I’ll Always Be Your Parabatai

di Koa__
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Stammi più vicino (Vorrei essere te) ***
Capitolo 2: *** Guardare la vita da una diversa prospettiva ***
Capitolo 3: *** Arrendersi alla volontà dell'angelo ***
Capitolo 4: *** Riuscire ad ammutolire Simon Lewis ***
Capitolo 5: *** Passeggiare lungo i viali di Central Park ***
Capitolo 6: *** Due cuori che battono all'unisono ***
Capitolo 7: *** Sarò sempre il tuo Parabatai! ***
Capitolo 8: *** Quello che gli angeli vogliono ***



Capitolo 1
*** Stammi più vicino (Vorrei essere te) ***


I’ll Always Be Your Parabatai







 

 
 
 


 






 

Stammi più vicino (Vorrei essere te)


 




 

"Giurami di non lasciarti o di non tornare dopo di te,
perché dovunque andrai io andrò,
e dove alloggerai, alloggerò.
Il tuo popolo sarà il mio popolo e il tuo Dio il mio Dio.
Dove morirai io morirò e lì sarò sepolto.
L'Angelo fa così a me, e anche di più,
se non altro che la morte separa te e me."






 

Era passato un mese e mezzo da quando gli angeli avevano cancellato la memoria di Clary, come punizione per aver abusato delle sue rune. Quarantacinque orribili giorni vissuti nella consapevolezza che, all’istituto di New York, un pezzo importante fosse venuto a mancare. Da allora, Jace Herondale aveva perso l’amore della sua vita e niente aveva avuto più senso. Non era soltanto perché la donna che amava gli era stata portava via, ma perché gli pareva di aver combattuto contro Valentine, Jonathan e poi anche Lilith, per nulla. Naturalmente sapeva che uccidendoli avevano salvato delle vite, ed era felice per questo, ma era come se tutti quanti avessero avuto il loro lieto fine tranne lui e Clary. Chiunque all’istituto non faceva che ripetergli che il tempo avrebbe lenito il dolore o che avrebbe dovuto avere speranza, perché gli angeli possono anche perdonare. Solitamente, dopo avergli detto simili banalità, la gente gli concedeva un’occhiata carica di compatimento e quindi se ne andava, non prima di avergli dato una sonora pacca sulla spalla. Jace, ammutolendosi in un’espressione ruvida e fingendo al contempo che la pietà altrui non lo sfiorasse minimamente, si ritrovava quindi a convincersi che la sua vita non potesse che migliorare. Poiché era difficile scendere più in basso di come stava. Ma quegli sprazzi di ottimismo duravano ben poco perché subito si rendeva conto che più i giorni passavano, più si sentiva cadere in un buco nero. Buttarsi nel lavoro, trascorrendo ogni notte di ronda, dormendo qualche ora al mattino e abusando della propria runa della resistenza, unicamente per non stare un secondo di più in quella dannata camera da letto senza di lei, non era servito a granché. Sembrava infatti che uccidere demoni non migliorasse poi così tanto l’umore e che venir ricoperti di muco verdastro, come gli era accaduto la sera precedente, aveva addirittura il potere di farti diventare apatico nei confronti di qualunque cosa. Il mattino seguente a quello sfortunato combattimento, di ritorno all’istituto col giubbotto di pelle appiccicaticcio e i capelli in uno stato pietoso, Jace aveva lasciato l’arma impregnata di sangue demoniaco in armeria, dichiarando a un’attonita Izzy che quella sarebbe stata l’ultima ronda notturna faceva. Perciò non aveva avuto nulla da obiettare quando, la sera stessa, Alec gli aveva ordinato di andarsene a dormire. Quindi, il suo Parabatai gli aveva dato una pacca sulla spalla e lo aveva spedito a letto con la promessa che avrebbero cenano prestissimo insieme. Per parlare, aveva anche aggiunto. Di Clary, ma questo Alec non glielo aveva detto e Jace non aveva ritenuto necessario domandare. Non serviva, Alec era il suo Parabatai e poteva sentire chiaramente la preoccupazione che provava per lui, così come percepire il desiderio di stargli vicino dalle pieghe incerte della voce, oltre che nell’espressione amareggiata che aveva addosso. Anche Alec sentiva la mancanza di Clary e Jace lo sapeva per certo, ma doveva essere ben più in ansia per lui che per lei. In effetti, da che se n’era andata non ne avevano parlato e non perché Jace volesse tenersi tutto dentro, ma perché non c’era davvero niente da dire. Gli angeli le avevano cancellato la memoria e la sua amata stava vivendo una vita lontana dai demoni, a studiare arte come una qualunque mondana. Forse era meglio così, pensò ricordando a quando, in un moto di egoismo, aveva detto proprio ad Alec che avrebbe fatto l’impossibile pur di tenere con sé la persona amata. Dov’era finito quel Jace? Il valoroso Shadowhunter pronto a battersi contro tutto e tutti pur di non perdere chi amava? Possibile che si fosse già arreso? Sì, era così e se ne vergognava perché Clary se n’era andata e lui non aveva fatto niente per cambiare le cose. 
«Non si può contrastare il volere degli angeli» gli aveva detto Maryse tempo prima, nel tentativo di smorzare sul nascere qualsiasi azione avventata. Frase che Jace ripeteva a se stesso le volte in cui sentiva la tentazione di invocarne uno per domandargli di farla tornare indietro.

 

Non c’era nulla che potesse fare tranne che pregare, si disse quella sera dopo esser rientrato in camera lasciandosi cadere sul letto a peso morto. Doveva solamente aspettare che il dolore più acuto passasse e per farlo era certissimo che non avrebbe dovuto essere solo. Eppure, invece che aprire la porta e cercare Izzy o Alec, rimase immobile a fissare il vuoto. Accidenti, persino Simon gli sarebbe andato bene per una bevuta! Perché non chiedeva loro aiuto? Orgoglio, probabilmente e anche un bel po’ di fastidio, perché le volte in cui ci aveva provato gli era sembrato che volessero compatirlo. E Jace odiava quando le persone si comportavano in quel modo con lui, lo facevano sentire stupido. Ciò che voleva davvero era fare il proprio lavoro nel migliore dei modi e assicurarsi che Clary stesse bene, cosa che faceva monitorandola da lontano. Vederla attraverso gli schermi dell'istituto a poco serviva, probabilmente avrebbe dovuto raggiungerla tenendosi a una certa distanza, ma non si azzardava a fare quel passettino in più. Forse perché temeva gli angeli o, più probabilmente, per via della forte paura di non riuscire a controllare l’impulso di raggiungerla e baciarla. Sapeva che era sbagliato e che spiare i suoi sorrisi lo faceva sentire persino peggio, ma non riusciva davvero a trattenersi. Dolore e solitudine si erano così radicati dentro di lui, che non aveva idea di come avrebbe fatto a vivere anche solo un altro giorno in un simile stato d’animo. Anche quella sera, chiudendo gli occhi nella sua stanza all’istituto, mollemente rilasciato tra i cuscini, Jace faticò a sedare una fitta al petto che quasi gli mozzò il respiro. Si sentiva solo e questo era parte del problema: Alec si era trasferito da Magnus, Izzy passava la maggior parte del proprio tempo libero con Simon e persino Maryse usciva con Luke. Sembrava che la sua famiglia si fosse disgregata e lui fosse tornato il ragazzino di un tempo, lo stesso che guardava il volo di un falco con la speranza che questo tornasse indietro. Questa volta però non sarebbe successo. Questa volta era solo coi propri demoni da combattere. A differenza del passato, però, ora non voleva imbracciare le armi. Al contrario, sperava che quello fosse soltanto un incubo. Ciò che desiderava per davvero era avere una vita felice e perfetta come quella di Alec. Oh, sarebbe stato così bello essere come lui anche solo per un giorno…


 

Jace non aveva idea di quello che sarebbe accaduto in quella prima notte di sonno dopo quarantacinque notti in giro per la città. Non lo sapeva e, probabilmente, nonostante tutto quello che avevano vissuto nell’ultimo periodo, se qualcuno gliel’avesse raccontato neanche ci avrebbe creduto. Alec, dal canto proprio e pur vivendo con uno stregone, lo avrebbe ritenuto impossibile perché sapeva che per certe cose occorre formulare un incantesimo e nessuno di loro aveva pronunciato alcunché. Al contrario, mentre Jace aveva trovato un temporaneo riparo in un sonno ristoratore, Alec si era addormentato tra le braccia di Magnus come faceva ogni sera. Si erano sposati da poco più di un mese, quarantacinque meravigliosi giorni di matrimonio, per la precisione. Dieci dei quali trascorsi su di un’isola tropicale, a fare davvero niente se non baciarsi e prendere il sole. Tornare al lavoro era stato abbastanza traumatico, soprattutto quando si era reso conto, un mattino verso le sette e mezza, di doversi vestire per andare a lavorare. Ecco, quello gli era piaciuto davvero poco perché avrebbe tanto voluto stare ancora accanto a Magnus, che comunque aveva i suoi clienti da vedere. Non che la sua presenza fosse strettamente necessaria, comunque. Con la morte di Jonathan e la chiusura del portale da Edom, la situazione a New York era tornata a essere sotto controllo, ciò che aveva dovuto affrontare l’istituto in quei giorni di assenza faceva parte della normale amministrazione: demoni, covi di vampiri… Niente che Izzy non potesse gestire da sé. Già, per l’istituto, Alec non si era mai davvero preoccupato. Non quanto lo era tuttora per Jace.


 

Clary mancava a tutti, questo era chiaro. Lui e Magnus ne avevano parlato a fondo, sostenendo entrambi che un giorno gli angeli l’avrebbero perdonata. Forse quella era più una speranza che una ferma convinzione, ma nessuno dei due aveva avuto il coraggio di ammetterlo. E sebbene non leggesse che compatimento tra le espressioni di Magnus, Alec aveva finto di credere che fosse vero. Sapevano che Clary stava vivendo al sicuro una vita da mondana, lontana dai pericoli che qualunque Shadowhunter correva e questo era il solo pensiero consolante che si ritrovavano a fare, poi in Alec cresceva la consapevolezza che il suo Parabatai non sarebbe mai stato più felice, e allora il suo stato d’animo mutava. Già, Jace era il pensiero costante e tormentato di Alec Lightwood in quel periodo di immensa felicità. Percepiva il suo dolore come un qualcosa di sordo che marcisce in sottofondo e non accenna a diminuire, sentiva la sua rabbia e il bruciante desiderio di fare qualcosa che gli facesse dimenticare la propria sofferenza. Gli era anche stato vicino, ma tra il ruolo di direttore dell’istituto e il matrimonio, probabilmente non aveva fatto abbastanza. Jace, nonostante le apparenze, non era quel tipo di persona che viene spesso e volentieri a parlarti dei suoi problemi. Alec avrebbe dovuto prenderlo, metterlo davanti a una birra e obbligarlo ad aprirsi con lui. Era certissimo che l’immagine di Clary lo tormentasse e che bruciasse dal desiderio di vederla, ma sembrava che facesse di tutto pur di evitare l’argomento.


«Quando si sentirà pronto per parlare, verrà da te, fiorellino» gli aveva ricordato Magnus quella sera quando, a letto, lo aveva abbracciato stretto e poi baciato sulla punta del naso. Alec aveva chiuso gli occhi e si era lasciato cullare dolcemente. Appoggiare la testa sul suo petto e inebriarsi di quella fragranza al legno di sandalo, era incredibilmente appagante.
«Mi sento in colpa» aveva quindi ammesso, senza smettere di lasciarsi coccolare «io sono qui con te mentre lui è disperato. Sento la sofferenza e la rabbia che prova e io, per quanto mi sia convinto per giorni del contrario, non gli sono stato vicino come credevo di star facendo.»

«Cucciolo, ci siamo sposati, c’è stata la luna di miele e poi il trasloco. Quelli del Clave ancora non sembrano del tutto convinti che sposare uno stregone sia stata una bella cosa per uno dei loro e più di uno Shadowhunter mi guarda come se fossi un intruso che ha deviato il povero Alec Lightwood. Non è stato un periodo facile per nessuno, non essere troppo duro con te stesso.» E Alec ci aveva provato davvero. Aveva tentato di convincersi d’aver fatto il possibile per il suo Parabatai, ma invece che ammettere che Magnus aveva ragione, si ripeté che avrebbe tanto voluto stare insieme a Jace. Perché, per quanto fossero legati dalla runa e facesse l’impossibile pur di trasmettergli serenità, sentiva di non condividere abbastanza il suo dolore. Fu questo l’ultimo pensiero coerente che fece prima di addormentarsi. Anche il suo, così come quello di Jace, fu un profondo sonno i cui sogni lo portarono nel passato. Aveva visto se stesso e poi anche Jace, ad allenarsi l’uno contro l’altro e poi a combattere insieme, percependo distintamente la forza crescere in lui. Aveva rivissuto, in quel viaggio onirico, il giuramento fatto nel rituale per diventare Parabatai e a quel punto le immagini si erano mescolate, divenendo un groviglio indefinito di sensazioni che, al risveglio, lo avevano lasciato spossato. Non fu però quanto aveva sognato a sconvolgerlo né l’intensità del dolore che sentiva e che certamente proveniva da Jace, quanto il fatto che Magnus non era al suo fianco e che non si trovava più nell’attico di Brooklyn.



«Ma che cavolo...» biascicò, guardandosi attorno spaesato. Come aveva fatto ad arrivare sin lì? L’ultima cosa che ricordava era di essersi addormentato tra le braccia di suo marito, mentre ora? Non dormiva più in istituto da prima del matrimonio e inoltre quella non era la stanza che aveva occupato per anni, ma era invece quella di Jace. 
«Magnus?» provò a chiamare, ma la sua domanda cadde nel vuoto. «Jace? Jace, sei qui? Izzy? C’è nessuno? Che ne so… Simon?» Si azzardò a chiedere, sebbene sapesse che il diurno non rimaneva mai da quelle parti per la notte e che era invece Izzy ad andare nel suo appartamento. Quando Alec smise di chiamare e iniziò a guardarsi attorno, si rese conto di essere solo là dentro. Deciso a capire cosa stesse succedendo, si alzò dal letto di Jace dentro al quale doveva aver dormito per parecchio, perché era accaldato e… Bah, in effetti si sentiva davvero strano. Magnus gli avrebbe sicuramente detto che aveva bisogno di una buona dose di sesso mattutino per riprendersi da una simile confusione. Alec però non era del tutto sicuro che una scopata con suo marito potesse far svanire quella strana sensazione che aveva addosso. Aveva i muscoli a pezzi, il collo dolente e poi, mh, era lui a essersi rimpicciolito o il mondo si era ingrandito? Perché aveva la netta impressione di star guardando le cose da una prospettiva diversa. Probabilmente sarebbe rimasto delle ore lì a girare per la stanza senza capire, se non fosse passato davanti a uno specchio e non si fosse reso conto che la propria immagine non era la propria. Era Jace! Era lui, ma il corpo era quello del suo Parabatai. E non c’era alcun dubbio su quello che era successo: c’era stato uno scambio.
«Merda!» mormorò, parlando fra sé, prima di lasciarsi cadere sul letto intanto che cercava il cellulare. Dove diavolo lo teneva? Perché se si trovava in questa situazione era per colpa sua, lo sapeva. Così come non gli ci volle molto per capire che, se lui era lì all’istituto, allora il proprio Parabatai era nel suo corpo, a letto con suo marito. Per l’angelo, che casino!


 

Jace non ricordava quanto tempo fosse passato dall’ultima volta che aveva dormito così bene. Forse era stato merito delle cinque birre che si era scolato all’Hunter’s Moon o magari di quella strana fragranza al legno di sandalo che percepiva nell’aria; da dove proveniva? Era un profumo così rilassante e piacevole... Izzy doveva aver acceso una candela profumata nella sua stanza, ultimamente diceva che facevano bene all’animo, il che era ridicolo perché Isabelle non era mai stata amante di simili rimedi. Eppure, qualsiasi cosa fosse, lo faceva sentire in pace con se stesso. Era come quando Clary era ancora con lui e si svegliavano a letto insieme, abbracciati, decidendo di rimanerci per l’intera mattinata fra chiacchiere e sesso. Era la stessa identica situazione. Anzi, aveva anche addosso una sensazione non meglio definita e non si riferiva alla vaga impressione di essere osservato, ma al fatto che i dolori che aveva da giorni al collo e alla schiena, colpa di uno scontro con un vampiro, erano del tutto spariti. Dubitava che la birra avesse simili poteri e non aveva usato la runa della guarigione, ma magari stava così perché non dormiva per un’intera notte da settimane. Sì, doveva essere per questo che ora stava così bene.
«Buongiorno, cucciolo!»
«Gior...» Aspetta, cosa? Era la voce di Magnus quella che aveva sentito? Ma magari se l’era soltanto immaginata o forse stava ancora dormendo, d’altra parte neanche aveva aperto gli occhi! Sì, era senz’altro un sogno. Certo molto realistico.
«A che ora inizi a lavorare, cucciolo?» Cucciolo? Da quando Magnus lo chiamava in quel modo? All’inizio per lui era solo: “Ehi, tu, Shadowhunter” e poi era diventato Jace. Clary la chiamava “Biscottino” ed era certo di aver sentito epiteti del genere anche per sua sorella o per quella piccola streghetta che ogni tanto lui e Alec avevano attorno, ma di certo non usava dei vezzeggiativi per lui.
«Una scopata e poi qualche waffle? O preferisci crépes e un pompino?»
«Ma che accidenti stai dicendo? Sei forse impazzito?» sbottò, tirandosi immediatamente a sedere e scansandolo in maniera rude. Aspetta, cosa? O Dio, era a letto con Magnus! Erano a letto insieme per davvero e quella era casa sua e di Alec. Oh, cazzo! Va bene che aveva bevuto, ma di certo non così tanto da essere chiamato “Cucciolo” da Magnus Bane e soprattutto non tanto da andarci a letto, questo no, non era così disperato. E ora come gliel’avrebbe spiegato ad Alec che si era scopato suo marito? Perché lo avevano fatto, vero? No, era impossibile! E non soltanto perché amava Clary o per quel microscopico del dettaglio sull’essere etero, ma soprattutto perché non avrebbe mai tradito il suo Parabatai. E poi Magnus non ci pensava neanche ad andare a letto con un altro, e soprattutto non con lui. Quindi che accidenti era successo?
«C-che ci faccio qui?» balbettò guardandosi attorno mentre Magnus, dall’altro lato del materasso, lo osservava di sbieco. Se un primo momento era semplicemente confuso dallo strano atteggiamento di Alec, solitamente incline a certe cose la mattina presto, ora si stava decisamente preoccupando.
«Tutto bene, cucciolo? Hai una faccia strana, hai forse la febbre?»
«E smettila di chiamarmi in quel modo! Non sono il cucciolo di nessuno e di certo non il tuo. E non ho la minima intenzione di fare sesso con te né che tu mi faccia alcun… Cazzo, non riesco neanche più a dirla quella parola, ma porca... sei forse diventato pazzo?»
«Che cosa?» Magnus era sicuramente terrorizzato, chiunque ci avrebbe fatto caso osservando la sua espressione allargarsi in un moto di doloroso stupore. Salvo poi tentare di riportare su di sé un controllo che stentava sempre un po’ ad avere quando si trattava del suo rapporto con Alec. Jace, però, che poco faceva caso persino al proprio, di aspetto fisico o anche all’essere improvvisamente diventato alto un metro e novanta, non se ne accorse minimamente. 
«Mi stai spaventando, Alexander. Dimmi che ti succede, ho fatto qualcosa che non va? Sei arrabbiato per quello che ho detto ieri sera?»
«Come mi hai chiamato?» replicò Jace, senza capire intanto che si voltava verso di lui e si decideva a guardarlo negli occhi. Uno sguardo carico d’ansia che lo mise in agitazione. Non fece però in tempo a pensare ad altro che si rese conto che nel proprio corpo qualcosa non andava.
«Un momento» balbettò Jace, guardandosi le mani intanto che saltava giù dal letto e prendeva a camminare avanti e indietro. Quello non era il suo corpo, le sue rune erano completamente sbagliate e poi si sentiva molto più alto. «Oh, cazzo!» esclamò quindi. Era nel corpo di Alec, a letto con il marito di Alec. Anzi, era nel corpo nudo di Alec (perché sollevando il lenzuolo aveva visto ciò che mai gli era interessato vedere) con davanti suo marito altrettanto nudo. Per l’angelo, sì, era così. Era alto un metro e novanta e aveva i muscoli del corpo rilassati come non ricordava, c’era questo profumo di legno di sandalo nell’aria e Magnus Bene senza niente addosso a meno di un metro da lui, e che lo guardava spaventato.
«Sono Jace» disse solamente intanto che l’espressione di Magnus passava dall’essere confusa a decisamente più sollevata «non sono Alec, sono Jace. Io non so che è successo, ero all’istituto e mi sono addormentato e mi sono svegliato qui» balbettò di nuovo, inorridendo quando osservò la propria nuova immagine allo specchio. «Per l’angelo, potrei vestirmi? E soprattutto, potresti vestirti tu?»
«Grazie al cielo!» proruppe Magnus, parlando fra sé mentre si faceva cadere tra i cuscini in un moto di profondo sollievo. Non aspettò neanche un secondo di più, balzò in piedi, recuperò da terra la propria vestaglia, aprì le tende e, con uno schiocco di dita, gli fece apparire degli abiti di Alec tra le mani. «Metti questi!» ordinò con fare perentorio intanto che svolazzava qua e là per la stanza, ancora gloriosamente nudo, in cerca dei propri vestiti abbandonati a terra.
«Dobbiamo chiamare Alec e assicurarci che sia nel mio corpo» gli disse, intanto che si infilava mutande e pantaloni. Per tutti gli angeli, aveva giurato che sarebbe stato sempre vicino al suo Parabatai, condivideva con lui anima e i sentimenti, ma non aveva mai messo la firma per una cosa del genere. Questo era sicuramente troppo!
«Non credo che possa essere in molti altri posti, Jace» gli fece presente Magnus con una punta di sarcasmo, indossando una vestaglia che aveva lasciato cadere la sera prima ai piedi del letto. «O almeno me lo auguro, per te più che altro. Gli scrivo subito» disse facendo apparire un messaggio di fuoco, il quale si volatilizzò immediatamente in uno sbuffo rossiccio. Quindi, lo stregone si diresse in cucina dove fece apparire una leggera colazione per entrambi. Jace ebbe la sensazione che quel caffè forte Magnus lo avesse preparato più che altro per sé e solo perché aveva chiaramente bisogno di qualcosa di forte che scacciasse il mal di testa e la preoccupazione. Jace lo vide infatti lasciarsi cadere sul divano poco dopo, con un tazza stretta tra le mani e un’espressione sconcertata in volto. Si era davvero spaventato, osservò. Non era la fine del mondo, gli venne istintivo dire intanto che gli sedeva di fronte. Dovevano solo aspettare e pronunciare l’incantesimo giusto per poter tornare nei rispettivi corpi. Di certo con tutto quello che avevano fatto nell’ultimo periodo non era poi una cosa impossibile. Sì, dovevano fare soltanto questo: aspettare. Aspettare un Alec che era sfrecciato subito fuori dall’istituto in direzione di Brooklyn. Oh, sì, c’erano moltissime cose che Jace doveva spiegargli.





 

Continua




 



Note: So che ci sono altre storie con questa tematica e confesso che una l’ho anche letta proprio un paio di giorni fa, presa a casissimo oltretutto. Dopo averla letta neanche volevo più pubblicare la mia, ma dopo giorni a pensarci mi sono detta che non potevo buttare tutto questo lavoro. L’idea mi è venuta guardando la serie, quando Azazel scambia Valentine e Magnus nella seconda stagione. E ho pensato di usare uno dei miei trope narrativi preferiti, ovvero lo scambio di corpi.

Ringrazio Darlene e Nao che hanno letto questo primo capitolo e mi hanno aiutata a sedare i dubbi che avevo su alcune mie scelte. 
Koa

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Capitolo 2
*** Guardare la vita da una diversa prospettiva ***


Guardare la vita da una diversa prospettiva 





 

Alec era arrabbiato, con Jace per la precisione. Non che volesse direttamente incolparlo di qualcosa, anche perché sapeva che non ne aveva il potere e poi, a dirla tutta, non possedeva neppure delle valide motivazioni per voler assumere il suo aspetto. Dentro di sé ne era certo eppure, intanto che raggiungeva a grandi passi l’uscita dell’istituto, non fece che ripetersi che il suo Parabatai doveva avere per forza a che fare con quella faccenda. Non era niente che non potessero risolvere relativamente in fretta, ma senz’altro era necessario capire perché si fossero scambiati di corpo e per farlo doveva tornare immediatamente a casa. Era sicuro che Magnus si fosse messo all’opera per preparare la pozione necessaria e che lo stesse aspettando con un Martini già versato. A suo dire, infatti, c’erano giorni in cui non era mai troppo presto per iniziare a bere e rendersi conto che il proprio marito era finito in un altro corpo, era una di quelle situazioni che turbavano Magnus Bane molto più di quanto questi non volesse ammettere. Fu anche col pensiero di suo marito nella mente, che Alec si ritrovò ad accelerare il passo. Peccato, però, che la sua trionfale marcia venne interrotta proprio quando aveva già messo piede all’ingresso.

«Herondale! Dove stai andando?» In un primo momento dovette ammettere di non aver capito che quella voce si stesse rivolgendo direttamente a lui, infatti tirò dritto come se la cosa non lo riguardasse. Soltanto quando questi si fece più insistente si rese conto che era lui, che stavano chiamando . Che idiota, pensò mordendosi il labbro superiore, doveva tenere a mente che per tutti gli altri non era più Alec Lightwood.
«Jace, dove vai?» Merda, questa non ci voleva, era Underhill! Quello aveva occhi dappertutto ed era attento a ogni dettaglio, non per niente lo aveva scelto come capo della sicurezza. Magari poteva essersi accorto del fatto che ci fosse Alec nel corpo di Jace? Possibile che lo avesse già intuito? Nah, per quanto lo temesse era assai improbabile. Ricordava che quando Magnus era finito dentro al corpo di Valentine, lui stesso aveva esitato persino dopo aver istintivamente riconosciuto l’anima dell’uomo che amava. Era proprio impossibile che Underhill avesse compreso ogni cosa da un rapido sguardo, il che era un bene perché era meglio che nessuno all’Istituto sapesse quello che era successo. Se la notizia fosse arrivata al Clave avrebbero anche potuto destituirlo dall’incarico di direttore. Era vero che molte cose erano cambiate da quando Jonathan era morto, ad esempio non avevano fatto molti problemi per il fatto che un Lightwood avesse sposato un Nascosto, ma non erano diventati ancora così malleabili da accettare una cosa del genere. Quindi era sicuramente meglio che Underhill non ne sapesse nulla, pensò intanto che tentava di assumere una posa il più possibile neutrale. In un attimo si ritrovò tuttavia a non avere la minima idea di come comportarsi, al contrario cercava maldestramente di ricordare come era solito atteggiarsi Jace. Andiamo, pensò, non dev’essere così difficile! Erano fratelli, erano Parabatai. Viveva a stretto contatto con lui da tutta la vita, avrebbe dovuto conoscerlo almeno un pochino o quantomeno evitare di sembrare così dannatamente fuori posto.
«A cas… Cioè, voglio dire che sto andando da Alec, devo parlargli di una cosa.»
«Non so quanto ti convenga andarci ora, l’ho appena chiamato e non mi ha risposto. Credo che quei due stiano facendo qualcosa di ben più interessante che discutere di demoni. Se capisci cosa intendo» ammiccò Andrew, malizioso, facendogli inevitabilmente scendere un brivido ghiacciato lungo la schiena. Per l’angelo, a questo neanche aveva pensato! Jace si era di sicuro svegliato a letto con Magnus e chissà che era successo da quel momento in avanti. La mattina, soprattutto da dopo la luna di miele, suo marito era molto… come dire, espansivo e cercava sempre di trattenerlo a letto per fare sesso. Cosa poteva essere successo con Jace nel suo corpo? Magnus si era accorto subito dello scambio? E se avesse deciso di comportarsi come all’alba di un paio di giorni prima, quando lo aveva svegliato mentre gli praticava del sesso orale? No, non voleva nemmeno pensarci, la prospettiva era davvero troppo strana per rifletterci ora. Preferì invece fingere di ridere alla battuta di Underhill come se trovasse la cosa davvero divertente. Fu sicuro di non esser risultato pienamente convincente, quello che era uscito dalle sue labbra sembrava più che altro un ghigno sofferto.
«Eh, sì» rispose, grattandosi la nuca imbarazzato. «La vita degli sposini, immagino. Ma io devo comunque parlare con Alec, quindi ci andrò subito. Avevi bisogno di qualcosa da lui? Voglio dire, sto andando là e posso riferirgli un messaggio.»
«Sì, grazie. In realtà volevo chiedere aiuto a te, ma visto che te ne stai andando domanderò a Isabelle. Digli che c’è un vampiro fuori controllo, forse due. Un mondano è stato dissanguato a Central Park.»
«Chiama Izzy, è la nostra migliore patologa, magari l’autopsia ci potrà dire qualcosa di più e cont...»
«Mi stai dando davvero degli ordini, Herondale?» domandò Underhill, perplesso, accennando al contempo un’espressione basita.
«Bah, io» balbettò, terribilmente imbarazzato. Dannazione! Non era più Alec Lightwood, doveva cercare di tenerlo a mente perché Jace non dava di certo ordini su come svolgere le missioni. Per l’angelo, era più difficile di quanto pensasse! «Sono sicuro che è quello che ti direbbe di fare il capo se fosse qui. Io lo conosco bene, è il mio Parabatai.»
«Può darsi, ma tu avvertilo e basta. Il cadavere è all’obitorio della polizia mondana, vado a dare un’occhiata.»

«Perfetto! Allora glielo dico» annuì, con l’intenzione di sfrecciare subito fuori da lì. Stava già per aprire il portone, quando una mano sulla spalla lo trattenne. Voltandosi, notò che le espressioni sul viso di Underhill erano cambiate, adesso era come se provasse un’infinita pena per lui. Perché si comportava in quel modo? Si domandò, rendendosi conto che da quando aveva lasciato la stanza di Jace, quella era stata l’espressione di tutte le persone che aveva incrociato nei corridoi. Erano chiaramente dispiaciuti per la faccenda di Clary e sino ad allora si era detto felice che in così tanti si preoccupassero per suo fratello, ma guardare il mondo dagli occhi del suo Parabatai gli faceva sembrare tutto decisamente più irritante. Anche in quel momento infatti, il nervosismo gli attorcigliò lo stomaco.
«Mi dispiace se sono stato troppo duro con te, so che periodo brutto stai passando da quando gli angeli hanno cancellato la memoria di Clary.»
«Non fa niente, grazie Andrew» annuì Alec con convinzione, ricambiando la pacca sulla spalla e picchiettandogli il braccio delicatamente, come in un gesto di comprensione. Probabilmente stava esagerando o, più che altro, questa assurda situazione lo stava rendendo così sensibile che persino le gentilezze lo innervosivano. Underhill in fin dei conti era carino a preoccuparsi in questo modo per Jace, ma in effetti lui era un uomo molto premuroso e attento. In passato, ogni volta che aveva avuto un problema con Magnus, si era sempre comportato come un amico sincero.
«E sappi che se avrai bisogno di qualunque cosa io e Lorenzo ci saremo sempre per te.»
«Tu e chi?» domandò Alec allibito, sgranando lo sguardo sul volto non sbarbato di Jace che si allargò per lo stupore e la confusione. Aveva capito bene? Underhill aveva usato il “noi” parlando di lui e Lorenzo? Ma soprattutto, intendeva davvero quel Lorenzo? Lo stesso che ben conosceva e che aveva trovato odioso sin dal primo incontro? Esisteva davvero un “noi” che riguardasse anche Andrew Underhill? Per l’angelo, erano davvero troppe informazioni per una singola mattinata, pensò, massaggiandosi nuovamente la nuca.
«Lorenzo Rey, naturalmente, il sommo stregone di Brooklyn. Usciamo insieme, in effetti è grazie ad Alec e Magnus se mi sono deciso a chiederglielo, è un uomo così affascinante e poi ha avuto una vita tanto avventurosa...» Probabilmente se Alec non lo avesse interrotto, Underhill avrebbe continuato a elencare le qualità del “Sommo stregone di Brooklyn” e non era del tutto sicuro di volersi sorbire un elogio al grande Lorenzo. Per quanto sia lui che Magnus gli dovessero la vita e gliene fossero immensamente riconoscenti, “Affascinante” non era la parola che Alec avrebbe usato per descrivere quel borioso pieno di sé. E tralasciò persino l’idea che fosse un tantino prematuro parlare al plurale, frequentandosi da qualche settimana appena. In effetti riguardo a questo non aveva proprio nulla da dire, dato che aveva proposto a Magnus di vivere insieme dopo appena qualche mese da quel famoso primo bacio.
«Sono davvero contento per voi» annuì, fingendo una cordialità che non sentiva di possedere in quel momento. O meglio, era felice che uscissero insieme. In fondo era anche per esortare più Shadowhunters a esporsi e a vivere liberamente, che si erano sposati in istituto, ma insomma non era la giornata giusta simili rivelazioni.
«Lorenzo è… Come dire… è forte!» concluse, terribilmente in imbarazzo. Non era mai stato bravo in queste cose, con Magnus se la cavava perché suo marito era intuitivo e comprensivo. Di certo Jace era molto più abile di lui a complimentarsi con le persone o a fingere che gliene importasse qualcosa.
«Ma ora scusa, devo proprio andare. Ci vediamo più tardi, Underhill.» Neanche aspettò la sua risposta, semplicemente vorticò su se stesso e uscì dall’istituto.

 

Il messaggio di fuoco lo raggiunse pochi minuti più tardi. Magnus riferiva semplicemente che si era svegliato accanto a un Jace agitato e sorpreso, nonché che avrebbe fatto meglio a sbrigarsi per venire a casa. Non aveva aggiunto altro, ma non era necessario che lo facesse. Sapeva sino a che punto suo marito dovesse essere turbato, visto che era molto più sensibile di quanto non volesse ammettere. E poi poteva chiaramente sentire anche la preoccupazione di Jace, annidarsi in un groviglio dentro lo stomaco. Un Jace che non era rimasto fermo un singolo istante da quando si era vestito. Non aveva bevuto il caffè che Magnus aveva magicamente fatto apparire, assieme a qualche croissant fresco e neanche si erano più rivolti la parola. Al contrario, un po’ per l’imbarazzo e un po’ per la ridicola situazione dentro la quale si erano cacciati, ogni volta che aveva tentato di rompere il ghiaccio, un qualcosa lo aveva trattenuto. E quindi, tra sguardi abbassati e parole non dette, Jace Herondale aveva iniziato a camminare avanti e indietro per il soggiorno, senza preoccuparsi del fatto che la propria agitazione potesse ulteriormente innervosire Magnus.
«Potresti per favore stare fermo?» gli domandò un esasperato stregone, intanto che si massaggiava le tempie in un tentativo di scacciare quel mal di testa che non accennava a volersene andare. Era stato un risveglio piuttosto traumatico, proprio perché totalmente inaspettato. Da quando si era alzato non aveva fatto altro che chiedersi come potesse essere accaduta una cosa del genere. Dubitava che un demone superiore si fosse scomodato a uscirsene dalla propria dimensione demoniaca per scambiare le anime di due Shadowhunters come tanti. Quando era successo a lui, era stato per colpa di Azazel che aveva desiderato ottenere per sé la Coppa Mortale, ma nessuno, tra gli oggetti posseduti da Valentine, era più all’Istituto di New York. Aveva anche ipotizzato che si trattasse della magia di un qualche stregone, ma di nuovo Magnus non era riuscito a trovare alcuna motivazione valida. Per quale ragione un qualsiasi stregone avrebbe dovuto compiere un tale incantesimo? Addirittura aveva ipotizzato che Jace potesse c’entrare qualcosa, ma a giudicare dallo stupore che gli si era dipinto in volto non appena si era svegliato, dubitava fortemente che avesse architettato tutto quello. Nah, più ci pensava e più il mal di testa cresceva assieme alla preoccupazione per suo marito. Alexander stava bene? Si era già svegliato e aveva ricevuto il messaggio di fuoco che gli aveva mandato?


«Scusa!» borbottò un Jace che era chiaramente dispiaciuto. «Ma sento il nervosismo di Alec, oltre che la sua rabbia e non riesco nemmeno più a capire se siano i suoi sentimenti oppure i miei, il che mi irrita ancora di più e poi...» balbettò, senza neanche finire quanto stava dicendo. Si lasciò invece cadere su una delle poltrone di quell’ampio salone con una mano affondata nei capelli, che ravvivò come in un tentativo di mettere in ordine pensieri che gli si agitavano dentro la testa. Gli sembrava di esser tornato un ragazzo, all’epoca in cui il suo legame con Alec era appena nato e non era in grado di distinguere le proprie emozioni da quelle del suo Parabatai. Abilità che aveva acquisito col tempo, come ogni Shadowhunter, ma che ora sembrava essere del tutto sparita. Era sua, l’agitazione che percepiva? O invece era quella di Alec che gli si muoveva dentro lo stomaco? Davvero non lo sapeva e più tentava di mettere ordine dentro se stesso, meno riusciva in qualcosa di concreto. Probabilmente era questo strano scambio di anime ad aver teso il loro legame, neanche era più del tutto certo di sapere dove iniziasse se stesso e dove invece cominciasse Alec. E questo sì, che era un enorme problema.

«Spero solo che quello che è successo prima a letto non ti abbia imbarazzato» biascicò Magnus, ancora stretto nella sua vestaglia di seta. Era perso a guardare una tazza da caffè ormai vuota e nel mentre si domandava se avesse davvero bisogno di una seconda o se, invece, non fosse meglio andare su qualcosa di più forte. A giudicare dal modo in cui Jace rifuggiva il suo sguardo, evitando prontamente di parlare con lui in maniera sincera, forse un caffè era davvero poca cosa. A dirla tutta neppure uno stregone pluricentenario come lo era lui, era in grado di affrontare la situazione col giusto distacco . Era piuttosto strano, in effetti, avere la certezza che dietro quegli occhi da cerbiatto non ci fosse il suo amato Alexander, ma una persona completamente diversa. Era strano, sì, eppure così chiaro al tempo stesso che ogni volta che posava lo sguardo sul suo viso, un brivido gli scuoteva il petto. Era incredibile come un medesimo volto potesse apparire tanto diverso, se abitato da un’anima differente. E Jace, per quanto avesse dentro di sé parte dello spirito di suo marito, riusciva a essere drasticamente differente da Alec. Adesso sì, che Magnus riusciva a notare ogni più piccola differenza. A iniziare da quell’espressione imbronciata e le sopracciglia corrucciate, sino agli occhi induriti, sfuggenti e non più dolcemente sinceri come quelli dell’uomo di cui Magnus si era innamorato. L’anima che intravedeva su quel volto giovane non era la stessa di un qualcuno di autoritario e dolce all’occorrenza come lo era il suo Alexander, ma apparteneva invece a un uomo ferocemente appassionato come chi è solito seguire il proprio istinto e molto poco la ragione. Quanto erano diversi, pur condividendo pezzi delle loro anime... Magnus riusciva a stupirsene ogni volta che ci ragionava sopra.


«E perché dovrei essere imbarazzato?» gli chiese Jace in rimando, sollevando di scatto il volto «voglio dire, pensavi che fossi Alec ed è perfettamente normale voler fare certe cose con chi si ama. Credimi, lo so bene» aggiunse, chinando nuovamente gli occhi verso terra. Magnus non poté fare a meno di notare come le sue espressioni si fossero indurite in un qualcosa di vagamente nostalgico. Non aveva bisogno che glielo dicesse, per sapere che stava soffrendo per la partenza di Clary e che non riusciva a darsi la pace di cui il suo animo aveva bisogno. Non si era mai davvero soffermato a pensare a quanto Jace stesse soffrendo, lo aveva semplicemente dato per scontato. Ma in quei frangenti, guardandolo esattamente così com’era, abbattuto e triste, baciato da un raggio di luce che gli illuminava il viso, lo stregone si rese conto di quale groviglio di emozioni lo turbasse. Una tristezza infinita che apparve per un istante, ma che subito venne nascosta da una maschera di lieve divertimento. Quindi, Jace Herondale sorrise come se trovasse tutto quello molto divertente: «Però ti confesso che è stato traumatico sentirmi chiedere se volevo...» biascicò agitando le mani in un gesto significativo.
«Fare del sesso con me?» ribatté lo stregone con una divertita alzata di sopracciglia. Sì, gli ci voleva certamente un Martini. Anche se non erano ancora le nove del mattino e lo stomaco era in subbuglio, ma non importava davvero perché c’erano giornate in cui non si iniziava mai troppo presto a bere.
«Esatto!» esclamò, faticando a trattenere una risata sonora. Era tutto così ridicolo! «Non avevo certo bisogno di sentirmelo chiedere in questo modo, per sapere che mio fratello ha una vita sessuale molto attiva e ti assicuro che non sono sconvolto. Piuttosto, mi dispiace per te, quello che è successo ha rovinato i tuoi piani.»
«Bah» gli rispose Magnus, sventolando una mano a mezz’aria in un gesto che lasciava intendere quanto non fosse un reale problema. «Non dispiacerti, biondino, quando ho sposato Alexander sapevo di star prendendo anche tutto il pacchetto» aggiunse, riferendosi a lui. «Quindi dimmi qual è il tuo vero problema, così risolviamo tutto e io potrò riavere mio marito.»


Jace abbassò lo sguardo, ma questa volta non era per l’imbarazzo e non pensava che fosse tutto troppo strano per poter anche semplicemente guardare suo cognato negli occhi. Anzi, sorrise persino perché la maniera che Magnus aveva di dire le cose riusciva sempre a divertirlo in un modo o nell’altro. Non lo conosceva intimamente quanto Alec, ma sapeva che, quando lo voleva, Magnus Bane sapeva essere schiettamente ironico al punto da costringerti a parlare. E in quel momento, un qualcosa di spietato lampeggiava nel suo sguardo. Avrebbe dovuto esserne intimorito, eppure Jace non poté non notare l’immensa dolcezza che ora dimorava sul suo volto e che lo spinse ad aprirsi.
«Riguarda il legame Parabatai» gli spiegò, sebbene non del tutto convinto che qualcuno che non fosse un Nephilim potesse realmente capire. «So che è difficile da comprendere per chi non l’ha mai provato, ma è sempre stato molto chiaro dentro di me dove iniziasse uno e finisse l’altro. I primi tempi, dopo la cerimonia della runa, è naturale confondersi e non sapere di chi siano le emozioni che stai provando. Ma con il passare degli anni diventa molto più facile distinguere te stesso dal tuo Parabatai. Ora invece è come se io e Alec fossimo stati gettati da qualcuno in un enorme pentolone e non fossi più così sicuro di quale sia la mia anima e quale invece la sua. Sto provando delle emozioni molto forti che non sentivo più da molto da tempo, come la felicità e l’amore e tanti di questi sentimenti sono per te e...»
«E hai paura di esserti innamorato di me?» domandò un Magnus confuso.
«Assolutamente no!» sbottò Jace in rimando, aveva un tono quasi offeso. Addirittura, aveva smesso di torturarsi i capelli e ora lo fissava come se fosse impazzito all’improvviso. «So bene che la felicità che sento nel guardarti non è la mia, ma quella di Alec. Quello che mi preoccupa è che non so come potremo mettere a posto questo casino. Ciò che sto provando ora non è normale nemmeno per due Shadowhunters uniti dal legame Parabatai.» Quindi, Jace non aggiunse altro. Non aveva idea se Magnus avesse davvero compreso lo strampalato discorso che gli aveva appena fatto, ma invece che preoccuparsene si lasciò cadere indietro contro lo schienale della poltrona. Lo sguardo ora era intento a fissare il soffitto di quell’elegante loft di Brooklyn. I pensieri, tutti rivolti al caos inimmaginabile che aveva nel cuore. Non era più solo per Clary, non soltanto per la fastidiosa pietà che leggeva nei volti delle persone che gli stavano attorno, era anche per Alec e per quella intima vicinanza con lui che non sentiva più da molto tempo e che adesso gli era esplosa dentro al petto con la forza di un uragano. 

 

Fu dopo che i suoi occhi si furono posati sul cielo azzurro, che si stagliava fuori dalle ampie finestre del terrazzo, che Magnus gli si fece più vicino. Aveva lasciato perdere il suo secondo caffè e aveva anche abbandonato quell’espressione di profondo disappunto che aveva mantenuto sino a quel momento. Quindi gli si era accucciato tra le gambe e ora gli stava accarezzando il volto, in una gentilezza che a lui non aveva mai riservato e della quale Jace in quel momento sentiva di avere un disperato bisogno.
«Che fai?» balbettò forzando un fastidio che non provava e che si trasformò nella sincera necessità di essere capito.
«Sei parte della mia famiglia, Jace e ci sarà anche molto più di te che del mio Alexander là dentro, ma so ancora capire quando quegli occhi soffrono per qualcosa.» La dolcezza dello sguardo di quello stregone centenario colpì Jace Herondale in pieno volto. Per un istante voltò addirittura il viso, come se qualcuno lo avesse improvvisamente schiaffeggiato. Aveva proclamato di non tollerare la pena sul volto altrui, ma quell’affetto così sincero era altrettanto difficile da tollerare. Neanche fu facile starlo a sentire, soprattutto dopo che Magnus gli aveva stretto le mani in un gesto d’amicizia, quindi lo stregone riprese a parlare: «In quest’ultimo mese ho visto la stessa espressione che hai adesso, ogni giorno sul volto di Alec. Da quando Clary se n’è andata è come se una parte di lui si stesse dilaniando, ma non è soltanto perché percepisce i tuoi sentimenti. Jace» annuì quindi, con una determinazione che sorprese lo Shadowhunter al punto che lo fece addirittura sussultare. «Clary manca a tutti, non l’hai persa soltanto tu. In tutta la mia lunghissima vita ho lasciato indietro molte delle persone che amavo, ma mai nel modo in cui tu hai perso Clary, quindi non so cosa tu stia passando. Alexander dice che bisogna pregare gli angeli, perché questi sanno anche perdonare e ha fede nel fatto che un giorno le ridaranno la memoria. Io non sono sicuro di riuscire ad averne così tanta, però nel frattempo non faccio che ripetermi che il nostro biscottino sta bene. Jace, lei non è morta. Si è semplicemente dimenticata di noi. Magari non ci riuscirai presto e sarà difficile, ma prova ad aggrapparti a questa idea per andare avanti.» 

 

Il primo pensiero che fece intanto che Magnus si sollevava da terra e raggiungeva la terrazza, fu che era facile parlare quando non si ha perso la persona amata. Ma poi si rese conto che era un ragionamento molto egoistico e che in fondo lo stregone aveva ragione: Clary non era morta e Jace doveva smettere di comportarsi come se lo fosse. Al contrario viveva al sicuro una vita lontana dai demoni; non era forse il meglio per lei? Si domandò mentre osservava la schiena di Magnus, ancora avvolta in una lavorata vestaglia di seta, ingobbirsi quasi il peso degli anni gli fosse gravato tra capo e collo improvvisamente. Doveva mancare molto anche lui, capì rendendosi conto soltanto allora che aveva allontanato chiunque vivendo così tanto dentro se stesso, da dimenticarsi della sua famiglia.
«Ero talmente concentrato sul mio dolore, che non mi sono accorto del vostro» ammise, dopo averlo raggiunto sulla balconata.
«Beh, dovresti guardarti un po’ più attorno, biondino. Per esempio, quand’è l’ultima volta che hai parlato con Simon?»
«Mh» mormorò, pensieroso. In un primo momento si era detto sicuro di saper rispondere con esattezza a quella domanda, ma riflettendoci si ricordò che erano passate diverse settimane. «E con Luke, invece? Perché nel caso non te ne fossi accorto, sappi che l’uno ha perso una figlia mentre l’altro la persona che per tutta la vita è stata la più importante. Simon è venuto a cena, l’altra sera» confessò infine, voltandosi appena in sua direzione. «E con “Cena” non intendo dire che mi sono aperto una vena e l’ho fatto bere.»
«Lo immagino, l’ho visto mangiare del cibo vero una volta o due» rise, ricordando di quella imbarazzante doppia uscita di ormai molto tempo prima. «Come sta?» domandò quindi lo Shadowhunter, smorzando il sorriso.
«Come credi che stia? Clary era la sua migliore amica, sono cresciuti insieme e ora lei non si ricorda più di lui.»
«Io...»
«E come pensi che stiano tutte le altre persone che la conoscevano in Istituto? E io? Come sto io, Jace? E Isabelle? Lo sai che volevano diventare Parabatai e che da allora tua sorella non si dà pace?»
«No, non ne avevo idea» rispose Jace, voltandosi in direzione del traffico di New York che scorreva sotto di loro. Non aveva parlato con Simon e neanche con Luke e non aveva considerato poi molto Izzy o Alec, ma era ovvio che anche loro stessero soffrendo. Come aveva fatto a essere così cieco? Stava per aggiungere che ne era dispiaciuto e che si sentiva in colpa, oltre che egoista, ma Magnus lo precedette.
«Ascoltami, tesoro» gli disse lo stregone, con quell’aria che spesso aveva di chi sa come far pesare il proprio essere più vecchio e saggio. Gli passò affettuosamente una mano tra i capelli in un gesto che non aveva mai rivolto a lui. «Non sto cercando farti sentire in colpa e sappi che siamo tutti qui per aiutarti a stare meglio, io e Alexander faremmo di tutto per te. Ma non pensare neanche per un istante che tu sia il solo a soffrire perché ti assicuro che non è così.» 

 

Quindi, Magnus rientrò nell’appartamento con passo lento e cadenzato. Jace lo vide sparire dentro la camera da letto, aveva deciso di andarsi quantomeno a vestire e poi aveva una pozione da preparare, quella che sarebbe servita per il rituale di scambio. Appoggiandosi appena al parapetto, intanto che inspirava l’aria del mattino, Jace Herondale iniziò a provare una strana sensazione di leggerezza. Era assurdo a pensarci, ma si sentiva molto meglio perché era come se un enorme peso che per tutto quel tempo aveva portato da solo e che gli si era annidato dentro al petto, se ne fosse andato. Quello che Magnus aveva detto… Non aveva mai voluto davvero pensarci e non perché fosse egoista, ma perché aveva dato per scontato che il fatto che Alec o Izzy non avessero perso coloro che amavano, significasse che stavano bene. Probabilmente era un egoista, ma fu con un sorriso che capì che non era mai stato solo. E sarebbe rimasto lì per tutta la mattinata, a guardare il cielo terso di New York, baciato dai raggi del sole del mattino e con quel profumo di caffè e croissant a stuzzicargli le narici, se Alec non fosse entrato come una furia e lo avesse raggiunto a grandi falcate.
«Che cosa diavolo è successo?» sbraitò a voce tanto alta, che doveva averlo sentito l’intera Brooklyn. Bella domanda, pensò Jace fra sé. Era stato tanto concentrato su Clary e sul suo legame con Alec, che non ci aveva neanche pensato. Com’erano finiti l’uno dentro al corpo dell’altro?


 



Continua




 

Note: Un enorme grazie a chi ha letto e recensito il primo capitolo e a chi ha inserito la storia tra le seguite. 

Spero che anche questo capitolo vi sia piaciuto, ho appena visto la serie e sto ancora prendendo le misure con questi personaggi, però mi sto divertendo davvero molto anche se confesso di avere tantissimi dubbi e di temere che la storia sia noiosa.
Grazie a chiunque sia giunto a leggere sino a qui.
Koa

 

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Capitolo 3
*** Arrendersi alla volontà dell'angelo ***


 

Arrendersi alla volontà dell'angelo

 


 

Alec Lightwood non era stato abituato a seguire i propri sentimenti, l’addestramento da Shadowhunter che aveva ricevuto e l’educazione che Robert e Maryse gli avevano dato, lo avevano portato a soffocare un’importante parte di se stesso e a non esprimere mai ciò che provava davvero. Era cresciuto con l’idea che dovesse obbedire agli ordini e seguire fedelmente le regole del Calve, in una maniera che, a pensarci, ora trovava ridicolmente ottusa. Poi però era arrivato Magnus Bene, col suo fare eccentrico e provocatorio, lui coi suoi cocktail, i capelli dritti, gli occhi truccati e una folta schiera di anelli su dita laccate di smalto, e lo aveva stregato in un modo che con la magia non c’entrava proprio nulla. Da quando l'aveva incontrato, Alec Lightwood aveva capito che doveva comunque sentire ciò che il proprio cuore lo spingeva a fare, indipendentemente da quello che ci si sarebbe aspettati da lui. Stranamente se ne ricordò nell’attimo stesso in cui ebbe varcato la soglia dell’appartamento di Brooklyn, che condivideva da qualche settimana con suo marito. Gli venne in mente nell’attimo in cui il suo sguardo si posò sull’ingobbita figura di Jace, il quale se ne stava ritorto su se stesso, appoggiato alla balconata del terrazzo. Quindi, gli fu sufficiente posare gli occhi in quelli affranti del suo Parabatai perché la rabbia che aveva dentro si sciogliesse come neve sotto al caldo sole d’agosto. Che Jace c’entrasse o meno con quello scambio, si disse intanto che lo raggiungeva e quindi stringeva in un abbraccio che non chiedeva e non diceva più di quanto non ne avessero bisogno, al momento non importava.


Non servì intavolare lunghi e articolati discorsi per intuire lo stato d’animo nel quale versava suo fratello, in effetti bastò notare la maniera in cui il viso gli si era deformato in un’espressione sofferta. Il proprio viso, si disse Alec intanto che sedava uno strano brivido che gli aveva percorso la schiena nell’istante stesso in cui aveva realizzato che stava guardando la propria faccia. Ecco, se c’era una parte assurda di quella situazione, era esattamente questa. Già era strano il osservare il mondo dal basso o l’essere additato da tutti come un poveraccio a cui era capitata una disgrazia, ma guardare se stessi dal di fuori era probabilmente la cosa più strana di tutte. Di sé, Alec non poté fare a meno di notare i capelli davvero troppo spettinati, orribili se visti da dietro, il fisico non poi così attraente e naturalmente anche espressioni che sapeva di non aver mai portato. Quel modo di incrociare le braccia al petto e le labbra ritorte, come in un broncio, erano atteggiamenti tipici di Jace. Se messe sul suo, di volto, davano ad Alec la sensazione di un bambino che fa i capricci. Quasi gli venne da sorridere nel vederlo corrucciato in quel modo e fu allora che si rese conto che ogni traccia di rabbia era ormai del tutto svanita; convincendosi che in ogni caso urlare contro al proprio Parabatai non sarebbe servito a niente, Alec si decise a stringerlo di nuovo in un abbraccio fraterno.
«Risolveremo tutto» gli sussurrò all’orecchio con l’intento di rassicurare l’animo di un Jace che, lasciatosi andare, aveva emesso un sospiro sofferente. Percepire la sua tensione, neanche fosse gravato del peso del mondo, scatenò in Alec Lightwood un moto di tenerezza che gli si agitò dentro al cuore.
«Vedrai che andrà tutto bene» aggiunse, accentuando la presa che aveva su di lui mentre Jace si rilassava un poco. Che Alec non stesse parlando unicamente dello scambio dei corpi non fu neanche necessario sottolinearlo. Si riferiva principalmente a Clary, Jace se n’era detto più che certo intanto che stirava un sorriso addolcito di gratitudine. Lo stava dicendo per confortarlo, probabilmente non ci credeva neppure lui che “Sarebbe andato tutto bene”. Avrebbe dovuto fargli presente che non era necessario che glielo ripetesse per l’ennesima volta, quando un pizzico all’anima lo fece piegare su se stesso. Non faceva male, era come se qualcuno gli avesse posato addosso una coperta molto calda. Quasi ebbe la sensazione che continuando a toccare Alec potesse bruciarsi, al punto che sciolsero l’abbraccio, quindi si guardarono negli occhi quasi cercassero nello sguardo dell’altro la conferma di ciò che sentivano dentro. Mai avevano percepito il legame Parabatai vibrare e quindi tendersi come ora stava facendo, non una volta li aveva così profondamente avvolti. In passato lo avevano sentito crescere e poi affievolirsi, quasi spegnersi e infine tornare prepotente a unirli, ma adesso era diverso. Se chiudevano gli occhi e permettevano a quella sensazione di unità di avvolgerli, entrambi si rendevano conto che lui e Jace non erano mai stati tanto affiatati prima. Il loro legame adesso era tanto forte che Alec aveva quasi l’impressione che la runa scottasse sulla pelle. Il marchio bruciava tanto, che istintivamente si portò una mano al fianco, quasi volesse accertarsi che non fosse soltanto un’impressione.
«Anch’io» annuì Jace, facendo la stessa cosa e fermando il proprio sguardo sulla runa Parabatai che il corpo di Alec aveva marchiato sull’addome. Non aveva idea se il potere che percepiva crescere dentro al petto fosse dovuto alla ritrovata vicinanza, oppure se aveva a che vedere con lo scambio dei corpi, ma Jace decise di non rimuginarci sopra troppo e vivere appieno quella stupenda sensazione di potere. Sì, era potere e forza. Tanta forza.
«È lo scambio di corpi» disse Alec, serrando le labbra quasi faticasse a trattenere le ondate di felicità che percepiva dentro di sé, assieme alla sensazione di essere invincibile.
«Credo anch’io» gli rispose «ma non ho idea del perché stia succedendo tutto questo.»
«La senti anche tu, vero? Mi sento potente, come se potessi spaccare il mondo soltanto perché siamo uno accanto all’altro.»
«Sì, e la confusione che avevo in testa è sparita. Prima...» mormorò Jace, gesticolando con le braccia come se cercasse di trovare le parole adatte. Parole che non fece in tempo a pronunciare, perché il suo Parabatai lo precedette.

«Era tutto confuso e non sapevi dove finissi tu e cominciassi io?»
«Esatto!» annuì, felice di esser stato capito. Era stato così complicato spiegarlo a Magnus... «Ti ricordi come è stato subito dopo che aver ricevuto la runa?» gli chiese quindi, rivangando quel periodo di confusione ed eccitazione che era seguito alla cerimonia Parabatai. «Ho provato la stessa identica cosa. Non so chi sia stato a farci questo, ma sento che la ragione ha a che vedere col nostro legame Parabatai.»


«Sarà anche vero, ma chiunque sia stato aveva un piano ben preciso e non oso immaginare quale possa essere lo scopo» rispose Alec, intanto che sentiva l’ansia crescere dentro di sé. Qualunque fosse la ragione doveva essere fondata e specifica, magari era stato fatto per essere duraturo. Per l’angelo, in quel caso come avrebbero potuto risolvere le cose a quel punto? «E se non riuscissimo più a tornare nei nostri corpi? Come la spiegheremo al Clave una cosa del genere? Come farò con Magnus?»
«Ehi» gli disse Jace, afferrandolo istintivamente per le mani e stringendole tra le proprie intanto che piantava lo sguardo nei suoi occhi. Fare deciso e determinato, pareva che la presenza del proprio Parabatai avesse fatto ritrovare a Jace la sicurezza smarrita. «Lo hai detto tu prima: andrà tutto bene.» Non era una frase di circostanza, Alec lo sapeva meglio di chiunque perché Jace Herondale non era quel tipo di persona che è solito rincuorare gli altri con paroline dolci. E sebbene fosse vero che gli capitava di dire mezze verità, o omettere più di un dettaglio per non scoprirsi troppo, sapeva che a lui non aveva mai mentito. Inspirando lentamente di modo da riportare un briciolo di calma dentro di sé, Alec si rese conto che aveva ragione: non c’era motivo per cui non potessero far tornare le cose come prima. Accidenti, erano riusciti ad andare all’inferno e a tornare indietro sani e salvi! Se paragonata, questa cosa dello scambio era un intoppo da niente. Dovevano solo aspettare che Magnus fosse pronto e poi indagare, per scoprire chi aveva giocato loro quel brutto scherzo e consegnarlo al Clave. Magari Jace si era fatto un’idea più precisa a riguardo e stava giusto per domandarglielo, quando suo marito, vestito di tutto punto, uscì in terrazzo. 


 

Aveva sentito delle voci che ben conosceva provenire dal balcone e a quel punto, lo stregone Magnus Bane era stato colto da una fretta che in tutta la sua pluricentenaria esistenza raramente aveva provato. Aveva accelerato l’operazione, che in genere richiedeva qualche attimo in più per accertarsi che il trucco fosse perfettamente in linea col proprio stile, non si era neppure fermato davanti allo specchio per controllare se l’eyeliner fosse stato messo correttamente o i capelli fossero sufficientemente ingellati. Neanche aveva indossato la giacca del completo violetto che si era scelto per la giornata, e neppure si era preoccupato di aggiustarsi l’ombretto, aggiungendo qualche glitter. Non un anello era stato indossato e lo smalto era sbeccato in uno o due punti, ma non gli importava, non tanto quanto l’accertarsi che il suo adorato Alexander stesse bene. Aveva sentito la voce che sino ad allora aveva associato a Jace, provenire dal terrazzo e a quel punto un’ondata di emozione gli aveva invaso lo stomaco, facendogli battere velocemente il cuore. Era arrivato! Sapeva che era ridicolo sentirsi così, dato che lui e suo marito si erano parlati la sera prima, intanto che si addormentavano l’uno tra le braccia dell’altro e sapeva anche che Jace avrebbe sentito di sicuro se ad Alec fosse accaduta una qualche cosa, ma Magnus sapeva di avere un disperato bisogno di stringere a sé l’uomo che amava. Per sedare quella paura che sempre aveva di perderlo, che sino ad allora aveva celato dietro a una calma che non aveva mai realmente posseduto.
«Alexander» mormorò in un sussurro flebile, palesandosi sulla porta del terrazzo in una maniera che Alec Lightwood percepì al pari di un’apparizione angelica. Il tono che era uscito dalla bocca di Magnus era suonato incredulo e fremente d’aspettativa. Era felice, il che divenne ovvio dal modo in cui aveva allargato il sorriso non appena aveva incrociato l’anima del suo amato Alexander. Al tempo stesso, quando aveva pronunciato il suo nome, un qualcosa di non ben definito gli era vibrato dentro. Un qualcosa che Alec aveva riconosciuto esser fatto della stessa materia di cui erano fatti tutti quei tormenti interiori, che dominavano Magnus quando aveva il timore di perderlo. Era davvero lui? Si chiese lo stregone, facendo un passo o due in avanti senza realmente accorgersi di star camminando con un’insolita fretta addosso. Il suo Alexander stava realmente là dentro? Si domandò avanzando e al contempo tremando appena, per l’emozione e l’ansia. Forse anche un accenno di paura gli divorò lo sguardo, una che Magnus preferì accantonare subito.
«Alexander, sei davvero là dentro?» chiese, pur sapendo che era sciocco anche soltanto dubitarlo. Lo disse, intanto che accarezzava il volto che sapeva appartenere a Jace. Lo sfiorò con le punte delle dita, constatando quanto fosse diverso da quello dell’uomo di cui si era innamorato. Certo che lo sapeva che era lui, e dove avrebbe mai dovuto essere? Ma era come se sentisse la bruciante necessità di una conferma, voleva guardarlo negli occhi, voleva ritrovarlo e permettere alla serenità di dimorargli di nuovo nel cuore.
«Magnus!» Alec disse soltanto questo, sollevando lo sguardo con, addosso, una punta di vibrante felicità che non riusciva a contenere. Pronunciò il suo nome come fosse un rantolo, parlando più fra sé che per rivolgersi a lui. «Mags, sono io» aggiunse e fu allora che lo stregone lo riconobbe. Nessuno mai lo chiamava in quella maniera, baciando ogni lettera quasi venerasse la sua stessa esistenza. No, a Magnus Bane non importava realmente che i capelli del suo Alexander ora fossero biondi o avesse gli occhi tinti di quella strana eterocromia, che li rendeva simili fra loro pur essendo diversi nelle sfumature. Non contava neppure che l’altezza fosse diversa e le rune fossero collocate in posti che reputava sbagliati, era lui e basta. Lo capì guardandolo negli occhi. E tanto gli fu sufficiente perché il suo animo si quietasse. Era lui, si ripeté ora caricato di una vibrante felicità che gli scalpitava sulle dita, neanche fosse stata la sua stessa magia la prima a essere eccitata. Era lui e quello che gli stava riservando era il suo meraviglioso sguardo sincero, lo stesso che era drasticamente privo di ogni maschera di distacco e razionalità, che usava sempre quando era al lavoro. Quello era il suo Alexander, annuì Magnus sorridendo.
«Sei tu, mio bellissimo cucciolo» mormorò stirando le labbra mentre gli accarezzava delicatamente il viso col dorso della mano. Era ancora molto strano, si rese conto. E l’idea di star sfiorando in quella maniera il corpo di un altro avrebbe dovuto frenarlo, ma amava a tal punto suo marito che in lui nacque persino il desiderio di baciarlo. Come aveva già detto, non gl’importava davvero che avesse un altro aspetto.

«Mi dispiace tu ti sia spaventato» mormorò suo marito, ora stringendolo in un abbraccio delicato. Percepire quelle mani su di sé e la bocca che gli sfiorava il collo, provocandogli più di un brivido lungo la schiena, scatenò in Magnus Bane sensazioni che non voleva provare in quel momento, ma che pure non riuscì a controllare. Era Alexander nel corpo di Jace, come avrebbe dovuto comportarsi? Gli mancavano quei suoi occhi da cerbiatto, naturalmente e il sorriso da infarto, ma prima ancora di essere attratto dal suo corpo statuario, Magnus si era innamorato dell’anima del suo Alexander e quella l’aveva lì, davanti agli occhi. La sua anima ora lo guardava e sfiorava con reverenza, certo che lo amava ancora, si disse dandosi dello sciocco.
«Non ti preoccupare, cucciolo mio, ho superato ben di peggio» annuì, deglutendo rumorosamente intanto che tentava di indietreggiare. Proposito che svanì sul nascere dato che Alec lo attirò di nuovo a sé. Un Alec a cui non importava che fosse strano, sebbene lo fosse per davvero. Perché per lui ciò che contava realmente era averlo accanto e quando si avvicinò a suo marito per baciarlo, lo fece senza pensare al fatto che il corpo fosse quello del suo Parabatai. Voleva stringerlo, accarezzarlo e quindi baciarlo, intrecciando la sua lingua alla propria. Voleva guardarlo negli occhi per un tempo infinito e curare la sua paura.


 

«Ehi!» si intromise Jace a quel punto, bloccando sul nascere ogni tentativo di effusione «va bene tutto, ma quello è ancora il mio corpo.»
«E allora?» replicò Magnus, stizzito. Detestava l’idea di non poter baciare l’uomo che amava, ancora di più per una motivazione tanto ridicola. Dannazione, si era appena convinto del fatto che gli andasse bene lo stesso e sul più bello quel dannato Shadowhunter lo interrompeva?
«E scusatemi se lo dico, ma vedere me stesso baciarti è… Che cavolo, tutto questo è davvero troppo per me!» sbottò, lasciandosi cadere su una delle poltroncine del terrazzo e affondando le mani tra i capelli scuri.
«Tecnicamente non stavo per baciare te, ma mio marito» precisò lo stregone, incrociando le braccia al petto mentre Alec deviava lo sguardo a terra. Si era imbarazzato da morire già soltanto perché Magnus continuava a chiamarlo “Cucciolo” e ad Alec non piaceva mai davvero quando usava quei nomignoli davanti alle altre persone. Era una cosa intima, un particolare della loro relazione che preferiva tenere privato. E c’erano aspetti di ciò che faceva con suo marito che non avrebbe mai rivelato neanche al proprio Parabatai. Ma poi si era intromesso Jace, il quale comunque non aveva tutti i torti. Che cosa cavolo gli era venuto in mente? Sì, amava la sua anima prima ancora che il suo corpo e per Magnus era la stessa identica cosa, Alec sentiva che lo avrebbe amato persino se si fosse trasformato in una lucertola (e a suo marito non piacevano affatto le lucertole!), ma forse aveva ragione Jace quando diceva che era semplicemente troppo.
«Ma stavi per farlo sulla mia bocca» replicò Jace, contrariato. La sua espressione corrucciata svanì subito, lasciando il posto a una più dolce comprensione. Jace li capiva, non poteva dire di non riuscirci. «Ascolta, Magnus, sei praticamente mio fratello adesso e non è che io muoia dalla voglia di pomiciare con te. Quindi facciamo che prepari tutto quello che devi e la facciamo finita. Prima sistemiamo questa faccenda e prima voi due potrete tornare a… fare quello che fate di solito quando non ci sono io.» 


 

Jace non si aspettava davvero che lo ascoltassero perché quando quei due iniziavano ad amoreggiare, separarli diventava praticamente impossibile. Non è che era omofobo, no davvero, al contrario perché non solo non aveva mai avuto alcun problema per il fatto che Alec si fosse innamorato di un uomo, ma era stato felice che si fosse finalmente esposto. Quando si era reso conto che Alec era coinvolto emotivamente da Magnus lo aveva sostenuto perché avrebbe amato suo fratello, il suo Parabatai, sempre e comunque. Lo avrebbe seguito all’inferno, a discapito di tutto e tutti, persino della propria vita. E poi non avrebbe mai osato sperare nessuno di meglio per Alec, perché Magnus lo amava immensamente. Questo lo sapeva per certo e non perché quei due si erano salvati a vicenda più di una volta, ma perché, se pensava allo sguardo che gli aveva riservato quella mattina prima ancora che sapesse dello scambio, Jace si convinceva che nessuno al mondo avrebbe mai amato Alec Lightwood più di Magnus Bane. Il giorno in cui si erano sposati era stato uno dei più belli della vita di Jace, almeno fino a quando non aveva trovato la lettera in cui Clary gli diceva che gli angeli le avrebbero cancellato la memoria, come punizione per aver creato delle rune “contro natura”. Quello che aveva offuscato la felicità sentita sino ad allora. Ma, nonostante tutto ciò, in quei frangenti Jace si ripeté che a tutto c’era un limite. Per quanto amasse Alec e volesse bene a Magnus, non aveva la minima intenzione di vedere la propria bocca fare certe cose. Era strano ecco, ma strano in un modo che non era disposto ad accettare. Imporsi tra loro non era una di quelle cose che gli era piaciuto fare, ma credeva davvero al fatto che prima si sarebbero dati una mossa e prima tutto quello si sarebbe risolto. E quando vide lo stregone passare in un’altra stanza così da preparare l'occorrente per il rito, Jace Herondale tirò un sospiro di sollievo. Era pronto per tornare nel proprio corpo e farla finita.

 

Se c’era una cosa su cui Magnus Bane non aveva rivali, quella era la magia. Alec lo sapeva meglio di chiunque perché era uno degli aspetti che rendeva la loro quotidianità imprevedibile e, di fatto, magica. Vivere insieme era una sorpresa continua, non sapeva mai davvero cosa sarebbe successo ogni volta che agitava le mani. Come gli aveva detto una volta, però, Alec non lo amava perché la sua magia era straordinaria, lo amava anche per quella. Era come un fattore secondario molto apprezzato e divertente, ma non fondamentale. Eppure non poteva negare che Magnus fosse effettivamente uno stregone eccezionale. Per questo non si sorprese del suo averci impiegato non più di qualche minuto per preparare l’occorrente necessario. Pochi attimi e un libro si era improvvisamente aperto sul tavolo al grido di: “So tante cose, zuccherino, ma non conosco tutto a memoria” che Magnus aveva borbottato, accennando al contempo un sorriso. Una pozione era stata preparata con incredibile sicurezza e ora lo stregone la agitava, controllandone la colorazione in controluce.
«Dovete recitare la formula: “Reddite animas nostras in eorum corpora” * e poi bere questa» disse, porgendogli due fialette dentro alle quali era contenuto un liquido chiaro e dall’odore improbabile. Beh, sembrava facile, si disse Alec afferrando una delle due boccette mentre Jace faceva altrettanto. Non indugiarono neppure né persero tempo a pronunciare belle frasi a effetto; e per dirsi che cosa poi? Si guardarono semplicemente negli occhi mentre, inevitabile, la mente correva alla cerimonia che avevano affrontato per diventare Parabatai. Era un ricordo che avevano rivissuto spesso, le volte in cui il loro legame era stato a rischio. Era come se ogni volta che un problema aveva a che fare con la loro unione, entrambi sentissero la necessità di ricordare come tutto era iniziato. Alec chiuse gli occhi, ritornando a quando la runa gli era stata impressa sulla pelle. Poi li aprì, quasi cercasse nel proprio Parabatai la conferma che anche lui stesse vivendo il medesimo ricordo. Jace, ammiccando, gli sorrise e quindi prese ad agitare la boccetta a mezz’aria mormorando un: «Salute, fratello» che fece sorridere Alec in rimando. Quindi bevvero la pozione e poi pronunciarono quelle parole: «Reddite animas nostras in eorum corpora.»  Era fatta, ora dovevano soltanto aspettare che facesse effetto. 

 

Una strana sensazione pervase il petto Alec Lightwood dopo che ebbe ingurgitato l’intruglio di Magnus e detto quella frase in latino. Aveva sentito del calore e come l’impressione che qualcosa che sino ad allora gli era stato dentro, cercasse di uscire fuori. Era… insolito! Quasi una mano invisibile stesse cercando di tirargli fuori il cuore dal petto. Sensazione che non durò molto tempo e che svanì quasi immediatamente, sparendo con la velocità con cui in lui crebbe la consapevolezza che non era accaduto un bel niente. Avrebbe dovuto essere un'operazione piuttosto veloce tuttavia, invece che proseguire con lo scambio e le anime uscire dai corpi provvisori, entrambi vennero avvolti da delle scintille. Le luci del soggiorno si accesero improvvisamente e poi fecero per spegnersi, lampeggiando ininterrottamente. Alec non impiegò che qualche istante per capire che non soltanto non stava funzionando, ma c’era una ragione ben precisa per cui tutto quello era successo. Quelle scintille e l’atmosfera tesa e carica di magia negativa, era la stessa che era apparsa quando Clary aveva creato la runa che legava gli Shadowhunters ai Nascosti, per poter permettere loro di andare a Edom e salvare Izzy e Magnus. Considerando come era andata a Clary, Alec aveva ripensato subito a quell’episodio dopo che lei se n’era andata dall’istituto. Jace aveva avuto ragione nel dire che c’era opposizione, era stato troppo rischioso creare una runa che legasse i Nephilim ai Nascosti. Quella che si era creata nel loft di Brooklyn era la stessa identica atmosfera di quel giorno. La pozione di Magnus non aveva funzionato perché gli angeli non volevano che succedesse e Jace, notò Alec guardandolo quegli occhi carichi di consapevolezza, era arrivato alla stessa conclusione. Il flusso di energia era scemato, le luci avevano smesso di sfarfallare ed entrambi si erano lasciati cadere in avanti coi gomiti appoggiati al tavolo. Respiravano con affanno, come se fossero reduci da un enorme sforzo fisico.
«Perché diavolo non ha funzionato?» sbottò Magnus intanto che i due Parabatai si guardavano negli occhi, annuendosi in maniera impercettibile. Non c’era più traccia di confusione o paura, in loro. Ciò che era appena accaduto era così inequivocabile che non era stato necessario neppure parlarsi. Entrambi stavano pensando la stessa cosa, entrambi avevano capito.
«Perché non si va contro la volontà dell’angelo, Magnus» spiegò Alec, intanto che uno strano sorriso nasceva sul volto non sbarbato del corpo di Jace che ancora lo ospitava. Non era felice, era soltanto consapevole di quanto stava succedendo e lo era in un modo che stava sfuggendo alla comprensione del suo irritato marito.
«Sii chiaro, tesoro, perché è impossibile che io abbia fatto un errore. L’altra volta ha funzionato, funziona sempre. Da secoli!»
«Quelle scintille...» rispose Jace per lui, agitando una mano fra lui e Alec come a indicare qualcosa che era però già sparito «le abbiamo già viste prima, significa che gli angeli fanno opposizione. E se loro non sono d’accordo è perché, se siamo così, è per volontà loro.»
«No» negò lo stregone, scuotendo il capo con vigore. Non si sarebbe arreso all’ennesima sciocchezza, aveva già dovuto rinunciare a biscottino, non avrebbe affrontato una cosa del genere. E per quanto tempo poi? Non c’era niente che la magia non potesse sistemare, questo era sempre stato chiaro nella mente dell’ormai ex sommo stregone di Brooklyn, il quale aveva iniziato a far volteggiare le mani a mezz’aria attivando la propria magia, la quale cominciò subito a fluire dalle sue mani. Se non ci riusciva la pozione, poteva farlo da solo. Era uno degli stregoni più potenti al mondo e sapeva che situazioni del genere avrebbero potuto risolversi facilmente, era stato così quando Azazel lo aveva fatto finire nel corpo di Valentine. E poi avevano passato ben di peggio di questo, che poteva mai essere uno scambio di corpi? Ci sarebbe riuscito, si disse, iniziando a recitare le parole giuste: «Reddite animas nostras in eoruom corpora» disse mentre gli occhi gli si tingevano d’oro, assumendo l’aspetto di quelli di un gatto. Esporre il marchio lo rendeva sempre un po’ più forte, oltre che sicuro di sé. Colpì prima Jace con un fascio di magia rossastra che prese lo Shadowhunter in pieno petto, zittendo ogni suo tentativo di fargli presente che non avrebbe mai funzionato, quindi colpì anche Alec.
«Reddite animas nostras in eorum corpora» ripeté a voce un po’ più alta mentre, attorno a loro, la magia pareva voler accendere ogni cosa, crescendo in maniera esponenziale e avvolgendo così entrambi. Alec percepì la stessa identica sensazione di poco prima, ma questa volta in maniera ancora più intensa. Sentiva Magnus e il suo potere, entrargli dentro e cercare disperatamente di afferrare la sua anima. Non dovettero aspettare molto, questa volta le scintille tornarono e anche ora la tensione negativa crebbe, facendo sfarfallare le luci dell’appartamento. 
«Reddite animas nostras in eorum corpora» urlò Magnus Bane a voce ancora più alta, potenziando il flusso che gli usciva dalle mani, caricandolo al punto che quasi si sentì mancare. Era al limite, lo sforzo che stava facendo era tanto grande che a un certo punto dovette cedere e lasciar svanire l’incantesimo. Non era successo proprio niente: Jace e Alec erano ancora nel corpo sbagliato.
«Dannazione!» sbottò Magnus, picchiando con forza una mano sul tavolo che fece tremare ogni oggetto. Era arrabbiato e deluso da se stesso, ma soprattutto era terrorizzato. Non poteva perdere Alec, non di nuovo! E soprattutto non adesso che avevano trovato un po’ di felicità, era sicuro che se fosse rimasto dentro a un corpo non proprio sicuramente non l’avrebbe più voluto. Non poteva già finire tutto, no! Non dopo solo un mese dal matrimonio. Avevano ancora tante cose da fare insieme, progetti, viaggi, una famiglia da costruire... No, non lo accettava. Odiava non riuscire a sistemare le cose, detestava essere impotente e soprattutto quando l’uomo che amava aveva bisogno di lui.

«Ehi, ehi» sussurrò Alec, raggiungendolo e quindi stringendolo in un abbraccio che ebbe il potere di calmare il corpo dello stregone, ancora profondamente scosso. Una stretta e un bacio a sfiorargli la fronte, al quale Jace non si oppose questa volta, guardandoli invece con un pizzico d’invidia mescolata a un moto di dolcezza. Se ci fosse stata Clary, anche lei lo avrebbe abbracciato in quel modo. Anche lei lo avrebbe rassicurato come Alec stava facendo con Magnus.
«Mi dispiace, Alexander, ho fallito.»
«No, Mags, non è colpa tua. La volontà degli angeli non la si può aggirare» gli rispose, lasciandogli un bacio tra i capelli. Piccolo e fugace, ma sufficiente a calmarlo. «Se avessimo potuto farlo, avremmo riportato qui Clary, ma ci sono cose che devono seguire il loro corso.»
«Tutto questo non ha senso, Alexander» biascicò Magnus, allontanandosi un poco di modo da poterlo guardare negli occhi. Non si allontanò perché lui ancora gli stringeva le mani «per quale motivo gli angeli dovrebbero volerti nel corpo di Jace?» In effetti Alec se l’era domandato e non aveva trovato nessuna risposta che potesse considerarsi convincente; perché degli esseri celesti avrebbero dovuto scambiare i loro corpi? Per ottenere che cosa? Nel caso della memoria cancellata di Clary avevano voluto punirla, ma loro che avevano fatto di sbagliato? E poi quella non era una vera e propria punizione. Erano entrambi sani e salvi, soltanto nel corpo dell’altro.
«Qualunque sia il motivo, che siano stati gli angeli o meno, ha a che vedere con noi due. Col legame Parabatai. Un legame che la magia di uno stregone, per quanto potente, non può curare» disse Jace, ricordando di come, tempo prima, Magnus non era mai riuscito del tutto ad aiutarli in questo senso. Aveva creduto che in questo caso potesse mettere a posto ogni cosa, ma quanto era appena successo gli aveva fatto capire che quella faccenda riguardava molto più gli Shadowhunters che la magia. «Se c’è un motivo, questo riguarda noi due» aggiunse dopo, incrociando le braccia al petto con quel fare sicuro e consapevole grazie al quale riusciva sempre in qualche modo a convincere chiunque a seguire le sue iniziative.
«E quindi cosa suggerisci di fare?» gli domandò Alec.
«Di provare in un altro modo» replicò Jace, facendo spallucce. «Magnus potrebbe potenziare il contatto, ma dovremo entrare nelle nostre menti e ritrovarci da soli, Alec. Questa è la sola cosa sensata da fare.» Sì poteva fare, si disse Alec convinto. Qualcosa di simile l’avevano anche già tentata e, per quanto pericoloso, pareva non avessero altri modi. Il problema era… la volontà dell’angelo era questa? Che entrassero nelle rispettive menti alla ricerca di chissà quale verità? Stava già per caldeggiare la prospettiva di usare il divanetto del soggiorno, che era sicuramente più comodo per operazioni del genere, quando lo squillo del cellulare lo precedette. Era il proprio o, meglio, era quello che ora stava nella tasca di Jace. Non era neanche la prima chiamata che riceveva, ma sino ad allora aveva preferito evitare di rispondere e poi era davvero troppo sconvolto per gestire anche altre persone. Con gesto di stizza, Jace lo prese dalla tasca dei pantaloni dove lo aveva infilato poco prima.
«Underhill» disse, guardando Alec negli occhi, il quale lo convinse a rispondere con un piccolo incoraggiamento. A stento notò Magnus roteare gli occhi e tamburellare le dita sul tavolo in un gesto di stizza. Soltanto rispose al telefono, attivando il vivavoce di modo che tutti potessero sentire.

«Capo» disse Andrew Underhill, con tono sicuro «mi dispiace interrompere le tue attività coniugali, ma abbiamo un enorme problema e dovresti venire subito.» A Jace non sarebbe servito notare l’arreso consenso di Alec apparire su quello che in effetti era il proprio volto, eppure fu comunque a lui che guardò prima di dirgli che si sarebbe modo subito. Sapeva che Alec avrebbe preferito prima gestire una crisi e poi sistemare il guaio nel quale si erano senza volerlo ficcati. Avrebbe voluto risolvere subito la faccenda, specie perché Magnus pareva averla presa molto peggio di quanto non avessero fatto loro, ma prima di ogni altra cosa erano degli Shadowhunters e ora lui impersonava il capo dell’Istituto. Avrebbero risolto tutto, ma per un viaggio come quello che avevano programmato occorreva certamente del tempo. Oltre che una calma che non avevano. Adesso avevano del lavoro da fare e non c’era niente che potesse trattenerli, forse, si disse intanto che insieme uscivano dall’appartamento, era proprio questo che gli angeli volevano per loro prima ancora che confrontarsi. Magari volevano che cavalcassero quella ridicola situazione, finendo col capire da che parte tutto quello li avrebbe portati. Dovevano soltanto arrendersi alla volontà dell’angelo.


 


Continua






 

*Reddite animas nostras in eorum corpora, è la formula che pronunciano Magnus e Valentine per tornare l’uno nel corpo dell’altro nell’episodio 12 della seconda stagione.

 

Note: Naturalmente non poteva andare subito tutto quanto liscio, altrimenti dove stava il divertimento? Non tirerò eccessivamente la corda, ma Jace e Alec dovranno affrontare delle questioni prima di tornare nei rispettivi corpi. Intanto, un grazie a tutte le persone che hanno letto sino a qui e a chi ha recensito i due capitoli precedenti. Un grazie anche a chi ha inserito la storia tra le seguite, spero che quello che sto pensando vi stia piacendo. Io più vado avanti e più mi rendo conto che scrivere questa storia, per quanto molto semplice e lontana da ciò che ho scritto sinora, era quello di cui avevo più bisogno in questo momento.
Koa

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Capitolo 4
*** Riuscire ad ammutolire Simon Lewis ***


 

Riuscire ad ammutolire Simon Lewis





 

Magnus Bane sentiva come un vago senso di acido alla bocca dello stomaco ogni volta che incrociava lo sguardo di Andrew Underhill, il che, grazie al cielo, non avveniva poi così spesso. Come si era preoccupato di far notare ad Alexander, la sua non era gelosia, più che altro era buon senso. Non era quel tipo di persona eccessivamente possessiva, non moriva dalla voglia di controllare i movimenti di suo marito per tutto il santo giorno e naturalmente si fidava di lui, ma allo stesso tempo non gli piaceva proprio quel tizio. A iniziare dalla maniera in cui gli ronzava attorno o per come lo osservava, senza farsi notare, le volte in cui Alec era girato di schiena oppure impegnato a leggere dei rapporti. Sembrava spogliarselo con gli occhi e troppo spesso si prendeva una confidenza eccessiva, sfiorandogli una spalla in modo fintamente involontario o facendo battute sulla vita intima del suo capo. Magnus era da sempre convinto che l’ironia fosse uno dei pochi piaceri di un altrimenti triste vita immortale e amava da morire il sarcasmo, soprattutto quando era lui a perpetrarlo. Nel caso di Andrew Underhill, tuttavia, trovava decisamente fuori luogo le varie insinuazioni che faceva sulla vita sessuale sua e di Alexander. A dirla tutta non gli piaceva proprio il fatto che suo marito finisse con imbarazzarsi e arrossire. Ed era questo che non accettava. Lui era il solo ad avere il diritto di far diventare color porpora le guanciotte di Alec Lightwood, era l’unico a potersi godere quello sguardo dolce o ancora il sorrisino storto e tenero che accennava ogni qual volta gli faceva un complimento. Nonostante ciò, non era Andrew Underhill la ragione per cui aveva seguito Alec e Jace in Istituto. Lui era più che altro il motivo per cui aveva perfezionato trucco e capelli, sistemato lo smalto, indossato giacca e anelli di modo da rendersi molto più che presentabile. Anche per questo, invece che dirigersi immediatamente verso la biblioteca degli Shadowhunters, dove avrebbe cercato informazioni riguardo il legame Parabatai e la maniera per risolvere quella brutta situazione, era rimasto nella sala principale. Underhill non ci aveva impiegato molto tempo per agguantare Alec, o colui che riteneva tale, e sottoporgli una sfilza di rapporti riguardanti una decina di mondani dissanguati nelle ultime ventiquattr'ore. In effetti, quel corpo ritrovato a Central Park di cui avevano parlato prima di uscire, erano diventati ben dieci, disseminati nella notte lungo i viali del più grande parco di New York. 


Non un qualcosa che sarebbe stato normale trovare in città, non un qualcosa che in effetti sarebbe mai dovuta accadere. Era stato per la gravità della situazione che avevano deciso di mettere da parte il rito per lo scambio dei corpi e di filare subito in Istituto.
«Non mi piace» borbottò Magnus, a un certo momento della riunione, incrociando le braccia al petto intanto che non perdeva di vista Underhill. Si erano radunati tutti attorno a uno schermo, tutti tranne Isabelle che era ancora alla centrale di polizia a esaminare gli altri nove corpi ritrovati. Che si trattasse di morsi di vampiri, al momento era la sola certezza che possedevano. Più d'uno, anche di questo erano sicuri. Magnus e Alec si erano defilati di qualche passo indietro, ascoltando comunque la discussione tra Jace e Underhill.
«Neanche a me, se c’è un clan che ha violato gli accordi potrebbe scatenarsi una nuova guerra, il Clave non la prenderà bene e c’è di peggio che non potrò fare niente per mediare, dovrà pensarci Jace» osservò Alec, sottovoce. Magnus non poté non notare che era visibilmente preoccupato e avrebbe tanto voluto aiutarlo in maniera più concreta, ma non c’era poi molto che potesse fare. La magia non funzionava e Magnus non tollerava quando non riusciva a sistemare le cose con uno schiocco di dita. Affidarsi all’angelo… non un qualcosa che era mais tato abituato a fare, in fin dei conti singificava affidarsi a una volontà superiore. La sola cosa di cui era certo era di poterlo sostenere almeno come marito. Avrebbe tanto desiderato baciarlo, proprio lì in quel momento o quantomeno accarezzare quel suo viso ora così diverso, ma non poteva assolutamente lasciarsi andare. Non sarebbe stato un gesto naturale da regalare al proprio cognato, al contrario avrebbe destato forti sospetti. Probabilmente se fossero rimasti a casa e avessero mandato Jace in avanscoperta, sarebbe stato più facile supportarlo. Il fatto che Alec avesse deciso di prender parte comunque alla riunione di aggiornamento non era insolito. Aveva un carattere che tendeva a tenere tutto sotto controllo e sapeva che finché non sarebbe tornato nel proprio corpo, avrebbe fatto di tutto pur di tenere d’occhio suo fratello. Di conseguenza Alec stava forzando se stesso a non assumere il controllo di quell’incontro, limitandosi a qualche osservazione sporadica. Niente che uno come Jace, di norma, non avrebbe potuto far notare. Già e neppure questi era a proprio agio nel ruolo di capo, Magnus aveva fatto caso a quanto fosse rigido mentre le espressioni del volto si erano contratte in maniera innaturale. Jace non aveva mai avuto spiccate attitudini al comando, era quel tipo di Shadowhunter che ha più l’istinto di menare le mani, che quello di fermarsi a riflettere su cosa sia meglio per la comunità. Non aveva neppure grandi attitudini politiche o di mediatore e tendeva troppo a seguire l’istinto e molto meno la ragione, il che era il motivo per cui tempo prima aveva ceduto a lui il comando, andando contro al volere di sua nonna. Ciononostante, Alec sapeva che era perfettamente in grado di gestire la situazione. Tutto ciò che si era limitato a raccomandargli prima di lasciare il loft, era di comportarsi come se fosse stato lui il capo dell’Istituto, di essere autoritario, ma non eccessivamente severo e soprattutto di fare l’impossibile pur di evitare una guerra.


«Non stavo parlando dei vampiri, cucciolo, ma del tuo amico affascinante» disse Magnus portando la discussione su un binario molto più leggero. Aveva indicato il capo della sicurezza dell’Istituto pur senza farsi notare né sentire, mascherando quel gesto con uno sfiorarsi casuale del ciuffo dei capelli, colorato di fucsia per l’occasione.
«Sei geloso...» mormorò Alec, parlando più che altro fra sé intanto che le sue labbra stiravano inevitabili un sorriso idiota, sebbene adorabile. «Sei davvero geloso, Magnus, ma non devi perché Underhill non mi troverebbe mai tanto interessante da provarci.» 

«Cucciolo mio» sussurrò, comprensivo perché era ormai ovvio che il suo bellissimo sposo non facesse granché caso a certi atteggiamenti. Non era un qualcosa che faceva di proposito era semplicemente un po’ ingenuo ed era, nonostante tutto il tempo passato insieme, convinto di non avere le qualità necessarie per accendere la libido maschile. Un lato della sua personalità chiusa che aveva sempre trovato intrigante e che finiva col farlo sorridere, persino quando si ritrovava a sedare moti di gelosia per colpa di Andrew Underhill. Di solito Magnus finiva col roteare gli occhi, alzandoli al cielo non appena si rendeva conto che, per Alec, quel suo amico affascinante si comportava soltanto come tale.
«Forse sbagliavo pensando che tutto questo non avrebbe portato a niente di buono, fiorellino, magari questa ridicola situazione tra te e il tuo Parabatai sarà utile per renderti conto che il tuo amico ti mangia con gli occhi.»
«Non è affatto vero» s’imbronciò Alec, incrociando le braccia al petto «guarda tu stesso!»
«Sì, fiorellino, guarda» rispose Magnus, divertito dall’ingenuità del suo amato. «Osserva il modo in cui ronza intorno a Jace, come gli sfiora non poi tanto casualmente il braccio: “Oh, la mia mano è per sbaglio finita sul tuo bicipite intanto che ti spoglio con gli occhi, ma tanto tuo marito è troppo stupido per notarlo”» proseguì, falsando la voce come se volesse imitare Underhill. Quella che ne uscì fu però una forzata parodia, probabilmente anche un po’ triste. «Tzé, patetico!»


«Mettiamo tu abbia ragione» replicò Alec, non ancora convinto. Quella di Andrew gli sembrava soltanto una gentilezza e nient’altro, era il suo modo di fare espansivo. Non soltanto si comportava in quel modo con chiunque lì dentro, ma più volte si era detto felice della sua relazione con uno stregone. Più di questo, però, era un’altra la ragione che lo rendeva tanto sicuro di se stesso: «Perché dovrebbe provarci con me se esce con un altro?»
«Beh, evidentemente la persona con cui esce non è affascinante, bellissima nel corpo e nell'anima come lo sei tu, Alexander» disse, stirando un sorriso dolce mentre cercava quella stupefacente bellezza a cui aveva accennato, e della quale si era perdutamente  innamorato, in quegli occhi blu. «Potrà sembrarti assurdo, confettino, ma non tutti riescono a irradiare pura luce divina. Eppure a te, angelo mio, viene naturale.» Alec quasi sorrise, nascondendo però il proprio imbarazzo in un colpo di tosse e un’espressione all’apparenza gelida. Magnus era la sola persona al mondo che riusciva a farlo arrossire con un semplicissimo complimento, l’unico a riuscire a essere tremendamente romantico e a un tempo sarcastico, lodandolo pur senza mancare di essere pungente. E dopo tutto quel tempo assieme e il fatto che, beh, si erano pure sposati e a letto avevano fatto di tutto, non ci aveva fatto l’abitudine. Ancora, Alec Lightwood arrossiva come un idiota quando il suo amato stregone gli diceva che era bello. 
«E sono quasi un pena per questo tizio con cui sta uscendo» proseguì Magnus, sinceramente dispiaciuto. Mh, sì, forse non proprio “sinceramente” e magari stava esagerando un tantino. Ma insomma, “esagerazione” era il suo secondo nome, giusto? «A proposito, visto che siete grandi amici, ti avrà anche detto di chi si tratta. Vorrei quasi avvertire questo poveraccio...»

«Sta uscendo con Lorenzo Rey» sussurrò Alec, sorridendo istintivamente non appena suo marito si espresse in un ironico: «Oh, buon cielo!»
«E comunque» proseguì, voltandosi in sua direzione, pronto a fronteggiarlo. Dovette seriamente trattenersi dall’afferrarlo per il mento e sollevargli il viso, così da poterlo poi baciare comodamente. Oh, quanto lo avrebbe voluto e a giudicare dallo sguardo malizioso di Magnus, Alec non doveva essere il solo a volerlo. Ma non potevano giusto? Non poteva toccarlo mentre era nel corpo di Jace e quindi si trattenne, serrando le mani in due pugni stretti, al punto da ferirsi i palmi con le unghie. Lo fece, mordendosi la lingua l’interno della guancia, di modo da frenare quel desiderio prepotente. E poi aveva un discorso da finire e cose da chiarire, una volta e per tutte.


«Non si è aperto con me, tecnicamente lo ha fatto con mio fratello» disse, accennando al fatto che era successo quella stessa mattina intanto che usciva dall’Istituto, e che Underhill glielo aveva detto unicamente per offrire aiuto a Jace. «E in secondo luogo, la tua gelosia è ridicola. Quando mai ho avuto occhi per qualcun altro? Pensi davvero che ti tradirei con Andrew Underhill?» concluse, in un sussurro.
«Ma certo che no, Alexander» ammise lo stregone, cedendo finalmente all’idea che forse era un tantino geloso e che la sua obiettività fosse andata a farsi fottere nel momento in cui aveva posato lo sguardo su quel magnifico esemplare di Shadowhunter vergine. «Perché mi fido di te più di chiunque altro e lo so benissimo che non ci andresti mai a letto, ma non mi piace il modo in cui si comporta, va bene? Le insinuazioni che fa sulla nostra vita intima sono fuori luogo.»
«Su quello ti do ragione» confessò, riprendendo l’espressione militaresca che aveva spesso quando era al lavoro intanto che riportava lo sguardo su suo fratello e il capo della sicurezza. «Qualche volta è… Insomma, da quando ci siamo sposati lo fa spesso ed è imbarazzante.» Avrebbe voluto aggiungere che probabilmente era il caso di parlare direttamente con lui e dirgli di smetterla di dire certe cose, quando l’oggetto della loro discussione si avvicinò loro, camminando a fianco di un Jace che pareva vivamente irritato. Anzi, si corresse mentre percepiva una chiara nota di rabbia agitarsi dentro al suo stomaco, era molto arrabbiato. E adesso qual era il suo problema? Perché tanto nervosismo? Aveva seguito l’intera conversazione e annuito in maniera impercettibile a ogni ordine dato da Jace, e tutto si era svolto correttamente. Magari era agitato per questa situazione o forse c’entrava Clary, anche se non capiva in che maniera potesse averci a che fare.


«Allora, io e… Jace» disse quest’ultimo, indugiando appena intanto che indicava il proprio corpo abitato da Alec. Aveva stranamente marcato il tono della voce, come se si fosse sforzato a dirlo o avesse faticato per ricordarsi la maniera in cui chiamarlo. Forse lo trovava ancora strano, e in effetti lo era. «Ci occuperemo di indagare su questo covo di vampiri, voglio occuparmene in prima persona perché la situazione è particolarmente spinosa. Tu manda un paio di squadre a Queens per quei demoni, voglio i loro rapporti sulla mia scrivania entro stasera e i referti di Izzy il prima possibile.»
«D’accordo e ora scusate. Jace» disse Underhill salutando Alec, salvo poi rivolgersi subito a suo marito: «Cosa porta qui la dolce metà del nostro direttore?»
«Ciao, caro» disse lo stregone con fare affabile, oltre che falsamente allegro. Oh, Magnus Bane era abilissimo a fingere che andasse tutto bene, soprattutto quando di bene non c’era poi molto. In effetti era probabile che gli riuscisse meglio del fare magie, sebbene nel profondo di se stesso sapesse che era un’esagerazione perché con gli incantesimi era dannatamente straordinario. Questione “Scambio di due anime Parabatai” a parte. «Sono soltanto passato per consultare alcuni testi nella vostra biblioteca, mi serve per una… per una ricerca.» Non aveva inventato una scusa credibile per la sua presenza lì, ma quello che gli era venuto in mente sembrò convincere quell’affascinante amico impiccione.
«Capisco, beh, buon lavoro e se hai bisogno chiamami pure. Alec, fammi sapere quando avete finito con l’indagine» continuò Underhill, rivolgendosi direttamente a Jace, intanto che gli sfiorava di nuovo il braccio prima di congedarsi.
«Oh, sì, lo farò certamente» replicò il suo Parabatai. Sembrava avesse l’intenzione di aggiungere dell’altro o che comunque avesse molte cose ancora da dire, ma non parlò sino a quando Andrew non fu a una discreta distanza: «D’accordo, quello ha qualche problema» sbottò Jace, trattenendosi a fatica dall’alzare la voce. Stavano ancora nella sala principale, con decine di Shadowhunters dalle orecchie troppo lunghe e pronte a spiare ogni loro conversazione. Fu per questo che decisero di togliersi da lì, incamminandosi nei più silenziosi corridoi che conducevano alla biblioteca. Soltanto quando si ritrovarono loro tre soli, Alec invogliò il proprio Parabatai a parlare.
«Io penso che abbia la situazione sotto controllo, finora ha fatto un buon lavoro.»
«No, senti» gli disse suo fratello in maniera decisa, prendendolo per un braccio e costringendolo a fermarsi. Anche Magnus bloccò il proprio passo, voltandosi e guardandoli con interesse. Era quasi sicuro che Jace si fosse accorto di qualcosa e di conseguenza stirò un timido sorriso compiaciuto.
«Non è per i vampiri, so che Underhill lavora bene. Mi dispiace dirlo perché è sempre gentile, ma è lui che non mi piace.»
«In che senso?»
«E me lo chiedi?» gli domandò, incredulo «quello ci sta chiaramente provando con te.»
«Ah» sospirò invece Magnus, stirando al contempo un sorriso vittorioso che si tinse subito di sarcasmo. «Sento l’irrefrenabile impulso di abbracciarti, biondino o di offrirti un drink come ringraziamento per avermi inconsapevolmente dato ragione. Perché io avevo ragione, vedi, pasticcino che facevo bene a essere infastidito?»
«Basta con questa storia, tutti e due, è soltanto il suo modo di fare» tentò di giustificarlo Alec. Non era per Underhill, non lo era davvero perché lo considerava un bravo collega e di certo niente più di quello. Una volta si era aperto con lui, ma era triste e sbronzo e aveva discusso con Magnus per una stupidaggine che ora nemmeno ricorava. Di certo non era il suo migliore amico e non ci teneva a difenderlo in maniera particolare. Il suo essere infastidito derivava dal pensiero di star facendo la figura dello stupido, ingenuotto verginello che non si rendeva neppure conto di quando qualcuno ci stesse provando con lui. Aveva imparato a flirtare, ma era sicuro che sarebbe risultato freddo e imbranato con chiunque non fosse Magnus. Ci sapeva fare coi baci e col sesso e, con il tempo, era diventato anche più sicuro ed esplicito, ma spesso si sentiva ancora impacciato e troppo chiuso in se stesso.


«Non è per niente il suo modo di fare, Alec, con me non si è mai comportato così. Il che lo rende evidentemente pazzo, dato che sono molto più affascinante di te, fratello» borbottò Jace, incrociando le braccia a petto e indossando uno dei suoi modi di fare da sbruffone che contraddistinguevano il personaggio che si era costruito, e che stonava di molto sul volto che ora lo ospitava. Vedere il tenero viso del suo Alec, così tanto diverso gli faceva una stranissima impressione. Magnus non aveva mai faticato troppo a capire per quale motivo Alexander avesse una così bassa autostima. Era cresciuto all’Istituto dovendo soffocare un’importante parte di se stesso ed era vissuto all’ombra dei suoi fratelli, che invece apparivano come sicuri di sé e aperti alle persone. Non stentava a pensare che, probabilmente, Alexander tuttora credesse realmente di essere meno interessante di Jace. Ecco, se prima voleva abbracciare suo cognato, ora Magnus avrebbe tanto voluto strozzarlo. Finendo col comportarsi in quel modo, pur non facendolo di proposito, non faceva che convincere che il suo piccolo fiorellino valesse davvero meno di lui.
«Io te lo giuro, Alec, la prossima volta che mi tocca in quel modo o fa insinuazioni sulla "mia" vita sessuale, a quello gli tiro un pugno» proseguì Jace, sempre più nervoso.
«D’accordo, d’accordo» sbottò, cedendo definitivamente. Passava lo sguardo da suo fratello a Magnus e viceversa, forse nel tentativo di capire se stessero pensando entrambi quanto fosse stupido a non accorgersi di cose del genere. «Quando questa situazione si sarà risolta gli parlerò e metterò le cose in chiaro. Tu però promettimi che non farai niente del genere» disse, rivolgendosi al proprio Parabatai. «Sei il capo dell’Istituto di New York adesso e non puoi permetterti di pestare le persone senza nessuna motivazione valida.»

«Oh, la motivazione ci sarebbe eccome» se ne uscì Jace, facendo inevitabilmente sorridere Magnus. Gli piaceva quell’inedito ruolo da: “li difendo io i Malec, voi levatevi”.
«Promettimelo!»
«D’accordo, fratello» annuì quest’ultimo, arrendendosi di fronte alla ragionevolezza del suo Parabatai. «E ora sarà meglio andare a caccia di vampiri, è giorno quindi saranno rintanati da qualche parte. Magari chiamo Simon e gli chiedo di venire con noi.»
«Buona idea» annuì Alec, il quale si rivolse però immediatamente a un Mangus che, sino ad allora, era rimasto in disparte. «Ti ritrovo qui quando finiamo?» gli chiese, questa volta senza trattenersi dall’afferrargli le mani che Magnus baciò con devozione, in un delicato sfiorarsi di labbra.
«No, pasticcino, è più probabile che finisca prima io. Inizierò la mia ricerca da qui e magari poi passerò da Maryse, può essere ci sia qualcosa nella sua libreria. Ci vediamo direttamente a casa. Ah, tesoro?» aggiunse, rivolgendosi questa volta a Jace. «In nessun universo sei più bello del mio dolce Alexander, ma grazie per aver notato che quel suo amico affascinante ci stava provando. Adieu!» 

 


Magnus se ne andò così, dopo aver afferrato Jace per il mento e averlo schiaffeggiato appena. Alec rimase imbambolato a osservare la figura di suo marito allontanarsi, quasi non fosse realmente capace di levargli gli occhi di dosso. Era bellissimo; vero che lo era? Ma certo che sì e poi i suoi modi di fare lo stregavano. Perché Magnus Bane era sempre stupefacente. Che fosse truccato o meno, vestito o nudo, stropicciato dal sonno o intento a cucinare per lui quel piatto indonesiano di cui non ricordava il nome, non c'era un momento in cui Alec non lo ritenesse fantastico. Lo era nella maniera in cui parlava, per come gesticolava, lo era il tono della sua voce e il suo riuscire a illuminare una stanza ogni volta che vi entrava. Era come un suo personalissimo sole, attorno al quale Alec Lightwood non poteva che gravitare. Quel giorno, con tutto quello che era accaduto e le sciocche discussioni su Andrew Underhill, non aveva nemmeno avuto il tempo di notare quanto fosse magnifico. Il completo che indossava risaltava in modo perfetto la sua figura snella mentre gli anelli alle dita sempre così vistosi, tra cui capeggiava quello di famiglia dei Lightwood col quale gli aveva chiesto di sposarlo, lo caratterizzavano così come riusciva a fare anche il fucsia con cui si era tinto alcune ciocche. Era incredibile che quell’uomo meraviglioso avesse sposato lui e che provasse simili sentimenti, pensò sorridendo come un ebete.
«Lui è geloso di me» balbettò fra sé mentre Jace, al suo fianco, roteava gli occhi e lo trascinava in armeria.
«Andiamo, pasticcino» disse, ironicamente irritato, senza però riuscire a nascondere un sorrisino. Alec e Magnus insieme gli piacevano tantissimo e riuscivano a rendergli una serenità che assumeva note malinconiche non appena iniziava a ricordarsi di Clary e del fatto che, se lei fosse stata ancora lì, sarebbero certamente stati non diversi da Magnus e Alec. Ma pensare a questo, ora non lo avrebbe aiutato, aveva dei vampiri da catturare.


 

Alec non aveva mai considerato Simon Lewis come un amico. All’inizio era il mondano che stava appiccicato a Clary, quello fastidioso e che non stava mai in silenzio. Poi era diventato il vampiro che stava ancora appiccicato a Clary e che Jace continuava a detestare. Infine, Simon era diventato il diurno preferito dalla regina Seelie e che aveva baciato sua sorella nell’armeria dell’Istituto. Non avevano mai realmente legato, ma tuttora lo considerava come parte di quella loro strana famiglia allargata, anche perché non poteva dire di non essergli riconoscente. Poco più di un mese prima si era fatto marchiare con una runa angelica ed era andato con lui a Edom senza battere ciglio, comportandosi come se fosse stato ovvio il suo andare letteralmente all’inferno senza fare troppe storie, per salvare Magnus e Isabelle. Era stranamente coraggioso, nonostante non ne avesse proprio l’atteggiamento. E delle volte, ma questo preferiva non ammetterlo ad alta voce, riusciva a essere anche simpatico. Dopo il matrimonio e una volta tornati dalla luna di miele, Magnus lo aveva invitato spesso a casa loro. Simon diceva che ci veniva volentieri perché Magnus aveva il sangue migliore di tutta New York, in realtà Alec era convinto che la perdita di memoria di Clary lo avesse segnato molto più di quanto non desse a vedere e che non volesse gravare eccessivamente su Isabelle, finendo quindi col tenersi tutto quanto dentro. Un tratto che avevano in comune anche se, a dirla tutta, Alec aveva un carattere opposto al suo. Quel vampiro chiacchierone tendeva ad esternare sempre ciò che provava, ogni sua ansia, preoccupazione o pensiero prendeva voce attraverso un fiume di parole che il più delle volte era difficile da seguire. Una cosa però era convinto di averla capita, che stesse soffrendo gli era stato ovvio sin dalla sera in cui si era presentato al loro loft di Brooklyn, ubriaco di Plasma e preoccupato dalla prospettiva di generare una nuova Heidi. Dopo quaranta e più giorni la situazione era lievemente migliorata, perlomeno ora Simon aveva un progetto che lo faceva svegliare la mattina.


Era quasi mezzogiorno quando Jace picchiò alla porta del suo appartamento con tanta forza, che fece tremare i cardini. Lo avevano chiamato giusto poco prima e lui aveva detto di essere a casa a lavorare al suo libro. Era un’idea, aveva raccontato a lui e a Magnus qualche sera prima, che aveva sviluppato con Clary fin da quando erano bambini e ora, per non spegnere la sua memoria, aveva deciso di lavorarci sul serio. Quando entrarono dalla porta lo trovarono chino sul tavolo della cucina, con una tazza di sangue caldo e un computer aperto davanti agli occhi.
«Un momento solo» disse finendo il contenuto con un unico sorso. Era disgustoso soltanto a guardarsi, in effetti quella era una delle cose a cui non avrebbe mai davvero fatto l’abitudine.
«Fai con calma» disse Alec, facendosi avanti di un passo intanto che si guardava attorno. Non gli sembrava di esserci mai stato in quella casa e ora che si guardava attorno si rendeva conto che era molto da Simon. Quell’appartamento lo rispecchiava perfettamente. C’erano chitarre, tastiere, una playstation di ultima generazione. Una lunga lista di dvd e un frigorifero molto capiente che, Alec ci scommetteva, era pieno di sacche di sangue.
«Ma tu guarda chi è sceso tra i comuni mortali… o immortali con le zanne, ma fa lo stesso. Nientemeno che Jace Herondale, che fai qui? Problemi in Paradiso?» Simon era sarcastico e Simon non era mai sarcastico. Era una delle cose che aveva capito di lui, frequentandolo negli ultimi tempi. Era ironico e spassoso, magari anche fuori luogo, ma sarcastico lo diventava quando era arrabbiato o ferito da qualcosa. Da quanto ne sapeva, o immaginava perlomeno, lui e suo fratello non si vedevano dal giorno del matrimonio. E Jace doveva aver incassato non poi così bene la presa in giro, almeno a giudicare dall’espressione contrita che aveva  al momento. 

«Mi dispiace» lo sentì sussurrare Alec. Si stava passando una mano tra i capelli e sembrava imbarazzato e Jace non era mai imbarazzato. Forse provava anche del senso di colpa, il che era davvero straordinario. Suo fratello era sbruffone, esuberante, vagamente egocentrico ed era convinto di essere il miglior Shadowhunter del mondo, ma l’imbarazzo non sapeva nemmeno dove stesse di casa.
«Non ce l’ho con te, Alec e poi ci siamo visti l’altro ieri! Credevo fosse chiaro che mi stessi riferendo a Jace.» Oh, già, si erano scambiati, si ricordò soltanto allora. Com’era che questa cosa non gli stava in testa?



Jace e Alec avevano una particolarità che esulava dal loro essere Parabatai. Certamente il fenomeno era accentuato dalla runa che li legava, ma Alec era convinto che sarebbero riusciti a leggere uno nella mente dell’altro anche senza essere Parabatai. Perché prima ancora che essere Shadowhunter legati, erano fratelli. Erano cresciuti insieme e avevano combattuto uno accanto all’altro per anni, delle volte per capirsi non servivano parole e non era necessario scavare dentro se stessi di modo da scovare i sentimenti dell’altro, bastava uno sguardo perché si comprendessero al volo. Quel giorno, a casa di Simon, nessuno dei due aveva accennato una parola sul confessare quale situazione stessero passando. Erano certi che non si dovesse sapere in Istituto e che era meglio non dire niente a Isabelle e magari nemmeno a sua madre, ma se volevano l’aiuto di Simon per quella faccenda dei vampiri avrebbero dovuto fidarsi almeno di lui. Alec annuì, guardando Jace negli occhi intanto che questi faceva la stessa cosa.
«Simon» disse Jace, facendo un passo in avanti «è successa una cosa questa notte, una cosa che non abbiamo voluto, ma che è accaduta e noi ora...»
«Quello che mio fratello sta cercando di dirti, è che ci siamo scambiati di corpo. Io sono Alec e quello che vedi nel mio corpo è Jace.» Ecco, lo aveva detto.

 

Simon Lewis non stava mai zitto. Jace era sicuro di averlo sentito parlare ogni minuto di ogni momento in cui gli era stato, proprio malgrado, vicino. Era quel tipo di persona perennemente nervosa che riusciva a trovare irritante al punto da volerlo riempire di pugni, soltanto per farlo tacere. Ciononostante col tempo aveva imparato ad apprezzarlo perché in fondo era fedele, aveva coraggio e, per l’angelo, gli era accaduto letteralmente di tutto e non si era mai davvero lamentato. Aveva seguito Clary nel mondo Nascosto a rischio della propria vita, unicamente per non lasciarla sola tra degli sconosciuti e a causa di questo era stato ucciso da Camille, era diventato lui stesso un vampiro, quindi un diurno, era stato mollato da Clary, per lui ma questo Jace preferì non ricordarlo, aveva avuto un marchio assassino sulla fronte, era stato stalkerato da una vampira manipolatrice e fuori di testa, era finito all’inferno e che altro? Ah, sì, quando aveva baciato Isabelle per la prima volta lei aveva preso fuoco. Eppure, Simon non aveva mai smesso di darsi coraggio e di andare avanti, nonostante tutto. Pur ammirandolo, segretamente perché sarebbe morto pur di ammetterlo ad alta voce, Jace non credeva di ricordare di averlo mai visto zitto. Eppure, dopo che Alec gli ebbe detto ciò che era successo, Simon si era lasciato cadere sul divano e aveva passato lo sguardo da lui a suo fratello ininterrottamente. Lo sguardo carico di uno stupore che, a guardarsi, era quasi divertente. Il silenzio era quindi sceso per minuti in quell’appartamento da musicista, quindi Simon si era schiarito la voce.
«Fatemi capire» disse, pur senza alzarsi «vi siete svegliati questa mattina l’uno nel corpo dell’altro?» chiese e i due annuirono all’unisono. Sì, lo aveva detto, giusto? «E presumo che Magnus non sia riuscito a risolvere subito le cose.»
«Ci ha provato, ma crediamo che lo scambio sia stato fatto dagli angeli perché c’è stata opposizione quando ha fatto la sua magia» spiegò Jace «abbiamo un piano per sistemare tutto, ma ora è spuntata questa cosa dei vampiri.»
«Quindi riassumiamo» disse Simon, sorridendo vistosamente intanto che si massaggiava la radice del naso. «Vi siete svegliati in questo stato e, visto che per il momento non potete sistemare tutto, ve ne andate in giro in questo modo?»
«Esatto» annuì Alec, confuso. Cosa c’era di tanto divertente o difficile da comprendere «e non c’è niente da ridere!»
«No, no» negò Simon alzando le mani in segno di resa intanto che si alzava dal divano «la parte divertente è che non vi sia venuto in mente di usare un glamour per non dover andare in giro con la faccia sbagliata. Non sarebbe più facile se aveste l’aspetto di sempre, invece che fingere di essere il vostro Parabatai?» Già, pensò Alec voltandosi verso Jace, l’ipotesi “Glamour” non l’avevano neppure sfiorata eppure sarebbe stata utile per tamponare la situazione durante l’indagine. Perché diavolo non c’erano arrivati loro e perché ora dovevano vedere Simon Lewis sganasciarsi dalle risate sulle loro disgrazie?




 

Continua






Note: Giuro che non ho niente contro Underhill, davvero. Ma spesso trovo i suoi atteggiamenti verso Alec un po’ ambigui e ho pensato di riportare la stessa sensazione che mi dà nella serie (non è detto che Jace e Magnus abbiano ragione, eh) anche in questa storia.
Per il resto, il capitolo è più che altro di passaggio, ma come sempre nelle mie storie non è completamente riempitivo. Volevo spostare l’azione all’Istituto e poi in giro per la città e che anche Simon prendesse parte all’azione, dato che adoro il suo personaggio.
Non mancano molti capitoli alla fine, credo che ce ne saranno ancora tre, massimo quattro. Intanto grazie a tutte le persone che hanno letto sino a qui, a chi ha recensito e a chi sta seguendo la storia.
Koa

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Capitolo 5
*** Passeggiare lungo i viali di Central Park ***


Passeggiare lungo i viali di Central Park




 

L’idea di usare un glamour per tamponare la situazione e apparire quelli di sempre non era certo stupida e avrebbe potuto essere attuabile con una certa facilità, se soltanto le loro rune avessero funzionato correttamente. Era infatti successo che, dopo aver passato lo stilo sulla pelle, Alec si era accorto che non succedeva niente. Per farla breve, questa non si era neppure attivata. E pensare che con le altre non aveva avuto nessun problema. Una delle prime cose che aveva fatto, intanto che in Istituto si era armato di una comunissima spada angelica, lasciando perdere l’arco almeno per una volta, era stato il verificare se la runa Iratze fosse in grado di guarire. Non che desiderasse andare incontro alla morte, era stata più che altro una precauzione per accertarsi che sarebbe stato eventualmente in grado di curare il corpo di Jace, nel caso in cui la situazione coi vampiri arrivasse a degenerare. E grazie all’angelo, sia quella runa che quella della forza, provata per curiosità, si erano attivate nella maniera più corretta. Eppure, mentre passava ripetutamente lo stilo sulla runa in un tentativo di apparire di nuovo se stesso, niente successe. Che fossero in quello stato per la volontà dell’angelo, Alec se ne rese conto soltanto dopo che l’aspetto di Jace mutò, diventando identico a quello di Simon. Non serviva che gli angeli mandassero loro ulteriori messaggi, ormai era più che chiaro quello che era successo.
«Allora è così!» esclamò, parlando più che altro fra sé, mettendo quindi via lo stilo. Vivere nei panni del proprio Parabatai per un tempo indefinito, nel tentativo di capire chissà quale verità, era ciò che dovevano fare e non ci sarebbe stato niente che potessero tentare ancora per aggirare la questione. La magia non era servita a nulla e neppure col potere delle rune avevano concluso una qualche cosa, avrebbero quindi dovuto conviverci e questo era quanto.
«Così come?» domandò invece uno stranito Simon, il quale fingeva malamente di non essere turbato da quella malriuscita copia di se stesso che ora gli stava facendo l’occhiolino, probabilmente in un non poi così scarso tentativo di prenderlo in giro. Gli era già successa una cosa del genere in passato, la volta in cui Jace aveva provato a insegnargli a rimorchiare all’Hunter’s Moon e anche allora l'aveva trovato piuttosto inquietante, oltre che irritante (Ma questo perché era la natura di Jace, quella di far innervosire la gente).
«Smettila!» disse infatti il vampiro, chiaramente infastidito, facendo però sorridere un Jace che si preoccupò comunque di spiegargli cosa stava succedendo.
«Avevamo il sospetto che fossero stati gli angeli a farci diventare così» esordì, appena dopo esser tornato quello di prima, intanto che anche lui riponeva lo stilo nella tasca dei pantaloni. «E il fatto che io riesca a diventare uguale a te e non ad apparire come sono di solito, conferma questa teoria. Ora dobbiamo soltanto capire il motivo che si nasconde dietro tutto questo; come se fosse facile indovinare per quale ragione gli angeli fanno ciò che fanno» concluse, abbassando lo sguardo a terra e lì tenendolo inchiodato. Non stava più parlando soltanto dello scambio, Simon non ebbe bisogno di grandi conferme per capire che si stava riferendo soprattutto a Clary. Era sicuro che Jace avesse sofferto molto e, da quanto raccontava Isabelle, non aveva vissuto granché bene quell’ultimo mese e mezzo. In fin dei conti, si ripeteva ogni giorno, Jace aveva perso la persona che amava e probabilmente per sempre. Simon aveva riflettuto molto riguardo al destino toccato a Clary, un destino che a quanto pareva lei non aveva rifuggito, ma al quale era andata incontro per salvare il mondo intero. Il che era così tipico di Frey che l’avrebbe stroz… Ma no, un momento, che stava dicendo? Se l’avesse avuta davanti l’avrebbe abbracciata e basta. Li aveva salvati a discapito di se stessa. Aveva pensato prima a coloro che ormai considerava come la propria famiglia, da Luke a Jace, sino agli Shadowhunters dell’Istituto e naturalmente anche a quei mondani che Jonathan avrebbe potuto uccidere, e non aveva cercato nessuna soluzione alternativa. Avrebbe potuto facilmente smettere di disegnare nuove rune e placare in quel modo l’ira degli angeli, eppure era andata sino in fondo di modo da sconfiggere il proprio demoniaco fratello. E, perciò, le era toccato quel fato assurdo. Era orribile a dirsi, ma probabilmente se fosse morta avrebbero accettato quanto accaduto con molta più facilità. E invece il pensiero che lei fosse lì a New York, a pochi passi da dove si trovavano e che non potessero parlarle o anche semplicemente vederla, perché non ricordava niente del mondo nascosto, era stato molto più difficile da sopportare di quanto non ci si sarebbe aspettati. Simon neanche contava più le volte in cui si era sentito un egoista bastardo, voltando lo sguardo per l’imbarazzo non appena Isabelle notava un’ombra di turbamento in lui. Saperla al sicuro a fare ciò che, in fin dei conti, Clary aveva sempre sognato di fare ovvero dipingere, era in un certo senso confortante. Allo stesso tempo, però, era a dir poco orribile perché Simon più volte si era fermato a pensare che l’avrebbe preferita nei panni della Shadowhunter che in quelli della mondana, ed era a quel punto che scattava il senso di colpa. Una parte di lui rivoleva così tanto indietro la propria migliore amica, da preferirla persino in mezzo al pericolo che l’essere un Nephilim comportava. che razza di amico era? Oh sì, Simon aveva sofferto moltissimo per quanto accaduto a Clary perché lei, per lui, c’era sempre stata e perché insieme avevano trascorso ogni giorno sin da quando si erano incontrati. Ora che però guardava Jace, capiva che la sua sofferenza era stata ben poca cosa se paragonata alla sua. Non avevano parlato affatto sin dal matrimonio di Alec e Magnus, e Simon si era detto più volte che lo Shadowhunter volesse starsene per conto proprio o che magari non desiderasse vederlo perché gli ricordava troppo Clary. In quel momento però comprese che Jace non doveva aver ancora accettato quello che era accaduto, probabilmente faticava a realizzarlo dentro la propria testa e altrettanto sicuramente il suo cuore si ribellava a quella triste sorte. E la sua sofferenza era così palpabile, che Simon dovette quasi forzare se stesso a non raggiungerlo e abbracciarlo. Non lo fece, ma soltanto perché quello Shadowhunter scorbutico lo aveva sempre fermato con un’occhiataccia le volte in cui ci aveva provato. Avanzò soltanto di un passettino e allo stesso tempo si sentì un verme per essersi arrabbiato con lui. Poteva sembrare assurdo, dato che non avevano mai mancato di stuzzicarsi e che di certo non si erano comportati come due grandi amici (era piuttosto probabile, inoltre, che Jace fosse stato geloso di lui nel periodo in cui Simon si era messo con Clary ed era anche certo che lo avesse odiato almeno all’inizio, e che neppure ora gli stesse granché simpatico), però doveva ammettere che quel biondino gli era mancato. Si guardò bene dal dirglielo e, invece che indugiare su simili pensieri, si ritrovò a domandarsi per quale ragione gli angeli avessero giocato a lui e ad Alec un simile scherzo. Magari, ipotizzò notando il modo in cui Jace rifiutava di accettare quanto accaduto, volevano fargli capire qualcosa che non era ancora riuscito a comprendere. Forse la verità stava nel guardare il mondo dallo sguardo di Alec, poteva essere anche se gli sembrava un’ipotesi alquanto stiracchiata. Già, ma qual era questa fantomatica verità? Ma soprattutto, per quanto sarebbero rimasti in quel modo? Aveva tentato di aiutarli, ma il suo suggerimento non era servito a niente. Il che lo aveva fatto sentire vagamente inutile, si domandò anche come dovesse sentirsi Magnus a riguardo, visto che anche lui non aveva fatto poi molto. Avrebbe tanto voluto dir loro qualcosa di concreto, oltre che restare immobile a fissarli, ma Alec decise che invece che quello era il momento di agire.


«Una cosa alla volta» intervenne, assumendo quel cipiglio che mostrava sempre in Istituto e che sarebbe stato in grado di intimorire chiunque. In un certo senso, quel suo fare militaresco e impettito, stonava vagamente con la consueta espressività del corpo che lo ospitava. Anche Jace era in grado di spaventare chi aveva davanti, in effetti qualunque Shadowhunters sarebbe stato in grado di far fare a Simon Lewis uno o due passi indietro e magari anche deglutire a fatica, ma la paura che incuteva Alec era diversa. Era autoritario, ecco, ma lo era in una maniera che in nessun altro Nephilim aveva mai visto prima. E Jace doveva avergli letto nel pensiero perché notando il fare con cui Simon si era irrigidito, aveva stirato in sua direzione un sorriso beffardo. In effetti, pensò Jace in un tentativo goffo di non ridere del timore nato negli occhi di quel vampiro, suo fratello era nato per essere un capo. Se lo disse annuendo fra sé, riflettendo allo stesso tempo su quanto ne fosse orgoglioso. Ormai ad Alec veniva naturale prevalere su chiunque, quando c’erano delle decisioni da prendere era il solo ad assumersi la reale e coscienziosa responsabilità di quanto diceva e lo faceva ogni volta con forza e determinazione, mettendo nel proprio lavoro ogni più piccola parte di se stesso, dalla razionalità al suo grande cuore. Le volte in cui lo vedeva prendere decisioni difficili o affrontare i propri superiori con determinazione e forza, Jace sentiva la fierezza invadergli il cuore. E più faceva caso alle espressioni che assumeva quando dava degli ordini, più si rendeva conto di quanto tempo avesse trascorso a cercare di nascondersi. Non lo aveva mai ritenuto un debole, al contrario tra tutti i fratelli, Alec era sempre stato la loro roccia. Colui che non li aveva mai lasciati soli, che si era preso cura di tutti, da Isabelle sino al piccolo Max. Lui c’era sempre stato per chiunque, in qualsiasi momento e quando il loro legame si era affievolito era stato soltanto perché si era sentito solo e tradito. Probabilmente Jace lo aveva dato un po’ per scontato o aveva creduto che Alec fosse felice senza nessuno accanto. Naturalmente non poteva sbagliarsi di più. Jace aveva notato sin da quando erano adolescenti che suo fratello rifiutava la vicinanza di qualsiasi essere di genere femminile, sapeva che non era mai andato a letto con nessuno prima e quando cercava dentro di sé i sentimenti di suo fratello, percepiva sempre come un fondo di nervosismo e frustrazione. Lo aveva creduto timido e impacciato, magari ritroso nei confronti di altri esseri umani, ma soltanto dopo l’arrivo di Clary e il successivo incontro con Magnus aveva capito come stessero realmente le cose. Se non avessero mai incontrato quello stregone, Alec sarebbe mai diventato tutto questo? Jace se lo domandava di tanto in tanto e se lo chiese anche quel giorno, mentre il suo Parabatai elencava quanto c’era da fare. Soltanto dopo che lo ebbe sentito riprendere a parlare, lasciò cadere quei ragionamenti. Magari, in futuro, gli avrebbe anche confessato quanto fosse fiero di ciò che aveva fatto sinora. Era riuscito a demolire secoli di pregiudizi, aveva fatto vivere uno stregone in Istituto e aveva sposato quello stesso Nascosto sotto lo sguardo diffidente del Clave e quello di tutti gli Shadowhunters che ancora dubitavano del loro capo e che ne disapprovavano le scelte di vita. Alec era sempre andato avanti a testa alta, incoraggiato dall’amore profondo che nutriva per Magnus e dal desiderio che altri Nephilim seguissero le loro orme e vivessero più liberamente la propria omosessualità o, ancora, il proprio amore per un Nascosto. Sì, si disse Jace sedando un moto di orgoglio, Alec era una persona straordinaria e un Parabatai davvero eccezionale. Aveva affrontato il loro stranissimo scambio premurandosi di confortare prima lui e poi anche il suo agitato marito e ora… ora andava a caccia di vampiri come se non fosse accaduto nulla di eccezionale.
«Se davvero dobbiamo vivere in questo modo, allora così sarà» lo sentì proseguire e a quel punto i ragionamenti di Jace si dissolsero. «Smettila di dare quell’espressione affranta alla mia faccia, Jace, non è la fine del mondo. Il mio matrimonio non finirà solo perché ora sono biondo e i nostri amici e la nostra famiglia non smetteranno di volerci bene soltanto per questo, quindi ora noi faremo ciò per cui siamo nati ovvero andare a caccia di demoni» concluse, portandosi le mani ai fianchi e assumendo quindi una postura rigida, militare quasi. Aveva un cipiglio autoritario in volto che Jace trovò quasi strano notare su di sé. O meglio, era certissimo di essere più autoritario di suo fratello, ma la reazione che scatenava nelle persone era sempre un po’ più simile alla paura. Alec riusciva invece a incutere timore e a rassicurare al tempo stesso, e questo era molto più che eccezionale.
«Ci sono dieci cadaveri di mondani in obitorio, tutti rinvenuti Central Park ed è da lì che inizieremo con le nostre indagini. Isabelle ha già ispezionato la zona in cui è stato trovato il primo corpo, ma non quelle in cui sono stati trovati gli altri nove. Secondo quanto ha riportato Underhill, la polizia mondana non ha raccolto tracce rilevanti sui luoghi del delitto, ma può essere che sia sfuggito loro qualcosa. Anzi, è piuttosto probabile.»
«Quindi cos’è che sappiamo?» domandò Simon, in un tentativo di racimolare le poche idee che aveva. Non aveva sentito di vampiri ribelli sin dall’epoca in cui Heidi non aveva aizzato il clan di Brooklyn contro il branco di lupi mannari. Sapeva che i capi della città erano in pace con il Clave, dopo il massacro del Jade Wolf avevano messo una volta e per tutte la parola fine a eventi del genere e, alcuni di loro, avevano persino aiutato gli Shadowhunters a stanare tutti i covi illegali di New York e a eliminare le cosiddette “Zone grigie”. Perciò gli sembrava strano che fosse accaduta una cosa del genere e che questa fosse sotto il controllo dei capi clan. Doveva trattarsi di uno, magari più outsider. Probabile che fossero più d’uno, considerata la quantità di corpi rinvenuti.
«Le vittime erano completamente dissanguate e ognuna aveva dei segni di morsi su collo e polsi. Certamente vampiri, a giudicare dalla quantità di persone morte devono essercene parecchi. Isabelle sta svolgendo un esame del dna per le comparazioni, ma finora non abbiamo notizie su quel fronte, quindi dovremo andare a caccia.»
«Non lo so, Alec» osservò Jace incrociando le braccia al petto mentre tentava di farsi un’idea su quanto accaduto. Ci stava pensando sin da quando era arrivato in Istituto, qualche ora prima, qualcosa in tutta quella faccenda non gli tornava. Sperava solo che non fosse un altro seelie che incolpava vampiri, lupi mannari e stregoni, in un tentativo di scatenare una guerra perché dopo quanto avevano fatto per trovare un accordo, nuove tensioni proprio non ci volevano.
«Dieci cadaveri a Central Park» riprese Jace dopo un istante di esitazione, servitogli per grattarsi la fronte. «Immagino li abbiano rapiti di notte ed è vero che New York è la città che non dorme mai, con tutte le ronde notturne che facciamo sappiamo bene quante persone girano anche dopo il tramonto. Ma sappiamo anche che non è facile trovare poi così tanta gente che passeggia nel parco alle tre del mattino. Dove hanno trovato così tante persone senza dare nell’occhio? E soprattutto perché proprio al parco?»
«Probabilmente sono stati presi altrove e quindi ammaliati, così da essere portati sino a lì» osservò Simon dubitando però del proprio stesso ragionamento. Oltre a non avere granché senso, trovava quel piano un tantino complesso da attuare. Sapeva per esperienza che quando ci si vuole cibare di qualcuno serve calma e solitudine, spesso persino la presenza di altri vampiri può dare fastidio o comunque la si percepisce come una sorta di minaccia. Lui non l’avrebbe mai fatto in un parco dove chiunque e anche in piena notte avrebbe potuto vederlo, ma certo lui era un vampiro piuttosto atipico.
«Oppure li hanno in qualche modo rapiti di giorno e poi scaricati lì dopo aver finito» intervenne Alec.
«Se è così significa che il covo è lì vicino, non si scomoderebbero a trascinare cadaveri in giro per New York e soprattutto quale vampiro va caccia di giorno?» ribatté Simon, memore del ragionamento appena fatto intanto che, nei due Shadowhunters, si accendeva una terrificante consapevolezza.
«Se hai ragione significa che migliaia di persone potrebbero essere in serio pericolo, dieci mondani in una notte... Mi domando quanti ne troveremo domani mattina.»
«Dobbiamo agire, ora!» intervenne invece Alec, il quale però non permise loro di aggiungere altro, semplicemente uscì dalla porta con la stessa rapidità che avrebbe usato per uccidere un demone, Jace e Simon dal canto loro non poterono fare altro che seguirlo fuori da lì. In effetti la situazione era allarmante. Se davvero c’era un covo in pieno Central Park e se realmente le persone venivano rapite durante il giorno, allora quei vampiri avrebbero potuto fare una strage. Donne, anziani, bambini… Chiunque sarebbe stato alla loro mercé. Sì, dovevano assolutamente andare a caccia e dovevano farlo subito.

 


 

Simon aveva sempre pensato che, quando si passeggia accanto a una persona che si conosce come le proprie tasche, fosse anche meraviglioso bearsi di quel silenzio condiviso che rende certi momenti ancora più magici. Era quel tipo di non parlare privo di alcun tipo d’imbarazzo che si ha unicamente con chi si conosce talmente intimamente, che non è necessario aprire la bocca, a meno che non si abbia qualcosa da dire. Sapeva che detta da lui una frase del genere sarebbe potuta sembrare un controsenso e in effetti i suoi “Momenti di silenzio” con Frey erano sempre durati sì e no qualche minuto, quindi riprendeva a blaterare di una qualsiasi cosa. Però non poteva negare di aver sempre amato quella meravigliosa sensazione di pace che è in grado di regalarti una passeggiata tranquilla. E amava anche il sole, altro controsenso per un vampiro. Simon però era un diurno, e aveva ringraziato Jace e il suo sangue angelico per avergli concesso un regalo del genere. Ma Simon amava anche il vento tra i capelli, il chiacchiericcio dei vecchietti sulle panchine, i gridolini dei bambini che giocavano… Eppure in quella soleggiata giornata a camminare per i viali di Central Park, il silenzio non era affatto un compagno piacevole. Simon si sentiva sempre istintivamente portato a riempirlo con chiacchiere più o meno sensate, soprattutto quando si sentiva a disagio. Specialmente se camminavano da quasi mezzora in cerca di indizi, ma senza ottenere nulla di rilevante. Avevano analizzato ogni singola scena del ritrovamento e non avevano scovato niente di anomalo né qualche piccola traccia che avrebbe potuto aiutarli a stanare il covo. Avrebbe volentieri riempito quel non parlare teso con una battuta, ma sapeva che Jace le odiava e Alec lo guardava sempre truce ogni volta che faceva dello spirito, di conseguenza preferì tacere (anche se a dirla tutta stava iniziando a diventare una sofferenza). Fu quasi grato al cielo quando sentì il trillo del telefono di Alec, o meglio quello di Jace, che vibrò dalla tasca dei suoi pantaloni.

 


Da: Magnus
(Ore 13:32)


Fiorellino, nella biblioteca dell’Istituto non ho trovato niente di rilevante...
Niente che non sapessi già, comunque.
Vado da tua madre e vedo se mi sa dire qualcosa di più!

 

Da Alec:
(Ore 13:33)

 

D’accordo!
Noi siamo a Central Park, crediamo che il covo sia qui vicino.
PS. Non dire a mia madre che siamo così per la volontà degli angeli, si spaventerebbe troppo.

 

Da Magnus:
(Ore 13:33)

Ma certo, cucciolo, le dirò che avete dei problemi col vostro legame, ma senza insospettirla.

State attenti con quei vampiri.
E se hai bisogno chiamami.


 

«Magnus dice che non ha trovato nulla» mormorò Alec, riponendo il telefono in tasca, dopo aver ribadito a suo marito che lui stava sempre attento e di non preoccuparsi troppo. Nel caso lo avrebbe chiamato per farsi dare una mano, anche perché il suo aiuto sarebbe stato certamente più rapido che il far venire una squadra dall’Istituto.
«Sta andando dalla mamma, ci farà sapere se scopre qualcosa.»
«A proposito di Magnus» mormorò invece Simon, curioso di alcuni particolari che non gli erano ancora stati raccontati. «Come l’ha presa?» chiese, guardandosi attorno sempre in cerca di indizi che non riusciva a trovare. Se dovevano passare un’altra mezzora a guardarsi in faccia e a caricare i loro silenzi di tensione, preferiva sciogliere tutti i dubbi che aveva. E, tra i tanti, aveva il sospetto che l’ex sommo stregone di Brooklyn non l’avesse presa granché bene.
«Male» mormorò Jace mentre Alec si esprimeva in un pacifico: «Bene!» che ebbe il potere di mandare Simon ulteriore in confusione. Non conosceva Magnus così intimamente quanto suo marito, ma ne sapeva abbastanza da esser certo che non avesse preso alla leggera una situazione come quella. Oltre all’impotenza per non essere riuscito a scambiarli di nuovo, usando un incantesimo o una pozione, doveva aver avuto seri problemi quando si era conto che nel corpo di suo marito c’era niente meno che Jace Herondale. Inoltre, dato che il tutto era stato macchinato dagli angeli, nutriva di sicuro il timore che potessero rimanere così a lungo, altro pensiero che doveva averlo caricato di paranoie.
«Magnus se la caverà, non è lui che mi preoccupa al momento» si espresse Alec, in un tentativo di smorzare sul nascere ogni possibile tentativo di conversazione e focalizzare le attenzioni di Simon sull’indagine. Non gli andava di parlare di quello, anche perché a dirla tutta non c’era proprio niente da dire. Magnus non l’aveva presa benissimo, era vero, ma non ne aveva neppure fatto una tragedia. Era soltanto uno scambio di corpi, avevano passato ben di peggio tra Valentine e Jonathan. Il fatto che per tutto il tempo avesse sorriso o si fosse preoccupato di Underhill e della propria gelosia, non significava che stesse pacificamente, ma neppure che stesse sviando le attenzioni da se stesso perché soffriva troppo. Era semplicemente preoccupato, allo stesso modo di come lo erano sia Alec che Jace.
«Ho capito, ma voglio dire» insistette Simon, faticando quasi a star dietro al passo dei due Parabatai che andavano avanti senza sosta. Era sicuro che lo lasciassero indietro per far morire il discorso, ma non era da lui, l’arrendersi subito «e se rimaneste così per sempre? Non potete non averci pensato e non può non averci pensato anche Magnus.»
«Certo che ci abbiamo pensato» gli disse Jace, nervoso. Naturalmente lo avevano fatto, ma indugiare su quello non li avrebbe certamente aiutati. Non mentre erano a caccia di vampiri e avevano in sensi di Shadowhunters all’erta.
«Nel caso non potessimo risolvere la situazione, tra me e Magnus non cambierebbe niente.» Lui si era innamorato anzitutto della sua anima, il fatto che lo trovasse attraente era un fattore meramente secondario. Era più che sicuro che lo avrebbe amato comunque, anche nel corpo di Jace.
«Certo, ma pensa al pessimo affare che ha fatto» borbottò Simon, meditabondo «sposa te e a letto si ritrova Mr Simpatia!»
«Ehi!» lo rimproverò Jace, schiaffeggiandolo bonariamente su una spalla.
«Non ti piace? Meglio Mr Scontrosità? Mr Ehi tu, fuori dalla mia nuvola? Questa è una citazione, lo so, aspetta è meglio: “Mr Sono uno Shadowhunters tutto d’un pezzo e non sorrido mai e mi stai anche un po’ sui coglioni?”»
«Io non sono affatto così» piagnucolò Jace senza però dare a vedere di star sorridendo. Non che trovasse tutto quello realmente divertente, non era per niente simile a come lo aveva descritto Simon ed era anche un po’ offensivo. Eppure sorrise, nascondendosi dietro a un broncio malfatto e lo fece perché, sebbene stentasse ad ammetterlo, quel vampiro gli era mancato. Parlava sempre troppo e il più delle volte era fastidioso e inopportuno, era insicuro su tutto al punto che spesso Jace sentiva la voglia di picchiarlo da quanto lo innervosiva. Ma era anche coraggioso e leale, non si era mai tirato indietro dal seguire Clary per starle vicino in quella sua maniera stramba, neanche quando era soltanto un mondano e lui aveva fatto e detto di tutto pur di terrorizzarlo. E sì, forse gli era mancato davvero, pensò salvo poi borbottare: «Magnus avrebbe fatto un affare d’oro a sposarsi con me e comunque io sono...» Tuttavia, Jace non finì mai quella frase. Così come Simon non avrebbe mai davvero fatto presente a Jace che aveva notato un sorriso apparire sul suo volto, segno che almeno un pochino lo aveva fatto ridere. Ogni traccia di divertimento in loro scomparve quando il vampiro smise di camminare d’improvviso. Quindi i due Parabatai lo videro alzare lo sguardo al cielo e annusare l’aria. C’era un odore che gli era familiare, pensò Simon mentre chiudeva gli occhi di modo da potersi concentrare a dovere. Era molto intenso e lo aveva investito appieno al pari di una zaffata, che per un attimo gli aveva fatto venire un capogiro perché era intensa e piacevole, e anche… strana, in un certo senso. Quello del sangue, perché di tale si trattava, non era il solo odore che sentiva. Ce n’era un altro che Simon reputò strano e al quale sulle prime non diede granché peso, anche perché si era istintivamente concentrato sull’altro odore. Quello caldo e avvolgente, e che probabilmente lo avrebbe fatto andare molto presto fuori di testa. Era l’effetto che gli faceva sempre il sangue. Anche dopo aver ottenuto un certo controllo su se stesso e suoi propri istinti, anche se si era già nutrito quella mattina, il suo istinto era talmente primordiale e così difficile da sedare che non poteva mai sapere quello che sarebbe accaduto uscendo di casa . Ecco perché teneva sempre una fiala con del sangue fresco nella tasca della giacca, per ogni evenienza.
«Che c’è?» gli chiese Alec, assottigliando lo sguardo intanto che tornava indietro. Simon aveva un’espressione in viso seria e concentrata. Lo vide annusare ripetutamente l’aria frizzante di Central Park e, forse in un moto istintivo, estrarre le zanne intanto che irrigidiva il corpo.
«Sangue» disse, parlando mentre i denti spuntavano in un riflesso quasi condizionato. Anche quello era colpa dell’istinto. «Tanto, davvero tanto sangue.»
«In che direzione?» gli domandò Jace, guardandosi attorno con fare guardingo.
«Aspetta» lo fermò Simon, confuso da quello che stava sentendo. Era odore di sangue, indubbiamente umano. Lo avrebbe riconosciuto in mezzo ad altri mille tipi diversi, perché quello dei mondani aveva un profumo particolare, che attirava i vampiri come una calamita è attratta da un pezzo di ferro. Questo però aveva qualcosa di diverso, c’era un retrogusto che non conosceva e che non sapeva classificare con esattezza.
«Che c’è? Senti dell’altro?» 

«Non so cosa sia, è indubbiamente sangue umano, ma c’è qualcosa nell’aria che non mi convince e che non riesco a identificare.»
«Sicuro sia sangue mondano e non di Shadowhunter?» gli chiese Alec, vagliando l’ipotesi che magari i vampiri potessero aver cambiato obiettivo, anche se non erano giunte segnalazioni dall’Istituto di Nephilim scomparsi.
«No» negò Simon, vibratamente «conosco bene il vostro sangue, ti manda fuori di testa, è paradisiaco. Funziona come una droga, ne vuoi sempre di più e se mordi uno Shadowhunter difficilmente riuscirai a fermarti, o a dimenticare che sapore ha. Questo invece mi dà strane sensazioni e non propriamente positive. Dobbiamo andare, da questa parte.» E quindi prese a correre, senza usare la velocità da vampiro, perché altrimenti Jace e Alec non sarebbero riusciti a stargli dietro. A chiunque appartenesse quel sangue, Simon sapeva che non si trovava troppo lontano. Dovevano sbrigarsi, ovunque fosse c’era un mondano in pericolo di vita.

 

Central Park era il parco più grande di New York, quando era piccolo per Simon era addirittura il più grande del mondo intero e glielo diceva sempre, a sua madre che per lui Central Park era il più grande parco dell’universo. Affermazione che la faceva ogni volta sorridere e pizzicare il cuore di felicità. Gli piaceva tantissimo andarci la domenica mattina e, dopo che aveva conosciuto Frey, la portava con sé ogni volta che aveva voglia di rilassarsi al sole intanto che studiavano. Ma attraversarlo andando a caccia di vampiri affamati non era certo la stessa identica cosa, farlo seguendo un odore tanto particolare, poi, era una di quelle cose che Simon Lewis non avrebbe mai pensato di fare nella vita. Dal viale che avevano percorso sino ad allora, spade alla mano e sensi all’erta, raggiunsero un ponte in muratura sotto al quale, a differenza di altri che invece valicavano un fiumiciattolo, passava un’altra strada. * Simon si sporse dal parapetto in mattoni e guardò giù di sotto così da assicurarsi che non ci fosse nessuno nelle vicinanze, prima di scendere con un balzo agile. Jace e Alec lo seguirono, ma soltanto dopo aver attivato una delle loro rune. Il salto non era poi così alto, appena qualche metro (forse una decina), ma sufficiente a farsi del male. Probabilmente avrebbero fatto meglio ad aggirarlo, ma ci avrebbero messo davvero troppo e l’odore del sangue s’intensificava proprio lì. Quando arrivarono giù di sotto, però, non trovarono niente di rilevante. Non c’era traccia di corpi né di sangue, né tantomeno di vampiri. Simon provò ad allontanarsi in più direzioni, ma l’odore ogni volta si disperdeva. Ovunque fossero quei vampiri era nei pressi del ponte, anche se non capiva proprio dove si nascondessero.
«Viene da qui e prosegue da quella parte» disse, indicando proprio l’interno del muro di pietra che faceva da basamento e che si era ritrovato ad annusare poco prima, magari alla ricerca di qualche passaggio segreto. Sì, aveva visto troppe volte i film di Indiana Jones, ma che poteva farci se gli veniva istintivo pensare a cosa avrebbe fatto Indy in una situazione del genere? Alec e Jace avevano preso a rovistare lì attorno, ma quando Simon indicò loro le pietre del muro di mattoni, lo raggiunsero iniziando a cercare. Fu Jace a notarla, una grata posta sul terreno, una sorta di tombino aperto, dal quale ci sarebbe potuto passare comodamente un uomo adulto, che conduceva probabilmente alle fogne. Simon si diede dello stupido, certo, l’odore non arrivava dal muro, ma dal terreno. Erano nei bassifondi del parco e da dove altro avrebbero potuto rapire quelle persone anche di giorno, se non da un antro buio? Senza nessuna esitazione, Simon tolse la grata lasciandola da parte e si calò giù di sotto.
«Seguitemi!» disse, atterrando in un condotto umido che tanto assomigliava a quelle fognature di New York che ben conosceva e nelle quali aveva trovato Caino. Questo non era granché diverso, era buio e umido e faceva abbastanza schifo, l’acqua sul fondo gli bagnava scarpe e pantaloni e questa volta invece di Isabelle c’erano i suoi fratelli, ma non poteva davvero lamentarsi. Se non fosse stato per quel forte profumo che iniziava francamente a nausearlo, si sarebbe goduto quella situazione magari facendo una qualche battuta. E poi avere le zanne costantemente sguainate non gli piaceva, lo faceva sentire in imbarazzo come una bestia che non ne ha mai abbastanza e che non riesce a controllarsi.


«Tuttobene?» gli domandò Jace, dopo che lo ebbe raggiunto intanto che Alec controllava le retrovie. Avevano attivato quella runa grazie alla quale potevano vedere anche al buio, ma in effetti non c’era nulla da vedere là sotto. Una debole luce filtrava dal buco dal quale erano entrati e nessun altra luce si vedeva in lontananza. Inoltre, là sotto non c’era nessuno se non ratti.
«Mi sta venendo da vomitare e non riesco a ritrarre le zanne perché il sangue mi manda su di giri, ma a parte questo tutto bene e tu?»
«Sono nel corpo di mio fratello, appena sveglio Magnus mi ha chiesto di fare sesso con lui e ora sono qui con te. Come credi che stia?»
«Una giornata noiosa insomma» rise Simon, svoltando in un condotto verso destra. Aveva scelto quella direzione e non di andare a sinistra, più che altro per istinto. Laggiù era tutto confuso, non poteva più affidarsi alla direzione del vento. Gli odori erano mischiati e l’acqua lo confondeva. Non era sicuro di star prendendo la strada giusta, ma era sicuramente meglio che restare fermo e poi Jace pareva dell’umore di parlare, almeno non si sarebbe annoiato.
«E così hai avuto un bel risveglio, eh?»
«Diciamo solo che Magnus è molto attivo la mattina!»
«Vi sto ascoltando, lo sapete?» borbottò Alec che stava qualche passo indietro rispetto a loro e che aveva alzato appena un poco la voce «vedete di concentrarvi sulla missione, invece che chiacchierare di sciocchezze.»
«Non so se sono sciocchezze, fratello, ma tuo marito che mi chiede se voglio un pomp...»
«Sssh» lo zittì nuovamente Alec, ma questa volta spinto non tanto dall’imbarazzo, quanto invece attirato da un rumore che proveniva da circa una cinquantina di metri avanti a loro. Anche Simon si era zittito, in quel punto l’odore di quel sangue così particolare diventava molto più forte, ma c’erano anche delle voci poco lontane, arrivavano dal fondo di quel canale. Erano parecchie e sembravano concitate, inoltre c'erano anche odori diversi, se c’erano dei vampiri dovevano essere più di uno. E loro erano soltanto tre. Era un miracolo se non li avevano già sentiti. Istintivamente Simon guardò alle proprie spalle, Alec e Jace non avevano indietreggiato, al contrario avevano attivato la runa dell’ascolto e, in silenzio e armi in mano, si erano zittiti. Era così diversa ora l’atmosfera rispetto a poco prima, che Simon ebbe quasi un brivido che gli percorse la schiena. Era paura ed eccitazione, quel brivido che mai in vita sua aveva provato, ma che da quando era diventato un vampiro sentiva spesso le volte in cui l’adrenalina gli accendeva un qualcosa dentro. Ci sarebbe stata una lotta e sangue, sangue ovunque. Era ora di combattere.




 

Continua




 

*Ci sono tipo duecento milioni di ponti del genere a Central Park, per curiosità ho guardato varie fotografie e molti di questi passano sopra al fiume, altri invece sopra ad altri viali. Non ne voglio indicare nessuno in particolare, una libertà narrativa, fingiamo che uno abbia un passaggio che conduce in dei famigerati sotterranei. Tutto inventato da me, ovviamente.



Note: Un grazie a chi sta ancora seguendo la storia, non manca molto al finale (due, forse tre capitoli), lo giuro e poi mi dedicherò a un altro progetto, sempre qui in Shadowhunters, a cui sto già lavorando e al quale tengo tantissimo. Nel frattempo ringrazio chi ha letto sino a qui, chi ha recensito e a chi sta seguendo la storia.
Koa

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Capitolo 6
*** Due cuori che battono all'unisono ***


Due cuori che battono all’unisono



 

Jace ricordava la vita prima di diventare il Parabatai di Alec Lightwood e se avesse dovuto usare una sola parola per descriverla, avrebbe detto che era incompleta. Contrariamente a quanto era stato convinto per una buona parte della sua vita accanto ad Alec, il loro rapporto non era mai stato davvero perfetto. Più di una volta era stato troppo cieco per notare quanto suo fratello stesse male e tanto che, dopo l’arrivo di Clary, riuscire a tener saldo il legame era stato difficile. Ora però non poteva immaginare la propria esistenza senza sentirselo là dentro, da qualche parte tra stomaco e cuore. Se Alec si feriva, Jace sentiva il suo dolore e quando era felice percepiva come un senso di beatitudine sfarfallare nella pancia. Saperlo in pericolo lo faceva stare in ansia e, le volte in cui era capitato di dover stare lontano da lui, era diventato intrattabile. Lottare al suo fianco, invece, lo faceva sentire ancora più potente. Spesso si erano ritrovati in combattimento da soli contro decine di demoni spietati e ogni volta si era sentito come se avessero potuto contrastare eserciti interi. Si proteggevano le spalle a vicenda, si davano coraggio e soltanto quando erano uniti riuscivano a dare il meglio di loro stessi. Ed era così intensa e profonda quell’unione che spesso faticava a ricordare chi fosse prima di entrare a far parte della famiglia Lightwood. Era come se, prima che un fratello Silente lo marchiasse con la runa, Jace non avesse vissuto per davvero, quasi ogni cosa avesse acquistato un proprio senso logico unicamente dopo aver formato il legame Parabatai. Per Alec sarebbe morto, Jace l'aveva sempre saputo e non si era mai vergognato di ciò che provava per lui. Eppure, quando quel mattino si era svegliato nel letto accanto a Magnus, era rimasto sconvolto. Aveva giurato di stare vicino a suo fratello finché avesse avuto vita, ma non aveva mai messo la firma per niente del genere. Ora, però, il problema non si limitava più soltanto a quello, era l’intera situazione a farlo sentire scomodo, come se fosse a disagio ad abitare un corpo che non percepiva come proprio. Conosceva Alec meglio di quanto probabilmente non riuscisse a fare con se stesso, ma camminare nelle sue scarpe era un qualcosa che non aveva ancora fatto sentire Jace pienamente padrone di sé. Parlava, certo e ragionava anche. Si muoveva con una certa velocità e in maniera fluida e roteava gli occhi quando Simon faceva una qualche stupida battuta, ma si sentiva come se fosse sospeso da qualche parte tra se stesso e il proprio Parabatai. Dover prendere decisioni per le vite degli altri, dover firmare rapporti, parlare di politica, pensare al bene della comunità e ancora affrontare l’espressione innamorata sul volto di Magnus, contornata da un velo di terrore che Jace aveva avuto il sentore sobbollisse dietro i suoi occhi nocciola, non soltanto non erano stati d’aiuto ma lo avevano profondamente turbato. Così come gli sguardi carichi di disapprovazione e spesso anche di disgusto, che altri Shadowhunters gli rivolgevano o che, peggio, rivolgevano a Magnus e che gli avevano fatto provare il desiderio di menare le mani a destra e a sinistra. Questa, poi, era la parte che lo aveva sconvolto perché era sempre stato così preso da se stesso da non essersi mai accorto di nulla. Sapeva che il Clave aveva applaudito al matrimonio e che molti a Idris si erano dichiarati felici del fatto che il membro di una onorabile famiglia come i Lightwood avesse ufficialmente sposato un Nascosto, ma sapeva anche che non tutti la pensavano allo stesso modo. D’altronde, quando Valentine aveva fondato il Circolo e aveva iniziato a proclamare i suoi ideali di supremazia sui Nascosti, in molti lo avevano seguito e parte di queste persone sedeva ancora al proprio posto di comando e, sebbene ora tacessero, non avevano mai realmente cambiato idea. Era simili pregiudizi che Alec e Magnus tentavano ogni giorno di abbattere e a Jace era stato sufficiente un solo mattino per rendersi conto che quella vita che aveva dichiarato di voler vivere al loro posto, poiché perfetta, perfetta non lo era affatto. Al contrario aveva sedato a fatica il desiderio di spaccare la faccia a quello che lo aveva guardato con aria di rimprovero, come se lo stesse giudicando per le sue scelte di vita. Non lo aveva appeso al muro solo perché Alec era stato categorico in merito ai pugni, dichiarando che gli Shadowhunters non si pestano per alcuna ragione. Probabilmente era anche per la consapevolezza d’essersi sbagliato su Alec e Magnus, oltre che per il disagio che sentiva ad avere le rune in posti differenti o a essere così dannatamente alto, che sino ad allora si era sentito come se portasse delle vecchie scarpe di Alec troppo larghe perché gli calzassero a pennello. Eppure era andato avanti, sebbene per una volta l’istinto gli suggerisse di non scendere in battaglia, ma di fare l’impossibile pur di tornare ai loro rispettivi corpi. Non lo aveva fatto, non si era fermato, ma unicamente per senso del dovere e perché il suo Parabatai aveva ragione, erano Shadowhunters e avevano un’unica importante missione: uccidere demoni. Era stato con quello spirito in corpo che Jace lo aveva seguito prima da Simon e poi lungo i viali di Central Park e ora si stava addentrando al suo fianco in uno dei covi di vampiri più nutriti che avesse mai visto. E non si era mai sentito meglio.

 

 

Quando si rese conto che alla fine di quel condotto buio ci sarebbe stata una battaglia da affrontare, Jace Herondale aveva sentito distintamente un brivido corrergli giù lungo la schiena. Le mani si erano strette saldamente attorno alla spada angelica mentre i sensi si tendevano al pari del suo corpo statuario. Il covo era ancora relativamente lontano, sebbene in un primo momento fosse sembrato a una distanza piuttosto breve, in realtà si trovava ad almeno un centinaio di metri. Grazie alle rune riuscivano non soltanto a muoversi in quella totale assenza di luce, ma anche ad ascoltare. E fu grazie a ciò che riuscirono a sentire che si resero conto che di vampiri dovevano essercene almeno venti, forse persino di più. E c’erano anche dei mondani, molti dei quali ancora vivi, almeno secondo il naso di Simon, il quale sosteneva che i vampiri se ne stessero cibando proprio in quel momento. Il primo istinto di Jace fu quello di arrivare là di soppiatto e sguainare la spada angelica, tagliando teste a destra e a sinistra, eppure più muoveva passi in avanti e più si rendeva conto che erano soltanto in tre. Per quanto avesse il proprio Parabatai accanto e fosse certo che potessero cavarsela alla grande, sapeva che avevano uno svantaggio tattico non indifferente e che non avrebbero dovuto sottovalutare. Avrebbero dovuto organizzarsi per bene, ma se volevano salvare delle vite non avrebbero potuto chiamare dei rinforzi dall’Istituto. Una squadra ci avrebbe impiegato del tempo prima di organizzarsi e poi avrebbero certamente fatto rumore per arrivare sin lì, troppo perché una ventina di vampiri non li sentissero.
«Chiamo Magnus» sussurrò Alec, quasi gli avesse letto nel pensiero e avesse intuito i suoi ragionamenti.



 

Da Alec:
(Ore 14:21)

Abbiamo bisogno del tuo aiuto.
Ci saranno almeno venti vampiri in questo covo.

 

Da Magnus:
(Ore 14:22)

 

Vengo subito, Alexander.
(E per una volta non è un doppiosenso...)


Da Alec:
(Ore 14:22)

Riesci a rintracciarmi con la tua magia?


Da Magnus:
(Ore 14:23)

Già fatto, cucciolo mio.



 

Magnus non impiegò che qualche istante per raggiungerli. Aprì un portale una ventina di metri più indietro rispetto a dove si trovavano, sostenendo che fosse più sicuro, dato che i figli della notte erano famosi per avere un buon udito. Quando arrivò, Jace vide chiaramente lo sguardo di Alec allargarsi per la gioia e un moto di felicità e serenità, agitarsi dentro al proprio stomaco. Niente di diverso da quanto percepiva di solito da Alec, almeno negli ultimi tempi, ma vedere quel sentimento così totalizzante da vicino era decisamente un’altra cosa. Ne aveva avuto un piccolo saggio quella mattina, ma era stato così sconvolto dall’accaduto che non si era soffermato a notare la profonda reverenza che provavano l’uno per l’altro. Vederli, ora, era come se avesse reso la sua consapevolezza ancora più concreta. Aveva il sentore di poter toccare il loro amore da vicino, di sfiorarlo con le punte delle dita e quella sensazione gli agitò moti di malinconia dentro al petto. Ogni volta che pensava a Magnus e Alec, non poteva non ricordarsi di Clary e del modo in cui gli era stata strappata. Perché era questo ciò che pensava davvero, nonostante a livello razionale sapesse che lei aveva preso le proprie decisioni con coscienza, ben sapendo cosa le sarebbe accaduto se avesse usato di nuovo una delle sue rune, non poteva non dare agli angeli la colpa di tutto quello. Prima le concedevano un potere tanto straordinario e poi si permettevano anche di arrabbiarsi, quando questo veniva utilizzato? Non riusciva ad accettarlo perché, nella sua testa, non aveva alcun senso e più rimuginava su questo, più si rendeva conto che forse la situazione in cui lui e Alec si trovavano era colpa sua. Avevano stabilito che non potesse essere una punzione e forse non lo era, ma magari era un modo contorto che avevano di mostrargli un qualcosa. Gli angeli sapevano per certo cosa gli stesse passando per la mente, il suo non riuscire ad accettare la sorte toccata alla donna che amava, l’invidiare la vita di Alec pur sentendo buona parte del suo dolore e della frustrazione che provava, dovevano averli spinti ad ascoltare quel desiderio. Jace non aveva dimenticato di aver espresso la volontà di vivere la vita di suo fratello, almeno per un giorno. Ci aveva pensato sopra per un attimo da mezzo ubriaco prima di addormentarsi, ma non avrebbe mai pensato che la sua preghiera sarebbe stata ascoltata. E ora, notando il modo in cui Magnus tratteneva le dita, stringendole in un paio di pugni stretti così da non dover accarezzare Alec come chiaramente voleva fare, non poteva che sentirsi in colpa. Tutto quello era successo a causa sua. E sarebbe arrivato il momento in cui avrebbe dovuto dirglielo.


«Ci servirà un piano» disse Simon, interrompendo il flusso di pensieri di Jace che si riscosse con un brivido. Era ancora in un condotto buio sotto Central Park e c’era ancora un covo di vampiri a un centinaio di metri di distanza, non poteva dimenticarsi di una cosa del genere. Simon senz’altro non lo aveva fatto, considerato che, per tutto il tempo, aveva tenuto sotto controllo il fondo di quel tunnel. I vampiri non si erano mossi da lì e con ogni probabilità non l’avrebbero fatto sino a quando i mondani di cui si stavano nutrendo non sarebbero stati tutti morti.
«Ho trovato» aggiunse quindi, non permettendo agli altri di avanzare qualche teoria circa il da farsi. Jace aveva un paio di idee, in effetti, ma Simon sembrava desideroso di proporre le proprie. «Vado da solo» aggiunse il vampiro, scatenando nell’immediato la loro disapprovazione. Era fuori discussione che riuscisse a farcela da solo, era veloce e anche piuttosto capace, e Jace lo sapeva perché l'aveva visto più volte in azione, ma niente gli avrebbe mai fatto credere che ce l’avrebbe fatta davvero da solo contro un intero covo di succhiasangue.
«Credo tu abbia bevuto del sangue andato a male, Bob Dylan» lo rimproverò Magnus con una punta di sarcasmo che fece sorridere Jace. «Perché è chiaro che sei impazzito del tutto.»
«Andrò lì e dirò che ho sentito di un covo da queste parti e che avevo fame, il che non è poi così lontano dalla realtà. Sono come loro, giusto? Non potranno farmi niente.»
«E dov’è la parte in cui arriviamo noi a prenderli a calci nel culo?» sussurrò Jace, intanto che stringeva meglio tra le dita la spada angelica.
«Beh, quella è da perfezionare in effetti.»
«Basta» tuonò Alec con determinazione, zittendo nell’immediato Simon e Jace che avrebbero di certo ripreso a battibeccare e non avevano di sicuro il tempo per star lì a discutere. «Ecco cosa faremo.» Proseguì con quel cipiglio autoritario per il quale Magnus si ritrovava sempre ad avere un debole. Non lo vedeva da qualche ora e già gli era mancato terribilmente perché sì, anche coi capelli biondi suo marito riusciva a essere straordinariamente fantastico. E quando entrava in “modalità Shadowhunter” era in grado di fargli calare le mutande alla velocità della luce. Peccato che non fossero da soli e dietro l’angolo, una ventina di vampiri assetati stessero uccidendo dei poveri innocenti.
«L’idea di Simon non è male, andrai là e farai quello che hai detto. Che hai sentito parlare di questo posto e ci sei venuto, resta sul vago e assicurati che non facciano troppe domande. E non bere niente da quegli umani, oltre ad avere guai col Clave, hai detto che sentivi uno strano odore e può esserci di tutto in quel sangue. Non sappiamo quali reazioni potresti avere.»
«Non sarà un problema, so tenere a freno la sete di sangue» annuì Simon con convinzione. Era più che certo di farcela, perché più passava del tempo là sotto e più stava male. Non vedeva l’ora di togliersi di torno e tornare in superficie a respirare aria fresca. Sì, forse non a respirare dato che era morto, ma perlomeno ad annusare odori migliori ecco.
«Non capisco cosa ci sia di diverso rispetto quello che ha detto il nostro amico denti aguzzi poco fa» lo rimbrottò Magnus il quale, nonostante il suo cucciolo riuscisse essere dannatamente sexy persino in quel corpo, in quel momento non riusciva a distogliere lo sguardo dal punto in cui una luce si allargava. Quei figli della notte dovevano essersi costruiti una sorta di rifugio, là dentro, perché c’era della corrente elettrica e probabilmente anche uno spazio piuttosto ampio, sufficiente per starci in una ventina di persone.
«La differenza saremo io e Jace. Simon gli dirà che già che c’era ha portato del cibo in più. Magnus penserà alle corde, fingeremo di essere tuoi prigionieri e una volta dentro...»
«Non che non abbia mai pensato di legarti, pasticcino, ma sei forse impazzito?» gli chiese, visibilmente spaventato.
«Tu rimarrai a poca distanza e al momento giusto ci slegherai» gli rispose Alec, con decisione, dando prova di aver pensato a tutto. E aveva quell’espressione in viso di chi sa perfettamente quello che fa, alla quale nemmeno Magnus Bane, l’ex sommo stregone, eccetera, eccetera, avrebbe potuto dire di no.
«D’accordo» annuì con uno sbuffo «ma di questa cosa del legarti ne riparliamo, fiorellino, perché vanno rivisti i nostri accordi matrimoniali.»
«Per favore, potreste evitare?» domandò Simon, nauseato «mi state facendo venire da vomitare da quanto siete sdolcinati, come se l’odore che c’è qua sotto non ci pensasse già da solo.» Alec non fece in tempo a replicare a Magnus né a sottolineare che loro non erano affatto sdolcinati, perché Simon imboccò subito il corridoio in direzione del punto in cui una luce si allargava senza dare a nessuno alcuna possibilità di replica. Magnus fece apparire magicamente delle corde, grazie alle quali aveva unito assieme le mani sue e quelle di Jace, che si ritrovarono a camminare a stretto contato. Stava succedendo, per l’ennesima volta stavano andando contro alla morte e nonostante non fossero davvero soli, Alec sentiva che in quel momento esistevano soltanto loro. Lui e il suo Parabatai.


 

Ogni volta che lottava al fianco di suo fratello, Jace provava una forte sensazione di unione. Il suo cuore e quello di Alec si allineavano, battendo allo stesso identico ritmo. I pensieri fluivano tutti nella medesima direzione, focalizzati sulla lotta alla stessa maniera dei suoi sensi. Ogni cellula di sé vibrava e si muoveva al medesimo respiro di quelle di Alec. Sapeva come suo fratello si sarebbe mosso di fronte a un attacco, perché conosceva a memoria il suo modo di combattere ed era certo che gli avrebbe protetto le spalle. Era sicuro che le sue frecce sarebbero arrivate dove la sua lama angelica non sarebbe riuscita a toccare. Erano soltanto vampiri, quelli alla fine del condotto buio che si snodava sotto ai viali di Central Park e Jace Herondale sapeva che in un passato anche molto recente avevano affrontato situazioni ben peggiori di quella. Eppure si sentì ugualmente vibrare dentro. La sua mano andò a sfiorare quella di Alec, che sollevò lo sguardo in sua direzione e prese a guardarlo intensamente negli occhi. Sapeva che stava provando le stesse sue sensazioni, che aveva il medesimo timore che quello scambio di corpi avrebbe impedito loro di muoversi come facevano di solito. Erano un meccanismo ben oliato, loro due, che scandiva con precisione i secondi allo stesso modo di un buon orologio. Lo erano sempre stati, ma lo sarebbero stati anche ora? Sarebbe stato capace di lottare in un corpo che non era il proprio e senza sentirsi pienamente vivo e padrone di sé? Aveva paura sì, anche se non l’avrebbe mai ammesso temeva di ferire il corpo di Alec in qualche modo. Temeva, in fin dei conti, di aver rovinato con i suoi stupidi desideri una delle poche cose belle che gli era rimasta, il legame col proprio Parabatai.

 

«Salve, ragazzi!» Simon trillò la voce con tono festoso, quasi si stesse trovando a una festa piena di persone simpatiche e non di fronte a una ventina o più di vampiri assetati. E lo fece sorridendo ampiamente, sedando a fatica l’ennesimo moto di nausea che gli aveva stretto la bocca dello stomaco. Più si avvicinava a quei mondani e più provava un senso di fastidio non ben definito dentro, che tuttavia andò pian piano schiarendosi. In superficie aveva sentito soltanto uno strano odore, anche piuttosto vago e che, proseguendo nelle fogne, si era intensificato. Ora però che era finalmente giunto nel covo e che vedeva siringhe e fiale contenenti una qualche tipo di sostanza, gli fu finalmente chiaro cosa stesse succedendo. Li avevano drogati, probabilmente per sballarsi perché il sangue di un individuo tendeva ad assorbire le sostanze come fosse una spugna. Era la cosa più stupida del mondo, si rese conto Simon ricordandosi di quanto era andato fuori di testa con del semplice plasma. Era stupido e ridicolo, oltretutto e lo odiava perché lui detestava la droga, non l’aveva mai sopportata e tanto che quando sua madre aveva avuto il sospetto che si stesse drogando, si era quasi indignato domandandosi se l’avesse mai conosciuto davvero. Prima ancora di essere un vampiro diciannovenne, Simon Lewis era stato un adolescente ipocondriaco. A quattordici anni si era studiato tutti gli effetti che l’uso di certe sostanze produce sull’organismo e ne era uscito così spaventato, d’aver giurato a se stesso di non arrivare mai ad assumere quella roba. Ora che sentiva il puzzo del sangue di quei mondani, tanto diverso dall’odore che aveva di solito, in un imperfetto controsenso si ritrovò a sorridere senza riuscire davvero a trattenersi. *
«Che hai da ridere, idiota?» gli domandò una vampira dai corti capelli biondi e che non conosceva e che aveva la sensazione fosse la capa di quel clan, dopo che si fu sollevata dal corpo di una ragazza che non doveva avere neppure quindici anni. Cavolo, non li sopportava quando si cibavano dei bambini! E avrebbe volentieri iniziato a pestarli tutti, se non avessero avuto un piano da seguire e la certezza che Alec e Jace le avrebbero fatto il culo a stelle e strisce.
«Scusate, sono un maleducato, mi chiamo Simon Lewis.»
«Chi?» domandò un altro vampiro, guardandolo con diffidenza. Era più anziano, nell’aspetto, forse sulla quarantina e aveva una chioma di capelli rossi, raccolti in una coda.
«Simon? Il diurno? No? Niente? Ad ogni modo sorridevo perché voi ragazzi mi avete fatto tornare in mente un episodio della mia vita e vorrei raccontarvelo, se avete un momento prima di tornare al vostro delizioso banchetto. Avevo un’amica che si chiamava Frey e una volta uscii di casa alle tre del mattino, scesi in strada per andare bussare alla sua finestra. Prima che ve lo chiediate: niente serenata romantica o cose del genere, ma è che avevo appena finito di fare una ricerca su internet e dovevo assolutamente dire a Frey quello che avevo trovato. Sapete, avevamo un compagno di classe che si chiamava Travis Grant e che era notoriamente un fattone, avevo bevuto per sbaglio la sua aranciata un venerdì e avevo passato un fine settimana orrendo, convinto di esser diventato un drogato. Sono sempre stato un po’ ipocondriaco, in effetti e paranoico anche. Beh, la domenica notte andai da Frey, passando per un vicolo che conoscevamo soltanto io e lei. Salii per le scalette e bussai alla sua finestra, le raccontai tutta la storia di Travis e del fatto che fossi convinto di essere anch’io un drogato, ma quando vide che ore fossero non soltanto mi mandò al diavolo, ma mi tirò un pugno in faccia spaccandomi gli occhiali. Manesca dite? Mh, sì, Frey non c’è mai andata troppo per il sottile. Il giorno dopo si giustificò dicendo che era sonnambula, ma io sapevo che era una balla perché Frey era fatta così, non aveva mezze misure. O le piacevi o ti pestava, in effetti non mi stupisco che si sia innamorata del biondo ossigenato, considerato che non sono troppo diversi. Ma ad ogni modo, Frey era una Shadowhunters e loro sono fatti così, sapete? Prima ti picchiano e poi ti chiedono come stai ed è molto difficile catturarli, ma si dà il caso che ne abbia presi un paio e che ve li abbia portati, quindi se mi date i vostri mondani pieni di droga io vi offro loro due. Che ne dite? Facciamo questo affare?»

 

Dopo che ebbe finito di parlare, Simon Lewis si guardò attorno colto da un leggero imbarazzo, ancora sorrideva ma quei vampiri lo guardavano come se fosse impazzito. Ovviamente non avevano risposto, lo fissavano attoniti senza dire nulla e tanto che neppure avevano ripreso a cibarsi dei mondani. Se non avesse saputo per certo che non si possono ammaliare altri vampiri, Simon si sarebbe convinto di aver fatto loro una malia perché fissavano il vuoto come se fossero stati incantati. Era probabile che non avessero capito un bel niente di tutto quel discorso, ma non gli importava davvero perché si era ricordato di quella volta con Frey e poi, beh, il piano sarebbe andato a finire in un modo soltanto.
«D’accordo, questi non ne vogliono sapere. Magnus, sciogli le briglie.»
«Chi sarebbe ora questo Mag…» Ma la tizia bionda dai capelli corti non avrebbe mai finito quella frase, a Magnus fu sufficiente un istante per piombare fuori dal buio e un successivo schiocco di dita per far sì che le corde che tenevano legati Alec e Jace, scomparissero. Fu allora che i due Shadowhunters si scatenarono in quella che Simon avrebbe definito pura poesia, se fosse stato quel genere di persona che rende poetici certi momenti, ma lui non lo era e di conseguenza si limitò a notare il modo armonioso in cui si muovevano e a farlo con una certa ammirazione. Era come se si fossero messi d’accordo in precedenza su che cosa fare e come muoversi, tanto pareva un balletto per studiato. Un passo a due, ma con lame angeliche, teste di vampiro che volavano e corpi che si volatilizzavano finendo in cenere. E in polvere ne finirono parecchi, dato che in quel covo in un secondo momento avrebbero stabilito che ce n'erano più di trenta. Ma sulle prime, Jace e Alec si limitarono ad afferrare le spade e a muoversi con quel perfetto coordinamento che li rendeva due Parabatai affiatati ed eccezionali. Alec riusciva a sentire in maniera molto chiara Jace muoversi al proprio fianco. Quando era certo che si sarebbe esposto verso destra, lui gli proteggeva il fianco sinistro, affondando la lama nel cuore di uno di quei vampiri. Quando, al contrario, si diceva sicuro che avrebbe attaccato frontalmente dal basso, Alec lo guardava dall’alto come un angelo protettore. Lottavano dandosi le spalle, schiena contro schiena e con Jace che sorrideva beffardo perché infuocato dello spirito della battaglia che gli bruciava nel petto, agitando il volto pallido di colui che di solito non aveva una simile espressione addosso.
«Io sono a dodici e tu, fratello?» gli chiese Jace, sorridendo appena intanto che faceva roteare la lama angelica.
«Undici, ma mio marito ne ha uccisi una decina quindi vinciamo noi.»
«Lascia fuori lo stregone, questa è una gara tra me e te» ribatté Jace, tagliando un’altra testa a uno di quei vampiri e aggiungere quindi un’altra tacca «tredici.»
«Non sapevo stessimo facendo una gara anche su questo» mormorò Alec, allungando la lama angelica in direzione di un paio di vampiri che erano corsi in sua direzione e che aveva ucciso contemporaneamente «dodici e tredici, fratello. Ora siamo pari.»
«Ah, sono finiti!» si lamentò Jace, notando che non era rimasto più nessuno se non quella stessa bionda dai capelli corti che aveva dato loro l’impressione di essere il capo di quel clan e che Magnus teneva inchiodata al muro con la sua magia.
«Pari, fratello» annuì Alec, avvicinandosi a quella donna dai denti sguainati e grondante di sangue che ringhiava prepotentemente in loro direzione, lanciando loro più di un improperio a un Jace che la stava arrestando con tutte le formalità del caso.
«Ti dichiaro in arresto per ordine del Clave per l’omicidio di dieci mondai e per il tentato omicidio di altri cinque» dichiarò Jace, dopo che si fu avvicinato intanto che Alec comunicava a Underhill il successo della missione. Da quel momento in avanti tutto sarebbe stato di routine, avrebbero trasportato quei mondani in ospedale e fatto in modo che nessuno sapesse cosa fosse successo loro. Avrebbero stilato dei rapporti e condotto quella vampira fino a Idris, dove sarebbe stata processata per omicidio. Ma nel frattempo, intanto che Alec accorreva accanto ai corpi di quei mondani, di modo da accertarsi che fossero ancora in vita, si disse che non era andata affatto male nonostante tutto. Lui e Jace se l’erano cavata, come facevano sempre. Ora avrebbero dovuto soltanto mettere a posto le cose e tornare ognuno nel proprio corpo.





Continua





 

*Nonostante io conosca piuttosto bene il mondo letterario dei vampiri, non ho mai letto niente del genere (anche se ovviamente potrei sbagliarmi), ma prendendo ispirazione da Buffy l’ammazzavampiri e da una scena in cui dei vampiri uccidono un signore anziano con il diabete, sostenendo che sapesse di rancido, ho pensato che se il sangue contiene della droga, li facesse in un certo senso sballare. Simon sostiene che sia un modo stupido per farlo, e io sono pienamente d’accordo con lui.


Note: La storia che Simon racconta su lui e Frey è inventata da me, non so se esista un riferimento simile nei libri (ho appena iniziato Città di Ossa), ma l'ho trovato verosimile. Ringrazio tutte le persone che stanno seguendo questa storia. Col prossimo capitolo penso che la chiuderò, forse metterò giù un breve epilogo, ma sarà un “in più”, intanto grazie per essere arrivati sin qui.
Koa

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Capitolo 7
*** Sarò sempre il tuo Parabatai! ***


Sarò sempre il tuo Parabatai!



 

Le faccende burocratiche dell’Istituto assorbirono così tanto Jace che rientrò nell’appartamento di Magnus soltanto nella tarda mattinata del giorno successivo. Una parte di lui aveva sperato di riuscire a sbrigarsela in poco tempo, ma una volta risolta la faccenda dei vampiri a Central Park e smantellato definitivamente quel covo, era stato assorbito così tanto da questioni pratiche e quindi politiche, che non aveva avuto un istante di respiro. E per quanto Alec gli fosse rimasto accanto per gran parte del pomeriggio, suggerendogli spesso il da farsi, c’erano cose che il capo dell’Istituto doveva fare senza l’aiuto di nessuno, nemmeno quello del proprio Parabatai. E suo fratello, d’altronde, lo sapeva meglio di chiunque e tanto che a un certo punto aveva preferito andare a casa da Magnus, così da dargli una mano a trovare la giusta modalità per far ritorno ognuno nei propri corpi. Si erano salutati che erano da poco passate le sei ed era stato attorno a quell’ora che il caos era scoppiato. La notizia che un nuovo covo era stato stanato nel pieno centro di Manhattan si era così diffusa nel Mondo Invisibile, che era stata necessaria una riunione d'emergenza del consiglio. Sedare l’ira di Maia, per Jace era stato tutto tranne che semplice, soprattutto quando l’Alfa del branco di New York aveva minacciato di far saltare gli accordi, scatenando di fatto una nuova guerra, se i vampiri non fossero stati puniti per averli a loro volta violati. Jace non sapeva nemmeno lui come fosse riuscito a farla calmare o a farle capire che i vampiri di quel covo erano tutti outsider e che erano stati già uccisi o arrestati. Maia non ne aveva voluto sapere, impuntandosi sino a quasi lasciare l’Istituto e soltanto dopo ore di estenuante riunione, la situazione si era placata. Era già passato mezzogiorno, dunque, quando riuscì finalmente a sganciarsi da ogni impegno e a filarsela dall’Istituto, nella speranza di non venire nuovamente richiamato. Il lavoro non era affatto diminuito, ma in quanto capo poteva prendersi una pausa da ogni impegno almeno per qualche ora, il tempo necessario per sistemare una volta e per tutte quella faccenda. Soprattutto perché, col passare delle ore, la situazione tra Alec e Magnus era diventata inaspettatamente tesa. Non che glielo avessero esplicitamente detto, Jace era semplicemente riuscito a percepire l’ansia e la rabbia di Alec farsi largo dentro di lui. Doveva esserci stata anche una mezza litigata, anche se suo fratello non era stato granché preciso nel racconto. Tutto ciò che aveva capito era che lui e Magnus avevano faticato a sedare la preoccupazione di un’ansiosa Maryse che, intuita la verità, era piombata nel loro loft proclamandosi come terribilmente preoccupata per i suoi bambini. La lite che ne era seguita, dopo che erano riusciti a rispedirla casa (anche grazie all’intervento di Luke), Alec gliel’aveva raccontata come un diverbio da nulla, minimizzando inutilmente una situazione che doveva essersi però fatta piuttosto spinosa. Come si era già detto più volte, non era necessario che il suo Parabatai scendesse nei dettagli per fargli capire sino a che punto quei due fossero tesi. Portare avanti un matrimonio non era mai semplice per nessuno, Jace non era mai stato sposato e il suo unico esempio a riguardo erano Robert e Maryse, che comunque avevano divorziato, ma ne sapeva abbastanza di relazioni d’esser certo che non fosse facile accettare che la persona amata avesse un altro aspetto. Quello di Jace, oltretutto. Particolare non da poco se si considerava che era stato proprio lui a domandar loro il favore di non baciarsi, cosa che col proseguire delle ore lo aveva fatto sentire ancora più in colpa. Alec non aveva chiesto di vivere nel corpo di un altro, ci si era ritrovato dentro e ora stava pagando il prezzo più alto di tutti.


Fu con espressione stravolta e umore nero, che Jace varcò la soglia del loft di Brooklyn. Era sfinito da tutte le discussioni che aveva ascoltato nelle ultime ore, e in più aveva fame. Il suo non aver dormito neanche per cinque minuti, e l’aver probabilmente abusato della runa della resistenza, era perfettamente intuibile dai cerchi neri sotto agli occhi e lo sguardo assonnato. Camminava quasi trascinandosi, tanto che non sapeva davvero come avesse fatto ad arrivare sin lì in così poco tempo.
«Ragazzi, mi dispiace se ci ho messo tanto» esordì, appena dopo averli raggiunti in soggiorno premurandosi prima di bussare, com’era sempre meglio fare prima di entrare a casa di Magnus Bane.
«Oh, non ti preoccupare, caro» borbottò il padrone di casa sbucando dalla camera da letto e agitando una mano a mezz’aria, come a non voler dare troppo peso alla cosa. Se Alec aveva un aspetto terribile, con tanto di occhiaie e capelli in disordine (che Jace ipotizzò essere una prerogativa della sua anima, perché non ricordava di esser mai stato tanto spettinato in tutta la vita), suo marito era invece perfetto come al solito. Portava un completo scuro e una camicia violetta con qualche strass che la rendeva appena un poco luminosa. Aveva i capelli dritti e ben ingellati, occhi truccati con un ombretto che scintillava per via dei glitter e poi ancora smalto nero, anelli e orecchini, in quello che era il quadro perfetto del Magnus Bane che aveva conosciuto. Osservandolo di sbieco da dietro un ciuffo ribelle che gli scendeva di continuo sugli occhi, Jace si chiese se ci fosse un momento della giornata in cui non fosse sempre così dannatamente splendente. Lo era a tal punto, in quel suo sorridere ironico e nello sguardo pungente di malizia, che non pareva neppure che lui e Alec avessero litigato.
«Abbiamo avuto di che discutere nel frattempo» concluse lo stregone, aggiustandosi una ciocca di capelli che, almeno secondo lui, doveva essere fuori posto.
«Mi dispiace, è colpa mia!» ammise Jace, lasciandosi cadere sulla poltrona con espressione esausta, massaggiandosi quindi la radice del naso. Nel lasciarsi andare in quel modo, attribuendosi una responsabilità che parte sentiva di avere, si rese conto che probabilmente quella era la prima cosa realmente sincera che riusciva a dire da un mese a quella parte. Non che solitamente mentisse, ma non si era mai concesso di lasciarsi andare in quel modo. Era un po’ come quando stava con Clary, con lei riusciva sempre a non fingere, a non forzare se stesso indossando una maschera che lo rendeva molto più sopra le righe di quanto in realtà non fosse. Lasciarsi andare a un’espressione affranta e di assoluta stanchezza e farlo ora davanti ad Alec e Magnus, iniziando quello che era un discorso particolarmente spinoso, ebbe il potere di renderlo più sereno di quanto non si sarebbe mai aspettato di riuscire a essere. Alec lo avrebbe accettato comunque, Jace, questo, se lo sentiva dentro. E ciò nonostante un velo di paura gli corresse giù lungo la schiena in un brivido ghiacciato.
«Non lo è affatto, è questa situazione a renderci più nervosi. Mi sono arrabbiato perché mamma ha saputo la verità e, come potrai immaginare, è corsa qui preoccupata» concluse Alec, raggiungendo suo marito e accarezzandogli dolcemente la schiena. Dovevano aver fatto pace, rifletté notando le espressioni dolci sui volti di entrambi «ma ho capito che Magnus non aveva altra scelta.»
«Diciamo che ci sei arrivato dopo quasi dieci ore, fiorellino, ma va bene ugualmente» gli rispose questi sorridendogli intanto che, e Jace non riuscì a non notarlo, si tratteneva dal chiaro istinto di baciarlo. Non lo fece e di nuovo, così come era successo anche il giorno precedente, lo vide arretrare appena col busto e stringere le mani in due pugni serrati al punto che le nocche erano sbiancate. Non riuscì a non pensare a quanto dovesse essere penosa una simile situazione per loro due. Non che fossero due assatanati che pensavano soltanto sesso, anche se il mattino precedente, al risveglio, Jace era stato sfiorato dall’idea, ma si stavano trattenendo anche dall’esibirsi in dei semplici gesti come sfiorarsi le dita o baciarsi delicatamente in un saluto veloce. E ancora, notando quel lampo di sofferenza negli occhi felini di Magnus Bane, Jace non riuscì a non sentirsi in colpa.
«Soprattutto perché mamma è stata preziosa» annuì Alec, attirando con quella frase la sua attenzione. Era un bene che l’incontro con Maryse avesse portato a qualcosa di buono. Con quello che gli era successo durante la giornata e la notte intera trascorsa in riunione, non aveva più pensato a come avrebbero potuto risolvere le cose. Neanche ci aveva riflettuto dopo che tutto era finito perché, mentre si decideva a lasciare l’Istituto, aveva semplicemente sentito il bisogno di tornare da Magnus e Alec e non aveva più pensato a niente di concreto. Ma ora che c’era, e che poteva osservarli da più vicino notando la maniera in cui interagivano fra loro, si rendeva conto che quanto aveva fatto sino ad allora non era stato utile a nessuno. Al contrario, non aveva fatto un bel nulla perché assolvere ai compiti di capo dell’Istituto era stato un niente, se paragonato a quanto Magnus si era inventato per poterli aiutare o a quanto stesse sacrificando per loro. E forse non c’era poi molto che Jace potesse fare al momento, non in concreto almeno, però doveva almeno dirgli la verità o non sarebbe riuscito a concludere più nulla.


«Secondo lei l’unico modo per tornare quelli che eravamo è usare il legame Parabatai, è il più forte che esista e il solo che possa mettere le cose a posto. Dobbiamo attivare la runa con lo stilo e collegarci.»
«Un qualcosa di simile a quello che ha fatto Alexander per ritrovarti» spiegò Magnus, rivolgendosi a Jace, il quale annuì dando segno di aver capito, «ma questa volta sarete insieme e il vostro legame non rischierà di spezzarsi. Io vi aiuterò con la magia e potenzierò il contatto, facendo in modo che questo possa durare il più a lungo possibile, ma dovrete essere voi a fare tutto quanto il resto.»
«Esatto!» mormorò Alec, annuendo. Avrebbero dovuto congiungere le mani come facevano di solito per entrare in collegamento, tuttavia, Jace non si mosse da dove stava e ancora guardava suo fratello con l’aria di chi è certo di dover dire qualcosa, ma stenta a parlare. Si mordeva le labbra e sfregava ripetutamente i palmi delle mani sulle cosce, schiariva la voce, ma non un suono gli usciva dalle labbra. Nel mentre, in testa, gli si formava chiara la sensazione che niente di tutto quello avrebbe funzionato, se non si fosse prima spiegato con lui. D’altra parte erano stati i suoi pensieri a portare gli angeli a scambiare i loro corpi, giusto? Se anche avessero usato il legame Parabatai , non era detto che questo li avrebbe portati da qualche parte. Non poteva essere sicuro di niente, a dire il vero, perché la volontà degli angeli era così criptica da decifrare che poteva anche essere che la loro intenzione fosse quella di lasciarli così per sempre. Jace tuttavia si ritrovò a ragionare sul fatto che non aveva mai badato a quanto gli altri desiderassero o meno, e ora non aveva alcun motivo per agire diversamente. Era sempre stato mosso dal proprio senso di giustizia, comportandosi di pancia e in base a ciò che gli suggeriva l’istinto e quello, ora, gli urlava di dire tutta quanta la verità.
«Aspetta» mormorò con decisione, salvo poi abbassare gli occhi a terra quasi si vergognasse «c’è una cosa che vi devo dire.»  

 

A fronte di quella rivelazione e forse temendo per il peggio, Alec e Magnus si tesero, fermando sul nascere ogni intenzione di parlare e rimasero zitti l’uno accanto all’altro. La mano del primo era ancora intenta ad accarezzare la schiena dello stregone, in uno sfiorarsi innocente tanto quanto delicato. Non era tanto per quello che Jace aveva detto, ma era stata la maniera che aveva avuto di parlare, con quel tono che preannunciava chissà quale altra disgrazia, ad averli allarmati. L’occhiata che si scambiarono fu così rapida che nessuno di loro ebbe il tempo di soffermarsi a indugiare negli occhi dell’altro, di modo da carpire al meglio i rispettivi sentimenti, ma certo era che avessero pensato la stessa identica cosa. Alec si era detto sicuro che Magnus si fosse teso appena un poco, irrigidendo la postura intanto che negli occhi un lampo di ansia gli divorava lo sguardo. Magnus si disse invece convinto di aver notato in Alec la consueta postura militare, che era solito assumere quando le situazioni diventavano più complesse. Era parte dell’addestramento da Shadowhunter che aveva ricevuto, d’altronde Jace aveva lo stesso identico comportamento e persino in Isabelle lo notava. Perché i Nephilim erano anzitutto dei soldati, persone il cui istinto veniva plasmato attorno all’idea che avrebbero dovuto vivere perennemente all’erta, oltre che obbedire e servire in quel modo un bene più grande. Per Magnus fu interessante notare invece la maniera in cui Jace stesse contravvenendo al proprio istinto, invece che irrigidirsi e assumere quell’atteggiamento vagamente strafottente non troppo dissimile allo stesso che sfoggiava durante una battaglia, si era afflosciato su se stesso, guardando quindi a terra e affondando il viso tra le mani.
«Credo che tutto questo sia successo a causa mia» confessò, rendendosi conto al contempo che dicendolo non si sentiva affatto meglio. Al contrario le espressioni stupefatte sui volti di Alec e Magnus non fecero altro che farlo sentire ancora più in colpa. E in quel suo essersi alzato e aver raggiunto il centro del soggiorno, non ottenne davvero niente se non vedere se non scatenare una sincera confusione. Non poteva tirarsi indietro, non adesso che aveva iniziato e soprattutto non se voleva risolvere le cose.
«Quando gli angeli hanno cancellato la memoria di Clary» proseguì avanzando come il guerriero che era. Se Alec avesse dovuto avercela con lui anche per il resto delle loro vite, allora avrebbe affrontato le conseguenze delle proprie azioni. Era uno Shadowhunter, un combattente e non un codardo. Questo poi non lo era mai stato e certamente non lo sarebbe diventato adesso.
«Quando lei se n’è andata» riprese «io mi sono sentito perduto, soffrivo certo, ma più di tutto ero arrabbiato perché avevo l’impressione che chiunque avesse avuto il proprio finale felice tranne me. Ora che Izzy sta con Simon, che Maryse si è messa insieme a Luke e soprattutto che tu ti sei trasferito qui, io mi sono sentito solo e senza la felicità che sapevo di meritare assieme a Clary.»
«Jace...» iniziò Alec balbettando il suo nome mentre lo raggiungeva al centro del soggiorno. «Tu lo sai che non sei mai stato solo, vero?»
«Lo so! Adesso lo so» annuì, rivolgendosi poi direttamente allo stregone che lo guardava con un’espressione che variava dall’incuriosito al sorpreso «quello che mi hai detto ieri mi ha aperto gli occhi e ho capito di non essere l’unico a stare tanto male. Forse dentro di me lo sapevo anche allora, ma non ci volevo pensare. Guardavo la tua vita, Alec, la vostra vita e pensavo che fosse perfetta e così una sera ho espresso un desiderio. Ti giuro, però, che non pensavo di certo che sarebbe successa una cosa del genere e neanche lo volevo» concluse, indicando entrambi con un veloce movimento della mano come a voler intendere lo scambio dei corpi.
«Cos’hai chiesto?» gli domandò Magnus, facendosi vicino di un passo pur tenendosi lontano.
«Essere come Alec, anche soltanto per un giorno. Avere la vita fantastica che avete, insomma essere come voi.»
«Jace» mormorò il suo Parabatai, scrollando il capo in senso di diniego. Non sembrava arrabbiato, notò, più che altro era triste. O forse ce l’aveva con se stesso per non aver fatto abbastanza per aiutarlo, Alec nutriva un forte istinto di protezione nei confronti di chi amava e cercava sempre di star loro vicino ogni volta che ne avevano bisogno, non dubitava che quella confessione avesse scatenato in lui un qualcosa di simile al rimpianto per non aver fatto a sufficienza.
«La mia vita non è perfetta, è vero ho sposato l’uomo che amo e siamo felici, ma abbiamo le nostre discussioni e, come avrai notato tu stesso, le mie giornate piuttosto stressanti.»
«Sì, ora l’ho capito» annuì, stirando un sorriso furbo «e io non so come tu faccia ad arrivare a sera tutto intero. Un giorno nei tuoi panni e ho già i nervi a pezzi; tra i rapporti delle missioni, approvare questo e quell’altro e poi le crisi coi vampiri, i demoni, le riunioni del consiglio… Per non parlare di tutte le occhiatacce che ho ricevuto da quando sono te. Nessuno ha davvero avuto il coraggio di affrontarmi a viso aperto, ma ho letto del giudizio e della disapprovazione nei loro occhi. Giudicano te, Alec ed è chiaro che tuo marito non gli piaccia granché e io non so come tu faccia a sopportarlo.»
«Con pazienza» annuì Alec, comprensivo e annuendo con l’aria di chi sa perfettamente di cosa stai parlando perché già c’è passato «quando gli ho messo quell’anello al dito sapevo a cosa stessimo andando incontro. Perché credi che ci siamo sposati in Istituto e non al Taj Mahal come voleva lui?»
«Perché hai dei pessimi gusti in fatto di location?» suggerì Magnus, sarcastico.
«No» negò Alec, che nonostante il tono duro aveva comunque lo sguardo divertito «lo abbiamo fatto perché volevamo diventare un simbolo. L’alleanza coi Nascosti è ancora molto fragile e simili cambiamenti sono lunghi da apportare, perché ciò contro cui stiamo lottando sono pregiudizi derivati da secoli di guerre. Come hai notato anche tu, più di uno Shadowhunter non approva quello che ho fatto, ma se nessuno fa un primo passo verso una vera alleanza, allora niente cambierà mai. Credi forse che per Magnus sia più facile? Io non godo di ottima fama tra gli stregoni, anzi… Ma non m’interessa! Sono con lui e questo mi basta e le persone capiranno e se non capiranno allora saranno obbligate a farselo andare bene. Questa è la mia vita, la nostra vita, Jace e non la loro. Il punto però è che niente di ciò che ho è perfetto e comunque non devi darti tutta la colpa, perché credo di essere in parte responsabile di quello che ci è successo» concluse in un sussurro mentre Magnus e Jace lo guardavano allibiti. Nessuno di loro ebbe però il tempo di formulare un altro pensiero nel cervello, che li precedette con una spiegazione: «Non avevo dato alcun peso a quell’episodio, sino a quando non hai detto che avevi espresso la volontà di essere me, ma ora che lo so… Io penso ci sia un concorso di colpa in questa faccenda. Anch’io ho espresso un desiderio, prima di addormentarmi l’altra sera ho chiesto di stare più vicino a te. Ti vedevo sempre nervoso, sapevo che stavi soffrendo e mi pesava il non esserti stato accanto come avrei dovuto. Ma mi è bastato stare un giorno nelle tue scarpe per rendermi conto della ragione del tuo nervosismo, del tuo stare lontano da chiunque. La pietà sul volto delle persone è insopportabile» ammise infine, ricordando di come avesse passato un giorno infernale e del fatto che, arrivato a sera, non riuscisse più a tollerare le pacche sulle spalle cariche di comprensione, oltre che i sorrisi mesti e le offerte di aiuto.

«Quindi entrambi avete espresso un desiderio che riguardava l’altro e vi siete ritrovati così il mattino successivo?» mormorò Magnus raggiungendoli al centro del soggiorno «devono avervi preso sul serio e averla interpretata come una preghiera, certo non si può dire che gli angeli non abbiano senso dell’umorismo. Ora che sappiamo come sono andate le cose, mettiamo tutto quanto a posto?» 

 

Non fu necessario che rispondessero, la domanda di Magnus pareva più che altro retorica perché qualche istante più tardi un flusso di magia bianca gli fuoriuscì dalle dita delle mani, grazie alla quale colpì prima Jace e dopodiché Alec. Ricordando di com’era andata l’ultima volta, entrambi si guardarono attorno in attesa di un qualcosa che sembrò non arrivare. Contrariamente al giorno precedente, infatti, gli angeli parevano non star facendo resistenza perché le luci non sfarfallavano e la magia di Magnus non veniva respinta. Alec e Jace non se lo fecero ripetere due volte, estrassero lo stilo dalla tasca dei pantaloni e lo passarono sulla runa Parabatai e quando questa si fu attivata, si presero per mano guardandosi negli occhi. A quel punto vennero avvolti da una forza a loro familiare e che, in un brivido, li scosse dalla testa ai piedi: era il loro legame che si stava allargando al pari dell’onda lunga di una marea. Un flusso di energia che li travolse, assieme all’incantesimo che Magnus aveva pronunciato in un perfetto latino e che era serpeggiato fra loro, avvicinandoli ulteriormente.
«Qualsiasi cosa dobbiate fare, sbrigatevi!» esclamò, agitando le mani a mezz’aria con quel suo consueto modo teatrale «il mio incantesimo potenzierà il contatto, ma non durerà in eterno.» E dopo che ebbe detto questo, Alec e Jace si ritrovarono sbalzati in un luogo che riconobbero come l’Istituto dove erano cresciuti. Ovunque fossero finiti, questo senz’altro non era il loft di Brooklyn di Magnus Bane.

 


Sollevando lo sguardo appena avanti a sé, Alec Lightwood si ritrovò a fronteggiare il viso di Jace così come l’aveva conosciuto. Biondo, con gli occhi bicromatici e il sorriso sfacciato, forse appena un poco strafottente, e che ora se ne stava nascosto dietro a un’espressione stupefatta. Indossava la divisa d’allenamento degli Shadowhunters, canottiera grigia e pantaloni scuri e si stava guardando mani e braccia, come a voler contare le proprie rune. Dovevano esserci quasi tutte, anche se mancava quella Parabatai, notò non appena Jace si scoprì l’addome. Erano tornati a quelli di sempre, ma erano ancora non propriamente loro, dovevano avere all’incirca diciassette anni. Alec si domandò se anche lui avesse quell’aspetto, a suggerirglielo fu principalmente l’altezza. A quell’età non si era ancora così tanto sviluppato, la massa muscolare delle sue braccia e dei pettorali era sicuramente meno voluminosa. Ed era anche lievemente più basso, pur restando più alto di Jace.
«Ha funzionato!» esclamò suo fratello, sorridendo. «Siamo noi stessi.»
«Sì, ma siamo bloccati qui dentro e abbiamo sedici anni» gli rispose invece Alec, guardandosi attorno come se cercasse una via d’uscita. Non c’era niente che lasciasse intendere una cosa del genere, ma d’altra parte sapeva che andarsene da lì non sarebbe stato così semplice. Eppure si guardò attorno, in cerca probabilmente di un indizio che li conducesse da una qualche parte. Tutto ciò che però gli saltava agli occhi era quel luogo così familiare e al tempo stesso sconosciuto. Era proprio l’Istituto, notò, d’altronde avrebbe riconosciuto quei corridoi anche a occhi chiusi. Spogli e molto semplici, con quell’odore di legno e polvere a invadere l’aria, perennemente immersi in un silenzio irreale. Lo era, certo, ma al tempo stesso era del tutto diverso a iniziare dall’atmosfera opprimente e a tratti irreale, palpabile tanto che aveva addirittura la sensazione di poterla toccare. Non era un posto vero e proprio, Alec ne era sicuro perché aveva abbastanza esperienza in quelle faccende: si trovavano nei loro ricordi, a metà strada tra ciò che erano stati e quel che erano adesso. E considerato che aveva già vissuto in passato un paio di esperienze molto simili a questa, sapeva che il solo modo che avevano per uscirne era percorrere quei corridoi e capire dove questi li avrebbero condotti.
«Qualsiasi cosa succeda, stiamo uniti» suggerì a Jace, voltandosi a destra e a sinistra, di modo da decidere da quale parte andare. Non credeva ci fosse una scelta più ragionata di un’altra, quel posto aveva l’aspetto dell’Istituto, ma era un’immagine mentale e nient’altro. Aveva la sensazione che fosse più che altro un labirinto, un luogo dell’anima in cui ogni direzione può essere al contempo sia giusta che sbagliata.
«Andiamo di qua» lo indirizzò suo fratello, decidendo per entrambi e muovendosi con sicurezza verso sinistra. Alec era certo del fatto che, se avessero avuto delle spade con loro, Jace avrebbe sguainato la propria e se la sarebbe rigirata tra le mani come faceva di solito quando erano a caccia, giocandoci addirittura e con quel sorrisino di sfida stampato in faccia a coronare il tutto. Non soltanto avevano sedici anni, ma neppure avevano addosso qualcosa che somigliasse a dei coltelli . E quindi si limitò a seguirlo senza dire niente, come faceva sempre perché  Jace era più bravo di lui a seguire l’istinto, lo era sempre stato. In quanto capo dell’Istituto di New York ogni decisione, Alec la prendeva in base all’esperienza o quanto riteneva essere giusto o logico fare, ma l’agire di pancia non era una sua prerogativa. Per questo smorzò sul nascere ogni pensiero che lo spingeva invece verso destra e, facendosi coraggio, lo seguì in avanti. Si domandò se la sua mente, il fato, gli angeli o chiunque avesse orchestrato tutto quello, non lo avrebbero comunque condotto dove era destino che andasse, ma preferì seguire suo fratello e non porsi ulteriori domande.

 


Camminarono a lungo per quei corridoi spogli e silenziosi per un tempo che Alec non riuscì a quantificare, potevano essere trascorse delle ore così come pochi secondi: là dentro il tempo era impossibile da definire. E non avevano incontrato neppure anima viva, il che era di per sé un fatto insolito. Si sarebbe aspettato di rivivere un qualche ricordo perché, quando era stato dentro la mente di Jace, aveva incontrato se stesso da bambino. Questa volta, però, attorno a loro non c’era nessuno. E quindi procedeva senza dire nulla, lo sguardo alto e attento, la postura guardinga come quando andavano a caccia di demoni, ma con la mente oberata di così tante parole, che quasi moriva dalla voglia di pronunciarle. Non avrebbe mai saputo spiegare per quale ragione decise di parlare proprio in quel momento né cosa fu per davvero a spingerlo a rompere ogni indugio, doveva trattarsi di un qualcosa di simile a ciò che aveva portato Jace ad aprirsi a lui, poco prima. Era come se sapesse che soltanto parlando sarebbero usciti da quel labirinto infinito. Ma forse era di quel luogo, la colpa, un posto così dannatamente uguale a quello dov’erano cresciuti, che lo stava portando a prendere decisioni molto più basate sull’istinto che su ciò che era più sensato dire.
«Clary all’inizio non mi piaceva» ammise ed era un sussurro, che in quel non parlare assordante risuonò al pari di un graffio su una lavagna. Aveva parlato, Alec Lightwood e nel farlo aveva avuto la netta sensazione di aver già fatto un discorso simile in passato. Allora non aveva avuto il coraggio di spingersi tanto avanti d’arrivare alla radice del problema, come invece aveva intenzione di fare adesso. Perché c’erano cose, dentro di lui, che un po’ per vergogna e un po’ per pudore non aveva mai detto a Jace.
«Lo so!» annuì lui senza voltarsi, ma continuando a camminare ancora come se si aspettasse che da un momento all’altro sbucasse un mostro a tre teste.
«La guardavi in un modo… Credo di esser stato un po’ geloso, oltre che spaventato dall’idea che mi avresti messo da parte per lei.»
«So anche questo» gli rispose, sorridendo appena in un’espressione vagamente beffarda, intanto che si voltava di tre quarti in sua direzione. Alec conosceva quello sguardo, era quello di sfida che portava sempre le volte in cui voleva spingerlo verso una direzione che invece lui stentava a prendere. Quasi a volerlo incoraggiare, ma in una maniera così da Jace che in quegli attimi lo fece sorridere in rimando. Era così, dunque? Suo fratello, il suo migliore amico lo stava sfidando a dire tutta la verità una volta e per tutte? Alec se n’era sempre un po’ vergognato e, quando aveva capito che ciò che aveva sempre creduto di provare per Jace non era un tipo di amore romantico, aveva pensato che dicendoglielo avrebbe fatto la figura del cretino. Di conseguenza aveva taciuto, nascondendo quell’oscuro segreto e classificando ciò che aveva creduto di provare come un qualcosa di appartenente al passato e ormai dimenticato. E comunque era trascorso del tempo da allora, nel frattempo si era persino sposato e più volte si era detto che fosse inutile riaprire vecchie ferite. Però adesso erano lì, in un corridoio infinito e tanto valeva riprendere in mano certi vecchi discorsi e risolverli una volta e per tutte. Forse era anche questo che gli angeli volevano per loro.
«Sai, quando si condivide un legame come il nostro» proseguì Jace, come a voler rompere gli indugi e dando prova di sapere già di cosa Alec gli volesse parlare «è facile confondersi o pensare di provare un certo tipo di sentimenti per il proprio Parabatai.»
«Sì, ma è una verità che ho faticato parecchio a comprendere. Sapevo di essere gay, l’ho sempre saputo ed ero convinto che quello che provavo per te fosse quel tipo di amore, ma poi ho incontrato Magnus...» concluse, stirando inevitabilmente un sorriso non appena aveva pensato a lui.
«E hai capito cosa significasse davvero innamorarsi.» Giunto a quel punto del discorso,  Jace aveva fermato il proprio camminare, si era voltato verso Alec e lo fronteggiava a testa alta. Era ancora giovane, sì, ma del fratello sedicenne che ricordava non riconobbe poi molto. Non aveva la spavalderia di un tempo e il suo sguardo non luccicava come allora. Di diverso aveva quell’amore che ancora provava e che, nonostante tutto, brillava nei suoi occhi. Era un ragazzo piegato dalla sofferenza, il suo sguardo era triste e dolce in un modo che non aveva mai visto in lui prima dell’arrivo di Clary. Invece che indugiare su di lui, Alec però si riscosse e riprese a parlare perché c’era ancora molto altro che aveva da dire.
«Non sai quanto mi sia sentito sbagliato o malato a provare tutto quello per la persona che sarebbe dovuta diventare il mio Parabatai. Avevo questa età quando lo feci capire a Isabelle, mi stavo tirando indietro e non volevo venire alla cerimonia perché pensavo che avrei subito un atroce destino se qualcuno l'avesse scoperto. Fu lei a convincermi e a dirmi che, se non l’avessi fatto, me ne sarei pentito per tutta quanta la vita. Izzy aveva ragione perché tu e Magnus siete per me le persone più importanti, senza le quali non riuscirei a vivere, ma quando è arrivata Clary... non è stato facile sopportarlo!» Quell’ultima frase l’aveva detta sussurrando, ma mettendoci un’enfasi che non aveva mai avuto, non con Jace almeno. E lo sentiva, quel peso che lasciava per sempre la sua anima facendolo sentire ancora più leggero.
«Per me è stata la stessa cosa quando abbiamo incontrato Magnus» confessò inaspettatamente Jace, interrompendo il fluire dei suoi pensieri. Alec schizzò il volto verso l’alto, sconvolto da una simile rivelazione, a sorprenderlo non era più soltanto la delicatezza che leggeva nei suoi occhi, ma anche una leggera vena di gelosia. «Vedevo come ti guardava e non mi piaceva, avevo paura che finisse per spezzarti il cuore. Sono contento di essermi sbagliato.»

«E io sono contento di essermi ricreduto su Clary e, te lo giuro, l’idea che lei non si ricordi più di te non mi ha fatto stare bene. So che ero in luna di miele con Magnus e che può sembrare che io me ne sia fregato di quello che stavi passando, ma non è così. Te lo giuro, Jace.» Lo implorava, certo e aveva anche gli occhi arrossati e liquidi. Quel volto sedicenne rigato di lacrime, le dita tremanti che si torceva nervosamente. Soffriva, Jace lo vedeva e se lo sentiva dentro. E quel dolore così sincero, investì tanto il giovane Herondale che il primo gesto istintivo che fece fu quello di abbracciarlo.
«Ehi, ehi» gli disse ancora stringendolo, prima di afferrare il suo viso tra le mani, facendo in modo che Alec sollevasse lo sguardo su di lui.
«Mi dispiace per quello che ti è successo, non te lo meritavi! E c’erano momenti, quando eravamo in luna di miele, in cui mi sentivo in colpa a essere così felice mentre tu eri qui a soffrire. Magnus ha provato a starmi vicino, ma i giorni passavano e io mi sentivo intrappolato. Percepivo il tuo dolore dentro di me, sentivo il mio ed era insopportabile e poi vedevo la pena nello sguardo di Magnus, il suo senso di impotenza e non riuscivo a fare niente per farvi stare meglio. Clary manca a tutti e io... Io le volevo bene.» Soltanto allora, dopo quel lungo vagabondare per i corridoi di quel fasullo Istituto, Jace Herondale comprese il senso di tutto quello. Perché si erano scambiati, per quale motivo adesso avevano sedici anni e la runa Parabatai era assente. Avevano dovuto capire, entrambi. Arrivare alla sofferenza dell’altro, al disagio che ogni giorno erano costretti a vivere in Istituto. Vivere tutto quello, guardando il mondo dagli occhi dell’altro. E aveva capito anche per quale ragione la pozione di Magnus non aveva funzionato: avrebbero dovuto vedersi e giurare, ancora, di essere per sempre l’uno il Parabatai dell’altro. 



Jace alzò il viso con quel sorriso tipico di chi ha afferrato finalmente una grande verità, un qualcosa che gli sfuggiva. La sua mente si era rischiarata di una serenità che lo faceva vibrare dentro al punto, che sentiva i suoi poteri d’angelo fluirgli nelle vene. Le sue rune si illuminarono di striature dorate, intanto che Alec lo guardava stupito. Senza pensarci due volte afferrò la sua mano e, stringendola, sollevò gli occhi nei suoi.
«Giurami di non lasciarti o di non tornare dopo di te.» Alec lo guardò allibito, confuso in un primo momento, ma subito dopo il suo viso s’illuminò di consapevolezza.
«Perché dovunque andrai, io andrò e dove alloggerai io alloggerò.»
«Il tuo popolo sarà il mio popolo e il tuo Dio sarà il mio Dio» replicò Jace e poté giurare di sentirlo, il legame vibrare di nuovo dentro di lui. Nonostante l’aspetto e la mancanza della runa, il legame non si era affievolito né spezzato. Era ora che stavano pronunciando di nuovo il loro giuramento, questo aveva preso ad avvolgerli e a spingerli l’uno verso l’altro.
«Dove morirai, io morirò e lì sarò sepolto» aggiunse Alec, altrettanto emozionato. Altrettanto vibrante di eccitazione.
«L’angelo fa così a me e anche di più...» gli rispose Jace, intanto che il suo Parabatai pronunciava assieme a lui quell’ultima frase: «Se non altro che la morte separa me e te.»

 


Fu allora che successe, il corridoio dove stavano cambiò di forma e due porte comparivano esattamente di fronte a dove stavano. L’una a destra e l’altra sulla sinistra, una accanto all’altra. Guardandosi attorno, Alec notò che non c’erano altre vie d’uscita, i corridoi che sino a poco prima si erano intravisti erano adesso murati, obbligandoli di fatto a dover oltrepassare una delle due porte. Istintivamente, Alec si avvicinò a quella di destra. Non sapeva il motivo, ma ebbe la sensazione che era là che doveva andare.
«Magnus» mormorò sulle labbra, lui era oltre quell’uscio e lo sapeva. Lo aveva percepito in ogni momento, intanto che erano stati lì dentro. La sua magia era come un qualcosa in sottofondo, a cui non fai sempre caso, ma che ti spinge ad andare avanti. Jace, al suo contrario, si era sistemato davanti alla porta di sinistra, la fissava come se ne fosse attratto, al pari di una calamita è attratta dal ferro. Aveva anche mormorato un “Clary” sulle labbra mentre ora stringeva la maniglia, al punto da far sbiancare le nocche.
«Credo che dovremo prendere strade diverse, fratello» gli disse, accennando un sorriso prima di aprire la porta e fare un passo in avanti. Alec non vide cosa c’era al di là di quella di Jace. Lo vide soltanto sorridere e poi sparire e mentre l’uscio si richiudeva alle sue spalle, allora si rese conto di esser rimasto da solo dentro a quel labirinto. Era ora di uscire, pensò mettendo un piede avanti all’altro.



 

Continua





Note: Siamo quasi alla fine della storia, il prossimo sarà una sorta di epilogo che concluderà il tutto. Arriverà entro la settimana prossima, non prima perché mi sono presa nel frattempo anche un altro impegno, con un’altra storia, che aggiornerò giovedì o venerdì. Ma nel frattempo ringrazio tutte le persone che hanno seguito sino a questo momento, a chi ha letto e a chi ha lasciato una recensione.
Koa

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Capitolo 8
*** Quello che gli angeli vogliono ***


Quello che gli angeli vogliono





 


“Maryse, pensi che gli angeli siano capaci di perdonare?”
“Beh, come diceva mia madre: misteriose sono le vie degli angeli”
Shadowhunters: -All good things-


 



 


La prima cosa che Alec vide non appena ebbe aperto gli occhi fu Magnus a terra, stremato dall’uso eccessivo della magia. Era pallido in volto e aveva la fronte sudata, le membra erano appoggiate malamente alla poltrona alle sue spalle e aveva il fiato corto come quello di chi ha compiuto un’enorme fatica. Non dovevano esser stati in quel limbo che erano le loro menti allacciate per molto tempo, o almeno così credeva, ma tanto doveva essere bastato a che lo sforzo avesse fatto collassare lo stregone sul pavimento. Nel vederlo ridotto in quello stato, Alec non ci pensò sopra due volte a corrergli incontro e a sorreggerlo, tenendolo quindi tra le braccia intanto che gli tergeva il sudore e placava il suo leggero tremore. Neanche badò al suo essere tornato nel proprio corpo, come se la cosa non avesse più la minima importanza. Gli baciò invece le mani fredde e, dopo che suo marito ebbe alzato gli occhi sino a incontrare i suoi, un timido e affaticato sorriso spuntò sul suo viso. E secondo Alec, quando Magnus sorrideva era la cosa più bella del mondo.
«Ehi» sussurrò intanto che le dita scendevano su di uno zigomo, sfiorandolo con delicatezza.
«Eccoti qui» mormorò lo stregone con voce flebile mentre allungava un braccio e accarezzava stancamente le guanciotte rosse di Alec, «il mio bellissimo cucciolo è tornato.»
«Posso fare qualcosa?» domandò invece Jace, facendosi avanti con una punta di timidezza. Alec, sollevando il viso sul proprio Parabatai, notò soltanto in quel momento che il turbamento che lo aveva contraddistinto sino ad allora, era scomparso. Ciò di cui avevano parlato gli aveva fatto bene, ma doveva averne fatto anche a Jace in un qualche modo. Qualsiasi cosa avesse visto oltre quella porta, doveva avergli rischiarato i pensieri quel tanto da farlo stare più tranquillo. Senza sapersi spiegare la ragione, si disse sicuro del fatto che suo fratello avesse visto Clary o si fosse ricordato di qualche momento passato insieme. Forse perché lui, oltre quella porta chiusa, aveva sentito distintamente la presenza di Magnus e aveva attraversato la soglia, spinto dall’idea che lui fosse là dentro. E quando si era fatto avanti, si era sentito come immerso dentro di lui. Immagini di ciò che avevano condiviso sino ad allora gli erano passate davanti agli occhi, come una cascata di ricordi che non ha mai fine. E intanto che questi gli attraversavano mente e cuore, aveva provato una forte sensazione di svenimento, quasi stesse per perdere i sensi e allora aveva capito che suo marito aveva bisogno di lui. Soltanto allora si era risvegliato. E adesso lo stringeva tra le braccia, accarezzandogli i capelli in maniera gentile e nel contempo gli sorrideva.
«Starò bene» borbottò Magnus, tirandosi meglio a sedere.
«Niente che un bagno caldo, una bistecca e un bicchiere di vodka non possano sistemare?» gli domandò Alec, ricordandosi di quel che diceva ogni volta che faceva uno sforzo eccessivo di magia. Glielo aveva chiesto ridendo, come a volerlo prendere in giro, ma senza farlo per davvero. Gli aveva parlato, certo e senza smettere di sfiorarlo, ma affondando le dita tra i suoi capelli e quindi scendendo sulle guance accaldate. Era così bello poterlo toccare di nuovo e con le proprie mani, che fu scosso violentemente da un brivido che gli corse giù lungo la schiena.
«D’accordo, allora sarà meglio che vi lasci soli» disse Jace con sguardo vagamente malizioso, intanto che indietreggiava sino all’ingresso.
«Puoi restare a pranzo, se vuoi» lo invitò Magnus, intanto si tirava in piedi non senza fatica. «Alexander cucina bene, a meno che non faccia lo stufato, in quel caso fuggi via da qui subito!» concluse mentre suo marito alzava gli occhi al cielo, pur senza replicare né smettere di sorridere.
«No, no» negò Jace vibratamente ridendo «magari vengo a cena una di queste sere, però. Solo… niente stufato, Alec, per favore.»
«D’accordo, allora ti aspettiamo» annuì Magnus, sorridendo, precedendo ogni tentativo di suo marito di ribattere con una battutaccia. Alec non capiva davvero cosa avesse lo stufato di sua nonna di tanto orribile, quando erano bambini e lui e Izzy l’avevano preparato per la loro mamma, Maryse ne era rimasta entusiasta. Salvo poi scoprire che aveva mentito e che lo aveva trovato terribile! Lo avrebbe rifatto tale e quale soltanto per capire cosa andasse che non andava.
«Adesso credo di dover far visita a un certo vampiro e poi è meglio se vi lascio soli, avete da recuperare una giornata intera di smancerie» disse Jace, interrompendo i suoi ragionamenti intanto che spariva oltre la porta d’ingresso.

 

Alec vide che suo fratello prima andarsene aveva sorriso, forse con l’intenzione di prenderli un po’ in giro, non lo sapeva. Anche se lo avesse fatto non gliene sarebbe importato granché, quella era la prima volta che leggeva in lui del divertimento sincero e che non fosse ottenebrato da pensieri oscuri o dal peso che l’assenza di Clary gli gravava dentro. Senza riuscire a controllare il fluire dei propri pensieri, Alec rimase qualche istante di troppo a osservare il punto in cui lui era sparito, ripensando quasi senza volerlo a quel che era successo poco prima. Aveva avuto paura per tanto tempo di dire a Jace quello che in passato aveva provato per lui e il come questo sentimento fosse divenuto più chiaro, probabilmente per il timore di essere preso in giro, ma farlo era stato così facile che si era sentito un cretino per non averci mai neanche provato prima. Era pur sempre suo fratello, il suo Parabatai era logico che avrebbe capito e che lo avrebbe accettato per quello che era, senza giudicarlo come un mostro né facendolo sentire sbagliato. Inoltre doveva ammettere che quanto Jace gli aveva detto sul confondere i sentimenti non era affatto sbagliato, al contrario era stato rivelatore. Adesso che sapeva cosa significasse l’essere innamorati di qualcuno, non poteva non pensare che d’essersi convinto di esserlo stato di un qualcuno, per il quale invece non aveva mai provato altro che dell’attaccamento fraterno.
«Tutto bene, cucciolo?» domandò Magnus, accarezzandogli uno zigomo con le punte delle dita, strappandolo fuori dai suoi ragionamenti «ti va di dirmi che è successo là dentro?»
«Noi» cominciò a parlare, pur a voce sussurrata, salvo poi esitare. Si mordeva le labbra, quasi fosse indeciso perché come poteva spiegare quello che avevano passato lui e Jace? Era così difficile essere chiari con chi non era uno Shadowhunter o non era unito da un legame Parabatai, che era complicato già il semplice pensare di poter rendere sensata un’unione di anime. Ma Magnus avrebbe capito, pur non essendo un Nephilim, sul legame Parabatai ne sapeva molto più di tante altre persone dal sangue d’angelo. 

«Noi abbiamo parlato di varie cose e...» proseguì, pur sempre esitante «di Clary, tanto per cominciare e poi gli ho quello che un tempo provavo per lui o per meglio dire che ero convinto di provare. Era una cosa che mi aveva sempre spaventato.»
«E Jace come l’ha presa?»
«Direi in maniera sorprendente» annuì Alec, sollevando lo sguardo che sino ad allora aveva riposto al pavimento. Magnus lo stava ancora sfiorando, facendo vagare le sue dita tra il viso, il collo e i capelli e la sua era una carezza ipnotica, delicata e involontariamente sensuale. Forse era perché non lo toccava in quel modo da giorni, ma era distraente al punto che faticò a trovare la concentrazione per proseguire: «M-mi ha offerto un punto di vista sul quale non avevo mai riflettuto. H-ha detto che confondere i sentimenti quando si diventa Parabatai può essere molto facile.»
«E pensi abbia ragione?»

«I-io credo di sì» annuì Alec, serio, pur faticando ancora a trovare la giusta concentrazione. A stento teneva gli occhi aperti, a stento non lo stringeva a sé e lo baciava. E con altrettanta fatica poco più tardi riprese a parlare: «Quando ero adolesente, Jace è stato il solo ragazzo col quale mi sia mai rapportato e penso che questo abbia influito sulle mie convinzioni. Mi rendevo conto di quanto fosse attraente e il vederlo senza maglietta mi turbava, lo confesso, ma non era soltanto una questione di ormoni. C’era dell’altro, il mio attaccamento per lui era diverso da quello che sentivo di provare per Izzy o Max, soltanto poi compresi che il nostro legame sarebbe stata solo la consacrazione di un qualcosa che già eravamo stati in passato: amici, fratelli e compagni d’arme. All’epoca ero convinto di aver capito tutto, ma poi ho incontrato un certo stregone…» concluse, aggiungendo un pizzico di malizia che di rado gli apparteneva e non utilizzava mai con nessuno se non con suo marito. Era troppo timido e riservato per parlare in quel modo con qualcuno che non fosse Magnus Bane, ma ogni tanto doveva pur sedurlo, giusto?
«Uno stregone, eh? Mi domando chi possa essere quest’uomo tanto fortunato» gli rispose questi in rimando con quella punta di ironia un pizzico maliziosa che lo contraddistingueva piuttosto spesso, prima attirarlo a sé e coinvolgerlo in un bacio che non voleva essere focoso, ma che tale diventò dopo un primo, timido sfioramento. Per l’angelo, pensò Alec morendo sulle sue labbra morbide, quanto gli era mancato! Il suo sapore, quell'odore di legno di sandalo che aveva addosso, il calore della sua pelle e la maniera esperta e quasi erotica che aveva di baciarlo. Magnus gli faceva tremare le ginocchia e correre brividi di eccitazione lungo la schiena, ogni volta che lo toccava in quel modo. 

 


«Dunque» borbottò Alec svariati minuti più tardi, allacciandogli le braccia al collo mentre Magnus gli rubava un bacio a stampo «soprassiederò sul fatto che hai chiesto a mio fratello se voleva fare sesso con te.»
«Peggio per lui» scherzò Magnus con un’alzata di spalle, rubandogli un bacio a fior di labbra. «E in quanto a te, caro mio, sappi che ti sei perso un certo lavoretto di bocca che sarebbe stato spettacolare» concluse, accentuando il tono della voce che variava dal divertito al fintamente oltraggiato, intanto che iniziava a ondeggiare a destra e a sinistra in una sorta di ballo improvvisato. Non c’era musica, ma non importava davvero perché ad Alec bastava essere tra le sue braccia per poter avere la sensazione di galleggiare a un metro da terra.
«Sono sempre in tempo per recuperare e comunque non ti perdono il tuo non avermi baciato per una giornata intera» sussurrò Alec sulle sue labbra, catturandole un’altra volta tra le proprie, come a volergli ricordare cosa si era perso per quasi due giorni.
«E mi merito una punizione, vero?» domandò Magnus più lascivo, strusciandosi su di lui mentre si faceva coinvolgere da un ennesimo bacio. Un altro, ancora affiatato e passionale, con le loro lingue che danzavano e i bacini che si strusciavano l’uno contro l’altro. Con le mani di Magnus che gli accarezzavano la schiena e salivano su, sino alla testa, affondando le dita tra i capelli e attirandolo ancora più vicino a sé. C’era, nella maniera che Magnus aveva di cercarlo, una punta di disperazione che non gli sfuggì e che doveva nascere direttamente dalla paura che aveva avuto di perderlo. Disperazione che assecondo, in un trovarsi vorace. E con Alec che lo stringeva per la vita e poi esponeva il collo, concedendogli in quel modo tutto lo spazio di cui avesse bisogno.
«Oh, sì» gemette senza specificare se fosse per la risposta che gli stava dando o perché suo marito aveva preso a leccargli un punto specifico appena sotto l’orecchio sinistro, che solitamente gli faceva tremare le ginocchia.

«Una punizione esemplare, signor Bane: cena a quattro, sabato sera, io e te, Lorenzo e Underhill.» Magnus smise immediatamente di torturargli il collo, oltre che di strusciarsi contro di lui in maniera lasciva.
«Sei perfido!» sibilò, con occhi stretti e sguardo fintamente torvo.
«Fai questo per me e giuro che faccio tutto quello che vuoi a letto, anche quella cosa delle manette» concluse, arrossendo sono alla punta dei capelli perché non c’era niente da fare, a parlare di certi argomenti ancora si imbarazzava, persino con Magnus. Il che era una contraddizione se si pensava che gli aveva appena dato il permesso di legarlo.
«Questa sì che è un'offerta interessante, Shadowhunter. Lo giuri?» gli rispose lo stregone, intanto che Alec annuiva e riprendeva a baciarlo.    
«Aha, lo giuro» esclamò infine, trascinandolo in camera da letto. Se doveva fare davvero “tutto” quello che Magnus voleva, era meglio cominciare immediatamente.


 

 

*


 

Uno dei vantaggi di essere un diurno, come diceva sempre Simon Lewis, era quello di poter bere al Hunter's Moon di primo pomeriggio, col locale mezzo vuoto o frequentato da pochi lupi mannari e, occasionalmente, anche da qualche mondano in cerca di un pranzo veloce. I vampiri si guardavano bene dall'uscire prima del tramonto mentre gli stregoni si facevano vedere la sera, perché la maggior parte di loro durante il giorno riceveva o viaggiava per il mondo per qualche consulenza. Non era raro trovare delle fate, ecco, ma non erano sufficienti a riempire tutto il locale e comunque a lui nessuno dava mai fastidio. Non aveva più da tempo il marchio di Caino, ma la notizia non doveva essersi ancora sparsa per tutto il mondo Nascosto, perché in molti spesso stentavano addirittura a salutarlo da lontano, neanche avesse potuto fulminarli con un'occhiata. Ad ogni modo, Jace Herondale si era dichiarato sicuro del fatto che Simon potesse trovarsi proprio lì. Dopo esser andato a casa sua e non averlo trovato, l’Hunter’s Moon era il primo posto che gli era venuto in mente. E infatti, quando lo scampanellio della porta invase il locale semi deserto, Jace alzò lo sguardo e vide il diurno seduto in un angolo, a un tavolino, con un bicchiere di quello che era sicuramente sangue e un computer portatile aperto davanti al naso. Non faceva caso a nessuno, al contrario guardava fisso lo schermo ed era così concentrato, che fu costretto a tossire per attirare la sua attenzione.

«Jace!» esclamò alzando gli occhi dal portatile intanto che un ampio sorriso gli divorava l’espressione concentrata avuta sino a poco prima. Qualche istante più tardi, però, il sorriso divenne confusione e dubbio.
«Cioè Alec! O forse sei Jace?» blaterò assottigliando lo sguardo e quindi studiandolo come se, soltanto incrociando i suoi occhi, avesse potuto scoprire la verità. «Con questa storia che vi siete scambiati non ci capisco più niente, non dirmi che c’è un altro covo da stanare?»
«No, niente vampiri» negò, prendendo posto a sedere. «Beh, a parte te, ma tu sei più innocuo di quella vecchietta che ho aiutato ad attraversare la strada mentre venivo qui» gli disse, intanto che alzava la mano attirando in quel modo l’attenzione di Maia e dicendole a voce ben alta: «portami una birra e un hamburger, per favore. E comunque io e Alec abbiamo risolto le cose» concluse infine, rivolgendosi direttamente un Simon che annuì e tirò quindi un sospiro di sollievo.
«Allora? Com’è stato camminare nelle scarpe del signor direttore dell’Istituto?» gli domandò imitando goffamente l’atteggiamento serio che Alec aveva sul lavoro, subito prima di bere un sorso dal proprio bicchiere e leccandosi quindi le labbra rosse di sangue.
«Stancante» disse Jace ridendo mentre Maia gli serviva una pinta di birra chiara. «Però ho capito tante cose di mio fratello in questa giornata assurda. Comunque non voglio parlare di lui adesso; tu che stai facendo?»
«Ah, niente di che» disse Simon sbrigativo «mi sono deciso a iniziare un fumetto: io e Frey non facevamo altro che buttare giù idee e non finirne mai una! Questa era una di quelle a cui avevamo pensato. Sai, prima che sua madre se ne uscisse con: “Ehi, sei una Nephilim e tuo padre è un pazzo omicida, prendi qua lo stilo e tanti saluti”.» Jace rise di cuore, senza riuscire davvero a trattenersi. All'inizio della loro conoscenza aveva trovato quel mondano piuttosto fastidioso, ma adesso era come se la presenza di Simon potesse farlo sentire meglio. Oh, non gliel’avrebbe mai detto. Ne aveva parlato a Izzy una volta, e solo perché allora era per metà una fata. Però non poteva negare che, per una stranissima ragione, quel vampiro chiacchierone avesse su di lui un’influenza positiva. Già, come Clary, anche lei riusciva sempre a farlo sentire meglio, pensò mentre la risata svaniva e il suo divertimento tuttavia si spegneva. Non era perché Simon aveva nominato Clary, non soltanto almeno. Non si era rassegnato all'idea di averla persa, ma perlomeno se n'era fatto una ragione e ricordarsi di lei, così come il sentirla nominare, non faceva più male come prima. Non era quindi per lei che Jace divenne triste. Per una strana ragione, le parole che Magnus gli aveva rivolto soltanto un paio di giorni prima gli tornarono alla mente in quel momento: lui non era il solo ad aver sofferto e notando il sorriso ora tirato sul volto di Simon si rese conto di quanto fosse vero. Si domandò se anche per lui era una sofferenza il pronunciare il suo nome, se la sognava la notte o se le tornavano in mente tutte quelle cose che avrebbe voluto dirle, ma che non aveva mai avuto il coraggio di pronunciare né il tempo per farlo. Si chiese se anche Simon la spiasse attraverso gli schermi della videosorveglianza o se trascorresse le notti fuori casa a uccidere demoni senza fermarsi un istante a pensare.

«Ehi» gli disse Simon dopo aver chiuso il computer. Aveva una forte consapevolezza in volto, quasi sapesse alla perfezione quello a cui Jace stava pensando. Forse perché c’era passato anche lui o perché, nonostante le chiacchiere e i sorrisi, ancora era fermo a un dolore senza fine.
«Lei manca anche a me.»
«Lo so» sussurrò Jace, abbassando gli occhi sin sulla sua pinta di birra della quale non aveva bevuto nemmeno un sorso, come se faticasse anche solo a guardarlo negli occhi. Si sentiva un egoista, aveva sempre creduto che la perdita di memoria di Clary avesse riguardato soltanto lui, ma ora capiva che non era vero. 

«È che non riesco ad accettarlo» confessò dopo svariati minuti di silenzio «non faccio che ripetermi che magari avrei potuto fare qualcosa per fermarla, se soltanto l’avessi saputo. O che forse avremmo dovuto trovare un altro modo per sconfiggere Jonathan, poteva esserci una soluzione che non comprendesse un’ennesima runa, non so... Poteva e io avrei dovuto trovarla, perché che me ne faccio di questi stupidi poteri d’angelo se non per salvare chi amo? Mi sento come se tutto quello che le è accaduto fosse colpa mia.»
«E lei non lo vorrebbe» rispose prontamente Simon, questa volta così tanto colto dall’entusiasmo che gli aveva afferrato le mani e le aveva strette. Jace notò che erano fredde, ma non in un modo spiacevole. «Ascolta, conosco Clary da tutta quanta la mia vita, ma non è necessario averla incontrata alle elementari per saperlo. Tu dovresti sapere quanto me che lei agisce sempre di testa propria e non dà retta mai a nessuno. Anche se avessi trovato un altro modo, e non c’era, lei avrebbe fatto comunque quello che sentiva essere più giusto fare. Perché era fatta così.»
«Già» mormorò Jace, stirando un sorriso e ricordandosi di tutte quelle volte in cui le aveva intimato di fare una cosa e lei, puntualmente, aveva fatto l’esatto contrario «è dannatamente testarda.» Quella, si rese conto, era la prima volta che Jace sorrideva pensando a Clary, senza poi disperarsi in un fiume di lacrime amare. Da quando le era stata cancellata la memoria non l’aveva mai fatto.
«Esatto!» annuì Simon «ha sempre fatto quello che voleva, fin da quando eravamo piccoli e non era più alta di un metro. Anche allora non dava retta a nessuno, a malapena ascoltava sua madre. Ma, Jace, di certo non è colpa tua.»
«Mh» borbottò, senza sapere bene come ribattere. Quanto stava dicendo Simon era quello che non faceva altro che ripetersi, in quei momenti di lucidità in cui si ritrovava a pensare che Clary si fosse scelta quel destino e che lo avesse seguito, conscia delle conseguenze. Ogni volta che ci pensava, però, subito ripiombava nell’oscurità incolpando gli angeli di quanto era successo.
«Quello che possiamo fare, Jace è pregare: Izzy dice che gli angeli ascoltano e magari non le implorazioni di un vampiro, ma forse ascolteranno te che hai il loro sangue nelle vene. Probabilmente non oggi e nemmeno domani, ma magari un giorno lei tornerà.»

 

Sì, annuì Jace, lei un giorno tornerà e lui doveva pregare gli angeli perché lo ascoltassero e perché credessero nel loro amore puro e sincero. Simon ci credeva davvero e Simon era solo la persona più positiva che conoscesse. Lui che non si era mai lasciato abbattere, neanche dopo esser stato costretto a dire addio a sua madre, cancellandole memoria e facendole credere che fosse morto. Non aveva mai rinunciato all’idea di poter essere felice, eppure era stato scaricato prima da Clary, della quale per altro era stato innamorato per tutta la vita, e poi persino da Maia. E anche adesso che la sua migliore amica non si ricordava più nulla di lui e di tutto quello che avevano condiviso assieme, Simon sorrideva e scriveva il suo fumetto. Forse in un tentativo di onorare la sua amicizia con Clary, Jace non lo sapeva con esattezza, ma sentiva che non importava quale fosse la vera ragione. Lo stava facendo e tanto bastava. E se Simon si stava prodigando in un qualcosa di concreto per andare avanti, allora l’avrebbe fatta anche lui. Era tempo di smettere di piangersi addosso, di dormire poco la notte e mangiare ancora meno, tenendo tutti lontani. Doveva tornare a essere il Jace di un tempo e aveva giusto in mente un’idea su cosa potesse fare per ricominciare.
«Senti, stavo pensando che sei stato bravo con quei vampiri ieri, che ne dici di allenarci insieme? Non sei uno Shadowhunter, ma potresti darci una mano ogni tanto come hai fatto oggi, credo che il Clave lo apprezzerebbe. Sai, Alec sta cambiando le cose all’Istituto e crede in una politica di cooperazione tra Nascosti e Nephilim. Potresti essere il primo vampiro ad aiutare ufficialmente il Clave.»
«Aspetta, intendi, allenarci nel senso di addestrarmi?»
«Esatto!» annuì Jace convinto, sorridendo dello stupore che il vampiro adesso aveva in volto. «Lo farei io, naturalmente, il che significa che impareresti dal migliore. Allora? Ci stai?»
«Beh, d’accordo. Come rifiutare un’offerta simile dal miglior Shadowhunter della galassia» rise Simon prendendo un altro sorso di zero negativo, prima di riaprire il suo laptop e riprendere a lavorare. «Fammi sapere quando iniziamo.» 

 

Jace si soffermò un istante a riflettere, intanto che Maia gli serviva l’hamburger augurandogli buon appetito. Clary ancora gli mancava, ma parlare con Magnus prima e adesso anche con Simon, oltre che l’aver parlato apertamente con Alec, nonché il trascorrere più di un giorno nei suoi panni, gli avevano fatto capire molte più cose di quante non pensasse di doverne imparare. Aveva compreso di non essere il solo a soffrire e di poter contare sull’aiuto dei suoi amici, o meglio, della sua famiglia. Aveva capito di avere ancora uno scopo e che gli angeli avevano agito in quel modo non era soltanto per cattiveria. Sì, erano passati quarantacinque orribili giorni da quando gli angeli avevano cancellato la memoria di Clary Fairchild e soltanto ora Jace riuscì a trovare un pizzico di pace dentro di sé. Ad accettarlo forse non ci sarebbe mai riuscito e avrebbe pregato e sperato che lei tornasse da lui, ma se voleva lo sguardo al di là delle vetrate sporche dell’Hunter’s Moon sino al cielo limpido di New York, riusciva a vedere il sereno all’orizzonte.





 

Fine






Note: Come avevo detto, un breve epilogo per farvi capire cosa è successo dopo che Alec e Jace sono tornati ognuno nei propri corpi. La storia è ambientata praticamente un anno prima del ritorno di Clary, non ho voluto saltare avanti nel tempo perché non era quello che volevo per questa storia, ma invece che Jace capisse determinate cose. Naturalmente mi sono lasciata andare a un po’ di Malec nella prima parte, che non fa mai male.
Sono contenta di aver scritto questa storia perché ammetto di essermi divertita parecchio, un grazie a tutte le persone che l’hanno seguita e a chi ha recensito.
Per chi stesse seguendo “I Think I’m Falling For You” aggiornerò nei prossimi giorni.
Koa

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