La forma intrinseca della storia

di Nuel
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Mercoledì ***
Capitolo 2: *** Giovedì ***
Capitolo 3: *** Più tardi, quello stesso giorno ***
Capitolo 4: *** Due domeniche dopo ***
Capitolo 5: *** Lunedì ***
Capitolo 6: *** Un giorno qualunque ***



Capitolo 1
*** Mercoledì ***


Una piccola premessa prima di cominciare.
     Non so scrivere le flash, quindi questa è stata una sfida e, un po', anche una necessità dato che il tempo a disposizione è sempre poco.
    So che la coppia è strana, che probabilmente anche una mini-long con campitolo flash è strana, ma questa storia è nata così, voleva questa forma e, prima di scrivere l'ultimo capitolo, in cui cito 'la forma intrinseca della storia', questo era il suo titolo perché si riferiva alla sua forma.
     La mia otp in questo fandom rimane la Stucky, ma credo che Steve vada punito per aver lasciato Bucky, quindi questa è un po' la mia "vendetta trasversale" su di lui.
     Non siate troppo severi. ♥

Fan art: ©Max Kennedy


La forma intrinseca della storia 


 
 
 
Mercoledì
 
«Non mi aspettavo una tua visita, James».
     Eccolo di nuovo lì, sul divano della dottoressa Raynor, a sfuggire il suo sguardo mentre cerca risposte a domande che non ha il coraggio di fare.
     La dottoressa apre il blocchetto degli appunti.
     Bucky sbuffa. «Non serve che prenda appunti». Ha il tono annoiato. È il suo modo di difendersi, minimizzare; è stato lui a chiamarla, a chiederle quell’incontro.
     Lei chiude il blocchetto, ripone la penna sopra la copertina. «Di cosa volevi parlare?».
   Lui si umetta le labbra, inclina la testa. Si fissa le mani in grembo. Non è seduto in modo proprio educato. «Ho conosciuto una persona», comincia. La dottoressa non lo interrompe. Dopo mesi di terapia sa che non deve forzarlo quando lui vuole parlare. «Il modo in cui mi fa sentire…». Sospira. Dovrebbe dirlo e basta.
     «È positivo fare nuove conoscenze, James», lo incoraggia. Fredda e professionale, la dottoressa non passa mai il limite. A volte lui vorrebbe che lo trattasse come una persona, non come un paziente, un caso.
     Bucky sorride. Sbuffa, più che altro, però sorride. «Quando sono con questa persona, io…». Solleva le braccia, le lascia ricadere sulle ginocchia. Non sa davvero cosa dire. Scrolla la testa, sbuffa di nuovo.
     «C’è stato qualcosa?». Questa volta lei lo incalza.
     «Qualcosa?», chiede lui, come se non avesse capito. «No. No! Questa persona mi ha solo… toccato». Gli ha toccato il viso. Solo toccato. Non proprio una carezza né qualcosa di gentile, anzi, era una beffa, ma… le sue dita sulla pelle. Gesù! Le sue dita sulla pelle…
     «Cos’hai contro i pronomi, James?», chiede la dottoressa. Lui la guarda senza capire davvero, questa volta. «Continui a dire “questa persona”. È un problema, per te, che sia un uomo? Lo sai che i tempi sono cambiati. Adesso due uomini possono mostrare apertamente il loro amore. Possono convivere, sposarsi…».
     «Come… Come sa che è un uomo?».
     Lei lo guarda con compassione. Sa che non sarebbe lì se si fosse trattato di una donna, di una rossa procace e frizzante, magari. No, in quel caso, non sarebbe su quel divano. «Hai detto che ti ha toccato. Ti ha baciato?».
     James scuote la testa. «Mi ha solo…». Solleva una mano e mima il gesto. Una carezza, no: una presa al mento. Forse non era stato proprio così, ma non ha buona memoria. A volte si confonde. A volte mescola i sogni con la realtà.
     «È un gesto piuttosto innocente. Sam non ti ha mai toccato in quel modo?».
     «No!». Bucky fa una smorfia. «Noi ci scambiamo pacche sulle spalle». Gesti da camerati, da amici. Non c’è nulla di fraintendibile in una pacca sulla spalla.
     La dottoressa Raynor sorride. «Allora, forse dovresti frequentare quest’uomo e vedere cosa succede».
     Bucky la fissa, incredulo. Dovrebbe frequentarlo? Non era quello che voleva sentirsi dire? Aveva bisogno di un’autorizzazione o qualcosa del genere.
     Si alza e infila le mani nelle tasche. Si passa di nuovo la lingua sulle labbra secche. «No», sospira. «È troppo tardi. Non ci vedremo più».
 
[Parole: 500]
 

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Capitolo 2
*** Giovedì ***


Giovedì
 

Bucky gira intorno alla casa, tanto Steve è sempre sul retro. Steve Carter. Quando ha sposato Peggy, ha preso il cognome di sua moglie. Bucky lo avrebbe dissuaso dal farlo, ma non c’era, quando Steve si è sposato.
     Lo osserva per qualche momento, il vecchio in veranda, l’espressione sorridente e rilassata. Lo chiama, prima di cambiare idea e fare marcia indietro.
Steve alza la testa dal foglio sul quale sta disegnando. Certe cose non cambiano mai. Si alza, allarga le braccia, e Bucky ci si getta nel mezzo.
     Bucky chiude gli occhi; se non fosse per l’odore tipico dei vecchi potrebbe ancora immaginare.
     «Cosa ti porta qui, Buck?».
     «Sono venuto a vedere come va sulla Luna». Poi si accomoda su una sedia di vimini, davanti a Steve.
     La porta della cucina si apre. «Sergente Barnes! Che piacere vederla». Elizabeth è sempre gentile. Si china a baciare Steve sulla guancia. «Papà, io vado». Poi si volta verso di lui. «Sergente, provi lei a convincerlo: James e io vorremmo che venisse a vivere da noi. Non può più stare da solo».
     «Non voglio essere di peso», taglia corto Steve.
     Bucky allarga le braccia. Nessuno ha mai fatto cambiare idea a Steve. «Tua nuora ha ragione».
     Steve liquida l’argomento con un gesto della mano. Ha cent’anni e non li sente. «Mi ha telefonato Sam». Lo sguardo gli si illumina di complicità. «Ha detto che hai flirtato con sua sorella».
     Bucky sbuffa. «Per carità! Sarah è una gran donna, ma…». Si stringe nelle spalle, gli resta un sorriso sulle labbra. Gli piace Sarah, ma non in quel senso.
     «Ho sempre pensato che saresti stato tu a sposarti», commenta Steve, circondato dal calore dei suoi ricordi.
     «Già. Lo pensavo anch’io». Mente con facilità, persino a Steve. Non si sarebbe sposato, Bucky, mai.
     «Per cos’è che sei qui?», domanda Steve. «E non provare a dirmi che non c’è un motivo, perché ti conosco».
     Lo conosceva una volta, e neppure tanto bene. «È stupido ma, da quando Zemo è al Raft, non sono tranquillo».
     «Temi che possa evadere di nuovo?». Bucky si chiede se Sam gli abbia detto che è stato lui a farlo evadere.
     «Tu hai fatto evadere gli Avengers».
     Steve ride. Per un attimo Bucky teme che quel suono si trasformi in tosse, ma non succede. «Ero Captain America. Le guardie non si aspettavano di dovermi fermare. In ogni caso, da allora avranno alzato i livelli di sicurezza».
     Bucky sorride per forza. In realtà solleva solo un lato delle labbra. «Già. Di certo è così». Si alza. È ora di andare.
     «Già te ne vai?». Il sorriso di Steve si spegne; Bucky si sente un po’ in colpa, ma non è stato lui a lasciarlo indietro o a scegliere qualcun altro.
     
«Sì, scusa. Devo ancora fare una cosa».
     Prima di andare, Bucky lo abbraccia. «Verrò a trovarti presto», dice, e gli volta le spalle. Se ne va.
     «Buck!» Steve lo chiama dalla veranda, ma Bucky non si ferma. Forse Steve ha capito che non tornerà.

[Parole: 500]
 
_______________________
 

Nota:
È una mia idea senza alcun riscontro che Steve, dopo aver sposato Peggy, abbia preso il cognome della moglie, per una questione di anonimato.

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Capitolo 3
*** Più tardi, quello stesso giorno ***


Più tardi, quello stesso giorno
 
Bucky attende appoggiato al muro della palazzina in cui vive Sharon. La vede arrivare dalla strada in fondo, il cellulare all’orecchio e il passo sicuro.
     Aspetta che si avvicini prima di farle un cenno con la mano. Lei lo vede e sorride. Chiude la telefonata, mette in borsa il telefono, e attraversa la strada di corsa.
     «Guarda guarda chi si rivede!».
     «Se non sbaglio si era parlato di un caffè», ribatte Bucky, il tono vago; data l’ora una cena sarebbe più appropriata.
     Sharon tira fuori le chiavi di casa, solleva un sopracciglio e gli fa cenno di entrare. «Per un caffè avresti dovuto raggiungermi in centro. Non ho nessuna intenzione di uscire di nuovo».
     «Tecnicamente non sei ancora entrata». La segue a ruota dentro l’edificio. Fa più fresco all’interno. Scopre che Sharon abita al settimo piano. Per fortuna c’è l’ascensore.
     Un’ora dopo Bucky sta dividendo le bacchette usa e getta del take away cinese che ha consegnato loro la cena a domicilio. Sharon si è fatta una doccia, Bucky l’ha aspettata guardando il panorama dalla finestra del salotto di casa sua.
     «Allora, com’è la vita da civile?».
     «Com’è tornare in servizio dopo essere stata una criminale?».
    Sharon si morde il labbro inferiore e cerca di nascondere un sorriso, ma non ci riesce. Si è seduta per terra, a gambe incrociate, la schiena appoggiata al divano. Bucky imita la sua posizione, anche se non ha un divano contro cui lasciarsi andare.
     «Non sei qui per un caffè, vero?», gli chiede lei tra un boccone di sushi e l’altro.
    Bucky la fissa e pensa. È l’ultima occasione per tornare indietro. «Quando gestivi i tuoi affari a Madripoor», inizia con un’opinabile scelta di parole, «come ti procuravi le opere d’arte?».
    Lei mastica, si porta una mano a nascondere le labbra. «Dipende. A volte erano gli stessi proprietari di opere trafugate in passato a volerle rivendere».
     «Qualche ladro particolarmente abile?», indaga lui.
     «Può darsi». Lei non si sbilancia. «Hai deciso di darti al crimine organizzato?».
     «Hai mantenuto qualche contatto della tua… breve parentesi nel lato oscuro?».
    Questa volta Sharon poggia il contenitore di carta sul tavolo. Posa le bacchette, e non sorride più. «Diciamo che potrei avere ancora qualche contatto. Di cosa stiamo parlando?».
     Bucky respira a fondo, lei non si è scomposta; tanto vale tentare. «Zemo è incarcerato al Raft. Lo libererei io, ma…». Alza il braccio in vibranio. Il metallo scuro della mano rimanda un riflesso sinistro. «Sarei riconoscibile».
     «Vuoi liberare Zemo?», chiede lei, perplessa. Lo fissa come se volesse leggergli in testa. Bucky distoglie lo sguardo, fa per parlare, ma lei lo batte sul tempo. «Non ti chiederò perché vuoi quell’uomo fuori di lì. Diciamo che, se riesco a farlo evadere, mi dovrai un favore».
     Bucky non riesce a crederci. Rialza lo sguardo, la fissa. Forse si aspettava che lei le facesse desistere, che gli dicesse che era impossibile. «Grazie, Sharon».
     Lei sorride, ricomincia a mangiare.
     A Bucky è tornato l’appetito. Forse avrebbe dovuto ordinare una porzione di ravioli in più.
 
[Parole: 500]

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Capitolo 4
*** Due domeniche dopo ***


 
Due domeniche dopo
 
La telefonata arriva quando Bucky ormai non la aspettava più. Sharon gli dà le coordinate e l’ora, gli ricorda che adesso le deve un favore.
    Bucky non si sorprende quando vede la pista di decollo in mezzo al nulla e l’aereo di Zemo in attesa. «Oeznik». Accompagna il saluto con un cenno del capo.
     Il maggiordomo imita il suo gesto. «Signor Barnes».
     Magari Bucky si sbaglia, ma gli pare che il tono di Oeznik sia meno impostato della volta precedente.
    Poi la scena sa di già visto. Un’auto nera arriva. Zemo scende. L’auto riparte. Bucky non ha visto chi fosse alla guida, ma forse è meglio così. Di certo non lo conosce.
     Zemo cammina verso di loro. La reclusione non ha scalfito il suo sorriso. «James!». Un brivido scende lungo la schiena di Bucky. «Farmi evadere sta diventando un’abitudine».
     Bucky distoglie lo sguardo. Non è fiero di quello che ha fatto, ma l’ha fatto perché era necessario.
     Zemo lo stringe in un abbraccio amichevole. «Non che non te ne sia grato, ma vorrei sapere perché», sussurra al suo orecchio. Il respiro caldo gli solletica la pelle. Bucky chiude gli occhi. C’è un profumo nell’alito di Zemo. Limone, forse?
     Non ha spiegazioni da dargli, comunque. Non ora. Non lì. Non finché non le avrà per se stesso. Salgono a bordo, l’aereo decolla, destinazione Riga, Lettonia, casa.
     Durante il viaggio, Bucky non parla. Non saprebbe cosa dire. Però sente gli occhi di Zemo su di sé. Vorrebbe capire come lo fanno sentire quegli occhi.
     «Immagino che la tua popolarità salirà alle stelle, in Wakanda», dice Zemo all’improvviso.
    Bucky guarda fuori dall’oblò. Il cielo è sereno, le nuvole sembrano una distesa di cotone sotto di loro. Forse precipitare non farebbe neppure male. L’aveva pensato pure della neve. «Non sono stato io a farti evadere. È stata Sharon», brontola a mezza voce.
     È sicuro che l’altro stia sorridendo quando gli risponde. «Allora dovrò farle recapitare a casa un mazzo di rose».
     Bucky respira a fondo e sgranchisce il pugno di vibranio. Anche lui potrebbe fargli male.
    Per il resto del viaggio non parlano. Oeznik li avvisa che manca poco all’arrivo. Informa il Barone che ha provveduto alle riparazioni necessarie nel suo appartamento e che frigo e dispensa sono stati riempiti.
     Zemo si sfrega le mani, soddisfatto. Per un momento i loro sguardi s’incontrano, coincidono, si dicono troppo.
    Prima di sera camminano per strade che Bucky riconosce. Il primo respiro nell’appartamento ha il sapore del ritorno. Questa volta Zemo non deve dirgli dove può dormire o quale sportello aprire per trovare qualcosa da mangiare. Si muovono a loro agio, ignorandosi a vicenda.
    Tengono una distanza di sicurezza che tende ad accorciarsi, compiono gesti diventati abitudini già dalla prima volta. Condividono lo spazio, l’aria, le stelle alle finestre scure.
     Zemo lo osserva e sorride, e Bucky non può fare a meno di accigliarsi e incassare la testa tra le spalle. È una strana convivenza fatta di non detti e di sguardi sfuggenti, di cose da capire.


[Parole: 500]

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Capitolo 5
*** Lunedì ***


 

Lunedì

La prima cosa che Bucky nota, non appena si sveglia, è il silenzio innaturale. La casa è vuota; meccanismi arrugginiti riprendono vita nella sua testa, un cigolio di sospetti gli fa trattenere il fiato.
     Scandisce il tempo un passo alla volta. Avanti-march!
     Fianco dest- dest!
     Dietro front! Prepara il pranzo per due.
     A mezzogiorno la porta si apre. Zemo scandisce i metri un passo alla volta. At- tenti! Ri- poso! Ha un quotidiano sotto il braccio e un sacchetto di panetteria in mano. «Volevo sapere se la notizia della mia evasione avesse già fatto il giro del mondo», spiega la sua uscita fuori programma. Del resto non devono vivere come reclusi.
    Zemo lascia il giornale sul tavolo, fa il giro della cucina e si sporge sulla pentola. Annusa. «James!» esclama colpito. «Non sapevo che sapessi cucinare».
   Bucky riscopre un piacere antico, ingredienti e sapori semplici di un tempo passato, e ne scopre uno nuovo e inaspettato: cucinare per—.  L’ingranaggio si inceppa. Non riesce, non vuole, non può nemmeno pensarlo.
     Un segnale di pericolo lampeggia ai margini della sua mente, ma rimane inascoltato. È già saltato senza paracadute.
     Dopo pranzo, Zemo apre il sacchetto. «E adesso, finiamo in bellezza!», dice. Spezza la pasta dolce sagomata in due anelli intrecciati. Gliene porge la metà. «Si chiama klingeris. Assaggia».
     Bucky scruta la copertura di mandorle sottili, l’uva passa che emerge dall’impasto dorato.
     Zemo morde e sorride. «Naturalmente», dice, «c’era il debessmanna, come da tradizione, ma Isla andava matta per il klingeris, così ordinammo due dolci». Adesso dovrebbe sentire anche una sirena che suona; i ricordi hanno il sapore delle mandorle amare.
     «Isla?».
     «Mia moglie». Il sorriso di Zemo è una ferita di falce. «Non te l’ho detto? Certo che no. La settimana scorsa sarebbe stato il nostro anniversario di matrimonio. Avremmo festeggiato mangiando klingeris in riva al lago e poi saremmo andati a ballare». I rimpianti, invece, hanno il sapore del fiele. «Non lo assaggi nemmeno?».
    Bucky addenta dolci e sogni infranti. Gli si è incastrato in gola un nome ingombrante. Hanno qualcosa in comune lui e Isla e tutte le anime spezzate.
     «Mi dispiace per tua moglie», dice con tono piatto. Non è del tutto vero che gli dispiace.
     Zemo versa da bere. «E tu?». Prendi questo pane e questo vino. «Avevi qualcuno prima della guerra?».
     Il nome di Steve è una crepa sul cuore. «No, nessuno». La risposta più facile è anche la più sincera.
     «Che strano», commenta Zemo, e per un attimo Bucky commette l’errore di sentirsi lusingato. «Ho sempre pensato che ci fosse qualcosa tra te e Steve Rogers, che foste più che amici». Ego te absolvo a peccatis tui.
     «Steve non era—». Troppo tardi si accorge dell’errore.
     «E tu sì?».
   Bucky serra i denti, indurisce la mascella. Non c’è un disegno a stelle e strisce sul suo petto. Non ha un nome da proteggere, lui. Potrebbe ammettere, confessare, ma ha paura di dire troppe cose. I tempi sono cambiati, ma lui continua a fare scelte sbagliate.
 
[Parole: 500]
 
___________________
 
Note:
• Klingeris: dolci tipici della Lettonia. Si tratta di biscotti preparati con uva passa, mandorle e zafferano dal delizioso profumo di cardamomo.
Debessmanna: dolce tradizionale lettone: una mousse soffice al latte arricchita con un mix di frutti di bosco tra cui mirtilli, ribes, fragole e lamponi. 
In realtà non ho idea di quali dolci si usino in Lettonia per i matrimoni, ma cercando su Google, questi due sono i più comuni e forse rappresentativi della tradizione dolciaria lettone. 

 

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Capitolo 6
*** Un giorno qualunque ***


 
Un giorno qualunque
 
Non ha importanza che giorno sia quando tutto finisce. Bucky sperava che il momento non arrivasse, sperava di poter continuare a quel modo, sguardi sfuggenti e parole taciute, una vicinanza che dilania e conforta.
     Zemo invece gli si siede di fronte, la testa appoggiata al pugno. Lo osserva e sorride, chiede. «Non me lo vuoi proprio dire perché mi hai fatto evadere, James?».
     Il cuore gli balza in gola quando Zemo pronuncia il suo nome, e Bucky scopre di non potergli mentire. Abbassa lo sguardo, ma Zemo aspetta e non smetterà di aspettare; sa essere paziente e conosce già la risposta: l’ha letta nei suoi sguardi, l’ha ascoltata nei suoi silenzi.
     «Non sopportavo di saperti rinchiuso là». Si passa la lingua sulle labbra. È solo mezza risposta.
     Zemo cambia posizione, si piega in avanti, i gomiti poggiati alle ginocchia. «Perché, James?», sussurra il suo nome. «Ho bisogno che tu me lo dica».
     Bucky ingoia a vuoto, stringe le mani in grembo. Sfugge al suo sguardo e vorrebbe fuggire da lì. Scuote la testa, non ha le parole. Ma gli occhi cominciano a bruciare e il labbro inferiore trema. Ha cent’anni suonati e non si è mai sentito più fragile di così.
     Il Barone si alza e prende posto accanto a lui, sul divano che Bucky ha occupato ogni giorno. «Oh, James». Solleva le braccia e gli circonda le spalle, le dita premono piano sulla sua nuca e guidano il volto di Bucky contro la sua spalla.
     Bucky chiude gli occhi. Non ha pianto quando Steve lo ha abbandonato, non ha pianto quando gli sono successe cose tremende. Non lo farà nemmeno adesso, anche se strizza le palpebre e soffoca un singhiozzo nel petto.
     Le dita di Zemo gli sfiorano la testa e il collo in una singola carezza. «Mi dispiace, James. Io non posso ricambiare quello che senti. Ho amato solo una donna nella mia vita e la amerò per sempre».
     Bucky annuisce e respira.
    «Se rimarrai con me, finirò col distruggerti, e tu non lo meriti». Zemo volge il capo verso di lui, gli bacia una tempia. «Tu puoi rifarti una vita, James, lontano da me, lontano dal Soldato d’Inverno… Se rimanessi con me, io ti spingerei a tornare a essere lui. Ti userei. Ti farei fare cose orribili nel mio nome. Saresti mio». Labbra calde sussurrano al suo orecchio, lo sfiorano. «Ma perderesti te stesso».
    Bucky si trova ad un bivio. In fondo lo sapeva, lo aveva sempre saputo. È la forma intrinseca della sua storia, della sua intera vita, precipitare e poi perdersi, e perdersi ancora. Se Steve non lo avesse lasciato cadere, se non lo avesse salvato per poi abbandonarlo di nuovo… ma non è andata così, e Bucky conosce le tenebre, e non le teme. Lui teme la coscienza, non l’oblio.
     Non vuole restare solo coi suoi fantasmi e coi rimorsi.
     Stringe le braccia intorno a Zemo.
     Non lo userà come dice.
     Non è malvagio come sostiene.
     Bucky si spezza ancora, ma ormai gli appartiene.
 
[Parole: 500]

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