Plaisir d'Amour

di Francine
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. ***
Capitolo 2: *** 2. ***
Capitolo 3: *** 3. ***
Capitolo 4: *** 4. ***
Capitolo 5: *** 5. ***
Capitolo 6: *** 6. ***
Capitolo 7: *** 7. ***
Capitolo 8: *** 8. ***
Capitolo 9: *** 9. ***
Capitolo 10: *** 10. ***
Capitolo 11: *** 11. ***
Capitolo 12: *** 12. ***
Capitolo 13: *** 13. ***
Capitolo 14: *** 14. ***
Capitolo 15: *** 15. ***
Capitolo 16: *** 16. ***
Capitolo 17: *** 17. ***
Capitolo 18: *** 18. ***



Capitolo 1
*** 1. ***


È ufficiale, cari Quattro Gatti: sono impazzita.
Sì, sì, non ci piove.
Definirmi
sbiellata è usare un grazioso e gentile eufemismo, sicché tiriamo dritto e facciamola breve, ché a me i giri di parole fanno venire il mal di testa.
Sì, avete per le mani un AU romanticissimo, un vero e proprio Harmony ambulante, ma che volete farci? Dopo l'
annus horribilis (in decade malefica) che abbiamo passato mi ci voleva qualcosa di fresco e senza (troppe) pretese con cui snebbiarmi il cervello e vedere il mondo un po' più rosa.
Sì, lo so, c'è già l'abuso edilizio, e sì, lo so, Elena e Marco aspettano da una vita che io mi dia una mossa (per non parlare di Kanon&AJ, o di una certa signora in un certo pozzo con la deprecabile abitudine di mangiarsi i marmocchi...), ma non è colpa mia! È colpa dell'Ascendente Sagittario!! E di Sherry Vernet, la quale, soffia su delle braci che non hanno bisogno di essere rinfocolate e che mi aiuta col betaggio. Perché lo scaricabarile è una filosofia di vita eccetera eccetera...
Scherzi a parte ('nsomma...), prendete questa cosetta per quello che è: una storia leggera, senza pretese, per vedere il mondo attraverso una lente un filo più rosea senza doversi pappare quelle caramelle dal sapore stucchevole. Bleah!

Tutti i personaggi nominati in questa storia appartengono a Masami Kurumada e a chiunque ne detenga i diritti legali. Questa storia è stata scritta per puro diletto personale; non ha alcun fine lucrativo. Nessun copyright si ritiene leso. L’intreccio qui descritto rappresenta invece copyright dell'autrice (Francine) e non ne è ammessa la citazione altrove, a meno che non sia autorizzata dalla stessa tramite permesso scritto.

Al solito, pomodori a destra e carote a sinistra, grazie.

Io metto su il caffè.






Plaisir d'Amour
Ne dure qu'un moment
Chagrin d'Amour dure
Toute la vie
(Jean-Paul-Égide Martini, Jean-Pierre Claris de Florian,
Plaisir d'Amour, 1785)






1.


 

«Ho detto di no.»

«Quanto sei cocciuto!!»

Françoise alzò gli occhi al cielo. Stavano discutendo di nuovo. E, di nuovo, mentre il locale si andava riempiendo per la prima ondata di avventori, quella degli abitanti di Montmartre che scendevano a fare colazione - croissant, caffè e spremuta d’arancia per chi poteva sedersi cinque minuti al tavolino, prima di tuffarsi in una nuova, travolgente giornata. 
Maman Louise, la pittoresca cartomante che si era appena trasferita da Belleville, ridacchiò soddisfatta, in un tintinnio di braccialetti d’argento al polso e alle orecchie.
«Siamo pieni di energie, eh?», disse, raccogliendo la schiuma del proprio cappuccino con un cucchiaino di porcellana bianca. «Beata gioventù...»
«Il buongiorno si vede dal mattino», disse - sospirò - Françoise gettando un’occhiata preoccupata verso il laboratorio alle spalle del bancone. 
«Per cosa bisticciano, stamattina?», chiese Maman Louise, attaccando il proprio croissant.
Françoise si strinse nelle spalle. 
«Il solito», rispose. «Coco vorrebbe dare il proprio apporto al locale, ma Tiennot...»
Maman Louise ridacchiò. «Tiennot si mette di traverso», sentenziò. «Tale padre, tale figlio...»

Françoise si lasciò scappare un sorriso triste. Sì, Tiennot era la fotocopia di suo padre. Caratterialmente parlando, ché quei due avevano in comune la faccia da schiaffi, l’aria indifferente e la magrezza quasi patologica. Eppure, sia Rémy sia Tiennot mangiavano, e di gusto pure, senza l’assillo della bilancia; cosa per cui sia lei, sia la piccola di casa, Coco, avrebbero pagato qualunque cifra. Ma anche Coco aveva ereditato lo stesso carattere cocciuto di Rémy, e questa era la causa delle infinite discussioni che tenevano banco sia al Cafè, sia quando tornavano a casa. Iniziavano a battibeccare non appena la saracinesca scendeva, e continuavano a cantarsele di santa ragione dall’entrata in metropolitana fino a quando non infilavano la chiave nella toppa della serratura.
O meglio: Coco diceva tutto quello che pensava della questione - quale che fosse - mentre Étienne si limitava ad affermare il suo punto di vista una sola volta, ascoltando le sfuriate della sorella fino a quando questa non perdeva la pazienza e gli teneva il muso.
E allora toccava a lei, a Françoise, mettere pace tra quei due; i quali, nonostante avessero superato da un pezzo l’età infantile, insistevano a comportarsi come due marmocchi indisponenti.

«Se solo non litigassero qui», sospirò la donna, ripiegando uno strofinaccio immacolato. «Non è positivo per gli affari...»
«No, non lo è», chiosò Maman Louise, un tintinnio argentino ad accompagnare il lavorio del cucchiaino alla ricerca di qualche residuo di schiuma. «Ma almeno qui non ci si annoia mai!»
Françoise sospirò proprio mentre si apriva - si spalancava - la porta che separava il locale dal laboratorio e Coco faceva il suo ingresso a passi lunghi e ben distesi, mitragliando il pavimento coi tacchi dei suoi stivali.
Sbuffò - grugnì - e buttò sul bancone lo strofinaccio che portava con aria distratta su una spalla, iniziando a spolverare il quadrato davanti a sé.
«Io lo strozzo», ringhiò la ragazza, e non occorreva la sfera di cristallo di Maman Louise per capire di chi stesse parlando.
«Non adesso, Coco», la redarguì sua madre. «Non è il momento giusto.»
«Tsé», sbuffò lei, appallottolando lo strofinaccio e lanciandolo alle sue spalle. «Non è mai il momento giusto, maman. E intanto qui i clienti iniziano a scarseggiare!»
«Li farete scappare tutti voi, se continuate a litigare come due scimmie in gabbia.»
Coco sbuffò dal naso, come una caffettiera sul fornello, e si mise le mani sui fianchi.
«Quali clienti, maman?», chiese, indicando il locale con un gesto del mento. 

Oltre a Maman Louise, stoica al suo posto, due sedie in là rispetto al centro del bancone, c’era solo Père Nouriet, assieme al suo fido bassotto Salsiccia, seduto alla comoda poltrona alta di fronte alla vetrina, intento a leggere il giornale del mattino e a scaldarsi ai timidi raggi del sole di fine gennaio. 
Françoise sospirò. «Magari, se tu e tuo fratello vi calmaste...»
«Magari, se mio fratello mi ascoltasse, una volta tanto», l’interruppe lei. «Maman Louise, dimmi se sbaglio», disse Coco rivolgendosi alla matrona con il turbante rosso acceso ben annodato sui riccioli freschi di parrucchiere. 
Il donnone annuì, col solito coro argentino dei suoi orecchini. 
«Qui passano solo gli abitanti del quartiere, e solo quelli che vanno a prendere la metro alla stazione di Abbesses», esordì Coralie, indice e naso all’insù. «Il resto dei turisti vanno o al Gökotta o al Susumella. Superate le dieci, fatichiamo ad attirare i clienti. Ed è un dato di fatto.»
«A-ah»
«Invece, sia il Gökotta, sia il Susumella hanno un traffico continuo.»
«Perché loro offrono un menù per il pranzo», s’intromise Françoise a difendere il locale. «Noi, no.»
«E questo è uno dei problemi», ribatté Coco. «Ma si può risolvere mettendo nel menù un paio di insalate, panini sfiziosi e uno strudel vegetariano da vendere a fette.»
«Lo sai, Tiennot...»
«Il problema vero è che tuo figlio non vuole saperne di fare promozione!», sibilò la ragazza fissando sua madre in viso. «Capisci, Maman Louise? Non vuole saperne di avere una pagina Facebook, un account Instagram o un blog.»
«Ed è un male?», chiese Maman Louise, fissando Coco come se fosse appena sbarcata da Marte.
«Sì, che lo è!», replicò Coco. E poco ci mancò che aggiungesse una pestata sul pavimento per dare corpo al proprio pensiero. «Siamo nel XXI secolo, non nel dopoguerra. E oggigiorno...»

«Non hai sentito il campanello? I croissant sono pronti da un pezzo!»

Étienne si affacciò dal laboratorio, un vassoio con i croissant appena sfornati che spandevano nel locale il loro fragrante aroma. Fulminò la sorella con lo sguardo e poi entrò in sala, posando il prezioso carico sul bancone.
«Non l’ho sentito. Quel coso è vecchio.»
«Quel coso funziona benissimo», replicò lui, nella sua divisa immacolata. «Se ti concentrassi di più sul lavoro, forse saresti più attenta. Altri due minuti e addio croissant!»
«Se tu mi stessi ad ascoltare, forse...»
«Discorso chiuso, Coco», tagliò corto lui. «Adesso torniamo a lavorare.»
«Il marketing èil mio lavoro!», protestò lei, mento sollevato e pugni chiusi contro i fianchi, come a sfidarlo a contraddirla.
«No», rispose lui. «Il marketing sarà il tuo lavoro se e quando ti laureerai. Fino ad allora, il tuo lavoro sarà servire croissant e caffè con un sorriso. Intesi?»
E senza attendere risposta, se ne tornò nel laboratorio lasciando le tre donne in silenzio.
Françoise scosse la testa e si dispose a sistemare i croissant sull’alzata di vetro.
Maman Louise sorrise.
Coco rimase a bocca aperta. Quindi, una volta sicura che suo fratello non sarebbe tornato indietro, si voltò e disse: «Io lo strozzo...».
«Strozzalo sabato prossimo, altrimenti non avremo chi preparerà i croissant...», la redarguì sua madre. In quel momento entrò una coppia di clienti, e Françoise ne approfittò per defilarsi da quella discussione senza sbocco. Ma, al bancone, Coco continuò a sbuffare sistemando tazze, piattini e bicchieri nella lavastoviglie.
«Non è giusto, non è giusto, non è giusto...»
«No, stellina. Ma sai anche tu com’è fatto tuo fratello.»
Maman Louise tentò di consolarla, di farle passare l’arrabbiatura con qualche parola buona, ma Coco non aveva alcuna intenzione di mollare l’osso.
«Sì, lo so. Ma se Tiennot non si dà una svegliata, qui chiuderemo entro marzo!»
«Adesso non esagerare...»
«Non sto esagerando, Maman. Non sto esagerando affatto», l’interruppe sbattendo i cucchiaini nel portaposate della lavastoviglie. «Qui non entra un cane, dopo le dieci del mattino. E siamo a due passi dalle giostrine di rue des Abbesses. Tanto vale chiudere a mezzogiorno. Invece sia il Gökotta sia il Susumella hanno clienti a tutte le ore, da quando aprono a quando chiudono. E fidati, non sono più bravi di Tiennot!»
«No, lo so», ma le parole di Maman Louise caddero nel vuoto.
«Basterebbe tanto poco. Basterebbe che quel testone si decidesse a starmi ad ascoltare. La pagina Facebook gliela curerei io, così come l’account di Instagram. I clienti che assaggiano i suoi croissant li condividono sui social. È la prassi. E se non sei presente, non ti possono taggare. E se non ti possono taggare, è tutta pubblicità gratis che se ne va alle ortiche. Guarda qui...», e la ragazza tirò fuori il proprio smartphone dalla tasca posteriore dei jeans. Aprì Instagram, digitò un paio di nomi e poi mostrò lo schermo al donnone davanti a sé. «Vedi? Questo è il Gökotta. Guarda quanta gente ne parla! E questo è il Susumella

Maman Louise annuì. Non comprendeva la reale portata della faccenda, ma iniziava a sospettare che Coralie non avesse poi tutti i torti.

«Il Café Verse-Eau non ha niente. Ni-en-te. Nemmeno un cazzo di hashtag. Se è presente come località è perché ho postato io una fotografia, lo scorso febbraio.»
Rimise via lo smartphone e riprese a caricare la lavastoviglie.
«Oggi gli ho proposto di candidare il Plaisir d’Amour del Verse-Eaualla sfida romantica di Milo Papadopoulos...»

«Frena, bambina», le disse Maman Louise, arrestando quella valanga di parole con un gesto delle mani. «Fammi un altro cappuccino, ché non ti seguo più.»
Coralie sorrise, annuì e si mise ad armeggiare con la macchina dell’espresso. Montò il latte, pigiò l’interruttore, attese che il caffè riempisse la tazza e versò la schiuma. Posò un cappuccino davanti a Maman Louise e disse:«Le-voilà.».
Il donnone afferrò la tazza con ambo le mani, lasciando che il tepore della porcellana avvolgesse le sue vecchie dita raggrinzite. Soffiò sul cappuccino e diede una prima sorsata, trattenendo la bevanda dietro le labbra color melagrana matura.
«Ci voleva proprio...»
«Sono contenta che ti piaccia», disse Coco, tornando ad occuparsi delle altre ordinazioni e sistemandole sui vassoi. 
Una volta che la ragazza fu tornata dietro al bancone, Mamam Louise le chiese: «Spiegami questa storia della sfida romantica, scimmietta, vuoi?».

«C’è questo chef stra-fa-mo-sis-si-mo», esordì Coco, gli occhi che brillavano nemmeno stesse parlando di un attore famoso. Prese il suo smartphone, lo attivò, digitò qualcosa e mostrò a Maman Louise un’immagine. Un bel ragazzo, sui venticinque anni, il sorriso malandrino e l’aspetto da rockstar più che da chef navigato. «La sua pagina Facebook e il suo account Instagram sono stra-se-gu-i-ti. La sua trasmissione fa sempre i botti! E ogni mese porta all’attenzione del suo pubblico un locale specifico.»
Maman Louise annuì. Faticava a seguire il discorso di Coralie, ma le era chiaro che questo Milo fosse una specie di Enfant Prodige della cucina, almeno di quella messa sotto ai riflettori. 
«Per S. Valentino ha indetto una gara per trovare IL dolce de-fi-ni-ti-vo», proseguì Coco. «Lui stesso sceglierà il vincitore. Che riceverà un bell’assegno di cinquemila euro per il proprio locale. Oltre alla pubblicità sul suo sito.»
«E hai pensato...», iniziò a dire, quando Coco la interruppe.
«Esatto!», trillò lei. Stesso, stramaledettissimo vizio che aveva suo padre, pensò il donnone sotto al suo turbante rosso. A Maman Louise sembrò un fringuello che canta su un ramo di pesco in fiore. «Perché non iscrivere il Cafè Verse-Eau? Il Plaisir d’Amour di Tiennot può tenere testa a qualsiasi altro dolcetto stucchevole! Cinquemila euro sono briciole, lo so, ma tanto, che abbiamo da perdere?»
«Niente», convenne l’altra, annuendo. «Più di no, non possono dirvi.»
«Il mio stesso, identico ragionamento», commentò Coco, l’indice ben teso verso il soffitto. «Ma quel testone non ne vuole proprio sapere. Secondo lui, è una perdita di tempo.»
Maman Louise si strinse nelle spalle. «Non ha tutti i torti. Potrebbe essere un fuoco di paglia, nelle migliore delle ipotesi.»
«Sì, ma se riuscissimo ad essere selezionati sarebbe pubblicità gratuita. E questo smuoverebbe le acque», disse mestamente Coralie. Posò gli avambracci sul bancone e si sporse verso Maman Louise. «Lo so che la forma è nulla senza sostanza. ma la sostanza Tiennot ce l’ha, eccome! Se solo cedesse al Lato Oscuro della Forza...»
«Che c’entra adesso Guerre Stellari?!»
Coco rise, scosse la testa e rispose: «È per dire, Maman.». Pausa. «Se mio fratello si facesse convincere...»
«Ma scusa, scimmietta, il Cafè non è anche tuo?»

Coralie piegò la testa da un lato, come un cane che non ha capito cosa voglia il suo padrone da lui. «Sì?», replicò. Cauta.
«E da quando in qua tu hai bisogno del permesso di Tiennot per fare le cose?», le domandò Maman Louise con il sorriso innocente del gatto che si è appena pappato un passerotto grassoccio. Poi si alzò, facendo leva sul bancone, raccolse la sua borsa piena di cose, se la mise in spalla e, cercando il borsellino in quel marasma generale, aggiunse: «Quant’è?».

Coco non le rispose. La fissava, ma il suo cervellino irrequieto stava galoppando a briglia sciolta per sentieri tutti suoi, e a breve anche le sue mani avrebbero trovato il coraggio per afferrare lo smartphone ed iscriversi a quel maledetto concorso. A Tiennot avrebbe pensato dopo, se e quando il Cafè Verse-Eau fosse stato selezionato; adesso, quello che la scimmietta di casa Arnoul doveva fare era uscire dall’ombra di suo fratello. Ed accettarne le conseguenze.

«Coco?»
«Hn?»
«Quant’è?»
Coco sbattè le palpebre un paio di volte, come se si stesse risvegliando da un sogno ad occhi aperti. «Offre la casa.»
Maman Louise sospirò.«Evvabene!», disse, rimettendo nella borsa capientissima il borsellino male in arnese. «Ma se continuate così andrete sul lastrico, scimmietta!», e con questo consiglio uscì nel sole di gennaio, certa di aver parlato al vento.

Quando si voltò, vide che Coco non era più al suo posto, dietro al bancone, ma accanto alla vetrina - lì il segnale era più forte e stabile - a smanettare con lo smartphone e a tenere d’occhio la porta del laboratorio. Sia mai ti colga con le mani nel barattolo della marmellata... 
Maman Louise sorrise. Aveva fatto bene a darle quella piccola spintarella. In fondo, quante probabilità c’erano che quel Milo Vattelappesca scegliesse proprio il Cafè Verse-Eau?
Una su un milione, se non addirittura meno.
Tranquillo, Tiennot. Sei in una botte di ferro.


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Capitolo 2
*** 2. ***








2.


 

«Scusi, ma aspetto una persona.»

Rodrigo avrebbe voluto dire queste parole al tizio che, con la coda dell'occhio, aveva scorto avvicinarsi barcollando, e che adesso si stava accomodando al suo tavolino, senza neppure avere avuto la decenza di chiedere permesso o per favore. Era questo ad innervosirlo maggiormente. Se fosse stato seduto al lungo tavolo al centro del locale, quello perennemente invaso dagli studenti fuorisede, non avrebbe battuto ciglio. Si sarebbe sistemato il cappotto sulle ginocchia e avrebbe lasciato spazio all’altro. Invece lui aveva scelto di non avvicinarsi neppure al tavolo centrale. Troppo via vai. Troppa gente che l’avrebbe urtato passando. Aveva scelto appositamente un tavolino libero di fronte alla vetrata per godere di qualche raggio di sole, per non doverlo dividere con qualche altro avventore e per pensare un po’ ai fatti suoi mentre rivedeva per l’ennesima volta i propri appunti e confrontava la pletora di fogli volanti, sparpagliati davanti a sé, con quanto appuntato sul laptop.
Per certe cose occorre ordine. Concentrazione. Calma. E la gente ha la deprecabile abitudine di sbirciare oltre il bordo della propria tazza per chiedere di cosa si tratti. Anche i riservatissimi inglesi. Come se chi è in fase di revisione avesse il tempo e la voglia di fare conversazione.
Ma quando Rodrigo alzò lo sguardo, la frase gli morì in gola, restandosene stoicamente attaccata alla punta della sua lingua.

«Milo?», chiese invece, gli occhi che si andavano allargando per lo stupore.
«Zitto, per carità!», rispose il diretto interessato da dietro un paio di lenti fumé in aperto contrasto con la giornata uggiosa. «Non mi hanno ancora riconosciuto...»
Rodrigo sbatté le palpebre un paio di volte. Che Milo Papadopoulos fosse un tipo appariscente era cosa nota sin dai tempi dell’università. Lo si sarebbe visto meglio in un gruppo rock, magari come frontman, piuttosto che dietro ai fornelli a cucinare. Eppure, da bravo testardo, Milo aveva dimostrato che c’era un cervello vivo e pulsante sotto quella massa improponibile di capelli, che al momento teneva nascosti - secondo lui - sotto un berrettaccio ai ferri che aveva visto tempi migliori. Era il resto dell’insieme a boicottare senza troppe cerimonie qualsiasi velleità di passare inosservati: trench, pantaloni della tuta, scarpe da ginnastica - spaiate - e pesante sciarpa a righe- stile Quarto Dottore - che gli penzolava senza molta convinzione alle spalle. Come se Milo avesse una coda. Come se fosse un clochard.
«Che ci fai qui?», gli domandò Rodrigo, animato da sincera curiosità. Non doveva prepararsi per l’ennesima registrazione di questo o di quel programma? Non aveva una riunione con quel povero santo martire di Adriano che gli curava il sito ed il blog?
«Mi sono preso una pausa caffè», rispose Milo guardandosi attorno da dietro il bavero alzato del suo trench. «Anzi, permetti?»
Rodrigo allontanò il proprio bicchiere dalla portata dell’altro e sospirò.
«Non dirmi che sei scappato ancora una volta...»
«Non sono scappato!», sibilò Milo.
«Davvero? Perché il linguaggio del tuo corpo dice tutt’altro...»
«Senti, abbiamo poco tempo e io devo parlarti di una cosa seria», gli disse, inchiodandogli lo sguardo con i suoi occhi azzurro carico. Come i tetti delle case affacciate sull’Egeo, in perpetua competizione con le onde del mare e l’immensità del cielo. «Se si accorgono che sono io, è finita. Lo so io e lo sai tu.»
Rodrigo si sfilò gli occhiali, li posò con cura sul legno che profumava di cera d’api e si massaggiò la radice del naso.
«Milo», ribatté, «siamo in uno Starbucks. Quella lì», proseguì, indicando la chiesa bianca in fondo allo slargo su cui si affacciava il locale, «è la cattedrale di Saint Paul.».
«Quindi?»
«Quindi, il tuo piano fa acqua da tutte le parti. Signore Onnipotente! Non potevamo sentirci più tardi?»
«No. Perché tu non rispondi al telefono. Oppure lo lasci staccato. E a casa non ci sei.»
«Non funziona l’ADSL», disse Rodrigo stringendosi nelle spalle. «Potevi mandarmi un messaggio su Whatsapp. Una chiamata vocale.»
«No, non potevo», commentò l’altro. E tu ne avevi le tasche piene di qualsiasi cosa stessi facendo, pensò Rodrigo.«Senti, quest’affare pizzica da morire, io devo parlarti di una cosa importante e abbiamo poco tempo.»
«Perchè? L’Interpol ti sta dando la caccia?»
«No, non l’Interpol.» Pausa. «Shaina.»
Rodrigo deglutì a vuoto. «No, senti, io non voglio andarci di mezzo. Sto lavorando e non voglio che lei scuoi vivo anche me.»
«Nessuno scuoierà nessuno», promise Milo, e la velocità con cui quelle parole uscirono dalla sua bocca convinsero Rodrigo dell’esatto contrario. «Adesso vado a prendermi un caffè. Poi torno qui. Tu mi ascolti. E poi mi fai sapere che ne pensi della mia proposta.»

Quindi Milo si alzò e si diresse a grandi passi verso il bancone. In quel momento, il display dello smartphone di Rodrigo si illuminò e apparve il viso sorridente di Adriano, abbracciato a Shaina.
«Sì?»
«È lì con te?»
«Adriano...»
«Ruy, voglio solo sapere se è lì con te o se non è finito chissà dove a fare chissà quale stronzata.» Pausa. «Shaina lo sta cercando per tutta la città. Non voglio che le venga un...»
«Sì. È qui.», rispose a mezza bocca. «Siamo allo Starbucks davanti a Saint Paul. Dacci mezz’ora, prima di avvisare Shaina, va bene?»
Adriano accettò e riattaccò.
Rodrigo si concesse uno sguardo distratto alla piazza alle sue spalle. Di lavorare, ormai, non se ne parlava, non fino a quando Milo non gli avesse sciorinato la sua ennesima idea - che per i comuni mortali era una richiesta d’aiuto camuffata all’occorrenza - nei minimi dettagli, e lui non l’avesse accontentato.
Sempre se nel frattempo Shaina non fosse piombata nel locale come un’arpia particolarmente incazzata, per afferrarlo per un orecchio e riportarlo ai propri doveri. C’era poco da fare: prima avrebbe ascoltato la sua ennesima follia, prima sarebbe potuto tornare ai suoi appunti. I libri non si revisionano da soli, e se voleva avere anche solo una possibilità di fare una bella figura con la casa editrice a cui voleva proporre il manoscritto, questo doveva essere impeccabile. Curato fin nei minimi dettagli.
Chi mai acquisterebbe una guida turistica raffazzonata?
Chi mai la pubblicherebbe?
Nessuno. Nessuno di abbastanza serio che poi pagherebbe per il lavoro fatto, pensò Rodrigo gettando un’occhiata distratta a Milo, che, in attesa del proprio caffè, sorrideva e scherzava con la cassiera.
E per fortuna che non volevi dare nell’occhio, pensò.
Niente, Milo non ce la faceva proprio a non flirtare. Era nella sua indole. Sarebbe stato come chiedere al sole di non brillare per cinque minuti, o al mare di non battere e levare sul bagnasciuga.
Rodrigo sperò - con tutto il cuore e con tutta l’anima - che Shaina entrasse sul serio nel locale come un'arpia particolarmente incazzata e se lo portasse via di peso. Almeno la sua giornata non avrebbe subito altri contraccolpi. Invece, no. Invece Milo, preso il proprio caffè e inforcati di nuovo gli occhiali da sole, tornò indietro, si sedette e pose le mani sul tavolo.

«Eccoci qui», disse, scoperchiando il bicchiere termico e lasciando che il suo Americano raggiungesse temperature accettabili.
Rodrigo incrociò le braccia. «Sono tutto orecchie.»
«Checcè? Hai fretta?», chiese Milo accavallando le gambe.
Rodrigo gli indicò nell’ordine: i propri appunti; il laptop; i suoi occhiali da lettura. Quindi inarcò le sopracciglia come a dirgli «Secondo te?». E poi lo disse: «Secondo te?» - ché Milo, alle volte, giocava a fare il finto tonto, e in quel caso occorreva usare la scure e andare dritti al sodo.
«Una pausa caffè non ha mai ucciso nessuno.» Non ancora, pensò Rodrigo. Milo prese un sorso, si lasciò scivolare il caffè sulla lingua e l’ingoiò. «Ci voleva...»
Poi, senza porre altro tempo in mezzo, abbassò le lenti e gli incatenò lo sguardo nel suo. «Ho una proposta per te. Una proposta di lavoro. Per cui, stammi a sentire molto attentamente.»
«No.»
«Non ho ancora detto mezza sillaba», gli fece notare Milo.
«So già quello che stai per chiedermi», rispose Rodrigo tamburellando le dita sul tavolo. «Hai bisogno di qualcuno che ti tiri fuori dal pantano in cui ti sei infilato...»
«Il solito esagerato!»
«… ma quel qualcuno non posso essere io.»
Secco e lapidario. Come una pietra tombale.
«Ma perché no, scusa?», chiese Milo, mostrandogli i palmi delle mani, in segno di innocenza.
Rodrigo strinse le dita, come ad invocare pazienza. «Perché sto lavorando. Lo vedi questo casino? Entro fine mese deve essere pronto per essere spedito all’editore. Ti sembra anche solo lontanamente pronto
«Non puoi inviare tutto ad un’agenzia?», domandò Milo, prima di bere un altro sorso di caffè. «Ce ne sono di bravissime che penserebbero a tutto loro. Correzione di bozze, impaginazione...»
«Sì, certo. Come no?», commentò Rodrigo. «Peccato che queste cose costino, e costino anche care. Chi me lo paga, il lavoro di un’agenzia? Tu?»
«Sì.»
Altrettanto secco e altrettanto lapidario.
Rodrigo rimase perplesso a guardarlo mandar giù un altro sorso di caffè. Aveva commesso un errore, lo sapeva. Se lo sentiva sottopelle. Nell’anima. Però la tentazione fu troppo forte lo stesso. «Scusa, come hai detto?», chiese, sapendo di stare entrando nella gabbia del leone colle sue proprie gambe.
«Che ti pago io l’agenzia per la correzione di bozze, l’impaginazione… insomma, quello che ti serve per inviare il manoscritto all’editore.» Sorriso sfrontato, poi aggiunse: «A proposito, cos’è?».
«È quel vecchio progetto», rispose Rodrigo.
«Quello che stavi portando avanti con...»
Milo tacque. Si era spinto troppo in là. Poteva non aver nominato Aiolia, ma il guaio era fatto. Il fantasma dell’ex fidanzato di Rodrigo si era manifestato in mezzo a loro, e Rodrigo ebbe la spiacevole sensazione di percepire il timbro speziato del suo dopobarba.
«Scusami. Non volevo.»
«Lo so», rispose a mezza bocca. «Non c’è niente di cui scusarti», aggiunse, anche se il resto del corpo gridava l’esatto opposto.

Sì, il progetto era proprio quello. Era sempre quello. Lo stesso a cui stava lavorando con il suo ormai ex fidanzato. Aiolia. Il ragazzo che aveva vinto le sue reticenze e l’aveva fatto capitolare, per poi scusarsi - con le lacrime agli occhi - di essersi sbagliato ed essersi scoperto clamorosamente, prepotentemente, immarcescibilmente etero. Dopo tre anni e mezzo di relazione, un gatto, due traslochi, ed un progetto editoriale abortito. E me lo chiami sbaglio?, pensò Rodrigo, con una nota di amarezza.
Quanto tempo era passato da che Aiolia aveva fatto i bagagli e se ne era andato a Stoccolma da quella Leaphya, Lydya o come diavolo si chiamava?
Un anno, il giorno di San Valentino.
Ricominciare a vivere era stata durissima. Aiolos lo aveva aiutato, gli aveva fatto da stampella. Ma Aiolia restava prepotentemente annidato nel suo cuore e nella sua vita. Come un fantasma da scacciare - da esorcizzare - una volta per tutte. Altrimenti non avrebbe potuto voltare davvero pagina. Per questo Rodrigo si era deciso a prendere il toro per le corna e a mettere la parola fine a quello stramaledetto progetto. Per chiudere quella parte della sua vita in una scatola assieme ad una cospicua dose di sassi, e gettarla in fondo ad un pozzo, senza la più remota possibilità che un bel giorno potesse tornare a galla.
E anche per dimostrare a se stesso - e a quello stronzo di Aiolia - che lui ce l’aveva fatta.
Che non aveva bisogno di lui. Che poteva campare e avere successo anche - e soprattutto - senza di lui.
Che.
Che.
Che.

«Qual era, la città?», domandò Milo, ricatapultandolo al presente, ad un’uggiosa giornata di fine gennaio, e ad un tavolino invaso di carte, fogli e foglietti in uno Starbucks a due passi dalla Cattedrale di Saint Paul.
«Parigi», soffiò via Rodrigo.

Sulle prime, era sembrata una genialata l’idea di cominciare una serie partendo proprio dalla città più romantica del mondo. La conoscevano come le loro tasche, per via di quei mesi - gli ultimi di felicità, prima che nelle loro vite inciampasse Quella Là - passati da Aiolia nel V arrondissement per quella borsa di studio. Ma poi, uscito di scena - sgattaiolato via - Aiolia, per Rodrigo era stata una vera e propria sfida scrivere qualcosa di accattivante su di una città che avrebbe volentieri raso al suolo in uno schiocco di dita. Non per Parigi in sé, ma perché ogni vicolo, ogni strada, ogni piazza e ogni abbaino blu stinto gli ricordavano Aiolia, il suo modo di ridere, il suo disordine e il sentore del suo dopobarba.
Ecco perché aveva scritto quella guida a distanza. Ecco perché aveva accuratamente evitato di recarsi sul posto, chiedendo ad amici, amici di amici e semplici conoscenti di avvisarlo di eventuali cambiamenti avvenuti in città.

«Perché?»
«Perché possiamo prendere due piccioni con una fava.»

Rodrigo sbatté le palpebre. Sapeva di starsi avventurando in un pertugio troppo stretto, che, anzi, stava infilando di propria sponte il piede nella tagliola che gli avrebbe stretto la caviglia in un abbraccio mortale, fino all’osso; ma non poteva farci niente. E Milo era bravissimo nell’attirare a sé la propria preda. Anche troppo.
Così, Rodrigo chiese: «In che senso?».
E Milo sorrise.
«Nelle prossime tre settimane io devo registrare un programma con Gordon. E partecipare ad una cosa con quel tizio italiano… quello con gli occhiali, hai presente?» Rodrigo fece cenno di no con la testa. «Fa niente. Poi ho le puntate del reality da registrare. Una puntata di Cucinando con le Stelle, due servizi di moda, una comparsata a La Prova del Cuoco, e il sito. Più un’altra mezza dozzina di cose che adesso non ricordo.»
Povera Shaina, pensò Rodrigo, con un moto di genuina simpatia nei confronti di quella ragazza. «Tu lavori troppo», commentò bevendo il proprio caffè, ormai freddo.
«Lo so», ribatté Milo. «Shoko me lo ripeteva in continuazione.»


Fu la volta di Rodrigo di chiedere scusa. Shoko. Capelli rossi, aria sbarazzina, grandi occhi sognanti e carattere di ferro. Se ne era andata all’improvviso, tre anni prima, falciata da un motociclista mentre attraversava la strada, e se il dolore aveva un colore, era quello degli occhi di Milo ogni volta che si parlava di lei. La sua personalissima cicatrice. Quella che riprendeva a fare male e a tirare quando lui meno se l’aspettava, quando credeva di non pensarci più; quando s’illudeva di esserne ormai guarito. Magari in una notte di pioggia disperata, o quando il sole splendeva tiepido nei pomeriggi di aprile.
Milo fece un gesto, come a scacciare via una mosca fastidiosa.
«Senza contare la promozione del libro che uscirà a tra due giorni.» Milo sospirò. «Adesso capisci perché avevo bisogno di questa pausa caffè?»
«Sicuro», rispose l’altro. «Ma io che c’entro in tutto questo? Il libro te l’ho scritto, e...»
«Non si tratta del libro. Quello è una bomba, e tutto grazie a te.» Milo gli piazzò lo sguardo dritto nel suo, e Rodrigo non potè fare altro che annegare in quel mare azzurrissimo e limpidissimo. «Si tratta del concorso. Quello mensile. Per quanto Adriano si occupi del sito e Shaina mi tenga in carreggiata, non ho il dono dell’ubiquità. Non ancora.»
«Quindi?»
«Quindi, che ne diresti di una vacanza di tre settimane a Parigi? Tutto spesato, s’intende», aggiunse, prima che l’altro potesse anche solo pensare di aprire bocca. «Sai come funziona, no? Tu vai lì, vedi l’ambiente, scrivi le recensioni e le invii ad Adriano. I locali sono tutti e tre nello stesso quartiere...»
«Arrondissement», Rodrigo si sentì in dovere di correggerlo; e Milo seppe che era fatta. Bastava poco, pochissimo; una spintarella appena.
«Al resto, penso io.»
«E come farei con il libro?»
Milo si strinse nelle spalle.
«Quello che fai nel tuo tempo libero non è affar mio. Io ti pago per andare in ricognizione al posto mio», ribatté. «E poi, vuoi mettere raccogliere notizie di primissima mano sul posto?»
«Quelli di Albatros...»
«Albatros! Bah!», esclamò Milo, dando una manata sul tavolo. Qualche testa si voltò nella loro direzione, per sincerarsi che fosse tutto a posto. E per fortuna che eri in incognito, pensò l’altro. «Quella casa editrice colerà a picco entro l’anno. Lasciali perdere.»
Rodrigo fu tentato di chiedergli cosa mai ne sapesse lui, ma si limitò ad assottigliare lo sguardo e a fissarlo con insistenza.
«Non mi sono impicciato perché sei testardo come un mulo», rispose Milo. «E se non ci sbatti le corna contro, non sei contento. Ora, io te l’ho detto, poi sta a te. Nei tuoi panni, lascerei perdere la Albatros Edizioni e cercherei qualcos’altro.»
«E chi, sentiamo?», lo rimbeccò Rodrigo. «Non c’è la fila alla mia porta, nel caso non l’avessi notato...»
«Può occuparsene Shaina», e l’espressione di genuina sincerità sul volto di Milo assicurò a Rodrigo che aveva fatto i compiti a casa e si era premurato di trovare una casa editrice interessata al suo progetto. Altrimenti non avrebbe messo in piedi tutto questo casino, pensò Rodrigo. «Noi ti mettiamo in contatto con loro, poi ve la vedete da soli. Tanto per mettere le cose in chiaro.»
Altrimenti non avrei mai accettato, vero?, si disse Rodrigo. Si sporse in avanti, fissò Milo dritto nelle palle degli occhi e poi, sottovoce, ribatté: «Chiarissimo. Ora, prima che arrivi Shaina e ci scuoi vivi, a tutti e due, mi racconti cosa vuoi che faccia? Esattamente. Nei minimi dettagli.».


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Capitolo 3
*** 3. ***








3.


 

Ci sono giornate in cui si farebbe bene a ignorare il trillo incessante e fastidioso della sveglia e a girarsi dall’altra parte, dopo aver messo a tacere — con un manrovescio assestato di malagrazia — quell’insistente grillo parlante fatto di lancette, rotelle e ingranaggi. Un cuscino sulla testa, a schermare la luce del sole, e via. E se si perde un giorno di lavoro, pazienza: meglio così, piuttosto che incappare in quello che la nostra coscienza, a modo suo, sta cercando di farci evitare.
Questo era l’atteggiamento di Aiolia, e lo professava con quella testardaggine che lega il folle al martire. Ed ogni volta che aveva uno dei suoi presentimenti — così li chiamava lui; Rodrigo usava un termine ben meno lusinghiero — era capacissimo di starsene con la testa sotto alle coperte fino a giorno inoltrato. Le tre del pomeriggio, ad esempio. Oppure a non alzarsi per niente. Sia mai che urtasse il mignolo del piede contro il comodino, o l’armadietto del bagno, o il divano.
Niente e nessuno poteva convincerlo a fare qualcosa se, per disgrazia, Aiolia aveva percepito un disturbo nella Forza — come lo sfotteva Ruy —: un lungo, lunghissimo brivido giù per la colonna vertebrale, che gli congelava l’anima e gli accapponava la pelle.
Rodrigo non era d’accordo. Non aveva mai creduto ad ipotetici messaggi dell’inconscio o robetta simile, buona per qualche rivistucola New Age da sfogliare nella sala d’attesa del dentista o del centro di assistenza fiscale. Se l’Universo — o chi per lui — avesse voluto inviargli un avvertimento, lo avrebbe fatto parlando forte e chiaro, senza troppi giri di parole o inviando messaggi più che sibillini da interpretare a proprio uso e consumo.
Quelli che Aiolia chiamava presentimenti altro non erano che logiche conseguenze del suo agire. Non c’è niente di strano nel fatto che la professoressa interroghi l’unico allievo rimasto a non essere andato alla cattedra. Succede. Prima o poi, ma succede. E quando è il nostro, di nome, ad essere chiamato, non ci si può stupire. Semplicemente, non lo avevamo messo in conto — e questo ci ha colto alla sprovvista — quando invece avremmo dovuto farlo. E allora no, non saremmo rimasti spiazzati. Saremmo arrivati all’incontro preparati.
Ma Aiolia, che sapeva essere più testardo di un mulo — specie quando le scadenze si avvicinavano impietose senza che lui avesse fatto nulla di quanto richiestogli —, quando ci si metteva, preferiva credere con indefessa convinzione agli ipotetici ed improbabili messaggi che l’Universo manda all’umanità tramite vibrazioni, intuizioni, sincronicità o il sesto senso. Magari pure il settimo.


Così, quando quella mattina scese alla fermata di Abbesses e percepì un fastidio generico — qualcosa che ti chiedi cos’è ed è già passato — , Ruy non lo collegò alle paranoie di Aiolia, ma alla stanchezza. Aveva messo le sue cose quasi alla cieca dentro una sacca da viaggio ed era arrivato a St. Pancras giusto in tempo per l’ultima corsa giornaliera; e fino a quando non aveva posato la testa sul cuscino della chambre d’amis che Milo gli aveva scovato nel cuore di Pigalle, il suo cervello aveva continuato a macinare idee, impressioni, possibilità da mettere per iscritto durante la notte.
Aveva creduto che avrebbe passato le ore serali a fissare i tetti blu stinto di Parigi dall’abbaino della sua stanza; invece, era crollato non appena la sua testa aveva sfiorato le lenzuola fresche di bucato, per risvegliarsi in una stanza che non conosceva, tra i libri di fotografie del padrone di casa e il sole che splendeva nel cielo azzurro polvere.
Così, quando quella mattina posò la mano sulla porta del Verse-Eau e la spinse, Ruy relegò quel lungo, lunghissimo brivido giù per la sua spina dorsale ad un refolo d’aria dispettosa. A quella spossatezza generale che regala un viaggio improvviso.
Ma quando la porta si aprì e gli occhi di Rodrigo spaziarono sulla sala del caffè, quel refolo fastidioso crebbe. Divenne una morsa gelida e stretta, che gli arpionò lo stomaco e risalì lungo l’esofago.
Scappa! Scappa!!, gli urlò qualcosa dentro di lui — il prodromo di un attacco di panico? —; e Rodrigo avrebbe accontentato volentieri quell’istinto se, nel frattempo, una signora alle sue spalle non l’avesse spinto di malagrazia per entrare.
Questa passò, con la sua aria indaffarata e le borse piene di cose, e si diresse al bancone, accomodandosi due sedie più in là rispetto ad una donna — un donnone — dal turbante rosso pompeiano.
Lui rimase lì, sulla soglia, l’aria da triglia, la sciarpa attorno al collo e la maniglia tra le dita. Scappa! Scappa!!, insistette quella vocina. Ma era troppo tardi.
E lo sapevano entrambi.


L’uomo al bancone — capelli smossi ad arte, camicia bianchissima, completo di sartoria e sorriso da tagliola — lo aveva visto. I loro sguardi si erano incrociati e, anche se il suo compare, seduto accanto al donnone col turbante rosso pompeiano, non l’aveva notato — forse era troppo impegnato ad essere meraviglioso per accorgersi del resto del mondo —, oramai la frittata era fatta, cotta a puntino e spadellata con maestria.
E Rodrigo lo sapeva.
Così le sue dita strinsero la maniglia, poi la rilasciarono. Entrò, facendo tintinnare il campanellino, e si sedette al tavolo di fronte alla vetrina, dando le spalle al bancone.
Posò lo zaino e iniziò a pensare.
Il mondo è piccolo, si dice.
Piccolissimo.
Forse un po’ troppo per i gusti di Ruy.
E forse un po’ troppo perché anche Milo — l’impegnato e stranamente sbadato Milo dell’ultimo periodo — non se ne fosse accorto. Specie se la presenza di Ruy gli risolveva due — forse tre — problemi in un colpo solo.


Io lo ammazzo, si disse, le mani strette fino a farsi sbiancare le nocche. Lo ammazzo e nascondo il cadavere dietro il muro di una cantina. E senza barile di Amontillado.


Preso com’era dal pianificare l’omicidio di Milo (in modo lento, raffinato e doloroso. [Per Milo, s'intende]), Ruy non si accorse della figura che si era materializzata accanto alla sua sedia, se non quando percepì un aroma di dopobarba familiare.
Bergamotto. Vetiver. Cuoio.
Aramis.
Represse un sorriso. Certe cose non cambiano mai.
«Scusi, posso?», e senza attendere risposta, l’uomo — lunghe dita abbronzate — prese il giornale ripiegato sul tavolo e lo scorse con aria distratta. Ruy fece per ribattere e aggiungere qualcosa — una spiegazione, una scusa, qualunque cosa — ma l’altro sibilò: «Adesso te ne vai in bagno. La porta verde acqua sulla sinistra. Io lo porto via. Stai lì dentro una decina di minuti. Ci vediamo domani pomeriggio.».
E senza attendere risposta, l’uomo ringraziò, sorrise, ripiegò il giornale posandolo sul tavolo e tornò al bancone.
Ruy non se lo fece ripetere due volte. Lasciò il proprio taccuino accanto al giornale e schizzò in bagno come se gli fosse esploso un petardo sotto la sedia.
Chiuse — sprangò — la porta, aprì i rubinetti e tuffò i polsi sotto l’acqua scrosciante.
Io lo ammazzo, pensò, osservando il proprio viso sullo specchio tondo appeso sul lavabo dell’antibagno. Io. Lo. Ammazzo.
Man mano che l’acqua gli raffreddava la pelle e schiariva le idee, Rodrigo comprendeva la reale entità del guaio in cui era andato a cacciarsi.
Susumella.
Gökotta.

Quei nomi gli erano suonati familiari, ma sul momento non aveva ricollegato tra loro gli indizi. E a voler essere sinceri, come avrebbe potuto?
Era certo che Mu non gli avesse accennato nulla riguardo al fatto che Marco e Yngve avessero aperto un locale ciascuno, nel cuore di Montmartre, ad un tiro di schioppo l’uno dall’altro. O forse Mu gliene aveva parlato, ma lui era troppo occupato a rimettere assieme i cocci della propria vita per prestargli la dovuta attenzione?


Togli quel forse, gli rispose la coscienza, prendendo in prestito la voce petulante di Aiolia. Rodrigo strinse la mascella. Forse lui aveva ignorato quell’informazione, ma Milo no. Milo, come al suo solito, aveva immagazzinato le parole di Mu e le aveva tirate fuori all’occorrenza.
Sì, ma quando avevano aperto i battenti, quei due disgraziati?
Dopo che lui e Aiolia avevano rotto, di sicuro, altrimenti Rodrigo se lo sarebbe ricordato.
Altrimenti avrebbe trascinato di peso Aiolia all'inaugurazione.
O Yngve gli avrebbe tolto il saluto a vita.
Invece, nessuno dei due si era fatto vivo.
Sì, Marco gli aveva mandato un messaggio vocale su Whatsapp appena era venuto a sapere della cosa; e probabilmente era stato il suo di buon senso ad impedire a Yngve di presentarglisi alla porta, armato di una poderosa scorta di bottiglie. Per Yngve la soluzione era sempre la stessa ed era semplice: sarebbe entrato, si sarebbero ubriacati, e Marco avrebbe fatto passare la sbronza a tutt’e due con uno dei suoi caffè — amaro come la vita, nero come il peccato e caldo come l’inferno.
Ma lui, come al solito, li aveva tagliati fuori. La verità è che non ce la faceva. Non ce la faceva a ripetere ancora una volta tutti i perché ed i percome dell’abbandono di Aiolia. Lui stesso non li capiva. E parlare, raccontare, spiegare non l’avrebbe aiutato a fare luce, ma avrebbe riaperto quelle ferite che si era leccato con tanta cura e pazienza, dacché Aiolia aveva preso baracca e burattini, ed era volato a Stoccolma da Quella Là.
«Non posso lasciarla da sola, il giorno di San Valentino...», gli aveva detto, prima di chiudersi per sempre la porta alle spalle. Però, poteva strappargli il cuore dal petto e pulircisi sopra i piedi. Come si fa con le aiuole quando si è pestato uno stronzo.
Si era chiuso a riccio e loro due avevano rispettato il suo riserbo.
Anche perché dovevano essere in ben altre faccende affaccendati, pensò, con una punta di acidità che spiazzò lui per primo.
Sei ingiusto, gli disse l’espressione del tizio dall’altra parte dello specchio. E lui non potè che concordare. Chi li aveva allontanati? Lui, nessun altro. Non poteva avercela con loro se…


«Hai intenzione di allagare tutto il quartiere?»


Rodrigo sbatté le palpebre e nel suo campo visivo apparve una mano — forte, affusolata, nervosa, unghie corte e curate — che chiuse con un gesto deciso i rubinetti. Alzò lo sguardo e nello specchio apparve il viso del proprietario di quella mano — un ragazzo alto, magro, pelle chiara, capelli legati in una coda distratta e occhi di un blu impossibile.
Non aveva un’espressione amichevole. Tutt’altro.
«Allora?», gli chiese il tizio, la porta della toilette socchiusa dietro di sé, una bottiglia arancione in mano, e il piglio di chi pretende delle spiegazioni e le pretende subito.
«Scusami. Non sapevo che fosse occupato...»
«Stavo sistemando la toilette», rispose il tizio riponendo la bottiglia arancione in un armadietto sotto al lavabo. Lo chiuse a chiave e poi si lavò le mani. «Qualche imbecille ha gettato troppa carta igienica.»
«Mi spiace», rispose Ruy. Come se fosse responsabile dell’accaduto. «Scusa per prima. Non ho dormito bene e avevo bisogno di...»
«Suppongo che adesso ti sia passata. Giusto?»
Non era una domanda.
«Giusto.»
«Perfetto. Ora, se permetti, dovrei tornare di là...», e Rodrigo si fece da parte. Il ragazzo gli passò davanti sfilandosi una bandana dalla tasca dei pantaloni e annodandosela in testa.
Aprì la porta, lasciandolo da solo a solo con il proprio riflesso e la certezza di aver appena fatto una colossale figura di merda. Cominciamo bene. Cominciamo benissimo…
Sospirò. Sbuffò. Raccolse il coraggio ed uscì dal bagno.


Nessuno sembrò aver fatto caso a lui.


Raggiunse il tavolo su cui aveva abbandonato il taccuino e lo zaino, e si lasciò cadere sulla poltrona alta davanti alla vetrina.
Quanto cavolo sono rimasto chiuso lì dentro?, si chiese, buttando un occhio all’orologio dello smartphone. Quasi dieci minuti. Dovevano essersene appena andati. Marco era stato di parola. Altrimenti Yngve avrebbe usato la sua testa per sfondare la porta, pensò.
Aprì il taccuino, sfilò la penna dall’elastico tubolare e tamburellò con il cappuccio sulla pagina bianca.
Cominciamo malissimo.
E Rodrigo stava seriamente pensando che avrebbe fatto meglio a comprare un croissant, uscire, tornare nella propria stanza e fare una lunga, lunghissima telefonata con Milo. E nel caso più che papabile che Milo si fosse fatto negare, avrebbe chiamato Shaina. E avrebbe spiegato a lei i motivi delle sue dimissioni. E buonanotte ai suonatori.


«Salve! Cosa prendi?»


Accanto a lui si era materializzata una ragazza. Capelli castano chiaro, sorriso gentile e mani dietro la schiena. Ed un’inquietante somiglianza con il tizio che aveva incontrato in bagno.
«Un croissant e un caffè. Ma fammeli da asporto, grazie.»
Questo avrebbe voluto dirle. Invece sentì la propria voce rispondere: «Ho una fame da lupo. Tu che mi consigli?».
Lei sorrise, sfilò dalla tasca del grembiule un taccuino e una penna e rispose: «Io ti consiglierei la colazione completa. Caffè, spremuta e croissant. Ma se hai davvero una fame da lupo, forse sarà meglio aggiungere un rinforzino. Può andare?».
«Eccome.»
La ragazza annuì e disse: «Arriva», prima di tornare al bancone e lasciarlo ad osservare la piazza nella tranquillità di una mattina di fine gennaio.


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Capitolo 4
*** 4. ***








4.


 

Il santoku scintillava sinistro nella penombra della cucina. La lama di ceramica – tanto bianca quanto affilatissima – batteva sul tagliere di legno d’olivo con ritmo costante, tranciando cipolle, sedani, carote, porri debitamente pelati e sciacquati, che sopportavano stoicamente la loro fine. Nulla di personale, si leggeva in quel movimento elegante ed efficiente, faccio solo il mio lavoro. E, osservandolo quasi rapito, Rodrigo si chiedeva se – quando – sarebbe stato il turno del suo collo di posarsi sul tagliere e attendere la versione della ghigliottina svedese. Perché, anche ammettendo che Yngve gli avrebbe permesso di uscire dal Gökotta sulle proprie gambe – Marco gli avrebbe evitato di passare i prossimi vent’anni nelle prigioni francesi per omicidio; non per empatia nei suoi confronti, ma per non perdersi gli anni migliori di Yngve –, metaforicamente Yngve lo stava affettando e decapitando per interposta persona. O interposta verdura.

Perché darsi pena di nasconderlo?
«Ma si fa così? Passi in città e non vieni a salutarci?!» Uno sbuffo a spostare una ciocca dispettosa da davanti agli occhi, e Yngve riprese la sua giaculatoria. «Avrei capito se l’avesse fatto lui», sibilò, indicando con un cenno del mento Marco,seduto su uno sgabello e intento a leggere la Gazzetta felice e contento, come se quella sfuriata non lo riguardasse. 

«Anzi, ti dirò. Da uno come lui me lo sarei anche aspettato», continuò, riprendendo a sfogarsi su una povera carota. «Sarebbe stato strano il contrario! Ma da uno come te...»

«Eddai, te l’ho detto...»

«E io ti ho detto che non ci credo!» Yngve posò il coltello sul piano di lavoro in marmo e lo fissò dritto nelle palle degli occhi. «Lo abbiamo detto a tutti. Tutti. Persino a Mu.»

«E Mu non mi ha detto niente», sbottò Rodrigo. «Leggi il labiale. Ni. En. Te.»

 

Era una mezza bugia, ché, per parte sua, Rodrigo non rammentava alcun accenno, da parte di Mu, all’apertura dei due locali; ma non si sarebbe arrischiato a metterci la mano sul fuoco. Quando voleva, sapeva immergersi così a fondo nel proprio dolore, da chiudere il mondo fuori. A tripla mandata. Come se non esistesse più nulla e nessuno.

Yngve non avrebbe osato chiamare Mu per avere la sua versione, perché Yngve, che era forse l’ultimo uomo di mondo a piede libero per la Terra, sapeva destreggiarsi benissimo nella difficile arte del savoir faire et savoir vivre. Non si sarebbe abbassato a tanto. Una bugia presuppone sempre una motivazione alle spalle. Quale che sia. Dunque, il suo cervellino si sarebbe speso per capire quale fosse, questa benedetta motivazione, e non avrebbe trovato pace fino a quando non fosse venuto a capo della faccenda. Uno squalo travestito da pesce rosso, ecco cos’era Yngve. E guai all'incauto che fosse finito tra le sue fauci a verdetto emesso.

 

«Sarà», disse – concesse – Yngve, riprendendo a massacrare la povera carota. «Però avresti anche potuto farti vivo. Dirci che stavi bene.»

Un colpo di tosse, il frusciare delle pagine della Gazzetta, e la pietra focaia dell’accendino che scattava nel silenzio.

Può bastare, stava dicendo Marco, con il suo modo pacato ma fermo di riprendere il compagno: erano piccoli gesti e attenzioni e sguardi che ad un estraneo non sarebbero sembrati che questo – piccoli gesti e attenzioni e sguardi, appunto – ma che racchiudevano al loro interno un mondo intero. Anche lui e Aiolia avevano il loro modo di comunicare. Un cenno particolare. Uno sguardo. Un’alzata di spalle. Era stato lui a proporglielo. E forse, adesso, usava quegli stessi gesti con Quella Là.

«Se continui così, lo farai scappare a gambe levate», disse, aprendo la porta che dava sul cortile interno e posizionando lo sgabello sulla soglia. «Adesso è qui, no?»

«Sì, ma...»

«Sì, ma, sì ma...» Prima boccata. «Che grandissima camurria

«Camurria un corno!»

Marco indicò il compagno con un gesto netto, la cenere rossa rivolta al viso da bambola di Yngve.

«Se vuoi che scappi a gambe levate, sei sulla strada giusta», e Marco prese una seconda boccata. Grazie, fu il pensiero che Rodrigo gli rivolse in cuor suo. «Ma adesso, cocco, prendi uno sgabello, ti siedi qui, accanto a zio, e ci racconti cosa hai fatto in tutto questo tempo...»

 

Eccola, la trappola. Impiattata con grazia e condita da un sorriso come una tagliola – una tagliola che si chiude sulla caviglia della povera vittima senza troppi riguardi. Niente di personale, amico… –, come da copione. Yngve è il poliziotto buono, ricordi?, gli suggerì, troppo tardi, la sua coscienza. Sì, Yngve era quello che pestava i piedi e pretendeva soddisfazione, e la pretendeva subito, ma Marco, no; Marco era il ragno che aspetta, paziente, che l’incauta farfalla cada nella sua tela d’argento. Perché affannarsi, quando la preda può fare tutto da sé?

Grazie un cazzo, pensò Rodrigo, osservando Marco aspettare che lui si degnasse di fare quanto richiestogli. 

Possiamo stare qui fino alla fine del mondo, diceva la postura di Marco, e probabilmente si era procurato le sigarette necessarie e sufficienti allo scopo. Così Rodrigo capitolò. Raccattò uno sgabello, lo aprì e vi si lasciò cadere accanto a lui in quello scorcio di luce pomeridiana.

 

«Vi siete sistemati bene», disse Rodrigo, prendendola alla lontana.

Marco nicchiò. «Sì, non ci possiamo lamentare», concesse, scrollando la cenere all’esterno, ed ignorando le occhiate assassine di Yngve. 

«Se passa...»

«Non passa nessuno», replicò Marco. «Sono all’aperto, in zona fumatori.»

«Se quella puzza entra qua dentro...»

«Non ci entra, non ci entra...», lo rabbonì Marco, spostando la sigaretta a distanza di sicurezza. «Lo conosci, no? Quando si ficca in testa una cosa...»

«Guarda che sono qui.»

«Davvero? Non l’avevo notato!»

E Rodrigo si ritrovò a sorridere. Una curva appena accennata delle labbra, ma sufficiente a distendergli l’anima. Tutto come ai vecchi tempi, pensò.

«Stavi dicendo?»

E anche Marco non era cambiato. Il suo viso atarassico diceva una cosa sola: vuota il sacco, e la facciamo finita qui.

Così Rodrigo capitolò.

«Dammene una», chiese allungando la mano verso Marco. Il quale fu lesto a fornirgli sigaretta e accendino. «Tranquillo», disse a Yngve. 

«Tranquillo ha fatto una brutta fine...», commentò, riprendendo a calare il santoku sul tagliere. E forse per la serenità del momento, forse perché le sigarette avevano sempre avuto un effetto rilassante su di lui, Rodrigo raccontò tutto. L’intera storia. Daccapo. Come se fosse successo il giorno prima e loro la ascoltassero per la prima volta. E, in effetti, era così. Erano stati informati da qualcun altro. Non da lui. E c’è una bella differenza tra l’apprendere le cose per vie traverse e il sentire tutta la storia per bocca del diretto interessato.


Così Rodrigo parlò, raccontò, si sfogò.

Disse cose su Aiolia che non avrebbe ammesso con nessun altro. Non si accorse che Marco non si era acceso una seconda sigaretta, né che Yngve aveva abbandonato coltello e tagliere e si era avvicinato a loro, uno strofinaccio tra le mani.

«Mi sono leccato le ferite», ammise, con una sincerità che stupì lui per primo. «Mi sono buttato anima e corpo nel lavoro.»

«E?»

«E basta.»

«Ha funzionato?», chiese Yngve, scrutandolo da sotto le ciglia scure, come se lui fosse un bislacco esperimento al microscopio di uno scienziato pazzo.

«Sta funzionando», ammise Rodrigo. «Almeno per il momento.»

«Va bene», disse Yngve. Più a se stesso. Non si lanciò in minacce e insulti all’indirizzo di Aiolia – come Rodrigo aveva temuto avrebbe fatto –, e, di questo, gliene fu grato. Si limitò a quella battuta, come a volergli dire che andava tutto bene. E che presto sarebbe andata ancora meglio. «Ma se ti azzardi a sparire un’altra volta...»

«Oggesù», sbuffò Marco. 

«Sì, sì. Dice dice, e sbuffa e rotea gli occhi al cielo, ma questo buzzurro era preoccupato quanto me. Se non di più.»

Il buzzurro – in completo Dolce e Gabbana blu notte e mocassini Ferragamo – si ricordò delle sigarette e ne estrasse una dal pacchetto. «Parla per te», disse, facendo scattare la rotellina dell’accendino. «Io so rispettare i silenzi altrui.»

«Già...»

«Come vi vanno le cose?», domandò Rodrigo per cambiare argomento e sviare il discorso da sé.

Per tutta risposta, Yngve allargò le braccia a comprendere tutta la cucina – immacolatissima – e il locale. «Vanno», disse, con un’alzata di spalle. «Non avresti bisogno di chiedere, se ti fossi fatto vivo...»

Altra stoccata. Stacce, gli disse lo sguardo di Marco.

«Ti abbiamo invitato. Ad entrambe le inaugurazioni.»

«Te l’ho appena detto. Stavo rimettendo insieme i cocci!»

«E quale occasione migliore di un paio di fine settimana a Parigi? Due amici inaugurano i loro locali, per cui hanno sparso lacrime di sangue...»

«Yngve...»

«Due fine settimana lontano da Londra. Due. Alloggio e vitto compresi. E tu ci dai buca!»

«Non me la perdonerai mai, vero?»

Silenzio.

«Imbecille. Se non ti avessi perdonato, adesso non te ne staresti col culo sul mio sgabello, nella mia cucina.» E scivolò via, in sala, lasciandoli da soli. Grande amante delle uscite ad effetto, Yngve.

«Deve sempre avere l’ultima parola, vero?»

«Oh, sì», rispose Marco, spegnendo il mozzicone sotto la suola delle scarpe. «E il bello è che se la prende. Ogni. Santa. Volta.»

Marco lo fissò, come se volesse dirgli qualcosa, qualcosa di importante. Ma poi l’attimo passò – o forse questo qualcosa non era poi così importante –, e Rodrigo non lo colse. Forse, pensò, la ramanzina di Yngve era stata più che sufficiente. Marco era stato sempre uno che non amava sprecare il fiato. Sono salvo, si disse, mentre l’altro infilava nella tasca della giacca il pacchetto di sigarette e cambiava argomento. 

«Stasera sei suo ospite. Ma domani tocca a me. Intesi?» 

Non era una domanda. E Rodrigo lo sapeva, così come sapeva in che modo sarebbe finita la serata, una volta chiusa la porta di entrambi i ristoranti. E se Yngve avesse rimandato la bevuta consolatoria ad un momento più opportuno – ché il lavoro viene prima di tutto –, Marco non sarebbe stato altrettanto assennato. O caritatevole. E lui non poteva, davvero non poteva, spendere una notte intera a dar fondo alla cantina di Marco – cantina prestigiosa e ricchissima di selezionato bibendum –, perché Yngve avrebbe rilanciato senza decenza, domenica sera, dopo la chiusura del suo, di ristorante. E a quel punto avrebbe potuto dire addio al proprio fegato e al proprio lavoro. Lavoro per il quale era già in arretrato. 

Aveva speso il giorno precedente e la mattina nella pia ricerca di Milo. Il quale, come da copione, si era fatto negare in ogni modo possibile e immaginabile, riparandosi dietro lo scudo più inespugnabile dell’universo: Shaina.

La quale, con una solerzia ammirevole, aveva preso le sue chiamate – via via sempre più nervose e perentorie – con stoica rassegnazione, assicurandogli che avrebbe passato i suoi messaggi al diretto interessato. Ed entrambi sapevano come sarebbe finita la faccenda: il diretto interessato avrebbe rimandato quel confronto sino all’ultimo istante possibile. E oltre.

L’unica soluzione era di comunicargli – per interposta persona – che abbandonava il lavoro e rassegnava le dimissioni. Cose che era più che intenzionato a fare non appena avesse salutato Marco e Yngve, fosse tornato a Pigalle, avesse preso il cellulare e parlato con Shaina.

Così Rodrigo provò a smarcarsi con un timido «No, non posso, stasera devo lavorare…», ma quella frase gli restò congelata in fondo alla gola. Lo sguardo di Marco era, se possibile, più terrificante del battere e levare del santoku sul tagliere di legno d’ulivo, perché quest’ultimo era un suono velato da una latente minaccia che tutti e tre sapevano non si sarebbe mai verificata: era uno dei tanti modi di Yngve per attirare l’attenzione su di sé.

Lo sguardo blu scuro di Marco, profondo come le acque dello Jonio e altrettanto pericoloso, recava una promessa. E Marco era sempre stato un tipo che manteneva la parola data. Con gli interessi.

«Così prendiamo due piccioni con una fava», aggiunse, come continuando un discorso nella propria testa. «Stai con gli amici, ti comporti in maniera civile e prendi appunti per il tuo lavoro…»

Rodrigo sbiancò. Una brutta sensazione – come qualcosa di viscido e freddo che scivola sulla schiena – gli arpionò lo stomaco. Non gli diede peso. Era solo stanco. Sì, ecco cos’era. Stanco. Si era preparato psicologicamente all’incontro a Teano, e questo aveva prosciugato i suoi nervi esausti.

«Il mio… lavoro?», chiese.

«Si capisce.» Marco lo fissò come se gli fosse spuntata una seconda testa. «Non ti sei imminchionito a scrivere una guida su Parigi?»

«Sì, ma è una guida per coppie innamorate», provò a protestare Rodrigo.

«E quindi? Gli innamorati non mangiano?», ribatté Marco. «O ti occupi di recensire solo alberghi a ore?»

«Prego?»

«Non ti scaldare, non ti scaldare», disse, con aria serafica. «E comunque, non ci sarebbe niente di male, no?»

«No», concesse Rodrigo. «Ma non è il genere di pubblico a cui» …abbiamo pensato. Ma il plurale restò lì, a penzolare in punta di lingua. «…a cui ho pensato», si corresse. «Voglio scrivere una guida che parli agli innamorati. Con luoghi, curiosità, musei e compagnia cantante.»

«Per l’appunto.» Allungando le gambe al sole del primo pomeriggio e stiracchiandosi i muscoli delle braccia e della schiena, Marco pontificò: «Questa città è bella, ma è anche stancante. E la gente ha il vizio di mangiare, figlio mio. Tre volte al giorno. E se a colazione risolvono all’albergo, e a pranzo con un panino, a sera avranno una fame da lupi. E come risolveranno, secondo te? Te lo dice zio. Andando a cena, in un buon ristorante. E tu hai sottomano due indirizzi due, in uno dei quartieri più pittoreschi di tutta Parigi.»

«Non è corretto», ribatté Rodrigo, il quale non amava scroccare pasti gratis, ché un pasto gratis presuppone sempre e comunque una contropartita.

«Perché?», gli domandò Marco, fissandolo come se avesse iniziato a parlare in aramaico.

«Perché siete miei amici. E…»

«Ah, no. Frena, frena.» Marco si raddrizzò sullo sgabello e si sporse in avanti. «Noi non abbiamo bisogno di comprare pareri positivi. Noi siamo il meglio sulla piazza. Su questa, almeno.»

«Non…»

«… è questo il punto. Lo so. Ma lasciami mettere le cose in chiaro. Noi siamo già sulla Lonely Planet. Sulla guida del Touring Club. Rough Guides. National Geographic…»

«Ho capito», tagliò corto Rodrigo. «Ho capito.»

«E allora, avrai anche capito che sembrerebbe strano che tu non citassi né il Gökotta, né il Susumella. Giusto?»

E se non lo facessi, ti toglieremmo il saluto a vita. Questo dicevano la postura, il timbro di voce e lo sguardo di Marco. E Rodrigo sapeva che quello sarebbe stato lo sgarbo definitivo.

«Giusto», concesse. A mezza bocca. Ma a Marco bastò.

«Perfetto», disse, e poco ci mancò che iniziasse a fregarsi le mani dalla contentezza. 

«Ma sappi che ordinerò fuori menù.»

Un sorriso – un lampo di un bianco accecante – brillò sul volto abbronzato di Marco. Un sorriso come una tagliola. «Non chiedo di meglio.»

«Fai del tuo peggio, allora.»

«In che senso?»

Leggero come una farfalla, Yngve era rientrato in cucina e si stava avvicinando con l’incedere cadenzato di un felino in caccia. 

«Di cosa state parlando, voi due?»

«Macho man qui ci ha lanciato una sfida», ridacchiò Marco. Ignorò a bella posta i «No, non è vero, aspetta, io» di protesta che Rodrigo pronunciò a propria difesa, e aggiunse, alzando la voce: «Dice che non siamo capaci di fare niente fuori menù.».

Lo sguardo da pescecane di Yngve si piazzò su Rodrigo. «Sul serio?»

«No. Non ho mai detto questo», puntualizzò Rodrigo. «Ho solo detto che vorrei mangiare qualcosa fuori menù, per proporlo nella guida che sto scrivendo…»

Yngve tacque e lo fissò. Poi, con fare quasi annoiato, chiese: «E questa me la chiami sfida?».

E in che altro modo dovrei chiamarla?, pensò Rodrigo. «Io ho fatto una richiesta», puntualizzò. «È lui», proseguì, indicando Marco, «che l’ha resa una sfida.».

Yngve lanciò un’occhiata a Marco, come per prendergli le misure per la bara, e sbuffò.«D’accordo, d’accordo», tagliò corto. «Però dopodomani tu andrai al Le Pantruche e farai la stessa cosa. Intesi?»

Neppure quella era una domanda. Era più un ordine. E dall’occhiata adamantina che gli rivolse Yngve, Rodrigo seppe che non avrebbe potuto svicolare in alcuna maniera. Ché sì, Yngve  era forse l’ultimo uomo di mondo a piede libero per la Terra, e sapeva destreggiarsi benissimo nella difficile arte del savoir faire et savoir vivre; ma, quando si trattava di scomettere, Yngve non guardava in faccia niente e nessuno. E chiedere di mangiare qualcosa fuori menu al Le Pantruche era fantascienza. Di quella dura e pura che avrebbe fatto sembrare gente del calibro di Asimov dei fricchettoni persi dietro ad elfi snob, fate dalle ali sbrilluccicanti e draghi affetti da cleptofobia – comprensibile, quando si hanno ammassate nella propria tana ricchezze inimmaginabili, diceva Aiolia.

«Ci proverò», rispose Rodrigo, ignorando l’ennesima fitta al cuore.

«No, provare no. Fare. O non fare. Non c’è provare», e quando Yngve citava Yoda, non c’era alcuna possibilità di salvezza.

«Ma tu non eri un seguace dell’Impero?», gli domandò, sinceramente perplesso.

Yngve si strinse nelle spalle. «Che c’entra?», ribatté. «Quando qualcuno dice qualcosa di sensato, è giusto e consigliato starlo a sentire.»

«Sacrosanta verità», s’intromise Marco, che si era goduto la scena con un sorriso da faina. «E se accetti un consiglio, assapora i migliori ristoranti della città, dalle bettole a quelli a tre stelle. L’amore non riempie la pancia. Il buon cibo, sì.»

 

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Capitolo 5
*** 5. ***


5.

 

«Hai dato un’occhiata alla penale?»

 

Rodrigo aveva provato a chiamare Milo senza troppe pretese. Aveva composto il suo numero per scrupolo, sul pianerottolo dell’attico in cui si trovavano l’appartamento di Isabelle  —  che ogni mattina gli imbandiva un pranzo da matrimonio spacciandolo per petit déjeuner  —  e la chambre d’amis messa a sua completa disposizione; ma non s’immaginava, davvero non s’immaginava, che quell’irresponsabile avrebbe risposto al terzo squillo. Credeva che, tanto per cambiare, il telefono avrebbe squillato a lungo, prima che la segreteria telefonica ringraziasse per la chiamata, si scusasse per l’impossibilità di rispondere e chiedesse, con fare cortese e pacato, di lasciare un messaggio.

Invece Milo non solo aveva risposto quasi subito —  nemmeno lo stesse aspettando al varco, tra il caffè e la lettura mattutina dell’agenda —, ma l’aveva fatto ponendogli quella sola, singola domanda senza nessun preambolo, secco e lapidario, come la scure del boia sul collo del condannato.

No, non gliel’aveva data, un’occhiata alla penale. 

Sì, Shaina gli aveva ventilato qualcosa circa la possibilità di doverla pagare per aver lasciato il lavoro a metà — per non averlo neppure cominciato, a voler essere onesti —, e lui aveva messo in conto di dover sborsare qualcosa per disimpegnarsi. Ma non aveva fatto domande sull’ammontare di questa cifra. Avrei dovuto leggere il contratto con maggior attenzione, si disse, maledicendosi per essere salito su quel carrozzone traballante seguendo l’impulso e non il raziocinio. Questo era il modus operandi di Aiolia, non il suo. E Aiolia avrebbe escogitato un modo per svicolare e salvarsi in calcio d’angolo; ma lui, che andava dritto per la propria strada come un panzer?

All’altro capo della conversazione, Milo attendeva una risposta.

Così Rodrigo decise che avrebbero affrontato quell’argomento per bene, mentre si preparava ad uscire e se ne andava a passeggio per Parigi in cerca di spunti per quella benedetta guida. Sempre ammesso che fosse riuscito a scrivere due paragrafi senza doversi interrompere per questo o quell’imprevisto.

 

«Aspetta un attimo», disse, infilando la chiave nella toppa ed entrando nella sua stanza. Richiuse la porta, infilò gli auricolari e trasse un lungo, lunghissimo respiro. «A quanto ammonta?»

«Non l’hai vista», commentò Milo, tra un fruscio di pagine di giornale e il suono di una sirena in lontananza.

«Quant’è?», ripeté Rodrigo.«A quanto ammonta questa penale?»

«Sei zeri.»

«Sei cifre, vorrai dire.»

«No, no. Sei. Zeri», rispose Milo. Lo sentì addentare qualcosa, masticarlo di gusto ed ingoiarlo. «Scusa, stavo facendo colazione. Oggi ho una registrazione con Barbieri, e più tardi…»

«Nessun problema», l’interruppe Rodrigo, che non aveva voglia di stare ad ascoltare chi fosse questo Barbieri o quali fossero gli impegni giornalieri di Milo. Sarebbe bastato dire di no, ogni tanto. Al momento giusto. Arginare quella marea montante con qualcosa di più concreto di un ombrellino da cocktail bucato. Un frangiflutti galleggiante, ad esempio. O una diga come solo gli olandesi e i castori sanno costruire. «Dicevi?»

«Io? Io, niente», e la voce di Milo sembrava sinceramente perplessa. «Hai subissato la povera Shaina di chiamate, nei giorni scorsi, così mi sono detto che doveva essere una cosa davvero importante…»

Ma ti sei misteriosamente fatto vivo solo quando ho minacciato di mollare baracca e burattini, vero?, pensò Rodrigo. «Omettere dei particolari importanti dovrebbe garantirmi uno sconto, se non l’annullamento della penale.»

«Perché? Mica hai incontrato Aiolia, no?»

La mascella di Rodrigo si serrò. 

«Avrei dovuto?», chiese, la voce affilata come un rasoio. E la paura, scivolosa e strisciante, di poter incappare in Aiolia, svoltando per strada, si insinuò nel suo cervello. Non è che questo imbecille…? pensò. 

«Che io sappia, no. Ma sai come si dice…»

«No, non lo so come si dice…»

«Il mondo è piccolo», si giustificò Milo. «E Parigi è una città che attira una quantità indecente di turisti, ogni mese...» Mandò giù un sorso di caffè, poi aggiunse:«Scherzi a parte, non so dove sia Aiolia. Sul serio. Non ti avrei mai chiesto di andare a Parigi se avessi avuto anche il minimo sentore che lui si fosse trovato lì. Perché Aiolia non è , giusto? Non l’hai incontrato, vero?»

«No. Non l’ho incontrato.»

«Meno male!» Sentì Milo sospirare di genuino sollievo. «Per un attimo ho temuto che fosse questo il motivo del tuo ammutinamento…»

Rodrigo ghignò. Prese la giacca,lo zaino, e uscì, chiudendosi alle spalle la porta. Pigiò il pulsante dell’ascensore e attese. «No, Aiolia non c’entra», disse, mentre le pulegge arrotolavano i cavi e la cabina saliva all’attico.

«E allora perché, in nome del cielo, vuoi tirarti fuori da questo affare?», chiese Milo, mentre l’ascensore raggiungeva il piano e un gaio cicalino annunciava l’apertura delle porte.

«Lo sai il perché», rispose Rodrigo. Entrò, chiuse le porte e pigiò il pulsante del rez-de-chaussée. «Gökotta. Susumella. Questi nomi mi erano in qualche modo familiari, ma di primo acchito non ho capito come mai…»

«E quindi?», chiese Milo, mentre a Parigi Rodrigo usciva dall’ascensore, attraversava l’androne e sbucava su rue Pigalle in un’uggiosa mattina di fine gennaio. 

 

Aveva preventivato di fare una bella camminata verso Montparnasse. 

Un po’ di moto gli avrebbe fatto bene. La cucina del Gökotta era stata superlativa, e a furia di assaggiare questo o quello, aveva esagerato. E stasera gli sarebbe toccato andare a cena da Marco. Che non solo non si sarebbe risparmiato  —  uscire perdente da uno scontro con le patate Blå Kongo di Yngve? Sia mai! — , perché Marco puntava ad un blando pareggio, sulla carta, così da non umiliare il compagno rimettendolo al proprio posto con grazia e garbo. Ma avrebbe alzato l’asticella. Ancora e ancora e ancora. A livello da primato olimpionico.

Dovrò comprare del bicarbonato, si disse Rodrigo, ignorando la successiva stazione della sua personalissima via crucis: la cantina del ristorante di Marco. E anche un paio di pantaloni di una taglia più grande. Ad essere ottimisti.

«E quindi Marco e Yngve sono miei amici. E sono anche tuoi amici», puntualizzò Rodrigo, risalendo senza accorgersene rue Pigalle e sbucando nella piazza omonima, le mani in tasca e l’umore fosco. «Solo che per toglierti le castagne dal fuoco hai chiesto a me.»

«Credo che la frase corretta sia: Solo che hai chiesto a me di toglierti le castagne dal fuoco», ribatté Milo.

«Fai poco lo spiritoso», ringhiò Rodrigo. Una signora, con le buste della spesa cariche di cose, lo guardò con sospetto, facendo un passo indietro. Lui si specchiò in una vetrina —  quella di Monp’, in Place Pigalle —  e vide qualcuno pronto a fare un massacro. Datti una calmata. Altrimenti ti spediranno nel primo istituto psichiatrico con un calcio ben piazzato.

«Non sono in vena di scherzare», protestò Milo. «Te la canti e te la suoni, senza avere neppure la decenza di spiegarmi il perché. Quindi, siccome il tuo tempo è prezioso, e non è giusto sprecarlo in ciance, o mi dici che succede, per filo e per segno, come se lo stessi spiegando ad un demente, oppure…»

«Oppure?»

Oppure la finisci con queste scenate isteriche e fai pace con il cervello. Questo avrebbe voluto dirgli Milo. Rodrigo ne ebbe la certezza quasi assoluta. Ma qualcosa  —  forse un briciolo di buonsenso  —  lo spinse ad optare per un più diplomatico: «.. oppure mi spieghi tutto come se stessi parlando con un demente. A te la scelta.».

Non c’è nessuna scelta, pensò Rodrigo. Si guardò attorno e vide una panchina libera, alle spalle dell’entrata della metropolitana. «Aspetta in linea, attraverso la strada e te lo spiego.» Così mettiamo fine a questa pagliacciata.

 

Lo spazio di un semaforo, e Rodrigo si lasciò cadere sul legno verde scuro un po’ sbeccato, il bavero rialzato, lo zaino tra i piedi e lo sguardo al cielo sopra Parigi. I giardini erano deserti. Solo una manciata di piccioni, vecchietti che si godevano il sole e qualche studente che aveva marinato la scuola.

«Okay. Adesso lasciami parlare senza interrompere. Intesi?» Silenzio assenso. Prese un respiro, poi attaccò: «Non mi piace essere messo in mezzo. Non mi piace che mi si canti la mezza messa. Non mi piace…».

«Che significa? Cos’è la mezza messa

Chiedilo a Marco, pensò Rodrigo. «Significa dire le cose a metà. Quella che più ci conviene», spiegò.

«Adesso non esagerare!»

«Non sto esagerando. E ti avevo chiesto di non interrompere.» Silenzio. «Non hai pensato che forse non avevo voglia di rivedere i vecchi amici?»

«Sì, l’ho pensato», e l’onestà con cui Milo pronunciò quelle parole lo spiazzò. «Ma siccome tu sei un professionista, mi sono detto che ci saresti passato sopra. E mi sono detto che, forse, saresti stato anche contento di rivedere quelle due canaglie. Si vede che mi sono sbagliato.»

«Decisamente», commentò Rodrigo, stringendosi nella giacca. Non faceva freddo quanto si era aspettato, ma quel retrogusto pungente dei giorni che precedono la Candelora si insinuava sotto i vestiti e scorreva sulla pelle, a proprio piacimento. «Le persone hanno i loro tempi. Non sono burattini nelle mani altrui.»

«Se te l’avessi anticipato, saresti mai partito?» 

«No.»

«Era una domanda retorica», puntualizzò Milo, e Rodrigo si sentì un cretino. «Lo so che non saresti mai e poi mai partito.»

«E allora, perché

«Perché tu sei l’unico che può gestire questa faccenda», disse Milo, il tono secco e duro di un vecchio libro che si chiude. «Stammi ad ascoltare. Senza interrompere. Va bene?» 

Rodrigo annuì, poi sospirò:«D’accordo.».

E Milo spiegò: «Quei due deficienti hanno iscritto l’uno il locale dell’altro. Ovviamente, all’insaputa del proprietario.» 

Ovviamente. Tipico di entrambi. L’ennesimo modo di manifestare affetto per l’altro in punta di piedi. E Rodrigo iniziava ad intravedere i contorni della trama di questa intricata vicenda. 

«Quando ho visto comparire entrambe le candidature ho sudato freddo, lo confesso.»

Lo credo bene, pensò Rodrigo, osservando il vai e vieni di un piccione pingue in cerca di cibo. Niente briciole, amico, mi dispiace.

«All’inizio, ho ignorato la cosa. Però non potevo continuare così in eterno, mese dopo mese.»

«Perché...?»

«Esatto», rispose Milo. «Perché inviano la candidatura ogni santo mese. Puntano a prendermi per stanchezza.»

«Ah.»

«Eh.» Pausa. «E poi dicono che sono io, quello caparbio… Ad ogni modo, Adriano mi ha suggerito di prendere il toro per le corna e risolvere la questione una volta per tutte. Così, scontro diretto, e fine dei giochi. Mi toglieranno il saluto, ma almeno sarà finita.»

«Lo toglieranno a me, semmai…»

«No, no. Su questo puoi star tranquillo. Gli articoli, li scrivi tu; la faccia, ce la metto io.»

«Sì, ma hai dimenticato un piccolo particolare.»

«E quale sarebbe?»

«Che sia Marco che Yngve non sono scemi. Tutt’altro.»

«Ma tu non gli hai detto che stai scrivendo per me, giusto?»

«No.»

«E allora, dove sta il problema?»

«Che non ci metteranno molto a fare due più due. Scommettiamo?»

«Io non ne sarei così sicuro», lo sentì bere un’altra sorsata di caffè. «In tutta onestà, io punto sul terzo locale. Il Verse-Eau

«Non mi sembra corretto.»

«E quando mai?», sospirò Milo, ma Rodrigo lo ignorò. 

«Se hai già deciso…»

«Non ho già deciso», precisò Milo. «La mia è una pia, piissima speranza. Magari il Verse-Eau toglierà entrambi dai casini. »

«Non contarci. Ho visto due dei tre locali. Stasera vado al Susumella

«E?» 

Perché c’era un e, nascosto nelle pieghe della voce di Rodrigo, pronto a saltare fuori, materializzandosi sui piedi del primo malcapitato che gli fosse capitato a tiro. Milo, per l’appunto.

«E non c’è paragone», disse Rodrigo. «Il Gökotta è un locale elegante, curato nei minimi dettagli. Fiori freschissimi ogni santo giorno e tovaglie immacolate che nemmeno nei corredi delle nonne. Il Verse-Eau…»

«Il Verse-Eau

«… è rimasto fermo al cambio di millennio.»

Dall’altro capo del telefono Milo tacque. Rodrigo ebbe la sensazione di udire gli ingranaggi del suo cervello mettersi in moto, macinando il problema e le informazioni come fossero granelli di sale. O di pepe. O di caffè. 

«Quindi?», chiese, cauto. Come se si stesse avventurando in acque pericolose.

«Quindi è un bistrot, di quelli a conduzione familiare. Ha un allure anni ‘90 che personalmente apprezzo, ma...»

«Ripeto: quindi? Non è un concorso per il miglior locale, Rodrigo, ma per il miglior dolce», puntualizzò. «Anche fosse stata una stamberga di quelle che trovi sulla spiaggia, due assi in croce e tanta buona volontà, ti dirò, il fatto che Cenerentola vinca contro una corazzata, anzi due, mi piace.»

«Quindi hai già deciso?»

«No», e il tono di Milo si era fatto di colpo serio e posato. «Dovrò assaggiare i dolci, personalmente. Ma posso farlo in mezza giornata, senza troppi clamori. Anzi, meno casino c’è, e meglio sarà. A me servono quegli articoli, e mi servono subito.»

«Ad Adriano servono subito», puntualizzò Rodrigo. «Io non voglio saperne nulla. Sia chiaro. Dubito che il Verse-Eau possa essere all’altezza.»

«Questo lo decido io», l’interruppe Milo.

«D’accordo», rispose Rodrigo. «Ma secondo te un cuoco di buona volontà potrà mai farcela contro due professionisti?»

«Anche il cuoco del bistrot è un professionista», scandì Milo. Parola dopo parola. Nemmeno fosse stato il verdetto finale di un processo per omicidio. «Magari questo pasticcere di buona volontà sa fare un dolce strepitoso. Mai mettere limiti alla divina provvidenza.»

«Permettimi di conservare un sano scetticismo a riguardo.»

«E tu permettimi di fare il mio lavoro», lo rimbeccò Milo. «E ti ripeto che né Marco, né Yngve sapranno del tuo coinvolgimento in questa faccenda. Tu sei lì per scrivere una guida, ricordi?»

«Resta il fatto che sono entrambi miei amici. E resta il fatto che tacere informazioni è una mossa sleale.»

«Tu non hai chiesto…», puntualizzò Milo.

E la già poca pazienza di Rodrigo evaporò. «Tu vuoi proprio che molli baracca e burattini su due piedi, vero?»

 

Un pallone ruzzolò fino alla panchina, gli urtò la gamba e si fermò poco distante. Un adolescente, a metà tra le medie ed il liceo, trotterellò fino a lui, scusandosi, ma le parole gli morirono in gola. Raccattò il pallone, balbettò qualcosa, e filò via come un razzo, nemmeno avesse visto il diavolo in persona.

«Io voglio che tu la pianti di trovare scuse e ti decida a mettere la parola fine a questo dannato progetto.» 

Le parole di Milo furono come una doccia fredda. 

«Prego?»

«Hai capito benissimo. Il problema non sono né il Gökotta, né il Susumella. Il tuo problema è Parigi.» E Rodrigo non trovò le parole per ribattere. Forse Milo aveva ragione? Possibile. Probabile. Sicuro. «Quindi, se sei un professionista, prendi il toro per le corna, scrivi questi articoli e parti a razzo da quella città. Puoi farlo in mezza giornata. Prendi il treno e te ne torni alla tua tana a Paddington. E adesso, scusami, ma ho una montagna di impegni.»

E Milo attaccò, lasciandolo da solo a solo con lo schermo del proprio smartphone, Parigi e un vento freddo che si divertiva a correre sul suo viso. Come se lo stesse canzonando.

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Capitolo 6
*** 6. ***


6.


Il cielo sopra Parigi si era svegliato di pessimo umore. Col culo scoperto, avrebbe detto Marco. Dalla finestra faceva capolino una spianata di ovatta grigio acciaio, dietro cui il sole si teneva ben nascosto, nemmeno si fosse rintanato con la testa sotto al guanciale e intendesse marcare visita anche lui.

Rodrigo avrebbe voluto imitarlo. Tirare le tende - errore imperdonabile, averle lasciate aperte la sera prima - e cancellare quella giornata nuova di zecca con un bel «chissenefrega», seguito da una generosa dose di punti esclamativi.

Perché no?, si disse.

Avrebbe scritto nella quiete della chambre d’amis

Non c’era un supermercato proprio sotto casa?

Sì, che c’era. E anche ben fornito. Uno di quelli sempre aperti, con le casse automatiche e nessun inserviente con cui dover scambiare quattro parole.

Il piano che si andava delineando dietro al braccio sinistro - pio scudo contro la seccante luce diurna - era buono. Invitante. Allettante.

Colazione chez Isabelle: un sorso di caffè, yogurt e il croissant sbocconcellato strada facendo.

Un salto al supermercato per gli improrogabili generi di prima necessità - acqua, fazzoletti, succo d’arancia, caffè solubile, tramezzini. E poi si sarebbe chiuso a lavorare. 

Solo lui, il portatile e i suoi appunti sul Susumella.

 

Marco si era superato. Non solo aveva riempito la dispensa nemmeno si aspettasse l’Apocalisse nei prossimi cinque minuti, ma aveva preso la comanda personalmente. Senza battere ciglio. Anzi, facendosi trovare pronto con una varietà di ricette rigorosamente vegetariane - vrasciòli alle melanzane, frittelle di asparagi, maccaruni ri Agatina, zuppa di funghi e cipolle, caponatina zucchine e menta, licurdìa, pipi e patate, pitta ‘nchiuta, patate ‘mpacchiuse e un’altra mezza dozzina di pietanze - che avevano imposto: un triplo giro di amari, per digerire il tutto; una passeggiata fino ad un orario indecente, per non morire di cibo; e ultimo, ma non per importanza, una generosa dose di bicarbonato, limone e acqua calda - ricetta di nonna Agatina - per potersi coricare senza rimettere l’anima.

 

Si portò una mano all’altezza del ventre e scoprì una rotondità della grandezza di un melone.

Caro, sono incinto, pensò. E poi: ho messo in valigia i pantaloni della tuta, vero?

Ma poi un pensiero, viscido come il fango, si fece strada nella sua testolina con la stessa grazia e lo stesso passo sicuro del sole che sorge: il WI-FI.

Sì, Isabelle gli aveva messo a disposizione la password, ma il segnale faceva pena, pietà e misericordia. E c’era il serio rischio che si piantasse sul più bello, nel mezzo delle sue ricerche.

«Cristo santo», mugugnò Rodrigo afferrando il cuscino e premendoselo contro il viso.

Niente, toccava uscire. Trovare uno Starbucks, possibilmente non quello di Montmartre, e lavorare da lì.

Questa storia si sta trasformando in un incubo, si disse, scalciando via il lenzuolo e sbattendo il cuscino sul pavimento.

Così, santiando e maledicendosi, un’ora dopo Ruy si ritrovò a varcare la soglia del Verse-Eau in tuta, zaino in spalla, e umore sotto le suole delle scarpe da tennis.

Uno scappato di casa, l’avrebbe definito Yngve, prima di prenderlo per la collottola e trascinarlo di peso ad acquistare qualcosa di decente.

Grazie a Dio, Yngve non è qui, si disse, lasciandosi cadere in una poltrona dallo schienale alto. 

Accese il portatile e gettò uno sguardo distratto oltre la vetrina: dall’altra parte della piazza, dietro il carousel e le fronde degli alberi, il Gökotta e il Susumella lo stavano fissando, ne era certo, in attesa del suo insindacabile giudizio.

Chi dei due è il migliore?, sembravano chiedergli - nella sua testa - le insegne, le vetrate, i lampadari, le tovaglie, le posate e persino i pavimenti, come se la rivalità dei rispettivi proprietari avesse intaccato ogni atomo dei ristoranti.

Forse una gita al più vicino manicomio non è una così cattiva idea, pensò, prima di ammettere con se stesso che l’unico verdetto possibile ed onesto era uno e uno solo: parità.

Totale. Perfetta. Assoluta.

 

Oh, sì. Era la dura e crudele verità, ché dove Yngve eccelleva, Marco segnava punti e si difendeva benissimo. E, al contrario, i cavalli di battaglia di Marco - di Nonna Agata, semmai -  sapevano tenere testa alla geniale inventiva di Yngve.

Sono cazzi tuoi, Milo mio caro, si disse, mentre il suo sorriso si andava allargando in un ghigno malevolo. Perché Ruy, no, non credeva possibile che il Verse-Eau avrebbe mai e poi mai saputo tenere testa alla carta dei dolci di Yngve e di Marco. Neppure nei sogni più sfrenati del suo proprietario. Che cosa avrebbe mai potuto opporre alle Nepitelle di Marco o alle Kladdkaka di Yngve?

Un croissant alla Nutella?

 

«Va bene. E poi? Prendi un caffè, un cappuccino, una spremuta d’arancia?»

 

Si voltò, con la stessa scioltezza di un pupazzo a molla. Accanto a lui, vassoio sottobraccio - nemmeno fossero i testi del liceo - e sguardo verde bosco, la cameriera dell’altro giorno gli stava sorridendo. Come si sorride ai pazzi furiosi, pensò lui. E poi: Che cosa ho chiesto, esattamente?

Lei lo guardò, in attesa, paziente, che il suo cervello iniziasse a macinare per il verso giusto.

«Un caffè», rispose, con la stessa intonazione di un concorrente di un quiz a premi.

«Benissimo», rispose lei, sollevata. «Arrivano subito.»

Arrivano, cosa?

Lo lasciò da solo a solo con il proprio portatile - spento - e la vetrina panoramica sulla piazza. E fu in quel momento che Ruy si accorse di una cosa: oltre a lui, l’unico cliente del locale era un donnone seduto al bancone, con una borsa tanto enorme quanto sformata, e un pittoresco turbante rosso pompeiano.

Tirò fuori il taccuino dallo zaino e osservò meglio il locale. Stampe alle pareti. Luci soffuse. Un tappeto musicale al pianoforte. Sedie e tavoli spaiati. Pareti verde acqua e pavimento di linoleum blu mare.

«Un’isola anni ‘90», commentò, accendendo il portatile e attaccando l’alimentatore alla presa.  Era una buona descrizione. Poteva funzionare, come battuta d’inizio. Un buon gancio che catturasse l’attenzione del lettore e…

 

«Prego?»

La cameriera si era materializzata accanto a lui, la tazza di caffè fumante sul vassoio, ma stavolta il suo sguardo verde scuro non era esattamente amichevole.

«Non ti piace il locale?»

Domanda retorica, ovvio.

Nessuno avrebbe risposto di sì - di no, si corresse - se non avesse avuto l’intenzione di scatenare una rissa con tutti i crismi. E Rodrigo seppe, con certezza assoluta, che lei gli avrebbe sbattuto il vassoio sulle corna senza troppe cerimonie.

Inventati. Subito. Qualcosa.

Così le sorrise - con il sorriso che, secondo Aiolia, faceva sciogliere le ragazze - e si affrettò a dirle: «No, no. Anzi.». O è sì?? 

Sembrava comunque punta sul vivo. 

«Mi piace. Mi piace, eccome», la rassicurò lui. O almeno ci provò. «Ha carattere. Stavo cercando di riassumerlo in una frase.»

Pausa.

«Sono uno scrittore», aggiunse, indicando il portatile e pentendosene subito dopo. 

«Ah, sì», domandò lei, scettica. «E che cosa scrivi?»

Menti. Menti spudoratamente. Dille che sei un giallista. Che stai scrivendo un romanzo d’amore. O di fantascienza. Uno storico. Qualunque cosa, ma non dirle che stai scrivendo… «Una guida turistica», si sentì rispondere. E, da qualche parte, sentì il suo buonsenso prendersi a ceffoni e gettare la spugna.

«Davvero?»

Il suo volto si illuminò. Sembrava più giovane, adesso. Più fresca. Una bambina in un negozio di caramelle, pensò lui. 

«Parola di boyscout», le disse, mostrandole indice, medio e anulare della mano destra ben distesi contro il cuore. «Sto giusto scrivendo una guida per innamorati.»

Non era proprio una bugia, no?

«Che bello!», e il sorriso di lei, se possibile, si allargò ancora di più. «Parigi è la più romantica delle città», sentenziò.

Lo dici a me?, pensò Rodrigo, mentre lei gli posava il caffè di fronte.

«E il Verse-Eau è il locale più romantico di tutta Parigi», aggiunse lei, con la stessa solennità di qualcuno che snocciola saggezza ad un tanto al chilo. Poi gli si avvicinò e gli piazzò lo sguardo dritto nelle palle degli occhi. «Mi aspetto una buona recensione, sappilo!»

«Affare fatto», ribatté. «E visto che ci siamo, qual è il vostro cavallo di battaglia?»

Lei lo fissò come se gli fosse spuntata una seconda testa. Poi un lampo le attraversò lo sguardo e si sedette di fronte a lui.

«Una cosa ci sarebbe», disse - sussurrò - guardandosi attorno, nemmeno il diavolo in persona potesse sbucare da qualche parte per prenderla per un orecchio e portarsela via, tra gemiti e stridor di denti e sferragliare di catene. «Abbiamo il dolce più buono di tutta Parigi. È spa-zi-a-le. Ma mio fratello ancora non si è deciso a metterlo in produzione.»

Lei sospirò. «Perché mio fratello è tanto bravo quanto cocciuto. E siccome è un dolce che nostro padre preparava a ridosso di S. Valentino, Tiennot pretende di prepararlo per una settimana. Non prima.»

«Ha una sua logica», rispose Rodrigo.

«Sì. Se sei un mulo cocciuto», ribatté lei. «La gente si ama tutto l’anno, da Gennaio a Dicembre e via di nuovo, non un solo giorno all’anno.»

«E come si chiama, questo dolce?»

«Plaisir d’Amour», rispose lei. «Come la canzone.»

Ha ancora più senso, pensò lui. E gliel’avrebbe spiegato, con calma e pazienza, se qualcuno non l’avesse richiamata alla cassa.

«Coco!»

Lei si sporse e lui si voltò. Il donnone con il turbante li stava fissando, un sorriso rosso melagrana sulle labbra piene.

«Arrivo», disse lei - Coco, registrò Rodrigo -, prima di sibilare un «Torno subito», alzarsi e raggiungere il donnone.

 

Rodrigo sorseggiò il suo caffè pensando e macinando le informazioni ricevute.

Sì, avrebbe potuto inserire tutto questo nell’articolo. E nella sua guida. Cambiando la catena della frase, ovvio. Ma bisognava che assaggiasse questo benedetto dolce, anche solo per indovinare gli ingredienti. Adriano aveva bisogno di qualcosa di concreto. E se il fratello di Coco - Tiennot? - non l’avrebbe messo in produzione se non dopo la Candelora, Rodrigo doveva rivedere la sua strategia, decisa mentre risaliva la Butte a passo di carica, nemmeno volesse raderla al suolo: scrivere tutti e tre gli articoli e spedirli a Milo - ad Adriano - all’ultimo momento.

When in Rome, do as Romans do, diceva il proverbio. E siccome si era cacciato in quel delirio agendo come avrebbe fatto Aiolia, ne sarebbe uscito allo stesso, identico modo.

Au bout de souffle.

 

Ma adesso che la rabbia e la frustrazione stavano evaporando, Ruy doveva ammettere con se stesso che quella strategia non avrebbe mai e poi mai funzionato. Lui non era Aiolia. E per quanto potesse provarci, non era tagliato per vivere procrastinando ogni cosa all’ultimo secondo possibile. Era come pretendere che un pesce rosso iniziasse a pattinare sul ghiaccio.

E poi Adriano ci sarebbe andato di mezzo. Senza considerare che le cose lasciate in sospeso hanno la sgradevole tendenza ad assomigliare a spade di Damocle, aggiornate e rivedute e corrette per i tempi moderni.

E poi, le cose fatte all’ultimo secondo hanno il brutto vizio di essere incomplete. E di generare, dunque, altro lavoro, perché mancherà sempre e comunque qualcosa: una virgola, un riferimento, una revisione decente. Il che presuppone il doverci rimettere mano ancora e ancora e ancora.

No, non era quella la vendetta che avrebbe servito a Milo, bensì qualcosa di più raffinato. E doloroso.

 

Bevve il caffè, aprì un file nuovo ed iniziò a digitare qualche appunto.

E l’aroma che gli accarezzò le narici - l’inconfondibile profumo di cannella e burro caramellato -, stava preannunciando l’arrivo del croissant alla Nutella. Gli si aprì una voragine nello stomaco. Un vero e proprio buco nero. E scoprì ad avere fame, nonostante avesse già fatto colazione da Isabelle e avesse deciso di tenersi leggero, quel giorno, magari saltando il pranzo.

Parigi è una città pericolosa, pensò. Troppo cibo buono tutto insieme, aggiunse tra sé e sé. 

Si chiese se non fosse il caso di inserire questa avvertenza da qualche parte, magari come incipit della sezione dedicata a ristoranti, brasserie e bistrot. Un motto di spirito, per non prendersi troppo sul serio.

Ma poi una mano entrò nel suo campo visivo, spazzando via ogni pensiero coerente.

Non era la mano delicata, dallo smalto rosa corallo, di Coco. Nossignore. Era una mano magra, forte, dalle dita lunghe e le unghie tagliate corte. La mano di un uomo.

 

«Il suo croissant alla Nutella, signore. Bon appétit.»

 

Rodrigo alzò lo sguardo, lentamente, percorrendo le dita affusolate, il polso forte, l’avambraccio magro ma dai muscoli delineati che sbucava dalle maniche arrotolate, le spalle dentro la divisa immacolata, il collo forte, la mascella sfuggente, i capelli legati in una coda distratta all’altezza della nuca e gli occhi di un blu impossibile.

Era il ragazzo dell’altro giorno.

Quello che aveva conosciuto alla toilette - no, così no! Sembra una cosa equivoca!!! - e che era uscito sistemandosi una bandana sui capelli.

Non azzardarti a chiedergli se ha risolto i problemi con lo scarico, gli sibilò la propria coscienza, il tono affilato di un rasoio. Non. Farlo.

Quel tizio lo stava fissando. Come se potesse incenerirlo da un momento all’altro. O peggio. Rinchiuderlo in una cella frigorifera - in un abbattitore - e tanti saluti.

 

«Grazie», esitò. Doveva pur dire qualcosa, giusto?

«Nessun problema», replicò l’altro. «L’ho farcito personalmente. Io adoro la Nutella. Spero di non aver esagerato», e Rodrigo ebbe la sgradevole sensazione - quasi una certezza - che l’altro avesse aggiunto un suo personalissimo rinforzo al ripieno. Venticinque, trenta gocce di Guttalax, ad esempio.

«Ah. Grazie.»

«Coralie è una ragazzina», disse lui.

«Ah. Okay.»

«Coralie è mia sorella.»

E il cervello di Rodrigo risolse l’equazione.

Lui è Tiennot. Tiennot. Quello del Plaisir d’Amour. Non azzardarti a fartelo nemico!, urlò e sbraitò e minacciò il suo buonsenso.

E Rodrigo concordò.

Fossi matto.

«Senti…» c’è un errore. Tua sorella è molto carina, ma non è il mio tipo. Gli avrebbe voluto rispondere una cosa del genere, tanto per mettere in chiaro la questione senza sbilanciarsi troppo. Ma Tiennot non gli concesse quartiere.

«No, senti tu, hombre», gli sibilò, piazzandogli una mano sulla spalla. Un gesto di maschio cameratismo, certo; ma Ruy ebbe l’assoluta certezza che quel tizio era prontissimo a fargli il culo, seduta stante. «Vuoi un caffè? Va bene. Un croissant. Benissimo. Per quel che mi riguarda, puoi svuotarmi il laboratorio e stare qui tutto il santo giorno fintantoché paghi il conto. E lasci una buona mancia. Ma tieni le tue zampe lontane da mia sorella. Intesi?»

«Non è il mio tipo», rispose. Con una sincerità che spiazzò lui per primo. Qualcosa - un lampo di consapevolezza? - attraversò lo sguardo di Tiennot. «Sono qui per scrivere una guida su Parigi. Parola di boyscout.» E ripetè il saluto.

La stretta si allentò. 

«Meglio così.»


Tiennot gli assestò una pacca sulla spalla e se ne tornò nel laboratorio, un mezzo sorriso soddisfatto sul viso.

«Tutto okay?»

Coco aveva la dote di materializzarsi dal nulla accanto alle persone. Si doveva essere infilata nel laboratorio in scia. Nemmeno fosse un gran premio. Fissava ora lui, ora la porta, con aria ansiosa. 

«Che gli hai detto?»

«Niente», mentì Tiennot. «Mi ha fatto i complimenti per il croissant dell’altro giorno e io ho incassato con grazia.»

Non ti credo, diceva la postura di Coco.« Perché gli hai portato tu il croissant?»

«Perché tu te ne stavi a chiacchierare con Maman Louise, invece di lavorare, come al solito», e sparì nell’angolo più recondito del laboratorio, soddisfatto come un gatto che si è appena pappato un grasso passerotto.

Coco rientrò in sala, perplessa.

«Questa storia non mi piace», sentenziò avvicinandosi al bancone e iniziando a caricare la lavastoviglie.

«Tranquilla, Scimmietta», la rassicurò Maman Louise, la tazza tra le mani e lo sguardo sul ragazzo seduto davanti alla vetrina. Un passerotto sperduto, di quelli intirizziti dalla pioggia, questo le pareva quel ragazzo con gli occhiali in punta di naso e l’aria disorientata. «Qualcosa mi dice che il nostro Hemingway dei poveri non andrà proprio da nessuna parte…»

«Lo spero proprio», ribatté Coco. «I clienti fissi fanno comodo, ma non mi alletta l’idea di raschiare i suoi resti mortali dalle pareti.»

«Potresti anche dover raschiare quelli di Tiennot, Scimmietta. Ci hai pensato?»

«Quel giorno nevicherà blu.»

Maman Louise sorrise.

Bevve un altro sorso di caffè e non commentò. Sì, Tiennot era più cocciuto di un mulo, ma il destino ci fa spesso la cortesia di mettere sul nostro cammino qualcuno peggiore di noi. Per testare i nostri limiti. O per farsi una sana risata sulla nostra pelle. La mano destra del donnone scese nella borsa, in un tintinnio argentino di braccialetti, e rovistò all’interno finché non trovò il suo mazzo di Tarocchi. Che, come al solito, era uscito dalla custodia e se ne stava mezzo sparpagliato contro la fodera. 

Pescò una carta.

L’Asso di Spade.

Un nuovo inizio. Maman Louise sogghignò. Si prospettano giornate interessanti…

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Capitolo 7
*** 7. ***


 

7.

 

Linee pulite, sartoriali quasi; un’atmosfera elegante; un servizio impeccabile. Il Susumella vi offrirà l’opportunità di assaporare i sapori di Calabria ad ogni ora del giorno… e di buona parte della notte!

Marco, il proprietario, sarà il vostro Cicerone alla scoperta del multi sfaccettato universo della sua terra, che profuma di cedro, lavanda, zafferano e liquirizia. Sapori forti, decisi, che si ingentiliscono nel suo cavallo di battaglia per San Valentino: le Nepitelle i Agatina.

Si tratta di un dolce del periodo pasquale - frolle dalla forma a mezzaluna ripiene di frutta secca, composta di amarene e cioccolato - preparate secondo la ricetta della nonna del proprietario. La quale, in occasione di San Valentino, amava aggiungere al cioccolato - rigorosamente sciolto a bagnomaria - una spolverata di peperoncino tritato finissimamente.

Se volete far breccia nel cuore di una persona, le Nepitelle i Agatina sono il miglior viatico al mondo, parola del proprietario. E di chi scrive.

 

Rodrigo lesse e rilesse il pezzo.

Controllò il numero di cartelle. Spostò un paio di blocchi all’interno dei periodi. Snellì il tutto. 

Adriano era stato chiaro.

«Deve essere poco più di una didascalia. Un biglietto da visita, non il tour guidato.»

E così aveva fatto. Ma era davvero difficile riuscire a raccontare il bouquet che gli era esploso in bocca al primo morso ad una Nepitella. E non tanto perché il suo palato aveva esperito quasi ogni possibile sfumatura sensoriale; ma perché Marco aveva - ancora una volta - ragione: ogni morso è un abbraccio caldo e avvolgente che arriva dritto al cuore. Con la promessa, non tanto implicita, di momenti molto, molto intensi tra le lenzuola. Una sorta di Preludio di Chopin ad un Crescendo rossiniano.

Pazienza. Ci avrebbe pensato Adriano a sfrondare, tagliare, aggiustare quello striminzito paragrafo. Allegò il file alla mail per Adriano - due righe di buona creanza e saluti assortiti - e rimase a fissare lo schermo del proprio laptop.

E uno, si disse.

Domani avrebbe inviato un resoconto sul Gokötta. E per il Cafè Verse-Eau si sarebbe affidato a qualche santo volante. Prima o poi, quel cocciuto di Tiennot avrebbe iniziato a produrre il Plaisir d’Amour. Febbraio era appena cominciato, non mancava poi tanto a San Valentino. Aveva o non aveva iscritto il locale al concorso?

Certo che sì.

E allora sapeva - doveva sapere - che Milo - l’unico e il solo - sarebbe apparso per gustare questo benedetto dolce. E siccome a Milo piaceva cogliere le persone con le braghe calate, non si premurava mai di avvisare. Anzi. Appariva come un fulmine a ciel sereno, così da evitare chiasso, paparazzate e confusione gratuita.

La versione riveduta e corretta della parabola evangelica.

Vegliate, dunque, perché non sapete né il giorno, né l’ora… o qualcosa di molto simile.

Sì, a Milo piaceva metterci un (bel) po’ di teatralità. Molta teatralità. E melodramma.

Gemiti e stridor di denti inclusi.

 

Il bip della posta in arrivo lo scosse da quei pensieri foschi.

 

Ciao, noi stiamo bene.
Come vanno le cose a Parigi?

Shaina lavora troppo, quindi niente di particolare.
Il pezzo va bene. Nel caso, aggiusteremo il tiro una volta che Milo li avrà assaggiati tutti e tre.

Mandami gli altri due appena puoi.

Adriano.

 

P.S. Se queste Nepitelle sono così fenomenali, me ne porteresti un vassoio?

 

Rodrigo sorrise da dietro le lenti degli occhiali. Perché no?, si disse. Avrebbero retto il viaggio in treno fino a Londra senza problemi. E sarebbe stato un modo piacevole - per entrambi - di festeggiare San Valentino. E chissà che, magari, la cicogna non si fosse decisa a fare visita a quei due ed a portare la bambina che Adriano non faceva mistero di bramare.

Impostò una nota sul cellulare. Ultimamente aveva la tendenza a dimenticare le cose.

Stai invecchiando, si disse. Non aveva definito bistrot il Cafè Verse-Eau?

Sì. Sì, che l’aveva fatto. A onor del vero, era stato Milo a definirlo bistrot, ma avevano sbagliato entrambi. E di grosso.

Bistrot e brasserie forniscono la possibilità di bere e mangiare – o di mangiare e anche di bere – seguendo un menù fisso, mentre un cafè avrebbe fornito un ventaglio di possibilità decisamente più ristretto. Almeno una selezione essenziale di vini per accompagnare il pranzo. E qualche fromage con cui allietare il palato.

Il Cafè Verse-Eau, invece, no.

Il Cafè Verse-Eau era poco più di una pasticceria a gestione familiare specializzata in prodotti da forno (croissant e brioche), cui qualcuno aveva aggiunto un bancone ed una macchina per l’espresso e il cappuccino. O una spremuta d’arancia. Ecco tutto. Era un animale strano, una bestia mitologica né carne, né pesce.

E Rodrigo si chiedeva, sbocconcellando un croissant, in quale categoria aristotelica avrebbe dovuto inserirlo. O avrebbe dovuto crearne una ad hoc?

 

No. Non se ne parla, pensò.

Lo avrebbe inserito tra i cafè, specificando le particolarità: ottimi croissant, buon caffè e atmosfera familiare.

E un pasticcere fuori di testa, pensò, accingendosi a rispondere ad Adriano.

 

Ti mando il Gökotta stasera.

Per l’ultimo, dovrai aspettare che lo chef pâtissier si decida a preparare questo benedetto dolce!

Farò il possibile per le Nepitelle, ma non mi prendo alcuna responsabilità.

 

E cliccò il tasto INVIO.

Un altro sorso di succo d’arancia.

Adriano rispose.

 

Questi francesi!

P.S. Vorrà dire che se sarà un maschietto, lo chiameremo Rodrigo!

 

Che Iddio ce ne scampi e liberi, pensò. 

Chiuse il portatile.

Sulla soglia della sala da pranzo, Jacques, il padrone di casa, lo fissava con la sua aria perennemente imbambolata.

E adesso che succede?, si chiese.

Avere a che fare con Jacques era piacevole come strappare qualcosa dalle chele di uno scorpione. Era Isabelle a tenere i rapporti coi loro ospiti. Le veniva meglio. Jacques si limitava a ciabattare per casa, quando non era impegnato a parlare – ad urlare – al telefono.

«Grazie per avermi permesso di usare il WIFI», disse. Tanto per rompere il ghiaccio.

Jacques bofonchiò qualcosa di inintellegibile – una scusa, un discorso tra sé e sé, un pensiero volante – e attese.

Rodrigo decise di alzarsi.

Non aveva la benché minima voglia di spendere la mattinata a giocare agli indovinelli con Jacques e la sua patata in bocca. Ed era pur sempre ora di mettersi in marcia; anche se, ad essere sinceri, con quel cielo grigio che prometteva neve, se ne sarebbe rimasto rintanato nella chambre d’amis più che volentieri. E pazienza per il WIFI. Avrebbe controllato tutto e spedito ad Adriano il pezzo domani mattina, dal tavolo della colazione, nell’appartamento di Isabelle.

Tanto Tiennot – Oh. Adesso lo chiami Tiennot? – non avrebbe messo mano al Plaisir nemmeno quel giorno.

Se gli aveva preso correttamente le misure (e in questo era sempre stato molto bravo [ Prima di incappare in Aiolia, almeno]), Tiennot –  e insisti?! – avrebbe atteso qualche altro giorno prima di aprire il frigorifero, selezionare gli ingredienti e mettersi all’opera. Un’altra settimana. Oggi avrebbe preparato le crêpe per la Candelora. Come in qualsiasi altra casa di Francia. E Rodrigo si chiese come sarebbero state. Buone, certo. Ma quanto buone? E le avrebbe fatte dolci, o anche salate?

 

C’è un solo modo per saperlo, gli sussurrò la sua coscienza. Stavolta aveva assunto la sfumatura complice della voce di Aiolos. Calma, franca, amichevole. Con quel pizzico di sfida, sullo sfondo, che lo rendeva l’amico speciale in grado di capirlo al volo.

Perché non fai un salto a sincerartene?

Perché non è aria, si  rispose.

Meglio attenersi al piano.

Studio matto e disperatissimo fino a sera, e poi via, nella notte, alla ricerca di un ristorante aperto di lunedì. Le mangi stasera, le crêpe, si disse. Ti pare che non lo trovi uno stronzo, uno che sia uno, che proprio oggi non le abbia messe nel menù?

E dopo aver infilato il portatile nella borsa ed essere finalmente addivenuto ad una decisione, il destino, nelle vesti trasandate di Jacques, decise di sparigliare le carte in tavola con una manata decisamente dispettosa.

 

«Dimenticavo», disse Jacques, scandendo bene le parole. «Oggi verranno i tecnici per controllare la caldaia. E un’altra squadra installerà i condizionatori.» 

Pausa. 

Suspense. 

Cliffhanger. 

«Nella chambre d’amis», aggiunse. Tanto per non lasciare adito a dubbio alcuno.

Ed io dove cazzo vado?, pensò Rodrigo, fissando Jacques in silenzio.

«Ha capito cosa ho detto?», domandò il padrone di casa. Poi ripeté: «Oggi…».

«Sì, sì. Ho capito benissimo», rispose spiccio. Più di quanto fosse socialmente accettabile nel Paese di Molière e Corneille. «Stavo solo pensando a come organizzarmi…»

«Sono desolato…», disse Jacques. Sì, certo. E io sono una giraffa. «Ma c’è stata una sovrapposizione e…»

E tu me lo dici adesso. Alle nove del mattino. Logico.

«No, no. Capisco. È che sono stato preso in contropiede e…» non so dove andare a sbattere le corna proprio oggi che avevo deciso di starmene a casa. «Pazienza», aggiunse. «Sono sicuro che la biblioteca di Sainte Geneviève andrà bene lo stesso…»

Jacques lo fissò, come se il suo cervello stesse mettendo assieme i pezzi di un complicato puzzle. Poi, vuoi perché il puzzle era davvero troppo complicato; vuoi perché non erano fatti suoi; decise di tenersi per sé i propri ragionamenti e di aggiungere un altro paio di «Mi dispiace», alla rinfusa.

 

Rodrigo annuì, ringraziò per la colazione e rientrò in stanza.

Pazienza. A mali estremi, estremi rimedi. Sì, gli avrebbe fatto bene spendere una giornata intera in biblioteca. Come quando erano studenti, e Marco ed Yngve gli facevano compagnia –  chi sonnecchiando, chi preparando un altro esame –  prima di prenderlo di peso e di portarlo a pranzo. Una botta di gioventù, si disse. E con questi pensieri nel cuore, in netto contrasto con il cielo fosco sulla sua testa, uscì dal palazzo.

Si strinse la sciarpa attorno al collo, accese l’I-Pod dell’anteguerra – vintage –  e si diresse verso la biblioteca di Sainte Geneviève nel Quinto Arrondissement, tra il Panthéon e il Quartier Latin. Una bella sgambata, certo; ma Parigi era e rimaneva pericolosa per la linea, e una bella passeggiata lo avrebbe aiutato a smaltire un po’ dei chiletti messi su in una settimana. Qualche etto, certo; ma sempre meglio di niente.

Qui si mangia troppo, e troppo bene, sentenziò, infilandosi in un reticolo di stradine strette e viali alberati.

 

Ma perché hai scelto proprio Sainte Geneviève?, si chiese, mentre attendeva che un semaforo divenisse verde. Era una buona domanda. Trovarsi a Parigi, in quel periodo, era difficile già di per sé; che necessità c’era di gettare sale su di una ferita, andando ad infilarsi proprio nel quartiere in cui lui e Aiolia avevano vissuto e condiviso sogni e speranze?

 

Prima o poi ci saresti dovuto comunque andare, gli suggerì la voce di Aiolos. O pensavi di non citare affatto il Quartier Latin? Oppure avevi in mente di riportare notizie poco accurate? No, amico mio, non è da te…

 

No, era stata una pessima idea. Lo sapeva. 

Così come sapeva che Aiolos aveva ragione. 

Così come sapeva che il suo umore si sarebbe inabissato, senza possibilità di ritorno, una volta addentratosi nel Quartier Latin, anche senza passare per Rue du Dragon.

No, non avrebbe potuto scegliere un altro posto, un’altra biblioteca. Perché lui, in cuor suo, avrebbe dimostrato a Milo che Rodrigo Diaz non aveva alcun problema con Parigi. Anzi. 

 

Peccato che Milo non sia qui e che, con buona pace di tutti, sia in ben altre faccende affaccendato…

 

Aiolos, fottiti.

 

E avanzò, come un panzer in un campo di fiori, macinando il pavé sotto le suole degli anfibi; ma quando arrivò all’imbocco del Pont des Arts, il coraggio gli venne meno, e le gambe gli si fecero di piombo.

Dall’altra parte del fiume, da qualche parte tra quei tetti blu stinto, c’era l’abbaino che si affacciava sulla Senna – uno scorcio appena, ad essere onesti, con un atto di fede mica da ridere – e dal quale osservavano la città addormentarsi e destarsi, lentamente, come la Bella Addormentata nel Bosco.

 

«Guarda che è il bosco che dorme, non lei», gli sussurrava Aiolia, un bacio sulla nuca, mentre la città si stiracchiava dal torpore del sonno ed apriva gli occhi piano piano.

«Non sarebbe fantastico se la città tutta si addormentasse e noi due fossimo gli unici esseri umani rimasti svegli?», domandava, prima di sfilargli di mano la tazza del caffè e reclamare la sua attenzione.

«Tempo cinque minuti, e finiremmo in un laboratorio come cavie. Nella migliore delle ipotesi», ribatteva lui, ignorando quel lampo strano che, in quei giorni – gli ultimi –, aveva visto salire a galla nello sguardo di Aiolia. «No, grazie», aggiungeva, prima che Aiolia scuotesse la testa, si scolasse il caffè e passasse dalle parole – dalle intenzioni – ai fatti. 

E a quel punto, tutti i se, i ma, i però ed i perché evaporavano come la rugiada al levar del sole; la logica toglieva il disturbo piano piano, sgattaiolando via in punta di piedi, e restavano solo loro due, mentre, fuori dall’abbaino, la Ville Lumière tirava dritto per la propria strada.

 

No. Non ce la faccio.

 

E il Quinto Arrondissement? Lo ignoriamo del tutto?

 

La voce di Aiolos aveva ragione. Come sempre. Ma no, non ce l’avrebbe fatta. Non oggi, almeno. Un altro giorno, magari.

Quando le orecchie avrebbero smesso di ronzare all’impazzata.

 

E quando succederà?

 

Non lo so. Non so più niente, si rispose, facendo dietro front e lasciandosi alle spalle il Quartier Latin, la Senna e quell’abbaino tra i tetti blu stinto.

Si infilò a forza nell’ennesimo intrico di strade e stradine, come a far perdere le proprie tracce. Come volesse nascondersi. 

Nasconderti da chi?, insistette la sua coscienza, con fare petulante.

Dal passato, si rispose, trattenendo a stento un ringhio.

Prima o poi avrebbe fatto i conti anche con il Quartier Latin – o forse no. Ma lo avrebbe fatto solo all’ultimo momento. Quando non avrebbe potuto allontanare da sé l’amaro calice e avrebbe dovuto berlo fino alla feccia. Un giorno o due prima di partire. O magari la mattina della partenza stessa, prima di salire sul treno che lo avrebbe riportato all’indifferenza un po’ snob di Londra, per archiviare il capitolo Parigi una volta per tutte.

La voce del buonsenso – la voce di Aiolos – tacque.

Non approvava quella risoluzione, ma non infierì. Né gli chiese dove diamine si stesse dirigendo. Non ce n’era bisogno. Lo sapeva già. Verso nord. Verso il Sacré-Cœur.

 

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Capitolo 8
*** 8. ***


8.

 

«Mi servono altri croissant!»

Françoise, sempre calma e pacata e avvezza a trattare coi i clienti, anche i più bizzosi, quella mattina sembrava spiritata. Entrava e usciva dalla porta che divideva il laboratorio dal locale con un’espressione sempre più preoccupata. Come se, all’improvviso, avesse dovuto sfamare  un’orda vandalica, uno sciame di cavallette ed una classe di liceali in gita, allo stesso tempo.

«Stanno cuocendo in forno», ribatté Tiennot. «Cinque minuti e sono pronti.»

«Non ce li ho cinque minuti!» sbuffò lei, sbattendo uno strofinaccio sul tavolo. Stizzita. «Ossantabrigida, ma siamo l’ultimo Cafè di Parigi rimasto aperto?»

E se ne tornò in sala, senza attendere risposta, svanendo oltre la porta e in un vociare persistente.

Tiennot si pulì le mani con uno strofinaccio. Che diamine stava succedendo?

Spense la planetaria, controllò che l’impasto fosse morbido, elastico e senza grumi; lo stese con cura; piazzò il burro al centro; effettuò le pieghe necessarie; stese un’altra volta l’impasto. Lo piegò a metà; ne ricavò dei triangoli isosceli; li arrotolò su loro stessi, infilò il tutto nella cella di lievitazione e impostò il timer.

Ci vediamo tra un’ora, pensò.

Poi aprì il forno, estrasse ed inserì le teglie, e sistemò i croissant a raffreddare su una graticola. Prese il burro, ne tagliò qualche ricciolo e li sparse sulla sfoglia ancora calda; poi si fece coraggio e andò a vedere cosa diamine fosse preso a tutti quanti, quella mattina.

 

«Eccolo, eccolo!», gridò qualcuno - una voce maschile - «Ecco l’artista!!».

 

Étienne vide un numero imprecisato di teste voltarsi nella sua direzione. Gli sguardi si spostarono dal suo viso alle sue mani. Vuote. E poi i telefonini entrarono in azione, accecandolo coi loro flash. Si schermò il volto con un braccio.

«Che sta succedendo qui?», ringhiò, avanzando verso sua madre.

«Non lo so», rispose lei. Spaesata. Come una bambina che si ritrova da sola tra la folla e cerca la mano del babbo, della mamma, di qualcuno di familiare che la porti via da quella bolgia. Françoise guardava quelle persone – una quarantina circa, testa più testa meno – come se fossero un branco di leoni e lei una povera gazzella ferita. «Non ho mai visto così tante persone tutte assieme qui dentro», mormorò, senza staccare gli occhi dalla folla.


«E ti dispiace?»

Seduta al bancone, col suo turbante rosso pompeiano e l’immancabile coro argentino di orecchini e braccialetti, Maman Louise aveva tutta l’aria di starsi divertendo un mondo. Una bambina al circo. O allo zoo. È l’ora del pasto dei leoni, pensò Tiennot. E siamo noi il pranzo.

«Sono sicura che, se tuo padre fosse qui, si divertirebbe come un pazzo!»

Peccato che Rémy non sia qui, pensò Tiennot. 

«Si può sapere che succede?», le chiese, mentre la gente continuava a scattare fotografie a tutto: alla sua faccia, ai croissant, al locale, alle sedie, ai quadri, a Salsiccia. Il quale, ben poco contento di quella cagnara, abbaiava da sotto al solito tavolino con tutto il tono rauco di cui la natura lo aveva dotato. E poi, rivolto a sua madre, Tiennot domandò: «Si può sapere dov’è Coco?».

«È il suo giorno libero», rispose lei. E Tiennot la fissò come se fosse appena sbarcata da Plutone.

«Con questo casino?!», sibilò. Rivolse un’occhiata alla sala. Altra gente stava entrando – stava cercando di entrare –, mentre chi era arrivato dopo attendeva paziente lungo il marciapiede. «Richiamala. C’è bisogno di lei qui!»

Françoise sbatté le palpebre un paio di volte, poi prese il telefonino e sgattaiolò nel laboratorio.

«Scusi, vorrei un croissant!», chiese una ragazza, frangetta e coda di cavallo, con un grazioso paio di paraorecchie rosa acceso.

«Anch’io!», le fece eco una signora.

«Io ne prendo tre», disse qualcun altro.

«Anche per me, anche per me!»

E la già poca pazienza di Tiennot scivolò via.

Si rivolse alla folla e, alzando la voce per sovrastare quella confusione, disse: «Spiacente, signori e signore, ma i croissant sono finiti.».


Per un lungo, lunghissimo istante ci fu un silenzio di tomba. Uno di quelli che prelude ad un boato spaventoso. Il Big Bang, ad esempio. Poi, piano piano, il mormorio insoddisfatto delle persone iniziò a salire di tono, fino a prendere corpo.

«Dateci le brioche, allora», suggerì qualcuno.

La ragazza coi paraorecchie rosa acceso pretese: «E tu rifalli! Noi aspetteremo!». Coro di approvazione.

Tiennot stava per oltrepassare il bancone e sbattere tutta quella gente fuori dal locale con le proprie mani, quando una voce maschile si intromise e gli evitò di commettere una strage: «Avanti, signori! Avete sentito? I croissant sono finiti e il locale, per oggi, è chiuso».

Fu solo in quel momento che Tiennot si accorse della presenza di Marco e Yngve. I quali avanzarono come un coltello caldo fende il burro. Marco posò due magnum di Veuve Cliquot sul bancone, Yngve scivolò a sedere accanto a Maman Louise, accavallò le gambe e scoccò un’occhiata truce alle persone assiepate attorno.

«Allora? Siete sordi?»

E, forse per lo stridente contrasto tra il viso da angelo e il tono spietato della voce, qualcuno indietreggiò. La ragazza coi paraorecchie rosa acceso protestò qualcosa senza troppa convinzione, rimettendo il portafogli nello zaino. Qualcuno bofonchiò un «torneremo», più simile ad una minaccia, che ad una promessa. Qualcun altro prese la porta ed uscì dal locale senza colpo ferire.

 

«Siamo dispiaciuti», proseguì Marco, con un sorriso da faina. «Incidenti del mestiere. Tornate domani per i vostri croissant», aggiunse. Come se quello, e non il Susumella, fosse il suo locale. 

«Scusateci, scusateci.» Françoise, tornata in sala, aveva colto la palla al balzo e assecondava Marco. Ripeteva quella frase quasi come fosse un mantra, o una formula magica con cui tenere lontano i guai. E fu solo quando la porta si fu richiusa alle spalle dell’ultimo, stizzito cliente, e la serratura scattò, che si concesse un sospiro di sollievo.

«Mio Dio», sussurrò. «Per un attimo ho creduto che ci avrebbero fatti a pezzi.»

 

«Sappiamo cosa aspettarci oggi», replicò Yngve dal bancone.

Maman Louise lo fissò curiosa. «Ah sì?»

In quella, Papa Nouriet si alzò dalla sua poltrona, raccolse il guinzaglio di Salsiccia – che occhieggiava da sotto al tavolo – e si alzò. «Ci vediamo domani», salutò. E poi, con la sua andatura da Mister Magoo, si avviò alla porta.

Françoise lo lasciò passare, richiuse di scatto la serratura e voltò il cartello dal lato con su scritto CHIUSO.

 

«Scusa se mi sono intromesso», disse Marco, le mani sui fianchi, «ma sembrava che tu avessi bisogno di una mano.».

Puoi giurarci, pensò Tiennot. «Grazie», disse, rivolgendosi a tutti e due.

Marco fece un gesto come a dire: «Non fa nulla». Poi disse: «Avanti. Tira fuori i bicchieri, dobbiamo brindare.».

«Giustissimo», gli fece eco Maman Louise. «Dai, Tiennot, non vorrai far aspettare una signora!»

E Tiennot decise che, per conto suo, quelle due magnum avrebbero atteso fino alla fine dei tempi.

«Qualcuno vuole avere la decenza di spiegarmi cosa sta succedendo?»

Yngve e Marco si scambiarono una lunga, lunghissima occhiata.

«Non lo sai?», chiese, fissandolo coi suoi occhi di mare al mattino.

«No.» Pausa. «Non lo so.»

Marco sbatté le palpebre perplesso. «Non hai visto il cellulare stamattina?», gli chiese. Poi estrasse il proprio smartphone, fece scorrere il dito sullo schermo e lo piazzò davanti agli occhi di Étienne. «Siamo stati selezionati. Tutti e tre.»

«Ma di cosa diamine» stai cianciando?, avrebbe voluto chiedergli. Selezionati? Da chi? Per cosa?

Ma poi vide la storia che Marco gli aveva messo davanti. Un tizio improbabile – uno Joey Tempest dei poveri e fuori tempo massimo – sorrideva alla telecamera, si sfilava un paio di occhiali a specchio e nominava il Susumella, il Gokötta e il Verse-Eau.

 

«Questi tre sono i locali scelti per la sfida di San Valentino», aggiungeva il tizio, in un inglese davvero improbabile. «Chi vincerà la gara e l’assegno da cinquemila euro in palio? Stay Tuned!»

 

E poi seguivano tre istantanee, con il tag della localizzazione. Il Susumella. Il Gokötta. E il Verse-Eau.

 

Poi la faccia da schiaffi di Joey Tempest 2.0 riappariva e salutava, promettendo: «Ci vediamo a Montmartre tra una settimana!». 

E basta.

 

Étienne alzò la testa.

«Chi è stato?»

«A fare che?», chiese Marco riprendendo lo smartphone.

«A giocarmi questo scherzo da prete», sibilò Étienne.

«Noi, no», rispose Yngve. Tranquillo e atarassico come una rosa appena in boccio. «Anche volendo», aggiunse, quando Tiennot gli scoccò uno sguardo capace di incenerire un ghiacciolo seduta stante, «per iscriversi occorre essere il proprietario. O fornire dei dati tecnici che solo il proprietario può conoscere. O i suoi familiari…»

 

Gli occhi di Étienne si ridussero a due fessure, due mezzelune d’acciaio affilato, lo stesso, identico luccichio che scivola sinistro sulla lama del boia.

 

«Quindi, se non siete stati voi…» chi è stato?

 

La domanda restò a galleggiare nell’aria che puzzava di piombo, mentre fuori, trovando la porta chiusa, alcune persone scattavano selfie davanti alla vetrina, per poi condividerli sui social.

 

«Maman?»

 

Sapeva che era innocente. Lo sentiva con ogni atomo del suo essere. Eppure, le pose quella domanda, per sgomberare il campo da ogni possibile ostacolo, prima di procedere come un panzer verso il reale colpevole.

 

«Io non sono stata», rispose lei. Come da copione. «Neppure ce l’ho, un account social…»

E fra poco non avrai più neppure una figlia, pensò Étienne. Sì, l’avrebbe strozzata. Le avrebbe tirato il collo, come si fa coi polli quando è venuta la loro ora; con la sola differenza che Étienne avrebbe stretto e allentato le dita attorno al collo di sua sorella più volte. Apri e chiudi. Apri e chiudi. E si sarebbe gustato il suo sguardo allarmarsi, riprendersi alla fievole fiammella della speranza, e poi precipitare di nuovo nel terrore cieco. Oh, sì. Coco avrebbe imparato la lezione. Una volta per tutte.

«Io avevo detto di no.» Li guardò uno per uno, chiamandoli a testimoni delle sue parole. «Io. Avevo detto. Di no.»

«Oh, avanti», proruppe Maman Loiuse, nel solito tintinnio argentino. «Quando si è in ballo, bisogna ballare!»

«No, Milou», e quando Étienne la chiamava così era furioso, di quell’ira quiescente che cova sotto le braci. «Lei ha iscritto il locale. Lei ne uscirà con le proprie gambe.»

E così dicendo scoccò uno sguardo serio a Marco e Yngve. «Congratulazioni», disse loro. «Che vinca il migliore. E ora, se volete scusarmi», ho un laboratorio a cui badare, avrebbe voluto dire, ma fu in quel momento che la sua attenzione si riversò sulla porta. Coco, il naso spiaccicato contro la vetrina e le mani ai lati del viso, guardava nel locale. Bussò un paio di volte. Françoise la fece entrare e richiuse di scatto la porta.

«Che cosa hai fatto?»

«Posso spiegare!», disse lei, liberandosi della sciarpa e del piumino. «Che ci fanno loro qui?», chiese, guardando ora Marco ora Yngve.

«Ci stiamo comportando da persone civili, noi…», ribatté Yngve, un gomito sul bancone e l’aria offesa.

«Non capisco.» Coco si voltò verso sua madre, a pretendere una spiegazione.

«Nemmeno io», ribatté Étienne. «A casa mia, no significa no. Non significa: fai pure come ti pare e piace.»

Coco piegò la testa da un lato. «Il Cafè Verse-Eau è anche mio», lo rimbeccò.

«Al cinquanta percento», sottolineò lui.

Una mano sugli occhi, Françoise esclamò: «Sacré, Coco! Perché devi essere così testarda?!».

«Perché se io non avessi iscritto il Cafè Verse-Eau al concorso, lui non l’avrebbe mai fatto!!», sbottò Coralie, indicando il fratello con il pollice. «Sbaglio?»

«No», rispose spiccio Étienne. «Ma questo non è il momento per discuterne.» Abbiamo ospiti, dardeggiarono i suoi occhi blu.

Lo vedo, replicò lei, allo stesso, identico modo.

«Su, su», cercò di mediare Marco. «Arrabbiarsi non serve a nulla e fa venire il sangue amaro.» Pausa. «Ce l’hai un cavatappi?»

Étienne lo fissò come se gli fosse appena spuntata una seconda testa.

«Sì», rispose. Dubbioso. «Secondo cassetto.»

Marco aprì e richiuse i cassetti, trovò il cavatappi e aprì stipetti e pensili alla ricerca di bicchieri puliti. Come se stesse a casa propria.

«Ci dispiace se il momento non è dei migliori.» Yngve era bravissimo a calamitare l’attenzione su di sé. «Non avevamo idea della situazione. Speriamo vogliate brindare con noi a questa nuova avventura.»

«Certamente», rispose Françoise, tenendo sott’occhio i suoi figli. «Tra buoni vicini, questo e altro…»

«Meno male», sospirò Maman Louise. «Un altro po’, e ci faccio le ragnatele su questo sgabello!»uhjn

«Per me no», disse Étienne, rivolgendosi a Marco.

«Non fare il guastafeste», gli sibilò quest’ultimo a mezza bocca. «Adesso ti comporti da persona civile, lasci da parte l’ira funestissima e ti bagni le labbra. Tua sorella puoi strozzarla dopo.» Pausa. «Lontano da occhi indiscreti.» Punto.

«Va bene», disse - concesse - Étienne. 

Di nuovo calmo, controllato, padrone di sé. Raccolse sei bicchieri e li allineò sul bancone, mentre con lo sguardo notava sua madre prendere da parte Coco e catechizzarla a muso duro circa le sue azioni. 

«Ragazzi, congratulazioni», disse Étienne con sincerità. «Che vinca il migliore.»

«Che vinca il migliore», gli fece eco Yngve. «Sarà una dura battaglia.» Ma non specificò se si stesse riferendo a sé, o alla concorrenza.

Marco, capita l’antifona prima ancora che l’altro avesse aperto bocca, non raccolse e disse invece: «Prendi un altro bicchiere.».

Étienne contò bicchieri e presenti. «Perché? Sono giusti.»

«No, non sono giusti», rispose Marco. «Ne manca uno. Per lui.»

E con un cenno del mento indicò la vetrina panoramica. Fuori, le mani a coppa attorno al viso e il naso quasi premuto contro il vetro (con un margine stentato di decenza in più rispetto a Coco), c’era l’Hemingway dei poveri, come lo chiamava Maman Louise – Étienne preferiva chiamarlo Hemingway in salsa ali oli.

Non si era fatto vivo da qualche giorno – Tre. Quando gli hai intimato di lasciar stare Coco – e adesso sbirciava dentro al locale, bardato come se dovesse attraversare il Polo Sud a piedi, lo zaino in spalla e l’aria di un bambino uscito da un romanzo di Charles Dickens.

 

Fammi entrare, Heathcliff…

 

«Perché mai», domandò Étienne. «Cosa c’entra lui?»

Yngve trattenne il fiato. Marco lo fissò.

«Non te ne sei accorto, Tiennot?»

«Di che?»

«Quel tizio è lo stesso che appare nella foto del Verse-Eau», gli spiegò Marco. Tirò fuori il cellulare, aprì Instagram e gli mostrò la story di Joey Tempest 2.0 una seconda volta. Sì, era proprio lui. Senza alcun dubbio.

Étienne si voltò a cercare sua sorella.

«Serviva una foto del locale», spiegò lei, la stessa aria imbronciata che metteva su da bambina quando si ritrovava inspiegabilmente in punizione.

Yngve, che si era voltato verso la vetrina, commentò: «Ah, è lui.».

«Lo conoscete?»

«Sicuro. Lui è Rodrigo.» Yngve proprio non ce la faceva a restare in disparte. E se per puro caso qualcuno lo tagliava fuori dai discorsi, lui vi rientrava sganciando una bomba ad un numero indecente di megatoni con la stessa grazia di una ballerina che attraversa il palcoscenico in punta di piedi.  «È venuto anche da noi. Sta scrivendo una guida su Parigi. Una guida per innamorati.»

La bottiglia stretta tra le dita, Marco riprese a respirare. 

Étienne non se ne accorse.

Quindi, era tutto vero. Non erano cazzate inventate per scroccare il WIFI o accattivarsi le simpatie di Coco.

 

«Non è il mio tipo», gli aveva detto. Possibile che?

E se anche fosse?

 

«Dai, aprigli la porta, a quel disgraziato. È finito a sua insaputa sui social di Milo Papadopoulos con un’aria da triglia! Il minimo che possiamo fare, è offrirgli una coppa di champagne!»

Questi sono bicchieri, avrebbe voluto ribattere Étienne. Invece tacque e capitolò. Sbuffando aria dal naso come una locomotiva lanciata nella notte, Étienne posò un altro bicchiere di fronte a Marco ed andò personalmente alla porta, la aprì e fece cenno al señor Hemingway di entrare.

L’altro scivolò dentro come un’ombra.

 

«Non sapevo foste chiusi per la Candelora…»

 

Le parole gli morirono in gola. Lo sguardo al bancone, fissava Marco, Yngve e Maman Louise come se fossero appena sbarcati da Marte. 

«Temo di essere capitato in un brutto momento», disse; ed Étienne notò come il suo accento castigliano salisse a galla con maggior forza quando si trovava in situazioni potenzialmente spiacevoli.

Étienne rispose: «No, affatto. Accomodati».

E, a quel punto, Rodrigo – questo era il nome dell’Hemingway dei poveri – abbandonò giacca, sciarpa e zaino sulla poltrona di Papa Nouriet. «Mia sorella ha iscritto il Cafè Verse-Eau ad una competizione», aggiunse torvo, indicandogli il bancone. «Stavamo brindando all’evento. Vieni.» 

Era, quello, un invito che non sarebbe stato saggio rifiutare.

 

«Non vorrei disturbare», si schernì Rodrigo, per educazione e in un ultimo, disperato tentativo di mettere in salvo le cuoia.

«Nessun disturbo», replicò Étienne, in un tono che puzzava di piombo e non ammetteva repliche. «Dopo tutto, fai parte anche tu di questa faccenda.»

«Io?!»

«Marco, gli mostreresti le foto?», chiese Étienne, prendendo Rodrigo per un gomito e sospingendolo verso il bancone. Come se fosse un bambino. O avesse bevuto un bicchiere di troppo.

«Sicuro», e Marco gli piazzò sotto il naso la story di Milo.

Dannato stronzo, pensò Rodrigo. Potevi pure avvisarmi! 

Ma poi il buonsenso, con la vocina petulante di Aiolos, gli suggerì che Milo aveva aspettato sin troppo. E che, forse, era stata proprio la sua chiacchierata con Adriano, qualche ora avanti, a far pervenire Milo alla decisione di rivelare i nomi dei tre contendenti.

 

«I cinquemila euro sono una goccia nel mare», gli aveva confessato una settimana – o una vita – prima lo stesso Milo, al tavolo dello Starbucks di fronte la Cattedrale di Saint Paul. «Certo, puoi comprartici una lievitatrice nuova. Rinnovare il servizio di bicchieri e delle posate, o prendere una macchina per l’espresso decente. Ma il vero guadagno è la pubblicità che ottieni. Tutto gratis. Senza nemmeno le tasse da pagare. Ed è un guadagno ENORME.»

 

Peccato che Tiennot non sembrasse interessato all’articolo.

Mia sorella ha iscritto il Cafè Verse-Eau, aveva detto.

Non un ho iscritto il Cafè; oppure un più rassicurante plurale, abbiamo iscritto il Cafè. Tiennot aveva usato la terza persona singolare. E questo poteva significare una cosa sola. Che a Tiennot non solo non interessava la competizione, ma che avrebbe fatto l’impossibile per restarne fuori. E Rodrigo seppe, con assoluta certezza, che quell’anno il Plaisir d’Amour – qualsiasi cosa fosse –  non avrebbe fatto bella mostra di sè sull’alzata del Cafè Verse-Eau.

 

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Capitolo 9
*** 9. ***


9.
 
 
Che faccia da imbecille, pensava Rodrigo guardando e riguardando il post sul profilo Instagram del Verse-Eau.
Se ne stava a fissare il vuoto da dietro le lenti degli occhiali, una tazza di americano tra le dita e l’espressione da povero demente – da persona costipata, avrebbe detto Yngve – che affligge quasi tutti i modelli e le modelle delle pubblicità più disparate.
Perché la gente dovesse sfoggiare uno sguardo intenso, qualunque fosse il momento della giornata e qualsiasi cosa reclamizzasse – dai fazzoletti al sapone da barba, allo shampoo per i pidocchi, alle camicie in popeline –, era e sarebbe rimasto un mistero.
 
Coco doveva aver rubato quello scatto in un momento di pausa, uno dei tanti che si concedeva con la scusa che non c’era molto da fare. E adesso Rodrigo capiva come mai armeggiasse tanto con lo smartphone; lui pensava – beata innocenza – che stesse chattando con qualcuno (un’amica, un amico, vattelappesca). E invece, no. Cercava un’immagine da piazzare sul proprio account. 
Impression, Cafè Verse-Eau, recitava la didascalia. 
Sì, era simpatica. Catturava lo spettatore di passaggio con l’allusione, nemmeno troppo velata, a Monet – perché, come diceva Marco, se non la tocchi pianissimo, tanto vale non toccarla nemmeno.
Però, Rodrigo avrebbe preferito che ci fosse stato qualcun altro, al suo posto.
Così imparo a non farmi venire i dubbi, si disse. 
 
Il problema, e qui doveva dare ragione ad Aiolia, era che con gli smartphone non si capiva mai se qualcuno stesse controllando il display e le millemila notifiche che di norma lo affollavano – c’era e sempre ci sarebbe stata l’App, con dignità di maiuscola, imprescindibile e immancabile con cui zavorrare la memoria del proprio telefono –; o se, come era capitato a lui, quel qualcuno non stesse scattando una fotografia. Infischiandosene di eventuali passanti innocenti, ça va sans dire
O approfittandone.
 
«Il problema dei social», soleva ripetere Aiolia, in maniera quasi ossessiva, con il piglio da saputello di quasi tutti i tuttologi che affollavano qualsiasi angolo dell’etere lasciato libero, «è che hanno dato la stura alla smodata competizione che possiede oi polloi. Nemmeno fosse un daimon da esorcizzare. La gente è in perenne gara con dei perfetti sconosciuti a mostrare l’angolo più bello, lo scorcio più suggestivo, lo scatto più mozzafiato, e sai come finisce? Che scattano tutti la stessa foto. Ovviamente tanto spontanea da far sembrare le fototessere automatiche dei ritratti d’autore.» Pausa drammatica. «Bei tempi, quando Instagram era solo il social dei fotografi. Quelli veri!»
E, anche se, come tutti i tuttologi di cui sopra, Aiolia era rimasto alla Kodak usa e getta – non che questo gli impedisse di pontificare –, Rodrigo doveva dargli ragione.
Stramaledetta ragazzina…
 
«Quel post ha fatto furore, sai?» Coco si era materializzata alle sue spalle, il vassoio davanti al petto e lo sguardo al display del suo telefonino. «Hai visto quanti commenti? E non hai idea dei like che ha ricevuto!»
 
Non voglio saperlo, pensò lui, rigirando lo schermo verso il tavolo.
Tiennot – Étienne. Si chiama Étienne. – non l’aveva strozzata. E questo era stato un gran sollievo. Gli sarebbe dispiaciuto dovergli portare le arance ogni domenica mattina. Sarebbe stato un vero e proprio spreco.
 
E perché mai tu avresti dovuto portargli le arance?, gli domandò la voce del buonsenso. 
Così. Per dire.
Il suo buonsenso ebbe la misericordia di non ribattere oltre.
Sì, sarebbe stato un vero peccato se Tiennot – Étienne, buon Dio. Étienne! –  avesse dovuto sprecare venti o trent’anni dietro le sbarre. Tutto quel talento per il dolce della domenica… Quello sì, che sarebbe stato un crimine! 
Tuttavia, Rodrigo non era affatto entuasiasta di essere finito sull’account di qualcun altro. A sua insaputa.
 
«Cambia lo status da pubblico a privato», gli aveva intimato Shaina. E lui, da bravo soldatino, aveva obbedito.
 
«Dammi il tuo handle, ché ti taggo!», insistette Coco. E per fortuna che i francesi proteggono la loro lingua come se fosse un tesoro inestimabile, pensò Rodrigo. «Così le ragazze chiederanno a te di uscire.»
 
«Prego?»
 
«Te l’ho detto. Hai fatto furore.» Lei ridacchiò. Poi prese il proprio smartphone, aprì Instagram e gli mostrò il post. «Molti commenti chiedono di avere i tuoi contatti. Non serve che ti spieghi io il perché, giusto?», e Rodrigo tastò di prima mano quanto potesse essere spiacevole essere trattati come un quarto di manzo al mercato. O una vacca intera.
 
«Non sono interessato. Grazie.»
«Ci sono anche ragazzi, sai?», e Rodrigo si chiese se a Tiennot – Étienne. Proprio non ti garba Étienne? –  sarebbe dispiaciuto se avesse tirato il collo a sua sorella. E quanto.
Secondo me, te la tiene ferma, gli suggerì il buonsenso. Che ormai era in procinto di saltare il fosso ed abbracciare il Lato Oscuro della Forza.
Join the Dark Side. We have les croissants.
Coco piegò la testa da un lato. 
«Tiennot mi ha detto tutto», gli confessò, facendogli l’occhiolino. «Hai detto che non sono il tuo tipo. In genere, dopo il suo approccio non si fanno più vivi. Tu, invece, sei tornato. E allora, ho capito.» 
Lui la fissò ad occhi sgranati.
Capito, cosa? Che cazzo stai dicendo? 
Aspettò una spiegazione sensata, o perlomeno coerente. Uno spiegone à la Sherlock Holmes, anche solo una comparsata di Poirot e delle sue celluline grigie. O un’illuminazione sulla via di Damasco. Qualcosa.
Ma niente.
Coco sospirò. E, con fare melodrammatico, aggiunse: «Pazienza…».
 
Sì, mi ringrazierà, pensò. Prima mi terrà il muso per avergliela strozzata io. Ma poi mi ringrazierà. Oh, se mi ringrazierà…
«Come vanno gli esperimenti?», le chiese. In punta di fioretto.
Coco tacque.
Non era un segreto che, ormai da qualche giorno, terminato il suo turno al Cafè, la ragazza indossasse il camice, si legasse i capelli e iniziasse a sperimentare una versione del Plaisir d’Amour
Quanto poteva essere difficile?
Prima o poi, ce l’avrebbe fatta, a suon di provare e riprovare, no?
Certo, non sarebbe stato buono quanto quello di Tiennot –  che comunque non era buono nemmeno un decimo di quello di Rémy, ripeteva lei –,  ché Tiennot aveva alle spalle molte più ore di volo, e conosceva una manciata di trucchetti per salvare la situazione e risolvere qualsiasi imprevisto. Non sarebbe stata la versione di Tiennot. Sarebbe stata la sua. E pazienza se Milo Papadopoulos le avrebbe riso dietro fino all’eternità. Il solo fatto di averci provato sarebbe stato sufficiente per buona parte dei follower dell’enfant prodige della cucina internazionale. Anzi, avrebbe avuto il fascino maudit e bohémien dell’underdog. Delle strade in salita, categoria Mont Ventoux. Delle cause perse in partenza e miracolosamente portate a casa. Les Fleurs du Mal, versione XXI secolo.
 
Peccato che questo piano –  il cui piglio orgoglioso Rodrigo sposava a piene mani –  avesse un’unica, enorme falla: Coco. La quale non era in grado di distinguere un soufflé da una bouillabaisse o un clafoutis da una ganache. Certo, era consapevole di cosa si stesse parlando – secondo piatto, zuppa di pesce, dolce alle ciliegie e crema al cioccolato –; ma da qui a spiegare preparazione, passaggi, dosi ed ingredienti di ogni singolo piatto… per tacer dell’esecuzione.
Così, era più il tempo speso a rendere di nuovo agibile il laboratorio dopo il suo passaggio, che quello che la ragazza impegnava in catastrofici apprendimenti. E, del Plaisir d’Amour, nemmeno l’ombra.
 
Tiennot aveva deciso di usare la linea dura, e Françoise, per una volta, si era trovata d’accordo con il figlio maggiore. Coco sarebbe uscita da quell’impiccio colle proprie gambe, o non ne sarebbe uscita affatto.
E se da un lato a Rodrigo piaceva questa solonica visione delle cose, c’era il rischio concreto che il suo lavoro finisse a gambe all’aria. Come Alaphilippe alla Liegi-Bastogne-Liegi. O forse anche peggio.
Shaina, interpellata subito dopo il brindisi al Cafè, non l’aveva presa bene. Smoccolando peggio di un camallo di cattivo umore, gli aveva consigliato di prendere tempo.
«Aspettiamo», aveva risposto. «Semmai non dovessero far pace con il cervello, possiamo sempre ripescare le informazioni generiche che hanno specificato al momento dell’iscrizione.»
Aveva bevuto un sorso di qualcosa –  la sua immancabile tisana drenante alle ciliegie, forse –  e aveva aggiunto: «Tu sei lì a fare da cartina tornasole. A controllare che non abbiano infiocchettato la verità. Non troppo, almeno.».
Non le aveva chiesto cosa sarebbe accaduto nel malaugurato caso in cui qualcuno avesse ingigantito ed imbellettato la reale natura delle cose. Non ne aveva avuto il coraggio.
 
La voce –  il sospiro accorato –  di Coco lo riscosse dai suoi foschi pensieri.
«Male», confessò lei. «Malissimo.»
Pausa.
«Avanti di questo passo, non caverò un ragno dal buco» 
Altra pausa pregnante. 
Altro sospiro melodrammatico da far invidia a tutte le Violetta e le Mimì che avevano infestato Parigi nel corso della sua storia. 
Altro, soffertissimo:«Pazienza.».
«Non sono fatti miei», esordì Rodrigo, mentre la voce del buonsenso, come un coro greco, rimarcava il concetto testé espresso, «ma non c’è proprio possibilità di convincere tuo fratello ad aiutarti?».
 
Lei lo guardò come se gli fossero spuntate, nell’ordine: sei teste, quattro paia di ali da drago, dodici paia di corna ed altrettante paia di occhi. La Bestia che sale dal Mare. O quella che giunge dal Deserto. O tutt’e due.
«TU non conosci Tiennot», disse – soffiò, come fosse un segreto indicibile, da sussurrare appena nelle notti di novilunio, quando anche il proprio respiro assomiglia ad una sentenza di morte.
«No, certo», convenne lui. Il suo buonsenso annuì. «Però, è davvero impossibile sanare la situazione? Tu lo conoscerai, no? Se gli chiedessi scusa, lui non ti aiu-» -terebbe?, ma lei non gli diede il tempo di terminare la frase.
«No. Tu proprio non conosci Tiennot», concluse, prima di tornarsene dietro il bancone scuotendo la testa, la coda di cavallo che ondeggiava pigramente. Rassegnata, quasi.
 
«Lavoriamo sodo, eh?»
Françoise, la madre di Tiennot e Coco, sembrava averlo preso in simpatia. Nemmeno fosse il fidanzato dell’uno dell’altra. Ci pensò su un istante. Naaah, si disse. Tiennot è etero. E poi le rispose: «Eh, sì. Il tempo stringe. Mi dispiacerà lasciare questo posto.».
Quella risposta parve piacerle.
«Eh, lo so. Partir, c’est un peu mourir, n’est-ce pas?», aggiunse, spolverando il tavolo e portando via la tazza ormai vuota. «Ti porto qualcos’altro?»
Per il momento sto bene così, grazie, avrebbe voluto risponderle. Aveva dovuto acquistare due paia di pantaloni di una taglia più grande, e se avesse continuato ad assecondare il palato, sarebbe rientrato a Londra rotolando. E forse non sarebbe neppure riuscito a passare per la porta di casa. Ma poi vide lo sguardo della donna – dolce e materno – e non se la sentì di dirle di no.
«Una spremuta d’arancia», le rispose. E poi aggiunse: «Non so come facciate a rimanere tutti così magri come acciughe con i dolci di Tiennot…».
Françoise ridacchiò ed arrossì. «Troppo gentile», disse, e si diresse al bancone per preparargli la spremuta.
Fu in quel momento che entrò il donnone con il turbante rosso.
 
«Oh, sei qui.»
Lo disse come se avesse temuto di non trovarlo al solito posto, davanti alla vetrata panoramica. O se l’avesse cercato in lungo e in largo per tutta la città. Banlieue comprese.
Rodrigo la guardò accomodarsi accanto a lui, posare il proprio borsone sul pouf verde bottiglia e sfilarsi la sciarpa dal collo. 
«Fanchon, il solito!», urlò rivolta al bancone, col sempiterno tintinnio d’argento. Poi portò gli occhi su di lui – occhi da civetta – e Rodrigo ebbe la sgradevole contezza di cosa dovesse provare uno sparuto topolino di campo, di fronte a quel genere di sguardo. O anche una pingue pantegana di città.
«Oggi Tiennot farà le crêpe.» Lo disse come se stesse rivelando un segreto capitale. «Sì, lo so. La Candelora è passata. E allora? Le crêpe di Tiennot sono ottime in ogni stagione. Pure d’agosto. Scrivilo, su quel tuo libro», aggiunse, picchiettando sulla superficie immacolata del tavolo con l’indice laccato di rosso sangue.
«Maman, lascialo stare. Sta lavorando.»
Françoise – Fanchon – era intervenuta in suo soccorso, ponendo un bicchiere di spremuta d’arancia e un cappuccino con molta schiuma, misera barricata di fortuna tra lui e quel donnone energico. Parigi, 1870 reloaded.
«Lo so», ribatté lei. «È per questo motivo, che glielo sto dicendo. Lo sto aiutando, Fanchon. Vero, giovanotto?»
No, avrebbe voluto ribattere. Ma poi il ricordo del viso arcigno e severo e per nulla compiaciuto di suor Bertilla, che poco gradiva la mancanza di educazione nei confronti degli anziani, e soprattutto delle ore passate in ginocchio sui ceci secchi a rimuginare sui propri errori, lo fecero optare per una strada più diplomatica.
«Verissimo», disse. «Ogni informazione è più che preziosa.»
A Maman Louise piacque quella risposta. Gli diede un colpo affettuoso con il gomito e disse: «Così si fa.». Poi, rivolgendosi a Françoise, ribadì: «Di’ a quel pelandrone di tuo figlio che voglio delle crêpe Suzette.».
«Temo che dovrai accontentarti della classiche crêpe alla marmellata, Maman.»
«Crêpe. Suzette», quasi sillabò il donnone. «Se non avete il Cointreau, vado a prendervelo io.»
Françoise sospirò. «Vedrò cosa posso fare», e tornò dietro al bancone.
 
«Tiennot è buono e caro, ma è così testardo», si lasciò sfuggire Maman Louise. «Niente cose fuori menù, dice lui. Basta insistere appena, dico io.»
«Funziona?»
«Garantito.»
«Buono a sapersi», commentò Rodrigo. «Ma forse è meglio omettere questo piccolo particolare nella mia guida, no?»
Quell’approccio parve piacere al donnone. Sorridendo, versò lo zucchero nel cappuccino, mescolò la bevanda un paio di volte e ne gustò un sorso, lasciandoselo scivolare in punta di lingua. Poi, come se all’improvviso si fosse ricordata di qualcosa, posò la tazza sul piattino e rovistò nel suo borsone, tirandone fuori un mazzo di carte dai bordi consumati.
«Che testa!», disse, quasi scusandosi. «Eh, ho proprio bisogno di una lunga, lunghissima vacanza.»
E prese a mischiare le carte. Poi posò il mazzo davanti a lui e gli disse – gli intimò – : «Taglia. Con la mano sinistra. E non incrociare le gambe.».
 
Rodrigo sbatté le palpebre un paio di volte. Ecco, ci mancava l’attrazione pittoresca, pensò. «Non credo in queste cose», disse, con ferma gentilezza.
«Nemmeno io», ribatté lei. «Avanti. Su. Taglia il mazzo.»
E Rodrigo si disse che insistere sarebbe stato una perdita di tempo.
Ormai era chiaro che il Plaisir d’Amour non avrebbe partecipato alla sfida. 
Milo, dando per scontato che fosse sopravvissuto al tentativo di avvelenamento da parte di Coco, avrebbe dovuto scegliere tra Yngve e Marco e sarebbe stato molto, ma molto più prudente per lui trovarsi a miglia e miglia di distanza quando ciò sarebbe successo. Sarebbe stato saggio trovarsi in un altro posto. Un altro continente. Un altro emisfero. Uno sprovvisto di cartomante, ad esempio.
 
Accontentò il donnone dall’età indefinibile e divise il mazzo in due.
«Prendi la prima carta», ordinò Maman Louise. Lui obbedì e gliela porse. 
«Asso di Spade.» 
Sembrava soddisfatta. Quasi si aspettasse quel risultato. E Rodrigo si chiese se, per caso, quello non fosse un mazzo sistemato alla bisogna. Come in un gioco di prestigio. 
«Indica un nuovo inizio. Ci sarà da lottare. Da sudare. Ma ne varrà la pena.»
A-ah, pensò lui. Annuì. In quel modo che si riserva ai vecchi e ai pazzi.
«Poi me lo saprai dire», lo apostrofò lei. «Reagiscono tutti così. Tutti. Pure il marito di Fanchon non mi credeva, quando gli predissi che avrebbe sposato una bionda. “Maman, a me piacciono more!”, ridacchiava. Indovina com’è finita? Che ho avuto ragione io e lui torto.» Ridacchiò, il solito coro argentino a farle da antifona. «Quando la previsione si avvererà, mi darai ragione pure tu.»
 
Facile così, pensò lui, fissando quella carta. Una mano che sbucava da una nuvola e reggeva salda una spada – un brando – nel pugno chiuso. Con frasi generiche, che possono andar bene per qualsiasi contesto, è facile dire, poi, di averci azzeccato.
«Vorrà dire che le offrirò un caffè, madame
«Maman», lo corresse lei. «Io sono Marie Louise. Milou. Ma per tutti, qui, io sono Maman Louise.»
Sollevò la prima carta dell’altro mazzetto. Gliela mostrò.
«Asso di Coppe.»
Stavolta il disegno, più che una coppa, raffigurava una specie di fontana a forma di coppa, che zampillava rivoli d’acqua tutt’attorno a sé.
Indovina, indovinello, pensò Rodrigo. Fortuna in amore…
«Predice una nuova impresa. Un nuovo lavoro. Anche una gravidanza, ma non credo sia questo il caso», e Rodrigo sentì il proprio sguardo allargarsi. Shaina e Adriano, pensò. Non avevano quasi rinunciato all’idea di mettere in cantiere un marmocchio, dopo che lei ne aveva persi due?
Non farti infinocchiare, si disse. Sono frasi generiche, buone per tutte le stagioni.
Eppure, qualcosa, dentro di lui, risuonò. E il donnone se ne accorse.
 
«L’Asso di Coppe è un nuovo inizio, che riguarda prettamente qualcosa che ci sta a cuore», gli spiegò. «Questa carta», aggiunse, mostrandogliela più da vicino, «sta a confermare l’Asso di Spade. Ci sarà da combattere, non farti illusioni. Ma tu mi sembri un tipo combattivo, no?»
Una volta, forse, pensò lui, mentre annuiva alla donna. Combattere aveva senso se c’era qualcosa in palio, qualcosa per cui valesse la pena smuovere le umane e divine cose. E, al momento, Rodrigo Diaz non vedeva nulla, all’orizzonte, per cui sputare sangue, se non la guida a cui stava lavorando.
Sorrise. Forse quella donna un po’ toccata lo stava incoraggiando, a modo suo. Che altro potevi aspettarti da una cartomante, se non un approccio fideistico ed esoterico? Sarebbe stato strano il contrario, no?, si disse. Veicolando a sua insaputa Aiolia.
 
«Diciamo di sì», rispose.
«O è sì, o è no», lo rimbeccò lei. E qualcosa vibrò dentro di lui. Perché Rodrigo avrebbe risposto alla stessa, identica maniera se qualcuno, dall’altra parte, non avesse preso una posizione netta. E si chiese che fine avesse fatto quell’approccio manicheo e indefesso. 
Nella pattumiera, rispose il suo buonsenso.
«Per certe cose, non esistono vie di mezzo, o scale di grigio», continuò Maman Louise. «O si è. O non si è.»
E Rodrigo si ritrovò a darle ragione.
«Vediamo un po’.» 
Il donnone proseguì con la lettura delle carte. Ne voltò un’altra manciata sul tavolo, le dispose secondo un preciso schema, chiaro solo a lei, e poi ci pensò su.
Rodrigo attese.
Che altro avrebbe potuto fare?
Rimetterti a lavorare, magari, si sentì suggerire dalla buona coscienza rediviva. La voce di Aiolos. 
Non era poi una cattiva idea. Così la signora, forse, avrebbe tolto il disturbo e lo avrebbe lasciato lavorare in pace. Ma, se l’avesse fatto in quel momento, il donnone sarebbe stato capace di piantare un casino mica da ridere.
Appena avrà finito con queste scemenze, si disse – si promise. E, nel malaugurato caso in cui avesse continuato a cianciare di assi, carte e tarocchi, si sarebbe ricordato di un appuntamento improrogabile, avrebbe messo tutto nello zaino e se ne sarebbe andato via. Magari per un paio di giorni. O forse tre.
E se nel frattempo Tiennot – Étienne. É. Ti. En. Ne. –  fosse capitolato e avesse fatto questo benedetto Plaisir d’Amour, tanto meglio.
Lui doveva ancora sbrigare un paio di formalità.
Quel salto al Quartier Latin, ad esempio.
La data della partenza si avvicinava. Isabelle glielo aveva ricordato quella stessa mattina. E lui non poteva ignorare oltre quella manciata di strade attorno alla Sorbona. Anzi. Vista la bella giornata, si sarebbe fatto coraggio, avrebbe pagato il conto (e girato la spesa a Shaina) e avrebbe attraversato la Senna.
 
Il donnone alzò la testa in quel preciso momento.
«Sette di denari. Il Matto. C’è uno spostamento che ti attende», vaticinò. Sì, il mio rientro a casa, pensò lui. «Un trasloco», precisò la voce un po’ roca della donna.
Rimase impassibile. La vedo dura. Ho il contratto d’affitto valido per altri tre anni, pensò.
Maman Louise gli indicò le ultime carte. La Torre. Il Giudizio. La Morte. L’Innamorato.
«La Torre indica un qualcosa di improvviso. Di inaspettato.» Pausa. «Hai presente una tegola che ti cade tra capo e collo? Ecco.»
Oh, che fortuna, pensò, lo sguardo fisso sulle carte, che non sembravano esattamente amichevoli. Specie la Morte, con quella falce che prometteva lo stesso trattamento riservato alle teste mozze sul terreno, e il ghigno del teschio che sbucava da sotto al cappuccio nero. Niente di personale, amico, sembrava dire quella Lama – ecco come si chiamano! Lame – ma Rodrigo non ne sembrava sollevato. Affatto.
«Il Giudizio rinforza il carattere inaspettato dell’evento. Una telefonata. Una mail. Una cosa del genere», aggiunse lei. «La Morte è una trasformazione di qualche tipo. Morte, sì. Non letterale, ma metaforica. Ma poi c’è la rinascita.»
«Garantito?», si sentì chiederle.
Lei ridacchiò. «Io mi preoccuperei più di questa carta», disse il donnone, prendendo l’Arcano dell’Innamorato e piazzandoglielo davanti agli occhi. «Ti aspetta una scelta. Una scelta fondamentale.»
Ho già scelto, pensò lui. Da domani non mi vedrete più. «Ho capito.»
«No, non hai capito.» Lo sguardo della donna era serio. Serissimo. Ma non aveva detto di non credere a queste cose? Prese un’altra carta e sorrise. «Il Carro. Trionfo assicurato.»
Mai nessuno che ti predice disgrazie, pensò Rodrigo. Sarebbero più credibili. «Splendido», commentò, con poca convinzione.
Maman Louise ridacchiò ancora.
«Me lo saprai dire», lo ammonì, riprendendo le carte, gettandole alla rinfusa nel suo borsone pieno di carabattole e alzandosi dal tavolo. «E adesso, se non ti spiace, vado a guastarmi le mie crêpe. Con permesso…»
E così dicendo si diresse verso il bancone, proprio mentre Coco usciva dal laboratorio con un piatto in mano. Parlottarono tra loro, il donnone si accomodò e la ragazza lasciò il bancone per dirigersi verso di lui.
 
«Sopravvissuto a Milou?», gli chiese.
«Diciamo di sì.»
Lei si strinse nelle spalle. «Prima o poi, sarebbe dovuto accadere», filosofeggiò, con uno stoicismo all’acqua di rose. «Milou fa una stesa gratuita a tutti i clienti fissi del Cafè. Anzi, è strano che non te l’abbia fatta prima.»
«Capisco», tagliò corto lui. Non aveva deciso di andare al Quartier Latin? Certo che sì. Meglio battere il ferro finché è caldo, diceva sua nonna, e Rodrigo aveva tutta l’intenzione di fare un salto laggiù durante il giorno. Quando la vista delle strade, del pavé e dei tetti blu stinto non gli avrebbe fatto troppo male. «Mi prepareresti il conto, per favore?»
«Certamente.» 
Lo disse, ma rimase lì, accanto al suo tavolo, ritta come un soldatino di piombo.
E adesso che c’è?, pensò lui. Le rivolse uno sguardo. Come a dirle: «E allora?». Ma lei si stava cercando le parole nelle tasche dei jeans, e lo stava facendo con molta, molta accuratezza.
«Senti, che fai stasera?»
Lui la fissò perplesso. «Prego?»
«Che fai stasera?», ripeté lei. Come se all’improvviso lui fosse diventato duro d’orecchi. O di comprendonio. O entrambe le cose assieme. «Ho bisogno di una serata libera. Per far snebbiare il cervello. E c’è un ristorante vegetariano che vorrei provare. E…»
Lui alzò una mano. Come a volersi difendere da quel fiume di parole sconnesse. «E io che cosa c’entro?», le chiese.
«Tu scrivi una guida per innamorati, no?» 
Lui annuì. 
«Ed esistono anche innamorati vegetariani. No?»
Lui annuì, ancora.
«Io ho bisogno di una serata libera. O impazzirò. Più di quanto non sia già pazza», chiarì lei. «Quindi, visto che non sono il tuo tipo, che ne diresti di andare a cena?»
Ma se io avessi altri piani?, si domandò lui. Sinceramente perplesso.
«Perché non ci vai con il tuo ragazzo?», chiese.
«Perché non ce l’ho, il ragazzo.»
«Le amiche, allora…»
Lei ridacchiò. «Le amiche? A ridosso di San Valentino?» Sbuffò. «Sarebbe più semplice uscire a cena con Stromae.»
«Capisco», le rispose. «Ma ho già visitato i ristoranti vegetariani e…»
«Non ci credo!», ribatté Coco. «Sei stato pure al Chez Tante Giselle
No. Quello gli mancava. Inutile mentire.
«No. Non ci sono andato», disse. «Dov’è?»
«Quinto Arrondissement», rispose lei. Secca e rapida come la lama della ghigliottina. «Hai presente rue du Dragon?»
Lui aggrottò le sopracciglia. 
«Hanno aperto un ristorante in rue du Dragon?», le chiese sbigottito.
«Sì. Te lo sto dicendo.»
«Quando?»
«Un paio di mesi fa. Prima di Natale, se non sbaglio.» 
«Ma dov’è il ristorante? A che altezza?»
«Civico 23», rispose Coco. «All’angolo, subito dopo il tabaccaio.»
«Ma lì c’è la macelleria kosher», protestò lui.
«C’era», specificò lei. «Il vecchio David è andato in pensione e la figlia, Giselle, ha deciso di aprire un ristorante. Vegetariano.»
«Ma veramente?!»
«Certo che sì», rispose lei. «E la cucina di Giselle è da urlo!»
 
Ma sai che forse non è poi una cattiva idea?, pensò. E poi lo disse: «Ma sai che forse non è poi una cattiva idea?».
«Evviva!» Saltellò sul posto, come una bambina a cui hanno promesso un giro sulla ruota panoramica. O sul cavallo bianco del Carosello. «Allora è andata!»
«Andata», disse lui.
«Prenoto io. Va bene alle sette?»
«Va benissimo», rispose.
«Ah, sei mio ospite.» Pausa. «Per farmi perdonare della tua faccia sull'account del Cafè Verse-Eau
No, non se ne parla, stava per dirle; al massimo, ognuno avrebbe pagato per sé. Ma lo sguardo di Coco non ammetteva repliche.
«Pago. Io», quasi sillabò lei. «Siamo nel XXI secolo. Una ragazza può offrire una cena ad un amico, no?»
E va bene, si disse Rodrigo. Avrebbero ripreso il discorso al momento di pagare il conto. O forse avrebbe dato retta a quella vocina subdola – quella di Aiolia – che gli sussurrava, con tono melodioso, che sì, era il caso che quella ragazzina si prendesse la responsabilità di qualcosa, una volta tanto. 
Così soffiò un: «Andata», sollevò le mani in segno di resa – momentanea – e aggiunse: «Ma adesso avrei davvero bisogno del conto.».
Lei annuì, la coda di cavallo svolazzò alle sue spalle, e, esclamando: «Arriva!», si diresse verso il bancone.
 
Rodrigo tirò un sospiro di sollievo.
Qui sono tutti fuori come balconi, pensò, iniziando a raccogliere le proprie cose e chiedendosi come avrebbe impegnato il pomeriggio. Non c’era quel bistrot proprio davanti il Musée d’Orsay? Quello che all’esterno sembrava un (bel) po’ male in arnese, ma all’interno era un piccolo gioiellino scappato dai romanzi di Maigret?
Controllò gli appunti.
Sì, c’era. Ma era attorno al Quai des Orfèvres. 
Pazienza. Avrebbe girato per Saint Germain, Rue du Bac e controllato i dintorni. E poi, solo quando sarebbe stato improrogabile, si sarebbe avvicinato al Quinto Arrondissement. Era un buon piano. 
E così fece.
 
Qualche ora più tardi, riflesso nello specchio appannato della chambre d'amis, Rodrigo stava vagliando con cura i suoi vestiti in cerca di cosa indossare. Sì, Coco non era il suo tipo – e forse non lo sarebbe stato neppure quando si credeva etero convinto: graziosa, simpatica e alla mano, ma troppo, troppo, troppo impulsiva. E cocciuta. Tuttavia, Rodrigo Diaz detestava presentarsi ad un appuntamento in maniera sciatta. Era sintomo di maleducazione. Gli piaceva scegliere cosa indossare. Anche se il suo guardaroba al momento gli consentiva delle opzioni ristrette – letteralmente e metaforicamente –, un asciugamano attorno ai fianchi e i capelli asciutti, cogitava su quale camicia indossare per la serata. Quella bianca? O forse sarebbe stato meglio il dolcevita nero?
Il dolcevita. Fa freddo, stasera, gli sussurrò il Buonsenso – con dignità di maiuscola. La dignità di Aiolos – e lui obbedì.
Dolcevita, giacca di velluto rosso, jeans scuri, dopobarba, giaccone pesante, sciarpa, telefono, chiavi e finalmente via in strada, uscendo su rue Pigalle, mentre ciascuno tornava alla propria abitazione e ai propri affanni.
In quella, gli arrivò un messaggio di Coco.
Lei gli aveva dato il proprio numero, scrivendolo sul retro dello scontrino fiscale. 
«Nel caso dovesse succedere un qualche imprevisto», gli aveva spiegato lei, come voler sgombrare il campo da qualsivoglia fraintendimento, e lui l’aveva reputata un’idea sensata. «Aggiungimi su Whatsapp», lo aveva esortato, e lui aveva obbedito.
 
Ciao,
Giselle mi ha confermato il tavolo per le sette e trenta.
Coco
 
Erano le sei e dieci.
Pazienza. Avrebbe fatto volentieri due passi. E forse c’era anche tempo per un salto alla Shakespeare and Company
Perché no?, si disse, alzandosi il bavero del giaccone e dirigendosi verso la Senna, giù per strade, stradine e vicoletti, fino a sbucare a Saint-Germain-des-Prés, consentendo ai suoi piedi di guidarlo senza una meta precisa.
Lasciò che Parigi e la sua allure lo attraversassero, senza opporre resistenza. Con dolcezza. E alla fine, si ritrovò davanti alla ex macelleria kosher di David.
L’insegna era cambiata, i colori scelti viravano verso il verde prato, il giallo Napoli e il bianco, e c’era un discreto numero di persone davanti al ristorante. Ma di Coco nessuna traccia.
La busta di Shakespeare and Company in una mano e l’aria perplessa, Rodrigo controllò il display del proprio telefono. Niente. Ed erano le sette e venticinque.
Aspetto altri dieci minuti. Poi confermo il tavolo e torno fuori, si disse, quando una voce – una voce nota ed una tantum non nella sua zucca – lo apostrofò: «E tu che ci fai qui?». 
Rodrigo si voltò.
Tiennot – Étienne! Étienne! Étienne! Tiens-le bien! – lo stava osservando dentro al suo cappotto blu scuro, l’aria sinceramente curiosa ed anche un po’ incazzata di chi si ritrova invischiato in un appuntamento al buio.
Io la strozzo, pensò Rodrigo. Io. La. Strozzo. 


Lo giuro sul canguro. Sui ceci. E pure sui cocci. Risponderò a tutte le recensioni e i messaggi entro la settimana.
Mi scuso del ritardo apocalittico, ma la vita ha ingranato il turbo, e io posso solo aggrapparmi al cruscotto, nella speranza che non deragli
once again come le piace tanto fare. Ma tanto, tanto, tanto, TANTO.
Arrivo. Portate pazienza.


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Capitolo 10
*** 10. ***


10.


 

Étienne osservava in silenzio l’Hemingway in salsa aioli con la stessa attitudine di un drago che si è risvegliato nel bel mezzo di un lungo, lunghissimo pisolino, ed ha trovato un avventuriero scriteriato a zampettare tra i suoi luccicanti tesssori.
Sbuffi di fumo si levavano dalle sue labbra, la sciarpa allentata e l’espressione severa. E lo scriteriato di cui sopra taceva, la stessa espressione di un pesce appena tirato su dalle reti, che si chiede dove sia finita tutta l’acqua in cui nuotava fino a pochi istanti prima.
Taceva e lo fissava, come a cercarsi le parole nelle tasche dei calzoni. Così Tiennot decise che ne aveva abbastanza di tutta quella sciarada. Inarcando un sopracciglio e tirando fuori il peggiore dei suoi sorrisi, fece un passo avanti e disse:«Fammi indovinare…».
«Non sprecare energie», ribatté l’Hemingway in salsa aioli. Più acido di quanto Tiennot si sarebbe aspettato.
Un altro sbuffo di fiato, stizzito stavolta, ed Étienne scosse la testa. 
  Non occorreva la sfera di cristallo per capire a chi si dovesse quell’incontro imprevisto. A Coralie. Sempre e solo a Coralie. La quale, da quando la sua ultima storia d’amore era finita alle ortiche, si era buttata anima e corpo nel ruolo di un improvvisato Cupido. Un Cupido alquanto maldestro, secondo il parere di Étienne, che, a dispetto delle buone intenzioni di sua sorella e delle proprie ortiche da coltivare nel proprio giardino, non voleva saperne di ricominciare con appuntamenti, regali e festività comandate. Si era sempre gettato a capofitto nel lavoro, lui; e, a giudicare dai risultati catastrofici, anche Coco avrebbe dovuto farsene una ragione, ed appendere al chiodo arco, frecce, ali e parrucca bionda. 
Anzi, glieli avrebbe appesi lui, motu proprio, quella sera stessa, ché quello scherzo era stato la proverbiale goccia che aveva fatto traboccare l’ancor più proverbiale vaso. 
Tentare di rabbonirlo per la faccenda del Plaisir d’Amour con un appuntamento al buio…
Coco legge un po’ troppe stronzate, ultimamente, pensò Étienne, fissando la bocca semidischiusa dell’Hemingway in salsa aioli.
Non è nemmeno il mio tipo!
L’ennesima vittima del delirio di onnipotenza di Coco, e della sua strampalata Agenzia per Cuori Solitari, se ne stava in mezzo alla strada con l’aria di un povero diavolo finito in una tagliola.
Lo si capiva all’istante, e Tiennot era sempre stato bravo a prendere le misure alle persone. Tutto, in quel tizio, stava a significare una cosa sola, anzi due.

La prima: stupore genuino per essersi trovato di fronte qualcuno del tutto inaspettato.
La seconda: di essersi trovato di fronte proprio lui.
Non si è nemmeno resa conto che gli sto sulle palle, pensò. Perché Étienne era pronto a giocarsi anche la camicia che quel bel tomo, in realtà, stesse aspettando Coco.
Era ora di mettere fine a quella farsa e tornare a casa. Spostò il peso del corpo sulla gamba sinistra e si cercò in fondo alla gola il tono più cordiale e conciliante del proprio limitato repertorio.
«Tranquillo, stavolta una bella strigliata non gliela toglie nessuno.»
E no, non gli era uscito un tono di voce né conciliante, né amichevole. Anzi.
Pazienza. Tanto gli sto sulle palle.
Girò sui tacchi, pronto ad iniziare la marcia alla volta della strigliata coi controfiocchi, quando l’altro scattò.
Colmò la distanza tra di loro e gli posò una mano su una spalla.
«Aspetta.»

  Étienne guardò quelle cinque dita come se fossero un’entità aliena. Un tentacolo extra-extra large. O un’appendice spuntata da una qualche creatura che la mente fatica a comprendere. Poi spostò gli occhi sull’Hemingway in salsa aioli - come diamine si chiamava? Raniero? Ramiro? Rolando? -, come a dirgli - a intimargli - di parlare.

«Io avevo appuntamento con tua sorella. Mi ha consigliato lei di provare questo posto. E, per non farmi cenare da solo, si è offerta di accompagnarmi.»
«Ma davvero?», e stavolta il tono di Étienne dovette uscirgli più caustico del previsto, perché l’altro, forse punto sul vivo, non lasciò la presa e serrò la mascella.
«Sì. Davvero.»
In quel momento, un doppio trillo avvisò entrambi di una notifica in arrivo.
Controllarono i propri smartphone.
Si mostrarono i display.

  Scusami tanto, ma ho avuto un imprevisto!
Mi sono presa la libertà di mandare un’altra persona al mio posto, così non resterai da solo!

Buona serata
Coco xxx


  «Io la strozzo…»
«Il fratricidio costa caro. Vent’anni almeno, con tutte le attenuanti e buona condotta», ribatté l’altro, liberandogli la spalla. «Tua sorella ci ha fatto uno scherzo da prete. Però, visto che siamo tutti e due qui, e visto che il posto sembra piacevole…»
Mi stai invitando a cena?, pensò Tiennot. E poi lo disse: «Mi stai invitando a cena?».
 «Tua sorella ti ha invitato a cena», precisò l’altro. «E ha invitato pure me. Io sto solo suggerendo di non buttare alle ortiche la serata.»  
O forse è già andata in malora?, diceva il suo viso, con una punta di rammarico.
Quindi aggiunse: «Poi, se ti sto così antipatico da non potermi soffrire al di fuori del tuo Cafè…», e fece per voltarsi.
«Non ho mai detto questo», precisò Tiennot. 
«Davvero? Perché, scusami se te lo dico, ma il linguaggio del tuo corpo dice tutt’altro», ribatté l’altro. «E va bene. Va benissimo. Non ci sono problemi…»
«Non mi sei antipatico», ripeté Tiennot, chiedendosi perché stesse insistendo tanto. «Detesto essere tirato in ballo.»   
«Lo capisco. Non piace neppure a me. Ma è una bella serata, il ristorante sembra interessante…» Rodolfo - Ramiro? Raniero? Rolando? - prese fiato e assestò la stoccata finale: «e se la cucina non fosse buona, tu non saresti qui.».
Tiennot sgranò gli occhi e un sorriso, un accenno appena.  
«Touché. Lo ammetto. Sono qui per la cucina.»
«Perfetto», commentò l’Hemingway in salsa aioli.  «Io entro. Tu ti aggreghi?»
Tiennot lo squadrò da cima a fondo, come a volergli prendere le misure per la bara, poi disse: «D’accordo. Ma mettiamo in chiaro un paio di cose.».
L’altro annuì.
«Primo, non ricordo il tuo nome. E tu capisci che…» 
Ramiro Raniero Rolando Rodolfo rispose: «Rodrigo», porgendogli la mano. «Tu sei Étienne. E adesso che abbiamo fatto le presentazioni…»
«Secondo, la cena la pago io.»

E con queste parole lo driblò, meglio di Trezeguet, e si diresse a spron battuto verso la porta, lasciando Rodrigo in mezzo alla frase e a Rue du Dragon. Fu questione di un attimo, poi sentì la busta frusciare e il suo passo seguirlo sul marciapiede. Entrarono, si liberarono di sciarpe e cappotti al guardaroba, e poi si diressero al podio del maître. Che non era un vero e proprio podio, ma un tavolo dal piano di marmo verde, dove i camerieri attendevano gli ospiti con un sorriso rilassato e l’aria serena.
«Arnoul, per due», disse Tiennot ad un ragazzetto allampanato, mentre Rodrigo si guardava attorno.   
Pareti bianchissime, rilievi in verde prato e tovaglie giallo Napoli a coprire i tavoli. Mazzi di erbe aromatiche essiccate alle pareti — lavanda, santoreggia, salvia —, musica jazz in sottofondo e un chiacchiericcio discreto degli avventori. Sembrava piacergli. Tiennot ne fu contento.
 «Certamente», rispose il cameriere che li aveva accolti, l’aria sparuta di chi è al primo giorno di lavoro.
 «Lascia, Pierre. Ci penso io.»

  Dalla scala che portava alle cantine — e ai bagni. A Parigi i bagni si trovano, due volte su tre, nel seminterrato, si rammentò Rodrigo — era apparso un ragazzo. Alto, massiccio, mascella importante e forte accento inglese, si fece avanti e prese dalle mani di Pierre il menù. 
 «Come vuoi, Alistair», mormorò Pierre, facendo un passo indietro.
Rodrigo non se ne stupì. Questo Alistair aveva una presenza di scena impressionante. Capelli biondo grano e sguardo truce, era il classico belloccio che avrebbe fatto la sua porca figura in una palestra come personal trainer, o come istruttore dei Marines. Sentendosi un po’ come Palla di Lardo, Rodrigo si chiese chi fosse, per Tiennot — Étienne —, quel tizio vestito da pinguino, i cui modi compiti stridevano con l’aspetto da metallaro in vacanza. 
«Chi non muore si rivede», l’apostrofò severo. «Quando Coco ha prenotato, ho pensato mi stesse giocando uno scherzo dei suoi…»
No, lo scherzo da prete lo ha giocato a noi, pensò Rodrigo, osservando quella montagna bionda di muscoli posare una bottiglia sul podio del maître>.
«E invece sono qui. In carne e ossa», replicò Tiennot.
«Quale carne?» replicò Alistair. «Sei sempre pelle e ossa, tu…»
Rifilò a Pierre la bottiglia e gli abbaiò: «Tavolo Quattro. E vedi di non fare casini.».
Pierre borbottò qualcosa, si diresse nella sala principale ed uscì di scena — e da questa storia — in punta di piedi. 

Alistair fissava ora l’uno ora l’altro come se stesse di fronte ad un bizzarro esperimento scientifico. Un tasso alle prese con la sua preda, pensò Tiennot. E, sapendo che Alistair, al pari della graziosa bestiola, non avrebbe mollato la presa sino a quando non avesse sentito l’osso scricchiolare sotto ai denti, si affrettò a dire: «Lui è un amico.».
Pentendosene l’istante successivo.
Gli stava dando una giustificazione. Una giustificazione non richiesta. E cos’è che diceva sempre sua madre?
Excusatio non petita, accusatio manifesta.
Alistair ghignò. Come a dire: «Sì, certo. Come no? E io sono un triciclo», ma ebbe il buongusto di non infierire.
«Christiane non c’è?»
Alistair roteò gli occhi al cielo. Sbuffò. E poi rispose:  «No, non c’è. Indovina perché? Perché il suo fratellino ha 36.9 di febbre», e così dicendo li introdusse nella sala principale.

  La sala era più ampia di quanto avesse ipotizzato Rodrigo. Se ricordava con esattezza la macelleria kosher del vecchio David, si trattava di un budello con la cassa all’ingresso — nemmeno quell’arpia di Danielle, sua moglie, avesse potuto scoraggiare eventuali ladruncoli dal fuggire con le salsicce sottobraccio a mo’ di baguette —; il bancone nel senso della lunghezza, e una parete a specchio che, invece di far sembrare il locale più grande, aveva avuto il tragico esito di renderlo ancora più soffocante.
L’entrata del ristorante e il guardaroba erano quasi il doppio della vecchia macelleria, mentre la sala principale ospitava una trentina di tavoli. 
Dove sono le cucine?, si chiese, mentre seguiva la schiena di Tiennot.
Alistair mostrò loro un tavolo appartato, accanto ad una finestra che dava sulla corte interna.
«Coco si è raccomandata di avere un po’ di privacy», spiegò Alistair, un sorrisetto malcelato sulle labbra.  «Va bene, monsieur
 «Ah sì?», ribatté Tiennot, accomodandosi.
«Sì», ghignò Alistair. Poi si strinse nelle spalle e aggiunse: «Almeno potrete parlare come persone civili. Stasera abbiamo una festa. Cinquant’anni di matrimonio. Faranno un po’ di casino, ma alle undici se ne andranno tutti a nanna.».
Alistair fissò Rodrigo dritto nelle palle degli occhi.  «Alistair», disse, protendendo la mano. Rodrigo si affrettò a stringergliela e presentarsi.  «Certo che ad aspettare te…», aggiunse, all’indirizzo di Tiennot.  
Posò i menù sul tavolo e aggiunse, elencandoli con le dita:  «Oggi hors menu abbiamo l’insalata di patate alla bavarese. Il gratin Dauphinois. I fagioli >à la lyonnaise… E la zuppa di cipolle! Date un’occhiata. Intanto porto l’acqua», e sparì, veloce come il vento e leggero come una piuma. 

 «C’è qualcuno che non conosci?», gli domandò Rodrigo, sinceramente stupito.
Tiennot lo fissò, sollevando un sopracciglio.  «Il mondo della cucina è piccolo», rispose. 
«Già…»
«La sua ragazza è amica di mia sorella», precisò Tiennot. «Siamo praticamente cresciuti assieme.»
«Capisco.»

Rimasero in silenzio a controllare i menù.
C’erano poche voci, tre o quattro varianti per portata, ma erano tutte pietanze stagionali.
Un altro punto a favore per Giselle, pensò Rodrigo, stornando lo sguardo e osservando la sala. Sì, era decisamente più grande di come se la ricordava. Ed era prontissimo a scommettere che il soffitto era più basso. Potenza dei colori, certo. Avendo scelto tinte chiare e luminose, l’ambiente ne risultava ingrandito, tuttavia…

  «Siamo pronti? Vi serve qualche altro minuto?»
L’approccio di Alistair, leggero come una farfalla a dispetto della mole poderosa, era senza dubbio alla mano. Rodrigo si chiese cosa avessero mai in comune due tipi come lui e Tiennot, ma poi si disse che non erano fatti suoi. 
«Io ci sono», rispose Tiennot. E poi lo guardò.
«Io no», rispose Rodrigo con franchezza.
Alistair depose sul tavolo la carta dei vini e disse: «I’ll be back.», con un accento tedesco — austriaco, gli suggerì la voce del buonsenso — e si defilò, lasciandoli da soli un’altra volta.
«Questo menù è intrigante», disse Rodrigo, più per colmare il silenzio che per una reale necessità. Tiennot annuì. «Puoi consigliarmi qualcosa?»
«Avresti dovuto chiederlo ad Alistair», rispose Tiennot. E qualcosa, nello sguardo di Rodrigo, gli disse che, ancora una volta, il suo tono assomigliava più alla lama della ghigliottina che ad un’amichevole voce umana. 
«Di solito, evito di chiedere queste cose ai camerieri», replicò Rodrigo, tornando a scorrere il menù. «Sono, come dire? Di parte, ecco. Io volevo avere il punto di vista di un altro avventore.»
«Certo. Per la tua guida…»
«Nossignore», replicò Rodrigo, un pizzico di saccenza nella voce. «Per cenare come Dio comanda. La guida è il passo successivo.»
«E non si corre il rischio di fornire informazioni errate al lettore?», domandò Tiennot. «Acqua?»
«Sì, grazie», replicò Rodrigo. Poi, come se si fosse rammentato all’improvviso di qualcosa di capitale, prese il tovagliolo e se lo distese sulle ginocchia. «Ecco fatto. Dicevamo?»
«Le informazioni errate», l’imbeccò Tiennot, posando la bottiglia dell’acqua sul tavolo e spiegando a sua volta il tovagliolo sulle ginocchia.
«No, non credo.» Rodrigo bevve un sorso d’acqua, poi aggiunse: «Un piatto sbagliato può capitare. Ma è sempre l’eccezione che conferma la regola. Mi spiego meglio. Se un soufflè non riesce, possono esserci varie ragioni di mezzo. Ma è il solo soufflè.»
Tiennot annuì.
«Un caso isolato capita. Sarà successo anche a te che un giorno un dato tipo di dolce proprio non ne volesse sapere di venire bene, no?»
«Sì», ammise Tiennot. «Succede. E spesso per ragioni non dipendenti da chi sta in cucina.»
«Esatto», commentò Rodrigo. «Ma quando la cucina di un posto fa schifo, tutti i piatti partecipano della stessa, disgraziata sventura.»
Pausa drammatica ad effetto.
«Fanno tutti schifo. In un modo, o nell’altro. Senza appello.»
Tiennot ci pensò su. «Sì, hai ragione», disse. «In certe cucine c’è sempre qualcosa che manca, o che avanza. Come fosse un leitmotiv.»
«Verissimo», aggiunse Rodrigo. «Tempo fa c’era un posto, qui nel V arrondissement, che metteva una quantità di sale smodata in tutte le pietanze.»
«Stai parlando di Chez Loulou?», domandò Tiennot. E poi, senza attendere risposta, aggiunse: «Buon Dio, noi ci finivamo quando dovevamo pagare pegno!».
«Ci andavate giù pesante!»
Tiennot si strinse nelle spalle. «Eravamo adolescenti. E decisamente scriteriati», rispose. «Quel posto aveva una patina di unto che ti si attaccava all’anima non appena ti avvicinavi alla porta d’ingresso. E non c’era verso di levartelo di dosso!»
«Non me ne parlare. Avremo scaricato un intero scaldabagno, ma niente. Unti e bisunti eravamo e unti e bisunti restavamo.» Ridacchiò. «A livello molecolare.»
«Quindi, hai vissuto a Parigi per qualche tempo?»

  Quella semplice quanto innocua domanda generò un velo sul viso di Rodrigo.
Si incupì, con la stessa velocità di una nuvola che attraversa il cielo in un pomeriggio estivo. La certezza di aver toccato un nervo scoperto, Tiennot si cercò nelle tasche le parole per scusarsi, quando arrivò Alistair.
«Non ditemi che avete ancora bisogno di tempo, perché non ci credo», disse, il tablet tra le mani, pronto ad entrare in azione.
«Sono pronto», disse Rodrigo con un tono di voce più basso del normale. «Zuppa di cipolle, gratin Dauphinois e insalata di patate.»
«Perfetto. E per te, old chap
«Lo stesso.»
«Splendido», commentò Alistair spuntando le medesime voci sul tablet. «Da bere?»
Tiennot guardò il proprio commensale. Il quale, senza sollevare lo sguardo dal proprio piatto, rispose: «Fai tu».
Io lo strozzo. E poi strozzo pure Coco.
>Diede una scorsa veloce alla carta dei vini e poi, dopo un veloce conciliabolo con Alistair — «No, quello no. Parlo da amico» —, optò per un bianco secco.
Rimasti soli, il silenzio.

Ai tavoli accanto, i commensali chiacchieravano a voce bassa, mangiavano, interagivano. La tavolata per i cinquant’anni di matrimonio — sei tavoli da sei, età media ottant’anni, con una stima al ribasso — faceva chiasso quanto una scolaresca in gita. Gli unici due in rigoroso e religioso silenzio erano gli occupanti del tavolo più appartato.
  «Scusami. Vado a lavarmi le mani», disse all’improvviso Rodrigo. Si alzò e senza attendere replica, si avventurò alla ricerca della toilette.
Un millisecondo dopo, si manifestò Alistair.
«Tutto ok?», chiese, armeggiando con la bottiglia di vino. «Gli è morto il gatto all’improvviso?»
«Non lo so.» Tiennot si strinse nelle spalle. «Devo aver toccato un tasto dolente a mia insaputa.»
«Hai provato a chiedergli scusa?»
«E per cosa?», domandò Tiennot. «Nemmeno so perchési è rabbuiato!»
Alistair infilò il gancio del tire-bouchonnel sughero. «Così? All’improvviso?»
«Sì. Stavamo parlando di Chez Loulou e per educazione gli ho chiesto dei suoi trascorsi a Parigi.»
«Io non sono un campione di diplomazia», disse Alistair, e, con un’altra torsione, liberò con veemenza la bottiglia dal tappo, «ma credo sia questo, il nervo scoperto.».
«Sì, ma è lui che ha iniziato a parlare dei fatti suoi qui a Parigi, mica io!», precisò Tiennot.
«Forse non si aspettava che tu facessi domande al riguardo», ribatté Alistair versando il vino nei bicchieri. «Lo sai come si dice, no?»
«No, non lo so come si dice…»
Alistair lo fissò serio in viso.
Nobody expects the Spanish Inquisition
E poi rise di cuore, portandosi via il tappo ancora infilzato nel tire-bouchon e lasciandolo da solo a solo con una gaffe da sistemare.

  In che razza di ginepraio mi sono andato a cacciare?, si chiese Tiennot.
Ma, soprattutto, perché aveva accettato l’invito di quel tizio?
Per spirito di contraddizione, sentì dire alla propria coscienza, con la vocetta petulante che Coco tirava fuori quando sapeva di avere ragione. Sbuffò, tra sé e sé. Non gli stava sulle palle. Ma non gli stava nemmeno simpatico. C’era qualcosa, in quel tizio — Rodrigo. Ro-Dri-Go! — che girava a vuoto. E lui, che era sempre stato bravo a dare un nome alle cose, non sapeva catalogare cosa fosse a girare storto. Tutta la storia della guida su Parigi gli era sembrata una colossale bugia sin dall’inizio. Sì, forse era lì per scrivere questa benedetta guida. Ma Tiennot non capiva perché si fosse piazzato proprio al Cafè Verse-Eau. Come se non esistessero altre caffetterie, bistrot e compagnia cantante in tutta Parigi. E no, non era perché i suoi croissant erano i migliori sulla piazza, come sosteneva Coco. C’era qualcos’altro, a giustificare le azioni di quel tizio. In un primo momento, aveva pensato volesse fare lo scemo con sua sorella. E invece, no. Invece aveva continuato a venire al Verse-Eau anche dopo che lui aveva messo in chiaro un paio di cosette.
Era questo, a mandarlo in confusione. Questo, e il fatto che quel tizio continuasse ad inciampare nella sua vita come se niente fosse. Come in una di quelle commediole americane piene zeppe di buoni sentimenti e storie d’amore ad un tanto al chilo…
Ma questa è la vita vera<, pensò Tiennot, vedendo l’altro tornare al tavolo.
Rodrigo si sedette, spiegò nuovamente il tovagliolo sulle proprie ginocchia e Tiennot fece per dire qualcosa — qualunque cosa  come «Vino?», oppure «Scusami, non volevo essere indelicato», o qualsiasi altra frase buona per rompere il ghiaccio —, quando Giselle apparve accanto a loro, con due piatti tra le mani.
  «Buonasera», disse, spumeggiante nel suo vestito rosso fiamma, una cascata di riccioli neri acconciati con cura. «Questo è un piccolo antipasto di benvenuto da parte della casa.»
Posò i piatti e, sorridendo, spiegò: «Ricciolo di ricotta condito con pomodorini confit e una spolverata di capperi fritti su pane all’aria». Sembrava davvero invitante. «Si mangia con le mani», aggiunse, facendo l’occhiolino a Rodrigo.
«Claro», rispose Rodrigo, con un bel sorriso. Poi aggiunse: «Ricordavo che la macelleria di David fosse più piccola…».
«Oh, sì», disse Giselle. «La macelleria era un terzo del locale. Il resto era la merceria di Madame Fouquet»
«Ah, ecco», commentò Rodrigo. «Mi sembrava troppo grande.»
Giselle lo fissò, come a voler far riemergere il volto di quel ragazzo spagnolo dalla propria memoria. Non ci riuscì. «Beh, sai com’è… Madame Fouquet si sentiva sola. Il quartiere sta cambiando e lei era stanca.»
«Peccato», sospirò Rodrigo. «Quella donna aveva rocchetti di tutti i colori possibili e immaginabili.»
«Per non parlare dei bottoni…», sospirò Giselle.
«Per non parlare dei bottoni», le fece eco Rodrigo. «Una volta mi ha salvato. Mi si era rotto un bottone della camicia. Di madreperla. Vera madreperla. Ho girato tutta Parigi per trovarlo, ma nessuno ce l’aveva.»
«Nessuno, tranne lei», rise Giselle. «Beh, è anche giusto che si goda la pensione in Provenza, no? Buon appetito.»
E si ritirò, lasciandoli di nuovo soli.

  Quindi hai abitato a Parigi?, avrebbe voluto chiedergli Tiennot. E perché ne parli con tutti, tranne che con me?
Fece per aprire la bocca quando l’altro lo prevenne.
«Ho abitato qui, in rue du Dragon. Per un anno e mezzo. Con il mio compagno», spiegò Rodrigo. «Il mio ex compagno», e dal tono con cui aveva pronunciato l’ultima frase, Tiennot capì che la storia non era finita nel migliore dei modi. Anzi. Rodrigo era quello che ne era uscito peggio, e un moto di stizza gli fece irrigidire i polsi.
«Mi spiace», disse. Come da copione. «Non volevo…»
«No, no», Rodrigo scosse il capo. «Nessun problema. In fondo, se sono qui è anche per scacciare certi fantasmi e voltare pagina, una volta per tutte.»
Tiennot annuì. Lasciò che l’altro parlasse, coi suoi tempi. E così Rodrigo parlò. Tra un boccone e l’altro, gli raccontò la sua storia. E Tiennot venne a sapere dell’appartamento con abbaino su rue du Dragon. Dell’Erasmus. Di Aiolia. Dell’idea di scrivere una serie di guide sulle principali mete turistiche.
«Gli innamorati mangiano, no?»
«Prima o poi…», convenne Tiennot.
«E tu?», gli domandò a bruciapelo Rodrigo. 
Forse aveva bevuto troppo. Forse avevano bevuto tutti e due troppo. Ma il vino allenta remore e freni, no? E così Tiennot si strinse nelle spalle e decise di raccontare un po’ di sé a quel tizio strampalato che si era accampato nel suo locale da due settimane.
«Io ho ereditato il locale e il laboratorio da mio padre», spiegò. «Si chiamava Rémy, e il Verse-Eau era il suo vanto. Io avrei voluto andarmene negli Stati Uniti, per un master e poi, chissà, magari aprire un posto tutto mio. E invece…»
Silenzio. Si era avventurato in un territorio tanto difficile quanto privato. Ormai sono in ballo, pensò Tiennot. E aggiunse:«Rémy è morto in un bel giorno di primavera. Così. Un infarto e tanti saluti.».
«Oddio. Mi dispiace», commentò Rodrigo, lo sguardo improvvisamente attento. «Non avevo idea…»
Tiennot fece un gesto, come a dire: «Fa’ niente». E poi lo disse: «Fa’ niente.»
Rodrigo tacque per qualche minuto, come a cercare le parole giuste da dire. Ma le parole sono dispettose. Non vengono quando ne abbiamo bisogno, ma quando lo dicono loro. Sempre se vogliono, ben inteso.

Così, mentre entrambi tacevano, ognuno perso dietro ai propri pensieri, Alistair riapparve. E fu in quel momento che, ciascuno per sé, si accorsero di essere rimasti gli unici due clienti del locale. Gli altri tavoli si erano via via svuotati, i commensali scivolati fuori dalle doppie porte del ristorante, compresi gli arzilli nonnetti alla festa per le nozze d’oro. Chissà quante ne avevano viste, quei due sposi attempati. Chissà come avevano fatto ad addrizzare, ogni volta, la barra del timone.
«Come è andata?», chiese, pompando al massimo il proprio accento.
«Benissimo», si affrettò a dire Tiennot. Rodrigo annuì. Distrattamente. «Era tutto squisito, ma si è fatto tardi, e io domani devo alzarmi presto…»
Alistair ghignò. «Certamente…», annuì, un sorriso da faina ad incurvargli le labbra. «Vi porto subito il conto», e sparì via, lasciandoli soli.
«Si è fatto tardi», disse Rodrigo, dando uno sguardo al display del proprio smartphone. «Peccato avrei voluto assaggiare il dolce.»
«Ah, no», disse Tiennot. «Il dolce lo offro io», aggiunse.
«Sicuro?», chiese Rodrigo. «Non ti devi alzare presto?»
«Sì», rispose Tiennot. «Ma vorrei usarti come cavia», e ridacchiò. 
«Come cavia?»
«Sì», disse Tiennot. «Ho una cosa che vorrei farti assaggiare.»
«Una novità?»
«In un certo senso…»
Rodrigo ci pensò su un istante, poi disse:«D’accordo. Ma solo se rientriamo camminando. Altrimenti non credo che qui dentro possa entrarci nemmeno uno spillo», aggiunse, portandosi una mano allo stomaco.
«Andata», disse Tiennot. «Ho bisogno anche io di sgranchirmi un po’ le gambe.»


 

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Capitolo 11
*** 11. ***


11.


 

Le notti di febbraio sapevano essere rigide, a Parigi.
Un vento gelido e dispettoso si andava insinuando tra le stradine strette del V Arrondissement, giocando con gli orli dei cappotti e i baveri testardamente alzati sul collo. Avrei dovuto portarmi un cappello, pensò Rodrigo; ma poi l’aria della sera gli snebbiò in parte il cervello. Sì, aveva bevuto troppo. Forse era per questo che si era sbottonato così tanto con Tiennot. Sì, era colpa del vino. Del vino e basta.
Quattro passi mi faranno bene, si disse, annodandosi la sciarpa attorno al bavero rialzato. Così avrebbe smaltito anche l’alcool. E sarebbe stato lucido per la sorpresa di cui aveva parlato Tiennot.
Anche non dovesse essere il Plaisir d’Amour, avrò qualcosa da mettere nella guida, pensò, la busta di Shakespeare and Co. stretta nella mano destra.
«Grazie per la cena.» 
L’alito nell’aria notturna si levava come fumo dalle fauci di un drago.
Tiennot l’aveva dribblato con un tagliafuori da manuale e aveva porto la propria carta di credito a Giselle prima che lui potesse anche solo manifestare l’intenzione di avvicinarsi alla cassa e pagare il conto.
«Mi pare il minimo», disse Tiennot, producendo altrettanti sbuffi di fumo. «Chi ci ha giocato questo scherzo da prete è mia sorella, dopotutto.»
«Sì, ma la serata non è andata poi così male, no?», replicò Rodrigo.
«No, hai ragione», convenne Tiennot. «Vorrà dire che la prossima volta offrirai tu. Andiamo. Stasera si gela.»
 
Sapendo che non ci sarebbe stata una prossima volta, Rodrigo annuì e seguì Tiennot per le stradine di Parigi. L’altro ebbe la delicatezza di abbandonare Rue du Dragon quasi subito, e Rodrigo gliene fu grato. Raggiunsero la Senna, che scorreva per i fatti suoi, indifferente a quei due uomini che avanzavano sul pavé a passo malfermo.
Attraversarono Pont des Arts, la Sainte Chapelle alla loro sinistra e il Louvre di fronte, che sonnecchiava, placido e incurante degli sparuti turisti ancora a zonzo nelle sue vicinanze.
Ci sarà abituato, pensò Rodrigo mentre scivolavano silenziosi come gatti per un dedalo di strade e stradine e vicoletti — alcuni familiari, altri piacevoli scoperte — puntando verso nord. Tiennot guidava, svoltando ora a destra, ora a sinistra, come seguendo un proprio navigatore personale. Fu solo quando sbucarono in Boulevard de Clichy che il loro percorso apparve chiaro. Avevano fatto un bel giro. Un bel giro largo. Segno che anche Tiennot aveva bisogno di smaltire quanto ingurgitato a cena. Però Rodrigo se ne era avveduto appena. Camminando in silenzio, la busta di Shakespeare and Co. in battere e levare contro la sua gamba destra, si era goduto quella passeggiata a tarda sera. 
Adesso mancava la parte più tosta del percorso: la scalata alla Butte.
Ma, come ebbe modo di scoprire lui stesso, non gli pesò. Sarà stata l’abitudine, o il fatto che il suo stomaco reclamasse un altro po’ di moto — un’altra mezz'ora almeno —,  Rodrigo seguì Tiennot senza dar segno di affaticamento. Da spento, il Carousel des Abesses assomigliava più alla reliquia di un mondo passato, abbandonato di punto in bianco come un castello di sabbia in riva al mare alla fine della giornata.
Le insegne del Gökotta e del Susumella erano ancora accese.
 
«No. Di qua», disse Tiennot, superando la piazza e dirigendosi oltre il Carousel. «Entriamo dal laboratorio.»
Scivolarono nel vicolo alle spalle del Verse-Eau, Tiennot estrasse un mazzo di chiavi dalla tasca del cappotto, fece scattare la serratura ed entrarono. Disattivò l’antifurto ed accese la luce. Rodrigo si schermò gli occhi con la manica del cappotto.
«Entra», lo invitò Tiennot. E lui obbedì, chiudendosi la porta alle spalle.
L’altro, nel frattempo, si era liberato di sciarpa, cappotto e guanti, abbandonando il tutto su un attaccapanni. Fece scattare altri interruttori, stese un tovagliolo sul piano di lavoro immacolato e si voltò.
«Posa pure tutto lì», disse, indicandogli l’attaccapanni. 
Rodrigo obbedì. Quindi lo raggiunse al tavolo di lavoro. Tiennot aveva apparecchiato per due: due piattini, due bicchieri per l’acqua, due forchette da dessert. 
«Spero che la camminata ti abbia aiutato a digerire», disse, aprendo e chiudendo l’enorme frigorifero industriale che troneggiava in un angolo.
In realtà, no, avrebbe voluto rispondere Rodrigo, per decenza più che per amore di verità. La passeggiata non aveva cancellato con un colpo di spugna la cena sontuosa, ma gli aveva acceso una scintilla di appetito. Non proprio fame, no; era più voglia di qualcosa di goloso. E Tiennot sembrava avere tutte le intenzioni di colmare quel bisogno. 
Così si sentì replicare: «In effetti, adesso che mi ci fai pensare, ho un certo languorino», e prima che potesse dire altro, vide Tiennot sorridere. Un sorriso bello, aperto, uno di quelli che si tirano fuori solo all’occorrenza. Quando non ti vede nessuno. Quando è più importante.
E una salva di fuochi d’artificio esplose nel petto di Rodrigo.
Colpa del vino, si assolse. Colpa. Del. Vino.
Intanto Tiennot aveva indossato il proprio grembiule, acceso il forno e iniziato ad armeggiare con una terrina ed una serie di pirottini pronti all’uso. «Porta pazienza», disse. «Ce l’hai una mezz'ora, no?»
Rodrigo annuì, Tiennot versò il composto nei pirottini e li infornò.
Impostò il timer, poi guardò l’orologio.
«Beviamo qualcosa nell’attesa?», propose.
È francese, ricordi? «Acqua», replicò Rodrigo. «Ho bevuto sin troppo, e devo tornarmene alla chambre d’amis. A piedi. Vorrei evitare di passare la notte sulle panchine del parco…»
«Mi sembra ragionevole.», replicò Tiennot, col tono sconsolato di chi stava parlando con un barbaro. Uno appena sceso da cavallo, la scimitarra ancora lorda di sangue, un disperato bisogno di una doccia, e un vocabolario sprovvisto del termine ragionevolezza. Sollevò le mani e prese dal frigorifero una bottiglia di acqua minerale, la stappò, ne versò un bicchiere, a Rodrigo, e la posò sul bancone. 
«Grazie», e Rodrigo si scoprì ad avere sete all’improvviso. Faceva caldo, nel laboratorio. Colpa del forno, certo. E del vino. E della scarpinata fatta dal Quartier Latin. Ma si sentiva le orecchie in fiamme. Si sentiva strano. 
 
In quel momento, qualcuno bussò alla porta del laboratorio.
Tiennot osservò l’ora.
«Non mi dire…» E Tiennot andò a cercare conferma.
«Buonasera.» Rodrigo sentì trillare una voce fresca. Una voce di donna.
«Bentrovata», le rispose Tiennot, con una nota di familiarità, la stessa che si usa con chi ci sta a cuore. Una sorella, un’amica. Una fidanzata del passato. «Vieni, vieni», e tornò nel laboratorio.
Alle sue spalle, una ragazza. Capelli corti, occhi grandi e aspetto poco curato.
Una novizia, pensò Rodrigo osservando lo stesso abbigliamento che accomuna tutte coloro che hanno scelto di dedicare la propria vita al servizio degli altri.
«Oh, non sapevo…», disse lei quando si accorse della presenza di Rodrigo. «Buonasera…», aggiunse, timida.
«’sera», replicò Rodrigo, notando un sottile cerchio d’oro all’anulare sinistro.
«Dammi la giacca», le disse Tiennot. «Vieni, stavamo per…»
«Grazie, ma non mi fermo», rispose lei. Estrasse un pacchetto dalla tasca del cappotto e lo porse a Tiennot. «Buon Compleanno!»
«Te ne sei ricordata?», disse lui, rigirandosi il pacchetto tra le mani. Un pacchetto semplice ma incartato con cura. 
«Certo che sì.» 
«Grazie.» Scartò il pacchetto e ne estrasse un CD. «I Noir Désir! Ma come…»
La ragazza sorrise e annuì. «Un uccellino mi ha detto che l’avevi perso…»
«E questo uccellino ti ha detto come l’ho perso?»
«Posso immaginare», ridacchiò lei.
«Immagini bene.» Tiennot si strinse nelle spalle. «Grazie», le disse.
Un bacio sulle guance, un abbraccio e il timer suonò, con la stessa verve di un tiranno stizzito. 
«Ah, scusami», disse. Sgusciò via, aprì lo sportello, ne estrasse i pirottini e li mise a raffreddare su una griglia. «Ti fermi ad assaggiarli?», insistette.
Lei fece cenno di no con la testa. «Grazie, ma devo proprio andare.» Rivolse un sorriso gentile a Rodrigo. «Buonasera», e si voltò per uscire, in punta di piedi, così come era entrata. 
 
Tiennot la accompagnò fuori. Rodrigo li sentì chiacchierare sottovoce, con la complicità che nasce quando si trascorre molto tempo insieme. Poi la bise — destra, sinistra, destra — e lo vide restare sulla soglia, ad osservarla allontanarsi. 
Rientrò poco dopo, quando, con buona probabilità, lei aveva svoltato un angolo ed era uscita dal suo campo visivo.
«Venti minuti e sono pronti», gli disse, indicando i pirottini con un cenno del mento.
Io tra venti minuti sono già crollato dal sonno, pensò Rodrigo. Che si ricordò solo in quel momento del motivo per cui si trovava lì, nel laboratorio del Verse-Eau. Si sporse ad osservare quei piccoli dolcetti, in tutto e per tutto simili a dei moelleux au chocolat. L’aroma del cioccolato caldo aveva abbracciato l’intero laboratorio con il suo sentore avvolgente, e Rodrigo si lasciò sfuggire un «Oh» di autentica soddisfazione.
«Venti minuti», ripeté Tiennot. «Vedrai che l’attesa sarà premiata.»
«Non lo metto in dubbio», replicò Rodrigo. «Il profumo sembra promettere bene…»
«Tranquillo, tranquillo. Mantiene anche.»
«Lo spero bene», e Rodrigo annusò con fare teatrale l’aroma che si stava impossessando del laboratorio. 
«E per fortuna che eri pieno come un uovo», lo sfotté Tiennot.
«Questa è una città pericolosa», sentenziò Rodrigo. «Qui potrebbe addirittura prendere moglie un frate!»
Tiennot sorrise e pescò da un pensile una bottiglia di rosso già a metà. 
«Sicuro di non volermi fare compagnia?», gli chiese, cercando un paio di bicchieri panciuti. Non c’era bisogno di lasciarlo decantare, tuttavia un po’ d’ossigeno non gli avrebbe certo nociuto. Sentì l’altro sospirare.
«Va bene», concesse Rodrigo. «Ma un bicchiere. Uno solo», specificò, tornando ad osservare i pirottini. «Non vuoi proprio dirmi di che si tratta?»
Tiennot lo fissò come se gli fosse spuntata una seconda testa. Poi disse: «Segreto. Prima lo assaggi, poi mi saprai dire.».
Quindi si alzò e iniziò ad armeggiare con una serie di creme — tre giri veloci di frusta e poi via, nelle sac-à-poche. Prese due piattini, li decorò con degli sbuffi, poi prese un pirottino, ne liberò il contenuto e lo sistemò al centro.
«Ecco qua», disse, porgendo il dolce a Rodrigo. E attese. Lo vide valutare con attenzione l’impiattamento, prendere la forchettina e rompere il nucleo del dolce.
«Oh, un
moelleux au chocolat», commentò, inspirando l’aroma speziato che saliva dal dolce. Il vapore che si andava sprigionando gli suggerì di attendere ancora qualche minuto. Sì, ma come ingannare l’attesa?
Tiennot taceva, aspettando la sua reazione, nemmeno fosse uno scienziato pazzo — rigorosamente nazista — alle prese con un bizzarro esperimento. E lui non sapeva come riempire quel silenzio. Perché doveva riempire quel silenzio. Altrimenti, complice il vino in corpo, avrebbe posto la domanda che gli ronzava in testa come un’ape impazzita, o una vespa molto, molto incazzata.
Chi è quella ragazza?
 
Fortunatamente, per intercessione del suo angelo custode, non porse proprio quella domanda. Non in quel modo, almeno. Mentre il vapore saliva dal molleu, come se lì dentro vi fosse un piccolo vulcano affaccendato, Rodrigo sentì la propria voce scandire: «Mi dispiace che quella ragazza se ne sia andata. Spero non sia per colpa mia.». Per poi aggiungere: «Una tua amica?».
Tiennot piegò la testa da un lato, perplesso.
Bella cazzata, si disse Rodrigo, impedendo alle proprie mani di salire a coprire gli occhi dalla vergogna. Bella. Cazzata.
«No.» Pausa. «Brigitte è la mia fidanzata»
E Rodrigo desiderò con tutto il cuore e tutta l’anima che il pavimento sotto di lui si aprisse, lo ingoiasse e se lo trascinasse a fondo, magari fino a sbucare da qualche parte inesplorata e inaccessibile delle Catacombe.
«Ah, scusa. Non volevo…»
Ma poi il cervello di Rodrigo, piano piano, rimise insieme i pezzi.

Che razza di fidanzato lascia andare la propria compagna in giro da sola, nel cuore della notte, senza accompagnarla? 
Magari abita qui dietro, rispose alla voce di Aiolos. Quella occasionalmente inascoltata del buonsenso. Non essere così vecchio stampo.
Non si tratta di essere vecchio stampo, ribatté, petulante più che di persona. Si tratta di essere realisti. Tra stare con Aiolia e stare con uno sconosciuto, tu che cosa avresti scelto?
 
Tiennot si accomodò sullo sgabello.
«Ex-fidanzata», precisò. E Rodrigo si scoprì a respirare di nuovo. «Siamo stati insieme per qualche anno. Poi, ognuno di noi ha trovato la propria strada.»
«Capisco…»
«Fidati, no.» Tiennot buttò giù un sorso di vino. «In un certo senso, è tutta colpa mia…»
Ok. Sarò io il tuo barista, stanotte, pensò Rodrigo.
Posò la forchetta e attese.
«Vedi, ad un certo punto ho scoperto la mia, di strada. E quando gliel’ho detto, a lei è crollato il mondo addosso.» Una pausa. Un sospiro. La bocca contratta in una linea dura. «Così Bibi, per riprendersi dalla tegola che le avevo tirato tra capo e collo, ha accompagnato sua nonna a Lourdes. E lì, ha trovato la Madonna.»
«Nel vero del senso della parola», commentò Rodrigo.
Tiennot annuì. Un sorriso mesto gli si spianò le labbra. 
«Lo dice sempre anche lei, quando racconta la sua storia», continuò, guardando un punto imprecisato davanti a sé. «Sono andata a Lourdes per un ragazzo e ho trovato la Madonna. Letteralmente
Almeno l’ha presa con filosofia, pensò Rodrigo, buttando giù un sorso d’acqua, onde evitare uscite poco piacevoli. I sentimenti umani sono un ginepraio. Ed avventurarsi in quelli di uno sconosciuto equivale ad entrare nel suddetto ginepraio al buio, bendati e con un braccio legato dietro la schiena. O anche tutt’e due.
«Io però…»
«Pensi sia colpa tua?», azzardò Rodrigo, dopo qualche minuto di silenzio.
Tiennot annuì. 
«Sì», soffiò fuori. 
 
Si riempì il bicchiere, riempì quello di Rodrigo in automatico, scolò il vino tutto d’un fiato. Quindi, rivolse uno sguardo eloquente al bicchiere ancora pieno, quasi volesse tracannare anche quello. Così. Per un senso di compiutezza.
Che fai, lo lasci da solo?, pensò Rodrigo. Tentato di allungarglielo. Non è quello che farebbe un barista, in fondo? Gli altri bevono. Lui riempie bicchieri, li asciuga, ascolta gli psicodrammi altrui, e, se va bene, prende anche una mancia.
Io mi accontento di mangiare ‘sto dolce e andarmene a letto.
«Bibi era una ragazza fuori tempo. Sognava una casa con giardino, un marito, essere una madre di famiglia e crescere una nidiata di marmocchi. I nostri», sottolineò Tiennot, cercando un appiglio sul vetro spesso che si rigirava tra le dita, nemmeno contenesse qualche preziosissima informazione che potesse fargli da ancora nel mare in tempesta del rimorso. Qualcosa tipo, Io sono la Via, la Verità e la Vita, annaffiata da abbondante beaujolais. «E io le ho tolto tutto questo…»
«Non credo.»
 
Secco, come la lama della ghigliottina. E altrettanto implacabile.
Tiennot alzò lo sguardo, abbandonando quel benedetto bicchiere sul tavolo. Quasi a volerlo sfidare. Perché, di solito, quando si vuota il sacco davanti ad un bicchiere di vino rosso, nel silenzio ovattato della notte, ci si vuole solo liberare l’anima di un peso. Di una zavorra. Non vogliamo avere una soluzione pronta all’uso. Quella la cerchiamo di giorno, quando il sole splende in cielo senza concedere quartiere a ombre, mezze verità e scappatoie.
Eppure, nonstante si fosse armato delle migliori intenzioni possibili, Rodrigo aveva rotto l’incantesimo. Colle sue proprie mani. E ora, nel silenzio della notte, mitigato dal ronzio del frigorifero in sottofondo, fissava Tiennot come se non gliene importasse nulla. Non di Tiennot. Delle convenzioni sociali.
«Tu non credi?», lo rimbeccò Tiennot, le mani posate sulle ginocchia e l’espressione che passava dalla perplessità allo scontro aperto. «E cosa te lo farebbe credere?»
Rodrigo si sistemò meglio sullo sgabello. Ormai era in ballo; non poteva far altro che ballare, possibilmente senza pestare i calli altrui. Più di quanto non avesse già fatto, almeno.
«Adesso ti dirò una cosa. Una cosa che una persona più intelligente di me mi ha ripetuto fino alla nausea…»
«Ma che tu non hai fatto tua, scommetto», lo interruppe Tiennot. «Com’era quella storia della luce e del faro?»
«Chi è troppo vicino al faro vede peggio di tutti», lo rimbeccò Rodrigo. 
«Fammi indovinare. Tu sei ancora sotto al faro, vero?»
«Sotto al mio faro», replicò Rodrigo. «Posso dirtela, questa cosa, oppure è meglio chiudere qui la serata e fermarsi prima di fare danni?»
Pausa.
Silenzio eloquente.
«Altri danni.»
 
Ecco, bravo. Fermati qui. Dai la colpa al vino. Ringrazia per la serata e levati dalle palle, quasi ringhiò la voce di Aiolos. E a ragione: certi discorsi vanno affrontati a mente lucida. E se e quando i diretti interessati hanno richiesto un parere sulla faccenda, in maniera più che esplicita. Tipo, Che ne pensi di? O con una mezza chilata di carte da bollo. Eppure, qualcosa piombava le gambe di Rodrigo, e no, non era colpa del vino. Tiennot stava ancora bevendo; lui, no.
E allora perché insistere? Stavi andando così bene…
Aiolos, fottiti!
 
«E va bene», concesse Tiennot, un sorriso poco amichevole dipinto sul viso. «Sentiamola, questa grande verità…»
Rodrigo ignorò l’acido che colava dalla voce di Tiennot come un liquido denso, viscoso, ad ogni sillaba. «Le persone entrano ed escono dalla tua vita per insegnarti una lezione.»
«E quale sarebbe, questa lezione?»
«Nel tuo caso, non lo so», rispose serenamente Rodrigo. «In quello di Brigitte, probabilmente che non c’è bisogno di scodellare dei figli tuoi per essere madre.»
Tiennot sbatté le palpebre un paio di volte. «Come, prego?»
«Segui il mio ragionamento», gli disse Rodrigo, con la pazienza infinita che si elargisce ai poveri in ispirito e a chi ha alzato il gomito oltre ogni decenza. «Se Bibi avesse davvero voluto avere dei figli, prima o poi avrebbe trovato un altro ragazzo.»
Un muscolo guizzò sulla mascella di Tiennot. 
Ma tu guarda. Sei geloso. L’hai lasciata tu, e sei geloso?, pensò Rodrigo.
«Invece, ha optato per una scelta radicale. Di quelle che sono troppo radicali, per essere frutto di una delusione d’amore.»
«Non per Bibi. Tu non la conosci.»
«Vero», concesse Rodrigo alzando le mani. «Ma anche ammesso che sia una ragazza che ha perso il treno per l’Ottocento, non credi anche tu che la sua famiglia… sì, insomma, che la sua famiglia, i suoi amici, i suoi conoscenti, se vuoi anche il parroco, il Vescovo e la Madre Superiora, e pure il Santo Padre, le avrebbero impedito di fare una stronzata colossale come prendere i voti perché il suo ragazzo l’ha mollata?»
Aveva alzato la voce, mano a mano che prendeva coraggio e gli forniva la sua opinione. Sempre non richiesta.
No. Davvero non richiesta, rincarò la dose la voce di Aiolos, che di andare a farsi fottere proprio non ne voleva sapere.
Tiennot taceva, del silenzio che prelude allo sconquasso senza fine. Si stringeva le mani, forse nel pio tentativo di non serrarle attorno al collo di Rodrigo e guadagnarsi un soggiorno di vent’anni nelle patrie galere. Senza appello.
Okay, hai ballato. Hai pestato tutti i calli, possibili e immaginabili. Anche quelli che non esistono. Adesso alzati, ringrazia per la cena e ficca ‘sti maledetti moelleux au chocolat nella guida. E tanti saluti al Plaisir d’Amour.
 
Rodrigo inspirò, riempiendosi i polmoni, ed affondò la stoccata fatale dritta al cuore. 
«Nei tuoi panni, io mi sentirei sollevato. Brigitte ha trovato la sua strada. Ma tu non riesci ad essere felice per lei. Perché? Perché non è quello che tu avevi previsto per lei?»
«E allora perché tu non riesci ad essere felice per Aiolia?», chiese Tiennot, gelandolo sul posto. Aveva lasciato il fianco scoperto e lui aveva aspettato, paziente, l’occasione per una bella stoccata. Una di quelle che si infilano tra le costole e sconquassano milza, reni e polmoni.
«Forse è meglio che io vada», disse Rodrigo alzandosi. Non era il caso di ribattere che no, non era proprio la stessa cosa, né menchemeno quasi la stessa cosa. Tiennot aveva spezzato il cuore di Bibi così come Aiolia aveva maciullato il suo. Semmai, a voler cercare il pelo nell’uovo, Tiennot avrebbe potuto domandargli se Aiolia fosse felice per lui, ma Rodrigo sapeva già quale fosse la risposta a quel quesito: ad Aiolia non interessava dell’altrui felicità se non quando questa intercettava e si sovrapponeva alla sua. Un insieme univoco che si sovrappone ad un altro, questo era Aiolia; né più, né meno.
Però il suo nome te lo sei ricordato. Il mio, no. Ma il nome di quello stronzo, sì?
«Ho toccato un nervo scoperto?», gli chiese Tiennot, alzandosi a sua volta. «Ultim’ora: lo hai fatto anche tu.»
«Mi dispiace», si smarcò Rodrigo, dirigendosi verso il cappotto. «Ho esagerato con il vino, stasera, e mi sono spinto troppo in là.»
«Ecco. Diciamo che se Aiolia ti ha insegnato qualunque cosa ti abbia insegnato», proseguì Tiennot, seguendolo come un’ombra, prendendo il posto della petulante voce della coscienza, di Aiolos, «io ti ho insegnato…».
«Cosa?» Rodrigo si era voltato, il cappotto tra le mani e la sciarpa sul collo. «Che sei più scorbutico di un vecchio scorbutico?»
«A farti una generosa dose di cazzi tuoi.»
Silenzio.
Rodrigo infilò il cappotto, aprì la porta. 
«Buona serata. E grazie di tutto.» 
E scivolò fuori dal Cafè Verse-Eau a passi lunghi e ben distesi.
Tiennot scosse la testa e non si degnò neppure di sospirare. Chi di spada ferisce, eccetera eccetera. Tornato al tavolo trovò il bicchiere di Rodrigo, abbandonato e ancora pieno. 
‘fanculo, pensò. E se lo scolò tutto d’un fiato.

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Capitolo 12
*** 12. ***


11.


 

«Ti si è incantato il disco, Tiennot?»

Accomodata sul suo sgabello preferito e armata di cucchiaino, Maman Louise raccoglieva con cura la schiuma del cappuccino dalla tazza ormai vuota. Il tintinnare dei suoi braccialetti faceva da grazioso controcanto alla voce maschile che, dagli altoparlanti, cantava con struggente malinconia.

«Sarà la terza volta che ascolto Le vent nous portera

Tiennot si affacciò dal laboratorio e le sorrise. «Porta pazienza, Milou. Oggi è il mio compleanno. Domani tutto tornerà alla normalità.»

«Bah», sbuffò lei. «Altri cinque minuti e torno davvero indietro nel tempo.»

Tiennot incassò e fece per rientrare nel laboratorio, quando sua madre gli si parò davanti. «E questo di chi è?»

Nelle sue mani stringeva uno smartphone. Ultrasottile, custodia nera, uno sfondo in scala di grigi.

«Dove…», lo hai trovato?, avrebbe voluto chiederle. Ma si limitò ad andare con lo sguardo da sua madre allo smartphone, e viceversa, un paio di volte. E un altro paio ancora. Così, tanto per essere sicuro di vederci ancora bene.

«Era nel retro», rispose Françoise. «L’ho trovato sotto la panca, accanto alla porta.»

«Forse tua figlia lo ha trovato ieri e lo ha lasciato lì, nella speranza che il proprietario torni…»

«In quel caso, tua sorella lo avrebbe lasciato qui, nel secondo cassetto sotto la cassa. Nel reparto degli oggetti smarriti.»

 

Françoise si avvicinò al bancone e aprì il suddetto cassetto. Conteneva gli oggetti più disparati: due foulard, un paio di occhiali da sole, un pacchetto di gomme da cancellare, un portamine fuxia, una mappa pieghevole di Parigi, un orologio da polso, una confezione di sei di calzini, e altre cose che gli avventori distratti lasciavano al Verse-Eau. Alcuni - pochi, a voler essere sinceri - tornavano a cercarle. Altri - turisti o avventori di passaggio, per lo più - no; e il secondo cassetto, alla fine dell’anno, veniva svuotato e il suo contenuto deferito o alla pattumiera, o a padre Jacques, che lo avrebbe dato in beneficenza.

«E di chi potrebbe essere, Fanchon?»

Maman Louise osservava con estremo interesse la scena.

«Non lo so», confessò Françoise, posando il telefono sul tavolo. «C’è il blocco, ho paura di fare casini. E poi lo sai, a me dà fastidio. Mi sembra di frugare nella vita delle persone.»

Uno sbuffo, più simile ad uno stantuffo, e Maman Louise si rivolse a Tiennot.

«Pensaci tu.»

«Io?»

«Sissignore», insistette il donnone, il tintinnio di braccialetti ed orecchini come coro greco. «Questi cosi sono di vitale importanza, oggigiorno. Magari qui dentro ci sono dei documenti. Dei documenti importanti. Sai bene anche tu che rogna galattica sia perdere certe cose, no?»

Sbuffando a sua volta, Tiennot si avvicinò e prese tra le mani il cellulare. No. Non dirmi che…, pensò, temendo e accettando, con una certezza che non aveva bisogno di essere comprovata, a chi appartenesse esattamente quel coso. 

«Allora?», lo incalzò maman Louise. «Ti decidi o no?»

«Come siamo curiose, stamattina», la canzonò Tiennot. E poi si decise. Premette un tasto laterale ed apparvero i nove puntini della combinazione. E adesso?, si chiese. Poi, come spinto da una illuminazione divina, tracciò una Z sul display. Il telefono si sbloccò.

Sentendosi un Arsène Lupin 2.0, Tiennot ne esaminò il contenuto. Qualche appunto sparso. La scansione del passaporto. Fotografie.

«Allora?»

E il pensiero e il timore e l’accettazione, con magnanima clemenza, gli fornirono tutte le evidenze, una accanto all’altra, cosicché non sussistessero più dubbi. O speranze. O scappatoie. Di alcun tipo. A prova di idiota.

«Credo di aver capito di chi è», rispose Tiennot, aprendo una Nota intitolata Parigi. C’era un indirizzo. Il posto dove alloggiava. Pigalle. Aveva detto di stare in una chambre d’amis, no?, si rammentò, appuntandosi mentalmente l’indirizzo. Mise il blocco tasti e infilò il telefono nel cassetto degli oggetti smarriti, chiudendolo con un gesto secco. 

«L’Hemingway in salsa aioli deve averlo perso ieri».

«Ma bisogna avvertirlo», disse Françoise, sgranando gli occhi.

«Vedrai che se ne accorgerà da solo», ribatté Tiennot, tornando in laboratorio.

«No, Tiennot», insistette la donna. «Bisogna avvisarlo, e bisogna farlo subito.»

«Anche volendo», la interruppe lui, « il suo telefono è qui».

«Portaglielo. Tanto qui non c’è nessuno.»

«E io che ne so di dove alloggia?»

«Ma come, non ne avete parlato ieri sera a cena?»

«E tu…» come lo sai? 

Ma la domanda rimase lì, muta, impigliata tra le labbra. E come diamine avrebbe potuto saperlo altrimenti, se non grazie a quella lingua lunga di Coco? Magari si è pure vantata, pensò Tiennot, immaginandosi la scena di sua sorella e sua madre che, sedute al tavolo della cucina, si passavano lo smalto sulle unghie e chiacchieravano della sua serata romantica, come due sensali fuori tempo massimo.

Le elucubrazioni sul modo in cui avrebbe fatto scontare a sua sorella quell’ennesima bravata, furono interrotte dalla voce squillante di Maman Louise, che riecheggiò nel Verse-Eau con la potenza di una cannonata.

«Davvero?! E come è andata, come è andata?»

 

A puttane. Metaforiche. Ché se fossero state vere, sarebbe andata meglio, avrebbe voluto rispondere Tiennot. E se si fossero trovati nel loro appartamento, lo avrebbe anche fatto; ma si trattenne. Non era il caso. C’era solo Papa Nouriet sprofondato nella sua poltrona preferita, con Salsiccia che sonnecchiava paziente sotto al tavolino. E, probabilmente, Papa Nouriet ne aveva sentite - e dette - di ben più pesanti nel corso della sua lunga vita. Ciò nonostante, un pudore inaspettato fece serrare le labbra di Tiennot.

«Allora?», l’incalzò Milou, che forse quel giorno aveva lasciato buonsenso e preveggenza sul comodino, accanto alle pillole per la pressione e ai bigodini.

«Al solito», rispose Tiennot per cavarsi dall’impaccio. «Tienilo tu», disse a sua madre. «Quando tua figlia ci farà la grazia di manifestarsi, chiedile di avvisare l’Hemingway in salsa aioli. Ci penserà lei.»

«Oggi tua sorella non viene», lo rimbeccò Françoise. «Te ne sei dimenticato?»

«Non viene?»

«No», ripetè Françoise. «Ha un esame, oggi.»

Tiennot si strinse nelle spalle. «Pazienza. Vorrà dire che glielo porterà se e quando avrà finito.»

«No.» E in quel monosillabo Françoise infuse tutta la propria determinazione. E la propria autorità materna. «Quel povero ragazzo potrebbe avere bisogno del suo telefono. Magari lo sta cercando. Prima che blocchi le carte di credito, è il caso di scoprire dove alloggia e fare un salto a riportarglielo. Subito.»

Discorso chiuso.

Sbuffando, Tiennot avanzò a passo di carica verso la cassa, aprì il cassetto quasi volesse scardinarlo e prese - arraffò - il cellulare con la stessa grazia di un Roc affamato. E parecchio incazzato, tale da far sembrare una mammoletta quello che aveva affondato la nave di Sinbad. Sbloccò lo schermo e fece finta di frugare tra gli appunti. Bloccò per l’ennesima volta il telefono, se lo mise nella tasca posteriore dei jeans e si diresse a spron battuto verso il laboratorio.

«Vado e torno», disse - ringhiò - infilandosi il cappotto e buttando di malagrazia la sciarpa attorno al collo. Era caduta la neve, quella notte. Una bella nevicata di inizio febbraio, giusto una spruzzata di cipria sul nasino di una bella donna. Non durerà, vaticinò Tiennot, infilando la porta sul retro ed uscendo in strada.

«Aspetta!»

Sulla soglia, Françoise lo fissava stringendo tra le mani due bicchieri da asporto ed una busta di carta. Tiennot tentennò. Sua madre distese le braccia davanti a sé.

«Non credo che oggi verrà. Portagli la colazione. Offre la casa.»

«Cosa?!»

Senza accorgersene, Tiennot era tornato indietro. 

«Scusami?»

«Quel telefono era qui, ieri sera. Dopo che siete stati a cena», disse Françoise.
«E tu?» come fai a saperlo?

Un sospiro, una ciocca di capelli scivolati sullo sprone del grembiule, Françoise aggiunse: «Tua sorella era con me, quando ha mandato quei messaggi. Non la giustifico. Anzi. Le ho fatto una bella lavata di capo. Ma quel ragazzo non ha perso il telefono ieri, durante l’orario di lavoro. L’ha perso dopo.».

Tiennot tacque. Sua madre gli mise tra le mani i due bicchieri da asporto e la busta coi croissant. «Non so cosa sia successo, e non sono fatti miei», proseguì, sistemando la sciarpa attorno al collo del figlio. «Ma portagli quel cellulare. Potrebbe averne bisogno.».

«E la colazione?», domandò Tiennot, indicando col mento busta e bicchieri.

«A stomaco pieno è tutto più facile», rispose lei. Sorrise, girò sui tacchi e si chiuse la porta alle spalle.

 

«Fanchon, si può sapere che sta succedendo? E si può sapere perché sono sempre l’ultima a sapere le cose? Queste cose rovinano gli affari. Di sicuro, i miei

Maman Louise aveva un’aria particolarmente stizzita. Tamburellava le unghie laccate di rosso scuro sulla superficie lucida del bancone, in attesa di una risposta.

Françoise si strinse nelle spalle.

«Ne so quanto te, Milou», rispose. «Sai anche tu com’è fatto Tiennot, no?»

«Secondo me, tu ne sai più di quanto vuoi darmela a bere», replicò il donnone, tintinnio argentino d'ordinanza e sguardo cupo. «Anzi, fai una cosa. Preparami un altro cappuccino, così mi spieghi tutto per filo e per segno. E spegni questa maledetta lagna!»


«Dove cazzo è finito?!»

Rodrigo aveva rivoltato la stanza da cima a fondo, ma niente; nessuna traccia del suo smartphone. Era come se si fosse volatilizzato. Puff. Svanito in una bolla di fumo. Solo che uno smartphone non è esattamente una colomba che scompare nel doppiofondo del cilindro del prestigiatore. Doveva essergli caduto da qualche parte. Sì, ma dove?, si chiedeva, imponendosi di restare calmo. Al ristorante? Lungo il tragitto di ritorno? Al Verse-Eau?

Rue du Dragon porta sfiga!, sentenziò tra sé e sé, lasciandosi cadere sul bordo del letto. E adesso?

E adesso non ti resta che vestirti, armarti di santa pazienza e percorrere la strada a ritroso. Anzi, au rebours, come dicono qui. E sperare di trovarlo in uno dei tre posti.

La voce di Aiolos avrebbe detto questo, col suo solito tono pacato da persona saggia, che cerca di evitare al prossimo suo d’affogare in un bicchiere d’acqua.

Ma quella mattina, la voce di Aiolos se ne restava in silenzio, come se quelli non fossero fatti suoi. Forse, dopo averglielo caldeggiato più di una volta, si era decisa ad andare davvero a farsi benedire - a farsi fottere, a voler essere precisi - e lo aveva piantato in asso proprio quando ne aveva più bisogno.

Mi sta bene, si disse Rodrigo, le mani nei capelli.

Sbuffò, diede un calcio allo zaino - fortunatamente vuoto - e si risolse a prendere il toro per le corna. Si sarebbe vestito, sarebbe tornato a vedere se, per qualche fortuito caso, avessero ritrovato il suo smartphone al Verse-Eau o da Giselle,e, nel malaugurato caso in cui le cose fossero andate male, avrebbe provveduto a bloccare le carte di credito.

«Paga col cellulare! Lo fanno tutti, è così pratico!», disse, scimmiottando la voce di Aiolia. «Dannato stronzo. E ancora più stronzo io, che ti ho dato retta!»

Si infilò il resto - camicia, maglione, scarpe, sciarpa e cappotto - prese le chiavi e controllò un’altra volta di avere ancora almeno il portafogli.

Afferrò la maniglia della porta e la spalancò di impeto, pronto a lanciarsi alla carica, alla ricerca del cellulare… solo per trovarsi davanti Tiennot.


«E tu…» che ci fai qui?

Ma anche, Come hai fatto a trovarmi?

E pure, Come hai fatto ad entrare?

E infine, Che sta succedendo?

Rodrigo avrebbe potuto propinargli una di queste quattro versioni, tra le altre che salivano a galla nel brodo primordiale del suo cervello, come pesci attirati dalle lampare; invece scelse di fissare Tiennot come se si fosse or ora teletrasportato da Plutone. O forse da uno o due sistemi solari più in là.

«Ho portato la colazione», disse Tiennot, mostrandogli la busta di carta e i due bicchieri termici, come a dimostrare le sue buone e pacifiche intenzioni. Come se questo spiegasse tutto. Come se fosse la cosa più normale del mondo. «Mi fai entrare, o restiamo sul pianerottolo?»

Come se si fosse appena da un incantesimo, tipo il sonno centenario della Bella Addormentata nel Bosco - È il bosco a dormire, non lei!, avrebbe puntualizzato la vocina petulante di Aiolos -, Rodrigo si fece da parte e lo lasciò passare. Tiennot scivolò dentro. La porta, questa volta, si richiuse alle sue spalle. 

«Poggia pure qui», disse Rodrigo, avanzando verso la scrivania sotto alle finestre e scansando il portatile, il taccuino con gli appunti e un’altra serie di cianfrusaglie alla deriva.

Tiennot eseguì.

«Scusa il disordine, non aspettavo ospiti», biascicò Rodrigo, tirando lenzuola e piumone in un colpo solo per coprire alla meno peggio il letto sfatto, mentre Tiennot scioglieva la sciarpa e slacciava il cappotto.

«No, scusami tu piuttosto», disse, guardando fuori dalla finestra gli abbaini blu stinto che incorniciavano una vista spettacolare: la cupola del Sacré Cœur in lontananza, uno sbuffo di panna in un cielo grigio acciaio. «Che posto fantastico.»

«Sì. Verissimo», concordò Rodrigo. «Centrale, silenzioso. I proprietari sono adorabili.»

«Devo ricordarmene», proseguì Tiennot. «Sai, per quando vengono certi parenti…»

«Ho presente.» Rodrigo si liberò del proprio cappotto e lo buttò sul letto. «Dammi la giacca.»

Tiennot si voltò. «No, non ti preoccupare», ribatté. «Non mi fermo. Stavi uscendo e non voglio disturbare.»

«Hai portato la colazione…», disse Rodrigo.

«Per non bussare a mani vuote», replicò Tiennot. Si frugò nelle tasche e ne estrasse il telefono di Rodrigo. «Lo hai lasciato al Verse-Eau. Ieri sera.»

Rodrigo allungò una mano e prese lo smartphone. 

«Grazie», disse, soffiando fuori l’aria con lo stesso, identico impeto di un palloncino che si sgonfia. «Oddio, grazie. Mi hai salvato…»

«Di nulla.» Pausa. «Per fortuna, lo hai perso da me. Fai più attenzione, la prossima volta.»

E fece per riannodare sciarpa e cappotto, quando Rodrigo, smartphone stretto tra le dita, gli chiese in automatico: «Dove vai?», incagliatosi, però, su un altro pensiero. A ripetizione. Prossima volta? Quale prossima volta?

«Torno al Verse-Eau», rispose Tiennot, squadrandolo con un’espressione indecifrabile. «Stavi uscendo, non voglio farti perdere tempo.»

«No. Tu adesso aspetti un momento.»

 

La voce di Rodrigo, bassa e pronta allo scontro, gli aveva piombato le gambe, la maniglia ancora stretta tra le dita. 

«Pardon

Rodrigo si alzò. 

Si avvicinò alla soglia.

Richiuse la porta.

«Stavo uscendo come un indemoniato alla ricerca del cellulare», spiegò. «Avrei battuto a ritroso il percorso di ieri, pregando che tu o Giselle l’aveste trovato.» Tiennot annuì. «Tu mi appari sulla soglia di casa, una casa non mia, e me lo riporti. Io ti ringrazio di cuore. Ma adesso ti siedi e parliamo. Da persone civili.»

«Ho da fare al…»

«Ti ruberò mezz’ora. Il tempo di un caffè.» E a quest’ora il tuo locale è un mortorio. Lo so io e lo sai tu.

«Non devi andare in giro?», gli chiese Tiennot. «Sai, per la tua guida.»

«La guida può aspettare», ribatté Rodrigo. Tanto, ormai…

Tiennot capitolò. Alzò le mani, in segno di resa e tornò sui suoi passi, lasciandosi cadere su una sedia miracolosamente vuota in tutta quella mala bolgia che si spacciava per una chambre d’amis. «D’accordo…»

«Quanto sei testardo…», borbottò Rodrigo avvicinandosi. 

Il bue che dice cornuto all’asino, annotò la voce della coscienza, quella proba e sempiternamente inascoltata di Aiolos, emersa per l’occasione dalla latitanza. E, sempre per l’occasione, dai recessi della sua crapa e’ ciucco, la voce di Marco si unì a fare da coro: Quando il porco spezza la catena, va dall’altro porco e si streca

Fottetevi. Tutti e due.

Coprì alla bell’e meglio il delirio in cui aveva trasformato la chambre d’amis - scalciando sotto il letto calzini e mutande e fazzoletti e - e si avvicinò al proprio ospite. Aprì - squarciò - la busta di carta e ne estrasse due croissant. «Grazie. Con tutto quello che è successo…»

«Idea di mia madre», si affrettò a chiarire Tiennot. «Ha insistito perché ti riportassi il telefono al più presto.» Pausa. «Aveva ragione lei.»

«Mi avete salvato», rispose Rodrigo, addentando il proprio croissant e scoprendo di avere una voragine al posto dello stomaco. Una voragine tale che minacciava di portarsi appresso lui, Tiennot, la stanza, l’Opéra e mezza Pigalle. Boulevard de Clichy incluso. «Qui dentro c’è metà della mia vita e buona parte del mio lavoro.» Per non parlare della carta di credito, del biglietto di ritorno, eccetera eccetera…

«Immagino», disse Tiennot, con nonchalance, mentre prendeva un bicchiere termico e lo liberava dal coperchio. 

«Come…» hai fatto a capire dove abito? Questa avrebbe dovuto essere la domanda di Rodrigo, domanda logica e puntuale, pertinente e più che giustificata. Ma Tiennot non gli lasciò il tempo di darle corpo e fiato.

«Ho sbirciato nel telefono alla ricerca di uno straccio di informazione, o di un contatto e-mail», ammise - confessò - Tiennot. 

E Rodrigo si sentì gelare le viscere. Occristo, pensò. Occristo non avrai visto…

«So che non avrei dovuto. Ma non avevo altro modo per...»

La testa di Rodrigo andò su e giù un paio di volte. Meccanicamente, come quella di un automa uscito da un film espressionista.

«Ho trovato una nota. Parigi. E così ho scoperto dove abiti.» Pausa. «Mi dispiace. Seriamente, ma…»

Rodrigo tornò a respirare. «No, capisco…», disse, con il tono di chi, in realtà, non capisce affatto, ma si adegua a quanto la sorte gli ha scaricato tra capo e collo. «Ma come hai fatto ad entrare?»

«Era tutto nella nota. Indirizzo, piano, eccetera. Anche il codice per aprire il portone», spiegò Tiennot. «Ho suonato ad una delle due porte e mi ha aperto una donna. Mi ha spiegato lei che questa è la tua stanza. E poi tu hai aperto la porta come se la volessi scardinare.»

«Stavo per uscire alla ricerca dello smartphone», concluse Rodrigo. «Sai, per evitare di bloccare la carta di credito…»

«Comprensibile», chiosò Tiennot. Un sorso generoso di caffè. Una pausa. Poi il bicchiere sulla scrivania. «Tranquillo. Non ho invaso la tua privacy. Non più del necessario.» Ah, beh.

Così la prossima volta impari.

E poi, sempre la voce di Marco, ormai accomodatosi in pianta stabile: Okay. Ma a questo giro chi è che non si è fatto una chilata di cazzi propri? Chiedo per un amico.

 

Ignorandoli, Rodrigo alzò una mano, come a dire a Tiennot: Fa niente. E poi lo disse: «Fa niente…».

Tiennot mandò giù un altro sorso di caffè. 

«Okay. Se questo è tutto, io…» andrei.

«No, aspetta», disse Rodrigo. «Ad essere sincero, vorrei mettere le cose in chiaro. Una volta per tutte.»

Sant’Iddio, quanto sei pesante, sussurrò Aiolos.

Diciamo le cose come stanno, rincarò la dose Marco. La parola giusta - Non la voglio sapere, ‘sta parola giusta, tentò di stopparlo Rodrigo, come un terzino d’altri tempi. Invano. - è chiumm’. Senza se e senza ma. E senza o. 

Tiennot annuì, inconsapevolmente unendosi alla congiura.

 

Tu quoque?

«Ti devo delle scuse. La verità è che non avrei dovuto dire quelle cose, ieri sera.»

«Ma le pensi?», chiese Tiennot, rigirandosi il bicchiere tra le dita.

 

E con ciò, signore e signori, la teoria del porco eccetera eccetera non solo ha carattere transitivo e riflessivo, ma è anche ampiamente comprovata, chiosò Marco.

Rodrigo lo ignorò e tirò dritto.  

«Sì», confessò, guardando Tiennot dritto nelle palle degli occhi. «Sì, le penso. Ma non è questo il punto. Il punto è che tu volevi solo sfogarti e io ho invaso la tua privacy...»

«…con la delicatezza di un rinoceronte in un negozio di cristalleria», concluse Tiennot, un angolo delle labbra piegato all’insù. 

«Touché», ammise Rodrigo. «Non avrei dovuto.»

«No, non avresti dovuto», convenne Tiennot. «Così come io non avrei dovuto raccontarti qualcosa di così privato.».

«E?»

Rodrigo lo aspettava al varco, senza sceneggiate. Perché anche Tiennot l’aveva fatta fuori dal vaso, e Rodrigo non avrebbe considerato la questione chiusa se e solo se Tiennot non gli avesse porto le sue scuse. Marco approvò. E, del tutto ignaro del dibattito logico che stava avvenendo nella zucca di Rodrigo, Tiennot convenne che aveva ragione.

«E avrei potuto risparmiarmi quella battuta», chiosò Tiennot. «Il problema sai qual è?»

La testa di Rodrigo andò da sinistra a destra un paio di volte.

«Il problema è che ho capito chi sono… tradendo Bibi.»

Tiennot lo soffiò via con un fil di voce, come se fosse una confessione estorta ad un imputato dopo un lungo, lunghissimo interrogatorio in pieno stile Torquemada. Un Torquemada che s’era alzato dal letto con più di un diavolo per capello, e pronto, prontissimo, a portarsi appresso il mondo intero in un tripudio di fuoco e fiamme.

Ma non aveva appena detto che non avrebbe dovuto raccontare qualcosa di così privato?, sentì domandare la voce di Aiolos, con un improbabile sottofondo di popcorn sgranocchiati e aroma di burro fuso.

Si vede che fa Coerenza di cognome, chiosò Marco, rumore di ravanamento nel sacchetto.

Ma Rodrigo non registrò appieno né le obiezioni del coro, né il volume con cui Tiennot si lasciò sfuggire la sua confessione; nel cervello di Rodrigo, di solito attento ai dettagli, avevano iniziato a suonare a distesa una miriade di campanelli, nemmeno avesse fatto jackpot al caro, vecchio flipper di paese.

 

Ho capito chi sono tradendo Bibi.

 

E questo, anche agli occhi di chi, come Rodrigo, si ostinava a non voler vedere la verità anche dopo esservi andato a sbattere contro - a cozzarvi a muso duro, suggerì Marco -, portava ad una sola ed unica conclusione logica possibile. 

Alzò lo sguardo, come a cercare conferma nel viso di Tiennot.

«Sì», disse. Annuendo. «Giochiamo nella stessa squadra.»

Silenzio.

«Altrimenti», aggiunse Tiennot, «per quale altro motivo mia sorella avrebbe spedito me al posto suo?».

Alleluja! Alleluja nell’alto dei cieli, concordarono all’unisono la voce di Aiolos e quella di Marco. Rodrigo si aggregò. E poi disse: «In effetti… adesso che mi ci fai pensare…».

«Perché, scusa, non lo avevi capito?», domandò Tiennot, sinceramente interessato ai contorti e tortuosi passaggi logici - o presunti tali - che avvenivano dentro alla scatola cranica dell’Hemingway in salsa aioli.

«No», si lasciò sfuggire Rodrigo. Con lo stesso tono e lo stesso, flebile afflato di cui sopra. «Non è che quando vado a cena con una persona penso al dopo…»

Male, sentenziò la voce di Marco.

«No?»

«No!» E poi, per rimediare alla veemenza con cui aveva risposto, si affrettò ad aggiungere: «Esco con una persona se mi va di uscire con una persona. Se mi piace quella persona…».

Un luccichio pericoloso attraversò il viso di Tiennot; ma non gli chiese se gli piacesse, quanto gli piacesse, e in che modo gli piacesse. Si limitò ad un accenno di sorriso, quel tanto appena, e ribatté: «Comprensibile».

Rodrigo si ritrovò a respirare, ma qualcosa gli suggerì che forse - ma solo forse, eh - non era scampato allo sfondapiedi - termine tecnico - del suo ospite. Il quale, posate le mani sulle ginocchia, si sporse in avanti e propose: «Pari e patta e palla al centro?».

«Pari e patta e palla al centro», ripeté Rodrigo. Sollevato. «Mi è dispiaciuto buttare all’aria una bella serata.»

«Basta. Il passato è passato. Non parliamone più.» Tiennot gettò il bicchiere nel cestino della carta straccia e si alzò. «Però adesso devo proprio andare.»

«Non…» mangi il tuo croissant?, avrebbe voluto chiedergli, ma si limitò ad indicare la scrivania.

«Quello è per te», rispose Tiennot. «Io sono a posto così.»

«D’accordo. Passo dopo a saldare il conto.»

«Nossignore. Offre la casa.»

«Ma…»

«Niente ma. È un’idea di mia madre, e fidati. Non vuoi fare incazzare mia madre.»

«Mai sia», disse Rodrigo, alzando le mani in segno di resa. «Ringraziala da parte mia.»

«Sarà fatto.» Tiennot si annodò la sciarpa e si avvicinò alla porta.

Fermalo!, ruggì la voce di Aiolos.

Se non lo fai tu, lo faccio io, promise Marco.

E Rodrigo obbedì.

«Un’ultima cosa.»

Tiennot si voltò appena, la maniglia tra le dita.

«Sai quei moelleux al cioccolato? Quelli che, tra una cosa e l’altra, non sono riuscito ad assaggiare? Se passo più tardi, li trovo?»

«No», rispose Tiennot. «Sono già finiti.»

«La mia solita fortuna», sbuffò Rodrigo.

«Li rifaccio nel pomeriggio», disse Tiennot. Stupendo se stesso per primo. «Se vuoi…»

«Io oggi sono in giro», borbottò Rodrigo, afferrando il cellulare e controllando l’agenda. «Posso passare più tardi. In chiusura. O domani…»

«Stasera», propose Tiennot. «Io ho un impegno a cena, però mi libero per le undici.»

«Scanni tua sorella?»

«Come hai fatto a capirlo?» Tiennot sollevò le sopracciglia. «No, ho una cena. Dopo, sono libero.»

«Va benissimo», rispose Rodrigo. «Alle undici al Verse-Eau?»

«No. Te li porto io.»

«Come, li porti tu?», chiese, perplesso. «Non hanno bisogno di essere scaldati?»

«Funziona, quello?» 

Il mento di Tiennot indicò qualcosa alle spalle di Rodrigo. Che si voltò. E vide, sommerso da un cuscino e da un paio di jeans, il forno a microonde che Isabelle aveva messo a sua disposizione su un tavolino, assieme ad un bollitore elettrico, qualche bicchiere termico, una manciata di bustine di tè e del dolcificante.

«Credo di sì.» Ci pensò un po’ su, poi tornò a guardare Tiennot e aggiunse: «Sì, funziona. Ci ho scaldato un paio di ramen precotti.».

Lo sguardo di Tiennot si allargò di preoccupazione.

«Non è colpa mia se i ristoranti son chiusi il lunedì.» Rodrigo si strinse nelle spalle. «Bisogna pur mangiare, no?»

«E quello me lo chiami mangiare

«Sopravvivenza, suona meglio», ribatté Rodrigo. «Avessi avuto un fornello a gas, mi sarei esibito nel mio migliore cowboy gourmet

«Ho paura a chiedere.»

«Si prende un barattolo di fagioli. Si toglie l’acqua di conserva, questo sa farlo anche un imbecille. Si aggiunge olio, sale, salvia etc etc e lo si fa scaldare sul fornello.»

«E non scoppia?»

«No», rispose serio Rodrigo. Serissimo. «Apri il barattolo, possibilmente senza mozzarti una mano.» Pausa. «Dovresti provare, una volta.»

«Prima o poi», ribatté Tiennot, col tono di chi pensa, invece, Piuttosto crepo di fame e muoio di stenti. «Ci vediamo alle undici.»

E poi, con fare proditorio, si sporse verso Rodrigo, esibendosi in una bise - destra, sinistra, destra - più lenta del solito, sfiorando per tre volte le guance di Rodrigo, che ancora non avevano incontrato il rasoio, con le proprie, sbarbate alla perfezione.

Quindi infilò la porta e, senza dire né ah, né bah, se la richiuse alle spalle, lasciando Rodrigo più perplesso del solito e con addosso il sentore inteso del proprio dopobarba.

 

Ma tu ci sei o ci fai?, sussurrò la voce di Marco.

Per me ci fa, chiosò Aiolos.

Per me ci è, ribatté Marco. Ma c’è ancora margine di miglioramento.

Tu dici?

Lascia fare a zio…

 

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Capitolo 13
*** 13. ***


13.


 

Il campanello della chambre d’amis suonò alle undici in punto.

Rodrigo, i capelli ancora umidi per la doccia veloce, si attardò a controllare che tutto fosse in ordine nella palladiana accanto alla porta; si sistemò per l’ennesima volta un ciuffo che non aveva alcun bisogno di essere sistemato; e, accortosi di un paio di calzini che sbucavano da sotto il letto, ve li calciò con forza, nella speranza che svanissero come per magia.

E non azzardatevi a saltare fuori sul più bello!

Quale sarebbe questo più bello?, lo canzonò la voce di Marco.

Rodrigo lo ignorò ed aprì la porta.

Sulla soglia, con una busta di plastica in una mano e quella inequivocabile di un’enoteca nell’altra, Étienne sorrideva. E poi disse: «Buonasera.».

 

Piano, ragazzo. Non bruciare le tappe, suggerì la voce di Aiolos.

Quali tappe?, ribatté Rodrigo, con la testarda ostinazione ad ignorare i segnali che il proprio corpo, la coscienza e l’universo mondo gli stavano mandando. Battiti accelerati. Pupille dilatate. Sorriso da imbecille ben stampato sul viso.

Che facciamo, cumpà? Lo facciamo entrare a ‘stu poveru cristianu, o restiamo tutta la sera sul pianerottolo?

«Benvenuto», disse Rodrigo, facendosi da parte, alla buon’ora. «Prego.»

Tiennot entrò. Rodrigo richiuse la porta, come se avessero, in realtà, varcato un limite da cui non sarebbero più tornati indietro.

«Scusa il ritardo», disse Tiennot, mentre l’orologio sulla scrivania rimarcava l’esatto contrario. «Posso?»

«Lascia pure tutto lì», disse Rodrigo avvicinandosi, «e dammi il cappotto.».

Intraprendente, il ragazzo…, commentò Marco. Aiolos sogghignò, in lontananza.

Tiennot eseguì. Posò le buste sul tavolo, in un acciottolato di posate e un tintinnio inequivocabile di bicchieri, ed estrasse un tire-bouchon dalla tasca del cappotto. 

«Sono venuto preparato.»

Eh-eh!, esclamò Marco

EH?!, si aggiunse Aiolos.

«Eh?», disse Rodrigo.

«Immagino che una chambre d’amis non abbia un tire-buchon, giusto?», spiegò Tiennot ad uno stralunato Rodrigo. 

«Non credo», commentò l’Hemingway in salsa aioli, prendendo sciarpa e cappotto del proprio ospite. Li appese a due stampelle libere sullo stender di design che troneggiava accanto alla palladiana. 

«Se da qualche parte hai dei bicchieri e non c’è il tire-bouchon, i tuoi padroni di casa sono dei barbari», sentenziò Tiennot. Senza appello. E poi estrasse una serie di contenitori dalla busta di plastica, disponendoli sulla scrivania. «Come è andata la giornata?»

«Bene. Ho fatto un paio di giri verso Saint Denis a controllare un paio di indirizzi.»

«Ne è valsa la pena?»

«In parte, sì. Uno dei ristoranti era ancora al suo posto. Gli altri sono diventati un fioraio ed un negozio di giochi da tavolo.»

Bicchieri di vetro. Li ho visti?, si domandò Rodrigo, aprendo le ante di un pensile stipato tra mensole e librerie stracolme di cataloghi fotografici, libri sulla fotografia, monografie su fotografi famosi. Sì, i bicchieri c’erano. Di vetro. Panciuti quanto basta per del vino rosso. Bicchieri e tire-bouchon. Dovessi mai brindare a qualcosa, pensò Rodrigo, richiudendo l’anta.

Non si è mai abbastanza preparati, ghignò Marco.

«Questa città cambia in fretta.»

Nel frattempo, Tiennot aveva estratto tutto il materiale dalle buste ed apparecchiato un desco spartano, ma elegante: un runner di stoffa bianco, due piattini di carta per il microonde, due bicchieri di vetro, una bottiglia di beaujolais, due forchettine, tovaglioli di carta e il galeotto tire-bouchon.  Aprì un contenitore ermetico e ne estrasse due moelleux au chocolat, scodellandoli in un terzo piattino. Si diresse al microonde, vi inserì i dolci, armeggiò con i watt e i tempi di cottura, e premette il tasto d’avvio. Come se stesse nel proprio laboratorio.

Come se stesse a casa sua, pensò Rodrigo.

 

Senti anche tu quest’auduri di fiori d’arancio, cumpà?, domandò la voce di Marco. Perculandolo apertamente.

Rodrigò glissò.

«Venti minuti, giusto?»

«No, qualcosa di meno», lo rassicurò Tiennot. «Bisogna solo scaldarli.»

«Apro il vino», si propose Rodrigo, dirigendosi verso la scrivania ed armeggiando con la bottiglia.

Occhio a non tagliarti una mano, lo canzonò ancora una volta la voce di Marco. Un primo appuntamento al pronto soccorso non è proprio l’ideale… Almeno, hai messo le mutande buone?

Sbuffando aria dal naso come un toro particolarmente nervoso, Rodrigo impugnò il tire-bouchon, strappò via l’alluminio che copriva il tappo, infilzò la punta nel sughero con la stessa veemenza con cui avrebbe tirato il collo a Marco, e, con studiata e raffinata lentezza, fece girare la testa della ballerina. Poi, una volta che le braccia di acciaio ebbero raggiunto la testa, Rodrigo le abbassò di colpo liberando il vino con un plop ovattato, provvidenzialmente coperto dal trillare del microonde.

«Sono pronti», annunciò Tiennot portando a tavola i moelleux. Li sistemò uno per piattino, mentre Rodrigo annusava il tappo. «Serve solo qualche minuto perché si raffreddino a sufficienza.»

Rodrigo versò il vino. 

«Perfetto. Così potremo fare quattro chiacchiere.»

Indicò una sedia all’ospite. 

«Se non ti spiace, preferirei sedermi sul bordo del letto», rispose Tiennot. Senza malizia nella voce. 

Sì, e io sono un polipo, chiosò Marco.

«Vada per il bordo del letto», concesse Rodrigo. E Tiennot, preso il proprio bicchiere, si accomodò. 

«Per fare quattro chiacchiere, va benissimo.»

«Se ti trovi più comodo a mangiare lì, per me è uguale», lo rassicurò Rodrigo.

Tiennot scosse la testa con convinzione. Come se l’altro avesse appena bestemmiato. 

«Non sopporto le briciole nel letto», spiegò. Nessuno gliel’ha chiesto, glossò Marco. E tu sei caduto di testa dal seggiolone. «Mi sanno di sciatto. E potrei sporcare le lenzuola con il vino.»

E allora perché vuoi sederti sul bordo del mio lett.. ah!, pensò Rodrigo.

Esatto, sussurrò Aiolos.

«Esistono le tintorie», replicò Rodrigo. «Davvero non hai mai mangiato a letto?»

«Solo da moccioso. Quand’ero davvero malato.»

Madonna, che palle questo!, sentenziò Marco.

«Madonna», si limitò ad esternare Rodrigo, rigirandosi il bicchiere tra le dita. «Mangiare a letto è uno dei piaceri della vita», aggiunse, prendendo a prestito una delle massime preferite di Marco. Che applaudì fuori scena.

«Se e quando ne hai il tempo.» Tiennot si lasciò sfuggire un accenno di sospiro, come a dire che sì, la vita che aveva scelto pretendeva dei sacrifici; ma che per lui, questi sacrifici non erano poi tutto questo gran peso. «Io mi alzo alle quattro, e quando torno a casa sono le tre del pomeriggio», aggiunse. «Voglio solo chiudere la porta alle mie spalle, sfilarmi i vestiti e buttarmi a peso morto sul letto.»

«Tutti i giorni?», domandò Rodrigo, accavallando una gamba sull’altra.

«Domeniche escluse», rispose Tiennot, sorseggiando il vino. «Come vedi, la mia vita sociale è alquanto...»

«Sacrificata?», propose Rodrigo.

«Sacrificata», e Tiennot si fece scivolare quell’aggettivo in punta di lingua, come se ne stesse assaporando la consistenza. «Non proprio, perché a me fare il pasticcere piace. Però, suppongo che, agli occhi del resto del mondo, sacrificata possa calzare a pennello.»

Rodrigo tacque.

Il resto del mondo, pensò. E fu quando sentì lo sguardo di Tiennot su di sé che si accorse di aver dato corpo a quel pensiero. 

«L’ho fatto di nuovo, vero?», chiese, alzando le mani in segno di resa. «Ho pensato a voce alta.»

Tiennot annuì. «Tranquillo, succede anche a me», lo rassicurò.

«Inconvenienti del mestiere», spiegò Rodrigo, contento di non essere il solo che, ogni tanto e in maniera del tutto inopportuna, dava la stura al marasma che gli si agitava nella testa. «Alle volte una frase proprio non vuole venire. E uno deve provare a sentire come suona, a voce alta. Sai, perché sia credibile e non il deliquio di un pazzo.»

«Ma tu non scrivi guide?»

E bravo il nostro Zorro, che si è fatto trovare con le braghe calate, ridacchiò Marco, da qualche parte del suo cervello.

«Sì», rispose Rodrigo. «Anche.»

«Anche?»

Niente. Questo non molla, commentò Aiolos.

Tu, al posto suo, che faresti? La bella statuina?, domandò Marco, ormai alla guida stabile della mente di Rodrigo.

No, rispose la Voce della Coscienza titolare di Cattedra. Gli farei sputare tutto. Fino all’ultima sillaba.

Appunto…

«Anche.» Rodrigo posò il bicchiere, rinunciando a mandare a quel paese i suoi due - dico due - personalissimi Grilli Parlanti. «In questo mondo, si comincia dalla gavetta. Non è che tutti sono lì, pronti, ad aspettare il tuo Saggio, la tua Idea, il tuo Romanzo. Anzi.»

«Immagino», chiosò Tiennot. «Se anche solo un decimo di tutti coloro che si ficcano in testa di essere i nuovi Hemingway ha inviato il proprio manoscritto ad una casa editrice…»

«Hai centrato il punto», convenne Rodrigo. «Siamo tutti scrittori, i lettori son dati per dispersi, da qualche parte, nel Grande Oceano d’Inchiostro.»

«Quindi, che altro scrive uno scrittore di guide?» Tiennot si mise comodo, sporgendosi in avanti, le gambe accavallate e lo sguardo attento. «O sono forse troppo curioso?»

In effetti, commentò Aiolos. Marco si limitò a ridere. A sogghignare, per la precisione. E fu questo a far scorrere un lungo, lunghissimo brivido sulla nuca di Ruy.

«No, no. Figurati», rispose Rodrigo. Pensando l’esatto contrario. Si sentiva come un insetto sul vetrino di uno scienziato, camice, occhiali in punta di naso, bisturi in mano e un malcelato - malcelatissimo - desiderio di vivisezionare la povera bestia fin oltre il necessario. «Domanda legittima. Si comincia facendo un po’ di tutto, dalle fotocopie, ai caffè, ai controlli dei controlli dei controlli di bozze.»

«Capisco…»

«Se poi hai una marcia in più, diventi ghost writer

«Ghost writer

«Esatto. Hai presente quando un personaggio famoso decide di scrivere un libro, perché non è abbastanza lo scempio di carta che si fa su questo pianeta?» La testa di Tiennot andò su e giù un paio di volte. «Ora, il personaggio famoso, se siamo fortunati, azzecca un congiuntivo. Ma da qui a scrivere, ce ne corre. E allora la casa editrice chiama un povero Cristo senza nome, bravo a dipanare la matassa ingarbugliata che c’è nella zucca del personaggio famoso. Io sono il povero Cristo.»

«Ne avevo sentito parlare», disse Tiennot, prendendo un altro sorso di vino. «Solo, non pensavo che restassero anonimi.»

«E invece, sì», commentò Rodrigo. «Hai presente le autobiografie degli sportivi? In quel caso, c’è un giornalista che si occupa di acconciare il libro per il pubblico. Ma l’autobiografia non la scrive il giornalista. La scrive il ghost writer, assieme al giornalista.»

«In pratica», e Tiennot posò il bicchiere sulla scrivania, «tu ed io abbiamo qualcosa che ci accomuna. Siamo artigiani, in un certo senso.».

Artigiani.

Messa così, la situazione sembrava meno triste di quanto Rodrigo avesse sempre considerato. Molto meno triste. Sì, vedere il nome di qualcun altro a firma del tuo, di lavoro, era seccante per l’ego. Ma a questo mondo occorreva pur mangiare; e il suo, di lavoro, era pagato bene. Specie se a staccare gli assegni c’era qualcuno di assennato - e generoso - come Milo.

«Artigiani», ripeté Rodrigo, lo sguardo al soffitto della stanza, come in cerca di un’illuminazione improvvisa. «Mi piace.»

«Spero ti piaccia anche questo.» 

 

La voce di Tiennot gli arrivò da vicino. Molto vicino. Troppo, forse. Rodrigo abbassò la testa e se lo trovò di fronte, a pochi centimetri di distanza. La gazzella davanti al leone, sghignazzò Marco. E Rodrigo capì perché una gazzella fugge a gambe levate quando intravede il leone ai margini del proprio campo visivo. Perché il leone è un animale poderoso, grande e forte, che impiega poco - pochissimo - per coprire la distanza che lo separa dalla sua preda, e romperle l’osso del collo. Senza rancore, si deve pur campare. Ma il leone è soprattutto un predatore. E, come tutti i predatori, dispone di uno sguardo magnetico, che piomba le gambe della vittima, inchiodandola al terreno. E se - e quando - la vittima prova a scappare, una volta incrociato lo sguardo del predatore, è troppo tardi. Lo sanno entrambi. Così come sanno entrambi che l’una cercherà la salvezza nella fuga mentre l’altro le piomberà lo stesso addosso, magari concedendole un margine di pochi secondi, così da illuderla e da rendere la caccia più divertente. Per il predatore, s’intende.

E Rodrigo si sentì quasi annegare in quello sguardo di un blu impossibile. I marosi che schiaffeggiano il relitto a cui un povero naufrago si aggrappa nella pia, piissima speranza che il mare non lo inghiotta come se fosse un canapé. O un salatino. O un’oliva ripiena. O un moelleux au chocolat.

 

«Tieni», e nel campo visivo di Rodrigo apparve un piattino. Di carta, con una forchetta accanto. «Si è freddato al punto giusto.»

Sbatté le palpebre una volta, due, tre. E poi, sentendosi un completo cretino, tirò fuori un sorriso stiracchiato e disse: «Grazie.».

Prese il moelleux e lo fissò come si fissa un oggetto alieno, tanto per non mostrare a Tiennot di essere arrossito fino alla punta dei capelli.

Imbecille, si disse. E nessuno si unì al coro.

Sì, imbecille. Era chiaro che Tiennot si stava baloccando con lui, come avrebbe fatto un gatto con un topolino di pezza. O forse no? O forse era solo lui, Rodrigo, che vedeva cose che, nella realtà oggettiva del mondo reale, non esistevano?

Mi ha solo passato ‘sto benedetto dolce, si redarguì. Niente di meno, niente di più.

Il problema era che avere a che fare con Tiennot era come avere a che fare con il gatto di cui sopra: un’aggraziata figuretta dallo sguardo tanto meraviglioso quanto indecifrabile. E sapere cosa stesse passando, in quel momento, nella testa di Tiennot, equivaleva a centrare un bersaglio ad occhi chiusi, dopo aver girato sul proprio asse, e con una quantità di alcol in corpo capace di uccidere un bue.

Che ti passa per la testa?

 

Questa era una buona domanda. Un’ottima domanda. Una domanda alla quale, però, neppure il diretto interpellato avrebbe saputo, né potuto rispondere. Perché Tiennot stesso, in quel momento, non era ben conscio del perché si trovasse in quella chambre d’amis a mangiare un dolce fatto apposta per una persona con la quale si erano mandati a quel paese - a fare in culo, a voler essere precisi - meno di ventiquattro ore prima. Era come se qualcosa fosse scattato dentro di lui, una specie di interruttore. E Tiennot - una parte di Tiennot, almeno: quella assennata e giudiziosa e poco incline ai colpi di testa - tremava fin nel midollo, perché sapeva che cosa sarebbe successo. Così come sapeva che non ne sarebbe venuto fuori nulla di buono. 

Non aveva forse  spento il pilota automatico anche con Isaac? 

E che cos’era successo, dopo?

Chi aveva dovuto raccogliere i cocci, dopo?

Lui. Bibi. E Coco, che aveva visto un suo caro amico tornarsene in fretta e furia a Helsinki, senza nemmeno salutare, con il CD dei Noir Désir nello zaino.

Eppure, qualcosa, dentro Tiennot, si era messo al posto di guida e, dopo aver allacciato le cinture e controllato gli specchietti, aveva acceso il motore ed era partito, il piede a tavoletta sull’acceleratore. E lui, come in un incantesimo, si stava lasciando trasportare. 

Signori, in carrozza! 

Ma dove, di preciso, fosse diretto quel treno non era chiaro. Tiennot sentiva - Tiennot sapeva - che l’Hemingway in salsa aioli faceva parte del percorso; ma In che modo? e In quale misura?, queste erano domande che restavano sullo sfondo, sfocate e nebulose. 

Rodrigo lo fissava come si osserva un matto appena scappato dal manicomio, con la neppure poi tanto recondita paura che possa mettersi ad urlare, a picchiare qualcuno e/o a spogliarsi e correre via, in costume adamitico. E non necessariamente in quest’ordine.

Però, se Étienne Rémy Arnoul aveva un pregio, era quello di portare a compimento le imprese che iniziava, dalle più felici alle più disperate. Come questa in cui si era venuto a trovare. Nella quale ti sei andato a cacciare, semmai. Di testa, per altro, avrebbe sbuffato Alistair. E lui, tanto per cambiare, gli avrebbe tenuto prima il muso; e poi gli avrebbe detto che sì, aveva ragione.

Sì, ci si era andato ad infilare coi propri piedini in quella chambre d’amis affacciata sul Sacré Cœur. E adesso?

Adesso si va fino in fondo, e poi si vedrà, si rispose Tiennot. Al massimo, avrò perso un cliente, aggiunse, come per autoassolversi.

Perché quello che Tiennot si ostinava a non voler riconoscere, neppure con se stesso, era che a lui, quel ragazzo dai capelli scurissimi e gli occhi verdi - che non te ne saresti accorto, se non dopo essergli andato a sbattere contro -, dall’aria sempiternamente spaesata e l’espressione perenne di un bambino a cui hanno appena bucato il pallone; a lui, quel ragazzo piaceva. Eccome, se gli piaceva.

E per una volta  - una soltanto - non ci sarebbe stato niente di male nel concedersi una sana toccata e fuga. Senza troppe complicazioni. Giusto per tornare in sella e scrollarsi dalle spalle un senso di colpa che gli calzava addosso, ormai, come una seconda pelle.

Rodrigo sarebbe ripartito, prima o poi; forse più prima, che poi. Non gli aveva detto, giusto la sera prima, di avere una vita a Londra? E anche se Londra-Parigi era una distanza colmabile in un paio d’ore di treno, Tiennot non si faceva illusioni: stava vivendo la versione aggiornata e corretta di un amorazzo estivo, uno di quelli che finiscono per sempre quando la corriera è ormai in stazione e la rentrée è ad un paio di giorni di distanza. Solo che loro due, al posto del sale, del sole, della crema solare e dei falò di mezzanotte, avrebbero avuto la neve, le Sacré Cœur oltre la finestra e un paio di Plaisir d’Amour per accompagnamento.

Com’era? We’ll always have Paris, no?, avrebbe chiosato Alistair.

Poteva andarci peggio, si rincuorò Tiennot alzandosi, prendendo il proprio piattino e accomodandosi alla scrivania, le ginocchia a sfiorare quelle di Rodrigo.

«Niente creme», disse, quasi giustificandosi. «Non avrebbero retto alla passeggiata fin qui.»

«Ah, capisco», disse Rodrigo, con il tono di chi no, non capiva affatto. Oppure era molto, molto bravo a fingere. «Dove sei andato di bello, a cena?»

Niente, mi tocca prenderla alla lontana…

Round up the usual suspects, avrebbe chiosato Alistair.

«In un posto molto carino», rispose, restando sul vago. Il viso di Rodrigo si illuminò, e la mente di Tiennot fu attraversata da un’idea: Rodrigo, seduto a chiacchierare con Christiane al tavolo da pranzo un po’ sbilenco, mentre Alistair lo fulminava con gli occhi ad ogni sua mossa. «Però non ti posso dare l’indirizzo.»

Rodrigo lo fissò, interdetto.

«Sono stato a cena a casa di amici», spiegò Tiennot. «Sai, Alistair? Oggi è il suo giorno libero.»

«Ah, giusto», disse Rodrigo, colpito da un’illuminazione improvvisa. «Aspetta. Oggi è ancora il tuo compleanno.»

«Per questo il dolce l’ho portato io.»

«Mi spiace, hai fatto tutta questa strada…»

Play it, Sam. Play As Time Goes by. 

E niente, non ci arrivava. Un motivo in più perché quel ragazzo gli piacesse.

Lo aveva capito quella mattina stessa, mentre, marciando verso la chambre d’amis con la colazione, i due caffè e il telefono di Rodrigo nella tasca della giacca, si stava domandando con spassionata curiosità chi diamine glielo facesse fare di prendersi tutto quel disturbo. A parte sua madre. Che, se proprio avesse voluto, avrebbe potuto risolverla lei, quell’incombenza. E poi, eccolo lì, sul pianerottolo silenzioso, l’aria stralunata e la maniglia stretta tra le dita. Gli era apparso diverso. Più deciso. Più uomo e meno bamboccio. E l’Epifania - una di quelle con dignità di maiuscola e gravità tale da far impallidire Joyce -, lo aveva travolto in pieno, senza tanti complimenti, con tanto di montante allo stomaco e fuochi d’artificio nel petto.

La domanda era: dove diamine si era andato a cacciare quel Rodrigo? 

Si era imbarcato su di un cargo battente bandiera liberiana, oppure era lì, da qualche parte, sotto la corazza di buone maniere e cortesia, in attesa di saltare fuori e fare scempio di lui?

Che devo fare con te? Mandami un segnale, santo Cielo, pensava Tiennot, osservandolo masticare con gusto il Plaisir d’Amour, gli occhi socchiusi dalla soddisfazione. Il suo orgoglio di pasticcere ruggì di piacere; ma il suo orgoglio di uomo premeva per strappargli via i vestiti e altri, ben più appaganti ed accorati sospiri.

 

«Squisito», commentò Rodrigo, servendosi ancora. «Squi-si-to», si premurò di sillabare, gli occhi spalancati dalla felicità, quella smarginata di un bambino da solo a solo con una montagna di meringhe extra-large.

«Sono contento», rispose Tiennot. «Non si sente troppo il liquore?», domandò poi, per pura cortesia. Lui sapeva che no, non aveva esagerato né con il liquore, né con qualsiasi altro ingrediente, perché tutto, nella ricetta, era stato pesato e calibrato con meticolosa attenzione.

La pasticceria è l’arte della precisione, diceva Rémy, e Tiennot ne aveva fatto il proprio mantra.

«No, anzi», confermò Rodrigo. «Ce n’è appena un sentore, ma è incisivo al punto giusto. Non ti asfalta la bocca, coprendo il resto, ma ti lascia quel buon retrogusto di Cointreau…»

«No, non è Cointreau.» 

Tiennot si concesse un sorrisetto. Ci cascavano tutti. Anche lui, quando Rémy gli aveva concesso di assaggiare il Plaisir d’Amour per la prima volta, aveva dato la stessa, identica risposta. Cointreau. E quanto si era sentito figo nell’aver dato l’unica risposta possibile. Un sentore agrumato; e cosa vuoi che sia se non Cointreau? E invece, quella volta era stato Rémy a sorridere, prima di tirare fuori una bottiglia di un liquido rosso arancio brillante e spiegargli che no, no era affatto Cointreau. Era…

«Mandarinetto Isolabella.» 

«Prego?»

«È un liquore italiano. Piemontese, per la precisione», spiegò. «Al mandarino. Si sposa meglio con il cacao amaro.»

«Adesso che me lo fai notare…» Rodrigo prese un’altra forchettata e assaporò il boccone con lentezza e attenzione, gli occhi chiusi e l'espressione seria. A Tiennot venne quasi da ridere.

«Tranquillo, tutti coloro che assaggiano il Plaisir d’Amour per la prima volta commettono questo errore.»

E l’ultimo, prelibato boccone si infilò di traverso nella gola di Rodrigo. Il quale cominciò a tossire senza ritegno. Tiennot gli si avvicinò, gli diede un paio di pacche sulle spalle. Niente. Versò del vino nel bicchiere e glielo porse. Rodrigo si alzò dalla sedia e bevve, strabuzzando gli occhi quando sentì in bocca un sapore diverso dall’acqua. E fu in quel momento che il boccone dispettoso smise di ostruirgli le vie respiratorie, e si incamminò di buon grado verso il proprio destino, lungo l’esofago.

«V… vino?», balbettò Rodrigo.

«Questo c’era», si giustificò Tiennot. «Ha funzionato, mi pare…»

«Hai ragione anche tu. Scusami un attimo.» 

Rodrigo sparì dietro una porta e Tiennot sentì lo scorrere dell’acqua nel lavandino. Quando tornò, si sedette sul bordo del letto, il viso umido e l’aria stralunata.

«Tutto bene?», chiese Tiennot, prendendo una sedia e piazzandoglisi davanti.

«Sì. Sì», rispose Rodrigo. «Mi hai solo colto alla sprovvista.»

«Ma davvero non avevi capito che?»

«No.» Rodrigo, gli occhi un po’ arrossati, lo scrutava con la stessa curiosità con cui si fissa un fenomeno da baraccone piuttosto interessante. Per capire dove stia il trucco. «Come avrei potuto indovinare?»

«Pensavo fosse palese.»

Amico mio, I think this is the beginning of a beautiful friendship.

«Se sapessi leggere il pensiero, forse», ribatté Rodrigo pacatamente. «Ma io non sono nella tua testa. E anche se avessi la telepatia, sarebbe scortese farmi i fatti tuoi.»

«Siamo prossimi a S. Valentino, no?», insistette Tiennot. Come se quello fosse l’indizio cardine, l’impronta digitale sull’arma del delitto che inchioda l’assassino alle proprie colpe e responsabilità, senza altra ombra di dubbio.

«Vero. Ma tu avevi parlato di una sorpresa», gli fece notare Rodrigo. «Il che poteva stare a significare qualcosa di nuovo…»

«… o qualcosa di inaspettato», glossò Tiennot con testardaggine. «E da come si sono messe le cose al Verse-Eau, ti saresti mai aspettato di assaggiare il Plaisir d’Amour

Rodrigo inspirò ed espirò un paio di volte. Con lentezza. Riempiendosi i polmoni. Poi disse - poi confessò -: «No.». Silenzio. «Anzi», riprese poi, «mi sarei giocato anche le mutande che per quest’anno niente Plaisir d’Amour. Per tigna, più che altro.».

«Per fortuna che non l’hai fatto, altrimenti…» Tiennot sospirò. «C’è modo e modo di mettere la gente in mutande.» E se non lo capisci adesso…

«Come se ti dispiacesse…»

Il cuore di Tiennot perse un paio di battiti. Si stava aprendo una falla, in quella maschera di cortesia? O forse era affetto da personalità multiple e il Rodrigo di quella mattina stava facendo capolino, per rimanere in pianta stabile?

«Hai di nuovo pensato a voce alta?»

«No.»

C’era qualcosa, adesso, nello sguardo dell’Hemingway in salsa aioli; qualcosa che regalò a Tiennot un delizioso - deliziosissimo - e piacevole - piacevolissimo - brivido lungo schiena.

Rodrigo si sporse in avanti e gli accarezzò la mascella. 

«Dimmi solo una cosa…» Tiennot annuì. «Perché hai voluto farmi assaggiare questo dolce? Perché sei venuto a portarmelo a domicilio? E non tirare in ballo la guida. Non ci credi neppure tu.»

Tiennot sospirò. «Non ci arrivi?»

«Voglio sentirtelo dire.»

«E va bene», concesse. «Primo, perché ormai mi ero incaponito a fartelo assaggiare. La costanza va premiata, no? E se ti avessi lasciato assaggiare la versione di Coco, ti avrei avuto sulla coscienza per tutta la vita.»

«E secondo?»

«Secondo», riprese Tiennot, «perché al Verse-Eau c’è troppa gente. Troppa gente che chiacchiera. E da quando è saltata fuori quella rogna del concorso, curiosi e ficcanaso sono decuplicati.».

«E terzo?»

Perché sì, c’era un terzo punto. Lo sapevano entrambi. E Rodrigo, la mente una tantum libera dal cicaleccio continuo di Aiolos e Marco, aveva deciso di prendere l’iniziativa e spingere Tiennot a dire tutto quello che gli passava per la testa, una volta per tutte. E Tiennot, che nulla sapeva del bailamme che di solito aveva luogo nel cervello dell’altro, si trovò con le spalle al muro. E non poté far altro che chiudere gli occhi e tacere, cercandosi le parole nelle tasche della giacca di velluto bordeaux, con lentezza, con calma; così da assicurarsi, oltre ogni ragionevole dubbio, che fossero le parole giuste da dire.

«Perché, ad un certo punto, ho iniziato a desiderare che tu guardassi me come fai con mia sorella.»

«E perché? A me tua sorella non interessa», sussurrò Rodrigo. «Io gioco nell’altra squadra. Lo sai.»

«Sì. Tuttavia…»

Rodrigo pose fine a quella replica sterile sporgendosi in avanti e sfiorandogli le labbra in un gesto delicato. «Convinto?»

«No», replicò Tiennot, la voce di un paio di ottave più bassa. «Non ancora. Ho bisogno di un altro paio di spiegazioni.»

«Quanto tempo hai?»

«Tutto il tempo del mondo.»

E fu quindi il turno di Tiennot. 

Si fece avanti, catturando le labbra di Rodrigo, finendogli addosso e spingendolo con la schiena sul letto. E poi fu un concerto di fruscii di lenzuola, di giacche scivolate giù da spalle e braccia, di camicie sfilate, scarpe abbandonate da qualche parte, alla deriva sul pavimento. E poi, i calzoni scesero a metà gamba, i respiri si fecero sempre più corti e interrotti, e una mano vagò, peregrina, alla ricerca dell’interruttore per spegnere la luce, mentre si mappavano il corpo e l’anima, scambiandosi fiato e pelle.

Fuori iniziò a nevicare.

 

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Capitolo 14
*** 14. ***


14.


 

E andò avanti così, per qualche giorno.

Tiennot usciva di casa un pochino prima, raggiungeva il Verse-Eau, scaldava due cornetti, preparava il caffè e, prima che scoccassero le sei, scendeva giù per la collina, attraversava place Pigalle e bussava alla porta della chambre d’amis, la colazione come pretesto, la voglia di rivedersi come benzina.

E la sera, dopo essersi dati appuntamento da qualche parte, o aver mangiato un boccone assieme in qualche brasserie, raggiungevano la stanza di Rodrigo, le mani che iniziavano a cercarsi già nel segreto dell’ascensore, e si facevano più impellenti - e dispettose - sul pianerottolo, mentre la chiave faticava ad entrare nella serratura una, due, tre volte.

Nessuno parlava, come a non voler rompere la bolla magica in cui si erano rinchiusi, per non spezzare l’incantesimo; ma gli altri vedevano. Vedevano, e, in cuor loro, ne erano sollevati. Chi vedeva, ma non capiva, era Yngve. E si chiedeva quando, come e perché fosse iniziata quella relazione. E senza che lui se ne accorgesse.

«In pratica, me l’ha fatta sotto al naso», si lamentava, affettando carote, cipolle e gambi di sedano. E Marco, seduto all’esterno, una sigaretta tra le labbra a sfidare l’inverno parigino, si stringeva nelle spalle e, saggiamente, gli ricordava che non erano affari loro.

«Ce ne parlerà se e quando vorrà. Lui», si premurava di sottolineare per l’ennesima volta, la Gazzetta aperta per inganno. «Dovremmo essere contenti che si sia tolto quello stronzo dalla testa, no?»

Yngve incassava, con grazia.

Riprendeva a decapitare ortaggi con la stessa solerzia di un boia del Terrore - si vede che l’aria parigina manteneva in sé i germi, nemmeno poi tanto reconditi, della Rivoluzione di luglio, e li spandeva per le strade e per i vicoli come fosse un malanno di stagione. E poi, però, tornava alla carica, più pressante di prima: «E che succede se gli va male anche stavolta?», chiedeva. Per puntiglio, ché Yngve voleva avere sempre l’ultima parola, per partito preso.

«Succede che gli faremo da stampella, ancora una volta», liquidava la questione Marco, sfogliando le pagine rosa e rassicurando il compagno, per poi rilanciare: «E se fosse lui, per una volta, a spezzare il cuore di qualcuno?».

«Rodrigo è troppo perbene», ribatteva Yngve. E Marco si trovava a dovergli dare ragione, almeno su quel punto.

Quello che, sotto sotto, interessava a Marco, era il mancato manifestarsi di Milo. Si era quasi alla vigilia di S. Valentino. Quanto mancava? Un paio di giorni? Tre? 

Si erano accordati tramite email con la segretaria di produzione per le riprese, gli scatti promozionali, eccetera eccetera. Ma l’enfant prodige della cucina latitava. E come avrebbe potuto rendere ancora credibile la farsa, se le recensioni dei tre locali in lizza erano apparse sul suo sito - sul sito dedicato al concorso, semmai -, mentre non c’era traccia di alcuna menzione dei tre dolci in lizza?

O meglio: si parlava delle Nepitelle e dei Kladdkaka, e Marco sapeva che no, Milo non si era manifestato a Parigi - non ancora almeno; ma, del Plaisir d’Amour, nessuna traccia. Ed era questo, più che la baracconata del concorso, a preoccupare Marco: che Rodrigo avesse perso di vista la bussola e si fosse incamminato verso un approdo ricco di scogli a pelo d’acqua; piccoli, sì, ma in grado di sfondare qualsiasi chiglia, con la stessa grazia di un coltello caldo che affonda in un panetto di butto. Questo sì, che avrebbe mandato a gambe all’aria qualsiasi possibilità, anche la più recondita, anche qualora si fosse trattato di un’avventura con data di scadenza.

Speriamo non faccia l’ennesima minchiata, si ripeteva, voltando le pagine e riducendo la giaculatoria di Yngve ad un rumore di fondo, nell’utopia che qualcuno lassù - un qualche santo volante, anche uno di quelli a mezzo servizio, con un patronato condiviso - ascoltasse la sua scalcagnata preghiera.

 

Marco non poteva sapere che il Destino, in realtà, fosse già all’opera. Perché mentre Yngve decapitava ortaggi senza pietà e Marco si stava baloccando con la Gazzetta, all’interno della cassa dell’ orologio cosmico, al di sotto del quadrante e delle lancette, gli ingranaggi continuavano a ruotare, inesorabili, incastrandosi tra di loro, secondo dopo secondo. E così, la Ruota della Fortuna, che proprio quella mattina aveva fatto capolino dal mazzo di Tarocchi di Maman Louise, s’era ormai messa in moto. E, a breve, gli ultimi interpreti avrebbero fatto il loro ingresso trionfale in scena. E, volenti o nolenti, tutti gli attanti avrebbero recitato la loro parte, fino all’ultima battuta. 

 

Il mattino seguente, venerdì, un sole sfacciato irruppe dalla finestra dell’abbaino di un certa chambre d’amis a Pigalle.

Il vento della sera prima aveva spazzato via le nuvole; e un cielo terso e struggente faceva da volta alla vita che si andava affaccendando in una città ormai in procinto di essere conquistata da una pletora di cioccolatini, rose rosse e frasi fatte d’amore, da pronunciare all’orecchio. 

A malincuore, Tiennot si fece coraggio, si stiracchiò, si alzò e abbandonò le lenzuola calde per rimettersi in marcia. Rodrigo dormiva, sfranto, i capelli scurissimi sulla federa candida e la bocca socchiusa. Si rivestì, gli scoccò un bacio a fior di pelle sulla fronte, e uscì dalla stanza, diretto al Verse-Eau, col passo svelto e deciso di chi rischia di cambiare idea da un momento all’altro. 

Percorse Rue Pigalle in direzione nord, le mani nelle tasche del piumino e l’aria adorabilmente imbecille di chi ha appena toccato il cielo con un dito. Si sentiva bene. Per la prima volta, da un bel po’ di tempo, le cose scorrevano lisce come l’olio. Senza intoppi, senza ritardi, senza tegole dispettose pronte a cadere senza un perché, e a sfondarti l’osso del collo solo perché non avevano null’altro di meglio da fare, quel giorno. E un sentimento, viscido come un tegame unto, si insinuò pian pianino nel suo cervello.

Quanto durerà?

E quella voce - non quella della ragionevolezza di Alistair, né quella protettiva di sua madre - non stava certo alludendo al fatto che, prima o poi, Rodrigo avrebbe messo le sue chiappe sul treno per Londra, e tanti saluti. Nossignore. Quello era un limite che si trovava sul loro cammino, avvolto dalla nebbia; lo avrebbero affrontato se e quando si fosse manifestato, ché era stupido fasciarsi la testa per qualcosa ancora di là da venire. Basta a ciascun giorno il suo affano, no?

Quello a cui la vocina nella mente di Tiennot alludeva era più generale.

Quanto durerà ancora questo stato di grazia?
Quanto salato sarà il conto da pagare, alla fine di questa cena?

Perché la vita è un’onda, che sale e scende, che atterra e suscita. E se per puro caso ti capita di trovarti in alto, sta’ pur sicuro che, prima o poi, il percorso ti porterà in basso, per poi risalire e ridiscendere e risalire e ridiscendere. Ancora e ancora e ancora. Chi troppo in alto sal cade sovente precipitevolissimevolmente.

Fermo al semaforo di Place Pigalle, la vetrina di Monoprix alla sua destra, Tiennot strinse le labbra e i pugni nelle tasche del piumino.

Non siate in ansia per il domani, perché il domani si preoccuperà di se stesso. Basta a ciascun giorno il suo affanno.

Tiennot inspirò ed espirò un paio di volte, piano, piano. Lasciò che il semaforo scattasse - rosso, verde, rosso, verde - e attraversò l’incrocio, ben deciso a non lasciare che il seme dell’ansia gli avvelenasse l’anima.

Giorno per giorno. Un passo alla volta. Avrebbe pagato il conto al momento opportuno; e, intanto, si sarebbe goduto il viaggio.

Con questi pensieri in cuore, raggiunse il Carousel des Abbesses, le guance arrossate, e una serie di programmi e progetti per la prossima domenica. Si sarebbe ritagliato tutta la giornata per passarla con Rodrigo. Avrebbe pensato lui alle vettovaglie, lo avrebbe raggiunto in camera e si sarebbero barricati dentro, fino al mattino successivo. A costo di ingoiare la chiave. Perché Tiennot aveva imparato, in quella manciata scarsa di giorni, che sì, mangiare a letto - fare tutta una serie di cose, a letto - non solo era divertente, se fatto con la persona giusta, ma era anche necessario. Era una sorta di autogratificazione, uno zuccherino con cui addolcire la più schifosa e tosta delle giornate. Uno spazio sacro, per così dire, in cui includere solo ciò che ti fa stare bene, e da cui sbattere fuori senza troppe cerimonie tutto il veleno del mondo.

E, con un sorriso soddisfatto, scartabellando col pensiero tutta una serie di opzioni da esplorare e condividere con Rodrigo, Tiennot sfilò davanti alla vetrina del Verse-Eau ed entrò nel locale, annunciato da un allegro scampanellio.

Non c’era il solito traffico delle otto del mattino - quel giorno si era attardato cinque minuti in più, ma pazienza; non era morto nessuno, in sua assenza, no? - ma i suoi occhi registrarono due novità. 

La prima: un ragazzo biondo, alto, che pareva appena sceso dal piedistallo di un museo per sgranchirsi le gambe tra i comuni mortali, si era seduto al posto di Ruy - l’etichetta Hemingway in salsa aioli era finita nella soffitta polverosa del cervello di Tiennot -, e guardava fuori, come se stesse aspettando qualcuno. Il fidanzato, pensò Tiennot, il cui personalissimo radar raramente faceva cilecca.

La seconda: una donna lo aspettava al bancone, una ventiquattrore gonfia di carte e scaroffie sul punto di esplodere su uno sgabello, proprio di fianco a lei. 

Giaccone scuro, pantaloni a sigaretta, occhiali da sole e capelli perfettamente acconciati. Un velo di trucco e una borsa capiente sotto braccio completavano il quadro generale. Il fatto che aspettasse espressamente lui fu confermato dall’ampio - e sollevato - sguardo che sua madre gli rivolse, e dall’ampio - e anche un po’ seccato - sorriso che la donna sfoderò vedendolo entrare nel locale. Piegò la testa da un lato, con fare civettuolo, e si voltò apertamente verso di lui, andandogli incontro.

«Monsieur Arnoul», disse lei, tendendogli la mano e macinando - schiacciando - il pavimento sotto le suole dei suoi mocassini italiani. «Sono Shaina Cohen. Felice di conoscerla.» 

Il suo francese era buono. Molto buono. Tuttavia, Tiennot non capiva cosa diamine potesse volere quella donna da lui.

«Buongiorno», rispose. Come se non fosse sicuro della risposta giusta da dare. «Cosa posso fare per lei?»

Probabilmente era un’altra falena attirata da quell’assurdità del concorso. Qualcuno che voleva assolutamente incastrarlo a fare qualcosa di tremendamente noioso, quanto inutile e superfluo. O magari provare a piazzargli una polizza assicurativa di qualche genere. Ne erano arrivati a carrettate, di personaggi simili, sorriso smagliante e proposta irrinunciabile nella tasca dei calzoni. 

Bastava solo dimostrarsi degli psicopatici, cosicché perdessero ogni velleità di voler chiacchierare con un matto. Perché una persona gentile, ma ferma, può essere lavorata ai fianchi; la si può assillare, assediare ed espugnare per stanchezza. Ma uno psicopatico, no; uno psicopatico è un tizio che ha scritto in fronte una parola sola, ma a caratteri cubitali. GUAI. E la prima cosa che si insegna, alla Scuola degli Scocciatori, è di evitare come la Peste tutti coloro che possono dare rogne. Perché quelle rogne ricadranno sulla testa e sulle spalle dello sfortunato piazzista/agente immobilliare/assicuratore. Una delle tante regole non scritte del Pacchetto Sopravvivenza, insomma.

Così Tiennot, fedele alla linea impostata da Rémy prima di lui, mise su l’espressione più stralunata del suo repertorio. E la donna sbatté le ciglia, perplessa.

«Sono Shaina Cohen», ripeté. Quasi scandendo il proprio nome e cognome. «Sono l’assistente personale del signor Papadopoulos. Sono qui per il sopralluogo.»

«Sopralluogo?», ripeté, nella pia speranza di guadagnare del tempo che, ormai, pareva essere scaduto. E che la signora Cohen non avrebbe dilazionato ulteriormente.

«Il sopralluogo. Certamente», ripeté Shaina abbandonando la sua mano e fissandolo dritto nelle palle degli occhi. A Tiennot ricordò un qualche tipo di serpente. Un cobra, pronto ad ipnotizzare la propria, incauta vittima con un movimento ondulatorio della testa, prima di sputarle veleno negli occhi. 

«Per la sfida di S. Valentino. Ricorda?» Pausa. «Abbiamo concordato che ci saremmo incontrati a pochi giorni dall’evento per discutere tutti i dettagli. Oggi. A quest’ora. Mezz’ora fa, per amore di precisione.»

Shaina lo fissò perplessa, poi scattò, diretta come un pugno alla mascella:«Lei ha letto quella email? Anzi, ha letto quelle email, vero signor Arnoul?».  

 

La realtà era che no, Tiennot non le aveva lette, né quella, né le altre che erano fioccate da che i tre locali erano stati scelti per la sfida. Non le aveva aperte affatto. Perché mai avrebbe dovuto? Tutta quella faccenda era un’incombenza che spettava a Coco, solo ed esclusivamente a lei. E Coco sì, che le aveva lette, una ad una, rispondendo a nome del fratello a tutto ciò che Shaina Cohen le domandava. Ma Coco aveva anche deciso di guadagnare tempo, il più possibile, tutta presa com’era dal cercare di produrre una sua versione del Plaisir d’Amour che fosse almeno commestibile, e non le costasse una denuncia per avvelenamento da parte di Milo Papadopoulos.

«No», rispose Tiennot. Non era con lui che quella donna avrebbe dovuto parlare, ma con Coco. Coco che, tanto per non smentirsi, non solo non si era presentata per risolvere la questione, ma gliene aveva debitamente taciuto ogni aspetto possibile ed immaginabile, a cominciare dal fatto di aver preso un impegno a suo nome, perseverando nell’errare.

Shaina si accigliò.

«Come sarebbe a dire no?», domandò. «Ma io con chi ho avuto quello scambio di email, mi scusi?»

«Con mia sorella», rispose Tiennot, superandola e portandosi dietro al bancone. «Tutta questa storia è una sua idea. Io non c’entro nulla. Ero contrario a partecipare, ma mia sorella ha iscritto il Verse-Eau nonostante tutto.» 

«Ma le email sono a nome suo», insistette Shaina. Prese il proprio iPad dalla ventiquattrore e glielo mise di fronte. «Ecco qui.»

E Tiennot guardò assieme a Françoise la prova inequivocabile della colpevolezza di Coco. Una dozzina di scambi telematici con Shaina, in cui le due decidevano per filo e per segno come si sarebbe dipanata quella vicenda. C’era però un piccolo, piccolissimo problema. Quella scriteriata aveva firmato a nome suo.

Un velo di furore cieco scese sul viso di Tiennot. 

Io la strozzo. La strozzo. E nascondo il cadavere in cantina.

«Signora Cohen…»

«Mi chiami Shaina.»

«Shaina», la accontentò Tiennot. «Credo ci sia stato un colossale equivoco.»

«Signor Arnoul…» Lui non le disse di chiamarlo pure Étienne. «Gli errori capitano. Succedono. Volenti o nolenti. Ed il mio lavoro è quello di scovarli, eliminarli e far tornare tutto l’ingranaggio a scorrere liscio come l’olio. Senza intoppi.»

Tiennot annuì.

«Ma qui siamo oltre l’errore. Qui c’è del dolo

«No, aspetti…», provò ad intervenire Françoise.

«No, non aspetto», e Tiennot sentì le fauci della serpe chiudersi attorno alla sua caviglia. «Voi avete preso un impegno con il signor Papadopoulos. Vede questa firma?»

Shaina gli mostrò un documento con tanto di firma digitale, ovviamente falsificata da Coco.

«Questa è o non è la sua firma, signor Arnoul? Ci pensi bene, prima di rispondere.»

Tiennot serrò i denti, i pugni e l’anima.

«È la firma digitale del locale», scelse di rispondere. Non era proprio la verità, ché era la sua, quella, di firma; ma siccome un locale non è un’entità a sé stante, qualcuno aveva dovuto farne le funzioni. E a chi altri era toccato in sorte di assolvere quel compito?

 «Maman, andresti a controllare i croissant in cottura, per favore?»

Françoise non se lo fece ripetere due volte. Abbozzò un sorriso costernato a Shaina e si infilò dietro la porta del laboratorio, la mano nella tasca del grembiule alla ricerca del cellulare con cui convocare, seduta stante, Coco al Verse-Eau.

 «È la firma digitale del locale», ripeté, con maggiore calma, tornando ad occuparsi di Shaina.

 «Questa firma riporta il suo nome», puntualizzò lei.

 «Credo di capire quale sia il busillis.» Pausa ad effetto.  «Il nome è sì il mio, ma il locale appartiene anche a mia sorella Coralie. Parteciperà lei, alla gara.»

Shaina sbatté le ciglia, perplessa.  «Mi scusi, ma allora perché ha iscritto lei

 «Ha iscritto il locale», puntualizzò Étienne, per l’ennesima volta.

 «No, signor Arnoul.» Il dito di Shaina, l’unghia laccata di rosso scuro, riprese a scorrere sull’iPad. Aprì e chiuse diverse cartelle, scartabellandone il contenuto, fino a quando non trovò quello che cercava; e mostrò il file a Tiennot.  «Ha iscritto specificatamente lei.»

E Tiennot vide, compilato in ogni sua parte, il modulo di adesione a quell’assurdità di gara a cui Coco aveva abboccato, senza nemmeno bisogno di vedere l’esca. E sì, quella donna aveva ragione. Alla voce PARTECIPANTE figurava il suo nome - il suo nome per esteso: Étienne Rémy Arnoul.

 «Io non capisco…», si lasciò sfuggire, per dare a sua madre il tempo di trovare quella scriteriata, incosciente, scapestrata di Coco.

 «Quando ci si iscrive al concorso, è obbligatorio compilare questo formulario. In tutte le sue parti. Altrimenti la registrazione non va a buon fine.»

Shaina gli stava spiegando tutto, passo passo, come se stesse parlando con un moccioso particolarmente ottuso - enfasi su ottuso.

 «E l’unico ad avere diritto a partecipare è un cuoco. O un pasticcere. Qualcuno, insomma, che abbia conseguito un diploma professionale.» Pausa. «Questa è una gara tra professionisti. Non una sagra di paese. Nessun vero cuoco si abbasserebbe a partecipare se sapesse che i suoi avversari sono casalinghe, pensionati o food blogger

Tiennot annuì, la calma apollinea che lasciava il passo, piano piano, ad un furore sempre più cieco e sempre più assoluto.

 «Mi dica, signor Arnoul: sua sorella è una professionista? Perché, in tal caso, sarei curiosa di sapere come mai abbia iscritto lei…»

In un altro momento, le labbra di Tiennot si sarebbero arricciate all’insù in un sorrisetto divertito al pensiero - all’idea platonica - di Coco tra pentole, padelle, fornelli, senza che nessuno ci lasciasse le penne. Ma quel sorrisetto morì senza appello, mentre i suoi occhi gli rimandavano il suo nome - il suo nome per esteso - nella casella relativa al partecipante.

 «E sono sicura che sua sorella non sia neppure iscritta ai Marmittoni, giusto?», rincarò la dose Shaina.  «Perché vede, signor Arnoul, io mi adopero al massimo, nel mio lavoro. E sono sicura, sono più che sicura, che non non ci sia tra i Marmittoni nessuna Coralie Arnoul.»

 «No», disse Tiennot, il volto livido e la mascella serrata. 

 «Signor Arnoul…» Shaina allontanò l’iPad dalle sue mani, nella malaugurata ipotesi che potesse scagliarlo contro la prima parete disponibile. «Siamo a pochi giorni dalla messa in onda. Non vorrete ritirarvi proprio adesso, vero

«Sarebbe possibile?», domandò Tiennot. Sapeva che, dietro a quell’eventualità sventolatagli sotto al naso, si nascondeva, piuttosto, un’arma a doppio taglio, che l’avrebbe sì, salvato; ma a quale prezzo? Alto, tanto per cambiare, si rispose; ma fissò Shaina, come se fosse la sua personalissima Fata Madrina pronta a salvargli le chiappe ancora una volta.

«Certo. Tutto è possibile», rispose lei, come da programma.

«Ma?»

Shaina sorrise. Era venuto a vedere il piatto, e lei di sicuro non si sarebbe fatta trovare con una misera coppia di nove. Per quanto, una coppia di nove è sempre meglio di una mano spaiata. «Ma a questo mondo tutto ha un prezzo, monsieur Arnoul», rispose lei. 

«A quanto ammonterebbe la penale?» 

Lo chiese senza starci a girare troppo attorno. I serpenti vanno presi per il collo, affinché non si rigirino e mordano. Ma Shaina non era una cobra, no; mano a mano che quella conversazione proseguiva, Shaina si stava dimostrando più una bizzarra versione di un serpente costrittore. Un boa. O un’anaconda verde, di quelle che - si favoleggiava - vivessero indisturbate nel Rio delle Amazzoni.

Sto solo facendo il mio lavoro, diceva la postura di quella giovane donna. Niente di personale.

Lei prese una penna dalla borsa, strappò un foglietto da un bloc-notes e scrisse la cifra.

«Sta scherzando?»

«No.» Pausa. «Sono serissima.»

«Credo sia opportuno che io senta il mio avvocato», le fece notare Tiennot. 

«Mi sembra una saggia idea», ribatté lei. «Ha meno di ventiquattr’ore di tempo, signor Arnoul, per prendere una decisione.»

«Altrimenti?»

Lei non si fece intimorire dal tono di sfida con cui Tiennot pronunciò quella domanda. 

«La penale potrà sembrarle alta…»

 «Alta? Avanti, è più alta del premio del premio finale!»

 «… ma arrivati a questo punto, il problema riguarda tutti. Le rammento che il ritirarsi dalla gara, a pochi giorni dalla messa in onda, inciderà sul lavoro dell’intero gruppo. Il mio, quello del fotografo, quello della squadra, quello del signor Papadopoulos e quello degli altri concorrenti.»

«Mi pare assurdo che non ci si possa ritirare!»

Shaina prese la borsa per il manico, armeggiò con il cellulare e si guardò intorno.

«Signor Arnoul», e sembrò cercare il tono più conciliante di tutto il suo repertorio, «certo che è possibile ritirarsi. Ma ci sono delle tempistiche da rispettare. Un termine superato il quale no, non è più possibile tornare indietro, se non per cause di forza maggiore. Cause improrogabili e non dipendenti dalla propria volontà.».

Tacque per un istante, spaziando con lo sguardo nel locale. 

«Questo significa che, ad esempio, o il locale è dichiarato inagibile per una calamità naturale; oppure perché, nel frattempo, il concorrente è passato a miglior vita.» Pausa. «E siccome il Verse-Eau è ancora in piedi e perfettamente funzionante, e lei è qui, vivo e vegeto…»

Prese la borsa, girò sui tacchi ed uscì dal Verse-Eau a passo di marcia. Come un panzer lanciato per il pendio della Collina.

 

 «Ma si può sapere cos’è successo?»

Françoise era riemersa dal laboratorio, un vassoio di croissant tra le mani e l’aria terrea.

Tiennot non rispose. Fissò per qualche istante un punto indefinito del bancone davanti a sé, le mani strette a pugno e le nocche sbiancate.

 «Mamma, io devo assentarmi un attimo», disse, infine, riemergendo dal proprio malmostosissimo silenzio.

 «Dove vai?», gli sibilò lei.

 «Devo pensare. Devo pensare e devo sbollire. Hai chiamato quella disgraziata?»

 «Non risponde. Le ho lasciato un messaggio e continuerò a chiamarla fino a che non ci farà la grazia di comparire qui.» Silenzio. «Tiennot, non…»

 «No, mamma. Per favore.» La voce bassa, lo sguardo rivolto al locale, Tiennot aggiunse: «Devo calmarmi. Se comparisse adesso, non so che cosa potrei fare.».

Diede una manata di stizza al bancone, sollevò il basculante ed uscì, le mani sprofondate nelle tasche del giubbotto e l’umore che virava al fortunale.

In quella, il ragazzo seduto al posto di Rodrigo si alzò, recuperò le sue cose e si avvicinò alla cassa per pagare.

Ti sei goduto lo spettacolo?, pensò Françoise, guardandolo con la coda dell’occhio, mentre Tiennot spariva oltre la vetrina del Café e scivolava via, lungo le strade lastricate di porfido.

Françoise ricapitolò il conto e batté lo scontrino. E pregò che Rodrigo riuscisse nel miracolo di farlo ragionare.

 «Torni a trovarci», disse al ragazzo, con un ampio - ampissimo - sorriso di circostanza; quello che metteva su quando le cose andavano alla malora, ma non ci si poteva permettere il lusso di dimostrarlo.

 «Certamente», rispose lui, con un tono di voce molto, molto sicuro di sé. Troppo, per i gusti di Fanchon.  «Ho sentito che parteciperete al concorso di Papadopoulos.»

«Scusi?», e sbatté il cassetto del registratore di cassa.

 «Mi spiace», disse il ragazzo, mentendo spudoratamente. «Non era mia intenzione origliare la vostra conversazione, ma quella donna… Cavoli, strillava come una strega a cui hanno pestato i calli!»

 «Oh, mi dispiace», disse Françoise. Con tutta l’aria di chi no, non è dispiaciuto affatto. Anzi. «Sono sicura che se dovesse tornare dopo il concorso, troverà un posto più tranquillo», gli promise.

 «Ci conto.» Le sorrise, un gesto collaudato e civettuolo, e annuì.  «Questo posto mi piace. Sa, mi piacerebbe trasferirmi qui, a Montmartre. Sarebbe bello venire a far colazione qui, tutte le mattine.» Pausa. «Il mio compagno adora questo posto, sa?»

 Françoise sorrise. «Lo ringrazi da parte mia.»

 «A dopo il concorso, allora», proseguì il ragazzo, come se niente fosse. Poi la guardò dritto nelle palle degli occhi, e aggiunse: «Che vinca il migliore!».

E con un sorriso strafottente - uno di quelli che attira i pugni come il miele fa con gli orsi - girò sui tacchi ed uscì dal locale, lo scampanellio allegro della porta come discrepante coro d’accompagnamento.

Françoise sbuffò. Ci mancava lo stronzo giornaliero, pensò, sistemando i croissant sull’alzata di cristallo. Prese uno strofinaccio, della carta assorbente e un disinfettante, e si diresse al tavolo di fronte alla vetrata, per pulirlo dalle briciole. Mentre spolverava, si accorse di un quaderno, poco più grande di un taccuino, la copertina verde smeraldo contro lo schienale della poltrona. Lo avrà dimenticato quell’imbecille, pensò, prendendolo e sfogliandolo, sovrappensiero. Aiolia, lesse, chiedendosi che razza di nome fosse, quello.

Un nome da imbecille, sentenziò lei. Qualcuno entrò nel Verse-Eau. Françoise mise su il suo sorriso migliore e più determinato. Si diresse al bancone e ripose - e confinò - quel quaderno dalla copertina verde smeraldo dentro al cassetto degli oggetti perduti, sperando, con tutto il cuore, che quel tizio non si sarebbe fatto più vedere.


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Capitolo 15
*** 15. ***


15.


 

Tra lenzuola sfatte e il sole che insisteva nel richiamarlo ai suoi doveri, Rodrigo sonnecchiava, indeciso se stiracchiarsi e alzarsi una volta per tutte, rassegnandosi ad affrontare di petto quella nuova giornata, oppure restarsene a crogiolare nel letto per qualche altro minuto. Una sorta di risarcimento. Perché lui era sveglio - più che sveglio - quando Tiennot si era alzato, si era ricomposto ed era uscito - senza nemmeno salutare! -, coi sensi all’erta del predatore pronto a procacciarsi un pasto succulento. Peccato che, quando Tiennot si era avvicinato a lui - in agguato dell’istante propizio per scattare, afferrargli il polso,  tirarselo addosso, e continuare un paio di discorsi lasciati a metà -, Rodrigo non fosse, in realtà, scattato, come previsto; anzi. Il torpore aveva avuto la meglio e Tiennot era uscito in punta di piedi, senza fermarsi né voltarsi indietro, quasi avesse paura di svegliarlo. 

Rodrigo sbuffò contro la federa stropicciata. Non ci si comporta così, pensò, con ancora nelle orecchie l’eco della porta che si chiudeva. 

Avrebbe dovuto metterlo ben in chiaro, più tardi. A cena. Dopo cena. E…

E mentre Rodrigo stilava un suo personalissimo piano d’azione, qualcuno bussò. Rodrigo scattò a sedere sul letto come un pupazzo caricato a molla, il cuore che faceva le capriole nel petto.

Tiennot!

Si coprì alla bell’e meglio con il lenzuolo, stringendoselo ai fianchi, e si diresse - si precipitò - alla porta.

Tiennot doveva aver cambiato idea, una volta sceso in strada, segno che era pronto - prontissimo - per i tempi supplementari - per i supplementari dei supplementari dei supplementari… e pure per i rigori. Senza golden goal. Oppure sì?

Magari ha solo dimenticato qualcosa. 

Possibile. Probabile. Sicuro.

Ma questo pensiero fece appena in tempo ad attraversargli la mente. Rodrigo era già oltre. Quale fosse stata la ragione che lo avesse sospinto a tornare à rebours, Rodrigo non si sarebbe fatto sfuggire l’occasione di rapirlo e tenerlo segregato in quella stanza per quarantotto ore. Almeno. Senza chiedere alcun riscatto, ça va sans dire

L’ipotesi che dall’altra parte potesse esserci qualcun altro - Isabelle. O Jacques, ad esempio - non gli passò neanche per l’anticamera del cervello. Afferrò la maniglia e aprì la porta di slancio, il lenzuolo vaporoso come le gonne di una sposa. E dietro la porta, in paziente attesa, non c’era Tiennot. Né Isabelle. Né Jacques. C’era Milo Papadopoulos in persona.

Cappotto blu scuro, sciarpa a righe multicolore - la stessa che aveva indosso l’ultima volta in cui si erano visti, in quello Starbucks di fronte a Saint Paul - , berretto di lana, barba di tre giorni e occhiali da sole. Completavano l’insieme un sorriso da pubblicità - una di quelle in cui è palese che i modelli si lavino i denti con l’acido muriatico - e una busta di croissant in una mano.

«Bonjour!», trillò, garrulo come un fringuello a primavera. Il sorriso si appannò appena. Abbassò gli occhiali da sole, lo squadrò da capo e piedi e poi disse - e poi sussurrò: «Disturbo?».

«Sì!», avrebbe voluto rispondere Rodrigo, magari sibilandolo pure, così da fargli capire di non essere solo e costringerlo a battere in ritirata, almeno per il momento. Invece il suo senso del dovere - quello che Marco chiamava, senza troppe cerimonie, il palo nel culo - lo fece optare per un più diplomatico: «No. Stavo andando a farmi la doccia.».

Si strinse il lenzuolo ai fianchi, come meglio poté, poi chiese:«Che ci fai qui?».

Milo sorrise - il lampo della tagliola nell’erba alta - poi rispose: «Se mi fai entrare, te lo dico.».

E a Rodrigo sembrò un grosso, enorme ragno pronto a mangiarsi, con raffinata lentezza, la povera mosca capitatagli a tiro. 

«O preferisci fare conversazione sul pianerottolo?»

Rodrigo si fece da parte; Milo entrò; la porta si richiuse.

«Scusa il disordine…»

Milo sembrò ignorare la situazione disperata in cui versava la stanza. Era come se qualcuno vi avesse sganciato una bomba H. 

Posò la busta sull’ultimo centimetro quadrato rimasto libero della scrivania, afferrò una sedia miracolosamente vuota e vi si accomodò con un gioco di bacino che avrebbe suscitato l’ammirazione - e l’invidia -  dello stesso Comandante William T. Ryker.

«Dammi un minuto», e Rodrigo sparì in bagno.

Quando ne uscì, presentabile a sufficienza - un paio di jeans stazzonati addosso e una t-shirt stropicciata - Milo lo aspettava. Non si era mosso dal suo posto, le gambe accavallate e l’aria di chi ha tutto il tempo di questo mondo. E anche dell’altro. E Rodrigo pensò - e  Rodrigo seppe - che la chiacchierata che Milo aveva in previsione di fare sarebbe stata molto, ma molto intensa. Meglio prendere il toro per le corna.

«Che ci fai a Parigi? Non ti aspettavo prima di…»

«Se la montagna non va a Maometto eccetera eccetera…» Milo gli passò la busta. «Ti ho portato la colazione. Li ho presi qui sotto e non ho la più pallida idea di come siano, ma non dovrebbero essere malaccio.»

«Grazie.» Ma ora non ho fame, avrebbe voluto aggiungere, e non tanto perché si era già sbafato due croissant amorevolmente forniti da Tiennot - e debitamente smaltiti proprio grazie a Tiennot -, ma perché la presenza di Milo in quella stanza non preannunciava nulla di buono. E non era mai saggio mettersi a mangiare quando c’era la papabile eventualità che una scure ti stesse per cadere tra capo e collo.

«Non hai fame?», chiese Milo. «Tranquillo, non sono mica avvelenati…»

«Preferisco mangiarli dopo», glissò Rodrigo, posando nuovamente la busta sulla scrivania e sedendosi sul letto. «Sai, in caso di attacco di fame improvviso…»

«Come preferisci.» Milo si liberò della sciarpa e sbottonò il cappotto. E poi entrò subito in argomento: «Sono felice di trovarti bene. E sono felice di non essere piombato qui in un momento poco opportuno…».

«La prossima volta chiama», suggerì Rodrigo.

«Giusto», concordò Milo. «Ma sono partito da Londra ad un orario scriteriato e non volevo disturbare.»

Pausa.

«Noi due dobbiamo parlare.»

 

Dobbiamo parlare.

Eccola lì, la bomba da millemila megatoni, il Congegno di Fine di Mondo pronto all’uso.

Dobbiamo parlare.

Una semplice locuzione che, in qualsiasi lingua esistente del globo terracqueo - estinte, presenti o anche solo immaginarie - è foriera di un solo, semplice messaggio: guai in vista. E guai grossi, a giudicare dalla postura distaccata con cui Milo riempiva letteralmente la stanza. Una statua in un museo, pensò Rodrigo. Annuì. Tacque. E Milo continuò.

«Hai svolto un ottimo lavoro. E, come ti ho detto, sono felice di vedere che hai voltato pagina. Non interrompermi», intimò, quando vide Rodrigo dischiudere appena le labbra. «Le tue recensioni sui locali sono ottime. E mi piacerebbe affidarti quest’incarico ancora, in futuro. Ma…»

Perché c’era un ma, che galleggiava nel discorso di Milo, appena sotto il pelo dell’acqua. Rodrigo lo sapeva. E non sarebbe stato un ma piacevole.

«… siamo a due giorni dalla proclamazione del vincitore. E se so vita morte e miracoli delle Nepitelle e dei Kladd… come caspita si chiamano loro… Non interrompermi, ho detto.» Milo si schiarì la voce: «Non ho la più pallida idea di come siano fatti ‘sti benedetti Plaisir d’Amour.».

«Ho specificato ad Adriano quale fosse il problema», si difese Rodrigo. E, a voler spaccare il capello in quattro, era stata la prima cosa di cui aveva parlato con Adriano non appena Tiennot aveva dichiarato di non voler partecipare a quel benedetto concorso.

«Sì, ma siamo a due giorni dalla finale», protestò Milo. «E vorrei saperne qualcosa di più, su questo dolce. Ora, essendo San Valentino non occorre un medium per ipotizzare che ci sia di mezzo del cioccolato…»

«Ma non avrebbero dovuto fornire due righe sul dolce? Una cosa per sommi capi, su cui io avrei dovuto ricamare sopra, e farla passare per una tua recensione?»

«Sì. Ma questi dementi hanno preso un po’ troppo alla lettera l’espressione “per sommi capi”», protestò Milo. Estrasse il telefono dalla tasca del cappotto, fece scorrere l’indice sullo schermo - una, due, tre volte - e poi aprì una cartella. Vi scartabellò per qualche istante e poi si schiarì la voce: «Il Plaisir d’Amour è un dolce al cioccolato aromatizzato al Cointreau. E basta. Tu capisci? Cosa ne deduco, da questa roba? Che cos’è? Un cioccolatino? Un bigné ripieno? Una bestia mitologica?».

 

«Ma allora perché hai scelto loro?», avrebbe voluto chiedere Rodrigo. In quella scena madre vedeva un enorme scaricabarile ai suoi danni da parte di Milo, quando sarebbe stato più igienico - nel senso più letterale del termine - domandarsi le motivazioni dietro alla scelta del Verse Eau. Per frapporre un concorrente tra Yngve e Marco, quasi fosse uno scudo, o una zeppa per tenere aperta una porta, logico. Qualcuno da piazzare in mezzo ai due contendenti e uscirne tutti sani e salvi e con le ossa ancora più o meno integre e l’onore più o meno intatto. Peccato che la strategia di Milo fosse finita a gambe all’aria prima ancora di cominciare. Ma si era forse premurato di porre un argine, un freno a quel delirio? No. Certo che no. Milo aveva continuato dritto per la propria strada, un treno lanciato nella notte, ché The Show Must go On, giusto? E allora, in nome del Cielo, perché piombare in quella stanza pronto a scaricargli sul groppone colpe non sue?

Questo avrebbe voluto chiedere Rodrigo, esplorando a fondo i perché e i percome di tutta la faccenda. Milo aveva tutto il tempo di questo mondo e dell’altro a disposizione, giusto? Beh, non sarebbe stato il solo.

Ma queste risoluzioni battagliere rimasero chiuse nel Cassetto delle Pie Intenzioni. E fu solo quando, a dispetto di tutti i buoni propositi possibili ed immaginabili, udì la sua voce scandire: «No, non è Cointreau. È Mandarinetto. Isolabella», che Rodrigo seppe con assoluta certezza di essersi messo il cappio al collo con le sue proprie mani. E di aver anche spiccato di propria sponte l’ultimo, fatale salto. Tanto per fare trentuno.

 

«Come, scusa?»

Milo lo fissava con un’espressione interessata - interessatissima -, più che pronto a saperne di più sulla faccenda. «E tu come lo sai?»

 

E Rodrigo si ritrovò messo all’angolo, ché non aveva più senso mentire. C’erano almeno un paio di motivi per cui avrebbe potuto avere quell’informazione. Per sentito dire, una confidenza nata sull’onda di una non meglio identificata affinità, simpatia, amicizia, o roba simile. Oppure avendolo assaggiato, e ricevendo la giusta informazione da parte del diretto interessato. E allora perché non l’hai ancora comunicato ad Adriano?, si domandò, giocando a fare l’Avvocato del Diavolo di se stesso.

«Scusami se te lo faccio notare», proseguì Milo, «ma Adriano sta aspettando te

Il est trop tard pour avoir peur. Anche se quella non era la Parigi degli anni ‘60, e Milo tutto era tranne che un delinquente come Michel. Forse.

Così, sospirando e maledicendosi di lì fino al giorno del giudizio, Rodrigo disse: «Fammi parlare.».

«Sono tutto orecchie.» Milo allargò le braccia e distese le gambe. «Prego.»

«L’ho assaggiato», rivelò Rodrigo.

«Lo hai assaggiato…»

«Fammi. Parlare.»

«Certo che ti faccio parlare», ribatté Milo. «Ti faccio parlare fino a quando non mi avrai spiegato per filo e per segno per quale cazzo di motivo non hai passato queste informazioni ad Adriano!»

«Punto primo, l’ho assaggiato ieri sera.» Non era proprio tutta la verità e nient’altro che la verità, ma il diavolo non si annida forse nei dettagli? Sì. Certo che sì. E Rodrigo ritenne più prudente fornire a Milo il minor numero di indizi possibile. Soggetto. Predicato Verbale. Complemento. Evitando qualsiasi velleità di inserire una copula.

«Fammi indovinare. Consegna a domicilio, immagino…», domandò Milo, usando il tono più caustico del suo repertorio, già di per sé affilato e di tutto rispetto.

«Immagini bene», tagliò corto Rodrigo. «Problemi?»

«No. Affatto. Te l’ho già detto. Cosa fai e chi ti fai, nel tuo tempo libero, non sono fatti miei. Ma se la tua vita privata manda a carte quarantotto il lavoro che io ti ho commissionato e che ti ho pagato, beh, allora sì. Sì, sono affari miei. Perché, a costo di sembrare un disco rotto, io ho delle scadenze. E tu non hai rispettato le tue.»

«Non sono d’accordo», protestò Rodrigo. «Ho inviato il materiale richiestomi e ho specificato, spe-ci-fi-ca-to, il problema ad Adriano non appena si è manifestato.»

«Ma hai o non hai tenuto per te le informazioni sul Plaisir d’Amour?», insistette Milo.

«L’ho. Assaggiato. Ieri. Sera», ripeté Rodrigo, facendo appello a tutta la calma in suo possesso. Prendere a pugni un amico è una cosa spiacevole. Prendere a pugni il tuo datore di lavoro appartiene al Campionato Olimpico di tutte le Spiacevolezze esistenti a questo mondo.

Milo indicò il cestino della carta straccia, da cui occhieggiava la busta con il logo del Verse-Eau. «Prima o dopo… No, guarda. Lascia stare. Lasciamo. Stare.» 

Milo si alzò dalla sedia e misurò a grandi passi la stanza, evitando prodigiosamente tutto ciò che si trovava sparso e abbandonato sulla moquette. «Poco male. Manda una e-mail ad Adriano. Il pezzo deve andare online entro domani a mezzogiorno e…»

«No.»

«Come sarebbe a dire no?» Milo si era fermato, spalle alla porta. Sembrava un gabbiano che zompettava tra i relitti sulla spiaggia dopo un uragano.

Rodrigo si passò una mano davanti agli occhi, in cerca delle parole giuste da dire.

«Sarebbe a dire che la situazione è molto più complessa di così», rispose Rodrigo. 

«Quanto?», domandò Milo.

«Senti, siediti ché mi stai facendo venire il mal di mare», protestò Rodrigo ricadendo sul letto a peso morto. 

Milo riguadagnò la sedia. 

«Adesso ti spiego tutto. Tanto avrei dovuto farlo comunque, oggi. Mi hai risparmiato una telefonata.» Ignorò l’occhiataccia che l’altro gli rivolse e poi Rodrigo aggiunse: «Però devi ascoltare tutto. Tutto. Fino all’ultima parola. Intesi?».

Milo si passò una mano sulle labbra, come a mimare una chiusura-lampo, e attese. E Rodrigo raccontò tutto, dalla reticenza a far uscire il Plaisir d’Amour prima di San Valentino; alla decisione ferma - perentoria - di Tiennot di non volerne sapere di partecipare al concorso; ai tentativi catastrofici di fornire una pallida imitazione; al felice approdo tra le braccia di Tiennot; alla degustazione del Plaisir d’Amour poche ore prima.

 

«Non l’ho programmato», disse Rodrigo, chiudendo il suo monologo. «È solo successo. E mi rendo conto che questo ha pregiudicato in parte il mio lavoro. Per cui ritengo giusto rinegoziare il contratto e…»

Milo fece un gesto con la mano, come a scacciare una mosca fastidiosa. E fu in quel momento che Rodrigo si accorse che Milo aveva divorato entrambi i croissant che aveva portato. 

«Avevi fame…», constatò.

«I croissant in treno fanno schifo. Non prenderli mai. Mai, intesi?» 

Milo ingoiò l’ultimo boccone e si grattò il mento.

«Fammi pensare…», disse. «Se non partecipa, sono guai.»

«In che senso?»

«Nel senso che è troppo tardi per avere paura», e Rodrigo sentì un lungo, lunghissimo brivido rotolargli giù, per la colonna vertebrale. Sì, Milo sarebbe potuto benissimo essere un ottimo Michel, altroché. 

«Arrivati a questo punto», continuò, «non conviene loro ritirarsi. La penale da pagare sarebbe mostruosa.».

«Quanto?», chiese Rodrigo.

«La cifra esatta non la ricordo», confessò Milo. «Dovremmo sentire Shaina. Ma dovrebbe ammontare a circa… venticinque, trentamila euro? O una cifra del genere.»

«Per cinquemila euro di montepremi?» Rodrigo sbarrò gli occhi. «Non è un po’ esagerato?»

Milo scosse la testa. 

«No. Qui si lavora con tempi strettissimi. E lo facciamo ben presente nel momento in cui i concorrenti firmano un regolare contratto», spiegò. «Serve come deterrente. Sai, per evitare che a qualcuno balzi in capo l’idea di iscriversi per poi ripensarci all’ultimo minuto. Perché non ci vado di mezzo solo io, e chi lavora con me. Ci va di mezzo pure lo sponsor. E credimi, agli sponsor non piace quando tu non tieni fede alla tua parte del contratto…»

«Quindi, conviene che partecipino…» 

 

Quella di Rodrigo suonava come una resa. Una mera constatazione dei fatti. E, in un angolo della sua testa, si chiese fino a che punto Tiennot sarebbe stato disposto ad andare avanti. Anche a costo di dover chiedere un prestito in banca per pagare la penale? E se la banca non gliel’avesse fornito? Che cosa sarebbe successo, allora?

«Direi di sì», convenne Milo. «Anche con una crostata industriale. Meglio una figura di merda colossale, che finire a gambe all’aria, no?»

Dipende, avrebbe voluto ribattere Rodrigo; ma in quel momento il cellulare di Milo vibrò e il diretto interessato lo riestrasse dalla tasca del cappotto.

«Parli del diavolo», disse, guardando lo schermo. «Shaina.»

«Un momento», disse Rodrigo avanzando verso di lui. «Shaina sa che sei qui?»

«No.»

«Comesarebbeadireno?!» Ci mancava anche una Shaina furiosa e sul piede di guerra! «Senti, io non voglio andarci di mezzo.»

«Nessuno ci andrà di mezzo», si affrettò a chiarire Milo; ma, stranamente, Rodrigo non si sentì affatto sollevato da quella promessa. Anzi. «Ciao, Shaina! Sono qui con Rodrigo. Aspetta che ti metto in vivavoce!»

E il timbro allegro di Shaina riempì la stanza come se lei fosse stata lì con loro, in tutti i suoi centosessantadue centimetri di determinazione, ventiquattrore gonfissima e rossetto rosso brillante.

 

«Abbiamo un problema», disse lei, saltando i convenevoli ed entrando subito in argomento; segno, questo, che la situazione doveva essere precipitata e occorreva agire prima di subito per evitare che tutto il progetto deragliasse.

«Cioè?», chiese Milo. 

E Shaina gli raccontò della conversazione appena avuta con Tiennot; del fatto che chi avrebbe partecipato al programma non era un cuoco professionista; e del fatto che, a meno di ventiquattro ore dalle riprese, erano con ogni buona probabilità senza il terzo concorrente.

«Io adesso sono davanti al Susumella», proseguì Shaina. «Controllo che non siano impazziti anche qui e poi ti richiamo. Anzi, porta le chiappe qui. Dobbiamo parlare di quell’altra cosa…»

«Va bene, prendo un taxi e…»

«Ti ho prenotato un Uber», rispose Shaina. E una notifica si manifestò sullo smartphone di Milo. «Il tassista si chiama Aboubakar. Ed è già in zona. Ti conviene scendere. Rodrigo, ci vediamo una di queste sere?»

«Quando avete finito con il programma», rispose lui. Ben sapendo che, nell’istante successivo all’ultimo ciak, tutta la troupe sarebbe tornata di gran carriera alla base per programmare, fin nei minimi dettagli, il prossimo impegno.

«D’accordo», rispose lei. E chiuse la chiamata.

«Che ti avevo detto?», chiese Milo, ricacciandosi in tasca il cellulare. «Chi è causa del suo mal pianga se stesso…»

«Ma non si può proprio fare nulla?»

Milo prese la sciarpa, se la drappeggiò attorno al collo e studiò la propria immagine sulla palladiana. 

«Che resti fra me e te», disse, rimirandosi e sistemando il berretto, «a me piacerebbe che a partecipare fosse la dilettante allo sbaraglio e non il pasticcere professionista. E che magari battesse quegli altri due. Sarebbe divertente.».

«Una lavanda gastrica non è poi così divertente.»

Milo si voltò. «Addirittura?», chiese, gli occhiali da sole tra le dita. 

Rodrigo annuì. «Così pare.»

Milo ci pensò su, poi disse: «Guarda, sarei anche disposto a correre il rischio. Ma bisogna vedere se si possa fare.». Inforcò gli occhiali da sole. «Facciamo così. Io parlerò oggi con questa pasticcera pasticciona. E con Kanon.»

«Kanon?»

«Sissignore. Sguinzaglierò i mastini della guerra.»

«Liberare», lo corresse Rodrigo. «Il verso è Liberate i mastini della guerra

«Giusto», ribatté Milo, a mezza bocca. «Sarà il caso che il mio mastino si guadagni il tozzo di pane che gli allungo.»

Si diresse alla porta, afferrò la maniglia e disse: «Fossi in te, io non mi farei troppe illusioni. E cercherei di convincere il tuo pasticcere a partecipare. Direi che un ascendente ce l’hai, se ti ha portato il dolce a domicilio, no?».

«Vaffanculo, Milo»

«Fai strada. Se sei in ballo, devi ballare. E già che ci sei, manda quel pezzo ad Adriano.»

«Ti ho già detto che…»

«E io ti ho detto già la parola magica. Spon-sor», sillabò Milo. «Il pezzo deve essere sul sito, a prescindere dalle paturnie del tuo pasticcere.»

«Non è il mio pasticcere!»

«Se partecipa, amen. Se non partecipa, per Dio solo sa quale motivo, sul sito deve comparire uno straccio d’informazione. O lo sponsor chiederà la mia, di testa. E non ho nessuna intenzione di andarci di mezzo io per la cocciutaggine altrui. Intesi?»

E senza attendere risposta, Milo si chiuse la porta alle spalle, entrò in ascensore, schiacciò il tasto del rez-de-chaussée e chiamò Shaina.

 

«Quale sarebbe quest’altra cosa?»

Dall’altra parte della linea Shaina emise un ringhio basso. 

Brutto, bruttissimo segno, pensò Milo.

«Ti ricordi di quel tizio che ti avevo sottoposto, qualche mese fa?», chiese Shaina.

«Quale tizio?», ribatté Milo. «Quale dei ventordici aspiranti…»

«Quello che aveva un curriculum buono. Forse anche troppo.» Shaina tacque per un istante, poi aggiunse: «Quello che mi hai detto di cestinare seduta stante e di segnalare l’email come spam? Quello.».

Occazzo… «Sei sicura?»

«Potrei sbagliarmi», disse lei, ben sapendo - e lo sapevano entrambi - che difficilmente Shaina si sbagliava, e di certo mai si lanciava in affermazioni non comprovate da fatti. «Ma mi è sembrato proprio lo stesso tizio della foto.»

Uno così, non te lo dimentichi davvero, sottintendeva il tono di lei.

L’ascensore atterrò con un tonfo e Milo fissò in cagnesco il tizio dall’altra parte dello specchio - il quale ricambiò la cortesia.

«E non vorrei», proseguì Shaina, «che si accollasse mentre stiamo lavorando. Sai com’è, mi pare un po’ troppo fortuito che anche lui sia qui, proprio adesso, proprio mentre siamo qui anche noi. Mi sembra di ricordare che risiedesse a Stoccolma…».

Perfetto. Ci mancava anche quest’altra, colossale, rottura di coglioni!, pensò Milo, quasi scardinando la porta in ferro battuto dell’ascensore dei primi del Novecento, e chiudendosela alle spalle con un sonoro schianto. La madre di tutte le rotture di coglioni!

«Magari è qui in vacanza e lo hai incontrato per caso…», tentò.

«Per caso? In un Café che pare un buco? Non ci credi neppure tu.» E Milo dovette darle ragione. «Il Verse-Eau è finito sul tuo account Instagram, dopotutto», aggiunse Shaina. «Potrebbe averlo visto lì, e…»

«Le congetture non aiutano», disse Milo, uscendo a grandi passi dal palazzo. Aboubakar era già lì, che l’aspettava. Montò in auto, confermò l’indirizzo, poi chiese a Shaina: «Lui ti ha visto?».

«Era già lì quando sono entrata», rispose lei. «Ci siamo ignorati. Ma io non sono te

 «Giusta osservazione», convenne Milo.  «Non credo che avrà la faccia tosta di accollarsi proprio adesso. Sarebbe da idioti. In ogni caso, stai tranquilla. Se quella piattola dovesse farsi vivo, ci penserò io.»

 

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Capitolo 16
*** 16. ***


16.


 

Yngve era sempre stato un mistero.

Sarebbe potuto essere un attore famosissimo. Uno che avrebbe fatto strage di cuori - femminili e non - solo respirando. Condizione sufficiente, ma non necessaria. L’Alain Delon della sua generazione. E anche di un paio di altre, presenti, passate e future. Oppure, con un fisico come il suo, un mannequin coi controfiocchi, conteso dalle più prestigiose maison per questa o quella Settimana della Moda, da un capo all’altro del globo terracqueo.

Ma la dannazione di Yngve era il possedere un cervello. E un cervello funzionante, per di più. Così, accantonata l’idea di lanciarsi nel mondo del cinema — Yngve detestava che qualcuno, foss’anche il Padreterno, gli dicesse cosa dire e cosa fare — o in quella della moda — e Yngve non avrebbe permesso a nessuno di trattarlo come una borsetta ai saldi —, Yngve aveva dapprima accontentato i genitori e si era preso una laurea in Economia. Magna cum laude, ché a Yngve piaceva fare le cose per bene. «Altrimenti, è meglio non farle», diceva lui. E il giorno dopo, con l’inchiostro ancora fresco sul Diploma di Laurea, si era iscritto ad una prestigiosa scuola di cucina a Parigi e si era rimesso a studiare, diventando, in cinque anni, uno chef di tutto rispetto.

E ora, quello chef di tutto rispetto, con la presenza scenica di un attore shakespeariano e il viso di porcellana di un fotomodello, aveva sganciato una bomba da un milione di megatoni sulla testa di Milo - con la stessa, identica grazia di un gatto che passeggia per i tetti. Incurante, ça va sans dire, della precarietà delle tegole. Se te ne cade in testa una, mica è colpa del gatto. Piuttosto, che ci facevi, tu, là sotto?

 

Più fissava Yngve, più Milo sentiva nascere un'emicrania coi controfiocchi. Il perfetto coronamento di una giornata in cui avrebbe dovuto marcare visita e trasferirsi lontano. Su Plutone, ad esempio. O forse su Alpha Centauri. O nel Quadrante Delta. Tanto per essere sicuri.

Si portò una mano davanti al viso, se la passò sulle guance e poi disse:«Tu stai scherzando, vero?».

«Ti sembra che io stia scherzando?»

«Oh, avanti!», protestò Milo. «Non puoi dire sul serio.»

«Certo che sì.»

«Non si può. Non è possibile.»

«Scommettiamo?»

E a quel punto Milo sbottò. 

«Ma che diamine avete tutti, da queste parti?»

Assestò una manata sul tavolo. Tazzine e cucchiaini tintinnarono stizziti. Gli venne quasi l’impulso di chiedere scusa — alle tazze e ai cucchiaini, ovvio —, ma si trattenne.

«Vi ha dato a tutti di volta il cervello contemporaneamente?»

Yngve non rispose. Si limitò a fissarlo — segno che lui, quello che aveva da dire, l’aveva detto.

«Non puoi dire sul serio…»

«Se mi permette, signor Papadopoulos, il mio assistito le ha fornito un ottimo consiglio.»

Milo volse la testa in direzione del tizio — del tizio improbabile — seduto accanto ad Yngve. Alto, magro da sembrare uno scheletro a spasso, e con un disperato bisogno di un barbiere decente, si era presentato come Morten, e presenziava all’incontro informale in qualità di rappresentante di Yngve. Legalese per dire che qualcosa aveva fatto storcere il naso ad Yngve. E Yngve, il quale non gradiva intoppi sul proprio cammino, aveva adottato le più opportune contromisure. Chiamare il proprio avvocato, appunto. Anche se questi aveva avuto la stramba idea di presentarsi conciato come se fosse appena sceso dal palco di un gruppo boho-rock

Gli manca solo il cappellone in testa e un ciondolo a caso che gli rimbalza sugli addominali, pensò Milo. Addominali che facevano capolino dalla camicia di seta a stampa anni ‘70, scovata in chissà quale mercatino delle pulci. Uno per gente di un certo livello, ça va sans dire.

Ah, la Tauromachia, si disse Milo, fissando con manifesto astio quell’azzeccagarbugli à la page. Non si sa bene di che rivista, ma comunque à la page.

 

«E a te chi ti ha detto di parlare?», avrebbe voluto ribattere. Ma anni passati ad avere a che fare con soggetti più o meno invadenti e più o meno ributtanti, avevano insegnato a Milo a dosare il proprio livore, e a farlo salire a galla, piano piano, come acqua sorgiva. Certo, l’eruzione di un geyser ha il suo fascino. Innegabile. Tutta quell’acqua che non ne può più ed esplode, verso l’alto, come a voler prendere a sberle il cielo… Ma, anche se avrebbe tanto, ma tanto, ma tanto voluto prendere a sberle, se non il cielo, almeno quel tal Morten — fino a slogarsi entrambi i polsi, i gomiti e pure le spalle —, Milo sapeva che esplodere come un geyser non era mai una scelta consigliabile. Perché una persona civile non è un geyser. Una persona civile parla, argomenta, discute. Trova un compromesso. Non esplode, come una pentola a pressione. 

E, baloccandosi con l’idea platonica di quanto sarebbe stato divertente e liberatorio poterne cantare quattro a quell’attrezzo in guisa umana, Milo ingoiò per il momento l’ennesima risposta caustica, inspirò a fondo — fino a riempire ogni alveolo —, e poi rilasciò l’aria dal naso con molta, moltissima calma.

 

«Il suo cliente…»

«…assistito…»

«… è noto per fornire ottimi, ottimissimi consigli», disse Milo. E allora perché stai facendo il prezioso?, diceva la postura di quel Morten. «C’è solo un problema», aggiunse, un sorriso rivolto allo Scappato di Casa che gli sedeva di fronte.

«Davvero? E sarebbe?», chiese questi, incuriosito.

«Che il consiglio del suo cliente…»

«…assistito…»

«… è illegale

Morten allargò le braccia, sconsolato. 

«Il suo è un punto di vista francamente eccessivo.»

«E se lei fosse qui per tutelare la sua posizione e i suoi interessi», proseguì Milo indicando Yngve con un cenno del pollice, «gli avrebbe intimato di non pronunciare nemmeno mezza delle fesserie che ho sentito sinora.».

Poi, rivolgendosi a Yngve, aggiunse: «Il mio è un consiglio da amico. Poi, fai come vuoi.».

«Signor Papadopoulos», insistette Morten, «credo ci sia stato un enorme fraintendimento.».

 

Un fraintendimento. Ma davvero?
Milo pensò che sarebbe stato molto, molto interessante vedere in che modo Kanon avrebbe gestito quel fraintendimento. E mentre quel cretino parlava e parlava e parlava, ripetendo la stessa, identica solfa, Milo si baloccò ad ipotizzare fino a che punto Kanon lo avrebbe fatto a pezzi, in tribunale. Come si fracassano le chele di un’aragosta? Giusto per sentire il suono della cheratica che si spacca per la pressione?

«Capisce?»

«No. Non capisco.»

Milo si era perso le ultime battute del monologo — dell’arringa — di Morten, ma non occorreva una veggente per sapere che era tornato a battere sullo stesso, identico chiodo. Ancora e ancora e ancora. Come se ripetere le cose fino allo sfinimento le facesse diventare vere

C’era stata una serie di irregolarità nel concorso. Yngve se ne era accorto. E Yngve aveva caritatevolmente avvertito Milo del pasticciaccio brutto che era scoppiato nella sua cucina virtuale. Peccato che Yngve avesse taciuto la cosa fino a quando non era stato possibile tacere oltre; o quando questa informazione non si era rivelata utile. Per Yngve, s’intende.

Ma Milo non aveva alcuna intenzione di assecondare Yngve su quel punto. Non poteva. Perché sarebbe stato in debito con Yngve. Ed essere in debito con Yngve sarebbe equivalso a firmare una montagna di assegni in bianco e a spargerli per le strade come coriandoli durante una parata. O come il riso sul sagrato dopo che gli sposi sono usciti dalla chiesa.

No, non era consigliabile perseguire quella strada. E visto come stavano andando le cose, Milo si chiese se non fosse il caso di domandare a Kanon quanto avrebbe dovuto pagare per risarcire gli sponsor, e quanto tutta questa storia avrebbe inciso sulla sua carriera. E anche Yngve doveva starsi baloccando con quel pensiero — o con uno molto simile — visto che lo fissava come si fa con un bizzarro esperimento scientifico.

Morten tornò alla carica, per l’ennesima volta. 

«Signor Papadopoulos», esordì, col tono della persona ragionevole che ce la sta mettendo tutta, ma proprio tutta, per farsi capire da una persona dura di comprendonio. «Il mio assistito…»

«… cliente …»

«… le sta fornendo un’offerta molto ragionevole.»

«L’offerta del suo cliente è una truffa», ribatté Milo. «Sono pronto a sillbarglielo, se vuole.» Pausa. «Lo vedrebbe anche un bambino.»

Morten rilanciò: «Per fortuna, allora, che siamo tra persone ragionevoli…».

«Io sono ragionevole», puntualizzò Milo. «Spiacente di non poter dire lo stesso di voi.»

«Signor Pa-pa-do-pou-los», e Morten scandì il suo nome sillaba per sillaba, con la lentezza tipica di chi ha perso la pazienza e vorrebbe far saltare il tavolo, ma non può permettersi di darlo a vedere. «Abbiamo appurato che tutte le parti in causa hanno un problema. Su questo concordiamo, spero.» Silenzio assenso. «Il mio assistito…»

«Il suo cliente», lo interruppe Milo, mandando alle ortiche le buone maniere, «ha proposto una soluzione che, da qualsiasi parte la si guardi, è una truffa. Una. Truf. Fa. Una truffa che salva lui e inguaia me.».

Era questo, il problema con Yngve. Nessuno fa mai niente per niente, e i buoni samaritani si contano sulle dita di una mano, ché la Carità sarà anche più grande della Fede e della Speranza, ma, all’atto pratico, è un concetto più evanescente di una chimera. Quello che Milo non riusciva a mettere a fuoco erano le motivazioni di Yngve. Perché stesse montando questo teatrino e perché avesse affidato a quel burattino di Morten il ruolo di burattinaio capo.

«Ma perché dice così?», replicò il burattinaio, piegando la testa da un lato.

 

E Milo dovette attingere all’ultima stilla del proprio autocontrollo per non centrare quel sorrisetto indisponente con un diretto dei suoi. Kanon non sarebbe stato contento e Milo avrebbe dovuto ripagare ogni singolo dente con cui Morten abbagliava le sue fan — ammesso che un tizio simile non finisse sommerso da carote e pomodori marci alla fine di ogni concerto —; però…

Però…

Però, Sant’Iddio, che soddisfazione!

L’avrebbe pagata salata — quale dentista costa poco? —, ma mai lesinare sul piacere, diceva suo padre. E Milo non l’avrebbe certo deluso in un simile momento.

 

«Perché, chiede?», e la testa di Morten andò su e giù un paio di volte. Milo distese l’indice della mano sinistra davanti a sé. «Perché, punto primo, è una truffa. Lo so io, lo sa lui e lo sa anche lei…»

«Morten. Come Morten Harket. Diamoci del tu.»

«No.» Il medio di Milo si allineò all’indice. «Secondo, perché, anche ammesso che io accettassi il suggerimento del suo cliente…»

«…assistito…»

«… questo è e resta una truffa. E a risponderne sarò solo e soltanto io.»

«Se e qualora qualcuno dovesse muovere qualsivoglia accusa», puntualizzò Morten. «E, in tutta onestà, chi si lamenterebbe di questa soluzione? Non il Gökotta. Né il Verse-Eau

«E il Susumella?», chiese Milo. «Miei cari signori, qui stiamo facendo i conti senza l’oste.» Un oste ben più incazzoso di Procuste, pensò.

«Ti ho già spiegato che Marco non si lamenterà.» Yngve si era ricordato di possedere una voce. Una voce da cui filtravano impazienza e stanchezza. Di dover spiegare tutto, fin nei minimi dettagli, a chi gli stava attorno.

«Questo lo dici tu», replicò Milo. «Perché, vedi, vengo adesso dal Susumella. E sono sicuro, più che sicuro, che Marco non abbia fatto alcun cenno a tutta questa storia.»

Yngve si lasciò sfuggire un sospiro rassegnato; poi gli pose davanti un piattino, con tre piccoli ravioli di pasta frolla.  «Assaggiali», disse - ordinò.

«No, io non assaggio nulla se qui non…»

«Assaggiali», ripeté Yngve. E qualcosa, nel suo viso, convinse Milo ad assecondarlo.

«E va bene», concesse. 

 

Prese un dolcetto e lo spezzò. Ed un fragrante aroma di marmellata di visciole, fichi secchi, mandorle e cioccolato gli invase le narici; arrivò dritto dritto al cervello; e lo reclamò come suo proprio spazio indiscusso. Guardò Yngve, in cerca di risposte; l’altro era una statua di cera. Ne prese un morso, e le promesse olfattive furono mantenute e superate. Una delizia. Una squisitezza. Un Preludio di Chopin ad un Crescendo rossiniano.

Mangiare quel piccolo raviolo equivaleva a rimettersi in pace con l’universo intero. Anche il secondo boccone sparì in un attimo e così il terzo. Non attaccò un altro biscotto perché il suo cervello — saggiamente — gli intimò di non abbassare la guardia, con Yngve. A Yngve piaceva il poker, e a Yngve piaceva bluffare. Era bravissimo, a bluffare. E chi aveva avuto modo di sedersi al tavolo con lui come opponente — e Milo ricordava serate e serate a spennare Marco, senza pietà, i libri abbandonati in un angolo e gli esami stornati fino al mattino seguente — aveva imparato a riconoscere i segnali inequivocabili di un suo bluff. Tutti, tranne Marco. Per Marco non c’era proprio speranza.

Il problema è che Yngve non stava bluffando. Yngve aveva tra le mani una scala reale massima servita. Perché affannarsi a nasconderlo?

«Questi non sono i Kladdkaka», disse Milo, ricordandosi il nome corretto del biscotto, per una volta.

«No. Queste sono delle Nepitelle. Le Nepitelle di Nonna Agata», disse Yngve. 

 

E Milo si disse che sì, erano esattamente gli stessi, identici biscotti che Marco elargiva loro all’altezza di Pasqua, quando arrivava il pacco di prelibatezze di Nonna. E Milo si chiese come mai quelle che stava mangiando, ad un tavolo del Gökotta, fossero una delizia per il palato ed un ristoro dell’anima, mentre quelle che gli aveva servito Marco, al Susumella, assomigliavano a del cartone pressato ripieno di - scadente - pasta di mandorle e canditi andati a male. 

«Per questo ti dico che il Susumella non batterà ciglio. Ma, se non ti fidi, sono pronto a mettertelo per iscritto…»

Morten saltò sulla sedia come se qualcuno gli avesse fatto esplodere un petardo sotto le chiappe. «Yngve, come tuo avvocato ti sconsiglio vivamente di…»

Ah. Adesso sei il suo avvocato?

Milo si concesse il lusso di un sorriso soddisfatto, ed allungò le dita a prendere un’altra nepitella.

Yngve mosse un muscolo appena, e Morten si chetò.

A cuccia, Fido, pensò Milo. E il sorriso si accentuò.

«Ti ringrazio per il tuo supporto, ma non vorrei farti perdere ulteriore tempo», disse Yngve. Fermo e duro come una pietra tombale. «Non avevi un appuntamento con quegli altri due?»

Morten lo fissò come se gli fosse appena spuntata una seconda testa. Sbatté le palpebre un paio di volte — forse per sincerarsi di non essere finito in un universo parallelo —  e poi controllò lo smartwatch al polso. L’ultimissimo modello della Apple. Il quale, a giudizio insindacabile di Milo, faceva a pugni con il resto della mise

«Sì, è vero», concesse Morten. «Ma io ti sconsiglio di rilasciare qualsivoglia dichiarazione scritta.»

Poi fissò Milo. Il quale, sostenendo lo sguardo, si ficcò in bocca la terza e ultima nepitella. 

«Il signor Papadopoulos ed io dobbiamo procedere con le formalità per il concorso.» Yngve aveva derubricato la chiacchierata degli ultimi tre quarti d’ora ad un rumore di fondo, un mero accidente aristotelico. «E non vorrei che Alistair and Hari se la prendessero con me. Anzi, per farmi perdonare, ho preparato un sacchetto per la band.»

Ti sta cacciando, pensò Milo, fissando Yngve prendere un sacchetto — pronto da tempo — e consegnarlo a Morten. E se non ti spicci a toglierti dalle palle, ti scaraventerà in strada a pedate.

Morten capitolò. Doveva aver intuito quale sarebbe stata la sua sorte, se avesse insistito oltre. Una persona intelligente sa quando è il caso di alzare bandiera bianca e battere in ritirata. E Morten dette prova di avere un cervello funzionante e di buonsenso, a dispetto del suo discutibile gusto in fatto di abbigliamento.

Si avvolse in una coperta, a fantasia scozzese sul grigio, come se fosse una sciarpa extra extra extra large. A Milo ricordò un Lenny Kravitz di qualche anno prima, meno talentuoso e molto, ma molto più male in arnese.

«Mi dispiace non poter assistere alla degustazione, ma devo trovarmi dall’altra parte della città tra… dovevo. Mezz’ora fa», disse, come se qualcuno, in quella stanza, glielo avesse chiesto. Un patetico tentativo di salvare la faccia. A Milo fece quasi pena. Quasi. «Grazie, anche a nome dei ragazzi.»

Morten s’infilò la custodia di una chitarra a tracolla, raccattò i biscotti, porse la mano a entrambi, ed uscì di scena come se avesse tenuto l’ultimo, estenuante bis della sua carriera.

 

Non appena la porta si fu richiusa, Milo fissò Yngve.

«È figlio di certi amici dei miei», gli spiegò, senza che Milo avesse avuto bisogno di chiedere. «Sai com’è…»

No, non lo so com’è, pensò Milo.

«Può sembrare un po’... pittoresco, te lo concedo», proseguì Yngve preparando dell’altro caffè e disponendo davanti al suo ospite un piattino, un vassoio con dei dolci e una caraffa d’acqua fresca. Spicchio di limone e rametto di menta. Come da Marco, pensò Milo. «Ma posso assicurarti che sa il fatto suo.»

«Se lo dici tu…»

«Sì» Pausa. «Lo dico io. E sai anche tu che il mio suggerimento permette a tutti di salvare capra e cavoli.»

No, non di nuovo, pensò Milo. E poi si disse anche che, se Yngve gli avesse fatto la cortesia di parlargli a quattr’occhi, invece che presentarsi col terzo incomodo, forse sarebbe stato più accomodante.

«Yngve, per piacere», riprese Milo. 

«Le Nepitelle che ti ha propinato Marco sapevano o non sapevano di cartone?» Pausa. «Io ho scelto un metodo meno maldestro.»

«Voi mi state mandando al manicomio», sospirò Milo, portandosi una mano sugli occhi. Perché se il Verse-Eau gli aveva fatto una bella sorpresa, e Marco si stava boicottando da sé, Yngve aveva rilanciato — e quando mai Yngve si sarebbe fatto scappare l’occasione? — ; e Milo si chiese che senso avesse iscriversi, per poi ritirarsi all’ultimo secondo.

E poi lo chiese: «Che senso ha iscriversi ad un concorso e poi ritirarsi all’ultimo secondo? Non siamo ad un esame! Stiamo lavorando!».

 

«Secondo te, perché ci siamo iscritti al concorso?», rilanciò Yngve. Tanto per non lasciarsi scappare l’occasione, ancora una volta. Versò l’acqua calda nella caffettiera francese, premette lo stantuffo e attese.

«Non lo so.» Milo incrociò le braccia al petto, in attesa. Perché cinquemila euro potevano far gola ad un ristorante male in arnese, o ad un posto come il Verse-Eau, che navigava in acque talmente brutte che era un miracolo non fosse già stato spazzato via da un fortunale. Ma per due realtà già avviate come il Gökotta ed il Susumella, quei cinquemila euro erano briciole. Un insulto, quasi.

«Perché Marco e io siamo in perenne competizione.»

Yngve lo soffiò via, quasi fosse un segreto da spifferare nella quiete del confessionale.

«Sai che novità», commentò Milo. 

Yngve non raccolse. 

Gli scoccò un’occhiata indecifrabile, poi continuò: «Perché ci piace. Perché ci mantiene vivi. E perché, in fondo, siamo fatti così.». Come se quella spiegazione bastasse, avanzasse e superchiasse ogni legittima pretesa di Milo.

«Mi fa piacere per voi», commentò quest’ultimo, il quale no, non si sarebbe accontentato di quelle affermazioni, buttate lì come se fosse un re a parlare — magnanimamente — ai suoi sudditi. Nemmeno per sogno. Si fece avanti e posò entrambi i gomiti sulla tovaglia candida. «Ma cosa c’entro io?»

«C’entri, mio caro», gli spiegò Yngve, lasciandosi sfuggire un sospiro, «perché hai selezionato entrambi. Entrambi. E io avevo dato per scontato che un ragazzo intelligente come te avesse capito come funzioniamo. Siamo o non siamo amici da anni?».

«Frena, frena, frena. Voi siete amici di Rodrigo.» Yngve non sembrò offeso da quella puntualizzazione. Amici. Appunto. «E anche ammesso che io sia abbastanza intelligente da capire come funzionano le vostre teste bacate, non avete niente di meglio da fare che importunare chi lavora?»

Il tono di Milo era salito, mano a mano che raggiungeva il fondo della frase. Perché uno dei grossi problemi che aveva Yngve, nel relazionarsi con il genere umano, era il non considerare che, alle volte, anche le migliori strategie finiscono a gambe all’aria per un solo, piccolo, banale, insignificante particolare. Il chiodo arrugginito che ti fora la ruota della bici. O la buca seminascosta in cui finisci per azzopparti. Oppure il guano del gabbiano che ti centra in piena testa, proprio mentre passeggi per i fatti tuoi, magari sottobraccio alla tua bella. O al tuo bello, nel caso di Yngve.

Yngve che fissava Milo, come se sinora lui avesse parlato in arabo.

«Te l’ho spiegato», rispose. Visibilmente infastidito. «Perché io e Marco funzioniamo così. Perché sappiamo di essere pari. Ma non lo ammetteremo mai. Nemmeno sotto tortura.»

«Ma allora perché, in nome di Dio…»

«La verità è che sapevamo che tu», lo interruppe Yngve, versando il caffè in due tazze, «non avresti mai e poi mai voluto trovarti in mezzo. Com’è che si dice? Tra moglie e marito, eccetera eccetera…» Pausa. «E prima che te ne esca con una battutina cretina, non è colpa mia sei i proverbi non stanno al passo coi tempi.»

Milo alzò le mani. Yngve aveva ragione, in entrambi i casi. Come sempre.

«Quindi», riprese Yngve, «eravamo certi, certissimi che non avremmo vinto. Che nessuno dei due avrebbe vinto.».

«No, aspetta. Mi stai» confessando «dicendo che avete paura che adesso che il Verse-Eau traballa…».

Yngve gli posò una tazza di fronte e si accomodò al suo posto.

«Esattamente», soffiò via. 

E Milo seppe quanto quell’avverbio fosse costato all’orgoglioso Yngve. Molto. Tanto. Troppo. Ma per Marco, questo e altro, sottintendeva la sua postura. 

«Non voglio che il mio bel mondo vada in pezzi.»

Milo prese un sorso di caffè e addentò un Kladdkaka. Squisito. Rivaleggiava e teneva testa alla Nepitella di Marco, come due cavalli che corrono appaiati. Come un corpo e l’ombra che esso proietta.

«Non credi di essere troppo melodrammatico?»

Milo sapeva di essere stato acido — molto, tanto, troppo —, ma sapeva anche che a Yngve avrebbe fatto bene una solenne lezione di vita.

«Tu berresti da una tazzina incollata?», gli chiese.

«Dipende», rispose Milo. «Dal tipo di colla usata, s’intende. Certo, è una faticaccia, ma a volte ne esce fuori qualcosa di bello. Pensa al kintsugi…»

«Il kintsugi va bene per i musei», rispose Yngve. «O per una mensola, lontana dalle pallonate e dalle zampe dei gatti. Io voglio poter bere il mio caffè, ogni mattina, nella stessa tazzina che uso da quasi vent’anni. Non è chiedere la luna, no?»

No, pensò Milo.

Yngve tacque. Poi, dopo che Milo ebbe attaccato e sconfitto anche il secondo Kladdkaka, disse: «Io ho iscritto il Susumella. Marco, il Gokotta. E il Verse-Eau non ha un professionista da gettare nella fossa dei leoni.». Pausa. «Siamo tutti e tre nella stessa barca. Anzi. Il Verse-Eau è l’unico che si sia iscritto correttamente.»

«Spiegami una cosa», disse Milo. «Tu che ne sai che il Verse-Eau non ha un professionista da gettare nella fossa dei leoni?»

Yngve sorrise.

«Perché ero presente, quando Arnoul ha ricevuto la notizia. E so che sua sorella non è un cuoco.» Si concesse un sorriso. Milo non abboccò. Così Yngve capitolò e disse: «E va bene! Marco ha sentito la tua assistente che ne parlava al telefono, prima di entrare da lui. E me l’ha detto. Ecco perché Marco ti ha quasi avvelenato.».

«I tuoi Kladdkaka sono perfetti, invece», si lasciò sfuggire Milo.

Yngve si strinse nelle spalle.

«Se non si fanno le cose per bene, tanto vale non farle.»

 

Milo tacque.

Per come stavano le cose, l’unico e indiscusso vincitore sarebbe stato Yngve.

Yngve che, senza battere ciglio, avrebbe cavato gli occhi a chiunque si fosse frapposto tra lui e la meta che s’era prefissato.

Yngve che era disposto a sconfessare la propria competitività, pur di non perdere Marco. E che avrebbe mandato a puttane tutto e tutti solo per tenere il punto.

Perché vincere il concorso non è mai stata una sua priorità, dovette ammettere Milo, tra sé e sé. Marco è la priorità.

Bevve un altro sorso di caffè, osservando Yngve con la coda dell’occhio.

Posò la tazza e, di fronte allo sguardo più atarassico di Yngve — due acquamarine contornate da una corona di spine —, Milo disse: «Io capisco le tue posizioni.».

Yngve annuì. Come a dire: «Alla buon’ora!», con tanto di sospiro sollevato.

«Ma, in tutta onestà, non posso fare vincere il Verse-Eau.» Yngve si accigliò. «Fammi finire. Non sarebbe credibile

«Perché no?»

«Perché la tua strategia è ottima, ma abbiamo un problema.»

«Sarebbe?»

«Pare che la partecipante non solo non sia una cuoca, ma che sia anche incapace in cucina», soffiò Milo, prima di prendere un altro sorso di caffè. «E tu capisci che non posso far vincere lei, contro voi… Non posso, dai! Mi riderebbero tutti dietro! Dovete convincere Arnoul a partecipare.»

 

Dovete. Non un più rassicurante dobbiamo, prima persona plurale; nossignore. Dovete. Armiamoci e partite, questa era e sarebbe stata la posizione di Milo. E Yngve aveva capito perfettamente l’antifona.

«Credo che qualcuno potrebbe farlo rinsavire», si limitò a dire Yngve. Alludendo a Rodrigo.

«Lo spero», ribatté Milo. «Ma sono preoccupato per questo qualcuno…»

Yngve lo fissò perplesso. «Tu sai

«Sì», disse Milo. Contento come una Pasqua di trovarsi a procedere appaiato ad Yngve, per una volta. «Me lo ha detto proprio stamattina.»

Sarebbe stato più corretto dire «Glielo ho estorto stamattina», ma non c’era bisogno che Yngve fosse a conoscenza di tutti i particolari, giusto?
Giusto.

«Capisco», e gli scoccò uno sguardo livido. «Ma perché dici di essere preoccupato per lui?»

Milo posò la tazza davanti a sé e si sporse verso Yngve. Due congiurati riuniti per decidere chi dei due porterà la pugnalata iniziale, quella che darà il via al massacro. E Milo sapeva che Yngve avrebbe voluto e preteso per sé quella parte. Come se fosse sua per diritto dinastico. E chi era, lui, per deluderlo?

«Perché questa mattina Shaina, la mia assistente, ha visto una certa persona, al Verse-Eau», disse Milo, con un tono di voce più basso del solito. «E io non vorrei che questa persona mettesse i bastoni fra le ruote a tutti noi.»

«Di chi stiamo parlando?», domandò Yngve. Allarmatissimo. Aveva capito — lo si evinceva dagli occhi spalancati e le sopracciglia arcuate —, ma voleva lo stesso che Milo sgombrasse il campo da ogni possibile dubbio o fraintendimento. «Di chi penso io? Alto, biondo, occhi verdi?»

Si va alla guerra, pensò Milo, prima di limitarsi ad annuire. 

A Yngve bastò.

«Sai… ad essere sincero non chiedevo di meglio», gli confidò, rabboccandogli la tazza di altro caffè. E per un momento, uno solo, Milo ebbe quasi pietà per Aiolia. Quasi.

Sollevato, si adagiò contro lo schienale della sedia e si gustò l’ennesima tazza di caffè. Adesso che aveva liberato il vero Mastino della Guerra, si sentiva più sicuro, per Rodrigo. E con Yngve impegnato a stanare e neutralizzare Aiolia, forse — un forse grosso quanto tutta Versailles — sarebbe riuscito a gestire il concorso in santa pace.

Speriamo bene, si disse, mentre fuori Parigi si preparava allo spettacolo.

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Capitolo 17
*** 17. ***


17.


 

Rodrigo si diede alla macchia per tutta la mattinata.

Gli occhiali in punta di naso, si sedette davanti al laptop appena Milo ebbe tolto il disturbo. Spense il telefono, si trincerò in stanza e spulciò il Regolamento del concorso da cima a fondo, nella pia speranza di trovare un modo per salvare capra e cavoli. Una virgola, uno spazio, un cavillo. Qualcosa.

Ma, pur con tutta la buona volontà di questo mondo e dell’altro, Rodrigo non era un avvocato. Non ne aveva mai avuto la stoffa. E più leggeva quelle righe fitte fitte, scritte in ostico - osticissimo - legalese, più si sentiva come un naufrago in alto mare, in balia di una marea montante e senza neppure un tappo di sughero cui aggrapparsi, tanto per stringere qualcosa prima di arrendersi al proprio destino e sprofondare nelle fauci spalancate dell’oceano.

Così, dopo aver speso la mattinata in ricerche ed email spedite per mezza Europa ed un quarto del globo terracqueo, la luce azzurrina dello schermo che riverberava sul viso, Rodrigo si era arreso all’unica, sgualcita e stiracchiata possibilità che gli era rimasta: la benevolenza di Milo.

Yngve e Marco non erano forse andati contro le regole, iscrivendo l’uno il locale dell’altro?

Certo che sì.

E Milo non lo sapeva, forse?
Certo che sì.

E quindi, come aveva chiuso un occhio riguardo a quei due scapestrati - tutto, pur di toglierseli dalle palle; e questo Rodrigo lo capiva, lo capiva benissimo - avrebbe potuto fare altrettanto con il Verse-Eau, permettendo a Coco di partecipare. Un’eccezione, così da confermare la regola.

Ma la regola in questione assomigliava più ad un tentativo di suicidio, che ad un piccolo divertissement culinario.

Non vorrà vincere un giro per la lavanda gastrica, suggerì la voce di Marco, di nuovo in pianta semistabile nella sua zucca. E Rodrigo vide la sua remota - remotissima - possibilità sgretolarsi come zucchero a velo inumidito e spargersi nel vento. Niente, l’unica cosa da fare era convincere Tiennot a partecipare. Ed era quello lo scoglio pronto a far colare a picco il piccolo guscio di noce che Rodrigo aveva messo in acqua con tanta buona volontà e nobili intenzioni.

L’orgoglio di Tiennot non sarebbe stato un ostacolo semplice da lasciarsi alle spalle. Anzi. E - se pure in linea di principio Tiennot aveva ragione, da qualsiasi lato si guardasse la faccenda - all’atto pratico il Verse-Eau navigava, vento in poppa, incontro alla tempesta perfetta, quella che lo avrebbe affondato senza troppe cerimonie. E senza neppure accorgersene.

 

Fluctuat, nec mergitur, recitava il motto di Parigi. Ma cosa sarebbe successo se quella piccola caravella chiamata Verse-Eau fosse affondata una volta per tutte? Che avrebbe fatto Tiennot? In che modo se la sarebbero cavata?

Così, cogitando e ruminando, Rodrigo era emerso dal proprio studio matto e disperatissimo a pomeriggio avanzato.

Aveva riacceso lo smartphone ed era stato subissato di notifiche: chiamate perse, messaggi Whatsapp, mail, SMS. Tutti da parte di Tiennot.

«Ruy, chiamami appena puoi. Ho un problema», diceva l’ultimo, stringato vocale, il suono del traffico parigino in sottofondo. 

E, conoscendo alla perfezione quali fossero le coordinate del suddetto problema, Rodrigo aveva capitolato.

Non aveva senso attendere oltre.

Non sarebbe stato credibile.

Aveva chiamato Tiennot, scusandosi per essere sparito - «Mi si è scaricato il cellulare», gli aveva detto, e Tiennot se l’era bevuta - e lo aveva raggiunto a casa sua, a Belleville, in un piccolo appartamentino da scapolo, a due passi dalla chiesa di Saint-Jean-Baptiste, che con le sue guglie aguzze sembrava volesse pizzicare le chiappe delle nuvole.

E, a metà pomeriggio di quel giorno disgraziato, dopo aver ascoltato con calma, pazienza e comprensione la versione di Tiennot, Rodrigo sedeva sul letto, schiena alla parete e pasticcere cocciuto tra le braccia.

 

«Io non so davvero che pesci pigliare», soffiò fuori Tiennot, una guancia sul petto di Rodrigo, la barba di due giorni e l’espressione stanca.

«È una situazione… scusami, non riesco a scegliere una parola adatta.»

Tiennot scosse la testa, i capelli sciolti oltre le spalle. «Non ci sono parole. Solo parolacce.»

Rodrigo annuì.

«Tu cosa vuoi fare?», gli chiese, accarezzandogli la schiena con fare distratto. «Non cosa si deve fare. Cosa vuoi fare.»

Tiennot sospirò.

«Io non voglio saperne nulla di tutta questa baracconata», rispose per l’ennesima volta, soffiando fuori le parole una dopo l’altra. «Non volevo partecipare prima, figuriamoci adesso!»

«E allora non partecipare.»

Tiennot sollevò la testa e gli piazzò gli occhi addosso. E Rodrigo si sentì morire.

«Giusto! Scemo io, a non pensare ad una soluzione così facile!»

E aveva ragione, ché la situazione no, non era facile. Era finito in uno di quei calappi che, ad ogni tentativo di liberarsi, si stringono sempre di più attorno al collo della vittima. E l’unica soluzione per non restare strangolati è capitolare, arrendersi e ingoiare l’orgoglio. Era la sola strada percorribile, a patto di non avere quarantamila euro d’avanzo nelle tasche della giacca, così, alla bisogna.

Rodrigo non li aveva, e Tiennot neppure, altrimenti tutta la questione si sarebbe imbarcata per ben altri lidi; senza contare che Tiennot non avrebbe mai accettato l’aiuto di un amante. Non l’avrebbe accettato neppure se fosse stato suo marito, figuriamoci!

 

«Lo so», disse. Per scusarsi del poco tatto. «Ma forse è facile.»

Tiennot si sciolse dall’abbraccio e lo scrutò come se gli fosse spuntata una seconda testa. 

«Sto provando a guardare la questione da un altro punto di vista», disse Rodrigo. Con calma. Con pazienza. «Tu non vuoi partecipare al concorso», proseguì, utilizzando le dita per elencare i punti salienti della questione. «Ma non hai quarantamila euro di penale da pagare, giusto? Il problema è che neppure io li ho…»

«Ti ringrazio, ma non li avrei mai accettati.» 

Come volevasi dimostrare, pensò Rodrigo. Marco e Aiolos annuirono, sullo sfondo.

«Allora partecipa al concorso», disse, per poi serrare un polso di Tiennot, onde evitare di ricevere un diretto in piena faccia. «Ma fallo a modo tuo.»

«Piazzando un paio di molotov nel Plaisir d’Amour

Una via di mezzo, no?, si domandò Rodrigo, prima di rispondere, col tono più paziente del proprio repertorio: «No.».

«Quindi, cosa dovrei fare, di grazia?», chiese Tiennot, sarcastico.

«Io non posso dirti cosa devi fare», spiegò. E poi, per interrompere eventuali recriminazioni, aggiunse: «Posso dirti cosa farei io, al posto tuo.».

«Sentiamo», lo esortò Tiennot, mettendosi a sedere di fronte a lui, braccia e gambe incrociate.

«Io parteciperei.» Secco e lapidario. Come una porta che si chiude o la ghigliottina che cala sul collo del condannato. «Parteciperei, sì. La frittata è fatta. Si tratta solo di non bruciarla. E di non dar fuoco alla cucina nel mentre…»

«Sì, ma…»

«Non ho finito», l’interruppe Rodrigo. «Tu fai la persona responsabile e partecipi. Vada come vada, non hai nulla da perdere. Potresti anche vincere. Ma poi…»

«Ma poi…»

«Poi chiedi a tua sorella i danni.»

 

Perché era quello il nodo cruciale attorno a cui si reggeva la ragnatela in cui il Verse-Eau era invischiato.

«Ma sei scemo? Non posso portare mia sorella in tribunale!» Tiennot si alzò, come se avesse a che fare con un matto scappato dal manicomio. «Senza contare che un processo costa. E gli avvocati costano.»

«Io non ho mai parlato di avvocati e processi.» Adesso era Rodrigo a fissarlo come si fissa un matto. Gambe piegate, mani sulle ginocchia e schiena contro la parete, continuò: «Fossi in te, mi accerterei che mia sorella impari la lezione. Così, alla prossima occasione, ci penserà non una, non dieci, ma cento volte, prima di fare un’altra stronzata del genere.».

«E come?»

«Colpendola nell’unico modo possibile», rispose Rodrigo, portando la stoccata finale, dritta al cuore. «Facendole pagare i danni. Le persone capiscono la reale entità delle loro stronzate solo quando tocchi loro il portafogli. Giusto?»

«In linea di principio, sì», concesse Tiennot. «Resta il fatto che…»

Rodrigo sventolò una mano, come a scacciare un insetto fastidioso.

«Coco lavora per te? Percepisce uno stipendio fisso? Glielo decurti. Siete soci alla pari? Ti verserà una cifra stabilita, ogni mese, fino a quando non ti avrà ripagato i trentamila, quarantamila euro che avresti dovuto sborsare per la penale.» Pausa. «Non mi sembra così irragionevole, no? E qualcosa mi dice che anche tua madre sarà d’accordo.»

Tiennot ci pensò su.

Sì, Françoise sarebbe stata più che d’accordo; e qualcosa - un’idea, un sospetto, un’illazione - disse a Rodrigo che la cara mammina sarebbe stata molto, ma molto più severa di così.

«Dovrei sentire il parere di un avvocato», disse Tiennot. 

E, in quel preciso istante, Rodrigo seppe che il suo piano stava funzionando. Sarebbe bastato poco - una piccola, leggera spintarella - e la tagliola si sarebbe chiusa attorno alla caviglia di Tiennot. Lo sto facendo per il suo bene, si ripeté Rodrigo per la milionesima volta, senza, tuttavia, riuscire ad indorare una pillola che era e rimaneva troppo disgustosa da mandare giù.

«Ho un amico avvocato», propose, il pensiero alla faccia da canaglia di Kanon. Non era proprio un suo amico, e Rodrigo sospettava potesse non essere la scelta migliore; ma, con buona probabilità, l’accordo si sarebbe siglato nella cucina di casa Arnoul con una stretta di mano tra i fratelli e Françoise a fare da garante per entrambi. «Se hai bisogno, possiamo chiedergli un consiglio. Tanto per stare tranquilli.»

«Alistair suona con un avvocato. Uno scappato di casa che sa il fatto suo», disse Tiennot. «Ma è sempre meglio sentire più pareri.»

Il tono di voce confermò a Rodrigo che le telefonate sarebbero rimaste nel mondo delle idee. Non sarebbe arrivato a tanto. La faccenda si sarebbe risolta quella sera stessa. O non appena avessero stanato Coralie dal buco in cui s’era andata a nascondere.

«Ti ringrazio», disse Tiennot, ora più tranquillo. E Rodrigo si sentì morire dentro.

Bella carogna che sei, dissero quasi in coro sia Marco che Aiolos, di nuovo nella sua testa; ma mise a tacere quello spillo inopportuno, e sfoderò un sorriso sincero avvicinandosi a Tiennot.

«Per te, questo e altro», disse, prima di catturargli le labbra in un bacio.

Bacio che, nelle intenzioni iniziali, avrebbe dovuto essere un casto sfiorarsi di labbra, un gesto con cui tranquillizzare se stesso e Tiennot. Ma Tiennot non era dello stesso avviso. Non dopo una giornata passata a sbattere la testa da una parte all’altra, affogando in un bicchiere d’acqua. E quel piccolo, tenero bacio tra innamorati - pure se nessuno dei due si sarebbe spinto così al largo - divenne ben presto qualcosa di più possessivo. Intimo. E impellente.

«Non devi…» parlare con tua sorella?, avrebbe voluto chiedere Rodrigo, ma le labbra di Tiennot erano scese ad esplorargli il collo, mentre le mani vagavano alla deriva sotto la camicia.

«Dopo.»

E Rodrigo si arrese. Dopo. Aveva un bel suono, in bocca a Tiennot.




Coco capitolò senza troppi problemi.

Anzi, man mano che Tiennot le illustrava il piano - con calma e pazienza, senza sbraitare, tirarle il collo o rimproverarla; pur pensando che un paio di scapaccioni le avrebbero fatto senz’altro bene -, il viso tirato della ragazza si era andato rilassando e aveva accettato la proposta con un roboante: «Sì!!!», prima ancora che suo fratello terminasse di spiegarle tutti i dettagli.

L’uomo che sta annegando non chiede quanto costi la corda, pensò Rodrigo, seduto al solito tavolo davanti alla vetrata.

Aveva lasciato alla famiglia Arnoul tutto lo spazio necessario per parlare, chiarirsi, capirsi. Gli era sembrato giusto così.

Tiennot lo aveva voluto accanto, come supporto morale - e per evitargli di strangolare Coco, questa volta per davvero -, ma Rodrigo ancora non se l’era sentita di essere considerato qualcosa di più di un amorazzo estivo fuori stagione. E fuori tempo massimo. Altrimenti, lo sapeva, avrebbe dovuto chiedersi per quali strade si stava incamminando quel rapporto nato dal nulla, come un dente di leone in un prato a primavera. E Rodrigo temeva che, a baloccarsi coi se e coi ma, quella liaison avrebbe perso la propria freschezza e spontaneità. Il bello dei papaveri è che sono fiori selvatici. Prova a coglierli e a metterli in un vaso, e vedrai se non appassiscono all’istante. 

Meglio non smuovere niente, si disse, ricontrollando per l’ennesima volta il testo da mandare ad Adriano.

Sospirò. Poi scrisse il resto della mail.


Scusa il ritardo, ma ho dovuto sudare sette camicie!

Eccoti il testo, sfrondato a sufficienza.

Toglimi una curiosità: è sempre così complicato?

Il tuo uomo a Parigi

Rodrigo

 

Premette il tasto INVIO proprio mentre Tiennot usciva dalle cucine del Verse-Eau e andava a sedersi davanti a lui. E, dopo avergli scoccato un piccolo bacio sulle tempie e averlo ringraziato per l’ennesima volta, Tiennot aveva preso il telefono e aveva chiamato Shaina per confermare la propria partecipazione al concorso. 

Qualche convenevole e parecchie raccomandazioni dopo, Tiennot aveva attaccato e si era concesso uno sbuffo spazientito.

«Allora?», domandò Rodrigo.

«La degustazione è domani. Quel cretino andrà in ogni locale, assaggerà i dolci e scambierà quattro chiacchiere coi partecipanti.» Tiennot si stiracchiò le spalle. «Il Verse-Eau sarà l’ultimo.»

«Quindi saprai già domani se…»

Tiennot alzò una mano.

«Non è mica finita», disse. «Sabato assaggia i dolci, con tanto di diretta Instagram. Locale per locale. Domenica ci sarà la Rivelazione in un albergo qui a Parigi. Con tutti e tre i partecipanti riuniti.»

«Capisco.» San Valentino cadeva pur sempre di domenica, quell’anno. «Vorrà dire che ci vedremo la sera. Non cambia poi molto, no?»

«Quello che più mi secca», disse Tiennot, massaggiandosi le tempie, «è che io aveva fatto dei piani, per questa domenica.».

«Che piani?», domandò Rodrigo. 

«Piani che riguardano te. Che riguardano noi

Panico. In che senso?, pensò Rodrigo. Che si era messo in testa? Ma, per una volta tanto, il suo cervello intimò alla lingua di fermarsi e riformulare la frase. «Ah. Non possiamo rimandarli a lunedì?»

«No», rispose Tiennot. «Perché lunedì il Verse-Eau è aperto. E io avevo programmato di rinchiuderci nella tua stanza. Per. Tutto. Il. Santo. Giorno.»

E qualcosa, dentro Rodrigo, aveva risposto alla voce bassa di Tiennot, alla promessa di ventiquattro ore d’amore in cui annegare tra le lenzuola, come due naufraghi cui non importa affatto di essere salvati. Anzi.

Aveva sentito la sua voce proporre: «Possiamo spostare questo ottimo piano alla settimana prossima?».

Tiennot aveva riso, aveva portato il viso a pochi centimetri dal suo e aveva risposto: «Non vedo perché no…».

E Rodrigo era stato felice.

Un’altra settimana.

Un’altra settimana a Parigi.

Un’altra settimana con Tiennot.

«Non prendere impegni», gli disse - gli ordinò - Tiennot.

«Solo se mi prometti che recupereremo il tempo perso.»

«E con gli interessi!» Tiennot si staccò. «Stasera devo lavorare, per cui mangiamo qualcosa al volo. Ti va bene un kebab?»

«Non preoccuparti», rispose Rodrigo. «Anzi, è meglio che vada. Devi lavorare.»

«Se resti, a me fa solo piacere», disse Tiennot. E per un attimo, uno solo, qualcosa vibrò dentro Rodrigo. Con maggiore intensità. Era la stessa sensazione che gli aveva sfiorato il collo e ghermito le viscere la prima volta che era entrato al Verse-Eau, e aveva trovato Marco ed Yngve placidamente seduti a fare colazione.

Resta, gli intimò quella voce; ma Rodrigo aveva perso tutta la giornata a sistemare una rogna colossale. Ed era stanco. E doveva ancora sentire Isabelle. E, in caso la chambre d’amis fosse già prenotata, mettersi alla ricerca di un altro posto in cui stare per un’altra settimana. O dieci giorni. E, più di ogni altra cosa, Rodrigo sapeva che se fosse rimasto a guardare Tiennot lavorare, sarebbero finiti a rotolarsi sul tavolo da lavoro della cucina, e del Plaisir d’Amour nemmeno l’ombra.

Nossignore. Questa storia deve finire e deve finire qui. Adesso. Cascasse il mondo.

A malincuore, aveva stretto le dita di Tiennot - dita lunghe, forti, dalle unghie tagliate corte - e aveva scosso la testa.

«Meglio di no», e Tiennot non aveva insistito.

Così Rodrigo aveva raccattato le proprie cose, un bacio di commiato - e un secondo e un terzo, e… -, aveva salutato Coralie e Françoise, ed era rientrato alla base con lo sguardo di Tiennot addosso.

Ma, mano a mano che si lasciava Montmartre alle spalle, quello sguardo d’amore e complicità era diventato qualcos’altro. Lo sguardo bramoso del leone che ha scelto l’antilope da cacciare, e che freme per affondare i suoi denti nella carne del collo. E, in più di un’occasione, Rodrigo si era voltato per controllare che Tiennot non lo stesse seguendo - o che qualche malintenzionato non avesse scelto di pedinarlo - fin quasi sotto casa. Fin quasi sul pianerottolo.

Infilò le chiavi. Entrò. Si lasciò cadere sul letto sfatto.

Dio Santissimo, che giornata, pensò, le mani sul viso a dirsi che sì, era finita, e sì, aveva salvato Tiennot. A meno che il diavolo non ci avesse voluto mettere di nuovo lo zampino. Cosa che non si poteva mai del tutto escludere; ma in quel momento Rodrigo era troppo stanco per baloccarsi coi se e coi ma. Si meritava una doccia. Una lunga, lunghissima doccia, a temperature ustionanti. E poi otto ore di sonno filate. Il riposo del guerriero. Tiennot sarebbe passato il mattino seguente, forse. Giusto per augurarsi il buongiorno, col suo accento pantruchard pompato all’ennesima potenza.

E Rodrigo sapeva - e Rodrigo aveva imparato - che il buongiorno di Tiennot poteva essere molto lungo e molto, molto elaborato…

 

In quel momento, bussarono alla porta.

Rodrigo si puntellò sui gomiti.

E adesso che succede?

Non poteva essere Milo - le sue stories lo davano a cena a Montparnasse - né tantomeno Shaina, impegnata ad accertarsi che Milo non deragliasse dalla tabella di marcia e sparisse chissà dove, come al solito. Ed Isabelle non si sarebbe mai presentata alla sua porta a quell’ora.

Tiennot?, si chiese Ruy. 

Allora aveva ragione! 

Allora non si era immaginato tutto! 

Quell’incosciente lo aveva seguito! 

Buon Dio, ma devi lavorare!, pensò, alzandosi e ignorando, ancora una volta, quella vocina che gli sussurrava - che gli intimava - di non aprire la porta, di tenerla sprangata e di fare finta di essere morto.

Nossignore. Adesso lo avrebbe fatto entrare, gli avrebbe fatto un cazziatone da manuale e lo avrebbe riportato di peso al Verse-Eau, incatenandogli una caviglia al bancone da lavoro, se necessario.

Anzi, per punizione, prima…

Ma Rodrigo non arrivò mai a formulare il resto della frase, perché le parole, semplicemente, abbandonarono il suo cervello evaporando nell’aria della sera. Quando aprì la porta non si trovò davanti lo sguardo di un blu impossibile di Tiennot, o i suoi capelli legati in una coda distratta, o quelle piccole efelidi di cui amava tracciare il percorso sulla pelle del suo pasticcere.

Quando Rodrigo aprì la porta vide una massa di capelli oro zecchino, due occhi verde smeraldo e il sorriso accecante che per tante - troppe - notti gli avevano tenuto compagnia in sogno. Davanti a lui, bello come un dio greco appena sceso dall’Olimpo e l'espressione più contrita del suo repertorio, c’era Aiolia.

Che lo guardò.
Che gli sorrise.

E poi disse: «Ciao, amore. Sono tornato a casa.».



 

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Capitolo 18
*** 18. ***


18.


 

«Che cazzo ci fai qui?»

«Con che faccia mi chiami amore

«Chi ti ha detto che ero qui?»

 

Queste ed altre domande simili si andavano affastellando nella mente di Rodrigo mentre fissava Aiolia sulla soglia di un monolocale nel cuore di Pigalle. Domande legittime e sensate da porre ad un desaparecido che ritorna, come se niente fosse, dopo essersi lasciato alle spalle null’altro che macerie e detriti.

Ma Rodrigo taceva. Qualcosa si era inceppato lungo il tragitto tra il cervello e la lingua; e lo fissava a bocca aperta ed occhi smarginati, come se davanti a sé avesse un alieno appena sbarcato da Plutone – o da un paio di sistemi solari più in là – per fare rifornimento di carburante a buon mercato. O chiedere la strada per il Quadrante Gamma. 

Aiolia sorrideva di rimando, beandosi dell’effetto che aveva avuto sul suo – ex – amante. 

«Non sai quanto mi sei mancato…», disse, con un sospiro profondo, la voce bassa e lo sguardo carico di promesse d’amore.

«Cosa vuoi?»

 

Secco, gelido e implacabile, Rodrigo aveva alzato un muro tra sé e il suo ex fidanzato. Perché quello che aveva davanti a sé, no, non era il suo Aiolia. Non era il ricordo - abbellito ed infiocchettato all’occorrenza - dell’uomo che lo aveva fatto convertire all’altra parrocchia, lo aveva fatto sentire amato, e poi gli aveva spezzato il cuore senza fermarsi a pensare alle conseguenze. L’uomo che gli stava davanti aveva tutti i contorni di un estraneo, di qualcuno in cui si può incappare per caso in metropolitana, nello studio del dentista o in fila alle casse del supermercato.

E la Domanda, quella con dignità di maiuscola, che premeva, disperata, per affiorare sulle labbra di Rodrigo, era una sola.

«Chi sei tu?»

 

Possibile che nell’ultimo anno avesse amato e rimpianto un’idea platonica?

Possibile che avesse rincorso il fantasma dell’Aiolia che lui aveva voluto vedere, anche quando il diretto interessato aveva mandato in frantumi quell’illusione con una pallonata ben piazzata?

Possibile che quell’Aiolia – il fidanzato innamorato, premuroso, appassionato e un’altra mezza chilata di aggettivi strapositivi – non fosse mai esistito, se non nella mente di Rodrigo?

The beauty is in the eye of the Beholder, sussurrò la voce sorniona di Marco, tornata a farsi sentire; e Rodrigo riuscì a percepire l’aroma delle sue sigarette, in un modo così preciso da risultare doloroso.

 

«Possiamo parlare?», chiese - supplicò - l’estraneo con le fattezze di Aiolia.

«No», rispose Rodrigo. «Non c’è niente da dire.»

«Non è vero!», protestò Aiolia, facendosi avanti e serrando le dita attorno al legno della porta. Per non farsela sbattere in faccia. «Io… io devo parlarti.»

«Io no», ripeté Rodrigo. E fece per chiudergli, una volta per tutte, la porta in faccia. Dita o non dita.

«Rodrigo, ascoltami!»

«Sta’ zitto!» 

Rodrigo si fece avanti, la maniglia stretta nel pugno e l’espressione dura.

«Hai avuto tempo, per parlare. Tutto il tempo del mondo», sibilò. «Adesso è tardi, non credi?»

«Agapi mou», insistette Aiolia, spingendo contro la porta. «Dammi solo un minuto.»

Un soffio di fiato, un attimo ancora!, canticchiò la voce sguaiata di Marco, e Rodrigo se lo immaginò intento a insaponarsi la barba, allo specchio, di domenica mattina, la radio accesa e il lavandino colmo di acqua calda.

E Rodrigo seppe con assoluta certezza che, se non l’avesse fatto entrare, Aiolia si sarebbe seduto sullo zerbino, spalle alla porta, e avrebbe dato fiato alle trombe lì, su quel pianerottolo, in barba ad ogni pudore ed ogni decenza. E fanculo quello che avrebbero pensato i vicini.

Così Rodrigo sospirò, si fece da parte e lo fece passare. Chiuse la porta.

«Mezzora. Non un» secondo di più, ma anche quella frase rimase a metà strada tra il cervello e la bocca di Rodrigo. Aiolia lo aveva abbracciato, attirandolo a sé e affondando il viso contro la sua nuca, le mani che vagavano sul suo petto come se quel contatto gli fosse necessario

«Quanto mi sei mancato…», gli sussurrò all’orecchio, a fior di pelle, mentre il suo profumo invadeva i sensi di Rodrigo per andare a piantarsi dritto dritto nel cervello, senza chiedere permesso.

Com’è strana la vita. Per quanto tempo aveva sognato quell’abbraccio, quel calore, quel respiro, quel profumo accarezzargli la pelle e l’anima, rincorrendone il ricordo che andava sbiadendo giorno dopo giorno?

E adesso che finalmente – finalmente?! – quell’abbraccio, quel calore, quel respiro e quel profumo lo stavano avvolgendo, ancora una volta, cosa ne ricavava Rodrigo?

Non sollievo, non soddisfazione, non il cuore spaccato in due come una mela dalla più pura felicità, ma una sorta di oppressione. Come se le maglie di una rete di filo spinato si fossero chiuse – serrate – attorno al suo corpo.

Questo era Aiolia: un fuoco indomabile che non chiedeva permesso e bruciava con lo stesso splendore del Sole. E Rodrigo aveva visto le proprie ali di cera sciogliersi senza pietà già una volta, per voler ripetere l’esperimento. Con un gesto brusco si liberò da quella presa di sottomissione, e fissò Aiolia in cagnesco.

«Perdonami», e se Aiolia si stesse riferendo alla propria irruenza o all’averlo piantato in asso per correre da Quella Là, non era chiaro.

«Hai mezzora di tempo per dire quello che devi dire», gli ricordò, serrando i pugni e mettendo la giusta distanza tra di loro. Prese lo smartphone e fece partire il timer. «Spicciati. Il tempo vola.»

«Sul serio?»

«Sul serio.»

 

Aiolia sorrise.

Le mani in tasca e l’aria divertita, disse: «Sapevo che non mi avresti accolto a braccia aperte. Ho calpestato il tuo orgoglio, dopo tutto…».

Ti ci sei pulito il culo, pensò Rodrigo; ma tacque. Dare corda ad Aiolia era quello che lui voleva. E sarebbe stato molto, molto pericoloso, perché Aiolia era un maestro nel rigirare le frittate, specialmente quand’era lui, Aiolia, ad avere torto marcio.

«Ho commesso un terribile sbaglio», ammise Aiolia, lo sguardo spaurito cui ricorreva quando voleva farsi perdonare l’ennesima cazzata.

E te ne accorgi dopo un anno?!, pensò Rodrigo, in una delle tante – perverse – rotatorie a senso unico del suo cervello.

E poi, nonostante tutte le buone intenzioni, non resistette oltre e lo disse: «E te ne accorgi dopo un anno?!».

Aiolia si strinse nelle spalle.

«Sono mortificato», disse. Come se fosse quella la formula magica che gli avrebbe concesso di tornare dal suo angelo del focolare. Focolare che Aiolia stesso aveva mandato in rovina prendendo la porta di casa e chiudendosela alle spalle, ma erano dettagli. Quisquilie. Piccoli incidenti di percorso.

«Lo so che adesso sei furioso», proseguì Aiolia, come se quella fosse una bagattella tra due sposini; una lite tanto futile quanto esagerata; una di quelle in cui ci si accapiglia per il cartone del latte rimesso in frigo rigorosamente vuoto o per i calzini abbandonati ovunque, tranne che nel cesto della biancheria.

«No, ti sbagli», lo corresse Rodrigo. «Io non sono furioso.»

 

Ed era la pura verità. 

Un dolore smarginato e abbacinante lo aveva avvolto non appena aveva sentito la porta chiudersi e l’ascensore scendere al piano terra, per l’ultima volta. Si era seduto sul pavimento, spalle al muro, e gli era sembrato di morire. Un attacco di panico in piena regola. Ma poi, quel dolore era passato. Tutto passa. E, un bel giorno, Rodrigo si era svegliato in preda ad una furia cieca e rancorosa, che aveva bruciato ogni ricordo – bello o brutto che fosse –, facendo piazza pulita del passato. Per rinascere. Per non morire avvelenato. E quando anche la rabbia s’era spenta, le ultime braci dissolte nel vento, era stata la volta di una cocente delusione.  Quali parole erano state vere? Quali, menzogne? Aveva creduto a tutto quello che Aiolia gli aveva detto; e lui, in quella storia sgangherata, ci aveva messo l’anima. Sul serio. Dal primo istante. E quando la giostra si era fermata e le luci si erano spente, Rodrigo si era accorto di quanto tempo avesse sprecato rincorrendo un sogno, un’illusione, una chimera.

 

«Sì, che sei furioso», ribatté Aiolia. Piccato, forse. Le cose non stavano procedendo come lui le aveva pianificate? «Devi esserlo. Con un carattere come il tuo…»

Ah, adesso è pure colpa mia?

«Se avessimo avuto questa conversazione un anno fa, non ti avrei fatto entrare. Anzi. Avrei chiamato la polizia. Perché sì, un anno fa ero furioso. Ma oggi, no. Oggi non mi interessa. È una storia vecchia, Aiolia.»

E quando quel nome rotolò tra lingua e labbra, Rodrigo sentì che un tappo saltare via, e tutto quel dolore ruscellare fuori. Lo stava abbandonando. Una volta per tutte.

«Mi hai perdonato?» Aiolia era raggiante. Come se avesse vinto il primo premio alla Lotteria di Capodanno.

«No.» Rodrigo si portò le mani sui fianchi. «Non ti ho perdonato. Sono andato avanti con la mia vita.» Come hai fatto tu con la tua, aggiunse, tra sé e sé.

Aiolia annuì. Confuso. No, le cose non stavano andando come le aveva preventivate, e questo lo lasciava spiazzato; ma Aiolia era sempre stato molto, molto bravo ad improvvisare. Forse anche troppo.

«Ruy…»

«Non chiamarmi Ruy!»

«D’accordo.» Aiolia alzò le mani. «Rodrigo, io non so da che parte cominciare…»

«La lista è lunga. E il tempo vola», disse, indicandogli il telefono.

Il viso di Aiolia si illuminò.

Sì, quel pazzo credeva che fosse tutta una questione di teatro, le paturnie di una mogliettina illividita che tiene il punto per far capire al proprio maritino che, no, non ci si comporta così, non si lascia l’asse del wc alzato, e io non sono mica la tua serva, e guarda che torno da mia madre; ma, sotto sotto, lei non vede l’ora che quella schermaglia finisca, lui le chieda scusa, e abbassino la luce, e facciano pace sotto le lenzuola. Fino alla prossima volta.

Così Aiolia prese un bel respiro, rilasciò l’aria e si preparò all’affondo finale.

«Ho commesso uno sbaglio. Un terribile, deprecabile, imperdonabile sbaglio

Pausa. «Non so perché sia successo. O meglio. Lo so. Le cose non andavano più bene tra noi…»

E ti pareva che non fosse colpa mia!, pensò Rodrigo. Mai e poi mai Aiolia si sarebbe assunto le proprie responsabilità. Lui non agiva, ma si limitava a reagire a ciò che facevano gli altri.

«Non che fosse colpa tua.» Come siamo magnanimi, pensò Rodrigo. «Ero io, io, IO, a non sapere cosa volessi. Quale direzione avrebbe dovuto prendere la mia vita.»

Mia. Non nostra. Mia.

«E poi è arrivata lei.»

Rodrigo, le mani sui fianchi, ascoltava ogni parola, intonazione, pausa.

Era sempre colpa di qualcun altro. Perché era palese che Quella Là gli avesse dato una padellata in testa o lo avesse irretito con chissà quale filtro magico, fattura, incantesimo. Povero, povero Aiolia. Era per questo che Leaphya non aveva neppure diritto ad essere chiamata per nome? Perché Aiolia, coscientemente o meno, stava ammettendo, in soldoni, di aver piantato baracca e burattini per un soffio di vento, un capriccio momentaneo.

 

E io mi sono consumato per uno così…

Era la mera constatazione dei fatti. Aiolia era una fiamma che ardeva per il puro gusto di brillare, alta e svettante, non per il lento e raffinato piacere di consumarsi assieme alla legna sottostante.

«Ho vacillato. Lo so. Lo so. Non avrei dovuto farlo. Mai e poi mai. E lo so. Ti ho spezzato il cuore. Ho calpestato il tuo orgoglio. Ed è questo, che mi fa male.»

Il mio orgoglio?, si chiese Rodrigo, sbattendo le palpebre.

«Leaphya sa che sei qui?»

E l’elefante in salotto si materializzò tra di loro.

«No», disse Aiolia, dopo qualche minuto, stornando lo sguardo sulla moquette. «Non sa che sono qui», senza specificare se con qui intendesse Parigi, oppure l’appartamento nel cuore di Pigalle.

«Come sarebbe a dire?» Rodrigo scosse la testa, incredulo. Da ex fidanzato ad amante. Fantastico! «Ma ti ha dato di volta il cervello?»

«Sono a Parigi per lavoro», specificò Aiolia. Senza chiarire quali fossero i suoi rapporti attuali con Leaphya. A Rodrigo quella ragazza fece una pena immensa, perché, come lui, anche lei era stata attratta dalla fiamma. Sperò solo che lei avesse avuto maggior giudizio, e si fosse liberata di Aiolia prima che fosse troppo tardi.

«Permettimi una domanda. Una sola.» Aiolia si fece attento, attentissimo. Annuì e Rodrigo continuò: «Come diamine hai fatto a trovarmi?».

 

Era quella, la domanda regina che Rodrigo aspettava di porre dal primo momento. Non i «Come hai potuto?!» o i «Non ti aspetterai che sia così semplice, vero?! Che tu schiocchi le dita e io torni da te, come un cagnolino, eh?!», che Aiolia aveva messo a bilancio nella sua personalissima ricostruzione degli eventi, no; nossignore. Il tarlo che girava e rigirava nella mente di Rodrigo era un più razionale e ragionevole «Come diamine hai fatto a trovarmi?»; perché lui era sicurissimo di: a) aver bloccato Aiolia in ogni modo possibile e immaginabile; e b) di aver detto solo e soltanto ad Aiolos della trasferta parigina per chiedere a quel santo di raccogliere la posta.

Quindi, chi era la talpa che lo aveva venduto al nemico?

Aiolia sorrise, un lampo bianchissimo venato di rimpianto.

«Ti ho visto su Instagram. Nelle stories di Milo Papadopoulos. Sai che gli ho mandato il curriculum e quello stronzo non mi ha mai risposto?» Altro sospiro. «Ti avrei riconosciuto in ogni modo. Pure sfocato. Eri ad un tavolo, lo sguardo sperduto e una tazza di caffè in mano.»

La foto scattata da Coco!

Aiolia prese lo smartphone, scartabellò per qualche istante e gli mostrò uno screenshot. La sua espressione da pirla al tavolo del Verse-Eau

«Quando ti ho visto, è stato come ricevere una pugnalata al cuore», confessò. «E, giorno dopo giorno, sentivo l’esigenza fisica di rivederti. Cristo santo, sarei morto se non ti avessi parlato un’altra volta!»

«Io intendevo sapere come hai fatto a scovare questo indirizzo», precisò Rodrigo, indicando il pavimento ai suoi piedi, e l’aria di chi già sa quale risposta stia per ricevere ma che, comunque, la vuole sentire lo stesso. Tanto per togliersi ogni dubbio.

«Ho rintracciato il tuo smartphone

 

Sganciò la bomba senza starci troppo a pensare. Rodrigo lo aveva colto con le mani nel barattolo della marmellata, tanto valeva ammettere e passare alla prossima mossa.

«Tu cosa?!», ringhiò Rodrigo.

Aiolia sospirò. Stava forse perdendo la pazienza?

«Lo so», disse, le mani aperte a mo’ di scudo. «Ho sbagliato, lo so.»

«Puoi dirlo forte!» Rodrigo era incredulo. Ma gli aveva dato di volta il cervello? «Cristo santo, ma lo sai che potrei denunciarti? Questo è stalking, Aiolia! Stalking. Lo capisci?»

«E tu lo capisci che non mi hai dato altra scelta?!»

«Pure? Adesso è pure colpa mia?»

«Mi hai tagliato fuori dalla tua vita!»

«Oh, scusami tanto!», lo rimbeccò Rodrigo. «Ma vorrei ricordarti che sei stato tu a prendere la porta di casa e ad andartene da Leaphya. Tu, Aiolia. Non io. TU!»

Aiolia alzò nuovamente le mani.

«Sì, è vero. Hai ragione.»

«Quindi che cazzo pretendi da me?!»

 

Rodrigo era a tanto così dall’afferrarlo per il collo e scaraventarlo giù per le scale, senza troppe cerimonie; anzi, avrebbe anche aggiunto un paio di pedate, per buona misura.

«Voglio solo parlare con te», ripeté Aiolia. Come un disco rotto. Come se il battere ossessivamente sullo stesso tasto avesse potuto farlo capitolare.

Rodrigo controllò l’orologio.

«Hai avuto la tua mezzora.» Mancava una manciata di secondi, ma era stato sin troppo generoso. Si diresse alla porta, pronto a spalancarla e a liberarsi di Aiolia una volta per tutte. Con le buone o con le cattive. «Adesso, togli il disturbo.»

«Chou chou…», le dita di Aiolia erano scattate attorno al suo polso. «Io ho bisogno di te…»

«Io, no.» Si liberò di Aiolia con un gesto secco. Poi gli intimò: «Prendi quella porta e vattene.». Pausa. «Non me ne frega un cazzo se ti sei pentito, se ti resta un mese di vita e vuoi la scopata d’addio, se Leaphya», e scandì bene quel nome, «ti ha sbattuto fuori di casa. Non. Me. Ne. Frega. Un. Cazzo. Intesi, Aiolia? Tu adessi prendi quella porta e…».

«C’è un altro?»

 

Rodrigo sbatté le palpebre un paio di volte. Esterrefatto.

«Mio fratello è il protagonista assoluto della sua esistenza», gli aveva confidato Aiolos quasi un anno prima, all’uscita dal cinema. Rodrigo neppure ricordava che pellicola fossero andati a vedere. Non doveva essere stato un capolavoro. E adesso, nove mesi dopo, si trovava a dargli ragione. E a chiedersi come potessero essere venuti su due fratelli tanto diversi dagli stessi genitori.

Sì, Aiolia viveva la propria vita come se fosse l’indiscusso eroe di una serie televisiva dozzinale. Per la sua mente – per il suo smisurato amor proprio – non era possibile concepire il fatto che Rodrigo non volesse più saperne di lui. Doveva per forza esserci un ostacolo di mezzo. Un’altra persona. Qualcuno che Aiolia era pronto a fare a pezzi con le proprie mani pur di riavere quanto gli spettava per diritto divino. Rodrigo. E se, in un altro momento, Rodrigo si sarebbe sentito lusingato da questa forma accecante e possessiva di amore, adesso ne era inorridito. Anzi, un simile cipiglio da parte di Aiolia aveva sortito l’effetto opposto, spingendolo a voler porre quanta più distanza possibile tra di loro.

 

«No», disse. «Non c’è un altro.»

«Davvero?», domandò Aiolia. Come se, per qualche corto circuito logico, gli dovesse quella precisazione.

«Davvero», ripeté Rodrigo, stornando il pensiero da Tiennot. Aiolia non doveva sapere di lui. Non gli si doveva avvicinare. Altrimenti avrebbe reso la vita di Tiennot un inferno.

Aiolia sospirò. Come se un enorme sacco di mattoni fosse scivolato via dalle sue spalle. «Grazie a Dio…», disse. Sollevato. 

«No, tu non hai capito…»

«No, amore. Tu non hai capito», lo interruppe Aiolia. «Ru… Rodrigo. Ho commesso un errore imperdonabile. Ma, alla fine, ho capito di amarti. Io ti ho sempre amato.»

Anche mentre ti sbattevi Leaphya, immagino, pensò Rodrigo.

«E credimi. Non passa giorno, non passa ora, senza che io… Non so che darei per averti accanto…» 

Ullallà, adesso scomodiamo anche Alan Sorrenti?, chiosò la voce di Marco. Più affilata del solito. 

«E lo so che non ti fidi. Lo so. E non è facile perdonare quello che ti ho fatto. Ma io ti amo, Rodrigo Diaz Pidal. Ti amo, e ho tutte le intenzioni di riconquistarti. Fosse l’ultima cosa che faccio. Quindi, sì. Grazie a Dio non c’è un altro. Perché significa che ho una possibilità. Anche se adesso tu non la vedi, io so che c’è. E per il momento mi basta.»

 

E prima che Rodrigo tentasse, disperatamente, di spiegargli che no, non c’era nessuna relazione stabile nella sua vita al momento e che no, non sarebbe tornato assieme a lui neppure se fosse stato l’ultimo essere umano rimasto sulla Terra, Aiolia gli prese il viso tra le mani a coppa e se lo avvicinò.

«Sono pronto a rivoltare l’Inferno come un calzino, per te. E anche se dovessi metterci una vita intera, riuscirò a riconquistarti. Te lo prometto.» Sfiorò la punta del naso di Rodrigo con la propria. «Chiudi bene la porta. Intesi?»

E così dicendo si allontanò, aprì la porta e scivolò fuori dalla stanza, lasciando Rodrigo boccheggiante. Fece scattare la serratura con mani tremanti, si sedette sul pavimento, schiena alla porta e cuore in tumulto.

Respirò piano, a fondo, per stroncare sul nascere i prodromi di un attacco di panico. Aiolia non avrebbe distrutto la sua vita un’altra volta. Nossignore. Non gliel’avrebbe permesso. Perché non sarebbe stato giusto.

E, riempiendosi i polmoni fin quasi a farli scoppiare, Rodrigo si concentrò sulle cose da fare. La lista era bella lunga.

Doveva andarsene, come prima cosa.

Doveva andarsene domani mattina stessa.

E cambiare cellulare.

E fare anche un salto al primo commissariato di strada. 

Tanto per stare tranquilli.

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