Sentieri Sconosciuti- Volume II- Resistenza

di HellWill
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo: Hairesis- L'Origine ***
Capitolo 2: *** Zahel- Lo straniero ***
Capitolo 3: *** Yukab- L'Isola di Nessuno ***
Capitolo 4: *** Aykir- La Protettrice ***
Capitolo 5: *** Sue- Il patto ***
Capitolo 6: *** Willow- La falsa Contessina ***
Capitolo 7: *** Tarish- La riunione segreta ***
Capitolo 8: *** Beatriz- Il drago ***
Capitolo 9: *** Link d'acquisto e ringraziamenti ***



Capitolo 1
*** Prologo: Hairesis- L'Origine ***


Prologo
Hairesis
L’Origine

 
In principio vi era il Nulla.
Il nulla era popolato da esseri di Tutto, gli Heorid, che conducevano la loro esistenza in maniera del tutto diversa da come noi potremmo svolgere la nostra.
Gli Heorid erano infatti esseri di puro pensiero: non avevano carne, non vivevano, non avevano bisogni o sogni, ma avevano pensieri e sentimenti, dal momento che era proprio ciò a costituirli e a farli esistere.
Gli Heorid provavano piacere nello stare gli uni con gli altri, e in poco meno di un milione di nostri anni scoprirono che avevano oltre che una presenza intelligente, anche delle capacità; il passo dallo stare insieme per piacere allo stare insieme per diletto fu breve: in poco più di cinquemila anni gli Heorid presero a sfidarsi con spirito giocoso ad inventare.
Non avendo corpo, gli Heorid non disponevano di una lingua o una gola o una bocca per modulare dei suoni; gli Heorid avevano semplicemente pensiero, mente, e così comunicavano fra loro. I loro pensieri erano musicali ed armoniosi, e corrispondevano sempre al vero ed alla più profonda essenza di loro stessi e dei sentimenti che andavano ad esprimere.
Ma di cosa potevano mai parlare gli Heorid, in un luogo di Nulla in cui le sole cose che potessero esistere erano proprio loro, esseri di Tutto?
Gli Heorid comunicavano le proprie idee.
Ben presto diventò una sfida: chi riusciva ad ideare la cosa più bella? La cosa più fantasiosa? Ma gli Heorid non hanno mai avuto rivalità, dunque si unirono nel pensare ed ideare questa grande cosa che era la sfida.
Fra gli Heorid non vi era gerarchia di sorta: non vi erano poveri di spirito, non vi erano nobili di spirito, non vi erano re; esisteva solo un Heorid, la Suprema Autorità, che si occupava di gestire le faccende più importanti: la nascita di nuovi Heorid, la cura dell’integrità del Nulla, i pensieri e le idee più belle. Al di fuori di questo, la Suprema non aveva altri incarichi, ma aveva una grande saggezza in quanto era la più vecchia e dunque il pensiero più potente fra gli Heorid.
La Suprema si accorse che qualcosa non andava: gli Heorid che la aiutavano a svolgere i suoi compiti erano infatti rimasti in pochi, mentre a decine, forse centinaia, si erano radunati a pensare e pensare affinché un’idea nuova e terribilmente utile e bella germogliasse in loro stessi e nella loro mente comune. Vedendo questo sforzo collettivo, la Suprema decise che era cosa buona e stava per unirsi a loro, quando percepì qualcosa.
Questo qualcosa non era propriamente un pensiero, era più una presenza: somigliava ad un singolo Heorid, ma era infinitamente più potente, infinitamente meno potente… era diversa da qualunque Heorid la Suprema avesse mai percepito. Spaventata da tale cosa, la Suprema rifuggì gli Heorid che avevano fatto ciò e allargò i propri pensieri, in maniera da capire cosa fosse quella presenza nuova... e localizzandola nel Nulla: era materia.
La Suprema, inorridita da tale scoperta, credeva di poter ristabilire il Nulla in qualche modo: preservarlo era suo compito, affidatole dall’intera comunità di Heorid, ma qualsiasi sforzo fu vano: nel giro di diecimila anni ancora, uno schiocco di dita per un Heorid, quella materia solida, strana e così terrificante per esseri di solo spirito, era cresciuta, moltiplicandosi, divenendo abbastanza grande. Gli Heorid che avevano passato tutto quel tempo a pensare a quell’unica idea nata da tanti, gioirono di quella invenzione, e si dedicarono ad esplorarla: dovevano dargli un nome, e così come avevano dato un nome a tutto ciò che di astratto avevano potuto ideare – le geometrie, la matematica, le idee stesse – chiamarono quella nuova cosa, così diversa da tutto, “materia”. E la materia che formava quella cosa era “prima”, perché null’altro esisteva prima di essa. Lentamente gli Heorid cambiarono quella materia prima, la modellarono, la eliminarono, la ricrearono, insomma, scoprirono il piacere di lavorare collettivamente a quell’unica idea. E la Suprema, che li osservava in silenzio disapprovando quella condotta infima e miserevole, si decise a comunicare ai suoi compagni il suo sdegno.
«Come avete osato» comunicò loro, emettendo pallidi sentimenti di rabbia «intaccare il Nulla che mi avete ordinato espressamente di preservare?».
Gli Heorid la circondarono della luce tranquillizzante delle proprie menti, tentando di rassicurarla, ma la Suprema pretese delle spiegazioni: come avevano fatto a creare quella cosa dal nulla?
«È il potere delle nostre idee, o Suprema Autorità» spiegarono univocamente gli Heorid, emanando gioia pura «Ogni idea è verità, ogni verità esiste, ogni esistenza è potere».
La Suprema, colpita ma ferita al contempo da tali parole, si ritirò altrove con gli Heorid rimasti con lei invece di partecipare alla creazione di quella nuova idea. Rifletté per lungo tempo, mentre dietro di lei la materia prima diventava altro, ed altro ancora, modellata e creata ancora dagli Heorid.
Gli Heorid crearono infine un palazzo, enorme ed infinito, che rispondeva alle loro volontà come una mano risponde alla volontà del proprio umano; il palazzo era come se fosse un prolungamento delle menti armoniose degli Heorid, che agivano in cooperazione totale, gli uni uniti agli altri in essenza di luce pura.
Entro diecimila anni ancora il palazzo fu ultimato e gli Heorid, che avevano nominato – man mano che creavano – le nuove idee che gli portava quella materia, si resero conto che la loro creazione ultima aveva bisogno di un nome anch’essa. Così gli diedero un nome che nelle loro menti, come pensiero, suonava come una melodia breve ma assai significativa, che piacque subito a tutti; in Deniwa questa melodia fu poi fu tradotta “Jeun”, che nella nostra lingua vuol dire “creazione”.
Gli Heorid capirono che la loro jeun era ultimata quando scoprirono che questa mutava, cambiava, a seconda di come mutavano le loro idee; ma a quel punto, prima ancora che gli Heorid creatori potessero dedicarsi a scoprirla e ad esplorarne tutte le potenzialità, la Suprema aveva esaurito il suo riflettere e, con enorme sforzo ed enorme potere visto che era l’Heorid più saggio, decise che gli Heorid creatori dovessero essere puniti per aver intaccato il Nulla perfetto del loro mondo.
Mandò dunque a chiamare tutti gli Heorid creatori e un nuovo concetto balenò nella mente collettiva degli Heorid: era nata l’idea di tradimento. Il sentimento della Suprema Autorità era condiviso dagli Heorid che con lei erano rimasti e che si erano sentiti esclusi e disgustati da quell’attaccamento alla materia, da loro considerata imperfetta in contrapposizione alla perfezione del Nulla.
In collegio e secondo una decisione univoca, la Suprema aveva deciso che la punizione per gli Heorid ‘traditori’ dovesse essere terribile quanto commisurata alla colpa: per una legge che la Suprema aveva definito “dell’analogia”, se quegli Heorid amavano tanto la materia, la loro punizione sarebbe stata di essere per sempre legati ad essa.
Così dicendo, il suo pensiero era realtà; e siccome era realtà, gli Heorid colpevoli si ritrovarono improvvisamente confinati in un corpo fatto della stessa materia prima che loro stessi avevano ideato: bianca, immutabile, strana.
Muti lamenti si levarono dagli Heorid-non-più-Heorid, e sommo dolore riempì gli Heorid fedeli alla Suprema che videro quei corpi grotteschi con dentro i loro compagni cadere nel Nulla e schiantarsi sulla jeun che avevano creato; terribilmente afflitti da quella pena, senza sapere ancora come controllare bene quei corpi che sentivano così stretti ed estranei in confronto all’immensità del Nulla che avevano sempre riempito senza sforzo, gli Heorid traditori capirono cos’era successo e perché quel senso di tradimento pulsava dentro le loro menti come in quella della Suprema: il Nulla era il solo non-luogo abitabile dagli Heorid, e qualunque cosa non fosse il Nulla non era adatta ad accoglierli. Colmi di vergogna, gli Heorid traditori decisero di rifugiarsi nel loro Palazzo, e scoprirono pieni di meraviglia che nonostante i corpi, le loro capacità rimanevano immutate. Vi erano certo quelle stranissime sensazioni che arrivavano dal loro involucro troppo stretto, si sentivano male lì.
Si dedicarono così all’esplorazione della loro jeun, che nemmeno loro conoscevano pur avendola creata, e immaginarono un mondo capace di accoglierli; immaginando, così come avevano fatto per la jeun, creavano; e creando, scoprivano.
Così, nella loro jeun che era un palazzo infinito, comparve una Porta.
Non appena un Heorid traditore la vide, perché era strano ma sì, quei corpi vedevano: non c’era più la sola percezione mentale che li aveva sempre guidati, bensì un milione di altre sensazioni. E insieme, gli Heorid-non-più-Heorid capirono che dovevano dare un nome anche a quelli: così nacquero i nomi del tatto e della vista, dal momento che loro non producevano alcun suono perché erano fatti di materia prima così come la jeun.
Non appena un Heorid traditore vide la Porta, la Prima Porta, capì che era qualcosa di diverso da qualunque cosa avessero mai immaginato loro tutti; tutti gli Heorid si radunarono intorno ad essa e tentarono di capire come funzionasse, poi capirono che dovevano inventarlo, il modo: la jeun aveva creato la Porta per un altro luogo sotto loro volontà, stava a loro continuare l’opera.
Nel momento in cui capirono ciò, la Porta si aprì e rivelò un altro luogo, popolato di Nulla anch’esso. Commossi da tanta bellezza e feriti nel profondo da una vista così antica, gli Heorid invocarono la Suprema e le chiesero perdono, dicendole che se lei avesse voluto, avrebbe potuto abitare nel nuovo mondo, dove il Nulla era perfetto e non intaccato dalla materia imperfetta come la jeun e, ormai, loro stessi. La Suprema, sdegnata ed offesa da una simile proposta, ribatté che piuttosto li avrebbe spazzati via dal suo Nulla, e gli Heorid piansero giorni e notti per il suo discorso: se l’aveva detto, doveva corrispondere al vero poiché con i pensieri è impossibile mentire.
Era comparsa infatti una seconda Porta nella jeun: questa non era bianca come la materia prima, bensì del colore esattamente opposto; quando gli Heorid traditori la videro rimasero scioccati ed immobili: se fossero stati ancora Heorid senza corpo si sarebbero agitati confusamente nel Nulla tentando di calmarsi, ma nulla potevano fare in quei pesi gravi che li legavano alla materia.
Come aveva fatto la Suprema, che non aveva preso parte alla creazione della jeun, ad influenzarla con le proprie idee? Gli Heorid traditori tremarono di fronte alla consapevolezza che la loro jeun aveva un intelletto proprio, che non corrispondeva a quello di loro Heorid ma che era più profondo e più essenziale: non comunicava, ma captava ogni cosa che potesse succedere in qualsiasi Nulla o Tutto.
Aprendo la nuova Porta, un Heorid scomparve.
Il suo corpo si accasciò a terra, vuoto dell’Heorid che l’aveva abitato.
E scoppiò qualcosa.
Non si può definire caos perché fu tutto molto ordinato; non si può definire guerra perché nessuno aveva armi, nessuno accusava qualcuno e nessuno era ostile a qualcuno; non si può definire cosa accadde ma successe questo.
Gli Heorid fedeli alla Suprema comunicarono a quest’ultima cosa era accaduto. Sbalordita e pentita di aver dato luogo ad un tale evento, la Suprema pensò a come rimediare, e pensò così tanto che con un pensiero, un balenio di “Andrò a prendere l’Heorid annullato e…” e la Suprema era scomparsa, annullata e uccisa da un suo stesso pensiero. Subito dopo, i pensieri si accalcarono ed erano tutti simili, e gli Heorid traditori capirono che era necessario preservare gli Heorid loro compagni da quella autodistruzione involontaria: la Suprema aveva infatti creato la Morte.
Visti gli enormi sforzi degli Heorid traditori per restare uniti agli Heorid senza corpo, questi ultimi commossi da tanto impegno decisero di eleggere uno di essi Suprema Autorità, sotto consiglio generale di tutti gli Heorid: con corpi e non. Fu eletto come Suprema Autorità un Heorid con un corpo, dunque gli Heorid, tutti insieme esortati dalla Suprema, si misero a creare ancora, ad avere nuove idee, perché il Nulla potesse essere abitato sia dai corpi sia dagli Heorid ancora liberi; dal bianco e dal nero della Porta della Morte che aveva accolto così tanti Heorid tutti ricavarono nuove sensazioni, che chiamarono colori, e il Nulla non fu più “Nulla” ma “Qualcosa”, poiché “Tutto” potevano essere solo gli Heorid stessi, essenza delle idee. La nuova Suprema aveva così salvato il mondo: ciò che la vecchia Suprema non aveva capito era che il Nulla poteva cambiare, poteva mutare, ma restava sempre e comunque abitabile; il Nulla si riempì di materia prima, la jeun diventò solo la prima di tantissime jeuny, tante creazioni riempirono il Nulla e permisero agli Heorid con i corpi di vivere accanto agli Heorid originari, in completa armonia.
La Suprema esortò quindi tutti gli Heorid a pensare a cos’altro si potesse inventare: se loro avevano dei corpi, potevano esistere altri corpi con altre creature? Non Heorid, ma ugualmente intelligenti... era possibile? Il pensiero fu potere e il potere fu cosa: nacquero altre Porte.
Inizialmente fu una sola, poi ne furono decine, poi centinaia, e ognuna era popolata da idee diverse, o idee fuse insieme, e ogni Porta al suo interno aveva un microcosmo ordinato e complesso, in perfetto equilibrio in tutti gli elementi che lo costituivano: nacquero altre razze che non fossero Heorid, come gli Elfi Alti, i Draghi, e via discorrendo verso le razze più piccole e dotate di meno intelletto e più istinto: umani, animali, sirenidi, insetti.
Ma mancava ancora qualcosa… ancora molto mancava a quei mondi che sembravano solo distese di brulla terra esposta alle intemperie: gli Heorid e i loro compagni dotati di corpo ebbero allora un’idea geniale, in cui fusero tutti se stessi, in maniera tanto profonda che persino a loro era inconcepibile, e crearono una forma di vita capace di proliferare pressoché ovunque: i vegetali. Nacquero felci, arbusti, alberi, piante di ogni tipo, coloratissime e uniche nel loro genere a seconda dell’Heorid che le aveva create.
Con i vegetali, iniziò la vita; tutte quelle invenzioni di razze e vite ed entità a loro stanti presero origine ed inizio così come gli Heorid avevano previsto che andasse: da minuscole forme di vita come le amebe e gli esseri unicellulari, così affascinanti persino per coloro che li avevano inventati nelle loro evoluzioni, assistettero alla nascita di ogni forma di vita che avessero potuto inventare e che ora si avverava davanti ai loro occhi, a velocità straordinaria perché per loro, dopotutto, cos’erano i milioni di anni?
Gli Heorid traditori tuttavia avevano il fremente desiderio di prendere parte a quel processo di continuo movimento che avevano fino a quel momento solo osservato: i loro corpi tremavano dalla paura e dalla voglia di vivere e trovare un impiego, a scapito di ciò che gli Heorid avevano sempre provato, ovvero tranquillità e pace con se stessi nel Nulla. Ma ora che quelle Porte erano piene di tutte quelle idee vive… come non prendervi parte? E così gli Heorid con i corpi sentirono per la prima volta il distacco dai loro compagni d’eternità senza corpo, e capirono di essere qualcosa di diverso... qualcosa che come tutte le altre aveva bisogno di un nome. Siccome c’era stato chi fra gli Heorid aveva inventato i popoli, collettivamente chiamati generalmente così e a cui poi avevano tutti trovato un nome, gli Heorid traditori capirono che il loro nome non poteva essere altro che quello: il Popolo. Siccome il loro pensiero, così breve e conciso, sibilante di nostalgia e fierezza, venne poi tradotto in Deniwa, noi li conosciamo semplicemente con il nome di Sayn.
I Sayn abbandonarono i compagni Heorid con la promessa che mai li avrebbero dimenticati, sapendo che era però la cosa migliore: la materia imperfetta doveva stare con la materia imperfetta, e la perfezione doveva stare nella perfezione. La Suprema, che era anch’essa una Sayn, decise di seguire i propri compagni alla scoperta dei mondi delle Porte... e con noi Sayn tuttora abita.
La Storia si è susseguita in un continuo ciclo di nascita e morte in tutti i mondi, ma essendo noi Sayn fatti di materia prima e dunque inattaccabili e potenzialmente immortali ci siamo limitati ad osservare il tutto dai margini, intervenendo solo nei momenti critici, identificati in divinità che, semmai fossero esistite, sono individuabili nei nostri antichi compagni Heorid.
La jeun originaria è da noi chiamata ancora Dejeun, “La Creazione”, ma le altre razze convengono nel chiamarla diversamente e lentamente questo nome è scomparso, nessuno lo conosce vista la brevità della vita delle altre razze; il nome più comunemente usato da loro è “Tempio delle Porte”, nella molteplicità di lingue che loro hanno dedotto dalla nostra originaria.
Noi Sayn viviamo una vita appartata, segreta; ci nascondiamo alla vista dei più e a volte siamo proprio sotto il loro naso, limitandoci a nasconderci vista la nostra vergogna prima, l’aver dato origine a tutto ciò che di imperfetto e sbagliato c’è nei mondi.
La materia prima fu solo l’inizio della decadenza in cui versa tutti i mondi conosciuti e che porterà all’inesorabile distruzione e rinascita del tutto; come al solito noi sopravvivremo e accoglieremo la nascita dei nuovi mondi con le nuove idee dei nostri Heorid a braccia aperte.
 
 “L’Origine” di Hairesis,
dalle biblioteche del Palazzo di Seremauwn.

 

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Capitolo 2
*** Zahel- Lo straniero ***


I
Zahel
Lo straniero
 
9 Gjorna 684 d.C.
«Finalmente sei tornato. L’hai trovata?».
«No».
La donna si alzò di scatto dal suo scranno, indispettita.
«Mi serve. Hai la minima idea di quanto sia importante ottenerla, e ricavarne i frutti?» la contessina assottigliò lo sguardo e i suoi occhi azzurri si fissarono su quelli verde acqua del ragazzo, che tuttavia rimase impassibile.
«C’ero quasi, era nelle vicinanze» la interruppe lui, secco. Lei non lo lasciò finire.
«Ma?» inarcò un sopracciglio, impaziente.
«Nessun ‘ma’. Solo eventi consecutivi: loro sono arrivati prima».
La Contessina Thearor, della Contea dei Laghi del Regno di Mame, parve allibita. Per qualche istante l’enorme solarium parve farsi più freddo e il sole che gettava languidamente i suoi raggi sul pavimento di marmo rosa parve quasi sbiadire, diventando tiepido e grigio. Zahel non distolse lo sguardo dagli occhi azzurri della donna: a vent’anni, lui svettava di almeno venti centimetri su di lei, e la sua corporatura era almeno il doppio di quella della sua Signora. Ma a corte si sussurrava che la Contessina non fosse umana, e lui non poteva dissentire: c’era qualcosa che parlava di ghiaccio e morte, in lei.
«La Resistenza» mormorò lei, e non era una domanda. Ella si voltò e iniziò a misurare a grandi passi la distanza fra lo scranno e lui, fissando la gonna del proprio elegante vestito; Zahel non aveva idea di quali pensieri le passassero per la testa, e nemmeno gli interessava. Il sole, andata via la nuvola passeggera che l’aveva oscurato, riprese a brillare languido e si rifletté sul marmo, ferendogli fastidiosamente gli occhi; il vetro non era perfettamente levigato e opacizzava un po’ la luce, ma questo non impediva all’astro di manifestare la sua presenza fra i pesanti tendoni rossi, che lasciavano aperta un’ampia fessura da cui penetrava la luce.
«Così pare» confermò il ragazzo, inclinando la testa di lato. «Devo cercarla di nuovo? Potrebbe essere già in mano loro, ma questo non è un problema» disse, con il suo solito tono freddo. La Contessina Thearor alzò gli occhi azzurro ghiaccio su di lui e parve studiarlo in quanto tale per la prima volta da quando era entrato nel Solarium.
«Cercarla di nuovo… mentre è in mano loro. Se hai voglia di suicidarti, fa’ pure» tagliò corto lei, arricciando un labbro alla sua stupidità. «No. Ritirati nelle stanze che ti sono state assegnate, e rimani in attesa di altri miei ordini. Oppure recati dal mio Capo delle Spie, e vedi se ha compiti da assegnarti».
Zahel sorrise appena, negli occhi verde acqua baluginò una luce divertita.
«Con tutto il rispetto, mia Signora, io ho un lavoro. Se devo rimanere con le mani in mano in attesa di vostri ordini perdo parecchie occasioni di contratto».
La Contessina non parve nemmeno impensierita dalla cosa.
«Bene, allora sarai pagato cinquecento corone alla settimana».
Zahel lasciò intravedere quasi tutti i denti, sorridendo con la ferocia di un grosso felino: non erano i soldi che gli interessavano, ma dopotutto facevano comodo.
«Perfetto. La ringrazio, mia Signora».
La donna fece un gesto stizzito con una mano, congedandolo, e ritornò sul suo scranno: quando vi si sedette, Zahel era già silenziosamente sparito.
 
❦❦❦
 
9 Gjorna 684 d.C.
La cosa che più lo stupiva dei castelli era la quantità incredibile di stanze e passaggi nascosti, e l’altrettanto enorme massa di silenzioso personale.
Di stanze e passaggi ce n’erano ovunque: dietro gli arazzi che coprivano le pareti, sotto il pavimento, accanto ai camini, in qualunque luogo. Pur avendoli studiati da ragazzino, inoltre, Zahel non aveva mai immaginato quanta gente potesse lavorare in un solo castello; né aveva mai pensato, del resto, di poterne vedere uno dal vivo animarsi di primo mattino, quando in cucina sfornavano il pane fresco, o quando si facevano uscire i cani-lupo dalle gabbie per procurare la cacciagione, o quando i saloni si animavano delle armonie dei bardi.
Quando era entrato per errore in quel mondo, Zahel aveva capito sin dall’assenza di automobili e taxi che non si trovava più a New York; quando poi gli si erano presentati tre uomini incappucciati dicendogli in inglese di essere i “Guardiani Irreali”, aveva capito che era un qualcosa più grande di lui. Ma non gli importava: a New York era inseguito dalla polizia, con l’accusa di omicidio, e qualsiasi cosa gli sarebbe sembrata meglio che continuare a dormire nei cassonetti per stare al caldo.
I Guardiani Irreali lo avevano portato in una locanda, gli avevano dato dei vestiti dalla foggia medievale e per qualche ora Zahel aveva bevuto birra di malto e riso parecchio: era impazzito, o era una candid camera, o si trattava di una ricostruzione storica parecchio ben fatta. Ma fra una birra e l’altra – oh, e il sapore di quella birra non lo aveva mai sentito prima – gli avevano spiegato che per nessuna ragione doveva farsi sfuggire nulla, sulla vita nel mondo da cui proveniva; gli avevano dato dei soldi – quelli sì che gli erano piaciuti, d’oro vero per giunta! – e delle spiegazioni su come ci si comportasse in quel regno.
Zahel non era mai stato un buono studente, ma qualcosa sul medioevo lo sapeva; e lì le cose erano parecchio diverse, come aveva avuto modo di constatare. Prima di tutto, studiando una mappa, aveva potuto vedere che la geografia di quel mondo non era nemmeno lontanamente simile a quella che conosceva lui; di certo non si trovava in Nord America o nell’Europa dell’Alto Medioevo.
I Guardiani Irreali gli avevano lasciato tutto ciò che poteva servirgli: una mappa, dei soldi, degli orecchini e una caramella: questi ultimi due oggetti, gli avevano detto, gli servivano per comprendere e parlare le lingue di qualsiasi luogo gli venisse in mente di visitare… persino in altri mondi. Così, tacendo, si era fatto un paio di buchi sulla cartilagine delle proprie orecchie a punta e aveva indossato gli orecchini; la parlata del locandiere non gli era sembrata più così assurda. Nel momento in cui aveva anche ingoiato la caramella, si ritrovò a conversare amabilmente in francese con i Guardiani Irreali, che avevano sorriso, si erano alzati e se ne erano andati… così, senza tante cerimonie.
I tre uomini erano spariti nel nulla, e lui era rimasto solo in un mondo totalmente sconosciuto, senza sapere come tornare indietro, e senza averne la minima voglia.
Zahel si riscosse da quei ricordi – che, a pensarci bene, gli sembravano ancora assurdi – ed evitò seccato i corridoi segreti usati dalle ancelle della Contessa; il profumo del pane saliva dalle cucine fino a lì, al terzo piano del castello, ma aveva lo stomaco chiuso: era passato troppo tempo dal suo ultimo omicidio, e gli ordini della Contessina che gli imponevano di rimanere a palazzo non lo rendevano felice: non era solo il denaro ad interessargli.
Percorrendo decine di rampe di scale e una dozzina di lunghissimi passaggi, spuntò finalmente nelle cucine. Quando lo videro, frusciante nella sua tunica bianca con il tulipano rosso sul petto – la Contessina voleva farlo passare per una Guardia, e la cosa ancora lo faceva ridere –, la cuoca e le sue assistenti si profusero in inchini, con le mani sporche di farina e l’impasto sotto le unghie.
«Cosa possiamo fare per lei, Capitano?» chiese una ragazzina che poteva avere poco meno di sedici anni; Zahel la osservò con espressione impassibile: era pienotta, con un viso rotondo e dolce ed occhi di cerbiatta. Il ragazzo sapeva già che quella sera stessa sarebbe riuscito a condurla nelle sue stanze, e le sorrise quasi gentile per accattivarsi le sue simpatie, avvicinandosi pericolosamente a lei; vedendo che Zahel era interessato solo alla ragazzetta, le altre donne ripresero il lavoro con un rossore accennato sul viso.
«Potete mandar su la colazione nelle mie stanze? Sai già cosa mi piace, a meno che non vi siate dimenticate» le sussurrò Zahel, vedendo gli occhi che le si spalancavano; l’odore della paura e del desiderio lo stimolarono, e il ragazzo sorrise appena mentre lei arrossiva.
«S-Sì» balbettò.
«Mi porti tutto tu?» chiese, avvicinandosi ancora di più; la differenza di altezza era notevole, così lui si chinò appena sulla ragazza e i capelli bianchi gli scivolarono da sopra la spalla, creando una cortina fra loro e le donne che continuavano ad impastare e infornare il pane. La ragazza non riusciva a distogliere lo sguardo, ma nemmeno a parlare, per cui si limitò ad annuire. Zahel poteva quasi sentire il calore delle sue guance sulla punta del naso, e sorrise appena, soddisfatto. «Ne sarei davvero felice» completò, e lei chiuse gli occhi per spezzare quell’incanto che si era creato fra loro.
In un solo fluido gesto, il ragazzo si sollevò dal viso della domestica e si voltò, uscendo dalla cucina e dirigendosi al secondo piano, dove erano situate la maggioranza delle stanze da notte del castello: lì erano collocati infatti tutti gli ospiti del Conte, della Contessa e della Contessina, che cambiavano ogni tre mesi circa; lui era lì da ben sei mesi, nonostante avesse appena passato parecchio tempo fuori, e a quanto pare doveva rimanerci per altro, indeterminato, tempo.
Quando entrò nelle sue stanze non poté fare a meno di notare con piacere che nessuno vi era entrato, nemmeno per pulire, proprio come da lui ordinato: tutto era coperto da un sottile strato di polvere, e nessuna impronta lo segnava tranne le sue, non appena era entrato; si dedicò a mettere da parte le armi che indossava in quel momento, su dei sostegni che gli aveva procurato la Contessina, dopodiché aspettò il cibo. Dopo nemmeno un quarto d’ora un timido bussare da una porta dietro un arazzo, lì dove spuntavano i corridoi dei servi, gli annunciò l’arrivo della domestica; Zahel scostò in fretta il tappeto dal muro ed aprì con espressione impassibile, mentre la servetta gli passava un vassoio con dei piatti da portata coperti.
«Vieni anche stasera» le ordinò, inclinando il capo di lato mentre gli occhi la osservavano divertiti. Lei arrossì ed annuì, dileguandosi nei meandri del castello.
Le ore seguenti trascorsero pigre, mentre Zahel puliva le proprie armi e sbocconcellava le sue portate preferite: striscioline di carne di cinghiale scottate, doppie circa due dita e lunghe più di un palmo, e macinato crudo di cervo immerso nel latte. Non riusciva a farne a meno: la cacciagione, meglio se cruda, gli migliorava la giornata.
Una volta finite sia le portate che la pulizia di pugnali e spada, suonò la campanella dei servi e attese: dalla porta dietro l’arazzo spuntò un viso sottile, di una ragazzina che poteva avere non più di dodici anni; i suoi capelli scintillavano dorati sotto il sole e i suoi occhi viola bruciavano di paura.
«Di’ a chi si occupa della pulizia che possono venire. Non toccate le armi, o saranno loro a toccare voi, una volta tornato» disse, freddo, e la ragazzina annuì terrorizzata e sparì dietro l’arazzo. Zahel restò qualche istante ad osservare la figura che vi era intessuta: una battaglia campale, forse realmente avvenuta o forse no, in cui si distinguevano volti noti della nobiltà dell’epoca: in mezzo c’era il Conte, visibilmente più giovane ed attraente, che conduceva l’esercito contro il battaglione nemico. Il ragazzo distolse lo sguardo, divertito ed annoiato da quell’autocelebrazione pomposa, ed uscì dalla stanza, dirigendosi in biblioteca: era lì che passava la maggior parte del tempo che non impiegava a lavorare; aveva imparato a leggere quella lingua solo da poco più di tre mesi, ma da allora aveva cercato di capire quanto più possibile la storia di quel luogo e le sue usanze, per non destare alcun sospetto sulla propria reale provenienza.
«Capitano Zahel. Quale onore» lo accolse il bibliotecario, con una smorfia infastidita. I suoi occhi arancioni guizzarono divertiti sulla tunica bianca della finta Guardia, sollevando un dito. «Ha una goccia di sangue proprio qui» gliela indicò, sparendo poi fra gli scaffali prima che il ragazzo potesse sollevare lo sguardo feroce e gelido su di lui. Prima o poi l’assassino gli avrebbe fatto prendere qualche bello spavento, ma quell’oggi era fin troppo annoiato per prendersi la briga di dargli retta; per cui, si diresse a grandi falcate verso il centro della biblioteca, lì dove erano sistemati i tavoli per lo studio.
Da quel che poteva vedere, era tutto come doveva essere: le pile di libri che aveva lasciato lì da almeno tre settimane si trovavano ancora lì, e non importava che fosse stato via per tutto quel tempo.
«Finalmente sei tornato» osservò una voce delicata.
«Kaylin» mormorò Zahel, senza voltarsi; nemmeno l’ombra di un sorriso gli illuminò l’espressione, mentre osservava tutti i libri che lo attendevano, fra cui ce n’erano alcuni lasciati a metà. «Mi hai riconosciuto?» chiese, voltandosi verso la fonte della voce: una ragazza minuta e bassa era seduta sull’orlo del tavolo, e guardava nella sua direzione; ma non lo vedeva davvero: i suoi occhi, lilla e con la pupilla sbiadita, erano completamente ciechi… da quanto ne sapeva Zahel, era nata così, e questo le aveva dato un incredibile udito.
«Sì, naturalmente. I tuoi passi lunghi e felini sono inconfondibili» ridacchiò, e Zahel alzò gli occhi al cielo. La donna si sistemò dietro un orecchio i capelli neri tagliati corti sul collo, mentre si mordeva il labbro. «La tua missione ha avuto i frutti sperati…?».
«Non esattamente».
«Sei stato via quasi un mese».
«In questo posto i mesi durano poco» commentò lui, senza cambiare inflessione di voce.
«Quando troverò il modo di farti adottare un tono diverso da quello freddo o annoiato?» ridacchiò lei. «Secondo me hai qualche problema alle corde vocali».
«Che ne sai tu, di cosa sono le corde vocali?» chiese lui, inarcando un sopracciglio e dando una sfogliata distratta alle pagine di un libro di geografia politica.
«Rymeth mi racconta molte cose! È molto colto».
«Mh. Dovresti andarci a letto» cercò di levarsi di torno la ragazza, per potersene andare: non ce la faceva a studiare, non in quel giorno di noia deprimente. Si voltò verso l’uscita, ma un dito sul petto lo fermò e Zahel si irrigidì, scostandosi all’istante.
«No, caro mio, perché io non mi porto a letto qualunque cosa respiri come fai tu» ribatté il bibliotecario, stringendo gli occhi in sua direzione. L’elfo lo fissò, infastidito da quel pur leggero contatto non richiesto, e continuò a guardarlo impassibile; poi un sorrisetto gli balenò sul viso.
«Immagino sia per questo che sei sempre così agitato, non è vero?» chiese, in tono sottile, e Kaylin ridacchiò.
«Rymeth è un Etrays, e tutti gli Etrays sono così… è una intera razza di deprivati, allora?».
«Meglio essere deprivati che depravati» commentò, dall’altro capo della biblioteca, una voce femminile. Rymeth e Kaylin a quel punto ridevano a crepapelle, e Zahel alzò gli occhi al cielo voltandosi verso la direzione da cui era partita la seconda voce femminile, senza però scorgere nessuno.
«Beatriz, penso che tu faccia parte della seconda categoria… perché mai dovresti parlare?» disse, a voce alta, e Kaylin sorrise accondiscendente.
«Certamente, ma mai quanto te, caro mio» ridacchiò la voce, acquietandosi, e Rymeth si passò una mano fra i capelli rosso scuro, mentre gli occhi arancioni balenavano divertiti.
«Che mortorio» grugnì Zahel. «Ma perché vi siete riuniti tutti qui? Dov’è Beatriz?».
«In fondo alla biblioteca, come sempre... E sai, siamo tutti qui perché sei tornato dopo quasi un mese. Non pensavi ci avrebbe fatto piacere…» Kaylin sorrise appena e Zahel ghignò.
«…vedermi?».
«Che spiritoso» ribatté Rymeth. «Dannazione, Kay, ma quand’è che mandi tuo fratello a picchiare questo pallone gonfiato? È terribile, non fa altro che sfottere».
La ragazza ridacchiò, mimando il gesto di un bacio.
«Domani mattina sarà più accomodante… dico bene, Zahel? Stasera finalmente darà da mangiare al suo animaletto» ammiccò, e Zahel si voltò verso Rymeth.
«Perché diavolo non ti porti a letto Kaylin, dato che siete così affiatati?» ringhiò, e l’Etrays alzò le mani, con un sorriso canzonatorio.
«Calma i bollenti spiriti, amico. Stiamo scherzando».
«Beatriz? Dov’è?» ribatté Zahel, freddo, praticamente ignorando il discorso precedente. Il giovane si strinse nelle spalle e gli fece cenno di seguirlo: oltrepassarono Kaylin, che rimase appoggiata al tavolo con l’ombra di un sorriso sulle labbra, e si immersero nell’immensa polverosità della biblioteca: la luce penetrava dagli ampi finestroni dorata, quasi magica, ma gli angusti corridoi fra gli scaffali risultavano ugualmente in penombra, dando difficoltà al bibliotecario, che si sistemò un paio di lenti da vista sugli occhi.
«Sono… occhiali?» chiese Zahel, impassibile, e Rymeth si voltò impercettibilmente verso di lui.
«Com’è che li hai chiamati? Suona bene! Glassis?» ripeté male il suono e Zahel fece una smorfia.
«Non importa».
«Un giorno mi racconterai della tua storia, della tua lingua, e la scriverò in un libro» disse, svoltando e seguendo il muro con le dita.
«Contaci» assicurò l’assassino, sarcastico. Rymeth canticchiò fra sé un motivetto stonato e Zahel strinse i denti, socchiudendo gli occhi. «Beatriz, hai visite… il “Capitano” è tornato» l’Etrays fece una smorfia, affacciandosi all’arco che conduceva in una nicchia della biblioteca: tale rientranza era arredata poveramente, con dei tavoli che correvano lungo tutto il perimetro della piccola saletta, su cui erano impilati ordinatamente documenti, libri e varie pergamene; su un tavolo giacevano i resti di una colazione e un pranzo ancora intatto, mentre la donna dagli ondulati capelli rosa analizzava attentamente un foglio di sottile pergamena, con dietro la luce di una candela.
«Zahel, finalmente» lo accolse la donna, senza guardarlo. «Rymeth, puoi andare. Ritorna alle tue mansioni» congedò il bibliotecario, dirigendogli un’occhiata fredda con gli occhi azzurri. Il ragazzo alzò ancora le mani e sorrise, sparendo nei meandri della biblioteca.
«Beatriz» la salutò l’assassino, impassibile, osservandola mentre con gli occhi socchiusi decifrava i glifi in controluce.
Beatriz aveva lineamenti dolci e smussati, come se il suo viso non fosse mai andato oltre la prima adolescenza; il suo corpo, tuttavia, non era stato del tutto d’accordo, per cui la donna si ritrovava con seducenti curve a tornire la sua corporatura altrimenti esile… non a caso aveva tanto successo con gli uomini, e non faceva che sottolinearlo con i suoi vestiti fin troppo scollati per la morale mamiana. I capelli rosa, ondulati, le cadevano in morbide volute lungo le spalle e sul seno, sciolti, come fosse una sirena, e assumevano sfumature arancio-rossastre alla luce della candela; gli occhi azzurri sembravano quieti, acuendo la sensazione di guardare un viso di ragazzina. Zahel ne apprezzò le forme con un’ultima occhiata, poi si schiarì nuovamente la voce.
«Non devo fare rapporto?».
«So già la maggior parte dei dettagli. Dimentichi continuamente che ho tantissimi topolini che mi riferiscono tutto ciò che accade in lungo e in largo per il Regno» mormorò la donna, sovrappensiero, e Zahel incrociò le braccia, appoggiandosi al limite curvo dell’arco.
«I tuoi topolini un giorno me li mangerò» mormorò, impassibile, e Beatriz fece balenare un sorriso accattivante sul suo viso dalla pelle olivastra, bruciando il foglio con calma.
«Oh, Zahel. Tipico degli americani minacciare continuamente» ribatté divertita, mentre Zahel la osservava.
«Dammi qualcosa da fare, altrimenti impazzisco» Zahel contrasse una guancia, infastidito ed annoiato, e Beatriz si soffermò con gli occhi azzurri su di lui, guardandolo fisso come se si chiedesse quale ingrato incarico affidargli, poi gli sorrise con malizia.
«Sì, ho qualcosa da darti. Sono arrivati tre stranieri in città… non-umani, si mormora. Due adulti ed un bambino, forse una famiglia; ignoro da dove vengano, perché nessuno li ha visti entrare: non hanno parlato con nessuno se non per chiedere informazioni, girano a capo coperto, con abiti anonimi. Vai e portali qui, se necessario. Accertati che non siano Ribelli… con delicatezza» Beatriz lasciò balenare lo sguardo, mentre Zahel la guardava attento.
«E se lo sono?» chiese, mellifluo, e Beatriz sorrise altrettanto dolcemente.
«Uccidili».
 
❦❦❦
 
mezzodì del 9 Gjorna 684 d.C.
Zahel si infilò oltre il muro che separava il palazzo dei Conti dal resto della città: era situato sulla collina ed il borgo era cresciuto nei secoli attorno ad esso, andando a costituire ben tre cinte murarie, delle quali due erano interne. Le strade erano affollate, come sempre la mattina, ma la folla era quieta e composta perlopiù di studenti e dei loro maestri, oltre che di mercanti che richiamavano l’attenzione delle massaie. L’assassino ignorò la gente che si scostava al suo passaggio: indossava ancora la tunica bianca con il tulipano rosso, con sopra il mantello azzurro che lo identificava come un capitano delle Guardie, e tutti evitavano il suo sguardo con rispetto.
Beatriz gli aveva riferito che gli stranieri avevano girato per almeno tre o quattro giorni in città, chiedendo notizie ed alloggiando in locande diverse ogni notte, forse per spostarsi in tutto il borgo; l’ultima a cui avevano alloggiato era la Quinta Serenata, nella strada principale dell’ala est della città, quella dedicata al distretto alimentare. Beatriz sosteneva che i suoi topolini suggerivano di andare nella zona corrispondente al Lago Amad, a nord est, e così lui aveva fatto: ad ora di pranzo sentiva l’irresistibile impulso di affondare i denti in un bambino che lo tormentava chiedendogli l’elemosina, per cui lo scostò con malagrazia, strattonandolo e facendogli balenare i denti ad un soffio dal viso, in un ringhio a stento trattenuto, ed entrò in una locanda lì vicino con espressione fredda, come se non fosse successo nulla.
Sentì il bimbo scappare piagnucolando e adocchiò un altro ragazzino seduto su una botte, in un angolino della locanda; quest’ultimo ammiccò in sua direzione: era un topolino. Gli occhi del dodicenne balenarono e guizzarono verso il fondo della sala, che era fumosa e colma di odore di sudore, pergamena e dell’odore di olio bruciato delle lampade: non era ancora stato servito il cibo, ma un odore di pesce, miele e spezie proveniva dalle cucine, così Zahel si diresse verso il fondo della sala, ignorando il topolino che lo guardava divertito, e prese posto ad un tavolo occupato da tre figure incappucciate.
«La sala è tutta occupata, disturbo?» chiese, infastidito persino dal fatto che dovesse fingersi gentile. Una delle persone incappucciate si irrigidì all’istante, ma rispose freddamente, con voce maschile:
«Fa’ con comodo».
La figura accanto a lui tamburellò una mano sul tavolo, e Zahel osservò le dita affusolate e scure di quella che sembrava una ragazza; l’assassino incrociò gli occhi con lei, scorgendoli rosa e brillanti… un’altra non-umana? Le fece un sorriso sottile e sinistro.
«Mai visti qui… siete in visita?» si informò, con cordialità che non possedeva realmente, e fece il possibile per nascondere il fatto che indossava una tunica bianca con il tulipano, sondandoli con gli occhi impassibili.
«Sei una Guardia?» si informò infatti il ragazzo a volto coperto, con voce fredda, e Zahel non rispose se non con un breve sorriso.
«Dipende da chi lo vuole sapere» mormorò, rilassato, pronto a scattare in caso di guai.
«Se lo sei, forse potresti aiutarci…» aggiunse la ragazza, con voce forte ma vellutata, parlando dolcemente con un accento sconosciuto. Zahel la sondò e inclinò il capo di lato, riflettendo sulla richiesta: non era una vera Guardia, per cui se volevano denunciargli qualcosa lui non era propriamente la persona adatta… Si ritrovò ad annuire suo malgrado, mentre una schiava portava al tavolo tre scodelle di zuppa d’anguilla e tre boccali di birra.
«Cerchiamo informazioni riguardo…» iniziò il ragazzo, ma il bambino incappucciato gli tirò il mantello per farlo chinare, interrompendolo: Zahel fissò impassibile la manina verde del non-umano che bisbigliava qualcosa sotto il cappuccio del ragazzo, mentre gli occhi rosa di lei non si staccavano dai suoi capelli bianchi.
«Non ho esattamente tutto il giorno. Sono stato mandato a verificare che voi non siate Ribelli alla Corona» Zahel mise la mano sull’elsa della daga, pronto a scattare, ma il ragazzo rise sommessamente e scosse la testa, deludendo le aspettative di sangue ed azione di Zahel.
«No, decisamente non siamo Ribelli. Gradiremmo conferire con il… capo? di questa contea» tentò il ragazzo, e Zahel alzò gli occhi al cielo.
«Dai, ragazzo, lo sanno anche i bambini che si chiama “conte”» osservò, annoiato, e il ragazzo strinse i pugni irritato.
«…gradiremmo conferire con il Conte».
«Siete particolarmente fortunati, siete capitati ad Alya per caso?» li derise Zahel, ghignando di gusto, mentre il bambino tamburellava le dita verdi e vagamente appuntite sul tavolo rovinato.
«Diciamo così» il ragazzo rimase vago, e Zahel poggiò la schiena contro la parete, osservando quella strana compagnia di non-umani… anche se il ragazzo, fino a quel momento, non sembrava avere nulla di strano a parte l’accento esotico.
«La città è in allerta, negli ultimi giorni, per via della Febbre Blu che viene dal sud. La portano i non-umani, quindi è strano che siate riusciti ad entrare senza tanti problemi… ammesso che voi siate entrati dalle porte principali, s’intende» inclinò il capo di lato, e li fissò uno ad uno. «Direi che ci sono tutti gli estremi perché voi siate portati dal Conte, o direttamente in gattabuia per…» aveva detto quella parola in inglese, anche se non aveva idea del modo in cui se n’era accorto. Alzò gli occhi al cielo, mentre il ragazzo e il bambino si guardavano straniti. «…prigione. Ci sono gli estremi perché siate messi in prigione, dato che vi siete intrufolati in città senza passare per le Guardie» disse freddamente, dopodiché storse la bocca. «I vostri nomi?».
Ci fu qualche momento di silenzio, forse incertezza: la ragazza non si presentò, il bambino si agitò, ma il ragazzo parve risolversi come dovesse confessarsi. Quando la melodrammatica pausa fu finita – Zahel ebbe la tentazione di guardarsi il polso per vedere che ore erano, ma quel gesto non avrebbe avuto il minimo senso in quel contesto – il ragazzo si calò il cappuccio, rivelando dei capelli azzurro-lilla e degli occhi ambrati e penetranti, divertiti.
«Sono Aykir Ayrywae e no, non siamo arrivati passando per le porte. Portaci dal Conte o chi per lui, abbiamo una richiesta da sottoporgli».

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Capitolo 3
*** Yukab- L'Isola di Nessuno ***


II
YUKAB
L’Isola di Nessuno

 
11 Gjorna 684 d.C.
«E poi insomma, se non ti svegli come faccio ad insultarti ancora senza sentirmi in colpa? Lo sai che non sono mai rimasto solo così a lungo da qualcosa come anni?».
La osservò per qualche secondo, in attesa di una risposta, dopodiché alzò gli occhi al cielo e si appoggiò al tronco dell’albero che li aveva ospitati per gli ultimi tre giorni, storcendo le labbra; stava per parlare di nuovo, quando un gemito si levò dalla ragazza pallida e malconcia, per cui lui chiuse gli occhi. 
«...dimmi che non hai sentito niente, ti prego» sibilò a denti stretti, imprecando poi a bassa voce. 
Lei sorrise appena e tentò di ridacchiare, ancora ad occhi chiusi, ma poi si voltò di scatto nella conca in cui Yukab l’aveva deposta e vomitò sul fitto intreccio di viticci che faceva da pavimento; di sotto si sentirono le proteste squittenti di qualche animaletto. 
«Immagino che questo sia meglio che crederti morta per tre giorni, dai» ridacchiò allora lui, e Sue restò immobile per qualche istante, tremante, poi sembrò decidersi a socchiudere appena le palpebre: Yukab le sorrise, contento di avere finalmente un po’ di compagnia in quel luogo sconosciuto. Gli occhi viola della ragazza si intonavano perfettamente al cielo di quella parte sperduta di mondo in cui erano stati catapultati, e il ragazzo sospirò e si passò una mano sul viso. 
«Ti dovrei spiegare, forse… dimmi se hai bisogno di ancora un po’ di tempo per riprenderti, prima che ti metta al corrente» sorrise a mo’ di scuse, e la ragazza annuì appena, senza dire una parola, stropicciandosi gli occhi. Senza sapere come interpretare quel cenno affermativo, Yukab la guardò per qualche secondo, dopodiché scrollò le spalle ed iniziò a spiegare:
«Sono passati tre giorni, da quando hai perso i sensi. All’inizio non capivo dove eravamo finiti, non sembra neanche lo stesso mondo in cui eravamo prima… il cielo è viola, e anche l’acqua, come un eterno tramonto. Le piante sono strane, quest’albero è… cavo? all’interno. Cioè, non che mi lamenti, dato che ci ha permesso di avere un riparo per la notte, ma… è azzurro. Cioè, il tronco è bianco, ma le foglie sono azzurre. A casa ne abbiamo così, ma non così grossi» storse le labbra, e Sue lo guardò vacua: era rannicchiata nella conca coperta di muschio, una specie di rientranza curva e regolare che la accoglieva; l’assassino aveva pensato di riempirla di foglie secche, perché lei stesse comoda e al caldo, per cui ora lei sembrava una specie di bambina debole e sporca, con quegli occhi spenti. Eppure, all’improvviso si tirò fuori dalla nicchia, forse curiosa di verificare quanto lui le aveva detto: le gambe le cedettero non appena mise i piedi per terra, e il ragazzo si sporse per sorreggerla, preoccupato. Quando lei si appoggiò e si lasciò tirare su, lo guardò un po’ rassegnata, come se si aspettasse una vagonata di domande, ma lui le fece un mezzo sorriso.
«No, non ti farò domande… non ancora, almeno. Ti conviene mettere qualcosa sotto i denti, ti ho dato per tre giorni solo miele e acqua, neanche fossi un uccellino» ridacchiò, facendola appoggiare di nuovo nella nicchia e frugando in una delle borse per porgerle un pezzo di pane ormai duro. Eppure Sue vi si avventò sopra e lo finì in qualche morso, mentre Yukab la osservava scioccato; poi il ragazzo si riscosse e rise contento.
«Bene… va bene! Se hai fame vuol dire che stai bene!» rise, scuotendo il capo e sedendosi di fronte a lei sui rami intrecciati, mentre le porgeva un pezzo di formaggio. «Tieni, mangia. Ho tentato di esplorare un po’, ma il bosco è fittissimo e gli animali… beh, sono un po’ strani» storse le labbra, inquieto, mentre la ragazza mangiava con un po’ più di calma. «Quest’albero pare essere uno dei pochi luoghi sicuri, anche se ci sono degli uccelli che hanno tentato di uccidermi la prima volta che sono salito qui sulla chioma» ridacchiò, mentre lei sussultava e si portava le gambe al petto in automatico, come se avesse improvvisamente paura di cadere, ma Yukab ammiccò: il ramo sul quale si trovava lei era largo circa il doppio della sua altezza, quindi era inutile preoccuparsi di una cosa del genere. 
«Chi ha tentato di ucciderti?» mormorò lei, con voce roca e gracchiante, e Yukab ridacchiò.
«Nessuno… ci sono animali strani, ho detto».
Sue annuì assente, poi si passò una mano sul viso e lo guardò vacua.
«Eh?».
Il ragazzo scosse la testa, sospirando e la osservò di sottecchi.
«Come ti senti?».
«Una schifezza» fece una smorfia, secca, e gli fece cenno che voleva bere; quando si fu dissetata, Yukab continuò a scrutarla e la Menide gli diresse un’occhiata irritata. «Che c’è?».
«Come siamo arrivati qui?».
«E io che ne so?» grugnì acida, e lui inarcò un sopracciglio.
«Non sei stata tu?».
«Mi pareva di avertelo già detto» si imbronciò lei, e l’assassino scrollò le spalle.
«Ti ho ignorata, dal momento che l’attimo dopo hai perso i sensi». 
Sue lo inchiodò con lo sguardo e Yukab le fece un sorriso di sfottò, ammiccando.
«Mi pare ovvio che non c’entro nulla, non so fare magie, tantomeno così potenti» borbottò allora la ragazza, apparentemente risentita, e lui inarcò anche l’altro sopracciglio.
«Il mio mignolo non la pensa allo stesso modo» borbottò, poi si schiarì la voce e fece un cenno con la testa verso la chioma dell’albero, che li circondava completamente, proteggendoli dalle intemperie e facendo filtrare una morbida luce azzurrina che faceva sembrare i capelli di Yukab violacei; la ragazza si sporse dalla nicchia per poi lanciargli un’occhiata interrogativa. «Vuoi guardare dove siamo?» ammiccò lui, ridacchiando, e la aiutò ad alzarsi, sorreggendola e facendola riabituare a camminare: tre giorni non erano uno scherzo da passare priva di sensi, soprattutto dopo che dei cacciatori di taglie li avevano catturati e volevano consegnare Yukab alla giustizia e vendere Sue come schiava. 
Così si avvicinò alle fronde più esterne, lì dove l’intreccio di rami si disperdeva pian piano, per mostrarle il panorama: spostò qualche ramo e le lasciò dare un’occhiata alla vista a cui lui si era abituato in quei giorni. Inizialmente lei sembrò distratta, ma poi il paesaggio parve catturare la sua attenzione: oltre le chiome del bosco, infatti, si estendeva una pianura azzurro cielo – anche se lì il cielo era di un lilla molto tenue –, piena di fiori multicolore; più in là, oltre la pianura, si vedevano scintillare le calme acque violacee di quello che forse era un lago, o addirittura il mare. 
Sue aprì appena la bocca dalla sorpresa e Yukab sorrise, senza distogliere lo sguardo.
«Fa un certo effetto, eh?» disse, voltandosi verso di lei e lasciando i rami. «Probabilmente hai perso i sensi per il veleno in cui era intinta la freccia» l’assassino si passò una mano fra i capelli rossicci e si sedette sul legno a gambe incrociate. «Quando siamo arrivati qui, eravamo nella prateria azzurra quasi fuori il bosco. Poi mi sei svenuta tra le braccia come una femminuccia» e già qui Sue gli mollò un debole pugno sul braccio, lanciandogli un’occhiata fulminante. «...e quindi ho iniziato a cercare di curarti e di rendermi conto in che caspita di posto mi hai portato» la ragazza alzò gli occhi al cielo.
«Te lo ripeto, non sono stata io».
«E io mi chiamo Joèk-Nobui» fece una smorfia lui.
«Chi?».
«È una storia… di quelle che ti racconta la mamma prima di andare a letto» sbuffò, e Sue lo guardò male.
«Scusami tanto se io avevo storie tipo Biancaneve e Cappuccetto Rosso...».
«Che?».
Si guardarono confusi per qualche secondo, poi Sue sollevò i polsi e li guardò: portavano ancora i segni violacei delle manette, lì dove erano state chiuse dalle Guardie, quindi guardò interrogativa il ragazzo.
«Non erano difficili da scassinare» sorrise, e Sue fece una smorfia. 
«Fai sembrare tutto facilissimo, tu» disse abbassando le orecchie, e lui si strinse nelle spalle, passandosi una mano fra i capelli sporchi. 
«Giuro, avevano la catena abbastanza lunga da non impedirmi i movimenti, per cui è stato facile trovare uno dei tuoi grimaldelli e scassinarle» ammiccò, e lei arrossì.
«Hai trovato i miei…?» chiese, ma le parole le morirono in gola: non usava i grimaldelli da anni, ne aveva solo il necessario per usarli in caso di estrema necessità. L’assassino però non parve curarsene, perché annuì e sorrise come un lupo astuto.
«Erano anche di ottima qualità! Complimenti, ti credevo una ladruncola allo sbando» ridacchiò, dopodiché scosse il capo e continuò il discorso che avevano interrotto. «Bando alle ciance, non volevi sapere cosa aveva tentato di ammazzarmi? Ad un certo punto ho finito l’acqua e ho iniziato a cercare una sorgente; il tuo cavallo non mi lasciava prendere le sue redini, per cui ho lasciato che mi seguisse da solo… Mentre mi avvicinavo al bosco, però, un animale mi ha attaccato».
«Che animale?».
«Sembrava… un gatto troppo cresciuto. Era enorme, quasi come un cavallo: ha ammazzato il mio, infatti, prima che riuscissi a farlo fuori».
Sue inarcò le sopracciglia, impressionata.
«E come ci sei riuscito?».
«Era cieco. L’ho accoltellato, e sgozzato» storse le labbra, scostando la camicia strappata: aveva una profonda ferita al petto, lì dove già aveva la vecchia cicatrice; il sangue si era raggrumato sotto il cataplasma che aveva usato per auto medicarsi, e la pelle intorno era leggermente arrossata. «Non dico che fosse d’accordo, ma almeno non mi ha ammazzato… non ancora, almeno» si strinse nelle spalle, facendole un sorriso marpione a cui lei parve rimanere indifferente. La osservò, ma lei pareva assente, persa nei propri pensieri. «Rimugini?» chiese divertito.
«Non credo siamo in un altro mondo, non me lo spiegherei».
«Quindi ammetti che hai fatto qualcosa!» la incalzò lui, vittorioso, ma la ragazza lo inchiodò con lo sguardo, gelida.
«No» disse secca, poi si passò una mano fra i capelli annodati, guardandolo impassibile, sempre pensierosa. «Però anche se il cielo è violetto, potrebbe essere dovuto alla rifrazione dei raggi sol…».
«Ferma, ferma, ferma» Yukab si portò le mani alla testa, confuso. «Che stai dicendo?».
Sue si scostò i capelli dal viso, innervosita, rinunciando a snodarli. 
«…siamo in un posto diverso, ma nello stesso mondo» completò asciutta.
«Ma è troppo diverso» osservò lui, offeso. 
La ragazza distolse lo sguardo, senza ribattere ulteriormente, e Yukab la guidò nuovamente alla nicchia nel ramo, lasciandola sedere. 
«Dopo che ho trovato una fonte, ti ho medicata ed ho iniziato a cercare un riparo per la notte: la prima notte l’abbiamo passata all’addiaccio, ma al mattino mi sono reso conto che non è stata una grande idea... Alcuni animaletti viola avevano deciso di banchettare col nostro sangue nottetempo, per cui ne ho ammazzati un po’ ma si sono un tantino irritati» sorrise appena. «Però son buoni da mangiare, il secondo giorno ne ho ammazzati un po’».
Sue aggrottò le sopracciglia e si sedette di fronte a lui, a gambe incrociate, e lui la imitò passandosi ancora una mano fra i capelli.
«Ci sono alcuni alberi particolari, in questa foresta, e l’ho notato solo quando per sfuggire a degli uccelli invisibili mi sono poggiato al tronco di quest’albero. Dentro è cavo, ed ha una porta – che io ho aperto per caso – e delle scale che conducono qui».
«Scale?».
«Sì, all’interno del fusto ci sono degli scalini… sono riuscito a portarti qui sopra senza molte difficoltà. Non so, ma la cosa mi inquieta… gli alberi sono cavi, eppure sono vivi! È come se fossero cresciuti in questa maniera… ora siamo sulla chioma, ad esempio, dopo se vuoi ti faccio vedere giù in basso» propose, e Sue annuì appena.
«Ora passiamo alle domande che ho da farti io... Partirò sin dall’inizio, non da questo» la avvisò, e Sue annuì stanca, però prima parve ricordarsi qualcosa e lo guardò esitando.
«Non c’è nessuno? Cioè, non hai visto nessuno?» chiese, fissandolo. Yukab si strinse nelle spalle.
«Nessuno. Niente di niente. Non c’è traccia di esseri umani… o non-umani» aggiunse poi. «E se ci sono comunque non sono qui nei dintorni» disse francamente. Sue si rilassò appena e sorrise persino.
«Va bene» disse placidamente. «Risponderò alle tue domande. Vai» disse, facendogli un cenno. Yukab si strinse le mani e la fissò serio.
«Da dove vieni?».
Sue sospirò.
«Da un altro mondo, che si chiama Narda».
«Lì esisteva la magia?».
«No, ce n’è molta di più qui… lì le cose erano molto diverse. C’era molta tecnologia…» disse, e Yukab storse la bocca senza sapere come interpretare la parola ‘tecnologia’ che, per quanto lo riguardava, gli richiamava più i campi dei contadini che altro.
«E c’era la guerra?».
«Quando ci sono cresciuta io, nel mio paese non c’era; negli altri sì, ma si risolveva quasi subito... quando avevo dodici anni ne è scoppiata una anche dove abitavo io. Era terribile e sono morte un sacco di persone… fra cui quella che per me era mia madre» mormorò Sue, stringendosi le ginocchia al petto. 
«Per te?».
«Sì, mi aveva adottata, ma la considero la mia unica madre».
«Conosci i tuoi veri genitori?».
«No… ma so da dove vengo in realtà».
«E da dove vieni?».
Sue tacque qualche istante e Yukab stava per insistere, quando lei iniziò a raccontargli la propria storia così come Erik l’aveva raccontata a lei. La sua voce era inflessibile, atona, con note di stanchezza e di rammarico mentre parlava di Shantella e della strage dei suoi probabili antenati; sembrava che in qualche modo l’avesse raccontata a se stessa così tante volte da aver perso ogni sensibilità a quella storia che Yukab trovava inutilmente crudele e decisamente raccapricciante. Quando Sue tacque ancora, dopo forse una mezz’ora buona di racconto, Yukab sentiva salire la nausea. Lui, che aveva ucciso forse decine di persone per qualcosa di così effimero come potevano esserlo i soldi, trovava disgustoso tutto quello che – potevano essere – i suoi avi avevano fatto.
«…io…» mormorò, senza sapere cosa dire. Per i tre giorni in cui la ragazza era stata incosciente, o forse per più tempo visto che il discorso sulle origini di Sue era iniziato sin da prima, Yukab aveva desiderato sapere tutto su di lei… ma era come se, una volta capito che Sue era reduce da una storia del tutto diversa e quasi del tutto al di fuori della sua comprensione, Yukab si stesse pentendo della propria curiosità. Quella sensazione assomigliava vagamente a quando aveva ucciso per errore quella guardia, designando così il suo destino. 
Sue si strinse nelle spalle e gli sorrise con delicatezza, come per rassicurarlo. Yukab non trovò però la forza di risponderle con un altro sorriso, e abbassò lo sguardo. Tuttavia, le parole della ragazza lo sorpresero un poco.
«Tranquillo… sono sei anni che mi ripeto questa storia a mente per non dimenticarla, e anche se non mi colpì molto inizialmente, ora è… una questione di principio» disse, sorridendo. Yukab scosse il capo, poco confortato, poi fu attraversato da un brivido che comprendeva più l’anima che il corpo.
«È tutto vero?» chiese, passandosi una mano sulla faccia. 
«Non ho ragioni di dubitarne, la persona che me l’ha raccontata...» a Sue morirono le parole sulle labbra e Yukab si pentì nuovamente di aver chiesto altro, ma la ragazza si strinse nelle spalle con un mezzo sorriso, come se avesse avuto semplicemente il bisogno di ricordare qualcosa di piacevole. «…era il mio migliore amico, nonché figlio dell’uomo che mi salvò. Dunque immagino che nessuno saprebbe dirti meglio di lui se tutto è vero o no… io ci credo, ed è per questo che volevo andare a Ther» disse, mordendosi il labbro. 
Yukab si fece attento e lasciò da parte la sensazione di essere di troppo e di sconforto.
«Cosa intendi dire?».
«Voglio trovare la mia famiglia e salvarla dalle stesse persone che mi volevano uccidere. Lo devo fare» disse, sorridendo appena. Yukab vide brillarle negli occhi qualcosa di strano, poi riconobbe quella scintilla: desiderio. Profondo ed autentico desiderio di avere una famiglia, o qualcosa che la ricordasse vagamente. Sue pensava che la sua famiglia era tutto ciò che le rimaneva, e dunque si sentiva in dovere di trovarla e stare con loro, probabilmente. 
«Chi rimane? Mi hai accennato che la tua vera madre è morta».
«Sì» mormorò la ragazza, e Yukab le sfiorò una spalla, a disagio, senza sapere come confortarla. «Dovrebbero essere rimasti mio padre e mio fratello. Mio padre è riuscito a fuggire con la Resistenza, ma se ne sono perse le tracce. Voglio trovarlo, e magari con il suo aiuto riusciremo a salvare mio fratello» disse, speranzosa, ma il ragazzo cercò di dimostrarsi più cauto al riguardo.
«Credi che si lascerebbe salvare? È di poco più piccolo di te, da quanto mi hai detto… a quest’ora sarà grande, magari si è già salvato da solo» disse Yukab, dubbioso. Sue lo guardò come se fosse pazzo e Yukab dubitò fortemente di non esserlo, sotto quegli occhi sconvolti, come se realmente il suo cervello non arrivasse a comprendere una cosa così semplice come sembrava a lei.
«Se non sa di essere in pericolo come fa a salvarsi?» ribatté lei, spiegandogli le proprie ragioni. «Ci scommetto, l’hanno cresciuto convincendolo di miliardi di sciocchezze come facevano con la mia gente» nel dire quelle parole Sue rabbrividì quasi di piacere, perché per una volta nella vita sapeva di dover fare qualcosa perché era la cosa giusta, e rabbrividì ancora nel rendersi conto che “la sua gente” era davvero la sua gente, e che lei aveva una casa. «Alla mia gente dicevano che lì erano tutti al sicuro perché fuori non si poteva stare… sicuramente lo tengono così o peggio, lo costringono a combattere contro la sua volontà… non è giusto» disse lei, mordendosi il labbro e Yukab sorrise scuotendo il capo.
«Tu ami tuo fratello e nemmeno lo conosci, sei davvero una persona strana» ridacchiò l’assassino, alzandosi. Sue si strinse nelle spalle e si alzò anche lei, guardandolo interrogativa.
«Bè, l’interrogatorio è già finito?».
«Ti piacerebbe!» rise il giovane, scuotendo il capo. «No, ho mille altre domande da farti… ma voglio muovermi da questo albero, sono qui da giorni. Voglio esplorare questo posto il più presto possibile, è un mondo nuovo per me!» sorrise entusiasta, e Sue rispose al sorriso in modo pallido, come vagamente rinfrancata da quell’ottimismo.
«Prima però fatti controllare quella ferita… sembra stia per prendere infezione» borbottò preoccupata, e lui fece una smorfia mentre la ragazza gli sollevava la maglietta e dava un’occhiata più da vicino allo squarcio sul petto. «Le mie erbe?» chiese, e Yukab si riabbassò la tunica, sorridendo appena.
«Sono giù. Vieni, ti faccio vedere».
Il ragazzo scostò una parte di tronco da un’apertura e Sue si ritrasse stupita: finemente modellati nel legno c’erano effettivamente degli scalini, e la corteccia dell’albero sembrava quasi andare a costituire disegni e arabeschi complicati dalle forme astratte, come se la forma stessa della pianta fosse stata modificata in qualche modo. Incantata Sue seguì i disegni con le dita, mentre scendeva le scale buie a tentoni.
«È… pazzesco» mormorò la ragazza, e Yukab ridacchiò.
«Che ti dicevo? Sembra opera di creature che dentro questi alberi ci abitavano… ieri ho scoperto che lungo le scale ci sono aperture analoghe a quella attraverso cui siamo scesi, e dietro una di queste c’era una stanza con un letto… è lì che ho dormito io» ridacchiò ancora e Sue arrivò a terra, uscendo da un’apertura nel tronco che, ancora una volta, sembrava essere nata spontaneamente dall’albero: non c’erano segni di accetta e l’albero era vivo, sano, ricoperto di muschio verde e bianco sul lato esposto a nord. «Anche il letto spuntava direttamente dal pavimento ed era di legno, anzi, direi… non so, di albero» Yukab spuntò dall’apertura e si grattò la nuca, fissando poi il ramo enorme e larghissimo sul quale erano stati fino a poco prima. Sue si guardò attorno e vide appoggiate nell’erba bluastra, accanto ad un’enorme radice, tutte le loro borse, protette dall’umidità della notte dalle felci.
«È strano questo posto» proclamò come se la cosa non fosse stata chiara, ridacchiando e ritrovando un po’ di vita. Tuttavia quando camminò incespicò e Yukab dovette sorreggerla, preoccupato: era ancora debole, e il ragazzo non sapeva se fosse in grado di cavalcare o camminare a lungo. La accompagnò accanto alle bisacce, lasciando che si appoggiasse alla radice, e la sentì sibilare un debole verso; la guardò interrogativo, ma lei si limitò a sorridere: dopo poco Inder spuntò dal sottobosco, agitando la criniera piena di foglioline e rametti.
«Inder?» chiamò la ragazza, senza muoversi minimamente dalla radice. L’animale nitrì e trottò fino a lei, leccandole affettuosamente la guancia e spingendole le mani con il muso, preoccupato, accertandosi che lei stesse bene. Sue ridacchiò e carezzò l’animale per rassicurarlo, mentre intrecciava le dita fra i suoi crini.
«Credo di sentirmi ancora un po’ debole, puoi… puoi aiutarmi a issare le borse su di lui?» mormorò, arrossendo. Yukab annuì con un sorriso, senza chiedere nulla, e mentre lei teneva buono l’animale, lui fissò le borse sulla sella; stava per dirle qualcosa, ma lei lo prevenne.
«Le tue borse sono state mangiate con il cavallo?» si informò, e lui ridacchiò.
«No, no. Sono queste qui, sporche di sangue» le indicò con una pacca che però disturbò Inder, che sbuffò. «Evidentemente per la bestiaccia i miei vestiti avevano un brutto sapore».
Seguì un breve silenzio: il bosco era colmo di rumorini di animali che li inquietavano, facendoli guardare nervosamente attorno; c’era odore di nettare nell’aria, e il ronzio di insetti minuscoli disturbava le loro orecchie, facendole abbassare a Sue che, nervosa, se li scostava dal viso in continuazione.
«Passiamo alle altre domande» il ragazzo batté le mani, facendola sussultare, e ghignò; Sue sorrise, alzandosi dalla radice e facendosi aiutare a montare a cavallo; Yukab montò subito dopo di lei, mentre la ragazza tentava di rassicurare Inder che si trattava di una misura temporanea. La ragazza era calda contro la schiena di Yukab, che si voltò verso di lei, preoccupato che avesse ancora la febbre; lei sorrise, come per scusarsi di quella debolezza, e gli allacciò le braccia attorno alla vita per reggersi in sella. 
«Va bene» la ragazza acconsentì alle domande, e lui fece avviare Inder al passo, dolcemente, in modo da non affaticare né l’animale né lei. 
«Quindi... tu sai usare la magia?» chiese curioso, e la sentì stringersi nelle spalle contro la propria schiena.
«Uhm, diciamo di sì e diciamo di no. Quando sono arrivata qui in Mame da Narda non avevo idea nemmeno di cosa fosse la magia… poi le guerre sono scoppiate anche qui, non so se le ricordi quattro anni fa». Yukab annuì, quindi Sue andò avanti: «Insomma, durante le guerre fui reclutata come serva di campo, dato che ero donna… Lavoravo perlopiù nella tenda-infermeria, dove c’erano altre ragazze e dei sacerdoti. Le Sacerdotesse in particolare mi hanno insegnato qualcosa sulle erbe e, quando potevano, mi insegnavano a leggere e scrivere. Per la magia però dicevano che ero ancora troppo piccola… Ora, immagino io non lo sia più» sospirò Sue, con un mezzo sorriso. «Sono contenta di non essere morta… dopotutto a sentire la frase che mi hai rivolto quando mi ero appena svegliata saresti impazzito di lì a poco» ridacchiò la ragazza, e Yukab arrossì vagamente.
«Non dire sciocchezze… Non saresti mai morta, non con la mia fantastica cura. E poi più che altro mi mancava la tua vocina irritante» la apostrofò il ragazzo, scuotendo il capo. «Quindi mi stai dicendo che in realtà non sai usare la magia? È stata solo fortuna, quando mi hai guarito?».
«Sono portata, questo non vuol dire che io la sappia usare. Le Sacerdotesse dicevano che la linfa azzurra reagisce ai non-umani dotati di capacità magiche innate, l’ha chiamato… Arida? Aruda? Non ricordo» confessò, scuotendo le spalle e Yukab fissò il collo del cavallo, pensando a qualche altra domanda, ma la ragazza lo precedette. «Ora voglio farti io qualche domanda» disse, sorridendo, e l’assassino annuì.
«Va bene, cosa vuoi sapere?».
«Per esempio… da che deriva la parola ‘scambiata’?» chiese aggrottando la fronte, e Yukab ridacchiò.
«Bè, gli scambiati è come se fossero uomini nel corpo di donne e donne nel corpo di uomini, no? Gli piacciono persone del sesso opposto, solo che il loro corpo è dello stesso sesso» disse, e vedendo lo sguardo scioccato di Sue mutare in furia, si affrettò a continuare. «Li chiamano “scambiati” perché hanno l’anima “scambiata” con il corpo. Ci sono un sacco di teorie per spiegare perché accada, ma quella più gettonata è che degli spiriti o un incantesimo o una maledizione si infiltrino nella pancia della madre quando il bambino non è ancora nato, portando l’anima del nascituro in un corpo diverso dal suo e scambiandola di posto… infatti si dice che gli scambiati sono sempre in numero pari, perché per ogni donna scambiata c’è un uomo scambiato, e viceversa» disse, cauto, pronto ad affrontare l’ira e la valanga di domande che stava per provenire dalla sua giovane compagna di viaggio.
«Ma quella delle anime in corpi opposti è una cosa totalmente diversa!» disse Sue, ma lo sguardo che le scoccò Yukab da oltre la propria spalla la fece desistere dal portare avanti le proprie argomentazioni… ma il ragazzo sapeva che lei ne avrebbe parlato ancora, quando meno se lo aspettava.
«E le persone a cui piacciono entrambi i sessi allora? Hanno due anime nel loro corpo? Come funziona?» chiese allora lei, obiettando.
Yukab storse il naso, ridacchiando all’assurdità di quella domanda.
«Mica esistono, quelle persone! Sono solo… capricciosi!» disse, ridendo, e Sue rimase pressoché scandalizzata da quell’uscita, così indignata che non proferì più parola. 
Proprio in quel momento i due lasciarono la sicurezza della foresta e iniziarono a procedere nella pianura azzurra inondata di luce violetta: Sue si sollevò dalla schiena di Yukab e si stiracchiò, fissando il sole, che sembrava più bianco che giallo. Doveva essere circa metà mattina, l’aria era tersa e, anche se faceva molto caldo, la grande presenza di vegetazione rigogliosa rendeva l’atmosfera più piacevole, alternando macchie d’ombra a punti in cui il sole riscaldava loro la pelle: stavano infatti proseguendo lungo il limite del bosco, per non affrontare la pianura in piena luce, scoperti, senza riparo. Yukab si passò una mano fra i capelli rossicci, che in quel momento mandavano riflessi rossi e violacei, e Sue storse il naso all’odore di sudore che si sollevò quando il ragazzo alzò il braccio.
«Da quant’è che non ti lavi?» gli fece notare, e il ragazzo fece una smorfia. 
«Che ti importa? Sei viva, no? Abbi un po’ di gratitudine» rise, e lei rise di rimando.
«Non sarò viva ancora per molto, di questo passo» agitò una mano davanti al naso, per fargli intendere che il suo odore era tremendo. Lui scosse il capo e si strinse nelle spalle, indicando la striscia violacea che si intravedeva poco più in là nella prateria: 
«Potremmo andare lì, e farci un bagno… anche tu non profumi di rose, sai?» la schernì, e lei gli affondò una mano nel fianco, facendolo gemere di dolore. 
«Oh, scusa!» si pentì immediatamente la ragazza, che si era dimenticata della ferita al petto; lui recuperò il fiato dopo qualche secondo e scosse il capo, scoccandole un’altra occhiataccia da sopra la spalla; proseguirono per qualche minuto in silenzio, al passo, mentre Inder sbuffava poco contento di essere cavalcato dal ragazzo. Sue dopo un po’ stava per addormentarsi, così decise di distrarsi e frugò nella sua borsa per trovare il libro di storia, così da leggiucchiarlo mentre si muovevano, ma quando le sue dita incontrarono qualcosa di morbido e peloso si arrestò bruscamente nella propria ricerca, estraendo lentamente la mano vuota dalla bisaccia.
«Credo che qualche animaletto si sia infilato nella mia borsa» comunicò a Yukab, che si voltò verso di lei dubbioso, per quanto gli permetteva la posizione che avevano. Lei continuò a fissare la borsa, aspettandosi da un momento all’altro di vedere un enorme ragno o qualcosa di simile spuntare dalla bisaccia.
«In che senso? Che succede?».
Sue aprì nuovamente la borsa, cauta e con le mani che le tremavano, e sbirciò all’interno. Due vivaci occhietti verdi risposero al suo sguardo e lei batté le palpebre perplessa: un animaletto peloso, di un colore verde foresta, si arrampicò dall’interno della borsa al collo di Inder, che si agitò infastidito e tentò di voltarsi per verificare cosa fosse quel solletico strano. Yukab tirò le redini per farlo stare buono e il cavallo scalpitò nervosamente, tirandogli un morso a distanza ravvicinata, tanto da far sobbalzare il ragazzo, che gli lanciò un’occhiata truce – perfettamente ricambiata dall’animale pur cieco.
Sue aprì un poco la bocca, richiudendo la borsa senza distogliere lo sguardo dalla bestiola: quell’animale era decisamente la cosa più strana che avesse mai visto, persino più strana del passaggio interdimensionale che l’aveva condotta lì.
Aveva un musetto da martora, o da faina, e lunghe orecchie da lepre. Il pelo era verde smeraldo e aveva una macchia più scura sulla schiena; le zampette davanti erano artigliate e avevano una specie di pollici, mentre le zampe posteriori avevano addirittura degli zoccoli al posto delle dita. La coda era lunga e pelosa, come quella di un felino, e si agitava avanti e indietro lentamente proprio come quella di un minuscolo gatto. L’animale fece fremere il musino umido in direzione dei due ragazzi, poi sbatté le palpebre e Yukab restò immobile a fissarlo.
«…no, cioè, hai mai visto qualcosa di più strano e più carino?» esclamò Sue entusiasta, mettendo le mani sulle spalle del ragazzo per sollevarsi un po’ e vederlo oltre di lui. Yukab squadrò l’animaletto e storse la bocca, poi parve ricordarsi di qualcosa e studiò la bestia, appena più interessato.
«Ci stavo pensando, forse so dove siamo. Ma non so nemmeno se sia possibile» Yukab fece un cenno verso l’animale. «Quel coso forse ti sbrana, se siamo dove penso io… stai attenta» la avvertì.
Sue rise della preoccupazione del ragazzo e la bestiolina si arrampicò su di lui, così che la ragazza potesse carezzare la testolina dell’animaletto, che fece piano una specie di fusa rugginose. Sue notò che era lungo, coda esclusa, all’incirca quanto il suo braccio e si teneva in equilibrio stando aggrappato ai vestiti di Yukab, che restava fermo ed immobile, rigido sulla sella, in attesa che se ne andasse.
«Toglimelo di dosso» le ordinò senza esitazione, dopo neanche un minuto che la creaturina era sulla sua spalla. Sue se la prese in braccio ma, mentre la ragazza si metteva comoda, la bestia osservò curiosa la prateria che li circondava e con un salto balzò giù dal cavallo: mentre atterrava, si trasformò in un volatile; il cambio fu così naturale e repentino che Sue spalancò la bocca e lo indicò, mentre l’uccello prendeva quota.
«L-L’hai visto?» balbettò, istericamente, e Yukab si accigliò.
«No, cosa?» disse, cercando l’animaletto sul cavallo, ma quando vide che Sue indicava un uccello in cielo aggrottò la fronte. «Cosa?».
«Quel cosino verde! Si è trasformato in un uccello! Quello lì!» Sue indicò ancora l’uccello, che si abbassò di quota e venne a sfregare il capo contro il braccio della ragazza, che scioccata si scostò, quasi cadendo di cavallo. L’uccello, che assomigliava vagamente ad un gabbiano, mutò in un fringuello e artigliò la criniera di Inder, posandovisi su e cinguettando piano in direzione della ragazza. Yukab aprì leggermente la bocca, sorpreso quanto lei dal cambio improvviso di forma, e i due ragazzi restarono a fissare l’uccellino per qualche secondo, aspettandosi altri miracoli.
«…cosa credi che sia?» chiese poi Sue, recuperando l’uso della parola, e Yukab si decise a richiudere le labbra, ritornando a guardare davanti a sé; con un gesto stizzito fece inchiodare il cavallo e Inder protestò scuotendo il capo e quasi impennandosi, facendo spaventare l’uccellino che si levò in volo, mutando in una specie di grosso gatto striato che, soffiando, si allontanò con un salto di qualche metro dall’animale. Sue faticò a reggersi in sella, temendo terribilmente che Inder si imbizzarrisse, ma quando l’animale si calmò la ragazza fissò prima il gatto e poi Yukab, senza capire cosa avesse provocato tutta quella confusione. 
Sue notò quindi che il loro cammino sembrava giunto al termine: la distesa d’acqua che già avevano scorto dal ramo dell’albero su cui si erano rifugiati era ora davanti a loro, dopo nemmeno un’ora di cammino. Sue aggrottò le sopracciglia e quasi contemporaneamente a Yukab si volse verso la direzione da cui erano venuti: la distanza era quella, eppure a loro sembrava molta di più ad occhio nudo che da percorrere.
«Va bene, tira fuori la cartina perché ora probabilmente so dove siamo» mormorò Yukab, porgendo la mano a Sue per farsi consegnare la mappa. Lei frugò nella borsa, sperando di non trovarvi altre sorprese, e vide con la coda dell’occhio che il gatto striato – o quello che era quel cosino verde, ammesso che fossero state le sue vere sembianze – si stava nuovamente avvicinando a loro, ora diffidente. La ragazza porse la mappa a Yukab e scese da cavallo per sgranchirsi le gambe, notando che, lentamente dopo i tre giorni di incoscienza, finalmente stava riacquistando energie. Mentre l’amico consultava la cartina, Sue si chinò sulle acque di quel mare placido e per assaggiare vi intinse un dito, portandoselo alle labbra: il suo senso del gusto la sorprese comunicandole che non era affatto acqua salata come credeva che fosse, bensì era dolce e fresca come se fosse appena sgorgata da una sorgente. 
Estasiata ritornò dall’amico per comunicarglielo e lo prese per un braccio, ma lui le indicò il centro esatto della mappa: un’isola grande quanto un regno campeggiava proprio in quel punto, e lui indicava un luogo all’estremo sud dell’isola, dove c’era un lago che sembrava grande in confronto a tutti gli altri, in mezzo alle chiome degli alberi fittamente miniati sulla pergamena, come se in mezzo alla foresta ci fosse un’enorme radura.
«Noi siamo qui… circa, insomma, credo» disse lui, storcendo le labbra in una smorfia insicura. «Non ci sono altri laghi in mezzo ad una foresta, dunque…» dedusse il ragazzo, e Sue dopo aver fissato la cartina con pallido interesse rise, trascinandolo giù dalla sella subito dopo. Il ragazzo le cadde addosso, sorpreso, e la ragazza scivolò via da sotto di lui ridendo mentre lui si alzava e si chiedeva se per caso non fosse ammattita. Che quell’animaletto le avesse trasmesso qualche bizzarra malattia sconosciuta?
Quando vide che Sue ridendo si stava spogliando in fretta, Yukab arrossì di colpo e distolse lo sguardo, restando voltato finché non sentì il suono di un tuffo, segno che la ragazza si era buttata in acqua. 
«Ma che fai!?» esclamò, imbarazzato, continuando a guardare da un’altra parte. Sue rise ancora argentina e lo schizzò, immergendosi subito dopo, e Yukab scosse il capo sentendo farsi strada nel cuore una leggerezza inaudita: erano probabilmente su un continente detto “Isola di Nessuno”, al centro esatto del mondo e in gran parte inesplorato – come denunciavano le grandi zone bianche sulla mappa oltre i piccoli particolari di qualche fiume, lago o bosco – dove nessuno poteva trovarli, cercarli o anche solo pensare che loro fossero. 
Il ragazzo sentì un sorriso sollevato comparirgli sul viso, accompagnato da una sicurezza che non sentiva da anni ed anni, probabilmente da quando sua madre era morta: loro due, da ricercati ed assassini, erano appena diventati liberi. Yukab si chiese se era questa consapevolezza ad aver spinto Sue a trascinarlo giù di sella e buttarsi in acqua nuda, come se fosse posseduta dall’insostenibile leggerezza della libertà, parola che solo in quel momento lui arrivava a comprendere anche solo in parte e che ora, come Sue, sentiva di dover sfogare in qualche maniera.
Con una risata rauca, si tolse i vestiti anche lui e le si gettò addosso, tentando di acciuffarla, giocando forse per la prima volta da quando aveva ucciso quel soldato; provò a tenerla sott’acqua come per affogarla, un gioco che non di rado aveva fatto negli stagni paludosi con i suoi coetanei quando era piccolo, ma quella ragazza sembrava una biscia: scivolava dappertutto e resisteva molto più di lui in acqua, tanto che fu costretto a rinunciare con una risata quando lei si immerse l’ennesima volta dopo aver riso in faccia al suo ultimo tentativo di bloccarla.
«Basta, mi arrendo!» esclamò il ragazzo, immergendosi completamente anche lui e, seppur per qualche istante, godendosi il silenzio che lo circondava sott’acqua. Una volta riemerso, rimase a galla per qualche minuto, cercando di individuarla e sorrise quando la vide spuntare poco più in là con i capelli blu che sembravano quasi neri da bagnati. Lentamente l’assassino rilassò tutti i muscoli e si lasciò portare dall’acqua in posizione orizzontale, facendo il morto, e Sue lo osservò imbarazzata rendendosi conto che erano entrambi completamente nudi: una volta sfogata la gioia di essere lontani da tutti i pericoli che avevano rischiato e quasi passato, l’esuberanza e la disinibizione erano sfumate, lasciandole un retrogusto piacevole sulla lingua.
Determinata a non lasciarsi prendere dall’imbarazzo, Sue decise di fare la morta in superficie anche lei, accanto al ragazzo. Esitante, cercò la sua mano in acqua, timorosa di perderlo o di allontanarsi troppo da lui, e Yukab strinse la sua mano con delicatezza, quasi fosse una farfalla; Sue si sentì scaldare il cuore, certa che l’altro avesse compreso i suoi timori. I due ragazzi restarono per qualche minuto distesi in superficie, nel più completo silenzio, ed ebbero modo di osservare come lì le nuvole sembrassero più bianche, il verde più vivido, i canti degli uccelli diversi, più melodiosi, e dal bosco che li circondava fin dove si perdeva lo sguardo sentivano provenire ogni specie di suono animale.
Ad un certo punto Sue vide l’animaletto verde di prima accucciato sulla riva e lo guardò con la coda dell’occhio, per non farsi entrare l’acqua nelle orecchie voltando il capo; il cosino verde smeraldo infilò una zampetta in acqua e la ritirò, facendo poi un salto nel lago e trasformandosi a mezz’aria in un pesciolino azzurro-argenteo. Ancora una volta la trasformazione di quella bestiola la lasciò senza fiato e, quando il pesce la raggiunse fissandola e solleticandole le piante dei piedi con la pinna caudale, notò la particolarità che quell’animale aveva quando si trasformava in qualcosa: aveva sempre e comunque lo stesso color verde foresta degli occhi. La cosa le fu chiara perché era assolutamente certa di non aver mai visto in vita sua un pesce con gli occhi verdi, mentre quell’animaletto trasformato in trota o quello che era in quel momento aveva gli occhi proprio di quel colore.
Yukab sospirò di beatitudine e Sue distolse la propria attenzione dal pesce che era uscito dal suo campo visivo, andandole sotto. 
«Ahh… non mi sentivo così da… non so, sempre, penso» sussurrò il ragazzo, sorridendo. Sue sorrise a sua volta e chiuse gli occhi, poi si corrucciò come colpita da un pensiero molesto. Yukab, con gli occhi aperti, se ne accorse e decise di facilitarle le cose: 
«Sì?».
Sue parve sorpresa ed aprì gli occhi, mordendosi il labbro e fissando il cielo lilla solcato da nubi bianche. La stretta di Yukab sulla sua mano si rafforzò un pochino e lei si sentì vagamente rassicurata, come se quella mano fosse appartenuta ad Erik e non all’assassino.
«Come ti senti quando uccidi?» si decise infine a chiedere la ragazza, esitante.
Yukab restò in silenzio, così Sue si voltò per guardarlo e assicurarsi di non averlo offeso, ma il ragazzo sorrideva. Schizzandola lievemente con le dita si bagnò nuovamente i capelli immergendo solo il capo in acqua, poi rispose:
«Normale. Insomma, non mi dà fastidio».
«In che senso?» Sue si morsicò ancora le labbra, nervosa.
«Non mi provoca particolari emozioni. Lo faccio per i soldi. Per te è diverso?» chiese poi lui, voltando il capo verso di lei e subito pentendosene visto che dell’acqua gli era fastidiosamente entrata nell’orecchio. Sue fece un mezzo sorriso e mosse leggermente le orecchie a punta all’indietro, tanto che Yukab si rese conto che era la prima volta che le notava, dal momento che la ragazza le copriva sempre con i lunghi capelli blu.
«Non lo so, ecco» disse lei, sospirando, poi scosse il capo e si girò a guardarlo. «Penso… che sia perché ho ucciso sempre e solo in condizioni di necessità, ma quando vedo qualcuno morto mi sento in qualche modo sollevata. Insomma… la prima persona che ho ucciso stava per uccidermi a sua volta per impedirmi la fuga da uno stupratore, vederla morta è stato un sollievo. Poi con la seconda ero più o meno nelle stesse condizioni… anzi, forse peggio dal momento che oltre che da uno stupratore fuggivo anche da una probabile condanna a morte per omicidio» mormorò lei, e Yukab notò che le si era rizzata la peluria sulle braccia, di un insolito azzurro chiaro. «E quando tu hai ucciso Sewell e gli altri tre… io non respiravo fino a che non li hai uccisi, e solo dopo che loro hanno smesso di respirare io ho ripreso a farlo… capisci? È come se togliendo la vita ad altri la prendessi io, perché è un pericolo in meno, un altro anno di vita in più regalato, come se uccidendo quelle persone mi fossi salvata… ed è così, mi sono effettivamente salvata, solo che ho paura di iniziare a pensarlo per qualunque persona» sussurrò Sue, e Yukab le strinse piano la mano non sapendo cosa dirle per rassicurarla. Lei restò a fissare il cielo e scosse i capelli in acqua, che erano così lunghi da attirare l’attenzione di Yukab.
«Mi togli una curiosità?» chiese lui, cercando di distogliere il discorso da quei toni tristi. Si attirò un’occhiata interessata. «Perché porti i capelli così lunghi?» chiese, ridacchiando, poi fece il mimo di tagliarli. «Passeresti meglio per uomo, se li tagliassi un po’».
La sua mano si strinse involontariamente dentro quella di Yukab, che avvertì l’improvvisa tensione: si chiese se non avesse fatto un’altra domanda indiscreta – come mai qualsiasi domanda risultava indiscreta, con Sue? – quando gli arrivò la risposta.
«Quando scoppiò la guerra in questo mondo io avevo tredici anni e i miei capelli erano lunghi poco oltre la spalla, perché erano ricci ed io sembravo umana. Quando entrai nell’esercito come guaritrice con Erik, il mio migliore amico, ci rasarono i capelli a zero per “prevenire le infestazioni di pidocchi”» Sue prese un respiro lungo e tremolante, come se avesse acqua nei polmoni. «In realtà il motivo era un altro: i cosiddetti ‘reclutatori’, rasandoci, ci avevano regolarmente comprati alla libertà. Leggendo un libricino di leggi varie dei Sacerdoti nell’infermeria ho scoperto che per comprare una persona basta rasarle i capelli e tagliarle le unghie, e da quel momento la persona è di proprietà di qualcuno, vendibile di conseguenza per denaro o altro» Sue rabbrividì e si agitò appena come per levarsi di dosso quella sensazione. «Da allora ho giurato di non tagliarmi mai i capelli più corti delle spalle, perché se fossero stati più corti avrebbe significato – e significherebbe – che sono stata comprata o venduta da poco e quindi potrei essere accusata di essere scappata da qualcuno o qualcosa… I miei capelli sono la mia libertà, rappresentano a tutti gli effetti la prova materiale che io sono una donna libera e non una schiava fuggitiva o una moglie ripudiata o adultera».
Yukab restò in silenzio, riflettendo sulle parole della ragazza; effettivamente avevano un senso, considerato che tutte le ragazze che aveva conosciuto ed erano sposate da poco portavano il velo in testa per coprire la testa calva, in simbolo di pudicizia. Era una tradizione così scontata, per lui, da risultare inosservata, e solo in quel momento si rendeva conto di quanto strano potesse sembrare a Sue che invece veniva da un altro mondo. Forse per questo lo colpivano tanto quei capelli così lunghi, perché facevano di lei una ragazza libera, non sposata, indipendente, selvaggia ed indomita; tutto questo gli piaceva, ma lo rendeva cauto, perché non era affatto abituato a pensare al ruolo di una donna in quei termini, quasi alla pari di quello di un uomo. Eppure nemmeno voleva ferire i suoi sentimenti dicendole che per lui era normalissimo che fosse così, dal momento che aveva ormai capito quanto per lei fosse invece importante quella questione della parità. 
«E… non so… come mai hai le orecchie a punta?» chiese, tentando di non rispondere nulla che potesse urtarla. Sue arrossì di colpo e si coprì maldestramente le lunghe orecchie con i capelli, che fluttuarono disordinatamente nell’acqua in contorti arzigogoli.
«Uhm… non lo so. Non so di che razza sono, o meglio, sono una Menide… il che vuol dire che sono tutto e niente, appartengo al Popolo dei mille popoli» disse lei nervosamente, e Yukab le strinse la mano fino a farla voltare, specchiandosi nei suoi occhi viola spalancati dall’imbarazzo e dal nervosismo. 
«Non sono brutte» chiarì lui, e la vide rilassarsi impercettibilmente anche se rimaneva guardinga. Lui sorrise. «È solo che non le ho mai notate perché… non so, probabilmente le tieni continuamente coperte dai capelli, no?» chiese, sperando quindi che non fosse stata solo sua disattenzione. 
Sue arrossì ancora un po’ e distolse lo sguardo, annuendo.
«Sì, sì, le copro sempre… mi imbarazzano molto. Penso siano l’unica cosa di me che faccio fatica ad accettare» confessò, e Yukab sorrise. Le lasciò la mano e lei lo guardò smarrita, come sentendosi abbandonata, ma lui si girò e le percorse la linea dell’orecchio fino alla punta, affascinato. Lei restò a fissarlo, quasi trattenendo il respiro, così a lungo che quando riprese a farlo le sembrò che i polmoni le stessero andando a fuoco.
«Sono davvero singolari» commentò lui, sorridendo appena, e Sue restò a fissarlo incerta. Lentamente un sorriso grato e timido, che più sincero di così Yukab dubitava di averne mai visti, si dipinse sul viso della ragazza, che ritornò in posizione semi-verticale e prese a nuotare pigramente verso la riva, lasciandoselo dietro. Yukab sentì un piccolo calore farsi strada nel petto e la sensazione di voler essere amico di quella ragazza si fece più chiara di prima, come se avesse finalmente trovato un posto nell’universo, e quel posto si trovasse al suo fianco. 
Il ragazzo distolse lo sguardo appena la ragazza uscì dall’acqua e restò a fissare il fondale, dove vide un pesce azzurro-argenteo dagli occhi verdi mutare la propria forma in una specie di lontra, che salì in superficie e fece fremere il naso verso di lui. Yukab, contrariato, si scostò dall’animale temendo per la propria incolumità e si diresse a grandi bracciate verso la riva; la lontra guizzò velocemente nella sua stessa direzione e lo superò, sbucando poi sulla riva e scuotendosi lì il pelo dall’acqua, avvicinandosi a Sue che la osservò curiosa e le carezzò la testolina. La lontra socchiuse gli occhi e le si accoccolò in grembo, mutando poi in un gatto più piccolo di quello precedente e di un morbido color panna, come se volesse denunciare la propria inoffensività. 
Yukab osservò con un sorriso la ragazza carezzare l’animaletto, poi quando lei lo notò poco oltre la riva, ancora in acqua, arrossì e si coprì l’inguine e il petto con il proprio mantello, distogliendo lo sguardo per permettere a Yukab di tirarsi fuori dall’acqua. Il ragazzo, grato del gesto, si affrettò ad uscire dal lago e con un sospiro si lasciò cadere accanto a lei, afferrando le proprie brache e infilandosele mentre lei, ancora voltata dall’altra parte, carezzava il gatto che aveva in grembo.
«Abbiamo iniziato male, io e lui… però… credo che diventeremo amici a breve, ecco» mormorò la ragazza, e Yukab si volse verso di lei sorridendo, nudo solo a metà ora. «Piuttosto, spiegami dov’è che siamo precisamente… ho visto che si tratta di una specie di isola, giusto?» chiese Sue, e Yukab annuì mentre lei si voltava e lo guardava indagatrice.
«Sì, è un’isola… l’Isola di Nessuno» disse Yukab, poi visto che lei aveva aggrottato la fronte si affrettò a continuare: «Si chiama così perché pur essendo più o meno vicina alle coste di altri regni, nessuno finora è mai riuscito a conquistarla» spiegò, e Sue inarcò le sopracciglia.
«Com’è possibile, scusa?».
«Be’, non ne so molto… qualche secolo fa c’è stata una corsa alla conquista di questi territori, ma per un motivo o per l’altro tutte le navi mandate non tornavano mai. I draghi messaggeri tornavano con le ali bruciacchiate o bucate, feriti, e si sono diffuse un sacco di leggende terribili riguardo quest’isola. Non sembra tanto male, a parte i gatti troppo cresciuti che vogliono ucciderti» Yukab si strinse nelle spalle e fissò il sole fra le ciglia, godendosi quel calore che lo stava asciugando velocemente.
«Non esistono felini grossi, dalle vostre parti?».
Il ragazzo scosse il capo, inarcando le sopracciglia. 
«Perché dovrebbero?».
Sue scrollò le spalle, rilassata, e si mise a sedere. I capelli blu le si erano appiccicati sulla schiena, su cui spiccavano le ossa, e Yukab guardandola di sottecchi si chiese se dovesse preoccuparsi: quando l’aveva conosciuta poco più di una settimana prima era già magra come un’alice, poi era venuto il rapimento da parte dei banditi, poi il veleno che l’aveva lasciata priva di sensi per altri tre giorni. Non credeva affatto che un tozzo di pane e un sorso d’acqua potessero bastare per farle riprendere le forze, così mentre schioccava la lingua il ragazzo si alzò e raggiunse Inder, che stava brucando poco più in là: il cavallo abbassò le orecchie, ostile, ma il ragazzo girò al largo da zampe posteriori e bocca, senza voler rischiare calci o morsi, e prese dalla propria bisaccia un paio di mele, della carne secca, del formaggio e l’otre d’acqua; poi tornò a sedersi accanto a Sue, che si tirò su accigliata e lo fissò.
«Cosa vuoi fare, pranzare così presto?» disse, dando uno sguardo al sole: data la posizione dell’astro dovevano essere più o meno le undici, quasi mezzogiorno insomma.
«No, io no… Tu pranzi. Ne hai bisogno, dai, mangia» disse, facendole un cenno. La vide tentennare per qualche secondo, come se stesse lottando contro qualcosa, poi smise di esitare ed iniziò a mangiare, fissando nel contempo il ragazzo come per accusarlo di qualcosa. Lui sopportò tranquillamente il cipiglio serio della ragazza e la osservò mangiare, cosa che le diede sui nervi: appena ebbe ingoiato l’ultimo boccone la ragazza si alzò e iniziò a vestirsi in fretta, quasi offesa, ma Yukab non aveva intenzione di cedere ai suoi malumori insensati e la aiutò a stringere le cinghie del corpetto da uomo che le aveva dato il sarto a cui si erano rivolti, mentre lei guardava da un’altra parte.
«Ti senti meglio?» le chiese gentilmente, facendola sobbalzare dal momento che per qualche minuto fra loro vi era stato un pesante silenzio.
«Sì, grazie» rispose lei seccamente, e lo fissò male. Lui sospirò e le diede un buffetto dietro la testa, come per farla ricredere.
«Non ti ho fatta mangiare perché ti vedo debole… ti ho fatta mangiare perché vieni da ben sei giorni di incoscienza, dunque ne avevi bisogno. Tutto qui» disse, e lei lo squadrò sospettosa prima di rispondergli.
«Sì, beh, capisco. Se ne avevo bisogno te lo avrei chiesto. Grazie lo stesso» disse, ancora irritata, e Yukab alzò gli occhi al cielo infilandosi la camicia stracciata, poi sorrise mentre lei indossava il mantello di cotone per difendersi dal sole.
«Però hai mangiato tutto» le fece notare. Lei si arrestò subito e arrossì colpevole, riprendendo poi a fare quello che stava facendo più in fretta di prima, come se avesse urgenza di andarsene. «Non mi tenere il muso, posso essere crudele se continui a farlo… non ti conviene» la avvertì lui, e lei annuì piano, ancora con le guance scarlatte dalla vergogna. Yukab sorrise e la superò, montando sul baio, mentre Sue recuperava Inder che stava abbeverandosi al lago; insieme, i due ragazzi costeggiarono il lago per vedere dove e se finiva, seguiti da un vaporoso gatto bianco e striato di grigio che li osservava curioso con straordinari occhi verdi.
In nemmeno un’ora di prato e foresta continuamente affiancati, però, il paesaggio mutò in minima parte: nell’aria c’era lo scroscio di acqua che scorre, e dopo un altro po’ di cammino Yukab e Sue poterono vedere che il lago era affiancato da un fiume enorme, di cui si vedeva l’altra riva solo grazie all’aria tersa di quella mattinata; man mano che procedevano fra il fiume e il lago, però, avevano sempre più l’impressione di starsi dirigendo verso una specie di ansa racchiusa fra lago e fiume, e la cosa dava loro il nervoso: erano così abituati a sentirsi braccati, che metteva loro ansia la possibilità di non avere vie di fuga, fosse anche in un luogo disabitato e deserto come quello. 
Dopo una breve sosta per decidere il da farsi in poche parole, i due pur dubbiosi proseguirono nella medesima direzione, scoprendo entro un’ora che non si erano sbagliati: più avanti il fiume e il lago infatti si univano in uno scorrere chiocciante di acqua cristallina, rumore che arrivava fino a loro nonostante fosse ben distante. 
Mentre si accingevano a tornare indietro, tuttavia, i due furono attirati da un albero che si ergeva solitario, enorme, in mezzo alla piana fra fiume e lago: la sua chioma era foltissima e copriva una superficie enorme con la sua ombra; il tronco era così gigantesco da essere più grande di una casa, e ciò fece spalancare le bocche dalla meraviglia ad entrambi i ragazzi, che si diressero verso la pianta spingendo Inder al galoppo, anche solo per poterne ammirare la maestosità. Le foglie erano scure e verdi, ben in salute, e mentre lo raggiungevano Yukab si chiese da quanto tempo quell’albero fosse lì: così antico, così grande, avrebbe senz’altro suscitato ammirazione in tutti coloro che si reputavano fedeli della Madre Terra Ayana anche solo un poco.
Sue smontò da cavallo quasi subito, avvicinandosi colma di timore reverenziale ad una enorme radice, mentre Yukab faceva avvicinare direttamente Inder e allungava una mano verso la corteccia per toccarla. Sue poggiò il palmo sul legno fresco e duro e chiuse gli occhi con un sorriso appena accennato sulle labbra; il ragazzo la osservò curioso ma non la interruppe, smontando da cavallo e sgranchendosi le gambe.
Dopo pochi secondi, neanche il tempo di scambiarsi uno sguardo, i due ragazzi udirono un accenno di canto portato dal vento; si guardarono interrogativi e, lasciando Inder libero di vagare, girarono incuriositi attorno all’albero, raggiungendone un punto in cui, da dietro una radice, poterono vedere un drappello di persone che stavano calando quattro corpi in una fossa, intonando mesti canti funebri.
«Che la terra vi sia lieve» dissero quindi in coro tutti i presenti, quando la prima palata di terra fu adagiata sui cadaveri. Tre uomini si misero a vangare un mucchio di terreno accanto alla buca, mentre i presenti si disperdevano girando intorno all’albero… e venendo verso Sue e Yukab, che la spinse in una nicchia delle radici, sperando ardentemente che non li vedessero mentre sfoderava un pugnale: nel piccolo gruppo aveva visto abbastanza non-umani da allarmarlo, e se li avessero scoperti ad una cerimonia così sentita come un funerale… oh, il ragazzo non voleva neanche pensare a cosa avrebbero fatto.
Ma le speranze di non essere visti furono vane: un uomo dalla pelle pallida e penetranti occhi azzurri, appena superata la loro radice, estrasse all’istante una spada e la puntò contro di loro, guardandoli gelido.
«Per colpa vostra, quattro dei nostri maghi sono morti» sibilò, e un altro uomo, più alto e massiccio di lui, gli mise una mano sulla spalla: i suoi capelli rilucevano scuri e i suoi occhi erano impassibili; tuttavia questi ultimi si accesero caldi quando guardò i due ragazzi, in particolare parve vagamente divertito quando vide che Yukab teneva proteso davanti a sé uno dei suoi coltelli, per difendersi dalla spada puntata dal primo uomo.
«Chi siete?» Sue alzò appena il mento, facendo un cenno beffardo verso colui che puntava loro contro la spada, e quest’ultimo le sorrise mentre a loro si aggiungevano altri uomini, mettendo Yukab ancor più sul chi va là.
«Noi siamo la Resistenza» sorrise un uomo dai capelli screziati di grigio e di bianco, con voce crepitante come un foglio di carta che viene stropicciato; gli mancavano un paio di denti, ma aveva le pupille gialle come quelle di un rapace, da cui era impossibile staccare i propri occhi. «E vi abbiamo portato noi qui» aggiunse, scoccando uno sguardo all’uomo con la spada: quest’ultimo la abbassò e poi la rinfoderò, girando attorno all’albero e lasciandoli lì, senza proferire parola. 
L’uomo dai capelli grigi fece cenno di abbassare l’arma anche a Yukab, scrutandolo attentamente.
«Sarai mica cugino di un certo Marik?» gli chiese, sorridendo appena, come se la sapesse lunga. Il ragazzo si accigliò, e annuì. «Bene… entrate, entrate. Immagino sarete stanchi».
Yukab guardò l’albero, confuso. 
«Entrare… nell’albero?» chiese: possibile che lì tutti abitassero negli alberi? Certo, non era difficile da immaginare, vivere in quell’enorme palazzo vegetale… Le stanze dovevano essere grandi e luminose, soprattutto visto che da lì in basso si distinguevano addirittura delle finestrelle in vetro colorato, di certo nulla a che vedere con l’albero sul quale erano stati fino a quel mattino i due ragazzi. La corteccia era piena di sottili arabeschi che andavano ad intrecciarsi con finestrelle e radici ed edera che era cresciuta sottile sul tronco, creando un intreccio complicato e naturale difficile da seguire con gli occhi. 
I due uomini rimasti li guidarono dall’altro lato dell’albero: Inder brucava poco più in là rispetto a delle scale formate da radici, che conducevano ad un piccolo portico sul quale si apriva una porta spalancata. L’uomo dagli occhi gialli sorrise loro:
«Chiamatemi Said. Abbiamo molte cose da dirci, ora che siete qui».

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Capitolo 4
*** Aykir- La Protettrice ***


III
Aykir
La Protettrice
 
11 Gjorna 684 d.C.
E
rano passati ormai due giorni dal loro arrivo al castello del conte, e nessuno si era fatto sentire né vedere, se non per portare loro del cibo; erano stati sistemati in tre stanzette poco più grandi di una cella di prigione, comunicanti fra di loro, per cui almeno Brianne, Sibath ed Aykir avevano potuto consultarsi un po’ sul da farsi.
Sibath aveva suggerito di chiedere al Conte dei draghi da trasporto, che lì nel Regno di Mame abbondavano: Brianne, avendo ripreso l’aspetto consueto di una donna con i capelli e gli occhi verdi, invece che quello della sua defunta figlia, aveva ribattuto che sfruttare creature nobili come i draghi era ingiusto; Aykir invece era lentamente precipitato in uno stato di sorda apatia, al punto che si era stretto nelle spalle e non aveva ribattuto a nessuna delle due affermazioni, semplicemente aspettando l’udienza con il Conte.
Il ragazzo non sapeva cosa chiedere: se avesse seguito il suggerimento di Sibath, non avrebbe neanche saputo da dove cominciare a cercare la Bestia malefica che era destinato a sconfiggere. Il Portale attraverso il quale avevano raggiunto Alya, la capitale intellettuale del Regno di Mame, li aveva privati di qualcosa… e ad Aykir sembrava quasi che ciò che gli era stato tolto fosse la capacità di provare emozioni, perché per quei pochi giorni in cui avevano girato la città, cercando informazioni, non aveva provato nessuna urgenza di trovare la Bestia, nessuna paura per lo scontro che lo attendeva con essa, nessun dolore per la morte di Maya… nulla lo animava, nulla lo scuoteva, e per un qualche motivo Aykir si illuse che quella fosse pace.
Era un momento morto: nessuno dei tre aveva la minima voglia di parlare, e al ragazzo dopotutto stava bene così; si alzò dalla branda scomoda – nulla a che vedere con il letto enorme e comodo in cui era cresciuto – presente nella sua stanza e guardò fuori dall’unica finestra: era piccola e la luce che vi penetrava era forte… doveva essere pieno giorno, forse metà mattina. Da lì si intravedeva una parte dei giardini del castello; erano al piano terra, dove erano concentrate le stanze d’attesa per gli ospiti del Conte, e l’arredo era poco più che essenziale. Un tappeto enorme, ma ruvido sotto i piedi nudi del giovane, copriva il pavimento di pietra; al contrario dei corridoi e delle stanze più importanti, non c’era alcun mosaico ad intrecciarsi per terra in arabeschi o scene di caccia o battaglie campali: Aykir ne aveva visto solo uno nel salone che avevano attraversato quando il Capitano delle Guardie li aveva condotti in quelle stanzette, e ne era rimasto particolarmente stupito: sembrava molto simile a quelli che decoravano la Villa di Perses in continui motivi floreali e vegetali, i pavimenti sui quali era cresciuto.
Con un sospiro si sedette sul davanzale e si passò le dita fra i capelli: senza la cura regolare che ricevevano alla Villa, nello Stato di Saragà, si erano annodati tutti. Avrebbe desiderato una spazzola, ma i loro bagagli erano stati sequestrati all’entrata del castello, così come i cavalli e le armi; e non era neppure certo di esserti portato una qualche sorta di pettine, a dir la verità.
Lasciò vagare lo sguardo sulla stanza: Brianne era sul letto e notò che le mani della Sayn tremavano; le stava dando una goccia di sangue al giorno, da quando erano andati via, ma non sembrava più bastare per attenuare il tremore. E lei non poteva neanche procurarsi il sangue da sola: doveva essere dato spontaneamente, non bastava neanche il permesso perché lei potesse prenderselo… Aykir trovava quella dipendenza improvvisa sia affascinante che pericolosa: cosa avrebbe potuto fare Brianne, se solo lui le avesse promesso una goccia di sangue in più al giorno?
Aykir staccò gli occhi da lei, a disagio, quando la Sayn sollevò lo sguardo: gli occhi erano verde brillante e lo guardavano accusatori, già stanchi di quel Sigillo impostole.
«Quanto ancora hai intenzione di tenermi schiava?» chiese, con voce sottile come per commuoverlo: era in grado di modificarla a piacimento, e quella cosa gli dava un sottile disagio perché ad Alya aveva deciso di assumere la forma di Maya, la figlia defunta grazie a lui.
«Quanto lo riterrò necessario» borbottò, senza neanche irritarsi più di tanto.
«Mi dai sempre la stessa risposta… non è quella che voglio sentire, però».
«Allora smettila di chiederlo» il ragazzo sbottò e Sibath lo guardò con gli occhi viola affilati come spade. Il folletto era accovacciato su una sedia e fino a poco prima guardava nel vuoto davanti a sé, con i capelli che mandavano riflessi multicolore sulle pareti di nuda pietra della stanza; ora invece sembrava osservare Aykir, e con tono più dolce di quanto volesse gli disse:
«So che è difficile, in questo momento, ma cerca di non essere troppo brusco con lei…».
Si attirò un’occhiata vacua da parte del Menide, che si strinse nelle spalle.
«Perché le ho ammazzato la figlia o perché l’ho resa mia schiava?» chiese, senza troppi preamboli. Sibath irrigidì la schiena, interdetto e sull’allerta, ma Brianne non diede segno di aver sentito, rannicchiandosi semplicemente sul letto della camera, stringendosi al petto le mani che tremavano.
«Magari per entrambe le cose? È inutile che fai il ragazzino o la vittima, qui siamo nel Regno di Mame: i bambini a sette anni iniziano a lavorare, sono considerati praticamente piccoli adulti» gli sibilò irritato, e Aykir lo guardò infastidito.
«Con questo cosa vorresti dire?».
«Di smetterla di crogiolarti nei tuoi continui stupidi errori e di essere meno spocchioso, perché quella lì è un essere vivente come te e me, e soffre grazie ai tuoi sbagli» ringhiò il Fajh, saltando in piedi sulla sedia per essere alla sua stessa altezza, e Aykir voltò il viso per non guardarlo, tornando a vagare con gli occhi sul giardino.
Non sapeva cosa avrebbe fatto senza Sibath, in quei giorni: ogni volta che usciva dal sentiero, lui era lì a prenderlo per le orecchie e portarlo sulla retta via; non sapeva tuttavia quanto ciò gli costasse, e stava facendosi strada in lui la sensazione di essere di peso, un errore, un fallimento… Lui, che era stato destinato ed addestrato a grandi imprese, alla rettitudine sia delle proprie azioni che morale, aveva ucciso un’innocente… non poteva essere vero.
Un’illuminazione sorse in Aykir: quello, in realtà, era tutto un sogno.
“Ma sì, ma sì! Mi pareva troppo semplice, che trovassimo un Portale così vicino a Niukor Buru… Dev’essere tutto un sogno, nulla di vero!”.
Che complicato giro di eventi stava fabbricando il suo cervello… l’uccisione di Maya, il Portale che gli strappava le emozioni, la liberazione delle schiave, il Sigillo di Brianne… sì, tutto un sogno.
Per la prima volta dopo giorni, sorrise allegro: se era tutto un sogno, tanto valeva goderselo.
«Allora» si alzò, e arrivò a pensare che forse il Portale non gli aveva tolto le emozioni, perché in quel momento provava un intenso sollievo. «Cosa chiediamo al Conte?».
Sibath alzò la testa: era tornato a rimuginare, unica cosa che faceva in quei due giorni passati al castello, ma ora osservò Aykir con curiosità.
«Perché quest’improvvisa voglia di vivere?» gli chiese sarcastico, e Aykir inarcò un sopracciglio.
«Non abbiamo concluso nulla, sarebbe bello chiedere al Conte qualcosa di utile».
«Direi di restare qui e vedere che aria tira» suggerì Brianne dalla branda, e Aykir a stento la considerò.
«I draghi sono una buona idea, ma non saprei neanche da dove cominciare a cercare» protestò, e Sibath si strinse nelle spalle.
«Potremmo iniziare da Celinor, o da più su… non so» Sibath si passò una mano sul viso, poi scosse il capo. «A dir la verità quella creatura di cui ti parlai il giorno della fuga era dalle parti di Burdul, sì».
Aykir lo guardò vacuo, tentando di far venire alla memoria ciò che mancava: i ricordi gli sembravano nascosti da una superficie acquea che li confondeva in riverberi strani, come se i giorni si sovrapponessero… sì, doveva essere un sogno. Poi rammentò: Sibath gli aveva parlato, solamente dieci giorni prima – sembravano passati anni da quel momento –, di una specie di drago peloso che appariva, distruggeva villaggi, uccideva, e scompariva senza lasciar traccia, per poi riapparire in un altro luogo e ripetere il tutto. Quella realizzazione lo portò alla conclusione che forse non si trattava di un sogno, ma scacciò quel pensiero con disperazione: lui aveva bisogno che fosse un sogno, altrimenti sarebbe impazzito.
«…sì» disse, per far intendere che aveva ricordato le sue parole. «Quindi partiremo da lì, no? Mi pare ovvio» continuò, cercando un minimo di approvazione negli occhi viola dell’amico, che però restò a fissarlo come per studiarlo. Passò quasi un minuto da quando Aykir aveva parlato, e Sibath si limitava a guardarlo; lo sguardo del ragazzo si era fatto più ansioso ed urgente, e stava per sbottare di smetterla quando Sibath disse secco:
«Non credo tu sia in grado di fare nulla, al momento. Chiederemo semplicemente ospitalità, poi si vedrà», lasciando Aykir sbalordito.
«Prima mi dici di reagire e fare qualcosa, e poi che staremo fermi qui! Non ha senso!» strepitò, e il folletto si strinse nelle spalle.
«Preferisco vederti pazzo ma al sicuro piuttosto che pazzo ma lì fuori a combattere una Bestia dieci volte più forte di te» inarcò le sopracciglia, e Aykir strinse i pugni, puntandogli un dito contro.
«Non sono pazzo, voglio semplicemente approfittare di ques-».
«Di cosa? Di questa scarica di forza che senti? È bella, vero?» ringhiò il Fajh, alzandosi di nuovo sulla sedia per essere alla sua altezza. «Ma ascoltami: è morta una persona per questa scarica, è morta una figlia, è morta e l’hai ammazzata tu. È stato stupido da parte tua seguire un istinto tanto brutale, avresti dovuto consultarmi e non crederti chissà chi, un eroe che può fare qualsiasi cosa gli aggra-».
«Non sono un eroe!» gridò Aykir, catapultandosi giù dal davanzale e rimanendo in piedi nel mezzo della stanzetta, con un dito puntato ancora contro il folletto. «Non dire più quella parola di fronte a me» ringhiò, con le tempie che gli pulsavano terribilmente per l’urlo che aveva dato.
Sibath restò immobile per qualche istante, stupito, poi sorrise cattivo e incrociò le braccia.
«Lieto che tu lo abbia capito da solo, mio Principe. Iniziavo a dubitare della tua intelligenza» sputò velenoso, e Aykir ringhiò come un cane rabbioso, sentendo le lacrime salirgli agli occhi.
«Perché dovrei combattere?» chiese poi, mentre una lacrima gli rotolava sulla guancia. «Dimmelo tu. Perché? Per questo mondo? È bello, da quanto vedo, ma non così tanto da rischiare la mia vita».
Sibath restò in silenzio, poi scosse piano il capo, scendendo dalla sedia e sfiorandogli una mano serrata.
«Il mondo non vale nessuna vita presa senza motivo» disse cautamente. «Il mondo vale una vita data in dono per una giusta causa» mormorò guardandolo negli occhi, ma Aykir evitò il suo sguardo, voltandosi da un’altra parte.
«E se io non volessi donare la mia?».
Sibath restò in silenzio.
«Penso che gli déi capirebbero».
«Farei uno sfregio agli déi, e loro mi capirebbero? Non mi punirebbero? Mi hanno mandato qui espressamente per sacrificarmi, un soldato, carne da macello, perché il mondo possa vivere in pace» sussurrò il ragazzo, iniziando a camminare per la stanza e passandosi le mani fra i capelli, sospirando. «Non è che io abbia molta scelta».
Sibath contrasse le labbra in un mezzo sorriso.
«Gli déi capirebbero, Aykir. Ne sono sicuro. Non sono maligni».
«Se capissero, manderebbero qualcun altro, e quel qualcun altro avrebbe il mio stesso dilemma: “se gli déi mi hanno mandato qui a morire per il bene del mondo, io che possibilità ho di scegliere diversamente?”».
«Nessuna» rispose Sibath, nonostante fosse una domanda retorica. Aykir annuì, con le mani sugli occhi, e se le passò sul viso per cacciare indietro le lacrime.
«Devo farlo, no? Così nessuno soffrirebbe più» borbottò, poi sorrise al Fajh: se davvero era tutto un sogno, una volta morto si sarebbe svegliato e non avrebbe più fatto gli stessi errori.
«Non devi farlo, non sei… costretto» Sibath esitò su quella parola, e Aykir se ne accorse.
«Ah no?» chiese, ironico. «Strano, mi hanno cresciuto con questo esatto scopo e tutta la mia vita è stata votata a questo unico fine… Potrò non conoscere il mondo, sai, ma quello che so è che non sono uscito da quella Villa per diciassette anni, perché mi addestrassero e mi preparassero a dovere a combattere contro una Bestia che non so come sia fatta, e che mi tormenta in sogno sin da quando ero un bambino… Questo so, io. E da quello che so, sì, sono costretto» sorrise appena, senza amarezza ma un po’ distaccato, come se la cosa non lo riguardasse.
Sibath rimase in silenzio per qualche istante, poi scosse il capo.
«Sei turbato per quello che è successo nel Regno Sayn. Non me la sento di lasciarti affrontare ora una missione possibilmente mortale, anche perché dobbiamo ambientarci e studiare il territorio con calma. Chiederemo ospitalità e nel frattempo troverò informazioni qui ad Alya su quella creatura» propose, e Aykir si strinse nelle spalle, sentendo ritornare l’apatia che lo aveva protetto da quelle lacrime che ora sentiva chiudergli la gola.
«E sia» concluse lui, tornando al davanzale e fissando i cespugli fuori venir potati con diligenza dai giardinieri di palazzo.
 
❦❦❦
 
mezzodì dell’11 Gjorna 684 d.C.
Dovettero trascorrere ancora delle ore in assoluto silenzio, interrotte solo dallo scoccare dell’orologio di palazzo che rimbombava nei muri di pesante pietra bianca, prima che qualcuno si facesse vedere; il Capitano delle Guardie che li aveva condotti lì bussò infatti alla loro porta e, con un sorrisetto cortese, si scusò:
«Mi dispiace, ma il Conte non può ricevervi al momento… essendo molto impegnato, ha delegato alla Contessina il disbrigo del vostro caso. Vogliate seguirmi» li invitò, facendosi da parte e attendendo che i tre uscissero dalla stanza perché potessero seguirlo. Aykir gettò uno sguardo confuso all’amico, che però si limitò ad aggiustarsi i vestiti – ancora pieni di polvere per il viaggio – e ad uscire; Brianne si alzò dalla branda e si passò una mano fra i capelli verde foresta, varcando la porta, ma il Capitano la fermò con una mano, stringendo gli occhi.
«Non credo di averti mai visto… come hai fatto ad entra-» iniziò a dirle, sospettoso, e stava per estrarre l’arma quando Aykir lo fermò:
«Lei può… cambiare aspetto» gli spiegò, ma era difficile poter dire di più, così il Capitano delle Guardie attese invano che il ragazzo specificasse cosa voleva dire.
«…“cambiare aspetto”?» indagò allora, e la Sayn gli scostò la mano con malagrazia.
«Sì, tutte le volte che mi aggrada» chiarì con uno sguardo secco, uscendo seguita da Aykir, che si strinse nelle spalle ad uno sguardo incuriosito del Capitano.
«Possiamo conoscere il vostro nome?» chiese Sibath, incrociando le braccia. Il Capitano lo guardò divertito dall’alto in basso, poi si schiarì la voce e fece un cenno affermativo, iniziando a guidarli.
«Sono il Capitano delle Guardie di Corte e di Città, e il mio nome è Zahel, figlio di Ramiel» si presentò, svoltando in un corridoio cosparso di riverberi colorati che filtravano dalle altissime vetrate grazie al sole ormai pomeridiano. Aykir rallentò a quella vista, meravigliato, mentre Brianne sorrise ai riflessi rossi, azzurri e verdi che danzavano sulla sua pelle perlacea; Zahel si voltò a guardare i tre, di cui solo Sibath sembrava serio e concentrato, e scosse piano il capo: Aykir stava per chiedergli perché, ma l’imponente scalinata che aveva già visto entrando a palazzo si palesò nuovamente davanti ai suoi occhi: il marmo bianco e lucido rifletteva alla perfezione la vetrata, spezzettandola in frammenti colorati scalino per scalino, creando un gioco di luci e colori incredibile. Brianne sospirò, come se fosse rinfrancata dopo un lungo viaggio, e Aykir rammentò che i Sayn si nutrivano di bellezza, non importava che fosse così lontana da casa: la luce colorata e quell’ampia scalinata bastavano a saziarle gli occhi.
Salirono le scale in silenzio, e il ragazzo si guardò indietro con una certa ammirazione, completamente dimentico della domanda che voleva porre, sopraffatto dalla bellezza di quel palazzo bianco dalle vetrate enormi; dalla cima della scala, l’ingresso del castello sembrava pervaso di un’aura mistica, e loro l’avevano appena abbandonata… sembrava fare persino più freddo. C’erano altre scale che conducevano al piano superiore, ma loro non le percorsero; e in ogni caso avevano un aspetto meno magico ed accogliente di quelle che avevano appena passato.
Il Capitano Zahel li guidò invece nel corridoio principale del primo piano, e subito dopo a sinistra, in una stanza fresca; era riccamente arredata con divani e morbidi cuscini agli angoli, con tende sospese per creare un’atmosfera di grande rilassatezza; il caminetto spento sembrava una bocca buia spalancata ad inghiottire qualcosa, e la donna in piedi vicino ad esso sembrava lì lì per dargli qualcosa per sfamarlo.
Invece, si voltò.
Aveva labbra sottili che disegnavano un sorriso, ed occhi splendenti d’azzurro, come se fosse felicissima e non in grado di contenere tutta la gioia; il suo naso era dritto e adatto al suo viso snello. Quando si mosse fu con estrema grazia, e tutto di lei parlava di lusso e soddisfazione, tanto che Aykir ne fu abbagliato. Sibath invece pareva all’erta, ma il ragazzo non vi fece caso e solo dopo qualche minuto d’incantamento si ricordò di fare un inchino.
«Mia signora, sono felice di incontrarla» le disse, in lingua comune e usando un tono il più formale possibile. Sibath si inchinò rigidamente appena dopo di lui, assorto e con gli occhi stretti; Brianne invece si limitò ad un breve inchino, rialzandosi subito e guardando la donna con interesse.
«È un onore per me incontrarvi. Dovete essere affamati» disse, sorridendo dolcemente, e batté le mani; probabilmente era un segnale, perché al rumore, da dietro gli arazzi che coprivano le pareti della stanza, spuntarono una dozzina di servi che portavano carrellini colmi di ogni tipo di cibo e bevande. Aykir guardò impressionato quel nugolo di servi sparire così come era apparso, lasciandosi dietro solo il cibo, e la donna si sedette su una poltrona rossa che quasi esalò un sospiro nell’accoglierla. Il ragazzo restò in piedi, a disagio, senza sapere cosa fare, e la donna sorrise.
«Sfamatevi: siete miei ospiti, dopotutto» disse, prendendo in mano un piccolo grappoletto d’uva e mettendosene un acino in bocca. «Vorrei poter dire che siete ospiti di mio padre, ma è stato molto scortese da parte sua non accogliervi di persona, dunque mi attribuirò l’ospitalità» ammiccò, e Aykir spostò il peso da un piede all’altro.
«Ve ne siamo immensamente grati» sorrise a fatica, e Sibath si schiarì la voce. «Volevamo…».
«Ma accomodatevi, suvvia, non siate sciocchi» li incitò la donna, che ormai era chiaro fosse la Contessina di cui Zahel aveva parlato. Aykir diede un’occhiata dietro di sé, nervoso: il Capitano delle Guardie era ancora lì, immobile, sulla porta aperta, come fosse di guardia. Lentamente, Sibath prese posto di fronte la Contessina, Aykir sul divano in mezzo, proprio di fronte il focolare spento, e Brianne restò invece in piedi fra la poltrona e il divano, osservando la stanza con interesse, come se la conversazione non la riguardasse minimamente.
«Allora… Chi è Aykir fra voi?» sorrise ad un certo punto la loro ospite, versandosi una coppa di vino. Il ragazzo alzò il capo e la guardò, rispondendo timidamente:
«Io sono Aykir Ayrywae», intimorito dal potere che emanava la donna.
«Io sono la Contessina Willow Thearor, della Contea dei Laghi del Regno di Mame» si presentò, perché le era chiaro che i tre non avessero idea di chi avessero di fronte. «Zahel mi aveva accennato del tuo nome, mentre gli altri mi sono ancora ignoti» precisò, prendendo un sorso di vino e indagando con gli occhi Sibath e Brianne.
«Il mio nome è Sibath» si presentò il Fajh, storcendo le labbra: la donna aveva un odore familiare, ma non sapeva dire cosa gli ricordasse.
«Alcuni mi chiamano Brianne» disse invece la Sayn, e Willow le sorrise affettata.
«E qual è il tuo nome, invece?».
«Non ne ho uno» disse semplicemente, e la Contessina parve poco soddisfatta della risposta, ma parve farsela bastare perché si rivolse nuovamente ad Aykir.
«So che non siete entrati dalle porte della nostra città» iniziò, percorrendo con un dito l’orlo del bicchiere. «Dunque mi sono chiesta inizialmente se fosse il caso di incontrarvi invece di farvi portare direttamente in cella».
Aykir si agitò sul divano, ma non disse nulla. La tensione era percepibile nell’aria come un qualcosa di solido, ma Willow sorrise, sciogliendola almeno in parte.
«Poi Zahel mi ha detto il tuo nome, e io mi sono riempita di gioia: so per certo che non portate alcuna malattia, poiché non venite dal sud del Regno di Mame, dico bene?» si sporse in avanti, con la curiosità che ardeva nei suoi occhi chiari. «Come siete entrati in città, dunque?» chiese infine, già pregustando una risposta di tipo magico.
Ma Aykir sorrise appena, come per scusarsi, e nonostante non se la sentisse di dire la bugia che si erano studiati lui e Sibath, iniziò:
«Sibath è un Fajh. Questo vuol dire che può-».
«Posso compiere incantesimi molto potenti, quando voglio» lo interruppe il folletto, infastidito dal parlare a suo nome. Willow spostò la sua attenzione su di lui, e il Fajh fece un sorriso forzato, costringendosi a sembrare educato. 
«Così potenti da spostarvi dallo Stato di Saragà al Regno di Mame in brevissimo tempo?» chiese Willow, stupefatta ma evidentemente poco convinta. Aykir si leccò le labbra, mentre Sibath stringeva gli occhi.
«Come fa a sapere da dove veniamo? Non lo abbiamo detto al Capitano delle Guardie» chiese il folletto, e Willow assunse l’espressione di chi viene colto sul fatto.
«Ah! Mi avete scoperta, immagino!» esclamò, tornando a sorridere. Poi si voltò verso Aykir, lo guardò con dolcezza e tornò a guardare Sibath, agitando dolcemente il vino rimasto nella coppa: «Vi siete mai chiesti a chi appartenesse la Villa di Perses?» e al sentirla nominare qualcosa si rimestò nell’animo di Aykir, che si irrigidì, fissando la loro nuova ospite. «Chi l’avesse fatta edificare, chi comprasse gli schiavi, chi rifornisse le dispense?» la donna prese un altro sorso di vino, e Aykir diede uno sguardo a Sibath, che la fissava con la bocca leggermente dischiusa: neanche lui riusciva a credere alle sue orecchie.
«Ci sta dicendo che…?» il Fajh non finì la frase, e Aykir neanche riuscì a capire con cosa volesse completarla: Willow sorrise ed annuì piano.
«Sono la tua protettrice, Aykir. Sono colei che ti ha permesso di vivere al sicuro per tutti questi anni. Perché credo profondamente nella tua missione, nel tuo ruolo in questo mondo corrotto» la sua voce si era ridotta ad un mormorio sommesso, come se fosse così timorata degli déi da parlarne piano.
Aykir aprì la bocca, poi la richiuse, la riaprì: non sapeva cosa dire, e non sapeva come reagire. Aveva solo una gran confusione in testa, che gli ronzava come uno sciame di calabroni, ottundendogli i sensi e facendolo schiavo di un profondo caos interiore.
«Non c’è bisogno che tu dica nulla» si affrettò a dire la Contessina, vedendolo in difficoltà; Sibath recuperò l’uso della parola e sibilò poco convinto.
«Perché mai ci sta dicendo queste cose?».
«La Villa di Perses è dimora della mia famiglia solo da qualche decennio; da quando mio padre è invecchiato non è più fatto per i viaggi, e io mi occupo dei nostri affari nello Stato di Saragà. Non credo tu ti ricordi di me, poiché quando facevo visita alla Villa tu eri impegnato» Willow si versò altro vino nella coppa e lo sorseggiò con calma, rimestandolo poi con lenti ed ipnotici gesti del polso, ammiccando in direzione di Aykir.
«Perché?» chiese semplicemente il ragazzo, e la donna parve confusa dalla domanda.
«“Perché”?» gli fece eco senza capire, e lui poggiò i gomiti sulle ginocchia, passandosi le mani sul viso.
«Perché proteggermi? Sai… sai tutta la mia storia?».
La Contessina restò interdetta, poi rise: fu un suono argentino, come il tintinnare di una campanella, e Aykir ne restò incantato per qualche istante.
«Ragazzo mio, io avevo diciotto anni quando tu eri solo un neonato! Ero lì quando successe tutto il fattaccio!» rise ancora, portandosi la mano libera sulle labbra per coprirne il sorriso.
Aykir sgranò gli occhi.
«Lei… non sembra… cioè…» si corresse in tempo, e la osservò bene: non una ruga increspava il suo viso, al contrario dell’unica donna adulta che avesse mai conosciuto, la sua nutrice; si chiese se fosse dovuto al fatto che la Contessina era una donna nobile, e non una schiava, poi si rimproverò per quel pensiero a primo impatto stupido. La donna parve intuire però cosa pensava, perché fece un mezzo sorriso che quasi sembrò stridere con l’atteggiamento assunto fino a quel momento, dolce e premuroso: posò la coppa di vino e si chinò in avanti, esponendo le clavicole pallide; Aykir deglutì e la guardò fisso negli occhi, cercando di sostenere il suo sguardo.
«Una donna di potere non può permettersi il lusso di invecchiare, mio giovane protetto, tanto meno quando ha tanti pretendenti e nessuno le va a genio» ammiccò, poi si alzò con un unico movimento aggraziato, sorridendo loro. Sibath la guardò con sospetto, mentre Aykir si alzò seguendo il suo movimento istintivamente. «Siete ovviamente i benvenuti nel nostro palazzo… Il mio fidato Capitano delle Guardie vi condurrà a delle stanze più consone a degli ospiti della vostra levatura, e-».
«Perché vi affidate al Capitano per questi compiti più adatti ad un servo?» chiese Brianne con tono leggero, e Aykir ebbe un sussulto: si era pressoché dimenticato della presenza della Sayn. Willow si accigliò e le sorrise forzata, con gli occhi puntati su di lei come spilli.
«Perché mi fido di lui, e non di un servo qualunque. So che non tradirebbe mai la fiducia della sua signorina, e che vi tratterà convenientemente».
Brianne restò in silenzio, ma Aykir percepì nell’aria una certa elettricità, così prese quello che sembrava un pasticcino da un vassoio, mostrandolo a Willow e sorridendo a disagio.
«Prendo questo, prima di andare… mi fa gola da prima» mentì, cercando di sdrammatizzare, e Willow tornò infatti a sorridergli in modo dolce.
«Puoi prendere tutto ciò che ti aggrada, mio giovane Aykir… e sappi che puoi chiedere un consulto con me quando mai ne dovessi sentire il bisogno o il piacere» la Contessina sorrise, chinando appena il capo, e Aykir annuì, con la bocca secca.
«Potrebbe… mi scusi se mi permetto di chiedere» si affrettò a giustificarsi, ma la donna era ora molto attenta.
«Qualunque cosa, per te» gli promise, e il ragazzo si passò la mano libera fra i capelli, deglutendo a fatica.
«Potrebbe fornirci dei draghi da trasporto? Ho… dei territori da esplorare, e una missione da compiere».
Il sorriso di Willow si allargò, e Sibath fremette inquieto.
«Certamente! Anzi, sentiti libero di chiedere informazioni al mio Capo delle Spie, saprà sicuramente aiutarti a localizzare ciò che cerchi» gli promise, dopodiché fece un cenno a Zahel, che si era palesato silenzioso come un’ombra proprio dietro di loro. «Zahel, accompagna i nostri ospiti alle stanze al piano di sopra. Assicurati che gli schiavi siano disponibili per qualunque loro necessità».
Il Capo delle Guardie fece un breve, rigido inchino, dopodiché si voltò e neanche attese di essere seguito: Aykir e Sibath eseguirono una breve riverenza, mentre Brianne chinò appena il capo per non risultare maleducata, e subito seguirono il Capitano, che li condusse nei meandri del palazzo.
 

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Capitolo 5
*** Sue- Il patto ***


IV
Sue
Il patto
 
11 Gjorna 684 d.C.
I
 cervelli dei due ragazzi lavoravano furiosamente nel tentativo di capire cosa stava accadendo: una lenta processione di gente triste – addirittura una ragazzina bionda piangeva, mentre una donna che sembrava sua madre le dava leggeri colpetti sulle cosce dal basso della sua sedia a rotelle – stava entrando nell’albero, salendo i pochi gradini costituiti da radiche ed entrando dalla porta di vetro spalancata; un uomo aiutò la sedia a rotelle a salire la bassa scalinata, dopodiché si voltò a guardare i due ragazzi. Prima di seguire la gente nel tronco, Sue vide lo sguardo preoccupato di Inder e gli occhietti curiosi e verdi dell’animaletto strano, che si era sistemato sul collo del cavallo. Con una punta di pessimismo imperante, Sue si chiese se li avrebbe mai rivisti, poiché aveva l’impressione che molti dei presenti stessero guardando male lei e Yukab.
Inizialmente l’interno dell’albero fu buio, in confronto alla prateria azzurra ed assolata che avevano lasciato; poi i loro occhi si abituarono a quel tipo di luce e distinsero un piccolo ingresso disadorno che conduceva più avanti in una stanza che sembrava quasi un enorme salotto intagliato nel legno: c’erano due camini spenti, uno a destra e l’altro di fronte; attorno ad essi erano sistemati poltrone e divani, mentre in mezzo alla stanza c’era un’ampia scala a chiocciola che conduceva ad un piano di sopra. Sulle pareti c’erano quadri di ogni genere, ma in nessuno comparivano persone… Sue lo trovò strano, ma trovava più strani gli occupanti dell’albero: la Sala Rotonda era infatti affollata di gente che guardava i due nuovi arrivati come fossero fastidiose mosche; negli occhi di un paio di ragazzi – forse persino più giovani di loro – Sue poté quasi vedere ribollire della rabbia. Said si schiarì tuttavia la voce per attirare ulteriormente la loro attenzione.
«Elizabeth Arýa Nual Morgana Dhì è di nuovo con noi» annunciò, e la reazione non fu positiva come forse si era aspettato.
«Sì, ma a che prezzo?» storse le labbra un ragazzo, indicando Yukab. «E quello chi è?».
Sue spostò il peso da un piede all’altro ed abbassò le orecchie, a disagio, senza osare rispondere: non aveva ancora ben capito le dinamiche del tutto, e guardò invece Said, accigliata.
«Sì, anche voi avrete le vostre spiegazioni» il vecchio sembrava infastidito dalla risposta di quel membro della Resistenza, e Yukab incrociò le braccia al petto.
«Cos’è che dovremmo fare nel frattempo? Stare qui a sorbirci le occhiatacce altrui?» chiese l’assassino, e Said fece una smorfia; la porta d’ingresso fece un rumore cigolante quando fu richiusa, e nella Sala entrò un uomo alto più di due iarde, con un moncherino al posto del braccio sinistro. Un’aria grave lo circondava, come se fosse stato un Re, ma al tempo stesso aveva un viso familiare…
Inaspettatamente, prese gentilmente per mano Sue e l’attirò a sé in uno stretto abbraccio. La ragazza restò senza fiato dalla sorpresa, e interruppe la stretta subito, confusa.
«Ci conosciamo?» chiese esitante, e l’uomo sorrise tristemente.
«Hai conosciuto mia moglie e mio figlio, dolcezza… Marika ed Erik. Io sono Nidàl».
Sue lo guardò impressionata, poi si guardò intorno in cerca proprio del suo amico più caro, Erik, che però non sembrava essere presente.
«È arrivato qui, vero? Non c’è ora?» chiese delusa, e Nidàl scosse piano il capo.
«È voluto partire per certe commissioni per la Resistenza, circa una settimana fa» le spiegò, mettendole la mano sulla spalla, e Sue non si ritrasse, quasi confortata da quello sconosciuto.
«Tornerà però, vero?».
«Mi spiace interrompere, ma di chi state parlando?» Yukab si mise letteralmente in mezzo a loro, attirando l’attenzione dei due, e Sue gli fece un sorriso di scuse mentre la folla di persone si diradava: probabilmente tutti tornavano alle loro occupazioni, borbottando qualcosa riguardo lei, il funerale o altri loro affari.
«Il mio… migliore amico, Erik» Sue esitò su quelle parole, senza sapere se Erik si sarebbe più considerato tale dopo che lei era scappata dalla guerra, lasciandolo solo come un cane abbandonato per strada. Yukab storse le labbra a quell’esitazione e stava per ribattere qualcosa, quando Nidàl avvolse le spalle di Sue con il braccio e la guidò indietro nell’ingresso, da cui si snodava un altro corridoio; lei si voltò per guardare se Yukab la stesse seguendo, ma i muscoli definiti dell’uomo le bloccavano la visuale e si limitò dunque a seguirlo per il corridoio, verso l’ignoto.
Per la prima volta, Sue si guardò intorno tentando di ignorare gli sguardi fissi e curiosi degli uomini che la circondavano e iniziò a notare la singolare architettura di quella ‘casa-albero’. Il pavimento e le pareti erano interamente di legno, non piallato ma liscio al tatto come la corteccia di una betulla; tutti gli angoli erano smussati, come se qualsiasi cosa fosse di una rotondità accennata, del tutto naturale; i corridoi, le porte, le finestre, ogni apertura era a forma di arco o di semicerchio. Le porte delle stanze, socchiuse, erano in vetro colorato e decorato, come se le vetrate fossero state in realtà mosaici epici; l’interno delle stanze era vario: sorpassarono una stanza piena di scaffali e con un pentolone al centro, sospeso su un focolare di braci sistemato all’interno di un cerchio di pavimento di pietra, composto da quel tipo di pietre inglobate dal legno, come se l’albero vi fosse cresciuto attorno. La seconda porta fu la loro destinazione: Nidàl la spalancò, permettendo a tutti di entrare nella stanza e lasciando andare Sue.
Sue restò senza fiato.
Scaffali e librerie tappezzavano tutta la stanza, con tomi di ogni forma e dimensione sulle scansie; su di un morbido tappeto di un rassicurante rosso scuro era stato sistemato un tavolo al centro della sala, attorno al quale vi erano almeno una decina di sedie. In un angolo c’era una piccola scrivania con… un computer? La vista fu tanto scioccante per Sue che la ragazza sentì venirle un capogiro e tantissime domande affiorarono sulla sua lingua, senza che tuttavia anche solo una venisse espressa. Muta, si volse nuovamente verso Nidàl, per scoprire semplicemente che si era già seduto, e si scontrò invece con gli occhi nero pece di un altro uomo, che ribollivano di curiosità e calore: quest’ultimo aveva i capelli blu come i suoi, solo più scuri.
Intimidita da quello sguardo così intenso, distolse gli occhi dall’uomo e notò che si erano tutti seduti, ma lei si sentiva iperattiva e non in grado di fare lo stesso, quindi rimase in piedi e misurò a grandi passi lo spazio fra il tavolo e la porta un paio di volte, prima di fermarsi e studiare con sospetto i presenti nella stanza: Nidàl; il vecchio dai capelli grigi di nome Said; l’uomo che li aveva attaccati in giardino, con i penetranti occhi azzurri; un uomo dai lunghi capelli neri che in quel momento stava tirando fuori da una scatolina di legno un paio di occhiali piccoli e a mezzaluna. Sue stava per parlare quando dalla porta fecero capolino un altro paio di uomini: uno aveva i capelli grigi come Said, sebbene dai lineamenti sembrasse più giovane, e aveva dei penetranti occhi verdi che squadrarono Sue da capo a piedi; l’altro uomo aveva i capelli castani e sembrava di poco più anziano del suo compagno, e squadrò Sue con degli occhi di un colore a metà fra l’azzurro e il grigio.
La ragazza si accigliò, ma i due presero posto insieme ai propri compagni e si volsero verso di lei dopo aver scambiato poche significative occhiate con tutti tranne che con Yukab; il ragazzo incrociò le braccia e si poggiò alla parete, poco distante da lei, mentre fissava gli uomini accigliato. Alcuni posti al tavolo erano ancora vuoti, sei per l’esattezza: l’uomo dai capelli blu era rimasto in piedi, poco distante da lei.
«Possiamo iniziare la riunione, direi» annunciò con voce lieve, mettendosi le mani sui fianchi e guardando i presenti; poi guardò Sue, la osservò per un minutino, girandole anche attorno, al punto che Yukab inarcò un sopracciglio.
«Siete venuti solo voi due? Non c’era nessun altro con voi?» chiese in fretta l’uomo, e Sue scosse il capo.
«Noi, e i nostri due cavalli» specificò, e l’uomo parve scurirsi in viso.
«Ah, certo» borbottò come se tutto avesse assunto un senso a lei invisibile, e prese posto lasciando i cinque posti liberi.
Sue aveva la testa che le ronzava di domande, al punto tale che ora che ne aveva l’occasione non sapeva quale porre: era arrivata, aveva trovato la Resistenza, cos’altro le si prospettava davanti?
«Devo trovare la mia famiglia» disse, forse un po’ meccanicamente per rispondere alla domanda che le era balzata in mente, ed ottenne un effetto poco rassicurante: il brusio fra i presenti si interruppe e la fissarono tutti.
«Forse non sai che-» iniziò un uomo che portava gli occhiali, con le mani sporte davanti a sé a toccarsi i polpastrelli l’una con l’altra. Sue non lo lasciò finire.
«Sono molte le cose che non so. Non so neanche come sono arrivata qui, e chi dovrei ringraziare per questo».
Un fremito di disagio percorse i presenti, che si guardarono. L’unica donna presente, bionda, fece un sorriso esitante.
«Cara, vorremmo davvero che tu sapessi che-».
«È a causa del tuo arrivo, anzi, dell’arrivo del tuo amico e dei vostri cavalli, che quattro dei nostri maghi sono morti. Ora siamo più deboli grazie a te; ci devi forse ringraziare? O ti aspetti che siamo noi a ringraziarti per questo?» chiese l’uomo che li aveva fermati sul filo della lama fuori dall’albero-casa. I suoi occhi risplendevano abbacinanti e Sue distolse lo sguardo, imbarazzata; ma ancora non capiva.
«Come abbiamo provocato la loro morte, se posso chiederlo?» si morse le labbra, con le orecchie basse, e si sentì a disagio a stare lì in piedi mentre erano tutti seduti. Vide Yukab, ora accanto a lei, che incrociava le braccia e si accigliava, come se si stesse chiedendo la stessa identica cosa.
I presenti rimasero in silenzio, ma fissavano – chi più chi meno – l’uomo dai capelli blu, che sospirò e si massaggiò le tempie, come se non fosse affatto grato che il compito fosse affidato a lui.
«Io sono l’unico mago sopravvissuto, Eliz-».
«Il mio nome è Sue» lo interruppe lei, come avrebbe già dovuto fare. L’uomo la guardò con le labbra strette, poi ricominciò.
«Io sono l’unico mago sopravvissuto, Sue. Mi chiamo Nimar. La Resistenza ha accolto Erik meno di due anni fa, e ci ha raccontato di te. Ci sono voluti mesi per mettere a punto un incantesimo che potesse condurti da noi senza metterti in pericolo, ma alla fine ce l’abbiamo fatta. Faren, pace all’anima sua, disse che se qualcosa fosse andato storto ci sarebbero state conseguenze disastrose… avrebbero potuto scoprirci, l’incantesimo avrebbe potuto ucciderti, ma non avremmo mai immaginato… credevamo fosse abbastanza sicuro da…» Nimar si interruppe, e si passò una mano sul viso; sembrava provato: aveva occhiaie viola sotto gli occhi, e questi ultimi erano incavati. «In ogni caso, con il senno di poi, l’incantesimo conteneva un passaggio poco chiaro, e credo sia per quello che con te sono stati trasportati anche i cavalli e il tuo… amico» esitò su quella parola, e Yukab si accigliò se possibile di più.
La donna del gruppo si passò una mano sul viso, e prese la parola.
«In ogni caso non fraintenderci, siamo contenti che tu sia qui» cercò di rassicurarla, ma un brusio interruppe le sue parole e lei fu costretta a specificare: «Solo che non credevamo dovessimo sacrificare tanto per riaverti fra noi, ecco tutto» fece un sorriso di scuse e, forse reputando che il suo compito fosse fatto, guidò la propria sedia a rotelle fino alla porta della biblioteca, che le fu aperta in fretta da Nimar, alzatosi per lei.
«Mandatemeli appena avete finito» si assicurò di chiedergli, lanciando un’occhiata alla camicia insanguinata e stracciata di Yukab. La porta si richiuse dietro di lei e Nimar riprese posto al tavolo, a cui ora c’erano sei posti vuoti come prima.
Sue si batté una mano su una coscia, nervosa.
«Quindi… avete perso quattro maghi per riavermi indietro, tutto chiaro. Altre morti di cui sarò responsabile… ma» la dichiarazione aveva provocato un brusio e occhiate curiose da parte degli uomini, così continuò a voce un po’ più alta. «la vera domanda che voglio porvi è: perché? Perché volevate trovarmi così urgentemente, tanto da non aspettare che vi trovassi io? Vi stavo cercando. Stavo andando a Ther, avrei chiesto ai contatti che mi aveva dato Erik, avrei…» non sapeva cosa avrebbe fatto, in verità: i contatti che le aveva dato Erik erano soltanto due nomi: un luogo e una persona. Se quella persona fosse stata uccisa o rapita o imprigionata, oppure se il luogo fosse stato abbattuto o avesse cambiato gestione, o nome, lei non avrebbe mai trovato la Resistenza… anche se non per questo avrebbe smesso di cercare.
Qualcuno sembrò intuire quei pensieri, o forse era solo una sua impressione: gli uomini adesso sembravano a disagio, nessuno sembrava voler dire ciò che c’era da dire, e anche Sue iniziò ad innervosirsi.
«Mi avete trascinata qui, e vi devo anche ringraziare perché stavo per essere arrestata e probabilmente impiccata» rivelò, e vide Said sorridere: notò solo lui, poiché solo di lui e di Nimar conosceva i nomi, ma anche altri sorrisero come lui, per una qualche battuta che tutti a parte lei comprendevano.
«Piccina» iniziò Said, incrociando le braccia al petto e appoggiandosi allo schienale della sedia. «devi sapere che seguiamo notizie tue e di tuo fratello da quando eravate poppanti».
Al sentir nominare suo fratello, Sue si irrigidì e iniziò ad ascoltare con estrema attenzione, con le orecchie dritte.
«Abbiamo cercato di salvare entrambi dalle mani del Corpo di Allevamento del Regno di Mame, ma siamo riusciti a prendere solo te; da allora ti abbiamo affidato ad una madre umana, in un mondo chiamato Narda, e Marika ed Erik hanno fatto in modo da entrare nella tua vita solo in seguito, in modo che non sembrasse che eri tu la nostra bambina salvata… sai, temevamo che dei sicari seguissero Marika anche in Narda» si giustificò, vedendo l’espressione di Sue farsi confusa. Lei scosse il capo.
«Sì, ma non…».
«Non interrompere» la pregò Nimar, così Sue strinse le labbra, tacendo.
«Una volta che Marika fu tornata vicino a te, fece in modo da restarci: ci mandava rapporti ogni anno, e quando la situazione iniziò a farsi tesa anche in Narda per via delle guerre, noi fummo preoccupati al punto di mandare Nidàl a cercare te e la sua famiglia… purtroppo la guerra era già scoppiata, Marika era morta e non c’era traccia di te ed Erik» Said sospirò, sciogliendosi le braccia dal petto e facendo un cenno ad un altro uomo dai capelli grigi, che però aveva il viso di aspetto ben più giovane di Said e che si schiarì la voce, continuando a raccontare:
«Quando Nidàl tornò, eravamo tutti in pensiero per la vostra sorte. Vi cercammo per anni, finché uno dei nostri non trovò Erik, circa un anno e mezzo fa; fu portato qui, e gli fu offerta la possibilità di entrare a far parte della Resistenza. Ci comunicò che ti aveva detto come cercarci, per cui ti aspettammo… non c’era fretta, tanto» sorrise, e Sue incrociò le braccia.
«Infatti non mi spiego quella che avete avuto ora, invece».
«Ricordi cosa ti ho detto? Che abbiamo tenuto d’occhio anche tuo fratello?» si intromise Said, e Sue annuì.
«Bene… perché recentemente ci è giunta notizia dai nostri informatori che tuo fratello non è più nelle mani del Corpo di Allevamento».
Alla notizia Sue si fece ancor più interessata.
«Quindi cosa c’entro io? Cioè, è gentile richiamarmi per dirmelo, ma… ci dev’essere dell’altro, no?».
Di nuovo, nessuno dava l’impressione di voler parlare. Quando qualcuno lo fece, fu Nimar.
«Vedi… noi tutti siamo conosciuti, in tutti i Tredici Regni. Cercavamo qualcuno di poco noto, e quando è arrivato Erik abbiamo mandato lui… ma ha rischiato l’arresto recentemente, e tu-».
«Io sono ricercata» sbottò allora lei, amareggiata: i quattro maghi erano morti per niente.
«Per cosa, mia cara?» si informò il giovane dai capelli grigi senza scoraggiarsi, ed ammiccò. «Scusaci se abbiamo saltato le presentazioni… io sono Arak».
«Piacere, sono Sue, ricercata per furto, omicidio e diserzione» Sue rispose secca, e quasi provò una malsana punta di piacere quando vide Nimar impallidire e voltarsi a sussurrare con l’uomo che era al suo fianco, quello con gli occhiali.
«Capisco» disse Arak, e sorrise. «Ma non sei ricercata perché fai parte della Resistenza, dico bene? Non sei ricercata per Alto Tradimento» specificò lui, e lei restò interdetta: aveva davvero importanza per cosa si era ricercati?
«No, ma-» iniziò, con l’intenzione di chiedere spiegazioni, tuttavia fu interrotta:
«È questo che importa, non capisci?» Said sembrava spazientito. «Ogni contea gestisce il crimine a modo proprio: se hai commesso un omicidio nella contea di Ther, non sei ricercata anche a Celinor… ci siamo spiegati? L’unica cosa che ci può ostacolare è l’accusa di diserzione, che tuttavia non comporta una pena di morte se l’abbandono delle armi è avvenuto per cause di forza maggiore… ed è possibile dimostrare tali cause» ammiccò in sua direzione, e Sue storse le labbra.
«Spero» gli fece eco, e scosse il capo, prendendo a fare avanti e indietro nervosamente, con le orecchie basse, poi sembrò colpita da un pensiero. «Quindi, cercavate qualcuno che non fosse noto alle autorità per l’accusa di tradimento… per fare cosa, esattamente?» chiese, curiosa.
Nimar si schiarì la voce e la guardò per un istante negli occhi prima di parlare.
«Vogliamo che trovi tuo fratello e valuti se è in condizioni di essere recuperato».
Quelle parole le resero l’anima leggera come una farfalla, pur precipitandole come macigni sul cuore: doveva trovare suo fratello, sì, e loro forse sapevano dov’era. Le sembrava un sogno, tanto che di nascosto si diede un paio di pizzicotti ad una coscia: era tutto reale, per sua fortuna.
«Voi… sapete dove si trova» non era una domanda, eppure Nimar si affrettò a rispondere:
«No, non ancora. Supponiamo che sia ancora nello Stato di Saragà, dove è stato cresciuto, oppure nel Regno Sayn, ma non sappiamo dove con precisione… Sappiamo solo che non è più con il Corpo di Allevamento, e ignoriamo se sia stato quest’ultimo a liberarlo oppure-».
«…sia scappato» disse Sue in un soffio, e sentì lo stomaco fare una capriola: se era quell’ultima ipotesi, avrebbe trovato suo fratello abbastanza sano di mente perché la riconoscesse? Si diede della stupida: ovviamente erano troppo piccoli perché si ricordassero l’uno dell’altra, ma qualcosa in lei era certo che non appena l’avesse visto l’avrebbe riconosciuto all’istante.
Said annuì gravemente.
«Ci serve una persona ignota alle autorità per Alto Tradimento perché quella è una condanna generale: ti possono prendere anche nello Stato di Saragà, e giustiziarti lì come se fossi un Ribelle qualunque» le spiegò il vecchio, e Sue spalancò gli occhi; stava per dire qualcosa, ma Yukab intervenne:
«Sembra pericoloso. Andrà da sola?».
Nimar giunse le mani e scosse il capo.
«Non lo sappiamo ancora. C’è solo un’altra persona che non è ricercata per Alto Tradimento, ed è Nazir… ma non è esattamente la persona migliore per accompagnare qualcuno che non lo conosce, dunque vedremo» a quelle parole si scambiò un’occhiata con un uomo dall’aspetto quieto: era vestito in modo molto colorato, con il capo mezzo coperto da quello che sembrava uno scialle, e lunghi capelli così scuri da sembrare neri, divisi in ciocche che gli scendevano sul petto come serpenti.
«Perché non poteva andare Nazir a cercare mio fratello?» chiese Sue, inarcando le sopracciglia: tutta quella faccenda le puzzava di bruciato, ma non sapeva se dire di no avrebbe influito in qualche modo con i suoi futuri rapporti con la Resistenza.
«Perché vedi… Nazir è muto. Comunica in altri modi, ma uno sconosciuto non può…» si interruppe, esitante, e Sue inarcò un sopracciglio, in contemporanea con Yukab.
«Non può?» lo incitò a continuare il ragazzo, curioso.
«…capire» completò Said, ma sembrava che la scelta di parola non lo soddisfacesse. Sue restò in silenzio, riflettendo sulla richiesta della Resistenza: trovare suo fratello, perché non era ricercata in tutte le contee… si chiese scoraggiata se fino a quel momento avesse quindi viaggiato sempre nella stessa contea, e quindi quanto lontana fosse stata in realtà dalla capitale; Yukab però sembrava pensare a ben altro, perché incrociò le braccia al petto e chiese con un mezzo sorriso:
«E lei che ci guadagna?».
La Resistenza rimase immobile e in silenzio, come se la domanda fosse stata inaspettata, e Sue batté le palpebre, ritornando a se stessa: non aveva pensato ad una ricompensa, perché per lei trovare suo fratello era uno dei suoi più grandi desideri… insieme a suo padre, se fosse stato ancora vivo.
«Sì, infatti: che ci guadagno?» rinforzò il concetto, alzando le orecchie. Vide Nimar e Said scambiarsi un’occhiata, Nidàl e Arak fare lo stesso, e ciò cominciò ad innervosirla. «Suvvia, non avrete pensato che vi sarei stata così grata da aiutarvi senza battere ciglio: è una missione, è pericolosa, è in territori che non conosco e dovrei andarci da sola o con Nadir o come si chiama quello lì» indicò l’uomo muto dai capelli scuri, che strinse appena gli occhi, divertito. «Dovrò pur guadagnarci qualcosa oltre alla “gloria” di aver aiutato la Resistenza, gloria che oltretutto pare causi un po’ di guai quando si viene scoperti» articolò, inarcando le sopracciglia, e Nidàl sospirò, congiungendo le dita delle mani.
«Di quanto stiamo parlando?» chiese, fin troppo arrendevole. Sue alzò le orecchie, curiosa e stupita: non si era aspettata che cedessero senza ribattere che la gloria era abbastanza, o qualche cavolata del genere. E soprattutto: si era così tanto preparata ad una discussione che non aveva avuto il tempo di elaborare una risposta… quanto voleva? Si parlava di oro, dunque? Di miseri soldi?
«Non voglio il vostro oro!» fece, quasi indignata. Yukab alzò gli occhi al cielo, e la fissò male, ma lei gli fece un gesto di diniego in fretta. «Non voglio il vostro oro, ho una richiesta che potete sicuramente soddisfare in modo più… appropriato?» non era sicura che fosse l’espressione giusta, ma questo attirò l’attenzione di Nidàl, che ora aveva intrecciato le dita e, inclinato in avanti, aveva poggiato i gomiti sul tavolo.
«Vediamo se possiamo esaudirla, allora» affabile, le suggerì di continuare, e Sue abbassò le orecchie. Avrebbe davvero chiesto loro una cosa simile? Avrebbe significato mettere nelle loro mani tutto ciò che desiderava, e nient’altro: non ricchezza, non amore, non salute.
«Voglio che troviate mio padre» disse, con voce sicura, benché sicura non si sentisse affatto.
L’uomo dagli occhi gelidi che li aveva accolti al funerale con la spada si alzò ed uscì dalla biblioteca con malagrazia, sibilando quanto quella riunione fosse diventata patetica; ma sul viso degli altri membri della Resistenza Sue poté vedere un misto di emozioni che andavano dalla sorpresa al sollievo alla confusione. Nidàl riportò l’ordine alzando le mani, e tutti si acquietarono.
«Posso chiederti perché desideri ciò?» chiese poi Said, guardandola fisso con i suoi occhi gialli che la sondavano come un rapace.
Sue esitò, con le orecchie abbassate, poi deglutì e rispose:
«Non c’è cosa che più desideri al mondo che riavere indietro la mia famiglia».
Nessuno proferì una parola di più: le loro espressioni si erano addolcite, e Sue poté vedere che un paio di loro sembravano persino riflettere su ciò che aveva detto. Nidàl era quello che più sembrava colpito – ed amareggiato – da ciò che aveva detto, e fu lui ad annuire e dichiarare chiusa la questione: «Così sia, allora. Troverai tuo fratello per noi, e noi troveremo tuo padre per te. Il patto è chiuso?» chiese, ma sembrava una domanda retorica, per cui Sue si limitò ad annuire.
Nidàl si alzò, e tutti sembrarono seguire il suo esempio: Sue arretrò di un paio di passi con le orecchie basse, intimidita da quella folla, ma Nimar le mise delicatamente una mano sulla spalla e fece cenno anche a Yukab di seguirlo, sorridendo, e li guidò fuori dalla biblioteca.
Non tornarono indietro: piuttosto, proseguirono lungo il corridoio ricoperto di arazzi, che era stranamente silenzioso; i membri della Resistenza presenti in biblioteca si dispersero nell’altra direzione, ma, pian piano che Yukab, Nimar e Sue si avvicinavano nuovamente alla Sala Rotonda, sentivano un brusio crescente, poi addirittura accenni di risate; superarono una stanza che, dalla porta aperta, lasciava intravedere specchi e armi e alle pareti: che fosse un’armeria? Proseguendo oltre quest’ultima, fu spiegato il rumore: la Sala Rotonda si apriva infatti sul corridoio, su cui affacciava per merito di tre grandi archi. Intuendo che si stava andando a creare un silenzio fra il curioso e l’ostile non appena furono visibili dagli archi, Nimar sorrise appena ai due ragazzi che scortava, cercando di distrarli.
Il sorriso non funzionò, e Sue fece una smorfia verso la Sala, cercando di fissare in cagnesco i membri che li guardavano astiosi; ma il senso di colpa le pungeva il cuore, e dovette abbassare lo sguardo: delle persone erano morte ed era – di nuovo, e ancora – colpa sua. Nimar le mise una mano sulla spalla e Yukab fece lo stesso sull’altra, come per darle forza.
«Dove ci stai portando?» chiese poi, curioso, e Sue sollevò lo sguardo, grata per quel cambio di argomento che l’avrebbe distratta. Nimar fece un cenno alla casacca insanguinata e stracciata di Yukab.
«In infermeria… lì potrete lavarvi, sarete medicati e nelle vostre stanze avrete vestiti puliti. Se avete qualche malattia e ne abbiamo la cura, ci occuperemo anche di quella» sorrise gentilmente, e Sue scoccò un’occhiata a Yukab, che inarcò le sopracciglia.
«Non abbiamo nessuna malattia» ribatté, quasi offeso da quell’insinuazione.
«Più che altro probabilmente hai i pidocchi» Sue fece una smorfia divertita, e il ragazzo tolse la mano dalla sua spalla, guardandola in tralice.
«Divertente» fece una smorfia, e Nimar si passò una mano fra i capelli: Sue non aveva notato, prima, quanto fossero lunghi, ma in realtà gli arrivavano quasi al sedere… ne rimase impressionata, e forse provò quasi una fitta di gelosia: in quattro anni i suoi non erano cresciuti più di arrivare a metà schiena.
«Dopo che vi sarete lavati e vestiti» proseguì Nimar «potrete scendere nuovamente a questo piano e mangiare qualcosa… Elizabeth saprà sicuramente orientarsi meglio di te,» fece una pausa, non ricordandosi se il ragazzo si fosse presentato o meno, e quest’ultimo fece una smorfia.
«Yukab» gli disse, e Sue storse le labbra nel sentire il suo nuovo nome mentre Nimar apriva loro la penultima porta prima della fine del corridoio.
«Chiamami Sue».
«Non è il tuo vero nome» ribatté l’elfo, e la Menide lo guardò spazientita prima di entrare.
«Lo è sempre stato e mi è sempre andato bene così» puntualizzò abbassando le orecchie a punta, e l’elfo non rispose.
Yukab, evidentemente a disagio, si premurò di far entrare prima la loro guida, e poi, trattenendo per un braccio Sue, le sussurrò in un orecchio, ottenendo di farglielo abbassare ancora di più: «Evita di provocare tutti, non sappiamo qual è la situazione».
«Benvenuti!» li accolse una voce da dietro un bancone; Nimar si scostò per far loro osservare la stanza: i muri erano uguali al corridoio ma per qualche motivo era più calda; le tre finestre sul lato sinistro lasciavano entrare una luce gialla e calda, familiare, nonostante fossero quasi trasparenti. Alle pareti c’erano diversi scaffali, dove non c’erano arazzi raffiguranti piante e elementi naturali; sul lato destro della stanza, che era lunga e stretta, c’erano dei letti fatti ed ordinati, mentre in mezzo alla stanza vi era un bancone dietro il quale c’era la donna che li aveva accolti lì dentro: era la signora in sedia a rotelle, e Sue le rivolse un sorriso.
«Cerchiamo il… medico? Credo» scoccò a Nimar un’occhiata incerta, e Yukab inarcò un sopracciglio.
«Il cerusico» si affrettò a correggerla, e lei lo fulminò con lo sguardo. La donna ridacchiò e Sue la osservò: sembrava niente affatto provata da ciò che evidentemente la costringeva all’uso di quelle ruote meccaniche, e tutti gli scaffali erano alla sua portata. La donna sembrò intercettare i suoi pensieri, poiché fece un piccolo sorriso che a Sue sembrò amaro… tuttavia poi procedette alle presentazioni.
«Io mi chiamo Rapheya. Come preferisci essere chiamata? Hai tanti nomi, da quel che ne so» ridacchiò, e Sue scosse il capo.
«Nessuno di quelli che voi conoscete è il mio nome. Puoi chiamarmi Sue» sorrise appena con le orecchie basse, tesa; rivolse poi uno sguardo a Nimar, che ancora li osservava, e Rapheya fece un cenno proprio a lui, che si chiuse la porta alle spalle uscendo.
«E tu sei…?» chiese al ragazzo, che si stava nuovamente guardando intorno.
«Yukab, per quel che conta… non starò qui a lungo» promise, iniziando a slacciarsi la camicia a brandelli e guardandosi intorno: decise che evidentemente il primo letto disponibile sarebbe stato quello su cui si sarebbe fatto disinfettare le ferite e si sedette, guardando interrogativo Rapheya. «Allora, questo cerusico? Dov’è?».
«Sono io… per quel che conta» lo imitò la donna bionda, ridacchiando, e il ragazzo fece una mezza smorfia.
«Una donna non può-» ma venne subito fulminato da un’occhiataccia di Sue, che stava già per chiedergli cosa una donna non potesse fare. Di nuovo, Rapheya parve intuire dove stava andando a parare la situazione, perché ammiccò in direzione di Sue, che rimase interdetta e imbarazzata, e Yukab sospirò.
«Cos’è che sai fare, tu?» chiese, mentre si adagiava sul letto e si addormentava, e Sue balzò verso di lui, allarmata.
«Cosa gli hai fatto?» si agitò, ma Rapheya sorrise di nuovo e in qualche modo lei si tranquillizzò, senza un motivo: sapeva che era tutto a posto, che tutto andava bene, e la donna le spiegò:
«Io sono una Sayn, potrei manipolare le vostre menti come mi piace e pare…» disse, mentre tirava fuori la lingua nel mettere il filo nella cruna di un ago. «Tuttavia uso questo potere solamente per alleviare le sofferenze di malati e feriti, e per allentare le tensioni» disse, sciogliendo la presa che aveva su Sue, che improvvisamente si ritrovò lucida e stupita accanto al letto di Yukab privo di sensi. Di nuovo, mille domande le affollavano la mente, ma nessuna raggiungeva la punta della lingua… e forse era meglio così.
Rapheya disinfettò profondamente le artigliate che il ragazzo aveva rimediato e la ferita ancora purulenta dei giorni precedenti ad esse, dopodiché sotto lo sguardo sorpreso di Sue iniziò subito a cucirgli le ferite. Subito dopo tirò fuori da sotto il letto dei sacchetti di stoffa che producevano un suono crepitante, come di foglie secche: ne tirò fuori infatti un paio abbastanza larghe, di un colore violaceo, e Sue le osservò senza riconoscerle.
«Sono di una pianta autoctona dell’Isola di Nessuno» le spiegò gentilmente la Sayn, e la ragazza si incuriosì.
«Come si chiama? Che effetti ha? Dove cresce?» e poi, all’espressione divertita di Rapheya, arrossì abbassando le orecchie. «Scusa, è che ho studiato un libro di erbe… e questa non l’ho mai vista» cercò di giustificarsi, ma la dottoressa scosse il capo.
«La curiosità è una cosa buona… anzi, è una delle cose che mi piace di più della tua razza» ammiccò, poi procedette a spiegare: «Si chiama Idondoea, ed è una pianta estremamente tossica: se un essere umano tocca i minuscoli aghi di cui sono cosparsi gambi e foglie, entro pochi minuti presenta eruzioni cutanee; in un paio d’ore inizia a vomitare e ad avere spasmi muscolari, mentre in cinque ha convulsioni. Dopo sei ore, è morto» spiegò, e Sue impallidì. «L’effetto è lo stesso se lo toccasse un Elfo o un Etrays dei Continenti… mentre non funziona sugli Elfi dell’isola e sui Sayn. Cresce nei sottoboschi, l’isola ne è piena… e sono sorpresa che voi non ne abbiate incontrata» ridacchiò, mentre si spostava con le foglie in grembo per andare dietro il bancone: estrasse un mortaio da uno sportello di quest’ultimo, e iniziò a sbriciolare le foglie.
«Come mai è così tossica?» chiese la ragazza, esitante, e posò una mano sulla fronte di Yukab: era calda, forse troppo. Aveva avuto la febbre per tutto quel tempo, e si era comunque preoccupato per lei… il cuore le saltò un battito e quasi le vennero le lacrime agli occhi per la gratitudine e l’amarezza: che sciocca era stata! Il ragazzo aveva una ferita in suppurazione e lei si era preoccupata solo per se stessa… non riusciva a pensare ad altro che al proprio egoismo. Rapheya finì di pestare le foglie, prima di risponderle.
«Parlando scientificamente» Sue le scoccò un’occhiata stupita, a quella parola che non sentiva da anni «l’Idondoea ha gli stessi principi attivi della belladonna, uniti però al semplice fatto che si tratta di una pianta a linfa azzurra… il che la rende non solo magica, ma anche infida».
Sue scosse il capo.
«Qual è il problema con la linfa azzurra? Perché il mio libro la bistrattava un po’, trattando pochissime piante di quel tipo di linfa» aggrottò la fronte, e Rapheya si strinse nelle spalle.
«Semplicemente, è stata spesso abusata – o bandita – per via della sua natura magica e quindi, secondo alcuni, innaturale… Addirittura la razza umana, che a dire di molti è una delle razze meno magiche in questo mondo, può usufruire di magia spontanea se viene spesso a contatto con la linfa azzurra» le spiegò sommessamente, poi le agitò un dito davanti. «Ma ricordati che mai va assunta fredda! È terribilmente tossica!» dichiarò, in tono quasi minaccioso. Sue strinse una mano sul lenzuolo di Yukab, pensando automaticamente alla linfa azzurra che aveva usato per guarirgli il mignolo, neanche quattro giorni prima.
«Quindi… va assunta calda?» chiese, esitante, per capire se aveva afferrato. Rapheya mosse la sedia a rotelle verso il fondo della stanza, dove c’erano una scrivania e, dietro di essa, un lavabo incastonato nel legno del muro.
«O tiepida… sì, effettivamente meglio tiepida, poiché non perde nei fumi tutti suoi poteri».
«Qual è il problema nel tenerla fredda?» la ragazza scosse il capo, senza capire. «Parli di fumi… ci sono cose che vengono disperse nell’aria? Per cui, noi respiriamo aria… “magica”?» chiese, esitante, e Rapheya ridacchiò mentre pescava una teiera dall’armadietto accanto al lavabo: aprì il rubinetto e Sue osservò con la bocca socchiusa il miracolo dell’acqua corrente, che non vedeva da più di sei anni… e detestava che Yukab se lo stese perdendo, e non potesse capire quanto quella piccola comodità le fosse mancata nel tempo.
«Sì, in un certo senso sì… ed è per questo che sempre più umani, a seconda della regione dei Continenti in cui vivono, stanno nascendo spontaneamente dotati di poteri magici: i fumi della linfa azzurra utilizzata per tonici e pozioni magiche sono un po’ ovunque, e accrescono questo tipo di fenomeni» spiegò sorridendo, dopodiché poggiò la teiera sulla scrivania e le fece cenno di prenderla.
Sue si alzò a fatica: non si era resa conto di quanto le dolesse l’intero corpo finché non si era rilassata un attimo. Prese la teiera e la portò nuovamente al bancone, dove Rapheya stava trasferendo l’Idondoea essiccata e sminuzzata su un foglietto di carta, che ripiegò con cura perché non si perdesse nulla delle foglie da infuso.
«Non mi hai detto a cosa serve essiccata» le fece notare la ragazza, ancora curiosa: come poteva una pianta così tossica normalmente diventare benefica una volta disidratata?
«Ah! Non l’hai chiesto» ridacchiò Rapheya, e si strinse nelle spalle. «Ti ho già detto che l’atropina si discioglie nella linfa azzurra?».
Sue si mostrò sorpresa e stava per chiedere qualcos’altro, ma evidentemente alla dottoressa bastò quella reazione perché continuò: «Bene. Una volta drenata la linfa dall’Idondoea, rimane qualche effetto dell’atropina e della linfa azzurra legata alle fibre… ma nulla di preoccupante. Un infuso con le foglie sminuzzate gli purificherà il sangue dal pus che potrebbe essersi infiltrato, e anche se gli provocherà nausea e forse vomito, si rimetterà presto» ammiccò, poi le fece un cenno. «Direi che puoi andare a far bollire l’acqua, Eli- Sue» si corresse in tempo, e la ragazza le rivolse un’occhiata grata, prendendo il foglio ripiegato e la teiera piena d’acqua.
Una volta uscita dall’infermeria, scoprì con sorpresa che l’elfo non era rimasto fuori la porta… e che non riusciva a ricordarsene il nome. Contraendo le labbra, si guardò intorno: i colori caldi degli arazzi e del corridoio erano rassicuranti e lei, per la prima volta in anni, si sentì tranquilla. Non doveva guardarsi le spalle, o evitare di far vedere i capelli, o gli occhi, o difendersi da chi voleva approfittarsi di lei solo perché era una ragazza.
Percorse il corridoio nell’unica direzione possibile, ovvero verso i tre archi che si aprivano sulla Sala Rotonda, e ci entrò per chiedere indicazioni. La trovò stranamente vuota: non c’era nessuno, nonostante vi fossero diversi divani, e lì trovò la barriera architettonica su cui Rapheya non sarebbe mai potuta arrivare: una stretta scaletta a chiocciola, larga abbastanza da far passare due persone affiancate, ma non più di questo. La struttura in ferro battuto era inglobata sicura nel legno del pavimento, che vi era cresciuto attorno, mentre i divani erano evidentemente un’aggiunta successiva siccome erano ancora liberi di muoversi sul pavimento. In un angolo c’era un rigonfiamento nella parete, e Sue presunse che fosse un’altra stanza, così vi si diresse nella speranza che fosse una cucina… ma no: quando spinse con la spalla sulla porta, vide che era un bagno. I colori caldi del legno e la luce gialla che penetrava dalle finestrelle in alto, per far circolare l’aria, facevano sembrare l’ambiente molto accogliente… e quando la ragazza vide che in fondo alla stanza c’era una vasca da bagno interrata, piena fino all’orlo di acqua pura e a temperatura ambiente, semplicemente sentì qualcosa dentro di sé sciogliersi e incendiarsi al tempo stesso: fu come se un nodo che aveva avuto per anni alla bocca dello stomaco si dissipasse, lasciandole un gran calore. Decidendo a malincuore che si sarebbe goduta quello spettacolo in seguito, uscì dal bagno e per poco non si scontrò con l’uomo dagli occhi penetranti che aveva lasciato in anticipo la biblioteca durante la riunione; all’istante provò un senso di antipatia che tutto sommato era poco giustificato, tenendo conto che lui aveva “solo” puntato le armi contro lei e Yukab senza motivo.
«Ah… ciao» lo salutò comunque, per buona educazione, soprattutto visto che intendeva chiedergli dove si trovasse la cucina, ma lui non le diede il tempo di formulare altro.
«Avete intenzione di restare qui per molto?» le chiese a bruciapelo, e qualcosa dentro di lei si contrasse: senza un perché, si sentì minacciata.
«Non dovrebbe interessarti» gli rispose istintivamente, facendo prevalere l’impulsività invece di formulare una qualche frase volta ad indagare qualcos’altro.
«Oh, invece mi interessa. Così posso sapere se devo farti trovare una testa mozzata nel letto o qualcos’altro di più appropriato. Non siete graditi, qui» un sorriso sottile si fece largo sul viso dell’uomo e Sue poté osservare ad orecchie basse le fila di denti aguzzi che le si proposero a pochi centimetri dal viso: lui si era infatti avvicinato senza che lei se ne accorgesse.
«Se la testa è di cavallo apprezzerò la citazione» replicò di nuovo impulsivamente, cercando di non farsi intimorire da quello che ai suoi occhi aveva tutta l’aria di essere un bulletto. Poi, prima che lui potesse ribattere, aggiunse sagacemente: «Inoltre, non mi pare saggio cacciarmi – o fare in modo che io me ne vada – dopo tutta la fatica che avete fatto per farmi arrivare qui… non ti pare?».
L’uomo restò in silenzio, e in quella pausa sembrò osservarla meglio: non aveva più un’espressione gelida e tagliente, bensì di spontanea curiosità.
«Le situazioni cambiano continuamente, mia cara Elizabeth» sorrise affabile, e Sue strinse la teiera metallica fra le mani.
«Non è il mio nome» gli fece notare. «Qual è il tuo?».
«Non dovrebbe interessarti» la citò, tanto che lei aprì appena la bocca ed abbassò ancora di più le orecchie, aggressiva. «Ma alcuni mi chiamano Tarish» aggiunse lui, con un sorrisetto di scherno.
«Mi stai facendo perdere tempo, Tarish. Dov’è la cucina?» sbottò, e lui le dedicò un sorrisetto di scherno, scostandosi per lasciarla passare e indicandole la sinistra. Poi, mentre lei si sporgeva in quella direzione per vedere se scorgeva quella fantomatica stanza introvabile, l’uomo si dileguò: Sue scosse appena il capo, ad orecchie ritte per capire se ci fossero passi nelle vicinanze, ma doveva essere parecchio silenzioso perché lei non fu capace di udire nulla.
Con in testa fin troppa confusione, trovò la cucina nella direzione indicatale: era una stanza enorme, poco più dell’infermeria, ed era luminosa grazie alle porta-finestre che ne percorrevano un intero lato, senza lasciare spazio al legno. Un lungo tavolo era al centro della stanza, e Sue contava almeno una ventina di sedie; c’erano un paio di fornelli – moderni, non sapeva come – e altrettanti lavabi – moderni anche loro, per non parlare del frigorifero di ultima generazione.
Quasi ringraziò che Yukab fosse disteso su un letto nell’altra stanza, per non dovergli spiegare cos’era tutto quel ben di dio che le era mancato durante quei sei anni: cercando di non farsi prendere dalla commozione, accese un fornello di piccole dimensioni e ci mise sopra la teiera, posò la bustina di erbe sul bancone e poi tentò di aprire il frigo.
«Qual è il tuo nome?» le chiese il frigorifero, e Sue mollò subito la presa sulla maniglia.
«Ehm, Sue» rispose lei stupita.
«Nome non computato. Richiedere assistenza Admin».
Una risata la distrasse, e la ragazza si voltò di scatto: c’era un uomo dai capelli castani che stava entrando in cucina, in compagnia di un uomo con gli occhiali. Quando i due si accorsero di lei, la salutarono con un sorriso.
«Oh, ecco la nuova recluta… come stai?» la salutò il primo, poi abbozzò un inchino. «Abbiamo saltato le presentazioni: io sono Egon. Ho sentito che il tuo nome originale non ti piace… come preferisci essere chiamata?».
«Sue» sorrise, lieta che per una volta glielo avessero chiesto. «Ehm, come funziona il frigorifero?» chiese subito, mordendosi le labbra. Egon passò una mano sul display dell’elettrodomestico e ordinò:
«Configura nuovo profilo», poi le fece segno di afferrare la maniglia. Il frigorifero stavolta si aprì, ma era completamente vuoto.
«Beh, devi fare un po’ di spesa, mi pare ovvio» ridacchiò l’uomo con gli occhiali. «Io mi chiamo Atan» si presentò, e Sue gli sorrise confusa.
«Come faccio a fare la spesa? Non siamo sull’Isola di Nessuno?».
«Mmm» i due uomini sorrisero imbarazzati. «Non lo spieghiamo da un po’ a qualcuno, sei la prima recluta da… anni? Erik è stato l’ultimo» ridacchiò Egon, e si strinse nelle spalle. «Vediamo… sei cresciuta in un mondo moderno, quindi ti sarà facile capire che è un frigorifero. Tuttavia, non sei abituata alla tecnologia magica, quindi–».
Arak, il giovane dai capelli grigi che aveva parlato durante la riunione, entrò in quel momento in cucina e chiuse e riaprì il frigo: improvvisamente dentro l’elettrodomestico era comparso ogni tipo di cibo, dalla verdura alle patatine in busta alla frutta ai cibi precotti. Afferrò una ciotola metallica con dentro una brodaglia grassa e poi chiuse il frigo, salvo ritrovarsi con tre paia di occhi che lo fissavano in silenzio.
«…che c’è?» chiese, inarcando un sopracciglio, e Sue si precipitò ad aprire il frigo, che risultò di nuovo vuoto.
«Come fa a…?» Sue non completò la domanda, afflitta, ed Egon ridacchiò.
«È tarato magicamente per avere un contenuto diverso per ogni persona che vive qui» le spiegò Arak, dirigendosi verso un microonde. Sue rimase a fissare l’ennesimo elettrodomestico, senza capirci più nulla ed avendo l’impressione di stare per avere una crisi isterica con pianto annesso, quando l’uomo mise la ciotola dentro di esso e Sue allungò una mano per fermarlo prima che lo accendesse.
«È metallo! Non puoi-» lo avvisò, ma si ritrovò di fronte ad un ghigno strafottente.
«Pff. È magico» Arak inarcò le sopracciglia e Sue indietreggiò fino a trovare una sedia, su sui crollò senza una parola.
“Magico. Mi ha detto davvero che è un microonde magico. E un frigorifero magico. Magici”.
Ripeté così tante volte quella parola nella propria mente che ad un certo punto smise di avere senso, iniziando a sembrarle sbagliata, contorta, costruita e pronunciata male. Quando fu quasi certa che si dovesse invece pronunciare “magiki”, fu riscossa e riportata alla realtà da un colpetto sulla spalla da parte dell’uomo con gli occhiali.
«So che è dura» sorrise appena, comprensivo, mentre Egon toglieva la teiera dal fuoco: aveva iniziato a fischiare, e lei non se n’era neanche accorta. Arak, invece, doveva essersene andato mentre lei aveva quella crisi interiore, perché non era più lì con loro, e il microonde magico era vuoto. «Ma tenteremo di spiegarti, per quanto possiamo, come funzionano le cose in questo albero-casa».
«Prima di tutto» sbottò la ragazza, con un tono di voce forse un po’ troppo alto «voglio sapere cos’è un albero casa. Ce n’era uno anche nel bosco vicino il quale siamo arrivati io e Yukab, e vi abbiamo trovato rifugio per qualche giorno… ma non so quanto lui ne abbia esplorato, io ho preferito andarmene perché non gradisco stare appollaiata fra i rami come un uccello» ringhiò, e Egon ridacchiò, mettendo la teiera su una presina, per non bruciare il tavolo e per liberarsi le mani; Sue lo osservò bene, poiché quel semplice gesto aveva attratto la sua attenzione: aveva un aspetto con un non so che di familiare, e ci mise un po’ a capire perché i suoi capelli – che avrebbe reputato normali su una persona qualunque – e i suoi lineamenti le rievocassero qualcosa… ma quando iniziò a parlare fu tutto chiaro.
«Un albero-casa» iniziò, e con le mani fece un gesto con entrambe le mani per mostrarle il tutto, dal soffitto al pavimento. «è esattamente quello che vedi: un albero cresciuto a forma di casa. Non è un processo del tutto naturale, poiché ci va di mezzo la volontà di un Sayn, ma si può considerare naturale abbastanza da realizzare che tutto, in tale albero, cresce con i suoi ritmi e i suoi tempi» ammiccò, e Sue batté le palpebre, meravigliata: aveva sì prestato attenzione a ciò che l’uomo le stava dicendo, ma la ricrescita della barba – era solo mezzodì o sbagliava? – le aveva tolto ogni dubbio: quell’uomo era di natali mediterranei, e sapeva bene quanto fosse errato presumere che si sbagliasse solo perché Egon aveva la pelle chiara. Quindi decise di interromperlo, misurando bene le parole per non offenderlo:
«Sì. Uhm… quindi le sedie e il tavolo crescono? E poi… sei di origini mediterranee? No, perché…» si interruppe, non sapendo bene come spiegare il ragionamento, e si rese conto che l’uomo si era accigliato, come se per l’appunto non la stesse seguendo. L’altro uomo ridacchiò e alzò una mano come per salutarla, sorridendo cortesemente. Sue lo guardò con le orecchie dritte, senza capire perché la salutasse quando era in stanza con loro da un po’.
«Ciao. Il mio nome è Atan Siripede, della famiglia Siripede di Celinor…» lasciò in sospeso la frase, poi la continuò, ma fu molto esitante: «Perché sai, esiste anche la famiglia Siripede di Ther, ma è di un Clan diverso. Scusami, sono abituato a fare questa precisazione… per la storia dei Clan diversi, insomma. Non siamo in buoni rapporti con quel ramo della famiglia» abbozzò un sorriso, poi scosse il capo per tornare forse alla situazione presente. Sue lo trovò strano, ma non di quello strano inquietante che le ispirava Tarish, bensì uno strano un po’ buffo, che glielo fece stare simpatico: non doveva essere facile perdere quattro dei propri compagni di avventure e dover accogliere nuovi volti nello stesso giorno… Prima che potesse rispondergli, Atan riprese la parola: «Quello che volevo dirti – ma prima dovevo presentarmi, ecco – è che no, Egon non è mediterraneo. A dir la verità non sa neanche cosa sia il mar mediterraneo».
«Ora so che è un mare» borbottò l’uomo, incrociando le braccia, e Sue abbassò le orecchie, mordendosi le labbra: non aveva pensato che potessero esserci persone di quel mondo che non conoscevano quella roba… insomma, c’erano frigoriferi e microonde magiki, e non c’era nessuno a parte Atan che conoscesse il mediterraneo? Per lei era roba da matti, e stava per avere un’altra crisi interna quando l’uomo con gli occhiali la riscosse.
«Lui è semplicemente – come posso dire – di discendenze mediterranee? Questo mondo ha molti Portali – non dar retta a quel che ti disse Erik, era solo un bambino e per lui doveva esistere solo il Portale per Narda –, che – scusami il gioco di parole – portano un po’ ovunque in almeno tre mondi, per cui–».
«Scusami, non ci sto capendo nulla» sbottò Sue, e Atan si ritirò guardandola come un cane ferito, al punto che lei se ne pentì pressoché immediatamente. «Potresti… fare meno parentesi? Davvero, te ne sarei grata. Non mi sei antipatico. Davvero» si morse le labbra, pentendosi quasi di “aver trovato” la Resistenza: quella convivenza sarebbe stata davvero difficile.
Atan rimase in silenzio per qualche secondo, sembrò raccogliere le idee, per cui quando riprese la parola riformulò il suo discorso:
«Al contrario di quanto potrebbe averti detto Erik – non che lui sia un cattivo narrat…» Atan lasciò la frase in sospeso, come ricordandosi di quello che Sue gli aveva detto, e si schiarì la voce, ricominciando ancora: «…Al contrario di quanto potrebbe averti detto Erik, la Dimensione di Mame non è collegata solo a quella di Narda: Erik era un bambino quando gli fu spiegata tutta la faccenda, e gliela semplificammo in modo che potesse comprenderla. In realtà, questo mondo è collegato ad un’infinità di altri mondi… e a volte la sottile barriera che li separa si annulla spontaneamente, o viene bucherellata da certi incantesimi per creare Portali. Quello che sto cercando di dirti è che Egon potrebbe essere di discendenze mediterranee: uno dei suoi genitori potrebbe essere figlio di un viaggiatore fra Dimensioni, e questo viaggiatore poteva provenire dal Mediterraneo… non lo sappiamo, ma è possibile. Non so neanche se Erik ti ha spiegato quali sono le regole dei viaggi fra Dimensioni, dal momento che era piccolo quando sono state spiegate a lui, ma nella Resistenza ospitiamo da tempo un Guardiano Irreale che potrebbe–».
«Cos’è un Guardiano Irreale, ora?» sbottò la ragazza, abbassando le orecchie e toccando la teiera ormai non più bollente per trarne un po’ di confortante calore: fuori, con Yukab, aveva sentito caldo nonostante fossero quasi al finire dell’estate… ma lì, dentro l’albero-casa, faceva quasi freddo. Egon stavolta si intromise nel discorso, lieto che fosse tornato su binari in cui poteva prendere parte alla conversazione:
«Un Guardiano Irreale è, scusa la ripetizione, un guardiano dei Portali. I Guardiani sono infiniti, credo, e nessuno sa bene da dove provengano. Loro ne fanno mistero, per cui immagino che debba rimanere tale» Egon si strinse nelle spalle e Atan si sistemò meglio gli occhiali sul naso, mentre si avvicinava al frigorifero e ne tirava fuori una carota già pulita, da sgranocchiare mentre ascoltava.
«E… a cosa servono, questi Guardiani?» Sue inarcò le sopracciglia, per niente soddisfatta da quella risposta che sollevava più domande di quante ne risolvesse.
«Il nostro, proprio a niente» ridacchiò Egon, attirandosi un’occhiataccia di Atan, che ingoiò un pezzetto di carota e spiegò:
«In realtà servono a spiegare a chiunque attraversi un Portale come comportarsi nel nuovo mondo: se tu vieni da un mondo moderno e parli l’inglese, non capirai mai il mamiano… non se non ti danno dei mezzi, prima. Così, i Guardiani Irreali ti forniscono anche questo tipo di attrezzatura, che comprendono i Nakj – degli orecchini per comprendere le lingue – e le Mowie – delle caramelle per parlarle. Una volta spiegate le regole, fra cui niente anacronismi e niente parole latine per questo mondo, i Guardiani Irreali se ne vanno… tranne la nostra, che ha deciso di farsi un soggiorno prolungato».
«Non credo di averla vista. Che aspetto ha?» si informò Sue, e Egon storse le labbra.
«Ha un aspetto strano».
«Ha i capelli bianchi, e un sacco di cianfrusaglie in testa» spiegò Atan, e l’amico sorrise.
«Sì, sì… sai, mollette, perline, piume… roba del genere» ridacchiò, e Sue sospirò.
«Non siete ancora arrivati al perché ci sono degli elettrodomestici magici in casa, ma nonostante questo io non possa nominare il mediterraneo» li guardò truce, con le orecchie basse, e Atan sorrise mentre Egon alzava gli occhi al cielo.
«Se devo spiegarlo un’altra volta vomito. Fai tu gli onori di casa, Atan» l’uomo gli cedette la patata bollente e l’amico si sistemò nuovamente gli occhiali sul naso con un dito, mordendosi le labbra e partendo con lo spiegare, cercando di formulare bene le frasi:
«Devi sapere che l’albero-casa è vivo. Partendo da questo, devi sapere anche che ogni albero-casa è legato alla volontà di un Sayn: quando quel Sayn muore, l’albero casa cresce in maniera naturale e spontanea, senza più rispettare le leggi della casa… diventa un albero, e basta».
«Dev’essere un Sayn piuttosto antico, allora, quello che ha concepito questo albero-casa» commentò Sue sarcastica, ma gli occhi di entrambi gli uomini ebbero un guizzo divertito, mentre annuivano lentamente.
«Possiamo contare fra le nostre fila due dei più antichi Sayn esistenti in tutti i mondi» ammiccò Egon, fiero, e Sue abbassò le orecchie, stupita.
«E siete relegati su un’isoletta nonostante questo?».
Atan aprì la bocca, offeso, e Egon la guardò come scandalizzato.
«Non è un’isoletta, è un continente. E non siamo relegati qui, ci siamo rifugiati qui in seguito a… beh, sì, te lo spiegheremo dopo» l’uomo fece un gesto scocciato, e Atan scosse il capo, ma prima che potesse prendere la parola, Sue riassunse:
«Bene… vivete in un albero-casa molto antico, perché il Sayn la cui volontà lo guida è molto antico. Chi è questo Sayn? E dov’è? E soprattutto… so che Rapheya è una Sayn, ma… cos’è un Sayn? Un’altra razza magica che non conosco?» chiese, sentendosi quasi a disagio nel porre tutte quelle domande, e Atan scoccò un’occhiata nervosa ad Egon, che sospirò.
«Ti rispondo io, e in ordine: il Sayn si chiama Will, e non è qui al momento. È la moglie di Rapheya, e un Sayn è… pensiero puro intrappolato in un involucro di materia prima. La materia prima è… la prima cosa ad essere stata inventata? Credo, eh. Circa» si grattò la nuca, contraendo le labbra in una smorfia. «Il punto è: i Sayn spesso sono a conoscenza degli altri mondi. Will, in particolare, ne ha fatto una professione: viaggia fra mondo e mondo a raccogliere informazioni e, da quanto ne so, coordinare le varie popolazioni Sayn presenti in ogni mondo».
«…il che ci porta agli elettrodomestici, giusto?».
«Sì!» Atan prese la parola d’impeto, e spiegò sorridendo: «Will rimase colpita dall’ingegno degli umani in certi mondi, così portò qui alcuni congegni; ci mettemmo un po’ a capire come funzionavano, ma non molto tempo dopo eravamo già pronti a modificarli magicamente per eliminarne i difetti!» ridacchiò, e Sue scosse il capo.
«Mi state dicendo che… devo rispettare le stesse regole che valgono lì, nel Regno di Mame, riguardo gli anacronismi… mentre uso la doccia e la carta igienica, o mentre apro il frigorifero e mangio latte e cereali?» chiese scettica, ed entrambi, neanche si fossero messi d’accordo, esclamarono:
«Precisamente!», salvo poi guardarsi e ridacchiare come due ragazzini.
Sue li guardò e decise che non avrebbe fatto più domande: per quel giorno le bastava ed avanzava, e desiderava solo mangiare qualcosa e dormire.
«Quindi come faccio a fare la spesa?».
«La ordini al frigo, inserisci le monete, e il cibo compare nel tuo reparto» le spiegò Atan, avvicinandosi all’elettrodomestico e mostrandole il pannello con l’elenco di cibi.
«Puoi anche segnare i cibi “abitudinari”, ovvero quelli che non devono mai mancare nel tuo reparto, e puoi depositare una certa somma nel frigo così che faccia tutto da solo per un certo tempo, ovvero finché non finiscono i soldi» Egon si strinse nelle spalle, dopodiché fece un cenno ad Atan. «Che ore saranno?».
«Non lo so, ma sicuramente Nimar ci attende. Tu, mia cara, faresti bene a tornare da Rapheya… hai un colorito un po’ pallido» l’uomo si sistemò nuovamente gli occhiali sul naso e Sue quasi sussultò, ad orecchie basse: la tisana per Yukab! Vi aveva ancora le mani sopra, perché era ancora calda, ma si stava intiepidendo piuttosto in fretta. Si alzò come una molla e prese la teiera, ringraziando e salutando con un cenno del capo i due uomini, che uscirono tuttavia con lei dalla cucina: i due presero il corridoio, mentre Sue attraversò la Sala Rotonda e ebbe modo di osservare meglio che l’arredamento in apparenza sfarzoso era in realtà vecchio e consunto, come se fosse lì da molto tempo (o meglio, certe cose sembravano provenire da un altro ambiente, anche se Sue non avrebbe saputo dire quale). I tappeti erano scoloriti, e gli arazzi alle pareti erano piccoli e logori, quasi assottigliati dal tempo; non le restava che credere alle parole di Erik: la Resistenza era molto antica.
Una volta in infermeria, Rapheya lasciò che Yukab si svegliasse da solo in tranquillità, dopodiché ordinò a Sue di togliersi la camicia: la cicatrice della freccia svettava rossa di pelle nuova sulla pelle invece normalmente pallida della ragazza, e la Sayn storse il naso.
«Probabilmente la punta si è frammentata nella spalla».
Yukab borbottò qualcosa, e Rapheya inarcò un sopracciglio: «Come, scusa?».
«Ho detto che sì, si è frammentata, ma non ho potuto togliere i frammenti per mancanza di mezzi… era avvelenata, ho preferito curare la febbre piuttosto che infettare ancora di più una ferita che già avrebbe potuto andare in suppurazione per il veleno» spiegò a denti stretti: Rapheya gli aveva cucito le slabbrature della ferita sul petto mentre lei era via, e lui non stava avendo un buon risveglio.
«Bevi almeno un bicchiere di quella tisana, anche due o tre se riesci. Lasciane però almeno uno per lei» fece un cenno vago verso Sue, che fece una smorfia.
«Quella roba puzza».
«Anche voi puzzate, ma non mi pare io mi stia lamentando così tanto».
Rapheya inarcò un sopracciglio, e Sue arrossì distogliendo lo sguardo: eppure aveva fatto una doccia soltanto… sì, in effetti aveva bisogno di lavarsi. Così non le restò che accettare la tisana maleodorante in silenzio, sorbendone il gusto: sembrava infuso di calzini sporchi, con aggiunta di zucchero.
«Ricapitolando: ha avuto febbre, perché la freccia era avvelenata?» chiese a Yukab, che stava sorbendo il decotto con espressione indecifrabile: forse era abituato ai rimedi fai-da-te e dagli strani sapori del padre, quindi non si lamentava? Sue non sapeva deciderlo, ma le proprie orecchie – abbassate e quasi tremanti per il disgusto – non lasciavano invece spazio a dubbi.
Yukab annuì e fece una smorfia.
«La febbre era così alta che il secondo giorno ha iniziato a delirare, e ho fatto di tutto per fargliela abbassare, persino vuotarle gli otri pieni d’acqua gelida addosso mentre le erbe tentavano di fare effetto. Poi il terzo giorno, quando ormai la davo per spacciata, la febbre si è abbassata e in qualche ora si è persino svegliata, riprendendo conoscenza».
«Sai che veleno fosse?» Rapheya mandò la sedia a rotelle verso gli scaffali pieni di vasetti anonimi, dietro il bancone, spingendosi contro i letti, e iniziò a valutare le erbe in essi contenuti. «Che piante hai usato per curarla?».
«Ho usato l’antidoto universale» Yukab fece una smorfia e Rapheya lo imitò senza volerlo, commentando:
«Rozzo, è servito a qualcosa?».
«Direi di sì, dato che lei è viva» obiettò il ragazzo, offeso, poi posò la tazza sul comodino e la spinse via. «Questa roba è disgustosa, ho la nausea».
«Doveva provocartela, quindi siamo a buon punto» ridacchiò la dottoressa.
Sue osservava quel dibattito come avrebbe fatto con una partita di tennis, facendo guizzare gli occhi dall’uno all’altra e sorseggiando la bevanda ormai tiepida; non sapeva come sentirsi riguardo la Resistenza, e lì con Yukab le sembrava l’unico posto in cui potesse stare. In così breve tempo aveva imparato a fidarsi di lui, e si sentiva al sicuro con il ragazzo… non c’era nulla che non potesse fare, con lui al fianco.
Li stette a sentire per qualche altro minuto, perdendo via via interesse nella conversazione mentre nominavano piante e rimedi che non conosceva: si rese conto di quanto fosse limitata la conoscenza nell’erbario che le avevano regalato i Sacerdoti, e di quanto ancora avesse da imparare… che lì alla Resistenza potessero aiutarla anche in quello? Non sapeva perché ma dubitava che avrebbero potuto darle una mano in qualcosa, lì: sembrava tutto molto “bei tempi, quelli andati”, e poco presenti a se stessi. Non aveva mai sentito, in quegli anni di vagabondaggi nel Regno di Mame, di imprese compiute dalla Resistenza. Non aveva mai neanche sentito nominare la Resistenza… era come se non esistesse più, almeno nei pettegolezzi e nelle notizie che circolavano nei villaggi del centro-sud. Magari al nord era diverso? Sue era scettica al riguardo.
Persa nei propri pensieri, restò a guardare fuori dalle finestre alte dell’infermeria, scorgendo un orto ed un frutteto; dunque si producevano anche il cibo da soli? Il frigorifero magico non provvedeva a tutto…? La cosa le puzzava, e avrebbe dovuto chiedere delucidazioni al riguardo.
«Sue, cara, sei davvero stanca, mh?» le chiese Rapheya ad un certo punto, e doveva essere la seconda o la terza volta che le poneva la domanda, perché Yukab la guardava divertito. La ragazza arrossì appena e scosse il capo.
«Confusa, più che stanca. Ma sì, non nego che una dormita mi farebbe bene… anche se magari io e Yukab potremmo mangiare qualcosa, prima?».
Rapheya ammiccò e annuì, ma le pose una mano sulla fronte.
«Ora non proverai dolore… e non sanguinerai. Non potrai neanche parlare. Sei ferma, ma cosciente. Non ti spaventare» le spiegò, mentre Yukab la sosteneva e le teneva fermo il braccio. L’unica cosa che riusciva a pensare Sue, del resto, era:
“Non mi ha neanche chiesto il permesso… che maleducata”.
Sentì una piccola lama premerle sulla spalla, ma non sentì il dolore che ne conseguiva; sentì le dita sottili della dottoressa aprirsi un varco nella carne, e piccole pinze tirarle fuori frantumi di punta di freccia che si erano fusi con la carne, e sentì la puzza del pus e Yukab che diceva:
«Ecco, avevo previsto questa cosa» con un borbottio sommesso, e quasi godette del suono della sua voce così tranquilla, che a volte suonava offesa con il mondo e altre volte invece era così suadente… no, non doveva lasciarsi trasportare da pensieri come quelli: non le facevano bene.
Dopo qualche minuto iniziò a distrarsi: non avendo percezioni corporee dolorose, le sembrava semplicemente di essere abbracciata da Yukab, incapace di muoversi; e non era una brutta sensazione, tutt’altro… più che altro, il ragazzo non si rendeva conto dell’effetto che faceva alle donne. Certo, gli era capitato di scherzarci su, ma Sue si era resa conto che lui non era affatto interessato a quegli effetti… come dire? Gli veniva naturale attrarre l’altro sesso, ma non ci marciava, né sembrava approfittarne.
Ma lei non doveva cascarci; non era colpa di Yukab se metà delle cameriere che avevano incontrato durante il viaggio gli facevano l’occhiolino, e non era certo colpa sua se anche lei stava iniziando a pensare a cose simili… La cosa migliore, dunque, era ignorare quella sensazione e restare buoni amici. A vita.
Le sensazioni tornarono tutte in un colpo. Il dolore alla spalla ricucita era il male minore: i muscoli le dolevano tutti, dal primo all’ultimo, lo stomaco le si era chiuso in un nodo che prima non aveva notato, in gola aveva un groppo di nervosismo, le orecchie a furia di stare abbassate all’indietro le avevano fatto venire male alla base; in più aveva la nausea e un mal di testa netto l’aveva presa alle tempie, mettendola immediatamente di cattivo umore.
Yukab dovette accorgersene, perché commentò cauto: «Sembravi beata… gliel’ho proposto di prolungare la sensazione, ma lei ha detto che era pericoloso e che ti stavi già perdendo» scosse il capo, come per intendere “qualunque cosa voglia dire”, e Sue si scrollò di dosso il ragazzo con malagrazia, sciogliendo quell’abbraccio che in quelle condizioni le era sembrato così tenero e che ora invece non solo le dava impiccio, ma le sembrava persino innaturale, tanto la metteva a disagio.
Non ricordava neanche più cosa avesse pensato durante quello stato di quiete corporea, sapeva solo che non voleva andarsene da lì così presto. Rapheya ridacchiò e Sue digrignò i denti: che aveva da ridere?
«Andate a mangiare qualcosa… magari incontrerete qualcun altro che possa spiegarvi un po’ come funziona qui dentro, e soprattutto che possa prestarvi un po’ di denaro per la prima spesa» ammiccò, e Sue obiettò:
«Perché, non puoi darcelo tu qualche spiccio per la prima spesa?», come se fosse ovvio, e Rapheya le indirizzò le mani a pistola.
«Hai ragione. Che diamine, dopotutto ve l’ho detto io di mangiare» ridacchiò, e andò alla scrivania, pescando da un cassetto un borsellino viola e azzurro con due ragazzine disegnate sopra, di cui una era in un lungo abito azzurro. Sue non si chiese chi fossero, presa dai vari dolori che la affliggevano, e Yukab non parve farci caso; ricevettero dieci corone, al punto che Yukab strabuzzò gli occhi.
«Spiccioli?» chiese, ridendo, poi si fece sospettoso. «Che lavoro fai in realtà? La ladra? L’assassina? Devi guadagnare davvero troppo per-».
«Oppure mia moglie è una regina» lo interruppe lei, e lui batté le palpebre, accigliato.
«Moglie?» chiese confuso, e Sue ritrovò un po’ di allegria.
«Moglie!» ridacchiò entusiasta, drizzando le orecchie, e Rapheya ammiccò, congedandoli ed augurando loro buon divertimento.
 
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mezzodì dell’11 Gjorna 684 d.C.
«Cosa ne pensi?».
Yukab aveva scelto un pasto semplice, e lo aveva cucinato lui perché Sue non aveva mai davvero imparato a cucinare: carne e funghi, e il frigorifero magico aveva procurato loro tutti gli ingredienti necessari per soli due beret… comprese le spezie, il sale e l’olio. Sue si era sentita in colpa ad accettare i soldi di Rapheya ma, dopotutto, nell’iniziare a mangiare ciò che Yukab aveva preparato in nemmeno mezz’ora, si era davvero sentita meglio.
La domanda posta da Yukab, comunque, le dava un’ampia scelta di risposte… che sentiva fossero tutte sbagliate, quando “Non lo so” era la migliore alternativa che le venisse in mente. Così espresse il suo pensiero con un grugnito:
«Mm».
Yukab si sistemò meglio sullo sgabello di legno, poco soddisfatto.
«Secondo me nascondono qualcosa. E credimi se ti dico che, se quei maghi sapevano che rischiavano la vita per un incantesimo simile, non l’avrebbero mai fatto… non se non fosse stato indispensabile, secondo me» borbottò, a bassa voce. Sue si strinse nelle spalle, poi chiese in un sussurro:
«Credi che abbiano cercato di farci sentire in colpa?».
«Forse non in colpa. Forse cercavano di farci sentire in debito» suggerì lui, pacato, e lei rimuginò su quella frase, boccone dopo boccone.
«Per la missione?» chiese a bassa voce, e lui fece un cenno affermativo.
«Ho la sensazione che sia qualcosa di più pericoloso di quanto tu non creda… non parlo della missione in cui vogliono coinvolgerti, ma in quella più generale. Sai, trovare tuo fratello» speculò, e Sue ingoiò il boccone prima di ribattere con rabbia:
«Potrebbe essere la cosa più difficile del mondo, ma io lo farei comunque. Non c’era bisogno di questi giochetti cretini, non con me».
«Ma questo loro non lo sapevano» ribatté Yukab con tono affilato, al punto che lei abbassò le orecchie tesa. «Credevano ci fosse bisogno di farti sentire in debito e in colpa per convincerti a rischiare la vita, magari».
«Quindi sarebbero loro ad aver appositamente rischiato la vita di cinque dei loro maghi? Deliberatamente? Uccidendoli?».
«Non dico che li abbiano uccisi perché volevano… solo che magari contavano di ritrovarsi con i maghi indeboliti, e di molto, e di farti pesare la cosa? Non so cosa dirti, una cosa del genere insomma» rettificò il ragazzo, e Sue borbottò:
«Beh, le cose non sono andate come previsto, in quel caso».
Yukab annuì e sospirò, guardando la cucina deserta.
«È mezzo dì, perché non c’è nessuno? Dove sono tutti quanti?».
Sue si strinse nelle spalle; l’odore del legno vivo impregnava tutte le stanze, e il rumore della chioma gigantesca agitata dal vento era l’unica cosa che in quel momento si sentiva invadere la casa. In un certo senso, i due iniziarono a sentirsi soli; ma, come se avessero sentito quella sensazione, due ragazzi entrarono in cucina, rimanendo anche sorpresi di trovarli lì. Il ragazzo, tuttavia, si fermò stupito: non aveva barba, ma aveva i capelli rossicci e la mascella squadrata come Yukab; gli occhi azzurro-grigi lo sondarono per capire se veramente il ragazzo era chi lui pensava fosse.
«Cugino?» chiese poi, stupito, e Yukab inarcò le sopracciglia.
«Marik?» domandò tanto per essere sicuro, e il nuovo arrivato lanciò un breve urlo di gioia, correndo ad abbracciare il parente, che si alzò di scatto e ricambiò la stretta. Confusa, Sue li osservò – ed osservò anche la ragazza entrata con Marik, che era bassina e bionda, dai grandi e dolci occhi castani: chi erano? Membri della Resistenza, sicuramente, ma più precisamente?
«Sue, questo è mio cugino Marik… figlio del fratello di mio padre, Rewis» sorrise il ragazzo, dando una pacca sulla spalla del rosso e sciogliendo l’abbraccio. Così vicini, Sue faticò quasi a distinguerli: erano molto simili, tanto che potevano essere scambiati per fratelli senza alcuna difficoltà. Marik si scostò dal cugino, prendendo per mano la biondina e presentandola ai due nuovi arrivati:
«Lei è Cat, e–».
«E non solo perché mi piacciono i gatti» la ragazzina abbozzò un sorriso incerto, ma solo Sue capì la battuta fra i quattro presenti, e ridacchiò; Yukab invece aggrottò le sopracciglia, e Marik ne inarcò uno.
«…volevo dire, è il membro più giovane della Resistenza… ha soli tredici anni».
«Sembri più grande… intendo, ti avevo preso per un’adulta un po’ bassina» sorrise Sue, e lei arrossì, nascondendosi dietro Marik.
«È un po’ timida» sorrise il ragazzo come per scusarla, e Yukab si strinse nelle spalle.
«Nessun problema. Allora cugino… come ci sei finito qui?».
«Sai, quando hai un parente nelle gilde, ci caschi anche tu dentro in un batter d’occhio. Sono finito in quella di Tarish, e lui mi ha consigliato di unirmi alla Resistenza dati i miei ideali contro la Corona».
«Tarish ha una gilda? Di che tipo?» chiese Sue, cercando di non apparire troppo interessata. Yukab aggrottò le sopracciglia e tirò indietro la testa, come sempre quando non capiva qualcosa:
«Chi è Tarish?».
«Quello coi capelli scuri che ci ha accolto puntandoci contro la spada» riassunse Sue, con un sorriso tirato, e il ragazzo inarcò un sopracciglio tornando a rivolgersi a Marik.
«Ah, ha una gilda?».
«Sì…» Marik fece un po’ il vago, e diede un bacio sulla testa di Cat, che lo prese come un segnale per andarsene: corse via verso gli archi che delimitavano l’ingresso delle cucine e sparì in direzione della Sala Rotonda, mentre Marik prendeva posto accanto a Yukab, che si sedette di nuovo; Sue spinse di lato il piatto quasi pieno, per seguire meglio la conversazione.
«Non parlo di certe cose di fronte a Cat» si giustificò il giovane, e Yukab si fece guardingo.
«In che guaio ti sei andato a cacciare?» gli chiese in confidenza, e Sue quasi fu tentata di distogliere lo sguardo: sembrava una conversazione così privata…
«Sono entrato nella gilda di Tarish verso i nove anni, e verso i tredici esercitavo già la professione» spiegò Marik. «Non credevo ci fosse nulla di male. Mio padre aveva sempre meno clienti, e in più si era rotto un braccio proprio nel periodo in cui ho deciso di entrare nella gilda, e Tarish ci ha prestato i soldi per andare avanti in cambio della mia entrata» confessò, e Yukab digrignò i denti.
«Insomma, questo Tarish è uno strozzino» ringhiò, e Marik scosse il capo.
«Vorrei fosse così semplice. In realtà non riesco a capire se l’abbia fatto per aiutarci o per portarci alla dannazione e basta. Prestò i soldi alla mia famiglia, ma non li ha mai voluti indietro, nemmeno sotto forma di lavoro da me. Volle solo la mia entrata nella gilda, in cambio».
Yukab restò a guardarlo per qualche secondo, poi distolse gli occhi e li fissò sul tavolo nodoso, con un piccolo sorriso amaro.
«Ah… ho capito di che gilda si tratta».
«Non ti ho nemmeno detto di cosa–» iniziò Marik, con disappunto, ma il cugino lo interruppe:
«Sei nella gilda degli assassini, giusto? A Ther ci sono due gilde: le Mani Leste e le Lame Sconosciute. Mi pare ovvio che tu sia entrato in quest’ultima, hai sempre avuto idee un po’ bizzarre quando si tratta di giustizia. L’idea di uccidere nobili ti avrà sicuramente attratto» commentò, e le emozioni si rimescolarono sul viso di Marik: imbarazzo, vergogna, ma anche stupore e amarezza. Poi fece un cenno d’assenso con la testa, abbassando lo sguardo sul tavolo come se fosse la cosa più interessante del mondo. Intrecciò le dita e sembrò raccogliere il coraggio di parlare ancora dopo l’osservazione pungente del cugino.
«Da un paio d’anni le due gilde si sono riunite sotto un solo capo. Indovina chi?».
«Tarish» borbottò Sue, e Marik fece un sorrisetto amaro.
«Già… Tarish. Si è comprato le gilde, letteralmente. Gli mancano solo quella dei bardi, che si è sciolta da poco per mancanza di fondi, e quella dei mercenari guerrieri, dopodiché…».
«Avrà in mano mezzo regno» commentò Yukab in un soffio, forse stupito da quella piega, ma dalla voce sembrava quasi ammirato. Sue inarcò un sopracciglio, poco convinta dall’espressione dell’amico.
«Non farti venire strane idee di grandezza» lo avvisò allora, e il ragazzo si riscosse facendole un sorriso sghembo; tuttavia non le rispose, lasciando invece che Marik riprendesse la parola lanciandole un’occhiata.
«Insomma… lavoro per lui, ecco tutto. Non c’è davvero nulla di particolare che io faccia al momento, a stento ho un contratto al mese… i tempi di pace non sono i migliori per quelli che fanno il mio mestiere» scrollò le spalle, e Yukab lo guardò pensieroso.
«…quindi non sai cosa faccio io?» gli chiese, e un lampo di divertimento gli illuminò fugacemente gli occhi grigi. Marik inarcò un sopracciglio.
«Ormai dovresti essere un erborista da qualche anno, no? Zio Malkiom ti ha preso in bottega quando avevi a stento sette anni» ridacchiò, come se il ricordo lo divertisse particolarmente.
Yukab scosse il capo.
«No, no. Ce ne andammo da Ther perché ammazzai una guardia per errore».
Marik spalancò gli occhi, e Yukab scrollò le spalle come se ormai non importasse più.
«Ma fu un singolo errore, come avrebbero mai potuto risalire a voi?».
«Mio padre mi portò via e basta, a scanso di equivoci. Incontrammo sulla nostra strada un uomo in fuga, ferito… mio padre lo medicò e gli offrì di viaggiare insieme. Dopo che ebbe sentito della nostra storia si dedicò ad insegnarmi il suo mestiere di nascosto da mio padre…» lasciò in sospeso la frase, aspettando che Marik ne cogliesse la fine sottintesa.
«E qual era il suo mestiere?» chiese, poi inarcò entrambe le sopracciglia e scoppiò a ridere, battendo una pacca sulla spalla del cugino. «Bene bene! Fare gli assassini è diventata una professione di famiglia, quindi!» sghignazzò, poi Yukab riprese a mangiare, ridacchiando anche lui con la bocca piena. Una volta ingoiato il boccone, aggrottò le sopracciglia.
«Prima hai detto che è facile entrare in una gilda se un altro membro della famiglia ne fa parte…?» inarcò un sopracciglio, e Marik rifuggì il suo sguardo, scuotendo appena il capo.
«Brutta faccenda… Elyn era entrata nelle Mani Leste, prima che questa fosse annessa alle Lame» borbottò, contraendo un angolo delle labbra in una smorfia insoddisfatta. Yukab lo guardò fisso, e Sue non capì chi fosse la suddetta Elyn; fu tentata di chiedere, ma abbassò lentamente le orecchie mentre capiva che la conversazione si faceva più intima, e si limitò ad ascoltare.
«Elyn?» chiese Yukab, sbigottito.
«Tentava di aiutare nostro padre, te l’ho detto che la forgia iniziava ad avere meno clienti e noi avevamo meno soldi del solito, così lei ha pensato fosse una buona idea sfruttare la sua carineria per racimolare qualche beret in mezzo alla strada. Per fortuna qualcuno della gilda dei ladri l’ha notata, perché altrimenti sarebbe potuta finire in… giri peggiori» disse fra i denti, come se non ci volesse neanche pensare, e Sue sentì un brivido scenderle giù per la schiena: diciamo che iniziare la giornata risvegliandosi dal delirio della febbre e finire nel primo pomeriggio a parlare di prostituzione infantile non era esattamente nei suoi programmi, ma ora immaginava che da allora in poi le cose si sarebbero fatte parecchio più complicate.
Yukab rimase in silenzio, e Marik non fece nulla per impedirgli di assorbire con calma la notizia; invece, lo stomaco di Sue brontolò e attirò l’attenzione dei due ragazzi, che la guardarono interrogativi.
«Mangia, scema» le intimò Yukab, e Sue fece un sorriso tirato.
«È la digestione… giuro, non ho fame, ho mangiato» mentì, cercando di non guardare la ciotola ancora piena per tre quarti.
Il ragazzo scosse il capo e si rivolse nuovamente a Marik.
«Quindi ora hai lasciato lo zio alla forgia? Da solo con Elyn e zia Lisbit?» chiese Yukab, come se fosse indignato dalla cosa, e il ragazzo annuì impercettibilmente.
«Diciamo così. In realtà scoprirete che ci sono modi molto – e intendo davvero molto – veloci per spostarsi da quest’Isola benedetta dagli déi» ridacchiò, e Yukab lo guardò come fosse impazzito.
«Mica vi spostate nel modo in cui siamo arrivati io e lei qui?».
Marik lo guardò con orrore.
«No! Certo che no! Non mettiamo in pericolo proprio nessuno… come è successo… beh» si interruppe, imbarazzato, e Sue lo guardò fisso.
“Eccone un altro che crede sia colpa mia. A quanto pare mi porto morti sulla coscienza anche quando non faccio niente di niente”.
Il pensiero la riempì di una furia ribollente, e abbassò le orecchie così in fretta che le fecero male alla base per lo scatto improvviso; ebbe paura di sembrare a Marik un animale che stava per sbranarlo, così distolse lo sguardo da lui, e lo focalizzò sulle proprie mani intrecciate sul tavolo, piene di graffietti di poco conto e vene sotto la pelle chiara.
Yukab si schiarì la voce, ma rimase in silenzio a fissare Marik, che non lo guardava, del tutto imbarazzato; ad un certo punto, non reggendo più il silenzio teso che si era creato, il ragazzo si alzò e fece un sorriso forzato ad entrambi.
«Dovreste davvero riposare. Avete l’aria di profughi che dormirebbero da ora a domattina… e non credo sia un’esagerazione» e fece un cenno verso la Sala Grande. «Volete che vi chiami qualcuno per assegnarvi delle stanze…?» chiese, e Sue si alzò.
«Possiamo pensarci da soli, credo» storse dunque le labbra, e Marik la guardò stupito.
«Ah…? Certo» sembrò riscuotersi, e lanciò un’occhiata a Yukab, che però era irritabile:
«Sì, è una donna. Sì, fa tutto da sola. E guai a provare a darle una mano, eh» borbottò in risposta allo sguardo del cugino, e Sue fece un sorrisetto mentre Marik alzava le mani e batteva in ritirata.
Quasi contemporaneamente, la ragazza si voltò verso Yukab e lo studiò: aveva i capelli rossicci lucidi per via del bagno nel lago, ma la pelle era rimasta sporca per via dell’assenza di sapone… ed ebbe un’idea.
«Sai, nel bagno qui al piano terra c’è una vasca da bagno bellissima» gli accennò, mordendosi le labbra e appoggiandosi alla sedia: lo guardò con il suo migliore sguardo convincente, ad orecchie dritte.
«…immagino tu voglia togliermi i pidocchi, non è vero? Guarda che anche tu non sei messa proprio bene» ridacchiò, e Sue sospirò.
«Non credo di poter fare un bagno… sai, la sutura».
«Quale sutura?» Yukab inarcò un sopracciglio, confuso, e Sue si tastò istintivamente la spalla: no, non c’era ombra di sutura… e neanche una cicatrice, se si escludeva una lineetta pallida appena sotto la clavicola.
«Ah… giusto. Magia, vero?» chiese, e Yukab storse il naso.
«Ci sono troppe cose strane, qui. Cibo che appare dal nulla… oggetti metallici che cuociono il cibo da soli… e magia, magia ovunque. Non dirmi che tutto questo non ha conseguenze perché non ci credo» borbottò Yukab, e Sue sospirò: aveva milioni di domande e nessuno a cui porle, per cui si limitò a scuotere il capo e abbassare le orecchie, per poi farle scattare sull’attenti quando vide che Yukab si stava alzando. «Andiamo a farci questo bagno… tanto ormai nudi ci siamo visti, no?».
«Tu non guardare lo stesso» obiettò Sue, divertita, e Yukab fece una smorfia mentre la ragazza prendeva le due ciotole e le lavava nel lavandino istintivamente, senza neanche “godersi” la piccola gioia dell’avere acqua corrente in casa.
«Come se ci fosse qualcosa da guardare» ridacchiò, mentre la osservava aprire il rubinetto dell’acqua in modo molto naturale. «Quanto devono essere ricchi questi tizi? Hanno acqua corrente in casa e una marea di vetro» scosse il capo, e Sue aggrottò la fronte.
«Il vetro non è comune, a Mame?».
«Non molto. Così colorato e così trasparente non credo di averlo mai neanche visto» sorrise appena, poi ammise: «Nella nostra vecchia casa c’erano solo tre finestre, ed era perché eravamo abbastanza ricchi. Nella nuova non abbiamo potuto permetterci neanche una finestra con i vetri, ne avevamo solo una con le imposte».
«Davvero?» Sue non riuscì a celare il proprio stupore: non le era mai sovvenuto – né l’aveva mai notato – che la maggior parte delle case non avesse finestre, o che fossero tutte con le imposte e non con i vetri. «Tuo padre un tempo faceva un altro mestiere? O magari tua madre?» chiese interessata, ma Yukab scosse il capo.
«Le dinamiche mi sono sconosciute, ma so che mia madre era figlia di ricchi… per cui la casa gliel’avevano data loro. Ecco perché avevamo tutte quelle finestre» commentò, e c’era una punta di amarezza nella sua voce. Sue chiuse l’acqua in silenzio, poi ammise:
«Io invece non so neanche quante finestre ci fossero in casa mia… mia madre amava la luce naturale e amava anche vedere il mare quando si svegliava al mattino, quindi aveva fatto in modo che ci fossero finestre ovunque. Persino le porte avevano i vetri» ridacchiò, e Yukab inarcò le sopracciglia, colpito.
«Doveva essere ricchissima!» commentò, e Sue sorrise asciugandosi le mani sui vestiti sporchi, pentendosene subito un attimo dopo quando si rese conto di avere le mani piene di polvere appiccicaticcia.
«Ce la cavavamo» rispose invece, e si strinse nelle spalle. «Mia madre era… un cerusico» disse, utilizzando la parola a cui lui era abituato, ma lui rimase comunque insoddisfatto. «Era un’infermiera» specificò, sperando che capisse ugualmente, e Yukab sembrò rifletterci su.
«Una specie di assistente del cerusico?» chiese, perché gli fosse chiaro, e lei parve sollevata.
«Sì, esatto».
Yukab scosse il capo.
«Una donna… assistente del cerusico» si strinse nelle spalle, poi sorrise. «Ingegnoso. Hanno le mani più piccole, possono infilarle in posti dove un uomo non arriva» ammiccò, e Sue gli regalò un sorriso grato per quell’osservazione. «Quindi… quella roba è del tuo mondo?» fece un cenno verso il lavandino, e Sue parve rifletterci su per qualche secondo prima di rispondere.
«In realtà credo di sì, ma… qui non avete le manopole?» chiese confusa, cercando di ricordare cosa avesse visto nelle locande e nelle case da quattro anni a quella parte, ma la sua esperienza era così limitata alle locande che non era molto attendibile.
«Abbiamo i pozzi, come potremmo avere le “manopole” di cui parli?» protestò divertito, e Sue arrossì, borbottando delle scuse, poi scosse il capo.
«Sì, beh, ci sono diverse cose che provengono dal mio mondo, ma onestamente non credo che qui funzionino come… beh, come lì» rifletté: era ovvio che non ci fossero né tubature né impianti elettrici, ma allora come funzionavano gli elettrodomestici? Erano magici anche in quello? E dove andava a finire l’acqua di scarico?
«Non credo di reggere altre spiegazioni, quindi sorvolerò sull’ultima parte e mi fermerò sul “sì”» Yukab sospirò e si appoggiò ad uno degli archi, incrociando le braccia sul petto e sbadigliando. «Guarda che non so dove sia la stanza da bagno di cui parlavi… questo posto sembra una reggia, mi ci potrei perdere dentro».
«Da quanto mi hanno detto mentre eri addormentato, è la casa di uno dei Sayn più antichi esistenti» lo informò, e Yukab inarcò un sopracciglio.
«Un Sayn? Cos’è?» chiese, e Sue sospirò.
«Vorrei capirlo anche io. Tutti danno per scontato un sacco di cose, qui… mi hanno solo detto che i Sayn sono “pensiero puro intrappolato in un involucro di materia prima”» borbottò, ma per qualche motivo Yukab sbiancò: Sue, tuttavia, se ne accorse solo quando finì di asciugare le scodelle e le ripose in una credenza, voltandosi verso il ragazzo. «Cosa c’è?» gli chiese allora, temendo che si sentisse male per via della tisana.
«Siamo nella casa di un dio, Sue» mormorò, forse sopraffatto. Sue sorrise, scuotendo il capo:
«Rapheya non mi sembra una dea, eppure anche lei è una Sayn».
«Magari lei è una Sayn diversa» obiettò l’amico, offeso, e Sue alzò gli occhi al cielo, spingendolo gentilmente fuori dalla cucina mentre si dirigevano verso il bagno.
«Andiamo a lavarci, poi magari indagheremo».
«Sei pazza? Io voglio dormire» Yukab protestò e Sue ridacchiò, aprendogli la porta.
«Benvenuto nel più bel bagno che abbia mai visto».
Yukab osservò la stanza, mentre Sue lo guardava in attesa trepidante, aspettando la sua reazione: tutto era come l’aveva lasciato lei, vasca da bagno interrata compresa… ora che ci pensava, somigliava ad una piccola piscina, e le si sciolse il cuore al pensiero di fare un bagno profumato con del sapone vero, e non con le dure saponette senza schiuma del Regno di Mame – e per lei “schiuma” significava “pulito”, per cui non era mai riuscita a sentirsi del tutto pulita, neanche quando si era fatta un bagno decente pochi giorni prima. Il ragazzo sospirò e finalmente si lasciò sfuggire un commento rassegnato:
«Non ho mai visto niente del genere. Ma del resto non avevo visto neanche case e palazzi a forma di alberi, e prima ancora non avevo mai visto ragazze con i capelli blu, quindi immagino che… proviamo?» chiese, abbozzando un sorriso, e Sue saltellò sul posto entusiasta; fece per chiudere la porta, ma non appena ci tentò una piccola impronta di mano si stampò sul vetro opaco della stessa, spaventando la ragazza e facendola balzare all’indietro. Dalla fessura della porta ancora aperta fece capolino Cat, con un sorriso gentile ed esitante; i suoi grandi occhi marroni la sondarono per qualche istante prima che aprisse del tutto la porta e mostrasse che nell’altra mano, in equilibrio, reggeva due teli per asciugarsi e vestiti puliti per entrambi.
«Mi hanno detto di portarvi questi e… uhm…» porse l’occorrente a Sue, che sorrise nell’accettarlo, e la guardò curiosa.
«Sì?» la incitò, impaziente di fare una doccia e cambiarsi.
«Mi hanno detto anche… di dirvi che il sapone contro i pidocchi è quello verde» indicò i vari barattoli di vetro opaco che erano allineati contro la parete, vicino la vasca, e Sue arrossì, annuendo.
«Grazie mille» sorrise gentilmente alla ragazzina, che fece un passo indietro per consentirle di chiudere la porta. Sue si voltò verso la stanza, e vedendo che Yukab stava già iniziando a spogliarsi distolse lo sguardo, imbarazzata; decise di godersi il suo momento da sola: con il cuore a mille si avvicinò al lavandino, e vedendo addirittura del sapone vicino ad esso sentì salirsi le lacrime agli occhi dalla nostalgia.
«Cos’è quella roba?» chiese Yukab, scorgendo la saponetta, e Sue decise che era inutile tentare di spiegarglielo: si rimboccò le maniche e girò il pomello dell’acqua fredda, ficcandoci sotto le mani e insaponandosele. Immediatamente un profumo di lavanda e sapone di marsiglia – marsiglia, non poteva credere che stesse risentendo quell’odore dopo ben sei anni – invase la stanza, commuovendola e facendo annusare interessato l’aria a Yukab.
«Mm, quest’odore è…».
«…pulito» mormorò Sue, facendogli cenno di iniziare a farsi il bagno: aveva bisogno di un momento per sé. Yukab schiuse le labbra come per chiederle qualcos’altro ma ci rinunciò e scrollò le spalle, andando ad immergersi nell’acqua.
«Uuh… tiepidina» commentò il ragazzo, poi con un rumore di sciaguatto iniziò a lavarsi.
«Ricordati… di usare il sapone verde per i capelli» mormorò lei dandogli un’occhiata ora che era immerso fino alla cintola, e Yukab annuì ammiccando.
Sue chiuse l’acqua e rimase immobile davanti al lavandino, quasi incredula che non vi fosse uno specchio da nessuna parte. Sentiva agitarsi nel petto una sensazione strana e bruciante, simile ad un fuoco che l’avesse invasa a tradimento quando meno se lo aspettava. Lentamente qualche lacrima proruppe dai suoi occhi e cadde nel lavandino già imperlato d’acqua: quella era ceramica, e le manopole erano d’acciaio, e i portasciugamani erano d’ottone con i pomelli di legno, e gli asciugamani erano asciugamani, e non pezzi di cotone o lino messi lì a caso.
Tutto era così dannatamente simile alla propria casa, la casa che aveva perduto per sempre con la guerra, che chiudendo gli occhi le sembrò quasi che il battito del proprio cuore corrispondesse, come era sempre stato quando era piccola, a quello di sua madre, che la stringeva forte e le lavava bene il viso sfregandole la pelle fino a farle male. Da bambina odiava quei momenti, ma presto si era ritrovata ad amarli e rimpiangerli, semplicemente perché non c’erano più.
Soffocò i singhiozzi quasi subito, rendendosi conto di essere ridicola e stupida a piangere in quel modo per cose che erano accadute così tanto tempo prima, ma sotto la categoria “tanto tempo prima” rientravano davvero troppe cose per smettere di piangere subito.
Dunque con fretta e quasi disperazione Sue si spogliò e fissò la vasca da bagno, ignorando completamente il ragazzo, che era tutto assorbito nell’annusare l’interno di tutti i barattoli.
«Ti pareva che il verde era il più puzzolente?» commentò fra sé e sé lui, facendole comparire un sorriso istintivo sul viso.
Con lo sguardo, si mise a cercare le manopole per l’acqua della vasca, o qualsiasi cosa potesse controllare la temperatura dell’acqua in essa, o persino un getto della doccia… ricordava ancora come potesse funzionare una doccia? Oh, certo che ricordava: le vennero in mente tutte le lotte con la maniglia dell’acqua, perché circa il 99% delle posizioni che provava a darle avevano come risultato acqua o gelida o bollente, dunque inutilizzabile; l’1% delle possibilità solitamente dava acqua accettabilmente calda da potersi lavare con piacevoli brividi di piacere, ma si perdeva immediatamente se solo si spostava di un millimetro la maniglia.
Con un sorriso nel ricordare quei dettagli, Sue girò intorno alla vasca e, in un angolo, vide una specie di pannello di controllo: ne premette il pulsante più grande e la metà vasca che non era occupata da Yukab, con i capelli pieni di schiuma, venne increspata da una pioggia di acqua che, toccandola, era di temperatura assolutamente perfetta: concluse che a Napoli doveva avere una caldaia davvero suscettibile, o qualcosa del genere. Unico problema: l’acqua sembrava spuntare davvero dal nulla: si generava a mezz’aria, non dal soffitto come aveva creduto in un primo momento, e ciò le lasciava spazio solo ad altre domande… che in quel momento però non aveva neanche la voglia di tenere a mente.
Con nel cuore ancora la sensazione di sentirsi in qualche modo in una casa che non c’era più, Sue si ficcò sotto il getto d’acqua caldo e scese nella vasca accanto a Yukab, che la fissò con difficoltà per la schiuma; sciacquandosi gli occhi, le rivolse un sorriso sornione e lei si morse le labbra, distinguendolo appena fra le gocce d’acqua che le offuscavano la vista. Restò immobile in piedi per qualche minuto, immersa fino alla cintola, semplicemente godendosi quella comodità che nel resto di quel mondo era praticamente sconosciuta.
Dopo una breve riflessione sui profondi segreti e misteri della vita, la ragazza si tolse dalla metà vasca irrorata dal getto e si guardò intorno preoccupata: la vasca non trasbordava? A quanto pareva, no. Yukab si ficcò sotto il getto, sospirando:
«Divina» commentò ancora, e annuì fra sé. «Sì, è la casa di un dio, decisamente», e Sue mandò una breve risata divertita, mentre si sporgeva per prendere un barattolo: su un lato vi erano delle scritte. Nel suo mondo lei li conosceva come shampoo, balsamo e bagnoschiuma, ma sulle etichette c’era scritto rispettivamente “sapone per capelli”, “unguento per capelli” e “sapone per il corpo”… le parole che conosceva lei non erano conosciute in quel mondo, probabilmente. Afferrò il sapone contro i pidocchi, temendo molto quegli odiosi insetti, e lo guardò colare nella mano, rabbrividendo a quella sensazione così familiare eppure così vecchia.
Mentre si insaponava i capelli per la prima volta da anni, Sue si morse il labbro e notò che stava iniziando a pensare nuovamente con termini che appartenevano al suo mondo, a Narda, e che questo non accadeva da quando ne aveva parlato con Erik la prima volta; quelle parole erano vissute nella sua mente – insieme a “cioccolata”, “patatine”, “automobile” e compagnia bella – fino a quel momento, ma dato che non aveva avuto occasione di utilizzarle semplicemente non ci aveva pensato finché non si era trovata di fronte a doccia e lavandino. Si bloccò per qualche istante con i capelli e le mani pieni di schiuma, riflettendo: ma lì li chiamavano proprio lavandino e doccia? Non usavano altri nomi come era accaduto per lo shampoo, ovvero il “sapone per capelli”? Aggrottando la fronte la ragazza si mise sotto il getto d’acqua calda con Yukab e sciacquò i capelli: decise che avrebbe dovuto chiedere spiegazioni a qualcuno; il dubbio era a chi, dal momento che non conosceva nessuno abbastanza bene da fargli il terzo grado.
Sue si lavò in fretta il resto del corpo e uscì dalla vasca, profumata come non si sentiva da anni; il ‘sapone per il corpo’ era profumato al gelsomino e lei sapeva che quello era l’odore naturale della sua pelle, per cui si sentiva finalmente pulitissima. Soddisfatta, diede un’occhiata a Yukab che ancora si godeva il getto e, ghignando, premette il bottone per l’acqua fredda. L’amico si voltò indispettito, borbottando:
«E va bene, esco!», e maledicendola poi in dialetto Theriano così stretto che Sue non ci capì un’acca.
Sue afferrò gli asciugamani che le aveva dato Cat e ne porse uno a Yukab, evitando di guardarlo ora che non c’era più l’acqua a nascondergli le grazie, e si avvolse nella morbida tela, apprezzando quella piccola fortuna… Oh, probabilmente non avrebbe mai trovato la Resistenza da sola, ma era sicuramente grata che loro avessero trovato lei.
Si asciugò i capelli con cura con l’asciugamano e osservò il blu sul panno bianco, mordendosi le labbra. Scuotendo il capo si diede della stupida per non aver prima recuperato le borse su Inder e poi aver fatto la doccia: nella borsa che aveva portato via dall’accampamento aveva la spazzola per capelli che le aveva regalato Daeg e che, nonostante fosse pregiata e lei avesse avuto diversi periodi di fame nera, non aveva mai venduto. Dandosi nuovamente della stupida si districò dolorosamente i capelli con le dita e si diresse all’armadietto del bagno, dove trovò un pettine generico, con cui si sgarbugliò i capelli a fatica. Lo passò poi a Yukab, che però inarcò un sopracciglio, avvolto anche lui nell’asciugamano.
«Che ci dovrei fare, con quello?» chiese, per niente convinto, e Sue alzò gli occhi al cielo, facendogli cenno di chinarsi: gli pettinò i capelli all’indietro e gli passò il pettine persino nella barba rossiccia, ora più lunga rispetto a quando si erano incontrati la prima volta: da allora non lo aveva mai visto radersi o accorciarla, ma non poteva dire che la cosa le dispiacesse. Una volta finito, Sue scoppiò a ridere: Yukab sembrava un gran signore, ma lui scosse violentemente il capo per far rialzare tutti i capelli, seccato.
«Ecco, da nobiluomo a cane bagnato in una semplice mossa» lo prese in giro lei, eliminando i capelli caduti e i nodi dal pettine e riponendolo nuovamente nell’armadietto.
Quando andò a srotolare gli involti che dovevano essere i loro vestiti, vi trovò una sorpresa più piacevole ancora della doccia, così deliziosa che sentì nuovamente affiorare le lacrime agli occhi:
«Mutande…» le afferrò prima che cadessero, stringendosele poi sotto il braccio. «Jeans…» mormorò, chiudendo gli occhi ed inspirando l’odore di quella particolare stoffa, poi dagli stessi tirò fuori un panno bianco e ci sfregò su il viso. «Una t-shirt...» sentì pizzicare gli occhi di lacrime di gioia ma sorrise, un sorriso così felice e nostalgico che si sentì ridicola. In fretta iniziò ad indossare gli indumenti, lanciando gli altri a Yukab, che li srotolò a sua volta: anche lui sembrò essere soddisfatto, poiché si trattavano di calzoni e tunica, ovvero gli stessi indumenti con cui era partito… o almeno, così sembrò a Sue. Ma lei era assolutamente impaziente di saperne di più su quella strana casa con…
“..acqua corrente in un albero”.
Il pensiero arrivò improvviso e inaspettato e in quanto tale la fece quasi barcollare mentre si infilava i jeans. Lì dentro c’era acqua corrente. Erano nel medioevo, loro, lì. Non c’erano acquedotti, anzi, quelli che le era capitato di vedere erano in rovina, risalenti al tempo degli elfi e dei nani. Come cavolo era possibile che lì, in un albero, ci fosse acqua corrente?
“Oh, no, proprio no, i misteri sono davvero troppi ora. Vediamo un po’ a chi devo questo bel mucchio di domande” pensò Sue determinata, abbottonandosi i jeans e sorridendo nel vedere che le andavano larghi, così come la maglietta.
«I misteri si stanno facendo un po’ troppi» borbottò poi, e Yukab le rivolse un’occhiata interrogativa, ormai vestito.
«Che intendi?».
«Che devo fare il terzo grado a qualcuno» sorrise furba, e lui aggrottò la fronte.
«Il terzo grado?».
«Sì, sai, l’interrogatorio» spiegò velocemente, e lui annuì grave, sbadigliando: prese la propria cintura, alla quale aveva attaccato il pugnale, e se la sistemò in vita per sostenere i calzoni.
«L’unica cosa che so è che ho bisogno di dormire… sono stati giorni difficili» borbottò, e scosse il capo. Sue sorrise e lo osservò: non sembrava affatto un terribile assassino, in quel momento… solo un bimbo stanco. Con la barba.
«Allora mentre io interrogo la gente che vive qui, tu dormirai… ti pare equo lasciarmi sola?» gli propose divertita, e lui annuì impercettibilmente mentre lei si frizionava i capelli lunghi con l’asciugamano, percependo che stavano iniziando a bagnare la maglietta. Vide che Yukab faceva una smorfia di disappunto.
«Sono stato sveglio per tre giorni cercando di non farti morire con i pochi mezzi che avevo… ti pare equo farmi stare sveglio?».
Un fiotto di colpa le invase il petto, e gli rivolse un pallido sorriso di scuse.
«Scusami, hai ragione… devi riposarti» ammise, mordendosi le labbra e scuotendo il capo; i capelli le scivolarono da una spalla, e Yukab glieli mise dietro un orecchio, lasciando gli altri ciuffi liberi di vagare. Poi la guardò negli occhi, e lei lasciò andare il labbro che stava torturando con i denti, quasi trattenendo il fiato, con il respiro così lieve da non sentirsi nemmeno.
«…sei così pallida» Yukab inarcò un sopracciglio, passandole un pollice su una guancia, e lei aggrottò la fronte: il momento era rotto.
«Strano, dato che ho passato gli ultimi anni a camminare sotto il sole impietoso del sud».
«Dubito che tu venga da tanto a sud, se hai visto la guerra al confine fra Mame e Faël…» obiettò lui, e lei fece una smorfia.
«Non mi so orientare» protestò la ragazza, e lui ridacchiò.
«Lo vedo».
Un lieve bussare alla porta li interruppe, e i due ragazzi si separarono subito, guardandosi poi interrogativi: qualcuno aveva bisogno del bagno?
Quando Yukab aprì la porta, Nimar era circondato da un alone di luce ormai pomeridiana, che filtrava dorata dalle finestre colorate.
«Sono lieto che ora siate puliti e vestiti… i vostri abiti saranno lavati e riparati, se volete, oppure possono essere bruciati» l’elfo sorrise divertito all’idea, senza malizia alcuna, e Yukab ridacchiò mentre Sue scuoteva il capo, abbassando le orecchie.
«Ci ho speso un sacco di soldi per quei vestiti! Col cavolo che li brucio!» ribatté, e Nimar le rivolse un sorriso di scuse:
«Scherzavo. Se volete, ora, potete dormire».
Yukab annuì subito, ma Sue incrociò invece le braccia sul petto:
«No, io invece vorrei parlare con qualcuno. Ho ancora troppe domande, non potrei dormire in pace senza avere delle risposte» dichiarò, e si pulì un piede sul jeans che indossava: le avevano dato degli abiti del suo mondo, cosa che trovava parecchio assurda dopo tutto il discorso sul “niente anacronismi”… a che pro fornirle jeans e t-shirt bianca se non doveva inquinare quel mondo medievale? Eppure si era sentita subito meglio indossandoli, era stato come mettere una seconda pelle che aveva abbandonato da troppo tempo, e che le era mancata terribilmente. A Yukab invece erano stati dati abiti semplici, che Sue aveva giudicato con una risata “parecchio contadini”: il ragazzo aveva sospirato e le aveva detto che era senza speranza.
In ogni caso, aveva ancora troppe domande e desiderava porle tutte a Nimar: si esprimeva con calma, e nonostante ostentasse disinteresse aveva l’aria di essere lì fuori dal bagno da un bel po’ di tempo. Cat scivolò nella stanzetta e raccattò tutti i vestiti in una cesta, compresi gli stivali di entrambi, e fece una smorfia nel constatare quanto erano sporchi; Sue smise di fissarla e tornò a guardare Nimar, che le fece un sorriso tirato.
«Va bene, potrai parlare con chi vuoi. Venite, vi mostro prima le vostre stanze. Potete starci quanto vi pare, ma sarebbe bello se scendeste a fare vita sociale ogni tanto… sapete, nonostante l’accoglienza un po’ fredda che avete ricevuto, la Resistenza in realtà è molto ospitale» specificò, e si passò una mano sul viso mentre li guidava nella Sala Rotonda e poi su per la scala a chiocciola al centro di essa; Sue non poté non notare che l’elfo aveva profonde occhiaie, e che sembrava esausto… per un attimo si sentì in colpa a trattenerlo con le proprie chiacchiere, ma la sua curiosità fu più forte.
«Su questo piano è disponibile una sola stanza» li avvisò, e Sue annuì.
«La prendo io. Così Yukab può stare più tranquillo… di sopra?» chiese, inarcando un sopracciglio, e il ragazzo alzò gli occhi al cielo.
«Inizio a capire come ti senti quando le persone decidono per te di continuo, ma sono troppo stanco per protestare» le fece notare, e lei gli lanciò un’occhiata divertita mentre Nimar si stringeva nelle spalle e saliva ancora le scale, senza approdare al primo piano.
Una volta al secondo, Nimar allargò le braccia:
«Ci sono solo quattro stanze occupate, e le troverai chiuse a chiave… per il resto, ne puoi scegliere una di tuo gradimento, sono pressoché tutte uguali» gli fece un sorriso gentile, spostandosi per lasciare che i due ragazzi salissero sul pianerottolo: in corrispondenza delle scale vi era una enorme rosa dei venti intarsiata nel legno che indicava, con le braccia principali, i quattro corridoi in cui si dipanava il pianerottolo. Yukab fece loro un cenno e ammiccò in direzione di Sue, che gli sorrise:
«Buon riposo… ci vediamo dopo».
Una volta che Yukab ebbe aperto una stanza e ci si fu ficcato dentro, la ragazza si voltò immediatamente verso Nimar, che assunse un’aria attenta e la guardò. I due si osservarono per qualche secondo, poi iniziarono a parlare nello stesso momento e dunque tacquero, imbarazzati.
«Volevo chiederti se c’è un luogo in cui possiamo parlare tranquilli… sai, senza essere disturbati… di quello che comporta essere parte della Resistenza».
Nimar le sorrise e annuì, scendendo le scale fino al piano terra: Sue lanciò un’occhiata in direzione della stanza di Yukab, prima di seguirlo giù e corrergli dietro: si stava dirigendo verso il corridoio e, prima che potesse fermarlo, era entrato in biblioteca, mantenendole la porta aperta. Stizzita, lo raggiunse e si rese conto con sgomento che nella stanza – la stessa in cui aveva parlato con tutti i membri più importanti – c’era altra gente: Said, che le fece un cenno divertito di saluto, Arak, che si stava guardando le unghie con noncuranza, poi c’erano Atan ed Egon che parlottavano fra loro in maniera piuttosto accesa, seppure a bassa voce, come se l’argomento fosse troppo importante per essere interrotto da lei, ma mancava la persona che lei aveva capito essere la più importante: Nidàl, il padre di Erik. Così si irrigidì e li guardò tutti ad orecchie basse, storcendo le labbra:
«Cos’è, un agguato?» chiese con una smorfia, delusa da se stessa per esserci cascata con tutte le scarpe: non poteva essere finita con il patto mattutino, no, doveva per forza esserci dell’altro.
Said guardò gli altri mentre Nimar chiudeva la porta e prendeva posto accanto a lui; Egon ed Atan smisero di parlare fra di loro e la guardarono con sincera comprensione, ridacchiando.
«In realtà – e credo di parlare a nome di tutti – siamo qui per rispondere alle tue domande. Sappiamo che ne hai tante, e per fornirti delle risposte più esaurienti abbiamo deciso di comune accordo di riunirci qui e permetterti di porle tutte» sorrise Atan nervoso, sistemandosi gli occhialetti a mezzaluna sul naso.
«Certo… non stavate mica parlando di me e di Yukab e di cosa farvene di noi» commentò la ragazza, e Said ridacchiò, grattandosi il mento, poi riunì le mani prima di parlare; il resto dei presenti sembrava ugualmente divertito.
«Arguta… ma no. Ti attendevamo. Quali sono le tue domande?» chiese gentilmente, e Sue le snocciolò tutte prima ancora che la frase finisse:
«Come mai siete su quest’Isola? Come fate a controllare cosa succede nel continente? E non mi dite “spie” perché dovrete pur contattarle queste spie!» sbottò, poi proseguì, determinata, ad orecchie basse, senza sedersi: «Non ci credo neanche per sbaglio che mi avete convocata qui con un pericoloso rituale magico solo per “affidarmi una missione”… cosa avete in mente? E poi sembrate pochini, anche al funerale eravate non più di una ventina di persone, e immaginavo che la Resistenza fosse più numerosa! Dov’è Erik in realtà? E come vi mantenete?» sbottò, poi si passò una mano fra i capelli, che dopo il lavaggio erano diventati incredibilmente lisci pur essendo ancora umidi; sembrò riflettere, poi iniziò a fare avanti e indietro per aiutarsi a trovare altre domande. «Chi è questa Will, il fantomatico Sayn antichissimo a cui appartiene questa… casa? O dovrei chiamarla Base?» inarcò le sopracciglia, poi scosse il capo come se non avesse importanza; nello stesso momento, notò che Atan stava scrivendo qualcosa, e si rese conto sbigottita che stava prendendo appunti. Si stava segnando le sue domande, per poi rispondervi in ordine dopo… stava parlando troppo?
“Non m’importa. Che mi lascino parlare”, il pensiero le venne automatico, ma nessuno sembrava intenzionato ad interromperla, e la cosa le diede semmai ancora di più sui nervi. Indicò una direzione imprecisata e proseguì:
«Come fanno quegli elettrodomestici ad alimentarsi? Chi fra quelli che sono qui dentro sa cosa sono, almeno? O li usate senza neanche saperlo per l’amore del “non-anacronismo”?» chiese sarcastica, facendo le virgolette con le dita, e Atan la guardò strabiliato, come se non avesse mai pensato ad un gesto simile… ma fu anche l’unico a capirlo, perché gli altri assunsero un’espressione quasi confusa: troppo tardi, perché Sue capì solo da ciò che le virgolette italiane, ovvero come le intendeva lei con il suo gesticolare, erano ben diverse da quelle runiche mamiane, che somigliavano in tutto e per tutto ad un segno dell’“uguale”. Decise di proseguire comunque, e semmai i presenti avrebbero potuto farle domande a loro volta… sì, era una buona idea.
«Come mai alcuni di voi sanno l’inglese? Come mai alcuni conoscono l’italiano? Perché cavolo mi chiamate con un nome che non ho mai sentito prima? Da dove viene questo nome? Me l’hanno dato i miei genitori? Li conoscevate? Dov’è stato cresciuto mio fratello? E perché, se lo sapevate, non avete fatto nulla per impedirgli di essere plagiato? Perché ho visto almeno un paio di computer? A che vi servono, senza una connessione ad internet? E buon dio, non ditemi che c’è internet perché è la volta buona che sbrocco!» ringhiò, stringendo i pugni, ma nessuno sembrò capire quell’ultima parola, per cui chiarì: «Impazzisco!», e tutti si ritrassero.
«Sue…» iniziò Nimar, con un sorriso cortese, ma la ragazza mise avanti le mani.
«No, lasciami finire. Tanto quello sta prendendo appunti» indicò Atan, che le fece un sorriso ugualmente gentile.
«È necessario, lanci domande come fossero sassi» si scusò, e Sue annuì, prendendo un paio di respiri per riflettere.
«Inoltre» continuò subito dopo «non capisco perché Nidàl non è presente. E non capisco i vostri ruoli nella Resistenza. Gli altri mi sono sembrati tutti ragazzi, mentre voi siete gli unici adulti o anziani della casa, e quindi mi viene da chiedervi: qual è la vita media dei membri della Resistenza? Un paio d’anni di servizio? Dopodiché si viene catturati e impiccati?» chiese dura, stringendo i denti e serrando la mandibola. Lo sguardo di Said si oscurò e si tese in avanti sulla sedia: stava per ribattere all’istante, ma Sue lo precedette. «E non c’è bisogno di mentirmi. Tanto stavo per essere impiccata senza far parte di questa organizzazione, quindi per me è uguale… ma lo devo sapere ugualmente. Non vi permetterò di mettere le mani su Yukab, ad esempio, o su chiunque mi sia caro… compreso mio fratello, se è fuggito e volesse unirsi a voi. Io li proteggerò» accusò, e un lampo divertito illuminò gli occhi gialli di Said, che tornò ad appoggiarsi allo schienale ed incrociò le braccia, senza fiatare. Sue non si aspettava quella reazione, che la destabilizzò per un istante prima che decidesse di tornare all’attacco:
«Atan mi ha detto che nel mondo, in questo mondo, ci sono diversi Portali che conducono ad altri mondi» fece un cenno verso l’uomo, che sprofondò nella sedia imbarazzato, smettendo per qualche secondo di scrivere: non aveva una biro, bensì un classico pennino come quelli che si trovavano in quel mondo… con tanto di boccetta d’inchiostro, dunque, e panno per asciugare ciò che aveva appena scritto. La aspettavano. Il pensiero le mise improvvisa incertezza ed agitazione, e per un attimo perse il filo del discorso… quando lo riacquistò, la sua voce non suonava più diretta e sicura come prima. «…quanti ce ne sono? E dove sono localizzati? Quanti tipi di Portali esistono? Per l’amor del cielo!» sbottò quando Arak ridacchiò. «Sto parlando sul serio!» protestò, e l’uomo scosse il capo, fingendo di asciugarsi una lacrima per le risate. Offesa, Sue si irrigidì e sparò una domanda a bruciapelo: «Il mio viaggio è pagato?».
La domanda fece aggrottare la fronte proprio ad Arak, che ridacchiò ancora.
«Certo che no, piccina» rispose subito, e Atan cancellò la domanda dalla lista, ora lunga un paio di fogliettini di pergamena.
Quella risposta provocò solo altre domande in Sue, che le sfoderò neanche fossero coltelli.
«Bene, e allora ditemi: dovrò lavorare, per guadagnarmi da vivere qui? Che tipo di lavori dovrò fare? Ho visto che avete un frutteto, forse anche dei campi… dovrò lavorare lì?» chiese, senza capire, e i presenti si lanciarono qualche occhiata, alcuni divertiti e altri seri o ambigui. «Se non si tratta di lavoro nei campi… di cosa si tratta?» chiese poi, sospettosa, ma non ricevette risposta perché continuò:
«Ora vi faccio una domanda che magari sembrerà stupida, ma–».
«Non più delle altre» commentò Arak sottovoce, e Sue gli lanciò un’occhiataccia che avrebbe potuto incenerirlo.
«…dicevo: che problemi ha Tarish?» chiese bellicosamente, e provocò una breve risata generale.
«Vorremmo saperlo anche noi, credici» ridacchiò Nimar, e Egon si passò una mano sul viso, fin troppo divertito dalla piega che stava prendendo quella specie di riunione.
«Dopo ti spieghiamo. Hai altro da chiedere?» chiese proprio quest’ultimo, e Sue annuì, incrociando le braccia sul petto e smettendo di andare avanti e indietro davanti al tavolo a cui erano seduti gli altri: era nervosa e stanca, e desiderava solo riposare… ma più del riposo sentiva il bisogno di risposte, per cui stava in piedi solo per averle: se si fosse seduta sarebbe decisamente crollata. Trattenne uno sbadiglio ed abbassò le orecchie – semmai possibile – di più, battendo il piede a terra ripetutamente, mentre rifletteva sulle altre domande da porre. Nessuno sembrava avere fretta, e lei ripassò mentalmente le conversazioni che aveva avuto quel giorno – per quanto possibile, dato che tutto era molto nebuloso nella sua testa, quasi confuso: aveva bisogno di dormire. Tuttavia, ebbe l’illuminazione.
«Come accidenti ci siete finiti su quest’isoletta?» Egon aprì la bocca, offeso, e Sue si corresse subito, alzando gli occhi al cielo: «“Continente”. Su questo “continente”. Egon, lì, mi ha accennato che» lo indicò, a buon rendere. «che è successo qualcosa… e mi piacerebbe sapere cosa. Ha detto che vi siete rifugiati qui… quindi qualcuno vi ha cacciati. Dove stavate prima? Perché vi hanno cacciato? E soprattutto… perché c’è una tredicenne in questa organizzazione così pericolosa?» chiese, sciogliendo le braccia dal petto e mettendosi le mani sui fianchi; iniziavano a farle male le giunture per la stanchezza, ma non aveva intenzione di mollare solo per farsi qualche ora di sonno.
«…tornando agli elettrodomestici magici: dove vanno a finire i soldi che vengono inseriti nel frigo? Spariscono? Vengono usati davvero per fare la spesa? Come li spende il frigo? Come li dà a quello che vende il cibo? Dio santo, non riesco neanche a pensare a come possa convertire una corona in euro, o in dollari, o che altro, per poter comprare un pacchetto di patatine o di biscotti» e quelle parole suonarono strane persino a lei: non nominava quelle monete da così tanto tempo che si era quasi dimenticata della loro esistenza. «E come fa il metallo ad andare nel microonde?» chiese brusca, e quando vide che Arak era accigliato gli puntò un dito contro: «E non dirmi semplicemente che “è magico”!».
Nessuno provò a risponderle, e lei ripercorse anche le conversazioni avute con Yukab:
«…sapevate che i vostri maghi rischiavano la vita nel portarmi qui?».
«No» rispose immediatamente Nimar, mettendo le mani avanti e sospirando.
«Cosa significa quel sospiro?» chiese allora lei guardandolo sospettosa, ma l’elfo sorrise cortese.
«Che sono stanco. Anzi, esausto» ammise, duro. «Stamattina abbiamo sepolto degli amici, che erano nella causa da almeno dieci anni, per cui ti chiederei di essere più rispettosa» le fece notare poi, e un fiotto di vergogna la fece arrossire e distogliere lo sguardo, mentre annuiva piano.
«Siete davvero sicuri di non averlo minimamente previsto?» chiese cautamente. «Nel senso, ci sono sempre le previsioni di quanto un qualcosa possa andare storto in un piano generale, non ne avete fatto uno?».
Nimar scosse il capo e lei decise di abbandonare l’argomento: il lutto era ancora troppo vicino per farci sopra congetture da poter esporre loro.
«Tarish ha le mani in pasta con due gilde, quella dei ladri e degli assassini, entrambe di Ther da quel che ne so» introdusse la nuova materia di discussione, e Said si carezzò il mento, osservandola divertito.
«E queste cose come le hai sapute? Pettegolezzi di corridoio?» chiese, con tono vagamente sorpreso. Sue scosse il capo.
«Che importanza ha? Vorreste negarlo?».
Nessuno rispose, e lei prese quel silenzio per un assenso: aveva ragione lei.
«…perché ha le mani in pasta anche con la Resistenza? La Resistenza ha forse a che fare con ladri ed assassini?».
La frase generò una reazione diversa per ognuno dei presenti: Egon sembrava colpito da quel ragionamento, mentre Atan, vagamente imbarazzato, continuava a scrivere; Said era divertito e la guardava fisso, mentre Arak guardava proprio quest’ultimo; Nimar si grattava il capo, evitando lo sguardo di Sue.
Da quella moltitudine di reazioni, Sue capì una cosa: probabilmente Marik non era l’unico ladro… o l’unico assassino. E ne fu amareggiata: si era aspettata un’organizzazione nobile, che combattesse i poteri forti tramite i sotterfugi politici, certo, ma pur sempre un qualcosa di onesto… una specie di “battere con la loro stessa moneta” la monarchia assoluta e il razzismo e la misoginia imperanti.
Ora, invece, scopriva che era tutta immaginazione e, praticamente, Erik le aveva raccontato un mucchio di balle: Tarish evidentemente controllava anche loro… o comunque forniva loro qualcosa, forse reclute come Marik, per cui in ogni caso la Resistenza non poteva definirsi pulita.
A proposito di Marik…
«Il cugino di Yukab ha accennato che ci sono modi molto veloci per spostarsi da quest’isola maledetta e andare in altri luoghi… che modi?».
«Questo lo scoprirai fra un po’. Per ora non possiamo dirti nulla, mi spiace» Nimar sorrise appena, scuotendo il capo, e Sue accettò quella risposta: non si aspettava nemmeno che rispondessero a tutte quelle domande, in effetti.
«Ho quasi finito le domande. Le ultime sono: cosa comporta essere nella Resistenza? Ho diritti particolari? Doveri particolari? Cosa posso fare nel tempo libero? Qual è il ruolo di ognuno di voi nella Resistenza? Quale sarà il mio?» chiese ancora, e sentiva le tempie pulsare, quindi prese un respiro rendendosi conto di non stare più respirando. Atan aggrottò la fronte e, finito di scrivere, commentò cauto mentre si sistemava gli occhiali:
«Alcune le avevi già poste…».
«Me ne frego» rispose brusca lei, e si voltò per guardare se ci fosse una sedia dietro di lei… ma c’era solo la parete ricoperta da un enorme arazzo; così, in modo del tutto brusco e sgraziato, scostò una sedia dal capotavola e vi si sedette, senza riuscire più a stare in piedi: tremava dalla stanchezza. Ma la determinazione a sapere tutto la tenne sveglia, a fissare torva i presenti. «Ho finito. Quando avrete risposto a tutto, potrete farmi anche voi le domande che volete» annunciò sommessamente, nel caso non si fosse capito.
«Cara, sei molto stanca… se solo tu potessi aspettare fino a domani per questo, noi…» Nimar si portò i capelli dietro un orecchio, nervoso.
«Così voi potreste accordarvi sulle risposte? Neanche morta, mi rispondete qui ed ora» osservò lei, cupa, e Said fece segno ad Atan di passargli le domande scritte, così che potesse consultarle. Passò qualche secondo di silenzio, e Sue capì che il vecchio era probabilmente il capo in assenza di Nidàl, o comunque ne svolgeva le funzioni.
«Partiamo dalle domande che ci riguardano più da vicino» esordì, e incrociò le dita sul tavolo, riflettendo. «Nidàl non è presente perché è occupato nelle attività della Resistenza. Ci ha detto di occuparci di te, ed è quello che faremo. In merito a questo e alla tua domanda sul tempo libero, ci ha suggerito di proporti di insegnarti qualcosa, prima della missione… così che tu possa capire che non abbiamo intenzione di farti del male o di ingannarti, anzi, tutt’altro: vogliamo fornirti i mezzi per sopravvivere anche da sola, senza di noi. Non ci appartieni, Sue, non sei una schiava, ma una donna libera» ammiccò, e Sue si irrigidì appena, ma mantenne le orecchie a mezz’asta, né abbassate né dritte.
«In merito al non essere una schiava…» Arak si mosse sulla sedia, chinandosi sul tavolo e guardandola fisso con gli occhi verdi. «Non serve che tu faccia lavori forzati nei campi per mantenerti e guadagnare i beret necessari alla spesa. Qui ognuno di noi lavora nei campi dell’albero-casa, a turno, o a volte tutti insieme quando ad esempio c’è la mietitura o da raccogliere frutta. Non è raro che facciamo conserve tutti insieme, in estate, ma ormai la stagione è passata e siamo agli inizi dell’autunno, dunque non è qualcosa che deve preoccuparti…» commentò, facendo un gesto vago con le mani. Sue batté le palpebre: non era certa di aver capito.
«Non devo lavorare?».
«Ci sono dei turni» ripeté Arak. «A seconda del bisogno, questi turni possono essere revisionati… ora sarai inserita anche tu, e non ti preoccupare, non sono cose complicate: si tratta di semplici lavori domestici».
«Mi stai dicendo che li fanno anche gli uomini? Per davvero?» chiese sospettosa, incrociando le braccia sul petto e lottando per rimanere attenta; tenere le orecchie in alto la aiutava molto, perché le tendevano tutti i muscoli del viso, e se questi iniziavano a dolere non rischiava di addormentarsi.
«Oh, ovviamente» Said ridacchiò, come fosse stupito da quella domanda. «Arak, Nimar ed Atan sono maniaci del pulito, onestamente, e se ti vedono fare errori ti riprendono immediatamente. Abbiamo tutti imparato a non farne… o a non farci vedere» ghignò, e Sue sorrise appena; stava per commentare, ma Egon la precedette:
«È anche perché finora nella Resistenza non abbiamo avuto molte adesioni di donne… Prima di Catherine c’era Marika, e solo ora ci sei anche tu: se avessimo aspettato le donne, questo posto non sarebbe così pulito come lo vedi» sorrise appena, e Sue batté le palpebre, stupita.
«Ci siamo solo io e Cat?» chiese, poi aggrottò la fronte. «E Rapheya? E sua moglie?» inarcò un sopracciglio, stupita che non le avessero contate. Said intrecciò le dita delle mani e sospirò.
«Non sono donne» ridacchiò. «Rapheya è esclusa dai turni di pulizia per ridotte capacità motorie, come puoi ben intuire… e Will ha ben altre faccende di cui occuparsi che non siano pulire casa. Anche se entrambe potrebbero usare un gesto del dito per eliminare lo sporco, preferiamo non abusare della loro pazienza, ecco» sorrise appena, e a Sue sembrò nervoso, così restò a guardarlo con sospetto, in attesa che continuasse. Invece, l’uomo guardò la lista e si grattò i capelli, producendo un suono simile ad uno spazzolino nonostante non fossero poi così corti.
«Ci hai chiesto come mai siamo su quest’isola… beh, prima eravamo nella Foresta del Re, che è da sempre infestata di banshee dopo il tramonto: la nostra base era l’unico luogo protetto in cui potessimo rifugiarci. Tuttavia era fin troppo vicina alla capitale, e ci hanno scoperti dopo un po’ di andirivieni dalla foresta. Non è stata una scelta saggia, in effetti» borbottò, e Sue trovò la storia plausibile, dunque non fece obiezioni; sciolse le braccia dal petto e le appoggiò al tavolo, a disagio. «Vedi, c’è un solo modo per andare nei continenti senza problemi di sorta, e in modo veloce: Portali. Questa casa ne è piena, e te li mostreremo domani o nei prossimi giorni. Per ora non ti serve sapere altro. Inutile specificare che è grazie ad essi che siamo in grado di controllare ciò che succede nei Tredici Regni» ammiccò Said, e Sue sospirò.
«Portali? Come quello che ho attraversato per tornare qui da Narda?» chiese, per capire meglio. Said agitò una mano, per dirle:
«Più o meno. Quello per Narda era un Portale per un’altra Dimensione… in questo caso, si rimane nell’ambito dello stesso mondo, ecco».
«Come viene creato un Portale?» chiese allora Sue, e Nimar ridacchiò.
«Queste informazioni, se vorrai, insieme alle risposte delle domande sui Portali che ci hai già posto, le troverai in questa biblioteca. Meno domande di questo tipo ci fai, prima potrai andare a dormire» suggerì, e Sue arrossì tutta in una volta: quindi si vedeva così tanto che il letto la stava chiamando a gran voce dal piano di sopra? Abbassò le orecchie e strinse i denti, trattenendo uno sbadiglio: no, il sonno non l’avrebbe avuta, non ancora.
«Passiamo alle domande che sono per noi più tristi» Egon prese il foglio di mano a Said, che lo guardò con tutto il disappunto possibile negli occhi gialli. «Il punto delle morti dei nostri compagni è proprio quello che avrai sicuramente intuito e che ti spaventa…» l’uomo sospirò, poi sorrise appena, amaro. «Non c’è un punto. Credevamo fosse un incantesimo sicuro, non mortale, e soprattutto credevamo che avrebbe comportato al massimo una perdita di energia tutto sommato accettabile».
Sue restò immobile, e ricordò cosa aveva detto Nimar quando si erano incontrati lì in biblioteca la prima volta: lei aveva detto “Noi, e i nostri due cavalli”, e lui si era scurito in viso: “Ah, certo” aveva borbottato, come se tutto avesse avuto un senso. Ora aveva senso anche per lei: non sapeva come funzionassero gli incantesimi, certo, ma poteva intuire che lo scopo era portare solo lei lì sull’Isola di Nessuno… ed era quello ad esserle sfuggito fino ad allora. Toccando sia Yukab sia i cavalli mentre veniva strappata via dall’incantesimo, l’energia richiesta era diventata troppa, e il pagamento era stato la morte di quei quattro maghi. Non era stata colpa di nessuno; lei era assolta. Sorrise, voleva quasi ringraziare, ma si fermò: sarebbe stato probabilmente di cattivo gusto sottolineare che era stato un loro errore, e che lei non c’entrava proprio nulla, quindi tacque.
«Andiamo avanti» Nimar si schiarì la voce e pretese la lista di domande, da cui Egon stava cancellando le prime a cui avevano risposto. Il mago restò a mano tesa e, quando la lista gli fu consegnata, sorrise nel leggere la domanda che gli era toccata. «Will… come spiegare chi è Will? Semplificando, potremmo dire che è la Regina Madre dei Sayn» sorrise, e la ragazza inarcò le sopracciglia, aprendo la bocca per porre mille altre domande, ma Nimar sollevò una mano per fermarla, e lei la chiuse. «Will è una Sayn incredibilmente potente, e si è data come missione quella di interferire in più mondi possibile contro soprusi ed ingiustizie. Ed è per questo che ci consente di usare una delle sue residenze come base per la Resistenza» sorrise appena, e Sue aggrottò la fronte.
«Non è… contro tutte le regole possibili dell’anacronismo? Interferire e tutto quanto?» chiese, confusa, ma Nimar scosse il capo.
«Il termine “anacronismo” non si applica a questi casi… serve solo a definire gli oggetti, le frasi o le lingue al di fuori di una realtà o di un tempo specifico» spiegò gentilmente, e Sue abbassò le orecchie.
«Lo so cosa vuol dire anacronismo» protestò a viva voce, imbronciandosi. «Mi chiedevo appunto come può una Sayn, che è una creatura di questo mondo, interferire con affari di altri mondi magari diversissimi, come il mio» spiegò, quasi offesa dal fatto che l’avessero considerata così stupida. Nimar, con sua meraviglia, ridacchiò.
«Il fatto è» spiegò ancora. «che i Sayn appartengono a qualunque mondo, Sue».
Il suo nome suonava strano detto da lui, e si rese conto che probabilmente stavano parlando ognuno una lingua diversa: fece scorrere il proprio sguardo su tutti i presenti, e alle orecchie di ognuno vide degli orecchini; alcuni li avevano sul lobo come lei, altri sulla cartilagine, ma tutti ne avevano almeno uno… si chiese allora quale lingua stesse parlando Nimar, ma sorvolò sulla questione e si applicò su ciò che invece gli aveva appena detto.
«Qualunque mondo?» chiese infatti sbigottita. «Che vuol dire? Che sono anche nel mio mondo? A Narda?» specificò in fretta, e Nimar annuì.
«Non c’è vita, se non c’è almeno un Sayn a promuoverla in ogni mondo» disse, poi scosse il capo. «Questi concetti sono lunghi e forse troppo elaborati per essere esplicati in questa sede… Potrei suggerirti alcune letture al riguardo, così che tu possa soddisfare la tua curiosità, ma ora non abbiamo davvero il tempo di spiegarti tutto ciò che riguarda i Sayn» sorrise appena, come per scusarsi, e cancellò la domanda a cui aveva sommariamente risposto, passando il foglio ad Arak, che sospirò e alzò gli occhi al cielo.
«“Perché siamo pochi?”» citò così come era stato scritto, e Atan storse la bocca. «Beh, non siamo un’organizzazione delle più numerose: i nostri interessi sono scomodi e pericolosi, e spesso finiamo con la testa sul ceppo o con un cappio al collo… Ah, questo risponde anche ad un’altra domanda, mi pare: “Qual è la durata media di un membro della Resistenza?”. La durata media dei nuovi membri ultimamente è calata molto: le nuove generazioni non sanno più sfuggire alle Guardie come una volta… Come vedi, la nostra generazione ha prodotto parecchi superstiti» ghignò, e Sue abbassò le orecchie guardandolo fisso: lei era sfuggita alle Guardie per quattro anni, dopodiché l’avevano catturata: poteva avere una stima vaga da quell’esperienza? «Diciamo che in termini di tempo, un membro nuovo della Resistenza, se viene addestrato come si deve, può durare anche dieci anni. Più realisticamente, ne dura al massimo due o tre» fece una smorfia, e lanciò il foglio ad Atan perché cancellasse le domande a cui aveva appena risposto. L’uomo con gli occhiali sospirò e posò i foglietti, massaggiandosi una tempia.
«Io mi prendo le domande più semplici – quelle che riguardano gli elettrodomestici, insomma – perché credo di essere forse l’unico a poter soddisfare la tua curiosità in merito» sorrise, intrecciando le dita delle mani e rileggendo le domande in silenzio; Sue a quel punto stava rischiando davvero di addormentarsi, così si schiarì la voce e si alzò, seguita da cinque paia d’occhi, e prese a misurare il poco spazio davanti al tavolo a lenti passi: le doleva tutto, e si sentiva disattenta e pesante… che fosse stata anche la tisana a rilassarla e renderla così stanca?
«Gli elettrodomestici vengono alimentati dall’energia di coloro che vivono in casa» le spiegò Atan, sistemandosi gli occhiali sul naso, e Sue seguì il suo movimento, interessata.
«Energia di chi vive in casa?» chiese, confusa e ora bene all’erta. «Cioè, si nutrono… della nostra vita?».
«No, non esattamente» Atan scosse il capo, contraendo le labbra. «Si nutrono della nostra energia vitale, insomma, di quella che acquisiamo durante il sonno e con il cibo. È una quantità esigua di energia, soprattutto visto che abbiamo Rapheya a calibrare i due macchinari» sorrise poi, e Sue annuì cautamente.
«Suppongo sia plausibile» ammise, senza avere il cuore di dirgli che stava capendo ben poco: tutti quei meccanismi di incantesimi e magie le erano perfettamente sconosciuti, e non riusciva a seguire un discorso che ne prevedesse una conoscenza pregressa.
«Sulla questione del fatto che la maggior parte di noi non sappia cosa siano gli elettrodomestici, non posso smentirti: li usiamo perché sono qui, altrimenti ne faremmo a meno».
«Parla per te» borbottò Egon, e Arak ridacchiò; Said invece restò in silenzio, con lo sguardo rapace fisso su di lei come se volesse strapparle le carni ed esporre a nudo la sua anima; intimidita e in buona parte spaventata da quello sguardo così intenso, Sue distolse il proprio e lo portò nuovamente su Atan, che aveva cancellato le due domande.
«I soldi che infiliamo nel frigorifero…» l’uomo sembrò rifletterci, ma non sembrava sicuro quando continuò la frase: «…suppongo che vengano fatti casualmente trovare al mercante a cui appartiene la merce che viene “acquistata”, in modo da risarcirlo per la perdita apparente di tale merce» poi scosse il capo. «A dir la verità non saprei con precisione, so solo che i soldi spariscono e vengono dati al mercante; il modo in cui ciò avviene mi è ignoto» sorrise appena, e passò la lista ad Egon, che si lisciò con una mano i capelli mossi e lesse la prima domanda che gli capitò sotto tiro:
«Da dove viene il tuo nome? Oh, una domanda interessante» si illuminò, come se fosse felice di aver preso proprio quella, e si sistemò meglio sulla sedia mentre iniziava a spiegare. «Vedi, il tuo nome è stato ovviamente scelto dai tuoi genitori, anche se probabilmente potremmo dire che è stato scelto più che altro da tuo padre» Sue si fece attenta, e commentò amara:
«Perché mia madre era già morta, giusto?».
Egon annuì e sorrise appena.
«Tuttavia, tuo padre scelse due dei tuoi nomi e disse che a tua madre piacevano due degli altri. Tuo padre mi ha inoltre spiegato il perché di ogni nome, e se vuoi io te lo…».
«Sì, per favore, dimmelo» lo pregò la ragazza, abbassando le orecchie e infilandosi le mani in tasca, in ascolto.
«Allora… Elizabeth è un nome molto recente, e posso sicuramente dirti che deriva da contaminazioni esterne a questo mondo. A tua madre tuttavia piaceva tanto, tuo padre disse che le faceva pensare alla libertà, e così quando fu il momento di darti il nome, fu il primo che scelse» sorrise nel raccontare quella piccola storia, e proseguì: «Arýa è un nome breve per avere una vita lunga: è elfico, e vuol dire “leggiadra”. Nual è la forma abbreviata di Nuala, che vuol dire “eccezionalmente amata”, ed è quello che i tuoi genitori volevano che fossi…» lo sguardo di rammarico e compassione di Egon le fece voltare il viso, e Sue riprese a camminare avanti e indietro, sentendo un groppo in gola.
“Eccezionalmente amata. Volevano che fossi eccezionalmente amata”.
«“Morgana” è invece un nome estremamente interessante» proseguì l’uomo, riluttante nel vederla rifiutare il contatto visivo. «Vuol dire “mare luminoso”, oppure “cerchio del mare”, e tuo padre lo trovava estremamente musicale da pronunciare, finendo per mettertelo» sorrise soddisfatto, prendendo il pennino da Atan e tracciando una riga sulla domanda.
«Manca qualcosa» Sue sollevò gli occhi, attenta, e Egon ricambiò il suo sguardo con esitazione prima di annuire.
«Dhì» confermò, restio a dirle di più, così la ragazza lo incoraggiò:
«Che vuol dire?».
L’uomo unì le punte delle dita delle mani, poi contrasse un angolo delle labbra e se le leccò prima di proseguire con un sospiro rassegnato.
«Vuol dire “Due”».
«Due? Due che?» Sue inarcò un sopracciglio, e Egon scosse il capo.
«Sei la seconda bambina sopravvissuta» chiarì, e la ragazza sentì il cuore accelerare.
«Ho un altro fratello? Un’altra sorella?» sussurrò, ma in qualche modo Egon dovette sentirla perché scosse il capo con veemenza.
«No, è morta prima di te. Avresti fatto la stessa fine, se non ti avessero salvata» sorrise appena, e Sue abbassò le orecchie, delusa.
«Dunque sono la seconda. E mio fratello? È il terzo?».
«Crediamo di sì… ma non ne siamo certi. A rigor di logica, dovrebbe chiamarsi “Týrid” di cognome, tienilo a mente per quando lo cercherai» le suggerì, e Sue annuì decisa: se ne sarebbe ricordata, ma non credeva che qualcuno potesse essere tanto sciocco da mantenergli il cognome originale, sapendo che tutti lo cercavano… il che le faceva dubitare anche dell’intelligenza di suo padre, e della Resistenza: come potevano averle mantenuto il cognome datole da quelli che la volevano solo sfruttare? Contrasse istintivamente un angolo delle labbra, e quel gesto sembrò divertire Said.
«A cosa pensi, donzella?» la richiamò alla realtà, e Sue si strinse nelle spalle.
«Alla domanda più importante».
Said fece segno di passargli il foglietto, su cui alcune domande erano ancora valide, ne cancellò alcune senza rispondere, e poi commentò:
«Fammi indovinare… ti riferisci alla questione di tuo fratello».
Sue annuì in silenzio, attendendo una risposta, e Said fece un sorriso sghembo.
«Tuo fratello, come sappiamo solo ora, è cresciuto nello Stato di Saragà. Per tutti questi anni lo abbiamo cercato nel Regno di Mame e nel Regno di Isarnon, senza osare pensare che fosse dall’altro capo del mondo. Ora, in teoria, dovrebbe essere ancora in Saragà… per cui tu potresti trovarlo e portarlo da noi» affilò lo sguardo, in attesa che Sue controbattesse. Accigliata, la ragazza chiese infatti:
«Perché ne facciate cosa? Carne da macello?» chiese, e Said scosse il capo.
«Noi vi abbiamo a cuore, Eli…» un’occhiata feroce da parte della ragazza lo fece interrompere, e Nimar suggerì un “Sue” sussurrato, per cui Said fece un gesto stizzito. «Noi vi abbiamo a cuore, Sue» disse burbero, poi si alzò. «E questo incontro è durato anche troppo. Ultima domanda a cui risponderò, dopodiché te ne andrai dove ti pare» e dicendolo accartocciò la lista per intero. «I nostri ruoli sono definiti, come avevi forse intuito: Atan è il bibliotecario, nonché esperto di magia teorica e meccanismi magici» borbottò, e l’interessato sorrise imbarazzato, pulendo il pennino contro il panno e chiudendo la boccetta d’inchiostro. «Egon è un maestro di scherma, e se hai curiosità sulle creature che popolano questo mondo è a lui che devi chiedere» l’uomo si aggiustò il colletto della tunica che indossava, sorridendo appena. «Io sono il secondo in comando per Nidàl, e la massima autorità dopo di lui; puoi rivolgerti a me per qualsiasi cosa, al massimo ti mando da qualcun altro se può occuparsi meglio del tuo problema» si presentò burbero, mentre frugava con una mano in una tasca della giacca che indossava: ne tirò fuori una pipa, che iniziò a riempire di tabacco prelevato da un piccolo sacchetto di iuta. «Arak è il nostro…» lo interrogò con lo sguardo, come se si chiedesse quale ruolo ricoprisse l’amico, e l’interessato ridacchiò divertito.
«Cretino» lo apostrofò, e Said fece un cenno affermativo.
«Sì, Arak è il nostro cretino» confermò, mortalmente serio, e a Sue scappò l’accenno di una risata.
«Cosa fa?» chiese allora, curiosa, e l’uomo accese un fiammifero per accendersi la pipa.
«Si occupa della serra, e della creazione di unguenti non magici» rispose laconico, poi sembrò riflettere. «Si potrebbe dire che è il nostro erborista» fece un cenno pressappochista con il capo e Sue ridacchiò.
«Non sembri tanto convinto».
Gli occhi gialli di Said lampeggiarono divertiti, ma non commentò; piuttosto, proseguì:
«Infine, Nimar è il nostro mago… l’unico rimasto, a dire il vero» aggiunse con un mormorio di disapprovazione ed amarezza, e Nimar si strinse nelle spalle.
«Vedrò di trovarmi un allievo» sorrise appena, triste, e Sue si morse le labbra.
«Mi dispiace per quello che è accaduto. Non mi sono neanche accorta di non avervi porto le mie condoglianze» disse piano la ragazza, ma Said fece un gesto brusco con la mano che non reggeva la pipa.
«Tienitele, le condoglianze… non ci servono. Va’ a dormire, ora, e domani parleremo della tua istruzione» borbottò burbero, e Sue rizzò le orecchie.
«Istruzione? Che istruzione?» chiese stupita, e interessatissima.
«Beh, dovrai pur imparare a leggere e scrivere la lingua comune dei Tredici Regni, prima o poi» Said inarcò un sopracciglio, dando una prima tirata alla pipa, e sprigionando una nuvoletta di fumo bianco che lo avvolse per qualche secondo prima di venire dispersa nell’ambiente. Sue abbassò appena le orecchie, delusa.
«Ah… so già leggere e scrivere il mamiano» riferì, e Said fece un cenno sbrigativo.
«Ottimo, così possiamo proseguire senza intoppi. Ti serve un po’ di cultura e storia dei Tredici Regni, così non risulti… anacronistica» e sorrise nel dire quella parola, evidenziandola con la voce come se gli piacesse particolarmente pronunciarla. «E poi dovrai imparare a difenderti. Sei magrolina: magari non sarai molto forte, ma sei sicuramente veloce, dico bene?» chiese, ammiccando, e Sue annuì impercettibilmente per confermare, con le labbra dischiuse appena per la sorpresa: volevano… addestrarla?
Cosa si aspettano da me?”.
Si stropicciò un occhio: non riusciva più a pensare lucidamente, così fece un gesto sbrigativo.
«Ne parleremo domani, se permettete… ora ho solo bisogno di dormire» commentò, vedendo che Said stava per prendere di nuovo parola. Il vecchio si quietò e sbuffò una nuvoletta con la pipa, che lo avvolse prima di disperdersi e lasciare l’aria un po’ fumosa, con un odore particolare che Sue non riconobbe affatto come tabacco.
«Bene. Nimar, puoi scortarla alla sua stanza?» sorrise Egon, alzandosi e stiracchiandosi. «Smammate, mi serve la biblioteca: devo studiare delle specie di fatine molto interessanti che–».
«Qualcuno te l’ha chiesto?» chiese Arak, e sembrò genuinamente curioso nel porre quella domanda. Egon restò interdetto e l’amico ghignò, alzandosi: mentre si affrettava ad uscire, il mantello nero che indossava anche in casa – strano, dato che faceva parecchio caldo – si gonfiò e poi gli aderì al corpo quando aprì la porta e scomparve nel corridoio. Sue incrociò le braccia sul petto, mentre anche Atan si alzava e si rifugiava in un altro ambiente della biblioteca, dietro gli scaffali che facevano da sfondo a Said, seduto all’altro capotavola. Il vecchio rimase immobile a fissarla, e lei ricambiò quello sguardo con sfida; che voleva? Non sarebbe stata di certo l’ultima ad abbassare lo sguardo. Un lampo divertito passò negli occhi gialli che stava fissando, e si accorse che Nimar la stava chiamando: sembrava esausto, e Sue notò nuovamente le grandi borse viola sotto gli occhi che gli risaltavano sulla pelle pallida. Troppo tardi si rese conto di aver distolto lo sguardo da Said e, mandandolo intimamente al diavolo senza più guardarlo, seguì Nimar fuori dalla biblioteca, dirigendosi con lui nella Sala Rotonda.
«Come mai sei pallido? Ho sentito dire che gli elfi sono tutti di pelle scura» gli fece notare, e l’elfo sorrise.
«Questo perché non sono un elfo… anche se non è vero che tutti gli elfi hanno la pelle scura» ridacchiò, e Sue restò interdetta. Si grattò la nuca, con la testa che le ronzava, e protestò:
«Ma avevi detto…».
«Io non ho mai detto nulla sulla mia razza» le fece notare lui, e la ragazza scosse il capo: non ricordava, onestamente. «Sono un Hybris. Chiamarmi “elfo” la rende più facile, però, e non mi offendo affatto» si strinse nelle spalle, sospirando.
«Ecco, un’altra parola che non conosco» protestò lei, mentre il mago iniziava a salire la scaletta a chiocciola.
«Vuol dire “ibrido”. È una parola…» esitò, poi scosse il capo, divertito: «diciamo elegante per “mezzosangue annacquato”» sbuffò, lasciandosi sfuggire un sorriso teso mentre lei lo seguiva al primo piano. «Sono figlio di una mezz’elfa e un essere umano con un’antenata ninfa… non so in che grado fosse imparentato con essa» spiegò, e Sue inarcò un sopracciglio.
«Quindi sei… per un quarto elfo?» chiese, ignorando la parte sulla ninfa, e prima ancora che potesse rispondere continuò: «Ma la pelle scura non è dominante ugualmente? Cioè, sei proprio pallido… almeno quanto me» ridacchiò, e lui scosse il capo.
«Le caratteristiche elfiche sono recessive».
«Però hai i capelli blu notte».
«Solo fortuna».
Sue tacque, mentre Nimar imboccava il corridoio ad ovest: superarono due porte – su entrambe v’erano delle lavagnette d’ardesia, e in caratteri mamiani su entrambe vi era un nome: la prima a destra recava scritto “Tarish”, mentre la seconda, a sinistra, era di una certa “Kitty” con dei cuori… che Sue interpretò essere di Cat. Il corridoio si incrociava con un altro: a terra in entrambe le direzioni vi erano i simboli per il nord e il sud, ma Nimar continuò a percorrerlo verso ovest: sulla terza porta, la lavagnetta di ardesia era libera, mentre sull’ultima – Sue sbirciò – c’era scritto “Atan”.
«Questa è la tua stanza. Cerca di riposare, non hai un bell’aspetto» Nimar sorrise appena, e Sue ricambiò tendendo le labbra gentilmente.
«Anche tu dovresti riposare… penso tu abbia un aspetto peggiore del mio» ridacchiò, e Nimar scosse il capo.
«Buon riposo. Ah, e non dimenticare di scrivere il tuo nome sulla lavagnetta… trovi il gesso sulla scrivania, o in uno dei suoi cassetti».
Detto questo, Nimar si allontanò, percorrendo il corridoio in direzione opposta da cui erano venuti, e Sue restò da sola nel corridoio stranamente illuminato: non c’erano finestre, ma il legno rifletteva una qualche fonte di luce giallognola; Sue si guardò attorno, arrivando a squadrare anche il soffitto: lì, infatti, ondeggiava una fila di tre palline di dolce luce calda e soffusa. Meravigliata per quelle cose straordinarie che non aveva mai avuto la possibilità di vedere, si decise ad aprire la propria porta: un fiotto di luce pomeridiana le investì i piedi nudi, e lei entrò nella stanza.
La prima cosa che notò fu il letto: un vero letto, con paglia che non spuntava da nessuna parte, e con coperte che sembravano in vero cotone e non di quella specie di stoffa simile ad esso che coltivavano e filavano nel Regno di Isarnon. Si sedette sul copriletto bianco, mentre una pesantezza terribile le coglieva gli arti; stanca, si guardò ancora intorno, mentre la luce che penetrava dalla finestra le riscaldava la schiena. Vicino la porta c’era un armadio, e non aveva idea se fosse vuoto o vi fossero già dei vestiti; curiosa, si sporse e con un piede socchiuse un’anta: c’erano jeans e magliette, ma anche abiti medievali e… pantofole. Un bel paio di pantofole comode. All’idea di scenderci giù a far colazione arrossì di imbarazzo… ma nessuno poteva sapere che le aveva indossate, lì in camera sua. Se le mise ai piedi e sospirò: camminare sul legno levigato era stato piacevole… ma avere i piedi avvolti in qualcosa di morbido, per la prima volta in anni, era semplicemente poesia per la sua pelle maltrattata.
Oltre all’armadio, sulla parete opposta al letto c’era tutto l’occorrente per il bagno: un armadietto, un lavandino con tanto di specchio – che Sue evitò accuratamente di guardare: non era pronta ad affrontare il proprio riflesso, non ancora – e addirittura nell’angolo in fondo c’era una cabina doccia, forse per lavarsi in fretta al mattino. Oltre a quello, in fondo alla stanza c’era una scrivania, e vicino il letto c’era una libreria – vuota, ma vi avrebbe posto rimedio, fosse anche solo rubando libri alla biblioteca.
Soddisfatta per quella sistemazione – nonostante le sembrasse una cella di prigione, con tanto di bagno –, Sue si alzò e esaminò più da vicino il contenuto dell’armadio, cercando qualcosa che somigliasse ad un pigiama… ma non trovò nulla del genere, per cui si tolse i jeans e si rassegnò all’idea di dormire mezza nuda, nonostante non ci fosse per niente abituata.
Crollò tutta d’un colpo, come un masso di un quintale mollato in acqua, e non ebbe nemmeno il tempo di sistemarsi per bene sotto le coperte, restando dunque scomposta fra queste ultime e il materasso, con un piede fuori e i capelli in un groviglio insensato sul viso.

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Capitolo 6
*** Willow- La falsa Contessina ***


V
Willow
La falsa Contessina
 
mattino, 12 Gjorna 684 d.C.
L
a luce filtrava dalle pesanti tende in modo fioco, conferendo alla stanza un colore sanguigno che le faceva rassomigliare l’interno di un grembo… ma pur essendo una luminosità soffusa e debole, era bastata a svegliare la Contessina.
Willow del Clan Thearor, della Contea dei Laghi, avrebbe voluto tornarci volentieri, nel grembo materno, se solo avesse significato trovare un po’ di pace… ma sapeva bene che non era così, per cui si limitò a fare un cenno alla sua schiava dal morbido letto in cui si era svegliata; questa si affrettò a chiudere meglio la prima fila di tende rosse e a serrare anche quelle blu: l’oscurità fu così completa, ma nonostante avesse lasciato passare qualche minuto nella più completa oscurità, Willow non riuscì a ri-addormentarsi.
La Contessina si sporse così sul letto ed accese una candela: era appena passata l’Ora Terza[1], come segnava l’orologio sul comodino, ma lei era ugualmente stanca e le tempie le pulsavano terribilmente. Aveva concesso al corpo di riposare per diverse ore, il giorno prima, dopo l’incontro con il giovane Aykir, e anche la mente aveva vagato libera per tutto il tempo che era intercorso fra il loro incontro e l’ora di andare a dormire… ma ora che si era risvegliata era di pessimo umore, e non riusciva a pensare ad altro che al mal di testa. Con un gesto secco si allontanò dalla fonte di luce, che le peggiorava il cerchio che le stringeva il cranio in una morsa, e chiamò con voce gelida:
«Niva».
La schiava emerse solerte dall’ombra, e aggirò il letto: la guardò apprensiva, sondandola alla fioca luce della candela.
«Come siete pallida, mia signora… più bella del solito, certo, ma siete sicura di stare bene?» chiese subito, cercando con lo sguardo il permesso di tastarle la fronte e le guance, per controllare che non scottasse; nel guardarla, Willow ricordò che quella schiava le era stata regalata dal padre quando aveva a stento tre anni, ovvero quando la sua nutrice se n’era andata perché “non era pagata per sopportare certe cose”. Al ricordo sorrise appena, e la schiava ricambiò il sorriso, prendendolo per un consenso e saggiandole la temperatura con il palmo delle mani e con l’interno dei polsi.
Persino il nome glielo aveva dato proprio lei: “Niva”, perché la schiava aveva i capelli bianchi e argentei, e a quell’età chiamava così la neve, che aveva visto solo due volte in viaggio con il padre. Le aveva dato il nome della cosa più pura che conoscesse… e si era rivelato un nome azzeccato: quella schiava non era piena di rancore verso di lei, sua padrona, o verso la propria condizione di schiavitù. Le aveva infatti sempre fornito tutto l’affetto di cui era capace, e paradossalmente aveva continuato persino quando Willow le aveva reso la vita impossibile durante la prima adolescenza, quando l’aveva fatta fustigare, o quando l’aveva fatta punire perché da adolescente era scappata o quando semplicemente la divertiva avere il potere di fare una cosa simile a qualcun altro.
I tempi erano cambiati, però, da allora… e anche lei era molto cambiata.
Non la divertiva più la crudeltà verso i suoi simili… anzi, le dava la nausea, ormai. Se si arrabbiava era capace di fare cose abbastanza sciocche, ma non la dilettava più la sofferenza altrui, a meno che non fosse per uno scopo più alto.
E il suo scopo più alto la animava da così tanto tempo che si pentiva di averne perso troppo da giovane. Willow aveva sempre rifiutato mariti facoltosi e nobili di quart’ordine, semplicemente perché non le permettevano di agganciarsi ad un potere superiore rispetto a quello che aveva già: i suoi genitori volevano un matrimonio tranquillo per lei, che non prevedeva infatuazioni ma semplici affari… ma la Contessina, sin da ragazzina e forse addirittura sin da bambina, desiderava invece non solo il grande amore, ma anche di più… Un principe della Corona sarebbe stato perfetto per lei; ma anche un  Marchese o un Duca le sarebbe andato bene… di certo non voleva scendere di grado per adeguarsi a quello del suo futuro marito. Di tutti i Baroni, cavalieri e lord che le si erano presentati, nessuno aveva attratto la sua attenzione: erano viscidi o avidi, interessati solo alle sue ricchezze di donna o di famiglia, e questo pur essendo uomini nobili od ordinati, persone che avevano dunque combattuto come suo padre in guerra, oppure che erano già ricche da parte propria.
Avevano tentato di sedurre la donna sbagliata. A Willow non interessavano soldi, gioielli, bellezza… lei voleva solo un principe che l’amasse, e grazie al quale – o addirittura un uomo più nobile insieme al quale – scalare la società; da lì avrebbe potuto fare il bello e il cattivo tempo con il proprio piccolo pezzo di potere. Non avrebbe avuto alcuna difficoltà a manipolare chi fosse stato ancora più in alto di lei, perché fossero conferite a suo marito cariche di ogni tipo, onorarie o meno…
Ma arrivata a quel punto erano tutte fantasticherie, se non agiva subito: aveva più di trent’anni, ormai, e per gli standard era piuttosto vecchia per sposarsi e dare eredi decenti… Le richieste di matrimonio erano andate diradandosi, ed erano ormai un paio d’anni che non ne riceveva nessuna. Non che la cosa la indisponesse: la intristiva solamente che i suoi genitori non avessero divulgato fra i più potenti che lei cercava marito, per tutti quegli anni… ma non si era abbassata ai loro standard, nel tempo. Lei aveva ben altri metodi per raggiungere le vette del Regno. Probabilmente qualcuno li avrebbe reputati non così puliti, ma…
«Siete un po’ calda, mia signora… Forse è meglio che oggi restiate a letto».
Niva la strappò da quelle considerazioni, e purtroppo la riportò a prendere atto del suo problema più grande in quel momento, ovvero il mal di testa.
«Certo» mormorò distrattamente, e la schiava le sorrise dolcemente, passandole una mano fra i capelli per ravvivarli; quel gesto le portò un po’ di conforto, e si massaggiò gli occhi che sentiva pulsare allo stesso ritmo delle tempie, sospirando.
«Volete che vi porti qualcosa da mangiare? Dovete restare in forze se volete riprendervi» sorrise bonaria, e Willow fece un breve cenno affermativo.
«Il solito, per favore. Intanto accendi le candele nel mio angolo personale, ho bisogno di… fare una cosa» e, all’occhiata preoccupata della schiava fece un gesto stizzito. «Suvvia, non guardarmi così. Non è nulla di troppo pericoloso».
Niva si allontanò da lei e scostò un arazzo, bussando ad una porticina: conduceva ai cunicoli in cui i servi e gli schiavi strisciavano come ratti… Willow rabbrividì del sottile piacere del mistero, a quel pensiero: non le era mai stato permesso di avventurarsi in quei corridoi stretti, nonostante vi si sarebbe trovata molto più a suo agio. Invece, era stata costretta a vivere nella luce, negli spazi ampi e soleggiati del palazzo conteale; luoghi dai quali si sentiva sopraffatta. Pian piano poteva dire di averci fatto l’abitudine… ma nulla conservava per lei il fascino dell’aria viziata della propria stanza, in cui aveva vietato di far aprire le finestre se non una volta al mese, quando proprio era necessario – ovvero quando cadeva puntualmente malata, e Niva doveva far cambiare l’aria perché gli spiriti maligni che la impregnavano potessero fuggire.
Osservò la schiava vagare per l’enorme stanza con un’altra candela accesa, per accendere quelle che adornavano un piccolo mobiletto da toeletta che Willow aveva trasformato in un angolo per gli incantesimi. Con l’età e la vita agiata di palazzo, Niva aveva preso peso: della figurina snella che ricordava da bambina, ora restava una donna adulta e un po’ grossa sui fianchi; i capelli, candidi come la neve che le dava il nome, le ricadevano in dolci e larghi boccoli sulla pelle scura della schiena scoperta. Il vestito che indossava lo aveva fatto cucire su commissione la Contessina per i suoi dieci anni di impeccabile servizio, e le stava stretto; era molto vecchio, ma doveva essere tenuto egregiamente dal momento che non mostrava i segni del tempo; ci si poteva accorgere che quest’ultimo era passato solo perché la moda delle balze e della vita alta era passata da più di quindici anni negli ambienti più alti della società.
Willow osservò con tristezza la sua schiena morbida e solcata di cicatrici: un tempo era stata davvero terribile con i suoi simili. Adesso, invece, non faceva che circondarsene… tanto che i suoi genitori avevano iniziato a brontolare al riguardo. Pensare a loro le fece venire una fitta in mezzo alla fronte, proprio sopra gli occhi, così smise immediatamente di rimuginare e si sedette sul bordo del morbido materasso, in cui praticamente sprofondava; il movimento rapido la destabilizzò, facendole girare la testa e vedere tutto nero per qualche secondo. Quando il capogiro si calmò e poté sentire il cuore battere all’unisono con le tempie doloranti, fece una smorfia verso Niva che attendeva ordini, reggendo la sua candela.
«Avvisa in cucina che sono indisposta, e che gradirei un rimedio per il mal di testa».
La schiava annuì e subito si diresse verso l’arazzo, spostandolo con la mano libera e battendo alla porta con la punta di una scarpa. Subito la porticina dei servi si aprì e Niva comunicò il volere della padroncina; la porta si richiuse e lei lasciò andare l’arazzo, che ricadde pesantemente sollevando un po’ di polvere dal pavimento.
La Contessina decise dunque di alzarsi; la camicia da notte candida che indossava si sollevò con uno sbuffo quando scese dal letto: il materasso era rialzato dal pavimento, sospeso su un telaio di legno e corde, per evitare che eventuali topi vi salissero sopra, o che dei draghetti indisponenti, poco più lunghi di un dito ed abilissimi a nascondersi, vi facessero il nido sotto. La donna prese con sé la candela accesa sul comodino e affrontò il buio della camera a piedi scalzi: sentiva che i tappeti che coprivano il pavimento di marmo erano sporchi di polvere, briciole e capelli, e quasi fu tentata di chiamare perché pulissero… ma pulire significava dover aprire le tende e le finestre, e in quel momento altra luce che le ferisse gli occhi non era richiesta, così come la presenza di dieci serve che portassero i tappeti in lavanderia, e altre dieci che li sostituissero con altri perché i suoi piedi non prendessero freddo.
Doveva aver assunto un’espressione facciale particolare, poiché Niva sembrava preoccupata.
«Mia signora, c’è qualcosa che non va?» chiese, e Willow le carezzò un braccio per cercare conforto dalla sua pelle calda: sentiva abbastanza freddo… probabilmente aveva ragione la sua schiava, forse aveva davvero la febbre.
«No, Niva. Acconciami i capelli» le ordinò, e si specchiò nella toeletta: i boccoli scuri le ricadevano sciolti sulle spalle scoperte e candide, illuminate di un pallido giallino dalle candele. Le ombre si allungavano inquiete sul suo viso, conferendole un’aria misteriosa e terribile, come un demone pronto a trascinare sott’acqua interi vascelli; ma non era altro che una semplice donna a specchiarsi in quel pezzo di vetro e argento, per di più completamente umana.
La schiava cominciò ad armeggiare con i suoi capelli, e quando ebbe finito Willow sentiva la testa un po’ più leggera; certo, i capelli tirati all’indietro dalle spille le facevano male, ma era un dolore sopportabile in confronto a quello che sentiva alle tempie. Proprio in quel momento arrivò la colazione, e le si illuminarono gli occhi come una bambina: consisteva in una zuppetta di legumi e cereali, dalla vaga colorazione violacea per via dell’abbondante olio d’oliva azzurra. Rifiutò di farsi imboccare e mangiò tutto, compreso il tozzo di pane in accompagnamento alla zuppetta; sapeva già che a pranzo non avrebbe toccato cibo: non aveva alcuna voglia di incontrare i suoi genitori. Ancora, il pensiero le diede una fitta alle tempie e si rifiutò di proseguire oltre con quei ragionamenti.
Una volta rifocillatasi, il mal di testa sembrò diminuire d’intensità; arrivò anche il rimedio del cuoco: una pasta di zucchero al limone, molto secca, per bilanciare la zuppetta che invece era molto umida. La medicina aveva fatto passi da gigante in quegli anni: la nuova teoria dell’equilibrio degli umori spopolava; Willow ne sapeva poco, ma si fidava del parere del suo cuoco, che era molto informato su quelle nuove scoperte al riguardo e se ne avvaleva per curare malanni passeggeri e persino malattie poco gravi, sostituendosi dunque all’erborista e al cerusico per i casi meno urgenti: i suoi rimedi funzionavano sempre, nonostante si basassero tutti sul cibo.
Mentre mangiava la pasta, Niva le tolse dalle ginocchia il vassoio con il piatto vuoto e mise sul comodino il piccolo bricco del vino coperto da un fazzoletto, che non era stato toccato; Willow si alzò e fece cenno a Niva di aprire almeno le tende blu: la schiava infilò il vassoio nella porticina dietro l’arazzo e subito si affrettò ad eseguire il nuovo ordine; la soffusa luce rossa da grembo materno tornò ad immergere la stanza in una lieve penombra, e la Contessina sospirò.
«Quando avrò finito ciò che ho da fare e lascerò le mie stanze, chiama qualcuno perché le puliscano. Sono stufa di camminare sul lerciume di quei tappeti… e fa’ sbattere anche le tende» osservò seccata, e Niva annuì accanto alle tende.
«Sarà fatto, mia signora».
La Contessina affilò lo sguardo, tornando a guardarsi nello specchio: la camicia da notte stonava molto con l’elaborata acconciatura di riccioli che Niva le aveva fatto… doveva vestirsi prima di poter fare qualunque altra cosa, non sopportava di apparire sciatta o in disordine. Si voltò così verso la schiava, che aveva posato la propria candela in mezzo a quelle sparse sui piattini sul ripiano della toeletta, e batté le mani:
«Chiama le serve per vestirmi. Voglio un vestito blu, adatto alla mia purezza; che scelgano loro quello che sembra più appropriato alla giornata di oggi» fece così un gesto impaziente, e ancora Niva si diresse all’arazzo che era sospeso sulla parete di fronte al letto. Willow salì sul suo sgabellino, a piedi nudi, e attese.
La schiava spostò il pesante tappeto e sussurrò qualcosa nella porticina, e ne uscirono due ragazzette che iniziarono a svestire la Contessina: una volta denudata, altre due serve – stavolta una donna e una ragazza più giovane – uscirono dalla porticina con un secchio d’acqua calda e una spugna impregnata di sapone e profumo, mentre le prime due scomparivano con la camicia da notte e la biancheria intima; le seconde la detersero delicatamente in tutti i punti che tendevano ad emanare un odore più intenso, oltre a sciacquarle il viso con un panno di lino. Mentre la donna e la sua compagna se ne andavano, altre due servette – stavolta due ragazzine che sembravano poco più che bambine – emersero dalla porticina con dei panni puliti, e asciugarono il corpo morbido della donna. Subito altre quattro donne entrarono nella camera portando con sé un abito, la biancheria intima e le varie sottovesti, mentre le due ragazzine scomparivano; iniziò il processo della vestizione: Willow aveva sempre portato il corpetto molto stretto, perché le donasse allo sguardo altrui una vita ben definita e dei fianchi adatti a far figli… così se lo fece stringere anche quel giorno, fino alle lacrime, ben sapendo che, durante la giornata, la pelle di cui era fatto avrebbe ceduto abbastanza da consentirle, già ad ora di pranzo, di respirare senza problemi.
Mentre le allacciavano i vari componenti della biancheria e delle sottovesti, Willow si concentrò su ciò che aveva da fare: doveva assolutamente capire se Aykir le aveva creduto, il giorno prima, oppure se aveva riserve e dubbi riguardo qualcosa; non veniva in contatto con lui sin dalla presa di Punta di Saragà da parte dei pirati che aveva pagato… e tutto era andato secondo i suoi piani: il ragazzo era stato brillante, e le aveva portato un Sayn vivo, e puro… in cinque giorni. Confermandole dunque l’esistenza di Portali creati proprio dai Sayn per potersi spostare da un capo all’altro del mondo all’istante. Del resto, Aykir aveva anche creato caos per una ragazza nomade, innamorandosene ed uccidendola… ma questo non aveva fatto altro che darle più potere; le dispiaceva dover sfruttare quel ragazzino per i propri scopi, ma del resto aveva sempre pensato che è il fine ad importare: i mezzi seguivano semplicemente il loro corso.
Lo scopo della sua mattinata sarebbe stato di infondere forza ad Aykir, ma a modo proprio: si sarebbe mostrata inquieta, e alle strette, così da illuderlo di avere il controllo della situazione. Avrebbe minacciato i suoi cari… poteva farlo, no? Il ragazzo sembrava tenere particolarmente in conto quella specie di folletto verde che lo seguiva ovunque sin da poco meno che ragazzetto; i suoi capelli color arcobaleno la avevano affascinata, e nutriva un grande rispetto per quella creatura… eppure qualcosa dentro di lei moriva dalla voglia di tagliargli un ciuffetto di capelli e sperimentarne l’uso in pozioni magiche e incantesimi.
Si riscosse da quei pensieri solo quando le quattro serve che l’avevano vestita si inchinarono e arretrarono, portando con loro anche il vaso da notte recuperato dal lato del comodino. Allora scese subito dal piccolo scalino e con un fruscio delicato di stoffe – musica, per le sue orecchie – si sedette nuovamente allo specchio della toeletta, non senza qualche difficoltà visto il corpetto stretto. Aprì un cassetto, quasi sovrappensiero, e si ritrovò a ispezionarne il contenuto senza pensare; c’erano diverse boccette, tutte di uguale dimensione, e contenevano tutte la stessa sostanza che riluceva languida dietro il vetro sottile: linfa azzurra raffinata… il “potere dei maghi”, come veniva chiamata negli ambienti accademici. In altri ambienti veniva chiamata con i nomi più disparati: “il gelo”, perché dopo largo consumo tingeva le punte delle dita di azzurro; “la droga dei morti sorridenti”, un nome che trovava divertente perché, secondo chi gliel’aveva dato, la Linfa Azzurra Raffinata ti uccideva facendoti sentire bene, potente e soddisfatto, quindi se ne abusava con molta facilità, e si moriva di overdose sorridendo; altri nomi che aveva sentito dai suoi vari rifornitori erano “lo zucchero blu”, soprattutto quando l’aveva provata in cristalli, oppure “acqua potente”, o anche “acqua speciale”.
Tuttavia, lei utilizzava quel liquido con molta attenzione, e per il solo scopo per cui era stato designato: aumentare le proprie capacità magiche. E queste ultime le servivano a propria volta solo per un motivo: i suoi poteri mentali ed onirici a volte non erano sufficientemente forti da sopportare contatti prolungati e lontani così come servivano a lei. Indugiò con le dita sulla boccetta più vicina, mordendosi il labbro inferiore e lasciando divagare la mente, nel tentativo di sviarla da quella sostanza pericolosa che la tentava luccicante.
Nei sogni i ragionamenti potevano essere ben diversi da quelli fatti nella realtà: due più due, in un sogno, poteva risultare in cinque ed avere perfettamente senso… anche quando non ce lo si sarebbe potuto spiegare poi una volta tornati alla realtà. Era per questo che aveva imparato tutti i trucchetti del caso dall’esperienza, dallo sperimentare con le proprie capacità continuamente.
La Contessina aveva iniziato a sfruttare quelle abilità mentali ed oniriche solo in tempi piuttosto recenti: solo quando aveva circa vent’anni, infatti, aveva scoperto di poter fare certe cose, ovvero delle specie di trucchetti mentali con la gente che le era attorno, e da allora si era perfezionata sempre di più, andando avanti approfondendo il proprio potere mentale finché non era riuscita a mettersi oniricamente in contatto con una persona di Celinor… ma oltre quella distanza fisica, il suo potere si fermava: non andava più lontano di così.
Ed era per quel motivo che aveva ‘provato’ la prima dose di linfa azzurra raffinata: lei doveva mettersi in contatto con i maestri di Aykir, che si trovavano circa dall’altra parte del mondo, nello Stato di Saragà. Aveva fornito loro direttive per tutti quegli anni in quel modo, molto più veloce del comunicare per lettera, e di certo meno sospetto in confronto a draghetti addestrati che solcavano tutto il tempo il cielo fra il palazzo di Alya e la Villa di Perses. E, quando era stato il momento, aveva comunicato anche con Aykir… mettendolo alla prova, saggiando il lavoro del Corpo di Allevamento.
In quel momento, tuttavia, decretò che la linfa azzurra non le serviva: Aykir era ad un’ala di palazzo di distanza… non l’aveva mai avuto così vicino, e sentì il cuore accelerare emozionato a quella considerazione. Se avesse saputo sfruttare le proprie carte come si doveva, Aykir le sarebbe rimasto fedele, senza sospettare che ci fosse sempre stata lei dietro i suoi incubi.
“È stato un male necessario”, si ritrovò a pensare riguardo questi ultimi, e nonostante avesse deciso di non assumere quel magico liquido zuccherino, i suoi occhi guizzarono ugualmente al piccolo cassetto aperto che scintillava pigramente nella penombra della stanza. Era tentata di farne uso anche in quel frangente, nonostante fosse palese che non ne aveva bisogno, poiché i suoi poteri le bastavano ed avanzavano per lo scopo della mattinata. Le sue dita pallide indugiarono nuovamente sul vetro ornato delle boccette; quasi ne sentì il gusto dolciastro sulla lingua e, prima che potesse consciamente decidere che no, non voleva usarla, ne aveva già stappata una: ora doveva berla, perché se l’avesse chiusa e riposta nuovamente, sarebbe andata a male, completamente sprecata… e le dispiaceva buttare qualcosa di così prezioso.
Così se la portò alle labbra: nel momento in cui il liquido azzurro brillante toccò la sua lingua, il suo corpo dolorante iniziò ad assorbirlo; si sentì immediatamente rinfrancata, e anche l’ombra del mal di testa che l’aveva angustiata dalla pasta al limone sparì all’istante. Aspettò qualche minuto: sentì crescerle nel petto l’urgenza di utilizzare la magia, di sfogare tutto il potere che aveva appena acquisito, e la sua espressione da neutra divenne affilata, quasi ferina; a quel punto pronunciò un paio di parole in una lingua che ormai parlava solo lei e che era andata perduta nel tempo, nello sterminio di razze magiche diverse da quella umana.
Subito lo specchio diventò bianco in reazione a quelle parole: la superficie riflettente non diede più la sua immagine, ma un ambiente bianco e privo di appigli, senza pareti o pavimenti o soffitti… una finestra su un mondo onirico vuoto, poiché non ancora collegato ad una persona. Ora, doveva capire se Aykir era sveglio o meno… così si concentrò su di lui, cercandone la presenza con la propria mente e null’altro; lo specchio rifletté quella ricerca, collegato a lei, e fu molto più veloce rispetto a quando il ragazzo si trovava a Perses: eccolo lì… sognava nuovamente Maya, sognava i suoi baci, le sue carezze, e di nuovo il sangue, e nessun grido: solo incredulo silenzio.
«Resta con me» gli stava dicendo la ragazza, e lui la stringeva forte a sé, per ritrovarsi poi con niente altro che abiti pregni di sangue fra le mani. Sentendo che stava per svegliarsi perché sconvolto, Willow prese le redini del sogno: era stato meglio lasciarlo concludere, così che non sembrasse un’intrusione forzata.
«Aykir» mormorò dolcemente, e si proiettò nel suo mondo onirico con le sembianze della sua nutrice, Lalla. Il ragazzo rimase a guardarla, stupito e confuso, spaventato, e scosse il capo.
«Mi hai abbandonato» disse, e Willow si portò una mano al cuore.
«Oh, tesoro mio… mi costrinsero» sussurrò la donna, e Aykir si avvicinò cautamente; poi, sconfitto, le toccò esitante una spalla, e la Contessina allargò le braccia. «Vieni. Vieni qui da me».
Aykir la abbracciò all’istante, sconsolato, bisognoso di conforto. Willow gli accarezzò i capelli e fu tentata di lasciarlo con quell’impressione positiva: era così giovane e perduto… ma purtroppo doveva fare il suo dovere.
«E così, Aykir,» iniziò, civettuola, e il ragazzo si irrigidì subito fra le sue braccia, incredulo, tradito; le si strinse il cuore. «sei arrivato. I miei più vivi complimenti» sussurrò, sorridendo, e assunse oniricamente l’aspetto di Sibath. Aykir si staccò all’istante e la guardò frustrato, con gli occhi lucidi.
«Che diamine vuoi da me!?» le gridò contro, e Willow ne rimase piacevolmente colpita: non era freddo e misurato come l’ultima volta che avevano parlato in sogno… tutt’altro, era rabbioso, come un animale ferito, e preso di sorpresa nel suo momento di maggior debolezza.
«Tsk tsk» ridacchiò la donna, agitando il piccolo dito verde di Sibath, e Aykir si voltò per andarsene, cercando una via d’uscita da quel sogno. Willow ne girò la visuale, per farsi ritrovare davanti a lui: il ragazzo si fermò subito e si morse le labbra. «Hai perso la bussola, Aykir? Non sai neanche da dove iniziare a cercarmi, non è così?» suggerì lei, curiosa: che intenzioni aveva, nel mondo reale?
«Smettila di tormentarmi» ringhiò, ferito da quelle supposizioni. «Se sei tu l’Eroe ed io sono la Bestia, perché mai non vieni tu a cercarmi? Perché lasci che sia io a trovarti, se sei così potente come vuoi farmi credere?».
Willow rimase immobile, ma mantenne un sorriso sornione, mentre rifletteva; aveva il vantaggio di poter fermare il sogno quando le pareva e piaceva, così da far sembrare che avesse sempre la risposta pronta… ma in quel caso non credeva di averne bisogno.
«Perché, Aykir, secondo te?».
Il ragazzo rimase interdetto, e quasi Willow poté sentire le sue rotelle che lavoravano ad una risposta. La donna inarcò un sopracciglio oniricamente, completamente immersa in quel mondo: il potere che sentiva nel petto quasi faceva male, tanto intensamente lo percepiva.
«Mi attiri sul tuo terreno» mormorò lui, tornando ad avere una parvenza di lucidità. Oh, lo avevano addestrato bene, nonostante per qualche istante ne avesse dubitato. «Mi batti con le mie stesse armi. Con la mia impazienza… Mi hai già attirato via dai miei tutori, ora mi vuoi completamente solo».
«Iniziavo a diffidare della tua intelligenza, giovanotto» ridacchiò allora Willow, e scosse il capo. «Ah, acuto come sempre».
«Ed è per questo che assumi le sembianze del mio più caro amico, non è così? Per farmelo vedere sotto un’altra luce. Mi dispiace, continuerò a fidarmi di lui come sempre… gli voglio troppo bene per cascarci» fece l’errore di rivelarle, e lei si lasciò andare in un sorriso crudele.
«Allora la mia offerta è ancora valida».
Aykir sembrò preso alla sprovvista e la guardò confuso.
«Quale offerta?».
«Andiamo, Aykir… l’hai già dimenticata?» osservò spazientita, e incrociò le piccole braccia sul petto. «Eri ancora nel Regno Sayn, e ti offrii un accordo…».
«Non ucciderti… in cambio della mia vita, e di quella dei miei cari» mormorò lui, ricordando. Poi improvvisamente sembrò giungergli una rivelazione, ed affilò lo sguardo. «Non mi avresti mai offerto nulla di simile se non ti sentissi minacciata da me».
«Cosa dici?» Willow si sforzò di sembrare inquieta, ma dubitò di esserci riuscita. Tuttavia, la considerazione aveva esaltato Aykir, che aveva assunto un’espressione trionfante.
«Tu hai paura! Ti senti minacciata!» gridò ancora, e Willow mutò in sua madre: i lunghi capelli blu le solleticarono le spalle e il suo punto di vista si alzò rispetto alla bassezza del folletto.
«Non osare parlarmi in questo modo, ragazzino!» gli ringhiò, agitandogli un indice contro, e lui arretrò, ma non era spaventato: sorrideva.
«Il tuo patto lo rifiuterò, ora e sempre. Difenderò coloro a cui tengo fino a restare senza forze, tu non li avrai mai… non farò mai più lo stesso errore» disse, senza distogliere lo sguardo da lei, tanto che Willow ebbe un brivido di orgoglio – che non lasciò trasparire nel mondo onirico, dove invece arretrò con espressione furiosa.
«Oh, ragazzo mio, non dubitare: io so già dove sei. Se mai mi stancassi di starti ad aspettare, e di concederti il vantaggio della sorpresa, saprei precisamente dove venirti a cercare» gli assicurò, sibilando, e Aykir le dedicò un sorriso sghembo.
«Sei passata alle minacce?» la canzonò, e Willow incrociò oniricamente le braccia, spavalda.
«Me le posso permettere» gli dedicò un sorriso furbo, e ammiccò. «Perché so che sei ad Alya… e penso sia tutto ciò che mi serve sapere».
Il contatto onirico si interruppe: Aykir si era svegliato. Willow restò interdetta ed insoddisfatta, ed aprì gli occhi: era stato molto breve, e non aveva sfogato neanche un decimo del potere che aveva a disposizione, così si alzò frustrata e camminò avanti e indietro, inquieta. Niva gemette e Willow sussultò, completamente dimentica del fatto che la schiava era restata a guardare: ringraziò gli déi che del contatto onirico nulla trasparisse al di fuori di lei… a chiunque l’avesse guardata in quei momenti, non sarebbe sembrata altro che una donna imbambolata davanti allo specchio, fissandosi negli occhi. Solo lei sapeva cosa faceva, ma Niva si era ugualmente impressionata nel vederla così inquieta dopo un quarto d’ora di silenzio assoluto.
«Cos’avete visto nello specchio, mia signora? Cattive notizie?» si azzardò a chiedere, ma Willow fece un gesto spazientito.
«No, tutt’altro. Ma per qualche motivo sono comunque inquieta» borbottò, come se non sapesse che era stata la “pozione” a darle quell’effetto. Niva invece collegò subito.
«Forse è stato quell’intruglio, mia Signora… siete ancora più pallida di stamattina, oh, avete un aspetto così fragile» osservò in tono supplichevole, sottintendendo che dovesse tornare a letto. Ma, al contrario, la Contessina si sentiva potente, con la forza di abbattere mille draghi, e semplicemente non sapeva che fare se non godersi quella sensazione che non poteva sfogare in alcun modo. Poteva contattare oniricamente un qualche principe e convincerlo a sposarla, forse… sì, decisamente, avrebbe potuto: aveva il mondo ai suoi piedi, in quel momento, e nulla da fare se non navigare in acque tranquille verso la riuscita dei propri piani.
“Oh, che idea brillante! Che magnifica stratega che sono!”.
Così si sedette nuovamente al mobile da toeletta, tamburellando le dita affusolate sulla superficie di legno intagliata in motivi floreali, con le scaglie di drago incastonate nel legno che mandavano bagliori ammiccanti alla luce delle candele, e delineò cosa fare: desiderava un principe del Regno di Mame, poiché erano da lì che partivano tutti i problemi che voleva risolvere; era il più antico dei Tredici Regni, ed era il più potente a livello diplomatico ed alimentare – nonostante i problemi di industria mineraria quasi assente. Esportava grano e carne, importava pietra, gemme e metalli; non mirava ad un principe della corona, sarebbe stato sospetto che una persona di grado così alto si interessasse improvvisamente ad una trentenne e la volesse sposare… doveva bensì raggirare qualcuno di anziano, ma non abbastanza da morire e lasciarla senza potere; un coetaneo in buona salute, forse, che non fosse famoso per prediligere donne più giovani.
Non le vennero in mente nomi, agitata com’era, così sibilò un’imprecazione nella lingua che conosceva ormai solo lei, e Niva sussultò spaventata, distraendola.
«Che hai?» sbottò allora la Contessina, e Niva abbassò lo sguardo, mortificata.
«Mia signora, a volte ho paura che degli spiriti vi posseggano… sembrate così diversa quando parlate in quella strana cadenza» si giustificò, chiudendo gli occhi in attesa di una punizione, ma Willow sorrise.
«Sei dolce a preoccuparti per me, Niva» tubò teneramente, e la schiava riaprì gli occhi violacei, sorridendo timidamente.
«Davvero, mia signora?» pigolò, e Willow allargò il sorriso.
«Certo».
«Posso suggerirle di tornare a letto, una volta che avrà finito i suoi affari allo specchio…?» chiese allora, speranzosa, ma Willow scosse il capo.
«Non posso, Niva… la stanza ha bisogno di essere pulita, e sai bene quanto io odi essere presente quando vengono aperte del tutto le tende e le finestre» la rimproverò bonariamente, e la schiava annuì, facendo un passo indietro.
«Posso suggerirvi di recarsi nella vostra stanzetta della biblioteca, allora…? Mi assicurerò che siate al caldo e in penombra» sorrise appena, e Willow fece un gesto frettoloso.
«Certo. Ora lasciami finire qui».
Cercò di riprendere il filo dei pensieri, ma questo risultò evanescente, e ricordò solo per caso cosa stava cercando prima che Niva la distraesse: un uomo non sospetto che potesse sposarla e al tempo stesso garantirle un accesso decente al potere legislativo… qualcuno di vicino al Re, dunque, ma non così vicino da creare sospetti. E che, soprattutto, non fosse già sposato.
Sarebbe stato tutto più facile se, come nel Regno di Kanor e nello Stato di Saragà, ci fosse stata la poligamia. Invece, nei Regni di Mame e di Isarnon vigeva quella stupida consuetudine che era la monogamia, e si andava spargendo una moda per la quale sia il marito che la moglie potevano avere un harem di schiavi per il proprio diletto personale. Non tutti lo possedevano, ovviamente – era raro poterselo permettere, più che altro –, ma negli ultimi anni l’uso si andava diffondendo e tutti i nobili (sia mogli che mariti) avevano almeno uno schiavo del sesso opposto come “compagnia”.
La Contessina non aveva mai seguito quel tipo di moda, poiché il sesso era proprio l’ultima cosa ad interessarle. Che si facesse per piacere personale le sfuggiva, era al di fuori della sua comprensione: lo vedeva semplicemente come un modo per procreare e consolidare così un matrimonio – e pregava di essere in grado di concepire e partorire un maschio sano per il proprio futuro marito, così da non rischiare di essere ripudiata: se avesse perso il proprio fiore senza dare eredi per più di un anno, avrebbe avuto come sola scelta quella di tornare alla vita che faceva in quel momento… e non poteva sopportare l’idea, non dopo aver assaggiato un po’ d’amore: lei avrebbe cambiato le cose, e se un figlio fosse servito allo scopo bene, ne avrebbe fatti anche due o tre per non rischiare che, se il primo fosse morto, lei si ritrovasse punto e a capo, ripudiata perché dava eredi gracili e deboli. L’unico modo per non rischiare di essere cacciata dalla casa e dal Clan del marito era farlo innamorare perdutamente di lei… così tanto da convincerlo a sposarla nonostante l’età avanzata, così tanto da fargliela tenere stretta persino se chiunque fosse stato in disaccordo. Ma non dovevano essere tutti in disaccordo… altrimenti sarebbe sembrato sospetto un improvviso matrimonio. Avrebbe dovuto lavorarsi un bel po’ di gente, e un impaziente tremolio di potere magico nel petto le confermò che ci sarebbe riuscita.
Willow tamburellò ancora le dita sul ripiano, e passò il pollice su una scaglia azzurra: le restava solo da scegliere il bersaglio. Fu tentata di chiedere consiglio a Niva, con cui a suo tempo aveva parlato delle sue aspirazioni riguardo ad un marito: quando ancora riceveva richieste di matrimonio e le rifiutava tutte, dai più belli ai più ricchi, ma tutti meno potenti dei suoi genitori, la schiava le aveva chiesto come mai non si volesse sistemare… e Willow le aveva spiegato che, se fosse stato suo destino finire socialmente più in basso per sposarsi, allora i suoi genitori l’avrebbero sicuramente costretta; ma così non era stato, e lei aveva potuto dare libero sfogo ai suoi forse troppo alti standard.
Tanto valeva iniziare. A chi sarebbe andata in sogno? Si ricordò solo in quel momento di un principe mamiano al ricevimento di Punta di Saragà… era stato mandato lì per discutere di accordi commerciali, poiché non era un principe ereditario ma un quarto o quinto figlio del Re. Poteva andar bene, l’uomo in questione aveva abbastanza potere ma era poco importante chi sposasse: perfetto per lei, insomma. Inoltre, aveva circa trent’anni, e si sa che gli uomini di quell’età preferiscono o le donne più mature, o le ragazzine… ed era disdicevole per un principe correre dietro alle servette. Se invece avesse sposato una donna che gestiva altri accordi commerciali, la corona ne avrebbe beneficiato e le casse del Regno (e del Clan Delmos, che era salito al trono da almeno due generazioni) si sarebbero rimpinguate… sì, dopotutto la Contessina poteva essere ancora un partito allettante, nonostante l’età.
Dunque, bastava fargli sognare – o ricordare – una versione edulcorata del loro incontro a Punta di Saragà; doveva sognare di ballare con lei – cosa in realtà mai accaduta, ma doveva fargli rimpiangere di non averlo fatto davvero –, doveva sognare che lei gli permetteva di toccarle le mani prive di guanti da gala, doveva sognare di incontrarla di nuovo perché desiderava troppo stringerla fra le proprie braccia… doveva volerla incontrare di nuovo, e al resto avrebbe pensato lei dal vivo.
Ma qual era il suo nome? Glielo avevano sicuramente presentato, ma non lo ricordava. Restò interdetta: senza il nome, contattarlo oniricamente si faceva parecchio difficile. I nomi avevano un potere molto forte, per la magia, e potevano renderti libero o schiavo a seconda dell’uso che se ne faceva; non a caso aveva subito notato che il suo nuovo uomo, Zahel, aveva un nome falso… le restava solo da scoprire quale fosse quello vero, come aveva fatto per Beatriz, che aveva fatto l’errore di presentarsi con il suo nome reale e che la Contessina teneva dunque in pugno a lavorare per lei, con le doti straordinarie di quella ragazza a sua completa disposizione.
Non a caso “Willow” era solo il nome che i genitori avevano dato alla bambina… non era invece il suo nome reale. Nessuno lo conosceva, e a volte rischiava di dimenticarlo persino lei, poiché non veniva chiamata in quel modo da secoli.
«Niva, chiamami Beatriz: dille di portarmi la lista degli invitati avuta per il ricevimento al Settimo Palazzo di Stato di Punta di Saragà, per gli accordi commerciali con lo Stato di Saragà» decise infine, con un gesto spiccio, e stavolta Niva non scostò solo l’arazzo per sussurrare a qualcuno gli ordini ricevuti, bensì si occupò personalmente della questione, scomparendo dietro l’enorme tappeto appeso: qualsiasi cosa riguardasse Beatriz era confidenziale, e Willow si fidava di Niva e della sua ottima memoria per i dettagli.
Mentre attendeva, la Contessina si alzò e misurò a grandi passi la distanza fra l’angolo degli incantesimi e le grandi tende rosse: la luce si era fatta più forte, e ora la stanza invece che sembrare un grembo aveva assunto sfumature più cupe e sanguigne, e risultava persino più illuminata. L’orologio sul comodino segnava mezz’ora dopo l’Ora Quarta[2]: ringraziò gli déi che nella Contea dei Laghi l’orario di pranzo fosse di tradizione piuttosto tardo – si aggirava intorno all’Ora Settima[3] –, perché non aveva la minima intenzione di interrompere i propri affari proprio nel momento in cui era più lucida e potente.
Dopo più di un quarto d’ora d’attesa, ci fu un lieve bussare alla porta, e Niva annunciò l’entrata del Capo delle Spie di Palazzo: aprì e chiuse la porta per lei, mentre Beatriz avanzava verso la Contessina. Arrivata a debita distanza, la donna dai capelli rosa si inchinò subito profondamente, mentre Niva rimase invece saggiamente in disparte.
«Mia signora, scusate se ci ho messo tanto, ma essendo il ricevimento di Punta di Saragà avvenuto almeno due mesi fa ho dovuto cercare negli archivi per ciò che mi avete chiesto di portare» si giustificò subito il Capo delle Spie di Palazzo, rialzandosi e porgendole il cilindro di legno che stringeva in mano, e nel quale era sicuramente arrotolata la lista; Willow le rivolse un sorriso indulgente, e gli occhi azzurri le scintillarono soddisfatti.
«Non importa, Beatriz… sono soddisfatta. Hai novità per me?» chiese, e Beatriz annuì circospetta.
«Mia signora… ci sono voci di corridoio che confermerebbero l’arrivo non regolare in città di diversi non-umani, negli ultimi due giorni. Coloro che invece sono regolarmente passati attraverso le porte principali sono stati messi in quarantena, come richiesto, e stiamo vagliando la possibilità di imprigionarne alcuni con motivi futili, per i vostri commerci».
A Willow si accapponò la pelle: odiava dover gestire gli affari della famiglia Thearor, ma vi era costretta per diritto di nascita, purtroppo; il Conte era un inetto, e aveva quasi fatto fallire il mercato in cui si era buttato con tanto successo il suo bisnonno… così era toccato a sua figlia risolvere i debiti di famiglia e procurarsi nuova merce. E lei, ovviamente, lasciava fare il lavoro sporco alle spie e alle Guardie.
«È il commercio di mio padre, non mio. Me ne occupo solo in sua vece, perché lui è un incapace» borbottò, e Beatriz rimase immobile a guardare altrove, senza osare guardarla in viso o risponderle al riguardo. «Ci sono casi interessanti? Tanto da imprigionarli ed utilizzarli per i commerci? O al contrario, interessanti tanto da reclutarli fra le mie fila?» chiese, sperando nel secondo caso.
«Non saprei, mia signora… ci sono alcuni avventurieri, fra cui un mezzo Garanide» Beatriz esitò, poi abbozzò un pallido sorriso. «Quest’ultimo abbiamo dovuto metterlo in una stanza della sauna, di quelle completamente in legno, poiché continuava a mangiare le sbarre e i muri delle celle in cui lo spostavamo».
«Affascinante» la Contessina inarcò le sopracciglia, stupita. «Lo voglio fra i miei. Scusatevi per l’imprevista quarantena e dategli da mangiare… suppongo si nutra di roccia e minerali, e di metalli?» dedusse, e Beatriz annuì.
«Il bibliotecario mi ha confermato che i Garanidi si nutrono di queste cose, e si lavano con il fuoco. L’acqua invece ha su di loro l’effetto che per noi ha il fuoco» rivelò cauta, e Willow batté le mani, deliziata.
«Bene! Quello schiavo si rivela sempre più utile, adoro che faccia parte della mia dote! Ah, amavo il nonno» ammiccò, lasciando intendere che fossero state le sue ultime volontà a lasciarle il bibliotecario in dote; si voltò dunque verso le tende e ne scostò un lembo: la polvere lasciata dal fumo delle candele le rese le dita appiccicose, e il sole la fece accigliare accecandola, per cui richiuse subito lo spiraglio. «Quando mi sposerò me lo porterò via» continuò, distratta, poi si voltò verso Beatriz, con uno sguardo complice. «così come tu verrai con me… con il mio piccolo esercito» ammiccò, e il Capo delle Spie di Palazzo la guardò con gli occhi spalancati: erano azzurri, ma di un blu diverso rispetto a quelli della Contessina, che li aveva ben più pallidi, più vicini al cielo d’inverno che al profondo del mare, come erano invece quelli di Beatriz.
«Certo, mia Signora» confermò la donna, e si inchinò. «Dunque devo liberare gli avventurieri?» chiese esitante, e Willow annuì, facendo un gesto scocciato.
«Sì, ma solo dopo quaranta giorni dalla loro internazione. La quarantena deve risultare credibile. Offrite loro di lavorare per me: si occuperanno di banditi, di orsi che danno fastidio ai villaggi al limitare della foresta, di draghi selvatici che sconfinano fuori da quest’ultima, di orchi che non rispettano le nostre leggi e i nostri confini, e così via… per ogni lavoretto li pagheremo, ovviamente, e offriremo loro di stare a palazzo. Per chi rifiutasse questa sistemazione, pagheremo loro una stanza in una locanda, e forniremo loro un drago come cavalcatura per spostarsi velocemente da un luogo all’altro a seconda della necessità» dettò gli ordini con cadenza precisa, e Beatriz affilò lo sguardo, concentrandosi per memorizzare le istruzioni. «Le nostre stalle draconiche sono ben fornite? I nostri draghi bastano per tutti gli avventurieri che teniamo in quarantena? Quanti sono?» chiese poi la Contessina, voltandosi a guardarla con le mani giunte, come se non avesse pensato a quei dettagli se non in quel momento; ma Beatriz parve pronta.
«Sono solo quattro avventurieri per ora, mia signora, di cui due sono cavalieri erranti, regolarmente ordinati. Certamente i vostri draghi bastano, vostro padre ne è appassionato e non fa che curare e far riprodurre i draghi già presenti, dunque vi sono ben venti esemplari molto veloci e molto forti nelle vostre scuderie» le ricordò, e Willow si ritrovò ad essere sia piccata che soddisfatta della risposta: detestava il Conte al punto da disapprovare persino qualcosa che le era infine tornato utile, come la sua passione per i draghi da viaggio. C’erano modi migliori, secondo lei, di re-investire i soldi guadagnati dai loro commerci… ad esempio non limitandosi a far accoppiare gli esemplari che avevano già, ma magari vendendone anche qualcuno: quegli animali erano tenuti come neanche nelle scuderie Reali, e non dubitava che si sarebbero sfiorate cifre da capogiro se mai il Conte Thearor avesse deciso di venderne qualcuno.
«Per quanto riguarda le altre creature magiche…?» la Contessina si sedette sul piccolo sgabello imbottito dell’angolo degli incantesimi: i piedi le facevano male in quelle scarpine strette, e stare in piedi era una tortura; ma una donna dai piedi piccoli era una donna preziosa, e lei ben sopportava quel supplizio in vista di un buon futuro matrimonio.
«Finora abbiamo rastrellato un paio di fate, un essere umano con un nido di folletti nella borsa, un mezz’orco, un orco e almeno sei o sette Elfi» elencò Beatriz, e Willow valutò il bottino: sarebbe stato bello avere un mezz’orco o un orco dalla propria parte… si diceva fossero molto forti.
«Come mai i due orchi si sono recati in città?» chiese, stupita. «Non bastano loro i villaggi che gli abbiamo permesso di edificare nella foresta? Vogliono forse altre terre?».
«No, mia Signora, non si tratta di questo» e qui la donna dai capelli innaturalmente rosa esitò. «In realtà volevano solo… studiare. Hanno dichiarato di essersi recati qui per studiare, leggere e imparare il più possibile. Dicono di essere i nuovi apprendisti della biblioteca Hautir, e provengono entrambi dallo stesso villaggio. Hanno riferito di aver fatto richiesta di apprendistato circa tre mesi fa».
«Inaudito. Da quando gli orchi si interessano alle lettere?» Willow si lisciò la gonna, stupita, e Beatriz spostò il peso da un piede all’altro, a disagio.
«Il bibliotecario mi ha assicurato che i Kriga-Skrizda, mia Signora, sono un popolo di artisti: molti rinomati scultori sono orchi o mezz’orchi, così come molti illustratori per arazzi… sono coloro che dipingono le bozze delle scene campali di questi ultimi. Inoltre pare si tratti di un popolo dedito all’invenzione e alla scoperta di nuovi modi di mangiare e cucinare, e che si divertano a coltivare sempre nuove varietà di piante o ad allevare nuove varietà di animali commestibili» poi Beatriz abbozzò un sorriso. «…tutto ciò sembrerebbe molto bello, mia Signora, ma il bibliotecario mi ha confermato anche che pare apprezzino la carne umana, di drago e di cavallo, e che non si facciano troppi problemi a procurarsela nei propri villaggi».
«Stolto è chi si avventura fin lì, a dire il vero» Willow inarcò le sopracciglia. «Gli abbiamo dato il cuore della foresta di Ainam perché vi applicassero le loro leggi. I confini sono stati ben stabiliti dal trattato di Proarid, e chi li sorpassa è tenuto a rispettare le leggi altrui. Se qui rispetteranno le nostre leggi, non avranno problemi. Proponi loro di entrare fra le mie fila, quando non sono occupati con il loro apprendistato, e dal momento che sono così interessati allo studio delle lettere offri loro il libero accesso alla biblioteca di Palazzo in cambio della loro adesione al mio progetto» le ordinò compiaciuta, e Beatriz abbozzò un inchino.
«Sarà fatto, mia Signora».
«Sei congedata. Fra due giorni pretendo un nuovo rapporto».
Beatriz si inchinò, dopodiché lasciò la stanza attraverso la porta principale.
Willow fece un gesto stizzito verso Niva e le indicò le tende, senza parlare: le candele non le bastavano per leggere senza fatica la lista. La schiava intuì al volo, e aprì uno spiraglio di tenda, perché non colpisse direttamente la Contessina ma perché illuminasse parzialmente l’enorme camera da letto; Willow si rassegnò all’idea che la luce violasse i suoi spazi vitali, e iniziò a scorrere la lista di invitati dopo averla tirata via dal fodero in cui era stata riposta: i primi tredici nomi erano principi o ambasciatori di tutti i Tredici Regni, compreso un ambasciatore umano del Regno Sayn – una precauzione comprensibile, dal momento che i Sayn erano generalmente schivi e per nulla al mondo si allontanavano dalla propria terra: venivano catturati ed usati come schiavi troppo spesso perché potessero presentarsi ad una festa di esseri umani come se nulla fosse.
Il principe designato a discorrere per il Regno di Mame era il Principe Cairis, quinto erede al trono in linea di successione… celibe, di circa trent’anni. Willow sentì il cuore accelerare: dunque il suo piano era plausibile… poteva funzionare. Certo, lo ricordava più giovane, ma del resto anche lei non era una ragazzina, dunque forse era meglio che il Principe fosse anziano quasi quanto lei.
Mise da parte la lista e si voltò sullo sgabello per specchiarsi nel mobile da toeletta: aveva le guance rosse per l’emozione, e le vene del collo erano azzurrine e visibili, come sempre quando le batteva forte il cuore; ma era un segno di bellezza, e Willow lo sfoggiava con onore.
Pronunciò le due solite parole nella lingua che ormai parlava lei sola, e lo specchio si colorò di bianco; dopodiché si lasciò scivolare sulle labbra quel nome che presto avrebbe imparato a pronunciare spesso: «Cairis, del Clan Delmos».
La superficie dello specchio ondeggiò un attimo, dopodiché le mostrò il principe: stava parlando con un uomo di mezza età, e lei non poteva sentirne la conversazione. Infuse un po’ di potere acquisito nell’incanto, e penetrò nella mente del principe: discuteva di affari di corte… nulla che, per ora, le interessasse particolarmente. Vagò nella sua mente, nei suoi ricordi, e si individuò nella memoria del ricevimento a Punta di Saragà: ripescò il ricordo e lo presentò come fosse casuale alla mente dell’uomo, che si fece pensieroso. Willow iniziò ad ascoltare la conversazione, poiché l’oggetto di essa era diventata proprio il matrimonio e, di conseguenza, lei stessa.
«Sapete, cambiando argomento se non ve ne dispiace, pensavo al matrimonio. Sapete bene quanto io lo abbia rifuggito fino ad ora» iniziò il principe Cairis, e l’uomo con i baffi con cui parlava annuì.
«Certamente, mio Signore. Avete forse cambiato idea?».
«Non esattamente… ma non sono più così contrario. Si dice che una bella donna al fianco di un uomo possa cambiarne la vita in meglio».
«Oh, queste sono proprio parole di qualcuno che non si è mai sposato, mio Signore, se consentite» ridacchiò l’uomo, e il principe esaminò il ricordo della Contessina, rivivendolo brevemente con enorme soddisfazione di lei.
«Ricordate quella Contessa dei Laghi?» chiedeva il Principe, pensieroso, e l’uomo con cui parlava fece una smorfia.
«Quale, la zitella?».
Il principe le parve offeso, e lei si leccò le labbra soddisfatta: gli trasmise il ricordo edulcorato del suo aspetto, così che la prima impressione di lei fosse stata estremamente positiva.
«Seppure fosse zitella, è una donna potente… e molto bella. Sapete bene quanto mi piacciano quel tipo di donne» sogghignò il principe, e Willow ascoltò interessata: gli piacevano le donne potenti? Questo le facilitava di molto il lavoro.
«Dicono che commerci in parti di non-umani… è un traffico niente affatto pulito o innocente» gli fece notare il suo interlocutore, e il principe sogghignò.
«Qualcuno deve pur farlo. Non ho nulla contro i non-umani, ma se si possono utilizzare per qualcosa di buono oltre la schiavitù perché non farlo?» si strinse nelle spalle, e Willow storse le labbra: quello le piaceva di meno. Tuttavia, c’erano le basi perché il loro fosse un matrimonio di convenienza e non fosse del tutto spiacevole. Gli comunicò l’informazione più importante, infilandola in un ricordo di una conversazione realmente avvenuta: lei era ricca.
«Ma è così… vecchia! Ha più di trent’anni! Potreste avere qualunque donna, e ne scegliete una con un piede nella tomba?» protestò l’uomo, e il principe scosse il capo, ridendo.
«È ricca! Mio padre sarebbe enormemente felice se riuscissimo a rimpinguare le casse del Clan con un bel matrimonio… inoltre pare che il padre della Contessa sia un appassionato allevatore di draghi. Magari ne includerà qualcuno nella dote! E chissà quanti schiavi erediterà» il principe sospirò soddisfatto, soffermandosi ancora sul ricordo della Contessina: ne esaminò mentalmente le mani affusolate e coperte dai guanti, e Willow gli trasmise il desiderio di vederle le dita pallide e le mani dalle vene azzurre; ne esaminò le labbra rosse, e Willow gli trasmise il desiderio di toccarle per saggiarne la morbidezza; e man mano in un crescendo di desiderio, al punto che il principe mormorò:
«Ah… devo incontrarla di nuovo, assolutamente».
«Se così vi compiace» borbottò l’uomo di mezza età, lisciandosi i baffi. «Ma non prenderei mai in sposa una donna così anziana».
«Dicono che sappiano crescere meglio i figli, poiché hanno più sale in zucca» osservò il principe, e Willow rise di gusto nella propria mente: certo che sì.
«Sempre se è ancora fertile per far figli».
«Seppure fosse, sono sicuro che varrebbe la pena sposarla anche solo per l’immensa ricchezza che si porta dietro. Non tutti i matrimoni sono benedetti dai figli, e io di marmocchi non saprei che farmene».
«Si parlerebbe male di voi, se non aveste figli. Sapete, la vostra virilità sarebbe messa in dubbio».
«Che non si dica una parola sulla mia virilità… ho concepito con più servette in un anno di quanto voi abbiate fatto in tutta la vostra vita, Sir Malcolm!» lo derise il principe, e l’uomo si fece di mille colori.
«Sarebbe la fecondità della vostra donna, allora, ad essere messa in dubbio!» gli fece notare, senza ribattere all’insinuazione del principe. Quest’ultimo fece un gesto stizzito.
«Stiamo parlando a vanvera, poiché non so nemmeno che donna sia quella Contessa; se si rivelasse odiosa nelle conversazioni, io non potrei mai sposarla. Una donna dev’essere amabile e dar sempre ragione all’uomo: si sa che le donne sono emozionali, non razionali, e che l’uomo è più capace di pensiero logico rispetto alla donna… Che poi una donna possa e sappia essere furba nei commerci e nella vita pubblica, mi fa molto piacere; ma le conversazioni private sono un piacere nel quale mi diletto di rado, e detesto essere contraddetto».
Willow ghignò: gli avrebbe dato l’impressione di essere estremamente potente in pubblico, ed altrettanto docile in privato… certo, poteva riuscirci. Qualsiasi cosa, perché la sposasse e potesse iniziare ad accedere al potere: avrebbe conosciuto principi più potenti, forse persino il Re in persona… le sue possibilità si facevano così infinite.
«Chi non detesta le donne troppo rigide? Sono semplicemente innaturali» obiettò l’uomo, e il principe scosse il capo.
«Avete frainteso: non intendevo affatto che potesse essere una donna rigida… Probabilmente ha opinioni rispettevoli, sarà sicuramente una donna giudiziosa, di buon senso; il punto è che con me una donna dev’essere timida, com’è giusto che sia, e deve nascondere un grande ardore al suo uomo prediletto… se capisci cosa intendo, quell’ardore che serve in ben altri luoghi» ammiccò, ghignando, e sir Malcolm sorrise bonario.
«Voi volete una donna troppo complicata: timida come una ragazzina, capace a letto come una schiava, assennata come una madre, e potente come una mercante…».
Willow batté le mani, anche se nulla trasparì dalla sua figura immobile davanti allo specchio: era l’impressione che avrebbe dovuto dare, né più né meno. Il principe assunse uno sguardo pensieroso, e Willow percepì che la sua mente si soffermava sul concetto appena espresso, e poi sul sorriso che lei gli aveva rivolto al ricevimento.
«Ha un sorriso meraviglioso, su questo non c’è dubbio» commentò dunque il principe fra sé e sé, e sir Malcolm alzò gli occhi al cielo.
«Dèi, se vostra madre vi sentisse starebbe già organizzando le nozze».
Willow calcò su quel concetto, instillandogli la voglia di scriverle una lettera, e il principe sorrise come se fosse stata una sua brillante idea.
«Invierò una lettera al Conte al riguardo. Mi pare si tratti del Clan Thearor…».
Sir Malcolm confermò con un cenno del capo, nonostante Willow non lo vedesse che di sfuggita, dal solo punto di vista del principe: i due stavano passeggiando nei giardini reali, e si erano ora fermati sotto l’ombra di un maestoso Naro.
«Chiederete la sua mano?».
«Oh, no… non sono così frettoloso. Quella donna potrebbe essere tutta fumo e niente arrosto, e la mia posizione mi impone prudenza riguardo un possibile matrimonio» sorrise il principe, sentendosi saggio. «Chiederò al Conte di poter incontrare la figlia, e di poter stringere poi un accordo prematrimoniale se la nostra conoscenza dovesse rivelarsi fruttuosa… in questo modo dovrei mettermi al sicuro in caso di brutte sorprese».
Il suo interlocutore annuì gravemente.
«Siete un mercante nato, principe Cairis… davvero, dubito possano capitarvi “brutte sorprese”, se agite in questo modo accorto. Se permettete… perché mai non sposare una principessa di un altro Regno, o qualcuno di più ricco?» chiese cautamente sir Malcolm, e il principe Cairis sorrise furbo.
«Ma è naturale, mio caro! Il solo motivo è perché permetterò a quella Contessina di continuare i suoi commerci da qui, e dunque la sua ricchezza non farà altro che aumentare! Non avete mai incontrato il Signore della Contea dei Laghi, non è forse vero? Se l’aveste incontrato, sapreste che il Conte si appoggia alla figlia, nei commerci, solo perché lei è infinitamente più intelligente di quell’inetto… e lei non gli permetterà di portare alla rovina il proprio buon nome, se è il tipo di donna che credo sia» il Principe fece una smorfia divertita, e sir Malcolm rise.
Willow si ritirò dal contatto, soddisfatta; si afflosciò sullo sgabello e spostò le candele con un braccio, delicatamente, lasciandone scivolare le basi di ceramica sulla superficie istoriata del mobiletto. Ne spense alcune e giacque con la testa appoggiata sul ripiano: aveva utilizzato buona parte del proprio potere per il principe, e ora si sentiva spossata… i contatti onirici la stancavano di meno rispetto alle intrusioni nei pensieri altrui, che erano così intime da lasciarla disorientata per qualche minuto, senza essere in grado di distinguere i propri pensieri da quelli della persona che aveva appena lasciato. Inoltre, per cogliere le idee recondite di qualcuno e trasformarle in qualcosa di ideato da lei bisognava avere i riflessi pronti e il ragionamento doveva essere fatto in anticipo, in modo da evitare di trovarsi impreparati: la mente non era un mistero per lei, ma a volte potevano esserci catene di pensieri completamente imprevedibili. Inoltre c’era sempre qualcosa, nella mente altrui, che le dava una sensazione di mistero: una parte della mente umana era completamente nascosta ai suoi occhi, nonostante avesse imparato a sfruttarne il potenziale.
Aveva formulato delle teorie al riguardo: secondo lei nemmeno le persone erano consce di quella parte della loro mente, e dentro vi finiva di tutto… da ciò che accadeva nella vita di tutti i giorni, quella parte tirava fuori ricordi, pensieri, sogni ed emozioni. Era un po’ il motore nascosto della mente, mentre la parte che tutti conoscevano e che raccoglieva pensieri e ricordi era paragonabile per lei ad una specie di fossa comune, dove solo le cose meno importanti per quella parte nascosta salivano alla luce e andavano a morire, sparendo dopo poco. Non aveva formulato un nome per quel motore, perché nessuno oltre lei avrebbe avuto una minima idea di cosa stesse parlando… quindi definirlo era inutile. Però lei poteva sfruttarlo e sapeva imitarne i meccanismi più semplici, soprattutto nel mondo onirico, dove era assolutamente padrona di manipolare i diretti risultati dell’azione di quel motore.
Si ritirò da quelle considerazioni empiriche, e sollevò il capo dal mobiletto: si accorse che Niva le stava facendo aria con un ventaglio, preoccupata, e così facendo aveva inavvertitamente spento quasi tutte le candele; non che importasse, dal momento che ormai la tenda era parzialmente aperta e il sole illuminava la stanza di una calda luminosità bianca attraverso le finestre opache.
Si scostò, infastidita dall’aria in viso, ma sollevata dalla frescura che evocava sul decolté: lasciò che la schiava continuasse, poi iniziarono a venirle un debole mal di testa e a tremarle le mani; se le strinse l’una con l’altra e le nascose a Niva, che però intuì subito cosa era accaduto.
«Avete… avete preso di nuovo quell’intruglio, non è vero?» chiese affranta: la prima volta che glielo aveva chiesto, quella mattina, Willow aveva glissato elegantemente, e ora fece un gesto stizzito.
«Dovevo» disse solo, secca, e la guardò: si stava macerando nella preoccupazione per quella che probabilmente vedeva ancora come una bambina… ma lei non era mai stata veramente tale. «Niva, puoi andare. Mi recherò in biblioteca, attendi lì» le ordinò, e la schiava si inchinò afflitta, scomparendo poi nella porticina dietro l’arazzo. Willow si soffermò su quest’ultimo: era una scena bucolica, con mille tipi di animali che risplendevano di azzurro, viola, rosso e verde, e si ritrovò a ripensare alle parole di Beatriz: quell’intreccio che molte volte aveva guardato, al punto da non farci più caso, era con tutta probabilità stato dipinto prima da un orco o un mezz’orco, e solo in seguito realizzato dagli artigiani da cui lo aveva comprato il loro incaricato di corte.
Willow si sollevò dallo sgabello, ancora pensierosa per via del principe; era eccitata, certo, ma la colse un giramento di testa e dovette appoggiarsi ad una colonna del baldacchino: i postumi della linfa azzurra si facevano ogni volta più fastidiosi, e lei non aveva tutta la pazienza del mondo verso quel corpo limitato. Si passò una mano tremante sul viso, cercando di ignorare il cerchio alla testa che era ritornato prepotente, e richiuse le tende rosse con un gesto stizzito, tirandole via dai fermi: la penombra ovattata la avvolse e si sentì subito meglio.
«Milady».
Una voce proveniente dall’oscurità della camera la fece voltare di scatto, ed affilò lo sguardo per cogliere chiunque fosse stato a parlare dal lato opposto della stanza, verso la porta. Si trattava di un uomo, sicuramente, dedusse dalla voce profonda; e le era anche familiare, ma in quel momento era distratta e confusa, dunque si irrigidì e alzò il mento, in aria di sfida.
«Chi va là? Chi vi ha fatto entrare? Palesatevi» ordinò, ma il misterioso interlocutore non sembrò averne le intenzioni.
«Deduco che siate di ritorno da una delle vostre esperienze mistiche… non è così? Solitamente mi riconoscete subito, e mi trattate con molto più riguardo» le suggerì la voce dall’oscurità, affabile. Willow non ne distinse che la figura nella penombra; da quanto stava lì a guardarla? Inquieta, annuì impercettibilmente e batté le mani.
«Non so neanche chi vi abbia fatto entrare, a dire il vero… ma siete il benvenuto nelle mie umili stanze».
«Come tutte le volte, milady, arrivo qui a modo mio. Ad ognuno i suoi segreti».
«Veniamo al dunque. Come mai mi fate visita, oggi? Mi portate buone nuove riguardo… la cosa che desidero più d’ogni altra?» esitò, perché era stato difficile comprare quel mercenario, molti mesi prima.
«Certamente. Ho convinto dei colleghi ad occuparsene e a prelevarla… Avevo dedotto dalla vostra mancanza di messaggi che il vostro “Capitano delle Guardie” avesse fallito, e ho agito di conseguenza prima che la cosa finisse…» si interruppe, come per cercare le parole. «…in mani sbagliate» concluse cauto, e Willow fece una smorfia: che doppiogiochista.
«Dunque siete stato voi. Il mio Capitano l’aveva appena trovata, quando evidentemente il vostro intervento gliel’ha strappata via» lo informò rigida, e l’interlocutore tacque per qualche secondo: la temperatura della stanza sembrò calare mentre la tensione saliva.
«I nostri accordi rimangono gli stessi, suppongo» suggerì cordiale l’uomo, e Willow fece un gesto stizzito con una mano.
«Me ne vogliano male gli déi se mai mi capitasse di non rispettare dei patti… pur anche quando l’altra parte mi fa credere che la cosa per cui pagherò è in mani maligne come quelle della Resistenza».
«Mi reputo offeso dalla vostra insinuazione, milady. Non permetterei mai che qualcosa di così prezioso finisca in mano a quei villani» rispose secco il misterioso uomo nell’ombra, e la Contessina si portò una mano al cuore, cercando di apparire sincera.
«Ne sono immensamente felice. Non sapete quale peso mi avete tolto dal cuore».
L’uomo si mosse nell’ombra, e prese a camminare avanti ed indietro.
«Riguardo al pagamento… rimarrà invariato. Vi consegnerò l’oggetto dei vostri desideri non appena possibile, ma potrebbero volerci diverse settimane, o anche mesi. Siete disposta ad aspettare?».
«Mi stupisce che voi vogliate essere pagato in modo così per me economico, nonostante sappiate quanto per me valga quell’oggetto» confessò, e poté vedere i suoi denti bianchi balenare nella penombra.
«Questo perché non avete idea di quanto valga per me, invece, ciò che vi ho chiesto. Siete dunque disposta ad aspettare?».
«Oh, Ayana mi sia testimone: sarei disposta ad aspettare anche anni se avessi la sicurezza che sarà finalmente nelle mie mani. Non me ne vogliate a male se vi pagherò solo quando mi sarò appurata di ciò, dovessero passare settimane o mesi» lo pregò con voce falsamente supplichevole, e l’uomo agitò una mano guantata di bianco con noncuranza.
«Non potrei volervi male neanche se mi sforzassi, mia Signora» lo sconosciuto abbozzò un sorriso nell’ombra, e si inchinò per congedarsi.
«Mi direte mai il vostro nome?» chiese in fretta la Contessina, mentre lo vedeva voltarsi per aprire la porta. L’uomo misterioso si voltò e le rivolse un sorriso, ma Willow non ne vide i lineamenti del viso, né distinse i vestiti o il colore di occhi e capelli – non da così lontano, né così in ombra.
«Tutto a suo tempo, milady. Tutto a suo tempo» disse morbidamente, e la Contessina restò nuovamente sola nella stanza, con un mal di testa terribile e una pervasa sensazione di irrealtà.
Pensò di lasciare liberi corpo e mente per il resto della giornata, poiché era esausta dagli eventi della mattinata – e per non doversi sorbire l’ora di pranzo con i genitori –, così raccolse le gonne e uscì dalla stanza: le due Guardie di Palazzo che sostavano accanto alla porta si misero sull’attenti e Willow chiese loro se avessero visto uscire qualcuno dalla sua stanza, ma la risposta fu negativa.
Che la linfa azzurra le avesse dato alla testa, facendole venire persino le allucinazioni? Inquieta, la Contessina si lasciò scortare in biblioteca da una delle Guardie, dove Niva le avrebbe letto qualcosa per svagare la mente.
 
 

[1] Corrispondente alle 10 del mattino.
[2] Corrispondente alle ore 11:30.
[3] Corrispondente alle ore 14:00.

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Capitolo 7
*** Tarish- La riunione segreta ***


VI
Tarish
La riunione segreta
 
pomeriggio, 12 Gjorna 684 d.C.
N
el momento stesso in cui aprì la porta, la luce delle lampade lo colpì in pieno viso, facendo sì che gli occhi azzurri fossero così chiari da sembrare bianchi nello specchio che aveva posizionato di fronte la porta; era una tecnica di distrazione semplice ma efficace: se mai qualcuno fosse entrato nella sua stanza per ucciderlo o per scopi meno nobili, sarebbe stato prima distratto dal proprio movimento riflesso, consentendo a lui di avere l’effetto sorpresa per un attacco.
Dunque Tarish non restò incantato dallo specchio, conoscendone lo scopo; invece, sfilò la chiave dalla toppa e si richiuse la porta alle spalle: non dava sul corridoio, bensì su una stanza buia. Quando la aprì, tuttavia, la destinazione della porta era di nuovo tornata alla normalità, e tre luci globulari si rifletterono fioche sui suoi capelli corvini. Controllò che non vi fosse nessuno in giro: non gli andava di venire interrotto; una volta appurato che era apparentemente solo su quel piano, richiuse la porta e si infilò al collo la collanina a cui era appesa la sua chiave personale: gli permetteva di aprire porte ovunque volesse, purché ce ne fosse una fisica attraverso la quale operare la magia. Non ricordava da chi l’avesse avuta in dono, ma la usava da così tanti anni che gli spostamenti per lui non erano mai stati un problema.
Nel momento in cui ripose la chiave sotto i vestiti, a contatto con la pelle, percepì una quieta fame nel petto, poco sotto il cuore: doveva assolutamente nutrirsi il prima possibile. In quel mese aveva scovato due possibili candidati ad una sua visita notturna, e doveva solo trovare colui che fosse risultato di maggior qualità… dopodiché, sarebbe stato facile come tutti i mesi.
Ficcò le mani guantate di seta bianca sotto il getto d’acqua, nel lavandino di ceramica della propria stanza, cercando refrigerio: era spoglia come se fosse appena entrato nella Resistenza, nonostante risiedesse invece nella loro base da almeno dieci anni; semplicemente non era tipo da fronzoli, e la stanza che gli era stata assegnata gli era utile solo per riposare e lavarsi… null’altro.
Un altro specchio era sospeso sul lavandino, e lì si fissò negli occhi: erano glaciali, ed emanavano una debole luminosità, tradendo il fatto che non fosse umano. Per la maggior parte del tempo si rendeva conto di non esserlo: al contrario degli esseri umani, non era schiavo delle emozioni… ne provava limitatamente; di tanto in tanto un guizzo di interesse lo coglieva impreparato, ma nell’approfondire ciò che l’aveva suscitato, quasi sempre quello sprazzo di attenzione spariva: l’unica cosa che infatti provava più delle altre era la noia: stare senza far nulla non era per lui. Per questo si era ritrovato a diventare capo delle due gilde criminali più famose di Ther, e per di più si era messo in affari con la Resistenza: per noia. Nulla di più di quello.
Raramente provava rabbia; molto più di rado gioia o tristezza. A volte gli capitava di sorprendersi, ma quelle occorrenze erano diventate con il tempo più uniche che rare. Il divertimento invece lo pervadeva di continuo, ma non era altro che un brevissimo e passeggero istante, che tornava semplicemente più spesso delle altre sensazioni. Il disprezzo lo invadeva sovente, e il fastidio che ne conseguiva poteva tornare ogni qual volta lo colpisse un pensiero molesto… ma nessuna di quelle due emozioni guidava le sue azioni – mentre si divertiva a mostrarle attraverso le parole: sortivano sempre un effetto dilettevole sugli esseri umani.
Occasionalmente poteva sembrare che provasse davvero qualcosa, ma era semplicemente perché era diventato molto bravo a simulare: gli esseri umani avevano paura degli umanoidi asettici… e non si fidavano di nessuno che non fosse cordiale, soprattutto. Lui sembrava tutto fuorché amichevole, lo sapeva bene, ma ci stava lavorando: nel momento in cui fosse riuscito a simulare tutto l’ammasso delle emozioni umane, sarebbe stato invincibile.
L’importante, tuttavia, è che lui ne provasse il meno possibile: le emozioni distraevano così tanto gli umani che lui si era costruito una teoria secondo la quale erano proprio le emozioni a portarli alla morte. La rabbia faceva loro affrontare nemici più grossi ed armati; e perivano sotto i colpi di spada di questi ultimi. La paura li faceva scappare davanti a pericoli soltanto immaginati; e perivano inciampando in una buca, o qualcosa del genere. La felicità procurava loro infelicità; il dolore dell’anima faceva fermare il loro cuore, o li portava a compiere gesti inconsulti per farlo volontariamente smettere di battere, come ingollare veleno o gettarsi da un ponte in un fiume ghiacciato.
L’unica cosa che Tarish capisse era la cattiveria, e tutti i suoi derivati. Non l’odio… ma proprio la sensazione del potere che faceva formicolare le dita. Il tenere la vita di un altro essere vivente attaccata ad un filo, e sapere di poterlo spezzare, tendere e allentare a piacimento.
Sorrise istintivamente al suo riflesso, a quel pensiero: la cattiveria… ecco cosa comprendeva, ecco cosa incoraggiava, ecco di cosa si nutriva. L’unico suo scopo nella vita era ingannare la noia, e la cattiveria era un fortissimo punto a sfavore di quest’ultima: la cattiveria non lo annoiava mai, e gli riservava sempre moltissime sorprese. Certo, forse “moltissime” era tutto sommato eccessivo… ma doveva dire che in più di un secolo di vita in quei Tredici Regni la cattiveria – sia la propria sia quella degli esseri umani – non lo aveva mai deluso.
Si sciacquò anche il viso, e piccole gocce d’acqua andarono ad imperlargli i ciuffi di capelli che glielo incorniciavano; ad occhi chiusi sfilò i guanti bagnati e afferrò un asciugamano dal fianco del lavandino, detergendosi la faccia e buttando i guanti nella cesta dei panni da lavare; aprì un cassetto con le pallide mani affusolate e ne prese un paio pulito, che infilò subito. Ora avrebbe voluto riposare: veniva da un luogo in cui era quasi ora di pranzo, mentre lì, alla base della Resistenza, era almeno l’Ora Decima,[1] se non più tardi. A volte viaggiare fra i Tredici Regni poteva risultargli ostico: doveva tenere a mente le differenze dei dialetti, della pronuncia dei numeri, degli orari che cambiavano… non era semplice, ed era per quello che negli ultimi dieci anni si era limitato a viaggiare fra l’Isola di Nessuno e il Regno di Mame: meno rogne.
Un lieve bussare alla sua porta lo distrasse, e alzò lo sguardo dalle proprie mani, ancora fuori dai guanti: li infilò in un unico, fluido gesto, ormai abituato al doverli portare, ed aprì la porta: doveva mostrarsi seccato per l’interruzione, e in realtà percepiva una punta di quell’emozione, soprattutto dopo essersi assicurato che non ci fosse nessuno sul piano… ma Arak fece una smorfia, precedendolo.
«Stasera c’è una riunione riguardo Elizabeth… sei invitato a partecipare, dovresti anche essere aggiornato sui fatti dal momento che non eri presente alle altre due specie di riunioni avvenute con lei».
«Non mi interessa nulla di quella ragazzina» Tarish alzò gli occhi al cielo, annoiato. «Perché mai dovrei partecipare?».
«Perché fai parte della Resistenza, ovviamente, e perché ci teniamo ad una tua opinione» l’uomo batté le palpebre, adottando un tono oltremodo gentile.
Arak stava palesemente mentendo sia nei modi che negli intenti, spudoratamente per giunta, e Tarish lo percepì come un lieve formicolare di fastidio sulla nuca: oltraggioso. Ma non aveva tempo per quei giochetti: loro due si erano detti in faccia a vicenda che non si piacevano affatto, ed era accaduto ben dieci anni prima, al suo ingresso nella Resistenza; la cosa non era mutata da allora, e a Tarish non interessava farla cambiare in quel momento.
«Bene, allora verrò… a che ora sarà questa “riunione”?» adottò anche lui un tono fin troppo gentile, imitandolo e battendo le palpebre innocentemente, come se gli fosse grato per l’invito, e Arak serrò la mascella: pareva offeso.
«…dopo cena, in biblioteca».
«Ah, come al solito dunque. Chissà perché tutti voi credete che di notte nessuno abbia nulla da fare» commentò Tarish, e Arak scosse il capo.
«Sono affari importanti».
«Sicuramente» adottò un tono di sfottò, e fu con sommo divertimento che vide l’uomo girare i tacchi e tornare alla scala a chiocciola in ferro battuto.
«Non tardare» lo avvisò senza voltarsi, e Tarish richiuse la porta senza rispondergli, lieto di poter riposare almeno qualche ora prima di dover presenziare a quella riunione che definire inutile era un eufemismo: la Resistenza non era mai stata così debole come nell’ultimo decennio, e negli ultimi quattro o cinque giorni quella debolezza le era risultata fatale, portando ben quattro dei suoi cinque maghi alla morte, immolati per una ragazzina invischiata in affari di gran lunga più grossi di lei.
Si tolse le scarpe, ripensando al loro ultimo incontro, sulla porta del bagno: era stata testarda e rabbiosa, una furia, e non patetica come durante la riunione che aveva abbandonato… ecco, quello lo aveva stupito, ma era stata una emozione vaga e breve, e gli aveva ridestato un interesse minimo nei suoi confronti… che però era svanito prima di subito, lasciandolo solo ed annoiato.
Ghignò fra sé e sé, stendendosi sul letto senza disfare le coperte: se il risultato non fosse stato così dannatamente noioso, gli sarebbe piaciuto sfruttare la ragazzina per i suoi affari… ma la noia era il suo nemico, e poteva solo provare a corrompere Elizabeth, prima di mangiarsela viva. Quanto poteva essere difficile portarla sulla cattiva strada?
Chiuse gli occhi, lasciandosi scivolare in un riposo vigile: era piccola ed ingenua… la cosa che più desiderava era ritrovare suo padre! Effettivamente era più patetica di quanto non ricordasse. Fece un sorriso sornione: in effetti sarebbe stato bellissimo corrompere quell’innocenza, trasformarla in nera e purulenta cattiveria… e quando ciò fosse accaduto, lui se ne sarebbe nutrito, lasciandosi dietro solo un guscio vuoto dalle sembianze della ragazza.
 
❦❦❦
 
notte fonda fra il 12 e il 13 Gjorna 684 d.C.
«Vi abbiamo convocati qui a quest’ora tarda solo perché sappiamo bene quanto sia difficile far collimare gli orari di tutti i presenti» iniziò Nidàl, in piedi a capotavola, e Said annuì impercettibilmente al suo fianco destro; Tarish aveva scelto di non sedersi, e si era invece appoggiato con una spalla al lato della scaffalatura che divideva in due la biblioteca, ed era dunque alle spalle dei presenti; i suoi vestiti eleganti erano in gran disaccordo con (quelli che per lui erano) gli stracci che indossavano invece gli altri, e l’Erito si era sentito in dovere di non stropicciarsi per mostrare a tutti la propria sprezzante superiorità.
«Per chi non fosse stato presente durante le due piccole riunioni di ieri, sarà fatto un veloce sunto di ciò che è stato detto durante le stesse» Nidàl si sedette, cedendo con uno sguardo la parola a Said, che sfumacchiò la propria pipa come se stesse facendo il punto della situazione nella propria testa prima di parlare.
Tarish approfittò di quel momento di silenzio ed attenta attesa per osservare i partecipanti: c’erano infatti solo coloro che Nidàl aveva una volta, qualche anno prima, definito “il cuore della Resistenza”, ovvero i suoi membri più anziani. I nuovi membri ne erano infatti stati esclusi: erano presenti solo Egon, Daoras, Rapheya, Arak, Said, Nidàl, Nimar, Atan ed Erik – nonostante quest’ultimo fosse arrivato da ben poco tempo, era favorito perché il padre era a capo della Resistenza.
L’Erito aveva avuto contatti con tutti i presenti, tranne che con il figlio di Nidàl: Egon gli aveva chiesto, anni ed anni prima, di tutto e di più sulla sua razza; Tarish aveva dovuto definire per lui cosa fossero gli Eriti, nonostante non gli interessasse per nulla, solo per far sì di avere qualche sostenitore, dal momento che era odiato, disprezzato o – nel migliore dei casi – temuto da tutti i presenti. Egon si era appuntato tutto ciò che Tarish gli aveva rivelato, che era ben poco: si nutrivano di cattiveria, morivano se si nutrivano di bontà, e avevano un raggio limitato di emozioni. Su quest’ultimo punto non aveva approfondito, lasciando che speculasse su cosa quelle parole volessero dire, e su quali emozioni Tarish provasse davvero o fingesse solo di avere; era un gioco continuo, ma Egon non gli aveva fatto più domande dopo allora. Daoras era la Guardiana Irreale che era stata assegnata alla Resistenza vent’anni prima, e gli era sembrata parecchio curiosa riguardo la sua entrata in campo; lui tuttavia non le aveva mai dato troppa confidenza, anche per l’aura di bontà che la circondava. Per quanto ne sapeva Tarish, lei si occupava della Resistenza come una nutrice si occupava di un bambino piccolo e pestifero: doveva assicurarsi che non facesse guai, e ammonirlo se faceva qualcosa di male. Lui e Arak, invece, avevano interagito ben poco, e solo per sottolineare quanto non andassero d’accordo. Said era invece più accorto: gli chiedeva sempre un’opinione e, anche se quasi mai la prendeva in considerazione, ciò lo faceva almeno apparire beneducato. Atan lo temeva, e si era sempre tenuto alla larga da lui: Nimar gli aveva rivelato mesto che l’uomo aveva davvero paura di lui, al punto da cambiare direzione non appena lo vedeva, e anche in quel momento gli lanciava nervose occhiate silenziose, come un coniglio in attesa che il lupo balzi per sbranarlo. Con Nimar aveva avuto sino a quel momento un rapporto civile: ogni tanto parlavano, se capitava, ma il resto del tempo ognuno faceva la propria vita, e non si ostacolavano a vicenda; Tarish non aveva idea di cosa Nimar pensasse di lui, e del resto non gli interessava… e Nimar dal canto suo non gli dava l’impressione di voler approfondire i rapporti.
Nidàl era stato combattuto, quando era venuta l’ora di accoglierlo nella Resistenza: Tarish glielo aveva letto in faccia, perché dopo un secolo passato fra gli esseri emozionali – umani o non – per lui tutti erano libri aperti, nonostante non capisse i meccanismi insiti nelle emozioni. Nidàl si era rivelato poco convinto di quella che probabilmente aveva percepito come un’intrusione, e il Sayn che li ospitava nella base precedente gli aveva poi dato ragione, cacciandoli; per quel motivo, Nidàl era ancora sospettoso nei suoi confronti: quel Sayn si era rifiutato di dir loro il motivo per cui Tarish e la loro collaborazione con lui era poco gradita, ma era ovvio che quell’improvvisa divergenza dipendesse proprio da ciò. In ogni caso, dopo dieci anni passati sull’Isola di Nessuno, praticamente in esilio, fuggitivi da tutto e tutti, il suo aiuto si era rivelato decisivo per non far morire la Resistenza… e, come diceva il suo nome, i suoi vecchi membri avevano resistito negli anni, guadagnando nuovi accoliti grazie a lui.
Tarish aveva invece girato semplicemente al largo sia da Rapheya sia da sua moglie Will: erano Sayn, e in quanto tali erano esseri di puro pensiero. Non provavano emozioni come gli umani, certo, ma le provavano… e questo gli rendeva ostico capirle: se non ne avessero avute affatto sarebbero state simili a lui, e invece loro provavano – fra le altre cose – amore, provavano sorpresa, e piacere per il bello; tutte cose che gli erano completamente estranee. E poi i Sayn erano buoni in modo insito: tutto il contrario di lui, insomma. La loro aura gli faceva male, e persino stare nella stessa stanza con Rapheya in quel momento gli dava una leggera sensazione di nausea.
Finalmente, Said sembrò aver raccolto le idee; le considerazioni di Tarish erano state così veloci che non si rese conto che era passato nemmeno un minuto da quando Nidàl aveva smesso di parlare, e reputò la riunione noiosa sin dall’incipit del vecchio:
«Come tutti saprete» e gettò un’occhiata oltre la spalla di Nidàl, diretta a Tarish, che alzò il mento; poi si rivolse a Rapheya, che era assente come lui per la maggior parte della riunione. «abbiamo convocato qui con la magia Elizabeth… Il punto che ha provocato il tragico incidente di cui siamo tutti a conoscenza è che con lei c’erano due cavalli ed un ragazzo, e per un verso sbagliato nell’incantesimo usato da Otir, Saren, Ilibom, Faren e Nimar, sono stati trasportati qui sull’isola tutti e quattro questi soggetti» riassunse, ed Erik incrociò le braccia, mentre Nidàl e gli altri annuirono; Said diede un tiro di pipa e continuò, avvolto in una piccola nuvoletta di fumo: «Non tutti i presenti sanno il motivo per cui Elizabeth è stata convocata; nella riunione con lei si sono accampate scuse plausibili, come la ricerca del fratello e il fatto che la ragazzina non è ricercata per Alto Tradimento… in realtà, neanche la metà di noi lo è» espirò ancora fumo, mentre Arak ridacchiava.
«Diciamo anche che solo io e te siamo ricercati per quel motivo» lo corresse, sfottendolo, e Said fece un sorriso sghembo, facendo un cenno affermativo. Tarish osservò Erik, che era visibilmente rigido proprio dietro il vecchio che fumava: aveva la mascella serrata e i muscoli guizzavano sulle braccia incrociate, come se non vedesse l’ora di prendere a pugni qualcuno; l’Erito si chiese interessato quali fossero i suoi rapporti con la ragazzina… probabilmente era lei la fonte del suo disagio in quella riunione.
«La ricerca di suo fratello è un punto realmente valido: lei può indagare, previo un adeguato e veloce addestramento, e noi rischiamo il meno possibile… Su questo non credo ci sia nulla da dire».
Erik sembrò voler intervenire, staccando la schiena dalla finestra, ma Tarish colse un impercettibile movimento del capo di Nidàl e intuì che il padre stava rivolgendo un’occhiata penetrante al ragazzo, così quest’ultimo fu dissuaso dal parlare e ritornò ad appoggiarsi alla finestra, in piedi vicino una poltrona vuota.
«Per quanto riguarda gli altri motivi reali…» Said prese la pipa fra le mani e la guardò, come raccogliendo le idee, e Tarish affilò lo sguardo: li conosceva tutti, ma giustamente nessuno oltre lui, Said, Nimar e i defunti maghi, aveva avuto il privilegio di partecipare a quella riunione segreta. «Sappiamo tutti chi sia Elizabeth, e cosa rappresenti. Certo, è lo stendardo di una guerra vinta, e l’ultima cittadina di un nuovo Regno, ovvero il Regno Faël, nato poco dopo la sua liberazione; ma è anche il risultato di attente selezioni genetiche da parte del Corpo di Allevamento del Regno di Mame, e ciò non si può ignorare» chiarì, e nel dirlo guardò negli occhi tutti i presenti, che sostennero il suo sguardo; evitò invece di guardare Tarish, che era già a conoscenza del tutto. «Se instradata bene con un corretto addestramento, quella ragazzina potrebbe anche diventare il soldato perfetto che cercavano di creare… proprio come il fratello».
«Si deve pur sempre vedere se ha punti di forza e debolezze ben equilibrati» intervenne Egon, scuotendo il capo; i ciuffi più corti dei capelli castani gli sfuggirono dalla coda di cavallo con cui li aveva raccolti dietro la nuca, e l’uomo se li portò dietro un orecchio in fretta, umettandosi le labbra. «Perché incrociare così tante razze diverse può portare alla rovina, e non è un caso se più della metà dei bambini Menidi muoiono giovani, vittime di sindromi congenite, o vengano colpiti da malattie mentali, o siano molto instabili a livello di capacità magiche, al punto da risultare pericolosi…» si interruppe, esitante, e scosse ancora il capo. «Possiamo anche addestrarla, ma potrebbe risultare poco propensa all’uso delle armi o della magia; è una questione da considerare con cautela» concluse, e Said scosse il capo.
«Non abbiamo molta scelta: dobbiamo tentare. Il ragazzino che le mandiamo a cercare è stato preparato sin dalla più tenera età, e le stesse considerazioni che hai appena fatto per lei valgono anche per lui; se è scappato, come abbiamo ragione di credere, può essere ancora recuperabile… e potremmo attirarlo dalla nostra parte, e avere dalla nostra ben due “soldati perfetti”. Se invece è stato liberato…» Said si passò una mano fra i capelli corti e grigi, poi sul viso, e socchiuse gli occhi. «Se è stato liberato, siamo tutti in grande pericolo, e sicuramente Elizabeth lo è più di tutti: possiamo solo immaginare cosa il Corpo di Allevamento possa aver usato come scusante per l’addestramento impartito al ragazzo, ma non dubitiamo della loro fantasia. Sicuramente avranno creduto che gli abbiamo “rubato” il risultato di tanti decenni e secoli di selezione, e altrettanto sicuramente avranno ipotizzato che abbiamo addestrato anche noi la nostra soldatessa; dunque è plausibile ipotizzare a nostra volta che abbiano dato al ragazzino la stessa missione che noi vogliamo affidare ad Elizabeth… ovvero valutare se valga la pena recuperarla, e dunque farle il lavaggio del cervello per i loro scopi biechi, oppure ucciderla. Non nego che sono più propenso a credere a quest’ultimo piuttosto che al primo» commentò atono, e Atan si sistemò gli occhiali, scuotendo il capo.
«Per questo dobbiamo addestrarla? Per permetterle di difendersi da suo fratello? Non sarà percepita come una minaccia dal nostro obiettivo, una ragazzina che sa maneggiare le armi?» chiese nervoso, e Nidàl appoggiò la schiena alla sedia, sospirando.
«No, non sarà percepita come una minaccia, perché le insegneremo anche come apparire docile ed indifesa. Non dubito che sia una ragazza intelligente, e che possa capire quanto questa tecnica possa aiutarla a sopravvivere, soprattutto se accompagnata ad una conoscenza adeguata del combattimento… che sia con o senza armi. Glielo spacceremo per un addestramento da ladra, ma in realtà faremo in modo che siano compresi più argomenti possibile: Nimar si occuperà di insegnarle dei rudimenti di magia… non è troppo tardi, no?».
«Mmm… ha le orecchie a punta, dunque suppongo che sia discretamente dotata nonostante l’età non sia ottimale» osservò l’Hybris, e Egon gli rivolse un’occhiata affascinata.
«Come funziona questa cosa delle punte, a proposito? Non ricordo più, dovrei segnarmelo da qualche parte!» ridacchiò entusiasta come un ragazzino, e Tarish alzò gli occhi al cielo: detestava le interruzioni del discorso.
«Beh… Se le sue orecchie sono tonde come quelle umane, la persona interessata non appartiene ad una razza dotata di innati poteri magici, e se li ha è una grossa eccezione. Più a punta sono le orecchie, e più punte hanno le stesse, più sono capaci di finezza e potenza nel controllare i propri poteri magici» spiegò Nimar con calma, e spostò i propri capelli blu notte per mostrare le orecchie a due punte, e spiegò: «Finora ho visto un massimo di tre punte, e le hanno elfi e fate. A due punte le hanno le driadi – come una mia antenata – e altre razze abbastanza potenti, come i goblin. Fatine, folletti e altre razze magiche minori hanno le orecchie lunghe con una sola punta – come la nostra Elizabeth –, mentre le orecchie a punta ma corte possono appartenere solo a razze che non hanno molta magia nel sangue, come gli elfi minori, gli Etrays prima dei dodici anni o gli incroci con gli elfi – perché sappiamo tutti che i caratteri elfici sono recessivi, e la dote della magia è fra questi. Poi ci sono le orecchie tonde dalla forma vagamente allungata, e le possiedono solo tre individui: gnomi, nani e Strenna, ovvero gli esseri umani dotati di magia innata. Le orecchie tonde, come ben sappiamo, sono solo di umani, Etrays dopo i dodici anni, e troll» spiegò, e Tarish poté vedere che Egon si stava appuntando il tutto, affascinato; Nimar si ricoprì l’orecchio e sospirò. «Il fatto che Elizabeth abbia le orecchie ben lunghe e a punta fa sperare che sia dotata di un controllo magico innato abbastanza fluente, benché non addestrato… Sarà mio compito guidarla e insegnarle la Deniwa perché possa imparare a sfruttare il proprio potenziale magico» concluse poi, tornando al discorso principale, e Tarish approvò con un cenno il cambio d’argomento.
«Dunque la sua età non sarà un problema?» borbottò Arak, contraendo un angolo delle labbra, poco convinto.
«Non dovrebbe, no» Nimar si fece pensieroso. «Potrà essere difficile insegnarle la sospensione dell’incredulità, con i bambini è molto più semplice: loro credono nella magia anche se non la vedono, mentre con gli adulti è…» cercò la parola adatta, alzando gli occhi a fissare il soffitto istoriato. «…arduo, perché non credono nella magia neanche quando ce l’hanno davanti al naso. Oppure, peggio ancora, si fanno una loro idea della magia, magari del tutto sbagliata, e io devo estirparla e ricominciare da capo, dunque doppio lavoro» sbuffò, ma sembrava divertito all’idea; certe emozioni Tarish non le capiva, e ci rinunciò in partenza.
«Però è fattibile» insistette Nidàl, e l’Erito immaginò che stesse rivolgendo al mago un’occhiata penetrante.
«Sarebbe stato più facile se ci fossero stati Ilibom e Saren con me, erano più propensi al proselitismo magico e all’insegnamento, e…» si interruppe, forse incitato da un’occhiata del capo della Resistenza, e sospirò. «…sì, è fattibile» concluse, senza completare la frase precedente.
«Bene» Nidàl sembrava allegro dal tono di voce, ma Tarish ne fissava solo la nuca e non poteva vederne il viso. «Io mi occuperò di insegnarle strategia per quanto riguarda il combattimento, ma subentrerò solo quando avrà imparato qualcosa di scherma e lotta corpo a corpo da Egon e Said… avete qualcosa da dire su questo compito o possiamo andare avanti?» chiese, e i due uomini nominati lo guardarono accigliati.
«No, certo… ma dai per scontato che sappiamo ancora insegnare qualcosa a qualcuno. Vorrei ricordarti che sono passati non meno di vent’anni da quando insegnavamo all’Accademia, potremmo essere-» intervenne Said, burbero, e Arak ghignò.
«Arrugginiti? Vecchi bacucchi con il culo a forma di sedia? Sì, effettivamente lo pensavamo tutti».
Said gli scoccò un’occhiata a metà fra il divertito e l’irritato, poi fece un sorrisetto furbo.
«Potrei battere il tuo, di culo, quando vuoi. Tanto lo sanno tutti che per quanto riguarda le spade sei una mezza calzetta» gli rispose per le rime, e Arak arricciò il naso ghignando ancor di più.
«La mia spada te la faccio assaggiare volentieri, lunga e dura su per-».
«Bene, basta così» Nimar sembrava divertito, e mise le mani avanti come per fermare l’immagine evocata dall’uomo; Arak si appoggiò nuovamente allo schienale della sedia e Egon diede un sospiro che sembrava uno sbuffo.
«…quello che intendeva dire Said è che non abbiamo allievi da almeno vent’anni. Potremmo essere non in grado di supportare Elizabeth come dovremmo» completò la frase per lui, e Nidàl agitò la sua unica mano – destra – con noncuranza, spaventando Atan che era invece al suo fianco sinistro.
«Non importa che non abbiate avuto allievi per tutto questo tempo… siete stati insegnanti, di certo non posso chiedere ad uno dei nuovi ragazzi di insegnare scherma ad Elizabeth! È carne fresca, e non mi fido di loro per un compito così importante» spiegò, e Said contrasse un angolo delle labbra in un sorriso amaro.
«Così sia, allora. Arak che farà?» chiese, volendo incastrare anche l’amico. Tarish tese le labbra in un pigro sorriso nel vedere che quest’ultimo pareva offeso dal venir preso in considerazione.
«Io non farò proprio niente!» rispose infatti. «Me ne starò tranquillo nella mia serra» borbottò, e Nidàl annuì verso Said come se non l’avesse sentito.
«Arak si occuperà del combattimento corpo a corpo e con i coltelli, nonché dell’insegnarle qualche rudimento di erboristeria».
«Conosce già qualcosa di quel campo» intervenne Rapheya, con un sorriso mite, e qualcosa si rivoltò nello stomaco di Tarish. «Sapete quanto io sia dotata per quanto riguarda le menti altrui… e insomma, ho letto una curiosità molto viva per quanto riguarda le erbe per comporre medicine o veleni. Sarà una buona allieva, Arak».
«Io non voglio allievi, che siano essi buoni o cattivi» chiarì l’uomo, e si girò verso Nimar, al suo fianco. «Non puoi insegnarle tu questo tipo di cose? Io vi fornisco le erbe e tu le spieghi a che servono. È facile, no? Dopotutto le usi anche tu per le tue pozioni» cercò di suonare convincente, ma Nimar sorrise appena e ammiccò.
«Eh no. Io le insegno già come sfruttare il suo potenziale magico, è un campo già abbastanza complesso senza che ci ficchiamo dentro anche le erbe e le pozioni!» obiettò, e Arak alzò gli occhi al cielo.
«Certo. Ovviamente».
«Niente storie. Arak, ti occuperai di veleni, sonniferi, e piante. E se non ti piace questo compito, fattelo piacere» chiarì Nidàl, e Said lanciò un sorrisetto soddisfatto all’amico al suo fianco.
«Secondo me state correndo troppo».
Tutti si voltarono verso Tarish, che aveva parlato con voce annoiata.
«Che intendi?» Said si mise nuovamente la pipa in bocca, ma ormai il tabacco si era spento e dovette tenerla nuovamente fra le mani.
«Ma l’avete vista? È gracile, secca come un manico di scopa, e mi sorprenderebbe se riuscisse a tenere in mano un coltello senza lasciarlo cadere per la stanchezza dopo un quarto d’ora. L’unica cosa che abbia notato di forte sono le gambe: deve aver camminato parecchio in questi anni» spiegò l’Erito, sondando con lo sguardo i presenti; Erik lo fissava, e Tarish ricambiò con un’occhiata veloce.
«Dunque cosa suggeriresti?» di nuovo, il tono di Arak era fin troppo gentile, ma nessuno rise o lo prese per poco serio, dunque Tarish lasciò correre.
«Di darle da mangiare, e di farle acquisire un po’ di forza. Sembra un uccellino appena uscito dal nido, per quanto agguerrita possa sembrare» osservò, e Said annuì impercettibilmente.
«Tarish non ha tutti i torti» disse, e tutti tornarono a guardare lui, sbalorditi.
«Quindi cosa faremo?».
«Ci dedicheremo a degli esercizi semplici per scioglierla e farle acquisire sicurezza e forza, per i primi tempi… mi sembra meno frettoloso, e potrebbe destare anche meno sospetti in lei e nel suo amico» borbottò, e Arak si strinse nelle spalle, annuendo. Nidàl tamburellò le dita sul tavolo.
«Mi duole ammetterlo ma sembra una buona idea. Atan, tu sei il bibliotecario… dovrai consigliarle dei libri da studiare, dubito che abbia avuto occasione di assimilare o conoscere la cultura del Regno di Mame».
«Infatti ha destato sospetti nel suo amico, e gli ha dovuto rivelare l’esistenza del mondo di Narda» confermò nervosamente Nimar. «A proposito di quel ragazzo, mi pare si chiami Yukab… cosa ne faremo? Lo inviteremo nella Resistenza? Di certo ora sa dove ci troviamo, e senza un Sigillo di segretezza potrebbe andare in giro a dirlo a chiunque…».
Quelle frasi provocarono un quieto borbottare nella sala della biblioteca, e Tarish alzò gli occhi al cielo, alzando una mano per quietare gli animi.
«Lo prenderò nella mia gilda, se non entra nella Resistenza».
Tutti lo fissarono, nessuno fiatò.
Nidàl, però, contrasse le labbra.
«Preferiamo di no».
«Come volete» Tarish inarcò un sopracciglio e si strinse nelle spalle, tornando ad incrociare le braccia, appoggiato allo scaffale.
«Sì, dovremo farlo entrare nella Resistenza».
«Non sappiamo nemmeno se condivide i nostri ideali… in teoria sarebbe quello il metro di valutazione per capire se farlo entrare o no» l’unico mago rimasto aggrottò la fronte e Arak fece un sorriso amaro.
«I nostri ideali sono andati a farsi fottere dieci anni fa, Nimar» disse secco, e Tarish si irrigidì: nessuno lo guardava, ma l’uomo percepì che si sforzavano per non farlo.
“Ah, è così che la pensano, dunque… Spassoso”.
Sentì un moto di divertimento che quasi gli suscitò una risata, ma ormai sapeva controllare le poche emozioni che venivano a galla di tanto in tanto, e il divertimento era di gran lunga la sua preferita: gli faceva battere forte il cuore.
Invece, Daoras, che fino a quel momento aveva assistito in silenzio sulla poltrona accanto ad Erik, non appariva per niente divertita da quello scambio di battute.
«Non esagerate» li ammonì, e incrociò le braccia sul seno prosperoso; il lungo abito che indossava era bianco come i suoi capelli, e aveva tutti i ricami di un verdino pallido che le facevano sembrare la pelle più rosea del normale, come se fosse arrossita – ma era solo un’impressione. «Il ragazzo può entrare o non entrare nella Resistenza: glielo proporrete tranquillamente, e se rifiuterà gli cancellerete la memoria riguardo l’Isola di Nessuno o, se preferite, solo riguardo i Portali… Altrimenti gli parlerete del Sigillo di segretezza, se preferisce, e in questo modo sarà ancora in grado di ricordare e sapere dove trovare Elizabeth, se ne avrà la necessità».
Said valutò l’idea per un secondo, interdetto.
«Può andare. Magari gli faremmo proporre da Marik l’idea di entrare nella Resistenza… mi pare che i due siano cugini, no?».
Nimar annuì.
«Sì, sì. Non si vedevano da un po’, si sono già riavvicinati; Marik mi ha detto di essere preoccupato per quel ragazzo, dopo averci parlato» confessò, e Arak inarcò un sopracciglio, voltandosi a guardarlo.
«Preoccupato? E perché?».
«Pare sia anche lui un assassino».
Tarish rizzò metaforicamente le orecchie, interessato: un altro assassino? Se mai il ragazzo avesse rifiutato di entrare nella Resistenza, lo avrebbe attirato a sé e alla propria Gilda… con il consenso della Resistenza o meno.
La notizia sembrò sortire un effetto particolare sui presenti, che iniziarono a scambiarsi occhiate e sussurri fra di sé. Nidàl, infastidito, batté l’unica mano sul tavolo.
«Se avete qualcosa da dire, non ditela a denti stretti».
Il silenzio calò, poi parlò Atan; quell’uomo era così codardo che Tarish non riusciva neanche a guardarlo o sentirlo parlare senza sorridere fra sé e sé: con una giusta spintarella, il suo animo sarebbe potuto diventare un pasto con i controfiocchi.
«Non credo che dovremmo avere un altro assassino fra di noi» suggerì con voce sommessa, come se si vergognasse di quello che diceva. Nuovamente calò un silenzio, stavolta teso e freddo; Nidàl squadrò tutti i presenti: alcuni rifuggirono il suo sguardo, altri invece lo sostennero.
«Quindi cosa dovremmo fare? Non abbiamo mai avuto così pochi membri. Questa è la nostra unica sede, per la prima volta in generazioni, e tu… anzi, voi, suggerite di lasciar andare via un possibile membro solo per via della sua professione?» Nidàl scosse il capo, e Said lo osservò con gli occhi gialli che parevano divertiti – ma non disse nulla.
«Come dicevo, i nostri ideali sono andati a puttane un po’ di tempo fa, quindi… non vedo perché non ammettere un altro assassino nella Resistenza. Purché porti soldi buoni nelle nostre casse e non faccia domande, mi pare un buon elemento. Non sembra un tipo particolarmente curioso, sarà il tipico assassino “tu dimmi-io faccio”» Arak si strinse nelle spalle, e Said scrollò le proprie come se un brivido gli fosse sceso giù per la schiena.
«Tutti noi, signori – e sì, escludo volontariamente le signore presenti –, abbiamo fatto cose di cui non andiamo fieri; Arak stesso è un sicario quando ci sono tempi di magra qui alla Resistenza… dunque non vedo su che base dovremmo escludere questo giovane che sembra anche molto promettente» il vecchio scosse il capo, e Nidàl si appoggiò nuovamente allo schienale della sedia, come se fosse soddisfatto; Tarish intuì che probabilmente sorrideva.
«Bene! Dunque dove eravamo rimasti?».
«Discutevamo dell’insegnare qualcosa ad Elizabeth».
«Ah sì, giusto» Nidàl tamburellò le dita sul tavolo. «Daoras, tu ti occuperai di spiegarle… beh, quello che ti concerne: Portali, Tempio delle Porte, chiavi».
La donna annuì soddisfatta, giocherellando con una ciocca di capelli sulla quale era infilata una perlina dorata.
«Ci sto. Compensi ce ne sono? Purtroppo i Guardiani Irreali non ricevono stipendio di alcuna natura, quando svolgono il proprio lavoro, ma del resto quando viviamo nel Tempio non abbiamo bisogno né di mangiare né di bere… Qui è diverso» ammiccò, e Nidàl fece un cenno brusco.
«Una corona e mezza a settimana, non di più non di meno».
«Mi sembra equo…» sorrise, e Arak fece una smorfia.
«E a noi? Non ci paghi? Dovremmo comunque dedicarle del tempo, e-» chiese, dando voce al pensiero che tutti avevano formulato ma che nessuno aveva avuto l’ardire di esternare.
«Noi abbiamo altre entrate» lo interruppe Said, con una smorfia. «Daoras è così povera che campa di confetture e di ortaggi… non si può permettere altro, vive di carità. Pagarla per qualcosa che esula dai suoi normali compiti e che le occuperà più tempo dei suoi normali obblighi… mi pare il minimo» borbottò il vecchio, riaccendendo un bastoncino dall’estremità carbonizzata con l’acciarino tirato fuori da una tasca; con il rametto così riacceso, diede nuovamente vita al tabacco non del tutto bruciato nella pipa, aspirandone l’aroma. Arak storse le labbra.
«E vabé» borbottò, non del tutto convinto, e Daoras sorrise candidamente.
«Dire che campo di carità è scorretto, però… Io suono e canto, e vengo pagata per questo nelle taverne» protestò, e Said non si voltò nemmeno a guardarla, rispondendo:
«…insomma, vivi alla giornata» come se quello che la donna aveva detto avesse confermato le proprie parole. Tarish alzò gli occhi al cielo, ma ci pensò Nimar a riportare la conversazione sui giusti binari.
«Dunque Daoras si occuperà di spiegare questo tipo di cose alla ragazza: Portali, altri mondi, e cose di questo genere…» riprese il filo, e Nidàl annuì secco. «Come facciamo ad insegnarle tutte queste cose casualmente, e senza sembrare sospetti?» chiese il mago, inarcando le sopracciglia. «Se capitasse a me, tutti i miei sensi fremerebbero in cerca di guai e di inghippi… e non dubito della sua intelligenza come sembrate fare voi».
«Dobbiamo farla passare per una cosa normale… una specie di addestramento che diamo a tutti i membri della Resistenza?» suggerì Arak, e Egon gli diresse uno sguardo indignato.
«Mentire, insomma?».
«Perché, non è tutta una grande bugia, quella che le stiamo raccontando? C’è una buona probabilità che dovremmo uccidere suo fratello, eppure le abbiamo edulcorato così tanto la pillola che non mi stupirebbe se ora credesse di stare andando a salvarlo» l’uomo fece una smorfia, e Egon serrò la mascella.
«Quello era necessario» ammise Egon, titubante, ma poi controbatté ancora, aggressivo: «Ma questo? È necessario anche questo? Mentire e far mentire anche gli altri? Perché dirle che è un addestramento normale equivarrebbe a chiedere a tutta la Resistenza di mentirle, soprattutto ai membri da poco con noi, e quindi… è davvero indispensabile costruire questo castello di bugie? Ci crollerà addosso, prima o poi, e tu lo sai» lo accusò, puntandogli un dito contro, e Arak alzò gli occhi al cielo. Stava per ribattere, ma Nidàl alzò l’unica mano per sedare gli animi.
«State discutendo sul nulla, signori miei. Avevamo già accennato che le diremo che un po’ di addestramento è il minimo per affrontare le missioni che le proporremo per trovare suo fratello. Forse ad alcuni di voi è sfuggito» e forse scoccò un’occhiata a Nimar, perché il mago incrociò le braccia.
«A me sembrerebbe comunque sospetto».
«Andiamo… stiamo parlando di una ragazzina che è cresciuta in un mondo del tutto dissimile dal nostro. In comune, queste due Dimensioni, hanno solo l’avere un unico sole ed un’unica luna… Neanche il cielo è lo stesso, poiché in questo mondo in alcuni punti delle terre conosciute assume sfumature violette, o rossicce, per tutta la durata del giorno» Nidàl si alzò e fece lentamente un giro del tavolo, e Tarish poté finalmente vedere la sua espressione: ne aveva adottata una bonaria e scherzosa, forse per quietare gli animi, ma Tarish sentì solo una calma piatta dentro di sé, provando anzi un vago senso di tedio.
«E con questo?» Arak si guardò le unghie di una mano, annoiato.
«Probabilmente avrà avuto un calendario del tutto diverso… un oroscopo, una divisione delle ore, delle costellazioni, del cibo completamente sconosciuti!» ammiccò verso Said, che sorrise.
«Insomma… è ignorante su tutti i fronti. Ingegnoso».
«Egon, sai dirci di che razza è la ragazzina?» chiese Nidàl, perché aggiornasse gli altri come evidentemente aveva già fatto con lui.
«Nonostante noi sappiamo benissimo che è una Menide, dimostra tutti i tratti distintivi degli Etrays… A parte le orecchie a punta, che devono essere un patrimonio genetico elfico o fatato» sospirò l’uomo, e si grattò la nuca mentre rifletteva. «Questo dovrebbe voler dire che impara in fretta, che è curiosa, e che si adatta velocemente a… beh, qualsiasi cosa» inarcò un sopracciglio, e vide che gli occhi di Said brillavano d’interesse.
«Quindi… si sono lasciati sfuggire un potenziale soldato perfetto solo perché era femmina?».
«Si sarebbe adattata anche a sfornare figli, se l’avessero deputata a quel compito» osservò Egon, e Daoras distolse lo sguardo; Tarish la fissò curioso, ma quel barlume d’interesse svanì in neanche un secondo.
«Dunque, come pensate di procedere perché l’addestramento non risulti “sospetto”? Le motivazioni plausibili ci sono, ma ditemi come proporrete le vostre “lezioni”» Nidàl fece un gesto vago con la mano, tornando al proprio posto dopo essersi sgranchito le gambe, e Nimar si poggiò allo schienale della sedia, ancora con le braccia incrociate.
«Intendo darle diversi libri da leggere… le spiegherò e le farò esercitare la pratica, ma dovrà studiare se vuole imparare qualcosa di magia» il mago si strinse nelle spalle, e Nidàl annuì.
«Mi sembra saggio: può decidere lei quanto dedicarsi alla magia, e non sembrerà forzato. Arak?».
L’assassino finì di pulirsi un’unghia prima di parlare.
«Penso che farò anche io come Nimar» disse svogliato. «Dovrà studiare da sola, io le spiegherò solo la parte pratica: se non sa che la belladonna è velenosa, è inutile che io le insegni quali infusi possono essere realizzati con essa» ghignò, divertito all’idea di avvelenarla, e Said sospirò.
«Io partirò con semplici esercizi di concentrazione e allungamento dei muscoli, perché mi sembra un tipetto turbolento» borbottò. «Si dovrà svegliare all’alba… non come oggi, che ha dormito tutto il giorno» fece una smorfia infastidita, e Egon ridacchiò.
«Entrerò quindi in un secondo momento?» chiese al collega, che fece un breve cenno affermativo.
«Ti conviene. La saggerò e quando sarà sufficientemente pronta, le insegnerai la scherma… mentre Arak si occuperà del corpo a corpo».
L’interessato si voltò di scatto verso di lui, inviperito: la prima volta che si era parlato dei suoi compiti non aveva notato che gliene fossero stati assegnati ben due.
«Ah! Pure!?» chiese, indignato, e si rivolse poi a Nidàl. «Doppio compito quindi? Erbe e veleni, e corpo a corpo? Oh, spero abbiate una bella scusa sul perché io devo appiopparmi quella ragazzetta per più ore mentre questi due sfaccendati si dividono praticamente lo stesso compito!» ringhiò, e Said alzò gli occhi al cielo, tirando dalla pipa quasi spenta ed esalando grossi sbuffi di fumo che restarono sospesi a mezz’aria, disperdendosi con lentezza e rendendo l’aria nella stanza vagamente nebbiosa.
«Crediamo tantissimo nelle tue capacità, mi pare ovvio, per affidarti due compiti così delicati… ne va della sopravvivenza della ragazza, in entrambi i casi. Se nei boschi scambiasse la belladonna per mirtilli sarebbe la fine di tutti i nostri piani… non credi?» sbuffò ancora fumo, in fretta, come sempre quando era nervoso. Arak cambiò completamente espressione: parve prima colpito, poi pensieroso, ed infine lusingato ammiccò:
«…avete scelto l’uomo giusto, allora!».
Nimar alzò gli occhi al cielo.
«Se ti gonfi ancora un po’ dovrò portare uno spillo alle prossime riunioni» lo prese in giro, e Arak gli lanciò un’occhiata contrariata.
«Sei solo invidioso» ribatté, e Nimar ridacchiò.
«Daoras, tu seguirai i tuoi soliti metodi oppure pensavi di avvalerti di qualche supporto?» le chiese Said, dando un ultimo tiro alla pipa prima di tenerla fra le mani pensieroso.
«Pensavo di farle leggere il libro di Hairesis, “L’Origine”» confermò la donna, e sorrise appena, lisciandosi la gonna. «Oltre a quello… no, non credo ci sia bisogno di altro».
Nidàl si appoggiò allo schienale della sedia, e si rivolse al suo braccio destro:
«Riguardo la seconda riunione? Perché è stata organizzata? Cosa è successo perché fosse indetta?».
«In realtà è stata… una coincidenza. Non si è parlato di nulla di importante, se vogliamo essere sinceri. Ci eravamo riuniti qui in biblioteca per parlare un po’ di come procedere, senza impegno, quando Elizabeth è stata scortata da Nimar, interrompendoci» spiegò Said, contraendo le labbra come in una piccola smorfia.
«Ha iniziato a porre domande su domande» Egon si passò una mano fra i capelli, nervosamente.
«Me le sono dovute – no, non sto scherzando – appuntare tutte, perché potessimo risponderle…» borbottò Atan, e Tarish alzò gli occhi al cielo: esilarante, la ragazzina aveva davvero una lingua così lunga?
«Vi siete fatti mettere in difficoltà?» il tono di Nidàl sembrava stupito, e Tarish studiò con interesse le reazioni: Said sembrava seccato, mentre Nimar cercava con lo sguardo gli occhi degli altri presenti.
«No, ovviamente no» ribatté il vecchio per primo. «Ha fatto domande molto banali, me le aspettavo… prima o poi» scosse il capo, e con una sola occhiata diede la parola ad Egon, che si schiarì la voce.
«Ha chiesto perlopiù del funzionamento dell’albero-casa… sai, la dispensa magica e quant’altro».
Le spalle di Nidàl, da tese che erano, parvero rilassarsi; Tarish invece sentì una punta di noia, deluso. Ma forse non stavano dicendo tutto? Gli sembrava assurdo che le priorità della ragazzina fossero incentrate sul capire come funzionava l’albero-casa. Il tutto era troppo… ambiguo.
«…e poi ha chiesto che problemi avesse Tarish» ridacchiò Said, e l’Erito alzò lo sguardo: lo fissavano tutti, quindi si irrigidì.
«E cosa gli avete risposto, di grazia?».
«Proprio niente» Egon si mise una mano davanti alla bocca, per nascondere il ghigno che gli era nato sulle labbra. «Abbiamo elegantemente glissato» specificò, per non essere frainteso, e Tarish si strinse nelle spalle.
«Probabilmente conoscendomi meglio capirà che io sono l’unico a non avere problemi, qui dentro» sorrise affabile, e Said fu l’unico a non parere offeso: gli occhi gialli mandarono un luccichio divertito mentre gli altri distoglievano lo sguardo dall’Erito e borbottavano fra sé e sé.
«Ha chiesto anche delucidazioni – che non le sono state fornite più di tanto – riguardo il passato prossimo della Resistenza…».
Di nuovo, tutti gli occhi puntarono a Tarish, ma fu un breve attimo, perché tutti distolsero lo sguardo quasi immediatamente quando l’Erito tamburellò le dita sul proprio braccio; quando nessuno lo stava più fissando, sorrise.
«Deduco che abbiate la coda di paglia al riguardo» commentò a denti stretti, e gli occhi di Said mandarono un lampo.
«Nessuno qui si è alleato di buon grado con te, Tarish» il vecchio sottolineò l’ovvio, come se la cosa non fosse stata abbastanza evidente. «È stato necessario, tuttavia, per la nostra sopravvivenza. E per questo ti siamo infinitamente grati» abbozzò un sorriso, e Nimar distolse lo sguardo: a Tarish sembrò amareggiato, ma a lui non interessava abbastanza da chiedersi perché. Non gli importava della gratitudine; gli importava che rispettassero i patti. Così dedicò al vecchio un sorriso, per dirglielo.
«Oh, ma della gratitudine non me ne faccio molto… Sapete tutti qual è l’accordo, e sapete tutti che non rispettarlo vi porterebbe nell’oblio… Diventereste solo un altro stendardo dimenticato, vecchi accattoni sotto i ponti o fuggitivi, senza mai potervi fermare se volete sopravvivere… se quella la chiamate vita» inarcò le sopracciglia, e notò con intimo piacere che tutti i presenti nella stanza si erano irrigiditi… tranne Erik, che sembrava stupito e confuso. Si voltò verso di lui e gli occhi di Nidàl si fecero allarmati.
«Tarish, per favore, non…» iniziò, ma la sua voce normalmente tonante era ridotta quasi ad un sussurro: coloro che non temono nulla di fisico, in realtà temono almeno qualcosa di non tangibile… e nel caso di Nidàl, si trattava della verità.
«Oh, Nidàl, lasciami parlare con questa giovane recluta. Così amico della cara Elizabeth, eppure ammesso a questa riunione. Voglio sperare che gli sia stato almeno imposto un Sigillo di Segretezza» Tarish fece un breve sorriso a Nidàl, che tornò a voltarsi verso Said, che fissava però impassibile Tarish. Erik invece era nervoso in modo crescente, e ticchettava con le dita contro il fodero del proprio pugnale, fissando Tarish.
«Ho il Sigillo di Segretezza» confermò circospetto, e Tarish sorrise crudele in risposta. «Di cosa si sta parlando? Di che accordo si tratta?» chiese poi sospettoso il ragazzo, e l’Erito incrociò le braccia al petto.
«Dieci anni fa, la Resistenza era su un pericoloso declivio, proprio in cima, e non faceva che scivolare più in basso ogni giorno che passava» iniziò, con gli occhi azzurri che baluginavano come fossero contenti della cosa. «Fortunatamente arrivai io, e capii che potevo guadagnare qualcosa dalla situazione… così come loro avrebbero potuto guadagnare qualcosa dal mio aiuto, s’intende: nulla viene per nulla».
«La Resistenza, da quel che ho capito, ci ha guadagnato denaro e prestigio ritrovato… giusto?».
Said fece una smorfia che Erik non poteva vedere, perché il vecchio gli dava le spalle essendo seduto al tavolo.
«Più o meno» confermò burberamente, e Tarish sorrise appena.
«Oh, ragazzo, vedi… i tuoi amici si sono venduti l’anima. Perché quello che mi devono procurare in cambio sono bambini da far diventare criminali; accattoni, orfani, Strenna… qualsiasi bambino vaghi per le strade di Mame, la Resistenza lo porta a me» spiegò, e Erik chiuse gli occhi.
«È vero?» si limitò a chiedere. Nidàl ora era intristito, e sembrava molto meno imponente del solito, così confermò con voce piatta:
«Sì».
«E come funziona l’accordo? Quanto denaro dai alla Resistenza per ogni bambino?».
«Mille corone per ogni Strenna, di qualsiasi età; cinquecento corone per ogni bambino fra il primo e il quarto anno d’età; trecento corone per ogni bambino fra il quarto e l’ottavo anno di età; cento corone per ogni bambino fra l’ottavo e il dodicesimo anno di età. Cento corone in più se si tratta di femmine» elencò Tarish freddo, con un barlume compiaciuto nell’osservare il figlio di Nidàl guardare sconvolto il padre. «Una volta raggiunti dieci bambini, regalo alla Resistenza un nuovo membro, adulto e funzionale, che a sua volta può contribuire all’accordo… suvvia, non guardare così il tuo amorevole genitore, è stato costretto dalle circostanze» sorrise appena, come per scusarlo, e Erik scosse il capo.
«Era davvero una circostanza così terribile? Tale da arrivare a questo?».
Nidàl fece un unico cenno affermativo.
«Si trattava di scegliere: questo… o la Resistenza sarebbe stata spazzata via».
A quel punto la voce del ragazzo si fece tagliente, pur non aumentando di volume.
«Potevi lasciarla morire, allora!» asserì, facendo un gesto come per mandarli tutti al diavolo, e Nimar si voltò verso Erik, con sommo divertimento di Tarish.
«Ragazzo, non puoi capire! Siamo qui da anni, decenni, abbiamo fondato un nuovo Regno con il nostro operato, abbiamo…».
«Avete fatto la storia! Sì, abbiamo capito! Ma è ora di andare avanti. Vi siete sentiti? Vi siete guardati? Parlate di manipolare ed addestrare una ragazza come se la cosa non vi riguardasse! Parlate di usarla come fosse un oggetto!» sbottò il ragazzo, facendo il giro del tavolo per il nervosismo, quasi ringhiando. Nidàl sostenne il suo sguardo e lo seguì con gli occhi, ma non c’era nulla della sua solita fierezza in essi; piuttosto, Tarish poté leggervi una sorda determinazione.
«Quel che è fatto è fatto, Erik» ribatté secco, ma il figlio gli puntò il dito contro.
«È proprio questo il punto: questa è l’occasione di essere sinceri con Sue, e di non ricadere negli errori passati» obiettò il ragazzo, e quasi tutti aggrottarono le sopracciglia, così Erik si massaggiò le tempie, camminando avanti e indietro davanti a Tarish. «Non c’è nessun modo di… recedere? Dall’accordo, intendo» chiese proprio a quest’ultimo.
Said e Arak inarcarono un sopracciglio, così come l’Erito.
«Perché dovreste recedere? Così che possiate lentamente morire in pace?» chiese divertito, ed Erik serrò i denti.
«No» rispose, mentre Nidàl lo osservava. «Così che possiamo recuperare il nostro onore. Puoi anche continuare a far parte della Resistenza, ma l’accordo… o si cambia o si annulla».
«Erik, questi non sono affari che ti competono» borbottò Said. «L’accordo è stato sigillato, non abbiamo bisogno di alzate di capo per metterci di nuovo nella situazione di dieci anni fa».
Il ragazzo tacque, scosse il capo, e fissò il padre negli occhi: l’uomo sembrava infinitamente stanco, anche se una scintilla gli brillava negli occhi.
«E tu, padre?» chiese il ragazzo, trattenendo quasi il respiro. «Cosa pensi?».
La sala si fece incredibilmente silenziosa, al punto che anche se attutiti dalla distanza si udivano le inquietanti grida dei Verell nel bosco: alcune somigliavano a pianti di bambino, come per sottolineare il triste argomento che si stava affrontando. Nimar si massaggiò gli occhi, e stava per prendere la parola come per difendere il capo della Resistenza, ma quest’ultimo sollevò l’unica mano che gli restava, per imporre il silenzio. Dopodiché, si espresse:
«Ho scelto il male minore, all’epoca, figlio mio. Un mondo senza Resistenza è un mondo privo di voce. Noi esistiamo per far sì che i deboli abbiano un rifugio. Per far sì che gli oppressi non soccombano».
«Sono bambini» sibilò il ragazzo, e Nidàl batté il pugno sul tavolo, con gli occhi che mandavano scintille.
«Basta questionare le mie decisioni, ragazzo! Agiremo come crediamo sia necessario per raggiungere un bene superiore!» sbottò l’uomo, e Erik spalancò gli occhi, incredulo: anche le labbra gli si socchiusero per la sorpresa, senza sapere cosa ribattere.
«Un bene superiore… manipolando persone, e uccidendone altre, e condannando dei bambini ad una vita da criminali… Mi pare un bene superiore molto prezioso, se vale la pena fare tutte queste cose e chissà cos’altro. Chissà se la mamma sarebbe fiera dell’uomo che sei ora, papà» Erik scosse il capo e si diresse alla porta muovendosi rigidamente, congedandosi: «Non disturbatevi ad interrompere la riunione solo per me, andate pure avanti. E per cortesia, non coinvolgetemi più in qualsiasi cosa non comporti aiutare effettivamente qualcuno» sibilò, uscendo e richiudendosi dietro la porta.
«Uuuh, colpo basso quello della mamma» commentò Tarish, e Nidàl si passò la mano sul viso.
«Taci, dopo quel che hai fatto potrei anche cacc-».
«Cacciarmi? Davvero? Per così poco?» Tarish si portò una mano al petto, lì dove teoricamente avrebbe dovuto trovarsi un cuore, e Nidàl strinse il pugno, fissandolo con la collera che quasi lo faceva tremare di tensione.
«Poco? Poco? Riveli informazioni che dovevano rimanere fra di noi, mi metti contro mio figlio, e in più questo lurido… patto…» non completò la frase, perché Said gli mise una mano sul pugno serrato, quindi il capo della Resistenza scosse la testa e per qualche istante restò a fissare il tavolo dalla superficie levigata e graffiata dall’uso; dopodiché alzò nuovamente gli occhi su Tarish, che lo guardava impassibile.
«Le informazioni dovevano rimanere fra di noi… e così è stato. Erik faceva parte di “noi”, il nucleo della Resistenza. Riguardo al metterti contro il tuo stesso figlio… anche Marika non era d’accordo riguardo i nostri patti, ma tu l’hai ignorata. Ignorerai anche tuo figlio, immagino… c’è così tanto della madre, in lui» commentò l’Erito atono, dando un’occhiata distratta alla porta da cui era uscito il ragazzo. Nidàl chiuse gli occhi, immobile. «Riguardo al lurido patto, sai che puoi recedere in qualsiasi momento… ma sapete tutti altrettanto bene che vorrebbe dire mettere un punto a questa organizzazione morente» sottolineò, non senza una punta di piacere, e Nidàl fece un gesto brusco con la mano, disimpegnandola dal contatto di Said.
«So bene quali sarebbero le conseguenze se recedessimo, ce l’hai già ricordato più volte nell’ultimo quarto d’ora di discussione» sbottò, e Tarish sorrise affettato.
«Bene» concesse secco. «Allora immagino che le cose resteranno così».
Nessuno fiatò; Atan fingeva di essere distratto dalle proprie unghie, mentre tutti gli altri fissavano Nidàl: solo a lui spettava la decisione, e gli altri si erano già pronunciati al riguardo in altre sedi.
«Le cose resteranno così» fu un sospiro collettivo ad accogliere quella dichiarazione fatta sotto voce, come in timore che qualcun altro potesse sentire. Arak ritrovò il sorriso, mentre Nimar abbassò lo sguardo; Said caricò nuovamente di tabacco la pipa e la accese, rilasciando un po’ di fumo.
«Riguardo Elizabeth…» iniziò il vecchio, con voce un po’ rauca.
«Non credo ci sia più nulla da dire riguardo quell’argomento» Arak alzò gli occhi al cielo, annoiato.
«Sì, lo so. Volevo parlare della missione in cui la manderemo con Nazir… o ne parleremo in un’altra sede?» chiese, e Nimar si alzò.
«Domani ci aspetta una lunga giornata. Direi che la riunione si aggiornerà al più presto» dichiarò, senza neanche cercare la conferma tacita di Nidàl, che però annuì ugualmente e gli fece cenno di aprire la porta. Atan, Egon e Daoras diedero subito la buonanotte, uscendo dalla biblioteca. Rapheya, che era rimasta in silenzio per quasi tutta la riunione ad osservare l’andamento della discussione, indugiò per qualche istante al suo posto, poi si sollevò appena dalla sedia e si chinò su Nidàl per sussurrargli qualcosa all’orecchio; l’uomo parve sollevato, ma intristito, dopodiché si alzò ed entrambi uscirono dalla stanza, in cui erano rimasti solo Nimar, Said, Arak e Tarish, che si sedette al tavolo.
Ora poteva avere inizio la vera riunione di tarda notte: Nimar calò le luci fino a quasi rimanere al buio, come se davvero fossero andati tutti via, e si sedette su una poltrona; i tre presenti puntarono tutti gli occhi sull’Erito, che sostenne lo sguardo di Said.
«Era davvero necessario rivelare tutto ciò ad Erik?» chiese il vecchio, mentre la sua parte di stanza si riempiva di fumo.
«Se l’aveste fatto voi, non l’avrei dovuto fare io» constatò semplicemente, annoiato.
«È giovane. Si può fare l’idea sbagliata, può credere che…».
«Che valutate i vostri scopi più preziosi della vita di innocenti?» Tarish inarcò un sopracciglio e scosse il capo. «A chi mai verrebbe in mente».
Quella dichiarazione fece crescere la tensione nella stanza, e Nimar prese a passeggiare avanti e indietro, fra la porta e il muro che era di fronte ad essa, mantenendosi nervosamente il mento e coprendosi le labbra con la mano e tamburellando con le dita su di esse, come stesse valutando qualcosa.
«Non avevi il diritto di intrometterti in questa cosa, glielo avremmo detto sic-».
«Sicuramente, certo» l’Erito esalò divertito dal naso. «Ma quando? Come parte attiva nell’accordo, mi sono preso la libertà di informarlo dei suoi doveri nei miei confronti. Non potete darmi torto riguardo questo: lui deve cercare, come chiunque faccia parte della Resistenza».
«Non si potrebbero effettivamente cambiare i termini dell’accordo? Le nostre esigenze sono le stesse, certo, ma…» Said si interruppe, come per cercare le parole migliori. «È auspicabile per noi che… le tue esigenze non siano le stesse di 10 anni fa».
«In dieci anni mi avete portato ottantatre bambini. Vi ho fornito non meno di ottomila corone in dieci anni, e sono sicuramente di più dal momento che sto contando al ribasso, come se fossero tutti dodicenni e tutti maschi… E vi ho fornito otto nuovi membri della Resistenza, come promesso, uno ogni dieci bambini. E nel frattempo le mie esigenze non sono mai cambiate. Cosa vi fa pensare che ci sia qualcosa che possa servirmi di più?» sorrise come se li reputasse degli sciocchi, e Nimar si fermò, poggiando le mani sul tavolo.
«Magari non qualcosa che ti serva… ma qualche cosa che desideri più di questo. Ci dev’essere qualcosa».
In effetti, c’era. Ma Tarish sorrise ed eclissò quel desiderio con trentadue denti vagamente appuntiti.
«No. Nulla mi rende più felice del vedere anime innocenti crescere nella dannazione. E nulla mi rende più felice del vedere voi che vi dannate per questo».
Arak alzò gli occhi al cielo.
«Sai già come la penso al riguardo: meglio nella tua setta che in mezzo alla strada, in mezzo a malattie, povertà e fame, a venir sfruttati per un tozzo di pane. Almeno da te hanno pasti caldi e un letto in cui tornare alla sera. È l’unica cosa per cui non ti reputo poi così bastardo» borbottò, e Nimar gli scoccò un’occhiata incredula.
«Ti ringrazio» Tarish gli sorrise affettato e l’assassino ricambiò con un breve cenno del capo, evitando lo sguardo di Nimar che ancora cercava il suo.
«Se dovesse venirti in mente un altro modo in cui possiamo soddisfare l’accordo, senza che altre anime innocenti vengano coinvolte, te ne saremmo davvero grati» borbottò Nimar, e Said si limitò a tirare dalla pipa e fare un cenno d’assenso.
«Bene» Tarish si alzò e batté le mani guantate di bianco, sorridendo. «Lo terrò a mente, ma per ora: no, grazie» disse, e scoccando un’occhiata all’enorme orologio a pendolo della biblioteca, commentò: «Che ora tarda. Devo ancora cenare. Se consentite, miei cari» si congedò, e una volta uscito si richiuse la porta dietro. Immediatamente, sorrise divertito: li aveva conosciuti con l’acqua alla gola economicamente, e ora la stessa situazione si ripresentava moralmente… era davvero uno spasso. Poteva chiedere qualunque cosa, e una squadra di almeno venti persone si sarebbe messa a cercarla in lungo e in largo… un piccolo potere non indifferente, in attesa di averne altro con cui dilettarsi.
Percorse il corridoio buio fino alla scala a chiocciola: la sedia a rotelle di Rapheya era poco distante, e tutto l’ambiente era buio pesto; una volta al piano di sopra, si diresse verso la propria stanza, e una volta arrivato davanti alla porta, si assicurò che nessuno fosse presente: si sfilò la chiave dal collo e la inserì nella toppa. Gli bastò il guizzo di un pensiero per indirizzarla dove voleva andare… così aprì la porta su un ambiente che non era affatto la sua stanza, tolse la chiave dalla toppa e attraversò il Portale, richiudendoselo dietro.
 
 
[1] Corrispondente alle nostre 17:00.

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Capitolo 8
*** Beatriz- Il drago ***


VII
Beatriz

Il drago
 

pomeriggio, 13 Gjorna 684 d.C.
«Si sta svegliando».
La guardia si fece da parte, per lasciare che Beatriz vedesse il prigioniero che, con il viso ancora intatto ed immacolato, si risvegliava legato alla sedia, al centro della piccola stanza deputata agli interrogatori. Il soldato si mise vicino alla porta, così che la donna potesse fare il proprio lavoro; Beatriz infatti sorrise gentilmente al prigioniero, che aprendo gli occhi istintivamente sorrise.
«Ehy… devo essere in un luogo migliore, se questa è la vista che-».
«E invece no» lo contraddisse la donna, mollandogli un calcetto alla tibia che voleva sembrare timido. «Sei nelle segrete del palazzo conteale, e ti conviene dirmi in quanti erano i clandestini che ieri hanno attraversato le porte di Alya nottetempo» sorrise con gentilezza, e il prigioniero fece una smorfia.
«Mi hanno picchiato, portandomi qui? Ho perso i sensi».
«Forse» sorrise la donna, scostandosi i capelli ricci dal viso. «Ora però parliamo un po’».
«Io sono solo un locandiere» borbottò l’uomo.
«Senti… Aeeln, è il tuo nome, giusto? Bene, Aeeln, non è che abbia particolarmente voglia di farti del male, ma se non fai come dico… beh, avremo dei problemi» Beatriz si sforzò di sembrare triste, e Aeeln batté le palpebre.
«Non… non capisco» decise forse di fare il finto tonto, e la donna finse di credergli.
«Vedi… io so per certo che ti hanno preso mentre offrivi asilo a dei clandestini. Vedi, nel sud del Regno è in corso un’epidemia. Non vorremo certo che Alya venga contagiata, vero?» tubò dolcemente Beatriz, sedendoglisi cavalcioni. Aeeln la guardò assorto, distratto dal calore delle sue cosce.
«N-No?».
«Che bravo» sussurrò Beatriz, abbracciandolo e mormorandogli nell’orecchio: «Allora… quanti erano?».
«Non… non lo so. Sono… sono solo un locandiere».
Beatriz avvicinò nuovamente le labbra all’orecchio dell’uomo, lo sentì tendersi per il contatto e poi rilassarsi, ma lei fece scattare i denti sulla cartilagine. Un urlo le spaccò i timpani, dandole un fastidio tale che tolse un fazzoletto dalla cintura e lo ficcò in bocca al prigioniero, alzandosi di nuovo in piedi.
«Risposta errata, Aeeln. Ora calmati un po’ e… oh, che peccato, un pezzo d’orecchio è andato» constatò in tono dispiaciuto, staccandoglielo definitivamente recidendo la poca pelle che ancora univa la cartilagine al resto dell’orecchio.
Il soldato alla porta spostò il peso da un piede all’altro, a disagio, mentre l’uomo versava lacrime amare e le sue urla di dolore si calmavano. Beatriz gli tolse di bocca il fazzoletto di stoffa, e lo guardò paziente, come si guarda un bambino: gli mostrò il pezzetto staccato e lo buttò sul tavolino, dove c’era un grande sacco nero.
«Ne vale davvero la pena, Aeeln? Vale la pena tacere per dei mendicanti che ci farebbero morire tutti?» mormorò, sedendosi nuovamente su di lui, ma stavolta l’uomo era teso e straziato, in attesa del colpo a tradimento.
«Erano… erano in quattro. Due adulti, un ragazzo, e una bambina, tutti… tutti non umani!» confessò con voce interrotta per le fitte di dolore. «Ti prego…» implorò con voce piagnucolante.
«Sei bravo… ma non è che l’inizio. Dove si trovano? Dove li hai indirizzati in caso di pericolo?» chiese Beatriz, curiosa, e si alzò con il fazzoletto ancora in mano.
«Da… da nessuna parte, lo giuro!».
«Ahi ahi… chi giura e spergiura, dagli Déi l’avrà giù dura!» sorrise dolcemente, avvicinandosi al sacco nero e scrutandoci dentro.
«Cos-Cos’è?» l’uomo deglutì, intuendo che non si trattava di nulla di buono, e Beatriz sorrise.
«Il mio sacco dei trucchetti magici… vuoi vederne qualcuno?» sorrise, e mentre l’uomo scuoteva il capo e tentava di divincolarsi dalle catene che lo tenevano legato alla sedia, Beatriz prese una bottiglietta d’aceto e la versò sul fazzoletto. Fu fulminea nell’avvicinarsi al prigioniero e nello strusciargli l’aceto contro il mozzicone di orecchio sanguinolento come una materna carezza, provocandogli un altro urlo di dolore mentre lei invece tubava dolcemente: «Allora… dov’è che si sono rifugiati?».
«N-Non lo so!» strillò l’uomo, e Beatriz scosse il capo: i capelli ricci e rosa seguirono il movimento, e la donna poggiò il tovagliolo sul tavolo.
«Va bene. Passiamo alle maniere forti, allora».
 

❦❦❦

 
sera, 13 Gjorna 684 d.C.
Beatriz si ripulì gli schizzi di sangue dal viso, ma dato che aveva le labbra completamente insanguinate riuscì solo a fare un gran pastrocchio, e se ne rese conto quando si fissò le mani strusciate di sangue. Il prigioniero, cosciente ma con lo sguardo perso nel vuoto, anche lui con i vestiti inzaccherati, giaceva inerte sulla sedia; neanche un briciolo di tensione residua lo animava, e quando la guardia alla porta lo slegò non riuscì a farlo alzare in piedi… nonostante Beatriz ci fosse andata leggera. Fuori dalla cella degli interrogatori, tuttavia, la attendeva il suo braccio destro, Saradar, che le porse un asciugamano rosso, caldo ed umido, con cui lei iniziò a ripulirsi.
Percorsero il corridoio insieme, mentre l’uomo le apriva tutte le porte: usavano i corridoi di servizio, angusti, bui e soffocanti, ma per non attirare l’attenzione Beatriz si piegava a questo ed altro. Riguardo Saradar, invece, si trattava della spia più brillante con cui avesse mai avuto a che fare, ma era tanto brillante e bravo nel suo lavoro quanto era disinteressato al comando e al potere… se non l’avesse conosciuto così bene, Beatriz avrebbe quasi avuto paura di lui. Lo aveva conosciuto proprio in Spagna, dove lei era nata, all’inizio dei suoi vagabondaggi; inizialmente era lei che aiutava lui nei suoi spettacoli di magia, poi nel Regno di Mame i ruoli si erano invertiti perché Saradar aveva deciso di vendere informazioni – cambiando nome in quello con cui si presentava in quel momento –, e Beatriz invece si era fatta la propria rete di informatori, attirando l’attenzione della Contessina per via dell’essere una strige… così dopo diverse prove di fiducia al Conte ed alla Contessina, era giunta ad essere il Capo delle Spie di Alya, e Saradar l’aveva seguita, diventando una spia vera e propria alle dipendenze della famiglia conteale. Una volta in biblioteca, i due si diressero a passo deciso verso l’antro di Beatriz, posto alla fine della stessa; Saradar non aveva mai imparato a leggere e scrivere la lingua di quel mondo, mentre era la prima cosa che Beatriz si era sforzata di imparare durante i primi mesi. Entrati in quella Dimensione quando erano solo dei ragazzini, ora che erano adulti si erano ritrovati semplicemente inseparabili in un mondo perlopiù sconosciuto.
«Allora? Ha parlato?».
La cadenza dello spagnolo in quel contesto le suonò stranissima, ma così familiare che non lo rimproverò: era un ottimo linguaggio cifrato, dal momento che nessuno oltre loro due poteva comprenderlo.
«Il giorno che non riuscirò a far parlare un semplice locandiere deve ancora arrivare» borbottò la donna, con la voce attutita dall’asciugamano; si inumidì il viso con un lembo, sciacquandosi dal sangue, e anche le mani ne uscirono immacolate, dalla pelle vagamente olivastra. «Si tratta di una famiglia di non-umani, composta da padre, madre, un ragazzo e una bambina; hanno tutti i capelli verdi, tranne la bambina che li ha turchesi», e allo sguardo confuso di Saradar specificò: «Azzurri, sono tipo azzurri».
«Bene. Quindi sarà facile identificarli?».
«No, perché si nascondono alla Tana del Ratto».
«Quella locanda pullula di non umani delle Dita… Circa la metà ha i capelli verdi, e l’altra metà azzurri» Saradar fece una smorfia infastidita, mentre il soldato di guardia apriva le porte di metallo che dalle segrete conducevano alle scale. «Che abbia mentito?».
«Lo escludo. So essere molto convincente… Probabile invece che abbia consigliato loro di andare lì proprio perché si sarebbero mimetizzati» dedusse la donna, poi fece un cenno al soldato. «Grazie» gli disse, ma la guardia le scoccò un’occhiata incuriosita; solo in quel momento Beatriz si rese conto che aveva comunque parlato spagnolo, ma non si corresse e iniziò a salire le scale della torre, continuando a ripulirsi le mani e strofinandosi persino i denti per farli risultare meno rossi.
«Hai scoperto altro?» Saradar la superò sulle scale, per aprirle la porta al primo piano, che Beatriz oltrepassò a passo deciso, con le scarpine che affondavano silenziosamente nel tappeto che ricopriva il pavimento di legno: si trattava infatti di un corridoio della servitù, che le spie utilizzavano di continuo per non lasciar traccia del proprio passaggio; i due incrociarono un paio di donne di servizio, ma una volta giunti nei pressi della biblioteca Saradar scostò un panno e aprì una porticina che dava proprio sulla saletta di lettura della Contessina, vuota a quell’ora di sera.
«Certo. Ho i loro nomi, l’età di ognuno, dove alloggiano, dove passano le giornate, dove cercano lavoro e da quale pertugio sono entrati – oltre ovviamente alla razza a cui appartengono» lo informò Beatriz sbrigativamente quando furono certi di essere soli, ovvero una volta che la porticina fu richiusa e l’arazzo sistemato nuovamente a coprirla e renderla invisibile. I finestroni policromi a quell’ora non proiettavano più le loro figure colorate sulla saletta, bensì quest’ultima era avvolta da una morbida penombra data dalle candele che gettavano sinistre e movimentate ombre provenienti dal corridoio.
«Mi aspettavo di più» ironizzò l’uomo, e Beatriz alzò gli occhi al cielo.
«Vuoi sentirti dire che so persino che voglia ha la bambina sulla guancia? Sì, so anche quello, oltre ad un’altra miriade di piccole cose. Sei soddisfatto? È più semplice elencare ciò che ci serve al momento, invece che sommergerti con un’accozzaglia di informazioni casuali fra cui dovresti destreggiarti bene come faccio io».
Saradar si portò una mano al petto e assunse un’espressione contrita, come se Beatriz l’avesse ferito con quelle parole taglienti, e il capo delle spie per risposta sbuffò divertito, porgendogli il telo umido non più caldo, e ormai sporco. Facendo attenzione a come lo teneva per non sporcarsi le mani di sangue, Saradar la seguì per il corridoio principale della biblioteca, dove con un cenno salutò Rymeth ancora all’opera su un qualche manoscritto, e subito i due si rifugiarono nell’Antro.
Chiamavano infatti così la stanza in cui Beatriz era stata relegata, in fondo alla biblioteca, niente di più che una nicchia della stessa; c’era giusto l’occorrente per svolgere gli affari richiesti dalla corte del Conte: tavoli, carta di pergamena, libri contabili e libri ordinari, inchiostro, e a volte su un tavolino in un angolo stazionavano anche i pasti di Beatriz, che i servi lasciavano nel caso non fosse reperibile… come era stato per quella sera. A chiamarlo “l’Antro” per la prima volta era stato proprio Saradar, perché quella cavità della biblioteca ne condivideva forse l’ambiente – a separare l’Antro dalla biblioteca c’era solo un arco, dal quale ogni tanto Beatriz lasciava cadere una leggera tenda di seta, quando i suoi affari richiedevano concentrazione e non desiderava essere disturbata –, ma se la biblioteca era completamente di legno, la nicchia era di nuda pietra grigia; la prima aveva un’atmosfera calda ed accogliente, mentre l’Antro era angusto e freddo; nulla i due ambienti avevano in comune se non il trovarsi nello stesso grande locale.
Quando, in presenza della Contessina, Beatriz aveva osservato che il covo di una spia senza una porta non era una mossa molto intelligente, si era pentita di quel commento: la Contessina le aveva infatti esposto una complicatissima spiegazione del perché, invece, un covo senza una porta fosse un’esortazione al rimanere segreti sempre e comunque, senza affidarsi alla carta ma solo alle proprie facoltà mentali; nulla di scottante poteva esistere, se tutto avveniva “alla luce del sole”. Beatriz aveva trovato quel discorso illuminante e saggio, all’epoca, e ancora ora, sovente, si soffermava a rifletterci quando osservava l’arco privo di porta che conduceva all’Antro.
Con un sospiro ne staccò gli occhi: Saradar aveva affisso il velo di seta per proteggerli da occhi indiscreti, e Beatriz iniziò a dividere ordinatamente i fogli sul tavolo perché potessero mangiare: l’amico prese infatti i due vassoi e li posò sul ripiano ora sgombro, in maniera che i due potessero parlare e mangiare l’uno accanto all’altra.
«Dunque… come procediamo?».
«Non è un lavoro da guardie, ci sarebbe un fuggi fuggi generale. Ci vuole qualcuno di più cauto, che si mimetizzi…» Beatriz scoccò un’occhiata ai capelli azzurri di Saradar e l’uomo alzò gli occhi al cielo.
«Certo, mandiamo lo stregone».
«Sei l’uomo più qualificato che ho… nonché quello di cui mi fido di più» cercò di addolcirlo la donna, ma non funzionò.
«Sono immune a quegli occhioni da cerbiatto che ti ritrovi» borbottò, ma poi ridacchiò. «Un metro e sessanta di capo delle spie, nessuno direbbe mai che sei letale se ti ci metti».
Beatriz ebbe un brivido quando sentì le misure metriche: le si accapponò la pelle e sorrise istintivamente, mentre tagliava la carne con il coltello e si portava alla bocca con le dita un boccone; lo assaporò: petto di cappone al latte e acqua di rose… ma oltre alle rose c’era qualcosa che dava al piatto un sapore dolciastro, anche se non seppe capire cosa.
«Certo, certo» borbottò, fra un boccone e l’altro. «Mi conviene, in effetti, sembrare inoffensiva… ho meno rogne».
«Però devi essere brutale con i prigionieri, altrimenti non ti rispondono» le fece notare Saradar, divertito, e Beatriz fece spallucce.
«Bene così, ci si fa l’abitudine… e comunque sono prigionieri, sono lì per parlare. Se non lo fanno è solo colpa loro. Se sembri spaventoso sul campo, poi, la gente si ritrae e non collabora… se sembri un animaletto indifeso, invece, dice un mucchio di cose che non dovrebbe dire» ridacchiò, ripensando alle volte che le era capitato proprio quello.
«Hai intenzione di andare in avanscoperta, per quanto riguarda la famiglia clandestina?».
«Non saprei. La bambina è malata, cercano sicuramente una Sacerdotessa o un Sacerdote per avere delle cure…» lo informò, e Saradar si irrigidì.
«Quindi mi stai dicendo che stanno mettendo a rischio la sicurezza di tutta la città? E per cosa?» quasi ringhiò, e Beatriz si strinse nelle spalle.
«Salvare i figli, forse. Al sud la piaga è aumentata, sta facendo strage di chiunque abbia sangue fatato… Non mi stupirei se la bambina, a questo punto, fosse di un altro padre» Beatriz si versò un calice di vino speziato e osservò con dispiacere che era ormai tiepido, ma lo bevve comunque per stemperare il sapore dolce del cappone; nel momento in cui il vino toccò le labbra, identificò il sapore che le sfuggiva: farina di riso. Mescolata con il latte e l’acqua di rose, rendeva il tutto cremoso e molto mielato, al punto che la stava stomacando: non si era mai abituata a quei piatti elaborati, nonostante vivesse ormai da almeno sei anni a corte.
«Non mi interessano i loro drammi familiari» borbottò Saradar. «Voglio sapere se andrai in avanscoperta e solo poi condurrai i soldati per arrestarli… o se agirete contemporaneamente, tu e le Guardie».
«Direi la seconda… Io li tengo occupati, li faccio parlare, mentre i soldati vengono da noi. Inoltre, bisognerà selezionare solo Guardie umane, in modo che non si rischi che si contagi qualcuno. Cosa mi consigli?».
«Direi drago, ma so che è quello che detesti di più, quindi dirò gatto» l’uomo sorrise, e Beatriz ricambiò, posando il calice vuoto sul vassoio. Lasciò mezzo piatto intatto, e subito si alzò.
«Perfetto… preferenze sul colore?» ridacchiò, e Saradar si strinse nelle spalle.
«Tricolore».
La donna si avvicinò alla parete in fondo all’Antro e con relativa forza spinse un mattone ­­– a cui era fissato un chiodo – a rientrare nel muro di qualche centimetro; la parete si mosse immediatamente, lasciando aprire una porticina in un angolo; Beatriz scostò il tavolino che ne precludeva l’entrata e si immerse nell’oscurità della stanza. Tuttavia, il luogo le era ormai così familiare e conosciuto che subito prese una torcia di fianco la porticina e la porse a Saradar nell’Antro: l’uomo la accese con una candela e la porse nuovamente a Beatriz, che così illuminò l’angusto ambiente ponendola sull’apposito sostegno da cui l’aveva tolta.
Si trattava di un’ulteriore nicchia, e l’odore nell’aria viziata – poiché non comunicava con l’esterno – era quasi soffocante: si trattava infatti di odore di pellicce di tutti i tipi, appese a grucce lungo le pareti. Il soffitto era basso, al punto che Saradar dovette chinarsi mentre sbirciava Beatriz dirigersi verso le pelli di piccola taglia, e prendeva una pelliccia di gatto rosso, bianco e nero dalla parete; subito prese da terra la coppa che usava per soffocare la fiamma della torcia e la spense, posò nuovamente la coppa per terra e, attraversando la porticina, tirò il mattone in posizione grazie al chiodo: la parete si richiuse come se l’apertura non ci fosse mai stata.
«A volte sei inquietante» sorrise, e Beatriz si portò una mano al cuore, come emozionata da quel ‘complimento’.
«Non mi chiamano “strige” per niente» ribatté divertita. «Ora andiamo, non vorrei perdere di vista l’obbiettivo» borbottò, prendendo con sé una borsa di cuoio e arrotolandoci dentro la pelliccia. Saradar fece un cenno affermativo, prendendo con sé la borsa, e Beatriz si avviò attraverso la biblioteca, diretta alla parte di città che dava rifugio a pescatori e non umani di tutti i generi; l’amico la seguì senza fiatare, eccitato all’idea del prodigio a cui stava per assistere ancora una volta.
 

❦❦❦

 
sera, 13 Gjorna 684 d.C.
«Se solo qualcuno ci desse una mano, noi non saremmo costretti a vagare qui e lì come dei mendicanti per avere delle cure da una Sacerdotessa!».
La tonante voce maschile risuonò per la stanza, e la figlia della locandiera si sbrigò a controllare che la porta di legno massiccio fosse ben chiusa, prima di guardare ansiosa la bambina vicino il focolare, con i brividi nonostante la sera non fosse nient’altro che un po’ umida e fresca, dunque per niente fredda.
«Non so cosa dirvi, noi vi stiamo offrendo riparo ma presto le Guardie saranno qui, hanno preso mio zio, e lo hanno portato a Palazzo!» pigolò la ragazza, e l’uomo che aveva parlato la guardò con occhi di brace, senza capire.
«Vostro zio? E cosa c’entra lui, in tutto questo?».
«È il proprietario dello Scampo Abbandonato…» sussurrò la ragazza, colma di apprensione. «Deve ancora tornare, e spero lo faccia sulle sue gambe e tutto intero, che gli déi lo vogliano» alzò gli occhi al cielo come per rivolgersi a loro, poi tornò a guardare la bambina e si passò una mano fra i capelli biondi, che alla luce del fuoco brillavano leggermente rosati, tradendone la non-umanità. L’uomo, intanto, era impallidito e la furia che lo animava lo aveva lasciato.
«Lo Scampo Abbandonato? È la prima locanda che ha voluto accoglierci… ci ha detto lui di venire qui» aggiunse, e la ragazza fece una faccia addolorata.
«Questo vi fa capire quanto dolore ci provoca dirvi che dovete andarvene il prima possibile, perché altrimenti le Guardie non solo vi porteranno a Palazzo, ma ci andremo anche noi di mezzo! Per avervi ospitati… bambina malata e tutto».
«Tu non hai visto gli orrori della piaga, vero?» borbottò la donna che stava asciugando il sudore febbrile dalla fronte della piccola. La figlia della locandiera scosse piano il capo.
«Prima viene una febbre che non si calma con niente se non delle cure che sono sconosciute ai più, e a cui solo Sacerdoti e Sacerdotesse hanno accesso… se non funzionano neanche quelle, ci sono i deliri. I deliri di una fata sono pericolosi, sai? Potrebbe persino usare la magia, sentendosi attaccata da cose che non ci sono. Poi vengono le bolle, compaiono su tutto il corpo, di colore blu, e sono quelle che danno il nome alla malattia… “febbre blu”. Quando le bolle scoppiano, infettano subito altri del popolo fatato» mormorò la donna, con aria stanca, e continuò: «Se la febbre e i deliri si fermano o vengono fermati prima di arrivare alle bolle, il malato non si ammala più, e la febbre va e viene per un paio di giorni, fino a che non c’è più nulla. Ma se la febbre non viene presa in tempo… dopo le bolle, le estremità del corpo iniziano a morire per conto loro. Diventano azzurre, poi verdi, poi nere… e c’è puzza di cadavere. Sei un morto che respira».
La ragazza si portò le mani alla bocca, scuotendo il capo.
«Abbiamo chiamato una Sacerdotessa, ma non verrà prima di domattina… non potete far altro che aspettare, muovervi con la bambina malata attirerebbe l’attenzione, e…».
Un rumore in corridoio la fece tacere, e il ragazzino che si rigirava nel letto la fece sobbalzare d’improvviso.
«Ti devi calmare, ragazzina, altrimenti-».
Beatriz aveva ascoltato a sufficienza. La gattina tricolore sgusciò via dal davanzale dove era stata per tutto il tempo, saltando sul tetto e al contempo mormorando con la minuscola bocca di gatto:
«Quelsaes».[1]
Immediatamente sul tetto ci fu una Beatriz che si toglieva la pelliccia di gatto dalla schiena e dalla testa, e modulava un delicato suono di civetta: era il segnale.
Saradar a sua volta alzò il braccio e indicò la locanda da un angolo della strada, e quattro guardie entrarono dalla porta principale; sul retro ce n’erano altre quattro, pronte in caso i clandestini volessero fuggire da lì; sul tetto, invece, c’era solo Beatriz… e nonostante il cuore le battesse all’impazzata perché era da mesi che non si lasciava indurre alla tentazione di lavorare sul campo, si sentiva calma e pronta all’azione in caso di bisogno. Sfoderò un pugnale, mentre sentiva il vociare delle guardie al piano di sotto, con il suono sordo di sgabelli e sedie che venivano spostati tutti in un colpo, lo schiamazzo del fuggi fuggi generale fuori dalla locanda, e un tetro silenzio pieno di panico proveniente dalla stanza che aveva appena lasciato.
Come Beatriz aveva previsto, l’uomo dai capelli verdi spalancò la finestra e stava per scavalcare con la bambina malata in braccio, quando vide la donna con il pugnale in mano: il suo colorito da pallido divenne terreo.
«Vi consiglierei di rimanere lì dove siete. Le Guardie vi scorteranno a Palazzo, dove sarete isolati e, chi ne necessita, curati» spiegò calma, ma l’uomo stava valutando evidentemente se poteva buttarla giù dal tetto e scappare. «Ti assicuro che il tetto è troppo alto perché voi possiate saltare giù con una bambina in braccio. E io non morirei per l’altezza, invece… ho la testa di legno» fece un sorrisetto teso, e l’uomo scosse il capo.
«Non puoi capire. Lasciaci tentare. Noi dobbiamo andare via, dobbiamo-».
Dei violenti colpi alla porta lo interruppero, facendolo sussultare, e la bambina febbricitante fra le sue braccia mandò un flebile pigolio di lamento. La donna nella stanza spinse il marito con il busto oltre la finestra, probabilmente chiedendogli in un qualche dialetto mamiano con chi parlasse e perché non fosse già fuori; poi la vide anche lei, e si immobilizzò come un gatto messo all’angolo. I suoi occhi azzurri scintillavano di un’ardente e pericolosa fiamma, quando fece un gestaccio a Beatriz, che portava i colori del Conte.
«Facci passare, o proverai sulla tua pelle la furia di una madre!» ringhiò, iniziando a scavalcare il davanzale per attraversare il tetto; probabilmente si sarebbero diretti verso la stalla coperta, che aveva il tetto più basso, e avrebbero tentato un salto da lì. Beatriz mantenne la calma, nonostante l’idea di perderli ora che erano così vicini le mettesse un pizzico d’ansia in gola. Probabilmente, però, gli déi di quel Regno erano dalla sua, perché la figlia della locandiera era troppo impaurita per non collaborare e non aprire la porta alle Guardie: percependo ciò, la non-umana con il figlio assonnato al seguito tentò di scavalcare di gran carriera il davanzale, ma il marito la prese per un braccio; i due si guardarono negli occhi per un lungo attimo, proprio a pochi metri di distanza dalla strige dai capelli rosa che li fissò senza capire: cosa significava quello sguardo?
L’uomo si voltò, mentre le Guardie intimavano ai tre non-umani visibili di girarsi lentamente con le mani ben visibili, per capire se erano armati. Beatriz scorse una scintilla di disperazione negli occhi della donna a cavalcioni sul davanzale, poi abbassò lo sguardo e scese nella stanza, alzando le mani per mostrare che erano prive di armi, così come il ragazzino. La bambina invece mandò un flebile lamento e si agitò fra le braccia del padre; una Guardia la prese in consegna, consentendo al padre di arrendersi e mostrare che era disarmato… ma invece sfoderò un pugnale, accoltellò la Guardia che teneva la figlia, afferrò quest’ultima al volo e scavalcò la finestra con un agile balzo, passando il coltello al ragazzino, che era improvvisamente sveglio. Il giovanotto tenne impegnati i tre soldati per qualche secondo mentre la madre scavalcava il davanzale, dopodiché le Guardie lo disarmarono e lo immobilizzarono, rendendolo inoffensivo; intanto Beatriz si buttò sull’uomo e prese in ostaggio la bambina, arretrando fino ad avere alle spalle un’altra finestra e una distanza di sicurezza dai due genitori, che ora parevano atterriti.
«Ti ammalerai se la tieni così stretta, cara» sussurrò la madre; Beatriz scosse la testa.
«Le malattie fatate non hanno effetto su di me» chiarì Beatriz, e la donna si portò le mani al petto.
«Ti prego… lascia andare nostro figlio, lasciaci partire, ce ne andremo dalla città, lo promettiamo» la scongiurò, mentre una guardia scavalcava il davanzale da cui erano usciti i tre; pochi secondi dopo, anche dal davanzale alla loro destra era spuntata l’altra guardia senza impegno. I due genitori erano circondati, e dietro di loro si spalancavano sei metri d’altezza.
La bambina sollevò lo sguardo e vide il viso dai lineamenti dolci di Beatriz; subito sospirò e si strinse a lei, rabbrividendo per la febbre, e la distrasse un attimo; i due non-umani tentarono di avanzare, ma le Guardie fecero lo stesso, facendo bloccare il movimento sul nascere. Beatriz tornò attenta e affilò lo sguardo.
«Se vi arrendete ora, non vi porteremo nelle segrete, bensì in una comoda stanza dove potrete rifocillarvi e venire curati nel migliore dei modi».
«Una gabbia d’oro è pur sempre una gabbia» l’uomo diede uno sguardo alla finestra da cui erano usciti, con un’espressione amara.
«Ho ferito una Guardia, dubito che staremo in una comoda stanza a mangiare e venir curati».
Beatriz assunse un’espressione contrita.
«Forse tu sarai separato dagli altri, non posso negarlo. Spera nella clemenza del Conte; posso provare a spiegargli la vostra situazione, la vostra disperazione… Ma nient’altro è in mio potere» lo avvisò, mentre l’uomo stringeva la donna a sé, sotto il mantello estivo. Si scambiarono qualche parola, mentre l’espressione della donna si intristiva sempre di più; quando l’uomo ebbe terminato di dirle qualcosa, la donna sembrava avere vent’anni di più, ed era curva sotto il peso della consapevolezza che stavano per arrendersi.
«Arrestateci pure, allora… Bambini compresi» sputò su Beatriz, ma lei si limitò a fare un breve cenno alle Guardie mentre si ripuliva dalla saliva con il braccio libero; prese poi la bambina in braccio e lei le si aggrappò al collo, cercando calore in quella notte umida e fresca.
I soldati si affrettarono a mettere le manette ai due non-umani e li scortarono nuovamente nella stanza, dove il loro collega ferito fece una smorfia di dolore e il ragazzino sussurrò qualcosa in un oscuro dialetto mamiano o faël, a cui il padre rispose con un dolce mormorio che sembrò lo scorrere di un ruscello nell’acciottolato del suo letto.
Beatriz consegnò la bambina alla guardia ferita, in modo che la guidasse al piano di sotto; con un paio di parole ben piazzate la Guardia riuscì a convincerla con dolcezza a stare in piedi e a muovere qualche passo traballante, mentre il braccio ferito gli sanguinava lentamente: il coltello si era infatti infilato fra lo spallaccio e il cubitale, dandogli una fitta lancinante sull’istante, e un quieto torpore in quel momento, dopo aver bevuto un po’ dalla fiala della salvezza che veniva data in dotazione ad ogni soldato del Conte.
Beatriz fece un cenno alle Guardie, che risposero e iniziarono ad uscire dalla stanza con i prigionieri in catene, dopodiché la donna diede uno sguardo alla stanza: c’erano ancora tutti i bagagli della triste famigliola, niente di più che un paio di bisacce con i vestiti e qualche soldo sul tavolino vicino la porta. Con un sospiro, la strige raccattò tutto e si mise a tracolla le due borse, dopodiché si mise la pelliccia di gatto su nuca e collo, fra testa e schiena, e borbottò:
«Quelsaes».[2]
Dopodiché, una gatta incinta saltò sul davanzale, passò sul tetto, e scomparve nella notte.
 

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notte, 13 Gjorna 684 d.C.
«Detesto portar pesi quando sono in altre forme» borbottò Beatriz, mentre Saradar si stringeva nelle spalle, piluccando una piccola ciotola di frutta secca che aveva sottratto alla cucina e continuando a camminare verso i quartieri notturni insieme alla donna.
«L’importante è che ora siano in quarantena. Se ne occuperanno Irorus e Pareul, mentre noi possiamo andare a dorm…».
Le ultime parole famose stavano per essere pronunciate, ma il caso volle che Saradar fu interrotto prima.
«Mia signora!» un paggio li fermò e venne loro incontro dall’altra parte del corridoio, e quando si fermò inchinandosi davanti a loro sembrava accaldato e a disagio, in attesa di parlare. Beatriz lo guardò con occhi da gatta, neanche stesse per mangiarselo: era stata una lunga giornata, e lei voleva solo andare a letto e svegliarsi il giorno dopo… ma ovviamente la giornata non pareva ancora finita.
«Parla» gli ordinò, arrendendosi all’evidenza che c’era altro da fare.
«Vi porto due messaggi, mia signora» il paggio sembrava a disagio, ma Beatriz lo esortò a continuare; se fosse stata seduta e avesse avuto un tavolo a disposizione, ci avrebbe tamburellato su le dita.
«Dimmeli, dunque; cosa aspetti?» la strige si stava spazientendo, e il paggio si fece più piccolo, se possibile: non poteva avere più di dodici anni, ed era alto quasi quanto Beatriz, dunque fu un prodigio di natura vederlo rimpicciolirsi.
«Uno è di mastro Zahel, e vi invita nelle sue stanze a bere del liquore quando avrete finito i vostri affari per il giorno» il paggio si inchinò alla fine del messaggio, nervoso, e Saradar si coprì la bocca con la mano per non ridere, fingendo di star sospirando per la noia.
«Hai detto che i messaggi erano due» gli fece notare la donna, e il paggio annuì.
«Lo manda mastro Ileeth, e mi ha detto di dirvi solo che ne sono arrivati altri».
Beatriz si fece attenta a quel nome, e al tempo stesso dentro di sé si accese un po’ di curiosità. Si scambiò uno sguardo con Saradar e fece poi un cenno al paggio, congedandolo; il ragazzino scappò a gambe levate.
«Lo hai terrorizzato» rise l’uomo, e Beatriz fece una smorfia.
«Lo sai che l’anima mi-»
«-resta attaccata, sì, me lo ricordo ancora» borbottò Saradar in spagnolo, e Beatriz sorrise.
«Ti va di accompagnarmi?».
«Da Zahel ci vai da sola?».
«Ci mancherebbe altro» rise Beatriz: “bere liquore” significava ben altro, ed entrambi lo sapevano bene… Fu quasi tentata di lasciare Zahel a bocca asciutta come sempre, ma lo aveva fatto troppe volte fino a quel momento e a perseverare avrebbe rischiato non ricevere più inviti. In più, il ragazzo – perché questo era in confronto a lei, un ragazzetto, non se la sentiva neanche di considerarlo adulto – era appena tornato dopo mesi di missione, e lei non si rilassava da un po’; dunque, perché no?
Saradar la strappò a quelle considerazioni picchiettandole su una spalla.
«Ti sei incantata?» ridacchiò, ben sapendo che era stata distratta dal primo messaggio ricevuto. «Eppure speravo in un invito anche io, sai?» sospirò l’amico, e Beatriz aggrottò le sopracciglia.
«Non ti far sentire, che non vorrei rischiare di perderti per un invito del genere».
«Oh, tesoro, ma secondo te non staremmo attenti?» obiettò Saradar, passandosi una mano fra i capelli. «Quel bambinetto è carismatico, non c’è che dire; mi chiedo solo quanto sia effettivamente bravo».
«Le cameriere ne dicono un gran bene» borbottò Beatriz, e Saradar si umettò le labbra, porgendole il braccio. Beatriz lo accettò, anche se in quel modo sembravano padre e figlia data la differenza d’altezza; insieme si diressero verso la prima stanza utile da cui immettersi poi nei corridoi della servitù, per raggiungere le cucine e da lì il retro del castello, dove avrebbero esaminato i nuovi arrivi.
«Se ne dicono un gran bene, dev’esser vero. Anche i paggi più anziani dicono che non è affatto male, purché si accetti di…» Saradar si interruppe e i due si scambiarono un’occhiata, Beatriz più meravigliata che altro.
«Entrambi, dunque! Non lo facevo così…» si interruppe da sola, come per pensare alla parola adatta; nel frattempo, Saradar le scostò un arazzo nel salotto in cui si erano infilati, scoprendo una porticina che conduceva ai corridoi della servitù.
«Versatile?» rise l’amico, e Beatriz ridacchiò mentre si infilava nella porticina.
«Diciamo pure così» confermò, mentre si richiudevano la porticina alle spalle; il corridoio era poco illuminato: le torce erano ridotte a piccole fiamme, e la luce era tenue. I due si diressero verso le cucine, entrambi persi nei propri pensieri; quando uscirono dagli stretti e tortuosi corridoi, Saradar aveva ormai finito di mangiare la frutta secca, dunque lasciò la coppetta su di un tavolo altrettanto vuoto. I due attraversarono lo stanzone: tutti i tavoli erano puliti e sgombri, mentre i forni erano pieni di quelle che ormai si potevano definire solo braci, che emanavano un soffuso tepore; i lavabi – collegati al pozzo tramite delle tubature rudimentali – erano di pietra lucidata dall’uso e levigata dall’acqua; le stoviglie erano riposte nei loro anfratti, e i tegami di rame mandavano un leggero luccichio appesi alle pareti. I due amici scansarono le spezie appese all’architrave della porta che dava nel tinello; superata anche quella stanzetta spoglia adibita ai pasti dei servi, senza uscire dalla cucina, si diressero in silenzio direttamente al grande portone adibito al rifornimento; Saradar prese la chiave da un’alta mensola, mentre faceva un sorriso di sfottò a Beatriz, che alzò gli occhi al cielo.
«A lei l’onore, capo» le porse la chiave sul palmo di una mano, con una riverenza tanto elaborata quanto finta. Beatriz sbuffò e prese la chiave; dopo averle fatto fare quattro giri di chiavistello, aprì la porta quel poco che bastava ai due per scivolare nella notte umida e fredda, e se la richiusero alle spalle portando con sé la chiave: fecero il giro del cortile ed ecco che vicino le stalle, ma abbastanza a distanza da non spaventare gli animali, c’era un carro con le sbarre, di metallo, e Beatriz inarcò un sopracciglio senza riuscire a scorgere nulla al suo interno, se non un profondo e inquietante blu notte.
«Ebbene? C’è magra? Solo quel carro vuoto?» chiese ad Ileeth appena riuscì ad individuarlo in mezzo alle Guardie. In effetti, ce n’erano un po’ troppe, e la cosa la impensierì ancora di più.
«Non è vuoto. Se mi lasci portarla fuori, vedrai con i tuoi occhi che creatura strana e prodigiosa siamo riusciti a catturare stavolta» e dicendo ciò, senza neanche attendere una sua risposta, fece un cenno alle Guardie, che afferrarono delle pesanti catene e le collegarono a dei pesi di piombo ancorati al terreno. Beatriz e Saradar guardarono quello spettacolino di uomini sudati in quella nottata quasi fredda e si scambiarono un’occhiata piena di interrogativi.
Lentamente, un soldato per uno, agganciarono tutte le catene – sei in tutto – ai pesi e una settima Guardia aprì la porta del carro; immediatamente una figura ne uscì di prepotenza, slanciandosi nel cielo. Il blu notte che Beatriz aveva scorto si allargò sotto il firmamento, oscurandone le stelle per una piccola porzione, dopodiché le catene lo trascinarono nuovamente di sotto, impossibilitato a volare per più di un paio di iarde verso l’alto. Beatriz si portò una mano al cuore, atterrita, mentre Saradar le metteva un braccio sulle spalle per farle sentire la propria presenza.
«Che diavolo è quella cosa?» farfugliò la ragazza, dimenticando una delle regole base sulla contaminazione fra i mondi: lì non esisteva un concetto univoco di “diavolo”, mentre i demoni erano ben conosciuti, quindi quella parola le era sfuggita in spagnolo… totalmente incomprensibile per Ileeth, che le diresse un’occhiata confusa.
«È una ragazza-drago, ovviamente».
La figura per terra sibilò, facendo arretrare chiunque fosse a meno di una iarda da essa. Le ali si spalancarono e poi si ripiegarono ordinatamente dietro la schiena di quello che sembrava una ragazzina, poco più che quindicenne, dai fianchi larghi e il seno poco sviluppato. Ma c’erano aspetti di lui ben più spaventosi: prima di tutto, era completamente nudo. Non che la nudità fosse spaventosa, ma i suoi punti delicati erano coperti di squame, così come il seno: dove dovevano esserci i capezzoli, c’erano solo brillanti squame che nella notte sembravano nero-bluastre, e che probabilmente erano azzurre. In secondo luogo, non aveva le braccia, ma un bel paio di ali enormi le sostituiva, spuntando dalle scapole. Inoltre, le squame azzurre ricoprivano la punta del naso, la punta delle orecchie, le spalle, le ginocchia e le dita dei piedi, che avevano anche degli artigli ricurvi come le ali. In pratica, quella creatura era un ibrido fra un drago e un essere umano. L’avere i capelli azzurri – irregolari e corti, tagliati in un caschetto come se piuttosto che un atto d’amore fossero stati tranciati da un artiglio a più riprese – era la cosa meno strana di questo ragazzo e gli occhi gialli sembravano braci nell’oscurità di quella notte; le pupille erano dilatate, ma anche in quel modo era visibile che fossero verticali come quelle dei gatti… e fissavano proprio Beatriz in quel momento, sondandola.
«Sa… sa parlare?» indagò la maestra delle spie, rabbrividendo.
«Non ha fatto altro che ruggire e tentare di sputare fuoco da quando l’abbiamo catturata» borbottò Ileeth, scuotendo il capo.
«Ehy, tu» lo apostrofò allora Beatriz, e il mezzo-drago inarcò un sopracciglio squamoso.
«Chi, io?» chiese, come per sfotterla, e Beatriz rabbrividì: aveva una voce roca e profonda, senza genere.
«Hai un nome?» chiese Saradar per lei, sentendo la sua pelle d’oca sotto le dita lì dove le copriva le spalle.
«Cael è come mi hanno chiamato mio padre e mia madre».
«Dunque sei un ragazzo?» chiese Beatriz confusa: aveva imparato a distinguere fra nomi maschili e femminili, negli anni in cui era restata nel Regno di Mame, e quello era un nome decisamente maschile.
«Sì, sono un ragazzo» confermò il mezzo-drago, cercando di alzarsi in piedi invece di restare accovacciato per terra: aveva anelli a caviglie, collo e vita, collegati alle catene collegate a loro volta i pesi ancorati per terra, per cui quando si sollevò produsse un rumore metallico e che Beatriz associò agli schiavi.
«Eppure non lo sembri» obiettò Saradar, inclinando il capo di lato come per osservarlo meglio. «Sembri anzi una bella ragazza. Come mai ti fingi uomo?».
Nel buio, Beatriz non distinse bene l’espressione di Cael, ma due scintille uscirono ad un’espirazione del ragazzo drago, e gli illuminarono il viso per un breve istante: sembrava irritato, ma non proferì parola. Beatriz realizzò all’istante quale fosse il punto della situazione, ma Saradar sembrò arrivarci dopo: stava per fare un’altra domanda, poi si bloccò e annuì.
«Perché l’avete messo in gabbia e addirittura ancorato?» chiese ai soldati, ma soprattutto a Ileeth, che lo guardò come se stesse dubitando della sua intelligenza.
«Altrimenti sarebbe volata via, mi pare ovvio. L’abbiamo catturata che dormiva su un albero».
«E come si reggeva, non avendo né mani né braccia?» chiese l’uomo, genuinamente curioso. «E soprattutto, come mai l’avete preso? È entrato ad Alya senza permessi né quarantena? Avremmo saputo di un mezzo drago che fa il suo ingresso in città. Non passano inosservati, soprattutto se… beh» Saradar si portò una mano al viso, si grattò il mento, poi indicò il ragazzo che aveva inarcato un sopracciglio squamoso. «Soprattutto se girano nudi e non hanno le braccia» l’uomo suo malgrado sorrise, così come Ileeth, che addirittura rise, ma Beatriz scosse il capo: l’avrebbe infatti saputo nel momento stesso in cui avesse messo piede in città… dopotutto, lei aveva orecchie e occhi ovunque.
«Dove l’avete trovato?» ripeté allora la domanda, sperando stavolta ci fosse una risposta. Ileeth scrollò le spalle come se non fosse importante.
«Durante una ronda nel bosco di Ilyann, la parte che confina con la città. Ci è sembrata una creatura abbastanza rara da interessarti… e da interessare alla Contessina».
A Beatriz si strinse il cuore; non era un compito che svolgeva con piacere, e alla fin fine non riusciva neanche a godersi i soldi che derivano da quella missione.
«Sì…» si rese conto di sembrare dubbiosa, così corresse il tiro, e confermò secca: «Sì, è decisamente roba che ci interessa. Lascia che lo esamini».
A quel punto Cael arretrò di qualche passo, e Beatriz notò che camminando le ali si muovevano impercettibilmente per fargli mantenere l’equilibrio; in assenza delle braccia, il ragazzo doveva aver sviluppato altri metodi per camminare, correre, e anche volare. La donna iniziò a girargli attorno, e il mezzo-drago si muoveva con lei, per quanto concesso dalle catene; ad un certo punto Beatriz si avvicinò pericolosamente, incuriosita dalla sua mancanza di braccia – le aveva perse da bambino o era nato senza? – e Cael le soffiò come un gatto; quattro balestre e tre alabarde furono puntate immediatamente al mezzo drago, che si ritrasse ringhiando. Beatriz alzò le mani e scosse il capo.
«Fermi».
Bastò una parola per fermare le Guardie, che però non abbassarono le armi. Ad un cenno di Saradar ed Ileeth, tuttavia, lo fecero immediatamente; Beatriz sorrise amaramente tra sé e sé, ma non disse nulla.
«Non essere spaventato» si rivolse allora al mezzo drago, che la guardò diffidente; i capelli erano bluastri e sottili, lisci, e gli cadevano sulle spalle corti, sfilacciati. Gli occhi gialli e brillanti la seguirono mentre Beatriz gli girava ancora attorno; aveva un fisico forte, e anche se non poteva vedere la schiena, la donna dedusse che aveva una muscolatura molto robusta, per sostenere il volo. Gli porse una mano, e Cael la guardò con il capo inclinato, come valutando l’offerta; con un tintinnio di catene, concesse di essere toccato da quella donna gentile. Beatriz rabbrividì quando venne in contatto con le spalle toniche del ragazzo; le squame si alzarono leggermente per il nervosismo del mezzo drago, rischiando di ferirle le dita. Finalmente osservandolo da più vicino, Beatriz capì che senza braccia quella povera creatura ci era nata; e che solo grazie alle ali e ai suoi artigli, probabilmente, manteneva una certa autonomia.
«Come fai a mangiare?» Saradar, com’era tipico di lui, interruppe il momento e fece voltare Cael con un’occhiata ferina.
«Dammi del cibo e ti faccio vedere» sibilò, e Saradar si strinse nelle spalle mentre Beatriz gli lanciava la chiave delle cucine.
«Fa’ presto, abbiamo da fare» lo rimproverò, ma in cuor suo pensava che fosse una buona idea far mangiare quel ragazzino: era magrolino, anche se muscoloso, e senza cibo non sarebbe durato molto nelle segrete del palazzo conteale. Una volta che Saradar si fu allontanato abbastanza, Beatriz riprese la sua osservazione, ma durò pochi secondi, perché era ormai stanca: il ragazzino aveva sicuramente sangue di drago, questo era ovvio, ma al contrario dei Draghi Superiori non era un qualcosa che poteva controllare… la sua storia sarebbe stata interessante da ascoltare, ma non era quello il momento, né il luogo: con tutti quei soldati che scambiavano un singhiozzo per un ringhio, la Contessina non le avrebbe mai perdonato l’uccisione di una bestiola così preziosa.
«Cael, posso farti qualche domanda?».
Il mezzo-drago storse le labbra.
«Ho una qualche scelta?» disse, alzando un piede e facendo così tintinnare le catene che aveva alla caviglia; le ali si mossero appena per bilanciare lo spostamento del peso, facendo innervosire i soldati.
«Puoi non rispondere… lo capirei. Sei arrivato qui in gabbia, e ora sei in catene» osservò Beatriz cauta, e Cael quasi fece un sorriso amaro.
«E la cosa non andrà a migliorare, non è vero?»; poi sospirò, senza attendere una risposta già ovvia.
«Sei nato così?» Beatriz fece un cenno con la mano alle ali e alle squame, ma Cael sorrise fiero.
«No, un drago mi ha scelto; il suo corpo era in punto di morte e ha scelto di farmi un dono. Aveva visto che ero nato senza braccia, e ha voluto prestarmi le sue ali» si erse, fiero in tutta la sua magrezza, ma le ali tremarono appena, tradendo invece il suo nervosismo. Beatriz era quasi delusa, però, da quella rivelazione, e non sapeva cosa fare: lasciare libero il mezzo drago, poiché il suo sangue era umano? oppure relegarlo nelle segrete per dare alla Contessina un’altra creatura da torturare a suo piacimento?
Proprio in quel momento tornò Saradar con un cestino pieno di cibo. Lo mise davanti a Cael, che spalancò gli occhi: il capo delle Spie pensò immediatamente che il ragazzo drago non avesse mai visto così tanto cibo in vita sua, perché si accovacciò immediatamente e allungò l’artiglio del pollice dell’ala per scoprire delicatamente il cestino, sollevando la tovaglietta di stoffa bianca che copriva il cibo; al movimento un paio di soldati sollevarono la propria arma, ma Beatriz osservò affascinata Cael che infilava l’artiglio nel pane ormai secco del giorno prima e se lo portava alla bocca, masticando velocemente e con gusto il pane duro.
«Grazie» riuscì a bofonchiare il ragazzo drago, passando a mangiare una pera e non curandosi né del picciolo né dei semi, che ingoiò insieme alla polpa.
«Ti capita mai di ferirti con… beh… l’artiglio?» Saradar incrociò le braccia, e osservò Cael che prendeva dei pezzi di carne essiccata e se li infilava in bocca con l’altro artiglio, e il ragazzino si strinse nelle spalle, a bocca piena.
«Pria fì, adeffo no» parlò a bocca piena, poi ingoiò l’enorme boccone, e se ne mise subito in bocca un altro, un’altra pera intera, che non si diede la pena di mordere prima di masticare.
Beatriz non poté fare a meno di sorridere nel vederlo mangiare, ma le si strinse il cuore al pensiero che, non appena avesse finito di mangiare, avrebbero dovuto portarlo nelle segrete, lì dove venivano custodite anche le altre creature magiche.
Cael finì di mangiare prima del previsto: il cestino era vuoto e il ragazzo drago sazio, al punto che si leccò gli artigli dei pollici dell’ala e fece un grande sorriso a Beatriz e Saradar.
«Grazie» disse, alzandosi e facendo una riverenza maschile ad entrambi.
«Ora sai cosa accadrà, vero?».
Il ragazzo drago si rabbuiò.
«Mi lascerete libero?» chiese sarcastico, e Beatriz non poté fare a meno di sorridere, mentre Saradar ridacchiò.
«Certo» rispose altrettanto sarcastico, mentre faceva un cenno alle Guardie; immediatamente le catene di Cael vennero tirate nuovamente verso il carro-gabbia, e il ragazzo drago oppose subito resistenza.
«Non ho fatto niente! Non potete imprigionarmi!» ringhiò, ma Beatriz poté vedere che gli occhi erano colmi di lacrime disperate; provò a dire qualcosa, ma Cael iniziò a sbattere le ali incatenate e lo spostamento d’aria le fece sollevare le braccia per coprirsi il viso e non far entrare la polvere negli occhi.
«Tenetela!» urlò Ileeth, mentre Cael si sollevava di qualche centimetro da terra; le catene assicurate ai pesi di piombo lo tirarono subito giù, così che la sua fosse una lotta inutile contro gli elementi di metallo pensati per tenere a terra i draghi selvatici. Beatriz scosse il capo e fece un cenno: Cael sarebbe stato riportato in gabbia, e da lì calato direttamente nelle segrete dal montacarichi che si usava anche per i prigionieri pericolosi. Saradar le si affiancò parlandole animatamente di qualcosa di non ben definito, mentre lei si voltava e si dirigeva nuovamente verso le cucine: si sentiva ubriaca tanto era stanca, e soprattutto si sentiva spaventata da quell’incontro; si morse le labbra, mentre si girava circospetta per cercare di scorgere Cael, ma l’avevano già chiuso nella gabbia: l’unica cosa percepibile erano i suoi gemiti di dolore e paura… Anche perché si era probabilmente mostrato più forte di quanto non fosse in realtà.
«Gli avranno fatto del male?» sbottò a Saradar, che continuava a parlare, e lui si zittì, girandosi per un attimo a guardare Cael, prima di voltare l’angolo e tirar fuori la chiave delle cucine.
«Non credo. Sanno che è merce delicata».
«Lo spero bene, altrimenti lady Willow non sarà delicata con me» lo scimmiottò, di pessimo umore. Saradar si accigliò, notando che qualcosa non andava, e tentò di metterle una mano sulla spalla; Beatriz, però, gli diresse un’occhiata gelida e se lo scrollò di dosso, entrando per prima e accelerando il passo così che capisse che non voleva essere seguita. Ora come ora, le serviva non pensare… e si ritrovò infatti a vagare per il castello obbligandosi a non riflettere eppure immersa fino al collo in quei pensieri cupi ed oscuri che Cael le aveva suscitato, riscuotendosi solo quando arrivò alla porta della stanza di Zahel.
Destino? O semplicemente voglia di scivolare via da quegli affari foschi come da una delle sue pellicce? Si sentiva ancora un po’ gatta, dentro, e bussò piano. Una voce soffusa, altrettanto felina, le rispose dall’altra parte del legno:
«Sì?».
«Sono Beatriz».
«Entra» la voce sembrò flettersi in un sorriso, anche se Beatriz non seppe con precisione cosa le avesse dato quell’idea; eppure, quando entrò, trovò Zahel sorridente sul copriletto, completamente nudo. La donna si portò una mano al cuore, riscaldata da quella vista sia nel petto che nel ventre, e sorrise a sua volta, immensamente divertita: ebbene, visti i suoi costanti rifiuti, il ragazzo aveva voluto fare a modo proprio.
“Così sia”.
Si richiuse lentamente la porta dietro, mentre il ragazzo si alzava e le veniva incontro: quando fu vicino, le prese le mani e le baciò le dita una ad una, facendo una sorta di profonde e sorde fusa.
«Vi stavo aspettando, mia signora» mormorò; Beatriz chiuse gli occhi e si lasciò trasportare dal suono della sua voce, che la catturò immediatamente e le promise di perdersi in mari lontani, dove nulla di quell’oscurità l’avrebbe più raggiunta.

 

 


[1] “Trasformami”.

[2] “Trasformami”.

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Capitolo 9
*** Link d'acquisto e ringraziamenti ***


Eccoci qui arrivati alla fine di questo percorso!
Ci sono voluti 4 anni dall'ultimo libro 
per pubblicare «Resistenza», 
ma alla fine ce l'abbiamo fatta!

Un grazie speciale ad
Aven che mi ha editato il libro
rendendolo dall'argilla che era, uno splendido vaso.

Potete trovare dunque la versione integrale e corretta e riveduta 
su
Amazon (sia in ebook, che in cartaceo con copertina rigida o flessibile)
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Kobo (in ebook).

Vi ringrazio per le letture e le eventuali recensioni!

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