Mitsu no tamashii, hitotsu no hanashi

di _Kalika_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


*Questa fanfiction partecipa al WeekEnd of Pride 2021 indetto dal forum FairyPiece - Fanfiction&Images*
 
 
Piccola nota iniziale: l'ambientazione è ispirata prevalentemente alla Novel "Mo Dao Zu Shi" dell'autrice cinese Mo Xiang Tong Xiu, tuttavia qui c'è un taglio tradizionale giapponese e non cinese. Ma anche se non la conoscete, non influenzerà la comprensione della storia! C'è solo da tenere presente che il territorio è diviso politicamente in "clan" che si differenziano per culture e metodi di combattimento. Per il resto, un po' di samurai, un po' di creature mitiche e un po' di guerra!

Buona lettura!

 
* Fantasma di Hiren: Hiren, 悲恋, significa letteralmente “amore triste”
** Kakumei: nome giapponese dell’Armata Rivoluzionaria in One Piece
*** Fushichou: 不死鳥, fenice

 


 

Mitsu no tamashii, hitotsu no hanashi

三つの魂、一つの話
 
 
 

A poco più di un centinaio di metri dallo stretto passaggio di Ebisu il gruppo di samurai rallentò il passo fino a fermarsi. Il frusciare dei kimono e il cozzare delle pesanti armature si arrestò lasciando spazio solo a un lieve chiacchiericcio.
«Cos’è successo?» Un giovane soldato in fondo al gruppo allungò il collo alla ricerca di qualche indizio circa l’insolito comportamento dei superiori. «Perché ci siamo fermati?»
«È la prima volta che passi per la Gola di Ebisu, vero?» Un samurai dall’aria più esperta lo tirò indietro mentre l’altro annuiva sorpreso. Alzò la testa, riempiendosi gli occhi del paesaggio attorno a lui. Un paesaggio piuttosto brullo, in realtà, poiché erano poche le piante che riuscivano a crescere su per le ripide pareti di quella gola. Tanto, tantissimo tempo prima un fiume doveva passare dove adesso stava pestando i piedi, e la vista doveva essere stata verdeggiante. Adesso, però, un passaggio del genere non trasmetteva altro che un senso di angustia.
«Il comandante sta pregando il Fantasma di Hiren*» qualcuno spiegò vicino a lui.
Il tempo di metabolizzare quelle parole che un brivido risalì per tutta la schiena del ragazzo. «Pregare un fantasma? I fantasmi si esorcizzano, non si pregano.» Non aveva mai sentito di una cosa simile. Era giovane ma non tanto giovane da non riconoscere le assurdità. E questa era tanto assurda quanto inammissibile. Se l’avesse sentito qualcuno del suo clan! L’avrebbero riportato diretto a casa e tanti saluti al suo viaggio per “fare esperienza e conoscere il mondo”. Ma nonostante se ne fosse andato dal suo villaggio proprio perché erano troppo chiusi di mente, l’idea di un pregare un fantasma era… troppo, troppo assurda! «Perché non lo combattiamo, invece?»
Il primo veterano alzò le spalle. «Perché non uccidi ogni ape che incontri, anche se può pungerti? Per il miele» si spostò di qualche passo e trascinò il ragazzo con sé per fargli vedere il comandante ancora inginocchiato in preghiera, due bastoncini di incenso accesi ai suoi piedi. «Il Fantasma di Hiren protegge dalle imboscate. E poi, si dice che sia maledetto a restare per sempre su questo mondo. Non esiste lama che possa dissolvere la sua anima.»
«Lo so che esistono anime dannate a restare per sempre su questo mondo. Dipende tutto dal modo in cui sono rimaste sulla terra dopo la morte, lo so, lo so… Ma un fantasma che protegge?» Scosse la testa trattenendo a malapena uno sbuffo. Come facevano a crederci tutti? «I fantasmi non proteggono.»
«Questo sì» intervenne il secondo veterano, con un tono abbastanza scontroso da far capire di averne abbastanza del tono indisponente del ragazzo. «L’ho visto all’opera, una volta. E ci sono diverse storie in circolazione sul suo conto. È affidabile.»
«Ma non ha alcun senso! I fantasmi sono le anime di chi ha lasciato rancori e ossessioni nella vita passata!» Non aveva certo passato l’adolescenza a studiare ed esorcizzare mostri per trovarsi  a pregare proprio uno di quelli che avrebbe dovuto distruggere!
«Le eccezioni esistono in ogni situazione.» Commentò con tono morbido il primo uomo. «La sua storia risale a due, forse trecento anni fa» Sembrava sul punto di raccontare tutto ciò che sapeva, e il ragazzo seppur scettico si mise all’ascolto. «Durante la guerra con i Kurozumi?»
«Mh» annuì l’altro «Si dice che durante la guerra il fantasma di Hiren abbia perso il suo amato in un’imboscata, e da allora ascolta chi richiede la sua protezione.»
«Quindi è un fantasma vendicativo» concluse il ragazzo «ma fa una buona azione. Be’, così… così ha senso. Non mi stupisco che neanche il suo clan l’abbia mai scacciato da questo mondo.»
Il secondo veterano li interruppe: «Anche se avesse voluto occuparsene, all’epoca il Clan Shirohige era troppo impegnato con il t–»
«Shirohige? Da quel che so, il fantasma di Hiren apparteneva al Clan Kozuki. Mentre il suo amato era uno Shirohige. Pur essendo di clan diversi, andavano spesso a caccia di fantasmi insieme.»
I due uomini si squadrarono senza traccia di particolare ostilità. La storia del Fantasma di Hiren era vecchia centinaia di anni e non era raro che ne fossero state tramandate versioni differenti. Stavano per abbandonare la questione quando si unì alla conversazione una quarta persona, che aveva ascoltato i loro discorsi fino a quel momento e a giudicare dal sorriso saputo sembrava trovare la controversia divertente.
«In un certo senso, avete ragione entrambi.» I tre uomini si voltarono e lui sembrò compiaciuto dell’attenzione riservatagli. Aveva una benda sull’occhio destro e continuò a giocarci per tutto il tempo che parlò. «O meglio, avreste potuto averla se la storia del Fantasma di Hiren non fosse stata così tragica.»
«Che cosa vuol dire? Conosci la storia?» Chiese subito il ragazzo, incuriosito dall’incipit enigmatico dell’altro.
«Non tutta» rispose con semplicità guardandolo con l’occhio buono «ma sembra che nel mio clan sia stata tramandata più precisa che nei vostri. Siete curiosi di ascoltarla? Chissà che mettendo insieme le varie versioni non si riesca a capire tutto. La storia inizia un po’ prima dell’inizio della guerra dei Kurozumi…»
 
 

«Non mi piace.»
Koala si voltò senza rispondere. Izou prese l’arco dall’albero a cui l’aveva appoggiato, si liberò dei capelli davanti al viso, prese la mira e tirò svogliato contro uno dei bersagli del campo d’allenamento del clan Kakumei**. Lanciò un’occhiata di striscio a Koala, poi tornò a puntare lo sguardo verso il cancello del patio.
Il capo clan Kakumei conversava in maniera distaccata ma cortese con Squardo, inviato dagli Shirohige in vece del loro capo clan. Al suo fianco, un ragazzo di quindici o sedici anni ascoltava attento la conversazione tamburellando tranquillamente con le dita sull’elsa della spada. Quando allungò una pigra occhiata dentro al patio, Izou lesto distolse lo sguardo e incoccò un’altra freccia.
«Non mi piace» ripeté con tono infastidito.
Questa volta Koala lo assecondò. «A me sembra una persona perbene.» Nascose le mani nelle lunghe maniche e si avvicinò ad Izou camminando lenta, la testa appena inclinata in una muta domanda, o forse solo con una punta di divertimento. Tutti e due si misero a fissare il ragazzo biondo che in quel momento stava annuendo mite a qualcosa detta dal capo clan Kakumei. Poi, forse sentendosi osservato, girò la testa giusto in tempo per vedere due paia di occhi che lo squadravano indecifrabili. Alzò un sopracciglio e, quasi sussultando, gli altri scostarono lo sguardo.
«Non parlavo di lui nello specifico, e lo sai.» Izou decise di ignorare il lieve sospiro dell’amica. «Ho sentito le voci. Il Clan Shirohige non è più affidabile come un tempo. E adesso che il loro capo clan è malato, inviano i loro discepoli a formare le Squadre d’Alleanza. Quanto ci scommetti che l’idea non è stata neanche del capo clan? Lo fanno solo per assicurarsi delle amicizie ma non hanno niente da offrire! Non mi piace, non mi piace per niente. Ahi, Koala! Fa male!» Cercò di liberarsi l’orecchio mentre Koala lo trascinava sempre più lontano dai due superiori e dal biondo, lontano da orecchie che potessero pensare male del suo sfogo.
«Sai quanto me che la situazione non è così semplice» lo rimproverò senza durezza «Hai sentito cosa stanno facendo i Kurozumi a nord? È normale che il Clan Shirohige cerchi di stringere alleanze. Ho sentito zio Dragon qualche tempo fa,» e scosse la testa pensierosa, abbassando la voce, «la guerra è alle porte. Qualche anno al massimo.»
Izou lo sapeva. Lo sapevano tutti. I comportamenti del Clan Kurozumi si facevano ogni giorno più insopportabili ed era solo questione di tempo prima che trovassero il pretesto per dichiarare guerra. Si sistemò l’arco con un gesto nervoso mentre Koala lo prendeva per le spalle e lo rigirava verso il capo clan Kakumei proprio mentre faceva segno di avvicinarsi. Iniziò a spingerlo nella direzione giusta e si alzò sulle punte per parlargli all’orecchio senza darlo a notare: «E poi, non possiamo certo fargliene una colpa se è uno Shirohige. Ci limiteremo a tenere gli occhi aperti e sperare che meriti la nostra fiducia.»
Tra i soliti inchini di cortesia, Dragon fece le presentazioni. Il nuovo arrivato si chiamava Marco e tutti si auguravano che si sarebbe facilmente integrato nel gruppo. Essendo uno dei figli del capo clan Shirohige, Koala lo avevano già incontrato in passato in una missione o nell’altra, ma non poteva certo dire di conoscerlo: tanto che il capo clan Kakumei fin da subito suggerì a tutti e tre di restare a Baltigo per conoscersi meglio, almeno fino a che non avrebbero ricevuto la loro prima missione. Poi, si sarebbero comportati come una normale Squadra d’Alleanza: si sarebbero spostati in base al luogo che chiedeva di loro, alternandosi tra il quartier generale dei Kozuki e dei Kakumei per riposarsi. Non degli Shirohige, specificò Squardo con una punta di altezzosità, poiché a Sphinx non c’erano problemi e dunque non c’era bisogno che degli estranei vi soggiornassero senza motivo. Inoltre la posizione geografica del territorio Shirohige era poco collegata al resto del continente, aggiunse Dragon nel tentativo di mitigare la situazione.
Il capo clan Kakumei non era estraneo alla diplomazia ma solitamente non lasciava correre offese del genere. Vedendo come avesse docilmente riappacificato i due fronti – Izou già aveva sulla lingua una sua personalissima rispostaccia – fu chiarissimo ai ragazzi quanto fosse importante appianare ogni incomprensione e garantire al meglio l’appoggio degli Shirohige, anche a costo di farsi scivolare addosso tali provocazioni. Era una novità, e Izou non poté che provare un moto di stizza nei confronti di un comportamento tanto passivo. Squadrò con astio il nuovo arrivato, nella cui espressione non riusciva però a trovare neanche una punta dell’altezzosità del suo superiore. Allora guardò Dragon che, finito di parlare, scambiò giusto un’occhiata con la fidata nipote prima di accomiatarsi insieme a Squardo.
Rimasti loro tre, Izou si concesse di osservare con attenzione il nuovo arrivato. Aveva soltanto una sacca sulla spalla, e indossava una casacca azzurra dall’aria comoda, stretta in vita ma lunga fino a metà coscia, e un paio di pantaloni più scuri come anche le scarpe. Se non si contavano le maniche corte e il taglio tipicamente maschile degli abiti, per certi versi gli ricordavano ciò che indossava Koala: prima ancora di chiederlo, seppe che era un esperto nel corpo a corpo come la sua amica. Quasi a confermarlo, l’istante dopo notò che non portava armi a eccezione di una katana il cui fodero – blu e giallo – teneva appeso alla cintura.
Ma dopo la rapida occhiata che faceva istintivamente a chiunque gli si presentasse davanti, Izou si accigliò. Non aveva mai visto una persona con i capelli tanto corti: riusciva a malapena a tenerli legati in un codino, che dalla nuca si sparava in tutte le direzioni. Izou sapeva che un’acconciatura tanto inusuale solitamente lo avrebbe incuriosito e basta, eppure il semplice fatto di essere l’acconciatura di uno Shirohige bastava a renderlo un motivo per diffidare di lui. Perché mai li aveva tanto corti? Era per differenziarsi dal resto del mondo, per far vedere come gli Shirohige fossero superiori? Neanche sapeva se il resto degli Shirohige li aveva corti come lui, in realtà. Squardo no. Ma tant’è.
E voleva quasi farglielo presente, che aveva dei capelli assurdi, ma guardandolo in volto trovò un’espressione che proprio non voleva saperne di essere antipatica o anche solo minimamente presuntuosa. E Izou poteva essere acido quanto voleva, ma persino lui sapeva che un’offesa così di punto in bianco era qualcosa privo di senso, nonché fuori luogo. Avrebbe aspettato l’occasione giusta per fargli capire quanto poco si fidasse di lui.
Intanto Koala aveva iniziato a parlare, a presentare Baltigo e il campo d’addestramento e tutte le informazioni necessarie a farlo sentire a suo agio, e camminando affianco a lei, abbassando lo sguardo alla sua testa che oscillava qua e là nell’indicare tutte le varie costruzioni – la staccava pur sempre di una spanna abbondante –, non riusciva a non chiedersi se fosse necessario trattare così bene il nuovo arrivato.
Nuovo arrivato che, però, sembrava voler apparire una brava persona a tutti i costi. E infatti dopo aver scambiato qualche parola con Koala si assicurò di non ignorare nessuno dei suoi compagni. «Sei del Clan Kozuki, giusto?» La sua voce era calma e gentile, e sembrava celasse una carica di energia pronta a uscire.
Izou spostò lo sguardo verso di lui, vedendolo che allungava il collo per superare senza difficoltà l’esigua altezza della testa di Koala. «L’ha appena detto il capo clan Kakumei. Non stavi ascoltando?» Ignorò stoicamente la gomitata che Koala gli rifilò al fianco.
«Sì che ascoltavo» incassò senza mutare l’espressione. «È che non ho mai visto un Kozuki prima d’ora. Conoscevo la vostra eleganza solo per sentito dire.» Mentre Izou inarcava un sopracciglio, Marco sembrò accennare un altro inchino prima di accorgersi di essere eccessivamente formale e limitarsi a un “Non vedo l’ora di lavorare con te”.
Era senza parole. Non lo stava prendendo in giro. “Conoscevo la vostra eleganza solo per sentito dire”? Chi, parlando del Clan Kozuki, avrebbe pensato alla loro eleganza prima del fatto che erano un clan nato dalla polvere, quasi un gruppo di banditi rispetto agli altri? Che per questo non aveva mai partecipato a una conferenza e, non fosse stato per i Kakumei, neanche a delle missioni a più clan?
Nessuno, nessuno avrebbe mai complimentato i Kozuki per la loro attuale eleganza senza fare in qualche modo riferimento alla povertà passata, che fosse con un commento, una risata di scherno o qualsiasi cosa che dicesse al mondo “Non montatevi la testa, solo perché avete un bel kimono non vuol dire che siate importanti quanto me!”. Nessuno. E se lui l’aveva fatto, ah!, che modo meschino di comprarsi la sua amicizia! Non sarebbe mai cascato per…
«Anche noi siamo incuriositi dal lavorare con uno Shirohige» Con un’occhiata d’avvertimento e un’altra gomitata, Koala prese le redini della situazione sorridendo amabilmente. Mai dal suo tono si sarebbe potuta intuire anche solo una briciola della diffidenza che in realtà provava. Perché la provava, no? Sicuramente la provava. Ma in quanto nipote del capo clan, sapeva come far uso della diplomazia. Ecco. «Beh, ci vorrà un po’ per ristabilire gli equilibri nella squadra» commentò infatti ad alta voce.
Marco sembrava non aspettare altro per domandare di più: «Vi conoscete da tanto? Tu e Izou.»
E alternava lo sguardo, su e giù, giù e su, da lui a Koala. Ma che aveva da fissare così?! Con quello sguardo penetrante poi, manco volesse strappargli l’anima! Gli faceva venire un brivido lungo la schiena… «Da quando siamo alti così» sorrideva Koala gesticolando con la mano «I Kozuki e i Kakumei sono alleati da diversi anni. Anche prima dei problemi a nord, sia il mio che il suo clan hanno ospitato più volte i discepoli dell’altro. Potrei dire che siamo cresciuti insieme.» E intanto la sua mano destra si fermò sulla manica di Izou, stringendo quel tanto che bastava per riportarlo in sé e tranquillizzarlo anche se Izou non era proprio sicuro che avesse percepito il suo nervosismo. Ma probabilmente sì, alla fine era di Koala che parlava. Ricambiò la stretta con finta distrazione e si mise invece a fissare Marco, pur avendo l’impressione che lo stesse già facendo da un bel po’ di tempo. Ma voleva rendere chiara la sua posizione.
«Altro che “potrei dire”, Koala. È così.» si accigliò senza distogliere lo sguardo, e intanto la strinse a sé. «Non so chi sia più importante tra te e Kiku.» E poco importava che Marco non conoscesse Kiku, perché sicuramente aveva recepito. Non si doveva azzardare a toccargli Koala.
«E Momo dove lo lasci?» Rise spigliata con una punta impercettibile di nervosismo, schiaffeggiandolo con affetto sul collo. «Poverino! Kiku e Momo sono i suoi fratelli, comunque, entrambi più piccoli. Poi c’è Denjiro che è più grande anche di Izou.» La sentì allargare il ghigno senza neanche guardarla. «Ma mentalmente, senza quella santa di Kiku sarebbero un branco di bambini di tre anni.»
«Koala!»
«Provaci a negarlo! Tanto prima o poi verrà a Kuri e li conoscerà di persona, che male c’è se lo preparo mentalmente?» Izou aprì la bocca indignato, ma poi la richiuse con un’ombra sugli occhi. Troppo presto. Era troppo presto per mettersi a discutere con Koala, non perché discutere con Koala fosse un problema visto che non era una vera discussione, ma perché farlo significava buttare via i suoi filtri ed era presto, troppo presto per farlo con uno sconosciuto che aveva la fortuna o sfortuna di lavorare insieme a loro. E anzi si sentiva nervoso, all’idea che sapesse già nomi, età, per poco cibo preferito dei suoi fratelli, delle persone a cui teneva più di ogni cosa al mondo. «Ma tornando a noi! Marco hai visto solo il campo d’addestramento, sicuramente morirai dalla voglia di vedere il resto di Baltigo!»
E la mano di Koala era di nuovo lì sulla sua manica, a trasmettergli quel senso di sicurezza che in quel momento proprio gli mancava e a garantirgli che forse, solo forse, abbassare la guardia non sarebbe stato fatale. E si fidava dell’istinto di Koala, si fidava eccome, ma i campanelli che gli trillavano in testa erano terribilmente difficili da ignorare. Poteva però scuotere la testa, almeno metaforicamente, e distrarsi.
Dopotutto di distrazioni, a Baltigo, ce n’erano tante. Il quartier generale del Clan Kakumei era come i suoi abitanti: colorato ma professionale. Tra un chiosco di polpette e un venditore ambulante di aquiloni, Koala salutava ufficiali e comandanti a destra e a manca, che riuscivano a non perdere l’aria autoritaria anche in mezzo a tanto frastuono. A Izou capitava spesso di pensare che Koala sarebbe stata un perfetto capo clan, o quantomeno un dignitoso ufficiale. C’era ancora tempo per tali ambizioni, lo sapeva, eppure non riusciva a pensare a una persona più adatta che potesse un giorno prendere il posto di Dragon. Non era certo il tipo da ammetterlo ad alta voce ma ammirava moltissimo le sue capacità di analisi e azione, e aveva l’impressione che la variopinta e articolata organizzazione dei Kakumei fosse il luogo ideale in cui le sue aspirazioni potessero trovare spazio. Ne era più convinto ogni volta che la vedeva discutere di un piano o una strategia nel bel mezzo del trambusto generale, con quell’abilità di focalizzarsi sulla missione senza perdere di vista il quadro d’insieme che tanto le invidiava ma di cui andava anche tanto fiero.
Beh, non che c’entrasse nulla, lui. Però la voglia di mostrare al mondo la sua migliore amica, metterla su un piedistallo – perché piccolina com’era, da terra non l’avrebbe vista nessuno – e gridare a tutti di ascoltarla, la voglia che tutti le recassero il dovuto rispetto era tanta. Così avrebbe potuto prendersi ciò che le spettava, che neanche lui sapeva cos’era ma sicuramente era qualcosa di grande.
Voleva esprimere i suoi pensieri ad alta voce, tanto per chiarire un altro po’ la gerarchia, ma guardando verso Marco lo vide molto preso a guardarsi intorno. Era probabilmente troppo interessato al nuovo ambiente per fare complicati ragionamenti su quanto Koala bene si inserisse nel contesto politico dei Kakumei, questo decise tra sé e sé mentre rinunciava al proposito. Per il momento. Anche perché Koala glielo avrebbe fatto capire da sola e senza neanche farlo apposta.
E poi era quasi divertente vederlo storcersi il collo per cercare di osservare ogni dettaglio di ogni angolo di Baltigo. Izou non era mai stato nel territorio del Clan Shirohige né desiderava andarci, ma non aveva dubbi che qualunque fosse il panorama che Marco poteva gustare ogni mattina, era molto diverso da Baltigo. Qualsiasi luogo era molto diverso da Baltigo, dopotutto.
Le mani infilate nelle maniche, lo sguardo severo e la mente persa in mille ragionamenti, cullato dal chiacchierare di Koala, ci mise un bel un po’ ad accorgersi – con orrore – che si stavano dirigendo verso i dormitori maschili dei discepoli. Si voltò verso Marco, e si ricordò che sì, era un maschio.
Le stanze dei dormitori degli ospiti avevano spazio per quattro futon. Izou condivideva la sua attuale stanza con Usopp e Shachi. Dunque, se non si ingannava, restava un futon libero.
Come sconvolto all’idea, si schiarì la gola per attirare l’attenzione di Koala. Quando catturò il suo sguardo, si limitò a muovere gli occhi a destra e a sinistra, occhieggiando prima il dormitorio, poi Marco, poi, in qualche modo, sé stesso, di nuovo il dormitorio e infine scosse piano la testa.
L’occhiata di Koala fu molto più semplice e chiara: “Assolutamente sì.”
Ah no no no! Già mal sopportava condividere la stanza con due quasi estranei, figuriamoci un terzo intruso spuntato da chissà dove!
“Mettilo da qualche altra parte!”
“Fuori discussione. È il modo migliore per conoscerlo meglio.”
“Ma certo! È anche il modo migliore per essere ammazzato nel sonno!”
Ma Koala sembrava non aver compreso l’ultima risposta, o di averla deliberatamente ignorata. Si voltò proprio mentre indicava a Marco la porta del dormitorio. «Dragon-sama ha suggerito di farvi condividere la stanza, così potrete conoscervi meglio.» A Izou non sfuggì affatto come avesse calcato il nome di suo zio. Un messaggio per lui. Forse. Probabilmente.
Era vero? Era una menzogna inventata sul momento? Izou era sicuro soltanto che non si sentiva affatto sicuro. Marco, intanto, era entrato e aveva posato nell’unico angolo libero il suo bagaglio. Si rialzò in piedi, guardò per qualche secondo fuori dalla finestra, poi si rigirò verso Koala e Izou: «E adesso, cosa dovremmo fare?»
 
 


Nei seguenti giorni, i tre avevano fatto quasi tutto insieme. Mangiato insieme, studiato insieme, lavorato insieme, meditato insieme. Izou era sopravvissuto alla prima notte. E anzi, dalla seconda notte in poi si era perfino rilassato tanto da addormentarsi. Sembrava che Marco non fosse intenzionato a ucciderli. E se Izou non fosse stato così convinto di trovarsi di fronte a un nemico, avrebbe anche potuto trovarlo piacevole fin da subito.
Non che dopo solo una settimana lo trovasse piacevole, eh! Anzi. Affatto. Semplicemente non era una minaccia, non di quelle che lo avrebbero fatto fuori alla prima occasione. Ma era presto, era troppo presto per deliberare qualsiasi cosa. Tolta la possibilità dell’assassinio, si spianava la strada dello spionaggio.
«Com’è il cibo a Kuri? Piccante come qui?»
Ecco appunto. Subito Izou alzò lo sguardo dalla pergamena – fingendo al contempo di essere stato distratto dalla lettura invece che dall’ennesima sfilza di paranoie mentali – mentre Marco, allontanandosi dalla finestra della loro camera a cui era affacciato fino a poco prima, finiva di mangiare uno spiedino di quelle che sembravano piccole palline di pane coperte di salsa rossa. E attendeva una risposta. Non era affatto la prima volta che faceva domande su di lui, su Koala, sui luoghi in cui vivevano. Cosa gliene importava? In che modo potevano essergli utili? Possibile che fosse davvero solo interessato a conoscerli?
Come quando aveva chiesto di spiegargli il funzionamento delle loro armi. Che non l’aveva mai visto, un flauto incantato? Utilizzare gli strumenti musicali per incanalare e indirizzare l’energia era uno dei metodi più famosi non solo tra i Kozuki ma in tutti i clan. Anche Koala integrava nel suo stile di combattimento i due piccoli tamburi che le aveva donato Dragon chissà quanto tempo prima. Esattamente come lui si alternava tra il tiro con l’arco e il flauto. «Il cibo…?» Borbottava intanto più a sé stesso che ad altri. Non riusciva proprio a vederla come un’informazione che potesse usare contro di lui. «È più semplice. Riso, oden, panini al vapore…» Marco restava immobile e Izou ebbe l’impressione che non fosse soddisfatto dalla risposta. Reprimendo una punta di fastidio allo stomaco, alzò gli occhi al soffitto come alla ricerca di qualche ricordo particolare. L’immagine di un grande calderone pieno di zuppa, con attorno i Foderi Rossi – la sua famiglia – impegnati a riempirsi le ciotole gli scaldò il cuore per un breve momento. «E tanta carne.» Concluse poi rinunciando a fornire altri dettagli, e annuì a sé stesso. Nessuno più di loro era esperto nella caccia.
«Mh, sembra forte» commentò solo Marco mentre si sedeva di fronte a lui, poggiando i gomiti sul tavolo e alternando lo sguardo da Izou alla pergamena. Allora Izou si ricordò della recita e gettò anche lui uno sguardo alle scritte, fingendo di cercare il punto in cui era stato interrotto. «Da me invece, tanto pesce. Solo pesce, in realtà» stirò le labbra in un sorriso «Viviamo sul mare.» Sembrava avesse finito di parlare, poi all’improvviso alzò le sopracciglia. «L’hai mai visto, il mare? So che Kuri è su una montagna, quindi…»
«Mai visto» confermò Izou srotolando un altro po’ dello scritto ma lasciando lo sguardo su di lui. «Com’è?» Pensava che sarebbe riuscito a fargli tante domande senza neanche rivelare qualcosa su di sé? Ah, povero illuso!
Rimase di stucco quando lo sguardo calmo di Marco sembrò illuminarsi. Non l’aveva mai visto così. «Ah, il mare… È la cosa più grande e potente del mondo.» Non che in una settimana avesse visto chissà che repertorio di espressioni, considerò tra sé e sé, ma quella passione proprio… «All’inizio sembra solo una distesa blu, poi più lo osservi più ti accorgi che in realtà ha mille colori, mille abitanti, mille modi di presentarsi agli altri. A volte è un’onda delicata che lascia solo un’impronta sulla sabbia, a volte è un abisso che inghiottisce tutto ciò che trova.»
«Mi piacerebbe vederlo» La risposta gli uscì dalle labbra senza volerlo. Si schiodò solo quando un angolo del cervello gli ricordò di guardare la pergamena, ma non lo ascoltò. Ormai non avrebbe avuto senso. Ma aveva appena abbassato la guardia di fronte a Marco, e se non poteva rimangiare ciò che aveva detto, poteva perlomeno sedersi più dritto e fingere indifferenza. Era pur sempre un estraneo, la persona che si trovava di fronte. Un estraneo con cui condivideva la camera da una settimana e con cui, salvo imprevisti, avrebbe condiviso camere e giornate e pasti per il resto della carriera. Ma pur sempre un estraneo.
Marco comunque sembrò non accorgersene e stirò appena il suo sorriso gentile, girando la testa verso la finestra. «Prima o poi dovete passare a Sphinx. Sia tu che Koala. Il mare… va visto almeno una volta nella vita.»
Oh sì, così avrai la scusa perfetta per darci in pasto ai… mostri marini. Esistono mostri marini, sì?
Ma non aveva neanche fatto in tempo a formulare il pensiero né a esprimerlo sotto forma di battuta sarcastica che la voce di Koala risuonò fuori dalla finestra. Sventolava una pergamena semi aperta e quando i ragazzi si affacciarono la lanciò nella loro direzione. «Pare che in un villaggio non molto lontano ci sia un fantasma vendicativo che sta causando problemi. La nostra prima caccia insieme!»
 
 


«Poi, due anni dopo…» «Aspetta, aspetta, come due anni dopo? E la loro prima caccia?»
Il veterano si grattò la benda sull’occhio. «Non ho mai saputo cosa sia successo in quella caccia.»
Il ragazzo sembrava molto deluso. Il secondo veterano borbottò qualcosa fra sé e sé, ma il giovane si rivolse ancora all’uomo con la benda. «Passano due anni senza niente di interessante?»
«Che sia successo o meno qualcosa di interessante, non lo so» alzò le spalle l’altro «e ho detto due anni come avrei potuto dire tre, o quattro. È tutto diviso in diversi racconti, se vogliamo chiamarli così. Quello che so, è che dal prossimo racconto in poi Izou si fida di Marco.»
«Ma come! E tutta quella diffidenza che fine ha fatto? Che senso ha raccontare una storia del genere senza spiegare come si evolvono i sentimenti delle persone?» Quando un paio di uomini dal gruppo lo scrutarono minacciosi, il ragazzo si accorse di aver alzato troppo la voce. L’uomo con la benda però sembrava non averci fatto caso e si passò la mano sul mento borbottando.
«Sono d’accordo con te. Ma non ho proprio idea di cosa…»
«Io credo di saperlo.» Il secondo veterano aveva ancora lo sguardo corrucciato come se fosse estremamente concentrato. «Nella versione che conosco, c’è la diffidenza di Izou per Marco. E c’è anche spiegato quando la diffidenza inizia a diminuire. Solo che…» Alzò un sopracciglio come se neanche lui credesse a ciò che stava per dire. «La storia che conosco è raccontata da Marco.»
I quattro rimasero in silenzio. Soltanto l’uomo con la benda sembrava aver capito la faccenda e sogghignava sotto i baffi. «Penso proprio che in seguito potrai raccontarci la tua versione» fece al secondo veterano «ma prima, lasciatemi terminare la mia.»
Nessuno ebbe da obiettare.
«Vi dicevo, due o tre anni dopo…»
 
 


«Secondo me dovresti tagliarli.» «Secondo te tutti dovrebbero tagliarli.»
«Beh, è vero.» Alzò il braccio per prendere tra le dita una ciocca di capelli corvini, solleticandoci gentilmente il naso di Izou. «Se non fossi rimasto incastrato proprio a causa dei capelli lunghi, non avresti avuto problemi. E adesso non avresti la metà destra corta la metà della sinistra.»
«Ah, non ricordarmelo!» Scosse la testa esasperato, arrancando passo dopo passo verso Kuri, e sentendo la risata di Koala si voltò alla sua sinistra. «Secondo te posso sistemarli acconciandoli in qualche modo?»
Lo sguardo critico di Koala bastò come risposta. «Devi tagliarli.»
Izou alzò la testa con un lamento disperato. Lo sapeva, lo sapeva che doveva tagliarli! Ma mica c’era il bisogno di dirlo così duramente! Rimase con lo sguardo puntato verso l’alto, ondeggiando a ritmo dei passi, un mugugno strascicato sulla labbra. Era primavera, e si lasciò incantare dalla chioma colorata e familiare dei ciliegi sotto cui stavano camminando. Era da un po’ che non tornavano a Kuri.
Come da abitudine, elencò le cose che voleva fare. Aveva proprio voglia di rivedere Kiku e Kin, di godersi una buona ciotola di oden e insegnare a Marco a cucinarlo una volta per tutte. Ne parlavano da tanto, ma non erano mai riusciti a metterlo in pratica: vuoi le tante soste a Baltigo, vuoi il numero crescente di missioni, sembrava non esserci mai un momento di riposo. Eppure, dal poco che aveva visto, gli era sembrato che a Marco piacesse molto Kuri. Forse perché era meno caotica di Kakumei, più vicina all’idea di “casa”, quella confortevole e gentile che sembra abbracciarti quando ci entri. Baltigo, beh… più che un abbraccio, di solito regalava un concentrato di adrenalina. Izou non era ancora stato a Sphinx ma sentiva che, nonostante una fosse sul mare e l’altra in montagna, qualcosa in comune con Kuri ce l’aveva.
Il rumore della Fushichou*** estratta dal fodero.
E poi, Marco doveva sicuramente essere bravo a cucinare. A cucinare per davvero, non a riscaldare le razioni che si portavano dietro in missione o a preparare un po’ di the. Aveva avuto questa impressione fin dall’inizio. Quasi dall’inizio. L’impressione iniziale era che fosse una spia senza cuore e indegna di fiducia o qualsivoglia confidenza, ma se quest’ultima era svanita nel corso del tempo, quella sulla cucina riusciva ancora a convincerlo. Forse cucinava per la famiglia? Gli aveva detto una volta di avere tanti fratelli, quindi…
Zac, zac, zac.
Il rumore di capelli sul filo di una spada.
«Che… che-che-che stai facendo???» Gli occhi sgranati al riconoscere il suono, Izou fece un salto di un metro e si portò la mano alla testa come gliel’avessero appena mozzata, salvo poi accorgersi che i capelli tagliati non erano i suoi. «Che stai facendo?!» Alzando in qualche modo la voce di un’altra ottava, fissò a bocca aperta Marco.
Zac zac zac, con pochi precisi tagli aveva accorciato la chioma bionda che, nonostante i suoi discorsi sulla presunta comodità di un taglio corto, aveva lasciato crescere negli ultimi anni e poteva quasi definirsi lunga. Poteva, appunto. Adesso gli arrivava a malapena al collo, lasciando dietro di sé una scia di ciocche paglierine.
«Non volevo che fossi l’unico a doverli tagliare.» Come fosse la cosa più naturale del mondo, Marco rinfoderò Fushichou, si ravvivò i capelli con le mani e, sollevato un sopracciglio, si voltò a guardare Izou ancora in stato di catalessi. «Sono tanto brutti?»
«No, mi piacciono, io…» Sentì le orecchie andare a fuoco. Cosa? Cosa aveva detto? Non aveva neanche bisogno di guardare Koala per sapere che stava trattenendo una risata con tutta sé stessa. E anche se non ne aveva bisogno la guardò lo stesso, e la ritrovò con gli occhi sgranati dal divertimento e un pollice in su. Incapace di elaborare oltre, il cervello di Izou tornò indietro. «Cosa hai fatto…!» Riuscì solo a ripetere senza parole.
Poi, spinto dal bisogno di aria nuova, mosse dei passi in avanti. Solo dopo si accorse che si stava muovendo in direzione di Marco e si impanicò. « poi con una spada!» allungò il braccio con foga. «Scommetto che sono tutti… ah, invece no.» Si era aspettato di trovarsi tra le dita ciocche irregolari e mal tagliate, invece non poteva che definirlo un bel taglio.
Marco si portò una mano dietro la nuca dimenticandosi che la mano di Izou era ancora lì. Quando lo loro dita si sfiorarono, entrambi riportarono le mani al loro posto. Izou trattenne il fiato mentre le sue dita pizzicavano come se le avesse strusciate sull’ortica. Ma forse era ingiusto come paragone, perché l’ortica faceva davvero, davvero male e invece quello che sentiva sulla mano era davvero, davvero… «Li ho sempre tagliati con la spada, sia a me che ai miei fratelli, quindi…»
«Oh! Tagliali anche a me!» Di nuovo, le parole gli uscirono dalle labbra prima che potesse controllarle. Come poteva sistemare? Veloce, Izou, veloce! «Cio-cioè! Così potrò vantarmi di essermi tagliato i capelli con una spada… due volte» concluse poi aggrottando le sopracciglia. Eh già. Era stata proprio la spada di Marco a liberare i suoi capelli sacrificandone metà.
Marco sorrise appena. «Certo»
E Izou, perdendosi in quel sorriso, non ebbe modo né motivo di aggiungere altro.
Quando arrivarono ai cancelli di Kuri, c’era una sorpresa ad attenderli. Appoggiato alla sua spada con l’aria cupa, Squardo osservò i tre ragazzi che entravano in città e fece cenno a Marco di avvicinarsi. Non appena lo riconobbero, sia Izou che Koala sembrarono rallentare il passo anche se Izou ebbe l’impulso di scappare. Squardo significava cattive notizie. Che fossero per lui o per Marco cambiava poco. Alla fine si limitarono a passargli accanto, salutandolo quel tanto che bastava per non risultare maleducati. Marco si fermò a parlarci.
Poco lontano da lì, trovarono Oden con le mani sui fianchi e un velo di preoccupazione nel perenne sorriso. Lo sguardo ancora rivolto verso il cancello come se fosse rimasto a lungo a riflettere.
«Che succede, Oden-sama?»
Oden alternò lo sguardo tra i due ragazzi. Alla fine si fermò su Izou. «Gli Shirohige stanno riprendendo i propri discepoli. Marco non può più restare a Kuri.»
Il terreno sembrò cedere sotto i piedi.
Marco tornava a Sphinx.
Da solo.
«Per… per quanto tempo?»
Non aveva davvero bisogno di una risposta, ed era certo che sentirselo confermare non avrebbe fatto altro che peggiorare la situazione. E invece la situazione peggiorò ancora prima, quando lo sguardo di Oden si oscurò e Izou sentì la sua mano circondata dalla piccola e forte stretta di Koala.
«Mi dispiace, figliolo. Non è previsto un ritorno.»
 
 


Zac. Zac. Zac. La Fushichou tagliava rapida e precisa le ciocche corvine. A occhi chiusi, Izou si perse nel lieve solletico e solo per un attimo si dimenticò dei problemi.
«Un giorno vi porto a Sphinx» Aveva ormai imparato a riconoscere la tristezza nella sua voce. Gli si strinse il cuore.
«Mh. A vedere il mare.»
Zac. Zac. Zac.
«Per questo non mi dispiaceva l’idea di tornarci. Per portarti… portarvi lì.» Le sue mani si fermarono a carezzare una ciocca, pettinandola con le proprie dita. «Però, adesso…»
Non aveva bisogno di voltarsi per sapere che aveva lo sguardo rivolto verso il nulla. Allungò una mano e gli strinse debolmente il polso. Era così abituato ad averlo attorno… E quel solletico… «Però è casa tua, no?»
«Sì.»
Quel solletico che sentiva sempre quando lo sfiorava, quando sarebbe tornato? «Quindi ti farà piacere tornare anche se sarai da solo, no?»
Non rispose.
Izou non riuscì neanche a sospirare.
Zac. Zac. Zac.
«Kurohige ha preso il posto di papà, ormai.»
Annuì piano. Lo sguardo gli rimase sul pavimento. Ecco perché tanta fretta nel riprendere i discepoli. Cambio di capo, cambio di equilibri. Tanti saluti alle Squadre d’Alleanza. Tanti saluti ai rapporti indesiderati con altri clan. Anche se non era stato ufficializzato niente, Kurohige aveva già iniziato a muoversi. Che fosse una minaccia per l’Alleanza, o quantomeno una presenza instabile e confondente, si sapeva da anni.
Marco passò un’ultima volta le dita tra i capelli di Izou e glieli lasciò cadere davanti le spalle. Poi prese uno specchio e glielo passò. Quando si osservò e stirò un sorriso annuendo, l’altro prese un elastico e glieli legò. Riusciva a malapena a fare un codino. Non desiderava altro che le sue mani ancora su di lui.
«Quando sei arrivato, c’erano brutte voci sugli Shirohige» riprese dal nulla «e non mi fidavo di te.»
«Lo so.» Rispose semplicemente. Che lo sapesse, d’altronde, non era un segreto per nessuno. Ci erano voluto anni affinché i loro sentimenti mutassero per un’altra direzione. Quale fosse, ancora non era chiaro.
«E la situazione nel tuo Clan è andata sempre peggio. Pensi che in futuro potrebbe diventare un problema per l’Alleanza?»
E tornava ancora a toccarlo, e ancora non riusciva ad allontanare le sue mani dai suoi capelli, dalle sue spalle. «Sì.»
Poteva davvero permettere lasciarlo andare così? Mandato in un covo di lupi con la scusa di essere portato a casa?
«Pensi che in futuro potrò fidarmi di te?»
Un tocco leggerissimo. Sentì la fronte di Marco sfiorargli i capelli, il suo respiro sulla nuca. La sua voce gli solleticò le orecchie.
«…Sì.»
Bastò quello. Bastò quello per sospirare di sollievo anche mentre Marco se ne andava.
 
 


Il Grande Vertice dei Clan, più semplicemente detto Vertice, di solito era un evento grandioso. Esuberanti feste, parate, spettacoli teatrali di ogni cultura e tradizione, addirittura eventi di competizione sportiva per favorire le amicizie tra i clan. Con la tensione della guerra alle porte, però, il carattere dell’incontro era più orientato sul semplice incontro diplomatico. Gli organizzatori si erano limitati ad allestire soltanto uno degli eventi che solitamente accompagnavano la settimana di lunghe e complesse riunioni.
Non erano mancate lamentele per la perdita di tempo che una sfida di tiro con l’arco avrebbe comportato, ma il clan Foosha che ospitava il Vertice era stato irremovibile. I Kakumei, da sempre loro amici, non potevano trovarsi più d’accordo con loro: il Vertice era sempre stato motivo di festa, e un po’ di sana competizione non avrebbe fatto altro che rallegrare gli animi di tutti.
«Izou, Izou, hai visto Koala-chan? Non la trovo più!»
Izou non era esattamente dello stesso avviso. Non era mai stato un grande amante delle folle, specie se riunite per il solo motivo di celebrare un incontro che di pacifico aveva poco. Fosse stata una festa vera e propria, già l’avrebbe vista diversamente.
“L’importante è fare qualcosa tutti insieme, mostrare che siamo uniti!” Le spiegazioni di Koala erano assolutamente sensate, ma non riusciva a non guardare con fastidio la moltitudine di persone che entrava nella foresta al suono del fischio d’inizio.
Avrebbe volentieri fatto a meno di partecipare, ma era pur sempre uno tra i migliori arcieri Kozuki: non aveva molta scelta. Così si accostò alla sorella proprio mentre lei lo strattonava per la manica. «Sì, sì, ti ho sentito. L’ho intravista prima tra i discepoli dei Kakumei. Tranquilla, la incontreremo durante la gara.»
E già incoccava la prima freccia, pronto a colpire.
Gli obiettivi delle gare non erano normali bersagli, bensì i fantasmi e mostri presenti nell’area di caccia: un debole, forse inutile tentativo di ricordare che prima di combattere tra uomini, i clan erano nati per proteggere le persone dalle minacce sovrannaturali.
Izou scelse una strada a caso e iniziò a camminare inoltrandosi nel bosco. Ogni fantasma, un colpo; nonostante Kiku fosse più esperta nella scherma, il fratello aveva da sempre insistito affinché si allenasse anche nell’arco. Quando lavoravano insieme, i mostri di una semplice area di caccia non rappresentavano il benché minimo pericolo. Si misero a chiacchierare, e per forza di cose si trovarono a discutere dell’evento a cui stavano partecipando.
«Ho sentito che il capo clan Shirohige è venuto di persona al Vertice.»
Senza aver ancora sentito la presenza di un nemico, Izou incoccò una freccia. Sentiva lo sguardo della sorella fisso su di sé e scrutare la selva attorno a loro gli sembrò il metodo migliore per levarsi dall’impiccio di incrociare i suoi occhi.
«E allora?»
Ma chi prendeva in giro? Il pensiero di Izou era volato a Marco al solo sentire la parola “Shirohige”. Trattenne il fiato mentre Kiku accanto a lui soffocava una risata di scherno con il preciso intendo di imbarazzarlo. Ma non poteva essere più fuori strada di così.
Aveva perso il conto dei giorni, settimane anzi mesi che non vedeva Marco neanche di sfuggita. Gli Shirohige si erano come rintanati nei loro territori, uscendo il meno possibile e svolgendo missioni che richiedessero il minimo appoggio degli altri clan. Era preoccupato per lui, inutile negarlo. Anche tanto.
«Ma niente. Però deve essere una cosa buona per Marco, no?»
Ma se il capo clan si era rimesso abbastanza da partecipare a un incontro di tale importanza, allora forse la situazione era migliorata. Se era in forze, se era in grado di contrastare quel figlio ingrato che da anni ormai usurpava la sua posizione, se dei discepoli l’avevano accompagnato al Vertice, e adesso stavano partecipando alla gara…
Stava per rispondere quando un’ombra tra le fronde attirò la sua attenzione. Quando spostò l’arco nella sua direzione, era già sparita. «L’hai visto?»
«Sì» rispose subito la sorella, immobilizzandosi nella direzione del rumore. Rimasero in silenzio per qualche secondo coprendosi le spalle a vicenda, scrutando attentamente la boscaglia davanti a loro col fiato trattenuto. C’era solo silenzio.
«Non è più qui.» Concluse infine Kiku.
Abbassarono la guardia senza perdere l’espressione concentrata. Il silenzio continuava, fin troppo. Qualche istante dopo, fu rotto da un rumoroso frusciare alla loro sinistra. Passi umani. Indecisi se rialzare le armi, si rimisero in posizione di attacco. Insieme ai passi arrivarono delle voci.
«’di là!»
«’ete! Sbrigatevi!»
Un gruppo di cinque o sei persone saltò fuori di corsa dai cespugli. Sembravano sul punto di ignorare Izou e Kiku e di andare avanti, ma un tremendo boato fermò i movimenti di tutti. Era così vasto che sembrava avesse coperto tutto il cielo; ci misero un po’ a capire che proveniva dal confine della foresta, con ogni probabilità nella zona cittadina di Foosha.
I due gruppi si scambiarono occhiate con la stessa quantità di diffidenza e indecisione. Dal gruppo più numeroso avanzò una testa bionda che salutò Izou con un inchino informale: «Hai visto una strana ombra passare di qua?»
Prima ancora di dover associare un volto alla voce, a Izou si era bloccato il fiato. E quando spuntò dal gruppo di ragazzi, per poco non barcollò. Perché era Marco, era indubbiamente Marco. Ma aveva l’aria più stanca che gli avesse mai visto addosso, come se avesse passato gli ultimi mesi senza chiudere occhio. I capelli appena più lunghi, i vestiti comodi sporchi di terra, il volto tirato e pallido, neanche cercò di forzare un sorriso. L’arco appeso alle sue spalle sembrava fosse sul punto di travolgerlo. Ma era lì. Era vivo, in piedi, e si erano incontrati di nuovo.
«L’abbiamo visto prima del tuono» rispondeva intanto Kiku «Ma è stato velocissimo. Credo sia andato di là.» Non appena alzò il braccio, il gruppo si fiondò nella direzione indicata profondendosi in rapidi ringraziamenti. Solo Marco restò indietro, come avesse raggiunto la sua destinazione, e nessuno si preoccupò di chiamarlo con loro.
Invece, macinò lentamente qualche passo verso Izou e si arrestò solo quando fu accanto a lui. Izou ebbe l’impressione che lo avesse salutato, ma non era abbastanza concentrato per ascoltarlo. Si risvegliò al vedere un sorriso tiratissimo far capolino dalle sue labbra smorte, e diede fiato alla prima cosa che gli passò per la mente. «Cos’era quell’ombra?»
Marco sospirò e scosse la testa, portandosi indice e pollice a massaggiarsi le palpebre, quasi inciampando nei suoi stessi piedi mentre faceva un altro passo. Kami, che gli avevano fatto? Non era certo sul punto di svenire sul posto ma Izou resistette a malapena alla tentazione di offrirgli un braccio a cui poggiarsi. L’avrebbe considerato scortese? Era una domanda un po’ stupida da farsi, se ripensava a quante volte si erano sorretti a vicenda durante le loro missioni. Si avvicinò appena, tenendosi pronto all’evenienza mentre ascoltava la risposta di Marco con un solo orecchio.
«Non lo sappiamo. Uno dei discepoli aveva portato un indicatore di energia negativa, e quando quell’ombra è passata sopra di noi ha iniziato a trillare come impazzito. Che si tratti di una minaccia o di un bersaglio, sarebbe comunque una buona cosa catturarlo» si strofinò di nuovo gli occhi «…ma non ho le energie per una caccia così impegnativa.» «Va tutto bene?» Finalmente le corde vocali erano in sincrono con il cervello.
Marco si appoggiò al suo braccio. Quando gliel’aveva offerto? Non riuscì a rispondersi. Qualcosa si propagò in tutto il corpo proprio mentre sentiva Marco che premeva appena con le dita. Solletico. Un brivido. A malapena si accorse di star trattenendo il fiato. Quel tocco era così familiare…
Si girò a guardarlo ed era così vicino, scuoteva la testa ma non l’aveva davvero scossa, come insicuro di voler negare, le sopracciglia incurvate, la mano libera a mezz’aria, in procinto di minimizzare ma senza farlo per davvero... «È il clan che…»
Un altro boato interruppe la sua risposta. Il terreno tremò e a Izou sembrò che Marco gli stesse scivolando via dalle braccia, via di nuovo. Ma era sempre lì, e quando trovò stabilità il suo sguardo era cambiato. Stava succedendo qualcosa. E Izou se ne sarebbe anche altamente fregato perché Marco era tornato e avrebbe voluto molto più tempo per rendersene conto, perché per giorni e settimane e mesi era rimasto così a corto del suo viso e del suo sguardo e dei suoi capelli e della sua flemma che quasi non se li ricordava più, ma Marco si stava già voltando indietro e stava dicendo qualcosa, probabilmente non a lui ma era pur sempre qualcosa. E Kiku li stava guardando, lo stava guardando, e capì che doveva riprendersi quando la vide inoltrarsi tra gli alberi di corsa, lasciandoli indietro.
Un altro boato.
Il bosco sembrò fremere in risposta. Stormi di uccelli si levarono in volo, versi di tutti i tipi si unirono al frastuono insieme a un brulicare di passi, foglie spostate, ringhi, guaiti. Doveva svegliarsi, doveva riprendersi. Ma prima…
«Koala?» Chiese senza apparente logica. Marco si girò a guardarlo socchiudendo appena gli occhi, come alla ricerca di una spiegazione che però neanche Izou stesso sapeva darsi.
«Si starà dirigendo anche lei verso Foosha. Sicuramente sta bene.» E qualcosa nel suo stomaco si alleggerì. Lasciò andare quell’improvvisa e irrazionale paura, quella parola che aveva iniziato a squillargli in mente e che Marco, in qualche modo, aveva intuito. E lui neanche riusciva a capire se stava bene…
Finalmente scosse la testa. Marco al suo fianco si adattò al passo, ancora saldamente arpionato all’avambraccio. Per un istante, Izou si convinse che era come avevano sempre fatto. Come una qualsiasi caccia. Come una delle tante insieme.
Quasi a volerlo contraddire, un altro boato rimbombò in tutte le direzioni, facendo loro tremare le membra. In cielo apparve una macchia nera, troppo ferma e uniforme per essere una nuvola. Spostandosi in una zona priva di fronde a coprire la visuale, Izou riconobbe che era un simbolo. Il marchio dei Kurozumi, che cupo e imponente faceva uno strano contrasto con l’azzurro invernale del cielo.
«Che ci fanno i Kurozumi qui?» Il suo tono era in allerta, indeciso se tenere lo sguardo in su o guardarsi intorno, come se potessero attaccarli da un momento all’altro. «Non avevano rifiutato l’invito?»
La presa di Marco sembrò farsi ancora più solida. «Io invece avevo sentito che non li avevano neanche invitati» lo informò a denti stretti. Aumentò il passo.
Poi, non ci fu più bisogno di camminare. Una voce risuonò direttamente dal cielo.
«Vi siete divertiti abbastanza con i vostri incontri segreti?» Il tono nasale del capo clan Kurozumi, Orochi, raggiunse le orecchie di tutti. «Con le vostre rimpatriate, le vostre feste, il vostro appoggio fraterno? Mi fate ridere. Davvero, sono io a divertirmi. Cosa pensavate di ottenere con questa bella riunioncina? Credete davvero che bastino un paio di strette di mano per rendervi alleati? Adesso ci penso io! Visto che siete tanto convinti che basti fingersi felici per far andare tutto bene, ve lo faccio vedere io com’è il mondo degli adulti! Com’è il mondo in cui vivete! Porto finalmente grandi, grandissime notizie!»
Il cielo sembrò farsi ancora più nero, i boati si sovrapposero. Gli occhi puntati verso l’alto, tutti non potevano far altro che ascoltare. «Visto che non siete in grado di far altro che pugnalarvi a vicenda e fingere che vada tutto bene, avete bisogno di un capo. Avete bisogno di qualcuno che possa guidarvi! Che possa gestire i vostri beni, allevare i vostri bambini, consolare le vostre donne! Il Clan Kurozumi è pronto a impegnarsi in questo nobile scopo. Annuncio quindi, al cospetto di tutti i clan, che il qui presente capo clan Kurozumi Orochi si considera, da ora e per sempre, possessore di tutti i territori a sud del territorio Kurozumi! Chiunque si opporrà sta consegnando la sua dichiarazione di guerra, è chiaro. Ma mi sento magnanimo! Lo faccio per il vostro bene, dopotutto. Quindi, tutti i Clan che in questo momento mi dichiareranno fedeltà saranno trattati con rispetto! Vogliamo solo i vostri territori e le vostre ricchezze, non le vostre vite!»
Non appena finì di parlare, sembrò scoppiare il finimondo. Forse era il bosco o forse era solo la testa di Izou, dato che non c’erano altri samurai nei dintorni. Ma c’era fermento nell’aria, questo potevano sentirlo entrambi.
Un istante dopo, un marchio blu apparse nell’aria. Gli Apoo si erano schierati con i Kurozumi.
Poi uno verde. Uno viola.
Marco trattenne il fiato. Guardava il cielo come fosse la cosa più orribile dell’universo. Quanto avrebbe dovuto aspettare? Quanto ancora si sarebbe dovuto struggere l’anima prima di vedere la croce bianca degli Shirohige svettare lassù? Kurohige sarebbe davvero arrivato a tanto?
Rimasero col naso all’insù e il fiato sospeso, uno poggiato all’altro. Ogni rumore sembrava preannunciare la tragedia. La mano di Marco, prima poggiata sul braccio di Izou, scivolò lentamente fino al polso, poi sembrò sfiorare il suo palmo. Trattenendo il respiro, Izou lasciò che le loro dita sgusciassero l’une accanto alle altre.
Poi, un altro boato, e di nuovo il gracchiare di Orochi: «Bene, bene! Penso che il tempo sia scaduto!» Altri due marchi brillarono nel cielo al sentirlo, e lui rise. «Ci vedremo presto!»
E sparì. Sparì la voce, sparì il buio, sparirono i boati. La foresta piombò nel silenzio come se si fosse fermato il tempo.
Izou girò la testa e Marco stava ancora guardando in alto, la bocca schiusa, il respiro bloccato nel petto. Era guerra. Era scoppiata per davvero, alla fine. Lo aveva appena ritrovato ed era guerra.
Al solo pensarci, non fu più sicuro di essere un appiglio tanto stabile. Barcollò, e alla fine si ressero a vicenda. Marco si girò a guardarlo, gli occhi persi nel vuoto per un’eternità prima di mettere a fuoco. Izou poteva sentirlo tremare contro la sua stessa pelle. Cosa stava pensando? Gli girava la testa. Era preoccupato? Qualcosa gli batteva forte nel petto. O felice di non essere costretto a passare dalla parte del nemico?
Paura.
Lo stava guardando. Con un’espressione che Izou non ricordava più come decifrare, e le labbra ancora schiuse. Le richiuse e riaprì velocemente, intrappolandoci lo sguardo di Izou, poi quasi scattò nell’avvicinare le loro teste. Le dita gli solleticarono piano la guancia.
Izou sentì il suo respiro su di sé e sorpreso lasciò che un brivido gli corresse lungo la schiena. Ebbe l’istinto di chiamare il suo nome, ma dalle labbra gli uscì solo un sospiro sospeso. Voleva chiedergli così tante cose. Voleva sapere cosa aveva fatto in quei mesi, se gli era mancato. Voleva dirgli che a lui era mancato. Voleva sapere cosa avrebbero fatto d’ora in poi. Con la guerra. Con i clan. Con…
Ma era tanto vicino da vedere le sfumature dei suoi occhi che non aveva mai notato.
…All’inizio sembra solo una distesa blu, poi più lo osservi più ti accorgi che in realtà ha mille colori, mille abitanti, mille modi di presentarsi agli altri.
Era così, il mare? Se era così, voleva vederlo.
Marco rimase immobile lì, a un millimetro da lui, respirando su di lui. Poi chiuse gli occhi e premette tra loro le fronti con un sospiro. Nient’altro.
 
 


Il narratore si fermò. Prima che potesse spiegarsi, il ragazzo aveva già capito. «Adesso c’è un altro salto?» «Indovinato. Anche qui di almeno due o tre anni. Forse di più.»
«Non hai notizie più sicure?»
L’uomo ridacchiò vagamente imbarazzato. «Non è stato tramandato quasi nessun riferimento temporale. Ma posso dire con certezza che sono passati diversi anni per un motivo ben preciso.»
Tutti rimasero in attesa. Il primo veterano sembrava aver già capito e scosse piano la testa con uno sbuffo divertito.
«Dalla prossima scena Marco e Izou sono già una coppia.»
Il ragazzo non poteva credere alle sue orecchie. «Ma che razza di narratori hai nel tuo clan? Saltano tutte le cose più importanti!»
Il secondo veterano si accigliò. «Il novellino ha ragione. Io ho alcuni spezzoni della loro storia d’amore, anche se molto approssimati. Più che sugli eventi, la storia che conosco io…» scosse la testa come se fosse arrabbiato con chi gli aveva raccontato la storia «..sembra quasi un sogno. Conosco le emozioni di Marco, il modo in cui ha visto la guerra, l’amore… ma è tutto confuso. E ancora non ho capito chi dei due è il fantasma.»
«E-E poi non avevano potuto incontrarsi per mesi! Perché poi ci riescono?»
«Questo posso ipotizzarlo» scrollò le spalle il vecchio veterano «ma immagino che una volta iniziata la guerra, l’Alleanza abbia richiesto di riprendere le missioni a più clan. Per tenersi stretti, unirsi contro un nemico comune. È banale ma anche efficace.»
«Ma a Kurohige andava bene? Non che abbia capito cosa avesse in mente, ma non mi sembra il tipo da accettare una cosa del genere…»
L’occhio del veterano brillò interessato mentre scrutava il ragazzino: «Sei sveglio. Ovviamente non gli andava bene, e cercava di convincere i suoi a non collaborare. Ma c’era, naturalmente, chi non seguiva alla lettera.»
«Quindi Marco gli disobbediva?»
«Beh, direi di sì. Ma non lo so con precisione. Sicuramente era riuscito ad attirarsi l’antipatia di Kurohige.»
«Se Kurohige aveva ordinato di non collaborare con gli altri clan, Marco e la sua divisione non lo ascoltavano.» commentò all’improvviso e con sicurezza il primo veterano « Nel mio clan sono tramandate delle missioni svolte dalla Squadra nel periodo della guerra. Più che altro quelle utili a capire lo sviluppo tra Marco e Izou. Il loro primo bacio, cose così.» Schioccò la lingua divertito quando il ragazzo arcuò le sopracciglia, evidentemente interessato. «…anche se erano come una strana parentesi. A dire la verità, molte delle cose che hai detto le conosco da un altro punto di vista.»
«Anche tu da Marco? Certo che è strana questa-»
«No, da Koala.»
 
 


La voce allegra di Kiku trillò fuori dal tempio per avvisare dell’arrivo di Marco a Kuri. Izou sollevò la testa senza staccare le mani dalla posizione di preghiera. Quando Marco entrò e si sedette al suo fianco, accendendo un bastoncino d’incenso sull’altare, gli regalò un gran sorriso. «Non mi avevi detto che saresti passato.» Gli sussurrò all’orecchio, quasi temesse di infastidire gli antenati.
Mentre si rivoltava verso l’altare, Marco gli baciò di striscio l’angolo delle labbra. «Meno persone lo sanno, meglio è. E ho pensato di farti una sorpresa.»
Izou si accigliò appena all’udire la prima frase ma fece finta di niente. Si inchinò un’ultima volta, recitò lentamente una preghiera e si alzò in piedi, lisciandosi l’orlo del kimono mentre osservava Marco fare lo stesso e seguirlo. «Non è solo questo, vero?»
Quando si sentì stringere la mano, il suo cuore sussultò. «Niente di grave.» Stirò un sorriso leggero e incerto mentre camminava fuori dal tempio. Il sole era già tramontato, e si mossero sotto la luce delle lanterne appese agli alberi. «Ma, è probabile che starò fuori per mesi.» Izou vacillò.
Camminarono in silenzio fino alla sua stanza, mano nella mano. Alzò lo sguardo e si trovò a fissare le fronde dei ciliegi che giocavano con le ombre della notte. Era una visione molto diversa dagli alberi in fiore che lo avevano accompagnato nella strada verso Kuri sei anni prima, quando l’unica preoccupazione era l’acconciatura rovinata in missione. Quando, pochi minuti dopo, gli avrebbero portato via Marco e stravolto il mondo. Era diversa ma anche molto, troppo simile. Era difficile scrollarsi di dosso l’impressione che sarebbe finita allo stesso modo. Quindi si appigliò con tutte le sue forze alla mano di Marco, che lo trascinò nel loro mondo come aveva sempre saputo fare. Sarebbe andato tutto bene. Si spinse a forza queste parole nella gola mentre varcava la soglia della sua camera – della loro camera – e spezzava l’incantesimo.
Chiuse la porta e gli occhi, poggiando la testa sullo stipite. Sentì Marco fare qualche passo avanti e indietro. Quando mai aveva avuto bisogno di calpestare il nervosismo con tanta convinzione? «Che cosa ha fatto Kurohige?» Neanche aveva bisogno di sapere che era stato lui. Che cosa gli aveva ordinato? Cosa di così meschino da non poter essere evitato?
Un lievissimo sospiro rispose prima delle parole. Quando Marco parlò, a Izou sembrò che avesse ripetuto tutto nella mente più e più volte. Diretto, rapido, come al solito. Forse un po’ troppo. «Campo Onigashima. Ha mandato la mia divisione a occupare il presidio, fornire supporto, cose così. Dai tre ai sei mesi, ha detto.»
«Tutta la tua divisione?!»
Si era girato di scatto, e gli si era stretto il cuore. Mai come allora Marco gli era sembrato tanto ferito, le mani ad abbracciarsi da solo, la mascella contratta. Gli camminò incontro. «Tutti. Haruta, Vista, Ace… tutti lassù a nord. Ha visto che non ci siamo isolati come vuole lui, e quindi ci fa allontanare a forza.» Sembrò sciogliere un po’ le spalle quando Izou gliele coprì con le sue mani, carezzandogli tutto il braccio fino a tenergli le mani. «Sapevo che avrebbe fatto qualcosa, ma questo…»
Izou lo trascinò fino al futon, facendolo sedere. Aveva tante cose che gli stavano per uscire di bocca. Urla, lamentele, imprecazioni contro quell’uomo che proprio non ne voleva sapere di collaborare, neanche in piena guerra, neanche quando c’era un nemico proprio davanti agli occhi di tutti. Ma niente di ciò che gli passava per il cervello avrebbe cambiato qualcosa o risollevato la situazione, e anche se andava contro la sua stessa natura avrebbe fatto qualsiasi cosa per non peggiorare le cose. Compreso ingoiare tutto e starsene zitto. Però, sei mesi…!
E solo perché Marco e i suoi sottoposti avevano preferito l’efficienza ad una stupida, stupidissima regola senza senso!
«Vengo con te.» Quando alzò lo sguardo si accorse che Marco si era alzato di nuovo in piedi da chissà quanto. Le mani gli diventarono fredde.
Mentre macinava metri e metri nella stanza, sembrò considerare seriamente l’idea. Si fermò, si portò una mano sul mento, poi negò con un colpo secco. «No. Chissà cosa farebbe se lo scoprisse.» E come se non volesse neanche più pensarci, scosse la testa un’altra volta e si sdraiò accanto a lui sul futon trascinandoselo dietro. Prima che potesse fare altro, fu Izou ad avvolgerlo tra le sue braccia. Gli carezzò i capelli stringendoselo al petto.
«È una zona di confine, sarà pericoloso.» Il campo Onigashima era a nord, confinato con il territorio dei Kurozumi. Sarebbe bastata mezza giornata a piedi, forse anche meno, per incontrare un loro villaggio. E nonostante quella fosse una zona relativamente pacifica, non c’era motivo di credere che i nemici non fossero interessati a prendere possesso anche di quell’accampamento.
«È vero, ma è messa meglio di molte altre» come a tentare di consolarlo, Marco allungò la mano per carezzargli la testa mentre si puntellava sui gomiti. Gli sfilò il kanzashi dai capelli, passando le dita nella chioma corvina. «Sai che è una valle, no?» Aspettò che Izou annuisse confuso prima di continuare facendo un “due” con le dita e solleticarci il volto dell’altro. «Fino a pochi mesi fa, si pensava che ci fossero solo due entrate, una a nord e una a sud. La mia divisione arriverà da quella a sud.»
Il due si trasformò in tre e gli sfiorò la fronte in un buffetto. «Però, l’Alleanza ha scoperto una terza entrata; anzi, uscita. Sempre da sud, ma un po’ più a ovest.» Scese lungo gli zigomi, oscurandogli per un poco la visuale. «L’hanno chiamata, mi pare… la Gola di Ebisu.» Gli sfiorò le labbra, ci giocò leggero. «Certo passa vicino al confine prima di allontanarsi verso sud, ma è conosciuta soltanto dall’Alleanza. È una bella garanzia.»
Sorrise, e si allungò per baciarlo. Izou posò le mani sulla sua schiena e lo tirò a sé. Le labbra gli solleticarono e non riuscì a cacciare indietro un sorriso. Però, sei mesi… «Qualche volta, però» biascicò piano quando gli lasciò un po’ d’aria «ti passo a trovare.»
Marco rise contro le sue labbra. «Promettimi di non metterti in pericolo.» Lo sovrastò lentamente, sedendosi a cavalcioni per chinarsi meglio su di lui. Izou annuì appena, allungando le mani alla ricerca del suo viso, e lo tirò a sé mentre lasciava che gli sciogliesse la cintura. Quando sentì le sue mani che gli scostavano dolcemente i lembi del kimono, carezzandogli le clavicole, le coprì con le proprie. «E tu promettimi» sussurrò riallacciando gli sguardi «che quando tornerai, mi porterai a vedere il mare.»
«Anche se Kurohige inventerà qualche regola per cacciare gli estranei?»
A Izou brillarono gli occhi. Basta negatività. Trattenne il fiato, si morse le labbra e aspettò che Marco scendesse a baciargli il collo prima di parlare di nuovo: «In tal caso, sarò costretto a diventare uno Shirohige per entrare.»
Lo sentì fermarsi contro di lui col fiato sospeso, come elaborando le parole. Quando alzò lo sguardo e sorrise, sentì il suo stesso corpo sciogliersi e tremare sotto la sua presa. Lo osservò rapito schiudere appena le labbra. «Shirohige Izou suona proprio bene. Anche se non consiglierei di vivere a Sphinx.» Si sciolse a sua volta la cintura mentre Izou, sotto di lui, si coprì il volto con un braccio. Aveva un sorriso tanto grande da sentire gli zigomi fare male.
«Marco»
«Mh?»
«Vorresti davvero?»
Un altro bacio, un altro lembo di pelle scoperto. Un primo gemito.
«Davvero.»
 
 


Gli abiti dei Kurozumi erano scuri e comodi. Erano tutto ciò che ci si aspettava di indossare in missione e, se non fosse stato per l’odio che provava nei confronti di quel clan che metteva in pericolo le loro vite un giorno sì e l’altro pure, Izou gliene avrebbe reso atto. Sentiva ancora la pungente nostalgia dei suoi kimono decorati a spicchi di luna, ma nel giro di quasi due mesi si era ormai abituato all’abbigliamento a tinta unita di quell’odioso clan.
Adesso che li aveva provati capiva perché Marco e Koala indossavano sempre abiti del genere. Beh, non che dopo anni e anni di allenamento trovasse il suo kimono fastidioso: era un’eternità che non si ritrovava con i movimenti bloccati – come Koala sosteneva che le sarebbe successo in continuazione se avesse indossato gli abiti dei Kozuki. Ma era solo questione d’abitudine, in fondo! E Koala sarebbe stata stupenda con un bel kimono addosso. Ancora non riusciva a capacitarsi di come neanche Kiku fosse mai riuscita a convincerla a provarne uno. Poi era lui, quello testardo!
E parlando del diavolo, alzando lo sguardo vide Koala e Vigaro camminare verso di lui, anche loro nelle scure tenute Kurozumi. «Il gruppo parte tra un’ora. Ci spostiamo a sud ovest.»
Era sempre così. Per i nuovi arrivati non c’erano informazioni, soltanto ordini. Già che sapessero la direzione era premura rara. Con chi si muovevano, per quanti giorni e chilometri, perché, si scoprivano tutti a suon di domande e indiscrezioni nel bel mezzo della missione.
Un’ora dopo, erano tutti in cammino. Erano una ventina di persone e trasportavano alcuni carri pieni di viveri ed armi. Oltre a Koala e Vigaro, Izou conosceva soltanto Puzzle. Tutti entrati nel territorio dei Kurozumi nella stessa missione sotto copertura. A forza di chiedere in giro, riuscì a capire che stavano portando risorse a una truppa vicino al confine. Si stava per accontentare delle poche informazioni ricevute, ma quando si voltò verso Koala la trovò con un’espressione ghiacciata e lo sguardo a terra. Era troppo lontana per raggiungerla. Si erano sempre accordati sul non farsi vedere tutti insieme dato che socializzare troppo avrebbe solo portato sospetti, quindi Izou non poté far altro che combattere la voglia di macinare quella decina di metri, limitandosi a sperare di riuscire ad attirare la sua attenzione fissandola.
Che fosse perché davvero era riuscita a richiamarla o perché si era stancata di guardare il terreno, dopo un po’ alzò la testa e cercò con gli occhi l’amico. L’espressione che si scambiarono sembrò più pesante dei viveri che stavano trasportando. Con un cenno del mento, Koala indicò il Kurozumi accanto a Izou: “Chiedigli più informazioni.
Le possibili risposte gli passarono in mente una dopo l’altra. Avevano ucciso qualcuno di importante? Mentre sgobbavano alla ricerca di informazioni, era avvenuto qualche colpo di stato dall’altra parte del confine?? Si girò e simulò il tono più calmo e confidente che riuscisse a fare, sopprimendo a forza il tremore in tutti i suoi arti: «Ehi amico, ma tu lo sai come mai c’è bisogno di portare queste provviste?»
Quello gli lanciò solo un’occhiata prima di rispondere. «Te l’ho già detto, servono all’esercito a sud. Si stanno preparando per l’assalto a Onigashima, non hanno mica tempo di pensare al cibo! Penso proprio che dovremo fare avanti e indietro per tutta la settimana, visto che attaccheranno alla prossima luna piena…» Il resto della frase si perse in un mormorio confuso. Tutto a un tratto, era difficile respirare. Faticò ad alzare la testa e girarsi alla ricerca di Koala con cui riuscì solo a scambiare un altro sguardo. Vigaro e Puzzle camminavano davanti a loro e dalle andature forzate Izou poteva intuire che avessero ottenuto anche loro la notizia dell’assalto.
Per loro, però, era un assalto come tanti. Ottieni l’informazione, fai in modo di comunicarla all’esterno, e torni a lavoro sperando che l’Alleanza riesca a limitare i danni. Ma adesso? Izou poteva davvero semplicemente avvertire del pericolo e lasciare stare? E si trovava a così breve distanza da Onigashima! Con un buon passo, avrebbe potuto raggiungerlo in tre giorni. Gli bruciavano le mani.
Un cavallo gli sfrecciò accanto. Con sguardo perso lo vide proseguire fino alla testa della fila. Si arrestò accanto al capitano della spedizione e gli consegnò un messaggio.
Forse, se fosse riuscito a sfruttare un momento di distrazione, avrebbe potuto rubare il cavallo e partire al galoppo. Così, ci avrebbe messo ancora meno!
Il capitano sembrò urlare qualcosa alla truppa, ma Izou lo ignorò.
L’assalto sarebbe stato tra una settimana, quindi aveva tempo. Aveva tempo per avvertirlo! Si girò di nuovo verso Koala per farle capire il suo piano, ma trovò uno spazio vuoto nel punto in cui stava prima. Con un’occhiata più attenta, gli sembrò di notare un’ombra a terra. Allungò il collo un po’ confuso.
Poi, qualcosa di freddo e doloroso gli trapassò l’addome.
Un rantolo gli sfuggì dal petto. Al freddo si sostituì del calore fastidioso che sembrava bruciargli le viscere. Con un secondo colpo le gambe cedettero. Si ritrovò riversato contro il carretto. Si girò, e l’uomo con cui stava conversando fino a poco fa aveva già frustato il braccio all’indietro per caricare un altro affondo. Sentì urlare, riconobbe la voce di Vigaro ma non ebbe il tempo di preoccuparsene. Nei pochi istanti che separavano il colpo del nemico, prese una decisione disperata e tirò davanti a sé il flauto, unica arma oltre all’arco. La spada si infranse contro il legno e Izou evitò il colpo a spese della sua arma. Con una stretta al cuore gettò via quelli che ormai non erano altro che pezzi di legno. Come altro avrebbe potuto usarlo, se a malapena riusciva a prendere fiato?
Le gambe bruciavano senza pietà ma riuscì a saltare in avanti, il cervello che lavorava furiosamente. Cosa aveva urlato il comandante poco fa? Si girò, si girò, e mentre perdeva l’equilibrio la situazione gli fu chiara. La copertura era saltata.
Con uno sguardo cercò di capire le condizione degli altri. Puzzle era a terra. Vigaro non si vedeva da nessuna parte. Sentì il lamento di una voce familiare e arrancò in quella direzione. Prima ancora che potesse raggiungerla, vide Koala strisciare da sotto il carretto e tirarsi in piedi con una gamba insanguinata. Sembrò passare un’eternità prima che tra un colpo e l’altro riuscisse ad affiancarsi a lei.
«Come l’hanno saputo?» Riuscì solo a biascicare, ma non udì risposta.
Erano troppi. Ad ogni colpo che infliggeva, ne riceveva quattro. Koala gli aveva passato uno dei suoi coltelli da lancio, e per un attimo la situazione gli sembrò migliorata rispetto a quando, non avendo armi a corto raggio, non poteva fare altro che schivare gli attacchi. Riuscì a ferire all’addome un nemico, e lo vide cadere a terra con la coda dell’occhio mentre si girava e affondava al viso del prossimo. Qualcuno gli bloccò il polso destro e prima che riuscisse a liberarsi sentì un altro bruciore esplodergli sul petto, poi qualcosa di pesante bloccargli il respiro. Indietreggiò come un forsennato, la vista che si riempiva di pallini neri.
Un rumore dietro di lui lo fece girare. Vide Koala a terra e sentì il cuore sprofondargli nel petto. Con un ultimo guizzo si accorse della mano piegata in maniera innaturale, con pollice e mignolo piegati sul palmo: uno dei loro segnali. Aveva ragione. L’unico modo per salvarsi era fingersi sconfitti.
Non sapevano cosa avrebbero fatto ai loro presunti cadaveri, ma se avessero continuato a combattere sarebbero morti sicuramente. Prima ancora che potesse buttarsi a terra, qualcuno lo afferrò per la testa. Era già tutto nero.
Caldo, caldo su tutto il petto. L’aria non entrava più. Provò a urlare, ma non ci riuscì. Provò a muoversi, ma il mondo girò e la testa sbattè fortissimo. Provò a portarsi le mani alla gola, ma c’era solo caldo. Caldo liquido ovunque ma sembrava già fare freddo, molto più freddo.
Onigashima.
Devo andare ad Onigashima. Devo avvertire Marco.
Devo salvarlo, e portarlo via da Onigashima.
Per farlo, doveva prima alzarsi.
Alzarmi e respirare.
Ma la gola era coperta di sangue.
Devo vedere il mare!
 
Ma era tutto nero.
 
 



Il gruppo di samurai stava riprendendo a camminare. Il veterano si sistemò la benda sull’occhio e fece una breve pausa mentre riprendevano il ritmo. C’era un silenzio triste e composto. Dopo aver ascoltato per un po’ il vento che ululava tra i meandri della gola, il ragazzo raggiunse il più anziano senza alzare lo sguardo da terra. «Quindi, il fantasma è uno Shirohige?»
Anche il secondo veterano sembrava concordare. La loro era solo una conferma.
Dopo un po’ di silenzio, l’uomo con la benda accennò un sorriso malinconico: «Non correte alle conclusioni. Uno Shirohige, dite…»
Non aggiunse altro per un po’. L’atmosfera era troppo tesa per insistere, ma non ce ne fu bisogno: «Da questo momento in poi, la storia è un po’ confusa.»
Intervenne subito il primo veterano con un’energia che il ragazzo proprio non riusciva a condividere. «La parte che conosco meglio, invece, comincia proprio da qui. Vi avevo detto che conosco le vicende raccontate da Koala, no? Posso continuare io.»
L’uomo con la benda lasciò la parola. E avendo l’impressione di aver intravisto un’elegante ombra nella notte, sorrise.
 
 






***Angolo dell’Autrice*** Questa storia in origine doveva essere una one shot. Poi ho deciso di dividerlo il due capitoli. Poi, in preda alla disperazione, ho deciso di dividerlo ancora di più – perché non avevo tempo per scrivere in tempo tutto ciò che avevo programmato.
E paradossalmente, il titolo è ispirato alla divisione in tre capitoli. La traduzione infatti è: Tre anime, una storia. Anch’esso modificato più e più volte. Anche dopo la pubblicazione. Ma è un buon segno, no? Vuol dire che tengo molto alla storia e continuo a modificarla per migliorarla, no? Boh.
Spero di non impigrirmi troppo e far fare a questa storia la fine di tutte le altre long, ossia buttate nel dimenticatoio. Mi piace molto l’idea di questa Ff quindi voglio finirla davvero anche se sarà impegnativo.
Questa volta l’angolino dei ringraziamenti va agli Oka che mi hanno sopportata scrivere ogni tre minuti nonostante stessimo in vacanza tutti insieme. Mi avete dato tante idee!
Beh, non ho altro da dire e il tempo sta per scadere! Come al solito vi invito a lasciare una recensione se la storia vi è piaciuta o se avete qualche commento/critica da fare!
A presto,
Kalika

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


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*Questa fanfiction partecipa allo Yaoi&Yuri Weekend 2021, indetto dal forum FairyPiece - Fanfiction&Images*
 
 
***Avviso ai lettori: a fine agosto ho modificato il testo del primo capitolo. Non ci sono grandi cambiamenti per quanto riguarda gli avvenimenti, ma ho curato di più le emozioni e le relazioni tra i personaggi, aggiungendo piccole scene e riflessioni. Quindi se l'avete letto prima del 26/08, vi consiglio caldamente di tornare indietro!


*maniche: con maniche, intendo speciali maniche lunghe e larghe degli abiti cinesi/giapponesi che contengono delle tasche al suo interno! Quindi si usavano per trasportare diversi tipi di oggetti.
 



 
Mitsu no tamashii, hitotsu no hanashi

三つの魂、一つの



 
Aveva ripreso la marcia nella gola di Ebisu ma il chiacchiericcio tra i quattro uomini non si era interrotto.
Se il giovane samurai era ancora pensieroso per il finale enigmatico della prima parte della storia, l’uomo con la benda sembrava invece divertito e interessato più che mai. Aspettò giusto che cominciassero a marciare dentro la gola di Ebisu per riprendere a parlare con energia.
«Dunque, ricapitolando! Tu…» si voltò verso il primo veterano che si era interessato alla discussione, scrutandolo con sguardo luminoso «tu sai qualche cosa dal punto di vista di Koala. E tu…» si voltò verso il secondo, facendo strusciare rumorosamente i tacchi sulla terra mentre faceva qualche passo all’indietro «sai qualcosa dal punto di vista di Marco. E tu…» si girò verso il ragazzo al suo fianco, che si trovò un dito puntato sulla fronte «tu non sai niente!»
«Ehi!»
«Io» riprese ignorando la lamentela «ho raccontato fino all’assalto dei Kurozumi nei confronti di Koala, Izou, Puzzle e Vigaro che erano sotto copertura in un campo nemico. Ora tocca a te!» Allungò la mano verso il primo veterano, che seppur divertito dall’improvvisa carica di energia del samurai si sentiva un po’ a disagio.
Ma bastò lo sguardo curioso del ragazzo per smettere di esitare. «Lo farò, ma devo avvisarvi… la storia ci è stata tramandata in maniera un po’ strana.»
«Strana in che senso?»
Alzò le spalle mentre lanciava uno sguardo alle pareti della gola: «L’ordine degli eventi è... particolare. A volte non c’è alcun collegamento tra una scena e la successiva. Be’, un senso ce l’ha, però…» Si fermò, come se avesse detto troppo.
«Mhh…» il ragazzo sembrò riflettere sulla gravità della situazione. «Non potrà essere peggio del vecchio che ha saltato tutto! Come si sono fidati l’uno dell’altro, come si sono innamorati, come si sono dichiarati… Qualcosa di queste la sai, vero?»
«Mah, più o meno…»
«Oh, bando alle ciance!» L’uomo con la benda rise e diede una pacca sulla spalla al primo veterano. «Coerente o no, non ci interessa purché cominci a raccontare! Ho aspettato fin troppo!»
«Va bene. Come vi dicevo, neanche il primo racconto comincia dall’assalto a Izou e Koala…»
 
 
 

«...certo che sono triste. Che domande fai?» Izou restò in silenzio mentre Koala tratteneva un sospiro. Per un attimo sembrò sul punto di aggiungere un altro bastoncino d’incenso al nuovo altare, ma si trattenne. Neanche Koala, dopotutto, era intenzionata a restare là dentro ancora a lungo. La sala degli antenati non le era mai sembrata così asfissiante.
Erano seduti da tanto tempo ma aveva ancora sulla pelle quel tremendo e fulmineo brivido che l’aveva travolta poche ore dopo il suo ritorno a Baltigo. Anche se forse l’agitazione che aveva dentro non era affatto sua.
«Sono triste, ma so anche che sono cose che succedono» Perché la scossa, per lei, era stata davvero velocissima. Sapeva che prima o poi sarebbe arrivata, quella notizia. Ciò che le palpitava davvero dentro al cuore erano quei passi affrettati che aveva sentito fuori dal tempio, la veemenza con cui aveva spalancato la porta, la preoccupazione con cui le aveva chiesto, e continuava a chiederle, se stesse bene. «Tyger… papà… faceva un lavoro pericoloso. Come noi.»
Inclinò appena la testa e non si stupì di sentire lo sguardo di Izou su di sé. E Izou non l’avrebbe mai giudicata ma non poteva certo fermare i suoi pensieri e Koala lo conosceva troppo bene per non sapere che, per lui, quell’affermazione era un qualcosa di inconcepibile.
Era inconcepibile quell’affermazione come lo era l’idea di perdere un membro della sua famiglia. Forse perché si era praticamente appena formata, la sua famiglia. Quanto tempo era passato dalla fondazione del clan Kozuki, quattro, cinque anni? Erano nati quasi per miracolo perché ci avevano creduto, si erano cercati e trovati e creati da soli, e avevano lottato con le unghie e con i denti per la vita e per il clan. Come potevano anche solo pensare di perdere qualcuno?
Nonostante ciò Koala non evitò di girare la testa, guardarlo negli occhi: «È normale.»
E le venne voglia di carezzargli la testa quando lo vide arricciare le labbra, gli occhi un po’ lucidi. Tyger, in fondo, aveva cresciuto anche lui. «Non è normale.»
Voleva rispondergli ma non ne aveva le forze. Si alzò in piedi, studiando un’ultima volta l’effigie tanto familiare. Marco la seguì a ruota e solo sentendolo muoversi Koala si ricordò della sua presenza. Si girò verso di lui, per ringraziarlo almeno con lo sguardo del sostegno, e lo vide che fissava Izou quasi corrucciato. Izou che aveva appena finito di alzarsi, e subito si rivolse a lui e riprese la discussione. Non parlò, in realtà, né gli chiese niente, ma non serviva per capire che voleva sapere la sua opinione.
Marco si accigliò ancora di più, aprendo cauto la bocca. «Le missioni stanno diventando più pericolose. Certe volte, è solo questione di tempo.» E mentre finiva la frase già era chiaro che non stava più rispondendo a Izou, quanto più a sé stesso. Come se stesse ripassando una nozione risaputa, un dato di fatto su cui aveva potuto riflettere a lungo. Tanto che Izou ammutolì e camminò a testa bassa fino alla porta del tempio.
Uscirono che il sole era già calato e le strade illuminate dalle lanterne. «Sono stanca. Vado a dormire» annunciò semplicemente Koala regalando ai ragazzi un sorriso un po’ tirato. Poi si voltò e scomparve tra le ombre.
Quando sentì Marco muoversi, Izou lo seguì senza badare alla direzione. Avevano camminato fianco a fianco fin dal ritorno a Baltigo di qualche ora prima. Anche fosse stato sul punto di crollare dalla stanchezza, non riusciva a contemplare l’idea di staccarsi da lui per… per fare cosa, poi? Era tutto intontito. Quindi continuò a seguirlo. La strada si fece più polverosa, sui margini aumentarono le piante a mano a mano che passeggiavano lungo il limitare di Baltigo.
«Lo conoscevi bene?» La voce di Marco lo fece risvegliare. Aveva ancora in mente lo sguardo e le parole di poco prima, così simili a quelle di Koala con cui era tanto in disaccordo, e un brivido gli correva su tutta la schiena. Eppure non riusciva a immaginare di poter litigare con lui, o andarsene, camminare o andare a dormire senza assicurarsi che gli restasse accanto.
«Tyger era un compagno d’armi di papà, un suo amico. Quando è nato il nostro clan, passava spesso a trovarci. Era tipo… tipo uno zio. Aveva…» Si bloccò con un sorriso, ma sentì gli occhi che gli si riempivano di lacrime.
«Scusa» subito riempì il silenzio, Marco, non appena lo vide così, e gli posò una mano sul braccio.
«No, no» si passò veloce una mano sulla faccia, tirando su col naso e sbuffando una risata «È che…» Si era preoccupato solo per Koala, fino a quel momento. Le lacrime che stava per versare prima, nel tempio, erano più di dispiacere per lei che di tristezza vera e propria. Era stato addolorato per lei, perché Tyger era suo padre, ma era bastato poco per… «È che m-mi sono accorto che... manca anche a me» E abbassò lo sguardo, ripulendosi il viso da una lacrima.
Marco non rispose, ma Izou poteva immaginare che espressione avesse. Tranquilla, un po’ adombrata, ma forse anche appena sorridente. Fece qualche passo qua e là, guardandosi attorno, e quando notò un muretto ci si sedette con un altro sbuffo. Marco gli si mise accanto, seduto anche lui, facendo sfiorare le spalle.
E rimasero in silenzio, perché difficilmente Marco avrebbe parlato se non fosse stato Izou a cominciare. Rimasero in silenzio finché non divenne troppo opprimente, almeno quanto la frequenza con cui tirava su col naso e si asciugava il viso. «Non stare lì in silenzio» borbottò allora con una voce più tremula di quanto si aspettasse.
Non staccò gli occhi lucidi dalle punte delle sue scarpe mentre lo diceva, e sentì Marco al suo fianco muoversi un po’. Lo sentì prendere fiato ma poi non parlò. Allora si voltò a guardarlo e lo vide aprire appena le labbra, guardando il vuoto. Poi le richiuse. Infine addolcì lo sguardo e rilassò le spalle, ammettendo con semplicità: «Non lo capisco. Cosa hai detto prima.»
Non poteva dire di non aspettarselo. Si asciugò un’altra lacrima, inclinando appena la testa. «Lo so che capita spesso» chiarì piano piano. «Che è un lavoro pericoloso, che spesso neanche si arriva all’età di Tyger… però è comunque troppo presto.»
Sentiva, sapeva che stava riflettendo su quelle parole. E che cercava di trattenere un’espressione corrucciata – e forse l’aveva trattenuta davvero, ma a Izou non serviva per sapere a cosa stesse pensando. «Non eri… pronto?» Decise infine di chiedere con un tono di gentile conferma che nascondeva una punta di incredulità e forse un pizzico ancor più leggero di compassione. Lo vide ciondolare i piedi a destra e a sinistra finché non li scontrò delicato contro i suoi.
E Marco aveva afferrato esattamente il punto della questione, così Izou annuì, si asciugò di nuovo il viso e si preparò a spiegare: «Non ero pronto perché non volevo esserlo. Né in questo caso, né mai.» E sapeva che Marco stava per chiedergli perché, che motivo avesse una scelta del genere, e un ricordo gli tornò in mente quasi a rispondergli. «Ty… Tyger ci aveva promesso che al ritorno ci avrebbe fatto un altro tatuaggio» Sentì la gola che si chiudeva per le lacrime ma in qualche modo si stava distraendo, in qualche modo poteva continuare a parlare. «Sai quel sole che ha Koala sulla schiena? Gliel’ha fatto Tyger. A me la luna. Però volevamo farne un altro, tutti insieme. Capisci che…» Gli scappò un singhiozzo dalla gola, e stava per girarsi a guardarlo ma seppe all’istante che non sarebbe riuscito a finire il discorso e allora strinse gli occhi e il cuore «Capisci che, anche per una cosa piccola e stupida come questa, era troppo presto?»
Voleva guardarlo. Qualcosa gli stava urlando di girarsi e guardarlo e neanche sapeva il perché. Ma sapeva che se l’avesse fatto qualcosa si sarebbe spezzato e allora continuò a chiudersi, portò le mani a torturarsi l’un l’altra. E sarebbe rimasto così se non avesse sentito la sua voce pacata alla ricerca di conferme, pacata sì ma incredula. «È sempre troppo presto…?» Non era una domanda né un’affermazione, forse era entrambe. Ma si perse tra le lacrime quando nel campo visivo di Izou apparì la mano di Marco e quella soltanto, che scioglieva l’intreccio delle sue dita e le confortava piano piano, gentilissimo.
Lo sentiva vicinissimo e gli venne quasi da ridere mentre annuiva, e sputava due ultime parole tra i denti stretti prima che la gola si bloccasse per sempre: «Stupido… vero…?»
Un’altra grossa lacrima gli rotolò sulla guancia e andò a strofinarla via con una mano, l’altra abbandonata alla presa di Marco come a un faro, così gentile e naturale che lo fece tremare tutta un’altra volta mentre sorrideva triste e inclinava la testa verso di lui: «Sì, un po’.»
E sbuffarono insieme una risata amara, e un sospiro. «Però anche molto bello. Con il tuo dolore stai… onorando la sua vita. È coraggioso. Vorrei…» Si interruppe, neanche troppo bruscamente, in un affievolirsi di voce che con un diniego di testa decideva che era troppo presto. Mosse un po’ le gambe, sbattendo i talloni sul muretto, strofinando il pollice della sua mano contro il dorso di quella di Izou.
E rimase un po’ così, a riflettere, e Izou non lo sentì sussultare neanche quando poggiò la fronte sulla sua spalla. E piano piano, con solo i loro respiri a rompere l’oscurità, sentiva che il cuore iniziava a guarire.

 
 

Si svegliò di soprassalto, come non le capitava da tempo. Le bastò un secondo per sentire l’odore di pericolo e mettersi in allerta, e un altro affinché il corpo le ricordasse la scomodità della terra su cui era sdraiata, il dolore lancinante alla gamba, la puzza di sangue che la copriva. Rimase stesa a terra, la bocca spalancata a prendere fiato, stordita dalle troppe informazioni, e si concentrò sullo sbattere gli occhi. Aveva la vista appannata. Ma anche senza mettere a fuoco poteva vedere che era buio, molto buio. Con lo sguardo puntato verso il cielo, le era difficile distinguere le chiome degli alberi dalle nuvole. Ma le nuvole dovevano esserci sicuramente, perché la luna non si vedeva da nessuna parte.
Era stata svegliata da un solletico sul volto e qualche squittio insistente, subito affievolito non appena aveva cercato di mettersi seduta. Cercato, appunto, perché qualcosa la costringeva a terra. Andò a tentoni per capire cosa la bloccasse. Era una persona: gli sfiorò la testa, sentendo dei capelli lunghi e fini, e tastando il colletto riconobbe il tessuto delle divise Kurozumi. Lo conosceva troppo bene per avere bisogno di indagare oltre. Lo prese per le spalle e lo spostò fino a liberarsi lo spazio necessario a mettersi seduta, posando la sua testa sulla gamba che non urlava di dolore. Prese fiato, sentendosi ancora stordita, una mano a reggersi la fronte.
Non riusciva a ricordare bene come fosse finita per terra. Si guardò intorno, e vide i conigli che l’avevano svegliata saltellare lungo il sentiero, il musetto tenuto per terra lungo le tracce delle ruote di un carro.
Il carro.
Era finita sotto a uno dei carri, giusto? Adesso, però, ne restava solo la scia.
Chissà da quanto tempo li avevano lasciati lì. A giudicare da quanto era alta la luna, era rimasta incosciente per diverse ore. I ricordi stavano tornando a poco a poco ma sentiva che erano ancora troppo confusi, e preferì concentrarsi sul peso sulle sue gambe. «Ehi» Picchiettò sulla sua testa per svegliarlo, cercando di sedersi più dritta e avvicinandosi per cercare di distinguere meglio la sua figura. Fu costretta a ritirarsi per l’odore intenso di sangue, una mano sul naso.
«Ehi, Izou» con voce ovattata lo scosse più decisa mentre la mente già tornava alla questione principale. Erano stati scoperti. Come l’avevano saputo? Chi li aveva traditi? Non c’erano molte persone a conoscenza della missione esclusi i capi clan dell’Alleanza. Qualche funzionario dei clan coinvolti, parenti stretti… Possibile che fosse trapelata l’informazione? O addirittura che fossero nati dei sospetti tra i Kurozumi? Le veniva difficile anche solo considerarlo. Erano sempre stati attenti…
Eppure erano stati scoperti e questo era un dato di fatto, altrimenti non sarebbero stati abbandonati nel bosco in piena notte, dopo quell’aggressione che di casuale aveva poco. Anche se quasi le veniva da ridere al pensiero. Possibile che non avessero neanche controllato loro il respiro, una volta sconfitti? Quanto erano incompetenti quei Kurozumi per averli lasciati in vita, e anzi non solo in vita ma con delle informazioni preziosissime sul loro prossimo attacco?
Si stava perdendo qualcosa. Ma gli stimoli erano troppi e il suo cervello si bloccò all’accorgersi che i conigli avevano smesso di saltare. Strinse gli occhi e li vide radunati in uno stesso punto, il naso per terra e le code all’insù: quando uno di loro si spostò, Koala riuscì a notare delle piccole sagome scure. Sembravano provviste cadute dai carri. Che i Kurozumi se ne fossero andati tanto di fretta da non preoccuparsi di riprendersi la merce caduta? Beh, non che avessero esattamente penuria di cibo…
Un brivido la scosse all’improvviso. Aveva troppe cose per la testa. Le contò: curare sé stessa, curare Izou, cercare Puzzle e Vigaro e se necessario curare anche loro, andare a Onigashima. Andare a Onigashima per avvertirli, perché anche se erano stanchi e malridotti erano gli unici a sapere che nel giro di una settimana i Kurozumi avrebbero attaccato. Ma prima di tutto doveva valutare le condizioni del gruppo, mangiare, se necessario dividersi.
E già non le piaceva il fatto che non si fosse ancora svegliato. Pian piano ricordava gli avvenimenti delle ultime ore e sapeva benissimo che Izou aveva subito ben più colpi di lei. Forse aveva bisogno di cure urgenti? Non era affatto sicura di essere in grado di trasportarlo fino ad un luogo sicuro. A malapena sapeva se era in grado di camminare lei stessa.
«Izou, svegliati» Con un tremito nella voce lo scosse di nuovo. Non rispose, e allora con una foga che non le apparteneva fece scivolare la mano lungo la schiena alla ricerca di neanche lei sapeva cosa. Alla fine il respiro si fermò insieme alla sua mano.
Uno strappo sull’abito.
Ecco la ferita! Cercando di non muoverlo, Koala si chinò per cercare di capire la gravità della lesione. Sarebbe stato in grado di muoversi e raggiungere Onigashima? O meglio, raggiungerlo in tempo, e senza danni permanenti? Perché non aveva dubbi che, non appena svegliato, sarebbe partito alla volta di Marco a prescindere dalle sue condizioni. Come Koala, d’altronde.
Il buio non le faceva vedere quasi nulla, ma sentì che aveva recuperato abbastanza energie. Frugò confusamente nelle maniche* e ne tirò fuori bende, erbe e pomate che posò alla rinfusa attorno a sé fino a che non pescò ciò che cercava: strinse il rettangolo di carta di riso fittamente scritto tra le dita, si concentrò, e al suo comando una fiammella fece capolino dall’amuleto.
Finalmente esaminò la ferita: era profonda, dai bordi slabbrati, anche se non sanguinava più. Ci versò sopra del disinfettante prima di pulire la parte raggrumata dalle formiche che ci erano rimaste intrappolate dentro. Poi si fermò a riflettere. Le erano capitate tante volte situazioni del genere, ma l’odore del sangue era tanto forte da stordirla. Sembrava che provenisse non solo dalla ferita, ma da ogni angolo del bosco. Fissò intensamente lo squarcio, lo bendò rapidamente e si fermò.
«Devo girarti» decise infine parlando direttamente all’amico, come a scusarsi del dolore che gli avrebbe causato. Afferrò saldamente le sue spalle e lo fece sdraiare sulla schiena, gli occhi strizzati per lo sforzo.
La gamba le mandò una fitta tremenda proprio mentre si muoveva e si girò a controllarla, i denti stretti per il dolore, quasi sul punto di rinunciare alla manovra. Era incrostata di sangue e sporca di terra ma non sembrava profonda, e dopo Izou sarebbe stata la prima cosa a cui si sarebbe dedicata. Anche perché altrimenti di andare a Onigashima non se ne parlava.
Finalmente Izou si stese sulla schiena e Koala ne approfittò per versarsi del disinfettante sulla gamba. Il bruciore intenso le sembrò solletico rispetto al dolore che provava fino all’istante prima. Si girò verso Izou.
Rimase ferma per un po’, non capendo cosa stesse guardando. Gli sembrò di avere davanti una semplice pozza di sangue, o un cumulo di scarti macellati. Era un’indistinta macchia di nero e rosso. La puzza di sangue e mucosa proruppe a forza nelle narici e non saltò via solo perché troppo agghiacciata per farlo.
Cosa stava guardando? Erano di Izou i vestiti ridotti a brandelli, gli squarci sul petto, gli occhi spalancati e vuoti? Era sua quella gola martoriata, se gola si poteva ancora chiamare quell’ammasso di tendini e pelle esposta al freddo assassino della notte?
Era lui. Era Izou, era innegabilmente Izou e non rispondeva, non si muoveva, non respirava.
E Koala rabbrividì. E stava ancora fissando quell’orrida scena che il vento sembrò urlarle contro, e faceva freddo, e caldo, e poi ancora freddo che sembrava le stesse congelando le ossa. E voleva fuggire da lì, e si trascinò lontano da Izou, quasi calciando quel corpo inerme che non era, non poteva!, essere  morto, e un passo, un altro e tutta la gamba urlava al posto suo, e la terra le riempiva la faccia e le lacrime.
Morto! Izou!
Era difficile respirare. Rimase sdraiata con il mento per terra per tantissimo tempo, sentendo soltanto la sua gola che si affannava alla ricerca di aria con sibili e singhiozzi orrendi a sentirsi.
Sentì altre lacrime riempirle gli occhi e le ricacciò indietro con forza, scuotendo la testa e prendendosela tra le braccia come se stesse per scoppiare. Avrebbe voluto agitarsi, sbattere i piedi come una bambina, ma tutto il corpo le faceva ancora malissimo e non osava spostarsi di un centimetro. Soltanto un grido disumano le ferì la gola, più e più volte, come un animale ferito al cuore.
A un certo punto, probabilmente, perse i sensi, perché quando riaprì gli occhi era terribilmente assonnata. Ma quando le tornarono di nuovo in mente le sensazioni e il dolore di poco prima, capì che non poteva più permettersi di starsene in quelle condizioni.
L’aveva già fatto. L’aveva fatto tante, tantissime volte. Scoprire che un alleato era rimasto ucciso in guerra e semplicemente andare avanti. Riconoscere i suoi sforzi, il suo lavoro, ringraziare la sua anima, e poi andare avanti. Mettere da parte il dolore fino a che non avesse avuto tempo per piangere. L’aveva fatto anche con Tyger. Poteva farlo con…
Allora respirò, prese grossi respiri fino a che qualcosa di simile alla calma le tornò in corpo. Si alzò sulla gamba buona, recuperò un bastone. Poi zoppicando superò Izou, il labbro che le tremava, e si accostò alle scie delle ruote dei carri. Un coniglietto le zampettò accanto mentre esaminava la zona, senza fretta, e rinveniva le sagome di altri due uomini a qualche metro di distanza. Si inginocchiò accanto a Puzzle, steso supino, e fece ciò che per Izou aveva ritenuto superfluo. Guardò il torace alla ricerca di movimento, accostò l’orecchio al suo volto per sentire il respiro, gli prese il polso. E constatò che Puzzle, così come Izou, non respirava, non aveva battito, e cominciava a presentare i primi segni di rigor mortis.
Si alzò con una freddezza tanto rigorosa da non considerarla sua e ripeté le stesse azioni con il corpo di Vigaro pochi passi più avanti.
Allora qualcosa vacillò.
Era sola. Era completamente sola nel bosco, con i cadaveri di tre suoi alleati tra cui il suo più caro amico, suo fratello e confidente.
E le bastò lanciare un altro sguardo a quel corpo martoriato per sapere che qualcosa dentro di lei stava per spezzarsi. E non doveva, non poteva permetterlo. Non poteva! Doveva restare calma, calma, fare il punto della situazione come l’avrebbe fatto insieme a loro, decidere le priorità! E la priorità non era lasciarsi prendere dall’emozione.
Il loro era un lavoro pericoloso. Prima o poi sarebbe successo comunque. Se lo ripeté all’infinito mettendo a tacere qualsiasi altra cosa, qualsiasi altro pensiero – perché non era giusto, non poteva essere giusto che succedesse così presto! – e cercò un altro bastone, e si mosse come priva di anima, scavando, scavando, prima una, poi due, poi tre buche e non sapeva quanto tempo fosse passato ma era esausta e piena di sudore e dolore e fame e lacrime.
Ed era passata tutta la notte e il sole cominciava a sorgere quando due tumuli erano già stati coperti, e mancava Izou, e allora si accorse che si era dimenticata di medicarsi la gamba e non riuscì neanche a chiedersi come avesse potuto dimenticarlo perché sapeva che il disinfettante e gli unguenti e le garze li aveva lasciati tutti lì, accanto a lui, e lei semplicemente non l’aveva guardato per tutta la notte e il solo pensiero di avvicinarsi le faceva bloccare tutto il corpo.
Ma non c’era tempo, non era il momento delle emozioni, e quando non ebbe più alternative si avvicinò e lo trascinò nella terra, e con lui le parve di buttare un pezzetto della sua anima. Avrebbe voluto guardarlo in volto per cercare qualcosa di familiare, un sorriso o un’espressione, e invece non riusciva più a riconoscerlo. E si faceva ribrezzo perché non poteva piangere neanche per questo, non c’era tempo per farlo, e invece Izou da lei meritava tutto il dolore del mondo.
Quindi lo coprì, pregò, in fretta, con una sola lacrima, si slegò i capelli e gli regalò quel nastro che le aveva sempre invidiato che era una cosa stupidissima e senza senso, ma le sembrava proprio ingiusto continuare a portarlo con sé. Poi si buttò a terra accanto ai medicinali e si disinfettò la gamba, la pulì dalla terra e dal sangue, la steccò perché anche se l’emorragia era finita da un pezzo continuava a farle un male atroce e il motivo doveva essere una frattura.
Quando si alzò, scoprì che decidere cosa fare portava con sé un silenzio insopportabile. Onigashima. «Ho tempo fino alla luna piena» parlò a sé stessa, al bosco, al sole che stava sorgendo. La ascoltò, in realtà, soltanto un coniglio che non l’aveva mai lasciata. «quindi, otto – no, sette giorni. Sette giorni a partire da ora.» Il punto della situazione. Doveva fare il punto della situazione, dimenticare tutto e concentrarsi solo su quello. «Anzi, tra sette giorni ci sarà l’assalto quindi devo arrivare prima.»
Alzò la mano libera dal bastone verso il sole che faceva capolino all’orizzonte, timido tra le fronde degli alberi. «Il sole sorge a est» allungò il braccio con il bastone nella direzione opposta «e Onigashima è a ovest, circa. Forse sud ovest. Non lo so, non ci sono mai stata. Cosa conosco di questa zona?»
E si fermò perché le sembrò di non sapere niente, niente che le fosse utile. Izou, al contrario, sì che conosceva la zona. Se l’era studiata più volte, aveva cercato in continuazione i collegamenti con Onigashima. Lui sì che avrebbe saputo come arrivarci!
Quello con cui si colpì il viso non fu uno schiaffo forte. Non quanto avrebbe voluto, comunque, ma abbastanza per riportarla alla realtà. Perché la zona l’aveva studiata anche lei. Perché c’erano altre priorità e perché se proprio non era riuscita a salvare la sua vita, allora ne avrebbe salvate altre e non si sarebbe data pace fino a che non sarebbe arrivata a quel maledetto accampamento. E come prima cosa avrebbe tirato Marco fuori di lì, o Izou non gliel’avrebbe mai perdonato.
«Onigashima è a sud ovest» Ricominciò sicura, concentrandosi per portare alla memoria la mappa del territorio. «Non più di tre giorni di viaggio in condizioni normali.» Si guardò la gamba, ben sapendo di fare niente più che un’azzardata scommessa «In queste condizioni, quattro o cinque giorni muovendomi direttamente verso sud ovest. Se avessi provviste» Aggiunse poi all’equazione. Lanciò uno sguardo al cibo che aveva radunato in un unico punto.
«Cibo, ne ho un per un paio di giorni a stento. Acqua zero.» E mentre lo diceva, quasi a rispondere alla suggestione, sentì la gola secca. Valutò di smettere di parlare ad alta voce, ma capì subito che non ci sarebbe riuscita senza impazzire.
«A sud…» e poiché aveva lo sguardo rivolto al nord, fece perno sul piede buono e ruotò fino a scrutare la direzione giusta, come se il nuovo quadro di arbusti davanti a lei potesse suggerirle qualcosa. «A sud c’è il fiume Jaya. Scende, scende, scende a sud… poi va… dove va? Non è troppo a sud?» Jaya proseguiva più a sud di Onigashima prima di confluire a ovest e avvicinarsi all’accampamento, eppure le sembrava il percorso migliore. Perché?
Sapeva di sapere il motivo. E sapeva anche chi gliel’aveva detto, ma l’ultima cosa che voleva fare era ricordarlo. Eppure doveva capire, e lasciò che la mente vagasse alla spiegazione preoccupata ma speranzosa di qualche mese prima, perché Onigashima era al confine ma era difficile entrare, perché si poteva passare solo da… «A sud c’è l’entrata!» Ecco perché!
«Onigashima è a sud ovest di qui, ma è una valle e l’entrata è a sud.» Qualcosa trillò nel suo cervello ma sapeva di non avere le energie per indagare. Sapeva solo che Jaya andava a sud e poi a ovest, e che seguendolo prima o poi sarebbe finita sulla strada che portava a Onigashima.
Poteva farlo.
E ripetendo il piano più e più volte, perché non sapeva proprio come altro riempire il silenzio, raccolse le provviste in un fagotto. Poi alzò la testa, lanciò uno sguardo alle tre tombe e cominciò a marciare verso sud.
 
 


Il samurai rimase in silenzio dopo aver raccontato quel frammento. Sembrava indeciso se continuare, come lo era stato all’inizio della storia. Il ragazzo gli saltellò dietro impaziente, frenato giusto dalla tristezza di sapere che Izou era morto per davvero. «Non dirmi che adesso c’è un altro passaggio senza senso.»
Come colto in flagrante, incassò la testa tra le spalle: «Il passaggio c’è, ma è brevissimo. Il prossimo racconto di solito viene tramandato come un sogno di Koala, anche se…» sbuffò tra sé e sé sotto lo sguardo degli ascoltatori «Be’, che ve lo dico a fare. Tanto adesso lo sentite.»
«Non viene saltato tutto il viaggio di Koala, vero?» Incrociando le braccia, il secondo veterano lo squadrò scettico. Eppure si capiva che molte cose quadravano con la sua versione.
«No, il viaggio c’è. Il sogno avviene dopo la prima giornata di cammino, quando ancora non ha raggiunto il fiume.»
L’uomo con la benda prese la parola, il sogghigno onnipresente. «E allora cosa aspetti? Racconta, racconta!»
 
 


«Devono essere queste le rovine di cui parlava.» I passi dei tre ragazzi rimbombarono appena quando entrarono nel tempio ormai ridotto a un cumulo di mura sporche. Accesero una fiammella e percorsero la breve navata tra le tombe impolverate fino a trovarsi sotto un cono di luce. Parte del tetto era marcito, lasciando un ampio buco attraverso cui il sole illuminava direttamente la parete opposta alla porta e rivelava sui muri disegni incrostati e quelli che un tempo, quando non erano rotti, dovevano essere stati bellissimi mosaici.
Izou schioccò la lingua e il suono rimbombò più volte. «Carino»
Koala lo vide accostarsi all’angolo più vicino all’entrata e buttare per terra i rami che aveva raccolto durante il viaggio di andata, cominciando ad allestire un falò. Il sindaco del villaggio aveva detto che la creatura aveva ritmi molto irregolari, quindi era meglio prepararsi fin da subito a passare lì più di una giornata.
Marco si avvicinò a dargli una mano e Koala neanche si stupì di vedere Izou voltarsi verso di lui con un sorriso stupidissimo sulle labbra. Quasi non pareva vero a lei che Marco fosse lì con loro come ai vecchi tempi, figuriamoci Izou. Lo sentì borbottare allegro. «Sarà bello passare qualche giorno fuori, lontano dalla guerra.»
Poi si sedette accanto al fuoco e Marco lo imitò. Da come aveva mosso le spalle e abbassato la testa, capì che aveva detto qualcosa. La curiosità mosse le sue gambe mentre Izou gli rispondeva tirandogli una manica.
«Non dirlo neanche per scherzo! Non ha proprio alcuna importanza!»
Si avvicinò, restando in piedi, mentre Izou alzava lo sguardo, distratto dal rumore dei suoi passi, e la guardava a occhi spalancati: «Koala, hai sentito? Diglielo anche tu!»
Fece appena in tempo ad aprire la bocca per dirgli che no, non aveva affatto sentito, che l’attenzione di Izou si era di nuovo spostata e già blaterava: «Inoltre, questa non è una missione da sottovalutare. Neanche un drappello di dieci soldati è riuscito a ucciderlo. Non è affatto noiosa né banale!»
Ah, ecco il problema. Dal momento che le uniche missioni a più clan a cui partecipavano gli Shirohige erano tutto ciò che non aveva strettamente a che fare con la guerra, Marco temeva che preferissero spendere il loro tempo dove la loro presenza era più utile.
Vide distrattamente Marco alzare le spalle con un’espressione non convinta, fissando Izou in volto: «Sarà, ma spero che in futuro potremo fare qualcosa di più importante.»
Riuscì quasi a sentirle, Koala, le guance di Izou che si gonfiavano di indignazione mentre si avvicinava un altro po’ a Marco. «Ma questa è importante, Marco! Quando ci ricapita di uccidere un drago?!»
«Non è un drago»
«È quasi un drago e non è questo il punto! Qualsiasi missione è importante se posso farla con te!» Eccola, la lingua senza freni che ormai conoscevano fin troppo bene. Quelle parole non filtrate che potevano ferire, ridere o emozionare senza distinzione o preavviso alcuno, e di cui spesso neanche si rendeva conto. Quelle parole che probabilmente accanto a Marco ancora frenava un po’, o che avrebbe frenato se ci fosse stato ancora abituato.
E non rimase a guardarlo balbettare, né guardò Marco che mostrava per una volta una punta di sorpresa e poi si avvicinava, forse per parlare, non lo sapeva, sapeva solo che la cosa migliore da fare era uscire dal tempio e lasciarli soli.
Con la mano che seguiva il profilo del tempio, fece tutto il possibile per non scoppiare a ridere per la nuova uscita di Izou. Oh, dai! “Qualsiasi missione è importante se posso farla con te”? Non aveva mai sentito qualcosa di così sdolcinato e ridicolo uscire dalla sua bocca!
E la cosa divertente era che Marco si sarebbe fatto rapire anche da questa, come si era fatto rapire da tutte quelle frasi e quei sorrisi che a volte Izou neanche sapeva di regalargli.
Era stato bello e divertente vedere i loro sentimenti evolversi fino a dove erano adesso. Che l’iniziale antipatia di Izou per Marco sarebbe scomparsa, l'aveva saputo fin da subito: ma chi l’avrebbe mai detto che avrebbe trovato in quello sguardo flemmatico non solo un amico, ma addirittura una ragione di vita?
E anzi che aveva provato a negarlo, eccome se ci aveva provato. Con sé stesso e con Koala. Ma alla fine con lei non c’era neanche mai stata una confessione ufficiale, un “mi piace Marco”, perché Koala era Koala e probabilmente l’aveva capito anche prima che lo facesse Izou. E da allora era stata là, a ridere del suo imbarazzo, appoggiarlo nelle sue passioni e consolarlo quando entrava nella sua stanza come se gli mancasse un pezzo di anima, perché Marco era via da giorni e settimane e mesi e chissà quando gli Shirohige gliel’avrebbero riportato.
E quando si erano ritrovati, era scoppiata la guerra. E adesso si trovavano là, uniti proprio dalla guerra che portava così tanto trambusto che nessuno avrebbe badato a una missione a più clan per sconfiggere un drago che tanto drago non era ma restava sempre parecchio insidioso. E se avevano solo quel poco tempo a disposizione, allora Koala voleva che lo sfruttassero appieno, se non per chiarirsi almeno per parlare, o stare in silenzio, sfiorarsi e sorridere come facevano da anni e come meritavano di continuare a fare.
Aveva già fatto un intero giro delle rovine e intendeva farne un altro, e un altro ancora fino a che fosse servito, ma un tremore scosse l’aria e quando alzò la testa, Koala si trovò a chiedersi cosa avessero fatto quei due nelle vite passate per essere tanto sfortunati. Perché il mostro stava arrivando, e l’attacco non si poteva più rimandare.
 
 


Fu un risveglio meno traumatico di quanto avesse pronosticato la sera prima. Qualcosa gli toccava ripetutamente il viso, umido e caldo, e quando aprì gli occhi si trovò di nuovo il muso di un coniglio ad annusarla. Cominciava a provare simpatia per quelle bestioline.
Non appena provò a muoversi, il freddo le congelò le membra. Le ceneri del fuoco accanto a cui si era addormentata si erano raffreddate da chissà quante ore. Poi subentrò il dolore alla gamba che in un istante le fece ricordare tutto ciò che aveva fatto e che doveva fare. Era cominciato il terzo giorno di marcia, e nel giro di poche ore avrebbe trovato il fiume. Se aveva fatto bene i calcoli. Altrimenti, poteva dire addio a tutto il piano. Come aveva fatto le mattine precedenti si legò una striscia di vestito attorno al polpaccio sano, disinfettò la ferita che a eccezione del colorito sembrava iniziare a richiudersi e riassestò la stecca sulla gamba. Gonfiore e rossore si erano ormai diffusi fin sopra il ginocchio ma non poteva far altro che cospargere tutto di unguento.
Si alzò in piedi sul bastone, anzi sui bastoni da quando le era diventato impossibile anche solo poggiare il piede sinistro, e riprese la strada verso sud. Cibo, non ne aveva più: si accontentò della frutta trovata lungo il cammino, a malapena preoccupandosi di spolverarla sui vestiti.
Più camminava, più le veniva da ridere pensando a tutte le regole di sopravvivenza che stava infrangendo: non si era preoccupata di trovare un rifugio, né si era permessa di perdere tempo per rifornirsi, magari cacciare qualche animale più sostanzioso di un paio di lamponi, meno che mai aveva seguito la regola di stare fermi in uno stesso luogo, segnalare la propria posizione, attendere i soccorsi e, kami, non sforzare quella maledetta gamba.
Ma sapeva anche di non aver avuto alternative perché comunque nessuno sarebbe mai venuto a salvarla, non in territorio nemico e senza neanche sapere della sua scomparsa. Se proprio doveva morire, tanto valeva farlo camminando nella direzione giusta.
Così continuava a zoppicare verso sud, orientandosi con il sole e parlando a sé stessa e a quel coniglietto che continuava a seguirla da chissà quanto. Per un momento valutò di cucinarlo, ma probabilmente non avrebbe neanche avuto le forze di catturarlo.
Alla ricerca di pensieri con cui distrarsi, si mise a riflettere su quei sogni che continuava a fare fin da quando si era svegliata nella foresta. Non li ricordava bene, ma abbastanza per sapere che non erano affatto sogni: erano ricordi di tanti anni prima, ricordi che neanche sapeva di avere. C’era qualcosa di strano in ciò che vedeva e sentiva, ma ogni volta che cercava di capire cosa si ritrovava in un vicolo cieco.
Allora sbuffava, scrollava le spalle e continuava ad avanzare.
Dopo un paio d’ore di cammino si sedette alla base di un tronco per riposare. Si tolse il panno dal polpaccio e ne valutò le condizioni: aveva raccolto la rugiada delle pianticelle accanto a cui aveva camminato, e più di così proprio non poteva ottenere. Se lo strizzò in bocca, cercando di non far cadere neanche una goccia. Poi chiuse gli occhi, sospirò e riprese la marcia.
Dopo un’altra ora, il paesaggio cominciò a cambiare. Apparve del muschio, aumentarono gli animali, e nel giro di qualche minuto sentì il rumore inconfondibile della corrente.
Attenti, attenti! Sta arrivando!»
«Chi ha parlato?!» Si voltò di scatto senza badare a quanto fosse irriconoscibile la sua stessa voce, guardandosi intorno, ma le risposero soltanto i passi agitati del coniglio. Eppure era sicura di aver sentito qualcosa!
Ma il bosco restava immobile. Si affrettò a raggiungere il fiume, quasi saltellando sulla gamba buona. Quando lo vide, per poco non gli corse attorno. Acqua! Tantissima acqua, limpida e freschissima! Buttò i bastoni ai lati e si inginocchiò sulla riva, immergendo prima le mani, le braccia, poi il volto in quello specchio che aveva appena sancito la sua salvezza. Bevve, e quando prese aria si scoprì sorridente.
E le si affievolì subito, quel sorriso, ma non poteva ancora permettersi di crollare, non poteva concedersi di sapere perché si sentiva così male.
«Come è potuto apparire così all’improvviso?!»
Spade sguaiate, tamburi, passi sulla terra.
Ebbe l’impressione che il fiume stesse parlando e allora si sciacquò di nuovo il viso senza badare agli schizzi sui vestiti, bevve di nuovo, tossì. E si pietrificò quando un ringhio minaccioso risuonò a pochi metri da lei, davanti, dal fiume.
«Non avevano detto che era soltanto uno?!»
Aveva il corpo lungo e sinuoso con una coda che sfiorava la superficie dell’acqua ondeggiando a destra e sinistra, a sinistra e destra, e bastava quello per sembrare minaccioso. Non aveva ali, almeno quelle no, ma compensava con le fauci enormi e affilate, la pelle coperta di squame, le zampe che non riusciva a vedere, perché stavano sott’acqua, ma che avevano artigli pronti a tranciarla. Lo sapeva con la certezza più assoluta perché l’aveva già incontrata, quella creatura, ed era esattamente così.
In un batter d’occhio, erano circondati. Almeno quattro di quei draghi – non lo erano, ma Koala non faceva affatto fatica a chiamarli così – li circondavano da tutte le parti. Due sulla porta del tempio, uno era addirittura entrato da dove il tetto era bucato, sollevando polvere e detriti ovunque, e si sentivano troppi passi e ruggiti perché ce ne fosse soltanto uno che correva lungo il perimetro della chiesa. Alla faccia dell’incostanza, questi sembravano più organizzati di un esercito!
Gli occhi acquosi, coperti da una spessa membrana per resistere alla corrente, stavano scrutando lo spazio dove fino a pochi secondi prima stava allegramente sguazzando Koala, valutando la presenza di prede appetitose.
La testa si muoveva a piccoli scatti, come aizzata da qualsiasi rumore proveniente dal bosco, dal fiume, dal vento. Ma poi tornava a concentrarsi sulle gocce che plic, plic, plic, cadevano regolari dal suo volto, e sul ritmo affannato del respiro, forse anche su quella preghiera che stava recitando solo nella mente, ma chissà, forse era udibile a una creatura come lui.
Il primo mostro cominciò ad avvicinarsi dall’entrata del tempio, zampettando rapido verso Koala che era l’ultima arrivata e aveva appena finito di impugnare le armi. Lei non aspettò che si avvicinasse e rispose battendo con forza sulla pelle dei tamburi, generando abbastanza energia da farlo fermare e tentennare, scuotendo la testa.
Tutti gli altri sembrarono allertarsi alla reazione dell’alleato, si mossero nervosamente sul posto. Quelli all’entrata cominciarono a dimenare la testa, come allungando il collo per vedere meglio. Si fissarono sul fuoco del falò, poi sul cono di luce del tetto rotto, sorvolando su tutte le zone d’ombra.
Izou batté le mani una volta. Tutte le teste si girarono all’unisono. Come se si fossero letti nel pensiero, Marco a pochi passi da lui mosse vistosamente le braccia senza fare alcun rumore. Nessuna reazione.
Senza esitazione, Koala saltò e atterrò sulla schiena del mostro più vicino, che iniziò a dimenarsi indemoniato. «Ottimo udito, vista praticamente zero»
La mano le scivolò sul fango con un ciaf che di naturale aveva poco e quando lo vide scattare verso di lei capì che cercare di recuperare i bastoni e correre non sarebbe servito a nulla. Un istante ed era già arrivato alla riva, due istanti e correva sul fango, tre istanti e le stava davanti, le fauci spalancate pronte a prendersi la gamba. Koala arretrava strisciando sulla terra, la gamba ferita stesa trascinata di peso dalle braccia che andavano, andavano, ma già bruciavano dallo sforzo e dalla stanchezza e scivolavano sul fango ed erano passati quattro istanti ed era già troppo tardi, stava già chiudendo la bocca sulla sua carne. Chiuse gli occhi, trattenne un grido tra i denti.
Poi qualcosa saltò davanti a lei e la mandibola del mostro trovò altro pasto, come arrivato dal nulla, morbido e peloso come era stato fin dall’inizio del viaggio. Il drago indietreggiò di un passo, spaesato, e masticò di buon gusto la carne tenera del coniglio. Koala rimase a fissarlo senza capire mentre deglutiva con rumori gorgoglianti, voltava di lato la testa enorme e sputava i resti delle ossa dopo aver masticato per bene. E restava lì, tra Koala sconvolta e i suoi bastoni, senza accennare a levarsi e anzi non appena finito il pasto tornò a scrutare Koala. Perché quel coniglietto gli aveva appena stuzzicato l’appetito.
Impugnò per bene il pugnale e cercò di conficcarlo con forza tra le scaglie del drago, senza riuscirci. «La corazza è dura per davvero, questa ce l’hanno raccontata per bene» confermò mentre sentiva movimenti alle sue spalle e saltava giù dalla groppa del mostro per tornare dai ragazzi.
«Allora dobbiamo davvero mirare in bocca?»
E osservarono la doppia fila di sciabole che quasi luccicava alla luce del sole, che sembrava impenetrabile tanto quanto la corazza.
«Come gliela apriamo?»
Quasi a rispondere, fu Marco ad avvicinarsi al mostro con passo felpato. Raramente le sue abilità di acrobata erano risultate tanto utili. Si avvicinò da dietro all’animale che si mosse a disagio, senza capire da dove provenisse il pericolo, e in un istante tirò da una tasca una corda e la mise sotto la fila superiore dei denti, tirando forte verso l’alto e bloccando con un piede il corpo che si dimenava.
Ma era ancora confuso e Koala non intendeva perdere l’occasione. Prese il tamburo legato alla cinta e lo colpì con tutta la forza che le restava, indirizzando l’energia verso il drago. In altri tempi, sarebbe bastato a stordirlo per almeno un minuto. L’effetto in quel momento fu misero, ma si accontentò: lo vide fermarsi, barcollare appena sulle zampe, e allora fece perno sul ginocchio buono e si lanciò in avanti, esitando giusto il tempo di munirsi di pugnale.
Provò rapidamente a colpire di nuovo il tamburo per fargli aprire la bocca ma non funzionò e allora prese le fauci con la mano sinistra e tirò verso l’alto il più possibile, ignorando il bruciore sui palmi, fino a che non riuscì a liberare uno spazio abbastanza grande. Conficcò la mano destra nella bocca e colpì alla rinfusa, senza neanche sapere se stava pugnalando davvero il palato.
Poi il mostro chiuse la bocca e sentì il dolore irradiarle tutto il corpo, e neanche si accorse dell’urlo disumano che le usciva di bocca. Prese con la sinistra l’altro pugnale dalla cinta, l’ultimo che le era rimasto, e gridando prese a colpire il muso della bestia, e gli occhi, le orecchie, il naso e poi passò direttamente ai denti, ai riccioli delle labbra che sembravano tanto delicati. Ma non aveva effetto e allora mise tutta la forza nel braccio destro e lo alzò, sempre di più, fino a che tutta la bocca e i denti e si alzarono e le fauci si aprirono, poco, poco ma abbastanza per vedere dove il labbro superiore si univa all’inferiore e allora colpì in quel punto, partendo da dentro, dalle gengive, fino a che sembrò che avesse la bocca di un coccodrillo da tanto gliel’aveva allungata.
Allora anche il mostro urlò di dolore, scivolò in acqua e lasciò la presa e Koala slittò all’indietro, furente, con il corpo che era un solo tremito e gli occhi rossi e lucidi e il fiato grosso ma bastò un istante a ricordarsi che forse il mostro già non poteva più vederla, e doveva stare zitta, e pensare a un piano perché non era finita.
 Alzò lo sguardo e Izou aveva già la freccia incoccata, il tempo di guardarsi negli occhi e l’aveva lanciata dritta verso la sua gola.
Colpito.
Non morì, ma iniziò ad agitarsi e a lanciare orrendi versi dalla bocca, tanto che gli altri mostri risposero e si avvicinarono in sincrono, costringendo i ragazzi a indietreggiare verso la parte di tempio illuminata dove li attendeva un altro mostro.
Non morì ma almeno si poteva colpire e saperlo era un grande passo in avanti.
«Abbiamo affrontato di peggio» sentenziò Izou e vide i compagni annuire.
L’istante dopo, ogni angolo del pavimento e delle mura era stato colpito da una freccia e il rumore ancora rimbombava per tutte le pareti.
Ma controllare il fiato non le era possibile, non in quel momento, e neanche l’acqua e il fango e il sangue che gocciolavano dappertutto e la facevano scivolare. Infatti il drago la vide di nuovo, la puntò, e stava per colpire di nuovo quando un altro rumore spuntò alla sua sinistra. Un tenero calpestare di rametti e fango, uno squittio, e il mostro già aveva deciso di gustarsi una preda sicura prima della sua più grossa conquista.
Così Koala lo vide di nuovo, il coniglietto tra le sue fauci, con la differenza che era stato il mostro a buttarsi sulla preda e non il contrario. E le stava mostrando le spalle e allora qualcosa scattò nella sua mente. Gattonò fino all’acqua e si lanciò sul dorso, bloccandolo, tenendosi stretta come meglio poteva a quelle scaglie dure che non sarebbe mai riuscita a perforare.
Il mostro si dimenava come un coccodrillo e lei gli mise una mano tra le fauci e tirò, come aveva già fatto e rifatto, tirò con forza fino a fargliele aprire, e mentre tirava sentì il coniglio ancora pieno di spasmi e l’assalì un’ondata di nausea ma continuò a tirare fino a che fu abbastanza, e le sembrò di metterci un'eternità. Ma all’improvviso rimbombò uno scoppio nella bocca e il mostro smise per un attimo di agitarsi, lasciandosi trasportare dalla corrente. Koala sentì freddo, forse era il fiume ma sembrava qualcosa di diverso, ma non era il momento di preoccuparsene e continuò a tirare, e finalmente riuscì a conficcare nel palato il pugnale e allora si concentrò e lo caricò di energia, e lo colpì ancora, e ancora, e ancora. Sentiva che le forze la stavano abbandonando ma il mostro si muoveva ancora e allora doveva continuare, pugnalare, colpire, lacerare, fino a distruggergli la bocca. Era scivolata dalla groppa e si teneva al suo muso e continuava a colpirlo, e all’improvviso lo sentì riscuotersi e seppe che era finita. Lo vide spalancare la bocca su di lei e chiuse gli occhi.
Izou non ricordava tutto il combattimento, ma ricordava che era stato duro. Ricordava che Marco era accanto a lui, pronto ad attaccare il mostro sotto il tetto rotto, quando all’improvviso la sua figura si era coperta d’ombra. Aveva alzato lo sguardo e ne aveva visto un altro, caduto dal tetto, che si fiondava su di lui.
E neanche ci aveva pensato mentre gli era corso incontro e lo aveva spinto via, e l’istante dopo una forza imponente gli aveva schiacciato tutti gli arti.
Aveva sentito un grido ma non era mai riuscito a capire di chi fosse stato, forse suo. Non lo aveva capito perché intanto c’era stato un dolore assurdo, lancinante, tanto forte che neanche sapeva chi o cosa lo avesse colpito. E poi aveva aperto gli occhi e si era ritrovato il drago sopra di lui, con tutto il corpo e le zampe ad ancorarlo al terreno ed era certo che quello che aveva tra le fauci era tessuto e sangue, e forse anche un po’ di capelli.
Poi il collo era esploso di dolore e anche il petto e la spalla destra, e un rumore zampillante gli aveva riempito le orecchie insieme a un altro grido, o forse un ruggito, o forse no era un grido perché questa volta era sicuramente suo.
Provò a tossire ma aveva il torace schiacciato e si agitò, perché non poteva tossire e neanche respirare e stava soffocando, stava soffocando, poi dopo tantissimo tempo qualcosa lo liberò e l’aria tornò nei suoi polmoni insieme al sangue, le vertigini, un dolore ancora più forte che non credeva fosse in grado di provare.
Chiuse gli occhi e sentì di nuovo freddo, e l’istante dopo una luce le balenò oltre le palpebre. E quando aprì gli occhi la gola di quel mostro era bruciata, distrutta, e non si muoveva più e quasi ancora fumava.
Quando lasciò la presa da quel corpo lo vide allontanarsi con la corrente, ancora immobile, ancora morto, e per un po’ anche lei si lasciò trasportare fino a che non si impigliò a dei rami che si affacciavano sul corso d’acqua. E stava diventando tutto nero allora riallacciò il pugnale alla cintura e allungò le mani gelate e sanguinanti per aggrapparsi alla riva del fiume, alle radici e ai rami, e tirò come fosse l’unica cosa possibile in quel momento. Tirò e si trascinò fuori dal fiume, con il corpo che già non le rispondeva più, e sapeva solo di avere fame e freddo e che non era sicuro addormentarsi vicino a un fiume ma non riusciva più a muoversi, non ce la faceva proprio. Era stanchissima.
La vista era tutto uno sfondo nero e mentre si addormentava le sembrò di sentire qualcosa di morbido e caldo carezzarle il viso, e uno squittio cullare il suo sonno.
Poi c’era Marco che lo guardava dall’alto e gli parlava ma non riusciva proprio a sentirlo. Avrebbe voluto che restasse lì a guardarlo per sempre ma se ne andava, poi tornava, poi se ne andava, e sapeva che gli stava gridando ma non capiva, non capiva, sapeva solo che faceva tutto male ed era stanco e anche Marco sembrava più stanco ogni volta che si affacciava.
Aspettò tantissimo, così, sdraiato, con la testa di Marco che ogni tanto faceva capolino e quasi gli strappava un sorriso, poi gli faceva male tutto il fianco destro e allora si girò sul sinistro, e sputò un po’ di sangue, e finalmente respirava meglio. Però era sempre più stanco e sentiva sempre di meno, e Marco lo vedeva pochissimo ormai.
Aveva tanta voglia di chiudere gli occhi ma rimase sveglio ad aspettare, a concentrarsi a respirare e far vagare gli occhi a destra, a sinistra, in alto e in basso alla ricerca di un ciuffo biondo e uno sguardo contratto.
Poi finalmente apparve e rimase lì. Aveva una tempia sanguinante e i vestiti tutti sbrindellati, e guarda era arrivata anche Koala, tutta spettinata e con quella faccia preoccupata. Che stavano dicendo?
Ahi, gli faceva male quando lo spostavano così. Provò a dirglielo ma non ci riuscì, sputò solo sangue. Sentì una carezza e si perse in quella mentre un nuovo bruciore lo prendeva in tutto il corpo. Riconobbe gli unguenti per trattare le ferite, il sentore delle garze sulla pelle.
Poi vide Marco che si avvicinava e gli stringeva forte la mano, e si ritrovò di nuovo a pancia in su. Lo guardò confuso e poi guardò Koala che teneva in una mano un pugnale e nell’altra una fiamma, e sentì la paura farlo tremare tutto.
Il rumore zampillante arrivò di nuovo, alla sua destra, e quando abbassò lo sguardo vide che il sangue non aveva smesso un attimo di scappare via, tutti i vestiti e la pelle e il pavimento erano rossi ed era abbastanza esperto per sapere cosa significasse quello zampillare. E non aveva ancora finito di pensarlo che Koala aveva poggiato il pugnale incandescente sul suo petto e faceva male, malissimo, e anche questa volta sapeva che a gridare era stato lui.
Sentì qualcosa entrargli in bocca e si accorse che era tessuto, premette forte e ci soffocò dentro tutto il grido, e la gola gli bruciava da morire ma non poteva smettere, non riusciva a smettere di gridare perché era troppo forte, sentiva il petto esplodere e poi anche il collo, le braccia, tutta la pancia e agitava le gambe alla rinfusa anche se non gli rispondevano del tutto e sentiva delle mani tenerlo forte per le spalle, la fronte, per cercare di fermarlo e non peggiorare tutto.
Alla fine si sentì stanco, stanchissimo, e si lasciò cadere immobile. Ma il dolore continuava e sentiva che a breve sarebbe svenuto perché non poteva, non riusciva a sopportare una cosa del genere.
Lasciò che qualcosa – qualcuno – gli levasse la stoffa di bocca, poi si fece scivolare un liquido lungo la gola, tossendo debolmente non appena sentì il bruciore tornare consistente.
Faceva freddo.
«’esta cosciente, Izou, per favore» all'improvviso tornò a sentire. Sentiva il respiro di Marco direttamente su di lui, come quella volta che stavano nel bosco ed era scoppiata la guerra, e sentiva anche il suo cuore battere forte fortissimo e se non avesse avuto la vista tanto sfocata, probabilmente avrebbe visto anche i suoi occhi proprio come quella volta.
«Resta cosciente!» E Marco alzava la testa, a guardare non sapeva cosa, e continuava a urlare con urgenza: «Koala! Koala!» E non l’aveva mai visto così disperato mentre Koala gli rispondeva qualcosa ma era troppo lontana per farsi sentire da Izou.
«S-Sto…?»
Morendo?
La parola gli rimbombò in testa e non riuscì neanche a finire la frase ma non serviva, e vide Marco che sgranava gli occhi e sondava tutto il suo corpo e cominciava a scuotere la testa, ancora e ancora, poi quella testa la poggiò proprio accanto a lui e ci mise un po’ a capire che lo stava abbracciando, e stava piangendo. E qualcosa si spezzò mentre lo sentiva singhiozzare e sentì tutto il suo corpo agitarsi, e tremare, e qualche monosillabo gli uscì dalle labbra senza poterlo controllare e cercò la sua mano prima di accorgersi che la stava ancora stringendo, allora rimase lì immobile perché voleva averlo ancora più vicino ma proprio non sapeva come.
Quando tornò nella sua visuale non riuscì a far altro che alzare la mano sinistra e cercare un lembo del suo vestito, e tirare, fino ad averlo sempre più vicino. Poi sentì che Marco gli carezzava i capelli e il viso e gli fece un po’ male ma andava benissimo, perché era accanto a lui. Cominciava a fare un po’ troppo freddo e rabbrividì, anche se forse non era affatto la prima volta che lo faceva, e cercò di guardare di nuovo Marco ma stava diventando tutto nero.
Alzò di nuovo la mano, perché più di così non poteva fare, e lo cercò, e trovò il viso proprio sopra al suo, come in attesa. Sentì qualche lacrima e un sospiro, poi il freddo sembrò dissiparsi mentre qualcosa gli sfiorava le labbra, e poi non lo sfioravano più, premevano e tremavano e sembravano volessero regalargli vita nuova.
Marco lo stava baciando e fu l’ultima cosa che riuscì a pensare prima che diventasse tutto nero.
 
 



Il narratore fece un’altra pausa. Neanche si stupì di non sentire nessun grido entusiasta alle sue spalle. Si girò, e il ragazzo rifletteva a testa bassa, il volto corrucciato.
«Sei rimasto deluso?»
Alzò il volto e anche le sopracciglia. «Mh? Deluso no. Però speravo che il loro primo bacio avesse… no, insomma, che tutta la storia fosse un po’ meno pesante.»
«Stiamo raccontando la storia di un fantasma.» Lo interruppe il secondo veterano a braccia conserte. «Non dirmi che ti aspettavi un lieto fine.»
«No, sì, quello lo so, però… è, è che la storia era cominciata molto più leggera! E adesso invece il loro primo bacio è così… anche se so che Izou non è morto in quel momento, mi sembra comunque triste. Pensate cosa deve aver provato Marco in quel momento… Non vi fa impressione?»
Il veterano si strinse nelle spalle, un sorriso malinconico in faccia: «Nel mio clan è una storia famosa. A forza di sentirla, ci fai l’abitudine.»
«Voi però…?»
Il secondo veterano contrasse le labbra. «Rispetto a ciò che…»
«Io l’ho apprezzata molto» lo interruppe il samurai con la benda. «Mi è sembrato di sentire il dolore di Izou ancora di più di quando è morto.»
«Forse perché quando si muore, si smette di sentire dolore?»
«Beh, ha senso, ragazzo! Ma noi di certo non possiamo saperlo… Piuttosto, perché non riprendi a raccontare?»
Il samurai sospirò. «La prossima scena sembra essere ancora più separata dalle altre. Soprattutto perché non ho alcun riscontro dell’avvenimento nel tuo racconto.»
La benda si spostò insieme al sopracciglio alzato: «Oh? Questo sì che è interessante. Prego, continua pure…»
 
 



Le parole di Izou continuavano a rimbombarle in testa. Non era possibile! Non aveva assolutamente senso! Non dopo tutto quello che avevano passato! Marciò a passo veloce, verso il dormitorio maschile. Non sapeva se stava lì ma tanto valeva tentare.
Doveva sicuramente esserci una spiegazione. Dopo tutti quegli anni, non l’avrebbe mai preso in giro così. Non Marco! Non era possibile! Che cosa aveva in mente?
Sfrecciò attraverso il portico e si fermò alle finestre del dormitorio, chiamandolo ad alta voce. Aspettò che scendesse e si fece seguire, e quasi voleva urlargli contro per il modo con cui si comportava, per la disinvoltura con cui camminava per Baltigo come se gli appartenesse. Perché era così, dannazione! Dopo tanti anni che si alternava tra Baltigo e Kuri, era diventata casa sua! E lui si comportava così!
Lo portò in un luogo isolato, e finalmente si girò ad affrontarlo. Le bastò guardarlo negli occhi per vedere che c’era qualcosa che non andava.
Stava per parlare ma lui la precedette: «Tra poco me ne andrò da Baltigo. Per favore, saluta Izou da parte mia.»
«Ah certo, bella idea!» Non si era ripromessa di mantenere la calma? Sì, sì che l’aveva fatto, ma non aveva certo immaginato una sfacciataggine del genere! «Geniale! Anzi, no, sai che facciamo? Non gli dico niente e tu non ti fai più sentire. Tanto mica sei importante per Izou, no?! Che cambia se lo saluti o meno, giusto?!»
«Che cosa…»
«È perfettamente normale non passarlo a trovare dopo che ha quasi rischiato la vita, vero? Dopotutto, mica c’è scritto da qualche parte che bisogna preoccuparsi per i propri compagni!»
Lo vide, il volto adombrato, e sapeva che probabilmente aveva qualcosa da dire, e anche qualcosa di razionale, ma il cuore le batteva troppo forte nel petto per farle anche solo pensare di fermarsi. «Ci porti in missione in mezzo al nulla, ci metti in pericolo, lo baci ­– evita quell’espressione, certo che l’ho visto, ero a due metri da voi! E dopo che non è più in pericolo di vita che fai? Scappi a casa? E quando torni qui neanche passi a salutarlo? Ma a che razza di gioco stai giocando, Marco??»
Dopo tante difficoltà che aveva affrontato, Marco non doveva esserne un’altra! Meritava di essere felice, non di essere preso in giro in questo modo! Non riusciva neanche a immaginare cosa stava provando in quel momento. Quando l’ultimo ricordo che aveva era Marco che lo baciava, e poi da quando si era risvegliato nell’infermeria di Baltigo era passate due settimane senza un messaggio, una visita, niente da parte sua.
«Koala, è complicato.»
«Ah certo, è complicato! Te lo dico io cosa è complicato. Hai pensato che Izou fosse in punto di morte e hai voluto esaudire un suo desiderio, non è così? Hai pensato “Che sarà mai baciarlo, tanto non dovrò più vederlo!” e invece no, è sopravvissuto, e adesso non vuoi neanche pensare di prenderti le tue responsabilità!» Mentre lo diceva, sapeva che era sbagliato. Sapeva che il Marco che conosceva non avrebbe mai fatto una cosa del genere, e che quei mesi passati a Sphinx non avrebbero mai potuto cambiarlo a tal punto.
Però non aveva potuto fermarsi perché un fondo di verità c’era, perché l’aveva pensato davvero che sarebbe morto, l’avevano pensato entrambi quando avevano visto tutto quel sangue e quelle ferite che sembravano impossibili da chiudersi, e quel colorito che si faceva più pallido a ogni secondo.
E infatti Marco sembrava colpito, non colpevole perché non lo ero, chiaramente non aveva fatto davvero ciò che gli aveva sputato contro, ma era colpito e triste e ci mise un po’ a ritrovare l’animo necessario a risponderle: «Non è così.»
«E allora perché?!» Ed era una supplica, non una domanda, perché davvero non riusciva, non riusciva a capirne il motivo. Sapeva solo che Izou era in un letto dell’infermeria e aveva aspettato Marco per due settimane e l’ultima volta che Koala l’aveva visitato le era sembrato che avesse perso le speranze. E stava soffrendo moltissimo. E non meritava tutto ciò.
Lo vide abbassare lo sguardo, riflettere sulle parole che avrebbe detto. «Sta diventando troppo pericoloso.»
Non si aspettava una risposta del genere. «Cosa, la guerra? Non dirmi che non lo sapevi. Ma proprio per questo, non puoi lasciartelo sfuggire neanche per un istante…»
«No, è… è una questione diversa.» Rialzò gli occhi ed era combattutissimo. «Non posso dirti perché. Puoi solo fidarti.»
Koala si abbracciò da sola, sentendo un brivido partire da quello sguardo. Kami, cosa diavolo stava succedendo negli Shirohige? «Non…» Non sapeva cosa dire. Ma l’immagine di Izou seduto su quel letto dell’infermeria le balenò in mente e non riuscì a rifletterci più di tanto. «Non puoi deciderlo da solo. Non dopo ciò che hai fatto. Hai… delle responsabilità.»
E già indietreggiava perché non sapeva più cosa dire, e temeva che se Marco avesse insistito l’avrebbe vinta. Si fermò solo un istante, ricordatasi una cosa. «Izou… ci ha messo davvero tanto ad accettarsi. Non è sempre stato l’Izou che conosci. Non si è mai lasciato andare così liberamente con qualcuno come con te, non ha mai cambiato la sua opinione su qualcuno in maniera così radicale. E adesso che l’ha fatto, non puoi fargli pensare che abbia sbagliato. Anzi… Devi…» Si ritrovò a fare di nuovo un passo verso Marco che la fissava intenso «Devi dimostrargli che non ha sbagliato. Glielo devi. Non hai alcun diritto di tradire la sua fiducia. Qualsiasi cosa stia succedendo, non puoi più pensare che riguardi soltanto te stesso. Ci siamo tutti dentro, non è così?»
 
 


Il samurai con la benda si grattò il mento pensieroso, le sopracciglia entrambe sollevate. «Interessante… molto interessante… Non sapevo proprio niente di questa controversia… non è stata tutta rose e fiori allora, eh?»
Il ragazzo sbuffò: «A questo punto della storia era ovvio! Il novanta per cento della storia gira intorno al sangue, alla guerra e ai tradimenti!»
I veterano ridacchiarono. «Erano altri tempi. La guerra finiva per influenzare un po’ tutto.»
«Sì, ma a tal punto? Che gli costava andare a salutare Izou… Quanto grave doveva essere la situazione a Sphinx per fargli cambiare idea così di punto in bianco dopo che ci aveva passato qualche giorno?»
«Ragazzo» lo interruppe l’uomo con la benda con un tono improvvisamente più serio «l’hai mai studiata la guerra contro i Kurozumi? Come puoi non ricordare che gli Sh-»
«Io voglio sapere cosa succede a Koala nel bosco» li interruppe il secondo veterano con sguardo contratto. «Ci sono stati troppi salti, ci stiamo allontanando dalla trama principale»
««Hai ragione» sospirò in risposta «La lezione di storia la rimandiamo a più tardi. Ma non è colpa del nostro amico se la storia è stata tramandata così, eh!»
«Sarà, ma voglio saperlo.»
«Dì la verità, vuoi che finisca in fretta così puoi raccontare la tua parte, vero? Sai qualcosa che noi non sappiamo?»
E da come si irrigidì, capirono tutti la risposta.
«La faccenda sembra ancora più interessante»
«Dai, dai, continua, così capiamo tutto!»
«Come volete. La storia in effetti riprende con Koala…»
 
 

Aveva dormito solo poche ore. Quando si svegliò era circa mezzogiorno e il coniglietto era ancora inspiegabilmente lì, a zampettare nei dintorni e strofinarsi il naso sulla pelle di Koala.

Dopo aver bendato alla meglio anche i morsi sul braccio – gentile offerta del mostro da poco ucciso – e aver trovato altri due bastoni della giusta lunghezza riprese la marcia costeggiando il fiume. Era ancora più malmessa di prima, ma la corrente del fiume le dava energia: sapeva che seguendola prima o poi sarebbe sicuramente arrivata a destinazione. Doveva solo proseguire verso ovest. Aveva allungato la strada di parecchio e probabilmente avrebbe impiegato tutti e quattro i giorni che le rimanevano per raggiungere la meta, ma non aveva avuto alternative.
Valutò di costruire una zattera con cui navigare il fiume, ma accantonò subito l’idea. Non sapeva quanto tempo ci sarebbe voluto. In più, non aveva neanche la certezza che il fiume Jaya fosse facilmente navigabile. Nelle sue condizioni, poi! No, no. Meglio camminare, anche se ogni passo le costava una fatica immensa. Ma adesso non aveva più sete ed era anche più facile trovare piante e radici commestibili. Non appena fosse calata la sera, avrebbe anche potuto darsi una lavata prima di dormire. Il fiume aveva semplificato tutto.
Così continuò a camminare e per passare il tempo si mise a riflettere sull’ennesimo sogno. Ricordava bene quella pesante discussione. Ancora non sapeva i motivi che avevano spinto Marco ad agire così, a cercare di allontanarsi da lei e da Izou subito dopo quello scontro con i draghi, subito dopo che Izou si era guadagnato la sua migliore cicatrice. Subito dopo che Izou aveva rischiato di…
Scosse la testa. Quello che era importante, quello su cui poteva concentrarsi era il mistero dietro le motivazioni di Marco.
Perché sapeva che un motivo doveva esserci. Aveva passato quasi un anno nel territorio degli Shirohige, poi era scoppiata la guerra che si susseguiva da cinque lunghissimi anni. Anche dopo l’inizio della guerra gli Shirohige avevano il divieto di collaborare con altri clan, ma Marco e la sua divisione avevano cominciato a raggirare gli ordini e gli ordini, e proprio in quel periodo avevano dovuto occuparsi di quella che era stata una delle missioni più pericolose della loro vita. Anzi, no, forse più pericolose no. Perché insomma, quei draghi non erano particolarmente difficili da uccidere: era stata più colpa della distrazione, anzi della sfortuna, perché come potevano prevedere che ne sarebbe cascato un altro dal tetto? Quando aveva sentito quell’urlo straziante non era riuscita a credere ai suoi occhi. E quell’ammasso di scaglie che gli aveva quasi strappato la spalla a morsi? Non sarebbe mai riuscita a dimenticarlo. Se Marco non fosse riuscito a toglierglielo di dosso, chissà che fine avrebbe fatto…
Scosse la testa quando si accorse che si era persa in troppi pensieri. Qual era il suo obiettivo? Ah, sì. Dopo quella missione, non appena erano arrivati a Baltigo con una velocità che aveva del miracoloso, Marco era stato richiamato a Sphinx prima ancora che potesse levarsi di dosso gli abiti sporchi di sangue. Quindi era partito con mille richieste di aggiornamenti circa le condizioni di Izou. Una settimana.
Era rimasto a Sphinx ad una settimana.
E quando era tornato, sembrava essersi dimenticato di aver lasciato a Baltigo un Izou a un passo dalla morte.
«Chissà cos’era successo a Sphinx…» Cosa di così grave da fargli pensare che rinunciare ai suoi desideri, che reprimere i suoi sentimenti ricambiati fosse la soluzione migliore? Chissà se Izou lo aveva mai saputo. «Me l’avresti detto?» Chiese ad alta voce. Mentre parlava inciampò in qualcosa che le tagliò la strada, e per poco non ruzzolò a terra. «Ehi, attento…!» Vedendo che non si spostava, si chinò per dare una pacca al coniglietto, levandolo dalla sua traiettoria. Freddo.
 
Due mani intrecciate strettissime. «Cosa è successo, Marco?»
Tanto silenzio. Lunghissimo.
Una carezza. Si morse il labbro e scosse la testa piano.
«Non mi avrai svegliato per stare in silenzio così…»
«Izou…»
Bastò quel tono miserabilissimo per farlo tremare di paura.
«…non posso spiegarti... nel dettaglio…» Scuoteva ancora la testa «Però è pericoloso.»
Un’altra carezza, uno sguardo incredulo. «Lo so. Me l’hai detto quando mi hai tagliato i capelli, ricordi? Tanti anni fa.» Si sentiva stanchissimo. Però si fece forza e si tirò seduto, si lasciò scivolare tra le sue braccia sapendo che lo avrebbero preso.
Marco sussurrava, forse tremava. «No, è davvero pericoloso. Non voglio che tu abbia niente a che fare con… con…»
«Con cosa? Con te?» E rise, non sapeva neanche lui se divertito o no. «Lo sai che è impossibile.»
Una testa contro l’altra, un sospiro. «E poi me l’hai promesso. Che posso fidarmi di te.»
«Allora fidati di me e dimenticami.»
«No, non così.» Gli sfiorò il naso, sorrise. «Tanto prima o poi succederà lo stesso, no?»
«No. Sarà troppo presto.»
Izou rideva.
«Non sarà sempre troppo presto?»
Non era un sogno.
Né qualcuno che parlava nel bosco.
Era stata una visione, un’allucinazione, poteva chiamarla come voleva ma era stata tremendamente reale.
E capì cos’è che non andava in tutti i sogni che aveva fatto.
Non era solo il suo punto di vista.
Non vedeva solo ciò che aveva provato e vissuto lei, ma sempre e inevitabilmente anche ciò che provava Izou.
Aveva visto Izou, le sue memorie, le sue emozioni. Il suo dolore e le sue passioni.
Abbassò lo sguardo sul coniglietto, e seppe di non star immaginandosi l’alone chiaro che usciva dal suo corpo, si univa come una nuvoletta di fumo proprio davanti ai suoi occhi, prendeva una forma mai vista ma che sapeva di conoscere come un fratello. E si muoveva come se potesse parlare, come se avesse una bocca e un volto e un cuore, quando non era altro che una debole nube di energia, un’anima che non se n’era andata e che l’aveva seguita fin dal suo primo risveglio nella foresta, l’aveva guidata e protetta e… kami…
«Izou…?»
E si muoveva come una fiammella, come se volesse dire sì, sì!, con una testa che non aveva, e all’improvviso divenne ancora più sfocata perché nei suoi occhi c’erano solo lacrime.
«Che cosa hai fatto…?»
E l’anima ondeggiò, come prendesse la rincorsa, e l’attraversò tutta facendole passare un brivido ghiacciato.
 
Buio.
Solo buio e silenzio, nessuna sensazione, nessuna emozione.
Poi, in alto, una luce debolissima.
E all’improvviso, un flusso di pensieri.
Devo andare ad Onigashima. Devo avvertire Marco.
Cos’è… Marco?
No… chi è?
Devo salvarlo, e portarlo via da Onigashima.
Onigashima.
Marco?
Devo alzarmi e respirare.
Impossibile.
O forse…
C’è della terra.
Nero. Nero. Nero.
Del vento, del sangue, un cadavere.
Dove vuoi andare?
A Onigashima.
 E cosa vuoi fare?
Salvare…
Marco.
Lo sai che, se fallirai, non potrai più tornare?
 
Lo sai che la luce lassù non resterà sempre accesa per te?
Devo vedere il mare!
 
 
«I fantasmi sono le anime di chi lascia un rancore o un rimpianto nella vita terrena.» Neanche sapeva a chi stava parlando mentre lasciava che un paio di lacrime le bagnassero il viso. Il cervello le urlava di continuare a camminare ma non riusciva a muovere un altro passo.
Kami, cosa aveva fatto…
«È questo il tuo rimpianto? Non poter salvare Marco con le tue stesse mani?»
Le faceva male il cuore. Quella fiammella di luce ondeggiava, ballava, con un velo di malinconia che attutiva tutti i suoi movimenti. E non poteva parlare né toccarla, ma lo sentiva lì come se in carne e ossa.
«Izou sei un fantasma…»
Aveva preferito macchiarsi di un peccato indicibile, dannarsi l’anima pur di assicurarsi che Marco fosse al sicuro. Ma perché? «Se fallisci, resterai per sempre su questa terra… Guarda come sei debole!»
Allungò una mano verso la debole luce e la attraversò, dissipandola in un attimo. «Cosa pensi di fare così?» Perché gli stava urlando contro? Cosa poteva cambiare ormai? Niente! Ma non poteva averlo fatto davvero! Non solo rinunciare alla reincarnazione era un peccato gravissimo, ma anche tremendamente pericoloso!
Stava lì a fissare il vuoto con altre urla sulle labbra, non sapeva neanche se arrabbiata o semplicemente sconvolta, e sentì che lo spettro le girava attorno. «Lo capisco cosa vuoi dire! Ma guarda come sono messa!» E mosse un passo in avanti senza aspettarlo, barcollando sui bastoni. Kami, si era condannato a una vita maledetta dal karma e se ne stava lì come se non fosse successo niente! Lo salveremo insieme un corno! «Non so neanche se ci arriverò in tempo! Come hai potuto metterti in tale pericolo anche dopo essere morto?! Perché l’hai fatto?? È così…?» E si fermò, perché sapeva già la risposta.
Sì, era così importante salvare Marco.
Non gli andava bene aspettare e sperare nella prossima vita di incontrarlo di nuovo. Non gli importava neanche di ciò che gli sarebbe successo. Voleva solo salvarlo. Salvare la sua anima ma soprattutto salvare Marco, tutto ciò che aveva fatto e ciò che era stato fino a quel momento. Anche mettendo a rischio il suo futuro.
Koala si scoprì senza altro da dire. Impugnò il bastone più forte e abbassò la testa, riprendendo la marcia.
«E allora andiamo.»  
 
 
«Poi, dopo quattro giorni, arrivarono a un ponte, e–»
«Aspetta» Il secondo veterano lo interruppe improvvisamente. «Stai dimenticando una cosa importante.»
«Mh? Non sto dimenticando niente.»
Il ragazzo non stava più nella pelle. Sentiva che il secondo veterano aveva qualche notizia strepitosa, e non vedeva l’ora di saperla. «Oooh, sai come sono andate le cose tra Marco e Izou dopo che Marco si è allontanato? Voglio saperlo, voglio saperlo!»
«Non penso che…»
«Mi sembra che tu abbia molta voglia di raccontare la tua versione» lo squadrò l’uomo con la benda senza nascondere la sua curiosità. «Facciamo così: raccontaci giusto un pezzettino, vuoi? Poi» e si rivolse all’uomo che aveva parlato fino a quel momento «tu finirai la tua storia, e poi sentiremo il resto della versione che sembra tanto interessante!»
«Oh, sì, mi sembra geniale!»
«E poi, trarrò le mie conclusioni» concluse il vecchio con allegria. «Sì, mi sembra davvero geniale!»
 
 


Quando mancavano solo due giorni, la notte Izou si librò in volo e raggiunse Onigashima. Era debole: non poteva comunicare, non aveva consistenza, e probabilmente neanche era visibile a chi non aveva avuto molti contatti con lui. Onigashima di notte era tranquilla.
Pochi samurai facevano la guardia alle porte e altri giravano per le tende.
Marco riposava.
Avrebbe voluto carezzarlo, ma non c’erano animali nelle vicinanze da possedere.
Avrebbe voluto parlargli, ma non c’era modo che lo sentisse.
Avrebbe voluto baciarlo, e poi urlargli di scappare di lì.
Invece volò al suo fianco, ascoltò il suo respiro tranquillo, semplicemente lo guardò. E sfiorò il suo volto con le sue membra inesistenti di fantasma.
  
 
Scostò la tenda, entrando nella stanza che puzzava di fumo e alcol.
«Allora, Marco! Mio caro Marco!»
Kurohige lo accolse con un sorriso sdentato, aprendo le braccia come in un immaginario abbraccio. Era stravaccato sulla poltrona e Marco prese posto su una sedia a debita distanza.
«Allora, allora, Marco! Hai appena conosciuto i tuoi compagni della Squadra d’Alleanza?»
«Sì»
«E dimmi, dimmi, come ti sembrano? Raccontami tutto, dai: di me ti puoi fidare!»
«Sembrano simpatici e competenti.»
«E questa è la cosa più importante. Bravo, bravo. Vuoi da bere?» Gli indicò uno scaffale pieno di alcolici, a cui Marco rispose con un sopracciglio alzato. «Ho sedici anni.»
«Giusto, giusto. Me lo dimentico sempre. È che sembri così maturo! Dovevi vedermi alla tua età. Su, allora, non beviamo, hai ragione!»
E intanto lo squadrava con occhi porcini, sogghignava. «Ma parliamo di cose importanti, Marco. Sai che Orochi non ama aspettare. Comincia pure: cosa hai scoperto su Kozuki e Kakumei?»
 






***Angolo dell'autrice***
Non pensavo che ci avrei messo tanto ad aggiornare ma meglio tardi che mai, no?
E ho già scritto qualche scena del prossimo capitolo. Non vedo l'ora di finirlo!
Spero solo che questa storia piaccia a qualcuno perché le Marco/Izou, come sempre, sono sottovalutatissime. Questa Ff ha un posto speciale nel mio cuore perché anche se è nata così un po' per caso ha avuto uno sviluppo complicatissimo, un continuo scrivere e cancellare e progettare che ancora non è finito, anzi!
E insomma, visto il tanto lavoro che ci ho messo per costruire la trama, mi dispiacerebbe che passi inosservata solo per il difetto che ha personaggi poco conosciuti.
Ma va beh, me la sono scelta io questa strada quando ho deciso di dedicarmi alle crack ship.
Confido in Oda Sensei che ultimamente sta dando un po' di spazio a Izou. Allora al prossimo capitolo, e come sempre vi invito a lasciare una recensioncina se la storia vi ha interessato!

Kalika

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


Nota dell'autrice: questo capitolo subirà grandissimi cambiamenti. Non so quanto tempo ci vorrà ma vi chiedo di pazientare e non leggerlo fino a quando questo avviso non scomparirà!
Ne varrà la pena!
Grazie per la comprensione :)
Kalika



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*Questa Fanfiction partecipa al Crack&Sfiga's Day 2021, indetto dal forum FairyPieceForum*
 


 
Mitsu no tamashii, hitotsu no hanashi

三つの魂、一つの話



Non faceva più freddo.
Certo, la terra era scomoda e il vento ancora soffiava ed erano pieni di polvere e sporcizia, ma sotto la coperta e in mezzo a loro due il freddo non lo sentiva più. Strofinò appena le mani tra loro per levare l'ultima parvenza di brivido e chiuse gli occhi, lasciandosi cullare dal rumore del bosco.
Quando non c'erano pericoli, il bosco mostrava sempre un fascino nuovo a chi sapeva ascoltarlo. Non c'era affatto silenzio; le fronde si muovevano in continuazione, anche quelle dell'albero sotto cui si erano riparati: gli uccelli borbottavano, tutto fremeva di passi e squittii e ticchettii.
Il naso era ancora un po' freddo. Si strinse a Izou, strofinando il viso contro di lui. Nell'istante in cui sentiva che allungava la mano per tirare più su la coperta, dall'altro lato si allungò un braccio. Sfiorò appena la spalla di Koala e continuò verso l'obiettivo, strappando - lo sapeva senza neanche aprire gli occhi - un sorriso al destinatario con una carezza.
Sentì come un rumore frusciante: schiuse appena un occhio e vide la mano chiara di Marco affondare tra i capelli di Izou, giocherellare con le ciocche lunghe e dirigersi verso il viso.
Ah, l'amore.
Non avrebbe mai capito cosa ci trovassero nel mettersi le mani in faccia pieni di terra, ma finchè era felici buon per loro. Anzi che trovavano ancora le forze per giocare tra loro. Lei era stanchissima, e non si smosse neanche al sentire il busto di Marco alzarsi da terra per superarla e avvicinarsi a Izou.
Lo schiocco di un bacio e Koala già sentiva il cervello spegnersi.
Una risata soffocata che era quasi uno squittio, uno "sssshh!" quasi più divertito dell'altro, un paio di altri baci e poi divenne tutto ovattato, mentre il cuore di Izou a due passi da lei partiva al galoppo.
Buon per loro, buon per loro.




«Ma-ma quindi Marco era una spia? Una spia dei Kurozumi??»
Il secondo veterano incrociò le braccia. Sembrava quasi fiero di aver acceso la discussione, e se ne rimase a osservare il ragazzino senza verbo proferire per un po'. «Non giungere a conclusioni affrettate.»
«Che gli Shirohige fossero un pericolo per l'Alleanza non era un segreto» commentò l'altro samurai grattandosi la fronte. «Non penso ci sia modo di rigirare la frittata...»
«In che senso non era un segreto? Era Izou che ne era convinto, all'inizio, ma mica era vero!» Il ragazzo si accigliò. Marco non era un pericolo! Come poteva esserlo? «...giusto?»
«Ragazzo, te lo chiedo di nuovo.» Questa volta fu l'uomo con la benda ad attirare l'attenzione. «Che cosa diavolo hai studiato di storia prima di arrivare qui?»
L'altro lo guardò spaesato. «Io... storia? Che c'entra?»
«No, aspetta» il secondo veterano si schiodò a bocca aperta. Sembrava quasi arrabbiato. «Stai dicendo che hai ascoltato tutto questo racconto senza sapere il ruolo degli Shirohige nella guerra?»
«Eh? ...Sì? Chi l'ha mai studiata la guerra, è già tanto che so che i Kurozumi sono i cattivi!»
«Bene. Fine della storia, allora. Devi prima imparare tutto l'essenziale riguardo...» 
«Aspetta, aspetta, Quintiliano.» Lo interruppe l'uomo con la benda, il sorriso tornato al solito posto. Chissà dove aveva vissuto per trovare divertente chiamare uno sconosciuto "Quintiliano". Chissà per che motivo, poi. Chi era Quintiliano? «Propongo di continuare la storia. Non sarà più divertente vedere la sua reazione? E poi, non c'è metodo più efficace per imparare qualcosa che associarlo alle emozioni.»
«Sì, vai avanti!»
«Spero solo che la tua generazione non sia tutta come te...» Il secondo veterano borbottò e si rivolse all'altro samurai. «Ti lascio la parola, allora. Torniamo a Koala.»
«No, continua tu» Lo invitò l'altro, un sopracciglio alzato. «Le tue rivelazioni stanno riscuotendo parecchio successo, a quanto vedo. Aggiungerò ciò che so più tardi.»
«Se insisti...»




«Marco è un ragazzo gentile, onesto. Sarà efficiente e insospettabile.»
Vista l'aveva sentito borbottare tra Kurohige e Lafitte, poi l'aveva confidato ad Halta, che l'aveva raccontato a Jozu che l'aveva spifferato a Thatch e così era arrivato anche a Marco.
Cosa significasse quell' "insospettabile", per un po' non l'aveva capito nessuno.
Quello che era sicuro era che Marco sarebbe partito. Non solo Marco, in realtà: da quando il capoclan si era ammalato, i progetti per entrare in quel nuovo progetto delle squadre a più clan aveva iniziato a serpeggiare in ogni divisione.
Perciò, Marco sarebbe partito e andato a Baltigo.
A Baltigo, e poi a Kuri.
Ogni tanto, sarebbe tornato a Sphinx. Con una missione ben chiara in testa, che gli era stata spiegata tra il fumo e l'alcool della tenda.
«Sì che ascoltavo» si sentiva dire quasi come non fosse lui a parlare, «è che non ho mai visto dal vivo un Kozuki. Conoscevo la vostra eleganza solo per sentito dire.»
Sii gentile, gli aveva detto Kurozumi. Lo sarebbe stato in ogni caso, e allora perchè gli sembrava così disonesto?
Diventa loro amico, gli serpeggiava in testa.
Come se non avesse voluto farlo! Come se non avesse voluto sapere cosa mangiavano, come vivevano, cosa avevano visto e sentito fino a quel momento!
E la cosa peggiore era che lo sapevano.
Lo vedeva, in quegli occhi scuri, il sospetto radicato fin dentro al midollo. Lo vedeva che lo trattava alla stregua di una pallida copia di ciò che era, un impostore e una minaccia.
E proprio per questo quasi aveva voglia di allontanarsi, di non legare con loro, ma un ordine era un ordine e Marco aveva pur sempre solo sedici anni. Chissà cosa sarebbe successo se non avesse obbedito.
«Com’è il cibo a Kuri? Piccante come qui?» Amici. Amici. Amici.
Cercava di fare amicizia e Izou restava diffidente. E faceva benissimo. Così sarebbe stato perfetto.
Così lui avrebbe provato a essere gentile, a diventare suo amico, e Izou avrebbe continuato con la sua ostinata chiusura e non avrebbe potuto carpirgli nessuna informazione. Perfetto, perfetto!
Marco tornava a Sphinx e diceva poco. Diceva che ancora non si fidavano di lui e che quindi i piani alti non li aveva mai incontrati; diceva che c'era diffidenza, e che le informazioni militari di Kakumei e Kozuki erano ancora un segreto irraggiungibile.
Era spaventoso, Kurohige, perchè perdeva la pazienza. Settimana dopo settimana, mese dopo mese, pretendeva di sapere di più e Marco si trovava, suo malgrado, a scavare a fondo.
Così sapeva quanti samurai c'erano tra le fila dei Kakumei, e da quanti consiglieri era attorniato il padre di Izou, e intanto scopriva anche il cibo preferito di Koala e imparava a chiamare per nome i fratelli di Izou.
Così era stato. Così era andata, almeno per i primi mesi.




Il giorno dopo avrebbero attaccato, e Koala era quasi arrivata. Era il tramonto ma non intendeva riposarsi quella notte. Sopra le cime degli alberi continuava a volare in tondo un lodolaio, che seguiva la sua traiettoria fedelmente; non aveva dubbi che fosse Izou, che controllava dall'alto la presenza di pericoli.
Aveva fame e sonno e freddo e le faceva malissimo la gamba, ma era quasi arrivata e la prospettiva di fermarsi non era neanche contemplata.
A un tratto il rapace volò giù, ma con una tranquillità tale da far capire che non ci fossero emergenze. Atterrò accanto a lei e zampettò un po' in giro, spostando la testa da lei al cielo.
«Vuoi controllare la situazione a Onigashima?»
Aveva già immaginato che quando Izou non era con lei, volava a Onigashima. Ma se non aveva modo di comunicare con lei, figuriamoci con persone che non sapevano neanche della sua esistenza. Poteva solo guardare dall'alto, assicurarsi che non fosse troppo tardi.
«Vai pure» gli confermò Koala «io sto bene.»
Si alzò in volo, fece un paio di larghi giri intorno alla sua posizione e partì rapidissimo verso ovest. 
Aveva scelto l'uccello giusto di cui controllare il corpo. Sentiva il vento sferzare contro le sue piume mentre raggiungeva velocità mai sperimentate nel corpo di uomo. Più passava il tempo più si sentiva pieno di energie, e non faceva altro che chiedersi quando sarebbe riuscito a liberarsi di un corpo materiale e far vagar libera la sua essenza.
Onigashima fu in vista in una manciata minuti. A Koala, d'altronde, mancavano poche ore di cammino zoppicante.
Era tutto tranquillo, tutto come l'aveva trovato le notti precedenti: qualche persona si attardava intorno a un falò, le luci nelle tende erano per metà spente e per metà accese, il turno di guardia di notte era appena iniziato.
La capanna del responsabile di divisione era ancora accesa. Izou planò fino alla finestra, affacciandosi. Non era esattamente un uccellino insignificante ma Marco era chino sul tavolo, come studiando delle carte. Zampettando fin sul limitare della finestra, Izou vide una penna nella sua mano: stava scrivendo?
Con l'ultimo passo fece troppo rumore. Marco si voltò di scatto verso di lui, salvo poi tranquillizzarsi quando vide che era solo un animale. «E tu che ci fai qui?»
Si alzò con il foglio in mano, avvicinandosi alla finestra. Sospirò.
«Non hai nessuna notizia, vero?» Si chinò per studiargli le zampe alla ricerca di messaggi, scuotendo poi la testa. «Scommetto che non sei neanche addestrato. Chissà perchè sei così tranquillo...»
Izou strofinò la testa contro il suo braccio, gracchiando appena. Cosa avrebbe dato per poter parlare...
Lo vide alzare lo sguardo al cielo prima di riabbassarlo sul foglio stropicciato che aveva in mano. Ci giocherellò un po' prima di picchiettarlo sul becco dell'uccello: «Non puoi portargli questa, vero? No, impossibile. E poi non so neanche dov'è...»
Si staccò dal davanzale con un sorriso triste. Izou continuava a guardarlo. «Però se lo vedi diglielo, va bene? Che mi manca da morire.»




I primi tempi, quando Marco parlava con Izou, cercava di mostrarsi disponibile, affidabile, sorrideva. E Izou sempre, senza eccezioni, rispondeva a monosillabi, o lo fissava col suo sguardo scuro e penetrante, o voltava la testa facendo rispondere la chioma corvina al posto suo. Lo ignorava, si girava e di solito inziava a parlare a Koala come fosse sua sorella, quasi a sottolineare la differenza tra Marco e Koala, e andava benissimo così. Kurohige aspettava informazioni che tardavano ad arrivare. Era tutto perfetto. Tutto perfetto per mesi.
Poi Izou aveva cominciato a ridere.
Col senno di poi, non era stato un cambiamento improvviso, affatto. Marco non se n'era accorto ma Izou aveva cominciato a rispondere, a sorridere, a parlare e scherzare con lui. Marco non se n'era accorto perchè in qualche modo Izou gli sembrava sempre così lontano, così irraggiungibile nei suoi borbottii e nei suoi commenti acidi che avevano smesso da un pezzo di essere rivolti a lui.
Poi alla fine di una missione Koala aveva detto qualcosa di divertente, di stupidissimo che ormai neanche ricordava più, e Izou era semplicemente scoppiato a ridere.
Ma come?
Come era possibile che fosse così tranquillo e rilassato? Dov'era finito tutto il sospetto?
Svanito in una risata.
E così Izou aveva cominciato a ridere e aveva continuato, e dopo le risate erano arrivati i sorrisi quelli grandi e genuini che credeva fossero solo per Koala, e gli scherzi e i sussurri e Marco ne era rimasto come ottenebrato.
Era frastornante un tale cambiamento ma soprattutto era frastornante il fatto che adesso sembrava tutto molto più bello. Andare in missione era bello, chiacchierare era bello, perfino allenarsi era bello perchè adesso c'era Izou con lui e quando c'era lui Marco sapeva che avrebbe sorriso.
Si era abituato così rapidamente che neanche si era accorto che legarsi a Izou non era più solo parte della missione. Perchè sì, anche senza gli ordini di Kurohige sarebbe diventato suo amico, ma poi sarebbe finita lì; e Marco invece voleva sapere anche cosa aveva in testa, perchè stava sorridendo, qual era la sua stagione preferita e perchè amava tanto l'oden.
Più Marco cercava di avvicinarsi più Izou glielo permetteva, e a ogni ritorno a Sphinx si scopriva sempre più capace di dare informazioni e se ne malediva. E Izou l'aveva capito, che a Sphinx non ci voleva tornare, ma non sapeva il perchè. Così quando Marco tornava a Kuri Izou si mostrava sempre più vicino, più aperto, e a Marco cominciava piano piano a fare male il cuore.
Non poteva più permettere una cosa del genere.
E così le informazioni avevano cominciato a calare.
Tra un "non lo so" e un "non mi ricordo", tra un rimprovero e una minaccia, Marco aveva semplicemente smesso di collaborare.
E si era permesso di innamorarsi di Izou.
Era una parola grossa, innamorarsi, ma sapeva che altro modo per descrivere ciò che provava non c'era. Perchè una volta allentata ogni paura, una volta lasciati correre a briglia sciolta i suoi sentimenti, ciò che restava da toccare era soltanto l'amore.
Per un po' si era goduto ogni sorriso, ogni pensiero, senza preoccuparsi delle conseguenze. Lo amava, lo amava, senza impegno e senza aspettarsi nulla in cambio. Sapeva che non poteva durare per sempre e proprio per questo non aveva mai detto nulla, mai confessato niente. Sapeva che non sarebbe durato per sempre ma non si aspettava che sarebbe finita così bruscamente. Con Squardo alle porte di Kuri, una minaccia negli occhi, giusto il tempo di tagliare i capelli a Izou come promesso.




Koala si era spostata di poche centinaia di metri quando Izou tornò da lei. Stava ripassando ad alta voce le informazioni che aveva. «I Kurozumi attaccheranno domani... arrivando da nord.» Un passo incerto, un lamento mal trattenuto. Doveva tenere in mano un amuleto per farsi luce, quindi non poteva più contare sui due bastoni per sostenere la gamba. «Nella peggiore delle ipotesi... arriverò giusto in tempo e... e mi basterà avvertire Marco. Oh, ciao... sei tornato...» Sorrise con difficoltà, reprimendo qualsiasi cosa si stesse agitando nel suo cuore. «Non avranno tempo di... preparare una controffensiva, quindi... quindi dovranno scappare. Decisamente meglio la gola di Ebisu, ché i Kurozumi non la conoscono. Anche se... se avanzassero nel nostro territorio, a sud...» prese fiato. Non parlava da tanto, e le bruciava la gola. «...non ci sarà altro che landa desolata. Per chilometri e chilometri. Che posto orrendo per un accampamento. Onigashima... è tagliata fuori dal mondo.»
Mentre finiva di parlare, qualcosa sfavillò al margine del suo campo visivo. Era debole, debolissimo: e ci mise fin troppi minuti per avvicinarsi abbastanza da capire cosa fosse.
«Luce! Una lanterna!» Le si bloccò il fiato in gola dalla gioia. Era salva! C'era qualcuno che avrebbe potuto aiutare lei e Marco! Le sembrò un'eternità il tempo passato a uscire dal limitare del bosco e avanzare lungo la strada battuta verso la lanterna che decorava il muro di una casupola di controllo, probabilmente posta lì in corrispondenza del ponte di Jaya. Sbattè il pugno contro la porta una, due, tre volte, sempre più debole ma senza intenzione di fermarsi. 
Dopo un'attesa interminabile, la porta si aprì.



Zac. Zac. Zac.
Squardo non significava buone notizie e questo l'avevano capito tutti.
"Kurohige ti spiegherà meglio", gli aveva detto. Non ce n'era davvero bisogno. E non voleva pensarci, non con il rischio di rovinare i capelli di Izou anche se usava la
Fushichou per tagliarli ai fratelli da anni. Fissò le ciocche corvine, la testa appena reclinata verso il basso. Solo l'idea di allontanarsi da lui lo faceva stare male.
«Un giorno vi porto a Sphinx» Un giorno si sarebbero rivisti sicuramente. Non poteva finire tutto così. Non poteva, non voleva, buttare quei sentimenti che erano cresciuti con tanta difficoltà.
«Mh. A vedere il mare.»
Poteva almeno provarci, a sorridere. Ma forse non era giusto chiederglielo se neanche lui riusciva a farlo.

Zac. Zac. Zac.
«Per questo non mi dispiaceva l'idea di tornarci.» Non per spifferare informazioni, non per fare la spia che tutti volevano che fosse. «Per portarti...» troppo diretto «portarvi lì.»
Fermò le dita su una ciocca ribelle, pettinandola con le proprie dita. Era così morbida, appena lavata. I capelli corti erano più comodi ma era proprio un peccato doverli tagliare.
Si era affezionato anche a quei capelli. E anche alla mano che risaliva piano verso l'alto, cercava la sua mano, gli stringeva debolmente il polso. Era delicatissima. Era tutto ciò che avrebbe voluto sentire per il resto della vita. «Però è casa tua, no?»
Voleva stringere quella mano tra le sue. «Sì.»
«Quindi ti farà piacere tornare anche se sarai da solo, no?»
Voleva portarsela alle labbra e sussurrargli tutte le parole che aveva dentro.

Zac. Zac. Zac.
Eppure aveva paura di dirle davvero. Perchè si sarebbe legato a lui, nel bene o nel male. E aveva tanta paura di cosa questo avrebbe potuto comportare.
«Kurohige ha preso il posto di papà, ormai.»
Un avvertimento a cui Izou annuì. Sperò solo che avesse capito quanto fosse pericoloso.
Aveva finito di tagliare.
Posò la
Fushichou, passò le dita tra i suoi capelli e glieli lasciò cadere davanti alle spalle, per quel poco che potevano cadere. Era così diverso, ma restava bellissimo. Si guardò intorno e adocchiò uno specchio, glielo passò e quando Izou sorrise nel guardarsi Marco sentì di nuovo l'impulso di fermare tutto e restare semplicemente così per sempre, ad osservarlo sorridere dentro uno specchio.
Iniziò a legargli i capelli in una coda, per il solo gusto di sfiorarlo un altro po'.
«Quando sei arrivato, c'erano brutte voci sugli Shirohige» riprese dal nulla Izou «e non mi fidavo di te.»
«Lo so.» Rispose in fretta, perchè più di così non sarebbe riuscito a dire.
Lo so, e forse sarebbe stato meglio così. Oppure lo so, e se avessi continuato non mi sarei innamorato di te.
Lo so, e senza la tua fiducia sarei finito tanto tempo fa.
«E la situazione nel tuo clan è andata sempre peggio.» Il codino era finito, ma continuava a sistemargli le ciocche sulla fronte, sulla nuca. «Pensi che in futuro potrebbe diventare un problema per l'Alleanza?»
Una domanda tanto semplice. Rimase con le mani sulle sue spalle, nervose, assetate di altra pelle. «Sì.»
Scappa. Scappiamo insieme. Non voglio allontanarmi da te.
«Pensi che in futuro potrò fidarmi di te?»
Troppo lontano. Era troppo lontano. Chinò la testa, gli sfiorò i capelli con la fronte. Troppo lontano.
Ti amo, voleva urlare. Sarebbe stata eloquente come risposta. Ma sarebbe stato troppo. Troppo.
Ti amo, ti amo, ti amo.
«...sì.»



Era un uomo alto e pallido, con un sorriso in volto che sembrò solo affievolirsi quando si trovò davanti Koala che, pallida e malconcia, si teneva in piedi a stento sullo stipite della porta. «Sono Koala Kakumei, nipote del capoclan Dragon!» Cominciò subito, l'impazienza che le rodeva le viscere. L'altro socchiuse gli occhi e fece qualche passo indietro, salvo immobilizzarsi dopo quando secondo: «I tuoi vestiti dicono il contrario.»
I suoi... Abbassò lo sguardo, ricordandosi che pur coperti di terra e sangue, i suoi vestiti erano facilmente riconoscibili come l'uniforme dei nemici. «Non sono una Kurozumi» snocciolò facendo un passo in avanti. Stava per entrare ma si fermò sulla soglia. Anche solo il calore della stanza le avrebbe fatto perdere tempo e non poteva permetterselo. «Ero in missione nel loro territorio. Deve credermi. Anche perchè nessun Kurozumi rivelerebbe mai ciò che sto per dire.»



Lo sentiva.
Non ne aveva dubbi ma non l'aveva mai saputo con tanta sicurezza.
Nemmeno quando aveva temuto di non vederlo mai più.
Nemmeno quando, dopo mesi e mesi, l'aveva potuto sfiorare di nuovo.
Nemmeno quando lo aveva sentito ridere di nuovo, e il motivo era che aveva sempre avuto la certezza, l'assoluta certezza che anche se erano lontani si trovavano comunque sulla stessa terra.
Lo amava.
Lo sentiva nel formicolio in gola che gli voleva far urlare di sbrigarsi, di non perdere neanche un attimo, anche se non aveva il fiato per farlo e comunque non sarebbe servito a iente.
Era terribilmente innamorato.
Lo sentiva nelle braccia che bruciavano sotto il peso di quel corpo martoriato, nella puzza di sangue sotto al naso, sangue di Izou, di Izou, ma che copriva anche lui e Koala e i loro vestiti e la terra che scorreva, scorreva sotto i loro piedi. Avevano lasciato i cavalli al vollaggio, idea terrbile, e adesso i venti minuti che avevano camminato all'andata sembravano non finire mai.

 
«Lafitte» Si presentò l'altro mentre le porgeva un bicchiere d'acqua. Sul tavolo aveva già ammassato farmaci e provviste. «Hai trovato la persona giusta. Riferirò il messaggio.»
«Lo farò io stessa» balbettò Koala, gli occhi che saettavano dall'uomo all'invitante tavolo. «Mi basta un cavallo, e...» E cosa? Avrebbe galoppato fino a Onigashima in quelle condizioni?
«Inammissibile.» Commentò infatti l'altro, arcuando appena il sorriso e avvicinandosi. «Oltretutto c'è un solo cavallo, ed è il mio. Non lo affiderei al mio migliore amico, figuriamoci ad una sconosciuta in fin di vita. Su, non fare complimenti.»

Gli avevano detto che l'amore era una cosa bella.
Eppure adesso che lo sentiva, adesso che lo amava come non aveva mai fatto - che errore pensarsi innamorato anni e mesi prima! Mai avrebbe immaginato che l'amore fosse tutt'altra cosa dalle farfalle che provava al suo sorriso - era assolutamente sicuro che se Izou fosse morto lì, per colpa di uno stupido morso di uno stupido drago, non avrebbe più saputo come continuare a vivere.
Sentiva di essere perdutamente innamorato anche se i battiti del suo cuore non erano di emozione, o forse sì, erano di paura ma soprattutto erano per la corsa impossibile, a perdifiato, con lui lo stava portando al villaggio e con cui avrebbero fatto sfrecciare i cavalli fino a Baltigo.
Voleva solo che fosse al sicuro.
E sapeva che era una richiesta forse incompatibile con il loro stile di vita, e si erano già trovati in situazioni simili, però così, così vicini alla morte mai! Mai con tutto quel sangue, quel bianco cadaverico, mai!
Il respiro che prese somigliò più a un gracchiare spaventato quando una voce lo riscosse all'improvviso: «Dobbiamo fermarci al villaggio!»
Guardò Koala, con il volto pallidissimo e gli occhi che spalancati sembravano ancora più grandi. «Non possiamo... caricarlo sui cavalli così!»
E aveva ragione. La sola idea di perdere tempo nella corsa verso Baltigo, dove avrebbero trovato i migliori medici dell'Alleanza, lo faceva andare fuori di testa, ma quando abbassò gli occhi su Izou stentò a riconoscerlo. Ancora più bianco in viso, ancora più rosse le garze, platealmente inutili senza aver richiuso le ferite sotto, oppure finchè il coagulante non avesse fatto effetto.
E dovevano richiuderlo. Prima che lo assicurassero a un cavallo, già cosa rischiosa di per sè, prima di sfrecciare verso Baltigo dovevano in qualche modo stabilizzarlo.
«Ehi, Izou...»
La sedia di legno le sembrava il posto più comodo del mondo. Sentiva da lontano Lafitte che preparava il suo cavallo mentre lei, a testa china, immergeva la gamba nella bacinella per dare una pulita alla ferita. Il lodolaio si era affacciato alla finestra.
«Non preoccuparti per me. Segui Lafitte, d'accordo? Assicurati che faccia ciò che gli ho detto...»
Non si fidava. Non si fidava e voleva andare lei con ogni fibra del suo essere, ma al contempo era proprio ogni fibra del suo essere che gli urlava che era fisicamente impossibile alzarsi di lì. Era stanca.
Le sembrava difficile persino respirare.
«Scusa...»
Lo zampettare si era avvicinato, fino a che non lo picchiettò sulla gamba con la testa. «Falla finita» lo ammonì con un sorriso che sapeva di lacrime.
«Grazie, Izou... vai a salvarlo.»

E i volti esterrefatti degli abitanti gli erano sembrati un miraggio, così come il povero letto su cui aveva adagiato Izou, gli strumenti e le parole del medico del villaggio che tanto medico non sembrava ma che aveva indicato Koala e borbottato: «Solo donna. Servono mani piccole, ferme.» E allora aveva seguito lo sguardo di Koala, perplesso quanto il suo, e si era trovato a osservarsi le mani che tremavano come ci fosse un terremoto.
Poi la porta quasi sbattuta in faccia, le parole "medico" incise sul legno della porta a mo' di targhetta, e l'ordine "prepara i cavalli".
Izou era dall'altra parte della porta e lui doveva andare a preparare i cavalli.
Ancora gli dolevano le braccia e le spalle. E fu solo quando fece qualche passo alla rinfusa che si accorse davvero che per Izou, adesso, non poteva fare niente. Solo preparare i cavalli.
E non avendo più Izou tra le braccia, non avendo più la mente distratta, tutte le sensazioni e gli odori e le paure sembrarono risalire a galla all'improvviso.
Era letteralmente coperto di sangue. Suo, in parte;  soprattutto di Izou. Dovunque arrivasse il suo sguardo tuttto era rosso o nero e non aveva dubbi che anche la faccia fosse colorata di morte. Gli abitanti lo guardavano da lontano: con ammirazione, da una parte, perchè sapevano che era l'uomo che li aveva liberati dalla minaccia; con paura e commiserazione dall'altra, perchè era oggettivamente una visione spaventosa e perchè sapevano fin troppo bene il destino di chi veniva aggredito dai mostri che li perseguitavano.
C'era una fontana lì vicino. Ci immerse la testa intera, tutta all'improvviso, sentì il sangue incrostato che si scioglieva e si staccava dalla faccia, dal collo, dalla radice dei capelli. Tutti i piccoli tagli ripresero a bruciare come se fossero rimasti assopiti fino a quel momento. Quando sollevò la testa acqua e sangue gli scivolarono sugli occhi, sulle labbra, sui vestiti, e se da una parte era sul punto di vomitare, dall'altra sentiva come vivissime le labbra di Izou sulle sue. Quasi gli bruciavano quelle labbra, da quanto le aveva premute in quell'attimo di follia;  o follia forse non era stata, solo paura, perchè della follia ci si pente e Marco non riusciva proprio a pentirsi del sangue e della saliva che gli sembrava di rivivere. Sì era paura, gli urlava di paura il cuore al ricordo del volto spento che non aveva visto non appena si era allontanato, del respiro debolissimo, e l'agitazione che già stava esplodendo saliva, saliva, e stava per raggiungere il picco lo sentiva, allora semplicemente ributtò la testa in acqua sommergendosi tra i gorgoglii. Quanto voleva urlare! Ce l'aveva portato lui in quel posto, l'aveva proposta lui quella maledetta missione!
Era tutto diverso.
Era stato cresciuto per essere efficiente. Gentile, calmo ed efficiente. Ed erano bastate delle battutine acide, una risata che gli sollevava il cuore e un paio di occhi scuri per ribaltarlo completamente.
Che poteva fare?
Tornò a respirare, il sangue che scivolava via. Gli occhi degli abitanti ancora fissi su di lui.
Che poteva fare? Niente, se non accettarlo.
Prepararsi al peggio, oppure vivere il meglio.
E preparare i cavalli.

Meno male che gli avevano detto che l'amore era una cosa bella.




Lafitte cavalcava con un'andatura che sembrava inadatta a chi aveva appena ricevuto la notizia di un agguato nemico. Si fermò ai cancelli di Onigashima per farsi riconoscere, trotterellò fino alla capanna di Marco, smontò tranquillo da cavallo e bussò alla porta. Izou, dall'alto, trovava la sua lentezza insopportabile. Ma presto si sarebbe tutto risolto.
Uno, due, tre, quattro secondi di attesa. Poi Marco aprì la porta e solo allora Lafitte cominciò a parlare. «Temo di avere delle brutte notizie.» Snocciolò facendosi strada nella stanza fino a una sedia. «Appena mezz'ora fa mi trovavo accampato alla gola di Ebisu e una ragazza in abiti di Kurozumi, praticamente in fin di vita, mi ha raggiunto dal territorio nemico per avvertirmi di un presunto assalto dei Kurozumi contro Onigashima orchestrato per... domani.» Non andava bene. Non andava bene. Perchè Ebisu? Non erano arrivati da Ebisu!
Vide Marco ghiacciarsi sul posto. I suoi occhi saettarono qua e là ma non video niente, neanche Izou alla finestra, mentre rielaborava freneticamente le informazioni. D'un tratto si addossò al tavolo della camera, spostando i fogli come se la cartina appoggiata sopra potesse schiarigli le idee. Era terribile vederlo così agitato, come se sapesse che sarebbe successo e non avesse modo di evitarlo. «E perchè sei tanto scettico?»
«Perchè era, ripeto, una ragazza...» Marco si girò appena confuso, ma Lafitte lo ignorò «..per di più in fin di vita, ossia nella condizione più facilmente credibile... ma pur sempre in abiti Kurozumi.»
Accartocciò un foglio con le dita. Era nervoso e aveva tutti i motivi per esserlo. «Se era una Kurozumi e in fin di vita, potrebbe aver disertato e allora non sarebbe tanto difficile comprendere le sue motivazioni. Perchè non le credi?»
«Perchè sosteneva di non essere una Kurozumi.»
Marco lo fulminò. Era il responsabile di Onigashima e non aveva intenzione di perdere tempo prezioso per i suoi giochetti. «Lafitte, parla chiaro. Non era una Kurozumi?»
Lui alzò entrambe le sopracciglia, come preparandosi a dire qualcosa di divertente. «Farneticava di essere l'unica sopravvissuta di una missione di spionaggio. Sosteneva di essere... cosa, la figlia? la nipote? non ricordo più ormai... del capoclan dei Kakumei.»
Marco vacillò e Izou dovette farsi forza per non precipitarsi dentro a sostenerlo. «Koala?» Gracchiò con voce irriconoscibile.
«Sì, Koala!» Sembrò illuminarsi l'altro. «Diceva di chiamarsi Koala Kakumei. Ti dice niente?»
«Unica sopravvissuta?»
«Sue testuali parole.»
Rimase fermo, il colore che se ne andava dal volto. Lafitte lo osservava incuriosito.
Alla fine, come colpito da un fulmine, si mosse di scatto verso il letto, recuperò i vestiti che aveva lasciato sopra e si infilò scarpe e giacca, fiondandosi verso la porta.
«Se era Koala, ciò che ha detto è vero.» Non aspettò neanche che l'altro uscisse dalla stanza. «Avvisa tutti di prepararsi a lasciare l'accampamento. Tornerò fra due ore al massimo e guiderò la fuga per la gola di Ebisu. Se davvero arriveranno domani, è inutile cercare la battaglia. Onigashima è stata una causa persa fin dal principio e non intendo perdere uomini per un inutile avamposto.»
«E tu dove vai?» Lafitte si affacciò dalla porta, Marco che quasi correva verso le scuderie.
«Alla gola di Ebisu, da Koala! Devo capire meglio la situazione!»
Anche il cuore di un lodolaio sapeva battere forte di paura. Ma cosa doveva fare? Fermarlo? Più si allontavana da Onigashima, meglio era, anche se nella direzione sbagliata.
Marco imboccò il sentiero per Ebisu. La distanza tra lui e Koala si faceva sempre più ampia.




Gli sembrava di non essere mai sceso da cavallo.
Aveva galoppato fino a Baltigo, deciso più che mai a focalizzare ogni sua energia sul correre, e l'aveva fatto davvero fino a che non aveva lasciato Izou tra le braccia dei migliori medici del clan Kozuki.
Si era trovato un'altra porta sbattuta in faccia, altre persone ad osservarlo con pietà. Almeno questa volta Koala era accanto a lui.
«Marco.»
Voleva solo restare lì a fissare quella porta, ad attendere notizie.
«Marco Kurohige.»
Anche se la logica gli diceva che dopo ore di viaggio frenetico avrebbe dovuto riposarsi, o quantomeno lavarsi. Ma se non fosse stata per quella voce cupa e maschile, non si sarebbe staccato dalla porta neanche sotto la più convincente delle argomentazioni.
«Devi tornare a Sphinx.»
Squardo non significava mai buone notizie. Squardo era tanto debole quanto insensibile, e l'aveva già portato via da lì una volta.
Gli sembrò come se due mondi si fossero scontrati mentre si girava e Izou era ancora là dietro, dietro quella porta, in fin di vita, alle sue spalle, e Marco doveva invece guardare e ascoltare Squardo che lo strappava di nuovo da lui. «Non è un buon momento.»
E Squardo arricciò il naso a vederlo tanto malridotto, con il viso tumefatto e incrostato di sangue. Come se guardandolo di spalle non se ne fosse accorto. «Curioso» commentò lanciando un'occhiata di striscio anche a Koala, troppo attonita per reagire «Sono le stesse parole di Kurohige quando ha scoperto che eri partito.»
Silenzio. Se avesse potuto avrebbe stretto i pugni, alzato la testa o anche solo qualcos'altro oltre a sostenere lo sguardo, ma non ne aveva le forze.
«Cosa sta insinuando?» La voce di Koala sembrò uscire a fatica dalla sua gola, le sopracciglia corrugate.
«Niente» rispose semplicemente l'altro, tornando subito a guardare il ragazzo. «Siamo in guerra, Marco. Se ti diciamo di stare a Sphinx resti a Sphinx. Non possiamo permetterci di disperdere le nostre forze.» Marco lo vide alzare lo sguardo oltre i due ragazzi, fissando appena la porta dell'infermeria, e qualcosa nel suo stomaco si attorcigliò. «Specie se le conseguenze sono queste.»

Mezz'ora dopo erano in viaggio.
Il pomeriggio del giorno dopo erano a Sphinx. Come sempre, non gli era mancata. Lo fecero tornare nella sua stanza, gli dissero di riposare un po'.
Normalmente avrebbe guardato il mare. Si sarebbe perso a osservarne i colori, le onde, le ombre delle nuvole, e avrebbe immaginato il giorno in cui Sphinx sarebbe stata allegra e accogliente come lo era da bambino, perchè quel giorno ci avrebbe portato Izou e gli avrebbe fatto vedere il mare.
Ma neanche a questo poteva pensare, perchè se c'era Izou c'era la straziante voglia di averlo accanto a lui, di potergli carezzare i capelli e sfiorare la pelle e ammirare gli occhi ridenti. E assaporargli le labbra, come tante volte si era trattenuto dal fare. Ma adesso che lo aveva provato, anche in mezzo al sangue e alla saliva e a un respiro affannato, sapeva di non poterne più fare a meno.
Il mare era la sua risata e più la sentiva più voleva scappare.
Fece per uscire, e si ritrovò Lafitte davanti alla porta, in procinto di bussare. «Ti aspetta Kurohige, caro» soffiò con perenne sorriso sulle labbra.
Nessuno lo seguì mentre andava alla sua tenda. Incrociò qualche fratello e lo salutò, tutti con la stessa espressione sul viso.
Non poteva dire di non avere paura.
Non poteva dire che non temeva di non uscire più da quella tenda.
Ma niente l'avrebbe congelato quanto quello che vide. Kurohige era seduto su una poltrona, inebriato di tabacco come al solito, il sorriso sdentato in faccia. Sembrava essersi appena seduto. Davanti a lui, con già sui piedi un passo per uscire dalla porta, un uomo che Marco non aveva mai visto. Aveva una vistosa capigliatura rossa e il volto bianco, forse truccato; ma soprattutto indossava un'uniforme che Marco aveva avuto modo di conoscere negli ultimi mesi, da quando era scoppiata la guerra; non tanto perchè prima non esistesse, ma perchè prima non l'aveva mai dovuta associare a una minaccia reale che faceva tremare le fondamenta stesse dell'Alleanza.
L'uomo lo superò senza una parola, uscendo dalla tenda. E Marco rimase fermo a un passo dalla soglia, il peso di mille certezze infrante nel cervello.
«Eccoti qui, Marco! Ti sei divertito?»
Kurohige era pericoloso. Era instabile, ambizioso, viziato e potente.
«Spero che tu ti sia divertito, Marco. Spero che ne sia valsa la pena, perchè è stata proprio una brutta sorpresa sapere che eri partito senza dirmi niente.»
Ma l'Alleanza era potente e Marco aveva sempre sperato che anche Kurohige l'avesse capito. Anche se aveva tagliato i ponti con gli altri clan, anche se si concentrava sempre più sulle politiche interne, aveva davvero sperato che la decisione presa il giorno del Vertice dei clan, quella di non allearsi con i Kurozumi, sarebbe stata rispettata. Lo aveva sperato tanto quanto sapeva dei legami che da anni erano stati tessuti sottobanco, tanto quanto gli si appesantiva il cuore ad ogni informazione ceduta.
«Pensavo fossi troppo impegnato per preoccuparti di un'uscita di qualche giorno.»
Kurohige rise, spalmandosi sul posto: «Ma cosa dici! Quando mai non ho avuto tempo di preoccuparmi dei miei cari fratellini! Su, a me puoi dirlo: sei andato a incontrare qualche ragazza straniera, vero? Zehahaha! Ormai è l'età, eh? Quanti anni hai?»
Marco rimase in silenzio.
E quell'uomo - cos'era, un ambasciatore? Un diplomatico? - dei Kurozumi era la semplice conferma che Kurohige aveva in mente qualcosa di più grande di quanto avesse mai lasciato intuire. Cosa doveva fare?
«Ti ho fatto una domanda, Marco. Rispondimi.»
Raggelò quando si accorse che non rideva più. «Ho vent'anni.»
«Già.» Borbottò lui amaro. «Mi aspettavo che a vent'anni comprendessi cos'è un ordine, Marco. Se ti dico di restare a Sphinx, resti a Sphinx. Mi hai deluso, Marco.»
Silenzio.
«Siediti, dai.»
Obbedì.
«Ultimamente non ti stai comportando molto bene. Sono deluso.» Assunse un'espressione grave, sollevando il collo dallo schienale e gesticolando piano. «Beh, sei sempre stato schivo. Ma non mi aspettavo che fossi anche poco collaborativo. Dobbiamo cambiare questa cosa, sì?»
Si versò da bere.
«Senti, Marco, ormai siamo in guerra. È importante sapere di chi mi posso fidare. Che ti è successo, si può sapere? Ho sempre voluto insistere perchè sei tanto diligente, ero sicuro che un giorno avresti ripagato la mia fiducia! E invece guarda cosa combini!»
Marco si strinse le mani tra loro.
«Se mi assicuri che continuerai a darmi informazioni come un tempo, io ti posso anche permettere di continuare a visitare la tua donzella straniera. Eh, che dici, ti va bene?»
«Io...»
«Anzi, no, facciamo così: permesso accordato, ecco. Definitivo. E dopo tutto quello che ti ho concesso, Marco, un po' di gratitudine è il minimo. Non ti chiedo niente di difficile, dai: come i primi tempi!»
No. No. No! Piuttosto preferiva rinchiudersi a Sphinx!
«Ecco qua, tutto risolto. D'altronde l'ho sempre detto: meglio con me che contro di me! Zehahaha! Su, Marco, adesso che ci siamo messi d'accordo dimmi tutto: come stanno Koala e Izou? Stanno bene? Non vorrei che sia successo loro qualcosa... Ma sì, staranno bene: se tornerai a Baltigo e farai come ti dico, sicuramente staranno benissimo!»





Poteva volare veloce ma gli sembrava di diventare sempre più lento mentre superava metri, metri, metri di terra brulla. Il vento ululava contro di lui come fosse infuriato della sua stessa presenza, ma a Izou importava solo di controllare ogni roccia, ogni arbusto per scovare anche solo l'ombra di un nemico.
Perchè Ebisu?
Le parole di Lafitte riecheggiavano attorno a lui. Perchè tanta sicurezza nel mentire? Cosa stava succedendo? Possibile che si stesse solo immaginando tutto?
Il rumore di passi dietro la curvatura della roccia frenò i suoi ragionamenti. C'era davvero qualcuno. Sperò di esserselo immaginato. Sperò di aver sbagliato tutto, che Lafitte avesse detto la verità e dietro l'angolo c'era davvero Koala in attesa di soccorsi.
Invece andò avanti e vide una persona.
Un arco in pugno, lentiggini in faccia, e la divisa nera dei Kurozumi. Stava vicino a una roccia, pronto a nascondersi al primo segnale di presenza umana. Segnale che sarebbe arrivato nel giro di pochi istanti.
Più avanti, lo vedeva, un'altra persona. E un'altra. E un'altra. Nascosti, mimetizzati in tutti i modi, scivolati dentro le rocce, un esercito infestava la gola di Ebisu.
Un'imboscata. Una manovra a tenaglia, anzi, perchè Izou li aveva visti nei giorni scorsi e sapeva che i Kurozumi erano appostati per davvero a nord. Non aveva mai ritenuto necessario controllare la via di fuga segreta.
Una manovra che avrebbe funzionato anche restando a Onigashima ma che garantiva la totalità di successo se si fosse riusciti a spingere i nemici nella stretta, chiusa, scura gola di Ebisu.
Nella via di fuga segreta!
E faceva ancora più male perchè adesso sapeva, sapeva con assoluta certezza che Lafitte aveva mentito, sapeva che Kurohige non aveva mai avuto intenzione di risparmiare Marco, di perdonarlo per i tanti errori. Quale alleanza! Quale fiducia, quale sicurezza!
Indietro. Indietro, doveva tornare indietro. Doveva bloccarlo in qualche modo, e già sentiva lo scalpiccio del cavallo, già l'arciere nascosto maledetto preparava il suo arco. Già sembrava che i piccoli uomini mimetizzati uscissero allo scoperto, calpestasero il terreno ad annunciarsi, perchè tanto era tardi per tornare indietro.
Allora si girò e gli volò contro, e già l'arco si tendeva e la prima freccia scoccava. E all'improvviso sentì il vento contro di lui. Alzò lo sguardo e il lodolaio volava libero, in alto, via dal pericolo, e il sole gli picchiò sulla testa e la terra tremò, e allora abbassò lo sguardo e vide le sue mani lì, trasparenti ma innegabilmente sue, a fendere l'aria con una fermezza che non era di uomo ma neanche dell'effimera fiamma di prima. 
E volava, volava, ad avvertirlo neanche lui sapeva come. Neanche dieci metri, neanche dieci secondi, e sentì il corpo percorso dai brividi. Trafitto da qualcosa di terribile e mortale. E ancora, ancora, sibili insidiosi e insistenti, come uno sciame di calabroni che correva per raggiungerlo. Ma non erano insetti, erano zoccoli, erano grida e frecce e se le vide spuntare dal petto e continuare la corsa alla ricerca di qualcosa da colpire.
E alzò ancora lo sguardo e Marco era lì, così vicino!, cinque secondi, e l'avevano raggiunto.
Izou non aveva più respiro ma gli si bloccò lo stesso.
Una piuma gli spuntava dalla spalla e mentre le redini gli cadevano di mano, e lui anche cadeva e con lui il cavallo, i rumori, le armi, mentre rovinava a terra, qualcosa gli trafisse anche il petto e Izou poteva quasi vederlo, quasi sentirlo il colore sparire dalle sue labbra e dal suo volto e dai suoi occhi.
E furono le sue labbra e il suo volto e i suoi occhi verso cui allungò le mani, e quando riuscì a toccarli qualcosa gli si spezzò dentro. Lo specchiò buttandosi in ginocchio, gli alzò il volto, lo tenne su con le sue forze. E qualcosa di simile a una parola gli sgusciò dalle labbra, qualcosa di simile al suo nome, e a un singhiozzo.
Sentì i respiri che si interrompevano a metà, cercavano, cercavano di portare vita e vide le sue mani che si alzavano per trovare qualcosa a cui aggrapparsi, e un rivolo di sangue gli sgorgò tra i denti e sbattè gli occhi, e li sgranò, ed erano già pieni di lacrime.
Gli solleticò il braccio. Izou abbassò gli occhi e la mano bianca di Marco gli attraversava il gomito, cercava di poggiarsi su di lui ma non riusciva, non riusciva neanche a sfiorare le sue membra di fantasma.
E pianse, Izou, mentre il rantolo di Marco si trasformava in un pianto: «Mi avevi p-promesso...»
Non tra le sue braccia, non davanti a lui!
La testa bassa tra le lacrime, tutto gli urlava di alzarsi a guardarlo ma niente gli rispondeva.
E già era più difficile reggerlo, le dita perdevano il suo volto come fossero fatte d'aria, e vedeva ancora le sue labbra aperte e non riuscì a guardarlo mentre tossiva, si chinava, e gli ricordava ciò che non voleva, non poteva pensare: «Non ti ho mai... fatto vedere il mare...»
E si chinò su sè stesso e Izou non riuscì più a sfiorarlo, confortarlo, e provò a rispondere: «Non importa...» Ma la voce gli mancava, e non riusciva più a vederlo.
Era caduto a terra, e aveva ancora una lacrima negli occhi. Non più sorriso, non più parole.
Non più carne da toccare.
I fantasmi non potevano piangere, e gli umani non sentivano le loro parole. Ma la gola di Ebisu risuonò di un lamento, un tuono un grido di animale ferito, che strappava l'anima e tremava solo a sentirlo.
La gola di Ebisu aveva imprigionato un'anima con catene di sangue.




Non c'era più niente da dire.
«E poi?» Provò il ragazzo.
«E poi niente.» Commentò dolcemente l'uomo con la benda. «Izou ha barattato la reincarnazione per salvare Marco, e ha fallito.» Dure, dure, dure parole. Ma non c'era modo più gentile.
La strada continuava. Erano ormai fuori dalla gola di Ebisu.
«Mi chiedo solo perchè il tuo clan pensava che Marco fosse il fantasma» si rivolse all'uomo che aveva raccontato alcuni ultimi spezzoni.
«Sapevamo solo la morte di Marco. La sua promessa, ciò che l'ha legato alla terra era solo... il mare.»

Non sanno quale sia la verità.
Non sanno che tra le ombre della gola di Ebisu non c'è un'anima.
Non sanno che due storie sepolte nella terra si stanno amando dell'amore dei vivi.





«Lo sai che se tenessi gli occhi aperti saremmo già arrivati, vero?»
Si acciglia a palpebre serrate, stringendo la mano che gli fa da guida. «E perdermi il colpo d'insieme? No, grazie.»
«Come vuoi» E il tono sorridente naufraga già nel frastuono sconosciuto che continua, potente e assordante, e rimbomba a ritmo con l'anima. 
Inciampa. La terra è cambiata.
«Cos'è, fango?»
La risata di Marco si perde nel vento e Izou resta incantato. Si leva le scarpe e il terreno è granuloso, gli si appiccica alla pianta dei piedi, e... «Scotta!»
Non fa in tempo a saltellare sul posto che la mano lo tira, lo trascina di corsa in avanti, verso la fonte del frastuono che urla, grida, sembra pronto a mangiarlo. Ma che ha da perdere? Ride e supera Marco, si butta nel vuoto. Dove starà mai andando?
La tentazione di aprire gli occhi è fortissima, ma stringe ancora la mano e corre, corre. Dritto nella gola dell'essere che gli sta urlando contro.
Mille colori, mille abitanti, aveva detto. Era proprio curioso di vederlo.
Ride, urla. Anche perchè i piedi gli stanno andando a fuoco.
«Aspetta, aspetta, aspetta!» Si sente tirare via ma è troppo tardi. Si schianta all'indietro contro il suo petto e intanto l'acqua gelata lo investe fino alle ginocchia ma è come se lo avesse coperto dalla testa ai piedi tanta è la sorpresa. Eccolo, eccolo!
Se avesse un cuore, lo sentirebbe battere all'impazzata, come il più potente dei tamburi di Koala.
«Siamo arrivati?» Qualcosa gli blocca il fiato, gli occhi ostinatamente chiusi.
Un'altra onda - ecco cosa faceva tanto rumore - sembra sommergerli mentre Marco gli sfiora l'orecchio con le labbra e Izou freme d'impazienza.
Sono a Sphinx.
Sono nella bella Sphinx, non più dimora di morte e tradimenti ma casa di bambini, di famiglie, di onde.
Delle gocce salate gli bagnano il viso, sembrano sussurargli qualcosa.
«Apri gli occhi.»

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