Birthday

di moira78
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Ringrazio di tutto cuore Sonietta74 che ha betaletto e "ripulito" minuziosamente ognuna delle 3 parti di questa mini fic da refusi, ripetizioni e qualunque altra cosa potesse appesantire la lettura.
 
28 Giugno 1891: esprimi un desiderio!

Il piccolo William Albert Ardlay, inginocchiato sulla sedia imbottita, guardava rapito la gigantesca torta di compleanno ricoperta di panna e frutta che, in mezzo al tavolo imbandito, sembrava proprio più alta di lui.

Se fino a poco prima si era sentito quasi in soggezione di fronte a tutte quelle persone serie e ben vestite, ora che aveva accanto Rosemary, il papà e Georges che gli sorridevano e lo incitavano a soffiare sulle tre candeline, si sentiva felice e spensierato.

Si raddrizzò il più possibile sulle ginocchia nude sotto ai pantaloni corti, senza quasi più accorgersi che il tessuto ruvido della poltrona pizzicava sulla pelle.

"Coraggio, figliolo, esprimi un desiderio", lo incitò il più anziano, il suo eroe. Il bambino lo guardò: era un po' chino su di lui, i capelli biondi pettinati all'indietro e gli occhi azzurri gentili; spostò lo sguardo sulla sorella maggiore, che quel giorno sembrava molto più grande della sua età con quel vestito da signorina, e su Georges, che rimaneva dritto e faceva un leggero sorriso sotto i baffi sottili.

Amava la sua famiglia, l'amava tantissimo; persino quella zia sempre un po' corrucciata che poche volte lo guardava con affetto e spesso lo sgridava per il suo comportamento: in quel momento era di fronte a lui, dall'altra parte del tavolo, a testa alta, ma la torta ne copriva quasi per intero la figura.

Non vedeva quasi mai altri bambini, però quelle poche volte che era accaduto gli avevano parlato di qualcuno che doveva essere molto speciale, ma che lui non aveva ancora conosciuto. Ed era certo che fosse milioni di volte meglio di qualsiasi giocattolo e persino di una corsa in mezzo ai prati, cosa che adorava davvero fare.

E fu così che il piccolo Albert, serrando gli occhi e soffiando con forza sulle candeline, desiderò ardentemente una mamma.
 
- § -
 
28 Giugno 1896: compleanno all'alba.

Li aveva sentiti discutere spesso. Anzi, in qualche occasione persino litigare. Le voci dei membri più anziani del clan tuonavano, tuonava la voce grossa della zia Elroy, mentre rimaneva pacata quella di Georges, che sembrava cercare sempre il modo per riportare la calma.

E aveva udito pronunciare il suo nome. Non quello che gli piaceva di più e con cui lo chiamava solo la sorella, ma l'altro, quello che avevano il padre e il nonno prima di lui. Pur essendo ancora troppo piccolo per capire appieno le argomentazioni, aveva colto il senso di quello che stava accadendo, ovvero che gli adulti non sapevano cosa fare di lui.

Qualche giorno prima, aveva visto Rosemary asciugarsi gli occhi con discrezione, mentre usciva da una di quelle stanze dove i membri del clan si riunivano. Aveva intercettato il suo sguardo abbastanza a lungo per capire che aveva partecipato a quel colloquio.

Nonostante fosse rimasta orfana anche lei. Nonostante stesse lottando contro tutti anche per se stessa e per la propria felicità. Albert, infatti, sapeva che la sorella si era innamorata e voleva sposare quello che il clan riteneva l'uomo sbagliato.

Sospirò, girandosi su un fianco nel letto: era il suo compleanno ma nessuno avrebbe festeggiato con il lutto ancora in corso. Il capofamiglia, il suo papà, il suo eroe era morto solo da pochi mesi e la famiglia, superato il primo momento di dolore, era caduta nel caos.

Pur essendo ancora molto giovane, aveva capito che non sapevano a chi affidare il patriarcato. Uno dei suoi precettori gli aveva spiegato che, molto probabilmente, gli affari sarebbero stati messi nelle mani degli anziani ma che lui, quale unico erede maschio, un giorno avrebbe preso il posto di William C. Ardlay.

Suo padre, che aveva visto così poco perché sempre immerso nel lavoro, ma dal quale aveva assorbito ogni singola briciola di affetto e di valore sfruttando i momenti insieme e dilatandoli nel tempo il più possibile. Suo padre, il cui posto era quasi stato preso dal buon Georges, che si sforzava di essere per lui quella figura che mancava.

Albert chiuse gli occhi sull'alba che stava tingendo di rosa il mondo fuori dalla finestra: non sarebbe stato il primo compleanno senza di lui, visto che in più di un'occasione era in viaggio. Ma ne aveva sempre avvertito la presenza con un regalo, un telegramma, un abbraccio, magari qualche giorno dopo.
Oggi la sua presenza non ci sarebbe stata in alcun modo.

Una lacrima solitaria attraversò pigra la guancia e si fermò sul naso; Albert l'asciugò con un gesto stizzito della mano. Gli avevano insegnato a essere forte e coraggioso. Lui glielo aveva insegnato. E lo sarebbe stato, sempre.

Mentre stava ancora decidendo se alzarsi o restare un po' sotto le lenzuola, udì bussare piano alla porta. Si voltò dall'altro lato chiedendosi chi potesse essere a quell'ora: "Avanti", rispose rompendo il silenzio della stanza.

Quello che vide lo stupì, tanto che per un attimo dimenticò i pensieri tristi. La sorella, ancora in vestaglia, stava entrando tenendo in mano un dolcetto sul quale c'era una candelina accesa. Si tirò a sedere, sbattendo le palpebre e aprì la bocca per parlare, ma lei si mise il dito sulle labbra richiudendo la porta dietro di sé.

"Cerchiamo di non fare troppo rumore, Georges mi ha già scoperta ma non ci tradirà. Buon compleanno, fratellino", disse avvicinandosi al letto e posando il dolce sul comodino.

Guardandolo, Albert ricordò che solo pochi anni prima, quando era ancora molto piccolo, aveva desiderato avere una mamma. In qualche modo, l'aveva avuta nella sorella, anche se ora non aveva più il papà. Non sarebbe stato certo un desiderio a riportarlo in vita, ma un sentimento di calore gli inondò il giovane cuore con potenza inaspettata.

"Grazie", mormorò nella penombra regalandole un sorriso e apprestandosi a spegnere la candelina.

"E il desiderio?", lo interruppe Rosemary sedendosi sul letto accanto a lui.

Albert le scrutò per un istante i luminosi occhi azzurri, le labbra incurvate in un sorriso, i capelli raccolti in modo sommario con un nastro. Pensò a Georges che, forse già chiuso in ufficio, non avrebbe mai detto a nessuno che la sorella stava festeggiando il suo compleanno con lui di nascosto, mentre era ancora l'alba.

"Non ho nulla da desiderare, ho già tutto", disse convinto, sapendo bene che sarebbe stato inutile nominare il loro papà rendendo triste anche lei.

Il sorriso sul suo volto si allargò e Rosemary lo strinse in un abbraccio, posandogli un bacio sulla testa e tirando su col naso. Non voleva farla piangere e soprattutto non voleva farlo lui, così cercò di rompere il momento emozionante staccandosi un po' dalle sue braccia e dicendole: "Ehi, ti andrebbe di dividere il dolce con me? Se è ripieno di cioccolata almeno la metà di quanto vedo basterà per tutti e due".

Rosemary ridacchiò, sembrava stupita: "Dovresti mangiarlo tutto tu, visto che è il tuo compleanno".

Albert scosse la testa e spense la candelina, quindi prese in mano il dolcetto e, aiutandosi con il fazzoletto che aveva sul comodino, lo divise in due dicendole: "È bello condividere le cose".

"Piccolo Bert...". Ora le scorgeva quelle lacrime, negli occhi della sorella. Ma non le lasciò cadere. "Mi dispiace di non avere un regalo per te".

"Questo dolce e la tua compagnia sono il mio regalo", ribatté mordendo la sua parte di dolce. Venne invaso dal sapore intenso della cioccolata, chiuse gli occhi e sospirò: "In cucina avevamo una cosa così buona e io non ne sapevo niente?", scherzò.

Rosemary sembrò imbarazzata mentre prendeva un morso molto più piccolo dalla sua metà: "Veramente... non lo avevamo fino a ieri. Anzi, fino a stanotte".
Albert smise subito di masticare, sbattendo le palpebre: "Vuoi dire che lo hai fatto tu?".

"Non si parla con la bocca piena", lo redarguì con dolcezza.

Inghiottì in fretta e ripeté: "Lo hai fatto tu stanotte? Per me?". Il fatto che la sorella gli avesse fatto una sorpresa infiltrandosi nella sua stanza per fargli una mini torta di compleanno era già sorprendente, ma che avesse cucinato il dolce era così... così incredibile!

"Sì, beh, avrai notato che non ha proprio una bella forma e che la cioccolata esce da un lato, ma ho seguito un libro di ricette e non pensavo che avrebbe lievitato abbastanza, ma...". Si interruppe, guardando in basso e arrossendo.

Albert posò con delicatezza il dolcetto e le si accostò per abbracciarla. Non ci pensò due volte a circondarla, emulando il suo gesto d'affetto, respirando il profumo di sapone e vaniglia che emanava. E anche di cioccolata.

"Grazie", bisbigliò con voce appena incrinata.

Fu lei a rompere il momento strofinandogli la mano sulla schiena e dicendo con voce sicura: "Allora, ometto, oggi hai otto anni. Vuoi che ti canti la canzone del compleanno?".

Gli occhi di Albert si spalancarono a dismisura: "Oh, no, non sono più un bambino!", protestò, imbarazzato.

"Dai, non dirmi che non ti piace più! Farò piano", promise facendogli l'occhiolino.

"Ma... ma...". Fu il suo turno di arrossire, però si godette la voce melodiosa di Rosemary intonare 'Happy Birthday', brano che gli avevano cantato in occasione dei suoi cinque anni* e anche nei successivi compleanni.

"Ora mangiamo il dolce prima che la cioccolata finisca per colare ovunque".

Albert le sorrise, sentendosi sereno e grato alla vita per la prima volta dopo settimane di oscura sofferenza: "Papà sarebbe orgoglioso di te", disse prima di potersi trattenere. Forse era un pensiero troppo da adulto, ma ne aveva colto il senso quando lui stesso glielo aveva ripetuto riferendosi ai suoi piccoli progressi nello studio.

Quando aveva imparato a scrivere il suo nome. Quando aveva imparato a leggere. Quando aveva iniziato a studiare le poesie imparandole a memoria. Gli aveva sempre detto che era orgoglioso di lui. E, anche se la sorella non aveva fatto nulla di tutte quelle cose, i gesti e le azioni gli fecero capire all'improvviso il significato profondo di quella parola.

Stavolta, il sorriso di Rosemary fu grande. Stavolta, gli occhi si illuminarono con lacrime di gioia. Stavolta, Albert capì che era diventato davvero un ometto e che, come lei cercava di proteggerlo, da quel momento in poi sarebbe stato in grado di fare altrettanto.

Sarebbero stati uniti da un affetto reciproco, per sempre.
 
                                                                                         - § -
 
28 Giugno 1903: buon compleanno, signorino William.

Di sicuro lo stavano cercando da ore, ma non gliene importava nulla. Gli dispiaceva solo far preoccupare Georges ma, se lo conosceva bene quanto credeva, avrebbe saputo di certo che era al sicuro tra i boschi di Lakewood.

Lì, nei pressi della capanna, c'erano tutti i suoi amici animali e lì, solo un paio di anni prima, aveva trovato Poupe: le si era subito affezionato ed era diventata la sua migliore amica. In quel momento, l'animaletto stava correndo sul prato per inseguire una farfalla e lui ne osservava affascinato le evoluzioni, seduto con la schiena poggiata al tronco di un albero, le braccia dietro la nuca.

Chiuse gli occhi, immerso nel profumo dell'erba e nel canto degli uccellini, godendosi quel contatto con la natura che lo rigenerava sempre dalle lunghe sessioni di studio. Dalla gola sgorgarono le note di una canzone che nessuno gli cantava più da anni, ma che quel giorno poteva ben canticchiarsi da solo, visto che compiva quindici anni.

Aveva appena attaccato l'ultima strofa, nella quale sarebbe dovuto comparire il proprio nome, quando udì una voce dall'alto pronunciarlo davvero: "Signorino William". Il tono era fermo e c'era solo una sfumatura di rimprovero.

Sospirò, interrompendosi e, senza aprire le palpebre, rispose: "È già ora di tornare a casa, Georges?".

"Temo di sì, sua zia è molto in pensiero e il suo insegnante di finanza ha minacciato di licenziarsi se salta un'altra lezione".

Albert sbuffò, facendo un gesto frustrato con le braccia: "Ne avrò saltate al massimo due!".

"Tre con oggi", lo corresse lui.

"E almeno il giorno del mio compleanno avrò diritto a una pausa?", terminò alzandosi in piedi e richiamando Poupe con un breve fischio.

"Signorino William, le ricordo che la sua educazione è indispensabile perché possa prendere le redini della famiglia quando diventerà maggiorenne", gli spiegò con un tono paziente che lo urtò ancora di più.

"Lo so", rispose asciutto passandosi una mano tra i capelli, accogliendo Poupe sulla spalla e lasciandosi annusare il viso da lei.

"E ho atteso comunque il tramonto per venirla a cercare, proprio per lasciarle i suoi spazi. Non è stato facile, mi creda". Quelle parole lo colpirono e si volse di scatto a guardarlo.

La sua figura era sempre impeccabile, l'abito nero stirato alla perfezione anche se doveva aver camminato a lungo nei boschi, per raggiungerlo dove solo lui sapeva si nascondesse. Aveva qualcosa sotto al braccio destro, avvolto da una carta color crema e il viso era composto, i baffi sempre ben curati.

Capì che gli doveva ogni singola ora di quel giorno passato in mezzo alla natura e si sentì in colpa: "Mi dispiace, Georges, ti ringrazio per quello che hai fatto", disse con sincerità, posandogli una mano sul braccio. Ormai era quasi alto quanto lui ma lo considerava davvero come un padre.

"Oh, a proposito", disse inarcando le sopracciglia e prendendo tra le mani il pacco che aveva sotto al braccio, "buon compleanno, signorino William".

Albert rimase senza parole. Georges gli stava facendo un regalo? Da quel che ricordava, era dall'età di cinque o sei anni non riceveva nulla da lui, perché gli anziani della famiglia avevano pensato bene di mettere in chiaro che non era più un bambino e non aveva bisogno di essere riempito di giocattoli. Da quel momento in poi, ogni dono era stato selezionato con attenzione, anche quei pochi ricevuti dopo la morte di suo padre, quando lo avevano nascosto al mondo.

Libri, penne d'oca, oggetti utili alla sua educazione e qualche freddo soprammobile per la stanza. Regali da patriarca che ancora non era.

Solo Rosemary si era premurata di donargli qualcosa realizzato con il cuore, perlomeno finché non era nato Anthony e non si era ammalata tanto gravemente da non potersi quasi più alzare dal letto, prima di lasciarli tutti nel dolore più profondo.

"Ti ringrazio, Georges, non dovevi...", mormorò confuso e commosso, mentre Poupe emetteva un verso stridulo sulla sua spalla, sporgendo la testolina come per guardare anche lei. "Posso aprirlo ora?", chiese.

"Sarebbe meglio", gli rispose guardandolo negli occhi e la curiosità di Albert ebbe la meglio sull'emozione. Sedette a terra per scartarlo e, quando vide la copertina di quel libro con così tante pagine, capì subito che lo avrebbe letto tanto da consumarlo.

"Un libro sugli animali e sulla natura! Georges ma è... bellissimo! Nessuno di quelli che abbiamo in biblioteca ha tante foto! E guarda le descrizioni dei luoghi! Sembra davvero di trovarsi in sud America, in Australia, in Africa...". Si sentiva di nuovo come un bimbetto che avesse ricevuto un bel giocattolo mentre lo sfogliava con avidità, individuando i titoli dei paragrafi che indicavano gli habitat degli animali e la flora tipica del posto.

"Sono felice che sia di suo gradimento, ma sarebbe opportuno che lo lasciasse qui nella capanna, dove può leggerlo con calma nei momenti di pausa, così da non interrompere gli studi", suggerì facendogli nascere una punta di delusione nel petto. Aveva intenzione di leggerlo nell'intimità della sua stanza, la sera, ma così sarebbe stato impossibile consultarlo se non nei fine settimana.

Però non voleva mettere Georges nei guai, così si alzò e annuì: "Va bene, vado a sistemarlo e ti seguo a casa", acconsentì. Fece un paio di passi verso la capanna ma ci ripensò e si volse verso di lui per guardarlo. Sapeva che non era tipo da lasciarsi andare a dimostrazioni d'affetto, tuttavia non poté fare a meno di abbracciarlo con il braccio libero mentre Poupe, forse infastidita dal movimento, saltava giù con uno squittio di protesta.

Lo sentì irrigidirsi alla sua stretta, ma non si sottrasse e borbottò una specie di "non c'è di che" imbarazzato.

Il sole continuò la sua discesa nel cielo, mentre tornavano camminando in silenzio, fianco a fianco. Albert ne assorbì il calore pensando che un giorno, prima di essere rinchiuso per sempre in quella gabbia dorata, avrebbe visitato tutti i luoghi descritti in quel libro. E, se non tutti, almeno la maggior parte.
 
- § -
 
28 Giugno 1906: alla salute!

"Allora? Parti domani?", gli chiese Jacob posando il boccale di birra con un forte rumore sul tavolo intorno al quale erano riuniti. La schiuma ondeggiò, ma il contenitore di vetro era pieno per poco più della metà quindi non si versò. Albert si chiese se l'amico sarebbe mai riuscito a finirla: lui aveva bevuto solo pochi sorsi dal suo bicchiere molto più piccolo e già si sentiva brillo.

"Sì, domattina vengono a prendermi", rispose guardandosi intorno con aria nervosa. Apprezzava moltissimo che, quella sera, i compagni di corso avessero voluto festeggiare il suo compleanno invitandolo a bere in un locale. Ma se i gestori si fossero accorti che erano tutti minorenni e che provenivano addirittura dalla prestigiosa Saint Paul School, li avrebbero cacciati all'istante: il fatto che non chiedessero i documenti ai più giovani poteva ritorcersi contro di loro al punto da farli chiudere, per non parlare delle rispettive famiglie. Rischiavano l'esilio in casa fino alla maggiore età, come minimo!

"Ehi rilassati, Albert!". La poderosa pacca sulla schiena gli fece andare di traverso il sorso di birra appena bevuto proprio con l'intento di rilassarsi e cominciò a tossire. Fantastico, era proprio la maniera peggiore di attirare l'attenzione! Il colpevole dell'incidente, seduto a destra, ricominciò con le pacche per indurlo a smettere, ma ottenne solo l'effetto contrario.

"Grazie, me la cavo da solo", disse tra i sussulti con voce strozzata, gesticolando con una mano.

"Oliver, sei il solito manesco!", lo redarguì Jacob strascicando le parole come se fosse sulla buona strada per l'ubriachezza.

"Ma no, è Albert che è troppo delicato", lo prese in giro il ragazzo, inarcando un sopracciglio scuro come i suoi capelli. "Dovresti mettere un po' di muscoli su quelle ossa, magari stando meno sui libri o sopra a un albero e facendo un po' di vera ginnastica. Lo sai che alle ragazze piacciono i fisici prestanti", terminò a voce bassa e con aria complice, accostandosi un poco come se gli rivelasse un segreto.

"Ma la tua è una fissazione!", protestò Albert guardando il soffitto.

"La ginnastica o le ragazze?", chiese lui confuso sbattendo le palpebre e raddrizzando la schiena.

"Entrambe", rise Albert scatenando le risate degli altri.

"Ehi, a proposito, ma tu ce l'hai mai avuta una ragazza?", gli chiese con una gomitata Stephen, alla sua sinistra.

"Io credo di no, a lui interessano solo gli animali e la natura", intervenne Jacob. Poi, come se gli venisse in mente un'idea geniale sporse il dito indice per indicarlo, senza lasciare il manico del boccale: "Lo sai che stanno aprendo un zoo in periferia? Potresti chiedere se ti assumono lì quando avrai finito gli studi, se non ti va di lavorare nelle aziende di famiglia".

Albert rimase affascinato da quella possibilità, anche se pensare agli animali chiusi in delle gabbie lo rendeva malinconico. "Sì, ne ho sentito parlare", rispose giocherellando col bicchiere, grato all'amico per quel diversivo. "Mi pare che lo chiameranno Blue River, o qualcosa del genere. L'inaugurazione dovrebbe esserci...".

"Ma chi se ne importa dello zoo?", lo interruppe Stephen. "Qui vogliamo sapere se sei mai stato fidanzato!", ridacchiò battendo le nocche sul tavolo come per sottolineare l'importanza della domanda.

Albert s'irrigidì, capendo che doveva rispondere. "No", disse, portandosi di nuovo il bicchiere alle labbra e attirandosi esclamazioni di protesta da parte degli amici.

"E dai, Albert, sarai stato innamorato qualche volta! Che mi dici di quella ragazza francese che ti fa gli occhi dolci e sospira ogni volta che ti vede... come si chiama?", chiese Oliver schioccando le dita.

"Amélie", risposero lui e Jacob nello stesso momento. I loro sguardi s'incrociarono e sorrisero. La ragazza dagli occhi nocciola era piuttosto popolare e non poteva dire che gli fosse indifferente, specie perché era abbastanza palese che fosse attratta da lui. Ma era il suo compagno di corso quello davvero innamorato.

"È solo al primo anno, è troppo giovane", ribatté al suo posto, ravviandosi i capelli castani che gli ricadevano sulla fronte in ciocche ribelli. All'improvviso, sembrava di nuovo lucido.

"E credi che qualche anno di differenza possa essere un problema se c'è l'amore?", domandò con tono romantico Stephen alzando le spalle.

"No, ma avere origini inglesi invece che scozzesi sì", rispose enigmatico, tornando serio.

Albert s'irrigidì, poi l'amico scoppiò a ridere e capì che il gioco tra loro era sempre lo stesso. Per il momento, il fatto che la ragazza fosse invaghita di lui invece che di Jacob non aveva intaccato la loro amicizia. Sperò che accadesse mai e che magari, durante l'estate, la ragazza lo avrebbe dimenticato.

"Bene, quindi Amélie è esclusa", continuò Stephen. "Allora? Chi è la fortunata?".

Lui si voltò per guardarlo, allargando le braccia: "Non c'è una fortunata! Devo essere innamorato per forza? Non potremmo solo cambiare argomento?". Sperava di essere bravo a mentire.

Il ragazzo alla sua sinistra si accigliò per qualche istante, come riflettendo, quindi fece spallucce e si arrese: "Bene, allora parlaci della tua fantastica residenza scozzese dove passerai le vacanze. Spero per te che lì ci siano delle ragazze", concluse ridacchiando e trascinando anche gli altri.

In Scozia non c'erano delle ragazze. In Scozia c'era lei, pensò Albert e dovette distogliere gli occhi per non tradirsi. Ellie, dai capelli color mogano che le scendevano sulle spalle in una cascata soffice nella quale voleva solo affondare le dita.

Ellie, che era stata la protagonista dei primi turbamenti e di molti dei suoi sogni.

La gomitata di Stephen gli indicò che fissava la birra da troppo tempo e nessuno avrebbe creduto che si concentrasse solo sulla descrizione della sua residenza scozzese. Per un attimo rimasero tutti lì, in attesa, a fissarlo: tre paia di occhi maliziosi con tanto di sorrisetti complici.

Albert si schiarì la voce: "La residenza è molto grande e c'è un ampio giardino...", cominciò.

"E di che colore ha i capelli?", buttò lì Oliver con tono causale.

"Ross... cosa?!". Dannazione!

"A-ah!", esultò lui indietreggiando con tutta la sedia per puntargli meglio addosso il dito indice. "Hai detto rossi!".

"Mi riferivo... alla facciata della villa". Quell'affermazione suonò quasi come una domanda e si rese conto da solo che si era lasciato ingannare. Fu costretto a raccontare che l'aveva vista solo una volta, un paio di anni prima, in occasione di una vacanza. Omise il fatto che non aveva neanche potuto parlarle e che l'aveva solo scorta da lontano, mentre cavalcava all'amazzone con la scia della sua incredibile chioma che la seguiva come un mantello.

"Quella ragazza non fa per te, William", aveva detto la voce altera della zia Elroy alle proprie spalle, il giorno che lo aveva sorpreso a spiarla dalla finestra. Imbarazzato per essere stato colto in flagrante e anche piuttosto deluso, l'aveva ascoltata spiegargli che apparteneva a una famiglia di nobili decaduti che viveva in una città vicina e che non era all'altezza del patriarca degli Ardlay. "Ma non preoccuparti", aveva proseguito, "quando arriverà il momento ti presenteremo le donne giuste dell'alta società di Chicago e anche di Glasgow, se vorrai".

Quel giorno, Albert aveva capito ancor più duramente quanto fosse prigioniero della sua stessa famiglia: Rosemary, seppure per poco tempo, era stata felice con l'uomo che amava. Per lui non ci sarebbe stato alcun batticuore, nessuna scelta. Si sarebbe mai innamorato di una di quelle donne altezzose che gli capitava di vedere di nascosto alle feste? Non poteva nemmeno partecipare a quei ricevimenti e solo l'anno prima era persino fuggito, facendo preoccupare a morte Georges.

Se solo fosse stato libero di esprimersi come la bambina che aveva incontrato allora! Non doveva avere più di cinque o sei anni, ma poteva piangere, ridere e chiacchierare senza limiti. Correre libera per i prati, essere se stessa.

E lui, chi era davvero? Una specie di fantoccio, plasmato dal clan, senza una personalità?

"Ehi, amico, tutto bene? Ti senti male?".

Stavolta la sua mente doveva essersi assentata più a lungo in quei pensieri foschi, perché Jacob sembrava davvero preoccupato. Chissà che faccia doveva avere! Rilassò la fronte, contratta in un cipiglio profondo e si sforzò di sorridere.

"Scusate, credo che la birra mi abbia dato un po' alla testa".

"La birra o la rossa della Scozia?", scherzò Oliver facendogli l'occhiolino.

"Se ti rispondo: tutte e due, la smettete di farmi l'interrogatorio?", disse con un sorriso.

"Oh, va bene, il compleanno è tuo e non abbiamo ancora fatto un brindisi!", rispose lui alzando il boccale e invitando gli altri a farlo.

Un po' imbarazzato, Albert li imitò e i bicchieri si unirono in un fragoroso cin cin alle parole: "alla salute!".

Mentre gli amici si alzavano per dargli altre pacche sulle spalle e spintonarlo giocosamente, facendogli gli auguri più sinceri e rumorosi che avesse mai ricevuto, Albert pensò che, dopotutto, era bello avere qualcuno che lo trattasse come pari e lo chiamasse con il nome che amava.

Sospettava che entro l'anno successivo, quando il college fosse terminato, la sua solitudine sarebbe stata ancora più profonda.
 
- § -
 
28 Giugno 1909: regalami la libertà.

Albert chiuse il libro di economia con un gesto stizzito e un forte tonfo, passandosi una mano tra i capelli. Appoggiò il gomito sulla scrivania e il mento sulla mano, guardando fuori dalla finestra: voleva solo uscire fuori e respirare.

Respirare aria pura.

La zia Elroy lo attendeva nella sua stanza entro quindici minuti e lui aveva ripassato mentalmente decine di volte, di notte e di giorno, ciò che le avrebbe detto. Alla fine, il momento della vera libertà era arrivato.

Non la Saint Paul School di Londra, che era una specie di fuga fittizia, sempre con qualcuno a controllarlo da lontano. Non le estati in Scozia, dove aveva dovuto ricacciare indietro a forza il tenero sentimento che a malapena era sbocciato per Ellie Anderson. Non i boschi di Lakewood, dove comunque qualche volta sarebbe sempre tornato.

Ma il mondo nella sua interezza.

Voleva visitare il sud America, L'Europa; diamine, persino l'Africa selvaggia che era quanto di più vicino alle sue corde ci fosse. Voleva sentire il calore delle savane dove, come aveva letto nel libro ricevuto in regalo Georges qualche anno prima, si potevano ammirare i leoni prendere il sole.

Albert guardò con nervosismo l'orologio sulla mensola del camino seguendo il percorso delle lancette, quasi fosse un magico conto alla rovescia. Sperava solo che Georges lo supportasse come aveva sempre fatto e promesso: la verità era che non gli aveva detto quanto lontano volesse spingersi.

Quando le note melodiose dell'orologio indicarono le tre in punto, Albert si alzò. Si allentò un poco la cravatta e sistemò la giacca estiva che gli procurava un caldo infernale. Un piccolo prezzo da pagare per parlare con la zia e avere finalmente il suo regalo di compleanno.

Il suo vero regalo di compleanno.

Camminò lungo il corridoio con il cuore che batteva all'impazzata e, poco prima di giungere alla porta della stanza, vide Georges sbucare, in perfetto orario, dall'angolo opposto. Lo guardò per un attimo, coprendo in pochi passi gli ultimi metri; i loro occhi s'incontrarono di nuovo prima che lui, con una mano, gli facesse cenno di bussare.

Albert fece un respiro profondo, sapendo che stava per affrontare la sua prima, vera battaglia da adulto.

Batté le nocche con discrezione un paio di volte e la voce della zia Elroy lo invitò a entrare. Lo fece, con Georges che lo seguiva.

"Buon pomeriggio, zia", salutò. Lei era seduta sulla sua poltrona preferita, la cameriera stava versando il tè nelle tazze del prezioso servizio cinese in porcellana.

"Buon pomeriggio, caro nipote. Lascia che ti porga i miei più sinceri auguri di buon compleanno", disse in tono formale e con una punta misurata di affetto.
In pochi istanti, la mente di Albert volò agli auguri ricevuti, tanti anni prima, da suo padre e dalla sorella. Persino Georges aveva impresso più spontaneità nei suoi. Ma era come se, crescendo, si stesse già trasformando in quel capofamiglia che volevano e sostituissero il rispetto alle emozioni.

I saluti di rito passarono anche tra Georges e la zia, e Albert attese con pazienza che la cameriera uscisse. Il tavolino nella stanza era in legno scuro e, oltre al servizio da tè, erano stati lasciati alcuni pasticcini. Le tazze fumavano ma nessuno diede cenno di iniziare: era come se quella merenda fosse un pretesto per introdurre il discorso della zia Elroy.

"Bene, William", esordì infatti ponendo le mani ai lati della tazza ma senza sollevarla. Gli occhi grigio scuro si piantarono nei propri e lui si ritrovò a trattenere il respiro. "Da oggi sei ufficialmente maggiorenne, quindi potresti presentarti ai membri del clan e prendere il comando...".

Potresti? La zia aveva detto potresti? Quindi significava che non sarebbe accaduto... All'improvviso, Albert si ritrovò a essere confuso e si voltò verso Georges che sembrava non aver cambiato affatto la sua espressione seria da quando si erano seduti. Pareva persino sereno.

Come se sapesse.

"...tuttavia", continuò la zia richiamando la sua attenzione, "sappiamo entrambi che non sei ancora pronto ad assumerti una responsabilità così grande e a mostrarti alla società. I tuoi studi sono completi, ma manchi ancora dell'esperienza necessaria per comprendere appieno i meccanismi delle nostre aziende e degli investimenti. So che Georges ti ha istruito sui rudimenti ma la strada da fare è molta, hai bisogno di essere affiancato e di fare pratica".

"Capisco, zia", ribatté cercando di mostrare un'espressione neutrale, non sapendo bene dove volesse andare a parare. Voleva costringerlo a studiare ancora, nascondendosi come un ladro nella sua stessa casa o in qualche altra università prestigiosa?

"Inoltre", continuò aggrottando le sopracciglia in un'espressione grave, "c'è anche la questione della tua... maturità. Continui a comportarti come un ragazzino capriccioso e questo non è certo il contegno di un patriarca che si rispetti".

Albert s'irrigidì: l'uomo dentro di sé provò un moto di ribellione ma il giovane indomito fece un salto di gioia. "Significa che non sono costretto a salire al patriarcato adesso?". E che non doveva discutere per avere uno o due anni sabbatici?, aggiunse dentro di sé. Ma a quale prezzo?

"No, in un certo senso tutto continuerà come prima ma farai delle esperienze sul campo. Georges ti condurrà con sé per ampliare le nostre società, presentandoti come giovane praticante e tu avrai modo di imparare ed entrare nell'ottica di ciò che sarà il tuo futuro. Se acquisirai un certo... rigore anche mentale, entro due o tre anni al massimo potresti essere in grado di...".

"Avrei un'altra proposta", esordì Albert cercando di controllare il respiro. Gli sembrava di soffocare: fin da bambino lo stavano preparando per quell'unico scopo e adesso veniva fuori che non era ancora finita. Che non era ancora il patriarca. Che non poteva ancora decidere della propria vita. Oppure sì? Forse, dopotutto, quella novità poteva essere sfruttata a suo vantaggio...

La zia inarcò così tanto le sopracciglia, che per un attimo pensò le sarebbero sparite oltre la fronte: "Una proposta?", ripeté come se stesse usando un termine straniero o a lei sconosciuto.

"Sì, zia, una proposta. Oggi è il mio compleanno e compio ventuno anni, la maggiore età. Ti chiedo di farmi un unico dono, in questa occasione: regalami la libertà". Fu più facile di quel che si aspettasse.

"La libertà?". Quella senza fiato, ora, sembrava la zia.

Albert prese coraggio e continuò: "Sì, te l'avrei chiesto comunque ma visto quello che mi hai appena detto le cose saranno più facili. Ecco la mia proposta: io seguirò gli affari con Georges per capire come funzionano le nostre aziende, ma nello stesso tempo sarò libero di fare la vita che desidero quando non ci sarà da lavorare. E questo fino a che non riterrete che io sia pronto per prendere il comando. Che ne pensi?".

Nel momento in cui la zia Elroy si alzò facendo allontanare la sedia con un forte rumore e quasi rovesciandola, Albert capì che era andato bene fino alla domanda finale: quella non avrebbe dovuto porla perché si era scavato la fossa da solo.

"Sei impazzito, William?!", chiese e lui poté vedere ogni singolo tendine del collo irrigidirsi come se volesse uscire fuori dal sottile strato di pelle.
Al contrario di ciò che pensava, Albert avvertì invece una grande calma scendere dentro di sé. D'improvviso, tutto gli fu chiaro come un vetro ben lucidato attraverso il quale vedeva il suo futuro, luminoso e soprattutto suo. Per la prima volta in ventuno anni aveva le redini della propria vita, e le avrebbe tenute salde tra le mani, non permettendo più a nessuno di prenderle per guidarlo.

Mai più.

Con la coda dell'occhio, colse l'espressione di Georges mutare appena: si trattava solo di una tensione impercettibile delle labbra sotto ai baffi, ma lui che lo conosceva bene capì che stava prestando tutta l'attenzione a quel momento cruciale.

"No, zia, non sono impazzito. Ma so quali sono i miei diritti da oggi in poi", ribatté con tono calmo e gentile, alzandosi anche lui e rimarcando così il concetto appena espresso ma senza perdere il sorriso.

"Diritti?!", ripeté lei come se non sapesse più cogliere il senso di alcuna parola.

"Sì, zia. Sono maggiorenne e anche se non sono ancora il patriarca in maniera ufficiale, sono l'unico erede maschio di William C. Ardlay, mio padre. Ciò significa che si avvera la leggenda del vecchio zio William inventata in tutti questi anni: la sua parola è legge e il clan deve solo eseguire". Sapeva che stava calcando un po' la mano, ma era quello che gli avevano insegnato e che, di fatto, accadeva dalla morte del padre.

Quella figura di fantasia, allora, era rappresentata solo da un bambino di otto anni smarrito e disperato per essere rimasto orfano. Oggi poteva prendere vita, come una marionetta che finalmente trovasse una scintilla propria e non fosse più manovrata dal burattinaio. O dai burattinai.

"E cosa vorresti comandare, tu?", sbottò lei battendo un pugno sul tavolo con discreta forza, facendolo quasi sussultare. La stava facendo arrabbiare, ma se avesse fatto marcia indietro sarebbe stato perso per sempre. "Tu, che a malapena ti rendi conto dell'immensa fortuna e della responsabilità che possiedi fra le mani? Tu, che te ne vai in giro per i boschi a giocare con quegli... animali puzzolenti sedendoti sull'erba come un plebeo qualunque?!".

Albert tentò d'ignorare la rabbia e si rese conto che, nonostante ne avesse accumulata molta, poteva controllarla se solo lasciava che la ragione avesse il sopravvento. E la ragione gli diceva che era lui ad avere il coltello dalla parte del manico.

"Mi piace la natura, amo il vento, il profumo dell'erba e il sole. Non ci vedo nulla di strano in tutto questo. Ma so abbastanza di economia e di intermediazioni bancarie per dirti che dovremmo spostare la nostra attenzione sulle azioni del mercato delle automobili". A quell'affermazione, la zia rimase in silenzio. Le sarebbe bastata una minima dimostrazione delle sue competenze per farle capire che non era uno sprovveduto come pensava.

Eppure, i suoi occhi spalancati saettarono verso Georges come per chiedere una conferma. Lui non si fece attendere: "È vero, signora, ho mostrato a William i rapporti sulle statistiche del mercato proprio in questi giorni e devo dire che la sua intuizione corrisponde in maniera impeccabile a quella di alcuni dei membri più anziani del clan".

Lo stupore lasciò il posto a un'espressione grave, sul volto della zia: "Una buona intuizione non significa che possa decidere...".

Albert odiò che parlasse di lui a Georges come se non fosse presente, quindi riprese in tono educato ma fermo: "Ma posso decidere, zia. Attualmente sono il membro più importante degli Ardlay, la mia carica equivale a quella che aveva mio padre".

Il silenzio calò nella stanza; per Albert sostenere le sue ragioni e lo sguardo della zia fu un peso notevole. Non gli piaceva usare la propria autorità in quel modo, pensava che in futuro l'avrebbe fatto solo se e quando fosse stato davvero necessario. Quel pomeriggio stava difendendo i propri interessi, la sua stessa integrità. Aveva smesso di farsi manovrare: d'ora in avanti sarebbe stato padrone della sua vita. E le stava dicendo, in tono neanche troppo velato, che al momento la propria carica era maggiore della sua.

Le rughe sul volto duro della donna si approfondirono, un rivolo di sudore le attraversò, quindi si rilassarono e con voce più pacata chiese: "Conosci le regole, William, non è vero? Niente colpi di testa. Niente più fughe". Su quell'ultimo concetto gli occhi lanciarono lampi di avvertimento.

I colpi di testa per la zia equivalevano a lasciarsi trasportare da sentimenti amorosi per qualcuna che non fosse del rango giusto. Le fughe invece erano quelle che lo avevano portato fuori Lakewood almeno in un paio di occasioni.

"Conosco le regole", rispose senza promettere nulla. Come poteva garantire di comandare il cuore, seppur fosse rimasto così scottato che non pensava lo avrebbe più lasciato andare con la medesima facilità? E come poteva giurare che non sarebbe andato fin nei luoghi che sognava di visitare, anche se non fosse stata una vera fuga?

La sua risposta non era una promessa, però parve bastare alla zia, che fece un respiro profondo prima di sedersi: "Georges", chiamò chiudendo le palpebre come se non riuscisse a guardare la realtà.

"Signora".

"Ti raccomando William ancora più di prima. Sii il suo tutore e braccio destro finché non arriverà il momento. So che hai già promesso al mio povero fratello ma oggi, a fronte di questa sua richiesta così... particolare, mi trovo a rinnovarla personalmente". La zia riaprì gli occhi. "Avrai cura di lui?", domandò con una punta di preoccupazione.

Mentre Georges le rispondeva di non temere, che sarebbe stato sempre un piacere e un onore, Albert si chiese di nuovo quanto interesse verso gli affari di famiglia e quanto reale trasporto umano ci fosse in sua zia.

Da quando era morta anche Rosemary, pur maturando, gli era rimasta la sgradevole sensazione di aver perso l'ultima persona che gli avesse mai mostrato un affetto vero e disinteressato. Percepiva quello di Georges, ma era così riservato e compìto che non era la stessa cosa. La zia Elroy, poi, aveva un modo tutto suo di comportarsi, viste anche l'età e la maniera di porsi piuttosto fredda.

Uscendo dalla stanza vittorioso e libero come desiderava, Albert capì che aveva già ottenuto più di quanto sperasse e non aveva di che lamentarsi. Finalmente era fuori da quella specie di gabbia dorata: e se la sarebbe goduta, la sua libertà, fino a che fosse durata.
 
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28 Giugno 1912: resto per il mio compleanno.

Il cucciolo di cervo mangiava dalla sua mano un pezzetto di mela, facendogli il solletico sul palmo ogni volta che la piccola lingua saettava per afferrare un boccone. Era stato molto fortunato ad averlo trovato prima che la ferita s'infettasse.

In apparenza, il cerbiatto era rimasto con una zampa incastrata tra le rocce, dopo essere scivolato sull'argine del fiume. Era solo e non sapeva dove si trovasse la madre, ma per lasciare un cucciolo che a malapena masticava cibo solido doveva essere morta. Per fortuna doveva avere almeno un anno, altrimenti Albert sarebbe stato costretto a cercare del latte fresco e non era semplice visto il modo in cui viveva.

Mentre l'animale gli lasciava la mano e si rannicchiava vicino al fuoco acceso, rifletté che era la seconda volta in pochi giorni che salvava una giovane vita vicino al fiume: la prima era stata quella di Candy.

Dopo tanti anni, aveva finalmente scoperto il nome di quella bambina che tanto lo aveva colpito il giorno in cui era scappato da casa.

Albert appoggiò la schiena al tronco dell'albero e ripiegò le ginocchia intrecciandovi sopra le mani, pensieroso. A volte il destino aveva davvero uno strano modo di agire. La bambina della collina era stata adottata nientemeno che dai Lagan e non era sicuro che fosse una buona notizia, visto quello che gli aveva riferito: veniva trattata come una specie di domestica e non come una figlia.

Anche se la conferma che fosse la stessa ragazzina gli era arrivata dalla spilla che portava al collo, Albert ammise che era difficile dimenticare quel visino pieno di lentiggini su cui spiccavano occhi tanto luminosi. Seppur di colore differente, gli avevano ricordato subito Rosemary e quel particolare gliel'aveva fatta sentire più vicina.

Se la prima volta era stato invaso dall'affetto e dalla simpatia quando aveva paragonato il suono della cornamusa a quello delle lumache striscianti, ora era nato in lui un forte istinto di protezione. Sperava che il trucco della bottiglia funzionasse davvero e che, dal lago, qualunque suo messaggio gli arrivasse fin lì.

Si era detto che, il giorno del suo compleanno, sarebbe partito dai boschi di Lakewood per spingersi più a sud, soprattutto perché nei paraggi aveva sentito alcuni spari dai fucili dei cacciatori e voleva portare gli animali in un posto più sicuro della vecchia capanna.

Ma l'arrivo di Candy aveva cambiato tutto e il sole era appena tramontato sui suoi ventiquattro anni senza che lui si spostasse.

Perché ora aveva un motivo per restare nei pressi di Lakewood.

Sorrise dietro la barba folta al ricordo di lei che sveniva per due volte credendolo un orso o un pirata, ma poi si adoperava per lucidare la capanna da cima a fondo con una spontaneità e una gratitudine che lo avevano commosso.

Gli aveva detto che erano uguali, entrambi soli e senza una casa.

Albert capì all'improvviso che, oltre alla propria libertà, nella vita avrebbe potuto avere anche un altro scopo prima che i doveri della famiglia lo risucchiassero del tutto: rendere felice la piccola Candy.

Non sapeva ancora in che modo o con quali mezzi, ma per la prima volta desiderò qualcosa che non lo riguardava direttamente.

Il suo sorriso.

Quel sorriso così limpido e spensierato che gli parlava di una ragazzina forte nonostante le avversità. Quel sorriso che aveva un valore inestimabile proprio perché nato tra le rocce come un fiore orgoglioso.
 
- § -
 
28 Giugno 1915: un lunedì come un altro.

Il sole che gli colpiva gli occhi lo costrinse a svegliarsi, anche se non ne aveva troppa voglia: in realtà, quella stanza era così calda, che a malapena l'aria che entrava dalla finestra socchiusa era sufficiente a renderla accogliente.

Si era addormentato molto tardi, nonostante la testa sembrasse volergli scoppiare e adesso non sapeva neanche che ore fossero. Si sedette sul letto e gli parve ironico che in quella specie di magazzino avessero piazzato un calendario ma non un orologio. Scoccò un'occhiata e si rese conto che era il 28 Giugno, un lunedì: ecco perché ancora non era arrivata.

Sapeva che ormai, da quando si era diplomata, era l'unica a occuparsi di lui. Nonostante ciò, da quanto gli aveva riferito, il lunedì mattina aveva comunque delle incombenze da svolgere in reparto.

E se ancora non era arrivata a svegliarlo con la sua dirompente allegria, significava che era presto. O che non sarebbe venuta.

Quell'improvvisa consapevolezza gli fece correre un brivido lungo la schiena: sapeva che la dedizione di Candy nei suoi confronti sarebbe stata una cosa passeggera, il tempo di ristabilirsi e uscire dall'ospedale. Ciononostante si sentì come se stesse precipitando nel vuoto, in maniera simile a quando tentava di ricordare il suo passato e gli sembrava di essere risucchiato da un buco nero.

Fece un profondo respiro, alzandosi per guardare fuori dalla finestra: il sole non era molto alto. Dopotutto, non aveva dormito quanto credeva. In compenso, i sogni agitati nei quali correva senza una meta erano tornati. In quegli incubi sapeva che c'era qualcosa di urgente e importante che doveva portare a termine, ma non sapeva di cosa si trattasse e questo non faceva che aumentare la sua ansia.

Sedette sul letto, frustrato, passandosi una mano tra i capelli e poggiando i gomiti sulle ginocchia. Candy gli aveva offerto un nome. Candy gli dava sempre una speranza. Ma, soprattutto, Candy gli regalava quei sorrisi e quell'allegria che a lui mancavano totalmente.

Faceva fatica ad ammetterlo, ma se non ci fosse stata lei, forse si sarebbe lasciato morire.

Che senso aveva vivere la vita di un uomo senza passato che, oltretutto, veniva trattato come un delinquente? Come poteva trovare il suo posto nel mondo se tutti, tranne lei, lo guardavano con sospetto? Ma Albert, come lo chiamava Candy, non poteva e non voleva restarle aggrappato ancora a lungo.

Più tempo fosse passato e più sarebbe stato difficile lasciarla. Sapeva che era necessario per il suo bene: non aveva nulla da offrirle, se non un cuore che si gonfiava, ogni giorno di più, di un sentimento proibito che era quanto di più dolce si meritasse un uomo come lui.

E non era una mera questione di differenza di età, anche se dubitava di avere più di trent'anni.

Candy era una ragazza piena di vita con un futuro luminoso davanti, si meritava qualcuno che potesse darle delle certezze, una posizione, una famiglia...
Lui era il signor "Nessuno" proveniente da un incidente ferroviario in Italia che, a parte la parola "Chicago" nel suo delirio, non aveva altro a identificarlo. Poteva essere nato in quella città o essere davvero un malavitoso che avesse affari lì.

Non avrebbe potuto mai rovinare la vita di una ragazza così speciale lasciandosi andare ai sentimenti. Né il suo cuore le apparteneva se non come paziente che somigliava a suo fratello. In parole povere, aveva la dedizione di Candy, la sua pietà, magari anche un po' di affetto. Ma non avrebbe mai potuto sperare in nulla di più.

"Forse dovrei andarmene oggi stesso", mormorò lanciando l'ennesima occhiata al calendario. Sarebbe stato perfetto: lei era impegnata in un'altra ala dell'ospedale o forse non sarebbe persino più andata da lui.

Albert rimase per lunghi istanti col viso rivolto verso quel pezzo di carta fissando la data con le mani giunte davanti alla bocca, forse riflettendo, forse persino pregando Dio di dargli quella forza. Ma le dita divennero gelide, nonostante il caldo, al solo pensiero di separarsi da Candy e si accorse con stupore che le lacrime gli stavano salendo agli occhi appannandogli la vista. Li chiuse, lasciandole scivolare lungo le guance nella loro amara carezza e capì che non era pronto.

Non ancora.

Oppure era già andato oltre. Quando aveva permesso al suo cuore di provare tanto trasporto per lei? Possibile che, da quel pomeriggio di alcuni mesi prima, voltandosi mentre fissava l'esterno con aria assente da quella stessa finestra, avesse posato lo sguardo sull'unica ragione di quella vita vuota che aveva?

Albert si passò le mani sul viso, scuotendo la testa: alternava momenti di fragilità come quello, ad altri nei quali era davvero determinato a vagare per il mondo in cerca di se stesso. Lontano dalla Chicago che tanto aveva invocato. Lontano dagli occhi gelidi delle persone che lo additavano come spia.

Lontano da Candy.

Però non sarebbe stato oggi. No.

Oggi aveva ancora bisogno di dissetarsi con la sua voce fresca e ridente, di specchiarsi nei suoi prati verdi più brillanti del sole stesso e assorbire da lei quella voglia di vivere che a volte gli mancava enormemente.

Non sapeva cosa gli avrebbe riservato il destino, una volta lontano, ma di una cosa era certo: non l'avrebbe mai dimenticata.
 
- § -

* Secondo Wikipedia la canzone Happy Birthday fu composta nel 1893 da due sorelle originarie proprio degli Stati Uniti
 

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


7 Maggio 1916: di chi è il compleanno?

Albert ricontrollò l'incarto nel quale aveva riposto la cena ancora calda, per essere sicuro che nulla potesse fuoriuscire durante il tragitto verso casa. Sistemò meglio una ciotola su un'altra affinché fossero dritte e fu in quel preciso istante che udì ridacchiare il collega alle sue spalle.

"Se continui a controllare che siano impilati bene, arriverai a casa dopo mezzanotte, quando il compleanno della tua fidanzata sarà ormai passato", rise ancora colpendolo con il gomito.

Non sapeva se gli fosse mai accaduto prima, ma in quel momento Albert si sentì avvampare fino alla radice dei capelli: "Non è la mia fidanzata", balbettò prendendo finalmente sottobraccio la busta.

"Certo, certo, e io non sono un aiuto cuoco. Ehi, ti sei ricordato la zuppa che le piace tanto?", chiese facendogli l'occhiolino.

"Sì, grazie", rispose. Raddrizzò la schiena e si avviò verso l'uscita: l'ultima cosa che voleva era intrattenere una conversazione riguardo la natura del suo rapporto con Candy. Era già abbastanza complicato così.

E doloroso. A tratti era stato davvero doloroso. Specie durante l'inverno appena passato.

Quando alla fine riuscì a incamminarsi, dopo un saluto veloce, la mente volò proprio a quel periodo: Candy sembrava sorridere per forza, solo per comunicargli che ce la stava mettendo tutta, grata di ciò che stava facendo per lei.

Ci erano voluti mesi perché quel sorriso diventasse luminoso e spontaneo come un tempo e, anche se Albert sapeva bene che non aveva ancora dimenticato del tutto Terence, si era reso conto che il momento più duro era superato.

Ogni volta che gli rivolgeva quel sorriso, il proprio cuore le apparteneva un po' di più e le illusioni diventavano più forti. Ma aumentava anche la consapevolezza che, come già si era ripetuto quando era in ospedale, non aveva nulla da offrirle, nemmeno un cognome.

Quei pensieri si rincorrevano a ogni ora del giorno nel suo cervello difettoso, mandandolo in confusione di continuo e facendogli desiderare solo di poter congelare il tempo. Cominciava a temere persino il momento in cui avesse recuperato la memoria: e se fosse stato davvero un delinquente? O avesse avuto già una famiglia, magari addirittura dei figli? L'avrebbe persa per sempre!

Albert alzò gli occhi verso le finestre: ormai era arrivato a casa. Sì, l'unica che conoscesse e l'unica in cui voleva continuare a tornare ogni sera. Era certo che in lui convivessero due spinte uguali e opposte: da una parte quella che lo costringeva in modo naturale a ricordare; dall'altra quella che lo frenava con decisione per timore di perdere Candy.

Salì le scale di corsa, bilanciando il pacco su un braccio e infilando la chiave nella serratura con la mano libera. Se i suoi calcoli erano esatti, aveva circa mezz'ora prima che l'infermiera del suo cuore uscisse dalla Clinica Felice per raggiungerlo a casa.

Da un lato, era lieto che Candy avesse insistito per andare a lavoro, nonostante il dottor Martin le avesse suggerito un giorno di vacanza per il suo compleanno. Albert posò l'incarto sul tavolo e andò a cercare la tovaglia a fiori in cucina. La stese e cominciò a disporre i piatti già pronti.

Quel giorno aveva chiesto e ottenuto di poter utilizzare la cucina durante le pause, così da preparare per tempo la cena che voleva, cosa impossibile quando fosse rientrato. Di solito, nei turni pomeridiani si organizzava con pietanze semplici, per far trovare a Candy un pasto caldo.

Ma quello era un giorno speciale e chiedere di approfittare delle cucine del ristorante era stato il suo personale colpo di genio.

Posizionò le posate e i bicchieri, poi corse nella propria stanza, dove teneva custodito in un cassetto il regalo per Candy. Si trattava di qualcosa di piuttosto semplice, ma scelto con estrema attenzione, che sperava le facesse piacere. Lo aveva davvero fatto con tutto il cuore.

Lei rientrò proprio mentre posava il regalo a un angolo della tavola. Dal fiume di parole e saluti interrotto in modo brusco e dai suoi occhi sgranati, Albert capì che aveva fatto centro.

"A... Albert, persino le candele!", ansimò colpita, portandosi una mano sulla bocca. Le stava accendendo proprio in quel momento, con un braccio ripiegato dietro la schiena quasi fosse un elegante cameriere.

Sentì il proprio sorriso allargarsi in maniera spontanea, era davvero soddisfatto: "Beh, se non ricordo male oggi è il compleanno di una nostra amica, ma a essere sincero...", mise una mano sulla fronte, simulando l'ennesimo sforzo a ricordare, "...temo che la mia amnesia stia peggiorando, perché non ne ricordo il nome!", concluse con aria tragica.

Lei scoppiò a ridere, riempiendogli il cuore con quel suono che era musica per le sue orecchie. Gli si avvicinò e gli diede una piccola spinta giocosa. 
Poi si gettò fra le sue braccia, dove la accolse con calore, inebriandosi del profumo di rose mischiato a quello leggero del disinfettante. L'insieme non era affatto sgradevole e gli raccontava di una donna forte, dolce ma anche dedita al suo lavoro.

Quando si staccò, aveva gli occhi umidi e Albert provvide subito ad asciugarli: "Oh, aspetta di assaggiare la cena per commuoverti, temo che ormai non sia più molto calda. Dai, corri a lavarti le mani, così ci mettiamo a tavola!".

"Sì!", annuì partendo come un razzo verso il bagno.

Albert sentì quasi subito scorrere l'acqua e sorrise. Chiuse gli occhi, assaporando quel momento di complicità, immaginando che fossero sposini riuniti dopo una lunga giornata: era uno dei modi di fantasticare che preferiva, nonostante gli lasciasse sempre in bocca un sapore dolceamaro.

Cenare con lei, ridere, scherzare, raccontarsi gli eventi della giornata prima di cedere al sonno. E, magari, tenerla fra le braccia come sognava sempre più spesso di fare...
Albert scosse la testa con vigore, scacciando quei pensieri che non erano affatto da gentiluomo. Scostò con gentilezza la sedia a Candy, tornata quasi saltellando, per farla accomodare. Lo ringraziò con l'ennesimo sorriso e iniziarono a mangiare mentre le spiegava che aveva avuto l'idea di cucinare al ristorante.

"Oh, Albert, non è giusto, però! Così non hai praticamente riposato mai", protestò tagliando una fetta di arrosto.

 "Non preoccuparti, Candy, l'ho fatto con piacere. Mi spiace solo di non aver avuto abbastanza tempo per il dolce. Però domani, per farmi perdonare, te ne comprerò uno gigante e lo sceglierai tu, va bene?", disse ammiccando.

La ragazza scosse la testa: "Ma no, non importa, per me questa cena e la tua compagnia sono più di quanto potessi desiderare per il mio compleanno, davvero!".

Albert assorbì quelle parole come fossero un nettare delizioso e rigenerante. Si ritrovò a fissarla con un sorriso, mentre divorava come una bambina i suoi piatti preferiti. Si trattene a stento dallo sfiorarle l'angolo delle labbra, dove era rimasta un po' sporca di sugo di carne. Se fosse stato suo marito, avrebbe fatto il giro del tavolo, rimosso la macchia con il pollice e poi baciata. Con lentezza, assaggiando quelle belle labbra piene fino a...

"Albert?", la sua voce lo fece sussultare.

"Eh?", rispose, confuso. Diamine, la fantasia era così reale che per un attimo si stupì di trovarsi ancora sulla propria sedia.

"Che hai, stai male? Sei diventato tutto rosso! Per caso ti sta venendo la febbre?". Candy si alzò e fu lei a fare il giro del tavolo per mettergli il palmo della mano sulla fronte, trasmettendogli un brivido e inducendolo a chiudere gli occhi al contatto. "Lo sapevo che avevi lavorato troppo!".

Era almeno la seconda volta, quel giorno, che arrossiva e non andava bene, soprattutto davanti a lei! Se solo avesse saputo a cosa stava pensando, forse lo avrebbe schiaffeggiato, altro che provargli la febbre!

"No, stai tranquilla, fa un po' caldo qui... per essere i primi di maggio non si sta male, vero?". Per avvalorare quelle parole, Albert si alzò sottraendosi suo malgrado alla mano fresca di Candy e andò ad aprire la finestra. Si stirò in modo plateale, con un grugnito soddisfatto. "Non è meglio?", le chiese voltandosi.

Lei lo fissò, passando da un'espressione stupita a una così enigmatica che si domandò cosa le passasse per la testolina. Di certo, non quello che sperava.

"Aspettami qui un secondo, devo andare a prendere una cosa", esordì lei scomparendo in camera sua.

Albert sbatté le palpebre: "Chissà cosa ha in mente adesso, il mio piccolo terremoto", mormorò con un sospiro.

Con sua grande sorpresa, tornò tenendo tra le mani un incarto azzurro su cui aveva persino apposto un nastro argentato. Quando glielo porse, rimase ancora più disorientato: il compleanno non era il suo? Perché gli stava facendo un regalo?

Come se Candy gli leggesse nella mente quelle domande, di certo stampate con chiarezza sul proprio volto, strinse il pacco abbassando lo sguardo, quasi fosse in imbarazzo: "Ecco, vedi... siccome hai perso la memoria e non ricordi neanche quanti anni hai o quando sei nato, ho pensato che potremmo festeggiare il tuo compleanno assieme al mio. Sempre che non ti dispiaccia, è chiaro".

Albert voleva dirle che non solo non gli dispiaceva, ma le era talmente grato che avrebbe solo voluto abbracciarla forte; che tutto quello che stava facendo per lui, l'affetto che gli stava dedicando nonostante lo conoscesse così poco era qualcosa di così grande che lo aveva riportato alla vita. E che, in effetti, la voglia di vivere l'aveva ritrovata solo grazie a lei.

Ma le parole gli rimasero strozzate in gola e si ritrovò a lottare contro le lacrime che minacciavano di uscire. Doveva risponderle a ogni costo, però, perché già vedeva un'ombra di preoccupazione oscurarle il viso ed era qualcosa che non poteva sopportare. Deglutì e optò per un gesto, e al diavolo se poteva apparire audace!

Alzò una mano e gliela posò con delicatezza su una guancia, in una specie di carezza nella quale impresse la valanga di sentimenti che lo stava sommergendo: "Grazie, Candy", riuscì ad articolare, un po' afono, "è uno dei pensieri più belli che ricordo di aver mai ricevuto da quando mi hai convinto a restare con te".

Candy inclinò un poco la testa per approfondire il contatto con la sua mano e pensò che il cuore gli sarebbe scoppiato per la gioia, quando si scostò solo per appoggiargli il capo sul petto: "Ti meriti questo e molto altro, Albert. Sai che il tuo cuore batte forte forte?", ridacchiò guardandolo.

"È perché sono felice. Tanto felice". La voce si spezzò e non poté fare altro che stringerla di nuovo a sé, il regalo ancora fra loro, per non mostrarle le lacrime che gli rigavano le guance.

Era davvero felice. Eppure disperato, perché non sapeva quanto la sua gioia sarebbe durata. Era a un passo dal Paradiso ma aveva le porte dell'Inferno che forse lo avrebbero atteso quando avesse recuperato la memoria. Poteva essere tanto ottimista da dire che invece, una volta ritrovato se stesso, sarebbe stato tutto più semplice con lei? Forse, dopotutto, era un uomo come gli altri e non aveva legami, poteva osare sperare che...?

"Dai, adesso apri il tuo regalo!", si raddrizzò Candy asciugandosi gli occhi. "Di solito sono io quella piagnucolona, non credevo che un giorno avrei fatto piangere te!", aggiunse porgendoglielo.

"Ah, nemmeno io, piccola imbrogliona!", ribatté passandosi un braccio sul viso. "E per sdebitarti a dovere di avermi causato questo momento di debolezza dovrai pagare pegno". Si voltò e prese il dono che le aveva fatto. "Aprirai il tuo regalo mentre io apro il mio, va bene?". Le fece l'occhiolino e lei emise un gridolino, ricevendolo stupita.

"Ma non c'era bisogno di spendere soldi per me! Mi hai già cucinato una cena deliziosa...", disse cominciando ad aprirlo, mentre lui faceva altrettanto rimuovendo con cura la carta.

Le espressioni di stupore furono quasi contemporanee e Albert vide con la coda dell'occhio Candy tirare fuori lo scialle verde di seta e ammirarlo estasiata.
"Albert è... bellissimo!", ansimò.

"Ti piace? Ho pensato che fosse del colore dei tuoi occhi, per questo l'ho scelto così", ammise simulando noncuranza ma vedendo un lieve rossore diffondersi sulle guance di Candy.

Intanto, stava prendendo dal suo incarto una maglietta nera di cotone leggero, perfetta per quella primavera così mite.

Candy gli spiegò che aveva scelto quel colore perché voleva che potesse abbinarlo a ciò che preferiva. "Inoltre...", continuò e, di nuovo, gli parve imbarazzata.
"Inoltre?", chiese, curioso. 

Candy si mise a giocherellare con i lembi dello scialle: "Beh... non ci crederai, ma anche io ho pensato al colore dei tuoi occhi. Sul nero... mi sembrava che l'azzurro avrebbe risaltato di più".

Anche se aveva promesso a se stesso di non farsi troppe illusioni, Albert non poté fare a meno di rimanere colpito da quell'affermazione e la ringraziò di cuore. Notò anche con stupore che la taglia era perfetta e si chiese con quanta attenzione l'avesse osservato per indovinarla.

Certo, era stata la sua infermiera, tuttavia...

Si riscosse da quei ragionamenti che rischiavano solo di portarlo fuori strada e indicò a Candy i lacci sottili che erano sulla parte anteriore dello scialle: "A proposito, lì puoi anche inserire i tuoi ciondoli, se vuoi: la croce e... la spilla del tuo Principe di cui mi parli sempre", concluse facendola arrossire di nuovo.

"Hai pensato davvero a tutto, Albert, grazie! Sei davvero un tesoro!". E, prima che potesse fare qualunque cosa, gli piantò un bacio sulla guancia.

Si schiarì la voce, adorando quel gesto così spontaneo e decidendo di scherzarci su per evitare che si accorgesse di quanto ne era rimasto turbato: "Se mi ringrazi sempre così devo farti questi regali di compleanno più spesso!".

"Ah, sì? E quante volte vuoi farmi compiere gli anni, sentiamo!", rise mettendo le mani sui fianchi.

"Beh, direi che una decina di volte in un anno potrebbero essere sufficienti a farti sembrare mia coetanea e...". S'interruppe: cosa stava dicendo, in nome del Cielo?! Come stava per concludere quella frase sfortunata? Con un "mia moglie?". Forse era impazzito o il mezzo bicchiere di vino che avevano bevuto con la cena gli aveva dato alla testa. Diamine, non sapeva neanche quanti anni avesse lui, anche se poteva dedurre di non essere andato troppo lontano con i suoi calcoli.

Candy però non sembrò affatto infastidita da quel commento e, anzi, si stava infilando lo scialle facendo una scenografica piroetta: "Come mi sta?", chiese.

"Ti sta benissimo, Candy, e sai una cosa? Ora vado a provare la mia maglietta". Lei annuì, battendo le mani come se le stesse facendo un altro regalo e, quando tornò, lo squadrò ammirata.

"Sono così contenta di non aver sbagliato la misura! Sai, avrei tanto voluto confezionartene uno con le mie mani, ma temo che cucire e ricamare, per me, sia peggio che cucinare!", s'imbronciò.

Albert scoppiò a ridere: "Non preoccuparti, Candy, se vorrai provarci sono disposto a indossare anche una maglione con tre maniche o un aquilone legato sopra", disse riferendosi all'incidente di cucito accaduto solo qualche settimana prima. Non era mai riuscito a capire come il loro piccolo aquilone fosse finito attaccato alla toppa di una delle sue magliette, ma di sicuro ora ne aveva una nuova di zecca che avrebbe usato molto spesso.

"Albert, sei sempre il solito!", si arrabbiò lei colpendolo a una spalla.

Risero insieme, brindarono al loro compleanno e fecero onore alla cena nella piccola Casa della Magnolia dove tutto era così intimo e perfetto che chiunque, vedendoli, avrebbe detto che erano una coppia di sposini novelli.

Albert si concesse, come faceva ormai tutte le sere, di osservare il volto addormentato di Candy, lottando contro la propria stanchezza. Ascoltare il suo respiro regolare e perdere lo sguardo sulle lunghe ciglia. Contare, ancora una volta, una ad una le piccole lentiggini che le punteggiavano il naso solo un po' schiacciato. Seguire il contorno della sua bocca socchiusa.

Candy aveva solo diciassette anni e lui desiderava già che fosse sua moglie, la donna con cui condividere il resto della propria vita. Quella vita che non era più un limbo senza memorie, ma una meravigliosa realtà dove nuovi, bellissimi ricordi si costruivano giorno per giorno.
 
- § -
 
28 Giugno 1921: fuga a mezzanotte (o amore tra le righe?).

"Secondo te quanto ci metterà la zia Elroy ad accorgersi che siamo fuggiti dalla festa?", gli chiese Candy.

Albert si strinse nelle spalle, azionando la freccia per segnalare la svolta: "Forse se n'è già accorta e sta chiedendo ad Archie e agli altri se ci hanno visti. O magari è tornata nelle sue stanze. Chi può dirlo?".

"Domani sarà molto arrabbiata", sospirò lei in tono preoccupato.

Girò il volante per infilarsi in una strada parallela e si voltò per un istante a guardarla mentre scalava la marcia: "Da quando in qua ti preoccupi di quello che può fare la zia?", domandò inarcando le sopracciglia.

"Da quando sono tua moglie, Albert!", spiegò lei come se stesse parlando a un bambino. "Lo sai che sta facendo di tutto per insegnarmi le buone maniere, che sta cercando di abituarsi al fatto che io sia la signora Ardlay. Non vorrei pensasse che sono una specie di sovversiva, ora che le cose tra noi si sono appianate".

Albert emise un forte sospiro dal naso, scuotendo la testa frustrato: "Candy, capisco il tuo desiderio di andare d'accordo con lei, ma ti ricordo che fino a poco tempo fa era proprio la zia Elroy quella che faceva i capricci. Nonostante la rispetti molto, non posso dimenticare come ti ha trattata in passato, inoltre...".

"E dai, Bert...".

"Inoltre", calcò sul termine alzando un dito e protendendosi verso Candy, "il capofamiglia sono io e tu sei mia moglie, quindi possiamo fare quello che vogliamo, incluso festeggiare il mio compleanno su un albero!".

Candy scoppiò a ridere: "Ora che mi ci fai pensare non è un'idea malvagia, aspetta solo che mi organizzi!".

Albert ridacchiò a sua volta, quindi fermò l'auto accanto al marciapiede: "Eccoci qui, siamo arrivati. Per oggi ci accontenteremo di una fuga alla Casa della Magnolia poco prima della mezzanotte".

Scesero dalla vettura guardandosi attorno come se fossero secoli che non tornavano in quel quartiere, quando in realtà era avvenuto solo l'anno prima, al rientro dalla luna di miele. Le offrì il braccio e lei vi si aggrappò ridacchiando: "Ti ricordi quando mi aspettavi appoggiato a questi lampioni o all'angolo della strada? Era così bello sapere che ti avrei trovato al mio rientro!".

La strinse a sé mentre camminavano verso l'edificio, nella mente gli si affollavano mille pensieri contrastanti. Ricordava quel periodo con affetto e persino un pizzico di malinconia, ma non avrebbe mai dimenticato l'incertezza che spesso rischiava di sopraffarlo: all'epoca, non solo non sapeva chi fosse e se davvero si meritasse una ragazza come Candy, non era neanche sicuro di cosa rappresentasse di preciso per lei. Alcune volte gli pareva di leggere nei suoi occhi una scintilla inequivocabile, altre si dava dello stupido perché era certo che lo vedesse come un fratello.

"Sai, a volte avrei voluto che il tempo si fermasse", disse all'improvviso a voce bassa, facendola voltare di scatto, "solo per continuare a stare accanto a te".

Sua moglie gli posò la testa sulla spalla: "È per questo che non mi hai confessato subito di aver recuperato la memoria".

"Già", ammise. "Però devo dire che, dopo il primo momento di panico, una volta ritrovato me stesso, sono stato felice di non essere invischiato in una situazione irreversibile". Ricordava ancora il sollievo per aver scoperto di essere scapolo e tutore legale della ragazza che lo aveva salvato: quell'ultimo aspetto, perlomeno, poteva essere risolto con qualche firma o al raggiungimento della maggiore età. Cosa in effetti avvenuta in seguito.

Candy si fermò di colpo: "Albert, quando hai capito di essere innamorato di me?", gli chiese a bruciapelo, gli occhi brillavano nella notte nonostante le luci fioche.

La guardò, riflettendo: in quegli ultimi anni avevano parlato tante volte del passato, però non gli aveva mai fatto una domanda così specifica. Pensò, con una punta di divertimento, che non sapeva bene cosa risponderle.

"E tu?", le rigirò la domanda, socchiudendo gli occhi.

Lei parve stupita, ma la sua espressione di perplessità si spense quando una voce maschile alla loro sinistra disse: "Benvenuti, signori Ardlay".

Albert si voltò verso l'uomo, che stava persino facendo un inchino, mentre porgeva loro la chiave: "Mi pareva che l'ultima volta le avessimo chiesto di non essere così formale. Come sta, signor Thomas?".    

"Molto bene, la ringrazio. Sono felice di rivedervi", rispose sorridendo.

Mentre Candy gli chiedeva notizie della figlia e si complimentava con lui perché presto sarebbe diventato nonno per la seconda volta, Albert alzò il capo verso le finestre. Le imposte erano chiuse, ma gli sembrò di rivedersi affacciato lì dietro, come se stesse fissando una specie di macchina del tempo.

Ricordò che, la prima mattina in cui si era svegliato in quella casa con Candy, aveva dormito pochissimo, in preda all'imbarazzo quando aveva scoperto che avrebbero condiviso un letto a castello. Ricordò qualche settimana dopo, quando aveva fissato il paesaggio cercando di metterne a fuoco uno simile nei recessi della memoria ma senza riuscirvi: allora non poteva sapere che si trattava dei boschi di Lakewood. E ancora, ricordò una mattina nevosa, mentre Candy se ne andava allegra verso la stazione per correre fra le braccia di un altro uomo; il cuore gli si era stretto in una morsa mentre si sforzava di sorridere anche se era solo.

La macchina del tempo accelerò e Albert vide se stesso mentre stringeva il davanzale con le mani come se volesse romperlo, combattendo contro l'impulso di restare al suo fianco; ma sapendo che doveva lasciarla a causa delle voci che iniziavano a girare sul proprio conto e che rischiavano di travolgerla.
Poi, alla fine... rammentò l'anno precedente, quando aveva varcato quella soglia prendendola in braccio anche se l'aveva già fatto solo un mese prima nella casa di Lakewood. Era come se quella fosse la loro abitazione più intima, quella vera, quella di Albert e Candy e non del signor e della signora Ardlay. Allora, avevano cenato, riso e scherzato come i vecchi tempi e davanti a quella finestra si era affacciata lei, in camicia da notte. L'aveva abbracciata da dietro, posandole il capo sulla spalla, cercando le sue labbra...

"Vogliamo salire?". La voce di Candy lo riportò ancora una volta nel presente.

"Certo. Grazie, signor Thomas, buona notte", salutò salendo le scale dietro di lei che correva come sempre.

Quella mattina il proprietario doveva aver fatto arieggiare la casa, perché li accolsero un profumo fresco e persino un mazzolino di fiori di campo in un vaso, al centro del tavolo.

Candy entrò ridendo e girando su se stessa come una ballerina: "Che bello, come sono felice!", esclamò quasi fosse una bambina che abbia ricevuto il giocattolo preferito. "Sarà anche uno dei tuoi regali di compleanno, ma piace tanto anche a me!".

Albert rise di gusto: "Bene, sono contento! Ma sbaglio o mi hai detto che ne avevo un altro da scartare, prima che fuggissimo dal ricevimento?", domandò dubbioso guardandosi attorno.

Lei arrossì: "Sì, è che... non è ancora pronto, devo... ehm... incartarlo", rispose come se parlasse a se stessa.

Nonostante la sua mente fervida gli suggerisse più di una possibilità, non insistette e con Candy fece il giro della casa. Scoprirono che tutto era identico a come lo avevano lasciato, perfino la tendina sopra l'arco d'entrata della cucina.

Lei sembrava davvero una ragazzina in un negozio di giochi o dolci e si ritrovò a canzonarla: "Quanto entusiasmo! Eppure è solo poco più di un anno che non torniamo".

"Sì, ma per me è sempre come fosse la prima volta!", rise battendo le mani. Poi, come se si ricordasse di qualcosa, assunse un'espressione sorniona, socchiudendo le palpebre e distendendo le labbra in un sorriso. "L'ultimo che arriva prende il letto di sotto!", gridò scattando come una saetta.

 "Ma brutta imbrogliona...!", riuscì solo a dire mentre la seguiva cercando di recuperare.

Ebbe appena il tempo di poggiare una mano sullo stipite e spalancare la bocca quando Candy si arrampicò in due falcate sulla scala e si gettò a peso morto sul letto superiore: "Sono la prima!", disse tutta contenta prima che il rumore del legno che si spezzava le facesse esclamare il suo stupore.

Sotto i suoi occhi inorriditi, rovinò direttamente sul materasso del letto inferiore e Albert si precipitò da lei per tirarla fuori da quel groviglio di lenzuola e legna: "Candy, stai bene?!".

Afferrandola per la vita, la rimise in piedi e la osservò con attenzione mentre si sistemava il vestito: "Ma come è potuta succedere una cosa simile?", si lamentò.

Albert tirò un sospiro di sollievo, accorgendosi che era solo molto contrariata ma non pareva avere nulla di rotto: "Beh, a quanto pare c'è stato un terremoto di discreta entità nella zona di Chicago intorno alle 23 e 30 ora locale, e...".

"Oh, stupido!", lo rimbeccò dandogli dei pugni sull'avambraccio.

Rovesciò la testa indietro e scoppiò a ridere: "Preferisci che ti dica che sei ingrassata? Ma sappi che ti direi una bugia", ribatté con un occhiolino.

"Albert, ti rendi conto che abbiamo distrutto il nostro letto a castello?", piagnucolò Candy: in quel momento, la bambina che era in lei pareva avesse davvero rotto il suo giocattolo nuovo.

Tentò di non ridere ancora e si accigliò, cercando di rimanere serio: "Abbiamo? Non mi risulta che io mi sia messo a saltellarci sopra. Sei tu quella che lo ha fatto, e posso testimoniare!", concluse alzando il mento.

"Non scherzare", lo pregò coprendosi il viso con le mani. "È il tuo compleanno e io sono riuscita a rovinarlo! E inoltre...".

"Inoltre?".

La vide mordersi il labbro e abbassare gli occhi, come se non sapesse come esprimere un concetto o si vergognasse di farlo: "Inoltre, il signor Thomas potrebbe farsi un'idea sbagliata... potrebbe pensare che noi... che noi...".

Albert rinunciò a trattenere le risate e si ritrovò persino piegato in due, una mano sulla pancia e una appoggiata alla scaletta che si era richiusa su se stessa come una fisarmonica. Candy gli ripeteva di smetterla di ridere, che non c'era nulla di divertente, ma ciò rendeva tutto ancor più esilarante.

Quando alla fine, sussultando e asciugandosi gli occhi fu in grado di risponderle, lei aveva un muso così lungo che quasi si pentì: "Perdonami, amore mio, ma devo dire che non hai tutti i torti e l'idea è davvero spassosa. Però stai tranquilla, domattina cercherò di riparare il danno, per quanto mi sarà possibile, con gli attrezzi che abbiamo in casa e avviserò il signor Thomas che il legno del letto era marcio. Per quanto riguarda il mio compleanno, beh... a dire il vero, a parte quando ho ballato con te e Archie ha fatto le sue solite battute, questo è stato il momento più divertente della serata, considerando che non ti sei fatta nulla".

Candy lo abbracciò, un po' più tranquilla e insieme spostarono le tavole di legno rotte per liberare il letto inferiore: "Staremo un po' stretti", commentò sua moglie, incerta.

"Ed è un grosso problema, per te?", le domandò inarcando un sopracciglio con un sorrisetto malizioso.

In tutta risposta, scosse la testa: "No, affatto. Ora però devo compiere una missione di estrema importanza. Tu, intanto, mettiti pure comodo", disse infilando le mani sotto al cuscino della cuccetta inferiore e traendone quello che sembrava proprio...

"Il mio vecchio pigiama a righe! Ma quando lo hai messo lì?", chiese stupito.

"Segreto", rispose lei facendogli l'occhietto; corse di nuovo via prima ancora che potesse domandarle se aveva ritrovato anche il suo.

Immaginando sua moglie che si preparava per la notte e forse incartava anche un altro regalo in qualche parte della casa, Albert si tolse finalmente lo scomodo completo elegante e infilò quel capo così semplice e pieno di ricordi. E dire che lo credeva perso! L'anno precedente non avevano certo pensato a cercare i loro vecchi pigiami...

Si distese con un sospiro soddisfatto, osservando con occhio critico la catasta di legna ammonticchiata in un angolo della stanza e gli venne di nuovo da ridere. Era strano alzare gli occhi e vedere il soffitto, invece del fondo del letto dove aveva dormito Candy per tanti anni. Albert valutò che i montanti laterali spezzati erano inutilizzabili e che, al massimo, avrebbe potuto operare una piccola riparazione per unire le due parti dell'altra cuccetta, ma non era affatto sicuro che avrebbe retto come prima.
Per cedere a quel modo, con il solo peso di Candy che ci era saltellata sopra in maniera neanche tanto impetuosa, doveva davvero essere rovinato.

Si stava chiedendo quanto ci mettesse la moglie a fare un pacchetto quando la vide entrare dalla porta. Non seppe se rimanere deluso o scoppiare a ridere un'altra volta. In realtà, vederla con il pigiama identico al proprio, come tanti anni prima, gli suscitò un moto di tenerezza: quella era la sua Candy.

Una donna che poteva indossare una camicia da notte sensuale risultando bellissima e imbarazzata. Ma che solo con un pigiama da ragazzina come quello esprimeva quanto tenesse al loro passato.

"È stato mentre vivevamo insieme", disse Candy come rispondendo a una domanda e Albert fu dapprima disorientato. Poi capì che era la sua risposta a ciò che le aveva chiesto mentre erano ancora in strada. Fece qualche passo nella sua direzione, a piedi nudi, e continuò: "Se mi chiedi il momento preciso non saprei dirtelo, ma è come se, quando sei sparito lasciandomi solo un messaggio, io avessi finalmente aperto gli occhi".

Candy mise un ginocchio sul letto e le fece spazio, girandosi su un fianco e prendendola fra le braccia mentre gli si accoccolava con la schiena sul petto. Le baciò i capelli sciolti e disse in un sussurro: "Ho sperato che andare in Africa, come avevo sempre sognato, avrebbe allontanato da me l'immagine di una ragazzina che era ancora troppo giovane e soprattutto... troppo presa da un altro". La sentì prendere un respiro e trattenerlo. "Quando ho avuto l'incidente e ho perso la memoria mi sono imbattuto in un'infermiera bravissima, che mi ha salvato la vita e mi ha preso a vivere con sé. La gente pensava male di noi e avevamo pochi soldi, ma non m'importava. Perché io amavo quell'infermiera ogni giorno di più". Si sporse per infilare il naso vicino all'orecchio di Candy e baciarla con delicatezza lì, dove nasceva la pelle morbida del collo.

"Albert...". Il suo era un mormorio indistinto, commosso. E con una punta di sensualità che lo distrasse non poco dal suo racconto.

Ma Albert decise che lo avrebbe concluso: "Poi, all'improvviso la mia memoria è tornata e tutto è ricominciato. Non sapevo se fare il grande salto o aspettare ancora. Alla fine, ho lasciato che il destino facesse il suo corso. Ed eccoci qua. Ora posso scartarti prima che scocchi la mezzanotte e non sia più il mio compleanno?".

Candy ridacchiò in risposta, girandosi per baciarlo: "E chi ti ha detto che io e il pigiama siamo il tuo regalo?".

"Perché? Ne hai altri nascosti in casa?", chiese alzando un sopracciglio e protendendosi per reclamare di nuovo le sue labbra.

Gliele concesse, staccandosi quasi subito e poggiandosi un dito sul mento con gli occhi socchiusi come se riflettesse: "Uhmmm... in effetti no. D'accordo, vada per questo regalo, allora. Ma forse preferisci i merletti alle righe".

"Mi piacciono i merletti", disse con voce profonda baciandola con trasporto, "le righe, i vecchi pigiami, i letti a castello rotti...".

"Albert!", la debole protesta di Candy non gli impedì di proseguire.

"... tu", concluse prendendole il viso con le mani e posando le labbra sul suo naso, sulla fronte, sugli occhi. E ancora sulle labbra. "Ti amo, Candy, ti ho sempre amata".
"E io amo te, mio Principe della Collina".

Molte volte, in passato, le aveva chiesto di non chiamarlo così. Ma averla fra le braccia, commossa quasi fino alle lacrime e, soprattutto sua, gli fece adorare quel soprannome.
Con sensuale lentezza, portò le dita ai primi bottoni del pigiama di Candy, giocherellandoci senza slacciarli: "Forse, dopotutto, ti preferisco senza tutte queste righe", ridacchiò.

"Bene, vedrò cosa posso fare allora", ribatté in un sussurro sensuale adoperandosi a slacciarli da sola. "Ah, Bert?".

"Sì?". Chiese guardandola con gli occhi ormai offuscati dal desiderio.

"Anche io ti preferisco senza righe".
 
 
 
  
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


28 Giugno 1925: buon compleanno, papà!

"Papà! Papà!", Anthony gli saltò in grembo all'improvviso facendogli rilasciare l'aria in uno sbuffo: per avere tre anni e pesare circa sei volte meno di lui, il colpo fu discreto.

"Ehi, quante energie! Hai ricevuto doppia razione di caramelle o sei solo felice per qualche motivo?!", ribatté Albert cercando di contenere tanta irruenza in un abbraccio affettuoso.

Il piccolo si divincolò per guardarlo in volto e gli regalò un sorriso che, da solo, lo avrebbe gratificato per tutta la vita. Se non fosse stato per le lentiggini sul naso, avrebbe fatto onore al nome scelto grazie all'impressionante somiglianza col suo adorato nipote.

"Buon compleanno, papà!", disse scoccandogli un bacio sulla guancia e cercando ancora di sgattaiolare. Albert lo trattenne con decisione, strappandogli un lamento di protesta.

"Lascia solo che ti ringrazi, figliolo", quasi lo pregò. Lo strinse a sé e gli baciò la testolina bionda, ubriacandosi del profumo pulito e deliziosamente infantile. Solo baciare sua moglie gli trasmetteva altrettanta pace.

Anthony non gli concesse più di qualche istante, era già in piedi, saltellante, che chiedeva della festa, della torta e dei regali che avrebbe ricevuto. Per avere solo tre anni e mezzo sapeva bene quello che voleva! Era al corrente che alla festa di compleanno del padre avrebbero mangiato cose buone e che, se avesse ricevuto un regalo come quello dell'anno precedente, sarebbe stato un motivo in più per giocare insieme.

A dire il vero, Candy era rimasta perplessa quando aveva deciso di comprare una canna da pesca gemella, ma più piccola, per un bambino che aveva poco più di due anni, però il risultato era stato divertente e a un certo punto un pesce aveva davvero abboccato. La parte meno esilarante era stata quella in cui Anthony sembrava dovesse essere trascinato nel lago con tutta la canna, ma Albert era stato così vicino e attento che il rischio reale non era mai esistito davvero.

In compenso, la moglie gli aveva tenuto il broncio per ore prima che razionalizzassero l'accaduto e da allora le sessioni di pesca avevano dovuto aspettare qualche settimana per riprendere. Alla luce di quell'episodio, Albert sperò che nessuno gli regalasse una bicicletta o una vettura. Però, forse, era ora che Anthony avesse almeno un triciclo...

"Papà, mi ascolti?!", la vocina indignata lo riscosse da quei pensieri. Si accorse che il piccolo, mentre cercava di attirare la sua attenzione, aveva in mano alcuni documenti. Con delicatezza, li riprese per sistemarli sulla scrivania, dove sarebbero stati più al sicuro.

"Perdonami, figliolo, ero distratto. Dicevi?".

"Mamma dice che ci aspetta alla capanna".

Albert spalancò gli occhi: alla capanna?

"Non c'è Sophie con te?", chiese all'improvviso. "Sei venuto qui tutto solo?", domandò rendendosi conto che era entrato nello studio senza nessuno che lo seguisse.

"No, mi ha lasciato la mamma! Ha detto di venire qui da te, farti gli auguri e portarti nella capanna". D'istinto, Albert alzò lo sguardo verso la porta: quindi quella furbacchiona di Candy aveva lasciato lì Anthony e se l'era svignata!

"Bene, allora non facciamola aspettare!", disse alzandosi dalla poltrona, ma il bambino allungò le manine nel gesto di spingerlo giù.

Cogliendo il messaggio e vedendo che scuoteva la testa con fermezza facendo ondeggiare i capelli dorati, desistette dal tentativo. "Mamma ha detto che dobbiamo andare quando è l'ora dei miei anni".

Albert sbatté le palpebre: l'ora dei suoi anni? Per qualche istante, con gli occhi socchiusi fissò pensieroso il figlio, poi lo vide alzare le piccole dita e mostrarne tre come quando gli chiedevano l'età. Doveva contare anche la mezz'ora?

"Va bene, giovanotto, ci muoveremo da qui quando l'orologio suonerà la melodia per tre volte. Che ne pensi? Va bene?", chiese indicando quello intarsiato sul camino.

"Sì!", acconsentì lui saltando sul posto, poi corse verso il divano per tuffarvisi come amava sempre fare. Lo guardò giocare e correre per la stanza godendosi semplicemente la sua vicinanza; stava lavorando a quei documenti dalle dieci del mattino e già gli mancava la sua famiglia.

In quel momento, vicino a suo figlio, ripensò a quanto fosse stato fortunato a potergli stare accanto molto più di quanto il padre fosse stato con lui. Aveva smesso di fare lunghi viaggi prima di sposare Candy e avrebbe ricominciato solo se fosse stato necessario e se avessero potuto seguirlo. E in caso fossero nati altri figli... beh, chi l'aveva detto che il patriarca degli Ardlay dovesse per forza presenziare di persona ai viaggi d'affari?

Finché Georges fosse stato disponibile, gli avrebbe delegato quell'incombenza. E, qualora non avesse potuto, avrebbe assunto una squadra intera di collaboratori perché lo facessero al posto suo. Ma, a dirla tutta, non aveva neanche tutto quel desiderio di espansione: le ricchezze degli Ardlay erano già piuttosto consistenti, gli sarebbe bastato amministrare quelle che già possedeva senza cercare fortuna altrove.

Lì, tra Lakewood e Chicago, aveva tutto quello che gli serviva.

Quel pensiero lo riportò a un compleanno di tanti anni prima, quando Rosemary era entrata nella sua stanza all'alba per festeggiarlo di nascosto con un dolcetto al cioccolato e una candelina: allora le aveva detto che non voleva altri regali. Qualche anno dopo, aveva perso anche lei.

Albert si ritrovò a reprimere un brivido, ricordando tutti i momenti di apparente serenità che si erano trasformati all'improvviso in un lutto insostenibile.

Suo padre. Rosemary. Anthony. Stair.

Incontrare Candy, innamorarsi di lei e sposarla era stato un po' come riscattarsi da tutte quelle sofferenze in un colpo solo. E quando credeva che la felicità stesse per esplodergli nel cuore come un fuoco d'artificio, lei gli aveva rivelato di aspettare il loro primo figlio.

"Papino?". Il bambino stava piantando su di lui quegli occhi che erano identici ai propri e Albert lo abbracciò di slancio, facendolo protestare di nuovo.

"Lo sai che ti adoro?", gli mormorò all'orecchio.

Lui ridacchiò: "Sì, ma è ora. L'orologio ha suonato!", disse con enfasi puntando il braccino verso la mensola.

"Ma allora dobbiamo muoverci!", ribatté alzandosi e prendendolo in braccio tra le sue grida di giubilo.

Albert si concesse di coprire la distanza tra il Giardino delle Rose e la vecchia capanna con una certa calma, come se si trattasse di una passeggiata: con la zia in Florida dai Lagan, Georges a Chicago e Archie a Pittsburg per affari insieme alla moglie Annie e ai figli, quello sarebbe stato un compleanno intimo che si sarebbe goduto fino alla fine.
Si era messo a sistemare le ultime carte prima di prendersi il suo tempo e ora era davvero curioso di sapere che sorpresa gli avesse preparato Candy. La trovò davanti alla capanna dove, tanti anni prima, aveva portato una ragazzina spaventata e bagnata che stava rischiando di affogare nella cascata. E dove l'aveva riportata, ormai adulta, dopo una vacanza breve ma indimenticabile con il suo prozio William.

Candy stava adagiando sull'erba una grande tovaglia blu e oro. Era bellissima con il suo abito estivo rosa confetto. Le labbra si distesero in un sorriso, vedendola. Anthony, che fino a quel momento era stato volentieri fra le sue braccia, si divincolò finché non lo mise giù e corse dalla mamma come se non la vedesse da una vita.

Albert desiderò fare lo stesso, ma si avvicinò con passi misurati per baciarla: "Mi sei mancata", mormorò.

"Anche tu. Ancora buon compleanno, amore mio", rispose lei staccandosi dal bacio e strofinando leggermente il naso sul suo.

Albert inarcò un sopracciglio, a malapena cosciente delle grida di richiamo del loro bambino che già chiedeva dove fossero i dolci. "Ancora? Perché, quando me l'hai detto?", finse di non ricordare.

"Oh, lo sai!". Rispose lei dandogli una leggera spinta.

"No, non lo so", rise adorando il rossore sulle sue guance.

Candy restrinse gli occhi: "William Albert Ardlay, devo ricordarle il motivo per cui stamattina ha iniziato a lavorare con colpevole ritardo?".

Il rossore non era scomparso ma gli occhi brillavano. "Touché", rispose entrando con lei in casa e aiutandola a portare fuori tre cestini carichi di panini, dolci, frutta e persino fette di arrosto.

Mangiarono sull'erba, in quel pic nic a tre così speciale, mille volte più bello di qualsiasi festa mondana gli avessero mai riservato, con il profumo dell'estate portato da un vento leggero, gentile e le risate tra un boccone e l'altro.

Era tutto così buono che ne rimase estasiato.

"Ti ha aiutata la cuoca o hai fatto da sola?", chiese assaggiando la carne cotta a puntino.

"Sono orgogliosa di dirti che io e Anthony abbiamo aiutato Nancy e ricevuto persino i suoi complimenti!", disse Candy a testa alta, cercando lo sguardo del figlio.

"Sìììì! Io ho messo l'insalata nei panini!", strillò addentandone uno.

Albert annuì, inarcando le sopracciglia e piegando le labbra in un'espressione di stupore: "Però! Si vede che hai preso tutto da me, in cucina", disse guadagnandosi una gomitata da Candy. "Stavo scherzando! Sei diventata bravissima anche tu, lo sai", la rabbonì baciandola e assaporando sulle sue labbra l'aroma della salsa tartara.

Fu in quel momento che Candy allungò una mano dietro al suo collo per farlo chinare di più su di lei e avvicinarsi al suo orecchio per bisbigliare: "Più tardi ti rinfrescherò la memoria sugli auguri di stamattina".

Albert ebbe appena il tempo di sentire la gola seccarsi e la bocca spalancarsi, che era già sparita dietro un albero dove Anthony stava giocando a nascondino con il panino ancora in mano. La risata gli sgorgò dal cuore: e dire che una volta pensava che con Candy avrebbe potuto condividere proprio un panino e null'altro!

Ora, invece...

Il vento gli scompigliò i capelli e le voci allegre di sua moglie e suo figlio gli comunicarono che era arrivato il momento della torta e del regalo. "Per quest'anno, però, invertiremo le due cose per... ehm... motivi logistici".

Lui inarcò un sopracciglio, perplesso e, mentre Anthony saltellava ripetendo gioioso "motivi logici, papà!", Candy lo condusse verso il fiume.

"Chi penserà a tutto il cibo rimasto fuori dalla capanna?", chiese guardandosi per un attimo alle spalle.

"Tranquillo, ho organizzato perché passino fra poco a riordinare", disse Candy facendogli l'occhiolino e cominciando a saltellare davanti a lui come Anthony.

"Sei incredibile, amore mio", disse con trasporto, grato per la passeggiata fuori programma: avevano fatto davvero onore alla cenetta e in realtà era rimasto ben poco da portare via. Camminando, avrebbero fatto spazio al dolce.

Nei pressi del fiume, Candy gli si parò davanti con una mano alzata, intimandogli l'alt come una specie di vigile. Poi prese Anthony in braccio e glielo posizionò a cavalcioni sulle spalle. Albert lo afferrò per le gambe perché non cadesse e si mise a ridere quando gli coprì gli occhi: "Ehi, così andremo a sbattere o cadremo!".

"No, perché vi guiderò io. Avanti, Albert, cammina dritto davanti a te", lo incitò e a lui non restò che seguire la sua voce mettendo con attenzione un piede davanti all'altro. Non aveva paura di inciampare per se stesso, ma temeva che Anthony potesse cadere e farsi male.

Dopo alcuni passi, tuttavia, udì il suono languido del fiume e immaginò la barca di Stair. Stava ancora chiedendosi come ci sarebbero entrati in tre, con un bambino che a malapena voleva restare fermo, quando la moglie gli disse di togliere le manine dagli occhi di papà.

Quando lo fece, Albert vide l'ultima cosa che si aspettava.

Una vera barca di legno, grande abbastanza per cinque persone, con tanto di sedili dotati di schienale. C'erano persino i remi!

"Candy, ma è... è...". Forse per la prima volta nella vita, Albert rimase senza parole.

"Non ti piace?", chiese lei contrita. "So che è molto semplice e non ha neanche una decorazione, ma quando l'ho commissionata ho chiesto soprattutto che fosse pratica, spaziosa e anche facile da trasportare altrove. Sai, qualora volessimo portarla anche da un'altra parte per andare a pescare con Anthony e...".

Lui scosse la testa con un sorriso e mise giù Anthony che scalpitava per vederla da vicino. Si accostò a Candy e la baciò con dolcezza sulle labbra, mettendo fine al suo monologo: "La adoro", le disse emozionato, "è uno dei regali più belli che abbia mai ricevuto. Grazie, amore mio. E grazie anche a te, giovanotto! Scommetto che sei stato tu a suggerire l'idea a tua madre, non è vero?".

Anthony saltellò fra i genitori: "Sì! Volevo un galeone come quello dei pirati!".

Candy rise: "È vero, confermo. Ma abbiamo dovuto... semplificare il progetto originale per questioni pratiche".

Albert riprese su un braccio il bambino e con quello libero circondò Candy, stringendoli entrambi a sé: "Grazie, grazie ancora a tutti e due. La adoro! Vogliamo provarla subito?", propose avviandosi sulla riva.

"Per forza", disse Candy enigmatica, seguendolo e aiutandolo a far salire Anthony senza farlo finire in acqua, "questa barca ci porterà fino alla torta!".

Lui sedette, posizionandosi di fronte alla moglie e ad Anthony, stringendo le palpebre in una muta domanda, poi chiese ad alta voce: "Bene, dove dovrei portarvi di preciso?".
Candy sorrise: "Dove un giorno mi hai salvata dalla cascata".

E il sorriso raggiunse anche le sue, di labbra, mentre imbracciava i remi e tornava indietro nel tempo con le due persone più importanti della sua vita. Quel compleanno si stava rivelando davvero uno dei più felici che avesse mai passato, persino quando si trovava nella savana africana non era stato così avventuroso.

Allora era libero, ma adesso lo era ancora di più. Libero di amare la donna della sua vita e di essere riamato. Libero di stringere fra le braccia il frutto del loro amore. Libero di sognare altri milioni di giorni come quello.

Quando giunsero alla radura, Albert dovette trattenere l'ennesima esclamazione d'incredulità: era mica Georges quello vestito di tutto punto vicino a una specie di armadio di legno? E come lo aveva portato fin lì? Certo non da solo...

"Ma... ma... tu non dovevi essere a Chicago?", gli chiese dopo averlo salutato, mentre smontava dalla barca e assicurava la cima al tronco di un albero. Si assicurò che anche Candy e Anthony scendessero senza problemi e gli rivolse lo sguardo per ascoltare la risposta.

"Sono stato a Chicago fino a ieri mattina e ho concluso l'affare con la banca come da accordi, quindi mi sono premurato di eseguire la richiesta della signora Candy e del signorino Anthony", rispose nel solito tono educato e composto.

"La richiesta ha a che vedere con quello che sembra un frigo a ghiaccio?", disse divertito, indicandolo.

"La torta! La torta!", strillava Anthony saltellando proprio in quella direzione.

Come un perfetto cameriere, Georges aprì l'anta rivelando una composizione ricoperta di panna. Albert adorò che fosse imperfetta in modo tanto delizioso, con un po' della copertura che colava da un lato: significava che l'avevano fatta in casa!

Per un attimo ricordò quando Rosemary aveva fatto il dolcetto ripieno di cioccolata l'anno in cui erano rimasti orfani, per allietare il più possibile il compleanno del piccolo fratellino.

"Dai, Georges, ti aiuto a tirarla fuori! Mi spiace, Albert, non è venuta del tutto dritta perché Anthony continuava a spalmare la panna su tutti i lati mentre io cercavo di farla aderire al pan di spagna e... oh! In mezzo ci abbiamo messo anche fragole e cioccolata come piace a te. Tesoro, mi aiuti con la tovaglia mentre papà e Georges provvedono a... Albert?".

La stava ascoltando incantato, comprendendo all'improvviso quanto impegno ci fosse stato dietro a quel compleanno. Durante i primi anni di matrimonio, e quando Anthony era più piccolo, c'erano stati eventi sempre presenziati dalla zia Elroy, non avevano avuto certo l'intimità di quello attuale: se escludeva una certa fuga alla Casa della Magnolia dopo uno di quei ricevimenti, ben pochi compleanni potevano essere paragonabili, in effetti.

Le mani di Candy sul suo viso gli fecero chiudere gli occhi con un senso di beatitudine. Si era di sicuro accorta che erano lucidi: "Non è cosa di tutti i giorni vederti così commosso. Vuol dire che ti è piaciuta davvero la sorpresa", disse piano, baciandogli la punta del naso e poi le labbra.

Si schiarì la voce, tentando di parlare senza farla tremare ma Anthony lo interruppe: "Che vuol dire sommosso?".

"Commosso, tesoro", lo corresse Candy facendogli scivolare le mani sul collo. "Vuol dire che papà si è emozionato vedendo la nostra torta".

"Davvero? Come quando mi avete regalato il trenino?", chiese lui spalancando gli occhi e guardandolo.

"Qualcosa del genere, giovanotto", gli rispose prendendolo in braccio per baciarlo di nuovo. E, accidenti, aveva di nuovo voglia di baciare anche sua moglie ma Georges si schiarì la voce proprio in quel momento.

"Chiedo scusa", esordì con tono urgente. "Portare qui l'armadio con il ghiaccio si è rivelata un'operazione più lunga del previsto e sarebbe il caso di tagliare questa torta prima che il sole sciolga tutto".

"Oh, certo, certo! Hai ragione!". Candy si affrettò a recuperare un coltello e dei piattini da un cestino posto in maniera strategica proprio di lato al frigo di fortuna e ben presto la torta fu servita anche a un riluttante Georges che non voleva essere di disturbo.

"Oltre a far parte della famiglia te la meriti per aver aiutato Candy e Anthony a fare tutto questo", dichiarò guadagnandosi un'occhiata di approvazione dalla moglie.
Stava per prendere un boccone di dolce quando Anthony gridò: "La candelina!".

"Oh, hai ragione!", intervenne Candy spalancando una mano davanti alla bocca e frugandosi in una tasca. "Meno male, non si è rovinata!", disse piazzandola sulla sua fetta e mettendosi a cercare qualcosa con cui accenderla.

"Permette, signora Ardlay?", s'intromise Georges tirando fuori dei fiammiferi dal taschino. "Volevo dire... signora Candy", si corresse alla sua occhiataccia.

"Grazie, tu pensi sempre a tutto!", rise lei.

E così Albert si ritrovò davanti alla candelina del suo trentasettesimo compleanno senza desideri da esprimere, se non quello che la sua vita procedesse esattamente come era. Ascoltò divertito la canzone canticchiata dalla voce fresca di Candy, da quella urlante ed eccitata di Anthony e persino qualche nota accennata da Georges, prima di spegnerla.

La torta si rivelò deliziosa e tutti ne presero una seconda porzione, prima che Georges si dirigesse con discrezione verso il sentiero da dove una squadra di servitori si adoperò per portare via il frigo e i resti del dolce.

Li ringraziò tutti con grande emozione, ricevendo i loro auguri sinceri; non fu stupito quando Candy gli comunicò che, per ringraziarli del trambusto di quel giorno, aveva promesso loro un premio e delle vacanze supplementari.

"Hai fatto benissimo, tesoro, sono stati davvero speciali. Anche se non quanto voi", mormorò stringendola a sé mentre se ne stavano seduti sull'erba con Anthony che sonnecchiava sulle gambe di lei.

"Mi raccontate la storia di quando siete stati qui la prima volta? Papà, è vero che l'hai salvata dalla cascata?". Albert guardò Candy per un istante e capì che toccava a lui cominciare.

"Dunque, devi sapere che un bel giorno la tua mamma ha avuto la pessima idea di salire da sola su una barchetta molto più piccola di quella che mi avete regalato...", iniziò.

"Albert, sai perché l'ho fatto!", protestò lei accigliandosi.

"Sì, ma non è necessario raccontare quella parte, no?", disse facendole l'occhiolino. "Anthony deve sapere che, almeno fin quando non sarà maggiorenne, non dovrà salire da solo su un'imbarcazione che sia meno che sicura".

"Giusto, giusto", confermò lei annuendo.

"E poi che è successo?", s'incuriosì il bambino alzandosi a sedere e riacquistando vivacità.

"Sono caduta dalla cascata e ho rischiato di annegare, ma il tuo papà mi ha salvata e mi ha asciugata davanti al fuoco", continuò lei con una punta di emozione nella voce, strappando un "ohhh" stupefatto al bambino.

"È come nella storia di Pollicina, vero?", chiese con gli occhi sgranati e attenti.

"Sì, ma invece che da un pesce tua madre è stata salvata da un orso. O era un pirata?", chiese a Candy cercando di trattenere le risate.

"Oh, Albert, avrei sfidato chiunque a spaventarsi vedendoti conciato in quel modo", rise invece lei dandogli una piccola spinta sulla spalla.

"In che modo? E dov'era il pirata? E l'orso?". Anthony era confuso.

"Ero io, figliolo, che somigliavo a un pirata", affermò senza distogliere lo sguardo da Candy che ora rideva apertamente.

"Però, al posto della fascia sull'occhio, aveva degli occhiali scuri in piena notte e una barba e dei baffi così lunghi da fare invidia a Babbo Natale!", disse divertita.

"Un pirata Babbo Natale con gli occhiali scuri?!", ripeté il bambino ammirato.

"Già, e pensavo che sarebbe bello farmeli ricrescere, la barba e i baffi, voi che ne dite?", chiese con aria solenne, accarezzandosi il mento con una mano.

Il sì di Anthony e il no di Candy arrivarono insieme e lui scoppiò a ridere: "Bene, non vedo come potrei accontentarvi entrambi. Mio figlio vuole un pirata e mia moglie un marito sbarbato di fresco".

"Potresti solo metterti una benda sull'occhio ed evitare di nascondere i tuoi bei lineamenti dietro a centimetri di peli biondi", rispose lei in maniera quasi civettuola, strappandogli un sorriso malizioso.

Albert restrinse le palpebre: "Bei lineamenti, eh? Più tardi ne riparliamo, miss 'svengo davanti alle folte barbe'".

"Oh, Bert!".

"Mamma, sei addirittura svenuta davanti a papà pirata?!".

"Sì, ma si è ripresa subito quando ho alzato gli occhiali per mostrarle il mio sguardo innocente", ribatté lui spalancando gli occhi in modo suggestivo.

"Ed è allora che vi siete sposati?", chiese con innocenza il piccolo.

"Oh, no, tesoro, all'epoca ero una ragazzina", spiegò Candy.

"E io non sapevo ancora che sapesse fare delle sorprese di compleanno così belle", concluse Albert.

La storia proseguì tra invenzioni al confine fra fiabe e realtà, e risate, ma quando Anthony paragonò il racconto a quello della Bella e la Bestia alla menzione del Principe, sia lui che Candy tornarono per un attimo seri. Nella sua ingenua fantasia, il bambino aveva forse trovato il paragone più calzante, anche se Candy protestò dichiarando che il suo papà era già bello prima.

Fecero rientro scivolando sulla superficie dell'acqua senza scossoni e Anthony, a metà traversata, si addormentò sulle ginocchia di Candy. Quando attraccarono davanti alla capanna, il sole era quasi tramontato e Albert lo tenne in braccio fino a casa.

"È stata una giornata emozionante anche per lui", disse Candy con un sorriso, quando arrivarono nella sua stanza e lo adagiarono nel lettino. Il piccolo si girò sul fianco borbottando "torta", senza mai svegliarsi del tutto.

"Siete stati fantastici, tutti quanti! Avete reso speciale il mio compleanno come non mi capitava da tempo", mormorò Albert attirandola a sé e baciandole una tempia. Lei gli sorrise e, in punta di piedi, uscirono dalla stanza lasciando la porta accostata come facevano di solito. Finché fosse stato piccolo, sarebbero stati sempre con l'orecchio teso ai suoi richiami, così come lo avevano tenuto per i primi due anni nella culla della loro stanza, affidandolo alle cure della tata solo quando erano davvero esausti e avevano bisogno di riposare.

Ma un giorno, Anthony avrebbe chiuso quella porta e un domani lontano se ne sarebbe andato in giro per il mondo inseguendo i propri sogni. Era una prospettiva di cui parlavano poco perché li riempiva di malinconia e orgoglio al contempo, e comunque appariva ancora così remota che era inutile struggersi ora.

E poi volevano altri bambini.

Albert aveva sempre sognato una famiglia numerosa, soprattutto perché non voleva che i suoi figli si sentissero mai soli: certo, Anthony aveva la sua mamma e il suo papà sempre accanto e anche i cuginetti, ma non era la stessa cosa.

Mentre Candy si toglieva il vestito nella loro camera, si sorprese a fissarla e a immaginarla di nuovo madre, con le forme generose della gravidanza e lo sguardo acceso di una luce speciale.

"Che c'è?", chiese lei rimanendo con le braccia intrappolate per metà nelle maniche.

"Pensavo che eri bellissima mentre aspettavi Anthony. E che sei bellissima anche adesso". Si slacciò la camicia e le si avvicinò per aiutarla.

"Oh, quindi sono bellissima sempre! Lo dici perché è vero o solo per ricambiare il complimento che ti ho fatto oggi?", chiese lei sciogliendo i capelli e scuotendoli come una maestosa cascata bionda.

"Lo dico perché è la verità", ribatté lui serio, passandole le mani sul viso e infilandole tra le ciocche.

"Albert...".

"Mh?", fece lui senza smettere di giocare coi suoi riccioli.

"Davvero ti sembravo bella mentre ero incinta?", chiese con il dubbio negli occhi.

Lui la fissò per qualche istante: "Perché me lo chiedi?". Un'idea cominciò a farsi strada nella mente e spalancò gli occhi: "Vuoi dirmi che sei...?".

Candy scosse la testa: "No, no... beh, non ancora perlomeno", ridacchiò provocandogli quasi una punta di delusione. "Però... ti ricordi che ti avevo detto di voler aspettare fino a che Anthony non fosse stato abbastanza grande?".

Albert annuì, cercando di contenere il sorriso spontaneo che stava per nascere sulle sue labbra: "Sì, e io ti ho detto che ero d'accordo. Per questo siamo stati attenti... fino a stamattina", sorrise malizioso facendola arrossire.

Lei nascose il viso sul suo petto. "In effetti volevo parlartene... dirti che... adesso sono pronta", mormorò.

Lui la strinse a sé, il desiderio di Candy che s'inframmezzava con la gioia del momento: "A essere sincero lo avevo dedotto, ma forse potevi anche dirmelo prima. O il mistero faceva parte del mio buongiorno speciale?".

Candy sbuffò e lui adorò il suo pudore nonostante tutto: "Volevo sorprenderti, ma è anche giusto che ne parliamo. Ad esempio io non so se tu...".

Albert la zittì con un bacio a fior di labbra, poi con uno più impegnativo, infine le catturò la bocca con decisione, stringendola in un abbraccio deciso. Fece vagare le mani dietro la schiena e risalì per scoprirle la spalla, tirandole giù una spallina della sottoveste. "Ti basta come risposta?", mormorò con un leggero affanno.

"Non so se ho capito bene", ribatté lei con gli occhi ancora chiusi, le labbra rosse per i baci ricevuti.

Albert non si fece pregare due volte e ricominciò la sua opera con dedizione. "Non avevi anche detto che mi avresti rinfrescato la memoria sugli auguri?", disse mentre le attraversava il collo con baci leggeri.

"L'ho detto", ribatté lei con voce arrochita, passandogli le mani sul torace. "E manterrò la promessa".

E Albert lasciò che la mantenesse, mentre s'inebriava del suo profumo, delle sue carezze e della dolce prospettiva che forse, proprio quella notte, avrebbero creato una nuova vita.
 
 
 
 
 
 
 

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