Is This Even Worth Redeeming?

di Koome_94
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Chapter I ***
Capitolo 2: *** Chapter II ***
Capitolo 3: *** Chapter III ***
Capitolo 4: *** Chapter IV ***
Capitolo 5: *** Chapter V ***



Capitolo 1
*** Chapter I ***




Some days I’m up, some days I’m down

Some days the world is way too loud

Some days my bed won’t let me out

Lonely Dance - Set It Off





 

 

 

 

Tendenzialmente lasciava che la vita gli scorresse attorno come se niente fosse.

Non aveva fretta, non aveva nessun reale obbiettivo da raggiungere, nessuna corsa contro il tempo che gli facesse sentire nelle ossa lo spasmodico scorrere dei minuti, come se fosse intrappolato alla base della clessidra e la sabbia continuasse a salire ostruendogli i polmoni.

A dirla tutta la vita, l’esistere, gli erano piuttosto indifferenti. Un’azione meccanica come riempire l’infusore e lasciare le foglie di tè a decantare nell’acqua rovente, come sfogliare le pagine di un libro mentre fuori dalla finestra il nubifragio si riversa sulla terra come una punizione divina.

Era per questo che il più delle volte non vi faceva caso, era per questo che in linea di massima riusciva a trascinarsi fra i giorni senza troppi danni collaterali, eppure ogni tanto, quando la sua guardia era bassa e i pensieri non si focalizzavano su qualcosa, si trovava a cedere.

Un inciampo banale, il passo falso di un ballerino alle prime armi, la nota stonata in una partitura che manca di talento.

Erano i giorni di sole a manifestarsi per primi, ed erano anche i più intensi. I giorni di sole avevano il sapore delle risate di Carl, quando si buttava per terra cercando di parare una pallonata diretta fra i due tronchi che aveva decretato essere i pali della porta immaginaria. A lui il calcio non piaceva, ma se suo figlio diceva che sarebbe diventato il primo portiere della nazionale sokoviana con quale autorità poteva opporsi?

Le domeniche pomeriggio recavano tutte il colore del cielo terso e delle strisciate d’erba sui pantaloni.

“Carl, adesso la mamma ci ammazza!” rideva scompigliandogli i capelli castani e pensando che i suoi occhi azzurri ancora pieni della speranza dei bambini erano la cosa più bella che avesse mai visto.

Helena spuntava puntualmente dal portico, le braccia conserte in puro contrasto con il sorriso luminoso che le metteva in mostra i denti dritti e le labbra morbide.

“Quante volte ti ho detto di non buttarti per terra con le ginocchia?” poi si avvicinava a lui e, sotto lo sguardo schifato del figlio, gli posava un bacio leggero sulle labbra.

“Siete inaffidabili.” gli sussurrava piano in un finto rimprovero, la testa appena inclinata in quell’espressione saccente che l’aveva fatto impazzire d’amore fin dal primo giorno.

Per tutta risposta la sollevava di peso e le faceva fare una giravolta, il sole delicato dei primi abbozzi di primavera a carezzarle i capelli sciolti.

“E tu sei troppo pignola.” Replicava con un ghigno, ricambiando il bacio e rinnovando l’espressione schifata sul volto di Carl.

I ricordi erano tutti uguali, differivano per data e per battute, ma il senso profondo di pace che portavano con sé era identico e avrebbe dovuto essere piacevole, lo sarebbe stato, se le circostanze non lo portassero ogni volta a riscuotersi e a fissare in faccia la realtà, grigia, vuota e caotica, senza la minima traccia dei segni d’erba sui jeans o del peso leggero di sua moglie fra le braccia.

Non vi era pace allora, solo lo schiaffo a bruciapelo della vita, solo la crudeltà sfacciata dell’esistere che gli ricordava ancora una volta ciò che aveva perso. Le vertigini erano violente, come lo era l’odio per le lacrime che inesorabili gli apparivano agli angoli degli occhi offuscandogli la vista.

Non piangeva mai, aveva imparato a tenere i sentimenti al guinzaglio, ma trattenerne gli impeti non significava affatto annullarne il dolore.

Quello rimaneva.

Gonfiava.

E la sabbia nella clessidra improvvisamente diventava un problema concreto.

- Questa è proprio un’idea del cazzo, lasciatelo dire! -

Fu la voce di Sam Wilson a riportarlo davvero alla realtà, mentre ricacciava il ricordo da dove era venuto e con un paio di veloci battiti di ciglia si liberava del velo di lacrime che gli aveva appannato lo sguardo.

- Sam, non è che mi faccia piacere, ma è l’unica soluzione. - questa volta fu Barnes a ringhiare la risposta a mezza voce, un sibilo sfuggito ai suoi denti stretti.

Wilson portò lo sguardo su di lui e Zemo si rese improvvisamente conto di essersi perso a metà della conversazione.

- Non mi fido ancora di lui. - sentenziò senza premurarsi di abbassare la voce.

Zemo alzò appena gli occhi al cielo e fece spallucce.

- Onesto. - ammise, beccandosi un’occhiata di fiele da parte di James.

- Bucky, ti ricordo che le Dora lo hanno… - intervenne di nuovo Sam, ma l’altro fu svelto a bloccarlo.

- Le Dora ci hanno concesso un accordo. Shuri è stata chiara la prima volta e cristallina la seconda. Non commetteremo passi falsi. -

Sam si avvicinò a James coprendo la distanza che li separava con un passo e abbassando la voce, in uno sciocco tentativo di segretezza, come se Zemo in piedi accanto a loro non avesse potuto sentirli.

- Se dovesse scappare di nuovo? - gli mise davanti la realtà, ma la risposta dell’uomo li spiazzò entrambi.

- Non scapperà. - fu la sua replica puntuale.

Lo stupido sorrisetto che era nato sulle labbra di Zemo poco prima svanì completamente, sostituito da una linea retta e da un paio di occhi sgranati, feriti.

Non era una rassicurazione, quella che James stava offrendo al suo amico, e non era nemmeno un’assunzione di responsabilità. Era un dato di fatto. No, Zemo non sarebbe scappato. Non gli interessava più scappare. Non gli interessava nulla.

E dopotutto, giunto a questo punto, dove sarebbe potuto andare? Quale luogo avrebbe davvero potuto chiamare casa?

James tornò a rivolgergli un’occhiata veloce e il suo sguardo si soffermò un istante di troppo sul volto pallido di Zemo.

Lui distolse lo sguardo, non gli voleva dare la soddisfazione di vederlo così, consapevole della ragione nelle sue parole. Non gli voleva dare la soddisfazione di cogliere nelle sue iridi castane il riverbero di quelle giornate di sole perse per sempre.

Quel dolore era suo, suo e di nessun altro, e non avrebbe tollerato che James lo inquinasse con la sua falsa comprensione, con il suo eroismo grigio.

Ci fu un momento di denso silenzio nel quale i due eroi si scambiarono uno sguardo nervoso, poi Wilson parlò.

- D’accordo. Ma fate attenzione. E per qualsiasi cosa chiamami. -

James si concesse la prima risata della giornata e Zemo fu distratto un istante dalle piccole rughe che il gesto gli faceva apparire agli angoli degli occhi. Così insignificanti, così umane. Un dettaglio che aveva sicuramente già notato ma che mai aveva registrato davvero.

- Sì, mamma! - ridacchiò, mentre Wilson scuoteva la testa e gli dava una spallata amichevole.

- Allora è deciso, voi vi dedicherete alla pista europea mentre io tengo a bada l’America. Però adesso andiamo a mangiare qualcosa, sto morendo di fame. - propose dopo aver riepilogato con un cenno della testa all’indirizzo di James.

Finalmente Zemo poté tornare a curvare le labbra verso l’alto e si sfregò le mani una contro l’altra.

- Ecco un’idea veramente valida! - commentò ironico. Gli altri due si sforzarono di fingersi irritati, ma con una punta di trionfo notò che entrambi stavano trattenendo un sorriso. Lo sapeva, gli era mancato lavorare con lui.

- Se permettete, conosco una trattoria niente male che… - incominciò, ma James lo interruppe, le sopracciglia aggrottate in un pensiero che non doveva essere nuovo.

- Ma tu conosci posti dove mangiare in ogni città del mondo? -

Zemo fece spallucce.

- Noi Europei abbiamo la sana abitudine di viaggiare. Si visitano luoghi, si incontrano persone, si conoscono culture. E si scopre persino che Washington non è il centro del mondo. - chiosò serafico, godendo delle espressioni risentite degli altri due.

Il cielo sopra di loro era terso, una tipica giornata di Maggio a Firenze che li aveva circondati di turisti mentre l’arte e la storia d’Europa scivolavano attorno a loro ad ogni angolo, ad ogni crocevia.

Faceva già caldo, e la felpa blu che indossava era sufficiente a difenderlo dai refoli d’aria che di tanto in tanto si infilavano nei vicoli.

Aveva visitato la città più volte da bambino, una delle sue preferite nei lunghi viaggi estivi con suo padre e sua madre e sapeva che non si sarebbe stancato mai delle strade lastricate, delle chiese, dei ragazzini che gli sfrecciavano accanto correndo davanti al duomo con le mani appiccicose di gelato. C’era vita in quella città, c’era una resistenza tenace e arrogante nascosta dall’eleganza dei marmi che gli faceva provare affetto per quel luogo.

Erano già passati sei mesi da Karli Morgenthau, sei mesi da quando James Buchanan Barnes si era presentato davanti alla sua cella a Berlino e gli aveva offerto la libertà. Sei mesi da quando le Dora Milaje lo avevano preso in consegna come un pacco di Amazon da rispedire al mittente e si erano fatte carico di non lasciargli mai più un giorno di tregua.

Lo avevano portato via, ed era stato solo un caso del destino se si era ritrovato a scontare i suoi nuovi giorni di prigionia in Wakanda e non in un carcere di massima sicurezza nel cuore dell’oceano.

Non che il Wakanda fosse meglio, ovviamente. Non che per lui ci fossero differenze.

Quando era arrivato era stato interrogato dalla Regina Shuri in persona, una ragazzina ai suoi occhi, ma una mente geniale al suo udito. Nonostante tutto non aveva potuto impedirsi di portarle rispetto ed era rimasto stupito dal notare lo stesso atteggiamento da parte della giovane.

“Il danno che hai arrecato al mio paese e alla mia famiglia non può essere perdonato, Helmut Zemo.” gli aveva detto, in piedi di fronte a lui con la schiena ritta e lo sguardo duro.

“Mio fratello era un uomo compassionevole e nel suo senso di giustizia non gli interessava capire. Io sono una donna di scienza, e voglio comprendere.”

Era stata di parola. Ogni singolo giorno della sua prigionia, Shuri si era presentata alla sua cella, lo aveva osservato, analizzato, interrogato, ma Zemo non aveva nulla a dirle. Non che volesse fare il prezioso, celarle segreti, tenerla a distanza. Shuri poteva guardare, poteva indagare e aprire il suo animo in due come un’autopsia, dopotutto era di quello che si trattava.

“Perché non ti opponi?” gli aveva chiesto un giorno, stupita da quanto si lasciasse maneggiare senza cenni di fastidio.

“A che cosa?” le aveva chiesto, la voce atona.

Shuri era rimasta in silenzio. Quella era più che sufficiente come risposta. Lo aveva guardato ancora qualche istante. Zemo non aveva l’aria di un suicida. Si rasava regolarmente, aveva chiesto dei libri con cui intrattenersi, mangiava ogni pasto che gli veniva offerto. Ma al di là di quello, il nulla. E la giovane regina si era accorta che mai una volta vi era stata resistenza da parte sua, mai una volta Zemo aveva cercato di sottrarsi al suo fato. Quando le Dora erano andate a prenderlo a Sokovia si era fatto scortare di buon grado, quando lo avevano rinchiuso in Wakanda aveva solo annuito e le sue uniche parole erano state “mi sembra corretto”. Ed era questo che aveva scoperto in lui. Correttezza.

Shuri non era T’challa, non riusciva a perdonare con tale facilità, ma aveva iniziato a comprendere e si era presto resa conto che la reclusione non sarebbe stata di nessun aiuto né a quell’uomo né a se stessa. La vera pena da infliggere a Zemo era la libertà, una libertà privata di ogni senso, di ogni direzione. Quell’uomo che lei interrogava ogni giorno era un involucro, una scatola vuota il cui contenuto si era ormai smarrito per sempre. La vita non gli interessava più, era una banalità, un gesto rituale e meccanico come ogni altro.

E allora con quello lo avrebbe punito, con quello lo avrebbe rieducato.

Costringerlo a vivere sarebbe stato il dolore più grande per il Barone Helmut Zemo.

La prima volta l’occasione si era presentata per caso, non era un’idea che Shuri avesse già incominciato a pianificare, ma quando una serie di sparizioni e strani traffici aveva scosso il Wakanda e si erano ritrovati nella necessità di un aiuto dall’esterno, avevano chiamato Bucky. Più una comodità che altro, perché il Lupo Bianco era loro debitore e non avrebbe fatto chiacchiere, non avrebbe raccontato a nessuno del momento di debolezza del regno, del momento di debolezza di Shuri. Ma i traffici si erano rivelati presto più intricati del previsto, il vibranio che entrava e usciva dai confini senza autorizzazione era legato a nomi oscuri che né Barnes né Wilson, accorso in suo aiuto quasi subito, conoscevano o sapevano gestire. E allora l’equazione era stata semplice, immediata. La punizione aveva trovato un risvolto pratico nell’immediato, e a soli tre mesi e mezzo da quando la porta della cella gli era stata chiusa in faccia, Zemo aveva ricevuto una visita nella quale non avrebbe nemmeno mai osato sperare.

Era stato pericoloso, pericolosissimo, un lapsus freudiano di cui aveva scorto gli effetti nel riflesso sul vetro della cella e di cui si era vergognato oltre misura. Quando aveva incrociato i suoi occhi azzurri, la sua figura snella, i suoi capelli scuri, Zemo si era alzato in piedi e per la prima volta dopo mesi aveva sorriso.

“Ciao, James.”

E per un singolo istante della cui esistenza Zemo era più che certo, anche le labbra di James si erano curvate verso l’alto.

Shuri aveva allora dettato le condizioni del suo rilascio, una libertà vigilata sottoposta all’occhio attento delle Dora Milaje, un servizio da rendere al Wakanda in pagamento del torto arrecato. Zemo non aveva obiettato. Sapeva riconoscere un esperimento, ed era esattamente di quello che si trattava: Shuri lo stava mettendo alla prova, voleva comprendere quanto corretta fosse la sua interpretazione.

“A lavoro concluso tornerai qui, finché non sarà il momento di reindirizzarti ad un luogo di reclusione più consono.”

Ce l’avevano fatta, erano bastati quindici giorni affinché la pista proposta da Zemo si rivelasse fruttuosa e James e Sam riuscissero a mettere le mani sui malavitosi che avevano osato sfidare il Wakanda.

Le Dora erano venute a riprenderselo, puntuali come un appuntamento con la morte, e ancora una volta l’improbabile trio si era separato.

Non vi erano stati grandi discorsi o parole di addio. James era rimasto dall’altra parte del vetro a guardare mentre la porta della cella veniva chiusa, e Zemo gli aveva sorriso. Un addio diverso da quello a Sokovia, ma che a luci spente aveva riversato su di lui lo stesso dolore, la stessa solitudine.

Aveva continuato a sognare Helena seduta al tavolo della colazione, aveva continuato a sognare Carl sdraiato sul tappeto in salotto a giocare con un’X-box mai ricevuta, e di tanto in tanto ai loro volti se ne affiancava un altro, uno nuovo che non aveva mai popolato i suoi sogni. Un volto triste, un volto colpevole nonostante la scelta giusta. Allora Zemo si svegliava, la fronte imperlata di sudore, il profumo del caffè, del tappeto e del dopobarba ancora nelle narici.

Shuri era lì, sempre lì dall’altra parte del vetro, il volto scanzonato teso in una maschera di serietà.

“Parli nel sonno.” gli aveva detto una notte, e Zemo non aveva avuto la forza di reggere il suo sguardo.

“E’ tardi, perché non dormi?” le aveva chiesto, sorpreso e infastidito nel rintracciare nella sua voce un’eco lontana di sincera preoccupazione. Perché Shuri era una bambina e lui avrebbe potuto essere, se non suo padre, per lo meno suo zio. Perché Shuri, tenace come una roccia e regale come una dea era esattamente uguale a lui.

La ragazza aveva sorriso, un sorriso falso che aveva appreso proprio da lui.

“Credevo che comprendere ciò che ti ha mosso mi avrebbe dato pace.”

Era stato il turno di Zemo di sorridere amaro, scuotendo la testa e mettendosi a sedere sul letto. Scoprirsi simili era stato terribile, con la morte e la vendetta a separarli, trasparenti come il vetro.

“L’intelligenza non è un dono.” aveva sussurrato, e qualcosa gli aveva stretto lo stomaco quando la ragazza aveva completato la sua frase parlando all’unisono con lui.

“E’ una condanna.”

Nelle settimane successive le visite di Shuri si erano fatte più scarse, fino a quando un giorno la ragazza non era tornata alla sua cella con un ghigno che lo aveva messo sull’attenti.

“Questa volta è stato lui a richiederti.” gli aveva sussurrato all’orecchio mentre camminavano assieme verso la sala del trono. Zemo non era certo di aver compreso, ma l’aria nei polmoni aveva comunque deciso di rimanere intrappolata a metà della sua trachea, bloccandogli respiro e battito cardiaco.

Quando aveva incontrato ancora una volta lo sguardo triste di ciò che restava del Soldato d’Inverno aveva socchiuso la bocca e un “ah” ne era sfuggito assieme al respiro trattenuto.

“Conosci le regole.” e con quella velata minaccia, ancora una volta, Shuri lo aveva lasciato andare alla sua condanna.

E adesso eccoli a Firenze, seduti in una trattoria con un piatto di pasta davanti a decidere quale sarebbe stata la loro prossima mossa.

- Non lo so, Pepper ha detto che il trasporto doveva essere segreto, e le persone che ne erano a conoscenza sono tutte morte nell’attacco. - spiegò ancora una volta Sam, indicando il cellulare abbandonato sul tavolo come a confermare le sue parole.

Tre giorni prima una nave era stata affondata al largo del porto di Boston da ignoti dopo che la merce a bordo era stata trafugata. Ufficialmente trasportava litio, ma la vera natura del cargo era vibranio accordato in precise quantità con il governo wakandiano. Si trattava di un nuovo progetto per la sicurezza contro i mass shootings nelle scuole che aveva suggerito Peter Parker, ma nessuno era stato informato della vera natura dell’operazione ed era improbabile che qualcuno avesse tradito dall’interno.

Restava il fatto che i colpevoli delle precedenti sparizioni erano tutti al sicuro dietro le sbarre in Wakanda, ed era inspiegabile come questo e altri colpi fossero andati a segno senza che vi fosse alcuna traccia di chi li aveva portati a termine.

L’opinione pubblica aveva iniziato a definirli gli Wraiths, senza volto e senza consistenza, come spiriti immuni alle ricerche dei comuni mortali.

Per questo il Governo aveva incaricato Sam e James di occuparsi della questione e per questo James aveva pensato di andare a scomodare nuovamente Zemo. Dopotutto chi meglio di lui avrebbe potuto aiutarli a rintracciare dei fantasmi?

- E’ evidente che in un modo o nell’altro devono avere accesso alle informazioni riservate. - constatò James per poi risucchiare uno spaghetto senza grande eleganza e beccandosi un’occhiata di malcelato rimprovero dal suo sorvegliato.

- Forse sono hacker. - suggerì lui per distrarsi dall’orribile visione di Barnes che continuava a mangiare la sua pastasciutta in quel modo barbarico.

- E’ delle Stark Industries che stiamo parlando. - replicò quello, versandosi un altro bicchiere di vino mentre Zemo si rendeva conto da solo dell’assurdità del suo tentativo.

- Il punto non è come lo hanno fatto, ma perché. Abbiamo più di trenta attacchi mirati a cargo fra gli Stati Uniti e l’Europa negli ultimi due mesi, e inizio a pensare che ci sia un legame con i furti di vibranio ai quali abbiamo lavorato l’altra volta. Chiunque sia questa gente sta mettendo da parte materiale per creare qualcosa. - continuò Wilson, gli occhi scuri attraversati da una vena di non indifferente preoccupazione.

James abbassò lo sguardo sul suo piatto di pasta, le sopracciglia aggrottate e le labbra appena sporte in un’espressione concentrata.

- Che sia un’arma o qualcos’altro non possiamo permetterci un’altra Karli Morgenthau. - sussurrò.

- O un altro Thanos. - aggiunse Zemo con un’alzata di sopracciglia, sorseggiando il suo Chianti come se avesse appena commentato il tempo atmosferico.

Gli altri due si voltarono di scatto in sua direzione, gli occhi sgranati di orrore.

- Non si può ricreare il Guanto, senza le Gemme dell’Infinito… - incominciò Sam.

- Non si poteva nemmeno ricreare il siero. Eppure chissà quanta gente ha trovato un hobby in quei noiosi cinque anni. - ribatté Zemo, leggermente aggressivo nonostante la solita nonchalance nella sua voce.

Trovava allucinante come gli eroi tendessero sempre e comunque a sottovalutare la pressione a cui era costantemente sottoposta la gente comune.

- Quindi cosa proponi? - intervenne James.

La sua domanda cadde nel vuoto come un sacrilegio. Wilson inarcò le sopracciglia con aria quasi offesa, mentre lo stesso Barnes tornava a dedicarsi al suo calice di vino per non dover sostenere gli sguardi degli altri due.

Zemo lasciò che un sorriso gli squarciasse l’espressione.

- Propongo di incominciare la caccia al tesoro dall’indizio più recente. Sam continuerà le indagini fra Boston e New York e io e te vedremo cos’ha da raccontarci la bella Firenze. Nessuno può sparire del tutto: per funzionare i gruppi sovversivi hanno bisogno di fare rete, ma un segreto è tale solo se non è condiviso con nessuno. - continuò, il ghigno sempre più ampio sul suo volto.

- Ci vorranno secoli per trovare la falla nel loro sistema. - obiettò Sam.

- Se nessun governo è riuscito a trovare niente dubito che per noi sarà diverso. - aggiunse, scoraggiato, ma il sorriso era ancora ostinatamente aggrappato alle labbra del suo interlocutore.

- Fortunatamente ho pazienza. Ed esperienza. Non disperare, Sam. Ci vorrà qualche tempo, ma avremo i nostri risultati. -

Il resto del pomeriggio trascorse in una quiete nervosa, ciascuno dei tre immerso nei propri ragionamenti. Sam armeggiava spesso con il cellulare, i messaggi a vibrargli in continuazione nella tasca della giacca di pelle, e James sembrava completamente perso in chissà quale pensiero complicato.

Di tanto in tanto gettava un’occhiata veloce a Zemo, per sincerarsi che fosse ancora con loro, ma in linea di massima era rimasto piuttosto silenzioso per il resto della giornata.

Di certo erano stati entrambi sorpresi quando Zemo, che guidava il terzetto, li aveva portati in un supermercato a fare la spesa.

- Questo fa parte delle indagini? - era stata la domanda perplessa di Wilson.

Lui si era limitato a replicare con una leggera risatina, mentre infilava con aria in apparenza distratta un pacco di biscotti al cioccolato nel cestello e proseguiva lungo la corsia alla ricerca di quello che individuarono come un barattolo di Nutella, pronto a finire accanto ai sacchetti con le verdure e a un paio di scatole blu di pastasciutta.

- Non so quali siano i tuoi piani, ma io e James rimarremo in città ancora qualche giorno, e il mio frigo è vuoto all’incirca da otto anni. Perciò gradirei avere qualcosa di commestibile con cui riempirlo finché dovremo rimanere a Firenze. - aveva risposto godendosi appieno le facce dei due.

- Hai una casa anche qui? Pensavo avremmo dormito in albergo! - aveva esclamato James.

- Beh, la sua famiglia è nobile… - era stata la risposta canzonatoria di Sam.

Meno di dieci minuti dopo, con un paio di sacchetti della spesa ricolmi e l’andatura decisa, Zemo li fece sgusciare al di là di un portone scuro al numero 2 di un vicolo che conduceva direttamente in Piazza della Signoria.

Salirono le scale senza fiatare e digitando un codice su un tastierino il padrone di casa aprì la porta.

- Non mi aspettavo un sistema di sicurezza così moderno in una casa così antica. - commentò Sam, addentrandosi nel salotto luminoso e andando a sbirciare fuori dalle grandi finestre che davano sulla piazza.

- La ristrutturazione del palazzo è stata recente, 2013, se non sbaglio. Le famiglie più benestanti della zona avevano preso a richiedere questo sistema e ci siamo adeguati. - spiegò andando a riporre la spesa fra il frigo e la credenza.

- In fondo al corridoio ci sono due stanze per gli ospiti e il bagno, sistematevi pure, io intanto preparo del tè. -

Cenarono poco più tardi, mentre il cielo si tingeva di rosa, stormi di uccelli lo attraversavano diagonalmente e dalle finestre aperte saliva il fresco della sera e la quiete dopo una giornata caotica.

Dopo aver mangiato Sam si era ritirato in camera sua borbottando qualcosa e Zemo si era premurato di lavare i piatti, mentre Bucky prendeva posto sul divano e accendeva la televisione.

L’aveva guardata in silenzio, probabilmente tentando di intuire il senso del film dalle immagini, mentre di tanto in tanto il padrone di casa gli lanciava un’occhiata da sopra le spalle, il rumore lieve dell’acqua a cascata nel lavandino a coprire di poco i dialoghi in Italiano.

Zemo si chiedeva cosa capisse di quello che vedeva e pensò che avrebbe potuto spiegargli che premendo un paio di pulsanti sul telecomando avrebbe potuto impostare la lingua originale, ma qualcosa della sua espressione concentrata era per lui impagabile.

Forse erano gli occhi, appena stretti nel tentativo di individuare qualche parola dal labiale degli attori, forse era il modo in cui i suoi lineamenti marcati creavano un gioco di ombre sul suo viso aiutati dalla luce ormai svanita del tramonto interamente impallidito, forse era la mano di vibranio, inconsciamente stretta attorno al bracciolo del divano quando le scene si facevano più intense.

Forse era tutto quello, o niente di ciò, ma Zemo si accorse che gli sarebbe dispiaciuto interrompere quel momento, incrinare l’equilibrio di quel quadro. Gli era sempre piaciuto osservare, fin da bambino, e avere un soggetto così interessante era un’occasione da non lasciarsi sfuggire.

- Che cosa c’è? -

Un piatto gli sfuggì dallo strofinaccio con cui lo stava asciugando e lo recuperò prima che cadesse a terra per puro miracolo. Lo aveva colto di sorpresa.

- Niente. Perché? -domandò con finta disinvoltura.

James era interamente voltato verso la cucina, ora disinteressato al film. Continuava ad esserci un’ombra misteriosa acquattata nelle sue iridi, un sentimento che Zemo non sapeva decifrare e che lo metteva a disagio.

- Mi stai fissando da cinque minuti. Potresti almeno chiudere l’acqua se hai finito di lavare. -

- Non senti i dialoghi? - lo schernì, sperando che l’attacco diretto potesse distoglierlo dalla domanda iniziale.

James scosse la testa e sbuffò e Zemo seppe di averla scampata.

- Ragazzi, sono riuscito a prenotare il biglietto per domani mattina. Ho l’aereo per New York prestissimo, quindi direi che ci salutiamo adesso. - Sam fece la sua comparsa dal corridoio prima che altre parole potessero essere sprecate, e segretamente Zemo gliene fu grato.

- Sei sicuro che non vuoi che ti accompagniamo all’aeroporto? - si premurò di domandargli l’amico, alzandosi in piedi e abbandonando definitivamente la tv.

- No, Bucky, non ti preoccupare. Prendo un taxi e poi avrò otto ore di volo per continuare a dormire. - lo rassicurò prima di voltarsi da Zemo e inclinare appena la testa di lato, probabilmente incuriosito dal rubinetto ancora aperto nonostante tutti i piatti fossero spariti dalla circolazione.

- Prendi l’aereo? Pensavo ci saresti andato volando. Tu, intendo. - commentò, chiudendo finalmente il rubinetto e riponendo anche l’ultimo piatto nella credenza.

- Puoi andarci con le tue ali? O se ti addormenti muori? - continuò per immenso fastidio di Wilson.

Innervosito da quelle domande platealmente idiote, strinse i pugni lungo i fianchi e a sua volta scosse la testa, la mascella contratta.

- Bucky, fermami o lo ammazzo. - sibilò, ma il collega non lo assecondò, anzi, scoppiò a ridere buttando la testa all’indietro, i denti scoperti e le spalle scosse dalla risata.

- Sei uno stronzo. - soffiò Sam come un bambino offeso.

Zemo si unì lieve alla risata, quasi timidamente, indeciso se Barnes si stesse prendendo gioco dell’amico o di lui stesso e troppo distratto da quel suono inaspettatamente cristallino per poter prendere una qualsiasi risoluzione in merito.

- Comunque la mia era una curiosità lecita. Mi chiedevo se quei marchingegni avessero una sorta di pilota automatico o se fossi costretto a decidere la rotta ogni volta. - rettificò, lungi dal voler creare tensioni proprio alla vigilia della partenza.

Sam sembrò accettare quella specie di cessate il fuoco e si strinse nelle spalle, di nuovo il ragazzo allegro e conciliante di sempre.

- Il problema è l’autonomia. Il motore non resiste per otto ore senza ricarica. -

- Mh, sì, comprensibile. - gli concesse.

- Certo con un jet privato ci metteresti meno. - aggiunse.

Sam alzò la testa di scatto, la speranza nei suoi occhi.

- Mi presteresti il tuo jet? -

- No. -

Un’altra ondata di risate da parte di James gli rese difficilissimo mantenere l’espressione impassibile, tanto che fu costretto a voltarsi con la scusa di asciugare un po’ d’acqua schizzata fuori dal lavandino per evitare che Wilson scorgesse il suo ghigno.

- Amico, se dai retta a me la chiudiamo qui e ce ne andiamo a dormire, potrai dare la colpa al jet lag e nessuno oserà contraddirti. - lo prese in giro James e Sam sbuffò sonoramente.

- L’idea di mollarvi da soli fino a data da destinarsi non mi piace per niente. - sentenziò piatto, ma chiaramente non offeso con l’amico.

Quello gli circondò le spalle con un braccio e prese a sospingerlo delicatamente verso il fondo del corridoio, dove le porte delle loro stanze adiacenti li aspettavano aperte.

- Se avremo fortuna ci rivedremo prima del previsto. E lo sai, appena troviamo una pista ti avvisiamo. - lo rassicurò.

Gli disse qualcos’altro a bassa voce che Zemo non comprese, ma dovette essere una battuta perché fu il turno di Wilson di scoprire i denti in una risata sentita.

Li guardò abbracciarsi e battersi un paio di cameratesche pacche sulle spalle prima che entrambi, dopo avergli frettolosamente augurato la buonanotte all’unisono, sparissero ciascuno nella propria stanza.

Improvvisamente la quiete del salotto vuoto gli parve una staffilata a tradimento di silenzio assordante, il cielo fuori dalla finestra gli sembrò vuoto e insensato come le rovine di una chiesa sconsacrata e la televisione accesa senza nessuno a guardarla gli diede indietro l’immagine di una famiglia che non esisteva più.

Con un sospiro tremolante aggirò la penisola della cucina, raccolse il telecomando dal divano e spense la tv, andando a chiudere le finestre e lasciando il mondo fuori.

Il giorno dopo Sam sarebbe partito per gli Stati Uniti e lui e James si sarebbero ritrovati soli alla ricerca di un mistero che non aveva forme né indizi.

Soli, per la prima volta da Sokovia.

Il rumore della vibrazione del cellulare con cui gli avevano permesso di partire attirò la sua attenzione e si trascinò a passo improvvisamente stanco verso la penisola, dove l’apparecchio giaceva abbandonato da quando erano entrati in casa.

Sbloccò la testiera e l’anteprima del messaggio appena ricevuto gli fece impercettibilmente stringere la presa attorno al cellulare.

“Ricordati i patti.”

Shuri aveva deciso di assillarlo anche a distanza.

Sospirò ancora, e digitò una risposta veloce.

“Non scapperò.”

Inviò e non si stupì nemmeno quando la giovane regina gli rispose con una gif.

Non scapperò. Non era forse quello che aveva detto di lui James quel pomeriggio?

Con le luci accese e le porte chiuse, mentre fuori frotte di ragazzini in aria di vacanze si sedevano a schiamazzare sotto la Loggia, casa sua gli sembrò più vuota che mai.

Spense la luce e anche lui si diresse in camera da letto.

Chissà cosa avrebbe sognato quella notte.

 

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Capitolo 2
*** Chapter II ***




I know it’s too late

As night turns to day

Now there’s no escaping the ghost

Midnight Thoughts - Set It Off

 



 

 

La sera prima si era dimenticato di chiudere le imposte.

Era stanco morto, il jet lag degli ultimi dieci giorni avanti e indietro per il globo e la tensione di tenere Zemo costantemente monitorato lo avevano sfinito e l’unica cosa che desiderava era toccare il materasso e poter finalmente archiviare la giornata.

Certo la città gli era piaciuta, animata da un ritmo completamente differente da quello di New York o di Bucarest e il clima mite e soleggiato gli aveva fatto bene all’umore, ma poter finalmente togliersi jeans e maglietta e sdraiarsi sotto le lenzuola fresche della stanza degli ospiti era stato un sollievo non indifferente.

L’unica cosa era che quella non era la stanza degli ospiti, o per lo meno non lo era sempre stata.

La parete opposta al letto era interamente coperta da una libreria in legno chiaro stracolma di libri e dvd e tappezzata di adesivi di vario genere, apparentemente figurine che Bucky aveva riconosciuto con una punta di sorpresa come figurine degli Avengers. Per lo più si trattava di immagini di Stark, ma ogni tanto saltavano fuori pure Natasha, Thor e Steve.

Aveva capito immediatamente che si trattava della vecchia cameretta di un bambino e improvvisamente occuparne il letto lo aveva fatto sentire sporco, fuori posto, sacrilego. Si era avvicinato alla libreria e aveva scorso i dorsi dei volumi con le dita, soffermandosi di tanto in tanto quando riconosceva dei titoli.

Lo Hobbit se ne stava incastrato accanto al più sottile Il Piccolo Principe, e per un istante Bucky si era ritrovato ottant’anni nel passato, poche manciate di kilometri a nord da quella città che li aveva accolti senza domande.

Aveva ventisei anni e il libricino gli era arrivato assieme a un pacco di lettere da New York, un regalo di sua sorella con una dedica scribacchiata frettolosamente a matita nella prima pagina, sotto al logo della casa editrice.

Lo aveva letto tutto d’un fiato una sera, e poi lo aveva riletto il giorno dopo, e ancora una volta, finché non lo avevano mandato al fronte e i Tedeschi lo avevano catturato. Allora la sua copia fresca di stampa era rimasta indietro, perduta per sempre, e Bucky non ne aveva saputo più niente.

Non lo aveva mai più riletto da allora e improvvisamente aveva sentito una malinconia di fuoco bruciargli le vene al ricordo degli occhi azzurri e irriverenti di sua sorella, dei suoi boccoli castani che cercava sempre con fatica di tenere in posa nella sua acconciatura ordinata.

Per te, cinquecento milioni di stelle.”

Aveva estratto il libro dallo scaffale e ci era rimasto stupidamente male nel non trovare la dedica nella pagina bianca. Chissà se Rebecca era stata capace di trovare conforto guardando le stelle nelle fredde notti di Brooklyn.

Si era voltato verso la porta chiusa, i passi leggeri di Zemo a indicargli che anche lui doveva aver deciso di andare a dormire.

E a lui? Anche per lui le stelle portavano le risate serene di un piccolo principe?

Aveva scosso la testa e rimesso il libro a posto, gettando un’ultima occhiata risentita alla figurina di Steve che lo fissava dalla parete del mobile.

- Non fare quella faccia. - aveva borbottato allo sticker, immaginando il cipiglio di affettuoso rimprovero che l’amico gli avrebbe dedicato se fosse stato lì con lui.

Ma Steve non c’era, e non c’era nemmeno Rebecca.

Non c’era più nessuno.

Aveva spento la luce, si era infilato sotto le coperte e aveva chiuso gli occhi.

Sapeva benissimo che quella notte non avrebbe dormito.

 

 

 

 




 

 

 

L’alba lo accolse con tutti i suoi colori.

Ne vide il blu cobalto ancora aggrappato al manto della notte, lo percepì mutarsi nel bianco perlaceo del respiro che anticipa il salto e poi esplodere di rosa e di rosso proprio dietro all’antico palazzo che dava il nome alla piazza.

Ovviamente non aveva chiuso occhio un istante, se non si contavano quelle due o tre volte in cui la sua coscienza si era affievolita solo per riportarlo alla realtà con uno scrollone, accompagnato da voci e volti che gli rendevano il respiro affannoso e la bocca secca.

Si era arreso definitivamente attorno alle quattro, quando aveva acceso l’abat-jour sul comodino e, irrequieto, era andato a recuperare Il Piccolo Principe dalla libreria. Lo aveva letto tutto d’un fiato come la prima volta e non si era nemmeno accorto delle lacrime che avevano preso a rotolargli giù dalle guance quando era arrivato al momento dell’addio fra i due protagonisti. Aveva voltato pagina e l’illustrazione del paesaggio desertico, vuoto, abbandonato e solitario gli aveva stretto lo stomaco in una morsa dolorosa, mentre le lacrime silenziose si trasformavano in singhiozzi e persino la mano in vibranio prendeva a tremargli.

Rebecca non avrebbe mai potuto immaginare quanto i cinquecento milioni di stelle del Piccolo Principe sarebbero diventati per Bucky una condanna, quanto quello stupido aviatore innamoratosi di qualcosa che non gli apparteneva sarebbe diventato affine a lui, copia carbone non desiderata dell’assurdità dell’abbandono, di capelli biondi come il grano che avrebbe aspettato invano, per sempre.

Si era passato un braccio sul volto nel tentativo di calmarsi e ci era riuscito solo quando dal corridoio aveva udito il suono lieve di una porta aperta e richiusa.

Doveva essere Sam.

Tirò su col naso e cercò di ricomporsi, controllando velocemente la sua immagine riflessa nel vetro della finestra, poi indossò i jeans velocemente e uscì piano dalla stanza, mentre fuori ciuffi di nuvole si incendiavano di luce ancora tenuta al guinzaglio dall’orizzonte.

- Bucky, ma che ci fai in piedi? Ti avevo detto che non era il caso di alzarti! - lo salutò Sam sussurrando per non svegliare il padrone di casa. Probabilmente più una premura rivolta a se stesso che a Zemo.

Lui si strinse nelle spalle e mosse qualche passo verso di lui, appoggiandosi con la spalla al muro intonacato di bianco.

- Figurati se ti lasciavo andare senza salutarti. - ribatté con un mezzo sorriso senza tuttavia guardarlo in faccia.

Non lo vide, ma riuscì a percepire con la coda dell’occhio che Sam aveva aggrottato le sopracciglia.

- Di nuovo gli incubi? - inquisì, abbassando ulteriormente la voce e avvicinandosi a lui.

Bucky sospirò e incrociò le braccia al petto.

- Più o meno. - rispose, sfuggente.

L’amico scosse la testa e gli portò una mano sulla spalla in un gesto protettivo.

- Senti, uomo, avevi detto che erano passati. E’ successo qualcosa? E’ tanto che sono tornati? -

Bucky si sentì un infame: gli incubi non se n’erano mai andati davvero, le uniche notti in cui l’orrore non gli faceva visita nel sonno erano quelle in cui nemmeno il sonno si presentava a lui, e le ore trascorrevano interminabili, spese tutte a contare i secondi e a ignorare i ricordi. Aveva detto a Sam che aveva iniziato a stare meglio solamente per tranquillizzarlo, ma non era vero.

Anzi, se possibile negli ultimi sei mesi la situazione era addirittura peggiorata.

Aveva cercato di riprendere la terapia, la nuova psicologa era sicuramente più di aiuto che quella precedente, ma lo stile di vita vagabondo che conduceva, fra un’indagine e l’altra, rendeva impossibile portare avanti un percorso duraturo, e i benefici delle sedute erano presto svaniti.

- No Sam, tranquillo. Succede ogni tanto, ma niente di grave. - e pregò che nella penombra delle prime luci dell’alba e con la complicità del sonno che gli leggeva in viso l’amico non si accorgesse della sua plateale bugia. Bucky non era mai stato un buon bugiardo, dopotutto.

- Dev’essere la stanchezza accumulata. E poi ieri sera ho mangiato decisamente troppo. - aggiunse sperando di sembrare convincente.

Sam sorrise e tolse la mano dalla sua spalla.

- Zemo sarà anche una serpe, ma la sua pastasciutta credo che me la ricorderò per sempre. -e risero piano tutti e due, perché quella era una tragica verità che non avrebbero mai potuto negare dopo il modo in cui la sera prima si erano avventati sul cibo.

Sam si rabbuiò di nuovo e Bucky faticò a trattenere un sospiro: sapeva benissimo quali sarebbero state le sue prossime parole.

- Per piacere amico, fai attenzione con Zemo. -

- Sam, ormai quelle parole non hanno più effetto su di me. - lo tranquillizzò per l’ennesima volta, ma capì immediatamente di non aver sortito alcun effetto.

- Non è di quello che parlo. Non mi piace come quel tipo riesce a entrare nel cervello della gente. So che sei forte, ma… stai in guardia, ecco. -

Bucky annuì, consapevole che nonostante tutto Sam aveva ragione, poi fu il suo turno di mettergli una mano su una spalla e il gesto si trasformò subito in un abbraccio sentito, seppur frettoloso.

- Fai buon viaggio. -

Sam gli rivolse un sorriso finalmente sincero che gli scaldò il fondo del cuore, mentre recuperava la giacca dall’attaccapanni nell’ingresso e se la buttava sulle spalle.

- Ci sentiamo. - lo salutò, poi aprì la porta e imboccò le scale, sparendo alla sua vista.

Bucky si spostò verso la finestra e diede un’occhiata alla piazza deserta, dove l’Uber di Sam lo fece salire a bordo prima di svanire nel dedalo di strade della città. Salutò con la mano, anche se non era sicuro che dalla strada riuscisse a vederlo, e quando l’auto fu definitivamente scomparsa rimase in piedi di fronte al vetro a guardare il silenzio del mattino.

Il cielo si stava facendo via via più chiaro, l’azzurro che a mano a mano conquistava spazio sopra l’orizzonte mentre poco distante una campana suonava le sei e mezza del mattino.

Bucky trasse un sospiro profondo, poi tornò in corridoio, fermandosi un istante fuori dalla camera di Zemo. Dall’interno non proveniva alcun rumore e ipotizzò che l’uomo stesse ancora dormendo. Meglio così, non avrebbe dovuto fornirgli spiegazioni.

Tornò in camera sua, indossò maglietta e felpa e, ben deciso a dare a quella giornata un inizio sensato, uscì a correre.

Era un’abitudine che aveva recuperato da poco, un suggerimento della psicologa che gli aveva proposto di affiancare l’attività fisica alla terapia. Non era stata una cattiva idea, la fatica fisica riusciva a tenere lontani i pensieri negativi e generalmente aveva almeno l’impressione di aver portato a termine qualcosa di buono nell’arco delle sue giornate tutte uguali.

Non conosceva la città, non sapeva bene dove avrebbe potuto andare, ma poco lontano da casa scorreva placido il fiume e decise che avrebbe approfittato del suo argine per darsi un itinerario. Attraversò la piazza riservando un cenno di saluto al netturbino che era apparso da dietro un angolo dell’antico palazzo e proseguendo verso destra raggiunse finalmente il marciapiede che costeggiava l’Arno.

A mano a mano che correva e i suoi muscoli si risvegliavano, anche la città sorgeva dal sonno, con i primi motorini messi in moto e il profumo caldo del pane appena sfornato. Nel suo tragitto incontrò signore anziane piene di sacchetti e ragazzini stravolti dal sonno che si incamminavano verso scuola con zaini più grandi di loro malamente caricati sulle spalle e inconsapevolmente si ritrovò a sorridere a ciascuno di loro, sogghignando fra sé e sé quando due giovani, probabilmente liceali, lo salutarono e avvamparono in preda a risolini e poco velate gomitate non appena ebbe ricambiato il saluto. Centosette anni e non sentirli, pensò divertito.

Quando il concerto di campane e gli accrocchi di vecchietti fuori dai tabacchini lo informarono che erano già le otto, tuttavia, decise che poteva tornare a casa e non si stupì nemmeno nel trovare Zemo ai fornelli, ancora in pigiama nonostante con la sua stupida vestaglia di seta volesse dare una parvenza di decoro.

- Ah, buongiorno James. Ho supposto fossi uscito per prendere dimestichezza con la città, così mi sono preso la libertà di preparare la colazione per quando fossi tornato. - lo salutò come se niente fosse.

Per un assurdo istante Bucky fu attraversato da un moto di soddisfazione nel constatare che in quell’ora e mezza di assenza da casa Zemo non si era dato alla macchia fuggendo dalla rete fognaria, ma quando se ne rese conto gli sembrò un pensiero decisamente stupido.

- Grazie, credo. - gli rispose in modo ancora più imbecille, avvicinandosi alla penisola e sentendo i morsi della fame alla vista dei biscotti al cioccolato e delle fette di pane bianco pronte per essere tostate. Zemo era sempre così pieno di zelo quando si trattava di cucinare che ogni tanto aveva la sensazione che prima o poi lo avrebbe direttamente avvelenato, come la strega cattiva di Biancaneve o qualcosa del genere.

- Caffè? Tè? Meglio un caffelatte? - continuò l’uomo, assolutamente sereno e ignaro dell’immagine mentale agghiacciante che stava avendo di lui.

- Un caffè va benissimo. Vado… vado a fare una doccia e arrivo. -

Quando tornò in sala, rinfrescato dalla doccia e dai vestiti puliti, Zemo era seduto sul divano, gli occhi castani puntati sulla tv.

- Che dicono? - si informò, riconoscendo l’impaginazione grafica di un notiziario.

L’uomo non rispose immediatamente, si prese qualche istante per attendere che la giornalista finisse di parlare e fosse annunciato un nuovo servizio, poi con una leggera pressione dei palmi sulle ginocchia si alzò in piedi e lo raggiunse alla penisola.

- Niente che già non sappiamo. Furto agli Uffizi, blabla, nessuna traccia dei colpevoli, blabla, niente di anomalo captato dalle telecamere di sorveglianza, forse opera degli Wraiths. -

Bucky percepì nel suo apparente stato di noia un certo grado di preoccupazione che lo mise sull’attenti.

- Sarebbe la prima volta che non colpiscono qualcosa di commerciale. - osservò, bevendo un sorso del caffè che nel frattempo gli era stato versato.

Zemo sbocconcellò un biscotto ricoperto di stelline di zucchero, gli occhi ancora fissi sulla televisione.

- Nessuno ha ancora nominato la natura della refurtiva. O si tratta di qualcosa di assolutamente inutile, oppure di qualcosa di assolutamente occulto. -

Bucky sorrise sarcastico e finì di spalmare la Nutella sul suo toast prima di addentarlo con foga.

- Onestamente non so in quale versione sperare. - commentò a bocca piena.

Zemo ricambiò il sorrisetto e bevve silenziosamente il suo tè.

- Sam è riuscito a partire senza intoppi? - chiese poi e Bucky si sentì messo al muro dall’apparente sincerità di quella domanda, come se davvero a Zemo fosse interessato delle ipotetiche grane del terzo elemento del trio.

- Sì, dovrebbe decollare fra poco, mi ha scritto prima di passare i controlli sicurezza. -

L’altro annuì, ma capì da come non lo stava guardando in faccia che il suo pensiero era concentrato su altro.

- Speriamo che almeno lui trovi qualcosa di concreto negli States. Non ho un buon presentimento. -

Bucky aggrottò le sopracciglia, confuso da quella sortita, ma non appena Zemo si accorse che aveva finito il caffè si alzò in piedi e prese a sparecchiare, in netto contrasto con i suoi soliti modi pacati e imperturbabili.

- Diamoci una mossa, vorrei entrare prima dei turisti. - spiegò.

- Agli Uffizi? - replicò Bucky, perplesso.

- E come pensi di fare? -

Ma dall’espressione saccente sul volto dell’uomo si rese conto che erano ancora tante le cose di Zemo che tendeva a sottovalutare.

Un quarto d’ora dopo, infatti, si ritrovò a seguire i suoi passi decisi lungo il porticato adorno di statue che aveva percorso quella mattina correndo. Non vi era più traccia in Zemo del banale turista che aveva interpretato il giorno prima: adesso indossava un gilet e una camicia chiara, sopra ai quali aveva messo un trench leggero che nonostante il taglio semplice lo rendeva elegantissimo. Bucky si guardò riflesso in un plexiglass e si vergognò dei suoi jeans scoloriti e dell’economica giacca di pelle col cappuccio che si era portato da casa. Sembrava veramente un pezzente.

Cercò di non fare caso al vociare che si era alzato dalla serpentina di turisti in coda quando Zemo li aveva allegramente superati tutti entrando come se non ci fossero stati alle spalle tre tornanti ricolmi di gente in attesa e si affrettò a tenere il passo con lui: aveva la sensazione che se fosse rimasto indietro i vacanzieri lo avrebbero preso d’assalto e smembrato per ottenere un vantaggio sulla posizione nella coda.

- Zemo, che diamine stai…? - ma la domanda gli si spense fra le labbra quando da dietro un vetro del reparto accoglienza una persona saltò in piedi e si affrettò a correre loro incontro.

- Barone Zemo! Che piacerle poterla finalmente rincontrare! Non ci aspettavamo una sua visita, dica, è venuto per la sua collezione? - domandò in un inglese perfetto.

- La tua collezione? - gli sibilò Bucky, mentre l’altro si beava del suo stupore senza premurarsi di nasconderlo.

- C’è Eike? Avrei bisogno di un confronto veloce su alcune questioni che mi stanno particolarmente a cuore. - lo ignorò rivolgendosi all’impiegato, che rispose ossequiosamente che data la situazione questo tale Eike era presente e li avrebbe ricevuti immediatamente.

- Seguitemi. - fece poi al loro indirizzo guidandoli verso un ascensore contrassegnato da un cartello che Bucky intuì fosse la traduzione italiana di privato.

- Chi è Eike? - sussurrò sporgendosi appena verso Zemo mentre aspettavano che le porte dell’ascensore si aprissero.

- Schmidt, il direttore degli Uffizi. Nel 2015 ho devoluto una piccola somma per un progetto di restauro e mi hanno dedicato una collezione. - fece indicandogli con un cenno della testa un piccolo cartello puntato verso il piano superiore che citava “Zemo Collection”.

- Ahimè per lo più pale d’altare del Duecento, non esattamente il mio genere. -

Bucky sgranò gli occhi. A rigor di logica non avrebbe dovuto essere sorpreso, ma continuava a risultargli assurdo che un tizio che aveva incontrato la prima volta vestito da nerd in una prigione in Germania fosse in realtà uno degli uomini più ricchi d’Europa.

- Cosa sei, lo Stark delle Arti? - lo prese in giro.

Zemo scoprì i denti in un sorriso sinceramente orgoglioso.

- Meglio il marmo del vibranio, se permetti. -

L’ascensore li portò ai piani superiori, dove l’impiegato li condusse attraverso una serie di corridoi e porte segrete per poi farli fermare fuori da un antico portone in legno scolpito.

Bussò, entrò e dopo qualche secondo ne uscì nuovamente accompagnato da un uomo paffuto e dalla fronte spaziosa.

- Helmut, mein Freund! - esclamò in tedesco allargando le braccia e stringendolo a sé.

Zemo lasciò fare sotto lo sguardo basito di Bucky, ma ebbe per lo meno la decenza di rispondere in inglese.

- Eike, mio caro, è passato davvero molto tempo! Come stanno le mie pale del Duecento? - fece, palesemente retorico.

- Ah, questo è James Barnes, un mio… - si interruppe, una frazione di secondo che però non passò inosservata al diretto interessato.

- Collaboratore. - concluse Zemo con un sorriso affabile, portando una mano dietro la schiena del direttore e sospingendolo appena verso Bucky.

L’uomo lo fissò un momento a palpebre strette, come a cercare di riconoscerlo da un ricordo sfumato, ma durò solo un istante e non dovette riuscire nel suo intento.

- Buongiorno signor Barnes, è un piacere averla agli Uffizi. -

Bucky annuì e gli strinse la mano.

- Il piacere è mio signor Schmidt. - replicò, ringraziando la sua buona stella di aver chiesto informazioni prima.

Intrattennero ancora qualche minuto di conversazione di circostanza, ma non appena l’impiegato si fu congedato l’atteggiamento di Zemo cambiò così drasticamente che Bucky quasi sussultò.

- Allora Eike, parliamoci chiaro. L’altro giorno mi sono permesso di versare un bonifico alla Fondazione. Una sciocchezza, capirai, un gesto di affetto per i cari amici degli Uffizi. Chiaramente, con il weekend di mezzo, la banca non ha ancora terminato la transazione, per cui… ecco, è spiacevole doverne discutere, ma… Non so se mi sento così tranquillo a destinare il mio patrimonio a un istituto che non riesce a proteggere i suoi interessi. Non so se mi spiego. -

Schmidt sbiancò, le guance paffute a tremare appena mentre l’aria entrava nella bocca per poter replicare in qualche modo.

Bucky stette ad osservare, ammirato. Non era necessaria quella velata minaccia, ma di certo aveva ottenuto la più totale collaborazione da parte dell’uomo.

- Se ti riferisci agli Wraiths, è ancora tutto da verificare. Il furto è una sciocchezza, è la stampa che ha montato tutto questo caso mediatico. - si affrettò a comunicare.

La presa di Zemo sulla spalla dell’uomo si fece un poco più opprimente, tanto che Bucky percepì il cambio di ritmo nella sua respirazione.

- Spero che questa sciocchezza non appartenga alla mia collezione. - fece, la voce come velluto ruvido.

- No, Helmut, assolutamente. Saresti stato informato subito. Ti dico che si tratta di una sciocchezza, davvero. Un prestito temporaneo, non era nemmeno in esposizione. Non ho idea del perché l’abbiano rubato, non è ancora nemmeno stata verificata la paternità, le analisi dovevano iniziare mercoledì… -

- Di che articolo si tratta? - si intromise Bucky, stufo di tutti quei sottintesi da sapientoni.

Zemo spostò lo sguardo dal direttore a lui senza muovere nessun altro muscolo e per un assurdo momento temette di aver fatto un colossale passo falso, ma quando il suo collaboratore lasciò la presa capì che forse la sua imbeccata non era stata priva di valore.

Eike si sistemò nervosamente la cravatta ed espirò dal naso.

- Un manoscritto del Quattrocento. Un trattato di Alchimia, parrebbe uno dei testi perduti di Pico della Mirandola. Credo poco in questa storia onestamente, gli studi cabalistici erano più un divertissement che altro, è più probabile che si tratti di un falso per tirare su qualche spicciolo. Ma a quanto pare i nostri ladri ci sono cascati in pieno. E dire che si sono anche presi la briga di andare fin giù nel seminterrato! -

- Ma non è stato decretato un falso. - lo interruppe bruscamente Zemo, mentre a Bucky un fastidioso brivido risaliva la schiena fino alla nuca. Temeva di aver capito dove volesse andare a parare.

- Beh, no, ma sarebbe bastato aspettare qualche giorno. - ribatté l’uomo, velatamente irritato.

Zemo fu svelto a sciogliersi in un sorriso accomodante.

- Ma certo, un’altra Testa di Modigliani! Gli Italiani sono un grande popolo, ma si perdono davvero in un bicchiere d’acqua… - scherzò accondiscendente e il brivido di Bucky si trasformò in una vera ondata di terrore quando si accorse che, qualunque cosa volesse dire, quell’ultima battuta era stata fatta espressamente per distogliere l’attenzione dal discorso precedente.

- Dovete fare attenzione, amico mio. Il furto di un falso non è niente, ma nella fuga qualcosa avrebbe potuto rompersi… Che ne so, una statua, una cornice, un rapporto di fiducia… - poi rise di nuovo, battendogli una pacca sulla spalla a denotare che scherzava.

Scherzava davvero? Bucky lesse senza difficoltà quell’interrogativo negli occhi azzurri del direttore, ma presto ogni tensione svanì nel nulla proprio come dal nulla era arrivata.

- Allora, che ne dici, posso far fare un giro delle collezioni al signor Barnes, qui? E’ la sua prima volta a Firenze. -

Schmidt sorrise, il primo sorriso reale da quando avevano intavolato quella bizzarra conversazione.

- Ma certo, se volete vedere qualche collezione non in esposizione ovviamente dite che vi autorizzo. Ora scusatemi, vi accompagnerei ma fra pochi minuti ho un intervista per la Rai. Maledetti giornali… - borbottò.

Zemo scosse la testa, la scena madre che gli sarebbe valsa un Oscar.

- Terrificanti. Quanta pazienza ci vuole, mio caro Eike… Quanta pazienza… - e quando l’uomo li ebbe salutati e fu nuovamente sparito dietro il portone del suo ufficio, il ghigno sul volto di Zemo era come uno squarcio.

Si concessero davvero il successivo paio d’ore per fare una visita gratuita del museo, Zemo non aveva alcuna intenzione di perdere l’occasione e Bucky dovette convenire che era un’ottima guida, perfettamente edotto sulla maggior parte delle opere e decisamente appassionato nel raccontargli la loro storia e la loro importanza. Ancora una volta nulla che avrebbe dovuto stupirlo, eppure Bucky continuava a sorprendersi della poliedricità di quell’individuo.

- Comunque non era il caso di minacciarlo. - fece rompendo il silenzio quando furono usciti dal museo, l’aria fresca della primavera di nuovo ad accarezzare i loro volti.

Zemo si voltò in sua direzione con aria divertita.

- Ammettilo, ti è piaciuto! - esclamò, allargando appena le braccia.

- E poi conosco Eike, in questi casi ha bisogno di essere… come dire, incentivato. -

Bucky roteò gli occhi, ben lontano dal volergli concedere la ragione su alcuna delle due parti del discorso, e si concentrò su altro.

- Tu sai che cos’è quel manufatto, vero? - domandò con più serietà.

Zemo, accaldato dal sole di mezzogiorno, si sfilò il trench e lo appoggiò distrattamente all’avambraccio. Il suo sguardo allegro di poco prima si era nuovamente rabbuiato.

- Quando ho iniziato a interessarmi ai fascicoli dell’Hydra sono saltate fuori molte cose interessanti. Come sai sia Hitler che la sua divisione scientifica per eccellenza erano particolarmente ossessionati dall’occulto. Una delle varie leggende a cui avevano iniziato a lavorare gravitava attorno a Giovanni Pico della Mirandola, un filosofo italiano attivo verso la fine del Quattrocento. Le voci di corridoio sostenevano che alcuni dei suoi ultimi manoscritti, trafugati in occasione del suo omicidio, trattassero appunto di Alchimia e di qualche tentativo di sfidare le leggi della Fisica per non so quale scopo. Era un qualcosa di completamente scollegato da ciò di cui avevo bisogno per il mio obbiettivo, quindi non mi interessai più di tanto. - ammise, un poco in imbarazzo per quanto un uomo come Zemo potesse imbarazzarsi.

Bucky scosse la testa e si passò una mano fra i capelli corti in un gesto nervoso.

- Se l’Hydra se ne stava occupando significa che c’era sicuramente un fondo di verità, ma… l’Hydra è stata distrutta, non può trattarsi di loro, vero? - non si accorse di quanto l’ultima domanda fosse suonata disperata, e non si accorse nemmeno del fremito sulle labbra di Zemo.

- Non possiamo essere certi di nulla, James. - si limitò a rispondergli.

Tacque per un paio di istanti, poi gli si fece più vicino.

- Conosco una persona che potrebbe aiutarci, è un appassionato del Rinascimento italiano, un gran collezionista. E… - si congelò, gli occhi sgranati e la bocca una linea retta che pian piano si curvava verso l’alto in un sorriso lontanamente folle.

- Zemo? -

- Ce l’ha lui. - disse solamente.

- Di che cosa stai parlando? -

- La sua collezione! Ormai si tratta di secoli fa, ma ricordo che una volta ci aveva tenuti ore e ore a parlare di questo manoscritto che giurava fosse autentico, una parte due di un volume più ampio che però non era stato capace di trovare intero. Un trattato sull’Alchimia, James! Ecco dove colpiranno gli Wraiths la prossima volta! -

Bucky fece istintivamente un passo indietro, spaesato da quella reazione così entusiasta.

- Come puoi esserne certo? Non sappiamo nemmeno con certezza se il furto agli Uffizi è stato opera loro! -

Ma la luce nuova negli occhi di Zemo lo ridusse al silenzio.

- Ti fidi di me? - domandò, e per un momento Bucky si sentì davvero in dovere di rispondergli.

- Fammi fare qualche telefonata e vedrai. - gli assicurò, voltandosi di scatto verso la Loggia.

- Mi scusi! - esclamò in inglese a una coppia di giovani turiste che aveva letteralmente travolto nel movimento.

- Ma figurati, tanto sono incorporea! - replicò una delle due, sarcastica, mentre Bucky si dissociava alzando le spalle e mimando uno “scusatelo” con le labbra mentre l’indice destro andava a roteare accanto alla tempia.

Le due ridacchiarono, già dimentiche dell’impatto, e con un sorrisetto ammiccante Bucky proseguì sulla scia di Zemo.

- Ti ricordo che siamo in missione e io sono in libertà vigilata. Stiamo lavorando, non siamo venuti per flirtare. - lo rimbeccò Zemo, tagliente.

- Ora siediti qui e aspetta mentre telefono. Ci vorrà un po’. -

Zemo fu di parola. Impiegò all’incirca una quarantina di minuti ad ottenere quello che cercava, chiamando persone che Bucky non aveva mai sentito nominare, mentre lui continuava a scambiarsi occhiate divertite con le due ragazze di prima che erano riapparse una decina di minuti dopo con due kebab e si erano sedute esattamente di fronte a loro dall’altra parte della Loggia.

Fu dopo un altro paio di tentativi che finalmente riuscì ad ottenere quello che cercava, facendo partire la chiamata con aria solenne.

Quando però dall’altra parte rispose in italiano una voce piuttosto anziana, il volto di Zemo si illuminò.

- Francesco! Come stai? Sono io, Helmut! - esclamò a sua volta in italiano.

Bucky sperò che avesse il buon cuore di passare all’inglese, ma il concetto di buon cuore era chiaramente qualcosa di alieno a quell’uomo.

- Helmut, ragazzo mio! Che piacere sentirti! Quanto tempo è passato? Mi sembra una vita! Come sta Helena? E Carl? Deve essere diventato proprio grande! Lo hai iscritto all’Università? -

Il volume della chiamata era abbastanza alto perché Bucky, seduto accanto a lui, potesse sentire tutto, ma ovviamente non capì nulla se non una manciata di nomi di persone, probabilmente loro vecchie conoscenze.

Istintivamente incuriosito si voltò verso Zemo, ma quando posò lo sguardo sul suo volto accadde qualcosa di strano.

Gli occhi castani dell’uomo erano sgranati e fissi davanti a lui, le pupille improvvisamente minuscole, e il volto si era fatto pallido di colpo.

Zemo aveva la bocca socchiusa, ma non ne stava uscendo alcun suono e di certo non notò l’espressione vagamente preoccupata di Bucky accanto a lui.

- Io, ehm… Senti, sono in città per affari con una persona, mi piacerebbe fare un salto a salutarti e magari raccontarti un po’ di cose, dici… dici che si può fare? -

Bucky continuava a non capire nulla della conversazione, ma si era accorto che Zemo aveva preso a balbettare.

Che cosa gli aveva detto lo sconosciuto da ridurlo in quello stato?

Non intervenne finché l’uomo non ebbe riagganciato, ma quando Zemo tornò a voltarsi verso di lui sembrava che ogni traccia di disagio fosse già sparita dal suo volto, sostituita da un sorriso trionfante.

- Ci ho rimediato una cena nella sua villa, stasera alle nove. -

Bucky annuì. Una parte di sé avrebbe voluto chiedergli se andasse tutto bene, ma era un istinto stupido: che senso avrebbe avuto? Zemo non era Sam. Non erano amici. Era solo, ancora una volta, un mezzo per il suo fine, una persona pericolosa che fino a quel momento aveva solamente saputo ferirlo.

Si scrollò di dosso quel malsano istinto alla compassione e tornò a guardare Zemo negli occhi, pronto ad ascoltare cos’altro avesse da dirgli.

- Non possiamo certo andarci così però. Voglio dire, sembri uno scappato di casa, Francesco non ti farebbe nemmeno entrare. Ti ci vuole qualcosa di più elegante. - decretò squadrandolo da capo a piedi, come se già quella mattina al cospetto di Schmidt non si fosse sentito sufficientemente inadeguato.

- Zemo, non ho assolutamente niente di elegante con me. - decretò, tetro.

L’uomo non si fece perdere d’animo e con un cenno del capo gli indicò la strada dall’altro lato della piazza che si srotolava verso il centro città.

- E’ proprio per questo, James, che siamo costretti ad andare a fare acquisti. -

Se gli avesse detto che era pronto a venderlo all’Hydra, probabilmente, avrebbe reagito con maggiore entusiasmo.

Fu complicato fare acquisti nei negozi di abbigliamento senza dare eccessivamente nell’occhio con un braccio di vibranio, ma alla fine, quando la carta di credito di Zemo -una delle tante- strisciò sull’ultimo apparecchio e ufficializzò la compravendita, l’uomo sembrava estremamente soddisfatto, a differenza del Bucky sfinito alle sue spalle.

Capiva che la situazione richiedeva un compromesso, ma non gli andava giù l’idea di farsi comprare abiti costosi da Zemo, non voleva avere alcun tipo di debito con lui, e gli zeri inanellati uno dopo l’altro sullo scontrino lo facevano sudare freddo. Avrebbe dovuto aprirsi un mutuo.

“Te li ripagherò.” aveva detto solennemente una volta usciti dal negozio, ma Zemo si era limitato a guardarlo con la stessa accondiscendenza che si dedica all’ingenuità dei bambini.

Erano tornati a casa attorno alle cinque del pomeriggio e ciascuno si era poi dedicato alle sue attività. Zemo aveva pisolato un’oretta sul divano prima di sparire in camera sua, e Bucky aveva fatto l’esatto opposto, affascinato da un documentario sulla natura selvaggia del Kenya di cui non era eccessivamente importante capire il doppiaggio. A un certo punto aveva ricevuto un messaggio da Sam, che era arrivato sano e salvo dall’altra parte dell’oceano e gli aveva riassunto brevemente quanto accaduto quella mattina, omettendo le varie minacce e lo strano comportamento che Zemo aveva avuto nella Loggia. Non gli andava che Sam si preoccupasse per niente, di qualunque cosa si fosse trattata, Bucky poteva gestirla da solo.

Non era più fragile come una volta.

Zemo riapparve un po’ più tardi offrendogli un tè, ma quando Bucky rifiutò nemmeno il padrone di casa seguì la sua stessa proposta. Silenzioso, si versò un bicchiere di whiskey che andò a sorseggiare davanti alla finestra, accompagnato dalla voce della televisione.

Bucky lo osservò attraversare il salotto, scostare le tende e bere con calma, lo sguardo assente ad abbracciare la piazza. Continuava ad esserci qualcosa di fuori luogo nel suo atteggiamento, una nota stonata rispetto alla sua solita presenza impossibile da ignorare.

Turbato da quel velo di opacità, spense la televisione e tornò in camera, considerando che data l’ora poteva incominciare a prepararsi.

Aveva appena finito di infilare la giacca blu scuro che Zemo aveva tanto insistito per comprargli quando un paio di colpi leggeri alla porta lo informò che aveva visite.

- Sì? - fece voltandosi, ma Zemo era già entrato.

- Ah, sei già pronto, volevo avvisarti che è quasi ora di andare. - poi gli rivolse un sorriso soddisfatto.

- Decisamente un altro effetto. - commentò con un cenno del capo alla sua persona, mentre Bucky si sistemava di nuovo di fronte allo specchio e si osservava critico.

Non stava male, la giacca gli metteva in risalto gli occhi e gli sfinava la vita, ma era letteralmente un secolo che non indossava qualcosa di elegante e non si sentiva completamente a suo agio vestito in quel modo.

- Spero solo che il tuo amico ci possa aiutare. - ribatté, ben deciso a non accettare il complimento, sempre che di un complimento si trattasse.

Zemo non rispose, e Bucky vide riflesso nello specchio che l’uomo aveva portato la sua attenzione su qualcos’altro.

Si sentì assurdamente in colpa quando si accorse che quel qualcosa era il libricino che quella mattina aveva lasciato sul comodino.

- Ah, io, uhm… - balbettò, in cerca di qualche scusa. Ma scusa per cosa? Non aveva fatto niente di male.

Zemo raccolse il Piccolo Principe e se lo girò un paio di volte fra le mani, quasi l’avesse visto in quel momento per la prima volta, poi un sorriso che trasudava tristezza gli solcò il volto.

- Era uno dei preferiti di Carl. Mio figlio. - si affrettò a spiegare.

- Preferiva i videogiochi, ma ci tenevo che leggesse tanto. Leggere apre la mente. Il Piccolo Principe gli era piaciuto. Glielo lessi io ad alta voce, la prima volta. Alla fine pianse per due ore e mi chiese perché gli avessi comprato un libro così triste. -

Bucky tacque, spiazzato non tanto dalla confessione in sé, ma dalla dolcezza nella voce dell’uomo che fino a poche ore prima aveva visto agire come un sapiente criminale.

Zemo si lasciò andare ad una risata che parve più un singhiozzo.

- Era arrabbiato perché il Piccolo Principe alla fine abbandona l’aviatore. Ma è bene imparare fin da piccoli che a volte è meglio saper lasciare andare. Ha finito per volerne una copia in ogni lingua che stava studiando. -

Accarezzò appena la copertina con il pollice, per poi attraversare la stanza e andare a risistemare il libro al suo posto sullo scaffale.

- A me lo spedì mia sorella quando ero al fronte. E’ l’ultimo ricordo che ho di lei. - si sentì in dovere di raccontargli Bucky.

Non lo aveva mai detto a nessuno, nemmeno a Steve, un dettaglio insignificante che non aveva mai trovato modo di uscire dal suo cuore. E adesso lo aveva consegnato a Helmut Zemo come se niente fosse, perché il dolore nella sua voce gli era sembrato per un attimo acutamente familiare, terribilmente comprensibile.

Si scambiarono uno sguardo lungo, silenzioso, forse anche sincero, poi Zemo gli fece cenno con la testa di seguirlo.

- Dai, andiamo. Francesco ci starà già aspettando. -

Chiusero la porta di casa, scesero le scale e uscirono nell’aria ancora frizzante della sera.

L’antica villa medicea di Francesco, una perla di ricchezza al centro del suo enorme giardino, li aspettava a porte aperte a sud della città.

 

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Capitolo 3
*** Chapter III ***




I’m thinking to myself

That I’ve done something wrong

That I have crossed the line

Running Away - Three Days Grace

 



 

 

 

 

Quando il taxi fece il suo ingresso nel grande giardino curato, il sole era ormai calato da un pezzo.

Bucky riusciva a intravedere le sagome scure degli alberi ben potati e intuiva nelle luci dei faretti le aiuole di fiori colorati che, viste dall’alto, dovevano comporre qualche disegno, forse uno stemma o un decoro. Di certo, tuttavia, fu la villa, imponente e maestosa, ad attirare maggiormente il suo sguardo.

Le luci al primo piano erano accese, ma le tende tirate per lo più celavano l’interno alla vista dei visitatori.

- E’ un’antica villa della seconda metà del Cinquecento. Fu fatta ereggere dalla famiglia dei Medici, all’epoca vantavano addirittura il soglio pontificio. Poi passò in mano agli Asburgo-Lorena e divenne proprietà della famiglia di Francesco attorno agli inizi del Novecento. - spiegò Zemo dopo aver pagato e congedato il tassista.

Bucky annuì, ammirato. Non era eccessivamente edotto sulla storia d’Italia, ma era evidente che quel luogo doveva aver assistito a molti cambiamenti e molte vicende degne di nota nel corso dei secoli.

- E che tipo è questo Francesco? Che cosa devo aspettarmi? - chiese mentre si incamminavano verso la scalinata che portava all’ingresso principale.

Uno strano sorriso andò a curvare le labbra sottili dell’uomo in una sfumatura in cui Bucky si sorprese a riconoscere un certo grado di affetto.

- E’ vedovo e non ha figli. L’Arte e la Storia sono le sue grandi passioni, potrebbe essere definito un tipo eccentrico, se non… - ma non concluse ciò che stava dicendo.

La sua mano stava salendo verso il campanello quando qualcosa dovette attirare la sua attenzione, perché interruppe il gesto a metà e aggrottò le sopracciglia.

- Che succede? - fece Bucky, allarmato.

Zemo portò lo sguardo su di lui, gli occhi leggermente sgranati dall’urgenza.

- Il portone è aperto. -

Bucky si accorse in quel momento della sottilissima lama di luce che attraversava i gradini, in fuga dalla porta socchiusa. Che gli Wraiths li avessero preceduti?

- Merda. - sibilò.

Si scambiarono un’occhiata veloce, Zemo annuì e Bucky spinse la porta con una spallata, scivolando all’interno della villa.

L’ingresso era deserto e buio, la lama di luce proveniva dal piano superiore e non fu l’unica cosa ad attirare la loro attenzione.

Una serie di rumori diversi, mobili spostati, oggetti frantumati e grida li travolsero in un’accozzaglia incomprensibile, e prima che Bucky potesse reagire in alcun modo Zemo lo aveva già spinto da una parte e si era lanciato verso le scale.

- Zemo, aspetta! - ma l’uomo non lo stette a sentire.

Cazzo, quel cretino era disarmato!

Senza attendere un momento di più Bucky lo inseguì, salendo i gradini a tre a tre e trasalendo quando assieme al suo sorvegliato fece il suo ingresso nel salone.

Durò un istante, Zemo e Bucky, ad occhi spalancati, si ritrovarono ad osservare una scena di totale devastazione: gli arazzi alle pareti erano lacerati, i tappeti ricoperti di cocci di antiche porcellane mentre resti di sedie e grandi schegge di legno ricoprivano ciò che rimaneva della stanza.

Di fronte a loro, armati fino ai denti, cinque individui a volto coperto si erano immobilizzati vedendoli entrare.

- Attento! - urlò Bucky, spingendo Zemo di lato e bloccando con il braccio sinistro un colpo di pistola che gli avrebbe trapassato la fronte.

Si gettò in avanti, un pugno sferrato alla cieca che colpì il nemico sul volto ma che non sortì nessun effetto particolare. L’individuo incassò e si spostò indietro, cercando di puntare la pistola contro Bucky, mentre Zemo roteava in modo da evitare un montante partito da un altro dei malviventi.

Bucky cercò di disarmare il suo avversario, ma quello gli assestò uno spintone che lo spedì dritto contro il grande tavolo da cerimonie.

L’uomo tentò di colpirlo al volto, ma Bucky afferrò un coltello dalla tavola e lo piantò nel braccio dell’assalitore, che lasciò finalmente cadere la pistola.

- James! - urlò Zemo dall’altro lato della stanza, e l’americano non attese un momento di più, lanciandogli al volo l’arma.

Pur con la pistola fra le mani, tuttavia, Zemo non era in grande vantaggio: i misteriosi individui erano forti e ben allenati e, combattendo contro un terzo elemento che stava schivando ogni sua coltellata, Bucky si accorse con un brivido che erano esperti.

- Che cosa volete? - sibilò glaciale quando si ritrovò faccia a faccia con una donna dal volto coperto.

Quella non rispose, ma le piccole rughe che comparvero attorno ai suoi occhi fecero da portavoce al ghigno che stava di certo esibendo da sotto il passamontagna scuro.

Roteò di lato per liberarsi di lui, mentre un suo compagno cercava di assalirlo e Zemo lo aiutava sparando un colpo che colpì di striscio il braccio dell’avversario.

- Che cosa volete?! - replicò quello, a voce più alta di Bucky, liberandosi da una presa e sferrando un pugno violento sul naso di uno di loro.

Ancora nessuna risposta, ma quando il volto di Zemo si trasfigurò in una maschera di puro panico Bucky comprese che era accaduto il peggio.

- No! - esclamò l’uomo, scrollandosi di dosso un nemico con una spallata violenta e correndo dall’altro lato del salone.

Solo a quel punto Bucky si accorse che a terra, sdraiato fra cassetti rovesciati di antiche credenze e ciarpame vario, un uomo stava rantolando, il volto tumefatto e il panciotto chiaro intriso di sangue.

La distrazione gli fu fatale, un pugno violento lo colpì alla tempia e lo spedì dritto per terra, i sensi per un attimo annebbiati da un lungo fischio.

- No, no, no! Resta con me, rispondimi, segui la mia voce, resta con me! -

Sentiva Zemo urlare qualcosa in Italiano, ma non comprese nulla. Un calcio alla bocca dello stomaco lo fece piegare in due dal dolore, ma prima che chi lo aveva colpito potesse fare altro si aggrappò al piede e tirò con violenza, facendo cadere l’individuo.

Senza attendere oltre, Bucky gli si portò a cavalcioni, disarmandolo e scaricando sul suo volto quanti più colpi riusciva a infierire, ma il nemico ribaltò le posizioni e gli portò le mani attorno al collo, stringendo forte.

Bucky sentì immediatamente la gola stringersi e il respiro farsi affannoso, ma non si perse d’animo e portò il braccio di vibranio contro il suo collo, spingendo forte e mettendo l’uomo in difficoltà. Con un colpo di reni, Bucky riuscì a scrollarselo di dosso quanto bastava affinché i due si ritrovassero a rotolare sul pavimento avvinghiati l’uno all’altro, ma all’improvviso l’uomo si dimenò con un violento strattone grazie al quale riuscì definitivamente a liberarsi.

Bucky si ritrovò fra le mani un pezzo della sua maglia che si era strappata nella colluttazione. C’era qualcosa attaccato alla stoffa, una spilla con uno strano simbolo, ma ancora una volta la distrazione che si permise fu un errore: bastò un secondo, ma quando riuscì a rialzarsi in piedi si accorse che i cinque malviventi stavano fuggendo da una porta secondaria che doveva condurre a un corridoio.

- Fermi! - esclamò, lanciandosi all’inseguimento.

Aprì con un calcio la porta che era stata sbattuta, pronto a continuare a combattere, ma il lungo corridoio di fronte a lui era deserto.

- Venite fuori! - urlò digrignando i denti, il coltello che aveva recuperato prima di inseguirli stretto in pugno, ma dei misteriosi nemici non vi era più traccia.

- Cazzo… - sussurrò.

Erano come spariti nel nulla.

- Zemo! - esclamò tornando indietro, ma ammutolì quando entrò nuovamente nel salone.

Non ci aveva nemmeno fatto caso, ma nella colluttazione il grande lampadario di cristallo doveva essere stato colpito nel suo supporto da qualche proiettile vagante e adesso giaceva distrutto sul tavolo un tempo apparecchiato. La stanza era adesso immersa nella penombra, uniche fonti di luce i faretti giù in giardino e il corridoio adiacente.

Zemo era inginocchiato a terra, il cappotto primaverile disteso sul pavimento come un mantello. Gli dava la schiena, e Bucky non osò parlare mentre la mano di Francesco scivolava via dal volto del suo ospite e cadeva a terra inanimata.

Rimase immobile, mentre Zemo, a capo chino, sussurrava qualcosa che non comprese e chiudeva gli occhi del vecchio padrone di casa con un movimento lento e colmo di rispetto.

- Zemo? - azzardò a chiamarlo dopo qualche istante di silenzio.

Zemo si voltò verso di lui, il volto cinereo e gli occhi fissi sulla sua persona.

- Hanno preso il libro. - disse solo.

- Ne sei sicuro? - ribatté, allarmato.

Zemo non rispose, si voltò nuovamente a guardare il vecchio, disteso in una pozza di sangue che era arrivata a lambire un angolo del tappeto.

- Siamo stati troppo lenti. - disse solamente.

Si alzò in piedi lentamente, e per un momento a Bucky sembrò oscillare come un giunco nel vento.

Fece un passo avanti verso di lui, ma non gli disse nulla, non avrebbe saputo cosa.

Poi Zemo si voltò, gli occhi ancora distanti in un ragionamento occulto, ma comunque consapevoli.

- Vieni. - e senza aspettarlo lo superò, uscendo in corridoio e percorrendolo fino in fondo. Aprì una porta sulla destra ed entrambi si ritrovarono a sgranare gli occhi nel trovare due persone, un uomo e una donna, riverse sul pavimento imbrattato di rosso.

Bucky si precipitò al loro capezzale, ma uno recava un foro di proiettile in fronte e l’altra due colpi precisi al petto.

Si voltò verso Zemo e scosse la testa, ma l’uomo doveva aspettarselo.

- Ovviamente. - disse soltanto, muovendosi verso un mobile sul quale se ne stava un telefono fisso. Zemo si chinò ad osservarlo e scosse la testa: il cavo era reciso, e la cornetta penzolava inerte e abbandonata accanto all’apparecchio.

- Dobbiamo andarcene da qui. Se ci trova la Polizia siamo finiti. - sentenziò.

Bucky si guardò attorno, notò altri schizzi di sangue sul muro, altri cassetti rovesciati e si sentì impotente.

- Sono svaniti nel nulla… - sussurrò.

Zemo, ancora una volta, non disse niente. Si chinò accanto all’uomo e prese a tastargli gli abiti, facendo emergere da una tasca della giacca la chiave di un’automobile.

- Giovanni era il suo autista. - spiegò solamente.

Bucky riservò al cadavere dell’uomo e della donna stesi di fronte a lui uno sguardo colpevole, poi seguì Zemo fuori dalla stanza e lungo una scala che li condusse nuovamente al piano inferiore.

Nessuno dei due aprì bocca mentre attraversavano la grande villa deserta. Gli unici rumori ad accompagnarli erano quelli dei loro passi sul pavimento di marmo e il distante ticchettio di una pendola.

Il buio che regnava al piano inferiore non sembrava infastidire Zemo. Proseguiva dritto e senza esitazioni, e fu solo quando raggiunsero la porta del garage che si sentì in dovere di accendere la luce premendo piano sull’interruttore.

Davanti a loro, immobile come i cadaveri, se ne stava un’Audi nera che rispose al comando remoto con un paio di bip allegri e irrispettosi.

- Guido io. - propose Bucky, ma Zemo lo ignorò platealmente e, dopo aver aperto la saracinesca, prese posto sul sedile dell’autista.

Mise in moto, sistemò la pistola che avevano rubato ai malviventi in uno degli scomparti interni della macchina e, quando Bucky ebbe allacciato la cintura, diede gas.

- Conosci la strada? - chiese Bucky, gettando un’occhiata nervosa allo specchietto retrovisore.

Zemo annuì, le mani salde attorno al volante rivestito il pelle chiara.

- All’incirca. Preferisco evitare l’autostrada, è meglio sorvegliata della statale. - fece, svoltando a sinistra e imboccando una stradina che attraversava i campi.

Nei venticinque minuti successivi non fu sprecata nemmeno una parola.

Entrambi rimasero in silenzio, lo sguardo puntato sulla strada, fuori dal finestrino, sulle stelle che disinteressate pulsavano sopra la campagna.

La macchina sfrecciava nel fresco tepore di quella notte di primavera, i canti dei grilli a salire dai campi attorno a loro che presto si mutarono in dolci colline e fitti vigneti.

Sarebbe stato idilliaco, se non fossero stati in fuga da un massacro.

Zemo non aveva più aperto bocca, il volto ancora pallido e le labbra sempre tese in una linea retta.

Con un po’ più di luce si sarebbe accorto della pupilla minuscola e fissa sul percorso di fronte a loro, ma adesso tutto quello che riusciva a scorgere era la rigidità della sua postura, la forza con cui le mani stringevano il volante e la mascella contratta di tensione ogni volta che i fasci di luce dei lampioni gli illuminavano il volto.

Guidarono ancora per qualche manciata di minuti, poi, mentre attraversavano un agglomerato di case, Bucky decise di rompere il silenzio.

- Dobbiamo fermarci a mangiare qualcosa. -

Zemo si voltò di scatto verso di lui ma non perse la rigidità nei suoi muscoli.

- Con la Polizia plausibilmente alle calcagna? Bravo, ottima idea. - replicò.

Bucky sbuffò, seccato.

- Allora potresti dirmi dove stiamo andando? - cercò di metterlo in difficoltà.

Missione compiuta, Zemo tornò a guardare la strada, l’espressione torva.

- Lontano da Firenze. Non ho ancora pensato ad una meta definitiva. - ammise.

- Ascolta, è quasi un’ora che stiamo guidando. Fermiamoci da qualche parte al volo, prendiamo qualcosa, decidiamo dove andare e poi ripartiamo. Un quarto d’ora di pausa, non di più. Non possiamo guidare tutta la notte senza aver mangiato. Tu per lo meno non puoi. - provò a farlo ragionare.

Zemo si prese qualche secondo per riflettere mentre scalava la marcia e rallentava ad un incrocio.

- Solo un quarto d’ora, poi ripartiamo. - concesse, rendendosi probabilmente conto che dopo il combattimento alla villa era poco saggio continuare a guidare per ore senza mettere niente sotto i denti.

-Guarda se c’è un McDonald’s o qualche altro posto dove prendere qualcosa al volo. - aggiunse.

Bucky fece per recuperare il cellulare dalla tasca dei pantaloni, ma il suo occhio cadde su un’insegna luminosa poco più avanti.

- Quello è un diner. - osservò.

Zemo gli rivolse una strana occhiata, poi, senza aggiungere altro, mise la freccia e abbandonò la strada per entrare nel largo piazzale di fronte all’edificio.

Il piazzale era parzialmente occupato da una serie di tavolini e un grosso cartello, in assenza di parcheggi liberi al livello della strada, indicava di proseguire verso il parcheggio sul retro. Imboccarono la ripida discesa e si ritrovarono in un altro piazzale deserto e poco illuminato.

- Meglio così. - considerò Zemo a mezza voce, più un sussurro a dire il vero.

Tirò il freno a mano e spense il motore e Bucky fu rapido a togliersi la cintura e scendere dall’auto.

Nonostante le decorazioni colorate e le grandi bandiere americane che sventolavano sull’ingresso, il retro del locale aveva davvero qualcosa di inquietante, complice il nulla più assoluto della campagna che li circondava e i cassonetti della spazzatura abbandonati da una parte alla luce aranciata di un vecchio lampione.

Si voltò per seguire Zemo lungo la salita che li avrebbe condotti di nuovo al piazzale principale, ma un dettaglio lo fermò senza che potesse compiere il passo.

- Zemo. - lo chiamò.

Quello gli dedicò uno sguardo interrogativo e vagamente accigliato, ma quando Bucky gli fece segno di controllare il suo viso sembrò capire alla prima e la sua espressione mutò repentinamente.

Si portò le dita alla guancia sinistra e aprì appena la bocca senza che ne uscisse alcun suono quando si rese conto del sangue.

- Ah. Sì, giusto. - borbottò a voce bassa, sfregandosi una manica del cappotto scuro sulla guancia e pulendo alla bene e meglio la scia scarlatta che doveva avervi lasciato la mano di Francesco.

Durò una frazione di secondo, un momento impercettibile, ma a Bucky sembrò di leggere rimorso negli occhi dell’uomo, gli sembrò di trovarvi un sentimento che non avrebbe pensato di poter attribuire a Helmut Zemo.

Così concentrato sul suo volto non si accorse che la mano sporca di sangue aveva preso a tremargli appena e Zemo, ripartito a grandi falcate verso la porta del locale, non gli diede modo di farlo.

Spalancata la porta, entrambi furono per un momento sopraffatti: davanti a loro si trovava un diner in pieno stile anni ’50, interamente tappezzato di bandiere americane, targhe automobilistiche e qualsiasi altra cosa potesse ricordare gli Stati Uniti.

- Stai scherzando. - sibilò Zemo, e il disgusto nella sua voce gli rese impossibile trattenere una piccola risata.

- Se non altro è pittoresco! - fece Bucky superandolo e marciando dritto verso il bancone, mentre dall’esterno il fascio di luce dei fari di una macchina colpiva le vetrate del locale.

- Pittoresco? Una chianina al sangue è pittoresca. Un tagliere di salumi con un buon bicchiere di vino è pittoresco. - si lamentò borbottando come un vecchio radiatore ingolfato, mentre Bucky cercava di non sghignazzare mentre tentava di interpretare il menù.

- Americani. - lo sentì sbottare con vago disprezzo mentre, finalmente, ordinava un menù hamburger per entrambi.

La ragazza dietro al bancone indicò loro quello che evidentemente, per un bastardo scherzo del destino, doveva essere rimasto l’ultimo tavolo senza prenotazione e nemmeno Zemo ebbe la forza di replicare.

Si limitò a rispondere alla giovane con un grazie in Italiano e a marciare scuro in volto verso la destinazione assegnata.

- Continui a trovarlo pittoresco, James? - domandò, prendendo posto al tavolo costruito all’interno di un’automobile. Fortunatamente il tavolo si trovava in mezzo ai due sedili e non sarebbero stati costretti a mangiare fianco a fianco.

Bucky roteò gli occhi e fece per sfilarsi la giacca, bloccandosi appena in tempo nel ricordare che sotto indossava una maglia a maniche corte e un diner pieno di clienti non era esattamente il luogo più adatto dove fare bella mostra di un braccio bionico in vibranio.

Rimasero una manciata di minuti nel più religioso silenzio, entrambi piuttosto a disagio mentre un televisore su una parete trasmetteva video musicali a cui nessuno dei due prestò particolare attenzione.

- Hanno perso questo, nella lotta. -

Bucky fu il primo a rompere il silenzio. Posò sul tavolo la stoffa stracciata con la spilla e attese che Zemo desse un qualsiasi cenno di comprensione. Per sua sfortuna l’uomo non fece altro che accigliarsi.

- Non conosco questo simbolo. - ammise.

Prese in mano la spilla e se la rigirò fra le dita, assorto.

- Un triangolo inscritto in un cerchio, con dentro un quadrato e un altro cerchio. E questo è… un’aquila? - commentò, cercando di decifrare la natura dell’animale alato che racchiudeva il simbolo nel suo ventre.

- E qua sotto c’è una specie di ponte? - aggiunse Bucky, indicando le zampe dell’animale che posavano su un qualche supporto architettonico.

Si scambiarono un’occhiata perplessa e tornarono a guardare la spilla dorata.

- Non conosco nessuna di queste figure, non saprei a cosa attribuirle. - sospirò Bucky, passandosi stancamente una mano sugli occhi.

Zemo scosse la testa.

- L’aquila potrebbe essere un simbolo di forza, il ponte di unione? L’unione fa la forza? - azzardò.

- Pensi a qualche organizzazione come i Flag Smashers? - azzardò Bucky, ma prima che potesse ottenere risposta una cameriera sui pattini a rotelle apparve coi loro vassoi e Zemo fu svelto a far sparire il lembo di stoffa con la spilla, mentre la porta si apriva ed entravano altri clienti.

- Grazie! - azzardò Bucky con i rimasugli dell’orrido Italiano che aveva appreso ai tempi della guerra dagli abitanti delle Alpi.

La ragazza sorrise e si allontanò pattinando, ed entrambi si avventarono sui panini.

- Non saprei, i Flag Smashers mi sembrano un concetto già superato. Gli ideali sono diventati quanto di più effimero l’uomo possa concepire, oramai. I valori etici fluttuano come un battito d’ala di farfalla e nessuno si cura minimamente degli uragani che potrebbero generare altrove. - commentò, tagliente.

- Siamo poetici. - replicò Bucky, nonostante si trovasse in cuor suo a dovergli dare ragione. Una delle cose che più lo avevano messo in crisi del mondo moderno era la sua velocità, il modo in cui fagocitava, consumava e risputava le idee senza nemmeno darsi il tempo di assimilarle.

I Flag Smashers erano stati fermati da appena sei mesi ed erano già diventati inchiostro per le pagine dei libri di Storia.

Ma Zemo già aveva smesso di ascoltarlo, lo sguardo atterrito puntato oltre le sue spalle.

Preso dall’istinto si voltò in quella direzione e lì per lì non vide niente di strano.

- Che cosa hai…? - stava chiedendo, ma la domanda gli morì in gola.

A un paio di tavoli di distanza da loro, in una casualità troppo ironica per non essere stata calcolata, assieme a un gruppo di amici c’erano le due turiste che avevano scontrato quella mattina fuori dagli Uffizi.

- No dai. - disse solamente tornando a girarsi da Zemo e addentando un altro morso del suo hamburger nella speranza di dissimulare la sorpresa e fare finta di niente. Si era accorto che le ragazze li stavano guardando.

- Ti giuro, James, che se ci siamo trascinati dietro due spie perché non hai resistito dal flirtare con loro… - lo minacciò il suo compagno di sventure, la postura composta ma le narici appena dilatate dall’evidente nervoso a stento trattenuto.

- Non stavo flirtando! - ribatté lui sulla difensiva.

- E poi niente ci dice che siano spie. - aggiunse.

- Certo, figurati. Normalissimo che di tutta la popolazione fiorentina, dopo ore da un apparente contatto fortuito, in seguito alla nostra fuga da un attacco omicida dei nostri nuovi nemici, ci ritroviamo ad incontrarci casualmente nella ridente cittadina di… - diede un’occhiata all’indirizzo riportato sulla tovaglietta colorata e lo guardò negli occhi con disprezzo omicida.

- Poggibonsi. -

Bucky alzò le sopracciglia in segno di resa.

- Magari il diner è un’attrazione turistica. - tentò di salvarsi.

- Magari ti sei fatto fregare nel modo più idiota possibile. - continuò Zemo, impietoso.

Bucky incassò silenziosamente e terminò il suo hamburger bevendo qualche sorso di coca cola, ma pochi minuti dopo fu il suo turno di sbiancare.

- Cazzo. - disse solo e fu Zemo stavolta a seguire il suo sguardo verso il televisore.

I video musicali si erano interrotti in quello che sembrava un tg locale, alle spalle della giovane reporter un edificio terribilmente familiare.

- E’ la villa di Francesco. - sussurrò Bucky, portando meccanicamente delle patatine alla bocca.

Zemo trattenne il fiato per un momento.

- Cosa stanno dicendo? - lo interpellò sperando in una traduzione simultanea, anche se era ben consapevole che con tutto il casino del locale non avrebbe potuto sentire niente.

L’attenzione dell’uomo si spostò dunque sulle scritte in sovraimpressione, e prese a tradurre a mano a mano che i titoli scorrevano nella parte bassa dell’inquadratura.

- Assalto omicida a villa medicea… Probabile tentativo di rapina, gli abitanti sono deceduti… Nessun oggetto di valore è stato trafugato, la cassaforte è intatta. Secondo le telecamere di sorveglianza i malviventi… - sbiancò se possibile ancora di più.

- Sono arrivati in taxi e sono fuggiti a bordo dell’auto del padrone di casa. Non si esclude la pista della vendetta privata. -

Bucky rimase immobile, gli occhi sgranati e la mascella serrata.

- Dobbiamo andarcene. - disse solo.

Zemo annuì, la cannuccia della coca cola ancora poggiata sul labbro inferiore. Gettò ancora un’occhiata al notiziario e bevve un ultimo sorso, poi gli fece cenno di alzarsi.

- Andiamo. -

Si sistemò meglio il bavero del cappotto per camuffare i lineamenti, mentre Bucky raccoglieva i vassoi e si nascondeva dietro i bicchieri di coca cola marciando verso l’uscita. In un movimento fluido gettò la spazzatura nel cassonetto e abbandonò i vassoi al punto di raccolta, per poi uscire dalla porta che l’altro gli stava così cortesemente tenendo aperta.

- Ho lasciato la pistola in macchina. Ci stanno seguendo? - sussurrò Zemo mentre scendevano a passi misurati ma veloci verso il parcheggio.

Bucky non osò voltarsi, ma sapeva che la porta si era riaperta dopo che erano usciti. Non disse nulla, gli fece un cenno con la testa e non appena ebbero concluso la discesa si nascose dietro l’angolo offerto dalle fondamenta dell’edificio, Zemo poco lontano pronto ad aprire la portiera.

Ora non poteva fare altro che aspettare, sentiva i passi leggeri avvicinarsi, era questione ormai di pochi secondi.

Uno… due…

- AAAAAH! -

Uno strillo di puro terrore accompagnò il pugno da lui sferrato. Non colpì nulla e la reazione lo sorprese talmente tanto che per un istante abbandonò la guardia.

- Che cazzo fai, sei scemo?! - urlò una seconda voce in Inglese.

- Cosa?! - fece eco Zemo, la pistola puntata verso le due spie, di cui una si era istintivamente rannicchiata a terra per evitare il pugno in vibranio a lei diretto.

L’altra ragazza, quella in piedi, aveva le mani alzate in segno di resa ed alla luce aranciata dell’unico lampione sembrava bianca come un cencio.

- Giù la pistola, veniamo in pace. - esalò mentre la compagna la imitava e si rialzava in piedi con le mani in mostra.

- Chi siete? - sibilò Bucky, consapevole che alle sue spalle Zemo non aveva ancora abbassato l’arma.

Le due si scambiarono un’occhiata veloce prima di rispondere.

- Generale. - disse quella in piedi.

- E Sergente Maggiore. - si presentò l’altra.

- Un po’ giovani per il grado. - criticò Bucky, diffidente.

- Combatto gli alieni da quando ho dodici anni, penso di essermelo proprio guadagnato il grado. E comunque mi sembra che anche il caro Capitan America non fosse esattamente un Capitano a tutti gli effetti. - fece colei che si era presentata come Generale.

- Sentite, non cerchiamo grane, non vogliamo combattere, il mio hamburger starà diventando di gomma mentre parliamo, quindi iniziamo ad abbassare le armi, ok? - intervenne Sergente Maggiore abbozzando un sorriso incoraggiante.

Zemo rivolse un’occhiata dubbiosa a Bucky, ma lentamente abbassò l’arma.

- Perché ci state spiando? - domandò.

- Non vi stiamo spiando! - fece Sergente Maggiore, offesa, mentre Bucky si voltava verso Zemo con un’espressione eloquente.

- Beh, più o meno. - continuò Generale.

- Io e la mia socia siamo membri di un gruppo autonomo di difesa del pianeta. Sicuramente non ci avete mai sentiti nominare, tendiamo a lavorare in basso profilo e non è che gli Americani si siano mai filati particolarmente l’Italia… - spiegò poi.

- Siete dei supersoldati? - domandò Zemo prima che Bucky avesse il tempo di dire qualsiasi cosa.

- Ma che supersoldati! Andiamo avanti a botte di culo e improvvisazione! - rise l’altra ragazza.

I due tornarono a scambiarsi un’espressione perplessa.

- E quindi perché ci avreste pedinati? - incalzò Bucky.

Fu Generale a prendere nuovamente la parola.

- Sono più o meno vent’anni ormai che gestiamo vari attacchi alieni ai danni della Terra. Nei cinque anni di vuoto dopo Thanos ci siamo occupati di un’invasione vera e propria, abbiamo evitato l’ennesima potenziale fine del mondo lavorando per i fatti nostri tanto che gli Avengers erano impegnati a, boh, dissolversi nell’etere e ritirarsi a vita privata? L’America non è l’unica nazione con i suoi… corpi speciali, se li vogliamo chiamare così. -

- Il Governo italiano si è interessato alla nostra esistenza e adesso di tanto in tanto ci affibbiano qualche missione collaterale. A gratis, ovviamente, mai che sgancino due lire. - aggiunse Sergente Maggiore, bilanciando il peso da un piede all’altro.

- Ci sono state strane concentrazioni di energia non indentificata in giro per l’Europa ultimamente. Gli alieni con cui collaboriamo hanno degli apparecchi in grado di captare queste onde energetiche e l’ultimo flusso è stato a Firenze, per questo ci trovavamo lì. - spiegò ancora.

- E poi casualmente ci siamo imbattute nel caro amico di Capitan America. Ti ho riconosciuto subito, ho visto una mostra su di te a New York. - concluse Generale.

- Tu invece scusami ma proprio non ti riconosco. - fece poi all’indirizzo di Zemo.

Quello si accigliò, un poco offeso.

- Quindi state dicendo che questa misteriosa fonte di energia non ben dichiarata è apparsa a Firenze esattamente in concomitanza con il colpo agli Uffizi? - chiese Bucky, confuso.

Le ragazze annuirono.

- Ne abbiamo registrata un’altra a Sud della città, in un’antica villa medicea. Speravamo poteste aiutarci a chiarire la questione. - confessò Sergente Maggiore, mentre Generale accanto a lei incrociava le braccia al petto.

Ci fu un momento di silenzio nuovamente inglobato dal frinire dei grilli nell’aperta campagna attorno a loro, poi Bucky fece un passo in avanti e porse loro la mano in segno di pace.

- Io sono Bucky Barnes, questo con me è Helmut Zemo. - e mentre Sergente Maggiore gli stringeva la mano Generale diede un’occhiata a Zemo, pensierosa.

- Helmut Zemo… - sussurrò, lui palesemente irritato dal fatto che la sua identità fosse stata svelata senza interpellarlo.

- Ah sì, il terrorista di Vienna! E’ vero, ti ho visto al tg. - commentò semplicemente stringendogli la mano e guadagnandosi un’occhiataccia da parte dell’uomo.

- Avete qualche ipotesi sulla fonte di quest’energia? - domandò invece, sondando il terreno.

Le due ragazze scossero la testa e fecero spallucce.

- Dubitiamo sia qualcosa di alieno, le nostre apparecchiature non hanno alcun dato a riguardo. Alla villa… erano gli Wraiths, vero? - fece Sergente Maggiore.

Bucky annuì, torvo.

- Abbiamo combattuto contro di loro. Sembrerebbero umani, se non fosse per… E’ bastata una distrazione e sono letteralmente svaniti nel nulla. -

- Forse usano dei portali. O degli acceleratori di particelle. Qualcosa tipo teletrasporto insomma. La strana energia potrebbe servirgli per attivare questo meccanismo. - propose Generale, ma non sembrava eccessivamente convinta.

- Buchi neri controllati? - azzardò Bucky.

- No, è stata una delle nostre prime ipotesi ma gli apparecchi riconoscono i buchi neri. -

Zemo infilò la mano nella tasca del cappotto e ne fece emergere lo straccetto di stoffa.

- Abbiamo trovato questo. Sapete di cosa potrebbe trattarsi? -

Le ragazze si avvicinarono e Generale accese la torcia del cellulare per guardare meglio. Bucky si gettò istintivamente un’occhiata alle spalle, preoccupato che qualcuno, chiunque, potesse vederli.

- Sembra tipo un simbolo massonico. - sussurrò Generale, passando la spilla alla sua compagna.

- Siete riusciti a scoprire cosa è stato trafugato questa volta? - chiese Sergente Maggiore.

- Un manoscritto del Quattrocento di… Pico della Mirandola? - fece Bucky cercando il supporto di Zemo, non sicuro al cento per cento di ricordare correttamente.

A quel punto entrambe le ragazze alzarono la testa di scatto.

- Ha senso! - esclamarono in coro.

- Pico della Mirandola era un filosofo del Rinascimento. All’epoca erano fissati con la Cabala e l’Alchimia, robe magiche, insomma. E’ assurdo ma spiegherebbe le fonti energetiche. Se non sbaglio Pico della Mirandola era particolarmente affascinato dal rapporto fra spazio e tempo… - fece Generale, pensosa.

- Quindi potrebbero effettivamente aprire dei portali spaziotemporali. Non è tecnologia ed è per questo che gli apparecchi non la riconoscono. - le fece eco Sergente Maggiore.

- State dicendo che gli Wraiths sono dei maghi? - Bucky non riuscì a trattenere la sua perplessità, mentre Zemo portava una mano a sorreggersi il mento, l’indice posato sulle labbra con fare pensoso.

- Alchimisti… - lo corresse.

- Spiegherebbe il furto alle Stark Industries. - fece poi.

- Hanno rubato alle Stark Industries?! - esclamò Sergente Maggiore, ma Zemo preferì tenersi il resto dell’informazione per sé e annuì senza aggiungere altro.

- Dobbiamo sapere dove colpiranno, o dove si riuniscono. - incalzò Bucky, facendosi riconsegnare la spilla e infilandola nuovamente in tasca.

Le due giovani fecero spallucce ancora una volta.

- Ci sono decine di città europee legate al concetto di cabala e magia. Napoli, Torino… La stessa Roma… - incominciò Generale.

- Oppure Londra, Parigi, Praga… Forse decifrando quel simbolo potreste scoprire qualcosa di più. - aggiunse Sergente Maggiore.

- Purtroppo noi siamo legate ai confini italiani, il Governo perde giurisdizione altrove e ora come ora non possiamo proprio prendere ferie sul lavoro… - spiegò la collega.

- Voi eroi lavorate? - si lasciò sfuggire Zemo, sinceramente incuriosito.

 La ragazza rise amara.

- Eroi è un concetto molto americano di vedere la cosa. Ai tempi ci definirono intraprendenti universitari, poi ci diedero una pacca sulla spalla e tanti saluti: in qualche modo dovremo pur portare il pane in tavola, no? E in ogni caso non siamo eroi, non abbiamo armature o super sieri o altre stranezze. Non immaginateci come gli Avengers, siamo quanto di più distante da loro possa esistere. - spiegò.

Zemo le rivolse il primo sorriso amichevole dell’intera conversazione.

- Affascinante. - disse soltanto.

La ragazza guardò altrove, seccata.

- Una gran bella merda, fidati. - replicò mentre l’amica ridacchiava al suo disfattismo.

- Comunque vi conviene andare, se hanno tracciato la targa della macchina siete fottuti. - suggerì saggiamente.

- Ah, cazzo, è vero! - si lamentò Bucky voltandosi verso l’auto con la portiera ancora spalancata.

- Generale, non credi che sia il caso di…? - azzardò criptica Sergente Maggiore.

La ragazza sbuffò fintamente scocciata.

- Ma sì, aiutiamo il terrorista internazionale e l’ex killer potenziato a fuggire dalla giustizia, cosa mai potrebbe andare storto? - si concesse un sorrisetto andando a recuperare qualcosa nella sua borsa di pelle.

Bucky si aspettava che ne facesse emergere un’arma o qualche congegno per camuffare la loro identità e si ritrovò un pochino deluso quando vide che si trattava di una semplice penna rossa.

- Gentile concessione dei nostri amici alieni. Lavoreremo anche in basso profilo, ma un aiutino di tanto in tanto ci vuole. - spiegò, scribacchiandosi qualcosa sulla mano.

Prima che gli altri due avessero il tempo di capire che cosa stava succedendo, davanti a loro apparve come dal nulla una sorta di grande adesivo rettangolare.

- Una targa adesiva? Non potevi inventarti qualcosa di più fico? - la prese in giro Sergente Maggiore mentre la compagna tornava a incrociare le braccia al petto, ferita nell’orgoglio.

- Fossi in voi brucerei quell’auto il prima possibile, ma nel frattempo questo potrebbe bastare a fregare le telecamere. Non mi è venuto in mente altro di così rapido. - spiegò.

- Tecnologia aliena! - le fece eco l’amica muovendo le dita come se si fosse trattato di una magia.

- Grazie per il vostro aiuto. -

Bucky, che si era inginocchiato a sistemare la targa fasulla, si voltò di scatto verso Zemo. Non gli era sembrato che ci fosse scherno in quella frase, né il sentore di una bugia.

- Grazie a voi, è stata una chiacchierata fruttuosa. - sorrise allegra Sergente Maggiore, minimamente intimidita dalla potenziale minaccia dell’uomo di fronte a lui.

Bucky si rialzò in piedi e strinse loro le mani.

- Buon proseguimento, colleghe. - scherzò beccandosi un’occhiataccia da parte del suo compagno di fuga.

Le altre due risero piano e Generale strappò un pezzo di carta da un quadernino che aveva in borsa.

- Per piacere aggiornateci se scoprite qualcosa che potrebbe interessarci. - fece, consegnando a Bucky il foglietto con i loro numeri di cellulare scritti sopra in grafia frettolosa.

Non attesero oltre, si congedarono con un cenno della mano e risalirono velocemente la stradina che portava al diner.

- Le patatine saranno diventate cartone! - le sentirono lamentarsi prima che uscissero definitivamente dal loro campo visivo.

- Comunque non erano spie. - sentenziò immediatamente Bucky.

Zemo gli rivolse un’occhiata di fiele e tornò a sedersi in macchina, sbattendo la porta, ma Bucky riuscì comunque a intravedere un angolo della sua bocca alzarsi verso l’alto.

Controllò velocemente che le targhe finte, perfettamente aderenti al supporto, adempissero al loro compito e poi prese posto accanto a lui e allacciò la cintura mentre Zemo per la seconda volta in quell’assurda serata metteva a posto la pistola e premeva sull’acceleratore.

- Non abbiamo deciso dove andare. - gli fece notare Bucky dopo qualche minuto di guida silenziosa.

Zemo sospirò e si sistemò il ciuffo che gli era caduto davanti agli occhi.

- Conosco una persona a Roma esperta di simbologia occulta. Una professoressa alla Sapienza. Potrebbe esserci d’aiuto. E ha un jet. - aggiunse.

Bucky alzò le sopracciglia e inclinò appena la testa in segno di ammirazione. Di sicuro quell’idea sarebbe piaciuta a Sam.

Prima che Zemo potesse aggiungere qualcos’altro, tuttavia, il cellulare di Bucky prese a vibrargli insistentemente nella tasca.

- Merda. - sibilò, leggendo il nome sul display e presagendo grane in arrivo.

- Pronto, Shuri? -

Poco ci mancò che Zemo inchiodasse.

- Bucky, amico mio, luce dei miei occhi! - esclamò la ragazza dall’altra parte della linea.

- Oggi è una settimana precisa precisa da quando ci siamo salutati! - cinguettò allegra, e Bucky sentì il brivido salirgli su per la schiena.

- Ehm, sì? - azzardò, Zemo accanto a lui che continuava a lanciargli occhiate preoccupate.

- Bene, allora mi spiegheresti com’è che in sette giorni siete già ricercati dalla Polizia italiana?! Quando ti ho permesso di lavorare con Zemo non mi aspettavo esattamente questo risvolto! - lo rimproverò, la ramanzina resa ancora più imbarazzante dal tono scanzonato.

- Shuri, è stato un incidente, noi non… - ma la ragazza lo bloccò.

- Certo sì, ti dico solo che Ayo sta passando in rassegna le sue armi migliori. Anche darle il via libera per riportarmi la testa di Zemo su una picca potrebbe essere un incidente. - continuò come se niente fosse.

- Almeno avete novità? Sam mi ha detto che state seguendo due piste diverse. -

Bucky sospirò: sapeva di averla scampata per quella volta, ma la telefonata era un evidente avvertimento.

- Abbiamo avuto un incontro con gli Wraiths. Ora stiamo andando a Roma in cerca di indizi, Zemo dice che una professoressa potrebbe aiutarci a scoprire qualcosa sulla nostra pista. -

Sentì Shuri prendersi il suo tempo per incamerare quelle informazioni e riuscì a immaginarla sedersi svaccata sul trono o dovunque si trovasse.

- Passami il tuo sorvegliato. E Bucky, non cacciatevi nei guai più di quanto non ci siate ora. - fu l’ultimo ammonimento.

La salutò brevemente e passò il cellulare a Zemo. Non riuscì a sentire quello che la regina gli stava dicendo, ma Zemo annuì un paio di volte e concluse con un “ma certo” che portava con sé il peso di una lieve minaccia appena incassata.

Gli restituì il cellulare e sbuffò appena.

- Il fatto che la nostra garanzia siano quelle due ragazze del diner non mi piace per niente. - confessò, probabilmente riferendosi a qualcosa che gli aveva detto Shuri. Bucky non si sarebbe stupito se in Wakanda avessero saputo di quel sedicente gruppo autonomo di eroi italiani, o come diamine preferivano farsi chiamare.

Tacque una manciata di secondi, pensieroso, poi diede voce ai suoi dubbi.

- Non avevo mai sentito parlare di loro. Com’è possibile che lavorino da vent’anni e nessuno ne sappia nulla? -

Zemo fece spallucce, svoltando e imboccando una strada che saliva verso le colline.

- Hai sentito, operano in basso profilo. Chissà quante altre cellule come loro ci sono nelle varie nazioni di cui non sappiamo nulla. -

Bucky si sedette meglio e voltò il capo verso di lui.

- Zemo, non sono super soldati. - ci tenne a mettere in chiaro, ma la reazione dell’uomo lo spiazzò.

Zemo sorrise, una luce quasi divertita negli occhi, lontanissima dal modo in cui parlava degli Avengers o di Karli Morgenthau e i suoi seguaci.

- Sì, lo hanno messo bene in chiaro. - poi si concesse un altro risolino, e fra lo scherno generale Bucky captò anche una vena di strana ammirazione.

- In ogni caso saranno anche efficaci, ma sono troppo caotiche per i miei gusti. Non qualcuno su cui poter fare affidamento. - si affrettò a tornare al suo solito personaggio, la compostezza di sempre di nuovo esercitata senza sforzo.

Bucky scosse la testa e alzò gli occhi al cielo.

- Non sei tu il capo. - disse solo.

Zemo gli scoccò un’occhiata obliqua e Bucky sogghignò, voltandosi verso il finestrino dove la campagna toscana sfrecciava veloce e le stelle si avvicendavano nel firmamento attraverso la notte.

Erano già le undici passate e all’incirca tre ore di guida li separavano da Roma.

Qualunque cosa li aspettasse nella capitale italiana, avrebbe fatto bene a riposarsi un poco.

 

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Capitolo 4
*** Chapter IV ***




I wanna know
What you really think of me
I wanna feel
All the pain that sets you free
These waves of doubt
Are drowning me
Gone are the days
When this was easy

Don’t Fight It - 10 Years

 

 

 



 

 

Erano passati letteralmente anni dall’ultima volta che si era recato a Roma. Sebbene avesse visitato la città più volte da giovane non la conosceva bene come Firenze. Una volta abbandonato il Grande Raccordo Anulare aveva avuto bisogno del navigatore per trovare la strada giusta, ma James non aveva fatto storie e si era limitato a digitare sul telefono l’indirizzo che gli aveva fornito.

Si era reso conto solo quando avevano parcheggiato fuori dal grande e ricco palazzo che non sapeva nemmeno se Teresa vivesse ancora lì e che forse una telefonata sarebbe stata quantomeno educata prima di presentarsi alla sua porta nel cuore della notte. Tuttavia ormai il danno era fatto, ed era per quel motivo che si era diretto a passo deciso verso la cancellata e aveva suonato il piccolo citofono della portineria.

Gli avevano aperto e lo avevano indirizzato all’ascensore B, che avevano preso fino all’ultimo piano, James in religioso silenzio accanto a lui che continuava a sistemarsi nervosamente il colletto della giacca ormai tutta stropicciata.

Si era schiarito la voce, aveva cercato di aggiustare al sua acconciatura accomodandosi meglio il ciuffo castano e, dopo un profondo sospiro aveva suonato il campanello.

Avevano aspettato dieci secondi nei quali Zemo si era interrogato più volte se suonare ancora o girare sui tacchi e andare a dormire in macchina, quando un ciabattare leggero li aveva raggiunti dall’altro lato della porta.

Quando l’uscio si era aperto si erano ritrovati al cospetto di una signora sulla settantina, il volto ancora giovanile attraversato da qualche leggera ruga d’espressione, ricordo del fatto che in anni migliori doveva essere stata una bella donna.

- Helmut? Per carità divina, che ci fai qui a quest’ora? - aveva esclamato in Italiano sforzandosi di mantenere la voce bassa. Poi il suo sguardo era caduto su James e senza aggiungere altro li aveva fatti entrare.

- Immagino che il Signor Barnes non parli Italiano. Che cosa vi è successo? Sembra che vi abbia calpestati un branco di bufali. - aveva continuato in Inglese, e Zemo aveva visto le spalle di James distendersi.

- Ti chiedo scusa, Teresa, se ci siamo presentati in questo modo disdicevole, ma… - tuttavia non gli aveva lasciato il tempo di replicare, si era sistemata meglio il nodo della vestaglia di seta rosa antico che indossava e aveva fatto loro cenno di seguirla nel grande attico fino al salotto, dove li aveva fatti sedere su due divani morbidi in stile impero.

Accanto a loro, nella penombra della notte, un enorme televisore al plasma stava trasmettendo un episodio di Sex and the City, ma il volume era stato presto silenziato.

- Credevo fossi ancora a marcire a Berlino. - era stata l’unica cosa che la donna aveva detto prendendo posto su una poltrona bianca davanti a loro.

Zemo era appena arrossito, gli occhi puntati altrove.

- Ci sono stati sviluppi. - si era limitato a esalare, stravolto.

- Zemo è in libertà vigilata, io agisco in qualità di suo garante. Stiamo lavorando assieme per fare luce su una serie di crimini che hanno colpito l’Europa ultimamente. - aveva tagliato corto James, e gliene era stato grato. Non avrebbe avuto la forza, in quel momento, di raccontare tutta la storia per filo e per segno.

La donna aveva portato lo sguardo su di lui e si era presa qualche istante per incamerare meglio i suoi lineamenti.

- Sono Teresa Bianchi-Leone. Ammetto che non mi aspettavo di vedere Helmut a piede libero dopo quello che è successo a Vienna. Ma suppongo che la situazione sia cambiata dal 2016. - si era presentata con una grazia quasi regale.

Zemo aveva ulteriormente incassato la testa nelle spalle, a disagio, e aveva sperato che James non se ne accorgesse.

- Non si preoccupi, è tutto regolarmente sotto controllo. - aveva risposto quello, chiaramente diffidente.

A quel punto Teresa si era lasciata andare ad un sorriso e si era alzata in piedi, aveva preso posto accanto a Zemo sul divano e lo aveva stretto a sé in un abbraccio dolce e materno che lo aveva colto di sorpresa.

- In qualunque guaio vi siate cacciati, ne riparleremo domattina davanti a una ricca colazione e a una tazza di caffè. Adesso è troppo tardi perché i miei vecchi e stanchi neuroni capiscano qualcosa, perciò andate pure a dormire e riposate. -

Zemo aveva solamente annuito per poi borbottare un grazie a mezza voce e alzarsi in piedi per seguire la padrona di casa lungo un corridoio illuminato da alcune luci d’ambiente rossastre e smorzate dalla modalità notturna.

La donna aveva indicato loro l’ubicazione del bagno e aveva suggerito di lasciarle gli abiti affinché li facesse lavare.

- Dovrei avere dei ricambi puliti, i miei figli mi hanno lasciato gli armadi pieni. - aveva sorriso.

Zemo era stato l’ultimo ad andare in bagno. Si era fatto una doccia veloce ed era rimasto a guardare le linee rosse del sangue che confluivano assieme all’acqua nello scarico.

Aveva chiuso gli occhi e si era reso conto in quel momento del mal di testa che aveva preso a tormentarlo fin da quando erano arrivati al diner.

Si era asciugato distrattamente, aveva indossato il pigiama che Teresa gli aveva messo a disposizione e le aveva portato i suoi vestiti lerci di sangue ma debitamente ripiegati.

La donna gli aveva rivolto uno sguardo nel quale aveva scorto compassione, e improvvisamente si era sentito nudo e con le spalle al muro.

- Ora vado a dormire, ti ringrazio. - aveva detto solamente.

Si era accorto solo con il rumore della porta della stanza chiusa alle sue spalle di essere scappato.

Era andato a sedersi sul letto, al buio in una stanza non sua, ma non si era sdraiato subito. Era rimasto così per qualche minuto, immobile, le mani sulle ginocchia e il petto pesante, affaticato da qualcosa che non sapeva riconoscere.

Aveva ancora nelle orecchie il rumore del combattimento, dei cocci di ceramica frantumati sotto i piedi, della schiena di James sbattuta con violenza contro il vecchio tavolo di mogano.

Chiuse gli occhi, ma fu un errore.

Il volto insanguinato di Francesco tornò alla sua mente come un flash, improvviso, indesiderato, meschino.

Era morto.

Aveva tenuto le mani premute sulle sue ferite, aveva cercato di fare qualcosa, invertire la rotta di un destino evidente, opporsi, fare la differenza, ma assieme al sangue la vita dell’uomo era scivolata velocemente fra le sue dita.

Hanno preso il mio libro, lo hanno preso.” gli aveva detto fra i rantoli, negli occhi già distanti lo spettro della paura portata dall’incomprensione.

Stava morendo? Per uno stupido libro antico? Lo avevano ucciso per quello?

Zemo aveva sentito il panico serrargli la gola, annientargli le sinapsi. Cosa poteva fare? Non c’era tempo per chiamare aiuto, non c’era tempo per prestargli soccorso, non c’era tempo per niente.

Tardi, erano arrivati tardi, lui era arrivato tardi e la mano dell’uomo sul suo volto recava una dolcezza che non meritava, una cura sbagliata per un assassino.

Scappa Helmut, salvati!” era stato l’ultimo sussurro, prima di lasciarlo solo con l’orrore.

Scappa. Zemo non poteva scappare. Non sarebbe scappato.

E Franceso era morto, solo, spaventato, confuso. Era morto e lui era rimasto a guardare.

Riaprì gli occhi di scatto e gli sembrò che il buio gli entrasse nelle narici, che gli ostruisse i polmoni e gli bloccasse la gola, una mano invisibile che premeva e premeva e premeva finché un sibilo sfuggì alle sue labbra.

Spalancò la bocca e trasse un profondo respiro a pieni polmoni, lasciò che l’aria gli irrorasse le vene, che l’ossigeno conquistasse ogni anfratto di lui, ma si accorse con orrore che per quanto inspirasse a fondo l’aria non bastava mai, il buio era ancora dentro di lui, ingrandiva, si faceva spazio senza chiedere, occupava ogni cosa e schiacciava, schiacciava, schiacciava e non lo lasciava in pace.

Boccheggiante e appena piegato in avanti Zemo lasciò che una mano tremante recuperasse il telefono dalla tasca dei pantaloni e sbloccò la tastiera.

La luce dello schermo esplose nella stanza vuota e per un momento gli parve di tornare a respirare.

Rimase immobile a guardare l’immagine di sfondo, una fotografia predefinita di una qualche spiaggia tropicale, poi senza nemmeno accorgersene aprì la casella di messaggeria e prese a digitare.

“Come sapevi della villa?”

Inviò e la risposta arrivò in meno di dieci secondi. Shuri doveva viverci seduta sopra al suo telefono.

“Sei sotto osservazione Zemo, teniamo d’occhio ogni tuo passo.”

“Dimenticavo che avete occhi ovunque.”

Le spunte a lato del messaggio gli indicarono che Shuri aveva letto, ma la ragazza non rispose subito. Passarono alcuni secondi prima che un nuovo messaggio gli facesse vibrare il telefono fra le mani.

“Sono le tre e mezza a Roma.”

Zemo sentì i tremori allentarsi a quella frase apparentemente senza capo né coda.

“E sono le quattro e mezza in Wakanda.”

Immaginò le sue labbra tendersi da un lato in quel suo solito mezzo ghigno e l’ossigeno tornò a farsi strada nel buio.

“Sì, è piuttosto noioso aspettare che faccia chiaro senza poterti dare noia faccia a faccia, mi avevi abituata bene.” fu la replica che ottenne dopo un’altra manciata di secondi.

Scosse la testa, il buio sconfitto e il cuore disteso.

“Dovresti proprio dormire. Mens sana in corpore sano, Shuri.”

Non sapeva se la ragazza conoscesse o meno il Latino, ma dovette essere andata a controllare la traduzione su internet, perché il suo messaggio successivo fu una gif di un dito medio.

“Sempre così regale, mia Signora.”

Quindi, anche se lui ormai era partito da una settimana intera, continuava ad avere il suo stesso problema, le notti insonni continuavano a tenerla sveglia con i suoi demoni. Sospirò e si sdraiò a letto, sistemandosi le coperte fino a mezzo busto.

“E comunque alla tua età non ti fa bene fare le ore piccole. Vecchio.” gli scrisse, e quell’insulto gli arrivò con l’eco della risata della giovane.

Si scambiarono ancora qualche messaggio, poi Zemo sentì finalmente le palpebre farsi pesanti e si congedò con un ultimo messaggio.

“Grazie.” scrisse solo.

“A te.” e seppe, senza bisogno d’altro, che per quanto distorto e sbagliato fosse anche Shuri aveva avuto bisogno di quel dialogo senza senso.

Mise il telefono sotto carica e sospirò a fondo, il peso di poco prima sollevato abbastanza da poter provare a riposare qualche ora.

Sognò Shuri, sognò Francesco e James nel parcheggio del diner. Helena gli chiedeva chi fossero, ma quando apriva la bocca per risponderle non ne usciva alcun suono.

Non sognò altro se non buio e silenzio. Alla mattina non ne serbava più alcun ricordo.

La prima cosa che notò da sveglio fu che il mal di testa era passato. Si portò una mano sul volto e si stropicciò gli occhi per scacciare gli ultimi rimasugli di sonno, poi si alzò in piedi, sistemandosi alla buona i capelli con le dita e spuntando in corridoio.

Andò a sciacquarsi velocemente la faccia, ma una musica allegra lo attirò lungo il corridoio, attraverso il salotto fino alla grande cucina.

- Buongiorno Helmut! - Teresa lo salutò con un sorriso genuino e James, seduto al tavolo della cucina e già vestito di tutto punto, gli fece un cenno con la mano.

- Buongiorno. - replicò andandosi a sedere di fronte a James mentre la padrona di casa si muoveva verso i fornelli e recuperava una caffettiera da quattro.

Zemo ne approfittò per darsi un’occhiata attorno. Era stato solo un paio di volte a casa di Teresa, ma gli sembrava ancora tale e quale a come la ricordava: il salotto chiaro era arredato con gusto, i mobili antichi accompagnati da quadri di valore e soprammobili pregiati, la cucina era illuminata dalla luce dell’esterno e ricolma di giare di vetro e vasetti riempiti a tappo di biscotti, spezie e quant’altro.

Anche Teresa non sembrava invecchiata di un giorno, agile ed elegante persino nei suoi abiti da casa.

- Io e Helmut ci siamo conosciuti in occasione di un seminario all’Università di Berlino, anche se in realtà conoscevo suo padre da molto tempo. Uno studente brillante, Helmut. Il migliore del suo corso. - spiegò a James versandogli il caffè e indicandogli la zuccheriera.

Quello sorrise sbieco e gli indirizzò un’occhiata bizzarra.

- Non ne dubito! - fu il suo commento, e Zemo roteò gli occhi, rovesciando due cucchiai pieni di zucchero nel caffè.

- Mi fa piacere vederti. Mi dispiace che il nostro ultimo incontro sia stato in circostanze così spiacevoli… - fece la donna, l’espressione allegra ora velata da un ricordo che Zemo conosceva bene.

- Sokovia, i funerali di Stato. - spiegò asciutto, consapevole della perplessità negli occhi di James.

- Anche Helena era una mia ex-studentessa. Anche se ammetto che all’epoca non avrei mai detto che avreste finito per sposarvi. -

Zemo si soffermò un secondo di troppo a guardare in faccia James, e quello distolse lo sguardo, turbato. Forse parlare di persone che non conosceva lo metteva a disagio, o forse semplicemente non aveva interesse nella storia di come lui e Helena si erano conosciuti. Più che comprensibile.

- Di certo non l’avrebbe detto nemmeno lei! - commentò Zemo con un sorriso finto che pose fine alla questione. Diede un sorso al suo caffè e si sporse appena in avanti, lo sguardo basso sulla superficie del tavolo.

- Mi dispiace per come ci siamo presentati a casa tua senza annuncio, ma si trattava di una situazione piuttosto complicata. -

Quando la donna non rispose, intenta a sbocconcellare una fetta biscottata ricoperta di marmellata, fu James a prendere la parola.

- In realtà stiamo svolgendo una specie di indagine. Suppongo abbia sentito parlare degli Wraiths. -

Teresa annuì e bevve quello che aveva tutta l’aria di essere un succo di frutta.

- Quindi sono reali. - disse solamente.

James si strinse nelle spalle, non particolarmente convinto.

- E’ quello che stiamo cercando di capire. Abbiamo trovato questa sul luogo di uno dei furti, ci chiedevamo se ci potesse aiutare a decifrarne la simbologia. - spiegò porgendole la spilla.

Zemo gli fu grato di non essere sceso nei dettagli, non era necessario che Teresa sapesse davvero quale fosse la natura della loro collaborazione e che tipi di vicende li avessero condotti fino a lei.

Non era del tutto sicuro che sarebbe stata così disposta ad aiutarli se avesse saputo che già una persona era morta nel contesto delle loro indagini.

Non era del tutto sicuro che sarebbe stata così disposta ad aiutarli se avesse saputo che il solo ospitarli in casa sua la rendeva un soggetto a rischio.

Sospirò lieve mentre la donna inforcava gli occhiali che aveva appesi al collo tramite una cordicella e osservava con attenzione la spilla.

E se fosse successo qualcosa anche a lei? Se si fossero lasciati altro sangue sulla scia delle loro ricerche? Poteva prometterle che non le sarebbe successo nulla?

No, certo che no. Non poteva promettere niente.

Lo sguardo gli cadde sul coltello sporco di marmellata, la lama lucida al di sotto della patina zuccherina.

C’era stato un periodo della sua giovinezza in cui Zemo aveva l’abitudine di vantarsi di non sbagliare mai. Ogni esame universitario era una lode, ogni partecipazione a un progetto una menzione speciale, ogni relazione intessuta un’amicizia che si sarebbe consolidata nel tempo. Helena era stata il fiore all’occhiello di una vita perfetta e senza sbavature, la donna più bella, intelligente e divertente che avesse mai potuto anche solo sognare.

Zemo non sbagliava mai, non aveva sbagliato mai fino a che non aveva sbagliato tutto. Un errore di calcolo, una sbavatura nella valutazione, e di colpo il suo mondo si era spento e tutta la perfezione accumulata era diventata inutile, muta come la firma sul testamento di suo padre, vuota come il letto che avrebbe occupato da quel momento in avanti, tradita come il diritto ad essere protetto di Carl.

A cosa era servito essere perfetto, allora? A cosa era servito essere se stesso?

L’unica cosa che contasse era rimasta bloccata sotto cemento e tubi innocenti a chiamare il suo nome finché la calce non aveva portato via ciò che rimaneva e per due giorni aveva imposto il silenzio sul luogo che aveva imparato a chiamare casa.

Era finito tutto così, stupidamente. Per caso. Come se la sua storia fosse stata una storia qualsiasi, come se la sua famiglia fosse stata un insieme senza forma di personaggi di contorno ad una storia più grande, comparse nell’avventura di eroi distanti.

E lui, lui solo era rimasto a testimone del suo errore, della sua leggerezza, della sua fallibilità.

Non aveva saputo proteggerli, e ad ogni passo falso che aveva commesso era stato come se Novi Grad fosse crollata di nuovo, ancora e ancora, travolgendo i muri della sua casa e mettendogli in mano la sua croce per l’ennesima volta.

E adesso, senza tregua, gli errori di calcolo continuavano ad accumularsi, perché Zemo era tutto fuorché perfetto, tutto fuorché infallibile, e la sua presunzione aveva lasciato Francesco e i suoi collaboratori freddi nel buio della villa, perché aveva pensato di essere il solo a saper giocare a un gioco di cui in realtà nemmeno conosceva le regole e ancora una volta ne aveva pagato le conseguenze qualcuno che non meritava punizioni.

Nella luce quieta del mattino la lama del coltello rilanciava bagliori gentili e Zemo continuò a guardarla, a percorrerne la lunghezza senza alcuna espressione sul volto.

Il freddo dell’acciaio sarebbe stato un balsamo per il sangue caldo che gli pompava oscenamente nelle vene, sarebbe stato un’espiazione per la superbia che aveva guidato i suoi passi fino all’ergastolo.

Guardò il coltello e lo immaginò sfiorargli la pelle, gelido, scientifico, chirurgico.

Un bicchiere d’acqua dopo un incendio, il cuscino soffice dopo una giornata di fatiche.

Sarebbe bastato così poco, sarebbe bastato un niente.

E poi il silenzio, e poi casa.

E forse il perdono.

- Zemo. -

Si riscosse di colpo, richiamato all’ordine dalla voce arrochita di James.

L’uomo lo stava guardando negli occhi, uno sguardo cupo, intenso, le iridi azzurre intorbidite come la superficie dell’oceano prima dello schiocco del fulmine.

Zemo resse il suo sguardo senza sapere bene quale forma avesse assunto la linea delle sue labbra, rimase fermo immobile, aggrappato agli occhi di James, inchiodato come un animale terrorizzato di fronte al predatore e si concesse solamente un respiro spezzato.

“Non scapperà.”

Le parole dell’americano gli attraversarono la spina dorsale come una scarica elettrica e gli fecero venire la pelle d’oca.

- Teresa, riconosci qualcosa? - domandò voltandosi di scatto verso la donna, lontano da James, lontano dai suoi occhi, lontano dai ricordi e da tutto quello che si portavano appresso.

Vide con la coda dell’occhio che James aveva preso il coltello, ma non lo stava usando. Semplicemente lo teneva fra le dita, lo sguardo ancora fisso su di lui.

- Sì… - disse la donna con voce pensosa, mentre gli altri due sgranavano gli occhi di colpo.

- Abbiate pazienza, so di averlo visto ma non ricordo di preciso cosa rappresenti. Di certo posso dirvi che è uno stemma di una loggia, un qualche gruppo massonico. Le figure geometriche al centro sono un antico simbolo della trasmutazione alchemica, ma senza riferimento non sono sicura di poter collocare queste altre due figure. - spiegò, indicando il volatile e la struttura alla base della spilla.

- Aspettate, fatemi controllare, forse ho un libro che… - borbottò, abbandonando il tavolo della colazione e muovendosi verso il salotto.

- Intanto mangiate pure tranquilli, mi ci vorrà un po’! - li informò sparendo oltre la porta.

Il silenzio piombò immediatamente in cucina.

Zemo continuava a fissare insistentemente fuori dalla finestra, lo sguardo di James che gli bruciava la nuca.

- Forse verremo a capo almeno di questo mistero. - disse quello dopo qualche minuto di silenzio.

- Sono fiducioso, Teresa è un’esperta in materia. Se questo simbolo ha qualche precedente lei lo troverà di sicuro. - spiegò, realmente tranquillo.

Terminò il suo caffè con un sorso e si alzò in piedi, facendo un giro per la cucina e alzando le sopracciglia in vaga sorpresa quando notò che su una seggiola erano sistemati i suoi vestiti già lavati, stirati e debitamente ripiegati.

Si avvicinò e prese fra le mani la camicia: un lieve alone rosato era rimasto sul colletto in concomitanza della macchia di sangue, ma un occhio ignaro non si sarebbe accorto di niente.

- Posso farti una domanda? - la voce di James lo raggiunse nuovamente come da molto lontano e annuì senza voltarsi in sua direzione.

- Quali rapporti ti legavano a Francesco? -

Per un istante la presa attorno al cotone chiaro si fece più forte, ma durò solamente un attimo.

Zemo trasse un profondo sospiro e finalmente si decise a tornare a guardare in faccia il suo interlocutore.

- Lui e mio padre erano amici di vecchia data. Da bambino ogni estate trascorrevo almeno un mese a Firenze, è lui che mi ha insegnato l’Italiano e mi ha trasmesso l’amore per l’Arte. Era una specie di… Zio all’estero. - si concesse un sorriso affettuoso al ricordo dei pomeriggi passati assieme a Francesco a rovistare nei bauli pieni di strani oggetti dell’antichità dei quali il vecchio gli spiegava ogni funzione ed impiego.

- Anche dopo che mi sono sposato abbiamo continuato ad andare a trovarlo durante le vacanze estive, anche se con Carl piccolo, la scuola e tutto quanto non riuscivamo ad andare tutti gli anni. L’ultima volta è stata nel 2013, poi fra il lavoro e il resto… Era un po’ che non ci sentivamo. Non gli ho nemmeno mai detto di quello che è successo a Novi Grad. Non mi sembrava mai il momento appropriato. - ammise.

Si accorse di avere la vista offuscata solo quando sbatté le palpebre e fu in quel momento che accadde.

James non disse nulla, ma si alzò in piedi di scatto, la mano destra a incominciare un movimento verso di lui che Zemo non permise.

Con un sussulto appena percettibile fece un passo indietro e riguadagnò la distanza. Scoccò un’occhiata di ghiaccio all’uomo in piedi di fronte a lui, come se gli avesse dato un ceffone sul viso, come se gli avesse rifilato una scarica da tremila Volt.

Aveva visto cosa c’era nei suoi occhi, aveva riconosciuto quel sentimento e non lo voleva. Non doveva osare, non doveva nemmeno immaginare di potersi permettere.

Lui non era sperduto, non era un cucciolo nella pioggia che avesse bisogno di pietà. Non se ne sarebbe fatto nulla della sua schifosa compassione.

Non la voleva.

- Vado a vedere se Teresa ha bisogno. - sibilò, ustionato da quel gesto abortito a metà, strinato dall’improvvisa realizzazione di essersi mostrato vulnerabile all’ultimo uomo sulla faccia della terra a cui avrebbe mai concesso di vedere nel suo cuore.

Girò sui tacchi e lasciò Barnes solo in cucina, a domandarsi cosa avesse voluto farne di quella mano appena protesa in avanti.

Non lo vide, ma James si mise la mano in tasca, l’espressione accigliata, e tornò a sedersi.

In sottofondo, la radio continuava a cantare una musica allegra.

- Teresa, hai bisogno di una mano? - fece, entrando in salotto e trovando la donna seduta sul divano con tre o quattro libri aperti davanti a lei.

Quella alzò lo sguardo dalla sua lettura e tolse gli occhiali, lasciandoli a penzolare contro il petto.

- Temo di non avere niente in casa a riguardo. So di aver visto questo simbolo, ne sono sicura, ma non ricordo assolutamente quale fosse il contesto. - spiegò, scuotendo la testa e allargando le braccia, sconfitta.

Zemo andò a sedersi accanto a lei e prese in mano uno a caso dei volumi, sfogliandolo distrattamente.

- Potrebbe essere legato a qualche luogo particolare, qualche, non so… città alchemica? - azzardò, memore delle parole delle ragazze al diner.

Le sopracciglia di Teresa si arcuarono verso il basso, il ragionamento in atto ben visibile sul suo volto.

- Il ponte. -  

- Come? -

La donna gli portò una mano sulla spalla e strinse appena, raggiante.

- Bravissimo, Helmut! Il ponte! Le città! -

Zemo non capì nulla della sua euforia se non che la sua sortita le aveva fatto ricordare qualcosa.

Prima che potesse aggiungere altro, tuttavia, la padrona di casa si alzò in piedi, facendo cadere un libro sul tappeto ma ignorandolo completamente.

- Signor Barnes! Mi è venuta un’idea! - esclamò sporgendosi a mezzobusto dalla porta della cucina.

- Vai a vestirti, Helmut, andiamo agli Archivi! - esclamò.

- Agli Archivi? - chiese James, raggiungendoli in salotto ma guardandosi dall’avvicinarsi a Zemo. Rimase sulla soglia, la spalla destra appoggiata allo stipite della porta e le braccia conserte.

- Gli Archivi Vaticani. Mi sono ricordata dove ho visto quel simbolo, ma avremo bisogno di qualche permesso per poter approfondire la ricerca. - spiegò elettrizzata.

Zemo si lasciò sfuggire un sorrisetto, non si aspettava che Teresa avrebbe trovato la situazione così divertente.

Decise che sarebbe stato meglio assecondarla prima che l’entusiasmo si smorzasse e filò a cambiarsi.

Teresa li guidò attraverso le vie della capitale con passo sicuro, dispensando informazioni storiche e racconti della sua giovinezza ad ogni incrocio, ad ogni piazza attraversata. James stava ad ascoltare apparentemente incuriosito e Zemo li seguiva in un quieto silenzio, godendosi l’arte e cercando di non pensare a quello che era successo poco prima in cucina.

Lasciò che la donna li guidasse attraverso Piazza San Pietro e non riuscì a impedirsi di sorridere quando vide James spalancare la bocca nella più totale ammirazione.

- E’ la prima volta a Roma, vero? - gli chiese Teresa.

L’uomo annuì, gli occhi spalancati di meraviglia di fronte alla magnificenza della piazza.

- Ne avevo sentito parlare solamente nei libri. E’ davvero straordinaria. - fece con un cenno al colonnato che li aveva accolti come un abbraccio.

Teresa sorrise orgogliosa e lo prese sottobraccio con una confidenza che Zemo non si sarebbe aspettato.

- Lo so! - disse con un occhiolino, facendogli segno di proseguire guidandolo verso destra, lungo la strada che li avrebbe condotti agli Archivi.

- Adesso dovrete far parlare me. Agli Archivi sono particolarmente puntigliosi, teoricamente ci vorrebbe un permesso già firmato per poter visitare la sezione che ci serve, ma bisognerebbe aspettare che aprano gli uffici e non ne ho voglia. - spiegò con aria fintamente scocciata, gonfiando appena le guance e sbuffando lievemente ad indicare la sua scarsa pazienza nei confronti della burocrazia.

La donna rovistò nella sua borsa  e ne fece emergere un badge attaccato a un cordino colorato che sventolò di fronte all’uscere elencando nome, cognome e professione come se fosse un’abitudine quotidiana e fosse l’impiegato a non essere sul pezzo.

L’uomo le disse qualcosa gesticolando e Teresa si strinse nelle spalle, indicando poi il polso destro con un paio di colpi dell’indice, probabilmente una lamentela sul tempo che stavano sprecando in chiacchiere.

L’uscere chiamò un altro impiegato, che arrivò di corsa e scambiò qualche parola con lui e fece una veloce telefonata al cellulare.

- E’ così complicato? - chiese James sottovoce, la punta del piede che batteva i secondi nervosamente contro il pavimento.

- In Vaticano si prendono eccessivamente sul serio. - ribatté Zemo alzando gli occhi al cielo e portando le mani sui fianchi, indispettito.

Davanti a loro Teresa si finse estremamente spazientita e pretese di farsi passare il cellulare.

- Senti, non posso far slittare la pubblicazione, i miei agenti sono qui con me e stanno aspettando letteralmente questa conferma. Quanti anni sono che lavoriamo assieme? Quindici? E’ ridicolo che io debba ancora avere bisogno di un permesso per accedere ai… Ah! Ah ecco, ora si che ragioniamo. Fantastico. Bravo, grazie. - la sentì rimproverare la persona dall’altra parte della linea.

- Volevo ben vedere. - aggiunse restituendo il cellulare al proprietario con un gesto brusco.

L’impiegato le scoccò uno sguardo scocciato e le rivolse un cenno della testa.

- Venite. -

Teresa si voltò verso di loro e fece un occhiolino.

- Andiamo? - sorrise.

James sogghignò, un’occhiata rapida a Zemo.

- Che donna. - commentò semplicemente, prima di attraversare l’ingresso a grandi passi e raggiungerla.

Li seguì, l’andatura decisa e trattenendo un sorrisetto divertito: aveva decisamente ragione.

Attraversarono gli Archivi in silenzio, attorno a loro anni e anni di Storia impressa sulla cellulosa. James aveva negli occhi lo stupore di un bambino e Zemo si sorprese più di una volta ad osservare la sua meraviglia con una punta lontana di… affetto? Non tanto per James, quanto per la genuinità dell’amore per ciò che stavano vedendo. Zemo aveva sempre amato la cultura, sapere che il suo era un parere condiviso riusciva sempre e comunque a scaldargli il cuore, da chiunque questo parere arrivasse.

Teresa si fermò dopo qualche minuto e attese pazientemente che un altro impiegato le portasse i libri da lei richiesti mentre stava al telefono. Si trattava di un paio di volumi decisamente antichi, a occhio e croce del Seicento, e di un testo più recente, tardo Ottocento o inizi Novecento a giudicare dalla copertina.

La donna aprì uno dei volumi e iniziò a sfogliarlo con estrema cura, i gesti simili a un rituale sacro.

- Eccolo qui! - esclamò dopo un paio di minuti.

Gli altri due si avvicinarono, sbirciando il libro da dietro le sue spalle.

- Ricordavo bene. Il simbolo al centro rappresenta la trasmutazione alchemica, ma non si tratta di un qualsiasi simbolo legato all’Alchimia. L’aquila è uno stemma reale abbastanza comune in Europa, ma è storicamente legato in particolare alla casata d’Asburgo. - raccontò, andando ad aprire il libro più recente.

James pendeva dalle sue labbra, assolutamente rapito dalle parole della donna, ma Zemo aveva iniziato a capire dove volesse andare a parare, e le sue sopracciglia si erano curvate verso il basso mentre cercava di recuperare dalla sua memoria l’informazione giusta.

Aveva già sentito parlare di qualcosa di simile, ma non ricordava assolutamente in che contesto.

- Ora, la cosa che mi perplimeva di più era come mettere in relazione il ponte. E’ un simbolo strano, raramente utilizzato in stemmi di questo tipo. Nell’araldica medievale è più comune incontrare un fiume, la scelta del ponte abbinata all’aquila era qualcosa che non riuscivo a capire su due piedi. - spiegò ancora, Zemo che annuiva, memore dei suoi studi.

- Tuttavia esiste una città in Europa particolarmente famosa per un ponte, una città a lungo tempo sotto il dominio della casa d’Asburgo e nota per i suoi trascorsi alchemici. - aggiunse.

- Praga! - la bloccò Zemo, gli occhi che luccicavano di entusiasmo. Forse erano sulla strada giusta.

- Quindi gli Wraiths sono originari di Praga? - domandò James, scettico.

Teresa scosse la testa e gli indicò il libro più recente.

- Non è detto, ma il simbolo sulla spilla è certamente legato alla città. Esisteva una sorta di setta, qualcosa di simile a una loggia massonica, che aveva scelto Praga come città di origine, come centro nevralgico del loro lavoro. Erano esaltati che ricercavano attraverso le antiche conoscenze alchemiche di raggiungere vari obiettivi. Le leggende parlano di viaggi nel tempo, pietra filosofale, le solite solfe, ma nel concreto alcuni di loro si trovavano a Sarajevo nel 1914. -

- L’attentato all’Arciduca?! - esclamò James, stupito.

- Sei informato! - non riuscì a trattenersi Zemo.

- Mio padre ha fatto la Grande Guerra, ne parlava spesso. - fu la scarna spiegazione un poco risentita da quella palese mancanza di fiducia nei confronti delle sue conoscenza storiche.

Teresa scoccò ad entrambi un’occhiata di rimprovero e proseguì.

- I responsabili furono catturati e giustiziati e le indagini successive portarono allo smantellamento delle sette coinvolte, fra cui la nostra. Ufficialmente la si considera disgregata dal 1915, non ci sono mai state altre notizie su una loro eventuale attività. -

James incrociò le braccia al petto.

- Potrebbero essere solamente degli emulatori. Qualcuno che ha scoperto questa storia anni dopo e l’ha usata come spunto. - propose.

- Che tu sappia avevano un disegno politico al di là della lotta all’Austria? - domandò Zemo, chinandosi appena in avanti per leggere meglio dal libro.

Teresa scosse la testa.

- Novus ordo seclorum. - disse solo.

- Virgilio? - fece Zemo, confuso.

- La banconota da un dollaro. - rettificò James, beccandosi un’occhiata confusa.

- Ovviamente si tratta di una teoria del complotto, nulla di serio, ma pare che dai tempi più remoti della fondazione, e stiamo parlando degli inizi del Seicento, questa setta lavorasse per ottenere come fine ultimo un nuovo ordine delle cose. Non si è mai capito cosa intendessero anche perché gli schieramenti politici dei membri sono cambiati piuttosto drasticamente nel corso dei secoli, ma la teoria più accreditata è che puntassero ad una riorganizzazione della politica europea tramite l’uso dell’alchimia. - spiegò ancora Teresa.

- Dei pazzi. - commentò Zemo, caustico.

- Abbastanza pazzi da uccidere per questo. - gli fece eco James.

Zemo tacque per qualche secondo, poi gli rivolse uno sguardo serio.

- Le ragazze del diner. Se hanno registrato una traccia a Praga forse questa teoria non è del tutto campata per aria. - suggerì.

Teresa si mostrò piccata, le mani conserte e il cipiglio offeso.

- Helmut Zemo, le mie teorie non sono mai campate per aria! - lo rimproverò.

Accanto a lei, James stava già digitando un messaggio al cellulare.

- Ok, ho scritto. Speriamo possano esserci d’aiuto. -

Teresa continuò a leggere dal libro più recente, mentre Zemo cercava di tradurre il Latino degli altri due testi e farsi un’idea dell’organizzazione a cui probabilmente si ispiravano gli Wraiths. Che l’Alchimia fosse un elemento centrale ormai era evidente, ma non riusciva a capire quale fosse il loro punto di arrivo. A cosa poteva servire il vibranio che avevano trafugato? Che avesse a che fare con la pietra filosofale? O forse i materiali rubati erano necessari per qualche incantesimo che permettesse di viaggiare nel tempo?

- Bingo! - esclamò improvvisamente James, facendoli sobbalzare entrambi.

- Hanno risposto? - domandò sporgendosi verso di lui, i palmi delle mani poggiati sul tavolo per sorreggere il suo peso.

L’altro si limitò a voltare il telefono in sua direzione: sullo schermo campeggiava un messaggio più che esplicativo.

“Almeno tre volte negli ultimi due mesi, ma nessuno ha denunciato furti o attacchi e abbiamo pensato fosse un caso. Avete scoperto qualcosa?”

- Quindi Praga ha davvero a che fare con questa storia! - esclamò Zemo.

- Pensate che il prossimo colpo degli Wraiths sarà là? - inquisì Teresa.

James scosse la testa pensieroso.

- Credo sia più probabile che a Praga ci sia il loro quartier generale, proprio come per la setta originaria. In ogni caso avrebbe senso incominciare ad indagare partendo da lì. - spiegò.

Zemo annuì deciso e un sorriso entusiasta gli solcò il volto.

- Che siano emulatori o meno la setta è nata a Praga e di certo a Praga troveremo le informazioni che ci servono. Se non incontreremo gli Wraiths potremo per lo meno capire quali intenzioni li muovono. - aggiunse.

Teresa si unì al sorriso di Zemo, le rughe attorno agli occhi ad accentuare ancora di più la sua espressione soddisfatta. Portò una mano sulla spalla del suo ex studente e annuì appena, ad accordargli la ragione.

- Fantastico! - esclamò, divertita come se si fosse trattato di una caccia al tesoro in una domenica d’estate.

- Non preoccupatevi di nulla, vi presto il mio jet, così potrete partire quando preferite! - si offrì, genuinamente contenta di essere stata d’aiuto.

Anche senza vederli, Zemo sentì gli occhi di James posarsi su di lui e quando ne incontrò l’azzurro percepì forte e chiaro che l’uomo si stava chiedendo quanto di tutto quello fosse stato premeditato.

Zemo portò una mano a stringere dolcemente quella di Teresa in un gesto di riconoscenza, ma mantenne lo sguardo su James.

- Perfetto allora, abbiamo una pista! - esclamò, sulle labbra arcuate all’insù tutta la saccente soddisfazione di essere un passo avanti in quell’indagine.

Se si fossero sbrigati sarebbero arrivati a Praga in tempo per l’ora di cena.


 

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Capitolo 5
*** Chapter V ***





So wake me from this terrible nightmare
This wicked little game I never wanted to play
An answers gotta be somewhere out there
Equations need solutions and we'll solved it today

Get out of my head
Get out of my mind
Whatever you put me through
I'll come out alive

Nightmare - Arshad
 






 
A Zemo l’idea di bruciare la macchina non era andata a genio.
Si era accorto fin da quando erano arrivati a Roma che c’era qualcosa che lo disturbava, e il modo in cui aveva glissato su tutte le domande di Teresa aveva reso il suo sentore una certezza. Zemo non aveva alcuna intenzione di informare la donna sulle loro attività e per un irrazionale quanto stupido istante si era concesso l’illusione che lo stesse facendo per proteggerla, per evitare che la conoscenza potesse essere un pericolo per lei.
Un’idea decisamente stupida, considerando che quell’uomo era pronto a calpestare qualsiasi individuo pur di perseguire i suoi scopi.
Eppure gli aveva dato fastidio dover bruciare la macchina e lui si era ritrovato ancor più stupidamente a inventarsi una scusa qualsiasi per evitare che Teresa leggesse troppo nelle loro azioni.
Lo stava proteggendo? No, che assurdità. Stava proteggendo se stesso, stava limitando gli ipotetici danni di una situazione che era già abbastanza incasinata per i fatti suoi senza il bisogno di complicare ulteriormente le cose.
E quindi si erano fatti accompagnare poco fuori città, nella campagna, e avevano pazientemente assistito al rogo dell’auto che era appartenuta a Francesco.
Bucky aveva pensato alle parole delle ragazze del diner per tutto il tempo, domandandosi a mano a mano che il fumo acre saliva nell’azzurro del cielo di Roma per quale motivo non li avessero ancora rintracciati.
O la Polizia italiana faceva pietà, oppure le Generale e Sergente Maggiore avevano dato loro una mano senza dare nell’occhio.
Probabilmente si trattava di entrambe le cose.
Rimaneva il fatto che nel tardo pomeriggio, dopo che erano passati nuovamente da casa a risistemarsi e la donna aveva prestato loro degli abiti con cui riempire le valige, Teresa li aveva accompagnati all’aeroporto, dove il suo jet li attendeva paziente assieme al pilota che aveva messo a loro disposizione.
Era più vecchio di quello di Zemo, ma sembrava ugualmente ben tenuto.
- L’unica cosa buona che mi ha dato quell’imbecille del mio ex-marito. A parte i miei figli, s’intende. - era stato il commento della donna quando il velivolo era apparso nel loro campo visivo.
- Signor Barnes, si tenga il più lontano possibile dai Medievisti, sono gente di cui non è bene fidarsi. - gli aveva sussurrato poi con un occhiolino, convinta che potesse bastare a motivare il divorzio.
- Non si preoccupi Teresa, non frequento gente a cui piacciono le pale d’altare. - si era ritrovato a rispondere con un’occhiata veloce a Zemo, senza rendersi davvero conto del significato delle sue parole.
Quello aveva scosso la testa ma non era riuscito a trattenere un sorriso sbieco, mentre Teresa si era messa a ridere.
- E’ stato davvero un piacere, Signor Barnes. Torni a Roma quando vuole e si senta libero di bussare alla mia porta per qualsiasi necessità. - aveva continuato affettuosamente prendendolo a braccetto un’ultima volta e stampandogli un bacio sulla guancia.
- Teresa, hai settant’anni. - era stato il commento di Zemo, ma la donna non si era mostrata minimamente offesa.
- Cafone! - aveva esclamato, ma aveva lasciato il braccio di Bucky per dare un bacio sulla guancia anche a lui.
Lo aveva abbracciato stretto ed era più che certo che ne avesse approfittato per sussurrargli qualcosa all’orecchio, ma dalla reazione spaesata di Zemo aveva capito che probabilmente si trattava solo di qualche consiglio materno e non di qualcosa di cui preoccuparsi.
Li aveva salutati con la mano finché il portellone non si era chiuso, poi era salita in macchina e se n’era andata, mentre l’aereo decollava e guadagnava quota nella rotta verso Praga.
Zemo aveva preso posto su uno dei sedili del jet e Bucky era andato a sistemarsi dalla parte opposta, il corridoio a separarli. Per un istante, come in un flash, l’ultima volta che avevano preso un jet assieme gli era passata davanti agli occhi, aveva ricordato la furia cieca a ribollirgli nelle vene quando l’uomo aveva menzionato la sua lista delle ammende, aveva percepito la paura nei suoi occhi sgranati e il lievissimo sospiro che aveva lasciato andare dalle sue labbra appena socchiuse.
Erano passati solamente sei mesi, eppure gli sembrava una vita intera, e forse lo era davvero. Non lo avrebbe mai ammesso, di certo non a Zemo, ma esisteva un Bucky prima del loro addio a Sokovia e un Bucky dopo, come se quell’incontro avesse fatto tabula rasa di tutte le sue convinzioni, le avesse ribaltate, rovesciate, restituite a lui identiche e tuttavia svuotate di ogni significato.
Nei mesi successivi quell’arrivederci, James gli era rimbombato nella coscienza come il boato di una granata, aveva tormentato i suoi sogni come la raffica della mitraglia, filo spinato contro ogni tentativo di fuga della sua coscienza.
Sapeva di aver fatto la scelta giusta, ne era certo, eppure… Eppure…
Il suo nome pronunciato sotto al monumento dall’uomo che aveva giurato di odiare aveva aperto fra di loro una voragine incolmabile, aveva costruito un ponte indistruttibile, una catena dalle maglie inviolabili che lo aveva legato a lui per sempre, che aveva ingabbiato il suo libero arbitrio e gli aveva offerto più domande che risposte.
Solo sei mesi, ma con la tormenta nell’anima a Bucky erano sembrati secoli.
Zemo dormiva, adesso, il capo appena reclinato contro il poggiatesta e le labbra socchiuse. Aveva preso sonno poco dopo il decollo e Bucky non aveva osato svegliarlo, ben felice di potersi dedicare qualche manciata di minuti senza la sua costante supervisione. Zemo dormiva e nel silenzio del suo respiro regolare sembrava quasi un bambino, con le ciglia lunghe a sfiorargli le guance e il ciuffo castano che gli accarezzava la fronte, sembrava quasi in pace.
Aveva notato il modo in cui quella mattina si era incantato a fissare il coltello e per un assurdo e ridicolo momento aveva provato paura. Paura di aver intuito, di aver capito. Era stato un attimo, un fruscio di pensieri e non era stato capace di trattenere la voce fra i denti. Lo aveva chiamato senza sapere nemmeno perché, senza pianificare cos’altro aggiungere e infatti non aveva aggiunto niente. Zemo si era riscosso e tanto era bastato.
Adesso, il petto ad alzarsi piano e ritmicamente, Zemo sembrava sereno, in pace, e Bucky si sorprese a sperare che almeno nel sonno l’invitante richiamo della lama del coltello, una melodia che lui stesso conosceva intimamente, non riuscisse a raggiungerlo.
- Ti chiedo scusa, devo essermi addormentato. -
La voce dell’uomo risuonò all’improvviso nel silenzio del velivolo e Bucky spostò istintivamente lo sguardo su qualcos’altro affinché Zemo non notasse che lo stava guardando. Se anche se ne fosse accorto, tuttavia, non lo menzionò e proruppe in un profondo sbadiglio che cercò di camuffare con una mano davanti alla bocca prima di passarsi le dita fra i capelli per sistemarli e ottenendo solo di scompigliarli di più.
- Nessun problema. - rispose solamente, la bocca fastidiosamente asciutta per averla tenuta spalancata come un imbecille.
- Che ore sono? - domandò Zemo retorico controllando sul cellulare.
- Hai dormito solo una ventina di minuti, ne abbiamo ancora almeno per un’ora. - fece lui con un cenno della testa al piccolo monitor sul quale erano riportati rotta, velocità di crociera e tempo all’arrivo.
- Bene, possiamo approfittarne per fare il punto della situazione. - fu la sua proposta.
Bucky inspirò a fondo e annuì, portando i gomiti sulle ginocchia e inclinando un poco il busto verso di lui.
- Non è che abbiamo tante informazioni a disposizione, in realtà. - obiettò, infilando una mano in tasca e tornando a rigirarsi fra le dita la spilla misteriosa.
Zemo annuì, vagamente scoraggiato.
- Punto primo: gli Wraiths stanno raccogliendo materiali di vario genere fra cui vibranio. Date le varie proprietà e applicazioni dei materiali rubati finora è difficile dire che cosa intendano farne, ma il furto del libro di Pico della Mirandola forse può dirci qualcosa di più. Di conseguenza forse all’interno del testo c’è qualcosa di cui hanno bisogno per utilizzare questi materiali. - provò a fare mente locale.
- Pensi a una formula? Un… incantesimo? - azzardò Bucky.
Zemo portò l’indice alle labbra e il pollice a sorreggergli il mento, un gesto distintivo che Bucky lo aveva notato compiere quando aveva bisogno di particolare concentrazione.
- Può darsi. E non è un caso che la spilla raffiguri il simbolo dell’Alchimia. Forse gli Wraiths stanno cercando di recuperare antiche conoscenze, forse davvero sono interessati a questo nuovo ordine mondiale e il contenuto del libro potrebbe aiutarli a raggiungerlo. Ieri al telefono Francesco mi aveva detto che era stato contattato dagli Uffizi quando avevano scoperto il furto. Ovviamente Eike sapeva che la seconda parte del volume ce l’aveva lui. Temo si aspettasse una visita indesiderata. - raccontò.
- Quindi ipoteticamente gli Wraiths stanno accumulando conoscenze e materiali per creare o ottenere qualcosa che li aiuti a raggiungere questo misterioso obbiettivo. Occupandosi di Alchimia hanno preso spunto dall’antica setta di cui ha parlato Teresa e si riuniscono a Praga, motivo per cui le ragazze hanno rilevato flussi di energia in città nonostante non sia stato comunicato nessun furto o strana azione. - riepilogò, Zemo che annuiva ad ogni passaggio elencato.
- Sì, ha senso. E il loro trucchetto di apparire e poi scomparire nel nulla potrebbe avere a che fare con le loro conoscenze alchemiche. Pico della Mirandola studiava la possibilità di viaggiare nel tempo. Forse gli Wraiths sono riusciti a concretizzare qualcuna delle sue teorie. - aggiunse.
Bucky guardò un istante fuori dal finestrino, dove l’azzurro del cielo era di tanto in tanto punteggiato da qualche ciuffo di nuvole. Non era poco quello che erano riusciti a scoprire in quegli ultimi due giorni, eppure continuavano a non avere nulla di concreto fra le mani. Le loro erano solo ipotesi, solo teorie che mancavano completamente di prove concrete.
- Dobbiamo scoprire dove si riuniscono. -
Zemo non rispose, lo sguardo sempre concentrato nel vuoto a inseguire chissà quale pensiero contorto.
Annuì con qualche secondo di ritardo e gli rivolse un sorriso frettoloso, prova che gli stava dedicando solo parte della sua attenzione.
- Temo proprio che dovremo rimboccarci le maniche. -
Fu di parola e si mise subito al lavoro, tanto che quando un’oretta dopo atterrarono a Praga ed ebbero salutato e ringraziato il pilota di Teresa, Zemo aveva già un indirizzo da dare al tassista che aveva caricato i loro trolley.
- Karoliny Světlé, per favore. - disse con assoluta nonchalance dopo che anche Bucky ebbe preso posto sul sedile accanto a lui.
Il tassista diede un cenno di assenso con la testa e mise in moto, muovendosi verso il centro città.
- Dove stiamo andando? - si informò, incuriosito dalla sicurezza del collega.
Questa volta il sorriso di Zemo fu sincero, avrebbe detto quasi orgoglioso.
- Dal momento che non abbiamo idea di quanto tempo ci prenderanno le nostre ricerche mi sono permesso di prenotarci una stanza in albergo. Spero che la Suite Rossa sia di tuo gradimento. - spiegò con un’espressione talmente compiaciuta che Bucky non si sarebbe stupito se si fosse trasformata in un occhiolino.
- La suite? Sul serio? - replicò con un’alzata di sopracciglia cercando di non pensare al suo debito che gonfiava a dismisura. Avrebbe realmente avuto bisogno di un prestito dalla banca per riuscire a pareggiare i conti con quel borioso aristocratico infame che gli avevano affibbiato.
Zemo roteò gli occhi, accondiscendente come al solito.
- Buon dio, James, non vorrai mica prenotare in un buco di airbnb. Devi prenderti più cura di te stesso. - si limitò a rispondere prima di voltare il capo verso il finestrino.
Non bastò affinché gli sfuggisse il ghigno di trionfo che gli aveva colorato il volto.
Quando il taxi si fermò di fronte all’hotel, tuttavia, Bucky dovette ricredersi: il sorriso che aveva scorto prima non era nulla in confronto alla pura soddisfazione che filtrava da ogni poro di Zemo.
L’edificio doveva essere stato un antico palazzo di qualche abbiente famiglia, perché la corte interna assomigliava più al cortile di un castello che a un’area all’aperto di un hotel, e la suite… beh, la suite era esattamente ciò che avrebbe potuto aspettarsi da un uomo come Zemo.
Il piccolo appartamento aveva due camere da letto ciascuna dotata di bagno privato e una graziosa area comune con tavolino, televisore e divano. In tutta la sua vita Bucky non aveva mai avuto modo di concedersi un simile lusso.
- Questa porta rimarrà chiusa. - disse glaciale quando si accorse che le due stanze da letto erano comunicanti.
- Non ti preoccupare, non ho alcuna intenzione di tagliarti la gola mentre dormi per poi ricevere lo stesso trattamento dalle Dora. - rise piano Zemo, sistemando momentaneamente la sua valigia in un angolo e sedendosi sul soffice letto che aveva designato come suo.
- Allora, la suite incontra i tuoi gusti? - gli domandò poi, sdraiato a braccia spalancate. Per un istante gli ricordò i bambini che facevano gli angeli nella neve in Commerce Street prima della Guerra, ma fu svelto a riscuotersi.
Bucky sospirò a fondo, senza riuscire a comprendere per quale assurdo motivo stesse continuando a dargli corda.
- Non è male. - si limitò a constatare, ben lungi dal volergli dare ragione.
Lasciò in ogni caso che il suo sguardo percorresse le lenzuola candide, risalisse lungo la testiera del letto e considerasse la tonalità di rosso scuro con cui erano state dipinte le pareti. Lussuoso, sì, ma accogliente. Doveva ammettere che Zemo aveva avuto buon gusto.
Decisero di rimanere a cena in hotel e non avventurarsi ancora in città, nessuno dei due aveva mai visitato Praga e in ogni caso avevano già superato l’orario di chiusura di tutti i luoghi d’interesse.
Dedicarono la serata a stilare un piano di battaglia per il giorno dopo, cerchiando luoghi sulla cartina della città che avevano recuperato alla reception e numerandoli in una scala dal più interessante a quello che sembrava più collaterale per le loro indagini.
- Non basterà mai un giorno per vedere tutto. - osservò, pensieroso.
Zemo gli accordò la ragione, portando alle labbra la penna con cui aveva preso appunti fino a quel momento.
- Considerando che non sappiamo nemmeno con esattezza che cosa stiamo cercando… -
Si guardarono qualche istante negli occhi e proruppero entrambi in un sospiro sconsolato.
Nemmeno Sam stava scoprendo nulla di particolarmente interessante negli Stati Uniti: Bucky lo aveva aggiornato via messaggio sulle ultime scoperte ma l’uomo non aveva potuto fare altro che annotarsi mentalmente la storia della setta alchemica e sperare che potesse tornargli utile per capire in quale modo gli Wraiths fossero venuti a sapere del trasporto segreto di vibranio: gli uomini alle Stark Industries sembravano tutti puliti.
Quando andarono a dormire Bucky si lasciò cadere fra le lenzuola fresche, la testa affondata nel cuscino morbido come una nuvola, e rimase a fissare il soffitto per qualche minuto.
Nella stanza accanto sentì Zemo trafficare con la valigia, forse intento a sistemare i vestiti nell’armadio, e quando la televisione fu accesa su un qualche documentario storico si rassegnò al fatto che probabilmente anche lui non sarebbe riuscito ad addormentarsi così in fretta.
Portò l’avambraccio destro sulla fronte in un gesto stanco e chiuse gli occhi.
Non potevano fare più di così, avevano dei limiti imposti dalla natura della loro indagine, avevano già scoperto tantissimo per quella giornata, ma qualcosa gli diceva che non avevano fatto abbastanza, che avrebbero potuto provare a spingersi ancora un po’ più in là, a indagare più a fondo.
Per un istante perse il ritmo della respirazione e gli mancò l’aria quando si rese conto che mentre loro riposavano fra le coperte lievi dell’hotel gli Wraiths stavano organizzando la loro prossima mossa verso un traguardo che ignoravano completamente.
Erano in una corsa contro il tempo, ma non stavano muovendo nemmeno un passo.
Cosa sarebbe successo se il tempo gli fosse sfuggito dalle mani?
Cosa sarebbe successo se il tempo fosse scaduto?
Prese sonno così, teso e agitato, e i suoi sogni ebbero tutti lo stesso colore: nero come l’angoscia.
 







 
Giugno aveva accolto la Repubblica Ceca ammantandola di un calore al quale Bucky non era preparato.
Alle nove del mattino il sole già premeva sulla testa e la felpa con cui era uscito era rapidamente finita legata in vita, mentre lo zaino leggero che si era caricato sulle spalle gli faceva sudare la schiena.
Zemo sembrava essersela cavata decisamente meglio con la sua polo a maniche corte, ma anche lui non era immune all’umidità che saliva dal fiume, il volto accaldato e la mano che spesso saliva a scostarsi i capelli dalla fronte.
Erano usciti dopo una colazione abbondante che lo aveva messo di buonumore e, armati di guida turistica acquistata ad un negozietto incontrato lungo la strada avevano deciso di incominciare dalla parte più vecchia della città, attorno all’antico castello asburgico.
Avevano percorso il lungofiume in silenzio, guardandosi attorno curiosi e circondati dal chiacchiericcio leggero dei turisti, e per un istante a Bucky era sembrato di essere leggero, per un istante si era sentito felice, libero.
Solo un uomo come tanti che si godeva una mattinata di turismo in una città straniera, solo una persona qualsiasi che lasciava che l’arte di quel luogo sconosciuto gli attraversasse l’anima.
- Ecco, il ponte dovrebbe essere la nostra prima tappa. La guida dice che c’è un’antica leggenda riguardo la sua costruzione. -
Zemo aveva arrestato la marcia e aveva atteso che lo raggiungesse, facendoglisi un poco più vicino per mostrargli un trafiletto sulla guida, che poi lesse comunque ad alta voce.
Sembrava a suo agio nei panni del cicerone, e pensò che forse addirittura si stava divertendo. Di certo era un uomo a cui piaceva dimostrare la sua sapienza, e anche se il libro faceva da intermediario era comunque lui a condurre il gioco di quella passeggiata mattutina. Bucky si sorprese a seguirlo volentieri, ad ascoltare ciò che raccontava con piacere, incantato dalla sua voce che sapeva portarlo indietro a tempi remoti, a epoche passate dove fede e superstizione si intrecciavano alla vita quotidiana dell’Europa. Nella voce di velluto di Zemo le gesta di antichi re e volenterosi popolani si susseguivano e si mescolavano e a Bucky quasi sembrava di vederli, gli abitanti di Praga che mescolavano le uova alla malta con cui costruire il Ponte Carlo.
Non gli sarebbe dispiaciuto, un giorno, condurre una vita come quella. Abbandonare il campo di battaglia, lasciarsi alle spalle l’adrenalina e finalmente poter essere una persona come tante, con una vita tranquilla da dedicare ai viaggi e alle culture diverse.
Chissà se ci sarebbe mai riuscito, a raggiungere quel genere di pace.
- Ok, qui parla di una specie di maledizione… il Diavolo voleva ingannare il costruttore… Niente di collegato a quello che stiamo cercando, per il momento. - Zemo concluse la lettura arricciando un poco il naso in una buffa espressione di disappunto.
- E cos’è esattamente che stiamo cercando? - fu la domanda provocatoria di Bucky. Si erano lanciati a capofitto verso il ponte, ma non avevano nemmeno idea di che cosa fosse nel concreto l’obbiettivo della loro ricerca.
Zemo scosse la testa e si strinse nelle spalle.
- Qualunque cosa di collegato all’Alchimia. Un nome, una storia, una data. Qualunque cosa. E’ l’unico indizio che abbiamo al momento. -
Non attese risposta, gli fece un cenno con la testa e si incamminò verso l’imboccatura del ponte, già gremito di turisti.
Bucky lo seguì senza fiatare, lo sguardo catturato dai colori attorno a lui. La giornata era splendida e c’era qualcosa nell’aria che lo faceva sentire vivo, una sorta di strana elettricità che aveva percepito fin dalla sera prima, come se la città realmente avesse un’anima, una voce con la quale cercava di comunicare.
Mosse il primo passo sul ponte e gli sembrò di entrare in un’altra epoca, in un altro mondo.
Si guardò attorno ammirato, incrociando le occhiate austere delle statue che punteggiavano i due parapetti e lasciandosi incantare dallo scorrere placido del fiume sotto di loro.
Incantevole, non avrebbe saputo come altro descriverlo: tutto di quel luogo sembrava essere sfuggito ad una fiaba, un racconto di tempi perduti. C’era un qualcosa di magico in quelle pietre consunte dai secoli, nelle foglie trasportate dalla quieta e indifferente corrente della Moldava.
- Che cosa stai facendo? - gli domandò all’improvviso Zemo, retorico.
Bucky alzò lo sguardo su di lui ma non gli rispose, limitandosi a mettere meglio a fuoco l’immagine sul display del cellulare e a scattare la fotografia. Una perfetta cartolina della prospettiva del ponte, con il castello in lontananza.
- Non ti facevo un tipo artistico. - commentò il compagno di viaggio con un sorriso obliquo.
Bucky si strinse nelle spalle.
- Ho studiato Arte prima di arruolarmi, disegnavo a carboncino, per lo più. Ed ero appassionato di fotografia. Avevo iniziato ad interessarmi al lavoro di Capa, mi sarebbe piaciuto tentare quella carriera. - spiegò, lo sguardo distante, perso nei ricordi.
- Non lo sapevo. - disse semplicemente Zemo. Non si accorse del lieve fremito nelle sue iridi castane, e se anche se ne fosse accorto non sarebbe mai stato in grado di interpretarlo.
- Conosci McCurry? - chiese poi, strappandogli un sogghigno.
- Un genio. Steve mi ha fatto vedere i suoi scatti su internet. - rispose con un sorriso agrodolce.
Le sopracciglia di Zemo si arcuarono appena verso il basso, lo sguardo indurito.
- Immagino fosse una delle vostre passioni condivise. -
Bucky annuì, inclinando appena la testa di lato. Qualcosa era cambiato nella voce di Zemo, ma non avrebbe saputo dire cosa.
- Sì. Anche se Steve era più per la pittura. - raccontò, ma gli sembrò che quelle parole fossero fuori posto, che sprecarle in una conversazione con Zemo fosse sbagliato, come una bestemmia.
L’uomo distolse lo sguardo e infilò una mano nelle tasche dei pantaloni, mentre la destra saliva a sistemarsi i capelli e si soffermava in un gesto distratto sul lobo dell’orecchio, un qualcosa che gli aveva già visto fare più volte.
- E che ne pensi di Mucha? C’è un museo dedicato, era originario di qui. - ma la frase non gli uscì con la solita convinzione, il tono di voce si era fatto più basso rispetto a prima.
Bucky annuì, contento che il discorso non fosse rimasto su Steve.
- Ho visto un’esibizione temporanea a New York, quando andavo a scuola. Se ci avanzasse del tempo… - non osò dirlo ad alta voce, non voleva che sembrasse che desiderasse visitare il museo.
Non che ci fosse nulla di male, ma una parte di sé lo faceva sentire in colpa all’idea di concedersi una giornata di turismo quando il suo compito era quello di contrastare gli Wraiths.
Specie se la proposta, seppur solo abbozzata, veniva da Helmut Zemo.
- Sì, chiaro, solo se avanzasse tempo… - fu tuttavia la replica altrettanto imbarazzata dell’uomo. Forse anche lui, nonostante tutto, voleva dimostrare una parvenza di serietà.
Non dissero altro, Bucky infilò nuovamente il telefono in tasca e continuarono a camminare lungo il ponte, in silenzio.
I colori della città li accolsero con allegria e Bucky fu svelto a scrollarsi di dosso quella sensazione sgradevole che l’ultima conversazione gli aveva lasciato. A mano a mano che avanzavano verso il castello, risalendo con calma la collina assieme al flusso di turisti, Zemo continuava a leggere stralci di guida, per aiutarsi ad avere una vaga idea di ciò che stavano vedendo.
Di certo la città aveva una tradizione antica, una storia lunga e complicata nella quale si erano avvicendati casati e dominazioni straniere.
- L’indipendenza di queste terre è stata raggiunta solo nel 1918 alla fine della Guerra: proprio come noi Sokoviani i Cechi sono stati sotto il controllo dell’Austria per secoli. Una situazione politica estremamente complicata, ma ha permesso uno sviluppo non indifferente di una cultura multietnica. - commentò quando furono in vista del castello.
- La guida dice che i primi lavori risalgono al IX Secolo, quando la Boemia era ancora sotto il controllo delle popolazioni slave. Gli Asburgo arrivarono solo dopo. - aggiunse.
Bucky si sistemò meglio lo zaino sulle spalle e scattò un’altra fotografia al complesso di edifici di fronte a loro.
- Pensi che il discorso dell’Alchimia possa essere così antico? -
Zemo fece spallucce e chiuse il libro mantenendo il segno con un dito.
- Purtroppo non è uno degli argomenti su cui sono più informato. Sulla spilla c’è lo stemma asburgico, quindi probabilmente in città l’interesse per questa scienza è arrivato da Vienna. Guarda, qui dice che Rodolfo II aveva fatto costruire un piccolo quartiere espressamente per ospitare gli alchimisti e le loro famiglie. -
Bucky si sporse appena per controllare la scritta rossa a metà della pagina, accanto a una fotografia di una fila di casette colorate.
- E’ qui nel complesso del castello, potremmo incominciare da questo. - suggerì.
Attraversarono la spianata del castello con passo deciso, seguendo le indicazioni per il Vicolo d’Oro, e ancora una volta a Bucky sembrò di essere finito in una fiaba.
- The Wonderful Wizard of Oz… - commentò fra sé e sé strappando una risata leggera a Zemo.
Davanti a loro una piccola stradina lastricata ospitava in schiera le piccole casette della foto, ciascuna dipinta di un colore diverso, con porticine addobbate con ghirlande, graziose finestrelle e numeri civici dipinti a mano sulle facciate.
In fondo al vicolo una guida raccontava in Cinese a un gruppetto di turisti la storia del vicolo, e Bucky si avvicinò a un cartello su cui erano riportate probabilmente le stesse informazioni.
- Il vicolo fu fatto costruire su ordine di Rodolfo II che vi installò le sue ventiquattro guardie e le relative famiglie. Narra la leggenda che anche diversi alchimisti chiamati espressamente dal sovrano furono fatti alloggiare qui e che le case altro non fossero che i loro laboratori, nei quali tentavano di tramutare il ferro in oro e di sintetizzare l’elisir di lunga vita. - lesse ad alta voce, voltandosi verso Zemo con un’alzata di sopracciglia eloquente.
Le informazioni interessanti, tuttavia, si limitavano a quello.
Che Kafka avesse vissuto al numero 22 o che una quindicina d’anni prima fossero stati intrapresi dei lavori di restauro non apportava molto alla loro causa, e anche la mostra permanente sulla vita nel pittoresco vicolo attraverso i secoli, seppur interessante, non gettò nessuna luce particolare su ipotetiche sette alchemiche e sui loro supposti luoghi di ritrovo.
Riuscirono a prenotare una visita guidata personalizzata del castello che li tenne impegnati per il resto della giornata, ma in ogni caso non furono in grado di reperire nessuna informazione particolarmente cruciale.
L’Alchimia veniva spesso nominata, sembrava essere stata un aspetto centrale della vita di Rodolfo II, quasi un’ossessione che aveva animato il sovrano, eppure quando si erano azzardati a chiede informazioni sul simbolo della spilla o sull’antica setta la guida, un giovane laureando in Storia d’Europa, non era stato in grado di dare nessuna risposta soddisfacente. Aveva certamente riconosciuto lo stemma asburgico e il ponte che loro stessi avevano attraversato quella mattina, ma era sembrato piuttosto ignorante riguardo al simbolo alchemico. Probabilmente il riferimento alla città di Praga era più oscuro di quanto non avessero pensato all’inizio, o forse in generale si trattava di una storia che gli abitanti della città avevano finito per dimenticare.
- Forse si tratta di qualcosa di non abbastanza turistico affinché se ne parli in così, con leggerezza. - aveva osservato Bucky quella sera, mentre facevano il punto della situazione davanti a un bicchiere di whiskey a un tavolo del locale proprio accanto all’hotel.
Zemo aveva fatto roteare il liquido nel bicchiere con aria distratta.
- Beh, è passato più di un secolo dall’attentato a Sarajevo, e già all’epoca la setta doveva essere qualcosa di piuttosto esclusivo, non mi stupisce che un laureando sottopagato non ne sappia nulla. - ma la sua risposta, più che sconsolata, gli era parsa stizzita.
- E’ già passato un giorno e non abbiamo ancora scoperto niente. - aveva sibilato poi, prima di dare un sorso veloce al suo bicchiere.
- Siamo appena arrivati, era improbabile che trovassimo una risposta già oggi. - aveva cercato di sollevarlo Bucky in un gioco delle parti stranamente ribaltato.
A dire il vero condivideva i suoi timori, ma voleva credere che presto avrebbero trovato quello che cercavano. Non poteva permettersi di cedere alla paura di aver sbagliato pista, di aver concesso del tempo agli Wraiths per compiere chissà quali altri crimini.
Zemo aveva sospirato a fondo e si era passato le dita fra i capelli, ormai irrimediabilmente scompigliati sulla sua fronte in quel continuo gesto nervoso.
Lo aveva guardato senza dire nulla, gli occhi castani concentrati sulla superficie ambrata dell’alcolico, le dita che accarezzavano il vetro e lo facevano ruotare di poco per poi picchiettare sulla superficie di legno del tavolo, le labbra appena socchiuse, rese appena lucide dall’alcool presto catturato dalla sua lingua.
Era la prima volta che lo vedeva davvero alle strette, il filo sfuggito dalle sue mani, perso in un labirinto di cui non aveva la mappa e nel quale, cieco, non sapeva come muoversi. Forse un tempo vederlo così spaesato, così privo di controllo lo avrebbe fatto sentire appagato, una legge del contrappasso che gli avrebbe reso giustizia, eppure si rendeva conto che non traeva alcuna soddisfazione da quella vulnerabilità segreta che stava scoprendo ad ogni sorso di whiskey, ad ogni svolta senza uscita nella loro ricerca.
- Non combineremo mai nulla se continuiamo così. Stiamo andando alla cieca, non può funzionare se non troviamo la strada giusta. - si era lamentato, la prima reale lamentela da quando lo conosceva.
- Ipotizziamo che l’interpretazione di Teresa sia giusta e che la spilla si rifaccia a questa antica setta e gli Wraiths siano effettivamente legati a tutto questo concetto. Forse è il caso di controllare se le attività di questa setta sono mai state registrate prima di Sarajevo. O dopo. - aveva azzardato, e Zemo gli aveva rivolto uno sguardo al quale non aveva immediatamente fatto seguire delle parole.
Lo aveva fissato per qualche istante, inclinando appena la testa di lato come sua abitudine, poi le sue labbra sottili si erano incurvate in un abbozzo di sorriso.
- Sì, degli archivi o qualcosa del genere. Potremmo chiedere all’Università, o in qualche biblioteca importante. Magari hanno dei testi a riguardo. Non ci credo che nessuno ha mai scritto di loro! - si era parzialmente illuminato e Bucky aveva sorriso istintivamente, trascinato dal suo entusiasmo.
- Potremmo… Potrebbe aver senso dividerci, in questo caso. - la sua proposta era stata accolta da un’occhiata sbigottita.
- Come, prego? -
Si era stretto nelle spalle ed era stato il suo turno di terminare il suo whiskey con un ultimo sorso e guardare altrove.
- Non sono di grande utilità in archivi e uffici di professori. Forse è più sensato che mentre tu porti avanti questo genere di ricerca io continui a controllare i luoghi che abbiamo segnato sulla cartina. - aveva spiegato.
Zemo non gli aveva tolto gli occhi di dosso nemmeno un secondo.
- Mi lasceresti senza supervisione? - e la domanda portava con sé uno stupore quasi infantile che era stato capace di strappargli una risata bassa.
Aveva recuperato il portafogli dalla tasca posteriore dei jeans e aveva lasciato sul bacone una mancia abbondante.
- Stasera offro io. - era stata la sua unica risposta di fronte ai due bicchieri vuoti.
Zemo non aveva replicato e lo aveva seguito fuori dal locale, dove la luna brillava alta sulla Moldava e il vento fresco della sera aveva accarezzato le loro guance accaldate dall’alcool.
Avevano sperato entrambi che la notte potesse portare loro consiglio, ma la mattina dopo erano ancora punto a capo.
Avevano fatto colazione in silenzio, poi Zemo aveva annunciato che si sarebbe recato alla Facoltà di Studi Umanistici nella speranza di poter ottenere un colloquio con qualche professore che potesse aiutarlo.
Bucky lo aveva salutato fuori dalla porta dell’hotel e si era tenuto la guida con la cartina piegata all’interno, pronto a continuare il giro della città e fu con uno stupido sollievo che alla sera si sentì dire da Zemo di non aver ancora trovato nulla. Di certo la città era splendida e poter girare senza l’angoscia di essere un ricercato internazionale gli aveva concesso qualche reale momento di quiete, ma niente di nuovo al di là delle solite storie acchiappa turisti era emerso dal suo peregrinare, e anche Zemo, sebbene avesse fatto la conoscenza di un paio di cordiali professori, aveva ottenuto solamente un pass di libero accesso per la biblioteca universitaria. Gli aveva poi spiegato che c’era un’altra biblioteca con testi molto più antichi poco distante dal loro albergo, ma per potervi accedere e consultare i volumi avrebbe avuto bisogno di un permesso speciale e per quello doveva attendere il lasciapassare dell’Università.
I giorni successivi li passarono all’incirca allo stesso modo: Zemo si era comprato una borsa di tela con qualche quaderno su cui prendere appunti, e la sera si presentava in hotel con due o tre libri che continuava a consultare ricopiando frasi o spezzoni di date finché non si faceva l’ora di cena, e Bucky aveva incominciato a spazientirsi e aveva lasciato da parte i giri turistici, più interessato a studiare la conformità dei vari quartieri.
Era poco probabile che gli Wraiths si riunissero in luoghi turistici o affollati, e le sue ipotesi avevano finito per vertere su due opzioni: o il loro covo era in uno dei quartieri popolari, dove incontrarsi non avrebbe destato troppi sospetti e dove tutti imparavano presto a pensare agli affari propri, oppure, se davvero il collegamento con la setta fosse stato reale, era plausibile che avessero designato come luogo dei loro incontri un qualche edificio simbolico ma lontano dalla ressa, in modo da potersi riunire in santa pace e senza il rischio di venire scoperti.
Un altro aspetto che non gli lasciava pace, tuttavia, era il discorso che Teresa aveva fatto sul novus ordo seclorum. Che cosa aveva significato davvero per la setta alchemica? E quale poteva essere l’interesse degli Wraiths per quel nuovo ordine delle cose? Era un pensiero che non riusciva a togliersi dalla testa, un’angoscia sottile che gli rendeva difficile prendere sonno e che muoveva i suoi passi nervosamente attraverso la città.
Aveva la sensazione ingiustificata ma opprimente che si stessero concentrando sulla cosa sbagliata, che l’Alchimia non fosse il fine ma solamente uno dei mezzi che gli Wraiths stavano impiegando per raggiungere il loro misterioso obbiettivo.
Steve saprebbe cosa fare, continuava a ripetergli una fastidiosa voce nella sua testa, più beffarda ad ogni movimento del sole attraverso la volta celeste.
Anche il quinto giorno stava ormai volgendo al termine senza risultati. Zemo sarebbe riemerso dalla biblioteca universitaria solo alla chiusura e a Bucky rimaneva più di un’ora da trascorrere senza nulla di concreto da fare.
Prese a camminare pigramente sul lungofiume di fronte all’hotel, le mani nelle tasche dei jeans e l’espressione concentrata, poi prese il cellulare e digitò nervosamente un messaggio.
“Novità in vista?”
La risposta arrivò da Sergente Maggiore in una manciata di secondi.
“Niente di nuovo. Non abbiamo registrato altre tracce negli ultimi giorni.”
Bucky aveva sbuffato, sollevato e contemporaneamente sul chi va là, poi il telefono aveva vibrato di nuovo, questa volta un messaggio da Generale.
“Voi avete scoperto qualcosa?”
Scosse la testa come se le ragazze avessero potuto vederlo e rispose velocemente.
“Nulla totale. Zemo sta aspettando permessi speciali per una biblioteca.”
Forse avrebbe aggiunto qualcosa, ma una voce insistente gli fece alzare lo sguardo dallo schermo.
- Bucky Barnes! Sei davvero tu? Fighissimo! Scusami, ti dispiace se ci facciamo un selfie? - la domanda era arrivata da un ragazzotto sui vent’anni, il fisico smilzo e una chitarra scadente a tracolla. Accanto a lui c’erano altri due coetanei, uno seduto su una specie di tamburo e l’altro con una bottiglia di birra in mano.
Dovette aver sgranato gli occhi in un’espressione eloquente, perché il ragazzo alzò istintivamente le mani.
- Ma se non ti va è ok, figurati! - si scusò e Bucky si sentì un infame.
Gli rivolse un sorriso gentile e si avvicinò, posando per la foto alla quale finirono per unirsi anche gli altri due.
- Ah! La mia ragazza non ci crederà mai! Grazie, scusa se… - commentò esaltato il ragazzo con la chitarra, strappandogli una risata sincera.
- Scusami tu, è solo che non sono abituato a questo genere di… cose. - replicò, intenerito dal sincero entusiasmo dello sconosciuto. Parlava un Inglese fluido, nonostante il forte accento slavo.
- Ci sono anche gli altri Avengers? Che cosa succede? - fece uno degli altri due.
Bucky scosse la testa, e il fatto di essere stato appena considerato un membro regolare degli Avengers gli fece uno strano effetto.
- No, sono… sono venuto in vacanza. - mentì.
- Fico! Senti, possiamo offrirti una birra? -
E prima che potesse rendersene conto era finito seduto a un tavolino sul lungo fiume con tre studenti universitari che la sera si incontravano a suonare per arrotondare il prezzo dell’affitto. Jan, il chitarrista, era a un paio di esami dalla laurea in Letteratura Ceca, mentre Luka e Jaro erano entrambi iscritti a Legge.
Si dimostrarono tre ragazzi divertenti e allegri, e nessuno menzionò più il suo passato con gli Avengers, anzi, si concentrarono in una piccola gara a chi suggeriva l’attrazione più interessante che la città avesse da offrire e per un momento Bucky dimenticò il reale motivo per cui si trovava a Praga e quasi credette alla sua stessa bugia.
- Hai già visto il cimitero ebraico? E’ abbastanza inquietante, ti consiglio la visita notturna. Ogni tanto organizzano dei giri apposta. - suggerì Luka, presto interrotto da Jan.
- Ah, sì, e poi devi assolutamente fare la visita di Praga Notturna sulle tracce del Golem! -
- E’ un must portarci le ragazze dell’Erasmus. - aggiunse Jaro con un’occhiata eloquente.
Bucky non vi fece troppo caso, attirato da un altro aspetto del discorso.
- Il Golem? - chiese infatti.
I tre ragazzi portarono tutti lo sguardo su di lui.
- Amico, scherzi? Non sai la storia del Golem? E che ci sei venuto a fare a Praga? - risero, ma fu Jan a decidersi di spiegare.
- Narra la leggenda che verso la fine del XVI secolo, sotto il regno di Rodolfo II, la comunità ebraica di Praga vivesse un periodo di dure persecuzioni. Proprio in quel contesto il Rabbino Loew, profondo conoscitore di Cabala e Alchimia, decise di difendere il suo popolo tramite un incantesimo. - esordì, e il cuore di Bucky perse un battito, la concentrazione tutta attirata su quelle parole.
- Da solo non aveva potere contro le forze imperiali e per questo decise di avvalersi di un Golem. Si tratta di un mostro di argilla, plasmato a immagine e somiglianza dell’uomo e che può essere animato tramite una magia. Il rabbino, che era esperto, ne creò svariati. I Golem sono fedeli al loro creatore, dotati di una forza sovrumana e ubbidienti come il più rispettoso dei soldati. -
Bucky rimase muto, gli occhi sgranati mentre lo studente continuava con il racconto.
- I Golem però diventavano sempre più grandi, fino ad essere dei giganti, e il rabbino non riusciva più a governarli, perciò dovette ucciderli. Pare che alcuni di questi Golem esistano ancora, nascosti in un luogo segreto proprio dove il rabbino li ha lasciati in attesa di tornare a difendere il popolo ebraico. - concluse Jan.
- Resta il fatto che secondo la leggenda i Golem si possono attivare solo utilizzando delle parole specifiche e il Rabbino Loew non ne ha lasciato traccia da nessuna parte, quindi insomma, un tesoro sprecato! - aggiunse Luka con una risata leggera, ma Bucky non si unì, rimase ad occhi sgranati a fissare la superficie del fiume ora illuminata dai raggi sbiechi del sole al tramonto.
Improvvisamente sentì un’ondata di freddo gelido risalirgli lungo la schiena e i brividi furono così violenti da dargli le vertigini.
- Hey, tutto bene? - chiese Jaro, sporgendosi verso di lui.
Bucky annuì e si riscosse velocemente.
- Sì, solo avevo un appuntamento con un amico, sono in ritardo. Grazie della birra ragazzi, ci si vede! - li salutò frettolosamente.
- Siamo sempre qui a suonare, tutti i giorni dispari! E’ stato un piacere! - lo salutarono allegramente.
In lontananza una serie di rintocchi di campana segnò le sei e mezza, Zemo doveva quasi essere arrivato in hotel.
Con un ultimo cenno della mano salutò i ragazzi e prese a camminare a passo sostenuto verso l’albergo e quando entrò nell’atrio nemmeno salutò la ragazza alla reception. Muto come una tomba, prese l’ascensore ed entrò in casa, marciò dritto verso il bagno e si spogliò, buttandosi sotto la doccia senza aspettare nemmeno un momento.
Si accorse solo quando il getto d’acqua gli rinfrescò la testa e lo tranquillizzò che si era quasi messo a tremare.
Una reazione forse esagerata, ma non aveva potuto evitare di sentire come aghi nella pelle ognuna delle parole dei ragazzi, non aveva potuto evitare di vedere la sua storia a mano a mano che gli raccontavano del Golem.
Che assurdità era mai quella? Cosa diamine significava?
Un soldato ubbidiente, parole specifiche con cui metterlo in funzione…
Желание… ржавый… семнадцать…

 
No. Quelle parole non avevano più alcun potere su di lui.
Era libero.
Non era più il Soldato d’Inverno.
Era libero.
- James! James, sei in casa? -
La voce di Zemo lo raggiunse quando aveva appena finito di vestirsi. Apparve in salotto solo per trovare il compagno di viaggio con il più grande e genuino sorriso che gli avesse mai visto sul volto.
- Che succede? - gli chiese, incuriosito da quell’atteggiamento così insolito.
- Ce l’ho fatta, James! Mi hanno dato l’autorizzazione per il Klementinum! - esclamò, lasciando sul tavolo la sua borsa di tela che colpì il legno con un tonfo sordo e sfilandosi le scarpe.
- Il Klementinum? - inquisì, non del tutto sicuro di ricordare quel nome.
- La biblioteca antica! Forse ho trovato una pista, ma ho bisogno di controllare dei testi del Seicento e… tutto bene? - si interruppe di colpo, accigliato.
Bucky annuì, cercando di sembrare normale.
- Sì, tutto ok. E’ una buona notizia! - commentò, sperando che Zemo si facesse andare bene quella risposta.
- Tu hai scoperto nulla oggi? - gli chiese invece, andando a sedersi sul divano e reclinando la testa sullo schienale, gli occhi chiusi a godersi la tranquillità della loro suite.
Bucky non rispose immediatamente.
Lo guardò, rilassato fra i cuscini del divano e con un sorriso soddisfatto, quasi euforico sulle labbra.
Lo guardò e per un istante sentì la sua voce anni prima, a Berlino. Vide i suoi occhi castani nascosti dalle lenti, la sua figura composta alzarsi in piedi e muoversi verso di lui mentre lo supplicava di lasciarlo in pace, mentre il panico invadeva i suoi polmoni nel rendersi conto che non sarebbe riuscito a contrastare le parole.
Рассвет… печь… девять…



Lo sentiva girargli attorno come una iena che attende il suo turno alla carogna, lo vedeva guardarlo negli occhi, violarlo senza cura mentre le parole si facevano strada in lui, subdole, inarrestabili, fuoco nelle vene, acido nella testa.

 
Добросердечный… возвращение на родину… один…



E non poteva resistere, non poteva fare nulla mentre Zemo lo usava, ancora una volta, pedina in mano al nemico, statua d’argilla senz’anima alla mercé dell’altrui volere.

 
Грузовой вагон.

 
- No, non ho scoperto niente. - rispose.
La voce gli uscì in un soffio.
Zemo gli credette.
 






 
I faretti illuminavano le opere nel modo migliore, senza creare riflessi fastidiosi né lasciare in ombra le figure.
Il resto della galleria, invece, accoglieva i visitatori nella penombra, un abbraccio silenzioso che li guidava attraverso l’esposizione in un silenzio rispettoso e tranquillo.
Bucky si guardava attorno affascinato, le immagini che gli raccontavano storie segrete, le linee di contorno che creavano personaggi sconosciuti.
I loro passi rimbombavano appena lungo il corridoio e gli venne istintivamente in mente quella volta con la scuola, così tanti anni prima. Stessi i colori delicati, stesse le lettere accattivanti delle locandine. E la compagnia.
- Ti piace? E’ un bell’allestimento, rende giustizia all’autore. -
Bucky annuì convinto, un sorriso morbido a curvargli le labbra.
- Sì, molto. E’ stato un bel pensiero portarmi qui. Come ai vecchi tempi. - disse, una dolcezza nella voce che in altre situazioni si sarebbe premurato di nascondere.
Non ora, non con lui.
C’era qualcos’altro che avrebbe voluto dire, una confessione taciuta che faticava a tenere per sé.
Trasse un profondo respiro, gli occhi puntati sulle opere esposte di fronte a lui.
Era il momento. Doveva dirlo. Doveva spiegargli come stavano le cose.
Erano passati anni, ormai. Era pronto.
Erano passati anni.
- Steve, io… - ma la voce gli morì in gola quando si accorse che la stampa che stava guardando rappresentava il Golem.
Si voltò di scatto, ma alle spalle di Steve non vi erano più le opere di Alfons Mucha. La parete alle spalle dell’uomo era interamente ricoperta di sue fotografie, volti mascherati, capelli scuri e scompigliati dal vento, occhi cerchiati di nero e schizzi di sangue sul bianco della sua pelle.
Un solo, gigantesco faretto puntava verso la parete scagliandovi contro, titanica, l’ombra di Steve.
- Che cosa succede? - domandò, il panico che già gli stringeva la gola.
- Sei stato tu, Bucky. - disse solo Steve, il volto privato di ogni espressione.
- Cosa… cosa vuol dire? -
Ma Steve scosse la testa.
- Sei stato tu, Bucky. Mi hai dimenticato. -
- No, Steve, no, non è vero. - balbettò, il cuore che gli schizzava in gola, le orecchie che fischiavano.
Era una trappola, era finto, non era possibile.
- Ti sei dimenticato di me, Bucky! Te ne sei andato e ti sei dimenticato di me! - replicò Steve a voce più alta, l’azzurro rassicurante dei suoi occhi freddo come ghiaccio, gelido come la verità rinfacciata.
- Steve, no, te lo giuro, no. Io non… mi dispiace, non… non ero io… Non… - prese a balbettare, l’aria sempre più rada, la voce sempre più flebile.
- Perché dovrei restare quando sei tu che mi hai dimenticato? Con te fino alla fine, Bucky! Avevi promesso! -
Bucky mosse un passo in avanti, ma non riuscì a spostarsi, qualcosa lo bloccava per i piedi e non osò guardare.
- Non è vero, Steve! Io non ti ho dimenticato, non posso, non ci riesco, non posso! Steve, io ti…! - ma Steve lo interruppe e la sua voce risuonò meccanica e priva di emozione, risuonò come un’accusa, una condanna.
- Желание… -
Bucky sbiancò, le orecchie che fischiavano furiose, gli occhi appannati di lacrime.
- No, Steve… no, ti prego… -
- Non sei nient’altro che questo, Bucky. Ржавый… семнадцать… -
- NO! - cercò di scappare, ma i suoi piedi si erano trasformati in argilla, così come le gambe, le ginocchia, era argilla fino al busto.
- Рассвет… печь… девять… -
- No Steve no, ti prego no, no, no! Non ti ho dimenticato, te lo giuro! Ti prego perdonami, perdonami Steve, non è colpa mia, non è colpa mia, ti prego non farmi questo, non abbandonarmi anche tu Steve, ti prego… -
Steve mosse un passo indietro, sparendo dal cono di luce fin dentro l’ombra del corridoio, e le immagini di Bucky si mutarono in volti che conosceva bene, volti esangui, occhi spenti, mani protese invano in cerca di salvezza.
- Добросердечный… -
- Steve ti prego perdonami… - singhiozzò portandosi le mani alle orecchie e stringendo gli occhi.
- E’ colpa tua. Mi hai dimenticato. Mi hai lasciato andare. -
- No… - mugolò.
- Возвращение  на родину… один… -
- No… -
Sentì l’aria abbandonargli di colpo i polmoni, la paura riempirli come una spugna mentre l’ultima parola lasciava le labbra di Steve come un colpo di proiettile diretto al suo cuore.
- Грузовой… -
- NO! -
La finestra era aperta.
Non c’era nessuna galleria. La luce era spenta. Nessun faretto se non il volto latteo della luna nel ritaglio di cielo che riusciva a intravedere dal letto.
Era solo.
Nessuna fotografia, nessun Golem.
Era solo.
Era stato un incubo.
Le lenzuola erano finite in fondo al letto, un ammasso stropicciato e informe che prendeva pian piano consistenza sotto le sue mani strette attorno alla stoffa.
Solo un incubo.
Sentì la brezza della notte muovere appena le tende e accarezzargli il viso grondante di lacrime, mentre la sveglia sul comodino segnava le tre e mezza.
Non era reale. Era stato un incubo. Finto.
Non era reale.
Bucky spalancò la bocca e ne fece entrare quanta più aria possibile, salvo piegarsi in avanti in un conato di vomito nervoso che riuscì a trattenere.
Gli tremavano le mani e gli occhi continuavano a rovesciare lacrime come una diga in frantumi e gli ci vollero dieci minuti per riprendere una respirazione che potesse sembrare regolare.
Si alzò in piedi lentamente, stordito da quelle immagini e andò a lavarsi la faccia.
Si guardò allo specchio e gli occhi azzurri cerchiati di nero gli rilanciarono l’immagine del Soldato d’Inverno.
Sussultò, chiuse gli occhi, indietreggiò fino a tornare in camera.
Non era reale.
Improvvisamente il silenzio della sua stanza gli sembrò soffocante, gli parve che il vuoto gli stesse stringendo la gola come una mano dalle lunghe dita nodose, e prima di rendersene conto era già fuori, nel salotto della suite.
Si diresse a passi incerti verso il frigo bar e aprì una bottiglia d’acqua, bevendo a collo due grandi sorsi e portandola con sé dalla finestra, che spalancò.
Ancora una volta la notte si riversò all’interno, ma in quella luna di Praga non trovò conforto. Gli parve distante, lontana, disinteressata.
Gli parve che lo avesse abbandonato.
Chiuse gli occhi e si passò la mano destra sul volto, sedendosi per terra davanti alla finestra aperta.
Era solo suggestione. Lo sapeva. Era solo suggestione.
Non era colpa sua.
Lui non lo aveva dimenticato, non avrebbe potuto. Lui lo…
- Oh! -
La voce di Zemo lo fece voltare di scatto, non si era accorto che la porta della sua stanza si era aperta.
Gli rivolse un’occhiata in tralice, ma non disse nulla.
Senza spendere un’altra parola l’uomo attraversò il salotto e recuperò uno dei suoi libri dalla borsa di tela, sfogliandolo come se niente fosse e annuendo convinto quando trovò la pagina che cercava, tenendo il segno con l’indice e andando poi a sedersi sul divano.
- Temo di non aver digerito qualcosa a cena, non riesco più a riaddormentarmi e in camera mia fa decisamente troppo caldo. Ti infastidisco se rimango a leggere? - chiese.
Bucky lo osservò con attenzione, i capelli dell’uomo erano scompigliati, ma asciutti e il pigiama abbottonato fino in cima.
Guardò la luna, austera e fredda e lontana, poi tornò a concentrarsi sul suo sguardo castano, sull’accenno di sorriso che Zemo non stava osando concedersi.
- Fai come vuoi. - gli rispose, asciutto.
Lo vide sorridere piano, quasi avesse avuto timore di incrinare un silenzioso equilibrio, e poi sistemarsi meglio sul divano.
Aprì il libro alla pagina che aveva scelto e si mise a leggere, mentre l’incubo pian piano abbandonava le membra di Bucky e gli concedeva di nuovo il respiro.
Rimasero in silenzio, a ignorarsi, fino alle prime luci dell’alba.
Verso le cinque Zemo si alzò dal divano, poggiò il libro a faccia in giù sul tavolo e tornò in camera sua senza dire nulla.
Bucky guardò la porta chiudersi alle sue spalle mentre il cielo fuori dalla finestra si tingeva di bianco.
Insieme fino alla fine.
E lui se n’era andato.




 

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