Wide awake dream

di Calimon
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Andata e ritorno ***
Capitolo 2: *** Tra sogno e realtà ***
Capitolo 3: *** Incubi e pannolini ***
Capitolo 4: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Andata e ritorno ***


Note dell’autrice:
Mamma mia da quanti tempo non pubblico qualcosa, saranno anni ormai!
L’ispirazione mi è tornata dopo aver finito di vedere Sherlock qualche settimana fa (lo so, sono indietro come la coda del cane!) perché volevo dare ai due protagonisti un finale alternativo.
Questa storia si svolge a partire dalle vicende dell’episodio “L’ultimo giuramento” e ricalca parte degli avvenimenti che hanno luogo nella serie da quel momento fino a  “Il problema finale”, mostrando quello che potrebbe essere avvenuto dopo.
Come avrete potuto intuire è una Johnlock, divisa in tre capitoli, ognuno dei quali è introdotto dalle strofe di una canzone che mi è stata d’ispirazione durante la scrittura.
Se voleste ascoltarle durante la lettura sono “Up in the air” dei “Thirty seconds to Mars, “Bury a friend” di Billie Eilish e “Stray Heart” dei Green Day.
Pubblicherò un capitolo a settimana ogni martedì.
Spero che la storia vi piaccia e se avete voglia di farmi sapere cosa ne pensate mi farà molto piacere leggere le vostre recensioni.
A presto e buona lettura! Xo

1. ANDATA E RITORNO



“I′ve been up in the air
Out of my head
Stuck in a moment of emotion I destroyed
Is this the end I feel?
Up in the air
Fucked up on life
All of the laws I've broken loves that I′ve sacrificed
Is this the end?”
{Up in the air - Thirty Seconds To Mars}

 

 

 

“C’è una cosa che devo dirti”
Sherlock stava fissando John mentre nella sua testa si dipanavano tutti i possibili scenari derivanti dalle parole che avrebbero seguito quella frase.
La sua intelligenza e il suo intuito incredibili -come li definivano gli altri- avevano ovviamente già vagliato tutte le possibili implicazioni delle sue scelte ma questa volta non era riuscito a prendere una decisione razionale e stava temporeggiando, cosa assolutamente non da lui.

Ma le emozioni, quelle dannate emozioni da cui solitamente era così bravo a discostarsi, si agitavano dentro di lui come un mare in tempesta e non gli permettevano di ragionare lucidamente.

John lo guardava in attesa delle sue parole e lui poteva chiaramente sentire lo sguardo di Mycroft addosso, anche a metri di distanza; suo fratello era impaziente di metterlo su quell’aereo e chiudere così quel problema chiamato Sherlock-ammazza-ricattatori in uno scomparto della sua mente che non avrebbe riaperto per almeno sei mesi, sempre che lui fosse tornato vivo dalla sua missione.

Il cielo era stranamente terso per essere una mattina autunnale inglese e non c’era praticamente vento, ci avrebbero messo meno del previsto ad arrivare a destinazione; questo se in quota non avessero trovato alcuna turbolenza, cosa comunque piuttosto improbabile visto il meteo previsto…lo stava facendo di nuovo!

Si stava concentrando su dettagli inutili pur di non affrontare la realtà, pur di non prendere una decisione.

“John..” Prese fiato, nella speranza che insieme all’ossigeno entrasse in circolo anche un po’ di coraggio “John tu…no, io…” 

Anche la sua dialettica, solitamente concisa e veloce, lo stava abbandonando. Maledette, maledette emozioni!

“John anche io sono umano…”

Il Dr. Watson aggrottò le ciglia e spalancò gli occhi “Beh non l’avrei mai detto!” Rispose sorpreso e divertito.

“Intendo dire che sono un umano e, mio malgrado, a volte provo cose.”
“Cose? Intendi emozioni?”
“John, non riuscirò a finire di parlare se continui ad interrompermi!” Lo rimbrottò Sherlock

Si sollevò una folata di vento che però tirava in senso opposto a quello che sarebbe stato il senso di marcia dell’aereo, se fosse aumentato probabilmente avrebbero tardato sull’ora di arrivo a destinazione.

Cristo, Sherlock concentrati! 

Quanto avrebbe desiderato una sigaretta in quel momento..!

Il detective inspirò di nuovo, profondamente.

“Dicevo, sono umano e provo delle emozioni” pronunciò questa parola con un misto di incredulità e disgusto nella voce “E per quanto io abbia provato a far finta di niente ci sono alcune emozioni che ti riguardano che non riesco ad ignorare.”

John rimase in silenzio, sapeva benissimo quanto stesse costando a Sherlock dire certe cose.

“Non ho mai avuto molti amici e sicuramente non ho mai provato quello che le persone definiscono il grande amore” mimò due virgolette con le dita in aria “Ma da quando ti ho conosciuto mi sono sentito meno solo, ho sentito di aver trovare un amico, qualcuno di davvero importante.”

“Oh Sherlock anche io…” 

Sherlock alzò l’indice come a dire di aspettare ancora un attimo a parlare “I due anni in cui ho dovuto fingermi morto sono stati i più difficili perché non potevo parlarti, non potevo vederti.”

“Sherlock!” Lo chiamò Mycroft

“Dammi un minuto!” Gli gridò di rimando

“Sherlock l’aereo deve partire!” dal tono di voce di Mycroft permeava tutta la sua impazienza

“Dammi solo un dannatissimo minuto!” Sherlock scandì ogni parola che usciva dalla sua voce come un ringhio.

Per lui era già tutto incredibilmente difficile senza che continuassero ad interromperlo; ammettere a sé stesso di provare certi sentimenti era stato uno sforzo immane ma riuscire a dichiarale a qualcuno si stava rivelando in assoluto la cosa più masochista che avesse mai fatto in vita sua, e lui ne aveva fatte parecchie.

Inspirò profondamente.

John sembrava aver compreso la difficoltà che stava provando perché era rimasto in silenzio, paziente, con la sua solita espressione pacifica e aperta in volto.

“Per farla breve, quello che sto cercando di dirti John è…” sospirò profondamente

Ora o mai più Sherlock!

“John Hamish Watson, io non so cosa sia il grande amore, non so nemmeno cosa sia l’amore probabilmente, ma sono certo che quello che provo per te lo sia, o almeno ci vada molto vicino. Non ho mai voluto mancare di rispetto a te, Mary, o la piccola Watson in arrivo, ma non potevo andarmene come due anni fa senza dirtelo. Non avrei potuto vivere con questo rimorso, non di nuovo. La tua amicizia mi basta e mi basterà sempre, è preziosa…” continuò a parlare tenendo lo sguardo basso, cosa insolita per lui che era sempre sicuro di sé “Forse è solo il mio ennesimo atto egoista, forse lo sto facendo solo per me, per liberarmi di questo peso ma volevo che tu sapessi.”

Sherlock non volle dare tempo all’amico di rispondere: una cosa era fare i conti con le sue emozioni, accettare di essere inevitabilmente ferito dalle parole che avrebbe pronunciato John era qualcosa a cui non era preparato.

E se non fosse così, Sherlock? Se lui…

Sherlock scosse la testa, un gesto che fece più per reprimere i suoi pensieri che per altro, ma John lo interpretò nel migliore dei modi rimanendo in silenzio.

“Ciao John..” Gli posò una mano sulla spalla e, nonostante fosse coperta dalla spessa stoffa del suo guanto, sembrò prendere fuoco per il calore che quel contatto sprigionò in lui.

“Ciao Sherlock..” Gli fece eco l’amico abbozzando un sorriso.

Il detective dovette fare ricorso a tutta la sua forza di volontà per staccare la mano dal dottore e costringersi a voltarsi avviandosi verso l’aereo che lo avrebbe condotto ad est.

“Sherlock!” La voce di John lo fece voltare.

I due rimasero a guardarsi, senza proferire parola, per quelli che sembrarono istanti interminabili.
Quante cose ci sarebbero state ancora da dirsi, quanti dubbi, quante domande ma quello non era più il loro momento; forse, il momento di John e Sherlock non c’era mai stato e sicuramente non sarebbe mai arrivato.

John gli sorrise di nuovo, questa volta con un sorriso più ampio e deciso che Sherlock ricambiò, poi alzò il bavero del cappotto, si voltò e riprese a camminare senza guardarsi più indietro.

 

 

Sherlock venne riportato bruscamente alla realtà; qualcuno lo stava toccando, strappandolo dai suoi pensieri.

O dalle tue allucinazioni, eh Sherlock?

Nel giro di mezzo minuto era nuovamente circondato da Mycroft, Mary e…John.

“Che ci fate qui?” Chiese bruscamente cercando di prendere tempo e ricollegare il cervello alla realtà

“Non ti ricordi fratellino? Moriarty è tornato!” Gli rispose Mycroft sedendosi su un sedile poco distante da lui.

“Sì, certo che mi ricordo!” 

Era successo tutto nel giro di pochi minuti ma per lui era come se fossero passati anni: dopo poco il decollo aveva ricevuto la chiamata del fratello che lo avvisava del ritorno di Moriarty e in quello che aveva stimato essere stati dieci minuti l’aereo era tornato al punto di partenza.

Nella metà del tempo lui era riuscito a fare un giro nel suo palazzo mentale, richiamare nella sua mente un caso di secoli prima e cercare di utilizzarlo per risolvere il mistero del ritorno di Jim.

Era stato tutto nella sua mente, poco più di un sogno, ma a lui era parso estremamente reale.

Ma John? Anche la confessione all’amico era stata frutto della sua immaginazione o era accaduto realmente?

Sherlock fece quello che sapeva fare meglio: osservare; John però aveva la stessa espressione pacifica e bonaria di sempre, non dava nessun segno di disagio per la situazione, si stava comportando esattamente come avrebbe fatto normalmente.

Mary era accanto a lui, serena.

No, sicuramente non aveva detto nulla a John e quella conversazione era stata unicamente frutto della sua fantasia, forse una piccola distrazione dovuta all’apertura di una stanza nel suo palazzo mentale che avrebbe dovuto rimanere chiusa a doppia mandata.

Quando Sherlock raccontò del caso dell’abominevole sposa a cui stava “lavorando”, Mycroft capì al volo che non era tutto unicamente farina del suo sacco e gli chiese la famigerata lista.

Era un accordo che avevano da quando erano poco più che un ragazzini; Sherlock era un adolescente annoiato, con un’intelligenza sopra la media e un carattere spigoloso che non lo agevolava nel fare -e soprattutto mantenere- delle amicizie, così aveva trovato un mondo tutto suo in cui scappare, allevare lo stress e fare ciò che sapeva fare meglio: studiare, osservare, pensare, ragionare e dedurre.

Ci fu una volta però che esagerò e Mycroft, per una serie di fortunati eventi, lo ritrovò in un vicolo, moribondo; cercò di rianimarlo in attesa dell’ambulanza ma sembrava tutto perduto. Sherlock era cadaverico, sporco del suo stesso vomito, gli occhi azzurri fissi su un punto indefinito e il battito del cuore era lento e debole.

Il senso di impotenza derivato dal non avere le informazioni necessarie per aiutare immediatamente il fratello avevano fatto sentire Mycroft inutile e allo stesso modo lo avevano fatto sentire i paramedici quando arrivati sul posto lo avevano tempestato di domande e lui non aveva la più pallida idea di cosa dire ai medici per salvare Sherlock.

Mycroft aveva confessato tutte queste cose al fratellino mentre lui riposava in ospedale, dopo una lavanda gastrica, un tentativo di rianimazione e parecchie sacche di liquidi dopo; Sherlock era certo che il fratello maggiore si fosse aperto con lui e mostrato così vulnerabile solo perché pensava che lui non potesse sentirlo. Invece aveva udito ogni cosa e, sebbene non gliene avesse mai fatto menzione, teneva nel cuore quel ricordo come uno dei più cari della sua vita, sicuramente l’unico in cui Mycroft gli esplicitava quanto tenesse a lui e quanto gli volesse bene.

 

 

Quando scesero dall’aereo John lo prese da parte e in quel momento tutte le certezze di Sherlock vacillarono.

La sua mente, solitamente pragmatica, razionale e quanto più lontano possibile dalle emozioni, sembrò essere invasa da una fitta coltre di nebbia che gli impediva di pensare lucidamente.

Aveva davvero parlato a Watson? Non era possibile, sull’aereo era certo di esserseli solamente immaginato quella scena per qualche istante prima di pensare al caso di Emilia Ricoletti.

“Sherlock devi stare attento con quella roba, rischi di fare una brutta fine..” 

“Tranquillo John, so quello che faccio” minimizzò il detective

“Dico davvero!”

“Perché?” 

“In che senso perché Sherlock?”

“Perché mi stai dicendo questo?”
“Perché ci tengo a te, razza di idiota! Sei il mio migliore amico e non voglio dover partecipare al tuo vero funerale, quello fasullo è stato abbastanza!”

“Sono il tuo migliore amico?” 

“Non farmelo ripetere”

Sherlock sorrise.

Il suo segreto era rimasto al sicuro ma aveva l’amicizia di John, e questo era abbastanza.

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Capitolo 2
*** Tra sogno e realtà ***


Note dell’autrice: Altro Martedì, altro capitolo!

Questa volta ho lasciato più spazio al mio caro John Watson, un personaggio che adoro e spero di essere riuscita a rendere al meglio. 

Per certi versi è stato più difficile dar vita ai suoi pensieri che a quelli della mente brillante, contorta e pragmatica di Sherlock…ma non voglio anticipare nulla quindi vi lascio alla storia.

Grazie a chi ha letto, a chi ha recensito e a chi lo farà. A presto! Xo

 

 

2. TRA SOGNO E REALTÀ

 

 

“What do you want from me?

Why don't you run from me?

What are you wondering?

What do you know?

Why aren′t you scared of me?

Why do you care for me?

When we all fall asleep, where do we go?”

{Bury a friend - Billie Eilish}

 

 

“Vai all’inferno Sherlock”

Dalla morte di Mary l’inferno che si era trasferito sulla Terra, più precisamente al 221B di Baker Street.

John incolpava Sherlock per la morte della moglie che aveva promesso di proteggere e, benché una parte di lui sapeva benissimo che non era davvero colpa sua, le parole dell’amico lo torturavano da allora. 

Mary aveva ragione, se voleva salvare John Watson doveva lasciare che John Watson desiderasse salvare lui; per farlo Sherlock aveva deciso di dare il tutto per tutto.

Il fatto che John non gli parlasse più e si rifiutasse di vederlo aveva solo reso più facile la sua discesa verso gli inferi: rischiare la vita non lo spaventava, lo aveva fatto già diverse volte, la differenza era che adesso lo stava facendo per salvare qualcun altro, non solo per appagare il suo bisogno di sapere e conoscere o perché aveva sbagliato a mischiare delle sostanze stupefacenti.

Sherlock, sii sincero almeno con te stesso, lo stai facendo per egoismo anche questa volta.

Sherlock avrebbe voluto mettere a tacere la sua voce interiore ma sapeva che era così: salvare John voleva dire salvare anche sé stesso, e non solo dal rischio di morire a causa di tutta la roba che stava assumendo, ma anche perché la sua vita senza John era una vita menomata.

Per quanto tentasse di fingere il contrario, di far credere a sé stesso che da solo stava più che bene, come era sempre stato, la sua vita sembrava un puzzle a cui mancava un tassello, quel pezzettino senza il quale il quadro d’insieme è irrimediabilmente rovinato.

Una siringa dietro l’altra, una sigaretta dopo l’altra, una cazzata in pubblico più grande di quella precedente.

Sherlock non aveva idea di quanto tempo fosse andato avanti con quel comportamento autodistruttivo, i giorni iniziavano a sembrargli tutti uguali e si susseguivano in un vortice che non seguiva più calendario e ritmo circadiano.

Il caso di Culverton Smith era sembrato un ottimo pretesto per farsi notare da John, in più poter inchiodare un serial killer che la stava facendo franca da troppo tempo era un ottimo incentivo ad impegnarsi.

La prima volta che aveva rivisto John aveva dovuto fare uno sforzo enorme per mantenere la calma ed evitare che il mix di emozioni e sostanze stupefacenti lo travolgessero del tutto.

Avrebbe voluto abbracciarlo, dirgli quanto gli mancava, dirgli che se avesse potuto avrebbe dato la vita per salvare Mary e per vederlo felice, perché essere ucciso da una pallottola sarebbe stato sicuramente meglio che vivere una vita in cui John Watson non era presente. 

Era stato possibile stare solo prima di incontrarlo ma una volta che lui era entrato nel suo mondo lo aveva sconvolto e cambiato a tal punto che fare come se lui non ci fosse mai stato non era più un’opzione.

Tutto il resto era andato secondo i piani, benché Sherlock avesse vissuto tutto come si vive un sogno, vagamente inconsapevole e con la mente annebbiata.

Mr. Smith lo aveva quasi ucciso, strangolandolo con le sue stesse mani, guardandolo negli occhi per soddisfare il suo piacere perverso, ma la fiducia di Sherlock nei confronti di John non era mai vacillata: era certo che sarebbe arrivato a salvarlo.

Nonostante ciò non riuscì ad impedirsi di pensare che se avesse dovuto guardare un paio d’occhi per l’ultima volta prima di morire, avrebbe voluto guardare quelli azzurri dell’uomo che anni prima aveva affittato insieme a lui quell’appartamento al 221B di Baker Street.

Arriverà, lo sai. Cerca di far entrare dell’aria nei polmoni. Non ti agitare. Resisti. John non ti deluderà.

E così era stato, come un angelo sceso negli inferi, John era arrivato a salvarlo.

Cercando di mantenere un’aria non curante Sherlock aveva raccontato all’amico ciò che era accaduto, gli aveva parlato del video di Mary, del suo piano, tutto; poi era svenuto.

I giorni seguenti erano stati un vortice pieno di nebbia, di incubi, di risvegli di soprassalto in un letto d’ospedale e di dolori lancinanti a causa dell’astinenza.

Ogni tanto apriva gli occhi riconoscendo le voci di Mycroft, Molly e Mrs. Hudson, tutti gli chiedevano come stava ma la sua risposta era sempre la solita domanda “John?” 

John però non era mai lì: aveva da fare con Rosie o stava lavorando o semplicemente non era potuto andare a trovarlo.

A quel punto Sherlock semplicemente chiudeva nuovamente gli occhi facendosi inghiottire di nuovo dall’oblio dei farmaci e tornando agli incubi che tutto sommato erano meglio della realtà.

 

“Lui non ti vuole più!” Lo stava sfottendo Moriarty 

“Smettila di parlare!” Sherlock lo spinse giù dal tetto del palazzo su cui anni prima si era sparato un colpo di pistola, ma lui ricomparve quasi subito alle sue spalle.

“Sono ancora qui Sherlock! Non puoi liberarti di me!” Gli sussurrò all’orecchio in tono beffardo.

“L’ho già fatto una volta e lo farò di nuovo!” Sherlock lo afferrò saldamente per il bavero del cappotto e Moriarty cominciò a ridere sguaiatamente 

“Sherlock, Sherlock, Sherlock...se non sbaglio io mi sono ucciso. Io!” Sottolineò per poi puntargli l’indice sul petto 

 “Tu mio caro piccolo detective mancato non sei stato in grado nemmeno di fare quello!” Ghignò 

“Non sei stato in grado di uccidere me e non sei nemmeno riuscito a salvare Mary” 

Gli occhi di Jim Moriarty erano due pozzi scuri accesi da una scintilla di follia, mentre le labbra erano piegate in un sorriso malevolo.

Sherlock sentì qualcosa di pesante battergli sulla gamba; infilò una mano nella tasca del cappotto da cui ne tirò fuori una pistola, che non ricordava di avere con sé, e la puntò dritta sulla fronte di Jim.

“Oh che paura Sherlock!” Lo canzonò il suo nemico “Se premi quel grilletto però il tuo caro amico John farà una brutta fine”

Indicò il lato opposto del tetto dove un uomo con un passamontagna stava puntando un coltello alla gola di John.

“E non sarà nemmeno una fine veloce, mio caro amico...”

Sherlock!

Qualcuno chiamò il suo nome e per un attimo il tempo sembrò fermarsi.

Il detective si guardò intorno ma nessuna delle persone presenti stava parlando, sembravano tutte congelate come in una fotografia.

Sherlock! Mi senti?

Sherlock fu costretto a portarsi le mani alle orecchie perché questa volta la voce esplose con il fragore di un tuono.

La sua vista si offuscò, faceva fatica a mettere a fuoco i contorni delle persone e il paesaggio davanti a lui era sfocato e avvolto da una luce ovattata.

Mr. Holmes ... molti farmaci ... 

Una voce diversa stavolta, meno potente. Le parole arrivavano confuse, come se ci fosse un’interferenza nel segnale.

“Allora Sherlock, farai fare a John la stessa fine che hai fatto fare a sua moglie?” 

Jim Moriarty aveva ripreso a parlare, camminando intorno a lui lungo un cerchio immaginario.

Sherlock provò ad afferrarlo ma la sua figura sembrava evanescente come quella di un fantasma.

“Ah ah ah!” Lo redarguì Jim “Se provi ancora a sfiorarmi la piccola Rosie rimarrà senza genitori e tu non vuoi che questo accada, vero?” 

La voce dell’uomo suonava divertita; nella sua mente di psicopatico questo doveva essere un gioco molto divertente.

“Ti ricordi cosa ti dissi durante il nostro primo incontro Sherlock? Ti dissi che ti avrei bruciato il cuore...” 

Moriarty in poche falcate attraversò la diagonale che lo separava da John e si piazzò davanti a lui, dando la schiena a Sherlock che istintivamente puntò la pistola verso la sua nuca.

“Vedo che sei duro a capire” gridò Jim estraendo un coltello dal taschino della sua giacca, ne fece scattare la lama e in un gesto fulmineo la piantò nella gamba di John che si accasciò a terra in una pozza di sangue.

“Se fai un’altra cazzata il tuo caro John Watson morirà! Vuoi questo Sherlock?” 

Perdonami...prima...

La voce tornò a tuonare nella sua testa, esplodendo come una bomba dentro e fuori da lui; questa volta Sherlock la riconobbe, era la voce di John.

Alzò lo sguardo su di lui: si stava tenendo la gamba poco sotto al femore con entrambe le mani nel tentativo di contenere l’emorragia ma non stava proferendo parola, da stoico soldato quale era.

“Te lo avevo detto Sherlock che ti avrei bruciato il cuore” riprese Moriarty accucciandosi accanto a John “Dovevo solo capire dove colpire” passò la lama del coltello sul viso di John.

“Lascialo stare Moriarty!” Urlò Sherlock con tutta l’aria che aveva nei polmoni “Uccidi me: sparami, accoltellami, fammi quello che ti pare ma lascialo stare!” 

Avrebbe voluto correre verso di lui ma i suoi piedi non rispondevano agli impulsi mandati dal cervello; era come se qualcuno gli avesse incollato le scarpe al cemento.

“Manterrò la mia promessa Sherlock, ti brucerò il cuore e farà molto molto male.” Cantilenò Moriaty prima di passarsi il pollice da un lato all’altro della gola.

“Ti prego, lascialo!” Lo supplicò Sherlock mentre il suo corpo si rifiutava di muoversi anche di un solo centimetro dal punto in cui si trovava.

Sentì una mano che afferrava la sua; improvvisamente il pavimento si sgretolò sotto i suoi piedi e Sherlock cominciò a precipitare.

Intorno a lui non c’era più alcun palazzo, non c’era più Londra, solo una luce accecante.

 

“Perdonami Sherlock se non sono venuto prima a trovarti, avrei voluto farlo ma rivederti dopo così tanto tempo è stato...” John sospirò “Non ero pronto.” 

Posò la mano su quella di Sherlock e se avesse guardato lo schermo che registrava il battito del cuore dell’amico avrebbe notato che la sua frequenza cardiaca in quel momento era aumentata.

Quel semplice contatto aveva riportato Sherlock alla realtà, o almeno così sperava visto che a volte gli risultava difficile discernere i suoi incubi da ciò che era reale.

Il calore sprigionato dalla mano di John però lo sentiva chiaramente, non poteva essere solo un sogno.

Avrebbe voluto aprire gli occhi ma alzare le palpebre gli sembrò uno sforzo sovrumano; semplicemente rimanere cosciente gli impiegava buona parte delle sue energie.

“Ero arrabbiato, con te e con me stesso.” Ammise “E non solo per la promessa che mi avevi fatto, sapevo che dal momento che Mary si era gettata davanti a te per salvarti da quel proiettile tu non avresti potuto fare nulla...ero arrabbiato per quello che mi hai detto prima di salire sull’aereo.” 

La mente annebbiata di Sherlock ci mise qualche secondo a capire a cosa si stava riferendo l’amico. 

Non è stato un sogno...

Nonostante la stanchezza e la confusione, il suo cervello si accese come un computer e iniziò ad elaborare tutto ciò che era accaduto quel giorno. Era convinto che si fosse trattato di un sogno, ma sulla base di cosa? Per via del comportamento di John? Da quando il suo pensiero, così analitico e razionale, veniva ingannato dai più banali comportamenti umani? 

“Ero arrabbiato con te perché avevi deciso di confessarmi i tuoi sentimenti proprio quando tutto nella mia vita sembrava essere perfettamente in ordine. Avevo una moglie, una donna che amavo e che mi amava, e una bambina in arrivo. Il nostro amore stava generando una vita e tu...” John fece una pausa. 

Sherlock lo udì sospirare pesantemente “Cristo santo Sherlock, tu mi hai fatto rivalutare ogni cosa!”

Queste parole colpirono il detective con la stessa potenza di uno schiaffo in pieno viso ma prima che potesse elaborarle John riprese a parlare.

“Abbiamo passato anni a lavorare insieme e tu quando decidi di dirmi quello che provi per me? Quando nella mia vita va tutto a gonfie vele e tu stai per andartene!” La rabbia traspariva chiaramente dalle parole di John che continuava a riversare su di lui come un fiume in piena.

“Ho pensato ogni stramaledetto giorno a quello che mi avevi detto e più ci pensavo e più nella mia testa si insinuavano dubbi e ripensamenti. Cosa sarebbe successo se non te ne fossi andato per due anni? Cosa sarebbe successo se quella sera, quando sei ricomparso al ristorante, io non ti avessi aggredito in quel modo? Cosa sarebbe successo se non avessi più chiesto a Mary di sposarmi?” 

“Ci ho pensato ogni giorno, era diventato il mio chiodo fisso...lo è stato per mesi. Non importava quello che stessi facendo, una parte di me pensava sempre a cosa sarebbe successo se tu mi avessi fatto quella confessione prima che io conoscessi Mary. Lo pensavo anche mentre ero con lei, mentre cambiavo il pannolino a Rosie, mentre un fotografo strapagato scattava le nostre foto di famiglia. Era come una goccia che pian piano stava scavando nella roccia.”

Sherlock sentì il respiro di John farsi sommesso, poteva immaginarlo mentre si portava una mano davanti alla bocca e sospirava ad occhi chiusi, come faceva ogni volta che era pensieroso per qualcosa.

Avrebbe voluto aprire gli occhi, alzarsi e abbracciarlo; avrebbe voluto chiedergli scusa perché non avrebbe mai voluto che le sue parole lo facessero stare così male, ma non lo fece.

Ancora una volta la sua parte più egoista vinse e lui rimase perfettamente immobile, in attesa che John parlasse ancora, avido delle sue parole.

“Quando Mary è morta il senso di colpa che ho provato era enorme. Sono arrivato a chiedermi se con i miei pensieri costantemente proiettati su di te non avessi in qualche modo cambiato io il suo destino...Lo so, è stupido, se tu potessi sentirmi rideresti di me.”

Ti sento John…

Sherlock non pensava che fosse stupido, impossibile si, ma non stupido. Il dolore per la morte di qualcuno amato poteva indurre chiunque a fare pensieri irrazionali e  cercare di attribuire la colpa a qualcuno o qualcosa solo per alleviare quel peso che altrimenti sarebbe insostenibile.

“E’ per questo che ho voluto allontanarti da me. Non potevo sopportare il fatto che avevo inconsapevolmente trascorso gli ultimi momenti con la donna che amavo pensando a te. Darti la colpa di tutto era più facile che fare i conti con la mia coscienza e con...” si interruppe 

Con cosa John? Cosa stavi per dire?

John rimase in silenzio così a lungo che, se non fosse stato per il suo respiro appena udibile, Sherlock avrebbe pensato che si trattasse dell’ennesimo scherzo della sua mente.

La porta della stanza venne aperta producendo un fastidioso cigolio.

“Signor Watson, l’orario delle visite è finito.” La voce di una donna, probabilmente un’infermiera veniva a portargli via John.

Si tratta sempre di una donna, caro Sherlock...

“Posso avere ancora un paio di minuti?” Chiese John con tono gentile “La prego, poi prometto che me ne andrò senza fare storie.” 

“Due minuti, non di più. Mr. Holmes deve riposare.” Il tono severo della donna ricordò a Sherlock quello di sua madre quando da bambino gli intimava di spegnere la luce e andare a dormire una volta per tutte.

La porta si richiuse e nella stanza piombò nuovamente il silenzio.

“Quando ti ho conosciuto, Sherlock, il resto del mondo ha smesso di esistere e quando ti ho creduto morto ho smesso di esistere anche io. Ho passato anni a reprimere dentro di me un sentimento che anzi che affievolirsi cresceva giorno dopo giorno, poi tu sei scomparso e io ho passato mesi a ripetermi che avrei dato qualsiasi cosa pur di rivederti e dirti ciò che provavo. Quando sei tornato però nella mia vita c’era già qualcun altro. Io amavo Mary, davvero, ma poi tu mi hai detto di amarmi e...mi sto solo ripetendo.” 

John si alzò in piedi e cominciò a camminare avanti e indieto, Sherlock ne poteva sentire i passi veloci andare da una parte all’altra del suo letto.

“Quello che sto cercando di dirti è che ti ho amato in silenzio per anni, Sherlock, ma sono sempre stato troppo codardo per dichiarami e ad essere sincero non so se avrò mai il coraggio di dirtelo guardandoti negli occhi.”

Il cigolio della porta annunciò il ritorno dell’infermiera “Signor Watson...”

“Sì, lo so, me ne vado!” Scattò bruscamente John e i passi della donna si allontanarono di nuovo nel corridoio.

“A presto Sherlock” 

Fermalo!

Sherlock rimase immobile, diviso tra la volontà di fermare l’amico e la paura per le conseguenze che ciò avrebbe comportato. 

Si sentiva un impostore per aver ascoltato quelle parole che John aveva trovato il coraggio di pronunciare solo perché credeva che lui non potesse sentirlo; sapeva bene cosa voleva dire riuscire a confessare qualcosa solo avendo la certezza che non si subiranno le conseguenze, lo aveva fatto anche lui dichiarando il suo amore a John prima di salire su un aereo che, in teoria, avrebbe dovuto portarlo lontano per molto tempo.

Sapeva che se in quel momento avesse aperto gli occhi tra lui e John sarebbe potuto cambiare tutto.

La sua mente viaggiava ai cento all’ora cercando di prevedere tutti i possibili scenari che sarebbero derivati dalla scelta di far sapere a John che aveva ascoltato tutto, ma la paura di farlo allontanare nuovamente dalla sua vita prevalse e rimase immobile.

Sentì i passi di John fermarsi per poi ripartire più spediti di prima nella sua direzione e in un paio di secondi fu accanto a lui; percepiva il respiro dell’amico sul viso e istintivamente trattenne il suo.

Non c’era cosa al mondo che desiderasse di più di aprire gli occhi e guardare quelli di John, che mai erano stati così vicini, a pochi centimetri dai suoi.

Sherlock si ritrovò a sperare che John lo baciasse. Si sentiva come un adolescente in preda agli ormoni che si trova vicino alla sua cotta, non che lui ne fosse un grande esperto.

Aveva avuto una cotta una volta, per un ragazzo più grande di lui al liceo, ma era passata velocemente come era arrivata; la sua mente razionale e il suo distacco da tutta quella che era la normale sfera emotiva umana non lo avevano fatto soffermare su quelle sensazioni più di qualche giorno.

Nonostante quanto sostenesse Mycroft aveva avuto anche delle esperienze, per lo più al college, ma erano atte solo trarne piacere personale e non a creare un legame con qualcuno.

L’unica persona con cui aveva sentito questo bisogno era stato John Watson, l’uomo che in quel momento si trovava così vicino che poteva sentirne il profumo.

Rimanere immobile stava diventando una tortura.

“Un giorno troverò il coraggio, te lo prometto.” gli sussurrò all’orecchio prima di avvicinarsi alla sua guancia e dargli un bacio; dopodiché si allontanò da lui e uscì dalla stanza.

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Capitolo 3
*** Incubi e pannolini ***


Note dell’autrice: Solo una piccolissima nota per dirvi che questo non sarà l’ultimo capitolo come avevo annunciato. Durante la stesura di questa breve fanfiction mi sono affezionata ancora di più a Sherlock e John, così ho deciso di scrivere anche un epilogo che pubblicherò la settimana prossima.  

Grazie di nuovo a chi legge e commenta, ora vado a festeggiare che qui s’invecchia! Xo

 

3. INCUBI E PANNOLINI

 

I lost my way, oh baby, this stray heart

Went to another, can you recover, baby?

Oh, you′re the only one that I'm dreamin′ of

Your precious heart was torn apart by me and you

You're not alone, oh, and now I'm where I belong

We′re not alone, oh, I′ll hold your heart and never let go

Everything that I want, I want from you

But I just can't have you

Everything that I need, I need from you

But I just can′t have you”

{Stray Heart - Green Day}

 

 

Non di nuovo, non di nuovo!

Sherlock non poteva permettere che il panico lo assalisse ma era esattamente quello che stava succedendo.

Il suo cervello lavorava velocemente cercando di elaborare le informazioni che Eurus gli aveva dato per salvare l’aereo che stava precipitando, ma non riusciva a concentrarsi sapendo che John era stato rinchiuso da qualche parte.

Non poteva permettere che gli succedesse qualcosa, non se lo sarebbe mai perdonato.

Quando finalmente capì che il suo migliore amico era stato gettato nel pozzo si precipitò da lui, ignorando il cellulare che continuava a suonargli nella tasca; corse verso il bosco che circondava la casa e giunse all’imboccatura di pietra con la gola chiusa dalla paura.

La torcia gli tremava nella mano gettando lame di luce sulle pareti e nello specchio d’acqua.

“Rassegnati Sherlock” la voce di sua sorella lo sorprese alle spalle “John Watson ha fatto la stessa fine di Barbarossa” disse con tono apatico

“No! John!” Urlò lui affacciandosi nel pozzo

 

“No!” 

Sherlock si svegliò di soprassalto mentre il grido di terrore gli moriva in gola; ci mise qualche secondo a capire che si era trattato dell’ennesimo incubo.

Dopo aver salvato John dal gioco malato di Eurus gli capitava molto spesso di sognarlo morto nel pozzo, nonostante sua sorella non costituisse più una minaccia per loro.

Eppure aveva rischiato così tante volte di perdere John che il suo subconscio gli proponeva svariate visioni di questa possibilità sotto forma di incubi da cui si risvegliava sempre gridando, con la sensazione che la sua mente gli stesse giocando qualche brutto scherzo e che John fosse effettivamente in pericolo.

Dopo settimane avrebbe dovuto sapere che le immagini che aveva appena visto non erano niente più che le sue paure rivissute durante la fase rem, eppure non riusciva a reprimere il senso di ansia che lo assaliva e gli stringeva lo stomaco in una morsa.

Quel comportamento così irrazionale non era da lui e Sherlock detestava profondamente essere in balia di tutte quelle emozioni da cui non riusciva a distaccarsi.

Alla consapevolezza che si stava comportando come una persona totalmente estranea da quella che era solito essere, seguì un’altra azione per lui alquanto inconsueta: prese il cellulare che teneva appoggiato sul comodino e mandò un messaggio.

“John, stai bene? SH”

La schermata dei messaggi tra lui e John era rimasta quasi intonsa da quando si erano conosciuti; Sherlock detestava profondamente mandarne e riceverne, eppure da qualche settimana si leggevano una serie di messaggi simili a quello che aveva appena inviato, quasi sempre con accanto la risposta di John che di solito variava da “Sto bene, non preoccuparti” a “Era solo un incubo Sherlock, torna a riposare”.

Eppure c’erano volte in cui John non rispondeva e la paura iniziava a serpeggiare dentro di lui incontrollabilmente, come in quel momento.

Nel giro di un minuto Sherlock era saltato giù dal letto, si era infilato scarpe, sciarpa e cappotto, sopra il pigiama perché non voleva perdere tempo a vestirsi, ed era corso in strada a cercare un taxi.

Torna in casa, lo sai che sta bene!

La sua parte più razionale sapeva che probabilmente John stava solo dormendo o era indaffarato con Rosie, più di una volta infatti gli aveva aperto la porta con la piccola urlante in braccio o sporco su tutti i vestiti di latte rigurgitato, ma non riusciva a controllare l’altra parte, quella irrazionale e spaventata che finiva sempre per prendere il sopravvento.

Non era da lui, non avrebbe voluto comportarsi così; non c’era cosa che desiderava di più di avere indietro il suo raziocinio e tornare ad essere il lucido e pragmatico Sherlock di sempre, tuttavia rischiare di perdere John così tante volte, e dopo aver saputo che ciò che provava per lui era ricambiato, aveva incrinato la sua armatura adamantina.

Dieci minuti dopo stava bussando alla porta di casa Watson. Nessuna risposta.

Attese un minuto e bussò di nuovo più forte di prima; ancora nessuna risposta.

No, no, no!

Tutti gli scenari peggiori cominciarono a prendere forma nella sua mente. 

Magari un altro familiare di cui non sapeva nulla stava minacciando la vita di John e Rosie, o forse prima di morire Moriarty era riuscito a mettere a punto un piano per fargli del male, oppure John...

“Sherlock, mi ero appena addormentato...” 

Preso dalle sue congetture e dal cercare di individuare un modo per entrare in casa per scoprire cosa stava succedendo, Sherlock non si era nemmeno reso conto che l’amico aveva aperto la porta e lo stava guardando con gli occhi socchiusi e stanchi.

“Non hai risposto al mio messaggio” disse mente si dava mentalmente dell’imbecille.

“Rosie ha pianto fino a mezz’ora fa e quando finalmente è crollata mi sono addormentato anche io” spiegò John prima di sbadigliare

“Scusami. Ho avuto un incubo e...beh lo sai.” 

Ed eccola lì, puntuale come un orologio svizzero, quella sensazione di aver fatto una cazzata; arrivava ogni volta che si rendeva conto che aveva lasciato che le sue paure irrazionali lo avevano spinto a precipitarsi da John in piena notte solo perché aveva immaginato qualcosa.

Si sentiva stupido, e se c’era una cosa che lui odiava era sentirsi stupido nonostante il suo intelletto fuori dalla media.

“Vieni, entra” John si fece da parte per lasciarlo passare, come faceva ogni volta.

Sherlock varcò la soglia sentendosi come un bambino che dopo un brutto sogno va a cercare conforto nel letto dei genitori.

John era in grado di farlo sentire al sicuro.

Ne aveva passate tante nella sua vita, in particolare in quell’ultimo anno, e nonostante ciò riusciva a fare da colonna portante anche a lui.

Sherlock non voleva certo ergersi sopra l’amico ma se tempo addietro gli avessero chiesto chi tra i due pensava che avrebbe retto meglio emotivamente, avrebbe detto che sarebbe stato lui senza ombra di dubbio.

E invece Sherlock era crollato. 

Riusciva a mantenere il controllo fintanto che la sua mente era impegnata a risolvere casi che Scotland Yard non riusciva a portare a termine, ma appena il suo cervello aveva un attimo di pausa le sue paure prendevano il sopravvento.

La notte era il momento peggiore: si rigirava nel letto con lo stomaco contratto e il fiato mozzato dall’ansia e quando finalmente riusciva a prendere sonno si ritrovava dentro ad incubi da cui si risvegliava sempre urlando.

La piccola Watson fece capire a gran voce di essere nuovamente sveglia e l’espressione di sconforto che si dipinse sul volto di John fece sentire Sherlock ancora più in colpa per averlo privato di quei cinque minuti di sonno.

“John, mi dispiace” si rammaricò Sherlock 

“Non preoccuparti, sarebbe successo comunque” lo rassicurò l’amico incamminandosi verso la stanza della figlia

“Aspetta, tu riposati. Ci penso io a Rosie” 

Tu pensi a chi Scherlock?!

John sembrò perplesso dalla proposta dell’amico “Sherlock sei sicuro?” poi alzò le braccia in segno di resa, probabilmente troppo stanco per ribattere qualcosa. 

Sherlock si affacciò alla porta della cameretta con le pareti dipinte di rosa pensando che non era mai stato da solo con un bambino piccolo, ma non poteva certo essere peggio di quella volta che aveva disinnescato una bomba.

E invece fu peggio, molto peggio:  le bombe non urlano a squarciagola di continuo, le bombe ti danno addirittura il tempo di pensare a cosa fare, le bombe non si divincolano come delle anguille iperattive, i bambini piccoli invece sì, scoprì suo malgrado Sherlock.

Solo dopo un rocambolesco cambio di pannolino -chissà se si metteva davvero così- e quelle che erano sembrate ore a cullarla, Rosamund si era finalmente addormentata e lui era rimasto in piedi con la bambina in braccio, terrorizzato all’idea di fare un qualsiasi movimento e risvegliarla, finché John non aveva fatto capolino nella stanza con in mano un biberon.

Con gesti delicati era riuscito a prendere in braccio la piccola senza che lei aprisse gli occhi, si era accomodato sulla sedia a dondolo e aveva dato da mangiare a Rosie guardandola con occhi innamorati, nonostante la stanchezza.

Sherlock lo osservò pensando che mai aveva visto niente di più perfetto e che avrebbe dato qualsiasi cosa per avere la possibilità di passare la vita con John.

Scosse la testa per mandare via quel pensiero. 

John riuscì a mettere Rosie nella culla senza svegliarla, fece cenno a Sherlock di uscire dalla stanza e una volta in cucina accese il bollitore per il the.

“Sherlock per quanto tempo sei rimasto lì in piedi?” Domandò divertito avendo intuito ciò che era accaduto

“Non ne ho idea, avevo troppa paura che Rosie si risvegliasse ed iniziasse a gridare di nuovo” ammise crollando su una sedia

John cominciò a ridere, prima sommessamente e poi sempre più forte.

“Dovevi vedere la tua faccia quando sono entrato!” Lo prese in giro bonariamente “Terrore allo stato puro!” 

La risata di John, così allegra e fragorosa, contagiò anche Sherlock 

“Non pensavo che il famoso Sherlock Holmes potesse aver paura di qualcosa, figurarsi di una bambina!” 

Mentre Sherlock lo osservava ridere, spensierato e felice, qualcosa scattò dentro di lui e le parole gli uscirono dalla bocca ancor prima che avesse modo di elaborarle davvero.

“C’è un’altra cosa che mi terrorizza” ammise

“Cosa?” Domandò John alzando un sopracciglio, ancora sorridendo.

Era il momento: Sherlock poteva scegliere se essere codardo oppure dichiarare i suoi sentimenti senza possibilità di fuggire questa volta.

Guardò John negli occhi “Perderti”.

 

Il bollitore stava fischiando ma né Sherlock né John gli diedero peso.

Nella stanza regnava lo stesso silenzio che c’è nell’aria l’istante prima di un terremoto, prima che tutto venga stravolto.

“Sono solo incubi Sherlock” John fu il primo a parlare e le sue parole furono come uno schiaffo per lui. 

Non sapeva se l’amico non avesse capito cosa intendeva o se stesse solo cercando di deviare l’argomento perché dopo la visita in ospedale aveva deciso di archiviare il capitolo “sentimenti per Sherlock”.

“Non parlo solo degli incubi, John. Ho paura che tu possa decidere di non voler più avere a che fare con me come è successo dopo la morte di Mary.” 

L’espressione sul volto di John divenne tesa, teneva la mascella contratta; provò ad abbozzare un sorriso prima di rispondere ma il suo sguardo rimase serio.

“Lo sai perché l’ho fatto. Ero talmente distrutto per Mary che avevo bisogno di trovare un colpevole per poter elaborare ciò che stava succedendo.” Sembrava stesse recitando un mantra a memoria.

“Non c’è altro?” Incalzò Sherlock cercando di portarlo a ripetere le parole che gli aveva già sentito dire

John sospirò alzandosi per mettere l’acqua bollente nelle tazze.

“Nient’altro, davvero. Stai tranquillo!”

Fu il secondo schiaffo morale per Sherlock ma la sua mente analitica volle aggrapparsi ad un dettaglio: John non lo stava guardando negli occhi perché sapeva che lui avrebbe capito che mentiva.

O forse vuole solo evitare di ferirti…

Era troppo tardi per tirarsi indietro per uno come lui che voleva arrivare infondo alle cose ad ogni costo.

Quella conversazione era il gatto di Schrodinger della loro amicizia: avrebbe potuto farla finire per sempre o farla diventare qualcosa di più, ma non lo avrebbe mai saputo finché non avesse aperto la scatola.

“Lo so che che c’è di più John” si alzò dalla sedia e lo raggiunse vicino ai fornelli “Ho sentito tutto quello che mi hai detto in ospedale”

John fece un movimento così repentino per voltarsi a guardarlo che scontrò con il gomito una delle tazze e la fece scivolare dal piano della cucina ma poco prima che toccasse per terra, grazie ai suoi riflessi, Sherlock riuscì ad afferrarla; per un attimo il detective pensò che il fatto che non fosse finita in frantumi potesse essere di buon auspicio.

“Tu…cosa?” Il suo sguardo era furente

“All’inizio erano solo parole confuse, stavo avendo degli incubi finché la tua voce non mi ha riportato alla realtà…” iniziò a raccontare Sherlock, ma l’altro lo interruppe

“E te ne sei stato lì a fingerti addormentato mentre io mi rendevo ridicolo?” Chiese allontanandosi da lui

“Non stavo fingendo! Ero in astinenza, mi stavano riempiendo di farmaci e la maggior parte del tempo non sapevo se quello che mi succedeva era reale o meno!” Sherlock posò la tazza sul tavolo e si avvicinò di nuovo a John “Però ammetto che quando ho capito che tu eri lì e mi stavi davvero aprendo il tuo cuore non ho voluto interromperti, volevo sapere cosa provavi per me. E non eri ridicolo..”

“Mi hai preso in giro! Hai fatto passare tutto questo tempo senza dirmi una parola” i suoi occhi azzurri erano glaciali in quel monumento 

“John capisco che ora tu ti senta ferito ma..”

“Oh no Sherlock, non giocare a fare il bravo detective con me adesso! Ti sei comportato come se non fosse mai successo!” 

Quella frase fu come un fiammifero gettato su della benzina e Sherlock perse la calma “Ho imparato dal migliore!” Sbottò 

“Per mesi ho creduto di aver solo sognato le parole che ti ho detto prima di salire sull’aereo mentre tu fingevi che non ci fossero mai state!” 

L’unica cosa che lo tratteneva da gridare per la frustrazione era la paura che Rosie potesse sentirli e svegliarsi.

“Ero sposato! Cosa ti aspettavi che facessi? Abbiamo lavorato insieme per anni e tu non mi hai mai detto nulla!”

“Beh se la memoria non mi inganna nemmeno tu!” 

“Cosa dovevo fare eh Sherlock? Tu continuavi a dire di non avere amici, di star bene da solo…”

John aveva ragione. Era stato così abituato ad essere da solo e così determinato a reprimere le sue emozioni e i suoi sentimenti che aveva sempre costruito un muro tra lui e chiunque altro, John compreso.

Solo dopo essergli stato lontano due anni si era reso conto di quanto invece avesse bisogno di lui ed era finalmente riuscito ad ammetterlo anche a sé stesso.

“Non è questo il punto” tagliò corto Sherlock

“E dimmi, quale sarebbe?” 

“Il punto è…” si interruppe, sospirò e poi riprese a parlare con voce più calma “Il punto è che io provo sempre gli stessi sentimenti per te, John. Lo so che è passato poco tempo dalla morte di Mary e ti lascerò tutto il tempo di cui hai bisogno ma voglio che tu lo sappia: ti amo John.”

La cucina sprofondò nel silenzio.

I battiti del cuore di Sherlock erano così veloci e potenti da fargli pensare di essere prossimo all’infarto; l’attesa delle parole di John era una forma di tortura molto dolorosa.

Lui detestava non avere tutto sotto controllo ma si rese conto ancora una volta che quando si trattava di sentimenti non c’erano soluzioni logiche, era tutto nelle mani dell’altro.

Dopo quelle che erano sembrate decadi, John sorrise, il suo sguardo si addolcì e guardandolo dritto negli occhi pronunciò le parole più belle che Sherlock avesse mai sentito in vita sua: “Ti amo anche io, Sherlock.”

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Capitolo 4
*** Epilogo ***


Note dell’autrice:  Eccomi qui con l’epilogo! Pubblico con un giorno di ritardo perché questa settimana ho avuto così da fare che ieri non mi ero proprio resa conto che fosse Martedì…bene ma non benissimo! Grazie a chiunque abbia letto e commentato la mia storia, davvero grazie di cuore. Spero che l’ultimo capitolo vi piaccia! Xo 

Ps: Sappiate che ho già un’altra Johnlock pronta ahah

 

 

“Tender is the night

Lying by your side

Tender is the touch

Of someone that you love too much

Tender is the day

The demons go away

Lord I need to find

Someone who can heal my mind

Come on, come on, come on

Get through it

Come on, come on, come on

Love's the greatest thing”

{Tender - Blur}

 

 

I giorni successivi alle reciproche dichiarazioni d’amore John e Sherlock li avevano vissuti in un limbo: sapevano che quello che li legava era più della semplice amicizia ma allo stesso tempo il loro rapporto era rimasto invariato perché nessuno dei due aveva fatto qualcosa per passare da amici a qualcosa di più.

Sherlock non sapeva se John avesse bisogno di più tempo per elaborare il lutto di Mary ed iniziare una nuova relazione; a dirla tutta non sapeva nemmeno cosa fare per sbloccare la situazione.

Benché si ritenesse un esperto in tantissime cose le relazioni sentimentali non erano esattamente il suo forte, così si era ritrovato a tarda notte a fare ricerche online di dubbia utilità del tipo “come passare da amici ad amanti” per poi sostituire la parola “amanti” con “fidanzati”, oppure “quanto tempo far passare tra una relazione e un’altra” ma le risposte che aveva trovato non lo avevano soddisfatto dato che le fonti erano praticamente tutte provenienti dalla posta del cuore di qualche rivista da teenagers.

Più i giorni passavano e più la sua impazienza cresceva, e ancora una volta lui si era reso conto che in campo sentimentale essere dei geni della deduzione poteva dare qualche vantaggio ma non era assolutamente la chiave di volta.

Non aver modo di cercare risposte certe ed essere lasciato alla mercé delle emozioni lo confondeva e infastidiva più di quanto volesse ammettere.

Sherlock non era nuovo all’estraniarsi dalle conversazioni con le altre persone, ma se prima lo faceva perché riteneva che i suoi pensieri e le sue idee erano più importanti, in quei giorni si era ritrovato più volte a non ascoltare perché era troppo distratto a guardare le labbra di John, desiderando di baciarle più di ogni altra cosa al mondo; lo voleva con ogni fibra del suo essere ma il momento non sembrava mai  quello giusto.

Poi una mattina di inizio Dicembre era successo.

“Andiamo Sherlock, fatti fare una foto!” 

John si era messo in testa che sul blog servisse una sua foto più professionale ed erano giorni che gli chiedeva di mettersi in posa.

“Non capisco perché serva un’altra foto, quella che c’è ora non va bene?” 

“Ne abbiamo già parlato. Ora per favore mettiti davanti al camino e stai fermo!” John sembrava esasperato e Sherlock non riuscì a trattenere un mezzo sorriso;  sapeva esattamente che tasti toccare per stuzzicarlo e gli piaceva farlo, da sempre.

“Sei sicuro che serva il cappotto?” Chiese appoggiando un braccio al camino cercando di assumere una posa naturale, per quanto normale potesse sembrare una persona che sta davanti ad una fonte di calore indossando una giacca di lana.

“Ma certo! E’ praticamente la tua divisa…e a proposito di divisa” John gli si avvicinò con il famigerato cappello

“No, John, no! Mi rifiuto di mettermi quel dannatissimo cappello!” Sherlock si ritrasse allontanandosi dal punto designato per la foto

“E invece te lo metti eccomi! Alle persone piace!” John lo seguiva per la stanza senza mollare il colpo. 

Sherlock si spostava da una parte all’altra, con falcate lunghe e veloci mentre John gli andava dietro cercando di mettergli il cappello; quella situazione, che con altre persone avrebbe troncato sul nascere, con John lo divertiva. 

John era stato come la goccia che leviga la roccia, poco a poco aveva plasmato il suo cuore di pietra, rendendolo meno duro e spigoloso e trasformandolo per sempre.

“Non mi interessa se alla gente piace, a me no!” Aveva ribattuto mentre con la schiena andava a battere contro il muro.

Era finito nell’angolo del salottino con John a pochi passi da lui, che si avvicinava con il cappello in mano e la luce negli occhi di chi sa di aver vinto; avrebbe potuto sottrarsi, gli sarebbe bastato spostarsi di lato, ma non volle farlo.

Sherlock percepì il proprio respiro che accelerava e sentì improvvisamente i palmi della mani leggermente sudati: c’era qualcosa di eccitante nel trovarsi spalle al muro con John a pochi passi da lui.

John gli si parò davanti e con un gesto rapido, quasi avesse paura che Sherlock gli scappasse di nuovo, gli infilò il cappello.

Si ritrovarono faccia a faccia, con le punte dei nasi che si sfioravano e le labbra a pochi centimetri di distanza; Sherlock sentiva il respiro caldo di John sulla pelle del viso e il profumo del suo dopobarba gli inebriava i sensi.

L’aria della stanza sembrava essere diventata elettrica come prima di una tempesta di fulmini.

Il cuore di Sherlock batteva all’impazzata eccitato e agitato allo stesso tempo; si rese conto che non baciava nessuno da tanto tempo, e baciare John Watson non era certo una questione da poco.

Era suo amico, il suo unico e più caro amico, ma era anche l’uomo che amava con tutto sé stesso, John era l’unica persona sulla faccia della Terra che era riuscito a cambiarlo, a renderlo migliore, nonché colui che da qualche tempo riempiva fantasie che non aveva mai immaginato con nessun altro.

Gli occhi azzurri di uno erano persi in quelli azzurri dell’altro, come il mare che incontra il cielo.

“A me piaci con il cappello” sussurrò John prima di afferrare il bavero del cappotto e tirare Sherlock a sé.

John indugiò qualche secondo con le labbra a pochi millimetri dalle sue e a Sherlock quegli istanti sembrarono interminabili: il cuore gli rullava sempre più forte nel petto e la mano che posò sulla guancia di John sembrò ardere al contatto con la sua pelle.

Dopo quelle che gli parvero ore, le loro labbra si sfiorarono per poi fondersi in un bacio che entrambi avevano desiderato ancora prima di riuscire ad ammetterlo a loro stessi.

La stanza era sembrata improvvisamene troppo grande.

Sherlock avvicinò il proprio corpo a quello di John annullando totalmente la distanza tra loro mentre le loro mani si cercavano, si toccavano e ogni volta che le loro labbra si separavano poi si bramavano con più passione e urgenza.

Il detective registrò ogni dettaglio: le labbra morbide e calde di John che erano esattamente come se le era sempre immaginate, la barba di qualche giorno che gli solleticava la pelle, il profumo dei suoi capelli, la sua pelle liscia…tutto lo mandava fuori di testa.

John cosa mi stai facendo?

 

Sherlock non si sentiva in sé ma nel miglior modo possibile. 

In vita sua aveva provato una buona fetta delle droghe sul mercato ma niente era paragonabile all’estasi che provava facendo l’amore con John: era felicità allo stato puro, era desiderio, eccitazione, era amore, era tutto.

“Sai John, non avevo idea che ti piacessero anche gli uomini” gli aveva confessato una notte nel buio della stanza 

“Allora ogni tanto qualcosa sfugge anche a Sherlock Holmes!” 

“Beh non sei mai stato molto…chiaro.” 

“Pensavo avessi capito che ero..” fece una breve pausa “Ecco si, che ero geloso di Irene Adler” disse John accigliandosi

Sherlock si voltò su un fianco nella direzione dell’altro “Eri geloso?” 

Stava gongolando, il suo ego era più che appagato da questa confessione, e poi lui era stato geloso di tutte le donne con cui John era stato.

Voleva un gran bene a Mary ma ogni tanto si ritrovava a pensare che avrebbe voluto essere al posto suo, ad essere lui quello che ogni sera tornava a casa con John.

“Smettila di sorridere Sherlock!” Lo aveva rimproverato

“Non puoi sapere che sto sorridendo, è buio!” 

“Ti conosco abbastanza bene per sapere che lo stai facendo” seguì un fruscio di lenzuola “Adesso ti do io un motivo valido per sorridere, mio caro egocentrico detective” 

Facevano l’amore ogni notte, a volte anche più volte a notte, quando finalmente Rosie crollava addormentata; le loro mani, le loro bocche, i loro corpi si cercavano senza sosta, era come se volessero recuperare tutto il tempo in cui avevano nascosto il loro amore e la loro attrazione l’uno per l’altro.

Sherlock si svegliava sempre euforico ed eccitato; a volte pensava seriamente che se il suo cervello non fosse sempre stato abituato a pensare a più cose contemporaneamente il suo lavoro ne avrebbe inevitabilmente risentito, perché non passava un solo istante della giornata senza che lui pensasse a John.

Da quando Sherlock passava le notti accanto a lui i suoi incubi si erano fatti molto meno frequenti; dormire accanto all’uomo che amava aveva reso più semplice non preoccuparsi costantemente per la sua vita, ma a volte quelle immagini tornavano a fargli visita.

“Tranquillo Sherlock, sono qui” gli sussurrava dolcemente John accarezzandogli i capelli quando gli capitava di svegliarsi di soprassalto.

A quel punto di solito Sherlock gettava uno sguardo al baby monitor per sincerarsi che anche Rosie dormisse tranquilla e poi si riaddormentava sereno.

 

I giorni insieme divennero settimane, poi mesi e anni.

Il tempo era scandito dai progressi della piccola Rosamund che cresceva a vista d’occhio.

Sherlock aveva fatto fatica a capire come rapportarsi a quell’esserino che esprimeva qualsiasi bisogno con il pianto e che un momento prima sembrava volere una cosa ma il minuto dopo già non le andava più bene; aveva addirittura comprato dei libri di puericultura nella speranza di poter apprendere qualcosa su quel minuscolo essere umano ma suo malgrado non erano serviti a molto.

Aveva seguito il consiglio di John di abbandonare qualsiasi tipo di ragionamento troppo logico o razionale, si era lasciato guidare da lui e con naturalezza, senza quasi che se ne rendesse conto, era diventato papà.

Quando Rosie aveva iniziato a dire le prime parole indicando John e Sherlock e gridava tutta contenta “papà!”, e con il tempo  erano diventati “papà John” e “papà Sherlock”.

Chissà se qualcuno avrebbe mai potuto immaginare che il detective più famoso d’Inghilterra la sera guardava tutorial su YouTube per imparare a fare le trecce ad una bambina, o che il Dottor Watson sotto il camice della clinica aveva molto spesso i vestiti pieni dei glitter rosa e oro di cui Rosie andava matta.

 

“Sherlock dobbiamo parlare” gli aveva detto una sera John, con tono molto serio, mentre erano insieme sul divano, dopo due round di favole per convincere Rosie a dormire.

“Giuro che non ho più raccontato niente a Rosie del nostro lavoro!” Alzò le mani lui mettendosi sulla difensiva.

Rosie andava matta per le storie che gli raccontava papà Sherlock sui casi che lui e John risolvevano, ma le maestre dell’asilo non erano altrettanto contente; più di una volta la bambina aveva terrorizzato alcuni compagni parlando di cadaveri nelle fognature.

“No, non è per quello. Riguarda noi due, anzi, riguarda più che altro te.” Fece una pausa mentre si alzava per prendere dei fogli dalla sua valigetta.

“In questi giorni pensavo a cosa succederebbe a Rosie se io…beh se io dovessi morire.”

Sherlock fortunatamente era seduto perché si sentì mancare la terra sotto i piedi. 

Quei fogli potevano essere dei referti medici? John aveva qualche malattia che lo avrebbe portato via per sempre da lui e dalla bambina? 

Sentì il respiro mozzato e lo stomaco stretto in una morsa. 

Il pensiero di perdere John non lo tormentava più da anni ormai ma erano bastate quelle parole per gettarlo nel panico.

Doveva apparire parecchio turbato perché John si affrettò ad aggiungere “Non sto dicendo che capiterà a breve, ma che potrebbe capitare!” 

“Mi hai fatto prendere un colpo!” Sbottò Sherlock mentre riprendeva fiato 

“Scusami” disse andando a dargli un bacio sulla fronte per poi mettergli davanti i fogli.

Sherlock diede un’occhiata veloce e per la seconda volta si sentì mancare, ma questa volta per un motivo totalmente diverso.

“Vorrei che tu adottassi formalmente Rosie” la voce gli tremava leggermente “E per poterlo fare c’è un’altra cosa che devo chiederti…”

Solo in quel momento Sherlock fece davvero caso al fatto che il caminetto quella sera era acceso e le luci erano state leggermente abbassate.

John si inginocchiò di fronte a lui, gli prese la mano sinistra tra le sue e pronunciò le sei parole che Sherlock mai si sarebbe aspettato di sentire rivolte a lui nella vita: “William Sherlock Scott Holmes, vuoi sposarmi?”

 

Sherlock non avrebbe mai potuto immaginare che un sociopatico iperattivo e un dottore reduce di guerra potessero avere qualcosa in comune, eppure erano lì, l’uno davanti all’altro a scambiarsi due anelli simbolo di amore eterno.

Non c’erano più stati incubi né incertezze, solo loro due, John e Sherlock: amici, amanti, mariti, padri e risolutori di crimini del 221B di Baker Street.

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