Tales of

di LarcheeX
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Ending pages ***
Capitolo 2: *** Broken cages ***
Capitolo 3: *** Wind of changes ***
Capitolo 4: *** Moving pictures ***
Capitolo 5: *** Other hues ***
Capitolo 6: *** Rotten cakes ***
Capitolo 7: *** Fatal crazes ***
Capitolo 8: *** Lost purposes ***



Capitolo 1
*** Ending pages ***


Ue
Pensavate di esservi liberati di me? Giammai.
Oggi la casa offre il contest di San Valentino del Gruppo Takahashi Fanfiction Italia che continuerò a ringraziare per l'ispirazione e a cui chiederò scusa perché per un pelo hanno potuto godersi un contest senza la mia presenza molesta. Purtroppo per loro (e per voi), ho deciso che il mio input deve essere espresso. Male.

Allora, la premessa è questa: il contest prevede la scrittura di qualche flashfic con dovuto prompt, che può essere una frase, un'immagine, una canzone... insomma satura lanx.
e sì, avete letto bene.
Flashfic.
Io.
Motivo per cui, se la scrittura è più legnosa e pedestre del solito, ecco a voi il motivo. Non ho mai scritto una flashfic. Almeno, non una buona, ma non credo siano state mai pubblicate. Ma d'altronde, cosa ci aspettiamo da una il cui capitolo minimo raggiunge e supera le dieci pagine?
Infatti, la scrittura di questa breve storia è stata molto difficoltosa, soprattutto perché sono arrivata a quasi 1000 parole prima di rendermi conto di dover tagliare moltissimi pezzi di trama e sviluppo, in pratica ricominciare da capo. Però sarà sicuramente un bell'esercizio, anche se non vinco sarebbe fico esercitarsi sugli altri prompt :D

Ah, dovuta delucidazione: solitamente io lascio uno spazio tra le parole e le caporali, ma dato che se lo facevo me le conteggiavano come parola e non come segno di punteggiatura, in questa storia ho dovuto evitare. Probabilmente quando sarà tutto finito tornerò qui ad aggiungere tutti gli spazi perché sono una persona equilibrata e sana. Ma comunque, il conteggio delle parole è di 500 parole precise. Perché se c'è un limite potete stare certi che lo userò fino agli sgoccioli.

Chiudo la bocca, buona lettura!!!






EDIT: e infatti l'autrice è tornata ad aggiungere gli spazi, come la vera ossessiva che è.
Oltre a ciò, volevo anche aggiungere la schedina della storia, perché essendo una raccolta non avevo pensato che avrebbe potuto coinvolgere più di un personaggio e più di un tema, quindi metterò qui tutto il necessario per farvi capire se volete leggerla o se volete passare alla prossima. Male che va ve la giocate.






Titolo: Ending pages
Personaggi: Sesshomaru, Rin
Genere: Fluff, Slice of life, Generale
Coppia: Het, Rin/Sesshomaru
Note: AU, What If?
Rating: verde













Ending pages
   Prompt: "i tramonti sono la prova che anche i finali possono essere belli"

 
« No! »
Sobbalzò nell’udire il libro chiuso di scatto, e guardò verso la parte del letto in cui Rin era ancora raggomitolata, contrariata. Non elaborava quel diniego tanto deciso, e lui non voleva approfondire, essendo l’ora di coricarsi ormai passata.
Spense lampada e si infilò sotto la trapunta, calcandosela sulle orecchie per proteggersi dal suo entusiasmo eccessivo.
Rin era ancora immobile. Pur coperto, riusciva a sentire le sue unghie tamburellare sulla copertina di cartone rigido. Maledetti sensi da demone.
Dopo un istante in cui aveva provato a convincersi di essere esterno alla situazione, sospirò e si rialzò, riaccendendo la luce.
« Cosa c’è? » domandò, sforzandosi di non risultare scocciato.
« È un pasticcio, Sesshomaru! » esclamò lei con un gesto teatrale: « Ha rovinato tutto! »
« Chi? »
« Lo scrittore! »
Roteò gli occhi: « Come? »
« Con un finale terribile! »
Non fu in grado di fermarla mentre si alzava e si sedeva alla scrivania, accendendo il computer.
Prim’ancora potesse convincerla a tornare a letto un nuovo documento era stato aperto, e il tamburellio delle dita si era trasformato nel battere furioso dei tasti.
Arresosi, scostò le coperte e si levò, accostando una sedia alla piccola scrivania e accomodandovisi sopra.
« Che poi è un bel libro! » riprese Rin, dopo aver buttato giù alcune righe: « Ha rovinato tutto con un finale pedestre! »
Non replicò, sapeva che la sua unica funzione in quel frangente fosse quella di ascoltatore, e Rin continuò: « Questi due… storia tormentata… alla fine crescono in modo diverso e si lasciano! »
Altre parole vennero scritte, fino a che la prima pagina non fu riempita. In silenzio, sbirciò quanto veniva formulato, fino a che non riuscì a trattenersi: « Perché? »
« Perché cosa? »
« Riscrivi il finale di un altro. »
Lei sbatté le palpebre: « Così posso pubblicarlo, e gli altri fan possono leggerlo? »
« Perché? »
Afferrando finalmente il più profondo significato di quella domanda, Rin si voltò, adorna di un sorriso malinconico: « Perché quando sei umano, e hai poco tempo, vuoi che ogni cosa abbia il suo significato. Durante la vita, ti abitui ai piccoli gesti, come rimanere svegli fino a tardi per aspettare che si finisca di leggere » si interruppe per baciargli una guancia: « Quando arrivi al finale, però, non vuoi che tutto sia stato per niente, vuoi che ci sia un grande gesto, qualcosa che chi viene lasciato indietro può ricordare. »
Si sporse per leggere la pagina virtuale: il sole scendeva verso il mare, il suono delle onde copriva appena le parole dei protagonisti, che si abbracciavano per l’ultima volta.
« Non tornano insieme » commentò.
« No » confermò lei: « Ma ora hanno avuto il loro finale, un tramonto sulla loro storia d’amore che finisce, la natura che conclude la giornata assieme a loro. Una grande scena per un grande gesto. »
Fece cenno di aver capito.
Rin si alzò, gli prese la mano, lo invitò a tornare a letto.
« Sai perché il tramonto rende tutto più bello? »
Si sdraiarono, lei si accoccolò sulla sua spalla. Non aveva bisogno che la incalzasse, e continuò, con gli occhi già pesanti: « Perché poi sorgerà di nuovo il sole. »

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Capitolo 2
*** Broken cages ***


Ue.
Queste sono state le 500 parole più difficili di sempre. E se avete letto altro di mio, sapete che sguazzo in temi belli pesanti.
Non saprei dire perché, forse era la traccia che mi è molto molto cara - grazie a chi me l'ha mandata, se vuoi possiamo metterci insieme in un angolino a piangere per la serie - forse perché la distopia è un po' "my thing", quindi le aspettative per me su me stessa erano molto alte, perché è molto peggio andare male su una cosa che amiamo. Poi è anche il fatto che ho voluto trovare un senso lato al prompt, e non attenermi al contesto originale, e dato che io non sono Margaret Atwood anche se mi piacerebbe esserlo, potrebbe essere stata un'inutile difficoltà aggiunta.
Poi oggi mi sono svegliata, ho letto quello che avevo scritto... e ho deciso di riscrivere tutto da capo. E ora lo metto immediatamente qui prima di farmi di nuovo prendere dall'ansia da pretazione e presumibilmente sbattere la testa sulla tastiera.

Insomma, tutta sta pippa quasi più lunga della storia stessa per dire che, anche questa volta, la brevità del testo è inversamente proporzionale alle complicazioni che mi sono procurata da sola. Evvai.
As usual, ringrazio il gruppo Takahashi Fanfiction Italia per il contest a cui sto partecipando - sì, sono recidiva :D

Aggiungo la schedina qui sotto


Titolo: Broken cages
Personaggi: Jaken, Kagome
Genere: Angst, Science-fiction
Coppia: //
Note: AU, What If?
Rating: verde



EDIT: ho sistemato le caporali perché mi urtavano
 

E vi auguro buona lettura!!!




 
Broken cages
   Prompt: “Uno più uno più uno più uno non è uguale a quattro. Ciascun uno resta unico, non c'è modo di unirli. Non possono essere scambiati, l'uno con l'altro. Non si può sostituire l'uno all'altro.”, Margaret Atwood, Il racconto dell'ancella.

 
Silenzio.
Una quiete fasulla, erano molteplici i suoni di quel laboratorio bianco da essere accecante: bisturi che tintinnavano, sangue che schizzava sul pavimento come acqua, il rumore della carne tagliata a pezzi, i respiri fievoli delle vittime.
Eppure gli parve che quella calma, sebbene inesistente, fosse stata squarciata, quando il suono di un elettrocardiogramma piatto si diffuse nell’aria stantia di morte: K-47 era andato, la donna che aveva sperimentato su di lui si era accasciata sul proprio tavolo da lavoro, la fronte sugli avambracci incrociati.
Vedeva solo la sua schiena, bianca del camice non meno sfolgorante del resto, e le sue spalle tremanti. Un pianto ipocrita, il predatore che ha pietà della propria vittima solo quando i suoi organi sono marci.
Non aveva mai conosciuto il nome di K-47, un kappa come lui, ma con un numero diverso. D’altronde, loro erano costretti al silenzio. Le sbarre elettriche avevano bruciato la sua zampa, quando aveva provato ad attirare l’attenzione di qualcuno, qualsiasi altro di quei prigionieri. Ma il tempo in cui tentava di essere era finito, per cui aveva smesso di provare a definirsi dentro un interlocutore.
La scienziata si alzò dallo sgabello, camminando verso di lui.
Jaken aveva cessato di esistere, c’era solo K-48, la vittima successiva.
Fu preso e portato sul bancone, dove il cadavere di K-47 ancora giaceva, molle delle ultime stille del calore vitale che gocciolavano a terra.
“Kagome Higurashi” recitava il cartellino sul petto della donna. Le odiose lacrime ancora rigavano il suo volto, ma lo rincuoravano: tanta morte doveva abbattersi su chi la perpetrava solo per crudeltà con il più rovente del rimorso. Si stupiva di quel sentimento potente, il primo, dopo un periodo indefinito e infinito.
Forse non era pronto a morire.
Ma quello non importava, quando moltitudini di demoni erano periti prima di lui, e altrettanti sarebbero stati uccisi da umani-scienziati che avevano vinto il dominio della terra.
Poi, prima del colpo fatale, vide, attraverso il grande lucernario che li sovrastava, la coltre di grigie nubi dissiparsi, e un pezzetto di quell’antico azzurro fare capolino attraverso di essa, luminoso.
« Il cielo ha assunto un colore peculiare » osservò la donna al suo fianco, senza aspettarsi una risposta.
« È sempre stato così » sospirò.
La scienziata Kagome Higurashi si voltò di scatto, puntò i suoi occhi scuri su di lui, e quella volta non c’erano lacrime. Il suo sguardo era indecifrabile.
Poi si lanciò verso il quadro elettrico, lo distrusse. Il laboratorio cadde nel buio, privo di corrente. Si aprirono tutte le gabbie, i demoni uscirono, liberi.
« Perché? » chiese.
La sua voce, limpida e solenne, giunse dall’oscurità, alta: « Abbiamo usato la scienza come briglie, ma essa è lo strumento della curiosità, non della paura. Sotto le mie mani siete diventati un'uniforme massa di numeri, ma, nella memoria di quel cielo peculiare, ognuno di questi quarantasette morti è un pezzetto diverso e prezioso di quella memoria che svanisce per sempre. Ciascun uno resta unico, nulla potrà sostituirlo, e io ne sono responsabile. Ma ora basta. Andate! »

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Capitolo 3
*** Wind of changes ***


Allora.
Mi ero ripromessa che mi sarei presa il tempo per rileggere e ponderare a dovere, che avrei utilizzato ogni singolo attimo per sviluppare il tutto, ma poi mi è arrivata una notifica dal mio cervello che minacciava di srotolarsi in caso avessi letto un'altra volta le stesse 500 parole.
E poi mi sono ripromessa di scrivere su tutti i personaggi nel modo più vario possibile, ma sono arrivata alla fine di questa flash e mi sono accorta che era per l'ennesima volta una RinxSesshomaru. Eh oh, m'è uscita così, che potete farci.
Quindi niente, come al solito si ringrazia il gruppo Takahashi Fanfiction Italia per il contest e l'ispirazione e per avermi costretto a scrivere delle flash in cui altrimenti non mi sarei mai cimentata. E ringrazio colei che mi ha dato il prompt :3
Comunque sì, daje.

Schedina:


Titolo: Wind of changes
Personaggi: Rin, Sesshomaru
Genere: Malinconico, angst
Coppia: Rin/Sesshomaru
Note: AU, What If?
Rating: verde




EDIT: spazi. tra. le. caporali.





Wind of changes
   Prompt:
  

 
Tornava sempre sulla scena del delitto.
Si inerpicava sul sentiero, si addentrava nel bosco, saliva sulla collina.
La luce solare era asettica e cruda, toccava la realtà e gliela sbatteva addosso anche quando non c’era più niente da guardare, a parte una panchina di legno e qualche giovane albero secco e infreddolito.
Il passato lo pungeva, in quel luogo, e i ricordi, soppressi nella città frenetica, annegavano raziocinio e controllo: ombre pallide come il terreno ghiacciato si accomodavano sulla panchina e si baciavano in segreto, ma non abbastanza; si discostavano bruscamente nell’individuare lui, l’intruso, giunto a rompere quell’unione disgustosa, veloce, ma non abbastanza, perché il ventre della donna era già fecondo.
Sbatté le palpebre, e i vaghi simulacri di suo padre e della femmina umana si dissolsero nella brina.
Non si sedette, gli occhi persi nelle scanalature del legno.
In lontananza, studenti cantavano una di quelle canzoni inglesi che rimbalzavano di radio in radio, novità occidentali biascicate fuori da qualche umano tossicodipendente, l’ennesima beffa di chi aveva vinto anche l’integrità del demone più potente di sempre.
Non aveva altro che quel vuoto, quelle parole che non capiva, quel passato irraggiungibile.
Ogni stagione, si inerpicava, si addentrava e saliva, senza scopo, se non la rabbia.
Poi tornava alla città che fioriva, dentro il tramestio.
 
The fool on the hill sees the sun going down
And the eyes in his head see the world spinning around.
 
Il sentiero, il bosco, la collina.
La giacca gravava sulle sue spalle, calda, ma il suo passo era stabile e sicuro.
Il legno olezzava di resina, ne sentiva la scia prima di scorgerla. Gli alberi avevano vinto l’inverno e celebravano con i loro festoni fioriti, rosei, profumati, intensi, pieni di sole.
La panchina era occupata da una ragazza.
Per la prima volta in un periodo di tempo mai misurato, qualcuno si era arrampicato fin lì.
Nel vederlo arrivare, lei sollevò il viso dal proprio libro, accoccolata contro lo schienale. Aveva i capelli sciolti, tranne una ciocca fermata da un nastro a pois verdi e bianchi.
« Scusa, ho preso il tuo posto? »
« Non è il mio posto » replicò, freddo.
« Oh, okay » e tornò a leggere.
« Dovresti alzarti » ricominciò, irritato.
« Ma hai detto- »
« So quello che ho detto. »
Lei strinse le ginocchia al petto, eloquente.
Oltraggiato, camminò in avanti, per poi fermarsi. Quella sciocca umana non comprendeva, come avrebbe potuto?
Un’energica folata di vento fece rumoreggiare le foglie, la ragazza si mantenne i capelli, e il segnalibro le volò lontano dalle dita, sull’erba, ai suoi piedi.
Meccanicamente, lo raccolse. “Rin, congratulazioni per il diploma! Maggio 1968”, dichiarava il cartoncino.
Glielo porse. Le loro dita si sfiorarono. Lei sorrise.
Era cosciente del fatto che avrebbe dovuto sentirsi infastidito, ma quella brezza sembrava aver spazzato via anche la stizza, e il tepore della sua espressione pareva aver sciolto il risentimento. La luce di quel mondo in fiore aveva cacciato le ombre.
Si allontanò, turbato, ma la sua voce lo raggiunse: « Puoi sederti… se vuoi. »
Altro vento lo smosse.
Si sedette.

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Capitolo 4
*** Moving pictures ***


Salve. Siamo di nuovo in corsa per il contest di maggio del gruppo Takahashi Fanfiction Italia, che come al solito si ringrazia :D
Devo ammettere una cosa: nonostante la mia passione ossessiva per l'ottava arte, io non ho mai visto nessun capitolo della saga di Rocky. La mia conoscenza di esso finisce con "ADRIANAAAAAAA", quindi sì, dare un contesto a questo prompt è stato un po' ostico.
E voglio sottolineare che la prima ispirazione è stata quella di schiaffarci un'altra volta Sesshomaru perché per me è il più semplice da scrivere, ma per il vostro bene e la paura di venire linciata mi sono ingegnata per usare qualcun altro. Ringraziatemi.
Quindi buona lettura!


EDIT: spazitralecaporali

Titolo: Moving pictures
Personaggi: Inuyasha, Toga, Kagome
Genere: Slice of life,
Coppia: Inuyasha/Kagome ma leggera proprio
Note: AU, What if?
Rating: verde


 
Moving pictures
   Prompt: Sai Robert, una volta ti misi qui, nel palmo della mano, ti tirai su e poi dissi a tua madre: « Questo è il più bel bambino del mondo, guarda, Adriana, questo bambino diventerà certamente qualcuno! »
E tu crescevi bello, sano forte… vederti crescere ogni giorno era una cosa meravigliosa. E quando è arrivato per te il momento di diventare un uomo, di affrontare il mondo, l’hai fatto! Ma qualcosa lungo il tragitto ti ha fatto cambiare, non sei esistito più! Hai permesso al primo fesso che arrivava di farti dire che non eri bravo. Sono cresciute le difficoltà, ti sei messo alla ricerca del colpevole… e l’hai trovato in un’ombra.
Ora ti dirò una cosa scontata: guarda che il mondo non è tutto rose e fiori, è davvero un postaccio misero e sporco, e per quanto forte tu possa essere, se glielo permetti, ti mette in ginocchio e ti lascia senza niente per sempre! Né io, né tu, nessuno può colpire duro come fa la vita! Perciò andando avanti, non è importante come colpisci, l’importante è come sai resistere ai colpi, come incassi, e se finisci al tappeto hai la forza di rialzarti! Così sei un vincente!
E se credi di essere forte, lo devi dimostrare, che sei forte, perché un uomo vince solo se sa resistere, non se ne va in giro a puntare il dito contro chi non c’entra, accusando prima questo e poi quell’altro di quanto sbaglia. I vigliacchi fanno così e tu non lo sei! Non lo sei affatto!
Comunque io ti vorrò sempre bene, Robert. Non può essere altrimenti: tu sei mio figlio, sei il mio sangue, sei la cosa migliore che ho al mondo… ma finché non avrai fiducia in te stesso, la tua non sarà vita. E passa a salutare tua madre.

 
Il cicaleccio dei compagni di Kagome ronzava nelle sue orecchie.
Lei partecipava della conversazione, sorrideva ai suoi interlocutori e, di tanto in tanto, gli dedicava uno sguardo apprensivo. Desiderava che lui si facesse coinvolgere, ma non c’era nulla che lo unisse a quegli universitari chiacchieroni. Umani la cui massima difficoltà era lo studio e il prezzo eccessivo dell’ingresso al cinema! Che fantastica illusione, lamentarsi delle bazzecole.
Si accomodò sulla poltrona sporca, accanto a Kagome e la sua ciotola di popcorn.
« Che belle orecchie da meticcio. »
Si voltò di scatto all’indietro, in direzione dell’insulto, ringhiando: « Qualche problema? »
Kagome lo costrinse a sedersi. Gli lanciò uno sguardo compassionevole e severo che riassumeva in silenzio il solito litigio riguardo le sue reazioni violente. Le avrebbe volentieri replicato acidamente per confutare quel suo modo di fare passivo, ma non voleva litigare.
“Sei tu che fai andare gli insulti alla testa.”
Sentiva il suo rimprovero anche quando non parlava.
Masticò il proprio astio in silenzio, escluso dalla discussione sull’ennesima saga di umani che recitavano la parte dei combattenti senza aver mai lottato in vita loro.
Poi la sala si spense, e il proiettore si accese.
Ancora si stupiva della pellicola, nato in un periodo in cui combattere era l’unico modo per sopravvivere: conteneva creature mobili bloccate nel tempo, per sempre, vive anche da morte. Un film era un pozzo che, invece della luna, rifletteva un altro mondo.
E lui ci cadde dentro.
« Sai Robert, una volta ti misi qui, nel palmo della mano… »
Ma invece di quel Robert c’era lui, e invece delle mani tozze di Rocky apparvero le dita affusolate e appuntite di suo padre.
Sogno, illusione, allucinazione? Il desiderio, talvolta lancinante, di incontrare chi l’aveva generato e poi abbandonato aveva finalmente spezzato la sua sanità e l’aveva trascinato dentro il delirio?
Toga non differiva dalle foto di sua madre: alto, dalla forza palpabile, carismatico anche nella quiete. Gli somigliava, ma era una versione più elevata di quello che era lui, di quello che sarebbe stato.
« Inuyasha » lo chiamò, con occhi compassionevoli: « ti ho lasciato una gravosa eredità. »
« Che intendi? » chiese, diffidente eppure disperatamente avvinto.
« Il mio sangue ti indebolisce. Invece della forza, avrei voluto lasciarti la resistenza. »
« Io resisto a tutto » ribatté piccato.
« Tu combatti tutto. »
Aprì la bocca, ma poi la richiuse.
« Ma sei fortunato » continuò lui: « tua madre ha sopperito per me. »
« Era umana e debole. »
« Non disprezzare tua madre… » le sue mani gli abbracciarono le spalle: « Ha affrontato malelingue e solitudine per amor tuo, la testa alta contro i tempi avversi. Ripudiata, insultata, minacciata, il suo animo bruciava di determinazione e tenerezza, i suoi piedi non hanno mai smesso di camminare, né le sue braccia di stringerti. Con un esempio del genere, il mio sangue non è più un impedimento. »
Le luci si accesero in sala.
Si ritrovò con gli occhi lucidi, gli artigli conficcati nei braccioli.
A fatica, seguì Kagome verso l’uscita.
Arrivò alle sue orecchie da mezzodemone un altro insulto, ma non lo sentì.
Non voleva sentirli più.

 

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Capitolo 5
*** Other hues ***


No allora.
Più andiamo avanti a scrivere flash, più le mie difficoltà aumentano.
Prima, questa canzone fa parte della mia lista nera: non perché non mi piaccia, ma perché è una di quelle che posso ascoltare per sbaglio mezza volta e mi rimane in loop in testa per giorni e giorni e giorni. Mi succede con solo con pochissime canzoni, ma ne esco puntualmente rimbambita.
Poi, non avevo idea del soggetto. La canzone mi sapeva di coming out, non so per quale motivo, ma poi mi sono detta "ma no dai, lo yuri è una categoria di nicchia in questo fandom". Quindi mi ero decisa a utilizzare Sesshomaru, ma dato che in questa raccolta lui e Rin sono stati utilizzati già due volte, mi sentivo ridondante. Parlando con la mia consulente di fiducia, poi, lei mi ha detto che la canzone le sapeva di coming out, e quindi quello per me è stato il segno decisivo del destino che mi sussurrava di portare più yuri a voialtri (anche se in realtà il termine tecnico è shoujo-ai, ma vbb).
Ma chi, come, cosa?
Boh.
Ho deciso tutto in una notte, un po' a caso, credo. è tutto un po' sfumato nel delirio.
E ultima cosa, proprio mentre mi ero messa a elucubrare qualcosa per la flash, il mio cervello mi ha detto una cosa tipo: "sai cosa ho voglia di scrivere? tutto, tranne questa flashfic"
Dopo qualche preghiera e 14 pagine cumulative di altre storie, eccoci qua.
Buona lettura!!!




EDIT: caporali
Titolo: Other hues
Personaggi: Kagome, Sango
Genere: Slice of life, romantico, sentimentale
Coppia: Kagome/Sango
Note: AU, What if?
Rating: verde


Other hues
   Prompt: “I've found a reason for me
To change who I used to be
A reason to start over new
And the reason is you
I've found a reason to show
A side of me you didn't know
A reason for all that I do
And the reason is you.”
The Reason, Hoobastank

 
« Kagome! »
Kagome finse di non averla sentita o vista, e affrettò il passo per confondersi nella folla variopinta di Harajuku, ma, tra i gli stili eccentrici di coloro che camminavano lungo la Takashita, la sua semplice divisa scolastica spiccava come se fosse stata luminosa, per cui non le fu difficile scostare qualche malcapitato e raggiungerla.
« Lasciami in pace, Sango » sospirò lei: « Ci hanno dato solo questo pomeriggio libero prima di tornare a casa, non voglio sprecarlo. »
Cercò di allontanarsi, testa bassa come il suo umore. Anche quando non trasmetteva null’altro che tristezza, i suoi occhi serbavano una scintilla per ciò che le circondava: tra turisti stranieri e le persone che sfilavano, era un turbine di particolari lolita, ganguro, decora, gotici, visual… Parole di cui non avrebbe conosciuto il significato, se non fosse stato per Kagome, che in quel vortice si illuminava come se fosse stata lei a dare luce a quei colori.
Per non perderla nella moltitudine, agguantò il suo polso: « Per favore» la pregò: «Parlami, eravamo migliori amiche… »
Kagome si divincolò dalla sua presa. La rabbia rimasta sepolta sotto l’amarezza infiammò il suo viso quasi istantaneamente: « Le migliori amiche non si baciano » sibilò: « e soprattutto, le migliori amiche non si lasciano da sole per mesi contro pettegolezzi e bullismo. »
« Avevo paura… sai come sono i piccoli paesi… »
« Lo so benissimo » la interruppe lei, inclemente.
Fu il suo turno di abbassare la testa. Il dolore delle settimane passate in solitudine, lo sgradevole brivido del bersaglio piazzato sulla schiena, la sofferenza del tradimento di una persona fidata, tante erano le sfaccettature del male che Kagome aveva subito e che le riversava addosso col suo tono secco. E ciò che era peggio… se lo meritava.
Ciò di cui non era degna, invece, era della liberazione del pianto, ma, sebbene sapesse bene che non dovesse essere lei a versare lacrime, sentì gli occhi coprirsi di un velo umido: « Mi- mi dispiace » balbettò, coprendosi la bocca per non singhiozzare.
Cominciava a sentirsi addosso gli sguardi dei passanti, ma non riusciva a concentrarsi su di essi, sfocati dalle lacrime: l’unico punto focale rimaneva Kagome, la sua espressione sia dura che dolce in cui convivevano sia la triste soddisfazione di vedere in lei un mordace pentimento, sia il timore di essere stata troppo severa.
Si asciugò gli occhi: « Volevo solo dirti… » cominciò: « Che l’ho detto a tutti, che ero io l’altra ragazza nella foto che hanno scattato. Almeno- almeno ora si concentreranno su di me, e non più su di te. »
« Per quale ragione? »
Ingoiò il pianto e la saliva: « Perché la versione migliore di Sango esisteva vicino a te. Voglio esprimerla sempre e ricominciare da capo, anche se ciò significa essere diversa. »
Kagome annuì, e finalmente un sorriso spuntò sulle sue labbra, mesto, ma pur sempre un sorriso. Le mostrò con un cenno la via gremita di persone e sfumature: « Siamo tutti diversi, in un modo o nell’altro. »
Si avvicinò per sfiorarla, e le loro dita si intrecciarono.
Poi, insieme, sparirono nella folla.

 

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Capitolo 6
*** Rotten cakes ***


Salve salve, aggiorno le flash qui abbandonate in onore del nuovo del contest “Gara di Flash” indetto dal gruppo Facebook “Takahashi Fanfiction Italia”. Il fulcro di questo nuova prova è darsi prompt a vicenda e sfidarsi, quindi ecco a voi il prodotto delle mie follie. Aspettatevi una storiella leggera e senza pretese.
Ah, volete sapere una cosetta buffa? Questa storia parla di un compleanno, ebbene, oggi è il mio :D e pensare che non l'ho fatto apposta!
Buona lettura, io vado a magnarmi una fetta di torta :P



Titolo: Rotten cakes
Personaggi: Sesshomaru, Rin
Genere: Slice of life, romantico, commedia
Coppia: Sesshomaru/Rin
Note: AU
Rating: verde


 
Rotten cakes
 Prompt: Si avvicina il compleanno di Y e X ha intenzione di preparare una gustosissima torta.Ma le continue interferenze di Y rovinano accidentalmente la torta. X arrabbiata e delusa lascia Y da sola/o. Riuscirà Y a farsi perdonare da X con un improbabile sorpresa?

 
Silenzio.
Finalmente, quel maledetto gremlin era uscito. Non ne poteva più di scansarla. Doveva. Concentrarsi.
Si chinò per ispezionare il libro, aperto sul tavolo della cucina: “In una ciotola, rompete tre uova”.
Uova. Perché gli umani si ostinassero a consumare ciò che usciva dal posteriore di un pennuto rimaneva un mistero, ma decise di accantonare il ribrezzo per rompere il primo uovo, il cui guscio esplose in una poltiglia gialla non appena collise con i suoi artigli.
Sospirando, si impose di provare ancora. L’uovo centrò la ciotola, ma anche tutti i frammenti della scorza. Per la frustrazione, il terzo impattò col muro.
Decise di lasciar perdere le cose umide, dedicandosi alle polveri. Dovette coprirsi il delicatissimo naso con un tovagliolo per evitare che quei corpuscoli infingardi lo disturbassero.
«Che stai facendo?» la voce di Rin lo punse alla schiena con un risolino canzonatorio e incredulo. Faticò a voltarsi, impietrito tra indignazione e rabbia.
Come il peggiore degli assilli, lei era riapparsa: non bastava che curiosasse nella spesa e che provasse a hackerare il suo telefono per scoprire le sue intenzioni, doveva persino coglierlo in flagrante!
Con uno scatto che sollevò la farina e lo zucchero svolazzati fuori dalla ciotola, Rin lo raggiunse per strattonarlo: «Maddai! Fai una torta?! Il grande Sesshomaru?»
Istintivamente, si ritrasse, ma Rin tirò il suo braccio al punto che la mistura che aveva faticosamente amalgamato rovinò a terra.
Silenzio, di nuovo.
L’uovo che aveva lanciato sul muro cadde a terra con uno sploch.
Ne aveva abbastanza.

Era sparito, lasciandola con le spoglie del suo dolce tentativo di festeggiarla. Mortificata, osservò la ciotola abbandonata a terra, il libro ancora aperto sul tavolo, finché non si riscosse.
Le uova e il burro incontrarono la farina, lo zucchero il cioccolato, danzando sotto le fruste elettriche fino a unirsi e scivolare, ormai densi e compatti, nella teglia e poi nel forno.
Appena fu pronta la torta, uscì.
Lo ritrovò sul bordo del fiume cittadino, uno stizzito cane randagio che osservava con astio l’acqua, in attesa che evaporasse per effetto della sua furia. La sua figura bianca spiccava nel pomeriggio che svaniva nel buio.
Si sedette vicino a lui. Senza dire nulla, gli depose in grembo la torta profumata.
«Cos’è?»
«Dimmelo tu,» replicò con un sorrisetto: «ho seguito la tua ricetta.»
«L’ho trovata su internet.»
«Apprezzo lo sforzo.»
«Non mi pare.»
Chinò il capo: «Scusami se ti ho preso in giro. Ti vergognavi, volevo stemperare la tensione.»
Sesshomaru si voltò: «Non mi vergognavo, era per te.»
La commozione le punse gli angoli degli occhi. Non disse nulla, ancora lusingata da quel gesto piccolo seppur grande. Indicò la torta: «Assaggiala.»
Lui storse la bocca. Stava ripensando alle uova.
«Dai.»
Con violenta lentezza, le mani pallide di Sesshomaru strapparono un pezzo di torta e lo portarono alla bocca.
«Quindi?»
«Non so cosa ci trovi.»
Fece spallucce: «Perché uova, farina e zucchero sono diversi e fanno schifo, ma insieme sono un’armonia,» mormorò, prendendogli la mano con fare significativo.
Lui borbottò, contrito: «Buon compleanno, scema.»

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Capitolo 7
*** Fatal crazes ***


UEH
Sorgo dal disastro pieno di cose che sono diventati i miei giorni per aggiornare rapida per il contest
 "Gara di Flash" indetto dal gruppo Facebook "Takahashi Fanfiction Italia". Ce la farò a rimettermi in piedi? boh
Comunque ecco, l'ispirazione di questa storia è stata la canzone "Still loving you" degli Scorpions, una delle ballate rock più romantiche e struggenti della storia della musica, quindi l'intenzione di andare nella stessa direzione nemmeno mi è venuta, non sarei mai stata capace di essere all'altezza. Quindi ho pensato, come posso rovinare una delle ballate rock più romantiche e struggenti della storia della musica?
Ecco a voi questa storia, buona lettura!


Titolo: Fatal crazes
Personaggi: Sorpresa
Genere: drammatico, horror, suspence
Coppia: //
Note: AU
Rating: arancione (tematiche delicate)


Fatal crazes

Anelava a lei.
La mancanza era insopportabile, ma si manteneva saldo nel proprio lavoro, le dita formicolanti tra operosità e attesa. Chino sul tavolo, perdeva la vista al lume di una debole candela: lei non si meritava l’accecante neon delle lampade, ma la soffice e labile fiamma romantica che lottava per sopravvivere, il simbolo mite ma potente della sua vita.
Il collo scricchiolò, cupo, quando alzò la testa. Da quante ore era all’opera?
Doveva perseverare. Impugnò l’ago con la sapienza del medico e riprese a cucire, le azioni cadenzate dai pensieri, sempre più conturbanti, appassionati, vivi.
Lei si manifestò nei suoi occhi e nella sua mente come un’ispirata visione, musa candida di un lavoro struggente, la pelle perfetta, lo sguardo altero eppure pieno di dolcezza, addolorato ma ribelle: quasi gli parve che le sue mani si muovessero, che il gomito si piegasse per sollevare un polso, delle dita ricolme di carezze che lambirono la sua guancia.
Oh, se solo avesse potuto ricominciare da capo, con lei, con i suoi capelli di seta che profumavano di frangipani! Se ci passava dentro la mano, ancora sentiva la loro irresistibile consistenza quasi impalpabile che gli solleticava i polpastrelli nella più deliziosa delle sensazioni.
Quando si punse con l’ago, pensò con dolore all’ultimo ricordo di lei: camminava con i suoi soliti passi leggeri, le lunghe gambe lasciate nude da un candido vestito estivo che brillava sotto i lampioni notturni; camminava, ma si allontanava da lui, orgogliosa, ferita, libera.
Quell’orgoglio maledetto era stato la morte del loro amore. Il fiero e incontrollabile desiderio di sfuggire alla sua stretta, la dimostrazione del fatto che sarebbe dovuta essere ancor più serrata. Ma l’aveva sconfitto, quel dannato orgoglio, la rabbia l’aveva cacciato, fatto a pezzi, smembrato su quel marciapiede notturno dove lei si stava allontanando per sempre.
Riprendendo a lavorare, si convinse che non potesse essere la fine, ci doveva essere la possibilità di ricominciare, non importava né il modo né il motivo, doveva tornare ad avvilupparla, tenerla a sé, stringerla nel letto caldo anche se era fredda, per l’eternità.
Se avesse potuto cambiare i motivi della loro separazione, l’avrebbe fatto.
Ma non poteva uccidere sé stesso, perciò aveva annientato lei.
 
Ebbro di una soddisfazione invasata, Naraku si scostò dal tavolo impregnato di sangue quasi fresco, ammirando con occhi ossessi la propria magnifica e terribile opera. Si allontanò ancora per sorbirla nella sua più fosca bellezza, l’odore di preservanti e morte che aveva ghermito la sua cucina.
Kikyo era sopra una sedia, elegante e posata come era stata in vita. Il rigor mortis non aveva leso la sua soprannaturale bellezza, tale da non poter essere divisa con nessuno. Gli arti che Naraku aveva in precedenza spiccato, accecato dalla propria furia possessiva, erano stati ricuciti al loro posto, delicati, fermi e lucidi. Un’eterna bambola.
Un lugubre gorgoglio che forse era una risata sorse nella gola di Naraku. Si avvicinò di nuovo per toccarle una guancia gelida e, sospirando di desiderio, le sussurrò in un orecchio sordo: «Ti amo ancora.»

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Capitolo 8
*** Lost purposes ***


Ed eccoci qua. Sto rimettendo in ordine la settimana ché ho cambiato lavoro, tutte cose. Ora vado a seppellire la faccia nel cuscino, cià.


Titolo: Lost purposes
Personaggi: Sorpresa
Genere: introspettivo, suspence
Coppia: //
Note: AU
Rating: giallo (tematiche delicate)


Lost purposes
 
Kagome usciva dall’ufficio tutti i giorni alle diciotto. Certe volte si trattava delle diciotto e trenta o delle diciannove. Quando varcava la soglia trasparente dell’edificio al terzo piano del quale lavorava, Kagome si scioglieva i capelli e si passava le dita tra le ciocche corvine, rilassando, assieme alla propria chioma, anche il proprio spirito, dopodiché si incamminava a passo sostenuto verso la fermata dell’autobus, dove attendeva a piedi uniti il suo unico mezzo per tornare a casa. Qualche volta lo aveva perso perché non aveva camminato abbastanza in fretta, o perché quel giorno l’autobus era passato in anticipo.
Salita a bordo, Kagome si rannicchiava sopra un sedile a leggere, oppure rimaneva in piedi e leggeva appendendosi alla sbarra più vicina. Non le piaceva toccare quei supporti, per cui, quando lo faceva, frapponeva tra la pelle e il metallo una porzione di manica o un fazzoletto di carta.
Dopo dodici fermate, Kagome scendeva e tornava a casa, digitando il codice d’ingresso del suo palazzo e salendo al quinto piano, dove la luce era già accesa e qualcuno la aspettava con un bacio e un “com’è andata oggi?”
Ed era in quel momento che la perdeva. Kagome se ne stava nascosta dentro le sue quattro pareti e lui, affondato nel sedile della macchina che aveva usato per pedinarla, d’improvviso si ritrovava nel suo corpo fremente e nella sua mente illusa.
L’avrebbe riavuta solo la mattina seguente, quando, acconciata e abbigliata come si confà a un’impiegata, Kagome sarebbe uscita per recarsi a lavorare. Nel frattempo, tutto ciò che lui poteva possedere era il buio, l’ennesima fredda, scomoda notte in macchina, la compagnia di ricordi ormai irraggiungibili, ricordi in cui era lui a baciarla, lui a chiederle “com’è andata oggi?”. Sprofondò ancor di più nella seduta di pelle, ringhiando al crudo pensiero del suo sostituto, un Inuyasha che abbracciava Kagome nella parte di letto che un tempo era stata sua, che l’accarezzava, la sfiorava e la toccava in posti che lui ancora ricordava umidi e fragranti e pieni d’amore. Un Inuyasha che le aveva fatto dimenticare Koga.
Eppure, al pensiero di quel relativo tradimento, le sue labbra si atteggiarono in un sorrisetto maligno: Inuyasha poteva possederla nel letto o nella vita, ma non l’aveva come l’aveva lui.
Non aveva il momento in cui lei usciva dall’ufficio e si liberava di elastici e stanchezza.
Non aveva il crepitante attimo in cui Kagome lo intravedeva con la coda dell’occhio, si voltava di scatto e con timore ricercava gli occhi che la seguivano.
Non aveva il tremore delle sue dita che si serravano sui manici della borsa e non aveva lo sguardo atterrito mentre scrutava con angoscia l’angolo in cui aveva pensato di aver visto la vecchia fiamma che non si era mai arresa alla rottura.
Non aveva il momento di disillusione in cui lei si convinceva di essersi immaginata tutto e si girava di nuovo per tornare a casa sotto il suo onnipresente sguardo.
E, con quel pensiero fisso in testa, continuò a sorridere alla notte.

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