Never forget we were built to last

di Snehvide
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Never forget we were built to last 01 ***
Capitolo 2: *** Never forget we were built to last 02 ***
Capitolo 3: *** Never forget we were built to last 03 ***



Capitolo 1
*** Never forget we were built to last 01 ***


Never forget we were built to last

“Fa così—” si interrompe, perché è venuta fuori talmente male che Jean non riesce a proseguire.
Ingoia un bolo amaro, ci riprova: “Fa così da tutta la notte—”
Lo sguardo rimbalza sul pavimento, poi sulla la fiamma immobile del lume sul comodino, sulla grande borsa di tela scura che la caposquadra Hange, in pigiama e giacca da camera, ha trascinato con sé prima di abbandonare il suo alloggio e seguirlo.
Su qualunque cosa non siano le labbra di Marco, così costanti nel gracidare quei suoni sconnessi da un lato e poi dall’altro del cuscino che oramai, Jean dubita seriamente siano in grado di formulare qualcosa di concreto.

Di spalle, su di un ritaglio del letto, Hange assorbe quelle parole con la stessa concentrazione di chi tenta di decriptare dei messaggi nascosti, per poi annunciare, contro ogni aspettativa, un insulso ‘è la febbre, Jean’.

Già. È la febbre. E anche una valanga di tante altre cose, o meglio, di non-cose – come ad esempio il suo non-più braccio, il suo non-più occhio, il suo non-più-Dio-solo-sa-cosa. Grazie tante.

“È disidratato, è per questo che delira—” aggiunge ancora, e Jean la vede, mentre inforca le dita tra i capelli di Marco e li pettina all’indietro; la scruta quando tra sussurri e gentilezze, materna lascia che le nocche scivolino su quel viso ricoperto di bende, come se fosse la prima a farlo; come se lui non avesse passato la notte lì, al suo capezzale, a fare la medesima cosa, senza risolvere proprio nulla, e cazzo – cazzo.

È mai possibile che Marco non possa avere niente di meglio?

“Potrebbe dargli—dargli qualcosa?” balbetta, in un mix di vergogna e disperazione.

Hange non risponde. “Sei riuscito a fargli bere dell’acqua questa notte?”

Jean scuote la testa, lei non ne sembra stupita. La cosa lo spaventa.

“Non va bene, deve bere—” sospira.

“Ci ho provato, ma ha iniziato subito a tossire—” e a piangere, e a gridare il suo nome.
Dio, quante volte ha urlato il suo nome? Di sicuro, più di tutti i modi in cui aveva tentato di fargli sentire la sua presenza lì. Ma sono dettagli che Jean tiene per sé.

Hange sospira ancora, poi cambia espressione ed intonazione.

“Marco? Riesci a sentirmi?”

Se l’ennesima mancata risposta a quel richiamo non gli avesse fatto salire il solito conato di bile in gola, a Jean verrebbe quasi da ridere per la pretesa.
E si sorprende davvero quando, per ragioni comprensibili solo a lei, la caposquadra sembra captare il contatto che cercava. Raddrizza la schiena, mugola quasi di gioia.

“Ascoltami,” sorride, la voce morbida con cui parla è una valida alternativa alle carezze elargite sino a pochi secondi prima “Adesso ti toglierò le bende dal viso e darò un’occhiata alle suture. Potrebbe fare un po’ male, ma farò piano—”

Inizia ancora prima di terminare la frase. Si ferma pochi secondi dopo, quando qualcosa la fa esitare.

“Jean,” bisbiglia.
Un cenno della mano ne spiega le intenzioni: “aiutami, sistemiamogli meglio questi cuscini sotto al collo, dobbiamo cercare di muoverlo meno possibile—”

E nel rivederlo lì, Jean scivola di nuovo in quell’abisso da cui la figura di Hange lo aveva temporaneamente schermato; in quell’inferno di carne, fuoco e dolore in cui Marco è rinchiuso, e dalla quale nessuno dei suoi sforzi è riuscito a salvarlo.

“Faccio piano, piano. Sono brava con queste cose, dico sul serio—” lo rassicura ancora, perché quando va sfiorare le bende, il respiro di Marco è già mutato, le sue frasi confuse hanno assunto tonalità differenti, un ritmo più veloce, e poi c’è quella cosa, che cazzo. Cazzo.
Comincia a farlo di nuovo.
Comincia a chiudere quel viso in una morsa così stretta, così sofferta, che Jean proprio non ce la fa.
Non ce la fa ad andare di nuovo lì, a quell’ospedale di merda, a quelle urla strazianti, a quel—

“Ehi—”

La mano di Hange scende sul suo polso, e Jean si accorge che le immagini che sta rivivendo sono solo ricordi dipinti dietro le palpebre che ha stretto.

“Ho davvero bisogno del tuo aiuto.”

Ed è seria. Seria come non l’aveva mai vista prima.
Hange piega il collo, indica Marco con un cenno degli occhi, e Jean ha paura.

“Potrei farlo da sola, ma soffrirebbe più di quanto non farebbe se mi aiutassi. Per cui, aiutami Jean—"

E quell’implorazione, è più di quanto Jean riesce a tollerare.
Annuisce, tira un respiro profondo, e sentendosi terribilmente stupido per aver anche solo esitato, lo fa.
Si avvicina, insinua piano un braccio sotto il collo di Marco, sotto quell’ammasso di sudore, umido e tremante che si ritrova, e lo sistema sui cuscini così come gli viene indicato. Si sforza di non far caso al brusio dei denti che battono all’unisono sotto l’unica guancia integra che ha deciso di accarezzare, si sforza di non sentire né i lamenti né i momenti in cui Marco perde il respiro, per poi ritrovarlo secondi dopo, al ‘va tutto bene’ successivo.
Hange sfila le garze con lentezza, ed è davvero brava come aveva detto.
Lo fa con garbo, e con una delicatezza di cui Jean non la credeva capace.
E’ brava, certo, ma non abbastanza da non farlo urlare in agonia (o almeno, quel verso gutturale strozzato in gola è quanto di più simile ad un urlo le sue corde vocali logorate possano permettersi) nel momento in cui le orrende suture vengono esposte e lei, forse con troppa impazienza, ne va a sondare i bordi.

Si scusa. Allontana le dita, lascia che Marco riprenda fiato e voglia di tornare ad avere qualcuno che lo tocchi di nuovo, prima di ricominciare con quello stillicidio, e davvero – Jean ha una fottuta voglia di sottrarlo a quella tortura, portarlo in un luogo in cui niente e nessuno possa fargli provare ancora dolore, ma sa anche che se esistesse qualcosa di simile entro le due mura rimaste, non lo troverebbe altrove se non lì dov’è.

“Lavorano dei cani, all’ospedale di Trost.”
È Hange a soffiare tra i denti, adesso. Questa volta, i polpastrelli ci vanno cauti sulle suture e Marco resiste.
Rigido e tremante, resiste. “—degli animali, dei macellai!”

“Immagino che lei avrebbe saputo fare di meglio—”

Suona un po’ sarcastico. Non sa neanche perché lo dica, in verità. Sente solo che deve dirlo, perché ha bisogno di dare aria alla bocca con qualcosa che non sia un’imprecazione.

“Oh sì,” risponde lei con prontezza, non coglie l’involontaria nota polemica - “molto meglio. Chiedilo a Miche, o a Erwin, se non ci credi—ho ricucito anche Levi, sai? A volte anche sul campo di battaglia, tra pezzi di giganti, cavalli impazziti, fiamme e fuoco—è stato interessante!"

Jean non ne è del tutto convinto, ma non ha neanche ragione di credere non sia così. Ad essere sinceri, non gli importa neanche granché in questo momento. Marco geme e cerca di ritirare il viso quando Hange sonda una parte della sutura, rossa come fuoco, e che di bello non ha proprio niente. E il fatto che lui, su indicazione, stia premendo le sue mani sulla fronte e sul mento affinché non riesca a sottrarsi a quel supplizio è sufficiente perché senta la vertigine svuotargli la testa.

“Ma in tutta onestà,” continua ancora la scienziata, senza scostare l’attenzione dal punto che sta esaminando “chi non avrebbe saputo fare meglio di questo scempio?”

Hange abbandona il mento di Marco dopo avergli mostrato i punti, a suo dire, più deludenti, prima di piegarsi verso la grossa borsa ai suoi piedi e rimestare al suo interno alla ricerca di qualcosa.

“Comunque, orrende per quanto siano, reggeranno. E non sembrano infette, il che è certamente un bene,”

“Non—non sono infette?”
Se c’è qualcosa in grado di restituire un barlume di gioia in Jean in questo momento, è proprio una notizia simile.

“Così sembrerebbe,” Hange poggia sul grembo quanto raccolto, poi si ferma a studiare ancora per qualche secondo le vecchie lenzuola intrise di sudore, unguenti medici e chissà quale altra schifezza in cui Marco è avvolto dalla vita in giù, come fosse in un enorme sudario.
Si china, il palmo della mano destra interroga la fronte adesso scoperta dell’insolito paziente, prima di raccogliere il panno dal bacile sul comodino, strizzarlo e tamponare per un po’ il collo e le tempie.
Un gesto troppo improvviso per essere del tutto spontaneo. Jean non sa se è la caposquadra ad essere un libro aperto o se è lui ad aver affinato certe doti deduttive, tuttavia, non si sbaglia: è il suo modo di chiedere preventivamente scusa per ciò che sta per annunciare.

“Ma questo non spiega la febbre così alta, Marco. Devo controllare anche le suture della spalla e del torace non lo siano—”

Jean rabbrividisce. Quelle ferite sono le peggiori, Jean lo sa. E Dio, se vorrebbe davvero abbracciarlo, o baciarlo, quando Hange, dopo aver aggiunto e sistemato un’altra serie di cuscini in posizioni strategiche, gli chiede, ancora una volta, di aiutarla a tenerlo in posizione.

Quando, con pazienza, comincia a rimuovere le garze sporche ad una ad una, Jean non sa davvero cosa fare. La verità è che ha a malapena idea di dove poterlo toccare senza strappargli dei gemiti peggiori di quelli che cascano dalle sue labbra mentre Hange porta avanti il suo lavoro, e davvero – non sa cosa fare.
Poi però succede.
Due dita livide e dalle unghie quasi del tutto scomparse, si protendono sino a sfiorare la mano che Jean gli ha  poggiato sul volto, ed è un contatto che Jean non si aspetta – lo coglie impreparato.
È impreparato a Marco che punta il suo unico occhio verso di lui, arrossato ma, dopo tanto tempo, lucido, e lo agguanta. Si aggrappa. Gli chiede aiuto.
E non sa davvero cosa fare, e soprattutto, come fare.
Si limita a scendere sulla sua testa, a chinarsi sui suoi capelli scuri ormai impiastrati di qualsiasi cosa, e sperare che baciando quella palpebra che si chiude sotto il peso delle sue labbra, le lacrime possano confondersi con quelle di Marco, che sono piccole e per lo più incastrate tra le ciglia, e non hanno neppure la forza di scivolargli lungo il viso.

“Queste mi piacciono molto meno, invece—”

E c’è qualcosa di spaventoso in quella frase. Qualcosa di orrendo in quel sospiro che Hange emette a labbra serrate in una linea dritta e severa.
Ha la forza di un gigante raccapricciante, forse il più raccapricciante tra tutti, che si scaglia di colpo di fronte a sé e non lascia via di scampo.
Incauto, Jean solleva di colpo la testa, dimentico di qualsiasi cosa.

Le ferite del petto sono infette, e forse lo sono anche quelle del moncone.
Lo capisce anche senza che qualcuno lo annunci.
 
“Cosa—” ancora quel cazzo di nodo in gola; ancora quella merda. “—cosa significa questo?”

Hange non sente la domanda; sfila gli occhiali, si massaggia le palpebre per un paio di secondi prima di inforcarli di nuovo, poi, ancora a occhi chiusi, sbuffa.
Li riapre solo quando cambia posizione; come sentisse il bisogno di osservare quel disastro che ha di fronte da un’altra prospettiva.
Se prima il fatto che Hange avesse rinunciato ad esaminare le labbra delle suture era sembrata una fortuna, adesso Jean non ne è più tanto convinto.

“Caposquadra Hange—”

“Reggeranno,” esordisce improvvisa, in risposta ad una domanda che Jean non aveva posto. “Sta’ tranquillo, i punti reggeranno,”

Si alza di scatto, come si fosse all’improvviso ricordata di un impegno.
Prima di allontanarsi, ravviva l’acqua della pezzuola sulla fronte di Marco. Visti i precedenti, Jean trema.

“E’ un unguento disinfettante,” dice metodica, consegnandogli ciò che minuti prima aveva raccolto dalla sua borsa “lavati bene le mani, poi applicane una striscia lungo tutte le suture. Fa’ attenzione, mi raccomando. Lo lasceremo deporre per un po’, e al mio ritorno, faremo un nuovo bendaggio—"

“Al suo ritorno?”

Hange è già sullo stipite della porta, il suo sguardo è quello di chi ha appena fallito nell’intento di camuffare qualcosa. Confessa.

“Marco ha bisogno di medicine che non sono sicura di avere. Devo andare a recuperarle all’infermeria del quartier generale, o al limite, prepararle – ma in quest’ultimo caso, ci vorrà del tempo.”

E dal modo in cui i suoi occhi sono corsi a ricercare la figura di Marco, abbandonato boccheggiante su quel letto, Jean capisce che è proprio quello il problema: Il tempo.

Ripensa a quella notte, a tutte le volte in cui si era detto di aspettare ancora, di attendere il suono delle campane, di non disturbare il sonno dei superiori, – prima di mandare al diavolo qualsiasi maledetto buon proposito, e correre a bussare caposquadra Hange con il respiro rotto e le mani tremanti, in un punto imprecisato di un’alba che non aveva sentito arrivare.
E sente la colpa divorargli le viscere.
Sente che Marco è in quelle condizioni anche per colpa sua, e per quanto si sforzi, non c’è niente che riesce a trovare nella sua mente in grado di provargli il contrario.

“Jean—”

Il fatto che Hange abbia sentito il bisogno di mettere un freno alla sua urgenza dovrebbe dirla lunga.

“Avanti, non fare quella faccia!” sorride, ma è un sorriso tutto sbagliato. “Marco starà bene, lo faremo stare bene insieme – stai tranquillo!” trilla ancora, ma non è molto convincente. Forse, non ci crede neanche lei.

Due lacrime, che Jean non sapeva neanche di avere, abbandonano il suo viso precipitando giù silenti e discrete. Hange gli permette ancora di aggrapparsi al suo sorriso incerto, e Jean gliene è più riconoscente di quanto dia a vedere.
La scienziata gli rammenta un’altra volta dell’unguento, di provare ancora a farlo bere, di stare tranquillo, di aspettare il suo imminente ritorno senza alcun timore– tutte cose alla quale Jean annuisce distratto e nervoso, e che solo lo scatto della maniglia – un suono modesto, ma che alle sue orecchie giunge come lo scoppio di un cannone – riesce a mettere fine.

 

(fine prima parte)

 

Note:

Eeeeeeehhhh ho scritto una cosa. Una cosa sulla mia nuova ossessione, dunque perdonate l’eventuale OOC-ness dei personaggi, ma è la mia fic esordio in questo fandom,

Tecnicamente, vorrebbe condensare in uno i prompt ricevuti settimana fa per una challenge del gruppo Hurt/Comfort , ma in pratica, l'idea vera e propria per questa fic mi è venuta l’altro ieri, in un profondo momento di noia. E così, l'ho partorita per Joy che tanto ama Jean e Marco  (e Jean/Marco  ) e mi supporta (e sopporta ) durante le nostre chiacchieratine quotidiane.

NON è betata, l'ho scritta in pochissime ore e sfugge a qualsiasi mio principio e ordine morale e sociale, in quanto non mi sono neanche permessa né di rileggerla più volte, né di farla "riposare", come si fa come la pizza.
Di base, è una sfida contro il mio OCD X°D

Potete considerarla come una fic autonoma così come il primo capitolo di una long o di una serie, visto che sto scrivendo già il seguito (che potrebbe non essere come ve lo aspettate, ve lo dico😂)

Ovviamente, è un tripudio di angst e Hurt/Comfort. Non ha una grande trama.
Tenete presente che è una What-if che vuole Marco sopravvissuto al massacro di Trost.
Jean entra nel corpo di ricerca mentre Marco è in ospedale.

E' ambientata il giorno successivo alle dimissioni (affrettate) di quest'ultimo. Il titolo è preso da You Me at Six - Take on the World

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Capitolo 2
*** Never forget we were built to last 02 ***


Never forget we were built to last

- II parte -

 

Lo stipite di una porta è un punto pericoloso, Jean lo sa.
Non può sostare lì a lungo.
L’eco dei passi di Hange che si allontana sulle assi del corridoio è risuonato forte e costante solo per un paio di secondi, poi si è estinto nell’etere, tramutando la presenza della caposquadra solo in una breve parentesi del passato.

Per tutta la notte, la sua mente aveva fuso i lamenti, i respiri, le parole sconnesse di Marco in un unico rumore. A questo, si era però aggiunto quello della voce di Hange, che gli aveva pericolosamente saputo dare proprio ciò di cui aveva avuto più bisogno, e lui, come uno stupido, ha finito per prenderci fin troppo gusto. Adesso che quel suono non c’è più, la stanza sembra piombata nuovamente alla notte precedente e la cosa lo disorienta, lo angoscia.
E pensa che lo stipite della porta sia un punto davvero pericoloso. Il più pericoloso che riesce ad immaginare.
Potrebbe voltarsi e da lì vedere Marco, adesso privo di bende, con talmente tanto fuoco addosso da poter bruciare il mondo, e il pensiero è sufficiente per fargli avvertire una mano invisibile afferrargli le budella e strizzargliele forti, prima di rificcarle nel posto da cui erano cadute, proprio come aveva fatto quel chirurgo dell’ospedale di Trost a Marco lì, per terra, in mezzo alle grida disumane, alla sporcizia, e ad altrettante budella di soldati a cui quegli organi non servivano più.
Potrebbe voltarsi e scoprire che il petto di Marco ha smesso di pulsare, che la creatura che si agita sotto le sue suture ha avuto la meglio, e lui è diventato il pastone perfetto per giganti – un po’ come lo avevano ritrovato tra i viali di Trost, del resto.
Oppure, potrebbe aprire la porta e fuggire.
Ed è un’idea talmente volgare che, dimentico di ogni timore, Jean si volta di scatto.
Forse un troppo di scatto.
Lì per lì, pensa sia il terremoto. Oppure, cosa più credibile, una nuova breccia lì a Trost.
Si accorge che è un capogiro solo quando sente la bile gonfiargli le guance, e quando inciampa sui suoi passi pur di raggiungere il lavamani dall’altro lato della stanza prima che sia troppo tardi.

Piegato dai conati e con entrambe le mani salde sulla vecchia ceramica crepata, Jean riprende fiato.
Lo fa come se non lo facesse da anni.
E rimarrebbe ancora lì, a fissare il liquido giallognolo fuoriuscito da chissà quale meandro del suo stomaco vuoto, se solo non percepisse una nota differente nelle parole senza forza di Marco.
Forse è il mal di testa che ha preso a martellargli le tempie, si dice, ma è in quella stanza da troppo tempo per non notare anche il più sottile mutamento di quel timbro straziante.
Si volta prima ancora che la sensazione di nausea si plachi del tutto.
Marco sta invocando il suo nome.
L’occhio superstite, semichiuso come se assorto in preghiera, punta immobile verso di lui, e non sa bene se è davvero verso di sé che sta guardando, o se è giusto un caso– perché l’altro occhio, quello ormai andato, tremola come tentasse di sfuggire alle suture che lo imbrigliano, ancora incapace di comprendere che al di sotto, non vi è rimasto nulla.


“J—Jean—” gorgoglia; la palpebra si increspa come fosse di carta pesta.
Afferra un lembo del lenzuolo talmente forte da sbiancarne le nocche, e Jean quelle nocche corre a stringerle prima che possano diventarne del tutto bianche.

“Sono qui.”, ruzzola accanto al suo letto. Un filo di bile rimastogli impigliato tra le labbra si trasferisce sulle dita livide che bacia, ma non importa, “Sono qui, Marco—””

ete—” sibila rauco “—ho—sete—”

È una bella notizia. È un’ottima notizia, o così, almeno, Jean tenta di convincersi.

La notte precedente aveva provato a farlo bere, ma non ci era riuscito. Al primo sorso, Marco aveva tossito per almeno cinque minuti in un modo così orrendo che non volle riprovarci una seconda volta.

Adesso però, Jean pensa sia diverso. Adesso è Marco a chiederlo, e non importa se ha l’occhio talmente lucido o il fiato talmente affannoso da rendere surreale il sol pensiero che in lui possa albergare qualsiasi sprazzo di lucidità.

Goffo, Jean si affretta a versare un bicchiere d’acqua dalla brocca sul comodino e, ostentando una fiducia che non ha, fa scivolare la nuca umida di Marco contro la sua mano, sollevandola quel che basta per portarsela nell’incavo del gomito.

Il movimento è troppo azzardato, Jean avrebbe dovuto capirlo prima che Marco si irrigidisse in quel modo.

Shhh - va tutto bene,” tamburella con le dita la guancia buona, quella così gonfia che sembra  trattenere qualcosa in bocca– “ti sto solo dando dell’acqua—hai sete, no?”

Marco non risponde. Trattiene il fiato più che può, prima che un singhiozzo sfugga alle sue labbra aride.
Poi, ricomincia a tremare, e tutto torna difficile.

“Coraggio, bevi. Un sorso alla volta—” dice con voce fintamente calma. Quando va a fermare la mascella tra il pollice e l’indice, la mano sinistra incespica su una sutura esposta.
Marco piega il collo d’istinto, digrigna i denti, e Jean cerca di non pensare a quanto quel gesto gli stia costando, o a quanto rovente il suo corpo possa essere diventato, no.
Jean pensa a guidare il bicchiere verso le labbra di Marco, a far sì che dell’acqua possa davvero scivolargli giù per l’esofago. Non può permettersi altri pensieri, in questo momento.

Sente il bordo di vetro che gli ha accostato cozzare contro gli incisivi, non lo forza: attende che il cervello stanco di Marco prenda consapevolezza di ciò che sta accadendo intorno a sé, per poi piegare il bicchiere quando vede il labbro inferiore arricciarsi contro il vetro, il pomo d’Adamo abbassarsi e finalmente, ingoiare.

“Piccoli sorsi, avanti” raccomanda, perché non vuole cantare vittoria troppo presto, ma Marco beve avidamente, e non può evitare di farlo - “Bene così, sei fantastico—”
Fa appena in tempo a dire, prima di vedere Marco cominciare a tossire esattamente come aveva fatto la notte precedente, e restituire più o meno la metà di quanto bevuto.

Ci dovrebbe riprovare. Davvero, dovrebbe farlo. Probabilmente, è solo una questione di posizione, o di angolazione.
Ma Marco sotto quella bava impiastrosa ha delle labbra così scure, un respiro così acquoso tra un colpo di tosse e un altro, che Jean si dice che anche quei pochi sorsi che sono riusciti a raggiungere il suo stomaco e restarci, per il momento, possono bastare.

Quando lo riadagia sui cuscini, Marco sta ancora gemendo di dolore. O forse di frustrazione, o forse di entrambe le cose. Per questo attende un paio di secondi, prima di essere certo di poter poggiare la mano sulla fronte, e spostare i ciuffi scuri finiti pericolosamente tra le suture.

Non sono riuscito a farlo bere di più, ci ho provato, caposquadra, ma non ci sono riuscito.
E trova un ché di confortante nel prefigurarsi mentalmente la dichiarazione di sconfitta che farà alla caposquadra Hange: lo aiuta a sentirsi meno solo in quell’inferno.

È a quel punto che si ricorda dell’unguento. Almeno, potrà raccontare alla caposquadra di aver fatto qualcosa di buono per mantenere fede a quel ‘lo faremo stare bene insieme’.

Raccolto dal comodino e rimosso il coperchio, appare come una sorta di miscuglio tra purea di patate e miele che puzza di piscio di gatto. Ne prende un pizzico, ne tasta la granulosità tra i polpastrelli.

“J—ean—”

Jean solleva il volto.

Esita. Ha già le dita impiastrate di unguento, finirebbe per impiastrarlo di più se lo toccasse adesso.

La lingua di Marco però non sta ferma, gli rivolta in bocca qualcosa di apparentemente disgustoso, che lo fa fremere e contorcere come un pesce.

“Rei—Reiner—” sfilaccia tra i denti, a un certo punto. Volta la testa dall’altro lato del cuscino, ma il contatto tra la sutura e la federa sgualcita gli mozza il respiro, e grida: “A—Annie! Berthhold!”

Fanculo l’unguento, Jean cede.

“Va tutto bene,” del resto, è solo l’ultima delle schifezze che imbrattano già i suoi capelli
“Non preoccuparti. Stanno tutti alla grande e non vedono l’ora di riabbracciarti—” striscia le nocche sulla fronte, emula la caposquadra Hange nella gentile fermezza del tono, ma sa che non servirà. Non con un Marco che sta gonfiando il suo petto in quel modo.
La mano che porta dietro al collo voleva essere una carezza, ma diventa subito qualcos’altro: perché Marco brucia davvero. Brucia come un caminetto acceso.
E la pezzuola riversa sul cuscino dovrebbe stare fissa sulla sua fronte, l’unguento che ha tra le dita, sulle suture a divorare per lui l’infezione. Perché diamine non ha fatto niente di tutto ciò?

“Rein—Reiner—” chiama, dal suo inferno distante; il volto gli si riga di lacrime che non potrebbe permettersi.

‘è la febbre, Jean’, si ripete in mente con il tono convincente di Hange, ma Cristo - è così difficile. Pensa, mentre in silenzio il suo pollice allontana quelle misere lacrime dalla guancia di Marco.

“J—Jean—”
Solo quando nomina il suo di nome il suo mento traballa, la voce si assottiglia, diventa quella del Marco che conosce e che ama. E se Jean ha una luce in grado di indicargli la strada quando disperso nelle tenebre più oscure delle sue paure, allora è proprio quella.

Scuote la testa, si desta dallo stato di torpore ove è finito. La stanza sembra avere adesso un altro aspetto. Sarà il sole di quello che, dalla finestra, si preannuncia un mattino nebbioso ma assolato, sarà qualcosa che non è in grado di decifrare, ma va bene così.
Torna alcuni secondi al lavabo per sciacquare le mani, e già che c’è, anche il viso.

“Non dovrebbe far male, o almeno spero—”

Ma non è sorpreso nel vedere il respiro di Marco si interrompersi bruscamente quando, con due dita ricoperte di quella sorta di purea maleodorante, va delicatamente a tracciare un piccolo sentiero sulle suture del viso.

“Se dovesse farne, quando starai meglio, andremo insieme da quella quattrocchi della caposquadra Hange e gliela faremo pagare, io e te –” prova a tirare fuori un sorriso, ma è certo che se Marco potesse davvero vederlo, lo troverebbe più simile ad una smorfia inquietante che altro.

 

“Ci pensi? Andremo dalla Caposquadra a dirle che queste porcherie farebbe bene a tenerle per sé, anziché rifilarle in giro al primo poveretto che ne ha bisogno. Sono sicuro che anche gli altri commilitoni sarebbero d’accordo, mi sembra una tizia appassionata—”, blatera, senza alcuna sosta e senza alcun senso, fondamentalmente perché non vuole sentire Marco gemere attraverso i denti serrati ogni qualvolta l’unguento cola tra i bordi slabbrati delle suture, né vuole soffermarsi più di tanto sul modo in cui rovescia la testa all’indietro e affonda gli incisivi sulle labbra, quando in punta di dita va a spalmarlo proprio tra quei punti gonfi e viscosi che persino Hange, forse colta da un impeto di misericordia, aveva evitato di toccare.
Di tanto in tanto si ferma un po’. Giusto perché teme che se Marco continuasse a mordersi in quel modo ancora a lungo, probabilmente finirebbe per staccarsi un labbro, o la lingua, o altre parti del corpo che, in considerazione di quanto già perso, farebbero bene a restare dove sono.

“Abbiamo quasi finito–” sussurra, incapace di ammonirlo davvero quando un punto sul moncone, oltre che a strappargli l’ennesimo lamento, gli fa anche, pericolosamente, piegare di scatto le ginocchia.

Ed è davvero l’ultima noce di schifezza, quella che decide passare su quell’intreccio sbilenco di fili scuri che chiudono una ferita che non dovrebbe esistere. Forse ne meriterebbe di più, ma ogni qualvolta l’indice e il medio sfiorano quel moncone, Jean sente come un branco di vermi strisciargli su per i polsi e mangiucchiargli quell’ultimo granello di lucidità che gli permette di essere ancora lì.
E Jean non ricorda l’ultima volta che si è sentito così male, anche se si sorprende del non stare peggio.

“Finito, finito tutto—” annuncia, ritirando il petto e sollevando le mani quasi in segno di resa, e Marco lo fissa come incredulo, dietro quella coltre di sudore che gli gela la fronte e il collo.
Lo fissa, e sembra domandargli perché stia ancora lì, impalato e con un sorriso ebete in volto, a non accorgersi che in un punto nascosto sotto il suo lenzuolo, abbia preso a sanguinare.

Alla vista della larga chiazza di sangue e le successive suture saltate, Jean sente crollare qualcosa dentro di sé.
Come se all’improvviso, lo stesso gigante che ha rubato parti di Marco, gli fosse precipitato sullo stomaco tramutandolo nella più orrenda delle voragini.

 

(fine seconda parte)

 

 

 


NOTE:

ECCOCI!
Seconda parte di questa robina senza senso, che a differenza della prima, ha anche la delizia di ricordare la lista della spesa.
Seriamente: è un periodo in cui non ho davvero un momento di pace. Ma devo far credere a me stessa di avere ancora del tempo per i miei hobby, quindi fingo indifferenza, e la posto.
Non betata e non corretta.
Ringrazio, come al solito,
Joy che mi tiene altissimo l’hype per questa storia. Se non fosse per lei, probabilmente non avrebbe mai preso vita.  <3
La terza parte è già in lavorazione, e vi dirò di più: sarà talmente WTF che vi domanderete che tipo di pigne io abbia nel cervello!

Scritta per la Secondary To Whom? – challenge del gruppo Hurt/Comfort Italia




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Capitolo 3
*** Never forget we were built to last 03 ***


Never forget we were built to last

- III parte -

 

“Sei riuscito a fargli bere qualcosa?”

Hange batte con le dita l’incavo dell’avambraccio di Marco, ma neanche questo sembra funzionare.

“Un po’—” Jean china gli occhi, “Quasi nulla, in realtà—”

Il silenzio in cui piomba la stanza è interrotto solo dal lieve frusciare dell’uniforme fresca da lavanderia della scienziata, che si muove con una lentezza che non si addice alla frenesia di pochi minuti prima, quando la stanza era sembrata essere lì dall’esplodere.

Hange porta la cinghia emostatica su un punto più alto, ci riprova. Aguzza gli occhi miopi, si china per vedere meglio: il pollice e l’indice sembrano effettivamente aver bloccato qualcosa sotto quella pelle arida, e Jean ne segue tutti i movimenti con la coda dell’occhio, in segreto, come fosse qualcosa che non dovrebbe fare.
Allinea l’ago della siringa, si addenta il labbro inferiore, crede di avercela fatta. Poi però, delusa, è costretta a tornare in fretta sui suoi passi prima ancora di bucare.

 “Andiamo, dove sono finite le tue vene, Marco?”

E Jean, con le unghie conficcate contro la propria nuca e i gomiti fissi sul davanzale, affida una imprecazione all’aria fresca; la stessa che gli pizzica il naso e la gola, e lo aiuta pure a giustificare quegli occhi ancora gonfi e arrossati più di quanto non riesce a fare da sé.

“Trovata!” l’entusiasmo della caposquadra non lo contagia neanche quando la sente esultare, ma lo fa il modo in cui, lentamente il boccheggiare sofferto di Marco cede il posto ad un respiro più regolare, che in qualche modo, sembra riuscire a fa respirare anche lui. Sbircia di nuovo.

“Si era nascosta bene, la signorina. Ma alla fine, sono riuscita a stanarla lo stesso, hai visto?”

Jean affonda di più le dita alla testa.

“Va già meglio, non è vero?” Hange preme un dito contro la giugulare sul collo e una garza nel gomito adesso piegato, e, diavolo – ha quasi l’impressione che Marco le annuisca davvero, quando porta la testa dall’altro lato del cuscino, e tira un sospiro di sollievo talmente lungo e profondo che sembra poterlo liberare da qualsiasi sofferenza.

“Lo so, lo so, è una bella sensazione—” Fiduciosa, la scienziata lascia scivolare le dita tra i capelli di Marco un paio di volte, per poi percorrere con lo sguardo tutto il suo corpo, e Jean non ce la fa a guardare oltre, perché se lo facesse, sarebbe come sentirla passare in rassegna le sue colpe ad una ad una, ritrovandole su quel corpo come trofei.

“Hai fatto un buon lavoro con l’unguento,” dice a un certo punto, e Jean sa che sta spudoratamente mentendo.
Strizza gli occhi forte quando Hange rincara il commento con un ‘dico davvero!’, e ancora più forte quando sente il familiare fruscio del lenzuolo inamidato librarsi nell’aria.
Marco geme. Sibila un ‘no’ spezzato a cui Hange risponde prontamente con l’ennesimo shhh, va tutto bene’.

Ed è troppo.

“Maledizione,” sbriciola tra i denti e tra i bagliori dietro le palpebre che il vento freddo gli gela, facendo condensare le lacrime agli angoli degli occhi.

“Jean—”

Piega il mento sino a sfiorarsi il petto. Tra poco sentirà Hange ripetergli di nuovo la solita tiritera che gli ha già detto al suo ritorno, quando lo ha trovato di fianco al letto, accovacciato sui talloni, con la testa tra le mani.
E non ha voglia di stare a sentirla ancora.

“Coraggio, vieni qui a darmi una mano con Marco.”

Le palpebre sembrano non bastare più. Porta direttamente i palmi sugli occhi, strozza un singhiozzo.

“Quei punti avrebbero ceduto lo stesso, te l’ho già detto—”

“Aveva detto che non lo avrebbero fatto—” viene fuori malissimo.

“Beh, mi sarò sbagliata. Sarò stata troppo fiduciosa nei macellai di Trost. Hai visto anche tu in che modo lavorano, no? Dai, vieni qui.”

Marco geme, e geme ancora. Ci mette più enfasi questa volta; più energia.
Il tonfo ovattato del lenzuolo che si affloscia sul pavimento lo agita, rendendolo incredibilmente loquace.

“No, non fare così, Marco. Non ti farò del male. Guardo soltanto—”

Jean sorride beffardo.
Hange dovrà impegnarsi molto di più se vuole convincerlo.
Perché gli ha fatto un male cane quando, in preda al panico, lo ha sollevato, smanacciato, spostato senza alcuna delicatezza per avvolgergli maldestramente quel lenzuolo intorno alla vita e tamponare il sangue.
Non credeva fosse umanamente possibile sentire urla peggiori di quelle che gli avevano causato all’ospedale di Trost, ma dovette ricredersi.

“No-n toglierlo, ti prego! Reiner!

“Guardo soltanto, promesso. Guardo soltanto—” ribadisce ancora, pacata e affettuosa come Jean non l’ha mai sentita, ma Marco continua a lamentarsi e delirare con dei picchi che lasciano intendere che Hange stia facendo altro dal semplice guardare così come sostiene, ed è all’ennesimo lamento che Jean si volta di scatto, pronto ad aggredire quella scienziata di merda che si improvvisa medico, anche lì, anche all’istante – perché ci ha già pensato lui con la sua stupidità a massacrarlo, e Marco non può ancora soffrire. Semplicemente, non può.
Lei è qui per farlo stare meglio, non per farlo gridare in quel modo, e cazzo.
Cazzo.

“Bravo, lascialo a me, questo—”

L’ultimo lembo di lenzuolo dalle dita tremanti, Hange lo sfila via solo quando Marco, finalmente, allenta la presa.
Ed è una scena a cui non è preparato; a cui la sua rabbia non sa rispondere.
Come paralizzato, sente il proprio respiro affannoso montare, gli occhi tornare a pungere.
Hange lascia di nuovo scivolare le dita tra le ciocche appiccicose di Marco, e senza attendere che i suoi lamenti si plachino, se ne esce con l’ennesimo ‘Sei stato bravo’, ‘Va tutto bene’, e altre frasi patetiche che Jean non capisce, ma che sfiorano qualcosa dentro di lui, in zone del suo petto che non conosce.

 “N-non abbiamo neanche…neanche parlato—” singhiozza sommesso.

“Che—che cos’ha?” Non sa neanche perché lo domandi. Forse, ha a che fare con quel modo strano con cui Hange ha aggrottato le sopracciglia, e che proprio non gli piace.

“Ha bisogno di te, Jean. Ecco cos’ha.”
Ammette la sconfitta con un sospiro: “Ha paura. È letteralmente terrorizzato. Se non si rilassa, anche l’antidolorifico che gli ho dato sarà del tutto inutile—”

Jean chiude gli occhi. Di nuovo. “Chi avrebbe voglia di vedere colui che lo ha praticamente ucciso—?”

Solo a quella frase Hange solleva il volto, gonfia le guance in un modo con cui era solito a fare anche lui da bambino, poi sbuffa.


“Per quanto ancora hai intenzione di piangerti addosso per questa storia? Non lo hai ucciso. Non è neanche detto sia stata colpa tua se quelle suture sono saltate! E poi, guardalo!” indica Marco con un cenno della mano, il torace lucido di sudore che si abbassa e si alza ad un ritmo spezzato dai singhiozzi, ma tutto sommato, regolare, la fronte aggrottata, ma non più chiusa in quella smorfia di agonia che ormai sembrava esser diventata un suo marchio di fabbrica. “Gli hai anche fatto guadagnare una dose di antidolorifico non prevista, penso sia il primo a ringraziarti!"

Jean pensa sia l’ennesimo tentativo di Hange di apparire gentile e risollevargli il morale, ma non ha il tempo di rifletterci più di tanto, perché la scienziata ha già terminato il tempo a disposizione da dedicare ai suoi piagnistei.
Sostituisce la pezzuola abbandonata in un angolo dietro al cuscino con una pulita, la immerge nell’acqua del bacile, tampona la fronte di Marco ripulendola dal sudore.

“Continua tu con le spugnature,” gli ordina, porgendo tutto a lui.

E Jean si avvicina timido, quasi furtivo. Senza incrociare il suo sguardo, fa trovare a Marco la mano che cerca tra le pieghe del coprimaterasso, e si vergogna a morte quando questa si avvinghia a lui come se gli perdonasse più di quanto lui sia disposto a perdonare a sé stesso.
Non emettere alcun suono anche quando la stretta diventa eccessiva, perché Dio – Dio, quanto cazzo scotta.
E quanto cazzo trema.

Hange lo scruta per un po’, e i suoi pensieri sono così appiccicosi che Jean si domanda se non stia già scontando a sufficienza la sua pena per meritare anche questo.
Ma evidentemente, la risposta, è no. Un cenno del mento della caposquadra gli rammenta il comando.

“Le spugnature, Jean.”

Solo quando comincia a fare quanto richiesto Hange porta lontano il suo sguardo inquisitore.

“Sono saltati solo tre, massimo quattro punti da qui, dal fianco”, tornata china sul suo paziente, punta l’indice verso la carne lesa, fa attenzione a non sfiorarla “Ed erano davvero tra le suture più brutte che io abbia mai visto. Credimi, di punti brutti io ne ho visti tanti.”

Jean chiude gli occhi. Prova a respirare piano onde evitare che un nuovo conato possa coglierlo alla vista di quello schifo viscido che ha Marco lì sopra, e che sente un po’ infettare anche le sue carni ogni qualvolta Marco pronuncia il suo nome, probabilmente mentre si domanderà perché sia tornato al suo capezzale ma non lo guardi, si lasci stringere sotto le sue mani, ma non gli rivolga parola.

“Il sangue che hai visto era probabilmente dovuto ad un ristagno, o ad un capillare– non so, non è facile stabilirlo così. Ad ogni modo, adesso non sanguina più.”

“Qual è il da farsi adesso?”

Hange solleva il viso, scrolla le spalle spiazzata dalla domanda.

“Beh, lo ripuliamo e lo ricuciamo. Ma prima di ogni cosa, Marco deve bere. La sua disidratazione è ciò che mi preoccupa di più.”

E Jean ha un sussulto quando la vede sollevarsi di scatto dal letto e avvicinarsi verso una brocca d’acqua calda che ha portato con sé. È camomilla. Ne ha riconosciuto la fragranza morbida della sua infanzia sin dal momento in cui Hange ha fatto ritorno.

“Sollevagli la schiena, facciamogli bere una bella tazza di questa.”

“Cosa—?”

“Ti dirò io come fare, sollevalo.” incalza ancora, per niente sorpresa della sua reazione, mentre si affretta a versarne una tazza.

Jean sente il suo respiro accorciarsi, gli occhi perdere fuoco.

“Dovrei di nuovo—?” si guarda intorno, cerca tra le pareti il fantasma di qualcosa che non sa neanche cos’è. “È uno scherzo?”

“È pericoloso farlo bere da disteso, potrebbe soffocare. Dai, adesso sollevalo.”

“Ha già rischiato di soffocare almeno due, tre volte anche da seduto, e gli ho anche—” deve riprendere fiato, trovare le parole giuste, ingoiare, “—gli sono anche saltati i punti.”

“Ti ho detto che ti dirò io come fare, Jean. Marco deve bere. E deve farlo adesso, o qualunque cosa faremo per lui sarà del tutto inutile, perché morirà. Lo capisci?”

Hange non aveva mai alluso a niente del genere sino ad ora; non l’aveva tirata in ballo come opzione neppure per sbaglio.
Ed è proprio questo che, agli occhi di Jean, aveva reso salvifica la sua presenza: con Hange lì, la stanza ticchettava, ma non esplodeva.
Adesso però, è come se quella sacralità fosse venuta meno; come se all’improvviso, forse per dispetto o per capriccio, avesse disgregato la coltre di sacralità con cui aveva avvolto Marco, riportandolo in balia della realtà.

“E poi, sono sicura che Marco farà il bravo bambino e berrà senza fare storie. Non è vero?” tira fuori uno dei suoi sorrisi più fuori luogo mentre si rivolge a quell’occhio che la fissa incerto.
Jean si domanda se non stia prendendo in giro tutti.

“Io non —”

Incespica. La lingua si ferma, poi schiocca sul palato.

“Non posso farlo.”

La frase lo pizzica a tal punto da scappare prima ancora di riuscire a dargli una forma che non suoni irriverente con un superiore.

Hange piega il collo di lato, non ne sembra turbata. Neanche dal modo in cui la sua voce ha tremolato. Ci pensa un po’ prima di sollevare le spalle e stirare le labbra verso il basso in una smorfia di sufficienza.
Guarda Marco, si lascia di nuovo cadere sul suo solito angolo di letto.

“Va bene,” risponde allegra. Poggia una mano sulla spalla integra del suo paziente. “non preoccuparti, Marco. Se il tuo amico qui ha così paura, sarò io a prendermi cura di te.”

Lo raccoglie tra le braccia senza attendere alcun cenno di assenso e in pochi movimenti ben studiati, ne adagia la schiena contro il suo petto.

“Jean—”

La palpebra di Marco batte un paio di volte umida, come se il ritrovarsi a boccheggiare contro l’incavo del collo della caposquadra lo avesse fatto emergere da un incubo in cui non sapeva di essere rinchiuso.
L’iride lucida si muove a scatti, vaga alla ricerca della sua figura, e lo fissa interrogativo, come se gli sfuggisse cosa diamine ci faccia lì impalato mentre lui assorbe il calore di un’altra persona.

Shhh, bevi questa, avanti.”

“J—Jean—” La voce si rompe quando con una smorfia rifiuta di far aderire le labbra alla tazza che Hange gli ha portato alla bocca, e può vederlo, il suo petto tornare a gonfiarsi allo stesso pericoloso ritmo con cui ha preso a fare il suo.
Può vedere anche il modo in cui Hange cinge il suo mento guidandolo verso la tazza, gesto certamente carico di tutte le buone intenzioni del mondo, ma che ai suoi occhi appare minaccioso dal momento in cui Marco tenta di sottrarsi ad esso, e no.

No.

“Aspetti!”

Arriva prima che Hange possa anche riprovarci.
La mano che Jean si sfrega sul viso è l’ultimo tentativo che compie nella speranza di scoprire che è tutto un sogno: il sorriso soddisfatto che ritrova sulle labbra della scienziata quando riapre gli occhi gli consegna l’ultima, impietosa conferma della realtà.

“Hai visto? Te lo avevo detto. Va sempre a finire così” bisbiglia leziosa in un orecchio di Marco, prima di scivolare via dal materasso, cedendogli il posto.

“Fa in modo che tenga la testa piegata in avanti,” raccomanda, ma lo fa dopo un po’.
Per la precisione, dopo che Jean si annoda a Marco con le braccia, la bocca e i capelli, quelli scuri e impiastrati, che si mescolano prima alle sue ciocche rosse, poi alle sue guance rigate, che li aggrovigliano più di quanto non lo siano già di suo, ma non fa niente.

Sente la caposquadra sfiorargli un gomito e pronunciare il fantasma di un ‘fai piano’ quando si accorge anche lei che, forse, sta stringendo un po’ troppo. Perché Marco continua a lamentarsi, e nel suo pianto senza lacrime, storce il naso in un modo orrendo; ma Jean ha bisogno di sentire i sussulti di quella schiena contro il suo petto, ne ha bisogno perché è solo così che riesce a trovare un senso al modo imbarazzante in cui prende a frignare, piegato sulle sporgenze aguzze dell’unica spalla rimastagli.

Hange sospira, il modo in cui sorride tradisce un velo di saggia soddisfazione.
Recupera il mento di Marco nascosto tra i palmi e le labbra di Jean per accostarlo alla tazza e, nonostante il furto, a Jean il gesto non sembra più così ostile come lo era sembrato prima.

“Adesso bevi, coraggio,”

E mentre Jean si asciuga maldestro le palpebre con le nocche, Marco manda giù un primo sorso dopo un momento di esitazione; i successivi, non hanno bisogno invece di alcun invito.
Una stilettata comparsa dal nulla sembra colpirlo in pieno stomaco però quando Marco comincia a cedere ai primi colpi di tosse. Solo un paio, in realtà. La mano di Hange che preme sulla nuca, e la sua sulla schiena, li fa estinguere prima ancora che Jean si renda conto di aver trattenuto il fiato tutto il tempo.

“Bravo, così. Respira. È già passato—” esorta fiduciosa.

E diamine, quando Marco crolla contro la sua spalla a riprendere fiato dopo aver finito tutta la tazza, Jean ha l’impressione che davvero su quel visetto gonfio, un tempo puntellato da adorabili lentiggini e adesso devastato dalle suture, ci sia un briciolo di colore in più.

“Non abbiamo ancora finito,” annuncia Hange schietta, e Jean non vuole credere che stia riempendo una seconda tazza di infuso – “Continua tu, Jean. Fai modo che ne beva un’altra tazza.”

Dal suo petto, Marco esala un lungo sospiro sconsolato, mentre Jean si trova goffamente ad afferrare la tazza offerta da Hange.

“Ricordati di tenere la testa piegata in avanti. Non farti prendere dal panico in caso cominciasse a tossire.”

Scosta le anche dal bordo del comodino contro cui è poggiata, si dirige verso la porta, e Jean ha già visto quella scena.

“Aspetti, dove—dove sta andando?”

“Vado a prendere il necessario per rimettere a posto quei punti saltati; dovrei averne un kit adeguato nel mio alloggio, o al limite in infermeria. Torno subito, non preoccuparti. Nel frattempo, continua a farlo bere. Voglio vedere quella tazza vuota al mio ritorno”.

Jean caccia fuori tutta l’ansia in un sospiro mentre Marco allunga un lamento umido che ha il sapore di una protesta.

“Niente storie. Solo un’altra tazza.” riprende la caposquadra con finta severità, la mano che poggia sul petto di Marco è quella di un’amica, “Vedi di non spaventare a morte il tuo fidanzatino. Non ho voglia di ritrovarlo a pezzi come poco fa, non posso permettermi due pazienti. Siamo intesi?”

Marco si trincera in una smorfia, nascondendo il volto integro contro il collo di Jean, e a Jean verrebbe quasi da sorridere perché l’ultima volta che ha visto quell’espressione sul suo volto, Sasha gli aveva, per l’ennesima volta, rubato il suo pranzo, ed è lo sprazzo di una normalità che non ha mai immaginato di poter ritrovare proprio qui.


“Jean—” è il richiamo soffocato con cui Marco lo invoca, perché sta provando già da qualche secondo a sollevare il braccio in direzione del suo viso ma non ci riesce, e lui, come un perfetto stupido, se ne sta lì a fissare la porta che la caposquadra Hange ha chiuso alle sue spalle, anziché occuparsene.

È a quel punto che Jean si sveglia, si desta ed ha l’impressione di vederlo per la prima volta dopo tanto tempo.
L’assenza di luce di pochi istanti prima del suo occhio, ha lasciato il posto ad un luccichio diverso, che insieme alla cispa e altra robaccia, rendono Jean per qualche ragione, stupidamente felice.
Abbandona la tazza da qualche parte sul comodino, raccoglie con i pollici un rigagnolo di saliva colato da un angolo della sua bocca, sorride. Sorride, e si sforza di trattenere in petto qualcosa che non sa neanche dire se uscirebbe in forma di risa o di pianto.

“Diamine, Marco—” Jean gli parla nella pelle bagnata della fronte, dove lascia qualcosa che ricorda un bacio e sente il corpo di Marco strattonare per un istante, prima di cedere dolcemente sotto le sue mani.
 E il cuore, che batte contro il suo sterno, Jean lo sente sincronizzarsi al suo.

“Quanto mi sei mancato.”

 

(fine terza parte)

 

NOTE: ECCOLA QUI! La terza parte. Pensavate fosse l’ultima, eh? Beh, lo pensavo (e speravo) anche io. Ma non è così. Sob. Ci sarà una quarta parte, in cui prometto davvero faville. Giuro. Credeteci. Faville.
 
NON CORRETTA, NON BETATA

 

Scritta per la Secondary To Whom? – challenge del gruppo Hurt/Comfort Italia. Venite a trovarci!

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