… e ci vediamo di sotto in cucina, d’accordo?”, balbettò Thomas, in evidente difficoltà.
Molly si lisciò una ciocca di capelli, e alzò uno sguardo da sgualdrina che fece credere a Thomas che sarebbe impazzito se non l’avesse presa subito. Ma come tutte le altre volte in cui aveva creduto che sarebbe impazzito, non impazzì. Si limitò a mordersi un labbro, puntarle un dito contro e minacciarla, prima di sparire nel bagno: “Io vado a farmi una doccia gelida. Artica, anzi. Ma non pensare che sia lontanamente un discorso chiuso.”
“Me lo auguro.”, ribatté lei, facendogli la linguaccia.
 
 
Lucifer entrò poco dopo senza bussare: aveva un asciugamano bianco intorno alla vita e i capelli arricciati dall’umidità della doccia. Iniziò a guardarsi intorno, aprendo cassetti e frugando tra gli scaffali come fosse camera sua. Molly accennò un colpo di tosse.
“Hai bisogno?”, chiese, sollevando le sopracciglia.
“Sì, Thomas ha detto che potevo guardare nei suoi cassetti per un fazzoletto da taschino di Hermés.”
Finalmente, dopo aver sventrato un paio di comò e una povera cassettiera Ikea, glissò lo sguardo sulla ragazza: teneva un braccio davanti al seno, nudo, e indossava nient’altro che un paio di invisibili slip di tulle rosa.
“Oh.”, disse Lucifer.
“Eh.”, disse Molly.
“Molly.”
“Dimmi, caro?”
“Sei… Sei in mutande.”
“Sono in camera da letto.”
“Sì, ma… E’… come dire… Lingerie.”
“Ebbene?”
“E’ che… mh.”
“Luci. Parla come mangi.”
“Sono… mutandine di tulle.”
“Ti aspettavi che indossassi una cotta di ferro, sotto la gonna?”
“Lo so cosa indossi.”
“E allora?”
“Sono un po’… un tantino… trasparenti, ecco. Il tulle non è esattamente un materiale coprente.”
Molly si lasciò cadere la mascella sul pavimento. Thomas uscì dal bagno en suite fischiettando Gloria di Umberto Tozzi, e si strozzò con l’aria vedendo Lucifer impietrito con le mani nei suoi cassetti e gli occhi sulle mutande della sua ragazza. “Ah.”, disse solamente, e una goccia si staccò da un boccolo per precipitare urlando sul pavimento.
“Ehilà.”, salutò Lucifer, cercando di distogliere lo sguardo. “Bel tempo oggi, no?”
“Un po’ bagnat- ehm… umido. Già.”
“Sembra l’inizio di un film porno.”, sbuffò Molly, alzando gli occhi al cielo. Sempre con il braccio premuto a coprire le proprie grazie, scivolò nella cabina armadio, da cui poi riemerse con un’enorme camicia di flanella a quadretti.
I due uomini piegarono la testa di lato.
“Non è esattamente un miglioramento.”, disse Lucifer, passando in posizione da calcio da punizione. Si sa che gli asciugamani fanno quel che possono, in fatto di dissimulare le reazioni fisiologiche alle nudità femminili. Thomas lo imitò, tossendo lievemente.
Molly pensò che condivideva la casa con due adolescenti deficienti. Si abbottonò la camicia e prese una sigaretta. “Sorvoliamo, per carità del signore.”
“Sarà meglio.”, dissero in sincrono i due.
“Ordine del giorno?”, chiese lei, sedendosi in punta al letto.
“Fioraio e boutique, allestimento del giardino, recupero di Eve e di Linda domani, in aeroporto.”, stilò Lucifer, secco come un burocratico.
“Okay. Chi ci pensa a distrarre Chloe finché sistemano il giardino?”, chiese Molly.
Lucifer aprì la bocca e la richiuse poco dopo.
Thomas alzò le spalle.
Molly alzò gli occhi al cielo. “Gesù.”
“Non scomodiamolo.”, scherzò Lucifer, ma fu subito colto da uno sguardo gelido da parte della ragazza.
“Di cosa parlate?”, chiese Chloe, facendo capolino nella stanza. I tre gelarono sul posto, e a Lucifer per poco non cadde l’asciugamano che aveva stretto intorno ai fianchi.
“Del tempo.”
“Del tè.”
“Di Teheran.”
Un fuoco incrociato di sguardi basiti e recriminanti.
Chloe era confusa. “Sono confusa.”
“Anche loro.”, disse Molly con un gesto vago in direzione degli uomini. Non lasciò loro il tempo di commentare che prese a spingere Lucifer verso l’uscio. “Andate a farvi un giro voi due, comprate un vassoio di croissant per la colazione, oppure fatevi una sveltina da qualche parte, non me ne cala, schiodate, sciò.”
Thomas rise, scuotendo la testa, e una volta che quella pertica di Lucifer ebbe smesso di opporre resistenza la ragazza chiuse ad entrambi la porta sul muso. Si sentirono deboli proteste, ma d’altronde non erano che le nove del mattino: nessuno aveva troppa voglia di lamentarsi, a quell’ora.
Molly si voltò con esasperazione verso Thomas; lui le sistemò una ciocca di capelli dietro un orecchio e le baciò la fronte. “Come ti senti?”
“Sono sempre stanca. Sempre, Tom. Non importa quanto caffè beva o quanto dorma la notte.”, rispose lei.
“Si chiama diventare grandi.”
“Si chiama rottura di coglioni.”
“Sì, beh. Ci si deve passare per forza.”
“Non mi sembra di aver firmato da nessuna parte.”, ribattè lei, caustica. “Tu come stai?”
Thomas trattenne il fiato e si limitò a sospirare.
Quanto stava sopportando, questo la ragazza non avrebbe mai potuto quantificarlo. Ciò di cui era certa era che, qualunque cosa lui e Lucifer avessero discusso il giorno precedente, aveva sbloccato qualcosa. Come quando cerchi di chiudere un cassetto che proprio non ne vuole sapere di chiudersi, e non fai altro che spingere, e spingere, e spingere, spesso arrivando anche a sfasciare l’intera struttura del mobile. E poi alla fine ti rendi conto che bastava rovesciare il contenuto sul tappeto per scoprire che c’era qualcosa incastrato sul fondo che bloccava tutto. Molly gli passò una mano sul volto fresco di rasatura, e pensò che era l’uomo più incredibile e forte che avesse mai visto. “Ti amo, lo sai?”, sussurrò lei a un centimetro dalle sue labbra.
Si guardarono con la loro solita inossidabile tenerezza. “Grazie.”, disse lui, carezzandole una guancia.
“Le grazie le fa solo la Madonna.”, rispose Molly alzando le spalle. “Io mi limito a fare quello che più mi viene naturale fare.”
 
 
 
 
 
 
 
My lover’s got humor, she’s the giggle at a funeral.
(Hozier)
 
 
 
 



 
 
 
 

Still,
we’re not broken
Just bent.
(P!nk)
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 


 
 
 
 
Più tardi
 
 
 
 
 
 
 
 
 
“Tu non sei capace di amare, Thomas.”
Coltelli. Certe parole sono coltelli.
Thomas si accese una sigaretta e si passò una mano sul volto. Le lenzuola sembravano fatte di cemento armato, e il materasso era un mostro con le fauci aperte che voleva inghiottirlo. Erano le tre del pomeriggio.
Si voltò verso la finestra aperta: le tende si gonfiavano di una brezza tenue, come fantasmi. Il sole mandava raggi freddi e inospitali attraverso il biancore del cotone.
Thomas scosse la testa e gli venne voglia di piangere. Sospirò, invece.
“Non credere che sia qualcosa di innato. Qualcosa che matura con l’esperienza, con la vita. C’è chi può e chi non può. E tu non puoi.”
Non rispose subito alla voce secca che stava a fissare il soffitto di fianco a lui. I graffi che lei aveva solcato nella sua schiena bruciavano ancora un poco; le labbra se le sentiva calde e ancora umide di quei baci pieni di rancore, affamati di qualcosa che sapevano di non poter ricevere. Aspirò profondamente dalla sigaretta e si ravviò i capelli. Quanti errori per una sola vita. Quanta sofferenza inutile. Quanta amarezza.
Avrebbe voluto chiederle cosa ci fosse di così fondamentalmente, fisiologicamente sbagliato in lui che lo rendesse così incapace di amare. Poi pensò che lei sarebbe stata troppo onesta nella risposta, e quindi tacque.
“Sono felice.”, disse solamente con un filo di voce.
Non la guardò.
“Non è vero.”, rispose lei. Allungò una mano a sfilargli la sigaretta dalle dita senza delicatezza. “Non sei mai stato felice.”
“E’ vero. Ma ora lo sono.”
“Ti illudi, Thomas.”
“Forse.”
Finalmente la voce si tirò a sedere sul letto; il lenzuolo le scivolò dal busto come un sipario, rivelando il seno pallido e un collo lungo e vessato di morsi. Una cascata di capelli color rame le si riversò su una spalla. Lei lo guardò con uno sguardo di fumo liquido, e vedendo che lui non riusciva a sostenerne l’intensità scosse lievemente la testa. Anche lei provava tanta amarezza.
Si alzò dal letto.
Recuperò la biancheria, il vestito, l’anello che aveva lanciato sul comodino con fin troppa veemenza, quando si erano chiusi la porta alle spalle e lui era crollato su di lei, inciampando nei vestiti e nei ricordi nella corsa verso il letto.
Thomas si appoggiò alla testiera e la osservò rivestirsi. Quanti errori potevano commettere due persone prima di rendersi conto che certe cose non sarebbero mai funzionate? Esisteva un numero massimo, una capacità che una volta raggiunta avrebbe fatto partire una spia intermittente e una voce metallica che avrebbe intimato tutti di evacuare? Evacuare cosa poi? Il cuore, la testa, la vita? Thomas si rese conto che, qualunque cosa stesse calando a picco, dentro di lui, come il capitano di un vascello pirata sarebbe affondato insieme ad essa, legato con la sartia all’albero maestro.
Solo. Senza alcun fastidioso pennuto sulla spalla. Forse in fondo aveva ragione lei.
Intanto la donna si era vestita e si accingeva a chiudersi un orecchino di perla.
“Margaret?”, chiamò lui, con gli occhi appannati di qualcosa che ancora non riusciva a identificare. Quella che una volta era sua moglie si voltò verso di lui con un sopracciglio alzato.
“Cosa?”, chiese quella, visto che lui si era come impallato.
Thomas dovette sforzarsi di concentrarsi sugli occhi della donna. La vista gli giocava brutti scherzi. Un paio di occhi dolci e scuri continuavano a sovrapporsi su quelli di Margaret.
“Io la amo.”, esalò lui, e fu come se gli avessero sfilato un palo dal cuore.
La mano della donna sarebbe caduta mollemente lungo il fianco, se non fosse stata così rigida e rassegnata. Infatti, Margaret si limitò a sospirare. Agganciò anche l’altro orecchino e scosse la testa, raccogliendo la pazienza. “Non ho detto che non la ami. Solo che non sei capace di farlo.”
Lui abbassò lo sguardo sul viluppo di lenzuola intorno alla propria vita. Gli tremò una mano impercettibilmente. Lei la prese e la strinse. Quella pelle che aveva sempre riempito di baci ora aveva la stessa consistenza del cuoio freddo, contro la sua.
Lo guardò negli occhi con una nuova sfumatura di rimorso. “Non fare stronzate. Sappiamo entrambi che per quelli come noi non esiste nulla di duraturo. Sensazioni effimere, Thomas. Soltanto gli irrinunciabili ricordi di sentimenti discontinui e provvisori.”
Un’interminabile saga di tutto ciò che non ha funzionato…”, citò lui, pensando ad un romanzo che aveva letto a Molly un’estate incastrata in una crepa temporale in cui non aveva fatto altro che imboccarle spicchi di arancia e illudersi che tutto sarebbe andato bene.
Il professore di desiderio’, si chiamava il romanzo. Si passò una mano sul volto.
Margaret non era una donna stupida, perciò non provava alcun tipo di rancore. Il tempo aveva posato le sue lunghe dita anche sul suo viso, e delle piccole rughe si formarono intorno agli occhi quando gli sorrise. Lo baciò sulla bocca, anche se lui rimase inerme. Gli passò una mano gentile sul petto.
“Prima te ne rendi conto, e meno soldi butterai in terapia.”
Si alzò e si avvicinò alla specchiera per darsi una sistemata ai capelli. Thomas rimase fermo, cristallizzato in un istante di sgomento. Non se ne capacitava. Come poteva lei essere così refrattaria al senso di colpa? Lei si era risposata. Aveva due figli, ora. E nonostante non avesse il cuore di rifiutarlo, quando lui si presentava alla sua porta con quella faccia disorientata e spenta, dopo non si sentiva svuotata come si sentiva invece lui. Ancora gli permetteva di rovesciarle in grembo il casino che ogni tanto diventava ingestibile; lo accoglieva in casa e tra le sue gambe, si faceva ricoprire di frustrazioni e delle sue insicurezze. Eppure, appena finivano, non si faceva alcun problema ad interfacciarlo con la realtà dei fatti. Lui, invece, si sentiva una pianta a cui non davano da bere da settimane.
“Farai meglio ad andare.”, disse Margaret, schiarendosi la voce. “Non dovevi passare a recuperare la piccola dai tuoi?”
 
 
 
 
 
 







Breve ma intenso.
Altrimenti detto: buonasera, scusate per la sparizione.
Piombo qui come un sasso nello stagno dopo un mese di silenzio.
Non me ne vogliate, non ero dell’umore di scrivere di matrimoni e men che meno di preparativi di matrimoni.
Non so cosa dire di sensato, quindi dirò:
Bulgakov.
Gin tonic.
Bulbi di gladiolo.
(Che comunque riassume perfettamente ciò che ho fatto in queste settimane di congedo dal mondo di questi matti.)
Sto mettendo in cantiere un finale che spero apprezzerete, e che spero di pubblicare prima dell’uscita della 5B della serie – sono una che si fa influenzare facilmente, e non vorrei che i Crisantemi iniziassero a starnutire a caso.
Siete come sempre i benvenuti a farmi sapere cosa ne pensate – ora più che mai, dato che questo capitolo è un po’ una sorta riscaldamento prima del Gran Finale.
Che pressione mi sento addosso, ragazzi.
Intanto saltello e vi bacio forte.
- Y.

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Capitolo 11
*** Il matrimonio del cielo e dell'inferno ***


N.d.A.: la narrazione oscilla tra la prima e la terza persona per mantenere paralleli i fili di ciò che accade e di cui Molly è al corrente, e di ciò che invece non può sapere – ma che è bene che il lettore sappia.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Il matrimonio del cielo e dell’inferno
 
 


 
 
 
 
“Non mi hai detto se alla fine Thomas ha gradito il gentile presente.”
“Perché non sono cazzi tuoi, Papessa.”
“Sei così sboccata.”
“E tu rompipalle.”
La Papessa alzò gli occhi al cielo, ma il cielo non abbassò gli occhi su di lei. Fortuna che ormai aveva imparato a non prenderla sul personale. Si sfilò gli occhiali da sole e mi guardò con le mani puntate sui fianchi. Sembrava una teiera. Glielo dissi. Lei, in evidente odore di santità, mi ignorò come si fa coi bambini. “Ripetimi perché hai accettato di partecipare a tutta questa farsa.”, ribattè lei, senza riuscire però a mascherare un sorriso: sapeva che Thomas aveva apprezzato, e il segno della sua dentatura sul mio collo era la prova inequivocabile.
Alzai le spalle, masticando una gomma che non sapeva più di menta già da un pezzo. Piuttosto, osservai con occhio clinico l’orlo merlettato di un vestito da sposa. Lo riappesi alla gruccia insieme agli altri. “Perché è un’idea carina.”
“Sì, ma è il tuo giardino.”
“Tecnicamente di Thomas.”
“E’ la tua casa.”
“Di Thomas.”
“E’ il tuo ex!”
“No, ci andavo a letto soltanto.”
La Papessa mi si parò davanti e sbuffò come un bufalo. “Eri innamorata persa di lui.”
Alzai di nuovo le spalle. “Enfasi su eri, che è un tempo verbale indicativo imperfetto che esprime un’azione continuata che si è conclusa nel passato.”
La Papessa scosse la testa, in imminente odore di sfuriata. Era difficile tirarla fuori dai gangheri, ma io avevo una passione singolare per le cose difficili. La vidi raccogliere un grande sospiro e piantarmi gli occhi addosso. “Non la trovi una cosa particolarmente anormale? Questo viene da te e pretende anche di sposarsi. Davanti a te.”
“L’amore lo è sempre. E poi, non eri tu l’inguaribile romantica? Starai mica invecchiando?”
La Papessa mi lanciò uno sguardo obliquo da Persona Adulta. “Qualcuno dovrà pure compiere lo sforzo immane di pensare come una persona assennata, in questa combriccola di disadattati ed analfabeti sentimentali.”
“Ma non è immensamente più divertente, senza senno?”
La Papessa scosse il capo, e diventò inquietantemente seria all’improvviso. “Molly…”
Io sbuffai. “Non c’è niente che faccia al caso nostro, qui.”, sentenziai, guadagnandomi un’occhiataccia da parte di una commessa apatica. Mi irritai più o meno immotivatamente e litigai con una gruccia per infilarla al suo posto, in un biancore di seta e pizzo che iniziò a darmi fastidio alla vista.
“Andiamo, su.”, feci io, sentendomi improvvisamente nervosa. Lo sguardo che la mia amica mi riservò fu quanto di più fastidioso avessi mai avuto la sfortuna di vedere: mi guardava con la preoccupazione che sta per sfociare in una particolare sfumatura verde-grigia di compassione, e io, creatura testarda e orgogliosa quale ero, non avevo alcuna intenzione di essere guardata così. Al massimo, ero io che dispendevo compassione al prossimo. La Papessa stava incominciando a trattarmi come un passerotto con l’ala spezzata, ed erano giorni che avevo sopportato senza dire niente.
Masticai la gomma così forte che mi scricchiolarono le mascelle.
“Allora?”, ribattei, piccata.
Finalmente si arrese; mi sorrise come mi sorrideva sempre, accondiscendente e spirituale, e mi prese sottobraccio.
“D’accordo. D’accordo. Facciamo un giro da Vivienne Westwood.”
“Ora mi sei di nuovo simpatica.”
 
 
 
 
 
Now the sneaking serpent walks
in mild humility,
And the Just man rages in the wilds
where lions roam.
(William Blake, The Marriage of Heaven and Hell)
 
 
 
 
 
 
Ciò che Molly non sapeva, e che non avrebbe potuto e dovuto sapere, era che quel giorno Lucifer aveva seguito Thomas.
Non sapeva nemmeno lui perché l’avesse fatto: una vocina spuntata dal nulla come una margherita gli suggerì di farlo, semplicemente, e chi era il Diavolo per non ascoltare la voce della sua stessa tentazione?
Quindi, l’aveva seguito. Forse sarebbe più corretto dire pedinato.
L’aveva visto prendere la metropolitana che andava in direzione opposta a Kensington, dove avevano residenza i suoceri di Molly e iniziò a credere di aver fatto molto bene a dare ascolto alla propria coscienza, per una volta.
Thomas era penetrato in un appartamento bianco e lussuoso a Whitechapel; ci era rimasto per parecchio tempo. E soprattutto, quando era uscito non aveva in braccio nessuna bambina, ma uno sguardo da condannato a morte e la camicia fuori dai pantaloni.
Che cazzo?, aveva eloquentemente pensato Lucifer, nascosto dietro il tronco di un leccio. Appena Thomas aveva girato l’angolo, - stavolta davvero diretto a Kensington – Lucifer aveva attraversato la strada e aveva dato una sbirciatina al nome sul citofono: Margaret Burke-Huxley.
Lucifer aveva emesso un singulto di indignazione.
“Bastardo.”, si disse tra sé.
Un sentimento di vendetta ben noto gli fiorì nel petto come un crisantemo.
 


 
 
 
*
 
 

 
 
Il tavolo della colazione (seppur molto tarda, quella mattina, con buona pace di Merry Brandibuck e Pipino Tuc) era ormai diventato sede ufficiale di riappacificazioni e conflitti. Quella mattina, grazie al cielo, fu sede del primo pasto che condividemmo senza rancori taciuti o vaghe recriminazioni: scherzavamo come i deficienti che in fondo eravamo, lanciandoci occhiate stanche e qualche tovagliolo, quando uno di noi diceva scempiaggini.
Chloe era riposata e serena come non l’avevo mai vista, e forse come nemmeno Lucifer l’aveva mai vista. Da parte sua, lui continuava a guardarla come una ninfa appena spuntata da un cespuglio di alloro. Io e la Papessa ci scoccavamo occhiate consapevoli, a cui ogni tanto partecipava anche Thomas: tutti eravamo stati messi a conoscenza da Lucifer del Piano, svegliati di soprassalto in piena notte da uno zompettare molesto ai piedi del nostro letto.
La piccola Eve stava seduta sulle mie ginocchia, dilettandosi a sbrindellare un fazzoletto giallo con le dita paffute. La sua testolina bionda e ricciuta sotto il mio mento mi dava il senso di pace della prima boccata di una sigaretta, del primo morso di una pesca a giugno, e del primo tuffo nel mare all’inizio dell’estate. Una bambina così serena e così tranquilla, così indipendente e curiosa. Una bambina che aveva quasi staccato la falangetta del Diavolo quando le si era avvicinato con circospezione, al momento delle presentazioni ufficiali.
“E quindi l’avete chiamata Eve. Come la prima donna. La peccatrice originale.” Lucifer mi guardò con un aria di intensa provocazione. “Spassoso.”
“In realtà si chiama Evangeline.”, chiarii io, piccata.
“Letteralmente significa buona novella. Come evangelis, il Vangelo. Insomma, ci è sembrato appropriato, visto il periodo da cui stavamo uscendo.”, continuò Thomas, guardandomi con tenerezza. Gli strinsi una mano.
Lucifer mi squadrò con aria pensosa. Probabilmente quello sarebbe stato il momento in cui avrebbe acceso una sigaretta, ma dal momento che la piccola era rincasata avevamo sospeso ogni vizio con non poche difficoltà. “Sai, conoscendoti, avrei giurato che l’avresti chiamata tipo, chessò, Yggdrasil*. O Lagertha. Sei ancora fissata con la mitologia norrena, no?”
Io alzai gli occhi al cielo e risposi con un gesto infastidito della mano.
“In realtà ho dovuto dissuaderla dal chiamarla Ragnarok.”, gli sussurrò Thomas. Una delle mie rinomate gomitate si fece strada nel suo costato, e lui soffocò un gemito.
Lucifer sbarrò gli occhi e sputò una risata. “E perché non Maelstrom, il gorgo infernale, già che ci siamo?”
Sbuffai. “Siete simpatici. Davvero, davvero simpatici.”
“E tu ora te ne accorgi?”, ribattè Lucifer, canzonatorio.
“Francamente vi preferivo quando vi prendevate a pugni.”
Scossi lievemente la testa, abbandonando momentaneamente lo sfacelo di tazzine colme di fondi di caffè rappresi per lanciare uno sguardo di esasperazione a Chloe, che guardava con tenerezza ora Eve, ora me, ora Thomas. Iniziai a sentirmi come credo si sia sentita la Vergine Maria al cospetto di magi e pastori, e cioè esausta e vagamente infastidita dalle persone. 
“Perché non parliamo dei vari Proserpina, Clitennestra e Alcmena che mi sono stati proposti da un certo qualcuno, invece?”, chiesi, lanciando un’occhiata ironica a Thomas.
“Sono classici.”, ribatté lui con il tono di chi sa di avere perfettamente ragione e non ha intenzione di discutere.
“Sono pretenziosi.”, risposi io.
“Io vi ho proposto Oighrig, ma non mi avete dato retta.”, aggiunse la Papessa con lieve risentimento. “E’ un classico nome scozzese, da guerriera.”
Io e Thomas ci scambiammo un’occhiata di reciproca intesa e decidemmo mutualmente di sorvolare. Eve alzò gli occhi dai suoi coriandoli di carta e sembrò mandare la Papessa a quel paese con lo sguardo. Aveva ereditato i miei capelli e il mio naso, ma gli occhi erano tutti di Thomas: quella sfumatura grigiastra e cangiante che catturava la luce e la riproponeva sottoforma di uno sguardo scanzonato e lievemente infastidito da tutto. Uno sguardo tutto inglese.
“A me piaceva molto Emily.”, s’intromise Chloe, stringendosi nelle spalle. “Oppure Margaret.”
Thomas si irrigidì.
La bambina la guardò come a dire non hai proprio capito un cazzo, bella mia, e io scrollai le spalle, imboccandola con un pezzetto di brioche. “Sono entrambi molto belli, ma purtroppo il secondo nome cagiona una certa psicosi traumatica nel mio fidanzato, come puoi ben notare.”
“Esagerata.” , sbuffò Thomas, e prese Eve dal mio grembo. Mi rivolsero entrambi lo stesso sguardo sdoppiato e io sentì una fitta di tenerezza a cui mai mi sarei abituata trapassarmi da parte a parte.
“Avreste potuto chiamarla Sami.”, esordì Lucifer con uno sguardo ammiccante. “Sai, da Samael.”
“Per la carità.”, ribattei io, monocorde.
Eve si voltò meccanicamente verso il Diavolo e balbettò, imperativa: “Ucifer.”
Tese le braccine verso di lui.
“Cosa vuole, la creatura?”, esclamò Lucifer, schifato. Thomas gliela poggiò in grembo, gustandosi fino all’ultimo il suo sguardo terrorizzato: il Diavolo si pietrificò, mentre lei esplorava con pacata curiosità quei tratti che le erano così poco familiari, peraltro rischiando di cavargli un occhio con una ditata troppo impavida.
Sentii Chloe fremere al mio fianco per l’eccitazione incontenibile della visione del suo uomo alle prese con un infante: si portò le mani alle labbra e piegò la testa di lato.
“Ti faccio notare che non è una granata.”, lo provocai io, osservando la scena con un certo gongolamento. La reggeva come se avesse dovuto esplodere da un momento all’altro, e intanto lanciava richieste d’aiuto a Chloe, che però era troppo impegnata a fare una fotografia mentale alla scena.
“Credo di essere allergico alla tua progenie, Thomas.”, balbettò lui, mentre Eve si ficcava diplomaticamente un dito in bocca e minacciava di benedire il suo completo Armani con la saliva. “Rimuovila, prego.”
Mi alzai, scuotendo la testa, e ripresi la piccola. “Questa cosa che hai nei confronti dei bambini non finirà mai di suscitarmi un sincero interesse antropologico.”
“Che c’è da capire? A malapena parlano, non fumano e non bevono whiskey. Come mai potrei approcciarmi?”, si giustificò Lucifer, lisciandosi il bavero della giacca.
“Devo dire che è confortante conoscere questa tua visione sull’argomento.”, si lasciò sfuggire Chloe con ironia, sollevando le sopracciglia. Sul tavolo si creò un crisma di gelo che ci fece tacere tutti. Sentimmo chiaramente Lucifer deglutire un groppo secco.
“In… in che senso?”, chiese lui, circospetto come se dovesse approcciare una pantera.
Chloe percepì il peso dei nostri sguardi e tremò visibilmente. “No, no, lascia perdere, è una battuta!”
“Chloe, tu vorresti avere figli da me?”, scandì Lucifer, cauto. Il suo viso aveva assunto una curiosa sfumatura color fragola, e i suoi occhi erano diventati grandi come piattini da dolce. Eve si voltò verso di me con un sorrisetto furbo, puntando un indice paffuto verso di lui. Le deposi un bacio fra i ricci e sorrisi, intenerita da quei due stupidi esseri che avevano tutt’altro che chiara la categoria di conversazioni che viene abitualmente etichettata come ‘da tenersi in separata sede.’
Chloe, dal canto suo, era sbiancata come l’abito da sposa che non sapeva avrebbe indossato di lì a poco; articolava le labbra, ma non ne usciva alcun suono.
Lucifer si passò una mano sul volto, e la Papessa scosse la testa, indignata: “E dì qualcosa, per il Cristo Redentore!”
“Qualcosa, per il Cristo Redentore.”, ripeté Lucifer, gli occhi fissi in quelli di Chloe, mossi da una muta disperazione. Un piccolo tsunami le turbava le iridi.
Tacemmo tutti quanti per lunghissimi, interminabili istanti.
Poi, la salvezza discese su di noi sotto le sembianze di mia figlia: prese un ricciolo di crema pasticciera da una brioche e, dopo averlo analizzato con curiosità, lo sparò come un razzo in faccia a Lucifer. Rimase immobile per qualche attimo, impietrito: poi, la pallottola di fortuna subì l’inarrestabile forza di attrazione della Terra e gli cadde sui pantaloni con un sonoro e totalizzante plop.
Lucifer era diventato di granito.
Thomas aveva gli occhi sbarrati e un sorriso di nascente e rinnovata gratitudine per le leggi ordinatrici del cosmo.
Chloe si portò le mani alle labbra per evitare di scoppiare a ridere; io, invece, non mi scomodai. Mi bastò incrociare lo sguardo della Papessa per esplodere in una risata che presto trascinò anche gli altri.
Eve piegò lievemente la testolina da un lato, e piantò gli occhi grigi su Lucifer. “No fai bravo.”, sentenziò, per poi tornare a far coriandoli di un altro tovagliolo.
Finalmente, il gelido mutismo che aveva preso il Diavolo in ostaggio si sciolse. Lucifer agguantò un tovagliolo e si tamponò il viso. “La tua progenie, Thomas. La tua progenie è il vero Anticristo.”
“Anticritto!”, urlò Eve, battendo le manine.
La Papessa si asciugò una lacrima e si fece il segno della croce,  toccandosi il crocifisso di madreperla che indossava. “Non si sa mai.”, disse poi, apotropaica.
 
 
 
 
 
Roses are planted where thorns grow.
(William Blake, The marriage of Heaven and Hell)
 
 
 
 
 
Nel momento stesso in cui Lucifer si chiuse la porta della camera alle spalle, Chloe seppe che c’era qualcosa che non andava. Un lieve cambiamento d’aria che la rese improvvisamente più difficile da respirare.
Stava sul letto con un maglione di lana che le pungeva un po’ la pelle, e i capelli erano onde morbide e quiete che le lambivano le clavicole: abbassò il libro sul petto, vedendo che Lucifer rimaneva con la schiena appoggiata alla porta e lo sguardo rivolto verso il basso.
“Cosa c’è che non va?”, chiese, dolce, piegando lievemente la testa.
Lucifer si lasciò andare ad un sospiro lungo come un refolo di vento. Come una zattera sciolta, si diresse verso il letto e vi piombò pesante, facendo molleggiare il materasso. Si trascinò verso il grembo  di Chloe e vi poggiò la testa, inspirando il profumo di zucchero e vaniglia che emanava.
Chloe gli passò dita gentili fra i capelli, e si abbassò a depositargli un bacio sulla tempia.
Attese, paziente, che parlasse.
Ormai non aveva più alcun timore del silenzio.
Lucifer respirava piano contro il suo ventre, e si faceva sbobinare lunghi nastri di pensieri con le dita che lei muoveva in cerchi sulla sua testa. Finalmente, voltò la testa per guardarla negli occhi.
Chloe cercò di contenere un tremito: nelle iridi scure stava iniziando ad aprirsi una vena verticale di fuoco, rosso acceso. Ebbe la tentazione di scostare le dita dalla sua pelle; il calore aumentava esponenzialmente, e le sembrava di avere la mano incollata al tubo di una caldaia.
“Amore…”, sussurrò Chloe, e la sua voce giunse come un balsamo a lenire quel bruciore che Lucifer stava iniziando a sentire. I suoi occhi si scurirono di nuovo, e la donna trasse un sospiro discreto di sollievo. Il Diavolo le depose un bacio sul palmo della mano lungo come tutte le cose che avrebbe dovuto dire.
Si tirò a sedere sul letto e raccolse il coraggio.
“E’ per via di Thomas.”
Chloe lo fissava, la fronte che iniziava a screziarsi dei prodromi di una preoccupazione ineffabile.
“Thomas vede ancora la sua ex.”, buttò fuori Lucifer. Non riuscì a trattenere un’espressione disgustata.
“E tu come lo sai?”
“L’ho seguito. Mi toccherà scuoiarlo vivo e usare la sua stessa pelle come frusta. Peccato, iniziava a starmi simpatico.”
Chloe scosse la testa, sospirando. “Non fare il Torturatore Biblico.”
Lucifer strinse i pugni fino a sbiancarsi le nocche. “Come si permette. Dopo tutto quello che è successo…”
Si alzò di scatto, ma una mano delicata lo tirò giù a sedere di nuovo. “Devo andare ad avvisare Molly.”
Chloe pensò che stava insieme ad un attore elisabettiano e scosse la testa.
“Forse è il caso di parlarne con la Papessa, prima.”, disse Chloe, saggiamente. “Chissà che non ne sappia un po’ di più, no?”
Lucifer esitò. Poi sospirò guardandola con un senso di intramontabile gratitudine. “Hai ragione. Hai ragione.”
Poi si avvicinò a posarle un bacio delicato sulle labbra. “Spero che tu sia consapevole del fatto che non ho mai dato ragione nemmeno al Padreterno.”, disse, elevandosi dal letto come una sequoia. Si aggiustò i polsini della giacca e si inorgoglì dello sguardo liquido e amorevole che Chloe gli rivolse.
“Lo so.”, disse lei, poco dopo che lui fu scivolato fuori dalla stanza.
Abbassò gli occhi sul solitario di diamante che portava all’anulare.
Rifrangeva la luce della prima sera e dell’abat-jour, ed era una cosa talmente impossibile che Chloe mancò qualche battito, nel guardarlo.
Era promessa sposa del Diavolo, quello vero. Il Diavolo le aveva messo un anello al dito, il Diavolo si stendeva accanto a lei tutte le sere, il Diavolo lavava i suoi piatti quando la sera tornava tardi dal lavoro. Sorrise di tenerezza al pensiero.
Sfiorò la pietra con il pollice. Era pungente e sfaccettata, proprio come Lucifer.
Sorrise di nuovo – non riusciva proprio a smettere.
Pensò che, per la prima volta da due anni, non vedeva l’ora di sposare il Diavolo.
 
 
 
 
It's you, it's you, it's all for you
Everything I do.
(Lana del Rey, Videogames)
 
 
 
 
 
My rose garden dreams, set on fire by fiends.
(Lana del Rey, Cherry)
 
 
 
 
 
La Papessa ascoltò il discorso di Lucifer e Chloe mentre osservava un cespuglio di croco viola che aveva piantato lo scorso settembre. La messa a dimora dei bulbi era andata a buon fine, e lei passava tutte le mattine per darci un occhio, togliere le foglie secche, spargere manciate di fertilizzante.
Lucifer le aveva parlato di come avesse seguito Thomas, le aveva chiesto conferma del nome di sua sorella ed ex moglie di Thomas.
“Margaret Burke-Huxley. Sì.”, aveva risposto lei, secca, mentre strappava di netto una foglia secca dalla pianta.
E ora che avevano concluso il discorso, Chloe e Lucifer rimanevano ad osservarla studiare i fiori, con la netta sensazione che la sua testa fosse da tutt’altra parte, mentre una sigaretta scura le fumava tra le dita. Era calato il silenzio che precede le rivelazioni messianiche.
La Papessa aveva un’espressione dura, da strega ingiuriata, e sfiorava delicatamente i petali del croco con le dita dipinte di rosso sangue come se li stesse consultando. Il tintinnio delle sue collane contro il crocifisso si spandeva nel vento crescente come una maledizione imminente.
All’improvviso si voltò verso di loro, frustando l’aria con i capelli. Lucifer fece un passo indietro. Li scrutò con occhi severi e inaccessibili, poi prese un tiro dalla sigaretta.
“I crochi sono i fiori dell’amore passionale giovanile, secondo la simbologia vittoriana. Ho scritto un saggio sui fiori, qualche anno fa. Non è da sottovalutare la potenza sacra dei segreti che custodiscono le piante.”, disse la Papessa. Il tono con cui parlò era ultraterreno ed antico, come di una creatura dell’iperuranio che iniziava a svegliarsi sotto la pelle da donna di quarant’anni. Chloe e Lucifer non avevano il coraggio di scambiarsi nemmeno uno sguardo.
La Papessa tacque di nuovo; schiacciò la sigaretta al centro di un bocciolo semichiuso di croco, che si spezzò per la forza con cui quelle mani di fata eseguirono un’azione che, agli occhi dei due, parve di una violenza agghiacciante. Deglutirono a secco.
“Lasciate che parli io a loro.”, disse la Papessa, recuperando per un attimo il suo solito atteggiamento materno. Sorrise loro per rassicurarli, ma ci riuscì solo in parte: avevano assistito ad un lato di lei che avrebbero fatto molta fatica a cancellare dai loro ricordi.
“Con loro intendo Margaret e Thomas.”, chiarì lei, rispondendo ad una domanda che si era materializzata tra loro, ma che non avevano avuto il coraggio di formulare. Li fissò negli occhi entrambi, uno alla volta, glissando da quelli scuri e inquieti di Lucifer a quelli chiari e spaventati di Chloe; e quello sguardo risuonò come un monito infrangibile, un patto di sangue che non avrebbero mai dovuto violare.
“Molly non lo deve sapere. Per ora.”
Un movimento fugace alle loro spalle li costrinse a voltarsi verso la porta finestra.
Videro solo la sagoma di Molly che rientrava in casa, sbattendo le porte, e che agguantava un cappotto dall’appendiabiti.
“Cazzo.”, disse Lucifer sottovoce. Fece per andarle dietro, ma la Papessa lo afferrò per un braccio.
“Lasciala.”, gli intimò la donna, gli occhi tinti di preoccupazione. “Lasciala andare.”
 
 
 
Oh, we had everything.
(p!nk)
 
 
 
La porta bianca del bell’appartamento di Margaret Burke-Huxley mi stava davanti, e io non avevo nemmeno la forza per sfiorarla con le nocche.
Era sera, e soffiava da est un vento da streghe che mi graffiava le guance.
Così tante domande da farle, eppure non ricordavo nemmeno come parlare.
Uno stato di assoluta e totalizzante confusione mi calò davanti agli occhi come un sipario, dopo aver sentito per errore quello che i miei amici stavano dicendo, radunati sopra un cespuglio di crochi viola.
Fu il buio subito dopo.
Mi ritrovai per qualche ragione sulla metropolitana, e poi, come in un film con un brutto editing, un attimo dopo ero davanti alla porta bianca dell’appartamento a Whitechapel di Margaret Burke-Huxley.
Pensai, con una scarica di dolore nel petto, a quante volte Thomas – il mio Thomas – si fosse trovato nell’esatto punto in cui mi trovavo io in quel momento.
Mi presi la testa fra le mani.
Ronzava terribilmente.
Come… Come era potuto accadere?
Un violento conato mi scosse da capo a piedi, e dovetti reggermi al muretto che costeggiava il vialetto d’ingresso per non cadere sulle ginocchia.
Mi girava la testa. Mi sentivo su una giostra da cui sapevo di non poter scendere.
La memoria riportò a riva un ricordo come un messaggio in bottiglia, uno dei più cari e dolci ricordi che avessi mai custodito. Eravamo su una spiaggia italiana accarezzata da un sole dolce, mansueto, mentre onde docili del primo mattino si tendevano pigramente verso i miei piedi nudi. Indossavo un lungo vestito bianco e osservavo quel mare turchese e luccicante, tenendo un indice tra le pagine di un libro quasi finito; un vento gentile giocava con i miei capelli.
Mi voltavo verso la spiaggia e vedevo Thomas seduto nella sabbia sotto un ombrellone, intento a pulire la bocca di Evangeline, sporca di pesca: era bello, e pallido, e indossava un paio di occhiali da sole scuri. Mi voltavo verso di loro e agitavo una mano, delicatamente, avvolta dal vento e dal mare, e Thomas agguantava uno dei polsi cicciottelli di Eve – avrà avuto poco meno di un anno – per salutarmi.
In piedi, infreddolita, davanti alla porta bianca, ebbi la certezza di non essere mai stata così felice come in quel frammento di tempo perduto. E’ una sottile e crudele ironia, quella per cui ti ricordi delle cose più belle nel momento in cui sai che non saranno più come prima.  
Tremai violentemente per il freddo; una folata di vento mi fece finire una ciocca di capelli in bocca. La scostai con stizza.
Una luce si accese nell’appartamento, al piano superiore, e vidi due figure muoversi dietro le tende, figure lunghe e sformate dall’effetto delle lampade. Figure così simili a quelle che popolavano i miei incubi di ragazzina tormentata, e a cui ero riuscita a dire addio solo grazie a Thomas. Alle sue mani rassicuranti che mi stringevano durante le paralisi notturne, alla sua voce che mi carezzava quando mi svegliavo dagli incubi in un lago di sudore freddo, tremante e agitata.  
Le ombre si unirono come in un sogno, e io provai una fitta al cuore così forte che mi costrinse a distogliere lo sguardo.
Mi voltai verso la strada: in piedi, davanti al vialetto, c’era Lucifer con un’espressione così addolorata che pensai per un attimo che non sarei riuscita a contenermi.
“Cosa ci sei venuto a fare, qui?”, balbettai mentre scendevo i gradini, lasciandomi alle spalle la bella porta bianca di Margaret Burke-Huxley.
Lucifer non disse nulla. Mi accolse tra le braccia, e io mi sentii minuscola, fragile, come se il vento avesse potuto strapparmi da terra da un momento all’altro.
“Andiamo a casa, okay?”, disse lui, sottovoce, mentre io piangevo grosse lacrime che non cercavo neanche di trattenere. Uscivano dai miei occhi e cadevano sui miei pantaloni, sulla camicia di Lucifer, sul marciapiede. Non mi accorsi neanche che ci stavamo allontanando dall’appartamento.
“Non so più dov’è casa.”, sussurrai io, e per risposta Lucifer mi strinse un po’ più forte a sé. Scendemmo nel sottopassaggio per la metropolitana. Da lì in poi, il buio.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
È  molto più facile essere un eroe che un galantuomo. 
 
Eroi si può essere una volta tanto, galantuomini si dev'essere sempre.
(Luigi Pirandello)
 
 
 
 
 
 
 
 



 
 
 
 
Ho solo una cosa da dire a mia discolpa, vostro onore:
I live for drama.
 
Vi bacio.
Y.


 
*yggdrasil nella mitologia norrena è l’albero cosmico, l’albero del mondo. È fonte del destino predisposto dalle Norne: la sorte degli dèi e degli uomini è indissolubilmente vincolata a questo albero;
Lagertha è il nome della protagonista femminile della serie televisiva Vikings;
il Ragnarok è la battaglia finale tra tenebre e luce che, sempre secondo la mitologia norrena, distruggerà il mondo per poi rigenerarlo;
infine, un maelstrom è un fenomeno acquatico simile a un gorgo causato dalla marea, che entra con prepotenza in passaggi molto stretti e non riesce a fluire agevolmente.
 

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Capitolo 12
*** Sulfur & sage ***


Sulfur & sage
 

 
 
 
Il mondo è fuor di squadra:
che maledetta noia, esser nato per rimetterlo in sesto!
(Hamlet, I. Sc. V)
 
 



La Papessa era torva, e i suoi occhi grigi parevano schiaffeggiare qualsiasi cosa su cui si posassero.
“Vuoi una tazza di tè?”
Si voltò verso la sorella, che a sua volta la osservava con le braccia incrociate al petto e uno sguardo indifferente.
“Non male.”, disse la Papessa, indicando il salotto dell’appartamento di Whitechapel dove era piovuta senza preavviso, con estremo disdegno di Margaret. “Vedo che il dottor Huxley non manca di viziarti.”
Margaret chiuse gli occhi e sospirò. “Che cosa vuoi, Iris?”
Quanto possono essere taglienti, i rapporti incrinati tra due sorelle. Entrambe si guardavano come se potessero vedere i tagli che si erano rispettivamente impartite: ricoprivano i loro volti come il manto delle tigri. 
La Papessa rabbrividì a sentirsi chiamare col proprio nome di battesimo, ma dissimulò. Sorrise, invece. “Questo divano color crema è squisito.”, disse passando le mani sulla pelle morbida, con uno spesso strato di veleno sui denti. “Cos’è, di design?”
Margaret stava iniziando a spazientirsi. “Senti, i bambini tornano da scuola a momenti…”
“E non vuoi che conoscano la loro bislacca zia, vero? Sarebbe un’onta imperdonabile.”
“Sai che non è così. E’ che Alfred…” Margaret si interruppe, sospirando. Si grattò un occhio e osservò la sorella,  che era impassibile come un papa di gesso. La Papessa si sedette sul divano e accavallò le gambe.
“Lo hai già capito perché sono qui.”, disse, accendendosi una sigaretta.
“Preferirei che non fumassi. Alfred odia l’odore del fumo.”
La Papessa la ignorò, continuando a fumare. “Perché?”, le chiese, tergiversando.
Margaret si sedette in punta al divano, diametralmente opposta alla Papessa.
“Perché lo chiedi a me? Come se fossi io a chiamarlo ogni volta, cazzo.”, disse, distogliendo lo sguardo dalla sorella. “E’ lui che si presenta qui, puntualmente, distrutto e schiacciato dal peso delle cose, e lo fa almeno da una decina d’anni. Perché ti scomodi a fare l’avvocato del diavolo proprio ora?”
“Perché lo sai perfettamente che Thomas non è più solo.”, sibilò la Papessa con una ferocia inusuale nella voce. Più si guardava intorno, in quel salotto arredato con minuzia certosina, con i libri perpendicolari ai bordi delle mensole e le orchidee abbinate alle tende e alle candele, più saliva in lei il desiderio di cospargere tutto di benzina e far cadere un fiammifero sul pavimento. Quella non era sua sorella. Non lo era mai stata. Sbuffò, amareggiata, in direzione di uno stupido soprammobile a forma di gnomo allegro. “E questo che cazzo è?”, chiese, indicandolo con la sigaretta. “Ma stiamo scherzando?”
Margaret saettò lo sguardo nell’angolo opposto a dove si trovava la sorella e serrò le mandibole come uno squalo.
“Thomas è un depresso. E un insoddisfatto. Perché ci tieni così tanto a rendermi la cattiva della situazione?”, sputò Margaret, senza alzare lo sguardo su quelli della Papessa. “Forse sarebbe il caso che smettessi di difenderlo come se fosse un tuo problema. Non è che per caso ti sei presa una cotta, Iris?”, chiese, provocatoria.
La Papessa schivò la frecciatina con agilità e si scostò una ciocca di capelli dal viso: la ignorò, e questo fece marcire a Margaret il sangue nelle vene.
“Tu lo incoraggi.”, disse poi, iniziando a perdere qualche cc di pazienza.
“Non è così, e lo sai. Lui è un autolesionista, Iris. Una mina vagante che muore dalla voglia di esplodere in faccia a qualcuno.”
La Papessa non poté fare a meno di notare una vena di soddisfazione in quelle parole, e un fremito di rabbia le percorse le dita. “Ti piace così tanto…”, disse, guardando con amarezza la donna che le stava davanti. Così simile a lei, eppure così radicalmente diversa.
A Margaret piaceva vedere le persone strisciare. Era disposta a tranciare i tendini del tibiale al suo stesso marito pur di vederlo per terra a dimenarsi come un lombrico. Con Thomas non ci era mai riuscita, non totalmente. Ma come godeva nel vederlo zoppicare, questo la Papessa non l’avrebbe mai saputo quantificare.
“Ti piace sapere che lui dipende ancora così tanto da te.”
“Non essere sciocca.”, ribatté secca Margaret, anche se i suoi occhi le davano ragione su tutta la linea. La Papessa credette di notare un sorriso veloce fiorire sulle labbra della sorella, ma preferì credere di esserselo immaginato.
“La ramanzina me l’hai fatta, no? Ora puoi anche andartene.”, disse Margaret dopo poco, consultando l’orologio da polso.
La Papessa scosse la testa e si alzò dal divano. Resse con dignità invidiabile il peso della consapevolezza: sapeva che non sarebbe mai riuscita a far cambiare idea a sua sorella, e tantomeno sarebbe riuscita a farla sentire in colpa. Sospirò e spense la sigaretta su un libro di Marie Kondo, L’arte del riordino, aperto e appoggiato a faccia in giù sul tavolino.
“Hai avuto occasione di sistemare il tuo matrimonio, Margot, e l’hai sprecata per correre dietro ad un facoltoso oftalmologo. Ma va bene così. Adesso però hai ottenuto quello che hai sempre desiderato, cioè un uomo che ti desse dei figli, pagasse i tuoi conti e si lasciasse mettere al guinzaglio senza troppe lamentele.”
Margaret incrociò le braccia al petto, e alla Papessa sembrò che volesse enfatizzare il successo delle sue ambizioni. Faceva fatica a riconoscere la ragazzina lentigginosa e dall’intelligenza sopraffina con cui era cresciuta dietro quella girl boss tutta d’un pezzo, ma d’altronde diventare adulti significa anche questo: rendersi irriconoscibili al proprio stesso sangue. Vige la legge della giungla, nel mondo reale, e non a tutti riesce di farsi strada mantenendosi fedeli a sé stessi.
“Lascialo andare. Lascia che sia felice, o quantomeno sereno. Smettila di farlo sentire come se tu fossi indispensabile.”
“Io sono indispensabile.”, si lasciò sfuggire Margaret, e una piccola crepa si aprì in quella maschera di gelido stoicismo. La Papessa alzò un sopracciglio, eloquente.
“Come, prego?”
“Sono indispensabile. Lui lo sa. Lui non sarebbe nulla se non mi avesse incontrato; l’ho tirato su io, l’ho mantenuto, ci ho mantenuti entrambi mentre studiavamo. Pensi che non ne sia al corrente? Sa perfettamente che ha un debito morale con me che niente potrà mai estinguere. Non importa se adesso sta a giocare alla famiglia con quella bimbetta americana, e non importa se non siamo più sposati: io sarò sempre la sua donna. La prima e l’unica. Punto. Tutto ciò che più desidero è che lui non se ne scordi mai.”, sputò Margaret. Si coprì le labbra con le dita, incredula di aver detto ad alta voce quelle cose. Cadde in una pozza di terrore gelido, e saettò lo sguardo verso la sorella, come a volersi accertare che non avesse sentito nulla. E invece, la Papessa aveva sentito tutto. Le si tinsero gli occhi di una tenerezza ambrata e compassionevole. Si avvicinò alla sorella e le sfiorò un gomito, prima che quella se ne scostasse con stizza, come se quel contatto le avesse causato un cortocircuito.
“Cosa…”, balbettò Margaret, confusa.
“Avevo bisogno di un aiutino dei miei, per essere certa che dicessi la verità.”, fece la Papessa, osservandosi le unghie. “Vieni fuori, peste.”, aggiunse, indicando un angolo scuro del soggiorno.
Margaret piantò gli occhi addosso all’uomo che uscì dalla penombra come se prendesse forma da essa. Cercò di dissimulare un  singhiozzo di sorpresa, ma fallì.
“E’ un piacere fare la sua conoscenza, mia cara. Ho sentito tanto parlare di lei. Solo cose brutte, ovviamente.”, fece l’uomo, aggiustandosi i polsini.
“E lei chi è? Come è entrato in casa mia? Iris?”, sussurrò la donna, senza riuscire a decidere se essere più infastidita o inorridita dall’intrusione. L’uomo la sovrastò, con tutta la sua altezza, e Margaret fece un passo indietro.
“Mi deve promettere…”, iniziò lui, guardandola attraverso – sì, così si sentì Margaret Burke-Huxley, quando l’uomo le piantò quegli occhi ultraterreni addosso, “Mi deve promettere che d’ora in avanti lascerà in pace il mio amico Thomas. Non esiste più per lei. Sparito. Cancellato dalla lista dei conoscenti.”
“Puff.”,  aggiunse poi, e allungò una mano a schioccarle le dita ad un centimetro dal naso.
Margaret sussultò.
La stanza si fece incandescente, come se qualcuno avesse alzato al massimo la fiamma sotto il pavimento. Margaret sentì il sudore scorrerle a fiumi sulla schiena e in mezzo ai seni. La vista si annebbiò, come se una densa coltre di nebbia malevola fosse calata dalle finestre, dalle fughe del parquet, dalla cappa del camino. Si sentì mancare il respiro e temette di avere un infarto in corso. Poi, nella confusione, vide quegli occhi: enormi, profondi, taglienti occhi color sangue che rivelavano uno ad uno tutti i suoi segreti, perfino quelli di cui non era a conoscenza nemmeno lei stessa. Quelli inconfessabili, spregevoli, sensazioni che poteva solo immaginare, senza riuscire a razionalizzare completamente.
Si sentì lacerare da un bisturi in fondo all’anima e le parve di sentire addosso lo scorrere bollente del sangue, zampillante da una ferita aperta. Si portò una mano al ventre, temendo di scoprirla grondante di sangue, ma nulla: solo la sensazione della stoffa del vestito zuppa di sudore.
“Me lo promette, signora Burke-Huxley?”, ripeté l’uomo, suadente, gli occhi rossi fissi nei suoi.
Fu un attimo.
Le affabili sembianze dell’uomo lasciarono spazio per una frazione di secondo ad un volto sfigurato dalla carne viva esposta, antico e terribile.
Margaret cadde a terra come uno straccio bagnato, e si allontanò da lui finché la schiena non toccò la parete opposta della stanza.
Dovette trattenersi dal cacciare un urlo agghiacciante.
Chiuse gli occhi con forza, credendo di star sognando, e iniziò a singhiozzare.
 
Quando riaprì gli occhi, la stanza era vuota.
Nell’aria, un persistente odore di zolfo, unito a quello della salvia fresca bagnata dalla pioggia.
 
 
 


 
 
 




 
Ci sono pugnali negli occhi degli uomini.

 
 
 
 


 
 
(sì, sono tornata.
Sì, sono in ritardo.
Fatemi un saluto.)
 
Vi voglio bene.
Y.
 
 
 

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Capitolo 13
*** From Eden ***


 

 

 

 

 

From Eden

 

 

 

 

 

 

 

 

 

“Dunque?”

“Eh, Linda. Dunque questa è la situazione.”

Il jet lag non aiuta affatto a rendere le conversazioni meno difficili: anzi, sortisce l'opposto dell'effetto sperato: assottiglia i nervi e lima la pazienza. La donna squadrava Lucifer con il pugno stretto intorno al trolley, esausta, il collo bloccato dall'aria condizionata e il trench imperlato di gocce di pioggia. Sospirò profondamente, pensando che stava decisamente diventando vecchia.

“Avrete pur pensato a fare qualcosa?”

“E cosa si può fare? Thomas è chiuso nel suo studio da due giorni, Molly in camera sua. Non mangiano, non parlano. Immagino che nemmeno dormano.”

Linda sospirò e si appoggiò i palmi sugli occhi.

Delle dita delicate le circondarono i polsi e glieli scostarono gentilmente dal viso: davanti a lei, un viso da fata, affilato e scaltro. “Salve, cara. Non credo ci siamo ancora presentate. Sono la Papessa.”

La battuta sarcastica con cui avrebbe voluto commentare quel nome le si spezzò in gola; Linda non potè fare a meno di sorriderle, invece, attratta da quegli occhi magnetici. “Linda. Linda Martin.”

“Ho sentito moltissimo parlare di lei.”

“Diamoci del tu, per favore.”

“Okay, ora possiamo concentrarci?”, disse Lucifer, mulinando le braccia come un forsennato.

Le due donne si voltarono al ralenti verso di lui e gli scoccarono un'occhiata che voleva dire zitto, caro. Ora parlano i grandi.

Lucifer sbuffò e mise il broncio.

“E Chloe?”, chiese Linda, rivolgendosi direttamente alla Papessa.

“Chloe è stata mandata a fare una serie di trattamenti SPA contro la sua volontà. Abbiamo tutta la giornata a disposizione.”, stilò la Papessa, in un pacato brodo di giuggiole.

“Molto bene. Devo dire che è abbastanza elettrizzante.”, confessò Linda, senza riuscire a trattenere un brivido di emozione. Certo si sarebbe aspettata di tutto, in vita sua, tranne di poter assistere finalmente al matrimonio del Diavolo.

“Vedessi il vestito...”, fece la Papessa. “Un incanto.”

Lucifer stava iniziando ad innervosirsi, ora: si guardò intorno, nel pacato brulicare tipico degli aeroporti alle prime luci dell'alba, e, sbuffando, consultò un orologio da polso che non indossava. “Possiamo darci una mossa?”

Linda alzò gli occhi al cielo e gli mollò il trolley tra i piedi. “Guarda che ti devi sposare, non fare l'esame di maturità. Datti una calmata.”

“Sì, ma Thomas...”

“Ci penso io, a quello.”, intervenne la Papessa.

“E Molly...”

“Anche a lei ci penso io.”

“Tu devi solo pensare a farti bello...”, disse Linda, che si sentì improvvisamente ristorata dalla presenza della donna.

“...e prepararti psicologicamente.”, concluse la Papessa, scoccandogli un'occhiata saggia.

“Al resto ci pensiamo noi.”, aggiunse.

Lucifer deglutì a vuoto, e temette il peggio.

 

 

 

 

 

Boys, when my baby found me
I was three days on a drunken sin
I woke with her walls around me
Nothin' in her room but an empty crib
And I was burnin' up a fever
I didn't care much how long I lived
But I swear I thought I dreamed her
She never asked me once about the wrong I did

(Work Song, Hozier)

 

 

 

 

 

 

“Dunque?”, chiese Molly, osservandosi gli anelli.

Non era certa di avere la forza necessaria per alzare gli occhi dalle proprie mani, ma sapeva che avrebbe dovuto inventarsela. A quel punto, la persona che stava davanti a lei era una sconosciuta. Un territorio inesplorato infestato di spettri che somigliavano terribilmente a quelli che le rimboccavano le coperte da bambina. In effetti, era proprio quello che si sentiva lei in quel momento: una bambina. Una bambina da sola costretta a fronteggiare un esercito di fantasmi.

Sospirò.

Si accese una sigaretta.

Sbuffò una nuvola di fumo in direzione del suo interlocutore.

L'uomo le rivolse uno sguardo trafitto da mille pugnali, trattenuto a stento da una diga di ghiaccio che anche lui, in qualche modo, si era dovuto inventare per poter reggere quella conversazione. Non era messo tanto meglio di lei, si disse Molly, ma per una volta volle giocarsi la carta della differenza di età, e permettere a lui di aprire quella conversazione che aveva tutto l'aspetto di una danse macabre.

“Dunque... cosa vuoi sapere?”, chiese Thomas, muovendosi a disagio sulla poltrona del suo studio. Dall'altra parte, Molly fumava, un posacenere di cristallo in equilibrio precario sulla coscia; osservava la stanza, le linee delle mensole, i libri, i fogli sparsi sulla scrivania.

Si alzò, reggendo il posacenere tra le dita, e iniziò ad analizzare i ripiani della libreria. Una bella libreria, solida, in legno di acero massiccio. Le venne in mente l'armadio dei cent'anni ne Il giardino di ciliegi, di Chekov: un grosso mobile pieno di generazioni e generazioni di libri con una targa che recava l'anno di produzione. Un simbolo. Un punto fermo che centinaia di mani avevano toccato, contro cui si erano appoggiate centinaia schiene e che centinaia di dita avevano sfiorato, come stava facendo lei in quel momento, procrastinando il più possibile l'inevitabile, girando attorno ai problemi con ampie giravolte da derviscio. All'armadio dei cent'anni probabilmente si erano appoggiati anche gli animi pesanti dei protagonisti di quel dramma, un gruppo di aristocratici russi, immaturi e malinconici, che non facevano altro che caricare un vecchio armadio piegato dal tempo di tutte le gioie della loro vita; quello, o anche una piantagione di ciliegi.

Stupidi illusi. Molly sapeva che la felicità non prende mai la forma di nessun oggetto. Non è fatta di materiale refrattario, ma prende la forma di ciò che la contiene: un ciliegio può essere abbattuto, un armadio smontato. Una casa venduta. Per questo lei aveva sempre preferito affidare tutto alle persone; le persone se ne vanno, certo; ma non possono liberarsi di quelle schegge di felicità che tu gli hai affidato. Possono lasciarti, ma avranno un pezzetto di te addosso per sempre, volenti o nolenti; e tu di loro. Un piccolo pegno che ti permette di ricordare che la parte migliore di te esiste ancora, addosso a qualcuno come una foglia secca, fulgida e indistruttibile, e continua a splendere tra i viluppi cerebrali come una supernova. Anche quando tu ti senti spento.

L'uomo che sedeva affranto nella sua poltrona come se stesse aspettando di sentire il suo nome dal boia, odorava di estati italiane, agrumi che così dolci non ne aveva mai assaggiati e di rimpianto. Che, nel caso ve lo steste chiedendo, sa di anguria, naftalina e foglie bagnate.

Molly sfiorò la costa di un libro e si lasciò invadere le narici dal profumo di carta antica: la vecchia collezione dei sonetti di Shakespeare che Thomas amava così tanto.

Sorrise, nostalgica. Le venne in mente di quando, una volta, Thomas le stava leggendo il sonetto 18 nella vasca da bagno: lei aveva la testa sul cuore, le braccia di Thomas la circondavano come un equatore e la sua barba le pizzicava leggermente il collo, quando lui scendeva a baciarlo. “Shall I compare thee to a summer's day? No, a summer's day's not a bitch.”, aveva declamato lui, storpiando volutamente i versi. Erano scoppiati a ridere e per poco il libro non era finito nella vasca; dopo averlo messo al sicuro a terra, Molly si era girata su di lui e avevano fatto l'amore ridendo.

“Non voglio sapere se la ami ancora, se è questo che ti stai domandando.”, disse lei all'improvviso, allontanando la mano dal libro come se avesse preso la scossa. Si girò verso di lui perché sentiva il suo sguardo bucarle la nuca.

“Non la amo.”, rispose Thomas, secco.

“Non mi interessa.”

“Cosa posso dire, allora?”, chiese lui, torturando il bracciolo con le dita.

“Puoi dire che ti dispiace.”

“Mi dispiace.”

“Che sei uno stronzo.”

“Sono uno stronzo.”

“Che non ha significato nulla.”

Thomas tacque. Molly piegò la testa di lato, e una lunga ciocca bionda le scivolò dalla spalla; aspirò dalla sigaretta, meditabonda.

“Dimmi qualcosa che non so.”, disse. Ci pensò un po' su, poi si corresse. “Qualcosa che pensi che io non sappia.”

Thomas si appoggiò sullo schienale della poltrona; poi si portò in avanti, giungendo le mani sotto il mento. Decise di alzarsi in piedi, e versò ad entrambi due abbondanti bicchieri di gin. Distilled for the eradication of seemingly incurable sadness, recitava l'etichetta.

“Ti dico qualcosa che credi di sapere.”, ribatté lui, dopo aver preso un sorso avido. Molly fece lo stesso.

“Dillo, dunque.”

“Tu credi che io sia un brav'uomo. Credi che non avrei mai potuto farti del male, consapevolmente o inconsapevolmente. Credi che è stato un momento di debolezza, un errore, un caso isolato. Non sono un brav'uomo, bambina, ma pensavo almeno di non essere un disonesto o un insincero; eppure...”

“Eccoti qua.”, continuò lei, stirando un sorriso.

Thomas si appoggiò alla libreria con la spalla. “Mi dicevi che sono l'opposto di Lucifer. Che con me potevi stare tranquilla, che non dovevi mai preoccuparti di niente. Ho cercato ogni giorno di essere quel tipo di uomo per te: ho ricacciato tutto lo schifo che sono in un angolino per concederti uno spazio pulito e illuminato dove potessi stare serena. Al sicuro. Ma il fatto è che se sei fisiologicamente uno stronzo, un egoista, tutto ciò che puoi fare è costruire una diga intorno a ciò che più ami, per evitare che tutto lo schifo che hai dentro lo travolga. Non ho mai saputo diventare un uomo migliore, ma ho dovuto cercare di esserlo, per te. Quantomeno sembrarlo. E credimi, amore. Credimi. Ci ho provato.”

“Lo so.”, disse Molly con dolcezza.

Thomas sbatté gli occhi, confuso. La guardò prendere di nuovo posto nella poltrona, accavallare le gambe, prendere un tiro dalla sigaretta – un tiro lunghissimo, come una canzone. Sembrava piccolissima, nel suo maglione verde scuro, e a Thomas si squarciò il petto ancora di più.

“Mi detesti?”, le chiese, muovendosi con circospezione.

“No.”, disse lei. “Non potrei neanche se volessi. E l'ho voluto.”

Thomas sentì il pugnale che aveva nel petto smuoversi di poco e deglutì a secco.

“Cosa vuoi fare, adesso?”, le chiese di nuovo, inquietato da quei lunghi silenzi. Voleva che urlasse; che gli tirasse addosso quel fermacarte appuntito, che piangesse. Voleva che desse un senso a tutto quel dolore che sentiva ruggire dentro le proprie tempie. E invece, Molly fumava in silenzio, osservando quella stanza come se volesse dirle addio, accarezzando i libri e i soprammobili con occhi dolci e insondabili.

Quando era tornato a casa dopo essersi confrontato con Lucifer, Molly aveva appoggiato la bambina in grembo alla Papessa e gli aveva chiesto gentilmente se avesse tempo di scambiare due parole, con un'aria di pacata compostezza addosso e gli occhi delle martiri che osservano chi scaglia la prima pietra.

“Vorrei che facessimo l'amore.”, rispose Molly, e Thomas per poco non cadde per terra dallo stupore.

“No, io... no. Non posso.”, sussurrò lui.

La ragazza spense la sigaretta nel posacenere e si avvicinò a lui: gli prese il viso tra le dita come se fosse un uccellino ferito, e Thomas chiuse gli occhi, sentendosi scavare dentro il petto con una trivellatrice.

“Perché?”, le chiese sottovoce, sforzandosi di non cadere a terra come uno straccio. Non riusciva nemmeno a toccarla.

Lei gli prese le braccia e se le portò intorno alla vita. “Cos'è, hai paura di rompermi?”, chiese.

Lo baciò, ma lui si scostò. “Ti prego.”

“Cosa, Thomas? Mi preghi di cosa?”

Allontanò il viso da quello dell'uomo; non riusciva nemmeno a guardarla negli occhi. “Non mi vuoi?”

“Non merito questo.”

“E cosa meriti?”

“Un pugno. Una bestemmia. Di essere chiuso fuori di casa. Di non vedere mai più questa casa, la bambina... questi occhi.”

“Ah. Una reazione normale, quindi. Ma vedi, amore mio, la tua è una pretesa assurda: io non sono normale.”

Provò di nuovo a baciarlo, ma lui non ricambiò nemmeno questa volta. Molly sospirò e si allontanò. Le mani di lui caddero inermi come quelle di un morto.

“Mi puoi almeno guardare?”, domandò la ragazza.

L'uomo alzò su di lei un viso da spettro di sé stesso.

“Non posso amarti anche al posto tuo.”, disse lei, incrociando le braccia. “Ti guardo, e vedo un ragazzino imbavagliato e spaventato, tenuto in ostaggio dalla versione adulta di sé stesso, quella che la vita ha preso a calci, ha bastonato, tradito, vivisezionato, torturato, strozzato e calpestato. Hai cercato di ammazzarlo, quel ragazzino che vedo ogni tanto sbucare nei tuoi occhi, ma non ce l'hai fatta. Sei stato un ragazzo magro magro che non riusciva a mettere su un muscolo, intelligente e rumoroso, sempre pronto a dire una parola gentile a chi ne avesse bisogno. Coinvolgevi anche i più taciturni, i disillusi, i sarcastici. Eri tumultuoso, frizzante. Irreprensibile e recidivo in tutte le cose belle della vita. Quello che preferiva sempre chiedere il perdono piuttosto che il permesso.

Una volta, al mare, mi dicesti che l'unico consiglio che sentivi di potermi dare era: Balla. Balla di più. Sul momento mi hai fatto innervosire perché ho pensato: che razza di salmo da cioccolatino; ma poi ho capito che avevi ragione. Bisogna ballare come se non ci fosse nessuno, e fare così tanto gli stupidi da farsi venire il mal di pancia, a furia di ridere. Bisogna fare l'amore anche se i jeans non si chiudono più sulla vita, e bere sempre un altro bicchiere se il tuo amico se ne versa un terzo. Bisogna fumare una, cento sigarette se ne si ha voglia, e praticare religiosamente l'empatia e la tenerezza.

Quello che mi disse queste cose era il ragazzino rantolante sulla cui gola ora invece stai premendo un ginocchio. Non so se Margaret ti abbia convinto a eliminarlo, se sia stata la vita o semplicemente tu stesso. Ma so che avevi ragione allora. E avevi ragione anche quando mi hai detto che l'amore non è una cosa complicata, ma complessa: che quando si vuole davvero, non è vero che si fa quel che si può, ma proprio al contrario si fa quello che non si può. La volontà va sempre oltre l'ostacolo delle capacità, vere o presunte. Hai guardato con saggio distacco la relazione tra Lucifer e Chloe, e io ho sempre ammirato il modo in cui li osservavi e li prendevi in giro. Sapevi che stavano facendo logaritmi inutili dove in realtà tutto era semplice; io ti amo perché tu l'amore me l'hai resa una cosa semplice. Anche quando era tutt'altro che facile. Anche adesso.”

Thomas crollò sulle ginocchia e appoggiò il capo in grembo alla ragazza, pregando silenziosamente che le sue dita arrivassero a carezzargli i capelli, come avevano sempre fatto. Aspirò a fondo il profumo di bucato del suo vestito e sentì le lacrime pizzicargli gli occhi. Mai prima d'ora si era sentito così immeritevole.

“Mi hai chiuso una porta in faccia.”, disse Molly.

“Non ti volevo, lì dentro. Non è un posto per te, lì dentro.”

“Non lo è neanche per te.”

“Io so muovermi.”

“Ne sei certo? Sei così sicuro di poter prendere sempre tutto di petto, da solo?Certo che è così.”, si rispose la ragazza, ferma come un obelisco, “Certo, perché nel caso fosse tutto troppo e non ce la facessi, puoi infilarti a letto per settimane a osservare la polvere addensarsi nel buio. La Papessa mi ha raccontato.”

Thomas alzò il viso verso di lei e la guardò dritta negli occhi. “Perdonami. Ti prego, perdonami.”

Molly lo fissò con uno sguardo indecifrabile e opaco: sembrava di guardare la pioggia al di qua di una finestra appannata. Sapeva che non stava parlando del tradimento, né di Margaret. Le stava chiedendo perdono per averla sottovalutata. Sospirò. Gli accarezzò il volto e piegò la testa di lato. Tacque.

Thomas ebbe l'impressione di essere sul punto di morire.

“Eri così occupato a fare di tutto pur di non essere come Lucifer che alla fine ti sei dimenticato di essere te stesso.”

Si alzò, lasciandolo in ginocchio davanti alla libreria.

“Andiamo a prepararci, ora. Linda sarà qui a minuti.”, esalò lei, stanca, piegata come una spranga di ferro, eppure impossibile da spezzare.

Thomas si alzò. “Potrai mai perdonarmi?”, le chiese, mentre lei apriva la porta.

Molly si voltò leggermente, la mano ancora stretta intorno alla maniglia, e sospirò pesantemente. Lo guardò da sopra la spalla. “Non penso che sia questo il punto. Penso che debba perdonarti tu, per stare meglio.”

 

 

 

 

 

Darlin',

don't you stand there watching,

won't you
Come and save me from it
Darlin',

don't you join in,

you're supposed to drag me away from it

Any way to distract and sedate
Adding shadows to the walls of the cave

(Sedated, Hozier)


 


 



 

 

Honey, you're familiar from my mirror, years ago

Idealism sits in prison, Chivalry fell on its sword

Innocence died screaming, honey ask me, I should know

I slithered here from Eden, just to sit outside your door

(From Eden, Hozier)

 

 

 

 

Lucifer si stava aggiustando i polsini del completo buono, e gli tremavano le mani. Aveva fatto e disfatto il nodo alla cravatta almeno cinque volte, e nessuna di queste lo aveva soddisfatto.

Nella cornice dello specchio, la sua immagine gli ricambiava uno sguardo infervorito da un nervosismo che non aveva mai provato prima. Era un fremito sottopelle che gli dava forti pulsazioni nelle vene, dietro gli occhi, intorno alle pareti dello stomaco. Sbuffò e si snodò ancora una volta la cravatta.

“Vieni qui. Stai tremando peggio della California.”

Molly fece la sua apparizione mariana nello specchio e Lucifer esalò un sospiro che non si era reso conto di star trattenendo.

“Piccola.”, disse, voltandosi verso di lei: indossava l'accappatoio di spugna e un esercito di bigodini nei capelli, ma gli occhi erano appannati, sfocati. Come se fossero stati privati di qualcosa di importante.

“Su, non guardarmi così.”, disse Molly, ma le si spezzò lievemente la voce. Si schiarì la gola e si mise in punta di piedi per fargli il nodo della cravatta.

Lucifer si sentì appassire. Le fermò le mani, stringendole. “Mi dispiace così tanto.”

“Non oggi, ti prego. Oggi è la vostra giornata. E sarà meraviglioso.”, sussurrò lei, liberandosi con delicatezza dalle dita di Lucifer. Gli annodò la cravatta in silenzio, cercando di evitare lo sguardo di lui. “Fatto.”

Sospirò. Ormai non riusciva a fare altro.

La sua mano indugiò sul suo petto per qualche secondo di troppo: alzò gli occhi verso Lucifer, che era alto, felice e che le voleva così bene, e non riuscì a trattenere una lacrima.

“Sono stanca. Stanca da morire.”, disse, rispondendo ad una domanda che Lucifer non aveva avuto il cuore di articolare.

La guardava con occhi traboccanti di compassione; di sofferenza pura, vera, e Molly si sentì un'egoista.

“Ti prego, non guardarmi così. Mi fai sentire una vedova.”, cercò di scherzare lei.

“Mi basta una parola, Molly.”, disse Lucifer, fermo. “Una parola e lo rivolto come un calzino. Davanti a tutti. Davanti a Dio, se è necessario. Sai che lo farei.”

“Va bene una parola qualsiasi? Tipo prosciutto?”, disse lei, sorridendo.

Lui non disse niente, e la fissò dritto negli occhi; Molly gli accarezzò il petto e abbassò il capo.

“Ora vai, devo finire di prepararmi.”, disse poi, indugiando ancora un secondo con le dita sulla camicia. La sensazione della pelle di lui sotto il tessuto le trasmetteva un senso di calma che non percepiva da tempo.

Fece per tornare in camera; tornò sui suoi passi poco dopo.

“Lucifer?”

“Dimmi, piccola.”

“Puoi farmi una cortesia?”

“Tutto quello che vuoi.”

Esitò un istante. Lucifer era un uomo sereno, ora. O quantomeno, era un uomo che aveva capito come fare per raggiungere la serenità, un atto di fede alla volta. Si morse un labbro.

“Molly?”

“Puoi darmi un bacio?”

 

 

 

 

 

What's the difference if I say

I'll go away
When I know I'll come back on my knee someday
For whatever my man is,

I am his

forever more

(Barbra Streisand)

 



 

Chloe Decker era confusa.

Era tornata da una seduta di massaggi in uno dei centri benessere più esclusivi del centro e ora si sentiva una donna nuova. Era riuscita, per qualche ora, a smettere di pensare al lavoro, a Molly e Thomas; alla peculiare caparbietà con cui la vita si impegnava a mettere a tutti loro i bastoni fra le ruote.

E ora si trovava nella casa di Belsize Park, vuota: nessun rumore, nessuna luce accesa.

Era andata in camera sua, e la confusione si era moltiplicata dentro numeri inimmaginabili quando si era trovata davanti al letto un enorme porta abiti bianco, su cui era appoggiato un bigliettino: Indossami.

“Cosa ca...”, si disse, guardandosi intorno.

“Fai quel che ti dice.”, disse una voce alle sue spalle. Si voltò verso la porta. Era comparsa la Papessa, in elegante completo tre pezzi e i capelli raccolti in un elaborato chignon. Sorrideva furbescamente, e la osservava come se sapesse tutto, perchè sapeva tutto. Sempre.

“Cosa significa?”, chiese Chloe, sventolando il biglietto.

“Significa che ti devi vestire.”, ribatté lei, sibillina. “Ti aspetto qui fuori.”

 

 

 

 

It's a beutiful night

we're looking for something dumb to do

 

 

 

 

Hey, baby

I think I wanna marry you

 

 

 

Accarezzava le pieghe di quel bell'abito bianco, davanti allo specchio, e non capiva.

La Papessa le spazzolava i capelli, materna, e l'aveva truccata senza pronunciare una sillaba: Chloe aveva smesso di insistere per cercare di capire, e aveva ceduto. Ma era comunque divorata dalla curiosità.

“Ma si può sapere cosa avete in mente.”

“Shht.”

“Ma.”
“Taci.”

“In realtà-”

“Allora?”

“Però!”

“Chloe Decker, chiudi quella fogna o ti ribalto.”, le intimò la Papessa, puntandole la spazzola contro come una rivoltella. Poi si tramutò di nuovo nella fata Serenella che era sempre stata, e le rivolse un sorriso di miele. “Sei bellissima. Ora dammi la mano.”

Chloe esitò un secondo, colpita forse inconsciamente da un dubbio: cercò la conferma negli occhi cangianti della Papessa, e la trovò, ovviamente, senza che la donna dovesse proferire parola.

“Forza.”, le disse, tendendole una mano inanellata.

Le legò un piccolo ciondolo di quarzo al collo.
“Questo qui, nella cristalloterapia, indica la fede, la bellezza innocente, e soprattutto la chiarezza.”, disse la Papessa, stringendole le spalle come una mamma. Chloe la guardò con occhi traboccanti di stupore e aprì la bocca per pronunciare qualcosa. Preferì tuttavia tacere.

“La chiarezza, Chloe Decker. La chiarezza è la vera virtù dei forti.”



 

Is it the look in your eyes?
Or is it this dancing juice?

 

Who cares, baby?
I think I wanna marry you



 

La condusse per la casa avvolta nella penombra, a braccetto; era appena mezzogiorno, e filtrava solo la luce di un sole invernale indeciso se mostrarsi o nascondersi: eppure Chloe non sentiva più freddo, nonostante il vestito lungo, semplice, le scoprisse entrambe le spalle e la schiena.

I capelli ondeggiavano intorno al suo viso, morbidi e profumati della lavanda e del rosmarino che la Papessa vi aveva intrecciato: pur non capendo, né avendo i mezzi per capire, Chloe non aveva paura. Stretta al braccio della Papessa, sentiva che avrebbe davvero potuto scontrarsi contro qualsiasi cosa.

Ora avevano davanti la portafinestra che conduceva al giardino: vedeva del movimento, dietro le tende tirate, come se il giardino avesse preso vita in una sorta di incantesimo del bosco. Piccole gemme luminose splendevano tra gli alberi, nei cespugli, tra i petali dei fiori.

“Sei pronta per il resto della tua vita, Chloe Decker?”, chiese la Papessa, strizzandole l'occhio.

Chloe si tese con tutto il corpo in un sorriso meravigliato, e la Papessa la interpretò come una risposta affermativa. “Molto bene.” disse, ed estrasse – chissà da dove – un lungo velo di tulle. Glielo sistemò tra i capelli come a voler fugare ogni dubbio; le prese il viso tra le mani e le depositò un piccolo bacio sula fronte. Chloe si sentì tornare indietro di vent'anni, almeno, e gli occhi le si riempirono di lacrime.

“Davvero, Iris?”, le chiese, poco prima che la Papessa scostasse le tende.

La Papessa le sorrise, machiavellica, e le porse un elaborato bouquet di margherite e crisantemi bianchi.

Più tardi le avrebbe spiegato che le margherite sono il simbolo dell'innocenza, che deve essere sempre recuperata e coltivata scrupolosamente; i crisantemi bianchi, invece sono l'amore eterno. Indistruttibile, inscalfibile e inarrestabile; eppure fragile, delicato, fatto della stessa sostanza di cui sono fatte le risate e le torte al limone. Profumato come una promessa estiva fatta sottovoce, e intenso come il rumore dei suoi passi quando torna a casa dal lavoro.

La Papessa scostò la tenda.

Il resto della tua vita, si ripeté Chloe, avanzando un passo con gli occhi chiusi.

Un profumo fresco di fiori e un frusciare di voci le sterzarono sul viso come una carezza gentile. Poi, percepì una presenza che avrebbe sempre riconosciuto tra mille; un profumo inconfondibile di tabacco e di casa.
Chloe sorrise, e due lacrime le rigarono le guance.

Aprì gli occhi.

Lucifer era davanti a lei, elegante e radioso come un angelo, e le tendeva una mano. Chloe la prese senza nemmeno pensarci.

No, non è il resto della mia vita. E' solo l'inizio.

“Io, che amo solo te.”, disse solamente lui, con un mezzo sorriso, come a volerla rassicurare.

Non si accorse di tutto il resto fino a quando non fu al centro del giardino: qualche sedia bianca sistemata a produrre un tentativo di navata, su cui sedevano, ferventi ed emozionati, un pugno di matti: sua madre, Linda Martin, Amenadiel; la piccola Trixie che lottava coraggiosamente contro la necessità di sbadigliare, e che la guardava con un tale orgoglio che rischiò di farla esplodere. Daniel, con un sorriso di sincera gioia. La Papessa, con le mani chiuse intorno ad una Bibbia consunta, li aspettava sotto un piccolo ciliegio in fiore, cosparso di minuscole luminarie fatate. Un ciliegio in fiore in novembre, già: un piccolo miracolo. Così come la fessura che si aprì dalle nuvole, e da cui cadde come una cascata un fascio di raggi tiepidi. Nessuno aveva freddo; nessuno tremava. Era tutto perfetto.

Lucifer alzò gli occhi verso il cielo e sorrise, lievemente, scuotendo la testa. Socchiuse gli occhi, e baciò le mani di Chloe come se volesse celebrarle.

A Chloe sembrò di sentirlo sussurrare un grazie verso il cielo, fugace come un battito d'ala, e altrettanto silenzioso.

Lucifer la condusse davanti alla Papessa senza riuscire a staccarle gli occhi di dosso; Chloe non sapeva cosa dire, né cosa pensare, quindi si godette il tepore di quel completo silenzio mentale e lo accettò come un regalo.

Lucifer la guardò dolcemente, mai sazio di quella visione bianca e bionda, e poi stornò lo sguardo sulla Papessa.

Una mano gentile sfiorò la schiena di Chloe: Molly si affiancò alla donna e la abbracciò, stretta. Le porse un piccolo cuscinetto di velluto a cui era legato un'assurda fede d'oro. “Volevo fare una battuta su Il Signore degli anelli, ma la Papessa ha detto che sarebbe stata di cattivo gusto.”, sussurrò la ragazza, strizzandole un occhio. Chloe le sorrise teneramente e le carezzò una guancia.

“Dopo tutto questo tempo? Dopo tutto quello che è successo?”, chiese, trovando finalmente la forza di unire i propri occhi a quelli scuri della ragazza: sospirò, Chloe, nel vederla abbassare fugacemente le ciglia folte e asciugarsi una lacrima.

“Sempre.”, disse Molly, e si sentì molto Severus Piton, ma preferì glissare.

Comparve anche Thomas, al fianco di Lucifer, e gli consegnò la fede: Molly distolse velocemente lo sguardo e lo piantò sulle proprie scarpe. Thomas la osservò, dilaniato, e cercò di respirare agevolmente.

La Papessa strinse il dorso della Bibbia e si morse un labbro.

“Lo so che tutto questo circo l'abbiamo messo su per Romeo e Giulietta di Palm Springs.”, disse, caustica, facendo ridere il piccolo capannello di invitati. Lucifer alzò gli occhi al cielo. “Ma questo è molto di più di un matrimonio. Questa è la celebrazione degli strappi, delle ferite non rimarginate, delle vulnerabilità che finalmente avete deciso di mostrarvi. Tu, Lucifer, hai accettato di accogliere questa donna nel punto più profondo della tua anima. Un luogo oscuro, paludoso, un acquitrino stagnante in cui temevi che questo meraviglioso cigno rimanesse invischiato.”

Fece una piccola pausa, gustandosi lo sguardo carico di amore che Chloe rivolse a Lucifer.

“Le hai fatto un regalo che nessun altro potrà eguagliare; e che nessun altro atto di coraggio potrà assimilargli, in vita tua. Spero che ti renda conto della potenza di questa cosa qui che stiamo per fare. Tu, Chloe, invece, hai finalmente permesso a te stessa di uscire dalla prigione che la tua stupida, infondata paura ti aveva costruito attorno. Stai respirando aria fresca per la prima volta in vita tua, e si vede. Si vede davvero tanto.”

Chloe sorrise, stringendo più forte le dita intorno a quelle di Lucifer.

“Questa cosa qui che c'è tra voi due, non tutti riescono a provarla nemmeno una volta nell'arco di una vita. Possiamo anche ammettere che sia una casualità; che sia stata una semplice coincidenza. Potrebbe essere andata in modo completamente diverso, perché la vita è un fottuto caos che noi non possiamo controllare. Rendetevi conto di questa forza, e celebratela come il miracolo che è.”

Lucifer non riuscì a trattenersi e si piegò a baciare Chloe, impetuoso, in uno scrocio di applausi.

La Papessa pestò un piede a terra. “No, no, no, non è ancora il momento! Diamine, ho detto che è il caos, non l'anarchia generalizzata!”, sbuffò, incrociando le braccia al petto.

“Cosa ci vuoi fare, Papessa.”, disse Lucifer, staccandosi dalle labbra di Chloe con una risata. “Ho una certa familiarità con la dissidenza verso le autorità ecclesiastiche.”

I convitati risero, e Lucifer fece l'occhiolino a Chloe e Molly, che scuoteva la testa.

“COMUNQUE!”, ululò la Papessa, riportando tutti al silenzio. “Nonostante questa sia una giornata per voi,”, disse indicandoli, “non pensiate che non abbia in serbo una strigliata anche questi due qui.”
Thomas incrociò le braccia al petto e alzò un sopracciglio. “Non mi sembra proprio il luogo né il momento, Iris.”

“Se non ora, quando?”, chiese Molly, fissando i crisantemi bianchi in mano a Chloe.

La Papessa si fece da parte, abbassando il capo.

Molly alzò gli occhi verso Thomas: in quei giorni sembrava dimagrito di dieci chili, e due enormi borse violacee avevano preso residenza fissa sotto i suoi occhiali. Si avvicinò a lui e gli prese una mano.

La ragazza si sciolse i capelli, che caddero in morbide onde sulle sue spalle, e Thomas sentì gli occhi riempirsi di lacrime. Una volta, mesi e mesi prima, in un pomeriggio di pioggia incastrato nella lucida superficie di lavagna del tempo, le aveva detto che ogni volta che la vedeva sciogliersi i capelli non poteva trattenersi dall'innamorarsi nuovamente di lei.

Lasciò che una lacrima gli scivolasse lungo una guancia ruvida.

“Sono un idiota.”, le disse.

“Lo sei.”

Qualcuno ridacchiò, e fu prontamente fulminato con uno sguardo al fulmicotone da parte di Lucifer.

Molly sospirò. “Ma cosa devo fare io, con te? Mi guardi come se mi avessi appena sepolta.”

“Smettila di far finta che quello che ho fatto non ti abbia minimamente scalfito.”

“Lucifer ha detto che gli bastava che dicessi una parola qualsiasi e ti avrebbe rivoltato come un calzino.”, disse Molly, teneramente. Thomas sorrise.

“Prosciutto.”, fece presente Lucifer. “Ha detto che bastava prosciutto. E io mantengo sempre la parola data.”

“Sei un uomo triste, Thomas. E probabilmente hai ragione: sei uno stronzo. Sei egoista e inconsapevolmente crudele, ogni tanto. Probabilmente mi manderai all'altro mondo.”

Thomas si irrigidì nel sentirla pronunciare quelle parole. “Senza peli sulla lingua, eh?”

“Io, invece,”, continuò Molly, glissando, “sono una ragazza di ventitré anni affamata d'amore, piena di incubi e deliri di onnipotenza, e ho una particolare e masochistica passione per le cause perse. Sono anche la madre di tua figlia, che si chiama come una lucciola, come il Vangelo, e come la prima donna. Non so funzionare normalmente, amore mio. Non mi trovo particolarmente bene con il concetto di normalità, in generale, e la realtà per me è una coperta troppo piccola che mi lascia sempre i piedi scoperti. Sono matta, matta come un cavallo, e mi sono innamorata del Diavolo e dell'uomo più pazzo e meraviglioso che abbia mai avuto la fortuna di incontrare. Un uomo che si è torto e ritorto come un verme, che ha fatto i salti mortali per cercare di tenermi lontana dalle cose che più disprezzava di sé stesso, perché le vedeva come la più grande minaccia per la persona che più amava al mondo. Lo so che chiunque altro qui dentro pensa che sia un'incosciente o una stupida; ma, Thomas, io so che tu hai fatto quello che hai fatto perché ti fai schifo. Perché pensavi che tornare da quella manipolatrice della tua ex moglie fosse comunque un'opzione migliore che mettermi di fronte alla parte peggiore di te stesso. Hai fatto con Margaret quello che Lucifer ha fatto con me: i tuoi demoni ti mordono, e non puoi scrollarteli di dosso, rischiando di infettare la persona più importante per te. Quindi li scrolli addosso a qualcun altro.”
Chloe allungò il dorso della mano a sfiorare quello di Lucifer, e lo guardò con la forza delle maree e dei venti negli occhi. Lucifer tremò leggermente. Non si sarebbe mai abituato.

Thomas piangeva, davanti a quello scricciolo di donna che sembrava quasi brillare di tanta consapevolezza. Forse era matta, sì; forse era un'incosciente, e una bambina affamata d'amore, ma era innamorata. E questo è un tipo di forza che non conviene mai sottovalutare. Per amore, solo per amore, cantava Roberto Vecchioni, ma siccome si sta parlando di matti d'amore anglofoni, nessuno ne era a conoscenza; eppure, miracolosamente, nelle pieghe più profonde di quelle coscienze sgangherate, lo sapevano. Sapevano che tutto ciò che si fa, che non si fa, e che si può e non può fare, è guidato da un'unica, assurda, intramontabile ed imperitura ragione. Almeno per quelli come loro.

Il vestito di Molly era di un azzurro chiarissimo, e sopra indossava un cardigan color crema che iniziava ad avere le maniche smangiate. La ragazza sospirò, ancora, ma per l'ultima volta. Raccolse i frammenti di quel coraggio che l'aveva sempre spinta in avanti, per inerzia inspiegabile alle leggi della fisica. Quanto aveva sofferto; quanto ancora avrebbe sofferto. Guardò Thomas negli occhi: occhi di uomo distrutto, occhi di un uomo segnati da un disprezzo che forse non l'avrebbe mai abbandonato. La vita non è un film, le persone non sono lavagne su cui si può passare una spugna bagnata: sono superfici frastagliate e irregolari, e il più delle volte se ci passi una mano sopra rischi di riempirti di tagli.

Gli aveva detto non posso amarti anche al posto tuo: ma in quel giardino, in mezzo a quelle persone che davvero non facevano altro che amarsi, amarsi male, amarsi nei modi più anticonvenzionali e indecenti, Molly capì che invece poteva. E non solo: doveva farlo. Gli prese il volto fra le mani e lo baciò, intensa e così diversa da tutto, e le venne da piangere, da quanto lo amava.

Thomas la strinse a sé, bagnandola delle sue lacrime, e vi si aggrappò come se dovesse scomparire sotto i suoi occhi.

“Tu ti odi così tanto, e non me lo avresti mai chiesto seriamente. Tu non mi chiedi mai nulla, non me lo hai mai chiesto, ed è per questo che mi sono innamorata di te.”, disse Molly, sottovoce, come se non ci fosse nessuno intorno a loro. “Quindi facciamolo a modo nostro, senza chiedere domande a cui in realtà sappiamo già rispondere: sposami e basta, Thomas Melrose.”

“Tu sei matta.”, le disse semplicemente lui.

“Quindi è un sì?”, chiese Lucifer, con le mani in tasca. Più tardi avrebbe rimproverato a Molly quel tempismo bastardo, e le avrebbe fatto un'affettuosa piazzata perché aveva rubato loro la scena. “Niente prosciutto?”

“No. Stavolta niente prosciutto.”, sussurrò Molly, riempiendosi gli occhi di quell'uomo assurdo e imperfetto.

La Papessa li dichiarò mariti e mogli come in un perfetto finale di commedia plautina; più tardi avrebbero scoperto che in realtà la Papessa non aveva alcuna validità civica come ufficiante. Dunque, come qualsiasi altra cosa che li riguardava, era stata una meravigliosa, fastosa, poetica perdita di tempo.

Nel giardino, carezzati da un tepore decisamente fuori stagione, discuteva di quante altre volte si sarebbero lanciati a capofitto in questi pantagruelici casini sentimentali; Linda disse almeno altre venticinque. Chloe taceva, la mano intrecciata a quella di Lucifer, continuando a osservare incredula il luccichio della fede dorata all'anulare sinistro.

“Quindi bisognerà rifare tutto daccapo.”, disse Lucifer, improvvisamente incline alla distruzione di ogni forma di burocrazia. Sbuffò. “Che palle.”

Chloe gli tirò una gomitata. “Giuro che non ti faccio arrivare all'altare con le tue gambe.”

“Ma sì, ma sì,”, disse la Papessa, agitando la mano che reggeva il flute di champagne, “diciamo che è stata una prova generale.”

“E chissà la prima.”, rispose Thomas, ruotando gli occhi. “Posso dire una cosa?”, aggiunse, alzandosi in piedi.

Molly lo guardava dal basso, seduta sull'erba, e lui si sentì di nuovo quel ragazzino. Una strana energia gli schioccava nei muscoli, e rimbalzava nelle vene in crescente intensità.

“Dipende dalla cosa.”, disse Lucifer, slacciandosi il nodo della cravatta. Chloe si levò le scarpe e si porto le nocche del quasi-marito alle labbra. Lucifer smise di pensare per un attimo, e disse cazzo, nella sua testa. “Qui si vorrebbe anche consumare questo matrimonio.”

“Sei triviale.”, aggiunse Linda, scuotendo la testa.

“La posso dire o no?”, insistette Thomas, facendo ridere Molly.

“E dilla.”

“Siamo dei grandissimi figli di puttana.”

“Poeta!”, urlò la Papessa, ironica.

“Siamo tutti stronzi. Io per primo sono un pezzo di merda con le gambe.”

“Sei anche un po' ubriaco, secondo me.”, disse Lucifer, ruotando gli occhi all'indietro. Un'altra gomitata da parte della sua graziosa novella sposa gli fece mancare il respiro per qualche attimo.

“Dunque?”, chiese Molly, con una leggera aria di sfida.

“Siamo strani forte. Matti, per lo più. Un po' allo sbaraglio. Oscar Wilde diceva che bisogna essere sempre leggermente improbabili, e noi lo abbiamo preso alla lettera. Siamo anche andati oltre, e ora non sappiamo più neanche cosa sia la convenienza, l'accettabilità, la normalità. E se lo dico io, che sono inglese. Eppure, porca troia.”

Glissò un veloce sguardo a Molly, che intanto aveva recuperato la piccola Eve dalle braccia di Amenadiel, e se la stringeva al petto come un tesoro. Thomas perse il filo del discorso, ma non è che gli interessasse così tanto trovarlo.

“Porca troia. Come ci vogliamo bene noi, nessun altro.”

 

 

 

 

 

Prima ero vecchia

piena di ferite

agguerrita di storiche saggezze.

Con lui, balbetto sorridendo:

un'ebete

completamente.

 

 

 

 


 

 

 

I slithered here from Eden, just to sit outside your door.

 

 

 

 

 




 



 

Questo finale è stato:

  1. frutto di un fever dream ampiamente stimolato da Roland Barthes;

  2. un inno all'amore

  3. un inno al Diavolo

  4. un inno agli uomini depressi

  5. l'urlo di una disperata che ha bisogno di tornare a Londra.

Il titolo è tratto da una meravigliosa canzone di Hozier che parla di un uomo che si sente il diavolo e si innamora della prima donna, Eva: dice di essere strisciato fuori dal giardino dell'Eden per sedersi fuori dalla porta della sua amata, e credo che non ci sia dichiarazione d'amore più profonda di questa. Quando rinunci alla perfezione per l'amore; quando abbandoni la parte migliore di te stesso per donarti totalmente a chi ami. Quando addirittura lo metti a rischio, perché diciamocelo, noi esseri umani non facciamo altro che guai e casini, e non riusciamo a non far male a noi stessi e agli altri.

Eppure, essere amati nonostante questo.

Scrivere questa storia mi ha aiutato a fare chiarezza su molte parentesi che avevo lasciate socchiuse, nella mia vita; e per un po' è stato doloroso cercare di chiuderle. Ho quindi risolto di lasciarle basculanti, così un po' di spifferi entrano comunque. Una mia adoratissima amica ha scritto una storia sugli Spifferi, e l'influenza che lei e la sua storia hanno avuto sulla mia giovane mente e il mio giovane cuore non è oggetto da trattare in poche righe sotto il finale di una fanfiction delirante su Lucifer. E infatti questo ci ha portato lontanissimo dal punto.

Il punto è:

grazie.

Grazie per avermi supportata.

Per avermi letta.

Per avermi fatta sentire ascoltata.

Per avermi dato la vostra opinione.

Mi piange sempre il cuore a dover schiacciare nella casellina completa? quando devo pubblicare l'ultimo capitolo di una storia, perché mi sembra di star facendo saltare un ponte.

Stavolta, però, niente tritolo: scrivetemi. Scriviamoci. Discutiamo di amore, di pere caramellate, di libri di semiologia, di serie TV. Parliamoci ancora. Stiamo vicini.

Siete stati tutti preziosi, e vi ringrazio dal profondo del mio gotico cuore.

Mi rituffo nella lettura di Barney Panofskij, oppure del romanzo sovietico che devo preparare per l'esame di letteratura russa contemporanea, e attendo vostre con tiepida trepidazione.

Vi bacio.

Sempre vostra,

Yunomi.

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