Il Limbo dei Bugiardi di alessandroago_94 (/viewuser.php?uid=742337)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo & capitolo uno ***
Capitolo 2: *** Capitolo due ***
Capitolo 3: *** Capitolo tre ***
Capitolo 4: *** Capitolo quattro ***
Capitolo 5: *** Capitolo cinque ***
Capitolo 6: *** Capitolo sei ***
Capitolo 7: *** Capitolo sette ***
Capitolo 8: *** Capitolo otto ***
Capitolo 9: *** Capitolo nove ***
Capitolo 10: *** Capitolo dieci ***
Capitolo 11: *** Capitolo undici ***
Capitolo 12: *** Capitolo dodici ***
Capitolo 13: *** Capitolo tredici ***
Capitolo 14: *** Capitolo quattordici ***
Capitolo 15: *** Capitolo quindici ***
Capitolo 16: *** Capitolo sedici ***
Capitolo 17: *** Capitolo diciassette ***
Capitolo 18: *** Capitolo diciotto ***
Capitolo 19: *** Capitolo diciannove ***
Capitolo 20: *** Capitolo venti ***
Capitolo 21: *** Capitolo ventuno ***
Capitolo 22: *** Capitolo ventidue ***
Capitolo 23: *** Capitolo ventitrè ***
Capitolo 24: *** Epilogo ***
Capitolo 1 *** Prologo & capitolo uno ***
Capi 1 e prologo
PROLOGO
“Ogni momento
è un nuovo inizio”.
T. S. Eliot
Ogni racconto che si rispetti ha un suo inizio.
Tutto in fondo ha un inizio, no? Ebbene, questa è una storia
che parte da una fine.
L’estate si è appena conclusa, e con essa il periodo
dell’amore. Le foglie cadono a frotte dai rami, che si accingono ormai a
spogliarsi.
Ammetto che a volte vorrei essere come loro, cadere sul
terreno soffice, magari su un manto di erba scura, e lasciarmi morire così.
Dire addio alla mia opportunità.
Tuttavia non sono una foglia e non ha senso per me languire
in questo limbo per un periodo di tempo illimitato. Sarebbe ora di dedicarmi
all’azione. Di alzarmi da questa poltroncina di falso velluto e di gridare al
vento che anche io esisto, assieme al mio conseguente fardello di sogni e di
desideri.
E nulla si realizza, se non nel peggiore dei modi.
Nessuno mi crede? Be’, poco male. Questa è una storia che
inizia da una fine, quindi i miei assi li ho già calati tutti sul tavolo.
Che Dio me la mandi buona.
CAPITOLO UNO
“Anche un viaggio di
mille miglia
inizia con un singolo
passo”.
Lao Tzu
La mia vita è un film in bianco e nero. Sul serio.
Vivo tra reperti da museo e in una casa che sembra uscita da
un’altra epoca, incastonata in una lussureggiante e isolata campagna che i
cambiamenti climatici stanno rapidamente mandando in malora.
Ho un armadio pieno di abiti vintage e con essi ricopro quel
brutto e misero corpo che mi ritrovo. Per fortuna sono sempre stato dell’idea
che per coprire un ammasso di materia sia sufficiente anche quello che la
maggior parte delle persone del Nuovo Millennio considera uno straccio
bislacco.
Come ogni mattina che si rispetti, vado a riesumare una di
quelle camicie militari che tanto mi fanno sorridere, poiché le indossava mio
padre da giovane. La mia preferita è ancora come nuova, a parte le pieghe.
Nonostante le mie molteplici abilità, non ho mai imparato a stirare.
Il suo verde scuro è come un pugno in un occhio, però lo
reputo più virile di me stesso.
Stiracchio le pieghe al cospetto dello specchio del bagno, un
pezzo anni Sessanta giunto fino a noi grazie alla passione del collezionismo
che accomuna i miei genitori.
Sorrido notando la bandiera tedesca cucita su entrambe le
spalline. Un mio amico mi prendeva in giro per questa cosa, mi diceva sempre
che a me piaceva fare il tedesco. Non so cosa potesse significare per lui, non
avendo pregiudizi a riguardo, comunque l’annotazione mi faceva ridere, e ancora
oggi mi dona un breve ma piacevole ricordo.
Insomma, la bandiera della Germania Ovest pare sia una mia
compagna da sempre. Ma adesso che sono vestito, che sarà di me? Mi pongo spesso
questa domanda.
In fondo posso pur sempre contare su varie opzioni, che
potrebbero scandire e segnare la giornata appena iniziata; la prima è essere
servi in un capannone, la seconda è quella di darmela a gambe.
Cercare l’indefinito, il brivido che può strapparmi dalla monotonia
di un lavoro che non m’interessa.
Così do le spalle al mondo e alla società, finalmente padrone
del mio destino. L’accendiamo?
Benvenuti nella società capitalista! Quella in cui tutti ti
chiedono, appena ti incontrano, cosa fai o cosa non fai.
Tu naturalmente devi sempre rispondere a modo e dire che sì,
sta andando a gonfie vele la carriera lavorativa, che presto sarai dirigente di
una prestigiosa multinazionale con svariate sedi in almeno sedici Stati diversi.
Nessuno che ti incontri e che ti stringa la mano, che abbia
voglia di conoscerti per davvero, al di là del tuo stipendio.
Da ragazzino gli anziani mi farcivano la testa con la
richiesta continua di lavorare, e lavorare sodo, caspita, se no la pensione non
l’avrei mai avuta. A dieci anni dovevo già pensare alla pensione, eh. Contando
che la vita è una incognita, chissà se giungerò all’età del pensionamento o se
comunque il concetto di pensione esisterà ancora durante la mia ipotetica e
lontana senilità.
Dovrei quindi condannare la mia esistenza alla ricerca della
carriera, del prestigio, e soprattutto del capitale; cavolo, quello se è
importante!
Tirando le somme, tutti mi chiedono cosa faccio ora. Che
faccio ora? E che minchia ne so. Faccio l’essere umano, va bene?
Attualmente in pratica sono disoccupato, ma mi sta bene così.
Quando sentono questa frase, ebbene, ricevo occhiatine sottecchi, di quelle
stuzzicanti. Poi si addolciscono. Pensano; poverino, oppure sfaticato. È per
questo che detesto i soldi, detesto la carriera, detesto i miei simili. Io non
mi farò mai un culo così per tirare su soldi di cui non ho attualmente bisogno.
Sono legato alla vita, questo è vero, ma prima di nascere non
ho firmato alcun contratto che mi legava a questa mentalità bigotta e
restrittiva.
So bene che sono pure il dramma per i miei genitori, che
vorrebbero un figlio normale che lavora e che scala la società, capace a far
tutto. Invece hanno cresciuto un imbelle che più che lavorare sul tavolo
preferisce nasconderglisi sotto. Tipo un Girolamo Riario in una versione
attuale.
Non facciamone un dramma, però, ricordando di mandare sempre
all’inferno il capannone di famiglia, dove si svolgono lavori fabbrili. O anche
lo stesso negozietto di verdure km 0 dove presto servizio qualche ora al
giorno, sempre di proprietà dei miei.
Resta comunque il fatto che tutti vorrebbero catalogarmi come
Alex il fabbro, Alex l’ortolano, oppure Alex il bidello, o Alex il dottore, che
è addirittura meglio… invece sono semplicemente Alex.
Ah, ho anche un cognome, un’interiorità e un’anima, se
qualcuno lo ricorda. Oppure è meglio continuare a pensare al mestiere e al
capitale, sì, che è coerente.
Oggi l’Alex nullafacente cammina per strada con addosso
questa camicia militare tedesca, e lo fa a testa alta, nonostante ciò che gli
piove addosso e le vocine che bisbigliano dietro le finestre dai vetri
sigillati.
Odio tutto quello che riguarda l’amore. Non sopporto le
persone che si baciano in strada o sulla spiaggia, mi trasmettono un senso di
insospettabile eppur fastidioso melenso, inutile.
Non credo nell’amore, ma non so se ciò finora si è capito.
Eppure dentro di me ho un pozzo profondissimo, e in profondità gorgoglia
qualcosa di indefinito. Una persona ben preparata, sia magari uno psicologo o uno
psicoanalista, o che cosa ne so, guardandoci dentro potrebbe tuttavia vederci
tantissimo altro. Bisogna che sia esperta del mestiere, altrimenti se ne
rifuggirebbe senza rimorsi.
La maggior parte delle persone comuni, guardando dentro al
pozzo, dopo una rapida occhiata si ritira e sparisce dalla mia vita.
Ah, quasi dimenticavo di precisare che la mia esistenza è una
stazione dove i treni partono e tornano in continuazione. Su queste panchine,
alla fine, resto seduto solo io. Da solo. Una chiacchierata con Tizio Caio e
un’altra con Sempronio, e poi via, ciascuno per la sua strada.
Tranne me, che resto sempre qui seduto, immobile nello
scorrere del tempo e nel ritmo implacabile delle stagioni.
Può quindi esistere l’amore per una persona che non conosce
la costanza dei rapporti umani? In realtà non so nemmeno se esista un legame
eterno. Tutti coloro che mi hanno detto per sempre sono spariti in fretta e
furia, dopo un po’, magari anche ferendomi gratuitamente.
Ci sono poi state persone che ho amato, una in particolare.
G.
Ma G è tutta un’altra storia, in fondo.
G ormai è già parte di un passato che comunque si evolve,
diciamo che lui è stato uno dei pochi ad aver preso un treno dalla mia
stazione, e poi a tornarci. È tornato ma se n’è andato di nuovo.
Poi è tornato ancora.
E se n’è andato di nuovo.
G, tu non sei l’amore, bensì la mia maledizione.
Queste sono le linee guida della mia esistenza. Da qui parte
tutto, e da qui tutto è finito.
Sono ancora seduto sulla panchina della mia stazione, nell’attesa
di un treno che porterà un solo passeggero che resterà per sempre, nel bene e
nel male. Che mi donerà la costanza che finora mi è mancata.
Questo è come dovrei pensare, lasciando quindi spazio alla
speranza. Sono giovane, no? Me lo dicono in tanti, però alla mia età sono tutti
impegnati e molti hanno già figli e una famiglia sulle spalle. Non che sia
geloso, non saprei che farmene di altre beghe, ma… questo mi fa tristemente
capire che in me qualcosa non va.
E lo capisce anche chi mi guarda, le persone più adulte e
pettegole che mi tengono d’occhio quando cammino per strada con addosso la mia
camicia vintage.
Girano voci su Alex, il figlio di quelli che raccolgono la
roba vecchia; quello sfigato che, poverino, deve mancargli un giovedì. Fa
l’orticello e aiuta a vendere le verdure che produce, così come farebbe il più
umile dei pezzenti. Non fa un cazzo però nel capannone di famiglia, è
maleducato e sprezzante verso i genitori.
Si vede da come si veste e da quanto è solo. Nessuna ragazza
l’ha mai voluto. Nessun amico ha mai varcato la soglia di quel portone di casa.
Sono quindi un marchiato, agli occhi degli altri. Un
emarginato.
L’unica mia fortuna è che so scrivere, e in questo trovo
consolazione e rifugio.
Le mie lacrime, all’improvviso, diventano un’opportunità.
Dalla fine può forse generarsi un nuovo inizio?
Chissà.
NOTA DELL’AUTORE
Ehm xD so che non ci avete capito niente. Ebbene, pure io.
Però, sapete… non si giudica un testo dall’apparenza, spero che abbiate la
pazienza di addentrarvi assieme a me in questo racconto. Che per carità, non
merita nulla né è un best seller. Però… affronterà un’infinità di tematiche,
questo ve lo posso garantire.
Alex è il solito Alex, lo ritroviamo giovane, un po’ più
tranquillo per ora. Ma… non posso rispondere per il futuro narrativo xD
Ringrazio chiunque ha letto e chiunque darà fiducia e
sceglierà di proseguire la lettura. I capitoli sono tutti abbastanza brevi,
spero non annoino.
Assolutamente devo specificare che Il Limbo dei Bugiardi è un
titolo e un racconto che sono partiti oltre un anno e mezzo fa da uno spunto di
idea gettato da Soul_Shine, che mi ha intrigato molto. Con il suo consenso, ho
elaborato e scritto questo testo, dopo sette mesi di battitura. Soul, so che è
diversissimo da come lo immaginavi, so che non c’entra quasi niente con quello
di cui parlammo… ma spero solo che… ecco, qualcosa possa intrattenerti e
chissà, magari colpirti con curiosità. Credo possa essere una sorpresa anche
per te e… niente, te lo dedico xD
Grazie a tutti, carissimi e carissime amiche!
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Capitolo 2 *** Capitolo due ***
Capitolo due
CAPITOLO DUE
“Tutti gli esseri umani
vogliono essere felici;
peraltro, per poter
raggiungere una tale condizione,
bisogna cominciare col
capire
che cosa si intende per
felicità”.
Rousseau.
“Ho riconosciuto la
felicità
dal rumore che ha fatto
andandosene”.
Jacques Prévert.
“Dottore, che sintomi
ha la felicità?”
Jovanotti.
Scrivere è una fonte di potere inesauribile.
Anche se nella vita sono una merda, un fallimento completo,
al cospetto di una pagina bianca mi sento un leone. Nessuno mi ferma. E le
imbratto con l’inchiostro, queste dannate pagine… e che sia maledetto il giorno
in cui sono nato.
Credo che nessuno abbia voglia di venire al mondo per poi
soffrire.
Alla fine mi sono ritrovato a vivere di istanti, spesso anche
perduti tra i residui di un passato in rovina, una Roma antica ormai
sprofondata sotto i freschi muri della capitale odierna. I miei mosaici lì sono
ancora ben conservati, ma sono appunto nascosti sotto uno strato di terra e di
costruzioni recenti che mi rende impossibile il lasciarli riaffiorare.
Ecco, vorrei tornare a essere quel bimbo spensierato e grassoccio
che rideva continuamente, senza pensieri per la testa. Vorrei che questo
passato tornasse a riemergere, miscelandosi con l’insipido e frenetico
presente.
Non vorrei più essere l’Alex malinconico, quello con lo
sguardo perso verso l’orizzonte, colui che sembra sempre imbronciato e
pensieroso. No, sono nato per essere felice e spensierato.
Eppure, la felicità dove è finita? Se premettiamo che la
felicità è comunque un concetto generale abbastanza soggettivo, si potrebbe
anche pensare che in fondo scovarla non sia poi così difficile.
Alla faccia, però! Io con le mani vado a fondo tra fanghiglia
e poltiglia varia, scavo pure con la vanga, ma non la so trovare.
Cavolo, penso che nulla sappia nascondersi meglio di un
istante di felicità pura. Fugace, anche. Illusoria.
La vita è uno schiaffo continuo, devo ancora abituarmi che
dovrò subire, e subire ancora.
Almeno sulla carta posso essere chi voglio, scrivere quello
che voglio, costruire ciò che più desidero. Con l’inchiostro anche i sogni
possono diventare realtà.
Da quando ho smesso di vivere con il corpo, ho iniziato a
farlo con la mente, tramite la scrittura.
Una notte buia e
tempestosa. Il vento flagella le chiome degli alberi, già pronte a spogliarsi.
Il freddo è accompagnato
da una pioggerellina leggera, di quelle gelide che t’imbrattano il giubbotto e
ti entrano fin nelle ossa.
Parcheggio la mia
Mustang a pelo del marciapiede, nel posteggio riservato.
Mentre tolgo la chiave
dal cruscotto sbuffo e inizio a odiare questo maltempo autunnale. E siamo solo
all’inizio, l’inverno ci attende. Mi faccio coraggio e abbandono la mia auto,
dopo averla chiusa opportunamente a chiave.
Mi avvio verso la porta
di casa bestemmiando e imprecando in molteplici lingue. Chi me lo fa fare? Chi?
Pure io sto cambiando, ormai, dopo tanti anni a vigilare l’incolumità dei
cittadini della contea di Franklin.
Una contea di quelle
simili a tutte le altre omonime negli Stati Uniti, in cui accadono sempre le
solite cose.
E poi, cosa dovrebbe
capitare a un semplice poliziotto come me? Ho già cinquantacinque anni, presto
mi ritirerò. Una vita trascorsa a dirigere il traffico lungo le strade e a
sostituire i semafori rotti con l’apposita paletta. Non mi è mai stato affidato
nessun caso di rilievo.
Nella stradale ho avuto
modo di soccorrere diverse persone in difficoltà dopo alcuni incidenti
abbastanza gravi, ma sulle pagine dei giornali sono apparsi i miei superiori,
non io.
Dopo trent’anni di
servizio mi hanno spostato tra i poliziotti di quartiere, e ho passato i miei
ultimi mesi a intervenire a seguito di piccoli furti. Ormai conosco i colleghi,
ho buoni rapporti con le alte cariche e con tutti, ma resto pur sempre un uomo
pronto a mollare. E mollo senza aver lasciato alcun segno, nonostante una vita
di impegno, fatica e lavoro. Giorno e notte, a seconda dei turni.
Un brivido mi percorre
quando mi ritrovo al cospetto della porta di casa e sembra che mi stia
addormentando in piedi, sommerso dalla stanchezza e dalla delusione.
Non appena varco la
soglia a me tanto familiare, vengo affolto dal profumo intenso dei plum-cake
appena sfornati. Immerso nella mia malinconica frustrazione interiore, a volte
dimentico quanto amo mia moglie.
Nonostante sia ormai
tardi, la mia compagna mi aspetta ancora in piedi, e dal rumore soffuso della
tv accesa realizzo che probabilmente anche i ragazzi lo sono.
“Amore” la saluto,
facendo il mio ingresso in cucina. La luce soffusa della lampada appesa sui
fornelli è calda ma allo stesso tempo getta numerose ombre su di noi, e questo
rende tutto ancora più romantico. Le ombre coprono i miei vestiti umidi e le
rughe di fine giornata.
Tiffany mi sorride e mi
abbraccia, venendomi subito incontro.
“Sei fradicio” afferma,
tastando la mia divisa e scoccandomi un rapido bacio sulle labbra.
“Non esagerare. È solo
un po’ di umidità”.
Leonardo e Jason, i
nostri due figli, fanno a loro volta irruzione nella stanza e mi vengono a
salutare, interrompendo il dialogo tra me e la loro madre.
“Papà, rientri sempre
più tardi” mi fa notare Jason.
Jason ha sedici anni,
ma ne dimostra molti di più. Con un repentino movimento della testa scuote la
sua chioma mossa e abbastanza allungata, tipo moda anni Settanta. Il Beatles,
lo chiamo scherzosamente. Lui però adora affermare che si ispira ad Harry
Style, il suo cantante preferito.
Adoro sentirlo parlare
e mi mette sempre di buon umore.
“Non è colpa mia. Il
lavoro chiama” rispondo con diplomazia.
Leonardo, invece, resta
un attimo dietro al fratello minore.
Leo ha un nome
italiano, scelto appunto per elogiare Da Vinci, uno dei più grandi uomini della
Storia. In realtà non è venuto speciale come invece gli avevamo augurato
chiamandolo così. Ha già ventisei anni, sulla carta è adulto, ma è rimasto un
ragazzino dentro di sé. Non ha mai saputo staccarsi da noi, anche se delle
volte ha degli istinti ribelli, tuttavia restiamo pur sempre una famiglia molto
unita. Basti pensare che nei fine settimana usciamo sempre tutti assieme.
Leo è un giovane molto
chiuso e difficile da comprendere, il mio primogenito tanto amato. Per quanto
Jason sia simpatico e dolce, il fratello maggiore riesce a modo suo a
conquistarsi il giusto spazio.
Sono padre di ragazzi
ormai grandi, però appunto sarò il loro genitore in eterno, e finché avranno
bisogno di me, io ci sarò.
Alla fine, il maggiore
si fa avanti e mi batte il solito cinque. Non aggiunge niente, tra noi non c’è
bisogno di parole. È tutto a posto così.
Adesso mi sento felice,
assieme alla mia famiglia. A mia moglie, ai miei figli… il mio tesoro più
grande, nel complesso. Vivo e lavoro per loro. Se non ci fossero stati, penso
sarei finito a cadere nella triste spirale della depressione.
“Che dici? Ceniamo?”
Tiffany fa cenno verso
il tavolo imbandito e da me finora ignorato.
Le sorrido.
“Non dovete aspettarmi,
lo sapete… mangiate quando avete fame. Io sono sempre più in ritardo” spiego e
ripeto, come ho già fatto tante altre volte. So che loro però mi aspetteranno
sempre. Sono la mia famiglia, la mia salvezza. La mia unica certezza. L’unica
cosa bella che ho saputo costruire durante il corso della mia monotona vita.
Almeno, grazie a loro,
posso dire che la mia esistenza non è stata vana.
Mi rassicurano con le
solite frasi di rito, però sono convinto che mi attendano con grande piacere.
Così, come ogni sera
che si rispetti, ci mettiamo a cenare con il sorriso sulle labbra. Iniziamo a
parlare del più e del meno mentre mia moglie dà sfoggio della sua grande
abilità culinaria, servendoci pietanze da acquolina in bocca.
Ci sono tuttavia
momenti in cui all’improvviso accade un avvenimento che stravolge tutto. Questa
è la sensazione immediata che provo a pelle non appena il mio cellulare inizia
a squillare, interrompendo il meritato e disteso pasto.
Nessuno mi chiama mai a
quest’ora, non ho idea di chi sia, né di cosa voglia, per questo tentenno un
attimo ad estrare il telefonino dalla tasca dei pantaloni.
Lo sguardo rassicurante
dei ragazzi e di mia moglie mi spinge a procedere.
Sullo schermo
illuminato troneggia il numero del mio capo.
“Signore” rispondo
immediatamente.
“Agente Barley, grazie
per rispondermi anche a fine turno” breve sosta da parte del severo Ramsey, che
gestisce tutto in ufficio, “volevo chiederle se potesse presentarsi un po’
prima, domattina. C’è una faccenda che mi è stata presentata poco fa, piuttosto
urgente, e di cui dovrei parlarle”.
“D’accordo. Alle sette
e trenta sono lì, va bene?”. Il mio turno inizierebbe alle otto, ma se devo
andare prima…
“A posto. Buona
serata”. Di poche parole come sempre, Ramsey riaggancia.
Gli sguardi
interrogativi dei miei famigliari però mi colgono un po’ di sorpresa.
“Niente, domattina mi
attendono in anticipo…” rispondo, evasivo, e sorrido a tutti, anche se non so
cosa aspettarmi. Durante tutti questi anni di servizio non sono mai stato
convocato in anticipo né i pochi casi che mi sono stati sottoposti erano
urgenti.
Non voglio grattarmi il
capo prima del previsto e mi rilasso, tanto so che sono prossimo alla fine
della mia carriera lavorativa quindi di certo non sarà nulla di grave o di
impegnativo. Forse una rapina a mano armata, alla peggio.
Ne approfitto allora
per donare tutto me stesso a chi mi sta più a cuore, conversando con i ragazzi
e sommergendo di complimenti mia moglie, la donna più bella e meritevole che io
abbia mai conosciuto.
Mi siedo al tavolino esterno del bar. Come ogni mattina.
Vengo dalla campagna e la mia camicia vintage troneggia sul mio corpo.
Il paese più vicino alla mia località amena è mezzo spopolato
e di dimensioni ridicole, proprio per questo mi conoscono tutti di vista; sanno
chi sono, anzi, sanno di chi sono il figlio. Nessuno mi rivolge mai la parola e
ognuno ha la sua precisa idea su di me.
Avverto gli occhi degli anziani mentre mi studiano, pensano
di sapere ogni cosa e quegli sguardi spesso intorpiditi dalle cataratte non si
perdono un attimo del mio show. È uno spettacolo questo, in fondo, no? Cazzo
vengo a sedermi qui tutte le mattine, a mostrarmi cialtrone e pure mezzo
idiota? Ma certo, a fumarmi quella mezza sigaretta che mi fa sentire un po’ più
figo del solito.
No, questo è solo il mio riflesso. Sotto questo strato di
inutile pelle, sono molto diverso. E un giorno lo dimostrerò.
Intanto smetto di pensare a quelle fottute storie che mi
frullano continuamente per la testa, sono stanco di immaginare e di avere quel
bisogno patologico di scrivere.
Devo vivere, no? Vivere questa vita in prima persona, per
provare a sfidare quello che sembra un fottuto destino avverso.
Mi accomodo meglio sulla seggiolina da bar e lascio che lo
scarico delle auto che scorrazzano a pochi passi da me mi avvolga e si fonda
con il leggero fumo che lascio uscire dalle mie labbra socchiuse.
Sono un amante assiduo delle storie complicate. Devo
smetterla e trovare la mia libertà. Ma soprattutto imparare a volare e a
voltare pagina.
Davvero mi ritengo così sfortunato e sfigato? Porca boia.
È quindi il momento per riflettere davvero.
Lascio alle mie spalle quegli sguardi senili, che non mi
appartengono né rispecchiano affatto.
Sono in attesa del mio momento. Del mio giorno.
Magari fosse perfetto, ma la perfezione si sa, non esiste.
Mi accontento, o, meglio, mi saprò accontentare.
NOTA DELL’AUTORE
Ringrazio di cuore chiunque abbia letto il primo capitolo, e
ovviamente anche questo.
Vi ringrazio tanto; mi avete piacevolmente sorpreso… non mi
aspettavo così tanti lettori per questa umile storia!
Storia che affronterà tematiche molto delicate.
La vicenda non è autobiografica, come starete di certo
comprendendo… o quando meno non nella sua totalità xD per fortuna non sono Alex
xD e non so nemmeno se alla fine avrà un senso. Comunque… questo è solo l’inizio…
un assaggio, diciamo… spero di non avervi atterrito… o che non sia troppo
antipatico come testo…
Grazie ancora a tutti ^^
|
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Capitolo 3 *** Capitolo tre ***
Capitolo tre
CAPITOLO TRE
“Ai giorni nostri si
conosce
il prezzo di ogni cosa,
ma il vero valore di
nessuna”.
Oscar Wilde.
“Un uomo può essere sé
stesso
soltanto finché è solo.
Se non ama la
solitudine,
non ama nemmeno la
libertà,
poiché si è liberi
unicamente quando si è
soli”.
Arthur Schopenhauer.
Qualche giorno fa, il visionare casualmente un poster mi ha
cambiato la giornata.
Su quel cartellone, l’immagine di due bambini affiancati
troneggiava indiscussa. La prima cosa che ho notato, tra l’altro. Un bimbo
bianco e uno di colore; il primo bello grassoccio e un biscottino tra le mani,
già portato all’altezza delle labbra ingorde, il secondo denutrito e in preda a
un pianto disperato, con le ossa sporgenti. Sopra le due immagini affiancate,
la scritta; una sola umanità?
Nonostante ormai mi sia abituato alle immagini forti, la
domanda retorica e quell’affiancamento mi hanno lasciato a dir poco turbato.
All’improvviso ho realizzato di nuovo quanto io sia un completo idiota.
Tante volte ho sostenuto di essere sfortunato, ma la sfortuna
è ben altra. Tanti bambini muoiono ancor prima di poter giocare le proprie
carte. Di sete, di fame, abbandonati dai genitori. Non hanno mai avuto
un’occasione.
Morti assieme ai loro sogni; morti assieme al loro futuro.
Giovani che vivono in Stati dove la guerra imperversa da
troppo tempo. Ragazzi e ragazze senza casa né cibo, oppure obbligati tutti a sottostare
a regole che violano i diritti umani solo perché imposte dal tiranno di turno o
da una qualche religione. Gente che non ha più niente, né una casa né un lavoro
né la dignità.
Io invece sono qua, grasso e sempre con lo stomaco pieno. Ho
del lavoro, dei soldi, una macchina, una casa. Mangio quando voglio, esco
quando voglio, faccio quel che voglio, sempre nei limiti della Legge. Posso
parlare con chi voglio e fare le mie scelte.
Sì, sono fortunato, in realtà, proprio perché il Destino mi
ha concesso l’opportunità a molti preclusa; quella di poter scrivere la mia
Storia, vivendo e facendo esperienze in un contesto sociale e umano tutto
sommato tranquillo.
Invece mi lagno perché sono poco sociale, perché nessuno
tiene a me, perché sono uno sfigato… sì, in effetti è tutto vero, ma in questo
caso sono io ad autoimpormelo, in un certo senso. Potrei uscire dal mio guscio
e fare nuove esperienze. Potrei parlare di più, smuovere la mia noiosa vita. Ma
non faccio niente, solo perché cambiare è difficile.
Alla fine mi sono così abituato alla routine da non volerla
nemmeno affrontare a viso aperto. Non un tiranno umano a opprimermi, bensì
l’abitudine.
E il lagnarmi perché amo e non sono corrisposto? Ma che razza
di idiozia, che ragionamento da fallito! Che se mi fermo a pensarci un attimo,
mi rendo conto di quanto sia bello essere innamorati, e di quanto non me ne
farei nulla di una qualche compagnia.
Desidero quel poco che non ho idealizzandolo ed
enfatizzandolo fin troppo, senza rendermi conto che sto sciupando la fortuna
che mi è stata concessa.
Sono apatico e inerte, mi tolgo il pane di bocca da solo.
E mentre sorseggio quel misero caffè del bar, penso a quanto
mi dovrei vergognare e a quanto io sia sbagliato. Perché lo sono, davvero.
Eppure…
Nonostante io sia uno sfigato e un giovane senza amici né
legami forti, ho vissuto. A modo mio, ma ho vissuto. Come tutti voi.
Ed ho anche ascoltato.
Nelle mie limitate esperienze ho sempre impiegato
un’intensità emotiva davvero molto forte, nella speranza di restare unito ai
pochi che mi hanno dato confidenza. È sempre andata a finire male, poiché la
mia vita è la stazione che a sera si ritrova sempre vuota e deserta, però ho
comunque avuto occasione di ascoltare qualche storia narrata da qualcuno di
passaggio.
Sulla mia metaforica panchina, qualche passante si è seduto e
mi ha narrato qualche spunto della sua esistenza. Ed ho scoperto che, in fondo,
non sono poi così diverso dagli altri. Anche se l’ho sempre creduto e un po’ lo
credo tutt’ora.
Gente che si sente sola, proprio come me. Esseri umani che
hanno grandi famiglie, che sembrano dei tuttologi e che appaiono come individui
molto sociali.
La verità è che la solitudine è un male dei nostri giorni, è
una serpe sinuosa che entra nelle vite quotidiane in molteplici forme, ma pur
sempre spietata. Il suo morso velenoso inquina le giornate e alla fine sembra
che non resti mai nulla da dare.
La nostra attenzione è tutta incentrata su quello che non
abbiamo, e poco importa se il resto lo possediamo; ciò passa in secondo piano.
Non sappiamo cogliere l’attimo, ci vogliamo sostituire a
nostro modo all’Onnipotente. Tutto mio, niente a te. Egoismo che dilaga, che
dilata i nostri orizzonti.
Non soffriamo più la fame, la sete, la sottomissione, bensì
il culto di noi stessi. E certo che allora siamo soli e ci sentiamo tali;
desideriamo continuamente e non ci concentriamo più sul bello che ci circonda.
Ci sono paesaggi mozzafiato, le nostre famiglie che ci amano,
le soddisfazioni della vita. Niente, esiste solo quello che vorremmo.
Allunghiamo quindi le mani verso l’indefinito e ci pieghiamo,
piangendo come bimbi al cospetto di un giocattolo al di là di una vetrina,
irraggiungibile per le nostre mani.
Siamo nullità complete.
S è un vero rompicazzo. In quella stazione che è la mia vita,
lui arriva regolarmente ogni tot per controllare se c’è qualcosa da prendere
con sé.
Sì, perché S in fondo è come tanti altri; desidera tutto
quello che non ha. E per averlo è disposto a rubare, saccheggiare, riempirsi di
nascosto le tasche nei negozi o a casa degli amici.
Ho sempre pensato che fosse malato, in un certo senso. Resta
il fatto che non appena la gente lo conosce, poi lo allontana. Tira troppo la
corda.
È un accumulatore, ogni cosa che riesce ad arraffare poi
perde significato una volta che l’ha portata a casa. Finisce così subito nel
dimenticatoio, tra una marea di oggetti ammucchiati a caso e abbandonati a loro
stessi.
L’importante è, appunto, mettere in tasca e ottenere. Questa
è la vittoria e la gratificazione.
S torna a trovarmi e mi ritrova come sempre seduto sulla mia
panchina.
“Ehi, vecchio, come butta?”
Mi viene incontro tutto sorridente. So però che ogni suo
sorriso va pagato caro; egli sorride esclusivamente per mostrarsi gentile,
fottendoti qualcosa poco dopo.
Non rispondo al suo sorriso mediocre, non mi va più.
Notando il mio silenzio, l’uomo si siede a mio fianco e mi
percuote piano la spalla destra.
“Cosa ti serve, questa volta?”
E’ il mio turno di interloquire, e lo faccio svogliatamente.
Anche in modo un po’ maleducato e scontroso, ma con gente del genere non
potrebbe essere altrimenti.
S sembra cadere dal pero e mi diverto per un istante a
osservare la sua espressione facciale, che si sforza di dimostrare sorpresa.
“Non dire così, vecchio” e dice sempre vecchio con tono
colloquiale, nonostante l’unico vecchio presente sia proprio lui, “in realtà è
vero, mi servirebbe qualcosa” si affretta poi ad aggiungere. Lo sapevo, è
sempre così.
“Non ho più niente qui, guardati attorno”.
S osserva per qualche istante, poi perde interesse verso ciò
che ci circonda.
“Quella scatola” afferma poi, e mi indica uno scatolone in un
angolo appartato, che solo il suo occhio esperto avrebbe potuto notare con così
grande facilità.
“Puoi prenderla, se vuoi…” mormoro, ormai rassegnato. Tanto
cosa me ne faccio, non l’avevo nemmeno vista. Che se la tenga, anche se ha
rotto il cazzo.
S allora si alza e lesto va a prendere la scatola, poi la
appoggia sulla panchina e la osserva per bene. Sorride, finalmente. Se ne va e
non dice nemmeno grazie.
So bene che quella scatola sarà presto abbandonata chissà
dove, tanto l’importante per un uomo come lui è averla arraffata. Quando sarà a
casa, o forse anche prima, avrà già perso ogni senso e potrà cestinarla o
ammucchiarla tra le altre cose e focalizzare il suo desiderio verso altri
oggetti.
S in effetti è il classico razziatore, o barbaro, dir si
voglia, ovvero facente parte di quella categoria di persone che entrano nella
mia vita solo per arraffare qualcosa o strappare una parte di me. Poi se ne
vanno senza salutare, con in tasca un souvenir di qualche genere.
C’è chi se n’è andato con una parte della mia anima, addirittura
la metà, e non è più tornato.
Dopo il colpo grosso, di solito i barbari non tornano più per
un po’. Sono furbi e sanno che hanno saccheggiato così a fondo che per
parecchio non ce ne sarà per nessuno, nemmeno per me.
Però i barbari più miseri, come il mio caro S, in fondo non
lo fanno con cattiveria, ma obbediscono solo al loro istinto. Razziano poco
alla volta e soprattutto qualcosa di poco conto, quindi ritornano in loco
spesso e volentieri.
Rompendo il cazzo ancora e ancora.
Eppure basta così poco per farli contento, per placarlo…
perché negarglielo?
Abbandono il bar e mi dirigo spedito verso casa.
C’è tanto da camminare e quindi ho tempo per schiarirmi le idee,
quindi anche per lasciare andare la mia fervida immaginazione da scrittore. Da
artista? Eh, nemmeno per scherzo. Più idiota io a credermi scrittore,
addirittura.
Artista? Figuriamoci.
Tuttavia sono strambo assai, devo continuare a farmene una
ragione, anche se quella creatività che ho è definibile malata e tal
definizione è impressa a lettere cubitali nella mia mente.
Mi alzo presto e
affliggo l’apposita targhetta alla mia divisa. Agente James Barley, e sopra una
mia foto ritagliata che mi mostra con un’espressione ebete impressa sul viso.
Smesso di fissarla con
vergogna. Avere la targhetta impressa come nei supermercati e non possedere
alcun distintivo da sfoggiare a destra e manca è qualcosa di umiliante per un
agente della mia età. Ma non importa.
Pare comunque quasi
ridicolo che dopo tanto tempo non mi sia ancora abituato alla nullità che sono.
La mia tenera moglie
dorme ancora, nonostante la promessa che si sarebbe svegliata per darmi il
buongiorno, ma io la amo ugualmente. Mi chino a scoccarle un leggero bacio
sulla fronte poi me ne vado, chiudendo piano la porta d’ingresso al mio
passaggio.
Guido con prudenza e
attenzione fino al Columbus Police Department, dove lavoro. Quando non ho
piccoli casi da risolvere, svolgo mansioni d’ufficio e mi annoio a morte.
Diciamo che è un po’ una sorta di prigione, anche se faccio il poliziotto ho
anche io le mie pene da scontare.
Il caos del più grande
centro abitato dell’Ohio è infernale e i miei colleghi si danno da fare con le
palette anche in prossimità del Department, dove ci sono code e rallentamenti a
causa di alcuni lavori in corso.
Parcheggio e sfrutto
gli ultimi istanti di libertà cercando di inspirare l’aria fresca del mattino e
di farne tesoro; il mio intuito mi suggerisce che non sarà una giornata facile.
Alla fine faccio il mio
accesso passando il badge all’ingresso e facendomi riconoscere dai colleghi
posti al controllo dell’ampia entrata.
“Ehi, Barley” mi saluta
l’agente Taylor, anziano anche lui. Entrambi abbiamo fatto poca carriera.
“Ehilà, buongiorno”
ricambio il saluto con il sorriso sulle labbra.
Vorrei scambiare due
parole ma un furioso Ramsey mi si palesa davanti. Probabilmente mi aspettava in
prossimità dell’ingresso.
“Barley, la stiamo
aspettando, avanti” afferma, affrettato. Si passa una mano tra i capelli radi e
corti e mi fa un cenno nervoso verso il reparto riservato agli uffici.
Taylor scuote le
spalle, ed io non posso far altro che accomiatarmi con un semplice cenno della
testa.
“Sono comunque in netto
anticipo” faccio notare a Ramsay, che cammina davanti a me con un’energia tale
da farmi venire il fiatone. E faccio un errore madornale, poiché mai far notare
qualcosa a un capo reparto così irritabile…
“Sta svolgendo un
servizio pubblico, agente. Deve essere pronto e scattante in ogni momento e a
ogni ora, lei è al servizio dello Stato e del cittadino” poi si volge a
guardarmi, fermandosi un istante, “e cos’è quel fiatone? Non si presenti mai
più in questo modo. Si fermi un attimo e se lo faccia passare, non voglio che
si pensi che i miei colleghi e sottoposti siano tutti ormai fuori forma”.
Mi accoltella così, ma
non fa male. Le sue parole non mi sfiorano nemmeno, so quanto è crudele.
“L’aspetto nel mio
ufficio tra meno di tre minuti” controlla l’orologio, “mi raccomando! Niente
fiatone”. Mi dà le spalle e prosegue spedito verso la sua meta.
Aveva ragione, il mio
intuito; questa si prospetta una giornata da incubo.
Mi appoggio per un
istante con le spalle contro al muro, cercando di isolarmi dalla frenesia che
mi circonda, con agenti in rumoroso movimento in ogni direzione.
Riprendo il fiato ed è
il mio turno per controllare l’orologio da polso, che mi indica che sono
trascorsi già due minuti da quando Ramsay mi ha lasciato indietro. L’ultimo
minuto rimasto a disposizione mi sarà utile per raggiungere il suo ufficio.
So che mi sta
cronometrando, nella sua infinita cattiveria. Ma che ci posso fare? Non ho mai
fatto carriera e tutti ormai sono a pari grado, con i superiori addirittura
piuttosto più giovani di me. Come sempre nella mia misera vita lascio che tutto
scorra, posso fare ben poco per cambiare la realtà. Forse avrei potuto provarci
da più giovane, ma non è mai stato competitivo il mio carattere. Quindi va bene
così.
Chino il capo e mi
affretto verso il fantomatico ufficio, senza fiatone ma con il cuore che mi
batte forte nel petto, non sapendo cosa mi attenda. È uno di quei rari momenti
in cui detesto il mio lavoro e la mia subordinazione.
NOTA DELL’AUTORE
Niente, spero solo che in un qualche modo questo testo sappia
far riflettere.
Grazie ancora ai coraggiosi che stanno leggendo e sostenendo
questo progettino strano ^^
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Capitolo 4 *** Capitolo quattro ***
Capitolo quattro
CAPITOLO QUATTRO
“Tu mi ricordi una
poesia
che non riesco a
ricordare,
una canzone che non è
mai esistita
e un posto in cui non
devo essere mai stato”.
Efraim Medina Reyes.
“Quando un amore
finisce,
uno dei due soffre.
Se non soffre nessuno,
non è mai iniziato”.
Marylin Monroe.
Capisco solo poco dopo
il motivo di tale frettolosità. Non devo nemmeno bussare alla porta
dell’ufficio di Ramsey che lo sceriffo della contea mi fissa con insistenza.
Ho già avuto modo di
vedere in giro il vecchio Jake, mi è sempre sembrato un tipo che si è meritato
il posto che occupa, anche se mi impressiona ogni volta la sua serietà
eccessiva. Non mi ha mai tuttavia degnato di uno sguardo, io che sono un
bassofondo della gerarchia. Quindi è stato un problema di altri. Ma, adesso…
“Ecco l’agente Barley,
signor sceriffo. È lui che ho scelto appositamente” mi presenta subito Ramsey,
venendomi incontro e accogliendomi con fare anomalo, poiché amichevole. È tutta
scena, solo scena.
Lo sceriffo mi allunga
la mano e me la stringe.
“Bene, agente Barley.
Abbiamo un caso che fa per lei” aggiunge l’anziano, serafico.
“Per… me?” chiedo,
titubante. Quale caso potrebbe fare per me, che non mi è mai stato affidato
nulla? Poi sto anche per ricevere il pensionamento. Qualche mese e sarò fuori
da questo giro.
“Per lei, sì” ribadisce
il mio superiore, mentre Ramsey mi riserva un’occhiataccia.
“Si tratta in effetti
di una questione adatta a una persona della sua esperienza”.
Prima che io possa
ribadire qualcosa di fuori luogo, Ramsey interviene.
“Un passato nella
stradale, poi diversi piccoli casi seguiti in città con un’attenzione e una
circospezione da manuale. L’agente qui presente è stato selezionato con cura
tra quelli disponibili e al momento disoccupati”. Disoccupati. È una vita che
in effetti lo sono. Fare sopralluoghi in mini appartamenti dopo una rapina
infruttuosa in effetti non è che sia un grande impegno. Solo quel po’ di
burocrazia nel raccogliere la testimonianza del padrone di casa, una firma lì,
due parole là. Fine.
“Perfetto” torna ad
aggiungere lo sceriffo, impassibile nello sguardo ma convinto nel parlare.
“Gliene vuole parlare
lei, agente?” interloquisce poi Ramsey, ma il mio detestato collega declina con
cortesia.
“Penso che sia meglio
che sia lei a farlo, signore” dice, infatti, “l’agente qui presente è il
migliore al momento disponibile, è vero, ma a volte fa orecchie da mercante
quando gli parlo. Ci conosciamo da un sacco di tempo e la nostra amicizia ormai
è abitudine. Con me non capirebbe quanto è delicata la faccenda che sta per
affrontare. Lo faccia lei, per favore”.
Abbasso lo sguardo e mi
sento avvampare. Quante stronzate per appiopparmi quella che probabilmente è
una grana bella e buona.
“Va bene” acconsente il
superiore comune a entrambi, “allora, agente Barley” ribadisce di nuovo, sembra
gli piaccia farlo, “a lei è affidato un caso un po’ particolare. È stato scelto
perché è di servizio da molto tempo, è un tipo molto calmo, e tutto questo le
servirà. Capirà che un novellino non potrà affrontare a nervi saldi una
faccendina così…”.
Appoggia sulla
scrivania di Ramsey il plico di fogli che ha stretto tra le mani fino a questo
momento. Mi fa cenno di avvicinarmi, mentre inizia a sfogliarli. Noto
immediatamente che si tratta di una deposizione abbastanza corposa.
“Qualche settimana fa,
presso la clinica psichiatrica Mary’s House, la più famosa qui in città, un
paziente è deceduto per cause ancora parzialmente da scoprire”. Profondo
sospiro del sergente, prima di proseguire. “La figlia del defunto ha deciso di
sporgere una pesante denuncia. Indignata, pensa che suo padre sia stato ucciso
dai componenti dell’equipe medica che lavora nell’edificio”.
Il sergente si ferma
ancora un attimo e chiude il fascicolo con una manata lesta.
“Fin qui le sembrerà
tutto normale. Un padre che muore solo in una clinica dalla quale non può
uscire nemmeno con la punta del naso, e una figlia che si ritrova bramosa di
vendetta. E… le dirò, si tratta solo di una caccia alle streghe”.
Ramsey tossicchia, poi
fa vistosamente cenno di assenso con la testa.
“L’uomo è morto per
cause naturali, come conferma l’autopsia. Solo che la signorina si è impuntata
sulla sua idea. Poiché non sono state finora svolte indagini approfondite, a
lei sarà affidato il compito di ascoltarla, leggere queste deposizioni e poi
fare un sopralluogo in quella clinica e controllare la cartella del paziente,
per essere certi che sia tutto in perfetto ordine. E quando ciò sarà accertato
e constatato, con la sua calma lei inviterà la signorina a mettersi a sedere e
a bere un tè mentre le spiega che non c’è nulla che non va, e che suo padre è
morto anziano e solo perché i suoi disturbi si erano aggravati così tanto da
spingerlo a compiere follie pretenziose, di quelle che portano alla morte”.
Lo sceriffo di contea
allora mi allunga il fascicolo e fa sì che lo stringa bene tra le mani, prima
di lasciarlo.
“Ricordi che si parla
comunque della morte di un ex senatore. È per questo che la stiamo mobilitando,
agente Barley” conclude. Mi stringe la mano con professionalità, poi saluta
Ramsey e se ne va, lasciandomi frastornato e perplesso.
“Quindi dovrei calmare
questa signorina solo perché è ricca e suo padre è un ex politico?” chiedo, una
volta rimasto solo con il mio superiore locale. So di aver sbagliato a parlare
così, ma non so stare zitto quando le cose mi restano sulla punta della lingua.
Mi sento umiliato, in un certo senso.
Ramsey infatti mi
riserva un’occhiataccia e mi mette a tacere subito.
“Non si lamenti,
finalmente ha la scusa buona per non annoiarsi tra scartoffie e traffico da
dirigere” affonda il dito nella piaga, senza alcuna pietà, “e si tenga stretto
questo caso inutile, prima che glielo tolga”.
Resto in silenzio,
ammutolito.
“Ricordi anche che
questa sarà la sua ultima occasione per compiacere e onorare il suo lungo
servizio. E anche per avere un distintivo suo…”, con non celato astio, Ramsey
mi allunga quello che un tempo era stato il mio desiderio più recondito.
Distintivo da sfoggiare e diversi documenti che contengono alcuni permessi
speciali. All’improvviso, proprio quando non me l’aspettavo più, anche a me è
stata offerta l’occasione per essere qualcosa di più di un semplicissimo agente
di quartiere.
Per questo non replico
nulla, mi lascio scivolare tutto addosso. In fondo ho ottenuto ciò che ho più
desiderato durante la mia intera carriera.
Mi riprometto di tenere
la bocca chiusa e di obbedire; mi sento come onorato di poter svolgere un ruolo
delicato e più complesso rispetto a ciò che ho affrontato finora, seppur la
faccenda mi puzzi abbastanza.
Devo sapermi
accontentare.
Una malattia, come G è stato per me. E’ questo che penso non
appena un’automobile sfreccia a mio fianco e interrompe il mio continuo
rimuginare.
Non mi ero mai accorto di quanto fossi omosessuale, prima di
incontrarlo. E, come c’era da aspettarsi, si è rivelato una delusione
celestiale.
Ma davvero, poi? O anche questo è frutto della mia fantasia?
Che testa del cazzo che mi porto in giro sulle spalle, mannaggia.
G è la persona che non ti aspetteresti mai. Non sono un tipo
sociale e non mi importa di restare ai margini dell’umanità; è così da quando
sono nato, me ne sono fatto una dannata ragione. Non temo più la solitudine, o
per lo meno non la temo più come prima, quando ero più giovane e lo sconforto
costante mi spingeva a fumare quel tabacco amaro che mi rendeva la bocca amara
e l’alito pesante.
G non fuma, è un uomo distinto e dall’apparenza cordiale.
Forse fin troppo, dato che ha conquistato il cuore di tanti. E di tante, penso.
L’uomo più sociale e realizzato che esista, che si crogiola
nel suo lavoro e si diverte mentre lo svolge. Simpatico e accattivante,
costantemente circondato da frotte di amici che pendono dalle sue labbra.
Parla e tutti ridono, tutti lo guardano. Una stella nel mezzo
di un cielo inscurito dalla notte.
Per me, abituato alla solitudine, all’inizio era il nulla.
Persino antipatico. Siamo stati da sempre due destini destinati a non
incrociarsi mai, rette parallele che si affiancano all’infinito e corrono verso
un orizzonte ignoto.
Poi, cosa è successo? La vita è una sorpresa, ma anche una
bella merda, a volte.
Ci siamo incontrati. Quando due rette parallele si sfiorano,
ecco che può accadere l’impossibile... e, in effetti, è accaduto. Mi sono
innamorato per la prima volta nella mia vita.
Lui mi cerca. Lui mi vuole.
Troppo tardi però mi sono accorto che mi desidera solo quando
si annoia. Oppure per soldi.
Adesso beve, e beve tanto; la bottiglia di birra sempre tra
le mani. Ha la memoria che dura una frazione di secondo, forse anche meno. La
barba gli si è allungata e ingrigita, ha perso i suoi anni migliori e quello
charme che mi aveva fatto capitolare al suo cospetto.
Ora G è pronto a tornare nel dimenticatoio, tra le tante
persone che non meritavano nulla di me. Nemmeno un pensiero. E pensare che
all’inizio lo pensavo sempre, immaginando che facesse lo stesso nei miei
confronti.
Invece no, a lui sono sempre importati i soldi e quello che
potevo dargli. Sì, nulla di romantico, solo la materia.
Benvenuti nella società capitalista, eh.
“I bengalini”.
Sobbalzo improvvisamente. Durante il mio cammino, non mi sono
accorto che in effetti lui è presente e mi ha già affiancato.
“Co… come?” quasi balbetto, preso un po’ alla sprovvista. G,
colui che ho amato tanto da desiderare di dedicargli la mia intera esistenza,
alza la mano destra in cenno di saluto. O vuole un cinque? Ah, cazzo, non ho
sei anni! Il cinque non glielo do, se è quello che vuole.
Tengo ben strette le mani alla cintola e ignoro la sua mossa.
“Come vanno i bengalini, allora? Mister?”
Mister. Da millenni ci conosciamo e mi chiama ancora Mister.
Ma porca vacca.
“Bene” taglio corto. Faccio
per svignarmela ma lui mi blocca, perentorio nel parlare.
“Non sono aumentati di numero?”
Mi chiede questo. La stessa domanda che mi ha fatto solo
qualche giorno fa. O forse ieri.
Chi se lo ricorda?
Pare che ogni volta che mi vede escogiti il Metodo Bengalini per intortarmi
amabilmente. In verità so che a lui fanno gola, tutto qui.
“Da ieri a oggi ci vorrebbe un miracolo, sai. Tipo la
moltiplicazione dei pani”.
Sono serio ma lui sorride e le labbra si increspano sotto la
barba.
“Non sei ancora diventato un Cristo, allora”.
“Non penso”.
Sempre serio.
Allora G si sbottona e ride.
“Sei forte, ragazzone”.
Sì, sono il suo ragazzone. Una volta avrei voluto essere
qualcosa di più, ma adesso che è invecchiato e sembra che non abbia nemmeno più
il dono della memoria, tra alcol ed eccessi vari, non ha più alcun senso. Ha un
corpo ancora da mille e una notte, però la testa ha perso tanto. Tipo una
bellissima bottiglia di spumante, che presso le feste invita a sorseggiare, ma
una volta che te la porti alle labbra scopri che dentro c’è solo aria. E ti
viene da tirare giù il mondo.
Ho creduto, fino a qualche mese fa, che facesse il cretino
per non pagare la tassa, non so se mi spiego. Invece credo che non ci arrivi
proprio, ora che lo sto analizzando per bene.
“Sono forte in tutti i sensi” ribatto, dopo un breve
tentennamento. Penso sempre un po’ troppo.
Con una leggera goffaggine iniziale, alzo le braccia e gli
mostro i muscoli ben sviluppati.
“Ragazzone” ribadisce G, allora.
“Vai con Dio, amico” dico allora, scoraggiato.
Gli do le spalle e faccio per andarmene, schivo come sempre.
Schivo come se fossi maleducato, anche se lo faccio per evitare di mostrare la
mia timidezza; sto arrossendo a una velocità impressionante e non voglio che
veda le mie gote imporporate, così come non gradisco che le notino gli altri.
Preferisco insabbiare tutto quanto, piuttosto che mostrarmi fragile, buono e
vulnerabile.
Perché sotto sotto sono buono, vero? Lo sono?
“E quindi, i bengalini…” fa per ribattere, senza mollare la
presa, “…vorrei comprarli anch’io, li sto cercando…”.
Ma vattene a fanculo, G! So che mi intorti solo perché vuoi
che ti dia i miei bengalini. E potrei anche regalarteli, sai? Ma sei solo una
testa di cazzo, un coglione.
Mi allontano da lui in fretta, non voglio ascoltarlo, ogni
sua parola è per me una coltellata. Io che mi illudevo che mi amasse… invece
voleva solo scroccare qualcosa.
In fondo, lui e S non sono poi così tanto diversi, solo che
il secondo arraffa e poi sparisce, per tornare a saccheggiare quando gli va,
mentre il primo non impari mai davvero a capire cosa vuole. So solo che ogni
volta si strappa una parte di me e se la porta via.
Di S non mi frega niente, è solo un malato. G è il fascino
fisico reso nel migliore dei modi. E, quasi incredibile da ammettere, ora che
mi sto allontanando mi verrebbe voglia di riavvicinarlo.
Dio me ne scampi. Devo fuggire, fuggire da lui… il più
lontano possibile.
Forse sarebbe meglio che fuggissi anche dalla vita, ma credo
questo sia un altro discorso, più barbaro e insolente.
NOTA DELL’AUTORE
Alex è un vorticare di rabbia, alla fine. Ecco che qui, di
nuovo, mi ritrovo a detestarlo. Mi sta su, decisamente.
L’incredibile è che quando scrivo lo faccio e via. Alex è un
fiume in piena, i suoi pensieri si collegano con una facilità che ritengo
davvero incredibile. Perché ci metto seicento anni a scrivere una sola frase
per altri racconti, ma in quelli dove c’è questo qui ecco che viene naturale.
Boh, forse sono un mostro rabbioso anche io, in fondo.
Scusatemi, queste note le ho scritte dopo la rilettura. Sono
capitoli che ho scritto mesi e mesi fa e rileggo poco prima di voi. Alla fine
leggiamo assieme, perché durante la battitura, come mio solito, non mi rendo
tanto conto di ciò che salta fuori, scrivo e basta.
Grazie per essere ancora qui, vi voglio bene. Siete tutti
fantastici!
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Capitolo 5 *** Capitolo cinque ***
Capitolo cinque
CAPITOLO CINQUE
“Dubitate di tutto,
ma non dubitate mai di
voi stessi”.
André Gide.
“Nessuno può farti
sentire inferiore
senza il tuo consenso”.
Eleanor Roosevelt.
“Agente speciale James
Barley” rispondo al citofono, per la prima volta attribuendomi quel pizzico di
potere in più che mi è stato affidato solo questa stessa mattina.
Non ho avuto difficoltà
a trovare la villa della figlia dell’ex senatore, che tra l’altro era stata di
suo padre, prima che lo internassero.
Villa Stradford è
circondata da un grande bosco, che la circonda e ne protegge le mura. Tuttavia
la proprietà si nota già da discreta distanza, quando le rade ma ordinate case
della periferia di Columbus all’improvviso si interrompono per lasciare spazio
alla selva.
L’imponente cancello mi
sovrasta e un paio di cervi in bronzo sembrano studiarmi, mentre una vocina
stridula e distante mi invita ad accedere.
Quando i battenti si
spalancano e il cancello si divide in due parti uguali per farmi entrare,
quelle statue non mi sembrano nemmeno più così intimidatorie.
Guido la volante con
sicurezza lungo il tortuoso sentiero ghiaiato che porta a una residenza di
stampo ottocentesco.
Quando giungo al
cospetto della grande villa, un signore vestito da domestico mi attende a mani
incrociate all’altezza del basso ventre proprio di fronte all’ingresso. Ecco,
adesso inizio a sentirmi in soggezione. Non sono mai stato abituato a certi
stili di vita; per carità, ho sempre ben saputo che certi politici vivono in
modo sfarzoso, ma io nella mia umiltà non sono mai venuto a contatto con tali
realtà.
Il signore in mise si
avvicina a me, lentamente, in modo posato. Allunga una mano guantata non appena
lo raggiungo, andandogli incontro.
“Salve, agente” saluta,
rispettoso, “sono il maggiordomo di villa Stradford. La signorina mi ha
ordinato di condurla da lei immediatamente”.
“E’ proprio ciò per cui
sono venuto fin qui. Parlarle, appunto” specifico, un po’ in imbarazzo. Il
maggiordomo allora scioglie il contatto tra le nostre mani e sorride con fare
accomodante.
“Prego, allora; mi
segua”.
Mi fa strada,
conducendomi all’interno della villa. Le pareti del largo corridoio d’ingresso
sono tappezzate da bellissimi quadri, di certo pezzi d’antiquariato, poiché
alcuni sono in uno stile ormai superato. Almeno secondo me.
Visi e volti si
susseguono in queste opere retrò, mi sembra per un istante di essere
all’interno di un film d’altri tempi. Nemmeno mi accorgo quando il maggiordomo
si blocca, quasi gli finisco addosso.
“Prego” dice,
indicandomi una stanza dalla porta spalancata. La padrona di casa evidentemente
ha scelto di ricevermi il più vicino possibile alla porta d’ingresso.
Varco la soglia con un
paio di toc-toc sulla porta, per avvisare il mio accesso, ma qualcuno già mi
attende; la signorina Stradford è in piedi e mi fissa immediatamente con
un’attenzione che mi mette subito in imbarazzo.
A mia volta osservo i
suoi lineamenti dolci, la pelle candida e fresca, senza nemmeno una ruga. Il
volto è contornato da dei bellissimi capelli mossi e biondi, gli occhi castani
ma profondissimi. Dev’essere sui trenta,
massimo trentacinque anni, e mi ricorda molto mia moglie quando era più
giovane.
“Agente speciale James
Barley” mi presento d’istinto, rompendo il ghiaccio.
La donna a sua volta si
scioglie e mi si avvicina, stringendomi la mano.
“Agente, ben saprà chi
sono io, quindi bando ai convenevoli. Non voglio più perdere tempo, mio padre
aspetta che gli venga restituito almeno l’onore” dice lei, categorica. La sua
voce cristallina risuona tutt’attorno, quasi fosse un’eco di alta montagna.
Mi fa cenno di sedermi,
indicandomi le poltroncine che circondano un tavolino antico ma ben restaurato,
poi si siede a sua volta proprio di fronte a me. Solo il mobile a separarci.
“Da quando mio padre è
stato internato, la mia vita è diventata un inferno. Gli affari di famiglia
vanno bene e i soldi non mancano, ma non ho più voglia di fare nulla e tutto
sta andando in malora, pure il giardino” inizia a raccontare senza che io le
abbia chiesto niente, con un modo ferito e quasi rancoroso. Mi sento in dovere
di arginarla, poiché le cose non sono iniziate nel migliore dei modi.
“Signorina, mi conceda”
la interrompo, cercando di essere il più cortese possibile, “di certo ciò non è
accaduto a causa mia. Sono qui infatti per ascoltarla e per esserle d’aiuto,
quindi magari proceda per ordine e mi dia la sua versione dei fatti”.
Lei mi riserva una
mezza occhiataccia, prima di indicare il corposo fascicolo che ho appena
appoggiato sul tavolino.
“Le mie deposizioni le
avete già, quindi non capisco perché devo ripetere tutto dall’inizio. Sono
certa che lei ha letto ciò che i suoi superiori le hanno consegnato”.
Annuisco.
“E allora non ho altro
da dirle, sa? Indaghi e torni con la verità”.
“Rappresento le Forze
dell’Ordine, ora, signorina. Non le concedo di parlami in questo modo, o di
liquidarmi. Lei ha chiesto aiuto, e ciò le è stato offerto; non lo rifiuti
così” mi spiego, cercando di apparire autoritario. È vero quel che Ramsey mi ha
detto qualche ora prima, poiché la mia trentennale esperienza mi sta aiutando
molto.
La Stradford è una persona
distrutta e nervosa, non vuole nessuno tra i piedi. Il mio compito principale è
quello di ascoltarla di nuovo, quindi devo portare una pazienza che forse uno
spocchioso novellino non avrebbe.
“Mio padre è stato
ucciso, cosa dovrei dirle di più?” insiste.
“Me ne parli. Se lei
accusa, avrà i suoi motivi”.
Sospira.
“L’ho già detto e
ripetuto tante volte. Lui era un uomo davvero per bene, con delle idee e dei
valori sani. È stato il mio pilastro. Poi, all’improvviso, una sera non è
tornato a casa; i suoi colleghi senatori hanno dichiarato che ha dato di matto,
ha perso il senno durante un’udienza” si interrompe un attimo per asciugarsi
una lacrima.
“Sarebbe poi svenuto,
per poi essere portato all’ospedale da un’ambulanza. Tutto questo senza che mi
venisse detto niente, ho scoperto questa storia solo dopo le mie personali
ricerche, quando mio padre era già stato internato. Si rende conto, agente? Mio
padre, un onorevole senatore di Stato, anziano e stabile di mente,
all’improvviso dopo un breve ricovero in ospedale viene internato presso un
manicomio di cui nemmeno sapevo l’esistenza”.
Non faccio una piega,
mentre ascolto. Ramsey mi ha avvisato sul fatto che la donna potrebbe avere
ricordi molto confusi, poiché per lei è stato un vero trauma perdere il padre.
In realtà, da quel che
traspare dal fascicolo, a seguito delle primissime indagini svolte dagli agenti
che hanno raccolto gli indizi, pare chiaro che i colleghi del senatore ne
denuncino l’instabilità mentale. Da qualche tempo infatti pareva che l’uomo
fosse irritabile, intrattabile e aggressivo. Poi, la crisi finale l’ha dio
certo spezzato.
Il breve ricovero in
ospedale era durato pochissimo, poiché non appena si era ripreso dallo
svenimento era diventato ingestibile, talmente tanto da richiedere l’aiuto
immediato di personale specializzato. L’anziano senatore era quindi andato
totalmente giù di testa e nessuno poteva più contenerlo, se non una clinica.
Tuttavia era vero che nessuno
si era preso la briga di contattare la figlia, tutti accusando il fatto che non
ci avessero pensato, e che a breve la clinica psichiatrica se ne sarebbe
comunque incaricata.
“Ed è morto in quel
manicomio poco dopo il suo arrivo. Se ne rende conto, agente? Una persona sana,
perfettamente stabile e in forma, che all’improvviso finisce in ospedale, poi
in clinica psichiatrica, e poi muore in modo a mio avviso misterioso. Cosa
dovrei pensare? Che sia tutto a posto?”
Finito il suo sfogo,
non mi faccio spaventare dalle lacrime che solcano il volto ancora giovane
della mia interlocutrice.
“Ha avuto modo di
parlare a suo padre, o anche solo di vederlo, dopo che era giunto in clinica?”
le chiedo. La Stradford scuote il capo.
“No. Non me l’hanno
permesso. Non volevano che vedessi ciò che gli stavano facendo”.
Dalle prime
testimonianze da me lette, invece, risulta che lei l’avesse incontrato in
clinica e che fosse rimasta sconvolta dal suo stato. Resto quindi impassibile
al cospetto delle varie contraddizioni.
“E secondo lei cosa gli
stavano facendo?” vado al punto, glissando sulle prove raccolte, con il solo
scopo di non farla innervosire. Ora si è aperta, sento che può parlare
liberamente. Ma che sia impazzita anche lei?
“Aveva pestato i calli
a qualcuno di grosso. Non me ne ha mai parlato, per non tirarmi in mezzo, ma so
che qualcosa non andava. Ultimamente tornava a casa sempre imbronciato,
qualcosa non stava andando bene”.
“Allora suo padre
mostrava qualche cambiamento caratteriale…”. Non riesco a formulare la domanda
poiché la donna mi interrompe.
“Sì, ma non nel senso
di pazzo. Semplicemente, stava affrontando un periodo particolarmente
stressante, soprattutto per un uomo integerrimo della sua età”.
“Capisco” le concedo,
“credo che per ora abbia sentito abbastanza. Mi recherò presso la clinica per
proseguire sul posto le indagini e raccogliere altre testimonianze”.
“Le mentiranno. È un
covo di vipere, stia attento”.
“So come difendermi”.
Mi alzo dalla
poltroncina e avverto la schiena umida. Non è stata una conversazione
piacevole, la nostra. La signora mi fa impressione, ma anche tenerezza, poiché
la sua estrema sofferenza si nota in modo evidente.
“Allora la prego di far
luce sulla verità. Mi fido di lei, mi ripongo nelle sue mani” mi dice,
finalmente con tono gentile e commosso.
È il mio momento per
sciogliermi.
“Farò il possibile”
rispondo nel modo più professionale.
“Ne sono convinta” poi
mi sorride per la prima volta, “comunque io mi chiamo Angelina. Mi tenga
aggiornata sul caso, se può, la prego”.
Annuisco e torno a
stringerle la mano, prima di accomiatarmi.
Prima di andarmene,
provo a porre qualche domanda al maggiordomo, che mi conduce pazientemente alla
macchina. Tuttavia offre risposte ancora più blande della signorina. Niente che
mi sia utile.
A quanto pare non
parlava mai con il suo anziano datore di lavoro, che rientrava sempre tardi ed
era puntualmente nervoso, desiderando di non essere disturbato in alcun modo. La
servitù doveva essere silenziosa e molto discreta quando era in casa.
Alla luce di tutto ciò,
penso che in fondo potrebbe veramente essere impazzito, questo signore.
Mentre metto in moto
l’auto, per un attimo mi sento osservato, ma credo sia solo la soggezione che
questo posto mi imprime.
Sogno ancora un futuro migliore per l’umanità, ma con la
certezza di non farne parte. Le pecore come me si limitano a belare nei recinti
che la società impone, non fanno nulla per cambiare le cose.
Così come io sono crollato con facilità sotto il peso di un
affascinante ma micidiale G, figuriamoci se riuscirò a fare qualcosa di buono
per tutti. Per il mondo.
Mentre cammino spedito, un ricordo riaffiora nella mia mente;
riguarda un signore che ho conosciuto superficialmente per un po’ di tempo, di
quelli simili a un antico filosofo greco. Della serie barba bianca e fare
sapiente.
Egli una volta mi fece festa, rivedendomi dopo un periodo in
cui le nostre vite non si erano incrociate più. Mi chiese subito come stesse
andando, se era tutto a posto.
Ed io, sorridendo, gli dissi semplicemente; le solite cose.
Egli rispose al mio sorriso e bonariamente mi disse, lo
ricordo ancora come fosse adesso; ma ragazzo mio, cosa pensi? Che fare qualcosa
sia solo costruire un grattacielo? Oppure essere un supereroe? Sono quelle che
tu definisci le solite cose a rendere grande un uomo, nei valori e nella mente.
Con le solite cose, se corrette verso il prossimo e verso te stesso e il mondo
circostante, puoi seminare il bene ed essere la felicità per i cuori.
Queste parole me le ricordo ancora in maniera chiara perché
mi colpirono molto sul momento e ancora mi fanno riflettere. Io che non mi
sento nessuno, che sono una nullità… perché mio padre dice sempre che non
faccio niente, non sono come i figli degli altri che compiono grandi studi
all’estero e che un giorno faranno grandi cose.
Io, nel mio piccolo, quindi, posso essere alla pari degli
altri? Di coloro che hanno un grande futuro di fronte a sé?
Quell’uomo anziano ha lasciato un seme dentro di me, che
germoglia pian piano. Da quel momento in poi ho sempre saputo dare risposta a
questi miei ultimi interrogativi, poiché… è assolutamente vero, e va ricordato,
che la nostra vita vale sia nelle piccole e sia nelle grandi cose.
Non è una impresa eroica o una rapida e prestigiosa carriera
a rendere un uomo amato ed eterno. Non è lo scalatore sociale l’unico a
lasciare un segno nel mondo. Magari chi più si espone più ha probabilità di
restare impresso nei libri di Storia, ma sono i tanti piccini a creare una
società, a mutarne le forme, i colori, i desideri, e persino le religioni.
Io sarò una pecora e per sempre mangerò in silenzio quel
foraggio che i prestigiosi pastori mi offrono; starò zitto e muto affinché non
mi mandino fuori dal gruppo, per poi essere sbranato dai lupi. La mia vita da
ovino sottomesso quindi mi dovrà bastare in eterno.
Ma, nel mio piccolo, inizio a essere consapevole di essere al
pari degli altri, o per lo meno di tanti altri, non potendolo essere di tutti.
Il mondo dei social mi ha lasciato capire facilmente la mia
diversità.
Sono uno sfigato e un like non me lo merito in alcun modo. Se
accedo e scrivo a qualcuno, manco mi risponde. Perché? Perché sono uno sfigato,
ovvio; non sono nessuno.
La tettona mette la foto con i capezzoli inturgiditi? Wow,
mille like.
L’idiota posta il selfie mentre sniffa? Duemila like subito.
Alex posta una foto intanto che fa il suo lavoro? Viene
cagato zero.
La gnocca di turno ha infinite richieste d’amicizia mentre
Alex se ne fa una lo bloccano, oppure lo accettano per qualche giorno giusto
per frugare nel suo profilo e sfotterlo.
È incredibile come basti fare una cazzata per essere adorato,
oppure avere un corpo bello. È facile per la nostra società materialista essere
superficiali e basarci solo sull’apparenza; ciò che fa figo lo giudichiamo solo
tramite le tendenze dei vip del momento, senza pensare a ciò che conta davvero
nella vita.
Comunque ciao a tutti, sono Alex la pecora, bruco l’erba, sto
zitto, metto mi piace ai fighi e me ne sto solo, consapevole che non valgo una
minchia; e so qual è il colmo… che se anche pubblicassi il post più bello del
mondo, anche solo con una frase profonda e intelligente, non sarebbe cagata lo
stesso.
Viva quindi la materia e la superficialità.
Ma in fondo non è forse questo il motivo per cui i social
esistono, in un certo senso? E allora metto il cuore in pace e continuo
serenamente la mia vita, con un semplice sorriso che non sarà mai immortalato
in una foto da pubblicare, che farebbe schifo a tutti; il mio sorriso, la mia
gioia del momento, le tengo per me.
Solo per me, perché in fondo solo io posso capirmi per
davvero, e credo che sia questo quello che conta alla fine.
NOTA DELL’AUTORE
Niente da aggiungere, questa volta xD Alex è un fiume in
piena…
Grazie a tutti voi per essere qui ^^
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Capitolo 6 *** Capitolo sei ***
Capitolo sei
CAPITOLO SEI
“Se dici sempre la
verità,
non devi ricordare
nulla”.
Mark Twain.
Decido di recarmi, per
prima cosa, presso il Mary’s House. Forse sbagliando, poiché sarebbe stato
meglio andare all’ospedale, però devo seguire le raccomandazioni dei miei
superiori, che mi chiedono indagini rapide per archiviare il caso.
La signorina mi ha
scosso, devo proprio dirlo. Tutto è contro di lei, ogni testimonianza e prova,
eppure crede così fermamente in quello che dice… ma in fondo anche se mi duole
pensarlo in tanti si comportano così. È il dolore che rende instabili e
inaciditi, e che può spingere a cercare una causa precisa anche quando essa non
esiste.
La clinica
psichiatrica, a primo impatto, mi sembra un posto davvero accogliente, per lo
meno se vista dall’esterno; è circondata da un ampio giardino e l’edificio è
ben curato. I vetri sono oscurati e non si vede nulla di ciò che accade dentro,
donando un discreto senso di riservatezza.
Suono al campanello e
immediatamente un’infermiera accorre ad aprirmi.
“Buongiorno” sorride,
ma poi nota la mia divisa e il distintivo che le mostro. “Come posso esserle
d’aiuto?” mi chiede, diventando serissima.
“Sono qui per il caso
riguardante il senatore Stradford”.
“Certo, capisco”
annuisce con convinzione, non dev’essere la prima volta che fa entrare un
agente per questo caso. Si affretta a controllare il tablet che stringe tra le
mani.
“Chiedo ai medici che
hanno seguito il signor Stradford e le faccio sapere appena possono riceverla.
Intanto si accomodi pure”.
La donna mi fa cenno di
seguirla all’interno.
Varcando l’ampia
soglia, vengo avvolto dall’odore di disinfettante e di pulito. Nella clinica
regna l’ordine più assoluto.
“Posso chiederle se lei
ha mai conosciuto questo paziente?” domando all’infermiera, prima che possa
sfuggirmi dalle mani.
“L’ho solo visto una
volta, da lontano. Qui c’è stato per poco, purtroppo” risponde, molto evasiva,
poi mi fa cenno di sedermi da qualche parte nell’ampio ingresso. “Si accomodi,
tra poco psichiatri, medici e direttrice saranno a sua completa disposizione”.
E così dicendo si allontana.
L’infermiera è stata di
parola, poiché pochi minuti dopo un uomo di mezza età e in camice bianco mi
viene incontro.
“Si accomodi pure,
agente” mi dice, facendo di nuovo cenno verso le poltroncine che mi circondano,
ma essendo interiormente agitato ho preferito non usufruirne. Tuttavia, per non
mostrare le mie insicurezze, mi accomodo di fronte all’uomo.
Egli non mi toglie gli
occhi di dosso per un istante, prima di iniziare a raccontare da solo.
“Abbiamo ricevuto molte
visite da parte della polizia, di recente. Ahimè, non abbiamo molto da
aggiungere alle precedenti deposizioni” afferma.
“Si presenti, per
favore” lo invito.
“Dottor Jonathan Zayne,
medico di medicina generale. Sono io che ho visto e visitato per prima
l’onorevole senatore” si presenta, mentre a mia volta gli mostro il distintivo,
per correttezza.
“Bene, dottore, mi
parli di questo famoso paziente, allora…”.
Il medico inizia a
raccontare con evidente noia tutta la manfrina che viene riportata anche nei
fascicoli che ho letto, senza alcuna variazione. Ancora una volta narra del
senatore confuso, giunto dall’ospedale dopo una scenata da brivido. L’anziano
mostrava tremolii, salivazione accentuata, ragionamenti talmente gravi e
aggressivi da richiedere subito un intervento specializzato.
“Perché non ne avete
parlato alla figlia?” lo interrompo a un certo punto, iniziando ad annoiarmi a
mia volta.
“L’avremmo fatto il
prima possibile”.
“Non mi risulta. Erano
trascorse diverse ore dal ricovero del paziente e ancora non era trapelato
nulla…”.
A questo punto il
medico inizia a dimostrarsi insofferente. Sul suo viso balenano in pochi attimi
tutte le smorfie più innervosite che esistono.
“L’avremmo fatto il
prima possibile” ripete e ribadisce con un moto di nervosismo. Sono convinto
che il dottore stia iniziando a crollare; continuo a notare come stia perdendo
gradualmente le staffe al cospetto delle mie insistenze e come forzandolo inizi
anche a ripetere le stesse frasi e a fornire le stesse risposte. Non vuole
parlare e a sua volta cerca di mantenersi sul terreno sicuro che ha battuto
finora.
“Va bene, questo l’ho
capito” insisto ancora, imperterrito, “però, ecco, questo lasso di tempo…
ragguardevole” e calco sull’ultima parola, “non è normale. Come non è normale
internare una persona in questo modo e vederla morire dopo poco”.
L’interrogatorio
informale si sta protraendo con risultati non proprio ottimali da ambo le
parti. Zayne resta zitto, si sfiora lentamente la fronte e sembra riflettere su
cosa dire. Chissà cosa gli frulla per la mente, poiché è tornato a mostrarsi
imperturbabile.
A frantumare il
confronto verbale, tuttavia, è l’arrivo di un altro signore di mezza età in
camice bianco.
“Agente, eccomi” saluta,
sorridendo. Il suo arrivo è provvidenziale per l’altro medico, che sembra
sciogliersi e si alza.
“Non ho altro da
aggiungere, agente Barley; ho detto e ripetuto tutto quello che so e quello che
c’è da dire. Devo tornare dai miei pazienti ora, il dovere chiama”.
Mi ritrovo a lasciarlo
andare, mentre il secondo tizio occupa la sua postazione appena lasciata libera
e inizia a parlare a ruota libera. Si presenta; dottor Jack Morrow,
psicoanalista.
Pare un libro aperto e
non mi lascia nemmeno il tempo per fare domande, poiché ripete a pappagallo ciò
che ha ribadito nelle precedenti deposizioni. Nulla cambia, nemmeno di una
virgola. Lui e il collega di medicina generale sembrano gemelli siamesi, persone
che hanno vissuto le stesse esperienze e avuto le stesse impressioni a riguardo
del paziente Stradford.
In ambito
professionale, ripete continuamente che l’anziano si era mostrato subito molto
turbato e più che mai deciso a farla finita. A nulla erano servite le
precauzioni della struttura.
“Non ho voluto
sottoporlo immediatamente a un trattamento che avrebbe potuto rivelarsi
invalidante. Ho preferito ascoltarlo, ma non c’è stato appunto il tempo
materiale per fare altro” continua a dirmi.
“Va bene, ho capito”
annuisco infine, tra l’annoiato e lo spazientito, “quindi anche lei non ha
altro da aggiungere alle precedenti deposizioni”.
“Spiacente. No”.
È il mio turno di
passarmi la mano destra sulla fronte. Quasi quasi mi ritrovo a desiderare di
tornare a visionare le scene del crimine dei piccoli furti di quartiere,
consapevole che presto ci tornerò se andrà avanti così. È come avere a che fare
con un muro altissimo.
Morrow mi lascia solo,
e poco dopo una distinta signora avanza verso di me. E’ molto seria, e anche se
non ha un’espressione apertamente ostile, la noto comunque un po’ scocciata.
“Agente, siamo stati
tutti cordiali e a sua completa disposizione, ma deve anche concederci di fare
il nostro lavoro, non crede?” poi mi porge la mano, presentandosi come la
direttrice della clinica, e si siede.
“Ed io devo fare il
mio, signora” le concedo.
Sorride.
Colei che si è
presentata come la direttrice Ellie Watford è una signora sulla cinquantina,
alta e dotata di un bel fisico. Elegante nei modi e nel vestire, ma allo stesso
tempo molto seria nel parlare. A prima vista, tuttavia, non mi ispira fiducia;
credo che l’antipatia, tuttavia, sia reciproca.
Sbuffa e si scosta i
capelli ricci e tinti che le scendono sul viso solcato da leggere rughe.
“Il suo lavoro l’ha
fatto, per questa mattina. Non abbiamo altro da dirle” replica a muso duro. Di
pietra, penso.
“Non sta a lei dirmi
cosa devo fare. Si ricordi che rappresento le Forze dell’Ordine”.
Ancora non fa una
piega.
“Lo so bene. Ma poiché
non siamo nell’epoca d’oro dell’inquisizione, le garantisco che non può
estrapolare altro da questi colloqui, quindi lasci perdere, per favore. Da
parte mia, quel paziente manco l’ho visto, dal tanto che è accaduto tutto in
fretta”.
Chiara, di poche
parole, cristallina nell’affrontare i concetti. Brutale, quasi, nella loro
esposizione.
“Vorrà dire che per
oggi la finiamo qui” sono costretto a cedere, alla fine, mentre mi sento sempre
più a disagio, “ma c’è caso che mi rivedrete, prima o poi. Il mio lavoro è far
chiarezza sui fatti accaduti, e nel caso di qualche lacuna, be’, non esiterò a
tornare”.
“La porta è sempre
aperta per lei e per i suoi colleghi, agente. Non abbiamo nulla da nascondere,
torni quando vuole”.
Vittoriosa, la
direttrice può permettersi di mostrarsi anche mediocre. Ho capito che vuole che
levi le tende una volta per tutte.
Non ho il tempo per
raccogliere le idee, poiché desidero solo uscire da quel posto e respirare un
po’ d’aria fresca.
Le stringo di nuovo la
mano e mi accomiato così tanto in fretta che mi ritrovo a urtare un uomo che
cammina nella direzione contraria alla mia, verso la signora ancora che si è
appena alzata per tornarsene probabilmente nel suo ufficio.
“Ops” borbotto,
scusandomi con lo sconosciuto, un signore vestito in modo formale. Egli mi
rivolge un rapido sorrisetto, prima di darmi le spalle e proseguire. Che gente
strana in questo posto!
Abbandono la clinica
con un po’ di imbarazzo sulle spalle, ma anche con la convinzione che presto
tornerò, poiché sento che c’è qualcosa di ancora non detto nonostante le
dichiarazioni concordanti, eppure allo stesso tempo così evasive.
La mia vita è una lunga attesa. Avete presente quando vi ho
parlato della stazione, dove di tanto in tanto qualche razziatore si reca per
prendere su qualcosa? Ebbene, io sono sempre seduto su quella panchina.
Anzi, mi correggo e mi scuso; su quella cazzo di panchina.
Mi piace sottolinearlo perché nella mia inutilità
esistenziale sono rimasto immobile, sono una larva che non rompe la crisalide e
se ne sta lì, a sfidare il tempo, ma con la consapevolezza di aver perso in
partenza quella battaglia. In fondo è come combattere contro i mulini a vento,
suvvia; tutti noi sappiamo che il tempo scorre comunque, e possiamo provare a
prenderlo in giro, o anche a fargli sonore pernacchie, ma alla fine sarà lui ad
averla vinta, dannato fiume implacabile.
So che mi ritroverò qui seduto ancora quando avrò i capelli
bianchi, magari questa panchina sarà pure il mio letto di morte, poiché il mio
treno, l’unico treno che desidero aspettare, da qui non passerà mai.
Mi hanno detto in tanti che sono troppo disilluso, e che un
giorno io mi sbloccherò. Niente di più falso, mi conosco troppo bene. Morirò
qui, crisalide che non ha mai rivelato ciò che si nasconde al di sotto della
sua dura scorza protettiva.
Ora, nella mia disillusione, io ci sguazzo e poi ci muoio.
Oh, sì, mentecatto che non sono altro! Vittima dell’umanità,
anche quando desidero non farne parte. Fosse per me, applicherei la pena di
morte contro me stesso. Peccato che non ne ho la forza.
Da dove è nata l’idea di una sorta di scalinata della
solitudine? Be’, di certo dal momento in cui mi sono accorto che la solitudine
ha diversi stadi, diversi momenti e diverse situazioni.
Ha una sua precisa complessità, come ogni cosa. Perché la
solitudine in effetti è una cosa, qualcosa di oggettivo; possiamo dire che ci
sentiamo soli, e questo lo dicono davvero in tanti, ma in pochi lo sono
veramente.
Io su questa merda di panchina ci sono stato seduto mentre
tutti quanti attorno a me festeggiavano; ho passato ogni Natale qui, solo,
consapevole di non essere necessario a nessuno per stare bene. Per donare un
sorriso. Nessuno mi ha mai desiderato al suo desco, né altri hanno mai accettato
di sedersi al mio.
Ecco, adesso non andate a pensare che io, l’umile Alex, stia
esagerando; sia mai! Al massimo sto minimizzando. Non avete idea di che cosa ho
dentro. Senza nessuno che mi cerca se non per bisogno, senza amore, senza
nulla.
Mi crogiolo nella materia e per fortuna quella non manca,
eppure mi servirebbe anche un toccasana per l’animo.
Certe ferite non le può curare il silenzio o la natura, ahimè
siamo animali sociali. Allora aspetto da quando sono nato quel treno che mi
porti almeno verso una sola persona, una sola, che sappia essere il mio
pilastro. Al di là di tutto. Che mi ami semplicemente per come sono, andando
oltre ogni barriera imposta dagli altri.
Sono un diverso,
giusto? Non avere paura di me, dai. Siediti a mio fianco e chiacchieriamo un
po’, vedrai che non sono poi così malvagio. Almeno spero.
La mia vita è un delirio. Una sensazione di vuota ubriachezza
mi pervade, non importa con chi o dove sono, io sono malato di solitudine.
Imbevuto.
Sono folle, forse. Fissato, mi direbbe la mamma.
L’unica volta in vita mia in cui mi sono innamorato, e cioè
la faccenda riguardante G, mi aveva fatto sperare, credere che per me ci fosse
qualcosa in più dell’inconsistenza. Invece anche per lui alla fine sono il
niente.
È da qui che inizia la mia nuova storia, e cioè dal momento
in cui ho deciso di dare un taglio alla mia vita di un tempo, quella in cui
credevo di poter fare bene. Non posso fare bene.
La mia esistenza da condannato inizia qui. E’ la vita in cui
sono un perdente e sono consapevole di ciò, e con questa macabra consapevolezza
cercherò di ritagliarmi il mio spazio. Sì, uno spazio piccino, magari, ma pur sempre
uno spazio per me.
Nella mia infinita nullità, eh. Senza credere o pretendere
che tutto debba avere per forza un senso.
NOTA DELL’AUTORE
Forse scrissi un inizio un po’ lento. Comunque il racconto è
un flusso costante, introspettivo.
Non so ancora bene da che punto inizi l’Alex modificato, o
quanto meno io sia riuscito a lavorare su questo personaggio. Rileggendo noto
come alcuni aspetti della sua precedente personalità emergano con forza. Non è
l’uomo che ha visto morire i suoi genitori, che ha ucciso quelli adottivi, che
ha vissuto periodi di profonda solitudine e di distorsione mentale, che in
carcere ha conosciuto la droga, che poi si è sposato con Marta, l’ha tradita
più volte, poi alla fine gli stupefacenti hanno vinto su tutto. No, non è
quell’uomo, ma non è tanto distante da esso. Non so.
Boh, ho tanti dubbi sul personaggio.
Man mano si chiariranno, spero.
Detto questo, ci stiamo addentrando verso il vivo del
racconto. Piano piano, gradualmente. Spero non troppo.
Grazie a voi che siete giunti fin qui ^^
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Capitolo 7 *** Capitolo sette ***
Capitolo sette
CAPITOLO SETTE
“Chi è felice nella
solitudine,
o è una bestia
selvaggia
o un Dio”.
Aristotele.
“Come sta andando il
nuovo incarico, papà?”
Jason è sempre curioso,
ed essendo cresciuto con le serie tv poliziesche in sottofondo è davvero molto
attratto dal mio lavoro, soprattutto dai suoi recenti risvolti.
“Non c’è male” gli
mento, secco. Non mi va di scendere nei dettagli inconcludenti, d’altronde per
il momento il mio impiego non sta dando tanti frutti.
“Spero che farai un
ottimo lavoro” replica allora mio figlio minore, che si fida ciecamente delle
mie parole.
“Magari un giorno
vedrai tuo padre al telegiornale” aggiunge mia moglie, sorridente, mentre
allunga una dolce carezza al figliolo, che si ritira riluttante.
“Mamma, non sono più un
bimbo piccolo” le ricorda, sull’attenti quando gli viene riservata un po’ di
dolcezza materna. Mi viene da arrossire, all’improvviso.
“No, vostro padre sta
per ritirarsi, ragazzi. Non finirà mai in tv” affermo, conscio dei miei limiti.
Mi rivolgo anche al
silenzioso Leo, che a tavola non dice mai una parola. A volte mi chiedo da chi
abbia preso tutta quella tristezza esistenziale che si porta appresso.
Lo osservo, immerso nel
suo mutismo; a volte mi dà come l’impressione che non segua neanche i nostri
discorsi, eppure è sempre svelto nel rispondere se interloquito. Voglio
tantissimo bene ai miei figli, però il mio preferito resterà sempre lui, con
quella sua aria da personcina riservata e fragile…
Jason invece non mi
preoccupa, sono sicuro che avrà un futuro radioso di fronte a sé, con la sua
parlantina e la sua vitalità. Forse anche Leo l’avrà, anche se sta continuando a
perdere molti possibili treni.
In effetti la mia
affermazione profonda ha lasciato anche gli altri in silenzio, sembra che
nessuno abbia voglia di aggiungere qualcosa alle mie parole. È vero, lo so
bene; non sono un grande uomo, né mai lo sarò, tantomeno ora che la mia
carriera lavorativa giunge alla fine. Non sarò mai memorabile, ma per la mia
famiglia voglio essere una roccia, lo scoglio a cui aggrapparsi e in cui
riporre le migliori speranze; per loro, ci sarò sempre e sarò disposto a tutto,
a ogni sacrificio possibile, per il loro bene.
Mi alzo e mi allungo
verso i miei figli, sfiorando le loro teste con le mani.
Essi si riscuotono da
quell’innaturale torpore e non si fanno pregare, lasciandosi sfiorare dal loro
genitore.
Mia moglie si alza a
sua volta e viene ad abbracciarmi forte.
Sì, loro sono il mio
tesoro. Al diavolo tutto il resto. Vivrò nei loro cuori e questo mi basta.
Forse il mio vorticare di pensieri è generato costantemente
dal concetto di tempo e da quello di solitudine. Solo che penso che sia molto
filosofico, o che servano lucidi ragionamenti per riuscire a trarre conclusioni
quanto meno verosimili.
D’altronde la verità assoluta può conoscerla solo Dio,
sperando che esista, altrimenti sarebbe una bella fregatura.
Ma, ecco, il tempo cos’è, se non lo scandire graduale della
mia solitudine? Mi basta pensare che esiste quasi la certezza da parte degli
astrofisici che all’interno di un buco nero il tempo si fermi. Un punto in cui
il tempo non fluisce più, per via della distorsione della materia; io purtroppo
non sono un buco nero, ma se ce ne fosse uno qui vicino mi ci butterei a
capofitto, a costo di venire distorto a mia volta, magari anche distrutto.
D’altronde è tutto molto meglio che restare su questa
panchina, immobile, con un profondo silenzio che mi circonda.
Avverto il suono costante dei secondi scanditi dalle lancette
degli orologi, sinonimo del fatto che il tempo scorre e ognuno di quei secondi
è un istante di vita che mi viene sottratto. L’inevitabilità della morte.
Adesso, in tutto questo caos di pensieri, mi viene da
chiedermi se sarei disposto a desiderare per davvero che il tempo si fermi, per
vivere in eterno così.
No, forse è meglio spegnersi gradualmente, come accade per
ogni componente dell’Universo; la materia è mortale, nulla sopravvive in
eterno. Nemmeno ciò che riesce a fermare il flusso costante del tempo, che può
essere bloccato per un periodo più o meno lungo, ma pur sempre limitato.
Vorrei però avere il dono di saperlo bloccare, anche se ciò
mi farebbe più male che bene.
“Ancora, ti prego”.
La voce di Mario è soffusa, eppure allo stesso tempo profonda
e supplichevole.
Percepisco la sua brama, il peso del suo desiderio.
Ecco, se anche desiderassi di fermare il tempo, non lo vorrei
mai fare in momenti come questo.
Infatti sono tornato a casa, e me lo sono trovato di fronte
all’ingresso. I miei sono usciti, se n’era già accertato. Così adesso se ne sta
disteso a gambe larghe sul mio letto, voglioso e pieno di idee perverse.
È semplicemente fatto così; quando i sensi prendono il
sopravvento, diventa alquanto ingestibile.
Per farlo contento gli passo le mani sulle natiche, con
lentezza e delicatezza, poi però le ritraggo e mi metto a sedere sul bordo del
letto. Ho già fatto quello che dovevo fare, e adesso non ne ho più voglia.
Lui nota la mia mossa, smettendo di fare il gatto morto.
“Mi ami?”
La sua fastidiosa domanda viene posta con un tono mellifluo,
quasi sorpreso, sicuro in un certo senso di ricevere un fatidico sì.
“No” invece gli rispondo, di getto e con sincerità.
Mario si mette a sua volta a sedere sul letto, allungando le
gambe verso di me e appoggiando la schiena alla spalliera.
“Io sì, invece, e mi fa male ascoltare i tuoi no” afferma, un
po’ ferito, “perché io per te darei tutto, ma proprio tutto, eh”.
Sì sì, domani.
Non so se nota il mio sguardo scettico, che per un attimo lo
fulmina, prima di spostarsi altrove.
Mi ritrovo a guardare il suo riflesso sullo specchio, in
tutta la sua volgarità. Un uomo come lui, ricco e potente, che diventa così
piccolo senza i vestiti.
Mario ha avuto la fortuna di avere ogni cosa dalla vita; una
famiglia perfetta, un posto da dirigente presso la prestigiosa fabbrica
ereditata dal padre, una macchina da duecentomila euro e una villa da sogno. E,
come se non bastasse, pure un altisonante titolo nobiliare. Di mezza età, è
autorevole con tutti e simpatico con nessuno.
A prima vista si direbbe che non sa più amare, come molte
persone a quell’età, che hanno seppellito il loro cuore per dare la precedenza
ad altri aspetti della vita. Invece eccolo qui, spinto dall’impellente bisogno
di godere.
È nudo, i suoi abiti da parata sono a terra, sul mio umile
pavimento. Il suo corpo è adagiato con mollezza sul mio povero giaciglio, che
si porterà dietro l’odore della sua pelle per almeno un paio di ore.
Abbiamo fatto tutto, ed io mi sono impegnato per renderlo
felice almeno per un po’, sapendo bene che per lui la felicità più pura è
essere a letto con qualche ragazzo.
“Sei il giovane più bello che io abbia mai visto, Alex, tu mi
hai fatto perdere la testa” prosegue, notando l’insistenza del mio mutismo,
“anche quando sono dietro la scrivania, o quando metto in riga qualche operaio
disattento, penso a te. Conoscerti mi ha reso un uomo migliore”.
Io, invece, sono diventato peggiore.
Da quando le sue mani hanno iniziato a scivolare lungo la mia
pelle, violando gli abiti, provo sempre un brivido freddo quando lo vedo, ma
soprattutto quando si avvicina a me. Eppure lui mi vuole, ed è così tanto
bigotto da non accorgersi nemmeno che non mi ama, bensì mi sta solo
utilizzando.
Sottovaluta anche il fatto che io a mia volta lo stia
utilizzando, semplicemente perché… si assomiglia a G. A quel mio sogno che non
diverrà mai realtà.
“Pagherei per poter passare una sola notte con te. Pagherei e
venderei anche tutti i beni di mia proprietà” prosegue, imperterrito, nella
ricerca disperata di volersi dimostrare pazzo d’amore. Così tanto che mi
ritrovo a desiderare di metterci un freno.
“Smettila di dire stronzate, per favore” lo interrompo
infatti con notevole maleducazione.
Che abbia notato la mia nuova ondata di disgusto? Non lo so,
ma non mi piace proprio quando inizia a lasciarsi andare così. Perché se fosse
come dice e afferma, non avrebbe mai permesso che io restassi intrappolato
nella mia vita di merda. In quella stazione, a fare i funghi su quella panchina
che ormai mi è pure scomoda.
Se per lui contassi così tanto, mi avrebbe portato via. Mi
avrebbe salvato dall’inerzia e dalla morte d’inedia che mi attende.
Invece sono ancora qui a morire piano, lentamente.
Gli volgo le spalle e avverto il calore familiare delle
lacrime che premono con impazienza, vogliono conquistare il mio viso, rigandolo
e turbandolo.
Per fortuna, o per sfortuna, Mario si muove verso di me e
senza che io possa sottrarmi mi abbraccia con forza e mi stringe a sé, cercando
le mie labbra e premendo di nuovo la sua pelle contro la mia. Dopo la prima
sensazione impellente di allontanarlo, vedo le sue labbra e il suo profilo in
controluce, così simile al suo… al mio G. Ed ecco che un qualcosa si muove
dentro di me.
Avverto una nuova pulsione che brucia forte, così tanto che
mi spinge ad avvicinarmi a quelle labbra e a farle mie, conquistandole con la
mia lingua. Mario pare felice di tale dimostrazione e le dischiude, invitandomi
così tacitamente a far entrare il mio organo sensoriale ancora più in
profondità nel suo cavo orale.
Quando il bacio si scioglie, un sottile filo di saliva unisce
le nostre labbra. Lui la lecca, bramoso di ingoiarla, mentre io lo lascio fare
e continuo a osservarlo.
“Io posso darti tutto quello che desideri, Alex, tutto…
lavoro, case, soldi, viaggi, macchine… il mondo ai tuoi piedi… ma baciami
ancora, ti prego…” mugugna eccitato, dopo aver ingoiato il miscuglio di saliva,
“sarò il tuo genio della lampada, strofinami e ogni tuo desiderio diverrà
realtà”.
Le ultime parole mi restano impresse, mentre il resto già me
lo dimentico. In effetti è proprio così, ogni mio desiderio diverrà realtà; e
dato che per ora ne ho uno solo, irrealizzabile, quel porco mi sta offrendo
l’opportunità sul piatto d’argento. Quella anche solo d’immaginare di poter
essere con G, di poterlo baciare, di averlo tutto per me.
Forse nemmeno si accorge che, nella sua certezza di avere
tutto sotto controllo e di essere lui il vero padrone della situazione, in
realtà sta accontentando me. Appunto, perché mi sto accontentando in qualche
modo, poiché la vita non mi ha offerto altro.
Forse è vero che non esiste il punto di non ritorno e che da
ogni occasione si può far germogliare qualche seme nuovo…
Intanto lo lascio così, tra le mie braccia a mugugnare di
piacere, quell’essere tanto potente quanto fragile; si crede una divinità
quando è anch’egli uno zerbino. Forse è uno zerbino dalla stoffa più raffinata,
ma zerbino resta.
Nella mia disastrata e confusa vita, riuscirò mai a trovare
una roccia, uno scoglio a cui aggrapparmi e a cui affidarmi per poterla
scegliere come esempio di vita?
NOTA DELL’AUTORE
Vorrei buttare via questo racconto. La parte riguardante Alex
è confusa, disgustosa, a mio avviso. Però a tutto c’è una spiegazione, credo
che lo vedremo solo più avanti, ma ho la convinzione di dover aiutare questo
protagonista schietto, eppure così fragile e meschino.
Volevo andare verso nuovi orizzonti, con questo protagonista?
Eccoli, sono proprio i suoi. Circondato da pessimismo e da personaggi davvero
squallidi. In effetti, un filo di speranza non c’è. Ma… Alex capirà, prima o
poi. Perché la speranza non è distante, nemmeno qui, nemmeno in questa parte di
trama.
Mi ha sorpreso una cosa importantissima, tramite le
recensioni; che di questo racconto avete già capito molto più voi lettori di me
che l’ho scritto. Mi complimento perché già dallo scorso capitolo avrei potuto
buttare via tutto, che in fondo i vostri pareri sono andati oltre la trama,
oltre le riflessioni di base, oltre me stesso… e di questo vi ringrazio; come
sempre, siete voi a insegnare a me, tantissimo.
Grazie quindi a voi, da cui traggo forza. E spero di
migliorare ancora e di fare bene in futuro.
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Capitolo 8 *** Capitolo otto ***
Capitolo otto
CAPITOLO OTTO
“Insomma, avevo deciso
di iniziare
a rovistare nell’immondizia
del mio presente,
invece di morire di
fame in ricordo
del mio passato”.
Marco Verzè.
“Molte persone si perdono
le piccole gioie
nella speranza della
grande felicità”.
Pearl S. Buck.
Ho notato, durante il corso della mia quasi breve esistenza,
che l’errore umano più commesso è quello di… non sapersi distaccare dal
passato.
Esatto, proprio così! Ho visto tantissimi uomini e tantissime
donne rimasti tutti intrappolati nelle nebbie di anni e anni fa, quando
avrebbero potuto prendere un treno, o anche perderlo. A vivere di rimorsi. Di
paure, di dubbi, di pentimenti.
Ma quanto è elaborata la mente umana? Così tanto da riuscire
a restare intrappolata in questa tela di ragno che essa stessa crea. E come un
loop, nella nostra testolina si ripete quella stessa sequenza di immagini.
Non fraintendetemi, anche io appunto sono stato a lungo in
questa prigione… fintanto che ho notato che davanti a me si estende una
porzione infinitesimale di tempo, ma giusto sufficiente per essere definita
futuro.
E il presente, che scorre continuamente e noi non riusciamo
ad afferrarlo? Terribile.
Ho così compreso che in fondo questa ripetizione mentale è
appunto un meccanismo di protezione della nostra mente, affinché non
commettiamo mai più quel medesimo errore, piccolo o grande che sia; ma è
necessario riuscire a svicolarsi da esso, altrimenti non riusciamo più a vivere
serenamente. E il futuro ci sembra più breve, cosa non vera, come il presente
ci appare oscuro, falsato dai nostri ragionamenti ingannevoli.
Uscire dalla tela del ragno è possibile? Tante mosche nella
realtà ci riescono ogni giorno.
Tra noi, tanti ci riusciranno, ma tantissimi altri no. E non
posso far a meno di pensare continuamente a quelle persone, e anche a me
stesso, che con la mia testa non ho mai avuto un gran rapporto di fiducia.
L’importante è ricordare sempre che il passato si può
cambiare; certo, noi non abbiamo la macchina del tempo a disposizione e non
possiamo tornare indietro per cambiare un singolo evento, però possiamo fare in
modo di rendere il presente e il futuro più agevoli.
Sbagliando s’impara, è vero questo detto. Il presente è pieno
di occasioni e il futuro deve ancora offrirci tantissimo; riscattiamoci,
allora! Possiamo ancora fare bene e mettere una pietra sopra ai ricordi
pesanti.
Ci sono tanti treni ogni giorno, buttiamoci.
Non nei binari, per carità, ma a capofitto in qualche comodo
vagone. Non sarà come quella volta e non cambieremo quell’evento, ma apriremo
una nuova strada, una nuova pista; avremo una nuova occasione.
Così mi piace pensare, mentre resto immerso nella mia
costante immobilità. La mia stazione per fortuna è sempre vuota, ma al primo
treno che m’ispira fiducia, quasi quasi… salto su.
Il mattino seguente,
Ramsey chiede come stanno procedendo le indagini.
“Niente di rilevante”
rispondo.
Lui mi rivolge uno
sguardo indagatore, con tanto di sopracciglio destro inarcato.
“In che senso?”
“Nel senso che per
adesso non è emerso altro rispetto alle precedenti deposizioni”.
“Sembra anche a lei,
allora, che non ci sia altro da aggiungere alla faccenda” la sua appare come
un’affermazione, non come una domanda, “forse sarebbe giusto tornare ad
archiviare il caso”.
“Ho rimasto solo da far
visita all’ospedale dove il senatore è stato ricoverato per un paio d’ore, e
temo che, in effetti, non si possa scoprire niente di nuovo” replico, realista.
“Allora faccia del suo
meglio, agente Barley. Ma faccia anche in modo che questo caso si concluda
molto presto, se è proprio così inutile. Sa, il suo lavoro in ufficio l’attende…”
Indignato dal
comportamento del mio superiore, mi accingo a presentarmi nell’immensa
struttura ospedaliera di Columbus.
L’edificio è immenso e
si dirama per centinaia e centinaia di metri sopra e sotto terra, una sorta di
vastissimo raccoglitore per tutti gli ammalati della metropoli. Mi sento
scoraggiato e impotente al suo cospetto, consapevole che lì dentro nessuno si
ricorderà di Stradford, considerando la mole di lavoro e il via vai continuo di
degenti.
In cuor mio desidero di
scovare una nuova pista da seguire, poiché inizio a prenderci gusto, però mi
accingo anche a rassegnarmi al tornare tra mille scartoffie, a fare la figura
del vecchio babbione che ormai attende solo il pensionamento.
La mia voglia di
rivalsa e di dimostrare che valgo qualcosa continua però a cozzare contro la
consapevolezza di stare affrontando un caso praticamente chiuso. Con un
profondo sospiro, varco la grande soglia del centro ospedaliero.
Non ci capisco niente.
Qua dentro hanno ritmi
ubriacanti, la gente corre da tutte le parti; infermieri e medici con il
fiatone, persone sanguinanti o doloranti che si straziano nei lunghissimi e
ampi corridoi, in attesa di un primo e tempestivo soccorso.
Mi passo una mano sulla
fronte, mentre sono sempre più confuso.
A un certo punto cerco
di aggrapparmi a una tizia in camice blu che mi affianca all’improvviso.
“Mi scusi…”.
“Il servizio
informazioni è attivo, in fondo a destra…” tira dritto, e le sue parole mi
giungono confuse e sempre più distanti. Non ho speranze in un posto del genere.
Non appena riesco a
risalire al reparto di terapia intensiva in cui per un brevissimo periodo ha
soggiornato l’anziano senatore, la delusione guadagna altro terreno.
Là nessuno sa offrire risposte,
mi è concesso parlare solo con il primario.
Il medico è un signore
di una certa età, calvo e sudaticcio. La sua espressione stanca e scocciata
riflette bene ciò che sta probabilmente provando per il fatto che la polizia
sia tornata a indagare su quel caso che ormai tutti davano per chiuso.
“Non ho nulla da
aggiungere al caso, mi dispiace” afferma immediatamente dopo le presentazioni.
Non ha tempo, tutti lo chiamano e diversi infermieri si affacciano di continuo
nel suo piccolo ambulatorio.
“So che ha da fare, ma
la prego, parliamone un attimo” tento di frenarlo. L’uomo, tuttavia, non
dimostra nessun evidente interesse a collaborare, anzi.
“Mi dispiace, ma io
quel paziente nemmeno l’ho visto” ammette in modo sconfortante, “come può
vedere abbiamo un gran via vai continuo e le persone e i casi si sovrappongono
nella memoria collettiva. Se preferisce, chiedo all’infermiera di prepararle il
suo referto, ma più di così non posso fare”.
“La ringrazio, allora.
Vada pure da chi ha bisogno” lo congedo. La relazione clinica l’ho già
consultata, ed è già stata depositata da tempo.
Come purtroppo avevo
previsto fin dall’inizio, la via delle nuove informazioni mi è stata preclusa
in quel luogo caotico.
Mi allontano anche io,
mentre il primario va per la sua strada. Non vedo l’ora di lasciarmi alle
spalle quell’ospedale frenetico.
Di nuovo in strada, mi
ritrovo a smettere di trattenere il fiato. Sono un po’ scosso, ho il forte
presentimento che presto perderò il mio ruolo. Immagino già il verdetto di Ramsey.
Sto già per
telefonargli; resto per un solo istante a guardare lo schermo illuminato del
mio cellulare, prima di recuperare il suo numero dalla rubrica. Mi scoccia,
punto.
Tuttavia, si vede che
il destino ha altre strade riservate a me, poiché il mio telefono inizia a
squillare un solo istante prima di premere sul cognome del mio superiore.
Rispondo
immediatamente, anche se il numero è sconosciuto.
“Agente Barley?”
Una voce femminile
irrompe appena accetto la chiamata in entrata. Stento per un istante a
riconoscerla.
“Sì”.
“Sono la figlia del
senatore Stradford, Angelina, spero si ricordi di me” si presenta. Eccome, se
mi ricordo di lei!
“Certo, signorina, che
domande”.
“Dovrei chiederle un
grande favore, agente speciale” e ricalca sull’ultima parola. Evidentemente
vuole lusingarmi.
“Nei limiti del
possibile”.
“Certamente” e sospira,
“ho parcheggiato a fianco della sua volante, se per favore può raggiungermi. La
ringrazio” non mi lascia il tempo per aggiungere qualcosa che ha già riagganciato.
Resto interdetto dalla
sua frettolosità, ma soprattutto per il fatto che ha dimostrato di avere il mio
numero di telefono. Cosa sta succedendo? Perché mi vuole vedere? Tante sono le
domande che mi frullano in testa mentre affronto l’unica alternativa che mi
rimane, e cioè quella di tornare alla mia volante.
Infatti noto subito che
l’automobile parcheggiata a fianco di quella della polizia è già in moto, e
quando la conducente nota la mia figura in avvicinamento fa retromarcia ed apre
lo sportello del passeggero.
Angelina mi attende,
seria, appoggiata con noia sul volante.
“Prego, agente” mi
invita a salire sulla sua Opel, tra l’altro anonima e di vecchio modello.
“Mi dispiace, devo
andare in centrale. Se le va, mi parli adesso” le dico. Non voglio salire su
quell’auto.
“Non faccia
l’antipatico, i suoi colleghi potranno di certo aspettarla”.
Batte la mano sinistra
sul sedile del passeggero.
Di fronte alla sua
insistenza, cedo e salgo.
“Facciamo una
passeggiata?” chiedo, cercando di mostrare un pizzico di ironia, ma in realtà
sono tesissimo, mentre mi allaccio la cintura di sicurezza e il mezzo sfreccia
via dal parcheggio.
“Mi faccia il favore di
essere serio” mi riprende, seppur con educazione, “io già la stimo molto e so
che è una persona così intelligente da comprendere che di questo incontro è
meglio non parlarne con i superiori. Così ci facciamo un giro in macchina,
giusto per scambiare due parole”.
“Non so con quali persone
lei è abituata a trattare, signorina, ma io rappresento la Legge e se conta di
sequestrarmi, sia anche solo per una mezz’ora, be’, mi costringe a prendere
provvedimenti” rispondo seriamente.
Certo, Ramsey non
sarebbe di certo contento di sapere che la donna non solo ha preso contatti con
me ma mi sta pure conducendo dove vuole lei, in macchina. Resto di sasso però
quando noto che rallenta e si volge verso di me, il viso trasformato in una
maschera colma di tristezza. Le lacrime iniziano proprio ora a sgorgare a
fiotti e a scorrere lungo le guance.
“E’ la disperazione che
mi spinge a ciò. Vede? Guardi come sono ridotta. Una ragazza giovane come me,
che piange senza sosta per quello che hanno fatto a suo padre. Morirò presto,
se continua così”.
“Signorina, al momento
le posso garantire che non c’è nessun indizio che confermi un qualche
intervento umano nella tragica e rapida fine di suo padre…”.
Mi interrompe con un
sonoro singhiozzo.
“Invece le garantisco
che l’hanno fatto fuori, poi hanno insabbiato tutto”.
“Se ciò è accaduto, e
ne è così sicura, mi offra uno straccio di prova”.
La donna imbuca una
delle poche viuzze strette di Columbus, nella parte più vecchia della città. Lo
fa per rallentare ancora di più, noto come si sta emozionando man mano.
“Per ora non posso, ma
mi deve promettere, per favore, che farà di tutto per non far archiviare il
caso. Sa che questa sarà l’ultima occasione in cui mio padre potrà avere
giustizia. La prego, io farò ogni cosa pur di aiutarla a trovare prove utili,
ma non faccia morire le mie ultime speranze”.
La donna ora piange. Mi
sembra sincera e quasi mi commuovo.
“Non deve interferire
mai più nelle indagini, intesi? Sta correndo un grave rischio. Se continua
così, sarà lei stessa a far archiviare il caso”.
“Prometto maggior
discrezione, agente speciale”.
La signorina guida più
rapidamente e torna indietro al primo crocevia, riportandomi verso il
parcheggio dell’ospedale.
“Non perda la testa,
ora è in buone mani. Non sono che una pulce in confronto ai miei superiori, ma
so di essere un uomo giusto. Se c’è qualcosa da scoprire, lo scoprirò” le
garantisco, quasi mettendomi la mano sul cuore.
Pare apprezzare quelle
mie parole così risolute.
“La ringrazio” afferma,
“la ringrazio con tutto il mio cuore”.
Tornati al parcheggio
dove mi ha raccattato, apro lo sportello e cerco di sbrigarmi ad allontanarmi
da lei.
“Sono stata cauta, di
solito mi sposto solo in limousine, agente” sogghigna per la prima volta, e
mentre richiudo lo sportello, avverto di nuovo la sua voce. “Qualcuno le sarà
sempre alle spalle, a proteggerla e ad aiutarla…”.
Mi volto, colpito da
quelle parole, e vorrei riaprire la portiera e chiedere maggiori spiegazioni,
ma già l’automobile sgomma via.
So che forse mi sono
messo in un ginepraio; la signorina conta veramente su di me e sta rischiando
tanto. Non dovrebbe farlo.
Magari però si è
inventata tutto per motivarmi, magari appunto è un po’ pazza, viziata com’è
sempre stata.
Sperando che nessuno
abbia notato il nostro incontro, vado alla mia volante e mi accingo ad andare a
riferire l’inutile aggiornamento ottenuto presso l’immensa struttura
ospedaliera.
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Capitolo 9 *** Capitolo nove ***
Capitolo nove
CAPITOLO NOVE
“Solo chi è leale con
sé stesso
può esserlo con gli
altri”.
Erich Fromm.
In centrale, Ramsey mi
attende trepidante.
“Allora?”
Cavolo, sembra che
abbia pensato solo a questo caso. Sono costretto per forza di cose a mostrarmi
impotente.
“Niente, ancora non emerge
nulla. Anche a seguito delle recenti indagini è rimasto tutto invariato
rispetto alle precedenti deposizioni”.
“Il caso può quindi dichiararsi
chiuso?”
Non capisco se è una
domanda o un’affermazione, oppure entrambe. L’uomo mi riserva uno sguardo in
bilico tra l’indagatore e l’ironico, mi sento trapassato dai suoi occhi chiari.
Per un istante mi passa
per la mente che sappia dell’incontro che ho avuto con la signorina Stradford,
ma poi realizzo che ciò è impossibile, altrimenti mi avrebbe già messo alla
barra fin dall’inizio.
“In realtà, devo
tornare di nuovo in quella clinica psichiatrica. Non mi hanno convinto per
nulla” provo a dire, dopo un breve tentennamento durante il quale ho sudato
freddo.
Per fortuna, Ramsey non
è onnipresente. Non sa di quel che è accaduto poco fa. Bastano i miei toni
gentili e sottomessi a farlo rilassare.
“Ci torni, allora”
replica, più tranquillo, “ma ancora una volta le ripeto di chiudere in fretta
questa pratica. Non c’è niente da aggiungere alla vicenda”.
Di uomini come Mario e come S è pieno il mondo.
Mi sono sempre chiesto il motivo della mia passione per gli
uomini, soprattutto se maturi e realizzati; ma, attenzione al particolare, più
o meno dell’età di mio padre. È imbarazzante quando ci penso, terribilmente
imbarazzante.
Mio padre è da sempre stato un uomo assente, e la differenza
generazionale si avverte. Ci sono quarant’anni a dividerci, appartiene appunto
a un’altra schiera di persone che hanno vissuto una parte di Storia d’Italia
differente dalla mia.
Sono cresciuto con il cellulare tra le mani, il computer
sempre acceso e i videogames che funzionano tutta la notte, fino all’alba.
Appartengo alla generazione di quei ragazzi sbandati che non hanno punti di
riferimento; non ho fratelli, non ho amici, non ho parenti.
Anche lui ha vissuto un periodo simile negli anni Settanta,
però era uno sbandamento diverso; c’era tanta droga, le famiglie iniziavano a
mostrare i sintomi di ciò che sta succedendo ora, eppure c’erano i fratelli e
una valanga di coetanei pronti a capirti e a sostenerti.
Adesso io vivo in solitaria in questo limbo di niente, dove i
coetanei sono pochissimi e la realtà circostante è composta da persone over
sessanta. Il computer, il cellulare e la playstation hanno preso il posto dei
giovani ormai assenti.
I fratelli e i coetanei di allora sono diventati vecchi,
molto spesso senza avere figli. Rami secchi dell’albero della vita.
La mia è una famiglia di merda, una come tante. Però i miei
non si sono mai separati; traditi di sicuro, ma alla fine la quotidianità ha
vinto sulla sfera più istintiva del bisogno d’appagamento sessuale. Quindi,
almeno, non ho vissuto il dramma di un divorzio in tenera età.
Comunque so bene quel che vuol dire essere soli al mondo, o
per lo meno sentirsi tali; è proprio questo senso di apatia che la società mi
riserva a farmi sentire solo una sterpaglia inutile, una pecora che bela e basta.
Pare incredibile che siamo oltre sette miliardi, mai così
tanti esseri umani fino ad ora, eppure sia così difficile trovare una persona
vera, in mezzo a questa moltitudine. Forse non la troverò mai, sarò sempre
solo, mi crogiolerò nella compagnia virtuale.
Mi piace però pensare che un giorno troverò una sola persona,
un’anima gemella, con cui condividere qualcosa. Sì, me lo auguro, anche se so
che ciò è impossibile. Non si cambia l’essenza di cui siamo composti, se siamo
fatti così, così restiamo.
Forse sono fatto per la solitudine, per restare sospeso nel
tempo.
Il Destino, sempre disposto a farsi beffe di me, ha messo sul
mio cammino una giovane donna; Alice.
Alice, il nome della protagonista nel Paese delle Meraviglie.
Un nome semplice, eppure così affascinante.
Anche lei è una persona semplicissima, molto alla mano,
simpatica e vitale. Ma soprattutto anche lei è come tutti noi, in fondo;
indossa una maschera.
Siamo tutti un po’ bugiardi, no? Almeno qui è così. Per i
miei genitori e per i pochi conoscenti io sono il più etero del mondo, idem
Mario, e S appare come il più generoso. G come il più sincero e scaltro. In
realtà siamo tutt’altro, e pure Alice è una conferma di ciò.
La dolcissima donna, madre di tre splendidi bambini, è
affabile e troppo gentile per passare inosservata, anche per un tipo come me,
che le signorine non le guarda proprio.
L’ho vista per la prima volta mentre comprava alcune verdure
fresche da me, e da quel momento in poi è diventata una cliente fissa. Mi
accorgevo del fatto che fosse strano, che all’improvviso quella donna si fosse
affezionata così ai miei prodotti biologici, almeno fin quando, un giorno, da
soli…
Alice mi avvinghia con forza.
Altroché la verginella che vuole apparire, la signora tutta
casa, chiesa e famiglia! Una furia, per quanto concerne il sesso.
E non importa che lei abbia oltre dieci anni in più di me; è
testarda come un mulo.
Per quanto riguarda il sesso, non ho mai detto no a nessuno.
La bacio e la stringo forte a me, ricambiando la sua stretta
quasi ferrea.
Perché mi sto comportando così ancora una volta? Avevo detto
basta già il mese scorso, capendo quanto fosse pericoloso ciò che stava
accadendo. Però tutto ciò è qualcosa di rapido, il sesso è solo l’incontro tra
due corpi che non si amano, è solo l’espressione della brama di carne, di
sapori, di odori. Niente che riguardi l’animo, niente che pesi sulla coscienza.
A volte mi chiedo quanti corpi potrò possedere durante la mia
vita, e quante anime. Corpi di certo tanti, tutti quelli che desidero. Anime,
be’, di quelle sicuramente nessuna.
L’amore non esiste, è stato sepolto assieme al concetto di
Dio.
Concluso l’amplesso, svolto nel retro del piccolo negozietto
dei miei genitori, dove vendo i prodotti dei miei campi, ci rivestiamo con
grande fretta e la paura di essere scoperti da un momento all’altro. Lei estrae
dalla borsa un piccolo specchio e si affretta a pettinarsi i lunghi capelli
castani.
“Devi smetterla di venire qui”.
Il mio risuona come un ordine freddo, glaciale, laconico.
“Lo sai che non riesco a stare senza di te” replica lei, la
voce a sua volta dura. Poi, si volge verso di me e mostra il suo visetto da
santa, rotondeggiante e dalla pelle bianca come il latte.
“Non dire cazzate”.
Faccio per tornare alla mia postazione di lavoro, poiché
ormai il momento più vuoto della giornata, quello successivo al mezzogiorno,
sta per terminare. Non provo niente, se non un forte senso di vuoto interiore.
Alice però si allunga verso di me e mi stringe un braccio con
risolutezza.
“Alex, tu mi vuoi bene?”
Che domanda di merda.
Il bello è che sorriso amaramente, appena la ascolto. Non so
un cazzo di questa qui, potrebbe essere una persona chiunque; il nostro è solo
sesso fisico, null’altro ci lega. E sarà meglio che torni dalla sua famiglia.
“No” le rispondo, poi strattono la sua mano e le do
finalmente le spalle, tornando a lavorare. So che uscirà dalla porticina del
retro, e puntualmente tornerà quando sarà ancora vogliosa.
Mentre mi accingo a servire il primo cliente del pomeriggio,
ricordo quel sonoro no che le ho sbattuto in faccia. Io non la amo. Però non le
voglio neanche male, e neppure mi è indifferente.
Temo di averla ferita.
Mi consolo pensando solo che, in fondo, avrei ferito solo una
delle tante dannose maschere che infestano questo mondo. Non ho rimorsi
particolari.
Ecco, vedete come sono? Sono un mostro, sotto quel velo da
vittima con il quale mi ricopro. Non so se la mia vita la sto sciupando, o se
il tormentato racconto di essa ha un senso oppure no. Non so niente, non sta a
me deciderlo. Soprattutto, credo che non tocchi a me giudicarla.
Sono solo fatto così, e cambiare ciò che si è, come ripeto
spesso, è impossibile o quanto meno difficilissimo.
Sono immerso costantemente nel limbo dell’umanità, un limbo
fatto di bugie e di bugiardi, appunto, dove la lealtà è ormai merce rara e si
paga solo a caro prezzo. Benvenuti all’inferno!
E adesso potete capire perché all’inizio di tal trama io mi
pronunciai sancendo che da una fine può esserci un nuovo inizio, la vita intesa
come un cerchio. È vero, perché io d’ora in poi posso solo imparare a fare
meglio, a migliorarmi e a diventare una persona migliore rispetto alla merda
che sono. Se fino ad ora la mia esistenza è stata solo un flash di nulla e di
scopate varie, adesso sono pronto a risorgere dalla mia miseria e a provare di costruire
qualcosa di buono.
Cerco i sentimenti che ancora vivono dentro di me, sepolti
dalla noia di vivere. Alex il nullafacente, il vagabondo, quello che sa solo
imboscarsi e che è sempre solo (e lo sono davvero, nel mio cuore) è pronto
finalmente a mettersi alla prova. Lo desidero più d’ogni altra cosa.
Andare oltre alla mia attuale povertà interiore, mentre
raschio il fondo del barile.
Almeno questo è il mio punto di partenza. E la mia meta? Dio solo
la conosce. E il cammino per raggiungerla, qual è? Devo ancora scoprirlo…
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Capitolo 10 *** Capitolo dieci ***
Capitolo dieci
CAPITOLO DIECI
“Ciò che è difficile
attrae,
l’impossibile seduce,
ciò che è complicato
spaventa”.
Paulo Coelho.
Ci risiamo, cazzarola.
“Mi ami?”
E che cazzo…
“No” rispondo ad Alice, dopo l’ennesimo amplesso.
Mi rivesto con la solita fretta, distogliendo lo sguardo dai
suoi occhi non appena si velano di lacrime dopo la mia rispostaccia.
“Ma, allora…”.
Sembra che voglia qualche altra parola da me, la pretende, ed
io l’accontento.
“Ti ho solo scopata, io non ti amo. Cosa non ti è chiaro?”
Alla faccia del mio buon proposito di diventare una persona
migliore.
Sono ancora giovane, io devo farcela. Ma non è colpa mia se
sono così solo, se mi sento tale; so che sia Alice e sia Mario vengono da me
solo per scopare, ma non appena troveranno un altro scopatore ecco che se ne
andranno felici e contenti, senza nemmeno dirmi addio. Io non conto niente per
loro, sono solo le ennesime persone che si presentano alla mia stazione e
pretendono qualcosa. Li accontento finché mi va, poi sono sincero e per me
diventano tutta carne da macello. Tanto se ne andranno presto dalla mia vita,
in ogni caso.
Piange adesso, Alice; e non è che me ne freghi più di tanto.
Ma, poi…
“Non ti rendi conto di quanto vali per me?” chiede, mentre si
allunga a stringere forte le mie mani tra le sue.
Mi ritraggo.
Per un attimo, colto di sorpresa da quel gesto così carico
d’intensità, mi viene da commuovermi. Tuttavia, mi rendo subito conto che,
probabilmente, sono le stesse parole che riserva a tutti gli uomini.
Che quadro generale mi sono fatto di Alice? Indubbiamente che
sia una malata. Sono scettico a riguardo del fatto che una cacciatrice così sia
in grado di innamorarsi.
Ma… tutto ciò è frutto della mia immaginazione?
Davvero questa giovane donna dall’apparenza così per bene è così
scatenata sotto quel punto di vista?
Torno alla realtà. A quel contatto che sto sciogliendo
frettolosamente.
“Perché dovrei valere qualcosa per te?”
Riesco a rispondere solo tramite una domanda. Cioè, per
carità, di certo Cupido spara frecce alla cazzo, però che questa ci abbia
legato, proprio no, non ci credo manco se mi paga.
“Sei speciale, Alex, peccato che tu voglia nasconderti dietro
a una maschera. Non fa per te comportarti da cattivo, hai un cuore grande e lo
sai anche tu, per quello che fai per me”.
“Scoparti?”
Quasi rido, nel mio imperituro scetticismo. Lei resta
impassibile.
“Non sai allora quanto si sta male. Un giorno ti prometto che
te ne parlerò con calma, e ti racconterò quanto soffro. E quanto tu sia la cura
a tutto questo”. E così dicendo, se ne va.
Alice, questa volta mi hai sorpreso. Resto per qualche
istante a fissare la porta nel retro dalla quale si è appena defilata,
riflettendo sulle sue parole, ma soprattutto su come me le ha gettate in
faccia. È purtroppo vero che anche io ho un buco nero dentro, che mi distrugge
pian piano, che mi fa soffrire e mi fa star male.
Ci rifletto in continuazione, ma con le altre persone sì,
indosso una maschera. Chi non lo fa, d’altronde? Meglio lasciar perdere…
È il turno di Mario.
Entra nel negozietto con viso tirato e stanco, totalmente
neutrale. Quando fisso i miei occhi nei suoi, solo allora noto che cerca di non
distoglierli. Cerca un contatto, ed io gliel’ho offerto.
Ordina dei prodotti ed io lo servo in silenzio, mentre
avverto il suo sguardo fisso su di me. So che mi desidera, altrimenti non
sarebbe mai venuto fin qui, snob com’è. Spero solo che non pretenda anche lui
una prestazione, in modo particolare perché i miei stanno per venire a darmi il
cambio e non è quindi il momento e il luogo ideale.
Se mi piace Mario? Uhm, è come per Alice.
Nì.
Sono corpi gradevoli, ottimi ripieghi per compensare ciò che
non potrò mai avere. La figura distante di G ancora mi perseguita, è come uno
spettro che riempie le mie giornate con la sua sola remota ombra.
Mario alla fine se ne va in fretta, dopo aver pagato con
qualche spicciolo.
Se ne va in modo veramente neutro, salutando tra i denti come
se fosse un cliente qualsiasi. Come se per me non fosse nessuno. Questa è la
gente che dice di amarmi!
Torno al Mary’s House
con un morale sgonfio quanto una gomma bucata da un mese. Non so cosa aspettarmi,
non so di preciso cosa cercare o come insistere, e per la prima volta durante
questo incarico mi ritrovo a essere un po’ confuso e intimidito.
La stessa infermiera
che mi ha accolto durante la prima visita viene ad aprirmi, dopo che ho suonato
alla porta.
“Buongiorno, signor
agente. Prego, si accomodi” mi saluta con cordialità.
“La ringrazio”.
“Ancora qui per il caso
Stradford?” mi chiede poi, aspettando che la porta si richiuda automaticamente
dietro di me.
“Sì”.
Fa un cenno affermativo
con il capo, poi scribacchia un istante sul tablet che ha sempre con sé.
“Tra qualche istante un
componente dello staff medico verrà a dialogare con lei. Non so chi di preciso,
abbiamo sempre tanto da fare, ma penso che non sia un problema. Li conosce già
quasi tutti” si spiega, rialzando gli occhi dall’aggeggio tecnologico.
“Nessun problema”
acconsento.
Faccio tuttavia appena
in tempo a sedermi che appare il dottor Zayne, procedendo a passo molto svelto
verso di me.
“Agente speciale
Barley, che immenso piacere ricevere un’altra sua visita” saluta, porgendomi
educatamente la mano, che stringo con prontezza. Al di là del velo di
superficiale gentilezza sembra un po’ scocciato, e come dargli torto
d’altronde.
“Piacere ricambiato”
replico. “Immagino sia tornato qui per quella faccenda, di nuovo”.
“Certo, sì”.
“Immagino anche che non
ci siano novità, altrimenti non si sarebbe presentato qui nuovamente con il
solo distintivo e senza alcun mandato di arresto o di perquisizione”.
Per un solo istante
resto pietrificato. Il medico mi ha raggelato, ha colpito abilmente nella
piaga.
Inizio a capire che sta
giocando con me, mi sta mettendo alla prova; sa che non ho ancora scoperto uno
straccio di niente, e per questo si sente ormai in una posizione più
privilegiata rispetto alla mia. O forse è solo ciò che vuole farmi credere, per
scoraggiarmi ulteriormente.
“Le indagini sono a
buon punto, ma naturalmente non posso scendere nei dettagli” rispondo, dopo
aver esitato quell’istante di troppo che ha concesso al mio antagonista di
prendersi qualche secondo di gloriosa superiorità. “Sono comunque tornato al
fine di fare qualche altra domanda”.
Zayne allarga le mani.
“Tutto quello che
desidera. Anzi, se me lo consente, farò molto di più; non importa se ha un
mandato o meno, le permetterò di visitare la clinica, in modo da sfatare
definitivamente ogni dubbio e da farle comprendere la realtà con cui abbiamo
quotidianamente a che fare”.
“E’ molto gentile da
parte sua” replico, cercando di mostrarmi strafottente e sicuro di me. Non come
se quella fosse una sua concezione, bensì come se fosse un suo dovere. Non so
se ci sono riuscito, poiché egli mi dà le spalle e accenna a seguirlo.
“Prego, mi segua”.
Quello che vedo dà i
brividi.
Sembra un lager, questa
clinica.
Minuscole stanzette
dalle sembianze di una cella sono disseminate per tutto il pian terreno, l’una
a fianco dell’altra, illuminate da finestrelle da bagno posizionate ben lontano
dalla portata delle mani dei pazienti.
Il primo uomo che
scorgo è un signore di mezza età legato su una sedia.
“Dio mio” sussulto, al
cospetto di così tanta violenza.
“So che può sembrare
bestiale, ma è per il suo bene. Esclusivamente per quello” dice Zayne, notando
il mio disappunto. Si allunga a sfiorare il polso nudo dell’uomo, che inizia
subito a lanciare grida lancinanti.
“Se stesse slegato, si
morderebbe. Si farebbe tanto male, fino a provocarsi lesioni molto gravi; forse
si mangerebbe anche da solo, non ci è dato conoscere la profondità della sua
follia. Tuttavia è qui con noi e i nostri metodi gli fanno bene”.
Udendo le strida acute,
un’infermiera giunge di gran fretta e ci allontana con un sol gesto risoluto.
“Perdoni il personale,
agente. Il nostro è un compito delicato e serve sangue freddo” notando il mio
silenzio, prosegue, “se si sta chiedendo se è in regola tutto questo, be’, le
dico che lo Stato ci ha concesso un permesso speciale per portare avanti le
nostre cure. Che fanno bene, ripeto, tanto bene”.
Continuo a seguire il
dottore, fintanto che incrociamo altri pazienti, tutti imbragati dalle camicie
di forza. Gridano, gemono; sembra di essere in un altro mondo.
“Se mi libero, mi
ammazzo” grida un giovane dagli occhi sgranati, ed io mi ritraggo. Vorrei solo
andarmene da qui.
Zayne mi sfiora un
braccio e mi indica di tornare indietro.
“Oh, immagino sia troppo
forte per lei. Ma adesso capisce perché in questa clinica le condizioni sono
proibitive. Chi arriva qui di solito piomba frettolosamente, sbattuto da
qualche altro centro medico, e la maggior parte è così folle da volersi
togliere la vita”.
Colgo il chiaro
riferimento al caso Stradford, anche se sono in soggezione.
Mi riaccompagna
indietro senza che io abbia la forza per fiatare, ma prima il medico ha una
sorpresa per me. Accenna verso una stanzetta impregnata dall’intenso odore di
disinfettante, e quando mi affaccio noto Morrow, lo psicoanalista, seduto al
cospetto di un paziente che mi volge le spalle.
Si tratta di una donna
che piange sommessamente.
Il dottore le pone
domande sul suo passato in un modo perentorio e glaciale, mentre la signora
grida e si dispera.
“Serve polso per un
posto come questo” sussurra Zayne al mio orecchio, poi mi afferra delicatamente
per un braccio e mi fa retrocedere di nuovo.
Una volta tornati nella
calma zona d’accoglienza, il vasto atrio dove finora sono stato accolto, l’uomo
mi rivolge il primo freddo sorriso e mi pone la mano destra da stringere, in
segno di commiato.
“Come vede, abbiamo
molto da fare. Lei torni a fare il suo lavoro e dorma sonni tranquilli, agente.
Su quel caso non c’è nulla da aggiungere, l’ha visto anche lei che matti che ci
mandano. Se uno di essi s’ammazza, poco importa se era un senatore o meno;
nessuno ne ha causa”. E mi congeda così, lasciandomi di ghiaccio.
A passi lenti me ne
vado, abbandono quella clinica degli orrori dopo aver ingoiato ogni rospo
possibile. Alla fine sono stato sconfitto, non ho proprio più niente da
aggiungere.
Torno alla mia volante
e mi metto alla guida; per oggi basta, torno a casa dai miei. Ma domattina vado
di corsa a far archiviare questo caso, che evidentemente non ha davvero più
nulla da aggiungere.
Oppure sono io che sono
un codardo facilmente impressionabile?
Be’, allora non è il
mio lavoro. Meglio tornare a sfogliare scartoffie in ufficio, anche se mi
dispiace che qualcuno abbia risposto fiducia in me e che io non ne sia stato
all’altezza.
Mi dispiace, ma alla
mia età penso di saper prendere una decisione precisa.
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Capitolo 11 *** Capitolo undici ***
Capitolo undici
CAPITOLO UNDICI
“Di qualunque cosa
siano fatte
le nostre anime,
la mia e la tua
sono fatte della stessa
cosa”.
Emily Bronte.
Sono le stesse, identiche scene che si susseguono. Come se,
ancora una volta, la mia vita fosse un loop.
Il trio di sconosciuti che di recente la stanno influenzando
di più? G, anche se a distanza e lo vedo raramente. Però lo penso in
continuazione. Alice e Mario, due persone con cui non ho nulla da condividere
se non una piacevole mezzoretta di vuoto sesso di tanto in tanto.
Nel complesso, nessuno ancora che lasci un segno tangibile in
me. Ed io che devo cambiare, che lo desidero ora più che mai, poiché ho toccato
il fondo della mia giovane vita senza morale e senza valori, fatta di carne e
solitudine e ben a secco di sentimenti veri e magari reciproci.
Ma… se nulla di tutto ciò fosse come sembra? Se questo fosse
un teatrino fatto di personaggi in carne ed ossa, e non solo di maschere che
nascondono esclusivamente i visi?
Alice sembra che inizi a sbottonarsi con me. Dopo un inizio
di rapporto basato solo sul bisogno di entrambi di fare certe cose, e a seguito
della mia lotta interiore per controllare la mia bisessualità, la donna sembra
che sia riuscita a trovare a sua volta un equilibrio interiore.
È entrata in intimità con me e non importa la differenza
d’età, mi considera un suo pari.
Da quando mi ha fatto riflettere su quanto io sia coglione a
concentrarmi solo sulla mia sofferenza interiore, e su quante altre persone
abbiano dei vuoti dentro come i miei, o addirittura più abissali, mi ritrovo a
pensare che non solo sono molto egoista, ma ho anche un bel paraocchi.
Forse non era davvero una fine, la mia; forse non so nemmeno
cosa sia una fine.
Resta il fatto che lei mi dà fiducia e di recente ha sempre
più bisogno di me. Passa spesso nel negozietto, la incrocio durante le mie
camminate, la vedo al bar, mi passa a salutare quando sono nel campo.
Ora io voglio solo mantenere una discreta freddezza, lei ha
già una famiglia e finché tutto resta su un piano carnale può andar bene, ma se
si va oltre no. Non può esserci nulla tra noi.
Eppure, Alice sembra non darmi un attimo di tregua, di
recente.
Sono nel campo a raccogliere le verdure mature, ma lei non si
fa scrupoli di saltare il fosso che ci separa e a raggiungermi. Noto
immediatamente che qualcosa non va; gli occhi sono gonfi e arrossati, il viso
tirato. Non è il solito volto sereno e spensierato, da giovane donna, che la
caratterizza.
“Alex, c’è una cosa che non ti ho mai detto e che invece
vorrei dirti. Penso che sia il momento giusto” esordisce, mentre ancora io la
osservo con perplessità.
“Non ora, non qui” sancisco con la mia solita freddezza,
tornando a chinarmi sugli ortaggi.
“Adesso e qui”.
Con forza si china su di me e mi strattona, per farmi alzare
in piedi.
Ci resto malissimo.
Rialzandomi e allontanando il suo contatto, all’inizio provo
un forte senso di rabbia e vorrei solo urlarle cazzo vuoi, vattene, o robe
così. Poi mi rendo conto di quanto sia sconvolta e di quanto stia soffrendo; è
evidente che ha davvero bisogno di dirmi qualcosa. Tanto vale che l’assecondi,
così me la levo al più presto dalle palle, prima che qualcun altro possa
vederci e mugugnare.
La nostra realtà è piccola e bigotta, anche i muri hanno
occhi e orecchie. Tutto può essere pericoloso.
“Dimmi, allora” mugugno, tenendo a freno il mio nervosismo.
“Ti ho già detto che ho qualcosa che mi fa male, che mi brucia
dentro, come fosse un cancro che mi prosciuga” narra, imperterrita.
Resto ancora di pietra.
“Vieni con me” sembra ripensarci. Perde motivazione a parole,
però mi prende per mano e mi incita a seguirla verso il vicino fienile.
Lì, al riparo da occhi indiscreti, mi abbraccia e inizia a
piangere.
“Ti ho detto che ti amo, Alex, ricordi?”
Non attende una mia risposta.
“Ti amo perché tu mi dai ciò che il mio compagno non mi offre
più. Sei così bello e giovane, così com’era lui solo qualche anno fa, prima che
la nostra favola si tramutasse in un incubo”.
Trovo la forza per stringerla a me, lasciandola sfogare.
“Sono vittima di violenze domestiche” dice, infine, tra le
lacrime.
D’improvviso avverto tutto il dolore con cui mi ha detto
queste parole, eppure così desiderose di essere pronunciate, e capisco quanto
Alice debba tenere a me. Non so bene in che senso, non so se si fida soltanto,
oppure ha bisogno di parlare ed io sono il primo che le è capitato a tiro, ma
penso di no… inizio a credere che qualcosa per lei sia cambiato verso di me, e
ciò mi spaventa.
“Non devi dirlo a me, allora. Io non posso aiutarti, se è così.
Denuncia” affermo, cercando di dimostrarmi ancora una volta piuttosto
distaccato, ma non so se ci riesco.
“Credi che sia facile? Mio marito è un uomo che ha la
mentalità di una volta. La donna deve essere sottomessa e stare in silenzio. Se
lo denuncio, mi ammazza sicuramente”.
“Non dire così, so che sei forte”.
“Lui lo è di più”.
Affossa la sua testa nel mio petto e smette di piangere.
Finalmente la sento più serena.
“Ora va meglio?”
Ma lei non mi risponde; mi bacia.
“Andrà meglio quando torneremo a vederci…” estrae un piccolo
specchio dalla tasca dei calzoni e controlla il viso, sistemandosi i capelli,
“…tu sei la mia ancora di salvezza. Non cambiare mai” e se ne va, lasciandomi
così in sospeso.
La vedo allontanarsi di corsa, sperando magari che suo marito
non sospetti nulla e che i vicini o qualche passante non ci abbiano visti
assieme. La vita è molto triste e spietata, molte volte.
Resto ancora per qualche istante a fissare la sua figura in
allontanamento, già lungo la strada, a passo svelto…
… Alice è un personaggio rivelazione nella mia vita. Va a
finire che si mostra appieno a me, al costo di condannarmi a condividere con
lei le sue pene.
Che vuol dire essere vittima di violenze domestiche? Al
giorno d’oggi, la violenza purtroppo assume tante forme.
Che suo marito la picchi? Non ho mai notato lividi sul suo
corpo, ma è anche vero che lo facciamo in fretta e mai totalmente nudi. Chi lo
sa.
Però… ora ci sto male per lei, e anche se non vorrei, la
penso spesso e penso anche alla sua condizione. Ciò mi rende particolarmente triste,
più di quel che già sono per natura.
“Stare con te mi riporta indietro nel tempo”.
E’ Mario a parlare, questa volta. E come dargli torto? Lui
l’anima l’ha perduta anni fa, oppure forse non l’ha mai avuta. Ha la passione
per lo svestirsi, non so se lo fa anche con sua moglie o è solo una perdizione
rivolta agli uomini.
Quando può si sveste e mi stringe forte a sé, avverto l’odore
della sua pelle, che di sera è sul sudaticcio. Ma non mi dispiace affatto.
“Sei una boccata di aria fresca per me, Alex. Non mi
stancherò mai di dirtelo”.
“Tu non mi sfrutti a dovere; ogni tua parola per me sarebbe come
un ordine” aggiunge, al cospetto del mio silenzio costante.
“Io non voglio niente da te” sussurro, amichevolmente.
“Lo so che sei buono e generoso, ma fatti furbo o non farai
mai carriera” e così dicendo mi picchietta dolcemente le dita sulla testa. Lo
lascio fare.
Se per fare carriera intende diventare un marito fedifrago e
infedele, oppure prostituirmi per avere qualcosa in cambio, allora si sbaglia
di grosso. Sono una merda di persona, certo, ma non fino a questo punto.
“Ti amo tanto e tu nemmeno te ne accorgi…” queste le sue
ultime parole, prima di stringermi a sua volta a sé. Una magia che mi infonde
una dolcezza che da quell’uomo di ghiaccio mai mi aspetto.
Anche i suoi occhi cambiano, quando è con me. Non so questo
quanto sia dovuto alla lussuria, eppure sembra che anche lui sia molto affezionato
a me, più di questa stretta tra corpi.
Va a finire che sia lui e sia Alice sono i due personaggi
rivelazione di questo mio teatrino corrotto, che non funziona. E chissà se mi
faranno affondare nelle sabbie mobili che li circondano, dato che tutti e tre
in fondo stiamo giocando col fuoco del Destino.
Eppure, vorrei dire a entrambi che in fondo io resto fedele
al mio G… il fantomatico G, che tanto raramente incontro e che tanto mi ha
segnato…
Rientro a casa, ceno
con la mia famiglia e mi accingo ad andare a letto.
Inutile ripetermi che
sono vinto da ciò che è accaduto. Io in quella clinica non ci metterò mai più
piede, è un luogo dell’orrore. Ci credo che il povero senatore si è suicidato
subito.
Senza più alcuna spinta
per andare avanti, lascio che i miei figli vadano a letto e do la buona notte
anche a mia moglie; tutti loro hanno capito che qualcosa è andato storto oggi,
dal mio mutismo e dalla mia rassegnazione, però nessuno ha avuto il coraggio di
chiedere qualcosa a riguardo. Sono contento che loro mi capiscano e mi
rispettino così tanto.
Mentre guardo la tv da
solo, la notte si fa fonda.
E… qualcuno bussa alla
porta.
M’irrigidisco, ma il
mio istinto da agente mi spinge subito a dirigermi verso di essa. Con
circospezione e con il cuore che batte forte, guardo attraverso l’apposita
lente.
Quello che scorgo non è
un ladro, né un vicino e neppure uno sconosciuto. È un viso che riconosco
facilmente; il volto dell’infermiera della clinica psichiatrica, che mi ha
fatto entrare ad ambo le mie visite.
Apro subito la porta.
“Non sono qui per delle
chiacchiere, agente speciale Barley. Tenga e ne faccia buon uso…” la giovane mi
porge un plico duro di fogli e materiale vario. “…la chiave del suo caso”.
Stringo tutto al petto
e lei già mi volge le spalle e corre via, singhiozzando.
“Ma che accidenti
succede…” mugugno, poi scrollando la testa richiudo immediatamente la porta
alle mie spalle.
Appoggio il plico sul
tavolino a fianco dell’ingresso e trovo subito un foglietto con una scritta
chiara e dalla parvenza femminile, pure sottolineata.
Qualcuno di potente la
sta aiutando tantissimo, agente speciale Barley. Faccia buon uso di questi
documenti e utilizzi il cervello.
Poche parole, frasi
nette.
Con le mani che tremano
mi metto a sfogliare alcuni fogli dalla parvenza innocua, ma leggendo solo alcune
righe qua e là resto colpito da ciò che riportano. All’improvviso, mi rendo
conto dell’infinita portata di ciò che mi è stato consegnato.
Ma quella ragazza come
faceva a sapere dove abito? Perché poi consegnarmi tutto ciò? Le mie domande
passano subito in secondo piano, poiché tutta la mia attenzione si concentra su
ciò che ho tra le mani; la svolta, qualcosa di sensazionale.
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Capitolo 12 *** Capitolo dodici ***
Capitolo dodici
CAPITOLO DODICI
“Einstein sbagliò
quando disse; Dio non gioca a dadi.
La considerazione dei
buchi neri suggerisce
infatti non solo che Dio
gioca a dadi,
ma che a volte ci
confonde
gettandoli dove non li
si può vedere”.
“E’ quando le
aspettative sono ridotte a zero
che si apprezza
veramente ciò che si ha”.
Stephen Hawking.
Il plico contiene anche
un’audiocassetta.
L’inserisco
nell’apposito lettore nonostante sia notte fonda e mi tremino le mani.
Ancora forse non ho
compreso quel che è accaduto, o almeno così è finché non iniziano a sciogliersi
diversi dialoghi registrati.
La voce di Morrow,
forte e chiara come quando l’ho ascoltata qualche ora fa, risuona con vigore in
tutta la stanza.
“Ora, onorevole
senatore, è consapevole che le sue parole stanno venendo registrate e che tutto
quello che sa verrà distrutto assieme a lei?”
Il mio cuore torna a
battere ancora più forte. Una serie di frasi si susseguono confuse, è come se
la registrazione sia stata modificata, appunto preparata per essere ascoltata
una volta sola, chissà da chi, e poi cancellata.
“Fatemi uscire da qui”
implora la voce di un anziano. Presumo si tratti di quella del senatore.
“Lei è malato e
decidiamo noi la cura. O parla su chi ha cantato a riguardo degli scopi della
nostra clinica, oppure affronterà la terapia che abbiamo previsto per lei”.
L’anziano grida e geme,
poi la registrazione torna a manifestare alcuni disturbi, prima di riprendere
con chiarezza. Solo che adesso l’interrogato singhiozza in modo disperato e il
carnefice, il dottor Morrow, infierisce con altre domande della serie; chi ha
parlato? Perché lei voleva denunciarci pubblicamente? Perché ha voluto
complicare tutto?
La sequenza si conclude
con un grido strozzato e una promessa di morte.
Sono sconvolto. Che si
tratti davvero di Stradford? Non ho mai sentito la sua voce, ma quella di
Morrow è facilmente riconoscibile in tutta la sua freddezza.
In ogni caso, in quel
lager accadono cose terribili.
Sfogliando il plico,
trovo alcune frasi evidenziate, che riportano alcune indagini svolte da agenti
privati o sotto copertura, che dichiarano attività illecite attorno alla
struttura.
Qualcosa non torna,
quelle persone mi hanno mentito appieno. Ora però conosco la fonte di ogni
male.
Le domande che mi
frullano in testa sono tantissime, un’infinità; così tante che resto fino al
mattino a camminare avanti e indietro in soggiorno, solo, a riflettere.
Ciò che più mi tormenta
riguarda il fatto che non sia mai emerso niente. Agli occhi della Legge e dello
Stato, St. Mary è una clinica esemplare. Eppure tanti altri prima di me hanno
indagato, scoperto, scritto e raccolto.
Ho tra le mani una
miniera d’oro, senza nemmeno essermela meritata. Quella ragazza come faceva a
esserne in possesso? Che sia riuscita a sottrarla dall’ufficio di Morrow, data
la sua libertà di movimento all’interno della struttura? Tante, troppe cose non
tornano.
L’unica cosa certa è
che adesso ho tra le mani tutto ciò che mi serve per far scattare una denuncia
e far chiudere quel luogo terribile.
Non saluto nemmeno la
mia famiglia, me ne vado di casa all’alba e inizio a girare a vuoto per la
grande città, solo con il mio plico di testimonianze schiaccianti, senza saper
bene cosa fare. Consegnerei tutto all’istante a Ramsey, ma allora perché
quell’invito alla cautela? Forse dovrei leggere tutto quello che è scritto,
poiché finora solo qualche riga è stata visionata dai miei affaticati occhi.
La mia lunga esperienza
lavorativa, seppur banale, mi ha insegnato che nulla è scontato o troppo
facile, temo che ci sia sotto l’inghippo.
Allora, alla fine,
decido di procedere con i piedi di piombo; prima offrirò a Ramsey ciò che ho
avuto modo di ascoltare e quel poco che ho letto, che tanto può bastare per
cominciare a far indagare più seriamente sul caso, che sta per essere
archiviato.
Mi reco subito con
puntualità nel suo ufficio, consapevole che quello che doveva essere un
resoconto negativo sta per trasformarsi in una svolta repentina, ritenuta
impossibile solo il giorno prima.
Mostro a Ramsey
l’audiocassetta e lo invito ad ascoltare.
All’inizio mi osserva
senza dire nulla, imperturbabile, forse non sa cosa aspettarsi, ma non appena
sente le voci e le prime disperate battute…
“Da dove proviene
questa roba?”
“L’ho trovata. Sono
prove” replico.
“Cazzate” mormora lui,
e per la prima volta lo vedo scosso.
“Cazzate” ripete ancora
“questa…” e sventola l’audiocassetta, dopo averla estratta dalla vecchia radio,
“… chissà cosa è. Non c’entra niente. Mi dica, le ha dato di volta il
cervello?”
Al cospetto della sua
cattiveria gratuita, gli allungo alcune testimonianze contenute nel plico, tra
quelle raccolte da chi prima di me aveva ficcanasato nella vicenda. Lui dà una
rapida occhiata e sbianca.
“Forse è meglio
riparlarne, Barley” riesce a dire, soltanto. Con le mani tremanti, appoggia i
fogli sulla sua scrivania.
“Se mi concede un
mandato, vado subito a far chiarezza presso la clinica…” provo a mostrarmi
fermo, eppure Ramsey si dimostra autoritario.
“Vada a casa e riposi,
per ora. Le farò sapere presto qualcosa, e mi raccomando, nessuna iniziativa
personale” e mi indica la porta.
Perplesso, faccio come
mi è stato detto.
Mentre abbandono
l’ufficio, mi rimbalza nella mente il viso tirato del mio superiore, per nulla
stupito, ma anzi, spaventato e incredulo. Ho fatto centro? Ma no, se l’avessi
fatto mi avrebbe permesso di intervenire immediatamente.
Allora… un terribile
dubbio inizia ad aleggiare nella mia mente. Perché mi manda a casa a riposare e
mi farà sapere? Perché quell’attacco di rabbia dopo l’aver ascoltato
l’audiocassetta? Perché ha voluto trattenere tutto lui?
Esco dal commissariato
e un’auto famigliare accosta e si abbassa il finestrino. Dietro gli occhiali
scuri, da sole, non fatico a riconoscere la signorina Stradford.
“Salga a bordo, si
sbrighi” ordina.
Lo sportello si apre.
Sto per ribattere,
vorrei ricordarle che indosso una divisa, stupida viziata, però mi trattengo.
Sono troppo confuso per non accettare e non salire in quella macchina.
“Le è piaciuta la
sorpresa?”
La sua domanda mi
coglie proprio mentre sto per intimarle di smetterla di venirmi a cercare.
“Quale?”
“I fascicoli che le
sono giunti tra le mani”.
Avrei dovuto sospettare
che ci fosse lei dietro all’allettante evento.
“Signorina, deve
smettere di interferire…”.
“Ma le mie interferenze
sono ciò che non farà insabbiare di nuovo il caso! Quella clinica è un posto
malato dove tutto è gestito da loschi traffici e da politici corrotti! Agente,
mi dica che ha letto durante tutta questa notte” quasi grida.
Scuoto negativamente la
testa, con vergogna.
“Deve leggere, leggere
tutto e al più presto”.
“Signorina, sta
giocando un gioco pericoloso, lo sa?”
Non voglio farle la
paternale, ma inizio sinceramente a preoccuparmi, più per me stesso che per
lei. Lei è ricca, può tutto. Io non sono nessuno, sono quasi povero e non ho
amici che possano aiutarmi in una situazione spinosa. Non posso commettere
passi falsi di nessun genere.
“Non mi importa come
sto giocando. È della vita di mio padre e di altre persone che si sta parlando,
e per questo voglio giustizia; deve ascoltarmi, agente”.
“Deve ascoltare anche
me, se vuole che andiamo d’accordo”.
Stradford inchioda
l’auto e mi fa cenno di scendere, sorridendo serafica.
“Quando si sarà
chiarito le idee e avrà capito che le conviene stare dalla mia parte, allora mi
chiederà in ginocchio di offrirle altro aiuto. Nel frattempo, la lascio per un
po’ a bollire nel suo brodo amaro”.
Apro lo sportello e con
risolutezza abbandono l’automobile, nella speranza che nessun conoscente ci
abbia visto assieme.
Mentre richiudo lo
sportello con forza, un biglietto riesce a uscire comunque dall’abitacolo e a
volteggiare sul marciapiede.
“Chiami questo numero,
appena tutto le sarà più chiaro. È una linea protetta…” e l’auto sguscia via
nell’anonimo traffico cittadino.
Per un istante penso che
non lo devo fare, ma poi mi chino a raccogliere il numero di telefono scritto a
penna e a ficcarmelo con forza nella tasca della divisa. Mi preparo anche a una
bella camminatina, per tornare in commissariato.
Inizio a detestare
sempre più il mio lavoro, mentre la mia mente è sempre più confusa.
Abbiamo la convinzione di poter vivere in eterno. Siamo così
tanto sbagliati da non accorgerci che il tempo è un inganno, e che ci sta
prendendo in giro fin dal giorno in cui siamo nati, e così sarà finché moriremo.
Non sappiamo dosarlo né gestirlo; mi sono accorto di non
saperlo nemmeno fermare. O, per lo meno, si può fermare tramite foto, ritratto
o quant’altro, ma resta pur sempre una rappresentazione effimera di una realtà
ormai irreparabilmente mutata.
Mi viene da piangere a pensare com’era prima e com’è ora. Mi
mancano i nonni, mi mancano tante persone. Il tempo non me le restituirà più.
Scorre per tutti, scorre per tutto.
Eppure… c’è chi afferma che, in prossimità di un buco nero,
esso si dilati. L’unico punto nell’Universo infinito in cui ciò accade. E se
vieni attratto da quel nulla, per un po’ tutto si ferma.
Vorrei finire in un buco nero e lasciare che le mie molecole
si squaglino man mano, lentamente, nel tempo dilatato. Vedere la mia fine al
rallentatore, oppure restare sospeso per qualche istante in una realtà che mi
dà la sensazione di non cambiare, ma che invece cambia, solo che ciò accade in
maniera differente.
Allora anche il concetto di tempo è relativo? Forse sì, ma
per noi umani di questo pianeta resta un qualcosa d’inafferrabile. Le nostre
vite sono solo un rapido guizzo di materia, tutto finisce prima ancora di
realizzarlo.
Basti pensare agli anni, come volano; sembra ieri che era il
mio compleanno, invece sono già passati dodici mesi esatti. Non siamo niente se
non una breve parentesi immersa in un Universo infinito e in costante
espansione.
Allora perché non dormiamo sonni tranquilli, la notte? Tanto
moriremo tutti, prima o poi. Tanto le nostre lotte non hanno senso, in questo
Universo infinito.
Cosa contiamo, noi, in realtà? Non siamo nemmeno un granello
di sabbia, in questo cosmo. Così come le nostre stupide storie, che siano
d’odio, d’amore o semplicemente di carne e sesso… non conta nulla.
Mettiamoci le anime in pace e prepariamoci alla fine. Amen.
L’unico Figlio di Dio è disceso sulla Terra per arginare
questi fragili figlioletti e salvarli dal Peccato Originale tramite il Suo
Sacrificio. E, pensiamo, chi al giorno d’oggi morirebbe per un amico, anche se
è il migliore che abbiamo? Nessuno. Figuriamoci per salvare l’Umanità.
Sia lodato il Bene, poiché esso è l’unico sentimento che sa
andare oltre il concetto di tempo.
Io sono solo un corpo e nella mia carnalità non conosco
risposte. Per trovarne alcune, mi affido all’animo.
Che sta succedendo nella mia monotona vita, ora che alcuni
personaggi stanno prendendo il sopravvento? Mi sembro un libro ancora da
scrivere.
Solo il prossimo capitolo, come se fosse il futuro, saprà
dare risposte… e chissà che non riesca a rincontrare di nuovo G, il fantomatico
G, l’uomo che ho elevato sopra a ogni altro umano. Che ho idealizzato, forse.
Ma che razza di persona è G?
Io me l’immagino come la perfezione, ma lo è davvero? Certo,
ciascuno di noi ha i suoi difetti e i suoi lati oscuri, per carità, ma mi
piacerebbe trovare un pilastro, un esempio per la mia vita futura. E questo
soggetto mi è parso fin da subito il più alla mano, così diverso da me e così
capace di riuscire, nella vita quotidiana.
Per ora mi limito a pensarlo continuamente, a inseguirlo con
lo sguardo se lo vedo in lontananza, eppure spero così tanto che mi capiti
appresso di nuovo…
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Capitolo 13 *** Capitolo tredici ***
Capitolo tredici
CAPITOLO TREDICI
“Lui come uomo, (…)
solo camicia diversa.
Capire inganno,
arrabbiarsi, capire intorno.
Proprio come uomo”.
Vladimir Arsen’ev,
Dersu Uzala.
“Tutte le verità
passano attraverso tre stadi.
Primo; vengono
ridicolizzate;
secondo; vengono
violentemente contestate;
terzo; vengono
accettate come evidenti”.
Arthur Schopenhauer.
Sono quelle miserevoli teste di cazzo a farmi diventare viola
dalla rabbia. Dio, quanto detesto i prepotenti e quelli che pretendono a priori
di sapere tutto!
Io odio chi sfida ma soprattutto chi rompe i coglioni agli
altri. I rovina vite, li chiamo. E dei rovina vite ne capitano tanti nella mia
vita.
Fino a qualche tempo fa, con il mio comportamento mite e
senza eccessi, ne accoglievo tanti e ascoltavo la caterva delle cazzate che
avevano da dire. Giustamente, ogni storia ha due punti di vista, come minimo;
ed ho avuto modo di comprendere che questi non solo non riconoscono ciò, ma
vogliono rendere il loro pensiero superiore a ogni altro.
Allora cosa vieni a rompere l’anima a me con le tue
stronzate, quando le risposte che vuoi sentire le sai te e te le ripeti da
solo?
Inseguo G mentre tutto il resto è solo un contorno.
Dentro di me brucio e ribollo come una pentola sul fuoco. Il
mondo è un vorticare di colori che non afferro più.
G è la mia terapia; la mia dolorosa terapia, quella che mi
sono autoimposto per provare a sentirmi un po’ meglio, un minimo. Invece sono
ridotto peggio di prima.
Sono al bar, seduto a suo fianco, e lo odo ridere mentre le
macchine sfrecciano a pochi passi da noi, lungo la strada, come fossero missili
lanciati verso la Luna. Avverto i suoi occhi castani fissi su di me, al di là delle
lenti degli occhiali che porta sempre sul naso ben fatto; mi studia, ed io
studio lui. A modo mio, perché sono più confuso che mai.
La sua vicinanza mi fa perdere il controllo.
A questo punto viene spontaneo chiedersi di cosa possano
parlare due uomini così diversi d’età e d’aspetto, d’estrazione sociale e d’impiego.
Be’, ovvio, no? Tre sono gli argomenti che accomunano quasi tutti i discorsi
tra soli uomini; cibo, calcio e sesso.
Naturalmente è l’ultimo aspetto che G sceglie di affrontare
con me, poiché il calcio lo odio da quando la mia squadra ha fallito miseramente
e del cibo ne ho il ventre ben gonfio.
“Allora, con la gnocca come va?”
Ma porco, porco Giuda. Dovevo aspettarmelo, tutte le volte
così, o i bengalini o la gnocca. Se per i bengalini è una faccenda di guadagno
personale, per tirare acqua al suo mulino, la gnocca è il jolly che utilizza
per farmi arrossire e vedermi in imbarazzo.
Cazzo, quando me lo chiede così, ogni volta mi ritrovo
interdetto per qualche istante; annaspo nei pensieri, annego in essi. Provo ad
appigliarmi alla mia scarsa simpatia per estrarre dal cilindro una qualche
battuta miserevole, ma non ci riesco mai.
E, ogni caspita di volta, finisco per diventare di un
colorito bordò.
Immaginate che la persona per cui vi siete presi una bella
cotta, maschio e realizzato, vi chieda come va a gnocche; che cosa potrei dire?
Oh, sei tu il mio gnoccone! Molto romantica come mezza battuta, ma di certo fuori
luogo, in un certo senso. Sono di quelle cose che non si possono dire; lui,
così etero, così figo, così… così tutto! Sposato da ragazzino giovanissimo,
padre a vent’anni, nonno a meno di quaranta, genitore affiatato e amorevole.
Ebbene, resto per l’ennesima volta inebetito al suo cospetto,
ad arrossire con una forza spiazzante, e il bello è che più ci penso a come
perdo il controllo e più il mio viso s’imporpora. Mi sento uno zerbino, un uomo
che non ha nemmeno padronanza con il colorito della sua pelle.
Abbasso lo sguardo dopo il lungo silenzio e il rossore
evidente, prima di provare per l’ennesima volta a rispondere con dignità.
Girovago per la città
per ore, fin quando il tramonto fa arrossire l’orizzonte. Sono stanco e
confuso.
Sono fuori servizio ma
non telefono a casa, voglio tenere la famiglia fuori da quello che sta
accadendo e forse io stesso non sono ancora pronto per parlarne, non con tutte
le domande che mi frullano per la mente.
Mi limito a guidare,
concentrato e pensieroso, sfogando così la tensione.
Il traffico attorno a
me inizia a diventare meno fluente con il sopraggiungere della sera, e credo
quindi che sia giunto il momento di tornare a casa, prima che qualcuno si
preoccupi. Mi fermo a un grande semaforo della periferia, con decine e decine
di auto che mi circondano e che strombettano, i conducenti nervosi e desiderosi
di rincasare dopo una lunghissima giornata lavorativa.
E proprio adesso che
inizio a rilassarmi, ecco che squilla il cellulare.
Aggancio la chiamata
con un gesto secco e istintivo, senza nemmeno controllare il numero che la sta
inoltrando, pensando intensamente che si tratta di mia moglie. Invece, la voce
gracchiante di Ramsey mi giunge alle orecchie con una decisione tagliente,
quasi chirurgica.
“Agente Barley,
l’aspetto al più presto nel mio ufficio”.
Resto in silenzio,
sorpreso.
“Subito?” domando dopo
un attimo.
“Appena può.
Immediatamente, se riesce” e riaggancia. Il tono di voce glaciale e l’estrema
sintesi non mi lasciano presagire nulla di buono, ma realizzo che probabilmente
deve essere rimasto colpito dalle prove che gli ho consegnato, non può essere
altrimenti.
Torno quindi a
dirigermi verso il commissariato.
L’ufficio di Ramsey ha
la porta chiusa. Busso educatamente.
Attorno a me aleggia un
silenzio ovattato, poiché oltre la metà dei colleghi è già a casa e l’altra è
impiegata lungo le strade e in interventi d’urgenza.
In questa atmosfera
surreale, la porta si spalanca.
Ramsey mi osserva con
gli occhi socchiusi, quasi torvi, sembrano stanchi; non trapelano nulla se non
una discreta preoccupazione. Avverto un nodo alla gola.
“Prego” mi invita a
entrare.
Appena varco la soglia,
noto immediatamente la figura slanciata e attempata dello sceriffo, che a
braccia incrociate all’altezza del petto mi osserva con insistenza, appoggiato
con la schiena al muro. Sembra un boss.
“Dove ha trovato
queste, agente?” chiede subito, senza nemmeno lasciarmi accomodare. Sbatte
sulla scrivania di Ramsey i fogli che gli ho consegnato diverse ore prima e
anche l’audiocassetta.
“Sono frutto di
scrupolose indagini” soffio, provando a salvarmi in extremis.
In realtà non so che
pesci pigliare. Non so se fidarmi, non so niente… mi lascio crollare il mondo
addosso e vincere dagli eventi…
“Non sono indagini. Lei
ha dichiarato soltanto ieri di non avere uno straccio di prova, poi questa
mattina si è presentato qui con queste… che non so nemmeno come definirle. A
che gioco sta giocando?” è il turno di Ramsey di incalzarmi. Uno si è
posizionato da un lato, uno dall’altro; è come se mi stessero accerchiando.
Questo sta diventando
un interrogatorio.
“Non importa, servivano
prove ed io, lavorando giorno e notte, le ho fornite” provo a difendermi.
“Nessuno le ha chiesto
di ammalarsi per questo caso, agente speciale Barley. Anzi, le avevamo detto di
prepararsi ad archiviarlo”.
Lo sceriffo è
imperturbabile.
“Credo che sia meglio
per lei sospendere questa operazione. Ci consegni pure il distintivo da agente
speciale, da adesso in poi è di nuovo declassato”.
I miei occhi passano da
uno all’altro, frastornati. Resto per qualche istante a bocca mezza aperta;
cosa ho sbagliato, per essere punito così?
“Io…”.
“Lei non deve dire
niente, né pensare” taglia corto il più anziano, “ha sbagliato, sbagliato
tutto. Lasci perdere, non è un lavoro che fa per lei; le sarà più utile tenere
a bada i fogli su una scrivania, oppure andare a sostituire un semaforo quando
si rompe”.
Sono mortificato,
avverto il mio viso che avvampa.
“Allora?” Ramsey
incalza e allunga la mano destra; pretende il distintivo.
Lentamente, lo estraggo
dalla tasca e glielo consegno. Fine della mia avventura da agente speciale.
“Entro domani firmerà
l’autorizzazione per archiviare il caso. Ufficialmente non c’è uno straccio di
prova, è tutto inesistente” prosegue lo sceriffo, mentre afferra i fogli che ho
consegnato a Ramsey e si mette a strapparli a pezzetti piccolissimi, “questi
infatti sono documenti falsi. Ha commesso un grave errore ad accettarli e a
leggerli, evidentemente chi glieli ha fatti avere aveva interesse a metterla
fuori dalle indagini. E lei ci è cascato in pieno”.
Abbasso lo sguardo, mentre i frammenti di
carta finiscono nel bidone.
“La nostra
chiacchierata finisce qui, agente Barley. Domani pomeriggio sarà in servizio
nel suo nuovo ufficio, sia puntuale” e così mi liquida.
Ramsey fa una leggera
pressione contro il mio braccio destro, spingendomi verso l’esterno, e in
effetti mi sento meglio solo quando sono fuori da quella stanza infernale.
A quel punto, il mio
superiore mi dona un’altra occhiataccia, prima di lasciarmi andare.
“Non dica a nessuno di
questo breve colloquio e si faccia gli affari suoi in silenzio. Non ci
piacciono i chiacchieroni. Dica una sola parola e si ritrova fuori da questo
commissariato, con tanto di una bella denuncia a pendere sulla sua testa”.
“Denuncia… per cosa?”
riesco a chiedere, deglutendo.
“Per quei documenti
falsi che ha consegnato. Ha dimostrato di essere un pericoloso ingenuo” così
dicendo, mi dà le spalle e torna a chiudersi nel suo ufficio.
A risuonare per un
istante nel silenzio che mi circonda è solo il rumore prodotto da
un’audiocassetta che viene frantumata sotto una scarpa.
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Capitolo 14 *** Capitolo quattordici ***
Capitolo quattordici
CAPITOLO QUATTORDICI
“Non sprecare tempo a
discutere
su come dovrebbe essere
una brava persona.
Fai in modo di esserlo”.
Marco Aurelio.
“Molti uomini, come i
bambini,
vogliono una cosa ma
non le sue
conseguenze”.
José Ortega y Gasset.
Come hanno potuto farmi
questo? Io li rovino.
Solo a questo penso,
mentre torno a casa.
Il cellulare squilla
continuamente, mia moglie e i miei figli saranno ansiosi di scoprire cosa mi
sia successo, ma più la vicenda si infittisce e confonde, meno voglia ho di
parlarne.
Mi hanno revocato il
distintivo speciale e mi hanno appena declassato, con la scusa di aver portato
documenti falsi. Un’audiocassetta, poi, che adesso non si usa neanche più?
Nessuno sa più usarle, nemmeno registrare con quelle.
Mi hanno incastrato e
fatto fare una figuraccia.
Che fare, ora? Andare a
cercare quell’infermiera e denunciarla per aver intralciato le indagini?
Sicuramente no, la signora Stradford ha detto che c’è lei dietro a quei
documenti che ho ricevuto, quindi se colpissi una persona pagata da lei sarebbe
ancora peggio, avrei anche altri avversari. Ho sbagliato quando le ho permesso
di prendere confidenza con me e con il caso riguardante suo padre.
A un certo punto, ho
tutto chiaro; anche se mi costa molto, devo chiamare il numero che la signorina
mi ha lasciato qualche ora prima e che ancora conservo nella tasca dei
pantaloni. Devo parlarle quanto meno per dirle in faccia come mi ha rovinato e
che figura mi ha fatto fare; ormai la mia carriera è finita, posso anche
permettermi di dire le cose in faccia.
In preda alla furia
della disperazione, parcheggio a lato della strada e mi affretto a comporre
quel numero senza pensarci due volte, altrimenti potrei pentirmene.
Naturalmente squilla,
libero.
“Agente speciale
Barley” afferma la quasi innaturale voce suadente eppure allo stesso tempo
inconfondibile della signorina Stradford.
“Non ho nemmeno bisogno
di presentarmi, eh” affermo a mia volta, “aspettava una mia telefonata, sapeva
bene in che guaio mi ha cacciato. E non stia nemmeno più a chiamarmi agente
speciale, d’ora in poi mi toccheranno solo scartoffie e semafori rotti”.
“Come… io?” quasi
stride con fare innocente, “io proprio no, al massimo è lei che si è cacciato
in un bel guaio da solo. Cosa le avevo detto?”
“Vuole prendermi anche
in giro, eh?” mi arrabbio.
“Non se la prenda,
Barley. Le volevo solo ricordare come mi fossi sgolata a dirle che non doveva
fare mosse avventate, poiché non sarebbero state ben gradite dai suoi
superiori”.
Noto che ha già
glissato sull’agente speciale, ma solo per una frazione di secondo, dal tanto
che sono preso da ciò di cui stiamo parlando.
“Se quello che mi ha
consegnato è vero, e rappresenta la verità, perché mi hanno trattato da
bugiardo? Perché tutto è stato distrutto e cestinato? Perché adesso sono nella
merda fino al collo e ci ho fatto una figura del cazzo? Eh?”
Mi lascia sfogare a
dovere, prima di tornare a parlare con grande calma.
“Se lei crede che la
verità possa facilmente vincere sul male e sul potere, be’, si è fatto un’idea
sbagliata della realtà americana” replica.
“Eh no, eh…” la
interrompo, non voglio che inizi a dire stronzate così grosse da potermi
compromettere ancora di più.
“La linea è protetta,
agente. Nessuno può ascoltarci. Ma dove ha vissuto finora, in quale mondo? I
soldi possono aprire così tante porte, come vede, da potermi permettere di non
essere mai intercettata. Ed è solo il minimo che io posso ottenere. Uno
schiocco di dita, tre o quattro mila dollari ed ecco che qualcuno tradisce e
saltano fuori tonnellate di prove schiaccianti”.
Resto in silenzio.
“Barley, credo sia
meglio se ci parliamo faccia a faccia…”.
“Non penso proprio. Sta
interferendo nelle indagini…”.
“Ma quale indagini?” e
ride, per un istante, “quali, che domani firmerà la loro archiviazione? Quali,
che adesso lei è ufficialmente fuori dal giro? Ora non è più nessuno, è solo un
guarda-semafori, come mi ha appena detto. Può parlare serenamente con me”.
“Come fa a sapere
tutto?” le domando, perplesso e ferito per i dettagli riportati, attenti e
umilianti nella loro precisione.
“Gliel’ho detto;
qualche dollaro elargito ed ecco che ci sono fughe di notizie, e gli uccellini
cinguettano. Deve ancora capire come funziona il mondo, sto notando”.
“Be’, se sono un idiota
fallito, un guarda-semafori, si trovi un altro agente disposto ad aiutarla. Io
non posso più”.
Non mi lascia dire
altro.
“Forse non ha nemmeno
capito, nella sua mente semplice, che da ora in poi dovrà fare il mio gioco.
Sarà proprio costretto a farlo, sa? Perché è in pericolo, ne va della sua vita
e di quella della sua famiglia…”.
“Lei non sa cosa sta
dicendo” dichiaro, “una pazza linguacciuta”.
“Pazza o meno, Barley,
non si muoverà da lì. Ho già fatto localizzare la sua automobile grazie al
segnale del suo cellulare, e i miei uomini sono già da lei, apra la portiera e
si faccia accompagnare da me. In modo pacifico, s’intende”.
“Ma…” non riesco a dire
altro. Questa è pazza.
Però… butto l’occhio
nello specchietto retrovisore e vedo diverse figure che, immerse nell’ombra, sono
già presso la mia macchina.
Fiondo la mano verso la
chiave inserita nel cruscotto, ma la portiera si apre all’improvviso e una mano
mi afferra saldamente.
“Che cazzo, lei è
proprio pazza…” il telefono mi scivola via dalla mano sinistra mentre l’altra
agguanta il volante, nella speranza di opporre resistenza, ma è tutto inutile.
Queste sono braccia esperte e abili in questo genere di impieghi.
Mi trascinano fuori
dall’abitacolo con facilità, faccio solo in tempo ad ascoltare le ultime parole
pronunciate dalla Stradford, prima di perdere il contatto uditivo con il mio
cellulare.
“Mi ringrazierà per
quello che le sta accadendo, e lo farà anche presto, non si preoccupi”.
“Non ho la gnocca, non mi interessa”.
La mia risposta accende gli iridi di G, che mi dona un’altra
occhiata profonda e pesantissima.
“Che significa? Non sarai mica uno di quelli sbagliati”.
Resto in silenzio, a lui però non sembra interessare
particolarmente il voler calare di nuovo la lama.
“So che a molti non piace la fica, ma solo perché non l’hanno
mai provata. Non sanno cosa vuol dire intingerci il biscotto, no? Quanto godi e
quanto puoi far godere. Pensa che basta molto poco, ragazzo, molto poco”.
Inizia a infastidirmi, sposto lo sguardo ovunque e cerco di
concentrarmi solo sul rossore sempre più evidente del mio viso.
“Prima devi usare la lingua, poi usi la tua asticella e
spingi un po’, di tanto in tanto ti fermi, se no tutto finisce troppo presto…”.
Batto un pugno sul tavolo, inconsapevole di interrompere quel
che secondo lui dev’essere una sorta di prova di eterosessualità.
Una cosa che mi ha sempre fatto particolarmente incazzare è
quando gli uomini più grandi spiegano con tanta volgarità ai giovani come si fa
a scopare, come se al giorno d’oggi per fare sesso servisse ogni volta il consulto
degli anziani. Con un Internet farcito di porno di ogni genere, è da veri
idioti mettersi a fare questi discorsi. Forse li fa solo per vantarsi al mio
cospetto, chissà…
“Che ti prende?!” è sorpreso dal mio colpo di testa, ma non
me ne pento. Almeno ha finito di scassare con il suo racconto osé.
“Francesco, tutto bene?” Sì, bravo, sbaglia anche nome.
Buonanotte.
Mi alzo e me ne vado, l’abbandono così a sé stesso, cazzo me
ne.
Mi allontano da lui quasi di corsa, attraverso la strada e il
mio unico obiettivo diventa, improvvisamente…
…il mio orticello. Mi accoccolo tra piante da frutto e
ortaggi come se mi attendessi conforto dalla Madre Terra.
E la terapia pare funzionare subito, poiché poco dopo già mi
sento leggermente meglio.
Perché l’essere umano è così stupido, idiota, disgustoso?
Perché? G è un uomo dall’apparenza di spessore, eppure appena molla la lingua
diventa uno zoticone di primo grado. Può una bellezza fisica al suo culmine,
pochi istanti prima di sfiorire per sempre, essere solo la scorza per un animo
così inconsistente?
Ma, soprattutto, quante maschere ha G?
Se da una parte posso affermare di essere una frana completa
con gli esseri umani, dall’altra posso scommettere che o ho avuto sfortuna con
le persone, oppure tutte hanno un lato oscuro da paura. Conoscere il G gioviale
fa bene all’animo, ma vedere il suo lato becero, be’, è una coltellata dritta
al cuore.
Ecco, solo ora inizio a sentirmi meglio, quando il terreno
sembra scaldarsi sotto di me e avverto una rinnovata armonia con il cosmo e
tutto quello che mi circonda. Grazie a Dio che l’Universo non è composto solo
da persone, se no che palle, che schifo, che grande sperpero di materiale
organico.
Guardo ciò che mi circonda, ciò che non è umano, e ritrovo la
pace dei sensi.
G? Affanculo, G.
Però, ecco che più mi calmo e più inizio a pensare di nuovo a
lui, a quanto io voglia renderlo appetibile per me. Sono malato, vero? Cerco di
rendere una persona migliore di quello che è, nella mia mente; di renderla
perfetta per me, cioè ciò che nella realtà non è affatto.
G non è la persona giusta, sia per la differenza complessiva
e sia per la mentalità, eppure mi piace pensarlo dolce, buono, con quella
maschera che indossa qualche volta, insomma. Mi piace immaginarlo così, al di
là della realtà.
Sbaglio e mi faccio solo del male, ora me ne accorgo e ne
sono per la prima volta consapevole, ma che ci posso fare? Ho sempre avuto una
immaginazione troppo fervida per essere arginata.
Sapesse G quante storie del cazzo sviluppo nella mia mente, e
quanti intrecci infidi! Altroché le sue spiegazioni a riguardo del sesso.
Eppure, ecco che G mi manca già, tanto tanto. Non G come
persona, ma come maschera. E se anche quella maschera non rispecchiasse una
realtà, neppure momentanea? Ma per favore, beato cervello, lasciami un po’ in
pace a meditare.
Adesso sono qui, al sicuro con Madre Terra, cullato dai suoi
figli vegetali e animali; sono al sicuro. È tutto a posto, devo solo inspirare
ed espirare lentamente per un po’, poi tutto tornerà come prima, potrò tornare
a sorridere e a riprendere in mano la mia vita dopo un’oretta di imbarazzante
confusione.
Il mio viso già riprende gradualmente il suo colorito
naturale.
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Capitolo 15 *** Capitolo quindici ***
Capitolo quindici
CAPITOLO QUINDICI
“Hai dei nemici? Bene.
Questo significa che
hai lottato per qualcosa, a volte,
nella tua vita”.
Winston Churchill.
“Chi si innamora si
innamora di sé stesso”.
Tonino Guerra.
Sono un ostaggio, senza
ombra di dubbio.
Cerco di divincolarmi
agli energumeni, non mi frega un accidente di quello che quella matta ha detto.
Sono furioso, ma anche
sbigottito. Cosa vorrà farmi quella donna? Davvero crede di potermi utilizzare
in qualche modo?
Penso di essere passato
dalla padella alla brace.
I miei rapitori, come
tali li considero ormai, mi obbligano a tenere le braccia incrociate dietro la
schiena e mi spingono dentro a una berlina nera dai vetri oscurati.
Alcune macchine
transitano a tutta velocità, spero che abbiano notato quel che sta accadendo e
che si fermino magari per aiutarmi o quanto meno denunciare il fatto, ma tutti
tirano dritto. È buio, forse a quella velocità nemmeno si concentrano sui
dettagli a margine della carreggiata.
Noto che uno degli
omaccioni è salito a bordo della mia auto e si accinge a guidarla, per portarla
chissà dove. Smanetta pure con il mio cellulare, sporco bastardo…
“State commettendo un brutto
errore” sancisco, rivolgendomi ai due energumeni che si sono seduti ciascuno a
un mio fianco e all’anonimo guidatore.
Nessuno risponde o fa
una piega. La berlina schizza via, con la mia automobile che apre la strada.
Non ci vuole molto
prima di giungere alla meta; villa Stradford.
L’avevo visitata solo
una volta di giorno, e devo ammettere che tra batticuore e buio mi sento
avvolto in una atmosfera degli orrori. Mi rassicura solo la consapevolezza che
la signorina ha commesso uno sbaglio così immenso da metterla nei guai per
prima, soprattutto portandomi pure a casa sua. Va bene che la residenza ha un
buon livello di isolamento, ma neanche troppo eccessivo.
Sono comunque convinto
che sarà il primo posto nel quale mi cercheranno l’indomani.
La berlina si ferma e
vengo spinto a scendere; al cospetto del monumentale ingresso, la signorina
Stradoford mi aspetta con tutta la sua spocchiosa eleganza. A passi lenti
scende la breve scalinata e si posiziona a fianco della mia macchina, anch’essa
portata lì.
“I miei ragazzi non le
hanno fatto mancare niente, vero, agente?”
“Non faccia
dell’ironia, per favore. La situazione è gravissima!” quasi l’attacco,
furibondo.
“Lasciatelo
immediatamente” riprende gli energumeni con severità, per poi avvicinarsi a me.
Mi passo le mani sulla
divisa, provando a rivitalizzare gli arti indolenziti dalla scomoda posizione
che ero stato costretto ad assumere, mentre penso a come attaccare verbalmente
la donna, al fine di andarmene al più presto e di farla ragionare. Lei però mi
sorprende; si avvicina a passo felpato e con una familiarità naturale mi
appoggia entrambe le mani sulle spalle.
“Venga in casa, la cena
l’aspetta”.
“La cena…” m’interrompo
un attimo, quasi balbetto e m’inceppo, perché da una parte vorrei aggredirla,
ma dall’altra il contatto mi ha trasmesso un senso di smarrimento, “…la cena me
l’ha preparata mia moglie. I miei figli mi attendono”.
“Per favore” infine
sussurro, quasi pietosamente.
La signorina mi
sorride, e il suo viso s’illumina grazie al bagliore soffuso di una lampada da
giardino posizionata a poca distanza.
“La sua famiglia è al
sicuro e al corrente di tutto, presto potrà contattare sua moglie e domani
tornerà da lei. Però questa notte abbiamo alcune cose su cui parlare”.
“Non mi rassicura,
così. Si sta comportando in modo scorretto, oltre che violando tutte le leggi
civili”.
“Altri l’hanno già
fatto in modo più grave, agente. E si fidi di me, una buona volta; sto facendo
tutto questo per il bene comune”.
“Mi sta sequestrando.
Le sembra una correttezza?”
“Forse sì, forse no.
Non lo so” sorride, “credo che sia meglio chiacchierare un attimo, prima di
cenare. Che ne pensa?”
“Posso scegliere?” le
domando, ironico e abbattuto.
Gli energumeni restano
a un paio di centimetri da me, pronti a fermarmi al primo movimento.
“Direi di no” risponde
lei, non senza una pacata vena ironica.
La villa della famiglia
Stradford mi pare più cupa del giardino. Se fuori almeno c’è un lampioncino che
illumina la prossimità dell’ampio ingresso, tra le mura domestiche solo delle
lampadine allungate si prendono cura della luminosità dei vari ambienti. Di
quelle lampadine di una volta, dalle forme arzigogolate e dal colore caldo, non
certo a led.
Questo getta ombre di
svariati generi un po’ dappertutto.
La signorina mi fa accomodare
in un ampio salotto e mi indica una poltroncina di velluto; di fronte a me, un
tavolino di vetro. Con sopra… sta a vedere…
“No” mormoro,
bloccandomi sul posto.
Sul tavolino ci sono le
prove e i documenti che avevo lasciato a casa quella stessa mattina. Alzo lo
sguardo verso la Stradford e mi sento afferrare di nuovo dai due bastardi,
prima che possa compiere qualche avventatezza.
“Agente, deve smetterla
di essere così irascibile. Gliel’ho detto, qui siamo tra amici, inoltre le
posso garantire e continuerò a spergiurarglielo che la sua famiglia è protetta
e tranquilla. Però queste prove dovevo riprendermele, altrimenti le
troveranno”.
Angelina si siede
davanti a me e ancora una volta si dimostra di una tranquillità impeccabile.
Mi sbollisco un attimo,
consapevole di essere ormai impotente.
“Spero veramente che
sia così” riesco a dire solo questo. Ora penso solo alla mia famiglia, al
diavolo questo caso.
“E’ così, glielo giuro”
ribadisce, più seria che mai, prima di compiere un ampio gesto categorico con
le mani, “ma adesso andiamo al punto, prima che le prenda un infarto”.
Si siede e i due
energumeni mi obbligano a farlo a mia volta. Non oppongo alcuna resistenza,
prima si sfoga la pazza e prima sarò libero di tornare a casa, almeno spero.
“Tutto questo sta
succedendo perché io le permetterò di tornare ad essere un agente speciale”
afferma dopo un attimo di silenzio.
“Questo non è affatto
possibile, signorina. Sa che ho perso la carica, me l’ha confermato lo sceriffo
poco fa…”.
Lei banalizza ancora con
un gesto repentino delle mani e mi interrompe senza troppi rimorsi.
“Sa che esistono
cariche superiori allo sceriffo. Domattina nell’ufficio di questo signore,
appunto, giungerà la richiesta di riaffidarle di nuovo il distintivo speciale e
il caso”.
“Non…” balbetto, “non
posso. Non ne sono convinto. Questa storia non mi piace…”.
“Le piace, le piace”
torna ad interrompermi di nuovo, “perché lei è la persona giusta per me. Potrei
trovare un’infinità di agenti pronti a un pericoloso ruolo di primo piano, ma
nessuno è dotato della sua matura saggezza e della sua cautela. Agente Barley,
lei mi aiuterà a distruggere i piani della Saint Mary House e la corruzione
della polizia locale, vendicando mio padre”.
“Io…”.
“Si farà tanti nemici,
questo lo sa, vero? Da domattina nulla sarà più come prima, ma la sua famiglia
e la sua casa saranno protette a mie spese e sempre a mie spese avrà libero
accesso a ogni luogo dello Stato. Dovrà solo fidarsi di me e lasciare che
un’altra persona fidata l’aiuti”.
Alle sue spalle emerge
gradualmente una figura, dalla penombra. Si tratta di un uomo.
Appena la luce illumina
il suo volto, non stento a riconoscere quel signore che ho urtato per errore
all’ingresso della clinica qualche giorno prima.
“Mi ha riconosciuto,
vero?” chiede, sorridendo.
Annuisco.
“Sono il detective
Jerry Dalton, e non per vantarmene, ma sono il migliore di tutto l’Ohio. La sto
aiutando a raccogliere decine di prove e a far parlare chi sa. D’ora in poi
sarò un suo alleato fedele e saprà che in ogni caso potrà fidarsi di me”.
Sono confuso e non so
bene cosa dire; sembra che mi stia precipitando il mondo addosso. Credo infine
che quelli siano tutti dei pazzi che non sanno quel che dicono.
“Avete tutte le prove
tra le mani, avete una testimone e pure alte cariche delle Forze dell’Ordine
dalla vostra parte. Sono inutile per questa causa, come ho dimostrato. Rifiuto,
se posso” cerco razionalmente di dire. Un mio diniego, tuttavia, non fa
cambiare idea alla Stradford.
“Non può” afferma,
infatti, “e si ricordi di queste nostre parole. Lei domattina si sveglierà e
sarà in pericolo; avrà tutti contro, soprattutto i suoi superiori locali. Ma
saprà di chi fidarsi. Il numero è quello che le ho lasciato, la linea protetta è
il canale più sicuro per comunicare liberamente. Le chiedo solamente di recarsi
al commissariato e di tornare a prendere in mano il distintivo, prima di
tornare a fare un bel giretto alla clinica…”
“No!” grido.
“Con lei non si può
parlare, credevo fosse più ragionevole. Tuttavia so che domattina lei agirà
come le ho detto, non ha altre occasioni per aver salva la pelle, la famiglia e
la carriera… stia al gioco, per favore; avrà anche un amico ad aiutarla, da ora
in poi”.
Cerco di rispondere
ancora mentre il mio cuore accelera ulteriormente i battiti, ma una mano mi
comprime sul naso e sulla bocca un fazzoletto umido.
Sono costretto a
inspirare il sonnifero, nonostante mi dibatta il forzuto che mi opprime non mi
lascia scampo. Presto vengo avvolto dal nulla.
A Sud-Est di Cesena, ci sono decine di paesini strani.
Ci vivono poche persone, si tratta per lo più di borghetti
affacciati su strade provinciali dalle buche profonde, carreggiate ampliate in
fretta e furia sul finire degli anni Novanta e poi lasciate al loro destino.
Sono pochi i centri abitati degni di rilievo. Eppure, una
cosa che mi ha sempre affascinato di questa porzione di Romagna è che lì tutto
all’improvviso cambia; nei nomi delle varie località spariscono i riferimenti a
santi o a centri conosciuti, è come se quel lembo di terra proteso tra le
colline e il mare Adriatico avesse scelto un destino a sé stante.
In un semplice viaggetto di meno di mezz’ora si può
attraversare Mensa, Matelica, Cannuzzo, Montaletto, Pisignano. Ancora centri
dai nomi meno assurdi. Poi, ci si addentra in quella zona che tanto mi affascina,
dove la terra diventa sabbiosa e dipende da quale direzione scegli, poiché
appunto dalla tua scelta dipende quello che vedrai.
Se scegli di andare verso il mare, devi attraversare i
dintorni di Cesenatico, e ti potrà capitare di attraversare Sala, Bagnarola,
Macerone. Se vai verso Cesena e la fascia pedemontana, Ruffio, Calabrina, Villa
Calabra, Pioppa, Bulgarnò, e…. Bulgaria. Ebbene sì, oltre a nomi strambi e a
regioni d’Italia, viene tirato in ballo pure uno Stato balcanico.
Anni addietro amavo questo limbo, mio padre mi ci portava
spesso a fare giretti in macchina per farmi passare il tempo. Ero un bambino
molto semplice e non mi ponevo tante domande, mi limitavo a osservare il
graduale scorrere dei piccoli centri abitati e i tramonti rossicci di quelle
aree rurali, dove i campi si estendono a vista d’occhio e le case sorgono solo
lungo le strade principali.
Nel crescere, fantasticavo su questi nomi e mi faceva ridere
Bagnarola, che mi faceva pensare subito a una barchetta mezza marcia che
imbarca acqua da tutte le parti; Macerone, che immaginavo come una macedonia di
frutta marcia. Pioppa, che immaginavo come un grande albero secolare; Sala,
come appunto una stanza di casa.
Insomma, prima che iniziassi a scrivere stronzate, la mia
mente già prendeva le sue sciocche vie.
Un giorno, nel crescere, quando l’adolescenza era ormai
finita e la barba nera già folta, mi sono reso conto che non tutto in questa
porzione di terra è dovuto al caso o alla banalità. Quei nomi assurdi e
strampalati sono infatti tutti nati da vicende storiche ben precise; Sala,
appunto dalla parola germanica probabilmente portata in Italia nel primo
medioevo, a indicare un importante centro longobardo.
Bulgaria e Bulgarnò, paesini vicini ma accomunati dall’essere
stati popolati dai Bulgari (o proto-bulgari) giunti nella penisola a più
ondate, giunti per dare man forte ai Longobardi, che donarono loro terre in
quel territorio faticosamente strappato ai bizantini.
Tutto ciò solo per fare un esempio pratico, non mi metterei
mai a fare una noiosa lezione di Storia, immaginando che a nessuno importi di
questi miei pensieri o di ciò che sto provando a cianciare.
Comunque, alla fine ho scoperto che nulla nella vita dipende
dal caso, nemmeno il nome di un paesetto insignificante immerso in campagne
sconosciute ai più. Piccole località composte da persone ormai anziane, mai uscite
da lì, e poco importa se hanno il mare a due chilometri… non ci sono mai
andati, nel migliore dei casi mai sono usciti dal cesenate.
Molte di queste persone hanno detto addio alle terre dei loro
antenati, dove per secoli le generazioni e le varie famiglie si sono
imparentate tra loro senza mai aver avuto bisogno di tanti sogni di grandezza.
Senza cellulari, senza tecnologia. E gli anziani di adesso, costretti a
lasciare Bulgarnò per finire in strutture a Cesena, in cui trascorreranno il
tramonto della loro vita, piangono e si disperano.
Non vogliono andare, sanno che non torneranno mai più. Poco
importa se le città apriranno loro le porte e li proteggeranno con strutture
attrezzate e personale medico adeguato, proprio no.
Ho visto giovani a cui fa sorridere tutto questo e provano
umanamente a incoraggiare i nonni, a dire che là staranno meglio, ma ciò non
basta. Quella è la loro casa. Nella sua infinita piccolezza.
E noi giovani, cresciuti con il mondo contenuto in un
cellulare e la geografia imbottigliata in un navigatore satellitare, sprezzanti
della morte, cosa ne sappiamo di tutto questo dolore? Cosa ne supponiamo? Che
non capiamo un emerito cazzo.
Mi rendo conto di come un paesino minuscolo e sconosciuto
come Bagnarola possa essere una capitale per qualcuno. È solo questione di
punti di vista.
Volle il Destino che, proprio da uno di questi borghi,
provenisse il mio G, ma questa, ancora una volta, è tutta un’altra storia. Adesso
che mi è passata la scottatura, sono pronto a rialzarmi ancora una volta. E ad
amarlo, nonostante tutto… e chissà quante volte ancora batterò la testa nella
mia cocciutaggine, che per lui tanto non conto una minchia, e chissà ancora quante
altre volte sarò costretto a rifugiarmi in pensieri stupidi o in storie
malsane, al fine di trastullare questa mia povera mente senza pace né gloria.
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Capitolo 16 *** Capitolo sedici ***
Capitolo sedici
CAPITOLO SEDICI
“Un’ingiustizia
commessa in un solo luogo
è una minaccia per la
giustizia in ogni luogo”.
Martin Luther King Jr.
“Il capolavoro dell’ingiustizia
è di sembrare giusto
senza esserlo”.
Platone.
Mi risveglio
dolcemente, come se quella fosse una mattinata tranquilla. E infatti a
tranquillizzarmi è il profumo delle lenzuola del letto, familiare.
Sono sicurissimo di
essere a casa mia.
Non apro gli occhi
fintanto che non mi torna in mente quel che ho vissuto la sera prima; ma è poi
tutto vero? Oppure è stata un’allucinazione? Perché ora che spalanco gli occhi
ecco che mi ritrovo, appunto, nella stanza da letto a casa mia.
L’unica nota che stona
nella calma circostante sono gli occhi arrossati di mia moglie, che è seduta a
mia fianco e mi fissa con preoccupata insistenza.
“Ehm…” tossicchio e
borbotto, intorpidito.
“James, cosa è
successo?” mi chiede subito.
“Cosa… è successo?”
faccio da pappagallo, intorpidito e confuso per qualche istante. Poi,
l’illuminazione. Cazzo, quelli mi hanno drogato, o che ne so… quanto sto male,
mi sembra che la testa stia per esplodere.
“Mi hanno rapito”
sussurro e balzo a sedere sul letto, poi prendo mia moglie per le spalle e la
percuoto piano, come a volerle far credere cosa è successo. “Mi hanno rapito”
ripeto ancora, lei sbigottita che mi guarda, “temevo per voi. Ma adesso che ti
vedo so che è tutto a posto”.
“O quasi” dice Tiffany,
“devi spiegarmi perché quegli uomini muniti di distintivo hanno messo a
soqquadro la casa ed hanno portato via un plico di fogli. E perché quell’uomo
laggiù ti aspetta…”. Allungo lo sguardo oltre il vetro della finestra e vedo
quel demonio di detective che mi era stato presentato prima di addormentarmi.
Sento una rabbia
insormontabile che accresce dentro di me.
“L’importante è che
stiate tutti bene. Veglia sui ragazzi. Devo andare” scocco un bacio sulla
fronte di mia moglie e mi getto a capofitto verso il piano inferiore, mentre il
dolore alla testa svanisce man mano.
Apro la porta e mi
trovo di fronte a due energumeni in divisa, di certo tirapiedi della Stradford.
“Dovete andarvene”
intimo loro. Naturalmente non fanno una piega, solo uno dei due mi rivolge uno
sguardo stanco, prima di volgersi di nuovo verso la strada.
“Basta con questa
messinscena. Andatevene…”.
“E’ inutile che
sbraiti, amico. Vieni in strada e ne parliamo”. La voce del detective reclama
la mia attenzione, e poiché dai due gorilla non ne ottengo, gliela dedico per
intero.
Gli vado incontro con
fare minaccioso, esco dal giardino quasi di corsa e gli metto l’indice sotto al
mento.
“Dovete andare via. È
ora di farla finita, non starò mai al vostro gioco”.
“Io dico di sì, invece”
l’uomo ghigna ed abbassa il mio indice con un movimento rapido della mano
destra. “La tua missione, agente speciale Barley, è quella di rendere giustizia
a chi non c’è più e di rendere migliore questo mondo. È una missione etica,
come vede”.
“Non sono un agente
speciale e non mi interessa” replico.
“Invece lo sei, amico”
e ride.
“Poca confidenza!”
“Saremo colleghi per un
po’, non vedo perché non stare rilassati nei momenti condivisi”.
Scuoto forte il capo.
“Devo picchiarti a
morte per farti capire che non mi scasso più le palle per voi!?”
“Se lo fai, sei un uomo
morto. Te e tutta la tua famiglia. Vuoi che tua moglie e quei due bei ragazzi
non abbiano un futuro?”
“Stanno così le cose,
allora?”
“Sì” annuisce,
fregandosene di tutto, “dato che non la capisci con le buone, devi capirla con
le cattive. E adesso andiamo in commissariato e vai a riprenderti il tuo
distintivo; nel frattempo, parliamone”.
Sì, sono evidentemente
sotto sequestro, e la cosa non mi piace.
Il detective guida la
sua berlina nera, del tutto identica a quella in cui sono stato rapito la sera
prima; potrei anche cercare di fare qualcosa, ma poi? A casa i bastardi
vegliano sulla mia famiglia. Potrebbe accadere di tutto.
Potrei denunciare tutto
questo ma non otterrei niente, ormai penso di aver perso il supporto di
chiunque. È meglio tentare di stare al gioco.
“All’interno di quella
clinica portano avanti costosissimi esperimenti sugli esseri umani. Il loro
scopo è testare nuovi e costosissimi farmaci da immettere nel mercato
farmaceutico. I pazienti vengono maltrattati e le violenze continuano da
decenni, poiché tutto è gestito da alcuni vertici di altri Stati vicini, nel
ruolo di attenti finanziatori. Il nostro scopo, d’ora in poi, sarà quello di
mandare all’aria la faccenda, e neppure in modo tanto velato”, spiega il
guidatore, risoluto.
“Quanto ti ha pagato la
matta, per inculcarti questa storiella?” domando io, per nulla sfiorato da quel
che ho appena sentito.
“Agente Barley, sai
bene che sto dicendo la verità. Anche se non hai letto tutti i fascicoli
riguardanti le precedenti indagini, hai ascoltato alcune registrazioni e letto
alcune prove; sei a conoscenza del terribile inghippo svolto contro l’onorevole
senatore Stradford, che aveva scoperto troppo, e ciò che è accaduto ad altre
persone”.
“Lo so bene. Tuttavia
penso che la signorina debba trovarsi qualcuno di migliore di me, per mettere a
freno questa follia. Io sono inutile e impotente in tutto questo, non ha senso
che mi raccontiate la vicenda”.
“Questo lo dobbiamo
ancora vedere” gradualmente rallenta, mentre il commissariato si presenta alla
nostra vista.
Mi muovo abilmente
verso l’ufficio di Ramsey. Ho il sangue che mi frigge nelle vene, sento il mio
viso arrossato, so che sto per esplodere.
Il mio superiore mi sta
antipatico e so che non mi può vedere, ma di sicuro potrebbe darmi una mano.
Sono in una situazione
spinosa e lui stesso non ha piacere che indaghi, giusto? Quindi, potrei anche
provare a vuotare il sacco. Sono pur sempre tra i poliziotti.
Eppure, la mia
intenzione svanisce quando mi ritrovo a non dover nemmeno dire una parola,
poiché Ramsey mi attende nel mezzo della porta dell’ufficio e non appena mi
scorge si affretta ad allungarmi il mio distintivo da agente speciale.
“Barley, non so a che
gioco sta giocando, ma le garantisco che è un pessimo intrattenimento” dice.
Il suo viso è violaceo
dalla rabbia, non l’ho mai visto in vita mia così arrabbiato.
Provo a dire la mia ma
lui già mi volge le spalle e si chiude nel suo ufficio.
Bene, altri nemici
dichiarati che vanno a sommarsi a tutto il restante casino. Cosa ho sbagliato,
nella mia vita?
Torno in macchina e il
detective è ancora al volante.
“Allora?” chiede, non
appena mi accomodo a suo fianco.
Gli mostro ciò che
vuole vedere.
“Ottimo” aggiunge,
“adesso siamo pronti per andare a fare un bel patatrac in quel lager. Ci stai?”
Ha anche il coraggio di
mostrarsi scherzoso, il fetente!
“Non ne sono ancora
tanto convinto”.
“Allora schiarisciti
bene la voce, ti servirà alzarla, temo”.
“Ci servirà” replico.
“No, ti”, sottolinea,
non senza un pizzico di sarcasmo, “questo è il tuo compito. Io ti agevolo, la
signorina ti spiana la strada e apre le porte. Però i passi devi farli tu da
solo”.
Digrigno i denti.
“Che cazzo di discorsi
sono?!” sbotto, nervoso al solo pensiero di tornare da solo in quel covo di
vipere.
“Sei tu l’agente
speciale, non io o la Stradford. Sei tu che rappresenti la Legge e che andrai
contro anche ai tuoi stessi colleghi, al fine di far regnare la giustizia.
Quindi, i denti digrignali tra un po’, non ora”.
“Il mio ruolo non è più
quello da agente, bensì da burattino”.
“Se così la vuoi
vedere”.
“Mi sto incazzando.
Sono pur sempre un agente, potrei arrestarti”.
“Provaci e ti spacco la
faccia” ride, “comunque non ti conviene. I figlioli e la moglie li vuoi salvare
oppure vuoi che finiscano a loro volta in quella clinica? Su di loro, così
giovani, proverebbero tante novità…”.
“La mia famiglia non si
tocca!” urlo.
“Allora fai il bravo.
Stai svolgendo il tuo mestiere, ricorda, non stai facendo null’altro.
Abbatterai la corruzione e porterai la giustizia” aggiunge, questa volta con
serietà.
“E ricordati questo” mi
indica un foglio sul cruscotto.
Mi allungo, lo afferro
e non ho difficoltà a notare che si tratta di un mandato di perquisizione,
firmato dal Governatore in persona.
“Fallo fruttare nel
modo giusto” quasi sussurra, prima del lungo silenzio che ci separa dalla meta.
Accade tutto all’improvviso. Alice sparisce.
Sparisce e non torna più da me, non si sa più niente.
La sua casa resta vuota, i vicini sussurrano. Si tratta
tuttavia solo di voci, nulla si sa di certo. Hanno visto lei e suo marito
mentre facevano i bagagli, silenziosi; lei piangeva, pare. Il loro appartamento
è stato messo subito in vendita e i bambini ritirati da scuola.
A quanto pare, sono tornati in Basilicata, la loro Regione
d’origine.
Resto sulle mie e mi faccio gli affari miei, come mio solito.
Il mio silenzio andrà per le lunghe, ancora non so che tra qualche anno verrò a
sapere, casualmente da un cliente dei miei, che Alice è stata portata via con
la forza dal marito che abusava di lei, poiché aveva scoperto che lo tradiva.
Anche quella sarà una voce solitaria sussurrata nel
retrobottega, di quelle da chiacchieroni di paese che vogliono fingersi intenti
a tirare avanti per loro stessi, quando invece hanno sempre le antenne puntate
verso le vite dei vicini.
Non si verrà a sapere cosa faceva con me, né altri dettagli.
Probabilmente aveva anche altri amanti occasionali. Tuttavia, questo sarà fonte
di prossime riflessioni, soprattutto a riguardo di come io avessi interpretato
la faccenda sessuale.
Quel sesso per lei era forse la ribellione all’uomo che le
faceva male e che la opprimeva con violenza.
Non mi sentirò più capace di pensare allo schifo che a volte
mi faceva quando mi veniva a cercare in modo così avido e lussurioso, e mi
ritroverò a ricredermi su quel che adesso penso. Alice non era una pervertita
assetata di cazzo, bensì una persona sola e in difficoltà che tramite il sesso
esprimeva la sua richiesta di aiuto.
E ci sono tanti modi per chiedere aiuto senza dirlo
espressamente, senza urlarlo e peggiorare la situazione. Forse per lei ero
davvero importante, forse davvero per lei ho fatto molto, anche solo donandole
quel momentaneo piacere carnale, che la liberava dal dolore quotidiano. Forse,
appunto.
Un giorno la penserò così e mi chiederò che vita starà
facendo, cosa sarà cambiato per lei. Se starà bene, tutto sommato.
Mi verranno in mente quei lividi che mi aveva mostrato con
disperazione, a quel punto urlandomi in faccia quel che viveva, ma non ho avuto
il tempo né per crederle né per razionalizzare. Alice era forte, lo è e lo sarà
ancora.
Quel giorno mi piacerà immaginarla divorziata e in compagnia
dei suoi figli e di un uomo che sa valorizzarla e rispettarla. Sì, sarò
convinto che sarà finita così.
Ma per adesso mi limito al silenzio, non pongo né mi faccio
domande. Nel mio non volermi fidare di nessuno, non so dare fiducia né
sviluppare il mio senso empatico. Mi sto ancora autodistruggendo.
Con la consapevolezza interiore che non rivedrò mai più
Alice, di questo ne sono convinto, ma per ora non mi dispiace la cosa. Ancora
non sono abbastanza maturo per uscire dal mio guscio e capire la varietà di
situazioni che questo mondo crea; sono ancora troppo egoista, credo che tutto
ruoti attorno al mio compiacimento personale e del resto me ne frego.
Con la donna scomparsa, scompare all’improvviso uno dei
personaggi rivelazione della mia trama.
A colmare questo vuoto inatteso, c’è Mario, che diventa
sempre più apprensivo con me. Me lo ritrovo dappertutto, vestito impeccabile e
dallo sguardo duro e freddo come il ghiaccio, ma che si scioglie non appena le
sue narici giungono vicino alla mia pelle e ne percepiscono l’odore.
La nostra pelle ci chiama.
Ne approfittiamo di ogni secondo libero per farlo, in casa
sua o in casa mia, o nel retrobottega. Anche in questo caso il sesso diventa
una forma di comunicazione; anche per me, che anche se non voglio riconoscerlo
mi ritrovo a essere un po’ spaesato, come se un tassello della mia storia
personale si sia appena volatilizzato.
Tra l’uomo e sua moglie le cose non vanno, non si parlano più
e dormono in letti separati. I figli, che hanno più o meno la mia età, vanno
dalle morose e non tornano nemmeno più a casa, stanchi dei loro continui
litigi. L’azienda non va bene e la crisi si fa sentire. Ma quando le nostre
pelli si incontrano esplode quell’armonia che entrambi non ci aspettiamo.
Mario prende a un certo punto un sopravvento tale da
eclissare, seppur per poco, la scomparsa di Alice.
“Tutto questo non è giusto” riesco infine a dire un giorno,
quando tra le coperte del suo letto singolo riesco a staccarmi dalle sue
labbra.
“Perché?”
La sua domanda è stanca e per nulla sorpresa.
“Perché questo è il posto di tua moglie”.
“Lei mi ha perso da tanto tempo, non l’ho mai amata. L’ho
sposata perché ero convinto che tutto sarebbe andato per il verso giusto e che
saremo stati felici, ma non è stato così”.
Tocco la sua mano sinistra e sfioro il nodo nuziale, come a
volergli ricordare le sue promesse.
“Le parole dette sull’altare vengono ripudiate in un attimo
solo, Alex, amore. Credi che l’infedeltà sia solo mia? Tutti fanno così, prima
o poi, anche se c’è chi sa nasconderla bene”.
Rinfrancato dalle sue parole, torno a baciarlo con forza.
“E se torna?” Sorride.
“Se torna, amen. Non mi importa più. Questa è casa mia e io
do il mio cuore a chi mi pare…”.
Il tempo scorre e fluisce rapidamente, tra coccole e
amplessi.
Dice di amarmi, ma quando scatta l’ora in cui la moglie
potrebbe rientrare, fa presto a tornare di ghiaccio e a cacciarmi via di casa.
Tuttavia, so che l’indomani tornerà a cercarmi.
Anche io divento freddo, perché penso che le persone siano
tutte così, false e bugiarde, traditrici e fedifraghe, solo intente a
compiacere loro stesse e la loro carne. Non hanno morale, non la conoscono. Ma
io non sono tanto diverso e nella mia umanità mi do parecchio da fare,
purtroppo e per fortuna.
Il sesso con persone sposate è un rischio, non è corretto e
viola ogni forma d’onore, ma in fondo appunto ciascuno fa quel che gli pare,
nella sua vita.
Torno a casa che sono sereno, nonostante tutto, e non mi
importa molto. Cerco solo di non pensare troppo.
Eppure, per la prima volta, prima di andare a dormire mi
sento sporco. Lordato da quel che faccio e da quel che gli altri mi invitano a
fare. Qualcosa dentro di me tentenna, inizia a frammentarsi, a spaventarmi. Un buco
nero che però cerco a tutti i costi di evitare.
Lotto ancora e arduamente per non pensare.
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Capitolo 17 *** Capitolo diciassette ***
Capitolo diciassette
CAPITOLO DICIASSETTE
“Non aspettatevi niente
dai bugiardi,
perché loro non
cambiano,
al massimo trovano solo
modi diversi per
mentire”.
Nicola Aghilar.
“Uno sguardo al mondo
dimostra
che l’orrore non è
altro che realtà”.
Alfred Hitchcock.
Mi ritrovo al cospetto dell’ingresso
della clinica Mary’s House, così come altre volte in precedenza. Eppure questa
volta ho la certezza che nulla sarà più come prima.
Suono al campanello e
ad aprire la porta viene un infermiere che non ho mai visto in precedenza. Non
saluta, mi osserva in cagnesco.
Nemmeno io saluto e gli
mostro direttamente il distintivo.
Lui si volge a digitare
qualche parola sul tablet, poi mi fa entrare e se ne va, muto come un pesce.
L’impressione che mi stiano attendendo è palpabile.
Con la porta richiusa
dietro di me, avverto all’improvviso il cuore che batte all’impazzata. Non
voglio ammetterlo ma ho una paura folle, è come se mi avessero messo in
trappola.
Il mercenario della
Stradford è in macchina che mi aspetta, sicuro che non mi torceranno un capello
e che tutto filerà nel migliore dei modi, però lui è solo un detective e di
queste situazioni secondo me non capisce un emerito cazzo. Il suo parere quindi
non mi è di conforto, e il suo invito di alzare la voce e di fare il leone non
mi aiuta.
Questa volta non mi viene incontro un
accomodante Zayne, bensì Morrow, lo psicoanalista, e anche con un’espressione
piuttosto torva.
“Agente speciale
Barley, non è un piacere averla di nuovo qui” va subito al punto. Il suo volto
è di pietra e mi impressiona il fatto che sia proprio venuto lui ad
accogliermi, il mastino della clinica. La sua cattiveria è proverbiale e la si
nota a prima vista, poi dopo che ho ascoltato quella registrazione, be’, sono
rimasto sconvolto. So quindi dove può arrivare un essere del genere e il
batticuore non smette, anzi, aumenta.
Per qualche istante ho
il nodo in gola e faccio fatica a dire qualcosa di sensato, mentre tutti i
brutti pensieri possibili e immaginabili mi frullano selvaggiamente per la
testa in modo caotico.
“Immaginavo” borbotto,
rompendo il silenzio con una vocina fioca che mi spinge ad arrochirla, “ma
un’altra visita era d’obbligo”.
“Credo che lei non si
stia comportando in modo corretto. Una nostra infermiera non si è più
presentata al lavoro, poiché si ritiene spaventata dalle continue indagini sul
nostro conto. Queste diffamazioni sono di certo attribuibili al suo recente
operato”.
E magari questa
infermiera, prima di non presentarsi più, ha anche rovistato nei vostri
cassetti in cerca di materiale utile per accusarvi, mi viene da pensare
all’istante.
“Non penso proprio”
affermo deciso a non volermi sbilanciare, proprio come sta facendo il mio
interlocutore.
“Comunque non sono
venuto qui per fare delle chiacchiere o una visita di cortesia, come le altre
volte” e gli schiaffo sotto al naso il mandato di perquisizione.
“Molto bene, nessun
problema” afferma il dottore, dopo aver letto, “nessun problema”.
“Bene” dico io, più per
rassicurarmi che per altro. Il cuore ancora batte forte ed è come se mi
attendessi una pugnalata da un secondo all’altro.
“Sto solo facendo il
mio lavoro” gli ricordo, come a volerlo tranquillizzare. Morrow però è un pezzo
di ghiaccio e non si dimostra minimamente sfiorato dalle mie parole.
“Inizi pure da dove
vuole, non ha importanza. E metta già in conto che non troverà niente”.
Non replico e mi metto
in azione.
Non ho mai svolto una
perquisizione, se non i classici sopralluoghi dove sono avvenuti furti. So che
quelle dei colleghi non sono proprio del tutto uguali a quelle che propongono
le serie tv, dove si mette tutto a soqquadro, al fine di non fare troppo
casino. In genere, si cerca nei punti in cui è probabile trovare qualcosa di
utile; io, che sono pure solo, tenterò così.
Mi chiedo, quindi, cosa
mi aspetto di trovare; altre prove? Improbabile, poiché dopo la fuga e il
saccheggio dell’infermiera quel poco che è rimasto è stato di certo distrutto o
non si trova più nella struttura.
Quindi? Ovvio, incutere
loro timore. Gironzolare e aprire qualche cassetto, buttare l’occhio ovunque,
con fare assorto. Far capire che non si è al sicuro dalla Legge.
Decido di fare così e
proseguo, scongelandomi un po’. I vari ambulatori dei medici presenti in
struttura sono tutti vuoti e le porte aperte, quindi posso ficcanasare e far
scivolare gli occhi sui vari fascicoli aperti e in fase di scrittura sulle
scrivanie, eppure tutto è a posto, come sospettavo. Regna un ordine che nelle
volte precedenti non mi era parso di notare, e aumenta la certezza che fossi
atteso.
Passo in rassegna tutti
gli ambulatori, circa una decina, e poi ricomincio il giro, come a voler
ammazzare la noia.
Dopo un po’, incrocio
Morrow nel corridoio, e mi relega un altro sguardo colmo di disprezzo.
“Allora?” e incrocia le
braccia al petto.
“Dove sono i vari
medici?” domando io, evitando la sua domanda indagatrice.
“Al lavoro, ovvio. I
pazienti richiedono cure di ogni genere”.
“D’accordo” concludo,
“penso che per oggi possa bastare”.
“Oh!” afferma lui. “Ci
lascia così presto? Proprio adesso che inizio a lavorare? Resti almeno per
vedere cosa succede qui dentro, per ora ha solo osservato una schermata
d’ordine e di pace”.
Sto per ribattere che
per adesso ritengo di aver concluso la perquisizione, però si spalanca la porta
in fondo al corridoio, quella che separa il nucleo operativo della clinica dal
reparto riservato ai pazienti, e l’infermiere che un’ora e mezzo prima mi ha
accolto freddamente trascina di fronte a noi un uomo piegato in due.
“Grazie, Frank. Puoi
andare” dice Morrow con cortesia, poi afferra a braccetto il signore e lo
conduce al suo ufficio. “Venga con noi, agente speciale” m’invita con pacata scortesia.
Non posso non seguirlo,
se me ne andassi ora avrei svolto il lavoro a metà.
Li seguo e osservo
l’uomo; è indubbiamente un paziente, indossa la camicia di forza ed è per metà
rannicchiato su sé stesso. Biascica qualcosa, come se fosse un sottofondo. Nel
complesso i capelli bianchi sulla testa sono tutti dritti, il volto segnato
dalle rughe è avvolto da una barba grigia posticcia. Il tutto stona con il
perfetto e curato look dello psicoanalista.
Morrow ci porta nel suo
ambulatorio e mette a sedere il paziente.
“Allora, signor Brown,
come si sente oggi?” chiede. Non ottiene nessuna risposta.
“Ha dormito bene questa
notte? Sua figlia dice che ha problemi nel sonno, e che si sveglia di
frequente. Si trova meglio in questa struttura, dove nulla la stressa?”.
Ancora nessuna
risposta, solo un borbottio incoerente.
“Lo vede, agente?
Questi qui sono tutti pazzi in fin di vita. In testa hanno delle cicale, non
sente che biascicano e fischiettano? Sanno solo fare questo. Crede che sia
facile lavorare con persone così e tenerle d’occhio, lei che è giunto fin qui
per perseguitarci e per incolparci di un crimine assurdo? Ricordi che possiamo
dimostrare che se questa gente resta libera un attimo non perde tempo ad
ammazzarsi”.
“Signor Brown?” provo a
chiedere io. Non ho altre speranze se non verificare.
L’uomo incredibilmente
volge la testa verso di me, dimostrando almeno una base di coscienza.
“Signor Brown” mi fa
eco Morrow, ma il paziente non lo guarda. Fissa me.
Resto a specchiarmi in
quegli iridi scuri, con le palpebre socchiuse come se volessero esprimere
rabbia, oppure malignità. Capisco che lo psicoanalista teme che si instauri
chissà quale contatto tra me e Brown, quindi si alza in piedi.
“Va bene, per oggi può
bastare. Chiederò a Frank di mandarmi il prossimo” si avvicina al paziente e fa
per prenderlo a braccetto e aiutarlo ad alzarsi.
L’uomo però evita il
suo braccio, e con il busto quasi completamente bloccato esegue una mezza
torsione opposta al braccio del medico.
“Non le voglio quelle
punture!” grida poi con tutto il fiato che ha in petto.
Per un secondo resto
basito dalla furia dell’urlo, mentre Morrow si butta di peso addosso al
paziente e con tutta la forza di cui è disposto lo spinge a rialzarsi e poi lo
sbatte contro il muro, inerme.
Brown batte anche la
testa. E poi, come se tutto riemergesse di colpo nella mia mente, la domanda
del secolo…
“Fate abitualmente
iniezioni ai vostri pazienti?”
“Si tratta di calmanti”
risponde Morrow, scomposto e con il fiatone, “vede, sono completamente pazzi e
pericolosissimi”.
“Non mi sembra però
giusto il modo in cui li trattate” faccio notare. Lo psicoanalista compone il
numero di emergenza sul suo tablet e subito avverto passi in avvicinamento.
“Mi fate del male! Le
punture no! Quelle cose, quegli aghi in testa, no! No! Oggi no! No! Oggi no!”
Brown diventa furioso e ingestibile. Cerca di muoversi ancora ma è fortemente
limitato, oltre che essere pure gracile per natura, e Morrow torna a
sovrastarlo e a spingerlo contro il muro, mozzandogli il fiato con l’urto.
Sono sgomento e
sconvolto. A interrompere il rapido susseguirsi degli eventi è Frank, che
irrompe di corsa e recupera l’uomo, ancora agitato.
“Avanti signor Brown,
stia calmo” lo avverte il giovane palestrato, che a sua volta lo sovrasta. Si
mostra amorevole nei suoi confronti e quasi lo tiene abbracciato, per portarlo
via.
A sconvolgermi
ulteriormente è lo sguardo che ci scambiamo, poco prima che venga portato via.
Brown mi rivolge un’occhiata non più malevola, bensì atterrita.
“Credo che abbia
ragione, agente. Per oggi ha visto abbastanza” dice Morrow, riscuotendomi. Il
paziente è già nel corridoio, badato dall’infermiere.
“Non sta a lei
decidere, dottore”.
L’uomo torna a
rabbuiarsi e a mostrarsi apertamente scortese, come all’inizio.
“Non faccia tanto il
pavone” pare volermi redarguire.
“Stia calmo anche lei.
Evidentemente, i riferimenti a punture e ad aghi la turbano” gli faccio notare.
Punto nel vivo, Morrow cala la maschera e si avvicina a me a impettendosi.
“Agente speciale James
Barley, al contrario di tutti gli altri agenti lei ha voluto strafare. Ricordi
solo una cosa; se conosce una o due persone influenti, noi della clinica ne
conosciamo almeno quaranta volte tante. La smetta di voler fare l’eroe e di
fomentare una donna che dovrebbe finire qui dentro, come è capitato a suo
padre, povera anima”.
È il mio turno di
avvertire il coltello che si rigira nella piaga.
“Queste risposte sono
indice di una qualche colpevolezza? Di qualcosa che la turba e che non può e
non vuole ammettere?” all’improvviso mi faccio coraggioso, spinto
dall’orgoglio.
“In ogni caso, non sono
affari suoi. Torni a badare i semafori rotti”.
Incasso il colpo,
brutale e assoluto.
“Sa che potrei
arrestarla? Oltraggio a pubblico ufficiale”.
Morrow scuote la testa,
sorridendo per la prima volta.
“Vede che si è montato
la testa? Torni a casa e smetta di fare l’eroe, ma soprattutto rifletta sul
perché è qui. Sul perché l’hanno incaricata. Sul perché l’hanno tolta dalle
strade un attimo prima del congedo. Torni a casa sua e si metta l’animo in
pace; certe guerre si possono vincere con i soldi, certo, ma soprattutto con il
potere, l’eterno sconosciuto per una persona piccina e ormai sola come lei”.
Se ne va, lasciandomi
lì impietrito. È una minaccia? Direi di sì.
Sono andato a segno?
Direi di sì.
Missione compiuta, al
momento? Assolutamente sì.
Lascio la clinica in
fretta e furia, con un altro infermiere scortese che mi guarda torvo finché non
scompaio dalla sua vista.
“Sono pazzi” affermo,
non appena entro in auto. Il detective, che fuma con la mano sinistra a
penzoloni dal finestrino, mi rivolge uno sguardo divertito.
“Te ne accorgi adesso?”
Resto in imbarazzante
silenzio.
“Credo che sia ora che
ti racconti tutta la storia dall’inizio, e anche nei dettagli, visto che le
testimonianze che ti ho fatto pervenire non le hai lette tutte”.
Con Mario, è tutta una maratona sessuale. Non che mi
dispiaccia, e nemmeno mi vergogno di farlo con un uomo sposato. È in crisi,
dice continuamente che vuole lasciare la moglie, però mi allontana subito in
fretta e furia non appena la sua carnalità è stata sfogata.
Cosa penserà lei se venisse a scoprire che in realtà suo
marito è omosessuale? Che promette di amare un giovane uomo al posto suo, che
le dice alle spalle tutte le più terribili cattiverie?
Mario in realtà è l’uomo più fetente di questo mondo. L’ho
visto in giro con la moglie; ho visto come cercavano l’uno le mani dell’altra,
come le loro dita si intrecciavano. E lui come poi le ha donato un dolce bacio
sulle labbra.
Non che io sia geloso, anzi, sono felice se tra loro le cose
vadano meglio, ma di certo non deve venirmi a dire che non prova più niente per
lei e cose simili. Glielo faccio presente proprio mentre siamo nel loro letto,
e mi tiene stretto forte tra le sue braccia villose.
“Dobbiamo creare di nuovo una buona atmosfera in casa. Non si
può mica litigare tutto il giorno” mi risponde, impassibile.
“Ma certo, non sto giudicando questo. Avrei solo piacere che
tu la smettessi di dirmi ti amo, quando in realtà non è vero”.
Mi stringe più forte a lui.
“Amore, ti fai troppe paranoie. Io amo te, solo te, follemente.
E presto te lo dimostrerò. Adesso però stringimi e baciami, fammi sentire vivo
come solo tu sai fare…”.
Obbedisco alle sue parole; è un po’ come se il gioco di
dominanza iniziale si sia affievolito. Non ho più voglia di impormi su di lui e
lui stesso non me ne offre più l’opportunità. A letto, il nostro rapporto
diventa sempre più paritario.
“Ti amo tantissimo…” mi sussurra, mentre ormai siamo un corpo
solo. Una parte di me stride e mi dice no, non è vero, ma alla fine vince
quella che crede alle sue parole.
Sorrido e lo riempio di dolcezze, nella convinzione che,
almeno in questo limbo, lui sia il bugiardo che non mente mai a me. Questo mi
fa tornare a vivere dopo la sparizione di Alice. Eppure, mi fa tornare anche a
sentirmi lurido.
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Capitolo 18 *** Capitolo diciotto ***
Capitolo diciotto
CAPITOLO DICIOTTO
“Il tempo mette ognuno
al proprio posto.
Ogni re sul suo trono…
e ogni pagliaccio nel
suo circo”.
Aninimo.
“Sono resi forte dalla
protezione ottenuta da un paio di senatori dell’Oregon, a loro volta a capo di
diverse case farmaceutiche che producono farmaci d’importanza mondiale. Questa
è gente ricca sfonda, molto più della Stradford, e sa che in America il
silenzio, la corruzione e l’impunità si ottengono pagando a dovere e chi di
dovere” continua a raccontarmi il detective.
Per quanto mi riguarda,
mi sento abbastanza arrabbiato nei confronti di quella clinica; non riesco a dimenticare
l’aggressione di Morrow contro lo spaventato e fragile Brown. Quella è gente
abituata alle percosse e alle violenze, altroché dei professionisti.
O, quanto meno,
professionisti nel sottoporre delle persone in difficoltà a delle angherie
inimmaginabili.
“Comunque” provo a dire
la mia, “per quanto tutto questo non mi vada giù, credo di essere alquanto
inutile”.
“Questo di sicuro, dato
che non hai nemmeno avuto il coraggio di ispezionare gli ambienti dei pazienti
e quanto meno provare a entrare nei laboratori adiacenti. Ti sei fermato a
quello che ti volevano far vedere, e sei stato fortunato che quel paziente ti
abbia aiutato a squarciare il velo di menzogne che hanno calato sulla faccenda,
altrimenti adesso saresti qui a dirmi ancora poverini, innocenti…” mi canzona,
imitando la mia voce.
“Non li ho mai definiti
così!”
“Ma non hai nemmeno mai
avuto le palle di remargli contro. Lo stai facendo perché te la stai passando
male a causa nostra”.
“Mi state obbligando,
sì”.
Torna a ridere.
“Questo non ha importanza
in fin dei conti. La tua codardia e la tua incapacità, buon vecchio agente
speciale, non contribuiranno alla disfatta. D’ora in poi cambieremo strategia;
per prima cosa li abbiamo spaventati con la defezione dell’infermiera, la
scomparsa di prove chiare e anche il tentativo di perquisizione in resistenza
ai loro ordini dati alla polizia locale. Adesso credo proprio che la mia
datrice di lavoro abbia un’altra idea, curiosa e facile da applicare…”.
Sono in ansia. Non ho
mai parlato al cospetto di un discreto pubblico di giornalisti. Alcuni di essi
appartengono alle più prestigiose testate statunitensi, sono conosciuti e
spesso i loro articoli sono apparsi sulle prime pagine.
Sono quindici in tutto,
ma i loro sguardi sono come la pressione di una folla intera. So che devo
parlare, la Stradford li ha pagati appositamente per venire qui, ascoltarmi e
scrivere.
Cosa devo fare?
Semplice; denunciare ciò che accade presso il Mary’s House e il fatto che si
temano soprusi ben più gravi contro l’essere umano.
Uno choc, un testo
dalla violenza indescrivibile, d’impatto sui lettori… è tutto quello che lei
vuole. La signorina mi ha preparato un foglio scritto in cui si elencano i
punti da affrontare, uno a uno, che sono i principali e gli strumenti che
desidera schierare pubblicamente contro la clinica e chi la sostiene.
Parlo e avverto il mio
volto che arrossisce, preso dall’imbarazzo, e faccio fatica a ricordarmi ciò
che dico. A un certo punto sono costretto ad affidarmi alla lettura di ciò che
mi è stato imposto e perdo la memoria di ciò che sto facendo.
Quando tutto finisce,
sono bordò in volto, senza voce e immerso in un bagno di gelido sudore.
È il detective che si
cura di offrire alcune prove ai giornalisti, spargendo testimonianze di diverse
indagini precedenti e poi insabbiate e tanto altro.
Da domani mattina, la
guerra sarà aperta e dichiarata.
Ma adesso?
Mi sono guadagnato il
ritorno a casa, da mia moglie e dai miei figli, che mi mancano molto.
Mentre me ne resto
seduto nel vasto salone di villa Stradford, impotente, mentre gli altri se ne
vanno, aspetto di avere novità su di me. E’ Angelina in persona a venirmi
incontro, raggiante.
“Pronto per la guerra,
agente speciale?”
“Chi le dice che la
crederanno? E che le informazioni non saranno censurate?”
Sorride.
“I soldi che ho
sganciato. Sono sicura che faremo scalpore, e tutto questo grazie a lei, che ci
sta mettendo la faccia”.
Il mio è un sorriso
mesto e amaro.
“Ho altre opzioni?”
“Temo di no”.
“Come ho detto al suo
scagnozzo, questa mattina, penso che non sia opportuno sequestrare un agente”
le faccio di nuovo notare, ma ormai anche io mi sono stancato di ripetere le
stesse frasi.
“Nessuno l’ha
sequestrata; ufficialmente sta portando avanti il suo lavoro in modo
indipendente. Non utilizzi parole troppo pesanti”.
“Se non sono sotto
sequestro, quindi, potrò tornare dalla mia famiglia?”
La mia è una domanda
quasi supplichevole. Questa situazione mi sta piegando, ormai sono in balìa di
quello che mi sta accadendo e non sono più padrone del mio destino.
“Ma certamente” afferma
la signorina, quasi indignata, “ma prima, per favore, si gusti una buona tazza
di tè caldo. La voce le sta andando via e non vorrei mai che sua moglie debba
accusarmi di qualcosa”.
Un inserviente si
avvicina subito a me porgendomi una tazza fumante.
“No, vorrei prima
rivedere i miei…” tento di dire, avendo una brutta sensazione.
“Non se ne discute,
proprio no” replica Angelina. So che non mi lascerà andare se prima non
l’accontento, quindi socchiudo gli occhi e affronto il rischio, portando la
tazza alle labbra.
Sorseggio pian piano, e
solo dopo qualche secondo le mie papille gustative avvertono uno strano senso
di amarognolo.
Salto in piedi, capendo
che ancora una volta la stronza mi ha fregato; quasi mi avvento verso di lei,
ma dopo un paio di passi mi sento senza forze e svengo, lentamente, scivolando
sul pavimento.
L’inserviente si
premura di evitare di farmi sbattere la testa, nessuno però fa molto altro.
Mentre svengo, la
Stradford troneggia su di me e sorride con disinteresse.
Mi sveglio di soprassalto.
Quanto tempo è passato?
Quella troia mi ha
fregato ancora, penso subito.
Deve avere tanti
farmaci per indurre il sonno e dev’essere anche brava a somministrarli un po’
in tutti i modi possibili. Maledetta.
Mi alzo dal letto su
cui sono disteso, incazzato al massimo; credo di essere a casa mia e a tentoni
mi allungo sul letto alla ricerca di mia moglie. Mi avvolgono un silenzio e un
buio assoluti, sarà di certo piena notte.
Trovo un corpo caldo,
lo tasto per svegliarlo. È femminile, ma subito mi accorgo che è più esile di
quello della mia consorte. Inoltre, i miei sensi si risvegliano lentamente e
avverto l’odore che mi circonda, che non è di certo quello di casa mia.
Cazzo.
Cazzo…
Il panico prende
possesso di me, mentre mi ritraggo dal corpo disteso e inizio a muovermi nella
stanza buia, andando a sbattere un po’ dappertutto.
Con il casino che
faccio, chi dormiva assieme a me si risveglia e accende un’abatjour a fianco
del letto. Non stento a riconoscere Angelina.
“Lei è pazza” sussurro,
“completamente pazza”.
“E perché mai?” mi
rivolge uno sguardo innocente. È pazza, sì, assolutamente.
“Non vede quel che sta
facendo? Non se ne rende proprio conto?” grido. Voglio scappare da questo luogo
degli orrori.
Mi dirigo prontamente
verso la porta, ma è chiusa a chiave. Solo ora mi accorgo del mio corpo nudo…
“Mi liberi” quasi
strillo, “mi ridia i vestiti. Mi liberi subito”.
“E perché mai?” ripete.
Si alza dal letto e con
sensualità scosta le coperte, mostrando il corpo a sua volta nudo.
“Dio mio… cosa è
successo…” sussurro, avendo un brutto presentimento.
“Non è successo niente,
ho solo tolto i vestiti sudati del lavoro. Il mio letto è pulito, sa…” afferma
lei, poi si avvicina in punta di piedi.
“Io sono sposato. Ho
una moglie che mi aspetta a casa…”. Mi interrompe.
“Aspetterà, allora”.
“No, io vado subito da
lei…” mi avvento contro la finestra limitrofa e poco importa che sia a un terzo
piano. Mi butto e basta, così finisce questo incubo.
Invece non solo non si
spalanca, ma nemmeno i vetri si infrangono.
“E’ tutto inutile,
dalla mia camera da letto non si esce né si entra” afferma lei, calmissima,
mentre continua ad avvicinarsi con lentezza.
“E c’è un motivo se lei
è qui, agente speciale. Sono pochissimi gli uomini che possono vantarsi di
essere stati sotto le mie coperte; questo è un suo grande traguardo”.
“Voglio andarmene da
qui” sono confuso e intorpidito, non so cosa fare. Lei a questo punto compie
altri due passi e mi è subito addosso.
“Potrei non rispondere
di me” l’avviso con disperazione, ma la donna mi sfida con uno sguardo che,
vista la situazione, pare da psicopatica. Inarca anche le sopracciglia.
“Non risponderebbe di
sé alla vista di queste bocce” strofina i seni contro il mio villoso petto.
Faccio per scansarla ma
alla fine mi cadono gli occhi su quei seni nudi e dai capezzoli inturgiditi.
Sono grossi, prosperosi; sembrano rifatti, dal tanto che sono sodi e rigonfi.
“Le accarezzi, suvvia”
mi invita. Resto immobile a fissare.
“Presto vincerò ogni
reticenza, ci scommette?”
Smette di strofinarsi e
si china, stringendo i seni sodi nelle mani e iniziando a darsi da fare nella
mia intimità con la bocca.
Al primo contatto mi
verrebbe da darle un sonoro schiaffone, poi mi rendo conto di quanto sia brava;
in pochi istanti, passo dal panico cieco alla curiosità. Il pene risponde alla
stimolazione solo dopo un poco, ma risponde eccome.
“Non va bene,
signorina” la riprendo, ma questa volta con maggiore dolcezza.
“Smettila di darmi del
Lei. Sono Angelina, per te” risponde in modo confidenziale, riprendendo poi con
decisione il lavoretto di bocca.
Non so che sia colpa
del torpore che ancora mi avvolge o di quello che mi ha somministrato la matta,
però adesso sono succube di quel corpo giovane, tonico, florido. Angelina si
rialza e mi spinge piano verso il letto, pronta ad accogliermi dentro di lei.
“Da quanto tempo non
hai fatto l’amore, eh?” chiede, afferrando il pene e stringendolo tra le sue
mani. La mia reazione corporea tradisce quello che vorrei dire a voce. In
verità è vero, è da tanto tempo che io e mia moglie non lo facciamo più, poi
non abbiamo nemmeno il corpo di una volta e certe passioni poi si deteriorano,
a volte. Io amo mia moglie, ma è un amore non solo carnale; la carne che ora mi
sta venendo offerta in modo così sensuale è tuttavia un’attrazione ancestrale
che non mi permette più di ragionare.
Ci sdraiamo sul letto,
nudi, lei sopra e io sotto.
“James” sussurra il mio
nome, “adesso sei il mio uomo…”.
Ma io non voglio
esserlo! Oppure sì? Oppure mi sono così abituato al mio recente ruolo da
marionetta che non ho più forza di volontà?
La penetrazione avviene
e presto ci troviamo a vivere un piacere carnale intenso e condiviso.
Alla fine, anche l’ultimo personaggio rivelazione della mia
vita mi lascia. Come avevo previsto da alcuni dettagli che ho avuto modo di
notare nel tempo, Mario si è messo stabilmente non la moglie, o quanto meno mi
ha raccontato così in un primo momento.
L’obiettivo? Quello di avere più serenità tra le mura
domestiche e di mettersi in pace con i figli. Così non si poteva andare avanti.
Ha ragione.
Solo che me lo dice tramite un semplice messaggio telefonico,
che non ci rivedremo mai più e che farei meglio a non cercarlo. Cercarlo? È
sempre stato lui ad adescarmi, altrimenti tutto ciò non sarebbe nemmeno mai
iniziato.
Ma va be’, dai, sono abituato ormai agli addii repentini. Mi
fa male, ma in futuro mi farà più male quando lo vedrò frequentare un’altra
casa, e passare ore e ore ad attendere quel ragazzo mio coetaneo che lì ci
vive.
Il lupo perde il pelo ma non il vizio, poi ha sempre bisogno
di prede nuove.
Morale della favola? Di nuovo solo, ma questa volta più che
mai. Non bisogna illudersi di avere amici o di stare a cuore a qualcuno, perché
quel qualcuno prima o poi se ne andrà. Ci lascerà soli, in qualche modo.
Forse sono io eh a non meritare niente se non di essere usato
e scopato, per poi essere buttato nel bidone.
Mi manca G ormai anche se la figura dell’ultima volta ancora
mi brucia alquanto. E, unica sicurezza che mi consola, è che presto lo rivedrò…
rivedrò il suo sorriso, sentirò le sue parole, e accoglierò anche parolacce o
figuracce, tutto pur di tornargli vicino qualche attimo. Che mi chieda pure
della gnocca, quello che vuole.
L’importante è questa sicurezza di rivederlo, a un tale
appuntamento mensile non manca mai, poiché ci lavora.
Ma… sicurezza? Che grande parola, nella mia vita.
Scoppia il coronavirus. Sì, quella che in poche settimane
diverrà pandemia. Ai primi casi ecco che l’evento salta e anche il rivedere G
in tempi stretti.
Nei giorni successivi il contagio si espande, e… saltano
anche i successivi, tutti annullati.
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Capitolo 19 *** Capitolo diciannove ***
Capitolo diciannove
CAPITOLO DICIANNOVE
“Le brave ragazze vanno
in Paradiso.
Le cattive ragazze
vanno dappertutto”.
Mae West.
A questo punto, in realtà, le cose si mettono male.
Niente più sesso, niente più giretti, niente più bar, niente
più G.
Esiste quel punto di frattura che non ti aspettavi, quel
momento che è come lo scoppio improvviso di una guerra, ed ecco che la tua vita
e le tue abitudini sono stravolte, con tanto di rischio concreto di ammalarti,
di infettare la tua famiglia e di finire tutti quanti dopo tante tribolazioni
su un mezzo militare per poi essere tumulati da qualche parte ignota, poiché la
tua terra natia non ha più loculi da offrire.
A dire il vero, con grande vergogna sono costretto ad
ammettere che, forse, sarebbe meglio ammalarsi e tirare in fretta le cuoia
piuttosto che vivere una clausura estenuante e senza alcuna prospettiva. Mi
basterebbe un sogno, solo uno a cui aggrapparmi; ma G è sparito nel precipitare
degli eventi, e tutti quelli con cui ho avuto rapporti (di vario genere) sono
spariti o comunque per loro non valgo più niente.
Il virus mi mostra presto il suo vero volto, quello che ti fa
sentire solo, smarrito. Che ti mette paura e non ti fa dormire la notte. Poi,
chiuso in casa con i miei genitori… ammazza, ohi, che sberla…
“Sveglia, amore”.
Angelina mi strappa dal
mondo dei sogni dopo una nottata di sesso. Rabbrividisco subito.
“Non deve succedere mai
più” tuono, scattando a sedere sul letto. Le punto l’indice contro, e… la
lucidità torna ad affievolirsi un pochino, come durante quella notte. Gli
effetti di ciò che ieri sera mi ha fatto bere sono ancora attivi, anche se
ormai sconfitti.
“Perché, cos’è successo?”
replica lei, mostrando ancora quella fastidiosa e pacata sorpresa che tanto
odio.
“Abbiamo solo fatto ciò
che il nostro corpo reclamava. È la natura, è giusto così”.
Non sto più a perdere
tempo per risponderle; mi alzo e inizio a cercare i vestiti, mentre dalle
finestre entra la luce accecante del giorno che nasce.
Sento lo sguardo di
Angelina fisso su di me, mi volto e la vedo intenta a scrutare le mie intimità.
“Signorina, si può ben
ricordare questa volta, sa? Stia certa che non riaccadrà mai più. E che mia
moglie non venga a saperlo, altrimenti io…”.
“Altrimenti?” fa il
pappagallo, sorridendo.
Sbuffo e lascio
perdere.
I miei vestiti sono
accatastati in modo caotico in un angolino dello stanzone, ancora madidi di
sudore dopo l’intervista della sera precedente. Uno specchio riflette la mia
figura mentre mi vesto in fretta.
Non posso non notare
quanto io sia brutto e in disordine, barba sfatta, capelli tutti ispidi e
dritti. Questa faccenda mi sta uccidendo e facendo invecchiare.
“Visto che siamo tornati
ai vecchi tempi e a darci del Lei, agente speciale Barley, vorrei ricordarle
questa faccenda”.
La Stradford mi torna
vicina e mi sbatte sotto al naso una copia del New York Times fresca di stampa.
La mia immagine troneggia sulla prima pagina; io, in divisa, che parlo con una
motivazione che sul momento nemmeno mi ero accorto di avere. Sotto la foto, il
titolo rivelatore…
“L’agente speciale e
veterano James Barley, 61 anni, ieri sera ha avuto il coraggio di denunciare
pubblicamente e a tutti gli Stati Uniti d’America il losco traffico delle
grandi case farmaceutiche dell’Oregon e dei loro intenti criminali in una
clinica privata dell’Ohio…” leggo a mezza voce. Prosegue a pagina due, si
conclude.
Accidenti! Mi cade
letteralmente la mandibola inferiore.
“Era lei che non
credeva nelle potenzialità dei miei soldi. Come vede, prima pagina, e gli altri
giornali non sono da meno” dice Angelina, trionfante.
Non so cosa dire. Ieri
sera ho parlato con dei giornalisti, una decina di persone che non sembravano
avere un impatto così rilevante sull’informazione. Invece, a quanto pare…
“O preferisce che la
chiami amore?” ironizza.
La guardo, ferito e
umiliato.
“Lei è pazza,
signorina. La pagherà cara…”.
“Sono dalla parte della
ragione” torna a interrompermi.
“Anche se lo fosse,
tiene il piede in due staffe, una anche nel torto”.
“Non sta a lei
giudicare, agente dalla mente semplice. Si rende conto che potrebbe avere
tutto, e invece non ha niente? Perché non lo vuole. Potrebbe essere in tutte le
tv nazionali a parlare e a spiegare cose che il popolo berrebbe e che i
governatori accoglierebbero e analizzerebbero. E lei invece che fa?” mi guarda
con una pietà ironica. “Sta qui impalato a bocca aperta, a crogiolarsi della
sua miseria. Non è nemmeno capace di prendere una donna e di farla sua, come
lei stessa desidera”.
Resto in silenzio a
guardarla. Ci fissiamo a vicenda, io abbattuto, lei feroce come mai prima
d’ora.
“Sa cosa vuol dire
libertà personale? Nessuno può costringere l’altro a fare ciò che non vuole,
tanto meno se la questione riguarda un agente e una civile”, tento un’ultima,
estenuante difesa dei miei diritti.
“Vede che non riesce a
capire? Siamo in America, James, in America. Qui contano i soldi, il potere, il
prestigio personale, non la bontà di cuore degli umili. Il mondo si pulisce il
culo, con l’umiltà” esclama, “e, sa? Credo veramente di aver sbagliato persona.
Ho fatto male a investire così tanto su di lei”.
“Il libro, Alex. Quello dalla copertina gialla”.
Mi volgo verso mio padre, che mi ha brutalmente strappato dal
flusso delle mie fantasie.
“Cosa?” gli chiedo.
“Non va bene. È di una casa editrice differente dalle altre”.
Laconico, preciso, puntuale. Logorroico.
I giorni scorrono e il coronavirus aumenta i suoi contagi.
Siamo blindati in casa assieme, ormai, questa famiglia disgustosamente moderna
costretta a vivere per una volta unita.
È come se il virus volesse imporci di essere quello che non
siamo e che non saremo mai.
Per passare il tempo, sistemiamo i libri nella piccola
biblioteca di famiglia; quando abbiamo finito, ricominciamo daccapo. È un modo
silenzioso per tenersi occupati ed evitare litigi. Comunque, a volte non basta,
poiché i battibecchi sono frequenti lo stesso e mettere a posto dei libri prima
o poi inizia ad annoiarti, soprattutto quando rischi di impararli a memoria dal
tanto che li hai tenuti tra le mani e sfogliati.
È una cattività noiosa, di quelle che ti tolgono il fiato e
che ti lasciano intendere che nessun futuro prossimo ti attende al di là del
sottile velo della pandemia. E quelli che dicono Andrà tutto bene, che ne sanno loro? Che ne sanno? È come riempirsi
la bocca di frasi fatte da altri e ripeterle.
Non contano niente, perdono ogni senso.
Mi viene spontaneo chiedermi come dev’essere stato per i
poveri ebrei il restare nascosti e chiusi in soffitte per mesi, anni, al fine
di evitare la deportazione. Il fiato corto per la paura, il camminare piano per
non attirare le attenzioni. Non dirsi più niente poiché più niente c’è da dire.
L’attendere la fine di un lungo periodo drammatico pregando e sperando, poiché
solo quello è rimasto.
Per fortuna nessuno ci deporterà, e tutto quanto
probabilmente passerà. La nostra sfida è qualcosa di molto complicato ma almeno
la Nazione è unita. Nell’unità, si vince sempre.
Alla fine il bene vince sempre sul male.
Tuttavia, non temo tanto per me; comunque vada, sopravvivrò.
Temo per i miei genitori e i miei nonni, più vulnerabili.
Ma siamo ormai nelle mani del Destino e non c’è molto che si
possa fare a parte aspettare e rispettare le regole. Tutto qui.
E, allora, perché a volte penso ancora a quella persona? Non
dovrei più.
Non dovrei perché questo silenzio assordante che ha lasciato
dietro di sé aumenta il vuoto del dramma che sto vivendo, che stiamo vivendo.
Il tempo, quel tempo che fa tic tac grazie alle lancette degli orologi, unico
rumore monotono che frammenta questo limbo colmo di sospensione e di bugie,
sembra morto assieme al mio animo.
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Capitolo 20 *** Capitolo venti ***
Capitolo venti
CAPITOLO VENTI
“Il supremo male che
possa capitare
è commettere
ingiustizia (…)”
Platone.
“Cosa significa?!”
sbotto.
Il detective mi fa
salire in macchina con un gesto secco della mano destra.
“Te lo racconto mentre
ti riporto a casa”.
Ci accomodiamo e gira
la chiave nel cruscotto, partendo di velocità.
“Adesso mi lasciate
finalmente tornare a casa?” chiedo, seccato più che mai.
Quasi non ci credo; non
vedo l’ora di ritornare tra le braccia di mia moglie e di rivedere i miei
figli. Non voglio illudermi, però, perché questi matti mi hanno insegnato che
da loro ci si può aspettare di tutto, e di solito mai nulla di piacevole.
“Sì” risponde l’uomo,
di poche parole.
“Come mai adesso non mi
tormenti più? Ieri, quando potevi infierire, l’hai fatto senza rimorsi. Adesso
invece che torno a casa, eccoti lì mogio e zitto… dovevo soffrire ancora, per
renderti felice?”
In tutta risposta,
scrolla le spalle con non curanza.
Sento un forte odio
dentro di me, penso di estrarre finalmente la pistola dalla fondina e farmi
valere. Non mi importa più di niente.
“Io e la mia datrice di
lavoro ci siamo premuniti” afferma, quando tasto la fondina e non trovo più la
pistola d’ordinanza.
“Questa… questa è una
grave prevaricazione, questa è…”.
“Questa è semplicemente
la tua fine, agente speciale Barley. Oppure posso chiamarti semplicemente
James, poiché ti piace dire che non lo sei più? Eh?”
“Sei pazzo anche tu”
concludo, senza replicare. Mi sta confondendo e quello che più spero è di
tornare a casa al più presto, desiderio che per fortuna si realizza in fretta.
Con il cuore in gola
scendo dalla berlina nera e mi sento colmo di commozione; presto abbraccerò la
mia amata e tutto sarà come prima!
“Non mi saluti? Siamo
stati colleghi per un sol giorno, però penso che la cortesia non debba sfumare
così in fretta…”.
Mi volgo verso il
bastardo, un solo istante prima di sbattere lo sportello dietro di me.
“Che vuol dire?”
chiedo, continuamente poco lucido per via dell’ansia. “Che non mi tormenterete
più?”.
Il mio interlocutore mi
mostra un mezzo broncio, poi sorride apertamente.
“No, non credo. O,
quanto meno, non in queste circostanze”.
“Ne sono proprio
felice” mi viene da gioire e da ridergli in faccia.
Lui però mi fa cenno di
chiudere lo sportello, e prima di pestare brutalmente l’acceleratore abbassa il
finestrino e sancisce quella che sembra una sentenza.
“Io non lo sarei al
posto tuo, James. Non hai accontentato la mia datrice di lavoro, quindi sei un
uomo finito”.
Mi volgo verso di lui,
ma avverto solo un addio urlato e il rombo della macchina che già si allontana
in fretta.
Resto un attimo
perplesso, ma alla finne me ne frego; l’importante, nell’immediato, è aver
riguadagnato la libertà.
Non ci sono più i
gorilla a bada della porta d’ingresso.
Varco serenamente la
soglia e con il più smagliante sorriso corro verso la cucina, sapendo che è la
stanza preferita di mia moglie. E in effetti è proprio lì.
Resto immobile un
istante prima di entrare, perché Tiffany è sì presente, ma è con la faccia
affondata tra le mani. Piange.
I miei due figli sono
come pietrificati a guardarmi, poi appena dopo qualche secondo si allontanano e
per abbandonare la stanza quasi mi spintonano. Ed io che li volevo abbracciare.
Penso subito che quella
puttana deve aver combinato una delle sue e chissà cosa ha fatto ai miei
familiari.
“Amore” mi avvicino a
mia moglie, sussurrando a voce bassissima. Lei nemmeno mi guarda, singhiozza
più forte.
“Amore, cosa ti hanno fatto?” insisto.
Solo a quel punto
scatta. Si alza e quasi mi spintona a sua volta.
“Hai anche il coraggio
di chiedermi cosa mi hanno fatto?!” esclama, rabbiosa. “Cosa mi hai fatto tu”
conclude, notando il mio sbigottimento.
“Cosa… cosa ti ho fatto
io?” chiedo, ma a quel punto ho una pessima impressione. Un brutto pensiero si
espande nella mia mente…
“Guarda cosa mi è
arrivato questa notte su Whatsapp” e sbatte il suo cellulare sotto al mio naso,
prima di azionare un video inviato alle tre di notte da un numero non salvato
in rubrica.
Le immagini sono di
ottima qualità, nitide e cristalline, così tanto che non ho alcuna difficoltà a
riconoscermi, nudo e in preda alla passione, mentre faccio l’amore con
Angelina.
La stronza intanto
filma e geme, di tanto in tanto, e si prende pure lo sfizio di sussurrare
quegli schifosi ‘sei il mio uomo, adesso, solo il mio’.
Il video ha una durata
di trentacinque minuti, ma lo fermo subito dopo averne visionati solo quattro,
sconvolto.
Restituisco il
cellulare a mia moglie, mentre il mio volto avvampa, in preda alla più cupa
vergogna.
“Non è così come
sembra” riesco soltanto a dire, dopo qualche altro minuto. Tiffany adesso è
calma, seduta su una sedia, senza mostrare nessun sentimento in particolare.
Ancora non mi guarda,
fissa a vuoto il pavimento.
“Mi ha costretto a
farlo. Io non volevo…”.
“Godevi come un porco,
invece… l’ho visto tutto, fino alla fine, fin quando le hai dato quel bacio
pieno di passione e hai anche usato la lingua. Sono sconvolta, non mi sarei mai
aspettata una cosa così terribile da parte tua” si spiega, sempre calma, come
se ormai avesse razionalizzato tutto ciò.
“Io nemmeno mi ricordo
di quello che ho visto, né di quello che mi dici. Lei è pazza, mi ha
somministrato qualcosa che non mi faceva ragionare”.
Mia moglie ancora tace.
“Non mi credi, vero? Non mi credi più”.
È come se lo affermassi
da solo, disperato. Però a mia volta non faccio scenate, né piango.
È anche nel mio caso
una sorta di dato di fatto; sono stati giorni che mi hanno distrutto sotto
tutti i punti di vista.
Lei nega con un solo
cenno del capo, risoluto.
“I nostri figli lo sanno?”
“Lo sanno. È arrivato
anche nei loro cellulari”.
Stronza schifosa,
penso, ribollendo dalla rabbia. La stronza non avrà avuto problemi a ottenere i
numeri di mia moglie e dei miei figli, con tutti i contatti che ha e i suoi problemi
mentali. Così, ha rovinato anche la mia
famiglia.
“Non ti voglio più in
casa, James. Per favore, vattene subito” aggiunge Tiffany, constatando il mio
silenzio prolungato.
“Ma che stai dicendo?!
Io amo te, sempre e solo te! Non vedi che ci ha fregato, quella troia? Niente
di tutto ciò che hai visto è vero!”
Mi avvicino e cerco di
baciarla sulla guancia, ma lei mi dà uno schiaffo e si allontana.
“Con quelle stesse labbra
con cui qualche ora fa hai baciato quella lì…” mugugna, ora rabbiosa,
esplosiva, “…te ne devi andare subito”.
“Va bene” alzo le mani
in segno di resa. “Permettimi di fare i bagagli e di salutare i ragazzi,
almeno…”.
“Non ti vogliono più
vedere. Ti avranno anche già portato giù la valigia”.
Mi affaccio di nuovo
sulla soglia e in effetti vedo un valigione pieno di cose che mi attende
solitario davanti alla porta d’ingresso, che solo venti minuti fa ho varcato
con grande gioia.
“No…” sussurro.
“E’ tutto finito,
James. Tutto. Hai mandato tutto all’aria” singhiozza Tiffany.
Voglio avvicinarmi di
nuovo ma inizia a strillare come una pazza.
“Vattene via o chiamo
la polizia! Vattene! Vattene! Vattene!”
Atterrito da quella
raffica di strilla, retrocedo e vado alla porta. Non posso fare altro. Ancora
non ci credo, il mondo è crollato su di me così in fretta… così tanto in fretta
che non so farmene una ragione.
Forse nemmeno ne me
accorgo quando esco di casa con la valigia in mano, non comprendo la gravità
del gesto. Lo sto solo subendo, come ho sempre fatto ultimamente.
Devo sembrare un
derelitto ai due agenti che si presentano all’ingresso del cortile, armati a
puntino, come se mi stessero attendendo.
“Agente James Barley?”
mi chiede uno.
“Sì…”.
Non faccio in tempo a dire
altro che estraggono entrambi la pistola e me la puntano contro.
“Non faccia
sciocchezze, mani dietro la schiena. La dichiariamo in arresto”.
Lascio cadere la
valigia e me ne sto fermo mentre i due mi raggiungono e mi trattano come il
peggior criminale di questo mondo. Resto in compagnia della mia rassegnata
consapevolezza che tutto ciò è stato generato dalla Stradford.
Aveva ragione allora il
detective, quando mi ha detto che non l’avevo accontentata e che dovevo
aspettarmi il peggio, perché ero un uomo ormai finito. E il peggio, in effetti,
è arrivato.
I minuti si trasformano in ore, le ore in giorni, i giorni in
mesi.
La quarantena più lunga della mia vita si espande assieme
alla sensazione che tutto si sia fermato. Tutto, appunto, tranne il tempo.
Tempo che inizia a diventare confuso nella mia mente; oggi
che giorno è? I giorni si confondono, non si esce più e non avendo contatti con
l’esterno la monotonia vince su tutto. In pratica, passo le giornate a mettere
a posto libri.
Tutte uguali.
E adesso, appunto, non so nemmeno più con certezza che giorno
è, per la precisione.
Non ha importanza, la quarantena sarà ancora molto lunga e
quando tutto sarà finito sarò sicuramente cambiato molto.
Ricordo l’atteso sabato, e pure la domenica al mare. Adesso
si mettono a posto i libri, tramite le stesse azioni.
Pasti a ore forzate, sempre allo stesso minuto.
Non cambia più una virgola.
Il peggio è che mi sto confondendo mentalmente e che temo di
abituarmi a questo isolamento, a tutto questo silenzio.
In questo inferno, mi viene da pensare a una cosa che può
sembrare strana.
A una tigre. Sì, una tigre siberiana.
Prima della tempesta Coronavirus, ho avuto modo di vederne
una dal vivo. Una grossa, grassa e vecchia tigre siberiana, trasportata su un
carrozzone di un circo itinerante proveniente dall’estero.
Allora erano i giorni delle festività natalizie e mi sentivo
immortale, anche se ero una merda emarginata mai mi sarei aspettato questa
segregazione in casa.
La creatura, appunto sbarcata nella vicina città grazie al
circo, veniva lasciata libera durante tutto il giorno in un recintino costruito
da ferri piantati a terra, ben delimitato e in sicurezza.
Ricordo quando le sono andato vicino, solo la recinzione
metallica rinforzata a separare me dalla fiera. Inizialmente, un timore
reverenziale da parte mia, credendo in chissà cosa.
Per chiunque abbia solo sbirciato il libro La tigre di John Vaillant, un brivido
viene a prescindere; poi trovarti un bestione così a pochi passi, sembra
un’esperienza di un altro mondo.
Mi sono sciolto solo quando l’ho guardata negli occhi. Erano
spenti. Ne La tigre, il feroce e
intelligente felino in grado di adattarsi a ogni situazione, dagli occhi
svegli, profondi, vivi, cacciatrice di prede di grande mole ma anche di persone
nel caso sia provocato, è qualcosa di tangibile seppur sia solo una
testimonianza scritta.
Ma lì, dal vero, quella creatura non aveva più nulla di
selvatico e indomito.
Lo sguardo più spento di quello di un gatto, senza alcuna
profondità. Il niente.
La bestia mi guardava, io guardavo lei. Ogni tanto faceva un giretto
attorno al breve perimetro della recinzione metallica, per poi tornare a
sedersi nello stesso punto da cui era partita.
Prima di tutto, ho provato una profonda delusione. Infine,
sorge la consapevolezza che quello che ho visto in fondo è solo una creazione
umana; cosa si può pretendere da un animale strappato da decenni dal suo
habitat naturale, dalla taiga siberiana ancora perlopiù lasciata intatta
dall’uomo, e costretto a esibirsi all’infinito a piacimento di un pubblico
pagante? Niente.
Ecco, adesso con il coronavirus mi rendo conto cosa voglia
significare essere una tigre, o un animale. Essere costretti a vivere in spazi
limitati per un’intera esistenza, senza mai poter uscire.
Per fortuna prima o poi il virus passerà, la vita riprenderà
e tutto cercherà di tornare alla normalità, però anche solo un mese trascorso
in cattività mi ha cambiato, figuriamoci una vita intera.
Siamo o non siamo dei mostri, degli oppressori, che hanno
distrutto non solo l’ambiente e gli altri esseri viventi, ma anche tante altre
civiltà che invece avremmo dovuto proteggere, sostenere, preservare,
rispettare?
Siamo la sintesi di uno spietato, rapido percorso evolutivo.
Gli animali sono esseri viventi come noi, ma non potranno mai
vivere in un ambiente naturale perché noi l’abbiamo distrutto, e li abbiamo
reclusi in gabbiette e recinti, a produrre e a riprodursi per i nostri scopi.
Siamo mostri e in qualche modo dobbiamo pagare e rendere
conto per quello che abbiamo fatto al mondo.
Per quanto mi riguarda, quella tigre non me la scorderò mai,
e resterà per sempre l’emblema della libertà rubata e dell’ossessione dell’uomo
rivolta al soggiogare la natura.
I miei giorni di quarantena mi stanno facendo capire che in
fondo si può pensare di essere fortunati per essere nati umani, in un certo
senso. Ma fino a un determinato punto.
NOTA DELL’AUTORE
Mamma mia, quanto tempo e quanti errori! Ne ho messi a posto
molti, ma sicuramente tanti altri mi sono sfuggiti. Mi scuso per questo.
Ma soprattutto mi scuso per i secoli impiegati per aggiornare
una storia ormai conclusa da tempo… che vergogna! Ora sono qui per riparare,
promesso.
Un grazie immenso e infinito a chi sarà ancora qui, pronto a
leggere e a sostenermi.
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Capitolo 21 *** Capitolo ventuno ***
Capitolo ventuno
CAPITOLO VENTUNO
“La vita non è
aspettare che passi la tempesta,
ma imparare a ballare
sotto la pioggia”.
Mahatma Gandhi.
Ora che il tempo è dilatato, posso avere più cura di me
stesso. Dormo di più e più tranquillamente.
La mia giornata non è più di corsa e i muscoli non mi dolgono
continuamente. Posso anche permettermi di fare ciò che altrimenti avrei fatto
male.
Guardando tra i libri che sto mettendo a posto, incappo in
uno un po’ speciale, di quelli che raccontano una vita passo per passo, e
appunto questo è a colori e racconta l’intera esistenza di un uomo scomparso
solo qualche mese fa, a novembre dello scorso anno. Una figura famosa, un’icona
per il territorio.
Lo sfoglio così tanto per passare il tempo, tanto non ho
molto altro da fare fintanto che piove e fa freddo. Che, tra l’altro, che meteo
bastardo! Si gela in primavera.
Ma, tornando al punto, mi ritrovo annoiato a sfogliare questo
volumetto.
Incappo in quelle foto sorridenti, dapprima di un uomo
giovane, in bianco e nero, poi dell’uomo maturo e distinto, infine del
simpatico vecchietto che è diventato. Ancora una volta mi ritrovo a riflettere
sul significato della morte e su quanto possa essere fastidioso (oppure
importante, chissà) restare impressi in fotografia.
Guardo queste foto e noto che tutte sono accomunate da un
dettaglio; il soggetto fotografato sorride sempre. Sorride da giovane, da
adulto, da vecchio. Un sorriso che non cambia mai nonostante il tempo che
passa, sincero e di quelli che fanno sorridere anche le altre persone, perché
sembrano così schietti e spontanei da restare nel cuore.
Credo che quest’uomo continui a sorridere anche nell’aldilà,
lo spero davvero, sono poche le persone in grado di trasmettere così tanta
serenità anche quando non ci sono più.
Morale della favola? Tanto dobbiamo morire tutti, ma… in
fondo, se resta una nostra foto che esprime serenità e positività, perché
dovrebbe essere un male? Ci sono persone che, anche se non ci sono più, hanno
saputo lasciare dietro di loro una scia di bellezza spirituale che resta
intatta nel corso del tempo.
La bellezza delle persone speciali lascia qualcosa anche
quando esse non sono più corporee, vincendo il tempo.
Adesso ho solo voglia di sorridere perché la vita è breve e
dato che hanno detto che pure alcuni miei coetanei sono morti di recente per
via della pandemia, tanto vale che il tempo che mi resta lo passi sorridendo.
Un attimo di vuoto; un buio spettrale. Ora che sto qui a far
tanta polemica mentale sulla condizione attuale, forse sto trascurando la mia,
di situazione. Non quella di adesso, che per tutti è la medesima, o per lo meno
per le persone corrette che rispecchiano le regole, bensì su quella precedente.
Quel sesso senza futuro fatto con persone già
sentimentalmente occupate, che naturalmente appena potuto sono sparite.
Quel mio amore per G, uomo così diverso e distante da me,
eppure così a posto anche lui a livello sentimentale.
Quel mio stare lontano dal gruppo dei pari, l’emarginazione
che ho sui social e nella vita quotidiana.
Posso dire di aver fatto tante cose in vita mia, ma non certo
troppe sotto al punto di vista sociale.
Insomma, questo silenzio al di là di svariate riflessioni mi
impone anche una stretta analisi di me stesso; che questo sia un reset, un
punto di inizio sano, su cui basare un nuovo futuro migliore.
Già all’inizio di questo mio flusso di pensieri me l’ero
proposto, ma poi ho lasciato troppo spazio a quelle persone che credevo fossero
personaggi rivelazione, quando invece era gente pronta a uscire in fretta dalla
mia vita, così come erano entrate.
Questa volta, questa prova della quarantena si sta mostrando
davvero una vera sfida e credo che potrà fare qualcosa per aiutarmi in modo
concreto in quel percorso di redenzione che auspico da quando sono nato.
Ricordo un mio collega
di tanti anni fa che ripeteva sempre un concetto espresso da un filosofo
antico, che affermava come la cosa migliore fosse in realtà il non essere mai
nato.
È quello che penso ora,
mentre gli agenti che mi hanno arrestato davanti casa mia mi conducono verso il
commissariato di Columbus, quello che per tanto tempo è stato un po’ come la
mia seconda casa.
Varco quella soglia
ammanettato mentre tutti mi guardano, quei colleghi che solo qualche settimana
fa erano amici miei. Lo sguardo del commissariato intero è posato su di me,
alcuni estraggono i cellulari e li immagino scrivere a chi non è presente quel
che sta succedendo.
Presto il mio volto
diventa rosso fuoco e sudo freddo. Scorgo Ramsey, che mi fissa in lontananza
senza nessun particolare interesse.
Infine, è lo sceriffo
stesso ad attendermi in corridoio, senza concedermi nessuna udienza.
“Le avevo fatto sapere
che non le conveniva tirare troppo le corde, perché hanno l’abitudine di
spezzarsi in fretta, soprattutto in certi ambienti” mi dice soltanto questo,
laconico e serio.
Fa cenno ai due agenti
di portarmi giù, al piano inferiore, il luogo dove avvengono gli interrogatori.
Ma, prima, la parte ancora più umiliante.
Mi sbattono contro un
muro bianco, che fa da sfondo alle foto segnaletiche che stanno per farmi.
Lascio che mi sbattano da una parte e dall’altra, fintanto che non prendo il
coraggio di porre qualche lecita domanda.
“ Mi avete arrestato
senza nemmeno dirmi le accuse”.
“Presto le scoprirà da
sé”.
“Non potete farmi le
fotografie, ufficialmente non sono ancora un detenuto…”.
“Non è un detenuto ma è
un agente che ha violato il regolamento di Stato. Ciò su e per cui ha giurato.
È un’accusa già di per sé abbastanza grave da garantirle fin da subito una
discreta permanenza in carcere” torna a rispondere il poliziotto più giovane,
che non conosco.
Già il fatto che
abbiano messo sulle mie orme due giovani e aiutanti matricole sconosciute
lascia capire quanto i miei superiori desiderassero che restassi isolato, senza
avere possibilità di scambiare una sola parola amica.
Il poliziotto, dopo
essersi sincerato che le foto di fronte e di profilo fossero perfette, finisce
di perquisire la mia uniforme, estraendo il distintivo e tutto ciò che riguarda
il mio servizio nelle forze dell’ordine.
“D’ora in poi lei è un
agente deposto. Vestirà momentaneamente come un qualsiasi altro detenuto, ed
eguale sarà il trattamento riservatole. Al più presto le sarà concessa
l’opportunità di contattare un avvocato, mentre per ora è atteso solo per un
paio di domande di rito” prosegue a spiegarmi, prima di afferrarmi le braccia
dietro la schiena e di spingermi verso le camere insonorizzate dove avvengono
quotidianamente decine e decine di interrogatori.
Mi obbligano in
silenzio a mettermi seduto e mi porgono una bottiglietta e un bicchiere di
plastica.
Mi preparano a parlare.
È come se già sapessero che lo farò.
Non so cosa aspettarmi,
o quanto meno non fin quando Ramsey varca la soglia della camera, chiude la
porta alle sue spalle e viene a sedersi di fronte a me, al di là della
scrivania.
“Allora, Barley?”
“Allora cosa?” mi viene
quasi da ridere in modo isterico. Allora un cazzo.
“Mi avete arrestato
come il peggior criminale degli Stati Uniti. Umiliato con foto segnaletiche e
un cazzo di camice da carcerato. Allora lo chiedo a lei, mi piacerebbe sapere
perché tutto questo è successo”.
Ramsey resta
impassibile.
“Be’, sa… interrompere
un’indagine ufficiale per prendere una parte ben precisa, senza parlarne con i
suoi superiori è reato. Ma lo è ancora di più forzare dall’alto il sistema per
tornare a essere agente speciale, per poi pestare i piedi di molteplici
imprenditori e politici di altri Stati senza avere nemmeno la più pallida idea
di quel che si dice. Tutto questo” e sventola l’indice quasi sotto al mio naso,
“è reato. Punibile per Legge. E adesso sulla sua testa pendono così tante
denunce che questa azione è stata obbligatoria”.
“Se sono stato
denunciato non credo di dover andare in carcere subito. Mi serve un avvocato,
poi si andrà in tribunale…”.
Ramsey picchietta le
dita sulla lastra di legno della scrivania.
“Barley, tra noi non
c’è mai stato un buon rapporto, ma l’ho sempre giudicata un agente maturo e con
una testa sulle spalle ben salda, non un ipocrita ragazzino che crede a tutti.
Un vero professionista. Poi, non si accorge nemmeno che tutti i passi falsi che
ha fatto sono stati veicolati da altri. E pretende un avvocato” ride sonoramente,
a questo punto, “lei era già spacciato nel momento in cui ha fatto certe
scelte. Doveva immaginarlo che stava camminando sul filo di un tagliente
rasoio, ma ha scelto di sporgersi pericolosamente da una parte. Ed è caduto. Un
avvocato non la salverà” mi allunga un telefono fisso, di quello a tasti come
una volta, sicuro e dalla rete controllata, “quindi ora chiami e mi lasci
ascoltare ciò che dice, ricordando che ogni parola d’ora in poi le si può
ritorcere contro”.
Tocco la cornetta con
risolutezza, però la sicurezza crolla subito.
Cade il sipario e mi
trovo nudo ad affrontare un inferno imprevisto, che mi ha avvolto con le sue
fiamme in una rapidità disarmante.
In realtà non so chi
chiamare; non conosco avvocati di fiducia, non ne ho mai avuto bisogno. Vorrei
chiamare mia moglie, ma so che non mi risponderà. Nemmeno i miei figli.
Mi passa per la testa
di chiamare quella stronza malefica, ma il suo numero non lo conosco a memoria.
Pensare a lei però risveglia in me l’istinto primordiale di chi non ce la fa
più e si arrende.
“E’ stata lei. Lei a
rovinarmi e a farmi fare tutto questo. Ero costretto”.
Avverto le lacrime che
iniziano a scorrere lungo le mie guance.
“Lei chi?” domanda
Ramsey, con una curiosità finta.
“La Stradford. Mi ha
rovinato. Mi ha sequestrato e costretto a obbedire, ho le prove, a mia
moglie…”. Il mio superiore alza la mano destra.
“Alt, per favore. Sua
moglie ha già affermato che non vuole sapere nulla di questa storia e che non
la supporterà, poiché era cambiato troppo e aveva visto con chiarezza che era
cambiato. Idem la signorina Stradford, che si tira indietro da ogni possibile
accusa ed è già difesa dalla schiera dei più validi avvocati dell’Ohio e niente
e nessuno può scalfirla ora, che è sulla difensiva. Può fornire delle prove
concrete? Altrimenti taccia e chiami un avvocato, senza perdere altro tempo”.
“Certo che le ho”
mugugno, tra i singhiozzi, “mi ha anche costretto a fare sesso con lei…”.
“Abbiamo già visionato
quel video e pare proprio che lei fosse contento e consenziente. Anche la
signorina lo conferma. Anzi, sarebbe stato proprio lei a dare il via alla
faccenda, e vorrebbe denunciarla per molestie e violenza…”.
“No! Non è vero” grido,
interrompendolo.
“Si dia subito una
calmata” sussulta Ramsey, distaccato. “Se ha anche solo uno straccio di prova
tangibile, ora e nell’immediato, la mostri e me ne parli. Altrimenti contatti
l’avvocato, le servirà”.
Resto in silenzio a
piangere, non so più cosa dire. Sono finito, spiaggiato contro un muro più alto
di me.
Ho un crollo nervoso e
non so cosa dire, cosa fare, come tentare di difendermi. La matta mi ha
incastrato nel suo intrigo fatto di bugie, e poiché tutti i nostri incontri e
contatti erano segreti, non ho alcuna minima prova.
“Per… per l’avvocato…”
torno a singhiozzare, “se mi può fornire… un numero d’ufficio… non ne conosco
nessuno…”.
Ramsey sospira, per
nulla colpito dal mio stato pietoso, poi si allunga, digitando un numero nella
tastiera.
“Prego. E faccia
presto” sancisce, mentre il primo squillo già rimbomba nelle mie tempie.
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Capitolo 22 *** Capitolo ventidue ***
Capitolo ventidue
CAPITOLO VENTIDUE
“I desideri si avverano
solo nei sogni”.
Mara Destino.
Ora capisco perché è
così importante non lasciare nemmeno i lacci delle scarpe ai carcerati. Vorrei
tanto poterne sfilare uno, già pronto a strangolarmi.
Vorrei solo morire, il
freddo mi entra dentro e non mi lascia vivere.
Mi vergogno e la mia
mente è molto confusa, non ho risposte per quello che mi sta accadendo.
“Basta… per favore,
basta…” mormoro, nel buio.
Vogliono spezzarmi.
Io ho parlato, ho
parlato troppo… ma non a causa mia, è stata quella puttana! È stata quella…
Una manganellata
interrompe il mio flusso di pensieri e di parole disperate.
Mi raccolgono da terra
e mi portano nella stanza degli interrogatori, dove questa volta assieme a Ramsey
è presente l’anziano sceriffo e pure diverse persone vestite distintamente che
non so riconoscere. Perfetti sconosciuti.
Uno di essi si alza e
mi porge la mano.
“Signor Barley,
piacere, sono Aleksandr Groening, il suo avvocato” si presenta.
Piango e le lacrime mi
offuscano sempre di più la vista. Non sto nemmeno a guardarlo, questo perdente,
tanto ho capito che sono fottuto. Non ho nemmeno capito come si chiama.
“Allora, ex agente
speciale Barley, siamo qui riuniti per prepararla alla prima seduta in
tribunale, che vista la gravità dei suoi gesti e delle denunce nei suoi
confronti è stata anticipata a dopodomani” esordisce lo sceriffo, gelido e
tagliente come sempre.
Singhiozzo e non
rispondo, mentre gli agenti che mi sostengono mi costringono a sedermi al
cospetto della commissione.
“Ha qualcosa da
riferire in questa sede, prima del processo pubblico?” torna a chiedermi.
Io?
Piango.
Che risposte dovrei
avere? Cosa devo riferire? Ripeto da settimane che quella è una pazza, che mi
ha rovinato. Nessuno mi crede.
Perché dovrei
continuare a farlo?
“Allora, signor
Barley?” insiste.
Alcuni sospiri
spazientiti mi fanno comprendere che tutto sta per finire. Chi tace acconsente,
come afferma il detto.
È l’ultima mia
occasione prima del processo in tribunale per gridare che la Stradford mi ha
fottuto, e questa consapevolezza mi dà una carica improvvisa.
“Mi ha incastrato” dico
soltanto.
Questa volta sbuffano
solo Ramsey e lo sceriffo, ormai abituati alla solita manfrina.
“Chi, se può ripetere?”
domanda una voce a me sconosciuta.
“La signorina
Stradford” rispondo, senza farmi problemi.
“E come avrebbe potuto,
sentiamo?”
“Mi ha obbligato a eseguire
quello che mi diceva” mi interrompe un singhiozzo, “mi ha costretto a fare
quello che non volevo” un altro singhiozzo frammenta nuovamente il mio
discorso, “ha mandato a mia moglie un video in cui sono successe cose che lei
mi ha obbligato a compiere…” e mi fermo qui, poiché il mio momento di lucidità
si interrompe con altre copiose lacrime e non ho più voglia di dire altro.
So che la vipera tanto
riuscirà sempre a farla franca, che posso farci? È la mia parola contro la sua,
con la sola differenza che lei può modificare ogni evento a suo piacimento, a
suon di mazzette.
“E’ sicuro di quel che
dice?” incalza ancora la voce.
“Sì”.
Tossicchia lo sceriffo,
richiamando l’attenzione su di sé.
“In realtà, il signor
Barley è molto confuso. La signora da lui chiamata in causa ha già esposto
diverse denunce sul suo stato mentale alterato…”.
Non voglio ascoltare
altro. Il bastardo mi sta dando del matto.
È stata lei, lei, quel
demonio a dirglielo.
“Bastardi” sibilo.
Nonostante la mia sia solo una parola sussurrata tra le lacrime, seppur con
grande decisione, cala un silenzio tombale in tutta l’aula. “E’ stata quella
stronza a dire che tutto quello che ho vissuto… tutto questo inferno… è da me
immaginato… cagna bugiarda…”.
“Adesso basta.
Portatelo di nuovo in cella, isolato” sancisce lo sceriffo.
A quel punto, prima che
gli agenti possano afferrarmi di nuovo, balzo in piedi ed esplodo, gridando con
tutta la voce che mi rimane.
“Non sono pazzo, mi ha
rovinato la vita! Mi drogava, mi costringeva a fare quello che voleva! È lei
che ha contattato quei giornalisti e mi ha obbligato a parlare…”.
Non riesco a
concludere, gli agenti mi spingono con forza e mi mozzano il fiato. È finita.
Mi afferrano e mi
bloccano con le braccia dietro la schiena, e ancora una volta sono impotente
mentre mi portano via, facendo di me quel che vogliono.
Che sapore ha, la
giustizia? Questo qui?
Riprendo a piangere
tenendo la testa curva sul petto, a peso morto.
Mi trascinano di nuovo
in quel buio sotterraneo che chiamano luogo di isolamento, per schiarire le
idee, ma in realtà l’effetto in genere è contrario. Su di me, invece, l’effetto
è proprio quello; sono consapevole di essere innocente, assolutamente sì. E non
smetterò mai di gridarlo, anche se tutti attorno a me sono sordi, offuscati dai
soldi di quella pazza.
Non mi arrenderò.
Moglie mia, fossi qui
con me… quanto ti amo…
So che lei non mi vuole
più vedere e testimonierà contro di me, ma non la giudico colpevole contro di
me. Credo che anche questa volta il destino ci abbia avvicinati; nella
malasorte, entrambi siamo manovrati da altri. Alla fine, siamo stati tutti
delle marionette in mano al perfido gioco dei potenti.
Mi rassereno solo pensando
che tutto si sistemerà, e che non può sempre andare tutto male.
Non so quanto tempo è
passato, quando vengono a prendermi.
“Signor Barley,
l’avvisiamo che l’udienza è stata annullata” mi annuncia una voce decisa.
Annuisco senza alzare
lo sguardo.
“Però deve venire con
noi. Avanti, si alzi”.
Non muovo nemmeno la
testa. Questo posto puzza di muffa e mi fa stare male.
Continuo ad aver perso
tutta la voglia di vivere e vorrei solo suicidarmi, ma non ho nulla a
disposizione per rendere realtà questo mio proposito.
Avverto le braccia che
mi tirano in piedi a forza, poiché io non ho quasi più reazione agli stimoli.
“Non faccia così,
suvvia” si raccomanda la voce, quasi cantilenante.
“Lei è fortunato, sa?
Qualcuno si è mosso per lei. Per aiutarla, per farle del bene. Lei è fortunato,
fortunato…”.
Quest’ultima parola,
ripetuta, fa eco e si disperde nel vuoto e silenzioso ambiente circostante,
prima che la luce inondi il mio campo visivo, costringendomi a strizzare le
palpebre per non restare acciecato. Ed ecco, assieme alla luce, la
consapevolezza che qualcosa si è mosso.
Non può andare sempre
tutto male, vero?
Arriva come un fulmine. A ciel sereno.
G.
Ho già detto tutto.
Me lo ritrovo davanti sotto casa, con il fiato corto. Non
capisco.
“Ehi!” esclama, con il suo solito modo di salutare. Io lo
guardo e batto le palpebre più volte; non ci credo.
“Ehi…” ancora lo fisso, gli occhi spalancati, “…ma che ci fai
qui?”.
Sorride. Arriccia le labbra carnose.
“Passavo, volevo farti un saluto”.
Sto per dirgli che in casa ci sono anche i miei, se vuole
salutare pure loro, poi realizzo che siamo in emergenza e che ognuno dovrebbe
stare a casa propria. Come ha fatto ad affrontare un viaggio di trenta
chilometri, attraverso diversi comuni, ed essere ora al mio cospetto?
“Ma scusa un attimo, dove vivi tu non sanno ancora del
coronavirus e delle regole da rispettare…?”.
Ride, divertito.
“Ho la partita Iva, ancora posso sfruttarla per lavorare e
fare qualche piccola sosta dagli amici”.
Resto interdetto, ma capisco che mi cela qualcosa. Una vocina
mi suggerisce di non dirgli di entrare in casa, chissà dove è stato e con chi.
Ma soprattutto non voglio che i miei lo distraggano. È venuto per farmi un
saluto, no? Allora che saluti me.
“Ti va una passeggiata nel parchetto?” mi viene spontaneo
chiedergli, a questo punto, come se fosse la domanda più naturale di questo
mondo.
Lui non perde il sorriso.
“Direi di sì”.
“Basta che non duri troppo, sai, se no sono casini” aggiunge,
sfilando dalla tasca dei jeans un plico di autocertificazioni tutte
accartocciate. È il mio turno di ridere.
“Tranquillo, solo il giusto tempo per fare due chiacchiere e
scambiarci un saluto. Mantenendo la distanza di almeno un metro, naturalmente”.
Ride ancora.
“Ci sto!”
Il bello di avere un parco privato unito al giardino è che
nessuno può romperti il cazzo. Ho imparato, oltre a sistemare libri in modo
metodico, che una corsa all’aria aperta e in solitaria in quello che considero
giardino è rigenerante.
Sono appunto nel mio giardino, no? Nessuno può mandarmi in casa.
Almeno per una volta questo grande spazio verde acquista un
senso pratico, oltre a quello puramente estetico.
Camminiamo l’uno a fianco dell’altro, il cielo che si tinge
di rosso; il tramonto è impellente. Incombe su di noi, come se ci fossimo
calati in un dipinto. L’atmosfera è da favola e quasi non ci credo.
Lui mi guarda e non distoglie gli occhi da me nemmeno per un
istante, è evidente che prova piacere a essere qui.
“Quindi?” mi chiede. Quando non sa cosa dire, dice così. Che
simpatico mattacchione.
“Come va, tutto a posto?” replico io. Sorride, felice. È
contento che la sua sollecitazione abbia avuto risposta. O, meglio, abbia
suscitato una nuova domanda.
“Tutto bene a casa. Anche te, mi sembra”.
“Sì, tutto ok”.
“Bene, dai”.
Cala di nuovo il silenzio.
“I bengalini?”
Sorrido a mia volta.
“Bene anche loro”.
“Hanno proliferato?”
“Oh, no. Non fanno niente”.
“Peccato”.
Cade di nuovo il discorso mentre continuiamo a camminare,
separati da un solo metro, sempre affiancati. La fila di piante le cui gemme rigonfie
stanno sbocciando è quasi conclusa, l’abbiamo percorsa tutta a piedi;
nonostante il parco sia abbastanza vasto, è pur sempre una sorta di
prolungamento del giardino, curato e ordinato.
“Senti, Alex” si fa forza lui, notando che il tempo scorre
inesorabile, “se sono venuto fin qui, è anche per altro”.
“Dimmi tutto” replico, incuriosito.
“Io, be’… volevo vederti. Stare senza te… mi ha fatto male.
Avevo bisogno di venire a vederti”.
“Ah”.
Riesco a dire solo questo. I suoi occhi sono tutto un
balenare di riflessi colorati, con il tramonto che si staglia davanti a noi. Il
silenzio ci avvolge, siamo in aperta campagna, soli con le nostre semplici
parole.
Casa mia è a duecento metri. Il resto è piante, grano, fiori.
“Mi piaci, Alex” afferma. È una di quelle affermazioni che
non ti aspetti… di quelle che sono come fulmini a ciel sereno.
G è stato una testa di cazzo, non si è mai fatto sentire e
ora eccolo qui, che spara parole così pesanti… veri macigni.
“Anche a me, piaci” borbotto.
All’improvviso il metro di distanza fa noi si riduce e le sue
mani afferrano con forza le mie. Le stringe forte. Avverto il suo alito, il
viso ormai a pochi centimetri da me.
“No!”
Il mio no perentorio lo ferma.
“Non possiamo”.
Giustamente.
“Perché no? Siamo soli, qui. Questo momento è nostro. Nessuno
può giudicarci. So che ti piaccio, mi hai sempre fatto la ruota, e il tuo
fascino mi ha intrigato. Ti voglio, Alex; ora, qui, sempre”. Ricordo amaramente
Alice e Mario, assieme alle loro parole. G è sposato come loro e ha una famiglia
che l’aspetta. Non me la sento più di essere il toy boy di turno, il compagno
di scopate quando non ne puoi proprio più.
Lui, come loro, sceglierà sempre la famiglia, come è giusto
che sia.
Eppure, carpe diem; cogli l’attimo! Ora io potrei cogliere G,
le sue labbra, il suo corpo. È tutto qui per me. So che si lascerà fare ogni
cosa, ed io farei altrettanto. Eppure…
“Anche io ti amo, G. Ma non è giusto, sai?” gli spiego,
guardandolo con amarezza. Lui ancora è titubante, le sue labbra fremono, come
se si aspettassero qualcosa.
Ma… quel tremito alla fine si tramuta in una sorta di paura,
come se credesse di aver commesso un passo falso. All’improvviso abbassa lo
sguardo e interrompe l’attimo di silenzio teso.
“Hai ragione” dice, annuendo anche con la testa, con fare
triste, “penso che sia ora di andare, si è fatto tardi”. Si tasta la tasca che
contiene le autocertificazioni a mo’ di scusa, ma sappiamo entrambi che non è
vero.
Mi dà le spalle e torna indietro a passo sostenuto.
A quel punto, ogni mia certezza crolla e mi ritrovo a
rincorrerlo, dicendogli… non so cosa. La mia voce si fa sbiadita, bassa,
incolore, finché nella certezza che lui non mi stia ascoltando inizio a urlare,
cazzo, deve sentirmi, deve ascoltare quel che ho da dire, prima di andarsene…
G però è sempre più lontano, per quanto io cammini spedito,
egli mi distanzia.
Grido finché il respiro mi si smorza in gola e il mondo
attorno a me si fa buio…
…buio come una camera da letto, in piena notte.
“Alex? Tutto bene?” E’ la voce di mia madre che mi sveglia,
vedo la sua sagoma ben piantata nel mezzo della porta della stanza, la luce del
corridoio a delinearne la forma.
“Sì, mamma” annuisco, “tutto a posto. Era solo un incubo”.
Lei se ne va, rassicurata, e poco dopo spegne anche la luce
del corridoio.
Resto solo e all’improvviso, ancora avvolto dal buio, avverto
quanto il mio cuore stia battendo forte nel petto. Realizzo che nemmeno in
sogno sono riuscito a scoparmi G. Tra l’altro era pure un bellissimo sogno,
nitido come pochi. Così bello da tramutarsi presto in un incubo.
Adesso però mi sento impazzire e mi manca il fiato, credo di
avere una crisi di panico. Anche la gola è secca e mi fa male, chissà quanto ho
brontolato nel sonno, prima del grido finale, sperando di non aver detto cose
imbarazzanti.
Questo significa solo una cosa; sto perdendo il senno.
Davvero.
Non mi era mai capitata una cosa così.
In realtà, tra virus corona, quarantena in casa, libri
spostati senza un domani e fisse e incubi riguardanti un irraggiungibile G,
semplicemente impazzisco.
A lui non frega niente di me, come al mondo intero, devo
farmene una ragione. Sono solo una merda. Sono solo un giocattolo sessuale che
tutti gli sposati hanno usato come svago. Sono solo… argh! Non so.
So solo che adesso mi
serve una boccata d’aria fresca, oppure muoio qui… mi alzo dal letto con la
convinzione di andare in giardino, ma… niente, non capisco più nulla. La notte
e il risveglio traumatico hanno la forza di modificare la realtà e di renderla
così grave da risultare insostenibile.
Mi muovo per casa senza quasi accorgermene; desidero cambiare
qualcosa nella mia vita, ora e per sempre, questo è tutto ciò che adesso mi è
chiaro.
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Capitolo 23 *** Capitolo ventitrè ***
Capitolo ventitrè
CAPITOLO VENTITRE’
“Le lezioni della
delusione, dell’umiliazione e dell’errore
colpiscono più a fondo
di quelle di mille maestri”.
Johann Heinrich Fussli.
Se credevo che non
potesse andare sempre tutto male, be’, mi sbagliavo. Perché nella vita non c’è
mai limite al peggio.
in da quando sono
tornato per qualche minuto all’aria aperta sono stato folgorato da una
spiacevole sensazione, che non si è rivelata errata.
Mi hanno costretto a
sedermi sul sedile posteriore di una volante e mi hanno scaricato davanti alla
clinica. Sì, proprio quella clinica.
L’infermiere che mi ha
aperto la porta l’ultima volta in cui mi sono recato a fare reclamo è stato
colui che mi ha preso in consegna. Non ho nemmeno provato a urlare, né a
ribellarmi; il mio destino è scritto.
Adesso sono qui, seduto
nello studio di Morrow, con la certezza di aver perso tutto. È stato come un
cerchio che si chiude, non potevo sfuggire a questo.
Con rassegnazione,
aspetto che l’uomo mi dia udienza. Nel frattempo, due infermieri silenziosi e
dall’aria nervosa controllano che la camicia di forza non si allenti.
“Buongiorno, agente
speciale” fa il suo esordio il maturo psicoanalista, non appena fa il suo
ingresso nello studio, “anzi, mi scusi! Paziente Barley”.
Ghigna, mentre si siede
davanti a me. Fa cenno con la testa ai due infermieri, li manda via.
Chiudono la porta
dall’esterno, mentre quello che fino a poco tempo fa era un indiziato si
trasforma in inquisitore.
“Piaciuta la sorpresa?”
Resto ancora in
silenzio.
“Dai, su con il morale.
D’altronde, noi della clinica l’abbiamo salvata da un lungo processo in
tribunale, che rigorosamente le avrebbe dato torto”.
“Non credo che sia
finita tanto meglio, dottore” replico, parlando per la prima volta. E lo faccio
con rassegnazione e impotenza. Morrow infatti sorride di nuovo.
Lui, l’uomo di pietra,
eccolo finalmente divertito.
“No, ha ragione” smette
di sorridere e torna serio. “Ha una terapia da affrontare, ora”.
“Con farmaci
sperimentali provenienti da cliniche private di altri Stati?”
Questa volta, lo
psicoanalista si regala una risatina profonda e ispirata.
“Sa che lei è pure
simpatico, se si impegna? È un aspetto del suo carattere che non avevo mai
notato” afferma, poi abbassa la voce con effetto scenico, “comunque, sì, sarà
proprio così”.
“Non penso proprio”
salto su io, sempre più nervoso, “qualcuno verrà a tirarmi fuori da questo buco
di merda prima ancora che voi allunghiate un dito verso di me”.
Morrow torna
imperturbabile, come suo solito.
“Questa è solo una sua
illusione. La sua mente le sta suggerendo ciò sulla base del fatto che ancora spera
di salvarsi, ma come di certo sa, la speranza è l’ultima a morire; fa parte
dell’essere umano”. Breve pausa, mentre giocherella assorto con una penna sulla
scrivania. “Ciò non fa una piega, ma nessuno la salverà. La Stradford, o
signorina, come tanto voi tirapiedi adorate chiamarla, l’ha scaricata senza
pietà, agente. Le ha insegnato dapprima la sua manfrina, poi semplicemente l’ha
cestinata”.
“Era solo una matta,
quella”.
“Oh, sicuro; in questa
storia, i matti sono tanti” Morrow torna a sorridere, sornione, “ma le
garantisco che l’unico a diventare pazzo per davvero sarà lei”.
Resto in silenzio, di
nuovo affondato dalle sue parole cariche di disprezzo e di pessimismo.
“Un’ultima cosa, prima
di iniziare la terapia. Ha presente il paziente Brown? Quell’uomo che era qui,
proprio al suo posto, quando lei è venuto a farci visita l’ultima volta?”
Annuisco.
“Be’, lui era l’uomo
che l’ha preceduta. Non ci crederà, ma abbiamo una ventina di persone che hanno
tentato la sorte, prima del suo tentativo. Se ha presente quel bel plico di
testimonianze e di indagini che le sono stati gentilmente recapitati dalla mia
ex infermiera, ricorderà tanti nomi. Quei nomi può trovarli nella lista dei
nostri attuali pazienti”.
E così dicendo, ghigna.
Avverto all’improvviso tutta la tensione della situazione, uscendo da quella
strana sensazione di impotenza.
Quindi questo pazzo mi
aveva fato vedere quell’uomo…?
“Le ho appunto fatto
vedere Brown per mostrarle in anteprima quello che le accadrà. Ora così ha già
un’idea ben precisa di come si ridurrà, anche se credo fermamente che per lei
sarà molto peggio”. Do uno strattone deciso alla camicia di forza, che però mi
contiene egregiamente.
“Le dico questo solo
per rassicurarla, in un certo senso; quella che ora l’ha condannata ha messo
nei guai tanti altri, tutta carne da macello. La signorina Stradford è una dama
ricchissima e dalle grandi ambizioni, ha sacrificato molte persone. Persone
come lei, mio caro ex agente, tutte di estrazione povera. Persone che non
potevano difendersi dalla forza della sua saccoccia piena di denaro sonante,
condannate per sempre all’infelicità” sospira, ora, teatralmente, “ma
d’altronde cosa ci dobbiamo aspettare, da una donna che ha sacrificato il suo
stesso padre, pur di riuscire a creare una forzatura nella nostra clinica, e
riuscire così a ficcanasare?”
Sussulto.
“Suo… padre…?”. Ma che
cazzo sta dicendo, questo? Qui siamo proprio fuori di testa. Morrow è un pazzo,
un pallone gonfiato che non sa quello che dice.
Devo scappare da qui…
devo…
“Suo padre, sì,
quell’onorevole senatore per cui sta combattendo tanto. Crede che un
personaggio illustre e ricco sfondato fosse destinato a questo umile posto,
nonostante avesse avuto una crisi di nervi considerevole e improvvisa? E,
soprattutto, che questa improvvisa crisi sia frutto del caso? E, ancor più
importante, perché è giunto qui così tanto frettolosamente?”
“Perché?” trovo il
coraggio di chiedere, e per un solo istante mi dimentico di quel che sta per
accadere. Non avverto più la spada di Damocle sul mio collo, tagliente e
affilata, perché mi sento finalmente sulla pista giusta per scoprire tutto
quello per cui ho combattuto, fino a meritarmi questa condanna. Fino a perdere
tutto, dalla famiglia alla dignità.
“Perché sua figlia
voleva che noi l’ammazzassimo non appena fossimo riusciti a scoprire quel che
sapeva sul nostro conto” torna a ghignare il mio interlocutore, soddisfatto
della mia domanda, “sua figlia d’altronde sogna di acquistare diverse industrie
farmaceutiche strettamente legate alla nostra clinica. Questo le garantirebbe
il monopolio di una buona parte del redditizio traffico mondiale dei farmaci.
Per farci crollare ha lasciato che lo uccidessimo, così da fare la parte della
giovane orfanella al cospetto dell’opinione pubblica, quella il cui padre è
stato torturato prima di morire con un farmaco sperimentale in circolo nel
sistema cardiovascolare. Senza contare il ricco patrimonio economico che,
grazie al suo decesso, ha ereditato. E noi siamo stati gli unici ad averla
accontentata…”.
“Perché l’avete ucciso,
allora?” è il mio turno di chiedere. “Mi crede scemo anche lei, vero? La
Stradford conta di farvi crollare diventando ancora più ricca e facendovi
uccidere il padre, intessendo trame per riuscire a far svolgere una indagine
pubblica per screditarvi e far crollare il sistema, per poi impossessarsene
lei? Mi faccia il piacere”.
“L’abbiamo ucciso perché
ci faceva piacere. A noi servono cavie umane e una vale l’altra. E… non mi
ponga domande alle quali ho già risposto”.
Morrow batte la mano
destra sulla scrivania e si scompone, come se si stesse per alzare in piedi.
“Se tutto questo è
vero, vi distruggerà. In qualche modo, tutto il marcio che si nasconde nella
vostra schifosa lotta emergerà”. Scrolla le spalle.
“Guardi, noi
quell’anziano prima di ucciderlo l’abbiamo pure sottoposto a un breve ma
efficace interrogatorio, per scoprire cosa e quanto sapeva, sia lui e sia la
figlia. Siamo certi che, nonostante i soldi, la signorina non abbia i mezzi
adeguati per scalfirci minimamente; per ogni amico importante che ha, noi ne
abbiamo dieci ancora più influenti. Quindi potete mettervi tutti l’animo in pace,
e d’altronde lei stessa non ha nobili intenti. E lei, carissimo paziente
Barley, presto potrà riposare in pace”.
Do un altro strattone
alla camicia di forza, che sembra di ferro.
“Non penso proprio”
mormoro, con una risolutezza sorprendente.
“Be’, come meglio
crede, però le dico già che la prima seduta della terapia appositamente
studiata per il suo caso prevede un passaggio molto infido. Magari le farà
bene, e starà molto meglio, ma forse potrà anche farle male!”
Cerco di alzarmi in
piedi. Voglio fuggire, questo posto orribile è come l’inferno.
Morrow capisce le mie
intenzioni e mi si avvicina, costringendomi a rimettermi seduto e composto con
la forza. Proprio come l’avevo visto fare con Brown. Chissà se spintonerà anche
me, tra poco…
“Paziente Barley, tra
pochi minuti credo che sarà tutto finito. La sua coscienza sarà in pace” dice,
candidamente, allungando poi un braccio per suonare il campanellino posizionato
sulla scrivania; il segnale per l’infermiere.
“Vorrei solo che
sapesse che lei in questo conflitto è l’unico innocente, in fondo, l’unica
vittima del sistema; per questo ho ritenuto opportuno un ultimo atto di
clemenza, raccontandole come stanno realmente le cose. Mi dispiace, davvero, mi
dispiace” ferma con forza il mio ennesimo strattone, spingendomi contro la
parete retrostante, “credevo fosse giusto spendere qualche parola per spiegarle
la situazione e metterla in chiaro, immaginando la sua confusione”.
Smette di parlarmi
appena l’infermiere nerboruto fa irruzione nello studio.
“Presto, portatelo
nell’ambulatorio uno. Subito. Stendetelo sul lettino e fissatelo per bene, tra
poco vi raggiungo con tutto l’occorrente” ordina poi perentorio anche all’altro
personaggio in camice che si avventa su di me come un avvoltoio.
I due inservienti mi
afferrano saldamente e mi spintonano, ormai in lacrime e impotente, verso
quella che pare l’ultima parte del mio triste calvario.
Mi hanno saldamente
legato mani e piedi, dopo che mi hanno tolto la camicia di forza. Mi hanno
tagliato i vestiti con un cutter e poi me li hanno letteralmente strappati di
dosso, lasciandomi solo con le mutande.
Per mettermi a tacere
mi hanno infilato un aggeggio in bocca, sembra una palla di gomma, che mi
soffoca se provo a lamentarmi.
Sono immobile e in
silenzio, solo le lacrime a imbrattare il mio viso e a impiastricciare i miei
poveri occhi.
Quando arriva Morrow,
si sofferma ad appoggiare una siringa piena di liquido prima di avvicinarsi a
me e di strapparmi l’oggetto dalla bocca.
Riprendo fiato,
urlando.
Lui si china su di me e
mi sferra un sonoro e doloroso ceffone.
“Gliel’ho detto, mi
dispiace; per favore, stia calmo e non peggiori la situazione” dice, poi
scambia giusto due rapide parole con un altro figuro a me ignoto, appena giunto
nell’ambulatorio. “Questo è il dottor Mallox, ex primario di neurologia
dell’ospedale pubblico di New York. Sarà lui a portare avanti questa prima,
importante seduta”.
Mugugno e urlo di nuovo
con tutta la forza che mi rimane, lui però non fa una piega.
“Arrivederci a mai più,
ex agente speciale Barley” mi dice, prima di lasciare l’ambulatorio. Nel
frattempo, l’omaccione avvicina al lettino un macchinario strano, sembra una
radio, appoggiato su un tavolino con le ruote. A suo fianco, quelle che
sembrano cuffie.
“L’elettroshock…”
mugugno, atterrito.
Mallox indossa la
mascherina chirurgica e non posso notare la sua espressione.
“Sì, certo” si limita
ad affermare.
“Io… cazzo, mi liberi!
Sa che… sono una vittima, io non posso…”.
Mi mette la cuffia
sulle tempie, poi avverto la sua pressione sui due lobi opposti del cranio.
“Per questa seduta, per
tranquillizzarla, vediamo di fare un piccolo intervento sui suoi neuroni e sul
suo sistema nervoso” dice il medico senza nemmeno darmi un minimo d’ascolto.
“Per favore, mi liberi,
cazzo! Non faccia una stronzata, mi avrà per sempre sulla coscienza…!”
“I miei studi sono più
importanti della sua umile vita” sono sicuro che stia sorridendo, mentre mi
dice questo, “non mi è mai stato concesso fino ad ora di portarli avanti. Pensi
positivo; i risultati di questo intervento le permetteranno di essere un
esempio e i suoi sviluppi saranno utili per la medicina mondiale; aiuteranno a
breve tante persone pazze come lei”.
Ok, anche questo è
totalmente fuori. Sudo freddo, urlo, strepito, prego, piango; niente spezza la
follia di questi uomini che ormai mi hanno condannato.
Entrambi gli infermieri
si affacciano su di me e riempiono il mio campo visivo, mentre quello che mi ha
accolto mi inietta qualcosa nel sangue, pungendomi nell’avambraccio destro.
“Presto il suo cervello
le darà pace. Avverte ancora tutta quella confusione, provocata dalla realtà
che la sua mente distorce?” mi chiede.
“Non sono pazzo!”
grido.
Di fronte al mio
ennesimo urlo, stringe gli strumenti attorno al mio cranio e si prepara alla
prima scossa, costringendomi a mordere l’aggeggio utile a evitare la perdita
della lingua. L’ultima cosa che vedo è il bianco accecante delle pareti di
questo laboratorio, dove tutto è diabolico.
La scossa giunge
repentina, mi getta all’improvviso nel buio più completo, poi… mi spengo,
semplicemente. Per sempre.
Che fine del cazzo, vero? Povero James Barley. Certo che
avrei anche potuto dargli un lieto fine, però immaginando ora questa trama non
avrei potuto fare molto di meglio.
Nemmeno il mio James era innocente, poiché si è fidato
troppo, e nella vita non bisogna mai fidarsi di nessuno. Fidarsi è bene, ma non
fidarsi è meglio, recita un famigerato detto popolare.
Nel frattempo cammino nel buio della campagna, la gente dorme
ed io sono fuggito di soppiatto di casa, come se fossi ancora un adolescente in
preda a chissà quale crisi ormonale. L’ultimo sogno ha distrutto il mio morale
e questa vita monotona mi ha sfinito, spero che tutto si concluda in fretta.
Alla fine giungo al mio obiettivo con il sudore che già cola
lungo la mia schiena, nonostante sia notte e sia aprile fa già abbastanza
caldo. Le rotaie della ferrovia sembrano attendermi.
Questa è la mia ultima scelta, quella finale.
Mi sono rotto il cazzo di tutto e di tutti, ormai pure le
storie che immagino finiscono di merda. Tanto vale che anche io faccia la
stessa fine.
Mi accoccolo tra i binari con gli occhi che mi bruciano dalla
stanchezza e dal sonno, stremato e senza più forze fisiche e mentali.
Ehi… ma cosa sto facendo?!
Mi riprendo dopo un po’, non so quanto. Sono ancora in mezzo
a quei binari. Nessun treno è passato, niente di niente, mi avvolge solo il
silenzio della notte.
Probabilmente, e per fortuna, il coronavirus ha fermato tutto
il traffico notturno.
Mi rialzo da terra e passo le mani lungo il mio pigiama, con
il corpo intirizzito e dolorante. È ora di tornare a casa.
Penso all’improvviso ai miei genitori, non sapendo se si sono
accorti o meno della mia fuga. Ai miei animali, alle mie piante che a casa
attendono solo me. Stavo facendo una cazzata perché un coglione non mi fila
nemmeno di un soffio!
Realizzo come stavo per buttare a puttane tutta la mia
giovane vita per la più grande stronzata del mondo. Non me la prendo molto con
me stesso in realtà, sono troppo stanco e provato mentalmente per farlo,
tuttavia riprendo la mia marcia verso casa con uno sguardo diverso rivolto alla
realtà. Ho tutto e non mi manca niente, arriverà anche il resto. G non è niente
per me ed io non sono niente per lui; ci compensiamo, quindi.
Ho delle priorità e dei sogni e non saranno il mio egoismo
infantile o il virus a portarmeli via. La mia vita… è unica.
Unica.
Un unico, importante, prezioso dono che va oltre tutto quello
che posso ricevere dal prossimo, perché non posso pretendere di essere amato da
altri quando io stesso non mi rispetto e mi umilio fino ad avere incubi e pensare al suicidio.
Mentre cammino verso casa, solo nel bel mezzo di un grande
campo di foraggio appena tagliato, avverto il primo e tenue canto dei grilli e
delle raganelle, con la mente che non si ferma più, fino a comprendere come
questo, proprio questo qui, sia per me un nuovo punto d’inizio.
So che quando ho iniziato a narrare queste stronzate ho
pensato e immortalato le medesime parole, ma questa volta davvero, ho capito.
Ho appreso la lezione.
Da domattina, giuro, sarò un Alex migliore.
Appena rientro in casa, ritrovo i miei genitori in piedi in
cucina, con la luce accesa.
“Oddio, Alex, cosa hai combinato?! Dove sei stato?” domanda
subito mia madre, in apprensione. Anche mio padre lo è.
“Avevo solo bisogno di un po’ di aria fresca” rispondo.
I loro sguardi interrogativi e turbati non si distolgono da
me, almeno fin quando non abbraccio prima mamma e poi il babbo. Non l’ho mai
fatto prima d’ora. Tra noi, solo freddezza e distanza.
Ma, ora, tutto cambia. Lo so, è una notte importante, e
Jovanotti di certo ci canterebbe sopra E’
la notte dei desideri…
Domani chiamerò ancora mio padre con il soprannome di
dinosauro, e tornerò distante da mia madre. Forse no. Forse sì. Ma di certo
avrò una certezza, ovvero quella di saper apprezzare quel che la vita mi ha
dato; ho i miei genitori qui, nonostante i loro mille e più difetti, e tanto
affetto, soprattutto da riservare a me stesso.
Ancora tanto mi attende da vivere e G sarà presto un ricordo,
perché verrà un giorno in cui mi innamorerò e sarò ricambiato con un calore
vero, esemplare… e quel giorno vorrò viverlo, perché quello sarà il mio giorno.
Niente e nessuno potrà portarmelo via, nemmeno me stesso o le
mie paranoie.
Lotterò per questo. Fino in fondo.
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Capitolo 24 *** Epilogo ***
Epilogo
EPILOGO
Mi sveglio immerso in un’alba da favola. Il sole illumina il
me stesso che cammina verso l’orizzonte illuminato.
All’improvviso avverto tanto rumore, baccano prodotto da
persone e animali.
Cammino verso quello che appare subito come il centro della
mia città; è agghindato a festa, come a Natale, e un grande albero illuminato è
cosparso di lucine che lampeggiano a intermittenza. Tutt’attorno, un grande
mercato.
Mi inoltro in questa visione e noto le persone felici che
parlano tra loro. Hanno cani festosi ai guinzagli, che si annusano tra loro,
guaendo e scodinzolando con serenità.
Mi colpisce molto il fatto che la gente non indossi
mascherine o guanti, niente di niente, sono solo… persone felici, appunto.
Ed ecco il colpo di scena. Tra i venditori ambulanti eccolo lì,
G, sorridente a sua volta. Mostra a tutti la sua merce, tutta chincaglieria
inutile che solo una vecchia volpe come lui riesce a vendere. Naturalmente non
resisto e mi avvicino subito, deciso a salutarlo.
“Ehi, ciao” saluto con prontezza, giuntogli di fronte. Ma G
mi rivolge uno sguardo curioso e sorridente.
“Dimmi, ragazzo, cosa vorresti comprare?” mi indica la sua
merce. Tossicchio, imbarazzato; credo che ci siamo fraintesi.
“Ehm, G, non mi riconosci? Sono Alex…” borbotto. Sento il mio
viso che avvampa, appena noto che egli non solo non mi riconosce, ma torna a
sorridere benevolmente e scuote la testa con sicurezza.
“Mi dispiace, amico, io non conosco nessun Alex. Però mi stai
simpatico, sai? Dai, scegli qualcosa dal mio banco, ti faccio un buon prezzo”.
Gli do le spalle e me ne vado. Inizia a starmi stretta questa
atmosfera. G non mi riconosce? E… che cazzo!
Abbandono il paese e in un attimo nemmeno rientro a casa.
Se fossi cosciente, mi accorgerei che il tempo scorre troppo
in fretta, qui. Una rapida sequenza di immagini mi conduce al cospetto dei miei genitori, in apprensione, che sembrano
attendere qualcuno. Sono in cucina e in pigiama.
“Mamma” saluto mia madre, sorridendo. Lei è la prima che mi
ha visto, ma non accenna a nulla.
“Mamma? Babbo?” domando. Va a finire che…
“Chi sei, ragazzo?” mi chiede mio padre.
Ecco, ho capito tutto.
Li lascio che ancora mi guardano con fare interrogativo. Ehm,
bene, in questa realtà a quanto pare non mi conosce nessuno!
L’istinto mi porta a camminare un po’ all’aperto, riconosco
immediatamente le mie amate campagne e i loro suoni. Galli che cantano, felici,
anitre che starnazzano in lontananza, il tutto con il sottofondo dei grilli e
delle cicale. Qualche lucciola illumina una notte fonda ma piena di vita.
Cammino per un po’ e inizio a sentirmi in pace, qui dove
ormai non sono più nessuno per l’Uomo, ma sono una componente essenziale del
Tutto.
Una sensazione piacevolissima si espande nel mio petto,
sembra una carezza di una qualche divinità del sonno. Perché adesso sono sempre
più consapevole che si tratta di un sogno e vorrei che questo non finisse mai.
Eppure, la consapevolezza spesso porta a un risveglio…
Apro gli occhi; sono nel mio letto.
Non è più notte fonda e la luce dell’alba colpisce con forza
il mio viso.
Anche questa lunga notte è finita; una notte a due facce, con
due sogni così diversi e contrastanti tra loro.
Nel complesso però mi sento soddisfatto, quest’ultimo viaggio
onirico è stato piacevole, come anche quello precedente, in fondo. Peccato che
non abbia avuto la forza per concedermi a G, almeno in sogno, ma non fa niente.
Ed ecco che la realtà mi piomba addosso come un macigno…
mentre mi alzo dal letto con un sorriso beota impresso sul viso, mi vedo
riflesso nello specchio e mi sento un po’ scemo. Ricordo come questa sia la
vera realtà e quanto essa mi stia stretta, e anche antipatica. Se quello che ho
visto in sogno è il mondo prima, questo è il mondo di adesso, dove devi tenere
sul volto la mascherina anche se ti fa soffocare e dove nemmeno un gelato mi
posso gustare, qui in campagna, perché nessuno lo recapita. E non posso nemmeno
andare a prenderlo, che non si può girare.
La vita ha perso anche il dolce delle piccole cose.
Qui gli animali magari cantano di gioia di notte, ma all’alba
le loro serenate vengono interrotte dall’orrore del macello. I canti diventano
strilla disperate prima della morte.
Urla di orrore, come quelle delle tante persone che stanno
male. Grida di sofferenza che rendono questo pianeta un martirio di proporzioni
colossali.
Chissà se esiste una qualche altra Terra, tra tutti gli
esopianeti esistenti, in cui la vita esista nella sua forma più pacifica.
Comunque, in tutto questo dimentico che una guerra o un
conflitto militare sarebbero stati ben peggio del coronavirus, almeno ora
l’umanità è una sola, unita nella lotta contro la sciagura. Ora mi sento parte
dell’Uomo, anche quando non mi sono mai sentito tale.
Vorrei esser stato utile in questa tragedia. Poter dire, in
un futuro prossimo, che ho fatto di tutto per salvare l’Uomo. Invece sono stato
solo un inutile codardo.
Certo, ho rispettato tutte le regole, sono stato a casa e da
bravo cittadino ho seguito alla lettera ciò che il governo ha dettato, tuttavia
avrei tanto desiderato di fare qualcosa di più attivo verso il prossimo. Aver
seguito le regole può bastare per questo? Oppure sono così egoista da bramare
gloria eterna anche quando non me la merito assolutamente?
Credo che, in fondo, siamo stati tutti eroi, questa volta. A
modo nostro, ma tutti. Nessuno escluso. A parte chi ha violato le regole,
naturalmente.
Questa è una nuova alba e per me è un nuovo inizio;
abbraccerò mia mamma e le dirò che le voglio bene. Seguirò le regole e farò il
bravo.
Smetterò di pensare a G e vivrò serenamente ogni attimo della
mia esistenza, pensando a quanto sono fortunato ad avere tutto, a non aver
perso niente e ad essere ancora in ottima salute.
Sì, questo è un nuovo inizio.
Dicono che ogni inizio parta da una fine, giusto? Questo
racconto appunto è iniziato così, e come un cerchio si chiude, per poi
ricominciare.
Una cosa è certa; voglio amare.
E voglio salvare James, il nostro amato agente speciale James
Barley, in una futura storia. D’altronde anche lui, come tutti noi, è vittima
di un sistema; vittima delle bugie, delle doppie facce.
Io la mia maschera la voglio calare. Ehm, non
fraintendiamoci, voglio calare solo quella delle bugie, non quella chirurgica
che preserva la mia salute e quella altrui.
Questa narrazione ha avuto inizio quando il virus ancora non
era conosciuto e in un mondo totalmente diverso da quello attuale: può quindi essere
un nuovo inizio per me, uno sforzo mentale unico in cui ho investito tanto
tempo, ma in cui ho ricavato maggior attenzione per me stesso e maggior
valorizzazione della mia esistenza? Lascio al tempo le risposte.
Da adesso ricomincio, ponendomi le stesse identiche domande
del mio precedente inizio, che però ora hanno un peso diverso.
Cammino spedito, procedo in un sogno; voglio sognare per
vivere, e per sognare devo calare la maschera. Ogni notte, sì, nel sonno io la
perdo e vivo quel che voglio.
Miscelerò vita e sogno, così, come fossero latte e miele.
Quasi impossibili da sciogliere l’uno nell’altro, ma appunto
possibile se ci s’impegna veramente, mischiando a dovere e con forza con il
cucchiaio.
Solo così potrò essere finalmente me stesso.
Io ci credo, ora: e voi?
NOTA DELL’AUTORE
Io devo ancora capire il senso di questo racconto, ma fa
niente.
Sono stato in procinto di buttarlo o di non concluderne la
pubblicazione, a distanza di un anno e diversi mesi dalla fine della battitura.
Poi, rileggendo le mie prime impressioni sull’emergenza ancora in corso… quel
che provavo allora, forse infantile, che ne so… boh, mi sono detto che non
dovevo buttare via niente.
Riflessioni infantili di chi, spaventato e sconvolto da un
radicale cambiamento e dal senso di pericolo, oltre che dalla solitudine, ha
cercato di dare un senso immediato a quel che stava vivendo.
Quelle parti le ho scritte proprio durante i primi giorni di
pandemia e mi piacerebbe tornare a leggerle tra qualche anno, dato che già ora
mi hanno trasmesso un effetto diverso.
Ho lasciato tutto intatto, alla fine.
Questo racconto non mi è piaciuto, ma mi è stato utile per
perfezionare l’ultima versione di Alex, quella definitiva. Un testo che quasi
non si collega ai precedenti, ma che allo stesso tempo ha una funzione di ponte
e di traghetto verso… quella che fu Budapest!
Non vi libererete di me, lettori carissimi e dolci, perché prestissimo
arriva Attraversando il Rubicone ^^
Grazie per avermi sostenuto,
senza di voi non avrei avuto il coraggio di concludere. Vi amo e vi adoro. Avete
dato voi un senso a un racconto che nemmeno al suo autore era piaciuto. Siete speciali.
Grazie di cuore, e, ancora una volta, vi adoro.
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